ITALIA-ESPANA
EX-LIBRIS
M. A. BUCHANAN
Digitized by the Internet Archive
in 2010 with funding from
University of Toronto
Iittp://www.archive.org/details/lafilosofiafranc02capo
EX-LIBHÌ
^NICOL/
RODOLK
LA FILOSOFIA FRANCESE E ITALIANA DEL 700
GAETANO CAPONE BRAGA
La filosofia francese e ita-
liana del settecento ^^^
^t.X^ éb
2,0 0
VOLUME II.
Opera vincitrice del premio di filosofia Cantoni )920
AREZZO
Edizioni delle " PAGINE CRITICHE „
MCMXX
3
PROPRIETÀ LETTERARIA
Arezzo - Stab. Tip. Ettore Sinatti
SOMMARIO DEL SECONDO VOLUME
PARTE II. — GÌ' ideologi italiani
CAPITOLO l. — I Primordii pag. 1-42
Le due opposte opinioni sui rapporti fra la cultura fran-
cese e quella italiana nel settecento (1-2) — Circostanze che
prepararono il terreno al diffondersi della cultura e della
politica francese in Italia — Le riforme promosse dagli stu-
diosi di legislazione e dai cultori d' economia politica (2-5)
— Le sette politiche e religiose (5-7) — Lo sviluppo della
scienza in Italia (8) — Gli sperimentalisti (9-14) — 11 gas-
sendismo (14-15) — La filosofia lockiana in Italia (16-17) —
11 Genovesi e i suoi seguaci nell' Italia meridionale (18-19)
— La cultura francese nel settentrione della penisola e spe-
cialmente a Milano (19-20) — 11 Caffè (20-22) — 11 Verri e
il Beccaria (22-24) — Efficacia della cultura francese anche
sulle credenze religiose (24-25) — l primi lockiani veri e
propri (25-27) — Condillac a Parma (27-28) - 11 Collegio
Alberoni (28-29) — l condillachiani (29-34) — Il Vogli e il
Cassina (34-37) — Efficacia dell'ideologia sui grandi poeti
— Alfieri e Parini (37-38) — La venuta dei Francesi in Italia
(38-42).
CAPITOLO II. — Soave pag. 42-77
Vita e opere (42-51) — L' importanza del pensiero del
Soave (51-52) — La filosofia dell' esperienza (52).
Il metodo — Analisi e sintesi (52-53) — La sintesi come
metodo pedagogico (53-54) — 11 principio di non-contradi-
zione come criterio della verità (54-56).
Ideologia — Le due sorgenti delle cognizioni umane : sen-
sazione e riflessione (56-57) — Errore dell'opinione del Con-
dillac secondo cui tutte le facoltà dell' anima si ridurrebbero
al sentire (57) — Le sei facoltà dell'anima (58) — 1» La sen-
vili
sibilità (58) — Sensazione, apprensione e percezione (58-60)
— 2» La riflessione (60)'— Errore dell'opinione condilla-
chiana riguardo all' attenzione e alla riflessione (61-62) —
3» Il giudizio e il ragionamento (62) — 4» La memoria (62)
— Idea e nozione (62-64) — La maniera in cui si può spie-
gare il riconoscimento secondo il Soave (64-65) ~ 5» La
volontà (65-66) — 6» L'attività (67) — Atti psichici risultanti
dalla cooperazione di più facoltà (67-68) — La conoscenza
del mondo esterno (68) — Soave e Destutt de Tracy (68-70)
— Certezza fisica dell'esistenza dei corpi (70-71).
Efica — Importanza dell'etica del Soave (71) — Il do-
vere (71-72) — Onestà e virtù (72).
Osservavioni — 'Pregi e difetti dell' ideologia del Soave
'(73-76) — Agnosticismo di lui (76-77^.
CAPITOLO m. ~ Gioia pag. 78-129
Vifa e opere (78-99).
Il metodo — L' empirismo schietto del Gioia; l' ideologia
come semplice psicologia descrittiva (99-101).
Ideologia — Idee e sentimenti (101-102) — L'origine loro
— Origine interna degl'istinti (102-103) — Natura dell'istinto
(103-108) — Fatti psichici d' origine esterna — Errore della
finzione della statua del Condillac e del Bonnet (108-109) —
Differenza fra la psiche degli animali irragionevoli e quella
dell'uomo (lOQ-114) — Da che dipenda questa differenza (114)
— Le facoltà superiori dell'uomo che elaborano il materiale
fornito dai sensi (114) — L'attenzione e l'attività riferente
del pensiero (114-119) — La scienza (119-120) — Le leggi
dei fatti psichici — Leggi delle idee o sensazioni (12M23^
— Leggi dei sentimenti — Le obiezioni contro la teoria
della natura negativa del piacere del Verri (124-126) — La
vera natura del piacere (126-127) — I gradi dei sentimenti
(128) — La logica dei sentimenti (128).
Osservazioni — Importanza dell' ideologia del Gioia ri-
spetto a quella dei filosofi francesi (128-129) — Suo agno-
sticismo (129).
CAPITOLO IV. ~ ROMAONOSI pag. 130-176
Vita e opere (130-148).
Il metodo — Il metodo discorsivo come comprendente
l'analisi e la sintesi (148-149) — Oli assiomi medi (149-151).
IX
Ideologia — La dottrina della compotenza (151-152) —
Falsità della teoria della tabula rasa (152) — Il senso logico
(153-156) — Differenza tra sentire e conoscere (156-158) —
Soggettività delle funzioni del senso logico (158-159) — Di-
mostrazione dell'esistenza di qualcosa d'esterno (159-162) —
Pluralità degli esseri esterni (162-163) — Il principio di causa
e suo valore (163-164) — Impossibilità di conoscere l'essenza
delle cose (165) — 11 concetto della verità secondo il Ro-
magnosi (165-167) — Prammatismo del Romagnosi (168-170)
— La filosofia civile come integrazione necessaria dell' ideo-
logia (170-171).
Osservazioni — Importanza del pensiero del Romagnosi
(172-173) — Oscurità del suo senso logico (173) — Sogget-
tività della conoscenza (173-174) — Difetti della dimostra-
zione dell'esistenza di oggetti esterni (174-175) — Agnosti-
cismo del Romagnosi (175-176).
CAPITOLO V. - Delfico pag. 176-203
Rapporti di pensiero fra Italia settentrionale e Italia me-
ridionale (176-177).
Vita e opere (177-184).
Il Delfico e gì' ideologi — Delfico e gli scrittori francesi
del XVIII secolo (184-186) — Delfico e Condorcet (186) —
Delfico e Cabanis (187-188) — L'imitazione e suoi effetti
nel linguaggio, nella scrittura, nella fisonomia, nell' attività
estetica, nella vita sociale e morale (188-195) — Conseguenze
pratiche di tali fenomeni — La perfettibilità organica del-
l'uomo (195-196) — L'organoldeir^imitazione in quanto or-
gano della perfettibilità organica (196-198) — La perfetti-
bilità organica come principio generale della pedagogia e
della politica (198-199).
Osservazioni — A ciie SÌ riduca la dottrina del Delfico (200)
— Tinte materialistiche ed errori di essa (200-203).
CAPITOLO VI. — BORRELLi pag. 203-239
Vifa e opere2(203-215).
Il metodo — I difetti che il Borrelli trova nel metodo in-
duttivo dei suoi predecessori (215-217) — Le regole newto-
niane (217).
La genealogia del pensiero — Borrelli e Brown (218) — Le
tre forze insite nello spirito — 1* La sensazione e le sue
varie forme (218-223) — 2» Giudizio (223-225) — Il rapporto,
risultato del giudizio (225) — Natura del rapporto (225-227)
— Somiglianze e differenze fra giudizio e sensazione (227-228)
— Errore dell' opinione secondo cui giudicare sarebbe sen-
tire (228-229) — Nesso di giudizi o raziocinio (229-230) —
La surrogabilità dei conformi come principio del sillogismo
(230-231) — 3^ Volontà (231-232) — Somiglianze e differenze
tra volontà e sensazione (232-233).
Osservazioni — Pregi dell' ideologia del Borrelli (234-235)
— Suoi difetti (235-237) — Agnosticismo del Borrelli (237-239).
CAPITOLO Vn. — Ideologi minori pag. 239-262
Qiuseppe;iCompagnoni (239-240) — Paolo Costa (240-241)
— Raffaele3ZelliJ(242-243) — Vincenzo Bini (243-244) — Luigi
Pungileoni (245-246) — Altri ideologi (246-255) — Gli stu-
diosi d'esteticaS(256-258) — Ugo Foscolo e sua affinila spi-
rituale col Leopardi (258-262).
CAPITOLO VIE. — Leopardi pag. 262-302
Ideologia e pessimismo — Errore dell'opinione secondo cui
il Leopardi sarebbe un classicista (262-263) — Rapporti fra il
Leopardi e gl'ideologi (263-266) — I caratteri dell'indirizzo
ideologico che spiegano la genesi del pessimismo leopar-
diano: agnosticismo ed edonismo (266-268) — Tendenze pes-
simistiche in altri ideologi — 11 Verri e il Gioia (268-271).
La teoria del piacere — Sua importanza (271-272) — Esi-
stenza degl'individui e amore del piacere (272-273) — Inesau-
ribilità della sete di piacere nell'uomo e impossibilità d'appa-
garla (273-274) — Conseguenze di questi principi (274-281)
— Mezzo a cui è ricorsa la natura per render felice l'uomo:
le illusioni (281) — Felicità dell'uomo nello stato di natura
e sua infelicità nella vita sociale; inimicizia insanabile fra
natura e ragione (281-285) - Contradizioni ed errori della
teoria della perfettibilità (285-287) — Corruttibilità e non per-
fettibilità dell'uomo (287) — Motivi della corruzione umana
(287-289) — Le idee degli antichi sulla natura e sulla desti-
nazione dell'uomo (289-290).
Osservazioni — Valore della teoria leopardiana delj pia-
cere (290-291) - Suoi difetti (291) — La natura deil' uomo
che cosa sia (291-292) — Stranezza dell' opinione secondo
cui la natura susciterebbe illusioni in un essere dotato d' una
IX
facoltà (ragione) distruttrice delle illusioni (2Q2-2Q3) — Mu-
tamento d' idee nel Leopardi sulla natura (293-2Q6) — Agno-
sticismo del Leopardi (296-300) — Conseguenze pratiche del
suo agnosticismo pessimistico: l'amore cristiano (300-302).
Appendice alle Parti I e il — La critica del criticismo . pag. 303-352
Rapporti fra ideologia e criticismo (303) — Le prime no-
tizie in Francia sul criticismo e le prime discussioni su di
esso (303-304) - Carlo Villers (304-306) - La critica del
Tracy (306-312) - Osservazioni (312-313) — Altre discussioni
sul criticismo in Francia (313-314) - La critica d?.\ Soave
(314-321) — Osservazioni (321-322) — La critica del Baldi-
notti (322-328) - Osservazioni (328) - La critica del Bor-
relli (329-333) — Osservazioni (333-336) — La critica del
Romagnosi (336-346) — Osservazioni (346-348) — La critica
del Bonfadini (348-351) — Osservazioni (351) — Osserva-
zioni finali (351-352).
CONCLUSIONE pag. 353-364
Sintesi del lavoro (353-358) — I difetti generali delle varie
dottrine ideologiche (358-361) I loro pregi (361-364).
Aggiunte (specialmente al Cap. VI sul Borrelli) . . pag. 365-368
PARTE SECONDA
GL'IDEOLOGI ITALIANI
CAPITOLO I. — i Primordi
Sui rapporti fra la cultura francese e quella italiana nel set-
tecento vi sono due opinioni opposte: i Francesi in genere (1)
propendono, naturalmente, a credere che l' Italia, caduta in tor-
pido letargo, fosse destata a nuova vita dalla cultura e dall' in-
vasione francese, onde il nostro settecento non sarebbe che un
riflesso di quello della nazione sorella; gl'Italiani invece (2) sono
piuttosto proclivi a credere che la rivoluzione francese avesse tra
noi interrotto il movimento civile del secolo, e che la cultura ita-
liana costituisse un proprio organismo d' idee e d' interessi, alla
cui formazione la Francia recò un valido contributo, ma per im-
pulsi precedenti dell'Italia e con una preponderanza decisa del
nostro senso storico, rivolto piìi alla pratica che alla teoria, e
dell'elemento classico tradizionale; se mai, gli stranieri avrebbero
(1) Stendhal, La Chartreuse de Panne, Paris, Flammarion, pag. 7-10
e 12-13; ViLLEMAiN, Tableau de la littérature frangaise au XVin<^
siede, Paris, 1878; Pinoaud, Bonaparte pre'sident de la Re'publique
ita He fine, Paris, Perrin, 1814.
(2) Gioberti, Primato, Capolago, Tip. Elvetica, 18 W, Voi. I, pag. 206-
212; G. Natali, Idee costumi uomini del settecento, Sten, Torino, 1916;
O. Natali, L'idea del primato italiano prima di V. Gioberti in Nuova
AntoL, 16 luglio 1917. Vedi in proposito anche N. RoDOLiCO, // fio/za-
parte e la Repubblica Italiana in Marzocco, 9 giugno 1918, ed E. Rota,
U enigma del Settecento italiano e il problema delle origini del nostro
risorgimento in Nuova Rivista Storica, luglio-agosto 1918, pag. 381-391,
— 2 —
aiutato r Italia a ritrovar sé stessa; ecco tutto. La verità, natural-
mente, sta nel mezzo fra gli estremi. Certo vi erano circostanze
che avviavano già l' Italia nel cammino che poi essa seguì; ma
senza dubbio la nostra patria ebbe un forte impulso in tale di-
rezione dalla Francia.
Quali furono le circostanze che prepararono il terreno al dif-
fondersi della cultura e delia politica francese ?
Innanzi tutto le riforme, che i principi d' Italia, guidati dagli
studiosi di legislazione e d'economia politica, avevano intraprese già
prima della Rivoluzione francese. Fra gli studiosi di legislazione
primeggiarono il Vico (De uno universi iuris principio et fine uno;
Principii di una scienza nuova), e più tardi il Filangieri (Scienza
della legislazione), il Beccaria (Dei delitti e delle pene), il Pagano
(Saggi politici) etc: i quali, indagando l' origine e la natura dello
Stato e delle leggi, suggerivano ai sovrani miglioramenti nella co-
stituzione del governo e nella legislazione.
Ma più di tutto giovarono a tal fine le opere degli economisti,
i quali volgevano la mente a tutto ciò che potesse riuscir vera-
mente utile al bene della nazione, e cercavano di rintracciare e
di sopprimere quegli abusi che arrestavano il perfezionamento
progressivo della società. Primi fra costoro furono il perugino
Leone Pascoli e il senese Sallustio Antonio Bandini, seguaci en-
trambi del Boisguilbert (protezionista agrario). L' uno in Testa-
mento politico d'un accademico fiorentino [Colonia (Perugia), 1733]
propose varie riforme; 1' altro applicò il sistema dell' economista
francese alle condizioni della maremma senese, rovinata dal mal-
governo dei Medici, e nel suo Discorso economico (1737) propose
una riforma radicale di economia civile, preparando la strada alle
così dette riforme leopoldine (da Pietro Leopoldo), le quali furono
più tardi suggerite specialmente da Pompeo Neri, dal Fabbroni
e dal Fossombroni (liberisti assoluti), ma furono anche promosse
da altri che o (come il Gianni) non andavano oltre le idee del
Bandini o (come Matteo Biffi Tolomei) si riconnettevano al Pa-
scoli. In Lombardia fu compiuta la grande opera del censimento
milanese, ossia del catasto parcellare geometrico, iniziato, regnando
Carlo VI, dalla prima Giunta presieduta dal Miro (1718-1733) e
continuato e rifatto dalla seconda, a cui fu preposto, sotto il
regno di Maria Teresa, l' economista fiorentino Pompeo Neri
(1749-1758), che ne descrisse i lavori in una voluminosa Reta-
zione (1750), riassunta e integrata da Gian Rinaldo Carli (1776).
Nel regno delle due Sicilie Carlo Antonio Broggia abbozzò un
sistema tributario completo (Dei tributi, delle monete e del governo
politico della sanità, Napoli, 1743), e propose una specie di con-
versione della rendita (Memoria ad oggetto di varie politiche ed
economiche ragioni, Napoli, 1754); onde fu esiliato. A Napoli fu
fondata nel 1754 la prima cattedra di economia politica (detta
allora di commercio e di meccanica) da Bartolomeo Intieri (il quale
era tutto nelle questioni di economia politica e di fisica speri-
mentale) e affidata ad Antonio Genovesi, il quale la tenne con
molta fortuna (la scuola era così piena che molti non ci trova-
vano posto) (1) dal 5 novembre 1754 fino al 1769, professando
un mercantilismo moderato (Delle lezioni di commercio ossia d' e-
conomia civile, Napoli, 1765). Il Genovesi fu seguito dai napole-
tani Fortunato Strongoli, Venturi, dall' udinese Zanon (Lettere,
1756-1767), dal ferrarese Todeschi (Opere, 1784) e dall' istriano
Marcello Marchesini (Saggio d'economia politica, Napoli, 1793). A
quella di Napoli seguirono altre cattedre. Cesare Beccaria ebbe
per breve tempo (1769-1770) a Milano quella detta di scienze ca-
merali; e Agostino Paradisi dettò a Modena (1772-1780) lezioni di
economia civile, rimaste manoscritte, alle quali negli ultimi anni
sostituì il testo del Condillac (Le commerce et le gouvernement,
Amsterdam et Paris, 1776). A Palermo Vincenzo Emanuele Sergio
insegnò le dottrine del Genovesi (1779-1806). Il sistema fisiocratico
del Quesnay, ammirato dai già ricordati ministri toscani promo-
tori delle riforme leopoldine, fu accolto totalmente da Melchiorre
Delfico, da Nicola Fiorentino, dallo Scottoni, da Mario Pagano,
dal De Gennaro (Annona, ossia piano economico di pubblica sus-
sistenza, 1783), dallo Scrofani (Memorie di economia politica, 1826),
da Giuseppe Sarchiani (Intorno al sistema delle pubbliche impo-
sizioni, 1791), in parte dal Filangieri (nel lì libro della Scienza
della legislazione) e da altri.
Ma fra gli economisti italiani grandeggiarono il Galiani, il
Beccaria, il Verri e 1' Ortes. Ferdinando Galiani (1728-1787) tra-
dusse, appena ventenne, gli scritti del Locke sulla moneta, che
gli giovarono in parte per il suo importantissimo trattato Della
(1) Genovesi, Lettere familiari, Napoli, 1788, Tomo I, pag. 108.
_ 4 —
moneta (Napoli, 1750); e scrisse poi a Parigi i Dialogues sur le
commerce cìes blèds [Londres (Paris), 1770], procurandosi una
fama europea (1). Cesare Beccaria pubblicò una Prolusione (1769),
dettò alla cattedra di Milano lezioni di economia (1769-1770), e
contribuì col Verri e col Carli ad importanti riforme nell' ammi-
nistrazione economica e finanziaria di Lombardia, specie riguardo
all' annona, alle monete, ai pesi e alle misure, all' abolizione dei
corpi d'arte e dell'appalto delle imposte. Negli Elementi di eco-
nomia pubblica (1769), quantunque accettasse le dottrine dei fisio-
cratici, che conobbe a Parigi in un breve viaggio nel 1766, pure
non respinse il mercantilismo: fu piuttosto eclettico. Pietro Verri
(1728-1797), benché ancora seguace in qualche punto del mercanti-
lismo, specie nei suoi Elementi di commercio (1765), pure professò
idee decisamente liberali nelle Riflessioni sulle leggi vincolanti,
principalmente nel commercio dei grani (scritte il 1769 e pubbli-
cate il 1796), e si mostrò profondo conoscitore delle cause della
decadenza dell'industria e del commercio in Lombardia ai tempi
della dominazione spagnola nelle sue Memorie sull'economia pub-
blica dello Stato di Milano (1768). Le sue Meditazioni sull'eco-
nomia politica (Livorno, 1771) sono il miglior compendio della
materia pubblicato in Italia nel settecento (2). Giammaria Ortes
(1713-1790) fu il pili illustre degli economisti veneti del secolo,
e scrisse opere anonime (Dell' economia nazionale, Parte I, 1774;
Errori popolari intorno all'economia nazionale, 1771; Dei fidecom-
messi, 1785), nelle quali combattè il mercantilismo, senz'accettare
le teorie della fisiocrazia, e sostenne il libero scambio universale,
dichiarandosi nello stesso tempo fautore delle manimorte, dei fi-
decommessi e di molte altre restrizioni al diritto di proprietà (3).
Va inoltre ricordato che un po' piìi tardi l' Italia ebbe dal barone
P. Custodi la prima collezione, per quanto non compiuta, de'
suoi economisti, corredata di biografie (Scrittori classici italiani
(1) 11 Galianì, costretto a tornare a Napoli, affidò i suoi Dialogues
a Diderot, perchè li pubblicasse sotto altro nome.
(2) Altre opere d'economia politica del Verri si trovano nelle sue
Opere, Silvestri, Milano, 1818, Voi. Ili e IV.
(3) Vedi L. CossA, Introduzione allo studio dell'Economia politica,
3» Edz., Milano, Hoepli, 1892, Parte storica, Gap. I-VII.
— 5 —
di Economia Politica, Milano, 1802-1816, 50 volumi) e un tenta-
tivo di storia dei medesimi da Giuseppe Pecchio (Storia dell'eco-
nomia pubblica in Italia, Lugano, 1829). Tutti questi scritti e di-
battiti dimostrano che era vivo negli studiosi il desiderio di
trovare ordinamenti economici e civili migliori di quelli vecchi o
vigenti, e rispondenti ai nuovi tempi.
L'altra circostanza favorevole in Italia alla cultura francese
fu il sorgere e il diffondersi di sette politiche e religiose. Già
riformatori e ribelli religiosi erano apparsi al principio del secolo.
Alberto Radicati scrisse nel 1736 un Recueil de pièces curieuses
sur les matières les plus interessantes (Rotterdam, 1736), in cui
professava un cristianesimo libero da tutte le deturpazioni ag-
giunte dalla Chiesa Romana. Pietro Giannone (1676-1748) nella
sua Istoria civile del Reame di Napoli (1723) sostenne con acca-
nimento i diritti del potere laico contro le indebite ingerenze dei
pontefici e dei vescovi nelle questioni temporali; e a Vienna, dove
riparò dopo la scomunica, scrisse il Triregno, in cui respinse i
dogmi dell' eucarestia, della penitenza, del purgatorio, del culto
delle immagini, della Mariolatria, e mostrò che la religione non
è alcunché di rigidamente immobile e d'assoluto, ma è sottoposta,
come tutti gli altri fenomeni naturali, ad un'evoluzione (1). Questo
movimento di critica religiosa fu proseguita dai giansenisti, i quali
già in Francia propendevano alla repubblica e alla rivoluzione.
Il giansenismo penetrò nella nostra penisola probabilmente dal
Piemonte, spargendosi un po' da per tutto, ma costituendo quattro
gruppi principali: in Lombardia, con a capo Giuseppe Zola (1739-
1806) e Pietro Tamburini (1737-1827); in Liguria, con a capo Be-
nedetto Solari, vescovo di Noli (1742-1814), Eustachio Dègola
(1761-1826) e Vincenzo Palmieri (1763-1820); nel Napoletano, con
a capo Giovanni Andrea Serrao, vescovo di Potenza; in Toscana
con a capo Scipione de' Ricci, vescovo di Pistoia (1741-1810). I
teorici più ascoltati e più letti del giansenismo furono il Tam-
burini, lo Zola, il Palmieri; il Ricci però ebbe il merito di attuare
(1) Reinach, Orpheus, Trad. Della Torre, Palermo, Sandron, Voi. I,
pag. 565-569. Furono precursori del giansenismo anche Giuseppe Gorini
Cerio (Politica, Diritto e Religione, 1742), Daniele Concina, rigorista
domenicano, Gio. Vincenzo Patuzzi, il cardinale Passionei etc.
— 6 —
nella pratica il programma della setta, combattendo le esteriorità
del culto e le superstizioni; conobbe l'abate giansenista francese
Gabriele di Bellegarde, dal quale si faceva mandare migliaia di
libri, di cui inondava il paese; consigliò al Granduca di soppri-
mere gli scandalosi conventi di Prato e di Pistoia, e indisse il
famoso sinodo diocesano di Pistoia, in cui intervennero duecento
trentaquattro membri (fra questi i principali giansenisti nominati),
e furono prese decisioni, per così dire, rivoluzionarie, tanto che
il Ricci dovè dimettersi, e il Sinodo fu condannato con la bolla
Auctorem fidei (28 agosto 1794). Quando poi vennero in Italia i
Francesi, i giansenisti li accolsero con favore, e ne difesero le
idee. Il principio della tolleranza fu sostenuto da Vincenzo Pal-
mieri (La libertà e la legge considerate nella libertà delle opinioni
e della tolleranza del culti, Genova, 1798); Eustachio Dègola nei
suoi Annali politico-ecclesiastici (Genova, giugno 1797 - dicembre
1799) tendeva a dimostrare che la libertà politica e la riforma
del clero introdotte dai conquistatori francesi s' accordavano per-
fettamente con le massime della Chiesa cattolica. Benedetto Solari,
in una sua circolare del 5 giugno 1798, difendeva le disposizioni
governative che limitavano le processioni del Corpus Domini al
giro puro e semplice delle Chiese. Anzi questi tre giansenisti in-
sieme con altri preti fondarono una specie d'Accademia in Pavia,
la quale il 23 ottobre 1798 inviò una lettera di plauso e d' ade-
sione al clero costituzionale francese. Infine i giansenisti saluta-
rono con gioia la caduta del potere temporale; e dal 1796 al 1806
furono agitatori delle repubbliche italiane: il Serrao, vescovo di
Potenza, repubblicano vittima dei sanfedisti, morì gridando: "■ Viva
Cristo, viva la Repubblica ! > (1). Alcuni giacobini, da parte loro,
s' accostarono al giansenismo, come Giovanni Ranza (Esame della
confessione auricolare e della vera Chiesa di Gesù Cristo, 1797) e
Giuseppe Poggi (Il repubblicano evangelico, Milano, 1797), che
(1) A. Della Torre, // cristianesimo in Italia dai filosofisti ai mo-
dernisti, Appendice all' Orpheus del Reinach (Voi. II, pag. 668-673 e
689); RoDOLico, articolo citato. Sul Ricci vedi anche Rodolico, Gli
amici e i tempi di Scipione dei Ricci - Saggio sul giansenismo ita-
liano, Firenze, Le Monnier, 1920; per il Tamburini cfr. Antologia, aprile
1827, pag. 176-178.
— 7 —
propugnavano un cristianesimo puramente evangelico (1). Tutti
questi fatti dimostrano la rispondenza delle idee e aspirazioni
dei giansenisti a quelle dei rivoluzionari francesi.
Oltre i giansenisti, contribuirono ad aprire la via ai Francesi
le sette politiche. Si ha traccia d' un' associazione segreta, vinco-
lata da giuramento, di uomini pronti a mettersi a capo della ri-
voluzione, subito che arrivassero i sospirati repubblicani francesi.
Tutto il personale della Massoneria raccolto nelle Logge La Con-
cordia di Milano e San Paolo Celeste di Cremona doveva entrare
in tale ordine d'idee. Nel 1794, secondo il Beccatini, c'era a Milano
una società popolare, con diramazioni a Varese, che aveva medici
e chirurghi tra gli affigliati: i capi della quale erano il Preposto
di Varese Lattuada, il conte Gaetano Porro, Carlo Salvador, che
era stato a Parigi coi terroristi ed entrò, secondo quanto si legge
nelle Memorie del Melzi, a Milano prima dei Francesi, Fedele So-
pransi, giureconsulto, il duca Gian Galeazzo Serbelloni, 1' avvo-
cato Sommariva ed altri. A Milano vivevano già alcuni emigrati
d' altri paesi: Giovanni Rasori di Parma, che, espulso dalla sua
città, aveva studiato medicina in Francia, Francesco Cattaneo chi-
rurgo, fuggito da Bergamo, il poeta romano Lattanzi, il vercellese
Ranza. Le conventicole segrete con gli emissari della propaganda
si tenevano presso il Sopransi e in via Rugabella, sotto la dire-
zione del Salvador, oppure alla macchia, ora in una soffita di
Piazza Fontana, ora in quelle deli' Ospedale, ora in rustiche ca-
panne. Nel 1795 certo Varrini fu accusato in giudizio d' esser
legato per trame segrete al Tilly, ministro di Francia a Genova;
e si disse che il Comitato di salute pubblica mandasse in Italia
ingenti somme di danaro « per appianare così la strada ». Infine
in casa di donna Paola Castiglioni si raccoglievano uomini ben
più autorevoli: Verri, Beccaria, già in sospetto al governo, e Pa-
nni, Melzi, che, pur essendo devoti all' ordine costituito, simpa-
tizzavano però con le nuove massime filosofiche del secolo e con
gli enciclopedisti (2).
Riguardo poi alla filosofia in ispecie, bisogna ricordare che
(1) Natali, Idee costumi etc, pag. 73.
(2) C. TiVARONi, Z.' Italia durante il dominio francese (178Q-1815),
Tomo 1, L. Roux e C, Torino, 1889, Parte II, Gap. I, pag. 89-91.
— 8 —
r Italia aveva visto splendere uno degli astri più fulgidi della
scienza, il vero iniziatore delle ricerche sperimentali: Galilei, dal
quale aveva imparato a seguire l'esperienza e il ragionamento
fondato su questa. Galilei aveva avuti valorosissimi discepoli
(Nicola Aggiunti, Bonaventura Cavalieri, Benedetto Castelli, Evan-
gelista Torricelli, Vincenzo Viviani etc.) (1), che avevano diffuso
il suo metodo e trasmessa la fiaccola dissipatrice della tenebra ad
altri valorosi scienziati che nel seicento onorarono l'Italia: tra
questi ricorderemo il Redi, il Malpighi, G. Alfonso Borelli, Lo-
renzo Bellini etc. (2). Ai quali tennero dietro nel settecento una
pleiade di scenziati, fra i quali, alcuni, da noi già ricordati nel-
r Introduzione, grandissimi, ed altri minori (3).
(1) Vedi AoATOPiSTO Cromaziano (Appiano Buonafede), Della re-
staurazione di ogni filosofia ne' secoli XVI, XVII e XVIII (in Opere,
Napoli, Porcelli, 1787-3Q, Volumi Vili, IX e X, 1788), Gap. XIX e XX.
(2) Non si creda però che i sostenitori del nuovo metodo, o, come
si diceva allora, i - moderni >>, non incontrassero opposizioni; ebbero
a sostenere aspre lotte contro i < peripatetici ». Dopo il 1720 però il
trionfo degli sperimeiitalisti è generale, clamoroso. Vedi Mauoain,
Étude sur V evol. irJell. de V Italie de 1657 à 1750 environ, Paris,
Hachette, 1900, spec. Partie I, Chap. 1-V.
(3) Fra questi menzioneremo per la matematica e l'astronomia An-
tonio Collalto, Giovanni Crivelli, Giulio Carlo Fagnani, Giuseppe Casella,
Pietro Cossali, Tommaso Valperga di Caluso, Giuseppe Calandrelli, Giu-
seppe Avanzini, Lorenzo Mascheroni (l'autore de\V Invito a Lesbia
Cidonia), Giovannantonio Lecchi, Pietro Franchini, Antonio Gagnoli,
Sebastiano Canterzani, Angelo Luigi Lotteri, Giuseppe Toaldo, Chimi-
nello Vincenzo, i Riccati (Iacopo, Vincenzo e Giordano) etc; per la
fisica Ruggero Giuseppe Boscovich, Anton Francesco Campana, Gio-
vacchino Carradori, Leopoldo Nobili, Giov. Batt. Becclieria, Francesco
Pacchiani etc; per la chimica Girolamo Melandri Contessi, Girolamo
Cavezzali, Luigi Brugnatelli, Giuseppe Tommaselli, Bartolomeo Gandolfi,
Salvatore Mandruzzato etc; per la storia naturale e la mineralogia Giu-
seppe Gioeni, Cesare Majoli, Giuseppe Ginanni, Nicola Covelli, Giro-
lamo Segato, Carlo Giuseppe Gismondi, Vincenzo Petagna, Giov. Batt.
Brocchi, Giovanni Valentino Fabbroni, Giacinto Cestoni, Francesco Gi-
nanni, Giuseppe Olivi, Gius. Marzari Pengati, Giov. Arduino, Ferdi-
nando Marsigli, Gius. Maria Giovene, Camillo Ranzani etc; per la fisio-
logia e la medicina Alessandro Macoppe Knips, Pietro Pezzi, Siro Borda,
— 9 —
Parallelamente a questo movimento scientifico se ne nota nel
sei o nel settecento un altro filosofico, promosso da pensatori,
diciamo così, sperimentalisti (1), che, venerando la scienza, si fon-
davano, nelle loro speculazioni, sull'esperienza. Tra questi ricor-
deremo Marco Aurelio Severino, nato in Tarsia di Calabria il
1580 e morto nel 1656, il quale, oltre ad opere mediche e chi-
rurgiche, ne lasciò una filosofica, intitolata Pansophia; Lorenzo
Magalotti (1637-1712), segretario dell'Accademia del Cimento, Amico
del Redi e autore dei Saggi di naturali esperienze fatte nell'Ac-
cademia del Cimento (Firenze, Cecchini, 1667), delle Lettere scien-
tifiche ed erudite (Firenze, Tartini e Franchi, 1721) e delle Let-
tere familiari (Firenze, Manni, 1736), nelle quali opere si mostrò
seguace dell' empirismo di Galilei; Guido Grandi di Cremona
(1671-1742), abate camaldolese, professore a Pisa prima di filo-
sofia e poi di matematica, il quale espose una logica del tutto
opposta alle sottigliezze scolastiche, introdusse primo in Toscana
r insegnamento dell' algebra e la filosofia newtoniana, e scrisse,
in difesa di Gassendi, di Copernico e di Cartesio, la Diacrisis
(col pseudonimo di Quinto Alfeo e con la falsa data d' Autun,
1724) (2); Giovanni Claudio Fromond (1703-1765), di Cremona
Gius. Gautieri, Michele Rosa, Antonio Sementini, G. Batt. Borsieri, Ste-
fano Gallini, Luigi Chiaverini, Antonio Cocchi, Michele Girardi, Antonio
Maria Matani, Giov. Rasori, Leopoldo Caldani, G. Batt. Paletta etc. Vedi
per tutti questi scenziati Biografia degli Italiani illustri nelle scienze,
lettere ed arti del secolo XVIII e dei contemporanei, pubblicato per
cura del prof. Emilio De Tipaldo, Venezia, Alvisopoli e Cecchini,
1834-45, 10 volumi.
(1) Questi filosofi dal Poli nei suoi Supplimenti al manuale della
storia della filosofia del Tennemann (Volumi III e IV del Manuale
della storia della filosofia di Guglielmo Tennemann, tradotto dal
prof. Francesco Longhena con note e supplimenti dei professori Gian-
domenico Romagnosi e Baldassare Poli, Milano, Silvestri, 1855, Voi. IV,
§ 365), son detti < empiristi originali > di contro agli empiristi lockiani
o seguaci dei filosofi francesi, che vennero dopo.
(2) Vedi Giornale de^ letterati, Firenze, 1742, Tomo I, Parte II,
pag. 210-226; Novelle letterarie del Lami, spec. Tomo III, Firenze, 1742,
col. 501-506, è Tomo VII (1747), col. 274-276; Agatopisto Cromaziano,
Op. cit., Cap. XXX, pag. 166-173 del Voi. IX delle Opere.
— 10 —
lui pure, discepolo del Grandi e poi professore di filosofia naturale
all' Università di Pisa {Nova et generalis introdactio ad philosophiam,
Venetiis, Bertella, 1748), il quale sostenne che tutto ciò che noi
conosciamo degli oggetti riguarda le relazioni loro, e che quindi
quanto affermiamo di qualsiasi ente è sempre relativo; onde negò
r apprehetisio simplex degli scolastici, e ridusse ogni pensiero al
paragonare, ammettendo otto specie di paragoni (contemplatio,
vis componendi, vis ampliandi, vis imminuendi, vis distinguendi,
vis abstrahendi, vis iudicandi, vis ratiocinandi) (1); il De Martini [Lo-
gicae seu artis cogitandi libri, Neapoli, 1728), il quale presentò la
logica come arte del pensiero, e la trattò con metodo sperimen-
tale; Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), che nell'opera La
filosofia morale esposta e proposta ai giovani (Verona, 1735) at-
tribuì tanta efficacia al fisico sul morale, che l'anima vi si trovava
quasi sempre ridotta a obbedire al corpo, e in Delle forze del-
l'intendimento umano, ossia il Pirronismo confutato (Venezia, 1745)
esaminava le forze dell' intelletto e della fantasia, confutando il
pirronismo (2); Francesco Longano [Dell'uomo naturale, Napoli,
(1) Nova et gen. intr., Venetiis, 1748, pag. 3-9 e 115-120. Siccome
però non si può percepire alcuna relazione, se non preesistono i termini
correlati di essa, ci sono, dice il Fromond, degli oggetti (res) che sono
non relazioni, ma fondamenti di queste. Chiama quindi relazione tutto
ciò che è usato per indicare, spiegare e determinare qualsiasi oggetto;
dice invece cose gli oggetti che si possono indicare, spiegare e deter-
minare, ma con i quali non si può spiegare o determinar nulla (pag. 73).
11 Fromond distingue sei generi di cose, tra cui pone lo spazio e il
tempo (Pars 11, Gap. Il), considerandoli come enti reali non nel senso
volgare (come par che li intenda il Poli), ma nel senso che essi esistano
indipendentemente dal pensiero umano (pag. 94); combatte quindi il
Leibniz, che pone lo spazio e il tempo fra le relazioni (pag. 94-95). Sul
Fromond vedi Biografia del Tipaldo, Voi. VI, pag. 487. Cfr. Novelle
lett., Tomo VI, col. 678-682, 695-699, 773-780, e Tomo XXVI, 562-565.
Del Fromond scrisse un Elogio storico (Cremona, 1781) Isidoro Bianchì,
professore d' etica nel R. Ginnasio di Cremona.
(2) Veramente il Muratori in qualche punto è d'accordo con Car-
tesio: dimostra per es. la legittimità del cogito, giustifica il criterio car-
tesiano della verità e il dubbio metodico; ma secondo lui il filosofo
francese si contenta troppo facilmente d' ipotesi indimostrabili (per es.
quella dei vortici); oramai, egli dice, si voglion fatti certi (Epistolario,
— 11 —
1764; Filosofia dell'uomo, Napoli, 1783), che nelle sue dimostra-
zioni si fondava sulla fisica, e in psicologia attribuiva importanza
al sistema nervoso; Francesco Maria Zanotti (1692-1777), lettore
pubblico di filosofia all' Università di Bologna, il quale, abban-
donata la teoria cartesiana dei vortici, cominciò primo a spiegare
le dottrine di Newton suH' attrazione dei corpi celesti, sulla luce
e sui colori, consigliò all'AIgarotti, allora suo discepolo, di com-
piere quelle esperienze sulla luce e sui colori che il 1731 si pub-
blicarono negli Atti dell'Accademia dell'Istituto e furono le prime
che mostrassero in Italia la verità della teoria newtoniana, scrisse
i Dialoghi della forza de' corpi che chiamano viva (Bologna, 1752),
in cui sostenne l' opinione di Cartesio al riguardo contro quella
di Leibniz, il 1747 pubblicò con la falsa indicazione di Napoli un
libriccino intitolato Della forza attrattiva delle idee, in cui volle
applicare la legge d'attrazione ai fatti psichici (le idee, egli dice,
rimescolandosi e fregandosi insieme, si elettrizzano), e precorse,
così, r associazionismo dell' Hartley (1), scrisse anche una Filo-
sofia morale (Bologna, Pisarri, 1754), in cui si attenne specialmente
ad Aristotele, e fu amico di Fontenelle e di Voltaire. Ricorderemo
ancora il Padre Andrea Spagni {De causa efficiente, Romae, Sa-
lomoni, 1744; De bono, malo et pulchro dissertationes, Romae, Ko-
marck, 1766; De mando, Romae, Aniidei, 1770; De signis idearum;
De ideis humanae mentis earumque signis, Romae, 1781), Isidoro
Bianchi di Cremona {Meditazioni sui vari punti di felicità pub-
Tomo IV, lettera 2613). Quindi è più giusto considerarlo come un em-
pirista; infatti egli così scrive: « Riponiamo le maggiori speranze della
nostra gloria nella Filosofia che appelliamo Sperimentale » (Riflessioni
sopra il Buon Gusto nelle scienze e nelle arti, Venezia, 1742).
(1) Il Ferri (in La psicologia dell' associazione dall' Hobbes fino
ai nostri giorni, Roma, Bocca, 1894, Parte I, Gap. Ili) non decide se
lo Zanotti attinse questo concetto nel Trattato della natura umana
dell' Hume pubblicato otto anni prima o vi giunse da sé. Probabilmente
però lo Zanotti vi arrivò a traverso la filosofia newtoniana, indipenden-
temente dall' Hume. Il libriccino dello Zanotti fu ristampato a Bologna
nel 1774 con l'aggiunta d'alcuni frammenti, che trattavano D^/Zc /orza
attrattiva di quelle cose che non sono (per es. delle cose passate o fu-
ture o possibili, le quali, se non esistono come le cose attuali, sono però
in qualche modo, devon quindi esercitare una forza attrattiva).
— 12 —
blica, Cremona, 1799), l'Algarotti (1712-1764), il quale fu a Parigi,
vi conobbe nelle « erudite cene » i più famosi letterati di Francia,
e strinse amicizia specialmente con Voltaire, scrisse il Newtonia-
nismo per le dame (intitolato poi Dialoghi sopra l'ottica newto-
niana), in cui cercò, al pari di Voltaire, di render popolari le
ricerche di Newton (egli lesse il lavoro manoscritto al filosofo
francese, che attendeva allora agli Éléniens de la philosophie de
Newton, e quegli Io giudicò < leggiadro, chiaro, gentile »). A
questi si possono aggiungere Giuseppe Maria Amati, che (nel-
la sua Ethica ex tempore concinnata in publica Universitate Nea-
politana, Neapoli, 1721) fondò la morale su basi empiriche, pur
propendendo alla dottrina della virtù di Aristotele; Paolo Frisi,
barnabita milanese (1727-1784), professore prima nell' Università
di Pisa, in quella di Milano poi, che nelle sue Dlssertationes variae
(Lucae, 1759) tracciò le linee fondamentali d'una cosmologia del
tutto sperimentale (1); il marchese Luigi Malaspina, che nella sua
Memoria sugli apparenti caratteri delle inclinazioni e passioni
(Pavia, 1796) volle tentare un'applicazione empirica dei fatti psi-
chici da lui studiati alle arti d'imitazione; il Danieli, che nel Saggio
di ricerche critico-filosofiche (Vicenza, 1783) s'allontanò più che
mai dal razionalismo; Carl'Antonio Pilati (1733-1802), che (in L'e-
sistenza della legge naturale impugnata e sostenuta, Venezia, Zatta,
1764; e in Ragionamenti intorno alla legge naturale e civile. Ivi,
1766) derivò la legge naturale da una specie d' istinto; il Melli
(L'abuso della filosofia, 1780), che ingaggiò battaglia contro il
razionalismo; Alessandro De Sanctis, che scrisse Delle passioni e
vizi dell' intelletto (Firenze, Cambiagi, 1790), riponendo il giudizio
falso e l'errore in un « involontario deviamento della giusta pro-
gressione delle idee »; Oiovan Francesco Pivati di Padova {Di-
zionario universale, Venezia, Monti, 1744) e Alessandro Zorzi ve-
neziano {Prodromo della nuova Enciclopedia italiana, Siena, 1779),
(1) Vedi Novelle leti., Tomo XVI, col. 122, 137, 458; Tomo XVII,
515; T. XXII, 340; T. XXIII, 381-384; T. XXIV, 451; Giornale de' let-
terati, Tomo LX, Pisa, 1785, pag. 3-84. Le opere del Frisi furono ri-
stampate a Milano, e il Tomo III conteneva la cosmografia (Paulli
Frisi Operum tomiis III cosmographiam, physicam et mathematicam
continens, Mediolani, 1785, apud J. Oaleatium).
— 13 —
che, ideando un' enciclopedia di tutte le scienze, anticiparono le
teorie empiriche degli enciclopedisti francesi; il P. gesuita Iacopo
Belgrado, udinese, membro dell' Istituto di Bologna, che volle
(nell'opera anonima Della rapidità delle idee, Modena, Monta-
nari, 1770) (1) fondare le sue ricerche « sulla scienza del tutto
sperimentale di noi medesimi », cercando di misurare la rapidità
delle idee mediante il loro numero e i vari tempi nei quali si
svolgono, al modo dei fisici, che misurano la velocità dei corpi
con la ragion composta diretta degli spazi e con quella inversa
dei tempi (2). Menzioneremo infine Antonio Agostino Marioni,
che scrisse un' Ars vere philosophandi, seu Logica rationalis, ver-
balis et experimentalis (Venetiis, Carioni, 1757, 2' Edz.), nella quale
è notevole la parte sperimentale, dove l'autore s'attenne a Bacone;
e Antonio Conti (1677-1749), che, sebbene istruito nella filosofia
cartesiana dal Fardella, apprezzò molto anche il Locke, difese e
divulgò le scoperte e teorie di Newton, da lui conosciuto a Londra,
(1) Giorn. de' leti., Pisa, 1771, Tomo IH, pag. 307-308. Cfr. Melzi,
Dizion. di opere anonime etc, Milano, 1848-59, Voi. Il, pag. 411.
(2) Per alcuni di questi scrittori, per es. per lo Zanetti, l'Algarotti,
il Pilati, vedi Biografia del Tipaldo, Voi. IV e VI; per tutti cfr. Poli,
Op. cit., Voi. IV, § 365. Ad essi il Poli (Op. cU., Voi. IV, pag. 619)
aggiunge Ansaldo Grimaldi, che avrebbe scritto delle Riflessioni sopra
V ineguaglianza tra gli uomini, e avrebbe combattuto lo Zanotti, so-
stenitore, secondo lui, della dottrina morale del Maupertuis. Ma egli
qui s' è impigliato in un viluppo d' errori; che le dette Riflessioni (Na-
poli, 1779-80) furono scritte da Francescantonio Grimaldi (di cui An-
saldo fu antenato), amico e seguace del Genovesi (vedi pag. 19 di questo
Voi.), che ritenne l' intelligenza effetto della sensibilità; la polemica con
Io Zanotti poi fu sostenuta dal P. Casto Innocente Ansaldi, il quale
prese le difese del Maupertuis contro lo Zanotti, che, avendo il filosofo
francese esaltato la morale cristiana di contro a quella stoica, l'aveva
attaccato (vedi Raccolta di trattati di diversi autori concernenti alla
religion naturale e alla morale filosofia de' cristiani e degli stoici,
Voi. I, Venezia, Valvasense, 1756; A. Lombardi, Storia della leti. ital.
nel sec. XVIII, Modena, Tip. Camerale, 1827, Tomo I, pag. 239-242,
254-255, 277-278). Il Poli ricorda pure Ferdinando d'Adda, e ne cita
Y Apologia alle Riflessioni critico-filosofiche dell' abbate F. d' A. dal
medesimo diretta all' autore delle quattro Lettere scritte contro le Ri-
flessioni suddette (senza 1., 1766). Io ho avuto sott'occhio quest'opuscolo,
il quale non è se non una risposta a quattro lettere che P. Verri aveva
scritte contro le menzionate Riflessioni. Si tratta dunque d' un libello
puramente polemico, in cui non s' approfondisce alcuna questione filo-
— 14 —
e lasciò scritto d' essersi proposto di conciliare il metodo empi-
rico con quello di Cartesio, che muove da Dio e dalle idee (1).
Non va neppur trascurata 1' azione che nella filosofia italiana
esercitò il Gassendi. È noto che Galilei fu in corrispondenza col
Gassendi nei primi decenni del seicento. Inoltre il francese Claude
Guillermet, signore di Bérigard, per dodici anni (1628-1640) vol-
garizzò a Pisa la teoria atomica di Epicuro combattendo gli ari-
stotelici (2). Perciò il Gassendi fu ammirato specialmente in To-
scana; Carlo Rinaldini, professore all' Università di Pisa, e An-
tonio Oliva, membro del Cimento, ne spiegavano la dottrina pri-
vatamente ai giovani. Anche a Roma e a Padova era diffuso il
gassendismo. Dati i progressi di questo in Italia, VAcadémie des
Sciences propose all'Accademia del Cimento (1657) di comunicarsi
sofica. Argomenti scientifici e filosofici erano invece svolti nelle Ri-
flessioni critico-filosofiche esposte in dialoghi sopra diverse materie
scientifiche e letterarie, con un discorso preliminare sopra le opere
di spirito, jMilano, 1765. Intorno a quest'opera e' è una notizia in No-
velle lett. (Tomo XXVII, 1766, col. 474-477): dalla quale si viene a sa-
pere che r ab. D' Adda scrisse le Riflessioni contro i due almanacchi
del Verri intitolati // gran Zoroastro e Mal di milza, ma nello stesso
tempo vi trattò vari argomenti, sostenendo, tra l'altro, che la maggior
parte delle regole generali son soggette a eccezioni, esponendo breve-
mente il sistema di Newton, parlando della causa fisica delle simpatie
e delle antipatie etc. Si noti però che il D'A. non doveva appartenere
ai < moderni , giacché sosteneva che noi, in paragone degli antichi,
siamo e ignorantissimi e scellerati, difendeva Platone contro gli attacchi
di Zoroastro (del Verri) etc. Il Verri rispose con Quattro lettere, che
ricorderemo più tardi; e a queste lettere il D'A. replicò con V Apologia.
(1) Per il Marioni vedi Biografia del Tipaldo, Voi. II; per il Conti
la Biogr. stessa. Voi. Vili, e Prose e poesie dell'ab. A. Conti, Tomo II,
Venezia, Pasquali, 1756, pag. 13, 17 e 267-269. Talvolta si resta incerti
se si debba collocare taluno di questi pensatori fra gli sperimentalisti
o fra i cartesiani, che anche Cartesio dava importanza, nella filosofia, al-
l' esperienza e alla scienza. Così il Poli colloca il P. Fortunato da Brescia
(autore di Philosophia sensuuni mechanica, Brixiae, 1735, e di Philosophia
mentis, Brixiae, 1741) fra i cartesiani; il Maugain, invece, lo pone fra
gli empiristi. Lo stesso forse potrebbe dirsi del Grandi e del Conti.
(2) Maugain, Op. cit., Partie II, Chap. I; cfr. Rota, Legami di
pensiero tra Italia e Francia avanti e dopo la Rivoluzione, Cap. I,
pag. 95-97, in Bollettiuo della Società pavese di storia patria, Pavia,
1915, fase. III. Un altro atomista francese, Gian Crisostomo Magnen,
autore del Democritus reviviscens, sive de vita et philosophia Democriti
(Ticini, 1646) insegnò in Italia (cfr. Poli, Op. cit., Voi. IV, pag. 614-15).
— 15 —
i risultati delle loro esperienze; e il Giornale de' letterati di Roma
(1668) strinse rapporti col Journal des savants, difendendo le idee
nuove. Tutto ciò ci spiega come mai V esperienza del Torricelli (il
salire dell' acqua in un tubo vuoto a causa della pressione atmo-
sferica), quasi inosservata in Italia, fosse resa nota e confermata
da Pascal e da Cartesio. A Napoli Tommaso Cornelio aveva in-
trodotte le opere del Gassendi, e, come attesta il Giannone,
« quando furono lette, fu incredibile 1' amor de' giovani verso
questo scrittore »; anche il Vico noXV Autobiografia dice che verso
il 1684 la gioventìi a tutta voga si era data a celebrare la filosofia
di Epicuro. Sebastiano Bartoli, medico insigne, sostenitore delle
idee « moderne », insegnava il gassendismo ai giovani; e seppe
convertire alle sue idee Gaetano Tremigliozzi, il quale le diffuse
a Bari, dove dimorò nel 1678. Questi poi con frequenti discus-
sioni allontanò da Galeno e da Aristotele Aurelio Salice, che
fondò l'Accademia dei Coraggiosi (1682). Elia Astorini, professore
di filosofia a Cosenza, v'insegnava l'atomismo; nel 1683 andò a
Bari, dove fu accolto con entusiasmo dai « moderni »; e nel 1690
insegnava filosofia a Siena. Ancora nel 1710 il gassendismo aveva
a Napoli un grande ammiratore: Nicola Amenta (1). Nel 1717,
dopo molte opposizioni, ma anche dopo grande aspettativa, fu
pubblicata la traduzione di Lucrezio fatta dal Marchetti (Londra,
Pickard, a cura del Rolli). Nel 1727 uscì in Firenze un'edizione
compiuta delle opere del Gassendi (Opera omnia cura Nicolai
Averanii, Florentiae, Tartini, 1727); e Paolo Mattia Doria notava
che tutti in Italia seguivano la filosofia di Gassendi, non van-
tando altro che il senso e la materia; anzi citava, come indice
del gusto dominante al principio del settecento, i versi di quel
Toscano passati come in proverbio: « Credete a me ch'elle son
tutte fole, — son tutte cose da ingannar gli sciocchi, — le cose
che consistono in parole. — Datemi cosa che con man si tocchi,
— e se con mano non si può toccare, — che si possa vedere
almen cogli occhi ».
Ecco le circostanze che favorirono il diffondersi in Italia della
cultura francese e dell'empirismo lockiano. Vediamo come s'iniziò
e svolse il movimento.
(1) Mauoain, Op. e a., spec. pag. 131-133.
— 16 —
Nel principio de! secolo dominava ancora nella nostra peni-
sola (non ostante la luce effusa da Galileo) la filosofia scola-
stica (1). S'insinuò qua e là la dottrina di Cartesio sia per il
grido che aveva levato di sé, sia per la vicinanza nostra con la
Francia (2). Ma all'inizio stesso del secolo cominciò a penetrare
e a diffondersi in Italia la filosofia di Locke. Già nel 1713 il
Locke era conosciuto presso di noi; infatti in quell'anno l'abate
Conti esaminava a Venezia il Saggio sali' intelletto, che vende-
vano i librai della città. Nel dicembre del 1726 il Muratori lesse
il Saggio prestatogli da un amico. Mattia Doria nel 1732 diceva
che la dottrina di Locke era insegnata a Roma, a Napoli e nelle
(1) Sui seguaci della filosofia scolastica vedi Poli, Op. cit., Voi. IV,
§ § 359-362.
(2) Le opere di Cartesio cominciarono a circolare in Toscana verso
il 1660, dopo il quale anno il filosofo francese vi ebbe dei seguaci. A
Napoli invece la dottrina cartesiana era penetrata prima del 1660, e vi
contava due seguaci insigni: Tommaso Cornelio e Leonardo da Capua.
Contro questi sorse il gesuita De Benedictis (col pseudonimo di Bene-
detto Aletino), al quale rispose Costantino Grimaldi. Paolo Mattia Doria
da prima fu cartesiano, ma, forse per opera del Vico, di cui era fami-
liare, si staccò dalla dottrina del filosofo francese, anzi la combattè; a
lui rispose Francesco Maria Spinello, principe della Scalea. In Toscana
si oppose a Cartesio Nicola Stenone, grande anatomico, amico del Redi.
Nel 1704 il gesuita Tommaso Ceva pubblicò un poema intitolato PhÀ-
losophia novo -ùnti qua, in cui, pur rendendo omaggio alla nuova scienza
fondata sull'esperimento, attaccava Lucrezio, Gassendi e, pi" di tutti
Cartesio. Al Ceva rispose Guido Grandi con la Diacrisis (1724), già da
noi ricordata. La filosofia cartesiana fu esposta in versi dai siciliani
Tommaso Campailla (vedi Novelle letterarie, Tomo IV, col. 4U9-10) e
Benedetto Stay {Novelle leti., Tomo VI, col. 118-21). Gregorio Caloprese
a Scalea in Calabria educava i giovani secondo i principi del filosofo
francese. Ma fra tutti i cartesiani si segnalò Michelangelo Fardella di
Trapani (1650-1718), ciie aveva conosciuto a Parigi l'Arnauld e il Ma-
lebranche, e scrisse Universae philosophiae systetna (Venetiis, 1691) e
Animae hnmanae natura (Venetiis, Albrizzi, 1698). Vedi Mauoain, Op.
cit., Partie II, Chap. II e III; G. B. Cerini, / segnaci di Cartesio in
Italia sul finire del secolo XVII ed il principio del XVIII in // Nuovo
Risorgimento, 1899, pag. 426. Sul Fardella vedi Biografia del Tipaldo,
Voi. VI.
— 17 —
altre parti d' Italia da molti maestri, e che essa aveva un buon
numero di seguaci (1). Cominciarono a pubblicarsi le traduzioni
di varie opere del filosofo inglese (2). Questi, è vero, ebbe subito
oppositori, fra i quali il padre Paolo Mattia Doria (nella sua Di-
fesa della metafisica degli antichi filosofi contro il Sign. Gio. Locke,
Venezia, 1732), il Muratori (3), e, più grande di tutti, il Gerdil,
rinnovatore della filosofia di Cartesio e di Malebranche, il quale
sostenne che l'idea dtW essere non viene dai sensi (U immortalité
de l'àme démontrée cantre Locke par les mémes principes, par lesquels
ce philosophe démontre V existence et V immaterialité de Dieu, Turin,
Imprimerle Royale 1747; Défense da sentiment du P. Malebranche
sur la nature et V origine des idées cantre V « Essai » de M. Locke,
Turin, 1748). Ma tale opposizione non impedì alle idee di Locke
di ti ionfare; tanto più che già si divulgavano in Italia le dottrine
degli Enciclopedisti, che si riconnettevano con quelle del grande
filosofo inglese (4).
(1) Maugain, Op. cit., pag. 222-223.
(2) Becelli G. C, U arte dell' educare i fanciulli di Gio. Locke
ridotta ad aforismi, con alcune giunte, Verona 1736; U educazione
de' figliuoli tradotta già dall' inglese del sig. Locke in linguaggio fran-
cese e da questo trasportata nell' italiano, Lucca, 1750; Della educazione
dei fanciulli scritto in lingua inglese dal sig. Locke, indi tradotto in
lingua francese dal sig. Coste e finalmente tradotto in lingua italiana
dall' edizione francese fatta in Amsterdam 1' anno 1733, Venezia, 1751;
Ragionamenti sopra la moneta, l' interesse del danaro, le finanze e il
commercio scritti e pubblicati in diverse occasioni dal signor Giovanni
Locke, tradotti la prima volta dall'inglese, con varie annotazioni, Firenze,
Andrea Bonducci, 1751; // governo civile di M. Locke tradotto in ita-
liano, Amsterdam, 1773.
(3) Il Muratori, non ostante che, come s' è visto, sostenesse la filo-
sofia sperimentale e che non ammettesse le idee innate, pure, siccome
riconosceva nell'uomo la facoltà di distinguere il giusto dall'ingiusto,
il bene dal male, combattè il Locke nella sua Filosofia morale (1735),
e pili tardi (1745) in Delle forze dell' intendimento umano mostrò l'as-
surdità dell' affermazione lockiana che Dio potrebbe dare alla materia
il potere di pensare.
(4) De V esprit par M. Helvétius, Milan, dans l' Imprimerie à S. Ma-
thieu à la Monnaye près Saint Sepolcro; Saggio sopra gli Elementi di
filosofia di D'Alembert, Lucca, 1797. V Enciclopedia fu stampata in
Italia due volte (Lucca, 1758, e Livorno 1770).
— 18 —
Neir Italia meridionale la filosofia di Locke s' insinuò prima
di tutto nelle opere del Genovesi (1712-1769), il quale, sebbene
non si possa dire un empirista puro, tuttavia manifesta una forte
propensione per la dottrina del filosofo inglese (1). Egli tradusse
e commentò anche V Esprit des lois del Montesquieu (Napoli, 1766).
Seguirono l'indirizzo del Genovesi Domenico Caracciolo (1715-
(1) Alcuni, come il Ferri (Essai sur V histoire de la philosophie en
Italie au dix-neuvième siede, Paris, 1869, Durand, Didier et Qe, Livre I,
Chap. I, pag. 5) e il Winspeare (vedi Gentile, Dal Genovesi al Gal-
luppi, Napoli, 1903, pag. 9) hanno creduto di cogliere in contradizione
il Genovesi, perchè, mentre egli in un luogo della Logica per li gio-
vinetti (Libro II, Gap. I, § 149 dell' ediz. De Giorgi delle Opere filo-
sofiche del ROMAGNOSI, Milano, Perelli e Mariani, 1842) divide, a mo'
di Cartesio, le idee in innate, avventizie e fattizie, poi in un altro luogo
della Logica stessa (Libro II, Gap. I, § 151, e Gap. II, §§ 163 e 164)
dice che le idee innate hanno la loro sorgente nel senso interno e nelle
sue modificazioni, e nella Metafisica italiana respinge addirittura l'in-
natismo di Cartesio. II Gentile (Op. cit., Gap. I) ha mostrato che con-
tradizione non e' è: che le idee chiamate innate dal Genovesi son pro-
priamente non quelle cartesiane, bensì le idee che secondo il Locke si
ottengono per riflessione. Quindi il Genovesi resterebbe in questo punto
nell'ambito dell'empirismo lockiano. Ed anche a me par così. Lockiana
è pure la credenza del Genovesi sull' impossibilità di conoscere le es-
senze (sostanze) degli esseri. Ma bisogna badare prima di tutto che il
Genovesi ripete più volte che non si sente l'animo di risolvere defini-
tivamente il problema dell'origine delle idee, approfondendo il quale
anzi critica pur la soluzione datane dal Locke, e poi che nella II delle
sue Meditazioni considera la ragione o intelletto o attività riferente
(carattere specifico dell' /oj come un potere diverso dalla sensibilità e
irriducibile a questa {< Conciossiacchè essendo egli questo mio intel-
letto, dirò così, un senso universale, che raccoglie, confronta, distingue,
giudica, spiritualizza, e sì compone e ordina tutto ciò che gli altri miei
sensi mi rapportano, eh' e' pare che un nuovo mondo se ne formi —
seguita ch'egli mi faccia di tanto superiore a' bruti, di quanto è lo
spazio — che è pure infinito — tra lui e gli altri sensi . Meditazioni
filosofiche sulla religione e sulla morale, Napoli, Stamperia Simoniana,
1758, pag. 67. Gfr. §§ VI e VII, dove mostra che la ragione non può
essere un sesto senso). Si ricordi ancora la sua simpatia per il mona-
dismo leibniziano, eh' egli in metafisica accetta pur con qualche modi-
ficazione. Insomma il Genovesi è incerto.
— 19 —
1789), Giuseppe Palmieri (1721-1794), Filippo Briganti (1725-1804),
Domenico De Gennaro (1720-1803), Francescantonio Grimaldi
(1741-1784), Giuseppe Galanti (1743-1806) (1). Si ricollegano a lui
anche il Galiani, il Filangieri, il Pagano.
L'abate Ferdinando Galiani di Chieti, già da noi ricordato fra
gli economisti, fu mandato dal Tanucci, quale segretario d' am-
basciata, a Parigi, dove, come dice Diderot, fu, specie nel salotto
della signora d' Epinay e in quello del barone d' Holbach, « la
gaiezza, l' immaginazione, lo spirito, la follia, lo scherzo, tutto
ciò che fa dimenticare i fastidì della vita », e ne tornò a Napoli
dopo aver agitato e agitando ancora nella mente i problemi degli
economisti e degli enciclopedisti.
L' efficacia della cultura francese si rivela ancora nella Scienza
della legislazione (Napoli, Stamperia Raimondiana, 1780-83) di Gae-
tano Filangieri (1752-1788), il quale, parlando del Montesquieu,
dice: « Io debbo molto ai sudori di questo grand' uomo » (2);
nei Diritti dell' uomo (Assisi, 1791) di Nicola Spedalieri (1740-1795),
che si rìconnette al Rousseau, per giungere ad un empirismo
morale fondato sui principi della felicità e dell'amor proprio, dai
quali deriva tutti i diritti e doveri naturali; e nei Saggi politici
(1783-1791) di Mario Pagano, dove si ritrovano, oltre alcuni con-
cetti del Vico, la dottrina della perfettibilità del Turgot e del
Condorcet, la teoria dei climi del Dubos e del Montesquieu e
idee dell' Helvétius.
Ma r azione della cultura francese fu (indipendentemente in
principio da quella dell'Italia meridionale) più decisa e più ampia
nel settentrione della penisola. Nella maggior parte delle case di
Milano si parlava normalmente il francese, il quale nei carteggi
era la lingua preferita; le donne recitavano tragedie francesi. Il
salotto della marchesa Maria Vittoria Serbelloni, che al figlio in
collegio raccomandava lo studio dei libri di Rousseau, era il centro
(1) Gentile, Op. cit., pag. 16; Filippo Briganti è ricordato anche
dal Poli {Op. cit., Voi. IV, pag. 624) e da Aoat. Cromaziano {Op. cit.,
Gap. XLIV, pag. 321 del Voi. X delle Opere). Sul Grimaldi vedi Delfico,
Opere, Teramo, 1901-1904 Voi. III.
(2) Inoltre qualcuno vede neir« amore del potere >, considerato come
principio politico dal Filangieri, un concetto dell' Helvétius.
— 20 —
di diffusione delle novità letterarie d'oltr'Alpe; nei suoi tratteni-
menti serali ella rendeva conto dei romanzi e delle opere dram-
matiche; di giorno traduceva il teatro del Destouches, che pro-
curò a Pietro Verri 1' onore d' una prefazione (1754). Ella era la
madre spirituale del Verri e della gioventù patrizia che desiderava
apprender novità; per quattro anni il Verri frequentò la sua casa
con diletto intellettuale, e, più tardi, ripensando a lei, scriveva:
« Le debbo d'aver conosciuto la bella letteratura francese ». 11
salotto di Clelia del Grillo-Borromeo aveva carattere scientifico e
politico, ma sempre gallomane.
Il Beccaria viveva a Milano come « in una prigione »; solo
dopo lo studio delle opere francesi la sua anima si sentiva aperta
alla vita. Egli confessava: « lo debbo tutto ai libri francesi » (1).
Alessandro e Pietro Verri passavano le ore languendo « in umbra
mortis ». Si unirono in una società che dissero dei Pugni, e, per
combattere i pregiudizi e gli abusi del tempo, presero a pubbli-
care dal giugno 1764 al maggio 1766 il giornale // Caffè: al quale
collaborarono anche il marchese Alfonso Longo, il conte Giuseppe
Visconti, il conte Pietro Secchi, il conte Luigi Albertenghi, l'abate
Sebastiano Franci, il Biffi, il Colpani, il conte G. Rinaldo Carli.
Ad eccezione di quest' ultimo, orgoglio d' essere italiano, tutti
hanno un modo di pensare eh' è di stampo francese. Essi cre-
dono che la nostra cultura è insufficiente, inferiore; che i nostri
uomini son corrotti e gesuiti; che bisogna imitare quei cittadini
semplici di Francia che si dicono filosofi e vogliono liberare gli
uomini da tante brutture. Pietro Verri si dichiara « cosmopolita »;
per lui la patria è dove si fa del bene (2). Non meno gallomane
è Alessandro. Non li seduce né la storia né la lingua nostra. Di-
nanzi a notaio fanno rinunzia al vocabolario della Crusca; pro-
clamano la libertà di « render meglio le loro idee »; dicono che
r essenziale è il sentimento, la commozione. Non bisogna arros-
sire degli errori di grammatica; le opere più belle ne hanno; solo
le mediocri ne son prive, perchè scritte a sangue freddo.
(1) C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze, Barbera, 1862,
pag. 666-68.
(2) Tuttavia neh' articolo Della patria degli Italiani esorta gì' Ita-
liani alla concordia, mostrandone uguale l'origine, il genio e la condi-
zione (Vedi Opere del Verri, Milano, Silvestri, 1818, Voi. 1, pag. 304-316).
— 21 —
È loro intento migliorare gli uomini; il Beccaria dice che scopo
del giornale è di rendere amabile la virtù e d'ispirare quell'en-
tusiasmo per cui pare che gli uomini dimentichino per un mo-
mento sé stessi per la felicità altrui. Così s' accostano all' estetica
umanitaria di Diderot. Il quale voleva indirizzare l' arte ad un fine
esclusivamente educativo, e intendeva la cultura come mezzo di
elevazione morale; moveva anche guerra ai pedanti, che si lasciano
guidare da pregiudizi; ed era convinto che il genio non possa
creare con le regole d'Aristotele; allo studio delle parole sostituiva
lo studio delle cose, e volgeva l'attenzione dei giovani alla storia
naturale, che mette in esercizio i sensi, soli mezzi della conoscenza
umana. Del pari i « soci dei pugni » vogliono reagire al « me-
tafisico ed ampolloso regno della secentista letteratura », com-
battono i « parolai », gli « aristotelici delle lettere », simili a
quelli della filosofia; al principio « non cose, ma parole » so-
stituiscono l'altro « cose, non parole »; desiderano che la
letteratura italiana si ritempri nel culto della filosofia e delle
scienze; incoraggiano i giovani ad abbandonare le norme del clas-
sicismo, le regole e i precetti d' ogni genere, a non esser servi
dei testi di lingua, a render le proprie idee quali si ricevono
dai sensi (1).
Anche nella grammatica si ricollegano ai pensatori francesi.
Dumarsais {neW Enciolopedia e nell'opera Logique et principes de
grammaire, 1769), movendo dalla distinzione lockiana tra sensa-
zione e riflessione, aveva attribuito ad ognuna di queste facoltà
una propria classe di parole e un ufficio speciale nella formazione
del periodo: la costruzione, secondo il Dumarsais, è il posto che
noi diamo alle parole nella frase seguendo la sensazione domi-
nante; la sintassi invece è un atto della riflessione, che stabilisce
i rapporti necessari delle varie parole fra loro e dà alla frase un
significato piìi compiuto. Il Condillac aveva nelle sue opere com-
piuta r analisi dei rapporti fra la lingua e le diverse operazioni
mentali; secondo lui, come s'è visto, noi non potremmo pensare
senza 1' uso delle parole; e queste sono la condizione necessaria
(1) Pietro Verri (Opere, Voi. I, pag. 232-241) difende il Goldoni, cri-
ticato dal Baretti, appunto perchè vede nelle sue commedie un fondo di
virtù vera, d' umanità, di benevolenza, d' amor del bene.
— 22 —
dello sviluppo di tutte le facoltà che rendono 1' uomo superiore
per intelligenza a tutti gli altri animali. Ora il Beccaria in un ar-
ticolo del Caffè (I, n. 25), anticipando alcune conclusioni del-
l'opera sua sulla natura dello stile, mette le idee e le parole in
rapporto con i sensi, e fa consistere lo stile nel fascio di sensa-
zioni accessorie che si raggruppano intorno all'idea principale (di
modo che quanto più interessanti se ne potranno addensare intorno
a questa, tanto maggiore sarà il diletto estetico); la differenza di
stile nella diversa successione dei suoni rappresentativi delle sen-
sazioni; la diversità delle idee nell'ordine in cui esse son disposte;
quindi lo studio dello stile si riduce secondo lui allo studio delle
sensazioni accessorie che si possono aggiungere alle principali.
Neil' etica e nella pedagogia i soci dei pugni sono con Rous-
seau. L' uomo per loro è naturalmente buono, ed è corrotto dalla
società, la quale è guasta dalle menzogne e dalle false virtù; di
qui i grandi vantaggi della solitudine e della vita campestre (1).
In politica restano piuttosto conservatori; ammirano il Mon-
tesquieu. Quanto alla religione il giornale fin dal primo numero
s'impone « sommissione alle diverse leggi » e « perfetto silenzio
sui soggetti sacri >> (2).
Oltre che nel Caffè, Pietro Verri e Cesare Beccaria si ricolle-
gano ai filosofi francesi in altre opere. 11 primo cominciò a farsi
conoscere con opuscoli e con piacevoli « almanacchi », mediante
cui sperava diffondere più facilmente le idee nuove (giacche 1
lunari son letti dal popolo) e che intitolò La Burlanda, Il gran
Zoroastro, Il Mal di Milza, Il Collegio delle marionette (satira del-
l' educazione che le monache davano alle fanciulle), Dissertazione
sull'innesto del vaiolo, Quattro lettere al sig. A. F. G. (Ferdinando
d' Adda) d^ suoi fedelissimi servitori Mal di Milza e Zoroastro.
In questi scritti egli imitava Voltaire, per combattere col flagello
del ridicolo i cattivi costumi dei nobili, i pregiudizi del popolo
e le sciocchezze dei contemporanei. Pubblicò poi un Discorso sulla
(1) P. Vzmi, Opere, Voi. 1, pag. 276-286.
(2) Vedere per questa parte E. Rota, Op. cit., Gap. Il (La società del
« Caffè » nelle sue relazioni colV Enciclopedismo francese), e P. Verri,
Opere, Voi. I, pag. 207 e seg. (Discorsi vari ricavati dal giornale
intitolato « // Caffè »).
— 23 —
felicità (Livorno, 1763) e un Discorso suW indole del piacere e del
dolore (Livorno, Stamperia dell'Enciclopedia, 1773), nei quali, ap-
plicando r analisi (1), seguiva l' indirizzo degl' ideologi (2).
Il Beccaria nel famoso libretto Dei delitti e delle pene (Livorno,
1764) si appoggia alla dottrina del Contratto sociale di Rousseau,
sebbene ne tragga conclusioni diverse (3); nell'opera Ricerche in-
torno alla natura dello stile (Milano, 1770) ritiene che « tutte le
nostre idee o sentimenti, in ultima analisi, si possano considerare
(1) Discorso sull'indole etc, Introduzione, pag. 3-4 (vedi Verri, Opere
citate, Voi. I). In questo Discorso il Verri sostiene la teoria della natura
negativa del piacere. È una delle opere piìi importanti sull'argomento.
Ne riparleremo a proposito del Gioia e del Leopardi.
(2) Questi Discorsi il Verri ripubblicò, sviluppandoli, il 1781 a Mi-
lano (presso Marelli). Nella prefazione della seconda edizione così
chiama il Locke: « l'esatto analizzatore dell'animo, il luminoso genea-
logista delle nostre idee > (Opere, Voi. 1, pag. XIII). Al pari degl'ideo-
logi, egli ritiene che la nostra conoscenza è limitata alle idee forniteci
dai sensi {Opere, Voi. I, pag. 371); perciò non si propone di conoscere
r essenza del piacere e del dolore (Opere, Voi. I, pag. 50); cerca solo
di trovare il principio dei fenomeni della sensibilità, il quale per lui è
la fuga del dolore. Del pari, dice di non saper definire la materia
(Voi. I, pag. 334); considera la memoria come un enigma (Voi. I,
pag. 39-40); confessa di non saper dire come mai una lacerazione orga-
nica o un' immagine della fantasia produca dolore (40-41), e aggiunge:
« La cagione delle sensazioni nostre è talmente oscura, che l'ingegno
dispera di rintracciarla giammai - (pag. 40). Conosci te stesso è anche
il suo motto (Discorso sulla fel., § VI, pag. 165 del Voi. I delle Opere).
(3) Rousseau ragiona così: — Se lo Stato provvede alla sicurezza dei
cittadini, la vita individuale è non più soltanto un bene di natura, ma
un dono condizionale dello Stato; chi vuol conservare la vita a spese
degli altri deve pur darla per essi quando occorra; quindi, se è utile
per lo Stato che qualcuno muoia, questi deve morire. Orbene, se la
conservazione dello Stato è incompatibile con la vita d' un delinquente,
bisogna che uno dei due scompaia, e sulla scelta non vi può essere il
menomo dubbio; poiché il cittadino nemico cessa di appartenere allo
Stato, e dev'esserne staccato di fatto o con l'esilio o con la morte. I!
Beccaria invece ragiona in altro modo. Se ogni individuo, nella stipu-
lazione del contratto sociale, ha ceduto una parte minima della propria
libertà, è assurdo credere che in tale sacrificio minimo vi sia quello del
massimo fra tutti i beni: la vita. La pena di morte non è dunque un
— 24 —
come derivanti dalle sensazioni semplici > (1), ed imprime la sua
ammirazione per il Locke (2) e per il Condillac ( il celebre abate
di Condillac, ed altri troppo famosi e superiori ad ogni mia lode,
che non occorre qui nominare, hanno saputo portare la luce del-
l'analisi in questa parte delle lettere resa sterile ed infeconda dal
fosco pedantismo e dalla servile imitazione ») (3).
Il Verri, il Beccaria e gli altri scrittori del Caffè non avevano
voluto, come s' è visto, immischiarsi in questioni religiose. Ma
ormai anche in religione si faceva sentire l'efficacia dell'enciclo-
pedismo. È considerato come il principale voltairiano d' Italia il
conte Cari' Antonio Filati, da noi già ricordato fra gli sperimen-
talisti (4), che scrisse Di una riforma d' Italia, ossia dei mezzi di
riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d' Italia
(Villaf ranca, 1767) e le Riflessioni di un Italiano sopra la Chiesa
in generale, sopra il Clero sì regolare che secolare, sopra i Ve-
scovi e i Pontefici romani e sopra i diritti ecclesiastici (Borgo
Francone, 1768), in cui inveiva contro la potenza temporale del
Papa, contro i falsi miracoli inventati dagli ecclesiastici, contro i
conventi, e difendeva il teismo voltairiano. Pure il Verri nei suoi
diritto che possa derivare dalla natura della società; è anzi una viola-
zione del contratto sociale. Si noti però che più tardi il Beccaria nella
memoria Sul disordine delle monete respinse la teoria del contratto
sociale; nel rivedere il manoscritto dei Delitti per una nuova edizione
ebbe cura di sopprimere le frasi che accennavano all'esistenza d'un
patto anteriore alla società; e nella prefazione ammise l' esistenza del
diritto e dei principi morali anteriormente al contratto, derivandoli dalla
rivelazione e dalla legge naturale.
(1) Opere di Cesare Beccaria (Milano, Bettoni, 1824), Volume unico.
Ricerche intorno alla natura dello stile, Parte I, Gap. I, pag. 152. Anche
la definizione dello stile ( lo stile consiste nelle idee e sentimenti ac-
cessori che s'aggiungono ai principali in ogni discorso , Op. cit.,
pag. 152) ricorda, come s'è accennato, il Condillac e il Dumarsais.
(2) Op. cit., pag. 138-139.
(3) Op. cit., pag. 139. Si noti anche il concetto giusto che il Bec-
caria aveva dell'ideologia, la quale secondo lui si riduceva alla psico-
logia (Op. cit., pag. 138).
(4) Il Pilati era di Tassullo (Trentino); ebbe per qualche tempo una
cattedra di giurisprudenza a Gottinga; e fu stimato assai da Federigo
il Grande e da Giuseppe II.
— 25 —
Pensieri politici salta corte di Roma (1783) combatteva le fraterie.
L'abate calabrese Antonio Jerocades (1738-1805) voleva spiegar
r universo con la Fisi e la Legge o Temide. Ma più di tutti era
divenuto incredulo il popolo grosso. A Venezia non si credeva
se non « dai copi in suso, per Russò e Volter, — dai copi in zo,
per tanti che ha da aver ». In un sonetto riferito dal Malamani (1)
si legge: « Miracoli ? eh, le xe cogionarie, — e ste cose in natura
non se dà; — el mondo ancuo xe tropo iluminà — per butarghe
in ti ochi ste scarpie. — Le xe imposture, le xe barbarie — de
preti e frati, che s' ha imaginà — de guadagnar sora ste falsità:
— le anime e i Santi, e i Cristi e le Marie. — Basta ben che cre-
derne in quel de sora, — e anca qua ghe saria da dubitar, —
perchè non gh' è chi 1' abia visto ancora ».
Intanto vari filosofi scrivevano opere di sapore lockiano. Dia-
mante Fuginelli, monaco benedettino della congregazione di Val-
lombrosa e professore di m.etafisica nel Collegio fiorentino della
Santissima Trinità, nella sua opera Principia Metaphysices geome-
trica methodo pertractata (Florentiae, apud A. Bonduccium, 1755-58)
identificò la metafisica, fondamento di tutte le scienze, con la psi-
cologia (2), dividendola in psicologia empirica t psicologia razionale,
e sostenendo che questa trae i suoi principi da quella (3); cercò
di stabilire le leggi dei fatti psichici; nella questione dell' origine
delle idee seguì Locke, ammettendo due fonti delle nostre cono-
scenze: la sensazione e la riflessione (4); in alcuni problemi (per
es. in quelli sul rapporto fra anima e corpo e suU' origine del-
l'anima) professò una specie d'agnosticismo (5); tuttavia (press' a
poco come faceva nello stesso periodo di tempo il Condillac) am-
mise la semplicità e immortalità dell'anima (6), e, contro Locke,
sostenne essere impossibile a Dio stesso dare il pensiero alla ma-
teria (7); ammise anche la libertà umana (8). Cesare Baldinotti,
(1) V. Malamani, // settecento a Venezia, I, 105-106, cit. dal Della
Torre {Op. cit., pag. 674 e seg.).
(2) Adam. Fuginelli, Prin. metaph. (ediz. cit.). Voi. 1, pag. 2.
(3) Op. cit., Voi. I, pag. 5.
(4) Op. cit., Voi. I, pag. 142-145.
(5) Op. cit., Voi. 11, pag. 140-142 e 147-148.
(6) Op. cit., Voi. I, Gap. li. (7) Op. cit., Voi. I, pag. 92-95.
(8) Op. cit.. Voi. Il, Gap. X.
— 26 —
professore prima nell' Università di Pavia, poi in quella di Pa-
dova, pur staccandosi in qualche punto dal filosofo inglese, ne
illustrò e seguì la dottrina {De teda humanae mentis institatione,
Ticini, Galeazzi, 1787; Tentaminum metaphysicomm libri tres, Pa-
tavii, Typis Seminarli, 1817): infatti affermò che né con i sensi,
che non penetrano fino alle cose in sé, né con la riflessione, che
si fonda sui sensi medesimi, si può conoscere l'essenza degli
enti, e ammise che ogni nostra conoscenza non possa esser che di
fatto. Furono lockiani o quasi anche Giuseppe Matteo Pavesio
(1757-1800), professore di filosofia all'università di Torino, stu-
dioso pure delle opere di Leibniz, di Pascal, di Grozio {Elementa
logices ad Subalpinos per analysim sensationum et idearum. deli-
neata, Taurini, 1793; Elementa Metaphysices ad Subalpinos, Tau-
rini, 1794; Elementa philosophiae moralis ad Subalpinos, Ivi, 1795),
che espose un sistema di facoltà il quale ricorda quello di Locke;
Giuseppe Tettoni {Dei principi del diritto morale e pubblico, Bas-
sano, 1771), che seguì ben da vicino Locke nell'esame e nella
determinazione della legge morale; Giuseppe Capocasale (1754-
1828), professore all'Università di Napoli {Cursus philosophicus
sive universae philophiae institutiones, Neapoli, 1792; Saggio di
politica per uso dei privati, Napoli, 1798; Catechismo dell' uomo e
del cittadino, Napoli, 1821; // codice eterno ridotto in sistema, se-
condo i principii della ragione e del buon senso, Napoli, 1822),
che derivò tutte le idee dalle due fonti lockiane: sensazione e ri-
flessione. Concetti lockiani s'incontrano anche nell'opera intito-
lata Lettere VII teologiche e metafisiche, due delle quali inedite,
contro i ragionamenti metafisici del Signor , Milano (Fi-
renze), Ricchini, 1746 (1).
(1) Quest'opera fu edita sotto il nome dell'abate Giuseppe Clemente
Bini (a cui l'attribuisce anche il Poli). Ma nel Melzi {Op. cit., Tomo I,
pag. 136) si legge che ne fu autore Giovanni Lami (1697-1770), celebre
letterato, erudito e antiquario, che pubblicò a Firenze dal 1740 al 1769
le Novelle letterarie (Volumi 30). Appunto nelle Novelle (Tomi VI e VII)
uscirono le prime cinque lettere; queste erano rivolte contro lo scritto
Della esistenza e degli attributi di Dio e della immaterialità ed im-
mortalità dello spirito umano secondo la mera filosofia - Ragionamenti
filosofici (Lucca, Benedini, 1745), il quale fu pubblicato anonimo, ma
è certo del dott. Oiov. Alberto de Soria (1707-1767), professore di fisica
— 27 —
A diffonder la dottrina lockiana in Italia concorsero anche due
filosofi tedeschi, il Mako e lo Storchenau, le cui opere si adope-
ravano come libri di testo in molte delle nostre scuole (1).
Questo movimento d' idee ebbe nuovo impulso dalla presenza
stessa del Condillac in Italia durante la sua dimora a Parma (1758-
1767). Allora la sua filosofia passò nelle scuole del ducato: fu in-
fatti insegnata nel Collegio Alberoni di Piacenza da Giovannan-
air Università di Pisa (vedi Novelle leti., Tomo VII, col. 224, e T. XXVIII,
676-682; Giornale de^ letterati, Firenze, 1745, Tomo IV, Parte I, pa-
gine 185-201). Il De Soria affermava che tutte le prove sull'esistenza di
Dio fossero problematiche; che una sola fosse sicura: quella della con-
tingenza della materia. Ma il Lami sostenne che tale prova era nulla,
perchè non si poteva dimostrare quella contingenza con i principi del-
l'avversario; del pari, secondo il Lami, il De Soria non era riuscito a
provare che fra gli esseri contingenti ve ne fossero di capaci di felicità,
onde non aveva dimostrato neanche che l'Ente necessario avesse somma
bontà ed altri attributi. Il Lami in questa polemica cita varie volte il
Locke (Novelle, Tomo VI, col. 810, e T. VII, col. 37); e, come il filosofo
inglese, sostiene che noi non abbiamo se non un'idea imperfetta delle
sostanze (il Lami paria con ammirazione del Locke anche in Nov. leti.,
Tomo XVI, pag. 80; manifesta inoltre simpatia per la nuova scienza,
ed esalta il metodo dèi Galilei in Nov. lett.. Tomo XVIII, col. 426-427).
Tuttavia non direi che la sua opera sia propriamente lockiana.
AI Lami rispose, in difesa del Soria, Gelaste Mastigoforo (il P.
Francesco Raimondo Adami, servita) con le Lettere alV eccellentis-
simo signor dottor Clemente Bini per communicargli le riflessioni fatte
sopra le lettere critiche del medesimo scritte contro le dissertazioni
anonime intorno all' esistenza di Dio ed all' immortalità dello spirito
umano (Lucca, Benedini, 1746-47). A Gelaste Mastigoforo rispose il P.
Gialli, monaco celestino mantovano, con le Riflessioni sopra la let-
tera di Gelaste Mastigoforo in risposta alla prima scritta dal Sig.
dott. CI. Bini contro alcune dissertazioni metafisiche d'un professore
di Pisa (Firenze, Bonducci, 1747). Vedi Melzi, Op. cit., Tomo I, pa-
gine 441-42, e Tomo II, pag. 440.
(1) Compendiaria Metaphysicae institutio P. Mako, editio prima
veneta, 1771; SiGis. Storchenau in Academia Vindobonensi Logices
et Metaphysicae professoris Institutiones, editio quarta, Venetiis, 1791.
Queste opere son citate qualche volta dal Soave. Per tutta questa parte
vedi Poli, Op. cit.. Voi. IV, § 336; Biografia degli Italiani illustri pubbl.
dal De Tipaldo, articoli Pavesio, Capocasale etc.
— 28 —
tonio Comi (« che v, come dice il Roinagnosi, ^^ aggiungeva ad
una soavità di carattere meraviglioso un sapere profondo attinto
alle più sane fonti della moderna induttiva filosofia ») (1), e nel-
r Università di Parma da Francesco Pizzetti (1756-1811), che vi
tenne dal 1780 al 1805 la cattedra di logica e di metafisica, per
cui scrisse delle Institationes logicae (Parma, 1798) rimaste inedite,
le quali negli ultimi anni di sua vita ridusse per buona parte in
lingua italiana col titolo di Istituzioni di ideologia (nel 1786 le
aveva chiamate Logicae et Metaphysicae Cursus) (2).
Bisogna però subito dire che l'importanza del Collegio Albe-
roni per il condillachismo è stata, forse perchè ne uscirono il
Gioia e il Romagnosi, esagerata. Infatti Carlo Cattaneo {Saggi di
filosofia civile, pag. 101) ci fa sapere che testo di filosofia nel
detto Collegio era il complesso delle opere di Cristiano Wolf; e
il Bersani (3) scrive che nella lunga serie delle tesi filosofiche che
pel corso di più che mezzo secolo si esposero ogni anno e si di-
fesero pubblicamente dai collegiali si trova che si studiarono tutti
ì sistemi filosofici, e se ne pigliava ciò che era più conforme alla
comune opinione e al parlare filosofico del tempo; e in vero,
oltre il Gioia e il Romagnosi, ne uscirono Alfonso Testa, che dal
sensismo passò al criticismo di Kant, e il Burroni, che con
(1) Elogio storico di M. Gioia (in Opere storico-filosofiche e let-
terarie di G. D. Romagnosi riordinate e illustrate dal De Giorgi, Vo-
lume unico, Parte II, Milano, Perelli e Mariani, 1844, pag. 854).
(2) Lasciò inedite anche delle Quaestiones metaphysicae. Tradusse
le Opere filosofiche di MosÈ Mendelsohn (Parma, 1800) e le Ricerche
sulle bellezze della pittura di Daniele Webb (Parma, 1804). Vedi
Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dall' Affò e
dal Pezzana, Parma, Ducale Tip., 1833, Tomo VII, pag. 651.
(3) Stefano Bersani, Memorie storiche sull'origine e vicende del
Collegio Alberoni, Piacenza, Solari, 1867-1882, pag. 236. Il Collegio fu
fondato ed ebbe nome (il 1732) dal famoso cardinale Alberoni, che
tanta parte ebbe come Ministro alla Corte di Spagna. Fu affidato ai
Missionari o Preti della Missione. Il cardinale Alberoni lasciò scritto
nel testamento che nel Collegio dovessero accogliersi gratuitamente,
senza spesa alcuna, cinquantaquattro giovani poveri della provincia, che
avessero studiato con profitto le lettere umane, perchè nel corso di
nove anni vi approfondissero le scienze filosofiche, fisiche e morali,
- 29 -
S. Tommaso alla mano difendeva Rosmini. L'unico professore con-
dillachiano del Collegio che si ricordi è il Comi; nessun altro (1).
Romagnosi, come vedremo, vi conobbe per caso il Saggio del
Bonnet. Non so quindi dove stia la tanto decantata efficacia del
Collegio Alberoni per il diffondersi della filosofia condillachiana.
Forse più notevole fu l' azione che il Condillac, pur me-
nando vita ritirata, esercitò direttamente a Parma sui perso-
naggi di Corte. Ivi fu suo amico Carlo Gastone della Torre di
Rezzonico, di Como (1742-1796), colonnello della milizia di Parma,
succeduto al Frugoni, come segretario perpetuo, nell'Accademia
di Belle Arti (1769), che espresse la sua ammirazione per il filosofo
francese nel Ragionamento sulla filosofia del secolo XVIII (1778)
e, piti che mai, nel poemetto L'origine delle idee (1778), dedicato
al Condillac stesso, in cui, dopo aver descritto la finzione della
statua, affermava: « Memoria, paragon, giudizio, — meraviglia,
bisogno, odio ed amore — tutto è sentir » (2).
Si pubblicarono anche varie versioni delle opere del Condillac,
fra le quali la Traduzione del Saggio sopra l'origine delle umane
allo scopo precipuo di dar buoni sacerdoti alla diocesi di Piacenza o,
quanto meno, buoni medici e leggisti. Tutta la disciplina, istruzione ed
educazione dell' Istituto era diretta a formare ecclesiastici; ma non tutti
gli alunni si consacravano realmente allo stato sacerdotale. 1 Missionari
del Collegio furono accusati di giansenismo e di giacobinismo dai Ge-
suiti; e più tardi, durante il Risorgimento, di liberalismo e di rosmi-
nianismo. Vedi Memorie (storiche della fondazione ed erezione del
nuovo collegio ecclesiastico di San Lazaro dall' E. mo e R.mo Sig. Car-
dinale Giulio Alberoni fatte in vicinanza di Piacenza sua patria, Faenza,
1739, presso l'Archi Impressor Vescovile Camerale e del Santo Uficio,
e Bersani, Op. cit.
(1) Anzi il MOLINARI {La filosofia e la vita di A. Testa, Parma,
Grazioli, 1864, pag. 112) afferma che nel Collegio, quando c'era il Testa
(che v'entrò il 1799), quantunque in filosofia il Condillac vi tenesse il
campo, pure gl'ingegni si dibattevano per togliersi dalle pastoie del
sensismo.
(2) Vedi Opere (raccolte dal Mochetti), Como, Ostinelli, 1815-30. II
Rezzonico scrisse anche altri poemetti, tra i quali ricorderemo il Si-
stema dei cieli, in cui mette in versi il sistema copernicano e newto-
niano, e VAgatodemone, ove il genio del bene, dopo viaggi molti, giunge
a Parma, e di su una nuvola indica al poeta le fabbriche stupende e
- 30 -
cognizioni per opera di Tommaso Vincenzo Falletti (Roma, 1784),
La logica, tradotta dall' ab. Luigi Roverelli (Venezia, 1788, 1793,
1819; Bologna, 1804), Le opere, tradotte dall' ab. Marco Fossadoni
(Venezia, Santini e Zerletti, 1792-99), il Costrutto generale che deve
ricavarsi dallo studio della Storia, tradotto da L. A. Losci (Ve-
nezia, Storti, 1789), le Opere metafisiche (Pavia, Bizzoni, 1819), il
Corso di studi (Napoli, Stamperia del Ministero, 1815).
La filosofia condillachiana incontrò, sì, qualche opposizione,
per es. quella dell' ab. giansenista Pietro Tamburini di Brescia,
professore di morale cristiana e poi di filosofia morale e di di-
ritto naturale all'Università di Pavia (1) {Introduzione allo studio
della filosofia morale, Pavia, Galeazzi, 1797; Elementa iuris natarae,
Mediolani, 1815; Cenni sulla perfettibilità dell'umana famiglia,
Milano, Ferrarlo, 1823), il quale, pur approvando, come sappiamo,
le riforme religiose francesi, combattè la morale dei sensi e del-
l' amor proprio, riponendo l' obbligazione morale nel bisogno
della perfezione, e attaccò anche il Condorcet, sostenendo che
r uomo è perfettibile fino ad un certo punto, non indefinitamente,
e ch'egli può giungere alla perfezione per opera non dei poteri
suoi naturali, ma d' un prodigio soprannaturale. Al Condillac si
opposero pure il Falletti, che aggiunse delle note critiche alla tra-
duzione del Saggio citata, nelle quali al principio della sensazione
sostituiva quello della ragion sufficiente e l'idea dell'ente in uni-
versale derivata dal sentimento dell' Io; e il Draghetti, che provò
la vanità del tentativo condillachiano e bonnetiano di spiegare il
sistema delle facoltà dell' anima coi sensi e col movimento delle
fibre cerebrali {Psychologiae specimen, auctore Asdkea Draghetto
5./. Metaphysicae Professore in Collegio Braidensi, Parmae, 1818;
Ethica, Regii, 1818) (2). Ma oramai il Condillac in Italia trionfava.
gli abbellimenti della città. Il Rezzonico fu in corrispondenza con Fe-
derigo I! e con Voltaire. Nei suoi viaggi aveva conosciuto il famoso
Cagliostro, il quale poi, carcerato a Roma, dichiarò in processo che
anche il Rezzonico apparteneva ^gV Illuminati. Perciò il duca di Parma
intimò subito a questo di lasciare gli uffici affidatigli.
(1) Nel 1792 però Francesco I, cedendo alle istanze di Roma, ri-
mosse dall'Università di Pavia tanto il Tamburini quanto lo Zola.
(2) Si staccarono dal sensismo anche Tommaso Rossi, abate di Mon-
lefusco (prov. di Avellino), contemporaneo del Vico, il cui libretto La
— 31 —
Fra le opere che sanno d'ideologia condillachiana si ricordano:
Sulla riflessione (Aia, 1788) di Girolamo Boccalossi, il quale, dopo
aver identificato la riflessione col pensiero, ridusse le idee alle sen-
sazioni, ammettendo il principio che è meglio sentir le cose an-
ziché intenderle; il Saggio sulle passioni di Francesco Barkovich
dalmatino, il quale derivò tutti i moti dell'animo dalla sensibilità
e dall'amor proprio; le Istituzioni di metafisica (Genova, 1804) di
Michele de Tomaso, il quale considerò la facoltà di sentire come
l'essenza e la scaturigine di tutte le altre; la Lettera critica del
senso morale (1808) di Girolamo Prandi, professore di fisica a
Mantova e poi di diritto naturale e sociale a Bologna, che con-
futò la teoria del senso morale, e sostenne il sensismo condilla-
chiano fondando l'etica sull'amor proprio e sull'interesse; V Analisi
della sensibilità, delle sue leggi e delle sue diverse modificazioni
considerate relativamente alla morale e alla politica (Milano, 1801)
di Francesco Lomonaco (1772-1810), opera schiettamente condil-
lachiana, in cui l'autore, medico, considerava la psicologia come
scienza madre, dalla quale derivano e la logica e l'etica e l'estetica
e la politica, e alla quale servono di fondamento l'anatomia e la
fisiologia; i Discorsi letterari e filosofici (Milano, Silvestri, 1809)
niente sovrana s' ispirava ad un idealismo che ebbe il consenso del-
l'autore della Scienza Nuova; Vincenzo Miceli (vedi Biografia del
Tipaldo, Voi. VI, pag. 356), che rinnovò le speculazioni degli Eleati
sull'essere {Diritto naturale, Napoli, 1776); il Pini, autore della Proto-
logia analysim scientiae sistens ratione prima exibitam (Mediolani, apud
lustum Ferrarium et Soc, 1803), ammirata dal Rosmini; il De Horatiis,
il Mastrofini ed altri. Vedi Ferri, Essai citato, pag. 8; Poli, Op. cit.,
Voi. IV, §§ 367 e 376; F. Cicchitti-Suriani, / primordi del Kantismo
in Italia, Parte I (L' antikantismo), Roma, Tipografia delle Terme Dio-
cleziane, 1892, pag. 13-15. Va anche ricordato Q. Batt. Giovio (1748-1814),
che scrisse contro la filosofia in voga un Saggio sopra la religione
(Milano, Galeazzo, 1774), le Lettere contro il filosofismo ateo (in No-
velle politico-letterarie di Mantova, N. 21) e Operette ed epiloghi in-
teressanti la religione ed il cuore (Como e Milano, 1793, 1796 e 1799).
Per il Giovio vedi Biografia del De Tipaldo, Voi. II.
Contro l'Helvétius scrisse G. Batt. Almici (1717-1793) nelle sue Osser-
vazioni sopra il libro del sig. Elvezia intitolato lo Spirito (Brescia,
Bossini, 1766). Vedi Biografia del De Tipaldo, Voi. I, articolo Almici.
— 32 —
del Lomonaco stesso (1); le Lezioni di analisi delle idee (Milano,
1807) e i Discorsi filosofici (1806) del prof. Idelfonso Valdastri,
che considerò come criterio del vero il senso intimo, e, limitando
la filosofia all' analisi delle idee, esaminò le facoltà dell' anima e
specialmente quella di sentire, dalla quale fece derivare tutte le
altre, come anche tutte le idee; i Piaceri dello spirito o sia analisi
dei principi del gusto e della morale (Bassano, Remondini, 1790)
di G. Batt. Corniani (1742-1813), che dedusse i principi del gusto
dall' analisi dei sensi, e mostrò la natura affine del bello e del
bene; il Del Bello ■ Ragionamenti (Firenze, Molini, 1808) di Leo-
poldo Cicognara (1767-1834), che applicò all'estetica i principi del
sensismo (2); il Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla
lingua italiana (Padova, 1785) di Melchiorre Cesarotti (1730-
1808) (3). Ricorderemo ancora il cappuccino Lodovico Gemelli
(1757-1833), studioso delle opere di Condillac, di Diderot, di
D' Alembert e di tuffi i filosofi oltremontani, il quale pubblicò
dei Saggi di filosofia morale diretti alla gioventù (Napoli, 1801)
e degli Elementi di storia filosofica (Napoli, 1793); Giuseppe Piazzi
(1746-1826), astronomo e matematico, cultore anche di studi filo-
sofici, il quale sostituì, insegnando all'Accademia di Palermo, ai
vecchi libri vuoti d' idee, il Locke e il Condillac, e lasciò inedite
delle Istituzioni di logica e metafisica (4); Cristoforo Sarti, pro-
(1) Sul Lomonaco vedi Natali, Op. r/Y., pag. 337 e seg. (Francesco
Lomonaco e il nazionalismo nelV età napoleonica).
(2) Il Cicognara stabilì la solita distinzione fra bello naturale e bello
artificiale, riponendo quest'ultimo o nel ritrarre fedelmente gli oggetti
della natura o nel riunire le loro parti più perfette, formandone un
modello ideale (nel qual caso il bello si dice propriamente ideale).
Quanto poi all'origine e alla causa psicologica del bello, la ripose nelle
< impressioni empiriche del sensorio prodotte da una forza violenta
che in noi desta il sentimento del bello e del sublime >, dichiarando
impenetrabile e misteriosa la sensazione di piacere estetico. Vedi Poli,
Op. cit., Voi. IV, pag. 779-780; Biografia del Tipaldo, Voi. X, pag. 35-52.
Il Cicognara è autore anche d'una Storia della scultura dal suo ri-
sorgimento in Italia fino al secolo di Canova (Volumi VII, 2» Ed.,
Prato, Giachetti, 1823) e di molti articoli su opere d'arte.
(3) Cfr. per tutti questi filosofi Poli, Op. cit., Voi. IV, § 368.
(4) Per il Gemelli e il Piazzi vedi Biografia del Tipaldo, Voi. I, ar-
ticoli rispettivi.
- 33 -
fessore all' Università di Pisa, che rivelò nelle sue opere un certo
acume critico e un certo spirito d' indipendenza pur di fronte alle
teorie di Locke e di Condillac (Christophori Sarti in Academia
Pisana philosophiae rationalis artis criticae ac metaphysicae pubi,
prof. Dialecticamm institutiomim libri duo, V edz. Pisis, apud fratres
Pizzornos, 1777, 2* edz. Lucae, Bonsignori, 1787; Psycliologiae
specimen, V edz. Pisis, 1779, 2" Lucae, 1791; Specimen theologiae
naturalis, V edz. Pisis, 1780, 2* Lucae, 1791) (1), e si occupò in
(1) La più importante di queste opere è la psicologia, con cui il
Sarti intende divulgare e chiarire la filosofia condiliachiana, quantunque,
come s' è detto, non segua ciecamente il filosofo francese. È divisa in
tre libri. 11 primo di questi tratta delle sensazioni in generale, e mostra
come sia loro presupposto l'unione e l'azione reciproca dell'anima e
del corpo: unione e azione che è un fatto certissimo, quantunque mi-
sterioso. Gli elementi sensoriali che appartengono al corpo sono lo
stimolo dell'oggetto sensibile e la modificazione dell'organo senziente;
gli elementi che appartengono all'anima sono o elementi d'intelligenza
o elementi d'appetizione e di desiderio. I primi risultano dalle attività in-
telligenti, dalle idee, prodotti di queste attività, e dai segni, per mezzo
di cui sempre più si sviluppano le forze intelligenti e si moltiplicano
le idee. I secondi poi dipendono dalla natura conosciuta del bene e del
male e dal sentimento destato di piacere e di dolore, e quindi dagli
effetti che ne nascono. Notevole è la parte dell'opera riguardante i
sentimenti, i desideri e le passioni. 11 secondo libro tratta delle sensa-
zioni in particolare, e ne distingue tre specie. La prima comprende le
sensazioni che danno alla mente solo conoscenza delle sue proprie
idee, ossia le nozioni soggettive: tali sono le sensazioni visive, uditive,
olfattive e gustative; la seconda comprende le sensazioni tattili, che
fanno passare la mente dalla conoscenza di se stessa a quella dei corpi
esterni; la terza abbraccia le sensazioni per mezzo di cui la mente dalla
conoscenza del fisico e del sensibile si solleva a quella del metafisico
e del morale: di tal genere sono specialmente le sensazioni dell'udito,
giacche per mezzo delle parole noi, contrassegnando le idee, possiamo
analizzarle meglio e progredire così nelle scienze. 11 Sarti si ferma a
lungo a parlare del tatto, sostenendo la tesi del Condillac che il tatto
sia un senso privilegiato, che corregge gli altri e ci fa conoscere lo
spazio; egli anzi dissipa con molto acume le obiezioni mosse contro la
teoria del filosofo francese dal filosofo svizzero-tedesco Giovanni Ber-
nardo iVlerian (1723-1812), il quale dal 174Q al 1804 scrisse vari articoli, in
Mémoires dell'Accademia di Berlino, specie Sur le problème de Molyneux
— 34 —
particolar modo del problema del Molyneux sostenendo la tesi
del Tratte des sensations del Condillac in L'ottica della natura e
dell'educazione indirizzata a risolvere il famoso problema del Mo-
lyneux (Lucca, Bonsignori, 1792) e in un'Appendice all' ottica della
natura e dell'educazione, o sia Risposta alle censure di un profes-
sore anonimo (Lucca, Bonsignori, 1792) (1).
Sono infine importanti due pensatori, che, quantunque non si
possano dire condillachiani veri e propri, seguirono il movimento
ideologico del tempo, e scrissero opere prettamente empiriche:
voglio dire Marcantonio Vogli, barnabita, e Ubaldo Cassina.
Quegli, professore d' etica prima a Palermo, all' Università di
Bologna poi, e rettore del Collegio civico di S. Luigi in questa
città, scrisse Della natura del piacere e del dolore (Livorno, 1772),
operetta comprendente tre lettere (dedicate al Granduca di To-
scana Pietro Leopoldo), nelle quali, fondandosi sempre sui fatti,
egli cercò di determinare le leggi che regolano i sentimenti di
piacere e di dolore (2); pubblicò anche le Istituzioni di filosofia
(1770-1779). Il terzo libro tratta delle conseguenze più notevoli che ri-
sultano dalle sensazioni e dai loro caratteri; si occupa quindi della spi-
ritualità e immortalità dell'anima, della libertà etc. In quest'opera (pag. 19
della 2» edz.) pone fra i condillachiani, oltre il Beccaria e il Verri, anche
il Soave e il Testa; e cita la traduzione soaviana del Compendio del
Saggio del Locke (pag. 140-141).
Nella Logica o Dialettica si occupa dell'analisi e della sintesi. Ri-
conosce che nel ragionamento sintetico si parte dagli assiomi; ma questi
secondo lui s'ottengono mediante l'astrazione; perciò non si possono
dire innati (pag. 84 della 2» edz.). Le idee astratte si derivano dalle
concrete, perciò presuppongono la conoscenza dei sensibili; quindi è
falsa l'opinione secondo cui gli assiomi sono il fondamento delle altre
verità. Nella Teologia sostiene il teism.o, combattendo specialmente il
barone d'Holbacli.
(1) Vedi Giornale de' leti., Tomo LXXXVI, Pisa, 1792, pag. 88-104,
e Tomo LXXXVIII, 1792, pag. 106-124.
(2) Nella prima lettera esamina il piacere, e ricava dall'esperienza
tre teoremi: 1" il piacere, quando viene dopo il dolore, appare più
grande, perchè il dolore si volge in piacere, e, così cambiato, rende il
piacere maggiore (perciò il bere dopo la sete, il mangiare dopo la fame,
il riposare dopo la stanchezza sono graditissimi); 2° il piacere, venendo
dopo un piacere più grande, appare piccolo e scarso più di quello che
— 35 —
morale (Bassano, Remondini, 1789), nelle quali considerò l'uomo
della natura prima che fosse entrato in società, e trovò che egli
ha il diritto naturale di conservarsi; onde riguardò come principio
della morale il diritto di conservazione, dal quale tuttavia non ri-
cavò l'egoismo, che tutti han diritto di difendersi e di conservarsi,
perciò ciascuno deve rispettare i diritti degli altri e non offenderli;
quindi la verità del cristianesimo e della morale altruistica.
Ubaldo Cassina, professore di filosofia morale all' Università
di Parma, scrisse: Saggio analitico sulla compassione (Parma, Stam-
peria reale, 1772) (1), opera senza dubbio notevole (2), De morali
sia, perchè V eccesso di quel che era prima diventa dolore, ed elide,
così, alcuni gradi di esso, onde impicciolisce; 3" il piacere, venendo dopo
un piacere più piccolo, rimane così com'è. Nella seconda lettera sta-
bilisce un altro teorema: che cioè i piaceri sono in certo modo for-
mati tutti di una stessa sostanza; la differenza loro sta tutta nel più e
nel meno; e, se essi ci appaiono diversi, ciò dipende dalle diverse vie
per cui corrono all' animo. Si occupa poi del dolore, e sempre dal-
l'esame dei fatti deriva altri tre teoremi: 1" il dolore, quando viene
dopo un piacere, si fa più grande, perchè il piacere si cambia in do-
lore, e, unito così ad esso, lo fa sembrare maggiore; 2o il dolore, quando
viene dopo un dolore più grande, diminuisce, poiché l'eccesso di quello
più grande, rivolto in piacere, cancella e toglie alquanto di esso; 3" il
dolore, venendo dopo un dolore più piccolo, rimane così com' è. Da
questi teoremi ricava de' corollari (per es. che le persone più allegre
devono esser soggette a malinconie più profonde, perchè in esse il do-
lore è sempre consecutivo al piacere). Molte altre questioni s'intrec-
ciano con quelle a cui abbiamo accennate. L'autore ritiene che la na-
tura abbia stabilito in ogni uomo una specie di equilibrio tra la somma
di tutti i piaceri e quella di tutti i dolori, il quale non possa esser tur-
bato se non dalla morte. Nel Giornale de' letterati (Pisa, 1774, Tomo Xlll,
pag, 222) è attribuito al Vogli il merito d'aver incitato il Verri a rical-
care (nel suo Discorso siili' indole del piacere e del dolore) « le orme
medesime e a proseguire con somma gloria il già intrapreso cammino ».
(1) Quest'opera è citata e in parte criticata dal Gioia {Ideologia,
Voi. Il, Parte II, Gap. IX, § 2). Fu tradotta in tedesco dal Pockels (1790)
e letta e criticata dallo Schopenhauer {Le fondement de la morale,
Trad. Bastian, Paris, Flammarion, pag. 229). Vedi anche Giornale de'
lett., Pisa, 1772, Tomo Vili, pag. 116-153.
(2) Nella prefazione mostra che la fisica e la morale sono somi-
[glianti, perciò vuole che in questa, come in quella, si abbandonino le
— 36 —
disciplina humanae societatis libri duo (Parmae, ex Typographia
astrazioni e i sistemi, e si studii la natura umana ne' suoi fenomeni.
Han dato motivo alle sue meditazioni, com'egli stesso scrive, Rousseau
(di cui segue nel Capitolo I della Parte li la dottrina del contratto
sociale) con V Emilio e Bònnet col Saggio analitico. Si noti pure
che nella spiegazione dell' istinto (Parte 1, Capitolo IV) segue il Con-
dillac. L'opera è divisa in due parti: nella prima si discorre della na-
tura della compassione; nell'altra si va investigando l'efficacia eser-
citata da questa sul vivere sociale. La compassione è per il Cassina un
fenomeno essenzialmente sociale, poiché implica 1' esistenza dei nostri
simili, dei cui mali noi ci affliggiamo (quindi impropriamente si dice
compatir sé medesimo). I mali di cui ci rende sensibili la compassione
sono di due specie: reali e immaginari {d' imitazione). 11 Cassina parla
prima di quelli reali. Non può provare compassione, egli dice, chi non
abbia sperimentato mai sensazioni dolorose. Se invece noi le abbiam
provate, le conserviamo nella memoria; e, se vedremo qualche infelice
in uno stato simile a quello nostro passato, assoderemo nella mente
due sensazioni, quella che abbiamo già provata e che ci torna ora in
mente, e quella che proviamo alla vista dell'infelicità altrui. Allora
r idea delle nostre sventure passate ci turba e affligge; e questo dolore,
senza che ce n'accorgiamo, si trasferisce nell'individuo che soffre, si
identifica con lui; e perciò ci sembra di patire in lui, non già in noi
medesimi. Quindi cerchiamo di sollevarlo, e pare che in quest'atto
nulla pensiamo al sollievo di noi medesimi, mentre in fondo tale pre-
mura di aiutarlo non è altro che una premura di liberar noi dallo stato
doloroso in cui siamo. Dal che segue che la compassione è un modo
di essere dell'amor proprio (Parte I, Cap. I). Spiegata così la compas-
sione dei mali reali, il Cassina passa a quella dei mali d' imitazione,
ossia dei mali imitati dagli attori a teatro e dall'arte in genere; e so-
stiene che noi qui prendiamo come realtà ciò che invece è imitazione
di questa, e, allora, naturalmente, accade quel che nei mali reali (tra-
sferiamo il nostro dolore negli attori, e c'identifichiamo con essi). Nella
Parte II mostra come la compassione abbia efficacia sui doveri sociali
e sulle virtù pubbliche. I doveri dell'uomo consistono nell' astenersi
dalle azioni che recano dispiacere agli altri; ora, se intendiamo di com-
piere atti che cagionino affanno al prossimo, corriamo subito col pen-
siero agli effetti dolorosi che quegli atti produrrebbero nella sensibilità
altrui; allora si compie l'associazfone d' idee indicata; sentiamo l'impres-
sione dolorosa altrui come se fosse in noi; e perciò ci asteniamo da
azioni dolorose agli altri. Per motivi analoghi la compassione ha effi-
cacia sulla virtù (abito di compiere azioni utili alla società).
— 37 ^
regia, 1778), in cui fondò l'etica sulla ricerca della felicità (1), e Con-
getture sui sogni (Parma, 1783), in cui sostenne che i sogni non sono
capricci passeggeri e vani della nostra immaginazione, ma possono
essere un mezzo per comprendere e interpretar meglio ili nostro
carattere, che è un prodotto abituale delle idee e dei sentimenti.
Neppure i grandi poeti rimasero estranei al movimento ideo-
logico. L' Alfieri si educò da sé sugli enciclopedisti. Di Voltaire
10 allettavano singolarmente le prose; lesse Montesquieu di capo
in fondo ben due volte, con diletto e fors' anche con qualche suo
utile. Invece il libro dell' Heivétius De l'esprit g\\ produsse « una
profonda ma sgradevole impressione » (2). Nomina Locke, insieme
con Machiavelli, con Bayle e Rousseau, « fra i moderni che hanno
veramente illuminato il mondo, sviscerando le facoltà e i diritti
dell' uomo » {Del principe e delle lettere, Libro II, Gap. 4); e alla
filosofia lockiana e condillachiana è inspirato il sonetto sull'anima
{Opere, XI, pag. 187), in cui si leggono i seguenti versi: « Veder,
toccar, udir, gustar, sentire: — tanto, e non più, ne die Natura
avara; — indi campo vi aggiunse ampio al fallire » (3).
Più profonda è la simpatia del Parini per la cultura francese.
11 Giorno, insieme coi dialogo Della nobiltà, non è che una satira
amara dell'antico regime crollante. Egli salutò la Rivoluzione nel-
l'ode La gratitudine (versi 255-256), quantunque più tardi (nell'ode
A Silvia) riprovasse « gli eccessi del secolo spietato ». Si noti
pure che forse da uno scritto di Pietro Verri, da noi sopra ricor-
dato, egli trasse ispirazione per la sua ode su L'innesto del vaiolo,
e per l'ode L' impostura dal Tempio dell' ignoranza del Verri stesso
(nel Caffè, giugno, 1764) (4). Nel Mezzogiorno vicovdsi i novi sofi
II P. Innocente Ansaldi (per il quale vedi Poli, Op. cit., Voi. IV,
pag. 656-657) criticò il Saggio del Cassina, che rispose con alcune Let-
tere (Pesaro, 1779).
È noto che ai giorni nostri il fenomeno di sentir sé in altri è stato
dal Lipps detto Einfuhlung e considerato come il fondamento dell'al-
truismo, mentre il Cassina vi trova dell' egoismo. Vedi LiPPS, Die ethi-
schen Gnindfragen, Hamb. und Leipzig, 1905.
(1) Vedi Giornale de' leti., Pisa, 1779, Tomo XXXV, pag. 73-91.
(2) Alfieri, Vita, Milano, Sonzogno, 1887, pag. 96.
(3) Natali, Idee costumi etc, pag. 93.
(4) Vedi Mestica, Compendio storico della leti., ital., III, pag. 194-198;
— 38 —
che la Gallia e l'Alpe — ammirando (1) persegue, dei quali nomina
Voltaire, morbido Aristippo del secol nostro, e Rousseau, novo Dio-
gene dell'auro sprezzatore e della opinione dei mortali; e dichiara
d' esser d' accordo con loro nella lotta per l' eguaglianza degli
uomini, ma di staccarsene nell' irreligiosità (versi 941-1020). Spe-
cialmente con Voltaire il Parini ha una certa affinità intellettuale:
come ha osservato il Natali, entrambi sono studiosi dei bisogni
e delle piaghe della società; il Tempio dell' Impostura, nell' ode
citata del Parini, ricorda il Tempio della Sciocchezza della Pul-
cella (III, 35); 1' orrore per l' inquisizione domenicana è comune
a Voltaire (vv. 24-8) e all' autore ditWAuto da fé; V estetica pari-
niana è 1' estetica di Voltaire, Inoltre egli, al pari di Rousseau,
nel frammento A gentil donna, scioglie un inno alla Natura, che
chiama madre amante dei mortali {L' innesto del vaiolo, v. 132);
perciò consiglia gli uomini a vivere sotto a le leggi sante — de
la natura in suo voler costante {La tempesta, vv. 109-10). Infine,
quantunque nei versi 227-37 del Mattino derida la psicologia dei
senslsti fondata sulla fisiologia, pure più tardi (come ci fa sapere
il Salveraglio) li cancellerà (2), e, nei Principi di belle lettere, s'ac-
costa al Condillac e agli altri ideologi francesi quando scrive:
« L' uomo cerca perpetuamente la felicità, e questa non consiste
in altro che nelle sensazioni piacevoli » (3).
Dopo questa preparazione è facile immaginare quale acco-
glienza trovassero i Francesi in Italia, specie in Lombardia, tanto
più che ivi durante l'impero di Leopoldo I! erano state soppresse
le riforme di Giuseppe II, e poi, sotto Francesco II, 1' erario era
stato smunto. Agli ultimi d'aprile e ai primi di maggio del 1796
cominciarono le inquietudini dei governanti di Milano; si ordi-
narono preghiere pubbliche, si portarono in giro le reliquie. II
7 maggio, due giorni prima d'andarsene, gli Austriaci armavano
Parini, Le odi, il Giorno e altre poesie minori annotate da G. Maz-
zoni, 3» edz., Firenze, Barbera, 1903, pag. 19; Verri, Opere citate. Voi. I,
pag. 287-291.
(1) Variante: esecrando.
(2) Vedi Parini, Le odi, il Giorno e altre poesie minori annotate
dal Mazzoni, pag. 162, nota al verso 237.
(3) Natali, Op. cit., pag. 46, 77, 84, 87, 178.
-^ag-
ii paese: il governatore, per mantenere la tranquillità e l'ordine,
chiamò in attività la milizia urbana dai diciotto ai sessant' anni,
comandata dal duca Galeazzo Serbelloni (un cospiratore!) e da
altri. Le mosse di Bonaparte dirette a tagliar la ritirata all'esercito
del Beaulieu e a coglierlo alle spalle, costrinsero 1' arciduca Fer-
dinando ad abbandonare Milano il 9 maggio. Partì seguito da
alcuni fedeli, tra i quali il principe Albani e il marchese Litta,
lasciando una Giunta e, nel Castello, una guarnigione. Se n'andò
senza insulti e senza rimpianti. I partigiani dei Francesi non pre-
sero alcuna iniziativa; solo alla porta del palazzo dell' arciduca fu
posto un fantoccio che lo raffigurava, e poi, fra le risa e lo schia-
mazzo del volgo, gli fu appiccato fuoco (1). L' undici maggio
Carlo Salvador comparve per le vie con la coccarda tricolore, e
trovò imitatori. A Porta Romana fu inalzato l'albero della libertà;
e il Circolo dei patriotti, trasformato in Società popolare, fece
tentare 1' assalto al Castello. Il 13 maggio Massena entrava a Milano;
poi giungeva Bonaparte su di un cavallo bianco, circondato da
generali e da ufficiali prigionieri, e accolto assai festosamente. I
Francesi s'accampavano senza tende, marciavano alquanto in disor-
dine, erano vestiti di colori diversi, e stracciati, privi di scarpe;
alcuni non avevano armi. A Milano sventolò subito il vessillo
francese; si adottarono le coccarde tricolori, le nuove foggie de!
cappello tondo, i calzoni lunghi, i capelli corti. La Società popolare
tenne la sua prima seduta la sera del 17 maggio; il 18 piantò so-
lennemente un albero della libertà in piazza del Duomo; vi com-
parvero gli emblemi massonici, che fino allora non erano stati visti
mai in pubblico: segno dell'adesione a! nuovo ordine d'idee da
parte della massoneria, (2). Ai Francesi si offrivano balli, luminarie.
(1) Narra Stendhal nella Chartreuse de Parme che l'arciduca fa-
ceva commercio di grano, e impediva ai contadini di venderne fino a
che egli non avesse riempiti i suoi magazzini. Nel maggio 1796, tre
giorni dopo l'entrata dei Francesi, un giovane pittore, di nome Gros,
venuto con l'esercito liberatore, disegnò nel gran Caffè dei Servi, su
un pezzo di carta, il grosso arciduca; un soldato francese gli dava un
colpo di baionetta nel ventre, e, invece di sangue, ne usciva una quan-
tità incredibile di grano. II disegno piacque tanto, che fu stampato, e
ne furono vendute venti mila copie.
(2) TiVARONi, Op. cit., Tomo I, pag. 91 e seg.
— 40 —
festini, canti, discorsi. I soldati d'oltr'Alpe, narra Stendhal (1),
spettatore oculare, ridevano e cantavano tutto il giorno; essi ave-
vano meno di venticinque anni; il loro generale in capo, che ne
aveva ventisette, passava per l'uomo più maturo del suo esercito.
Quest'allegria, questa giovinezza, questa spensieraggine corri-
spondevano in una maniera buffa alle prediche furibonde dei frati,
che da sei mesi annunziavano dall'alto del pulpito che i Francesi
erano mostri, obbligati, sotto pena di morte, a incendiar tutto e
a tagliar la testa a tutti. Nelle campagne si vedeva sulla porta
delle capanne il soldato francese intento a cullare il figliuolo della
padrona di casa, e quasi ogni sera qualche tamburino improvvi-
sava un ballo suonando il violino. Siccome le controdanze riusci-
vano troppo difficili e complicate perchè i soldati, che del resto
non le conoscevano punto, potessero insegnarle alle donne del
paese, queste stesse eseguivano dinanzi ai giovani Francesi la mon-
ferina, il saltarello e altre danze italiane.
A Milano accorrevano rivoluzionari da tutta Italia: Salfi da
Roma, Gioia da Piacenza, Ranza dal Piemonte, Corani dalla Sviz-
zera, e altri, che si univano al Salvador e al Rasori. Nei giardini
pubblici si stabiliva una società dì pubblica istruzione; tribune si
ergevano alla Rosa e a S. Sebastiano. Innumerevoli giornali na-
scevano e si diffondevano: il Termometro politico, il Giornale degli
amici della libertà ed uguaglianza, il Tribuno del popolo, V Amico
del popolo, il Giornale rivoluzionario, V Estensore Cisalpino, il Foglio
dei fogli, il Giornale senza titolo etc. (2). Presso gli scalini del
Duomo si aprì la prima sala di lettura per giornali a dieci soldi
al giorno e a quattro lire al mese (3). Un soffio di caldo entu-
siasmo agitava la folla. Un cappuccino si taglia la lunga barba e
r appende con la tonaca all' albero della libertà; il Padre Appiani,
sessuagenario, professore di teologia, balla in Duomo la Carma-
gnola. Nel Circolo della Rosa una donna offre, tra gli applausi
scroscianti dell' assemblea, la sua mano a chi le porterà la testa
del papa. I Ciacobini si adunavano nei Circoli costituzionali, dove
(1) Chartreuse de Parme, pag. 7-10.
(2) TiVARONi, 0/7. cit, Tomo I, pag. 101.
(3) F. Momigliano, Ugo Foscolo giornalista democratico della Rep.
Cisalpina in Secolo XX, 1° Maggio 1818.
— 41 —
professavano il teofilantropismo, la credenza cioè in un Essere su-
premo, onnipossente e buonissimo, il cui culto, consistente in
semplici lodi, era insegnato nel Manuale dei Teofilantropi (1798).
Nel Circolo costituzionale di Milano (1797-98) Giovanni Fantoni
lesse un discorso sulla morale e sul culto dei Teofilantropi, e
recitò un inno 2i\V Essere Supremo, imitazione d' un altro di G, M.
Chénier. Al Circolo erano ammessi anche i ragazzi; e la sera del-
l' otto gennaio una fanciulla di sette anni salì sulla tribuna per
invitare i patriotti « ad affrettarsi a distruggere in Roma la sede
dell' ipocrisia e della superstizione ». Il 16 febbraio Giuseppe
Giulio Ceroni, valoroso commilitone del Foscolo, recitava un
sonetto Sulla caduta di Roma, in cui si rallegrava della soppres-
sione dell' « infame lupa tiberina ». Alla Scala per nove sere di
seguito, dal 21 febbraio 1797 in poi, si rappresentò un balio di
Francesco Salfi, intitolato « Il general Colli in Roma », nel quale
il generale dei Domenicani, pregando il papa di rinunciare al
potere temporale, gli teglie di capo il triregno, sostituendovi il
berretto frigio, e in fine il papa stesso balla il cancan col generale.
Fatti simili accadevano altrove. Da per tutto, nella penisola, sì
piantava 1' albero della libertà, intorno a cui si danzava chiasso-
samente al ritmo del ritornello: « Ecco l'arbor trionfale — acni
scritto intorno sta — in carattere immortale — eguaglianza e li-
bertà ». A Venezia fu vista una signora ballare con un frate, e,
dopo una caduta, rialzarsi e continuare la Carmagnola: esempio
di virtti civile che fu celebrato nel Monitore Veneto. I cittadini
di Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, su proposta del Compagnoni,
decretarono nazionale lo stendardo dei tre colori. Le statue dei
caduti tirannelli erano mutate in figure di Libertà, di Bruti etc. Il
17 giugno 1798 a Foligno fu rappresentata una commedia « sulla
democratizzazione del paradiso, eseguita dai demoni, i quali en-
trano in cielo e mettono la coccarda al Padre Eterno » (1).
Né si ebbero solo esplosioni di gioia e d' entusiasmo; ci fu-
rono anche atti d' energia e d' eroismo. Così un po' più tardi i
(1) Della Torre, Op. cit., pag. 690-692; Fiorini, / Francesi in Italia
in La vita italiana durante la rivoluzione francese e V impero (Milano,
Treves), pag. 160-161; Fiorini, Le origini del tricolore italiano in
Nuova Antologia, 16 gennaio 1897.
— 42 -
martiri della Repubblica Partenopea consacrarono col sangue le
loro idee, e indicarono agl'Italiani la via del sacrificio eroico, che
solo conduce alla libertà. Il terribile vento di Francia giungeva
fino a noi.
Tutto questo dimostra che effettivamente i Francesi infusero
nuove onde di sangue nell' organismo del popolo italiano, e lo
destarono a più intensa e più libera vita, sebbene, come s'è detto,
trovassero preparato il terreno.
Noi studieremo le figure più notevoli fra gì' ideologi italiani,
considerando prima quelli del settentrione della penisola e poi
quelli dell'Italia Meridionale. Nel centro, quasi anello d'unione
fra i due estremi, s' inalza il canto triste e profondo del Leopardi:
tragica conclusione della filosofia del settecento.
CAPITOLO IL — Soave
VITA E OPERE (1). — Francesco Soave nacque il 10 giugno
1743 a Lugano, da Carlo Giuseppe e da Teresa Herrick. Suo padre
era povero, e, per di più, aveva sei figliuoli; tuttavia cercò d' i-
struirli tutti e di dar loro una professione. Erano allora insegnanti
nelle scuole pubbliche di Lugano i padri Somaschi, l'ordine dei
quali, istituito durante la Controriforma (1541), s'era dedicato spe-
cialmente all' educazione degli orfani e dei giovanetti in genere.
11 Soave dimostrò nelle loro scuole (Istituto di S. Antonio) pronto
ingegno e volontà grande di studiare; ma le strettezze di famiglia
costituivano un serio ostacolo al cammino intrapreso. Lo protesse
(1) Notizie sulla vita e gli studi del P. D. Francesco Soave in Rac-
colta delle Opere complete di F. Soave (Milano, Baret, 1815), Tomo I,
pag. XIII-XXXIV; C. Cantù, F. Soave in Biografia degli Italiani illustri
pubbl. dal De Tipaldo (Venezia, 1834), Voi. I, pag. 430-36; A. Avanzini,
F. Soave e la sua scuola, Torino, Paravia, 1881; Motta E., Saggio di
una bibliografia di F. Soave in Bollettino storico della Svizzera ita-
liana, anno VI e VII (1884-85), Bellinzona, Colombi; L. Fontana, F.
Soave, Pavia, Ponzio, 1907; V. LoziTO, F. Soave e il sensismo in Ri-
vista rosminiana (anno VI, num. 2, 3-4, 5-6, 7-8, 9-10, e anno VII, n. 2,
3-4, 5-6, 7-8); Q. Natali, // maestro di A. Manzoni in Idee costumi eie,
pag. 295 e seg. Cfr. V. Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari, Roma-
Milano, Albrighi-Segati, 1909, pag. 44-47.
I
-^ 43 —
allora Gian Pietro Riva, letterato e poeta somasco (in Arcadia Ro-
mano Lapiteio), il quale, compreso il valore dell' adolescente, lo
indusse ad entrare nella congregazione sua. Egli infatti v'entrò il
4 settembre 1759, ben lieto di poter appagare le sue nobili aspi-
razioni. Compì r anno di noviziato a Milano, nel Convento di
S. Pietro in Monforte; poi pronunciò i voti solenni; e di là passò
a Pavia, nella casa di S. Maiolo, dove studiò filosofia scolastica;
fu quindi (1761) mandato dai superiori, come prefetto di camerata,
a Roma nel Collegio dementino, in cui compì i suoi studi, oc-
cupandosi specialmente di teologia. Si diede allora ad esercitarsi
specialmente nelle traduzioni dei classici greci e latini, e ben presto,
nel 1765, pubblicò, volte da lui in italiano, la Bucolica e la Geor-
gica di Virgilio (1), che furono molto lodate. In tal modo co-
minciò a rendersi noto ai letterati. Mentre era così immerso
negli studi, fu mandato a Milano a istruirvi nelle belle lettere
i novizi della sua congregazione. Ma non era ancor passato un
anno, che fu chiamato a Parma. Come sappiamo, fiorivano al-
lora in questa città le scienze e le arti per opera del Du Tillot.
Vi si fondava una Paggeria o collegio di nobili, del quale
era direttore il padre somasco Venini, matematico di grido; questi
lo invitò ad essere degl' insegnanti; ed il Soave accettò. Ben presto,
a causa della cacciata dei Gesuiti (1767) da tutti gli Stati borbonici,
vennero a mancare nell'Università di Parma parecchi professori;
allora il Soave, insieme col Venini, fu dal Du Tillot destinato a
quell'Università, e v'insegnò eloquenza poetica (1767). Per faci-
litare ai giovani l'acquisto del sapere, compose una Grammatica
ragionata della lingua italiana (2), adottando primo in Italia i
principi del Lancelot e del Dumarsais (3), e un'Antologia latina (4).
Per consiglio del Venini cominciò ad occuparsi anche dell'analisi
(1) Roma, Bizzarini-Komark, 1765. Vedi anche Opere complete (Edz.
cit.), Tomo IV. Vi premise un poemetto dedicato al marchese Filippo
Ercolani sul metodo di far traduzioni, e vi aggiunse, volto in italiano,
un sermone di S. Basilio sul vantaggio che si può trarre dalle opere
degli autori gentili. (2) Parma, Paure, 1771.
(3) Il m.erito principale dell'opera è di fondare la grammatica sulle
leggi del pensiero, seguendo un metodo razionale (il che sarà poi il
merito fondamentale della Grammaire del Tracy). Il libro ebbe moltis-
sime ristampe. (4) Parma, Paure, 1771.
— 44 —
dell' intelletto, chiamata allora metafisica. Era stato a Parma fino
al marzo del '67 il Condillac, esercitando grande efficacia su
tutta la Corte e su molti Italiani. Anche il Soave orientò il suo
pensiero verso la filosofia di lui (1); e ben presto ebbe occasione
d'esporre le sue idee. Giacché l'Accademia di Berlino aveva messo
a concorso la questione « se gli uomini abbandonati alle loro fa-
coltà naturali sieno in grado per se medesimi d' istituire un lin-
guaggio, ed in qual maniera potrebbero pervenirvi », il Soave, ispi-
randosi specialmente sdVEssai sur l'origine des connaissances ìmm.
del Condillac, scrisse sull'argomento una dissertazione in latino (2),
la quale, se non fu premiata, ebbe però l'onore del primo accessit,
fu cioè giudicata la migliore dopo quella vincitrice del concorso
(una dissertazione di Herder) (3).
Intanto avvenivano mutamenti nel ducato di Parma. La caduta
del Du Tillot (1771) e l'abolizione delle riforme da lui compiute
nell'Università fecero sì che fossero soppresse le cattedre di poesia
e d' eloquenza. Il Venini andò via; anche il Soave nel 1772 se ne
partì, per disfavore del Principe. Egli si recò a Milano; ivi, grazie
alla sua fama, dal governatore austriaco conte di Firmian ebbe,
senza sottoporsi all'obbligo del concorso, la cattedra di filosofia
morale nel Liceo di Brera (4). Essendo poi venuto a mancare nel
(1) Il Credaro nella Prefazione sua a U uomo e le scienze morali
del Gabelli (3* Ed. Paravia, 1Q15), pag. Vili, afferma che il Soave co-
nobbe a Parma il Condillac. Ma non so donde abbia tratta la notizia.
(2) Fu tradotta in Italiano dal Soave stesso e pubblicata a Milano
(Montani) il 1772. È negli Opuscoli metafisici (Tomo XV delle Opere
complete) coltitelo Ricerche intorno all'istituzione naturale d'una so-
cietà e d'una lingua e all' influenza dell' una e dell'altra sulle umane
cognizioni. Nel 1774 il Soave pubblicò un'altra operetta sul linguaggio:
le Riflessioni intorno all' istituzione d' una lingua universale (Roma,
Casaletti). Vedi anche questa tra gli Opuscoli metaf.
(3) Opere del Soave, Tomo XV, pag. 13.
(4) In questo perìodo di tempo (sett. 1774), tutto consacrato agli
studi filosofici, tanto da averne alterata la salute, fu preso dal desiderio
d'uscire dalla Congregazione, specialmente perchè la vita claustrale
gì' impediva d'attendere ai suoi lavori con alacrità. Tale desiderio è ma-
nifestato in una lettera al conte di Firmian, che si conserva nell' Ar-
chivio di Stato di Milano. Fatto sta però che rimase sempre Padre
Somasco.
— 45 —
Liceo stesso il professore di logica e di metafisica, il Soave fu incari-
cato pure dell'insegnamento di tali scienze (1778). Nelle sue lezioni
seguiva r indirizzo filosofico del Locke e degl' ideologi; anzi in
quel periodo di tempo tradusse e integrò con varie appendici il
Compendio, scritto dal Wynne, del Saggio sull'intelletto umano
del Locke (1), e la Guida dell' intelletto nella ricerca della verità
del Locke medesimo (2). Poi le idee e i principi esposti ai giovani
durante il suo insegnamento raccolse nelle Istituzioni di logica, Me-
tafisica ed Etica precedute da un Compendio della storia della filo-
sofia, uno dei primi tentativi del genere in Italia (1' Edz. Milano,
Marcili, 1791; 2'' Edz. Milano, Marcili, 1794), che furono adottate
in quasi tutte le scuole d' Italia, e vi rimasero per buona parte
delia prima metà del secolo passato. Dopo questi lavori, giacché
aveva studiate varie lingue straniere (inglese, tedesco etc.) col-
r abate Amoretti, suo collega a Parma prima, poi a Milano, si
diede, insieme con 1' amico e con altri, a pubblicare, a mo' degli
Enciclopedisti francesi, un'utile Scelta d'opuscoli interessanti tra-
dotti da varie lingue (1775), che dopo il 1778 divenne la raccolta
di Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti (3), sia originali, sia tra-
dotti, in cui si esponevano agi' Italiani, in modo semplice e piano,
le più importanti scoperte e novità nelle scienze e nelle arti (4).
(1) Saggio filosofico di Già. Locke su V umano intelletto compen-
diato dal Doti. Wynne e commentato da F. Soave (Milano, Motta, 1775).
È nei Tomi IX e X delle Opere complete. Alla traduzione sono aggiunte
undici appendici del Soave e una sua Analisi dell'umano intelletto
(a princìpio del Libro II).
(2) Nel Tomo X delle Opere. Anche qui c'è un'appendice del Soave.
(3) Trentasei volumetti formano questa raccolta, a cui il Soave col-
laborò fino al XXI volume. L'Amoretti continuò la collezione col titolo
Nuova scelta d'opuscoli (1804-1807).
(4) Per questa raccolta il Soave compose non solo molte traduzioni
(specie dal tedesco) e compendi di lavori altrui, ma anche le sue Con-
ghietture sulla scossa della torpedine, un Metodo di rinfrescarsi,
vivC Osservazione ottica (tendente a confermare che la sensazione della
luce non proviene dall'azione immediata delie particelle luminose, bensì
dal movimento meccanico da esse esercitato nei nervi ottici), lo scritto
Di un nuovo e meraviglioso sonnambulo - Relazione del P. D. F. S. (1780),
un Articolo di lettera al Signor abate Carlo Amoretti sulla Aurora
— 46 —
Nello stesso tempo limò le sue traduzioni giovanili (1); e volse
in italiano dal tedesco i Nuovi idilli del Gessner e la Lettera al
Signor Fuesslin sul dipingere di paesetti del Gessner stesso (Ver-
celli, Stamperia Patria, 1778), e dall' inglese il poema La forza
della religione di Odoardo Young (Vercelli, 1781) (2). Pubblicò
pure alcuni componimenti poetici originali {Idilli, Milano, Motta,
1780) (3).
In tutta Europa era vivo allora il desiderio di riforme specie
nell'educazione popolare. V Emilio del Rousseau aveva aperto
nuove vie, gettando le basi del così detto naturalismo pedagogico,
e, sulle orme del filosofo ginevrino, il Basedow aveva fondato in
Germania il suo Philanthropinum, nel quale s'applicavano i nuovi
principi pedagogici e si componevano libri per giovinetti. Il Soave,
che per la sua bontà e mitezza simpatizzava con l'animo piccolo
e grande dei fanciulli, e sapeva chinarsi dolcemente fino ad essi,
si diede di cuore a porger loro i mezzi atti ad erudirli e ad ele-
varli (4). Compose così una quantità di operette per i fanciulli e
i giovani (5). A scriver le quali ebbe varie occasioni. Il conte
Carlo Bettoni, bresciano, avendo osservato che i fanciulli italiani
boreale del passato luglio (1780), le Riflessioni intorno al nuovo e me-
raviglioso sonnambulo descritto nella terza parte di questo Tomo (1780),
un Piano di studi metafisici (1781).
(1) Per presentare Virgilio tutto tradotto, v'aggiunse V Eneide del
Caro con note e critiche osservazioni (Milano, Motta, 1779).
(2) È nel Tomo III delle Opere.
(3) QV Idilli son quattro: Per la morte di una leggiadra cagnoletto
(del conte di Firmian, allo stesso dedicato); L' invenzione della birra;
La beneficenza; l voti esauditi.
(4) In Italia, nel campo della pedagogia, avevano scritto opere im-
portanti Gaspare Gozzi, che, avuto l'incarico dalla Repubblica veneta
di riordinare gli studi, aveva presentato la sua Riforma degli studi, e
Gaetano Filangieri, che nella Scienza della legislazione aveva dedicato
i! Libro IV alle leggi riguardanti l'educazione, i costumi e l'istruzione
pubblica. Se si prescinde da questi tentativi, in Italia regnava il metodo
d'insegnamento dei Gesuiti: vano, arido, pesante.
(5) Giuseppe Curti nei suoi Racconti ticinesi così scrive: « Si rac-
conta che una volta, essendo il Soave a Lugano nelle vacanze d'autunno,
un signore gli disse: — Non so comprendere come voi, essendo lette-
— 47 —
non imparavano nulla a scuola, perchè costretti o dall' autorità o
dal timore di castighi a leggere libri non adatti alla loro capacità
mentale, propose per ben due volte un premio di cento zecchini
per chi avesse scritto venticinque novelle che, a giudizio dell'Ac-
cademia di Padova e della Società patriottica di Milano, potessero
esser lette con diletto e con profitto dai fanciulli. Vedendo però
che nessuno si presentava, si dice che si rivolgesse direttamente
al Soave, che gli era amico; questi allora scrisse venticinque Novelle
morali, che poi accrebbe fino al numero di quarantuno (1). Com-
pose altri libri elementari per incarico del governo austriaco, che
aveva già chiamato a Vienna il Felbiger (2) per riformare la scuola,
e voleva ora introdurre il metodo e i regolamenti nuovi nel Lom-
bardo Veneto. Anzi il Soave si recò nel Tirolo (1786), quale
membro della « delegazione delle scuole normali », per conoscervi
e studiarvi il nuovo metodo d'insegnamento. Egli tradusse e cor-
redò di osservazioni originali il regolamento compiuto dal Fel-
biger; attese poi anche alla compilazione d' un Compendio del
rato di sì alto rango e filosofo, abbiate potuto abbassarvi ad occupare
la mente vostra per le infime classi elementari del più basso popolo !
— Noi potete comprendere? (rispose il filosofo). Ebbene, quando avrete
compreso che l'onore ed il benessere di un paese sta nell'educazione
del popolo, allora voi mi farete molto maggior merito di quegli umili
lavori elementari, che non di tutti gli altri miei lavori di poesia, di ret-
torica e di filosofia >■> (Avanzini, Op. cit., pag. 70).
(1) Prima ediz. Milano, Motta, 1782. Queste novelle furono ristam-
pate moltissime volte e tradotte in più lingue straniere. Sono anche nel
Tomo XI delle Opere compi.
(2) Giovanni Ignazio Felbiger (1724-1788), abate di Sagan, applicò
nelle scuole della sua abbazia il metodo dell' Hecker, il fondatore della
prima Realschule a Berlino. Il governo prussiano, visto il buon esito
della nuova didattica, lo incaricò di ordinare le scuole della Slesia, per
le quali il Felbiger scrisse un regolamento pubblicato nel 1765. Chia-
mato poi a Vienna, l'abate di Sagan si prefisse lo scopo di diffondere
l'istruzione elementare non solo nei grandi centri, ma anche nelle pic-
cole città e borgate, coordinando le scuole fra loro e subordinandole
ad una legge comune. In Lombardia la delegazione delle scuole nor-
mali fu formata dal Soave (che doveva pensare al metodo d'insegna-
mento e alla compilazione di testi scolastici), da P. F. Secchi (che ebbe
l'incarico della sistemazione e distribuzione dei locali) e dal marchese
— 48 —
metodo delle scuole normali e di molti manuali utilissimi, di cui
allora l' Italia era sprovvista (1).
Nel 1789, a scopo di studio, decise d'andare a Parigi nei mesi
delle vacanze autunnali e di compiere, durante il viaggio, osser-
vazioni geologiche sulle Alpi. Partì ai primi di luglio con gli amici
Venini e Amoretti, ed era già a Chambery, quando scoppiò in
Francia la Rivoluzione. I tre viaggiatori a pena credevano alle
notizie che udivano a Chambery e ad Annecy, e, proseguendo il
cammino, andarono nella valle di Chamouny a visitare il colosso
del Monte Bianco. Di là passarono a Ginevra, ove dai giornali
seppero gli avvenimenti di Francia; traversando il paese di Vaud,
giunsero a Losanna, dove 1' affluenza degli emigrati mostrò loro
il pericolo di recarsi in un paese da cui gli stessi cittadini fug-
abate Longhi (che doveva occuparsi della parte finanziaria). Vedi B.
Peroni, Le prime scuole elementari governative a Milano, Roma, AI-
brighi-Segati, 1906).
(1) Grammatica delle due lingue italiana e latina (Milano, Tipo-
grafia del Monastero di S. Ambrogio, 1785); Istradamento all'esercizio
delle traduzioni in seguito alla « Grammatica delle due lingue ita-
liana e latina » (Milano, 1785), con un piccolo trattato della versifica-
zione latina e italiana, il quale fu poi ristampato col titolo Regole della
versificazione latina e italiana (Pavia, Bolzani, 1806) o con l'altro di
Prosodia (Palermo, Abbate, 1816); Piccolo catechismo per uso della
prima classe delle scuole (traduz. dal tedesco), 2» Ed., Venezia, Graziosi,
1816; Catechismo maggiore (dal ted.); Lezioni, epistole ed evangeli della
domenica ed altre feste delV anno (2* Ed. Venezia, 1810); Elementi di
calligrafia (2* Ed. Bassano, Remondini, 1808); Abbecedario (2* Ed. Ve-
nezia, Martini, 1801); Elementi della pronunzia e della ortografia ita-
liana (2» Ed. Venezia, Tosi, 1804); Elementi della lingua italiana ad
uso delle scuole della Lombardia austriaca (Milano, 1788); Elementi
della lingua latina (2» Ed. Como, Ostinelli, 1820); Leggi scolastiche
(dal tedesco); Regolamento generale delle Scuole Normali con un'Ap-
pendice (dal ted.); Compendio del metodo delle Scuole Normali per uso
delle scuole della Lombardia austriaca (Milano, Marcili, 1786,e Voi. XVII
delle Opere compi.); Elemenli d' aritmetica (Milano, 1786, e Voi. XVIII
e XIX delle Opere); Trattato elementare dei doveri dell'uomo e delle
regole della civiltà (Voi. XVII delle Opere; c'è anche un' ediz. recente:
Verona, Apollonio, 1870); Elementi di meccanica teorico-pratica; Ele-
menti di geometria teorico-pratica; Elementi di geografia.
— 49 —
givano; perciò decisero di tornare in Lombardia per il S. Ber-
nardo. A Milano dal governo austriaco, che temeva le conseguenze
della Rivoluzione, il Soave ebbe l' incarico di mostrar dannosi e
pericolosi al popolo gli avvenimenti di Francia; egli si prestò alle
mire dell'Austria, scrivendo, col pseudonimo di Glice Ceresiano
(che equivale a Soave liiganese, poiché Ceresio è l' antico nome
del Iago di Lugano), il volumetto Vera idea della Rivoluzione di
Francia (1795), aspra ed esagerata diatriba contro i repubblicani (1).
Perciò, quando i Francesi scesero vittoriosi in Italia nel maggio
del 179Ó, egli si ritirò a Lugano, nel Collegio di S. Antonio, dove,
sostituendo un professore mancante, ebbe scolaro Alessandro Man-
zoni, allora undicenne, che veniva dal collegio somasco di Merate
e rimase a Lugano fino al settembre del 1798 (2). il Soave uscì di
là per invito del principe d'Angri, che lo condusse a Napoli af-
fidandogli l'educazione dell'unico figlio suo. A Napoli proseguì
i suoi studi, e tradusse dall' inglese le Lezioni di retorica e belle
lettere di U. Blair (3). All' avvicinarsi delle armi francesi, coman-
(1) Milano, Fratelli Pirola, 1795. Fu scritta una risposta anonima al
libriccino del Soave intitolata Giusta idea de' diritti dell'uomo in ri-
sposta al libro di Glice Ceresiano: Vera idea etc, Cappelli 1796, senza
luogo di pubbl.
(2) FoFFANO, Compendio della storia della leti, ital., 2* Ed. Torino,
Libreria Ed. Internaz., pag. 33S; Avanzini, Op. cit., pag. 67. Lo Stop-
pani (/ primi anni di Alessandro Manzoni, Milano, Bernardoni, 1874,
pag. 72) riferisce da C. Cantù (A. Manzoni - Reminiscenze) quanto segue:
« Era poi uno spasso, quando mi raccontava le sue scapestrerie nel
Collegio di Lugano, dove i suoi 1' avevano tramutato allorché la pro-
cella giacobina s'avvicinava alla Lombardia. Deliziavasi soprattutto nel
ricordo del buon padre Francesco Soave. Questi s'indispettiva quando
Alessandrino, invaso dalle idee allora irruenti, non voleva scrivere re
e imperatore e papa colle maiuscole. Teneva poi nella manica della
tonaca una sottile bacchetta, press' a poco (diceva) come quella cheta
i miracoli dei giocolieri; e quando alcuno di noi gli facesse scappare
la pazienza, egli la impugnava, e la vibrava terque quaterque verso la
testa o le spalle del monello, senza toccarlo; poi la riponeva, e tornava
in calma. Il Manzoni rincrescevasi d'aver talvolta inquietato quel padre.
Cfr. Natali, Op. cit., pag. 296.
(3) Parma, Bodoni, 1801. Sono nei tomi VI, VII e VII! delle Opere
complete. Nel 1797 ristampò a Napoli, col suo nome, la Vera idea
della rivoluzione di Francia, suscitandosi risentimenti e ire.
— so-
date dallo Championnet vittorioso, a Napoli, temendo di esserne
offeso, accettò l' invito della principessa di Francavilla di recarsi
da lei in Sicilia; ma una fierissima tempesta lo ributtò a Napoli;
ivi non patì nessun male, anzi fu rispettato da coloro che aveva
maltrattati per iscritto; quando invece le armi reali condotte dal
Ruffo riconquistarono la città, dovette fuggire, e fu miracolo se,
per un tratto d' ingegno e di coraggio d' un abile domestico,
che seppe essere opportunamente prodigo, non fu scannato dai
lazzaroni, i quali l'avevano con la famiglia del principe d'Angri,
ambasciatore a Parigi della Repubblica partenopea. Tornò nella
Lombardia (1799), che intanto era stata riconquistata dagli Au-
striaci; e da questi riebbe la cattedra del Liceo di Brera. Ma ecco
di nuovo i Francesi, dopo Marengo, a Milano; gli fu ritolta la
cattedra; ed egli si ritrasse nella sua cella a rivedere e limare i
suoi scritti. Allora, quale uno dei quaranta membri della Società
italiana delle scienze, descrisse una macchina immaginata da Gi-
rolamo Bianchi (1); tradusse le Satire, V Epistole e V Arte poetica
d' Orazio (2). Proclamata intanto a Lione la Repubblica italiana
(gennaio 1802) sotto la presidenza del Bonaparte e la vicepresi-
denza del Melzi, il Soave non fu del tutto dimenticato. Nel 1802
il Melzi lo mandò provvisoriamente a Modena come direttore del
collegio di educazione di quella città e come professore d'analisi
delle idee (ideologia). Durante l' insegnamento in tale collegio
scrisse una critica della filosofia kantiana: La filosofia di Kant
esposta ed esaminata (3). Ma, non potendo nel collegio ottenere,
quanto alla disciplina, i miglioramenti sperati, era mal sodisfatto
del suo ufficio di rettore; perciò chiese ed ottenne nel 1803 la
cattedra d' analisi delle idee rimasta vacante nell' Università di
Pavia per la morte del prof. Giannorini. Ivi era ascoltato da una
vera folla di giovani attenti; curò una nuova edizione migliorata
delle sue Istituzioni di Logica, Metafisica ed Etica. Era già stato
nominato da Napoleone, il 6 novembre 1802, membro dell'Istituto
(1) Descrizione della maccliina di G. Bianchi per dividere una retta
in qualunque numero di parti uguali, nel Tomo Vili delle Memorie
della società italiana delle scienze..
(2) Sono nel Tomo V delle Opere compi.
Ci) Prima edizione: Modena, Eredi di B. Soliani, 1803; più comnne
e quella di Venezia, Graziosi, 1804. È anche nel tomo XV delle Opere.
— 51 —
Nazionale: a questo presentò il 10 luglio 1804 la sua Memoria
sopra il progetto di elementi di ideologia del conte Destati di Tracy
e un Esame dei principii metafisici della Zoonomia di Erasmo
Darwin (1). Siccome poi nelle adunanze di detto Istituto s' era
parlato della necessità di provvedere libri elementari alle scuole
del Regno italico, il Soave offrì la sua opera non solo per mi-
gliorare i volumetti già da lui pubblicati, ma per aggiungerne
altri. L'Istituto accettò ben volentieri l'offerta; e il Soave scrisse
subito un Corso d' eloquenza italiana secondo i principi di Blair, poi
una Storia del popolo ebreo, la Mitologia etc. (2). Nel IS05 collaborò
all'edizione dei Classici italiani (favorita dal Melzi), scrivendo un
commento al Petrarca (ò). Di più volse in versi 1' Odissea e la
Batracomiomachia (4), la Teogonia, I lavori e le giornate e lo Scudo
di Ercole d' Esiodo (5). Ma oramai era afflitto da podagra; a questa
s'aggiunse nell' inverno del 1805 un forte raffreddore; sicché, colto
da fiera febbre, dopo lunga malattia, spirò tra le braccia de' suoi
correligiosi nella casa della Colombina, a Pavia, il 17 gennaio
del 1806 (6).
L' importanza del pensiero del Soave sta in questo: che, pur
accettando e svolgendo 1' empirismo, retrocede dinanzi alle con-
ci) Sono nel Tomo I, Parte I, degli Atti dell' Istituto Nazionale Ita-
liano (Bologna, 1809), pag. 47-69 e 117-160.
(2) Sono opere postume, pubblicate l'una dalla tipografia di Vige-
vano il 1810, l'altra dalla stessa tipografia il 1813. La Mitologia è anche
nel Voi. XVI delle Opere compi.
(3) Le Rime di F. Petrarca, illustrate da F. Soave (Milano, Ediz.
dei Classici italiani, 1805). Alcuni anni prima aveva pubblicato le Poesie
scelte dell' abate C. I. Frugoni, colla vita dell' autore ed un discorso
intorno alle medesime (Milano, Motta, 1783) e le Poesie scelte di G.
Chiabrera con un discorso intorno alle medesime (Milano, Motta, 1785).
(4) / viaggi d'Ulisse, tratti àaW Odissea d'Omero (Milano, Marelli,
1796); V Odissea d'Omero tradotta in versi italiani, con annotazioni,
aggiuntavi la Batracomiomachia (Pavia, Eredi Qaleazzi, 1805). Sono nei
Tomi I e II delle Opere compi.
(5) Opere di Esiodo tradotte in versi italiani con annotazioni (Pavia,
1806). Comparvero poche settimane dopo la morte del Soave.
(6) Lasciò vari manoscritti, fra cui tragedie e commedie forse ad
uso degli allievi del Collegio dementino, libri per le scuole pubbliche etc.
— 52 —
seguenze trattene dal Condillac, e torna al Locke, anzi tempera
alcune affermazioni un po' spinte del grande filosofo inglese stesso.
Così r ideologia si trapianta in Italia, ma modificata da quel senso
dell' equilibrio e della giusta misura che è propria dei nostri pen-
satori. Essa diviene fra noi la « filosofia sperimentale » o « filo-
sofia dell' esperienza » (1).
IL METODO. — Per la scoperta della verità secondo il Soave
non e' è altro metodo che l' analisi, cioè 1' arte di scomporre le
nozioni o idee complesse e di vedere a parte a parte le nozioni
o idee semplici che le compongono. Giacché è per noi scoperta
ogni nuova proprietà che arriviamo a conoscere in un essere; e
appunto V analisi scompone le nozioni complesse che abbiamo
degli oggetti, esamina partitamente le idee in esse contenute, e le
confronta per ogni verso con le idee di tutti gli oggetti con cui
possono avere relazione, per passare dalle proprietà delle une
a quelle delle altre.
Ma anche per esporre e dimostrare la verità bisogna adoperare
questo metodo soltanto ? Era massima degli antichi, risponde il
Soave, che il metodo analitico servisse a trovar la verità, ma che
a proporla e dimostrarla si dovesse usare il sintetico, che dai prin-
cipi generali scende ai particolari. Invece il Condillac s' è mosso
fortemente contro questa massima, asserendo che il procedimento
analitico è 1' unico e vero metodo non solo per scoprire la verità,
ma anche per insegnarla. Chi è nel giusto? Secondo il Soave
pare si debba tornare all'antico, giacché egli da una parte rico-
nosce che il metodo sintetico ha due grandissimi inconvenienti:
innanzi tutto quello d' ingombrare la mente di nomi e di principi,
prima che si abbia idea alcuna delle cose espresse da quei nomi,
e si sappia 1' applicazione di questi principi; in secondo luogo
quello di supporre le nozioni già beli' e formate, senza mostrarne
la genesi, e senza dar mai, così, cognizioni esatte e precise; ma
ritiene dall' altra che un trattato analitico è una catena continua
(1) Quest' espressione è adoperata dal Soave in La filosofia di Kant
esposta ed esaminata (Tomo XV delie Opere), Parte II, Articolo V.
-^ 53 —
di proposizioni che esige molta riflessione e memoria, e perciò
stanca l' intelletto; cosicché, se il filo del ragionamento si rompe,
accade di questo come delle perle, le quali vanno tutte disperse.
Perciò nelle opere ove si voglia trattare a fondo l' argomento, ri-
volgendosi a persone già avvezze a meditare e già informate, al-
meno in parte, della materia che si tratta, non e' è metodo mi-
gliore dell' analitico; giacché questo, collocando prima l' uomo
nelle varie circostanze in cui deve formarsi le idee degli oggetti,
e poi fissandone i nomi, guidandolo inoltre gradatamente dalle
verità particolari, che son più semplici, alle generali, più com-
plesse, fa eh' egli vegga le cose medesime nascere, per così dire,
e crescere successivamente sotto gli occhi suoi, e eh' egli stesso
le venga a mano a mano scoprendo, piuttosto che impararle da
altri. Ma nelle opere in cui s' intende dare soltanto una leggera
notizia delle cose, come son tutti i compendi e libri elementari,
o che son destinate a persone ancora ignare di quel che si tratta
e non molto assuefatte al meditare, il miglior metodo è un com-
posto della sintesi e dell' analisi. Il cominciare infatti da una de-
finizione generale del concetto di cui si tratta, il dividerlo nelle
sue parti, poi, venendo a ciascuna di queste, premettere pure la
definizione loro, e aggiungere, dove occorra, la suddivisione delle
parti minori di cui anch'essa è composta, è, per dare ad un prin-
cipiante un' idea chiara delle cose, un mezzo assai migliore che
non r introdurlo di slancio coli' analisi in un paese ignoto e gui-
darlo per lunghi sentieri, dei quali non veda il termine (1).
Dunque secondo il Soave unico metodo per scoprire la verità
è r analisi; per comunicare poi ad altri quanto s' è scoperto, bi-
sogna combinar la sintesi con l'analisi. Sorge però qui spontanea
la domanda: la necessità di tale combinazione deriva dalla natura
degli oggetti trattati, oppure dalle condizioni speciali, dalle de-
ficienze mentali di chi apprende la verità ? Ossia: vi sono oggetti
che non si possono trattare se non con metodo sintetico, oppure
essi son trattati con tale metodo solo per comodo del soggetto
(1) Del metodo che dee tenersi per trovare la verità e per inse-
gnarla ad altrui (Appendice alla traduz. della Guida dell' intelletto
del Locke), pag. 123-138 del Tomo X delle Opere (ediz. cit.); Istituzioni
di logica, Parte II, Sezione VI, pag. 386-413 del Tomo XII delle Opere.
— 54 —
conoscente? Secondo il Soave pare si debba ammettere que-
st'ultima alternativa; o forse egli nemmeno s'è proposta la que-
stione. Eppure da essa dipende la maniera di concepire la natura
delle varie scienze umane, che, com' è noto, si dividono in dedut-
tive e induttive. Si noti però che il Soave ammette, come Locke,
conoscenze immediate o intuitive, ottenute da noi col solo con-
fronto di due idee o nozioni; e chiama assiomi o verità manifeste
per sé i principi tratti dalla conoscenza immediata delle relazioni
fra gli oggetti. Ma come esempi d' assiomi cita i principi logici
e quelli matematici (1); vien quindi fatto di pensare che egli, lo-
ckiano com'è, consideri certo questi come vuoti e frivoli. Insomma
il metodo vero resta sempre per il Soave 1' analisi; la sintesi ha
un' importanza pratica, pedagogica, quindi assai secondaria.
Questo quanto al metodo, ossia alla via da seguire per trovare
la verità. Ma, in questa via, come riconosceremo il vero e come
lo distinguerem.o dal falso? Ossia: quale il criterio della verità? (2).
Il Soave respinge, com.e troppo mal sicuro, il criterio carte-
siano, giacché (dice) '■ quel pazzo d'Atene, che tutte sue credette
le navi che entravano nel Pireo, avea certo in sua mente una
chiara e distinta percezione del suo sognato dominio, e senza una
viva ripugnanza dell'animo non avrebbe potuto a questa per lui
certissima verità ricusare l' assenso » (3).
Non respinge invece il criterio proposto dal Condillac, ma lo
modifica. Si ricorderà che il Condillac distingueva tre specie di
(1) Istituzioni di logica, Parte I, Sez. Ili, pag. 123 e 126, e Parte II,
Sez. VI, Gap. I, spec. art. Ili, pag. 399. Vedi anche pag. 411.
(2) Si noti che per il Soave la parte più importante della logica (da
lui detta analitica) è quella che, occupandosi di tale questione, insegna
la maniera di ricercare e conoscere la verità. L'altra parte (dialettica),
che insegna il modo di proporre e dimostrare la verità ad altri, è meno
importante, sebbene gli Scolastici ad essa sola riducessero la logica,
perdendosi in labirinti di sillogismi e di logomachie (Istituzioni di lo-
gica, Introduzione, pag. 80-81 de! "Tomo XII. Vedi anche Tomo XII,
pag. 435-436, nota 59).
(3) Istituzioni di logica, Parte I, Sezione III, Gap. Il, art. II, pag. 131.
— 55 —
evidenze: quella di sentimento, quella di ragione e quella di fatto.
Come fondamento della prima stabiliva la percezione chiara e di-
stinta di ciò che proviamo in noi; della seconda, il principio di
identità; della terza la testimonianza costante e uniforme dei sensi.
Ora, il Soave osserva che, per l'evidenza di ragione, il principio
d'identità è applicabile solo ai giudizi affermativi; ma per quelli
negativi convien ricorrere ad un altro principio: quello di non
contradizione. Inoltre nei giudizi affermativi stessi l' identità delle
idee che s' afferma è difficilmente conoscibile, specie quando di-
penda da una lunga catena di confronti e di ragionamenti; sicché
il principio d'identità non è d'uso abbastanza facile e universale.
Invece un principio facile, universale e applicabile a qualunque
giudizio sia affermativo, sia negativo, è quello di non-contradi-
zione; questo solo, secondo il Soave, è il criterio della verità. Il
principio d' identità stesso ne dipende, giacché una cosa é neces-
sariamente eguale e simile a sé medesima non per altro se non
perché, altrimenti, essa sarebbe e non sarebbe ad un tempo la
stessa. La convenienza di due idee si dirà dunque certa tutte le
volte che si potrà mostrare contradittoria e perciò impossibile la
loro disconvenienza; e la loro disconvenienza si dirà certa ogni
volta che si potrà mostrare impossibile la loro convenienza; in
altri termini: si dovrà ritener certo tutto quello di cui si ricono-
scerà impossibile il contrario. Si badi però che l'impossibilità può
essere o metafisica o fisica o morale. È impossibile metafisica-
mente o assolutamente ciò che non può essere e non essere ad
un tempo, per es. che due quantità siano e uguali e disuguali.
È impossibile fisicamente tutto ciò che, pur non essendo contra-
dittorio in sé, si oppone alle leggi di natura: per es. che un sasso
abbandonato a sé stesso rimanga sospeso in aria. È impossibile
moralmente tutto ciò che, pur non essendo impossibile né meta-
fisicamente né fisicamente, é però d' una difficoltà tale, che non
suole avvenire mai o quasi mai, per es. che diversi caratteri get-
tati alla rinfusa formino un dato verso d' Orazio o di Virgilio.
Essendoci queste tre specie d' impossibilità, anche la certezza sarà
di tre gradi: certezza assoluta o metafisica, certezza fisica e cer-
tezza morale (1). Ora, il modo in cui una cognizione è da noi
(1) Istiluz. di log., Parte I, Sez. Ili, Gap. II, art. II, pag. 131-136.
— 56 —
acquistata, sia immediato o mediato, sia per sentimento o per ra-
gione, non dà né toglie, nulla al grado della certezza: il quale è
sempre lo stesso quando si fondi sul principio di contradizione,
cioè quando mostri l'impossibilità del contrario (1). Per es. del-
l' esistenza dell' anima nostra abbiamo una conoscenza immediata
e intuitiva (evidenza di sentimento, secondo il Condillac); invece,
di quella di Dio abbiamo una conoscenza di raziocinio o dimo-
strativa (evidenza di ragione). Ma la certezza nel!' un caso e nel-
r altro è ugualmente assoluta perchè fondata sul principio di con-
tradizione: infarti, se non ammettiamo l' esistenza dell* anima o
quella di Dio, cadiamo in contradizione (2). Dunque il detto prin-
cipio è l'unico fondamento della certezza e l'unico criterio della
verità.
IDEOLOGIA (3). — Dal metodo passando al contenuto della
filosofia del Soave, vi ritroviamo agitati gli stessi problemi che
0» Op. cit. pag. 133.
(2) < Imperocché essendo a noi consapevoli de* nostri pensieri, non
possianio per lo principio di contraddizione non esser pur consapevoli
a noi medesimi dell'esistenza dell'essere che in noi pensa. Ed infatti
poiché il pensiero é una azione, e l'azione non può esistere se non
esiste l'agente, sarebbe contradizion manifesta che in noi esistesse il
pensiero e non esistesse l'essere che pensa > {Op. cit., pag. 13S). Del
pari, r anima nostra, siccome non esiste per \Trtù propria, deve aver
rice\-uto l'esistenza da a!fo. .Ma anche quegli che ha dato l'esistenza
a lei o deve averla annata da altro o dev' essersela data da sé. Ora, se
avesse rìce\'uto anche lui Y esistenza da altro e questo da altro in in-
finito, si a\Tebbe una serie continua di effetti senza una causa prima,
il che è contradittorìo; poiché, tolta la prima causa, é tolto pure il
primo effetto, e per conseguenza son tolti anche tutti gli altri. Ci deve
essere dunque una causa prima: Dio (Op. cit., pag. 139). È questa
la stessa prova che dell'esistenza di Dio dà il Locke (Saggio, Libro IV,
Cap. X); e si noti che anche il Soave presuppone il principio di causa
(« si a\Tebbe una serie continua di effetti senza una causa prima >;
» l'azione non può esistere se non esiste l'agente >), mentre vuol fon-
darsi sai principio di non<ontradizione.
(3) Analisi delV umano intelletto (nella traduzione del compendio
del Saggio del Locke), Tomo IX delle Opere, pag. 42-10(^, Istituzioni
— 57 —
negl'ideologi francesi; fra questi principalissimi quelli dell'analisi
dell' intelletto e della conoscenza del mondo esterno.
Il Soave, al pari di tutti gl'ideologi, ammette che le cognizioni
derivano, come da prima sorgente, dalle sensazioni (1); le quali
costituiscono quasi il materiale della conoscenza; ma, seguendo il
Locke, oltre questa prima sorgente, ne ammette un' altra: la ri-
flessione (2). In questo punto non si trova quindi d'accordo col
Condillac; ed ancora in un altro punto s'oppone al filosofo fran-
cese: neir analisi delle facoltà psichiche. Ammesse infatti due sca-
turigini d' idee, egli è inevitabilmente tratto a non ridurre tutte
le facoltà ad una sola, « L'opinione di Condillac », egli scrive,
« che tutte le facoltà si riducano alla sensazione, e non sieno
che semplici modificazioni della sensazione medesima, non è cer-
tamente da approvarsi » (3). E aggiunge: « Il Condillac, dopo
aver sì bene nel suo Trattato dei sistemi fatto vedere gli errori
che son venuti, specialmente in metafisica, dallo spirito sistema-
tico mal regolato, si è lasciato egli medesimo da questo spirito
incautamente sedurre; l' ambizione di tutto ridurre ad un prin-
cipio solo lo ha ingannato » (4).
di logica, Parte I, Sezione I (pag. 87-101); Istituzioni di metafisica.
Parte I, Sezione 11 (pag. 48-199 del Tomo XIII delle Op.); Memoria
sopra il progetto di elementi di ideologia del conte D. di Tracy (Reggio,
Davolio, 1820), spec. pag. 60-61; Ricerche intorno all' istituzione natu-
rale d'una società etc. (Tomo XV delle Opere).
(1) Ricerche intorno all'istituzione etc, Gap. II, pag. 17; Istituzioni
di logica, Parte I, Sez. Ili, pag. 122.
(2) Istituzioni di metafisica, Parte I, Sez. I, Gap. Ili, art. IV, pag. 48
(Tomo XII); Istituzioni di logica. Parte I, Sez. II, pag. 103-104.
(3) Istituzioni di logica, pag. 71-72.
(4) Memoria sopra il progetto di elementi di ideologia etc, pag. 60-61.
Si noti che il Soave non approva neppure l'ipotesi della statua del
Gondillac e del Bonnet, prima di tutto perchè essa richiede una forza
d'astrazione e d'immaginazione che forse non piacerebbe a tutti d'es-
ser costretti ad usare, e poi perchè si corre rischio di prestar qualche
volta alla statua limitata a uno o due sensi quello che proviamo in noi
stessi coir aiuto di tutti. Perciò, egli dice, « io piglierò una via che
parmi più breve, più semplice e più sicura. Mi farò ad esaminare di-
rettamente quello che in noi medesimi noi proviamo, e che ciascuno
per conseguenza con una leggiere attenzione può riscontrare in sé
~ 58 —
Quante e quali sono dunque le facoltà psichiche ? Sono sei:
1° la facoltà di sentire o sensibilità; 2° la facoltà di riflettere o
riflessibilità; 3" la facoltà di conoscere o intelligenza; 4° la facoltà
di ricordarsi o memoria; 5° la facoltà di volere o volontà; 6° la
facoltà di agire o attività.
I. La sensibilità è quel potere che hanno gli uomini e gli ani-
mali di accorgersi delle impressioni che ricevono. L'atto di sentire
e di accorgersi di queste impressioni è la sensazione. Di solito le
parole sensazione, apprensione e percezione son considerate sino-
nime. Ma molti errori son nati in filosofia da tale confusione di
termini. Va usata la parola sensazione solo quando le impressioni
ci destano una modificazione interna di piacere o di dolore; la
parola percezione solo allorché le impressioni ci offrono una sem-
plice rappresentazione delle cose esteriori; e il termine apprensione
quando non importa distinguere 1' un effetto dall' altro, e basta
accennare indeterminatamente l'atto d'avere o una modificazione
o una rappresentazione o tutt' e due insieme. Le impressioni di
luce e di colore (tranne che non siano molto intense) sono le
prime fra le rappresentative e le ultime fra le modificative o sen-
sibili. Un sasso, un legno, una strada, una piazza, una casa etc.
sono oggetti per noi comunemente indifferentissimi: nel guardarli
non sentiamo alcun piacere o dolore.
I suoni sono i secondi nell'ordine delle qualità rappresentative.
La differenza che passa fra essi e i colori è che questi son riferiti
da noi interamente agli oggetti, e non sono riguardati punto come
nostre sensazioni; i suoni invece sono considerati e come nostre
sensazioni e come qualità degli oggetti. Di più, la rapprentazione
nei suoni è molto meno chiara e distinta che nei colori. La ra-
gione è che nessuna superficie, anche d' una tinta uniforme, ci
presenta in tutti i suoi punti esattamente lo stesso colore; una
stesso agevolmente » {Analisi dell' umano intelletto, pag. 43). Tuttavia
anche lui talvolta ricorre ali' ipotesi della statua {Istituzioni di tnctaf.,
Parte I, Sez. Il, Gap. V, art. IV, e Parte li, Sez. I, Gap. I; Appendice I
al Gap. IX del Libro II della traduz. del Gomp. del Saggio de! Locke,
pag. 126-141 del Tomo IX delle Opere). Infine si badi che il Soave
riconosce che la distanza fra 1' uomo e le bestie rispetto alle facoltà
dello spirito è immensa {Ricerche intorno all' istituz. etc, pag. 140).
.*i
-^ 59 —
piccola scabrezza, una piccola diversità di luce genera subito
un colore diverso. Perciò negli oggetti visibili abbiamo quasi
sempre tante rappresentazioni, quanti sono i loro punti. In-
vece nei suoni la rappresentazione di ciascuno è, per la maggior
parte degli uomini, una sola, la quale è applicata, per così dire,
in solido su tutto il corpo sonoro (tranne che un individuo, come
Tartini, percepisca, oltre il suono fondamentale, anche le sue con-
sonanze). Tuttavia anche nei suoni la rappresentazione non è
quasi mai una sola. In tutte le sinfonie, melodie e voci articolate ci
si offrono sempre più rappresentazioni o successive o contempo-
ranee, che rendono più chiara e distinta la rappresentazione totale.
Le qualità tattili possono, per questo rispetto, dividersi in due
classi: quelle che appiirtengono al tatto generale, che cioè si sen-
tono da noi in qualunque parte dell' organismo e anche senza il
contatto immediato di un corpo estraneo, come il caldo e W freddo,
il piacere e il dolore; e quelle che appartengono al tatto partico-
lare, che cioè si provano solo per un contatto immediato, come
la figura, V estensione, la solidità, la fluidità, la durezza, la mol-
lezza etc. Le prime non ci suscitano di solito nessuna rappresen-
tazione. Le seconde ci dovrebbero offrire una rappresentazione
chiarissima, poiché da una parte l'estensione, la figura etc, es-
sendo qualità reali dei corpi, sono le sole che abbiamo ragione di
considerare come ad essi inerenti; dall'altra ogni punto dell'esteso
che tocchiamo ci produce la sua impressione, e tutte le impres-
sioni, essendo quasi avvisi dell' esistenza di qualcosa d' esterno,
dovrebbero essere altrettante rappresentazioni. Tuttavia, toccando
un corpo, noi badiamo più alla modificazione prodottaci dalla
sua durezza o morbidezza, scabrezza o levigatezza che alla rap-
presentazione offerta dalla sua estensione o figura. Del che due
possono essere le ragioni: l' una che le impressioni dell' esteso
son troppo uniformi al tatto, quindi la rappresentazione non ne
è molto distinta; 1' altra che le rappresentazioni dell' esteso sono
acquistate da noi molto più prontamente per mezzo della vista; ab-
biamo poco interesse a formarcene l'immagine mediante il tatto; in-
vece c'interessa molto di più sapere la modificazione che può cagio-
nare la durezza o la morbidezza, lo scabro o il liscio etc. Tant' è vero
che i ciechi, non potendosi servire della vista, arrivano a scoprire
nelle impressioni tattili quelle differenze che a noi sfuggono, e
a formarsene quindi rappresentazioni chiarissime e distintissime.
-^ 60 —
Gli odori e i sapori non ci danno nessuna rappresentazione.
II motivo è che non li stacchiamo mai interamente da noi, non
consideriamo mai come due cose distinte ciò che è in noi e ciò
che è nell'oggetto. Fiutando un'arancia consideriamo l'odore, per
dir così, come qualcosa di continuo che da essa si stende alle
nostre nari. Il che può dipendere dalla poca o nessuna distanza
che è tra 1' organo sensoriale e 1' oggetto fiutato o assaporato; o
anche dall' uniformità delle impressioni olfattive o gustative, la
quale ci sembra maggiore che non sia in sé stessa, per il poco
esercizio degli organi sensoriali. La ragione principale però è il
poco interesse che abbiamo di servirci dell' odorato e del gusto
per procurarci rappresentazioni degli oggetti, le quali abbiamo
tanto facilmente mediante il tatto, la vista e l' udito. Chi sa invece
se i cani e i lupi, che .adoperano molto I' odorato, non arrivino
a staccare le sensazioni odorose da sé medesimi, a trasferirle sui
corpi e ad averne quindi rappresentazioni distinte.
Le ragioni per cui anche il caldo e il freddo, il piacere e il
dolore non ci suscitano rappresentazione alcuna, sono simili a
quelle che abbiamo indicate per gli odori e i sapori.
Le qualità rappresentative e le qualità sensibili son dunque
quasi in ordine inverso e reciproco. Quelle che ci offrono mag-
giori rappresentazioni, ci destano minori modificazioni (senti-
menti); quelle che ci destano minori modificazioni (sentimenti),
ci offrono maggiori rappresentazioni.
II. Quando son presenti varie sensazioni, 1' anima si applica
più intensamente ora all'una, ora all'altra. L'atto con cui l'anima
si fissa particolarmente su di un oggetto o su di un altro si
chiama attenzione; e quello con cui essa deliberatamente trasfe-
risce l'attenzione dall'uno all'altro si dice riflessione (1).
(1) Se invece l'attenzione è richiamata successivamente dalla forza
delle impressioni stesse, senza nostra deliberazione, si ha la riflessione
passiva. Qui il Soave s'allontana dal Locke, dal Condillac e dal Bon-
net. Il Locke intende per riflessione solo quell'atto con cui l'anima
rivolge la sua attenzione sopra sé stessa. Tale definizione per il Soave
è troppo ristretta.il Condillac nell'Essa/ sur r origine des comi. hum.
fa consistere la riflessione in quell'atto con cui la mente applica a vi-
cenda la sua attenzione ora agli oggetti esterni, ora alle idee interiori
richiamate mediante i segni, pretendendo pure che senza l'uso di questi
— ol-
ii Condillac, dice il Soave, ha voluto ridurre l' attenzione, come
tutte le altre facoltà, alla sensazione; ma fra 1' una e 1' altra e' è
una differenza essenziale. L' anima nel sentire è quasi del tutto
passiva, non dipendendo da essa V avere o non avere le sensa-
zioni, e non riducendosi ad altro l'attività sua se non all'accor-
gersi delle impressioni in lei prodotte; invece è attivissima nel-
r attendere e nel riflettere, dipendendo da essa il fissare 1' atten-
zione dove più le piaccia: sicché tra 1' una e 1' altra facoltà e' è
quella differenza che passa fra l' essere passivo e l' essere attivo,
cioè fra due termini opposti. A conferma di questo si ricordi che
la sensazione fisicamente piti forte, ossia prodotta da uno stimolo
più energico, non sempre è quella che determina l'attenzione: il
che invece dovrebbe accadere se l' attenzione, come vuole il Con-
dillac, fosse la sensazione medesima divenuta più forte. Quante
volte r anima non lascia da parte le impressioni più vivaci per
trattenersi sulle più deboli, che la interessano maggiormente; e
quante volte non si fissa con tutta forza sulle idee iriteriori in
modo da non sentir più le impressioni esterne? (1) È dunque chiaro
che l'attenzione è di natura affatto diversa dalla semplice sensa-
zione, e che, se questa è resa più viva dall' attenzione, ciò deve
non si possa aver riflessione. Il Soave obietta: — P Non vedo perchè se,
avendo davanti più oggetti esterni nello stesso tempo, trasferisco l'at-
tenzione dall'uno all'altro, o se in un medesimo oggetto la fisso orsù
l'una or su l'altra delle due parti, senza richiamare alcuna idea inte-
riore, ciò non si debba dir riflessione; 2" non vedo che per richiamare
le idee interiori e per usare la riflessione siano necessari assolutamente
i nomi o altri segni — . La stessa critica si può rivolgere alla definizione
che della riflessione dà il Bonnetnel Saggio anal., chiamandola « il risul-
tato dell'attenzione che l'anima rivolge alle idee sensibili, comparandole
e vestendole di segni o di termini che le rappresentino ». Il Condillac però
ne dà un'altra definizione nel Tratte dessens. e m\V Estratt rais., chia-
mando riflessione qualunque passaggio dell'attenzione dall'una all'altra
impressione. Ma questa definizione è troppo estesa secondo il Soave;
giacché, se il passaggio dell'attenzione dall'una all'altra impressione
non è avvertito e deliberato, ma nasce meccanicamente dalla forza suc-
cessiva delle impressioni, non si ha la riflessione vera e propria, ma,
se mai, la distrazione.
(1) Lo stesso aveva osservato il Bonnet. Vedi il Voi. I di quest'opera,
pag. 163-64.
— 62 —
considerarsi come un effetto dell'attenzione, non può quindi con-
fondersi con r attenzione stessa.
IH. Il trasferire l'attenzione da un oggetto ad un altro dà ori-
gine al confronto, che conduce a scoprire le relazioni che passano
fra essi, ossia la loro convenienza o disconvenienza. Ora la facoltà
di scoprire queste relazioni si chiamai facoltà di conoscere; e V atto
di conoscere si dice cognizione. Dalla cognizione viene il giudizio,
che è l'atto con cui l'intelletto afferma o nega fra sé l'esistenza
d'una determinata relazione (1). Non sempre però la convenienza
o disconvenienza di due cose si può conoscere immediatamente,
a prima vista. In tal caso le confrontiamo tutt'e due con una terza,
per inferire, dalla loro convenienza o disconvenienza con questa,
che convengono o disconvengono fra di loro: tale atto si chiama
raziocinio.
IV. La quarta facoltà della psiche è la memoria, ossia la ca-
pacità di ritenere o di aver nuovamente presenti le idee e le no-
zioni dei fatti passati e riconoscerle. Il ritenere l'idea d'un oggetto,
anche quando questo è allontanato, si dice contemplazione; l'aver
nuovamente presenti le idee e le nozioni delle cose passate senza
che queste agiscano sui sensi si chiama reminiscenza (riproduzione);
r accorgersi d' aver avuto già altre volte un' impressione o idea
che ritorna si dice riconoscimento.
L' immaginazione poi consiste non solo nel richiamare le idee
delle cose passate, ma anche nel combinarle in vario modo e for-
marne nuovi composti.
A proposito della contemplazione, bisogna badare che non di
tutto ciò che sentiamo noi riusciamo a ritenere un' imm.agine.
Delle impressioni che suscitano rappresentazioni delle cose esterne,
ossia di quelle che abbiamo chiamate percezioni, possiamo certo
(1) Secondo il Soave si hanno sette specie di relazioni fondamentali:
1 ' identità o diversità; 2'' somiglianza o dissomiglianza; 3" vicinanza o
lontananza di luogo o di tempo; 4» quantità nella grandezza o nell'in-
tensione o nel numero; 5" affinità o contrarietà; 6' causa ed effetto;
1" obbligazione o dipendenza. Le quali però si possono secondo lui
ridurre a tre: 1" la somiglianza, che comprende anche l'identità; 2° la
coesistenza, che comprende il luogo, il tempo e la quantità; 3" la di-
pendenza, che comprende la causa e l'effetto, l'affinità e contrarietà
e r obbligazione.
— 63 —
ritenere un' immagine; invece, di quelle che ci destano solo una
modificazione interna di piacere o di dolore, ossia di quelle che
abbiamo chiamate sensazioni, non riteniamo nessun' immagine.
Per es., dopo aver guardata e allontanata una rosa, ne possiamo
aver presente V immagine. Ma del suo odore non è possibile con-
servare immagine alcuna. Noi riteniamo l' immagine della figura
e del colore della rosa, e l' immagine dell' atto di fiutarla; e a
queste immagini, che non appartengono all'odorato, va unita la
memoria d' aver provato, nel fiutarla, una certa sensazione. Se
avremo odorato prima un garofano e poi una rosa, gi ricorderemo
d' aver ricevuto da quello e da questa una sensazione diversa, e,
concentrandoci in tale atto contemplativo e paragonando ie due
sensazioni, crederemo fors' anche di sentir nuovamente un prin-
cipio dell' una e dell' altra; ma non potremo mai averne un' im-
magine. Bisogna dunque distinguere questi due fatti psichici. Per
indicare le immagini lasciate dalle percezioni, ossia dalle impres-
sioni che ci suscitano rappresentazioni degli oggetti esterni, si
può adoperare il termine idea, che, etimologicamente, corrisponde
a immagine (1). Invece tale parola non si può applicare alle
modificazioni che non suscitano immagini. Per queste si può
usare il vocabolo nozione. Diremo dunque che 1' anima, contem-
plando nella memoria una rosa, ne avrà un' idea; ma che, con-
templando un odore, ne avrà una nozione.
Lo stesso può dirsi dei sapori, del caldo, del freddo e in ge-
nere del piacere e del dolore, che, non offrendo nessuna rappre-
sentazione esterna, ma suscitando solo un' interna modificazione
gradita o sgradita, non lasciano nessun' immagine quando è ces-
sata la loro azione. Quanto ai suoni, bisogna notare che, come
le impressioni acustiche attuali ci producono una sensazione (mo-
(1) Il Soave quindi biasima l'uso del Locke e del Tracy d'indicare
con la parola idea tutto ciò di cui la mente si occupa mentre pensa,
ossia tanto le rappresentazioni quanto le modificazioni presenti e passate.
Si noti che Diderot, per una ragione simile, credeva che il Locke
avesse errato chiamando idee il freddo e il caldo, il piacere e il do-
lore etc. Questi, egli dice, sono stati che noi abbiamo provati e pei
quali abbiamo inventato dei segni, ma di cui non abbiamo idea alcuna.
Vedi Elogio di G. Locke del Diderot in Saggio siili' umano intelletto
di Locke, Pavia, Bizzoni, 1819, Tomo I, pag. 15.
— 64 —
dificazione interna) e, insieme, una percezione (rappresentazione di
qualcosa d' esterno), cosr i loro ricordi ci suscitano una nozione
rispetto alla modificazione interna che ci hanno prodotta, e una
idea rispetto alla rappresentazione che ci hanno offerta. Per lo
stesso motivo, delle impressioni tattili, che ci danno pure sensa-
zioni e percezioni, ci rimangono o le nozioni o le idee, secondo
che seguitiamo a contemplare o le modificazioni o le rappresen-
tazioni che ci hanno suscitate.
È anche da notare che si ritengono più facilmente le idee che
le nozioni: infatti, allontanata la rosa, ci resta per molto tempo
impressa l'immagine della figura e del colore suo; l' odore invece
svanisce presto o non lascia che una traccia debolissima. Il
che dipende dalla diversità di natura della rappresentazione esterna
e della modificazione interiore. Considerando la figura e il colore
della rosa, io trasferisco l'attenzione da un punto ad un altro, e
mi formo tante rappresentazioni, quanti sono i punti che consi-
dero in essa. Allontanata poi la rosa, io, continuando a pensare
alla sua immagine, non ho presente una sola rappresentazione,
ma scorro rapidamente coli' attenzione su tutti i punti distinti di
cui mi resta l' impressione; appunto questa molteplicità di rappre-
sentazioni, eh' io seguito ad avere, mi conserva chiara la rappre-
sentazione o idea totale. Invece nell* odore io non distinguo né
estensione né impressioni contemporaneamente molteplici; l' im-
pressione mi si riduce ad un punto solo; perciò questa deve can-
cellarsi assai più presto; e, anche se persiste egualmente, si deve
certo sentir durare con minor forza che una molteplicità di punti.
Anche perché 1' anima dura fatica grandissima a tenersi fissa lun-
gamente su un medesimo punto.
A proposito del riconoscimento il Soave giustamente respinge
la spiegazione del Bonnet (Saggio analitico), secondo cui quello
nascerebbe dalla diversità che passa fra l' impressione prodotta
sull'anima dalle fibre mosse la prima volta e quella prodotta dalle
fibre mosse la seconda, la terza o la quarta volta. Infatti, acciocché
l'anima potesse sentire la diversità delle due impressioni, dovrebbe,
la seconda volta, ricordarsi precisamente della maniera in cui è
stata modificata la prima, e riconoscere chiaramente questa prima
impressione; sicché il riconoscimento presupporrebbe il ricono-
scimento (petizione di principio).
Secondo il Soave il riconoscimento deriverebbe dalle circo-
- 65 -
stanze di tempo, di luogo etc, che accompagnano il ricordo. Se
per es. incontriamo qualcuno da noi veduto altre volte, spesso
sulle prime non lo riconosciamo, finché non ricordiamo le circo-
stanze di tempo, di luogo etc. in cui l' abbiamo veduto. Allora
ne troviamo, per così dire, duplicata l' immagine in noi, perchè
la vediamo unita a due serie diverse, l'una delle rappresentazioni
suscitateci dagli oggetti che insieme con essa agiscono attualmente
sui nostri sensi, l' altra delle idee ridestatesi degli oggetti che
hanno agito insieme con essa altre volte sui nostri sensi. Questa
doppia immagine, o, meglio, quest' idea che noi abbiamo d' un
oggetto oltre la sua rappresentazione attuale, fa sì che esso sia da
noi considerato e come presente e come assente, e che quindi noi
abbiamo coscienza d' averlo veduto altre volte. Se le serie d' idee
delle circostanze passate destate dalla sua presenza sono due,
noi ci ricordiamo d'averlo veduto due volte; se tre, tre volte; se
nessuna, non lo ricordiamo (1).
V. Il piacere o il dolore provocato da un oggetto destano nel-
r anima propensione o avversione per esso: quella si chiama amore,
questa odio; da tali affetti primari derivano tutti gli altri. Al
presentarsi del medesimo oggetto o d'altro simile l'anima, ricor-
dandosi del piacere o del dolore che ne ha sentito, si determina
a seguirlo o a fuggirlo; questo è Vatto della volontà o volizione.
La volontà si può dunque definire « quella facoltà che ha l'anima
di determinarsi ad abbracciare una cosa o ricusarla, ed a scegliere
fra più cose l'una piuttosto che l'altra ». Bisogna però notare che
tale facoltà non è beli' e sviluppata fin dalla nascita dell' uomo,
ma si forma a poco a poco. Infatti prima che la statua del Con-
dillac e del Bonnet conosca il mondo esterno, provando solo mo-
dificazioni soggettive, non potrà avere volontà vera e propria;
giacché proverà sensazioni spiacevoli e piacevoli e preferirà queste
ultime. Ma la volontà non consiste solo nel preferire nel senso
di credere una cosa migliore d'un' altra, che é opera del giudizio,
e d' aver piacere e tendenza per 1' una o disgusto e avversione
(1) Oltre i luoghi citati, vedi anche l'Appendice al Gap. X del
Libro I! della traduzione del Compendio del Saggio del Locke, intito-
lata Riflessioni intorno alla memoria (pag. 150-162 del Tomo IX
delle Opere).
- 66 —
per r altra, che è puro effetto della sensibilità; ma nel preferire
nel senso di determinarsi a seguir 1' una o fuggir l' altra, il che
la statua non può far certamente finché non sa ancora dì poter
abbracciare o respingere cosa alcuna. Finché dunque non si sanno
le cause da cui provengono le sensazioni piacevoli o spiacevoli,
finché non si conoscono gli oggetti da scegliere o da respingere,
non ancora si può sviluppare la volontà. Questa si sveglia solo
quando si cominciano a conoscere gli oggetti esterni, che si pre-
sentano come beni o mali. Ma, finché non s'impara a distinguere
i beni e i mali reali da quelli falsi o apparenti e a riconoscere i
loro diversi gradi, la volontà é ancora cieca. Essa, come si può
notare nei fanciulli, abbraccia, senza esame alcuno, tutto ciò che
si offre con 1' apparenza di bene, e respinge tutto quello che si
presenta coli' aspetto di male. La volontà comincia a funzionare
pienamente solo quando per mezzo dell'esperienza e della rifles-
sione i fanciulli arrivano a conoscere i diversi gradi dei beni e
dei mali, e a distinguere in mezzo agli uni e agli altri i veri e
reali dai falsi e apparenti. Allora la ragione comincia a dirigere
la volontà; che la ragione é appunto quella facoltà che, dopo aver
per mezzo della riflessione paragonate le cose fra loro e osservato
ciò che e' è di bene o di male, indica, per così dire, alla volontà
quelle che son da accettare e quelle che son da respingere, il
quale potere però non è che la stessa facoltà di ragionare, già
indicata, dipendente da quella di conoscere.
Quando la volontà insieme con la ragione è giunta al suo
pieno esercizio, comincia un conflitto fra la ragione e le passioni.
In questo conflitto l' anima resta spesso sospesa e dubbia per
qualche tempo, finché si piega all'una o all'altra parte. Ma, finché
resta così sospesa, essa sente in sé la facoltà d'abbracciar l'una
o r altra a piacer suo. Anche dopo che s' é decisa a scegliere
runa o l'altra alternativa, sente ancora in sé stessa la facoltà di
scegliere il contrario. Questo potere é appunto la libertà (1).
(1; Il Soave critica quindi in questo punto il Locke, il quale (Essai,
Libro II, Gap. XXI) intende per libertà unicamente la facoltà di operare
o non operare secondo la scelta della volontà (libertà d'esecuzione^, e
il Bonnet (Saggio analitico), che e prcss'a poco del parere del Locke.
A favore della libertà il Soave cita l'esperienza interna {Istituzioni di
— 67 —
VI. L' attività è il potere che ha V anima di agire e dentro e
fuori di sé. Nella sensazione la psiche è passiva piuttosto che attiva
giacché non è in nostro potere il darci una sensazione senza che
corpi agiscano sui nostri sensi; altrimenti, anche i ciechi si potreb
bero procurare le sensazioni dei colori; né, del pari, é in nostro pò
tere non sentire l' impressione dei corpi allorché agiscono effettiva
mene su di noi. Essa comincia ad essere attiva nella facoltà di riflet
tere, dipendendo da lei fissare l'attenzione su di un oggetto piuttosto
che su di un altro e rivolgerla dall' uno all' altro. È pure attiva
nella facoltà di conoscere, specie nei giudizi e nei ragionamenti.
Nella facoltà di ricordarsi è passiva quando le idee si risvegliano
da sé, è attiva quando essa stessa cerca di ritenerle o di richia-
marle. Infine, nella facoltà di volere è sempre attiva, qualora si
determina de sé medesima per una o per un'altra alternativa. In
tutti questi casi la facoltà di operare si confonde con le stesse
facoltà di riflettere, di conoscere, di ricordarsi e di volere. Ma
r attività dell' anima si esplica anche fuori di lei medesima, cioè
sul corpo; in tal caso la facoltà di operare è del tutto distinta
dalle precedenti, e da molti é detta forza motrice, appunto perchè
si manifesta producendo vari movimenti del corpo.
Oltre tutti questi atti che provengono direttamente da ciascuna
delle sei facoltà dell' anima, altri ve ne sono che risultano dalla
cooperazione di più facoltà: per es. la coscienza (1) delle proprie
modificazioni e della propria esistenza, derivante dalla riflessione
dell' anima su sé stessa (attenzione); la coscienza della propria
identità o personalità, risultante dalla riflessione unita alla
memoria; l' astrazione, derivante dal fissare l' attenzione su una
sola qualità d'un oggetto. Dall'atto d'astrarre viene quello à\ gene-
ralizzare, poiché il formare un' idea generale non è che astrarre
da molti individui le qualità comuni a tutti. Dall'astrazione unita
Met., Parte I, Sez. II, Gap. V, Art. V, pag. 144). Combatte anche il de-
terminismo {Op. eli., 1. e, pag. 144-148).
(1) Giustamente qui il Soave distingue la coscienza spontanea o sen-
sitiva da quella riflessa.
— es-
ali' immaginazione nasce la composizione delle idee, che consiste
neir unire, come fa il pittore, le idee di piìi oggetti che attual-
mente non esistono insieme in natura. Dall'astrazione combinata
col discernimento (cognizione delle differenze che passano fra due
o più enti) viene 1' analisi o scomposizione delle idee.
Il lungo esercizio di compiere deliberatamente alcuni atti pro-
duce r abitudine (esecuzione di atti senza rifletterci). Se per ra-
gioni organiche le impressioni diventano sì deboli, che 1' anima
non abbia più coscienza, si ha il sonno. In questo stato spesso si
destano alcune idee che, non essendo dirette deliberatamente dal-
l'anima, formano combinazioni stranissime. Ma talvolta nei sogni,
specie in quelli dei sonniloqui e dei sonnamboli, le idee e le azioni
ad esse corrispondenti conservano lo stesso ordine che nella veglia;
il che, non potendo dipendere dalla riflessione attuale e deliberata,
dipenderà da una riflessione indeliberata e abituale (1).
Finora abbiamo esaminata la vita intima dell' anima; ma il
Soave, come ideologo, non poteva trascurare la questione del
modo in cui 1' anima esca, per così dire, fuori di sé e giunga a
conoscere il mondo esterno (2).
In questo problema il Soave critica il Condillac, e si trova
d'accordo con Destutt de Tracy; anzi si compiace (3) d'aver pre-
Ci) Del sonnambolismo il Soave s'è occupato più volte nelle sue
opere (Appendice al Gap. XIX del Libro II del Compendio del Saggio
del Locke, pag. 192-212 del Tomo IX delle Opere; Istituzioni di Alet.,
Parte I, Sez. II, Gap. IX, pag. 172-183; Opuscoli metafisici, Opuscoli III
e IV, pag. 193-261 del Tomo XV).
(2) Vedi l'Appendice I al Gap. IX del Libro II della Trad. del Com-
pendio del Saggio del Locke (pag. 126-141); Istituzioni di Met., Parte II
(pag. 200 e seg.); Istituzioni di logica, Parte I, Sez. Ili, Gap. III, § 2.
Il Soave chiama ontologia quella parte della metafisica che si occupa
del mondo esterno; tale ontologia, fondata sull'analisi della formazione
delle idee, è, s'intende, ben diversa dalla vecchia ontologia o metafisica
scolastica; essa non è che la dottrina della conoscenza.
(3) Memoria sopra il progetto di clementi d'ideologia del conte D.
di Tracy, pag. 38; Istituzioni di Meta/., Parte li, Sez. I, Gap. I, pag. 207;
La filosofia di Kant esposta ed esaminata, pag. 376.
- 69 -
corso il filosofo francese nell'Appendice I al Gap. IX del Libro II
della sua traduzione del Compendio del Saggio del Locke {Con-
getture intorno al modo in cui si scopre dall'anima l'esistenza dei
corpi, 1775) e in un'altra Appendice al Voi. IV della seconda edi-
zione delle Istituzioni di logica, metafisica ed etica (Milano, Ma-
rcili, 1794). Anche lui dunque crede che il tatto per sé solo non
abbia il potere attribuitogli dal Condillac. Finché la statua, egli
dice, applica semplicemente la mano a sé stessa o ad altri oggetti,
la sensazione tattile da lei provata non può avere maggior corpo
di qualunque altra sensazione sua. Essa, non sapendo di toccar
cosa alcuna, anzi non sapendo nemmeno d'aver tatto, deve pro-
vare una modificazione soggettiva, proprio come quando sente
un odore, un sapore etc. Avrà, sia pure, due sensazioni al toccar
sé stessa, una sola al toccare un altro corpo; ma nulla più. La
statua, ignorando onde le vengano tali sensazioni, non sapendo
di toccar alcun oggetto, non conoscendo che il suo tatto è diffuso
in pili parti del corpo, anzi non conoscendo nemmeno d'aver tatto,
s' accorgerà tutt' al più di due sensazioni distinte, senza poterle
riferire a nessuna parte di sé stessa. Dunque la differenza della
sensazione ora doppia ora semplice, al pari di quella della sen-
sazione ora di due odori ora d' un solo, non potrà condurla ad
argomentare 1' esistenza di nessuna parte di sé e di nessun og-
getto fuori di sé. La statua comincerà a sospettare che esista
qualcosa fuori di lei solo quando sentirà l' opposizione che le
producono i corpi, quando, dopo aver per es. steso liberamente
il braccio e la mano, all' improvviso incontrerà un ostacolo che
le vieti di stendere il braccio e la mano più in là, e quando,
sforzandosi di vincere quest' ostacolo, sentirà di non poterlo su-
perare. Il sentimento di tale opposizione al libero esercizio della
volontà e del movimento suo deve infonderle il sospetto che ciò
che le resiste sia fuori di lei e diverso da lei, non potendo essa
attribuire a sé stessa o considerare come identico a sé stessa ciò
che s'oppone al suo volere e che essa anzi cerca con ogni sforzo di
vincere senza poterci riuscire. Questo sospetto diverrà certezza a
misura che, incontrando nuovi ostacoli, la sua attenzione si sentirà
spinta a riconoscerli, e a mano a mano che con queste ricerche
riuscirà a scoprirne la posizione, la figura, la grandezza, la consi-
stenza maggiore o minore, e le altre qualità che si percepiscono col
tatto. Allora sì che la sensazione diversa che avrà secondo che
— 70 —
tocchi sé stessa o i corpi esteriori, le farà distinguere ciò che ap-
partiene al proprio corptD da ciò che spetta ad altri; e, siccome il
sentimento dell' opposizione o del contrasto è sempre preceduto
dalla semplice sensazione tattile, allora, per accorgersi della pre-
senza d' un corpo, non sarà più necessario premerlo e sentirne
r opposizione : basterà toccarlo semplicemente. Ecco come il
Soave chiarisce la conoscenza del mondo esterno (1).
Nello spiegare poi come s' acquistino le idee delle figure e
delle distanze dei corpi, come s' impari a distinguere con la vista
il piano e il rilievo, il concavo e il convesso, come il tatto e la
vista insegnino agli altri sensi a conoscere la posizione dei corpi,
come le nostre sensazioni siano da noi trasferite negli oggetti
esterni e considerate come qualità di queste etc, segue il Condillac.
È pure notevole che il Soave, nella soluzione del problema
della conoscenza del mondo esterno, non va a finire, come gli
ideologi francesi, in un fenomenismo idealistico; giacché, secondo
lui, le azioni esercitate su noi dai corpi ci assicurano della loro
esistenza. Quando, egli dice, ci sentiamo spinti o trascinati da
una forza esteriore là dove non vogliamo; quando movendoci
incontriamo un ostacolo che ci arresta contro nostro volere, non
possiamo dubitare dell'esistenza di ciò che ci spinge o arresta a
nostro dispetto. Essendo reali le azioni che noi soffriamo dai
corpi, dev'essere reale anche la loro esistenza, per la ragione che
non può esistere l'azione senza che esista l'agente (principio di
causa) (2).
È vero che dell'esistenza dei corpi non possiamo avere la cer-
tezza metafisica, giacché, quando soffriamo un' azione che non
dipenda da noi, siamo ben sicuri che ne esista fuori di noi l'agente,
ma non siamo egualmente certi che quest'agente sia tale o tal'altro
essere: potrebb' essere Dio stesso, senza l'intervento di alcun corpo.
(1) Si noti che nell'Appendice al Gap. IX del Libro II del Saggio
del Locke, il Soave credeva qui necessaria per il tatto la cooperazione degli
altri sensi; invece r.elle Istituzioni di Metaf. ritiene che il tatto solo,
purché accompagnato dal senso dell'opposizione e dello sforzo, basti
per la conoscenza dei corpi esterni.
(2) Istituzioni di logica, pag. 142; La filosofia di Kant etc, pag. 378.
Cfr. Gioia, Elementi di filos., Sezione III, Art. II, Gap. I, § 1.
— 71 —
Tuttavia di quell'esistenza abbiamo una certezza fisica, in quanto
è fisicamente impossibile che ì sensi ci avvertano uniformemente
e costantemente della presenza e dell'azione dei corpi nel modo
innanzi detto, senza che questi esistano. In pratica però tale cer-
tezza equivale press' a poco a quella metafisica. Né vale obiettare
che talora anche in sogno ci sembra di toccar mille oggetti che non
sono allora presenti ai nostri sensi e che forse non sono esistiti
mai; giacché chi non sente la differenza che passa fra l'immagi-
nare il sole e il guardarlo effettivamente, fra l' immaginare il fuoco
e il toccarlo? Che se qualcuno credesse che l'immaginare il fuoco
e il toccarlo siano tutt'uno, l'immagini prima, e poi lo tocchi; e
vedrà se il fuoco sia qualcosa di reale o un puro giuoco di
fantasia (1).
ETICA. — Oltre l' ideologia, é importante 1' etica del Soave.
S' è tante volte ripetuto che conseguenza necessaria del sensismo
è l'edonismo egoistico, o, tutt'al più, l'utilitarismo; e in vero, se
ogni forma d' attività psichica si riducesse alla sensazione, come
si potrebbe uscire dal soggettivismo e quindi dall' egoismo ? Ma
il fatto é che non tutti i pensatori che di solito son chiamati sen-
sisti hanno le stesse idee: non tutti riducono ogni forma d'atti-
vità psichica alla sensazione; e, allora, naturalmente, è possibile
arrivare ad una morale disinteressata. Così il Soave, come ab-
biamo visto, ammette sei facoltà dell' anima, e tra queste la vo-
lontà e il potere di conoscere e di ragionare, irriducibili alla
sensazione. Ecco quindi che la ragione viene a riacquistare il suo
valore, e può compiere un ufficio importante nella vita morale.
Il Soave infatti ci descrive la vita etica come un conflitto fra
l'immaginazione e le passioni da una parte e la ragione dall'altra;
e considera la saggezza e la probità come una vittoria della ra-
gione, che dirige la volontà, sugl'impulsi bassi. « La superiorità »,
egli scrive, « che ha l' uomo sulla materia inerte, sulle piante e
su i bruti consiste nella facoltà di conoscere, di ragionare e di
(1) Qui, come ognun vede, il Soave segue il Locke {Essai, Livre IV,
Chap. XI).
— 12 —
regolare coi principi della ragione la propria condotta » (1). Se-
condo lui è errore definire la probità, come fa l'Helvétius, l'abi-
tudine di compiere azioni utili agli altri; '< imperocché la sola
utilità, che ad altri venir ne possa, non basta a render probe le
nostre azioni, qualor convenevoli e degne di approvazione non
siano in sé medesime » (2). Le azioni oneste son quelle coman-
date da un espresso dovere; e dovere è tutto ciò che un uomo,
secondo le varie circostanze, è tenuto a fare o non fare (3); esso
gli è dettato dalla ragione (4); giacché « la coscienza nel senso
in cui dagli Etici si suol prendere altro non è che la stessa ra-
gione, la quale, paragonando coi doveri le azioni fatte o da farsi,
giudica se sian ad essi conformi o contrarie, e quindi se sieno
buone o malvagie » (5).
Ma il Soave non si ferma qui. Egli distingue la virtù (Ì2i\V onestà;
questa consiste nel compiere le azioni « di espresso e indispen-
sabil dovere », quella nel non contentarsi di adempiere ciò che
é d'espresso dovere, e nel fare buone azioni anche senz'esservi co-
stretti dal dovere, o oltre ciò che il dovere prescrive. Il pagare
un debito, il mantenere una promessa, il restituire un deposito
sono certo azioni buone, ma non virtuose. Invece il beneficare
un nemico o un ingrato, il sollevare una famiglia onesta dalla
miseria, l' opporsi alla prepotenza d' un ingiusto usurpatore in
difesa d'un debole innocente, l'esporre generosamente per la sal-
vezza altrui la propria vita a un imminente pericolo sono azioni
veramente virtuose. Del pari l'astenersi dalla vendetta é un dovere,
ma non una virtù. La virtù comincia quando si ha il coraggio
di far anche del bene all'oltraggiatore; e questo sforzo é l'atto
più generoso a cui possa giungere un' anima veramente grande.
' "■ La virtù adunque potrà definirsi l'abito di far delle buone azioni
morali anche non comandate da un espresso dovere, o superiori
a questo dovere medesimo » (6).
La probità abbraccia V onestà e la virtù, e si può definire
« l'abito di far oneste e virtuose azioni a prò d'altrui » (7).
(1) Istituzioni di etica, pag. 110-111 del Tomo XIV delle Opere.
(2) Op. cit., pag. 238. (3) Op. cit., Parte 11, Sez. II, pag. 268.
(4) Op. cit., pag. 7, 369, 375, 404 (nota 106).
(5) Op. cit., pag. 332. (6) Op. cit., pag. 339 e seg.
(7) Op. cit., pag. 239.
- 73
OSSERVAZIONI. — Concludendo: il Soave ha arrecato no-
tevoli miglioramenti all' ideologia francese. Ha cominciato dal ria-
bilitare in certo senso il metodo deduttivo; ha poi criticata la
riduzione, compiuta dal Condillac e dal Tracy, di tutte le facoltà
psichiche a quella di sentire; ha cercato d' eliminare l' idealismo
fenomenistico nel problema della realtà del mondo esterno; ha
infine liberato l' etica dal soggettivismo egoistico.
Quanto al metodo però abbiamo già notato che la sintesi ha
nella sua filosofia un' importanza solo didattica, non è conside-
rata quindi come un vero metodo della ricerca.
Riguardo alla classificazione delle facoltà psìchiche, è noto
quanto difficile essa sia; si può dire che anche oggi non c'è una
classificazione accettata da tutti i filosofi. Osserverò soltanto che
in quella del Soave i sentimenti non compariscono come una classe
speciale di fatti; eppure non si può negare che, sebbene essi accompa-
gnino l'esplicarsi di altre funzioni psichiche, di cui costituiscono
come il tono o la risonanza, sono irriducibili ad altro. Mi pare
invece che non sia esatto fare dell' attività una funzione speciale
della psiche. L' anima è tutta attività, vita, e appunto per questo
fu considerata da Platone (e, si potrebbe aggiungere, da Rousseau),
come il principio del movimento di contro alla materia inerte. I
fenomeni psichici son tutti « atti > d' un centro d' energia. Del
resto il Soave stesso, come s'è visto, è costretto a riconoscere che
questa funzione si confonde con la facoltà di riflettere, di cono-
scere, di ricordarsi e di volere (e, in parte, con quella di sentire,
giacché pare ch'egli ammetta una certa azione dell'anima anche
nella sensazione).
Del pari, 1' attenzione e la riflessione, piuttosto che una fun-
zione a parte, costituiscono un concentramento dell' attività psi-
chica su uno o pili punti del campo della coscienza.
Si badi del resto che il Soave non pretende che la sua clas-
sificazione dei fatti psichici sia definitiva; il che dimostra la sua
prudenza e circospezione (1).
(1) « Tre facoltà o potenze si sogliono distinguere nell'anima, cioè
intelletto, memoria e volontà, che alcuni riducon pure a due sole, in-
— 74 —
Notevole è la distinzione, ch'egli fa, dell'elemento rappresen-
tativo, che prevale in alcune sensazioni (e nei ricordi corri-
spondenti), e dell' elemento affettivo, che si nota maggiore o
esclusivo in altre. Osservo anzi che, appunto a causa di tale dif-
ferenza, le sensazioni olfattive e gustative, come anche il caldo e
il freddo etc, sono molto affini ai sentimenti (1); perciò dovreb-
bero essere anch' esse prese in considerazione nel problema della
così detta « memoria affettiva :■ (2). Si sa che la principale dif-
ficoltà di ammettere una memoria dei sentim.enti sta nella circo-
stanza che i sentimenti, al contrario delle rappresentazioni di og-
getti percepiti per es. mediante la vista, non lasciano nella mente
una traccia capace di risorgere in forma d' immagine. Ora questa
stessa difficoltà sorge per quei fenomeni psichici che il Soave
chiama sensazioni (di contro a percezioni) e che, quando son ri-
cordati, si ripresentano come nozioni, ma non come immagini o
idee (che sono invece suscitate dalle percezioni). Voi mi direte:
— Ma se d'un odore o sapore o suono non si può avere un'im-
magine (idea), questa si può avere dell'oggetto che ha suscitato
la sensazione — . Verissimo; ma l'oggetto non è l'odore o il sapore;
è solo una circostanza che accompagna il prodursi del fatto psi-
chico: proprio come nei sentimenti. Ebbene, alcuni, a causa della
difficoltà di ammettere una rappresentazione o immagine-ricordo
del sentimento, hanno sostenuto che il ricordo di questo con-
sista nel riprodursi del sentimento stesso (ricordare un senti-
mento sarebbe riprovarlo). Ma, allora, anche il ricordo d'un odore
o d'un sapore dovrebbe consistere nellfi reviviscenza di tale sen-
sazione; poiché gli odori e i sapori presentano gli stessi caratteri
dei sentimenti (3). Invece noi sperimentiamo che il ricordo d' un
telletto e volontà. Ma sebben tutte in qualche senso a queste due ridur
si possano, la maggior chiarezza ed esattezza però, come vedremo nella
psicologia, richiede che sei facoltà nell'anima si distinguano {Istituzioni
di logica, Parte I, Sez. I, pag. 87).
(1) Il Soave infatti li colloca accanto al piacere e al dolore.
(2) RiBOT, Psicologia dei sentimenti, Sandron, Palermo, Gap. XI;
vedi anche vari articoli del Ribot, del Pillon, del Mauxion, del Pieron, del
Paulhan, del Dugas, del Baldwin in Rcvue Philosophique, 1894, 1901,
1902, 1903, 1904, 1907, 1909.
(3) 11 Ribot infatti colloca le impressioni del gusto e dell'odorato
— 75 —
odore o sapore non consiste nel risorgere della sensazione. Dunque
sarà lo stesso dei sentimenti ? Ma allora come avviene il ricordo
di tali fenomeni psichici? Questo dimostra che nella nostra anima
vi sono ancora aspetti oscuri, che la psicologia moderna non è
riuscita a chiarire del tutto; ed è merito del Soave 1' aver visto
la differenza fra sensazione e percezione, fra nozione e idea, e l'aver
accennato anche alla difficoltà di ricordare le sensazioni (= sen-
timenti) (1).
Quanto al riconoscimento, neppure la spiegazione che ne dà
il Soave mi sembra sodisfacente; giacché le circostanze passate
che accompagnano l' immagine-ricordo, affinchè possano servire
a staccar questa dalle circostanze attuali, devono esser riconosciute
come passate; quindi il riconoscimento presupporrebbe il ricono-
scimento (petizione di principio).
Sulla natura delle relazioni il Soave non si esprime chiara-
mente. Dice che sono scoperte mediante il confronto e il giudizio.
Ma, allora, non le può certo considerare come percepite coi sensi;
giacché il confronto e il giudizio secondo il Soave stesso non si
possono confondere con la sensibilità; abbiamo dunque qui un'at-
tività superiore al potere di sentire: 1' attività riferente e giudica-
trice, che dà origine a prodotti nuovi, superiori alle sensazioni.
Il sensismo e l'empirismo grossolano é, così, sorpassato? Parrebbe;
ma il Soave non chiarisce questo punto.
Riguardo all'etica, è certo notevole il tentativo del Soave di
nella stessa categoria degli stati piacevoli o dolorosi, delle emozioni e
passioni (Psic. dei seni., pag. 147, 148), e cita, come casi di memoria
affettiva, i ricordi di sensazioni gustative e olfattive (pag. 151-52).
(1) Si noti che il Soave quasi propende per 1' opinione di coloro
che fanno consistere il ricordo del sentimento nella reviviscenza del
sentimento stesso, giacché dice: « Se (l'anima) avrà odorato prima un
garofano e poi una rosa, si sovverrà ancora di aver avuto da quello e
da questa una diversa sensazione, e, concentrandosi in questa contem-
plazione e paragonando le due sensazioni, le parrà forse eziandio di
sentir nuovamente un principio delV una e dell'altra; ma vera imma-
gine non potrà mai averne » {Istituz. di Meta/., pag. 99-100). D'altra
parte chiama nozione la traccia lasciata dalle sensazioni e dai senti-
menti; il che farebbe supporre che egli consideri tale traccia come un
fenomeno intellettuale.
— 76 —
fondarla sulla nozione del dovere. Ma si può, com' egli sostiene,
andar oltre il dovere? Tutto ciò che e bene h per l'uomo un do-
vere; si potrà, se mai, stabilire una certa gerarchia di beni morali,
di <^ valori > (agli atti di carità per es. si dà più valore che a quelli di
giustizia); per attuarli sarà necessario uno sforzo (inibizione de-
gl' impulsi) maggiore o minore; ma non c'è un bene che s'imponga
a noi come dovere e un altro che non ci s' imponga come tale.
Per una coscienza veramente morale non solo è dovere perdo-
nare al nemico e non vendicarsi, ma anche soccorrerlo nel bisogno.
Ci resta, in ultimo, da esaminare la questione se il Soave sia
materialista o spiritualista o idealista.... Senza dubbio egli ha una
certa tendenza allo spiritualismo: dimostra infatti la semplicità e
spiritualità dell' anima (1), e combatte 1' affermazione del Locke
che « forse ci sarà eternamente impossibile conoscere se Dio non
abbia dato o non possa dare la facoltà di pensare a qualche am-
masso di materia a ciò espressamente preparato e disposto »;
giacché la materia è un ente composto, e, finché sarà tale, non
potrà in nessun modo pensare. Ammette pure l' immortalità del-
l'anima (2). Movendo, al pari del Locke, dall'esistenza indubita-
bile del soggetto pensante, dimostra l'esistenza di Dio (3), e af-
ferma che Dio, essendo autore di sostanze pensanti, dev' esser
pure pensante (4). Parrebbe dunque eh' egli fosse spiritualista.
Ma.... al pari di Locke scrive che la sostanza intima delle cose,
la loro essenza, ci è ignota, e che noi non possiamo scoprire se
non le loro qualità (ossia i fenomeni) (5). Confessa che, sebbene
una certa azione si debba ammettere fra corpo e anima, non si
può dire quale essa sia (6); che ci è ignota anche la maniera in
cui lo stimolo esterno diviene sensazione (7), e l' anima compie
le sue operazioni (sentire, percepire etc.) (8). Neppure l' intima
(1) Istituzioni di Meta/., Parte I, Sez. I, Gap. I. Cfr. Esame dei prin-
cipi metafisici della Zoonomia di E. Darwin.
(2) Ist. di Met., Parte I, Sez. I, Gap. II.
(3) Op. cit., Parte IV, Gap. I.
(4) Op. cit., Parte IV, Gap. 11, Art. IV.
(5) Analisi dell'umano intelL, pag. 46; Ist. di Met., pag. 37 e 230.
(6) fstituz. di Meta/., Parte I, Sez. Il, Gap. 1, Art. IV, e Gap. VI,
pag. 153; vedi anche pag. 20, 64, 98. (7) Op. cit., pag. 71 e 153.
(8) Analisi dell' nm. intelL, pag. 100; Istituz. di Meta/., pag. 187-188.
— 11-
essenza e l'origine dell'anima possiamo conoscere, sebbene siamo
sicuri della sua semplicità. Cartesio e i suoi seguaci pretendevano
che r essenza deli' anima consistesse nel pensiero, quella della
materia nell' estensione; ma con qual ragione si può dire che
r essenza della materia sia nell' estensione, se questa non è che
una sua proprietà, anzi una semplice relazione, cioè la coesistenza
di più parti o di più cose unite insieme? e come si può riporre
r essenza dell' anima nel pensiero, se questo non è che una sua
azione ? chi dirà che l' azione e l' agente siano una medesima
cosa? (1) Il Soave aggiunge che noi non possiamo neppure ca-
pire la maniera in cui i corpi agiscono 1' un su l' altro (2), né
la creazione dal nulla, giacché per noi è verissimo che ex nihilo
nihil fit (3). Infine, esaminando il problema degli elementi ultimi
del mondo, mostra le difficoltà che nascono dall' ammetter questi
come semplici e inestesi; giacché in che maniera elementi ine-
stesi, senza parti, possono occupare uno spazio e formar l' esteso,
la materia? Alcuni, egli dice, hanno creduto di poter eliminare
queste difficoltà col dire che gli elementi sono semplici e, come
tali, né si toccano realmente, né occupano spazio, ma son dotati
delle forze d' attrazione e di ripulsione, per cui sono costretti a
tenersi sempre a determinate distanze fra loro, senza potersi né
allontanare né accostare maggiormente, dal che risulterebbe il
fenomeno dell' estensione e della solidità. Ma, egli osserva, come
si possono attribuire ad elementi inestesi le forze d'attrazione e
di ripulsione, che sono state scoperte nei corpi estesi ? Inoltre,
in tal caso, non esisterebbe nei corpi né estensione né solidità
propriamente detta; queste sarebbero illusioni nostre. Ma allora
r esistenza stessa dei corpi sarebbe un' illusione; poiché che ri-
mane dei corpi, se si toglie loro 1' estensione e la solidità? Di
fronte a queste difficoltà il Soave non ardisce asserire che gli
elementi ultimi del mondo siano spirituali; e così conclude: « Che
s' ha egli a dire pertanto degli elementi de' corpi ? Quel che sì
spesso e di tante cose dicea colui che dall' oracolo fu dichiarato
il più sapiente degli uomini: Hoc unum scio, me nihil scire » (4).
(1) Istit. di Metaf., Parte 1, Sez. I, Gap. Ili, Art. I e U.
(2) Op. cit., pag. 28C. (3) Op. cit., pag. 344.
(4) Op. di., Parte IH, Gap. V.
— 78 —
CAPITOLO III. — Gioia
VITA E OPERE. — (1) Melchiorre Gioia nacque a Piacenza
il 20 settembre 1767 da Gaspare, orefice valente, austero e probo,
e da Marianna Coppellotti, donna d' ingegno svegliato e di grande
vivacità. Fu il quarto di sei (2) figli; già nella tenera età, quando aveva
più bisogno che mai dell'amore dei parenti, fu colpito dalla sven-
tura; divenuto orfano di padre nel sesto anno di sua vita (1773),
nel tredicesimo si vide morire anche la madre. Egli allora insieme
con i fratelli venne in tutela dell' avvocato Giovanni Coppellotti,
zio materno, il quale ebbe cura delle loro persone e dei pochi
beni ereditati. Passò la prima età studiando un po' di latino e
di retorica nel Liceo di S. Pietro in Piacenza; superato un con-
corso e vestito l'abito ecclesiastico, il 2 novembre 1784 entrò
nel Collegio Alberoni, per intraprendervi i corsi di filosofia, di
teologia, di morale, di diritto canonico e d'istituzioni civili.
< Fu questa -, dice il Romagnosi, < una fortuna per il Gioia, non
(1) Romagnosi, Elogio storico di M. Gioia, comparso la prima volta
nel Voi. LII, pag. 392, della Biblioteca Italiana (1828) e ripubblicato in
Biografia degli Italiani illustri etc. del Tipaldo (1834), Voi. I, pag. 165-
178 e in Opere storico-filosofiche e letterarie di G. D. Romagnosi rior-
dinate e illustrate dal De Giorgi, Volume unico, Parie II, Milano, Perelli
e Mariani, 1844, pag. 853 e seg.; Giuseppe Sacchi, Cenni sulla vita e
sulle opere di Ai. Gioia in Annali Universali di statistica, Voi. XIX,
gennaio 1829, e poi a parte presso gli Editori degli Annali Universali
delle Scienze e dell' Industria, Milano, 1829; Pou, Op. cit. Voi. IV,
§ § 429-432; F. MOMIGLIANO, Un pubblicista economista e filosofo del
periodo napoleonico in Rivista di filosofia e scienze affini, Anno V
(1903), Voi. I, num. 2, 3-4, 5-6, Voi. II, num. 1-2, 5-6, Anno IV (1904),
Voi. II, num. 1-2 (tratta dell'attività del Gioia nel periodo napoleonico);
e F. Momigliano, Melchiorre Gioia pubblicista, storiografo e divor
zista in // Secolo XX, 1° giugno 1919, pag. 385 e seg. Delle opere del
Gioia stesso possono giovare per la sua biografia specialmente La
scienza del povero diavolo, le Riflessioni relative all'opuscolo < La
scienza del povero diavolo - (in Opere minori. Voi. II, Lugano, Ruggia,
1833), i Documenti comprovanti la cittadinanza italiana di M. Gioia (in
Opere minori. Voi. IH), e La lettera intorno alla Signora B. Milesi
{Opere minori, Voi. V). (2) Il Sacchi dice: cinque.
— 79 —
solo perchè per nove anni intieri si trovò libero di consacrarsi
tutto agli studi, senza la più piccola spesa della sua famiglia,
in un istituto che forniva tutt' i mezzi della migliore educa-
zione fisica, intellettuale e morale, ma anche perchè v' incontrò
saggi maestri ». Fra i quali il condillachiano Giovanni Antonio
Comi, da noi già ricordato. 11 Gioia coltivò specialmente la filo-
sofia e le matematiche. L' amore da lui concepito allora per tali
studi severi, racconta il Romagnosi (1), era così intenso, che più
volte, per procacciarsi libri nuovi, egli, uscito di nascosto dal col-
legio, avviluppato nel mantello e coperto la testa dal cappello di
uno degl'inservienti, si recava nella vicina Piacenza ad acquistarli,
rientrando poi lieto con essi, come se avesse rapito un tesoro
alla sapienza. Compiuto il novennio e divenuto sacerdote, nel-
r agosto del 1793 uscì di collegio, e accettò 1' ospitalità offertagli
dal fratello Ludovico, negoziante assai stimato in Piacenza. Era
il tempo che il ducato di Parma e Piacenza, dopo gli anni di
splendore goduti per opera del Du Tillot, decadeva vergognosa-
mente. « Questi paesi, scriveva il Gioia (2), hanno per capo un
imbecille, che dimanda a Dio perdono del tempo che dà agli
affari di Stato. Una monaca impudente e un vescovo infame lo
raggirano a loro piacimento; essi gli dicono di proteggere i ca-
lunniatori, ed egli li protegge, di perseguitare il merito, ed egli
lo perseguita, d' assopirsi nella voluttà, ed egli si assopisce, di
amare, di odiare, di temere, ed egli ama, odia e teme con eguale
indifferenza. Intanto le cariche sono vendute al maggiore oblatore,
le imposte distribuite esclusivamente sulla classe media della so-
cietà, il commercio intercetto da privilegi ed atti arbitrari ». È
facile pensare che, date tali condizioni politiche, il Gioia non
prendesse parte alcuna agli avvenimenti della sua terra. Nei pochi
anni che vi dimorò visse ritiratissimo, sprofondato nelle sue me-
ditazioni. Si rese familiari specialmente gli scrittori francesi e in-
glesi, che, introdotti non solo dagli studiosi di legislazione e di
economia politica, ma anche dal Condillac e dal Soave, erano
oramai apprezzati e gustati nella penisola. Dal suo ritiro uscì solo
(1) Op. cit., pag. 855 dell'edz. De Giorgi.
(2) Cenni politici sugli stati di Parma e di Piacenza (articolo del
Monitore) in Opere minori, Voi. 1, pag. 204; Cfr, Voi. I, pag. 215-216.
— 80 —
perchè chiamato ad educare i figli del marchese Paveri-Fontana;
ma per pochi mesi accettò tale incarico, che lo distraeva dagli
studi prediletti. Aveva tanta passione per il lavoro intellettuale,
che consacrava allo studio le notti intere, dopo aver dormito
un po' nelle ore pomeridiane; e la notte, per non esser vinto dal
sonno, faceva pendere dalla soffitta una lucerna, presso 1' abba-
gliante riverbero della quale egli, in piedi su una cassapanca, ri-
maneva a studiare infaticato nelle lunghe e silenziose ore.
Fu scosso dalle meditazioni dal rombo del cannone napo-
leonico, che annunziò tempi nuovi agl'Italiani. L'amministrazione
generale di Lombardia, succeduta al governo di tre mesi della
agenzia militare (3 sett. 1796), proponeva il 10 ottobre 1796 un
premio di duecento zecchini a chi meglio svolgesse il tema:
^^ Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia ».
Il Gioia esaminò il problema, e lo risolse proponendo per la
sua patria una repubblica non federale, ma unitaria (1). Già prima
la polizia del duca di Parma e la curia di Piacenza guardavano
di mal' occhio il Gioia, sapendolo ammiratore della filosofia e
della rivoluzione francese; aspettavano l'occasione per carcerarlo.
Questa fu loro offerta dalla dissertazione del filosofo: il quale fu
chiuso nelle prigioni del Sant' Ufficio, per ordine del vescovo di
Piacenza e del duca, che lo accusarono, tanto per avere un pre-
testo, d'aver celebrato messe a scopo di lucro. Egli protestò, vo-
leva difendersi; disse all' uno e all'altro < che rispettassero in lui
quel diritto che Pilato e Caifasso avevano rispettato in Cristo > (2);
ma non fu ascoltato. Ben presto però la Repubblica Cisalpina,
proclamata il 29 giugno 1797, intervenne in suo aiuto, e lo fece
liberare. La dissertazione mandata a Milano ottenne il premio; il
che richiamò su lui 1' attenzione del governo della Cisalpina, il
(1) Dissertazione sul problema, quale dei governi liberi meglio con-
venga alla felicità d'Italia, Milano, 1797, ripubbl. in Opere minori,
Voi. IV, pag. 97-311. Vedere spec. pag. 194 e seg.
Il Mazzini {Scritti editi e inediti, Roma, 1881, Voi. l, pag. 82) ricorda
il Gioia per questa dissertazione. < Né credo, egli scrive, che da Melch.
Gioia in fuori, in un libriccino dimenticato, un solo degli scrittori politici
sorti in Italia nel periodo dell'invasione francese contemplasse l'unità
politica della patria comune ^■.
(2) Opere minori, Voi. IV, pag. 100, nota.
— 81 —
quale, tenendo conto anche del carcere patito dal filosofo, gli si
mostrò benevolo. Il Consiglio de' Juniori lo nominò suo Redat-
tore e lo chiamò a Milano (1). Poteva non andare verso la libertà?
Dopo breve esitazione, nel novembre del 1797 partì da Piacenza,
e stabilì la sua dimora nella capitale della Cisalpina. Milano si
destava allora a nuova vita. L' esempio di Francia aveva entusia-
smati anche gì' Italiani, che, vedendo i troni crollare e il popolo
vincere, s' inebriavano delle idee giacobine. Il Gioia si trovò come
in mezzo ad un mare tempestoso; e, simpatizzando con gli agi-
tatori del popolo, si lanciò nel turbine della vita politica. Gettò
r abito talare; fu nominato, da! Corpo legislativo, cittadino per
abilità straordinaria nelle scienze; e, rinunziato al posto di redat-
tore ufficiale del Consiglio de' Juniori, si diede al giornalismo.
Insieme col vicentino Breganze e col Foscolo (2), il 20 gennaio
del 1798, fondò il Monitore italiano, propugnando idee di tolle-
ranza, di libertà, di giustizia e d' umanità (« guerra ai tiranni e
pace ai popoli » era il suo motto) (3). Ma ben presto, al pari
degl* ideologi francesi, provò disillusioni e amarezze. Il governo
di Napoleone non cercava, come prima pareva, di proseguir l'opera
dei rivoluzionari repubblicani; le sue parole ingannatrici erano
smentite dalla brutalità dei fatti: nel proclama di Cherasco aveva
detto: — Peuples d' Italie, nous n' en voulons qu'à vos tyrans --, e poi
trascinava di nuovo i popoli sotto il giogo; che rovesciava dal
(1) Documenti coniprovaiiti la cittadinanza italiana di M. Gioia in
Opere minori, Voi. Ili, pag. 287 e 288.
(2) Il Foscolo, venuto da Venezi.i, chiese ed ottenne a Milano la cit-
tadinanza nella Repubblica Cisalpina. Egli irequentava il Circolo Costi
tuzionale, dove pronunciò vari discorsi (dicembre 1797 e febbraio 1798),
specie sulla necessità d'armarsi. Nel Monitore doveva specialmente com-
pilare le relazioni delle sedute delle .'\ssemb!ee legislative dei Juniori e
dei Seniori, soggiungendo le sue osservazioni. Vedi alcuni suoi articoli
in Opere minori del Gioia, Voi. I, pag. 230 e 262. Cfr. F. Momigliano,
Ugo Foscolo giornalista democratico della Repubblica Cisalpina in
Secolo XX, i" maggio 1918; Le opere di U. Foscolo commentate da F.
DoNADONi, Napoli, Perrella, pag. 13; L. Rava, Ugo Foscolo giornalista
a Milano in Rivista d'Italia, 15 aprile 1920, pag. 381 e seg.
(3) Articoli estratti dal Monitore Italiano in Opere minori, Voi. I,
pag. 171 e seg.
— 82 —
trono i monarchi, e li risollevava con maggior lustro e splendore.
Il Direttorio considerava l' Italia come terra di conquista; voleva
quindi ad ogni costo che fosse approvato un trattato di com-
mercio e d' alleanza fra la repubblica francese e la cisalpina, il
quale esigeva che questa pagasse un tributo annuo di diciotto mi-
lioni di lire, oltre gli straordinari in tempi di guerra; consegnasse
le principali fortezze alla ^ grande nazione >; accogliesse una
guarnigione di venticinque mila soldati francesi; affidasse le sue
forze a generali venuti di Francia; aiutasse, in caso di guerra, la
nazione sorella, senza che questa s' obbligasse a fare altrettanto.
Era un vero patto fra lupo e agnello (1). Tutto ciò riusciva do-
loroso al Gioia e ad altri Italiani, i quali volevano respingere non
l'alleanza, ma < le condizioni ingiuste su cui era poggiata ». < Se
le nostre lagnanze >, scriveva il Gioia, non trovassero un favo-
revole accoglimento, se il Dominio francese stesse fermo sulle
condizioni dell'alleanza, se ricusasse di riconoscere i sacrifici im-
mensi che ha fatto la Repubblica Cisalpina, la gratitudine pro-
fonda a' suoi liberatori, il desiderio sincero d' allearsi con essi a
patti meno gravosi, se in una parola la nostra dipendenza fosse
scritta immutabilmente, ricordiamoci che è meglio morire liberi
che vivere schiavi » (2). Il Alonitore esprimeva le stesse idee, tanto
che il tipografo era riluttante a stampare certe frasi. Giacomo
Breganze, redattore del giornale per le notizie di politica estera,
in un articolo intitolato Cenni politici (N. 14 del giornale) aveva
deplorato gli enormi pesi che gravavano sul popolo, e la man-
canza di milizia nazionale. L'autorità giudiziaria, insospettita, citò
al tribunale lo stampatore (Andrea Mainardi), che ne palesasse
r autore (3). Ma il Breganze già il giorno prima era fuggito a
Roma, con gran dispetto della polizia. Allora il Foscolo, convinto
delle verità enunciate dal Breganze, offre la propria persona, al
capitano di giustizia, in vece del fuggiasco (4). Il Gioia, commen-
tando il fatto, dichiara che il popolo sarà informato di qualunque
attentato « gli scellerati potenti siano per commettere contro
(1) Riflessioni sul trattato di alleanza tra le Repubbliche Cisalpina
e Francese (scritte dal Gioia appunto in tale occasione) in Opere mi
nari, Voi. i, pag, 117. Vedi anche pag. 196. (2) Op. cit., pag. 131.
(3) Opere minori, Voi. 1, pag. 223. (4) Op. cit., pag. 226.
— sa-
la libertà » (1). Conseguenza delle fiere parole del Foscolo e del
Gioia fu la soppressione de! Monitore (13 aprile 1798, numero 42"
del giornale) (2). Ma il Gioia non si piegò; proseguì anzi la lotta
contro le prepotenze e gii abusi, scrivendo una quantità d' opu-
scoli (3). Poi nel nascondiglio in cui s'era rifugiato per timore
di nuova prigionia tracciò il Quadro politico di Milano, in cui
scoprì le piaghe della Repubblica, e, dimostrato che i legislatori
della Cisalpina non avevano prodotto tutto quel bene che ave-
vano promesso, nò avevano prevenuto quei mali che forse non
era difficile prevedere, vagheggiò l' idea d' uno Stato italiano in-
(1) Op. cìL, pag. 224. Dopo la scomparsa del Eleganze, divenne col-
laboratore del giornale (dal N. 27 in poi) P. Custodi.
(2) Op. cit., pag. 253.
(3) Così il Consiglio de' Junior! aveva proposto una legge contro
gli allarmisti (ossia contro coloro che avessero sparse false voci d'al-
larme tendenti a mettere in dubbio la sicurezza della Repubblica e a
seminare timori e diffidenze ne! popolo) per istituire una specie d'in-
quisizione giacobina, che avrebbe cagionato in Italia eccessi simili a
quelli del Terrore francese. 11 Gioia si oppose alla legge nell'opuscolo
Analisi della legge contro gli allarmisti emanata dal Corpo Legisla-
tivo Cisalpino nel 10 ventoso anno 6" repubblicano {Opere minori, Voi. I,
pag. 133 e seg.). Del pari, il risentimento contro il dispotismo religioso,
da cui per tanti secoli era stata oppressa l'Italia, aveva spinto i repub-
blicani a eccessi contro il clero; in mezzo a una tempesta d'ingiurie il
Gioia difese gli oppressi, scrivendo gli opuscoli La causa di Dio e degli
uomini difesa dagV insulti degli empi e dalle pretensioni dei fanatici
{Opere minori. Voi. X) e l frati e le monache - Lettera al Consiglio
de^ Seniori {Opere minori, Voi. II). Ancora: si voleva imporre a tutti
il serviiio militare, vietando che nella coscrizione un giovane (di solito
pagalo) ne sostituisse un altro; gi' inconvenienti gravissimi che deri-
vavano da tale prescrizione spinsero il Gioia a scrivere l'opuscolo:
Utilità e necessità di metter cambi nella coscrizione (che il Gioia cita
in Documenti com.provanti la cittadinanza di M. G., Opere minori,
Voi. MI, pag. 297, pur non ricordandone il titolo, il quale io ho rica
vaio dalla pag. X della prefazione premessa dagli Editori al Voi. XIH
delle Op. min.). Nello slesso perìodo di tempo la divisione de' poteri
minacciando di trarre sul!' Italia le sventure di cui era stata vittima la
Francia >, il Gioia cercò di ristabilire i legami sociali con la riunione
dei poteri {Documenti comprovanti etc. pag. 297-9S). A tal fine scrisse
— 84 —
dipendente da quello francese (1). Né si fermò qui. Il 22 agosto 1798
fondò un nuovo giornale filosofico-critico, // Censore, con cui si
proponeva di dirigere 1' opinione pubblica, la quale in tempi ri-
voluzionari oscilla incerta in mezzo alle nebbie che le offuscano
la verità (2). Ma il nuovo giornale, avendo inveito contro i cam-
biamenti che il Direttorio Trouvé voleva arrecare nella Costitu-
zione della Cisalpina (riduzione del numero dei membri del Corpo
legislativo, soppressione della libertà di stampa etc.) fu proibito
dopo il quarto numero (6 sett. 1798). Per giunta il governo de-
cretò l'esilio del Gioia (16 sett. 1798).
Al Trouvé successero il Brune e il Fouché, che richiamarono
i deputati espulsi, ma confermarono il decreto d' esilio del
Gioia (3). A costoro però successero il Rivaud e il Joubert, che
ristabilirono la costituzione del Trouvé, ma non impedirono al
Gioia il ritorno in Milano. Il Consiglio de' Seniori riformato dal
Rivaud riconobbe il Gioia cittadino della repubblica (4). Onde,
d'accordo col nuovo Direttorio, che aveva annullate le leggi re-
strittive della stampa, egli fondò la Gazzetta nazionale della Ci-
salpina (5). Io comincio un nuovo foglio >, dichiarava nel
primo numero (24 gennaio 1799), " e lo comincio per consiglio
del governo >. <• Diciamolo francamente >, aggiungeva, giacché
la ragione ce ne dà il diritto: lo scaduto Direttorio Cisalpino
l'opuscolo: / poteri chiamati all'ordine {Opere min.,\'o\. \). Infine in
Breve risposta al Proclama del AUnistro della guerra pubblicato nel
27 nevoso anno 7o repubblicano {Opere minori, Voi. I) difese ed elogiò
la Municipalità del Circondario 11 di Milano, la quale era stata con-
dannata dal Ministro della guerra, perchè aveva applaudito al patriot-
tismo d'alcuni ricchi cittadini, che avevano donata una somma da di-
stribuirsi a quei giovani che si facessero iscrivere come volontari nel
corpo di 9000 uomini prescritto dalla legge 11 nevoso.
(1) Opere min., Voi. IH, pag. 85 e seg. Contro il Quadro del Gioia,
Giuseppe Laltanzi, losco figuro, scrisse Analisi e riflessi sull'opuscolo
• Quadro politico di Milano -> di Ai. Gioia (in Opere min. del Gioia,
Voi. Ili, pag. 257 e seg.). Il Gioia rispose con \ Apologia al quadro
politico di Milano e con Cos'è patriottismo? Appendice al quadro
politico di Alitano {Op. min., Voi. Ili, pag. 84-255).
{2) Op. min., Voi. Ili, pag. 5.
(3) Op. min., Voi. I, pag. 46, nota 2. i4; Op. cit.. luogo citato.
(5) Op. min.. Voi. XIII, pag. 172 e seg. Cfr. Voi. Ili, pag. 30.
'A
~ 85 —
coprì d' obbrobrio sé stesso, scacciò dalla Repubblica l' ombra
stessa della libertà, quando vietò ai fogli periodici d' uscire alla
pubblica luce pria di passare la trafila della censura.... Il Diret-
torio presente ha scancellato questi decreti obbrobriosi, ed ha
fatto il suo dovere > (1). Ma anche questo giornale ebbe breve
vita. « Non potendola perdonare ai ladri potenti di cui allora
non v' era scarsezza, > dice il Gioia stesso, « non cessai dallo scre-
ditarli. Essi indussero il Direttorio a levarmi l'associazione dopo
il quarto numero ;^ (2). Iniziò allora un nuovo foglio: // Giornale
fllosofico-poUtico; ma anche questo durò poco più d' un mese
(18 febbr. 1799—4 aprile 1799) (3). A questi dispiaceri se n' ag-
giunse un altro: ai primi d' aprile gli venne in mente di scrivere
una lettera al « cittadino duca di Parma », nella quale, dichia-
randosi commissario straordinario del Direttorio, protestava contro
la prigionia da lui sofferta a Piacenza, e chiedeva otto mila lire
d' indennità (4). A causa di tale lettera fu carcerato ai primi di
aprile, ad istigazione deil' agente parmense presso la Repubblica
Cisalpina e del ministro di Spagna; e invano egli il 21 aprile 1799
chiedeva di potersi difendere. Intanto, mentre Napoleone combat-
teva in Egitto, avanzavano in Italia gli Austro-Russi: i quali en-
trarono in Milano il 28 aprile. Considerando il Gioia come un
cittadino pericoloso e sovvertitore dell'ordine, non lo liberarono,
ma lo mandarono nelle carceri di Piacenza consegnandolo al duca
di Parma. I nuovi invasori commisero atrocità e vessazioni d'ogni
sorta, specie contro i partigiani dei Francesi e contro i democra-
tici in genere (5). 1 quali, senza processo alcuno, erano traspor-
(1) Op. min., Voi. XIIl, pag. 174, ISO e 181.
(2) Documenti comprovanti etc. {Opere min.. Voi. Hi, pag. 300-301).
Veramente il giornale fu soppresso dopo il quinto numero {Op. min..
Voi. Xlli, pag. 273).
(3) Pare che i! Gioia abbia fondati altri giornali, poiché gli editori
delle Op. min. (Voi. XIII, pag. X) dicono di non aver potuto trovare
per la ristampa alcuni scritti del Gioia, per es. il giornale U Amico
della. Libertà e de IV Eguaglianza e il Redattore Italiano.
(4ì L. Ambiveri, .Melchiorre Gioia in Milano, Strenna piacentina,
anno 1891, Piacenza, F. Solari, pag. 70-71.
(5) Tutte le atrocità degli Austro-Russi furono narrate da! Gioia nel-
l'opera / Francesi, i Tedeschi, i Russi in Lombardia {Op. min. Voi. IV),
scritta il 1S05 (vedi Documenti comprovanti etc. pag. 307-398).
— 86 -
tati carichi di catene a Cattare o a Petervaradino. Fu come un
nembo furioso che durò tredici mesi. Molto sofferse il Gioia nella
prigione (1). Ma presto si'riaffacciò sulle Alpi Napoleone, e lanciò
le sue schiere vittoriose nella pianura lombarda. II Gioia fu al-
lora liberato, e potè rientrare in Milano. <■■ Ei ritornò , scrisse
con gioia il filosofo, ;'.... e richiama a nuova e più nobile esi-
stenza la Cisalpina (2).
La seconda Cisalpina fu meno turbolenta della prima. Napo-
leone volle ristabilire non solo la libertà, ma anche 1' ordine; e,
pensando che la religione fosse un mezzo per promuovere la di-
sciplina e r obbedienza allo Stato, volle, com' è noto, riconciliarsi
con l'autorità ecclesiastica. Al Gioia, al quale non erano mai an-
dati a genio gli eccesi degli scapigliati, non dovette sgradire il
nuovo governo. Egli anzi pensò di ottenerne ;in ufficio che gli
procurasse i mezzi per vivere, e gli lasciasse ancora tempo per
studiare: chiese quindi di esser nominato istoriografo della Re-
pubblica Cisalpina, in compenso delia prigionia sofferta per quat-
tordici mesi e mezzo. La domanda fu accolta favorevolmente; ri-
cevette la lettera di nomina dal Ministro dell'Interno il 5 aprile
1801 (3). Ma il Gioia non aveva forse attitudine per la storiografia.
(1) 1 patiinenti sofferti in prigione soii descritti dal Gioia in Pro-
blema politico e civile se sia dovuta ai democratici perseguitati sotto
r interregno tedesco un' indcnnizzazione {Op. min., Voi. I, pag. 43 e seg.).
(2) Ragionamento sui destini della Rep. Cisalpina, in Opere min.,
Voi. I, pag. 273.
(3) Documenti comprovanti etc. {Op. min., Voi. Ili, pag. 288). Attese
durante questo perìodo a parecchi lavori. II trattato di Luneville (9 feb-
braio 1801) ridava la libertà agi' Italiani deportati a Cattaro o altrove
e sopravissuti agli stenti e alle fatiche. Costoro furono accolti con en-
tusiasmo; ma chiesero ben presto pane e lavoro. Della loro sorte ebbe
pensiero il Gioia, che scrisse l'opuscolo: Problema politico e civile se
sia dovuto ai democratici perseguitati sotto t' interregno tedesco un'in-
dennizzazione {Op. min., Voi. 1). Inoltre, secondando l'intento di Napo-
leone di riconciliarsi con la Chiesa, scrisse le Idee sulle opinioni reli-
giose e sul clero cattolico {Op. min.. Voi. X): nel qual lavoro (come in
quell' altro sulla religione, già citato, La religione di Dio e degli iw
mini etc.) il Gioia considera la religione dal punto di vista utilitario,
non curandosi della verità o falsità di essa (la religione è utile alla
società, in quanto raffrena le passioni e impedisce i delitti e le viltà
- 87
Era allora in fiore l' economia politica. Erano scoppiati tumulti
nel 1801 a Modena, a Bologna, nella Valtellina per il rincaro del
pane. Il Gioia scrisse al riguardo il suo primo lavoro d'economia
politica: Sul commercio d^ commestibili e caro prezzo del vitto -
Opera storico-teorico-popolare (2).
Intanto la seconda Cisalpina conduceva a buon punto l'opera
sua di riordinamento. Napoleone primo console ne convocò a
Lione (comizi di Lione) i rappresentanti, che studiassero i mezzi
per ricostituire lo Stato sconvolto da sei anni di guerre e di ri-
voluzioni. Risultato di quei comizi fu la fine del disordine veri-
ficatosi nel primo triennio. Fu proclamata religione dello Stato
la cattolica, benché fossero tollerati gli altri culti; fu posto un
freno alle rapine di certi individui. La « Repubblica Cisalpina »
divenne « Italiana ». Il Gioia vedeva di buon occhio quest'opera
riordinatrice, e aveva stima del Melzi, vice-presidente della Repub-
blica, a cui aveva mandati i suoi ultimi scritti. Si può anzi con-
siderare quale un commento dell' opera del Melzi il lavoro del
Gioia: Ragionamento sui destini della Repubblica Italiana (mag-
gio 1803) (1). Ma un libro sul divorzio {Teoria civile e penale del
per mezzo dell'idea d'una Causa prima che promette premi e minaccia
pene). In questo periodo medesimo scrisse il Nuovo Galateo, rifatto
più volte. La prima edz. è del 1802 (Milano, Pirotta), la seconda del
1820, la terza del 1822, e la quarta (Milano, Pirotta) del 1827 (vedi
Op. min., Voi. XVI). La caratteristica di questo Galateo è d'esser fon-
dato suir utilitarismo, giacche la gentilezza e il garbo che si dimostrano
negli atti della vita civile son considerati non come un cerimoniale di
convenzione (il che si credeva prima), ma come un complesso di precetti
utili alla società (che rendono piacevoli agli altri i nostri atti); onde la
loro connessione con la morale (utilitaria). Contro il Nuovo Galateo
scrisse il Rosmini {Esame delle opinioni di M. Gioia in favor della
moda, e Galateo de* letterati in Opuscoli filosofici, Milano, Pogliani,
1827-28, Voi. n, pag. 99-303) combattendone specialmente i principi uti-
Htarì. Il Rosmini criticò anche le dottrine economiche del Gioia nel
saggio Sulla definizione della ricchezza (pure in Opuscoli fil., Voi. Il,
pag. 305-330). 11 Gioia rispose al Rosmini col libello Risposta agli Ostro-
goti (vedi Rosmini, Op. cit., Voi. 11, pag. 101, nota 2).
(2) Op. min.. Voi. XII.
(1) Op. min., Voi. I, pag. 265 e seg. In quest'opera il Gioia vagheg-
giava, come il Melzi, l' idea che a poco a poco, mediante annessioni,
— 88 —
divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera d' organizzarlo, se-
guita dall'analisi della legge francese 30 ventoso anno XI relativa
allo stesso argomento, Milano, Pirotta e Maspero, 1803) (1), in cui
il filosofo, applicando i principi del Bentham, difendeva il divorzio
(perchè, a conti fatti, esso procura piaceri maggiori del matri-
monio indissolubile o della separazione dei coniugi non ricono-
sciuta dalla legge), fu causa d' attrito fra lui e il governo. Il suo
lavoro fece chiasso; ma giunse a mal punto, giacché, come s' è
visto, si tentava allora di trovare una via di conciliazione con la
Chiesa. Pochi giorni dopo eh' era stato pubblicato il libro, il
16 luglio 1803, giunse al Ministero del culto una lunga lettera,
in cui < un amico della pubblica morale » additava il Gioia come
insultatore della morale e delia religione >. Il Bovara, ministro
del culto, invitò subito il Magistrato di revisione (composto di
tre cittadini che dovevano invigilare sulle produzioni teatrali, sui
periodici nazionali e stranieri e sui libri introdotti dall'estero) a
esaminare il libro del Gioia. I tre revisori mandarono a chiamare
il filosofo, e lo interrogarono su vari punti dei suo scritto. Il
Gioia si difese con vivacità, e scrisse una Alemoria al magistrato
di revisione (2). Questa difesa non andò molto a genio ai revi-
sori, i quali mandarono un responso poco favorevole al Ministro
del culto; cosicché questi propose al Melzi di prendere un severo
provvedimento contro il Gioia; il Melzi infatti lo revocò dall'uf-
ficio d'istoriografo. Siccome però il governo non voleva privarsi
della collaborazione di lui, lo invitava per mezzo del prefetto di
la Repubblica potesse estendersi e abbracciare tutta la penisola (vedi
pag. 276 e 28S).
(1) Op. min., Voi. iX, pag. 1 e seg. Il divorzio era stato approvato
con voto del 10 sett. 1792 dall'Assemblea Legislativa francese. Perciò
il Gioia, credendo che Napoleone avrebbe, nel Codice d' imminente
pubblicazione, applicati gli stessi concetti della Legislativa, pensava di
preparare gli spiriti ad accoglierli con favore e di compiere un atto
d'affezione alla patria, di rispetto alle idee di imperatore e re -. Invece
Napoleone, che parteggiava attivamente alle sedute del Consiglio di
Stato per la redazione del Codice civile, pur ammettendo il divorzio,
ne volle impedire 1' abuso, e animoniva i redattori di non esser troppo
proclivi ai casi d'annullamento di matrimonio.
(2) Op. min., Voi. IX, pag. 261.
— 89 —
Olona ad occuparsi di opere economiche (1803). E così fece il
Gioia: pubblicò infatti la Discussione economica sul dipartimento
d'Olona (1° nov. 1803) e la Discussione economica sul dipartimento
del Lario (giugno 1804) (1).
Napoleone intanto si nominava imperatore; e la Repubblica
italiana diveniva Regno (31 marzo 1805). 11 Gioia forse non si
dolse del mutamento di governo, poiché scrisse una lettera al
viceré Eugenio Beauharnais, indicandogli gli uffici che avrebbe
volentieri assunti (direzione della stamperia, ispezione delle arti e
dei mestieri, statistica di qualche ministero). Ma il governo nel
maggio del 1805 lo nominò impiegato della polizia ! Il Gioia si
trovò male in tale ufficio, e pregò (28 nov. 1805) il principe
Eugenio di liberarlo dall' impiego. Per mezzo del Ministro del-
l' interno (Daniele Felici) ebbe finalmente l' incarico di dirigere
r ufficio di statistica di quel Ministero. La statistica è il carattere
peculiare delle opere del Gioia; si direbbe ch'egli senta la neces-
sità di esprimere il suo pensiero statisticamente, credendo d'aver,
così, raggiunta la precisione matematica. Egli presenta tabelle,
cifre, quadri sinottici anche là dove questi non paiono necessari
né opportuni. Sicché \n quell'ufficio si trovò benissimo (2). Il 1806
il Moscati, direttore generale della pubblica istruzione, propose
il Gioia come professore- d' economia all' Università di Padova;
ma si oppose il viceré Eugenio, ritenendo più utile la sua atti-
vità a Milano (3).
(1) Op. min., Voi. XIV e XV.
(2) Oltre che di statistica però il Gioia in questo periodo si occupò,
forse per rendersi gradito al governo, anche di politica, nelle operette:
Cenni morali e politici sali' Inghilterra estratti dagli scrittori inglesi
{Op. min., Voi. V, pag. 1 e seg.), in cui si scaglia contro l'Inghilterra,
la nemica implacabile di Napoleone; / Francesi, i Tedeschi e i Russi
in Lombardia (già ricordata), il Manifesto di S. M. Prussiana contro
lo Francia, pubblicato sul finire del 1806 {Op. min., Voi. II, pag. 155
e seg.), in cui confuta il manifesto con cui il Re di Prussia Federico
Guglielmo II da Erfuhrt, il 9 ott. 1806, avendo deciso - d'alzar lo scudo
di guerra >, giustificava la propria condotta contro Napoleone. Forse
dello stesso periodo è la tragedia La Giulia ossia /' interregno della
Cisalpina {Op. min., Voi. V).
(3) Documenti comprovanti etc. pag. 290,
QO
Nel 1807 fu inaugurato l'ufficio di statistica, e il ministro del-
l' interno Arborio di Brerne ne nominò capo il Gioia (1). Questi
si diede all' opera con ardore; e non si limitò a catalogare i dati;
volle anche dare la teoria della statistica. Preparò modelli di ta-
vole da distribuirsi alle autorità locali, perchè fossero riempite.
Quando tutto il materiale fu pronto, egli espose il metodo e i
criteri seguiti nel raccogliere i dati. Nel marzo del 1808 vennero,
così, fuori, dedicate al viceré Eugenio, le Tavole statistiche, ossia
norme per descrivere, calcolare, classificare tutti gli oggetti d'am-
ministrazione privata e pubblica (2). Tale opera fu elogiata da una
commissione di sette competenti, scelti dal ministro Arborio di
Breme (3): la quale tuttavia notò « qualche eccesso in alcune
parti, qualche mancanza in altre ». 11 Gioia non tollerò queste
osservazioni, e scrisse una Risposta alle obbiezioni fatte alle Ta-
vole statisi ic/w (4).
Contro il Gioia sorse allora Giovanni Tamassia, già vicepre-
fetto di Lecco e fungente allora da segretario generale del Ministro
dell'interno: il quale nell'opuscolo // fine delle statistiche (5) rim-
proverò al Gioia d' aver allargato troppo il campo della nuova
scienza, infarcendola di elementi eterogenei. Il Gioia rispose con
r Indole, estensione e vantaggi della statistica (6). L' altro ribattè
(1) Op. cit., pag. 290-291.
(2) Op. Min., Voi. Vili, pag. 1 e seg. Già prima di pubblicare
le Tavole statistiche, il Gioia (il 4 giugno 1307) aveva presentato al
Di Breme il prospetto d'un' opera che doveva avere il titolo: Sistema
teorico-pratico di amministrazione privata e pubblica. Ma questo lavoro
fu pubblicato più tardi (1815) col titolo: Nuovo prospetto delie scienze
economiche. Nel sett. 1808 il Gioia pubblicò la Logica statistica, la
quale poi, rifusa e ampliata, doveva divenire gli Elementi di filosofia
ivedi Documenti comprovanti etc. pag. 293).
(3) Documenti etc, pag. 291 e 292.
(4) Op. Min., Voi. Vili, pag. 297
(5) È ristampato nel Voi. VII delle Op. Min. del Gioia.
(6) Op. Min., Voi. VII. In quest' opera il Gioia definisce la statistica
in senso ampio: ^ la scienza che descrive un paese in modo da presen-
tare i vantaggi e i danni di ciascun oggetto, per norma di tutti i cit-
tadini, di ciascuna professione, del Governo, degli esteri ^ (pag. 68).
La quale è dunque una specie di logica, che va descrivendo tutti gli
— 91 —
con la Risposta del signor Tamassia alle obiezioni fatte al suo
opuscolo « Del fine delle statistiche > e premessa alla seconda edi-
zione dello stesso (1), e, ancora, con Y Esame della confutazione
del fine delle statistiche (2). La polemica andò, così, a mano a
mano inasprendosi, cagionando dispiaceri e guai al nostro filo-
sofo. Era neir ufficio di statistica un impiegato non solo inetto,
ma anche disonesto: il cavaliere Freddy, che il Gioia chiama
<i spia austriaca e ladro (3). Il Gioia tollerava a malincuore
questo figaro; e più d'una volta aveva insistito presso il Di Breme
perchè ne fosse liberato! Alla fine, non potendone più, chiese per
iscritto ai Alinistro dell' interno che il Freddy fosse allontanato.
Ma costui godeva protezioni e favori nelle alte sfere. Inoltre il
modo di scrivere del Gioia urtò il Di Breme, il quale con un
decreto fulmineo gii tolse la carica di Capo-ufficio della stati-
stica (4). Allora il Gioia, per sfogare il suo risentimento, scrisse
La scienza del povero diavolo (5), una specie di romanzo satirico
simile a quelli di Voltaire {Zadig, Candido etc.) (6), che finse ira-
dotto dall' arabo e in cui sferzò con 1' arma del ridicolo i suoi
oppositori nella statistica, specie, s' intende, il Tamassia, e gli
alti funzionari (anche il Melzi) che l'avevano privato o avevano
oggetti d' una nazione dal lato in cui possono essere utili o dannosi
(pag. 71-72); e i suoi fini son tanti, quante sono le diverse classi di
persone cui può servire, o, in altri termini, quanti sono i vantaggi che
può produrre (pag. 73). Dire quindi (come faceva il Tamassia) che
l'unico scopo che possa ragionevolmente prefiggersi la statistica sia dì
dare notizie utili al Governo soltanto, è dire che l'unico uso, cui può
servire il frumento si è la fabbrica di maccheroni! (pag. 73).
(1) Op. Min. del Gioia, pag. 37 e seg."
(2) Op. Min. del Gioia, pag. 187 e seg.
(ì) Riflessioni relative aW opuscolo » La scienza del povero dia-
volo s in Op. Min., Voi. Il, pag. 114, nota 1.
(4) Lettera intorno alla signora B. Milesi in Op. Min., Voi. V,
pag. 384.
(5) Op. Min., Voi. II, pag. 1 e seg.
(6) Probabilmente il titolo stesso dell'opera è tolta dal Le pauvre
diable di Voltaire (Oeuvres citate, Tome XIX, pag. 152). Ma il concetto
del lavoro il Gioia dice d' averlo tratto dall' opera inglese Conversa-
zioni di Londra (Op. Min., Voi. II, pag. 122).
— 92 —
cooperato a privarlo dell' impiego (1). Siccome un decreto napo-
leonico del 17 luglio 1806 impediva di pubblicare scritti che of-
fendessero le leggi, la religione, il costume e 1' onore altrui, il
governo ordinò subito di sequestrare l'opuscolo. 11 Gioia protestò
e si difese con le Riflessioni relative all'opuscolo <- La scienza del
povero diavolo ^ (2); ma nulla ottenne. Il prefetto di polizia, il
quale aveva subodorato che la satira mirava a colpire anche il
Ministro dell'Interno, sottopose ad un interrogatorio il Gioia. Il
conte di Breme in un rapporto al viceré Eugenio chiedeva l'ar-
resto e l'esilio del filosofo, accusandolo d'avere col suo romanzo
denigrata la fama di alcuni funzionari pubblici. 11 viceré si limitò
a decretarne 1' espulsione dal regno, qualora il Gioia non fosse
suddito italiano. Il Di Breme subito (il 3 agosto) intimò al Gioia
d'uscire dal Regno. Ma lo scrittore che, come abbiamo visto, era
stato per i suoi meriti scientifici nominato cittadino dal Corpo
legislativo, chiese un po' di tempo per raccogliere i documenti
comprovanti il suo diritto alla cittadinanza italiana. Gli furono
concesse, a tre riprese, tre settimane di dilazione. 11 Gioia riuscì
a raccogliere varie prove, e scrisse i Documenti comprovanti la
cittadinanza italiana di Melchiorre Gioia (3). Ma i suoi argomenti
non impedirono l'esecuzione del decreto; cosicché il 31 agosto
egli dovette andare in esilio a Castel S. Giovanni: è facile im-
maginare con quanto dispiacere. Quando il 10 ottobre 1809 il
Vaccari successe al Di Breme nel Ministero dell'interno, il Gioia
sperò in lui; gli mandò anzi una memoria in cui dimostrava la
illegalità dell'accusa e della condanna (4). Ricorse anche al viceré.
Ma tutto fu vano. Dopo un anno d'esilio scrisse al Ministro per
(1) Infatti il povero diavolo è il Tamassia; il primo mago, l' abate
Carlo Amoretti; il secondo mago, il padre Pino domenicano; il terzo
mago, il padre Pino barnabita, fratello del su detto; il primo ufficiale
dei consiglio del Bascià, il conte di Breme; il secondo ufficiale, il conte
Melzi; il Bascià, il viceré Eugenio; lo Scheriff, il Gioia stesso.
(2) 0/7. Min., Voi. II, pag. Q3 e seg.
(3) Op. Min., Voi. HI.
(4) Promemoria intorno alla condotta dell'ex-ministro Arborio Breme
relativamente al motivo di esecuzione dell' esilio di Al. Gioia (1810).
Vedi Lettere inedite di illustri italiani pubblicate e commentate dai
prof. F. Berlan, Milano, Qareffi, 1866, pag. 12.
- 93 -
ottenere almeno un breve soggiorno a Milano, acciocché potesse
provvedere ai suoi affari privati e prender carte e volumi. Nessuna
risposta. Solo sul finire del 1811 il Vaccari, che intendeva giovarsi
degli uomini d' ingegno a vantaggio dello Stato, convinto della ne-
cessità di preparare una fedele statistica del regno, gli abbreviò
r esilio, lo richiamò a Milano, affidandogli la compilazione delle
statistiche dei dipartimenti. Il Ministro però ritenne che tale lavoro
sarebbe stato eseguito meglio da un privato intelligente, zelante
e coscenzioso, che verificasse le notizie direttamente nei vari
luoghi, anziché dal Ministero stesso: il quale di solito incontra
ostacoli e ritrosia negli abitanti, che temono future gravezze, e
nei municipi, che di solito non hanno impiegati pratici e dili-
genti. Perciò il Gioia fu considerato non come un ufficiale am-
ministrativo, ma (giacche erano necessarie molte spese per i lavori)
come un privato sovvenuto da! governo con quattromila e cin-
quecento lire per ciascun dipartimento (aprile 1812) (1). Egli at-
tese con zelo all'opera sua, avendo per norma le Tavole generali
pubblicate nel 1807; condusse a termine i lavori di sei diparti-
menti; degli altri restano i manoscritti. Lavorava nella quiete
del suo studio, quando, nell'aprile del 1814, avvenne il crollo del
regno d'Italia. Anche in quel tempo il Gioia ebbe a lagnarsi del
modo in cui fu trattato; onde scrisse (4 giugno 1814) un ricorso
Alla reggenza provvisoria del Regno d' Italia (2), costituitasi dopo
i tumulti che eran terminati con l'assassinio del Prina. Si ritirò
poi a vita privata, attendendo a numerosi lavori, specialmente
d'economia politica, d'etica sociale e d'ideologia. La scienza delle
ricchezze aveva avuto incremento e diffusione in Italia per opera
del barone Pietro Custodi, a cui, come sappiamo, è dovuta la
Raccolta de' classici economisti italiani. Questo prezioso patri-
monio scientifico tramandato dagli antenati fu di grande aiuto
al Gioia; cosicché egli potè condurre a termine un'opera impor-
tantissima, che da parecchi anni meditava e che gli procacciò
giustamente il titolo di restauratore delle dottrine economiche in
(.1) Vedi Op. Min., Voi. II, pag. 128.
(2) Op. Min., Voi. Il, pag. 125 e seg. 11 Gioia deplora specialmente
che non gli volevano restituire i suoi manoscritti, col pretesto eh' egli
avesse voluto bruciarli.
— 94 —
Italia: il Nuovo Prospetto delle scienze economiche, ossia Somma
totale delle idee teoriche e pratiche in ogni ramo d'amministrazione
privata e pubblica (Milano, 1815-1819). A questa ne fece seguire
altre, pure notevoli, su argomenti affini (1); ma, come dice il
Romagnosi, egli <■'■ si procacciò una gloria tutta sua propria » con
l'opera (da lui chiamata sua figlia prediletta >) Del merito e delle
ricompense - Trattato storico e filosofico (Milano, 1818-19). Di so-
lito infatti era stato considerato e svolto (dal Beccaria per es.) il
problema dei delitti e delle pene. Solo qualcuno aveva toccato
l'argomento scelto dal Gioia (2); questi però ne diede la tratta-
zione più ampia (3).
(1) Sulle manifatture nazionali e tariffe daziarie - Discorso popo-
lare (Milano, Pirotta, 1819; Op. Min., Voi. XI); Problema quali sono
i mezzi più spediti, piìi efficaci, piìi economici per alleviare l'attuale
miseria del popolo in Europa - Discorso popolare (Milano, Silvestri,
18 17; Op. Min., Voi. IX e X); Quadro ossia sinossi delle scienze eco-
nomiche e statistiche in Italia dal 1S21 a tutto il 1825 (Biblioteca
Italiana, 1826; Op. Min., Voi. Xlll); Riflessioni sul trattato di economia
politica del Professore B languì (Paris, 1S26J e sul Catechismo d'eco-
nomia politica di G. B. Say (Paris, 1826) in Op. Min., Voi. VI e VII;
InfluenrM della carestia nel numero degli esposti, degli ammalati e
dei morti (Op. Min., Voi. VI), in queste opere il Gioia tendeva a con-
trapporre aiìa scuola liberista degli economisti francesi, inglesi e tedeschi
una scuola italiana, la quale, riconnettendosi al Genovesi, riconosceva
necessaria l'azione del Governo con dazi e proibizioni giovevoli air
manifatture nazionali. Cfr. Cossa, Op. cit., pag. 5(X\
(2) Nel 1765 Giacinto Dragonetti aveva pubblicato lo scritto Delle
virtù e dei premi; ma, osserva ii Gioia, quest' opuscolo è piuttosto un
desiderio che un trattato. Dopo il Dragonetti. Diderot aveva scrìtto
l'Essai sur le morite et la vcrtu, guazzabuglio metafisico che, secondo
il Gioia, non aggiunse nessun raggio di luce all'opuscolo dell'avvocato
napoletano (l'opera del Diderot e, come sappiamo, un rifacimento
dell' Inquiry dello Shaftesbury; ma pare che il Gioia non lo sapesse).
Nel 1811 poi il Bentham alla teoria delle pene aveva unito quella
delle ricompense, ma con risultato poco sodisfacente, secondo il Gioia;
giacché seguendo ed ampliando le idee dello scrittore italiano, senza
citarlo, lo scrittore inglese esaminò la trentesima parte dell'argomento
e v' iimestò vari errori (Del merito e delle ricom., 2* Ed. Lugano,
Raggia, 1830, Prefaz.).
(3) Il risultato a cui giunge è che son considerate come somma-
,<»;
■^
■''t
— 95 —
Dalle scienze sociali il Gioia passò all' ideologia; e nello scri-
vere opere filosofiche si rivolse ai giovanetti, conducendoli quasi
per mano, in mezzo ad una molteplicità ricchissima di fatti, di
esempi, d'esperienze, e, insegnando loro, con uno stile chiaro,
semplice, piano, ad osservare e analizzare direttamente i fenomeni
del mondo esterno e di quello interiore, senza perdersi mai in
sottigliezze e astrazioni nebulose. Vennero, così, fuori gli Elementi
di filosofia ad uso delle scuole (Milano, Pirotta, 1818), e V Ideologia
(Milano, Pirotta, 1822), a cui seguì V Esercizio logico sugli errori
d' Ideologia e Zoologia, ossia arte di trar profitto dai cattivi libri
(Milano, Pirotta, 1824).
Si occupò anche di materia legale, e nel settembre del 1821
pubblicò il libro Dell' ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e re-
lative basi di stima innanzi ai Tribunali civili {Milano, Pirotta, 1821).
A questi lavori assai importanti s' aggiungano una quantità
di recensioni e d'articoli, che scrisse specialmente nella Biblioteca
italiana e negli Annali Universali di Statistica (1). La sua attività
era veram.ente prodigiosa. Studiava sedici e più ore al giorno;
passava le notti vegliando; non conversava che con pochi amici;
viveva « co' suoi pensieri ■■>. Un avvenimento però venne ad an-
gustiarlo e a strapparlo dal lavoro: l'arresto per sospetto di co-
spirazione patriottica a danno dell'Austria. È noto che fra il 1815
e il '21 vi fu nel Lombardo-Veneto un intenso lavorio da parte
dei liberali e dei carbonari, per infrangere il giogo straniero. I!
mente meritevoli, cioè degne della stima universale quelle azioni che
riuniscono questi caratteri: 1° difficoltà vinta; 2" utilità prodotta; 3" fine
disinteressato; 4" convenienza sociale. L'opera esamina specialmente
questi quattro punti.
(1) Vedine i principali in Op. Min., Voi. VI e VII. In uno dì questi
(Riflessioni suli' opera di Bonstetten, /' homme du Midi et /' homme
da Nord; Voi. VI) il Gioia confuta l'asserzione del Bonstetten che
nel mezzodì, ossia nei paesi di qua dalle Alpi, a causa della varietà e
vivacità della natura e delle impressioni, deve primeggiare la facoltà
di sentire e l' immaginazione, nel Nord invece la facoltà di pensare e
la riflessione. In un altro (Voi. VI) confuta l'asserzione di G. B. Say
(in Traile d' economie politlque) che è difficile raccogliere notizie sta-
tistiche esatte e, anche quando si son raccolte, non son vere che per
un istante.
— 96 -
Gioia, che aveva sempre lottato per la giustizia e la libertà, non
poteva, almeno spiritualrnente, restare estraneo a quel movimento
di generosi e audaci pensatori. Egli frequentava la casa del conte
Luigi Porro-Lambertenghi, centro di propaganda patriottica, e fu
del cenacolo dei collaboratori del periodico // Conciliatore. Perciò
era sorvegliato dalla polizia e dalla censura austriaca, che man-
dava a Vienna i suoi volumi, perchè vi fossero esaminati. Lo Sten-
dhal nel 1816 scriveva che il Gioia era ogni giorno minacciato
di prigione (1). Fu il Gioia fra i cospiratori? Non abbiamo prove
positive al riguardo. Fatto sta però che nella lettera affidata dal
Maroncelli a! sarto Pirotti, la quale fu la causa occasionale del
famoso processo Pellico-Maroncelli, il Gioia era nominato, insieme
col Romagnosi e altri, come, partecipe del movimento patriot-
tico (2). Il Pellico e il Maroncelli furono carcerati nell' ottobre
del 1820. Il 20 dicembre dello stesso anno fu arrestato il Gioia e
detenuto nelle prigioni di S. Margherita (3). Egli era accusato di
carteggio politico con Roma e lo Stato pontificio; ma, esaminate
tutte le sue carte, risultò che egli carteggiava mercantilmente (4)
con tutte le città d' Italia, eccettuata Roma e le altre città della
Romagna; non si trovò una sola lettera diretta a Roma o prove-
niente da essa, né del 182Q, ne degli anni anteriori (5). L'attuario
Bolza, esaminando le carte ripeteva: Per Dio, non trovo niente! »;
(1) Rome, Naples et Florence, pag. 47.
(2) Luzio, // processo Pellico-Maroncelli, Milano, Cogliati, 190J,
Appendice VII.
(3) Lettera intorno olia signora Bianca Milesi (Op. Min.. Voi. V,
pag. 308).
(4) Questo mercantilmente non ricorda i simboli di vendita, spera
lazioni commerciali, manifatture ci' industria nazionale etc, che usa
vano i carbonari?
(5) Riguardo alla diffusione della carboneria nello Stato pontificio,
vedi D'Ancona, F. Confalonieri, Milano, Treves, 1898, pag. 310-311;
LuziO, Op. cit., pag. 45 e seg., 56, 68, 104-105, 150-131, 217; G. Ban
DINI, Giornali e scritti politici clandestini della carboneria romagnola
(IS19-1821), Roma, Albrighi, Segati e C, 1908; / Carbonari dello Stato
pontificio ricercati dalle inquisizioni austriache nel Regno Lombardo-
Veneto (1817-1825) Documenti inediti pubblicati dal prof. A. Pie
RANTONi, Roma, Albrighi, Segati e C. 1910.
— 97 —
non potendosi, così, fondare su documenti tangibili, cercò d'ap-
pigliarsi alle idee politiche del filosofo. < Accusato dispensieri
liberali >, narra il Gioia stesso, ; io risposi che pensai sempre
liberamente, e che non rinuncierei a questo modo di pensare al-
lorché fossi messo in libertà >. Ma tale confessione non era suf-
ficiente per una condanna. Per mancanza di prove non fu quindi
punito; anzi, dopo le deposizioni di tre medici intorno allo stato
della sua salute e dopo una petizione al governatore del regno
gli fu, un mese e mezzo dopo l'arresto, concesso di passeggiare
in carrozza in compagnia di due attuari. Verso la fine di marzo
(1821) ottenne il permesso di scrivere al ministro della polizia e
ali' arci-cancelliere dell'impero austriaco, e dirigere a ciascuno di
essi l'estratto del processo e la sua apologia. Finalmente il
10 luglio 1821 fu liberato (1).
In questo processo ebbe qualche parte Bianca Milesi. Costei,
letterata (2) e pittrice,' andava per le vie di Milano jDortando a
tracolla in una borsa V Essay del Locke. Il suo salotto al tempo
di Napoleone era stato il ritrovo di tutti coloro che volevano fi-
nn-la con i Francesi; sotto l'Austria fu uno dei centri dei carbo-
nari (3). Giardiniera nelle società segrete, disegnò la figura alle-
gorica della bandiera del battaglione .Minerva, formato in Piemonte
da studenti nei moti del '21, e, come Matilde Dembowsky, Ca-
milla Fé ed altre, insegnava ai cospiratori la maniera di comu-
nicarsi notizie in segreto per mezzo di carte <■ stratagliate > (4).
Melchiorre Gioia, quando fu chiuso in carcere, affidò a lei i suoi
affari. La Milesi andava spesso a trovarlo, portandogli frutta e
piccoli utensili, che, nel suo stato d' isolamento, gli erano molto
giovevoli; anzi in un certo periodo di tempo, certo perché era so-
spettata di trame politiche, le fu proibito dalla polizia di visitare
il filosofo; le altre volte poteva vederlo solo alla presenza "degli
attuari. Uscito di prigione, il Gioia volle dimostrare la sua rico-
(1) Lettera intorno' alla aignora B. Milesi, pag. 308-312. Nell'opera
citata del LuzJO non è parola di questo processo del Gioia.
(2) Vedine le opere in D'Ancona, Op. cit., pag. 234-35.
^;3) R. Barbiera, // salotto della contessa Maffei e Camillo Cavour,
6» ed., Milano, Baldini Castoldi, 1901, Gap. Ili, pag. 42-43.
i4i D'Ancona, Op. cit., pag. 234.
— 98 —
noscenza alla signora mandandole diciotto volumi delle sue opere
con dediche, facendo eseguire una sinfonia, di notte, sotto le fi-
nestre di lei (in compenso delle veglie che il dispiacere di saperlo
in carcere le aveva dovute cagionare) etc. Ma poi si guastarono,
sia perchè il Gioia, un po' rude (I) e dedito tutto agli studi, non
faceva visite frequenti alla Milesi, mentre ella ne desiderava molte,
sia perchè il filosofo aveva nelle sue opere pronunciato un aspro
giudizio (2) intorno all'opera Sali' utilità del dolore di un signor
M., forestiero e medico, amico della Milesi (che il D'Ancona sup-
pone sia il dottor Mojon, il quale poco dopo sposò la Milesi) (3).
S' impigliarono, così, in un viluppo di pettegolezzi ridicoli, fino
a che la Signora troncò ogni relazione non ricevendo più in casa
sua il filosofo, e rimandandogli i volumi già ricevuti in dono, ai
quali però tagliò con le forbici ciascuna parte dei frontespizi su
cui si leggevano le proteste di stima, d'amicizia e di riconoscenza
verso di lei scritte dal Gioia di proprio pugno (4).
Nei mesi che il Gioia fu in carcere si trovò pure impicciato in
una lunga causa, che s'era tirata addosso comprando da una società
una miniera di carbon fossile in Leffe (delegazione di Bergamo),
la quale non dava nessun utile, anzi era oltremodo passiva (5).
(1) li Sacchi dice che il Gioia sfuggiva ogni blandizie d'ossequi.
(2) Si legge n&W Ideologia (Tomo H, Parte VI, Gap. Ili, pag. 13):
* Tra { grossi e in mille modi nocivi errori che si trovano in una dis-
sertazione Suir utilità del dolore, ristampato a Milano nel 1821, si
scorge anche il seguente: La natura die assai piti vita al dolore che
non al piacere; questo, portato all' eccesso, può produrre dolore e
morte, quello non mai. La storia e gli scrittori di fisiologia e patologia
dicono il contrario '.
(3) D'Ancona Op. cit., pag. 234-235, noia. Tra le opere del Mojon
però (Grande llncyclopédie, art. Mojon) non è ricordata la disserta-
zione sull'utilità del dolore.
(4) Tutto questo è narrato dal Gioia nella Lettera alla signora B.
Milesi, che reca la data: 7 marzo 1822, Ginevra. È da vero pedante-
lutto l'arido calcolo che il Gioia, in base ai principi dell'utilitarismo
applicato in Del merito e delle ricompense, fa dei benefici e favori ri-
cevuti e di quelli resi alla Milesi. Povera Signora, come vedeva sciu-
pati i suoi sentimenti nelle tabelle del filosofo!
(5) Vedi Riassunto de' gravami opposti alla sentenza del 27 feb. 1S21
dell'/. R. Tribunale di prima istanza civile di Milano in punto di se-
_ 99 _
Tolti questi avvenimenti, la sua vita continuò a scorrere calma
e serena, tra i libri e le pareti domestiche. L' ultima sua opera
fu la Filosofia della statistica (Milano, Pirotta, 1826): la quale egli
condusse a termine mentre era straziato da una fiera malattia
della vescica. Pensava ancora di scrivere altre opere (1), quando,
sul finire del 1828, il male, da prima non molto minaccioso, si
manifestò con sintomi gravi. 11 filosofo cadde in uno stato di
consunzione, durante il quale patì gli spasimi piìi acerbi con
stoica rassegnazione; fino a che s' immerse nel profondo sonno
di morte il 2 di gennaio dell' anno 1829.
IL METODO. — In nessun filosofo forse l'ideologia assume,
come nel Gioia, quel carattere di psicologia descrittiva già da noi
indicato. Nel che egli è più coerente dei pensatori francesi. Se,
infatti, l'ideologia deve prescindere da ogni questione metafisica,
V se non è dato all' uomo di ficcar gli occhi della mente entro
all' essenza delle cose » (2), perchè cercare ancora di risolvere
certi problemi, come quello della natura delle facoltà dell'anima,
o quello agitato per es. dal Laromiguière nelle sue Legons de phi-
losophie, cioè se un essere sensibile sa di esistere all'istante in
questro, e Gravami contro la sentenza dell' l. R. Tribnnnlc di prima
istanza civile in Milano del 2 seti. 1823 in Op. Min., Voi. XI.
(1) Nelle Op. Min. è per es. stampata una Filosofia morale (Fram-
menti inediti), importante, degli Avvisi ad un confessore e molte recen-
sioni scritte neofli ultimi anni. Furono dal Gioia lasciati dei manoscritti
al dott. Gherardini; essi comprendevano: 1" materiali per la compila-
zione della statistica dei vari dipartimenti del Regno italico; 2° confronti
storici; 3* elementi di geografia filosofica; 4" giurisprudenza criminale;
5" miscellanea di pensieri, note, memorie etc; 6" schede (spoglio di
libri che il Gioia andava leggendo); 7" storia ecclesiastica; S° economia
pubblica e privata; 9" progetti sopra le sete e gli zuccheri; 10» due tra-
gedie in versi, tratte dalla storia romana. Vedi Romagnosi, Op. cit.,
pag. 868. Delle opere pubblicate postume ricorderemo (oltre quelle
stampate nelle Opere Minori): Applicazioni delle teorie economiche
alla stima dei fondi (Firenze, Garinei, 1839); Caligola - Abbozzo di
ana tragedia, pubbl. da L. Fovel (Milano, Bortolotti, 1878); Memoria
postuma SII ir organizzazione dei Teatri Nazionali (Milano, Pirotta, 1878).
(2) Elementi di filosofia, Prefaz., pag. 3 (Milano, Pirotta, 1838).
— 100 —
cui prova una prima sensazione > ? « Vogliosi gì' ideologisti di
scoprire le cause ;\ scrive il Gioia, < trascurano di sviluppare gli
effetti e di additarci quelle particolarità che sole possono farci
conoscere gì' indiyidui con cui dobbiamo trattare giornalmente.
È falso il seguente principio di Laromiguière: On ne peut bien
connottre les effets quand leurs causes sont inconmies. Benché non
conosciamo la causa dei fenomeni magnetici, pure questi ci sono
perfettamente noti e servono a condurci nell' immensità del-
l' Oceano. Basterebbero gli occhi per ravvisare il color nero de'
mori e le sue gradazioni, quand' anche ci fosse ignota la causa
da cui provengono. Non erano forse noti i fenomeni del flusso
e riflusso del mare, pria che gli astronomi ne additassero la causa
nell'azione del sole e delia luna? Se ammettiamo il principio che
non si possono ben conoscere gli effetti quando ne sono ignote
le cause, noi consumeremo in speculazioni quel tempo che è do-
vuto all' osservazione, e lascieremo di studiare i fenomeni dello
spirito umano, perchè ignoriamo come lo spirito agisca sul corpo,
e il corpo sullo spirito, come molte idee possano combinarsi si-
multaneamente in un ente semplice, o come da molti moti del
cervello possa risultare l'unità del pensiero » (1).
Così, per es., aggiunge il Gioia, il De Tracy nella sua Logique,
con 761 pagine, dimostra semplicemente che giudicare è sentire.
Invano vi cercheremmo le regole che ci preservino dalle illusioni
dei sensi, dalle distrazioni, dall'infedeltà della memoria, dall'av-
ventatezza nei giudizi, dagli errori nel raziocinio. Invano si do-
manderebbe all'autore come si debbano dirigere le osservazioni,
istituire gli esperimenti, scoprire le cause, vagliare le testimo-
nianze, riconoscere i sofismi delle passioni etc. L' autore si limita
a ripetere che giudicare è sentire. Ma cosa si direbbe d'un maestro
di ballo, il quale, ripetendo ai suoi scolari che il ballo è un mo-
vimento piacevole e regolare delle gambe e della persona, non
scendesse a ulteriori particolari? Cosasi direbbe d'un professore
d' agronomia, il quale si limitasse a dire che i vegetali sono svi-
luppi del seme, senza indicare le regole per coltivarli ? (2)
(1) Ideologia (Milano, Pirolta, 1822), Voi. 1, Pref., pag. VI-VII. Cfr.
Opere Minori, Voi. VI (Lugano, Raggia, 1834), pag. 299.
(2) Eìein. di fil., Pref., pag. 15. Cfr. Op. Min., Voi. VII, pag. 404.
— 101 —
Del pari, gli sforzi di molti ideologi si riducono a dirci che
le facoltà dell'anima sono due o tre, cinque o sei. In questo stato
di vaga e astratta generalità le opere d' ideologia sono perfetta-
mente inutili. Quale vantaggio trarremmo da un trattato di me-
tallurgia nel quale l' autore si limitasse a ripetere in diversi modi
che i metalli son corpi a tre dimensioni? Con la scorta di questa
vaga conoscenza potrò io indovinare le qualità particolari di cia-
scun metallo? Se non scendete a spiegarmi la loro rispettiva du-
rezza, il loro peso specifico, i gradi della loro fusibilità ecc.,
riuscirò io mai a far uso opportuno del ferro piuttosto che del
piombo, o a distinguere il mercurio dal platino? (1) Tutte queste
quistioni, dice il Gioia, sono da trascurarsi. L' essenziale è osser-
vare i fenomeni interni e stabilire le loro leggi, per trarne del-
l'utile (2). « 11 lettore >, egli conclude, « s'accorgerà ch'io non
dico una sola parola sulla natura dell' anima, giacché protesto
francamente di non conoscerla: mi liniiio ad osservare gli effetti
che dalla sua azione risultano, come i naturalisti si limitano ad
osservare i fenomeni della calamita senza decidere cosa ella sia » (3).
IDEOLOGIA. — Le impressioni che ci son trasmesse dai sensi
comprendono 'di solito due elementi: l'uno che ci arreca piacere
o dolore, l'altro che ci indica le qualità caratteristiche degli og-
(1) Ideologia, Pref. pag. V-VI.
(2) La definizione che dà della filosofia è: « la scienza che e' insegna a
conoscere le qualità delle cose e le nostre facoltà, affine di procacciare
il massimo-vantaggio a noi stessi e agli altri » {Eleni. diflL, Pref., pag. 9).
(3) Ideologia, Pref., pag. X. Cfr. Ideologia, Parte V, Gap. I, § 1;
Idee sulle opinioni religiose e sul clero cattolico. Parte I, Gap. I (pag.
12-13_,del Voi. X, delle Op. Min.); Esercizio logico sagli errori d^ ideo-
logia e zoologia, ossia arte di trar profitto dai cattivi libri (Milano,
Pirotta, 1824), pag. 64, nota 2. Nel raccogliere le osservazioni è molto
utile secondo irOioia la statistica, ch'egli chiama ^ logica descrittiva >>
{Filosofia della statistica, Milano, Pirotta, 1826, Tomo I, pag. HI), in
quanto che essa è « l'arte di descrivere tutti gli oggetti in ragione
delle loro qualità'». Le tavole statistiche poi son la base per la formula-
zione di leggi generali.
— 102 —
getti che Io producono. La luce per es., oltre ad arrecarci piacere,
ci fa conoscere la figura del sole da cui emana. Nella maggior
parte dei casi questi due elementi sono uniti, ma in proporzioni
differenti; in molti altri sono isolati; alle volte poi l' uno di essi
predomina tanto da assorbire interamente l'altro; il che ci per-
mette di concepire sensazioni indifferenti, hi ogni caso non è
possibile confondere il piacere e il dolore con l' immagine del-
l'oggetto che li produce, per es. la soave fragranza del garofano
col colore e con la forma delle sue foglie. Tutte le impressioni
si possono dunque distinguere in due serie: la prima comprende
i piaceri e i dolori, e si può caratterizzare con la parola sen-
timenti >■ ; la seconda, le immagini degli oggetti, e si può indicare
con la parola idee (1).
Tanto dei sentimenti quanto delle idee possiamo determinare
e V origine e le leggi.
Esaminiamone prima V origine. La scuola d'Aristotele, dice il
Gioia, insegnò che tutte le nostre idee e tutti i nostri sentimenti
vengono dai cinque sensi. Locke riprodusse il sistema d'Aristotele,
e fu seguito dal Condillac, dall' Helvétius, dal Tracy e dalla mag-
gior parte degl' ideologi e fisiologi francesi. Il Cabanis modificò
le idee del Condillac, e provò che, non potendosi spiegare tutti
i fenomeni dello spirito umano con la sola azione dei sensi esterni,
conveniva aggiungere ad essi delle fonti interiori (istinti). 11 Gioia
segue in questo punto il Cabanis (2), anzi ne illustra e sviluppa
(1) Ideologia, Parte I, Art. I, Gap. 1; Parte Vili, Gap. IV.
(2) Talvolta usa quasi le stesse parole del Gabanis: vedi per es. Ideo-
logìa, Voi. 1, Parte l. Gap. V, ^ 4, pag. 51 ( 1 piccoli uccelli etc. ) e Parte
V, Gap. unico, ij 1, pag. 173, nota 3^ e ^ 7, pag. 220 ( Pieno il ragazzo
ctc. ). Gfr. Parte 111, Gap. Ili, § 3, pag. 124; Eleni, di fil.. Parte I.Gap. IV,
>; 2, pag. 42. Al Gabanis il Gioia rimprovera solo clie egli alterando
l'idea primitiva del tatto, decise con altri filosofi che tutte le sensazioni,
da qualunque fonte provengano, non sono che un diverso modo d'azione
di quel senso . Questo cambiamento di linguaggio , egli scrive,
che non ha aggiunto un solo grado di luce alla scienza, soggiace
altronde a qualche dubbio . Gonclude però: Con questo discorso io
non intendo di scemare il diritto di Gabanis alla pubblica riconoscenza.
Egli merita lode speciale per essere stato il primo che in Francia abbia
trattato l' Ideologia coi fatti alla mano, ed abbia lasciato da banda tutte
— 103 —
le ricerche con una ricchezza di notizie e di osservazioni note-
vohssima per quei tempi. Il Condillac, egli dice, credeva (1) che
gl'istinti fossero dovuti all'esperienza individuale o alla tradizione
dei genitori. Ma sta contro l'opinione del filosofo francese il fatto
che nei vegetali, i quali non sono istruiti dall'esperienza né diretti
dalla tradizione, si riscontrano non poche tendenze simili a quelle
degli animali. Per es. nello stesso modo che ciascun animale ha
i suoi luoghi prediletti, così ciascuna pianta vuole un'esposizione,
un clima, una temperatura particolare: l'edera ricerca rocce e al-
beri per arrampicarvisi; la salicomia e le sasole godono delle acque
salse e dell' aria marina, e languiscono quando ne mancano. Del
pari: collocate nel suolo un grano in modo che la parte ov'è la
radichetta guardi in su, e 1' opposta, ov' è la piumelta, guardi in
giù; al tempo del germoglio, la radichetta si rivolta e si sprofonda
nel suolo, la piumetta si rialza e s'erge in su per uscire all'aria
e al sole (come la tartaruga, che, rovesciata sulla sua calotta, si
sforza di riprendere la sua posizione naturale). Ancora: ciascun
albero sa ritrovare nel suolo le sostanze alimentari che più gli
convengono (come il cane e il gatto che, tuttora chiusi gli occhi,
cercano le mammelle della madre, o come il fagiano, che, appena
nato, conosce il grano del miglio e la larva della formica); altri
fatti dimostrano lo stesso.
Tutti questi fenomeni derivano dunque da impulsi interni; sono
effetti dell' istinto. Ma l' istinto come si spiega ? Certo non con le
circostanze esteriori soltanto. Infatti: 1° spesso si riscontra abilità
d' industria senza educazione. Furono per es. portate in Francia
delle uova di piccoli uccelli canori d'Africa e d'Asia, come i ben-
galis etc; ebbene, covate da canarini, produssero de' piccoli che,
senz'aver imparato nulla dai propri padri, cantarono le arie del loro
paese, costrussero nidi, e mostrarono le abitudini dei loro parenti.
2° Inoltre spesso si riscontra mancanza d' industria o d' abilità
non ostante 1' educazione. Così la gallina d' India non impara a
tubare in mezzo ai piccioni; le femmine degli uccelli general ;:;ente
quelle speculazioni che non possono recar luce ne alla fisiologia, né
alla morale, né alla medicina, né alla legislazione > {Ideologia, Parte I,
Art. I, Gap. I, pag. 4).
(1) Traile des animaux, Partie II, Chap. V.
— 104
non imparano a cantare come i maschi. 3' Talora si nota diversità
di costumi in mezzo alle stesse circostanze. Il coniglio e lo scoiat-
tolo sono inseguiti? L'uno corre a nascondersi nella sua tana,
l'altro si salva sulla cima degli alberi, il cavallo volge al suo ne-
mico la groppa; il toro abbassa la testa e si difende con le corna.
Quindi tutto ciò che si può attribuire all'azione deile circostanze
esteriori si riduce a porre in atto le facoltà native. Non già il
bisogno del nido di aii' uccello la facoltà di costruirlo, ma esso
fabbrica il nido perchè al bisogno unisce la facoltà di fabbricarlo.
Ecco ilmotivo per cui l'uccello sarto ordisce il suo, tessuto anche
quando si trovi in gabbia, e il castoro costruisce la sua casuccia
anche quando sia già provvisto d'alloggio. 4" Si riscontra spesso
somiglianza d' industria, benché gli organi siano differenti. La
proboscide rende all'elefante gli stessi servigi che la mano al-
l'uomo e alla scimmia; la rondinella attaccali nido e il tordo
rassoda r interno del suo mediante argilla stemprata col becco,
come il castoro la stende sulle pareti della sua dimora" per mezzo
della coda. 5" Infine si riscontra differenza d" industria, benché
gli organi siano simili. In quante maniere diverse e con; quale
varietà di tele le differenti specie di ragni accalappiano la loro
predai Quale diversità di struttura nei nidi degli uccelli I Osser-
vate le casucce fabbricate, in piani sovrapposti e appoggiati a
fili d' erba, dalle formiche delle zolle; o le gallerie e casematte
delle formiche brune; o i numerosi compartimenti scavati nel
tronco degli alberi dalla formica fuligginosa con corridoi paral-
leli; ovvero i meandri ingegnosi {costruiti con' polvereZdi legno
tarlato, stemperata e masticata con tela di ragno, dalla formica
etiope o nerissima. Ciò non .ostante, tutti quest' insetti^si "somi-
gliano perHa forma e per gli strumenti del*lavoro (1).
Dunque le circostanze esteriori (educazione,|avvenimenti estemi,
forma degli organi) non bastano da sole a spiegare l'istinto.'Questo,
allora,'"come si spiegherà?-' Neppure con l'interesse, col vantaggio
che pad' ' ritrarne \una classe di viventi, l^er es. per qual- motivo
certe specie restano'unite in società ed altre no? Alcuni filosofi
hanno pensato a un vantaggio esteriore, dicendo che gli animali
(il Dal che deriva c!ie errano coloro i quali pretendono che dalla
forma degli organi si possano conoscere le facoltà interne.
— 105 —
vivono in società per difendersi reciprocamente. Ora, quest' ipo-
tesi non è sempre vera, giacché da un lato la maggior parte dei
viventi, per"es. i montoni, si separano subito che sono assaliti;
dall'altro non le specie più deboli vivono in società: per es. il
reattino (luì) e l'usignolo vivono isolati. Guardate il piccolo uc-
cello mosca, brillante come un rubino, che colloca il suo nido
in'un fiore, e deposita uova simili a piselli: con quale ardore esso
succhia il nettare dei fiori, per nutrirne la sua diletta prole ! Ma
un orrido ragno, nero e peloso, tre volte più grosso dell'uccello,
viene a stendere con le sue grandi zampe la tela sulla covata, e
schiaccia tra le mascelle le teste di quegl' innocenti implumi; al-
lora' la madre accorre furiosa, disperata, e gli dà un combatti-
mento a morte; ma invano; la sua famiglia è distrutta; e la madre
infelice esala l'anima dolente presso il nido devastato. Vi è qui
un sacrificio che non trova nessun compenso in un vantaggio
esteriore, presente o futuro.
Non basta neppure la somiglianza d'organizzazione per spiegare
V istinto. In parecchie specie d' animali si osserva somiglianza
nelle parti così interne come esterne e nelle loro relative funzioni,
eppure non si scorge somiglianza d' istinti. Per es. la lepre si
contenta del covo che si costruisce sulla superficie della terra; il
coniglio, pur tanto simile ad essa nella struttura organica, scava
il suolo, e si prepara un asilo più sicuro contro la volpe e l' uc-
cello da preda. La cicogna bianca e la cicogna nera sono simi-
lissime, fuorché nel colore; 'eppure son ;diverserperv istinti e per
costumi: l'una sceglie per domicilio i nostri edifici, l'ialtra cerca
i luoghi deserti, e nidifica nel 'più folto delle'foreste (1).
Risorge dunque sempre la domanda: come'si' spiega* l'istinto?
La prima causa di questo va ricercatafsecondo\ il* Gioia nell'or-
ganizzazione e negli stimoli esterni. Costruite coinegno^una pic-
cola anitra,'e[nascondete nel suo ventre)una calamita; quest'automa,
posto^neir acqua, andrà incontro alla mano',che glij presenterà del
pane entro '^cui sia ^nascosto de! ferro. Ebbene, sembra che gli
animali'abbiano più'calamite interne che li attraggano verso tale
o tal' altra sostanza.'tL'anitroccolo s'incammina verso l'acqua, su-
bito che la veda,'? non ostante le strida della madre adottiva di
(1) Esercizio logico, Parte 1, Art. IV, Gap. Il, pag. 138-142.
— 106 —
specie diversa, la quale ansiosa lo avverte del pericolo eh' ella
crede vedervi per lui. Lo stesso effetto prodotto dalla sensazione
visiva sull'anitroccolo (o sulla testuggine) è suscitato dalla sen-
sazione olfattiva sul cane, sul gatto, sull'agnello etc, che cercano
la mammella appena usciti dal seno materno (1). Talvolta anzi
le sensazioni esterne, associandosi alle interne, possono sino a
un certo punto modificare le abitudini degli animali. Per es. pro-
durre le uova e covarle è effetto dell'organizzazione interna, ma
il modo d'incubazione può variare secondo il clima e le circo-
stanze. Nel Senegal lo struzzo sta sulle uova soltanto di notte,
perchè il sole, durante il giorno, somministra il calore necessario
all'incubazione; all'opposto, nel Capo di Buona Speranza, paese
meno caldo, lo struzzo non abbandona le sue uova né giorno
né notte. Nei nostri climi temperati, quando le oche e le anitre
abbandonano momentaneamente le loro uova per recarsi a man-
giare, queste non soggiacciono a raffreddamento sensibile e no-
civo; avviene l'opposto nelle regioni polari; perciò ivi quegli uc-
celli si strappano delle penne col becco, ovvero parte della ca-
luggine esistente sotto le ali, e ne formano quasi soffice coltre,
per conservare alle uova il calore durante la loro breve assenza.
1 lavori delle formiche variano secondo il terreno, e si adattano
sempre alle circostanze esteriori. Sembra quindi che gli atti istin-
tivi di più animali non siano sempre disgiunti dalla cognizione
di quel che fanno. Paragonando le tane delle talpe giovani con
quelle delle vecchie, si vede che l' età frutta cognizioni ed espe-
rienze. In genere, l'animale, quando mostra di conoscere l'effetto
delle sue azioni, non si deve dire diretto da cieco impulso mec-
canico (2). Dunque prima causa dell'istinto: organizzazione e sti-
moli esterni. Ma non basta; (fé una seconda causa: organizzazione
(1) La condotta degli animali in queste circostanze non suppone ne
esercizio dei sensi, né idee innate dell'alimento, ne paragone, né vera
scelta. L'agnello non ha l'idea preventiva che il latte gli appagherà la
fame; ma la sua organizzazione, eccitata dalla fame, lo induce a suc-
chiare il latte, e, col succhiare, la fame cessa; quindi l'idea del cessar
della fame, unendosi all'idea del succhiare, rende l'atto, di meccanico
che era, intellettuale e volontario.
(2) Quindi, come hanno notato gli psicologi moderni (per es. gli evo-
luzionisti in genere e il Ja.v^es in Précis de psychologie, Paris, Rivière,
-^ 107 —
e stimoli interni, il bruco d'una specie di tignole si fabbrica una
cuna o letto pensile sopra una foglia eh' esso ripiega per mezzo
d'una corda di seta. Se si pone su questa cuna già preparata un
bruco simile, questo dovrebbe impadronirsi del lavoro beli' e com-
piuto, e risparmiarsi la fatica di fabbricarsene un altro. Eppure
la faccenda non va così. Il nuovo bruco distrugge 1' opera del
suo predecessore per rifarla assolutamente eguale; egli deve sgom-
brarsi della materia serica contenuta nel suo interno. Il torello
ancor privo di corna cerca di colpirci, il micino ancor sprovvisto
di unghie tenta di graffiarci. Dal che si vede che non gli organi
esteriori sviluppano l' istinto, ma questo precede quelli e li per-
feziona. Di più: tagliate le corna ad un loro, le unghie ad un
gatto, il pungolo ad uno scorpione; vedrete che continueranno a
difendersi nel modo di prima, proprio come se fossero ancor
forniti delle loro armi. Dal che si potrebbe concludere che l' istinto
sussiste pur senza gli organi esteriori che lo manifestino.
Tutti questi fatti c'inducono a paragonare gli animali a certi
strumenti o congegni musicali uniti agli orologi o alle scatole: i
quali, quando si tocca 1' uno o l' altro tasto, eseguiscono corri-
spondenti sonate. Unite a questi strumenti il sentimento, che non
si può negare agli animali; date loro la facoltà d'arrestare o
sospendere quei movimenti, della quale certo essi son forniti;
e concepirete in qualche modo le loro diverse industrie. Con
quest'ipotesi non s'ammettono idee innate nel germe d'una pianta
o d'un bruto. Si noti pure che gli animali nascono forniti degli
strumenti con cui compiono i loro lavori; che, inoltre, intera-
mente occupati in questi, non sono soggetti alle nostre distrazioni.
Mentre migliaia d' idee passano davanti al nostro spirito, l'ani-
male non esce dal circolo di due o tre rappresentazioni. Sembra
dunque che ciascuna specie animale, ciascun sesso abbia nella
sua costituzione interna il modello delle proprie azioni, i propri
rapporti d' affinità, contrarietà, indifferenza con gli esseri circo-
stanti: come gli acidi e gli alcali, i quali hanno tra loro preferenze
e affinità, da cui risultano le differenti combinazioni saline.
1910, Chap. XXV, pag. 526 e seg.) gl'istinti non sempre son ciechi e
invariabili. Anche la pretesa infallibilità degl' istinti soggiace a molti
errori. Vedi Esercizio logico, Parte 1, Art. VII, pag. 243-44.
— 108 —
Non si può però negare, conclude il Gioia, che nell'istinto
resti sempre qualcosa d'oscuro per la nostra intelligenza. « Il
lettore accorto ;>, egli scrive, « s'avvede che colle antecedenti
ciance io non ho spiegato i fenomeni dell'istinto, giacché non ho
detto né potrei dire in checonsistano gli accennati stimoli interni;
quale sia il loro modo' d'azione; come si forminole interne sen-
sazioni primitive; come queste si combinino in modo da essere
copia di oggetti esteriori, senza previa ispezione degli originali,
e molto meno ho detto né potrei dire come le abitudini de' padri
si trasmettano ai figli » (1).
Anche l'uomo, giacché può esser considerato e come semplice
animale e come ente dotato di ragione, ha istinti simili a quelli
degli animali: per es. quello della locomozione, del succhiare,
dell' inghiottire, del respirare etc. Come essere pensante e sensi-
bile poi l'uomo presenta quattro istinti o bisogni particolari: bi-
sogno di cognizioni o curiosità, bisogno di stima, bisogno di
potere e bisogno d'amore e di società. Tutto ciò che sodisfa tali
inclinazioni naturali è fonte di piaceri; tutto ciò che le contraria,
di dolori. Questi piaceri, questi dolori, allorché giungono ad un
certo grado d' intensità, eccitano nel nostro volto, nelle nostre
membra, nel nostro corpo tutto, certi moti, atteggiamenti e af-
fetti che non abbiamo appresi per esperienza, né ricevuti per tra-
dizione. Noi non abbiamo imparato né ad impallidire per timore,
né ad arrossire per vergogna. Quanto si riscontra in noi in questi
casi é una disposizione organica indipendente dalla nostra volontà.
Del pari sembra che gli uomini nascano con disposizioni per
r eloquenza, per la poesia, per le matematiche, per le arti e gli
affari (istinti intellettuali e morali), come gli uccelli nascono con
le ali per volare, i pesci con le pinne per nuotare, le api' fem-
mine per esser regine, le maschie per fecondarle, le neutre per
lavorare. Le circostanze esteriori presentano al genio il destro di
svilupparsi, ma non lo creano' (come pretende l'Helvétius).
Abbiamo così esaminati i fatti psichici d'origine interna (2).
Ma, oltre^questi, ve ne sono d'origine esterna. Per sparger luce
(1) Esercizio logico, Parte I, Art. VII, Gap. i, § 1, pag. 240.
(2) Per tutta questa parte vedi Ideologia, Parte 1, Art. II; Esercizio
logico, Parte 1, Art. VII.
— 109 —
sul complesso intricatissimo di tali sensazioni (dice il Gioia) il
Condillac e il Bonnet supposero una statua,' per così dire, « ver-
gine di idee e non anco tocca dagli oggetti esteriori; quindi, fa-
cendole provare ora una sensazione ed ora un'altra, tentarono
di svolgere i fenomeni del pensiero e le facoltà dell'animo ». Ma,
osserva, per quanto ingegnoso sia questo metodo, non ispira
troppa fiducia, poiché, alla storia reale delle sensazioni, dei senti-
menti, delle idee sostituisce supposizioni arbitrarie. Sembra quindi
miglior consiglio prender le mosse dal paragone delle sensazioni
primitive coi prodotti ideali e sentimentali (risultato finale), giacché,
così procedendo, da un lato si muove dai fatti, dall'altro la dif-
ferenza risultante dal paragone ci dà un concetto esatto del va-
lore delle facoltà psichiche. Quando voi ponete davanti agli occhi
d'un ignorante dei pezzi informi d'acciaio, d'argento, d'oro, e
gli dite: « Con questi pezzi informi è stato fabbricato l' orologio
che vedi », egli concepisce altissima idea dell'abilità del fabbri-
catore (1). Vediamo dunque il materiale delle nostre conoscenze
e i prodotti che ne risultano.
Gli oggetti esterni, modificando i nostri sensi, suscitano in
noi idee, alle quali di solito s'associano sentimenti. Ora l'espe-
rienza mosii'a che la quantità e la qualità delle idee e dei senti-
menti non corrispondono né al numero né alla perfezione dei sensi
esterni: ossia l'anima umana, combinando ed elaborando le idee
ricevute mediante gli organi sensoriali, dà origine a prodotti ideali
e sentimentali sì fatti, che i sensi non sono sufficienti a spiegarli.
Per convincersi di questo, basta paragonare la psiche degli ani-
mali irragionevoli con quella umana. Ad entrambe il materiale
delle impressioni è fornito dai sensi, anzi in alcuni casi i sensi
degli animali son più squisiti ed evoluti di quelli umani. Eppure
e' è una distanza immensa fra i' uomo e 1 bruti. La vista per es.
sembra il senso dominante negli uccelli: essi l'hanno acutissima.
L'uccello da preda (aquila etc.) vede per lo meno venti volte più
lontano che l'uomo. Il nibbl.o, che s'alza nell'aria più di mille
tese, discerne da quell'altezza la lucertola e il topo di campagna.
Gli animali carnivori hanno anche la capacità di vedere di notte,
il che è negato air'uomo. Ma questi ha inventato l'arte del di-
(1) Ideologia, Parte I, pag. 1-2.
— 110 —
segno, della pittura, della scultura; sa stendere, graduare, porre
in contrasto i colori, e disporre gli oggetti in ordine simmetrico,
cosicché, combinando l'unità con la varietà, suscita piacevoli sen-
sazioni, ignote ad ogni specie d'animali. Munito di telescopio,
inventato da lui, 1' uomo vede così di giorno come di notte mi-
gliaia di stelle non mai scorte dall' aquila o dal condor; munito
di microscopio, scopre animali ventotto milioni più piccoli d'un
pellicello.
Negli uccelli si trova finezza d'udito congiunta ad agilità e
forza dell' organo vocale; essi sono naturalmente musici; alcuni,
come la gazza e il pappagallo, ripetono anche suoni articolati.
Ma r uomo ha inventato la musica, e sa con i suoi strumenti
ispirare la tenerezza, la melanconia, la gioia egualmente che le
più terribili passioni, ed esprimere i gemiti del dolore, gli scatti
dell'odio, gli scoppi della collera. I sordo-muti danno segno d'in-
telligenza superiore a quella di qualunque animale.
il nervo olfattivo è più sviluppato nella maggior parte dei
mammiferi, degli anfibi e dei pesci che nell'uomo. L'odorato
dei carnivori volatili e terrestri è sì fine, che giunge a distanza
maggiore che la loro vista; l'odore dei cadaveri attira il lupo alla
distanza d'una lega; il cane può riconoscere le tracce d'una lepre
tre o quattro ore dopo il passaggio di questa. Ma l' uomo ha
trovato l'arte di fissare e, per così dire, imprigionare il principio
odorifero delle piante, questo spirito fuggitivo e leggero che sva-
pora e passa con la rapidità del lampo. Onde la fabbrica delle
essenze, dei profumi e delle pomate, che aggiungono vezzi alla
beltà, e accrescono il numero delle sensazioni voluttuose.
Molti animali hanno il nervo linguale più grosso, le papille
più sviluppate e sparse su più estesa superficie, il palato più
vasto, lo strato epidermoide della lingua più fine che l'uomo.
Gran parte di essi passano quasi tutto il loro tempo a mangiare
e a runn'nare. .Ma non il bue che rumina, bensì l' uomo ha in-
ventato r arte della cucina, e sa sodisfare il gusto in modi inde-
finitamente piacevoli, senz' esser costretto, come gli animali, ad
una sola specie d'alimenti, e a morir quindi di fame quando
questa manchi.
Infine gli uccelli hanno un tatto sensibilissimo; infatti prima
degli altri animali presentono le variazioni atmosferiche, le an-
nunziano coi loro gridi, e non s'ingannano sul tempo delle loro
— Ili —
migrazioni. Il tatto della nottola è cosi sensibile, che dirige il suo
volo e le tiene le veci della vista quando ne è priva. Ma l'uomo
ha inventato strumenti con cui determina, con un'esattezza ignota
agli abitanti dell'aria, i gradi del freddo, del caldo, dell'umidità,
dell'elettricità, della salubrità e insalubrità dell'aria, la forza eia
direzione dei venti etc. Nelle arti e nelle manifatture 1' uomo si
vale di misure che gli danno il modo di riconoscere persino i
millesimi d' un metro, e di strumenti con cui arriva a determi-
nare i pesi più piccoli.
Tralasciando poi le infinite invenzioni meccaniche ingegnosis-
sime, possiamo osservare che gli uomini privi dalla nascita di
mani e di piedi compiono lavori meravigliosi con i loro monche-
rini, e non solo si procurano nozioni esatte sulle distanze, ma si
elevano alle idee del bello, dell'onesto, del giusto, delle quali non
scorgiamo la minima traccia negli animali, qualunque sia l'esten-
sione e la finezza dei loro sensi. Bisogna aggiungere che l'uomo
può dare a questo o a quel senso una superiorità sugli altri, e,
ciò che è più, i suoi sensi possono far le veci 1' uno dell' altro;
quindi i ciechi perfezionano l'udito talmente che quasi tutti sono
musici; anche il loro tatto può diventare squisitissimo. Nei sordo-
muti nati la vista giunge a tanta perfezione, da poter indovinare
il pensiero altrui dai movimenti delle labbra, della lingua e dei
muscoli faciali delle persone che son loro familiari (1). All' op-
posto, l'ordine dei sensi è costante negli animali; nessuno di essi
si perfeziona notevolmente, ne alcun loro senso fa le veci d'un altro.
Dai sensi passando a considerare altri organi ed altre attività
degli animali e dell' uomo (mezzi di comunicazione, linguaggio,
arte costruttrice, immaginazione, raziocinio etc), giungiamo allo
stesso risultato. La cicogna dall'alto dell'aria spande la sua voce
per una sfera di circa una lega d' estensione. Specialmente gli
uccelli marini, avendo bisogno di chiamarsi di lontano in mezzo
al fragore delle tempeste, mandano voci forti; quindi tutti gli uc-
celli nuotatori son muniti d'una trachea lunga, cartilaginosa, ri-
curva come un corno, che produce un suono più forte di quello
(1) Questa prerogativa naturalmente nasce non da migliore organiz-
zazione, ma dall'esercizio a cui l'uomo, guidato dalla sua ragione, sot-
topone i sensi.
— 112 —
della chiarina. Ma l'uomo comunica in mare con i suoi simili per
mezzo delle trombe parlanti (portavoce) (1). Le poste, i corrieri,
i telegrafi etc. sono mezzi di comunicazione estesissimi, potendo
trasmettere non un solo sentimento, come i gridi degli uccelli,
ma qualunque specie d'affetti e d'idee. L'uomo ha inventato la
scrittura, con la quale la conoscenza che era solamente Indivi-
duale diviene sodale; e la stampa, che, oltre ad essere un mezzo
per comunicare le proprie idee a tutto il genere umano, trasmette
l'eredità scientifica degli antenati alla più tarda posterità.
Non si può negare alle bestie un linguaggio di voci naturali
e di gesti (linguaggio d' azione), con cui principalmente i qua-
drupedi e gli uccelli si trasmettono i loro sentimenti, manifestano
i loro desideri amorosi, le loro antipatie e simpatie, le loro paci
e le loro contese, si avvisano dei comuni pericoli etc. Ma l'uomo,
oltre che del linguaggio d' azione, si vale di quello articolato, il
quale, mentre dà corpo ai concetti più fugaci, tenendoli presenti
alla mente, facilita l'esercizio di tutte le funzioni intellettuali,
serve anche a trasmettere le proprie idee agli altri, e a renderle,
così, comuni.
La casuccia a due o tre piani costruita dal castoro dimostra
maggiore "arte che la capanna del selvaggio. Le cellette pirami-
dali delle api rappresentano, è vero, la soluzione d' un problema
che suppone la più astrusa geometria. Ma, tralasciando i palazzi,
gli archi, i ponti fabbricati con indefinita varietà < dall' uomo,
mentre le opere delle bestie, salve poche differenze accidentali, se-
guono tutte Lo stesso modello, le dighe opposte ai flutti del mare,
il corso cambiato dei fiumi, 1" arte di trasportare navigando uo-
mini e mercanzie da un polo all'altro, 1' abilità^'di riconoscere i
fondi marini e dirigersi nell' immensità dell' oceano mediante la
bussola o la stella polare, gli orologi fabbricati dall' uomo^dimo-
strano un patrimonio di cognizioni e d'industria ignoto a tutte
le bestie.
Gli animali danno segno d'immaginazione nei sogni; ma non
si possono certo porre a confronto i loro sogni con le creazioni
dei poeti.
Si può anche concedere alle bestie una sorta di ragionamento:
(l'I Ora col telegrafo senza fili.
— 113 —
allorché per es. i castori tagliano alberi coi loro denti, ne for-
mano pezzi proporzionati alle fabbriche, li piantano nel suolo, li
connettono fra di loro, costruiscono tetti, stabiliscono uscite, for-
mano porte etc; allorché le formiche dispongono le loro gallerie
sotterranee in modo che tutte sbocchino, per così dire, in una
piazza pubblica, e collocano i loro feti in stanze basse, calde,
pulite, dove li visitano spesso e donde li estraggono per esporli
al sole, pronte però a riportarli subito dentro al minimo peri-
colo; danno segno senza dubbio di saper combinare le idee e
dedurne conseguenze corrispondenti alle loro situazioni e ai loro
bisogni. Ma, mentre il raziocinio delle bestie è limitato alla sfera
delle impressioni presenti e abituali, il raziocinio dell' uomo si
estende a tutti gli oggetti dell' universo: egli determina i loro
modi d'azione, le loro leggi d'affinità e contrarietà, e prevede
gli avvenimenti che deriveranno dalle loro combinazioni. Astraendo
dalle differenze individuali che caratterizzano i vari gruppi di es-
seri, coglie i loro principi comuni (universali), e con la scorta di
questi e dell' analogia egli determina ciò che succede in luoghi
dove non è stato mai, e ne stabilisce le cause. Egli va ad inter-
rogare le generazioni che più non esistono, e si giova delle loro
risposte; concepisce disegni per quelle che esisteranno, e associa
la loro sorte a quella della generazione attuale.
Dall'intelligenza passando agli affetti, osserviamo le stesse dif-
ferenze. Nelle bestie il procreare si riduce ad una sensazione fisica,
ad un bisogno puramente meccanico. Invece l'amore nella specie
umana è accompagnato da entusiasmo e quasi da adorazione.
La leonessa a cui sono stati tolti i figli riempie di ruggiti il
deserto; cerca, insegue, raggiunge il rapitore, si vendica e si con-
sola nel sangue di lui. Allorché la prole degli animali può prov-
vedere alla propria esistenza, la madre la allontana da sé, e più
non la riconosce. Invece la donna che ha perduto i suoi figli non
ammette consolazione. Essi non sono più ! — ecco 1' unica idea,
ecco l'unico sentimento che domina nel suo spirito e nel suo
cuore. Nella specie umana, quando un figlio non ha più bisogno
di sua madre, questa ha bisogno di lui: ha bisogno d'amarlo.
Se il cane si mostra sensibile ai segni d' approvazione o di
rimprovero del suo padrone, l'uomo é sensibile a quanto si dice
di lui su tutta la Terra. Questa speciale e disinteressata sensibi-
lità all'onore, di cui non si scorge traccia negli animali, è sorgente
— 114 —
inesaurìbile d'azioni ordinarie e straordinarie, comuni ed eroiche,
di sacrifici immensi d'ogni specie, e d'indefinita perfezione (1).
Ora, da che cosa dipende questa differenza immensa che si
riscontra fra l'uomo e l'animale in ogni manifestazione della loro
vita psichica? Dalle loro facoltà, che elaborano diversamente il
materiale fornito dai sensi.
Tra le facoltà dell'uomo sono specialmente importanti quelle
che costituiscono la sua intelligenza: ossia 1' attenzione e il giu-
dizio (2).
L' attenzione è una forza attivissima, che è diversa da quella
dei sensi e concorre al loro esercizio. Infatti tutte le sensazioni
che ci vengono dai sensi, se non sono illuminate dall'attenzione,
riescono di solito oscure; invece è un fatto che l'attenzione rende
le sensazioni più chiare, piìi vive, più distinte, e ci fa conoscere
negli oggetti qualità di cui i sensi non ci avevano avvertiti. Perciò
l'attenzione dev'esser paragonata al microscopio o al telescopio,
che ci manifestano oggetti infinitamente piccoli o infinitamente
lontani, i quali senza di essi ci sarebbero rimasti eternamente
ignoti; e, come non si può confondere l'occhio col microscopio
o col telescopio, così non si deve confondere l' attenzione coi
cinque sensi esteriori. Perciò è gravissimo errore dire, come fanno
comunemente gì' ideologi, che tutte le nostre idee furono origi-
nariamente acquistate per mezzo dei nostri sensi e si debbono so-
lamente ad essi. La quale proposizione equivale alla seguente: le
statue di Carrara si debbono solamente alle cave di Carrara !!!
(1) Per tutta questa parte vedi Ideal. , Voi. I, Parte I, .A,rt. I; cfr.
Filosofia morale (Voi. XIII delle Opere Minori, pag. 5 e seg.).
(2) Per il Gioia le facoltà dell'anima (oltre la sensibilità, che for-
nisce il materiale da elaborare) sono: la memoria, l' immaginazione e
l'intelligenza (attenzione e giudizio). Vedi Ideologia, Voi. II, Parte Vili.
Egli però giustamente osserva che tali facoltà non si devono intendere
come centri diversi d'energia, quasi esseri indipendenti. - Noi pos-
siamo far uso di questi modi d'esprimersi (facoltà della memoria, del-
l'imaginazione etc.) senza impegnarci a realmente riconoscere nell'animo
facoltà diverse, come quando parliamo del correre e del saltare, dello
scendere e del salire, del passo regolare e irregolare, non intendiamo
di accennare diverse gambe » (Elementi di filos., Parte I, Sez. I, Gap. IV,
pag. 39).
— 115 —
Come la diversa perfezione dei microscopi e dei telescopi ci rende
nota una diversa quantità d' oggetti, così i vari gradi d' atten-
zione di cui son capaci gli uomini e gli animali si devono con-
siderare come una delle cause delle loro differenze psichiche. Ecco
perchè parecchie specie di animali, benché ci eguaglino e talvolta
ci superino nella perfezione di questo o quel senso e anche di
tutti, pure ci sono inferiori nelle cognizioni; ecco perchè un cieco,
un sordo, un monco giungono a idee a cui i bruti non giunsero
mai. In tale stato imperfetto l'uomo conserva una forza d'atten-
zione di cui i bruti non son capaci. Basta osservare la continua
mobilità degli uccelli e delle scimnu'e, per accorgersi che il loro
animo non è capace di quell'attenzione che, fermandosi su di un
solo oggetto, ne avvivi le sensazioni e le crei.
Neppure il giudizio si riduce al sentire. Udendo per es. due
arpe, io sento che il suono della prima mi procura piacere, quello
della seconda, dolore; conseguenza immediata di questi due sen-
timenti (1) è un' inclinazione per il primo, un' avversione per il
secondo. Invece, quando paragono le altezze di queste due arpe
e m' accorgo che l' una è doppia o tripla dell' altra, non provo
né un' inclinazione né un'avversione. Dunque quando gli psicologi
dicono che giudicare è sentire, senz' altra distinzione, confondono
due specie di fenomeni infinitamente differenti, che producono
effetti diversissimi. Quando io dico che l'altezza d'un' arpa è mi-
nore, eguale o maggiore rispetto a quella d'un' altra, enuncio un
rapporto; quando dico che un fiore somiglia o non somiglia ad
un altro, enuncio parimenti un rapporto. II rapporto è il risultato
del confronto di due idee o di due sentimenti; e, siccome gli enti
non possono che somigliare o differire tra loro, i nostri paragoni
o confronti non scoprono negli oggetti che somiglianze o diffe-
renze. La facoltà che paragona le idee per scoprire i rapporti
degli oggetti è il giudizio. Il sentimento dunque ci rivela i rap-
porti fra gli oggetti e la nostra individualità, e ci suscita com-
mozioni; il giudizio invece ci fa conoscere i rapporti degli og-
getti fra loro, e ci lascia indifferenti (2). Inoltre il giudizio è una
(1) Qui il Gioia, invece del termine sentimenti, adopera quello di
sensazioni; altrove invece chiama sensazioni ciò che prima ha detto idee.
{2) Perciò, dice il Gioia, è falsa l'asserzione del Tracy: Jugcr est
~ no —
forza attiva in sommo grado. Infatti i rapporti degli oggetti non
si presentano immediatamente da sé stessi, non sono un risultato
diretto dell'azione dei nostri sensi. Per scoprirli, è necessario che
l'attenzione passi da un primo oggetto ad un altro, da questo
ad un terzo etc, vada e venga piìi volte e, per così dire, si ri-
fletta dall'uno all'altro (il che le ha procurato il nome di rifles-
sione), e li paragoni ora per un aspetto, ora per un altro, al fine
di conoscerne le relazioni. Quando Newton, vedendo cadere un
pomo, domandò a sé stesso se le leggi della gravità terrestre
fossero simili o dissimili da quelle della gravità solare, ottenne
la risposta non dai suoi sensi, ma da mille atti dell'attenzione e
del giudizio, soccorsi dal calcolo più astruso. Ticone aveva rac-
colte mille osservazioni sulle distanze dei pianeti, sulle celerità,
sui tempi etc; ma non conosceva perciò le leggi astronomiche.
I fatti a lui forniti dall' osservazione dovevano essere in seguito
vivificati dal genio di Keplero, il quale dovette stabilire mille con-
fronti, eseguire mille calcoli, riconoscerne la falsità, intraprenderne
di nuovi, sudare diciassette anni, meditando notte e giorno, per
giungere finalmente alle leggi che hanno e meritano d' avere il
nome di lui.
Per persuadersi dell' attività dello spirito nel giudizio e nel-
l'attenzione, si pensi che le idee delle qualità corporee si presen-
tano riunite alla mente, e, per così dire, si stringono e aderiscono
insieme, come le particelle del ferro s'attaccano e aderiscono alla
calamita. Non si può per es. pensare alla rosa senza rappresen-
tarsi insieme e il fiore e le foglie e il gambo e le spine etc. Ma
V attenzione può e suole considerare una sola di queste qualità,
e annullare nel pensiero tutte le altre; e, paragonandola con qua-
lità simili di altri oggetti, concludere che essa è comune a più
esseri. Ora, se per staccare dalla calamita le varie particelle de!
ferro in modo che ne rimanga una sola, è necessaria una forza
estrinseca, bisogna riconoscere una forza pure nell'attenzione,
quando questa considera una sola delle molteplici qualità di più
sortir qii' une idée va renfennc une ciuf re. L'idea del sole che vedo
prima non è certo inclusa in quella' della luna, che mi si presenta dopo;
eppure io giudico clic il sole è diverso dalla luna {Ideologia, Voi. Il,
pag. 191).
117
esseri e la rende oggetto della sua riflessione. Una forza molto
maggiore sarà poi necessaria per giungere a scoprire differenze
tra oggetti in apparenza simili e somiglianze fra oggetti in appa-
renza diversi, che, allora, oltre che staccare le qualità unite, l'at-
tenzione deve girare, per così dire, intorno ad esse, e confrontarle
da tutt' i lati.
Se è necessaria una forza (che non esiste nei sensi) per de-
comporre, ossia per considerare isolatamente le qualità dei corpi
al fine di scoprirne i relativi rapporti, si richiede pure una forza
per comporre, ossia per formare prodotti ideali che non esistono
in natura: infatti, per costruire tali prodotti, occorre andare in
traccia dei loro elementi e staccarli da altri con cui sono uniti.
Supponete miste insieme le limature di più metalli, come sono
le idee dei vari oggetti nel nostro spirito: la calamita, se, passando
su quelle particelle, non fosse dotata d'una forza particolare d'at-
trazione sul ferro, non riuscirebbe a separare le particelle di
questo dalle altre.
Le diverse idee che nascono nel nostro spirito alla vista degli
oggetti esteriori si possono paragonare alle lettere d' un dizio-
nario: nel quale sono tutti gli elementi del discorso; ma, per for-
marne un'orazione, è necessario l'ingegno d'un oratore. Questo
ingegno non si può confondere con quelle parole inanimate. Del
pari, eccovi tutte le figure del giuoco degli scacchi: voi vedete
fanti, regine, re, alfieri, torri, pedine; ma tutte queste figure de-
vono essere animate dall' attività combinatrice d' un giocatore,
per avanzarsi o retrocedere secondo le mosse dell'avversario. Così
nelle composizioni del musico, del pittore, del poeta bisogna di-
stinguere le idee elementari (fornite dai sensi) dalla forza combi-
natrice dello spirito, come in architettura occorre distinguere la
calce, le pietre, i mattoni etc. dall' ingegno dell' architetto che li
combina (1). Tant'è vero questo, che si può giudicare, com.binare,
riflettere, anche senza provare sensazione alcuna (2).
Diremo dunque che lo spirito è passivo nel ricevere le im-
(1) Vedere Esercizio logico, Parte 1, Art. IV, Gap. 1, pag. 111-112,
dove il Gioia si vale del paragone della camera oscura, per dimostrare
che la facoltà di sentire è diversa da quella di combinare.
(2) Op. cit., pag. 33.
— 118 —
pressioni dei sensi, ma è attivissimo nel ravvivarle., muoverle, com-
binarle, l sensi ci somministrano rozzi materiali, talora uniti, e
occorre separarli; talora disgiunti, e occorre unirli; sempre disor-
dinati, e occorre ordinarli. In quest' operazione son necessari
moltissimi confronti, per poter scoprire i rapporti di somiglianza
o differenza, i quali sono spesso offuscati da apparenze inganne-
voli: domandate per es. a tutt' i popoli del mondo se si muove
il Sole o la Terra; tutti vi risponderanno: il Sole. Le infinite com-
binazioni dei materiali secondo le leggi del bello, dell' utile, del
vero dipendono da una forza che i filosofi hanno chiamata in-
tellettuale, e a cui, dice il Gioia, darete il nome che vi piacerà
{ideale, intelligente etc.) (1), ma che non si può confondere con i
materiali sensibili, senza rinunciare al senso comune, come non
si può confondere il legno con la scure che lo spacca e con la
pialla che lo liscia. Dalle cave di marmo esce un pezzo informe,
indifferente a qualunque figura; il genio dell' artista ne crea un
Apollo o una Venere.
Se ai bruti m.anca quella forza d'attenzione che, fissandosi
sulle idee, ne accresce la vivacità e ne fornisce di quelle che sfug-
gono ai sensi, manca pure, o per dir meglio, è inferiore alla
nostra, la forza di muovere le idee e di combinarle (2).
0) Op. cit., Parte 1, Art. IV, Gap. I, pag. 113.
(2) Da queste considerazioni il Gioia trae una fiera critica del ma-
terialismo, giacché secondo lui è erronea la pretesa dei fisiologi di
spiegare con le sole leggi orgaiiiciie l'attività combinatrice e riferente
del pensiero. Consideriamo, egli dice, i! più facile dei problemi alge-
brici: quello della permutazione delle lettere. Se le lettere son due, a
e b, si possono avere due sole combinazioni: a b e b.a. Se son
tre, il numero delle combinazioni sarà 3x2, cioè 6. Se son quattro,
il numero delie permutazioni sarà 4><f6, cioè 24. Aumentando le let-
tere, le combinazioni divengono tante (3628809 quando le lettere son
10), che la mente è presa come da una vertigine. Ora, dice, il
Gioia, cercate, sevi dà l'animo, di spiegare questi movimenti dello spi-
rito con le leggi dei moti organici; e, per convincervi di tale impossibilità,
proponetevi un problema più difficile. Neppure le operazioni della me-
moria, secondo il Gioia, si possono spiegare con le sole leggi orga-
niche. Le alterazioni della memoria psr es. si verificano specialmente
per le parole; le idee rimangono più ferme, e sussistono intere quando
— 119 -
Quali sono i principali prodotti dell'intelletto, che risultano
dalla forza combinatrice che elabora le sensazioni? Sono l'idea
della somiglianza o differenza tra oggetti, la vista della priorità
o posteriorità nello spazio e nel tempo, di regolarità o irregola-
rità nelle successioni e nelle coesistenze, l' idea d' azione e pas-
sione, di causa e d'effetto, di fine e di mezzo etc. (1): insomma,
le così dette categorie.
Data quest' attività psichica, come possiamo rappresentarci
lo spirito nella costruzione della scienza? Nei primi lavori il suo
atto somiglia a un'operazione chimica che scioglie un composto
nei suoi elementi e ne fa comparire le qualità occulte. Da questo
limo oscuro deposto dai sensi lo spirito fa scaturire la luce e il
pensiero. I sensi somministrano le idee primitive, come il piano-
forte i tasti; il genio del musico combina le note dei tasti in modo
che ne risulti l' armonia; così lo spirito unisce le idee primitive in
modo che ne nascano le scienze.
quelle son perdute: io posso conservare per es. le immagini dei colori
e perdere il ricordo delie joarole con cui sono espresse. Che cosa sono
le parole? Relativamente alla vista, figure; relativamente all'udito, suoni.
Ora spiegate come succeda che io conservi una proposizione di geo-
metria, cioè il rapporto fra due figure visibili, e dimentichi le parole,
ligure ugualmente visibili. Di più: voi avete ascoltato un ignorante nar-
rare un fatto, e vi ricordate ch'egli pose in principio ciò che doveva stare
nel mezzo, e in fine ciò che doveva trovarsi in principio; che insomma
le sue idee si successero nell'ordine seguente: Y, M, U, B, P, C, O, A.
Ora, una delle leggi dell'associazione delle idee è che esse si risvegliano
nell'ordine in cui si presentarono. Eppure, voi subito dopo raccontate
il fatto ordinatamente, nel seguente modo: A, B, C, M, O, P, U, Y.
Sfido qualunque fisiologo, dice il Gioia, a spiegare con le sole leggi
organiche questo cambiamento d'ordine, questa scelta di circostanze.
C'è qui un'azione reale dello spirito, di cui non si scorge traccia nei
movimenti organici (Ideologia, Voi. Il, pag. 168-170). Si noti pure che
il Gioia contro l'affermazione del Cabanis che il pensiero sia una se-
crezione del cervello, insiste sulle differenze e sui contrasti che sussi-
stono tra i fenomeni della secrezione e quelli del pensiero {Ideologia,
Voi. II, pag. 182-183). Considerando queste affermazioni del Gioia non
so davvero capire come mai il Ferri abbia detto che è difficile trarre
dalla dottrina di lui altro che materialismo.
(1) Esercizio logico, Parte 1, Art. IV, Gap. 1, pag. 112,
— 120 —
Il primo lavoro che la scienza c'impone è di raccogliere molti
fatti particolari (osservazione). L'arte di osservare ha due parti:
l'osservazione propriamente detta e l'arte di fare esperimenti; cia-
scuna ha le sue regole.
Il secondo lavorio della scienza consiste in una semplice ge-
neralizzazione. Si colgono i rapporti di somiglianza che si scor-
gono tra più esseri, tra più fatti, e si dà loro un nome comune
(classificazione). Le piante per es. formano un numero determi-
nato di classi, di ordini, di generi, di specie. A questa seconda
fase s'arresta la storia naturale propriamente detta.
La fisica, l'astronomia etc. fanno un passo di più: paragonano
i fenomeni generali, e colgono i rapporti che li uniscono e che
spesso si possono esprimere numericamente. I rapporti tra i fe-
nomeni generali si chiamano leggi\ così, dopo Keplero, gli astro-
nomi dicono che nel movimento di due pianeti i quadrati dei
tempi periodici sono come i cubi delle distanze medie dal sole.
Ma non sempre è possibile giungere a tale grado di precisione
matematica.
Finalmente la conoscenza delle leggi conduce a quella delle
cause 0 agenti naturali, a cui i fenomeni classificati possono
esser ridotti. È questo l'ultimo termine vagheggiato dalla filosofia.
Osservare, classificare, indurre leggi, ricercare le cause, tali sono
le operazioni dello spirito nel costruire le scienze. In esse Io scopo
dell'intelligenza è di stabilire identità fra idee mediante un lavorio
continuo d'astrazioni. La mente scorge da prima somiglianze, poi,
depurando queste, giunge talvolta a trovare ciò che ciascuna con-
tiene d' identico. L' ultimo termine a cui s' arresta lo spirito è
indicato da un sentimento particolare chiamato evidenza: allora
r attributo delle proposizioni comparisce eguale al soggetto.
Non e' è bisogno di dire che nessuna traccia di tale fermeu-
tazione ideale si riscontra nelle bestie (1).
(1) Vedi per tiiUa questa parte V Ideologia, Voi. il, Parte Vili, spec.
Gap. Ili e Gap. IV. Si deve però notare una non lieve differenza tra
gli Illein. di filos. e V/deoloffia. Negli f/^///r«// (ISIS) il Gioia sostiene
che tutte le nostre idee traggono origine dai sensi esterni e da quello
interno (Prefaz., pag. 5), chiama il giudizio una sensazione secondaria,
e così scrive: ^ Un garofano e una viola agiscono sulle mie narici: io
sento l'uno e l'altra: ecco due sensazioni primitive; sento che l'una è
121
Come s'è detto, delle idee e dei sentimenti possiamo ricercare,
oltre l'origine, anche le leggi. Le leggi delle idee (sensazioni)
sono dal Gioia divise in tre gruppi: 1° leggi d'intensità; 2" leggi
di simpatia; 3° leggi d'associazione.
1.° Le leggi d'intensità determinano le condizioni della forza
e della durata delle sensazioni (1),
2." Le leggi di simpatia riguardano i rapporti fra parti lontane
del corpo e quindi fra le sensazioni che ne provengono (per es.
certi suoni aspri e acuti producono strider di denti; una detona-
diversa dall'altra: ecco una sensazione secondaria, e.A ecco il giudizio.
Giudicare si riduce a sentire i rapporti tra due sensazioni primitive >
(Voi. 1, Sez. Ili, Art. II, Gap. I, § 3, pag-. 132-33). È vero ch'egli presenta
questa definizione come enunciata dagT Ideologisti '■; ma non la cri-
tica; anzi l'accetta; e conclude: Tutta la nostra esistenza è un movi-
mento continuo di sensazioni > (pag. 133). Inoltre, nello spiegare la
differenza tra le facoltà degli animali e quelle degli uomini, si fonda
solo sui caratteri organici, e scrive persino: La migliore organizza-
zione neli' uomo può benissimo esser causa della memoria più tenace,
dell'immaginazione più fervida che in esso a fronte degli animali di-
mostrasi > (Voi. I, Sez. HI, Art. I, § 3). È dunque evidente che il pen-
siero del Gioia neW Ideologia (1822) e neW Esercizio logico (1824) s'è
modificato. Se si tien conto di questo mutamento, appare errata l'affer-
mazione del Ferri (Op. cit., pag. 15) che la filosofia del Gioia sia una
dottrina dell'esperienza incompleta, a cui manchi una psicologia ampia
e vera, capace di abbracciare il mondo intellettuale e il mondo sensi-
bile, l'ideale e il reale. Si direbbe che il Ferri si fondi, nella sua ana-
lisi critica, solo sugli Elementi di filosofia. Si noti che neppure il Ro-
smini, in Breve esposizione della filosofia di M. Gioia (Opuscoli filo-
sofici, Voi. Il, pag. 357-490), cita mai Y Ideologia; riferisce, nella parte
teorica, solo luoghi degVi Elementi di fil. e deW Esercizio logico; perciò
la sua esposizione dà un'idea falsa della filosofia del Gioia.
(1) Per es. - acciocché uno stimolo produca il suo effetto su un tes-
suto vivente, è necessario che la sua azione continui per un certo tempo ».
Affinchè la sensazione riesca in noi distinta, è necessario che l'impres-
sione degli oggetti non sia troppo forte relativamente alla struttura dei
nostri sensi >. <^ L'effetto d'uno stimolo continua per un certo tempo
dopo che ne è cessata l'azione (immagini consecutive della vista) >.
— 122 —
zione violenta provoca uno stringimento alla regione epigastrica;
il panereccio o un tumore all'estremità delle dita produce spesso
tumefazione o ingorgo nelle glandole delle ascelle; malattie del
fegato sono causa di dolori vivissimi alla spalla destra; V infiam-
mazione air utero suscita calore nella pelle, nausea, vomito, ce-
falalgia; l'irritazione per opera dei vermi nel tubo intestinale pro-
duce prurito alle ali del naso, pizzicore all'estremità della lingua,
dolore nelle gengive etc.) (1). Oltre queste simpatie dipendenti
dalle leggi misteriose della vita, bisogna notare l'azione reciproca
che i fatti psic'nici possono esercitare fra loro modificandosi. Nel-
l'estate la temperatura delle cantine ci sembra fresca, nell'inverno
calda, benché sia sempre la stessa; questo perchè nell' estate il
nostro organismo è abituato a un calore di venti o venticinque
e più gradi; perciò ci deve sembrar fresca la cantina, che ne ha
sette soltanto od otto; mentre nelT inverno, quando la tempera-
tura atmosferica, a cui siamo abituati, resta inferiore a sette gradi
e s'avvicina a zero o l'oltrepassa, deve succedere l'opposto. Del
pari, la sensazione consueta che in noi produce il vino cambia
se lo beviamo dopo aver masticato il salame. Dal che risulta che le
sensazioni attuali dipendono dallo stato antecedente degli organi
sensori e dalle sensazióni che ne provenivano (legge di relatività).
inoltre: il pittore Teone, prima di scoprire il quadro che aveva
posto nella pubblica piazza d' Atene e che rappresentava un sol-
dato in atto di combattere, fece suonare una musica militare, per
predisporre 1' animo degli spettatori. Alzato il velo, sembrò agli
astanti di veder vivo il soldato brandir le armi, correre al com-
battimento, lanciarsi su! nemico. In tal modo le sensazioni del-
' Ogni volta che un organo ha cessato di funzionare per un certo
tempo, diviene, ristabilendosi, sensibilissimo all'azione dei differenti sti-
moli coi quali suole essere in contatto y. La continua azione d'uno
stimolo ne diminuisce l'intensità, eccetto che non si presentino circo-
stanze speciali (per es. lesione dell'organismo per opera dello stimolo) >.
Vedi Idealo rria, Parte IH, Gap. H; Elementi di fil., Parte 1, Sez. 1,
Gap. II.
(1) Ideologia, Parte HI, Gap. HI. Anche qui il Gioia segue il Ga-
banis, e, come questi, ritiene la simpatia * legge primitiva dell'orga-
nizzazione così inesplicabile come Io è il mistero della vita > {Ideologia,
Parte IH, Gap. HI, ^ 3, pag. 124).
— 123 —
V udito aggiunsero forza e quelle della vista. Ciascuno ha potuto
osservare che un gesto naturale ed espressivo, una conveniente
modulazione della voce rendono più gradito il discorso d' un ora-
tore, e che il piacere della musica e della rima rende maggiore
il piacere d' una bella poesia. Dal che risulta che le sensazioni d'un
senso possono esser rafforzate dalle sensazioni consone dello stesso
senso o d' un altro, sia che queste le precedano, sia che le accom-
pagnino (legge di fusione e di complicazione). Ancora: l'esperienza
dimostra che il caldo e il freddo, il dolce e l'amaro, il bianco e
il nero reagiscono a vicenda, e ci colpiscono più fortemente uniti
che disgiunti. Quasi tutte le arti profittano di questi contrasti: il
musico fa sentire nell'armonia le dissonanze etc. Il cibo s'apprezza
dopo il digiuno; le ricchezze altrui mettono in evidenza la nostra
indigenza. Le sensazioni giungono dunque al massimo grado d'in-
tensità quando son contrarie; invece, quando son simili, scendono
al minimo (legge di contrasto) (1).
3." Le leggi dell' associazione sono importantissime, poiché
regolano gran parte della nostra vita psichica. Molti fatti dimo-
strano che, al prodursi d' una sensazione, se n' affacciano alla no-
stra mente molte altre che già provammo, cosicché lo stato abi-
tuale del nostro animo è un composto di sensazioni attuali e di
senzazioni richiamate; anzi le prime per lo più sono ben poche
a fronte delle seconde. Il Gioia determina le cause del richiamarsi
delle sensazioni (movimenti organici interni, somiglianza delle
sensazioni, simultaneità e successione loro, sforzi della volontà,
affetti dell' animo) e quindi le leggi (2).
(1) Elementi di fil., Parte I, Sez. I, Gap. III. È noto che queste leggi
sono slate precisate e illustrate dai moderni psicologi. Sono anche no-
tevoli le leggi dell'attenzione fissate dal Gioia (Elementi di fil., Sez. il).
Vedi anche Esercizio logico, Parte 1, Art. \\\.
(2) Ideologia, Parte III, Gap. IV; Elem. di fil., Parte 1, Sez. 1, Gap. IV.
Oltre l'associazione delie idee i! Gioia studia la memoria. Anzi egli de-
termina con molta esattezza le condizioni che possono agire sulla me-
moria e renderla talvolta malata, per es., l'età, il temperamento, le
malattie, gli affetti troppo violenti e improvvisi, gli eccessivi sforzi in-
tellettuali etc. (Ideologia, Parte Vili, Gap. I). Nella sua Ideologia
(Parte Vili, Gap. I, pag. 168) si trova già enunciata la legge detta
dal RiBOT di regressione o reversione (Le malattie della memoria,
Palermo, Sandron, Trad. Jucci, pag. 105).
— 124
Oltre che delle sensazioni propriamente dette il Gioia ricerca
le cause e quindi le leggi anche dei sentimenti, anzi è questa una
delle parti più notevoli dell' ideologia sua.
Il Gioia non accetta la teoria della natura negativa del piacere,
che, sostenuta già da Epicuro (1), dal Cardano (2), dal Casti-
glione (3), dal Montaigne (4), dal Locke (5) e dal Magalotti (6), era
stata rinnovata ai giorni suoi da Pietro Verri (Discorso sull'in-
dole del piacere e del dolore), il quale aveva voluto provare: 1° che
il piacere è non qualcosa di positivo, ma il cessare d' un' azione;
(1) Diogene Laerzio, Libro X, 139.
(2) De vita propria, Gap. VI.
(3) Corte giano, II, 2.
v4) Essais, Livre II, Chap. XII.
(5) Essai, Livre li, Chap. XXI, §§ 31 e seg.
(6) Lettere familiari, Parte I, Lettera 29=^. Lo Schopenhauer, che
segue anche lui tale teoria {Le monde cornine volante et comme repré-
sentation, Trad. Cantacuzène, Leipzig, Brockhaus, Voi. I, § 58), aggiunge
a questi filosofi Platone e Voltaire (vedi Le fondcment de la morale,
Trad. Bastian, Flammarion, Paris, pag. 227). Anche il Verri (Opere,
Voi. I, pag. XI) vede i semi della sua dottrina nelle famose parole che
Socrate liberato dalle catene dice nel Fedone (60 B e C) sulla natura
del piacere e del dolore. Ma veramente Platone respinse nel Filebo
(44 C e 51 A) la teoria di coloro che consideravano il piacere come
la cessazione del dolore. Si potrebbe anzi domandare quali filosofi so-
stenessero tale teoria, che Platone combatte. Lo Schleiermacher, Io
Stallbaum e altri hanno pensato che fossero i cinici e Antistene in
ispecie. Ma il Poste e il Grote, fondandosi su vari argomenti, secondo
me importanti, hanno respinto quest'opinione. Il Grote crede che fossero
alcuni platonici pitagorizzanti deli' Accademia stessa, i quali in fondo
non facevano che trarre le ultime conseguenze dei principi esposti nel
Filebo. Cosicché per il Grote anche Platone sarebbe in ultima analisi
sostenitore della teoria detta (egli infatti la critica, ma nello stesso tempo
riconosce che essa è vera per molti dei piaceri; ne eccettua solo al-
cuni; era quindi facile interpretare anche questi come qM altri). A quei
pitonici pitagorizzanti si riconnetterebbe poi Speusippo. Vedi Grote,
riluto and the otliers companions of Socrates, London, Murray, 1885,
Voi. Ili, pag. 389-391, nota 3.
— 125 —
2° che qualunque piacere fisico o morale consiste in una rapida
cessazione del dolore; 3° che non si possono dare due piaceri
consecutivi, giacché il piacere è sempre preceduto da dolore;
4' che il dolore è I' unico principio (movente) delle azioni umane.
A questa dottrina il Gioia obietta: 1° si deve riconoscere una
azione reale e positiva così nel piacere come nel dolore, anzi
maggiore nel primo che nel secondo. Infatti nel piacere tutti gli
organi sembrano muoversi verso le impressioni e dilatarsi per
riceverle in tutt' i punti: così, quando ci apprestiamo a gustar
qualcosa di piacevole, le papille della lingua si ergono; viene
r acquolina in bocca (abbondante salivazione). Ancora: date ad
un uomo una lieta notizia, e vedrete farsi più serena le sua fronte,
illuminarsi i suoi occhi, diffondersi sulle guance una tinta rosea,
spuntar sulle labbra un sorriso grazioso, tutto 1' organismo ria-
nimarsi e presentare l' immagine delia vita. Infine l' eccessivo
piacere altera la digestione, e può produrre la sincope e la morte.
2* Si danno dolori che cessano rapidamente senza piacere. In
alcune nevralgie il dolore, irradiandosi nei vari rami del nervo,
dà la senzazione d' una scottatura e più spesso quella di moltis-
simi aghi conficcati nelle carni; e, sebbene tale sensazione sia
rapida come la scintilla elettrica, pure non lascia traccia alcuna
di piacere. Nel dolor di denti talvolta una droga stimolante o
r etere fa cessare quasi per incanto il dolore, ma non produce
certo piacere. 3° Si danno piaceri contigui senza intervallo di un
dolore precedente. Avete per es. mangiato; un sentimento di be-
nessere è diffuso per tutto il vostro organismo; eppure in que-
st' assoluta mancanza di dolori vi arrecherà piacere un profumo
soave o una tazza di caffè o un canto armonioso etc. 4° L' intensità
del piacere non sempre corrisponde all' intensità del dolore (come
invece dovrebb' essere se fosse vera la teoria del Verri). Sia per es.
la vostra sete come 2; voi la estinguete con un bicchier d'acqua,
e vi procurate un piacere uguale a 2; ma, se all' acqua aggiun-
gete un cucchiaio di zucchero, avrete un piacere come 3, benché
non sia cresciuta l' antecedente sensazione dolorosa della sete.
Così una meschina lucerna basta per far cessare il dispiacere
delle tenebre e procurarvi il piacere della luce. Ma, invece d'una
lucerna, l' artista vi presenta un candeliere elegante e piacente
per la forma, per i colori e per le figure, che destano nella vostra
niente immagini graziose. I piaceri risultanti dalla forma, dai co-
— 126 —
lori, dalle figure, dalle immagini graziose son del tutto indipen-
denti dal piacere della luce, e non si possono spiegare col dolore
che ci cagionano le tenebre. In generale le arti aggiungono una
somma crescente di godimenti al piacere primitivo del bisogno so-
disfatto. Data dunque la stessa intensità di dolore, si può con-
seguire diverso piacere secondo i diversi modi di sodisfarlo.
5° Dato lo stesso stato dell' organismo e della psiche, il piacere
si muta secondo la qualità dell' oggetto esteriore che lo produce.
Infatti, dato Io stesso grado di sete, la sensazione piacevole che
vi procura una limonata è diversa da quella che vi dà un bic-
chiere d' acetosa. Dato Io stesso stato d' animo, il movimento lento
delle corde d' uno strumento produce un piacere grave; il mo-
vimento rapido, un piacere vivo. Il che dimostra che il piacere
è non il cessare d' un' azione, ma un fatto positivo e reale. Quando
spegnete una luce che v' offende gli occhi, in qualunque modo
la estinguiate, la sensazione delle tenebre resta la stessa, poiché
qui tutto si riduce a far cessare un' azione. Ma nei casi accennati
i fenomeni cambiano secondo la natura dell' oggetto che li pro-
duce; il piacere risultante è dunque effetto d' un' azione reale.
Altre osservazioni acute aggiunge il Gioia (1): il quale accetta
la teoria classica di Aristotele [Metafisica, I), secondo cui il pia-
cere è un effetto o un concomitante dell' attività. Un movimento
un po' maggiore dell' ordinario, dice il Gioia, suscita nel sistema
(.1) Così il Verri, per poter sostenere la sua teoria, era ricorso ai
' dolori vaghi e innominati , ossia a sensazioni dolorose indistinte,
provenienti di solito da organi interni, ma difficilmente localizzabili.
Secondo il Verri questi dolori innominati sarebbero la sorgente dì tutti
i piaceri più delicati, specialmente di quelli estetici; cosicché, se gii
nomini fossero veramente sani e allegri, non sarebbero mai nate le belle
arti. Egli sostiene che ogni uomo che si dà appassionatamente ad una
scienza, ad un'arte o ad un mestiere, agisce così non per altro se non
perchè è infelice, e, quanto maggiore è la somma di dolori innominati
ch'egli soffre abbandonato a sé stesso, tanto piìi forte è la brama di
cercar mezzi per sottrarsi ad essi. L'uomo che esiste male, isolatamente,
cerca di darsi in preda ad un oggetto prepotente per esserne occupato;
invece l'uomo robusto, lieto, felice sfiora sorridendo gli oggetti, e, si-
gnore della natura, domina le sensazioni proprie tranquillamente. Molti,
conclude il Verri, hanno detto che gli sciocchi son felici; io invece dico
— 127 —
organico una sensazione piacevole; un movimento molto minore
o maggiore dell'ordinario (dunque difetto o eccesso d'attività)
produce dolore.
Tra i movimenti di cui son suscettibili le nostre membra pro-
ducono maggior piacere quelli che si ripetono a intervalli uni-
formi di tempo, giacché, mediante questo ritorno periodico, l'a-
bitudine agevola la loro riproduzione, e l'uno segue all'altro
senza grande dispendio d' energia. Di più, il ritmo, regolando i
movimenti, ne previene molti di inutili e irregolari, ai quali l'uomo
s' abbandona quando non è dominato da un' idea stabile. Perciò
le canzoni hanno i loro ritornelli, le danze le loro riprese, le
marcie militari i passi regolati etc; e nella musica s' ha il ritmo,
nella poesia la rima e i! metro, che ci fanno udire i suoni più
facilmente e più distintamente, a intervalli ripetuti.
Ma, perchè si provi piacere, non basta che non s' abbia né
eccesso né difetto d' attività. L' attività ha anche un fine da rag-
giungere; perciò è sorgente di piacere la corrispondenza tra i
mezzi e il fine; e questo piacere cresce con V aumentare dell'utile
che si consegue e della semplicità del mezzo che s' adopera. Così
le invenzioni nelle arti meccaniche e liberali, nell' amministrazione
pubblica e nella legislazione procurano vivi piaceri, giacché noi
vediamo problemi grandi e difficili sciolti con combinazioni che
non s' erano presentate alla nostra mente e che quindi ci piac-
ciono in ragione della loro novità, semplicità, durata, scarsa spesa
e facilità. All' opposto, tutto ciò che non s' accorda con lo scopo
proposto riesce spiacevole (1).
Oltre le condizioni e cause dei sentimenti il Gioia studia anche
che i felici sono sciocchi, perchè Tuomo che non soffra il pungolo
del dolore e che viva vegetando tranquillo, non ha ragion sufficiente
per superare la sua inerzia e interessarsi d'un oggetto; quindi non gli si
può sviluppare Tingegno, e nessun' idea viene da lui esaminata atten-
tamente (Discorso suir indole etc. in Opere già citate, Voi. ì, pag. 52-74).
Qui il Gioia, oltre che coi fatti, combatte il Verri anche con l'arma
del ridicolo. « Per verità », egli dice, « sembrerebbe strano il discorso di
chi dicesse provar egli piacere nell' esaminare la Venere de' Medici,
perchè si sente un calcolo nelle reni, o perchè il suo polmone è affetto
da etisia > (Ideologia, Voi. li, pag. 75, nota 2).
(1) Ideologia, Voi. II, Parte VI.
— 128 —
i loro gradi (indifferenza, affezione, passione) (1). È anzi notevole
che il Gioia studia con molto acume le alterazioni che gli affetti
producono nel valore degli esseri e nelle idee che noi ne abbiamo,
mostrando come la mente umana in preda ad un sentimento
molto forte o ad una passione segua non più la logica razionale,
oggettiva, ma una logica soggettiva, che è tutta un ordito di so-
fismi sottili e di vaghe illusioni create dai nostri desideri (logica
dei sentimenti) (2).
OSSERVAZIONI. - Il Gioia, seguendo esclusivamente il me-
todo psicologico-descrittivo, ha presentato un'analisi molto ac-
curata dello spirito umano, esaminando prima Y origine ùtWt idee
e dei sentimenti, poi le loro leggi. Nella prima questione ha di-
stinto le sensazioni d' origine interna e quelle d' origine esterna.
A proposito delle prime ha trattato con maestria, senz'ammettere
r innatismo, il problema dell' istinto, sviluppando le ricerche del
Cabanis; a proposito delle seconde ha mostrato come sia impos-
sibile spiegare tutt'i prodotti dello spirito umano con le semplici
sensazioni e con 1' associazione di queste. Così, seguitando quel
movimento di riforma iniziato dal Soave, ha abbandonato (specie
ntW Ideologia e ntW Esercizio logico) il punto di vista del Con-
(1) Un mezzo generale per misurare l'intensità delle affezioni è
l'esame dei valori che loro si sacrificano o si è pronti a sacrificare
(vedi Trattato dei meriti e delle ricompense, Tomo I, pag. 52-99).
(2) Queste osservazioni gli danno modo di stabilire delle leggi Viwcht
per i sentimenti: 1" / sentimenti creano delle sensazioni o le raffor-
zano. Gli amici di Germanico per es. riconoscevano sul cadavere di lui
i segni del veleno che supponevano essergli stato dato da Pisone; per
gli amici di Pisone questi segni erano invisibili. La Fontaine, dopo aver
frequentato vent'anni la casa della signora De la Sablière, s'accorse
per la prima volta eh' ella aveva una macchia sul volto. Eh ! amico
mio, voi non mi amate più , gli disse la signora; ed aveva ragione.
Infatti tutte le volte che siamo animati da un sentimento forte, non di-
stinguiamo più nulla; T immaginazione stende lo stesso colore su tutto
l'oggetto del nostro amore; ogni bella qualità, ogni virtù è nella donna
adorata (cfr. la cristallizzazione dello Stendhal). 2» / sentimenti agi-
scono sili nervi, sui innscoli, su tutte le parti del corpo, in modo da
- 129 —
dillac e del Tracy, e presentato una dottrina delle facoltà psichiche
che non è certo sfornita di valore: essa tende a mettere in evi-
denza r azione dell' intelletto sul materiale grezzo e caotico dei
sensi; e rappresenta un notevole passo in avanti, rispetto all'ideo-
logia francese (1). La quale dunque in Italia, abbandonando il
semplicismo e l'esagerazione dei ragionamenti dei filosofi d'oltre
Alpe, e venendo sempre più a contatto dei fatti, è stata costretta a
criticar sé stessa e a mettersi per una nuova via. Il Gioia infatti
modifica il sensismo non per ragionamenti astratti o per teorie
preconcette, ma per la necessità di spiegare i fatti (per es. le dif-
ferenze psichiche innegabili fra animali irragionevoli e uomo;
l'esistenza della scienza umana etc). 11 Romagnosi, come vedremo,
andrà ancor più innanzi.
Nel determinare poi le leggi delle sensazioni e dei sentimenti
il Gioia si rivela osservatore positivo ed acuto, antesignano dei
moderni psicologi. Alcune sue analisi (tolti, naturalmente, i difetti
derivanti dallo stato in cui erano allora le scienze) non hanno
da invidiar nulla a quelle dei nostri tempi. Così gli studi sulle
leggi delle sensazioni, sulla memoria, sui sentimenti etc. hanno
ancora un sapore di freschezza, e possono attrarre il lettore mo-
derno che vada in cerca non di chiacchiere, ma di fatti e di leggi
precise.
Infine, come s' è visto, il Gioia rifugge dal materialismo; egli
è il vero ideologo.
poter guarire malattie o cagionarne. Così la raschiatura di cranio
umano, la polvere di rospo, la parola abracadabra e tutti i segnali ma-
gici, applicati agl'infermi nell'epilessia, nelle febbri intermittenti ribelli
etc, non hanno efficacia alcuna; ciò non ostante essi guarirono tal-
volta gl'individui di cui colpirono fortemente l'immaginazione, mentre
i rimedi più energici non producono grande effetto in chi non confidi
in essi. 3» / sentimenti possono scemare le sensazioni. Leibniz racconta
che un prigioniero potè resistere ai tormenti delia tortura perchè nei
momenti del dolore più atroce aveva pensato alla forca e al disonore,
che lo aspettavano, se si fosse lasciato vincere dalla sofferenza (Ideologia,
Voi. II, Parte VII, ed Elementi di fil., Parte I, Sez. I, Gap. VI).
(1) Mi par quindi errata l'affermazione del Ferri {Essai etc, Livre 1,
Chap. I, pag. 11) che il Gioia non faccia che ammettere i principi del
sensismo e applicarli.
— 130 —
CAPITOLO IV. — Romagnosi
VITA E OPERE (1). — Gian Domenico Romagnosi nacque
in Salsomaggiore 1' 11 dicembre 1761 (2) dal dottor Bernardino
e da Marianna Trompelli. Suo padre, di famiglia patrizia, aveva
la laurea notarile, ed era stato podestà nei feudi della Galli-
nella, di Scipione, di Salso Minore, di Montebello; allora era
commissario delle saline di Salsomaggiore; divenne poi magi-
strato delle finanze e delegato camerale in Piacenza. Egli voleva
che suo figlio seguisse la stessa carriera sua, e lo sottopose fin
dalla tenera età a un' educazione severa. Il piccolo Gian Dome-
nico era costretto a otto e più ore di studio arido, consistente
neir imparare il latino prima dell'italiano, le regole grammaticali
prima d'aver idee da esprimere, filze di nomi e di verbi, pappa-
gallescamente. Era per lui una vera tortura, che gì' incuteva solo
avversione allo studio; dimostrò quindi nei primi passi (a Salso-
maggiore prima, poi a Borgo S. Donnino, nel Collegio di latinità,
dov'era stato mandato a undici anni) disamore alla fatica mentale.
(1) C. Canto, Notizia di G. D. Romagnosi (Prato, Guasti, 1840);
Giuseppe Sacchi, Biografia di G. D. Romagnosi colV Appendice degli
ultimi giorni di Romagnosi di Defendente Sacchi (in Annali Uni-
versali di statistica, agosto e sett. 1835, Siena, Porri, 1835, e Prato,
Guasti, 1840, insieme con la Notizia del Cantìi); Defendente Sacchi,
Necrologia di G. D. Romagnosi (nel Cosmorama pittorico, 1831, num.25,
e Prato, Guasti, 1840, con la Notizia detta); Anonimo, Alcune notizie
intorno alla vita e alle opere di G. D. Romagnosi piacentino (Lugano,
Ruggia, 1835, e Prato, Guasti, 1840, pure con la Notizia del Cantìi);
Giuseppe Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi (Milano, Libreria
Edit. Milanese, 1913); Alessandro De Giorgi, Cenni sulla vita di G.
D. Romagnosi (in Opere filosofiche edite ed inedite di G. D. Roma-
gnosi, Milano, Pcrelli e Mariani, 1842); PoLi, Op. cit., Volume IV,
§§ 433-439; D. MiSTRALi, G. D. Romagnosi martire della libertà ita-
liana, precursore dell' idea sociale moderna, Borgo S. Donnino, Ver-
deri e C, 1907; Luzio, // processo Pellico-Maroncclli, Milano, Co-
gliati, 1903, Spec. Cap. VI e Appendici XII e XIII; A. Monti, G. D.
Romagnosi ■ Contributo biografico, in Nuova Antologia, 1 maggio 1918.
(2) Per la data vedi Mistrali, Op. cit., pag. 8.
— 131 —
Fu perciò una gioia per il fanciullo l'essere ammesso, il novembre
del 1775, nel collegio Alberoni (ad un miglio da Piacenza). Ivi
alla sua mente già agitata dal bisogno profondo di meditare si
rivelò la luce che doveva poi guidarlo in tutto il cammino di sua
vita: il Saggio analitico sulle facoltà dell' anima del Bonnet (1).
Lo ebbe da un collegiale in cambio della Regola per l'ordinazione
dei sacerdoti (2); e lo lesse con un palpito segreto. Vegliava le
lunghe notti chino sul libro prediletto, e gli pareva d'averne già
scorso o meditato il contenuto; solo che prima brancolava un
po' nell'ombra; ora invece trovava un luminoso filo conduttore,
che gli mostrava la via da seguire nello scrutare gli abissi del-
l' uomo e della natura. Il Romagnosi considerava come una for-
tuna r aver trovato queir opera; spesso anzi baciava dinanzi ai
suoi discepoli il volume, al quale attribuiva la sua dirittura nel
ragionare (3).
Nel collegio Alberoni si segnalò nello studio delle matema-
tiche applicate, della geometria e sopra tutto della fisica. Erano
allora esaminati specialmente i fenomeni della luce e dell' elettri-
cità (allo scopo di fissarne le leggi). Il Romagnosi nelle vacanze
autunnali convertiva la sua stanzuccia in una camera ottica; di
notte s' alzava dal letto per osservare dalla finestra i guizzi dei
lampi; sperimentava 1' elettricità su sé stesso con gli apparecchi
fisici, e talora era dai compagni raccolto da terra tutto stordito
dalle scosse potenti che ne aveva ricevute.
Per la logica e la metafisica ebbe professori, nel primo anno,
Giovanni Antonio Comi, pavese (che ricordava con tanto affetto),
e, in parte del secondo, Francesco Chiabrandi, di Alessandria.
(1) Romagnosi, Introduzione allo studio del diritto pubblico uni
versale, Tomo II, pag. 172, Milano, Rusconi, 1825. Tra i manoscritti
del Romagnosi fu anche trovato un compendio della filosofia del
Locke, che il Cantù {Op. cit., pag. 101, nota) dice scritto dal filosofo
a diciotto anni.
(2) Giuseppe Sacchi dice: in cambio d'un esemplare di Virgilio.
(3) Era testo di filosofia nel Collegio Alberoni il complesso delle
opere di Cristiano Wolf. 11 Cattaneo perciò sostiene nei Saggi di filo-
sofia civile (pag. 101), che, più che il Bonnet, esercitò grande efficacia
sul Romagnosi il Wolf. A me non pare; poiché il metodo del Roma-
gnosi non è certo quello razionale e deduttivo del filosofo tedesco.
- 132 —
Gli studi naturalistici gli fecero trascurare quelli di teologia; ma,
contro r aspettativa dei j3rofessori, rispose benissimo anche alle
domande più difficili rivoltegli in questa materia.
Il Romagnosi ricordò sempre con piacere, durante la sua vita,
gli anni trascorsi nel Collegio Alberoni (1). Vi ebbe compagno
Melchiorre Gioia, a cui fu legato fin negli ultimi anni da schietta
amicizia (2),
Uscì dal collegio nelle vacanze del 1781, dopo otto anni di
studi; poiché non aveva persistito nella risoluzione mostrata per
alcun tempo di darsi al sacerdozio; ed entrò in Piacenza nello
studio d' un avvocato, a studiar leggi. Ma, tornato a casa, in Sal-
somaggiore, per le vacanze dell' autunno, vi fu trattenuto, quasi
in castigo, tutto l' anno seguente dai suoi parenti, i quali non
vedevano di buon occhio che il giovane si fosse innamorato d'una
bella fanciulla di Piacenza, inferiore a lui per condizione sociale.
Durante l'anno trascorso in famiglia si diede di nuovo allo studio
delle scienze naturali, e osservò che l'ago calamitato d'una bus-
sola, toccata da un filo d'argento comunicante con una pila elet-
trica, diverge parecchi gradi dalla direzione del polo e non sente
più l'attrazione del ferro; i suoi esperimenti, ripresi poi nel 1802,
furono pubblicati nella Gazzetta di Rovereto il 3 agosto 1803, e
mostrarono le somiglianze esistenti tra il fluido elettrico e quello
magnetico. Sedici anni dopo, questa stessa osservazione fu ripe-
tuta con esperimenti più esatti e scientifici dallo svedese Oerstedt,
e, pubblicata, fece chiasso; ma il prof. Configliacchi nel suo Gior-
nale di Fisica il 1820, e il 1827 il prof. Libri ntVC Antologia di
Firenze ne rivendicarono il merito al Romagnosi. Cessato intanto
il periodo di sua, diciamo così, reclusione in Salsomaggiore, compì
in Parma il corso di giurisprudenza, e 1' 8 agosto 1786 ottenne
la laurea; tornò allora in Piacenza, dove il padre era giudice de-
(1) Dedicò ai Missionari del Collegio l'opera sua SnlV insegnamento
primitivo delle matematiche; e cominciò a scrivere, quasi in segno di
riconoscenza, una Vita del Cardinale Alberoni (in Biblioteca Italiana,
1S34; vedi Articoli intorno alla vita del Cardinale Alberoni in Opere
storico-filosofiche e letterarie del. Romagnosi, Ediz, De Giorgi, Milano,
Pereili e Mariani, 18-14, Volume unico, Parte li, pag. 871 e seg.).
(2) Del Gioia, come si sa, scrisse una biografia.
— 133 ~
legato, e si diede ad esercitare la sua professione, pur non tra-
lasciando gli studi scientifici e filosofici. Iscritto alla Società let-
teraria di Piacenza, vi lesse qualche dissertazione (1); ebbe così
modo di stringere amicizia con alcuni giovani studiosi. Pare che
con questi (specie con Gaetano Godi) discutesse a lungo se la
pena di morte sia possibile nello stato di natura; egli era per il
no; ma, non riuscendo a convincere i suoi amici, stabilì di pro-
vare la sua opinione con un' opera poderosa. Scrisse così la Ge-
nesi del diritto penale (Pavia, 1791) (2), la quale gli procacciò
fama e ammirazione di scienziati; cosicché gli furono offerti vari
uffici lucrosi e onorevoli. Trovandosi male nel suo paese, anche
perchè i parenti volevano ancora tenerlo in una specie di sog-
gezione, accettò di andare a Trento come pretore. Allora la città
italiana era capoluogo d' un principato in apparenza indipen-
dente (3), che rientrava nel sacro romano impero ed era retto da
un vescovo e amministrato da un consiglio aulico. Per render
giustizia vi era chiamato un pretore di fuori, il quale era eletto
dal municipio e confermato dal principe. li Romagnosi stette molto
(1) Una Sali' amore delle donne considerato come motore precipuo
della legislazione, in cui (nella seduta del 23 giugno 1789) confutava
il celebre paradosso dell' Helvétius sulle donne (questo discorso fu pub-
blicato a Trento il 1792). Secondo l'anonimo autore di Alcune notizie
intorno alla vita e alle opere di G. D. Romagnosi (pag. 198, nota) il
Romagnosi avrebbe letto (il 1790) nella ricordata Società letteraria di
Piacenza anche le altre due dissertazioni Che cosa è uguaglianza? e
Cile cos'è libertà?, che però furono pubblicate a Trento l'una il 1792,
il 1793 l'altra (ripubblicate più volte, anche in La filosofia civile di
G. D. Romagnosi a cura di F. de Sarlo, Lanciano, Carabba).
(2) Il fondamento del diritto di punire, secondo il Romagnosi, va ri-
cercato nel diritto naturale di difesa, che compete a tutti gli organismi
viventi.
(3) La casa d'Austria, che sin dall'anno 1363 era divenuta erede
della contea del Tirolo, esercitava come tale un diritto di protettorato
o di avvocazia sul principato vescovile di Trento. Tale diritto era re-
golato da speciali convenzioni, tra le quali le così dette compattate dei
vescovi Giorgio di Hack e Giovanni Hinderbach (anni 1454 e 1468),
secondo cui ai conti del Tirolo era riservato il diritto esclusivo di en-
trare a piacimento nelle fortezze e nei castelli del vescovado, di eleg-
gere il capitano comandante il presidio di Trento e di mantenervi quanti
— 134 -
volentieri in quei luoghi, la cui popolazione stimava specie per
la veridicità e schiette0za, come anche per l'amore dell'ordine e
della giustizia. Dopo esser stato confermato per tre anni succes-
sivi (1) neir ufficio di pretore, fu dal principe-vescovo Pier Vi-
gilio dei conti di Thunn (2) nominato consigliere aulico (6 mag-
gio 1793). Allora l'Italia era in sommovimento perla discesa dei
Francesi, e danzava ebra intorno agli alberi della libertà. Il Ro-
magnosi, sebbene volgesse sempre con amore il suo pensiero
all' Italia, preferì provvisoriamente alla vita agitata della penisola
la tranquilla dimora nelle montagne trentine, ove, rinnovando i
soldati credessero. Ma oltre a questi e ad altri diritti (fra i quali quello
di giudicare in appello sulle controversie dibattute nei tribunali vesco-
vili) i conti del Tirolo avevano vecchie pretese di sovranità assoluta sul
principato, le quali avevano dato origine a liti interminabili. Perciò
l'indipendenza di Trento era, più che reale, apparente. Vedi L. Mar-
chetti, // Trentino nel Risorgimento, Albrighi, Segati e C, 1913, Voi. I,
pag. 2-3, nota.
(1) Giuseppe Sacchi dice veramente che il pretore a Trento era
eletto ogni tre anni (Op. cit., pag. 138), invece ii Cantù {Op. cit.,
pag. 30), Defendente Sacchi (Op. cit., pag. 182) e il Ferrari (Op.
cit., Gap. IV, pag. 59) dicono che il Romagnosi fu confermato per tre
anni succesivi; sicché parrebbe che ii pretore fosse eletto ogni anno.
(2) Fu l'ultimo della serie otto volte secolare dei principi ecclesia-
stici tridentini e uno dei più servili all'Imperatore e conte. Appena
eletto, si recò a Vienna per regolare i rapporti dello Stato tridentino
con l'Imperatrice Maria Teresa, e concluse con questa un trattato che
fu come la sentenza di morte del principato. Giacché si adattò mediante
esso a perequare le imposte del principato secondo le patenti emanate
dal governo del Tirolo, aderì al principio della coscrizione militare, ac-
cettò le dogane austriache stabilite ai confini del paese, ammise che il
capitano il quale rappresentava a Trento l'Imperatore come conte del
Tirolo, avesse il diritto di definire le controversie d'indole militare e
finanziaria a lui sottoposte dalle comunità trentine dipendenti dal ve-
scovo. Infine nel 1784 andò a Vienna ad offrire all'Imperatore il suo
principato contro una discreta ed adeguata somma. Ma il Gonsiglio di
Stato di Vienna respinse la proposta, per non affrontare le ire della
Dieta dell'Impero, al quale apparteneva il vescovado. Morì il 17 gen-
naio 1800 in una sua villa in Val di Non, dove s'era ritirato durante
l'invasione deireserciio francese. Vedi Op. cit. del Marchetti, Gap. 1 del
— 135 —
suoi studi di geologia, cercava d'interpretare le « medaglie della
natura », e dava consigli nelle cause (1). Ma 1' onda procellosa
della rivoluzione francese doveva giungere fin lassù. Nel settembre
del 1796 i soldati del Wurmser, vinti dai Francesi nella battaglia
di Rovereto, dovettero ritirarsi dinanzi alla minaccia delle schiere
vittoriose. La città di Trento, abbandonata dagli Austriaci e anche
dal principe-vescovo, restava in balia dei vincitori. I cittadini di
Trento si raccolsero a consiglio per salvare la città. Il Romagnosi
propose di non cedere se non con onore, e, a tal fine, fece di-
struggere il ponte sull'Adige e difendere la riva su cui sorge la
città, con due pezzi d'artiglieria. I Francesi, vedendo questi pre-
parativi di difesa, entrarono dopo negoziati onorevoli per gli
abitanti, e non recarono danno alcuno alla città. Il Romagnosi
seppe anche provvedere alla sussistenza dell' esercito, ripartendo
il contributo dei viveri fra tutti i Comuni del territorio; il quale
provvedimento fu accolto lietamente dagli abitanti e con lode
dal duce supremo dei Francesi. Tornati poi gli Austriaci, fu ac-
cusato da un malvagio di aver favorito i Francesi e di voler ten-
tare un mutamento di governo; fu perciò tratto nelle carceri di
Innsbruck. Ma, dopo il processo, ne uscì tanto innocente, che il
suo calunniatore fu scacciato in esilio. In quell'occasione furono
stampati a Rovereto versi italiani, latini e in dialetto trentino con
questo titolo: Pel felice ritorno da Innsbruck dell' illustrissimo
signor Gian Domenico Romagnosi ex pretore di Trento e consi-
gliere aulico d'onore di S. A. reverendissima véscovo e principe di
Trento, a significazione di sincero giubilo dell' innocenza ricono-
Vol. I. Conosceva il Romagnosi queste macchie del suo principe-vescovo?
Probabilmente no. Ad ogni modo egli era un pubblico funzionario, che
esercitava scrupolosamente la sua professione. Del resto in qualunque
altra parte d'Italia sì fosse recato, regnava la stessa servitù.
(1) Il 1795 era stato proposto dall'Accademia di Mantova un quesito
per determinare « in quali materie, dentro a quali circostanze e fino a
qual segno il giudìzio del pubblico si abbia a tenere per un criterio
di verità ». Il Romagnosi scrisse allora le Ricerche sulla validità dei
giudica del pubblico a discernere il vero dal falso, che inviò all'Ac-
cademia. Ma il manoscritto andò perduto nel trambusto della guerra
del 1796. Fortunatamente il Romagnosi serbava una copia del lavoro,
che fu pubblicato dopo la sua morte (1* Edìz. 1836, Milano).
— 136 —
sciata (1). Ricaduto poi, per le vicende della guerra, il Trentino
nel dominio dei Francesi, il Romagnosi fu dal generale Mathieu
Dumas nominato segretario generale del consiglio superiore, creato
in Trento il 9 gennaio 1801; nel quale ufficio cercò d'ispirare
sentimenti di moderazione e di tolleranza. Intanto Ferdinando,
duca di Parma, dopo aver vergognosamente comperata da Na-
poleone la salvezza e integrità del suo staterello con due milioni
di lire, millesettecento cavalli e grano e oltre venti quadri dei
meglio, moriva, pare di veleno propinatogli, alla Badia di Fonte-
vivo (Q ottobre 1802), ove si era recato ospite del Collegio dei
nobili di Parma. Allora Napoleone ordinò senz'altro alle sue mi-
lizie di occupare lo Stato parmense, nominandone amministratore
generale il Moreau di Saint-Méry, consigliere di Stato e uno dei
comandanti della legion d'onore. Le raccomandazioni di Mathieu
Dumas, di Macdonald e di Pastoret presso il conte Moreau di
Saint-Méry valsero al Romagnosi la nom.ina di professore di di-
ritto pubblico nell'Università di Parma (31 dicembre 1802). L'in-
segnamento gli diede occasione a Parma di comporre, per comodo
dei suoi scolari, un'altra opera magistrale: V Introduzione allo studio
del diritto pubblico universale (Parma, 1805), che dedicò al suo
protettore conte Moreau di Saint-Méry (2). A causa della fama
(1) Al seguito di questa raccolta furono stampate un'iscrizione e due
lettere del Cesarotti, il quale lodava una traduzione del Pervigilium
Veneris, pubblicata dal Romagnosi, ed esortava il filosofo a dedicarsi
alla poesia. La detta traduzione era stata pubblicata a Trento il 179Q
col titolo: Al celebrarsi delle ben augurate nozze tra la nobile signora
contessa Teresa d' Arco ecc. col nobile signor barone Pier Paolo de
Alteinbnrgcr ecc. si pubblica questa nuova e fedele versione del Per-
vigilium Veneris a significazione di sincero giubilo, di dovuta gratitu-
dine e di profondo rispetto. Altri saggi poetici del Romagnosi vedi in
MlSTRALI, Op. cit., pag. 19.
(2) Nella 2» Ediz. d^W Introduzione (Milano, Rusconi, 1825) il Roma-
gnosi v'aggiunse cinque lettere {snW Ordinamento della scienza della
cosa pubblica) a Giovanni Valeri, professore di ragione criminale alla
Università di Sien?, da lui assai stimato (vedi Della suprema economia
etc, Parte II, Gap. XXIX, § 213). Lo scritto Che cos' è la mente sana?
è dedicato al Valeri. Q. Sacchi (Op. cit., pag. 156) dice che il Valeri
insegnava le dottrine giuridiche del Romagnosi.
— 137 —
acquistata dal Romagiiosi come professore e come giureconsulto
i ministri del proclamato Regno d' Italia lo consultarono per la
compilazione del codice penale (28 giugno 1806); poi, non con-
tentandosi di averne i giudizi da lontano, lo vollero a Milano per
il nuovo ordinamento del governo (26 agosto 1806). Il Romagnosi
si recò quindi, l'ottobre del 1806, nella capitale del Regno d'Italia,
e contribuì, come relatore, a compilare il Codice di procedura pe-
nale (1). Le occupazioni di Milano lo obbligarono a rinunziare
alla cattedra di Parma, tanto più che era stato nominato, il 28 gen-
naio 1807, consultore del Ministero di Giustizia. Siccome però
quest' ufficio non era che onorifico, in compenso della cattedra
a cui aveva rinunciato a Parma, fu il 18 febbraio del 1807 nomi-
nato professore di diritto civile all' Università di Pavia (2), donde
piìi presto poteva recarsi a Milano, quando la sua opera fosse
stata necessaria. Ma potè tenere quella cattedra solo un anno; che
gli obblighi dell'insegnamento non gli permettevano di allonta-
narsi spesso da Pavia; cosicché il secondo anno, richiamato a
Milano per assistere il Ministero di Giustizia, dovè rinunziare al-
l' insegnamento. In compenso gli fu però affidata a A^ilano una
cattedra speciale di alta legislazione (18 gennaio 1809), dalia quale
doveva formare i futuri giureconsulti e magistrati. Inoltre il
6 marzo di quell'anno fu nominato Ispettore delle dottrine legali;
in quel tempo cooperò pure, come membro d'una commissione
legislativa, a redigere il Codice penale italiano (3); era anche con-
sultato intorno alle più importanti questioni amministrative e
giudiziarie; infine il governo gli affidò (18 febbraio 1811) il
(1) Il Romagnosi propose, dopo le ultime discussioni, aggiunte e ri-
forme, che furono pubblicate col titolo: Alcune e piti necessarie ag-
giunte e riforme al progetto del Codice di procedura penale pel Regno
d'Italia (Milano, 1806).
(2) Mentre era professore a Pavia, pubblicò due discorsi: Discorso
sulla questione guai sia il governo pili adatto a perfezionare la legi-
slazione civile (Pavia, 1807); Discorso sui vantaggi che alV istruzione
pubblica risultano dal codice Napoleone (Pavia, 1808).
(3) La spedizione del disegno di tale codice a Parigi fu ritardata;
perciò Napoleone, avendolo chiesto e non trovato ancora pronto, de-
cretò l'applicazione del codice francese anche in Italia. Così tutto il
lavoro del Romagnosi e di altri fu sprecato.
— 138 —
compito di dirigere un Giornale di giurisprudenza amministrativa
e civile, per chiarire il nuovo sistema di leggi. È davvero stupe-
facente l'attività del Romagnosi dal 1807 al 1814 (1). L'eccessivo
lavoro danneggiò il suo organismo, cosicché il 19 aprile del 1812
fu colto da una grave emiplegia, che gli paralizzò tutta la parte
destra del corpo, impedendogli la parola e tenendolo in pericolo
di vita parecchi mesi. A poco a poco, per le cure sollecite, si
riebbe, pur rimanendo inerte nel braccio, nella mano e nella
gamba destra per tutto il resto di sua vita. A causa della malattia,
degli aiuti prestati alle sorelle (che erano in condizioni econo-
miche poco floride) e agli amici, delle spese sostenute per la
Massoneria, a cui si era affiliato probabilmente fra il 1806 e il
1808 (fondò una loggia, la Gioseffina), era quasi in miseria.
Andò allora ad abitare in casa di una signora milanese, « Ma-
dama Maggi >: la quale si era impossessata di tutti i guadagni
e dei cuore di lui; e gli aveva, in cambio, ammobiliato un ricco
appartamento; ella gli dava inoltre dei regali, specialmente di
biancheria, di cui pare che il Romagnosi, sprofondato nelle sue
meditazioni, avesse molto bisogno. Si compivano intanto avveni-
menti importantissimi. Il colosso napoleonico crollava, e in Mi-
lano si formavano due parti: quella del clero e dei nobili, che
voleva il ritorno dell'Austria, e quella degl'Italici 'puri, che aspi-
rava alla conservazione de! Regno d'Italia, ma senza i Francesi,
con un governo costituzionale e nazionale. Entrambe dunque con
fini diversi miravano alla caduta del governo napoleonico; co-
sicché si giunse ai tumulti in cui fu ucciso il Prina (20 aprile 1814).
(1) Ecco le opere che pubblicò in varie occasioni: Saggio filosofico-
politico suir istruzione pubblica legale (Milano, 1807); Esposizione della
controversia sulla riduzione delle donazioni anteriori al codice Napo-
leone (Milano, 1811); Discorso sul soggetto ed importanza dello studio
dell'alta legislazione (Milano, 1812); Giornale di giurisprudenza uni-
versale (uscì a Milano sullo scorcio del 1811 e durò fino al 1814; ne
abbiamo otto tomi e due fascicoli del tomo nono; in esso son compresi
alcuni opuscoli editi pure a parte, come Sulle prede marittime, Mi-
lano, 1813, Della cittadinanza e della forensità, Milano, 1814, etc);
Salili necessità delle scuole speciali in Milano, e particolarmente di
quella di pubblica amministrazione (Milano, 1814); Principii fondamen-
tali del diritto amministrativo onde tesserne le instituzioni (Milano, 1814).
— 139 —
11 Romagnosi, pur non immischiandosi nei tumulti, aveva simpatia
per gl'Italici puri; tanto che, avendo il 1813, nell'ultima puntata
del Giornale di giurisprudenza, stampato in un Noia-Bene le se-
guenti parole: « È sotto ai torchi il V fascicolo dell'anno 1814.
II giornale continuerà, riportando anche le variazioni che per av-
ventura avvenissero », egli fu sottoposto a un interrogatorio dalla
polizia intorno allo scopo della Nota. Il 20 aprile 1814 Milano
rimase senza governo, essendo sciolti il Senato e il Consiglio dei
Ministri. Il Podestà raccolse il Consiglio Comunale presieduto dal
conte Gian Luca della Somaglia; fu decisa la convocazione dei
collegi elettorali e la nomina d'una Reggenza provvisoria. Oli
eletti erano tutti partigiani dell'Austria; nessuno degl' Italici puri.
L'Austria, a cui la pace di Parigi aveva assegnato il Veneto e la
Lombardia, prendendo pretesto dalla morte del Prina, mandò a
Milano il generale Bellegarde, per ristabilirvi l' ordine, abolì il
Senato e i Collegi elettorali, e impose di nuovo il sijo dominio
sulle terre agognate. Da quel momento comincia il lavorio pa-
ziente e nascosto di tutti i patriotti italiani, che aspiravano all'unità
nazionale; è un sordo sommovimento che preannuncia un' eru-
zione vulcanica. Già sullo scorcio del 1814 si ordì a Milano una
congiura militare (a cui presero parte quasi tutti i capi apparte-
nenti al disciolto esercito nazionale) per scacciare l'Austria e ri-
stabilire il Regno d'Italia. Anche il Romagnosi fu indirettamente
implicato in tale cospirazione; giacché a questa partecipava un
avvocato uditore presso la sua scuola: Giovanni Sovera Lattuada
di Ponte Curone (Lomellina), il quale ebbe 1* incarico di redigere
lo schema della futura Costituzione, e, a tal fine, ebbe dal Ro-
magnosi il permesso di giovarsi del manoscritto della sua opera
ancora inedita < La scienza delle Costituzioni » (pubblicata poi
col titolo Della costituzione d'una monarchia nazionale rappresen-
tativa). Scoperta la congiura per opera d'una spia, e incarcerato
il Lattuada, il generale austriaco Bellegarde ordinò una perquisi-
zione in casa del Romagnosi per sequestrare il manoscritto. Ma
rimase con tanto di naso, poiché, all' apparire dei poliziotti, i
fogli compromettenti furono gettati per una finestra nel giardino
sottostante dal fedele domestico e ammanuense del Romagnosi,
Angiolino Castelli, nobile e grande animo, quantunque incolto,
che, per poter capire il grande scrittore, leggeva le biografie degli
uomini celebri. Ma la polizia austriaca segnò nel suo libro nero
— 140 —
il Romagnosi, e cominciò a perseguitarlo in tutti i modi. Già la
Reggenza (composta di austriacanti), avendo destituito dai pub-
blici uffici tutti i forestieri, voleva mandar via anche il nostro fi-
losofo. Ma, giacché questi aveva ottenuta la cittadinanza del regno
lombardo-veneto, fu lasciato nell'insegnamento dell'alta legisla-
zione con r aggiunta del diritto canonico, mentre gli si faceva
sperare una cattedra all'Università di Pavia. Ma questa non gli
fu mai data; anzi nel settembre del 1817, essendo state abolite
le scuole speciali, fu mandato via con l' irrisoria pensione di
mille duecento cinquantacinque lire l' anno. Fu un brutto mo-
mento. La signora Maggi o il marito di lei aveva perduto, al
ritorno degli Austriaci, ventimila lire di rendita; voleva tuttavia
mantener sempre in casa lo stesso lusso e decoro; gettò quindi
il Romagnosi in una rete di debiti, d' intrighi e di seccature, sfrut-
tando il credito del nome di lui, fino a che un sequestro del pa-
drone di casa per fitti arretrati e un altro dei creditori costrin-
sero la signora a fuggir di Milano. Anche questa volta il Roma-
gnosi fu soccorso e salvato dal suo angelo tutelare, il Castelli,
che cercava con tutte le sue forze di liberarlo dai creditori e dalla
fame. Lasciò così la casa della signora intrigante, ma non Milano;
dove, chiesto e ottenuto il 19 novembre del 1819 il permesso
d' insegnare privatamente, cercò di tirare innanzi alla meglio la
vita (1), scrivendo anche in giornali. Fu fondato in quel tempo
(3 settembre 1818) dai letterati patriotti che frequentavano la casa
del conte Porro Lambertenghi (già deputato ai Comizi Cisalpini
di Lione) // Conciliatore, in cui scrivevano, agitando la bandiera
de! romanticismo e della libertà, Silvio Pellico, il marchese Lu-
(1) Il 1815 pubblicò il 1" volume dell'opera Della costituzione d'una
monarchia nazionale rappresentativa (con la falsa indicazione Filadel-
fia, 1815; in realtà fu stampato a Lugano) senza il suo nome. Ma una
sentenza con cui si chiude il volume indica l'autore, poiché ciascuna
parola che essa contiene comincia con una delle lettere di cui è for-
mato il cognome Romagnosi. Questo libro sosteneva la causa dell' in-
dipendenza e della libertà d'Italia; perciò, come vedremo, il Romagnosi
dovette renderne conto nel processo del '21 a Venezia. Il 1820 pubblicò
(per uso dei giovani che istruiva privatamente) col titolo di Assunto
primo della scienza del diritto nazionale (Milano, 1820) le lezioni te-
nute in Milano dalla cattedra di alta legislazione.
— 141 —
dovico De-Bréme, Pietro Borsieri, Giuseppe Pecchie, Federico
Gonfalonieri, il marchese Ermes Visconti, il dottor Giovanni Ra-
sori, Giovanni Berchet, il prof. Adeodato Ressi dell' Università
di Pavia (1). Anche il Romagnosi vi pubblicò degli scritti; e più
tardi si trovò col Pellico e altri coinvolto nei famosi processi
del '21.
È noto che allora gli animi ardenti dei giovani italiani comin-
ciavano ad esser conquistati dalla Carboneria, ramo della setta
dei Massoni, diffusisi in Italia specialmente al tempo di Napoleone,
che se n'era valso come d'uno strumento di governo (Napoleone
aveva ricevuto il titolo di astro supremo della luce massonica;
Eugenio Beauharnais, Giuseppe Bonaparte e il Murat erano stati
Grandi Maestri). Già una condanna di Carbonari si era avuta nel
Lombardo-Veneto il 1818, quando l' affiliato Antonio Villa, per
imprudenze commesse nel paesello della Fratta (Polesine), era
stato tratto in arresto il 16 dicembre, e, spinto dall'astuto com-
missario Lancetti, aveva scioccamente denunciato i compagni
Oroboni, Don Marco Fortini, Munari, Foresti, Solerà e altri, che
lo avevano tutti seguito in prigione (2). L'Austria dopo questo
fatto aveva inasprito la vigilanza e dato incarico al magistrato ti-
rolese Antonio Salvotti d'irretire i cospiratori. Si venne così al
processo Pellico-Maroncelli. Piero Maroncelli, proveniente da Forlì
(sua città natale), conobbe a Milano Silvio Pellico, allora istitutore
dei figli del conte Porro Lambertenghi, gli svelò d'esser carbo-
naro, l'aggregò alla setta col grado di Maestro. Per mezzo del
Pellico fu facile aver l'aiuto del conte Porro, il quale, sdegnato
per la soppressione del Conciliatore (che per ordine dell'Austria
aveva dovuto cessare di vivere il 17 ottobre 1819), accolse lieto
l'idea di sostituire al giornale una « Vendita » di Carbonari; entrò
(1) A. CoMANDiNi, Nel primo centenario del Conciliatore > (1818-
1918) in Rivista d^ Italia, 30 settem. 1918, e // «foglio azzurro » dei
Carbonari in Milano in // Secolo XX, 1» settem. 1918. II Pellico era
segretario del cenacolo. Il Conciliatore sorse in opposizione alla Bi-
blioteca Italiana dell'Acerbi, che era piuttosto ligia al governo austriaco,
benché avesse prima avuti come collaboratori, sia pure non molto en-
tusiasti, il Pellico stesso, il Bréme e il Borsieri.
(2) Questo processo, noto col nome dì processo Foresti-Solera, è
narrato dal Luzio {Op. cit., Gap. I).
— 142 —
nella setta, e si adoperò per la propaganda.. 11 31 agosto 1820 il
Pellico si recò dal Romagnosi per invitarlo ad entrare nella Car-
boneria. Il filosofo rifiutò, ritenendo imprudente il tentativo; e lo
accomiatò con le parole: ^ Non vogliate pericolare per cotesta
riunione italiana, che io da un momento all'altro vi potrei dare
tutte le fila -. Il Pellico ebbe l'impressione che il Romagnosi
sostanzialmente fosse d'accordo coi cospiratori, e incaricò un
compagno d' insistere presso il filosofo. Ma per un' imprudenza
del Maroncelli, che affidò al sarto Giovanni Pirotti una lettera
compromettente da consegnare al fratello suo a Bologna, fu sco-
perto tutto. In quella lettera erano, fra gli altri, nominati come
partecipi del movimento patriottico il Romagnosi, il Gioia e Silvio
Pellico; di più, vi si chiedeva la Costituzione di Romagnosi
stampata a Lugano . Il Maroncelli e il Pellico, carcerati (ot-
tobre 1820), furono da prima inquisiti a Milano, dove il processo
assunse una piega piuttosto sodisfacente specie per il Pellico;
ma furono poi condotti a Venezia presso la Commissione spe-
ciale per i delitti d'alto tradimento; colà, messi alle strette dalla
dialettica incalzante del Salvotti, finirono col rivelare tutto, tra
l'altro d'aver avuto colloqui politici con Romagnosi, Arrivabene
e Ressi. Seguirono perciò altri arresti, fra i quali quello del Ro-
magnosi (giugno 1821) (1), accusato d'aver, contro la legge, omesso
di denunciare il Pellico, pur sapendolo carbonaro. Anche il Ro-
magnosi fu condotto a Venezia, e gettato nelle carceri di S. Mi-
chele di Murano. Egli si difese abilmente: affermò d' aver avuto
un fuggevole colloquio col Pellico, ma di non ricordarne i par-
ticolari, a causa dell' emiplegia sofferta. Aggiunse che del resto
non poteva se non avergli risposto con Bacone che le sette non
producono mutazioni, almeno estese ed efficaci (2), Durante lo
(1) Anche l'Arrivabenc e il Ressi furono arrestati.
(2) Nella sua difesa il Romagnosi, credendo che il Pellico l'avesse
denunciato per ottenere mitigazione di pena, adoperò verso il poeta
saiiizzese parole aspre ed amare, che mi duole siano uscite dalle sue
labbra. Spesso questi eroi dell'indipendenza italiana perdevano la bus-
sola nelle angustie del carcere! II Pellico aveva rivelato tutto perchè,
in seguito alle confessioni del Maroncelli, non potè, a causa della sua
squisita coscienza morale, mentire e contradire l'amico. Si legga a
pag. 117 dell'opera del Luzio la nobilissima lettera del Pellico.
— 143 —
svolgimento della causa, avuto il permesso di studiare e scrivere,
compose V Insegnamento primitivo delle matematiche, che fu poi
pubblicato a Milano, il 1822 (1). Stette nelle carceri di Murano
dall' 11 giugno al 10 dicembre 1821, quando fu assolto « dal delitto
di alto tradimento, per omessa denuncia, ad esso imputato, e dal
pagamento delle spese, venendo riconosciuta la di lui innocenza ».
All'uscire di carcere però fu dal governo austriaco spiato con-
tinuamente e sottoposto ancora a persecuzioni subdole, vili, abiette:
gli fu tolto il permesso di dar lezioni private di studi legali (2),
onde dovette arrabattarsi in tutti i modi per trarre avanti l' in-
ferma vita. Dava consultazioni legali, scriveva introduzioni di cause
civili, allegati e atti per i tribunali, benché in nome d'altri avvo-
cati (che in nome suo non gli era permesso), i quali, quando
vincevano le cause, s'arrogavano tutto il merito, e al Romagnosi
non davano del ricco guadagno se non quanto si dà ad uno
scrivano; componeva articoli per giornali e abbozzi di nuove
opere (3). Scrisse neWApe Italiana (1822, Voi. 1, pag. 81, e Voi. II
pag. 3) alcune Osservazioni su la Scienza Nova di Vico, e sparse
i tesori del suo sapere nella Biblioteca Italiana, neW Antologia,
nella Minerva, neW Indicatore e sopra tutto negli Annali di sta-
tistica, che chiamava // suo giornale. Non ostante tutto questo
lavoro, il Romagnosi non viveva nell'agiatezza; il Castelli gli con-
sigliava di scrivere opere lucrose; « ma la filosofia non gli per-
(1) Diede occasione a quest'opera principalmente il libro del Wronskv
intitolato Introdiiction à la philosophie des inathétnatiques et tecnique
de V algorithmie, Paris, 1811.
(2) Questo divieto proveniva dall'imperatore stesso d'Austria. Vedi
Luzio, 0/7. cit., pag. 140.
(3) Allora appunto, cercando di colmare la lacuna che esisteva nella
giurisprudenza civile rispetto alle leggi che riguardano le acque, scrisse
il trattato Della condotta delle acque secondo le vecchie, intermedie e
vigenti legislazioni de^ diversi paesi d^ Italia colle pratiche rispettive
loro nella dispensa di dette acque (Milano, 1822-25). Quest'opera fu
rifusa in Della ragion civile delle acque nella rurale economia (Mi-
lano, 1829), lavoro interrotto dalla morte del filosofo. Il 1824 pubblicò
il solo manifesto di un Dizionario ragionato positivo delle pili impor-
tanti parole della giurisprudenza romana, francese ed austriaca (Mi-
lano, 1824), e il 1826 Scritti scelti o rari di storia e letteratnraiPnvìn, 1826).
— 144 —
mise d'occuparsene *. Venne allora in suo aiuto un ricco e ge-
neroso industriale lombardo: Luigi Azimonti, che dal 1822 in poi
lo accolse ospitalmente' e lautamente durante i mesi autunnali
nella sua villa di Carate Brianza, e, per non avvilire e addolorare
il grande pensatore, mandava il danaro occorrente pei suoi bi-
sogni al Castelli, il quale doveva cercare che il filosofo non se
n'accorgesse o non avesse a dolersene. < Un filosofo -, egli scri-
veva al Castelli, < pensa agli altri e non a sé, occupandosi di
studi, i quali noi dobbiamo promuovere a bene della società col
pensare noi a ciò che lo riguarda dal canto della nettezza per-
sonale e del suo mantenimento il più salubre ed adatto .
In mezzo a queste difficoltà apparve un raggio di speranza:
alla fine del 1824, Lord Guilford, incaricato dal governo britan-
nico di fondare un'Università a Corfù, lo invitava ad insegnarvi,
con lauto stipendio, la parte che gli piacesse del corso di giuri-
sprudenza. Il Romagnosi accettò con entusiasmo l' invito, e già
sognava di godere alfine neh' isola famosa la libertà invano so-
spirata per tanto tempo. Sognava di vedere sorgere e svilupparsi
una nuova scuola di filosofia, feconda di una civiltà più grande
delle passate. Ma.... occorreva il passaporto. Lo chiese alla po-
lizia, e lo fece richiedere, per mezzo dell'ambasciatore britannico
a Vienna, dal conte di Guilford. La risposta da prima fu favo-
revole. Ma quando, alla fine dell'aprile 1825, presentò regolare
domanda, trovò difficoltà e lungaggini; poi, il 15 maggio, la po-
lizia lo avvertì che « partendo con lui Angelo Castelli, era ne-
cessaria l'assicurazione che la famiglia Castelli non avrebbe man-
cato dei mezzi necessarii di sussistenza >. Era evidentemente una
maligna scusa del governo austriaco. Allora l' Azimonti si obbligò
presso il governo di provvedere lui al mantenimento della famiglia
del Castelli. Ma l'Austria, come il lupo della favola, irritata d'aver
visto fallire la sua falsa manovra, e volendo ad ogni costo com-
mettere una perfidia, dichiarò «. che l'Imperatore Francesco I non
poteva permettere che un uomo di tanto ingegno e che era stato
sotto processo politico abbandonasse i suoi stati » ! Così il sogno
di libertà e di lavoro benefico svanì tristamente, e il grande pen-
satore tornò alla fredda realtà. Si rimise al lavoro con più energia
di prima; con 1' anno 1826 cominciò infatti quasi un nuovo pe-
riodo della sua vita; giacché estese i suoi studi a quattro nuovi
campi: l'ideologia, la storia, la statistica e l'economia politica in
- 145 —
relazione alla filosofia civile. Nelle Questioni sull'ordinamento delle
statistiche civili dimostrava, d'accordo col Gioia, come la stati-
stica possa acquistar la solidità d'una scienza; in Che cos^è la
mente sana? Indovinello massimo che potrebbe valere poco o nulla
(Milano, 1827) trattò i problemi fondamentali dell'ideologia (1).
Avendo poi Francesco Forti osservato ntW Antologia di Firenze
(febbraio 1828, anno Vili, Voi. XXIX) che la dimostrazione circa
la dipendenza delle sensazioni dagli oggetti esterni data dal Ro-
magnosi in Che cos'è la mente sana? potrebbe esser contradetta
dagli scettici, egli scrisse, in risposta, Della suprema economia del-
l'umano sapere in relazione alla mente sana {Mìhno, 1828). II 1831
raccolse in L'antica morale filosofia esposta quanto alla peripate-
tica dal Zanotti, alla stoica e pitagorica da vari greci, aggiuntavi
la delineazione di quella di Iacopo Stellini (Milano, Ferrarlo, 1831)
scritti d'altri pensatori, che giovassero all'evoluzione morale de-
gl' Italiani (2). Riteneva assai utile anche Io studio della logica;
ripubblicò quindi la Logica pei giovanetti del Genovesi, che cre-
deva molto adatta a < tutelare il deposito della sana dottrina ri-
cevuta dai nostri maggiori > dagli « assalti tentati contro i fon-
damenti del poter logico > da parte della filosofia tedesca (3);
e v'aggiunse le Vedute fondamentali suW arte logica (Abitano, Fon-
tana, 1832) (4).
(1) Egli spiega così il titolo del suo lavoro: - Egli è un indovinello,
perchè l'uomo interiore non si vede e non si tocca; egli poi potrebbe
valer poco se ci arrestassimo alla sola descrizione dei costitutivi opi-
nati della mente sana; potrebbe poi valer niente, sia che falliamo nelle
risposte, sia che non le proviamo a dovere, sia finalmente che preten-
diamo di penetrare nelle essenze reali e nelle cause prime . Vedi Ra-
s^ione del Discorso premessa a! lavoro, pag. 472 dell' Ediz. De Giorgi.
(2) Questi scritti sono: la Filosofia morale di F. M. Zanotti, il Ma-
nuale d'EPiTTETO tradotto dal Pagnini, la Tavola di Cebete Tebano
tradotta pure dal Pagnini, frammenti d'altri pitagorici, come Archita,
Ipodamo Turrio, Eurifanio, Iparco, Teage, Polo, Sesto pitagorico, e la
Delineazione della filosofia morale scritta dallo Stellini stesso {Opere
storico-filosofiche e letterarie di G. D. Romaonosi, Ediz. De Giorgi,
Volume unico, Parte lì, pag. 1386 e seg.).
(3) Ragione dell'Opera, pag. 5 (,Ediz. De Giorgi).
(4,1 Oltre queste opere sono importanti per l'ideologia i seguenti
scritti: Esposizione storico-critica del Kd'ttismo e delle consecutive dot-
— 146 —
Nell'aprile del 1830 un programma accademico, pubblicato
dall'Ateneo delle Arti di Parigi, con cui s' invitavano i dotti a
determinare i caratteri, del vero incivilimento, lo spinse ad oc-
cuparsi di questo argomento e dal punto di vista filosofico e dal
punto di vista storico. Innanzi tutto mostrò negli Annali univer-
sali di statistica (1830, Voi. XXVI) come quel tema si sarebbe
dovuto svolgere; quando poi, nell'agosto del 1831, fu dall'Ateneo
di Parigi premiato il difettoso lavoro scritto da Vittorio Franklin
in risposta al quesito, il Romagnosi credè opportuno di rifar lui
il lavoro; pubblicò quindi negli Annali universali di statistica (1)
trine - Articolo di G. D. Romagnosi su l'opera del barone Pasquale
Galluppi intitolata: Lettere filosofiche su le vicende della filosofia
relativamente ai principi delle conoscenze umane da Cartesio fino a
Kant inclusivamente (in Biblioteca Italiana, 1828, Voi. L, pag. 163; e
1829, Voi. LUI, pag. 180); Questioni su le apparenze fisiche, su resten-
sione e su la durata (spazio e tempo) - Articolo su l'opera di Ermes
Visconti intitolata: Saggi filosofici (in Biblioteca Italiana, 1829, Vo-
lume LVI, pag. 184); Libertà morale - Articolo su l'opera dell' ab. Giu-
seppe Grones intitolata: Saggio di filosofia teoretica (in Biblioteca
Italiana, 1830, Voi. LVII, pag. 338); Dottrina logica del Galuppi - Ar-
ticolo su gli «< Elementi di filosofia - del Galluppi (in Biblioteca Ita-
liana, 1827, Voi. XLVII, pag. 45); Educazione mentale - Articolo sopra
il Saggio di un corso di filosofia del prof. Baldassare Poli (in Bi-
blioteca Italiana, 1829, Voi. LIV, pag. 406); Progressi e sviluppi della
filosofia e delle scienze metafisiche dal principiare del XIX secolo -
Articolo tradotto dalle Philosophical Transactions con annotazioni di
G. D. Romagnosi (in Indicatore, 1835, Serie IV, Voi. I, pag. 5); Dell'uso
della dottrina della ragione nclV amministrare l'economia dell'inci-
vilimento (Discorso pubblicato a Firenze il 1835). Tutti questi scritti
sono stati pubblicati di nuovo in Opere filosofiche edite ed inedite di
G. D. Romagnosi, Ed. De Giorgi. Tra le opere postume sono da ricor-
dare: Ricerche sulla validità dei giudicii del pubblico a discernere il
vero dal falso (\^ Ediz., Milano, 1836); Piano ragionato di un'opera
che deve portare il titolo: Delle leggi dell'umana perfettibilità per
servire ai progressi delle scienze e delle arti; Discorso sull'ordina-
mento della filosofia morale; Sul talento logico; Degli enti morali.
Anche questi scritti si trovano stampati nelle dette Opere filosofiche
edite ed inedite pag. 725 e seg.
(1) L'anno 1832, Voi. XXXI, pag. 129-241, e Voi. XXXII, pag. 17-145.
La Parte II (che riguarda il risorgimento della civiltà italiana) era stata
— 147 —
la memoria Sali' indole e sai fattori dell' inciviliinento con esempio
del suo risorgimento in Italia, in cui indicò l'ordine e le leggi
secondo cui procede l'incivilimento delle nazioni (1).
Stabilite le leggi dell'incivilimento, volle tracciarne anche l'ori-
gine storica. Già fin dal 1827 aveva pubblicate delle ricerche sul-
l'India antica in continuazione all'opera di Guglielmo Robertson
{Ricerche storiche sali' India antica di Guglielmo Robertson con note,
supplementi e illustrazioni di G. D. Romagnosi, Milano, 1827) (2).
Continuò quelle ricerche pubblicando studi notevolissimi (3), in
cui cercò di mostrare la genesi e il cammino seguito dalla civiltà
nel suo propagarsi traverso i continenti.
Altri ed altri articoli e opuscoli scrìsse intorno allo stesso ar-
gomento o su questioni affini (4) (importanti quelli sull'economia
politica pubblicati negli Annali di statistica). Tanta operosità era
pubblicata già prima, sebbene non intieramente, negli Annali stessi l'anno
1829 (Voi. XX!, pag. 117-125, e Voi. XXII, pag. 33-97).
(1) Si noti che la Parte I di questo lavoro è quasi identica al libro
IV delle Vedute fondamentali sull'arte logica, che tratta appunto del-
l'incivilimento, e alla Ragione delV Opera del libro Della ragione ci-
vile delle acque. XW Indole e fattori delV incivilimento fanno seguito,
quasi Parte III, le Vedute eminenti per amministrare V economia su-
prema delV incivilimento, che mandò manoscritte nel settembre del 1834
all'Accademia delle scienze morali e politiche di Francia, di cui era stato
eletto membro alla fine del 1833 (sono stampate nell'Ediz. De Giorgi,
Opere storico-filosof. e leti., Parte I, pag. 227).
(2) Opere storico-filosofiche e letterarie. Voi. unico. Parte II, Ediz.
De Giorgi, pag. 911 e seg.
(3) 1 principali sono: Esame della storia degli antichi popoli ita-
liani di Giuseppe Micali in relazione ai primordi dell' italico incivili-
mento (in Biblioteca Italiana, 1833); Catalogo di scelte antichità etrusche
trovate negli scavi del principe di Canino Luciano Bonaparte - Osser-
vazioni del prof. G. D. Romagnosi intorno ad una nota del principe
di Canino (Biblioteca Italiana, 1830); Museo etrusco chiusino (Biblio-
teca Italiana, 1831). Questi articoli sono ristampati in Opere storico-
filosof e leti., Ediz. De Giorgi, Parte I, pag. 438 e seg.
(4) Vedi tutti questi articoli ristampati in Opere stor.-fil. e lett.,
Ediz. De Giorgi, Sezione lì, pag. 259 e seg. I piii importanti sono: Cenni
su i limiti e su la direzione degli studi storici (premessi dal Romagnosi
all'edizione pubbl. in Milano nel 1832 del Saggio di C. fannelli su la
natura e necessità delta scienza delle cose e delle storie umane); Al-
— 148 —
veramente prodigiosa in un uomo che aveva sofferto il 1812 un
forte attacco d'apoplessia, ed era obbligato a starsene la maggior
parte del giorno a letto' Ma questo vulcano d'energia a poco a
poco doveva per legge di natura spegnersi. Sul finire del 1833
fu lì lì per andarsene a causa d'una flogosi polmonare. Si riebbe
alquanto nel dolce e salubre soggiorno di Carate, dove, come al
solito, fu ospite del nobile Azimonti nell'estate del 1834. Ma nel-
r inverno del 1835 il male ritornò, e, non ostante le cure affet-
tuose del Castelli e dei medici, il grande spirito 1*8 giugno 1835
cessò di vivere questa vita. I discepoli più cari e più illustri, fra
i quali il Cattaneo e Giuseppe Ferrari, insieme con l' Azimonti,
raccolsero le sue parole estreme, e per 1' ultima volta gli dona-
rono dei fiori, che tanto gli piacevano. La salma fu trasportata
per espressa sua volontà a Carate, dove aveva godute le dolci
gioie dell' amicizia. Sotto il suo ritratto, che aveva lasciato come
ricordo aU'Azimonti, aveva scritto: <■ Desidero che sieno poste sulla
mia tomba queste parole di S. Paolo: cursuni consumavi, fidem
servavi » (1).
IL METODO. — Benché il Romagnosi dica spesso le lodi del-
l'analisi, specie quale procedimento adatto ad ottenere l'evidenza (2)
cani pensieri sopra un^ ultra-metafisica filosofia della storia (lettera al
sig. P. Viessieux, inserita ntW Antologia di Firenze, 1832, Voi. XLVI,
pag. 23); Discorso su le ricerche da instituirsi intorno la scienza sim-
bolica degli antichi e dei sussidi necessari per intraprenderle (in An-
tologia, 1327); Elogio storico di Melchiorre Gioia {Biblioteca Italiana,
1828); Articoli intorno alla vita del Cardinale Alberoni (in Biblioteca
Italiana, 1834) etc.
(1) L'Austria, dopo le numerose persecuzioni a cui aveva sottoposto
il Romagnosi, osò perfino profanare la tomba di lui il 24 novembre 184S
per ricercarvi armi, bandiere e tamburi, che un calunniatore aveva detto
esservi stati nascosti, dopo il ritorno degli Austriaci in Lombardia, dal
marchese Ferdinando Cusani Gonfalonieri (Vedi A. Vannucci, / mar-
tiri della libertà italiana, Firenze, Le Monnier, 1860, pag. 261, nota).
(2) Ricerche sulla validità dei giudicii del pubblico a discernere il
vero dal falso, Parte 11, Sezione I, Gap. IV; Parte IV, Sez. Il, Gap. I-V
(cito sempre l'ediz. delle Opere filosofiche edite ed inedite di G. D.
Ro.MAGNOSi con annotazioni di Alessandro De Giorgi, Volume unico,
— 149 —
e a formare le idee generali (1), pure non ritiene che sia l'unico
metodo scientifico; accanto ad essa colloca la sintesi (2). Aggiunge
che l'analisi dev'essere preceduta da « viste generali e confuse
di assunto » (ipotesi), che, pur dovendo ricevere conferma dal-
l'analisi, preparano le ricerche delia ragione; giacché senza di esse
l'analisi non si potrebbe effettuare con ordine, né si vedrebbe se
rimanga o no qualcosa da esaminare (3). Anzi propende a ripro-
vare come impropria la distinzione fra metodo analitico e metodo
sintetico, giacché secondo lui il metodo nella sua indole propria
e complessiva non é né analitico né sintetico; è discorsivo; certo
in esso intervengono le funzioni di distinguere e di congiungere,
di separare e di unire; ma la caratteristica sua é quella di passare
dall'una all'altra funzione, secondo dati rapporti, per giungere a
una data meta. Un barcaiolo che dirige la sua barca col remo su
un lago, mostra tutti i momenti del metodo scientifico. Egli fende
l'acqua col remo e la divide: ecco la funzione analitica; egli alza
il remo dall'acqua, e questa si riunisce: ecco la funzione sintetica;
egli s'avanza a colpi ripetuti: ecco il corso o discorso. Il mecodo
è costituito da tutti questi atti in quanto conducono a riva. Esso
non è dunque se non un corso di funzioni mentali (sintetiche,
analitiche, progressive) dirette all'acquisto di cognizioni vere (4).
In questo cammino progressivo dove bisogna giungere e fermarsi?
Agli assiomi medi (5). Ogni vera scienza, naturalmente, è fondata
sui fatti (6); finché però noi ci aggiriamo tra i particolari concreti
Milano, Perelli e Mariani, 1842). Cfr. Della suprema economia dell'umano
sapere, Parte II, Gap. XVI, § 154.
(1) Ricerche sulla validità dei giudicii etc, Parte II, Sez. i, Gap. VA.
Vedi anche Della suprema econ., § 154.
(2) La logica pei giovanetti dell'abate A. Genovesi (Ediz. De Giorgi),
Libro I, Gap. I, § 31 e § 77 (aggiunta del Romagnosi). Gfr. Delle leggi
dell' umana perfettibilità, § 665.
(3) Delle leggi dell' umana perfettibilità, § 657.
(4) Vedute fondamentali sulV arte logica, Libro II, Gap. VI, § 827.
(5) L'espressione è tolta da Bacone {De dignitate et augmentis
scientiarum, Libro V, Gap. II).
(6) Perciò « fuori del buon metodo induttivo non vi è salute, o sia
mezzo a scoprire le ragioni assegnabili delle cose •> {Della suprema
economia, Parte II, Gap. XXIII, § 185).
— 150 —
senza possederne la visione complessiva, siamo condannati alla
sfera delle sensazioni (quindi alla corteccia apparente delle cose),
e restiamo esclusi da quella delle scienze. Schiavi della fortuna,
siamo costretti a procedere con un empirismo casuale. Ma, cor-
rendo all' estremo opposto e arrestandoci alla somma generalità,
alle formule sfumate , ci troviamo razionalmente nulli, e
siamo condannati ad una impotenza ultrametafisica (1). Bisogna
dunque stare nel mezzo fra tali estremi. Nella vita reale c'è in-
fatti un' unità sistematica, la quale non si raggiunge tanto col co-
gliere solo alcuni particolari, quanto col sorpassarli: esiste cioè
una sfera che respinge le nozioni che peccano o per difetto o
per eccesso: perciò, quando si tratta di architettare le scienze na-
turali del mondo sia esteriore, sia interiore, si deve assumere una
posizione contemplativa né troppo vicina, da cui non si possa
abbracciare il complesso delle cose, né troppo lontana, dalla quale
spariscano le particolarità necessarie a costituire la scienza e a
regolare le arti. < La soverchia vicinanza al concreto ci condanna
allo sgranato, la soverchia lontananza ci condanna allo sfumato : .
Che cosa fate per es. adoperando un cannocchiale? Lo allungate
fin dove potete; ma poi lo raccorciate e lo allungate di nuovo,
fino a che trovate il punto nel quale vedete più cose e nella ma-
niera più distinta. Ecco l'economia di tutte le scienze d'osserva-
zione. Appunto così si ottengono quegli assio/ni medi che, mentre
non esigono un grande sforzo d'astrazione, sodisfano gli uomini di
solido giudizio e di consumata esperienza. < Qui ^s egli conclude,
« sta lo scopo dell'italiana filosofia (2). < L'italiana gioventù non
amerà, io spero, d' occuparsi di fantasmi alchimistici o di mo-
(1) Filosofia ultra-metafisico il Romagnosi chiama per es. quella di
Hegel (vedi Alcuni pensieri sopra un' ultra metafisica filosofia della
storia in Opere storico-filosofiche e letterarie edite ed inedite di G.
D. ROMAONOSi riordinate ed illustrate da A. De Giorgi, Milano, Perrelli
e Mariani, 1844, Volume unico. Parte I, pag. 284 e seg.). Anche la filo-
sofia di Kant, essendo fondata sugli a priori, è per il Romagnosi ste-
rile e priva di valore.
(2) Per tutta questa parte: Vedute fondamentali, Libro l,Cap. I.Sez. Il,
SÌ5 591-593, e Libro I, Gap. Ili, Sez. 1, 4? 626; Della suprema economia,
Parte 11, Gap. XXXil, §§ 222 e 223, e Gap. XXXIII, §§ 224-225; Dei-
raso della dottrina della ragione, etc, § 491. Le critiche sull'analisi
sono, naturalmente, rivolte al Condillac. Del quale non gli piace nep-
— 151 —
strarsi con istrambotti sibillini. Sia essa italiana, tutta italiana, e
nienf altro che italiana; ma italiana pensatrice, operosa e concorde;
ed allora salirà ad un primato certamente serbatole dalla natura
segnatamente nella terra natale di Dante, di Machiavelli e di
Galilei » (1).
4:
L' IDEOLOGIA. — Come il metodo del Romagnosi segue una
via di mezzo, così l' ideologia sua sta fra il sensualismo e 1' in-
tellettualismo, fra r idealismo e il realismo ingenuo, fra lo speri-
mentalismo induttivo e il trascendentalismo (« li scandali trascen-
dentali ») (2).
La sensazione provocata dal mondo esterno, dice il Romagnosi,
è il primo fondo dell' intelletto; non si pensa senza sentire (3).
Ma rio non accoglie passivamente la sensazione; reagisce imme-
diatamente ad essa con « vibrazioni » sue proprie (4); di modo
che è assurdo immaginare sensazioni informi entrate nell' anima
e modellate dalla mente. Non esistono punto sensazioni informi
importate o, peggio ancora, modellate: l'Io non è una specie di
fonderìa dove già esistano beli' e pronti aei modelli o sigilli, che
diano forma alle larve provenienti di fuori ! La sensazione è il
risultato del rapporto reale fra l'anima e le cose esterne, è l'ef-
fetto di due potenze (il me e il non me) operanti sul fondo comune
della sensibilità. Prima dell' azione di queste due potenze non
esiste. Essa è semplice, necessaria e immutabile come la direzione
diagonale d'un mobile spinto da due forze ad angolo retto.
L' azione delle due forze precede come causa; ne segue una di-
pure la finzione della statua; scrive infatti: « Per quanto caute e fini
sieno le analisi della filosofia del pensiero, esse, allorché sieno fatte
colle statue a piacere animate e con condizioni ipotetiche, lasciano
spesso un non so che di indefinito, il quale non soddisfa pienamente,
e d'altronde mancano di leggi positive e accertate » {Vedute fond.,
Libro I, Gap. II, § 620; Suprema economia, Parte II, Gap. XXXI, § 219).
(1) Alcuni pensieri sopra un' ultra-metafisica filosofia della storia,
pag. 295. (2) Della suprema econ.. Parte lì, Gap. XIX, XX e XXVI.
(3) La logica pei giovanetti del Genovesi, Libro I, Gap. I, § 72 (ag-
giunta del Romagnosi).
(4) Vedute fondamentali, Libro 1, Gap. VI, § 704.
— 152 —
rezionc unica, la quale non si può cambiare se non si muta
r azione. Essa già in sul nascere è compiuta; e non può più es-
sere modellata, poiché è un atto necessario dello stesso Io effet-
tuato in lui (1).
Da ciò derivano due conseguenze: prima di tutto che non si
può parlare di sensazioni trasformate (Condillac), poiché la sen-
sazione non si può trasformare; è fin da principio quello che è (2);
poi che la sensazione (l'atto conoscitivo), essendo in ultima ana-
lisi conformata e appropriata dall' io senziente, non si può con-
siderare né come esclusivamente sensoriale, né come esclusiva-
mente spirituale (cioè come fattura della mente sola). Perciò i
termini sensualismo (indicante la dottrina che fa derivare tutte le
idee dai sensi) e spiritualismo o intellettualismo (indicante la teoria
che le trae tutte dal fondo dell'anima) sono inventati senza di-
scernimento, poiché è assurdo parlar di sensualismo e di spiri-
tualismo come di sistemi distinti e predominanti (3). Il sistema
vero è quello della compotenza, il quale concepisce la conoscenza
come il prodotto di una funzione solidale, per cui i sensi pro-
vocano la potenza senziente, e questa reagisce a quelli (4). Dal che
naturalmente segue che cade la teoria del Locke (e del Condillac)
secondo cui l'anima sarebbe una tabula rasa su cui vadano a im-
primersi i caratteri (che cioè accolga passivamente le impressioni),
giacché r anima non è un ricettacolo inerte d* impressioni, ma
coopera attivamente alla conoscenza (5).
(1) Vedute fondamentali, Libro 1, Gap. VI, § 727; Progressi e svi-
luppi della filosofia con note del Romagnosi, § 433; Che cos'è la mente
sana? Parte I, Gap. Vili, § 43; Dell'uso della dottrina della ragione etc.
Gap. il, 5^ 478.
(2) Esposizione storico-critica del Kantismo, pag. 585, nota 2; Ve-
dute fondamcntpli. Libro II, Gap. VI, § 815 (« lo non dissi e non dirò
mai che le nostre cognizioni siano altrettante sensazioni trasformate >).
Si noti anche che il Romagnosi distingue il giudicare dal sentire {Ri-
cerche sulla validità dei giudicii etc. Parte I, Gap. II, § 21 e 22).
(3) Dell'uso della dottrina della ragione etc, § 560; Progressi e svi
lappi della filosofia, § 433; Vedute fondamentali, Introduzione, pag. 216,
nota 1. (4) Della suprema economia, Parte II, Gap. XIX, § 170.
i5) Vedute fondamentali, Libro 1, Gap. VI, § 703; Della suprema eco-
nomia. Parte II, Gap. XVI, § 153.
— 153 —
Ora, in che consiste propriamente la reazione dell'anima alle
impressioni esterne? Consiste nella rete dei rapporti fondamen-
tali che sono stabiliti fra le varie sensazioni e che vanno consi-
derati non più come impressioni sensoriali, ma come prodotti
dell'attività riferente dell'intelletto (1). Quest'attività intellettiva
è detta dal Romagnosi senso logico o razionale. Il quale interviene
in ogni atto conoscitivo, e, di fronte al materiale fornito dai sensi,
(1) Si noti che secondo il Romagnosi la riflessione del Locke e tutte
le idee relative emesse dal senso intimo non sono che le seconde in-
tenzioni, degli Scolastici (Vedi Progressi e sviluppi della filosofia etc,
pag. 647). Ora, le seconde intenzioni non sono che idee di rapporti,
cioè risultati dell'attività riferente dell'intelletto (Secunda intentio est
relatio relationis, f andata in obiecto cognito, ad aliud obiectum co-
gnituni). 11 che conferma che il senso logico non è se non l'attività
riferent2 dell'intelletto. Ben so che il Romagnosi chiama <; facoltà oc-
culta, recondita, ineffabile etc. questo senso, e talora lo vuol distin-
guere dal potere intellettivo ( Vedute fondamentali, Libro 1, Capitolo VI,
§ 684). Ma si considerino le seguenti parole di lui stesso: ^ Volendo
quindi conoscere ciò che dobbiamo attribuire al senso logico, noi tro-
viamo che i modi definitivi deW intelligenza, provocati dalla sensibi-
h'tà, appartengono a questo senso: la prima somministra il fondo; il
secondo attribuisce la forma del verbo » {Che cos'è la mente sana?
Parte li, § 61). Inoltre, tra gii uffici del senso logico egli pone quello di
< conformare inostri atti psicologici che qualificano l'intendere > {Op.
cit., Parte li, § 62). Ancora: in Dell'uso della dottrina della ragione
etc. (§ 522) dice che il senso logico si mescola alle cinque funzioni del-
l'intelletto (che secondo lui sono: potere e senso assumente, potere e
senso discernente, potere e senso coordinante, potere e senso conclu-
dente, potere e senso esprimente) e ne costituisce, con le sue suità, i
modi e le forme. Aggiunge che questi modi e forme, associandosi a
quelle funzioni, non possono avere un posto a parte: sono come le par-
ticelle e gli articoli del discorso che di per sé non costituiscono un
processo mentale. Da questi luoghi risulta che il Romagnosi stesso viene
in fondo a identificare il senso logico con l'attività intellettuale. Insomma:
la capacità di percepire i rapporti fra gli enti è il presupposto di tutti
gli atti intellettivi (astrazione, generalizzazione, formazione dei concetti,
giudizio, ragionamento) in quanto che, se non ci fosse quella capacità,
questi atti sarebbero impossibili. Ma si tratta non di un'attività speciale,
misteriosa, trascendentale, sibbene della funzione propria dell'intelletto,
che ne costituisce la caratteristica e il fondamento.
— 154 —
stabilisce se una data cosa è simile o dissimile, maggiore o mi-
nore rispetto ad un'altra, singolare o plurale, assoluta o relativa,
semplice o complessa, individuale o collettiva. Le idee di numero,
d' estensione, di tempo etc. sono dunque opera di questa facoltà
intima (1). Esistono per es. due alberi di struttura di foglie e di
altezza diversa. L'alto, il basso, la differenza di forma, la somi-
glianza (di altri caratteri) etc. sono concetti tutti mentali, emessi
dal nostro fondo all'occasione e in conseguenza dell'idea dei detti
alberi. Non sono né astrazioni, né impasti del concreto; sono ag-
giunte della mente (2). Sono segnature razionali, emissioni intime,
logie (da Àó^o?, ragione), che costituiscono il verbo intellettuale o
umano. Esse sono provocate dalle qualità sensoriali (suoni, colori,
odori, sapori, caldo, freddo, duro, molle etc), le quali si possono
chiamare segnature positive a sensoriali (3); ma non si riducono
a queste, anzi le superano; cosicché, analizzando un atto cono-
scitivo, noi vi troveremo sempre due segnature: l' una dovuta
all'azione dei sensi o a quella delle facoltà riproduttrici delle sen-
sazioni (4), l'altra alla reazione dello spirito, il quale con i suoi
atti dà origine come a un nuovo mondo: il mondo della ragione
o dell'intelletto. Il senso logico, creatore delle segnature razionali,
è infatti la caratteristica della vita intellettiva umana. « L' alfa e
l'omega della umana intelligenza appartiene propriamente a questo
senso >; il suo primo ed ultimo officio predomina in ogni fun-
(1) Che cos'è la mente sana? Parte II, §§ 48 e 59.
(2) Della suprema economìa, Parte II, Gap. XIX, § 174.
(3) Op. cit., Parte 11, Gap. XIX, § 165.
(4) Il Romagnosi distingue tre facoltà, diciamo così, inferiori: la
sensualità, V immaginazione e la memoria, le quali concorrono a formare
il campo materiale del potere intellettivo; questo invece è una facoltà
superiore, che elabora quel materiale {Vedute fondamentali, Libro I,
Gap. VI, § 688). Secondo il Romagnosi poi le emissioni dell'intelletto
semplici ed elementari sarebbero sei: l" i rapporti; 2° le qualifiche; 3" le
logie e antilogie; 4" le versioni; 5>* le sui-conformazioni; 6° le consape-
volezze {Vedute fondamentali. Libro I, Gap. VI, Sez, II). Oltre queste
vi sarebbero poi le emissioni complessive. Non mi trattengo su queste
distinzioni, perchè esse non fanno che complicare e oscurare la dot-
trina del Romagnosi; cosicché ne costituiscono piuttosto un difetto che
un pregio.
- 155 —
zione intellettuale, e quindi anche morale, talché si può dire che
nel mondo razionale tutto viene ordinato e compiuto per virtù
di luì > (1). Talvolta il Romagnosi chiama universali >> o « idee
ontologiche • i concetti dei rapporti posti dal senso logico; e
dice che essi possono predicarsi di tutte le idee possibili appar-
tenenti anche a sensi diversi. Così supponiamo che 1' anima sia,
dall'occhio o dall'orecchio o dal tatto o dagli altri sensi, avver-
tita dell'azione di un oggetto; essa può sempre dire che quel-
r oggetto esiste, ossia eh' ella lo sente, e lo sente per una irresi-
stibile necessità. Ecco l' idea di esistenza, idea ontologica comune
a tutti gli oggetti presentati dai diversi sensi. Così pure, se da
un senso qualunque è eccitata una sensazione singola, l'intelletto
può affermare che 1' oggetto è unico e determinato. In tal modo
l'idea di unità e di forma determinata è propria di tutte le cose
possibili, cioè di tutte le idee possibili dell'anima. Del pari l'idea
di successione e di permanenza, di uniformità e di discrepanza, di
stato assoluto e di stato relativo, di essere e di nulla non sono
che espressioni del carattere comune a tutte le idee di qualunque
senso, attuale o possibile. Se infatti l'uomo acquistasse anche un
sesto senso, ne acquistasse migliaia di piìi, o fosse ridotto ad
averne un numero assai minore, e fin' anche uno solo, o, se si
vuole, venisse anche privato di tutti, l'anima potrebbe sempre
concepire le idee universali su dette. L' anima non ne potrebbe
esser privata mai; percepirebbe l'identità e la diversità degli enti,
anche se non fosse unita a un corpo; poiché esse sono del tutto
proprie della natura di lei, sono V espressione delle affezioni natu-
rali della sua forza intellettiva in qualunque tempo o circostanza.
Le idee ontologiche sono dunque i fondamenti primi e immuta-
bili della ragione umana; e il loro numero esprime il numero
delle operazioni possibili, necessarie, naturali e costanti dell'anima
all' occasione delle idee (2).
Le idee matematiche {unità e diversità, più e meno, limiti etc.)
sono le più vicine alle ontologiche, e, per un certo lato, si con-
(D Che cos'è la mente sana? Parte II, Gap. X, § 57.
(2) Ricerche sulla validità dei giudicii del pubblico a discernere il
vero dal falso, Parte II, Sez. I, Gap. XVII; Che cos^ è la mente sana?
Parte II, §§ 47 e 49.
- 156 —
fondono con esse. Questo fa sì che la sfera delle matematiche
abbia un'estensione per noi immensa (1).
Si potrebbe però osservare: — La facoltà che afferma i rapporti
è quella giudicatrice; il senso logico s' identifica dunque col giu-
dizio? — No, risponde il Romagnosi. Il giudizio presuppone il
senso logico, giacché esso non fa che enunciare i rapporti, ma non
li pone, non li crea. Infatti, per poter giudicare, bisogna prima di-
scernere le somiglianze e le differenze, e questo è appunto 1' uf-
ficio del senso logico (2).
Non si deve confondere il senso logico neppure con la con-
sapevolezza, ossia con la facoltà di essere consapevoli delle nostre
idee e delle nostre affezioni (coscienza riflessa o riflessione). La
consapevolezza ci fa avvertire una data operazione psichica, ma
presuppone tale operazione. Quindi prima ci vuole 1' emissione
del senso logico; poi viene l'avvertimento di essa; cosicché il senso
logico differisce dalla consapevolezza, come il battere delle ore di
un orologio differirebbe dal sentimento avvertito che 1' orologio
avrebbe, se fosse possibile attribuirgli un'anima umana (3).
Del pari il senso logico non va confuso con l'attenzione.
Questa può coadiuvare una data funzione, rischiarandola, ma non
crearla; essa può avvivare l' intuizione o concentrare la mente su
una data parte d'un oggetto; ma, tosto che l'idea è discernibile
e avvertita, il senso logico agisce e dà l'essere al verbo pieno
dell'intelletto (4). Dunque la funzione del senso logico è origi-
naria, irriducibile.
*
* *
li senso logico, cooperando con l'attività sensoriale trasforma
il sentire in conoscere o intendere (5), che altro è il sentire e altro
il conoscere (6). Anche volgarmente si distingue il conoscere dal
(1) Discorso sull'indole e generazione naturale dei primitivi con-
cetti matematici, Gap. XXII.
(2) Che cos'è la mente sana? Parte II, Gap. X, § 59.
(3) Op. cit., § 58. (4) Op. cit., § 53.
(5) Suprema economia, Parte li, Gap. XXVll, § 204,
(6) ' All'intelletto appartiene propriamente il conoscere » {Vedute
fond., Libro I, Gap. VI, § 683).
— 1^7 —
sentire; infatti ogni giorno si ode dire: il tale ha sentito e non
inteso nulla. La parola conoscere, derivata dal latino cognoscere
(noscere cani), esprime infatti un concetto risultante dal sentire
accompagnato da un' altra funzione interna. Non si può quindi
negare che nella cognizione propriamente detta entrino elementi
non acquisiti dai sensi (1); tutti i rapporti sopra menzionati sono
elementi siffatti. Ma d' altra parte bisogna riconoscere che la na-
scita di tali elementi extraempirici (non sensoriali) è eccitata sempre
da qualche intuizione sensoriale. Il Romagnosi chiarisce questi
concetti con un esempio. Io entro, egli dice, in una stamperia;
vedo comporre una pagina, per esempio un sonetto; ed ecco la
pagina spiegata sotto il mio sguardo. Allora leggo il sonetto: nel
leggerlo mi pare di rilevare da una parte che il senso corra bene,
ma dall' altra che sia difettoso, e che, di più, contenga idee in-
compatibili. Ora domando: dove e quando esercito io il potere
intellettivo ? Voi mi rispondete che io lo esercito allorché com-
prendo le convenienze dei concetti e ne formo un tutto appro-
priato. Ma, se quella pagina non fosse stata composta, impressa
sopra un foglio, e posta sotto gli occhi miei, sarebbe stato mai
possibile eh' io avessi giudicato della convenienza e sconvenienza
delle idee ivi- espresse ? Or bene, la sensazione, l' immaginazione
e la parola fanno le veci della stamperia; la conoscenza corri-
sponde alla lettura; la percezione della convenienza e della scon-
venienza costituisce l'atto del potere intellettivo. Perciò la cogni-
zione consiste propriamente negli atti del detto potere; ma ha
come base le sensazioni (2).
Inoltre bisogna badare che gli elementi extrasensoriali non
sono forme o leggi preesistenti alla conoscenza (innate). Si vuole
infatti intendere per forma il modo d' agire di qualche facoltà
mentale? Ma, allora, questo modo è indivisibile dall'atto. Io per
es. ho predisposizione a compiere con le dita e con la mano mo-
vimenti per suonare il pianoforte; ma questi movimenti non esi-
stono prima della sonata; esistono solo con la sonata; e, quando
esistono, ne segue la sonata, la quale non esprime che un ef-
fetto loro.
(1) Vedute fond., Libro 11, Gap. VI, § 815-816.
(2) Op. cit., Libro I, Gap. VI, § 684.
— 158 —
La legge poi è per sé un'azione che non ha alcuna forma fi-
gurativa, la quale possa essere impressa negli oggetti. Dov'è un
ordine permanente di causalità, ivi è un ordine di effetti che si
chiamano leggi. Si vuole forse parlare di quest'ordine? Allora è
meglio parlare di costituzione naturale, e non di forme preesistenti
dei fenomeni ideali. Ma, in tal caso, a che si ridurrà la cosa? Si
ridurrà a dire che noi siamo costituiti in modo da sentire, cono-
scere, ragionare. Ecco tutto. Sebbene dunque fra il sentire iniziale
e r intendere definitivo esista distinzione, e perciò l' intelligenza
non si debba confondere con la percettibilità puramente senso-
riale, tuttavia gli elementi intellettivi non si possono considerare
come forme innate preesistenti all' atto conoscitivo (1).
La funzione del senso logico, consistendo in una reazione
proveniente dal nostro interno, è del tutto soggettiva. Il senso
logico, scrive il Romagnosi, ci dice quale sia la funzione sogget-
tiva esercitata dall'anima in conseguenza dell'azione esterna. In-
fatti, quando la mente pronuncia che la tal cosa per es. è diversa
da un'altra, dice due proposizioni ad un tempo: 1' che essa sente
l'apparenza d'una cosa; 2" che sente d'esercitare la funzione di
discernere gli esseri. La prima è oggettiva, cioè relativa alla cosa;
la seconda è tutta soggettiva, ossia riferita all' Io pensante, ed
esprime la funzione dell'anima esercitata all'occasione di quel
fenomeno. Tutte le idee ontologiche si possono e debbono inter-
pretare in questa maniera (2). Esse non ci vengono di fuori; sono
pure logie, suità (3), cioè esprimono solamente modi di essere,
funzioni fondamentali ed ultime dell' anima nostra. Le altre idee
significano i diversi effetti degli esseri, in quanto vengono a im-
pressionare l'anima umana, male universali esprimono tutto ciò
che r anima mette di suo nella conoscenza, tutto ciò che essa
ricava totalmente dal suo fondo all'occasione delle segnature sen-
f1) Vedute fondamentali, Libro II, Gap. VI; Clic cos'è la mente sana?
Parte li, §§ 45-51. Cfr. Vedute fond., Libro 11, Gap. V (dove dimostra
r impossibilità di nozioni umane innate).
(2) Clic cosW la mente sana? Parte 11, §§ 48-49.
(3) Vednte fondamentali, Libro I, Gap. VI, {< 704.
— 159 —
seriali. Così il numero non esiste nella realtà: è un concetto del
nostro spirito (1). Del pari in natura esistono per es. due colonne;
ma i caratteri di essere l'una più alta o più grossa o più diritta
dell' altra etc, sebbene siano da me attribuiti alle colonne, pure
consistono in idee tutte mie, nate in me dal confronto delle co-
lonne medesime (2). Perciò considerare l' ente in genere e le sue
proprietà come qualcosa di diverso dall' anima, è un modo di
pensare del tutto falso (3); esso è, almeno in parte, cioè almeno
riguardo ai rapporti, una costruzione del soggetto.
O, allora, siamo caduti nel soggettivismo e nell'idealismo? No,
risponde il Romagnosi; giacché si può dimostrare che esiste fuori
di noi qualcosa d' oggettivo, che è causa delle nostre idee. Sup-
poniamo per un momento, egli dice, che sia vero l' idealismo.
Ciò non ostante, ragionando su quanto è ammesso dall'idealista
stesso, si può convincerlo di falsità. L' idealista infatti ammette
la propria esistenza e il sentimento delle proprie idee. Egli quindi
deve riconoscere che queste idee sono fra loro diverse e successive,
e che nella loro successione non mantengono un ordine stabile
e uniforme. Infatti egli sente in sé stesso di avere ora l' idea di
un colore, ora di un altro, ora di un suono, ora di un sapore,
ora di un odore, ora d'un contatto, ora del freddo, ora del caldo,
ora della virtù, ora del vizio, ora del bello, ora dell' utile etc;
egli sente pure che tutte queste idee si succedono, si ripetono, si va-
riano in infinite maniere. Sente, per esempio, che un gruppo di
(1) Discorso sull'indole e generazione naturale dei primitivi con-
cetti matematici, Gap. XXII, § § 824 e 867-871.
(2) Vedute fondamentali, Libro 1, Gap. VI, § 705, e Libro II, Gap. Ili,
§763.
(3) Quindi l'ontologia, ossia la scienza dell'ente \n generale, cioè
in quanto egli è un essere, non è altro precisamente che la scienza di
quelle operazioni dell'anima umana, le quali ella perennemente e inva-
riabilmente eseguisce nell' esercitare la sua facoltà di sentire; ella è una
ragionata storia naturale eterna delle operazioni dell'umana cognizione
{Ricerche sulla validità dei giudiciì etc, Parte II, Sez. I, Gap. XVII,
§§ 224-228 e 235).
— 160 —
impressioni, ch'egli chiama il suo corpo, lo segue senza dipartirsi
mai da lui; sente che molte altre, le quali chiama idee famigliari,
abituali, domestiche, si riproducono e ripetono sempre press' a
poco le medesime, ma associate con infinite altre, che son susci-
tate dalla variatissima esperienza giornaliera.
D'altra parte non può negare ch'egli stesso, queir /o ch'egli
sente immedesimato con tutte le idee, è il fondamento unico di
tante successive mutazioni: cioè che tutte si producono e variano
in un solo soggetto eh' è sempre il medesimo (1).
Abbiamo qui dunque da una parte una molteplicità d'impres-
sioni che si mutano e s' avvicendano perpetuamente, dall' altra
l'unità semplice dell'Io.
Ebbene, da questo segue ch'egli non ha nell'essenza dell'es-
sere suo alcuna n/;tt^//a«zrt a produrre piuttosto l'una che l'altra
mutazione o idea, giacché, secondo l' ipotesi, egli è la causa unica
(1) Il Romagnosi dà del resto una dimostrazione dell'unità e sem-
plicità dell'Io. Mi pare, egli dice, che si debba ammettere come un as-
sioma della ragione che l'idea à^Wcrite reale, applicata a un soggetto,
sia, per necessità metafisica, inseparabile dall'idea di unità; cosicché,
quando l'uomo afferma che un dato ente esiste ed e reale, deve anche
ammettere che è unico; infatti, se la realtà o l'entità fossero molteplici,
si dovrebbe dire non che quell'ente esiste, ma che quei tali enti esi-
stono; e, se esistessero realmente, dovrebbero aver pure tutte le pro-
prietà, determinazioni, forze e azioni propria e individuali. Quindi ogni
effetto prodotto da più enti in natura si dovrebbe necessariamente at-
tribuire all'entità intrinseca e singolare di ciascuno (che un'azione non
può attribuirsi se non a un ente reale e non al nulla, che non è capace
di azione alcuna). Ora, se così è, segue che, se il mio essere avesse
un'unità collettiva, sarebbe veramente un aggregato di più esseri di-
stinti l'uno dall'altro. Ma, siccome la sensazione esiste in me, poiché io
la sento, perciò, rispetto a queir /'t? mio che la esprime, dev'essere ne-
cessariamente propria di esso solo. Giacché ncll'agire o nel compiere
o nel ricevere qualunque modificazione è impossibile metafisicamente
che un ente esca da sé stesso (egli non può sentire che in sé stesso),
essendo l'azione e il sentimento lo stesso ente operante e seziente. E'
dunque evidente che quell'/o che sente e pensa in me è singolare, sem-
plice, indivisibile {Ricerche su la validità dei giudicii etc. Parte IH,
Sez. I, Cap. VI, §§ 692-695. Vedi anche Della definizione dell'uomo,
aggiunta al Libro 1, Cap. I della Logico del Of.novfsi, § 60 e nota 1).
- 161 -
di tutti i cangiamenti, quindi, se avesse ripugnanza a produrne
uno determinato, come si spiegherebbe che, invece, di fatto li
produce tutti indifferentemente, e che i fenomeni psichici son
vari e transitori ? Questo non potrebbe accadere, se egh fosse
dalla sua natura spinto a produrne solo uno speciale, determinato.
Dunque, esaminando il soggetto comune di tutte le modificazioni
interne, è forza riconoscere che l'essere suo si deve considerare
come una potenza comune, indifferente, capace di produrre egual-
mente tutte le modificazioni su dette; perciò non si può supporre
determinato per natura a produrne una piuttosto che un' altra.
Ora, siccome tali modificazioni sono successive, consideria-
mone con r immaginazione la prima. In tal caso, avendo noi da-
vanti un essere capace per natura a produrle tutte, ma per sé
stesso indifferente a ciascuna in particolare, non troviamo, in lui
solo, ragione alcuna per cui debba incominciare piuttosto dall'una
che dall'altra. Dunque, per averne una in particolare, dev'essere
determinato da qualche stimolo esterno. Ecco quindi che la prima
idea nostra dev' esser determinata da qualche oggetto esterno.
Quel che s' è detto della prima idea, si deve ripetere delle
successive. Giacché é un fatto d' esperienza comune che non
sempre un' idea determinata succede a un' altra speciale, ma la
stessa spesso succede a diversissime, e in vari tempi é seguita da
idee e sentimenti molteplici e disparati (dopo l' idea d' odore di
rosa io posso per es. avere quella di colore celeste o di virtù
sociale). Ora, siccome iì fondo dell'essere senziente interviene, per
così dire, come quantità comune e simile, come potere indifferente,
in tutte le modificazioni successive del nostro interno, non si
potrebbe certo trovare in lui la ragione determinante delle infinite
differenze di associazioni e successioni dei cangiamenti. Dunque
tale ragione sarà nell'idea stessa. Ma questa, qualunque sia, é per
sua natura determinata (ossia é in sé stessa quella che é ed é di-
versa da ogni altra); perciò, se la forma o natura o forza sua fa
sì che debba succederle un'idea particolare, non potrà certo poi
fargliene succedere un'altra diversa da questa, e tanto meno pa-
recchie altre disparate e sentimenti d' indole diversa; poiché sa-
rebbe contradittorio che la sua natura in un momento la deter-
minasse verso un' idea e in un tempo posteriore verso un' altra.
Bisogna dunque ricorrere a qualche fattore esterno che spieghi
siffatte differenze di successione d' idee; cosicché è chiaro che
II
— 162 —
l'essere nostro senziente deve riconoscere fuori di sé stesso la
causa determinante di tutte le affezioni della sua sensibilità, ed
ammettere che esiste qualcosa di reale e di attivo fuori di noi,
che è la causa eccitatrice delle nostre idee (1).
Si potrebbe però osservare: — Sta bene; c'è fuori di noi qual-
cosa di reale che è causa eccitatrice delle nostre idee. Ma così
non è ancora provato che tale causa sia una pluralità di sostanze
finite (i corpi materiali). Potrebbe darsi benissimo che, come so-
stiene il Berkeley, tutte le nostre idee fossero opera di una sola
sostanza esterna, spirituale, infinita (Dio), agente sul nostro spi-
rito. Allora il mondo materiale esterno diverrebbe una fantasma-
goria illusoria.
Ma, risponde il Romagnosi, prima di tutto non si richiede una
forza infinita per determinare una forza finita: dunque dalla na-
tura delle mie sensazioni non posso con necessità concludere che
esse derivino immediatamente da una sostanza infinita. Di più,
la natura avventizia e contingente delle mie sensazioni mi avverte
d'una natura simile dell'azione che le produce: dunque io devo
concludere che la causa determinante delle mie sensazioni è av-
(1) Ricerche sulla validità dei giudicii etc, Parte III, Sez. I, Cap. II
e HI; Che cos'è la mente sana? Parte I, Cap. V. Si noti che il Ro-
magnosi riteneva insufficiente la dimostrazione data dal Tracy dell'esi-
stenza degli oggetti esterni; giacché « col dare la genesi della credenza
dell'esistenza delle cose esterne, come fecero Condillac e Destutt de
Tracy, altro non si fa che indicare V origine di un giudizio e non la
verità di questo giudizio >> {Esposizione storico-critica del Kantismo,
§ 260). Ma mi pare eh' egli qui esageri. Il Tracy, come ha ben detto
il Ferrari {Op. cit., pag. 120), ha cercato non l'origine storica, ma la
dimostrazione logica dell'esistere degli oggetti esterni, fondata su prin-
cipi razionali; e anche il Romagnosi non fa che mostrare per quali ra-
gioni o principi il soggetto debba ammettere qualcosa di esterno; dunque
anche lui non fa che indicare la genesi logica della credenza negli og-
getti esterni. Ne mi sembra che ci sia bisogno d'altro. Del resto, come
abbiamo visto, il Tracy in questo punto non ripete la dimostrazione
condillachiana; va oltre. Quindi l'obiezione riguarda, se mai, il Con-
dillac. Piuttosto il Tracy, dopo aver dimostrato l'esistenza degli oggetti
esterni, va a cadere in un idealismo fenomenistico. Qui è il punto de-
bole della sua dottrina, e, come vedremo, sarà il punto debole anche
della filosofia del Romagnosi.
— 163 —
ventizia e contingente. Ma poi, Berkeley e i suoi seguaci non
possono certo negare le azioni volontarie dell' uomo sul mondo
esterno; devono dunque riconoscere in noi una forza alla quale
obbedisce 1' esterno. Ora, se s' ammette, com' essi fanno, che gli
enti esteriori sono illusioni e che noi in realtà siamo in rapporto
solo con la potenza infinita, bisogna concludere che la forza nostra
finita sia capace di far obbedire a sé stessa questa potenza infi-
nita, la quale d' altra parte è 1' unica autrice delle nostre azioni.
Ora, com' è mai possibile che una forza infinitamente piccola
faccia obbedire a sé stessa una forza infinitamente grande, che,
nello stesso tempo, é il suo fondamento? Ciò é assurdo. Dunque
siamo costretti ad ammettere una pluralità di enti esterni e l'azione
loro sul nostro interno (1).
Questa dimostrazione dell' esistenza del mondo esteriore, chi
ben consideri, é fondata sul principio di causa, in quanto che
bisogna o dire che il sorgere della prima idea e delle successive
nell'animo nostro non ha una causa (e allora si viola il principio
di causa) o riconoscere (seguendo appunto il detto principio) che,
giacché non può avere tale causa nell'Io, l'ha nel mondo esterno
(pluralità di esseri finiti) (2). Ma che valore ha il principio di
causa ? Esso per il Romagnosi è una forma particolare del prin-
cipio di contradizione (3); e, giacché questo è per lui la verità
(1) Che cos' è la mente sana? Parte I, Gap. VII, §§ 36-38.
(2) 0/7. cit., Parte I, Gap. V, § 26.
(3) Op. cit.,\nogo citato. Vedi anche DeW uso della dottrina della
ragione, § 475, e Vedute fondamentali. Libro II, Gap. I, §§ 736 e 737
(« Dato un atto e un fatto che attualmente esiste e che prima non esi-
steva, ne segue per ciò stesso che prima poteva realmente esistere e
non esistere. Poteva esistere, come lo prova la positiva sua esistenza;
poteva non esistere, come lo prova l'anteriore sua non esistenza. Dunque
deve esistere un perchè dallo stato meramente possibile egli sia passato
allo stato reale. Questo perchè dicesi causa. A cui, come correlativo si-
multaneo, corrisponde l'effetto, il quale appunto è questo stesso atto o
fatto, in quanto l'esistenza di lui viene giudicata impossibile senza
l'azione di questo perchè. Ecco la causalità speculativa, la quale viene
dimostrata in forza dello stesso principio di contraddizione e di neces-
sità logica applicato all'origine comunque occulta di un atto o fatto
qualunque ). Il Romagnosi non si nasconde le difficoltà sollevate a
proposito del principio di causa da Hume. Ma, egli osserva, sia pur vero
— 164 —
assoluta, l' immutabilità logica, il principio primo che domina
tanto le verità di ragione, quanto quelle di fatto, anche il prin-
cipio di causa ha per lui un valore logico assoluto (1).
che io non possa, nell'avvenimento che precede, scorgere la causa ef-
ficiente di quello che segue; sarà però vero del pari che questa succes-
sione costante, che tutti vedono nel mondo, è un fatto positivo. Ora,
di questo fatto deve esistere un perchè. L'unica difficoltà consiste nel
porre il dito sull'autore preciso del fatto positivo. Ma che importa
questo? A me basta che la successione sia assicurata da una mano che
sta sotto e che fa seguire un fatto ad un altro. Concluderò quindi
con rigore logico che l'antecedente sarà per me segnale del susseguente,
almeno fino a che continuerà lo stato attuale dell'universo, in seno al
quale avviene tale successione.
Inoltre il ragionamento di Hume si fonda su un' astrazione pura-
mente dialettica. In esso infatti lo stato delle cose come viene immagi-
nato? Come una pittura immobile e inanimata, incapace di qualunque
trasmissione di forza e di qualunque efficienza. Ma le cose in natura
non si presentano in questo stato inerte. Quel sasso che veggo fermo,
dopo lo vedo in movimento; le foglie di quell'albero, prima immo-
bili, le veggo scuotersi e agitarsi. Qui dunque, rimanendo a conside-
rare lo stesso oggetto, lo vedo cambiar di stato. Ora, in tal caso sorge
o no la ricerca d'un perchè? Qui, confrontando i fatti, devo o no uscire
dalla sfera delle quiddità per entrare in quella delle causalità? L'argo-
mento di Hume è dunque incompleto e sofistico.
Infine, nessuno può negare che l'uomo è dotato d'un certo grado
di energia, per cui è sempre padrone di eccitare le forze della natura.
Se dall'esperienza ci risultasse che da certi atti non si producono
sempre certi effetti predestinati; se per es., gettato un sasso, accadesse
talvolta ch'esso restasse a mezz'aria, l'effetto della caduta non si po-
trebbe ridurre a legge costante. Del pari, se spingendo di mia volontà
una palla di biliardo accadesse talvolta a me e ad altri di restare im-
mobile pur non incontrando ostacolo alcuno, allora non potrei dire che
un corpo spinto da una forza per legge di natura si muove sempre;
ma, constando il contrario e per giunta in un'azione liberamente pre-
destinata ed effettuata da me con la mia forza voluta, io conchiudo che,
sebbene non conosca il nesso fra il mio volere e l'effetto seguito, pure
posso assicurare che l'effetto si verificherà finché l'ordine dell'universo
rimarrà così. Basta dunque considerare come segnale certo la causa detta
da me efficiente, per poter predire gli effetti come se si conoscesse l'in-
tima causalità reale {Vednte fondamentali, Libro II, Cap. I, §§ 740-745).
(1) Vedute fondamentali, Libro I, Cap. IV, §§ 655-657; Della su-
prema economia, §§ 106 e 197.
— 165 —
Non è dunque dubbio che non esista una pluralità di sostanze
esterne. Ma da ciò segue che noi conosciamo l' essenza di tali
sostanze? No. Come giustamente ha detto il Condillac e poi ha
ripetuto Kant, sia che col pensiero e' inalziamo fino al cielo, sia
che discendiamo fin negli abissi, non usciamo mai fuori di noi
stessi (1); noi siamo in rapporto immediato non con gli oggetti
esterni, ma sempre con le nostre idee; e solo a traverso queste
vediamo gli enti esterni. Come le piante non assimilano se non
certi succhi della terra e certi gas dell' aria, così noi non acco-
gliamo se non certe segnature delle cose. 11 conoscere si riduce
insomma a percepire quanto di ideabile e' è nelle cose (l' essere
e il fare ideabile, cioè le particolarità di stato e le particolarità
d'azione degli oggetti) (2). Del resto non sappiamo nulla. Perciò
conosciamo le cose non in sé, ma solo come ci appaiono a tra-
verso le nostre idee (fenomeni). Pretendere di conoscere le cose
in sé è un assurdo logico, per ciò stesso che la mia conoscenza
è un' azione mia, compiuta dentro di me, un mio modo di esi-
stere, e non una trasfusione sostanziale dell' entità dell' oggetto
nella mia intelligenza (3). La verità, dice il Romagnosi, è di solito
definita una conformità dei nostri giudizi con lo stato reale delle
cose. Ma come si deve intendere lo stato reale delle cose? O s'in-
tende come una conoscenza degli oggetti qual' è realmente tra-
(1) Suprema economia, Parte II, Gap. XVI, § 153, e Gap. XX, pag.
547, nota; Vedute fondamentali, Libro I, Gap. V, § 666; Questioni su
le apparenze fisiche etc, § 301; Indole e generazione naturale dei pri-
mitivi concetti matematici, § 824.
(2) Che cos' è la mente sana? Parte II, § 45; Vedute fondam., Libro I,
Gap. VI, § 686.
(3) II Romagnosi distingue (press' a poco come il Bonnet) l'essenza
logica dall'essenza reale delle cose. Per essenza logica intende quel
complesso d'idee per cui noi ci formiamo il concetto di una cosa in
modo da non confonderla con un'altra. U essenza reale invece è per
lui quel complesso di qualità sostanziali di una cosa qualunque, anche
ignota, senza le quali essa non può realmente- esistere in natura. Ora,
secondo il Romagnosi, la mente umana può ragionare solo su l'essenze
logiche, e trarre la certezza e l'evidenza solo dalla loro considerazione.
Gosì nell'essenza logica dei corpi troviamo i caratteri dell'estensione
e della solidità; ma nessuno potrà dimostrare mai che questi esistano nei
— 166 —
smessa a noi (o almeno come qualcosa di conoscibile), o s'intende
come un modo di essere e di fare che sfugge alla nostra facoltà
di conoscere. Non c'è via di mezzo. Nel primo caso l'espressione
ha un senso ragionevole, e si risolve nel dire che la giustezza dei
nostri giudizi consiste nella conformità loro con lo stato intero
della conoscenza a noi realmente trasmessa. Allora il paragone è
stabilito fra due termini conoscibili, poiché è posto fra due stati
che possono essere afferrati dalla mente umana, e che esistono
nella mente stessa. Ma, se parliamo di un essere e di un fare per
noi inafferrabile, o, meglio, non producente impressione alcuna
nella mente, che senso si può dare all' espressione stato reale delle
cose? Io non posso uscire fuori di me stesso. Dunque l'universo,
che suppongo esistere, non è, né può essere, quanto a me, altro
che un fenomeno ideale prodotto dentro di me dall'azione deter-
minata dei rapporti reali che passano fra il mio essere pensante
e r universo esteriore.
Nella nostra conoscenza quindi e' è del soggettivo in quanto
non solo i rapporti tra i fenomeni sono posti e creati dal sog-
getto, ma anche in quanto tutto il mondo è rappresentazione del
soggetto (1). Così però, si può osservare, non siamo ricaduti in
queir idealismo che si voleva evitare ?
Bisogna intendersi, risponde il Romagnosi; in fondo, tutto è
idealismo, e tutto, rispetto all' uomo, si conosce e si fa per via
del solo idealismo. Fingete pure migliaia di mondi che circondino
corpi (nell'essenza reale). Lo stesso dicasi della durata. L'estensione e
la durata si devono dunque considerare non come qualità o modi di
essere propri e intrinseci delle cose reali esistenti fuori di noi, ma solo
come modi d'essere e fatture della nostra mente, provocate dall'azione
degli oggetti esterni, che sono in rapporto con noi {Questioni su le ap-
parenze fisiche etc, § 305 e 315). Perciò, aggiunge il Romagnosi, - non
so comprendere per quale ragione il più celebre metafisico moderno
(Locke), avendo negato l'esistenza reale dei colori, dei suoni, dei sa-
pori, degli odori, della durezza, del caldo, del freddo, etc, siasi deter-
minato a lasciare ai corpi la figura, l'estensione e la solidità, quasi che
anche sì fatte proprietà non fossero pure nostre idee, e che un'idea
nostra potesse divenire proprietà di un ente giudicato composto » {Ri-
cercìie su la validità dei giudicii eie, Parte HI, Sez. !, Gap. Vili, §711).
(1) Ricerche sulla validità dei giudicii, Parte 111, Sez. I, Gap. Vili.
— 167 —
r uomo: sarà sempre vero eh' egli non può né conoscerli né ope-
rare su di essi se non mediante le idee, giacché non può in nessun
modo uscire fuori di sé stesso. Solo che bisogna distinguere
r idealismo puro, isolato, e l' idealismo associato con la natura
esterna; la quale agisce suU' uomo interiore, mentre questo, a sua
volta, reagisce su quella. In tal caso io so che esiste qualcosa
fuori di me, che esercita un' azione su me; ma io non posso sen-
tire quest'azione che dentro di me. Io sento il risultato dell'azione
fra il me e il non-me; ma é impossìbile che possa conoscere questo
stato di cose reale a guisa dell'originale d'una copia. Perchè le
mie idee si potessero considerare come copie degli oggetti esterni,
dovrei uscire fuori di me e paragonarle con gli originali. Il che
é impossibile; perciò le idee vanno prese semplicemente come
segni degli oggetti esteriori. Per ben capire come un' idea possa
essere un risultato reale e vero senza essere una copia, si può
considerare il seguente esempio. Nei gabinetti di fisica vi si pre-
senta da una parte una tavola imbrattata di vari colori, nel cui
complesso non si scorge nessuna figura d'oggetti famigliari; dal-
l' altra uno specchio cilindrico, nitido. Voi collocate questo ci-
lindro nel mezzo della tavola; ed ecco comparire la figura di un
serpente o di un animale o di una siepe etc. Tale immagine esi-
steva prima nella tavola o nello specchio ? No. Da che dunque
é derivata? Dai rapporti combinati dell'una e dell'altro. È dunque
il risultato dell' azione e reazione reciproca di tutt' e due. Ma
questo risultato esprime forse l' essere e il fare proprio della ta-
vola o dello specchio ? No.
Del pari, la direzione orizzontale e la verticale ad essa per-
pendicolare sono diverse fra loro; ma sono così semplici, che non
sì possono mutare: l'angolo retto, che ne nasce, é immutabile.
Tracciate sopra una tavola queste due linee ad angolo retto, e fate
muovere un corpo prima secondo 1' una, dopo secondo 1' altra. Po-
nete poi questo corpo sull' angolo, e spingetelo simultaneamente
secondo le due direzioni: allora si moverà secondo la diagonale.
Ma la diagonale non è né orizzontale né verticale. Ecco similitu-
dini imperfette che possono far capire come dall' azione e dalla
reazione fra il me e il non-me possa risultare un che, il quale non
rassomigli né al me, né al non-me: esso sarà segno dell' azione
reale dì tutt' e due; ma è impossìbile che rappresenti 1' essere e
il fare intrinseco dell' uno o dell' altro.
— 168 —
Del resto, quand'anche potessimo giungere a conoscere le cose
in sé stesse, e accertarci che i nostri concetti sono rassomiglianti
allo stato reale delle cose, che cosa guadagneremmo per il valore
delle scienze ? Niente, fino a che non ci assicurassimo che per
mezzo di queste somiglianze possiamo ragionare e operare sulla
natura in modo da ottenerne dell' utile. Ora, per avere tale sicu-
rezza, v' è forse bisogno di conoscere le cose in sé stesse? (1).
No. Noi sappiamo che le sensazioni, le idee sono segni reali e
naturali, a cui corrispondono in natura cose e modi di essere
reali. In tal caso si può ragionare sui segni come sulle esistenze.
Infatti, se io, guardando solo lo specchio, e non badando alla
tavola dipinta, vedo avvenire qualche cambiamento nella forma
e nella posizione delle immagini, posso dire con ragione che esso
avvenga nella tavola stessa o in altri oggetti posti di contro, senza
eh' io abbia bisogno, per asserir ciò, di guardar la tavola. Ora,
si può dire lo stesso delle nostre idee, che sono come le imma-
gini dello specchio. Così, quantunque mi sia ignota la realtà d'una
sfera, pure dovrò dire che all'idea ch'io ne ho corrispondono in
natura rapporti tali, per cui le proporzioni dal centro alla super-
ficie debbono essere uguali; cosicché, se, vedo avvenire in essa
qualche cambiamento di forma o di relazioni, devo affermare che
questo avviene anche nello stato reale delle cose esterne (2). Perciò,
agendo sui segni, si agisce sulle cose ignote corrispondenti a tali
segni; cosicché si agisce sulla natura stessa reale e vivente. Allora
i giudizi veri di osservazione equivalgono a giudizi reali di fatto;
allora il fatto e il vero si possono assumere come equivalenti. Non
importa indovinare come il nostro disegno interno si realizzi
esternamente. Che danno arreca l' ignorare come si operi la di-
gestione e la nutrizione, quando si conoscono gli alimenti sani
e il modo di usarne? Quando so di connettere le idee delle forze
nei loro rapporti ben conosciuti e provati, so di architettare con
effetto. Questo mi basta (3). Ma, si può osservare, come in tal
(1) Vedute fondamentali, Libro 1, Gap. V, § 664 e seg,; Che cos'è
la mente sana? Parte II, Gap. IX, § 51.
(2) Ricerche su la validità dei giudicii etc, Parte III, Sez. I, Gap. X,
§§ 735 e 739.
(3) Che cos'è la mente sana? Parte 1, Gap. Vili, §§ 43 e 44.
— 169 —
caso distingueremo il reale dall'apparente? Ogni sensazione, ogni
idea è fenomeno, apparenza; e perciò stesso non ci dice di cor-
rispondere e somigliare allo stato reale delle cose: dunque non è
vera; e, siccome noi non possiamo uscire fuori delle nostre idee,
nulla è vero, tutto è un inganno. Piano, osserva il Romagnosi.
È temerario affermare che l' idea non somigli al reale. Se è im-
possibile conoscere le cose in sé stesse, segue che s'ignora asso-
lutamente se r idea sia difforme o conforme al reale, e che non
si può né affermare né negare tale difformità o conformità. L' af-
fermazione e la negazione sono giudizi di paragone fra due ter-
mini noti; ma, se ci manca la conoscenza della realtà, a cui rife-
riamo le apparenze, con qual diritto asseriamo la difformità? Come
dire che la tal copia non é conforme al suo originale, se non co-
nosciamo affatto r originale ?
Le affermazioni scettiche sono dunque avventate; noi possiamo
dir solo d' avere dinanzi un' apparenza. Questa, se non è copia,
sarà sempre qualcosa di determinato e di finito, che si può de-
scrivere nel suo tutto e nelle sue parti, e confrontare con altre
idee (apparenze). Non basta. Sappiamo che questa pretesa copia
o non copia dev'essere stata prodotta da qualche agente esterno,
sia uomo, sia bestia, sia essere inanimato: sicché si deduce che é
effetto di qualcosa di reale. Dunque, pur ignorando se somigli o
no a qualcosa di reale, dobbiamo considerarla sempre come ri-
sultato dell'azione della sua causa. Nel che non si ha un'illusione,
ma una realtà e un segno di realtà; giacché è vero e indubita-
bile che si tratta di un effetto reale di una causa reale (1). Dunque,
mentre nell' idealismo puro non si può veramente distinguere il
(1) Vedute fondamentali, Libro II, Gap. IV. Per chiarire come in tal
caso non importi che l'essenza dell' oggetto agente sia ignota, il Roma-
gnosi aggiunge: Se un uomo a me sconosciuto mi parla dalla camera
vicina a voce alta e intelligibile, potrò io negare l'esistenza di un es-
sere che mi parla, quantunque io non sappia chi egli sia? potrò negare
chele parole intese derivano da una potenza che agita l'aria in quella
data maniera? La verità della mia percezione, in tal caso, in che con-
siste? Nel cogliere tutti i suoni trasmessi al mio udito e per me discer-
nìbili, e nel considerarli come segni reali, cioè come derivanti veramente
da una potenza, sia pure ignota, posta fuori di me {Esposizione storico-
critica del Kantismo, § 282).
— 170 —
reale dall' immaginario (giacché in esso tutto è isolato, indipen-
dente dall'esterno e quindi immaginario), invece nell' idealismo
associato si può benissimo. In questo il reale è un nostro pensiero
accompagnato da un giudizio tacito il quale afferma che sussiste
fuori di noi un oggetto ad esso corrispondente; l' immaginario,
all' opposto, è un pensiero accompagnato da un tacito giudizio
il quale asserisce che fuori di noi non sussiste un oggetto corri-
spondente. In tal caso la verità oggettiva non proviene da una
legge di somiglianza fra idee e oggetto, ma da una legge di cor-
rispondenza necessaria; essa quindi si risolve sempre nella confor-
mità dei nostri giudizi coi segni reali corrispondenti comunicati
dalla natura, sia pure ignota, dell' oggetto (1).
*
* *
Questi sono i risultati dell'analisi dell'uomo interiore (ideo-
logia), la quale per il Romagnosi ha massima importanza (2)
Essa però va integrata con la filosofia civile (3), giacché non si
può negare l'azione della mente e del cuore dell'uomo collettivo
ossia della società civile, sulla mente e sul cuore dell'individuo
Infatti l'uomo individuo nasce, cresce, vive e muore in seno al
l'uomo collettivo; le fonti principali delle opinioni vere o false
delle virtù e dei vizi derivano da determinate condizioni di questo
uomo collettivo (4). L'individuo nascendo non ha che la capacità
ed il germe chiuso dell'intelligenza; egli lo sviluppa in società e
per mezzo solo della società (5); nella quale la tradizione non
(1) Dottrina logica del Galluppi, §§ 352 e 353.
(2) Che cos' è la mente sana? § 4. Si noti che anche il Romagnosi,
come gl'ideologi francesi, identifica la metafisica con l'ideologia {Dot-
trina logica del Galluppi, § 343).
(3) Vedute fondamentali, Libro IV, Gap. XXV, § 102S.
(4) "■ Nella persona individua di una nazione civile dovete immaginare
corpo, anima, vita, funzioni, età, e quindi salute e malattie a somiglianza
d'un individuo animale. Territorio, popolazione e governo formano il
corpo di questa nazione, senza che si possa mai scindere la triplice con-
correnza di queste parti. Opinione, beni e forza formano V anima di
questa persona {Su V indole e su i fattori deW incivilimento, Parte I,
Gap. XIII, § 67; Vedute fondamentali sull'arte logica. Libro IV, Gap. XII).
(5) Della definizione dell'uomo, § 67.
— 171 —
solamente dell'età sua, ma anche di quelle dei suoi antenati lo
rende ricco e forte, somministrandogli il linguaggio e tutto il pa-
trimonio ideale cumulato dai contemporanei e dai maggiori suoi;
e insultati delle ricerche scientifiche d'innumerevoli generazioni
gì' insegnano com'egli possa attuare i fini della sua volontà. L'in-
dividuo isolato è dunque un'astrazione; l'uomo reale è quello ci-
vile (1). Perciò la filosofia dell'uomo interiore sarebbe cieca senza
quella civile; solo questa è la « piena filosofia »; tant'è vero che,
quando studiamo l' uomo nel suo interno (ideologicamente), lo as-
sumiamo come simbolo di tutta la specie, e quel che affermiamo
o neghiamo di lui, lo intendiamo applicato anche alla specie (2).
(1) Vedute fondamentali, Libro I, Gap. I, Sez. II, §§ 594, 595, 602,
603, Gap. Ili, Sez. II, §§ 635-636, Libro II, Gap. VI, § 842, Libro IV,
Gap. V, § 984; Della suprema economia, §§ 101, 111, 215, 218.
(2) Vedute fondamentali, Libro I, Gap. II, § 608. A quali risultati
conduce, secondo il Romagnosi, Io studio della filosofia civile? Rispon-
dere a questa domanda ci trarrebbe fuori dell'ambito delle ricerche pro-
posteci in questo lavoro. Ricorderemo soltanto che per il Romagnosi
la civiltà è un fatto preparato e stimolato, sì, dalla natura, ma non
spontaneo, istintivo, giacché l'uomo è per natura perfettibile, ma la
perfettibilità è solo una possibilità, una capacità, non un atto; ci vo-
gliono quindi circostanze speciali perchè la potenza diventi atto {Su
l'indole e su i fattori dell' incivil., Introd., §202; cfr. Cenni su i limiti
e su la direzione degli studi storici, § 3). Ne volete la prova? Se la
civiltà fosse veramente un prodotto istintivo dell'uomo, dovremmo tro-
varla in qualunque parte del globo abitata; invece vi sono dei popoli
che vivono allo stato selvaggio. Non c'è quindi nessun principio psi-
cologico naturale per cui si possa affermare che tutti i popoli diver-
ranno civili, come non c'è nessun principio fisico per cui si possa
asserire che ogni bosco da sé stesso si convertirà in campo coltivato.
La perfettibilità umana è la capacità d'apprendere le condizioni che
rendono possibile il vivere sociale (come la capacità d'imparare a leg-
gere, a scrivere etc). Se queste condizioni non s'imparano, non si sanno.
Dì più, esse < sono un' invenzione pari a quella della scrittura, della
stampa, della polvere d'archibuso, dei parafulmini etc. » (Su l'indole
e su i fattori etc, Parte II, Introduzione), La civiltà è dunque un pro-
dotto della riflessione, della ragione; è una specie di pedagogia sociale,
un'arte particolare, l'arte di educare ì popoli, di svolgere e dirigere
l'attività umana in certe direzioni. Quindi, contro il Vico, che faceva
dipendere il progresso da un impulso intimo del consorzio sociale, il
— 172
OSSERVAZIONI. — Il Romagnosi è senza dubbio il maggiore
o uno dei maggiori ideologi italiani. La sua vasta mente si rivolse
in ideologia sopra tutto al problema della conoscenza, nel quale
i risultati delle sue ricerche sono così differenti da quelli dei fi-
losofi francesi iniziatori del movimento filosofico, che il sensismo
oramai non si riconosce più. Egli infatti, proseguendo la critica
e la riforma del Soave e del Gioia, non solo non si appagò più
della semplice analisi, ma ancora mise in evidenza l'attività del
soggetto nella conoscenza, e provò che con gli elementi senso-
riali sono intimamente connessi elementi intellettivi inesplicabili
coir empirismo rude. Inoltre, dimostrando che dev'esserci qualche
Romagnosi sostiene che la civiltà è trasmessa ai popoli da altri popoli
(è dativa, non nativa). Tutti i consorzi inciviliti a noi noti, egli dice,
«X citano apportatori stranieri del loro incivilimento >; ecco quindi che
acquistano grandissima importanza nella storia (anche qui il Romagnosi
si oppone al Vico) persone illuminate e geniali come Zoroastro, Confucio,
Numa etc. {temosfori o apportatori di civiltà), che grandeggiano sulle
folle anonime, e, proponendosi con chiara coscienza fini rispondenti
alle esigenze della civiltà, conducono le nazioni verso il perfezionamento
sociale. Ma, si può osservare, se la civiltà è trasmessa da popolo a po-
polo, sarà pur dovuta nascere una volta presso qualche paese della
Terra, senza essere comunicata da altre genti. Certo, risponde il Ro-
magnosi; ma questo è accaduto una volta sola per circostanze felicis-
sime: è stato come un miracolo, « una scintilla di fuoco », una crisi,
che ora non si riscontra più nella storia {Su l' indole e su i fattori del-
l'inciv., Parte I, Cap. IX, § 46; Vedute fond., Libro IV, Cap. Vili, § 987).
Dal suo luogo d'origine la civiltà si diffuse in quelle regioni del globo
nelle quali il terreno e il clima la favorivano (vedi per tutta questa
parte specialm. Su r indole e su i fattori dell' iiicivil.; Vedute eminenti
per amministrare l'economia dell' incivil.; Vedute fondam. sull'arte
logica, Libro IV; Della ragione civile delle acque. Ragione dell'opera;
Osservazioni su la Scienza Nuova di Vico; La filosofia di G. D. Ro-
magnosi a cura di Fr. De Sarlo, Lanciano, Carabba, Introduzione).
Secondo il Romagnosi i primi temosfori sarebbero venuti dal centro
dell'Asia sulle coste settentrionali dell'Africa, donde traverso il Medi-
terraneo sarebbero passati in Italia {Ricerche storiche sull'India antica
etc; Esame della storia degli antichi popoli italiani di G. Micali etc).
— 173 —
causa oggettiva delle nostre impressioni, cercò di disperdere quel
fenomenismo idealistico da cui erano stati irretiti il Condillac e
i suoi seguaci. Di più, mostrò l'importanza della sociologia per
lo studio dell'uomo; egli è un vero precursore dei moderni so-
ciologi e sostenitori della dottrina della « solidarietà ». Il che
prova anche com'egli avesse sempre lo sguardo rivolto alla vita
pratica, e rifuggisse dalle scienze di pure astrazioni. Del resto il
concetto suo stesso della verità (la quale per lui non è di rasso-
miglianza con V essenza della natura invisibile, ma di corrispon-
denza con V azione di questa natura) è in fondo prammatistico. È
anzi notevole che precisamente dal punto di vista prammatistico
egli cerca d'eliminare il noumeno kantiano come un caput mor-
tuum. A lui infatti non importa conoscere le cose in sé stesse;
gli basta poter conoscere l'effetto corrispondente all'azione dei
corpi sulla nostra sensibilità, e agire sugli esseri esterni per otte-
nerne dell'utile; che, in tal caso, anche se a noi sfugge l'intima
natura loro, le nostre sensazioni non cesseranno perciò di essere
un effetto reale e vero di queir azione e reazione; e noi non ces-
seremo d'agire sugli oggetti esterni a traverso i loro segni. Un
atteggiamento simile egli assume di fronte al problema del valore
del principio di causa.
Che cosa si può osservare a queste sue vedute? Innanzi tutto
non mi pare ch'egli dia un'idea chiara, precisa del suo senso lo-
gico: lo chiama infatti « facoltà occulta, recondita, ineffabile etc. »,
quasi si trattasse d'un potere trascendente e misterioso, che sfug-
gisse all'analisi della mente. Inoltre le idee dei rapporti emananti
da esso ora sono presentati come dipendenti (1), ora come indi-
pendenti dai sensi (2). Anche l'espressione senso logico è equivoca
e impropria; egli non si è ancora liberato del tutto dalla termi-
nologia e dalle idee dei sensisti francesi. Di piìi, le categorie (idee
dei rapporti) sono da lui ritenute soggettive; cosicché nel suo si-
(1) Vedute fondamentali, Libro I, Cap. VI, § 684, Libro II, Gap. VI,
§ 813; Che cos' è la mente sana?. Parte II, Cap. X, § 52.
(2) Discorso siiW indole e generazione naturale dei primitivi con-
cetti matematici, Cap. XXII, § 866; Ricerche sulla validità dei giu-
dica tic, Parte II, Sez. I, Cap. XVII, § 224; Che cos' è la mente sana?
Parte II, Cap. IX, § 47.
— 174 —
stema l'oggetto è in certo modo costruito dal soggetto, sia pure al
l'occasione delle intuizioni sensoriali. Ed è curioso che, mentre egli
combatte Kant per gli a-priori, cade in fondo nelle stesse esagera-
zioni del filosofo di Koenigsberg; che i rapporti richiedono certo
l'attività del soggetto, in quanto che, se non ci fosse una mente
che paragonasse gli oggetti ed esplicasse l'attività riferente, i rap-
porti per noi non ci sarebbero; ma questo non vuol dire che essi
siano una creazione arbitraria dell'uomo; il soggetto, secondo le con-
dizioni dell'esperienza e secondo i caratteri degli oggetti, enuncia
certi rapporti piuttosto che certi altri (rapporti di causa, d'inerenza
etc); dunque il soggetto nell' applicare l'attività riferente si fonda
su circostanze oggettive. Inoltre i rapporti valgono in sé e per sé,
indipendentemente dal nostro riconoscimento (due oggetti per es.
non cessano d'essere eguali o differenti sol perchè noi non con-
sideriamo la loro uguaglianza o differenza): dunque sono oggettivi.
Infine anche la dimostrazione dell'esistenza di oggetti esterni
non mi pare priva di difetti (1). Essa, come s'è visto, è fondata
sul principio di causa. Ora, che valore ha questo principio? Se-
condo il Romagnosi è un'applicazione speciale del principio di
contradizione. Ma è noto che il principio di causa è irriducibile
a qualsiasi altro, rappresenta un' esigenza della mente ben diversa
da quella della mancanza di contradizione; tant'è vero che, come
ha ben dimostrato David Hume, data una causa, si può senza
contradirsi negare l'effetto o supporne un altro. Se del resto si
esamina la prova del Romagnosi, si vede che essa già presuppone
il principio di causa: ^< Dato un atto o un fatto che attualmente
esiste, e che prima non esisteva », egli scrive, « ne segue per ciò
stesso che prima poteva realmente esistere e non esistere. Poteva
esistere, come lo prova la positiva sua esistenza; poteva non esi-
stere, come lo prova l'anteriore sua non esistenza. Dunque deve
esistere un perchè dallo stato meramente possibile egli sia passato
allo stato reale ». Ebbene, tale ragionamento presuppone appunto
la verità che si vorrebbe dimostrare (che ogni effetto ha una causa,
(1) Il BONNET nel Volume XVIII delle sue Oeiivres (Vite da Leibni-
tianisme, pag. 105-106, nota) muove alla monadologia del Leibniz un'obie-
zione che ricorda questa prova del Romagnosi. Ma il Romagnosi cono-
sceva l'operetta indicata del Bonnet? È difficile. Almeno non la cita mai.
— 175 —
un perchè) (1), giacché esso si riduce a dire che il nulla non può
produrre effetto alcuno: ma questo.... non è altro che il principio
di causa. Insomma non si può ammettere un effetto senza causa,
ma tale impossibilità deriva non dal principio di contradizione,
bensì da un principio speciale. Il quale è l' applicazione d' una
categoria dell'intelletto, esprime quindi una delle funzioni di quel
senso logico che il Romagnosi giustamente considera come l'es-
senza e la caratteristica della mente umana. Ma il guaio è che il
Romagnosi afferma che le funzioni del senso logico sono sogget-
tive; cade quindi nella difficoltà di voler dimostrare l' esistenza
degli oggetti esterni con un principio soggettivo: fonda dunque
l'oggettivo sul soggettivo.... Ecco perchè egli, non ostante i suoi
sforzi, non s' è mai potuto liberare dall' idealismo; ecco perchè
deve concludere: in fondo tutto è idealismo (2).
Questi difetti del resto non scemano l' importanza del sistema
del Romagnosi nel movimento degl' ideologi: esso rappresenta
sempre un notevolissimo passo innanzi rispetto alle teorie dei fi-
losofi di Francia.
Ci resta infine, anche per il Romagnosi, da esaminare se egli
penda al materialismo, come qualcuno (3) ha affermato, o allo
spiritualismo, come potrebbe farci credere la sua dimostrazione
dell'unità e semplicità dell'Io. Ebbene, è facile vedere che anche
lui, come tutti gli altri ideologi, rimane agnostico. Abbiamo in-
fatti già detto che secondo la sua dottrina noi conosciamo non
le essenze degli oggetti, ma solo i fenomeni. Egli dice che la so-
stanza è un non so che d' indefinibile, una chimera (4); che noi
non possiamo conoscere cosa sia in sé stesso il principio vitale (5)
(1) L'aveva già notato il Ferrari {Op. cit., Gap. IX, pag. 121).
(2) 11 suo prammatismo poi cade nei difetti e nelle esagerazioni dì
tutte le forme di prammatismo. Egli uice che non importa sapere come
si operi la digestione e la nutrizione quando si conoscono gli alimenti
sani e il modo d' usarne. Ma quest'affermazione distrugge tutta la scienza
teorica, che pur sussiste ed è il fondamento delle arti pratiche.
(3) Per esempio il Rosmini {Rinnovamento, Libro III, Gap. XXXIV,
pag. 398-400 della 2" Ediz.).
(4) Suprema economia, Parte II, Gap. XXV.
(5) Vedute fondamentali. Libro IV, Gap. V, § 984.
- 176 —
o qualsiasi altra forza della natura (1). Lo stesso dice dell'anima,
giacché noi definiamo 1' anima secondo la conoscenza non della
sua realtà intima, ma delle sue operazioni da noi conosciute (2);
del pari, ignoriamo la natura e il modo del commercio fra anima
e corpo (3). Anche la creazione della materia dal nulla gli pare
un enigma insolubile (4). < Per la qual cosa », conclude, « lungi
d'arrogarci la pretesa di possedere la scienza universale, noi con-
fessiamo d' ignorare non solamente ciò di cui non abbiamo an-
cora le prove di fatto, ma eziandio fino a qual segno possano
essere inoltrate le nostre scoperte. Dunque provvisorio viene da
noi riguardato lo stato dello scibile umano, e stolida la pretesa
di chiunque ci proclama un non plus ultra » (5).
CAPITOLO V. — Delfico
Dall'Italia settentrionale passando alla meridionale, dobbiamo
subito dire che il movimento filosofico, a causa in parte della
mancanza d' unità politica, in parte degli scarsi mezzi d' informa-
zione e di comunicazione, nel Napoletano si svolse quasi del tutto
indipendente da quello del Nord della penisola. Esso infatti ebbe
origine dal Genovesi e poi si sviluppò a poco a poco fino al
Delfico e al Borrelli senza ricevere alcuna efficacia notevole dai
filosofi dell' Italia settentrionale. Il Ferri (6) osserva giustamente
che tra le due parti della penisola e' erano così pochi rapporti,
che era più facile e più sicuro per un Napoletano mantenere, a
traverso il mare, una corrispondenza scientifica con sapienti d'altre
nazioni che con quelli d' Italia. Tuttavia non bisogna esagerare.
La tempesta rivoluzionaria, che sconvolse tutta la patria nostra,
produsse un certo rimescolio di uomini delle varie regioni: cosi il
Soave fu sbalestrato a Napoli, il Delfico a S. Marino. Gli stessi Fran-
cesi invasori costituivano un legame fra Nord e Sud. Inoltre non
(1) Che cos'è la mente sana? Parte I, Cap. Il, § 11.
(2) Op. cit., ivi. (3) Op. cit., § 33.
(4) Libertà morale, Ediz. De Giorgi, pag. 624.
(5) Suprema economia, Parte II, Cap. XXVI.
(6) Op. cit., Cap. 11, pag. 37.
— 177 —
erano molto rari i viaggi che i dotti del tempo intraprendevano
a scopo di studio: così il Delfico viaggiò due volte nell' Italia set-
tentrionale, e vi conobbe vari personaggi; fu anzi in corrispondenza
col Soave, col Cicognara, con l'Amoretti, con Gaetano Melzi (1).
Lo Spallanzani fu nel Regno delle due Sicilie. Il Leopardi fu a
Milano, a Bologna, a Firenze, a Pisa. Quindi non mi pare che,
come dice il Ferri, proprio delle barriere separassero allora le Pro-
vincie meridionali dal centro e dal Nord della penisola.
VITA E OPERE (2). — Durante la guerra per la successione
d'Austria Carlo di Borbone, re di Napoli, inviò nel 1742 un eser-
cito in soccorso dei Franco-Ispani verso Pesaro. Avendo egli però
già sottoscritto un trattato di neutralità, dovette ritirare le sue
milizie in seguito alle minacce degl' Inglesi, che mandarono una
temibile flotta nel golfo di Napoli. Allora gli Austriaci, coman-
dati dal conte di Lobkowitz, inseguirono l'esercito in ritirata; ma,
giunti al Tronto, si diressero verso Roma, pensando che la con-
quista del regno di Napoli sarebbe stata più facile per quella via.
Il Lobkowitz però lasciava al conte di Soro mille micheletti e
cinquecento usseri, acciocché entrasse nel regno per la via di
Ascoli Piceno, subito che vedesse gli Abruzzi sguarniti di forze.
(1) Delfico, Opere compi., Teramo, Fabbri, 1901-1Q04, Voi. IV, pa-
gine 203, 204, 258, 259. Il Delfico leggeva i giornali di Milano {Opere
citate. Voi. IV, pag. 86).
(2) R. Liberatore, M. Delfico in Biografia degli italiani illustri etc.
pubblicata dai De Tipaldo, Voi. II, pag. 328-346; G. Cantalamessa-Car-
BONi, Sulla vita e sugli scritti del Commendatore Melchiorre de' Mar-
chesi Delfico, commentario, in Giornale Arcadico, Tomo XLV, pa-
gine 156-187; G. Pannella, Brevi cenni storici su la vita e su le opere
di M. D. in Opere complete di M. Delfico, Nuova Ediz. curata dai
professori G. Pannella e L. Savorini, Teramo, Fabbri, 1901-1904, Voi. I,
pag. V-XXXIIl, e Voi. IV, pag. 369 e seg.; N. Palma, Storia ecclesiastica
e civile della regione piti settentrionale del Regno di Napoli detta
dagli antichi Praetutium, nei bassi tempi Aprutium, Nuova Ediz., Te-
ramo, Fabbri, 1890-94, Voi. Ili, Gap. XCIII e seg., e Voi. V, Sez. III, §
VII, pag. 173-184; G. Gentile, Op. cit., Gap. II.
12
— 178 —
Infatti il Soro il 7 giugno 1744, passato il confine, venne a Te-
ramo. Melchiorre Delfico nacque appunto in quel tempo (1 ago-
sto 1744) nel Castello di Leognano (1), feudo della famiglia, nella
Valle Siciliana (2), da Margherita Civico e da Bernardo, che si
erano colà rifugiati all' avanzarsi degli Austriaci. Scacciati questi,
la famiglia Delfico tornò a Teramo, sua sede fin da remoti tempi.
Ivi Melchiorre, insieme con i suoi due fratelli maggiori Giov. Ber-
nardino e Giov. Filippo, si diede ai primi studi, che compì all'età
di undici anni; fu allora mandato a Napoli, all' Università, coi
fratelli. Colà ebbe come professore di filosofia il Genovesi (3); ma
non potè seguire con assiduità i corsi di studio a causa della sua
malferma salute. Tuttavia lavorava da sé, tanto che nel 1768 scrisse
due importanti Memorie (4), che presentò al ministro Tanucci e
a Ferdinando de Leon, avvocato della Corona. Esse furono lodate
dal Tanucci e presentate al Sovrano; ma restarono lettera morta
negli archivi di Casa Reale.
Intanto Melchiorre Delfico ammalava d' emottisi, e nell' anno
1768 stesso dovette tornare a Teramo. Ivi nel '69 sveste l'abito
di chierico, che gli avevano fatto indossare i parenti; nel '74
perde il padre; lavora assiduamente, e pubblica nel '74 stesso il
Saggio filosofico sul matrimonio, nel '75 gì' Indizi di morale, che
furono sequestrati sotto i torchi a pag. 240. Negli anni seguenti,
per conoscere le condizioni della sua patria e trovare i mezzi atti
a migliorarla, compì vari viaggi per la sua provincia, per il Regno
di Napoli e per l' Italia tutta (5).
(1) Presso il fiume Vomano, che nasce dal Gran Sasso d' Italia e si
getta nell'Adriatico.
(2) Si chiama Valle Siciliana tutto il paese montuoso a destra del
Vomano. Questa denominazione ricorda la permanenza in quei luoghi
dei Siculi, i quali pare siano rimasti colà più di tre secoli, essendo stati
cacciati da una specie di confederazione italica più di mille anni prima
di Cristo (Palma, Op. cit, Voi. I, pag. 30-31). Ai Siculi successero gli
Umbri, poi gli Etruschi, infine i Galli.
(3) II Delfico chiama il Genovesi « padre e creatore dei nostri in-
gegni - (Opere, Voi. Ili, pag. 256).
(4) Intorno ai diritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento, e
Saggio isterico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città di
Ascoli d^ Abruzzo oggi nella Marca (in Rivista Abruzzese, 1890).
(5) Nell'alta Italia fu nel 1788 e nel 1812. In questi ed in altri viaggi
— 179 —
Come sappiamo, era quello un periodo di riforme per tutti gli
Stati d' Europa, dovute specialmente alle opere di pensatori in-
signi e al risveglio della coscienza popolare, che giunse poi ad
abbattere le vecchie forme di società con la rivoluzione. Nel regno
di Napoli e di Sicilia, a cui apparteneva il Delfico, era a capo
del movimento innovatore il ministro Bernardo Tanucci, che tanto
sotto Carlo III di Borbone, quanto sotto Ferdinando IV cercò in
ogni modo di migliorare le condizioni pessime del popolo. Mel-
chiorre Delfico, che dai cuore suo buono era spinto a beneficare
i concittadini, seguì subito con interesse questa corrente di pen-
siero e di riforma. Frutti dei suoi viaggi e delle sue meditazioni
furono infatti diversi scritti miranti al miglioramento del suo
paese (1); i quali lo resero noto ai suoi concittadini, e lo fecero
nominare, dal Re, Assessore militare della provincia di Teramo
prima, e poi membro della seconda deputazione destinata a un
più efficace sollievo delle Calabrie percosse nel 1783 dal terremoto.
Intanto scoppiò in Francia la rivoluzione, che rese i realisti
diffidenti delle riforme e delle proposte degli uomini colti (2);
conobbe il Mascheroni, lo Spallanzani, il Volta, il Filangieri, il Beccaria,
il Panini, il Soave, i due Verri, l'Alfieri, lo Zimmermann, lo Scarpa e altri.
(1) Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale (Napoli, Por-
celli, 1782); Memoria sulla coltivazione del riso comune in provincia di
Teramo (Napoli, Porcelli, \1%Z)\ Elogio del Marchese D.Francescantonio
Grimaldi (Napoli, Orsino, 1784); Memoria sul tribunale della grascia
e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno (Napoli,
Porcelli, 1785); Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi e le
misure del regno (Napoli, Porcelli, 1787); Memoria su' regii stucchi,
0 sia su la servitù dei pascoli invernali nelle provincie marittime degli
Apruzzi (Napoli, 1787); Discorso sul tavoliere di Puglia e su la neces-
sità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad al-
cuna temporanea riforma (Napoli, 1788); Riflessioni su la vendita dei
feudi umiliate a S. R. M. (Napoli, Porcelli, 1790); Lettera a Sua Ec-
cellenza il Signor Duca di Cantalupo Intendente generale dei reali
Stati allodiali su i feudi devoluti (Napoli, 1795); un Discorso sull' abo-
lizione della pena di morte (inedito).
(2) < Esposti più d' ogni altro all' ira del Governo e alle trame delle
spie erano i dotti ed i sapienti, per la fallace opinione che il rivolgi-
mento francese fosse opera della filosofia e dei libri, piìi che dei bisogni
e del secolo.... 1 libri del Filangieri furono sbanditi, e in Sicilia bruciati;
— 180 —
cosicché nacque un dissidio fra i conservatori e gì' innovatori, il
quale procurò fastidì e -accuse a Melchiorre Delfico, nemico aperto
del vecchiume e dei pregiudizi (1); tanto che nel '98, quando i
Francesi erano già ad Ascoli Piceno, e avevano proclamata la
repubblica, egli e tutti di sua famiglia, accusati di tener mano
con i repubblicani e di tendere a rovesciare il trono di Napoli,
furono tenuti prigioni nel proprio palazzo, con cancellate di ferro
alle finestre e guardie al portone. All' avvicinarsi dei Francesi i
Delfico furono liberi; Melchiorre, chiamato dal Goudar, coman-
dante degli Abruzzi, a Pescara, fu nominato presidente dell'alto
Consiglio che governava tutt' e tre le Provincie abruzzesi; e a
Napoli fu nominato, insieme col Pagano, col Cirillo etc. (2), membro
prima del Corpo Legislativo, poi del Direttorio. Egli andò a Pe-
scara a far parte del governo repubblicano, ma, con dispiacere
dei patriotti, non a Napoli; anzi, ritiratisi i Francesi, e sciolto il
governo provvisorio, egli, per fuggire i torbidi e i pericoli del
Regno (3), nel maggio del 1799, col nome di Carlo Cauti, riparò,
con due parenti, per mare, sul monte Titano, a S. Marino, dove
scrisse 1' opera sua più famosa: la storia della piccola ma <-. in-
concussa - repubblica (4), di cui fu nominato cittadino onorario.
Là rimase sei anni, pur uscendone talvolta, per vari motivi (5),
il Pagano, il Cirillo, il Delfico, il Conforti erano mal visti e spiali ».
Colletta, Storia del Reame di Napoli, Libro III, § 11.
(1) Sono di questo tempo le Ricerche sul vero carattere della giu-
risprudenza romana e dei suoi cultori (Napoli, Porcelli, 1791), che cer-
carono di mostrare, contro l'opinione dei contemporanei, lo scarso
valore della giurisprudenza e della civiltà romana in genere.
(2) Cfr. M. Gioia, Opere minori, Voi. XIII, pag. 260.
(3) In questo periodo di convulsioni sociali andò disperso e perduto
a Pescara il museo numismatico raccolto dalla famiglia Delfico, ricchis-
simo principalmente di monete attestanti l'antichissima floridezza italiana
nei tempi anteriori alla civiltà di Roma.
(4) Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, Milano, Fran-
cesco Sonzogno, 1804.
(5) Una volta per stampare le Memorie della Repubblica di S. Ma-
rino, un'altra per pubblicare a Forlì i Pensieri su l'istoria e su la
incertezza ed inutilità della medesima (Forlì, Reveri e Casali, 1806), che
fecero molto chiasso. Nel 1805 a Milano stampò anche una Memoria
— 181 —
e ne partì il 1806, quando fu chiamato a Napoli da Giuseppe
Bonaparte, che lo nominò Consigliere di Stato e per qualche mese
anche Ministro dell'Interno. Dal 1806 al 1816 tenne altri uffici,
e propose molte riforme sull'istruzione pubblica, sull'organizza-
zione dei tribunali, sul catasto etc. (1). Parecchie istituzioni utili
e benefiche, come il manicomio d'Aversa, dovettero a lui la loro
nascita. L'attività sua lo rese caro ai Bonaparte: Giuseppe lo no-
minò commendatore dell'ordine delle due Sicilie, e il Murat barone.
Nel 1813 una caduta causatagli, nell' uscire da palazzo reale,
dall'urto d'una carrozza, per cui si ruppe il collo d'un femore
e rimase zoppo per tutta la vita, 1' obbligò a stare in riposo a
casa per molti mesi, cosicché dovette tenersi lontano dalla poli-
tica, e quindi non prese parte, forse con sua sodisfazione, né alla
nuova alleanza stretta dal Murat con l'Austria dopo la campagna
di Russia, né alla capitolazione di lui. La malattia non lo distolse
però dagli studi. Ascritto all'Accademia di Archeologia Ercola-
nese, alla Pontaniana, all' Istituto d' incoraggiamento e all' Acca-
demia delle scienze, di cui fu più volte presidente, lesse in questa,
nella riunione del 17 febbraio 1813, le Ricerche sulla sensibilità
imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della
specie e del civilizzanienfo dei popoli e delle nazioni (2), e, l'anno
seguente, la prima parte della Memoria su la perfettibilità orga-
nica, considerata come il principio fisico dell' educazione (3). L'in-
dipendenza d'azione da lui mantenuta rispetto al Murat gli rese
sulla libertà del commercio (nella Collezione degli scrittori classici ita-
liani di economia politica, edita dal Custodi, parte moderna, Voi. XXXIX)
scritta in occasione d' un concorso bandito dall' Accademia di Padova.
Nel 1804 fu al Delfico offerta la cattedra di storia e diplomazia dell'Uni-
versità di Bologna; ma egli non 1' accettò.
(1) Di questo tempo sono i Pensieri sopra alcuni articoli relativi
all' organizzazione dei tribunali (Napoli, Stamperia reale, ISOS;, la Ale-
moria sulla tassa fondiaria del 1803 (pubblicata nella Rivista Abruz-
zese, Fase. V-VI, Anno II), le Osservazioni su di un progetto d' istru-
zione pubblica - Discorso (pubblicato in Rivista Abruzzese, Anno II,
Fase. IX e X).
(2) Pubb. nel I Volume degli Atti della R. Accademia delle scienze
(Napoli, Stamperia reale, 1819, pag. 343-376).
(3) Anche questa nel Volume di Atti citato (pag. 377-415).
- 182 -
possibile di essere fra quelli che, aspirando all' iuta nazionale
il 19 maggio 1814 offrirono la corona d'Italia a >lapoleone nel'
r isola d' Elba. Anzi la relazione intorno alle tenenze politiche
dei principali Stati d'Italia è attribuita in massim parte a lui (1).
Tornati i Borboni sul trono di Napoli il 163, Il Delfico si
ritrasse dalla vita politica. Non ebbe però noie pr la sua attività
politica passata; che troppo era stimato. Ricevè n^i settecento
lire mensili come pensione di Consigliere di Stato • ome stipendio
di presidente della commissione creata per riordiare gli archivi
del regno. Potè così lavorare in pace e pubblica' vari scritti im-
portanti, tra cui la Seconda memoria su la perfettiu la organica (2)
e le Nuove ricerche sul Bello (Napoli, Nobile, 183) (3).
Nella primavera del 1820 tornò a Teramo, lieimente accolto.
Ma nell'estate dello stesso anno ne riparti per Npoli a favorirvi
la proclamazione del governo costituzionale. Ni settembre del
1820 fu eletto deputato a Teramo e a Napoli; op> per quest'ul-
timo collegio; e il 9 luglio fu nominato da Ferdiando 1 uno dei
quindici componenti la giunta provvisoria che ippresentava il
Parlamento prima della convocazione di queste Sedè al Parla-
mento, ma per breve tempo, che per motivi di saite il 17 ottobre
si dimise da deputato. Tornò quindi alla vita trnquilla (4); ma
(1) Vedila in Opere complete (ediz, cit.), Voi. IV, ^ag. 325-333.
(2) Letta il 6 Luglio 1816 nella Regale Accademi delle scienze di
Napoli e pubblicata, con la prima, negli Atti della ledesima. Voi. I,
pag. 417445.
(3) Sono anche di questo periodo di tempo i segueii scritti: Lettera
al Chiar.mo Signor Abate D. Gaspare Selvaggi sali tragedia (pubbl.
nel Giornale Enciclopedico di Napoli, Anno XII, N. , 1815); Sull'im-
putabilità del sordomuto - Lettera a Pasquale Litratore, Teramo,
2 febb. 1816 (pubblicata nel Giornale Abruzzese di :ienze. lettere ed
arti di Chieti, N. XVI, aprile 1838); Ragionamento s '>. '^'t"
nell'Accademia delle Scienze il 1» Dicembre 1818 e pul ' 1' Voi.
degli Atti della medesima a Napoli, jI 1825.
(4) Tuttavia non potè trattenersi dal difendere i jVni?:r! che il 7 di-
cembre 1S20 recarono al Pariamento il messaggio reg;t e due dei quali
furono posti in stato d'accusa; scrisse a tal fine nel nornale Costitu-
zionale, il 23 dicembre, un articolo intitolato Poc^ drf su r accusa
de' Ministri.
— 183 —
con olore vide la caduta del governo costituzionale e il ritorno
della nonarchia assoluta. Fu a Torre del Greco, poi a Teramo,
indi Napoli, infine il 1823 di nuovo a Teramo, donde non uscì
più (i. Sebbene vecchio, non rimase in ozio neppure allora; passò
gli uimi anni di sua vita in opere benefiche e in dotti studi (2).
Colpo d' apoplessia, amorevolmente assistito dagli amici e dai
pareri, spirò il 2 giugno 1835. Lasciò scritto nel testamento che
gli fcsero celebrati funerali semplici, senza pompa alcuna. Oggi
il Covitto Nazionale e il Liceo di Teramo s' intitolano da lui ;
e un )Usto di marmo dello scultore Pagliaccetti, collocato su
per i scalinata che conduce alle scuole classiche, ricorda agli
studcti abruzzesi la vita luminosa del loro illustre concittadino
tutta ledita alla ricerca del vero e al bene così della patria come
del pnere umano.
(1 Lasciò a Napoli ottima memoria di sé e una preziosa raccolta
di ed.ioni del primo secolo della stampa da lui riunite a gran fatica
nel crso di molti anni.
(2 Sono degli ultimi anni i seguenti scritti: Proposta di alcuni mezzi
econoUci per supplire agli attuali bisogni dello Stato (marzo 1822,
pubbcata in /?fV/s^fl Abruzzese, Anno II, Fase. VII); Dell' importanza
di fa precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia
intelttuale (Discorso tenuto nella Reale Accademia di Napoli il 1823;
pubbcato nella Rivista Abruzzese, Anno II, Fase. I e II); Della an-
tica nmismatica della città di Atri nel Piceno con discorso prelimi-
nare i le origini italiche dei Pelasgi e dei Tirreni (Teramo, Ange-
letti, S24); Breve cenno sul porto di Pescara, Pescara, 1825 (pubbl. in
Riv. .bruz., Anno III, Fase. IX); Della antica numismatica della città
di Ali con alcuni opuscoli su le origini italiche - Schiarimenti al
Mica e lettera al Conte G. Zurlo su le antiche ghiande missili di
piami (Napoli, Angelo Trani, 1826); Della preferenza dei sessi (Siena,
P< ri 1829); Lettera all'autore delle Memorie intorno i letterati e gli
anis ascolani (Ascoli, Cardi, 1830); La fiera franca in Pescara (in
Giornle abruzzese di Chieti, 1838, num. XIV e XVI); Espressioni della
partiilar riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta alla
memcia dell' immortai Ferdinando I (negli Annali civili del Regno
delle lue Sicilie, Voi. II, 1833). Questi scritti e quasi tutti quelli prece-
denteiente citati si trovano nelle Opere complete. Ad essi bisogna ag-
giungre un Discorso su le favole esopiane premesso agli Apologhi di A.
Tuli e pubblicato in parte da C. Campana nell'opuscolo Delle scienze
— 184 —
IL DELFICO E GL'IDEOLOGI. — Su Melchiorre Delfico ha
esercitato grande efficacia tutto il movimento filosofico francese
del secolo XVIII, eh' egli conosce assai bene. Lo avvicina agli
enciclopedisti l' eudemonismo, l' amore per le riforme, la lotta
contro i pregiudizi. Si capisce quindi come le sue opere doves-
sero assumere un carattere eminentemente pratico. Secondo lui
« non sono le idee astratte e le sublimi nozioni che possono far
meritare il titolo rispettabile di filosofo. Se la virtù non è posta
in azione, se le grandi idee non diventano di qualche uso, se la
fiaccola s'asconde sotto il moggio, non solo si è in colpa, masi
è reo di lesa umanità, colpa che meriterebbe maggior castigo che
e delle lettere in Teramo sullo scorcio del sec. XVIII; lo scritto Della
solitudine, pubblicato nel Giornale Abruzzese, 1840, XV, pag. 114-144;
e una raccolta di pensieri pubblicata dopo la morte del Delfico dal
Conte di Longano, Gregorio De Filippis, a iNapoli, il 1841, col titolo
seguente: La Delficina, o sia raccolta di pensieri di Melchiorre Del-
fico sopra svariati argomenti, rinvenuta fra gli scritti postumi di lui,
con un discorso e alcune note dell' editore (ripubblicata nelle Opere
complete, pag. 379-395 del Voi. IV). Alcuni manoscritti che furono af-
fidati a Luigi Dragonetti (Delfico, Opere, Voi. IV, pag. 77 e 99-91; sul
Dragonetti vedi Gentile, Op. cit., pag. 196-98 e 276-79) per l'ultima
revisione e che si conservano nella Biblioteca delia famiglia Delfico
non sono stati pubblicati, perchè secondo gli editori non sono che un
rifacimento d'idee già espresse dall'autore. È anche notevole l'episto-
lario, edito in parte nelle Opere complete (Voi. IV); il quale contiene
la corrispondenza del Delfico con Pasquale Borrelli, con Cataldo Jan-
nelli, con Destutt de Tracy, con lo Spallanzani, col Filangieri, col Soave,
col Dragonetti etc. Merita di esser ricordata anche una memoria Ietta
il 1819 all' Accademia delle scienze e intitolata Pochi cenni su i veri
fondamenti delle scienze morali, la quale rimase inedita, ma ispirò,
secondo quanto dice il Delfico stesso {Opere, Voi. IV, pag. 56), V Essai
philosophique sur le"; phénomcnes de la vie (Parigi, 1819) del Moroan,
medico e filosofo inglese. Sono rimasti inediti anche gli scritti filosofici
seguenti: Sulle origini ed i progressi delle società, ossia Saggio filo
sofico sulla storia del genere umano, e Osservazioni sopra alcune dot-
trine politiche del Segretario fiorentino.
— 185 —
il disprezzo e V oblìo » (1). Tutte le ricerche, arti e scienze che
non siano dirette a rendere gli uomini felici, devono secondo lui
esser bandite dalla cultura umana (2); poiché non vi può esser
nulla di più importante che lo stabilire la felicità della specie (3).
Evidente più che in qualsiasi altro scrittore è in lui l'antisto-
ricismo. Piuttosto che invidiare ed ammirare gli antichi, egli scrive,
piuttosto che aspirare tutto giorno ad imitarli, onoriamoli di uno
sguardo di compatimento se furono più lontani di noi dal cono-
scere i veri principi della civiltà (4). Per lui la lotta contro « l'im-
menso ammasso de' pregiudizi e degli errori, retaggio della pri-
mordiale ignoranza », così bene iniziata dalla libera ragione nel
secolo XVII e XVIII, non era ancora finita. Falsi numi tenevano
ancora sedi ed altari nel « tempio della sapienza » (5). Perciò
egli scrisse contro la credenza nell' importanza della giurispru-
denza romana e nella grandezza del popolo romano, il quale
chiamò abominevole e feroce (6), contro gli assertori dell'utilità
dello studio della storia (7), contro i vecchi metafisici, che si fon-
davano su ipotesi vaghe. Lo accosta agli analisti in genere il ri-
cercare l'origine delle idee (8), lo scomporre il complesso psichico
nel semplice (9), l'accettare la dottrina che tutte le cognizioni siano
(1) Elogio del March. Grimaldi in Opere complete, Voi. Ili, pag. 244.
(2) Delficina, §§ LUI, XCVI, CVI.
(3) Memoria su la perfettibilità organica in Opere complete, Voi. Ili,
pag. 503. (4) Delficina, §§ V e VII.
(5) Pensieri su l'istoria, Prefazione {Opere complete, Voi. II, pag. 13).
(6) Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de'
suoi cultori {Opere complete. Voi. I, pag. 90 e seg.).
(7) Pensieri su V istoria, Opere, Voi. II. Per le critiche mosse al Del-
fico per questo riguardo (tra le quali sono molto importanti quelle di
Cataldo Jannelli) vedi Gentile, Op. cit., pag. 66-70. Per l'antistoricismo
dei filosofi francesi vedi I Voi. di questa mia opera, pag. 29-30. Il Delfico
cita {Pensieri su V istoria. Gap. III) il Volney; ma secondo lui questi
non è andato sino in fondo nella critica della storia; egli va oltre il
filosofo francese, che aveva sostenuto 1' utilità della storia per la vita
politica.
(8) Indizi di morale, spec. § 3 {Opere, Voi. I, pag. 1-85), e Nuove
ricerche sul Bello, spec. Gap. I {Opere, Voi. II, pag. 85-294).
(9) Indizi di morale. Parte I, § I, pag. 8. Vedi anche Nuove ricerche
sul Bello, Discorso preliminare.
— 186 —
un prodotto della sensibilità (1), l'uso d'un metodo piano e sem-
plice (analisi), fondato sull'esperienza. Lasciò scritto che, nell'ado-
lescenza avendogli la fortuna fatto pervenire nelle mani le immor-
tali opere del Locke e del Condillac, parve che il suo spirito
prendesse « una nuova modificazione ed un gusto particolare pei
morali sentimenti » (2); in una lettera al Dragonetti dichiarò: « Do-
poché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sen-
sazioni, non l'ho turbato più, perchè mi vi sono trovato comodo,
non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno
potuto migliorarlo »; e tutte le volte che gli si presenta l'occasione
fa l'elogio del Locke, del Condillac, del Bonnet, del Tracy (3).
Ma la maggiore efficacia esercitarono su lui il Condorcet e il
Cabanis. Al Condorcet infatti si riconnette per il concetto della
perfettibilità della specie umana, che, come vedremo, ha per lui
tanta importanza; al Cabanis deve le principali sue idee filosofiche.
E lo confessa: infatti, sebbene nelle sue prime opere critichi la
teoria del Condorcet, che, secondo lui, fu fissata e difesa dallo
scrittore francese « in un ondeggiamento dello spirito fra lo
stato di entusiasmo e di ragione > (4), pure finisce coU'accet-
(1) Dell' importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo
studio della filosofia {Opere, Voi. IH, pag. 570). Si noti che negl'Indizi
di morale (Parte II, § II, pag. 55) egli afferma che il giudizio è qual-
cosa di più della sensazione, e che noi siamo attivi giudicando e pas-
sivi nel sentire. Tuttavia non fa dell' attività giudicatrice una funzione
a sé, diversa dalla sensibilità, ma la considera piuttosto come una specie
di sensibilità, che chiama sensibilità riflessa (vedi Op. cit., 1. e, pag. 56).
(2) Pannella, Brevi cenni etc, pag. IX.
(3) Vedi Nuove ricerche sul Bello, Discorso preliminare, pag. 194;
Delficina, § LVI; Della importanza di far precedere etc, pag. 582. Per
la lettera al Dragonetti vedi Opere, Voi. IV, pag. 54.
(4) Pensieri su l'istoria. Gap. Ili (pag. 106 del II Voi. delle Opere
complete). La dottrina della perfettibilità della specie, di cui, come scrive
il Condorcet stesso {Esquisse d' un tableau historique des progrès de
l' esprit humain, Paris, Librairie de la Bibl. nat., 1897, Tome II, pag. 15),
furono i primi e più illustri apostoli il Turgot, il Price e il Priestley,
fu dal Condorcet abbozzata nella Vie de M. Turgot (Londres, 1786) e
fissata poi n(t\V Esquisse (pubbl. il 1795), in cui, considerata con uno
sguardo vasto e sintetico la storia della cultura umana a traverso nove
periodi, il Condorcet ne ricava la legge della perfettibilità indefinita, e
— 187 —
tarla (1); quanto al Cabanis, lo chiama il maggior filosofo forse
che abbia avuto la facoltà medica da Ippocrate ai nostri tempi », e
scrive che le sue proprie idee non sono che uno sviluppo di quelle
del filosofo francese (2).
Vediamo dunque come il Delfico applicò e svolse il pensiero
del Cabanis.
Innanzi tutto il Delfico, al pari del Cabanis, crede nella ne-
cessità di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale. Il Cabanis afferma che lo studio parallelo
dell' organismo e della psiche deve iniziare il nuovo metodo, che
cerca anche di stabilire i probabili progressi futuri (decimo periodo)
dello spirito, che, secondo lui, consisteranno specialmente nella distru-
zione dell'ineguaglianza fra le nazioni, nel diffondersi dell'uguaglianza
nei popoli singoli, e nel perfezionamento psichico e corporeo dell'uomo.
(1) L'idea della perfettibilità della specie da prima oscillò un po'
vaga dinanzi alla mente del Delfico. Nelle Memorie storiche della Re-
pubblica di S. Marino (Conclusione) suscitò in lui de' dubbi. Nei Pen-
sieri su V istoria (Cap. Ili) gli apparve come capace d' * incontrare
molte difficoltà o distinzioni . Infine, dopo la lettura dei Rapports del
Cabanis, fu da lui accettata senza incertezze come perfettibilità orga-
nica e quindi (per il rapporto tra fisi e psiche) anche psichica.
(2) Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e
delle nazioni, Parte I, pag. 481 del Voi. Ili delle Opere. Si noti anche
r asserzione de! Delfico > che 1' uomo non è una statua, una macchina,
ma un essere vivente la cui forza sensoria ora attiva, ora passiva ci si
manifesta in una moltiplicità di fenomeni > {Nuove ricerche sul Bello,
Cap. I, pag. 209): la quale ricorda la critica mossa dal Cabanis alla
teoria del Condillac. Si badi anche all'insistere che fa il Delfico, come
il Cabanis, sulla sensibilità interna {Ricerche su la sensibilità imitativa.
Parte I, pag. 473; Nuove ricerche sul Bello, Cap. 1, pag. 203, etc). Si
noti infine che il Delfico, al pari del Cabanis, accettò, nelle Memorie
storiche della Rep. di S. Marino (1804), Cap. IX, la così detta teoria
del clima. Tuttavia aveva respinta questa nelle Ricerche sul vero ca-
rattere della giurispr. romana (1791), e tornò poi a respingerla nei
Pensieri su V istoria; ma dovette infine riavvicinarlo ad essa la lettura
dei Rapports del Cabanis.
— 188 —
renderà positive, di fantastiche che erano, le scienze morali. Il
Delfico (1) ritiene che lo studio dei fatti fisiologici possa divenire
la base reale che, dando unità alle varie dottrine, ponga fine alla
lotta delle sette filosofiche (2), e renda efficace 1' educazione e
r istruzione pubblica, suggerendo regole positive sull' esercizio
delle nostre facoltà psichiche (3).
Ma il Delfico trae i principi stessi delle sue ricerche dalla dot-
trina del Cabanis. Per il quale legge degli esseri viventi è l'attra-
zione organica; perciò la simpatia diviene per lui l'istinto fonda-
mentale della vita, la vita stessa, e, siccome con le tendenze simpa-
tetiche si confonde l' imitazione, questa pure ha suo fondamento
neir attrazione organica: è quindi fenomeno generale degli esseri
viventi, e ha importanza specialmente per l'educazione e la per-
fettibilità dell'uomo (4). Ecco il punto della dottrina del Cabanis
che è sviluppato dal Delfico. Il quale comincia dall' osservare (5)
che i filosofi non hanno abbastanza considerato il fenomeno del-
l'imitazione nell'origine sua, per vedere se esso abbia organi pr.r-
ticolari o particolarmente addetti al suo esercizio, e una sede
speciale. Ora, sebbene né gli studiosi delle funzioni dell'organismo
umano, né gli accurati indagatori delle sue parti ci abbiano po-
tuto indicare un organo particolarmente addetto alla sensibilità
imitativa, pure dalla costante osservazione si può facilmente rile-
vare che, oltre il sistema nervoso, in cui essa deve avere un centro
particolare, due degli organi esteriori dei sensi sono suoi stru-
menti principali: quello dell' udito e quello della vista. Appunto
mediante questi organi si manifestano i primi atti dell' imitazione;
e da essi dipende in gran parte 1' ulteriore svolgimento di tale
facoltà. Cosicché, derivando l' imitazione da disposizioni fisiche
dell'organismo che ne rendono necessari gli effetti, l'uomo é imi-
tatore come è veggente: cioè, ricevendo date impressioni per i sensi
dell' udito e della vista, deve avere nella sua macchina analoghi
(1) Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche etc.
pag. 567-588.
(2) Op. cit., pag. 574 e seg. (3) Op. cit., pag. 583.
(4) Vedi Voi. I di questa mia opera, pag. 194-201.
(5) Vedi per tutta questa parte le Ricerche su la sensibilità imitativa
etc, Parte I, pag. 473 e seg.
— 189 —
movimenti e modificazioni corrispondenti alle impressioni ricevute.
Perciò fin dai più antichi tempi i primi conoscitori dell' uomo
(Aristotele per es.) lo chiamarono un animale imitatore: quasi che
questa qualità o condizione fosse la più caratteristica e costitutiva
dell' essere suo (1).
Gli atti imitativi talvolta sono volontari, tal' altra sono invo-
lontari o restano in uno stato intermedio fra gì' istintivi e i vo-
lontari. Come mai in vero poter vedere l' azione della volontà
nello sbadiglio che si comunica agli astanti, nel riso che si ripete
senza causa, nel sorriso imitativo dei bambini, nelle convulsioni
che si propagano per effetto solo dell' impressione ricevuta pel
senso della vista? Di più, i medici conoscono uno stato di sì al-
terata sensibilità imitativa, in cui il paziente con disgusto e do-
lore e contro sua volontà si sente forzato ad imitare e ripetere
tutti gli atti che vede compiere; e non trova altro modo di riposo
che il sottrarsi alla vista di sì forti impressioni. Tutto sembra
dunque provare evidentemente non solo che l' imitazione abbia
i suoi organi speciali, ma ancora che- tali movimenti si compiano
pur nel silenzio della volontà. Data questa capacità importantis-
sima dell'uomo, se ne devono avere molte manifestazioni mediante
gli organi detti (vista e udito). Le più importanti si riscontrano:
r nel linguaggio (per mezzo dell'udito). Infatti l'origine prima
del linguaggio si ha nell'onomatopea, cioè nel ripetere con suoni
articolati le impressioni e sensazioni ricevute per 1' organo del-
l'udito: dunque in un'imitazione dettata dalla natura (2). I primi
uomini in vero crearono il linguaggio imitando con la voce il
(1) Prima del Delfico in Italia avevano parlato dell' imitazione il
Filangieri (nel Tomo IV della Scienza della legislazione, pag. 69) e
Mario Pagano nel discorso Suir origine e natura della poesia (Saggi
politici, Napoli, 1783-S5, Voi. I, Append. al Saggio I).
(2) Ricerche su la sensibilità imitativa. Parte I, pag. 474. L'onoma-
topea era comunemente invocata dagl' ideologi italiani per spiegare
r origine del linguaggio. Vedi per es. Soave, Ricerche intorno all' isti-
tuzione naturale d' una società etc; Gioia, Elementi di filosofia, Se-
zione III, Art. II, Gap. Vili; cfr. Genovesi, Logica per i giovinetti,
Libro I, Gap. V. Anche il Pagano, per spiegare il linguaggio, ricorreva
air onomatopea, riconnettendosi al Vico (vedi Gentile, Op. cit., pa-
gine 71-72).
— 190 —
muggito del tuono, il fischio della folgore, il soffio del vento, le
voci degli animali, il moto delle acque correnti e fenomeni simili;
e, mentre il ripetersi delie impressioni, agevolando i movimenti,
produceva le abitudini e fissava le voci, nel tempo stesso i suoni
divenuti segni andavano a formare il deposito della memoria e
la base del linguaggio. La prova di questo è che non solo le
lingue antiche e moderne offrono numerosi esempì d'onomatopea,
ma ancora che quelle parole le quali mostrano una certa origi-
narietà ed esprimono sensazioni semplici o primitive, son sempre
corrispondenti al carattere dell' impressione ricevuta: per esempio
le voci soave, dolce, ameno, molle, fluido, acre, aspro, fiero, duro,
terribile, feroce (1). Il De Brosses (2), aggiunge il Delfico, ha mo-
strato come per una successiva imitazione gli effetti delle impres-
sioni ricevute dall'udito siano passati a indicare analoghe modi-
ficazioni ricevute dagli altri sensi. L'onomatopea perciò si può
considerare come il segreto per intendere il linguaggio.
È vero che questa facoltà onomatopeica, benché sia comune
a tutta la specie, non si può considerare come generale e per-
manente nel suo esercizio; giacché lo stato di società non ci fa
sentire più il bisogno di tali imitazioni. Tuttavia scorgiamo ancora
le tracce di queste nei fanciulli, che imitano non solo le voci
degli esseri viventi, ma spesso i rumori di macchine e di stru-
menti. Tale è poi la forza di questa meccanica imitatrice, che
giunge fino a rendere periodici i movimenti imitativi, ripetendo
i suoni anche quando l'organo dell'udito non ne riceve l'impres-
sione attuale. È noto ai fisiologi il fatto, riferito nelle Transactions
Philosoph., di queir imbecille contadino, che, uso a ripetere i
tocchi dell'orologio della sua parrocchia, li ripeteva ancora allo
stesso punto, anche quando, per qualche accidente accaduto, quella
macchina restava in silenzio. Ed io, aggiunge il Delfico, ho veduto
un fanciullo di quattro anni, cieco e nello stato d' idiotismo, che
ripeteva costantemente alcuni rumori anche lungo tempo dopo
eh' erano cessati.
Pure in alcune specie d' animali si trovano esempi di attività
(1) Seconda memoria su la perfettibilità organica, pag. 544 del
Voi. II! delle Opere.
(2) in Traile de la formation mécaniqiie des langues, Paris, 1765.
— 191 —
imitatrice dei suoni; così gli uccelli, facendo gustare all'uomo in
società le delizie dei loro accenti naturali, apprendono poi da lui
nuove e piià concertate cantilene. Non è questa una vera imita-
zione organica ? (1).
Se neir origine del linguaggio tanta parte ebbe l' imitazione,
pure mediante questa si conservano le lingue; giacche solo per
imitazione i fanciulli arrivano gradatamente a mettere in esercizio
gli organi vocali.
2" nella scrittura (per mezzo della vista). Le lettere nella loro
origine non furono altro che immagini delineate, le quali poi
passarono a indicare le semplici modificazioni degli organi della
voce, e divennero gli elementi della parola. Tali furono infatti i
caratteri chiamati simbolici, usati nei tempi più remoti, e di cui
ci restano ancora i ricordi nei libri e nei monumenti. Furono
dunque certamente prodotti dell' imitazione (2). Anche la stampa,
che tanto giovamento ha arrecato alla civiltà dei popoli, è un
risultato della facoltà imitatrice, non essendo altro che un com-
plesso di simboli che riproducono la scrittura (3).
3° nella fisonomia (ancora per mezzo della vista). Chi è che
avendo sorriso ad un bambino o ad una bambina di pochi mesi
non abbia veduto quasi all' istante ripetersi sui loro volti quei
movimenti muscolari che sono per noi l' espressione fisica del
riso e della gioia ? Se non vogliamo attribuir lor«. delle idee in-
nate e la facoltà di farne uso ad arbitrio, non possiamo spiegare
il fenomeno se non riconoscendo una corrispondenza naturale
degli organi predisposti a produrre tale modificazione. Lo stesso
dicasi di altri sentimenti, per es. Io sdegno, espressi dalla fiso-
nomia del bambino all'occasione d'impressioni differenti (4). Se
s' obietta: — Tal fenomeno non si riscontra universalmente —,
si risponde: — È vero; ma questo può accadere o perchè l'occhio
del bambino non si fissa con attenzione su 1' oggetto che gli si
presenta, o perchè la sensibilità è distratta da altre impressioni
(1) Ricerche su la sensibilità imitativa etc. Parte 1, pag. 474 e 475.
(2) Op., cit., Parte I, pag 478. (3) Op. cit., Parte li, pag. 493.
(4) Questo è uno dei fatti più discussi nel moderno problema del-
l' Einfìihlung. Vedi G. Calò, L' « Einfiihlung », /, in Cultura Filoso-
fica, anno IV, N. 2.
— 192 —
più forti. Dopo qualche anno, però, quanto più i fanciulli diven-
tano imitatori, specie delle funzioni liturgiche e degli esercizi mi-
litari ! E non per altro motivo che per la maggiore frequenza e
intensità delle impressioni che ne ricevono. Per questa stessa ra-
gione r imitazione è spesso un fenomeno dell' amore, in cui non
solo sono imitati i vezzi o le leziosaggini, ma spesso si ripetono
sollecitamente le parole altrui nel tacito moto delle labbra — (1).
3° neW attività estetica (ancora per mezzo della vista). Per il
Delfico il bello, considerato negli oggetti, consiste nella combi-
nazione di quelle qualità visibili che ci recano diletto mediante
l'organo della vista, e, riguardo a noi, in quelle gradevoli sensa-
zioni che per lo stesso organo passano a impressionare, pure di-
lettevolmente, il sistema nervoso; cosicché si potrebbe brevemente
definire: « tutto ciò che ci dà sensazioni gradevoli mediante l'or-
gano della vista » (2). Ora, nei luoghi in cui gli oggetti (rigogliosi
prodotti della vegetazione, graziose figure d'animali, sublimi spet-
tacoli della natura circonfusi di una luce vaga nei suoi riflessi e
nei colori varieggianti, e specialmente forme femminili illuminate
dai sogni d' amore) suscitavano più intensamente e più spesso
le dette impressioni piacevoli negli uomini, questi furono spinti,
dalla loro tendenza all' imitazione, a rappresentare i vaghi oggetti
che si offrivano alla loro vista. Così Tirsi mosse incerto il braccio
a tracciare su 1' arena o su le cortecce dei faggi e degli allori
r immagine di Fillide lontana. Così gli uomini primitivi fissarono
in sassi informi o in rozzi schizzi d'animali o d'alberi o di numi
e d' eroi le loro più semplici impressioni estetiche. Certo non si
potevano chiamar belli questi primi disegni delle forme viventi,
questi primi ritratti delineati dall'amore; ma furono essi il germe
delle arti. Quando poi l'uomo potè formarsi idee astratte e com-
plesse, esercitò la sua sensibilità con ripetute sensazioni analoghe,
e, mediante la memoria e l'immaginazione, potè paragonare varie
impressioni, allora le sensazioni passeggere, divenute permanenti
ed attive, si moltiplicarono con la scoperta di nuovi rapporti fra
(1) Ricerche su la sensibilità imitativa, Parte I, pag. 475 e 476.
(2) Nuove ricerche sul Bello, Cap. 1 e li. Una spiegazione simile
dava dell'origine dell'idea del beHo il Condillac, il quale, nel Traile
des sens., scriveva: ^ On appelle beau tout ce qui plaìt à la vue, à
r cui et au toucher >.
— 193 —
le idee e gli oggetti e fra le idee stesse; e gli organi della sensi-
bilità e dell' intelletto, così felicemente modificati, trovando una
necessaria corrispondenza in quelli del movimento volontario, cer-
carono di rappresentare gli oggetti imitandoli tecnicamente. Così
nacquero le varie specie di arti, e, se si potesse seguirne il progresso,
si vedrebbe come l'imitazione, dopo aver cercato a lungo d'av-
vicinarsi alla natura, seppe poi abbellirla, e, senza offenderla, su-
perarne i confini. Onde sorse il bello ideale, il quale si ottenne
con lo scegliere le parti e i modi che sono in natura, e col com-
binarli poi come in natura non compariscono, secondo una ra-
gione ideale, producendo così un complesso di qualità atte a
suscitare nuove sensazioni e idee di bellezza e di piacere (proprio
come Omero tracciò il ritratto di Agamennone facendo una scelta
di organi, e come Anacreonte, nell'Ode XXVIII, dettò al pittore
il ritratto dell'oggetto della sua passione amorosa, raccogliendo
in un tutto le particolari bellezze dei numi).
Senza la facoltà imitativa dunque, che ha tanta parte in tutte
le operazioni della mente e tanta correlazione con tutta la sensi-
bilità, il bello ideale e le belle arti non sarebbero sorte giammai (1).
4° nella vita sociale e morale (per mezzo della vista e dell'udito).
Il più importante dei fenomeni imitativi è la simpatia, che ha
tanto valore nella vita morale. Come infatti sorge per il Delfico
la vita morale? Secondo lui non vi sono sensazioni indifferenti,
ma o piacevoli o dolorose. Ora, l'uomo, dopo aver ricevute molte
di queste sensazioni, riflettendoci su, e generalizzando le loro qua-
lità, si forma l' idea di piacere e di dolore, quindi di bene e di
male: poiché tutto ciò che suscita una sensazione piacevole è per
lui un bene, mentre tutto ciò che provoca una sensazione dolo-
rosa è per lui un male (2). Ebbene, quando l'uomo ha acquistate
(1) Nuove ricerche sul Bello, spec. Gap. Ili, e Ricerche su la sen-
sibilità imitativa, Parte I, pag. 477 e 478. Vedi anche Lettera al Chia-
rissimo Signor Abate Don Gaspare Selvaggi sulla tragedia, pag. 403
e seg. del Voi. IV delle Opere. Alle Nuove ricerche sul Bello ha ac-
cennato il Croce {Estetica, 4» Ediz,, Bari, Laterza, 1912, pag. 413 e 547),
perchè vi ha trovati preannunzi di concetti suoi (importanza data al-
l' espressione, critica dei diversi generi di stile).
(2) Onde la grande affinità e relazione fra il bello e il bene {Nuove
ricerche sul Bello, pag. 206 e 216, e l' intiero Cap. VI). Tutta questa
parte ricorda il Condillac.
13
— 194 -
le idee di piacere e di dolore e quindi di bene e di male, ed ha
conosciuto nei suoi simili la stessa conformità d' idee e di bisogni,
cioè i rapporti reali che li uniscono, sente per essi simpatia. Ora,
che cos'è la simpatia? È una manifestazione della sensibilità imita-
tiva, è sentire ciò che sente un altro: si potrebbe quindi chiamare
consensibilità o imitazione interna. Mediante essa infatti noi quasi
imitiamo psichicamente gli altri, assumiamo il loro stesso atteg-
giamento psichico, veniamo ad avere lo stesso stato d'animo, e
spesso assumiamo, in corrispondenza, anche lo stesso atteggia-
mento corporeo (imitazione esterna). Se i sentimenti che un altro
prova sono dolorosi, allora noi, simpatizzando con lui, proviamo
compassione. Ora, appunto la compassione ha condotto gli uomini
allo stato sociale e morale (1). Infatti, se la si esamina nei suoi
elementi, si vede che essa consiste in un movimento interiore, che,
suscitato in noi mediante l'organo della vista o quello dell'udito
dalle sofferenze d' un essere sensibile, dà origine a nuovi movi-
menti analoghi atti a liberarci dalla pena o a toglierne la causa;
di modo che, per non soffrire più nel veder soffrire gli altri, noi
cerchiamo di aiutarli e beneficarli liberandoli dalle loro pene. Così
non solo si stabilisce a poco a poco fra noi e gli altri un senti-
mento di viva solidarietà (s'inizia quindi la vita sociale), ma anche
cominciano a sorgere in noi tendenze virtuose: giacché, dice il
Delfico, la virtù non è altro che l'abito di quelle azioni che sono
piacevoli e utili e agli altri e a noi stessi (2); si forma quindi e si
(1) Le stesse idee espresse il Delfico nell'opera inedita ricordata
Saggio filosofico sulla storia del genere umano, di cui dà un cenno
il Liberatore {Op. cit., pag. 343).
(2) Vedi Indizi di morale, Parte 1, § li, 111, IV e V, e Parie il, § 1,
II, III e IV; Ricerche su la sensibilità imitativa. Parte 1, pag. 479-482.
Veramente, quando il Delfico scrisse gV Indizi di morale (1775), non
poteva conoscere i Rapports del Cabanis pubblicati il 1802, né quindi
valersene nella morale. Ma già gli erano famigliari gli scritti dei pen-
satori francesi che esercitarono efficacia anche sul Cabanis; e poi egli
stesso, neir ultimo periodo di sua vita (nelle Ricercìic sulla sensibilità
imitativa, Parte I, pag. 479-482), ripensando alle sue idee morali, le
riconnetteva al problema dell' imitazione. Confronta del resto le sue
idee sulla compassione con quelle del Cassina (vedi pag. 35-36 di
questo Voi.).
— 195 —
consolida a mano a mano il mondo morale con i suoi molteplici
rapporti. Siccome poi la civiltà di un popolo consiste non nella
potenza, nelle ricchezze, nel lusso, nelle arti e nelle scienze, ma
precisamente nella moralità, ossia nelle abitudini di benevolenza
e compassione (1), ecco che con lo sviluppo sempre maggiore dei
sentimenti e degli abiti morali, che possono divenire talvolta ere-
ditari, sorge a poco a poco anche la civiltà di un popolo; cosicché
anche questa ha la sua sorgente nell' imitazione (2).
Tutti i fenomeni indicati sono dunque effetti dell'imitazione, e
provano 1' esistenza d' un apparato organico della facoltà imita-
tiva, il quale partecipa a quelli.
Accertati questi fatti, si doveva senza dubbio presentare alla
mente pratica del Delfico la seguente domanda: — Ne possiamo
trarre qualche giovamento per il genere umano ? —
S' è osservato, risponde il Delfico, che la perfettibilità degl' in-
dividui e della specie è uno dei principali caratteri della razza
umana, e che, essendo essa indeterminata per sua natura, ne re-
stano ancora ignoti i limiti. Esaminando infatti gli organi dei sensi
e quelli del movimento s' è visto che in essi è possibile un mi-
glioramento organico, e che quindi 1' uomo è perfettibile organi-
camente. Che cos'è dunque la perfettibilità organica? È la possi-
bilità non di creare nei corpi viventi organi o facoltà nuove atte
a procurarci sensazioni e idee nuove, ma di migliorare gli organi
già formati, dando ad essi abitudini nuove, le quali, quanto più
saranno ripetute, tanto più si faranno stabili, fino al punto da
diventar permanenti ed ereditarie (3).
Ora, la perfettibilità organica è la condizione indispensabile
(il principio fisico) dell'educazione: giacché questa non è in fondo
che il miglioramento organico (e quindi psichico) dell' uomo, e
(1) Perciò il Delfico non ha simpatia per la civiltà romana.
(2) Ricerche su la sensibilità imitativa, Parte II.
(3) Seconda memoria su la perfettibilità organica, pag. 536-538. Per
il Delfico la perfettibilità organica è propria dell' uomo, non degli ani-
mali. Perciò egli combatte il De la Mettrie {Op. cit., pag. 534 e seg.).
— 196 —
la dottrina dell' educazione o pedagogia non è che la scienza la
quale ne indica i principi e i metodi d' esecuzione. Ebbene, in
che modo si può migliorare organicamente 1' uomo ? In fondo,
dandogli delle buone abitudini; e, siccome queste si formano col
ripetersi delle stesse impressioni, sensazioni o movimenti su gli or-
gani sensori, e l'organo dell'imitazione è il più predisposto a tal
fine, ecco che esso si rivela uno dei più propri e adatti a ricevere
i movimenti analoghi e ad acquistare quelle abitudini che s' indicano
come il risultato dell'educazione: in altri termini, l'organo della
imitazione diventa il vero organo della pedagogia. Perciò grande
utile può venire al genere umano dai fenomeni d' imitazione (1).
La prova di quanto s'è detto si può trovare in vari fatti. Os-
servando per es. le scuole speciali consacrate esclusivamente a
particolari professioni, si vede chiaro come la parte d' azione, che
accompagna sempre la parte d' istruzione, non si faciliti fino al
punto da diventare abitudine se non per mezzo delle continue
ripetizioni, che fanno svolgere la facoltà imitatrice. Così nelle
scuole di nautica la destrezza straordinaria e 1' equilibrio, che si
acquistano mediante 1' esecuzione di una grande molteplicità di
movimenti, sono miglioramenti che si producono non solo pel mec-
canismo delle facoltà intellettuali, ma per l' attività di tutti gli
organi adoperati allo scopo particolare. Lo stesso può dirsi delle
grazie e maniere d' espressione che s' imparano nelle scuole di
ballo. Del pari, chi non sa quale differenza esista tra lo sguardo
dei profani e quello dei pittori o professori di disegno nello scor-
gere in un quadro l'adempimento delle leggi del bello? Ora, sic-
come tale diversità deve avere una causa, questa non potrà tro-
varsi che nel particolare esercizio dell' organo della vista, che la
natura ha reso capace di tanti movimenti; si dovrà quindi con-
cludere che in tale organo s' è prodotto un cambiamento; se no,
si supporrebbe un effetto senza causa. Lo stesso deve accadere
in coloro che, lungamente esercitati a misurar le distanze, acqui-
stano tanta abilità da potersi dispensare degl' istrumenti geome-
trici; e in quelli che, avendo gradatamente esercitato l' organo
dell' udito secondo le regole dell' armonia, percepiscono quelle
discordanze che restano inavvertite ai profani.
(1) Ricerche su la sensibilità imitativa, Parte li, pag. 486.
— 197 —
Ma gli effetti sopra accennati si riscontrano specialmente nel-
l'organo che più distingue l'uomo dagli altri esseri viventi: quello
della voce. Se il vagito dell' uomo rassomiglia in qualche modo
alle voci degli animali, quale differenza fra questi tristi suoni e
la parola o le modulazioni del canto ! Ebbene, se la parola è il
movimento di un organo imitativo, i gradi del suo perfeziona-
mento non potranno esser altro che le successive modificazioni
che quell' organo va ricevendo a traverso i suoi esercizi, combi-
nati con quanto l' intelligenza e l' immaginazione, per i naturali
consensi, gli possono partecipare. Infatti ai fanciulli s'insegna la
buona pronuncia col ripetere loro i suoni e col mostrare talvolta
ad essi la modificazione stessa dell'organo, il che si fa specie con
quelli che o per cattiva abitudine o per qualche lieve difetto or-
ganico s'allontanano dalla retta pronuncia. Più si troverebbe vera
quest' osservazione, se si volesse estenderla alle modulazioni ca-
nore della voce, per le quali gli organi non di tutti sono egual-
mente adatti. Lo stesso si potrebbe dire della combinazione istan-
tanea degli atti della mente e del movimento rapidissimo delle
mani sulla tastiera del pianoforte, così facilmente e sorprenden-
temente eseguito dai professori di armonia; e, se nella poesia si
volesse distinguere la parte sublime appartenente all' immagina-
zione dalla parte meccanica che ne costituisce il ritmo e la mi-
sura, si riconoscerebbe che l' abitudine ai componimenti estem-
poranei dipende pure dall'esercìzio degli organi.
Ma se i sensi esterni e gli organi del movimento sono suscet-
tibili di modificazioni miglioratrici e di un maggior svolgimento
delle loro facoltà, da ciò segue necessariamente che gli organi
stessi del senso interno (i centri del sistema nervoso), i quali for-
mano un tutto e sono in continuo concerto con quelli esteriori,
possono e debbono pur essi partecipare a questo perfezionamento.
Considerando infatti i progressi successivi della facoltà che si
chiama attenzione, apparirà ben chiaro che solo con un esercizio
lungo e ordinato essa si rafforza e manifesta gli effetti più impor-
tanti. Chi in vero non ha sentito in sé stesso come nell'esercizio
dell'attenzione gli organi propri di questa abbiano un movimento
forzato e penoso, che spesso non si sopporta, e come con la ri-
petizione di tali movimenti si vada formando un' abitudine e svi-
luppando un'energia che facilita sommamente le operazioni del-
l'anima e rende insigni le menti nella ricerca del vero? Ciò che
— 198 —
s' è detto dell' attenzione può ripetersi della memoria; anzi spe-
cialmente nei fenomeni della memoria si scorgono le felici ope-
razioni della sensibilità imitativa. Tutti questi fatti dimostrano
dunque con la massima evidenza che la perfettibilità organica
costituisce la base del miglioramento dell' uomo o il principio
generale dell' educazione, e che 1' organo dell' imitazione rappre-
senta il miglior mezzo per attuarlo. Così la pedagogia riesce ad
acquistare una base fisica, e può arrecare benefici grandissimi al
genere umano (1).
La politica potrebbe seguire le orme della pedagogia. Se in-
fatti si riflette che, come s' e accennato, la vera civiltà dei popoli
consiste nella disposizione della sensibilità più favorevole alla be-
nevolenza e nella manifestazione dei sentimenti più utili al benes-
sere comune, si vede subito che lo Stato, dandoci delle impres-
sioni le quali modifichino la sensibilità nelle disposizioni alla be-
nevolenza, potrà anche facilitare il progresso morale, giacché
r uomo morale non è che il risultato delle impressioni o sensa-
zioni ricevute. Ora, se i sentimenti di benevolenza si producono
(1) Memoria su la perfettibilità organica, pag. 519 e seg. Il Delfico
crede di poter trarre vantaggi straordinari dalla perfettibilità organica,
anzi spera quasi di trasformare e rigenerare l'esistenza e la società
umana. Il che si capisce specie da ciò die dice riguardo agli organi
vocali. Questi secondo lui nell' uomo si dovrebbero chiamare organi
della parola, non della voce; poiché gli animali sono capaci di emet-
tere solo la voce, cioè semplici suoni, mentre l'uomo pronuncia suoni
articolati, cioè modificati differentemente, secondo che l' aria che li
produce è obbligata a ricevere le modificazioni che gli organi parti-
colari (gola, palato, lingua, denti, labbra) le comunicano. Ora, questa
differenza tra la voce dell' uomo e quella degli animali deve avere una
causa; quindi, sebbene gli organi vocali siano comuni all'uomo e agli
animali della stessa classe, bisogna pur dire che in essi si nasconda
qualche differenza essenziale. Questa non può consistere in un' imper-
fezione degli organi delle altre specie in confronto a quelli dell'uomo;
poiché, allora, sussisterebbe non una differenza assoluta fra la voce
umana e quella degli animali irragionevoli, ma solo irregolarità e im-
perfezione in quella dei bruti. Deve dunque trattarsi d'una differenza
totale, che forse non è se non una -differenza nelle disposizioni interne
degli organi del senso e del movimento e nella corrispondenza di questi
con quelli della voce e dell' articolazione. Neil' uomo forse gli organi
— 199 —
e si aumentano, o si diminuiscono e distruggono in ragione delle
continuate e ripetute impressioni favorevoli o contrarie, bisognerà
dare e ripetere nuove serie d' impressioni e sensazioni, che, faci-
litando agii organi dell' imitazione i movimenti corrispettivi, pro-
muovano sentimenti e abitudini di benevolenza e compassione.
Le leggi dovrebbero mirare a questo scopo, giacché esse sono
il primo e il più potente stimolo all' imitazione. Anche ciò che
si chiama spirito pubblico, carattere nazionale, amor di patria,
rispetto delle leggi etc. non è che un risultato inavvertito del-
l' imitazione, una modificazione necessaria delle impressioni più
ripetute; si può quindi creare non col ricorrere alla violenza, al
timore, alle oblique speculazioni della politica, ma col muovere,
mediante la forza delle leggi, gli organi dell'imitazione. Insomma
la sensibilità imitativa è il più bel tesoro per poter creare, diri-
gere e diffondere i sentimenti morali. Così non solo tutte le scienze
morali vengono ad acquistare un nuovo carattere fondato sulla
natura e su rapporti necessari, ma è anche trovato il mezzo posi-
tivo, sicurissimo per liberare V uomo dal pondo immenso della
tenebra e dell' errore, e per farlo avanzare nella via della perfet-
tibilità e del progresso sociale (1).
dell'espressione e quelli della sensazione sono più intimamente connesi
che nei bruti, di modo che, sebbene questi siano forniti di lingua e di
labbra, parti importantissime dell' organo della parola, pure la mobilità
di queste è assai maggiore nell' uomo. 11 che fa sperare prima di tutto
che la perfettibilità progressiva, essendo una caratteristica del genere
umano, possa rendere il linguaggio ancor piìi perfetto; e poi dimostra
che non la parola deriva dalla facoltà di pensare, ma questa da quella,
cioè che gli uomini pensano perchè parlano, non già parlano perchè
pensano; infatti, non potendosi negare ai bruti in certo modo il pensiero,
la parola non ne può essere il prodotto; giacché non si riscontra in
quegli esseri (bruti) in cui si riscontra la sua presunta causa, cioè il
pensiero {Seconda memoria sa la perfettibilità organica, pag. 542 e
seg.; cfr. Indizi di morale, % 111, pag. 23 e seg.). Ora, se le modifica-
zioni organiche possono produrre effetti tanto importanti come la pa-
rola e quindi il pensiero stesso, che cosa non se ne può sperare?
(1) Ricerche su la sensibilità imitativa, Parte II. Secondo il Delfico
così non sorgerebbe il regno della monotonia; poiché le differenze ori-
ginarie organiche dei vari individui rimangono sempre {Mem. su la
perf. org., pag. 519).
— 200
OSSERVAZIONI. — Il Delfico non ha fatto che sviluppare e
combinare alcune idee del Condorcet sulla perfettibilità e del
Cabanis sulla simpatia e l' imitazione, considerando la facoltà e
r organo dell' imitazione come il mezzo migliore della perfettibi-
lità organica, propria dell' uomo e non degli animali.
La critica di questa concezione si trova in parte nelle sue
stesse opere. « L' uomo », egli dice, « non è certamente composto
di materia bruta e malleabile, per poterne far delle statue a nostro
talento; ma, potendosi considerare come una statua di materia
vivente ed animata, capace di tutti i moti corrispondenti al per-
fezionamento della sua destinazione, bisogna condurlo secondo
il sistema che ci indica la natura, elevarlo cioè alle sublimi sfere
del bello e del vero » (1). Eppure altrove ogni sua espressione
fa credere eh' egli consideri 1' uomo proprio come un ammasso
di materia plasmabile ad arbitrio. Tutto egli -fa dipendere dalle
variazioni degli organi, e pare che lo spirito non abbia efficacia
alcuna nella produzione dei miglioramenti che elevano 1' uomo
sugli animali. Certo qualche volta, senza volerlo, vien notando
r azione dello spirito nei fenomeni dell' imitazione: dice per es.
che il perfezionamento del linguaggio dipende dalle modificazioni
dell' organo vocale combinate con quanto l' intelligenza e V imma-
ginazione per i naturali consensi gli possono partecipare. Così nella
poesia distingue la parte meccanica dalla parte sublime dipendente
dall' immaginazione etc. Ma dà la maggiore importanza alle mo-
dificazioni organiche; il perfezionamento dello spirito è solo un
effetto del miglioramento fisiologico. Infatti ammette anche un
organo dell' intelligenza (2); quindi, alludendo all' azione dell' in-
telligenza, probabilmente intende gli effetti dovuti a quest' organo.
Insomma egli, accentuando un po' grossolanamente quelle tinte
di materialismo che, evidenti nei Rapports, erano poi scomparse
nella Lettre d M. Fauriel del Cabanis, vuol trovare la spiegazione
di tutti i fatti psichici nei fenomeni fisiologici, e derivare ogni
manifestazione psichica dalla struttura di determinate parti del
(1) Memoria su la perfettibilità org., pag. 528.
(2) Seconda memoria su la per/, org., pag. 539.
— 201 —
sistema nervoso (centri) e dell' organismo in genere (1). Ora, è
noto che questa concezione è risultata falsa alla prova dei fatti,
perchè, mentre vi sono aspetti della vita psichica (senzazioni, emo-
zioni, stati d' animo, istinti etc.) che non possono esser spiegati
senza tener conto del correlato fisiologico (e specie su questi il
Cabanis aveva opportunamente insistito), è erroneo voler derivare
tutte le attività spirituali, anche le superiori, dalle condizioni or-
ganiche considerandole come effetti di queste (2). Ebbene, il Del-
fico cade appunto in questo difetto, poiché dice espressamente
(press' a poco come il Gali) che ci sono organi dell' imitazione,
dell' attenzione, della memoria, dell' intelligenza etc, i quali, se
opportunamente modificati, possono migliorare le funzioni psi-
chiche dipendenti. Ma in tal caso non si capisce come mai egli,
ammettendo una perfettibilità organica, voglia limitare questa
(1) Si noti però che il Delfico (poco coerentemente) retrocede di-
nanzi alle conseguenze materialistiche dei suoi scritti. C'è per es. una
lettera di Q. M. Giovene a lui (in data 16 sett. 1834), in cui si legge:
« Mi è piaciuto assaissimo quanto dite della ideologia francese nata,
fatta per spargere nella gioventù l'ateismo ed il materialismo. Qual
gusto barbaro insieme e vile! Ultimamente ho letto un opuscoletto del
fu nostro amico padre Soave sull'ideologia del Tracy, la quale io non
conosceva. Peccato che allora non era pubblicato il Tomo della volontà,
che è il più assurdo. Altra simile operetta ho avuto da un anonimo
(il Regoli) stampata in Viterbo. Su questa particolarmente si dimostra
l'opposizione perpetua tra il Tracy e il Condillac, che pur chiama suo
maestro » (Delfico, Opere, Voi. IV, pag. 202). Da queste parole si
capisce che anche il Delfico la pensava press' a poco come il Giovene.
Eppure egli era stato in corrispondenza col Tracy negli anni 1816 e 17,
gli aveva mandato opere sue, e ne aveva ricevuto il Trattato della
volontà, i Principii logici e il Commentario sullo spirito delle leggi.
Inoltre entrambi s'erano scambiate parole d'amicizia, di lode e di stima
(Delfico, Opere, Voi. IV, pag. 232-240; cfr. Voi. II, pag. 194, e Voi. IV,
pag. 386). Si noti anche che nella Seconda meni, sulla perf. organ.,
pag. 536 e 548, il Delfico fa dichiarazioni agnostiche, quindi non ma-
terialistiche. Cfr. pure Della necessità di far precedere etc. pag. 582-584,
e Opere, Voi. IV, pag. 54-55.
(2) Ricorderò che, non ostante gli sforzi dello Charcot e d'altri, non
è stato possibile ammettere neppure centri mnemonici e gnostici: tanto
meno centri speciali del giudizio, della percezione delle forme, dell'atto
di ragionare, della fantasia creatrice etc. Certo l'attività normale del
— 202 —
air uomo soltanto. La perfettibilità, se è organica, dovrà riscon-
trarsi in tutti gli esseri viventi, quindi anche nei bruti (1). Ma
allora come si spiega la differenza che passa fra 1' uomo e il
bruto? Come avviene il passaggio dalla sfera dell'animalità a
quella della cultura umana? Fermiamoci per es. su quanto il
Delfico dice intorno al linguaggio. L' uomo, secondo lui, è capace
di parlare, cioè d' articolare la voce, i bruti no; dunque negli
organi suoi ci dev' essere qualche differenza che li distingua da
quelli degli animali irragionevoli. Ma, noi possiamo osservare,
questa differenza fra gli organi dell' uomo e quelli d' animali a
lui vicini nella scala zoologica non s' è potuta riscontrare. E fa-
mosa l'affermazione del Rudolphi che la mancanza del linguaggio
nella scimmia non dipende da una struttura imperfetta dei suoi
organi; e gli studi posteriori non hanno potuto che confermare
quest' affermazione, poiché nell' esame anatomico non s' è potuto
trovare alcun carattere organico (sia di struttura, sia di co: ne--
sione fra le varie parti) che impedisca agli animali superiori di
parlare. Dunque la capacità umana del linguaggio non può di-
pendere dalla detta differenza organica (2).
Come il Delfico esagera l' importanza delle modificazioni or-
sistema nervoso è una condizione indispensabile anche per le funzioni
superiori dello spirito, ma non le spiega. Come ha ben notato il Oal-
luppi, nello stesso modo che sarebbe assurdo voler spiegare le parti-
colarità dell'organismo tenendo conto semplicemente della natura degli
atti psichici, sol perchè questi esercitano un'azione su quelle, così sa-
rebbe assurdo voler trovare la spiegazione di tutti i fatti psichici nelle
modificazioni organiche.
(1) 11 De la Mettrie infatti nelle Considerazioni sugli esseri orga-
nizzati (citate da! Delfico) ritiene la perfettibilità legge generale dei
corpi organici. Del resto anche la dottrina evolutiva del Darwin e spe-
cialmente le teorie di quegli scienziati (Kolmann, Schwalbe, Klaatsch,
Ameghino, Sergi, Dubois etc.) che hanno cercato di provare la deriva
zione dell'uomo dalle scimmie, presuppongono la perfettibilità orga-
nica di tutti i viventi.
(2) Non mi fermo su quanto il Delfico scrive intorno al pensiero,
che dice un prodotto della facoltà di parlare, poiché e facile ritorcere
il suo argomento. Egli infatti dice: — Gli animali in certo modo pen-
sano, ma non parlano; dunque la parola non può es=er un prodotto
del pensiero, perchè, se così fosse, dovrebbe riscontrarsi anche nei bruti,
che hanno la facoltà di pensare. — Ma si può obiettare: — La parola
— 203 —
ganiche, così esagera quella dell' abitudine e dell' imitazione (1).
Senza dubbio questi fenomeni hanno grande valore, poiché
danno ragione di certi aspetti della psiche. Ma è esagerato vo-
lerne fare il mezzo per spiegare tutta la cultura umana. L' imi-
tazione e r abitudine rappresentano la parte automatica, mecca-
nicizzata, morta, direi quasi, dello spirito (2). Accanto ad esse
e' è la vivente energia inventiva e costruttrice, che si giova delle
abitudini come di una base, ma le supera, dando origine a feno-
meni sempre nuovi, e perciò non si spiega con l' imitazione. Anzi
il vero valore dell'abitudine sta non in essa stessa, ma nel fatto
che la sua meccanicità o automaticità lascia disimpegnata parte
dell'energia psichica, e rende, così, possibile alle facoltà superiori
di esplicarsi ed evolversi liberamente, tendendo a fini superiori.
Onde il progresso.
CAPITOLO VI. — Borrelli
VITA E OPERE (3). — Pasquale Borrelli nacque 1' 8 giugno
1782 in una terruzza della provincia di Chieti, chiamata Torna-
non può essere causa del pensiero, poiché in quegli esseri in cui non si
riscontra la facoltà di parlare (bruti) e' è invece (secondo voi) il pensiero.
Se causa del pensiero fosse la parola, ove questa mancasse, non si
dovrebbe trovare neppur quello. Inoltre è noto che il Whitney ha
giustamente osservato che il sordomuto non parla, eppure pensa. Come
dunque la parola potrebb' essere causa del pensiero? —
(1) Ai giorni nostri anche il Tarde e il Baldwin hanno considerato
r imitazione come il segreto per spiegare l' evoluzione psichica del bam-
bino e i fenomeni sociali. Vedi Tarde, La logiqiie sociale, Alcan, Paris,
4" Ediz., 1912; Les lois de l' imitation, 6» Ediz., Paris, Alcan, 1911; Les
lois soriales - Esquise ci' ime sociologie, Alcan, Paris, 7^ Ediz., 1913;
Baldwin, Le développement mental cliez l' enfant et dans la race,
Trad. Nourry, Paris, Alcan, 1897, e Social and ethical interpretations
in mental développement, Third, New-Jork, 1902.
(2) Infatti gli esempi che il Delfico dà son quasi tutti d' animali,
d' imbecilli e ri' idioti.
(3) Bibliografia di Pasquale Borrelli, Coblenz, presso Griinbach
figlio, 1840 (è probabilmente un' autobio-bibliografia) ; Poli, Op. cif.,
Voi. IV, §§ 440-442; 0. Gentile, Op. cit.. Gap. IV.
— 204 —
reccio (1); suo padre Gaudenzio era ritenuto dotto nelle scienze
naturali, e la madre Concetta d' Antonio era non meno colta che
pia. Nel quarto anno di sua vita perde il padre; onde fu affidato
per i primi studi alla cura di uno zio prete, versato nei classici
latini. Questi, per procurare qualche sodisfazione all' ingegno di
lui, che già si annunziava vigoroso, pensò di vestirlo dell' abito
di chierico e di presentarlo al pubblico di sul pergamo secondo
un costume comune in Abruzzo. Così ad otto anni egli recitò
il panegirico della Madonna del Carmine, a dieci quello di S. Ni-
cola di Bari. AH' età di quattordici anni fu mandato a studiar
filosofia e matematiche nel Collegio delle Scuole Pie di Chieti,
ove allora le insegnava con molta fama il Padre Aquila (2). Dopo
il corso d' un biennio dovette sostenere un esame pubblico: egli
rispose su tutte le parti del calcolo differenziale ed integrale e
su r applicazione di esso a dieci teoremi della filosofia naturale
di Newton. Tornato al suo paese, rendeva i più caldi ringrazia-
menti al P. Aquila, il quale gli rispondeva: « Io non sono otato
che testimonio del portentoso sviluppo dei vostri talenti ». Nel
novembre del 1798 si recò a Napoli per studiarvi medicina, e
coltivò specialmente 1' anatomia, la fisiologia e la chimica speri-
mentale. Nel 1803, all'età di ventun anno, pubblicò in latino
un'opera intitolata: Principia zoognosiae medicinam physicae legibus
scientifica methodo superstruentia, concinnata ad usum domestici
auditorii Pasch. Borrelli (Neapoli, MDCCCIII, ex typ. Perge-
riana) (3). Come si capisce dal titolo, egli compose questo lavoro
per la scuola privata di scienze naturali eh' egli teneva. In quel
tempo però ebbe anche l' incarico d' insegnar pubblicamente,
(1) Un Borrelli da me conosciuto in Abruzzo mi ha assicurato che
la famiglia Borrelli ancora esiste a Tornareccio.
(2) Nei Principi dì zoaritmia (1807) il Borrelli si dichiarava debitore
a questo padre della sua istruzione in filosofia e in matematica.
(3) L'opera fu poi tradotta in italiano dal dott. Francesco Romani
(Napoli, 1808, presso Coda). In quest' opera egli applicò e sviluppò i
principi del sistema di Giovanni Brovvn. Nel I Libro mostrò che la vita
è l'effetto dell' eccitabilità o forza organica messa in moto dallo stimolo,
e che quindi è misurata dal prodotto di queste due cause (tale relazione
egli chiamò legge zoaritmica). Negli altri libri applicò i risultati, otte-
nuti nel primo, alle malattie e alle cause loro.
— 205 —
nell'Ospedale Regio di S. Giacomo degli Spagnoli, col grado
di professore straordinario. Oramai era tanto innanzi in questo
genere di studi, che da tutti si credeva ne avesse fatto l' oggetto
d' un' occupazione permanente. Ma gli amici, che tra i suoi pregi
scorgevano una non ordinaria eloquenza, lo consigliarono di
far rifulgere questa nei dibattiti del foro. Per istruirsi nelle leggi
studiò da sé il Commento di Voetio alle Pandette e il Diritto del
Regno di Giuseppe Maffei (1); e aiutato, nella pratica, da un
giovane procuratore, si lanciò nelle arringhe degli avvocati; nel
1805 anzi pubblicò alcuni scritti a favore dei suoi clienti. Una
grave sventura interruppe però i suoi progressi in questa nuova
carriera. Quasi sul punto di stringersi in legame nuziale a un'eletta
fanciulla, che si segnalava per ingegno, modestia e grazia, ebbe
a piangerne la morte. Ella era Rosina Scotti, nipote di quel Mar-
cello Scotti, pio sacerdote, che, salito a gran fama per le sue pro-
fonde conoscenze archeologiche, fu poi una delle vittime dei pro-
cessi del 1799 (fu giustiziato nel Mercato il 4 gennaio 1800).
Sorella del suo spirito e del suo cuore (com' egli stesso dice), colta
da tifo, morì quando appena aveva toccato il suo ventunesimo
anno. Il Borrelli ne provò fiero dolore; al quale diede sfogo de-
dicando alla povera morta, nel 1807, i Principii di Zoaritmia (2),
(1) Si tratta delle Institutiones jiiris civilis NeapoUtanorum, in quibiis
legiim NeapoUtanorum origines ac velerà et nova Regni instituta enar-
rantur, 1784. Il Gentile {Op. cit., pag. 96) attribuisce il Diritto del
Regno a Scipione Maffei; ma dev' essere una svista, che Scipione Maffei
non ha scritto mai nulla di simile. L' opera in questione è invece di
Giuseppe Maffei, celebre giureconsulto, nato il 28 febbraio 1728 a So-
lofra, professore di giurisprudenza all' Università di Napoli, morto il
20 marzo 1812.
(2) II Borrelli suppone in quest'opera che l'eccitabilità o forza or-
ganica di un animale al suo concepimento sia divisa in diciannove
gradi, e in altrettanti lo stimolo. Colloca i primi in una linea superiore
orizzontale, i secondi in una verticale, in modo che quella formi con
questa un angolo retto. I prodotti di ciascuno dei primi per ciascuno
dei secondi son collocati nel mezzo, come nella tavola pitagorica; e
rappresentano i diversi gradi della vita, la quale, come si è detto, è
proporzionale alla forza organica moltiplicata per lo stimolo. Con questo
quadro, secondo il Borrelli, si può dar spiegazione del corso ordinario
della vita dal concepimento alla morte, della veglia e del sonno, della
— 206 —
e componendo, insieme con alcuni suoi amici, una raccolta di
versi e di prose, nella cui dedica, rivolgendosi alla fanciulla, esprime
il suo amore per lei e una grande ammirazione per il padre e
per le vittime del '99. Immerso nel cordoglio, aborriva ormai le
occupazioni di prima; perciò i suoi amici credettero di procu-
rargli un sollievo spingendolo sulla via degl' impieghi pubblici;
e valse a deciderlo piìi di tutto il consiglio di Melchiorre Delfico,
che lo amava come un figlio.
Allora il Regno di Napoli era occupato dall'esercito francese.
Per un sol anno il Borrelli fu segretario generale della commis-
sione destinata a decidere le cause fra i baroni e i Comuni. Nel
1808 fu chiamato a un ufficio simile presso la prefettura di polizia
sotto Giuseppe Bonaparte. Lo tenne per tre anni, promovendo
leggi e disposizioni giuste e liberali (1). Onde ne ebbe elogi dalle
persone dabbene; ma forte fu pure la reazione dei tristi repressi
(aveva per es. fatto il processo a coloro che, fingendo congiu-
rare ed eccitando persecuzioni, avevano sparso per tre anni il
terrore e il lutto; ed alcuni che avevano ritentate le medesime
arti erano stati scoperti e stretti nel forte d' Aquila etc). Perciò
egli, stanco della lotta e non curando la diminuzione dello sti-
pendio, chiese il passaggio a giudice d'appello. L'ottenne il 1812,
sotto Murat. Intanto, < sollevandosi dalla sua annosa tristezza » (2),
predisposizione alle varie specie di malattie, dei passaggi dalla salute
allo stato morboso e da uno stato morboso a un altro, in fine dell'or-
dine con cui si devono graduare gli stimoli o le sottrazioni di essi per
ristabilir la salute. Lo sviluppo di tutte queste idee può essere, secondo
il B., diretto in tutti i particolari dal calcolo algebrico. Un discepolo
del B., Gius. Saliceti, scrisse in proposito i vantaggi dell' applicazione
del calcolo alla medicina (Teramo, Carducci, 1S05).
(1) Durante questo periodo di tempo pubblicò una Dissertazione
sui poemi d' Ossian in Biblioteca analitica di scienze e belle arti di
Napoli (a pag. 18 della Bibliografia di P. D. si legge la data di pubbli-
cazione Ì811, poi invece, a pag. 83, 1810). Considerava in essa i carat-
teri del poema epico. Ne die fuori la prima parte; stava per pubbli-
care la seconda, quando il Delfico gli osservò che le sue ampie teorie
non dovevano essere applicate solo ai poemi di Ossian. Perciò il Bor-
relli voleva rifare il lavoro in modo che abbracciasse i più celebri
poemi epici. Ma poi non se ne occupò più.
(2) Bibliografia di P. B., pag. 9.
- 207 —
non avendo più in famiglia che de' vecchi zii e la madre, aveva
condotto in moglie una bella e spiritosa signora pugliese, di Mo-
nopoli, Carolina Accinni, la quale era separata dal marito e in
lite con questo. Il Borrelli, conosciutala intorno il 1800, l'aiutò
nella lite, e, ottenuto per lei il divorzio, allora in vigore a Napoli
secondo il codice napoleonico, se la sposò (1).
Tenne l'ufficio di giudice non molti anni; che nel 1815 fu re-
staurato il governo borbonico e quindi abolito il divorzio; onde,
sorta una nuova lite per la morte del primo marito dell' Accinni,
Ferdinando I v si lasciò trarre in inganno da un destro calun-
niatore » (2), e il 4 febbraio 1817 privò della toga il Borrelli.
L' accusa cadde su principi religiosi e politici, e sopra tutto sul
modo in cui era stato stretto il matrimonio con 1' Accinni. Egli
« provò d' essersi conformato in ogni cosa alle regole del con-
cilio di Trento » (3); ma il re, «. non permettendogli la sua co-
scienza d' avere un magistrato che aveva menata in moglie una
divorziata sotto 1' occupazione militare », non volle sentir ragioni.
Al divulgarsi della notizia, tutt' e tre le sezioni della Corte d'Ap-
pello nella quale egli sedeva sospesero le deliberazioni, e indi a
poco si sciolsero. « La casa del destituito offrì tal folla di visite
e di persone sì onorande, che forse altra simile non fu veduta
giammai nelle abitazioni degli uomini più cari alla fortuna » (4).
Tornò semplice avvocato nel foro, e quel giorno la sala del Tri-
bunale fu per lui cambiata in « teatro di gloria ». Infine il grande
numero dei clienti che ricorrevano a lui provò quanto fosse sti-
mato da tutti. Perciò egli non solo non fece alcun passo per ri-
cuperare l'ufficio, ma al Ministro di Giustizia, che gli consigliava
di chiedere il terzo del soldo (lasciato a molti magistrati dimessi
dal governo di Ferdinando I), rispose: « Non amo d' avere alcuna
cosa che possa essermi tolta da nuova calunnia » (5). Per tre anni
(1) Fu questo l'unico caso di divorzio avvenuto a Napoli nel periodo
di circa sei anni e mezzo in cui il divorzio vi fu in vigore, e seguito
da matrimonio di uno dei due coniugi divorziati. Vedi B. Croce, //
divorzio nelle Provincie napoletane (1809-1815) in La scuola positiva,
Napoli, 1891.
(2) Bibliografia di P. B., pag. 9. (3) Op. cit., pag. 9, nota.
(4) Op. cit., pag. 10. (5) Op. cit., pag. 10.
— 208 —
la sua fortuna prosperò nel foro, ma ben presto venne a porla
in soqquadro la rivoluzione del luglio 1820. A causa e della stima
ch'egli godeva presso tutti i partiti e della prontezza nell' operare
e della forza del dire, fu chiamato, mentre meno se 1' aspettava,
all'ufficio di Presidente della Pubblica Sicurezza. Da prima esitò
ad accettarlo; cede poi alle autorevoli insistenze del principe vi-
cario del Regno, ma < siccome uomo che presagisce il suo danno
e non ha forza di evitarlo > (1). Trovò lo Stato in condizioni
assai strane: la carboneria era vincitrice, ed armata la guardia
nazionale; la milizia intorbidata dalle vendite; il governo regale
umiliato, timido e inerme; la plebe agitata. Pure con la sua abilità
seppe mantenere la calma e prevenire 1' anarchia. Intanto la pro-
vincia di Chieti lo mandava quale deputato al Parlamento. Il 2 ot-
tobre 1820 ne fu nominato Presidente (2). Conseguì molta lode
fino a che continuò quello stato di cose; ma, appena disciolto
r esercito e cambiata la fortuna, provò tutti i mali a cui sono
esposti coloro che hanno combattuto gli eccessi delle fazioni ir-
ritate. Fu in ira egualmente e ai rigorosi assolutisti e ai liberali
sfrenati. I primi lo fecero imprigionare in Castel Sant'Elmo e poi
cacciare in esilio con altri venti napoletani, fra cui il Colletta, il
Pepe, il Poerio. Gli altri lo compresero nel numero di coloro che
avevano contribuito alla caduta strepitosa del governo costi-
tuzionale (3).
Si recò dunque esule a Trieste; ma dopo diciotto mesi dovette
ritirarsi col Poerio a Gratz, ove rimase tredici mesi; cinque mesi
passò tra Baden e Vienna, sempre accolto con benevolenza e
onori. Coltivò allora con particolare passione gli studi filosofici,
imparò il tedesco, e così potè conoscere direttamente le opere
di Kant ed alcune critiche mosse in Germania al filosofo di Koe-
nigsberg. Dando forma determinata e definitiva a idee germogliate
(1) Op. cit., pag. 11.
(2) Questo si legge nella Bibliografia, pag. 12. Il GENTILE invece
dice: Vice f-'residente {Op. cit., pag. 98).
(3' Anche il Colletta nella sua Storia del reame di Napoli non gli
risparmiò accuse derivanti forse da segreto rancore personale. 11 Bor-
relli si difese nel Saggio sul romanzo storico di Pietro Colletta, pub-
blicato in appendice alla Bibliografia di P. B., dove anche attaccò
aspramente il lavoro dell' avversario.
— 209 —
nella sua mente prima del suo ventesimo anno e a poco a poco
sviluppatesi (1), scrisse allora le due opere sue principali, che
pubblicò a Lugano con l'anagramma dà Pirro Lallebasque: V In-
troduzione alla filosofia naturale del pensiero (1824) e i Principii
della genealogia del pensiero (1825) (2). Le quali rappresentano
solo una parte del grandioso edificio filosofico eh' egli voleva
costruire. Infatti aveva l' intento di scrivere una specie d' enciclo-
pedia delle scienze, componendo le seguenti opere: I Principii
della genealogia del pensiero; II Saggio di una storia delle idee;
III Principii di taxipatla o classificazione degli affetti; IV Prin-
cipii di ennigiene o sia teoria del pensiero sano; V Principii di
jasennia o sia medela del pensiero morboso; VI Principii della
scienza delle scienze o sia della scienza universale; VII Principii
di enninomia o sia saggio sulle leggi del pensiero; Vili II domma
dell' immortalità dell' anima considerato in quanto alla morale
alla politica e alle belle arti (« in quest'opera », avverte il Bor-
relli, « si difenderà espressamente la semplicità o sia immateria-
lità dell'anima umana »); IX Le concordanze della lingua greca
con la teoria del pensiero (3). Parrebbe che avesse scritto qualche
altra parte di questa enciclopedia scientifica, ma che gli fossero
stati sottratti i manoscritti. Infatti così egli scrisse n^W Introdu-
zione alla filos. nat. del pensiero: « Due grossi quaderni apparte-
nenti alle opere, delle quali finora è dato conto, e molti altri miei
manoscritti di letteratura àn cessato da qualche mese indietro di
essere in mio potere. Perdono a colui che li ritiene la violazione
della ospitalità, della buona fede e della giustizia. Io gli perdono
il male che mi à fatto, e quello molto piìi grande che intendeva
di farmi. Spero che questo pubblico avviso basterà a rischiarare
gì' incauti, co' quali à potuto far mercato de' miei poveri auto-
grafi. Fortunatamente ò di che supplirli, benché non senza fa-
tica » (4).
(1) Bibliografia, pag. 18.
(2) V Introduzione fu annunziata in Antologia, dicembre 1824, pa-
gine 177-178. Neil' Antologia stessa (gennaio 1827, pag. 83-101, e set-
tembre 1830, pag. 75-86) il Mamiani pubblicò una recensione sui Prin-
cipii, criticandoh', ma anche lodandoli.
(3) Introduzione alla filos. naturale del pensiero, pag. 238.
(4) Op. alt., pag. 235, nota.
14
— 210 —
Ma nessuna parte pubblicò più, di questa enciclopedia. Le sue
opere filosofiche fondamentali son rimaste V Introduzione e la Ge-
nealogia citate. Queste furono accolte con entusiasmo dal Delfico,
che così scriveva al Borrelli il 23 dicembre 1826 da Teramo:
« Quando mi pervenne l' Introduzione di Lallebasque credei ve-
dere un messaggero celeste, precursore della verità e del dominio
della ragione; e nella rapidità del momentaneo paragone della
mente dissi: — Ecco un Bacone in Italia, ma nel secolo XIX! —
Tutto confermava infatti quest'immagine nata all'istante.... » (1).
« Ma quando fra la sorpresa e la gioia pervenni alla pagina 188
nella quale 1' autore espone la serie di quelle idee che colla Ge-
nealogia del pensiero debbono dare la genesi di tutta la scienza
dell'uomo, alla sorpresa si accompagnarono le più fondate spe-
ranze, le quali sorgono alla pag. 198 nella riunione della Ideologia
alla Fisiologia: concordia sempre proposta da' più ben intenzio-
nati filosofi, e non mai eseguita con esito felice; ma che non
potrà mancare di venire a compimento sotto la mano d'un gran
Fisiologo ed Ideologo ad un tempo, e che vede queste due ope-
razioni combinate come un fenomeno dell' uomo » (2). Quando
poi ebbe in dono anche i due primi volumi della Genealogia, così
scrisse all'amico il 20 marzo 1829: « La sezione terza mi è parsa
tutta nuova e sublime. Lo studio de' rapporti parmi la strada a
ogni sapere; strada però poco frequentata finora tanto nelle co-
gnizioni fisiche che nelle morali, e voi l' avete così felicemente
illuminato » (3).
Passato il triennio dell' esilio, potè tornare in Italia; e stette
quasi un anno in Toscana. Nell'agosto del 1825 faceva la cura
di acque termali ai Bagni di San Giuliano (Pisa), quando vi giunse la ^
notizia eh' egli poteva tornare in patria. Gli abitanti del piccolo tfà
Comune si raccolsero subito intorno all' edificio in cui egli di-
morava, e con grida di gioia prevennero l'avviso che poco dopo
gli fu dato dal podestà del paese. < Giunto il dì della partenza,
essi tutti circondavano la vettura da viaggio che di unita alla sua
(1) Lo stesso giudizio il Delfico espresse in due lettere al Dragonetti
{Opere, Voi. IV, pag. 52 e 54);
(2) Delfico, Opere, Voi. IV, pag. 308-309.
(3) Op. cit., pag. 310.
— 211
sposa dovea ricondurlo alla patria; ed accomiatato dalle loro la-
grime, e lagrimando con essi, e ricevendo e rendendo i piìi te-
neri auguri, si pose in viaggio » (1). Festose accoglienze ebbe
anche a Napoli, dove riprese ad esercitare la professione d' av-
vocato. Durante la sua assenza, il governo aveva esaminati i conti
dell' amministrazione eh' egli aveva tenuta come presidente del-
l'assemblea dei deputati. L'unica irregolarità trovata fu che il Bor-
relli aveva fatto pagare ad un usciere del parlamento l' intiero
soldo dell'ottobre 1820, mentre egli era entrato in ufficio il 2 di
quel mese. Così il suo debito fu meno d'un ducato. Del che scri-
vendo il Delfico ad un suo amico di Milano, diceva: « Il mio
Borrelli ha voluto esser simile più al Bacone dei filosofi che al
Bacone degli amministratori » (2).
Sebbene occupatissimo nell'esercizio dell'avvocatura, pubblicò
alcuni notevoli lavori: tre opuscoli sul colera, del quale egli stesso
ammalò (3), e i Principii della scienza etimologica, che furono
premessi il 1830 al II Volume del Vocabolario universale della
lingua italiana compilato da Raffaello Liberatore e pubblicato
(1) Bibliografia, pag. 16.
(2) Uno scritto politico anonimo del Borrelli è: Casi memorabili an-
tichi e moderni del Regno di Napoli, ricavati dagli autografi del fu
conte Radowski, Coblenz, Grùnbach, 1842, in 16°. Contiene importanti
rivelazioni di fatti di cui il Borrelli fu testimone oculare, e, sebbene a
pag. 105 egli si chiami da sé « il famoso Borrelli », ne è certo lui
l'autore; vi attacca il Colletta. L'illustre mio amico prof. Vincenzo Bindi
mi ha assicurato d'aver visto e letto una Memoria istorica sulla con-
dotta politica di Pasquale Borrelli, manoscritto di 26 facciate in
4° grande con la data 1820, in cui si legge il racconto di molti avve-
nimenti politici del Regno di Napoli nel 1820.
(3) Il colera infieriva in Europa tutta. Il Borrelli se ne occupò (nel-
l'opuscolo Anticolera, Napoli, Fibreno, 1832) abbozzandone la storia,
notandone le fasi e indicando le maniere di scemarne i pericoli. Nel '35
e nel '36 giunse e scoppiò il colera in Napoli. Essendosi ammalata la
sua domestica, non volle mandarla all'ospedale, e la curò da sé. Perciò
egli fu attaccato tre volte da violenta diarrea, ed ebbe altrettante volte la
fortuna di superarla. Istruito pertanto da ciò che aveva osservato in sé
stesso e in altri, volle istruire anche il pubblico, e diede fuori le Osser-
vazioni sul colera di Napoli. Un terzo opuscolo riguardava la scoperta
di vermi fatta nell' aprire i cadaveri dei colerici.
I
— 212 —
dal Tramater a Napoli (1), al quale egli cooperò per la parte
etimologica.
Nel 1832 fu nominato socio ordinario dell' Accademia delle
scienze di Napoli; il 183S fu aggregato alla Pontaniana, e nel 1840
ne fu eletto Presidente; vi lesse una memoria Su lo stato fisico
e mentale di alcuni uomini allevati senza l'uso della parola (2) e
un ragionamento Su la guerra considerata nelle sue relazioni
morali (3).
Nel 183Q fu aggregato all'Istituto storico di Francia. Scrisse an-
che vari elogi funebri: fra i quali ricorderemo quelli del Cav. Paolo
(1) Pubbl. anche a parte: Intorno ai principi dell'arte etimologica
• Discorso. Piacenza, Maino, 1834. Il prof. Bindi mi ha indicato fra le
opere del Borrelli una Risposta alle osservazioni del sig. Pietro Monti
su di alcune etimologie delle lingue italiana, greca e latina, Napoli, 1836.
(2) Pubbl. anche a parte, senza luogo ed anno di stampa. 11 Borrelli
ricorda in questo scritto i due fanciulli di Psammetico e i dodici di
Achebar, che furono allevati senza l'uso della parola; il giovanetto li-
tuano che, aggruppato con gli orsi, camminava sulle mani e sui piedi;
il selvaggio di Varsavia e il sordo muto di Chartres (già ricordato in-
sieme col giovinetto lituano e con l'uomo di Varsavia dal Wolf in
Psychol. ration., Veronae, 1779, § 44, e dal Condillac in Essai sur Tori-
ginc des conn. hum., Partie 1, Sec. IV, Chap. 11, § 13), che per improv-
viso accidente ricuperò l'udito, e disse che, sebbene spesso fosse stato
a messa, non aveva mai concepita l'idea di Dio, dell'anima, della mo-
ralità delle azioni etc; infine la selvaggia che, emulando i pesci nel nuoto
e gli uccelli nel lanciarsi di albero in albero, fu sorpresa il 1731 presso
il castello di Sogny. Tutti questi individui mostravano di non possedere
alcuna di quelle nozioni dette dagli aprioristi universali e necessarie.
Perciò il Borrelli cerca di spiegare la loro vita con i principi esposti
nella sua Genealogia del pensiero (imitazione involontaria, leggi fisio-
logiche ed associazione d'idee), e ne trae argomenti contro Kant (§ X),
secondo cui l'idea psicologica della sostanza pensante scaturisce dalla
forza interna dell'anima, e contro il Reid e gli scozzesi, secondo i quali
l'atto intellettivo per cui noi ammettiamo l'esistenza di Dio non è un
risultato della ragione, ma accompagna di necessità la percezione.
La Memoria fu pure inserita nel Giornale abruzzese (1S37, Voi. Ili
e IV) e in altri periodici.
i'3) Sa la guerra considerata nelle sue relazioni morali, o sia sa di
alcune moderne teoriche intorno alla guerra - Discorso letto alTAcc.
Pontaniana. Mrndrisio, Lampati, 1841. Il lavoro è diviso in due parti;
- 213 -
Nicola Giampaolo, a cui successe nell'Accademia delle scienze,
delia regina Maria Cristina di Savoia e del Galuppi (1). In
occasione della ristampa della Medicina forense (System einer
vollstàndigen mediz. Polizei, 1784-1827) del Frank e delle Vite
delle donne illustri dtWdi duchessa d'Abrantes, scrisse, per istanza
.:egii editori, alcune note a queste opere; ma non potè continuarle,
a causa delie sue occupazioni. Scrisse anche alcuni Pensieri mi-
scellanei (2), molti articoli nei giornali (3) e una trentina di vo-
nella prima l'A. espone le idee del Cousin (che son poi quelle di Hegel)
sulla guerra (la guerra sarebbe una lotta d'idee; vince il popolo che
incarna l'idea migliore; chi perde ha sempre torto; chi vince ha sempre
ragione); nella seconda esamina e critica questa teoria fondandosi su
principi umanitari.
(lì Elogio dedicato alla memoria del cav. Paolo Nicola Giampaolo
dal suo successore nella R. Accad. delle Scienze di Napoli P. Borrelli
e letto nella seconda tornata del Nov. 1832, Napoli, presso Saverio Sta-
rila, 1S36 (il Giampaolo era un insigne predicatore, e scrisse alcune Le-
zioni di metafisica, 1S03). L'elogio della regina è intitolato: Discorso d'un
parroco di villaggio su r infausta perdita della regina delle due Sicilie
Cristina di Savoia, Nap., 1S36 (in esso il B. immagina di trasformarsi
in uno di quei parroci di villaggio, di cui la pia sovrana soleva valersi
per versare sul popolo le sue beneficenze). L'elogio del Galluppi è in-
titolato: Discorso pronunciato presso al letto funebre del barone D. Pa-
squale Galluppi (senza luogo ed anno, ma Napoli, 1846): in esso il Bor.
esprime la grande stima ch'egli sentiva per il filosofo calabrese.
(2) In appendice alla Bibliografia di P. B. citata.
(.3^ Nella Bibliografia di P. B. si legge che nella Biblioteca anali-
tica di Napoli c'è una sua lepidissima novella intitolata: Breve storia
morale, enciclopedica, sacra, profana che va dalla creazione del mondo
al 4 ottobre IS09, dedicata alV impareggiabile merito di chi vorrà la-
mentarsene. Nel Giornale abruzzese (gennaio, febbraio e marzo 183S)
scrisse sulla Definizione e denominazion-' delle idee composte, e su
argomenti vari ispecialmente giuridici). Pubblicò anche a parte alcuni
Articoli estratti da varii giornali su di alcune rappresentazioni del
Teatro nuovo (di Napoli) nell'anno 1S42, senza luogo ed anno (ma
Napoli), e uno scritto Sai principali restauratori della civiltà italiana -
Discorsi dedicati al settimo congresso degli scienziati italiani, Men-
drisio, Lampati, 1845. Quest'ultimo scritto consta di sei discorsi, in cui
il Borrelli esalta Accursio o lo spirito della disciplina, Dante o l'estro
nazionale, Galilei o lo spirito osservatore e geometrico, Vico o la filo-
— 214 —
lumi di Memorie legali (Napoli, con varie date). Gli furono anche
attribuite le Allocuzioni critiche dell'abate Raimondo Fiduchelli su
il moderno eclettismo e su altre dottrine analoghe (1). Pare inoltre
che avesse sempre in mente di compiere l' edizione delle sue
opere filosofiche (2). Passò così gli ultimi anni di sua vita, tutto
logia comparata e trascendente, Genovesi o il cosmopolitismo scientifico
(adopera quest'espressione perchè secondo lui il Genovesi fece cono-
scere nella nostra penisola, corresse e sviluppò tutto ciò che di meglio
era stato pensato nelle altre nazioni sulle scienze morali e specialmente
sull'economia politica), il Beccaria o lo spirito dell'indulgenza. Molti
articoli sparse poi nella Biblioteca analitica di scienze e belle arti, negli
Annali delle conoscenze utili, nel Giornale enciclopedico napoletano
(da lui fondato il 1840), x\t\V Aristarco, nel Progresso, neW Omnibus,
nelle Ore solitarie etc. Presentò molte relazioni di libri ed opuscoli al-
l'Accademia delle scienze (vedi gii Atti di questa). Abbiamo anche un
Rapporto dell' Accademico Pasquale Borrclli alla Società Reale Bor-
bonica su di un'opera del sig. Pietro De Angelis (s. I. e a.).
(1) Era un* opera contro il Cousin, di cui secondo il Gentile (Op.
cit., pag. 279, nota 4) fu pubblicato solo il primo libro (di tre) nel 1838.
Ma, siccome nel Giornale Abruzzese (dicembre 1838) e' è il sunto (scritto
da G. Petrini) anche della prima parte del secondo libro (in cui si con-
futavano le idee del Cousin sullo spazio, sul tempo e sulla classificazione
delle categorie) parrebbe che anche questa parte fosse stata pubblicata
nel '38 (vedi E. Allodoli, // < Giornale Abruzzese » del 1838 in
L'Abruzzo, agosto 1920, pag. 438). Anzi sembrerebbe che poi ne usci-
rono altre ancora, poiché nella Bibliografia di P. B. (pag. 81-83) si
legge che 1' opera era divisa in cinque fascicoli, di cui nel 1840 già
quattro avevano visto la luce. Fiduchelli è un pseudonimo. Nel Dizionario
più volte citato del Melzi non c'è alcuna notizia al riguardo. Gaetano
Giucci (in Degli scienziati italiani formanti parte del VII congresso
in Napoli nell'autunno del MDCCCXLV, notizie biografiche, Napoli,
Lebon, 1845, pag. 73) dice che il libro non è del Borrelli. Ma è strano
che nella Bibliografia di P. B., pag. 81-83, le dette Allocuzioni son
poste fra le opere del Nostro. È vero che ivi si aggiunge che il Bor-
relli " negò sempre di esserne l'autore ». Ma se, come pare, il Borrelli
stesso scrisse la Bibliografia, perchè avrebbe collocato fra le sue opere
le Allocuzioni, se queste fossero state scritte da un altro? Per vanità?
Può darsi; ma mi par difficile. Non potrebbe averle scritte in colla-
borazione con qualche altro o almeno esserne stato l'ispiratore?
(2) BibL, pag. 22.
— 215 —
dedito al lavoro e stimato dai conoscenti. Ebbe però il dispiacere
di vedersi negato dal ministro di giustizia, probabilmente per il
suo passato, onde era considerato dalla polizia un « settario » e un
« immorale », il permesso di appartenere alla Camera degli av-
vocati e d' insegnar in privato filosofia e diritto. Colpito d' apo-
plessia air inizio del 1848, visse ancora con lucida mente, pre-
sago dell'imminente catastrofe, che avvenne nell'aprile del 1849(1).
*
* *
IL METODO. — Il Borrelli, ideologo schietto com' è, segue,
naturalmenfe, il metodo analitico induttivo. Ma non l'accetta così
come lo trova; anzi, dopo aver criticato gli altri metodi (quello
scolastico, quello ipotetico di Descartes, di Leibniz e di Kant,
e quello misto del Wolf), esamina il metodo induttivo stesso (se-
guito secondo lui dal Locke, dal Condillac, dal Bonnet, dal Tracy,
da Erasmo Darwin, dal Cabanis e anche dal Dugald Stewart), e
vi trova vari difetti. Il primo di questi è la mancanza di un lin-
guaggio preciso. Se si chiede che cosa sia l' immaginazione al
Locke, al Condillac, al Bonnet, al Tracy etc, si avrà da ciascuno
di essi una risposta differente. Non basta. Talora si ha a lamen-
tare incostanza di linguaggio in uno scrittore medesimo: il Con-
dillac per es. ora identifica l' immaginazione con una memoria
assai viva, ora col potere di combinare varie qualità di oggetti
distinti, e di formar prodotti nuovi. Ebbene, si ha qui una specie
di cerretaneria; giacché, come aveva già notato il Locke (2), se
qualcuno nei calcoli desse alla cifra 8 ora il nome di sette, ora quello
di nove, secondo il proprio tornaconto, sarebbe considerato come
un folle o come un tristo. Eppure i dotti nelle loro dispute pro-
cedono proprio così; e la loro colpa è tanto maggiore, quanto
più preziosa è la verità che il denaro. Anche il metaforismo, il
(1) G. Ceva-Grimaldi e Antonio Scialoia pubblicarono due di-
scorsi in lode di lui (Napoli, Starila, 1849, in 8°, pag. 16). In questi di-
scorsi si trova un'effigie del Borrelli. Un ritratto del quale fu eseguito
dal pittore Vincenzo Morani.
Il calabrese Giuseppe Bizzi-Garofalo pubblicò alcuni versi in lode
del Borrelli (Napoli, 1849).
(2) Essai, Livre IH, Chap. X, § 2.
— 216 —
gergo (che si riscontra talora pur nel Cabanis e nel Darwin) rende
il linguaggio filosofico poco preciso e chiaro.
Secondo segno d' imperfezione è la mancanza d' una classifi-
cazione indiscutibile degli atti psichici. Il Locke per es. par che
ammetta due facoltà principali; il Condillac le riduce ad una sola;
il Tracy vede nell' animo quattro potenze: sensibilità, memoria,
giudizio e volontà. Il Bonnet ve ne trova ancor più. E così dì
seguito. Bisogna dunque esaminare questo punto dell' ideologia,
per stabilire alcune forme specifiche e generiche degli atti psichici,
le quali siano veramente irriducibili le une alle altre, e giungere,
così, a quel segno a cui Lavoisier ha condotto la chimica e
Linneo la botanica.
Altro punto da considerare è la base dei nostri raziocini.
Le discussioni scolastiche fondate sul sillogismo non hanno ge-
nerato che questioni interminabili, sentenze vuote di senso, sot-
tigliezze vane e sonore. Il Tracy ha creduto di eliminare questi
difetti riducendo ogni forma di ragionamento al sorite; ma anche
il sorite, essendo un nesso di molti sillogismi, ha bisogno di
principi generali; questi dunque bisogna ricercare.
È ancora un segno d' imperfezione il distacco dell' ideologia
dalla filosofia naturale (che Bacone chiamava la gran madre delle
scienze) e specialmente dalla fisiologia (la quale ha moltissima
importanza per il filosofo, poiché nulla è più vicino all' uomo
intelligente che 1' uomo fisico). Vi sono stati, è vero, tentativi di
psicologia fisiologica da parte del Bonnet, del Cabanis e del
Darwin; ma non son riusciti (il Cabanis per es. non indica il
processo fisiologico che serve come mezzo a ciascuna funzione
dello spirito, ma stabilisce semplicemente un paragone arbitrario
e ardito fra le funzioni psichiche e quelle organiche); o almeno
si poteva tar meglio.
Infine è un altro segno d' imperfezione dell' ideologia la noncu-
ranza delle forze genitrici del pensiero. Le altre scienze non si
son contentate di esaminare i fenomeni: si sono elevate alle /(9rz^
(es. inerzia, impenetrabilità dei corpi, forza d' attrazione, forza
centripeta, forza centrifuga, irritabilità dei muscoli); e in vero, senza
la conoscenza delle forze, ci sfuggirebbe 1' anello per cui si con-
nettono gli effetti alle cause rispettive; 1' universo diverrebbe una
macchina immensa di cui s' ignorerebbero gli ordegni. Ebbene,
neir ideologia non e' è mai stato un' indagine delle forze genitrici
— 217 —
del pensiero; e così s'è sottratta alla vista la parte più bella e
più fina del processo intellettivo e volitivo; si son separati atti
che per la comunanza d' origine erano fortemente legati; si sono
riuniti altri che, per lo stesso riguardo, erano molto lontani e
diversi. Eppure Bacone aveva raccomandato la ricerca delle cause
vere e sufficienti. Ora, le cause delle funzioni psichiche non sono
forze? Kant ben sentì questo vuoto nel suo spirito; solo che egli,
in luogo delle forze, ricercò le forme, e, invece di perfezionare
r opera del Locke, volle crear da capo la teoria del pensiero con
un metodo trascendentale, perdendosi, così, in una dottrina visio-
naria. Bisogna dunque riprender 1' opera; giacché, fino a quando
<- non daremo del pensiero una dottrina dinamica, noi non in-
contreremo quel mezzo, nel quale il vero à la sede Non mai
avremo il diritto di assicurar con fiducia ciò che il Verulamio
sperava: di aver fermata in futuro per sempre tra la empirica e la
razionale facoltà una sincera e legittima concordia ».
Tutti questi difetti il Borrelli cercò di eliminare nell' ideologia.
Quali mezzi adoperò? Non un nuovo metodo, che quello trovato
gli pareva buono. Ne fece solo un uso più preciso e scientifico,
imprendendo nuove analisi; nelle quali tenne specialmente presenti
le regole filosofiche di Newton: 1° non si devono ammettere di
alcun effetto più cause di quelle che siano vere e che siano in-
sieme sufficienti a poter spiegare i fenomeni; 2° gli effetti natu-
rali del medesimo genere si devono attribuire, per quanto è pos-
sibile, alle cause medesime; 3° (conseguenza delle due precedenti)
gli effetti che sorgono e cessano insieme o insieme crescono e
diminuiscono sono strettamente congeneri, dipendono quindi da
una sola causa; 4° le qualità dei corpi che non si possono dimi-
nuire o accrescere e che convengono a tutti quelli a cui giunge
la nostra esperienza, si debbono avere per qualità universali dei
corpi ; 5° nella filosofia sperimentale le proposizioni raccolte dai
fenomeni per induzione si devono tenere, ronostante le ipotesi
opposte, per esattamente o prossimamente vere, fino a che 1' os-
servazione di nuovi fenomeni non le renda più giuste, o non le
mostri invece soggette a eccezioni (1).
Vediamo a quali risultati giunse applicando tali regole.
(1) Vedi per tutta questa parte V Introduzione alla filosofia naturale
del pensiero, Lugano, Vanelli, 1824.
— 218 —
LA GENEALOGIA DEL PENSIERO. — Sullo spirito del Bor-
relli produsse grande impressione un libro che « chiuse con
istrepito il secolo XVIII »: gli Elementa medicinae (1780) di John
Brown (1735-1788) (1). Nel quale in mezzo a molti errori lampeggia,
secondo il Borrelli, una grande verità: /' eccitabilità (che si chiama
irritabilità nel tessuto muscolare e sensibilità nel sistema nervoso)
sviluppata all' occasione dello stimolo produce la vita (2). Ebbene,
anche per il Borrelli, che ammirava il Brown e aveva, come si è
visto, fondato sui principi del biologo scozzese la Zoognosia e la
Zoaritmia, il pensiero non deriva che da forza insita e stimolo.
La forza insita si esplica però mediante tre forze, tre cause ef-
ficienti, che operano all'occasione di uno stimolo: quelle di sentire,
di giudicare e di volere (3). Esaminiamole partitamente.
Sensazione. — Nulla in natura avviene senza ragion sufficiente:
v'è quindi pur una ragione per la quale sentiamo. Questa non
può esser tutta intrinseca all' anima, poiché la sensazione segue
sempre a stimoli esterni. Eppure, si potrebbe osservare, in molte
sensazioni invano cercheremmo un oggetto stimolante estrinseco
al nostro corpo: così accade in quelle del delirio o della follia.
Anche del resto quando la mente non è abbandonata al disordine
si possono ascoltare strepiti senza che 1' atmosfera si scuota, ve-
dere lampi o scintille, senza che queste o quelli si producano in
realtà. Ebbene, anche in tali casi uno stimolo e' è: esso sta negli
umori o nei vapori dell' interno del corpo, o nell' urte che un
organo riceve da un altro. Anche quelle sensazioni piacevoli che
(1) Un altro abruzzese, Berardo Quartapelle di Teramo (per il
quale vedi Palma, Op. cit, Voi. V, pag. 163-66), aveva prima del Bor-
relli contribuito a illustrare le teorie del Brown con le Riflessioni sulla
nuova dottrina medica del doti. Giovanni Brown (1797, s. 1.)
(2) Secondo il Borrelli la sensibilità del Cabanis, base di tutti i fe-
nomeni della vita animale, non sarebbe che l'eccitabilità del Brown.
(3) Introduzione, Sezione III, Gap. III-V.
— 219 —
pare provengano dalla cessazione di stimoli dolorosi e che son ser-
vite di fondamento alla teoria della natura negativa del piacere, in
realtà hanno pur esse uno stimolo. Così, se una fascia o una le-
gacela, che tiene stretta una parte dell'organismo, è allentata, dà
a noi un senso di sodisfazione. Ma questa non consiste mica
nel semplice sollievo, nella diminuzione del dolore; invece i fluidi
restituiti alla circolazione primitiva trovano i lor canali temprati
in tal maniera, che danno origine a un movimento in realtà di-
lettevole. Del pari la bevanda che attraversa 1' esofago dell' asse-
tato, lo sparge di quel fluido mucifero che sa ripararlo da at-
tacchi estranei; ma, mentre comincia ad attutire questi, cagiona,
insieme, alle fauci un' impressione mite e soave. Anche 1' azione
del calorico e delle sostanze alimentari non si limita a sedar
gli urti molesti: scuotendo leggermente le fibre del corpo, deve
suscitarvi una modificazione gradita di per sé. Insomma il vero
diletto non dipende dalle sensazioni che mancano, ma solamente
da quelle che crescono per tale mancanza; quindi proviene da
un' azione eccitante (1).
Ogni sensazione trae dunque origine da uno stimolo sul solido
animale.
Ma la ragion sufficiente della sensazione non può esser tutta
estrinseca (stimolo); poiché il nostro spirito é fatto in modo che
dietro un eccitamento produce un certo effetto anziché un altro
qualunque. Quindi la ragion sufficiente del sentire dev'essere parte
estrinseca e parte intrinseca all'anima. Ora, poiché la ragion suf-
ficiente per cui le funzioni possibili divengono attuali si chiama
forza, é manifesto che la ragione del sentire consiste in una forza
parte intrinseca e parte estrinseca all'anima. Ma la parte di una
forza è forza ancor essa; quindi ragioni o cause delle sensazioni
sono una forza estrinseca all' anima e un' altra tutta intrinseca.
Senza che la prima abbia operato non si esplica la seconda; ma,
dopo l'azione della prima, la sensazione non è prodotta che dalla
seconda. Dunque la prima é occasionale, la seconda efficiente;
quella é lo stimolo, questa la forza di sentire (sensibilità).
La sensazione, essendo, così, l'effetto di una forza interiore,
(1) Così dunque il Borrelli respinge la teoria della natura negativa
del piacere.
— 220 —
ha tutti i requisiti per esser detta un'azione (1). Come mai, allora,
alcuni ideologi, per es. il Locke (2), l'Helvétius (3), il Voltaire (4)
etc. hanno talvolta scritto che la sensazione è passiva? Gli è che,
in tal caso, essi hanno adoperato questa parola in senso d'invo-
lontario; e così non hanno negato che la sensazione sia un atto;
poiché ciò che è involontario, pur non dipendendo dall'arbitrio
dell'uomo, ha il suo principio in una forza interiore debitamente
suscitata; è quindi un atto come tutti gli altri fenomeni psichici (5).
Insieme con la sensazione vanno considerate la così detta con-
templazione lockiana, la ricordanza, l' occupazione, l'attenzione e
l' immaginazione sensoria o fantasia.
Quando è svanito un oggetto che avevamo percepito (per es.
una rosa, una scena teatrale), possiamo continuare a pensarci; lo
stato mentale in cui allora ci troviamo è appunto quello che il
Locke chiamò contemplazione. Questa è tanto simile alla sensa-
zione, che spesso si confonde con essa (così, fissando con molta
forza il pensiero su un fetore sentito, ci pare di sentirlo di nuovo
(1) Quest'azione è sempre av\'ertita da noi; per il Borrelli quindi non
esistono fatti psichici incoscienti; il che egli prova con un importante
argomento: « Quando altro fosse il sentire, altro il saper di sentire, noi
potremmo nello stesso modo saper di saperlo ed aver con ciò un altro
atto. Se si pone in fatti che l'anima non ha potuto ravvisare una sua
funzione se non per via di una seconda, dovrà del pari concedersi che
non può ravvisar la seconda se non per via di una terza. Quando avremo
saputo che noi sappiamo di sapere di aver sentito una volta, sarà pur
forza che ne ammettiamo in ugual modo una quarta. Le coscienze in
somma offriranno una progressione infinita: né potrà vedersi a qual uso
debbano venire impiegate -. Per evitare questo processo all'iniinito, non
resta se non ammettere che quello stesso atto che coglie per es. un
odor di rosa, ne contiene la coscienza: che in altri termini l'anima e
sente ed è consapevole di sentire. Non si può quindi disgiungere la co-
scienza da alcun fatto psichico {Principii della genealogia del pensiero,
Lugano, Vanelli, 1825, Voi. I, Sez. I, Gap. XVIII, pag. 56-57).
(2» Essai, Livre II, Chap. IX, § I.
(3) De V esprit, Tomo I, pag. 9 (Londres, 1777).
(4) Oeuvrcs, Tomo 1, pag. 94, 173 (cit. dal Bor.).
(5) Principii della geneal, Voi. I, Lib. I, Sez. I, e Voi. Ili, Lib. V,
Sez. I. Si noti che il Voi. II dell' edz. da me esaminata è edito da Ruggia
e Comp., successi a Vanelli, il 1828, e il III da Ruggia, il 1829.
— 221 —
nella sua prima vivezza). Entrambe si riferiscono allo stesso og-
getto; entrambe ce lo figurano nella maniera medesima; in en-
trambe si annunzia ed esprime il nostro Io (esse cioè sono co-
scienti). Son dunque fenomeni del medesimo genere. Non è anzi
esagerato il dire che di queste due operazioni l'una si continua nel-
l'altra; infatti alla prima è necessario un movimento cerebrale che
si può chiamare sensifero; e questo si richiede anche per la se-
conda; solo che nella prima esso è eccitato dall' impulso di un
oggetto esterno; nella seconda dall'azione della volontà o (quando
r immagine permane contro nostro volere) da quella di umori o
dì altri stimoli (1).
Anche la ricordanza non è che una riproduzione o reviviscenza
della sensazione primitiva. La contemplazione e la ricordanza hanno
gli stessi caratteri: in entrambe avvertiamo la stessa cosa. Se io,
dopo aver visto un fiore, seguito a pensarvi, Io contemplo; se
dopo un mese di distrazione, rivolgo d' improvviso il pensiero ad
esso, ne ho la ricordanza. L'oggetto esteriore in entrambi i casi
è lontano. L' idea è in entrambi la stessa, se si prescinde dai gradi.
Talvolta le due funzioni persino si confondono, come nella follia
e nel delirio, in cui si hanno ricordi sì forti che si considerano
provocati da oggetti presenti. Perciò la ricordanza e la contem-
plazione hanno tanta unità di natura quanta la contemplazione
e la sensazione primitiva. Tutt'e tre le funzioni non sono che
parti o momenti d' una funzione medesima (2).
L'occupazione si ha quando una sensazione più forte delle altre
signoreggia e quasi ingombra senza nostra volontà l'orizzonte
mentale. L'attenzione invece si ha quando noi ci fissiamo ad ar-
bitrio su qualcuna delle sensazioni, che può essere anche la più
debole, e la rendiamo più chiara di tutte le altre. Sono, questi,
due atti ben distinti (nel primo la volontà non c'entra; nel se-
condo al sentire s'aggiunge il volere, anzi l'essenziale è l'atto di
volontà); il Condillac invece li confonde, e solo così riesce a di-
mostrare che attendere è sentire.
Naturalmente, nello stesso tempo che siamo occupati rispetto
a un'idea, siamo distratti rispetto alle altre che restano nell'ombra;
(1) 0/7. cit., Voi. 1, Libro I, Sez. il, Gap. Mll.
(2) Op. cit., Voi. 1, Libro I, Sez. H, Gap. IV.
— 222 —
di modo che quello stato medesimo che è occupazione quanto alla
prima, è distrazione quanto alle seconde. Del pari, allorché at-
tendiamo a un'idea, indeboliamo o fughiamo le altre: se la nostra
volontà attende alla prima, astrae da quest' ultime; sicché quello
stato medesimo che è attenzione per 1' una è astrazione per le
altre (1).
Una serie di attenzioni che siano però dirette ad un medesimo
fine, è riflessione (2).
La fantasia o immaginazione sensoria si esplica quando lo spi-
rito, dopo aver provato un certo numero di sensazioni primitive
(per es. sensazioni visive di rose), si forma un' idea nuova ento-
stiva (per es. di una rosa più grande di quelle viste o di molte
rose disposte in un ordine diverso dal percepito) che somigli a
quelle in alcune note, ma ne differisca nel resto. Le sensazioni
primitive si possono chiamare nozioni modulari, quelle nuove in-
vece foggiate o fittive o fantasmi.
Il fantasma può dipendere dalla nostra volontà o da altri sti-
moli interni. Nel primo caso è arbitrario, nel secondo automatico.
Dopo aver per es. osservata una chiesa, posso idearne un'altra più
piccola; allora io agisco a mio piacimento; quindi a ragione il
mio fantasma si chiama arbitrario. Ma Pascal faceva ogni sforzo
per non vedere al suo fianco una voragine aperta, eppure era co-
stretto ad averla sempre presente; in tal caso quindi il fantasma
si può dire automatico.
Il fantasma, sia automatico, sia arbitrario, può esser poi o com-
manente o esclusivo. E com manente se coesiste o può coesistere
con le nozioni modulari; esclusivo, se non può. Dopo aver visto
per es. tre rose, posso immaginarne altre cento; allora questo mio
fantasma non altera né presuppone alterata quella mia sensa-
zione: quindi può dirsi commanente. Ma se io, letto un verso di
Orazio, dopo alcun tempo lo ripeto e lo credo di Persio, ho al-
lora un fantasma esclusivo, poiché la mia idea proviene dall'alte-
razione di un ricordo con cui non può quindi coesistere: la mia
(1) Op. cit., Voi. 1, Libro 1, Sez. 111.
(2) Tanto l'attenzione, quanto U riflessione, essendo atti della vo-
lontà, dovrebbero essere esaminate con questa funzione. Ma son consi-
derate qui per la relazione che hanno col sentire.
— 223 —
anima ha confuso diverse sensazioni incomplete richiamate dalla
memoria, e ne ha formate immagini fantastiche, che escludono
quelle modulari (1).
Abbiamo così sempre esaminata la sensazione da vari punti
di vista; che la contemplazione lockiana è sensazione continuata;
la ricordanza è sensazione riprodotta; V occupazione è sensazione
predominante; la fantasia è sensazione alterata; esse vanno quindi
(secondo le regole di Newton) attribuite tutte alla stessa causa
(sensibilità)
Abbiamo considerata così la prima forza o funzione dello spi-
rito (2); passiamo alla seconda: il giudizio.
Giudizio. — Non si può, secondo il Borrelli, formulare giu-
dizio alcuno senza che siano insieme presenti allo spirito due
idee, le quali occupino 1' anima o alle quali essa attenda. Queste
idee appunto costituiscono lo stimolo del giudizio, quindi una
parte della sua ragion sufficiente. Ma non bastano: non si ca-
pisce come per la sola azione delle idee coesistenti possa effet-
(1) Op. cit., Voi. I, Libro I, Sezione V.
(2) Prima di passare al giudizio il Borrelli considera V associazione
delle idee {Op. cit, Voi. I, Libro I, Sez. IV) e il fenomeno dtW imita-
zione involontaria; la quale secondo lui dipende dalla qualità eccitante
delle sensazioni e delle rispettive tracce lasciate da esse ne! cervello
(moti sensiferi). L'idea o il moto sensifero nell'individuo imitatore cor-
rispondente all'idea che è nell'individuo imitato, e, a causa della ten-
denza, propria delle idee o delle loro tracce, di tradursi in movimenti
organici (cioè di essere, direbbe il Fouillée, idee-forze), trae il primo a
compiere atti eguali a quelli che compie il secondo {Op. cit., Voi. I,
Sez. VI). Parlando dell'imitazione, il Borrelli ricorda il Delfico con le
seguenti parole: « La imitazione involontaria à dunque un impero vastis-
simo, e non' senza ragione fu detto che Vuomo è animale di esempio.
Questa verità sentita da molti e segnatamente da alcuni scrittori che
onorano Napoli, è stata posta in gran lume e destramente presentata
sotto i suoi principali rapporti da un ingegno eminente di quello stesso
paese, dal commendator Delfico. Non può ricordarsi il suo nome senza
che ci venga alla mente la idea della virtù e della scienza * {Op. cit.,
Voi. I, pag. 323).
— 224 —
tuarsi il giudizio; che questo è un'affezione che per verità risulta
da quelle, ma non potrebbe risultarne mai, se l'ente che giudica
non si trovasse fornito di una natura tale, che, dietro l'azione
dello stimolo, compiesse quell'atto che si chisima. giudizio. Bisogna
dunque concludere che la ragion sufficiente del giudizio è in
parte nello stimolo, e in parte nella natura dello stesso ente che
giudica; cosicché il giudizio è un'azione che ha per causa due
forze, di cui l'una, stimolo, è occasionale, l'altra, che potrebbe
chiamarsi forza giudicatrice, è efficiente (1),
Ma in che propriamente consiste quest'atto del giudizio? Nel-
r avvertire che l'una delle idee presenti allo spirito non è l'altra,
dunque nel percepire una disformità d' idee. Anche i giudizi che
affermano una conformità d' idee sono in fondo giudizi di di-
versità; infatti le idee che diciamo conformi non sono, a rigor di
termini, l'una identica all'altra; che in tal caso non le distingue-
remmo. Quando dunque chiamiamo due nozioni conformi, indi-
chiamo solo che la loro differenza è piccolissima, quasi infinite-
sima. Tale differenza, aumentando fino ad un certo segno, fa che
in fine noi possiamo nominarle disformi. I giudizi di conformità
e di disformità delle idee sono dunque due specie di giudizi di
diversità. Ora, si può dimostrare che i giudizi si possono racco-
gliere tutti in queste due specie; cosicché si riducono tutti a giu-
dizi di diversità. Infatti i così detti giudizi di continenza d' idee,
in cui si afferma che un' idea è in una' altra, e ai quali il Tracy
voleva ridurre tutte le proposizioni, non son che giudizi di di-
(1) Op. cit., Voi. HI, Lib. V, Sez. II, pag. 225-230. Il Gentile {Op.
cit., pag. 140-41 e 148), fondandosi sulla definizione che il Borrelli dà
del giudizio in Libro II, Sez. Ili, Gap. I della Genealogia ( un'affe-
zione che risulta immediatamente all'anima, se due idee coesistenti o
insieme la occupano od ella insieme vi attende "), afferma che il Bor-
relli avrebbe dovuto ridurre, come gli altri sensistì, il giudizio al sen-
tire, che l'occupazione e l'attenzione non sono se non sensazioni raf-
forzate. Ma noi abbiamo visto: 1° che per il Borrelli l'attenzione non
si riduce a sensazione, essendo un atto della volontà; 2» che le due idee
le quali occupano l'anima e alle quali essa attende non costituiscono
che lo stimolo del giudizio, a cui deve aggiungersi un atto speciale del-
l'anima. Quindi mi pare che l'obiezione mossa dal Gentile al Borrelli
non sia giustificata.
— 225 —
versità fra un elemento (nota) e gli altri di una nozione com-
plessa. Dire per es. che l'idea d'una camera è nell'idea di un pa-
lazzo, è affermare che quella è stata da noi distinta fra tutte le
parti di questa, ossia eh' è stata segregata o da ciascuna di esse
o solo da alcune o dal complesso di molte; il che è enunciare
una distinzione o diversità d'idee. Del pari il giudizio qualifica-
tivo è affermazione o negazione di una conformità tra una data
idea astratta e una di quelle che formano una nozione composta:
se diciamo per es. che Cesare è forte, asseriamo che nell'idea com-
posta di Cesare è un elemento conforme all' idea astratta di forte.
Anch'esso quindi si riduce al giudizio di conformità (o disfor-
mità). Pure i giudizi quantitativi (per es. a=b oppure x+y < x)
si riducono a quelli di conformità: dire infatti eguali due cose è
lo stesso che qualificarle conformi per la grandezza; quando poi
chiamiamo l'una minore e l'altra maggiore, non diciamo se non
che r una eguaglia una parte dell' altra. Del pari, i giudizi di
proporzione (2 : 4=8 : 16) son giudizi di conformità fra le diffe-
renze o i quoti delle grandezze confrontate (y e ^, ossia 2 : 2).
E così di seguito. In breve: non si troverà alcun giudizio in cui
non si determini la conformità o disformità delle nostre nozioni,
cioè la diversità intercedente fra esse. Giudicare è distinguere (1).
La diversità enunciata dal giudizio è un rapporto o relazione
fra idee. Ora che cos' è il rapporto? Supponiamo di avere due
sensazioni di suono. L'attendere nello stesso tempo ad esse è con-
frontarle, paragonarle. 11 risultato di tale confronto è il giudizio (io
avverto due suoni diversi). Il risultato astratto di tale enunciazione,
preso indipendentemente dall' atto dell' anima, è la diversità di
due suoni. Tale diversità è appunto il rapporto: il quale quindi si
può dire il risultato del giudizio, che è a sua volta risultato del
paragone: dunque il rapporto è il risultato di un altro risultato
(cioè del giudizio) (2).
(1) Op. cit, Voi. II, Libro li, Sez. I e II.
(2) È quindi errato definire il g\\\(^'ìz\o\ai percezione d^ un rapporto:
che il rapporto è una forma astratta del giudizio già enunciato, gli è
quindi posteriore, non può dunque esser percepito nel giudizio mede-
simo; che non si può percepire ciò che ancora non è. In altri termini:
se il giudizio fosse percezione del rapporto, o si formerebbe con esso
IS
— 226 —
La relazione delle idee, quando è da noi attribuita agli oggetti
a cui appartiene, diventa relazione di oggetti. In tal caso non è
se non la relazione stéssa delle idee, se così può dirsi, applicata.
La relazione risiede dunque solo nello spirito, o è anche nelle
cose? In vero, noi determiniamo dei rapporti perchè abbiamo giudi-
cato. Ma d'altra parte abbiamo giudicato perchè due idee che ci oc-
cupavano, o alle quali attendevamo, avevano certe determinazioni,
certe qualità, certe note (una determinata natura e non un'altra).
Ora, queste qualità, queste note, ciò insomma per cui avviene
che ciascuna delle due idee possa eccitare una funzione da cui
scaturisca il rapporto, si può chiamare il principio prossimo della
relazione. Di piìi, le idee son capaci d'occasionare un giudizio,
sono insomma conformate in una data maniera, perchè gli og-
getti esteriori, dai quali esse dipendono, hanno esercitata la tale
e non la tal' altra azione; e questi l'hanno esercitata perchè
erano forniti d'una certa natura. I principi dei rapporti delle
nostre nozioni ne suppongono dunque altri nelle cose percepite:
questi si posson chiamare principi remoti dei rapporti. Perciò le
relazioni, mentre presentano un aspetto tutto soggettivo, in quanto
richiedono l'attività del soggetto che le riveli, hanno tuttavia un
fondamento oggettivo. « La relazione >, dice il Borrelli, <; in certo
modo può confrontarsi ad un frutto, la cui pianta è radicata nella
natura degli esseri, ma che sbuccia intanto da' rami del nostro
intelletto. Non pretenderà alcuno che il pomo debba in sé avere
i caratteri di quella terra in cui vegeta >. (1). Così, quando Newton
affermò che i corpi celesti gravitano in ragion diretta della massa
e nella inversa dei quadrati delle distanze, annunziava un risul-
tato dei suoi profondi giudizi. Egli aveva raccolti questi dal pa-
ragone delle idee; aveva raccolte le idee dall' osservazione dei
o dopo di esso; invece, come s'è visto, si compie prima. 11 che vuol
dire che il giudizio non è una funzione che rispecchi e registri
passivamente i rapporti già formati, ma un'attività che rivela con
la sua azione un aspetto del reale e forma (mentalmente) i rapporti, i
quali son quindi qualcosa di mentale, d'intellettivo (sebbene, come ve-
dremo, abbiano un fondamento o motivo oggettivo). Tant'è vero che
possono esser presenti all'intelligenza i termini senza che si abbia il
giudizio. Perchè si abbia questo, è necessario un atto speciale.
(1) Op. cit., Voi. Il, Libro 11, Sez. Ili, Gap. VI, pag. 111-112.
— 227 —
fatti; aveva ricavati i fatti dalle impressioni esterne; e aveva rice-
vute queste dalla natura degli esseri. Dunque solo per effetto di
tale natura aveva fissato un rapporto; ma d'altra parte l'aveva
visto alla luce del suo spirito. Quindi ciò che aveva eccitato i
suoi pensieri (il principio remoto del rapporto) era reale, eterno,
immutabile, e, data la stessa attenzione, data la stessa esperienza,
avrebbe provocato in ogni tempo il medesimo risultato. Ma non
esisteva la legge con gli elementi astratti che la costituiscono:
questi son prodotti mentali. È quindi giusto affermare che i corpi
hanno sempre gravitato in ragion diretta delle masse e nella in-
versa dei quadrati delle distanze, che cioè vi sono stati sempre
quei dati in base ai quali il giudizio dell'uomo avrebbe potuto
rivelare un rapporto siffatto; bisogna però aggiungere che era
anche necessario il lampo di una mente geniale, che illuminasse
e cogliesse la relazione e la esprimesse mediante quegli elementi
astratti che appaiono nella formula scientifica della legge. Nella
determinazione dei rapporti concorrono dunque e il soggetto e
l'oggetto; voler ridurre tutto all'azione dell'uno o dell'altro, è
errore. Da questo apparisce chiaro quanto sia ardimentosa quel-
r affermazione di Kant che l'uomo dà le leggi all'universo; poiché
il soggetto conoscente attribuisce agli oggetti esterni le relazioni
delle sue idee, ed astrae le relazioni dai suoi propri giudizi; ma
nel formare i giudizi riceve la legge dall'azione di quegli oggetti;
ed è innegabile che, solo perchè eccitato da questi, egli viene
in sostanza ad esplicare le sue funzioni (1).
La sensazione, quanto al tempo, può, come s' è visto, dividersi
in primitiva, continuata, riprodotta e fantastica; il giudizio è capace
di una divisione assai simile. Così, dopo aver determinato il rap-
porto di due nozioni, ci accade spesso di rivolgere ad esso la
mente, ossia di prolungare il giudizio: per es. il geometra che
ha scoperto una verità importante, gode di averla presente per
lungo tempo allo spirito. Vi è dunque una contemplazione lockiana
per i giudizi come per le sensazioni primitive. Del pari nessuno
(1) Op. cit, Voi. II, Libro II, Sez. Ili, spec Gap. I-VI.
- 228 —
ha messo mai in dubbio che si dia una ricordanza degli uni e delle
altre. Inoltre, spesso i giudizi risorgono non come si formarono
neir anima, ma notevolmente alterati: dunque, al pari delle sen-
sazioni, possono divenire fantasmi. Potendo ancor dipendere e
da idee entostive e da idee edostive, possono dividersi anch' essi
in entostivi ed edostivi (1). Esistono dunque varie somiglianze fra
sensazione e giudizio; altre ancora se ne possono notare: entrambi
implicano un annunzio dell' Io, una certa avvertenza d' esistere,
insomma una cosdenza; hanno per causa occasionale uno stimolo;
hanno per causa efficiente una forza intrinseca all' anima; sono
quindi entrambi azioni dello spirito. Ma, non ostante queste so-
miglianze, il giudizio, essendo risultato del paragone fra due ter-
mini, differisce profondamente dalla semplice sensazione; cosicché
il celebre principio dell' ideologia francese che il giudizio è sen-
sazione, non è giusto. L' apparenza di veridicità presentata da
questo strepitoso teorema è dovuta tutta, dice il Borrelli, all'equi-
voco, cioè alla molteplicità di significati che la parola sensazione
assume presso i vari autori. Così il Condillac afferma che giu-
dicare è confrontare, che confrontare è attendere a due sensazioni
e quindi sentire. Ora, la prima proposizione è falsa. Infatti il con-
fronto è condizione del giudizio, ma non si confonde con questo.
11 Condillac dice: — Non v'è confronto senza giudizio: dunque il
giudizio è confronto — . Se ciò fosse vero, io potrei dire del pari:
— Non v'è statua senza scultore, lo scultore è dunque la statua; non
v' è figlio senza padre, dunque il figlio è il padre stesso o il padre
trasformato; non si può toccare una corda senza riceverne un suono,
dunque ricevere un suono non è che toccare una corda; e quindi
muovere la mano è lo stesso che udire — . Chi crederebbe che uno
dei più grandi analisti dello spirito umano si sia permesso un
ragionamento di tal natura? Eppure è proprio così. Anche la
seconda proposizione del Condillac è arbitraria e falsa: infatti
essere attento a due idee è certo confrontarle. Ma 1' attenzione è
un atto della volontà, che non fa se non rendere più vive le idee;
quando queste son rese più vive, sorge nell' anima un altro atto
che si chiama giudizio. È dunque vero che il giudizio risulta lon-
tanamente dall' attenzione; è però falso che si confonda con essa;
(1) Op. cit., Voi. H, Libro 11, Sez. IH, Gap. XIV.
— 229 —
è poi assurdo che si confonda con la sensazione stessa, la quale
ne è solo resa più viva. È quindi chiaro che qui il Condillac
avviluppa in un groviglio le cause e gli effetti, il soggetto e i
modi, le condizioni e i risultati!
Gli stessi errori ed equivoci si riscontrano in altri ideologi
francesi. Così 1' Helvétius afferma che le espressioni io giudico
diverso e io sento diverso sono sinonime. Ora, questo è vero, ma
allora la parola sentire non denota la funzione specifica esplicata
dall' anima quando gli oggetti esteriori impressionano i nervi:
denota un modo qualunque d' avvedersi, d' avvertire. Non indica
insomma la sensazione propriamente detta, ma ciò che molti chia-
mano sentimento, coscienza. Ora, la coscienza è certo congiunta
con ogni fenomeno psichico; e, se ogni atto in cui essa sorge si
vuol chiamare un sentire, si potrà dare tal nome anche al giu-
dizio e alla volontà. Ma che avremo allora saputo? Che il nostro
spirito non esplica alcuna funzione senza sapere di esplicarla.
Questo però non vuol dire che le varie funzioni si confondano!
Osservazioni simili possono rivolgersi, a questo proposito, al
Tracy (1).
Giudicare non è dunque sentire; V esercizio della facoltà di
sentire è certo indispensabile a tutte le altre; ma queste non si
riducono a quella.
Due o più giudizi connessi fra loro mediante un termine medio
formano il raziocinio.
Il Borrelli cerca di determinare le varie forme di ragionamento,
senza ricorrere a principi generali (respinge anche il dictiim de
omni et nullo aristotelico) (2), considerando solo i vari rapporti
dei tre termini che entrano a formare le due premesse. Egli trova
una conferma della legittimità del suo procedimento nel fatto che
spesso le persone del volgo o i fanciulli « argomentano la ugua-
glianza di due cose dal perchè esse ne uguagliano un' altra; ma
(1) Op. cit., Voi. Ili, Libro V, Sez. II, Gap. XIII. Le stesse obiezioni
rivolte all' Helvétius e al Tracy valgono per il Robinet, che nella sua
Philosophie natnrelle, Chap. IV (Genève, 1787), espose idee simili.
(2) Op. cit., Voi. II, pag. 245-247.
- 230 -
non danno mai alcun segno di far entrare un assioma nel loro
raziocinio. Il solo modo di sconcertarli sarebbe quello di ridurli
ad usare un assioma » (1).
Se però a formare il raziocinio non è sempre necessario un
principio generale, pure secondo il Bprrelli si può ricercare se
ogni processo di quest' atto si possa in fine richiamare a un
principio di tal sorta. Ora, in tutte le forme di ragionamento in
fondo non si fa altro che dire: — A è conforme a B; ma B è con-
forme a C; dunque A è conforme a C —. Generalizzando tale pro-
cedimento si può affermare che due idee conformi ad una terza
sono conformi tra loro; dal che deriva come conseguenza imme-
diata che due idee di cui l* una è conforme ad una terza, mentre
V altra ne è totalmente disforme, sono disformi tra loro. È dunque
questo il principio d' ogni ragionamento.
Ora, le idee del raziocinio, poiché secondo tale principio son
tutt' e tre conformi (che, se due son conformi ad una terza e
quindi fra loro, anche la terza, naturalmente, sarà conforme alle
altre due), si possono sostituire a vicenda, e i loro simboli si pos-
sono del pari surrogare fra loro, almeno in quanto alludono a
ciò che esse hanno di conforme; di modo che la surrogabilità
dei conformi diviene il principio generale pratico del ragionamento.
Tale verità si può chiaramente intuire osservando che nell' espres-
sione verbale del processo sillogistico la conseguenza si può ot-
tenere direttamente col surrogare nell' una delle premesse all' ele-
mento comune ciò che gli corrisponde nell' altra. Per es.: Ciò che
ha parti fuori parti, è composto; il corpo ha parti fuori parti: dunque
il corpo è composto. Qui l'elemento comune (termine medio) è rap-
presentato dalle parole ha parti fuori parti. Nella prima premessa
gli corrisponde l'espressione è composto. Ora, sostituendo nella se-
conda all'elemento comune (ha parti fuori parti) le parole corri-
spondenti ad esso nella prima, ossia è composto (dicendo quindi: //
corpo è composto), si ha subito la conseguenza. Il ragionamento va-
lido deve dunque presentare i tre seguenti caratteri: 1° dev'essere
costituito di tre proposizioni, di cui due esprimano il rapporto del-
l' idea media con ciascuna delle estreme, e la terza il rapporto fra
quest' estreme stesse; 2° le due prime debbono quindi presentare
(1) Op. cit., Voi. II, pag. 196.
— 231 —
un termine comune che sia combinato con due altri i quali for-
mino la terza; 3° la terza in conseguenza deve sorgere con la
più grande prontezza, se si surroghi a questo termine in una
delle due ciò che gli corrisponde nell' altra. Un ragionamento
siffatto si può chiamare, secondo il Borrelli, sillogismo riformato (1).
Esaminati così il giudizio e il nesso di giudizi (argomento),
passiamo alla terza funzione: la volontà.
Volontà. — Abbiamo visto che la sensibilità e il giudizio si
esplicano in seguito all' azione d' uno stimolo; sarà del pari ne-
cessario uno stimolo per la volontà. In fatti è facile osservare che
ogni atto volitivo è preceduto da un giudizio per cui si ritiene
preferibile uno stato ad un altro, che il volere consiste nel ten-
dere ad uno stato in cui non si è; ora, se, essendo in uno stato
doloroso o piacevole, io non ne conoscessi altri, non potrei deside-
rare di uscirne; giacché desiderare di uscirne è desiderare di entrare
in un altro; ma non si può desiderare d'entrare in questo senza
conoscerlo. Non s'ha quindi volontà se non in quanto in un primo
momento paragoniamo due modi di essere e giudichiamo che
r uno è preferibile all' altrb (2). Tale giudizio è appunto lo sti-
molo della volontà. Esso può chiamarsi calcolo volitivo, e si ri-
duce a un semplice giudizio intellettuale; se infatti dopo un odor
di rosa io sento quello del giglio, e se il piacere che ricevo dal
primo sorpassa quello che ricevo dall'altro, allora, appunto perchè
il secondo è meno dilettevole del primo, mi pare disformt da
esso, e, perchè mi par disforme a causa del minor diletto che mi
reca, è stimato da me posponibile. Trovare quindi l'uno pospo-
(1) Op. cit., Voi. Il, Libro III, spec. Sez. III. Si noti che il Borrelli
propone una simbolica che non è priva d'importanza nella storia della
moderna logica matematica o algoritmia.
(2) La stessa opinione è nel Bonnet {Essai analytique, Chap. X,
pag. 95 e 130 del Voi. XIII delle Oeuvres). Per il Borrelli è quindi er-
ronea l'opinione secondo cui è necessario uno stato spiacevole per la
azione (Locke, Essai, Livre II, Chap. XXI, § 34; Condillac, Extrait
raisonné; cfr. A. Testa, Introduzione alla filosofia de IV affetto. Pia-
cenza, Del Maino, 1829, pag. 77 e seg.).
— 232 -
nibile e l' altro preferibile (calcolo volitivo) è in ultima analisi ri-
tenerli disformi (giudizio intellettuale). Con questo giudizio s' iden-
tificano e confondono anche il preferire e lo scegliere; che giu-
dicare preferibile per es. il restar seduto all' alzarsi non è di-
verso dal preferire effettivamente il primo stato al secondo; del
pari le espressioni io preferisco il restar sedato all' alzarmi e io
scelgo di restar seduto invece di alzarmi sono del tutto equivalenti.
Dunque il calcolo volitivo o atto prelativo non differisce punto
ùaXVatto selettivo (la scelta); esso in fondo non è che un giudizio
di preferenza.
Ma non basta. Questo giudizio (stimolo) è, come s' è visto,
un atto puramente teoretico. Per risentire la sua efficacia, l'essere
pensante dev'esser costituito in una data maniera; altrimenti, giu-
dicherà mille volte, non vorrà mai. Quindi la ragion sufficiente
della nostra volontà è divisa fra lo stimolo e queir energia in-
terna che rende efficace l'operazione di questo: è insomma divisa
in due forze o cause, di cui V una h occasionale, l'altra efficiente.
La forza efficiente, che si può chiamare forza volitiva o volere,
s' esplica non più in un atto mentale o teoretico (giudizio), ma
in un atto pratico, il quale si riduce a uno sforzo sui muscoli e
sulle particelle sensifere, cioè a un' azione con la quale 1' anima
eccita i nostri organi a procurarci uno stato che abbiamo pre-
scelto. Essa dunque non fa che eseguire il risultato della nostra
scelta (1); e in relazione allo stato preferito o scelto è detta ap-
petito, in relazione al posposto o respinto si chiama avversione;
ma più propriamente va detta volontà esecutiva o volere (2).
La volontà, come la sensazione e il giudizio, può dividersi in
primitiva, continuata, riprodotta e fantastica. Infatti anche 1' atto
(1) Perciò la libertà per il Borrelli, come per il Locke, si riduce alla
facoltà di eseguire gli atti giudicati convenient e quindi voluti; s'esplica
perciò non nella scelta, ma nell'eseguire la scelta fatta. Il dire che la
volontà è libera è pronunciare una frase del tutto priva di senso, poiché
vale lo stesso che il dire: la volontà è comprensiva della facoltà di
operare secondo la volontà stessa.
(2) Per tutta questa parte vedi Óp. cit., Voi. Ili, Libro IV, e Libro V,
Sezione IH.
— 233 —
di volere è suscettibile di una rimembranza immediata (volontà
continuata) e di una rimembranza lontana (volontà riprodotta o
ricordata). Del pari, nei ricordi prossimi o remoti, la volontà, oltre
che risorgere genuina e fedele, può ridestarsi anche più o meno
inesatta, più o meno alterata. Può quindi essere non solo rin-
novata o protratta, ma pure fantastica. Infine può succedere o
ad un giudizio entostivo o ad uno ectostivo; può quindi suddivi-
dersi in entostiva ed ectostiva (1). Son dunque evidenti le analogie
fra volontà, sensazione e giudizio. Non basta: la volontà è, al
pari delle altre due funzioni psichiche, accompagnata da coscienza;
ha pure una forza intrinseca come causa efficiente, e come causa
occasionale una forza estrinseca; è anch' essa un' azione.
Tuttavia, non si può confondere né con la sensazione né col
giudizio. Il Condillac, che ha voluto identificarla col sentire, ha
per questo riguardo commesso lo stesso errore che a proposito
del giudizio, ossia ha ragionato nella seguente maniera falsa: posta
una cosa, se ne pone dnche un' altra; dunque l' una è la stessa che
l' altra, oppure guest' ultima consiste nella prima trasformata.
Il Tracy poi dà il nome di sensazione ad ogni atto che sia
accompagnato da coscienza, quindi anche al volere. Ma s' è già
visto che così non riesce a identificare questi atti (2).
La sensazione, il giudizio e il volere (3) hanno dunque parecchi
caratteri comuni; il che é naturale, giacché son tutt' e tre funzioni
psichiche; ma ne hanno anche di peculiari, che li distinguono
nettamente fra loro; di modo che sono tre specie d' uno stesso
genere; non si possono quindi confondere, come non si possono
confondere il minerale, il vegetale e 1' animale, nonostante che
tutt' e tre convengano in alcuni caratteri generici (4).
(1) Op. cit., Voi. Ili, pag. 177-178. L'attenzione, come s'è visto, è un
atto della volontà; l'abbiamo però esaminata con la sensazione per i
rapporti che ha con questa. (2) Op. cit., Voi. Ili, pag. 326-332.
(3) Naturalmente queste parole, come ogni altra che esprima idee
semplicissime, possono esser comprese, ma non definite. Altrimenti po-
tremmo insegnare il colore al cieco nato e al sordo il suono; il che è
impossibile {Op. cit., Voi. I, pag. 3; Voi. Ili, pag. 2).
(4) Non mi son fermato sulle ricerche fisiologiche dell'opera del
Borrelli, che accompagnano continuamente quelle ideologiche, poiché
non mi paiono notevoli. Egli, risentendo un po' l'efficacia della dot-
— 234
OSSERVAZIONI. — L' opera del Borrelli, per i suor tempi,
rappresenta forse, dal punto di vista puramente ideologico, l'ana-
lisi più accurata e più esatta della vita interiore. La sua caratte-
ristica è di considerare i fatti psichici dinamicamente e genetica-
mente, non perdendosi fra elementi atomici e sparpagliati della
coscienza, ma considerando le fonti dei fenomeni e abbracciando
con ampio sguardo le funzioni fondamentali della psiche, che or-
dinano e connettono quegli elementi in una data direzione e
danno origine a processi organici, dominandoli in quanto forze
dirigenti. Tali funzioni fondamentali dell'anima per il Borrelli sono
tre: sentire, giudicare, volere; le quali sono irriducibili 1' una ai-
trina del Gali (vedi Genealogia, Voi. IH, pag. 339), ammette i:el si-
stema nervoso tre organi corrispondenti alle tre attività fondamentali
dell'anima: un organo della sensazione, un organo relatifero (del giu-
dizio) e un organo della volontà. Ma è chiaro che l'organo relatifero
non serve affatto a spiegare l'atto del percepire i rapporti; poiché in
questo si ha la distinzione dei termini e nello stesso tempo la loro uni-
ficazione mentale; il che fisiologicamente è inesplicabile. Anche quel che
dice sulle condizioni fisiologiche del richiamo mutuo delle idee è oscuro:
afferma infatti che due sensazioni simultanee devono lasciare nel cer-
vello tracce tali che la ripetizione dell'una debba causare quella del-
l'altra; il che vuol dire che, sviluppandosi insieme, e in conseguenza
esercitando un certo influsso scambievole, modificano le particelle cere-
brali in tal modo che 1' una acquisti la suscettibilità di compiere un certo
atto quando sia stimolato da certa operazione dell'altra {Op. cit., Voi. I,
Libro I, Sez. IV). Ora, non si capisce davvero come mai due sensazioni
distinte possano modificare due cellule cerebrali, distinte e lontane, in
modo che, risorgendo l'una, risorga anche l'altra. Il che riconosce il
Borrelli stesso, scrivendo: ' Chi di fatti può intendere come mai il mo-
vimento d'una particella sensifera agisca su di un'altra che pur si trova
in movimento? Chi può farsi un'idea veramente chiara e precisa del
mutamento che accade per questa doppia azione nelle due picciole
molle? E chi è sì accorto da scorgere come questo mutamento le lasci
in guisa disposte, che la semplice riproduzione del movimento dell'una
sia stimolo sufficiente a richiamarlo nell' altra? Profondi arcani son questi,
e son forse destinati ad esser sepolti per sempre nella parte più riposta
della costituzione del cervello ^ {Op. cit., Voi. 1, pag. 342).
— 235 —
r altra. Perciò non si può più per lui parlare di sensimo. Egli
mostra nel modo più netto che la volontà e specialmente il giu-
dizio non si possono ridurre alla sensazione. È così compiuto
quel movimento di critica dell' ideologia francese, che, iniziatosi
in Italia col Soave e proseguito dal Gioia e dal Romagnosi, ha
la sua espressione più determinata e più chiara nel Borrelli. Me-
rito del Borrelli è anche l'aver ben messo in evidenza che il co-
noscere non è un fenomeno passivo. Il Condillac aveva considerato
il sentire, al quale secondo lui si riduce tutta la conoscenza, come
passivo; altri aveva osservato a questa dottrina che ci son funzioni
psichiche {per es. giudicare, volere) che, non essendo passive, non
si posson ridurre al sentire; ma il Borrelli, al pari del Romagnosi,
mostra che neppure la sensazione si può considerare come pas-
siva, giacché essa non risulta solo dallo stimolo degli oggetti
esterni sull'anima, ma richiede anche una forza insita nell'anima
stessa. Nel medesimo modo che la pietra focaia sprizza scintille non
solo perchè è colpita con 1' acciarino, ma anche perchè ha una
natura particolare, così l' anima ha sensazioni perchè, dati gli
stimoli esterni, reagisce con la forza insita in lei.
Poche osservazioni critiche.
È una deficienza della classificazione borrelliana il non consi-
derare i sentimenti come un gruppo particolare di fatti psichici (I).
La caratteristica della memoria, che è il riconoscimento, gli sfugge:
appunto perciò egli identifica in certo modo la memoria con la con-
templazione lockiana e con la sensazione. Anche l'immaginazione
mi par definita in senso troppo ampio, tanto che comprende
ogni fatto psichico secondario che, per mutamenti avuti, non
corrisponda più alla realtà (le allucinazioni dei malati, i ricordi
alterati etc).
Notevolissimi sono i risultati a cui il Borrelli giunge a pro-
posito della natura del giudizio. Il Borrelli ha mostrato in modo
esatto e preciso che le relazioni non si posson considerare come
un prodotto soggettivo, ma implicano un fondamento oggettivo.
Su questo punto egli vede molto più chiaro del Romagnosi, e non
cade così nel soggettivismo kantiano.
Quanto al ragionamento, è chiaro che il Borrelli non riesce a
(1) S'è notato questo pure a proposito dell' ideologia del Soave.
— 236 —
prescindere da un principio generale, anzi da quello aristotelico,
del sillogismo. Egli osserva che i fanciulli e le persone del volgo
non si giovano di alcun assioma nei loro raziocini; ed è vero; ma
ciò non toglie che nei loro pensieri sia implicito un principio.
Essi certo questo non 1' hanno chiaro dinanzi alla mente, ma lo
presuppongono. Del resto il Borrelli stesso confessa che, sebbene
a formare il raziocinio non sia sempre necessario un principio ge-
nerale, pare si può ricercare se ogni processo di quest'atto si possa
richiamare a un principio di tal sorta. Il che equivale appunto a
riconoscere che nei nostri ragionamenti è implicito un assioma,
sebbene questo non sia chiaro davanti allo spirito. Anzi il prin-
cipio borrelliano non differisce dal dictum de omni et nullo ari-
stotelico; giacché, dicendo che due idee conformi ad una terza
son conformi tra loro, per es. che i concetti Terra e corpo girante
in orbita elittica son conformi a quello di pianeta (cioè affer-
mando: i pianeti son corpi giranti in orbite elittiche — 1" pre-
messa; la Terra è un pianeta — 2' premessa), e quindi son con-
formi tra loro (ossia: la Terra è un corpo girante in orbita elit-
tica — conclusione), non si viene ad asserire se non quanto ci
autorizza a dire il dictum aristotelico, che cioè un predicato {corpo
girante in orbita elittica), il quale appartiene a una classe di esseri
(pianeti) appartiene anche a tutti gì' individui compresi in quella
classe (es. alla Terra) (1). Schematicamente:
Termine Medio (Pianeta) = T. Maggiore (girante in orbita
elittica);
T. Minore (Terra) = T. Medio (Pianeta);
T. Minore (Terra) = T. Maggiore (girante in orbita elittica).
Si ha, così, in base al principio borrelliano, la prima figura
del sillogismo aristotelico, in cui è rigorosamente applicato il
dictum citato.
Quanto alla volontà, è strano che il Borrelli l'ammetta come
energia originaria, irriducibile ad altre e capace di agire su parti
(1) Si noti anzi che lo stesso principio posto dal Borrelli a base del
ragionamento è stalo espresso quasi con le stesse parole da un logico
moderno, il Jevons, il quale però non respinge la dottrina aristotelica,
anzi cerca d' integrarla. Vedi Jevons, 77?^ substition of siniilars, London,
Macmillan e C, 1869; ed Elementary Lessons in Logic, spec. Lesson
XIV (Macmillan, 1909).
— 237 —
dell' organismo, ma nello stesso tempo la faccia assistere passi-
vamente ai momenti più importanti e talvolti più tragici della
nostra vita pratica, cioè al conflitto dei vari motivi, alla decisione
e alla scelta di una delle alternative (1). Se la volontà è capace
di agire sugli organi corporei e di dar quindi origine a cangia-
menti nel mondo materiale, o perchè non dovrebbe intervenire
nella scelta dei vari motivi ?
La strana affermazione del Borrelli dipende del resto dall' iden-
tità eh' egli stabilisce fra giudizio teoretico e decisione pratica o
scelta. Ora, quest' identificazione non è giusta. Trovare un' idea
disforme da un'altra non è certo trovare l'una preferibile e l'altra
posponibile. Quale delle due idee sarà la preferibile? Questo non
risulta certo dalla loro disformità; perchè non basta, per decidersi,
giudicare differenti due idee; bisogna che intervenga una nuova
attività, che dia un valore maggiore a uno dei termini e lo giu-
dichi quindi preferibile. Del pari, il giudicar preferibile una delle
alternative alle altre non è affatto lo stesso che preferirla e sce-
glierla effettivamente; tant'è vero che si può teoricamente rite-
nerla preferibile, ma non sceglierla in realtà (« e veggio il meglio
ed al peggior m' appiglio ») (2).
Ma queste lievi mende non sminuiscono certo il valore del-
l' opera del Borrelli.
In fine, il Borrelli, fu spiritualista o materialista ? Né 1' uno
né r altro; come gli altri ideologi, egli fu agnostico. Infatti, seb-
bene egli dichiari di voler scrivere un' opera sulla semplicità e
immortalità dell' anima (3), pure nelle opere d' ideologia che ci
ha lasciate resta sempre nell'ambito della psicologia descrittiva (4);
(1) Com'è noto, questa è anche l'opinione del Locke (.Saggio,
Libro II, Gap. XXI), di Voltaire {Questions sur VEncycl., pag. 137 del
Voi. XVIH delle Oeuvres; Philosophie generale, Chap. VII, pag. 513
e seg. del Voi. XXXII delle Oeuvres) e del Bonnet {Essai analytique,
Chap. XII, pag. 129 e seg. del Voi. XIII delle Oeuvres).
(2) Petrarca, Canz. /' vo pensando etc; Foscolo, sonetto Non son
chi fui etc. Si ricordi anche Ovidio {video mcliora proboque, deteriora
sequor).
(3) Introduzione alla filosofia naturale del pensiero, pag. 229-230
e 238; Principi della genealogia, Voi. l, pag. IX, e pag. 1-2.
(4) Il Borrelli stesso dichiara di abbracciare l'opinione degli spiri-
- 238 —
e nelle ricerche fisiologiche, che possono sembrare tendenti al
materialismo, egli insiste nel mostrare come I' ammettere questo
o quell'organo fisiologico del pensiero non implichi idee né spi-
ritualistiche né materialistiche, non pregiudichi quindi alla que-
stione della natura dell'anima (1). Tiene sempre distinte le ricerche
psicologiche pure e semplici da quelle metafisiche; anzi scrive:
« Ne' principii della scienza universale porrò in veduta che quel di-
partimento dello scibile, quale chiamerò telosarchia, è ben diverso
da quello cui la ideologia debbe ascriversi. L' uno è diretto da
regole che non appartengono all' altro: e perciò la miscela di en-
trambi in una trattazione medesima è per entrambi dannosa. Trovo
in conseguenza regolare che né il Locke, né il Condillac, né il
Bonnet, né il Tracy abbiano creduto di estendere la discussione
ideologica alla immaterialità dello spirito » (2).
Del resto le dichiarazioni d' agnosticismo son frequenti nelle
opere del Borrelli. Così riconosce che movimenti del sistema ner-
voso accompagnano i fenomeni del pensiero, ma ripone « la ma-
niera nella quale i nervi contraggono il moto e seguentemente il
trasfondono fra gli arcani pivi cupi della natura » (3). Confessa di
ignorare la sede cerebrale dell'anima (4) e la maniera in cui il mo-
vimento di una particella sensifera acquisti il potere di riprodurre
un movimento all'occasione del ritorno del movimento di un'altra
(associazione delle idee) (5). Del pari dichiara di non aver voluto
render chiaro nelle sue parti più intime il meccanismo segreto
della imitazione involontaria (6). Afferma che non é possibile
comprendere in che consista l'azione traslocatrice di un corpo e
in che maniera si trasmetta ad un altro, come pure quale sia la
vera essenza dello sforzo interiore volontario e in che modo esso si
tualisti che solo l'ente semplice possa pensare, ma aggiunge che di-
fenderà tale opinione in opere non ideologiche (vedi Principi della
genealogia, Voi. 1, pag. 45).
(1) Principi della genealogia, Voi. Ili, Libro V, Sez. II, Gap. IV,
e Sez. HI, Gap. IV. Gfr. Voi. Ili, pag. 213, 413, 414 e 418.
(2) Introduzione etc, pag. 229.
(3) Principi della genealogia, Voi. 1 pag. 43-44 e 332.
(4) Op. cit, Voi. I, pag. 45-46.
(5) Op. cit., Voi. I, pag. 342-343.
(6) Op. cit., Voi. I, pag. 352.
— 239 —
traduca in movimento (1). Divide tutti i rapporti dell' universo in
tre classi: la prima comprende tutte le relazioni già scoperte; la
seconda, quelle non ancora conosciute ma conoscibili, le quali
saranno scoperte dai nostri discendenti; la terza, quelle che ap-
partengono ai problemi insolubili per 1' uomo e costituiscono il
mistero della natura (2). « Io ignoro moltissime cose », con-
clude (3). Dunque egli resta, come tutti gì' ideologi, agnostico.
Tuttavia non si può negare che in lui non si leggono più frasi
rudi quali quelle del Cabanis, del Delfico e del Tracy, che hanno
procurato ai loro assertori l' accusa di materialismo. Anche la
sua propensione ad esaminare le idee di altri pensatori mostra
ch'egli ha superato quel punto di vista antistorico così frequente
negl' ideologi. Il soffio potente di un nuovo spirito di cultura
agita i fogli dei suoi scritti.
CAPITOLO VII. — Ideologi minori
Oltre gl'ideologi principali, di cui abbiamo esaminato le opere,
ne vanno ricordati altri minori.
Fu professore all' Università di Pavia Giuseppe Compagnoni,
nato a Lugo di Romagna il 3 marzo 1754 e morto nel dicembre
del 1833. Fu autore di parecchie opere storiche e letterarie (tra
cui le Veglie del Tasso, date e tenute per opera originale del
Tasso stesso) e giornalista (collaborò al Alonitore Cisalpino). Fu,
durante la Repubblica italiana, segretario generale del Consiglio
di Stato e giudice del real Consiglio delle prede marittime ;
inoltre fu chiamato a parte della compilazione dei codici penale,
militare e commerciale. Ebbe dopo Marengo la cattedra d' eco-
nomia politica all'Università di Pavia; ma preferiva rimanere a
Milano come Promotore della pubblica istruzione. Scrisse gli Ele-
menti di diritto repubblicano ossia principii di gius pubblico ani-
versale; tradusse, come sappiamo, gli Elementi d'ideologia di De-
ci) 0/7. cit., Voi. IH, pag. 26-27.
(2) 0/7. cit., Voi. II, pag. 108.
(3) 0/7. cit., Voi. Ili, pag. 71. Cfr. Voi. I, pag. 154-155, 256; Voi. Ili,
pag. 261 e 373.
— 240 —
stutt de Tracy, i quali ebbero in Italia grande fortuna. Al Trattato
della volontà (Milano, Sonzogno, 1819) del filosofo francese (1)
aggiunse il suo Saggio d'un trattato morale in forma di cate-
chismo, in cui fondava tutta la vita etica sull'amor proprio. Questo
Saggio era parte d'un compiuto sistema, a meditare e comporre
il quale egli aveva spesi molti anni; e lo teneva caro più di tutti
i suoi scritti; ma ne smarrì la seconda parte, a cui tentò supplire
con le Lettere a tre giovani sulla morale pubblica e con gli otto
dialoghi Degli off ici di famiglia (Milano, Stella, 1826). Lasciò ine-
diti La morale per tutti ed altri scritti (2).
Va ricordato anche Paolo Costa (3) di Ravenna (1771-1836),
il quale insegnò ideologia ai giovani nel liceo di Treviso e in
quello di Bologna prima, poi, a mo* dei filosofi greci, nei ritrovi,
nei passeggi, nell'intimità familiare, nella quiete della villa; dopo
i moti del '31 fu, per motivi politici, a Corfù, donde tornò quasi
subito a Bologna. Scrisse, oltre alcuni componimenti poetici e una
Vita dell' Alighieri, il trattato Della elocuzione (Forlì, Casali, 1818)
e il volumetto Dell' analbi e della sintesi (pubblicato insieme con
l'Elocuzione citata a Bologna, Turchi, Veroli e C, 1824, e anche
a parte nella Nuova Collezione di opuscoli letterari, Bologna,
Marsigli, 1824), in cui erano in germe le idee del libro suo prin-
cipale, intitolato: Del modo di comporre le idee e di contrassegnarle
con vocaboli precisi per potere scomporle regolarmente a fine di ben
ragionare, e delle forze e dei limiti dell' umano intelletto; dedicato
alla gioventù delle Isole fonie (Corfù, 1831). In quest'opera egli
mostrava come gli eccessi del materialismo e del trascendenta-
lismo (di Kant e della scuola scozzese) derivassero da due motivi:
(1) Questa traduzione del Trattato della volontà differisce dall' edi-
zione francese per il Gap. II della Parte II (sull'amore), che è terminato
(avendo il Campagnoni avuto il manoscritto originale dal Tracy). In
esso il filosofo francese, dopo aver caratterizzato 1' amore come il ri-
sultato del bisogno della riproduzione congiunto con quello della sim-
patia, tratta del matrimonio, del divorzio etc.
(2) Vedi Biografia degli italiani illustri etc. pubblicata dal De Ti-
paldo, Voi. II, pag. 181-189 (articolo di G. Rambelli).
(3) Biografia cit. del Tipaldo, Voi. V, pag. 9-18 (articolo del Ram-
belli); Elogio di P. Costa dell' ab. F. Becchi (in Del modo di com-
porre le idee etc, Milano, Silvestri, 1844, pag. V-XVI).
- 241 —
perplessità del linguaggio filosofico e mancanza d'una regola
precisa che segnasse i termini oltre i quali la ragione abbando-
nata a sé stessa non può che traviare. Per rimediare a tali eccessi
volle innanzi tutto « insegnare ai giovani con qual'arte si debba
formare un linguaggio composto di vocaboli determinati ». Mostrò
che a tal fine non giovano le definizioni, giacché esse, essendo
scomposizioni d' idee, presuppongono il formarsi di queste, e son
perciò fallaci se le idee son composte male. Mosse quindi dalle
semplici sensazioni e dai ricordi (sensazioni continuate o rinno-
vate), e venne a mano a mano componendo le idee (complessi
di ricordi), assegnando a ciascuna il proprio vocabolo. Fatta così
la composizione delle idee, ne riusciva facile la scomposizione,
ossia la definizione (1). Per stabilire poi i limiti del ragionamento,
mostrò che i principi generali, su cui questo si fonda, son rica-
vati dall' osservazione dei fatti (2), e che quindi esso non può
avere una potenza che non sia nei principi, onde non può risolvere
questioni circa tutto ciò che oltrepassi la sfera dei fatti, dai quali
si ricavano i principi.
(1) 11 Costa chiama sintesi la composizione delle idee compiuta mo-
vendo dalle sensazioni, ossia quel procedimento mentale che il Condillac
chiamava analisi. Solo dopo che le idee sono state composte e contras-
segnate con vocaboli particolari, dice il Costa, noi possiamo rivolgere
l' attenzione alle parti loro e scomporle, per venire gradatamente, di scom-
posizione in scomposizione, agli elementi più semplici. Quindi V analisi
(scomposizione) presuppone la sintesi; questa è il vero metodo d'inven-
zione e d' insegnamento; quella non è che il metodo di verifica. Vedi
Del modo di comporre le idee etc, Milano, Silvestri, 1844, Cap. L e
seg.', e Della sintesi e dell' analisi (stamp. con l'opera precedente).
(2) Per questo riguardo combattè specialmente la scuola scozzese
(Reid, D. Stewart), secondo cui nell'anima sono, com'egli dice, alcune
leggi e modi suoi propri indipendenti dall'esperienza. Vedi Del modo
etc, Cap. XXVllI-XL. Il Costa si oppose anche al Rosmini scrivendo
una Confutazione intorno al Nuovo Saggio sulV origine delle idee del
sig. Rosmini, in difesa delle dottrine del Locke e del Condillac
(Op. cit., Appendice, pag. 347-365). Notevole è anche l' opera: Colloquii
tra Paolo Costa e Aristarco Scannabue, autore della Frusta letteraria
(il Baretti), nei quali si ragiona di alcune false opinioni e segnatamente
di quelle dell'abate La Mennais intorno il criterio della verità (Bologna,
all'insegna della Volpe, 1830).
16
— 242 —
Scrissero due opere organiche d' ideologia lo Zelli e il Bini.
Il P. Don Raffaele Zelli, monaco cassinese, è autore degli Elementi
di filosofia metafisica (Firenze, Ciardetti, 1804; quarta ediz. Bo-
logna, 1830). Considerando la metafisica come la scienza dei prin-
cipi e delle verità astratte, egli la divide in due parti. La prima
ha per oggetto l' analisi delle facoltà psichiche; la seconda, il
quadro generale delle conoscenze umane. L' una prende il nome
d' ideologia dalle idee, che sono il risultato dell' esercizio delle
facoltà psichiche e la base delle nostre conoscenze; 1' altra, con-
siderando le cognizioni umane relativamente alle principali facoltà
di ricordarsi, d'immaginare e di ragionare, prende rispettivamente
i nomi di Metafisica della storia. Metafisica delle arti belle e Me-
tafisica razionale (1). Neil' ideologia lo Zelli segue specialmente
il Tracy: al pari di questo infatti considera le idee rispetto alla
genesi, all'espressione, alla combinazione e deduzione loro (2).
Parlando della genesi delle idee o sensazioni e delle facoltà
psichiche , riduce 1' attenzione alla sensibilità , considerandola
come il dirigersi della sensibilità ad un' impressione partico-
lare (3). Anche la memoria si risolve per lui nella sensibilità,
perchè le idee riprodotte o ricordanze hanno origine dall' asso-
ciarsi delle sensazioni per mezzo dell' attenzione (4). Neppure il
paragone è per lo Zelli una facoltà particolare; esso non è che
l'attenzione o la sensibilità applicata a due sensazioni o idee nel
medesimo tempo. Quando i termini del paragone sono idee di
ricordanza, quest'attenzione o sensibilità che si applica prende il
nome di riflessione. Invece la volontà, sebbene presupponga il
sentire (in quanto che non c'è desiderio o passione che non abbia
per base un giudizio, un sentimento di rapporto fra l'oggetto che
(1) Vedi Elementi di fil. metafisica di R.... Z...., Firenze, Ciardetti,
1804, Parte I, pag. 3 e seg. È facile scorgere qui l'efficacia della clas-
sificazione baconiana delle scienze, la quale è veramente fuori posto
in quest'opera, perchè la classificazione delle facoltà psichiche del Tracy
e dello Zelli è diversa da quella di Bacone.
(2) Op. cit., Parte I, pag. 43.
(3) Op. cit., Parie I, pag. 46.
(4) Op. cit., Parte I, pag. 55. Lo Zelli considera la facoltà di sen-
tire in connessione col sistema nervoso, e, a questo proposito, cita
spesso il Cabanis (pag. 48 e seg. della Parte I).
— 243 —
si appetisce e il bisogno reale o immaginario), non si riduce ad
esso. La volontà è uno stato attivo; la sensibilità invece è uno
stato passivo (1). La volontà ha per lo Zelli una speciale impor-
tanza nella conoscenza del mondo esterno. Anche per questo ri-
guardo egli segue il Tracy, che secondo lui in questa ricerca « ha
un merito distinto sopra tutti gli Ideologisti » (2). Pure nel de-
rivare le idee delle qualità dei corpi (inerzia, movimento, esten-
sione etc.) dalla resistenza segue il Tracy. Dunque, egli conclude
col filosofo francese, le qualità sensibili dei corpi non sono altro
che i rapporti che essi hanno con la nostra organizzazione; ed
un corpo qualunque non è altro per noi che una cosa inerte ed
estesa con le altre qualità che possiede, cioè coi rapporti che ha
coi nostri sensi. Non sappiamo dunque che siano i corpi in sé;
conosciamo solamente quali relazioni hanno coi nostri sensi nel-
r ordine presente dell' universo (3). Dopo che noi, secondo lo
Zelli, abbiamo conosciuto qualcosa d'esterno, componiamo gruppi
d' idee corrispondenti ai gruppi d' impressioni ricevute dagli og-
getti esterni, e astraendo con i' aiuto del linguaggio, e seguendo
le analogie che scopriamo nel confronto delle idee, ne formiamo
dei gruppi più o meno composti, generalizziamo, classifichiamo
ragioniamo, e formiamo tutto il sistema di nostre conoscenze
Appunto il quadro generale di queste conoscenze lo Zelli consi
dera da ultimo (4), trattando delle scienze storiche (metafisica
della storia), delle arti belle, il cui oggetto è secondo lui l' imi
tazione della natura (metafisica delle belle arti) (5), e infine dei
principali problemi della metafisica razionale (del mondo, di Dio
della società, del destino dell'uomo etc), a proposito dei quali
combatte il materialismo.
Il P. Don Vincenzo Bini, monaco cassinese lui pure, profes-
sore di filosofia all' Università di Perugia, è autore del Corso ele-
mentare di lezioni logico-metafisico-morali (Perugia, Società Tipo-
grafica, 1815), che ricorda, specie per il disegno, l'opera dello
(1) Op. alt., Parte I, pag. 74.
(2) Op. cit, Parte I, pag. 77.
(3) Op. cit., Parte I, pag. 87-88.
(4) Nella Parte IL
(5) Op. cit., Parte II, pag. 35 e seg.
— 244 —
Zelli, benché in alcuni punti se ne distingua e talora forse la
superi (1). Per lui lo. studio di Locke e di Condillac ha origi-
nato un rivolgimento nel campo filosofico, cosicché indietro non
si può più tornare. Bisogna assolutamente seguire il metodo
di quei grandi. Perciò egli, come gì' ideologi in genere, dice :
« Immaginiamo di incominciare oggi a pensare, a parlare, a ra-
gionare ». Solo così é possibile rintracciare la genesi delle no-
stre conoscenze. Riduce, come il Tracy, le attività umane a tre :
pensiero, parola, raziocinio (2). Il pensiero lo divide (pure come
il Tracy) in sensibilità, memoria, giudizio, volontà. Trattando della
sensibilità afferma che tutte le idee provengono all'anima pervia
degli organi sensori (3); e rivela una conoscenza vasta e precisa
dei risultati scientifici ottenuti fino al suo tempo nello studio del
sistema nervoso. Tuttavia non riduce (come fa invece il Tracy) la
memoria, il giudizio e la volontà al sentire, ma li distingue espres-
samente da questo (4). Anche nel problema della conoscenza del
mondo esterno segue il Tracy (5). Mostra poi come l' uomo, as-
suefatto a riflettere sugli oggetti materiali, scorga le loro qualità
comuni e le loro differenze, riunisca quelle in gruppi e formi,
così, le idee generali e astratte tanto fisiche quanto morali e me-
tafisiche. Chiude l'opera dimostrando l'immaterialità dell'anima
(in base all'impossibilità, per tutto ciò che é materiale, di perce-
pire più cose in una volta) e la sua immortalità (6).
(1) A pag. 6 dice d'aver adottato nelle sue lezioni universitarie sulla
metafisica l' opera dello Zelli, suo amico; ma, siccome a Perugia era stato
allora affidato ad un sol professore l' insegnamento e della dialettica
(logica) e della metafisica e della morale, egli volle presentare ai giovani
un'opera che facilitasse loro la conoscenza di quelle tre scienze.
(2) Corso etc. (ediz. cit.), pag. 13.
(3) Op. cit., pag. 20. Cita spesso il Soave e il Sarti.
(4) Op. cit., pag. 41, 86 e 99.
(5) Op. cit., spec. Sezione XXXVI.
(6) Sezione LVIII e LXI. Per integrare l'ideologia del Tracy e per
liberarla dalla taccia di materialismo il Campagnoni premise al I Voi.
della Parte I degli Elementi d^ ideologia da lui tradotti (pag. XLIIl-LII)
questa dimostrazione dell'immortalità dell' anima del Bini (insieme con
la dimostrazione dell' esistenza di Dio tolta dal Trattato delle scienze
metafisiche del Genovesi).
— 245 -
Un quadro ideologico quasi compiuto presentò il professore P.
Luigi Pungileoni (1762-1844) (1) in tre articoli connessi fra loro (2).
Egli, pur plaudendo al Trattato dei sistemi del Condillac, si duole
che questi nel Trattato delle sensazioni abbia mescolato luce e
tenebra col pretendere di spiegare lo sviluppo delle facoltà in-
tellettuali per mezzo di osservazioni su di una statua. Questa non
può avere in sé tanto che basti per giungere alla conoscenza di
sé e dei corpi esterni. Lo studio dell'uomo non si può compiere
che nell'uomo stesso e nelle opere sue, facendo distinzione fra
uomo e uomo per quelle combinazioni accidentali di clima, di
educazione e di altri agenti, onde avviene che la natura nella
nostra macchina non produce in tutti i medesimi effetti. Per at-
tuare questo disegno, il Pungileoni richiama alla sua memoria ed
esamina « quell'età che può dirsi l'alba della ragione », ossia
l'adolescenza. « Immagino pertanto », egli scrive, « un giovanetto
bene organizzato su di un angolo di questa terra, in cui la na-
tura abbia versato a piene mani i suoi doni. Di più noi sup-
pongo ivi isolato, ma solo alquanti passi discosto dai suoi più
cari. Egli è in questa situazione, prescindendo da ogni suo mo-
vimento anteriore ». Di tale giovanetto il Pungileone esamina
da prima l' odorato e il gusto, poi l' udito e la vista. Ritiene
che r udito possa dare al giovanetto la percezione di due suoni
dissimili provenienti da corpi che non siano lui stesso e che
stiano fuori di lui: propende quindi a credere che le sensazioni acu-
stiche non siano semplici modificazioni soggettive, come pensava
il Condillac. Infatti, egli dice, nell'orecchio é per es. prodotta una
impressione dolce dal canto dell' usignolo e sgradevole dallo stri-
dere del gufo. All' impressione fisiologica segue la sensazione. Ora,
(1) Vedi Biografia del Tipaldo, Voi. X, pag. 244-246.
(2) Dell' origine e delV accrescimento delle umane cognizioni - Os-
servazioni metafisiche in Giornale Arcadico, Tomo XXXIX (anno 1828),
pag. 106-117; Dell'udito e della vista - Considerazioni metafisiche in
Giornale Are, Tomo XLII (1829), pag. 137-150; Disamina sul senso
del tatto in Gior. Are, Tomo XLIV (1829), pag. 202-213. Vedi nel
Gior. Are. stesso (Tomo LIV, anno 1832, pag. 37-62) un altro articolo
del Pungileoni sui sogni (Congetture sui sogni). Il Pungileoni è autore
pure di alcune Riflessioni sulla primaria cagione dei sogni e del son-
nambulismo (Parma, Carmignani, 1804).,
— 246 —
non è possibile identificare questi due effetti, l' impressione e la
sensazione, appartenendo quella ai sensi, all'anima questa. Ma non
si dà effetto senza causa; quindi quell'impressione è attribuita ai
due uccelli indicati. Anche la vista secondo lui può dare la per-
cezione di qualcosa d'esterno; e a tal proposito cita l'articolo
Delle cateratte dei ciechi nati, osservazioni teorico-chimiche del pro-
fessore di chirurgia e di oftaliniatria Luigi de Gregoris romano
(Roma, 1826), secondo il quale i ciechi nati operati di cateratta
non vedrebbero mai attaccati alla cornea i primitivi colori e gli
oggetti esterni. Inoltre, dice il Pungileoni, è facile capire che un
uccello, volando verso il giovanetto, deve aumentargli la base del-
l'angolo ottico, e, allontanandosene, diminuirgliela; quindi il fan-
ciullo deve, se non conoscere, almeno sospettare che tali muta-
menti siano l'effetto del moto d'un corpo estraneo. Il tatto però,
secondo il Pungileoni stesso, precisa e chiarisce la conoscenza
del mondo esterno. Tuttavia non si deve esagerare l'importanza
di questo senso. « Che il tatto sia il senso più perfetto degli
altri, passi: ma che al di lui magistero si debba il retto uso che
di lui stesso e degli altri sensi far si può, ciò non è vero. Questo
dipende da un atto libero dell'anima, al voler della quale il tatto
non meno degli altri sensi è soggetto ». Insomma per il Pungi-
leoni è falsa quella psicologia che non tien conto dell'attività del-
l'anima e vuol ridurre l'uomo al corpo soltanto e circoscrivere
r intelligenza entro il mondo sensibile (1).
V è poi tutta una pleiade d' ideologi, le cui opere sono
oramai dimenticate. Pietro Schedoni si occupò Delle influenze
morali (Modena, 1810) ossia, trascurando le teorie morali e le ve-
rità astratte, che presupponeva beli' e stabilite, esaminò quanto i
principi etici abbiano efficacia sui costumi dei popoli, come essi
siano violati o adempiuti negli usi e nelle istituzioni pubbliche ;
e considerò partitamente le piaghe della società, additandole ai go-
verni per gli opportuni provvedimenti, alcuni dei quali venne
suggerendo (2). 11 conte Giovanni Ferri di San Costante di Fano
(1) Ammette alcune nozioni, come quelle di causa e d'effetto, indi-
pendenti dai sensi {Giornale Are, Tomo XLIV, pag. 202).
(2) Io ho visto la terza ediz. (Modena, Tipografia camerale, 1824 -
3 volumi).
~ 247 —
(1755-1830) scrisse Lo spettatore italiano, preceduto da un saggio
critico sopra i filosofi morali e i dipintori d^ costumi e d^ carat-
teri (Milano, Società tipografica dei Classici italiani, 1822), in cui
volle ritrarre l'uomo d'ogni tempo e d'ogni paese, e mostrare i
doveri di ciascuna età, di ciascuno stato, tracciando un quadro
della vita umana e compilando un trattato di morale universale
ispirato ad un filantropismo vasto e sincero (1). L'abate Cestari
in Tentativo secondo sulla rigenerazione delle scienze (Milano, 1804)
tentò una classificazione delle scienze non già col criterio sogget-
tivo di Bacone e di D'Alembert, ch'egli criticò, ma con un me-
todo proprio, oggettivo ed empirico; e vagheggiava una specie
di federazione tra i letterati di tutta l'Europa (2). Mariano Gigli
{Analisi delle idee, 1814) considerò la filosofia come la scienza di
ciò che si può conoscere « con esatte osservazioni e con espe-
rienze ben istituite ». Carlo Lauberg (1762-1834) pubblicò (forse
tra il 1786 e il 1789 a Napoli) delle Riflessioni sulle operazioni
dell'umano intendimento, nelle quali cercò di esporre « in minia-
tura » ai propri scolari le <^ scoperte » degl'ideologi francesi;
egli eliminava la riflessione lockiana, considerandola come deri-
vante dal sentimento, ma non riduceva tutto al sentire, da cui
distingueva, al pari del Bonnet, Vattenzione; negava anche che il
tatto ci possa assicurare della realtà del mondo esterno, poiché
noi conosciamo sempre le nostre maniere di essere (3). G. Batt.
Savioli (Institutiones metaphysicae in epitome redactae, Ticini, 1816)
s'ispirò alle dottrine del Locke e del Soave. L'abate Tommaso
Troisi {U arte di ragionare; Istituzioni metafisiche, Napoli, 1826;
Saggio filosofico sulle leggi della natura, Napoli, 1829) consi-
derò i sensi come i mezzi delle nostre prime idee, e ad essi ag-
giunse la riflessione, con cui l' anima, riguardando le sensa-
zioni, può formarsi altre idee. 11 sacerdote Don Giuseppe Maria
(1) Vedi Antologia, dicembre 1822, pag. 497-504, giugno 1824, pa-
gine 1-57, novembre 1830, pag. 203-208.
(2) Poli, Op. cit., Voi. IV, § 370. Per altri genealogisti delle scienze
vedi Poli, Op. cit. Voi. IV, § 449. Sullo scritto del Cestari pubblicò
un articolo il Cuoco il 1804 nel Giornale italiano di Milano (vedi
Gentile, Op. cit., pag. 375-376).
(3) Vedi Gentile, Op. cit., Cap. III.
— 248 —
Mazzarella, scolaro del Capocasale e professore di filosofia a
Pozzuoli prima, poi a Napoli {Corso d' ideologia elementare,
Napoli, Tipografia Zambraja, 1826), considerò come proprietà
costitutive dell'essere semplice V attività e il sentimento, ossia la
facoltà di sentire (1). Carlo Antonio Pezzi {Lezioni di filosofia
della mente e del cuore, riformata e dedotta dall' analisi dell'uomo,
Padova), movendo dallo studio dell'uomo fisico o sensifero, passò
a quello dell'uomo attento o riflessivo e morale, e ridusse tutti i
bisogni morali a quello solo di sentire il piacere (bene). Giuseppe
Accordino {Elementi di filosofia, Messina, Voi. 3, 1822-26-30) con-
siderò l'uomo, nei primi momenti della sua esistenza, come una
tabula rasa, e riguardò tutte le facoltà dell'anima come dipendenti
l'una dall'altra e in particolar modo dalla sensibilità, senza però
confonderle tra loro. L'abate D. Geronimo Marano {Delle regole
dell'arte /o^/ca, Napoli, 1819) si fondò sull'analisi induttiva, e di-
stinse V idea dalia percezione, considerando la prima come un og-
getto che si presenta alla mente svestito d'ogni forma sensibile.
Andrea Abbà, professore di logica e metafisica all'Università di
Torino {Elementa logices et metaphysices, Taurini, 1829; Delle co-
gnizioni umane, Torino, 1835; Lettere a Filomato sulle credenze
primitive, Torino, 1835) fece derivare tutte le idee dal senso e dal-
l' azione dell' anima consistente nell' analisi e nella sintesi. Giro-
lamo Alberi {Del nescibile, libro uno, Firenze, Ciardetti, 1824) mise
in evidenza 1' agnosticismo degl' ideologi e il fenomenismo con-
dillachiano, fondando la scienza, eh' egli definiva cognizione
della realtà, sull'osservazione dei fatti, e considerando quindi come
nescibile tutto quanto oltrepassasse la sfera del mondo sensibile.
Il dott. Giuseppe Passeri {Della natura umana socievole ■ Saggio
fisico-metafisico-politico, Napoli, Stamp. del Ministero della Segre-
teria di Stato, 1815) sostenne la necessità di tener prevalentemente
conto, nello spiegare la psiche umana, dell' azione del corpo (2).
(1) Cfr. Gentile, Op. cit., pag. 307-308, nota 1. Il Corso d'ideologia
era preceduto da un Saggio critico e storico della Ideologia de' filosofi
antichi e moderni.
(2) Il Passeri (che nel frontespizio del libro è detto « fisico senese »)
distingue nell'uomo tre facoltà: la sensitività, la volontà libera e la
razionalità o capacità di ragionare. La sensitività è propria non del
— 249 -
Giuseppe Sanchez {Influenza delle passioni sullo scibile umano, Na-
poli, 1823) ritenne inconoscibile per la ragione l'assoluto, e trasse
tutte le idee, anche quelle morali, e i concetti dei rapporti, dai
sensi, affermando che le idee aumentano in ragione del quadrato
con due sensi e del cubo con tre. Ambrogio Balbi {Difesa della
filosofia, Lugano, Vanelli, 1824) spezzò una lancia a favore della
ideologia e della filosofia dell'esperienza contro V oscurantismo (1)
Evasio Andrea Gatti, medico chirurgo domiciliato a Bologna
pubblicò un' opera premiata dall'Accademia Labronica di Livorno
dal titolo: Principi d'ideologia, (Libro I, Firenze, Ronchi, 1827)
Mostrando vasta e profonda conoscenza di tutte Je ricerche fisio
logiche e anatomiche compiute fino al suo tempo, e specialmente
di quelle sul sistema nervoso, considerò l'uomo come risultante
di tre fattori: organismo, forze istintive e anima. Ritenne mate-
riali le forze istintive, poiché la loro azione cessa a causa di le-
gature, compressioni o tagli di nervi, o in seguito a denutrizione,
a fatica eccessiva etc, e si riparano mediante l'uso di liquori, di
cibi sostanziosi, di riposo etc. Proprietà delle forze istintive con-
siderò la sensibilità, che così definì: « il risultato dì una confor-
mazione speciale vivente per cui ciascuna parte è atta a com-
piere l'ufficio cui fu destinata » (2). Divise tale sensibilità in la-
tente e manifesta. La sensibilità latente è per lui la proprietà delle
forze istintive che presiedono allo sviluppo, alla nutrizione e al-
l' accrescimento nostro. Quella manifesta è la stessa sensibilità la-
tente, ma sprigionata da cause note o ignote; essa mantiene il
corpo, ma dell' anima, che il Pas. dice estesa (!). Gli agenti sia esterni
sia interni (clima e circostanze fisiche, organi e apparati interni, la cui
azione il Pas. esamina partitamente e minutamente) cagionano nell'es-
sere sensitivo le prime determinazioni e passioni naturali (Parte I, Gap. 1).
La volontà può trascurare o accrescere gì' impulsi esterni o interni fis-
sandovi r attenzione, e schivarli o ricercarli, se essi sono esterni; e,
alterando con l' immaginazione le passioni naturali, può dar origine a
quelle fattizie o fantastiche (anche le passioni il Pas. analizza nel Gap. Il,
Parte II). La ragione allora dev'essere guida delle passioni naturali e
guardia della libertà nella produzione delle nuove, acciocché queste
al pari di quelle siano dirette alla felicità dell' uomo (Parte II, Gap. III).
(1) Vedi Antologia, marzo 1825, pag. 106-107.
(2) Principi d' ideologia (ediz. cit.), § XXV.
— 250 —
calore, produce la digestione, le secrezioni, muove i muscoli per
la respirazione etc. (1). Né l'una né l'altra appartengono all'anima,
prima di tutto perchè son materiali, mentre l'anima è immate-
riale e semplice (2), e poi perché le operazioni dell'anima (per es.
paragonare, volere etc.) son sempre coscienti, mentre tali non sono
gli atti della sensibilità. Esse costituiscono dunque come un anello
fra la materia organizzata e l'anima (3). Le operazioni o facoltà
proprie dell'anima (che, benché ignota nella sua essenza, è inne-
gabile e reale) son quelle intellettuali. Fra queste son connesse
maggiormente con l' organismo la percettibilità (che è da lui così
definita: « l'esser noi fatti partecipi di tutto che segue in noi o
al di fuori per segreto concorso dell'anima sulla sensibilità la-
tente nell'atto che rendesi manifesta >>) (4), la volontà e la me-
moria; invece il sentimento, il confronto e l' immaginazione dipen-
dono maggiormente dall'anima (5).
Francesco Paolo Bozzelli di Manfredonia (1786-1864) fu esule
a Parigi dopo il giugno del 1822, e vi pubblicò nel 1825 gli
Essais sur les rapports primitifs qui lient ensemble la philosophie
et la morale (ristampati nel 1830 col titolo De l'union de la phi-
losophie avec la morale), dove, ricollegandosi agl'ideologi francesi
più eminenti e in particolar modo ail'Helvétius, presentò non
senza acume una teoria della vita morale prettamente edonistica (6).
G. Bertolli {Idee sulla filosofia delle scienze morali e politiche) (7)
volle applicare il metodo sperimentale (osservare i fatti, classifi-
carli e vedere come nascano gli uni dagli altri) alle scienze mo-
(1) Op. cit., pag. 51. (2) 0/7. cit., pag. 37 e 72.
(3) Op. cit., pag. 37. (4) Op. cit., pag. 52 e 127.
(5) Op. cit., pag. 110.
(6) Gentile, Op. cit., Cap. V. Il Bozzelli scrisse anche opere di este-
tica e un Esquisse politique, lodato dal Tracy. In Antologia, maggio
1826, pag. 38-50, c'è, intorno agli Essais, un articolo del Mamiani, che
così si chiude: « Il cav. Bozzelli è concittadino del Lallebasque (a cui
io mi compiaccio di rendere il debito onore malgrado l'asprezza delle
sue repliche a qualche osservazione già inserita nell'Antologia intorno
alla sua Introduzione alla filosofia naturale del pensiero) e sostiene
con lui il primato ch'ebbe finora negli studi filosofici la patria del Vico
e del Genovesi.
(7) In Antologia, febbr. 1831, pag. 3Q-50,
— 251 —
rali e politiche, e considerò come base di queste l' indagine del-
l'uomo in quanto dotato di volere, la quale ci mostra che il
principio delle nostre azioni è la ricerca del piacere e la fuga
del dolore (1).
Il dott. Giuseppe Germani {Dell' umana perfezione, Pavia, 1822)
derivò la perfezione umana dalla legge delle circostanze esterne.
G. Scaramuzza {Esame analitico della facoltà di sentire, Milano,
1823), analizzò la sensibilità, e con la semplice osservazione cercò
di spiegare i sogni. L'abate Jacopo Bonfadini, professore di filo-
sofia teoretica e pratica all'Università di Padova, archivista e biblio-
tecario dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Padova stessa,
restò, nel problema dell'origine delle idee, fedele all'empirismo,
sebbene ammirasse Kant (2). Giovanni Reguléas {Nuovo piano
d' istruzione ideologica sperimentale, Catania, 1833), pur confutando
il materialismo, cercò di mostrare che tutta la vita dell' anima si
riduce al sentire, e considerò la psicologia e l' ideologia come
parti integrali della fisiologia. Il P. Domenico Bruschelli, profes-
sore a Perugia {Praelectiones elementares logico-metaphysicae, Ma-
ceratae, Cortesi, 1831), derivò l'esistenza del mondo e di Dio
dall'osservazione degli oggetti che ci circondano (3). Il prof. Pietro
Buttura {La coscienza - Dissertazione, Zara, Battara, 1829; Logica,
Venezia, 1832-33; Ideologia, Zara, 1835) fondò il sapere filosofico
sulla coscienza riguardata non solo nel senso morale, ma anche
in quello psicologico (giacché secondo lui i fatti di coscienza sono
non meno evidenti di quelli conosciuti per mezzo dei sensi), e
distinse la sensazione dall' idea, considerando quella come la ma-
teria bruta e inerte proposta al lavorio dell' intelligenza (i sensisti,
egli dice, son come i bambini, che chiamano tutte le cose appa-
rentemente simili col medesimo nome). L' abate Giuseppe Bravi
{Teorica e pratica del probabile, Milano, 1827) nella sua dottrina
intorno al probabile, foggiata sull'Essa/ philosophique sur les prò-
babilités di Laplace, ridusse ogni certezza ed evidenza alla « di-
(1) Cita varie volte con ammirazione il Bozzelli, che in fondo egli
segue. Promette in fine un'opera ampia sull'argomento.
(2) Vedi l'appendice a questo Volume, intitolata La critica del cri-
ticismo.
(3) L'opera è divisa in tre parti: de homine cogitante; de homine
sermocinante; de homine agente.
-- 252 ~
retta cognizione della particolar maniera di essere degli oggetti
o sia dell'esperienza ». Epifanio Fagnani {Storia naturale della
potenza umana, Mortara, Capriolo, 1833) considerò come potenza
umana e principio essenziale della vita la volontà, che distinse
dalla sensibilità e dalla memoria e, s' intende, dalla materia. li
Bragazzi nei suoi Elementi di logica raccolti ad uso dei giovani
propose come unico metodo filosofico 1' osservazione dei feno-
meni spirituali e come criterio del vero la verificazione empirica.
Ubaldo Baldini (Cenni sopra un nuovo corso di filosofia elementare,
Macerata, 1833) (1) e Camillo Ramelli {Prospetto degli studi filoso-
fici nelle scuole comunali di Fabriano) facevano consistere il me-
todo d' insegnamento della filosofia nel dare il possesso di quel-
r unità sistematica che stabilisse il centro, la base e lo scopo
della scienza stessa, e che procedesse dall' esame del mondo
esterno a quello del mondo interno. Pietro Nessi {Schizzo intorno
i principi d'ogni filosofia, Milano, Società tipografica dei classici
italiani, 1827) (2) sostenne che le nostre operazioni psichiche non
sono un prodotto della sola sensibilità, giacché i sensi non ci
possono fornire che sensazioni e immagini, le quali son sempre
disparate e hanno bisogno, per essere ordinate e connesse, di una
forza di natura assai più sublime dei sensi: la riflessione; la quale
è fornita di certe disposizioni originarie, che, sviluppate, si rac-
colgono in formule scientifiche e si chiamano leggi, assiomi (3)
(1) Tali notizie sul Baldini si leggono nel Poli. Di lui io ho potuto
leggere le Riflessioni sul mondo e sull' uomo (Firenze, Stamperia del
Vocabolario e dei testi di lingua, 1859). Anche in quest' opera il Bal-
dini vuole una grande sintesi ideale che abbracci in uno sguardo tutto
il creato; ma per questa via, ritenendo che T uomo non sia in armonia
né con sé stesso, né co' suoi simili, né con l'universo, e non abbiala
capacità di ristabilir quell'armonia, sostiene la necessità, per l'uomo
stesso, della rivelazione, e lo riconnette intimamente all'ordine sopran-
naturale, dandogli un fine trascendente. Onde il B. s'allontana dagli
empiristi, scrivendo un'opera, più che filosofica, teologica.
(2) Nella Prefazione dice che il suo scritto é semplicemente « un
abbozzo tratteggiato da tale che, di poco entrato nel santuario delle
scienze, non ha per ancora compiuto il quarto lustro ■>. Il Poli dà in-
dicazioni del tutto inesatte sul contenuto di quest'opera.
(3) Schizzo intorno i principi d' ogni filosofia di P. Ne i (ediz.
cit.), pag. 35-36.
- 253 -
(le categorie kantiane sono per lui idee a cui giunge la riflessione
astraendo e generalizzando le qualità degli oggetti) (1). Tommaso
De Ocheda (1757-1831) di Tortona, bibliotecario della libreria
Crevenna ad Amsterdam e della Spenceriana in Inghilterra, da
giovane scrisse, secondo lo spirito della filosofia lockiana, un'opera
intitolata Della filosofia degli antichi, divisa in tre parti (prece-
dute da un' Introduzione), nelle quali esaminava i principali pro-
blemi della metafisica (la generazione del pensiero, la natura, il
destino dell'essere pensante, l'esistenza d'un Essere primo, causa
degli altri esseri etc), della morale e della fisica, avendo riguardo
alle varie soluzioni datene dagli antichi, e paragonando queste
con i tentativi moderni (2). L' abate Giuseppe Grones, professore
di matematica pura nel Liceo di Venezia, scrisse le Ricerche me-
tafisico-matematiche sulla lingua del calcolo (Venezia, 1810) e
un importante Saggio di filosofia teoretica (Venezia, Alvisopoli,
1828) (3). Agatino Longo, professore di fisica sperimentale alla
Università di Catania {Prima veduta dei principi dell'economia ci-
vile, Memorie due, Palermo, 1832; Caratteri, sede ed indole della
scienza, Napoli, 1835) volle applicare all'economia civile o fisio-
(1) Op. cit., pag. 151.
(2) Vedi Antologia, giugno 1831, pag. 147-156, e luglio 1831, pa-
gine 154-155. Il De Ocheda cominciò e quasi condusse a termine pure
un Saggio critico sulla filosofia di Cicerone. Egli però, sencondo
quanto si legge ntW Antologia, non avrebbe pubblicato né questo, né
l'altro lavoro.
(3) Questo Saggio è diviso in tre parti, che trattano rispettivamente
dell' uomo, del mondo, di Dio. Nella prima il Grones dimostra, contro
il Tracy, la semplicità dell'anima mediante la sua attività. La materia
è inerte, egli dice, e i' uomo non può esser materia, perchè vuole. Inoltre,
se i pensieri fossero una modificazione della materia, ogni raziocinio
sarebbe un' alterazione dell' individuo, e mancherebbe l' identità delia
coscienza. Pure contro il Tracy sostiene che non si può ridurre al sentire
né il volere (e qui cita il Soave e il Cousin), né il giudicare (perchè
le relazioni non si possono sentire). Tratta dell'istinto, dell'abitudine,
dei sogni, del sonnambulismo (e a tal riguardo cita ancora il Soave),
del delirio, della pazzia etc. Nella seconda parte mostra come, essendoci
ignote le essenze dei corpi, non resta che considerarli « in riguardo
alla loro qualità, alla loro maniera d'esistere, a' rapporti loro scam-
bievoli ». Dalla natura variabile delle qualità principali dei corpi (specie
254
logia dello Stato tutti i risultati della fisiologia organica (1).
L'abate Francesco Pizzolato {Introduzione allo studio della filo-
sofia dello spirito umano, Palermo, 1832) si fondò sull'osservazione
interna e su quella esterna, considerando la filosofia come scienza
di soli fenomeni. Il dott. Giambattista Kohen (1775-1845) di Trieste,
medico ebreo passato al cristianesimo e studioso di problemi fi-
losofici, nelle Ricerche sulV origine del sapere umano, esaminati i
fondamenti su cui Bacone aveva poggiata la filosofia, ne trasse
una classificazione delle scienze e delle arti liberali, derivandola
dal noto principio che ogni sapere umano emana dai sensi esterni,
dal sentimento e dal raziocinio, e nel Prospetto di scienza logica
diede una base sperimentale alla logica, che divise in elementare
e applicata, delle quali la prima si occupa delle idee, dei giudizi
e del sillogismo, l'altra addita le fonti e delle cognizioni e degli
errori (2). Giambattista Zandonella, professore all'Università di
Padova {Elogio di Francesco Bacone di Verulamio, 1835) difese la
dell'estensione, che varia col mutar delle figure, e della mobilità, che
si modifica secondo l'intensità e la direzione degl'impulsi) induce la
realtà della causa predeterminante della loro esistenza: Dio (pa^. 205-06).
Per dimostrare la quale si giova anche della prova del Locke (l'anima
non ha in se la ragion sufficiente della propria esistenza). Nella terza
parte parla di Dio, della sua unità, della Provvidenza etc. Sul Saggio
del Grones scrisse un articolo il Romagnosi (in Biblioteca Italiana, 1830,
Voi. LVJI, pag. 338; ristamp. in Opere filosofiche del ROM., Ediz. De
Giorgi, pag. 617-630) criticandolo, ma giudicandolo anche « assai pre-
gevole >.
(1) 11 Poli (Op. cit., Voi. IV, pag. 806) annuncia urC Antropologia
0 scienza delV uomo pensante, sociale, morale e fisico del Longo. Io
invece ho letto di questo autore gli Elementi di filosofia naturale o
considerazioni sulle verità primitive e fondamentali della chimica, del-
l' ottica e della meccanica e intorno ai princìpi apodittici della ma-
tematica (Napoli, Giachetti, 1841). È un libro, più che filosofico, scien-
tifico; ma nel Discorso prelim. il L. esprime le sue idee sulle nozioni
umane. Oltre le sensazioni, ammette le conoscenze delle relazioni (pa-
gina XI), le quali seno per lui oggettive; e, oltre le verità secondarie,
ammette delle verità primitive, che sono o empiriche o razionali (pag. XX).
(2) Biografia del Tipaldo, Voi. X, pag. 359-370. Gli scritti sopra ri-
cordati appartengono agli Opuscoli di vario argomento (Venezia, 1833)
del Kohen, citati dal Poli.
— 255 —
logica induttiva, le cui basi erano state gettate da Bacone. Luigi
Feletti {Intorno ad una nuova sintesi delle scienze, ossia della
scienza dell'umana perfettibilità - Discorso letto all'Accademia del-
ristituto delle scienze di Bologna il 12 marzo 1835) (1) considerò
le scienze in quanto concorrono al perfezionamento umano: se-
condo lui r uomo perscruta la natura e le sue leggi, in cui si ri-
vela l'onnipotenza del Creatore, non già perchè si debba atter-
rire nella considerazione d'uno spettacolo così sovrumano, ma
perchè veda in ogni atomo, in ogni aura, in ogni stelo, le leggi
dell'unità e le ragioni dell'analogia, le confronti con la propria
vita, e ne inferisca la nobiltà della sua destinazione; così la scienza,
svelandogli i rapporti intercedenti fra lui e le cose create, gl'in-
segna a dedurne la possibilità di un proprio miglioramento e l'ana-
logia dello sviluppo di lui con l'evoluzione progressiva del mondo
esteriore (2). Anche Alfonso Testa di Borgonovo (1784-1860), seb-
bene più tardi sostenne il criticismo kantiano, fu da prima seguace
dell'indirizzo ideologico. Infatti r\e\V Introduzione alla filosofia del-
l'affetto (Piacenza, Del Maino, 1829) sostenne che legge naturale
e immutabile del nostro essere è la ricerca del piacere e l'aborri-
mento del dolore; dalla quale derivano l'amor di sé (amor proprio)
e la volontà costante di non soffrire; onde tutte le volte che ve-
niamo a trovarci in uno stato di pena, sentiamo il desiderio di
un cambiamento di stato, e cerchiamo di procurarcelo con tutti
i mezzi che sono a nostra disposizione; se il desiderio è molto
forte, abbiamo la passione (3). Poi, nell'opera Della filosofia del-
l'affetto (Piacenza, Del Maino, 1830-1834), presentò un'analisi par-
ticolareggiata delle passioni umane, considerandole tutte come
forme varie d'amor proprio (4).
(1) In Ricoglitore, Anno III, Parte I, Milano, Stelfa, 1836, pag. 28-55.
(2) Per tutti questi filosofi cfr. Poli, Op. cit, Voi. IV, § 426.
(3) Vedi Introduzione alla filosofia dell'affetto (Ediz. cit.), spec. g VI,
pag. 77-91. A pag. 93 di quest'opera professa a Locke, a Condillac e
a Destutt de Tracy « grande venerazione » e « debito grandissimo >.
(4) Ma, come s'è accennato, il Testa ben presto si staccò dagl'ideo-
logi, e prima in Della filosofia della mente (Piacenza, Del Maino, 1836)
s' accostò al Leibniz, respingendo il sensismo, poi in Della critica della
ragion pura di Kant esaminata e discussa da A. T. (Lugano, 1843)
illustrò ed accettò i principi del criticismo, in base ai quali combattè
- 256 -
Notevoli son pure le opere d'estetica pubblicate da alcuni
ideologi. Oltre quelle, di Melchiorre Delfico, del Corniani e del
Cicognara già citate, ricorderemo il Saggio d'estetica (Venezia,
Alvisopoli, 1822) e i Principi di estetica (Venezia, Alvisopoli,
1827-28) di G. Batt. Talia, che respinse l' idea innata del bello,
e distinse il bello naturale da quello dell'arte, riconoscendo però
che il secondo ha il suo primitivo esempio nell'altro; cosicché
ripose il bello ideale (oggetto delle arti) nello scegliere fra tutti
i modi naturali di mostrarsi delle cose uno che sia come l'ot-
timo per il nostro intento (in altri termini, la bellezza artificiale
consiste nel render fisso quel punto sommo a cui può salire la
bellezza naturale, il quale, essendo per sé come un lume passeg-
gero 0 come un lampo di perfezione, é, per così dire, imprigio-
nato e fissato dall'artista). Girolamo Venanzio {Della calofilia,
Libri tre, Padova, Dalla Minerva, 1830) ricorse, per spiegare il
bello, al sentimento, chiamandolo non una verità, ma un senti-
mento, e ammise come principio fondamentale estetico che « l'uomo
ama la vita; la vita risulta dal pieno esercizio delle facoltà che al
corpo e all'anima furono concedute, e l'amor della vita non con-
siste in altro che nell'intima soddisfazione che proviene da tale
esercizio »; onde secondo lui il bello naturale consiste nell'atti-
tudine che hanno gli oggetti esterni di porre in esercizio conve-
niente le facoltà sensitive dell'uomo e di destar quindi l'affetto;
giacché ogni esercizio siffatto è un moto del cuore (affetto); il
bello morale poi consiste nei sentimenti e nelle azioni dell'uomo
procedenti dall'impressione della bellezza e costituenti l'esercizio
moderato delle facoltà sensitive; e il bello artificiale sorge quando
in un individuo la bellezza produce le sue sensazioni, e queste si
trasformano in immagini, e per effetto delle sensazioni e delle im-
magini sorgono nell'anima impulsi creatori, che determinano la
volontà. Ermes Visconti, che lo Stendhal (1) colloca, accanto al
il Rosmini e il Gioberti (// Nuovo Saggio dell' orìgine delle idee del-
l'abbate Antonio Rosmini esaminato dall' ab. A. T., Piacenza, Del Maino,
1837; Considerazioni sopra la Introduzione allafilosofia di V. Gioberti,
Piacenza, 1845; Del male dello scetticismo trascendentale e de' suoi
rimedi, Piacenza, Del Maino, 1848). Cfr. V. Molinari, La filosofia e la
vita di A. Testa, Parma, Grazioli, 1864.
(1) Rome, Naples et Florence (Ediz. Calmann-Lévy), pag. 47.
— 257 —
Gioia, tra i maggiori filosofi d'Italia (scrisse: Saggi f ìlosoficì, Mihno,
1829; Saggi intorno ad alcuni quesiti concernenti il Bello, Milano,
1833; Riflessioni ideologiche intorno al linguaggio grammaticale
d^ popoli colti) (1), contrariamente agl'ideologi ricordati sopra,
sostenne l' impossibilità di ridurre i caratteri costitutivi d' ogni
bello ad una sola e primaria qualità e quindi l'impossibilità di
ridurre ad un solo principio ogni specie di bellezza (nel che si
accostava allo scozzese Tommaso Brown); ritenne inoltre che il
fine estetico è da subordinare allo scopo eminente di tutti gli
studi: il perfezionamento dell'umanità (2). Giuseppe Longhi (1766-
1831), valente incisore, disegnatore e letterato, nella sua Calco-
grafia (Milano, Stamperia reale, 1830) faceva consistere il bello
dell'arte in un punto medio fra estremi opposti (per es. il naso
perfetto è nel mezzo d'una serie di nasi i cui estremi sono viziosi
per eccesso o per difetto; del pari è bella l'età giovanile, che è
nel mezzo tra la fanciullezza, la quale rappresenta il difetto, e la
vecchiaia, la quale rappresenta l'eccesso) (3). Il Padre Luigi Pa-
squali, professore all'Università di Padova, scrisse le Istituzioni
di estetica (Padova, Tipografia del Seminario, 1827-28), nelle quali
definì il bello come ciò che ci reca piacere mediante la vista o
l'udito e come brutto l'opposto, riconoscendo però che tale de-
finizione non comprende la bellezza oggettiva (il bello in sé), che
ci sfugge, perchè noi per la limitatezza del nostro intelletto non
possiamo vedere la ragione d'ogni cosa creata. Il dott. Domenico
Vaccolini nelle Osservazioni sul bello secondo le opinioni di alcuni
(1) Nei Saggi filosofici il Visconti sostenne che tutte le sensazioni
fisiche ci presentano immediatamente qualcosa di diverso dall'ente che
pensa e dalle modificazioni sue. Su questi Saggi il Romagnosi scrisse
un articolo nella Biblioteca italiana (anno 1829, Voi. LVI, pag. 184
e seg.) esaminando specialmente le idee del Visconti sullo spazio e sul
tempo.
(2) Cfr. Croce, Estetica, 4» Ediz., Bari, Laterza, 1912, pag. 416-17. Il
Croce {Op. cit., pag. 413) ricorda anche Delle leggi del bello (Milano,
1828) di L. Malaspina, che definiva il bello come « il piacere nascente
da una rappresentazione >.
(3) Vedi Antologia, gennaio 1831, pag. 169-170, e maggio 1831,
pag. 141 (articolo del Cicognara). L'opera del Longhi contiene anche
una parte storica sullo sviluppo della calcografia.
17
— 258 —
moderni (1), esaminando le teorie estetiche di alcuni pensatori,
vide la difficoltà di dare una definizione generale del bello, e
asserì che la natura di questo ci sarà forse ignota finché ci ag-
giriamo nel breve cerchio della vita mortale; quantunque poi, in
Dell'ordine, ossia del secreto della bellezza (Discorso letto la sera
del 12 febbraio 1836 nella solenne adunanza dell'Accademia de-
gl' Industriosi tenutasi nel palazzo comunale di Imola) (2), mo-
strasse di propendere verso 1' opinione del Gerdil, secondo cui
è bello ciò che piace, e il piacere consiste nella percezione del-
l'ordine (3). È noto che anche il Giordani (1774-1848) ricorreva
ai principi del sensismo e dell' ideologia per spiegare gli effetti
delle belle arti sullo spirito umano.
Infine, per compiere il quadro del movimento filosofico da noi
studiato, dobbiamo parlare di due spiriti fratelli: il Foscolo e il
Leopardi; i quali furono essenzialmente poeti, ma sentirono an-
ch'essi il fascino profondo dei problemi filosofici del tempo, e tor-
mentarono la loro mente nella meditazione degli enigmi dell'uni-
verso, e a traverso il loro dolore compresero il grido d'angoscia
alzantesi da tutte le parti della Terra, ed espressero in versi e in
prosa questo dolore e quel tormento.
Ugo Foscolo accettò e sviluppò secondo la sua indole, con
una tinta di pessimismo manifesta specialmente nelle Ultime let-
tere di Jacopo Ortis, i principi degl' ideologi (4). Per lui il Locke
è il più grande, se non 1' unico, dei filosofi; il quale « arricchì
(1) Sono vari articoli pubblicati nel Giornale Arcadico dal 1831 in
poi (Tomo L e seg.).
(2) Giornale Arcadico, Tomo LXVI, pag. 322-332.
(3) Cfr. Poli, Op. cit., Voi. IV, §§ A^bAAl. Di estetica toccarono
pure il Costa {Del modo etc. Gap. XLl e seg.) e in genere tutti gì' i-
deologi che pubblicarono trattati compiuti d' ideologia (per es. lo Zelli,
il Bini etc). 11 Poli (Op. cit., Voi. IV, § 450 ricorda fra gli empiristi anche
alcuni pensatori che (come il sacerdote Ferrante Aporti,' si occuparono
di pedagogia e in particolare (come Ottavio Giov. Assarotti, l'ab. Ba-
gutti, Antonio Moscatelli, il Marcucci) dell' arte d' istruire i sordomuti,
o (come Salvatore De Renzi) dell'indole dei ciechi nati.
(4) Cfr. E. DoNADONi, Ugo F.oscolo pensatore, critico, poeta, Pa-
lermo, Sandron; e Le Opere di U. Foscolo commentate da E. Donadoni,
Napoli, Perrella, spec. pag. 95-97.
— 259 —
il suo secolo del libro più eloquente e piti utile fra quanti mai
illuminarono il mondo ». « La metafisica platonica e cartesiana.... »,
egli scrive, « e il gergo delle scienze scolastiche e delle cattedre
superstiziose dei claustrali si dileguarono, appena pubblicato quel
libro; e chi volesse esaminare i sistemi dell' Elvezio, di Rousseau,
di Bonnet e d' altri d' ogni nazione, fino al Kant, che tornò al-
l' idealismo, si accorgerebbe che, se gli errori sono di questi
autori, il fondo della verità dei loro libri è tutto desunto dalle
teorie del libro di Locke, Le prove di questo libro erano sì evi-
denti, e tale la forza dell'eloquenza con cui vennero esposte, che
per i primi dieci anni niuno osò turbare né la pace né la fama di
quell'autore » (1). Base della vita psichica é anche per lui la sen-
sazione; le idee sono estratti delle sensazioni; onde chi non avesse
queste, non avrebbe quelle, e chi ha più sensazioni, ha più idee (2).
Oltre la sensibilità ammette però altri poteri: la memoria, la fan-
tasia e il desiderio, che sono equilibrati e diretti nei loro atti dalla
ragione (3). Da questi principi il Foscolo ricava una concezione
tutta meccanica della vita cosmica, sociale e individuale. Primi
elementi del tutto ritiene la forza cieca, e, manifestazione di questa,
il movimento, da cui gli esseri son perpetuamente travolti e tra-
sformati (« involve — tutte cose 1' obblio nella sua notte; — e
una forza operosa le affatica — di moto in moto »). La forza se-
condo lui domina anche la vita sociale e politica, è anzi l'essenza
stessa dello Stato; onde egli accetta e sostiene la teoria del-
l' Hobbes, il quale oppone al Rousseau (4). La guerra è legge della
vita, e la troviamo così all' inizio come in tutto il corso della
storia e della civiltà; la giustizia è il diritto del più forte (individuo
(1) Foscolo, Opere edite e postume, Ediz. Le Monnier, Firenze, 1850,
Voi. II, pag. 135-136. Cfr. Voi. Il, pag. 367.
(2) Opere, Voi. II, pag. 65.
(3) Opere, Voi. II pag. 64.
(4) Opere, Voi. I, pag. 486, e Voi. IV, pag. 15. Tuttavia il Foscolo
risentì l'efficacia del Rousseau specie nell'Orto, in cui manifestò odio
alla società, entusiasmo per la natura e per la vita campestre, simpatia
per i poveri, purezza nell'amore, disprezzo per la fredda ragione. Pare
eh' egli avesse tradotto il Contrai Social (vedi Serban, Leopardi et la
France, Paris, Champion, 1913, pag. 209, nota 1).
— 260 —
o Stato) (1). Ma perchè la guerra è legge della vita? Perchè gl'in-
dividui e i popoli hanno l' istinto della propria conservazione, e
seguono sempre il proprio interesse, che cercano di far trionfare
ad ogni costo; onde le virtù morali son nomi vuoti (2); tutto è
egoismo.
Ma questi brutali ed aridi principi teorici sono spesso corretti
e contradetti in lui dal sentimento vivo e dalle passioni ruggenti
nel profondo del suo essere; che egli nella vita spirituale dà il
primato al sentimento (che talvolta chiama istinto), non alla ra-
gione. Il sentimento genera le illusioni nella fantasia (3), giacché
l'uomo è in uno stato di perpetuo desiderio, e, siccome i suoi desi-
deri non sono appagati dalla fredda realtà, egli ripone la sua felicità
nella speranza, si crea le illusioni e i sogni (per es. principi re-
ligiosi, morali, politici) (4): i quali son quindi radicati nel profondo
dell' anima, sono cioè una necessità assoluta. < Gli uomini pos-
sono cangiare, ma non perdere le illusioni » (5). Le illusioni son
doni che la saggia Natura offre alla vita dell'uomo « per conso-
larlo della brevità, della inquietudine e della fatale inimicizia re-
(1) Opere, Voi. II, pag. 186. Cfr. Voi. XI, pag. 92. Siccome la forza
domina tutti gli elementi cosmici, l'uomo diventa un trastullo di questa
potenza irresistibile; onde il fatalismo del Foscolo. La libertà non esiste
per lui; perciò non ammette progresso dovuto all' iniziativa dell' uomo;
critica quindi aspramente i sostenitori della teoria della perfettibilità
(tra i quali colloca, oltre il Condorcet, anche Kant) scrivendo: <^ Locke
ha detto: figliuoli miei, esaminate i fatti e troverete i principii, o, se
non altro, dalla serie costante e perpetua di molti fatti, imparerete come
dovrete condurvi. E questi Tedeschi dicono: dai principii derivano ne-
cessariamente i fatti.... e i principii sono che l' uomo deve un giorno
o l'altro diventare perfetto {Opere, Voi. VII, pag. 59; cfr. Voi. HI,
pag. 120, e Voi. IV, pag. 93 e 235).
(2) Opere, Voi. XII, pag. 137.
(3) ' Ciò che diciamo potenza d' immaginare sta più che altro nel
concorso del forte sentire e delle rimembranze {Opere, Voi. X, pag. 40).
(4) Opere, Voi. V, pag. 100. Il Foscolo chiama illusione anche la
credenza nella vita dell'oltretomba {Sepolcri, v, 24; cfr. v. 130).
(5) Opere, Voi. IV, pag. 31. Cfr. Rosmini, Opuscoli filosofici, Voi. II,
pag. 1-27, Saggio sulla speranza - Contro alcune idee di U. Foscolo.
— 261 —
ciproca della nostra specie » (1); perciò le scienze, che rompono
il velo delle illusioni, son deplorevoli (2).
Il sentimento, dominando segretamente il corso della vita, dà
origine anche a due virtù benefiche: la compassione e il pudore,
senza di cui la società non potrebbe né esistere né durare, « Due
forze », scrive il Foscolo, « compensano tutte le tendenze guer-
riere ed usurpatrici dell'uomo: la compassione e il pudore» (3).
Rispetto alla metafisica, anche il Foscolo assume, come tutti
gì' ideologi, un atteggiamento agnostico. Così ripete più volte
che è peggio che inutile cercare le ragioni del bello, che questo
si sente, non si dimostra (4); è convinto che l'indagare l'origine
delle facoltà umane e delle arti intellettuali non sia le più volte
che uno dei mille tentativi più ambiziosi che utili, nei quali i
mortali spendono 1' ore e l' ingegno (5); e scrive: « Io non so né
perchè venni al mondo né come, né cosa sia il mondo, né cosa
io stesso mi sia. E s' io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso
d'una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio
corpo, i miei sensi, l'anima mia; e questa stessa parte di me che
pensa ciò eh' io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra sé
stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con
la mente questi immensi spazi dell'universo che mi circondano.
Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio in-
comprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui
che altrove, o perché questo breve tempo della mia esistenza sia
assegnato piuttosto a questo momento dell' eternità che a tutti
quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le
parti altro che infinità, le quali mi assorbono come un atomo » (6).
(1) Opere, Voi. II, pag. 6. Come il Leopardi, egli rimpiange l'età
mitologica.
(2) Opere, Voi. I, pag. 265, e Voi. X, pag. 391. Cfr. Voi. Xli, pag. 60.
Sarà forse superfluo eh' io osservi che il Foscolo si avvicina qui di nuovo
a Rousseau, e preannuncia il Leopardi. Può darsi che il Leopardi abbia
realmente risentita un' efficacia dalla lettura di alcuni scritti del Foscolo
(cfr. Serban, Op. cit., 1. e).
(3) Opere, Voi. II, pag. 198. Cfr. Voi. XII, pag. 99.
(4) Tuttavia propende a considerare il bello artistico come un' idea-
lizzazione della natura.
(5) Opere, Voi. IV, pag. 114 e 268. Cfr. Voi. VI, pag. 20.
(6) Ortis, dopo la lettera del 20 marzo 1799.
— 262 —
Così, rinunciando a una spiegazione metafisica del mondo, e cer-
cando d' alleviare i dolori dell' esistenza (« le sciagure umane »),
il suo spirito profondamente agitato si calma in un senso di ras-
segnazione religiosa e nella contemplazione serena della bellezza,
perdendosi tra i veli lievissimi delle Grazie.
Più tormentata e più tragica è invece la vita interiore del
Leopardi.
CAPITOLO Vili. — Leopardi
IDEOLOGIA E PESSIMISMO. — La scuola degl' ideologi ci
ha dato uno dei più grandi lirici del mondo: il Leopardi.
Si considera di solito il Leopardi come un pensatore solitario,
formatosi sui classici greci e latini. Niente di più falso. Se si può
chiamare classico il Leopardi per la forma linguistica, è ben
certo però che per il contenuto egli non ha nulla in comune
con quei classicheggianti che, dimenticando l'età e il luogo in
cui vivono, e l' atmosfera intellettuale che respirano, vogliono,
d' un salto, trasferirsi in paesi e tempi trapassati, ed esprimere
sentimenti che nessuno più prova. Si noti anzi che là dove il
Leopardi espone concetti classici (nelle prime poesie per es.) in-
troduce a parlare i personaggi antichi stessi (Simonide, Bruto,
Saffo); egli non si dà mai, al pari di poeti greci e romani, a in-
vocare Venere o Apollo, né a parlare con le Ninfe o a inseguire
le Baccanti per possederle, come se il mondo d' un tratto fosse
cambiato al tocco d'una bacchetta magica, e le Driadi e i Silvani
fossero tornati ad abbellire il mondo. No; in lui nulla di tutto
questo. Egli rimpiange, è vero, il tempo in cui la mitologia greca
era in fiore; ma riconosce che quel tempo è ormai morto (1).
(1) Infatti, riconoscendo che la mitologica religione pagana, « man-
cando affatto dalla parte della persuasione >, non ha oramai piià effetto
alcuno, egli fra il 1821 e il '22 pensava di appigliarsi alla cristiana, e
abbozzava i suoi Inni cristiani. Vedi Carducci, Degli spiriti e delle
forme nella poesia di G. Leopardi, Bologna, Zanichelli, 1898, pag. 89
e seg.; Leopardi, Zibaldone (con questo titolo piuttosto che con quello
di Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura cito, per evitare
— 263 —
Perciò nei versi suoi non si sente nessuna stonatura. La robusta
quercia del suo pensiero profonda le radici nel suolo della terra
e dell'età sua; egli si formò sui libri allora più in voga in Italia,
i quali erano le opere degl' ideologi. Per gustare e penetrare il
significato intimo delle poesie e prose del Leopardi, è quindi ne-
cessario ben conoscere la' cultura francese e italiana di quel
tempo (1).
Infatti, al pari degl' ideologi, il Leopardi pone 1' esperienza a
base del conoscere (2); afferma che le nostre idee e facoltà « de-
rivano in tutto e per tutto dalle sensazioni » (3); respinge quindi
le idee innate (4); dà importanza all'efficacia che il clima esercita
sul linguaggio e sul carattere così degl' individui come dei po-
poli (5); accosta il suo sistema a quello del Locke (6). Nelle sue
affermazioni sull' ideologia ricorda specialmente il De Tracy: con-
sidera infatti r ideologia come la dottrina che « comprende i prin-
cipi di tutte le scienze e cognizioni e segnatamente della scienza
della lingua » (7): dice che « la metafisica senza l' ideologia è
quasi appunto quello ch'era l'astronomia prima che fosse appli-
cata alla matematica; scienza incertissima, frivola, inesatta, volga-
rissima o piena di sogni e di congetture, senz' appoggio »; che
« non molto minor certezza ed esattezza riceve la metafisica dal-
l' ideologia che 1' astronomia dalla matematica, dal calcolo » (8);
aggiunge che « la somma della tutta nuova scienza ideologica »
è il principio che tutto il progresso delle cognizioni umane con-
siste nel vedere che un'idea ne contiene un'altra e questa un'altra
ogni confusione con i Pensieri, che di solito si stampano con le Ope-
rette morali, V opera postuma che il Leopardi stesso chiamò Zibaldone
di pensieri), Firenze, Le Monnier, 1898-lQOO, Voi. I, pag. 367-68.
(1) Si noti la sua tendenza a esprimersi per aforismi, simile a quella
dei Francesi (Pascal, La Rochefoucauld, Chamfort, Vauvenargues etc).
11 IC dei Pensieri non è che lo sviluppo d' una massima del La Ro-
chefoucauld.
(2) Zibaldone, Voi. 1, pag. 457.
(3) Op. cit., Voi. Ili, pag. 99 e 268; Voi. VII, pag. 27.
(4) Op. cit., Voi. I, pag. 311, 457 e 472.
(5) Op. cit., Voi. V, pag. 270-274, 332-334; Voi. VI, pag. 40-44, 269-27Ò,
407-409. (6) Op. cit., Voi. HI, pag. 303.
(7) Op. cit.. Voi. Ili, pag. 262. (8) Op. cit.. Voi. IV, pag. 176.
— 264 —
ancora etc. (1); e chiama i fondamenti dell'ideologia « profondis-
sime e quasi ultime verità, che, ignorate per sessanta secoli, hanno
poi mutato faccia alla metafisica e quasi al sapere umano » (2).
Pone il Cabanis e il De Tracy fra i più grandi filosofi moderni (3).
Gli son noti anche gì' ideologi italiani: cita, approvandolo, il
Trattato dello Stile del Beccaria (4); ha letto la Filosofia della
statistica del Gioia (5); cita spesso il Soave (6), chiama verissime
le osservazioni filologiche di lui (7), gli s'accosta nel giudizio
sulla lingua universale (8); conosce anche la Scelta d'opuscoli in-
teressanti pubblicati a Milano con la cooperazione del Soave (9).
Notevolissimo poi è il gusto eh' egli sente per le ricerche psico-
logiche; e a questo proposito son da ricordare le sue osservazioni
(ch'egli chiama teoria) sul sentimento del grazioso (10). Infine,
quando alle dottrine ideologiche vide sottentrare in Italia opinioni
nuove, che risentivano 1' efficacia delle scuole teologiche e spiri-
tualistiche francesi (De Maistre, De Ronald, Chateaubriand, Royer-
(1) Op. cit., Voi. Ili, pag. 22 e 104. Vedi nel I Voi. dì questa mia
opera il Gap. V sul Tracy spec. pag. 222-223 e 242-243.
(2) Op. cit., Voi. Ili, pag. 104-105.
(3) Op. cit.. Voi. II, pag. 287. (4.i Op. cit., Voi. I, pag. 221.
(5) Op. cit., Voi. VII, pag. 118-119.
(6) Op. cit.. Voi. II, pag. 197, 351, 370, 371.
(7) Op. cit., Voi. II, pag. 369.
(S) Op. cit., Voi. V, pag. 275-280.
(9) Op. cit.. Voi. II, pag. 197, 379, 382, 394, 405; Voi. Ili, pag. 106.
(10) Criticando V Essai sur le Goàt del Montesquieu, riconosce che
è difficilissimo definire la nozione della grazia, e ci rinunzia; cerca però
di descriverne alcune note e 1' effetto che d' ordinario essa produce, il
quale è secondo lui quello di scuotere, solleticare e pungere l'anima
(< è piuttosto uno stuzzica-appetito che una soddisfazione di esso ).
Vedi Op. cit.. Voi. I, pag. 301-306, 309, 314-315, 343, 347, 356-357; Voi. IV,
pag. 77; Voi. VI, pag. 24-26. Finisce però con 1' affermare che fonte
principale della grazia è ;■ lo straordinario nel bello, e lo straordinario
che non distrugge libello , in altri termini ciò eh' è fuor dell'ordine,
una certa sconvenienza o non perfetta convenienza {Op. cit., Voi. I,
pag. 479; 391; Voi. Ili, pag. 87, 90-91, 96-97, 116, 130, 213, 228, 242, 361,
420, 475, 479; Voi. IV, pag. 24, 250, 266; Voi. V, pag. 21-23; Voi. VI,
pag. 326, 332j. Il bello è convenienza, la grazia un contrasto, cioè una
certa sconvenienza o almeno un certo straordinario nella convenienza
4
— 265 —
Collard, Cousin etc.)', scrisse satire amare contro i nuovi cre-
denti (1).
Si potrebbe anzi dire che il Leopardi trasse le ultime conse-
guenze delle dottrine ideologiche. Esagerando il principio del
Condillac che tutte le facoltà non sono che trasformazioni di una
sola fondamentale, identifica addirittura non pure il giudicare col
sentire, ma anche la memoria con l' intelletto, l' immaginazione
con la riflessione, con 1' intelletto etc. (2). Inoltre, egli dice, se
tutto deriva dall'esperienza, niente è assoluto (3); giacché l'espe-
rienza non ci dice se non che qualcosa è o è così, non che de-
{Op. cit., Voi. Ili, pag. 210). La grazia insomma si potrebbe definire
come il brutto nel bello. Il brutto nel brutto e il bello puro sono me-
desimamente alieni dalla grazia {Op. cit., Voi. VU, pag. 350). Nel Voi. V,
pag. 227-228, distingue però due specie di grazia. L' una, più fina, è
quasi un soave e delicatissimo odore di gelsomino o di rosa, che non
ha nulla d' acuto e di mordente, o quasi uno spiro di vento che reca
una fragranza improvvisa, la quale sparisce appena sentita, e lascia un
desiderio vivo, ma vano di tornarla a sentire, e lungamente, e di sa-
ziarsene. Questa è indefinibile, consiste in un non so che d' inesplicabile.
L'altra risulta da ciò che non è ordinario, da un difetto, ed è quella
già spiegata.
(1) Vedi la poesia / nuovi credenti e la Palinodia, versi 208-226.
(2) Zib., Voi. Ili, pag. 169; Voi. IV, pag. 69.
Non mi fermo su questa parte, che mi sembra la meno solida e
importante dello Zibaldone. Invece il Cantella (O. Leopardi filosofo.
Parte I, Caltanisetta, 1906), illustrando tutti questi punti, presenta il
Leopardi come un precursore dell' Ardigò e di molti altri positivisti
moderni, quindi come un psicologo originale, ben differente dai sensisti
francesi. In chi conosce bene le dottrine degl'ideologi quest'afferma-
zione desta il sorriso. Effettivamente esistono affinità tra le accennate
idee del Leopardi e quelle dell' Ardigò e di altri positivisti; ma così le
une come le altre non sono che esagerazioni del sensismo, rappresen-
tano quindi non una dottrina originale, ma una degenerazione di vecchie
teorie. Infatti nessuno più oggi può certo parlare di facoltà nel senso
scolastico, giacché tutti gli atti psichici emanano da un unico centro.
Ma voler negare che quest' unico centro eserciti funzioni diverse e as-
suma atteggiamenti irriducibili è voler fare un pasticcio e negare l'evi-
denza dei fatti.
- (3) Zib., Voi. III, pag. 100 e 267-268.
— 266 —
v'essere o dev'essere cosi; ma ciò che è cosi, può essere anche di-
versamente (non c'è nessuna contradizione a concepire che le leggi
della natura siano mutate, che per es. un corpo abbandonato a
sé stesso non cada verso il centro della terra); quindi nessun
principio è assoluto; tutto è relativo e variabile secondo i tempi
e i luoghi: il bello, il bene, il vero stesso (1).
Sono dunque innegabili i rapporti fra il pensiero del Leopardi
e quello degl' ideologi. Ma la genesi del pessimismo stesso del
grande poeta non si capisce se non si considera 1' opera di lui
rispetto alla cultura francese e alle dottrine degl' ideologi in ispecie.
Non so anzi comprendere come mai alcuni siano andati a fru-
gare, in traccia delle fonti del pessimismo leopardiano, fra le opere
di Menandro, di Filemone, di Plutarco, di Plinio, di Giovenale,
del Gelli etc, trovandovi solo frasi spezzate e cenci vecchi (2), e
non abbiano invece cercato i motivi veri e profondi dell' atteg-
giamento spirituale del sommo scrittore (3). Sono, a questo pro-
(1) Per il bello vedi Op. cit., Voi. HI, pag. 6, 78, 85-86, 140-144,
219-220, 259-260, 430, 446; Voi. V, pag. 102-108, 176, 181, 245-262; Voi. VI,
pag. 355, 359, 395. Per il bene, Voi. Ili, pag. 174, 272, 282; Voi. IV,
pag. 17, 120; Voi. V, pag. 334. Cfr. Voi. 1, pag. 478. Per il vero. Voi. I,
pag. 267; Voi. II, pag. 119; Voi. Ili, pag. 100.
(2) Vedi per es. M. LoSACCO, Contributo alla storia del pessimismo
leopardiano e delle sue fonti, Trani, Vecchi, 1896.
(3) In vero i rapporti fra il pensiero del Leopardi e la filosofia fran-
cese in genere sono stati intravisti da parecchi critici (F. Colagrosso,
Studi sul Tasso e sul Leopardi, Ferii, Gherardi, 1883, pag. 275; Zanella,
Storia della leti, italiana etc, Vallardi, Voi. VI, pag. 243-244; Zinoa-
RELLI, Operette morali di G. L., Napoli, Pierro, 1895, pag. XL e seg.;
Carducci, Op. cit., pag. 31-32; I. Della Giovanna, Le prose morali
di G. L., Firenze, Sansoni, 1903, Pref., pag. VII-VIII). Ma questi, non
avendo determinato bene i caratteri dell' ideologia francese, non hanno
né cercato né trovato i motivi veri del passaggio dalla vita gaia e lu-
minosa del settecento al pessimismo dell'ottocento. Solo il Barzellotti
e il Carducci hanno accennato al mal del secolo . Anche il Serban
{Leopardi et la France, Paris, Champion, 1913), che di recente s'è oc-
cupato dell'argomento, ha spesso stabilito falsi rapporti fra il Leopardi
e i pensatori francesi, ha invece trascurato le relazioni con gì' ideologi,
e ha smembrato in miseri frantumi, l' intuizione leopardiana del mondo
e della vita. Vedi la mia recensione in Pagine critiche, 1920, Fase. 2-3.
— 267 —
posilo, da ricordare specialmente due caratteri della scuola degli
ideologi: 1' agnosticismo e 1' edonismo (o 1' utilitarismo).
L' agnosticismo, risultato della scienza approfondita, doveva
senza dubbio suscitare negli animi una concezione fosca della
realtà. Infatti il pensiero di non poter risolvere i problemi più
tormentosi dello spirito umano, e di doversi limitare a conoscere
la superficie e apparenza degli esseri, dà alla mente uno spasimo
e una desolazione accasciante. L' uomo, il quale si credeva il re
dell'universo, s'accorge ora di non sapere neppure che cosa egli
sia, donde venga e dove vada, che cosa siano gli esseri che lo
circondano, dove tenda tutta l' evoluzione cosmica e la vita di
tante creature che appaiono e muoiono nella fuga dei secoli.
L' infinito gli si presenta come un abisso di mistero e d' ombra,
dove la facella della sua ragione va errando spaurita. Dinanzi a
questo spettacolo egli, con un sospiro malinconico, china il capo
e ascolta il lamento del suo cuore.
Ma anche l'edonismo doveva contribuire a suscitare idee pes-
simistiche. Gli scritti dei Francesi e Italiani del secolo XVIII son
tutti frementi del desiderio di felicità. La cultura di quel tempo
dà r idea di una corsa, talvolta sfrenata, al piacere. Ora, è noto
che non e' è peggior metodo per ottenere la felicità che il ricer-
carla di proposito e senza posa. Tutti i « viaggi alla ricerca della
felicità » son destinati a fallire. È vecchia storia. « Verso levante
sciolsero le vele — felicità sperando i naviganti. — La luminosa
terra, che d' incanti — inebria tutti, per lor fu crudele. — Vano
viaggio, inutile desio ! — Felicità non fu trovata mai, — e i na-
viganti ricoprì l'oblio » (1). Questa stessa verità il Mill ai giorni
nostri ha espressa in un paradosso rimasto famoso: « Se cercate
di esser felici, sarete infelici; unica via alla felicità è proporsi un
fine diverso dalla felicità ». Ebbene, questo paradosso era stato
già enunciato dal Leopardi: « In qualunque cosa tu non cerchi
altro che piacere, tu non lo trovi mai, tu non provi altro che noia,
e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque
azione, ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il pia-
cere stesso. Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare)
(1) É una melodia polacca dello Chopin. Parole di un poeta sco-
nosciuto.
— 268 —
nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello
del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi
se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova di-
letto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual
certamente egli non legge per dilettarsi.... Il piacere (si può dire
con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà
dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo » (1). Se
dunque gli uomini desiderano la felicità, conclude il Leopardi,
non possono esser felici; meno la desiderano, meno sono infelici,
anzi sarebbero felici, se non la cercassero (2).
Da che dipende questo fatto? Dalla natura stessa del piacere.
Come dimostra la psicologia, il piacere è conseguenza, non fine,
dell'attività; se questa si esplica perfettamente, ad essa s'accom-
pagna, come alla giovinezza il suo fiore (dice Aristotele), il di-
letto. Quindi, se si vuol provare piacere, bisogna dirigere 1' atti-
vità ad un fine che non sia il piacere; e, se questo fine sarà rag-
giunto senza sforzo, si proverà gioia. Se invece noi ci si propone
il piacere come fine, si va in certo modo contro natura, giacché
si vuol rendere fine ciò che è solo conseguenza dell' attività; e
allora il diletto svanisce.
Inoltre il piacere è fuggitivo, instabile, perciò non appaga
pienamente lo spirito; oppure, anche se prolungato, finisce come
qualsiasi altra sensazione, con lo stancare l'anima; senza dire che
la sfrenatezza nei godimenti logora 1' organismo e lascia amara
la bocca....
Ecco perchè ad Aristippo, l'assetato di felicità, segue sempre
Egesia, il persuasor di morte. Ecco perchè la corsa al piacere
del XVIII doveva condurre al pessimismo del XIX secolo (3). È
(1) Zibaldone, Voi. VII, pag. 209. Vedi anche Voi. VII, pag. 217-218,
455, 460. Cfr. Voi. IV, pag. 292.
(2) Voi. VI, pag. 231 e 419.
(3) Leggere le pagine d'introduzione del /^f-rt/ dello Chateaubriand
(1801); oltre il quale furono in Francia espressioni del diffuso pessi-
mismo V Obermann di PiVERT DE Senamcour (1804), V Adolfo di Be-
niamino Constant (1816) e la Confession d'un enfant du siede del
MussET (1836). Vedi Barzellotti, V educazione e la prima giovinezza
di A. Schopenhauer in Nuova Antologia, 1° febbraio 1S81, pag. 429, e
Carducci, Op. cit., pag. 21-22. Non voglio, s' intende, negare con ciò
— 269 —
infatti notevole che già prima del Leopardi alcuni scrittori italiani,
che pur pongono come fine dell' attività umana il piacere e la
felicità, finiscono col confessare che il piacere in realtà non s'af-
ferra, cosicché consiste piuttosto in un sogno dell' immaginazione
che in qualcosa d'effettivo. Esaminerò le ricerche di due ideologi:
Pietro Verri e Melchiorre Gioia.
Il Verri, che pur riduce tutti i fenomeni della sensibilità al-
l'amore del piacere e alla fuga del dolore, (1) sostiene, come s'è
visto, la teoria della natura negativa del piacere, secondo cui questo
non è che una rapida cessazione di dolore. Ora, da tale teoria
segue non solo che la felicità pura e costante, considerata come
una quantità positiva e separata dal male, è un sogno, mentre
può darsi benissimo fra gli uomini miseria e infelicità (2), ma an-
cora che nella vita sono più i dolori che i piaceri. Infatti, la ces-
sazione del dolore, cioè il piacere, non può esser mai maggiore
del dolore stesso (ossia della quantità che ha fatto cessare); senza
dire che l'uomo soffre dolori che cessano lentamente e che perciò
non hanno un piacere che ad essi corrisponda. Dunque la somma
totale delle sensazioni dolorose dev'essere in ogni uomo maggiore
r efficacia che possono aver avuta sul pessimismo del Leopardi le do-
lorose condizioni e circostanze individuali; ritengo tuttavia che tale ef-
ficacia non sia stata decisiva; prima di tutto perchè mi pare che non
si possa sul serio rendere sistema universale ciò che è un semplice sen-
timento soggettivo; e poi perchè dall' esame delle opere del Leopardi
risulta chiaro che il suo sistema è derivato da lunga meditazione. È noto
che il Leopardi stesso protestò in una lettera al De Sinner (marzo 1832)
contro quelli che volevano vedere nella sua filosofia un effetto delle
sue sofferenze.
Del resto le tristi condizioni individuali possono essere, invece d'una
prova a sfavore, una prova a favore della fondatezza e validità del pes-
simismo leopardiano. 11 Leopardi infatti potrebbe dire: — Se io sono
infelice e malato, quale prova migliore dell' imperfezione del creato e
della miseria degli uomini? Appunto perchè il mondo è imperfetto e
malato, io soffro. Se esso fosse perfetto, anch' io, sua parte, sarei neces-
sariamente tale. Lo stesso dicasi degli altri uomini che soffrono — .
(1) Discorso siilP indole del piacere e del dolore, Introduz., e § XIII
{Opere, Ediz. Silvestri, Milano, 1818, Voi. I, pag. 1 e 105-106).
(2) Discorso sulla felicità, § 1 {Opere, Voi. I, pag. 112-113).
— 270 —
della somma totale delle sensazioni piacevoli (1). Ecco la prima
conclusione pessimistica.
Inoltre, osserva il Verri, se si prescinde dai dolori e piaceri
fisici, la cui origine dipende dall'azione immediata d'uno stimolo
sull'organismo, nei piaceri e dolori morali, in cui non si riscontra
tale azione immediata, ha gran parte la fantasia. Infatti, se, quando
per es. mi è annunciato che ho ottenuto un ufficio importante,
io col pensiero non mi slanciassi subito nell' avvenire, la notizia
mi lascerebbe indifferente. Ma accade che, astraendo dal presente,
io m' immagino tutti i vantaggi che mi deriveranno dal cambia-
mento di stato, e appunto per questo provo piacere. Del pari, la
gioia del matematico, quella che lo fa balzar nudo dal bagno e
correre entusiasmato per la città, è la speranza dei piaceri che
s' aspetta in avvenire dalla stima degli uomini e dai benefici che
dovrà riceverne (2). Dunque il piacere morale nasce dalla spe-
ranza; e questa non è che un protendersi dell'immaginazione verso
il futuro (3). Dal che segue che, siccome 1' attività fantastica, la
quale è quasi una magia ingannatrice, suscita desideri inappaga-
bili, figli dell'errore, le sensazioni piacevoli, passando dall'imma-
ginazione alla realtà, perdono sempre (4). Son questi i preludi
delle melanconiche note del Leopardi (5). Ancora un passo, e si
arriverà al pessimismo più disperato.
Del resto anche il Gioia, utilitarista all' eccesso, il quale dice
(1) Discorso siiir indole etc, § VI {Opere, Voi. I, pag. 43-44) e § XIV
{Opere, Voi. I, pag. 110).
(2) Lo stesso dicasi del dolore morale; solo che in tal caso si prova
timore dei mali che ci aspettano nell'avvenire; sicché tutte le sensazioni
piacevoli o dolorose dipendono da tre soli principi: le fisiche dall'azione
immediata sugli organi, le morali dalla speranza e dal timore.
(3) Discorso sull'indole etc, § II.
(4) Discorso sulla felicità, § IV (Opere, Voi. I, pag. 142-143).
(5) S' è discusso, a proposito della Quiete dopo la tempesta, se il
Leopardi abbia conosciuto (indirettamente, per mezzo di Antonietta
Tommasini) la teoria del Verri sul piacere. Ma pare di no (vedi / canti
di G. Leopardi comr.ientati da A. Straccali, 3* ediz. accresciuta dal-
l'Antognoni, Firenze, Sansoni, 1910, pag. 193). Ad ogni modo la teoria
del Verri, sebbene conduca alle stésse conclusioni di quella del Leo-
pardi, ha fondamenta diverse.
— 271 —
esplicitamente che « tutta la morale deve ridursi ad un calcolo
di piaceri e dolori particolari, come tutta la politica ad un cal-
colo di piaceri e dolori pubblici » (1), quando viene ad esaminare
i piaceri nella realtà, giunge quasi alle stesse conclusioni del Verri.
Egli trova che il piacere ha un' esistenza efimera e passeggera, e
che noi spesso siamo felici senza che alcun oggetto agisca sui
nostri sensi; dunque, conclude, la felicità deve consistere non nel
possesso vero e proprio degli oggetti da noi desiderati, ma piut-
tosto nella rimembranza delle sensazioni gradevoli e nella dolce
agitazione suscitata in noi dalla speranza di rigoderle e dal pre-
gustarle che facciamo nella fantasia; ond' è chiaro che la felicità
è prodotta da una viva ed estesa immaginazione più che da qual-
siasi altra facoltà. Il piacere infatti si coglie piuttosto in mezzo
alle chimere brillanti del mondo immaginario che tra gli oggetti
del mondo esistente. L' esperienza ci mostra che noi siamo più
felici nello sperare un piacere che nel goderlo; che talvolta ci
rallegriamo anche in mezzo ai tormenti del corpo; la felicità si
riduce dunque a una dolce illusione (2).
Ecco idee simili a quelle che troveremo nella « teoria del pia-
cere » del Leopardi: la quale bisogna esaminare attentamente per
penetrare il pensiero del grande scrittore; giacché essa connette
armonicamente tutte le prose e poesie di lui, che altrimenti riman-
gono membra disiecta.
LA TEORIA DEL PIACERE. — Per il Leopardi la teoria del
piacere illumina gli aspetti più reconditi dell'animo umano: essa
è il segreto per spingere lo sguardo sin nel fondo, pur tanto
oscuro, del nostro cuore. Anzi il non aver determinato bene la
natura del piacere è secondo lui il motivo delle spiegazioni in-
sufficienti o erronee date di alcuni fenomeni spirituali dalla mag-
gior parte degli psicologi. « Spesso -», egli dice, « ho notato negli
scritti de' moderni psicologi che in molti effetti e fenomeni del
(1) Teoria civile e penale del divorzio in Opere minori, Lugano,
Ruggia, 1834, Voi. IX, pag. 4.
(2) Filosofia morale, Libro I, Gap. I (Voi. XIII delle Opere minori,
pag. 72-73 e 75-78).
— 272 —
cuore umano, nell' analizzarli che fanno e mostrarne le ragioni,
si fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare,
assegnandone certe ragioni particolari solamente, e questo perchè
vogliono farli parere meravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi
della natura, lo Chateaubriand ecc.; e non vanno alla prima o
quasi prima cagione, che troverebbero semplice e in piena cor-
rispondenza col resto del sistema di nostra natura. Questo ridurre
i diversi fenomeni dell'animo umano a principi più semplici scema
la meraviglia e anche la varietà, perchè moltissimi si vedrebbero
derivati da un solo principio modificato leggermente.... Io credo
che chi istituisse quest'analisi ultima farebbe cosa nuova, sia per
la mala fede o la minore acutezza degli antecessori, e semplifi-
cherebbe d'assai la scienza dell'animo umano, rapportando gl'in-
finiti fenomeni che sembrano anomalie, perchè infatti la scienza
non è ancora stabile né ordinata e ridotta in corpo, a principi
universali o poco lontani da essi: opera principale e formatrice
di tutte le scienze, e scopo ordinario di chi ricerca le cagioni
delle cose » (1).
Ora qua!' è il principio o il sistema d' idee che spiega quasi
tutti i fenomeni della psiche umana ? È appunto la teoria del
piacere; ma questa su che si fonda? Sul fatto stesso dell'esistenza
e sulle conseguenze che ne derivano. Gli esseri esistono: esistendo,
amano certo di essere; giacché « la nostra maniera di concepir
le cose appena ci permette d' intendere come una cosa che è non
ami di essere, parendo che il contrario di questo amore sarebbe
come una contraddizione coli' esistenza ». Chi esiste non può,
propriamente parlando, amare la morte, non può non odiarla il
più eh' egli possa, per la stessa ragione per cui non può odiar
sé stesso e amare il proprio male (2); giacché la propria esistenza
e il proprio Io son la stessa cosa. Amare 1' esistenza e la vita è
amar sé stesso; perciò l'amore di sé (amor proprio) si può con-
siderare come una conseguenza dell'esistere. Ora, dall'amor pro-
prio deriva l'amore del piacere, giacché chi si ama è naturalmente
tratto a desiderarsi il bene, che è tutt'uno col piacere, a volersi
piuttosto in uno stato di godimento che in uno indifferente o
(1) Zibaldone, Voi. I, pag. 160-161.
(2) Op. cit, Voi. VI, pag. 198-200.
h\
— 273 —
penoso, a voler insomma il meglio dell' esistensa, che è l'esistenza
piacevole, invece del peggio o del mediocre (1). Ecco perchè
l'anima umana (e così quella di tutti gli esseri viventi) mira sempre
al piacere, ossia alla felicità, che, chi ben la consideri, è tutt'uno
col piacere (2). Dunque esistenza — amore dell'esistenza (e quindi
amor proprio) — amore del piacere. Procediamo. La sete di fe-
licità non ha limiti, perchè è ingenita o congenita con l'esistenza,
è compagna inseparabile dell' esistenza come il pensiero: conse-
guito infatti un godimento, l' anima non cessa di desiderare il
piacere, come non cessa mai di pensare. Il desiderio della felicità
è dunque inesauribile; perciò non può estinguersi in questo o
quel piacere, il quale non può essere infinito; tant' è vero che
l'uomo, anche nel momento del maggior gaudio di sua vita, de-
sidera non solo di più, ma infinitamente di più ch'egli non abbia,
cioè maggior piacere in infinito o un piacere infinitamente mag-
giore, poiché egli desidera sempre una felicità infinita (3). Questa
febbre termina solo con la vita; e non ha limiti né per durata né
per estensione: non per durata, perchè non finisce se non con
l'esistenza; non per estensione, perchè è sostanziale in noi, non
come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del pia-
cere; ora, una tale natura deve avere il carattere dell'infinità, poiché
ogni piacere è circoscritto, ma non // piacere, la cui estensione
è indeterminata. Quindi non può darsi nessun piacere che uguagli
né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, né la sua esten-
sione, perchè, volendo la natura delle cose che tutto esista limi-
tatamente, abbia confini, sìa circoscritto, nessun piacere è im-
menso. Dal che segue che qualunque diletto lascia l'animo inso-
disfatto. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come
cavallo e come un tal piacere, ma in fatto lo desideri come piacere
astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi
un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell'anima,
poiché quel desiderio che tu avevi non resta effettivamente pago.
Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non
(1) Op. cit, Voi. I, pag. 287-288.
(2) Op. cit, Voi. I, pag. 288; Voi. II, pag. 318; Voi. IV, pag. 82;
Voi. VI, pag. 219.
(3) Op. cit., Voi. VII, pag. 49.
18
— 274 —
potrebbe per durata, che la natura delle cose vuol pure che nulla
sia eterno; quindi, posto che quella causa materiale che t'ha dato
un tal piacere una volta, ti resti sempre (per esempio tu hai de-
siderato la ricchezza, l' hai ottenuta, e per sempre), resterebbe
materialmente, ma non più come causa di un tal piacere; che tutto
si logora, tutte le impressioni a poco a poco svaniscono, e l'as-
suefazione, come toglie il dolore, così spegne il piacere. S' ag-
giunga che, quand'anche un godimento provato una volta durasse
tutta la vita, non perciò 1' animo sarebbe pago, poiché il suo de-
siderio è anche infinito per estensione; quindi quel tal piacere,
quando pure uguagliasse la durata di questo desiderio, non po-
tendo uguagliarne 1' estensione, lascerebbe sempre una brama o
di piaceri sempre nuovi, come accade infatti, o di un piacere che
riempiesse tutta l'anima. Ond' è facile concepire come il piacere
sia sempre vanissimo.
Insomma: quando l'anima desidera qualcosa di piacevole, cerca
la sodisfazione d' un suo desiderio infinito, cerca cioè // piacere
e non un tal piacere; ora nel fatto, trovando un piacere partico-
lare e determinato, ne segue che il suo desiderio non è pago;
perciò il piacere non è vero piacere; è mancanza di sodisfazione,
quindi dolore; poiché l' insodisfazione, l' assenza del piacere, il
quale è la perfezione della vita, é non un semplice non godere,
ma un patire; che l'uomo e il vivente non può esser privo della
perfezione di sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire
e senza infelicità (1).
Conseguenza immediata di tale teoria è che, siccome il desi-
derio del piacere deriva dall' amor proprio, quanto più vivo è
questo, tanto maggiore dev'essere l'infelicità del vivente. Ora, la
forza e il sentimento dell'amor proprio è tanto maggiore, quanto
maggiore é la vita o il sentimento in ciascun essere, specie la
(1) Op. cit., Voi. IV, pag. 303. Perciò le sensazioni non sono mai
veramente piacevoli, ma o indifferenti o dolorose. Le indifferenti però
sono come se non esistessero; restano dunque le dolorose {Op. cit.,
Voi. IV, pag. 344). Quindi 1' uomo è sempre in pena (Op. cit., Voi. VI,
pag. 256).
— 275 —
vita interna, ossia 1' attività dell' anima (giacché, come s' è visto,
amor proprio e vita o esistenza son quasi una cosa). Dunque
r uomo, avendo per sua natura e organizzazione esteriore e inte-
riore una vita psichica più intensa, deve avere maggiore amor
proprio che qualsiasi altra specie di viventi. Quindi 1' uomo per
essenza propria è e nasce piìi infelice di tutti gli esseri (1). Tra
i viventi le specie meno organizzate (i polipi, i zoofiti etc), avendo
un' esistenza piti materiale e meno di vita propriamente detta,
devono essere meno infelici. Le bestie in genere non devono con-
durre una vita tormentata, vuota, noiosa come quella umana (tant'è
vero che non si uccidono mai volontariamente) (2). Tra gli uomini
i giovani sono più infelici dei vecchi, perchè hanno sentimenti
più violenti e una sete più ardente di felicità; ma, non trovando
il piacere in oggetti terreni, provano maggior senso di privazione
e di vuoto (3).
L' uomo dunque non può mai cogliere nella realtà il piacere.
Esiste però in lui la facoltà dell' immaginazione, la quale può con-
cepire oggetti che non sono e in un modo in cui gli enti reali
non sono. Ora, data la tendenza innata dell' uomo al piacere, è
naturale che la facoltà immaginativa si rivolga di preferenza a
questo; e, in grazia della sua natura, essa può figurarsi diletti che
non esistono, e fingerli infiniti in numero, in durata e in esten-
sione. Così il piacere infinito, che non si può trovare nella realtà,
si trova nella fantasia, dalla quale derivano la speranza, le illu-
sioni etc. Perciò non è meraviglia: 1° che nell'uomo la speranza
sia sempre maggiore del bene e migliore del piacere stesso, con-
tenendo quell'indefinito che non si trova nella realtà (4); 2° che
la felicità umana non possa consistere se non nell' immaginazione
e nelle illusioni, e che quindi il piacere non è mai presente, ma
(1) Op. cit., Voi. IV, pag. 224-226.
(2) Op. cit, Voi. VI, pag. 230-231, 299. Cfr. Canto notturno di un
pastore errante nell' Asia, strofe S''; Epistola al Pepoli; Dialogo di
Plotino e di Porfirio;, Bruto Minore; Elogio degli uccelli.
(3) Zibal., Voi. IV, pag. 405; Voi. VI, pag. 230-231. Vedi anche
Dialogo della Natura e di un' Anima e Dialogo di Malambruno e di
Farfarello.
(4) Zibal., Voi. II, pag. 342.
— 276 —
sempre futuro: l'atto proprio del piacere non si dà (1). Ecco perchè
il sabato (giorno d' attesa dei piacere) è molto più dolce che la
domenica (giorno di festa, piacere che nell'atto del godimento si
rivela vuoto e amaro). In quello la mente riveste di colori va-
ghissimi l'oggetto del desiderio, va immaginando e contemplando
seco a parte a parte il gaudio che ne attende o spera, e prova
diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che ne godrà,
e le sue qualità e condizioni e circostanze, anticipando, anzi as-
saporando effettivamente nella fantasia mille volte il piacere fu-
turo (2). « Già tutta r aria imbruna, — torna azzurro il sereno,
e tornan l'ombre — giù da' colli e da' tetti — al biancheggiar
della recente luna.... » (Il sabato del villaggio). Ecco anche perchè
la fanciullezza (tempo d' attesa del piacere) è molto più bella della
giovinezza (piacere, festa della vita).
Altre conseguenze. Siccome il desiderio del piacere è infinito
in estensione, 1' uomo soffre nel veder subito i limiti del suo go-
dimento; questi però l' individuo non molto profondo li scorge
solo da presso, non da lontano. Quindi è chiaro: 1° perchè l'ignoto
sia più bello del noto; 2° perchè 1' anima preferisca in poesia e
da per tutto il bello aereo, le idee infinite. L' anima in fatti pre-
dilige il piacere che non può abbracciare. La malinconia, il sen-
timentale moderno etc. son così dolci appunto perchè immergono
r animo in un abisso di pensieri indeterminati, dei quali non sa
vedere il fondo né i contorni. Simile è la causa dell'ebrezza che
si prova neir amore; in quel tempo 1' anima si spazia nel vago e
indefinito; il tipo del bello adorato esiste non nella realtà, ma
nella fantasia, e le illusioni sole, non la ragione, ce lo possono
rappresentare (3); 3" perchè l'anima nostra odii tutto quello che
confini le sue sensazioni. Quindi, vedendo la bella natura, ama
che r occhio si spazii quant' è possibile. La ragione è sempre la
(1) Op. cit., Voi. II, pag. 46-48. Cfr. Epistolario, Firenze, Le Monnier,
1892, Voi. I, pag. 455 e seg.; Dialogo d' un venditore d' almanacchi e
di un passeggere; Detti memorabili di F. Ottonieri, Cap. il; Dialogo
di T. Tasso e del suo genio familiare; Il Parini, Cap. X.
(2) Zibald., Voi. V, pag. 427-428. Cfr. Dialogo di Torquato Tasso
e del suo genio familiare.
(3) Vedi Alla sua donna e Aspasia, spec. » Raggio divino al mio
pensiero » etc. Cfr. il Cap. sullo Stendhal nel I Voi. di quest'opera.
— 277
stessa: il desiderio dell' infinito; in luogo della vista lavora l' im-
maginazione, e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina
ciò che non vede, ciò che quell'albero, quella siepe, quella torre
gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura
cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto,
poiché il reale escluderebbe l' immaginario (1). « Sempre caro mi
fu quest'ermo colle, — e questa siepe che da tanta parte — del-
l' ultimo orizzonte il guardo esclude. — Ma, sedendo e mirando,
interminati — spazi di là da quella e sovrumani — silenzi e pro-
fondissima quiete — io nel pensier mi fingo; ove per poco — il
cor non si spaura. E come il vento — odo stormir tra queste
piante, io quello — infinito silenzio a questa voce — vo compa-
rando: e mi sovvien l' eterno, — e le morte stagioni, e la pre-
sente — e viva, e il suon di lei. Così tra questa — immensità
s' annega il pensier mio; — e il naufragar m' è dolce in questo
mare » (L' Infinito).
Al contrario, basta che l'uomo abbia veduta la misura d'una
cosa, ancorché smisurata, basta che sia giunto a conoscerne le
parti o a congetturarle secondo le regole della ragione; quella
cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente,
ed egli ne rimane scontentissimo. Quando il Petrarca poteva dire
a proposito degli antipodi, che 7 dì nostro vola A gente che di
là forse l'aspetta (Canzone Nella stagion, str. 3), quel forse ba
stava per lasciar concepire quella gente e quei paesi come im
mensi e dilettosissimi all' immaginazione. Trovati che si sono
certo non sono impiccioliti; ma, appena gli antipodi si son visti
sul mappamondo, é sparita ogni grandezza, ogni bellezza, ogn
prestigio dell' idea che se n' aveva. Perciò la scoperta dell' Ame
rica per opera di Cristoforo Colombo, anziché accrescere la fé
licita del genere umano, 1' ha diminuita. « Nostri sogni leggiadri
ove son giti — dell' ignoto ricetto — d' ignoti abitatori, o del
diurno — degli astri albergo, e del rimoto letto — della giovane
Aurora, e del notturno — occulto sonno del maggior pianeta? —
Ecco svanirò a un punto, — e figurato é il mondo in breve
carta, — ecco tutto é simile, e, discoprendo, — solo il nulla
s' accresce » (Ad Angelo Mai).
(1) Cfr. Zib., Voi. I, pag. 290-291; Voi. Ili, pag. 344-345 e 446-447.
— 278 —
Per la stessa ragione la matematica, la quale misura quando
il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando
il piacer nostro non vuol confini, analizza quando il piacer nostro
non vuole analisi né conoscenza intima ed esatta di ciò che è
piacevole, dev' essere necessariamente 1' opposto del piacere (1).
Anche la molteplicità e la vastità delle sensazioni dilettano
moltissimo l' uomo. La molteplicità delle sensazioni confonde
l'anima, le impedisce di vedere i confini di ciascuna, toglie l'esauri-
mento subitaneo del piacere, la fa errare da un godimento in un
altro, senza poterne approfondire nessuno, le dà quindi un diletto
che somiglia in certo modo a un piacere infinito. La vastità,
quand'anche non sia molteplice, occupa nell'anima un più grande
spazio, ed è piìi difficilmente esauribile (2). Di qui l'effetto straor-
dinario che produce in noi la considerazione della vastità del
passato. « Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno
di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità
del passato che mi veniva in mente, ripensando ai romani così
caduti dopo tanto remore e ai tanti avvenimenti ora passati, eh' io
paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio
della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella
voce o canto villanesco > (3). « ....Or dov' è il suono — di que'
popoli antichi ? or dov' è il grido — dei nostri avi famosi, e il
grande impero di quella Roma, e l'armi, e il fragorio — che
n' andò per la terra e 1' oceano ? — Tutto è pace e silenzio, e
tutto posa — il mondo, e più di lor non si ragiona. — Nella mia
prima età, quando s' aspetta — bramosamente il dì festivo, or
poscia — ch'egli era spento, io doloroso in veglia — premea le
piume; ed alla tarda notte — un canto che s'udia per li sentieri —
lontanando vanire a poco a poco — già similmente mi stringeva
il core > (La sera del dì di festa).
Oltre la vastità, il carattere stesso d' indeterminatezza, che si
riscontra in tutto ciò eh' è passato, può farci apparire come bello
e piacevole quel che in realtà, nell' atto del godimento, non era
(1) 0/7. cit., Voi. I, pag. 340-341.
(2) Op. cit, Voi. I, pag. 271-278. Cfr. Voi. 11, pag. 111-113. Vedi anche
Dialogo di un fisico e di un metafisico.
(3) Zibal, Voi. I, pag. 157.
— 279 —
tale (1); cosicché i piaceri umani somigliano agli odori, i quali
sogliono lasciare maggior desiderio di sé che qualunque altra
sensazione (2),
Di più, secondo la teoria detta, il desiderio del piacere, es-
sendo sempre insodisfatto, diviene una pena e una specie di
travaglio abituale dell'anima. Quindi un assopimento dei sensi è
piacevole. I Turchi se lo procurano con l'oppio. L'anima ne gode
perchè in quei momenti non è affannata dal desiderio, ma prova
un riposo dalla brama tormentatrice e inappagabile pienamente,
un intervallo come il sonno, nel quale, se ben forse non lascia
di pensare, tuttavia non se n'avvede. Effetto simile all'oppio pro-
ducono r haschisch, il tabacco, 1' alcool etc. Cosicché il piacere
non é che un abbandono e un oblio della vita, una specie di
sonno e di morte; è piuttosto una privazione di sentimenti che
un sentimento vero e proprio. Non e' è maggior piacere né mag-
giore felicità nella vita che il non sentirla (3).
Inoltre: la vita continuamente occupata é la più felice, quan-
d' anche le occupazioni e sensazioni non siano vive e varie (4).
L' aqimo occupato é distratto da quel desiderio innato che non
lo lascerebbe in pace, o lo rivolge ai piccoli fini della giornata
(il terminare un lavoro, il provvedere ai propri bisogni ordinari
etc. etc); giacché li considera allora come piaceri, essendo pia-
cere tutto quello che l'anima desidera; e, conseguitone uno, passa
(1) Op. cit., Voi. Il, pag. 563. Vedi la poesia Alla luna e le Ricor-
danze.
(2) Cfr. Detti memombili di F. Ottonieri, Gap. II. Da tale conside-
razione il Leopardi trae questo paradosso: che, siccome 1' aspettativa e
il ricordo del piacere sono più dolci del piacere stesso, i peggiori mo-
menti della vita, eccetto il tempo del dolore e del timore, sono quelli
del piacere {Detti memorabili etc. Gap. II).
(3) Zibal., Voi. VI, pag. 239, 272 e 452. Gfr. Dialogo di Torquato
Tasso e del suo genio familiare.
(4) Si potrebbe credere di trovar qui una contradizione: giacché
prima s' è detto che un assopimento dei sensi, un oblio della vita (inat-
tività) è piacere; poi si dice che la vita continuamente occupata (attività)
è felice. Eppure contradizione non e' è. Infatti, come osserva il Leopardi,
r occupazione non è piacere per se {Zib., Voi. VI, pag. 420), ma suscita
diletto indirettamente, distraendoci dal desiderio tormentoso della felicità.
— 280 — 1
ad un altro; così che si distrae da desideri maggiori, non ha quindi
modo d' affliggersi della vanità e del vuoto dell' universo; e la
speranza di quei piccoli fini e i piccoli disegni sulle occupazioni
future o sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato
bastano a riempierlo e a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il
quale non è troppo lungo, perchè sottentri la noia; senza dire
che il riposo dalla fatica è un piacere per sé stesso. L' occupa-
zione si può così paragonare alla focaccia di Cerbero insaziabile:
distrae 1' animo, pur non potendone appagare mai il desiderio
inestinguibile (1). y
Ancora: il meraviglioso, lo straordinario è piacevole, quan-
tunque per la sua qualità e natura particolare non appartenga
alla classe del piacevole. La meraviglia rende l' anima attonita,
l'occupa tutta e la rende incapace in quel momento di desiderare;
s'aggiunga che la novità, inerente alla meraviglia, è sempre grata
all'anima, la cui maggior pena è la stanchezza dei piaceri parti-
colari. Anche l' immagine del dolore e di scene terribili è piace-
vole, come nei drammi, spettacoli e poemi d'ogni sorta. Purché
l'uomo non tema o non si dolga per sé, la forza della distrazione
gli é sempre piacevole.
La verità di tutto quanto s'è detto è confermata dalla seguente
osservazione: perchè l' uomo dovrebbe provar pena e affanno,
quando non patisse male alcuno? Poniamo un uomo isolato, senza
nessuna occupazione spirituale o corporea e senza nessuna cura
o dolore positivo, o annoiato dall' uniformità d' un' impressione
non penosa o spiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo
quest' uomo debba soffrire. Eppure vediamo che soffre, e si dì-
spera, e preferirebbe qualunque travaglio a quello stato. Per quale
ragione ? Per un desiderio ingenito e inseparabile dall' esistenza,
che in quel tempo non è sodisfatto, ingannato, mitigato, addor-
mentato, e si rivela quindi come dolore o noia, ch'é lo stesso (2).
La natura ha provveduto in tutt' i modi contro questo male, al-
e dolore.
f
(1) Op. cit, Voi. VI, pag. 257, 420-421.
(2) La noia è il desiderio della felicità lasciato, per così dire, puro
{Op. cit.. Voi. VI, pag. 127); e, siccome questo desiderio, se non miti- »
gato, è, come s' è visto, tormento e dolore, anche la noia è tormento ♦
I
— 281 —
r orrore e ripugnanza del quale nell' uomo si può paragonare
queir orrore del vuoto che gli antichi fisici supponevano nella
natura per spiegare alcuni fenomeni: ha provveduto col dare al-
l' individuo molti bisogni, e col porre il piacere nella sodisfazione
del bisogno, come della fame e della sete, del freddo o del caldo
etc, quindi col volerlo occupato, col cagionargli timore, pericoli
(i quali affezionano maggiormente alla vita e dissipano la noia) (1),
convulsioni degli elementi (si pensi a La quiete dopo la tempesta),
dolori e mali, poiché è più grato il guarir dai mali che viver
senza di essi (2).
«
Ora che abbiamo esaminata la natura del piacere, possiamo
domandarci: 1' uomo nel corso dei secoli è stato mai, e, in caso
affermativo, potrebb' essere ancora felice ?
Veramente il piacere è tale che, come s' è detto, non può esser
colto dall' uomo. Ma la natura (3), volendo render questo felice,
è ricorsa all' unico mezzo possibile per raggiungere tale scopo:
gli ha cioè suscitato nella mente una molteplicità di vaghe illu-
sioni, che lo ingannino dolcemente (4). Il mondo dunque per il
Leopardi, come per il Rousseau (5), è « diretto alla felicità », e
la natura ha creato l' uomo, al pari di tutti gli altri esseri, felice
e perfetto (6). Noi infatti vediamo che, quanto piti gli esseri son
(1) Cfr. Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez
e l' ultima strofe della poesia A un vincitore del pallone.
(2) ZibaL, Voi. I, pag. 278-283; Voi. IV, pag. 328; Dialogo di Fede-
rigo Ruysh e delle sue Mummie (« ben sai che la cessazione di qua-
lunque dolore o disagio è piacere per sé medesimo »). Cfr. per tutta
questa parte la Storia del genere umano.
(3) Con la Natura il Leopardi identifica Dio (ZibaL, Voi. I, pag. 441;
Voi. Ili, pag. 280; Voi. VI, pag. 178 Cfr. Inno ad Arimane).
(4) « A noi di lieti - inganni e di felici ombre soccorse - natura
stessa » (A un vincitore del pallone).
(5) Il Rousseau è citato e ricordato spessissimo nello Zibaldone,
talora con le espressioni stesse delle sue opere.
(6) ZibaL, Voi. I, pag. 220, 293, 436; Voi. II, pag. 23; Inno ai patriar-
chi, spec. « Fu certo fu » etc, e Bruto Minore, strofe 4*. Vedi anche
— 282 —
vicini alla madre natura, tanto più son contenti e beati: per es.
i Patriarchi, gli antichi Greci (specie i poeti: Omero per es.), i
fanciulli (1) e i giovanetti, dotati d'un' immaginazione più fresca
e vivace e perciò d'una fioritura variopinta d'illusioni. Ma l' im-
maginazione non può regnare senza l' ignoranza, almeno senza
una certa ignoranza, come quella degli antichi; giacché la cono-
scenza del vero, cioè dei limiti e delle definizioni degli enti, cir-
coscrive r immaginazione. Dunque la scienza, la filosofia (eh' è
nata dalla società, la quale appunto con la conversazione scam-
bievole civilizza e istruisce 1' uomo, lo assuefa a riflettere su sé
stesso, a comparare, a ragionare) (2) fa strage delle illusioni, e
rende l' individuo infelice. Perciò esiste un conflitto acerbo fra
natura e ragione, un' inimicizia implacabile, che tormenta il cuore
dei poveri mortali.
La vita si nutre d' illusioni, ha bisogno di queste per poter
propagarsi, espandersi, traboccare; non tende quindi alla ricerca
della verità nuda e cruda; la verità assoluta é indifferente per
r uomo (3). <' Conviene che il filosofo si ponga bene in mente
che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene
e felicemente o, se non altro, anzi sopratutto, il non passarla male
e infelicemente. E perciò non riponga l'utilità in quelle cose che
semplicemente aiutano, conservano ecc. la vita, considerata quasi
fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono un bene,
cioè felice da vero. Ma felice da vero non la rende altro che il
falso, ed ogni felicità fondata sul vero é falsissima, o, vogliamo
dire, ogni felicità si trova falsa e vana, quando l' oggetto suo
giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e verità » (4). Pare
quindi un assurdo, eppure è esattamente vero, che, essendo tutto
il reale un nulla, non v' é altro di reale né altro di sostanza al
mondo che le illusioni (5). « Il più solido piacere di questa vita »,
insiste il Leopardi, « è il piacer vano delle illusioni. Io considero
le illusioni come cosa in certo modo reale, stante eh' elle sono
Zibaldone, Voi. II, pag. 380-390, dove asserisce che l'infelicità dell'uomo
è accidentale e indipendente dal sistema della natura.
(1) Cfr. Pensieri, CU. (2) Zib., Voi. IV pag. 376.
(3) Op. cit., Voi. I, pag. 436. (4) Op. cit., Voi. I, pag. 410.
(5) Op. cit.. Voi. I, pag. 210.
— 283 —
ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla
natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito
spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo
e voluti dalla natura e senza cui la vita nostra sarebbe la più mi-
sera e barbara cosa ecc. Onde son necessarie ed entrano sostan-
zialmente nel composto ed ordine delle cose » (1). Tolte le illu-
sioni, r uomo diviene snaturato e barbaro (2).
La mitologia era fonte ricchissima d' illusioni, che allietavano
la vita. « Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva
secondo l'immaginazione umana e viva umanamente, cioè abitata
o formata di esseri uguali a noi ! quando nei boschi desertissimi
si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni
e i silvani e Pane ecc.; ed entrandoci e vedendoci tutto solitu-
dine, pur credevi tutto abitato! e così de' fonti abitati dalle Naiadi
ecc. E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare
fra le mani, credendolo un uomo o donna, come Ciparisso ecc. !
E così de' fiori, come appunto i fanciulli » (3). « Vissero i fiori
e r erbe, — vissero i boschi un dì » etc. (Alla primavera o delle
favole antiche).
Ora invece è venuta a mancare anche questa consolazione del-
l'esistenza {Alla primavera, versi 81-91).
La desolazione che rimane nell' anima dopo il disparire delle
illusioni è paragonata dal Leopardi all' oscurità e mestizia che
segue al tramonto della luna. « Quale in notte solinga — sovra
campagne inargentate ed acque » etc. (Il tramonto della luna) (4).
Anche la virtù, la gloria, la patria, la libertà, la giustizia, la
(1) Op. cit., Voi. 1, pag. 157. Cfr. Epistolario, Voi. I, pag. 278 e seg.
Questo ci spiega perchè mai una goccia d' illusione e di speranza resti
sempre nel fondo del cuore umano, anche nella disperazione più acerba.
{Zibal., Voi. I, pag. 246 e 315-318, Voi. Ili, pag. 288-296. Cfr. la poesia
Risorgimento). Tanto la natura è più forte della ragione!
(2) Zibal., Voi. I, pag. 107. II Leopardi stabilisce una distinzione
netta fra barbaro e selvaggio. La barbarie suppone già un principio di
civiltà incoata, imperfetta. Lo stato selvaggio puro non è punto barbaro;
il barbaro è già guasto (Op. cit., Voi. I, pag. 229; Voi. VII, pag. 115).
(3) Op. cit.. Voi. I, pag. 175.
(4) Vedi anche Ricordanze, spec. « O speranze, speranze: ameni
inganni » etc.
— 284 —
magnanimità etc, insomma tutto il bello e il buono di questo
mondo si riduce a puri fantasmi, a enti immaginari: gli antichi
erano grandi e compivano azioni eroiche sol perchè, nella loro
verde fantasia, credevano a questi fantasmi. Esempio: l' impresa
d'Alessandro: tutta illusione (1). Invece la scienza, venendo a sco-
prire le verità che la natura aveva nascoste sotto un profondis-
simo arcano, e rivelando la vanità delle illusioni, conduce l'uomo
a una scelleraggine ragionata, in quanto che lo spinge a credere
che, siccome la virtù e 1' eroismo sono inganni della natura, la
via migliore da seguire in questo mondo è non già il mettere a
repentaglio la vita e le sostanze proprie per chimere, ma l'essere
un perfetto egoista, e il far sempre quel che torna a maggior
comodo e piacere (2).
Di più la filosofia rende l'uomo vile, inattivo, infingardo, freddo,
spegnendo nel suo animo l'entusiasmo, condizione essenziale per
le grandi imprese; cosicché un popolo di filosofi sarebbe il più
piccolo e codardo del mondo (3). La natura è grande, la ragione
è piccola (4). Perciò i popoli non ancora civili hanno sempre
trionfato dei popoli colti: i Persiani degli Assiri; i Greci dei Per-
siani già corrotti; i Romani dei Greci giunti al colmo della civiltà;
i settentrionali dei Romani (5): e la causa della rovina di Roma
vincitrice del mondo fu appunto la filosofia greca (6).
L' unico rimedio a questi mali prodotti dal sapere sarebbe il
ritorno alla natura, alla vita spontanea e istintiva, simile a quella
degli animali (7), che solo può rendere 1' uomo sereno e felice.
(1) Zibaldone, Voi. I, pag. 93.
(2) 0/7. cit., Voi. I, pag. 235; Voi. V, pag. 385-389. Cfr. Compara-
zione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte.
(3) Zib., Voi. I, pag. 226; Voi. Il, pag. 39.
(4) Op. cit., Voi. I, pag. 132; Voi. V, pag. 91-92. Vedi anche Dialogo
di Timandro e di Eleandro.
(5) Zib., Voi. II, pag. 229.
(6) Op. cit., Voi. I, pag. 365-366.
(7) « Io credo che nell' ordine naturale 1' uomo possa anche in questo
mondo esser felce, vivendo naturalmente e come le bestie » {Op. cit.,
Voi. I, pag. 164-165). 5i badi però che per il Leopardi il ritorno allo
stato di natura oramai non è più possibile; 1' uomo ha assaggiato il
frutto dell' albero della scienza del bene e del male, e non può risol-
— 285 —
È quindi assurda la così detta « teoria della perfettibilità » del
Condorcet, la quale vorrebbe sviluppare enormemente la ragione
nell'uomo, credendo così di renderlo sempre migliore e più con-
tento. Errore ! La dottrina della perfettibilità brulica di con-
tradizioni.
Già è dubbio se la cultura sia andata effettivamente crescendo,
che il numero dei veri dotti sempre diminuisce. Né si dica che
i dotti son pochi perchè le cognizioni sono non più accumulate
in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi
compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ric-
chezze, che si dividono e si adunano, e sempre danno la stessa
somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco. L' istruzione super-
ficiale può essere non propriamente divisa fra molti, ma comune
a molti non dotti (1).
Ma poi, se 1' uomo fosse veramente nato a vivere secondo ra-
gione, sarebbe dalla natura destinato a vivere infelicemente, cioè
in modo tendente a distruggere la vita stessa; poiché colui che,
persuaso della nullità delle cose, è infelice, odia la vita e finisce
con r ammazzarsi (2). Infatti ogni giorno nelle città s' hanno a
lamentare suicidi. Anche la guerra è una conseguenza della vita
sociale. Ora, è possibile che la natura, la quale vuole la vita e il
benessere delle creature sue, abbia decretato che gli uomini pe-
riscano per le loro medesime mani o si uccidano fra loro? Non
è questa una contradizione ? (3).
Inoltre: la natura ha voluto che noi fossimo ben sani e ro-
busti di corpo; tutto potrà mettersi in dubbio, tranne che la na-
tura abbia sempre mirato al benessere materiale delle sue creature,
il quale quindi è perfezione non già accidentale, ma essenziale e
propria dell'uomo e ordinata dalla natura. Ma la civiltà e lo svi-
levarsi piìi, giacché ciò che s'è conosciuto non si dimentica. Perciò il
migliore stato per 1' uomo ora sarebbe quello di una civiltà media, in
cui un certo equilibrio fra la ragione e la natura e un' ignoranza media
mantengono quanto è possibile delle credenze e illusioni naturali, esclu-
dendo gli eccessi della ragione {Op. cit., Voi. 447-458; Voi. VII, pag. 116).
(1) Dialogo di Tristano e di un amico. Diversa opinione esprime il
Leopardi in // Patini, ovvero della Gloria, Gap. Vili.
(2) Zibaldone, Voi. I, pag. 164-165.
(3) Op. cit., Voi. VI, pag. 173 e seg.
— 286 —
luppo della ragione nuoce al corpo; infatti la vita sociale ha in-
trodotto nel genere umano mille speciali malattie che prima non
esistevano, e lo ha, così, infiacchito, tanto che gli antichi valevano,
per la forza del corpo, ciascuno per quattro di noi. Dunque non
può esser perfezione dell' uomo, giacché contrasta con 1' essenza
propria e naturale di lui, e ripugna a una qualità non accidentale,
ma ordinata dalla natura (1).
Ancora: tutti i così detti beni della vita sociale, le invenzioni
e scoperte scientifiche (l' uso del linguaggio articolato, l' inven-
zione della scrittura, della stampa, 1' estrazione e lavorazione dei
metalli, l'uso della moneta, di oggetti di lusso, come le gemme etc,
la scoperta del fuoco, la cottura delle carni e dell' erbe, 1" inven-
zione del cannocchiale, 1' areonautica, l' invenzione della polvere
pirica, la fabbrica dei mattoni, dei vestiti, la nautica e quindi il
commercio, dei popoli, la cultura del frumento e delle viti, la fab-
brica del pane e del vino etc.) o son costate lunghi studi, ricerche,
fatiche, viaggi, o son dovute al caso. Ora, se tutto ciò era neces-
sario o conveniente alla perfezione e felicità dell'uomo, come mai
la natura, maestra tanto accurata e finita in tutto, glielo ha na-
scosto e l'ha affidato al caso? E dire che l'uomo si chiama una
specie privilegiata e la prima nell' ordine di tutti gli esseri ! Bel
privilegio davvero eh' è quello di veder tutti gli altri viventi con-
seguire immediatamente, per istinto, la loro relativa perfezione e
felicità senza stenti ne sbagli, ed egli intanto, per raggiungere la
propria, stentare, soffrire, prendere mille strade, sbagliare mille
volte e tornare indietro, e finalmente dover aspettare lunghissimo
ordine di secoli per conseguire in parte il detto fine. È credibile
che la natura, nel formar l'uomo, l'abbia collocato tanto lontano
dalla perfezione da lei voluta e destinatagli? È credibile che essa
abbia posta la perfezione e felicità degli uomini al prezzo doX-
V infelicità di tante generazioni, ossia di tutte quelle vissute prima
che questa perfezione si potesse conseguire ? (2).
(\) Op. cit., Voi. IH, pag. 256-259; Voi. V, pag. 228-230. Cfr. Dialogo
di Tristano e di un amico. Da tutto questo si vede che secondo il
Leopardi (contro quanto crede il Delfico) non si può parlare di perfet-
tibilità organica o fisica. Per lui la struttura del corpo è così meravi-
gliosa, che non solo non è possibile perfezionarla, ma neppure immagi-
narla più perfetta. Vedi Zib., Voi. 1, pag. 425-426; Voi. Il, pag. 209-210.
(2; Vedi spec. Op. cU., Voi. Il, pag. 211-214 e 459; Voi. IV, pag. 213, 214;
— 287 —
Infine lo sviluppo della ragione promuove e accresce, se mai,
la cultura degl'individui e dei popoli, ma non la loro coscienza
e dignità morale, che pur costituisce il vero merito dell' uomo.
« Valor vero e virtù, modestia e fede — e di giustizia amor, sempre
in qualunque — pubblico stato, alieni in tutto e lungi — da' co-
muni negozi, ovvero in tutto — sfortunati saranno, afflitti e
vinti; — perchè die lor natura in ogni tempo — starsene in fondo.
Ardir protervo e frode, — con mediocrità, regneran sempre, —
a gallegiar sortiti. Imperio e forze, — quanto più vogli o comu-
late o sparse, — abuserà chiunque avralle, e sotto — qualunque
nome. Questa legge in pria — scrisser natura e il fato in ada-
mante; — e co' fulmini suoi Volta, né Davy — lei non cancel-
lerà, non Anglia tutta, — con le macchine sue, né con un Gange —
di politici scritti il secol novo » (Palinodia) (1). La scienza in-
somma potrà produrre « l'età delle macchine », inalzare grandiose
opere materiali, ma non costruire il vero amico, l' uomo virtuoso
e magnanimo, la donna fedele etc. (2).
Tutti questi argomenti provano dunque che la dottrina della
perfettibilità é falsa. La natura può esser corrotta, non corretta (3);
ogni allontanamento da essa é non perfezione, ma corruzione (4).
L' uomo é non perfettibile, ma corruttibile (5).
Ma perchè 1' uomo s' é allontanato dalla natura ? Perchè è il
più assuefabile degli animali (6). Egli é come una pasta molle,
suscettiva d'ogni possibile figura o impronta (7). Con l'esercizio
e l'assuefazione riesce ad avere tante facoltà, che in natura non
esistevano. Tutte le facoltà umane sono ottenute così: anche la
Voi. V pag. 62-64. Vedi anche Voi. II, pag. 282, 459, 467; Voi. Ili
pag. 340-341; Cfr. La scommessa di Prometeo.
<1) Cfr. Inno ad A rimane.
(2) Vedi Proposta di premi fatta dall' Accademia dei Sillografi.
Tutta questa critica della scienza non solo ricorda gli scritti del Rousseau,
ma li supera per solidità e ricchezza d' argomenti.
(3) Zib., Voi. I, pag. 372.
(4) Op. cit., Voi. I, pag. 322-323.
(5) Op. cit., Voi. Ili, pag. 308 Cfr. per tutta questa parte la Storia
del genere umano.
(6) Zibal., Voi. Ili, pag. 170.
(7) Op. cit., Voi. Ili, pag. 168.
— 288 —
ragione (1). Non esiste in natura il genio, ossia una persona le
cui facoltà intellettuali siano per sé stesse strabocchevolmente
maggiori delle altrui. II. genio, come ha ben mostrato l'Helvétius,
è figlio delle circostanze e dell'assuefazione (2). Chi vuol vedere
come neir uomo tutto sia esercizio, osservi che le facoltà di cui
egli è capace sono maggiori assai nell'uomo maturo e civile che
nel fanciullo, se pur questo non ne manca affatto, e crescono in-
sieme con lui (3). In natura non esistono che disposizioni, ma le
disposizioni non sono facoltà. Come la mano non ha da natura
nessuna facoltà, anzi da principio è inetta alle operazioni più fa-
cili e giornaliere, così gli organi intellettuali non hanno nessuna
facoltà, ma solo la disposizione o possibilità di conseguirne (4).
Quindi tutto ciò che nell'uomo si chiama cultura, non esiste punto
in natura: è una crosta artificiale (5), tolta la quale restano solo
i sentimenti e istinti spontanei, che, se fossero puri, renderebbero
l'uomo felice (6). Dunque l'uomo non è imperfetto né in natura
(1) Op. cit., Voi. II, pag. 472; Voi. Ili, pag. 229, 306-308. « Il talento
non è altro che facoltà d' imparare, cioè di attendere e di assuefarsi.
Per imparare intendo anche la facoltà d' inventare, di pensare, di sentire,
di giudicare ecc. > {Op. cit., Voi. Ili, pag. 295). È evidente che queste
parole ricordano moltissimo il Condillac. Cfr. Op. cit., Voi. V, pag. 304
e seguenti.
(2) Op. cit.. Voi. Ili, pag. 286. Bisogna però notare che nel Voi. Ili
dello Zibaldone (pag. 386-387; cfr, pag. 295-296) il Leopardi parla d'una
differenza innata dei talenti umani, consistente in una diversità di di-
sposizioni (non di facoltà). Parrebbe quindi eh' egli volesse opporsi
all' Helvétius; e così è parso al Cantella. Ma il Leopardi non dà im-
portanza alle disposizioni; afferma infatti che « il talento è l'opera in
tutto delle circostanze » (Voi. Ili, pag. 386); tanto che « il gran poeta
può essere anche gran matematico, e viceversa. Se non lo è, se il suo
spirito si determinò ad un solo genere (che non sempre accade), ciò è
puro effetto delle circostanze » (Voi. HI, pag. 343).
(3) Op. cit., Voi. IV, pag. 24. Cfr. Voi. Ili, pag. 36-37, 138, 202, 213,
228, 333-334, 353-355, 390-391; Voi. V, pag. 352.
(4) Op. cit.. Voi. IV, pag. 319.
(5) « Non è dubbio che la civiltà, i progressi dello spirito umano ecc.
hanno accresciuto mirabilmente e in numero e in grandezza e in esten-
sione le facoltà umane ■'- {Op. cit.. Voi. VI, pag. 345).
(6) Bisogna anzi stare attenti e non confondere il naturale con ciò
\
I
- 289 —
né per natura; anzi in natura e per natura egli è il più perfetto
degli esseri, ma è anche più di tutti disposto a divenire imper-
fetto; giacché la suprema conformità sua, che lo rende il più mu-
tabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo
rende anche per conseguenza il più infelicitabiie, benché non per
sé stesso e naturalmente infelice: lo rende cioè il più disposto a
potersi allontanare dal suo stato naturale e quindi dalla sua per-
fezione e felicità. (1).
Il Leopardi trova una conferma delle sue idee nella Bibbia e
nella mitologia greca. Si legge infatti nella Genesi (II, 17) che il
solo comando che Dio diede all' uomo dopo averlo posto in pa-
radiso voluptatis fu: De liguo autem scientiae boni et mali ne co-
medas, in quocumqae enini die comederis ex eo, morte morieris. Or
non é questo un interdir chiaramente all'uomo il sapere? un voler
porre un ostacolo agi' increménti della ragione, come quella' che
Dio conosceva esser per sua natura e dover esser la distruttrice
della felicità e perfezione vera della sua creatura ? L' uomo già
sapeva per natura, per istinto, cioè per opera immediata e primi-
tiva di Dio, tutto quel che gli conveniva sapere. La colpa fu vo-
lerlo sapere per opera sua, cioè non più per natura, ma per ra-
gione, voler per conseguenza sapere più di quello che gli con-
veniva, entrare con le proprie facoltà nei campi dello scibile, e
scoprir quindi ciò che alle leggi di sua natura era vietato. Dunque
la rovina dell' uomo consisté non nel decadimento, ma nell' in-
cremento della ragione (2).
Si consideri inoltre che il primo fondatore della città, vale a
dire della vita sociale, secondo la scrittura {Genesi, C. IV, v. 16)
fu il primo riprovato: Caino; il quale, dopo la colpa, la dispera-
che deriva dall'esercizio e dall'abitudine; gran parte di ciò che si chiama
talento naturale non è che assuefazione, esercizio ed opera di circo-
stanze non naturali, né necessarie, ma accidentali {Op. cit., Voi. V,
pag. 240). Onde la difficoltà di rintracciare e seguire la natura vera
(0/7. cit., Voi. I, pag. 148-150).
(1) Op. cit, Voi. V, pag. 66.
(2) Op. cit., Voi. I, pag. 441 e seg. Vedi anche Voi. 1, pag. 466-468.
19
— 290 —
zione e la riprovazione, « primo i civili tetti, albergo e regno —
alle macere cure, innalza » (Inno ai patriarchi). Dunque la società,
corruttrice della natura umana e sorgente della maggior parte dei
nostri vizi, è stata figlia della colpa. E come il primo riprovato
fu il primo fondatore della società, così il primo che definitiva-
mente la combattè e maledisse fu il redentore della colpa: Gesù (1).
Poiché Gesù per primo personificò e definì col nome di mondo
l'idea del perpetuo nemico della virtù, dell'innocenza, del-
l'eroismo, della sensibilità vera, della natura: in altri termini la so-
cietà; essendo pur troppo vero che, come l' individuo per natura
è buono e felice, così l' individuo in società è malvagio e in-
felice (2).
Anche nella mitologia greca si trovano idee simili, com'è pro-
vato dalla leggenda dell'età dell'oro e dalla favola di Psiche, cioè
dell' anima che era felicissima senza conoscere, e la cui infelicità
provenne dal voler conoscere (3).
Tutto questo ci prova che l'antica sapienza riteneva che l'uomo
non è nato per il sapere, e che la conoscenza, la ragione è ne-
mica della natura e della felicità (4).
* *
OSSERVAZIONI — Questa teoria del piacere è senza dubbio
importante, sia per la luce che getta su tutti gli scritti del Leopardi,
sia per la sua originalità, che ben la distingue da quella del Verri
e dai pochi cenni sulla natura negativa del piacere che si tro-
vano nelle opere di alcuni filosofi (5), sia anche per la gene-
ralità e semplicità dei principi su cui si fonda e quindi per le
molteplici applicazioni sue. Essa si può stringere in queste parole:
il piacere è non qualcosa di positivo e reale, ma un' illusione; la
quale, se creduta dalla mente ingenua, rende 1' uomo sereno e
(1) Op. cit., Voi. 1, pag. 296.
(2) Op. cit., Voi. I, pag. 223; Voi. Il, pag. 91, 332. Vedi anche Pensieri,
LXXXIV. Cfr. Pensieri, I.
(3) Op. cit., Voi. II, pag. 105-106, e Voi. IV, pag. 129-130.
(4) Op. cit., Voi. II, 106; Voi. V, pag. 89-91.
(5) Vedi pag. 124 di questo volume.
— 291
felice, ma, col progresso del sapere, si dissipa come nebbia do-
rata ai soffi del vento gelido.
Le obiezioni contro questa dolorosa dottrina si affollano nella
mente (1). Non pare innanzi tutto giusto che il desiderio della
felicità, essendo inesauribile e ininterrotto, non possa esser sodi-
sfatto che da un piacere infinito. Tutte le funzioni psichiche e
organiche son continue, e cessano solo con la vita (anche nel ri-
poso s' esplica un' attività che reintegra le forze perdute); vivere
è agire; quindi il pensiero, la sensibilità, il movimento, la dige-
stione, la respirazione etc, dopo compiuto un loro atto, passano
a effettuarne un altro, e così di seguito. Ma 1' atto particolare,
raggiungendo il fine, suscita sodisfazione, non lascia vuoto e ama-
rezza. Dire che un piacere particolare non appaga l'animo è come
dire che intendere una verità particolare (risolvere per es. un dato
problema) non susciti diletto perchè poi si torna a pensare an-
cora; ovvero che, siccome il movimento è connaturato con la vita
e non può finire se non con questa, un movimento particolare
non possa produrre sodisfazione; oppure che il digerir bene un
dato pasto non produca godimento perchè poi bisogna tornare
sempre a digerir cibi.
Inoltre, affermare che il piacere non è veramente piacere è, in
psicologia, contradizione. Poiché i fatti interni sono percepiti im-
mediatamente, senza un organo o un mezzo che li possa alterare;
non son quindi suscettibili d'errore, non possono essere illusioni.
Perciò per chi prova piacere il godimento ch'egli sente è un fatto
indubitabile; e, se qualcuno gli dicesse: — Ma tu, mentre credi
di provar piacere, t' inganni, poiché in fondo, come dimostra la
metafisica, provi insodisfazione e dolore, — egli darebbe in una
risata; che sa di sentir piacere, e il sentimento non si può met-
tere in dubbio. La metafisica qui non e' entra.
Strano è poi tutto quanto il Leopardi dice sull'uomo. Ognuno
sa che l'uomo è per natura un animale ragionevole: ossia ch'egli
differisce dagli altri animali perchè la natura V ha creato ragio-
nevole (si definisce in fatti animale ragionevole); se quindi la ra-
(1) Potrà sembrare ardire questo mio voler criticare Giacomo Leo-
pardi. Ma le osservazioni mie varranno, più che ad altro, a chiarire lo
sviluppo del pensiero del grande scrittore. Spero quindi di esser scusato.
— 292 —
gione, che è la sua nota caratteristica, Io conducesse a eccessi e
spasimi dolorosi, bisognerebbe pur dire che questi son naturali.
Se invece si toglie all'uomo la sua nota differenziale, la raziona-
lità^ si ricade nella sfera delle bestie (il Leopardi stesso lo dice);
ma questo, piuttosto che un ritomo alla natura, mi pare un al-
iontamento da essa, giacché, rip>eto, l'uomo in natura è non un
animale puro e semplice (un bruto), ma un animale ragionevole.
La natura dell'uomo consiste quindi nel seguire e sviluppare la
ragione; togliergli questa è snaturarlo. Quando si argomenta come
il Leopardi (e il Rousseau) si equivoca sul concetto di natura: si
considera cioè questa come natura esteriore, come tutto ciò che è
fuori dell uomo e quindi privo di ragione, quasi che l'uomo stesso
non facesse parte della naturai Del resto il Leopardi (come anche
il Rousseau), non jjotendo negare l'evidenza dei fatti, ha dovuto
ammettere nell' uomo una certa forma di ragione; egli scrive:
< La ragione è nemica della natura, non già quella ragione pri-
mitiva di cui si serve 1* uomo nello stato naturale e di cui par-
tecipano gli altri animali, parimente liberi e p>er ciò necessaria-
mente capaci di conoscere.... Questa l'ha posta nell'uomo la stessa
natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della
natura è queir uso della ragione che non è naturale, queir uso
eccessivo eh' è proprio solamente dell' uomo, e dell' uomo cor-
rotto.... i (1). Ma via: Gli animali hanno la ragione? Ad ogni
modo, che ragione sarebbe questa, che non si sviluppasse in guisa
da divenir tale quale l'abbiamo noi? Una ragione che non s'ele-
vasse a possedere i principi logici, a formare i concetti e la scienza?
Sarebbe una ragione.... non ragione: in altri termini, un concetto
contradittorio (2).
Strano è pure che la natura susciti illusioni in un essere ra-
gionevole, cioè in un essere dotato d' una facoltà distruttrice delle
illusioni! Non è questo un mettere la paglia accanto al fuoco?
Se del resto fosse vero che la natura cerchi di render felice l' uomo
(1) Zibaldone, Voi. I, pag. 427-428. Cfr. Voi. Ili, pag. 3S8-389.
1^2,» Addirittura falso è poi che la ragione in quanto facoltà psichica
5/ formi. I principi della ragione sono posseduti, sia pure non esplici-
tamente, ancfie dal fanciullo o dal selvaggio, il quale si accorge subito
che uno si contradice, che per es. nega quanto prima aveva affermato.
— 293 —
con le illusioni, o perchè essa non dovrebbe anche far sì che la
ragione in lui non si sviluppasse tanto da distruggere queste il-
lusioni benefiche? (1) Se invece la ragione le distrugge, la colpa
è senza dubbio della natura. Poiché in fondo tutto dipende dalla
natura (che il Leopardi, si badi, identifica con Dio, abbozzando
una specie di panteismo nebuloso). Il poeta stesso infatti finisce
col muovere alla natura il rimprovero che essa inganni gli uomini
con vaghe immagini e fole dorate, e poi, quasi considerandoli
oggetti di trastullo, li disilluda scoprendo ai loro occhi la realtà
nuda e cruda; cosicché a poco a poco egli, probabilmente senza
darsi ragione del come e del perchè, viene a mutar parere sulla
natura: prima la chiama saggia (2), santa (3), vaga (4), benefat-
trice universale (5), incapace di contradirsi (6); siccome poi però
r esperienza gli mostra che pur troppo gli uomini soffrono, e
tutto in fondo dipende dalla natura, finisce col considerar questa
come responsabile delle sciagure dei poveri mortali. II primo mu-
tamento nella sua concezione della natura si nota nella poesia
A Silvia, una delle più belle che siano state scritte da che mondo
è mondo. Silvia è una fanciulla nei cui occhi ridenti e fuggitivi
splendeva la bellezza, e con la quale il poeta ha trascorso in dolce
compagnia gli anni primi della giovinezza, il « maggio odoroso »
della vita, quando le illusioni più fresche e più rosee sbocciano
neir anima del povero mortale. Ella, contenta del vago avvenire
che aveva in mente, spandeva la sua gioia nel canto, di cui so-
navano le quiete stanze e le vie dintorno; e il poeta, lasciando
gli studi leggiadri e le sudate carte, dai veroni della casa paterna
porgeva gli orecchi al suono della voce di lei. « Mirava il ciel
(1) Vedi il Dialogo della natura e di uti' anima, dove tale obiezione
è abbozzata, ma non riceve risposta.
(2) Inno ai patriarchi, verso 112.
(3) Alla primavera, verso 20.
(4) Alla primavera, verso 90.
(5) Epistolario, Voi. I, pag. 152 (lettera al Giordani del dicembre 1818).
(6) Zibaldone, Voi. IV, pag. 178 (< E pure è certo che più facil-
mente potremo annoverare le arene del mare di quello che trovare una
sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha vera-
mente e manifestamente resa necessaria o destinata all' uso sì dell'uomo,
come di qualunque animale, vegetabile ecc. »). Cfr. Voi. I, pag. 428.
— 294 —
sereno, — le vie dorate e gli orti," — e quinci il mar da lungi, e
quindi il monte.... ; .
A questa visione così luminosa della vita, con 1' andar degli
anni, è sottentrato il dolore più acerbo. La povera fanciulla, « da
chiuso morbo combattuta e vinta », è morta; e nel cuore del
poeta è morta ogni speranza e illusione. Tutto quel mondo d'in-
canti e di sprazzi d'oro è dileguato « all'apparir del vero », della
realtà nuda e cruda, e, sotto il velo variopinto e fiorito che co-
priva il creato, è apparsa la fredda morte e una tomba ignuda.
Allora il poeta, mirando il contrasto stridente fra i due periodi
della sua esistenza, dà in un'esclamazione disperata: « O natura,
natura — perchè non rendi poi — quel che prometti allor? perchè
di tanto — inganni i figli tuoi? >. È qui evidente che la natura
stessa è considerata e autrice e distruttrice delle illusioni. La na-
tura stessa ha promesso alle sue creature un cammino fiorito e
odoroso, e poi non solo non mantiene la parola, ma scopre cru-
delmente alla loro ragione la rude realtà e gli scheletri delle cose,
che si nascondevano sotto le false apparenze. Dunque la natura
è non pili buona, saggia, vaga, santa, ma cattiva, maligna, cru-
dele. Io m'ero ingannato, confessa francamente il poeta; e tutto
è finito. « Or poserai per sempre — stanco mio cuor. Perì l'in-
ganno estremo, — ch'eterno io mi credei. Perì.... » (A se stesso).
Il cerchio degl'incanti adesso è rotto; e la natura si rivela in
tutta la sua brutalità e malvagità. Essa non vuole in alcun modo
la felicità degli esseri sensibili, anzi vi è contraria (1), e rimane
indifferente ai loro strazi. Perciò contro di essa (non più contro
la ragione dell'uomo) impreca il Leopardi: < dà la colpa a quella —
che veramente è rea, che de' mortali — è madre in parto ed in
voler matrigna > {Ginestra); la chiama « crudele > (2), « empia
madre » (3), <- persecutrice e nemica mortale di tutti gl'individui
d' ogni genere e specie eh' ella dà in luce » (4), carnefice della
propria famiglia, dei figliuoli suoi, e, per dir così, del sangue e
delle viscere sue (5). Essa ora gli si rivela brulicante di contra-
(1) Zibaldone, Voi. VII, pag^. 57; Cfr. Inno ad Arimane.
(2) Palinodia, verso 170. (3) Palinodia, verso 181.
(4) Zibaldone, Voi. VII, pag. 419.
(5) Dialogo della Natura e di un Irlandese. Cfr. Paralipomeni della
Batracomiomachia, Canto IV, spec. strofe 12*.
— 295 —
dizioni (1): ci dà per es. il bisogno di felicità senza la possibilità
di sodisfarlo (2); partorisce e nutre le sue creature per ucciderle (3),
dà ad alcuni animali l' istinto, le arti, le armi per assalir altri, e
a questi le armi per difendersi, l'istinto di preveder l'attacco, di
fuggire, di usar mille astuzie per salvarsi; dà agli uni la tendenza
a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi; dà ad alcuni
animali l' istinto e il bisogno di pascersi di certe piante, frutta
etc, ed arma le piante di spine per allontanare gli animali, le
frutta di gusci, di bucce, d' inviluppi d' ogni genere. Essa mede-
sima è r autrice unica delle difese e delle offese, del male e del
rimedio. Che groviglio di contradizioni! (4). Dov'è piìi la natura
saggia, desiderosa della felicità dei viventi, incapace di contradirsi?
Il Leopardi attribuisce ora alla natura caratteri del tutto opposti
a quelli di prima (5); e tale cambiamento d'idee è la più evidente
(1) Zibaldone, Voi. VII, pag. 18-20, 51-56; Dialogo della Natura e
di un Irlandese.
(2) Zibaldone, Voi. VII, pag. 454.
(3) Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, verso 47; Cfr. Palinodia
« Quale un fanciullo, con assidua cura etc. », e Zibaldone, Voi. VII,
pag. 355.
(4) Zibaldone, Voi. VII, pag. 135-136. Vedi anche Voi. VII, pag. 8,
51-56. II cambiamento delle sue idee sulla natura appare più evidente
che mai, oltre che nelle ultime poesie, nel Voi. VII dello Zibaldone.
(5) Il Panzacchi (in Teste quadre, Bologna, Zanichelli, 1881, pa-
gine 309-310) nota una differenza davvero esistente fra la prosa e la
poesia del Leopardi; il pessimismo nella prosa, egli dice, tiene il vertice
del pensiero speculativo dell' autore sin da principio; invece nella poesia,
la quale in sé e nei suoi effetti per oltre i quattro quinti è tutt' altro
che pessimista, esso guadagna a gradi a gradi e nemmeno con progresso
continuato, ma a sbalzi e riprese, l'estetica di quello spirito travagliato.
Questa differenza osservata dal Panzacchi si spiega secondo me col
cambiamento d' idee del Leopardi sulla natura. Le Operette morali
furono scritte dopo le poesie del così detto primo periodo (vedi Car-
ducci, Op. cit.\ D' Ancona e Bacci, Manuale della leti, ital., 2* Ediz.,
Voi. V, pag. 171-173), che va dal Primo amore ai versi Alla sua donna
(1816-1823). In tali poesie la natura è concepita come buona e benefica;
quindi il pessimismo non è tanto disperato. Dopo questo primo periodo
avvenne il mutamento d'idee accennato; il quale è espresso nelle Ope-
rette morali (composte il 1824 e pubblicate la prima volta a Milano
— 206 —
critica del suo pensiero (1), poiché distrugge l'idea della Natura-
Dio che provvede alla felicità delle sue creature con le illusioni
dorate (in altri termini, distrugge la sua teoria del piacere e la
sua dottrina sulla natura), e le sostituisce l'idea d'una Natura-Dio
che, mentre dovrebb' essere principio d'ogni bene, crea gli esseri
per straziarli: un mostro che ci desta orrore.
Resta ad esaminare se sia fondata la taccia di materialista, che
di solito è attribuita al Leopardi (2).
Anche per lui, come per gl'ideologi tutti, abbiamo a ripetere
che è il caso di parlare non di materialismo vero e proprio, ma
piuttosto di agnosticismo.
Infatti si trovano certo nel Leopardi pensieri ed espressioni
che sanno di materialismo e ricordano sopra tutto il De Tracy.
Dice che la mente nostra non solo non può conoscere, ma nep-
pure concepire altra maniera di essere che quella della materia;
tant'è vero che l'essere e gli avvenimenti spirituali li concepiamo
rassomigliandoli sempre a quelli materiali (3); ond' è arrischiata
ogn' ipotesi sul destino dell' anima, che noi chiamiamo semplice
e immateriale, dopo la morte (4). Critica lo spiritualismo leibni-
ziano, obiettando che dalle monadi immateriali non è possibile
il 1827), nel VII Voi. dello Zibaldone (che va dal 27 aprile 1824 al 4 di-
cembre 1832), poi, air inizio del secondo periodo poetico, nella poesia
A Silvia (1828) e, durante il secondo periodo, in quasi tutti i canti.
Si noti infatti che nelle Operette morali la natura è considerata sempre,
fuorché, se mai, nella Storia del genere umano, come maligna.
(1) In ultimo scrive: < La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura,
e, discolpando gli uomini totalmente, rivolge 1' odio, o se non altro il
lamento, a principio più alto, all' origine vera de' mali de' viventi -
{Zibaldone Voi. VII, pag. 362). Si confrontino queste parole con quelle
da lui scritte nel I Voi. dello Zibaldone: ■■■ Stimando perfetta l'opera
della natura, stimo perfetta quella di Dio; condanno la presunzione
dell'uomo di perfezionar egli l'opera del creatore (pag. 441).
(2) ZiNGARELLi, Op. cit., Pref.; G. Sergi, Leopardi al lume della
scienza, Sandron, 1899, pag. 102-103; G. N^QR\, Divagazioni leopardiane,
Pavia, 1894-99, Voi. VI, pag. 156-158; R. Nazzarì, La polemica leopar-
diana ecc., Roma, 1903, pag. 69-71. Cfr. Gioberti, // gesuita moderno,
Losanna, Bonamici, 1847, Tomo III, spec. pag. 288.
(3) Zibaldone, Voi. Ili, pag. 42, 131, 293.
(4) Op. cit.. Voi. II, pag. 86-87, 101-103.
— 297 —
formar la materia, come dal nulla non è possibile formar ciò che
è (1). Aggiunge: « Quando noi diciamo che l'anima è spirito, non
diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunciamo in
sostanza una negazione, non un' affermazione » (2). Quindi ne
abbiamo non un' idea, ma una semplice parola (così quando di-
ciamo: un corpo che non sia né largo, né lungo, né profondo, non
pensiamo punto d'averne un'idea) (3). Come a Locke e a Voltaire, a
lui par possibile che la materia pensi (4); scrive anzi espressamente:
« Che la materia pensi è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo;
e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo
conoscere, concepire altro che materia. Un fatto, perchè noi veg-
giamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente
dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l'animo nostro
corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo.
Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun
di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua
gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di sé, cioè
col suo cervello, come egli sente di vedere co' suoi occhi, di toc-
care colle sue mani » (5). Se gli spiritualisti, secondo lui, aves-
sero considerato tutto ciò, avrebbero trovato e troverebbero assai
minor difficoltà ed assurdità nel materialismo. Infine tende a con-
siderare l'uomo come formato non d'anima e corpo, sibbene di
corpo soltanto (6).
Ma, accanto a queste affermazioni, ve ne sono altre che si po-
trebbero benissimo attribuire a uno spiritualista. Così trova nella
scontentezza e infelicità dell' uomo una prova dell' immortalità
dell'anima (giacché, egli dice, è contro le leggi costanti della na-
tura che l'ente principale del nostro globo non possa godere la
perfezione del suo essere, che è la felicità; perciò la nostra esi-
stenza non può limitarsi a questo mondo) (7). Ma v' è di più:
(1) Op. cit., Voi. Ili, pag. 279-280.
(2) Op. cit, Voi. VII, pag. 29-30.
(3) Op. cit, Voi. VII, pag. 197. Cfr. VII, 138-139.
(4) Op. cit., Voi. VII, pag. 191-192.
(5) Op. cit, Voi. VII, pag. 234-235.
(6) Dialogo di Tristano e di un amico (« Il corpo è 1' uomo >).
(7) Zibaldone, Voi. I, pag. 119, 138-139, 146. Cfr. Voi. I, pag. 364-365.
Aggiunge: « Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio
— 298 —
non gli pare che un ente capace, come 1' uomo, di sentire il suo
dolore e la nullità di tutte le cose materiali possa essere di na-
tura materiale (1). Ammette anche la possibilità dell'esistenza
di Dio (2).
Dunque? È chiaro ch'egli non accetta, decisamente né lo spi-
ritualismo, né il materialismo; resta, come tutti gì' ideologi, agno-
stico. Dice infatti che le nostre facoltà di conoscere e d' amare
son limitate; che, se fossero infinite, ci renderebbero uguali a
Dio (3). Perciò noi ignoriamo che cosa sia 1- anima (4), e non
possiamo in nessun modo conoscere un principio primo e uni-
versale delle cose (5), poiché l' essenza di Dio non può essere
neppure concepita dall' uomo (6). Per lui il progresso dello spi-
rito umano consiste nel conoscere sempre più di non conoscere,
neir avvedersi di saper sempre meno (7). Quindi la conclusione,
la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta e perfezione della sa-
pienza è il detto socratico: Hoc unum scio, me nihìl scire (8). Si
ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo
senza una vita futura - (Op. cit., Voi. i, pag. 158).
(1) « Come potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi
della sua propria nullità? E questo certo e profondo sentimento, mas-
sime nelle anime grandi, della vanità e insufficienza di tutte le cose
che si misurano coi sensi, sentimento non di solo raziocinio ma vero,
e, per modo di dire, sensibilissimo sentimento e dolorosissimo, come
non dovrà essere una prova materiale, che quella sostanza che io con-
cepisce e lo sperimenta è di un'altra natura? Perchè il sentire la nul-
lità di tutte le cose sensibili e materiali suppone essenzialmente una
facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura diversa e contraria:
ora questa facoltà come potrà essere nella materia? » ^Zibaldone, Voi. 1,
pag. 217-218). Si legga anche la poesia Alla sua donna.
(2) Zib., Voi. Ili, pag. 269, 285.
(3) Op. cit.. Voi. 1, pag. 438.
(4) Op. cit., Voi. li, pag. 86, 101.
(5) Op. cit., Voi. Ili, pag. 100, 265.
(6) Op. cit., Voi. IV, pag. 92.
(7) Op. cit., Voi. VII, pag. 119-120. Cfr. VII, pag. 122-123.
(8) Op. cit.. Voi. I, pag. 476. Vedi uno degli ultimi pensieri dello
Zibaldone (Voi. VII, pag. 462). Cfr. Dialogo di Tristano e di un amico:
« II genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non
crederà mai né di non saper nulla né di non essere nulla ».
— 299 —
noti anzi la sua titubanza a risolvere persino il problema del male
e del dolore. Le creature nel mondo certo soffrono, ma « se di
questi mali particolari di tutti nasca un bene universale, non si
sa di chi; se vi sia qualche creatura o ente, o specie di enti, a
cui quest' ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono as-
solutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta
e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo
sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo ci rende né pur
verisimili, non che ci autorizzi a crederle » (1).
È dunque evidente eh' egli non si sente 1' animo di risolvere
i problemi ultimi della filosofia, né di pronunciare un giudizio
netto e preciso sull' essenza degli esseri; s' arresta dinanzi all' in-
conoscibile. Si può anzi dire che una delle ragioni della vaghezza
e profondità delle sue poesie, rotte di quando in quando da do-
mande affannose, é il tormento e lo spasimo, quasi, che il Leo-
pardi prova dinanzi agli enigmi insolubili dell'universo. Egli per
es. si domanda: perché, mentre 1' uomo soffre tanto, la natura
resta fredda e indifferente ? (Bruto Minore). Perchè l' animale
s' appaga nell' ozio, e l' uomo no ? (Canto notturno di un pa-
store etc). Perché, esclama dinanzi al ritratto d'una bella donna
scolpito in un monumento sepolcrale, perchè un volto quasi an-
gelico, fonte inenarrabile d' eccelsi, immensi pensieri e sensi, ad
un tratto per lieve forza diviene sozzo a vedere, abominoso,
abietto? E perché la natura umana, ch'é polvere ed ombra, sente
tant'alto? (Sopra il ritratto d'una bella donna etc). Lo rendono
pensoso il problema del destino dell' uomo, dello scopo della
vita universale, l' enigma della vita e della morte, lo spettacolo
dell' infinito. « Dimmi, o luna, a che vale — al pastor la sua
vita, — la vostra vita a voi ? dimmi: ove tende — questo vagar
mio breve, — il tuo corso immortale?... — Pur tu, solinga, eterna
peregrina, — che sì pensosa sei, tu forse intendi — questo viver
terreno, — il patir nostro, il sospirar, che sia: — che sia questo
morir.... — Mille cose sai tu, mille discopri — che san celate al
semplice pastore. — Spesso, quand' io ti miro — star così muta
in sul deserto piano.... — e quando miro in cielo arder le stelle, —
dico fra me pensando: — a che tante facelle ? — che fa 1' aria
(1) Zibaldone, Voi. VII, pag. 199.
— 300 — ,
infinita, e quel profondo — infinito seren ? che vuol dir questa —
solitudine immensa? ed io che sono? » (Canto notturno di un
pastore etc).
Dinanzi a tale spettacolo l'uomo diventa un atomo. « Sovente
in queste piagge.... — seggo la notte; e in su la mesta landa —
in purissimo azzurro — veggo dall' alto fiammeggiar le stelle, —
cui di lontan fa specchio — il mare, e tutto di scintille in giro —
per lo vóto seren brillare il mondo. — E poi che gli occhi a
quelle luci appunto, — eh' a lor sembrano un punto, — e sono
immense in guisa — che un punto a petto a lor son terra e
mare.... — e quando miro — quegli ancor più senz'alcun fin re-
moti — nodi quasi di stelle, — eh' a noi paion qual nebbia —
.... al pensier mio — che sembri allora, o prole dell'uomo? »
(Ginestra).
L' unica cosa certa dinanzi a quest' immensità di mistero è il
nostro dolore. « Arcano è tutto — fuor che il nostro dolor »
(Ultimo canto di Saffo).
Dunque da una parte il mistero, dall' altra il dolore: come
dovrà procedere il povero mortale fra questi due abissi? In altri
termini: quali precetti o indicazioni per la vita pratica si possono
trarre da quest' agnosticismo pessimistico ?
11 cristianesimo, la più grande e profonda religione che finora
sia apparsa sulla Terra, ha cercato di risolvere questo problema
pauroso rinunziando a penetrare il mistero dell' universo e san-
tificando la doglia mondiale con l' amore. Mentre il buddismo
(che alcuni esaltano tanto, e vogliono accostare al cristianesimo!)
fugge le sofferenze e quindi la vita, non risolvendo, anzi soppri-
mendo il problema, e cade nel vuoto infinito del nirvana, che
sotto la fredda serenità nasconde 1' egoismo più nero e più vile
e la morte dello spirito, il cristianesimo (quello schietto, s'intende)
affronta fortemente il dolore, e dice all'uomo: Nessuna felicità tu
potrai trovare nella scienza; sii buono, benefica e ama gli altri
come te stesso; ecco il segreto della vita. Così agendo tu nell'ar-
denza della carità non sentirai il male e il dolore, trasfigurandolo
nel puro e santo fiore del sacrificio offerto ai tuoi fratelli, o, pur
sentendolo, lo patirai di buona voglia al pensiero ch'esso arreca
gioia ad altri; inoltre vincerai il peccato, poiché chi agisce per
amore non può peccare, e così potrai affrontar sereno la morte,
il mistero supremo che ti aspetta; giacché chi non ha peccato
— 301 —
nessun male ha da temere. Se invece sarai cattivo ed egoista,
come ti darà il cuore di andare al passo estremo ? Che cosa ti
accadrà dopo questa esistenza ? Tu sarai infelice in vita, perchè
tormentato dal dubbio e dal rimorso, e tremante di paura di-
nanzi allo spettro della morte.
' Ebbene, la soluzione che del problema dà il Leopardi è press' a
poco la stessa. Il cristianesimo è stato uno degli oggetti più co-
stanti e fissi del suo pensiero; egli lo esamina, lo interpreta ripe-
tutamente, cerca d'accordarlo con le sue idee. La figura di Gesù
gli desta ammirazione e amore. È noto infatti che fra il 1821 e
il '22 abbozzò un Inno al Redentore: nel quale si rivolse al Cristo
non tanto come a divinità, ma piuttosto come ad uomo e fratello:
« Tu sapevi già tutto ab eterno, ma permetti alla immaginazione
umana che noi ti consideriamo come più intimo testimonio delle
nostre miserie. Tu hai provato questa vita nostra; tu ne hai as-
saporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l' infelicità dell'esser
nostro. Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua,
pietà dell'uomo infelicissimo, di quello che hai veduto; pietà del
genere tuo, poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser
uomo ancor tu.... E già fosti veduto piangere sopra Gerusalemme.
Era in terra questa tua patria, giacché tu pure volesti avere una
patria in terra; e doveva essere distrutta, desolata. Così tutti siam
fatti per infelicitarci e distruggerci scambievolmente; e l' impero
romano fu distrutto, e Roma pure saccheggiata; e ora la nostra
misera patria....
Ora vo da speme a speme tutto giorno errando, e mi scordo
di te, benché sempre deluso. Tempo verrà ch'io, non restandomi
altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la
mia speranza nella morte; e allora ricorrerò a te. Abbi allora
misericordia ».
E veramente egli si ricordò di Gesù: che, se nelle sue opere
si possono trovare espressioni d'ira e di sprezzo e, talvolta, quasi
d'odio contro gli uomini (proveniente del resto dalla convinzione
della loro malignità, non da intima cattiveria), pure l'ultimo suo
canto, la Ginestra, é canto di cristiano amore universale. « Costei
[la natura] chiama inimica; e incontro a questa — congiunta esser
pensando, — siccom' é il vero, ed ordinata in pria — 1' umana
compagnia, — tutti fra sé confederati estima — gli uomini, e
tutti abbraccia — con vero amor.... ». E anche nella conclusione
— 302 —
del Dialogo di Plotino e di Porfirio esprime concetti simili: « Vi-
viamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di
portare quella parte, che il destino ci ha stabilita, dei mali della
nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro:
e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambie-
volmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.
La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà,
allora non ci dorremo: e anche in queir ultimo tempo gli amici
e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che,
poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ame-
ranno ancora ».
Appendice alle Parti I e II
LA CRITICA DEL CRITICISMO
La filosofia degl' ideologi, ammiratori del Locke, ha una certa
affinità con la dottrina di Kant. « Se (per usare il linguaggio di
Kant) », scrive 1' Hóffding (1), « per dogmatismo s' intende un
indirizzo che senza un sufficiente esame delle condizioni e dei
limiti della conoscenza si serve dei nostri concetti per stabilire
l'essenza delle cose, laddove la filosofia critica esaminala facoltà
della conoscenza prima di accingersi a speculare sull' esistenza,
la filosofia critica incomincia definitivamente con Giov. Locke ».
Abbiamo visto che il problema della conoscenza assume il
primo posto anche nel!' indirizzo degl'ideologi (in cui si finisce con
l'identificare ontologia e dottrina del conoscere); inoltre costoro
traggono dalle loro dottrine conseguenze che talvolta ricordano
il criticismo: per es. lo sfratto dato alla metafisica, il fenome-
nismo agnostico. È quindi interessante vedere come tali filosofi
giudichino Kant.
Noi esamineremo la critica mossa dagl' ideologi a Kant in
Francia prima, poi in Italia.
La filosofia kantiana che in Germania cominciò a destare vi-
vamente l'attenzione dei pensatori verso il 1786 o 87 per opera
sopratutto del Reinhold, era in Francia, anche prima della Ri-
voluzione, conosciuta, discussa e citata nelle tesi a Strasburgo,
centro intellettuale in cui si studiavano tutte le opere importanti
che apparivano ad occidente e ad oriente del Reno, e in cui gli
(1) Storia della filos. moderna, Torino, Bocca, 2* Ediz., 1Q13, Trad.
Martinetti, Voi. I, Libro IV, Gap. I, pag. 364.
— 304 —
studenti tedeschi s' incontravano con quelli francesi. Dopo il Ter-
rore, Grégoire, che a quel tempo godeva un' autorità letteraria
notevole, incoraggiava coloro che volevano far conoscere la filo-
sofia kantiana in Francia; Sieyès stesso, nel 1796, si proponeva di
render noto Kant; le Memorie dell'Accademia di Berlino che,
scritte in francese, erano molto lette in Francia, facilitarono, dopo
il 1792, lo studio della filosofia critica; nel 1796 Ercole Peyer
Imhoff tradusse le Osservazioni sul sentimento del bello e del su-
blime. Nel 1797 Benjamin Constant, nelle Réactions politiques, com-
batteva una tesi sostenuta da Kant nei Principi metafisici della
dottrina della virtù (1). Nello stesso tempo apparve la traduzione
del Disegno d'un trattato di pace perpetua; due anni dopo, quella
della Religione entro i limiti della pura ragione (2). Nel 1800
Francois de Neufchàteau presentava all' Istituto il suo Conserva-
teur ou recueil de morceaux inédits d' histoire, de politique, de Ut-
térature et de philosophie, in cui i materiali raccolti riguardavano
specialmente la filosofia di Kant, della quale si dava uno schizzo
assai notevole e acuto (gli scritti concernenti la filosofia kantiana
avevano il titolo Choix de divers morceaux propres à donner une
idée de la philosophie de Kant qui fait tant de bruii). Ma Kant
fu conosciuto in Francia sopratutto per opera di Carlo Villers
(1765-1815), illustre letterato della Lorena, che, dopo essersi ac-
ceso d' entusiasmo per la rivoluzione, si era ricreduto, e aveva
manifestato le sue idee in alcuni opuscoli, di cui l'ultimo. De la
liberté (Metz, 1791), l'aveva obbligato a lasciare la Francia nel 1792;
egli si era recato in Germania, dove si era dato allo studio della
letteratura tedesca e sopratutto della filosofia kantiana. Nel 1797
pubblicò a Berlino le Lettres Westphaliennes du Comte de R. M.
à Madame de H. sur plusieurs sujets de philosophie, de littérature et
contenantes la description pittoresque d'une partie de la Westphalie,
in cui trattava anche della filosofia kantiana; collaborò poi allo
(1) La tesi era questa: che sarebbe delitto la menzogna detta ad as-
sassini che domandassero se il vostro amico eh' essi perseguitano non
si sia rifugiato in casa vostra.
(2) Parlarono di Kant anche il Dorsch in due articoli sulle perce-
zioni oscure pubblicati nella Dècade (7 e 17 ottobre) e il Prévost in
Essais philosopliiques de feti Adam Smith, précédés d' un Précis de
sa vie et de ses écrits, par D. Stewart, traduits par Prévost.
— 305 —
Spectateur du Nord, giornale fondato ad Altona da Baudus, emi-
grato francese, e vi pubblicò una notizia letteraria su Kant e
sullo stato della metafisica in Germamia al momento in cui il filo-
sofo di Koenigsberg aveva cominciato ad avere il grido, una breve
analisi della Critica della ragion pura, poi la traduzione (nel 1798)
deli' Idea d'una storia universale. Ma l'opera sua più importante
sul criticismo fu l' Exposition des principes fondamentaux de la
philosophie transcendantale de Kant (1801) (1), dedicata all' Istituto
Nazionale di Francia, nella quale, dopo aver rimproverato all' Isti-
tuto di non essersi mai occupato della nuova filosofia (il che non
era vero), opponeva la dottrina critica al sensismo e all' ideologia
e il metodo trascendentale a quello empirico, esaltando il primo
a detrimento del secondo, inoltre offendeva i Francesi che non
avevano emigrato ed erano rimasti fedeli alla filosofia del XVIII
secolo. Questo libro suscitò vivaci dibattiti. La Dècade philosophique,
in cui scrivevano membri dell'Istituto, rispose (per mezzo del Gin-
guéné) al Villers combattendolo anche con l'arma del ridicolo, ma
ammirando nello stesso tempo la grandezza di Kant, il cui pensiero,
affermava, non si riconosceva nell' analisi del suo espositore. Nel
1801 Degérando fece all' Istituto una seconda lettura (la prima
l'aveva fatta nel 1799) della sua Mémoire sur la philosophie de Kant,
in cui esponeva e criticava il filosofo tedesco, specie riguardo al
metodo e all' oscurità di pensiero, pur riconoscendone il genio
fecondo e ardito (2). Il Villers rispose con lo scritto Kant jugé par
V Institut, in cui attaccava la Dècade e l' Istituto. La Dècade replicò
press' a poco con 1' espressioni di prima, dicendosi pronta a di-
scutere serenamente col Villers sull' analisi dell' intelletto da lui
presentata. Si accese così sempre più la disputa, alla quale presero
parte Mercier (3), Lancelin, Samuel Adams, Degérando, W. R.
(1) Il Soave, come vedremo, cita quest'opera col seguente titolo:
Philosophie de Kant oii Principes fondamentaux de la philosophie
transcendantale. Il titolo che si legge sopra è dato dal Picavet.
(2) Dopo l'anno VI Degérando aveva anche concepito il disegno
di tradurre ed annotare l'analisi del criticismo pubblicata dal Kieseweter,
la Metafisica dei Costumi e i Prolegomeni di Kant. Le sue traduzioni
quasi compiute erano passate per le mani di parecchi suoi amici, ma
per consiglio di costoro non erano state pubblicate.
(3) Autore di due Memorie, la prima consacrata a Kant, la seconda
20
— 306 —
Boddmer, Destutt de Tracy (che, citando l' opera del Kinker,
lodava 1' autore e traduttore perchè non manifestava né disprezzo
né sdegno per coloro che erano meno di lui persuasi della verità
del criticismo; e spiegava per quale ragione i filosofi francesi non
potessero accettare il sistema di Kant). Il risultato della disputa
fu che anche gli ammiratori del criticismo si trovarono concordi
nel riconoscere che il libro del Villers era insufficiente a far co-
noscere la filosofia trascendentale; Schelling stesso nel Giornale
critico della filosofia, eh' egli pubblicava in collaborazione con
Hegel, Io giudicò severamente (1).
LA CRITICA DEL TRACY. — L' anno stesso in cui il Villers
aveva pubblicato la sua opera, Le Févre, esaltando Kant, tradu-
ceva dall' olandese il saggio di Kinker contenente un' esposizione
succinta della Critica della ragion pura {Essai d' une exposition
succincte de la Critique de la raison pure; trad. du hollandais,
par J. le F., 1801). L'anno dopo (1802), nell'aprile e nel maggio
(7 e 30 fiorile dell' anno X) Destutt de Tracy leggeva all' Istituto
un' importante memoria, in cui prendeva per punto di partenza
precisamente la traduzione di Le Févre, pur avendo consultato
la traduzione latina (del Born, professore all' Università di Lipsia)
delle opere di Kant (2) (egli non conosceva il tedesco). Il titolo
a un paragone tra la filosofia kantiana e quella del Fichte; in quest'ultima
aveva, anche prima del Villers, difeso Kant, eh' egli credeva attaccato
da Degérando.
(1) Vedi per queste notizie F. Picavet, La philosophie de Kant e n
Frante de 1773 à 1814, in Critique de la raison pratique de Kant,
nouvelle traduction frangaise, 2» Ediz., Paris, Alcan, 1902.
(2) Opera ad philosophiani criticani, latine versa a Friderico Gottl.
BoRN, Lipsiae, Schwilckertus, 1796-Q8. Il Tracy prevede che qualcuno
potrebbe obiettargli ch'egli non conosce Kant nelle opere originali.
Al che risponde di non aver trascurato di studiar Kant nelle opere sue,
almeno nella versione latina; ma di esser ricorso, data l'oscurità di
Kant, a uno dei suoi commentatori più reputati. Dichiara inoltre di
ritenere che il Kinker abbia ben colte le idee di Kant; che ad ogni modo
il Kinker rappresenta una tendenza, un' opinione per lui falsa, e perciò
la combatte.
— 307 —
della memoria è Della Metafisica di Kant, ovvero Osservazioni
sopra un' opera intitolata: Saggio d' una sposizione succinta della
Critica della Ragione pura di Pinker, tradotta dall' olandese in
francese da F. F. in un volume in 8°, Amsterdam, 1801 (1).
Il Tracy comincia da una riflessione generale sullo stato della
filosofia in Germania. Essa, egli dice, vi fa ancora setta come
altra volta presso gli antichi e come presso i Francesi nei secoli
passati: cioè si adotta l' intero sistema d' un filosofo; si è kantiani
come si era platonici, stoici etc. Questo prova che colà si accetta
del pari e quanto è provato e quanto è appena verosimile, che
r autorità dell' uomo è ancor molta e che quella di dimostrazione
non vi regna assai. Infatti comunemente non si chiamano euclidiani
coloro che adottano le dimostrazioni d' Euclide, come non si
dicono newtoniani coloro che hanno le stesse idee di Newton
sul sistema dell' universo. Fu loro dato tal nome finché quelle
verità sembravano appena probabili e non provate; ma ora ci
arrendiamo alle dimostrazioni di Newton senz'esser perciò new-
toniani. Insomma in quanto riconosciamo una verità dimostrata
non siamo della scuola di nessuno, neppure di colui che primo
la scoperse. Apparteniamo alla setta di qualcuno solo in quanto
adottiamo, fra le opinioni di lui, quelle che sono disputabili.
Quindi è che ora i Francesi, nelle scienze ideologiche, morali e
politiche, in cui pochi punti son rigorosamente provati, non hanno
nessun capo-setta. Ciascuno di quelli che se ne occupano ha le
proprie opinioni personali, assolutamente indipendenti; e, se essi
convengono fra loro in molti punti, non se lo son mai prefisso,
anzi spesso neppure lo sanno, e talora neanche lo credono quando
in realtà è così. Il che prova che la filosofia è in Francia ad un
punto in cui non è in alcun altro paese; prova che s' osservano i
fatti, si raccolgono verità, e non s' ha l' inopportuna premura di
fondar sistemi, meno ancora d' adottarne. I Tedeschi, seguita il
Tracy, ci credono in metafisica discepoli di Condillac, come essi
son seguaci di Kant o di Leibniz. Non badano che Condillac non
ha dommatizzato, non ha creato né preteso di creare alcun nuovo
(1) Sta in Principi logici e Memoria inedita sulla Metafisica di
Kant del conte Destutt de Tracy, Pavia, Bizzoni, 1822 (traduz. di
Girol. Nevati). Non ho potuto trovare la Memoria nell'originale francese.
— 308 —
sistema filosofico; che non s' è assunto il compito di risolvere
quasi nessuna di quelle celebri questioni di psicologia, di cosmo-
logia e teologia, che per essi costituiscono la metafisica; e che
s' è quasi assolutamente limitato ad esaminare le nostre idee ed
i loro segni, a rintracciarne le proprietà e a trarne qualche con-
seguenza. Non sanno d' altronde che fra quei Francesi che si li-
mitano, come lui, alle medesime ricerche, non ve n' ha forse un
solo che adotti senza restrizione i principi di grammatica di Con-
dillac, o che sia pienamente sodisfatto del modo in cui egli ha ana-
lizzato le nostre facoltà intellettuali. In una parola, gli stranieri
ignorano che noi teniamo in gran conto in Condillac non i ri-
sultati a cui egli è giunto, ma il suo metodo. Questo non è un
vasto sistema filosofico, né insegna a costruirne. Anzi ci prova
che non siamo in grado di crearne. Non si tratta quindi di op-
porre un sistema accettato in Germania a un altro adottato in
Francia; bisogna invece confrontare il sistema tedesco col metodo
francese. Ma in che consiste questo metodo ? Neil' osservare i
fatti con la maggior diligenza, nel non dedurre conseguenze se
non con piena certezza, nel non considerare mai come fatti le
semplici supposizioni, nel non prendere a collegare le verità se
non quando si connettano naturalmente e senza lacune, nel con-
fessare francamente la propria ignoranza e nel preferir sempre
r ignoranza assoluta a qualunque asserzione appena verosimile.
Siccome abbiamo seguito questo metodo, nessuna nazione ci pre-
cede nelle scienze. Esso ci trattiene sull' orlo dell' abisso della
metafisica (1).
Ebbene, applichiamo questo metodo all' argomento di cui ci
occupiamo. Non ci si fa menzione del celebre Kant come d' un
saggio osservatore che sia giunto alle tali o tali altre scoperte
particolari, ben provate, ben verificate. Ci si annunzia la filosofia
di lui come un vasto sistema che abbraccia la metafisica, la mo-
rale, la politica; che dà una cognizione piena non solo del mondo
sensibile, ma anche di quello intelligibile; che rende facile la so-
luzione di tutti i problemi tanto astrusi sulla natura degli esseri,
sulla loro essenza, sulla loro origine, sul loro destino. 11 nostro
metodo, naturalmente, c'induce a diffidare di questo sistema. Di
(1) Op. cit., pag. 130-139.
— 309 —
più, i seguaci di Kant ci confessano che le sue opere sono oscure.
È questa un'altra ragione per mettere in dubbio la solidità della
sua filosofia (1).
Premesse queste considerazioni, il Tracy passa a esaminare
r analisi dell' intelletto (ideologia) kantiana; ma, piuttosto che ri-
cercarne i difetti intrinseci, le contrappone la sua ideologia; dal
che conclude naturalmente alla falsità di quella (2). Non è quindi
il caso di trattenersi su questo punto. Più notevole è quanto il
filosofo francese osserva suH' a priori kantiano.
Kant, egli dice, si studia di provare che le facoltà conoscitive
dell' uomo (sensibilità, intelletto e ragione) esistono in noi prima
delle impressioni che ricevono, ossia coesistono originariamente
con la nostra natura. Questo è vero; giacché, se non avessimo
sensibilità, non cominceremmo mai a sentire; se non avessimo la
facoltà di giudicare, non cominceremmo mai a giudicare etc. Ma
guardate quale conseguenza Kant ne trae ! Pretende che vi siano
due specie di cognizioni: 1' una originaria e primitiva {cognizione
pura 0 forma), derivante unicamente dalle nostre facoltà; l' altra
(cognizione d'esperienza) derivante dall'applicazione di queste fa-
coltà agli oggetti; i quali costituiscono la materia della conoscenza.
Ora, questo è falso, giacché è rigorosamente provato essere as-
solutamente necessario il concorso dei due agenti per avere una
percezione. Una facoltà non è che una possibilità, una capacità,
una disposizione o attitudine a produrre un effetto qualunque.
Quindi, se una tale attitudine non si esercita su nulla, è nulla;
né può risultarne qualcosa di reale. L'esempio del grano maci-
nato, che il Kinker adduce in appoggio di questi due pretesi ge-
neri di cognizioni, giova invece a render manifesta la verità del
contrario. La cognizione del meccanismo del mulino è, dice il
Kinker, differente dalla cognizione della materia macinata; e am-
bedue son necessarie per avere la cognizione intiera della farina.
Vero; ma qui si hanno due agenti necessari per la produzione
della farina: il mulino e il grano; l'uno fornisce la materia, l'altro
produce e determina la forma; il che però non fa due specie di
farina. Il mulino per sé solo non produce farina sola, né il grano,
per sé so\o, farina d' esperienza. È necessario assolutamente il con-
ci) Op. cit., pag. 140-143. (2) Op. cit., pag. 145-164.
— 310 —
corso d' entrambi per avere la farina reale. Infatti tale cognizione
pura, che ricaviamo da noi medesimi, non nasce dalla nostra fa-
coltà di conoscere se non dopo che l'eperienza ha posto in azione
questa. Ma allora quella pretesa cognizione pura è anch'essa co-
gnizione d' esperienza ! Si vuol forse intendere per cognizione
pura la cognizione della facoltà di conoscere esaminata nei suoi
atti? Ma allora non sarebbe che il risultato dell'azione delle nostre
facoltà intellettuali volte a scoprire le loro proprie operazioni, le
loro leggi, le loro proprietà, i loro limiti, mediante lo studio dei
loro effetti. In tal caso però questa cognizione (la critica della
ragion para) non sarebbe che l' ideologia; e questa è una scienza
sperimentale, di fatti. Ma non si pretende già questo. Si sostiene
che noi abbiamo un fondo di cognizioni a priori, che è puramente,
unicamente e assolutamente dovuto alla sola facoltà di conoscere;
e che e' è una facoltà di conoscere pura e quindi una cognizione
pura della sensibilità pura, dell' intelletto puro e della ragion pura!
Esaminiamo prima la sensibilità. Si afferma che quanto v' ha
di molteplice e di vario nelle nostre percezioni è la materia; l'unità
ne costituisce la forma. Ora, tolto dalle nostre percezioni quel
che in esse v' è di molteplice e di vario, che ne rimane ? nul-
r altro che le percezioni formali di tempo e di spazio. Queste due
percezioni pure, invariabili, son dunque le forme o le leggi della
nostra sensibilità, e sussistono in noi anteriormente ad ogni per-
cezione degli oggetti. Ecco quindi il tempo e lo spazio qualificati
successivamente come percezioni formali, percezioni pure, ed anche
come forme o leggi invariabili della sensibilità. Ma qui si trovano
uniti vocabili contradittorì. La sensibilità è stata prima definita
da Kant la facoltà passiva d' acquistar percezioni immediate per
mezzo delle impressioni prodotte in noi dagli oggetti sensibili.
Dunque una percezione è il risultato d' un' impressione; ma l' epi-
teto pura indica ciò che ci proviene unicamente dalle nostre fa-
coltà stesse, senza 1' applicazione di queste agli oggetti, quindi
senza ricevere impressioni; dunque una percezione pura è // ri-
sultato d' un' impressione senza impressione (contradizione).
Di più, le percezioni pure o formali son dette anche forme
primitive, leggi fondamentali della sensibilità. Anche qui c'è con-
tradizione; giacché, se son percezioni, non sono leggi, e, se son
'eggi, non sono percezioni. Ciò che accade in virtiì di una legge
non è la legge stessa. Per es. è legge della nostra sensibilità che
— 311 —
nessun oggetto possa esser presente ai nostri occhi senza darci
la percezione d' un colore qualunque. Ma le sensazioni azzurro,
rosso etc. sono non la stessa legge generale, bensì suoi effetti.
Quest'equivoco ricomparisce verso la fine dell'articolo sulla sen-
sibilità, dove si legge che il tempo e lo spazio son forme di cui
la nostra facoltà di conoscere riveste i fenomeni, non già attri-
buti delle cose in sé. Se con ciò si vuol dire che non sappiamo
se r estensione e la durata siano proprietà appartenenti agli es-
seri, indipendentemente dai nostri mezzi di conoscere, ed igno-
riamo cosa possa essere un ente in sé stesso e indipendentemente
da noi, é giusto. Che solo mediante i nostri mezzi conoscitivi
noi giungiamo a sapere che gli esseri sono estesi e durevoli, e
solo relativamente a questi mezzi ci sembrano tali; non sappiamo
quindi se intelligenze differenti dalle nostre giudicherebbero questi
esseri medesimi estesi e durevoli. Ma é falso dire che lo spazio e
il tempo siano forme, cioè leggi, di cui la nostra facoltà di co-
noscere rivesta i fenomeni. Quando tale facoltà é ben diretta, non
riveste né i fenomeni né gli enti di alcuna forma, a nulla impone
leggi; osserva gli oggetti, esamina i fenomeni che ne derivano, e
riconosce quali leggi essi seguono. Ecco tutto.
Passiamo all' intelletto. Questo é presentato come la facoltà di
produrre da sé stessa delle percezioni. Ma come! Prima Kant ha
detto che l'intelletto é la facoltà di riunire in concetti le percezioni
della sensibilità; esso non può quindi produr queste. Inoltre é data
una terza definizione dell' intelletto, ^secondo cui esso va conside-
rato come la facoltà d'acquistare nozioni generali, la quale nei
suoi giudizi riferisce a certi concetti i fenomeni che le son for-
niti dall'esperienza, il che é giudicare; cosicché é necessario che
r intelletto puro sia anteriormente in possesso di certi concetti
fondamentali, che hanno la loro origine neh' intelletto medesimo
(categorie). Si ritrova qui la stessa supposizione gratuita che ha
fatto dire a Kant che lo spazio e il tempo son percezioni esistenti
nella sensibilità prima d'ogni fenomeno, e lo stesso equivoco che
lo ha poi indotto a convertire queste percezioni in leggi o forme
della sensibilità. Il che, come abbiam visto, é errato. Inoltre i
concetti son prodotti dell' intelletto, perciò non possono mai di-
venirne le leggi; ora, le categorie son concetti, non possono quindi
esser le regole primitive dell' intelletto.
Passando all'esame della ragióne, vediamo che l'oscurità au-
— 312 —
menta ancora. La ragion pura, ci si dice, consiste nel trarre dalla
sua propria essenza nuovi concetti, nuovi principi indipendenti
dalla sensibilità e dall' intelletto. Ma è possibile concepire tale
ragione ? Che cosa avviene nella mente di chi usa simili espres-
sioni ? lo, confessa il Tracy, non son capace d' immaginarlo. Di
più Kant asserisce che la ragione, adottando le idee come primi
principi, procede in un modo non solo differente da quello del
raziocinio, ma diametralmente opposto ad esso. Ora, l'umana ra-
gione segue sempre il cammino del raziocinio, né ha altro modo
di procedere. Quindi, se Kant batte una via opposta, vuol dire
che la descrizione eh' egli dà della ragione è l' inversa della ra-
gione stessa. Infatti noi e' inalziamo sempre dalle idee particolari
alle generali, le quali quindi sono posteriori alle altre; invece
r ignoranza del modo in cui si formano queste idee generali ha
indotto i filosofi a credere che esse esistano nella nostra intelli-
genza anteriormente a tutto, quasi tipi innati. Infine si sostiene
che le tre scienze di cui consta la metafisica (quella dell' anima,
quella dell' universo e quella di Dio) siano impossibili e illusorie,
e che tuttavia le idee, oggetti di queste tre scienze, siano indispen-
sabili alla nostra ragione perchè essa possa adempiere la propria
destinazione. Se dopo tutto ciò, conclude il Tracy, non si è an-
cora convinti che il metodo che combatto conduce a difficoltà
insuperabili, non so immaginare che cosa si potrebbe aggiungere
per dimostrarlo. Ogni volta che mi avvengo in tali dottrine, mi
compiaccio con me stesso d'aver sempre pensato e sostenuto che
r ideologia è totalmente diversa dalla metafisica. Essa consiste
nello studio dei nostri mezzi conoscitivi, e non è che la logica
trattata razionalmente, cioè come non fu quasi mai trattata (1).
Le osservazioni più notevoli del Tracy son quelle sul metodo.
Qui effettivamente egli coglie nel segno; che il metodo ideologico
è ben differente da quello trascendentale. Invece quanto dice
suU'a priori ha scarso valore. Kant non considera le forme come
nozioni beli' e formate, indipendenti dalla materia; esse son con-
dizioni della conoscenza, le quali però richiedono sempre un con-
tenuto. Le forme senza materia son vuote, dice Kant; e le intui-
(1) Op. cit., pag. 165-222. Ho tralasciato le obiezioni insignificanti.
— 313 —
zioni senza forme son cieche. Per aver la conoscenza reale è ne-
cessario il concorso delle une e delle altre. Quindi in questo punto
il Tracy è, senza saperlo, d'accordo con Kant. C'è però una dif-
ferenza reale tra le dottrine dei due filosofi, ed è che, mentre
r ideologo francese crede di poter spiegare tutto con i dati em-
pirici, Kant non è di questo parere, e ammette delle forme indi-
pendenti dall'esperienza, le quali son condizioni del conoscere e
costituiscono il presupposto indispensabile di ogni atto mentale,
quantunque, come s'è osservato, di per sé non diano conoscenza
alcuna, avendo bisogno d' un contenuto. Strana è la riluttanza
del Tracy ad ammettere che lo spazio e il tempo siano non già
attributi delle cose in sé, ma forme o leggi di cui la nostra fa-
coltà di conoscere riveste i fenomeni; eppure egli è molto vicino
ad una concezione siffatta. Anche riguardo alla metafisica le sue
idee s' accostano a quelle kantiane; invece egli le combatte !
La critica mossa dal Tracy alle opere di Kant è per noi la
più importante fra quelle che si ebbero in Francia, giacché pro-
viene dal principale cultore dell' ideologia. Ma altri ancora s' oc-
cuparono del criticismo. Nel 1802 W. R. Boddmer, svizzero, pub-
blicava il libro Le vulgaire et les métaphysiciens ou doutes et viies
critiques sur V école empirique, in cui, attaccando la filosofia fran-
cese, esortava allo studio delle opere di Kant (non dei commenti
o estratti di esse). Nell'anno XIII (1804) Degérando nella sua opera
capitale Histoire comparée des systèmes de philosophie consacrava
170 pagine allo studio della filosofia di Kant e dei post-kantiani
(Fichte, Schelling, Bouterweck, Bardili), esponendo in maniera
assai esatta le linee fondamentali del criticismo e aggiungendo
notevoli critiche. Nel 1808 Degérando si occupò di nuovo della
filosofia kantiana nel rapporto storico sui progressi della filosofia
dopo il 1789 presentato a Napoleone dalla classe di storia e let-
teratura antica dell'Istituto. Nel 1805 Prévost, ne^li Essnis de
pkilosophie, indicava dei punti che gli parevano messi ben in luce
da Kant. Nel 1805 stesso Destutt de Tracy, trovando neW Histoire
comparée di Degérando una tendenza troppo accentuata a parlare
dei Francesi come di persone leggere e inferiori ai « profondi »
Tedeschi, affermava invece (nella Logiqué) che nei Tedeschi e' é
— 314
una viva fantasia e una vasta erudizione, ma non profondità e
solidità di pensiero (Degérando, egli dice, confonde 1' erudizione
con la profondità), e ai discepoli di Kant, che accusavano i Fran-
cesi d' ignorare e di sdegnare la dottrina del loro maestro, ri-
spondeva: « Molti fra noi conoscono le idee di Kant, alcuni
le accettano; ma i piìi le respingono e trascurano perchè noi,
coltivando assai lo studio dell' intelletto umano, pensiamo in ge-
nerale che queste idee si fondino su una conoscenza assai imper-
fetta delle nostre facoltà intellettuali, e a noi non piace occuparci
di ciò che ci pare poggiato su una base falsa ». Sono certo
queste, aggiungeva il Tracy, le ragioni per cui gli amici di De-
gérando gli sconsigliarono di pubblicare le sue traduzioni di
opere kantiane (1). Infatti il Tracy riassumeva con le sue parole
le idee di tutti gì' ideologi (Lancelin, Laromiguière, Thurot, Dau-
nou e Portalis pensavano press' a poco come lui).
In seguito, Kant in Francia fu ammirato e additato all'ammi-
razione del pubblico specialmente da M.me de Staèl e dal Cousin.
Ma questi non sono ideologi; quindi non rientrano nel nostro
lavoro.
LA CRITICA DEL SOAVE. — In Italia la filosofia kantiana
cominciò ad essere conosciuta a traverso le opere francesi (specie
quelle degl' ideologi) e la traduzione latina del Born.
Esaminò primo il criticismo il P. Soave in La filosofia di Kant
esposta ed esaminata, edita la prima volta a Modena il 1803 (2).
Egli si fonda, nell' esposizione della dottrina kantiana, sul libro
del Villers Philosophie de Kant ou Principes fondanientaux de la
philosophie transcendantale, anzi usa per lo più le medesime espres-
sioni dello scrittore francese (3). Ha data un' occhiata anche alla
traduzione latina del Born, di cui qualche esemplare, com' egli
stesso dice, era giunto in Italia; ma aggiunge: « Ella è scritta in
(1) Élémens rf' idéologie, Paris, Courcier, 1804, Partie III (Logique),
una lunga nota da pag. 279 a pag. 290.
(2) Io citerò sempre l'edizione Baret, Milano, 1816 (in Opere, \o\. XV,
pag. 263 e seg.).
(3) La filosofia di Kant esposta ed esani.. Ed. citata, pag. 268.
— 315 —
una maniera sì oscura, enigmatica, sibillina, che io non so se al-
cuno abbia potuto avere la sofferenza di leggerla da capo a fondo
e sostenere la contenzione di spirito che è necessaria per ben
intenderla » (1). Tuttavia la cita (2).
La parte prima del lavoro del Soave è dedicata all'esposizione
della dottrina kantiana, la seconda alla critica. La quale egli di-
vide in tre parti, esaminando successivamente le tre facoltà dalla
cui unione, secondo Kant, risulta il nostro potere di conoscere:
la sensibilità, l' intelletto e la ragione. Secondo Kant le rappre-
sentazioni dello spazio e del tempo sono intime a noi medesimi,
indipendenti dagli oggetti così interni come esterni, anteriori a
qualunque rappresentazione d'oggetti, soggettive e non oggettive;
sono condizioni necessarie della nostra facoltà di conoscere, son
le forme di cui la nostra sensibilità veste per sua natura tutte le
sue sensazioni. Ora, qui, osserva il Soave, si vorrebbe sapere che
cosa siano e come esistano in noi queste rappresentazioni dello
spazio e delle sue dimensioni, prima che noi abbiamo acquistato
qualche idea dell' esteso; che cosa siano e come esistano queste
rappresentazioni del tempo prima che qualche idea di successione
si sia presentata a noi. Per dimostrare che esse esistono in noi
anteriormente ad ogni sensazione, Kant non ha che un argo-
mento: dice che queste rappresentazioni sono in noi assolute, in-
determinate, infinite, e che quindi non possiamo acquistarle da
nessun oggetto (finito). Ma abbiamo veramente queste rappresen-
tazioni dello spazio e del tempo assoluto e infinito? Noi abbiamo
certo chiarissima idea di uno spazio determinato e di un tempo
finito; possiamo ingrandire quest' idea quanto ci aggrada; pos-
siamo supporre che, oltre a tutti gl'ingrandimenti che ci fingiamo,
esista ancora dell' altro spazio e dell' altro tempo; allora diciamo
che questo spazio e questo tempo (matematico) sono infiniti per
noi, cioè che noi non sappiamo trovarne i confini. Ma essi non
ci presentano che un' idea negativa, il che vuol dire che dello
spazio e del tempo che esistono oltre i confini a cui può giun-
gere la nostra immaginazione e il nostro intelletto, noi non ab-
(1) Op. cit., Annotazioni, pag. 379. Il Soave conosceva il tedesco.
Forse non avrà potuto trovare il testo originale.
(2) Op. cit., pag. 330-331.
— 316 —
biamo nessun' idea. È dunque falso che esista in noi la rappre-
sentazione dello spazio e del tempo infinito e assoluto. Tutte le
nostre rappresentazioni del tempo e dello spazio sono limitate e
finite. E queste, come pi"etendere che non possiamo acquistarle?
anzi, che siano un prodotto originario della nostra forza e natura
intrinseca, che siano forme soggettive? Nessun cieco nato ha po-
tuto aver mai l' idea dei colori, nessun sordo nato l' idea dei
suoni; l'analogia ci guida a credere che, se qualcuno nascesse
senza odorato o senza gusto o senza tatto, non potrebbe avere
alcun' idea di ciò che si percepisce con questi sensi; e chi nascesse
senza senso alcuno non avrebbe nessun' idea. Ora, come supporre
negli uomini, anteriormente ad ogni esperienza sensoriale, le rap-
presentazioni dello spazio e del tempo non solo come possibili,
ma come reali e necessarie e dipendenti dalla loro forza e na-
tura intrinseca ?
Inoltre, se esistesse veramente in noi questa forza, se fosse una
condizione necessaria della nostra facoltà di conoscere, nella stessa
maniera che siamo consapevoli di aver questa facoltà, non do-
vremmo pur sapere in che modo essa sia fornita delle rappresen-
tazioni dello spazio e del tempo prima d' ogni esperienza senso-
riale, e, molto più, in che modo essa vesta continuamente le sue
sensazioni di queste forme per crearne le idee dei corpi e quelle
dei pensieri interni ? Un essere in sé, qual' è chiamato da Kant
r essere conoscente, che generasse da se tutte le sue rappresen-
tazioni e non sapesse il modo in cui le generasse, né fosse pur
consapevole di produrle, non sarebbe l' essere più assurdo ?
Del resto Kant stesso afferma che, se noi non avessimo mai
sensazioni, non percepiremmo in nessun modo Io spazio, la rap-
presentazione del quale si risveglia con la prima delle nostre sen-
sazioni; che tuttavia quella non nasce da queste ed è anteriore
ad esse. Ora, come conciliare le due cose? come concepire che
esista in noi anteriormente e indipendentemente dall' esperienza
sensoriale una rappresentazione che però non possiamo formarci
se non all'atto delle sensazioni medesime? Che è questa rappre-
sentazione che non possiamo percepire? È una forma soggettiva,
risponde Kant. Ma che dobbiamo noi intendere, o che intende
egli d'esprimere con questo nome di forma? E come poi questa
forma, che era in noi senza essere da noi percepita, si desta
ad un tratto alla prima sensazione? Come avviene che, appena
— 317 —
desta, s'avventa alla sensazione che l'ha risvegliata, la veste di sé
medesima, con lei medesima si proietta fuori di noi, e tutt'e
due si trasformano nella rappresentazione d'un oggetto?
Di piti, se la prima sensazione, contemporaneamente alla quale
si desta l' idea dello spazio, fosse un odore o un sapore, o un
suono o un colore, che idea di spazio potrebbe mai destarsi?
Condillac ha dimostrato che la statua, finché sia fornita dei soli
sensi dell' odorato, del gusto, dell' udito e della vista, non può
formarsi nessun concetto né d'estensione né di spazio, non può
proiettare nessuna delle sue sensazioni fuori di sé stessa, non
può avere nessun' idea d'oggetti esterni. Solo il tatto dà origine
a questa proiezione; ma la prima sensazione tattile non fa nascere
subito l'idea di spazio; quante sensazioni, quanti confronti, quanti
studi son necessari per giungere al concetto astratto di spazio,
specie all' idea astrattissima e negativa dello spazio puro, assoluto,
che Kant suppone positiva e inerente in noi prima di ogni sen-
sazione! E in vero quale rappresentazione o idea di spazio mostra
d' avere un bambino nei primi giorni, anche dopo esser stato nel
seno materno circondato sempre dalle sensazioni tattili, e avere
con quelle, dopo la nascita, avute già molte sensazioni e di sapore
e di colore e di suono e di odore? Quale proiezione mostra egli
di fare delle sue sensazioni ? Quale rappresentazione o conoscenza
dimostra d' avere degli oggetti esterni ? Egli dà segni d' aver, sì,
sensazioni, ma di considerarle tutte come semplici modificazioni
dell' essere suo; non sa riferirle a nulla d' esterno, non ne trae
quindi ancora idea alcuna d' oggetti esteriori. Orbene, se fosse
una virtù intrinseca e necessaria della nostra sensibilità il vestir
della forma dello spazio le nostre sensazioni e proiettarle fuori
di noi, dando origine alle idee degli oggetti, il bambino non do-
vrebbe proiettare immediatamente le medesime rappresentazioni
degli oggetti che abbiamo noi e dare gli stessi indizi o indizi
analoghi d'avere queste rappresentazioni? (1)
Osservazioni simili si possono fare riguardo al tempo. Strana é
la tesi che nessuna percezione interiore, nessuna coscienza sarebbe
possibile in noi, se non fosse vestita della forma del tempo; che,
se facciamo astrazione dal tempo, non possiamo piìi percepir noi
(1) Op. cit, pag. 320-328.
— 318 —
medesimi, né sentire qualcosa che accada in noi. Poiché Kant
stesso nella Critica della ragion pura dice che tutte le nostre per-
cezioni sono accompagnate dalla coscienza io penso, che questa
é la prima percezione originaria, la quale, perché possa accom-
pagnare tutte le altre, dev' essere in origine senza compagna; e
ripete poi nella Critica della ragion pratica che la coscienza di
noi medesimi in tanto è certa, in quanto è assoluta, non sotto-
posta in alcun modo alle leggi della facoltà di conoscere, indi-
pendente quindi dalla forma del tempo, se fosse vestita della
quale sarebbe illusoria al pari delle altre. Ora, come mai dice qui
che una tal forma é assolutamente necessaria all' esistenza della
percezione che abbiamo di noi stessi? Non é una contradizione?
Se la coscienza che abbiamo di noi stessi è indipendente dalla
forma del tempo, perché non ne sarebbe indipendente la coscienza
di tutte le nostre modificazioni interiori? Ma, risponde Kant, è
indubitabile che tutte le nostre affezioni interne debbono compa-
rirci come esistenti o insieme o 1' una dopo 1' altra, cioè o nella
stessa parte del tempo o in momenti consecutivi; dunque appunto
la forma del tempo ce le fa sentire. La conseguenza qui non é
legittima. Certo io son consapevole d' un mio dolore in un dato
momento; ma non già la rappresentazione del tempo mi dà la
coscienza o la sensazione del dolore, bensì l'impressione esterna
o interna da me ricevuta; e, mentre io sento il dolore, a questo
solo penso, non già al momento in cui lo sento; l'anima mia,
tutta occupata dal dolore suo, specialmente se questo è subitaneo
e violento, non si prende la briga di pensare né al tempo, né ad
altro. Ma, replica Kant, se la rappresentazione del tempo non
é a priori e soggettiva, per quali dei miei organi esteriori 1' ho
acquistata? dov'è un oggetto da me percepito che sia il tempo?
Qui Kant non ha visto che la cognizione del tempo si può
acquistare dall'avvertimento del succedersi delle nostre sensazioni
interiori, o anche dal movimento esterno (passaggio successivo
dall' una all' altra parte dello spazio), dalla successione di causa
e d' effetto etc. Non é dunque vero che la rappresentazione del
tempo sia una forma a priori, anteriore ad ogn' idea di succes-
sione, e il presupposto necessario di ogni percezione interna (1).
(1) Op. cit., pag. 330 333.
— 319 —
Esaminata, così, la sensibilità, passiamo all' intelletto. È nota
la dottrina kantiana delle categorie, le quali sarebbero anch'esse
forme pure, leggi soggettive a priori della nostra facoltà di co-
noscere, presupposti indispensabili d' ogni conoscenza, perciò an-
teriori alla percezione degli oggetti, che esse anzi coordinano,
legano, classificano e determinano. Ma tutto ciò sembra erroneo
al Soave; che, qualora fosse vero quanto dice Kant, seguirebbe
che noi giudichiamo uno il sole e molte le stelle non perchè
vediamo un sole soltanto e molte stelle, ma perchè, fra tanti og-
getti collocati dalla nostra sensibilità nello spazio, piace all' intel-
letto di applicare la sua categoria dell' unità al sole piuttosto che
alle stelle, e la categoria della pluralità alle stelle piuttosto che al
sole. Del pari giudicheremmo diafano il vetro e non diafano il ferro
non perchè l'uno dia passaggio alla luce e 1' altro no, ma perchè
r intelletto a quello applica la categoria dell'affermazione, a questo
quella della negazione. Similmente giudicheremmo sostanza il sasso
e la sua figura rotonda o cubica un accidente non perchè, cam-
biandosi la figura, il sasso tuttavia sussiste, ma perchè piace al-
l' intelletto di dare la categoria di sostanza piuttosto al sasso che
alla figura e viceversa. Guai a chi dicesse che la madre è causa
e il figlio effetto perchè questo nasce da quella! Sarebbe errore
da empirico. Un fedele trascendentalista deve dire che quel rap-
porto sussiste unicamente perchè l' intelletto applica alla prima
la categoria di causa e al secondo quella di effetto; e dev'esser
pronto a sostenere che, se a qualche testa bizzarra piacesse il
contrario, si vedrebbe il figlio diventar causa e la madre effetto.
Stranissima è poi X asserzione di Kant che queste categorie
siano in noi anteriori alla conoscenza di qualunque oggetto. Come
mai io posso avere il concetto d' unità e pluralità, senz' aver mai,
non dico, veduto, ma rappresentato nella mia mente né uno né
più oggetti? come conoscere la distinzione di sostanza e acci-
dente, di causa ed effetto, di azione e reazione, di possibilità,
esistetiza etc. prima di conoscere qualche oggetto in cui questi
caratteri si possano o ravvisare o supporre?
Né si può dire che Kant consideri le categorie come semplici
potenze, che poi si riducano all' atto nel conoscere gli oggetti.
Egli le considera come cose reali e davvero esistenti nell' intel-
letto prima della conoscenza di qualsiasi oggetto; anzi dall' appli-
cazione loro egli fa nascere e le immagini degli oggetti e gli og-
— 320 —
getti stessi. Infatti secondo il criticismo quando un concetto puro
dell' intelletto è applicato a una forma pura della sensibilità, di-
viene uno schema o tipo primitivo. Dunque lo schematismo è l'atto
risultante nella nostra conoscenza dall' applicazione delle forme
dell' intelletto puro a quelle della sensibilità pura. Quando tale
applicazione si fa ad una cosa individua, ne risulta un' immagine,
la quale, riferita ad una sensazione, forma un oggetto. Qui si
vede che la formazione delle immagini è tutta opera dei concetti
puri dell' intelletto combinati con le forme pure della sensibilità
anteriormente non solo a qualunque oggetto, ma anche a qua-
lunque sensazione, poiché solo dal riferire le immagini alle sen-
sazioni risultano gli oggetti (1).
Nell'esame della teoria kantiana della ragione le osservazioni
del Soave sono meno notevoli; tuttavia qualcuna merita d'esser
ricordata. Riguardo all' idea cosmologica della totalità assoluta o
dell' universo osserva per es. che Kant vede una contradizione
necessaria tra la sensibilità e l' intelletto da una parte, per cui
r infinito è troppo vasto, e la ragione dall' altra, per cui ogni
limite è troppo angusto; onde derivano le quattro famose anti-
nomie. Ma come mai nel soggetto conoscente qual' è supposto
da Kant possono nascere queste contradizioni e antinomie? L'es-
sere conoscente è uno; la sensibilità, l'intelletto e la ragione
formano con lui una cosa; come può egli essere in contradi-
zione con sé stesso? O ha o non ha l'idea d'assoluto. Se l'ha
per mezzo della ragione, come può contradirsi perchè non 1' ha
per mezzo della sensibilità o dell' intelletto? Forse la sensibilità
e l'intelletto sono due cose separate da lui? Inoltre Kant ha detto
da principio che le rappresentazioni dello spazio e del tempo,
come forme soggettive della sensibilità, sono illimitate, infinite.
Come mai ora l' infinito diventa troppo vasto per la sensibilità?
Infine, secondo Kant, il soggetto conoscente costruisce e, in
certo modo, crea 1' universo. Ora com' é possibile che quest' uni-
verso eh' egli stesso s' é creato non debba egli sapere come se
Io sia creato, se finito o infinito rispetto allo spazio e al tempo,
se composto di parti semplici o no etc. ? Come mai un essere
che si crea da sé I' universo può avere intorno a questo opinioni
contradittorie? (2).
(1) Op. cit, pag. 336-340. (2) Op. cit., pag. 341-345.
— 321 —
Del criticismo, oltre la parte teoretica, il Soave esamina anche
la dottrina della ragion pratica. Ma qui veramente in alcuni punti
non interpreta bene Kant, quindi gli muove false accuse. Tut-
tavia fa pure qualche buona osservazione. Così egli nota che
Kant ha creduto di risolvere il problema della libertà con la di-
stinzione fra il mondo dei fenomeni e quello dei noumeni. Ma
noi non sappiamo che farci dei suoi fenomeni, delle sue categorie,
e della libertà di un mondo trascendente; noi consideriamo la
natura e i suoi avvenimenti non come fenomeni (apparenze) o
puri concetti dell' intelletto, ma come cose reali; quindi la sua
soluzione non ci sodisfa.
Inoltre i dettami naturali anteriori ad ogni conoscenza, i pre-
cetti assoluti, gì' imperativi categorici non sono che parole vane,
asserzioni gratuite, contradette dai fatti. Anzi sono inconcepibili,
giacché chi può capire come mai uno, prima d' aver acquistata
idea alcuna del giusto e del buono, possa sentire in sé stesso
una legge che gli comandi quel ch'egli non sa? Fa il giusto e
il buono. Ma questo giusto e questo buono che cos'è? Non lo
sappiamo né tu, né io; ma tu devi farlo; ed io te lo comando
sotto pena che tu arrossisca ai tuoi propri occhi. Ecco il nocciolo
della dottrina kantiana. Ma non é questa una legislazione del
tutto nuova e strana? Il Soave conclude contrapponendo la filo-
sofia sperimentale, che é quella sua e quella degl' ideologi, alla
trascendentale di Kant (1).
Questa critica, che gli storici della filosofia superficialmente
hanno spesso considerata come superficiale (2), é invece (fuorché
in qualche punto, dove il Soave ha troppa fretta di sostituire le sue
idee a quelle di Kant o addirittura interpreta male il criticismo)
acuta ed esatta (superiore senza dubbio a quella del Tracy). È
un attacco vivace dell'empirismo contro 1' apriorismo; ecco tutto.
Notevoli sono specialmente i punti in cui il Soave intravede la
(1) Qui però il Soave interpreta male la dottrina kantiana, credendo
che questa consideri tutto il mondo come un' illusione (mentre la filo-
sofia sperimentale lo terrebbe per una realtà). Il che è falso, come ve-
dremo parlando della critica mossa dal Romagnosi a Kant.
(2) Vedi per es. V. Cuoco, Op. cit., pag. 46-47.
21
— 322 —
confusione kantiana fra lo spazio (e il tempo) oggettivo (mate-
matico) e quello soggettivo, e nota l' impossibilità di considerare
lo spazio e il tempo soggettivo come una forma beli' e pronta
nella nostra mente, indrpendente da ogni esperienza. È noto che
questo è uno dei punti più deboli della dottrina kantiana, che
non regge al confronto dei fatti, i quali mostrano che la perce-
zione dello spazio si perfeziona e quasi si forma a poco a poco
con r esperienza.
L' obiezione sull' autocoscienza non va, perchè 1' unità sintetica
originaria dell'appercezione secondo Kant ci dice solo che siamo,
non come appariamo a noi stessi, né come siamo in noi stessi (1).
Solo in questo senso è libera dalla forma del tempo.
Importante è la dimostrazione soaviana dell' impossibilità di
considerare le categorie come forme soggettive, e della necessità
di tener conto delle condizioni e dei suggerimenti dell' esperienza
per r applicazione loro. Giusto è quanto osserva sulla dottrina
dello schematismo, secondo cui le categorie parrebbero veri e
propri atti (non semplici possibilità) compiuti prima dell' espe-
rienza. Lo schematismo è senza dubbio una parte debole e con-
fusa della dottrina kantiana; Kant, credendo di facilitare con esso
r applicazione delle categorie al reale, crea nuove difficoltà.
Notevoli sono le altre osservazioni sulla ragion pura e sulla
ragion pratica.
*
LA CRITICA DEL BALDINOTTI. — Dopo il Soave, in Italia
si occupò di Kant Cesare Baldinotti, già da noi ricordato fra i
simpatizzanti con la filosofia lockiana (2). Il quale in un'appen-
dice della sua opera Tentaminum Metaphysicorum libri tres (\%\1)
(1) Kritik der reinen Vernunft, herausgegeben von K. Kehrbach,
2» Ediz., Leipzig, Reclam, Supplement III, § 25, pag. 676.
(2) Si noti che il 1808 fu tradotto in italiano il trattato di Kant Ueber
Paedagogik (compilato dal prof. Teodoro Rinck, scolaro di Kant, sopra
il corso di lezioni pedagogiche che il celebre filosofo teneva all'Uni-
versità di Koenigsberg, e pubblicato il 1803) col titolo Idee di E. Kant
suir educazione pubblicate dal doti. Rinck, traduz. dal tedesco di A. E.,
Milano, Silvestri, 1808. A un'affermazione di questo scritto si riferiva
— 323 —
esaminò e criticò nelle linee generali la dottrina del filosofo
tedesco (1).
• Il Baldinotti non vuol esporre la storia del kantismo, il che
sarebbe troppo arduo e lungo. Rimanda per questo riguardo il
lettore all' Mistoire des systèmes di Degérando. Su quale testo ha
studiato la dottrina di Kant? Sulla traduzione latina del Born.
Ma non è sicuro d' aver interpretato giustamente il pensiero
kantiano. I seguaci del filosofo tedesco rispondono sempre a
quelli che rivolgono loro obiezioni, di non esser capiti, anzi non
s' intendono neppure fra di loro; e anche noi, egli dice (forse
non senza una punta d' ironia), siamo uomini; e non possiamo
evitare la sorte degli altri. Ma perchè, osserva, i kantiani non
adoperano ogni cura e ogni studio per esser compresi? (2).
Premesse queste considerazioni, passa ad esporre brevemente
la dottrina di Kant (3). Il quale, egli dice, volle tentare un' impresa
del tutto nuova: indagare se e in che modo sia possibile la cono-
scenza del vero, che cosa sia conoscere il vero, quale sia la re-
lazione fra oggetto conosciuto e soggetto conoscente; pensò così
di ricercare la possibilità della metafisica e dell'esperienza. Secondo
Kant gli scettici e i dommatici, i razionalisti e gli empiristi, i
materialisti e gl'idealisti sono assai lontani dal vero perchè non
il Delfico il 1814 al principio della sua Memoria su la perfettibilità or-
ganica (« Kant riguardò la teoria dell' educazione come il più gran
problema sociale ancora irresoluto »). Il Delfico nominò Kant anche in
Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche etc, dove
accennò alla tesi sostenuta da Kant nell'operetta Per la pace perpetua
(ch'egli forse conosceva indirettamente o nella traduzione francese), se-
condo cui solo nell'uniformità delle idee e delle leggi dei popoli si può
trovare il fondamento della pace mondiale. Alla medesima tesi kantiana
il Delfico accennò nella detta Memoria su la perfettibilità organica.
Vedi Delfico, Opere, Voi. Ili, pag. 506, 512-13 e 577.
(1) Caesaris Baldinotti Tentaminum Metaphysicorum libri tres,
Patavii, Typis Seminarli, 1817 — Tentamen I — De Metaphysica generali
liber unicus — Appendix: De Kantii philosophandi ratione et placitis
ut ad Metaphysicam Qeneralem referuntur, pag. 379-400. Quest' opera,
dichiarata irreperibile dal Cicchitti-Suriani {Op. cit., pag. 79) è nella
Biblioteca Nazionale dì Firenze (vecchio fondo della Palatina).
(2) Op. cit., §§ 883-886. (3) Op. cit., §§ 887-911..
— 324 —
hanno affrontato queste questioni e perchè hanno trascurato le
verità trascendentali. Kant si diede a ricercar queste verità a
priori, tentando di conciliare tutte le sette dei filosofi e fra di
loro e con la sua dottrina. Ma non ci riuscì; anzi suscitò nuove
contese. Il che derivò forse dall' oscurità della dottrina, dai neo-
logismi contorti e non necessari, dall' immensa moltitudine di
questioni, di tesi, di antitesi, di postulati, di scolii, dalla immode-
ratezza nel definire, interpretare, spiegare, distinguere, dividere, in-
fine dalla natura stessa degli elementi di cui consta il criticismo,
i quali non si possono comporre fra di loro. Onde la facile scap-
patoia che il criticismo non sia compreso e perciò sia respinto.
Come sciolse Kant il problema della conoscenza? Distin-
guendo per ciascuna facoltà (sensibilità, intelletto e ragione) una
materia e delle forme (1). Queste forme Kant si gloria d' aver
ricercate e trovate a priori. Dunque, osserva il Baldinotti, la fi-
losofia di Kant differisce moltissimo da quella che dopo Locke
s' è sparsa per quasi tutta 1' Europa; questa trae origine dall' os-
servazione, sta attaccata all'esperienza, procede con l'una e con
l'altra, non si allontana mai dal loro fianco. Kant invece a priori
tratta dell' intelletto e ne dà la teoria. Questo è, secondo il Bal-
dinotti, il delitto (scelas) del sistema kantiano. Questa ne è la
parte più arbitraria, per nulla provata, interamente ipotetica, anzi
opposta alle leggi delle ipotesi (2).
Dopo aver toccato dell'applicazione delle forme alla materia,
dei limiti e delia realtà delle nostre conoscenze, della dottrina
etica kantiana, il Baldinotti passa all' attacco.
Tutto r edificio del filosofo tedesco, egli afferma, crolla dalle
fondamenta, se si osserva che è stato eretto a priori, come Kant
stesso confessa. Costruire a priori una teoria dell'intelletto umano!
Dunque Kant ebbe nota l' essenza intima dello spirito per un
certo privilegio suo! Ma allora perchè non la spiegò chiaramente.
(1) Si noti che il Baldinotti ha un'idea esalta delle forme kantiane:
infatti dice che è forma della sensibilità, ossia legge sua, di non poter
separare l'oggetto rappresentato dallo spazio e dal tempo {Op. cit.,
§ 894), e che le forme, ossia le leggi dell'intelletto, sono le condizioni
generali e necessarie del giudizio {Op. cit., § 895).
(2) Op. cit., % 898.
— 325 —
come i geometri spiegano le loro figure, e i fisici le loro macchine,
di cui conoscono 1" intima costruzione e natura? perchè non rivelò
in che maniera aveva scoperto le forme e i loro caratteri? (1).
Inoltre Kant pose quasi a base del suo edificio filosofico il
problema della possibilità della conoscenza; credeva anzi che le
stranezze dei filosofi dipendessero dal non aver risoluto tale que-
stione. Orbene, questo problema è contradittorio in sé, giacché
presuppone la conoscenza prima che si sia provata la sua pos-
sibilità. Infatti in quale altro modo se non con la conoscenza
l'intelletto può ricercare e scoprire quella possibilità? Noi pro-
cediamo da una cognizione ad un' altra, ma manca la via per
cui possiamo procedere alla possibilità della conoscenza; poiché
la possibilità della conoscenza precede ogni cognizione, e solo
con la cognizione noi possiamo procedere ad essa (2).
Di più: la realtà di questo edificio kantiano è nulla. Tutto in
esso é apparenza e fenomeno: quindi niente é certo in sé. Poiché
la materia riceve il suo carattere dalla forma; le forme non deri-
vano dalle cose, né sono nelle cose, ma appartengono allo spirito;
il nesso reciproco delle forme tra loro e di esse con la materia de-
riva del pari dallo spirito. Da questo nesso, da quest'applicazione
provengono le nozioni e le idee; niente dunque é certo rispetto
all'oggetto, ossia in sé. Ma neppure rispetto al soggetto. Poiché
lo stesso essere pensante, in quanto oggetto, è apparente, é fe-
nomeno. Dunque sono fenomeni le forme di lui; fenomeno é la
materia; fenomeni sono le leggi secondo cui alla materia sono
applicate le forme; l'applicazione stessa è fenomeno. Kant in vero
dice che le leggi, le quali determinano tutto, sono immutabili e
necessarie. Ma che importa questo, se esse stesse son fenomeni,
se tutto è apparente, se ci volgiamo sempre nel vortice dei fe-
nomeni ? (3).
La ragion pratica di Kant pone un rimedio a tutte queste
negazioni, a tutti questi dubbi ? Sì, ma con la fede, non con la
forza della conoscenza; con i postulati, non con le dimostrazioni.
Ma questi son rimedi inefficaci e inetti: che non prevengono
{\) Op. cit., % 912.
i2^ Op. cit., % 913. Come si noterà facilmente, questa critica ricorda
quella di Hegel. (3) Op. cit., §§ 913-16.
— 326 —
mali pessimi, non recano aiuto alla società e alla religione peri-
colanti, né impediscono la loro rovina. Non basta: la ragion
pratica di Kant è non solo inutile, sibbene assurda. Postula in
vero r esistenza di Dio ed altri fatti quasi egualmente impor-
tanti. Ma dal postulare qualcosa segue forse che questo qualcosa
esista o possa accadere ? La ragion pratica può far sì che si
presti fede a quei fatti, ma non li dimostra: Kant stesso dice che
di essi si può provare il prò e il cantra, perchè non sono pro-
porzionati air intelletto; che quindi non si può decider nulla a
lor riguardo. Dunque la ragion pratica di Kant impone di credere
ciò che può esser tanto vero quanto falso, impone cioè l'assurdo,
quindi è assurda essa stessa.
Ma neppure la ragion teoretica (che secondo Kant regge il
sistema psicologico, compie V opera delle altre facoltà, le libera
da ogni condizione, ed ha perciò idee complete, indipendenti da
ogni altra forma) può adempiere questo molteplice suo compito.
Che valgono infatti a tale scopo quelle idee complete, quelle tre
forme assolute (Dio, 1' universo, 1' anima) che essa possiede per
sua natura ? Kant ritiene che sia impossibile mostrare che queste
cose esistano oggettivamente (la loro realtà oggettiva). Come
dunque possono esser la base e il fondamento delle altre cogni-
zioni ? Come possono rendere la ragion teoretica adatta a tale
compito ? Senza dubbio essa è impari a questo.
Pertanto la ragione così pratica come teoretica non libera Kant
da uno scetticismo generale. Ma egli è anche dommatico; infatti
sostiene molte tesi senza ragione. Quale ragione per es. indusse
Kant ad avanzare tutte quelle asserzioni sulla materia, la forma,
le categorie, le leggi dell' intelletto etc. ? Su quale fondamento
egli affermò che la forma e le idee sono destituite di ogni realtà
oggettiva, non hanno alcuna relazione esterna? Nessuna ragione
davvero addusse di queste asserzioni. Inoltre chi non dommatizza
confessa la debolezza della ragione, segue l'osservazione e l'espe-
rienza per determinare le facoltà e le leggi dell' intelletto; non
confida dunque di poter rivelare queste leggi e facoltà a priori.
Ma, siccome Kant procede in maniera opposta, è evidente ch'egli
è dommatico.
Queste considerazioni c'inducono ad affermare che Kant segua
i razionalisti. Costoro infatti attribuiscono tutto alla ragione e
nulla all' esperienza. Kant invero attribuisce all' esperienza i pri-
— 327 —
mordi del conoscere, Insegna che non può darsi il conoscere
senza l'applicazione delle forme alla materia della sensibilità, cioè
senza l'esperienza; ma questo a parole. È invece un suo domma
che la possibilità del conoscere si debba ricercare e dimostrare
con la ragione. Così sottomette l'esperienza alla ragione, la quale
non solo aggiunge forza alla conoscenza sperimentale, ma anche
prova e dà la possibilità di essa. Che cosa puzza maggiormente
di razionalismo ?
Ma il bello è che dalla natura della filosofia critica segue che
Kant è pure empirista! Infatti egli stesso sopprime tutte le verità
di ragione, stabilisce che tutte riguardano i sensibili. Ben è vero
che non assegna cognizioni vere e proprie all' esperienza; ma, se
le forme della sensibilità non danno una base per l'applicazione
delle forme dell' intelletto e della ragione, si ha assoluta mancanza
di conoscenza. Non e' è dunque conoscenza che non si riferisca
a qualche oggetto sensibile. Se manca questa relazione, i nostri
pensieri sono vuoti. Appunto per ciò egli rimproverò Locke, che
aveva tentato di provare 1' esistenza di Dio. Dunque mai ci fu
forse empirista così radicale.
Infine Kant stesso dà ragione di credere ch'egli si possa an-
noverare fra gì' idealisti e i materialisti. Fra questi in vero in
quanto crede che l'esistenza degli spiriti non si possa dimostrare,
che quindi possa esser falsa. Fra gl'idealisti poi perchè egli è un
idealista assoluto. Infatti che cosa conosciamo, secondo Kant,
degli oggetti ? Solamente che esistono. Ma come conosciamo
questo? Non in sé e per sé, ma secondo le leggi dell'intelletto,
che non hanno nessuna validità rispetto all' oggetto. Dunque
r esistenza dei corpi si dimostra solo soggettivamente, non og-
gettivamente, ossia è solo ideale. Del resto, anche se si dimo-
strasse oggettivamente, siccome ignoriamo, secondo Kant, le pro-
prietà e le azioni dei corpi, e siccome le forme della sensibilità,
cioè il tempo e lo spazio, sono solo in noi, sono leggi della nostra
mente, in vero si dimostrerebbe non che essi esistono, ma che
esiste ciò di cui non abbiamo alcuna idea, alcuna conoscenza
reale, ciò che non esiste né nello spazio né nel tempo, ossia che
non esiste. Kant, è vero, distingue la materia della sensibilità
dalla forma, quasi che quella venisse di fuori; ma questa distin-
zione è illusoria; con essa Kant volle coprire il suo idealismo.
Infatti secondo lui stesso la materia è fenomeno; le leggi della
— 328 —
natura, che regolano gli effetti della materia, sono creazioni del-
l' intelletto; dalle leggi dell' intelletto deriva il nesso della materia
e delle forme della sensibilità; nessun' analogia, nessuna relazione
congiunge la materia kantiana della sensibilità all'oggetto esterno:
non una relazione di somiglianza, non una d' identità, non una
di causalità: delle prime due non si può nemmen parlare; l'ultima
poi Kant come potrebbe provarla, senza dimostrare che esistono
gli oggetti in sèi? Giacché stabilirebbe che sussista una relazione
di causalità in ciò che egli non mostrerebbe che esista. Quindi
la materia kantiana è soltanto nello spirito e deriva dallo spirito,
non è fuori di esso. Dunque la sua indipendenza dalla forma è
un' illusione. Dunque Kant ha cercato di coprire con essa il suo
idealismo.
Conclusione: Kant non ha superato gli scogli in cui egli vide
naufragare altri; ha dato anzi in essi; ed è caduto in tutti gli errori
che si meravigliò non fossero stati evitati dai suoi predecessori (1).
Questa critica, quantunque contenga qualche buona osserva-
zione (stabilisce per es, la vera differenza fra la dottrina di Locke
e il criticismo, insiste sull'oscurità e tortuosità del linguaggio cri-
tico, nota nei kantiani il vizio di dire di non esser compresi dagli
avversari, coglie esattamente il concetto kantiano di forma, scova
neir intimo della dottrina del filosofo di Koenigsberg i germi del-
l' idealismo) dà talvolta l' impressione di un vano esercizio sco-
lastico e retorico. Infatti non si capisce come mai un filosofo
possa riunire in sé caratteri così cozzanti fra loro come quelli di
scettico e di dommatico, di razionalista e d'empirista, d'idealista
e di materialista, che pur il Baldinotti vuol attribuire tutti a Kant.
In tal caso vien fatto di pensare che un sistema filosofico, per
chi vuol criticare per criticare, diventa come un pezzo di gomma
elastica, che si può tirare in tutti i sensi.... Che valore può avere
una critica siffatta, che dimostra tesi contradittorie sullo stesso
oggetto? Si distrugge da sé (2). Il Baldinotti stesso ha affermato che
ciò di cui si può dimostrare il prò e il cantra é assurdo. Dunque....
(1) Per tutta questa parte vedi Op. cit., §§ 918-927.
(2) Forse il Baldinotti crede d'aver mostrato chela teoria stessa di
Kant risulti di elementi incompatibili fra loro. Ma tale sua opinione
non dipenderebbe dal non aver inteso lo spirito di quella teoria?
329 —
LA CRITICA DEL BORRELLI — Ben più importante è la
critica del Borrelli: il quale, per circostanze a noi note di sua vita,
aveva avuto occasione di dimorare in terra tedesca, d' imparare
quindi la lingua necessaria a leggere e interpretare direttamente
le opere di Kant (di cui cita la Krltik der reinen Vernunft, Riga,
1794; i Prolegomena za einer jeden kunftigen Metaphysik, Riga,
1783; la Grundlegung zar Metaphysik der Sitten, Riga, 1797; e la
Krttik der praktischen Vernunft, Leipzig, 1818) e di conoscere
anche qualche critica mossa al filosofo di Koenigsberg in Ger-
mania stessa (dei critici tedeschi cita lo Stattler, lo Zallinger, il
Tittel). L'essenziale della critica è ntW Introduzione alla filosofia
naturale del pensiero (Lugano, 1824), Sezione I, Cap. II, §§ 3 e 4.
Ove, dopo una breve esposizione non tanto delle dottrine, quanto
del metodo di Kant, passa all'attacco. Tutto il sistema kantiano,
dice il Borrelli, è fondato su una divisione arbitraria delle cono-
scenze umane. Oltre quelle che ci son dettate dall' esperienza,
ne ammette altre a priori (forme). Ma queste sono superflue,
poiché si può mostrarle dipendenti dall' esercizio dei sensi, dal-
l' astrazione, dall' attenzione, dall' analisi, dalla sintesi e da ciò
che si suol chiamare generalizzazione d' idee. Quindi « si dirà
che un ponte si è fatto per attraversare con pena uno spazio,
per cui potea ritrovarsi con miglior consiglio un sentiero » (1).
Ma le forme kantiane sono non solo inutili, ma anche inintel-
ligibili. Per es. quelle della sensibilità sono ciò per cui il molte-
plice del dato acquista un certo ordine ed è rivestito delio spazio
e del tempo; parrebbe dunque che fossero semplici attitudini a
sistemare gli elementi, ossia facoltà o forze ordinatrici; dovreb-
bero quindi dar origine a conoscenze solo all'urto degli oggetti
esterni sui sensi. Ma a tale interpretazione s' oppone la sentenza
di Kant stesso, il quale nella Critica della ragion pura dice
espressamente a proposito dello spazio: « Questa forma pura
della sensibilità si chiamerà essa stessa intuizione pura » (2).
(1) Introduz. etc. (Edz. cit.), pag. 57.
(2) Kritik d. r. V. (Edz. cit.), pag. 49.
— 330 —
Quest'espressione significa un riguardare, un modo di vedere,
quindi non una possibilità, ma un atto: il quale sarebbe non pro-
dotto per via dell' esperienza, ma a priori. Ora, quest' atto può o
precedere o accompagnare o seguire l' impressione sensoriale. Se
però di queste tre supposizioni si vorrà ammettere la prima, si
avrà un'intuizione in cui non s'intuisce nulla. Nessun guadagno
otterremo volendo intendere quest' atto o come funzione ordina-
trice di nessuna cosa ordinabile o come forma interiore per qual-
siasi materia formata ; che, in tal caso, riavremo quelle idee
innate che oramai sono state distrutte da Locke. La seconda e la
terza supposizione poi sono in contrasto con quanto dice Kant
stesso: infatti egli asserisce che le forme non sorgono quando i
nostri sensi hanno agito o agiscono ancora, ma giacciono prepa-
rate neir animo e quasi prefondate. Ripete anzi spesso che non
sono né mediatamente né immediatamente dedotte dalla nostra
esperienza, ma che sono condizioni della possibilità di essa.
Dunque nessuna delle tre interpretazioni va; e allora com'è pos-
sibile intender le forme kantiane in una maniera qualunque? (1)
È chiaro che, come s' è detto, esse sono inintelligibili.
Questo è confermato da altre considerazioni che si possono
fare sullo spazio in particolare. Lo spazio, dice Kant, non è altro
che la forma pura di tutti i fenomeni del senso esterno, la con-
dizione soggettiva della sensibilità. Ora, secondo lui stesso, la sen-
sibilità è il potere di ricevere rappresentazioni, la receptivitas im-
pressionum. Quindi si potrebbe prima di tutto domandare come
mai la condizione d'una facoltà, d'una possibilità, di un'attitu-
dine possa essere un atto. Ma, comunque sia, resta sempre che è
una condizione soggettiva. Si dovrebbe allora interpretare come
un modo, una forza, un'affezione della mente, non come un o^-
getto sul quale quell'affezione o forza o quel modo si eserciti. In
termini più precisi: una rappresentazione dello spazio non do-
vrebb' essere che coscienza d' una determinazione dell' ente pen-
sante. Eppure Kant assicura che lo spazio è rappresentato quale
una data grandezza infinita (2), quale un oggetto, come è neces-
sario realmente fare in geometria (3). Questa nota dello spirito è
(1) Introduzione, pag. 57-59.
(2) Kritik d. r. V., pag. 53. (3) Op. cit., pag. 678, nota.
- 331 -
dunque così fatta che s' annuncia per l' opposto di quel che real-
mente è. È una nota che per natura, per essenza, mentisce; è
quasi destinata a mostrare che il così detto senso interno, cioè la
coscienza stessa, che è inclusa in ciascuna delle operazioni del-
l'anima, potrebb' esser fallace. Perchè infatti non potrebbe nello
stesso modo accadere che il giudizio, il raziocinio e il volere del-
l' uomo fossero totalmente diversi da quel che gli si rivelano ?
Se io mi convinco che qualcosa, rappresentato come oggetto, sia
piuttosto un carattere della mia facoltà rappresentativa, posso al
pari temere che ogni corpo, ogni spirito e ogni altra cosa esterna
e rappresentata come tale non sia un giuoco interiore della mia
facoltà di conoscere, una condizione soggettiva. E allora quale
base mi rimane per sostener la certezza ? Potrebbe darsi che il
mio Io costituisse la sola cosa esistente, e che tutta la natura non
fosse che il gran campo delle mie illusioni (1).
Le difficoltà aumentano quando la teoria delle forme è svolta
riguardo all' intelletto. Secondo Kant le categorie devono essere
applicate alla conoscenza empirica (esperienza), che rendono pos-
sibile e di cui sono condizioni. Dunque prima dell' esercizio dei
sensi e' è una categoria, un concetto, una forma, a cui poi de-
v' esser data una volta 1' intuizione. E che cos' è mai in quel
tempo? Un pensiero vuoto, un pensiero incognitivo, senza og-
getto, e quasi un passatempo dell' anima: in altri termini, un nulla,
un suono vano. E come considerare altrimenti queste forme biz-
zarre, che possono indicare la quantità senza il quanto, la qualità
senza il quale, la modalità senza la cosa a cui appartenga, e la
relazione senza alcunché di relativo ? (2).
Inoltre non è facile intendere come queste categorie siano ap-
plicate ai dati sensoriali. Il molteplice delle rappresentazioni, dice
Kant, può esser dato in un' intuizione. Ma nel punto in cui è
dato, le rappresentazioni che ne fanno parte sono state distinte
o no ? Se sono state distinte, non è più vero che la diversità sia
recata da una categoria dell' intelletto. Nel caso opposto, in che
mai consiste quell'ordine che le forme pure dei sensi (spazio e
tempo) hanno dato alla materia del fenomeno già sorto? Com'è
in vero possibile che una disposizione, un sistema ci si presenti
(1) Introduzione, pag. 60-61. (2) Op. cit., pag. 62-63.
— 332 —
fra cose di cui non ci consti la diversità? Si può sviluppare forma
di spazio o di tempo senza che si scorga una cosa o fuori o dopo
un'altra, senza insomma che già si avverta che l'una non è l'altra?
Non giova punto rispondere che la cognizione ha del pari bi-
sogno e dell' intuizione e del concetto. Che, quando il concetto
si applica, r intuizione è già beli' e fatta, e quindi è già stabilito
r ordine, e già si mostra la diversità. Se no, bisogna supporre
che vi sia un tempo infinitesimo, un istante impercettibile in cui
si abbia lo spazio senza che ci sia alcun ordine, o che quest'or-
dine venga fuori senza che vi siano cose ordinate, o che siano
ordinate delle cose le quali non sono distinte (1).
« Vi è », conclude il Borrelli, « chi dice che la filosofia di questo
illustre pensatore sia la più sublime di tutte. Altri forse aggiun-
geranno che nelle produzioni metafisiche s'innalzi egli per modo
da lasciarsi perder di vista; e vi sarà chi ami ripetergli ciò che
l'usignolo del Lessing diceva un giorno alla lodola: ti slanci forse
così in alto per non essere udita? ».
Il Borrelli tornò ad occuparsi di Kant, a proposito della dot-
trina del giudizio, nella Genealogia (1825), Libro II, Sezione III,
Gap. IX-XI. Dove, oltre l'accusa di qualche improprietà di lin--
guaggio (in cui però, più che intendere e criticare 1' opinione di
Kant, le sostituisce idee sue), muove qualche obiezione ai giudizi
analitici e sintetici. « Il cerchio è rotondo » è secondo Kant un
giudizio analitico. Ma l' idea della rotondità, osserva il Borrelli,
è del tutto astratta e generica; né è stata altrimenti raccolta che
dai paragoni ripetuti di più superficie e di più solidi. Quindi essa
non si trova certo nella nozione di cerchio: è solo conforme a
un elemento di questa (ossia esprime un rapporto di conformità,
non d' inerenza). Lo stesso può osservarsi in tutti i casi simili.
Né i giudizi sintetici differiscono dagli analitici. Le due nozioni
del giudizio sono sempre distinte e separate, non sono mai l'una
neir altra; solo il rapporto che si desume dal giudizio ne costi-
tuisce il legame. Abbiasi per esempio la proposizione « il corpo
è grave > (sintetico, secondo Kant). Qual'é il vero significato suo?
(1) Op. cit., pag. 63-67. 11 Borrelli aggiunge un'osservazione sulla
morale kantiana, il cui difetto fondamentale gli pare consista nell'aver
staccato il merito d'esser buono dal vantaggio d'esser tale (utilitarismo).
— 333 —
Tutti ì corpi di cui abbiamo esperienza, se non sono sostenuti,
cadono in basso. Incontrando la nostra mano nella loro caduta,
la spingono sensibilmente nella direzione medesima, e le impri-
mono quasi uno sforzo. Dal paragone di questi fatti noi giun-
giamo alla fine a desumere una nozione generale, quella di tendere
al basso, che chiamiamo con un nome generico: la gravità, l'esser
grave. Quindi dire che il corpo è pesante non è altro che, fra le
parti costitutive della nozione di esso, trovarne una conforme
all' idea distinta e isolata di esser grave. Non è dunque fare più
o meno di quel che si faccia nel giudizio analitico. Insomma per
il Borrelli tutti i giudizi enunciano, come abbiam visto, rapporti di
conformità (=: diversità infinitesima); quindi la divisione loro in
analitici e sintetici è per lui erronea. Inoltre, aggiunge il Borrelli,
Kant asserisce che i giudizi delle matematiche pure siano tutti
sintetici. Ma, quando si dice che il tutto è uguale alle parti prese
insieme ed è maggiore di ciascuna di esse, si enuncia un giudizio
delle matematiche pure; ebbene, se fosse vero che l' idea del pre-
dicato è in quella del soggetto, non ne sarebbe questo il piìi
semplice caso ? ossia questo giudizio non dovrebb' essere ana-
litico ? (1).
Questa critica del Borrelli è senza dubbio più acuta di tutte
quelle dei suoi predecessori. Tuttavia non sempre coglie giusto.
La prima osservazione non vale per Kant, giacché questi dice più
volte nella Critica della ragion pura (2) che Locke, avendo vo-
luto trarre dall' esperienza anche i concetti puri dell' intelletto,
aprì la porta e il portone alla fantasticheria; e mostra l' inutilità
e vanità del tentativo lockiano. Quindi, se mai, il Borrelli avrebbe
dovuto far vedere come Kant avesse torto, e non presupporre
come dimostrato ciò che invece, dopo la critica del filosofo te-
desco, era da provare o, almeno, da provar di nuovo.
Quanto alla seconda osservazione, snW intuizione pura, mi pare
che il Borrelli abbia dato troppo peso a un'espressione kantiana
poco indovinata. Il linguaggio del filosofo tedesco, che spesso
doveva esprimere idee nuove senza trovar pronti vocaboli corri-
(1) Princ. della genealogia (Ed. cit.), pag. 142-145.
(2) Kritik d. r. V., pag. 104-105 e 111, nota.
— 334 —
spendenti, va inteso non alla lettera, ma nello spirito. Orbene,
Kant, per indicare la forma pura dell' intuizione dello spazio e
del tempo, che secondo lui è una legge soggettiva dello spirito,
adopera effettivamente l'espressione intuizione pura, proprio come
chiama concetti puri le categorie. Ma è noto che le categorie (come
risulta da altri luoghi della Critica della ragion pura) vanno in-
tese non quali atti, ossia concetti beli' e formati, ma piuttosto
quali leggi o funzioni dell' intelletto, quali maniere necessarie di
concepire e ordinare gli oggetti; del pari, l' intuizione pura va in-
tesa non come atto, ma come legge della nostra attività conosci-
tiva, che si esplica a contatto dell'esperienza. « Come dunque »,
scrive Kant, « può essere nello spirito un' intuizione esterna che
preceda gli oggetti stessi, e in cui il concetto di questi oggetti
possa esser determinato a priori ? Non altrimenti, è chiaro, che
in quanto essa ha sua sede soltanto nel soggetto, come dispo-
sizione formale di esso ad essere modificato dagli oggetti e ad ot-
tenere, così, la loro rappresentazione immediata, cioè intuizione,
dunque solo come forma del senso esterno in generale » (1).
Quindi il vero termine sarebbe forma pura dell' intuizione; e Kant
in alcuni luoghi lo adopera (Der Raum aber betrifft nur die reine
Form der Anschauung — Der Raum die reine Form ihrer An-
schauung ist) (2).
L' obiezione successiva sullo spazio in quanto oggetto è senza
dubbio forte. Il Gentile (3) ha cercato di dissiparla mostrando
come Kant intenda in quel caso la parola oggetto nel senso di
intuizione pura (oggetto della mente), non di oggetto esterno. Ma,
quand' anche l' intenzione di Kant fosse tale (4), non si può negare
che noi, volgarmente, ci rappresentiamo lo spazio come qualcosa
d* esterno. Ora, in che modo accade l' esternarsi dello spazio
(proiettarsi delle sensazioni e della forma fuori di noi)? Le sen-
sazioni secondo Kant stesso sono modificazioni soggettive; la
(1) Op. cit., pag. 54. (2) Op. cit., pag. 56 e pag. 105.
(3) Op. cit., pag. 121.
(4) Potrebbe anche darsi che Kant intendesse talvolta riferirsi al mo-
mento in cui la forma è già applicata al molteplice sensoriale, e con-
siderare per astrazione nel risultato della conoscenza solo la parte for-
male (intuizione pura).
— 335 —
forma pura dello spazio è condizione anch' essa soggettiva della
sensibilità; come mai da questi due fattori soggettivi risulta qual-
cosa di oggettivo, di esterno?
Quanto alle categorie, il Borrelli esagera dicendo che prima
dell' esercizio dei sensi esse sono concetti, pensieri vuoti, un pas-
satempo dell' anima. Le categorie sono leggi, funzioni dell' intel-
letto che si esplicano solo a contatto dell'esperienza. Come sa-
rebbe ridicolo dire che il principio di non-contradizione, prima
di essere applicato ai dati sensibili, sia una forma vuota, un pen-
siero vano, così è ridicolo dire questo delle categorie. Il principio
di non-contradizione è una legge dell' intelletto nel senso che la
nostra mente è costituita nella sua essenza in maniera tale che
non può, tutte le volte che compie un atto di pensiero su dati
oggetti, contradirsi. Ma il nostro spirito, prima di compiere
quest' atto di pensiero, aveva forse presente quel principio come
formula vuota? No certo. Solo tardi, riflettendo sul pensiero e
sui suoi procedimenti, noi lo enunciamo come principio chiaro
ed esplicito. Lo stesso si può dire delle categorie.
Importante è invece la critica riguardante la diversità delle
rappresentazioni. li Tocco e lo Spaventa (1) hanno cercato di
eliminare la difficoltà vista dal Borrelli ammettendo una sintesi
di primo grado, che pone un ordine fra i dati sensibili, e una
sintesi di secondo grado (intellettuale), che pone un ordine fra i
dati dell' intuizione. Ma è possibile che la funzione mentale del
distinguere e ordinare assuma due forme così diverse? Il distin-
guere è sempre distinguere, qualunque sia la natura del molte-
plice da ordinare; né può cambiare sol perchè muta il materiale
da distinguere.
La critica contenuta nella Genealogia non mi pare molto no-
tevole, sopratutto perchè il Borrelli tende a sostituire le proprie
idee a quelle di Kant. Del resto Kant potrebbe rispondergli: —
Anche se fosse vero che tutti i giudizi enunciano un rapporto
di conformità, non si potrebbe negare che altra è la conformità
espressa dal giudizio « il cerchio è rotondo » (analitico), altra è
quella enunciata dal giudizio « il corpo è grave » (sintetico) — .
(1) Gentile, Op. cit., pag. 123. Cfr. del resto Kritik d. r. V., Sup-
plement III, § 24, pag. 671 e seg.
— 336 —
Giustissima è 1' osservazione sull' assioma // tutto è uguale alle
parti etc, che è uno dei fondamenti della matematica ed è senza
dubbio analitico. Tuttavia si ricordi che Kant stesso muove a sé
tale obiezione, ma la distrugge dicendo che quel!' assioma (come
alcuni altri) non ha valore di principio, bensì serve, in quanto
proposizione identica, solo al concatenamento del metodo (1).
Concludendo: il Borrelli muove a Kant una critica importante,
precisa, chiara, sempre acuta, quantunque talvolta sia dalla propria
opinione impedito di veder spassionatamente giusto.
LA CRITICA DEL ROMAGNOSI. — Dopo aver esaminato
il pensiero del Borrelli, bisogna andare al Romagnosi, per trovare
un' altra critica notevole della dottrina kantiana (2).
Nessuno degl' ideologi, mi pare, era per motivi intrinseci e
individuali in condizioni più favorevoli del Romagnosi per inten-
dere la dottrina kantiana (3): egli infatti risolse il problema della
conoscenza in maniera assai simile a quella del filosofo tedesco,
e ne trasse un idealismo che ricorda certo quello trascendentale;
(1) Op. cit., pag. 652 (Supplement il).
(2) Il Gioia accenna qualche volta alla dottrina kantiana nelle sue
opere, ma non muove ad essa una critica ampia e sistematica. \^t\V Ideo-
logia (Milano, 1822, Voi. I, pag. 4) dice soltanto: « Kant, mettendo da
banda le origini esterne, pretese che tutto il capitale ideale e sentimen-
tale dell'uomo nascesse dal fondo interno dell'animo e dalle forme
proprie del pensiero astratto. Kant si presentò alla Germania involto
in una nube di parole scientifiche, e dapprima eccitò la sorpresa, poscia
l'adorazione. In Italia, pria di piegare il ginocchio, si vuol vedere l'idolo
in faccia: io ricuso dunque di fare in questo scritto ulteriori parole di
Kant, e ripeto //c^ liix ». U Italia non s' inkanta, soleva dire il Gioia;
e pare che con questa frase volesse beffare il Testa, che cercava di
diffondere il criticismo. A lui il Testa rispondeva che l' Italia neppure
si contenta di false gioie (vedi Molinari, Op. cit., pag. 116).
(3) lo non credo quindi come il Credaro (// kantismo in G. D. Ro-
magnosi - Contributo alla storia del kantismo in Italia, in Rivista ita-
liana di filosofia, Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei,
luglio-agosto 1887, Ì5 V, pag. 34 e seg.) che gl'impulsi soggettivi do-
vessero spingere il Romagnosi a non intendere Kant.
— 337 —
anche il suo concetto delle categorie s' accosta di molto a quello
kantiano: le sue emissioni logiche o suità non sono in fondo che
le categorie kantiane. Eppure combattè aspramente la filosofia
critica. O perchè? Perchè egli, per circostanze esteriori (1), non
potè intenderne il significato intimo. Il Romagnosi non conosceva
il tedesco; poteva leggere la traduzione latina delle opere di Kant
scritta dal Born e quella italiana del Mantovani della Critica della
ragion pura (1820-22) (2); esistevano anche, come s'è visto, studi
e traduzioni francesi delle opere di Kant; ma tutti questi scritti
erano insufficienti per una chiara ed esatta comprensione della
difficile filosofia critica. Inoltre in Italia regnavano già dei pre-
giudizi su alcuni punti di questa filosofia, seminati dagli scritti
del Villers, del Soave etc. Questi pregiudizi si sarebbero potuti
dissipare solo con uno studio accurato dei testi originali, che fu
impossibile al Romagnosi. Infine il filosofo italiano si occupò
della dottrina kantiana quando questa in Germania aveva già
avute interpretazioni respinte da Kant stesso, e sviluppi che vi
arrecavano profondi mutamenti. Ebbene, il Romagnosi forma
d' ogni erba un fascio, collocando nella scuola kantiana i sistemi
di Fichte, di Schelling, di Hegel, di Bardili etc, eh' egli chiama
mostruosi, e che a lui dovevano certo mostrare il criticismo in
un aspetto poco favorevole (3).
Tutto questo ci è confermato dall' esame degli scritti del Ro-
magnosi sulla filosofia kantiana.
(1) Qui il Credaro ha piena ragione.
(2) Mantovani Vincenzo di Pavia (1775-1832) fu valente medico e
chirurgo, e, appunto come chirurgo delle guardie regali italiane, si trovò
nei campi di Austerlitz, di Wagram e alla Moschowa. Messo a riposo,
fu poi medico a Codogno e direttore dell'ospedale di Monza. Scrisse
varie opere d'argomento medico e fisiologico, tra cui un Trattato dei
sensi in supplemento alla notomia del Soemmering (Crema, 1822). Tra-
dusse il De vita propria del Cardano e la Critica della ragion pura
di Kant (Pavia, Bizzoni, in otto tomi, di cui i primi tre nel 1820, gli
altri cinque nel 1822).
(3) Il Romagnosi, naturalmente, questi sistemi post-kantiani li cono-
sceva indirettamente, a traverso un' opera del Buhle {Storia della fi-
losofia moderna di G. Amadeo Buhle, Milano, Tipografia del Com-
mercio, 1825) e un articolo dello Stapfer, pubblicato nella Révue En-
cyclopédique il febbraio del 1827.
22
— 338 —
Il Romagnosi sì occupò del criticismo in due articoli (Espo-
sizione storico-critica del kantismo e delle consecutive dottrine), che
pubblicò nella Biblioteca Italiana (anno 1828, Voi. L, pag. 163,
e anno 1829, Voi. LUI, pag. 180) sull'opera del Galluppi intito-
lata Lettere filosofiche su le vicende della filosofia relativamente
ai principi delle conoscenze umane da Cartesio fino a Kant inclu-
sivamente (Messina, 1827); espresse inoltre il suo parere al riguardo
qua e là in altri scritti (1).
Kant, dice dunque il Romagnosi, sorse quando due indirizzi
filosofici, l'empirismo e il razionalismo « l'un contro l'altro ar-
mato » si disputavano il primato. L' empirismo poneva a base
delle sue ricerche la sensazione; e fino a che questa era « riguar-
data nella sua prima posizione, nessuno trovava a ridire; ma al-
lorché si volle trasportarla con la sua veste volgare nella sfera
scientifica, e costituirla come elemento unico di tutto il positivo
naturalmente conoscibile, questo tentativo fu riguardato come una
profanazione del santuario dell' umana ragione, e fu protestato
contro il diritto a lei attribuito dalla scuola sperimentale ». Si
sostenne quindi che la sensazione si deve restringere ai più bassi
servigi della mente umana, lasciando all' intelligenza il dominio
esclusivo della parte superiore. S'impegnò così un'aspra lotta, e
furono alzate due bandiere. * In questo mezzo sopravenne Kant,
il quale parve accamparsi da sé solo, e chiamare a sindacato tutte
le scuole vigenti ».
Ei fé silenzio, ed arbitro
S' assise in mezzo a lor.
(1) Della suprema economia dell' umano sapere, Parte II, Gap. XX;
Note 4=^ e 14» a Progressi e sviluppi della filosofia e delle scienze
metafisiche dal principiare del XIX secolo (articolo tradotto dalle
Philosophical Transactions con annotazioni di G. D. Romagnosi in In-
dicatore, anno 1835, Serie IV, Voi. I, pag. 5); Insegnamento primitivo
delle matematiche (Milano, 1822, Discorso VI); Dell'uso della dottrina
della ragione nelV amministrare l'economia dell' ineivilimento (Firenze,
1835), Gap. Ili; Discorso sull'ordinamento della filosofia morale, Parte I,
Gap. IV; Che cos'è la mente sana? Ragione del Discorso, §§ 4 e 5;
La logica pei giovanetti dell'abate A. Genovesi, Ragione dell'opera,
§ 2. Tutti questi scritti sono ristampati in Opere filosofiche del Roma-
gnosi, Ediz. De Giorgi, ch'io sempre citerò. Confr. anche Alcuni pen-
sieri sopra un' ultrametafisica filosofia della storia (edz. cit.).
— 339 —
« Allora fu alzata una terza bandiera co '1 nome di criticismo
o sia dottrina dei criterio di verità per verificare i fondamenti
dell'umano sapere ». Si ebbe quindi una dottrina non scientifica
e definitiva, ma strumentale per arrivare a qualche conclusione.
Quali furono i risultati a cui Kant, esaminando la natura e l'o-
rigine delle conoscenze umane, giunse? T Egli « non richiamò
che un fatto certamente importante e noto, qual'è l'esistenza delle
segnature intellettive a fianco delle sensitive; e con ciò provocò
gagliardamente li sperimentali a compiere la dottrina delle sen-
sazioni ». 2° Inoltre ripetè l'osservazione già dettata da Condillac:
cioè, sia che col pensiero e' inalziamo fino al cielo, sia che discen-
diamo fin negli abissi, non usciamo mai da noi stessi, e per con-
seguenza l'universo non è che un fenomeno ideale che pensiamo
prodotto in noi da qualcosa d' incognito e di reale esistente fuori
di noi. Erano press' a poco questi i risultati a cui era giunto anche
il Romagnosi; parrebbe quindi che il filosofo tedesco e quello
italiano dovessero andare a braccetto, d'amore e d'accordo. Ma
piano...., dice il Romagnosi, riguardo al primo risultato s' ha da
osservare che, per ottenerlo, Kant non procedette come un buon
fisico che voglia scoprire col metodo induttivo le cause e le leggi
occulte (1), ossia non osservò i fenomeni della psicologia speri-
mentale, per rivelarne le cause; si valse di una « sterile dialettica
qualificativa », come se si trattasse di descrivere il disco della
luna o di fare equazioni algebriche. Esaminò quindi non la ge-
nesi dei concetti, ma solo la loro composizione apparente; e, non
avendo cercato con l' analisi di veder come quei caratteri della
conoscenza che sembrano indipendenti da ogni esperienza ab-
biano le loro radici in questa, ne trasse fuori gli assoluti e gli
a priori (2). Egli ragionò press' a poco così: « I sensi non ci pre-
sentano idee intellettuali e razionali, dunque esse sono produzioni
totalmente mentali ». Il quale ragionamento equivale a quest'altro:
— II sangue non ci presenta né pane, né vino, né carne, né vege-
tali: dunque il sangue non ha nulla che fare coi cibi. — C'è
logica qui? No; eppure gli a priori kantiani devono la loro ori-
ci) Che cos'è la mente sana? § 4, pag. 472.
(2) Della suprema economia dell'umano sapere, Parte II, Cap. XX,
pag. 546-548.
— 340 —
gine a un ragionamento simile (1). La critica del Romagnosi si
inasprisce specialmente contro questi assoluti a priori; i quali ap-
punto lo inducono a dire che la dottrina gnoseologica di Kant
rappresenta una speculazione che sta fra le nuvole e vi sta nu-
volescamente. Sta fra le nuvole perchè nel campo .immenso del
possibile non adduce né ragione né fondamento provato di al-
cuna legge e tendenza dello spirito umano; anzi prescinde da
qualunque genesi positiva dei poteri e delle funzioni, assumendo
nozioni assolute. Ma qui si presenta il seguente dilemma: o Kant
vuol parlare di un'intelligenza generica qualunque o dell'umana.
Se vuol parlare d' una generica, per esempio di quella che noi
possiamo figurarci aver comune con gli angeli o con gli spiriti
puri, egli non può non fondarsi su un' induzione analogica con
r umana; se poi vuol parlarci dell' intelligenza umana quale ci
consta, egli non può considerarla che nel modo in cui è di fatto
costituita. Allora, fra milioni di stati che si possono immaginare,
uno solo rimane, determinato e positivo, e perciò stesso escludente
gli altri che l' immaginazione può figurarsi. Quindi Kant qui si
trova così soggiogato dallo stato di fatto delle cose, che deve o
negare la necessità di ogni causa efficiente e determinante, o ri-
nunziare al trascendentale e all' assoluto da lui immaginato. Un
dato corpo può avere una figura o quadrata o rotonda: ecco un
principio speculativo, cioè a priori, assoluto. Questo corpo però
ha di fatto la figura rotonda; ora, si cerca perchè abbia piuttosto
la rotonda che la quadrata: ecco il principio positivo ed efficiente
richiesto. Ma Kant, non pensando alla causa assegnabile del modo
di essere dello spirito umano, che doveva esaminare per dar va-
lore alle pretese sue nozioni a priori, ed assumendo invece queste
manifatture mentali come fattori stessi delle manifatture, presentò
una dottrina che riesce un vero castello in aria, ed ha, come dice
il proverbio, il suo fondamento nelle nuvole (2), o, per parlare
esattamente, è zero.
S' è detto in secondo luogo che vi sta nuvolescamente: vi sta
cioè con forme confuse, sfumate, cangianti e prive di valore pra-
(1) Progressi e sviluppi della filosofia etc, pag. 683.
(2) Perciò la chiama anche filosofia a vapore, cioè vaporosa {La
logica pei giovanetti dell' ab. Genovesi, § 2).
— 341
tico per le azioni umane. I pensieri di Kant sono tutf altro che
profondi; essi non offrono che puri contorni superficiali, ai quali
fu data un' immensa generalità, senza che fosse cambiata la na-
tura volgare della loro origine. Sottoponeteli all'analisi, e li ve-
drete o strisciare per terra o sparire come fantasmi notturni. E
in vero che cosa sono quei modelli a priori, i quali, come pun-
zoni di stamperia, ricevono le masse informi della sensibilità, o
a mo' di sigilli v'improntano le forme loro, e danno ad esse fi-
gure d'idee? E vero o no che qui si costruisce con un'analogia
volgare, fantastica e incompatibile ? Incompatibile perchè, anche
se si voleva immaginare, come fecero alcuni antichi, l'anima quale
una scintilla di fuoco o di aria purissima, non era possibile stam-
parvi dentro le forme stabili ed innate immaginate da Kant, ed
attribuir loro la virtù matrice da lui gratuitamente escogitata.
D'altra parte è vero o no che si può indicare l'origine di questi
pretesi modelli, mediante l'analisi? E, quand'anche la genesi ne
fosse nascosta, come può provare Kant che si debba attribuir
loro quella virtù matrice da lui asserita ?
Seguendo questo procedimento, Kant non conobbe mai ne la
genesi, né la natura reale, né il valore logico di alcune idee ge-
nerali e delle ontologiche. Egli le figurò come forme primitive
ed ingenite, con le quali costituì un patrimonio ideale largitoci
per scienza infusa e separato dal mondo reale.
Ecco i frutti che porta la dialettica sostituita all'induzione gra-
duale ed analitica (1).
Quanto poi all' idealismo fenomenico (secondo risultato) il Ro-
magnosi osserva che esso in Kant assum.e una forma speciale, in
quanto che il filosofo tedesco pone che tutto incominci e finisca
dentro uno stesso io in virtù della sua natura. L' io umano se-
condo Kant è un ente a sé, e 1' universo è un puro fenomeno
ideale, la rappresentazione del quale si forma in noi per un moto
indipendente e tutto proprio del nostro io; cosicché la sua dot-
trina, perché sia distinta da quella del Berkeley, che faceva inter-
venire la divinità invece della materia, si può chiamare aseismo (2).
Ora, i difetti fondamentali di questa forma d'idealismo sono due:
(1) Esposizione storico-critica del kantismo, §§ 232-235.
(2) Op. cit., § 256.
— 342 —
1° non prova l'esistenza di qualcosa di reale, che sia fuori di noi
e susciti le nostre idee; cosicché considera la mente umana come
legislatrice ideale dell'universo e formatrice degli oggetti esterni (1);
2° ammette che ciò che suscita le nostre idee (il complesso degli
oggetti esterni) ci è ignoto in sé stesso (noumeno); e da questo
inferisce che noi non possediamo che figmenti puramente nostri
e quindi falsi (non corrispondenti agli oggetti esterni come la
copia al suo originale).
Ma, osserva il Romagnosi, queste due affermazioni sono errate;
la prima perchè é possibile dimostrar l'esistenza di qualcosa fuori
di noi (e il Romagnosi l'ha, come s'è visto, provata); la seconda
perché (e anche questo s' é visto), se noi non conosciamo gli og-
getti in sé stessi, ciò non vuol dire che non possiamo conoscerli
con verità. Altro é conoscere con verità, ed altro è conoscere le
cose in sé stesse. Un'illusione naturale trae il volgo a figurarsi
che la nostra mente sia come uno specchio che rifletta le imma-
gini delle cose, e che quindi, per conoscere con verità, noi ab-
biamo bisogno di vedere gli oggetti (originali) anche immediata-
mente (le cose in sé) e paragonarli con le immagini loro (copie).
Ma, nota il Romagnosi, chi ha detto ai kantiani che per conoscere
con verità noi dobbiamo vedere così la copia come l'originale e
riscontrare l'identità delle forme? I kantiani hanno mai pensato
a spiegare in che consista tanto la verità assoluta, quanto la ve-
rità di sensazione? Non l'hanno mai fatto. Essi all'opposto hanno
richiesto un fatto assurdo, e posto un principio insensato: quindi
ne hanno derivato conseguenze distruggenti ogni nostra cogni-
zione (acatalepsia). Kant avrebbe dovuto provare che le apparenze
delle cose non abbiano una derivazione reale dall' esterno, e che
queste apparenze non siano altrettanti effetti reali produttivi di
segni necessari dell'essere e del fare delle cose; solo allora avrebbe
provato r invincibile nostra ignoranza da lui asserita. Invece, col
suo argomento, egli ha commesso un turpe scambio del vero
punto della questione. Noi non possiamo conoscere gli oggetti esterni
in sé stessi: dunque non possediamo che figmenti puramente nostri.
Ecco r argomento fondamentale di Kant; ecco il punto unico sul
quale poggia e gravita tutta la mole del suo scetticismo. Ora,
(1) Della suprema economia dell'umano sapere, pag. 547-548, nota.
— 343 —
ognun vede che, posto l'antecedente, non ne deriva la conse-
guenza voluta da Kant; e che, parlando di cognizione reale o non
reale, egli ha solennemente scambiato i termini della questione.
Invece di cercare se le nostre conoscenze dei fatti abbiano una
derivazione esterna, egli ha cercato se includano il concetto delle
cose esterne considerate in sé stesse: quasi che questo concetto
fosse o potesse esser diverso da quello che abbiamo, o che l' in-
tima essenza delle cose si potesse rivelare a qualsiasi mente o
umana o angelica (1).
Tale difetto della filosofia kantiana, cioè la mancanza di una
derivazione esterna delle nostre conoscenze, ce ne spiega un altro:
il non aver trovato quel principio unico reale ed attivo che deve
naturalmente connettere la scienza contemplativa con quella ope-
rativa dell' uomo. Questa mancanza è capitale, decisiva, e reca
danno a tutto il sistema; giacché toglie a tutta quanta la proto-
logia il carattere di vera scienza filosofica, cioè di dottrina dedotta
da una sola legge primitiva e dimostrata (che deve appunto rego-
lare un soggetto unico, qual' è 1' uomo) (2); e lascia una lacuna
e un dissidio insanabile fra la ragion teoretica e quella pratica.
L' opera di Kant é dunque tutta corrosa da errori, priva d
fondamenti. Sapete in che consiste il suo vero merito? Nel
r aver mosso dubbi su alcune nozioni e su alcuni principi am
messi al suo tempo in Germania. Col suo non probastl egl
spinse i pensatori a ricercare le dimostrazioni, se possibili, di
quanto comunemente si asseriva, e a rafforzare quelle già addotte;
obbligò così i filosofi a rivedere i fondamenti del sapere umano
e ad assicurarsi della loro solidità prima di proceder oltre; e questo
servigio non è lieve. Ma nel rimanente non creò nulla che facesse
progredire la gnoseologia; anzi la fece retrocedere. Egli fu buon
censore: indicò una mancanza; ma non seppe porvi rimedio. Quindi
la sua opera fu tutta distruttrice, nient' affatto costruttrice (3).
(1) Esposizione storico-critica del kantismo, §§ 280-284. Cfr. De il' uso
della dottrina della ragione etc. §§ 507-510.
(2) Espos. etc, § 235. È questa anche l'opinione del Buhle (0/7. cit.,
Voi. XIl, pag. 767). Cfr. Discorso suW ordinamento della filosofia mo-
rale, pag. 1140.
(3) Esposiz. etc, §§ 234 e 237. Cfr. Progressi e sviluppi della filo-
sofia etc, § 425.
— 344 —
O allora, si potrebbe domandare, come mai Kant sollevò tanto
■grido di sé? Non per originalità di pensiero: la quale non si
riscontra certo nelle opere del filosofo tedesco; giacché egli, come
s' é accennato, non fece che combinare in maniera incoerente o
chimerica le dottrine altrui co' suoi cenci dialettici. Già il Gal-
luppi stesso ha notato che Kant accozzò qualche mezza verità
con alcuni paralogismi di pensatori moderni, per esempio certe
vedute sane di Condillac con certe sofisticherie di Hume; riesumò
le categorie aristoteliche, eh' egli volle violentemente raffazzonare
a suo modo e maritare con le idee di Leibniz. Niente novità,
dunque (1). Allora? come mai tanta fama? Per la bizzarria delle
dottrine. Il pubblico é stato talora testimone di qualche cervello
bizzarro, che a bello studio pubblicò fantasie mostruose, le quali
furono applaudite assai più delle composizioni ottime. Così, per
esempio, si narra che, quando il Goldoni prese a riformare la
commedia italiana e i primi suoi tentativi furono coronati dagli
applausi del pubblico, nacque questione fra lui e Carlo Gozzi
suir eccellenza della nuova commedia. Quegli, per difendere la
sua causa, allegò gli applausi pubblici che aveva ricevuti. Allora
il Gozzi soggiunse che questi non provavano nulla, e, per soste-
nere col fatto la sua sentenza, compose le Tre melarance, il Mostro
turchino ed altre tali mostruose bizzarrie, le quali furono di fatto
applaudite. Ma quest' audacia del Gozzi non potè impedire che
il pubblico accogliesse con lode la riforma del Goldoni, e che
le Tre melarance e il Mostro turchino etc. fossero condannati
alla dimenticanza. Del pari, quando la miglior parte d' Europa
si occupava dello studio della filosofia fondato dai pensatori in-
glesi, francesi e italiani su induzioni posate e giudiziose, sopra-
venne Kant, il quale, facendola da critico e da riformatore, pre-
sentò al pubblico la sua filosofia trascendentale, e fu in Germania
ammirato, applaudito, come a Venezia il Gozzi. La scena richie-
deva alquanto più tempo, perché la composizione era più vasta
e la materia meno volgare; ma 1' esito sarà certamente Io stesso.
(1) Esposiz. etc, § 269. Cfr. Progressi e sviluppi della filosofia etc,
pag. 683. il CantÙ {Notizia di G. D. Romagnosi, Edz. cit., pag. 119-120)
dice che il Romagnosi chiamò la filosofia di Kant una crisalide aristo-
telico-cartesiana con le gambe in aria.
— 345 —
L' opera di Kant sarà sepolta in eterno oblio. Infatti, dice il Ro-
magnosi, il tentativo di riforma kantiana è già andato fallito in
Inghilterra e in Francia. In Italia poi.... « se qualche meschino
cervello, simile a que' scimmiotti della moda, i quali si strozzano
i fianchi e si lasciano crescere le unghie e la barba, si fa bello
di qualche strambotto trascendentale, ciò avviene senza pericolo
di contagio. Il buon senso italiano non permetterà mai che la
filosofia e la lingua sua siano ridotte al segno, che una bella dica
seriamente all' amante suo: Voi mi amate sub iettiv amente e non
obiettivamente. Ottima frase per dissipare l' illusione che nobilita
questo sentimento, e ridurlo ad un senso tutto animalesco e di
desolante libertinaggio » (1).
Riassumendo: Kant secondo il Romagnosi non è un pensatore
originale: egli infatti sostenne l'esistenza già nota delle segnature
intellettive accanto alle sensitive, e rinnovò l' idealismo del Con-
dillac. Per giungere però al primo risultato si valse non del me-
todo psicologico induttivo, bensì di quello trascendentale, e così
fu tratto ad ammettere gli assoluti e gli a priori. Ma degli asso-
luti noi nulla sappiamo dire, poiché ci è dato conoscere solo la
natura dell' intelletto umano così com' è in re; gli a priori poi,
concepiti come forme innate e preesistenti all' esperienza, sono
falsi, giacché non esistono in noi nozioni innate; e del resto si
può indicare mediante l' analisi la genesi loro. Quanto al feno-
menismo idealistico di Kant, vi si possono notare due errori:
1° esso non dà la dimostrazione dell'esistenza di qualcosa di
reale a noi esterno, e perciò viene ad ammettere che la mente
umana forma, costruisce gli oggetti e dà leggi all' universo; 2" dal-
l' impossibilità di conoscere le cose in sé (noumeni) inferisce
r impossibilità di possedere la verità (scetticismo), mentre poteva
evitare l'acatalepsia dimostrando che le idee derivano dall'azione
degli oggetti esterni. Quest'ultimo errore ne generò un altro: la
mancanza d'unità nel sistema, e un dissidio insanabile fra ragion
teoretica e ragion pratica. Unico merito di Kant é aver provato
come quelle dimostrazioni che erano comunemente accettate al
suo tempo mancassero di basi solide, e come bisognasse riesa-
minare i fondamenti del sapere umano; quindi la sua opera è
(1) Esposiz. etc, §§ 266-268.
— 346 —
distruttrice; nulla costruì. Egli perciò non sarebbe degno della
fama acquistatasi; questa è dovuta solo alle bizzarrie della sua
dottrina; quindi ben presto passerà.
Tale critica è un miscuglio di vero e di falso. Esagerata e in-
giusta è la taccia di non originalità attribuita a Kant, la dottrina
del quale inizia veramente un nuovo modo di considerare il pro-
blema della conoscenza e la verità; è falso che Kant voglia par-
lare d" un' intelligenza generica qualunque; egli esamina e cerca
di spiegare le funzioni e le leggi dell'intelletto umano così com' è
(appunto per questo la conoscenza nostra dell'universo è secondo
lui relativa alla forma mentis dell'uomo e quindi fenomenica) (1),
e, pur non escludendo che vi possano essere intelletti diversi dal
nostro, soggetti ad altre leggi e categorie, i quali quindi abbiano
del mondo una conoscenza diversa dalla nostra (per es. quella
divina), non pretende certo di rivelarne la natura e il modo
d' apprendere gli oggetti (2). È anche falso che Kant concepisca
le forme come idee beli' e formate, preesistenti all' esperienza o
come modelli materiali (sigilli, punzoni di stamperia). Le categorie
kantiane sono, come s'è detto a proposito delle critiche del Bor-
relli, leggi e funzioni dell' intelletto, maniere necessarie e univer-
(1) Kritik d. r. V., pag. 668 e pag. 663-64 (dove Kant dice che il
principio dell'unità sintetica dell'appercezione vale non per ogni intel-
letto possibile in genere, ma solo per quello dalla cui appercezione
pura nella rappresentazione lo sono non è dato ancor nulla di molte-
plice: cioè per l'intelletto umano). Kant, è vero, dà una deduzione tra-
scendentale e non empirica dei concetti puri dell' intelletto, e vuol in-
dicare le condizioni della possibilità d'ogni conoscenza degli oggetti;
ma intende sempre la conoscenza umana, tant'è vero che il principio
dell'unità sintetica dell'appercezione, che è il principio supremo di ogni
uso dell'intelletto, vale solo per noi uomini.
(2) Op. cit., pag. 66 (« Noi non conosciamo nient' altro che la nostra
maniera particolare di percepire gli oggetti, che non è necessaria per
ogni essere, quantunque debba appartenere a tutti gli uomini »), e
pag. 664 (-^ Esso, l' intelletto umano, non può formarsi neppure la più
vaga idea d'un altro intelletto possibile, o d'un intelletto siffatto che
o intuisse da sé senz'altro o possedesse come suo fondamento un'in-
tuizione sensibile, ma di natura diversa da quella che e nello spazio e
nel tempo «). Cfr. pag. 55.
— 347 —
sali per noi uomini di concepire e ordinare l'universo, che si
esplicano solo a contatto dell'esperienza. È falso che Kant non
dia la dimostrazione dell'esistenza di qualcosa di reale a noi
esterno, che susciti le nostre idee; basti infatti ricordare la sua
confutazione dell' idealismo di Cartesio e di Berkeley, in cui di-
mostra che la nostra stessa esperienza interna è possibile solo se
si suppone un'esperienza esterna (percezione di qualcosa di reale
esistente fuori dell'Io) (1). È falso pure che fra la Critica della
ragion pura e la Critica della ragion pratica ci sia dissidio, che l'etica
kantiana è una conseguenza diretta e un' integrazione necessaria
della filosofia teoretica (2). È falso infine che la fama di Kant
dipenda dalle bizzarrie della sua dottrina. È invece vero che Kant
trascura l' analisi psicologica (e questo è senza dubbio un suo
difetto); è vero anche che secondo Kant la nostra mente è for-
matrice degli oggetti e dà leggi all' universo, non però per la
ragione indicata dal Romagnosi (mancanza d' una dimostrazione
dell' esistenza di qualcosa di reale a noi esterno), ma per il sem-
plice motivo che Kant crede di poter risolvere solo così il pro-
blema della conoscenza (è la sua novità, eh' egli paragona alla
riforma copernicana in astronomia). È anche vero che è merito di
Kant aver criticato le vecchie prove che si adducevano in filosofia
e aver spinto i pensatori a maggior cautela e ad indagini più
(1) Op. cit., pag. 208 e seg.
(2) Kant ragiona così: — Se la conoscenza del nostro intelletto fosse
assoluta, cogliesse cioè la realtà in sé, i noumeni, non ci sarebbe posto
per la libertà e per il mondo morale; che la conoscenza intellettiva non
ci presenta che fatti connessi secondo la legge di causa ed escludenti
quindi la libertà. Ma, come s' è visto nella Critica della ragion pura,
la nostra conoscenza intellettiva è limitata ai fenomeni; essa quindi non
può distruggere le affermazioni di un'altra scienza (la morale) che con-
sideri la realtà intelligibile (noumeni) di quei fenomeni, e ammetta la
libertà; che, in tal caso, oltrepasserebbe i suoi limiti (i fenomeni). In-
somma l'intelletto non può negare che la libertà sia possibile in un
mondo diverso da quello da lui conosciuto. Tale possibilità diventa cer-
tezza per le prove morali. Perciò nella limitatezza stessa della conoscenza
intellettiva Kant fonda la possibilità d'affermare la libertà e l'esistenza
di un mondo superiore a quello fenomenico; ecco perchè egli afferma
che doveva sopprimere il sapere per dar posto alla fede.
— 348 —
accurate e scrupolose. Infine il Romagnosi non rimprovera a
Kant r ammissione dei noumeni, che anche lui crede che le cose
in sé siano inconoscibili, ma, come abbiamo già detto parlando
a parte della sua dottrina, cerca di superare il punto di vista
kantiano mutando il concetto comune di verità (la quale per
lui è non di rassomiglianza con la natura inconoscibile degli
oggetti, ma di corrispondenza con 1' azione di questa natura), e
dando importanza solo all' azione che noi possiamo esercitare
sugli oggetti a traverso i segni, per ottenerne dell' utile (1). Ma
qui bisogna osservare prima di tutto che Kant non considera già
(come pensa il Romagnosi) le nostre conoscenze quali parvenze
illusorie (flgmenti nostri), bensì quali notizie di fenomeni, che son
tutt' altro (2); in secondo luogo che per verità s' intende comu-
nemente qualcosa di diverso (corrispondenza fra 1' atto mentale
e la natura dell' essere), e che quindi la questione è mutata.
LA CRITICA DEL BONFADINI. — Dobbiamo infine toccare
della critica del Bonfadini, già da noi ricordato; il quale il 15 giu-
gno 1830 lesse nell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Padova
un discorso analitico Sulla critica della ragione pura di Kant (3).
La fama di Kant è ormai al colmo per tutta l'Europa. « Ben
mi sovviene >, dice il Bonfadini, « che nel principio del secolo
viaggiando io per la Germania, non era lecito, per così dire, di
porre in dubbio nessuna delle proposizioni della Critica del Kant,
senza correre pericolo d' essere tacciato di ostinazione, o di po-
chezza d' ingegno, od almeno di non averne penetrato il vero
senso; della quale ultima taccia difficilmente si poteva andar libero,
poiché la terminologia del Kant e l' intralciata esposizione delle
(1) Mi pare che il vero valore di questo atteggiamento pragmatistico
del Romagnosi sia sfuggito al Credaro (0/7. cit., Vi, pag. 56-58).
(2) Il fenomeno per Kant è qualcosa di reale, non un figmento nostro;
solo che noi conosciamo questo reale non com'è in sé (oggettivamente),
ma come ci si presenta a traverso i nostri mezzi conoscitivi.
(3) Vedere Nuovi saggi della l. R. Accademia di scienze, lettere
ed arti in Padova, Volume III, Padova, Tipografia della Minerva, 1831,
pag. 242-258.
— 349 —
sue dottrine rendevano l'opera di difficilissima intelligenza » (1).
Il Bonfadini s' è valso, per il suo lavoro, della traduzione del
Mantovani (2); ed espone con molta chiarezza le linee fondamen-
tali della dottrina kantiana, mostrando come l'essenziale del cri-
ticismo stia neir aver indicata 1' esistenza di principi universali e
necessari (definizioni matematiche, principio di causa etc), e nel-
r aver sostenuto che questi principi, pur essendo indipendenti
dall' esperienza (appunto perchè universali e necessari), sono
però sintetici, non analitici. Tale dottrina desta ammirazione
nel Nostro: il quale, pur respingendo i giudizi sintetici a priori,
accetta la distinzione fra giudizi analitici e sintetici (3), e afferma
che nessun altro filosofo prima di Kant « ha spinto tant' oltre
r analisi delle operazioni dell' anima, ed anatomizzati, per così
dire, gli elementi delle umane cognizioni », e che il filosofo di
Koenigsberg ha « forse il primo, o almeno piti precisamente di
qualunque altro, determinato sotto qual punto di vista debba
considerarsi la metafisica propriamente detta, e quali siano i pro-
blemi che in ultima analisi essa propone a risolvere » (4). Ma
questo senso d'ammirazione non impedisce al Bonfadini di vedere
i lati difettosi del kantismo e di criticarli. Tre sono le sue obie-
zioni principali. 1° La tesi kantiana che tutto il nostro sapere si
appoggi a principi sintetici, presa in largo significato, è giusta,
poiché ogni nostro sapere presuppone sempre 1' oggetto a cui
esso si riferisce, e la nozione dell'oggetto non si può comporre
che mediante giudizi sintetici. Così io non potrò saper nulla del-
l'oro, se prima non mi sia formato il concetto di questo metallo
mediante giudizi sintetici, valendomi dell'esperienza. Dunque non
e' è dubbio che appunto i giudizi sintetici amplificano il sapere,
in quanto che offrono un maggior numero di oggetti alla facoltà
di conoscere. Ma non si può dire che tutto il nostro sapere de-
rivi da essi; poiché per es. la scienza delle proprietà del cerchio
e delle altre figure geometriche, la debbo ai giudizi analitici (5).
2° È vero che nella conoscenza umana vi sono principi univer-
sali e necessari. Ma i loro caratteri di universalità e necessità non
(1) Op. cit., pag. 245. (2) Op. cit, pag. 246.
(3) Op. cit, pag. 251. (4) Op. cit., pag. 257.
/i;\ rtn /.fV riQrr ORO
\ó) up. CU., pag. zDi.
(5) Op. cit, pag. 252.
— 350 —
ci devono indurre a considerarli come a priori (indipendenti dal-
l'esperienza). Bisogna vedere se l'anima, valendosi delle sue po-
tenze di unire, di scomporre, di astrarre e di anatomizzare, per
così dire, le idee e le nozioni empiriche, non possa formarsi al-
cuni concetti, i quali, analizzati, porgano cognizioni dotate di
assoluta necessità (1). Per es. non è possibile all'anima trarre
dall' idea empirica d' estensione il concetto astratto della linea
retta, unire poi tre linee rette, in modo che racchiudano una fi-
gura, e comporre quindi il concetto di triangolo rettilineo ? E
r anima da tale concetto non può forse trarre, mediante giudizi
analitici, molte proposizioni dotate di assoluta necessità e tutte
universali, perchè contenute essenzialmente nel concetto già for-
mato di triangolo ? (2). Kant, per provare 1' esistenza di giudizi
sintetici a priori, ricorre sempre al principio di causa; ma questo,
chi ben consideri, può derivare dall' esperienza interna. Noi ab-
biamo coscienza che molti fenomeni psichici sono del tutto di-
pendenti dalla libera azione della volontà: ebbene, appunto questa
coscienza potrebbe a poco a poco far sorgere nel nostro intel-
letto il concetto di causa, che, allora, non sarebbe più a priori.
Una spiegazione simile si potrebbe forse dare degli altri concetti
che Kant considera come a priori (3). 3° Le idee di spazio e di
tempo, che Kant considera come indipendenti dall' esperienza,
non son certo tali. Infatti non si può capire come l' idea o con-
cetto di spazio preesista in noi, e come l'anima attenda soltanto
r occasione dell' esperienza per averne la percezione; poiché non
basta, per avere questa, che l' anima sperimenti le impressioni
dei sensi in genere; è necessario invece che le impressioni siano
trasmesse da alcuni determinati sensi piuttosto che da altri. Così
i due sensi dell' odorato e dell' udito non sono capaci di susci-
tare in noi r idea dello spazio; noi quindi non potremmo mai
con questi due mezzi affermare che i corpi siano dotati d'esten-
sione ed esistano nello spazio. È vero che l' anima, nel sentire
(1) Di qui si vede che il Bonfadini resta fedele al Locke e agl'ideo-
logi. Lockiana è anche 1' affermazione dell'inconoscibilità delle sostanze
{Op. cit., pag. 250).
(2) Op. cit, pag. 249.
(3) Op. cit, pag. 252 e 257.
— 351 —
un odore conosciuto, si rappresenta l' oggetto odoroso, e lo
proietta nello spazio; ma questo avviene per l'associarsi delle idee,
per cui, all' occasione dell' odore, sono richiamate alla mente le
idee dovute alle impressioni tattili e visive. Tale fatto psicologico
ci deve destare almeno il sospetto che l'anima concepisca l'idea
dello spazio mediante una certa organizzazione dei sensi e il loro
modo di agire, che porgono l' occasione di mettere in attività
alcune delle sue potenze per conseguire il fine proposto. Ma, in
tal caso, il concetto di spazio non è più preesistente a qualunque
esperienza (1).
Notevole è questa critica sia per la sua acutezza, sia per la
circospezione e la prudenza con cui è presentata; e, quantunque
talora sia espressione di empirismo eccessivo, merita considera-
zione specialmente per la prima e la terza obiezione. Quanto dice
sul principio di causa invece non scioglie la difficoltà; giacché noi
neir atto volontario percepiamo nella coscienza, come nell' espe-
rienza esterna, un antecedente e un conseguente; il loro nesso
causale ci sfugge.
* *
Abbiamo così esaminate le principali critiche rivolte dagl'ideo-
logi francesi e italiani alla dottrina di Kant (2). Non è dubbio
che costoro non mettano spesso il dito su piaghe veramente
aperte e vive nell'organismo della filosofia trascendentale. D'altra
parte non si può negare che talvolta la critica degl' ideologi ci
ricordi il giuoco « a mosca cieca », in cui il bendato dà botte
da orbo a destra e a sinistra, senza sapere dove e su chi, spesso
(1) Op. cit., pag. 256-257. Tale obiezione, come si noterà facilmente,
ne ricorda una simile del Soave.
(2) Anche P. Costa {Del modo etc, Gap. XXIIl e XXV) toccò della
teoria kantiana dello spazio e del tempo, ma assai fugacemente e con
qualche osservazione critica poco notevole. Pure il Nessi {Schizzo etc,
pag. 104-168) esaminò la dottrina di Kant fondandosi sul Buhle e sulla
traduzione italiana del Mantovani (cita anche il compendio del Kinker
e la critica del Tracy); ma la sua esposizione è assai schematica, e la
critica fiacca (non fa che sostituire alle idee di Kant le sue, senza ap-
profondire l'analisi delle opere del filosofo tedesco).
— 352 —
picchiando a vuoto; infatti più di una volta essi intendono male
il pensiero kantiano e combattono con nubi della loro mente.
Che cosa risulta dunque da questa polemica? Prescindendo dalle
differenze particolari, vediamo subito che il punto in cui diver-
gono i due indirizzi filosofici è il metodo; che gì' ideologi cam-
minano sul terreno dell' esperienza, mentre Kant, andando in
cerca degli a priori, che trascendono 1' esperienza e ne sono il
presupposto, se ne allontana. Senza dubbio qui la filosofia kan-
tiana è in isvantaggio; che una dottrina del conoscere fondata
su di un metodo non analiticoempirico non sodisfa le menti po-
sitive. Tuttavia gì' ideologi sono veramente riusciti a spiegar tutte
le conoscenze umane con l' esperienza sensoriale schietta ? No;
r abbiamo notato più volte nel corso del nostro lavoro. Essi di
solito non hanno voluto ammettere altra fonte del conoscere che
la sensazione; ma o hanno snaturato i fatti, o hanno dovuto ab-
bandonare, pur con incertezze e tentennamenti, l'esperienza sen-
soriale bruta. Qui è perciò il vantaggio e la superiorità di Kant
rispetto a loro.
CONCLUSIONE
Volgiamo uno sguardo a! cammino percorso.
Noi abbiamo innanzi tutto esaminato le condizioni della ge-
nesi del movimento filosofico degl' ideologi: le quali, come ab-
biamo visto, non furono che lo sviluppo grandioso della scienza
e quindi il diffondersi del metodo analitico induttivo. Conse-
guenza: il prevalere della filosofia di Locke e il crollo dell'edi-
ficio speculativo di Cartesio. Non tutto però l' edificio cartesiano
rovinò: le parti solide restarono. Da queste circostanze abbiamo
derivato i caratteri generali della filosofia del settecento, e ab-
biamo poi scorsi i problemi fondamentali agitati in quel tempo.
Siamo indi passati all' esame del pensiero dei principali rap-
presentanti del movimento filosofico in Francia.
L' iniziatore vero e proprio del movimento fu Voltaire: il quale
ingaggiò battaglia contro i cartesiani, iniziò le prime ricerche ideo-
logiche (specie sulla percezione dello spazio) e quell'agnosticismo
che fu poi comune a tutti gl'ideologi, non ostante i tentativi di
uscirne compiuti da molti.
A Voltaire seguì Diderot, che nella Lettre sur les aveugles
espose osservazioni acutissime sulla percezione dello spazio, e
nella Lettre sur les sourds et muets suggerì l'idea & uri' anatomia
della psiche umana.
Poi Buffon, per rintracciare 1' anima vergine dell' uomo e as-
sistere all'aurora della vita psichica, astraendo dalla cultura qual'è
ora sviluppata e complessa, si trasferì col pensiero all'esperienza
iniziale del primo uomo, anticipando, così, la finzione della statua
del Condillac.
Ebbero importanza per il movimento ideologico anche Mon-
tesquieu e Rousseau: l'uno perii tentativo di determinare la vita
civile dei popoli in rapporto al così detto « ambiente fisico »;
23
— 354 —
r altro per il suo sentimentalismo e per 1' analisi delle passioni
(come anche per il suo spirito antidommatico).
Il primo ideologo vero e proprio, colui che pose i problemi
fondamentali del tempo, fu il Condillac. Egli indicò e spiegò in-
nanzi tutto il metodo da seguire: l' analisi; lo applicò poi allo
studio della vita psichica, di cui mostrò la genesi e lo sviluppo
ricorrendo alla famosa finzione della statua, escogitata appunto
per realizzare le condizioni più favorevoli all' analisi. Abbiamo
visto che i principali mutamenti arrecati da lui nella filosofia
lockiana furono: la riduzione di tutte le facoltà psichiche al sen-
tire; un'analisi più esatta della nozione di spazio; l'eliminazione
delle differenze fra qualità primarie e secondarie; l' asserzione
della semplicità dell'anima e la negazione della possibilità d'at-
tribuire il pensiero alla materia; 1' assunzione, come criterio del
vero, del principio d'identità. I germi di questi mutamenti erano
però nella dottrina di Locke; onde abbiamo concluso che il pas-
saggio dalla dottrina del filosofo inglese a quella del filosofo
francese era non solo facile, ma quasi necessario (1).
La dottrina del Condillac presentava però vari difetti. Abbiamo
visto infatti che l'analisi senza la sintesi non dà una conoscenza
esauriente degli oggetti (li riduce a membra disieda); che non è
possibile considerare tutto il sapere umano come una catena con-
tinua di giudizi analitici (identici); che il Condillac non dà sempre
alla parola analisi \o stesso significato; che l'analisi (così com'è
concepita dal Condillac), applicata allo studio della psiche, ha sna-
turato questa; che è impossibile ridurre tutte le facoltà psichiche
al sentire; che il Condillac non è riuscito a spiegare la mancanza
del linguaggio nelle bestie e la presenza nella mente umana di
categorie e leggi assolute; che il filosofo francese è stato tratto
dai suoi principi a concepire l' anima come tutta passiva, non
ostante che abbia cercato invano di darle un' ombra d' attività;
che gli è sfuggito il problema del subconscio; che infine anche
(1) Tant' è vero questo, che anche in Inghilterra s'era compiuto un
mutamento simile: infatti il Berkeley aveva eliminato le differenze tra
qualità primarie e secondarie, aveva analizzato più profondamente la
nozione di spazio; 1' Hume e poi I' Hartley avevano sostenuto e svilup-
pato l'associazionismo.
— 355 —
r analisi della nozione di spazio, quantunque notevole per il suo
tempo, non è priva di mende.
Un tentativo simile a quello del Condillac fu compiuto dal
Bonnet. Esistono però differenze fra l'uno e l'altro; le quali sono
principalmente le seguenti: il metodo del Bonnet è veramente
analitico-induttivo; egli non riduce tutte le attività psichiche al
sentire, da cui distingue specialmente i fatti di volontà; inoltre il
Bonnet tenta (anticipando le ricerche del Cabanis) di risolvere i
problemi ideologici con i dati della fisiologia. Quindi il valore
dell' ideologia bonnetiana rispetto a quella del Condillac. Poco
notevoli sono invece le ricerche propriamente ideologiche del-
l' Helvétius; di cui però è importante 1' analisi delle passioni.
Questi tentativi, con i loro difetti, non potevano appagare tutti
i contemporanei. Doveva quindi esser ripresa la discussione dei
problemi. Sorse infatti il Cabanis, che rese sperimentale V ideo-
logia considerando i fenomeni psichici in connessione con quelli
fisiologici; e, contro il Condillac, mostrò la necessità di ammet-
tere sensazioni d'origine interna (istinti, senso interno); l'impos-
sibilità quindi di considerarla psiche umana, all'inizio della vita,
come una tabula rasa; V esistenza di sensazioni subconscie; l' er-
rore (in cui era caduto anche il Bonnet) di considerare le facoltà
psichiche come operanti 1' una indipendentemente dall'altra; eia
necessità di coordinar tutte queste in una visione sintetica ed
organica. Il Tracy criticò e integrò anche lui il Condillac; riesa-
minando il problema della percezione spaziale, richiamò l' atten-
zione sul senso di movimento (cinestesi), e non considerò più il
soggetto come passivo, ma diede la dovuta importanza, nella co-
noscenza, all' elemento attivo e volontario; aprì, così, la strada a
Maine de Biran; inoltre diede forma definitiva e compiuta alle
ricerche grammaticali fondate sull' analisi dell' intelletto; tentò di
riformare la logica. Tuttavia cadde pur lui in vari errori. Confuse
la sensibilità con la coscienza, e così cercò, come il Condillac,
di mostrare che tutte le facoltà psichiche si riducono al sentire.
Egli inoltre, dopo aver creduto di provar 1' esistenza degli esseri
esterni, cadde in un idealismo fenomenistico brulicante di con-
tradizioni. Escluse ingiustamente dall' ideologia le scienze dedut-
tive; né riuscì veramente ad abbandonare i principi della logica
aristotelica. Lo Stendhal infine, applicando il metodo degl' ideo-
logi, creò un vero gioiello: il De l' amour, in cui analizzò non
— 356 —
solo r amore, ma le passioni in genere, e gettò le basi della così
detta logica dei sentimenti.
Passando agi' ideologi italiani, abbiamo esaminato le condi-
zioni che favorirono il penetrare e il diffondersi della cultura fran-
cese in Italia. Le quali furono: le riforme dei principi promosse
dagli studiosi di legislazione e dagli economisti; le sette politiche
e religiose (specialmente giansenismo, massoneria etc); il fiorire
delle scienze positive e di studi filosofici fondati sull' esperienza
(« sperimentalismo >); il favore incontrato nella nostra penisola
dalla dottrina del Gassendi.
Già al principio del secolo la filosofia lockiana, preparando il
terreno all'ideologia, cominciò a diffondersi per la penisola, seb-
bene non senza contrasti; e, nell' Italia meridionale, s' insinuò
prima nelle opere del Genovesi, compenetrò poi gli scritti di
molti pensatori. Ma l'azione della cultura francese fu più decisa
e profonda nell' Italia settentrionale specialmente a traverso il
Beccaria, Pietro Verri e altri.
Già v'erano dei lockiani veri e propri, quando venne a Parma
il Condillac, che diede nuovo impulso al movimento filosofico
già iniziato, esercitando la sua efficacia specialmente sui perso-
naggi di Corte; si tradussero le opere di lui; fu ammirato, ido-
latrato; sorsero condillachiani per tutta la penisola. Neppure i
grandi poeti rimasero estranei al movimento: l'Alfieri, il Parini
risentirono l'efficacia della cultura francese. Si capisce quindi che
r esercito di Francia dovesse essere accolto con entusiasmo. Al-
lora la cultura d' oltr' Alpe ebbe sempre maggior diffusione e
prevalenza.
Dopo aver così esaminate le condizioni che prepararono nella
nostra penisola le ricerche ideologiche, abbiamo considerato i prin-
cipali ideologi italiani. S'è visto che la filosofia sperimentale, da
noi, non fu una ripetizione pura e semplice di quella francese;
seguì, sì, il metodo analitico-induttivo, ma produsse opere origi-
nali, che giunsero a risultati diversi da quelli dei filosofi francesi.
Anzi la caratteristica dell'ideologia italiana fu questa: che, abban-
donando il semplicismo e i preconcetti dei Francesi, e venendo
sempre più a contatto dei fatti, fu costretta a criticare sé stessa
e a mettersi per una nuova via. Così abbiam visto che nell' Italia
settentrionale Francesco Soave criticò la riduzione, compiuta dal
Condillac e dal Tracy, di tutte le facoltà psichiche a quella di
- 357 —
sentire; cercò d'eliminare l'idealismo fenomenistico nel problema
della realtà del mondo esterno; liberò infine l'etica dal soggetti-
vismo egoistico. Melchiorre Gioia cercò di mettere in evidenza
r azione dell' intelletto sul materiale grezzo e caotico dei sensi,
mostrando la distanza che passa fra gli animali irragionevoli e
r uomo; diede un' analisi finissima dei sentimenti e degl' istinti, e
ne stabilì le leggi fondamentali. G. D. Romagnosi, proseguendo
la critica e la riforma de! Soave e del Gioia, mise in evidenza
r attività del soggetto nella conoscenza, e provò che con gli ele-
menti sensoriali sono intimamente connessi elementi intellettivi
(senso logico) inesplicabili con 1' empirismo rude; inoltre, dimo-
strando che dev' esserci una causa oggettiva delle nostre impres-
sioni, cercò di sperdere il fenomenismo idealistico degl'ideologi
francesi; infine mostrò l' importanza della sociologia per lo studio
dell' uomo interiore. Neil' Italia meridionale poi, se Melchiorre
Delfico ricalcò piuttosto passivamente le orme del Cabanis e del
Condorcet, invece Pasquale Borrelli creò un sistema ideologico
originale. Egli, considerando i fatti psichici dinamicamente e ge-
neticamente, distinse neh' anima tre funzioni fondamentali (sen-
tire, giudicare, volere) irriducibili Tuna all'altra, dimostrò quindi
r impossibilità di derivare dal sentire tutte le forme d' attività
psichica. Diede, così, compimento a quella critica e riforma del-
l' ideologia francese che era stata iniziata dal Soave e proseguita
dal Gioia e dal Romagnosi.
Oltre gì' ideologi principali ne abbiamo ricordati molti altri
minori non già perchè le loro ricerche siano molto importanti,
ma piuttosto perchè le loro opere sono indice della grande dif-
fusione e delle numerose applicazioni ch'ebbe in Italia l'indirizzo
speculativo da noi studiato: il quale, come s' è visto, fu ritenuto
quasi una specie di rivoluzione o di rinnovamento nel campo
filosofico.
Col canto e con la meditazione dolorosa di Giacomo Leopardi,
fratello spirituale del Foscolo, si chiude tragicamente la storia
dell' ideologia: il pessimismo è 1' ultima sua fase.
Per compiere il nostro lavoro, abbiamo esaminato le critiche
principali mosse dagl'ideologi francesi e italiani alla dottrina di
Kant sulla conoscienza; e abbiamo assistito ad un dibattito davvero
interessante.
Ricordiamo infine d'aver visto come tanto gì' ideologi francesi,
— 358 —
quanto quelli italiani siano rimasti agnostici; non si possono quindi
chiamare propriamente materialisti (1).
Prima della seconda metà dell'ottocento l'indirizzo degl'ideo-
logi tramontò al sopraggiungere di nuove dottrine; tuttavia esso
ebbe efficacia su teorie filosofiche collaterali o susseguenti, per
es. su quelle del Galluppi, che chiamò la sua dottrina una « fi-
losofia dell'esperienza », del Mamiani (specie durante la prima
fase del suo pensiero) e di tutti quei pensatori italiani più recenti
(Cattaneo, Gabelli etc.) (2) che diedero preponderanza nelle loro
teorie all'esperienza. Sicché si ha qui una vera tradizione filoso-
fica, che da Galilei si trasmette (sempre, s' intende, modificata
dalle circostanze di cultura e dalle varie tendenze spirituali dei
filosofi) di generazione in generazione fino, si può dire, ai giorni
nostri. Onde l' importanza degl' ideologi.
Cerchiamo ora, senza discendere a ricordare le mende parti-
colari di ciascun filosofo, di fissare i difetti più importanti e ge-
nerali dell' ideologia, già da noi accennati qua e là nel corso
del lavoro.
(1) Alcuni, per es. il Credaro (// kantismo in G. D. Romagnosi,
pag. 54) e il Gentile {Dal Genovesi al Galluppi, pag. 165, § 112)
hanno voluto sostenere che gì' ideologi (specialmente il Bonnet, il Ca-
banis, il Borrelli) siano senza dubbio materialisti, non ostante che di-
chiarino di non esser tali: giacche intendono spiegare tutti i fatti psichici
con i dati fisiologici, di modo che nelle loro teorie l'anima diviene inu-
tile. Ma allora sarebbero materialisti tutti i cultori della moderna psi-
cologia sperimentale. Ricercare le condizioni dei fatti psichici non vuol
dire ridurre questi a quelle. La necessità di tali condizioni per la vita
dello spirito dimostra solo che questa ha bisogno d'uno strumento o organo
corporeo; ecco tutto. È vero che spesso gì' ideologi adoperano espres-
sioni e presentano ipotesi che possono giustificare quell'accusa di ma-
terialismo. Ma la loro aperta professione di agnosticismo dissipa (come
ho provato specie a proposito del Cabanis) tale accusa.
(2) Il Cattaneo svolse, com' è noto, specialmente la filosofia civile
del Romagnosi, mostrando i difetti della psicologia individuale, e so-
stenendo la necessità d' una psicologia delle menti associate (studio
dell' azione, formatrice e modificatrice, della società sulla psiche indi-
viduale).
— 359 —
r L'uso della sola analisi. È difetto della maggior parte de-
gl'ideologi, che conduce a smembrare gli oggetti senza cogliere
la loro unità viva. Mi piace citare a questo proposito una pagina
poco conosciuta del Leopardi: « Supponghiamo », egli scrive,
« che noi fossimo animali di specie diversa dalla nostra, anzi di
natura diversa dalla general natura degli animali che conosciamo,
e non di meno fossimo, siccome siamo, dotati d' intendimento.
Se non avendo noi mai veduto né uomo alcuno né animali di
quelli che realmente esistono, e ninna notizia avendone, ci fosse
portato innanzi un corpo umano morto, e notomizzandolo noi
giungessimo a conoscerne a una a una tutte le piìi menome parti,
e chimicamente decomponendolo arrivassimo a scoprirne ciascun
ultimo elemento; perciò forse potremmo noi conoscere, intendere,
ritrovare, concepire qual fosse il destino, 1' azione, le funzioni, le
virtù, le forze etc. di ciascheduna parte d' esso corpo rispetto a
sé stessa, all' altre parti ed al tutto, quale lo scopo e 1' oggetto
di quella disposizione e di quel tal ordine che in esse parti scor-
geremmo e osserveremmo pure co' propri occhi, e colle proprie
mani tratteremmo; quali gli effetti particolari e l'effetto generale
e complessivo di esso ordine e del tutto di esso corpo; quale è
il fine di questo tutto; quale insomma e che cosa la vita dell'uomo,
anzi se quel corpo fosse mai o dovesse esser vissuto; anzi pure
se dalla nostra stessa vita non 1' arguissimo, o se alcuno potesse
intendere senza vivere, concepiremmo noi e ritrarremmo in alcun
modo dalla piena e perfetta e analitica ed elementare cognizione
di quel corpo morto, l'idea della vita? e vogliamo solamente dire
l'idea di quel corpo vivo? e intenderemmo noi quale e che cosa
fosse r uomo vivente e il suo modo di vivere esteriore o inte-
riore? lo credo che tutti sieno per rispondere che niuna di queste
cose intenderemmo ; che volendole congetturare, andremmo le
mille miglia lontani dal vero, o sarebbe a scommettere milioni
contro uno che di nulla mai, neanche facendo un milione di con-
getture, ci apporremmo; finalmente eh' egli sarebbe cosa proba-
bilissima ch'esaminato e conosciuto quel corpo morto, in questa
conoscenza ci fermassimo e neppur ci venisse in sospetto eh' ei
fosse mai stato altro, né fosse mai stato destinato ad esser altro
che quel corpo che noi lo vedremmo o tale qual noi lo vedremmo,
né della sua passata vita, né dell' uomo vivo ci sorgerebbe in
capo la più minima conghiettura. Applicando questa similitudine
— 360 —
al mio proposito dico che scoprire ed intendere quale sia la na-
tura viva, quale il modo, quale le cagioni e gli effetti, quali gli
andamenti e i processi, quale il fine o i fini, le intenzioni, i de-
stini della vita della natura o delle cose, quale la vera destina-
zione del loro essere, quale insomma lo spirito della natura, colla
semplice conoscenza, per dir così, del suo corpo, e coli' analisi
esatta, minuziosa, materiale delle sue parti anche morali, non si
può, dico, con questi soli mezzi scoprire né intendere, né felice-
mente o anche pur probabilmente congetturare > (1).
2° Impossibilità di ridurre tutte le forme di attività dello spi-
rito al sentire. La sensibilità dà il materiale alla vita dello spirito;
ma questo esercita altre funzioni, che elaborano quel materiale.
3° Mancanza di principi assoluti e di concetti supremi (2). Non
avendo ammesse funzioni superiori alla sensibilità, gì' ideologi
non potevano ammettere l'esistenza di concetti e di principi ve-
ramente universali e assoluti: tutte le idee si plasmano secondo
essi sul!' esperienza mutevole. Ma l' intelletto umano ha senza
dubbio principi assoluti (per es. il principio d' identità, di non-
contradizione, di causa), che devono essere e non si possono quindi
derivare dall' esperienza, perché questa ci darebbe sempre qual-
cosa che è in un modo o in un altro, ma non che dev'essere as-
solutamente (3). Quindi in questo punto gl'ideologi contradicono
(1) Zibaldone, Voi. V, pag. 264-269.
(2) Questo carattere dell' ideologia ci spiega forse la preponderanza
che le passioni acquistano rispetto alla ragione nelle opere di molti
ideologi. Se infatti non c'è una facoltà che con le sue norme assolute
possa dominare il tumulto dell'animo, allora le passioni, libere da ogni
vincolo, si danno ad una sfrenata esultanza. Se però da un lato questo
carattere costituisce un difetto dell'ideologia, può, dall'altro, esser con-
siderato come un pregio, che le passioni e i sentimenti hanno impor-
tanza nella vita (il sentimento è il motore della volontà, perchè in fondo
non esistono motivi senza un tono affettivo o senza un valore, eh' è
quasi lo stesso).
(3) Solo il Mill ha tentato di derivare i principi logici dall'esperienza
interna; ma il suo tentativo, naturalmente, è fallito, perchè qualunque
esperienza non può darci che principi relativi (i quali potrebbero cam-
biare), mentre i principi logici sono assoluti (non è possibile ammettere
che un giorno non valga più il principio di non-contradizione o che
ci sia stato un tempo in cui questo principio non sia valso o che ci
possa esser mai un tempo siffatto).-
— 361 —
ai fatti. Veramente gl'ideologi italiani hanno ammesso un'attività
intellettiva superiore all' esercizio dei sensi; onde la loro origi-
nalità e importanza rispetto ai filosofi francesi; ma restano pur essi
un po' neir incertezza.
4° Questa mancanza di principi assoluti dà origine ad un re-
lativismo insodisfacente: insodisfacente perchè il mondo, in tal
caso, diviene una catena sospesa in aria, non si sa come, né perchè,
un fiume senza sorgente e senza foce, un' infinità di avvenimenti
senza un sostegno. Il che è impossibile,
5" // fenomenismo idealistico. I fenomeni sono.... fenomeni di
qualcosa di reale. Quindi arrestarsi alle apparenze senza ammet-
tere delle sostanze è come voler appoggiar dei corpi su sé stessi (1).
6° La mancanza d'una metafisica. La spiegazione fenomenica
non sodisfa l'animo umano (onde la visione pessimistica del reale):
la mente nostra o in un modo o in un altro vuol tentare una spiega-
zione delia natura intima degli esseri (specialmente lo Schopenhauer
ha insistito sul bisogno metafisico dell'uomo). Del resto gl'ideologi
stessi hanno spesso oltrepassato la cerchia dei fenomeni e sono
entrati nella metafisica; giacché hanno dimostrato 1' esistenza d'un
principio psichico semplice e sempre identico a sé stesso, l'hanno
distinto dalla materia, e hanno negato a questa la possibilità di
pensare. 11 Condillac ha creduto di poter determinare persino la
natura dell' Assoluto ! Dire che la materia ha una natura diversa
da quella dello spirito, tanto che non può pensare, dire che lo
spirito è semplice etc. non è indicare l'essenza, la natura di questi
enti ? Parlare delle qualità e della natura di Dio, non è oltre-
passare il campo dei fenomeni ? Del resto i fenomeni stessi sono
manifestazioni o almeno indizi della natura degli esseri da cui
emanano. Il Bonnet anzi in Essai de psychologie (2) afferma che
« gli attributi che costituiscono l'essenza nominale del corpo hanno
lor fondamento nell'essenza reale ». Com'è possibile quindi stu-
diare i fenomeni senza spingere lo sguardo nella loro essenza ?
Ecco i difetti principali dell' indirizzo filosofico da noi studiato.
Ma questo ha senza dubbio anche dei pregi. Dei quali i più no-
notevoli sono i seguenti:
(1) Anche se s' ammette l' esistenza della sola sostanza-soggetto, si
cade nel solipsismo. (2) Pag. 104 (edz. cit.).
362
1 ,• L' uso di un metodo positivo fondato sull'esperienza. Abbiamo
detto che 1' analisi da sola è imperfetta, ma non v' è dubbio che
la sintesi, ossia quel metodo che pretende di trarre, mediante un
processo puramente intellettuale, da principi a priori tutto il reale
e tutta la ricchezza meravigliosa dell' esperienza, è fallace. Tutti
i tentativi di costruire sistemi mediante un processo puramente
sintetico o deduttivo sono, come ha ben mostrato il Condillac
nel Traité des systèmes, falliti clamorosamente. Così io non so
capire come mai lo Spinoza, dopo aver detto {Ethica, Libro I,
Def. 6*) che la sostanza o Dio ha un numera infinito d' attributi,
poi si limiti a considerare (nel Libro 11) solo due di questi: l'esten-
sione e il pensiero. Se dall' idea di sostanza potessimo veramente
trarre gli attributi suoi come dalla definizione d' una figura geo-
metrica le proprietà di questa (il che pretende lo Spinoza), do-
vremmo poter ricavarne, indipendentemente dall' esperienza, il
numero infinito d' attributi che vi son contenuti. Invece lo Spi-
noza ne sa derivare solo i due indicati: e il curioso è che questi
li conosciamo empiricamente. È, allora, evidente che qui egli s' è
fondato suU' esperienza, e che solo in apparenza ha tratti il pen-
siero e r estensione dalla sostanza mediante un processo razionale
deduttivo. Quali sono infatti gli altri attributi? Nessuno ce li
saprebbe dire. Dunque il metodo vero della scienza e della filo-
sofia non è che quello induttivo, detto dagl' ideologi analisi (1).
Solo che questa non va adoperata da sola; va integrata mediante
una visione sintetica e organica dell' oggetto da spiegare (il Ca-
banis e il Romagnosi hanno ben visto la necessità di questa in-
tegrazione).
2. L' importanza data all' esperienza interiore (2). I fatti di co-
li) Senza dubbio il mezzo escogitato dagridcologi per analizzare la
psiche è talvolta artificioso (statua, primo uomo del Buffon); la realtà
è ben diversa da questi fantocci. Tuttavia si badi che anche oggi si
riesce ad ottenere l'analisi di certi fatti psichici solo in casi anormali
o patologici. S'aggiunga che tra gli uomini ci sono (raramente per for-
tuna) dei sordo-muti ciechi (El. Keller, Laura Bridgnian), i quali spesso
per circostanze comunissime, per es. per una infreddatura, possono per-
dere temporaneamente anche l'odorato e in parte il gusto, e così realiz-
zano in certo modo le finzioni degi' ideologi.
(2) È questo un carattere che distingue l'ideologia dal moderno po-
sitivismo (almeno così come fu presentato dal Comtei, con cui tuttavia
ha vari punti di contatto.
— 363 —
scienza hanno, rispetto a quelli esterni, la prerogativa di essere
immediati ed evidenti, perciò immuni da errori e da deformazioni.
Nel nostro interno non ha senso domandare se la conoscenza
sia rappresentazione esatta e adequata dell' oggetto; poiché og-
getto e conoscenza (soggetto) sono una cosa {io percepisco me
stesso in quanto pensante, senziente, volente etc). Si può certo, nel-
r esperienza interiore, prendere per evidente ciò che non è tale
(e il Condillac l'ha mostrato). Ma il caso non è assai frequente,
e se, procedendo attentamente, si tolgono le incrostazioni che
possono impedire il nostro contatto immediato con 1' avvenimento
interno, ogni errore è escluso; che, se il fatto è osservato nella
sua immediatezza, non è possibile sbagliare. Ora, l' ideologia non
è, come s' è visto, che lo studio dei fatti interni (psicologia in
senso ampio); di qui l' importanza delle sue analisi (fra le quali
hanno un pregio speciale quelle dei fenomeni affettivi).
3." L' antidommatismo. GÌ' ideologi, ricollegandosi al Locke,
hanno dato grandissima importanza al problema della conoscenza;
essi hanno esaminato le condizioni e i mezzi (facoltà) di conoscere,
prima di studiare l' essere; e, per non esser tratti in inganno,
hanno voluto analizzare le idee e le cognizioni umane fin nelle
radici loro (1); ossia, prescindendo dal sapere umano così coni* è
ora beli' e sviluppato e complesso, hanno voluto risalire alla sua
sorgente, per assistere alla formazione graduale di tutti i concetti
e principi (2). In questo senso sono stati precursori del criticismo.
4.° La lotta contro l'innatismo. L'ammettere principi e concetti
(1) Perciò mi pare che non sia fondata l'obiezione del CousiN {Phi-
losophie de Locke, pag. 92) che Locke erroneamente pone la questione
dell'origine delle idee prima di quella dell'esame o inventario delle
idee stesse. Locke e gì' ideologi, appunto perchè il sapere, così com' è
ora, presenta dei caratteri che possono indurci a interpretarlo male,
hanno voluto distruggerlo dalle fondamenta, per ricostruirne la genesi.
Solo per questa via hanno creduto di poterne conoscere la natura vera.
(2) Risalendo all'origine del sapere umano e seguendone lo sviluppo
gl'ideologi hanno come schizzato l'evoluzione della psiche. Ecco perchè
il Dewaule ha detto che il Condillac è un precursore dello Spencer.
Ma bisogna badare: 1" che quello sviluppo avviene in un individuo sin-
golo e non in una serie di generazioni (come vuole lo Spencer); 2° che
esso è una ricostruzione ideale degl'ideologi, non un'evoluzione storica
(nel tempo e nello spazio) certificata mediante osservazioni di fatti con-
creti (che gl'ideologi sono antistorici). Quindi siamo ben lontani dal-
l' evoluzionismo dello Spencer.
— 364 —
innati è segno o di pigrizia o d'incapacità mentale; e senza dubbio
si può mostrare la genesi di molte di quelle idee che gli antichi
ritenevano innate. Ci sono certo, come abbiamo accennato, prin-
cipi inderivabili dall' esperienza. Ma questi non sono certo innati;
sono leggi dell' intelletto, maniere necessarie di concepire il reale,
esigenze imperiose della nostra ragione, che si esplicano a con-
tatto dell'esperienza e trovano corrispondenza in questa. Così,
non è possibile considerare come innati il principio di non-con-
tradizione, quello di causa etc. Essi Sono leggi del pensiero, nel
senso che noi non possiamo pensare violandoli; e li applichiamo
subito che pensiamo; ma è ridicolo immaginare che essi siano
nella nostra mente prima di ogni esperienza e di ogni pensiero.
5." Infine è merito dell' ideologia l'aver messo un freno all' or-
goglio del pensiero e agli slanci della fantasia, ponendo dei limiti
alla nostra conoscenza. La considerazione dei puri fenomeni non
sodisfa, è vero, il nostro intelletto; ma errore sarebbe pensare
che noi possiamo risolvere tutti i problemi della metafisica e dis-
sipare tutte le tenebre del mistero, che traboccano da tutte le
parti dell'universo, come onde mostruose d'uno sconfinato oceano
nereggiante. Alcune questioni della metafisica si possono certo
risolvere con 1' aiuto dei dati dell' esperienza e con la luce della
nostra ragione. Ma in molti altri problemi (es. quelli dell' immor-
talità dell' anima, della natura dell' Assoluto etc.) non possiamo
abbozzare che ipotesi probabili, e in altri ancora dobbiamo ri-
conoscere la nostra ignoranza e l' incapacità della nostra mente.
Vi sono problemi che noi non potremo risolvere mai con la
certezza della matematica o dell' esperienza diretta. Onde, se
qualcuno credesse di possedere il segreto per la soluzione di tutte
le difficoltà, la bacchetta magica per la spiegazione di tut+i gli
enigmi, non potremmo che ricordargli le parole di Voltaire :
« È vero che dei professori e sopra tutto degli scolari sanno
perfettamente ogni cosa.... Ma la filosofia non rende ragione di
tutto ».
AGGIUNTE
VoL I, pag, 12. — 5' è discnss-: >e 0 vere sczvriiort de^a cf:
lazione del sangue sia stato THaTty parect-:: haz-.: s:r:er-t:
sa staio Aadrea Cesalpiao il519-:ó»'.T . Cra. t ce-.: zr.t tilt :r
del CesalpHK) si poò ricostiMie nr; ---^~--- -^--- -^
sa^nigno. Ma, si badi, gli assert
dd CesalpÓK) rìcoBOSCoao cke I
ma dimostrò con Tane e molteplici
code a Ini è data di solito la gloria '
scoperta della circolazioat del sangui. . .
Vita, Di Andrea Cesalpùu - Discorso, F VL
Voi. I, pag. 182, nota 1. — I Rappor.
formalo i Tc-rts Ili e IV deDe Oearres rr~
(ediz. cit. F. D:Jo: et Bossange frères
Voi. II. -s? T2i nota 6. — Platea. . . ..- . - ; _ --.
negativa e t . -e ìb Repubblica, Libro IX, Cap. IX, :
Voi. II, pag. ;ye. — Aristoleie duamò Ywomo mm e -
tare in Poetica, Cap. FV. Cfr. COMEino, Didmcfiem Mmffm.
Voi. II, pag. 213, nota 1. — Il Borrelli a p^. 11 e- f
dicalo alla memoria del Caraliere Paolo Sicotm Girnm, — — _ 1-
Napoli, Starila, 1536 dice che il Oiampaoio selle sae
fisica si affidò agi' insilamenti del Boaaet.
Voi. II, Cap. VI. — Solo dopo cke era ga stampato i
BorreOi m'è rioscito di leggoe V Elogio di Pmsqmmit B^rrtUi, cke si
trova negli Atti della Reale Accademia delie sdemze, seiitme éeOm
Società Reale Borbonica, Votame \1 voltno dda I Serici Napofi,
Stamperia Reale, 1S51, pag. LXX\' -LXXXl. Ecco le mifide pìi makewtM
che si ricavano da tale Elogio. A pag. LXXVl si legge cke 1 BonrS,
per conoscere il diritto del rcguo BapoiitajBO, stmfiò le tslitaritmi camt-
poste dal dotto professore dell' Uaìrersità degli Stedfi Gimsep^ Ètaffà.
11 che conferma quanto io ho asserito a pag. 205 vdel II VoL\ nota 1.
A pag. LXXVll si dice che fl terzo opuscolo (sm venn dei ooieria\
a cui io ho accenmto a pag. 211, Boia 3, fa letto da Reale Accad.
delle scienze, la quale fece plaaso al lavoro e ae dhpowr la
— 366 —
zione; ma questa, non si sa perchè, non avvenne. A pag. LXXVIII-LXXIX
si legge: « Fu pure opinione di molti, né manca ancora chi lo accerti,
esser lavoro del Borrelli le Allocuzioni critiche su la Filosofia eclet-
tica, che nel 1832 [dev'essere un errore; anche la Bibliogr. di P. Bor.
dice: 1838] comparvero con la data d'Italia, e col finto nome dell' ab.
Fiduchelli; lo che non dee maravigliare, essendogli stato comune o di
serbar l'anonimo nelle sue produzioni, o di pubblicarle con finto nome,
o con nome anagrammatico del suo, come fece per le opere di Filo-
sofia precedentemente descritte, le quali portavano in fronte il nome
di Pirro Lallebasque. Ma, poiché egli costantemente si tacque diman-
dato su tal proposito, quantunque consentisse nella identità de' principii
co' suoi, convien che noi ancora ci tacessimo, asserendo solamente che,
se l'opera non é effettivamente sua, debba però esserlo di un qualche
suo fedelissimo allievo '-. Il che concorda con quanto io ho congettu-
rato (pag. 214, nota 1). Si legge a pag. LXXIX che la I Parte della
Dissertazione su' poemi di Ossian fu pubblicata il 1810 nella Bibl. ana-
litica. A pag. LXXIX stessa si dice che forse l'autore della Bibliografia
di P. Borrelli é il Borrelli stesso. A pag. LXXX si legge che il Bor-
relli nel 1847 presentò alla Reale Accad. delle scienze, in due tornate,
una memoria su La misura della prosperità pubblica. « Ma questa »,
si aggiunge, « disgraziatamente si è perduta, mentre, approvata che fu
per gli Atti, venne dal segretario perpetuo passata alla Real Tipografia,
e composta a strisce ritornò nelle mani dell'autore, per la debita cor-
rezione, quando quest'uomo distinto, utile all'Accademia ed al pub-
blico, ci veniva repentinamente da morte tolto ». Infine a pag. LXXX-
LXXXI si legge che il Borrelli negli ultimi anni di sua vita tornò ad
insegnar giurisprudenza.
Oltre gli elogi e i discorsi del Borrelli da me ricordati nel Gap. VI
del Voi. II, menzionerò: Elogio dedicato alla memoria di Amadeo Ric-
ciardi, Consigliere della Corte suprema di giustizia e Presidente della
gran Corte civile di Aquila, Napoli, Puziello, 1835, in 8", pagine 22;
Elogio funebre dedicato alla memoria di Domenico Barbaja, Mendrisio,
Lampati, 1841, in 8», pagine 31 [il Barbaja « chiamò », come dice il
Bor., « a nuova vita gli spettacoli scenici ■» a Napoli; fu anche bene-
fattore]; Discorso pronunziato presso al feretro del Conte di Carnai-
doli Francesco Ricciardi, presidente interino della Società R. Borbo-
nica, Napoli, Porcelli 1842, in 8", pagine 7.
Notevoli son pure le arringhe del Borrelli, alcune delle quali pos-
sono esser utili per la storia di famiglie nobili napolitane. Ricorderemo:
Arringhe a prò della Signora Eleonora Angiulli contro il Signor Vin-
cenzio Angiulli, Napoli, Porcelli, 1842; Arringhe innanzi la terza Ca-
mera della G. C. Civ. di Napoli nella causa di Fieramosca, o sia
Difesa vocale della Contessa Ricci Leognani Fieramosca contro la
— 367 —
Real Cassa di amortizzazione, il Real Corpo del Genio, il Commen-
dator Leognani Fieramosca e la Marchesa Quinzii nella causa delle
miniere e delle ferriere di Castelvetere e di Stilo, Napoli, 1846, in S",
pagine 170 [contiene 1' albero genealogico della famiglia Fieramosca];
Ultime arringhe delV avvocato Pasquale Borrelli nella causa di Fie-
ramosca, Napoli, Porcelli, 1846; Arringa dell' avv. P. Borrelli per la
principessa d' A rianello su di una controversia di successione e di stato,
Napoli, Porcelli, 1846, in 8°, pagine 80.
Numerosissime sono le Memorie legali, alcune delle quali scritte in
collaborazione con altri avvocati. Possono esser talvolta utili per notizie
storiche, come quella Per lo reverendo collegio degli Eddomadarii
della Chiesa Cattedrale di Napoli, Napoli, 1843 (nel Tomo XVI delle
Memorie legali del Borrelli).
Ho visto anche un Rapporto del Deputato Pasquale Borrelli al-
l' Assemblea nazionale (firmato Pasqu. Borrelli relatore, con data 7 gen-
naio 1821), seguito da un Progetto di organizzazione della guardia
nazionale (edito con un Progetto Bozzelli sempre sulla guardia nazio-
nale, scritto il 28 luglio 1848). Senza 1. e a., ma 1848, in 16", pagine 122.
Bisogna badare a non confondere con le opere del nostro Pasquale
Borrelli quelle di un altro Pasquale Borrelli, di S. Giorgio a Cremano
(1733-1802). Del quale sono: Quae extant lyrica, Neapoli, 1858, in 8";
Satyrae tres et ode una ex mendosis exemplaribus in integrum resti-
tutae, notulis illustratae et nunc primum editae D. Minichino ^ Neapoli,
Cons, 1881, in 16°, pagine 30.
Il Prof. V. Bindi ha richiamato la mia attenzione su un Compendio
delle gloriose gesta dei Sommi Pontefici Romani sorti dal glorioso
serafico Ordine Francescano, Teramo, 1835, di un Pasquale Borrelli.
Ma ritengo che quest' opera non sia del nostro Borrelli, e perchè, es-
sendo stata pubblicata nel 1835, dovrebb' esser menzionata nella Biblio-
grafia di P. Bor., che è del 1840, e perchè l'argomento di essa mi par
poco confacente ai gusti di lui.
Il prof. Bindi stesso m'ha indicato fra le opere del Borrelli uno scritto
che tratta Della interpretazione del diritto civile romano e moderno
(Napoli, 1848). Ma non in' è riuscito di trovarlo, non ostante le più di-
ligenti ricerche.
Voi. II, pag. 240-241. — Di Paolo Costa sono state edite le Opere
complete (Firenze, Formigli e Fraticelli, 1839). 1 primi due volumi con-
tengono le opere filosofiche, fra le quali, oltre quelle da noi ricordate
a pag. 240-41 del Voi. Il, sono: gli Opuscoli filosofici (Voi. 11, pag. 129-
230), di cui il primo, intitolato Vanità dei principi sopra i quali si
fondano le teoriche dei filosofi trascendenti, nel § V (pag. 143-147;
tratta dei Principi di Kant, e specialmente delle idee del filosofo te-
desco sul principio di causa; le Lettere intorno ad un articolo nel quale
— 368 —
si dà relazione di una meravigliosa catalessi (Voi. II, pag. 181-201);
la Lettera al Signor Carlo Rusconi intorno al Manuale filosofico-pra-
tico della lingua italiana, compilato da una società di dotti sotto la
direzione del Prof. Quirico Viviani (Voi. Il, pag. 203-206); i Paradossi
(Voi. II, pag. 207-210); e una Dissertazione sulla sintesi e V analisi in
risposta ad un articolo del Giornale Pisano (Voi. II, pag. 211-230). Il
Voi. III contiene opere letterarie, tra cui la Vita di D. Alighieri, da
noi ricordata, un dramma (Properzia de^ Rossi), una commedia (La
donna ingegnosa) etc. Il IV comprende i componimenti poetici e le
lettere.
• i««r«i
PLEASE DO NOT REMOVE
CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET
UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY
<^