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Full text of "La filosofia francese e italiana del settecento"

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ITALIA-ESPANA 


EX-LIBRIS 
M.  A.  BUCHANAN 


Digitized  by  the  Internet  Archive 

in  2010  with  funding  from 

University  of  Toronto 


Iittp://www.archive.org/details/lafilosofiafranc02capo 


EX-LIBHÌ 
^NICOL/ 
RODOLK 


LA  FILOSOFIA  FRANCESE  E  ITALIANA  DEL  700 


GAETANO  CAPONE  BRAGA 


La  filosofia  francese  e  ita- 
liana del  settecento  ^^^ 


^t.X^       éb 


2,0  0 


VOLUME   II. 


Opera  vincitrice  del  premio  di  filosofia  Cantoni  )920 


AREZZO 

Edizioni  delle  "  PAGINE  CRITICHE  „ 


MCMXX 


3 


PROPRIETÀ   LETTERARIA 


Arezzo  -  Stab.  Tip.  Ettore  Sinatti 


SOMMARIO  DEL  SECONDO  VOLUME 


PARTE  II.  —  GÌ'  ideologi  italiani 

CAPITOLO  l.  —  I  Primordii pag.        1-42 

Le  due  opposte  opinioni  sui  rapporti  fra  la  cultura  fran- 
cese e  quella  italiana  nel  settecento  (1-2)  —  Circostanze  che 
prepararono  il  terreno  al  diffondersi  della  cultura  e  della 
politica  francese  in  Italia  —  Le  riforme  promosse  dagli  stu- 
diosi di  legislazione  e  dai  cultori  d'  economia  politica  (2-5) 

—  Le  sette  politiche  e  religiose  (5-7)  —  Lo  sviluppo  della 
scienza  in  Italia  (8)  —  Gli  sperimentalisti  (9-14)  —  11  gas- 
sendismo  (14-15)  —  La  filosofia  lockiana  in  Italia  (16-17)  — 
11  Genovesi  e  i  suoi  seguaci  nell'  Italia  meridionale  (18-19) 

—  La  cultura  francese  nel  settentrione  della  penisola  e  spe- 
cialmente a  Milano  (19-20)  —  11  Caffè  (20-22)  —  11  Verri  e 
il  Beccaria  (22-24)  —  Efficacia  della  cultura  francese  anche 
sulle  credenze  religiose  (24-25)  —  l  primi  lockiani  veri  e 
propri  (25-27)  —  Condillac  a  Parma  (27-28)  -  11  Collegio 
Alberoni  (28-29)  —  l  condillachiani  (29-34)  —  Il  Vogli  e  il 
Cassina  (34-37)  —  Efficacia  dell'ideologia  sui  grandi  poeti 

—  Alfieri  e  Parini  (37-38)  —  La  venuta  dei  Francesi  in  Italia 
(38-42). 

CAPITOLO  II.  —  Soave pag.      42-77 

Vita  e  opere  (42-51)  —  L' importanza  del  pensiero  del 
Soave  (51-52)  —  La  filosofia  dell'  esperienza  (52). 

Il  metodo  —  Analisi  e  sintesi  (52-53)  —  La  sintesi  come 
metodo  pedagogico  (53-54)  —  11  principio  di  non-contradi- 
zione come  criterio  della  verità  (54-56). 

Ideologia  —  Le  due  sorgenti  delle  cognizioni  umane  :  sen- 
sazione e  riflessione  (56-57)  —  Errore  dell'opinione  del  Con- 
dillac secondo  cui  tutte  le  facoltà  dell'  anima  si  ridurrebbero 
al  sentire  (57)  —  Le  sei  facoltà  dell'anima  (58)  —  1»  La  sen- 


vili 

sibilità  (58)  —  Sensazione,  apprensione  e  percezione  (58-60) 

—  2»  La  riflessione  (60)'—  Errore  dell'opinione  condilla- 
chiana  riguardo  all'  attenzione  e  alla  riflessione  (61-62)  — 
3»  Il  giudizio  e  il  ragionamento  (62)  —  4»  La  memoria  (62) 

—  Idea  e  nozione  (62-64)  —  La  maniera  in  cui  si  può  spie- 
gare il  riconoscimento  secondo  il  Soave  (64-65)  ~  5»  La 
volontà  (65-66)  —  6»  L'attività  (67)  —  Atti  psichici  risultanti 
dalla  cooperazione  di  più  facoltà  (67-68)  —  La  conoscenza 
del  mondo  esterno  (68)  —  Soave  e  Destutt  de  Tracy  (68-70) 

—  Certezza  fisica  dell'esistenza  dei  corpi  (70-71). 

Efica  —  Importanza  dell'etica  del  Soave  (71)  —  Il  do- 
vere (71-72)  —  Onestà  e  virtù  (72). 

Osservavioni   —  'Pregi   e   difetti   dell'  ideologia  del  Soave 
'(73-76)  —  Agnosticismo  di  lui  (76-77^. 

CAPITOLO  m.  ~  Gioia pag.    78-129 

Vifa  e  opere   (78-99). 

Il  metodo  —  L'  empirismo  schietto  del  Gioia;  l' ideologia 
come  semplice  psicologia  descrittiva  (99-101). 

Ideologia  —  Idee  e  sentimenti  (101-102)  —  L'origine  loro 

—  Origine  interna  degl'istinti  (102-103)  —  Natura  dell'istinto 
(103-108)  —  Fatti  psichici  d'  origine  esterna  —  Errore  della 
finzione  della  statua  del  Condillac  e  del  Bonnet  (108-109)  — 
Differenza  fra  la  psiche  degli  animali  irragionevoli  e  quella 
dell'uomo  (lOQ-114)  —  Da  che  dipenda  questa  differenza  (114) 

—  Le  facoltà  superiori  dell'uomo  che  elaborano  il  materiale 
fornito  dai  sensi  (114)  —  L'attenzione  e  l'attività  riferente 
del  pensiero  (114-119)  —  La  scienza  (119-120)  —  Le  leggi 
dei  fatti  psichici  —  Leggi  delle  idee  o   sensazioni  (12M23^ 

—  Leggi  dei  sentimenti  —  Le  obiezioni  contro  la  teoria 
della  natura  negativa  del  piacere  del  Verri  (124-126)  —  La 
vera  natura  del  piacere  (126-127)  —  I  gradi  dei  sentimenti 
(128)  —  La  logica  dei  sentimenti  (128). 

Osservazioni  —  Importanza  dell'  ideologia  del  Gioia  ri- 
spetto a  quella  dei  filosofi  francesi  (128-129)  —  Suo  agno- 
sticismo (129). 

CAPITOLO  IV.  ~  ROMAONOSI pag.  130-176 

Vita  e  opere  (130-148). 

Il  metodo  —  Il  metodo  discorsivo  come  comprendente 
l'analisi  e  la  sintesi  (148-149)  —  Oli  assiomi  medi  (149-151). 


IX 

Ideologia  —  La  dottrina  della  compotenza  (151-152)  — 
Falsità  della  teoria  della  tabula  rasa  (152)  —  Il  senso  logico 
(153-156)  —  Differenza  tra  sentire  e  conoscere  (156-158)  — 
Soggettività  delle  funzioni  del  senso  logico  (158-159)  —  Di- 
mostrazione dell'esistenza  di  qualcosa  d'esterno  (159-162)  — 
Pluralità  degli  esseri  esterni  (162-163)  —  Il  principio  di  causa 
e  suo  valore  (163-164)  —  Impossibilità  di  conoscere  l'essenza 
delle  cose  (165)  —  11  concetto  della  verità  secondo  il  Ro- 
magnosi  (165-167)  —  Prammatismo  del  Romagnosi  (168-170) 

—  La  filosofia  civile  come  integrazione  necessaria  dell'  ideo- 
logia (170-171). 

Osservazioni  —  Importanza  del  pensiero  del  Romagnosi 
(172-173)  —  Oscurità  del  suo  senso  logico  (173)  —  Sogget- 
tività della  conoscenza  (173-174)  —  Difetti  della  dimostra- 
zione dell'esistenza  di  oggetti  esterni  (174-175)  —  Agnosti- 
cismo del  Romagnosi  (175-176). 

CAPITOLO  V.  -  Delfico pag.  176-203 

Rapporti  di  pensiero  fra  Italia  settentrionale  e  Italia  me- 
ridionale (176-177). 

Vita  e  opere  (177-184). 

Il  Delfico  e  gì'  ideologi  —  Delfico  e  gli  scrittori  francesi 
del  XVIII  secolo  (184-186)  —  Delfico  e  Condorcet  (186)  — 
Delfico  e  Cabanis  (187-188)  —  L'imitazione  e  suoi  effetti 
nel  linguaggio,  nella  scrittura,  nella  fisonomia,  nell'  attività 
estetica,  nella  vita  sociale  e  morale  (188-195)  —  Conseguenze 
pratiche  di  tali  fenomeni  —  La  perfettibilità  organica  del- 
l'uomo (195-196)  —  L'organoldeir^imitazione  in  quanto  or- 
gano della  perfettibilità  organica  (196-198)  —  La  perfetti- 
bilità organica  come  principio  generale  della  pedagogia  e 
della  politica  (198-199). 

Osservazioni  —  A  ciie  SÌ  riduca  la  dottrina  del  Delfico  (200) 

—  Tinte  materialistiche  ed  errori  di  essa  (200-203). 

CAPITOLO  VI.  —  BORRELLi pag.  203-239 

Vifa  e  opere2(203-215). 

Il  metodo  —  I  difetti  che  il  Borrelli  trova  nel  metodo  in- 
duttivo dei  suoi  predecessori  (215-217)  —  Le  regole  newto- 
niane (217). 

La  genealogia  del  pensiero  —  Borrelli  e  Brown  (218)  —  Le 
tre  forze   insite   nello  spirito  —  1*  La  sensazione   e   le  sue 


varie  forme  (218-223)  —  2»  Giudizio  (223-225)  —  Il  rapporto, 
risultato  del  giudizio  (225)  —  Natura  del  rapporto  (225-227) 

—  Somiglianze  e  differenze  fra  giudizio  e  sensazione  (227-228) 

—  Errore  dell'  opinione  secondo  cui  giudicare  sarebbe  sen- 
tire (228-229)  —  Nesso  di  giudizi  o  raziocinio  (229-230)  — 
La  surrogabilità  dei  conformi  come  principio  del  sillogismo 
(230-231)  —  3^  Volontà  (231-232)  —  Somiglianze  e  differenze 
tra  volontà  e  sensazione  (232-233). 

Osservazioni  —  Pregi  dell'  ideologia  del  Borrelli  (234-235) 

—  Suoi  difetti  (235-237)  —  Agnosticismo  del  Borrelli  (237-239). 

CAPITOLO  Vn.  —  Ideologi  minori pag.  239-262 

Qiuseppe;iCompagnoni  (239-240)  —  Paolo  Costa  (240-241) 

—  Raffaele3ZelliJ(242-243)  —  Vincenzo  Bini  (243-244)  —  Luigi 
Pungileoni  (245-246)  —  Altri  ideologi  (246-255)  —  Gli  stu- 
diosi d'esteticaS(256-258)  —  Ugo  Foscolo  e  sua  affinila  spi- 
rituale col  Leopardi  (258-262). 

CAPITOLO  VIE.  —  Leopardi pag.  262-302 

Ideologia  e  pessimismo  —  Errore  dell'opinione  secondo  cui 
il  Leopardi  sarebbe  un  classicista  (262-263)  —  Rapporti  fra  il 
Leopardi  e  gl'ideologi  (263-266)  —  I  caratteri  dell'indirizzo 
ideologico  che  spiegano  la  genesi  del  pessimismo  leopar- 
diano: agnosticismo  ed  edonismo  (266-268)  —  Tendenze  pes- 
simistiche in  altri  ideologi  —  11  Verri  e  il  Gioia  (268-271). 

La  teoria  del  piacere  —  Sua  importanza  (271-272)  —  Esi- 
stenza degl'individui  e  amore  del  piacere  (272-273)  —  Inesau- 
ribilità della  sete  di  piacere  nell'uomo  e  impossibilità  d'appa- 
garla (273-274)  —  Conseguenze  di  questi   principi   (274-281) 

—  Mezzo  a  cui  è  ricorsa  la  natura  per  render  felice  l'uomo: 
le  illusioni  (281)  —  Felicità  dell'uomo  nello  stato  di  natura 
e  sua  infelicità  nella  vita  sociale;  inimicizia  insanabile  fra 
natura  e  ragione  (281-285)  -  Contradizioni  ed  errori  della 
teoria  della  perfettibilità  (285-287)  —  Corruttibilità  e  non  per- 
fettibilità dell'uomo  (287)  —  Motivi  della  corruzione  umana 
(287-289)  —  Le  idee  degli  antichi  sulla  natura  e  sulla  desti- 
nazione dell'uomo  (289-290). 

Osservazioni  —  Valore  della  teoria  leopardiana  delj pia- 
cere (290-291)  -  Suoi  difetti  (291)  —  La  natura  deil'  uomo 
che  cosa  sia  (291-292)  —  Stranezza  dell'  opinione  secondo 
cui  la  natura  susciterebbe  illusioni  in  un  essere  dotato  d'  una 


IX 

facoltà  (ragione)  distruttrice  delle  illusioni  (2Q2-2Q3)  —  Mu- 
tamento d' idee  nel  Leopardi  sulla  natura  (293-2Q6)  —  Agno- 
sticismo del  Leopardi  (296-300)  —  Conseguenze  pratiche  del 
suo  agnosticismo  pessimistico:  l'amore  cristiano  (300-302). 

Appendice  alle  Parti  I  e  il  —  La  critica  del  criticismo      .  pag.  303-352 

Rapporti  fra  ideologia  e  criticismo  (303)  —  Le  prime  no- 
tizie in  Francia  sul  criticismo  e  le  prime  discussioni  su  di 
esso  (303-304)  -  Carlo  Villers  (304-306)  -  La  critica  del 
Tracy  (306-312)  -  Osservazioni  (312-313)  —  Altre  discussioni 
sul  criticismo  in  Francia  (313-314)  -  La  critica  d?.\  Soave 
(314-321)  —  Osservazioni  (321-322)  —  La  critica  del  Baldi- 
notti  (322-328)  -  Osservazioni  (328)  -  La  critica  del  Bor- 
relli  (329-333)  —  Osservazioni  (333-336)  —  La  critica  del 
Romagnosi  (336-346)  —  Osservazioni  (346-348)  —  La  critica 
del  Bonfadini  (348-351)  —  Osservazioni  (351)  —  Osserva- 
zioni finali  (351-352). 

CONCLUSIONE pag.  353-364 

Sintesi  del  lavoro  (353-358)  —  I  difetti  generali  delle  varie 
dottrine  ideologiche  (358-361)        I  loro  pregi  (361-364). 

Aggiunte  (specialmente  al  Cap.  VI  sul  Borrelli)         .        .  pag.  365-368 


PARTE  SECONDA 


GL'IDEOLOGI    ITALIANI 
CAPITOLO  I.  —  i  Primordi 


Sui  rapporti  fra  la  cultura  francese  e  quella  italiana  nel  set- 
tecento vi  sono  due  opinioni  opposte:  i  Francesi  in  genere  (1) 
propendono,  naturalmente,  a  credere  che  l' Italia,  caduta  in  tor- 
pido letargo,  fosse  destata  a  nuova  vita  dalla  cultura  e  dall'  in- 
vasione francese,  onde  il  nostro  settecento  non  sarebbe  che  un 
riflesso  di  quello  della  nazione  sorella;  gl'Italiani  invece  (2)  sono 
piuttosto  proclivi  a  credere  che  la  rivoluzione  francese  avesse  tra 
noi  interrotto  il  movimento  civile  del  secolo,  e  che  la  cultura  ita- 
liana costituisse  un  proprio  organismo  d' idee  e  d' interessi,  alla 
cui  formazione  la  Francia  recò  un  valido  contributo,  ma  per  im- 
pulsi precedenti  dell'Italia  e  con  una  preponderanza  decisa  del 
nostro  senso  storico,  rivolto  piìi  alla  pratica  che  alla  teoria,  e 
dell'elemento  classico  tradizionale;  se  mai,  gli  stranieri  avrebbero 


(1)  Stendhal,  La  Chartreuse  de  Panne,  Paris,  Flammarion,  pag.  7-10 
e  12-13;  ViLLEMAiN,  Tableau  de  la  littérature  frangaise  au  XVin<^ 
siede,  Paris,  1878;  Pinoaud,  Bonaparte  pre'sident  de  la  Re'publique 
ita  He  fine,  Paris,  Perrin,  1814. 

(2)  Gioberti,  Primato,  Capolago,  Tip.  Elvetica,  18  W,  Voi.  I,  pag.  206- 
212;  G.  Natali,  Idee  costumi  uomini  del  settecento,  Sten,  Torino,  1916; 
O.  Natali,  L'idea  del  primato  italiano  prima  di  V.  Gioberti  in  Nuova 
AntoL,  16  luglio  1917.  Vedi  in  proposito  anche  N.  RoDOLiCO, // fio/za- 
parte  e  la  Repubblica  Italiana  in  Marzocco,  9  giugno  1918,  ed  E.  Rota, 
U  enigma  del  Settecento  italiano  e  il  problema  delle  origini  del  nostro 
risorgimento  in  Nuova  Rivista  Storica,  luglio-agosto  1918,  pag.  381-391, 


—  2  — 

aiutato  r  Italia  a  ritrovar  sé  stessa;  ecco  tutto.  La  verità,  natural- 
mente, sta  nel  mezzo  fra  gli  estremi.  Certo  vi  erano  circostanze 
che  avviavano  già  l' Italia  nel  cammino  che  poi  essa  seguì;  ma 
senza  dubbio  la  nostra  patria  ebbe  un  forte  impulso  in  tale  di- 
rezione dalla  Francia. 

Quali  furono  le  circostanze  che  prepararono  il  terreno  al  dif- 
fondersi della  cultura  e  delia  politica  francese  ? 

Innanzi  tutto  le  riforme,  che  i  principi  d' Italia,  guidati  dagli 
studiosi  di  legislazione  e  d'economia  politica,  avevano  intraprese  già 
prima  della  Rivoluzione  francese.  Fra  gli  studiosi  di  legislazione 
primeggiarono  il  Vico  (De  uno  universi  iuris  principio  et  fine  uno; 
Principii  di  una  scienza  nuova),  e  più  tardi  il  Filangieri  (Scienza 
della  legislazione),  il  Beccaria  (Dei  delitti  e  delle  pene),  il  Pagano 
(Saggi  politici)  etc:  i  quali,  indagando  l' origine  e  la  natura  dello 
Stato  e  delle  leggi,  suggerivano  ai  sovrani  miglioramenti  nella  co- 
stituzione del  governo  e  nella  legislazione. 

Ma  più  di  tutto  giovarono  a  tal  fine  le  opere  degli  economisti, 
i  quali  volgevano  la  mente  a  tutto  ciò  che  potesse  riuscir  vera- 
mente utile  al  bene  della  nazione,  e  cercavano  di  rintracciare  e 
di  sopprimere  quegli  abusi  che  arrestavano  il  perfezionamento 
progressivo  della  società.  Primi  fra  costoro  furono  il  perugino 
Leone  Pascoli  e  il  senese  Sallustio  Antonio  Bandini,  seguaci  en- 
trambi del  Boisguilbert  (protezionista  agrario).  L' uno  in  Testa- 
mento politico  d'un  accademico  fiorentino  [Colonia  (Perugia),  1733] 
propose  varie  riforme;  1'  altro  applicò  il  sistema  dell'  economista 
francese  alle  condizioni  della  maremma  senese,  rovinata  dal  mal- 
governo dei  Medici,  e  nel  suo  Discorso  economico  (1737)  propose 
una  riforma  radicale  di  economia  civile,  preparando  la  strada  alle 
così  dette  riforme  leopoldine  (da  Pietro  Leopoldo),  le  quali  furono 
più  tardi  suggerite  specialmente  da  Pompeo  Neri,  dal  Fabbroni 
e  dal  Fossombroni  (liberisti  assoluti),  ma  furono  anche  promosse 
da  altri  che  o  (come  il  Gianni)  non  andavano  oltre  le  idee  del 
Bandini  o  (come  Matteo  Biffi  Tolomei)  si  riconnettevano  al  Pa- 
scoli. In  Lombardia  fu  compiuta  la  grande  opera  del  censimento 
milanese,  ossia  del  catasto  parcellare  geometrico,  iniziato,  regnando 
Carlo  VI,  dalla  prima  Giunta  presieduta  dal  Miro  (1718-1733)  e 
continuato  e  rifatto  dalla  seconda,  a  cui  fu  preposto,  sotto  il 
regno  di  Maria  Teresa,  l' economista  fiorentino  Pompeo  Neri 
(1749-1758),  che  ne  descrisse    i   lavori    in   una  voluminosa  Reta- 


zione  (1750),  riassunta  e  integrata  da  Gian  Rinaldo  Carli  (1776). 
Nel  regno  delle  due  Sicilie  Carlo  Antonio  Broggia  abbozzò  un 
sistema  tributario  completo  (Dei  tributi,  delle  monete  e  del  governo 
politico  della  sanità,  Napoli,  1743),  e  propose  una  specie  di  con- 
versione della  rendita  (Memoria  ad  oggetto  di  varie  politiche  ed 
economiche  ragioni,  Napoli,  1754);  onde  fu  esiliato.  A  Napoli  fu 
fondata  nel  1754  la  prima  cattedra  di  economia  politica  (detta 
allora  di  commercio  e  di  meccanica)  da  Bartolomeo  Intieri  (il  quale 
era  tutto  nelle  questioni  di  economia  politica  e  di  fisica  speri- 
mentale) e  affidata  ad  Antonio  Genovesi,  il  quale  la  tenne  con 
molta  fortuna  (la  scuola  era  così  piena  che  molti  non  ci  trova- 
vano posto)  (1)  dal  5  novembre  1754  fino  al  1769,  professando 
un  mercantilismo  moderato  (Delle  lezioni  di  commercio  ossia  d' e- 
conomia  civile,  Napoli,  1765).  Il  Genovesi  fu  seguito  dai  napole- 
tani Fortunato  Strongoli,  Venturi,  dall'  udinese  Zanon  (Lettere, 
1756-1767),  dal  ferrarese  Todeschi  (Opere,  1784)  e  dall'  istriano 
Marcello  Marchesini  (Saggio  d'economia  politica,  Napoli,  1793).  A 
quella  di  Napoli  seguirono  altre  cattedre.  Cesare  Beccaria  ebbe 
per  breve  tempo  (1769-1770)  a  Milano  quella  detta  di  scienze  ca- 
merali; e  Agostino  Paradisi  dettò  a  Modena  (1772-1780)  lezioni  di 
economia  civile,  rimaste  manoscritte,  alle  quali  negli  ultimi  anni 
sostituì  il  testo  del  Condillac  (Le  commerce  et  le  gouvernement, 
Amsterdam  et  Paris,  1776).  A  Palermo  Vincenzo  Emanuele  Sergio 
insegnò  le  dottrine  del  Genovesi  (1779-1806).  Il  sistema  fisiocratico 
del  Quesnay,  ammirato  dai  già  ricordati  ministri  toscani  promo- 
tori delle  riforme  leopoldine,  fu  accolto  totalmente  da  Melchiorre 
Delfico,  da  Nicola  Fiorentino,  dallo  Scottoni,  da  Mario  Pagano, 
dal  De  Gennaro  (Annona,  ossia  piano  economico  di  pubblica  sus- 
sistenza, 1783),  dallo  Scrofani  (Memorie  di  economia  politica,  1826), 
da  Giuseppe  Sarchiani  (Intorno  al  sistema  delle  pubbliche  impo- 
sizioni, 1791),  in  parte  dal  Filangieri  (nel  lì  libro  della  Scienza 
della  legislazione)  e  da  altri. 

Ma  fra  gli  economisti  italiani  grandeggiarono  il  Galiani,  il 
Beccaria,  il  Verri  e  1' Ortes.  Ferdinando  Galiani  (1728-1787)  tra- 
dusse, appena  ventenne,  gli  scritti  del  Locke  sulla  moneta,  che 
gli  giovarono  in  parte  per  il  suo  importantissimo  trattato  Della 


(1)  Genovesi,  Lettere  familiari,  Napoli,  1788,  Tomo  I,  pag.  108. 


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moneta  (Napoli,  1750);  e  scrisse  poi  a  Parigi  i  Dialogues  sur  le 
commerce  cìes  blèds  [Londres  (Paris),  1770],  procurandosi  una 
fama  europea  (1).  Cesare  Beccaria  pubblicò  una  Prolusione  (1769), 
dettò  alla  cattedra  di  Milano  lezioni  di  economia  (1769-1770),  e 
contribuì  col  Verri  e  col  Carli  ad  importanti  riforme  nell'  ammi- 
nistrazione economica  e  finanziaria  di  Lombardia,  specie  riguardo 
all'  annona,  alle  monete,  ai  pesi  e  alle  misure,  all'  abolizione  dei 
corpi  d'arte  e  dell'appalto  delle  imposte.  Negli  Elementi  di  eco- 
nomia pubblica  (1769),  quantunque  accettasse  le  dottrine  dei  fisio- 
cratici,  che  conobbe  a  Parigi  in  un  breve  viaggio  nel  1766,  pure 
non  respinse  il  mercantilismo:  fu  piuttosto  eclettico.  Pietro  Verri 
(1728-1797),  benché  ancora  seguace  in  qualche  punto  del  mercanti- 
lismo, specie  nei  suoi  Elementi  di  commercio  (1765),  pure  professò 
idee  decisamente  liberali  nelle  Riflessioni  sulle  leggi  vincolanti, 
principalmente  nel  commercio  dei  grani  (scritte  il  1769  e  pubbli- 
cate il  1796),  e  si  mostrò  profondo  conoscitore  delle  cause  della 
decadenza  dell'industria  e  del  commercio  in  Lombardia  ai  tempi 
della  dominazione  spagnola  nelle  sue  Memorie  sull'economia  pub- 
blica dello  Stato  di  Milano  (1768).  Le  sue  Meditazioni  sull'eco- 
nomia politica  (Livorno,  1771)  sono  il  miglior  compendio  della 
materia  pubblicato  in  Italia  nel  settecento  (2).  Giammaria  Ortes 
(1713-1790)  fu  il  pili  illustre  degli  economisti  veneti  del  secolo, 
e  scrisse  opere  anonime  (Dell'  economia  nazionale,  Parte  I,  1774; 
Errori  popolari  intorno  all'economia  nazionale,  1771;  Dei  fidecom- 
messi,  1785),  nelle  quali  combattè  il  mercantilismo,  senz'accettare 
le  teorie  della  fisiocrazia,  e  sostenne  il  libero  scambio  universale, 
dichiarandosi  nello  stesso  tempo  fautore  delle  manimorte,  dei  fi- 
decommessi  e  di  molte  altre  restrizioni  al  diritto  di  proprietà  (3). 
Va  inoltre  ricordato  che  un  po'  piìi  tardi  l' Italia  ebbe  dal  barone 
P.  Custodi  la  prima  collezione,  per  quanto  non  compiuta,  de' 
suoi  economisti,  corredata  di   biografie  (Scrittori  classici  italiani 


(1)  11  Galianì,  costretto  a  tornare  a  Napoli,  affidò  i  suoi  Dialogues 
a  Diderot,  perchè  li  pubblicasse  sotto  altro  nome. 

(2)  Altre  opere   d'economia  politica  del  Verri  si  trovano  nelle  sue 
Opere,  Silvestri,  Milano,  1818,  Voi.  Ili  e  IV. 

(3)  Vedi  L.  CossA,  Introduzione  allo  studio  dell'Economia  politica, 
3»  Edz.,  Milano,  Hoepli,  1892,  Parte  storica,  Gap.  I-VII. 


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di  Economia  Politica,  Milano,  1802-1816,  50  volumi)  e  un  tenta- 
tivo di  storia  dei  medesimi  da  Giuseppe  Pecchio  (Storia  dell'eco- 
nomia pubblica  in  Italia,  Lugano,  1829).  Tutti  questi  scritti  e  di- 
battiti dimostrano  che  era  vivo  negli  studiosi  il  desiderio  di 
trovare  ordinamenti  economici  e  civili  migliori  di  quelli  vecchi  o 
vigenti,  e  rispondenti  ai  nuovi  tempi. 

L'altra  circostanza  favorevole  in  Italia  alla  cultura  francese 
fu  il  sorgere  e  il  diffondersi  di  sette  politiche  e  religiose.  Già 
riformatori  e  ribelli  religiosi  erano  apparsi  al  principio  del  secolo. 
Alberto  Radicati  scrisse  nel  1736  un  Recueil  de  pièces  curieuses 
sur  les  matières  les  plus  interessantes  (Rotterdam,  1736),  in  cui 
professava  un  cristianesimo  libero  da  tutte  le  deturpazioni  ag- 
giunte dalla  Chiesa  Romana.  Pietro  Giannone  (1676-1748)  nella 
sua  Istoria  civile  del  Reame  di  Napoli  (1723)  sostenne  con  acca- 
nimento i  diritti  del  potere  laico  contro  le  indebite  ingerenze  dei 
pontefici  e  dei  vescovi  nelle  questioni  temporali;  e  a  Vienna,  dove 
riparò  dopo  la  scomunica,  scrisse  il  Triregno,  in  cui  respinse  i 
dogmi  dell'  eucarestia,  della  penitenza,  del  purgatorio,  del  culto 
delle  immagini,  della  Mariolatria,  e  mostrò  che  la  religione  non 
è  alcunché  di  rigidamente  immobile  e  d'assoluto,  ma  è  sottoposta, 
come  tutti  gli  altri  fenomeni  naturali,  ad  un'evoluzione  (1).  Questo 
movimento  di  critica  religiosa  fu  proseguita  dai  giansenisti,  i  quali 
già  in  Francia  propendevano  alla  repubblica  e  alla  rivoluzione. 
Il  giansenismo  penetrò  nella  nostra  penisola  probabilmente  dal 
Piemonte,  spargendosi  un  po'  da  per  tutto,  ma  costituendo  quattro 
gruppi  principali:  in  Lombardia,  con  a  capo  Giuseppe  Zola  (1739- 
1806)  e  Pietro  Tamburini  (1737-1827);  in  Liguria,  con  a  capo  Be- 
nedetto Solari,  vescovo  di  Noli  (1742-1814),  Eustachio  Dègola 
(1761-1826)  e  Vincenzo  Palmieri  (1763-1820);  nel  Napoletano,  con 
a  capo  Giovanni  Andrea  Serrao,  vescovo  di  Potenza;  in  Toscana 
con  a  capo  Scipione  de'  Ricci,  vescovo  di  Pistoia  (1741-1810).  I 
teorici  più  ascoltati  e  più  letti  del  giansenismo  furono  il  Tam- 
burini, lo  Zola,  il  Palmieri;  il  Ricci  però  ebbe  il  merito  di  attuare 


(1)  Reinach,  Orpheus,  Trad.  Della  Torre,  Palermo,  Sandron,  Voi.  I, 
pag.  565-569.  Furono  precursori  del  giansenismo  anche  Giuseppe  Gorini 
Cerio  (Politica,  Diritto  e  Religione,  1742),  Daniele  Concina,  rigorista 
domenicano,  Gio.  Vincenzo  Patuzzi,  il  cardinale  Passionei  etc. 


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nella  pratica  il  programma  della  setta,  combattendo  le  esteriorità 
del  culto  e  le  superstizioni;  conobbe  l'abate  giansenista  francese 
Gabriele  di  Bellegarde,  dal  quale  si  faceva  mandare  migliaia  di 
libri,  di  cui  inondava  il  paese;  consigliò  al  Granduca  di  soppri- 
mere gli  scandalosi  conventi  di  Prato  e  di  Pistoia,  e  indisse  il 
famoso  sinodo  diocesano  di  Pistoia,  in  cui  intervennero  duecento 
trentaquattro  membri  (fra  questi  i  principali  giansenisti  nominati), 
e  furono  prese  decisioni,  per  così  dire,  rivoluzionarie,  tanto  che 
il  Ricci  dovè  dimettersi,  e  il  Sinodo  fu  condannato  con  la  bolla 
Auctorem  fidei  (28  agosto  1794).  Quando  poi  vennero  in  Italia  i 
Francesi,  i  giansenisti  li  accolsero  con  favore,  e  ne  difesero  le 
idee.  Il  principio  della  tolleranza  fu  sostenuto  da  Vincenzo  Pal- 
mieri (La  libertà  e  la  legge  considerate  nella  libertà  delle  opinioni 
e  della  tolleranza  del  culti,  Genova,  1798);  Eustachio  Dègola  nei 
suoi  Annali  politico-ecclesiastici  (Genova,  giugno  1797  -  dicembre 
1799)  tendeva  a  dimostrare  che  la  libertà  politica  e  la  riforma 
del  clero  introdotte  dai  conquistatori  francesi  s' accordavano  per- 
fettamente con  le  massime  della  Chiesa  cattolica.  Benedetto  Solari, 
in  una  sua  circolare  del  5  giugno  1798,  difendeva  le  disposizioni 
governative  che  limitavano  le  processioni  del  Corpus  Domini  al 
giro  puro  e  semplice  delle  Chiese.  Anzi  questi  tre  giansenisti  in- 
sieme con  altri  preti  fondarono  una  specie  d'Accademia  in  Pavia, 
la  quale  il  23  ottobre  1798  inviò  una  lettera  di  plauso  e  d'  ade- 
sione al  clero  costituzionale  francese.  Infine  i  giansenisti  saluta- 
rono con  gioia  la  caduta  del  potere  temporale;  e  dal  1796  al  1806 
furono  agitatori  delle  repubbliche  italiane:  il  Serrao,  vescovo  di 
Potenza,  repubblicano  vittima  dei  sanfedisti,  morì  gridando:  "■  Viva 
Cristo,  viva  la  Repubblica  !  >  (1).  Alcuni  giacobini,  da  parte  loro, 
s'  accostarono  al  giansenismo,  come  Giovanni  Ranza  (Esame  della 
confessione  auricolare  e  della  vera  Chiesa  di  Gesù  Cristo,  1797)  e 
Giuseppe    Poggi    (Il   repubblicano  evangelico,  Milano,  1797),  che 


(1)  A.  Della  Torre,  //  cristianesimo  in  Italia  dai  filosofisti  ai  mo- 
dernisti, Appendice  all'  Orpheus  del  Reinach  (Voi.  II,  pag.  668-673  e 
689);  RoDOLico,  articolo  citato.  Sul  Ricci  vedi  anche  Rodolico,  Gli 
amici  e  i  tempi  di  Scipione  dei  Ricci  -  Saggio  sul  giansenismo  ita- 
liano, Firenze,  Le  Monnier,  1920;  per  il  Tamburini  cfr.  Antologia,  aprile 
1827,  pag.  176-178. 


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propugnavano  un  cristianesimo  puramente  evangelico  (1).  Tutti 
questi  fatti  dimostrano  la  rispondenza  delle  idee  e  aspirazioni 
dei  giansenisti  a  quelle  dei  rivoluzionari  francesi. 

Oltre  i  giansenisti,  contribuirono  ad  aprire  la  via  ai  Francesi 
le  sette  politiche.  Si  ha  traccia  d'  un'  associazione  segreta,  vinco- 
lata da  giuramento,  di  uomini  pronti  a  mettersi  a  capo  della  ri- 
voluzione, subito  che  arrivassero  i  sospirati  repubblicani  francesi. 
Tutto  il  personale  della  Massoneria  raccolto  nelle  Logge  La  Con- 
cordia di  Milano  e  San  Paolo  Celeste  di  Cremona  doveva  entrare 
in  tale  ordine  d'idee.  Nel  1794,  secondo  il  Beccatini,  c'era  a  Milano 
una  società  popolare,  con  diramazioni  a  Varese,  che  aveva  medici 
e  chirurghi  tra  gli  affigliati:  i  capi  della  quale  erano  il  Preposto 
di  Varese  Lattuada,  il  conte  Gaetano  Porro,  Carlo  Salvador,  che 
era  stato  a  Parigi  coi  terroristi  ed  entrò,  secondo  quanto  si  legge 
nelle  Memorie  del  Melzi,  a  Milano  prima  dei  Francesi,  Fedele  So- 
pransi, giureconsulto,  il  duca  Gian  Galeazzo  Serbelloni,  1'  avvo- 
cato Sommariva  ed  altri.  A  Milano  vivevano  già  alcuni  emigrati 
d'  altri  paesi:  Giovanni  Rasori  di  Parma,  che,  espulso  dalla  sua 
città,  aveva  studiato  medicina  in  Francia,  Francesco  Cattaneo  chi- 
rurgo, fuggito  da  Bergamo,  il  poeta  romano  Lattanzi,  il  vercellese 
Ranza.  Le  conventicole  segrete  con  gli  emissari  della  propaganda 
si  tenevano  presso  il  Sopransi  e  in  via  Rugabella,  sotto  la  dire- 
zione del  Salvador,  oppure  alla  macchia,  ora  in  una  soffita  di 
Piazza  Fontana,  ora  in  quelle  deli'  Ospedale,  ora  in  rustiche  ca- 
panne. Nel  1795  certo  Varrini  fu  accusato  in  giudizio  d' esser 
legato  per  trame  segrete  al  Tilly,  ministro  di  Francia  a  Genova; 
e  si  disse  che  il  Comitato  di  salute  pubblica  mandasse  in  Italia 
ingenti  somme  di  danaro  «  per  appianare  così  la  strada  ».  Infine 
in  casa  di  donna  Paola  Castiglioni  si  raccoglievano  uomini  ben 
più  autorevoli:  Verri,  Beccaria,  già  in  sospetto  al  governo,  e  Pa- 
nni, Melzi,  che,  pur  essendo  devoti  all'  ordine  costituito,  simpa- 
tizzavano però  con  le  nuove  massime  filosofiche  del  secolo  e  con 
gli  enciclopedisti  (2). 

Riguardo  poi  alla  filosofia   in   ispecie,  bisogna  ricordare  che 


(1)  Natali,  Idee  costumi  etc,  pag.  73. 

(2)  C.  TiVARONi,  Z.'  Italia  durante  il  dominio  francese  (178Q-1815), 
Tomo  1,  L.  Roux  e  C,  Torino,  1889,  Parte  II,  Gap.  I,  pag.  89-91. 


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r  Italia  aveva  visto  splendere  uno  degli  astri  più  fulgidi  della 
scienza,  il  vero  iniziatore  delle  ricerche  sperimentali:  Galilei,  dal 
quale  aveva  imparato  a  seguire  l'esperienza  e  il  ragionamento 
fondato  su  questa.  Galilei  aveva  avuti  valorosissimi  discepoli 
(Nicola  Aggiunti,  Bonaventura  Cavalieri,  Benedetto  Castelli,  Evan- 
gelista Torricelli,  Vincenzo  Viviani  etc.)  (1),  che  avevano  diffuso 
il  suo  metodo  e  trasmessa  la  fiaccola  dissipatrice  della  tenebra  ad 
altri  valorosi  scienziati  che  nel  seicento  onorarono  l'Italia:  tra 
questi  ricorderemo  il  Redi,  il  Malpighi,  G.  Alfonso  Borelli,  Lo- 
renzo Bellini  etc.  (2).  Ai  quali  tennero  dietro  nel  settecento  una 
pleiade  di  scenziati,  fra  i  quali,  alcuni,  da  noi  già  ricordati  nel- 
r  Introduzione,  grandissimi,  ed  altri  minori  (3). 


(1)  Vedi  AoATOPiSTO  Cromaziano  (Appiano  Buonafede),  Della  re- 
staurazione di  ogni  filosofia  ne'  secoli  XVI,  XVII  e  XVIII  (in  Opere, 
Napoli,  Porcelli,  1787-3Q,  Volumi  Vili,  IX  e  X,  1788),  Gap.  XIX  e  XX. 

(2)  Non  si  creda  però  che  i  sostenitori  del  nuovo  metodo,  o,  come 
si  diceva  allora,  i  -  moderni  >>,  non  incontrassero  opposizioni;  ebbero 
a  sostenere  aspre  lotte  contro  i  <  peripatetici  ».  Dopo  il  1720  però  il 
trionfo  degli  sperimeiitalisti  è  generale,  clamoroso.  Vedi  Mauoain, 
Étude  sur  V  evol.  irJell.  de  V  Italie  de  1657  à  1750  environ,  Paris, 
Hachette,    1900,  spec.  Partie  I,  Chap.  1-V. 

(3)  Fra  questi  menzioneremo  per  la  matematica  e  l'astronomia  An- 
tonio Collalto,  Giovanni  Crivelli,  Giulio  Carlo  Fagnani,  Giuseppe  Casella, 
Pietro  Cossali,  Tommaso  Valperga  di  Caluso,  Giuseppe  Calandrelli,  Giu- 
seppe Avanzini,  Lorenzo  Mascheroni  (l'autore  de\V  Invito  a  Lesbia 
Cidonia),  Giovannantonio  Lecchi,  Pietro  Franchini,  Antonio  Gagnoli, 
Sebastiano  Canterzani,  Angelo  Luigi  Lotteri,  Giuseppe  Toaldo,  Chimi- 
nello  Vincenzo,  i  Riccati  (Iacopo,  Vincenzo  e  Giordano)  etc;  per  la 
fisica  Ruggero  Giuseppe  Boscovich,  Anton  Francesco  Campana,  Gio- 
vacchino  Carradori,  Leopoldo  Nobili,  Giov.  Batt.  Becclieria,  Francesco 
Pacchiani  etc;  per  la  chimica  Girolamo  Melandri  Contessi,  Girolamo 
Cavezzali,  Luigi  Brugnatelli,  Giuseppe  Tommaselli,  Bartolomeo  Gandolfi, 
Salvatore  Mandruzzato  etc;  per  la  storia  naturale  e  la  mineralogia  Giu- 
seppe Gioeni,  Cesare  Majoli,  Giuseppe  Ginanni,  Nicola  Covelli,  Giro- 
lamo Segato,  Carlo  Giuseppe  Gismondi,  Vincenzo  Petagna,  Giov.  Batt. 
Brocchi,  Giovanni  Valentino  Fabbroni,  Giacinto  Cestoni,  Francesco  Gi- 
nanni, Giuseppe  Olivi,  Gius.  Marzari  Pengati,  Giov.  Arduino,  Ferdi- 
nando Marsigli,  Gius.  Maria  Giovene,  Camillo  Ranzani  etc;  per  la  fisio- 
logia e  la  medicina  Alessandro  Macoppe  Knips,  Pietro  Pezzi,  Siro  Borda, 


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Parallelamente  a  questo  movimento  scientifico  se  ne  nota  nel 
sei  o  nel  settecento  un  altro  filosofico,  promosso  da  pensatori, 
diciamo  così,  sperimentalisti  (1),  che,  venerando  la  scienza,  si  fon- 
davano, nelle  loro  speculazioni,  sull'esperienza.  Tra  questi  ricor- 
deremo Marco  Aurelio  Severino,  nato  in  Tarsia  di  Calabria  il 
1580  e  morto  nel  1656,  il  quale,  oltre  ad  opere  mediche  e  chi- 
rurgiche, ne  lasciò  una  filosofica,  intitolata  Pansophia;  Lorenzo 
Magalotti  (1637-1712),  segretario  dell'Accademia  del  Cimento,  Amico 
del  Redi  e  autore  dei  Saggi  di  naturali  esperienze  fatte  nell'Ac- 
cademia del  Cimento  (Firenze,  Cecchini,  1667),  delle  Lettere  scien- 
tifiche ed  erudite  (Firenze,  Tartini  e  Franchi,  1721)  e  delle  Let- 
tere familiari  (Firenze,  Manni,  1736),  nelle  quali  opere  si  mostrò 
seguace  dell'  empirismo  di  Galilei;  Guido  Grandi  di  Cremona 
(1671-1742),  abate  camaldolese,  professore  a  Pisa  prima  di  filo- 
sofia e  poi  di  matematica,  il  quale  espose  una  logica  del  tutto 
opposta  alle  sottigliezze  scolastiche,  introdusse  primo  in  Toscana 
r  insegnamento  dell'  algebra  e  la  filosofia  newtoniana,  e  scrisse, 
in  difesa  di  Gassendi,  di  Copernico  e  di  Cartesio,  la  Diacrisis 
(col  pseudonimo  di  Quinto  Alfeo  e  con  la  falsa  data  d' Autun, 
1724)  (2);  Giovanni  Claudio  Fromond   (1703-1765),    di    Cremona 


Gius.  Gautieri,  Michele  Rosa,  Antonio  Sementini,  G.  Batt.  Borsieri,  Ste- 
fano Gallini,  Luigi  Chiaverini,  Antonio  Cocchi,  Michele  Girardi,  Antonio 
Maria  Matani,  Giov.  Rasori,  Leopoldo  Caldani,  G.  Batt.  Paletta  etc.  Vedi 
per  tutti  questi  scenziati  Biografia  degli  Italiani  illustri  nelle  scienze, 
lettere  ed  arti  del  secolo  XVIII  e  dei  contemporanei,  pubblicato  per 
cura  del  prof.  Emilio  De  Tipaldo,  Venezia,  Alvisopoli  e  Cecchini, 
1834-45,  10  volumi. 

(1)  Questi  filosofi  dal  Poli  nei  suoi  Supplimenti  al  manuale  della 
storia  della  filosofia  del  Tennemann  (Volumi  III  e  IV  del  Manuale 
della  storia  della  filosofia  di  Guglielmo  Tennemann,  tradotto  dal 
prof.  Francesco  Longhena  con  note  e  supplimenti  dei  professori  Gian- 
domenico Romagnosi  e  Baldassare  Poli,  Milano,  Silvestri,  1855,  Voi.  IV, 
§  365),  son  detti  <  empiristi  originali  >  di  contro  agli  empiristi  lockiani 
o  seguaci  dei  filosofi  francesi,  che  vennero  dopo. 

(2)  Vedi  Giornale  de^  letterati,  Firenze,  1742,  Tomo  I,  Parte  II, 
pag.  210-226;  Novelle  letterarie  del  Lami,  spec.  Tomo  III,  Firenze,  1742, 
col.  501-506,  è  Tomo  VII  (1747),  col.  274-276;  Agatopisto  Cromaziano, 
Op.  cit.,  Cap.  XXX,  pag.  166-173  del  Voi.  IX  delle  Opere. 


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lui  pure,  discepolo  del  Grandi  e  poi  professore  di  filosofia  naturale 
all'  Università  di  Pisa  {Nova  et  generalis  introdactio  ad philosophiam, 
Venetiis,  Bertella,  1748),  il  quale  sostenne  che  tutto  ciò  che  noi 
conosciamo  degli  oggetti  riguarda  le  relazioni  loro,  e  che  quindi 
quanto  affermiamo  di  qualsiasi  ente  è  sempre  relativo;  onde  negò 
r  apprehetisio  simplex  degli  scolastici,  e  ridusse  ogni  pensiero  al 
paragonare,  ammettendo  otto  specie  di  paragoni  (contemplatio, 
vis  componendi,  vis  ampliandi,  vis  imminuendi,  vis  distinguendi, 
vis  abstrahendi,  vis  iudicandi,  vis  ratiocinandi)  (1);  il  De  Martini  [Lo- 
gicae  seu  artis  cogitandi  libri,  Neapoli,  1728),  il  quale  presentò  la 
logica  come  arte  del  pensiero,  e  la  trattò  con  metodo  sperimen- 
tale; Ludovico  Antonio  Muratori  (1672-1750),  che  nell'opera  La 
filosofia  morale  esposta  e  proposta  ai  giovani  (Verona,  1735)  at- 
tribuì tanta  efficacia  al  fisico  sul  morale,  che  l'anima  vi  si  trovava 
quasi  sempre  ridotta  a  obbedire  al  corpo,  e  in  Delle  forze  del- 
l'intendimento umano,  ossia  il  Pirronismo  confutato  (Venezia,  1745) 
esaminava  le  forze  dell'  intelletto  e  della  fantasia,  confutando  il 
pirronismo  (2);  Francesco  Longano  [Dell'uomo  naturale,  Napoli, 


(1)  Nova  et  gen.  intr.,  Venetiis,  1748,  pag.  3-9  e  115-120.  Siccome 
però  non  si  può  percepire  alcuna  relazione,  se  non  preesistono  i  termini 
correlati  di  essa,  ci  sono,  dice  il  Fromond,  degli  oggetti  (res)  che  sono 
non  relazioni,  ma  fondamenti  di  queste.  Chiama  quindi  relazione  tutto 
ciò  che  è  usato  per  indicare,  spiegare  e  determinare  qualsiasi  oggetto; 
dice  invece  cose  gli  oggetti  che  si  possono  indicare,  spiegare  e  deter- 
minare, ma  con  i  quali  non  si  può  spiegare  o  determinar  nulla  (pag.  73). 
11  Fromond  distingue  sei  generi  di  cose,  tra  cui  pone  lo  spazio  e  il 
tempo  (Pars  11,  Gap.  Il),  considerandoli  come  enti  reali  non  nel  senso 
volgare  (come  par  che  li  intenda  il  Poli),  ma  nel  senso  che  essi  esistano 
indipendentemente  dal  pensiero  umano  (pag.  94);  combatte  quindi  il 
Leibniz,  che  pone  lo  spazio  e  il  tempo  fra  le  relazioni  (pag.  94-95).  Sul 
Fromond  vedi  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  VI,  pag.  487.  Cfr.  Novelle 
lett.,  Tomo  VI,  col.  678-682,  695-699,  773-780,  e  Tomo  XXVI,  562-565. 
Del  Fromond  scrisse  un  Elogio  storico  (Cremona,  1781)  Isidoro  Bianchì, 
professore  d'  etica  nel  R.  Ginnasio  di  Cremona. 

(2)  Veramente  il  Muratori  in  qualche  punto  è  d'accordo  con  Car- 
tesio: dimostra  per  es.  la  legittimità  del  cogito,  giustifica  il  criterio  car- 
tesiano della  verità  e  il  dubbio  metodico;  ma  secondo  lui  il  filosofo 
francese  si  contenta  troppo  facilmente  d' ipotesi  indimostrabili  (per  es. 
quella  dei  vortici);  oramai,  egli  dice,  si  voglion  fatti  certi  (Epistolario, 


—  11  — 

1764;  Filosofia  dell'uomo,  Napoli,  1783),  che  nelle  sue  dimostra- 
zioni si  fondava  sulla  fisica,  e  in  psicologia  attribuiva  importanza 
al  sistema  nervoso;  Francesco  Maria  Zanotti  (1692-1777),  lettore 
pubblico  di  filosofia  all'  Università  di  Bologna,  il  quale,  abban- 
donata la  teoria  cartesiana  dei  vortici,  cominciò  primo  a  spiegare 
le  dottrine  di  Newton  suH'  attrazione  dei  corpi  celesti,  sulla  luce 
e  sui  colori,  consigliò  all'AIgarotti,  allora  suo  discepolo,  di  com- 
piere quelle  esperienze  sulla  luce  e  sui  colori  che  il  1731  si  pub- 
blicarono negli  Atti  dell'Accademia  dell'Istituto  e  furono  le  prime 
che  mostrassero  in  Italia  la  verità  della  teoria  newtoniana,  scrisse 
i  Dialoghi  della  forza  de'  corpi  che  chiamano  viva  (Bologna,  1752), 
in  cui  sostenne  l' opinione  di  Cartesio  al  riguardo  contro  quella 
di  Leibniz,  il  1747  pubblicò  con  la  falsa  indicazione  di  Napoli  un 
libriccino  intitolato  Della  forza  attrattiva  delle  idee,  in  cui  volle 
applicare  la  legge  d'attrazione  ai  fatti  psichici  (le  idee,  egli  dice, 
rimescolandosi  e  fregandosi  insieme,  si  elettrizzano),  e  precorse, 
così,  r  associazionismo  dell'  Hartley  (1),  scrisse  anche  una  Filo- 
sofia morale  (Bologna,  Pisarri,  1754),  in  cui  si  attenne  specialmente 
ad  Aristotele,  e  fu  amico  di  Fontenelle  e  di  Voltaire.  Ricorderemo 
ancora  il  Padre  Andrea  Spagni  {De  causa  efficiente,  Romae,  Sa- 
lomoni,  1744;  De  bono,  malo  et  pulchro  dissertationes,  Romae,  Ko- 
marck,  1766;  De  mando,  Romae,  Aniidei,  1770;  De  signis  idearum; 
De  ideis  humanae  mentis  earumque  signis,  Romae,  1781),  Isidoro 
Bianchi  di  Cremona  {Meditazioni  sui  vari  punti  di  felicità  pub- 


Tomo  IV,  lettera  2613).  Quindi  è  più  giusto  considerarlo  come  un  em- 
pirista; infatti  egli  così  scrive:  «  Riponiamo  le  maggiori  speranze  della 
nostra  gloria  nella  Filosofia  che  appelliamo  Sperimentale  »  (Riflessioni 
sopra  il  Buon  Gusto  nelle  scienze  e  nelle  arti,  Venezia,  1742). 

(1)  Il  Ferri  (in  La  psicologia  dell'  associazione  dall'  Hobbes  fino 
ai  nostri  giorni,  Roma,  Bocca,  1894,  Parte  I,  Gap.  Ili)  non  decide  se 
lo  Zanotti  attinse  questo  concetto  nel  Trattato  della  natura  umana 
dell' Hume  pubblicato  otto  anni  prima  o  vi  giunse  da  sé.  Probabilmente 
però  lo  Zanotti  vi  arrivò  a  traverso  la  filosofia  newtoniana,  indipenden- 
temente dall'  Hume.  Il  libriccino  dello  Zanotti  fu  ristampato  a  Bologna 
nel  1774  con  l'aggiunta  d'alcuni  frammenti,  che  trattavano  D^/Zc /orza 
attrattiva  di  quelle  cose  che  non  sono  (per  es.  delle  cose  passate  o  fu- 
ture o  possibili,  le  quali,  se  non  esistono  come  le  cose  attuali,  sono  però 
in  qualche  modo,  devon  quindi  esercitare  una  forza  attrattiva). 


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blica,  Cremona,  1799),  l'Algarotti  (1712-1764),  il  quale  fu  a  Parigi, 
vi  conobbe  nelle  «  erudite  cene  »  i  più  famosi  letterati  di  Francia, 
e  strinse  amicizia  specialmente  con  Voltaire,  scrisse  il  Newtonia- 
nismo  per  le  dame  (intitolato  poi  Dialoghi  sopra  l'ottica  newto- 
niana), in  cui  cercò,  al  pari  di  Voltaire,  di  render  popolari  le 
ricerche  di  Newton  (egli  lesse  il  lavoro  manoscritto  al  filosofo 
francese,  che  attendeva  allora  agli  Éléniens  de  la  philosophie  de 
Newton,  e  quegli  Io  giudicò  <  leggiadro,  chiaro,  gentile  »).  A 
questi  si  possono  aggiungere  Giuseppe  Maria  Amati,  che  (nel- 
la sua  Ethica  ex  tempore  concinnata  in  publica  Universitate  Nea- 
politana,  Neapoli,  1721)  fondò  la  morale  su  basi  empiriche,  pur 
propendendo  alla  dottrina  della  virtù  di  Aristotele;  Paolo  Frisi, 
barnabita  milanese  (1727-1784),  professore  prima  nell'  Università 
di  Pisa,  in  quella  di  Milano  poi,  che  nelle  sue  Dlssertationes  variae 
(Lucae,  1759)  tracciò  le  linee  fondamentali  d'una  cosmologia  del 
tutto  sperimentale  (1);  il  marchese  Luigi  Malaspina,  che  nella  sua 
Memoria  sugli  apparenti  caratteri  delle  inclinazioni  e  passioni 
(Pavia,  1796)  volle  tentare  un'applicazione  empirica  dei  fatti  psi- 
chici da  lui  studiati  alle  arti  d'imitazione;  il  Danieli,  che  nel  Saggio 
di  ricerche  critico-filosofiche  (Vicenza,  1783)  s'allontanò  più  che 
mai  dal  razionalismo;  Carl'Antonio  Pilati  (1733-1802),  che  (in  L'e- 
sistenza della  legge  naturale  impugnata  e  sostenuta,  Venezia,  Zatta, 
1764;  e  in  Ragionamenti  intorno  alla  legge  naturale  e  civile.  Ivi, 
1766)  derivò  la  legge  naturale  da  una  specie  d' istinto;  il  Melli 
(L'abuso  della  filosofia,  1780),  che  ingaggiò  battaglia  contro  il 
razionalismo;  Alessandro  De  Sanctis,  che  scrisse  Delle  passioni  e 
vizi  dell'  intelletto  (Firenze,  Cambiagi,  1790),  riponendo  il  giudizio 
falso  e  l'errore  in  un  «  involontario  deviamento  della  giusta  pro- 
gressione delle  idee  »;  Oiovan  Francesco  Pivati  di  Padova  {Di- 
zionario universale,  Venezia,  Monti,  1744)  e  Alessandro  Zorzi  ve- 
neziano {Prodromo  della  nuova  Enciclopedia  italiana,  Siena,  1779), 


(1)  Vedi  Novelle  leti.,  Tomo  XVI,  col.  122,  137,  458;  Tomo  XVII, 
515;  T.  XXII,  340;  T.  XXIII,  381-384;  T.  XXIV,  451;  Giornale  de'  let- 
terati, Tomo  LX,  Pisa,  1785,  pag.  3-84.  Le  opere  del  Frisi  furono  ri- 
stampate a  Milano,  e  il  Tomo  III  conteneva  la  cosmografia  (Paulli 
Frisi  Operum  tomiis  III  cosmographiam,  physicam  et  mathematicam 
continens,  Mediolani,  1785,  apud  J.  Oaleatium). 


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che,  ideando  un'  enciclopedia  di  tutte  le  scienze,  anticiparono  le 
teorie  empiriche  degli  enciclopedisti  francesi;  il  P.  gesuita  Iacopo 
Belgrado,  udinese,  membro  dell'  Istituto  di  Bologna,  che  volle 
(nell'opera  anonima  Della  rapidità  delle  idee,  Modena,  Monta- 
nari, 1770)  (1)  fondare  le  sue  ricerche  «  sulla  scienza  del  tutto 
sperimentale  di  noi  medesimi  »,  cercando  di  misurare  la  rapidità 
delle  idee  mediante  il  loro  numero  e  i  vari  tempi  nei  quali  si 
svolgono,  al  modo  dei  fisici,  che  misurano  la  velocità  dei  corpi 
con  la  ragion  composta  diretta  degli  spazi  e  con  quella  inversa 
dei  tempi  (2).  Menzioneremo  infine  Antonio  Agostino  Marioni, 
che  scrisse  un'  Ars  vere  philosophandi,  seu  Logica  rationalis,  ver- 
balis  et  experimentalis  (Venetiis,  Carioni,  1757,  2'  Edz.),  nella  quale 
è  notevole  la  parte  sperimentale,  dove  l'autore  s'attenne  a  Bacone; 
e  Antonio  Conti  (1677-1749),  che,  sebbene  istruito  nella  filosofia 
cartesiana  dal  Fardella,  apprezzò  molto  anche  il  Locke,  difese  e 
divulgò  le  scoperte  e  teorie  di  Newton,  da  lui  conosciuto  a  Londra, 


(1)  Giorn.  de'  leti.,  Pisa,  1771,  Tomo  IH,  pag.  307-308.  Cfr.  Melzi, 
Dizion.  di  opere  anonime  etc,  Milano,  1848-59,  Voi.  Il,  pag.  411. 

(2)  Per  alcuni  di  questi  scrittori,  per  es.  per  lo  Zanetti,  l'Algarotti, 
il  Pilati,  vedi  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  IV  e  VI;  per  tutti  cfr.  Poli, 
Op.  cit.,  Voi.  IV,  §  365.  Ad  essi  il  Poli  (Op.  cU.,  Voi.  IV,  pag.  619) 
aggiunge  Ansaldo  Grimaldi,  che  avrebbe  scritto  delle  Riflessioni  sopra 
V  ineguaglianza  tra  gli  uomini,  e  avrebbe  combattuto  lo  Zanotti,  so- 
stenitore, secondo  lui,  della  dottrina  morale  del  Maupertuis.  Ma  egli 
qui  s'  è  impigliato  in  un  viluppo  d'  errori;  che  le  dette  Riflessioni  (Na- 
poli, 1779-80)  furono  scritte  da  Francescantonio  Grimaldi  (di  cui  An- 
saldo fu  antenato),  amico  e  seguace  del  Genovesi  (vedi  pag.  19  di  questo 
Voi.),  che  ritenne  l' intelligenza  effetto  della  sensibilità;  la  polemica  con 
Io  Zanotti  poi  fu  sostenuta  dal  P.  Casto  Innocente  Ansaldi,  il  quale 
prese  le  difese  del  Maupertuis  contro  lo  Zanotti,  che,  avendo  il  filosofo 
francese  esaltato  la  morale  cristiana  di  contro  a  quella  stoica,  l'aveva 
attaccato  (vedi  Raccolta  di  trattati  di  diversi  autori  concernenti  alla 
religion  naturale  e  alla  morale  filosofia  de'  cristiani  e  degli  stoici, 
Voi.  I,  Venezia,  Valvasense,  1756;  A.  Lombardi,  Storia  della  leti.  ital. 
nel  sec.  XVIII,  Modena,  Tip.  Camerale,  1827,  Tomo  I,  pag.  239-242, 
254-255,  277-278).  Il  Poli  ricorda  pure  Ferdinando  d'Adda,  e  ne  cita 
Y Apologia  alle  Riflessioni  critico-filosofiche  dell'  abbate  F.  d'  A.  dal 
medesimo  diretta  all'  autore  delle  quattro  Lettere  scritte  contro  le  Ri- 
flessioni suddette  (senza  1.,  1766).  Io  ho  avuto  sott'occhio  quest'opuscolo, 
il  quale  non  è  se  non  una  risposta  a  quattro  lettere  che  P.  Verri  aveva 
scritte  contro  le  menzionate  Riflessioni.  Si  tratta  dunque  d'  un  libello 
puramente  polemico,  in  cui  non  s' approfondisce  alcuna  questione  filo- 


—  14  — 

e  lasciò  scritto  d' essersi  proposto  di  conciliare  il  metodo  empi- 
rico con  quello  di  Cartesio,  che  muove  da  Dio  e  dalle  idee  (1). 
Non  va  neppur  trascurata  1'  azione  che  nella  filosofia  italiana 
esercitò  il  Gassendi.  È  noto  che  Galilei  fu  in  corrispondenza  col 
Gassendi  nei  primi  decenni  del  seicento.  Inoltre  il  francese  Claude 
Guillermet,  signore  di  Bérigard,  per  dodici  anni  (1628-1640)  vol- 
garizzò a  Pisa  la  teoria  atomica  di  Epicuro  combattendo  gli  ari- 
stotelici (2).  Perciò  il  Gassendi  fu  ammirato  specialmente  in  To- 
scana; Carlo  Rinaldini,  professore  all'  Università  di  Pisa,  e  An- 
tonio Oliva,  membro  del  Cimento,  ne  spiegavano  la  dottrina  pri- 
vatamente ai  giovani.  Anche  a  Roma  e  a  Padova  era  diffuso  il 
gassendismo.  Dati  i  progressi  di  questo  in  Italia,  VAcadémie  des 
Sciences  propose  all'Accademia  del  Cimento  (1657)  di  comunicarsi 


sofica.  Argomenti  scientifici  e  filosofici  erano  invece  svolti  nelle  Ri- 
flessioni critico-filosofiche  esposte  in  dialoghi  sopra  diverse  materie 
scientifiche  e  letterarie,  con  un  discorso  preliminare  sopra  le  opere 
di  spirito,  jMilano,  1765.  Intorno  a  quest'opera  e'  è  una  notizia  in  No- 
velle lett.  (Tomo  XXVII,  1766,  col.  474-477):  dalla  quale  si  viene  a  sa- 
pere che  r  ab.  D'  Adda  scrisse  le  Riflessioni  contro  i  due  almanacchi 
del  Verri  intitolati  //  gran  Zoroastro  e  Mal  di  milza,  ma  nello  stesso 
tempo  vi  trattò  vari  argomenti,  sostenendo,  tra  l'altro,  che  la  maggior 
parte  delle  regole  generali  son  soggette  a  eccezioni,  esponendo  breve- 
mente il  sistema  di  Newton,  parlando  della  causa  fisica  delle  simpatie 
e  delle  antipatie  etc.  Si  noti  però  che  il  D'A.  non  doveva  appartenere 
ai  <  moderni  ,  giacché  sosteneva  che  noi,  in  paragone  degli  antichi, 
siamo  e  ignorantissimi  e  scellerati,  difendeva  Platone  contro  gli  attacchi 
di  Zoroastro  (del  Verri)  etc.  Il  Verri  rispose  con  Quattro  lettere,  che 
ricorderemo  più  tardi;  e  a  queste  lettere  il  D'A.  replicò  con  V Apologia. 

(1)  Per  il  Marioni  vedi  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  II;  per  il  Conti 
la  Biogr.  stessa.  Voi.  Vili,  e  Prose  e  poesie  dell'ab.  A.  Conti,  Tomo  II, 
Venezia,  Pasquali,  1756,  pag.  13,  17  e  267-269.  Talvolta  si  resta  incerti 
se  si  debba  collocare  taluno  di  questi  pensatori  fra  gli  sperimentalisti 
o  fra  i  cartesiani,  che  anche  Cartesio  dava  importanza,  nella  filosofia,  al- 
l' esperienza  e  alla  scienza.  Così  il  Poli  colloca  il  P.  Fortunato  da  Brescia 
(autore  di  Philosophia  sensuuni  mechanica,  Brixiae,  1735,  e  di  Philosophia 
mentis,  Brixiae,  1741)  fra  i  cartesiani;  il  Maugain,  invece,  lo  pone  fra 
gli  empiristi.    Lo  stesso  forse  potrebbe  dirsi  del  Grandi  e  del  Conti. 

(2)  Maugain,  Op.  cit.,  Partie  II,  Chap.  I;  cfr.  Rota,  Legami  di 
pensiero  tra  Italia  e  Francia  avanti  e  dopo  la  Rivoluzione,  Cap.  I, 
pag.  95-97,  in  Bollettiuo  della  Società  pavese  di  storia  patria,  Pavia, 
1915,  fase.  III.  Un  altro  atomista  francese,  Gian  Crisostomo  Magnen, 
autore  del  Democritus  reviviscens,  sive  de  vita  et  philosophia  Democriti 
(Ticini,  1646)  insegnò  in  Italia  (cfr.  Poli,  Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  614-15). 


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i  risultati  delle  loro  esperienze;  e  il  Giornale  de'  letterati  di  Roma 
(1668)  strinse  rapporti  col  Journal  des  savants,  difendendo  le  idee 
nuove.  Tutto  ciò  ci  spiega  come  mai  V  esperienza  del  Torricelli  (il 
salire  dell'  acqua  in  un  tubo  vuoto  a  causa  della  pressione  atmo- 
sferica), quasi  inosservata  in  Italia,  fosse  resa  nota  e  confermata 
da  Pascal  e  da  Cartesio.  A  Napoli  Tommaso  Cornelio  aveva  in- 
trodotte le  opere  del  Gassendi,  e,  come  attesta  il  Giannone, 
«  quando  furono  lette,  fu  incredibile  1'  amor  de'  giovani  verso 
questo  scrittore  »;  anche  il  Vico  noXV Autobiografia  dice  che  verso 
il  1684  la  gioventìi  a  tutta  voga  si  era  data  a  celebrare  la  filosofia 
di  Epicuro.  Sebastiano  Bartoli,  medico  insigne,  sostenitore  delle 
idee  «  moderne  »,  insegnava  il  gassendismo  ai  giovani;  e  seppe 
convertire  alle  sue  idee  Gaetano  Tremigliozzi,  il  quale  le  diffuse 
a  Bari,  dove  dimorò  nel  1678.  Questi  poi  con  frequenti  discus- 
sioni allontanò  da  Galeno  e  da  Aristotele  Aurelio  Salice,  che 
fondò  l'Accademia  dei  Coraggiosi  (1682).  Elia  Astorini,  professore 
di  filosofia  a  Cosenza,  v'insegnava  l'atomismo;  nel  1683  andò  a 
Bari,  dove  fu  accolto  con  entusiasmo  dai  «  moderni  »;  e  nel  1690 
insegnava  filosofia  a  Siena.  Ancora  nel  1710  il  gassendismo  aveva 
a  Napoli  un  grande  ammiratore:  Nicola  Amenta  (1).  Nel  1717, 
dopo  molte  opposizioni,  ma  anche  dopo  grande  aspettativa,  fu 
pubblicata  la  traduzione  di  Lucrezio  fatta  dal  Marchetti  (Londra, 
Pickard,  a  cura  del  Rolli).  Nel  1727  uscì  in  Firenze  un'edizione 
compiuta  delle  opere  del  Gassendi  (Opera  omnia  cura  Nicolai 
Averanii,  Florentiae,  Tartini,  1727);  e  Paolo  Mattia  Doria  notava 
che  tutti  in  Italia  seguivano  la  filosofia  di  Gassendi,  non  van- 
tando altro  che  il  senso  e  la  materia;  anzi  citava,  come  indice 
del  gusto  dominante  al  principio  del  settecento,  i  versi  di  quel 
Toscano  passati  come  in  proverbio:  «  Credete  a  me  ch'elle  son 
tutte  fole,  —  son  tutte  cose  da  ingannar  gli  sciocchi,  —  le  cose 
che  consistono  in  parole.  —  Datemi  cosa  che  con  man  si  tocchi, 
—  e  se  con  mano  non  si  può  toccare,  —  che  si  possa  vedere 
almen  cogli  occhi  ». 

Ecco  le  circostanze  che  favorirono  il  diffondersi  in  Italia  della 
cultura  francese  e  dell'empirismo  lockiano.  Vediamo  come  s'iniziò 
e  svolse  il  movimento. 


(1)  Mauoain,  Op.  e  a.,  spec.  pag.  131-133. 


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Nel  principio  de!  secolo  dominava  ancora  nella  nostra  peni- 
sola (non  ostante  la  luce  effusa  da  Galileo)  la  filosofia  scola- 
stica (1).  S'insinuò  qua  e  là  la  dottrina  di  Cartesio  sia  per  il 
grido  che  aveva  levato  di  sé,  sia  per  la  vicinanza  nostra  con  la 
Francia  (2).  Ma  all'inizio  stesso  del  secolo  cominciò  a  penetrare 
e  a  diffondersi  in  Italia  la  filosofia  di  Locke.  Già  nel  1713  il 
Locke  era  conosciuto  presso  di  noi;  infatti  in  quell'anno  l'abate 
Conti  esaminava  a  Venezia  il  Saggio  sali'  intelletto,  che  vende- 
vano i  librai  della  città.  Nel  dicembre  del  1726  il  Muratori  lesse 
il  Saggio  prestatogli  da  un  amico.  Mattia  Doria  nel  1732  diceva 
che  la  dottrina  di  Locke  era  insegnata  a  Roma,  a  Napoli  e  nelle 


(1)  Sui  seguaci  della  filosofia  scolastica  vedi  Poli,  Op.  cit.,  Voi.  IV, 
§  §  359-362. 

(2)  Le  opere  di  Cartesio  cominciarono  a  circolare  in  Toscana  verso 
il  1660,  dopo  il  quale  anno  il  filosofo  francese  vi  ebbe  dei  seguaci.  A 
Napoli  invece  la  dottrina  cartesiana  era  penetrata  prima  del  1660,  e  vi 
contava  due  seguaci  insigni:  Tommaso  Cornelio  e  Leonardo  da  Capua. 
Contro  questi  sorse  il  gesuita  De  Benedictis  (col  pseudonimo  di  Bene- 
detto Aletino),  al  quale  rispose  Costantino  Grimaldi.  Paolo  Mattia  Doria 
da  prima  fu  cartesiano,  ma,  forse  per  opera  del  Vico,  di  cui  era  fami- 
liare, si  staccò  dalla  dottrina  del  filosofo  francese,  anzi  la  combattè;  a 
lui  rispose  Francesco  Maria  Spinello,  principe  della  Scalea.  In  Toscana 
si  oppose  a  Cartesio  Nicola  Stenone,  grande  anatomico,  amico  del  Redi. 
Nel  1704  il  gesuita  Tommaso  Ceva  pubblicò  un  poema  intitolato  PhÀ- 
losophia  novo -ùnti  qua,  in  cui,  pur  rendendo  omaggio  alla  nuova  scienza 
fondata  sull'esperimento,  attaccava  Lucrezio,  Gassendi  e,  pi"  di  tutti 
Cartesio.  Al  Ceva  rispose  Guido  Grandi  con  la  Diacrisis  (1724),  già  da 
noi  ricordata.  La  filosofia  cartesiana  fu  esposta  in  versi  dai  siciliani 
Tommaso  Campailla  (vedi  Novelle  letterarie,  Tomo  IV,  col.  4U9-10)  e 
Benedetto  Stay  {Novelle  leti.,  Tomo  VI,  col.  118-21).  Gregorio  Caloprese 
a  Scalea  in  Calabria  educava  i  giovani  secondo  i  principi  del  filosofo 
francese.  Ma  fra  tutti  i  cartesiani  si  segnalò  Michelangelo  Fardella  di 
Trapani  (1650-1718),  ciie  aveva  conosciuto  a  Parigi  l'Arnauld  e  il  Ma- 
lebranche, e  scrisse  Universae  philosophiae  systetna  (Venetiis,  1691)  e 
Animae  hnmanae  natura  (Venetiis,  Albrizzi,  1698).  Vedi  Mauoain,  Op. 
cit.,  Partie  II,  Chap.  II  e  III;  G.  B.  Cerini,  /  segnaci  di  Cartesio  in 
Italia  sul  finire  del  secolo  XVII  ed  il  principio  del  XVIII  in  //  Nuovo 
Risorgimento,  1899,  pag.  426.  Sul  Fardella  vedi  Biografia  del  Tipaldo, 
Voi.  VI. 


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altre  parti  d' Italia  da  molti  maestri,  e  che  essa  aveva  un  buon 
numero  di  seguaci  (1).  Cominciarono  a  pubblicarsi  le  traduzioni 
di  varie  opere  del  filosofo  inglese  (2).  Questi,  è  vero,  ebbe  subito 
oppositori,  fra  i  quali  il  padre  Paolo  Mattia  Doria  (nella  sua  Di- 
fesa della  metafisica  degli  antichi  filosofi  contro  il  Sign.  Gio.  Locke, 
Venezia,  1732),  il  Muratori  (3),  e,  più  grande  di  tutti,  il  Gerdil, 
rinnovatore  della  filosofia  di  Cartesio  e  di  Malebranche,  il  quale 
sostenne  che  l'idea  dtW essere  non  viene  dai  sensi  (U immortalité 
de  l'àme  démontrée  cantre  Locke  par  les  mémes  principes,  par  lesquels 
ce  philosophe  démontre  V existence  et  V  immaterialité  de  Dieu,  Turin, 
Imprimerle  Royale  1747;  Défense  da  sentiment  du  P.  Malebranche 
sur  la  nature  et  V  origine  des  idées  cantre  V  «  Essai  »  de  M.  Locke, 
Turin,  1748).  Ma  tale  opposizione  non  impedì  alle  idee  di  Locke 
di  ti  ionfare;  tanto  più  che  già  si  divulgavano  in  Italia  le  dottrine 
degli  Enciclopedisti,  che  si  riconnettevano  con  quelle  del  grande 
filosofo  inglese  (4). 


(1)  Maugain,  Op.  cit.,  pag.  222-223. 

(2)  Becelli  G.  C,  U  arte  dell'  educare  i  fanciulli  di  Gio.  Locke 
ridotta  ad  aforismi,  con  alcune  giunte,  Verona  1736;  U  educazione 
de'  figliuoli  tradotta  già  dall'  inglese  del  sig.  Locke  in  linguaggio  fran- 
cese e  da  questo  trasportata  nell'  italiano,  Lucca,  1750;  Della  educazione 
dei  fanciulli  scritto  in  lingua  inglese  dal  sig.  Locke,  indi  tradotto  in 
lingua  francese  dal  sig.  Coste  e  finalmente  tradotto  in  lingua  italiana 
dall'  edizione  francese  fatta  in  Amsterdam  1'  anno  1733,  Venezia,  1751; 
Ragionamenti  sopra  la  moneta,  l'  interesse  del  danaro,  le  finanze  e  il 
commercio  scritti  e  pubblicati  in  diverse  occasioni  dal  signor  Giovanni 
Locke,  tradotti  la  prima  volta  dall'inglese,  con  varie  annotazioni,  Firenze, 
Andrea  Bonducci,  1751;  //  governo  civile  di  M.  Locke  tradotto  in  ita- 
liano, Amsterdam,  1773. 

(3)  Il  Muratori,  non  ostante  che,  come  s'  è  visto,  sostenesse  la  filo- 
sofia sperimentale  e  che  non  ammettesse  le  idee  innate,  pure,  siccome 
riconosceva  nell'uomo  la  facoltà  di  distinguere  il  giusto  dall'ingiusto, 
il  bene  dal  male,  combattè  il  Locke  nella  sua  Filosofia  morale  (1735), 
e  pili  tardi  (1745)  in  Delle  forze  dell'  intendimento  umano  mostrò  l'as- 
surdità dell'  affermazione  lockiana  che  Dio  potrebbe  dare  alla  materia 
il  potere  di  pensare. 

(4)  De  V  esprit  par  M.  Helvétius,  Milan,  dans  l' Imprimerie  à  S.  Ma- 
thieu  à  la  Monnaye  près  Saint  Sepolcro;  Saggio  sopra  gli  Elementi  di 
filosofia  di  D'Alembert,  Lucca,  1797.  V  Enciclopedia  fu  stampata  in 
Italia  due  volte  (Lucca,  1758,  e  Livorno  1770). 


—  18  — 

Neir  Italia  meridionale  la  filosofia  di  Locke  s' insinuò  prima 
di  tutto  nelle  opere  del  Genovesi  (1712-1769),  il  quale,  sebbene 
non  si  possa  dire  un  empirista  puro,  tuttavia  manifesta  una  forte 
propensione  per  la  dottrina  del  filosofo  inglese  (1).  Egli  tradusse 
e  commentò  anche  V Esprit  des  lois  del  Montesquieu  (Napoli,  1766). 

Seguirono  l'indirizzo  del  Genovesi  Domenico  Caracciolo  (1715- 


(1)  Alcuni,  come  il  Ferri  (Essai  sur  V  histoire  de  la  philosophie  en 
Italie  au  dix-neuvième  siede,  Paris,  1869,  Durand,  Didier  et  Qe,  Livre  I, 
Chap.  I,  pag.  5)  e  il  Winspeare  (vedi  Gentile,  Dal  Genovesi  al  Gal- 
luppi,  Napoli,  1903,  pag.  9)  hanno  creduto  di  cogliere  in  contradizione 
il  Genovesi,  perchè,  mentre  egli  in  un  luogo  della  Logica  per  li  gio- 
vinetti (Libro  II,  Gap.  I,  §  149  dell' ediz.  De  Giorgi  delle  Opere  filo- 
sofiche del  ROMAGNOSI,  Milano,  Perelli  e  Mariani,  1842)  divide,  a  mo' 
di  Cartesio,  le  idee  in  innate,  avventizie  e  fattizie,  poi  in  un  altro  luogo 
della  Logica  stessa  (Libro  II,  Gap.  I,  §  151,  e  Gap.  II,  §§  163  e  164) 
dice  che  le  idee  innate  hanno  la  loro  sorgente  nel  senso  interno  e  nelle 
sue  modificazioni,  e  nella  Metafisica  italiana  respinge  addirittura  l'in- 
natismo di  Cartesio.  II  Gentile  (Op.  cit.,  Gap.  I)  ha  mostrato  che  con- 
tradizione non  e'  è:  che  le  idee  chiamate  innate  dal  Genovesi  son  pro- 
priamente non  quelle  cartesiane,  bensì  le  idee  che  secondo  il  Locke  si 
ottengono  per  riflessione.  Quindi  il  Genovesi  resterebbe  in  questo  punto 
nell'ambito  dell'empirismo  lockiano.  Ed  anche  a  me  par  così.  Lockiana 
è  pure  la  credenza  del  Genovesi  sull'  impossibilità  di  conoscere  le  es- 
senze (sostanze)  degli  esseri.  Ma  bisogna  badare  prima  di  tutto  che  il 
Genovesi  ripete  più  volte  che  non  si  sente  l'animo  di  risolvere  defini- 
tivamente il  problema  dell'origine  delle  idee,  approfondendo  il  quale 
anzi  critica  pur  la  soluzione  datane  dal  Locke,  e  poi  che  nella  II  delle 
sue  Meditazioni  considera  la  ragione  o  intelletto  o  attività  riferente 
(carattere  specifico  dell' /oj  come  un  potere  diverso  dalla  sensibilità  e 
irriducibile  a  questa  {<  Conciossiacchè  essendo  egli  questo  mio  intel- 
letto, dirò  così,  un  senso  universale,  che  raccoglie,  confronta,  distingue, 
giudica,  spiritualizza,  e  sì  compone  e  ordina  tutto  ciò  che  gli  altri  miei 
sensi  mi  rapportano,  eh' e'  pare  che  un  nuovo  mondo  se  ne  formi  — 
seguita  ch'egli  mi  faccia  di  tanto  superiore  a'  bruti,  di  quanto  è  lo 
spazio  —  che  è  pure  infinito  —  tra  lui  e  gli  altri  sensi  .  Meditazioni 
filosofiche  sulla  religione  e  sulla  morale,  Napoli,  Stamperia  Simoniana, 
1758,  pag.  67.  Gfr.  §§  VI  e  VII,  dove  mostra  che  la  ragione  non  può 
essere  un  sesto  senso).  Si  ricordi  ancora  la  sua  simpatia  per  il  mona- 
dismo leibniziano,  eh'  egli  in  metafisica  accetta  pur  con  qualche  modi- 
ficazione. Insomma  il  Genovesi  è  incerto. 


—  19  — 

1789),  Giuseppe  Palmieri  (1721-1794),  Filippo  Briganti  (1725-1804), 
Domenico  De  Gennaro  (1720-1803),  Francescantonio  Grimaldi 
(1741-1784),  Giuseppe  Galanti  (1743-1806)  (1).  Si  ricollegano  a  lui 
anche  il  Galiani,  il  Filangieri,  il  Pagano. 

L'abate  Ferdinando  Galiani  di  Chieti,  già  da  noi  ricordato  fra 
gli  economisti,  fu  mandato  dal  Tanucci,  quale  segretario  d'  am- 
basciata, a  Parigi,  dove,  come  dice  Diderot,  fu,  specie  nel  salotto 
della  signora  d'  Epinay  e  in  quello  del  barone  d'  Holbach,  «  la 
gaiezza,  l' immaginazione,  lo  spirito,  la  follia,  lo  scherzo,  tutto 
ciò  che  fa  dimenticare  i  fastidì  della  vita  »,  e  ne  tornò  a  Napoli 
dopo  aver  agitato  e  agitando  ancora  nella  mente  i  problemi  degli 
economisti  e  degli  enciclopedisti. 

L' efficacia  della  cultura  francese  si  rivela  ancora  nella  Scienza 
della  legislazione  (Napoli,  Stamperia  Raimondiana,  1780-83)  di  Gae- 
tano Filangieri  (1752-1788),  il  quale,  parlando  del  Montesquieu, 
dice:  «  Io  debbo  molto  ai  sudori  di  questo  grand'  uomo  »  (2); 
nei  Diritti  dell' uomo  (Assisi,  1791)  di  Nicola  Spedalieri  (1740-1795), 
che  si  rìconnette  al  Rousseau,  per  giungere  ad  un  empirismo 
morale  fondato  sui  principi  della  felicità  e  dell'amor  proprio,  dai 
quali  deriva  tutti  i  diritti  e  doveri  naturali;  e  nei  Saggi  politici 
(1783-1791)  di  Mario  Pagano,  dove  si  ritrovano,  oltre  alcuni  con- 
cetti del  Vico,  la  dottrina  della  perfettibilità  del  Turgot  e  del 
Condorcet,  la  teoria  dei  climi  del  Dubos  e  del  Montesquieu  e 
idee  dell'  Helvétius. 

Ma  r  azione  della  cultura  francese  fu  (indipendentemente  in 
principio  da  quella  dell'Italia  meridionale)  più  decisa  e  più  ampia 
nel  settentrione  della  penisola.  Nella  maggior  parte  delle  case  di 
Milano  si  parlava  normalmente  il  francese,  il  quale  nei  carteggi 
era  la  lingua  preferita;  le  donne  recitavano  tragedie  francesi.  Il 
salotto  della  marchesa  Maria  Vittoria  Serbelloni,  che  al  figlio  in 
collegio  raccomandava  lo  studio  dei  libri  di  Rousseau,  era  il  centro 


(1)  Gentile,  Op.  cit.,  pag.  16;  Filippo  Briganti  è  ricordato  anche 
dal  Poli  {Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  624)  e  da  Aoat.  Cromaziano  {Op.  cit., 
Gap.  XLIV,  pag.  321  del  Voi.  X  delle  Opere).  Sul  Grimaldi  vedi  Delfico, 
Opere,  Teramo,  1901-1904  Voi.  III. 

(2)  Inoltre  qualcuno  vede  neir«  amore  del  potere  >,  considerato  come 
principio  politico  dal  Filangieri,  un  concetto  dell'  Helvétius. 


—  20  — 

di  diffusione  delle  novità  letterarie  d'oltr'Alpe;  nei  suoi  tratteni- 
menti serali  ella  rendeva  conto  dei  romanzi  e  delle  opere  dram- 
matiche; di  giorno  traduceva  il  teatro  del  Destouches,  che  pro- 
curò a  Pietro  Verri  1'  onore  d'  una  prefazione  (1754).  Ella  era  la 
madre  spirituale  del  Verri  e  della  gioventù  patrizia  che  desiderava 
apprender  novità;  per  quattro  anni  il  Verri  frequentò  la  sua  casa 
con  diletto  intellettuale,  e,  più  tardi,  ripensando  a  lei,  scriveva: 
«  Le  debbo  d'aver  conosciuto  la  bella  letteratura  francese  ».  11 
salotto  di  Clelia  del  Grillo-Borromeo  aveva  carattere  scientifico  e 
politico,  ma  sempre  gallomane. 

Il  Beccaria  viveva  a  Milano  come  «  in  una  prigione  »;  solo 
dopo  lo  studio  delle  opere  francesi  la  sua  anima  si  sentiva  aperta 
alla  vita.  Egli  confessava:  «  lo  debbo  tutto  ai  libri  francesi  »  (1). 
Alessandro  e  Pietro  Verri  passavano  le  ore  languendo  «  in  umbra 
mortis  ».  Si  unirono  in  una  società  che  dissero  dei  Pugni,  e,  per 
combattere  i  pregiudizi  e  gli  abusi  del  tempo,  presero  a  pubbli- 
care dal  giugno  1764  al  maggio  1766  il  giornale  //  Caffè:  al  quale 
collaborarono  anche  il  marchese  Alfonso  Longo,  il  conte  Giuseppe 
Visconti,  il  conte  Pietro  Secchi,  il  conte  Luigi  Albertenghi,  l'abate 
Sebastiano  Franci,  il  Biffi,  il  Colpani,  il  conte  G.  Rinaldo  Carli. 
Ad  eccezione  di  quest'  ultimo,  orgoglio  d' essere  italiano,  tutti 
hanno  un  modo  di  pensare  eh' è  di  stampo  francese.  Essi  cre- 
dono che  la  nostra  cultura  è  insufficiente,  inferiore;  che  i  nostri 
uomini  son  corrotti  e  gesuiti;  che  bisogna  imitare  quei  cittadini 
semplici  di  Francia  che  si  dicono  filosofi  e  vogliono  liberare  gli 
uomini  da  tante  brutture.  Pietro  Verri  si  dichiara  «  cosmopolita  »; 
per  lui  la  patria  è  dove  si  fa  del  bene  (2).  Non  meno  gallomane 
è  Alessandro.  Non  li  seduce  né  la  storia  né  la  lingua  nostra.  Di- 
nanzi a  notaio  fanno  rinunzia  al  vocabolario  della  Crusca;  pro- 
clamano la  libertà  di  «  render  meglio  le  loro  idee  »;  dicono  che 
r  essenziale  è  il  sentimento,  la  commozione.  Non  bisogna  arros- 
sire degli  errori  di  grammatica;  le  opere  più  belle  ne  hanno;  solo 
le  mediocri  ne  son  prive,  perchè  scritte  a  sangue  freddo. 


(1)  C.  Cantù,  Beccaria  e  il  diritto  penale,  Firenze,  Barbera,  1862, 
pag.  666-68. 

(2)  Tuttavia  neh'  articolo  Della  patria  degli  Italiani  esorta  gì'  Ita- 
liani alla  concordia,  mostrandone  uguale  l'origine,  il  genio  e  la  condi- 
zione (Vedi  Opere  del  Verri,  Milano,  Silvestri,  1818,  Voi.  1,  pag.  304-316). 


—  21  — 

È  loro  intento  migliorare  gli  uomini;  il  Beccaria  dice  che  scopo 
del  giornale  è  di  rendere  amabile  la  virtù  e  d'ispirare  quell'en- 
tusiasmo per  cui  pare  che  gli  uomini  dimentichino  per  un  mo- 
mento sé  stessi  per  la  felicità  altrui.  Così  s' accostano  all' estetica 
umanitaria  di  Diderot.  Il  quale  voleva  indirizzare  l' arte  ad  un  fine 
esclusivamente  educativo,  e  intendeva  la  cultura  come  mezzo  di 
elevazione  morale;  moveva  anche  guerra  ai  pedanti,  che  si  lasciano 
guidare  da  pregiudizi;  ed  era  convinto  che  il  genio  non  possa 
creare  con  le  regole  d'Aristotele;  allo  studio  delle  parole  sostituiva 
lo  studio  delle  cose,  e  volgeva  l'attenzione  dei  giovani  alla  storia 
naturale,  che  mette  in  esercizio  i  sensi,  soli  mezzi  della  conoscenza 
umana.  Del  pari  i  «  soci  dei  pugni  »  vogliono  reagire  al  «  me- 
tafisico ed  ampolloso  regno  della  secentista  letteratura  »,  com- 
battono i  «  parolai  »,  gli  «  aristotelici  delle  lettere  »,  simili  a 
quelli  della  filosofia;  al  principio  «  non  cose,  ma  parole  »  so- 
stituiscono l'altro  «  cose,  non  parole  »;  desiderano  che  la 
letteratura  italiana  si  ritempri  nel  culto  della  filosofia  e  delle 
scienze;  incoraggiano  i  giovani  ad  abbandonare  le  norme  del  clas- 
sicismo, le  regole  e  i  precetti  d'  ogni  genere,  a  non  esser  servi 
dei  testi  di  lingua,  a  render  le  proprie  idee  quali  si  ricevono 
dai  sensi  (1). 

Anche  nella  grammatica  si  ricollegano  ai  pensatori  francesi. 
Dumarsais  {neW Enciolopedia  e  nell'opera  Logique  et  principes  de 
grammaire,  1769),  movendo  dalla  distinzione  lockiana  tra  sensa- 
zione e  riflessione,  aveva  attribuito  ad  ognuna  di  queste  facoltà 
una  propria  classe  di  parole  e  un  ufficio  speciale  nella  formazione 
del  periodo:  la  costruzione,  secondo  il  Dumarsais,  è  il  posto  che 
noi  diamo  alle  parole  nella  frase  seguendo  la  sensazione  domi- 
nante; la  sintassi  invece  è  un  atto  della  riflessione,  che  stabilisce 
i  rapporti  necessari  delle  varie  parole  fra  loro  e  dà  alla  frase  un 
significato  piìi  compiuto.  Il  Condillac  aveva  nelle  sue  opere  com- 
piuta r  analisi  dei  rapporti  fra  la  lingua  e  le  diverse  operazioni 
mentali;  secondo  lui,  come  s'è  visto,  noi  non  potremmo  pensare 
senza  1'  uso  delle  parole;  e  queste  sono  la  condizione  necessaria 


(1)  Pietro  Verri  (Opere,  Voi.  I,  pag.  232-241)  difende  il  Goldoni,  cri- 
ticato dal  Baretti,  appunto  perchè  vede  nelle  sue  commedie  un  fondo  di 
virtù  vera,  d' umanità,  di  benevolenza,  d'  amor  del  bene. 


—  22  — 

dello  sviluppo  di  tutte  le  facoltà  che  rendono  1'  uomo  superiore 
per  intelligenza  a  tutti  gli  altri  animali.  Ora  il  Beccaria  in  un  ar- 
ticolo del  Caffè  (I,  n.  25),  anticipando  alcune  conclusioni  del- 
l'opera sua  sulla  natura  dello  stile,  mette  le  idee  e  le  parole  in 
rapporto  con  i  sensi,  e  fa  consistere  lo  stile  nel  fascio  di  sensa- 
zioni accessorie  che  si  raggruppano  intorno  all'idea  principale  (di 
modo  che  quanto  più  interessanti  se  ne  potranno  addensare  intorno 
a  questa,  tanto  maggiore  sarà  il  diletto  estetico);  la  differenza  di 
stile  nella  diversa  successione  dei  suoni  rappresentativi  delle  sen- 
sazioni; la  diversità  delle  idee  nell'ordine  in  cui  esse  son  disposte; 
quindi  lo  studio  dello  stile  si  riduce  secondo  lui  allo  studio  delle 
sensazioni  accessorie  che  si  possono  aggiungere  alle  principali. 

Neil'  etica  e  nella  pedagogia  i  soci  dei  pugni  sono  con  Rous- 
seau. L' uomo  per  loro  è  naturalmente  buono,  ed  è  corrotto  dalla 
società,  la  quale  è  guasta  dalle  menzogne  e  dalle  false  virtù;  di 
qui  i  grandi  vantaggi  della  solitudine  e  della  vita  campestre  (1). 

In  politica  restano  piuttosto  conservatori;  ammirano  il  Mon- 
tesquieu. Quanto  alla  religione  il  giornale  fin  dal  primo  numero 
s'impone  «  sommissione  alle  diverse  leggi  »  e  «  perfetto  silenzio 
sui  soggetti  sacri  >>  (2). 

Oltre  che  nel  Caffè,  Pietro  Verri  e  Cesare  Beccaria  si  ricolle- 
gano ai  filosofi  francesi  in  altre  opere.  11  primo  cominciò  a  farsi 
conoscere  con  opuscoli  e  con  piacevoli  «  almanacchi  »,  mediante 
cui  sperava  diffondere  più  facilmente  le  idee  nuove  (giacche  1 
lunari  son  letti  dal  popolo)  e  che  intitolò  La  Burlanda,  Il  gran 
Zoroastro,  Il  Mal  di  Milza,  Il  Collegio  delle  marionette  (satira  del- 
l' educazione  che  le  monache  davano  alle  fanciulle),  Dissertazione 
sull'innesto  del  vaiolo,  Quattro  lettere  al  sig.  A.  F.  G.  (Ferdinando 
d' Adda)  d^  suoi  fedelissimi  servitori  Mal  di  Milza  e  Zoroastro. 
In  questi  scritti  egli  imitava  Voltaire,  per  combattere  col  flagello 
del  ridicolo  i  cattivi  costumi  dei  nobili,  i  pregiudizi  del  popolo 
e  le  sciocchezze  dei  contemporanei.  Pubblicò  poi  un  Discorso  sulla 


(1)  P.  Vzmi,  Opere,  Voi.  1,  pag.  276-286. 

(2)  Vedere  per  questa  parte  E.  Rota,  Op.  cit.,  Gap.  Il  (La  società  del 
«  Caffè  »  nelle  sue  relazioni  colV Enciclopedismo  francese),  e  P.  Verri, 
Opere,  Voi.  I,  pag.  207  e  seg.  (Discorsi  vari  ricavati  dal  giornale 
intitolato  «  //  Caffè  »). 


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felicità  (Livorno,  1763)  e  un  Discorso  suW  indole  del  piacere  e  del 
dolore  (Livorno,  Stamperia  dell'Enciclopedia,  1773),  nei  quali,  ap- 
plicando r  analisi  (1),  seguiva  l' indirizzo  degl'  ideologi  (2). 

Il  Beccaria  nel  famoso  libretto  Dei  delitti  e  delle  pene  (Livorno, 
1764)  si  appoggia  alla  dottrina  del  Contratto  sociale  di  Rousseau, 
sebbene  ne  tragga  conclusioni  diverse  (3);  nell'opera  Ricerche  in- 
torno alla  natura  dello  stile  (Milano,  1770)  ritiene  che  «  tutte  le 
nostre  idee  o  sentimenti,  in  ultima  analisi,  si  possano  considerare 


(1)  Discorso  sull'indole  etc,  Introduzione,  pag.  3-4  (vedi  Verri,  Opere 
citate,  Voi.  I).  In  questo  Discorso  il  Verri  sostiene  la  teoria  della  natura 
negativa  del  piacere.  È  una  delle  opere  piìi  importanti  sull'argomento. 
Ne  riparleremo  a  proposito  del  Gioia  e  del  Leopardi. 

(2)  Questi  Discorsi  il  Verri  ripubblicò,  sviluppandoli,  il  1781  a  Mi- 
lano (presso  Marelli).  Nella  prefazione  della  seconda  edizione  così 
chiama  il  Locke:  «  l'esatto  analizzatore  dell'animo,  il  luminoso  genea- 
logista delle  nostre  idee  >  (Opere,  Voi.  1,  pag.  XIII).  Al  pari  degl'ideo- 
logi, egli  ritiene  che  la  nostra  conoscenza  è  limitata  alle  idee  forniteci 
dai  sensi  {Opere,  Voi.  I,  pag.  371);  perciò  non  si  propone  di  conoscere 
r  essenza  del  piacere  e  del  dolore  (Opere,  Voi.  I,  pag.  50);  cerca  solo 
di  trovare  il  principio  dei  fenomeni  della  sensibilità,  il  quale  per  lui  è 
la  fuga  del  dolore.  Del  pari,  dice  di  non  saper  definire  la  materia 
(Voi.  I,  pag.  334);  considera  la  memoria  come  un  enigma  (Voi.  I, 
pag.  39-40);  confessa  di  non  saper  dire  come  mai  una  lacerazione  orga- 
nica o  un'  immagine  della  fantasia  produca  dolore  (40-41),  e  aggiunge: 
«  La  cagione  delle  sensazioni  nostre  è  talmente  oscura,  che  l'ingegno 
dispera  di  rintracciarla  giammai  -  (pag.  40).  Conosci  te  stesso  è  anche 
il  suo  motto  (Discorso  sulla  fel.,  §  VI,  pag.  165  del  Voi.  I  delle  Opere). 

(3)  Rousseau  ragiona  così:  —  Se  lo  Stato  provvede  alla  sicurezza  dei 
cittadini,  la  vita  individuale  è  non  più  soltanto  un  bene  di  natura,  ma 
un  dono  condizionale  dello  Stato;  chi  vuol  conservare  la  vita  a  spese 
degli  altri  deve  pur  darla  per  essi  quando  occorra;  quindi,  se  è  utile 
per  lo  Stato  che  qualcuno  muoia,  questi  deve  morire.  Orbene,  se  la 
conservazione  dello  Stato  è  incompatibile  con  la  vita  d'  un  delinquente, 
bisogna  che  uno  dei  due  scompaia,  e  sulla  scelta  non  vi  può  essere  il 
menomo  dubbio;  poiché  il  cittadino  nemico  cessa  di  appartenere  allo 
Stato,  e  dev'esserne  staccato  di  fatto  o  con  l'esilio  o  con  la  morte.  I! 
Beccaria  invece  ragiona  in  altro  modo.  Se  ogni  individuo,  nella  stipu- 
lazione del  contratto  sociale,  ha  ceduto  una  parte  minima  della  propria 
libertà,  è  assurdo  credere  che  in  tale  sacrificio  minimo  vi  sia  quello  del 
massimo  fra  tutti  i  beni:  la  vita.  La  pena  di  morte   non  è  dunque   un 


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come  derivanti  dalle  sensazioni  semplici  >  (1),  ed  imprime  la  sua 
ammirazione  per  il  Locke  (2)  e  per  il  Condillac  (  il  celebre  abate 
di  Condillac,  ed  altri  troppo  famosi  e  superiori  ad  ogni  mia  lode, 
che  non  occorre  qui  nominare,  hanno  saputo  portare  la  luce  del- 
l'analisi in  questa  parte  delle  lettere  resa  sterile  ed  infeconda  dal 
fosco  pedantismo  e  dalla  servile  imitazione  »)  (3). 

Il  Verri,  il  Beccaria  e  gli  altri  scrittori  del  Caffè  non  avevano 
voluto,  come  s'  è  visto,  immischiarsi  in  questioni  religiose.  Ma 
ormai  anche  in  religione  si  faceva  sentire  l'efficacia  dell'enciclo- 
pedismo. È  considerato  come  il  principale  voltairiano  d' Italia  il 
conte  Cari'  Antonio  Filati,  da  noi  già  ricordato  fra  gli  sperimen- 
talisti  (4),  che  scrisse  Di  una  riforma  d' Italia,  ossia  dei  mezzi  di 
riformare  i  più  cattivi  costumi  e  le  più  perniciose  leggi  d' Italia 
(Villaf ranca,  1767)  e  le  Riflessioni  di  un  Italiano  sopra  la  Chiesa 
in  generale,  sopra  il  Clero  sì  regolare  che  secolare,  sopra  i  Ve- 
scovi e  i  Pontefici  romani  e  sopra  i  diritti  ecclesiastici  (Borgo 
Francone,  1768),  in  cui  inveiva  contro  la  potenza  temporale  del 
Papa,  contro  i  falsi  miracoli  inventati  dagli  ecclesiastici,  contro  i 
conventi,  e  difendeva  il  teismo  voltairiano.  Pure  il  Verri  nei  suoi 


diritto  che  possa  derivare  dalla  natura  della  società;  è  anzi  una  viola- 
zione del  contratto  sociale.  Si  noti  però  che  più  tardi  il  Beccaria  nella 
memoria  Sul  disordine  delle  monete  respinse  la  teoria  del  contratto 
sociale;  nel  rivedere  il  manoscritto  dei  Delitti  per  una  nuova  edizione 
ebbe  cura  di  sopprimere  le  frasi  che  accennavano  all'esistenza  d'un 
patto  anteriore  alla  società;  e  nella  prefazione  ammise  l' esistenza  del 
diritto  e  dei  principi  morali  anteriormente  al  contratto,  derivandoli  dalla 
rivelazione  e  dalla  legge  naturale. 

(1)  Opere  di  Cesare  Beccaria  (Milano,  Bettoni,  1824),  Volume  unico. 
Ricerche  intorno  alla  natura  dello  stile,  Parte  I,  Gap.  I,  pag.  152.  Anche 
la  definizione  dello  stile  (  lo  stile  consiste  nelle  idee  e  sentimenti  ac- 
cessori che  s'aggiungono  ai  principali  in  ogni  discorso  ,  Op.  cit., 
pag.  152)  ricorda,  come  s'è  accennato,  il  Condillac  e  il  Dumarsais. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  138-139. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  139.  Si  noti  anche  il  concetto  giusto  che  il  Bec- 
caria aveva  dell'ideologia,  la  quale  secondo  lui  si  riduceva  alla  psico- 
logia (Op.  cit.,  pag.  138). 

(4)  Il  Pilati  era  di  Tassullo  (Trentino);  ebbe  per  qualche  tempo  una 
cattedra  di  giurisprudenza  a  Gottinga;  e  fu  stimato  assai  da  Federigo 
il  Grande  e  da  Giuseppe  II. 


—  25  — 

Pensieri  politici  salta  corte  di  Roma  (1783)  combatteva  le  fraterie. 
L'abate  calabrese  Antonio  Jerocades  (1738-1805)  voleva  spiegar 
r  universo  con  la  Fisi  e  la  Legge  o  Temide.  Ma  più  di  tutti  era 
divenuto  incredulo  il  popolo  grosso.  A  Venezia  non  si  credeva 
se  non  «  dai  copi  in  suso,  per  Russò  e  Volter,  —  dai  copi  in  zo, 
per  tanti  che  ha  da  aver  ».  In  un  sonetto  riferito  dal  Malamani  (1) 
si  legge:  «  Miracoli  ?  eh,  le  xe  cogionarie,  —  e  ste  cose  in  natura 
non  se  dà;  —  el  mondo  ancuo  xe  tropo  iluminà  —  per  butarghe 
in  ti  ochi  ste  scarpie.  —  Le  xe  imposture,  le  xe  barbarie  —  de 
preti  e  frati,  che  s'  ha  imaginà  —  de  guadagnar  sora  ste  falsità: 
—  le  anime  e  i  Santi,  e  i  Cristi  e  le  Marie.  —  Basta  ben  che  cre- 
derne in  quel  de  sora,  —  e  anca  qua  ghe  saria  da  dubitar,  — 
perchè  non  gh' è  chi  1' abia  visto  ancora  ». 

Intanto  vari  filosofi  scrivevano  opere  di  sapore  lockiano.  Dia- 
mante Fuginelli,  monaco  benedettino  della  congregazione  di  Val- 
lombrosa  e  professore  di  m.etafisica  nel  Collegio  fiorentino  della 
Santissima  Trinità,  nella  sua  opera  Principia  Metaphysices  geome- 
trica methodo  pertractata  (Florentiae,  apud  A.  Bonduccium,  1755-58) 
identificò  la  metafisica,  fondamento  di  tutte  le  scienze,  con  la  psi- 
cologia (2),  dividendola  in  psicologia  empirica  t psicologia  razionale, 
e  sostenendo  che  questa  trae  i  suoi  principi  da  quella  (3);  cercò 
di  stabilire  le  leggi  dei  fatti  psichici;  nella  questione  dell'  origine 
delle  idee  seguì  Locke,  ammettendo  due  fonti  delle  nostre  cono- 
scenze: la  sensazione  e  la  riflessione  (4);  in  alcuni  problemi  (per 
es.  in  quelli  sul  rapporto  fra  anima  e  corpo  e  suU'  origine  del- 
l'anima)  professò  una  specie  d'agnosticismo  (5);  tuttavia  (press' a 
poco  come  faceva  nello  stesso  periodo  di  tempo  il  Condillac)  am- 
mise la  semplicità  e  immortalità  dell'anima  (6),  e,  contro  Locke, 
sostenne  essere  impossibile  a  Dio  stesso  dare  il  pensiero  alla  ma- 
teria (7);  ammise  anche  la  libertà  umana  (8).  Cesare  Baldinotti, 


(1)  V.  Malamani,  //  settecento  a  Venezia,  I,  105-106,  cit.  dal  Della 
Torre  {Op.  cit.,  pag.  674  e  seg.). 

(2)  Adam.  Fuginelli,  Prin.  metaph.  (ediz.  cit.).  Voi.  1,  pag.  2. 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  5. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  142-145. 

(5)  Op.  cit.,  Voi.  11,  pag.  140-142  e  147-148. 

(6)  Op.  cit.,  Voi.  I,  Gap.  li.  (7)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  92-95. 
(8)  Op.  cit..  Voi.  Il,  Gap.  X. 


—  26  — 

professore  prima  nell'  Università  di  Pavia,  poi  in  quella  di  Pa- 
dova, pur  staccandosi  in  qualche  punto  dal  filosofo  inglese,  ne 
illustrò  e  seguì  la  dottrina  {De  teda  humanae  mentis  institatione, 
Ticini,  Galeazzi,  1787;  Tentaminum  metaphysicomm  libri  tres,  Pa- 
tavii,  Typis  Seminarli,  1817):  infatti  affermò  che  né  con  i  sensi, 
che  non  penetrano  fino  alle  cose  in  sé,  né  con  la  riflessione,  che 
si  fonda  sui  sensi  medesimi,  si  può  conoscere  l'essenza  degli 
enti,  e  ammise  che  ogni  nostra  conoscenza  non  possa  esser  che  di 
fatto.  Furono  lockiani  o  quasi  anche  Giuseppe  Matteo  Pavesio 
(1757-1800),  professore  di  filosofia  all'università  di  Torino,  stu- 
dioso pure  delle  opere  di  Leibniz,  di  Pascal,  di  Grozio  {Elementa 
logices  ad  Subalpinos  per  analysim  sensationum  et  idearum.  deli- 
neata, Taurini,  1793;  Elementa  Metaphysices  ad  Subalpinos,  Tau- 
rini, 1794;  Elementa  philosophiae  moralis  ad  Subalpinos,  Ivi,  1795), 
che  espose  un  sistema  di  facoltà  il  quale  ricorda  quello  di  Locke; 
Giuseppe  Tettoni  {Dei  principi  del  diritto  morale  e  pubblico,  Bas- 
sano,  1771),  che  seguì  ben  da  vicino  Locke  nell'esame  e  nella 
determinazione  della  legge  morale;  Giuseppe  Capocasale  (1754- 
1828),  professore  all'Università  di  Napoli  {Cursus  philosophicus 
sive  universae  philophiae  institutiones,  Neapoli,  1792;  Saggio  di 
politica  per  uso  dei  privati,  Napoli,  1798;  Catechismo  dell'  uomo  e 
del  cittadino,  Napoli,  1821;  //  codice  eterno  ridotto  in  sistema,  se- 
condo i  principii  della  ragione  e  del  buon  senso,  Napoli,  1822), 
che  derivò  tutte  le  idee  dalle  due  fonti  lockiane:  sensazione  e  ri- 
flessione. Concetti  lockiani  s'incontrano  anche  nell'opera  intito- 
lata Lettere  VII  teologiche  e  metafisiche,  due  delle  quali  inedite, 
contro  i  ragionamenti  metafisici  del  Signor ,  Milano  (Fi- 
renze), Ricchini,  1746  (1). 


(1)  Quest'opera  fu  edita  sotto  il  nome  dell'abate  Giuseppe  Clemente 
Bini  (a  cui  l'attribuisce  anche  il  Poli).  Ma  nel  Melzi  {Op.  cit.,  Tomo  I, 
pag.  136)  si  legge  che  ne  fu  autore  Giovanni  Lami  (1697-1770),  celebre 
letterato,  erudito  e  antiquario,  che  pubblicò  a  Firenze  dal  1740  al  1769 
le  Novelle  letterarie  (Volumi  30).  Appunto  nelle  Novelle  (Tomi  VI  e  VII) 
uscirono  le  prime  cinque  lettere;  queste  erano  rivolte  contro  lo  scritto 
Della  esistenza  e  degli  attributi  di  Dio  e  della  immaterialità  ed  im- 
mortalità dello  spirito  umano  secondo  la  mera  filosofia  -  Ragionamenti 
filosofici  (Lucca,  Benedini,  1745),  il  quale  fu  pubblicato  anonimo,  ma 
è  certo  del  dott.  Oiov.  Alberto  de  Soria  (1707-1767),  professore  di  fisica 


—  27  — 

A  diffonder  la  dottrina  lockiana  in  Italia  concorsero  anche  due 
filosofi  tedeschi,  il  Mako  e  lo  Storchenau,  le  cui  opere  si  adope- 
ravano come  libri  di  testo  in  molte  delle  nostre  scuole  (1). 

Questo  movimento  d' idee  ebbe  nuovo  impulso  dalla  presenza 
stessa  del  Condillac  in  Italia  durante  la  sua  dimora  a  Parma  (1758- 
1767).  Allora  la  sua  filosofia  passò  nelle  scuole  del  ducato:  fu  in- 
fatti insegnata  nel  Collegio  Alberoni  di  Piacenza  da  Giovannan- 


air  Università  di  Pisa  (vedi  Novelle  leti.,  Tomo  VII,  col.  224,  e  T.  XXVIII, 
676-682;  Giornale  de^  letterati,  Firenze,  1745,  Tomo  IV,  Parte  I,  pa- 
gine 185-201).  Il  De  Soria  affermava  che  tutte  le  prove  sull'esistenza  di 
Dio  fossero  problematiche;  che  una  sola  fosse  sicura:  quella  della  con- 
tingenza della  materia.  Ma  il  Lami  sostenne  che  tale  prova  era  nulla, 
perchè  non  si  poteva  dimostrare  quella  contingenza  con  i  principi  del- 
l'avversario;  del  pari,  secondo  il  Lami,  il  De  Soria  non  era  riuscito  a 
provare  che  fra  gli  esseri  contingenti  ve  ne  fossero  di  capaci  di  felicità, 
onde  non  aveva  dimostrato  neanche  che  l'Ente  necessario  avesse  somma 
bontà  ed  altri  attributi.  Il  Lami  in  questa  polemica  cita  varie  volte  il 
Locke  (Novelle,  Tomo  VI,  col.  810,  e  T.  VII,  col.  37);  e,  come  il  filosofo 
inglese,  sostiene  che  noi  non  abbiamo  se  non  un'idea  imperfetta  delle 
sostanze  (il  Lami  paria  con  ammirazione  del  Locke  anche  in  Nov.  leti., 
Tomo  XVI,  pag.  80;  manifesta  inoltre  simpatia  per  la  nuova  scienza, 
ed  esalta  il  metodo  dèi  Galilei  in  Nov.  lett..  Tomo  XVIII,  col.  426-427). 
Tuttavia  non  direi  che  la  sua  opera  sia  propriamente  lockiana. 

AI  Lami  rispose,  in  difesa  del  Soria,  Gelaste  Mastigoforo  (il  P. 
Francesco  Raimondo  Adami,  servita)  con  le  Lettere  alV  eccellentis- 
simo signor  dottor  Clemente  Bini  per  communicargli  le  riflessioni  fatte 
sopra  le  lettere  critiche  del  medesimo  scritte  contro  le  dissertazioni 
anonime  intorno  all'  esistenza  di  Dio  ed  all'  immortalità  dello  spirito 
umano  (Lucca,  Benedini,  1746-47).  A  Gelaste  Mastigoforo  rispose  il  P. 
Gialli,  monaco  celestino  mantovano,  con  le  Riflessioni  sopra  la  let- 
tera di  Gelaste  Mastigoforo  in  risposta  alla  prima  scritta  dal  Sig. 
dott.  CI.  Bini  contro  alcune  dissertazioni  metafisiche  d'un  professore 
di  Pisa  (Firenze,  Bonducci,  1747).  Vedi  Melzi,  Op.  cit.,  Tomo  I,  pa- 
gine 441-42,  e  Tomo  II,  pag.  440. 

(1)  Compendiaria  Metaphysicae  institutio  P.  Mako,  editio  prima 
veneta,  1771;  SiGis.  Storchenau  in  Academia  Vindobonensi  Logices 
et  Metaphysicae  professoris  Institutiones,  editio  quarta,  Venetiis,  1791. 
Queste  opere  son  citate  qualche  volta  dal  Soave.  Per  tutta  questa  parte 
vedi  Poli,  Op.  cit..  Voi.  IV,  §  336;  Biografia  degli  Italiani  illustri  pubbl. 
dal  De  Tipaldo,  articoli  Pavesio,  Capocasale  etc. 


—  28  — 

tonio  Comi  («  che  v,  come  dice  il  Roinagnosi,  ^^  aggiungeva  ad 
una  soavità  di  carattere  meraviglioso  un  sapere  profondo  attinto 
alle  più  sane  fonti  della  moderna  induttiva  filosofia  »)  (1),  e  nel- 
r  Università  di  Parma  da  Francesco  Pizzetti  (1756-1811),  che  vi 
tenne  dal  1780  al  1805  la  cattedra  di  logica  e  di  metafisica,  per 
cui  scrisse  delle  Institationes  logicae  (Parma,  1798)  rimaste  inedite, 
le  quali  negli  ultimi  anni  di  sua  vita  ridusse  per  buona  parte  in 
lingua  italiana  col  titolo  di  Istituzioni  di  ideologia  (nel  1786  le 
aveva  chiamate  Logicae  et  Metaphysicae  Cursus)  (2). 

Bisogna  però  subito  dire  che  l'importanza  del  Collegio  Albe- 
roni  per  il  condillachismo  è  stata,  forse  perchè  ne  uscirono  il 
Gioia  e  il  Romagnosi,  esagerata.  Infatti  Carlo  Cattaneo  {Saggi  di 
filosofia  civile,  pag.  101)  ci  fa  sapere  che  testo  di  filosofia  nel 
detto  Collegio  era  il  complesso  delle  opere  di  Cristiano  Wolf;  e 
il  Bersani  (3)  scrive  che  nella  lunga  serie  delle  tesi  filosofiche  che 
pel  corso  di  più  che  mezzo  secolo  si  esposero  ogni  anno  e  si  di- 
fesero pubblicamente  dai  collegiali  si  trova  che  si  studiarono  tutti 
ì  sistemi  filosofici,  e  se  ne  pigliava  ciò  che  era  più  conforme  alla 
comune  opinione  e  al  parlare  filosofico  del  tempo;  e  in  vero, 
oltre  il  Gioia  e  il  Romagnosi,  ne  uscirono  Alfonso  Testa,  che  dal 
sensismo    passò   al    criticismo    di    Kant,    e   il   Burroni,  che   con 


(1)  Elogio  storico  di  M.  Gioia  (in  Opere  storico-filosofiche  e  let- 
terarie di  G.  D.  Romagnosi  riordinate  e  illustrate  dal  De  Giorgi,  Vo- 
lume unico,  Parte  II,  Milano,  Perelli  e  Mariani,  1844,  pag.  854). 

(2)  Lasciò  inedite  anche  delle  Quaestiones  metaphysicae.  Tradusse 
le  Opere  filosofiche  di  MosÈ  Mendelsohn  (Parma,  1800)  e  le  Ricerche 
sulle  bellezze  della  pittura  di  Daniele  Webb  (Parma,  1804).  Vedi 
Memorie  degli  scrittori  e  letterati  parmigiani  raccolte  dall' Affò  e 
dal  Pezzana,  Parma,  Ducale  Tip.,  1833,  Tomo  VII,  pag.  651. 

(3)  Stefano  Bersani,  Memorie  storiche  sull'origine  e  vicende  del 
Collegio  Alberoni,  Piacenza,  Solari,  1867-1882,  pag.  236.  Il  Collegio  fu 
fondato  ed  ebbe  nome  (il  1732)  dal  famoso  cardinale  Alberoni,  che 
tanta  parte  ebbe  come  Ministro  alla  Corte  di  Spagna.  Fu  affidato  ai 
Missionari  o  Preti  della  Missione.  Il  cardinale  Alberoni  lasciò  scritto 
nel  testamento  che  nel  Collegio  dovessero  accogliersi  gratuitamente, 
senza  spesa  alcuna,  cinquantaquattro  giovani  poveri  della  provincia,  che 
avessero  studiato  con  profitto  le  lettere  umane,  perchè  nel  corso  di 
nove   anni  vi  approfondissero   le  scienze   filosofiche,  fisiche  e  morali, 


-  29  - 

S.  Tommaso  alla  mano  difendeva  Rosmini.  L'unico  professore  con- 
dillachiano  del  Collegio  che  si  ricordi  è  il  Comi;  nessun  altro  (1). 
Romagnosi,  come  vedremo,  vi  conobbe  per  caso  il  Saggio  del 
Bonnet.  Non  so  quindi  dove  stia  la  tanto  decantata  efficacia  del 
Collegio  Alberoni  per  il  diffondersi  della  filosofia  condillachiana. 

Forse  più  notevole  fu  l' azione  che  il  Condillac,  pur  me- 
nando vita  ritirata,  esercitò  direttamente  a  Parma  sui  perso- 
naggi di  Corte.  Ivi  fu  suo  amico  Carlo  Gastone  della  Torre  di 
Rezzonico,  di  Como  (1742-1796),  colonnello  della  milizia  di  Parma, 
succeduto  al  Frugoni,  come  segretario  perpetuo,  nell'Accademia 
di  Belle  Arti  (1769),  che  espresse  la  sua  ammirazione  per  il  filosofo 
francese  nel  Ragionamento  sulla  filosofia  del  secolo  XVIII  (1778) 
e,  piti  che  mai,  nel  poemetto  L'origine  delle  idee  (1778),  dedicato 
al  Condillac  stesso,  in  cui,  dopo  aver  descritto  la  finzione  della 
statua,  affermava:  «  Memoria,  paragon,  giudizio,  —  meraviglia, 
bisogno,  odio  ed  amore  —  tutto  è  sentir  »  (2). 

Si  pubblicarono  anche  varie  versioni  delle  opere  del  Condillac, 
fra  le  quali  la  Traduzione  del  Saggio  sopra  l'origine  delle  umane 


allo  scopo  precipuo  di  dar  buoni  sacerdoti  alla  diocesi  di  Piacenza  o, 
quanto  meno,  buoni  medici  e  leggisti.  Tutta  la  disciplina,  istruzione  ed 
educazione  dell'  Istituto  era  diretta  a  formare  ecclesiastici;  ma  non  tutti 
gli  alunni  si  consacravano  realmente  allo  stato  sacerdotale.  1  Missionari 
del  Collegio  furono  accusati  di  giansenismo  e  di  giacobinismo  dai  Ge- 
suiti; e  più  tardi,  durante  il  Risorgimento,  di  liberalismo  e  di  rosmi- 
nianismo.  Vedi  Memorie  (storiche  della  fondazione  ed  erezione  del 
nuovo  collegio  ecclesiastico  di  San  Lazaro  dall' E. mo  e  R.mo  Sig.  Car- 
dinale Giulio  Alberoni  fatte  in  vicinanza  di  Piacenza  sua  patria,  Faenza, 
1739,  presso  l'Archi  Impressor  Vescovile  Camerale  e  del  Santo  Uficio, 
e  Bersani,  Op.  cit. 

(1)  Anzi  il  MOLINARI  {La  filosofia  e  la  vita  di  A.  Testa,  Parma, 
Grazioli,  1864,  pag.  112)  afferma  che  nel  Collegio,  quando  c'era  il  Testa 
(che  v'entrò  il  1799),  quantunque  in  filosofia  il  Condillac  vi  tenesse  il 
campo,  pure  gl'ingegni  si  dibattevano  per  togliersi  dalle  pastoie  del 
sensismo. 

(2)  Vedi  Opere  (raccolte  dal  Mochetti),  Como,  Ostinelli,  1815-30.  II 
Rezzonico  scrisse  anche  altri  poemetti,  tra  i  quali  ricorderemo  il  Si- 
stema dei  cieli,  in  cui  mette  in  versi  il  sistema  copernicano  e  newto- 
niano, e  VAgatodemone,  ove  il  genio  del  bene,  dopo  viaggi  molti,  giunge 
a  Parma,  e  di  su  una  nuvola  indica  al  poeta  le  fabbriche  stupende  e 


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cognizioni  per  opera  di  Tommaso  Vincenzo  Falletti  (Roma,  1784), 
La  logica,  tradotta  dall' ab.  Luigi  Roverelli  (Venezia,  1788,  1793, 
1819;  Bologna,  1804),  Le  opere,  tradotte  dall' ab.  Marco  Fossadoni 
(Venezia,  Santini  e  Zerletti,  1792-99),  il  Costrutto  generale  che  deve 
ricavarsi  dallo  studio  della  Storia,  tradotto  da  L.  A.  Losci  (Ve- 
nezia, Storti,  1789),  le  Opere  metafisiche  (Pavia,  Bizzoni,  1819),  il 
Corso  di  studi  (Napoli,  Stamperia  del  Ministero,  1815). 

La  filosofia  condillachiana  incontrò,  sì,  qualche  opposizione, 
per  es.  quella  dell' ab.  giansenista  Pietro  Tamburini  di  Brescia, 
professore  di  morale  cristiana  e  poi  di  filosofia  morale  e  di  di- 
ritto naturale  all'Università  di  Pavia  (1)  {Introduzione  allo  studio 
della  filosofia  morale,  Pavia,  Galeazzi,  1797;  Elementa  iuris  natarae, 
Mediolani,  1815;  Cenni  sulla  perfettibilità  dell'umana  famiglia, 
Milano,  Ferrarlo,  1823),  il  quale,  pur  approvando,  come  sappiamo, 
le  riforme  religiose  francesi,  combattè  la  morale  dei  sensi  e  del- 
l' amor  proprio,  riponendo  l' obbligazione  morale  nel  bisogno 
della  perfezione,  e  attaccò  anche  il  Condorcet,  sostenendo  che 
r  uomo  è  perfettibile  fino  ad  un  certo  punto,  non  indefinitamente, 
e  ch'egli  può  giungere  alla  perfezione  per  opera  non  dei  poteri 
suoi  naturali,  ma  d'  un  prodigio  soprannaturale.  Al  Condillac  si 
opposero  pure  il  Falletti,  che  aggiunse  delle  note  critiche  alla  tra- 
duzione del  Saggio  citata,  nelle  quali  al  principio  della  sensazione 
sostituiva  quello  della  ragion  sufficiente  e  l'idea  dell'ente  in  uni- 
versale derivata  dal  sentimento  dell'  Io;  e  il  Draghetti,  che  provò 
la  vanità  del  tentativo  condillachiano  e  bonnetiano  di  spiegare  il 
sistema  delle  facoltà  dell'  anima  coi  sensi  e  col  movimento  delle 
fibre  cerebrali  {Psychologiae  specimen,  auctore  Asdkea  Draghetto 
5./.  Metaphysicae  Professore  in  Collegio  Braidensi,  Parmae,  1818; 
Ethica,  Regii,  1818)  (2).  Ma  oramai  il  Condillac  in  Italia  trionfava. 


gli  abbellimenti  della  città.  Il  Rezzonico  fu  in  corrispondenza  con  Fe- 
derigo I!  e  con  Voltaire.  Nei  suoi  viaggi  aveva  conosciuto  il  famoso 
Cagliostro,  il  quale  poi,  carcerato  a  Roma,  dichiarò  in  processo  che 
anche  il  Rezzonico  apparteneva  ^gV Illuminati.  Perciò  il  duca  di  Parma 
intimò  subito  a  questo  di  lasciare  gli  uffici  affidatigli. 

(1)  Nel  1792   però    Francesco  I,  cedendo    alle   istanze  di  Roma,  ri- 
mosse dall'Università  di  Pavia  tanto  il  Tamburini  quanto  lo  Zola. 

(2)  Si  staccarono  dal  sensismo  anche  Tommaso  Rossi,  abate  di  Mon- 
lefusco  (prov.  di  Avellino),  contemporaneo  del  Vico,  il  cui  libretto  La 


—  31  — 

Fra  le  opere  che  sanno  d'ideologia  condillachiana  si  ricordano: 
Sulla  riflessione  (Aia,  1788)  di  Girolamo  Boccalossi,  il  quale,  dopo 
aver  identificato  la  riflessione  col  pensiero,  ridusse  le  idee  alle  sen- 
sazioni, ammettendo  il  principio  che  è  meglio  sentir  le  cose  an- 
ziché intenderle;  il  Saggio  sulle  passioni  di  Francesco  Barkovich 
dalmatino,  il  quale  derivò  tutti  i  moti  dell'animo  dalla  sensibilità 
e  dall'amor  proprio;  le  Istituzioni  di  metafisica  (Genova,  1804)  di 
Michele  de  Tomaso,  il  quale  considerò  la  facoltà  di  sentire  come 
l'essenza  e  la  scaturigine  di  tutte  le  altre;  la  Lettera  critica  del 
senso  morale  (1808)  di  Girolamo  Prandi,  professore  di  fisica  a 
Mantova  e  poi  di  diritto  naturale  e  sociale  a  Bologna,  che  con- 
futò la  teoria  del  senso  morale,  e  sostenne  il  sensismo  condilla- 
chiano  fondando  l'etica  sull'amor  proprio  e  sull'interesse;  V Analisi 
della  sensibilità,  delle  sue  leggi  e  delle  sue  diverse  modificazioni 
considerate  relativamente  alla  morale  e  alla  politica  (Milano,  1801) 
di  Francesco  Lomonaco  (1772-1810),  opera  schiettamente  condil- 
lachiana, in  cui  l'autore,  medico,  considerava  la  psicologia  come 
scienza  madre,  dalla  quale  derivano  e  la  logica  e  l'etica  e  l'estetica 
e  la  politica,  e  alla  quale  servono  di  fondamento  l'anatomia  e  la 
fisiologia;  i  Discorsi  letterari  e  filosofici  (Milano,  Silvestri,  1809) 


niente  sovrana  s' ispirava  ad  un  idealismo  che  ebbe  il  consenso  del- 
l'autore  della  Scienza  Nuova;  Vincenzo  Miceli  (vedi  Biografia  del 
Tipaldo,  Voi.  VI,  pag.  356),  che  rinnovò  le  speculazioni  degli  Eleati 
sull'essere  {Diritto  naturale,  Napoli,  1776);  il  Pini,  autore  della  Proto- 
logia analysim  scientiae  sistens  ratione  prima  exibitam  (Mediolani,  apud 
lustum  Ferrarium  et  Soc,  1803),  ammirata  dal  Rosmini;  il  De  Horatiis, 
il  Mastrofini  ed  altri.  Vedi  Ferri,  Essai  citato,  pag.  8;  Poli,  Op.  cit., 
Voi.  IV,  §§  367  e  376;  F.  Cicchitti-Suriani,  /  primordi  del  Kantismo 
in  Italia,  Parte  I  (L' antikantismo),  Roma,  Tipografia  delle  Terme  Dio- 
cleziane,  1892,  pag.  13-15.  Va  anche  ricordato  Q.  Batt.  Giovio  (1748-1814), 
che  scrisse  contro  la  filosofia  in  voga  un  Saggio  sopra  la  religione 
(Milano,  Galeazzo,  1774),  le  Lettere  contro  il  filosofismo  ateo  (in  No- 
velle politico-letterarie  di  Mantova,  N.  21)  e  Operette  ed  epiloghi  in- 
teressanti la  religione  ed  il  cuore  (Como  e  Milano,  1793,  1796  e  1799). 
Per  il  Giovio  vedi  Biografia  del  De  Tipaldo,  Voi.  II. 

Contro  l'Helvétius  scrisse  G.  Batt.  Almici  (1717-1793)  nelle  sue  Osser- 
vazioni sopra  il  libro  del  sig.  Elvezia  intitolato  lo  Spirito  (Brescia, 
Bossini,  1766).  Vedi  Biografia  del  De  Tipaldo,  Voi.  I,  articolo  Almici. 


—  32  — 

del  Lomonaco  stesso  (1);  le  Lezioni  di  analisi  delle  idee  (Milano, 

1807)  e  i  Discorsi  filosofici  (1806)  del  prof.  Idelfonso  Valdastri, 
che  considerò  come  criterio  del  vero  il  senso  intimo,  e,  limitando 
la  filosofia  all'  analisi  delle  idee,  esaminò  le  facoltà  dell'  anima  e 
specialmente  quella  di  sentire,  dalla  quale  fece  derivare  tutte  le 
altre,  come  anche  tutte  le  idee;  i  Piaceri  dello  spirito  o  sia  analisi 
dei  principi  del  gusto  e  della  morale  (Bassano,  Remondini,  1790) 
di  G.  Batt.  Corniani  (1742-1813),  che  dedusse  i  principi  del  gusto 
dall'  analisi  dei  sensi,  e  mostrò  la  natura  affine  del  bello  e  del 
bene;  il  Del  Bello  ■  Ragionamenti  (Firenze,  Molini,  1808)  di  Leo- 
poldo Cicognara  (1767-1834),  che  applicò  all'estetica  i  principi  del 
sensismo  (2);  il  Saggio  sulla  filosofia  delle  lingue  applicato  alla 
lingua   italiana   (Padova,    1785)    di   Melchiorre    Cesarotti   (1730- 

1808)  (3).  Ricorderemo  ancora  il  cappuccino  Lodovico  Gemelli 
(1757-1833),  studioso  delle  opere  di  Condillac,  di  Diderot,  di 
D' Alembert  e  di  tuffi  i  filosofi  oltremontani,  il  quale  pubblicò 
dei  Saggi  di  filosofia  morale  diretti  alla  gioventù  (Napoli,  1801) 
e  degli  Elementi  di  storia  filosofica  (Napoli,  1793);  Giuseppe  Piazzi 
(1746-1826),  astronomo  e  matematico,  cultore  anche  di  studi  filo- 
sofici, il  quale  sostituì,  insegnando  all'Accademia  di  Palermo,  ai 
vecchi  libri  vuoti  d' idee,  il  Locke  e  il  Condillac,  e  lasciò  inedite 
delle  Istituzioni  di  logica  e  metafisica  (4);  Cristoforo  Sarti,   pro- 


(1)  Sul  Lomonaco  vedi  Natali,  Op.  r/Y.,  pag.  337  e  seg.  (Francesco 
Lomonaco  e  il  nazionalismo  nelV  età  napoleonica). 

(2)  Il  Cicognara  stabilì  la  solita  distinzione  fra  bello  naturale  e  bello 
artificiale,  riponendo  quest'ultimo  o  nel  ritrarre  fedelmente  gli  oggetti 
della  natura  o  nel  riunire  le  loro  parti  più  perfette,  formandone  un 
modello  ideale  (nel  qual  caso  il  bello  si  dice  propriamente  ideale). 
Quanto  poi  all'origine  e  alla  causa  psicologica  del  bello,  la  ripose  nelle 
<  impressioni  empiriche  del  sensorio  prodotte  da  una  forza  violenta 
che  in  noi  desta  il  sentimento  del  bello  e  del  sublime  >,  dichiarando 
impenetrabile  e  misteriosa  la  sensazione  di  piacere  estetico.  Vedi  Poli, 
Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  779-780;  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  X,  pag.  35-52. 
Il  Cicognara  è  autore  anche  d'una  Storia  della  scultura  dal  suo  ri- 
sorgimento in  Italia  fino  al  secolo  di  Canova  (Volumi  VII,  2»  Ed., 
Prato,  Giachetti,  1823)  e  di  molti  articoli  su  opere  d'arte. 

(3)  Cfr.  per  tutti  questi  filosofi  Poli,  Op.  cit.,  Voi.  IV,  §  368. 

(4)  Per  il  Gemelli  e  il  Piazzi  vedi  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  I,  ar- 
ticoli rispettivi. 


-  33  - 

fessore  all'  Università  di  Pisa,  che  rivelò  nelle  sue  opere  un  certo 
acume  critico  e  un  certo  spirito  d' indipendenza  pur  di  fronte  alle 
teorie  di  Locke  e  di  Condillac  (Christophori  Sarti  in  Academia 
Pisana  philosophiae  rationalis  artis  criticae  ac  metaphysicae  pubi, 
prof.  Dialecticamm  institutiomim  libri  duo,  V  edz.  Pisis,  apud  fratres 
Pizzornos,  1777,  2*  edz.  Lucae,  Bonsignori,  1787;  Psycliologiae 
specimen,  V  edz.  Pisis,  1779,  2"  Lucae,  1791;  Specimen  theologiae 
naturalis,  V  edz.  Pisis,  1780,  2*  Lucae,  1791)  (1),  e  si  occupò  in 


(1)  La  più   importante   di  queste   opere  è  la  psicologia,  con   cui  il 
Sarti  intende  divulgare  e  chiarire  la  filosofia  condiliachiana,  quantunque, 
come  s' è  detto,  non  segua  ciecamente  il  filosofo  francese.  È  divisa  in 
tre  libri.  11  primo  di  questi  tratta  delle  sensazioni  in  generale,  e  mostra 
come  sia  loro  presupposto  l'unione  e  l'azione  reciproca  dell'anima  e 
del  corpo:  unione  e  azione  che  è  un  fatto  certissimo,  quantunque  mi- 
sterioso. Gli    elementi   sensoriali   che    appartengono  al  corpo   sono  lo 
stimolo  dell'oggetto  sensibile  e  la  modificazione  dell'organo  senziente; 
gli  elementi  che  appartengono  all'anima  sono  o  elementi  d'intelligenza 
o  elementi  d'appetizione  e  di  desiderio.  I  primi  risultano  dalle  attività  in- 
telligenti, dalle  idee,  prodotti  di  queste  attività,  e  dai  segni,  per  mezzo 
di  cui  sempre  più  si  sviluppano  le  forze   intelligenti  e  si  moltiplicano 
le  idee.  I  secondi  poi  dipendono  dalla  natura  conosciuta  del  bene  e  del 
male  e  dal  sentimento  destato  di   piacere  e  di  dolore,  e  quindi   dagli 
effetti  che  ne   nascono.    Notevole  è  la  parte   dell'opera   riguardante  i 
sentimenti,  i  desideri  e  le  passioni.  11  secondo  libro  tratta  delle  sensa- 
zioni in  particolare,  e  ne  distingue  tre  specie.  La  prima  comprende  le 
sensazioni  che  danno    alla    mente   solo  conoscenza    delle   sue   proprie 
idee,  ossia  le  nozioni  soggettive:  tali  sono  le  sensazioni  visive,  uditive, 
olfattive  e  gustative;  la   seconda    comprende    le   sensazioni    tattili,  che 
fanno  passare  la  mente  dalla  conoscenza  di  se  stessa  a  quella  dei  corpi 
esterni;  la  terza  abbraccia  le  sensazioni  per  mezzo  di  cui  la  mente  dalla 
conoscenza  del  fisico  e  del  sensibile  si  solleva  a  quella  del   metafisico 
e  del  morale:  di  tal  genere  sono  specialmente  le  sensazioni  dell'udito, 
giacche  per  mezzo  delle  parole  noi,  contrassegnando  le  idee,  possiamo 
analizzarle  meglio  e  progredire  così   nelle  scienze.  11  Sarti  si  ferma  a 
lungo  a  parlare  del  tatto,  sostenendo  la  tesi  del  Condillac  che  il  tatto 
sia  un  senso    privilegiato,  che   corregge   gli   altri  e  ci  fa  conoscere  lo 
spazio;  egli  anzi  dissipa  con  molto  acume  le  obiezioni  mosse  contro  la 
teoria  del  filosofo  francese  dal  filosofo  svizzero-tedesco  Giovanni  Ber- 
nardo iVlerian  (1723-1812),  il  quale  dal  174Q  al  1804  scrisse  vari  articoli,  in 
Mémoires  dell'Accademia  di  Berlino,  specie  Sur  le  problème  de  Molyneux 


—  34  — 

particolar  modo  del  problema  del  Molyneux  sostenendo  la  tesi 
del  Tratte  des  sensations  del  Condillac  in  L'ottica  della  natura  e 
dell'educazione  indirizzata  a  risolvere  il  famoso  problema  del  Mo- 
lyneux (Lucca,  Bonsignori,  1792)  e  in  un'Appendice  all' ottica  della 
natura  e  dell'educazione,  o  sia  Risposta  alle  censure  di  un  profes- 
sore anonimo  (Lucca,  Bonsignori,  1792)  (1). 

Sono  infine  importanti  due  pensatori,  che,  quantunque  non  si 
possano  dire  condillachiani  veri  e  propri,  seguirono  il  movimento 
ideologico  del  tempo,  e  scrissero  opere  prettamente  empiriche: 
voglio  dire  Marcantonio  Vogli,  barnabita,  e  Ubaldo  Cassina. 
Quegli,  professore  d' etica  prima  a  Palermo,  all'  Università  di 
Bologna  poi,  e  rettore  del  Collegio  civico  di  S.  Luigi  in  questa 
città,  scrisse  Della  natura  del  piacere  e  del  dolore  (Livorno,  1772), 
operetta  comprendente  tre  lettere  (dedicate  al  Granduca  di  To- 
scana Pietro  Leopoldo),  nelle  quali,  fondandosi  sempre  sui  fatti, 
egli  cercò  di  determinare  le  leggi  che  regolano  i  sentimenti  di 
piacere  e  di  dolore  (2);  pubblicò  anche  le  Istituzioni  di  filosofia 


(1770-1779).  Il  terzo  libro  tratta  delle  conseguenze  più  notevoli  che  ri- 
sultano dalle  sensazioni  e  dai  loro  caratteri;  si  occupa  quindi  della  spi- 
ritualità e  immortalità  dell'anima,  della  libertà  etc.  In  quest'opera  (pag.  19 
della  2»  edz.)  pone  fra  i  condillachiani,  oltre  il  Beccaria  e  il  Verri,  anche 
il  Soave  e  il  Testa;  e  cita  la  traduzione  soaviana  del  Compendio  del 
Saggio  del  Locke  (pag.  140-141). 

Nella  Logica  o  Dialettica  si  occupa  dell'analisi  e  della  sintesi.  Ri- 
conosce che  nel  ragionamento  sintetico  si  parte  dagli  assiomi;  ma  questi 
secondo  lui  s'ottengono  mediante  l'astrazione;  perciò  non  si  possono 
dire  innati  (pag.  84  della  2»  edz.).  Le  idee  astratte  si  derivano  dalle 
concrete,  perciò  presuppongono  la  conoscenza  dei  sensibili;  quindi  è 
falsa  l'opinione  secondo  cui  gli  assiomi  sono  il  fondamento  delle  altre 
verità.  Nella  Teologia  sostiene  il  teism.o,  combattendo  specialmente  il 
barone  d'Holbacli. 

(1)  Vedi  Giornale  de'  leti.,  Tomo  LXXXVI,  Pisa,  1792,  pag.  88-104, 
e  Tomo  LXXXVIII,  1792,  pag.  106-124. 

(2)  Nella  prima  lettera  esamina  il  piacere,  e  ricava  dall'esperienza 
tre  teoremi:  1"  il  piacere,  quando  viene  dopo  il  dolore,  appare  più 
grande,  perchè  il  dolore  si  volge  in  piacere,  e,  così  cambiato,  rende  il 
piacere  maggiore  (perciò  il  bere  dopo  la  sete,  il  mangiare  dopo  la  fame, 
il  riposare  dopo  la  stanchezza  sono  graditissimi);  2°  il  piacere,  venendo 
dopo  un  piacere  più  grande,  appare  piccolo  e  scarso  più  di  quello  che 


—  35  — 

morale  (Bassano,  Remondini,  1789),  nelle  quali  considerò  l'uomo 
della  natura  prima  che  fosse  entrato  in  società,  e  trovò  che  egli 
ha  il  diritto  naturale  di  conservarsi;  onde  riguardò  come  principio 
della  morale  il  diritto  di  conservazione,  dal  quale  tuttavia  non  ri- 
cavò l'egoismo,  che  tutti  han  diritto  di  difendersi  e  di  conservarsi, 
perciò  ciascuno  deve  rispettare  i  diritti  degli  altri  e  non  offenderli; 
quindi  la  verità  del   cristianesimo  e   della   morale  altruistica. 

Ubaldo  Cassina,  professore  di  filosofia  morale  all'  Università 
di  Parma,  scrisse:  Saggio  analitico  sulla  compassione  (Parma,  Stam- 
peria reale,  1772)  (1),  opera  senza  dubbio  notevole  (2),  De  morali 


sia,  perchè  V  eccesso  di  quel  che  era  prima  diventa  dolore,  ed  elide, 
così,  alcuni  gradi  di  esso,  onde  impicciolisce;  3"  il  piacere,  venendo  dopo 
un  piacere  più  piccolo,  rimane  così  com'è.  Nella  seconda  lettera  sta- 
bilisce un  altro  teorema:  che  cioè  i  piaceri  sono  in  certo  modo  for- 
mati tutti  di  una  stessa  sostanza;  la  differenza  loro  sta  tutta  nel  più  e 
nel  meno;  e,  se  essi  ci  appaiono  diversi,  ciò  dipende  dalle  diverse  vie 
per  cui  corrono  all'  animo.  Si  occupa  poi  del  dolore,  e  sempre  dal- 
l'esame  dei  fatti  deriva  altri  tre  teoremi:  1"  il  dolore,  quando  viene 
dopo  un  piacere,  si  fa  più  grande,  perchè  il  piacere  si  cambia  in  do- 
lore, e,  unito  così  ad  esso,  lo  fa  sembrare  maggiore;  2o  il  dolore,  quando 
viene  dopo  un  dolore  più  grande,  diminuisce,  poiché  l'eccesso  di  quello 
più  grande,  rivolto  in  piacere,  cancella  e  toglie  alquanto  di  esso;  3"  il 
dolore,  venendo  dopo  un  dolore  più  piccolo,  rimane  così  com'  è.  Da 
questi  teoremi  ricava  de'  corollari  (per  es.  che  le  persone  più  allegre 
devono  esser  soggette  a  malinconie  più  profonde,  perchè  in  esse  il  do- 
lore è  sempre  consecutivo  al  piacere).  Molte  altre  questioni  s'intrec- 
ciano con  quelle  a  cui  abbiamo  accennate.  L'autore  ritiene  che  la  na- 
tura abbia  stabilito  in  ogni  uomo  una  specie  di  equilibrio  tra  la  somma 
di  tutti  i  piaceri  e  quella  di  tutti  i  dolori,  il  quale  non  possa  esser  tur- 
bato se  non  dalla  morte.  Nel  Giornale  de'  letterati  (Pisa,  1774,  Tomo  Xlll, 
pag,  222)  è  attribuito  al  Vogli  il  merito  d'aver  incitato  il  Verri  a  rical- 
care (nel  suo  Discorso  siili'  indole  del  piacere  e  del  dolore)  «  le  orme 
medesime  e  a  proseguire  con  somma  gloria  il  già  intrapreso  cammino  ». 

(1)  Quest'opera  è  citata  e  in  parte  criticata  dal  Gioia  {Ideologia, 
Voi.  Il,  Parte  II,  Gap.  IX,  §  2).  Fu  tradotta  in  tedesco  dal  Pockels  (1790) 
e  letta  e  criticata  dallo  Schopenhauer  {Le  fondement  de  la  morale, 
Trad.  Bastian,  Paris,  Flammarion,  pag.  229).  Vedi  anche  Giornale  de' 
lett.,  Pisa,  1772,  Tomo  Vili,  pag.  116-153. 

(2)  Nella   prefazione    mostra    che  la  fisica  e  la  morale   sono   somi- 
[glianti,  perciò  vuole  che  in  questa,  come  in  quella,  si  abbandonino  le 


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disciplina  humanae  societatis  libri  duo  (Parmae,  ex  Typographia 


astrazioni  e  i  sistemi,  e  si  studii  la  natura  umana  ne'  suoi  fenomeni. 
Han  dato  motivo  alle  sue  meditazioni,  com'egli  stesso  scrive,  Rousseau 
(di  cui  segue  nel  Capitolo  I  della  Parte  li  la  dottrina  del  contratto 
sociale)  con  V Emilio  e  Bònnet  col  Saggio  analitico.  Si  noti  pure 
che  nella  spiegazione  dell'  istinto  (Parte  1,  Capitolo  IV)  segue  il  Con- 
dillac.  L'opera  è  divisa  in  due  parti:  nella  prima  si  discorre  della  na- 
tura della  compassione;  nell'altra  si  va  investigando  l'efficacia  eser- 
citata da  questa  sul  vivere  sociale.  La  compassione  è  per  il  Cassina  un 
fenomeno  essenzialmente  sociale,  poiché  implica  1'  esistenza  dei  nostri 
simili,  dei  cui  mali  noi  ci  affliggiamo  (quindi  impropriamente  si  dice 
compatir  sé  medesimo).  I  mali  di  cui  ci  rende  sensibili  la  compassione 
sono  di  due  specie:  reali  e  immaginari  {d'  imitazione).  11  Cassina  parla 
prima  di  quelli  reali.  Non  può  provare  compassione,  egli  dice,  chi  non 
abbia  sperimentato  mai  sensazioni  dolorose.  Se  invece  noi  le  abbiam 
provate,  le  conserviamo  nella  memoria;  e,  se  vedremo  qualche  infelice 
in  uno  stato  simile  a  quello  nostro  passato,  assoderemo  nella  mente 
due  sensazioni,  quella  che  abbiamo  già  provata  e  che  ci  torna  ora  in 
mente,  e  quella  che  proviamo  alla  vista  dell'infelicità  altrui.  Allora 
r  idea  delle  nostre  sventure  passate  ci  turba  e  affligge;  e  questo  dolore, 
senza  che  ce  n'accorgiamo,  si  trasferisce  nell'individuo  che  soffre,  si 
identifica  con  lui;  e  perciò  ci  sembra  di  patire  in  lui,  non  già  in  noi 
medesimi.  Quindi  cerchiamo  di  sollevarlo,  e  pare  che  in  quest'atto 
nulla  pensiamo  al  sollievo  di  noi  medesimi,  mentre  in  fondo  tale  pre- 
mura di  aiutarlo  non  è  altro  che  una  premura  di  liberar  noi  dallo  stato 
doloroso  in  cui  siamo.  Dal  che  segue  che  la  compassione  è  un  modo 
di  essere  dell'amor  proprio  (Parte  I,  Cap.  I).  Spiegata  così  la  compas- 
sione dei  mali  reali,  il  Cassina  passa  a  quella  dei  mali  d' imitazione, 
ossia  dei  mali  imitati  dagli  attori  a  teatro  e  dall'arte  in  genere;  e  so- 
stiene che  noi  qui  prendiamo  come  realtà  ciò  che  invece  è  imitazione 
di  questa,  e,  allora,  naturalmente,  accade  quel  che  nei  mali  reali  (tra- 
sferiamo il  nostro  dolore  negli  attori,  e  c'identifichiamo  con  essi).  Nella 
Parte  II  mostra  come  la  compassione  abbia  efficacia  sui  doveri  sociali 
e  sulle  virtù  pubbliche.  I  doveri  dell'uomo  consistono  nell' astenersi 
dalle  azioni  che  recano  dispiacere  agli  altri;  ora,  se  intendiamo  di  com- 
piere atti  che  cagionino  affanno  al  prossimo,  corriamo  subito  col  pen- 
siero agli  effetti  dolorosi  che  quegli  atti  produrrebbero  nella  sensibilità 
altrui;  allora  si  compie  l'associazfone  d' idee  indicata;  sentiamo  l'impres- 
sione dolorosa  altrui  come  se  fosse  in  noi;  e  perciò  ci  asteniamo  da 
azioni  dolorose  agli  altri.  Per  motivi  analoghi  la  compassione  ha  effi- 
cacia sulla  virtù  (abito  di  compiere  azioni  utili  alla  società). 


—  37  ^ 

regia,  1778),  in  cui  fondò  l'etica  sulla  ricerca  della  felicità  (1),  e  Con- 
getture sui  sogni  (Parma,  1783),  in  cui  sostenne  che  i  sogni  non  sono 
capricci  passeggeri  e  vani  della  nostra  immaginazione,  ma  possono 
essere  un  mezzo  per  comprendere  e  interpretar  meglio  ili  nostro 
carattere,  che  è  un  prodotto  abituale  delle  idee  e  dei  sentimenti. 
Neppure  i  grandi  poeti  rimasero  estranei  al  movimento  ideo- 
logico. L'  Alfieri  si  educò  da  sé  sugli  enciclopedisti.   Di  Voltaire 

10  allettavano  singolarmente  le  prose;  lesse  Montesquieu  di  capo 
in  fondo  ben  due  volte,  con  diletto  e  fors' anche  con  qualche  suo 
utile.  Invece  il  libro  dell' Heivétius  De  l'esprit  g\\  produsse  «  una 
profonda  ma  sgradevole  impressione  »  (2).  Nomina  Locke,  insieme 
con  Machiavelli,  con  Bayle  e  Rousseau,  «  fra  i  moderni  che  hanno 
veramente  illuminato  il  mondo,  sviscerando  le  facoltà  e  i  diritti 
dell'  uomo  »  {Del  principe  e  delle  lettere,  Libro  II,  Gap.  4);  e  alla 
filosofia  lockiana  e  condillachiana  è  inspirato  il  sonetto  sull'anima 
{Opere,  XI,  pag.  187),  in  cui  si  leggono  i  seguenti  versi:  «  Veder, 
toccar,  udir,  gustar,  sentire:  —  tanto,  e  non  più,  ne  die  Natura 
avara;  —  indi  campo  vi  aggiunse  ampio  al  fallire  »  (3). 

Più  profonda  è  la  simpatia  del  Parini  per  la  cultura  francese. 

11  Giorno,  insieme  coi  dialogo  Della  nobiltà,  non  è  che  una  satira 
amara  dell'antico  regime  crollante.  Egli  salutò  la  Rivoluzione  nel- 
l'ode La  gratitudine  (versi  255-256),  quantunque  più  tardi  (nell'ode 
A  Silvia)  riprovasse  «  gli  eccessi  del  secolo  spietato  ».  Si  noti 
pure  che  forse  da  uno  scritto  di  Pietro  Verri,  da  noi  sopra  ricor- 
dato, egli  trasse  ispirazione  per  la  sua  ode  su  L'innesto  del  vaiolo, 
e  per  l'ode  L' impostura  dal  Tempio  dell'  ignoranza  del  Verri  stesso 
(nel  Caffè,  giugno,  1764)  (4).  Nel  Mezzogiorno  vicovdsi  i  novi  sofi 


II  P.  Innocente  Ansaldi  (per  il  quale  vedi  Poli,  Op.  cit.,  Voi.  IV, 
pag.  656-657)  criticò  il  Saggio  del  Cassina,  che  rispose  con  alcune  Let- 
tere (Pesaro,  1779). 

È  noto  che  ai  giorni  nostri  il  fenomeno  di  sentir  sé  in  altri  è  stato 
dal  Lipps  detto  Einfuhlung  e  considerato  come  il  fondamento  dell'al- 
truismo, mentre  il  Cassina  vi  trova  dell'  egoismo.  Vedi  LiPPS,  Die  ethi- 
schen  Gnindfragen,  Hamb.  und  Leipzig,  1905. 

(1)  Vedi  Giornale  de'  leti.,  Pisa,  1779,  Tomo  XXXV,  pag.  73-91. 

(2)  Alfieri,  Vita,  Milano,  Sonzogno,  1887,  pag.  96. 

(3)  Natali,  Idee  costumi  etc,  pag.  93. 

(4)  Vedi  Mestica,  Compendio  storico  della  leti.,  ital.,  III,  pag.  194-198; 


—  38  — 

che  la  Gallia  e  l'Alpe  —  ammirando  (1)  persegue,  dei  quali  nomina 
Voltaire,  morbido  Aristippo  del  secol  nostro,  e  Rousseau,  novo  Dio- 
gene dell'auro  sprezzatore  e  della  opinione  dei  mortali;  e  dichiara 
d' esser  d' accordo  con  loro  nella  lotta  per  l' eguaglianza  degli 
uomini,  ma  di  staccarsene  nell'  irreligiosità  (versi  941-1020).  Spe- 
cialmente con  Voltaire  il  Parini  ha  una  certa  affinità  intellettuale: 
come  ha  osservato  il  Natali,  entrambi  sono  studiosi  dei  bisogni 
e  delle  piaghe  della  società;  il  Tempio  dell'  Impostura,  nell'  ode 
citata  del  Parini,  ricorda  il  Tempio  della  Sciocchezza  della  Pul- 
cella  (III,  35);  1'  orrore  per  l' inquisizione  domenicana  è  comune 
a  Voltaire  (vv.  24-8)  e  all'  autore  ditWAuto  da  fé;  V  estetica  pari- 
niana  è  1'  estetica  di  Voltaire,  Inoltre  egli,  al  pari  di  Rousseau, 
nel  frammento  A  gentil  donna,  scioglie  un  inno  alla  Natura,  che 
chiama  madre  amante  dei  mortali  {L' innesto  del  vaiolo,  v.  132); 
perciò  consiglia  gli  uomini  a  vivere  sotto  a  le  leggi  sante  —  de 
la  natura  in  suo  voler  costante  {La  tempesta,  vv.  109-10).  Infine, 
quantunque  nei  versi  227-37  del  Mattino  derida  la  psicologia  dei 
senslsti  fondata  sulla  fisiologia,  pure  più  tardi  (come  ci  fa  sapere 
il  Salveraglio)  li  cancellerà  (2),  e,  nei  Principi  di  belle  lettere,  s'ac- 
costa al  Condillac  e  agli  altri  ideologi  francesi  quando  scrive: 
«  L'  uomo  cerca  perpetuamente  la  felicità,  e  questa  non  consiste 
in  altro  che  nelle  sensazioni  piacevoli  »  (3). 

Dopo  questa  preparazione  è  facile  immaginare  quale  acco- 
glienza trovassero  i  Francesi  in  Italia,  specie  in  Lombardia,  tanto 
più  che  ivi  durante  l'impero  di  Leopoldo  I!  erano  state  soppresse 
le  riforme  di  Giuseppe  II,  e  poi,  sotto  Francesco  II,  1'  erario  era 
stato  smunto.  Agli  ultimi  d'aprile  e  ai  primi  di  maggio  del  1796 
cominciarono  le  inquietudini  dei  governanti  di  Milano;  si  ordi- 
narono preghiere  pubbliche,  si  portarono  in  giro  le  reliquie.  II 
7  maggio,  due  giorni  prima  d'andarsene,  gli  Austriaci  armavano 


Parini,  Le  odi,  il  Giorno  e  altre  poesie  minori  annotate  da  G.  Maz- 
zoni, 3»  edz.,  Firenze,  Barbera,  1903,  pag.  19;  Verri,  Opere  citate.  Voi.  I, 
pag.  287-291. 

(1)  Variante:  esecrando. 

(2)  Vedi  Parini,  Le  odi,  il  Giorno  e  altre  poesie  minori  annotate 
dal  Mazzoni,  pag.  162,  nota  al  verso  237. 

(3)  Natali,  Op.  cit.,  pag.  46,  77,  84,  87,  178. 


-^ag- 
ii paese:  il  governatore,  per  mantenere  la  tranquillità  e  l'ordine, 
chiamò  in  attività  la  milizia  urbana  dai  diciotto  ai  sessant'  anni, 
comandata  dal  duca  Galeazzo  Serbelloni  (un  cospiratore!)  e  da 
altri.  Le  mosse  di  Bonaparte  dirette  a  tagliar  la  ritirata  all'esercito 
del  Beaulieu  e  a  coglierlo  alle  spalle,  costrinsero  1'  arciduca  Fer- 
dinando ad  abbandonare  Milano  il  9  maggio.  Partì  seguito  da 
alcuni  fedeli,  tra  i  quali  il  principe  Albani  e  il  marchese  Litta, 
lasciando  una  Giunta  e,  nel  Castello,  una  guarnigione.  Se  n'andò 
senza  insulti  e  senza  rimpianti.  I  partigiani  dei  Francesi  non  pre- 
sero alcuna  iniziativa;  solo  alla  porta  del  palazzo  dell' arciduca  fu 
posto  un  fantoccio  che  lo  raffigurava,  e  poi,  fra  le  risa  e  lo  schia- 
mazzo del  volgo,  gli  fu  appiccato  fuoco  (1).  L' undici  maggio 
Carlo  Salvador  comparve  per  le  vie  con  la  coccarda  tricolore,  e 
trovò  imitatori.  A  Porta  Romana  fu  inalzato  l'albero  della  libertà; 
e  il  Circolo  dei  patriotti,  trasformato  in  Società  popolare,  fece 
tentare  1'  assalto  al  Castello.  Il  13  maggio  Massena  entrava  a  Milano; 
poi  giungeva  Bonaparte  su  di  un  cavallo  bianco,  circondato  da 
generali  e  da  ufficiali  prigionieri,  e  accolto  assai  festosamente.  I 
Francesi  s'accampavano  senza  tende,  marciavano  alquanto  in  disor- 
dine, erano  vestiti  di  colori  diversi,  e  stracciati,  privi  di  scarpe; 
alcuni  non  avevano  armi.  A  Milano  sventolò  subito  il  vessillo 
francese;  si  adottarono  le  coccarde  tricolori,  le  nuove  foggie  de! 
cappello  tondo,  i  calzoni  lunghi,  i  capelli  corti.  La  Società  popolare 
tenne  la  sua  prima  seduta  la  sera  del  17  maggio;  il  18  piantò  so- 
lennemente un  albero  della  libertà  in  piazza  del  Duomo;  vi  com- 
parvero gli  emblemi  massonici,  che  fino  allora  non  erano  stati  visti 
mai  in  pubblico:  segno  dell'adesione  a!  nuovo  ordine  d'idee  da 
parte  della  massoneria, (2).  Ai  Francesi  si  offrivano  balli,  luminarie. 


(1)  Narra  Stendhal  nella  Chartreuse  de  Parme  che  l'arciduca  fa- 
ceva commercio  di  grano,  e  impediva  ai  contadini  di  venderne  fino  a 
che  egli  non  avesse  riempiti  i  suoi  magazzini.  Nel  maggio  1796,  tre 
giorni  dopo  l'entrata  dei  Francesi,  un  giovane  pittore,  di  nome  Gros, 
venuto  con  l'esercito  liberatore,  disegnò  nel  gran  Caffè  dei  Servi,  su 
un  pezzo  di  carta,  il  grosso  arciduca;  un  soldato  francese  gli  dava  un 
colpo  di  baionetta  nel  ventre,  e,  invece  di  sangue,  ne  usciva  una  quan- 
tità incredibile  di  grano.  II  disegno  piacque  tanto,  che  fu  stampato,  e 
ne  furono  vendute  venti  mila  copie. 

(2)  TiVARONi,  Op.  cit.,  Tomo  I,  pag.  91  e  seg. 


—  40  — 

festini,  canti,  discorsi.  I  soldati  d'oltr'Alpe,  narra  Stendhal  (1), 
spettatore  oculare,  ridevano  e  cantavano  tutto  il  giorno;  essi  ave- 
vano meno  di  venticinque  anni;  il  loro  generale  in  capo,  che  ne 
aveva  ventisette,  passava  per  l'uomo  più  maturo  del  suo  esercito. 
Quest'allegria,  questa  giovinezza,  questa  spensieraggine  corri- 
spondevano in  una  maniera  buffa  alle  prediche  furibonde  dei  frati, 
che  da  sei  mesi  annunziavano  dall'alto  del  pulpito  che  i  Francesi 
erano  mostri,  obbligati,  sotto  pena  di  morte,  a  incendiar  tutto  e 
a  tagliar  la  testa  a  tutti.  Nelle  campagne  si  vedeva  sulla  porta 
delle  capanne  il  soldato  francese  intento  a  cullare  il  figliuolo  della 
padrona  di  casa,  e  quasi  ogni  sera  qualche  tamburino  improvvi- 
sava un  ballo  suonando  il  violino.  Siccome  le  controdanze  riusci- 
vano troppo  difficili  e  complicate  perchè  i  soldati,  che  del  resto 
non  le  conoscevano  punto,  potessero  insegnarle  alle  donne  del 
paese,  queste  stesse  eseguivano  dinanzi  ai  giovani  Francesi  la  mon- 
ferina,  il  saltarello  e  altre  danze  italiane. 

A  Milano  accorrevano  rivoluzionari  da  tutta  Italia:  Salfi  da 
Roma,  Gioia  da  Piacenza,  Ranza  dal  Piemonte,  Corani  dalla  Sviz- 
zera, e  altri,  che  si  univano  al  Salvador  e  al  Rasori.  Nei  giardini 
pubblici  si  stabiliva  una  società  dì  pubblica  istruzione;  tribune  si 
ergevano  alla  Rosa  e  a  S.  Sebastiano.  Innumerevoli  giornali  na- 
scevano e  si  diffondevano:  il  Termometro  politico,  il  Giornale  degli 
amici  della  libertà  ed  uguaglianza,  il  Tribuno  del  popolo,  V Amico 
del  popolo,  il  Giornale  rivoluzionario,  V Estensore  Cisalpino,  il  Foglio 
dei  fogli,  il  Giornale  senza  titolo  etc.  (2).  Presso  gli  scalini  del 
Duomo  si  aprì  la  prima  sala  di  lettura  per  giornali  a  dieci  soldi 
al  giorno  e  a  quattro  lire  al  mese  (3).  Un  soffio  di  caldo  entu- 
siasmo agitava  la  folla.  Un  cappuccino  si  taglia  la  lunga  barba  e 
r  appende  con  la  tonaca  all'  albero  della  libertà;  il  Padre  Appiani, 
sessuagenario,  professore  di  teologia,  balla  in  Duomo  la  Carma- 
gnola. Nel  Circolo  della  Rosa  una  donna  offre,  tra  gli  applausi 
scroscianti  dell'  assemblea,  la  sua  mano  a  chi  le  porterà  la  testa 
del  papa.  I  Ciacobini  si  adunavano  nei  Circoli  costituzionali,  dove 


(1)  Chartreuse  de  Parme,  pag.  7-10. 

(2)  TiVARONi,  0/7.  cit,  Tomo  I,  pag.  101. 

(3)  F.  Momigliano,  Ugo  Foscolo  giornalista  democratico  della  Rep. 
Cisalpina  in  Secolo  XX,  1°  Maggio  1818. 


—  41  — 

professavano  il  teofilantropismo,  la  credenza  cioè  in  un  Essere  su- 
premo, onnipossente  e  buonissimo,  il  cui  culto,  consistente  in 
semplici  lodi,  era  insegnato  nel  Manuale  dei  Teofilantropi  (1798). 
Nel  Circolo  costituzionale  di  Milano  (1797-98)  Giovanni  Fantoni 
lesse  un  discorso  sulla  morale  e  sul  culto  dei  Teofilantropi,  e 
recitò  un  inno  2i\V Essere  Supremo,  imitazione  d' un  altro  di  G,  M. 
Chénier.  Al  Circolo  erano  ammessi  anche  i  ragazzi;  e  la  sera  del- 
l' otto  gennaio  una  fanciulla  di  sette  anni  salì  sulla  tribuna  per 
invitare  i  patriotti  «  ad  affrettarsi  a  distruggere  in  Roma  la  sede 
dell'  ipocrisia  e  della  superstizione  ».  Il  16  febbraio  Giuseppe 
Giulio  Ceroni,  valoroso  commilitone  del  Foscolo,  recitava  un 
sonetto  Sulla  caduta  di  Roma,  in  cui  si  rallegrava  della  soppres- 
sione dell'  «  infame  lupa  tiberina  ».  Alla  Scala  per  nove  sere  di 
seguito,  dal  21  febbraio  1797  in  poi,  si  rappresentò  un  balio  di 
Francesco  Salfi,  intitolato  «  Il  general  Colli  in  Roma  »,  nel  quale 
il  generale  dei  Domenicani,  pregando  il  papa  di  rinunciare  al 
potere  temporale,  gli  teglie  di  capo  il  triregno,  sostituendovi  il 
berretto  frigio,  e  in  fine  il  papa  stesso  balla  il  cancan  col  generale. 

Fatti  simili  accadevano  altrove.  Da  per  tutto,  nella  penisola,  sì 
piantava  1'  albero  della  libertà,  intorno  a  cui  si  danzava  chiasso- 
samente al  ritmo  del  ritornello:  «  Ecco  l'arbor  trionfale  —  acni 
scritto  intorno  sta  —  in  carattere  immortale  —  eguaglianza  e  li- 
bertà ».  A  Venezia  fu  vista  una  signora  ballare  con  un  frate,  e, 
dopo  una  caduta,  rialzarsi  e  continuare  la  Carmagnola:  esempio 
di  virtti  civile  che  fu  celebrato  nel  Monitore  Veneto.  I  cittadini 
di  Reggio  Emilia  il  7  gennaio  1797,  su  proposta  del  Compagnoni, 
decretarono  nazionale  lo  stendardo  dei  tre  colori.  Le  statue  dei 
caduti  tirannelli  erano  mutate  in  figure  di  Libertà,  di  Bruti  etc.  Il 
17  giugno  1798  a  Foligno  fu  rappresentata  una  commedia  «  sulla 
democratizzazione  del  paradiso,  eseguita  dai  demoni,  i  quali  en- 
trano in  cielo  e  mettono  la  coccarda  al  Padre  Eterno  »  (1). 

Né  si  ebbero  solo  esplosioni  di  gioia  e  d'  entusiasmo;  ci  fu- 
rono anche  atti  d'  energia  e  d' eroismo.  Così  un  po'  più  tardi   i 


(1)  Della  Torre,  Op.  cit.,  pag.  690-692;  Fiorini,  /  Francesi  in  Italia 
in  La  vita  italiana  durante  la  rivoluzione  francese  e  V  impero  (Milano, 
Treves),  pag.  160-161;  Fiorini,  Le  origini  del  tricolore  italiano  in 
Nuova  Antologia,  16  gennaio  1897. 


—  42  - 

martiri  della  Repubblica  Partenopea  consacrarono  col  sangue  le 
loro  idee,  e  indicarono  agl'Italiani  la  via  del  sacrificio  eroico,  che 
solo  conduce  alla  libertà.  Il  terribile  vento  di  Francia  giungeva 
fino  a  noi. 

Tutto  questo  dimostra  che  effettivamente  i  Francesi  infusero 
nuove  onde  di  sangue  nell'  organismo  del  popolo  italiano,  e  lo 
destarono  a  più  intensa  e  più  libera  vita,  sebbene,  come  s'è  detto, 
trovassero  preparato  il  terreno. 

Noi  studieremo  le  figure  più  notevoli  fra  gì'  ideologi  italiani, 
considerando  prima  quelli  del  settentrione  della  penisola  e  poi 
quelli  dell'Italia  Meridionale.  Nel  centro,  quasi  anello  d'unione 
fra  i  due  estremi,  s' inalza  il  canto  triste  e  profondo  del  Leopardi: 
tragica  conclusione  della  filosofia  del  settecento. 


CAPITOLO  IL  —  Soave 

VITA  E  OPERE  (1).  —  Francesco  Soave  nacque  il  10  giugno 
1743  a  Lugano,  da  Carlo  Giuseppe  e  da  Teresa  Herrick.  Suo  padre 
era  povero,  e,  per  di  più,  aveva  sei  figliuoli;  tuttavia  cercò  d' i- 
struirli  tutti  e  di  dar  loro  una  professione.  Erano  allora  insegnanti 
nelle  scuole  pubbliche  di  Lugano  i  padri  Somaschi,  l'ordine  dei 
quali,  istituito  durante  la  Controriforma  (1541),  s'era  dedicato  spe- 
cialmente all'  educazione  degli  orfani  e  dei  giovanetti  in  genere. 
11  Soave  dimostrò  nelle  loro  scuole  (Istituto  di  S.  Antonio)  pronto 
ingegno  e  volontà  grande  di  studiare;  ma  le  strettezze  di  famiglia 
costituivano  un  serio  ostacolo  al  cammino  intrapreso.  Lo  protesse 


(1)  Notizie  sulla  vita  e  gli  studi  del  P.  D.  Francesco  Soave  in  Rac- 
colta delle  Opere  complete  di  F.  Soave  (Milano,  Baret,  1815),  Tomo  I, 
pag.  XIII-XXXIV;  C.  Cantù,  F.  Soave  in  Biografia  degli  Italiani  illustri 
pubbl.  dal  De  Tipaldo  (Venezia,  1834),  Voi.  I,  pag.  430-36;  A.  Avanzini, 
F.  Soave  e  la  sua  scuola,  Torino,  Paravia,  1881;  Motta  E.,  Saggio  di 
una  bibliografia  di  F.  Soave  in  Bollettino  storico  della  Svizzera  ita- 
liana, anno  VI  e  VII  (1884-85),  Bellinzona,  Colombi;  L.  Fontana,  F. 
Soave,  Pavia,  Ponzio,  1907;  V.  LoziTO,  F.  Soave  e  il  sensismo  in  Ri- 
vista rosminiana  (anno  VI,  num.  2,  3-4,  5-6,  7-8,  9-10,  e  anno  VII,  n.  2, 
3-4,  5-6,  7-8);  Q.  Natali,  //  maestro  di  A.  Manzoni  in  Idee  costumi  eie, 
pag.  295  e  seg.  Cfr.  V.  Cuoco,  Scritti  pedagogici  inediti  o  rari,  Roma- 
Milano,  Albrighi-Segati,  1909,  pag.  44-47. 


I 


-^  43  — 

allora  Gian  Pietro  Riva,  letterato  e  poeta  somasco  (in  Arcadia  Ro- 
mano Lapiteio),  il  quale,  compreso  il  valore  dell'  adolescente,  lo 
indusse  ad  entrare  nella  congregazione  sua.  Egli  infatti  v'entrò  il 
4  settembre  1759,  ben  lieto  di  poter  appagare  le  sue  nobili  aspi- 
razioni. Compì  r  anno  di  noviziato  a  Milano,  nel  Convento  di 
S.  Pietro  in  Monforte;  poi  pronunciò  i  voti  solenni;  e  di  là  passò 
a  Pavia,  nella  casa  di  S.  Maiolo,  dove  studiò  filosofia  scolastica; 
fu  quindi  (1761)  mandato  dai  superiori,  come  prefetto  di  camerata, 
a  Roma  nel  Collegio  dementino,  in  cui  compì  i  suoi  studi,  oc- 
cupandosi specialmente  di  teologia.  Si  diede  allora  ad  esercitarsi 
specialmente  nelle  traduzioni  dei  classici  greci  e  latini,  e  ben  presto, 
nel  1765,  pubblicò,  volte  da  lui  in  italiano,  la  Bucolica  e  la  Geor- 
gica  di  Virgilio  (1),  che  furono  molto  lodate.  In  tal  modo  co- 
minciò a  rendersi  noto  ai  letterati.  Mentre  era  così  immerso 
negli  studi,  fu  mandato  a  Milano  a  istruirvi  nelle  belle  lettere 
i  novizi  della  sua  congregazione.  Ma  non  era  ancor  passato  un 
anno,  che  fu  chiamato  a  Parma.  Come  sappiamo,  fiorivano  al- 
lora in  questa  città  le  scienze  e  le  arti  per  opera  del  Du  Tillot. 
Vi  si  fondava  una  Paggeria  o  collegio  di  nobili,  del  quale 
era  direttore  il  padre  somasco  Venini,  matematico  di  grido;  questi 
lo  invitò  ad  essere  degl'  insegnanti;  ed  il  Soave  accettò.  Ben  presto, 
a  causa  della  cacciata  dei  Gesuiti  (1767)  da  tutti  gli  Stati  borbonici, 
vennero  a  mancare  nell'Università  di  Parma  parecchi  professori; 
allora  il  Soave,  insieme  col  Venini,  fu  dal  Du  Tillot  destinato  a 
quell'Università,  e  v'insegnò  eloquenza  poetica  (1767).  Per  faci- 
litare ai  giovani  l'acquisto  del  sapere,  compose  una  Grammatica 
ragionata  della  lingua  italiana  (2),  adottando  primo  in  Italia  i 
principi  del  Lancelot  e  del  Dumarsais  (3),  e  un'Antologia  latina  (4). 
Per  consiglio  del  Venini  cominciò  ad  occuparsi  anche  dell'analisi 


(1)  Roma,  Bizzarini-Komark,  1765.  Vedi  anche  Opere  complete  (Edz. 
cit.),  Tomo  IV.  Vi  premise  un  poemetto  dedicato  al  marchese  Filippo 
Ercolani  sul  metodo  di  far  traduzioni,  e  vi  aggiunse,  volto  in  italiano, 
un  sermone  di  S.  Basilio  sul  vantaggio  che  si  può  trarre  dalle  opere 
degli  autori  gentili.  (2)  Parma,  Paure,  1771. 

(3)  Il  m.erito  principale  dell'opera  è  di  fondare  la  grammatica  sulle 
leggi  del  pensiero,  seguendo  un  metodo  razionale  (il  che  sarà  poi  il 
merito  fondamentale  della  Grammaire  del  Tracy).  Il  libro  ebbe  moltis- 
sime ristampe.  (4)  Parma,  Paure,  1771. 


—  44  — 

dell'  intelletto,  chiamata  allora  metafisica.  Era  stato  a  Parma  fino 
al  marzo  del  '67  il  Condillac,  esercitando  grande  efficacia  su 
tutta  la  Corte  e  su  molti  Italiani.  Anche  il  Soave  orientò  il  suo 
pensiero  verso  la  filosofia  di  lui  (1);  e  ben  presto  ebbe  occasione 
d'esporre  le  sue  idee.  Giacché  l'Accademia  di  Berlino  aveva  messo 
a  concorso  la  questione  «  se  gli  uomini  abbandonati  alle  loro  fa- 
coltà naturali  sieno  in  grado  per  se  medesimi  d' istituire  un  lin- 
guaggio, ed  in  qual  maniera  potrebbero  pervenirvi  »,  il  Soave,  ispi- 
randosi specialmente  sdVEssai  sur  l'origine  des  connaissances  ìmm. 
del  Condillac,  scrisse  sull'argomento  una  dissertazione  in  latino  (2), 
la  quale,  se  non  fu  premiata,  ebbe  però  l'onore  del  primo  accessit, 
fu  cioè  giudicata  la  migliore  dopo  quella  vincitrice  del  concorso 
(una  dissertazione  di  Herder)  (3). 

Intanto  avvenivano  mutamenti  nel  ducato  di  Parma.  La  caduta 
del  Du  Tillot  (1771)  e  l'abolizione  delle  riforme  da  lui  compiute 
nell'Università  fecero  sì  che  fossero  soppresse  le  cattedre  di  poesia 
e  d'  eloquenza.  Il  Venini  andò  via;  anche  il  Soave  nel  1772  se  ne 
partì,  per  disfavore  del  Principe.  Egli  si  recò  a  Milano;  ivi,  grazie 
alla  sua  fama,  dal  governatore  austriaco  conte  di  Firmian  ebbe, 
senza  sottoporsi  all'obbligo  del  concorso,  la  cattedra  di  filosofia 
morale  nel  Liceo  di  Brera  (4).  Essendo  poi  venuto  a  mancare  nel 


(1)  Il  Credaro  nella  Prefazione  sua  a  U  uomo  e  le  scienze  morali 
del  Gabelli  (3*  Ed.  Paravia,  1Q15),  pag.  Vili,  afferma  che  il  Soave  co- 
nobbe a  Parma  il  Condillac.  Ma  non  so  donde  abbia  tratta  la  notizia. 

(2)  Fu  tradotta  in  Italiano  dal  Soave  stesso  e  pubblicata  a  Milano 
(Montani)  il  1772.  È  negli  Opuscoli  metafisici  (Tomo  XV  delle  Opere 
complete)  coltitelo  Ricerche  intorno  all'istituzione  naturale  d'una  so- 
cietà e  d'una  lingua  e  all'  influenza  dell'  una  e  dell'altra  sulle  umane 
cognizioni.  Nel  1774  il  Soave  pubblicò  un'altra  operetta  sul  linguaggio: 
le  Riflessioni  intorno  all'  istituzione  d' una  lingua  universale  (Roma, 
Casaletti).  Vedi  anche  questa  tra  gli  Opuscoli  metaf. 

(3)  Opere  del  Soave,  Tomo  XV,  pag.  13. 

(4)  In  questo  perìodo  di  tempo  (sett.  1774),  tutto  consacrato  agli 
studi  filosofici,  tanto  da  averne  alterata  la  salute,  fu  preso  dal  desiderio 
d'uscire  dalla  Congregazione,  specialmente  perchè  la  vita  claustrale 
gì' impediva  d'attendere  ai  suoi  lavori  con  alacrità.  Tale  desiderio  è  ma- 
nifestato in  una  lettera  al  conte  di  Firmian,  che  si  conserva  nell'  Ar- 
chivio di  Stato  di  Milano.  Fatto  sta  però  che  rimase  sempre  Padre 
Somasco. 


—  45  — 

Liceo  stesso  il  professore  di  logica  e  di  metafisica,  il  Soave  fu  incari- 
cato pure  dell'insegnamento  di  tali  scienze  (1778).  Nelle  sue  lezioni 
seguiva  r  indirizzo  filosofico  del  Locke  e  degl'  ideologi;  anzi  in 
quel  periodo  di  tempo  tradusse  e  integrò  con  varie  appendici  il 
Compendio,  scritto  dal  Wynne,  del  Saggio  sull'intelletto  umano 
del  Locke  (1),  e  la  Guida  dell'  intelletto  nella  ricerca  della  verità 
del  Locke  medesimo  (2).  Poi  le  idee  e  i  principi  esposti  ai  giovani 
durante  il  suo  insegnamento  raccolse  nelle  Istituzioni  di  logica,  Me- 
tafisica ed  Etica  precedute  da  un  Compendio  della  storia  della  filo- 
sofia, uno  dei  primi  tentativi  del  genere  in  Italia  (1'  Edz.  Milano, 
Marcili,  1791;  2''  Edz.  Milano,  Marcili,  1794),  che  furono  adottate 
in  quasi  tutte  le  scuole  d' Italia,  e  vi  rimasero  per  buona  parte 
delia  prima  metà  del  secolo  passato.  Dopo  questi  lavori,  giacché 
aveva  studiate  varie  lingue  straniere  (inglese,  tedesco  etc.)  col- 
r  abate  Amoretti,  suo  collega  a  Parma  prima,  poi  a  Milano,  si 
diede,  insieme  con  1'  amico  e  con  altri,  a  pubblicare,  a  mo'  degli 
Enciclopedisti  francesi,  un'utile  Scelta  d'opuscoli  interessanti  tra- 
dotti da  varie  lingue  (1775),  che  dopo  il  1778  divenne  la  raccolta 
di  Opuscoli  scelti  sulle  scienze  e  sulle  arti  (3),  sia  originali,  sia  tra- 
dotti, in  cui  si  esponevano  agi'  Italiani,  in  modo  semplice  e  piano, 
le  più  importanti  scoperte  e  novità  nelle  scienze  e  nelle  arti  (4). 


(1)  Saggio  filosofico  di  Già.  Locke  su  V  umano  intelletto  compen- 
diato dal  Doti.  Wynne  e  commentato  da  F.  Soave  (Milano,  Motta,  1775). 
È  nei  Tomi  IX  e  X  delle  Opere  complete.  Alla  traduzione  sono  aggiunte 
undici  appendici  del  Soave  e  una  sua  Analisi  dell'umano  intelletto 
(a  princìpio  del  Libro  II). 

(2)  Nel  Tomo  X  delle  Opere.  Anche  qui  c'è  un'appendice  del  Soave. 

(3)  Trentasei  volumetti  formano  questa  raccolta,  a  cui  il  Soave  col- 
laborò fino  al  XXI  volume.  L'Amoretti  continuò  la  collezione  col  titolo 
Nuova  scelta  d'opuscoli  (1804-1807). 

(4)  Per  questa  raccolta  il  Soave  compose  non  solo  molte  traduzioni 
(specie  dal  tedesco)  e  compendi  di  lavori  altrui,  ma  anche  le  sue  Con- 
ghietture  sulla  scossa  della  torpedine,  un  Metodo  di  rinfrescarsi, 
vivC  Osservazione  ottica  (tendente  a  confermare  che  la  sensazione  della 
luce  non  proviene  dall'azione  immediata  delie  particelle  luminose,  bensì 
dal  movimento  meccanico  da  esse  esercitato  nei  nervi  ottici),  lo  scritto 
Di  un  nuovo  e  meraviglioso  sonnambulo  -  Relazione  del  P.  D.  F.  S.  (1780), 
un  Articolo  di  lettera  al  Signor  abate  Carlo  Amoretti  sulla  Aurora 


—  46  — 

Nello  stesso  tempo  limò  le  sue  traduzioni  giovanili  (1);  e  volse 
in  italiano  dal  tedesco  i  Nuovi  idilli  del  Gessner  e  la  Lettera  al 
Signor  Fuesslin  sul  dipingere  di  paesetti  del  Gessner  stesso  (Ver- 
celli, Stamperia  Patria,  1778),  e  dall'  inglese  il  poema  La  forza 
della  religione  di  Odoardo  Young  (Vercelli,  1781)  (2).  Pubblicò 
pure  alcuni  componimenti  poetici  originali  {Idilli,  Milano,  Motta, 
1780)  (3). 

In  tutta  Europa  era  vivo  allora  il  desiderio  di  riforme  specie 
nell'educazione  popolare.  V Emilio  del  Rousseau  aveva  aperto 
nuove  vie,  gettando  le  basi  del  così  detto  naturalismo  pedagogico, 
e,  sulle  orme  del  filosofo  ginevrino,  il  Basedow  aveva  fondato  in 
Germania  il  suo  Philanthropinum,  nel  quale  s'applicavano  i  nuovi 
principi  pedagogici  e  si  componevano  libri  per  giovinetti.  Il  Soave, 
che  per  la  sua  bontà  e  mitezza  simpatizzava  con  l'animo  piccolo 
e  grande  dei  fanciulli,  e  sapeva  chinarsi  dolcemente  fino  ad  essi, 
si  diede  di  cuore  a  porger  loro  i  mezzi  atti  ad  erudirli  e  ad  ele- 
varli (4).  Compose  così  una  quantità  di  operette  per  i  fanciulli  e 
i  giovani  (5).  A  scriver  le  quali  ebbe  varie  occasioni.  Il  conte 
Carlo  Bettoni,  bresciano,  avendo  osservato  che  i  fanciulli  italiani 


boreale  del  passato  luglio  (1780),  le  Riflessioni  intorno  al  nuovo  e  me- 
raviglioso sonnambulo  descritto  nella  terza  parte  di  questo  Tomo  (1780), 
un  Piano  di  studi  metafisici  (1781). 

(1)  Per  presentare  Virgilio  tutto  tradotto,  v'aggiunse  V Eneide  del 
Caro  con  note  e  critiche  osservazioni  (Milano,  Motta,  1779). 

(2)  È  nel  Tomo  III  delle  Opere. 

(3)  QV  Idilli  son  quattro:  Per  la  morte  di  una  leggiadra  cagnoletto 
(del  conte  di  Firmian,  allo  stesso  dedicato);  L' invenzione  della  birra; 
La  beneficenza;  l  voti  esauditi. 

(4)  In  Italia,  nel  campo  della  pedagogia,  avevano  scritto  opere  im- 
portanti Gaspare  Gozzi,  che,  avuto  l'incarico  dalla  Repubblica  veneta 
di  riordinare  gli  studi,  aveva  presentato  la  sua  Riforma  degli  studi,  e 
Gaetano  Filangieri,  che  nella  Scienza  della  legislazione  aveva  dedicato 
i!  Libro  IV  alle  leggi  riguardanti  l'educazione,  i  costumi  e  l'istruzione 
pubblica.  Se  si  prescinde  da  questi  tentativi,  in  Italia  regnava  il  metodo 
d'insegnamento  dei  Gesuiti:  vano,  arido,  pesante. 

(5)  Giuseppe  Curti  nei  suoi  Racconti  ticinesi  così  scrive:  «  Si  rac- 
conta che  una  volta,  essendo  il  Soave  a  Lugano  nelle  vacanze  d'autunno, 
un  signore  gli  disse:  —  Non  so  comprendere  come  voi,  essendo  lette- 


—  47  — 

non  imparavano  nulla  a  scuola,  perchè  costretti  o  dall'  autorità  o 
dal  timore  di  castighi  a  leggere  libri  non  adatti  alla  loro  capacità 
mentale,  propose  per  ben  due  volte  un  premio  di  cento  zecchini 
per  chi  avesse  scritto  venticinque  novelle  che,  a  giudizio  dell'Ac- 
cademia di  Padova  e  della  Società  patriottica  di  Milano,  potessero 
esser  lette  con  diletto  e  con  profitto  dai  fanciulli.  Vedendo  però 
che  nessuno  si  presentava,  si  dice  che  si  rivolgesse  direttamente 
al  Soave,  che  gli  era  amico;  questi  allora  scrisse  venticinque  Novelle 
morali,  che  poi  accrebbe  fino  al  numero  di  quarantuno  (1).  Com- 
pose altri  libri  elementari  per  incarico  del  governo  austriaco,  che 
aveva  già  chiamato  a  Vienna  il  Felbiger  (2)  per  riformare  la  scuola, 
e  voleva  ora  introdurre  il  metodo  e  i  regolamenti  nuovi  nel  Lom- 
bardo Veneto.  Anzi  il  Soave  si  recò  nel  Tirolo  (1786),  quale 
membro  della  «  delegazione  delle  scuole  normali  »,  per  conoscervi 
e  studiarvi  il  nuovo  metodo  d'insegnamento.  Egli  tradusse  e  cor- 
redò di  osservazioni  originali  il  regolamento  compiuto  dal  Fel- 
biger; attese  poi  anche  alla  compilazione    d'  un    Compendio   del 


rato  di  sì  alto  rango  e  filosofo,  abbiate  potuto  abbassarvi  ad  occupare 
la  mente  vostra  per  le  infime  classi  elementari  del  più  basso  popolo  ! 
—  Noi  potete  comprendere?  (rispose  il  filosofo).  Ebbene,  quando  avrete 
compreso  che  l'onore  ed  il  benessere  di  un  paese  sta  nell'educazione 
del  popolo,  allora  voi  mi  farete  molto  maggior  merito  di  quegli  umili 
lavori  elementari,  che  non  di  tutti  gli  altri  miei  lavori  di  poesia,  di  ret- 
torica  e  di  filosofia  >■>  (Avanzini,  Op.  cit.,  pag.  70). 

(1)  Prima  ediz.  Milano,  Motta,  1782.  Queste  novelle  furono  ristam- 
pate moltissime  volte  e  tradotte  in  più  lingue  straniere.  Sono  anche  nel 
Tomo  XI  delle  Opere  compi. 

(2)  Giovanni  Ignazio  Felbiger  (1724-1788),  abate  di  Sagan,  applicò 
nelle  scuole  della  sua  abbazia  il  metodo  dell' Hecker,  il  fondatore  della 
prima  Realschule  a  Berlino.  Il  governo  prussiano,  visto  il  buon  esito 
della  nuova  didattica,  lo  incaricò  di  ordinare  le  scuole  della  Slesia,  per 
le  quali  il  Felbiger  scrisse  un  regolamento  pubblicato  nel  1765.  Chia- 
mato poi  a  Vienna,  l'abate  di  Sagan  si  prefisse  lo  scopo  di  diffondere 
l'istruzione  elementare  non  solo  nei  grandi  centri,  ma  anche  nelle  pic- 
cole città  e  borgate,  coordinando  le  scuole  fra  loro  e  subordinandole 
ad  una  legge  comune.  In  Lombardia  la  delegazione  delle  scuole  nor- 
mali fu  formata  dal  Soave  (che  doveva  pensare  al  metodo  d'insegna- 
mento e  alla  compilazione  di  testi  scolastici),  da  P.  F.  Secchi  (che  ebbe 
l'incarico  della  sistemazione  e  distribuzione  dei  locali)  e  dal  marchese 


—  48  — 

metodo  delle  scuole  normali  e  di  molti  manuali  utilissimi,  di  cui 
allora  l' Italia  era  sprovvista  (1). 

Nel  1789,  a  scopo  di  studio,  decise  d'andare  a  Parigi  nei  mesi 
delle  vacanze  autunnali  e  di  compiere,  durante  il  viaggio,  osser- 
vazioni geologiche  sulle  Alpi.  Partì  ai  primi  di  luglio  con  gli  amici 
Venini  e  Amoretti,  ed  era  già  a  Chambery,  quando  scoppiò  in 
Francia  la  Rivoluzione.  I  tre  viaggiatori  a  pena  credevano  alle 
notizie  che  udivano  a  Chambery  e  ad  Annecy,  e,  proseguendo  il 
cammino,  andarono  nella  valle  di  Chamouny  a  visitare  il  colosso 
del  Monte  Bianco.  Di  là  passarono  a  Ginevra,  ove  dai  giornali 
seppero  gli  avvenimenti  di  Francia;  traversando  il  paese  di  Vaud, 
giunsero  a  Losanna,  dove  1'  affluenza  degli  emigrati  mostrò  loro 
il  pericolo  di  recarsi  in  un  paese  da  cui  gli  stessi  cittadini  fug- 


abate  Longhi  (che  doveva  occuparsi  della  parte  finanziaria).  Vedi  B. 
Peroni,  Le  prime  scuole  elementari  governative  a  Milano,  Roma,  AI- 
brighi-Segati,  1906). 

(1)  Grammatica  delle  due  lingue  italiana  e  latina  (Milano,  Tipo- 
grafia del  Monastero  di  S.  Ambrogio,  1785);  Istradamento  all'esercizio 
delle  traduzioni  in  seguito  alla  «  Grammatica  delle  due  lingue  ita- 
liana e  latina  »  (Milano,  1785),  con  un  piccolo  trattato  della  versifica- 
zione latina  e  italiana,  il  quale  fu  poi  ristampato  col  titolo  Regole  della 
versificazione  latina  e  italiana  (Pavia,  Bolzani,  1806)  o  con  l'altro  di 
Prosodia  (Palermo,  Abbate,  1816);  Piccolo  catechismo  per  uso  della 
prima  classe  delle  scuole  (traduz.  dal  tedesco),  2»  Ed.,  Venezia,  Graziosi, 
1816;  Catechismo  maggiore  (dal  ted.);  Lezioni,  epistole  ed  evangeli  della 
domenica  ed  altre  feste  delV  anno  (2*  Ed.  Venezia,  1810);  Elementi  di 
calligrafia  (2*  Ed.  Bassano,  Remondini,  1808);  Abbecedario  (2*  Ed.  Ve- 
nezia, Martini,  1801);  Elementi  della  pronunzia  e  della  ortografia  ita- 
liana (2»  Ed.  Venezia,  Tosi,  1804);  Elementi  della  lingua  italiana  ad 
uso  delle  scuole  della  Lombardia  austriaca  (Milano,  1788);  Elementi 
della  lingua  latina  (2»  Ed.  Como,  Ostinelli,  1820);  Leggi  scolastiche 
(dal  tedesco);  Regolamento  generale  delle  Scuole  Normali  con  un'Ap- 
pendice (dal  ted.);  Compendio  del  metodo  delle  Scuole  Normali  per  uso 
delle  scuole  della  Lombardia  austriaca  (Milano,  Marcili,  1786,e  Voi.  XVII 
delle  Opere  compi.);  Elemenli  d' aritmetica  (Milano,  1786,  e  Voi.  XVIII 
e  XIX  delle  Opere);  Trattato  elementare  dei  doveri  dell'uomo  e  delle 
regole  della  civiltà  (Voi.  XVII  delle  Opere;  c'è  anche  un' ediz.  recente: 
Verona,  Apollonio,  1870);  Elementi  di  meccanica  teorico-pratica;  Ele- 
menti di  geometria  teorico-pratica;  Elementi  di  geografia. 


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givano;  perciò  decisero  di  tornare  in  Lombardia  per  il  S.  Ber- 
nardo. A  Milano  dal  governo  austriaco,  che  temeva  le  conseguenze 
della  Rivoluzione,  il  Soave  ebbe  l' incarico  di  mostrar  dannosi  e 
pericolosi  al  popolo  gli  avvenimenti  di  Francia;  egli  si  prestò  alle 
mire  dell'Austria,  scrivendo,  col  pseudonimo  di  Glice  Ceresiano 
(che  equivale  a  Soave  liiganese,  poiché  Ceresio  è  l' antico  nome 
del  Iago  di  Lugano),  il  volumetto  Vera  idea  della  Rivoluzione  di 
Francia  (1795),  aspra  ed  esagerata  diatriba  contro  i  repubblicani  (1). 
Perciò,  quando  i  Francesi  scesero  vittoriosi  in  Italia  nel  maggio 
del  179Ó,  egli  si  ritirò  a  Lugano,  nel  Collegio  di  S.  Antonio,  dove, 
sostituendo  un  professore  mancante,  ebbe  scolaro  Alessandro  Man- 
zoni, allora  undicenne,  che  veniva  dal  collegio  somasco  di  Merate 
e  rimase  a  Lugano  fino  al  settembre  del  1798  (2).  il  Soave  uscì  di 
là  per  invito  del  principe  d'Angri,  che  lo  condusse  a  Napoli  af- 
fidandogli l'educazione  dell'unico  figlio  suo.  A  Napoli  proseguì 
i  suoi  studi,  e  tradusse  dall'  inglese  le  Lezioni  di  retorica  e  belle 
lettere  di  U.  Blair  (3).  All'  avvicinarsi  delle  armi  francesi,  coman- 


(1)  Milano,  Fratelli  Pirola,  1795.  Fu  scritta  una  risposta  anonima  al 
libriccino  del  Soave  intitolata  Giusta  idea  de'  diritti  dell'uomo  in  ri- 
sposta al  libro  di  Glice  Ceresiano:  Vera  idea  etc,  Cappelli  1796,  senza 
luogo  di  pubbl. 

(2)  FoFFANO,  Compendio  della  storia  della  leti,  ital.,  2*  Ed.  Torino, 
Libreria  Ed.  Internaz.,  pag.  33S;  Avanzini,  Op.  cit.,  pag.  67.  Lo  Stop- 
pani  (/  primi  anni  di  Alessandro  Manzoni,  Milano,  Bernardoni,  1874, 
pag.  72)  riferisce  da  C.  Cantù  (A.  Manzoni  -  Reminiscenze)  quanto  segue: 
«  Era  poi  uno  spasso,  quando  mi  raccontava  le  sue  scapestrerie  nel 
Collegio  di  Lugano,  dove  i  suoi  1'  avevano  tramutato  allorché  la  pro- 
cella giacobina  s'avvicinava  alla  Lombardia.  Deliziavasi  soprattutto  nel 
ricordo  del  buon  padre  Francesco  Soave.  Questi  s'indispettiva  quando 
Alessandrino,  invaso  dalle  idee  allora  irruenti,  non  voleva  scrivere  re 
e  imperatore  e  papa  colle  maiuscole.  Teneva  poi  nella  manica  della 
tonaca  una  sottile  bacchetta,  press' a  poco  (diceva)  come  quella  cheta 
i  miracoli  dei  giocolieri;  e  quando  alcuno  di  noi  gli  facesse  scappare 
la  pazienza,  egli  la  impugnava,  e  la  vibrava  terque  quaterque  verso  la 
testa  o  le  spalle  del  monello,  senza  toccarlo;  poi  la  riponeva,  e  tornava 
in  calma.  Il  Manzoni  rincrescevasi  d'aver  talvolta  inquietato  quel  padre. 
Cfr.  Natali,  Op.  cit.,  pag.  296. 

(3)  Parma,  Bodoni,  1801.  Sono  nei  tomi  VI,  VII  e  VII!  delle  Opere 
complete.  Nel  1797  ristampò  a  Napoli,  col  suo  nome,  la  Vera  idea 
della  rivoluzione  di  Francia,  suscitandosi  risentimenti  e  ire. 


—  so- 
date dallo  Championnet  vittorioso,  a  Napoli,  temendo  di  esserne 
offeso,  accettò  l' invito  della  principessa  di  Francavilla  di  recarsi 
da  lei  in  Sicilia;  ma  una  fierissima  tempesta  lo  ributtò  a  Napoli; 
ivi  non  patì  nessun  male,  anzi  fu  rispettato  da  coloro  che  aveva 
maltrattati  per  iscritto;  quando  invece  le  armi  reali  condotte  dal 
Ruffo  riconquistarono  la  città,  dovette  fuggire,  e  fu  miracolo  se, 
per  un  tratto  d' ingegno  e  di  coraggio  d' un  abile  domestico, 
che  seppe  essere  opportunamente  prodigo,  non  fu  scannato  dai 
lazzaroni,  i  quali  l'avevano  con  la  famiglia  del  principe  d'Angri, 
ambasciatore  a  Parigi  della  Repubblica  partenopea.  Tornò  nella 
Lombardia  (1799),  che  intanto  era  stata  riconquistata  dagli  Au- 
striaci; e  da  questi  riebbe  la  cattedra  del  Liceo  di  Brera.  Ma  ecco 
di  nuovo  i  Francesi,  dopo  Marengo,  a  Milano;  gli  fu  ritolta  la 
cattedra;  ed  egli  si  ritrasse  nella  sua  cella  a  rivedere  e  limare  i 
suoi  scritti.  Allora,  quale  uno  dei  quaranta  membri  della  Società 
italiana  delle  scienze,  descrisse  una  macchina  immaginata  da  Gi- 
rolamo Bianchi  (1);  tradusse  le  Satire,  V  Epistole  e  V  Arte  poetica 
d'  Orazio  (2).  Proclamata  intanto  a  Lione  la  Repubblica  italiana 
(gennaio  1802)  sotto  la  presidenza  del  Bonaparte  e  la  vicepresi- 
denza del  Melzi,  il  Soave  non  fu  del  tutto  dimenticato.  Nel  1802 
il  Melzi  lo  mandò  provvisoriamente  a  Modena  come  direttore  del 
collegio  di  educazione  di  quella  città  e  come  professore  d'analisi 
delle  idee  (ideologia).  Durante  l' insegnamento  in  tale  collegio 
scrisse  una  critica  della  filosofia  kantiana:  La  filosofia  di  Kant 
esposta  ed  esaminata  (3).  Ma,  non  potendo  nel  collegio  ottenere, 
quanto  alla  disciplina,  i  miglioramenti  sperati,  era  mal  sodisfatto 
del  suo  ufficio  di  rettore;  perciò  chiese  ed  ottenne  nel  1803  la 
cattedra  d' analisi  delle  idee  rimasta  vacante  nell'  Università  di 
Pavia  per  la  morte  del  prof.  Giannorini.  Ivi  era  ascoltato  da  una 
vera  folla  di  giovani  attenti;  curò  una  nuova  edizione  migliorata 
delle  sue  Istituzioni  di  Logica,  Metafisica  ed  Etica.  Era  già  stato 
nominato  da  Napoleone,  il  6  novembre  1802,  membro  dell'Istituto 


(1)  Descrizione  della  maccliina  di  G.  Bianchi  per  dividere  una  retta 
in  qualunque  numero  di  parti  uguali,  nel  Tomo  Vili  delle  Memorie 
della  società  italiana  delle  scienze.. 

(2)  Sono  nel  Tomo  V  delle  Opere  compi. 

Ci)  Prima  edizione:  Modena,  Eredi  di  B.  Soliani,  1803;  più  comnne 
e  quella  di  Venezia,  Graziosi,  1804.  È  anche  nel  tomo  XV  delle  Opere. 


—  51  — 

Nazionale:  a  questo  presentò  il  10  luglio  1804  la  sua  Memoria 
sopra  il  progetto  di  elementi  di  ideologia  del  conte  Destati  di  Tracy 
e  un  Esame  dei  principii  metafisici  della  Zoonomia  di  Erasmo 
Darwin  (1).  Siccome  poi  nelle  adunanze  di  detto  Istituto  s' era 
parlato  della  necessità  di  provvedere  libri  elementari  alle  scuole 
del  Regno  italico,  il  Soave  offrì  la  sua  opera  non  solo  per  mi- 
gliorare i  volumetti  già  da  lui  pubblicati,  ma  per  aggiungerne 
altri.  L'Istituto  accettò  ben  volentieri  l'offerta;  e  il  Soave  scrisse 
subito  un  Corso  d' eloquenza  italiana  secondo  i  principi  di  Blair,  poi 
una  Storia  del  popolo  ebreo,  la  Mitologia  etc.  (2).  Nel  IS05  collaborò 
all'edizione  dei  Classici  italiani  (favorita  dal  Melzi),  scrivendo  un 
commento  al  Petrarca  (ò).  Di  più  volse  in  versi  1'  Odissea  e  la 
Batracomiomachia  (4),  la  Teogonia,  I  lavori  e  le  giornate  e  lo  Scudo 
di  Ercole  d' Esiodo  (5).  Ma  oramai  era  afflitto  da  podagra;  a  questa 
s'aggiunse  nell'  inverno  del  1805  un  forte  raffreddore;  sicché,  colto 
da  fiera  febbre,  dopo  lunga  malattia,  spirò  tra  le  braccia  de'  suoi 
correligiosi  nella  casa  della  Colombina,  a  Pavia,  il  17  gennaio 
del  1806  (6). 


L' importanza  del  pensiero  del  Soave  sta  in  questo:  che,  pur 
accettando  e  svolgendo  1'  empirismo,  retrocede  dinanzi  alle  con- 


ci) Sono  nel  Tomo  I,  Parte  I,  degli  Atti  dell'  Istituto  Nazionale  Ita- 
liano (Bologna,  1809),  pag.  47-69  e  117-160. 

(2)  Sono  opere  postume,  pubblicate  l'una  dalla  tipografia  di  Vige- 
vano il  1810,  l'altra  dalla  stessa  tipografia  il  1813.  La  Mitologia  è  anche 
nel  Voi.  XVI  delle  Opere  compi. 

(3)  Le  Rime  di  F.  Petrarca,  illustrate  da  F.  Soave  (Milano,  Ediz. 
dei  Classici  italiani,  1805).  Alcuni  anni  prima  aveva  pubblicato  le  Poesie 
scelte  dell'  abate  C.  I.  Frugoni,  colla  vita  dell'  autore  ed  un  discorso 
intorno  alle  medesime  (Milano,  Motta,  1783)  e  le  Poesie  scelte  di  G. 
Chiabrera  con  un  discorso  intorno  alle  medesime  (Milano,  Motta,  1785). 

(4)  /  viaggi  d'Ulisse,  tratti  àaW Odissea  d'Omero  (Milano,  Marelli, 
1796);  V  Odissea  d'Omero  tradotta  in  versi  italiani,  con  annotazioni, 
aggiuntavi  la  Batracomiomachia  (Pavia,  Eredi  Qaleazzi,  1805).  Sono  nei 
Tomi  I  e  II  delle  Opere  compi. 

(5)  Opere  di  Esiodo  tradotte  in  versi  italiani  con  annotazioni  (Pavia, 
1806).  Comparvero  poche  settimane  dopo  la  morte  del  Soave. 

(6)  Lasciò  vari  manoscritti,  fra  cui  tragedie  e  commedie  forse  ad 
uso  degli  allievi  del  Collegio  dementino,  libri  per  le  scuole  pubbliche  etc. 


—  52  — 

seguenze  trattene  dal  Condillac,  e  torna  al  Locke,  anzi  tempera 
alcune  affermazioni  un  po'  spinte  del  grande  filosofo  inglese  stesso. 
Così  r  ideologia  si  trapianta  in  Italia,  ma  modificata  da  quel  senso 
dell'  equilibrio  e  della  giusta  misura  che  è  propria  dei  nostri  pen- 
satori. Essa  diviene  fra  noi  la  «  filosofia  sperimentale  »  o  «  filo- 
sofia dell'  esperienza  »  (1). 


IL  METODO.  —  Per  la  scoperta  della  verità  secondo  il  Soave 
non  e'  è  altro  metodo  che  l' analisi,  cioè  1'  arte  di  scomporre  le 
nozioni  o  idee  complesse  e  di  vedere  a  parte  a  parte  le  nozioni 
o  idee  semplici  che  le  compongono.  Giacché  è  per  noi  scoperta 
ogni  nuova  proprietà  che  arriviamo  a  conoscere  in  un  essere;  e 
appunto  V analisi  scompone  le  nozioni  complesse  che  abbiamo 
degli  oggetti,  esamina  partitamente  le  idee  in  esse  contenute,  e  le 
confronta  per  ogni  verso  con  le  idee  di  tutti  gli  oggetti  con  cui 
possono  avere  relazione,  per  passare  dalle  proprietà  delle  une 
a  quelle  delle  altre. 

Ma  anche  per  esporre  e  dimostrare  la  verità  bisogna  adoperare 
questo  metodo  soltanto  ?  Era  massima  degli  antichi,  risponde  il 
Soave,  che  il  metodo  analitico  servisse  a  trovar  la  verità,  ma  che 
a  proporla  e  dimostrarla  si  dovesse  usare  il  sintetico,  che  dai  prin- 
cipi generali  scende  ai  particolari.  Invece  il  Condillac  s'  è  mosso 
fortemente  contro  questa  massima,  asserendo  che  il  procedimento 
analitico  è  1'  unico  e  vero  metodo  non  solo  per  scoprire  la  verità, 
ma  anche  per  insegnarla.  Chi  è  nel  giusto?  Secondo  il  Soave 
pare  si  debba  tornare  all'antico,  giacché  egli  da  una  parte  rico- 
nosce che  il  metodo  sintetico  ha  due  grandissimi  inconvenienti: 
innanzi  tutto  quello  d' ingombrare  la  mente  di  nomi  e  di  principi, 
prima  che  si  abbia  idea  alcuna  delle  cose  espresse  da  quei  nomi, 
e  si  sappia  1'  applicazione  di  questi  principi;  in  secondo  luogo 
quello  di  supporre  le  nozioni  già  beli' e  formate,  senza  mostrarne 
la  genesi,  e  senza  dar  mai,  così,  cognizioni  esatte  e  precise;  ma 
ritiene  dall'  altra  che  un  trattato  analitico  è  una  catena  continua 


(1)  Quest'  espressione  è  adoperata  dal  Soave  in  La  filosofia  di  Kant 
esposta  ed  esaminata  (Tomo  XV  delie  Opere),  Parte  II,  Articolo  V. 


-^  53  — 

di  proposizioni  che  esige  molta  riflessione  e  memoria,  e  perciò 
stanca  l' intelletto;  cosicché,  se  il  filo  del  ragionamento  si  rompe, 
accade  di  questo  come  delle  perle,  le  quali  vanno  tutte  disperse. 
Perciò  nelle  opere  ove  si  voglia  trattare  a  fondo  l' argomento,  ri- 
volgendosi a  persone  già  avvezze  a  meditare  e  già  informate,  al- 
meno in  parte,  della  materia  che  si  tratta,  non  e'  è  metodo  mi- 
gliore dell'  analitico;  giacché  questo,  collocando  prima  l' uomo 
nelle  varie  circostanze  in  cui  deve  formarsi  le  idee  degli  oggetti, 
e  poi  fissandone  i  nomi,  guidandolo  inoltre  gradatamente  dalle 
verità  particolari,  che  son  più  semplici,  alle  generali,  più  com- 
plesse, fa  eh'  egli  vegga  le  cose  medesime  nascere,  per  così  dire, 
e  crescere  successivamente  sotto  gli  occhi  suoi,  e  eh'  egli  stesso 
le  venga  a  mano  a  mano  scoprendo,  piuttosto  che  impararle  da 
altri.  Ma  nelle  opere  in  cui  s' intende  dare  soltanto  una  leggera 
notizia  delle  cose,  come  son  tutti  i  compendi  e  libri  elementari, 
o  che  son  destinate  a  persone  ancora  ignare  di  quel  che  si  tratta 
e  non  molto  assuefatte  al  meditare,  il  miglior  metodo  è  un  com- 
posto della  sintesi  e  dell'  analisi.  Il  cominciare  infatti  da  una  de- 
finizione generale  del  concetto  di  cui  si  tratta,  il  dividerlo  nelle 
sue  parti,  poi,  venendo  a  ciascuna  di  queste,  premettere  pure  la 
definizione  loro,  e  aggiungere,  dove  occorra,  la  suddivisione  delle 
parti  minori  di  cui  anch'essa  è  composta,  è,  per  dare  ad  un  prin- 
cipiante un'  idea  chiara  delle  cose,  un  mezzo  assai  migliore  che 
non  r  introdurlo  di  slancio  coli' analisi  in  un  paese  ignoto  e  gui- 
darlo per  lunghi  sentieri,  dei  quali  non  veda  il  termine  (1). 

Dunque  secondo  il  Soave  unico  metodo  per  scoprire  la  verità 
è  r  analisi;  per  comunicare  poi  ad  altri  quanto  s'  è  scoperto,  bi- 
sogna combinar  la  sintesi  con  l'analisi.  Sorge  però  qui  spontanea 
la  domanda:  la  necessità  di  tale  combinazione  deriva  dalla  natura 
degli  oggetti  trattati,  oppure  dalle  condizioni  speciali,  dalle  de- 
ficienze mentali  di  chi  apprende  la  verità  ?  Ossia:  vi  sono  oggetti 
che  non  si  possono  trattare  se  non  con  metodo  sintetico,  oppure 
essi  son  trattati  con  tale  metodo  solo  per  comodo  del  soggetto 


(1)  Del  metodo  che  dee  tenersi  per  trovare  la  verità  e  per  inse- 
gnarla ad  altrui  (Appendice  alla  traduz.  della  Guida  dell'  intelletto 
del  Locke),  pag.  123-138  del  Tomo  X  delle  Opere  (ediz.  cit.);  Istituzioni 
di  logica,  Parte  II,  Sezione  VI,  pag.  386-413  del  Tomo  XII  delle  Opere. 


—  54  — 

conoscente?  Secondo  il  Soave  pare  si  debba  ammettere  que- 
st'ultima alternativa;  o  forse  egli  nemmeno  s'è  proposta  la  que- 
stione. Eppure  da  essa  dipende  la  maniera  di  concepire  la  natura 
delle  varie  scienze  umane,  che,  com'  è  noto,  si  dividono  in  dedut- 
tive e  induttive.  Si  noti  però  che  il  Soave  ammette,  come  Locke, 
conoscenze  immediate  o  intuitive,  ottenute  da  noi  col  solo  con- 
fronto di  due  idee  o  nozioni;  e  chiama  assiomi  o  verità  manifeste 
per  sé  i  principi  tratti  dalla  conoscenza  immediata  delle  relazioni 
fra  gli  oggetti.  Ma  come  esempi  d'  assiomi  cita  i  principi  logici 
e  quelli  matematici  (1);  vien  quindi  fatto  di  pensare  che  egli,  lo- 
ckiano  com'è,  consideri  certo  questi  come  vuoti  e  frivoli.  Insomma 
il  metodo  vero  resta  sempre  per  il  Soave  1'  analisi;  la  sintesi  ha 
un'  importanza  pratica,  pedagogica,  quindi  assai  secondaria. 


Questo  quanto  al  metodo,  ossia  alla  via  da  seguire  per  trovare 
la  verità.  Ma,  in  questa  via,  come  riconosceremo  il  vero  e  come 
lo  distinguerem.o  dal  falso?  Ossia:  quale  il  criterio  della  verità?  (2). 

Il  Soave  respinge,  com.e  troppo  mal  sicuro,  il  criterio  carte- 
siano, giacché  (dice)  '■  quel  pazzo  d'Atene,  che  tutte  sue  credette 
le  navi  che  entravano  nel  Pireo,  avea  certo  in  sua  mente  una 
chiara  e  distinta  percezione  del  suo  sognato  dominio,  e  senza  una 
viva  ripugnanza  dell'animo  non  avrebbe  potuto  a  questa  per  lui 
certissima  verità  ricusare  l' assenso  »  (3). 

Non  respinge  invece  il  criterio  proposto  dal  Condillac,  ma  lo 
modifica.  Si  ricorderà  che  il  Condillac  distingueva  tre  specie   di 


(1)  Istituzioni  di  logica,  Parte  I,  Sez.  Ili,  pag.  123  e  126,  e  Parte  II, 
Sez.  VI,  Gap.  I,  spec.  art.  Ili,  pag.  399.  Vedi  anche  pag.  411. 

(2)  Si  noti  che  per  il  Soave  la  parte  più  importante  della  logica  (da 
lui  detta  analitica)  è  quella  che,  occupandosi  di  tale  questione,  insegna 
la  maniera  di  ricercare  e  conoscere  la  verità.  L'altra  parte  (dialettica), 
che  insegna  il  modo  di  proporre  e  dimostrare  la  verità  ad  altri,  è  meno 
importante,  sebbene  gli  Scolastici  ad  essa  sola  riducessero  la  logica, 
perdendosi  in  labirinti  di  sillogismi  e  di  logomachie  (Istituzioni  di  lo- 
gica, Introduzione,  pag.  80-81  de!  "Tomo  XII.  Vedi  anche  Tomo  XII, 
pag.  435-436,  nota  59). 

(3)  Istituzioni  di  logica,  Parte  I,  Sezione  III,  Gap.  Il,  art.  II,  pag.  131. 


—  55  — 

evidenze:  quella  di  sentimento,  quella  di  ragione  e  quella  di  fatto. 
Come  fondamento  della  prima  stabiliva  la  percezione  chiara  e  di- 
stinta di  ciò  che  proviamo  in  noi;  della  seconda,  il  principio  di 
identità;  della  terza  la  testimonianza  costante  e  uniforme  dei  sensi. 
Ora,  il  Soave  osserva  che,  per  l'evidenza  di  ragione,  il  principio 
d'identità  è  applicabile  solo  ai  giudizi  affermativi;  ma  per  quelli 
negativi  convien  ricorrere  ad  un  altro  principio:  quello  di  non 
contradizione.  Inoltre  nei  giudizi  affermativi  stessi  l' identità  delle 
idee  che  s'  afferma  è  difficilmente  conoscibile,  specie  quando  di- 
penda da  una  lunga  catena  di  confronti  e  di  ragionamenti;  sicché 
il  principio  d'identità  non  è  d'uso  abbastanza  facile  e  universale. 
Invece  un  principio  facile,  universale  e  applicabile  a  qualunque 
giudizio  sia  affermativo,  sia  negativo,  è  quello  di  non-contradi- 
zione; questo  solo,  secondo  il  Soave,  è  il  criterio  della  verità.  Il 
principio  d' identità  stesso  ne  dipende,  giacché  una  cosa  é  neces- 
sariamente eguale  e  simile  a  sé  medesima  non  per  altro  se  non 
perché,  altrimenti,  essa  sarebbe  e  non  sarebbe  ad  un  tempo  la 
stessa.  La  convenienza  di  due  idee  si  dirà  dunque  certa  tutte  le 
volte  che  si  potrà  mostrare  contradittoria  e  perciò  impossibile  la 
loro  disconvenienza;  e  la  loro  disconvenienza  si  dirà  certa  ogni 
volta  che  si  potrà  mostrare  impossibile  la  loro  convenienza;  in 
altri  termini:  si  dovrà  ritener  certo  tutto  quello  di  cui  si  ricono- 
scerà impossibile  il  contrario.  Si  badi  però  che  l'impossibilità  può 
essere  o  metafisica  o  fisica  o  morale.  È  impossibile  metafisica- 
mente o  assolutamente  ciò  che  non  può  essere  e  non  essere  ad 
un  tempo,  per  es.  che  due  quantità  siano  e  uguali  e  disuguali. 
È  impossibile  fisicamente  tutto  ciò  che,  pur  non  essendo  contra- 
dittorio  in  sé,  si  oppone  alle  leggi  di  natura:  per  es.  che  un  sasso 
abbandonato  a  sé  stesso  rimanga  sospeso  in  aria.  È  impossibile 
moralmente  tutto  ciò  che,  pur  non  essendo  impossibile  né  meta- 
fisicamente né  fisicamente,  é  però  d'  una  difficoltà  tale,  che  non 
suole  avvenire  mai  o  quasi  mai,  per  es.  che  diversi  caratteri  get- 
tati alla  rinfusa  formino  un  dato  verso  d'  Orazio  o  di  Virgilio. 
Essendoci  queste  tre  specie  d' impossibilità,  anche  la  certezza  sarà 
di  tre  gradi:  certezza  assoluta  o  metafisica,  certezza  fisica  e  cer- 
tezza morale  (1).  Ora,  il  modo  in  cui  una  cognizione    è    da  noi 


(1)  Istiluz.   di  log.,   Parte   I,  Sez.  Ili,  Gap.  II,  art.  II,  pag.  131-136. 


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acquistata,  sia  immediato  o  mediato,  sia  per  sentimento  o  per  ra- 
gione, non  dà  né  toglie,  nulla  al  grado  della  certezza:  il  quale  è 
sempre  lo  stesso  quando  si  fondi  sul  principio  di  contradizione, 
cioè  quando  mostri  l'impossibilità  del  contrario  (1).  Per  es.  del- 
l' esistenza  dell'  anima  nostra  abbiamo  una  conoscenza  immediata 
e  intuitiva  (evidenza  di  sentimento,  secondo  il  Condillac);  invece, 
di  quella  di  Dio  abbiamo  una  conoscenza  di  raziocinio  o  dimo- 
strativa (evidenza  di  ragione).  Ma  la  certezza  nel!' un  caso  e  nel- 
r  altro  è  ugualmente  assoluta  perchè  fondata  sul  principio  di  con- 
tradizione: infarti,  se  non  ammettiamo  l' esistenza  dell*  anima  o 
quella  di  Dio,  cadiamo  in  contradizione  (2).  Dunque  il  detto  prin- 
cipio è  l'unico  fondamento  della  certezza  e  l'unico  criterio  della 
verità. 


IDEOLOGIA  (3).  —  Dal  metodo  passando  al  contenuto  della 
filosofia  del  Soave,  vi  ritroviamo  agitati  gli  stessi  problemi  che 


0»  Op.  cit.   pag.  133. 

(2)  <  Imperocché  essendo  a  noi  consapevoli  de*  nostri  pensieri,  non 
possianio  per  lo  principio  di  contraddizione  non  esser  pur  consapevoli 
a  noi  medesimi  dell'esistenza  dell'essere  che  in  noi  pensa.  Ed  infatti 
poiché  il  pensiero  é  una  azione,  e  l'azione  non  può  esistere  se  non 
esiste  l'agente,  sarebbe  contradizion  manifesta  che  in  noi  esistesse  il 
pensiero  e  non  esistesse  l'essere  che  pensa  >  {Op.  cit.,  pag.  13S).  Del 
pari,  r  anima  nostra,  siccome  non  esiste  per  \Trtù  propria,  deve  aver 
rice\-uto  l'esistenza  da  a!fo.  .Ma  anche  quegli  che  ha  dato  l'esistenza 
a  lei  o  deve  averla  annata  da  altro  o  dev'  essersela  data  da  sé.  Ora,  se 
avesse  rìce\'uto  anche  lui  Y  esistenza  da  altro  e  questo  da  altro  in  in- 
finito, si  a\Tebbe  una  serie  continua  di  effetti  senza  una  causa  prima, 
il  che  è  contradittorìo;  poiché,  tolta  la  prima  causa,  é  tolto  pure  il 
primo  effetto,  e  per  conseguenza  son  tolti  anche  tutti  gli  altri.  Ci  deve 
essere  dunque  una  causa  prima:  Dio  (Op.  cit.,  pag.  139).  È  questa 
la  stessa  prova  che  dell'esistenza  di  Dio  dà  il  Locke  (Saggio,  Libro  IV, 
Cap.  X);  e  si  noti  che  anche  il  Soave  presuppone  il  principio  di  causa 
(«  si  a\Tebbe  una  serie  continua  di  effetti  senza  una  causa  prima  >; 
»  l'azione  non  può  esistere  se  non  esiste  l'agente  >),  mentre  vuol  fon- 
darsi sai  principio  di  non<ontradizione. 

(3)  Analisi  delV  umano  intelletto  (nella  traduzione  del  compendio 
del  Saggio  del  Locke),  Tomo  IX  delle  Opere,  pag.  42-10(^,  Istituzioni 


—  57  — 

negl'ideologi  francesi;  fra  questi  principalissimi  quelli  dell'analisi 
dell'  intelletto  e  della  conoscenza  del  mondo  esterno. 

Il  Soave,  al  pari  di  tutti  gl'ideologi,  ammette  che  le  cognizioni 
derivano,  come  da  prima  sorgente,  dalle  sensazioni  (1);  le  quali 
costituiscono  quasi  il  materiale  della  conoscenza;  ma,  seguendo  il 
Locke,  oltre  questa  prima  sorgente,  ne  ammette  un'  altra:  la  ri- 
flessione (2).  In  questo  punto  non  si  trova  quindi  d'accordo  col 
Condillac;  ed  ancora  in  un  altro  punto  s'oppone  al  filosofo  fran- 
cese: neir  analisi  delle  facoltà  psichiche.  Ammesse  infatti  due  sca- 
turigini d' idee,  egli  è  inevitabilmente  tratto  a  non  ridurre  tutte 
le  facoltà  ad  una  sola,  «  L'opinione  di  Condillac  »,  egli  scrive, 
«  che  tutte  le  facoltà  si  riducano  alla  sensazione,  e  non  sieno 
che  semplici  modificazioni  della  sensazione  medesima,  non  è  cer- 
tamente da  approvarsi  »  (3).  E  aggiunge:  «  Il  Condillac,  dopo 
aver  sì  bene  nel  suo  Trattato  dei  sistemi  fatto  vedere  gli  errori 
che  son  venuti,  specialmente  in  metafisica,  dallo  spirito  sistema- 
tico mal  regolato,  si  è  lasciato  egli  medesimo  da  questo  spirito 
incautamente  sedurre;  l' ambizione  di  tutto  ridurre  ad  un  prin- 
cipio solo  lo  ha  ingannato  »  (4). 


di  logica,  Parte  I,  Sezione  I  (pag.  87-101);  Istituzioni  di  metafisica. 
Parte  I,  Sezione  11  (pag.  48-199  del  Tomo  XIII  delle  Op.);  Memoria 
sopra  il  progetto  di  elementi  di  ideologia  del  conte  D.  di  Tracy  (Reggio, 
Davolio,  1820),  spec.  pag.  60-61;  Ricerche  intorno  all'  istituzione  natu- 
rale d'una  società  etc.  (Tomo  XV  delle  Opere). 

(1)  Ricerche  intorno  all'istituzione  etc,  Gap.  II,  pag.  17;  Istituzioni 
di  logica,  Parte  I,  Sez.  Ili,  pag.  122. 

(2)  Istituzioni  di  metafisica,  Parte  I,  Sez.  I,  Gap.  Ili,  art.  IV,  pag.  48 
(Tomo  XII);  Istituzioni  di  logica.  Parte  I,  Sez.  II,  pag.  103-104. 

(3)  Istituzioni  di  logica,  pag.  71-72. 

(4)  Memoria  sopra  il  progetto  di  elementi  di  ideologia  etc,  pag.  60-61. 
Si  noti  che  il  Soave  non  approva  neppure  l'ipotesi  della  statua  del 
Gondillac  e  del  Bonnet,  prima  di  tutto  perchè  essa  richiede  una  forza 
d'astrazione  e  d'immaginazione  che  forse  non  piacerebbe  a  tutti  d'es- 
ser costretti  ad  usare,  e  poi  perchè  si  corre  rischio  di  prestar  qualche 
volta  alla  statua  limitata  a  uno  o  due  sensi  quello  che  proviamo  in  noi 
stessi  coir  aiuto  di  tutti.  Perciò,  egli  dice,  «  io  piglierò  una  via  che 
parmi  più  breve,  più  semplice  e  più  sicura.  Mi  farò  ad  esaminare  di- 
rettamente quello  che  in  noi  medesimi  noi  proviamo,  e  che  ciascuno 
per  conseguenza   con   una   leggiere   attenzione   può   riscontrare  in  sé 


~  58  — 

Quante  e  quali  sono  dunque  le  facoltà  psichiche  ?  Sono  sei: 
1°  la  facoltà  di  sentire  o  sensibilità;  2°  la  facoltà  di  riflettere  o 
riflessibilità;  3"  la  facoltà  di  conoscere  o  intelligenza;  4°  la  facoltà 
di  ricordarsi  o  memoria;  5°  la  facoltà  di  volere  o  volontà;  6°  la 
facoltà  di  agire  o  attività. 

I.  La  sensibilità  è  quel  potere  che  hanno  gli  uomini  e  gli  ani- 
mali di  accorgersi  delle  impressioni  che  ricevono.  L'atto  di  sentire 
e  di  accorgersi  di  queste  impressioni  è  la  sensazione.  Di  solito  le 
parole  sensazione,  apprensione  e  percezione  son  considerate  sino- 
nime.  Ma  molti  errori  son  nati  in  filosofia  da  tale  confusione  di 
termini.  Va  usata  la  parola  sensazione  solo  quando  le  impressioni 
ci  destano  una  modificazione  interna  di  piacere  o  di  dolore;  la 
parola  percezione  solo  allorché  le  impressioni  ci  offrono  una  sem- 
plice rappresentazione  delle  cose  esteriori;  e  il  termine  apprensione 
quando  non  importa  distinguere  1'  un  effetto  dall'  altro,  e  basta 
accennare  indeterminatamente  l'atto  d'avere  o  una  modificazione 
o  una  rappresentazione  o  tutt'  e  due  insieme.  Le  impressioni  di 
luce  e  di  colore  (tranne  che  non  siano  molto  intense)  sono  le 
prime  fra  le  rappresentative  e  le  ultime  fra  le  modificative  o  sen- 
sibili. Un  sasso,  un  legno,  una  strada,  una  piazza,  una  casa  etc. 
sono  oggetti  per  noi  comunemente  indifferentissimi:  nel  guardarli 
non  sentiamo  alcun  piacere  o  dolore. 

I  suoni  sono  i  secondi  nell'ordine  delle  qualità  rappresentative. 
La  differenza  che  passa  fra  essi  e  i  colori  è  che  questi  son  riferiti 
da  noi  interamente  agli  oggetti,  e  non  sono  riguardati  punto  come 
nostre  sensazioni;  i  suoni  invece  sono  considerati  e  come  nostre 
sensazioni  e  come  qualità  degli  oggetti.  Di  più,  la  rapprentazione 
nei  suoni  è  molto  meno  chiara  e  distinta  che  nei  colori.  La  ra- 
gione è  che  nessuna  superficie,  anche  d'  una  tinta  uniforme,  ci 
presenta  in  tutti  i  suoi  punti  esattamente   lo   stesso   colore;  una 


stesso  agevolmente  »  {Analisi  dell'  umano  intelletto,  pag.  43).  Tuttavia 
anche  lui  talvolta  ricorre  ali'  ipotesi  della  statua  {Istituzioni  di  tnctaf., 
Parte  I,  Sez.  Il,  Gap.  V,  art.  IV,  e  Parte  li,  Sez.  I,  Gap.  I;  Appendice  I 
al  Gap.  IX  del  Libro  II  della  traduz.  del  Gomp.  del  Saggio  de!  Locke, 
pag.  126-141  del  Tomo  IX  delle  Opere).  Infine  si  badi  che  il  Soave 
riconosce  che  la  distanza  fra  1'  uomo  e  le  bestie  rispetto  alle  facoltà 
dello  spirito  è  immensa  {Ricerche  intorno  all' istituz.  etc,  pag.  140). 


.*i 


-^  59  — 

piccola  scabrezza,  una  piccola  diversità  di  luce  genera  subito 
un  colore  diverso.  Perciò  negli  oggetti  visibili  abbiamo  quasi 
sempre  tante  rappresentazioni,  quanti  sono  i  loro  punti.  In- 
vece nei  suoni  la  rappresentazione  di  ciascuno  è,  per  la  maggior 
parte  degli  uomini,  una  sola,  la  quale  è  applicata,  per  così  dire, 
in  solido  su  tutto  il  corpo  sonoro  (tranne  che  un  individuo,  come 
Tartini,  percepisca,  oltre  il  suono  fondamentale,  anche  le  sue  con- 
sonanze). Tuttavia  anche  nei  suoni  la  rappresentazione  non  è 
quasi  mai  una  sola.  In  tutte  le  sinfonie,  melodie  e  voci  articolate  ci 
si  offrono  sempre  più  rappresentazioni  o  successive  o  contempo- 
ranee, che  rendono  più  chiara  e  distinta  la  rappresentazione  totale. 
Le  qualità  tattili  possono,  per  questo  rispetto,  dividersi  in  due 
classi:  quelle  che  appiirtengono  al  tatto  generale,  che  cioè  si  sen- 
tono da  noi  in  qualunque  parte  dell'  organismo  e  anche  senza  il 
contatto  immediato  di  un  corpo  estraneo,  come  il  caldo  e  W  freddo, 
il  piacere  e  il  dolore;  e  quelle  che  appartengono  al  tatto  partico- 
lare, che  cioè  si  provano  solo  per  un  contatto  immediato,  come 
la  figura,  V  estensione,  la  solidità,  la  fluidità,  la  durezza,  la  mol- 
lezza etc.  Le  prime  non  ci  suscitano  di  solito  nessuna  rappresen- 
tazione. Le  seconde  ci  dovrebbero  offrire  una  rappresentazione 
chiarissima,  poiché  da  una  parte  l'estensione,  la  figura  etc,  es- 
sendo qualità  reali  dei  corpi,  sono  le  sole  che  abbiamo  ragione  di 
considerare  come  ad  essi  inerenti;  dall'altra  ogni  punto  dell'esteso 
che  tocchiamo  ci  produce  la  sua  impressione,  e  tutte  le  impres- 
sioni, essendo  quasi  avvisi  dell'  esistenza  di  qualcosa  d' esterno, 
dovrebbero  essere  altrettante  rappresentazioni.  Tuttavia,  toccando 
un  corpo,  noi  badiamo  più  alla  modificazione  prodottaci  dalla 
sua  durezza  o  morbidezza,  scabrezza  o  levigatezza  che  alla  rap- 
presentazione offerta  dalla  sua  estensione  o  figura.  Del  che  due 
possono  essere  le  ragioni:  l'  una  che  le  impressioni  dell'  esteso 
son  troppo  uniformi  al  tatto,  quindi  la  rappresentazione  non  ne 
è  molto  distinta;  1'  altra  che  le  rappresentazioni  dell'  esteso  sono 
acquistate  da  noi  molto  più  prontamente  per  mezzo  della  vista;  ab- 
biamo poco  interesse  a  formarcene  l'immagine  mediante  il  tatto;  in- 
vece c'interessa  molto  di  più  sapere  la  modificazione  che  può  cagio- 
nare la  durezza  o  la  morbidezza,  lo  scabro  o  il  liscio  etc.  Tant'  è  vero 
che  i  ciechi,  non  potendosi  servire  della  vista,  arrivano  a  scoprire 
nelle  impressioni  tattili  quelle  differenze  che  a  noi  sfuggono,  e 
a  formarsene  quindi  rappresentazioni  chiarissime  e  distintissime. 


-^  60  — 

Gli  odori  e  i  sapori  non  ci  danno  nessuna  rappresentazione. 
II  motivo  è  che  non  li  stacchiamo  mai  interamente  da  noi,  non 
consideriamo  mai  come  due  cose  distinte  ciò  che  è  in  noi  e  ciò 
che  è  nell'oggetto.  Fiutando  un'arancia  consideriamo  l'odore,  per 
dir  così,  come  qualcosa  di  continuo  che  da  essa  si  stende  alle 
nostre  nari.  Il  che  può  dipendere  dalla  poca  o  nessuna  distanza 
che  è  tra  1'  organo  sensoriale  e  1'  oggetto  fiutato  o  assaporato;  o 
anche  dall'  uniformità  delle  impressioni  olfattive  o  gustative,  la 
quale  ci  sembra  maggiore  che  non  sia  in  sé  stessa,  per  il  poco 
esercizio  degli  organi  sensoriali.  La  ragione  principale  però  è  il 
poco  interesse  che  abbiamo  di  servirci  dell'  odorato  e  del  gusto 
per  procurarci  rappresentazioni  degli  oggetti,  le  quali  abbiamo 
tanto  facilmente  mediante  il  tatto,  la  vista  e  l' udito.  Chi  sa  invece 
se  i  cani  e  i  lupi,  che  .adoperano  molto  I'  odorato,  non  arrivino 
a  staccare  le  sensazioni  odorose  da  sé  medesimi,  a  trasferirle  sui 
corpi  e  ad  averne  quindi  rappresentazioni  distinte. 

Le  ragioni  per  cui  anche  il  caldo  e  il  freddo,  il  piacere  e  il 
dolore  non  ci  suscitano  rappresentazione  alcuna,  sono  simili  a 
quelle  che  abbiamo  indicate  per  gli  odori  e  i  sapori. 

Le  qualità  rappresentative  e  le  qualità  sensibili  son  dunque 
quasi  in  ordine  inverso  e  reciproco.  Quelle  che  ci  offrono  mag- 
giori rappresentazioni,  ci  destano  minori  modificazioni  (senti- 
menti); quelle  che  ci  destano  minori  modificazioni  (sentimenti), 
ci  offrono  maggiori  rappresentazioni. 

II.  Quando  son  presenti  varie  sensazioni,  1'  anima  si  applica 
più  intensamente  ora  all'una,  ora  all'altra.  L'atto  con  cui  l'anima 
si  fissa  particolarmente  su  di  un  oggetto  o  su  di  un  altro  si 
chiama  attenzione;  e  quello  con  cui  essa  deliberatamente  trasfe- 
risce l'attenzione  dall'uno  all'altro  si  dice  riflessione  (1). 


(1)  Se  invece  l'attenzione  è  richiamata  successivamente  dalla  forza 
delle  impressioni  stesse,  senza  nostra  deliberazione,  si  ha  la  riflessione 
passiva.  Qui  il  Soave  s'allontana  dal  Locke,  dal  Condillac  e  dal  Bon- 
net.  Il  Locke  intende  per  riflessione  solo  quell'atto  con  cui  l'anima 
rivolge  la  sua  attenzione  sopra  sé  stessa.  Tale  definizione  per  il  Soave 
è  troppo  ristretta.il  Condillac  nell'Essa/  sur  r origine  des  comi.  hum. 
fa  consistere  la  riflessione  in  quell'atto  con  cui  la  mente  applica  a  vi- 
cenda la  sua  attenzione  ora  agli  oggetti  esterni,  ora  alle  idee  interiori 
richiamate  mediante  i  segni,  pretendendo  pure  che  senza  l'uso  di  questi 


—  ol- 
ii Condillac,  dice  il  Soave,  ha  voluto  ridurre  l' attenzione,  come 
tutte  le  altre  facoltà,  alla  sensazione;  ma  fra  1'  una  e  1'  altra  e'  è 
una  differenza  essenziale.  L'  anima  nel  sentire  è  quasi  del  tutto 
passiva,  non  dipendendo  da  essa  V  avere  o  non  avere  le  sensa- 
zioni, e  non  riducendosi  ad  altro  l'attività  sua  se  non  all'accor- 
gersi delle  impressioni  in  lei  prodotte;  invece  è  attivissima  nel- 
r  attendere  e  nel  riflettere,  dipendendo  da  essa  il  fissare  1'  atten- 
zione dove  più  le  piaccia:  sicché  tra  1'  una  e  1'  altra  facoltà  e'  è 
quella  differenza  che  passa  fra  l' essere  passivo  e  l' essere  attivo, 
cioè  fra  due  termini  opposti.  A  conferma  di  questo  si  ricordi  che 
la  sensazione  fisicamente  piti  forte,  ossia  prodotta  da  uno  stimolo 
più  energico,  non  sempre  è  quella  che  determina  l'attenzione:  il 
che  invece  dovrebbe  accadere  se  l' attenzione,  come  vuole  il  Con- 
dillac, fosse  la  sensazione  medesima  divenuta  più  forte.  Quante 
volte  r  anima  non  lascia  da  parte  le  impressioni  più  vivaci  per 
trattenersi  sulle  più  deboli,  che  la  interessano  maggiormente;  e 
quante  volte  non  si  fissa  con  tutta  forza  sulle  idee  iriteriori  in 
modo  da  non  sentir  più  le  impressioni  esterne?  (1)  È  dunque  chiaro 
che  l'attenzione  è  di  natura  affatto  diversa  dalla  semplice  sensa- 
zione, e  che,  se  questa  è  resa  più  viva  dall'  attenzione,  ciò  deve 


non  si  possa  aver  riflessione.  Il  Soave  obietta:  —  P  Non  vedo  perchè  se, 
avendo  davanti  più  oggetti  esterni  nello  stesso  tempo,  trasferisco  l'at- 
tenzione dall'uno  all'altro,  o  se  in  un  medesimo  oggetto  la  fisso  orsù 
l'una  or  su  l'altra  delle  due  parti,  senza  richiamare  alcuna  idea  inte- 
riore, ciò  non  si  debba  dir  riflessione;  2"  non  vedo  che  per  richiamare 
le  idee  interiori  e  per  usare  la  riflessione  siano  necessari  assolutamente 
i  nomi  o  altri  segni  — .  La  stessa  critica  si  può  rivolgere  alla  definizione 
che  della  riflessione  dà  il  Bonnetnel  Saggio  anal.,  chiamandola  «  il  risul- 
tato dell'attenzione  che  l'anima  rivolge  alle  idee  sensibili,  comparandole 
e  vestendole  di  segni  o  di  termini  che  le  rappresentino  ».  Il  Condillac  però 
ne  dà  un'altra  definizione  nel  Tratte dessens.  e  m\V Estratt  rais.,  chia- 
mando riflessione  qualunque  passaggio  dell'attenzione  dall'una  all'altra 
impressione.  Ma  questa  definizione  è  troppo  estesa  secondo  il  Soave; 
giacché,  se  il  passaggio  dell'attenzione  dall'una  all'altra  impressione 
non  è  avvertito  e  deliberato,  ma  nasce  meccanicamente  dalla  forza  suc- 
cessiva delle  impressioni,  non  si  ha  la  riflessione  vera  e  propria,  ma, 
se  mai,  la  distrazione. 

(1)  Lo  stesso  aveva  osservato  il  Bonnet.  Vedi  il  Voi.  I  di  quest'opera, 
pag.  163-64. 


—  62  — 

considerarsi  come  un  effetto  dell'attenzione,  non  può  quindi  con- 
fondersi con  r  attenzione  stessa. 

IH.  Il  trasferire  l'attenzione  da  un  oggetto  ad  un  altro  dà  ori- 
gine al  confronto,  che  conduce  a  scoprire  le  relazioni  che  passano 
fra  essi,  ossia  la  loro  convenienza  o  disconvenienza.  Ora  la  facoltà 
di  scoprire  queste  relazioni  si  chiamai  facoltà  di  conoscere;  e  V atto 
di  conoscere  si  dice  cognizione.  Dalla  cognizione  viene  il  giudizio, 
che  è  l'atto  con  cui  l'intelletto  afferma  o  nega  fra  sé  l'esistenza 
d'una  determinata  relazione  (1).  Non  sempre  però  la  convenienza 
o  disconvenienza  di  due  cose  si  può  conoscere  immediatamente, 
a  prima  vista.  In  tal  caso  le  confrontiamo  tutt'e  due  con  una  terza, 
per  inferire,  dalla  loro  convenienza  o  disconvenienza  con  questa, 
che  convengono  o  disconvengono  fra  di  loro:  tale  atto  si  chiama 
raziocinio. 

IV.  La  quarta  facoltà  della  psiche  è  la  memoria,  ossia  la  ca- 
pacità di  ritenere  o  di  aver  nuovamente  presenti  le  idee  e  le  no- 
zioni dei  fatti  passati  e  riconoscerle.  Il  ritenere  l'idea  d'un  oggetto, 
anche  quando  questo  è  allontanato,  si  dice  contemplazione;  l'aver 
nuovamente  presenti  le  idee  e  le  nozioni  delle  cose  passate  senza 
che  queste  agiscano  sui  sensi  si  chiama  reminiscenza  (riproduzione); 
r  accorgersi  d'  aver  avuto  già  altre  volte  un'  impressione  o  idea 
che  ritorna  si  dice  riconoscimento. 

L' immaginazione  poi  consiste  non  solo  nel  richiamare  le  idee 
delle  cose  passate,  ma  anche  nel  combinarle  in  vario  modo  e  for- 
marne nuovi  composti. 

A  proposito  della  contemplazione,  bisogna  badare  che  non  di 
tutto  ciò  che  sentiamo  noi  riusciamo  a  ritenere  un'  imm.agine. 
Delle  impressioni  che  suscitano  rappresentazioni  delle  cose  esterne, 
ossia  di  quelle  che  abbiamo  chiamate  percezioni,  possiamo  certo 


(1)  Secondo  il  Soave  si  hanno  sette  specie  di  relazioni  fondamentali: 
1  '  identità  o  diversità;  2''  somiglianza  o  dissomiglianza;  3"  vicinanza  o 
lontananza  di  luogo  o  di  tempo;  4»  quantità  nella  grandezza  o  nell'in- 
tensione o  nel  numero;  5"  affinità  o  contrarietà;  6'  causa  ed  effetto; 
1"  obbligazione  o  dipendenza.  Le  quali  però  si  possono  secondo  lui 
ridurre  a  tre:  1"  la  somiglianza,  che  comprende  anche  l'identità;  2°  la 
coesistenza,  che  comprende  il  luogo,  il  tempo  e  la  quantità;  3"  la  di- 
pendenza, che  comprende  la  causa  e  l'effetto,  l'affinità  e  contrarietà 
e  r  obbligazione. 


—  63  — 

ritenere  un'  immagine;  invece,  di  quelle  che  ci  destano  solo  una 
modificazione  interna  di  piacere  o  di  dolore,  ossia  di  quelle  che 
abbiamo  chiamate  sensazioni,  non  riteniamo  nessun'  immagine. 
Per  es.,  dopo  aver  guardata  e  allontanata  una  rosa,  ne  possiamo 
aver  presente  V  immagine.  Ma  del  suo  odore  non  è  possibile  con- 
servare immagine  alcuna.  Noi  riteniamo  l' immagine  della  figura 
e  del  colore  della  rosa,  e  l' immagine  dell'  atto  di  fiutarla;  e  a 
queste  immagini,  che  non  appartengono  all'odorato,  va  unita  la 
memoria  d' aver  provato,  nel  fiutarla,  una  certa  sensazione.  Se 
avremo  odorato  prima  un  garofano  e  poi  una  rosa,  gi  ricorderemo 
d'  aver  ricevuto  da  quello  e  da  questa  una  sensazione  diversa,  e, 
concentrandoci  in  tale  atto  contemplativo  e  paragonando  ie  due 
sensazioni,  crederemo  fors'  anche  di  sentir  nuovamente  un  prin- 
cipio dell'  una  e  dell'  altra;  ma  non  potremo  mai  averne  un'  im- 
magine. Bisogna  dunque  distinguere  questi  due  fatti  psichici.  Per 
indicare  le  immagini  lasciate  dalle  percezioni,  ossia  dalle  impres- 
sioni che  ci  suscitano  rappresentazioni  degli  oggetti  esterni,  si 
può  adoperare  il  termine  idea,  che,  etimologicamente,  corrisponde 
a  immagine  (1).  Invece  tale  parola  non  si  può  applicare  alle 
modificazioni  che  non  suscitano  immagini.  Per  queste  si  può 
usare  il  vocabolo  nozione.  Diremo  dunque  che  1'  anima,  contem- 
plando nella  memoria  una  rosa,  ne  avrà  un'  idea;  ma  che,  con- 
templando un  odore,  ne  avrà  una  nozione. 

Lo  stesso  può  dirsi  dei  sapori,  del  caldo,  del  freddo  e  in  ge- 
nere del  piacere  e  del  dolore,  che,  non  offrendo  nessuna  rappre- 
sentazione esterna,  ma  suscitando  solo  un'  interna  modificazione 
gradita  o  sgradita,  non  lasciano  nessun'  immagine  quando  è  ces- 
sata la  loro  azione.  Quanto  ai  suoni,  bisogna  notare  che,  come 
le  impressioni  acustiche  attuali  ci  producono  una  sensazione  (mo- 


(1)  Il  Soave  quindi  biasima  l'uso  del  Locke  e  del  Tracy  d'indicare 
con  la  parola  idea  tutto  ciò  di  cui  la  mente  si  occupa  mentre  pensa, 
ossia  tanto  le  rappresentazioni  quanto  le  modificazioni  presenti  e  passate. 

Si  noti  che  Diderot,  per  una  ragione  simile,  credeva  che  il  Locke 
avesse  errato  chiamando  idee  il  freddo  e  il  caldo,  il  piacere  e  il  do- 
lore etc.  Questi,  egli  dice,  sono  stati  che  noi  abbiamo  provati  e  pei 
quali  abbiamo  inventato  dei  segni,  ma  di  cui  non  abbiamo  idea  alcuna. 
Vedi  Elogio  di  G.  Locke  del  Diderot  in  Saggio  siili'  umano  intelletto 
di  Locke,  Pavia,  Bizzoni,  1819,  Tomo  I,  pag.  15. 


—  64  — 

dificazione  interna)  e,  insieme,  una  percezione  (rappresentazione  di 
qualcosa  d'  esterno),  cosr  i  loro  ricordi  ci  suscitano  una  nozione 
rispetto  alla  modificazione  interna  che  ci  hanno  prodotta,  e  una 
idea  rispetto  alla  rappresentazione  che  ci  hanno  offerta.  Per  lo 
stesso  motivo,  delle  impressioni  tattili,  che  ci  danno  pure  sensa- 
zioni e  percezioni,  ci  rimangono  o  le  nozioni  o  le  idee,  secondo 
che  seguitiamo  a  contemplare  o  le  modificazioni  o  le  rappresen- 
tazioni che  ci  hanno  suscitate. 

È  anche  da  notare  che  si  ritengono  più  facilmente  le  idee  che 
le  nozioni:  infatti,  allontanata  la  rosa,  ci  resta  per  molto  tempo 
impressa  l'immagine  della  figura  e  del  colore  suo;  l' odore  invece 
svanisce  presto  o  non  lascia  che  una  traccia  debolissima.  Il 
che  dipende  dalla  diversità  di  natura  della  rappresentazione  esterna 
e  della  modificazione  interiore.  Considerando  la  figura  e  il  colore 
della  rosa,  io  trasferisco  l'attenzione  da  un  punto  ad  un  altro,  e 
mi  formo  tante  rappresentazioni,  quanti  sono  i  punti  che  consi- 
dero in  essa.  Allontanata  poi  la  rosa,  io,  continuando  a  pensare 
alla  sua  immagine,  non  ho  presente  una  sola  rappresentazione, 
ma  scorro  rapidamente  coli' attenzione  su  tutti  i  punti  distinti  di 
cui  mi  resta  l' impressione;  appunto  questa  molteplicità  di  rappre- 
sentazioni, eh'  io  seguito  ad  avere,  mi  conserva  chiara  la  rappre- 
sentazione o  idea  totale.  Invece  nell*  odore  io  non  distinguo  né 
estensione  né  impressioni  contemporaneamente  molteplici;  l' im- 
pressione mi  si  riduce  ad  un  punto  solo;  perciò  questa  deve  can- 
cellarsi assai  più  presto;  e,  anche  se  persiste  egualmente,  si  deve 
certo  sentir  durare  con  minor  forza  che  una  molteplicità  di  punti. 
Anche  perché  1'  anima  dura  fatica  grandissima  a  tenersi  fissa  lun- 
gamente su  un  medesimo  punto. 

A  proposito  del  riconoscimento  il  Soave  giustamente  respinge 
la  spiegazione  del  Bonnet  (Saggio  analitico),  secondo  cui  quello 
nascerebbe  dalla  diversità  che  passa  fra  l' impressione  prodotta 
sull'anima  dalle  fibre  mosse  la  prima  volta  e  quella  prodotta  dalle 
fibre  mosse  la  seconda,  la  terza  o  la  quarta  volta.  Infatti,  acciocché 
l'anima  potesse  sentire  la  diversità  delle  due  impressioni,  dovrebbe, 
la  seconda  volta,  ricordarsi  precisamente  della  maniera  in  cui  è 
stata  modificata  la  prima,  e  riconoscere  chiaramente  questa  prima 
impressione;  sicché  il  riconoscimento  presupporrebbe  il  ricono- 
scimento (petizione  di  principio). 

Secondo  il  Soave  il  riconoscimento   deriverebbe   dalle   circo- 


-  65  - 

stanze  di  tempo,  di  luogo  etc,  che  accompagnano  il  ricordo.  Se 
per  es.  incontriamo  qualcuno  da  noi  veduto  altre  volte,  spesso 
sulle  prime  non  lo  riconosciamo,  finché  non  ricordiamo  le  circo- 
stanze di  tempo,  di  luogo  etc.  in  cui  l' abbiamo  veduto.  Allora 
ne  troviamo,  per  così  dire,  duplicata  l' immagine  in  noi,  perchè 
la  vediamo  unita  a  due  serie  diverse,  l'una  delle  rappresentazioni 
suscitateci  dagli  oggetti  che  insieme  con  essa  agiscono  attualmente 
sui  nostri  sensi,  l' altra  delle  idee  ridestatesi  degli  oggetti  che 
hanno  agito  insieme  con  essa  altre  volte  sui  nostri  sensi.  Questa 
doppia  immagine,  o,  meglio,  quest'  idea  che  noi  abbiamo  d'  un 
oggetto  oltre  la  sua  rappresentazione  attuale,  fa  sì  che  esso  sia  da 
noi  considerato  e  come  presente  e  come  assente,  e  che  quindi  noi 
abbiamo  coscienza  d' averlo  veduto  altre  volte.  Se  le  serie  d' idee 
delle  circostanze  passate  destate  dalla  sua  presenza  sono  due, 
noi  ci  ricordiamo  d'averlo  veduto  due  volte;  se  tre,  tre  volte;  se 
nessuna,  non  lo  ricordiamo  (1). 

V.  Il  piacere  o  il  dolore  provocato  da  un  oggetto  destano  nel- 
r  anima  propensione  o  avversione  per  esso:  quella  si  chiama  amore, 
questa  odio;  da  tali  affetti  primari  derivano  tutti  gli  altri.  Al 
presentarsi  del  medesimo  oggetto  o  d'altro  simile  l'anima,  ricor- 
dandosi del  piacere  o  del  dolore  che  ne  ha  sentito,  si  determina 
a  seguirlo  o  a  fuggirlo;  questo  è  Vatto  della  volontà  o  volizione. 
La  volontà  si  può  dunque  definire  «  quella  facoltà  che  ha  l'anima 
di  determinarsi  ad  abbracciare  una  cosa  o  ricusarla,  ed  a  scegliere 
fra  più  cose  l'una  piuttosto  che  l'altra  ».  Bisogna  però  notare  che 
tale  facoltà  non  è  beli'  e  sviluppata  fin  dalla  nascita  dell'  uomo, 
ma  si  forma  a  poco  a  poco.  Infatti  prima  che  la  statua  del  Con- 
dillac  e  del  Bonnet  conosca  il  mondo  esterno,  provando  solo  mo- 
dificazioni soggettive,  non  potrà  avere  volontà  vera  e  propria; 
giacché  proverà  sensazioni  spiacevoli  e  piacevoli  e  preferirà  queste 
ultime.  Ma  la  volontà  non  consiste  solo  nel  preferire  nel  senso 
di  credere  una  cosa  migliore  d'un' altra,  che  é  opera  del  giudizio, 
e  d' aver  piacere  e  tendenza  per  1'  una  o   disgusto  e  avversione 


(1)  Oltre  i  luoghi  citati,  vedi  anche  l'Appendice  al  Gap.  X  del 
Libro  I!  della  traduzione  del  Compendio  del  Saggio  del  Locke,  intito- 
lata Riflessioni  intorno  alla  memoria  (pag.  150-162  del  Tomo  IX 
delle  Opere). 


-  66  — 

per  r  altra,  che  è  puro  effetto  della  sensibilità;  ma  nel  preferire 
nel  senso  di  determinarsi  a  seguir  1'  una  o  fuggir  l' altra,  il  che 
la  statua  non  può  far  certamente  finché  non  sa  ancora  dì  poter 
abbracciare  o  respingere  cosa  alcuna.  Finché  dunque  non  si  sanno 
le  cause  da  cui  provengono  le  sensazioni  piacevoli  o  spiacevoli, 
finché  non  si  conoscono  gli  oggetti  da  scegliere  o  da  respingere, 
non  ancora  si  può  sviluppare  la  volontà.  Questa  si  sveglia  solo 
quando  si  cominciano  a  conoscere  gli  oggetti  esterni,  che  si  pre- 
sentano come  beni  o  mali.  Ma,  finché  non  s'impara  a  distinguere 
i  beni  e  i  mali  reali  da  quelli  falsi  o  apparenti  e  a  riconoscere  i 
loro  diversi  gradi,  la  volontà  é  ancora  cieca.  Essa,  come  si  può 
notare  nei  fanciulli,  abbraccia,  senza  esame  alcuno,  tutto  ciò  che 
si  offre  con  1'  apparenza  di  bene,  e  respinge  tutto  quello  che  si 
presenta  coli'  aspetto  di  male.  La  volontà  comincia  a  funzionare 
pienamente  solo  quando  per  mezzo  dell'esperienza  e  della  rifles- 
sione i  fanciulli  arrivano  a  conoscere  i  diversi  gradi  dei  beni  e 
dei  mali,  e  a  distinguere  in  mezzo  agli  uni  e  agli  altri  i  veri  e 
reali  dai  falsi  e  apparenti.  Allora  la  ragione  comincia  a  dirigere 
la  volontà;  che  la  ragione  é  appunto  quella  facoltà  che,  dopo  aver 
per  mezzo  della  riflessione  paragonate  le  cose  fra  loro  e  osservato 
ciò  che  e'  è  di  bene  o  di  male,  indica,  per  così  dire,  alla  volontà 
quelle  che  son  da  accettare  e  quelle  che  son  da  respingere,  il 
quale  potere  però  non  è  che  la  stessa  facoltà  di  ragionare,  già 
indicata,  dipendente  da  quella  di  conoscere. 

Quando  la  volontà  insieme  con  la  ragione  è  giunta  al  suo 
pieno  esercizio,  comincia  un  conflitto  fra  la  ragione  e  le  passioni. 
In  questo  conflitto  l' anima  resta  spesso  sospesa  e  dubbia  per 
qualche  tempo,  finché  si  piega  all'una  o  all'altra  parte.  Ma,  finché 
resta  così  sospesa,  essa  sente  in  sé  la  facoltà  d'abbracciar  l'una 
o  r  altra  a  piacer  suo.  Anche  dopo  che  s'  é  decisa  a  scegliere 
runa  o  l'altra  alternativa,  sente  ancora  in  sé  stessa  la  facoltà  di 
scegliere  il  contrario.  Questo  potere  é  appunto  la  libertà  (1). 


(1;  Il  Soave  critica  quindi  in  questo  punto  il  Locke,  il  quale  (Essai, 
Libro  II,  Gap.  XXI)  intende  per  libertà  unicamente  la  facoltà  di  operare 
o  non  operare  secondo  la  scelta  della  volontà  (libertà  d'esecuzione^,  e 
il  Bonnet  (Saggio  analitico),  che  e  prcss'a  poco  del  parere  del  Locke. 
A  favore  della  libertà  il  Soave  cita  l'esperienza   interna  {Istituzioni  di 


—  67  — 

VI.  L'  attività  è  il  potere  che  ha  V  anima  di  agire  e  dentro  e 
fuori  di  sé.  Nella  sensazione  la  psiche  è  passiva  piuttosto  che  attiva 
giacché  non  è  in  nostro  potere  il  darci  una  sensazione  senza  che 
corpi  agiscano  sui  nostri  sensi;  altrimenti,  anche  i  ciechi  si  potreb 
bero  procurare  le  sensazioni  dei  colori;  né,  del  pari,  é  in  nostro  pò 
tere  non  sentire  l' impressione  dei  corpi  allorché  agiscono  effettiva 
mene  su  di  noi.  Essa  comincia  ad  essere  attiva  nella  facoltà  di  riflet 
tere,  dipendendo  da  lei  fissare  l'attenzione  su  di  un  oggetto  piuttosto 
che  su  di  un  altro  e  rivolgerla  dall'  uno  all'  altro.  È  pure  attiva 
nella  facoltà  di  conoscere,  specie  nei  giudizi  e  nei  ragionamenti. 
Nella  facoltà  di  ricordarsi  è  passiva  quando  le  idee  si  risvegliano 
da  sé,  è  attiva  quando  essa  stessa  cerca  di  ritenerle  o  di  richia- 
marle. Infine,  nella  facoltà  di  volere  è  sempre  attiva,  qualora  si 
determina  de  sé  medesima  per  una  o  per  un'altra  alternativa.  In 
tutti  questi  casi  la  facoltà  di  operare  si  confonde  con   le   stesse 
facoltà  di  riflettere,  di  conoscere,  di  ricordarsi   e   di   volere.  Ma 
r  attività  dell'  anima  si  esplica  anche  fuori  di  lei  medesima,  cioè 
sul  corpo;  in  tal  caso  la  facoltà  di  operare  è  del  tutto  distinta 
dalle  precedenti,  e  da  molti  é  detta  forza  motrice,  appunto  perchè 
si  manifesta  producendo  vari  movimenti  del  corpo. 


Oltre  tutti  questi  atti  che  provengono  direttamente  da  ciascuna 
delle  sei  facoltà  dell'  anima,  altri  ve  ne  sono  che  risultano  dalla 
cooperazione  di  più  facoltà:  per  es.  la  coscienza  (1)  delle  proprie 
modificazioni  e  della  propria  esistenza,  derivante  dalla  riflessione 
dell'  anima  su  sé  stessa  (attenzione);  la  coscienza  della  propria 
identità  o  personalità,  risultante  dalla  riflessione  unita  alla 
memoria;  l' astrazione,  derivante  dal  fissare  l' attenzione  su  una 
sola  qualità  d'un  oggetto.  Dall'atto  d'astrarre  viene  quello  à\  gene- 
ralizzare, poiché  il  formare  un'  idea  generale  non  è  che  astrarre 
da  molti  individui  le  qualità  comuni  a  tutti.  Dall'astrazione  unita 


Met.,  Parte  I,  Sez.  II,  Gap.  V,  Art.  V,  pag.  144).  Combatte  anche  il  de- 
terminismo {Op.  eli.,  1.  e,  pag.  144-148). 

(1)  Giustamente  qui  il  Soave  distingue  la  coscienza  spontanea  o  sen- 
sitiva da  quella  riflessa. 


—  es- 
ali' immaginazione  nasce  la  composizione  delle  idee,  che  consiste 
neir  unire,  come  fa  il  pittore,  le  idee  di  piìi  oggetti  che  attual- 
mente non  esistono  insieme  in  natura.  Dall'astrazione  combinata 
col  discernimento  (cognizione  delle  differenze  che  passano  fra  due 
o  più  enti)  viene  1'  analisi  o  scomposizione  delle  idee. 

Il  lungo  esercizio  di  compiere  deliberatamente  alcuni  atti  pro- 
duce r  abitudine  (esecuzione  di  atti  senza  rifletterci).  Se  per  ra- 
gioni organiche  le  impressioni  diventano  sì  deboli,  che  1'  anima 
non  abbia  più  coscienza,  si  ha  il  sonno.  In  questo  stato  spesso  si 
destano  alcune  idee  che,  non  essendo  dirette  deliberatamente  dal- 
l'anima, formano  combinazioni  stranissime.  Ma  talvolta  nei  sogni, 
specie  in  quelli  dei  sonniloqui  e  dei  sonnamboli,  le  idee  e  le  azioni 
ad  esse  corrispondenti  conservano  lo  stesso  ordine  che  nella  veglia; 
il  che,  non  potendo  dipendere  dalla  riflessione  attuale  e  deliberata, 
dipenderà  da  una  riflessione  indeliberata  e  abituale  (1). 


Finora  abbiamo  esaminata  la  vita  intima  dell'  anima;  ma  il 
Soave,  come  ideologo,  non  poteva  trascurare  la  questione  del 
modo  in  cui  1'  anima  esca,  per  così  dire,  fuori  di  sé  e  giunga  a 
conoscere  il  mondo  esterno  (2). 

In  questo  problema  il  Soave  critica  il  Condillac,  e  si  trova 
d'accordo  con  Destutt  de  Tracy;  anzi  si  compiace  (3)  d'aver  pre- 


Ci)  Del  sonnambolismo  il  Soave  s'è  occupato  più  volte  nelle  sue 
opere  (Appendice  al  Gap.  XIX  del  Libro  II  del  Compendio  del  Saggio 
del  Locke,  pag.  192-212  del  Tomo  IX  delle  Opere;  Istituzioni  di  Alet., 
Parte  I,  Sez.  II,  Gap.  IX,  pag.  172-183;  Opuscoli  metafisici,  Opuscoli  III 
e  IV,  pag.  193-261  del  Tomo  XV). 

(2)  Vedi  l'Appendice  I  al  Gap.  IX  del  Libro  II  della  Trad.  del  Com- 
pendio del  Saggio  del  Locke  (pag.  126-141);  Istituzioni  di  Met.,  Parte  II 
(pag.  200  e  seg.);  Istituzioni  di  logica,  Parte  I,  Sez.  Ili,  Gap.  III,  §  2. 
Il  Soave  chiama  ontologia  quella  parte  della  metafisica  che  si  occupa 
del  mondo  esterno;  tale  ontologia,  fondata  sull'analisi  della  formazione 
delle  idee,  è,  s'intende,  ben  diversa  dalla  vecchia  ontologia  o  metafisica 
scolastica;  essa  non  è  che  la  dottrina  della  conoscenza. 

(3)  Memoria  sopra  il  progetto  di  clementi  d'ideologia  del  conte  D. 
di  Tracy,  pag.  38;  Istituzioni  di  Meta/.,  Parte  li,  Sez.  I,  Gap.  I,  pag.  207; 
La  filosofia  di  Kant  esposta  ed  esaminata,  pag.  376. 


-  69  - 

corso  il  filosofo  francese  nell'Appendice  I  al  Gap.  IX  del  Libro  II 
della  sua  traduzione  del  Compendio  del  Saggio  del  Locke  {Con- 
getture intorno  al  modo  in  cui  si  scopre  dall'anima  l'esistenza  dei 
corpi,  1775)  e  in  un'altra  Appendice  al  Voi.  IV  della  seconda  edi- 
zione delle  Istituzioni  di  logica,  metafisica  ed  etica  (Milano,  Ma- 
rcili, 1794).  Anche  lui  dunque  crede  che  il  tatto  per  sé  solo  non 
abbia  il  potere  attribuitogli  dal  Condillac.  Finché  la  statua,  egli 
dice,  applica  semplicemente  la  mano  a  sé  stessa  o  ad  altri  oggetti, 
la  sensazione  tattile  da  lei  provata  non  può  avere  maggior  corpo 
di  qualunque  altra  sensazione  sua.  Essa,  non  sapendo  di  toccar 
cosa  alcuna,  anzi  non  sapendo  nemmeno  d'aver  tatto,  deve  pro- 
vare una  modificazione  soggettiva,  proprio  come  quando  sente 
un  odore,  un  sapore  etc.  Avrà,  sia  pure,  due  sensazioni  al  toccar 
sé  stessa,  una  sola  al  toccare  un  altro  corpo;  ma  nulla  più.  La 
statua,  ignorando  onde  le  vengano  tali  sensazioni,  non  sapendo 
di  toccar  alcun  oggetto,  non  conoscendo  che  il  suo  tatto  è  diffuso 
in  pili  parti  del  corpo,  anzi  non  conoscendo  nemmeno  d'aver  tatto, 
s'  accorgerà  tutt'  al  più  di  due  sensazioni  distinte,  senza  poterle 
riferire  a  nessuna  parte  di  sé  stessa.  Dunque  la  differenza  della 
sensazione  ora  doppia  ora  semplice,  al  pari  di  quella  della  sen- 
sazione ora  di  due  odori  ora  d' un  solo,  non  potrà  condurla  ad 
argomentare  1'  esistenza  di  nessuna  parte  di  sé  e  di  nessun  og- 
getto fuori  di  sé.  La  statua  comincerà  a  sospettare  che  esista 
qualcosa  fuori  di  lei  solo  quando  sentirà  l' opposizione  che  le 
producono  i  corpi,  quando,  dopo  aver  per  es.  steso  liberamente 
il  braccio  e  la  mano,  all'  improvviso  incontrerà  un  ostacolo  che 
le  vieti  di  stendere  il  braccio  e  la  mano  più  in  là,  e  quando, 
sforzandosi  di  vincere  quest'  ostacolo,  sentirà  di  non  poterlo  su- 
perare. Il  sentimento  di  tale  opposizione  al  libero  esercizio  della 
volontà  e  del  movimento  suo  deve  infonderle  il  sospetto  che  ciò 
che  le  resiste  sia  fuori  di  lei  e  diverso  da  lei,  non  potendo  essa 
attribuire  a  sé  stessa  o  considerare  come  identico  a  sé  stessa  ciò 
che  s'oppone  al  suo  volere  e  che  essa  anzi  cerca  con  ogni  sforzo  di 
vincere  senza  poterci  riuscire.  Questo  sospetto  diverrà  certezza  a 
misura  che,  incontrando  nuovi  ostacoli,  la  sua  attenzione  si  sentirà 
spinta  a  riconoscerli,  e  a  mano  a  mano  che  con  queste  ricerche 
riuscirà  a  scoprirne  la  posizione,  la  figura,  la  grandezza,  la  consi- 
stenza maggiore  o  minore,  e  le  altre  qualità  che  si  percepiscono  col 
tatto.  Allora  sì  che  la  sensazione  diversa  che  avrà  secondo   che 


—  70  — 

tocchi  sé  stessa  o  i  corpi  esteriori,  le  farà  distinguere  ciò  che  ap- 
partiene al  proprio  corptD  da  ciò  che  spetta  ad  altri;  e,  siccome  il 
sentimento  dell'  opposizione  o  del  contrasto  è  sempre  preceduto 
dalla  semplice  sensazione  tattile,  allora,  per  accorgersi  della  pre- 
senza d'  un  corpo,  non  sarà  più  necessario  premerlo  e  sentirne 
r  opposizione  :  basterà  toccarlo  semplicemente.  Ecco  come  il 
Soave  chiarisce  la  conoscenza  del  mondo  esterno  (1). 

Nello  spiegare  poi  come  s'  acquistino  le  idee  delle  figure  e 
delle  distanze  dei  corpi,  come  s' impari  a  distinguere  con  la  vista 
il  piano  e  il  rilievo,  il  concavo  e  il  convesso,  come  il  tatto  e  la 
vista  insegnino  agli  altri  sensi  a  conoscere  la  posizione  dei  corpi, 
come  le  nostre  sensazioni  siano  da  noi  trasferite  negli  oggetti 
esterni  e  considerate  come  qualità  di  queste  etc,  segue  il  Condillac. 

È  pure  notevole  che  il  Soave,  nella  soluzione  del  problema 
della  conoscenza  del  mondo  esterno,  non  va  a  finire,  come  gli 
ideologi  francesi,  in  un  fenomenismo  idealistico;  giacché,  secondo 
lui,  le  azioni  esercitate  su  noi  dai  corpi  ci  assicurano  della  loro 
esistenza.  Quando,  egli  dice,  ci  sentiamo  spinti  o  trascinati  da 
una  forza  esteriore  là  dove  non  vogliamo;  quando  movendoci 
incontriamo  un  ostacolo  che  ci  arresta  contro  nostro  volere,  non 
possiamo  dubitare  dell'esistenza  di  ciò  che  ci  spinge  o  arresta  a 
nostro  dispetto.  Essendo  reali  le  azioni  che  noi  soffriamo  dai 
corpi,  dev'essere  reale  anche  la  loro  esistenza,  per  la  ragione  che 
non  può  esistere  l'azione  senza  che  esista  l'agente  (principio  di 
causa)  (2). 

È  vero  che  dell'esistenza  dei  corpi  non  possiamo  avere  la  cer- 
tezza metafisica,  giacché,  quando  soffriamo  un'  azione  che  non 
dipenda  da  noi,  siamo  ben  sicuri  che  ne  esista  fuori  di  noi  l'agente, 
ma  non  siamo  egualmente  certi  che  quest'agente  sia  tale  o  tal'altro 
essere:  potrebb' essere  Dio  stesso,  senza  l'intervento  di  alcun  corpo. 


(1)  Si  noti  che  nell'Appendice  al  Gap.  IX  del  Libro  II  del  Saggio 
del  Locke,  il  Soave  credeva  qui  necessaria  per  il  tatto  la  cooperazione  degli 
altri  sensi;  invece  r.elle  Istituzioni  di  Metaf.  ritiene  che  il  tatto  solo, 
purché  accompagnato  dal  senso  dell'opposizione  e  dello  sforzo,  basti 
per  la  conoscenza  dei  corpi  esterni. 

(2)  Istituzioni  di  logica,  pag.  142;  La  filosofia  di  Kant  etc,  pag.  378. 
Cfr.  Gioia,  Elementi  di  filos.,  Sezione  III,  Art.  II,  Gap.  I,  §  1. 


—  71  — 

Tuttavia  di  quell'esistenza  abbiamo  una  certezza  fisica,  in  quanto 
è  fisicamente  impossibile  che  ì  sensi  ci  avvertano  uniformemente 
e  costantemente  della  presenza  e  dell'azione  dei  corpi  nel  modo 
innanzi  detto,  senza  che  questi  esistano.  In  pratica  però  tale  cer- 
tezza equivale  press' a  poco  a  quella  metafisica.  Né  vale  obiettare 
che  talora  anche  in  sogno  ci  sembra  di  toccar  mille  oggetti  che  non 
sono  allora  presenti  ai  nostri  sensi  e  che  forse  non  sono  esistiti 
mai;  giacché  chi  non  sente  la  differenza  che  passa  fra  l'immagi- 
nare il  sole  e  il  guardarlo  effettivamente,  fra  l' immaginare  il  fuoco 
e  il  toccarlo?  Che  se  qualcuno  credesse  che  l'immaginare  il  fuoco 
e  il  toccarlo  siano  tutt'uno,  l'immagini  prima,  e  poi  lo  tocchi;  e 
vedrà  se  il  fuoco  sia  qualcosa  di  reale  o  un  puro  giuoco  di 
fantasia  (1). 


ETICA.  —  Oltre  l' ideologia,  é  importante  1'  etica  del  Soave. 
S' è  tante  volte  ripetuto  che  conseguenza  necessaria  del  sensismo 
è  l'edonismo  egoistico,  o,  tutt'al  più,  l'utilitarismo;  e  in  vero,  se 
ogni  forma  d' attività  psichica  si  riducesse  alla  sensazione,  come 
si  potrebbe  uscire  dal  soggettivismo  e  quindi  dall'  egoismo  ?  Ma 
il  fatto  é  che  non  tutti  i  pensatori  che  di  solito  son  chiamati  sen- 
sisti  hanno  le  stesse  idee:  non  tutti  riducono  ogni  forma  d'atti- 
vità psichica  alla  sensazione;  e,  allora,  naturalmente,  è  possibile 
arrivare  ad  una  morale  disinteressata.  Così  il  Soave,  come  ab- 
biamo visto,  ammette  sei  facoltà  dell'  anima,  e  tra  queste  la  vo- 
lontà e  il  potere  di  conoscere  e  di  ragionare,  irriducibili  alla 
sensazione.  Ecco  quindi  che  la  ragione  viene  a  riacquistare  il  suo 
valore,  e  può  compiere  un  ufficio  importante  nella  vita  morale. 
Il  Soave  infatti  ci  descrive  la  vita  etica  come  un  conflitto  fra 
l'immaginazione  e  le  passioni  da  una  parte  e  la  ragione  dall'altra; 
e  considera  la  saggezza  e  la  probità  come  una  vittoria  della  ra- 
gione, che  dirige  la  volontà,  sugl'impulsi  bassi.  «  La  superiorità  », 
egli  scrive,  «  che  ha  l'  uomo  sulla  materia  inerte,  sulle  piante  e 
su  i  bruti  consiste  nella  facoltà  di  conoscere,  di  ragionare  e  di 


(1)  Qui,  come  ognun  vede,  il  Soave  segue  il  Locke  {Essai,  Livre  IV, 
Chap.  XI). 


—  12  — 

regolare  coi  principi  della  ragione  la  propria  condotta  »  (1).  Se- 
condo lui  è  errore  definire  la  probità,  come  fa  l'Helvétius,  l'abi- 
tudine di  compiere  azioni  utili  agli  altri;  '<  imperocché  la  sola 
utilità,  che  ad  altri  venir  ne  possa,  non  basta  a  render  probe  le 
nostre  azioni,  qualor  convenevoli  e  degne  di  approvazione  non 
siano  in  sé  medesime  »  (2).  Le  azioni  oneste  son  quelle  coman- 
date da  un  espresso  dovere;  e  dovere  è  tutto  ciò  che  un  uomo, 
secondo  le  varie  circostanze,  è  tenuto  a  fare  o  non  fare  (3);  esso 
gli  è  dettato  dalla  ragione  (4);  giacché  «  la  coscienza  nel  senso 
in  cui  dagli  Etici  si  suol  prendere  altro  non  è  che  la  stessa  ra- 
gione, la  quale,  paragonando  coi  doveri  le  azioni  fatte  o  da  farsi, 
giudica  se  sian  ad  essi  conformi  o  contrarie,  e  quindi  se  sieno 
buone  o  malvagie  »  (5). 

Ma  il  Soave  non  si  ferma  qui.  Egli  distingue  la  virtù  (Ì2i\V onestà; 
questa  consiste  nel  compiere  le  azioni  «  di  espresso  e  indispen- 
sabil  dovere  »,  quella  nel  non  contentarsi  di  adempiere  ciò  che 
é  d'espresso  dovere,  e  nel  fare  buone  azioni  anche  senz'esservi  co- 
stretti dal  dovere,  o  oltre  ciò  che  il  dovere  prescrive.  Il  pagare 
un  debito,  il  mantenere  una  promessa,  il  restituire  un  deposito 
sono  certo  azioni  buone,  ma  non  virtuose.  Invece  il  beneficare 
un  nemico  o  un  ingrato,  il  sollevare  una  famiglia  onesta  dalla 
miseria,  l' opporsi  alla  prepotenza  d' un  ingiusto  usurpatore  in 
difesa  d'un  debole  innocente,  l'esporre  generosamente  per  la  sal- 
vezza altrui  la  propria  vita  a  un  imminente  pericolo  sono  azioni 
veramente  virtuose.  Del  pari  l'astenersi  dalla  vendetta  é  un  dovere, 
ma  non  una  virtù.  La  virtù  comincia  quando  si  ha  il  coraggio 
di  far  anche  del  bene  all'oltraggiatore;  e  questo  sforzo  é  l'atto 
più  generoso  a  cui  possa  giungere  un'  anima  veramente  grande. 
'  "■  La  virtù  adunque  potrà  definirsi  l'abito  di  far  delle  buone  azioni 
morali  anche  non  comandate  da  un  espresso  dovere,  o  superiori 
a  questo  dovere  medesimo  »  (6). 

La  probità  abbraccia  V  onestà  e  la  virtù,  e  si  può  definire 
«  l'abito  di  far  oneste  e  virtuose  azioni  a  prò  d'altrui  »  (7). 


(1)  Istituzioni  di  etica,  pag.  110-111  del  Tomo  XIV  delle  Opere. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  238.  (3)  Op.  cit.,  Parte  11,  Sez.  II,  pag.  268. 

(4)  Op.  cit.,  pag.  7,  369,  375,  404  (nota  106). 

(5)  Op.  cit.,  pag.  332.  (6)  Op.  cit.,  pag.  339  e  seg. 
(7)  Op.  cit.,  pag.  239. 


-  73 


OSSERVAZIONI.  —  Concludendo:  il  Soave  ha  arrecato  no- 
tevoli miglioramenti  all'  ideologia  francese.  Ha  cominciato  dal  ria- 
bilitare in  certo  senso  il  metodo  deduttivo;  ha  poi  criticata  la 
riduzione,  compiuta  dal  Condillac  e  dal  Tracy,  di  tutte  le  facoltà 
psichiche  a  quella  di  sentire;  ha  cercato  d' eliminare  l' idealismo 
fenomenistico  nel  problema  della  realtà  del  mondo  esterno;  ha 
infine  liberato  l' etica  dal  soggettivismo  egoistico. 

Quanto  al  metodo  però  abbiamo  già  notato  che  la  sintesi  ha 
nella  sua  filosofia  un'  importanza  solo  didattica,  non  è  conside- 
rata quindi  come  un  vero  metodo  della  ricerca. 

Riguardo  alla  classificazione  delle  facoltà  psìchiche,  è  noto 
quanto  difficile  essa  sia;  si  può  dire  che  anche  oggi  non  c'è  una 
classificazione  accettata  da  tutti  i  filosofi.  Osserverò  soltanto  che 
in  quella  del  Soave  i  sentimenti  non  compariscono  come  una  classe 
speciale  di  fatti;  eppure  non  si  può  negare  che,  sebbene  essi  accompa- 
gnino l'esplicarsi  di  altre  funzioni  psichiche,  di  cui  costituiscono 
come  il  tono  o  la  risonanza,  sono  irriducibili  ad  altro.  Mi  pare 
invece  che  non  sia  esatto  fare  dell'  attività  una  funzione  speciale 
della  psiche.  L'  anima  è  tutta  attività,  vita,  e  appunto  per  questo 
fu  considerata  da  Platone  (e,  si  potrebbe  aggiungere,  da  Rousseau), 
come  il  principio  del  movimento  di  contro  alla  materia  inerte.  I 
fenomeni  psichici  son  tutti  «  atti  >  d' un  centro  d' energia.  Del 
resto  il  Soave  stesso,  come  s'è  visto,  è  costretto  a  riconoscere  che 
questa  funzione  si  confonde  con  la  facoltà  di  riflettere,  di  cono- 
scere, di  ricordarsi  e  di  volere  (e,  in  parte,  con  quella  di  sentire, 
giacché  pare  ch'egli  ammetta  una  certa  azione  dell'anima  anche 
nella  sensazione). 

Del  pari,  1'  attenzione  e  la  riflessione,  piuttosto  che  una  fun- 
zione a  parte,  costituiscono  un  concentramento  dell'  attività  psi- 
chica su  uno  o  pili  punti  del  campo  della  coscienza. 

Si  badi  del  resto  che  il  Soave  non  pretende  che  la  sua  clas- 
sificazione dei  fatti  psichici  sia  definitiva;  il  che  dimostra  la  sua 
prudenza  e  circospezione  (1). 


(1)  «  Tre  facoltà  o  potenze  si  sogliono  distinguere  nell'anima,  cioè 
intelletto,  memoria  e  volontà,  che  alcuni  riducon  pure  a  due  sole,  in- 


—  74  — 

Notevole  è  la  distinzione,  ch'egli  fa,  dell'elemento  rappresen- 
tativo, che  prevale  in  alcune  sensazioni  (e  nei  ricordi  corri- 
spondenti), e  dell'  elemento  affettivo,  che  si  nota  maggiore  o 
esclusivo  in  altre.  Osservo  anzi  che,  appunto  a  causa  di  tale  dif- 
ferenza, le  sensazioni  olfattive  e  gustative,  come  anche  il  caldo  e 
il  freddo  etc,  sono  molto  affini  ai  sentimenti  (1);  perciò  dovreb- 
bero essere  anch'  esse  prese  in  considerazione  nel  problema  della 
così  detta  «  memoria  affettiva  :■  (2).  Si  sa  che  la  principale  dif- 
ficoltà di  ammettere  una  memoria  dei  sentim.enti  sta  nella  circo- 
stanza che  i  sentimenti,  al  contrario  delle  rappresentazioni  di  og- 
getti percepiti  per  es.  mediante  la  vista,  non  lasciano  nella  mente 
una  traccia  capace  di  risorgere  in  forma  d' immagine.  Ora  questa 
stessa  difficoltà  sorge  per  quei  fenomeni  psichici  che  il  Soave 
chiama  sensazioni  (di  contro  a  percezioni)  e  che,  quando  son  ri- 
cordati, si  ripresentano  come  nozioni,  ma  non  come  immagini  o 
idee  (che  sono  invece  suscitate  dalle  percezioni).  Voi  mi  direte: 
—  Ma  se  d'un  odore  o  sapore  o  suono  non  si  può  avere  un'im- 
magine (idea),  questa  si  può  avere  dell'oggetto  che  ha  suscitato 
la  sensazione  — .  Verissimo;  ma  l'oggetto  non  è  l'odore  o  il  sapore; 
è  solo  una  circostanza  che  accompagna  il  prodursi  del  fatto  psi- 
chico: proprio  come  nei  sentimenti.  Ebbene,  alcuni,  a  causa  della 
difficoltà  di  ammettere  una  rappresentazione  o  immagine-ricordo 
del  sentimento,  hanno  sostenuto  che  il  ricordo  di  questo  con- 
sista nel  riprodursi  del  sentimento  stesso  (ricordare  un  senti- 
mento sarebbe  riprovarlo).  Ma,  allora,  anche  il  ricordo  d'un  odore 
o  d'un  sapore  dovrebbe  consistere  nellfi  reviviscenza  di  tale  sen- 
sazione; poiché  gli  odori  e  i  sapori  presentano  gli  stessi  caratteri 
dei  sentimenti  (3).  Invece  noi  sperimentiamo  che  il  ricordo  d'  un 


telletto  e  volontà.  Ma  sebben  tutte  in  qualche  senso  a  queste  due  ridur 
si  possano,  la  maggior  chiarezza  ed  esattezza  però,  come  vedremo  nella 
psicologia,  richiede  che  sei  facoltà  nell'anima  si  distinguano  {Istituzioni 
di  logica,  Parte  I,  Sez.  I,  pag.  87). 

(1)  Il  Soave  infatti  li  colloca  accanto  al  piacere  e  al  dolore. 

(2)  RiBOT,  Psicologia  dei  sentimenti,  Sandron,  Palermo,  Gap.  XI; 
vedi  anche  vari  articoli  del  Ribot,  del  Pillon,  del  Mauxion,  del  Pieron,  del 
Paulhan,  del  Dugas,  del  Baldwin  in  Rcvue  Philosophique,  1894,  1901, 
1902,  1903,  1904,  1907,  1909. 

(3)  11  Ribot  infatti  colloca  le  impressioni    del   gusto  e  dell'odorato 


—  75  — 

odore  o  sapore  non  consiste  nel  risorgere  della  sensazione.  Dunque 
sarà  lo  stesso  dei  sentimenti  ?  Ma  allora  come  avviene  il  ricordo 
di  tali  fenomeni  psichici?  Questo  dimostra  che  nella  nostra  anima 
vi  sono  ancora  aspetti  oscuri,  che  la  psicologia  moderna  non  è 
riuscita  a  chiarire  del  tutto;  ed  è  merito  del  Soave  1'  aver  visto 
la  differenza  fra  sensazione  e  percezione,  fra  nozione  e  idea,  e  l'aver 
accennato  anche  alla  difficoltà  di  ricordare  le  sensazioni  (=  sen- 
timenti) (1). 

Quanto  al  riconoscimento,  neppure  la  spiegazione  che  ne  dà 
il  Soave  mi  sembra  sodisfacente;  giacché  le  circostanze  passate 
che  accompagnano  l' immagine-ricordo,  affinchè  possano  servire 
a  staccar  questa  dalle  circostanze  attuali,  devono  esser  riconosciute 
come  passate;  quindi  il  riconoscimento  presupporrebbe  il  ricono- 
scimento (petizione  di  principio). 

Sulla  natura  delle  relazioni  il  Soave  non  si  esprime  chiara- 
mente. Dice  che  sono  scoperte  mediante  il  confronto  e  il  giudizio. 
Ma,  allora,  non  le  può  certo  considerare  come  percepite  coi  sensi; 
giacché  il  confronto  e  il  giudizio  secondo  il  Soave  stesso  non  si 
possono  confondere  con  la  sensibilità;  abbiamo  dunque  qui  un'at- 
tività superiore  al  potere  di  sentire:  1'  attività  riferente  e  giudica- 
trice, che  dà  origine  a  prodotti  nuovi,  superiori  alle  sensazioni. 
Il  sensismo  e  l'empirismo  grossolano  é,  così,  sorpassato?  Parrebbe; 
ma  il  Soave  non  chiarisce  questo  punto. 

Riguardo  all'etica,  è  certo  notevole  il  tentativo   del  Soave  di 


nella  stessa  categoria  degli  stati  piacevoli  o  dolorosi,  delle  emozioni  e 
passioni  (Psic.  dei  seni.,  pag.  147,  148),  e  cita,  come  casi  di  memoria 
affettiva,  i  ricordi  di  sensazioni  gustative  e  olfattive  (pag.  151-52). 

(1)  Si  noti  che  il  Soave  quasi  propende  per  1'  opinione  di  coloro 
che  fanno  consistere  il  ricordo  del  sentimento  nella  reviviscenza  del 
sentimento  stesso,  giacché  dice:  «  Se  (l'anima)  avrà  odorato  prima  un 
garofano  e  poi  una  rosa,  si  sovverrà  ancora  di  aver  avuto  da  quello  e 
da  questa  una  diversa  sensazione,  e,  concentrandosi  in  questa  contem- 
plazione e  paragonando  le  due  sensazioni,  le  parrà  forse  eziandio  di 
sentir  nuovamente  un  principio  delV una  e  dell'altra;  ma  vera  imma- 
gine non  potrà  mai  averne  »  {Istituz.  di  Meta/.,  pag.  99-100).  D'altra 
parte  chiama  nozione  la  traccia  lasciata  dalle  sensazioni  e  dai  senti- 
menti; il  che  farebbe  supporre  che  egli  consideri  tale  traccia  come  un 
fenomeno  intellettuale. 


—  76  — 

fondarla  sulla  nozione  del  dovere.  Ma  si  può,  com' egli  sostiene, 
andar  oltre  il  dovere?  Tutto  ciò  che  e  bene  h  per  l'uomo  un  do- 
vere; si  potrà,  se  mai,  stabilire  una  certa  gerarchia  di  beni  morali, 
di  <^  valori  >  (agli  atti  di  carità  per  es.  si  dà  più  valore  che  a  quelli  di 
giustizia);  per  attuarli  sarà  necessario  uno  sforzo  (inibizione  de- 
gl' impulsi)  maggiore  o  minore;  ma  non  c'è  un  bene  che  s'imponga 
a  noi  come  dovere  e  un  altro  che  non  ci  s' imponga  come  tale. 
Per  una  coscienza  veramente  morale  non  solo  è  dovere  perdo- 
nare al  nemico  e  non  vendicarsi,  ma  anche  soccorrerlo  nel  bisogno. 
Ci  resta,  in  ultimo,  da  esaminare  la  questione  se  il  Soave  sia 
materialista  o  spiritualista  o  idealista....  Senza  dubbio  egli  ha  una 
certa  tendenza  allo  spiritualismo:  dimostra  infatti  la  semplicità  e 
spiritualità  dell'  anima  (1),  e  combatte  1'  affermazione  del  Locke 
che  «  forse  ci  sarà  eternamente  impossibile  conoscere  se  Dio  non 
abbia  dato  o  non  possa  dare  la  facoltà  di  pensare  a  qualche  am- 
masso di  materia  a  ciò  espressamente  preparato  e  disposto  »; 
giacché  la  materia  è  un  ente  composto,  e,  finché  sarà  tale,  non 
potrà  in  nessun  modo  pensare.  Ammette  pure  l' immortalità  del- 
l'anima  (2).  Movendo,  al  pari  del  Locke,  dall'esistenza  indubita- 
bile del  soggetto  pensante,  dimostra  l'esistenza  di  Dio  (3),  e  af- 
ferma che  Dio,  essendo  autore  di  sostanze  pensanti,  dev'  esser 
pure  pensante  (4).  Parrebbe  dunque  eh'  egli  fosse  spiritualista. 
Ma....  al  pari  di  Locke  scrive  che  la  sostanza  intima  delle  cose, 
la  loro  essenza,  ci  è  ignota,  e  che  noi  non  possiamo  scoprire  se 
non  le  loro  qualità  (ossia  i  fenomeni)  (5).  Confessa  che,  sebbene 
una  certa  azione  si  debba  ammettere  fra  corpo  e  anima,  non  si 
può  dire  quale  essa  sia  (6);  che  ci  è  ignota  anche  la  maniera  in 
cui  lo  stimolo  esterno  diviene  sensazione  (7),  e  l' anima  compie 
le  sue  operazioni  (sentire,  percepire  etc.)  (8).  Neppure  l' intima 


(1)  Istituzioni  di  Meta/.,  Parte  I,  Sez.  I,  Gap.  I.  Cfr.  Esame  dei  prin- 
cipi metafisici  della  Zoonomia  di  E.  Darwin. 

(2)  Ist.  di  Met.,  Parte  I,  Sez.  I,  Gap.  II. 

(3)  Op.  cit.,  Parte  IV,  Gap.  I. 

(4)  Op.  cit.,  Parte  IV,  Gap.  11,  Art.  IV. 

(5)  Analisi  dell'umano  intelL,  pag.  46;  Ist.  di  Met.,  pag.  37  e  230. 

(6)  fstituz.  di  Meta/.,  Parte  I,  Sez.   Il,  Gap.  1,  Art.  IV,  e  Gap.  VI, 
pag.  153;  vedi  anche  pag.  20,  64,  98.  (7)  Op.  cit.,  pag.  71  e  153. 

(8)  Analisi  dell' nm.  intelL,  pag.  100;  Istituz.  di  Meta/.,  pag.  187-188. 


—  11- 

essenza  e  l'origine  dell'anima  possiamo  conoscere,  sebbene  siamo 
sicuri  della  sua  semplicità.  Cartesio  e  i  suoi  seguaci  pretendevano 
che  r  essenza  deli'  anima  consistesse  nel  pensiero,  quella  della 
materia  nell'  estensione;  ma  con  qual  ragione  si  può  dire  che 
r  essenza  della  materia  sia  nell'  estensione,  se  questa  non  è  che 
una  sua  proprietà,  anzi  una  semplice  relazione,  cioè  la  coesistenza 
di  più  parti  o  di  più  cose  unite  insieme?  e  come  si  può  riporre 
r  essenza  dell'  anima  nel  pensiero,  se  questo  non  è  che  una  sua 
azione  ?  chi  dirà  che  l' azione  e  l' agente  siano  una  medesima 
cosa?  (1)  Il  Soave  aggiunge  che  noi  non  possiamo  neppure  ca- 
pire la  maniera  in  cui  i  corpi  agiscono  1'  un  su  l' altro  (2),  né 
la  creazione  dal  nulla,  giacché  per  noi  è  verissimo  che  ex  nihilo 
nihil  fit  (3).  Infine,  esaminando  il  problema  degli  elementi  ultimi 
del  mondo,  mostra  le  difficoltà  che  nascono  dall' ammetter  questi 
come  semplici  e  inestesi;  giacché  in  che  maniera  elementi  ine- 
stesi, senza  parti,  possono  occupare  uno  spazio  e  formar  l' esteso, 
la  materia?  Alcuni,  egli  dice,  hanno  creduto  di  poter  eliminare 
queste  difficoltà  col  dire  che  gli  elementi  sono  semplici  e,  come 
tali,  né  si  toccano  realmente,  né  occupano  spazio,  ma  son  dotati 
delle  forze  d'  attrazione  e  di  ripulsione,  per  cui  sono  costretti  a 
tenersi  sempre  a  determinate  distanze  fra  loro,  senza  potersi  né 
allontanare  né  accostare  maggiormente,  dal  che  risulterebbe  il 
fenomeno  dell'  estensione  e  della  solidità.  Ma,  egli  osserva,  come 
si  possono  attribuire  ad  elementi  inestesi  le  forze  d'attrazione  e 
di  ripulsione,  che  sono  state  scoperte  nei  corpi  estesi  ?  Inoltre, 
in  tal  caso,  non  esisterebbe  nei  corpi  né  estensione  né  solidità 
propriamente  detta;  queste  sarebbero  illusioni  nostre.  Ma  allora 
r  esistenza  stessa  dei  corpi  sarebbe  un'  illusione;  poiché  che  ri- 
mane dei  corpi,  se  si  toglie  loro  1'  estensione  e  la  solidità?  Di 
fronte  a  queste  difficoltà  il  Soave  non  ardisce  asserire  che  gli 
elementi  ultimi  del  mondo  siano  spirituali;  e  così  conclude:  «  Che 
s'  ha  egli  a  dire  pertanto  degli  elementi  de'  corpi  ?  Quel  che  sì 
spesso  e  di  tante  cose  dicea  colui  che  dall'  oracolo  fu  dichiarato 
il  più  sapiente  degli  uomini:  Hoc  unum  scio,  me  nihil  scire  »  (4). 


(1)  Istit.  di  Metaf.,  Parte  1,  Sez.  I,  Gap.  Ili,  Art.  I  e  U. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  28C.  (3)  Op.  cit.,  pag.  344. 
(4)  Op.  di.,  Parte  IH,  Gap.  V. 


—  78  — 


CAPITOLO  III.  —  Gioia 

VITA  E  OPERE.  —  (1)  Melchiorre  Gioia  nacque  a  Piacenza 
il  20  settembre  1767  da  Gaspare,  orefice  valente,  austero  e  probo, 
e  da  Marianna  Coppellotti,  donna  d' ingegno  svegliato  e  di  grande 
vivacità.  Fu  il  quarto  di  sei  (2)  figli;  già  nella  tenera  età,  quando  aveva 
più  bisogno  che  mai  dell'amore  dei  parenti,  fu  colpito  dalla  sven- 
tura; divenuto  orfano  di  padre  nel  sesto  anno  di  sua  vita  (1773), 
nel  tredicesimo  si  vide  morire  anche  la  madre.  Egli  allora  insieme 
con  i  fratelli  venne  in  tutela  dell'  avvocato  Giovanni  Coppellotti, 
zio  materno,  il  quale  ebbe  cura  delle  loro  persone  e  dei  pochi 
beni  ereditati.  Passò  la  prima  età  studiando  un  po'  di  latino  e 
di  retorica  nel  Liceo  di  S.  Pietro  in  Piacenza;  superato  un  con- 
corso e  vestito  l'abito  ecclesiastico,  il  2  novembre  1784  entrò 
nel  Collegio  Alberoni,  per  intraprendervi  i  corsi  di  filosofia,  di 
teologia,  di  morale,  di  diritto  canonico  e  d'istituzioni  civili. 
<   Fu  questa  -,  dice  il  Romagnosi,  <  una  fortuna  per  il  Gioia,  non 


(1)  Romagnosi,  Elogio  storico  di  M.  Gioia,  comparso  la  prima  volta 
nel  Voi.  LII,  pag.  392,  della  Biblioteca  Italiana  (1828)  e  ripubblicato  in 
Biografia  degli  Italiani  illustri  etc.  del  Tipaldo  (1834),  Voi.  I,  pag.  165- 
178  e  in  Opere  storico-filosofiche  e  letterarie  di  G.  D.  Romagnosi  rior- 
dinate e  illustrate  dal  De  Giorgi,  Volume  unico,  Parie  II,  Milano,  Perelli 
e  Mariani,  1844,  pag.  853  e  seg.;  Giuseppe  Sacchi,  Cenni  sulla  vita  e 
sulle  opere  di  Ai.  Gioia  in  Annali  Universali  di  statistica,  Voi.  XIX, 
gennaio  1829,  e  poi  a  parte  presso  gli  Editori  degli  Annali  Universali 
delle  Scienze  e  dell'  Industria,  Milano,  1829;  Pou,  Op.  cit.  Voi.  IV, 
§  §  429-432;  F.  MOMIGLIANO,  Un  pubblicista  economista  e  filosofo  del 
periodo  napoleonico  in  Rivista  di  filosofia  e  scienze  affini,  Anno  V 
(1903),  Voi.  I,  num.  2,  3-4,  5-6,  Voi.  II,  num.  1-2,  5-6,  Anno  IV  (1904), 
Voi.  II,  num.  1-2  (tratta  dell'attività  del  Gioia  nel  periodo  napoleonico); 
e  F.  Momigliano,  Melchiorre  Gioia  pubblicista,  storiografo  e  divor 
zista  in  //  Secolo  XX,  1°  giugno  1919,  pag.  385  e  seg.  Delle  opere  del 
Gioia  stesso  possono  giovare  per  la  sua  biografia  specialmente  La 
scienza  del  povero  diavolo,  le  Riflessioni  relative  all'opuscolo  <  La 
scienza  del  povero  diavolo  -  (in  Opere  minori.  Voi.  II,  Lugano,  Ruggia, 
1833),  i  Documenti  comprovanti  la  cittadinanza  italiana  di  M.  Gioia  (in 
Opere  minori.  Voi.  IH),  e  La  lettera  intorno  alla  Signora  B.  Milesi 
{Opere  minori,  Voi.  V).  (2)  Il  Sacchi  dice:  cinque. 


—  79  — 

solo  perchè  per  nove  anni  intieri  si  trovò  libero  di  consacrarsi 
tutto  agli  studi,  senza  la  più  piccola  spesa  della  sua  famiglia, 
in  un  istituto  che  forniva  tutt'  i  mezzi  della  migliore  educa- 
zione fisica,  intellettuale  e  morale,  ma  anche  perchè  v'  incontrò 
saggi  maestri  ».  Fra  i  quali  il  condillachiano  Giovanni  Antonio 
Comi,  da  noi  già  ricordato.  11  Gioia  coltivò  specialmente  la  filo- 
sofia e  le  matematiche.  L'  amore  da  lui  concepito  allora  per  tali 
studi  severi,  racconta  il  Romagnosi  (1),  era  così  intenso,  che  più 
volte,  per  procacciarsi  libri  nuovi,  egli,  uscito  di  nascosto  dal  col- 
legio, avviluppato  nel  mantello  e  coperto  la  testa  dal  cappello  di 
uno  degl'inservienti,  si  recava  nella  vicina  Piacenza  ad  acquistarli, 
rientrando  poi  lieto  con  essi,  come  se  avesse  rapito  un  tesoro 
alla  sapienza.  Compiuto  il  novennio  e  divenuto  sacerdote,  nel- 
r  agosto  del  1793  uscì  di  collegio,  e  accettò  1' ospitalità  offertagli 
dal  fratello  Ludovico,  negoziante  assai  stimato  in  Piacenza.  Era 
il  tempo  che  il  ducato  di  Parma  e  Piacenza,  dopo  gli  anni  di 
splendore  goduti  per  opera  del  Du  Tillot,  decadeva  vergognosa- 
mente. «  Questi  paesi,  scriveva  il  Gioia  (2),  hanno  per  capo  un 
imbecille,  che  dimanda  a  Dio  perdono  del  tempo  che  dà  agli 
affari  di  Stato.  Una  monaca  impudente  e  un  vescovo  infame  lo 
raggirano  a  loro  piacimento;  essi  gli  dicono  di  proteggere  i  ca- 
lunniatori, ed  egli  li  protegge,  di  perseguitare  il  merito,  ed  egli 
lo  perseguita,  d' assopirsi  nella  voluttà,  ed  egli  si  assopisce,  di 
amare,  di  odiare,  di  temere,  ed  egli  ama,  odia  e  teme  con  eguale 
indifferenza.  Intanto  le  cariche  sono  vendute  al  maggiore  oblatore, 
le  imposte  distribuite  esclusivamente  sulla  classe  media  della  so- 
cietà, il  commercio  intercetto  da  privilegi  ed  atti  arbitrari  ».  È 
facile  pensare  che,  date  tali  condizioni  politiche,  il  Gioia  non 
prendesse  parte  alcuna  agli  avvenimenti  della  sua  terra.  Nei  pochi 
anni  che  vi  dimorò  visse  ritiratissimo,  sprofondato  nelle  sue  me- 
ditazioni. Si  rese  familiari  specialmente  gli  scrittori  francesi  e  in- 
glesi, che,  introdotti  non  solo  dagli  studiosi  di  legislazione  e  di 
economia  politica,  ma  anche  dal  Condillac  e  dal  Soave,  erano 
oramai  apprezzati  e  gustati  nella  penisola.  Dal  suo  ritiro  uscì  solo 


(1)  Op.  cit.,  pag.  855  dell'edz.  De  Giorgi. 

(2)  Cenni  politici  sugli  stati  di  Parma  e  di  Piacenza  (articolo  del 
Monitore)  in  Opere  minori,  Voi.  1,  pag.  204;  Cfr,  Voi.  I,  pag.  215-216. 


—  80  — 

perchè  chiamato  ad  educare  i  figli  del  marchese  Paveri-Fontana; 
ma  per  pochi  mesi  accettò  tale  incarico,  che  lo  distraeva  dagli 
studi  prediletti.  Aveva  tanta  passione  per  il  lavoro  intellettuale, 
che  consacrava  allo  studio  le  notti  intere,  dopo  aver  dormito 
un  po'  nelle  ore  pomeridiane;  e  la  notte,  per  non  esser  vinto  dal 
sonno,  faceva  pendere  dalla  soffitta  una  lucerna,  presso  1'  abba- 
gliante riverbero  della  quale  egli,  in  piedi  su  una  cassapanca,  ri- 
maneva a  studiare  infaticato  nelle  lunghe  e  silenziose  ore. 

Fu  scosso  dalle  meditazioni  dal  rombo  del  cannone  napo- 
leonico, che  annunziò  tempi  nuovi  agl'Italiani.  L'amministrazione 
generale  di  Lombardia,  succeduta  al  governo  di  tre  mesi  della 
agenzia  militare  (3  sett.  1796),  proponeva  il  10  ottobre  1796  un 
premio  di  duecento  zecchini  a  chi  meglio  svolgesse  il  tema: 
^^  Quale  dei  governi  liberi  meglio  convenga  alla  felicità  d'Italia  ». 
Il  Gioia  esaminò  il  problema,  e  lo  risolse  proponendo  per  la 
sua  patria  una  repubblica  non  federale,  ma  unitaria  (1).  Già  prima 
la  polizia  del  duca  di  Parma  e  la  curia  di  Piacenza  guardavano 
di  mal'  occhio  il  Gioia,  sapendolo  ammiratore  della  filosofia  e 
della  rivoluzione  francese;  aspettavano  l'occasione  per  carcerarlo. 
Questa  fu  loro  offerta  dalla  dissertazione  del  filosofo:  il  quale  fu 
chiuso  nelle  prigioni  del  Sant'  Ufficio,  per  ordine  del  vescovo  di 
Piacenza  e  del  duca,  che  lo  accusarono,  tanto  per  avere  un  pre- 
testo, d'aver  celebrato  messe  a  scopo  di  lucro.  Egli  protestò,  vo- 
leva difendersi;  disse  all' uno  e  all'altro  <  che  rispettassero  in  lui 
quel  diritto  che  Pilato  e  Caifasso  avevano  rispettato  in  Cristo  >  (2); 
ma  non  fu  ascoltato.  Ben  presto  però  la  Repubblica  Cisalpina, 
proclamata  il  29  giugno  1797,  intervenne  in  suo  aiuto,  e  lo  fece 
liberare.  La  dissertazione  mandata  a  Milano  ottenne  il  premio;  il 
che  richiamò  su  lui  1'  attenzione   del  governo   della  Cisalpina,  il 


(1)  Dissertazione  sul  problema,  quale  dei  governi  liberi  meglio  con- 
venga alla  felicità  d'Italia,  Milano,  1797,  ripubbl.  in  Opere  minori, 
Voi.  IV,  pag.  97-311.  Vedere  spec.  pag.  194  e  seg. 

Il  Mazzini  {Scritti  editi  e  inediti,  Roma,  1881,  Voi.  l,  pag.  82)  ricorda 
il  Gioia  per  questa  dissertazione.  <  Né  credo,  egli  scrive,  che  da  Melch. 
Gioia  in  fuori,  in  un  libriccino  dimenticato,  un  solo  degli  scrittori  politici 
sorti  in  Italia  nel  periodo  dell'invasione  francese  contemplasse  l'unità 
politica  della  patria  comune  ^■. 

(2)  Opere  minori,  Voi.  IV,  pag.  100,  nota. 


—  81   — 

quale,  tenendo  conto  anche  del  carcere  patito  dal  filosofo,  gli  si 
mostrò  benevolo.  Il  Consiglio  de'  Juniori  lo  nominò  suo  Redat- 
tore e  lo  chiamò  a  Milano  (1).  Poteva  non  andare  verso  la  libertà? 
Dopo  breve  esitazione,  nel  novembre  del  1797  partì  da  Piacenza, 
e  stabilì  la  sua  dimora  nella  capitale  della  Cisalpina.  Milano  si 
destava  allora  a  nuova  vita.  L' esempio  di  Francia  aveva  entusia- 
smati anche  gì'  Italiani,  che,  vedendo  i  troni  crollare  e  il  popolo 
vincere,  s' inebriavano  delle  idee  giacobine.  Il  Gioia  si  trovò  come 
in  mezzo  ad  un  mare  tempestoso;  e,  simpatizzando  con  gli  agi- 
tatori del  popolo,  si  lanciò  nel  turbine  della  vita  politica.  Gettò 
r  abito  talare;  fu  nominato,  da!  Corpo  legislativo,  cittadino  per 
abilità  straordinaria  nelle  scienze;  e,  rinunziato  al  posto  di  redat- 
tore ufficiale  del  Consiglio  de'  Juniori,  si  diede  al  giornalismo. 
Insieme  col  vicentino  Breganze  e  col  Foscolo  (2),  il  20  gennaio 
del  1798,  fondò  il  Monitore  italiano,  propugnando  idee  di  tolle- 
ranza, di  libertà,  di  giustizia  e  d'  umanità  («  guerra  ai  tiranni  e 
pace  ai  popoli  »  era  il  suo  motto)  (3).  Ma  ben  presto,  al  pari 
degl*  ideologi  francesi,  provò  disillusioni  e  amarezze.  Il  governo 
di  Napoleone  non  cercava,  come  prima  pareva,  di  proseguir  l'opera 
dei  rivoluzionari  repubblicani;  le  sue  parole  ingannatrici  erano 
smentite  dalla  brutalità  dei  fatti:  nel  proclama  di  Cherasco  aveva 
detto:  —  Peuples  d' Italie,  nous  n'  en  voulons  qu'à  vos  tyrans  --,  e  poi 
trascinava  di  nuovo  i  popoli   sotto  il  giogo;  che   rovesciava   dal 


(1)  Documenti  coniprovaiiti  la  cittadinanza  italiana  di  M.  Gioia  in 
Opere  minori,  Voi.  Ili,  pag.  287  e  288. 

(2)  Il  Foscolo,  venuto  da  Venezi.i,  chiese  ed  ottenne  a  Milano  la  cit- 
tadinanza nella  Repubblica  Cisalpina.  Egli  irequentava  il  Circolo  Costi 
tuzionale,  dove  pronunciò  vari  discorsi  (dicembre  1797  e  febbraio  1798), 
specie  sulla  necessità  d'armarsi.  Nel  Monitore  doveva  specialmente  com- 
pilare le  relazioni  delle  sedute  delle  .'\ssemb!ee  legislative  dei  Juniori  e 
dei  Seniori,  soggiungendo  le  sue  osservazioni.  Vedi  alcuni  suoi  articoli 
in  Opere  minori  del  Gioia,  Voi.  I,  pag.  230  e  262.  Cfr.  F.  Momigliano, 
Ugo  Foscolo  giornalista  democratico  della  Repubblica  Cisalpina  in 
Secolo  XX,  i"  maggio  1918;  Le  opere  di  U.  Foscolo  commentate  da  F. 
DoNADONi,  Napoli,  Perrella,  pag.  13;  L.  Rava,  Ugo  Foscolo  giornalista 
a  Milano  in  Rivista  d'Italia,  15  aprile  1920,  pag.  381  e  seg. 

(3)  Articoli  estratti  dal  Monitore  Italiano  in  Opere  minori,  Voi.  I, 
pag.  171  e  seg. 


—  82  — 

trono  i  monarchi,  e  li  risollevava  con  maggior  lustro  e  splendore. 
Il  Direttorio  considerava  l' Italia  come  terra  di  conquista;  voleva 
quindi  ad  ogni  costo  che  fosse  approvato  un  trattato  di  com- 
mercio e  d'  alleanza  fra  la  repubblica  francese  e  la  cisalpina,  il 
quale  esigeva  che  questa  pagasse  un  tributo  annuo  di  diciotto  mi- 
lioni di  lire,  oltre  gli  straordinari  in  tempi  di  guerra;  consegnasse 
le  principali  fortezze  alla  ^  grande  nazione  >;  accogliesse  una 
guarnigione  di  venticinque  mila  soldati  francesi;  affidasse  le  sue 
forze  a  generali  venuti  di  Francia;  aiutasse,  in  caso  di  guerra,  la 
nazione  sorella,  senza  che  questa  s'  obbligasse  a  fare  altrettanto. 
Era  un  vero  patto  fra  lupo  e  agnello  (1).  Tutto  ciò  riusciva  do- 
loroso al  Gioia  e  ad  altri  Italiani,  i  quali  volevano  respingere  non 
l'alleanza,  ma  <  le  condizioni  ingiuste  su  cui  era  poggiata  ».  <  Se 
le  nostre  lagnanze  >,  scriveva  il  Gioia,  non  trovassero  un  favo- 
revole accoglimento,  se  il  Dominio  francese  stesse  fermo  sulle 
condizioni  dell'alleanza,  se  ricusasse  di  riconoscere  i  sacrifici  im- 
mensi che  ha  fatto  la  Repubblica  Cisalpina,  la  gratitudine  pro- 
fonda a'  suoi  liberatori,  il  desiderio  sincero  d'  allearsi  con  essi  a 
patti  meno  gravosi,  se  in  una  parola  la  nostra  dipendenza  fosse 
scritta  immutabilmente,  ricordiamoci  che  è  meglio  morire  liberi 
che  vivere  schiavi  »  (2).  Il  Alonitore  esprimeva  le  stesse  idee,  tanto 
che  il  tipografo  era  riluttante  a  stampare  certe  frasi.  Giacomo 
Breganze,  redattore  del  giornale  per  le  notizie  di  politica  estera, 
in  un  articolo  intitolato  Cenni  politici  (N.  14  del  giornale)  aveva 
deplorato  gli  enormi  pesi  che  gravavano  sul  popolo,  e  la  man- 
canza di  milizia  nazionale.  L'autorità  giudiziaria,  insospettita,  citò 
al  tribunale  lo  stampatore  (Andrea  Mainardi),  che  ne  palesasse 
r  autore  (3).  Ma  il  Breganze  già  il  giorno  prima  era  fuggito  a 
Roma,  con  gran  dispetto  della  polizia.  Allora  il  Foscolo,  convinto 
delle  verità  enunciate  dal  Breganze,  offre  la  propria  persona,  al 
capitano  di  giustizia,  in  vece  del  fuggiasco  (4).  Il  Gioia,  commen- 
tando il  fatto,  dichiara  che  il  popolo  sarà  informato  di  qualunque 
attentato  «  gli    scellerati    potenti    siano    per  commettere   contro 


(1)  Riflessioni  sul  trattato  di  alleanza  tra  le  Repubbliche  Cisalpina 
e  Francese  (scritte  dal  Gioia  appunto  in  tale  occasione)  in  Opere  mi 
nari,  Voi.  i,  pag,  117.  Vedi  anche  pag.  196.         (2)  Op.  cit.,  pag.  131. 

(3)  Opere  minori,  Voi.  1,  pag.  223.  (4)  Op.  cit.,  pag.  226. 


—  sa- 
la libertà  »  (1).  Conseguenza  delle  fiere  parole  del  Foscolo  e  del 
Gioia  fu  la  soppressione  de!  Monitore  (13  aprile  1798,  numero  42" 
del  giornale)  (2).  Ma  il  Gioia  non  si  piegò;  proseguì  anzi  la  lotta 
contro  le  prepotenze  e  gii  abusi,  scrivendo  una  quantità  d'  opu- 
scoli (3).  Poi  nel  nascondiglio  in  cui  s'era  rifugiato  per  timore 
di  nuova  prigionia  tracciò  il  Quadro  politico  di  Milano,  in  cui 
scoprì  le  piaghe  della  Repubblica,  e,  dimostrato  che  i  legislatori 
della  Cisalpina  non  avevano  prodotto  tutto  quel  bene  che  ave- 
vano promesso,  nò  avevano  prevenuto  quei  mali  che  forse  non 
era  difficile  prevedere,  vagheggiò  l' idea  d'  uno  Stato  italiano  in- 


(1)  Op.  cìL,  pag.  224.  Dopo  la  scomparsa  del  Eleganze,  divenne  col- 
laboratore del  giornale  (dal  N.  27  in  poi)  P.  Custodi. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  253. 

(3)  Così  il  Consiglio  de'  Junior!  aveva  proposto  una  legge  contro 
gli  allarmisti  (ossia  contro  coloro  che  avessero  sparse  false  voci  d'al- 
larme tendenti  a  mettere  in  dubbio  la  sicurezza  della  Repubblica  e  a 
seminare  timori  e  diffidenze  ne!  popolo)  per  istituire  una  specie  d'in- 
quisizione giacobina,  che  avrebbe  cagionato  in  Italia  eccessi  simili  a 
quelli  del  Terrore  francese.  11  Gioia  si  oppose  alla  legge  nell'opuscolo 
Analisi  della  legge  contro  gli  allarmisti  emanata  dal  Corpo  Legisla- 
tivo Cisalpino  nel  10  ventoso  anno  6"  repubblicano  {Opere  minori,  Voi.  I, 
pag.  133  e  seg.).  Del  pari,  il  risentimento  contro  il  dispotismo  religioso, 
da  cui  per  tanti  secoli  era  stata  oppressa  l'Italia,  aveva  spinto  i  repub- 
blicani a  eccessi  contro  il  clero;  in  mezzo  a  una  tempesta  d'ingiurie  il 
Gioia  difese  gli  oppressi,  scrivendo  gli  opuscoli  La  causa  di  Dio  e  degli 
uomini  difesa  dagV  insulti  degli  empi  e  dalle  pretensioni  dei  fanatici 
{Opere  minori.  Voi.  X)  e  l  frati  e  le  monache  -  Lettera  al  Consiglio 
de^  Seniori  {Opere  minori,  Voi.  II).  Ancora:  si  voleva  imporre  a  tutti 
il  serviiio  militare,  vietando  che  nella  coscrizione  un  giovane  (di  solito 
pagalo)  ne  sostituisse  un  altro;  gi' inconvenienti  gravissimi  che  deri- 
vavano da  tale  prescrizione  spinsero  il  Gioia  a  scrivere  l'opuscolo: 
Utilità  e  necessità  di  metter  cambi  nella  coscrizione  (che  il  Gioia  cita 
in  Documenti  com.provanti  la  cittadinanza  di  M.  G.,  Opere  minori, 
Voi.  MI,  pag.  297,  pur  non  ricordandone  il  titolo,  il  quale  io  ho  rica 
vaio  dalla  pag.  X  della  prefazione  premessa  dagli  Editori  al  Voi.  XIH 
delle  Op.  min.).  Nello  slesso  perìodo  di  tempo  la  divisione  de'  poteri 
minacciando  di  trarre  sul!'  Italia  le  sventure  di  cui  era  stata  vittima  la 
Francia  >,  il  Gioia  cercò  di  ristabilire  i  legami  sociali  con  la  riunione 
dei  poteri  {Documenti  comprovanti  etc.  pag.  297-9S).  A  tal  fine  scrisse 


—  84  — 

dipendente  da  quello  francese  (1).  Né  si  fermò  qui.  Il  22  agosto  1798 
fondò  un  nuovo  giornale  filosofico-critico,  //  Censore,  con  cui  si 
proponeva  di  dirigere  1'  opinione  pubblica,  la  quale  in  tempi  ri- 
voluzionari oscilla  incerta  in  mezzo  alle  nebbie  che  le  offuscano 
la  verità  (2).  Ma  il  nuovo  giornale,  avendo  inveito  contro  i  cam- 
biamenti che  il  Direttorio  Trouvé  voleva  arrecare  nella  Costitu- 
zione della  Cisalpina  (riduzione  del  numero  dei  membri  del  Corpo 
legislativo,  soppressione  della  libertà  di  stampa  etc.)  fu  proibito 
dopo  il  quarto  numero  (6  sett.  1798).  Per  giunta  il  governo  de- 
cretò l'esilio  del  Gioia  (16  sett.  1798). 

Al  Trouvé  successero  il  Brune  e  il  Fouché,  che  richiamarono 
i  deputati  espulsi,  ma  confermarono  il  decreto  d' esilio  del 
Gioia  (3).  A  costoro  però  successero  il  Rivaud  e  il  Joubert,  che 
ristabilirono  la  costituzione  del  Trouvé,  ma  non  impedirono  al 
Gioia  il  ritorno  in  Milano.  Il  Consiglio  de'  Seniori  riformato  dal 
Rivaud  riconobbe  il  Gioia  cittadino  della  repubblica  (4).  Onde, 
d'accordo  col  nuovo  Direttorio,  che  aveva  annullate  le  leggi  re- 
strittive della  stampa,  egli  fondò  la  Gazzetta  nazionale  della  Ci- 
salpina (5).  Io  comincio  un  nuovo  foglio  >,  dichiarava  nel 
primo  numero  (24  gennaio  1799),  "  e  lo  comincio  per  consiglio 
del  governo  >.  <•  Diciamolo  francamente  >,  aggiungeva,  giacché 
la   ragione  ce  ne  dà   il   diritto:   lo  scaduto   Direttorio   Cisalpino 


l'opuscolo:  /  poteri  chiamati  all'ordine  {Opere  min.,\'o\.  \).  Infine  in 
Breve  risposta  al  Proclama  del  AUnistro  della  guerra  pubblicato  nel 
27  nevoso  anno  7o  repubblicano  {Opere  minori,  Voi.  I)  difese  ed  elogiò 
la  Municipalità  del  Circondario  11  di  Milano,  la  quale  era  stata  con- 
dannata dal  Ministro  della  guerra,  perchè  aveva  applaudito  al  patriot- 
tismo d'alcuni  ricchi  cittadini,  che  avevano  donata  una  somma  da  di- 
stribuirsi a  quei  giovani  che  si  facessero  iscrivere  come  volontari  nel 
corpo  di  9000  uomini  prescritto  dalla  legge  11  nevoso. 

(1)  Opere  min.,  Voi.  IH,  pag.  85  e  seg.  Contro  il  Quadro  del  Gioia, 
Giuseppe  Laltanzi,  losco  figuro,  scrisse  Analisi  e  riflessi  sull'opuscolo 
•  Quadro  politico  di  Milano  ->  di  Ai.  Gioia  (in  Opere  min.  del  Gioia, 
Voi.  Ili,  pag.  257  e  seg.).  Il  Gioia  rispose  con  \  Apologia  al  quadro 
politico  di  Milano  e  con  Cos'è  patriottismo?  Appendice  al  quadro 
politico  di  Alitano  {Op.  min.,  Voi.  Ili,  pag.  84-255). 

{2)  Op.  min.,  Voi.  Ili,  pag.  5. 

(3)  Op.  min.,  Voi.  I,  pag.  46,  nota  2.  i4;  Op.  cit..  luogo  citato. 

(5)  Op.  min..  Voi.  XIII,  pag.  172  e  seg.  Cfr.  Voi.  Ili,  pag.  30. 


'A 


~  85  — 

coprì  d' obbrobrio  sé  stesso,  scacciò  dalla  Repubblica  l' ombra 
stessa  della  libertà,  quando  vietò  ai  fogli  periodici  d'  uscire  alla 
pubblica  luce  pria  di  passare  la  trafila  della  censura....  Il  Diret- 
torio presente  ha  scancellato  questi  decreti  obbrobriosi,  ed  ha 
fatto  il  suo  dovere  >  (1).  Ma  anche  questo  giornale  ebbe  breve 
vita.  «  Non  potendola  perdonare  ai  ladri  potenti  di  cui  allora 
non  v'  era  scarsezza,  >  dice  il  Gioia  stesso,  «  non  cessai  dallo  scre- 
ditarli. Essi  indussero  il  Direttorio  a  levarmi  l'associazione  dopo 
il  quarto  numero  ;^  (2).  Iniziò  allora  un  nuovo  foglio:  //  Giornale 
fllosofico-poUtico;  ma  anche  questo  durò  poco  più  d'  un  mese 
(18  febbr.  1799—4  aprile  1799)  (3).  A  questi  dispiaceri  se  n'  ag- 
giunse un  altro:  ai  primi  d'  aprile  gli  venne  in  mente  di  scrivere 
una  lettera  al  «  cittadino  duca  di  Parma  »,  nella  quale,  dichia- 
randosi commissario  straordinario  del  Direttorio,  protestava  contro 
la  prigionia  da  lui  sofferta  a  Piacenza,  e  chiedeva  otto  mila  lire 
d' indennità  (4).  A  causa  di  tale  lettera  fu  carcerato  ai  primi  di 
aprile,  ad  istigazione  deil' agente  parmense  presso  la  Repubblica 
Cisalpina  e  del  ministro  di  Spagna;  e  invano  egli  il  21  aprile  1799 
chiedeva  di  potersi  difendere.  Intanto,  mentre  Napoleone  combat- 
teva in  Egitto,  avanzavano  in  Italia  gli  Austro-Russi:  i  quali  en- 
trarono in  Milano  il  28  aprile.  Considerando  il  Gioia  come  un 
cittadino  pericoloso  e  sovvertitore  dell'ordine,  non  lo  liberarono, 
ma  lo  mandarono  nelle  carceri  di  Piacenza  consegnandolo  al  duca 
di  Parma.  I  nuovi  invasori  commisero  atrocità  e  vessazioni  d'ogni 
sorta,  specie  contro  i  partigiani  dei  Francesi  e  contro  i  democra- 
tici in  genere  (5).  1  quali,  senza  processo  alcuno,  erano  traspor- 


(1)  Op.  min.,  Voi.  XIIl,  pag.  174,  ISO  e  181. 

(2)  Documenti  comprovanti  etc.  {Opere  min..  Voi.  Hi,  pag.  300-301). 
Veramente  il  giornale  fu  soppresso  dopo  il  quinto  numero  {Op.  min.. 
Voi.  Xlli,  pag.  273). 

(3)  Pare  che  i!  Gioia  abbia  fondati  altri  giornali,  poiché  gli  editori 
delle  Op.  min.  (Voi.  XIII,  pag.  X)  dicono  di  non  aver  potuto  trovare 
per  la  ristampa  alcuni  scritti  del  Gioia,  per  es.  il  giornale  U  Amico 
della.  Libertà  e  de IV  Eguaglianza  e  il  Redattore  Italiano. 

(4ì  L.  Ambiveri,  .Melchiorre  Gioia  in  Milano,  Strenna  piacentina, 
anno  1891,  Piacenza,  F.  Solari,  pag.  70-71. 

(5)  Tutte  le  atrocità  degli  Austro-Russi  furono  narrate  da!  Gioia  nel- 
l'opera /  Francesi,  i  Tedeschi,  i  Russi  in  Lombardia  {Op.  min.  Voi.  IV), 
scritta  il  1S05  (vedi  Documenti  comprovanti  etc.  pag.  307-398). 


—  86     - 

tati  carichi  di  catene  a  Cattare  o  a  Petervaradino.  Fu  come  un 
nembo  furioso  che  durò  tredici  mesi.  Molto  sofferse  il  Gioia  nella 
prigione  (1).  Ma  presto  si'riaffacciò  sulle  Alpi  Napoleone,  e  lanciò 
le  sue  schiere  vittoriose  nella  pianura  lombarda.  II  Gioia  fu  al- 
lora liberato,  e  potè  rientrare  in  Milano.  <■■  Ei  ritornò  ,  scrisse 
con  gioia  il  filosofo,  ;'....  e  richiama  a  nuova  e  più  nobile  esi- 
stenza la  Cisalpina      (2). 

La  seconda  Cisalpina  fu  meno  turbolenta  della  prima.  Napo- 
leone volle  ristabilire  non  solo  la  libertà,  ma  anche  1'  ordine;  e, 
pensando  che  la  religione  fosse  un  mezzo  per  promuovere  la  di- 
sciplina e  r  obbedienza  allo  Stato,  volle,  com'  è  noto,  riconciliarsi 
con  l'autorità  ecclesiastica.  Al  Gioia,  al  quale  non  erano  mai  an- 
dati a  genio  gli  eccesi  degli  scapigliati,  non  dovette  sgradire  il 
nuovo  governo.  Egli  anzi  pensò  di  ottenerne  ;in  ufficio  che  gli 
procurasse  i  mezzi  per  vivere,  e  gli  lasciasse  ancora  tempo  per 
studiare:  chiese  quindi  di  esser  nominato  istoriografo  della  Re- 
pubblica Cisalpina,  in  compenso  delia  prigionia  sofferta  per  quat- 
tordici mesi  e  mezzo.  La  domanda  fu  accolta  favorevolmente;  ri- 
cevette la  lettera  di  nomina  dal  Ministro  dell'Interno  il  5  aprile 
1801  (3).  Ma  il  Gioia  non  aveva  forse  attitudine  per  la  storiografia. 


(1)  1  patiinenti  sofferti  in  prigione  soii  descritti  dal  Gioia  in  Pro- 
blema politico  e  civile  se  sia  dovuta  ai  democratici  perseguitati  sotto 
r  interregno  tedesco  un'  indcnnizzazione  {Op.  min.,  Voi.  I,  pag.  43  e  seg.). 

(2)  Ragionamento  sui  destini  della  Rep.  Cisalpina,  in  Opere  min., 
Voi.  I,  pag.  273. 

(3)  Documenti  comprovanti  etc.  {Op.  min.,  Voi.  Ili,  pag.  288).  Attese 
durante  questo  perìodo  a  parecchi  lavori.  II  trattato  di  Luneville  (9  feb- 
braio 1801)  ridava  la  libertà  agi'  Italiani  deportati  a  Cattaro  o  altrove 
e  sopravissuti  agli  stenti  e  alle  fatiche.  Costoro  furono  accolti  con  en- 
tusiasmo; ma  chiesero  ben  presto  pane  e  lavoro.  Della  loro  sorte  ebbe 
pensiero  il  Gioia,  che  scrisse  l'opuscolo:  Problema  politico  e  civile  se 
sia  dovuto  ai  democratici  perseguitati  sotto  t' interregno  tedesco  un'in- 
dennizzazione  {Op.  min.,  Voi.  1).  Inoltre,  secondando  l'intento  di  Napo- 
leone di  riconciliarsi  con  la  Chiesa,  scrisse  le  Idee  sulle  opinioni  reli- 
giose e  sul  clero  cattolico  {Op.  min..  Voi.  X):  nel  qual  lavoro  (come  in 
quell'  altro  sulla  religione,  già  citato,  La  religione  di  Dio  e  degli  iw 
mini  etc.)  il  Gioia  considera  la  religione  dal  punto  di  vista  utilitario, 
non  curandosi  della  verità  o  falsità  di  essa  (la  religione  è  utile  alla 
società,  in  quanto  raffrena  le  passioni  e  impedisce  i  delitti    e    le    viltà 


-   87 

Era  allora  in  fiore  l' economia  politica.  Erano  scoppiati  tumulti 
nel  1801  a  Modena,  a  Bologna,  nella  Valtellina  per  il  rincaro  del 
pane.  Il  Gioia  scrisse  al  riguardo  il  suo  primo  lavoro  d'economia 
politica:  Sul  commercio  d^  commestibili  e  caro  prezzo  del  vitto  - 
Opera  storico-teorico-popolare  (2). 

Intanto  la  seconda  Cisalpina  conduceva  a  buon  punto  l'opera 
sua  di  riordinamento.  Napoleone  primo  console  ne  convocò  a 
Lione  (comizi  di  Lione)  i  rappresentanti,  che  studiassero  i  mezzi 
per  ricostituire  lo  Stato  sconvolto  da  sei  anni  di  guerre  e  di  ri- 
voluzioni. Risultato  di  quei  comizi  fu  la  fine  del  disordine  veri- 
ficatosi nel  primo  triennio.  Fu  proclamata  religione  dello  Stato 
la  cattolica,  benché  fossero  tollerati  gli  altri  culti;  fu  posto  un 
freno  alle  rapine  di  certi  individui.  La  «  Repubblica  Cisalpina  » 
divenne  «  Italiana  ».  Il  Gioia  vedeva  di  buon  occhio  quest'opera 
riordinatrice,  e  aveva  stima  del  Melzi,  vice-presidente  della  Repub- 
blica, a  cui  aveva  mandati  i  suoi  ultimi  scritti.  Si  può  anzi  con- 
siderare quale  un  commento  dell'  opera  del  Melzi  il  lavoro  del 
Gioia:  Ragionamento  sui  destini  della  Repubblica  Italiana  (mag- 
gio 1803)  (1).  Ma  un  libro  sul  divorzio  {Teoria  civile  e  penale  del 


per  mezzo  dell'idea  d'una  Causa  prima  che  promette  premi  e  minaccia 
pene).  In  questo  periodo  medesimo  scrisse  il  Nuovo  Galateo,  rifatto 
più  volte.  La  prima  edz.  è  del  1802  (Milano,  Pirotta),  la  seconda  del 
1820,  la  terza  del  1822,  e  la  quarta  (Milano,  Pirotta)  del  1827  (vedi 
Op.  min.,  Voi.  XVI).  La  caratteristica  di  questo  Galateo  è  d'esser  fon- 
dato suir  utilitarismo,  giacche  la  gentilezza  e  il  garbo  che  si  dimostrano 
negli  atti  della  vita  civile  son  considerati  non  come  un  cerimoniale  di 
convenzione  (il  che  si  credeva  prima),  ma  come  un  complesso  di  precetti 
utili  alla  società  (che  rendono  piacevoli  agli  altri  i  nostri  atti);  onde  la 
loro  connessione  con  la  morale  (utilitaria).  Contro  il  Nuovo  Galateo 
scrisse  il  Rosmini  {Esame  delle  opinioni  di  M.  Gioia  in  favor  della 
moda,  e  Galateo  de*  letterati  in  Opuscoli  filosofici,  Milano,  Pogliani, 
1827-28,  Voi.  n,  pag.  99-303)  combattendone  specialmente  i  principi  uti- 
Htarì.  Il  Rosmini  criticò  anche  le  dottrine  economiche  del  Gioia  nel 
saggio  Sulla  definizione  della  ricchezza  (pure  in  Opuscoli  fil.,  Voi.  Il, 
pag.  305-330).  11  Gioia  rispose  al  Rosmini  col  libello  Risposta  agli  Ostro- 
goti (vedi  Rosmini,  Op.  cit.,  Voi.  11,  pag.  101,  nota  2). 

(2)  Op.  min..  Voi.  XII. 

(1)  Op.  min.,  Voi.  I,  pag.  265  e  seg.  In  quest'opera  il  Gioia  vagheg- 
giava, come  il  Melzi,  l' idea  che  a  poco  a  poco,  mediante   annessioni, 


—  88  — 

divorzio,  ossia  necessità,  cause,  nuova  maniera  d' organizzarlo,  se- 
guita dall'analisi  della  legge  francese  30  ventoso  anno  XI  relativa 
allo  stesso  argomento,  Milano,  Pirotta  e  Maspero,  1803)  (1),  in  cui 
il  filosofo,  applicando  i  principi  del  Bentham,  difendeva  il  divorzio 
(perchè,  a  conti  fatti,  esso  procura  piaceri  maggiori  del  matri- 
monio indissolubile  o  della  separazione  dei  coniugi  non  ricono- 
sciuta dalla  legge),  fu  causa  d'  attrito  fra  lui  e  il  governo.  Il  suo 
lavoro  fece  chiasso;  ma  giunse  a  mal  punto,  giacché,  come  s'  è 
visto,  si  tentava  allora  di  trovare  una  via  di  conciliazione  con  la 
Chiesa.  Pochi  giorni  dopo  eh'  era  stato  pubblicato  il  libro,  il 
16  luglio  1803,  giunse  al  Ministero  del  culto  una  lunga  lettera, 
in  cui  <  un  amico  della  pubblica  morale  »  additava  il  Gioia  come 
insultatore  della  morale  e  delia  religione  >.  Il  Bovara,  ministro 
del  culto,  invitò  subito  il  Magistrato  di  revisione  (composto  di 
tre  cittadini  che  dovevano  invigilare  sulle  produzioni  teatrali,  sui 
periodici  nazionali  e  stranieri  e  sui  libri  introdotti  dall'estero)  a 
esaminare  il  libro  del  Gioia.  I  tre  revisori  mandarono  a  chiamare 
il  filosofo,  e  lo  interrogarono  su  vari  punti  dei  suo  scritto.  Il 
Gioia  si  difese  con  vivacità,  e  scrisse  una  Alemoria  al  magistrato 
di  revisione  (2).  Questa  difesa  non  andò  molto  a  genio  ai  revi- 
sori, i  quali  mandarono  un  responso  poco  favorevole  al  Ministro 
del  culto;  cosicché  questi  propose  al  Melzi  di  prendere  un  severo 
provvedimento  contro  il  Gioia;  il  Melzi  infatti  lo  revocò  dall'uf- 
ficio d'istoriografo.  Siccome  però  il  governo  non  voleva  privarsi 
della  collaborazione  di  lui,  lo  invitava  per  mezzo  del  prefetto  di 


la  Repubblica  potesse  estendersi  e  abbracciare   tutta  la    penisola  (vedi 
pag.  276  e  28S). 

(1)  Op.  min.,  Voi.  iX,  pag.  1  e  seg.  Il  divorzio  era  stato  approvato 
con  voto  del  10  sett.  1792  dall'Assemblea  Legislativa  francese.  Perciò 
il  Gioia,  credendo  che  Napoleone  avrebbe,  nel  Codice  d' imminente 
pubblicazione,  applicati  gli  stessi  concetti  della  Legislativa,  pensava  di 
preparare  gli  spiriti  ad  accoglierli  con  favore  e  di  compiere  un  atto 
d'affezione  alla  patria,  di  rispetto  alle  idee  di  imperatore  e  re  -.  Invece 
Napoleone,  che  parteggiava  attivamente  alle  sedute  del  Consiglio  di 
Stato  per  la  redazione  del  Codice  civile,  pur  ammettendo  il  divorzio, 
ne  volle  impedire  1' abuso,  e  animoniva  i  redattori  di  non  esser  troppo 
proclivi  ai  casi  d'annullamento  di  matrimonio. 

(2)  Op.  min.,  Voi.  IX,  pag.  261. 


—  89  — 

Olona  ad  occuparsi  di  opere  economiche  (1803).  E  così  fece  il 
Gioia:  pubblicò  infatti  la  Discussione  economica  sul  dipartimento 
d'Olona  (1°  nov.  1803)  e  la  Discussione  economica  sul  dipartimento 
del  Lario  (giugno  1804)  (1). 

Napoleone  intanto  si  nominava  imperatore;  e  la  Repubblica 
italiana  diveniva  Regno  (31  marzo  1805).  11  Gioia  forse  non  si 
dolse  del  mutamento  di  governo,  poiché  scrisse  una  lettera  al 
viceré  Eugenio  Beauharnais,  indicandogli  gli  uffici  che  avrebbe 
volentieri  assunti  (direzione  della  stamperia,  ispezione  delle  arti  e 
dei  mestieri,  statistica  di  qualche  ministero).  Ma  il  governo  nel 
maggio  del  1805  lo  nominò  impiegato  della  polizia  !  Il  Gioia  si 
trovò  male  in  tale  ufficio,  e  pregò  (28  nov.  1805)  il  principe 
Eugenio  di  liberarlo  dall'  impiego.  Per  mezzo  del  Ministro  del- 
l' interno  (Daniele  Felici)  ebbe  finalmente  l' incarico  di  dirigere 
r  ufficio  di  statistica  di  quel  Ministero.  La  statistica  è  il  carattere 
peculiare  delle  opere  del  Gioia;  si  direbbe  ch'egli  senta  la  neces- 
sità di  esprimere  il  suo  pensiero  statisticamente,  credendo  d'aver, 
così,  raggiunta  la  precisione  matematica.  Egli  presenta  tabelle, 
cifre,  quadri  sinottici  anche  là  dove  questi  non  paiono  necessari 
né  opportuni.  Sicché  \n  quell'ufficio  si  trovò  benissimo  (2).  Il  1806 
il  Moscati,  direttore  generale  della  pubblica  istruzione,  propose 
il  Gioia  come  professore-  d' economia  all'  Università  di  Padova; 
ma  si  oppose  il  viceré  Eugenio,  ritenendo  più  utile  la  sua  atti- 
vità a  Milano  (3). 


(1)  Op.  min.,  Voi.  XIV  e  XV. 

(2)  Oltre  che  di  statistica  però  il  Gioia  in  questo  periodo  si  occupò, 
forse  per  rendersi  gradito  al  governo,  anche  di  politica,  nelle  operette: 
Cenni  morali  e  politici  sali'  Inghilterra  estratti  dagli  scrittori  inglesi 
{Op.  min.,  Voi.  V,  pag.  1  e  seg.),  in  cui  si  scaglia  contro  l'Inghilterra, 
la  nemica  implacabile  di  Napoleone;  /  Francesi,  i  Tedeschi  e  i  Russi 
in  Lombardia  (già  ricordata),  il  Manifesto  di  S.  M.  Prussiana  contro 
lo  Francia,  pubblicato  sul  finire  del  1806  {Op.  min.,  Voi.  II,  pag.  155 
e  seg.),  in  cui  confuta  il  manifesto  con  cui  il  Re  di  Prussia  Federico 
Guglielmo  II  da  Erfuhrt,  il  9  ott.  1806,  avendo  deciso  -  d'alzar  lo  scudo 
di  guerra  >,  giustificava  la  propria  condotta  contro  Napoleone.  Forse 
dello  stesso  periodo  è  la  tragedia  La  Giulia  ossia  /'  interregno  della 
Cisalpina  {Op.  min.,  Voi.  V). 

(3)  Documenti  comprovanti  etc.  pag.  290, 


QO 

Nel  1807  fu  inaugurato  l'ufficio  di  statistica,  e  il  ministro  del- 
l' interno  Arborio  di  Brerne  ne  nominò  capo  il  Gioia  (1).  Questi 
si  diede  all'  opera  con  ardore;  e  non  si  limitò  a  catalogare  i  dati; 
volle  anche  dare  la  teoria  della  statistica.  Preparò  modelli  di  ta- 
vole da  distribuirsi  alle  autorità  locali,  perchè  fossero  riempite. 
Quando  tutto  il  materiale  fu  pronto,  egli  espose  il  metodo  e  i 
criteri  seguiti  nel  raccogliere  i  dati.  Nel  marzo  del  1808  vennero, 
così,  fuori,  dedicate  al  viceré  Eugenio,  le  Tavole  statistiche,  ossia 
norme  per  descrivere,  calcolare,  classificare  tutti  gli  oggetti  d'am- 
ministrazione privata  e  pubblica  (2).  Tale  opera  fu  elogiata  da  una 
commissione  di  sette  competenti,  scelti  dal  ministro  Arborio  di 
Breme  (3):  la  quale  tuttavia  notò  «  qualche  eccesso  in  alcune 
parti,  qualche  mancanza  in  altre  ».  11  Gioia  non  tollerò  queste 
osservazioni,  e  scrisse  una  Risposta  alle  obbiezioni  fatte  alle  Ta- 
vole statisi ic/w  (4). 

Contro  il  Gioia  sorse  allora  Giovanni  Tamassia,  già  vicepre- 
fetto di  Lecco  e  fungente  allora  da  segretario  generale  del  Ministro 
dell'interno:  il  quale  nell'opuscolo  //  fine  delle  statistiche  (5)  rim- 
proverò al  Gioia  d'  aver  allargato  troppo  il  campo  della  nuova 
scienza,  infarcendola  di  elementi  eterogenei.  Il  Gioia  rispose  con 
r  Indole,  estensione  e  vantaggi  della  statistica  (6).  L'  altro   ribattè 


(1)  Op.  cit.,  pag.  290-291. 

(2)  Op.  Min.,  Voi.  Vili,  pag.  1  e  seg.  Già  prima  di  pubblicare 
le  Tavole  statistiche,  il  Gioia  (il  4  giugno  1307)  aveva  presentato  al 
Di  Breme  il  prospetto  d'un' opera  che  doveva  avere  il  titolo:  Sistema 
teorico-pratico  di  amministrazione  privata  e  pubblica.  Ma  questo  lavoro 
fu  pubblicato  più  tardi  (1815)  col  titolo:  Nuovo  prospetto  delie  scienze 
economiche.  Nel  sett.  1808  il  Gioia  pubblicò  la  Logica  statistica,  la 
quale  poi,  rifusa  e  ampliata,  doveva  divenire  gli  Elementi  di  filosofia 
ivedi  Documenti  comprovanti  etc.  pag.  293). 

(3)  Documenti  etc,  pag.  291  e  292. 

(4)  Op.  Min.,  Voi.  Vili,  pag.  297 

(5)  È  ristampato  nel  Voi.  VII  delle  Op.  Min.  del  Gioia. 

(6)  Op.  Min.,  Voi.  VII.  In  quest'  opera  il  Gioia  definisce  la  statistica 
in  senso  ampio:  ^  la  scienza  che  descrive  un  paese  in  modo  da  presen- 
tare i  vantaggi  e  i  danni  di  ciascun  oggetto,  per  norma  di  tutti  i  cit- 
tadini, di  ciascuna  professione,  del  Governo,  degli  esteri  ^  (pag.  68). 
La  quale  è  dunque   una    specie  di  logica,  che  va  descrivendo  tutti  gli 


—  91  — 

con  la  Risposta  del  signor  Tamassia  alle  obiezioni  fatte  al  suo 
opuscolo  «  Del  fine  delle  statistiche  >  e  premessa  alla  seconda  edi- 
zione dello  stesso  (1),  e,  ancora,  con  Y Esame  della  confutazione 
del  fine  delle  statistiche  (2).  La  polemica  andò,  così,  a  mano  a 
mano  inasprendosi,  cagionando  dispiaceri  e  guai  al  nostro  filo- 
sofo. Era  neir  ufficio  di  statistica  un  impiegato  non  solo  inetto, 
ma  anche  disonesto:  il  cavaliere  Freddy,  che  il  Gioia  chiama 
<i  spia  austriaca  e  ladro  (3).  Il  Gioia  tollerava  a  malincuore 
questo  figaro;  e  più  d'una  volta  aveva  insistito  presso  il  Di  Breme 
perchè  ne  fosse  liberato!  Alla  fine,  non  potendone  più,  chiese  per 
iscritto  ai  Alinistro  dell'  interno  che  il  Freddy  fosse  allontanato. 
Ma  costui  godeva  protezioni  e  favori  nelle  alte  sfere.  Inoltre  il 
modo  di  scrivere  del  Gioia  urtò  il  Di  Breme,  il  quale  con  un 
decreto  fulmineo  gii  tolse  la  carica  di  Capo-ufficio  della  stati- 
stica (4).  Allora  il  Gioia,  per  sfogare  il  suo  risentimento,  scrisse 
La  scienza  del  povero  diavolo  (5),  una  specie  di  romanzo  satirico 
simile  a  quelli  di  Voltaire  {Zadig,  Candido  etc.)  (6),  che  finse  ira- 
dotto  dall'  arabo  e  in  cui  sferzò  con  1'  arma  del  ridicolo  i  suoi 
oppositori  nella  statistica,  specie,  s' intende,  il  Tamassia,  e  gli 
alti   funzionari  (anche  il  Melzi)  che  l'avevano  privato  o  avevano 


oggetti  d'  una  nazione  dal  lato  in  cui  possono  essere  utili  o  dannosi 
(pag.  71-72);  e  i  suoi  fini  son  tanti,  quante  sono  le  diverse  classi  di 
persone  cui  può  servire,  o,  in  altri  termini,  quanti  sono  i  vantaggi  che 
può  produrre  (pag.  73).  Dire  quindi  (come  faceva  il  Tamassia)  che 
l'unico  scopo  che  possa  ragionevolmente  prefiggersi  la  statistica  sia  dì 
dare  notizie  utili  al  Governo  soltanto,  è  dire  che  l'unico  uso,  cui  può 
servire  il  frumento  si  è  la  fabbrica  di  maccheroni!  (pag.  73). 

(1)  Op.  Min.  del  Gioia,  pag.  37  e  seg." 

(2)  Op.  Min.  del  Gioia,  pag.  187  e  seg. 

(ì)  Riflessioni  relative  aW  opuscolo  »  La  scienza  del  povero  dia- 
volo s  in  Op.  Min.,  Voi.  Il,  pag.  114,  nota  1. 

(4)  Lettera  intorno  alla  signora  B.  Milesi  in  Op.  Min.,  Voi.  V, 
pag.  384. 

(5)  Op.  Min.,  Voi.  II,  pag.  1  e  seg. 

(6)  Probabilmente  il  titolo  stesso  dell'opera  è  tolta  dal  Le  pauvre 
diable  di  Voltaire  (Oeuvres  citate,  Tome  XIX,  pag.  152).  Ma  il  concetto 
del  lavoro  il  Gioia  dice  d' averlo  tratto  dall'  opera  inglese  Conversa- 
zioni di  Londra  (Op.  Min.,  Voi.  II,  pag.  122). 


—  92  — 

cooperato  a  privarlo  dell'  impiego  (1).  Siccome  un  decreto  napo- 
leonico del  17  luglio  1806  impediva  di  pubblicare  scritti  che  of- 
fendessero le  leggi,  la  religione,  il  costume  e  1'  onore  altrui,  il 
governo  ordinò  subito  di  sequestrare  l'opuscolo.  11  Gioia  protestò 
e  si  difese  con  le  Riflessioni  relative  all'opuscolo  <-  La  scienza  del 
povero  diavolo  ^  (2);  ma  nulla  ottenne.  Il  prefetto  di  polizia,  il 
quale  aveva  subodorato  che  la  satira  mirava  a  colpire  anche  il 
Ministro  dell'Interno,  sottopose  ad  un  interrogatorio  il  Gioia.  Il 
conte  di  Breme  in  un  rapporto  al  viceré  Eugenio  chiedeva  l'ar- 
resto e  l'esilio  del  filosofo,  accusandolo  d'avere  col  suo  romanzo 
denigrata  la  fama  di  alcuni  funzionari  pubblici.  11  viceré  si  limitò 
a  decretarne  1'  espulsione  dal  regno,  qualora  il  Gioia  non  fosse 
suddito  italiano.  Il  Di  Breme  subito  (il  3  agosto)  intimò  al  Gioia 
d'uscire  dal  Regno.  Ma  lo  scrittore  che,  come  abbiamo  visto,  era 
stato  per  i  suoi  meriti  scientifici  nominato  cittadino  dal  Corpo 
legislativo,  chiese  un  po'  di  tempo  per  raccogliere  i  documenti 
comprovanti  il  suo  diritto  alla  cittadinanza  italiana.  Gli  furono 
concesse,  a  tre  riprese,  tre  settimane  di  dilazione.  11  Gioia  riuscì 
a  raccogliere  varie  prove,  e  scrisse  i  Documenti  comprovanti  la 
cittadinanza  italiana  di  Melchiorre  Gioia  (3).  Ma  i  suoi  argomenti 
non  impedirono  l'esecuzione  del  decreto;  cosicché  il  31  agosto 
egli  dovette  andare  in  esilio  a  Castel  S.  Giovanni:  è  facile  im- 
maginare con  quanto  dispiacere.  Quando  il  10  ottobre  1809  il 
Vaccari  successe  al  Di  Breme  nel  Ministero  dell'interno,  il  Gioia 
sperò  in  lui;  gli  mandò  anzi  una  memoria  in  cui  dimostrava  la 
illegalità  dell'accusa  e  della  condanna  (4).  Ricorse  anche  al  viceré. 
Ma  tutto  fu  vano.  Dopo  un  anno  d'esilio  scrisse  al  Ministro  per 


(1)  Infatti  il  povero  diavolo  è  il  Tamassia;  il  primo  mago,  l' abate 
Carlo  Amoretti;  il  secondo  mago,  il  padre  Pino  domenicano;  il  terzo 
mago,  il  padre  Pino  barnabita,  fratello  del  su  detto;  il  primo  ufficiale 
dei  consiglio  del  Bascià,  il  conte  di  Breme;  il  secondo  ufficiale,  il  conte 
Melzi;  il  Bascià,  il  viceré  Eugenio;  lo  Scheriff,  il  Gioia  stesso. 

(2)  0/7.  Min.,  Voi.  II,  pag.  Q3  e  seg. 

(3)  Op.  Min.,  Voi.  HI. 

(4)  Promemoria  intorno  alla  condotta  dell'ex-ministro  Arborio  Breme 
relativamente  al  motivo  di  esecuzione  dell' esilio  di  Al.  Gioia  (1810). 
Vedi  Lettere  inedite  di  illustri  italiani  pubblicate  e  commentate  dai 
prof.  F.  Berlan,  Milano,  Qareffi,  1866,  pag.  12. 


-  93  - 

ottenere  almeno  un  breve  soggiorno  a  Milano,  acciocché  potesse 
provvedere  ai  suoi  affari  privati  e  prender  carte  e  volumi.  Nessuna 
risposta.  Solo  sul  finire  del  1811  il  Vaccari,  che  intendeva  giovarsi 
degli  uomini  d' ingegno  a  vantaggio  dello  Stato,  convinto  della  ne- 
cessità di  preparare  una  fedele  statistica  del  regno,  gli  abbreviò 
r  esilio,  lo  richiamò  a  Milano,  affidandogli  la  compilazione  delle 
statistiche  dei  dipartimenti.  Il  Ministro  però  ritenne  che  tale  lavoro 
sarebbe  stato  eseguito  meglio  da  un  privato  intelligente,  zelante 
e  coscenzioso,  che  verificasse  le  notizie  direttamente  nei  vari 
luoghi,  anziché  dal  Ministero  stesso:  il  quale  di  solito  incontra 
ostacoli  e  ritrosia  negli  abitanti,  che  temono  future  gravezze,  e 
nei  municipi,  che  di  solito  non  hanno  impiegati  pratici  e  dili- 
genti. Perciò  il  Gioia  fu  considerato  non  come  un  ufficiale  am- 
ministrativo, ma  (giacche  erano  necessarie  molte  spese  per  i  lavori) 
come  un  privato  sovvenuto  da!  governo  con  quattromila  e  cin- 
quecento lire  per  ciascun  dipartimento  (aprile  1812)  (1).  Egli  at- 
tese con  zelo  all'opera  sua,  avendo  per  norma  le  Tavole  generali 
pubblicate  nel  1807;  condusse  a  termine  i  lavori  di  sei  diparti- 
menti; degli  altri  restano  i  manoscritti.  Lavorava  nella  quiete 
del  suo  studio,  quando,  nell'aprile  del  1814,  avvenne  il  crollo  del 
regno  d'Italia.  Anche  in  quel  tempo  il  Gioia  ebbe  a  lagnarsi  del 
modo  in  cui  fu  trattato;  onde  scrisse  (4  giugno  1814)  un  ricorso 
Alla  reggenza  provvisoria  del  Regno  d' Italia  (2),  costituitasi  dopo 
i  tumulti  che  eran  terminati  con  l'assassinio  del  Prina.  Si  ritirò 
poi  a  vita  privata,  attendendo  a  numerosi  lavori,  specialmente 
d'economia  politica,  d'etica  sociale  e  d'ideologia.  La  scienza  delle 
ricchezze  aveva  avuto  incremento  e  diffusione  in  Italia  per  opera 
del  barone  Pietro  Custodi,  a  cui,  come  sappiamo,  è  dovuta  la 
Raccolta  de'  classici  economisti  italiani.  Questo  prezioso  patri- 
monio scientifico  tramandato  dagli  antenati  fu  di  grande  aiuto 
al  Gioia;  cosicché  egli  potè  condurre  a  termine  un'opera  impor- 
tantissima, che  da  parecchi  anni  meditava  e  che  gli  procacciò 
giustamente  il  titolo  di  restauratore  delle  dottrine  economiche  in 


(.1)  Vedi  Op.  Min.,  Voi.  II,  pag.  128. 

(2)  Op.  Min.,  Voi.  Il,  pag.  125  e  seg.  11  Gioia  deplora  specialmente 
che  non  gli  volevano  restituire  i  suoi  manoscritti,  col  pretesto  eh'  egli 
avesse  voluto  bruciarli. 


—  94  — 

Italia:  il  Nuovo  Prospetto  delle  scienze  economiche,  ossia  Somma 
totale  delle  idee  teoriche  e  pratiche  in  ogni  ramo  d'amministrazione 
privata  e  pubblica  (Milano,  1815-1819).  A  questa  ne  fece  seguire 
altre,  pure  notevoli,  su  argomenti  affini  (1);  ma,  come  dice  il 
Romagnosi,  egli  <■'■  si  procacciò  una  gloria  tutta  sua  propria  »  con 
l'opera  (da  lui  chiamata  sua  figlia  prediletta  >)  Del  merito  e  delle 
ricompense  -  Trattato  storico  e  filosofico  (Milano,  1818-19).  Di  so- 
lito infatti  era  stato  considerato  e  svolto  (dal  Beccaria  per  es.)  il 
problema  dei  delitti  e  delle  pene.  Solo  qualcuno  aveva  toccato 
l'argomento  scelto  dal  Gioia  (2);  questi  però  ne  diede  la  tratta- 
zione più  ampia  (3). 


(1)  Sulle  manifatture  nazionali  e  tariffe  daziarie  -  Discorso  popo- 
lare (Milano,  Pirotta,  1819;  Op.  Min.,  Voi.  XI);  Problema  quali  sono 
i  mezzi  più  spediti,  piìi  efficaci,  piìi  economici  per  alleviare  l'attuale 
miseria  del  popolo  in  Europa  -  Discorso  popolare  (Milano,  Silvestri, 
18 17;  Op.  Min.,  Voi.  IX  e  X);  Quadro  ossia  sinossi  delle  scienze  eco- 
nomiche e  statistiche  in  Italia  dal  1S21  a  tutto  il  1825  (Biblioteca 
Italiana,  1826;  Op.  Min.,  Voi.  Xlll);  Riflessioni  sul  trattato  di  economia 
politica  del  Professore  B languì  (Paris,  1S26J  e  sul  Catechismo  d'eco- 
nomia politica  di  G.  B.  Say  (Paris,  1826)  in  Op.  Min.,  Voi.  VI  e  VII; 
InfluenrM  della  carestia  nel  numero  degli  esposti,  degli  ammalati  e 
dei  morti  (Op.  Min.,  Voi.  VI),  in  queste  opere  il  Gioia  tendeva  a  con- 
trapporre aiìa  scuola  liberista  degli  economisti  francesi,  inglesi  e  tedeschi 
una  scuola  italiana,  la  quale,  riconnettendosi  al  Genovesi,  riconosceva 
necessaria  l'azione  del  Governo  con  dazi  e  proibizioni  giovevoli  air 
manifatture  nazionali.  Cfr.  Cossa,  Op.  cit.,  pag.  5(X\ 

(2)  Nel  1765  Giacinto  Dragonetti  aveva  pubblicato  lo  scritto  Delle 
virtù  e  dei  premi;  ma,  osserva  ii  Gioia,  quest'  opuscolo  è  piuttosto  un 
desiderio  che  un  trattato.  Dopo  il  Dragonetti.  Diderot  aveva  scrìtto 
l'Essai  sur  le  morite  et  la  vcrtu,  guazzabuglio  metafisico  che,  secondo 
il  Gioia,  non  aggiunse  nessun  raggio  di  luce  all'opuscolo  dell'avvocato 
napoletano  (l'opera  del  Diderot  e,  come  sappiamo,  un  rifacimento 
dell'  Inquiry  dello  Shaftesbury;  ma  pare  che  il  Gioia  non  lo  sapesse). 
Nel  1811  poi  il  Bentham  alla  teoria  delle  pene  aveva  unito  quella 
delle  ricompense,  ma  con  risultato  poco  sodisfacente,  secondo  il  Gioia; 
giacché  seguendo  ed  ampliando  le  idee  dello  scrittore  italiano,  senza 
citarlo,  lo  scrittore  inglese  esaminò  la  trentesima  parte  dell'argomento 
e  v'  iimestò  vari  errori  (Del  merito  e  delle  ricom.,  2*  Ed.  Lugano, 
Raggia,  1830,  Prefaz.). 

(3)  Il  risultato  a  cui   giunge  è  che    son    considerate   come   somma- 


,<»; 

■^ 


■''t 


—  95  — 

Dalle  scienze  sociali  il  Gioia  passò  all'  ideologia;  e  nello  scri- 
vere opere  filosofiche  si  rivolse  ai  giovanetti,  conducendoli  quasi 
per  mano,  in  mezzo  ad  una  molteplicità  ricchissima  di  fatti,  di 
esempi,  d'esperienze,  e,  insegnando  loro,  con  uno  stile  chiaro, 
semplice,  piano,  ad  osservare  e  analizzare  direttamente  i  fenomeni 
del  mondo  esterno  e  di  quello  interiore,  senza  perdersi  mai  in 
sottigliezze  e  astrazioni  nebulose.  Vennero,  così,  fuori  gli  Elementi 
di  filosofia  ad  uso  delle  scuole  (Milano,  Pirotta,  1818),  e  V  Ideologia 
(Milano,  Pirotta,  1822),  a  cui  seguì  V  Esercizio  logico  sugli  errori 
d' Ideologia  e  Zoologia,  ossia  arte  di  trar  profitto  dai  cattivi  libri 
(Milano,  Pirotta,  1824). 

Si  occupò  anche  di  materia  legale,  e  nel  settembre  del  1821 
pubblicò  il  libro  Dell'  ingiuria,  dei  danni,  del  soddisfacimento  e  re- 
lative basi  di  stima  innanzi  ai  Tribunali  civili  {Milano,  Pirotta,  1821). 

A  questi  lavori  assai  importanti  s'  aggiungano  una  quantità 
di  recensioni  e  d'articoli,  che  scrisse  specialmente  nella  Biblioteca 
italiana  e  negli  Annali  Universali  di  Statistica  (1).  La  sua  attività 
era  veram.ente  prodigiosa.  Studiava  sedici  e  più  ore  al  giorno; 
passava  le  notti  vegliando;  non  conversava  che  con  pochi  amici; 
viveva  «  co'  suoi  pensieri  ■■>.  Un  avvenimento  però  venne  ad  an- 
gustiarlo e  a  strapparlo  dal  lavoro:  l'arresto  per  sospetto  di  co- 
spirazione patriottica  a  danno  dell'Austria.  È  noto  che  fra  il  1815 
e  il  '21  vi  fu  nel  Lombardo-Veneto  un  intenso  lavorio  da  parte 
dei  liberali  e  dei  carbonari,  per  infrangere  il  giogo   straniero.  I! 


mente  meritevoli,  cioè  degne  della  stima  universale  quelle  azioni  che 
riuniscono  questi  caratteri:  1°  difficoltà  vinta;  2"  utilità  prodotta;  3"  fine 
disinteressato;  4"  convenienza  sociale.  L'opera  esamina  specialmente 
questi  quattro  punti. 

(1)  Vedine  i  principali  in  Op.  Min.,  Voi.  VI  e  VII.  In  uno  dì  questi 
(Riflessioni  suli'  opera  di  Bonstetten,  /'  homme  du  Midi  et  /'  homme 
da  Nord;  Voi.  VI)  il  Gioia  confuta  l'asserzione  del  Bonstetten  che 
nel  mezzodì,  ossia  nei  paesi  di  qua  dalle  Alpi,  a  causa  della  varietà  e 
vivacità  della  natura  e  delle  impressioni,  deve  primeggiare  la  facoltà 
di  sentire  e  l' immaginazione,  nel  Nord  invece  la  facoltà  di  pensare  e 
la  riflessione.  In  un  altro  (Voi.  VI)  confuta  l'asserzione  di  G.  B.  Say 
(in  Traile  d' economie  politlque)  che  è  difficile  raccogliere  notizie  sta- 
tistiche esatte  e,  anche  quando  si  son  raccolte,  non  son  vere  che  per 
un  istante. 


—  96  - 

Gioia,  che  aveva  sempre  lottato  per  la  giustizia  e  la  libertà,  non 
poteva,  almeno  spiritualrnente,  restare  estraneo  a  quel  movimento 
di  generosi  e  audaci  pensatori.  Egli  frequentava  la  casa  del  conte 
Luigi  Porro-Lambertenghi,  centro  di  propaganda  patriottica,  e  fu 
del  cenacolo  dei  collaboratori  del  periodico  //  Conciliatore.  Perciò 
era  sorvegliato  dalla  polizia  e  dalla  censura  austriaca,  che  man- 
dava a  Vienna  i  suoi  volumi,  perchè  vi  fossero  esaminati.  Lo  Sten- 
dhal nel  1816  scriveva  che  il  Gioia  era  ogni  giorno  minacciato 
di  prigione  (1).  Fu  il  Gioia  fra  i  cospiratori?  Non  abbiamo  prove 
positive  al  riguardo.  Fatto  sta  però  che  nella  lettera  affidata  dal 
Maroncelli  a!  sarto  Pirotti,  la  quale  fu  la  causa  occasionale  del 
famoso  processo  Pellico-Maroncelli,  il  Gioia  era  nominato,  insieme 
col  Romagnosi  e  altri,  come,  partecipe  del  movimento  patriot- 
tico (2).  Il  Pellico  e  il  Maroncelli  furono  carcerati  nell'  ottobre 
del  1820.  Il  20  dicembre  dello  stesso  anno  fu  arrestato  il  Gioia  e 
detenuto  nelle  prigioni  di  S.  Margherita  (3).  Egli  era  accusato  di 
carteggio  politico  con  Roma  e  lo  Stato  pontificio;  ma,  esaminate 
tutte  le  sue  carte,  risultò  che  egli  carteggiava  mercantilmente  (4) 
con  tutte  le  città  d' Italia,  eccettuata  Roma  e  le  altre  città  della 
Romagna;  non  si  trovò  una  sola  lettera  diretta  a  Roma  o  prove- 
niente da  essa,  né  del  182Q,  ne  degli  anni  anteriori  (5).  L'attuario 
Bolza,  esaminando  le  carte  ripeteva:     Per  Dio,  non  trovo  niente!  »; 


(1)  Rome,  Naples  et  Florence,  pag.  47. 

(2)  Luzio,  //  processo   Pellico-Maroncelli,    Milano,   Cogliati,  190J, 
Appendice  VII. 

(3)  Lettera  intorno  olia  signora  Bianca  Milesi  (Op.  Min..  Voi.  V, 
pag.  308). 

(4)  Questo  mercantilmente  non  ricorda  i  simboli  di  vendita,  spera 
lazioni  commerciali,  manifatture  ci'  industria  nazionale  etc,  che  usa 
vano  i  carbonari? 

(5)  Riguardo  alla  diffusione  della  carboneria  nello  Stato  pontificio, 
vedi  D'Ancona,  F.  Confalonieri,  Milano,  Treves,  1898,  pag.  310-311; 
LuziO,  Op.  cit.,  pag.  45  e  seg.,  56,  68,  104-105,  150-131,  217;  G.  Ban 
DINI,  Giornali  e  scritti  politici  clandestini  della  carboneria  romagnola 
(IS19-1821),  Roma,  Albrighi,  Segati  e  C,  1908;  /  Carbonari  dello  Stato 
pontificio  ricercati  dalle  inquisizioni  austriache  nel  Regno  Lombardo- 
Veneto  (1817-1825)  Documenti  inediti  pubblicati  dal  prof.  A.  Pie 
RANTONi,  Roma,  Albrighi,  Segati  e  C.  1910. 


—  97  — 

non  potendosi,  così,  fondare  su  documenti  tangibili,  cercò  d'ap- 
pigliarsi alle  idee  politiche  del  filosofo.  <  Accusato  dispensieri 
liberali  >,  narra  il  Gioia  stesso,  ;  io  risposi  che  pensai  sempre 
liberamente,  e  che  non  rinuncierei  a  questo  modo  di  pensare  al- 
lorché fossi  messo  in  libertà  >.  Ma  tale  confessione  non  era  suf- 
ficiente per  una  condanna.  Per  mancanza  di  prove  non  fu  quindi 
punito;  anzi,  dopo  le  deposizioni  di  tre  medici  intorno  allo  stato 
della  sua  salute  e  dopo  una  petizione  al  governatore  del  regno 
gli  fu,  un  mese  e  mezzo  dopo  l'arresto,  concesso  di  passeggiare 
in  carrozza  in  compagnia  di  due  attuari.  Verso  la  fine  di  marzo 
(1821)  ottenne  il  permesso  di  scrivere  al  ministro  della  polizia  e 
ali' arci-cancelliere  dell'impero  austriaco,  e  dirigere  a  ciascuno  di 
essi  l'estratto  del  processo  e  la  sua  apologia.  Finalmente  il 
10  luglio  1821  fu  liberato  (1). 

In  questo  processo  ebbe  qualche  parte  Bianca  Milesi.  Costei, 
letterata  (2)  e  pittrice,'  andava  per  le  vie  di  Milano  jDortando  a 
tracolla  in  una  borsa  V  Essay  del  Locke.  Il  suo  salotto  al  tempo 
di  Napoleone  era  stato  il  ritrovo  di  tutti  coloro  che  volevano  fi- 
nn-la con  i  Francesi;  sotto  l'Austria  fu  uno  dei  centri  dei  carbo- 
nari (3).  Giardiniera  nelle  società  segrete,  disegnò  la  figura  alle- 
gorica della  bandiera  del  battaglione  .Minerva,  formato  in  Piemonte 
da  studenti  nei  moti  del  '21,  e,  come  Matilde  Dembowsky,  Ca- 
milla Fé  ed  altre,  insegnava  ai  cospiratori  la  maniera  di  comu- 
nicarsi notizie  in  segreto  per  mezzo  di  carte  <■  stratagliate  >  (4). 
Melchiorre  Gioia,  quando  fu  chiuso  in  carcere,  affidò  a  lei  i  suoi 
affari.  La  Milesi  andava  spesso  a  trovarlo,  portandogli  frutta  e 
piccoli  utensili,  che,  nel  suo  stato  d' isolamento,  gli  erano  molto 
giovevoli;  anzi  in  un  certo  periodo  di  tempo,  certo  perché  era  so- 
spettata di  trame  politiche,  le  fu  proibito  dalla  polizia  di  visitare 
il  filosofo;  le  altre  volte  poteva  vederlo  solo  alla  presenza  "degli 
attuari.  Uscito  di  prigione,  il  Gioia  volle  dimostrare  la  sua  rico- 


(1)  Lettera  intorno' alla  aignora  B.  Milesi,  pag.  308-312.  Nell'opera 
citata  del  LuzJO  non  è  parola  di  questo  processo  del  Gioia. 

(2)  Vedine  le  opere  in  D'Ancona,  Op.  cit.,  pag.  234-35. 

^;3)  R.  Barbiera,  //  salotto  della  contessa  Maffei  e  Camillo  Cavour, 
6»  ed.,  Milano,  Baldini  Castoldi,  1901,  Gap.  Ili,  pag.  42-43. 
i4i  D'Ancona,  Op.  cit.,  pag.  234. 


—  98  — 

noscenza  alla  signora  mandandole  diciotto  volumi  delle  sue  opere 
con  dediche,  facendo  eseguire  una  sinfonia,  di  notte,  sotto  le  fi- 
nestre di  lei  (in  compenso  delle  veglie  che  il  dispiacere  di  saperlo 
in  carcere  le  aveva  dovute  cagionare)  etc.  Ma  poi  si  guastarono, 
sia  perchè  il  Gioia,  un  po'  rude  (I)  e  dedito  tutto  agli  studi,  non 
faceva  visite  frequenti  alla  Milesi,  mentre  ella  ne  desiderava  molte, 
sia  perchè  il  filosofo  aveva  nelle  sue  opere  pronunciato  un  aspro 
giudizio  (2)  intorno  all'opera  Sali' utilità  del  dolore  di  un  signor 
M.,  forestiero  e  medico,  amico  della  Milesi  (che  il  D'Ancona  sup- 
pone sia  il  dottor  Mojon,  il  quale  poco  dopo  sposò  la  Milesi)  (3). 
S' impigliarono,  così,  in  un  viluppo  di  pettegolezzi  ridicoli,  fino 
a  che  la  Signora  troncò  ogni  relazione  non  ricevendo  più  in  casa 
sua  il  filosofo,  e  rimandandogli  i  volumi  già  ricevuti  in  dono,  ai 
quali  però  tagliò  con  le  forbici  ciascuna  parte  dei  frontespizi  su 
cui  si  leggevano  le  proteste  di  stima,  d'amicizia  e  di  riconoscenza 
verso  di  lei  scritte  dal  Gioia  di  proprio  pugno  (4). 

Nei  mesi  che  il  Gioia  fu  in  carcere  si  trovò  pure  impicciato  in 
una  lunga  causa,  che  s'era  tirata  addosso  comprando  da  una  società 
una  miniera  di  carbon  fossile  in  Leffe  (delegazione  di  Bergamo), 
la  quale  non  dava  nessun  utile,  anzi  era  oltremodo  passiva  (5). 


(1)  li  Sacchi  dice  che  il  Gioia  sfuggiva  ogni  blandizie  d'ossequi. 

(2)  Si  legge  n&W Ideologia  (Tomo  H,  Parte  VI,  Gap.  Ili,  pag.  13): 
*  Tra  {  grossi  e  in  mille  modi  nocivi  errori  che  si  trovano  in  una  dis- 
sertazione Suir  utilità  del  dolore,  ristampato  a  Milano  nel  1821,  si 
scorge  anche  il  seguente:  La  natura  die  assai  piti  vita  al  dolore  che 
non  al  piacere;  questo,  portato  all'  eccesso,  può  produrre  dolore  e 
morte,  quello  non  mai.  La  storia  e  gli  scrittori  di  fisiologia  e  patologia 
dicono  il  contrario   '. 

(3)  D'Ancona  Op.  cit.,  pag.  234-235,  noia.  Tra  le  opere  del  Mojon 
però  (Grande  llncyclopédie,  art.  Mojon)  non  è  ricordata  la  disserta- 
zione sull'utilità  del  dolore. 

(4)  Tutto  questo  è  narrato  dal  Gioia  nella  Lettera  alla  signora  B. 
Milesi,  che  reca  la  data:  7  marzo  1822,  Ginevra.  È  da  vero  pedante- 
lutto  l'arido  calcolo  che  il  Gioia,  in  base  ai  principi  dell'utilitarismo 
applicato  in  Del  merito  e  delle  ricompense,  fa  dei  benefici  e  favori  ri- 
cevuti e  di  quelli  resi  alla  Milesi.  Povera  Signora,  come  vedeva  sciu- 
pati i  suoi  sentimenti  nelle  tabelle  del  filosofo! 

(5)  Vedi  Riassunto  de'  gravami  opposti  alla  sentenza  del  27  feb.  1S21 
dell'/.  R.  Tribunale  di  prima  istanza  civile  di  Milano  in  punto  di  se- 


_  99  _ 

Tolti  questi  avvenimenti,  la  sua  vita  continuò  a  scorrere  calma 
e  serena,  tra  i  libri  e  le  pareti  domestiche.  L'  ultima  sua  opera 
fu  la  Filosofia  della  statistica  (Milano,  Pirotta,  1826):  la  quale  egli 
condusse  a  termine  mentre  era  straziato  da  una  fiera  malattia 
della  vescica.  Pensava  ancora  di  scrivere  altre  opere  (1),  quando, 
sul  finire  del  1828,  il  male,  da  prima  non  molto  minaccioso,  si 
manifestò  con  sintomi  gravi.  11  filosofo  cadde  in  uno  stato  di 
consunzione,  durante  il  quale  patì  gli  spasimi  piìi  acerbi  con 
stoica  rassegnazione;  fino  a  che  s' immerse  nel  profondo  sonno 
di  morte  il  2  di  gennaio  dell'  anno  1829. 


IL  METODO.  —  In  nessun  filosofo  forse  l'ideologia  assume, 
come  nel  Gioia,  quel  carattere  di  psicologia  descrittiva  già  da  noi 
indicato.  Nel  che  egli  è  più  coerente  dei  pensatori  francesi.  Se, 
infatti,  l'ideologia  deve  prescindere  da  ogni  questione  metafisica, 
V  se  non  è  dato  all'  uomo  di  ficcar  gli  occhi  della  mente  entro 
all'  essenza  delle  cose  »  (2),  perchè  cercare  ancora  di  risolvere 
certi  problemi,  come  quello  della  natura  delle  facoltà  dell'anima, 
o  quello  agitato  per  es.  dal  Laromiguière  nelle  sue  Legons  de  phi- 
losophie,  cioè      se  un  essere  sensibile  sa  di  esistere  all'istante  in 


questro,  e  Gravami  contro  la  sentenza    dell'  l.  R.  Tribnnnlc  di  prima 
istanza  civile  in  Milano  del  2  seti.  1823  in  Op.  Min.,  Voi.  XI. 

(1)  Nelle  Op.  Min.  è  per  es.  stampata  una  Filosofia  morale  (Fram- 
menti inediti),  importante,  degli  Avvisi  ad  un  confessore  e  molte  recen- 
sioni scritte  neofli  ultimi  anni.  Furono  dal  Gioia  lasciati  dei  manoscritti 
al  dott.  Gherardini;  essi  comprendevano:  1"  materiali  per  la  compila- 
zione della  statistica  dei  vari  dipartimenti  del  Regno  italico;  2°  confronti 
storici;  3*  elementi  di  geografia  filosofica;  4"  giurisprudenza  criminale; 
5"  miscellanea  di  pensieri,  note,  memorie  etc;  6"  schede  (spoglio  di 
libri  che  il  Gioia  andava  leggendo);  7"  storia  ecclesiastica;  S°  economia 
pubblica  e  privata;  9"  progetti  sopra  le  sete  e  gli  zuccheri;  10»  due  tra- 
gedie in  versi,  tratte  dalla  storia  romana.  Vedi  Romagnosi,  Op.  cit., 
pag.  868.  Delle  opere  pubblicate  postume  ricorderemo  (oltre  quelle 
stampate  nelle  Opere  Minori):  Applicazioni  delle  teorie  economiche 
alla  stima  dei  fondi  (Firenze,  Garinei,  1839);  Caligola  -  Abbozzo  di 
ana  tragedia,  pubbl.  da  L.  Fovel  (Milano,  Bortolotti,  1878);  Memoria 
postuma  SII  ir  organizzazione  dei  Teatri  Nazionali  (Milano,  Pirotta,  1878). 

(2)  Elementi  di  filosofia,  Prefaz.,  pag.  3  (Milano,  Pirotta,  1838). 


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cui  prova  una  prima  sensazione  >  ?  «  Vogliosi  gì'  ideologisti  di 
scoprire  le  cause  ;\  scrive  il  Gioia,  <  trascurano  di  sviluppare  gli 
effetti  e  di  additarci  quelle  particolarità  che  sole  possono  farci 
conoscere  gì'  indiyidui  con  cui  dobbiamo  trattare  giornalmente. 
È  falso  il  seguente  principio  di  Laromiguière:  On  ne  peut  bien 
connottre  les  effets  quand  leurs  causes  sont  inconmies.  Benché  non 
conosciamo  la  causa  dei  fenomeni  magnetici,  pure  questi  ci  sono 
perfettamente  noti  e  servono  a  condurci  nell'  immensità  del- 
l' Oceano.  Basterebbero  gli  occhi  per  ravvisare  il  color  nero  de' 
mori  e  le  sue  gradazioni,  quand'  anche  ci  fosse  ignota  la  causa 
da  cui  provengono.  Non  erano  forse  noti  i  fenomeni  del  flusso 
e  riflusso  del  mare,  pria  che  gli  astronomi  ne  additassero  la  causa 
nell'azione  del  sole  e  delia  luna?  Se  ammettiamo  il  principio  che 
non  si  possono  ben  conoscere  gli  effetti  quando  ne  sono  ignote 
le  cause,  noi  consumeremo  in  speculazioni  quel  tempo  che  è  do- 
vuto all'  osservazione,  e  lascieremo  di  studiare  i  fenomeni  dello 
spirito  umano,  perchè  ignoriamo  come  lo  spirito  agisca  sul  corpo, 
e  il  corpo  sullo  spirito,  come  molte  idee  possano  combinarsi  si- 
multaneamente in  un  ente  semplice,  o  come  da  molti  moti  del 
cervello  possa  risultare  l'unità  del  pensiero  »  (1). 

Così,  per  es.,  aggiunge  il  Gioia,  il  De  Tracy  nella  sua  Logique, 
con  761  pagine,  dimostra  semplicemente  che  giudicare  è  sentire. 
Invano  vi  cercheremmo  le  regole  che  ci  preservino  dalle  illusioni 
dei  sensi,  dalle  distrazioni,  dall'infedeltà  della  memoria,  dall'av- 
ventatezza nei  giudizi,  dagli  errori  nel  raziocinio.  Invano  si  do- 
manderebbe all'autore  come  si  debbano  dirigere  le  osservazioni, 
istituire  gli  esperimenti,  scoprire  le  cause,  vagliare  le  testimo- 
nianze, riconoscere  i  sofismi  delle  passioni  etc.  L' autore  si  limita 
a  ripetere  che  giudicare  è  sentire.  Ma  cosa  si  direbbe  d'un  maestro 
di  ballo,  il  quale,  ripetendo  ai  suoi  scolari  che  il  ballo  è  un  mo- 
vimento piacevole  e  regolare  delle  gambe  e  della  persona,  non 
scendesse  a  ulteriori  particolari?  Cosasi  direbbe  d'un  professore 
d'  agronomia,  il  quale  si  limitasse  a  dire  che  i  vegetali  sono  svi- 
luppi del  seme,  senza  indicare  le  regole  per  coltivarli  ?  (2) 


(1)  Ideologia  (Milano,  Pirolta,  1822),  Voi.  1,  Pref.,  pag.  VI-VII.  Cfr. 
Opere  Minori,  Voi.  VI  (Lugano,  Raggia,  1834),  pag.  299. 

(2)  Eìein.  di  fil.,  Pref.,  pag.  15.  Cfr.  Op.  Min.,  Voi.  VII,  pag.  404. 


—  101  — 

Del  pari,  gli  sforzi  di  molti  ideologi  si  riducono  a  dirci  che 
le  facoltà  dell'anima  sono  due  o  tre,  cinque  o  sei.  In  questo  stato 
di  vaga  e  astratta  generalità  le  opere  d' ideologia  sono  perfetta- 
mente inutili.  Quale  vantaggio  trarremmo  da  un  trattato  di  me- 
tallurgia nel  quale  l' autore  si  limitasse  a  ripetere  in  diversi  modi 
che  i  metalli  son  corpi  a  tre  dimensioni?  Con  la  scorta  di  questa 
vaga  conoscenza  potrò  io  indovinare  le  qualità  particolari  di  cia- 
scun metallo?  Se  non  scendete  a  spiegarmi  la  loro  rispettiva  du- 
rezza, il  loro  peso  specifico,  i  gradi  della  loro  fusibilità  ecc., 
riuscirò  io  mai  a  far  uso  opportuno  del  ferro  piuttosto  che  del 
piombo,  o  a  distinguere  il  mercurio  dal  platino?  (1)  Tutte  queste 
quistioni,  dice  il  Gioia,  sono  da  trascurarsi.  L'  essenziale  è  osser- 
vare i  fenomeni  interni  e  stabilire  le  loro  leggi,  per  trarne  del- 
l'utile  (2).  «  11  lettore  >,  egli  conclude,  «  s'accorgerà  ch'io  non 
dico  una  sola  parola  sulla  natura  dell'  anima,  giacché  protesto 
francamente  di  non  conoscerla:  mi  liniiio  ad  osservare  gli  effetti 
che  dalla  sua  azione  risultano,  come  i  naturalisti  si  limitano  ad 
osservare  i  fenomeni  della  calamita  senza  decidere  cosa  ella  sia  »  (3). 


IDEOLOGIA.  —  Le  impressioni  che  ci  son  trasmesse  dai  sensi 
comprendono 'di  solito  due  elementi:  l'uno  che  ci  arreca  piacere 
o  dolore,  l'altro  che  ci  indica  le  qualità  caratteristiche  degli  og- 


(1)  Ideologia,  Pref.  pag.  V-VI. 

(2)  La  definizione  che  dà  della  filosofia  è:  «  la  scienza  che  e'  insegna  a 
conoscere  le  qualità  delle  cose  e  le  nostre  facoltà,  affine  di  procacciare 
il  massimo-vantaggio  a  noi  stessi  e  agli  altri  »  {Eleni.  diflL,  Pref.,  pag.  9). 

(3)  Ideologia,  Pref.,  pag.  X.  Cfr.  Ideologia,  Parte  V,  Gap.  I,  §  1; 
Idee  sulle  opinioni  religiose  e  sul  clero  cattolico.  Parte  I,  Gap.  I  (pag. 
12-13_,del  Voi.  X, delle  Op.  Min.);  Esercizio  logico  sagli  errori  d^  ideo- 
logia e  zoologia,  ossia  arte  di  trar  profitto  dai  cattivi  libri  (Milano, 
Pirotta,  1824),  pag.  64,  nota  2.  Nel  raccogliere  le  osservazioni  è  molto 
utile  secondo  irOioia  la  statistica,  ch'egli  chiama  ^  logica  descrittiva  >> 
{Filosofia  della  statistica,  Milano,  Pirotta,  1826,  Tomo  I,  pag.  HI),  in 
quanto  che  essa  è  «  l'arte  di  descrivere  tutti  gli  oggetti  in  ragione 
delle  loro  qualità'».  Le  tavole  statistiche  poi  son  la  base  per  la  formula- 
zione di  leggi  generali. 


—  102  — 

getti  che  Io  producono.  La  luce  per  es.,  oltre  ad  arrecarci  piacere, 
ci  fa  conoscere  la  figura  del  sole  da  cui  emana.  Nella  maggior 
parte  dei  casi  questi  due  elementi  sono  uniti,  ma  in  proporzioni 
differenti;  in  molti  altri  sono  isolati;  alle  volte  poi  l' uno  di  essi 
predomina  tanto  da  assorbire  interamente  l'altro;  il  che  ci  per- 
mette di  concepire  sensazioni  indifferenti,  hi  ogni  caso  non  è 
possibile  confondere  il  piacere  e  il  dolore  con  l' immagine  del- 
l'oggetto  che  li  produce,  per  es.  la  soave  fragranza  del  garofano 
col  colore  e  con  la  forma  delle  sue  foglie.  Tutte  le  impressioni 
si  possono  dunque  distinguere  in  due  serie:  la  prima  comprende 
i  piaceri  e  i  dolori,  e  si  può  caratterizzare  con  la  parola  sen- 
timenti >■  ;  la  seconda,  le  immagini  degli  oggetti,  e  si  può  indicare 
con  la  parola      idee      (1). 

Tanto  dei  sentimenti  quanto  delle  idee  possiamo  determinare 
e  V  origine  e  le  leggi. 

Esaminiamone  prima  V origine.  La  scuola  d'Aristotele,  dice  il 
Gioia,  insegnò  che  tutte  le  nostre  idee  e  tutti  i  nostri  sentimenti 
vengono  dai  cinque  sensi.  Locke  riprodusse  il  sistema  d'Aristotele, 
e  fu  seguito  dal  Condillac,  dall' Helvétius,  dal  Tracy  e  dalla  mag- 
gior parte  degl'  ideologi  e  fisiologi  francesi.  Il  Cabanis  modificò 
le  idee  del  Condillac,  e  provò  che,  non  potendosi  spiegare  tutti 
i  fenomeni  dello  spirito  umano  con  la  sola  azione  dei  sensi  esterni, 
conveniva  aggiungere  ad  essi  delle  fonti  interiori  (istinti).  11  Gioia 
segue  in  questo  punto  il  Cabanis  (2),  anzi  ne  illustra  e  sviluppa 


(1)  Ideologia,  Parte  I,  Art.  I,  Gap.  1;  Parte  Vili,  Gap.  IV. 

(2)  Talvolta  usa  quasi  le  stesse  parole  del  Gabanis:  vedi  per  es.  Ideo- 
logìa, Voi.  1,  Parte  l.  Gap.  V,  ^  4,  pag.  51  (  1  piccoli  uccelli  etc.  )  e  Parte 
V,  Gap.  unico,  ij  1,  pag.  173,  nota  3^  e  ^  7,  pag.  220  (  Pieno  il  ragazzo 
ctc.  ).  Gfr.  Parte  111,  Gap.  Ili,  §  3,  pag.  124;  Eleni,  di  fil..  Parte  I.Gap.  IV, 
>;  2,  pag.  42.  Al  Gabanis  il  Gioia  rimprovera  solo  clie  egli  alterando 
l'idea  primitiva  del  tatto,  decise  con  altri  filosofi  che  tutte  le  sensazioni, 
da  qualunque  fonte  provengano,  non  sono  che  un  diverso  modo  d'azione 
di  quel  senso     .       Questo  cambiamento  di  linguaggio     ,   egli   scrive, 

che  non  ha  aggiunto  un  solo  grado  di  luce  alla  scienza,  soggiace 
altronde  a  qualche  dubbio  .  Gonclude  però:  Con  questo  discorso  io 
non  intendo  di  scemare  il  diritto  di  Gabanis  alla  pubblica  riconoscenza. 
Egli  merita  lode  speciale  per  essere  stato  il  primo  che  in  Francia  abbia 
trattato  l' Ideologia  coi  fatti  alla  mano,  ed  abbia  lasciato  da  banda  tutte 


—  103  — 

le  ricerche  con  una  ricchezza  di  notizie  e  di  osservazioni  note- 
vohssima  per  quei  tempi.  Il  Condillac,  egli  dice,  credeva  (1)  che 
gl'istinti  fossero  dovuti  all'esperienza  individuale  o  alla  tradizione 
dei  genitori.  Ma  sta  contro  l'opinione  del  filosofo  francese  il  fatto 
che  nei  vegetali,  i  quali  non  sono  istruiti  dall'esperienza  né  diretti 
dalla  tradizione,  si  riscontrano  non  poche  tendenze  simili  a  quelle 
degli  animali.  Per  es.  nello  stesso  modo  che  ciascun  animale  ha 
i  suoi  luoghi  prediletti,  così  ciascuna  pianta  vuole  un'esposizione, 
un  clima,  una  temperatura  particolare:  l'edera  ricerca  rocce  e  al- 
beri per  arrampicarvisi;  la  salicomia  e  le  sasole  godono  delle  acque 
salse  e  dell'  aria  marina,  e  languiscono  quando  ne  mancano.  Del 
pari:  collocate  nel  suolo  un  grano  in  modo  che  la  parte  ov'è  la 
radichetta  guardi  in  su,  e  1'  opposta,  ov'  è  la  piumelta,  guardi  in 
giù;  al  tempo  del  germoglio,  la  radichetta  si  rivolta  e  si  sprofonda 
nel  suolo,  la  piumetta  si  rialza  e  s'erge  in  su  per  uscire  all'aria 
e  al  sole  (come  la  tartaruga,  che,  rovesciata  sulla  sua  calotta,  si 
sforza  di  riprendere  la  sua  posizione  naturale).  Ancora:  ciascun 
albero  sa  ritrovare  nel  suolo  le  sostanze  alimentari  che  più  gli 
convengono  (come  il  cane  e  il  gatto  che,  tuttora  chiusi  gli  occhi, 
cercano  le  mammelle  della  madre,  o  come  il  fagiano,  che,  appena 
nato,  conosce  il  grano  del  miglio  e  la  larva  della  formica);  altri 
fatti  dimostrano  lo  stesso. 

Tutti  questi  fenomeni  derivano  dunque  da  impulsi  interni;  sono 
effetti  dell'  istinto.  Ma  l' istinto  come  si  spiega  ?  Certo  non  con  le 
circostanze  esteriori  soltanto.  Infatti:  1°  spesso  si  riscontra  abilità 
d' industria  senza  educazione.  Furono  per  es.  portate  in  Francia 
delle  uova  di  piccoli  uccelli  canori  d'Africa  e  d'Asia,  come  i  ben- 
galis  etc;  ebbene,  covate  da  canarini,  produssero  de'  piccoli  che, 
senz'aver  imparato  nulla  dai  propri  padri,  cantarono  le  arie  del  loro 
paese,  costrussero  nidi,  e  mostrarono  le  abitudini  dei  loro  parenti. 
2°  Inoltre  spesso  si  riscontra  mancanza  d' industria  o  d'  abilità 
non  ostante  1'  educazione.  Così  la  gallina  d' India  non  impara  a 
tubare  in  mezzo  ai  piccioni;  le  femmine  degli  uccelli  general ;:;ente 


quelle  speculazioni  che  non  possono  recar  luce  ne  alla  fisiologia,  né 
alla  morale,  né  alla  medicina,  né  alla  legislazione  >  {Ideologia,  Parte  I, 
Art.  I,  Gap.  I,  pag.  4). 

(1)  Traile  des  animaux,  Partie  II,  Chap.  V. 


—  104 

non  imparano  a  cantare  come  i  maschi.  3'  Talora  si  nota  diversità 
di  costumi  in  mezzo  alle  stesse  circostanze.  Il  coniglio  e  lo  scoiat- 
tolo sono  inseguiti?  L'uno  corre  a  nascondersi  nella  sua  tana, 
l'altro  si  salva  sulla  cima  degli  alberi,  il  cavallo  volge  al  suo  ne- 
mico la  groppa;  il  toro  abbassa  la  testa  e  si  difende  con  le  corna. 
Quindi  tutto  ciò  che  si  può  attribuire  all'azione  deile  circostanze 
esteriori  si  riduce  a  porre  in  atto  le  facoltà  native.  Non  già  il 
bisogno  del  nido  di  aii' uccello  la  facoltà  di  costruirlo,  ma  esso 
fabbrica  il  nido  perchè  al  bisogno  unisce  la  facoltà  di  fabbricarlo. 
Ecco  ilmotivo  per  cui  l'uccello  sarto  ordisce  il  suo, tessuto  anche 
quando  si  trovi  in  gabbia,  e  il  castoro  costruisce  la  sua  casuccia 
anche  quando  sia  già  provvisto  d'alloggio.  4"  Si  riscontra  spesso 
somiglianza  d' industria,  benché  gli  organi  siano  differenti.  La 
proboscide  rende  all'elefante  gli  stessi  servigi  che  la  mano  al- 
l'uomo e  alla  scimmia;  la  rondinella  attaccali  nido  e  il  tordo 
rassoda  r  interno  del  suo  mediante  argilla  stemprata  col  becco, 
come  il  castoro  la  stende  sulle  pareti  della  sua  dimora" per  mezzo 
della  coda.  5"  Infine  si  riscontra  differenza  d"  industria,  benché 
gli  organi  siano  simili.  In  quante  maniere  diverse  e  con;  quale 
varietà  di  tele  le  differenti  specie  di  ragni  accalappiano  la  loro 
predai  Quale  diversità  di  struttura  nei  nidi  degli  uccelli I  Osser- 
vate le  casucce  fabbricate,  in  piani  sovrapposti  e  appoggiati  a 
fili  d' erba,  dalle  formiche  delle  zolle;  o  le  gallerie  e  casematte 
delle  formiche  brune;  o  i  numerosi  compartimenti  scavati  nel 
tronco  degli  alberi  dalla  formica  fuligginosa  con  corridoi  paral- 
leli; ovvero  i  meandri  ingegnosi  {costruiti  con'  polvereZdi  legno 
tarlato,  stemperata  e  masticata  con  tela  di  ragno,  dalla  formica 
etiope  o  nerissima.  Ciò  non  .ostante,  tutti  quest' insetti^si  "somi- 
gliano perHa  forma  e  per  gli  strumenti  del*lavoro  (1). 

Dunque  le  circostanze  esteriori  (educazione,|avvenimenti  estemi, 
forma  degli  organi)  non  bastano  da  sole  a  spiegare  l'istinto.'Questo, 
allora,'"come  si  spiegherà?-'  Neppure  con  l'interesse,  col  vantaggio 
che  pad' ' ritrarne  \una  classe  di  viventi,  l^er  es.  per  qual- motivo 
certe  specie  restano'unite  in  società  ed  altre  no?  Alcuni  filosofi 
hanno  pensato  a  un  vantaggio  esteriore,  dicendo  che  gli  animali 


(il  Dal  che  deriva  c!ie  errano  coloro  i  quali   pretendono  che  dalla 
forma  degli  organi  si  possano  conoscere  le  facoltà  interne. 


—  105  — 

vivono  in  società  per  difendersi  reciprocamente.  Ora,  quest'  ipo- 
tesi non  è  sempre  vera,  giacché  da  un  lato  la  maggior  parte  dei 
viventi,  per"es.  i  montoni,  si  separano  subito  che  sono  assaliti; 
dall'altro  non  le  specie  più  deboli  vivono  in  società:  per  es.  il 
reattino  (luì)  e  l'usignolo  vivono  isolati.  Guardate  il  piccolo  uc- 
cello mosca,  brillante  come  un  rubino,  che  colloca  il  suo  nido 
in'un  fiore,  e  deposita  uova  simili  a  piselli:  con  quale  ardore  esso 
succhia  il  nettare  dei  fiori,  per  nutrirne  la  sua  diletta  prole  !  Ma 
un  orrido  ragno,  nero  e  peloso,  tre  volte  più  grosso  dell'uccello, 
viene  a  stendere  con  le  sue  grandi  zampe  la  tela  sulla  covata,  e 
schiaccia  tra  le  mascelle  le  teste  di  quegl'  innocenti  implumi;  al- 
lora' la  madre  accorre  furiosa,  disperata,  e  gli  dà  un  combatti- 
mento a  morte;  ma  invano;  la  sua  famiglia  è  distrutta;  e  la  madre 
infelice  esala  l'anima  dolente  presso  il  nido  devastato.  Vi  è  qui 
un  sacrificio  che  non  trova  nessun  compenso  in  un  vantaggio 
esteriore,  presente  o  futuro. 

Non  basta  neppure  la  somiglianza  d'organizzazione  per  spiegare 
V  istinto.  In  parecchie  specie  d' animali  si  osserva  somiglianza 
nelle  parti  così  interne  come  esterne  e  nelle  loro  relative  funzioni, 
eppure  non  si  scorge  somiglianza  d' istinti.  Per  es.  la  lepre  si 
contenta  del  covo  che  si  costruisce  sulla  superficie  della  terra;  il 
coniglio,  pur  tanto  simile  ad  essa  nella  struttura  organica,  scava 
il  suolo,  e  si  prepara  un  asilo  più  sicuro  contro  la  volpe  e  l' uc- 
cello da  preda.  La  cicogna  bianca  e  la  cicogna  nera  sono  simi- 
lissime,  fuorché  nel  colore; 'eppure  son  ;diverserperv  istinti  e  per 
costumi:  l'una  sceglie  per  domicilio  i  nostri  edifici,  l'ialtra  cerca 
i  luoghi  deserti,  e  nidifica  nel 'più  folto  delle'foreste  (1). 

Risorge  dunque  sempre  la  domanda:  come'si' spiega* l'istinto? 
La  prima  causa  di  questo  va  ricercatafsecondo\ il* Gioia  nell'or- 
ganizzazione e  negli  stimoli  esterni.  Costruite  coinegno^una  pic- 
cola anitra,'e[nascondete  nel  suo  ventre)una  calamita;  quest'automa, 
posto^neir acqua,  andrà  incontro  alla  mano',che  glij presenterà  del 
pane  entro '^cui  sia  ^nascosto  de!  ferro.  Ebbene,  sembra  che  gli 
animali'abbiano  più'calamite  interne  che  li  attraggano  verso  tale 
o  tal' altra  sostanza.'tL'anitroccolo  s'incammina  verso  l'acqua,  su- 
bito che  la  veda,'? non  ostante  le  strida   della   madre   adottiva  di 


(1)  Esercizio  logico,  Parte  1,  Art.  IV,  Gap.  Il,  pag.  138-142. 


—  106  — 

specie  diversa,  la  quale  ansiosa  lo  avverte  del  pericolo  eh'  ella 
crede  vedervi  per  lui.  Lo  stesso  effetto  prodotto  dalla  sensazione 
visiva  sull'anitroccolo  (o  sulla  testuggine)  è  suscitato  dalla  sen- 
sazione olfattiva  sul  cane,  sul  gatto,  sull'agnello  etc,  che  cercano 
la  mammella  appena  usciti  dal  seno  materno  (1).  Talvolta  anzi 
le  sensazioni  esterne,  associandosi  alle  interne,  possono  sino  a 
un  certo  punto  modificare  le  abitudini  degli  animali.  Per  es.  pro- 
durre le  uova  e  covarle  è  effetto  dell'organizzazione  interna,  ma 
il  modo  d'incubazione  può  variare  secondo  il  clima  e  le  circo- 
stanze. Nel  Senegal  lo  struzzo  sta  sulle  uova  soltanto  di  notte, 
perchè  il  sole,  durante  il  giorno,  somministra  il  calore  necessario 
all'incubazione;  all'opposto,  nel  Capo  di  Buona  Speranza,  paese 
meno  caldo,  lo  struzzo  non  abbandona  le  sue  uova  né  giorno 
né  notte.  Nei  nostri  climi  temperati,  quando  le  oche  e  le  anitre 
abbandonano  momentaneamente  le  loro  uova  per  recarsi  a  man- 
giare, queste  non  soggiacciono  a  raffreddamento  sensibile  e  no- 
civo; avviene  l'opposto  nelle  regioni  polari;  perciò  ivi  quegli  uc- 
celli si  strappano  delle  penne  col  becco,  ovvero  parte  della  ca- 
luggine esistente  sotto  le  ali,  e  ne  formano  quasi  soffice  coltre, 
per  conservare  alle  uova  il  calore  durante  la  loro  breve  assenza. 
1  lavori  delle  formiche  variano  secondo  il  terreno,  e  si  adattano 
sempre  alle  circostanze  esteriori.  Sembra  quindi  che  gli  atti  istin- 
tivi di  più  animali  non  siano  sempre  disgiunti  dalla  cognizione 
di  quel  che  fanno.  Paragonando  le  tane  delle  talpe  giovani  con 
quelle  delle  vecchie,  si  vede  che  l'  età  frutta  cognizioni  ed  espe- 
rienze. In  genere,  l'animale,  quando  mostra  di  conoscere  l'effetto 
delle  sue  azioni,  non  si  deve  dire  diretto  da  cieco  impulso  mec- 
canico (2).  Dunque  prima  causa  dell'istinto:  organizzazione  e  sti- 
moli esterni.  Ma  non  basta;  (fé  una  seconda  causa:  organizzazione 


(1)  La  condotta  degli  animali  in  queste  circostanze  non  suppone  ne 
esercizio  dei  sensi,  né  idee  innate  dell'alimento,  ne  paragone,  né  vera 
scelta.  L'agnello  non  ha  l'idea  preventiva  che  il  latte  gli  appagherà  la 
fame;  ma  la  sua  organizzazione,  eccitata  dalla  fame,  lo  induce  a  suc- 
chiare il  latte,  e,  col  succhiare,  la  fame  cessa;  quindi  l'idea  del  cessar 
della  fame,  unendosi  all'idea  del  succhiare,  rende  l'atto,  di  meccanico 
che  era,  intellettuale  e  volontario. 

(2)  Quindi,  come  hanno  notato  gli  psicologi  moderni  (per  es.  gli  evo- 
luzionisti in  genere  e  il  Ja.v^es  in  Précis  de  psychologie,  Paris,  Rivière, 


-^  107  — 

e  stimoli  interni,  il  bruco  d'una  specie  di  tignole  si  fabbrica  una 
cuna  o  letto  pensile  sopra  una  foglia  eh'  esso  ripiega  per  mezzo 
d'una  corda  di  seta.  Se  si  pone  su  questa  cuna  già  preparata  un 
bruco  simile,  questo  dovrebbe  impadronirsi  del  lavoro  beli' e  com- 
piuto, e  risparmiarsi  la  fatica  di  fabbricarsene  un  altro.  Eppure 
la  faccenda  non  va  così.  Il  nuovo  bruco  distrugge  1'  opera  del 
suo  predecessore  per  rifarla  assolutamente  eguale;  egli  deve  sgom- 
brarsi della  materia  serica  contenuta  nel  suo  interno.  Il  torello 
ancor  privo  di  corna  cerca  di  colpirci,  il  micino  ancor  sprovvisto 
di  unghie  tenta  di  graffiarci.  Dal  che  si  vede  che  non  gli  organi 
esteriori  sviluppano  l' istinto,  ma  questo  precede  quelli  e  li  per- 
feziona. Di  più:  tagliate  le  corna  ad  un  loro,  le  unghie  ad  un 
gatto,  il  pungolo  ad  uno  scorpione;  vedrete  che  continueranno  a 
difendersi  nel  modo  di  prima,  proprio  come  se  fossero  ancor 
forniti  delle  loro  armi.  Dal  che  si  potrebbe  concludere  che  l' istinto 
sussiste  pur  senza  gli  organi  esteriori  che  lo  manifestino. 

Tutti  questi  fatti  c'inducono  a  paragonare  gli  animali  a  certi 
strumenti  o  congegni  musicali  uniti  agli  orologi  o  alle  scatole:  i 
quali,  quando  si  tocca  1'  uno  o  l' altro  tasto,  eseguiscono  corri- 
spondenti sonate.  Unite  a  questi  strumenti  il  sentimento,  che  non 
si  può  negare  agli  animali;  date  loro  la  facoltà  d'arrestare  o 
sospendere  quei  movimenti,  della  quale  certo  essi  son  forniti; 
e  concepirete  in  qualche  modo  le  loro  diverse  industrie.  Con 
quest'ipotesi  non  s'ammettono  idee  innate  nel  germe  d'una  pianta 
o  d'un  bruto.  Si  noti  pure  che  gli  animali  nascono  forniti  degli 
strumenti  con  cui  compiono  i  loro  lavori;  che,  inoltre,  intera- 
mente occupati  in  questi,  non  sono  soggetti  alle  nostre  distrazioni. 
Mentre  migliaia  d' idee  passano  davanti  al  nostro  spirito,  l'ani- 
male non  esce  dal  circolo  di  due  o  tre  rappresentazioni.  Sembra 
dunque  che  ciascuna  specie  animale,  ciascun  sesso  abbia  nella 
sua  costituzione  interna  il  modello  delle  proprie  azioni,  i  propri 
rapporti  d' affinità,  contrarietà,  indifferenza  con  gli  esseri  circo- 
stanti: come  gli  acidi  e  gli  alcali,  i  quali  hanno  tra  loro  preferenze 
e  affinità,  da  cui  risultano  le  differenti  combinazioni  saline. 


1910,  Chap.  XXV,  pag.  526  e  seg.)  gl'istinti  non  sempre  son  ciechi  e 
invariabili.  Anche  la  pretesa  infallibilità  degl'  istinti  soggiace  a  molti 
errori.  Vedi  Esercizio  logico,  Parte  1,  Art.  VII,  pag.  243-44. 


—  108  — 

Non  si  può  però  negare,  conclude  il  Gioia,  che  nell'istinto 
resti  sempre  qualcosa  d'oscuro  per  la  nostra  intelligenza.  «  Il 
lettore  accorto  ;>,  egli  scrive,  «  s'avvede  che  colle  antecedenti 
ciance  io  non  ho  spiegato  i  fenomeni  dell'istinto,  giacché  non  ho 
detto  né  potrei  dire  in  checonsistano  gli  accennati  stimoli  interni; 
quale  sia  il  loro  modo' d'azione;  come  si  forminole  interne  sen- 
sazioni primitive;  come  queste  si  combinino  in  modo  da  essere 
copia  di  oggetti  esteriori,  senza  previa  ispezione  degli  originali, 
e  molto  meno  ho  detto  né  potrei  dire  come  le  abitudini  de'  padri 
si  trasmettano  ai  figli  »  (1). 

Anche  l'uomo,  giacché  può  esser  considerato  e  come  semplice 
animale  e  come  ente  dotato  di  ragione,  ha  istinti  simili  a  quelli 
degli  animali:  per  es.  quello  della  locomozione,  del  succhiare, 
dell'  inghiottire,  del  respirare  etc.  Come  essere  pensante  e  sensi- 
bile poi  l'uomo  presenta  quattro  istinti  o  bisogni  particolari:  bi- 
sogno di  cognizioni  o  curiosità,  bisogno  di  stima,  bisogno  di 
potere  e  bisogno  d'amore  e  di  società.  Tutto  ciò  che  sodisfa  tali 
inclinazioni  naturali  è  fonte  di  piaceri;  tutto  ciò  che  le  contraria, 
di  dolori.  Questi  piaceri,  questi  dolori,  allorché  giungono  ad  un 
certo  grado  d' intensità,  eccitano  nel  nostro  volto,  nelle  nostre 
membra,  nel  nostro  corpo  tutto,  certi  moti,  atteggiamenti  e  af- 
fetti che  non  abbiamo  appresi  per  esperienza,  né  ricevuti  per  tra- 
dizione. Noi  non  abbiamo  imparato  né  ad  impallidire  per  timore, 
né  ad  arrossire  per  vergogna.  Quanto  si  riscontra  in  noi  in  questi 
casi  é  una  disposizione  organica  indipendente  dalla  nostra  volontà. 
Del  pari  sembra  che  gli  uomini  nascano  con  disposizioni  per 
r  eloquenza,  per  la  poesia,  per  le  matematiche,  per  le  arti  e  gli 
affari  (istinti  intellettuali  e  morali),  come  gli  uccelli  nascono  con 
le  ali  per  volare,  i  pesci  con  le  pinne  per  nuotare,  le  api' fem- 
mine per  esser  regine,  le  maschie  per  fecondarle,  le  neutre  per 
lavorare.  Le  circostanze  esteriori  presentano  al  genio  il  destro  di 
svilupparsi,  ma  non  lo  creano' (come  pretende  l'Helvétius). 

Abbiamo  così  esaminati  i  fatti  psichici  d'origine  interna  (2). 
Ma,  oltre^questi,  ve  ne  sono  d'origine  esterna.  Per  sparger  luce 


(1)  Esercizio  logico,  Parte  I,  Art.  VII,  Gap.  i,  §  1,  pag.  240. 

(2)  Per  tutta  questa  parte  vedi  Ideologia,  Parte  1,  Art.  II;  Esercizio 
logico,  Parte  1,  Art.  VII. 


—  109  — 

sul  complesso  intricatissimo  di  tali  sensazioni  (dice  il  Gioia)  il 
Condillac  e  il  Bonnet  supposero  una  statua,' per  così  dire,  «  ver- 
gine di  idee  e  non  anco  tocca  dagli  oggetti  esteriori;  quindi,  fa- 
cendole provare  ora  una  sensazione  ed  ora  un'altra,  tentarono 
di  svolgere  i  fenomeni  del  pensiero  e  le  facoltà  dell'animo  ».  Ma, 
osserva,  per  quanto  ingegnoso  sia  questo  metodo,  non  ispira 
troppa  fiducia,  poiché,  alla  storia  reale  delle  sensazioni,  dei  senti- 
menti, delle  idee  sostituisce  supposizioni  arbitrarie.  Sembra  quindi 
miglior  consiglio  prender  le  mosse  dal  paragone  delle  sensazioni 
primitive  coi  prodotti  ideali  e  sentimentali  (risultato  finale),  giacché, 
così  procedendo,  da  un  lato  si  muove  dai  fatti,  dall'altro  la  dif- 
ferenza risultante  dal  paragone  ci  dà  un  concetto  esatto  del  va- 
lore delle  facoltà  psichiche.  Quando  voi  ponete  davanti  agli  occhi 
d'un  ignorante  dei  pezzi  informi  d'acciaio,  d'argento,  d'oro,  e 
gli  dite:  «  Con  questi  pezzi  informi  è  stato  fabbricato  l' orologio 
che  vedi  »,  egli  concepisce  altissima  idea  dell'abilità  del  fabbri- 
catore (1).  Vediamo  dunque  il  materiale  delle  nostre  conoscenze 
e  i  prodotti  che  ne  risultano. 

Gli  oggetti  esterni,  modificando  i  nostri  sensi,  suscitano  in 
noi  idee,  alle  quali  di  solito  s'associano  sentimenti.  Ora  l'espe- 
rienza mosii'a  che  la  quantità  e  la  qualità  delle  idee  e  dei  senti- 
menti non  corrispondono  né  al  numero  né  alla  perfezione  dei  sensi 
esterni:  ossia  l'anima  umana,  combinando  ed  elaborando  le  idee 
ricevute  mediante  gli  organi  sensoriali,  dà  origine  a  prodotti  ideali 
e  sentimentali  sì  fatti,  che  i  sensi  non  sono  sufficienti  a  spiegarli. 
Per  convincersi  di  questo,  basta  paragonare  la  psiche  degli  ani- 
mali irragionevoli  con  quella  umana.  Ad  entrambe  il  materiale 
delle  impressioni  è  fornito  dai  sensi,  anzi  in  alcuni  casi  i  sensi 
degli  animali  son  più  squisiti  ed  evoluti  di  quelli  umani.  Eppure 
e'  è  una  distanza  immensa  fra  i'  uomo  e  1  bruti.  La  vista  per  es. 
sembra  il  senso  dominante  negli  uccelli:  essi  l'hanno  acutissima. 
L'uccello  da  preda  (aquila  etc.)  vede  per  lo  meno  venti  volte  più 
lontano  che  l'uomo.  Il  nibbl.o,  che  s'alza  nell'aria  più  di  mille 
tese,  discerne  da  quell'altezza  la  lucertola  e  il  topo  di  campagna. 
Gli  animali  carnivori  hanno  anche  la  capacità  di  vedere  di  notte, 
il  che  è  negato  air'uomo.  Ma    questi   ha   inventato  l'arte  del  di- 


(1)  Ideologia,  Parte  I,  pag.  1-2. 


—  110  — 

segno,  della  pittura,  della  scultura;  sa  stendere,  graduare,  porre 
in  contrasto  i  colori,  e  disporre  gli  oggetti  in  ordine  simmetrico, 
cosicché,  combinando  l'unità  con  la  varietà,  suscita  piacevoli  sen- 
sazioni, ignote  ad  ogni  specie  d'animali.  Munito  di  telescopio, 
inventato  da  lui,  1'  uomo  vede  così  di  giorno  come  di  notte  mi- 
gliaia di  stelle  non  mai  scorte  dall'  aquila  o  dal  condor;  munito 
di  microscopio,  scopre  animali  ventotto  milioni  più  piccoli  d'un 
pellicello. 

Negli  uccelli  si  trova  finezza  d'udito  congiunta  ad  agilità  e 
forza  dell'  organo  vocale;  essi  sono  naturalmente  musici;  alcuni, 
come  la  gazza  e  il  pappagallo,  ripetono  anche  suoni  articolati. 
Ma  r  uomo  ha  inventato  la  musica,  e  sa  con  i  suoi  strumenti 
ispirare  la  tenerezza,  la  melanconia,  la  gioia  egualmente  che  le 
più  terribili  passioni,  ed  esprimere  i  gemiti  del  dolore,  gli  scatti 
dell'odio,  gli  scoppi  della  collera.  I  sordo-muti  danno  segno  d'in- 
telligenza superiore  a  quella  di  qualunque  animale. 

il  nervo  olfattivo  è  più  sviluppato  nella  maggior  parte  dei 
mammiferi,  degli  anfibi  e  dei  pesci  che  nell'uomo.  L'odorato 
dei  carnivori  volatili  e  terrestri  è  sì  fine,  che  giunge  a  distanza 
maggiore  che  la  loro  vista;  l'odore  dei  cadaveri  attira  il  lupo  alla 
distanza  d'una  lega;  il  cane  può  riconoscere  le  tracce  d'una  lepre 
tre  o  quattro  ore  dopo  il  passaggio  di  questa.  Ma  l'  uomo  ha 
trovato  l'arte  di  fissare  e,  per  così  dire,  imprigionare  il  principio 
odorifero  delle  piante,  questo  spirito  fuggitivo  e  leggero  che  sva- 
pora e  passa  con  la  rapidità  del  lampo.  Onde  la  fabbrica  delle 
essenze,  dei  profumi  e  delle  pomate,  che  aggiungono  vezzi  alla 
beltà,  e  accrescono  il  numero  delle  sensazioni  voluttuose. 

Molti  animali  hanno  il  nervo  linguale  più  grosso,  le  papille 
più  sviluppate  e  sparse  su  più  estesa  superficie,  il  palato  più 
vasto,  lo  strato  epidermoide  della  lingua  più  fine  che  l'uomo. 
Gran  parte  di  essi  passano  quasi  tutto  il  loro  tempo  a  mangiare 
e  a  runn'nare.  .Ma  non  il  bue  che  rumina,  bensì  l'  uomo  ha  in- 
ventato r  arte  della  cucina,  e  sa  sodisfare  il  gusto  in  modi  inde- 
finitamente piacevoli,  senz'  esser  costretto,  come  gli  animali,  ad 
una  sola  specie  d'alimenti,  e  a  morir  quindi  di  fame  quando 
questa  manchi. 

Infine  gli  uccelli  hanno  un  tatto  sensibilissimo;  infatti  prima 
degli  altri  animali  presentono  le  variazioni  atmosferiche,  le  an- 
nunziano coi  loro  gridi,  e  non  s'ingannano  sul  tempo  delle  loro 


—  Ili  — 

migrazioni.  Il  tatto  della  nottola  è  cosi  sensibile,  che  dirige  il  suo 
volo  e  le  tiene  le  veci  della  vista  quando  ne  è  priva.  Ma  l'uomo 
ha  inventato  strumenti  con  cui  determina,  con  un'esattezza  ignota 
agli  abitanti  dell'aria,  i  gradi  del  freddo,  del  caldo,  dell'umidità, 
dell'elettricità,  della  salubrità  e  insalubrità  dell'aria,  la  forza  eia 
direzione  dei  venti  etc.  Nelle  arti  e  nelle  manifatture  1'  uomo  si 
vale  di  misure  che  gli  danno  il  modo  di  riconoscere  persino  i 
millesimi  d' un  metro,  e  di  strumenti  con  cui  arriva  a  determi- 
nare i  pesi  più  piccoli. 

Tralasciando  poi  le  infinite  invenzioni  meccaniche  ingegnosis- 
sime, possiamo  osservare  che  gli  uomini  privi  dalla  nascita  di 
mani  e  di  piedi  compiono  lavori  meravigliosi  con  i  loro  monche- 
rini, e  non  solo  si  procurano  nozioni  esatte  sulle  distanze,  ma  si 
elevano  alle  idee  del  bello,  dell'onesto,  del  giusto,  delle  quali  non 
scorgiamo  la  minima  traccia  negli  animali,  qualunque  sia  l'esten- 
sione e  la  finezza  dei  loro  sensi.  Bisogna  aggiungere  che  l'uomo 
può  dare  a  questo  o  a  quel  senso  una  superiorità  sugli  altri,  e, 
ciò  che  è  più,  i  suoi  sensi  possono  far  le  veci  1'  uno  dell'  altro; 
quindi  i  ciechi  perfezionano  l'udito  talmente  che  quasi  tutti  sono 
musici;  anche  il  loro  tatto  può  diventare  squisitissimo.  Nei  sordo- 
muti nati  la  vista  giunge  a  tanta  perfezione,  da  poter  indovinare 
il  pensiero  altrui  dai  movimenti  delle  labbra,  della  lingua  e  dei 
muscoli  faciali  delle  persone  che  son  loro  familiari  (1).  All'  op- 
posto, l'ordine  dei  sensi  è  costante  negli  animali;  nessuno  di  essi 
si  perfeziona  notevolmente,  ne  alcun  loro  senso  fa  le  veci  d'un  altro. 

Dai  sensi  passando  a  considerare  altri  organi  ed  altre  attività 
degli  animali  e  dell'  uomo  (mezzi  di  comunicazione,  linguaggio, 
arte  costruttrice,  immaginazione,  raziocinio  etc),  giungiamo  allo 
stesso  risultato.  La  cicogna  dall'alto  dell'aria  spande  la  sua  voce 
per  una  sfera  di  circa  una  lega  d' estensione.  Specialmente  gli 
uccelli  marini,  avendo  bisogno  di  chiamarsi  di  lontano  in  mezzo 
al  fragore  delle  tempeste,  mandano  voci  forti;  quindi  tutti  gli  uc- 
celli nuotatori  son  muniti  d'una  trachea  lunga,  cartilaginosa,  ri- 
curva come  un  corno,  che  produce  un  suono  più  forte  di  quello 


(1)  Questa  prerogativa  naturalmente  nasce  non  da  migliore  organiz- 
zazione, ma  dall'esercizio  a  cui  l'uomo,  guidato  dalla  sua  ragione,  sot- 
topone i  sensi. 


—  112  — 

della  chiarina.  Ma  l'uomo  comunica  in  mare  con  i  suoi  simili  per 
mezzo  delle  trombe  parlanti  (portavoce)  (1).  Le  poste,  i  corrieri, 
i  telegrafi  etc.  sono  mezzi  di  comunicazione  estesissimi,  potendo 
trasmettere  non  un  solo  sentimento,  come  i  gridi  degli  uccelli, 
ma  qualunque  specie  d'affetti  e  d'idee.  L'uomo  ha  inventato  la 
scrittura,  con  la  quale  la  conoscenza  che  era  solamente  Indivi- 
duale diviene  sodale;  e  la  stampa,  che,  oltre  ad  essere  un  mezzo 
per  comunicare  le  proprie  idee  a  tutto  il  genere  umano,  trasmette 
l'eredità  scientifica  degli  antenati  alla  più  tarda  posterità. 

Non  si  può  negare  alle  bestie  un  linguaggio  di  voci  naturali 
e  di  gesti  (linguaggio  d' azione),  con  cui  principalmente  i  qua- 
drupedi e  gli  uccelli  si  trasmettono  i  loro  sentimenti,  manifestano 
i  loro  desideri  amorosi,  le  loro  antipatie  e  simpatie,  le  loro  paci 
e  le  loro  contese,  si  avvisano  dei  comuni  pericoli  etc.  Ma  l'uomo, 
oltre  che  del  linguaggio  d'  azione,  si  vale  di  quello  articolato,  il 
quale,  mentre  dà  corpo  ai  concetti  più  fugaci,  tenendoli  presenti 
alla  mente,  facilita  l'esercizio  di  tutte  le  funzioni  intellettuali, 
serve  anche  a  trasmettere  le  proprie  idee  agli  altri,  e  a  renderle, 
così,  comuni. 

La  casuccia  a  due  o  tre  piani  costruita  dal  castoro  dimostra 
maggiore  "arte  che  la  capanna  del  selvaggio.  Le  cellette  pirami- 
dali delle  api  rappresentano,  è  vero,  la  soluzione  d' un  problema 
che  suppone  la  più  astrusa  geometria.  Ma,  tralasciando  i  palazzi, 
gli  archi,  i  ponti  fabbricati  con  indefinita  varietà  <  dall'  uomo, 
mentre  le  opere  delle  bestie,  salve  poche  differenze  accidentali,  se- 
guono tutte  Lo  stesso  modello,  le  dighe  opposte  ai  flutti  del  mare, 
il  corso  cambiato  dei  fiumi,  1"  arte  di  trasportare  navigando  uo- 
mini e  mercanzie  da  un  polo  all'altro,  1' abilità^'di  riconoscere  i 
fondi  marini  e  dirigersi  nell'  immensità  dell'  oceano  mediante  la 
bussola  o  la  stella  polare,  gli  orologi  fabbricati  dall' uomo^dimo- 
strano  un  patrimonio  di  cognizioni  e  d'industria  ignoto  a  tutte 
le  bestie. 

Gli  animali  danno  segno  d'immaginazione  nei  sogni;  ma  non 
si  possono  certo  porre  a  confronto  i  loro  sogni  con  le  creazioni 
dei  poeti. 

Si  può  anche  concedere  alle  bestie  una  sorta  di  ragionamento: 


(l'I  Ora  col  telegrafo  senza  fili. 


—  113  — 

allorché  per  es.  i  castori  tagliano  alberi  coi  loro  denti,  ne  for- 
mano pezzi  proporzionati  alle  fabbriche,  li  piantano  nel  suolo,  li 
connettono  fra  di  loro,  costruiscono  tetti,  stabiliscono  uscite,  for- 
mano porte  etc;  allorché  le  formiche  dispongono  le  loro  gallerie 
sotterranee  in  modo  che  tutte  sbocchino,  per  così  dire,  in  una 
piazza  pubblica,  e  collocano  i  loro  feti  in  stanze  basse,  calde, 
pulite,  dove  li  visitano  spesso  e  donde  li  estraggono  per  esporli 
al  sole,  pronte  però  a  riportarli  subito  dentro  al  minimo  peri- 
colo; danno  segno  senza  dubbio  di  saper  combinare  le  idee  e 
dedurne  conseguenze  corrispondenti  alle  loro  situazioni  e  ai  loro 
bisogni.  Ma,  mentre  il  raziocinio  delle  bestie  è  limitato  alla  sfera 
delle  impressioni  presenti  e  abituali,  il  raziocinio  dell'  uomo  si 
estende  a  tutti  gli  oggetti  dell'  universo:  egli  determina  i  loro 
modi  d'azione,  le  loro  leggi  d'affinità  e  contrarietà,  e  prevede 
gli  avvenimenti  che  deriveranno  dalle  loro  combinazioni.  Astraendo 
dalle  differenze  individuali  che  caratterizzano  i  vari  gruppi  di  es- 
seri, coglie  i  loro  principi  comuni  (universali),  e  con  la  scorta  di 
questi  e  dell'  analogia  egli  determina  ciò  che  succede  in  luoghi 
dove  non  è  stato  mai,  e  ne  stabilisce  le  cause.  Egli  va  ad  inter- 
rogare le  generazioni  che  più  non  esistono,  e  si  giova  delle  loro 
risposte;  concepisce  disegni  per  quelle  che  esisteranno,  e  associa 
la  loro  sorte  a  quella  della  generazione  attuale. 

Dall'intelligenza  passando  agli  affetti,  osserviamo  le  stesse  dif- 
ferenze. Nelle  bestie  il  procreare  si  riduce  ad  una  sensazione  fisica, 
ad  un  bisogno  puramente  meccanico.  Invece  l'amore  nella  specie 
umana  è  accompagnato  da  entusiasmo  e  quasi  da  adorazione. 

La  leonessa  a  cui  sono  stati  tolti  i  figli  riempie  di  ruggiti  il 
deserto;  cerca,  insegue,  raggiunge  il  rapitore,  si  vendica  e  si  con- 
sola nel  sangue  di  lui.  Allorché  la  prole  degli  animali  può  prov- 
vedere alla  propria  esistenza,  la  madre  la  allontana  da  sé,  e  più 
non  la  riconosce.  Invece  la  donna  che  ha  perduto  i  suoi  figli  non 
ammette  consolazione.  Essi  non  sono  più  !  —  ecco  1'  unica  idea, 
ecco  l'unico  sentimento  che  domina  nel  suo  spirito  e  nel  suo 
cuore.  Nella  specie  umana,  quando  un  figlio  non  ha  più  bisogno 
di  sua  madre,  questa  ha  bisogno  di  lui:  ha  bisogno  d'amarlo. 

Se  il  cane  si  mostra  sensibile  ai  segni  d'  approvazione  o  di 
rimprovero  del  suo  padrone,  l'uomo  é  sensibile  a  quanto  si  dice 
di  lui  su  tutta  la  Terra.  Questa  speciale  e  disinteressata  sensibi- 
lità all'onore,  di  cui  non  si  scorge  traccia  negli  animali,  è  sorgente 


—  114  — 

inesaurìbile  d'azioni  ordinarie  e  straordinarie,  comuni  ed  eroiche, 
di  sacrifici  immensi  d'ogni  specie,  e  d'indefinita   perfezione  (1). 

Ora,  da  che  cosa  dipende  questa  differenza  immensa  che  si 
riscontra  fra  l'uomo  e  l'animale  in  ogni  manifestazione  della  loro 
vita  psichica?  Dalle  loro  facoltà,  che  elaborano  diversamente  il 
materiale  fornito  dai  sensi. 

Tra  le  facoltà  dell'uomo  sono  specialmente  importanti  quelle 
che  costituiscono  la  sua  intelligenza:  ossia  1'  attenzione  e  il  giu- 
dizio (2). 

L'  attenzione  è  una  forza  attivissima,  che  è  diversa  da  quella 
dei  sensi  e  concorre  al  loro  esercizio.  Infatti  tutte  le  sensazioni 
che  ci  vengono  dai  sensi,  se  non  sono  illuminate  dall'attenzione, 
riescono  di  solito  oscure;  invece  è  un  fatto  che  l'attenzione  rende 
le  sensazioni  più  chiare,  piìi  vive,  più  distinte,  e  ci  fa  conoscere 
negli  oggetti  qualità  di  cui  i  sensi  non  ci  avevano  avvertiti.  Perciò 
l'attenzione  dev'esser  paragonata  al  microscopio  o  al  telescopio, 
che  ci  manifestano  oggetti  infinitamente  piccoli  o  infinitamente 
lontani,  i  quali  senza  di  essi  ci  sarebbero  rimasti  eternamente 
ignoti;  e,  come  non  si  può  confondere  l'occhio  col  microscopio 
o  col  telescopio,  così  non  si  deve  confondere  l' attenzione  coi 
cinque  sensi  esteriori.  Perciò  è  gravissimo  errore  dire,  come  fanno 
comunemente  gì'  ideologi,  che  tutte  le  nostre  idee  furono  origi- 
nariamente acquistate  per  mezzo  dei  nostri  sensi  e  si  debbono  so- 
lamente ad  essi.  La  quale  proposizione  equivale  alla  seguente:  le 
statue  di  Carrara  si  debbono  solamente  alle  cave  di  Carrara  !!! 


(1)  Per  tutta  questa  parte  vedi  Ideal. ,  Voi.  I,  Parte  I,  .A,rt.  I;  cfr. 
Filosofia   morale  (Voi.  XIII    delle  Opere  Minori,  pag.  5  e  seg.). 

(2)  Per  il  Gioia  le  facoltà  dell'anima  (oltre  la  sensibilità,  che  for- 
nisce il  materiale  da  elaborare)  sono:  la  memoria,  l' immaginazione  e 
l'intelligenza  (attenzione  e  giudizio).  Vedi  Ideologia,  Voi.  II,  Parte  Vili. 
Egli  però  giustamente  osserva  che  tali  facoltà  non  si  devono  intendere 
come  centri  diversi  d'energia,  quasi  esseri  indipendenti.  -  Noi  pos- 
siamo far  uso  di  questi  modi  d'esprimersi  (facoltà  della  memoria,  del- 
l'imaginazione etc.)  senza  impegnarci  a  realmente  riconoscere  nell'animo 
facoltà  diverse,  come  quando  parliamo  del  correre  e  del  saltare,  dello 
scendere  e  del  salire,  del  passo  regolare  e  irregolare,  non  intendiamo 
di  accennare  diverse  gambe  »  (Elementi  di  filos.,  Parte  I,  Sez.  I,  Gap.  IV, 
pag.  39). 


—   115  — 

Come  la  diversa  perfezione  dei  microscopi  e  dei  telescopi  ci  rende 
nota  una  diversa  quantità  d' oggetti,  così  i  vari  gradi  d' atten- 
zione di  cui  son  capaci  gli  uomini  e  gli  animali  si  devono  con- 
siderare come  una  delle  cause  delle  loro  differenze  psichiche.  Ecco 
perchè  parecchie  specie  di  animali,  benché  ci  eguaglino  e  talvolta 
ci  superino  nella  perfezione  di  questo  o  quel  senso  e  anche  di 
tutti,  pure  ci  sono  inferiori  nelle  cognizioni;  ecco  perchè  un  cieco, 
un  sordo,  un  monco  giungono  a  idee  a  cui  i  bruti  non  giunsero 
mai.  In  tale  stato  imperfetto  l'uomo  conserva  una  forza  d'atten- 
zione di  cui  i  bruti  non  son  capaci.  Basta  osservare  la  continua 
mobilità  degli  uccelli  e  delle  scimnu'e,  per  accorgersi  che  il  loro 
animo  non  è  capace  di  quell'attenzione  che,  fermandosi  su  di  un 
solo  oggetto,  ne  avvivi  le  sensazioni  e  le  crei. 

Neppure  il  giudizio  si  riduce  al  sentire.  Udendo  per  es.  due 
arpe,  io  sento  che  il  suono  della  prima  mi  procura  piacere,  quello 
della  seconda,  dolore;  conseguenza  immediata  di  questi  due  sen- 
timenti (1)  è  un'  inclinazione  per  il  primo,  un'  avversione  per  il 
secondo.  Invece,  quando  paragono  le  altezze  di  queste  due  arpe 
e  m' accorgo  che  l' una  è  doppia  o  tripla  dell'  altra,  non  provo 
né  un'  inclinazione  né  un'avversione.  Dunque  quando  gli  psicologi 
dicono  che  giudicare  è  sentire,  senz' altra  distinzione,  confondono 
due  specie  di  fenomeni  infinitamente  differenti,  che  producono 
effetti  diversissimi.  Quando  io  dico  che  l'altezza  d'un' arpa  è  mi- 
nore, eguale  o  maggiore  rispetto  a  quella  d'un' altra,  enuncio  un 
rapporto;  quando  dico  che  un  fiore  somiglia  o  non  somiglia  ad 
un  altro,  enuncio  parimenti  un  rapporto.  II  rapporto  è  il  risultato 
del  confronto  di  due  idee  o  di  due  sentimenti;  e,  siccome  gli  enti 
non  possono  che  somigliare  o  differire  tra  loro,  i  nostri  paragoni 
o  confronti  non  scoprono  negli  oggetti  che  somiglianze  o  diffe- 
renze. La  facoltà  che  paragona  le  idee  per  scoprire  i  rapporti 
degli  oggetti  è  il  giudizio.  Il  sentimento  dunque  ci  rivela  i  rap- 
porti fra  gli  oggetti  e  la  nostra  individualità,  e  ci  suscita  com- 
mozioni; il  giudizio  invece  ci  fa  conoscere  i  rapporti  degli  og- 
getti fra  loro,  e  ci  lascia  indifferenti  (2).  Inoltre  il  giudizio  è  una 


(1)  Qui  il  Gioia,  invece   del   termine   sentimenti,  adopera   quello  di 

sensazioni;  altrove  invece  chiama  sensazioni  ciò  che  prima  ha  detto  idee. 

{2)  Perciò,  dice  il   Gioia,  è  falsa  l'asserzione   del   Tracy:  Jugcr  est 


~  no  — 

forza  attiva  in  sommo  grado.  Infatti  i  rapporti  degli  oggetti  non 
si  presentano  immediatamente  da  sé  stessi,  non  sono  un  risultato 
diretto  dell'azione  dei  nostri  sensi.  Per  scoprirli,  è  necessario  che 
l'attenzione  passi  da  un  primo  oggetto  ad  un  altro,  da  questo 
ad  un  terzo  etc,  vada  e  venga  piìi  volte  e,  per  così  dire,  si  ri- 
fletta dall'uno  all'altro  (il  che  le  ha  procurato  il  nome  di  rifles- 
sione), e  li  paragoni  ora  per  un  aspetto,  ora  per  un  altro,  al  fine 
di  conoscerne  le  relazioni.  Quando  Newton,  vedendo  cadere  un 
pomo,  domandò  a  sé  stesso  se  le  leggi  della  gravità  terrestre 
fossero  simili  o  dissimili  da  quelle  della  gravità  solare,  ottenne 
la  risposta  non  dai  suoi  sensi,  ma  da  mille  atti  dell'attenzione  e 
del  giudizio,  soccorsi  dal  calcolo  più  astruso.  Ticone  aveva  rac- 
colte mille  osservazioni  sulle  distanze  dei  pianeti,  sulle  celerità, 
sui  tempi  etc;  ma  non  conosceva  perciò  le  leggi  astronomiche. 
I  fatti  a  lui  forniti  dall'  osservazione  dovevano  essere  in  seguito 
vivificati  dal  genio  di  Keplero,  il  quale  dovette  stabilire  mille  con- 
fronti, eseguire  mille  calcoli,  riconoscerne  la  falsità,  intraprenderne 
di  nuovi,  sudare  diciassette  anni,  meditando  notte  e  giorno,  per 
giungere  finalmente  alle  leggi  che  hanno  e  meritano  d'  avere  il 
nome  di  lui. 

Per  persuadersi  dell'  attività  dello  spirito  nel  giudizio  e  nel- 
l'attenzione, si  pensi  che  le  idee  delle  qualità  corporee  si  presen- 
tano riunite  alla  mente,  e,  per  così  dire,  si  stringono  e  aderiscono 
insieme,  come  le  particelle  del  ferro  s'attaccano  e  aderiscono  alla 
calamita.  Non  si  può  per  es.  pensare  alla  rosa  senza  rappresen- 
tarsi insieme  e  il  fiore  e  le  foglie  e  il  gambo  e  le  spine  etc.  Ma 
V  attenzione  può  e  suole  considerare  una  sola  di  queste  qualità, 
e  annullare  nel  pensiero  tutte  le  altre;  e,  paragonandola  con  qua- 
lità simili  di  altri  oggetti,  concludere  che  essa  è  comune  a  più 
esseri.  Ora,  se  per  staccare  dalla  calamita  le  varie  particelle  de! 
ferro  in  modo  che  ne  rimanga  una  sola,  è  necessaria  una  forza 
estrinseca,  bisogna  riconoscere  una  forza  pure  nell'attenzione, 
quando  questa  considera  una  sola  delle  molteplici  qualità  di  più 


sortir  qii'  une  idée  va  renfennc  une  ciuf  re.  L'idea  del  sole  che  vedo 
prima  non  è  certo  inclusa  in  quella' della  luna,  che  mi  si  presenta  dopo; 
eppure  io  giudico  clic  il  sole  è  diverso  dalla  luna  {Ideologia,  Voi.  Il, 
pag.  191). 


117 

esseri  e  la  rende  oggetto  della  sua  riflessione.  Una  forza  molto 
maggiore  sarà  poi  necessaria  per  giungere  a  scoprire  differenze 
tra  oggetti  in  apparenza  simili  e  somiglianze  fra  oggetti  in  appa- 
renza diversi,  che,  allora,  oltre  che  staccare  le  qualità  unite,  l'at- 
tenzione deve  girare,  per  così  dire,  intorno  ad  esse,  e  confrontarle 
da  tutt'  i  lati. 

Se  è  necessaria  una  forza  (che  non  esiste  nei  sensi)  per  de- 
comporre, ossia  per  considerare  isolatamente  le  qualità  dei  corpi 
al  fine  di  scoprirne  i  relativi  rapporti,  si  richiede  pure  una  forza 
per  comporre,  ossia  per  formare  prodotti  ideali  che  non  esistono 
in  natura:  infatti,  per  costruire  tali  prodotti,  occorre  andare  in 
traccia  dei  loro  elementi  e  staccarli  da  altri  con  cui  sono  uniti. 
Supponete  miste  insieme  le  limature  di  più  metalli,  come  sono 
le  idee  dei  vari  oggetti  nel  nostro  spirito:  la  calamita,  se,  passando 
su  quelle  particelle,  non  fosse  dotata  d'una  forza  particolare  d'at- 
trazione sul  ferro,  non  riuscirebbe  a  separare  le  particelle  di 
questo  dalle  altre. 

Le  diverse  idee  che  nascono  nel  nostro  spirito  alla  vista  degli 
oggetti  esteriori  si  possono  paragonare  alle  lettere  d' un  dizio- 
nario: nel  quale  sono  tutti  gli  elementi  del  discorso;  ma,  per  for- 
marne un'orazione,  è  necessario  l'ingegno  d'un  oratore.  Questo 
ingegno  non  si  può  confondere  con  quelle  parole  inanimate.  Del 
pari,  eccovi  tutte  le  figure  del  giuoco  degli  scacchi:  voi  vedete 
fanti,  regine,  re,  alfieri,  torri,  pedine;  ma  tutte  queste  figure  de- 
vono essere  animate  dall'  attività  combinatrice  d' un  giocatore, 
per  avanzarsi  o  retrocedere  secondo  le  mosse  dell'avversario.  Così 
nelle  composizioni  del  musico,  del  pittore,  del  poeta  bisogna  di- 
stinguere le  idee  elementari  (fornite  dai  sensi)  dalla  forza  combi- 
natrice dello  spirito,  come  in  architettura  occorre  distinguere  la 
calce,  le  pietre,  i  mattoni  etc.  dall'  ingegno  dell'  architetto  che  li 
combina  (1).  Tant'è  vero  questo,  che  si  può  giudicare,  com.binare, 
riflettere,  anche  senza  provare  sensazione  alcuna  (2). 

Diremo  dunque  che  lo  spirito  è  passivo   nel  ricevere  le  im- 


(1)  Vedere  Esercizio  logico,  Parte  1,  Art.  IV,  Gap.  1,  pag.  111-112, 
dove  il  Gioia  si  vale  del  paragone  della  camera  oscura,  per  dimostrare 
che  la  facoltà  di  sentire  è  diversa  da  quella  di  combinare. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  33. 


—  118  — 

pressioni  dei  sensi,  ma  è  attivissimo  nel  ravvivarle.,  muoverle,  com- 
binarle, l  sensi  ci  somministrano  rozzi  materiali,  talora  uniti,  e 
occorre  separarli;  talora  disgiunti,  e  occorre  unirli;  sempre  disor- 
dinati, e  occorre  ordinarli.  In  quest'  operazione  son  necessari 
moltissimi  confronti,  per  poter  scoprire  i  rapporti  di  somiglianza 
o  differenza,  i  quali  sono  spesso  offuscati  da  apparenze  inganne- 
voli: domandate  per  es.  a  tutt'  i  popoli  del  mondo  se  si  muove 
il  Sole  o  la  Terra;  tutti  vi  risponderanno:  il  Sole.  Le  infinite  com- 
binazioni dei  materiali  secondo  le  leggi  del  bello,  dell'  utile,  del 
vero  dipendono  da  una  forza  che  i  filosofi  hanno  chiamata  in- 
tellettuale, e  a  cui,  dice  il  Gioia,  darete  il  nome  che  vi  piacerà 
{ideale,  intelligente  etc.)  (1),  ma  che  non  si  può  confondere  con  i 
materiali  sensibili,  senza  rinunciare  al  senso  comune,  come  non 
si  può  confondere  il  legno  con  la  scure  che  lo  spacca  e  con  la 
pialla  che  lo  liscia.  Dalle  cave  di  marmo  esce  un  pezzo  informe, 
indifferente  a  qualunque  figura;  il  genio  dell'  artista  ne  crea  un 
Apollo  o  una  Venere. 

Se  ai  bruti  m.anca  quella  forza  d'attenzione  che,  fissandosi 
sulle  idee,  ne  accresce  la  vivacità  e  ne  fornisce  di  quelle  che  sfug- 
gono ai  sensi,  manca  pure,  o  per  dir  meglio,  è  inferiore  alla 
nostra,  la  forza  di  muovere  le  idee  e  di  combinarle  (2). 


0)  Op.  cit.,  Parte  1,  Art.  IV,  Gap.  I,  pag.  113. 

(2)  Da  queste  considerazioni  il  Gioia  trae  una  fiera  critica  del  ma- 
terialismo, giacché  secondo  lui  è  erronea  la  pretesa  dei  fisiologi  di 
spiegare  con  le  sole  leggi  orgaiiiciie  l'attività  combinatrice  e  riferente 
del  pensiero.  Consideriamo,  egli  dice,  i!  più  facile  dei  problemi  alge- 
brici: quello  della  permutazione  delle  lettere.  Se  le  lettere  son  due,  a 
e  b,  si  possono  avere  due  sole  combinazioni:  a  b  e  b.a.  Se  son 
tre,  il  numero  delle  combinazioni  sarà  3x2,  cioè  6.  Se  son  quattro, 
il  numero  delie  permutazioni  sarà  4><f6,  cioè  24.  Aumentando  le  let- 
tere, le  combinazioni  divengono  tante  (3628809  quando  le  lettere  son 
10),  che  la  mente  è  presa  come  da  una  vertigine.  Ora,  dice,  il 
Gioia,  cercate,  sevi  dà  l'animo,  di  spiegare  questi  movimenti  dello  spi- 
rito con  le  leggi  dei  moti  organici;  e,  per  convincervi  di  tale  impossibilità, 
proponetevi  un  problema  più  difficile.  Neppure  le  operazioni  della  me- 
moria, secondo  il  Gioia,  si  possono  spiegare  con  le  sole  leggi  orga- 
niche. Le  alterazioni  della  memoria  psr  es.  si  verificano  specialmente 
per  le  parole;  le  idee  rimangono  più  ferme,  e  sussistono  intere  quando 


—  119     - 

Quali  sono  i  principali  prodotti  dell'intelletto,  che  risultano 
dalla  forza  combinatrice  che  elabora  le  sensazioni?  Sono  l'idea 
della  somiglianza  o  differenza  tra  oggetti,  la  vista  della  priorità 
o  posteriorità  nello  spazio  e  nel  tempo,  di  regolarità  o  irregola- 
rità nelle  successioni  e  nelle  coesistenze,  l' idea  d' azione  e  pas- 
sione, di  causa  e  d'effetto,  di  fine  e  di  mezzo  etc.  (1):  insomma, 
le  così  dette  categorie. 

Data  quest'  attività  psichica,  come  possiamo  rappresentarci 
lo  spirito  nella  costruzione  della  scienza?  Nei  primi  lavori  il  suo 
atto  somiglia  a  un'operazione  chimica  che  scioglie  un  composto 
nei  suoi  elementi  e  ne  fa  comparire  le  qualità  occulte.  Da  questo 
limo  oscuro  deposto  dai  sensi  lo  spirito  fa  scaturire  la  luce  e  il 
pensiero.  I  sensi  somministrano  le  idee  primitive,  come  il  piano- 
forte i  tasti;  il  genio  del  musico  combina  le  note  dei  tasti  in  modo 
che  ne  risulti  l' armonia;  così  lo  spirito  unisce  le  idee  primitive  in 
modo  che  ne  nascano  le  scienze. 


quelle  son  perdute:  io  posso  conservare  per  es.  le  immagini  dei  colori 
e  perdere  il  ricordo  delie  joarole  con  cui  sono  espresse.  Che  cosa  sono 
le  parole?  Relativamente  alla  vista,  figure;  relativamente  all'udito,  suoni. 
Ora  spiegate  come  succeda  che  io  conservi  una  proposizione  di  geo- 
metria, cioè  il  rapporto  fra  due  figure  visibili,  e  dimentichi  le  parole, 
ligure  ugualmente  visibili.  Di  più:  voi  avete  ascoltato  un  ignorante  nar- 
rare un  fatto,  e  vi  ricordate  ch'egli  pose  in  principio  ciò  che  doveva  stare 
nel  mezzo,  e  in  fine  ciò  che  doveva  trovarsi  in  principio;  che  insomma 
le  sue  idee  si  successero  nell'ordine  seguente:  Y,  M,  U,  B,  P,  C,  O,  A. 
Ora,  una  delle  leggi  dell'associazione  delle  idee  è  che  esse  si  risvegliano 
nell'ordine  in  cui  si  presentarono.  Eppure,  voi  subito  dopo  raccontate 
il  fatto  ordinatamente,  nel  seguente  modo:  A,  B,  C,  M,  O,  P,  U,  Y. 
Sfido  qualunque  fisiologo,  dice  il  Gioia,  a  spiegare  con  le  sole  leggi 
organiche  questo  cambiamento  d'ordine,  questa  scelta  di  circostanze. 
C'è  qui  un'azione  reale  dello  spirito,  di  cui  non  si  scorge  traccia  nei 
movimenti  organici  (Ideologia,  Voi.  Il,  pag.  168-170).  Si  noti  pure  che 
il  Gioia  contro  l'affermazione  del  Cabanis  che  il  pensiero  sia  una  se- 
crezione del  cervello,  insiste  sulle  differenze  e  sui  contrasti  che  sussi- 
stono tra  i  fenomeni  della  secrezione  e  quelli  del  pensiero  {Ideologia, 
Voi.  II,  pag.  182-183).  Considerando  queste  affermazioni  del  Gioia  non 
so  davvero  capire  come  mai  il  Ferri  abbia  detto  che  è  difficile  trarre 
dalla  dottrina  di  lui  altro  che  materialismo. 

(1)  Esercizio  logico,  Parte  1,  Art.  IV,  Gap.  1,  pag.  112, 


—  120  — 

Il  primo  lavoro  che  la  scienza  c'impone  è  di  raccogliere  molti 
fatti  particolari  (osservazione).  L'arte  di  osservare  ha  due  parti: 
l'osservazione  propriamente  detta  e  l'arte  di  fare  esperimenti;  cia- 
scuna ha  le  sue  regole. 

Il  secondo  lavorio  della  scienza  consiste  in  una  semplice  ge- 
neralizzazione. Si  colgono  i  rapporti  di  somiglianza  che  si  scor- 
gono tra  più  esseri,  tra  più  fatti,  e  si  dà  loro  un  nome  comune 
(classificazione).  Le  piante  per  es.  formano  un  numero  determi- 
nato di  classi,  di  ordini,  di  generi,  di  specie.  A  questa  seconda 
fase  s'arresta  la  storia  naturale  propriamente  detta. 

La  fisica,  l'astronomia  etc.  fanno  un  passo  di  più:  paragonano 
i  fenomeni  generali,  e  colgono  i  rapporti  che  li  uniscono  e  che 
spesso  si  possono  esprimere  numericamente.  I  rapporti  tra  i  fe- 
nomeni generali  si  chiamano  leggi\  così,  dopo  Keplero,  gli  astro- 
nomi dicono  che  nel  movimento  di  due  pianeti  i  quadrati  dei 
tempi  periodici  sono  come  i  cubi  delle  distanze  medie  dal  sole. 
Ma  non  sempre  è  possibile  giungere  a  tale  grado  di  precisione 
matematica. 

Finalmente  la  conoscenza  delle  leggi  conduce  a  quella  delle 
cause  0  agenti  naturali,  a  cui  i  fenomeni  classificati  possono 
esser  ridotti.  È  questo  l'ultimo  termine  vagheggiato  dalla  filosofia. 

Osservare,  classificare,  indurre  leggi,  ricercare  le  cause,  tali  sono 
le  operazioni  dello  spirito  nel  costruire  le  scienze.  In  esse  Io  scopo 
dell'intelligenza  è  di  stabilire  identità  fra  idee  mediante  un  lavorio 
continuo  d'astrazioni.  La  mente  scorge  da  prima  somiglianze,  poi, 
depurando  queste,  giunge  talvolta  a  trovare  ciò  che  ciascuna  con- 
tiene d'  identico.  L' ultimo  termine  a  cui  s' arresta  lo  spirito  è 
indicato  da  un  sentimento  particolare  chiamato  evidenza:  allora 
r  attributo  delle  proposizioni  comparisce  eguale  al  soggetto. 

Non  e'  è  bisogno  di  dire  che  nessuna  traccia  di  tale  fermeu- 
tazione  ideale      si  riscontra  nelle  bestie  (1). 


(1)  Vedi  per  tiiUa  questa  parte  V Ideologia,  Voi.  il,  Parte  Vili,  spec. 
Gap.  Ili  e  Gap.  IV.  Si  deve  però  notare  una  non  lieve  differenza  tra 
gli  Illein.  di  filos.  e  V/deoloffia.  Negli  f/^///r«// (ISIS)  il  Gioia  sostiene 
che  tutte  le  nostre  idee  traggono  origine  dai  sensi  esterni  e  da  quello 
interno  (Prefaz.,  pag.  5),  chiama  il  giudizio  una  sensazione  secondaria, 
e  così  scrive:  ^  Un  garofano  e  una  viola  agiscono  sulle  mie  narici:  io 
sento  l'uno  e  l'altra:  ecco  due  sensazioni  primitive;  sento  che  l'una  è 


121 


Come  s'è  detto,  delle  idee  e  dei  sentimenti  possiamo  ricercare, 
oltre  l'origine,  anche  le  leggi.  Le  leggi  delle  idee  (sensazioni) 
sono  dal  Gioia  divise  in  tre  gruppi:  1°  leggi  d'intensità;  2"  leggi 
di  simpatia;  3°  leggi  d'associazione. 

1.°  Le  leggi  d'intensità  determinano  le  condizioni  della  forza 
e  della  durata  delle  sensazioni  (1), 

2."  Le  leggi  di  simpatia  riguardano  i  rapporti  fra  parti  lontane 
del  corpo  e  quindi  fra  le  sensazioni  che  ne  provengono  (per  es. 
certi  suoni  aspri  e  acuti  producono  strider  di  denti;  una  detona- 


diversa  dall'altra:  ecco  una  sensazione  secondaria,  e.A  ecco  il  giudizio. 
Giudicare  si  riduce  a  sentire  i  rapporti  tra  due  sensazioni  primitive  > 
(Voi.  1,  Sez.  Ili,  Art.  II,  Gap.  I,  §  3,  pag-.  132-33).  È  vero  ch'egli  presenta 
questa  definizione  come  enunciata  dagT  Ideologisti  '■;  ma  non  la  cri- 
tica; anzi  l'accetta;  e  conclude:  Tutta  la  nostra  esistenza  è  un  movi- 
mento continuo  di  sensazioni  >  (pag.  133).  Inoltre,  nello  spiegare  la 
differenza  tra  le  facoltà  degli  animali  e  quelle  degli  uomini,  si  fonda 
solo  sui  caratteri  organici,  e  scrive  persino:  La  migliore  organizza- 
zione neli'  uomo  può  benissimo  esser  causa  della  memoria  più  tenace, 
dell'immaginazione  più  fervida  che  in  esso  a  fronte  degli  animali  di- 
mostrasi >  (Voi.  I,  Sez.  HI,  Art.  I,  §  3).  È  dunque  evidente  che  il  pen- 
siero del  Gioia  neW Ideologia  (1822)  e  neW Esercizio  logico  (1824)  s'è 
modificato.  Se  si  tien  conto  di  questo  mutamento,  appare  errata  l'affer- 
mazione del  Ferri  (Op.  cit.,  pag.  15)  che  la  filosofia  del  Gioia  sia  una 
dottrina  dell'esperienza  incompleta,  a  cui  manchi  una  psicologia  ampia 
e  vera,  capace  di  abbracciare  il  mondo  intellettuale  e  il  mondo  sensi- 
bile, l'ideale  e  il  reale.  Si  direbbe  che  il  Ferri  si  fondi,  nella  sua  ana- 
lisi critica,  solo  sugli  Elementi  di  filosofia.  Si  noti  che  neppure  il  Ro- 
smini, in  Breve  esposizione  della  filosofia  di  M.  Gioia  (Opuscoli  filo- 
sofici, Voi.  Il,  pag.  357-490),  cita  mai  Y Ideologia;  riferisce,  nella  parte 
teorica,  solo  luoghi  degVi  Elementi  di  fil.  e  deW  Esercizio  logico;  perciò 
la  sua  esposizione  dà  un'idea  falsa  della  filosofia  del  Gioia. 

(1)  Per  es.  -  acciocché  uno  stimolo  produca  il  suo  effetto  su  un  tes- 
suto vivente,  è  necessario  che  la  sua  azione  continui  per  un  certo  tempo  ». 
Affinchè  la  sensazione  riesca  in  noi  distinta,  è  necessario  che  l'impres- 
sione degli  oggetti  non  sia  troppo  forte  relativamente  alla  struttura  dei 
nostri  sensi  >.  <^  L'effetto  d'uno  stimolo  continua  per  un  certo  tempo 
dopo  che  ne  è  cessata  l'azione   (immagini   consecutive  della  vista)  >. 


—  122  — 

zione  violenta  provoca  uno  stringimento  alla  regione  epigastrica; 
il  panereccio  o  un  tumore  all'estremità  delle  dita  produce  spesso 
tumefazione  o  ingorgo  nelle  glandole  delle  ascelle;  malattie  del 
fegato  sono  causa  di  dolori  vivissimi  alla  spalla  destra;  V  infiam- 
mazione air  utero  suscita  calore  nella  pelle,  nausea,  vomito,  ce- 
falalgia; l'irritazione  per  opera  dei  vermi  nel  tubo  intestinale  pro- 
duce prurito  alle  ali  del  naso,  pizzicore  all'estremità  della  lingua, 
dolore  nelle  gengive  etc.)  (1).  Oltre  queste  simpatie  dipendenti 
dalle  leggi  misteriose  della  vita,  bisogna  notare  l'azione  reciproca 
che  i  fatti  psic'nici  possono  esercitare  fra  loro  modificandosi.  Nel- 
l'estate la  temperatura  delle  cantine  ci  sembra  fresca,  nell'inverno 
calda,  benché  sia  sempre  la  stessa;  questo  perchè  nell'  estate  il 
nostro  organismo  è  abituato  a  un  calore  di  venti  o  venticinque 
e  più  gradi;  perciò  ci  deve  sembrar  fresca  la  cantina,  che  ne  ha 
sette  soltanto  od  otto;  mentre  nelT  inverno,  quando  la  tempera- 
tura atmosferica,  a  cui  siamo  abituati,  resta  inferiore  a  sette  gradi 
e  s'avvicina  a  zero  o  l'oltrepassa,  deve  succedere  l'opposto.  Del 
pari,  la  sensazione  consueta  che  in  noi  produce  il  vino  cambia 
se  lo  beviamo  dopo  aver  masticato  il  salame.  Dal  che  risulta  che  le 
sensazioni  attuali  dipendono  dallo  stato  antecedente  degli  organi 
sensori  e  dalle  sensazióni  che  ne  provenivano  (legge  di  relatività). 
inoltre:  il  pittore  Teone,  prima  di  scoprire  il  quadro  che  aveva 
posto  nella  pubblica  piazza  d' Atene  e  che  rappresentava  un  sol- 
dato in  atto  di  combattere,  fece  suonare  una  musica  militare,  per 
predisporre  1'  animo  degli  spettatori.  Alzato  il  velo,  sembrò  agli 
astanti  di  veder  vivo  il  soldato  brandir  le  armi,  correre  al  com- 
battimento, lanciarsi   su!   nemico.  In  tal   modo  le  sensazioni  del- 


'  Ogni  volta  che  un  organo  ha  cessato  di  funzionare  per  un  certo 
tempo,  diviene,  ristabilendosi,  sensibilissimo  all'azione  dei  differenti  sti- 
moli coi  quali  suole  essere  in  contatto  y.  La  continua  azione  d'uno 
stimolo  ne  diminuisce  l'intensità,  eccetto  che  non  si  presentino  circo- 
stanze speciali  (per  es.  lesione  dell'organismo  per  opera  dello  stimolo)  >. 
Vedi  Idealo rria,  Parte  IH,  Gap.  H;  Elementi  di  fil.,  Parte  1,  Sez.  1, 
Gap.  II. 

(1)  Ideologia,  Parte  HI,  Gap.  HI.  Anche  qui  il  Gioia  segue  il  Ga- 
banis,  e,  come  questi,  ritiene  la  simpatia  *  legge  primitiva  dell'orga- 
nizzazione così  inesplicabile  come  Io  è  il  mistero  della  vita  >  {Ideologia, 
Parte  IH,  Gap.  HI,  ^  3,  pag.  124). 


—  123  — 

V udito  aggiunsero  forza  e  quelle  della  vista.  Ciascuno  ha  potuto 
osservare  che  un  gesto  naturale  ed  espressivo,  una  conveniente 
modulazione  della  voce  rendono  più  gradito  il  discorso  d' un  ora- 
tore, e  che  il  piacere  della  musica  e  della  rima  rende  maggiore 
il  piacere  d'  una  bella  poesia.  Dal  che  risulta  che  le  sensazioni  d'un 
senso  possono  esser  rafforzate  dalle  sensazioni  consone  dello  stesso 
senso  o  d' un  altro,  sia  che  queste  le  precedano,  sia  che  le  accom- 
pagnino (legge  di  fusione  e  di  complicazione).  Ancora:  l'esperienza 
dimostra  che  il  caldo  e  il  freddo,  il  dolce  e  l'amaro,  il  bianco  e 
il  nero  reagiscono  a  vicenda,  e  ci  colpiscono  più  fortemente  uniti 
che  disgiunti.  Quasi  tutte  le  arti  profittano  di  questi  contrasti:  il 
musico  fa  sentire  nell'armonia  le  dissonanze  etc.  Il  cibo  s'apprezza 
dopo  il  digiuno;  le  ricchezze  altrui  mettono  in  evidenza  la  nostra 
indigenza.  Le  sensazioni  giungono  dunque  al  massimo  grado  d'in- 
tensità quando  son  contrarie;  invece,  quando  son  simili,  scendono 
al  minimo  (legge  di  contrasto)  (1). 

3."  Le  leggi  dell'  associazione  sono  importantissime,  poiché 
regolano  gran  parte  della  nostra  vita  psichica.  Molti  fatti  dimo- 
strano che,  al  prodursi  d'  una  sensazione,  se  n'  affacciano  alla  no- 
stra mente  molte  altre  che  già  provammo,  cosicché  lo  stato  abi- 
tuale del  nostro  animo  è  un  composto  di  sensazioni  attuali  e  di 
senzazioni  richiamate;  anzi  le  prime  per  lo  più  sono  ben  poche 
a  fronte  delle  seconde.  Il  Gioia  determina  le  cause  del  richiamarsi 
delle  sensazioni  (movimenti  organici  interni,  somiglianza  delle 
sensazioni,  simultaneità  e  successione  loro,  sforzi  della  volontà, 
affetti  dell'  animo)  e  quindi  le  leggi  (2). 


(1)  Elementi  di  fil.,  Parte  I,  Sez.  I,  Gap.  III.  È  noto  che  queste  leggi 
sono  slate  precisate  e  illustrate  dai  moderni  psicologi.  Sono  anche  no- 
tevoli le  leggi  dell'attenzione  fissate  dal  Gioia  (Elementi  di  fil.,  Sez.  il). 
Vedi  anche  Esercizio  logico,  Parte  1,  Art.  \\\. 

(2)  Ideologia,  Parte  III,  Gap.  IV;  Elem.  di  fil.,  Parte  1,  Sez.  1,  Gap.  IV. 
Oltre  l'associazione  delie  idee  i!  Gioia  studia  la  memoria.  Anzi  egli  de- 
termina con  molta  esattezza  le  condizioni  che  possono  agire  sulla  me- 
moria e  renderla  talvolta  malata,  per  es.,  l'età,  il  temperamento,  le 
malattie,  gli  affetti  troppo  violenti  e  improvvisi,  gli  eccessivi  sforzi  in- 
tellettuali etc.  (Ideologia,  Parte  Vili,  Gap.  I).  Nella  sua  Ideologia 
(Parte  Vili,  Gap.  I,  pag.  168)  si  trova  già  enunciata  la  legge  detta 
dal  RiBOT  di  regressione  o  reversione  (Le  malattie  della  memoria, 
Palermo,  Sandron,  Trad.  Jucci,  pag.  105). 


—  124 


Oltre  che  delle  sensazioni  propriamente  dette  il  Gioia  ricerca 
le  cause  e  quindi  le  leggi  anche  dei  sentimenti,  anzi  è  questa  una 
delle  parti  più  notevoli  dell'  ideologia  sua. 

Il  Gioia  non  accetta  la  teoria  della  natura  negativa  del  piacere, 
che,  sostenuta  già  da  Epicuro  (1),  dal  Cardano  (2),  dal  Casti- 
glione (3),  dal  Montaigne  (4),  dal  Locke  (5)  e  dal  Magalotti  (6),  era 
stata  rinnovata  ai  giorni  suoi  da  Pietro  Verri  (Discorso  sull'in- 
dole del  piacere  e  del  dolore),  il  quale  aveva  voluto  provare:  1°  che 
il  piacere  è  non  qualcosa  di  positivo,  ma  il  cessare  d'  un'  azione; 


(1)  Diogene  Laerzio,  Libro  X,  139. 

(2)  De  vita  propria,  Gap.  VI. 

(3)  Corte  giano,  II,  2. 

v4)  Essais,  Livre  II,  Chap.  XII. 

(5)  Essai,  Livre  li,  Chap.  XXI,  §§  31  e  seg. 

(6)  Lettere  familiari,  Parte  I,  Lettera  29=^.  Lo  Schopenhauer,  che 
segue  anche  lui  tale  teoria  {Le  monde  cornine  volante  et  comme  repré- 
sentation,  Trad.  Cantacuzène,  Leipzig,  Brockhaus,  Voi.  I,  §  58),  aggiunge 
a  questi  filosofi  Platone  e  Voltaire  (vedi  Le  fondcment  de  la  morale, 
Trad.  Bastian,  Flammarion,  Paris,  pag.  227).  Anche  il  Verri  (Opere, 
Voi.  I,  pag.  XI)  vede  i  semi  della  sua  dottrina  nelle  famose  parole  che 
Socrate  liberato  dalle  catene  dice  nel  Fedone  (60  B  e  C)  sulla  natura 
del  piacere  e  del  dolore.  Ma  veramente  Platone  respinse  nel  Filebo 
(44  C  e  51  A)  la  teoria  di  coloro  che  consideravano  il  piacere  come 
la  cessazione  del  dolore.  Si  potrebbe  anzi  domandare  quali  filosofi  so- 
stenessero tale  teoria,  che  Platone  combatte.  Lo  Schleiermacher,  Io 
Stallbaum  e  altri  hanno  pensato  che  fossero  i  cinici  e  Antistene  in 
ispecie.  Ma  il  Poste  e  il  Grote,  fondandosi  su  vari  argomenti,  secondo 
me  importanti,  hanno  respinto  quest'opinione.  Il  Grote  crede  che  fossero 
alcuni  platonici  pitagorizzanti  deli'  Accademia  stessa,  i  quali  in  fondo 
non  facevano  che  trarre  le  ultime  conseguenze  dei  principi  esposti  nel 
Filebo.  Cosicché  per  il  Grote  anche  Platone  sarebbe  in  ultima  analisi 
sostenitore  della  teoria  detta  (egli  infatti  la  critica,  ma  nello  stesso  tempo 
riconosce  che  essa  è  vera  per  molti  dei  piaceri;  ne  eccettua  solo  al- 
cuni; era  quindi  facile  interpretare  anche  questi  come  qM  altri).  A  quei 
pitonici  pitagorizzanti  si  riconnetterebbe  poi  Speusippo.  Vedi  Grote, 
riluto  and  the  otliers  companions  of  Socrates,  London,  Murray,  1885, 
Voi.  Ili,  pag.  389-391,  nota  3. 


—  125  — 

2°  che  qualunque  piacere  fisico  o  morale  consiste  in  una  rapida 
cessazione  del  dolore;  3°  che  non  si  possono  dare  due  piaceri 
consecutivi,  giacché  il  piacere  è  sempre  preceduto  da  dolore; 
4'  che  il  dolore  è  I'  unico  principio  (movente)  delle  azioni  umane. 
A  questa  dottrina  il  Gioia  obietta:  1°  si  deve  riconoscere  una 
azione  reale  e  positiva  così  nel  piacere  come  nel  dolore,  anzi 
maggiore  nel  primo  che  nel  secondo.  Infatti  nel  piacere  tutti  gli 
organi  sembrano  muoversi  verso  le  impressioni  e  dilatarsi  per 
riceverle  in  tutt'  i  punti:  così,  quando  ci  apprestiamo  a  gustar 
qualcosa  di  piacevole,  le  papille  della  lingua  si  ergono;  viene 
r  acquolina  in  bocca  (abbondante  salivazione).  Ancora:  date  ad 
un  uomo  una  lieta  notizia,  e  vedrete  farsi  più  serena  le  sua  fronte, 
illuminarsi  i  suoi  occhi,  diffondersi  sulle  guance  una  tinta  rosea, 
spuntar  sulle  labbra  un  sorriso  grazioso,  tutto  1'  organismo  ria- 
nimarsi e  presentare  l' immagine  delia  vita.  Infine  l' eccessivo 
piacere  altera  la  digestione,  e  può  produrre  la  sincope  e  la  morte. 
2*  Si  danno  dolori  che  cessano  rapidamente  senza  piacere.  In 
alcune  nevralgie  il  dolore,  irradiandosi  nei  vari  rami  del  nervo, 
dà  la  senzazione  d'  una  scottatura  e  più  spesso  quella  di  moltis- 
simi aghi  conficcati  nelle  carni;  e,  sebbene  tale  sensazione  sia 
rapida  come  la  scintilla  elettrica,  pure  non  lascia  traccia  alcuna 
di  piacere.  Nel  dolor  di  denti  talvolta  una  droga  stimolante  o 
r  etere  fa  cessare  quasi  per  incanto  il  dolore,  ma  non  produce 
certo  piacere.  3°  Si  danno  piaceri  contigui  senza  intervallo  di  un 
dolore  precedente.  Avete  per  es.  mangiato;  un  sentimento  di  be- 
nessere è  diffuso  per  tutto  il  vostro  organismo;  eppure  in  que- 
st'  assoluta  mancanza  di  dolori  vi  arrecherà  piacere  un  profumo 
soave  o  una  tazza  di  caffè  o  un  canto  armonioso  etc.  4°  L' intensità 
del  piacere  non  sempre  corrisponde  all'  intensità  del  dolore  (come 
invece  dovrebb'  essere  se  fosse  vera  la  teoria  del  Verri).  Sia  per  es. 
la  vostra  sete  come  2;  voi  la  estinguete  con  un  bicchier  d'acqua, 
e  vi  procurate  un  piacere  uguale  a  2;  ma,  se  all'  acqua  aggiun- 
gete un  cucchiaio  di  zucchero,  avrete  un  piacere  come  3,  benché 
non  sia  cresciuta  l' antecedente  sensazione  dolorosa  della  sete. 
Così  una  meschina  lucerna  basta  per  far  cessare  il  dispiacere 
delle  tenebre  e  procurarvi  il  piacere  della  luce.  Ma,  invece  d'una 
lucerna,  l' artista  vi  presenta  un  candeliere  elegante  e  piacente 
per  la  forma,  per  i  colori  e  per  le  figure,  che  destano  nella  vostra 
niente  immagini  graziose.  I  piaceri  risultanti  dalla  forma,  dai  co- 


—  126  — 

lori,  dalle  figure,  dalle  immagini  graziose  son  del  tutto  indipen- 
denti dal  piacere  della  luce,  e  non  si  possono  spiegare  col  dolore 
che  ci  cagionano  le  tenebre.  In  generale  le  arti  aggiungono  una 
somma  crescente  di  godimenti  al  piacere  primitivo  del  bisogno  so- 
disfatto. Data  dunque  la  stessa  intensità  di  dolore,  si  può  con- 
seguire diverso  piacere  secondo  i  diversi  modi  di  sodisfarlo. 
5°  Dato  lo  stesso  stato  dell'  organismo  e  della  psiche,  il  piacere 
si  muta  secondo  la  qualità  dell'  oggetto  esteriore  che  lo  produce. 
Infatti,  dato  Io  stesso  grado  di  sete,  la  sensazione  piacevole  che 
vi  procura  una  limonata  è  diversa  da  quella  che  vi  dà  un  bic- 
chiere d'  acetosa.  Dato  Io  stesso  stato  d'  animo,  il  movimento  lento 
delle  corde  d'  uno  strumento  produce  un  piacere  grave;  il  mo- 
vimento rapido,  un  piacere  vivo.  Il  che  dimostra  che  il  piacere 
è  non  il  cessare  d'  un'  azione,  ma  un  fatto  positivo  e  reale.  Quando 
spegnete  una  luce  che  v'  offende  gli  occhi,  in  qualunque  modo 
la  estinguiate,  la  sensazione  delle  tenebre  resta  la  stessa,  poiché 
qui  tutto  si  riduce  a  far  cessare  un'  azione.  Ma  nei  casi  accennati 
i  fenomeni  cambiano  secondo  la  natura  dell'  oggetto  che  li  pro- 
duce; il  piacere  risultante  è  dunque  effetto  d'  un'  azione  reale. 

Altre  osservazioni  acute  aggiunge  il  Gioia  (1):  il  quale  accetta 
la  teoria  classica  di  Aristotele  [Metafisica,  I),  secondo  cui  il  pia- 
cere è  un  effetto  o  un  concomitante  dell'  attività.  Un  movimento 
un  po'  maggiore  dell'  ordinario,  dice  il  Gioia,  suscita  nel  sistema 


(.1)  Così  il  Verri,  per  poter  sostenere  la  sua  teoria,  era  ricorso  ai 
'  dolori  vaghi  e  innominati  ,  ossia  a  sensazioni  dolorose  indistinte, 
provenienti  di  solito  da  organi  interni,  ma  difficilmente  localizzabili. 
Secondo  il  Verri  questi  dolori  innominati  sarebbero  la  sorgente  dì  tutti 
i  piaceri  più  delicati,  specialmente  di  quelli  estetici;  cosicché,  se  gii 
nomini  fossero  veramente  sani  e  allegri,  non  sarebbero  mai  nate  le  belle 
arti.  Egli  sostiene  che  ogni  uomo  che  si  dà  appassionatamente  ad  una 
scienza,  ad  un'arte  o  ad  un  mestiere,  agisce  così  non  per  altro  se  non 
perchè  è  infelice,  e,  quanto  maggiore  è  la  somma  di  dolori  innominati 
ch'egli  soffre  abbandonato  a  sé  stesso,  tanto  piìi  forte  è  la  brama  di 
cercar  mezzi  per  sottrarsi  ad  essi.  L'uomo  che  esiste  male,  isolatamente, 
cerca  di  darsi  in  preda  ad  un  oggetto  prepotente  per  esserne  occupato; 
invece  l'uomo  robusto,  lieto,  felice  sfiora  sorridendo  gli  oggetti,  e,  si- 
gnore della  natura,  domina  le  sensazioni  proprie  tranquillamente.  Molti, 
conclude  il  Verri,  hanno  detto  che  gli  sciocchi  son  felici;  io  invece  dico 


—  127  — 

organico  una  sensazione  piacevole;  un  movimento  molto  minore 
o  maggiore  dell'ordinario  (dunque  difetto  o  eccesso  d'attività) 
produce  dolore. 

Tra  i  movimenti  di  cui  son  suscettibili  le  nostre  membra  pro- 
ducono maggior  piacere  quelli  che  si  ripetono  a  intervalli  uni- 
formi di  tempo,  giacché,  mediante  questo  ritorno  periodico,  l'a- 
bitudine agevola  la  loro  riproduzione,  e  l'uno  segue  all'altro 
senza  grande  dispendio  d'  energia.  Di  più,  il  ritmo,  regolando  i 
movimenti,  ne  previene  molti  di  inutili  e  irregolari,  ai  quali  l'uomo 
s'  abbandona  quando  non  è  dominato  da  un'  idea  stabile.  Perciò 
le  canzoni  hanno  i  loro  ritornelli,  le  danze  le  loro  riprese,  le 
marcie  militari  i  passi  regolati  etc;  e  nella  musica  s'  ha  il  ritmo, 
nella  poesia  la  rima  e  i!  metro,  che  ci  fanno  udire  i  suoni  più 
facilmente  e  più  distintamente,  a  intervalli  ripetuti. 

Ma,  perchè  si  provi  piacere,  non  basta  che  non  s'  abbia  né 
eccesso  né  difetto  d'  attività.  L'  attività  ha  anche  un  fine  da  rag- 
giungere; perciò  è  sorgente  di  piacere  la  corrispondenza  tra  i 
mezzi  e  il  fine;  e  questo  piacere  cresce  con  V  aumentare  dell'utile 
che  si  consegue  e  della  semplicità  del  mezzo  che  s' adopera.  Così 
le  invenzioni  nelle  arti  meccaniche  e  liberali,  nell'  amministrazione 
pubblica  e  nella  legislazione  procurano  vivi  piaceri,  giacché  noi 
vediamo  problemi  grandi  e  difficili  sciolti  con  combinazioni  che 
non  s'  erano  presentate  alla  nostra  mente  e  che  quindi  ci  piac- 
ciono in  ragione  della  loro  novità,  semplicità,  durata,  scarsa  spesa 
e  facilità.  All'  opposto,  tutto  ciò  che  non  s'  accorda  con  lo  scopo 
proposto  riesce  spiacevole  (1). 

Oltre  le  condizioni  e  cause  dei  sentimenti  il  Gioia  studia  anche 


che  i  felici  sono  sciocchi,  perchè  Tuomo  che  non  soffra  il  pungolo 
del  dolore  e  che  viva  vegetando  tranquillo,  non  ha  ragion  sufficiente 
per  superare  la  sua  inerzia  e  interessarsi  d'un  oggetto;  quindi  non  gli  si 
può  sviluppare  Tingegno,  e  nessun' idea  viene  da  lui  esaminata  atten- 
tamente (Discorso  suir  indole  etc.  in  Opere  già  citate,  Voi.  ì,  pag.  52-74). 
Qui  il  Gioia,  oltre  che  coi  fatti,  combatte  il  Verri  anche  con  l'arma 
del  ridicolo.  «  Per  verità  »,  egli  dice,  «  sembrerebbe  strano  il  discorso  di 
chi  dicesse  provar  egli  piacere  nell'  esaminare  la  Venere  de'  Medici, 
perchè  si  sente  un  calcolo  nelle  reni,  o  perchè  il  suo  polmone  è  affetto 
da  etisia  >  (Ideologia,  Voi.  li,  pag.  75,  nota  2). 
(1)  Ideologia,  Voi.  II,  Parte  VI. 


—  128  — 

i  loro  gradi  (indifferenza,  affezione,  passione)  (1).  È  anzi  notevole 
che  il  Gioia  studia  con  molto  acume  le  alterazioni  che  gli  affetti 
producono  nel  valore  degli  esseri  e  nelle  idee  che  noi  ne  abbiamo, 
mostrando  come  la  mente  umana  in  preda  ad  un  sentimento 
molto  forte  o  ad  una  passione  segua  non  più  la  logica  razionale, 
oggettiva,  ma  una  logica  soggettiva,  che  è  tutta  un  ordito  di  so- 
fismi sottili  e  di  vaghe  illusioni  create  dai  nostri  desideri  (logica 
dei  sentimenti)  (2). 


OSSERVAZIONI.  -  Il  Gioia,  seguendo  esclusivamente  il  me- 
todo psicologico-descrittivo,  ha  presentato  un'analisi  molto  ac- 
curata dello  spirito  umano,  esaminando  prima  Y origine  ùtWt  idee 
e  dei  sentimenti,  poi  le  loro  leggi.  Nella  prima  questione  ha  di- 
stinto le  sensazioni  d'  origine  interna  e  quelle  d'  origine  esterna. 
A  proposito  delle  prime  ha  trattato  con  maestria,  senz'ammettere 
r  innatismo,  il  problema  dell'  istinto,  sviluppando  le  ricerche  del 
Cabanis;  a  proposito  delle  seconde  ha  mostrato  come  sia  impos- 
sibile spiegare  tutt'i  prodotti  dello  spirito  umano  con  le  semplici 
sensazioni  e  con  1'  associazione  di  queste.  Così,  seguitando  quel 
movimento  di  riforma  iniziato  dal  Soave,  ha  abbandonato  (specie 
ntW  Ideologia  e  ntW Esercizio  logico)  il  punto  di  vista  del  Con- 


(1)  Un  mezzo  generale  per  misurare  l'intensità  delle  affezioni  è 
l'esame  dei  valori  che  loro  si  sacrificano  o  si  è  pronti  a  sacrificare 
(vedi  Trattato  dei  meriti  e  delle  ricompense,  Tomo  I,  pag.  52-99). 

(2)  Queste  osservazioni  gli  danno  modo  di  stabilire  delle  leggi  Viwcht 
per  i  sentimenti:  1"  /  sentimenti  creano  delle  sensazioni  o  le  raffor- 
zano. Gli  amici  di  Germanico  per  es.  riconoscevano  sul  cadavere  di  lui 
i  segni  del  veleno  che  supponevano  essergli  stato  dato  da  Pisone;  per 
gli  amici  di  Pisone  questi  segni  erano  invisibili.  La  Fontaine,  dopo  aver 
frequentato  vent'anni  la  casa  della  signora  De  la  Sablière,  s'accorse 
per  la  prima  volta  eh'  ella  aveva  una  macchia  sul  volto.  Eh  !  amico 
mio,  voi  non  mi  amate  più  ,  gli  disse  la  signora;  ed  aveva  ragione. 
Infatti  tutte  le  volte  che  siamo  animati  da  un  sentimento  forte,  non  di- 
stinguiamo più  nulla;  T immaginazione  stende  lo  stesso  colore  su  tutto 
l'oggetto  del  nostro  amore;  ogni  bella  qualità,  ogni  virtù  è  nella  donna 
adorata  (cfr.  la  cristallizzazione  dello  Stendhal).  2»  /  sentimenti  agi- 
scono sili  nervi,  sui  innscoli,  su  tutte  le  parti  del  corpo,  in  modo  da 


-    129  — 

dillac  e  del  Tracy,  e  presentato  una  dottrina  delle  facoltà  psichiche 
che  non  è  certo  sfornita  di  valore:  essa  tende  a  mettere  in  evi- 
denza r  azione  dell'  intelletto  sul  materiale  grezzo  e  caotico  dei 
sensi;  e  rappresenta  un  notevole  passo  in  avanti,  rispetto  all'ideo- 
logia francese  (1).  La  quale  dunque  in  Italia,  abbandonando  il 
semplicismo  e  l'esagerazione  dei  ragionamenti  dei  filosofi  d'oltre 
Alpe,  e  venendo  sempre  più  a  contatto  dei  fatti,  è  stata  costretta  a 
criticar  sé  stessa  e  a  mettersi  per  una  nuova  via.  Il  Gioia  infatti 
modifica  il  sensismo  non  per  ragionamenti  astratti  o  per  teorie 
preconcette,  ma  per  la  necessità  di  spiegare  i  fatti  (per  es.  le  dif- 
ferenze psichiche  innegabili  fra  animali  irragionevoli  e  uomo; 
l'esistenza  della  scienza  umana  etc).  11  Romagnosi,  come  vedremo, 
andrà  ancor  più  innanzi. 

Nel  determinare  poi  le  leggi  delle  sensazioni  e  dei  sentimenti 
il  Gioia  si  rivela  osservatore  positivo  ed  acuto,  antesignano  dei 
moderni  psicologi.  Alcune  sue  analisi  (tolti,  naturalmente,  i  difetti 
derivanti  dallo  stato  in  cui  erano  allora  le  scienze)  non  hanno 
da  invidiar  nulla  a  quelle  dei  nostri  tempi.  Così  gli  studi  sulle 
leggi  delle  sensazioni,  sulla  memoria,  sui  sentimenti  etc.  hanno 
ancora  un  sapore  di  freschezza,  e  possono  attrarre  il  lettore  mo- 
derno che  vada  in  cerca  non  di  chiacchiere,  ma  di  fatti  e  di  leggi 
precise. 

Infine,  come  s'  è  visto,  il  Gioia  rifugge  dal  materialismo;  egli 
è  il  vero  ideologo. 


poter  guarire  malattie  o  cagionarne.  Così  la  raschiatura  di  cranio 
umano,  la  polvere  di  rospo,  la  parola  abracadabra  e  tutti  i  segnali  ma- 
gici, applicati  agl'infermi  nell'epilessia,  nelle  febbri  intermittenti  ribelli 
etc,  non  hanno  efficacia  alcuna;  ciò  non  ostante  essi  guarirono  tal- 
volta gl'individui  di  cui  colpirono  fortemente  l'immaginazione,  mentre 
i  rimedi  più  energici  non  producono  grande  effetto  in  chi  non  confidi 
in  essi.  3»  /  sentimenti  possono  scemare  le  sensazioni.  Leibniz  racconta 
che  un  prigioniero  potè  resistere  ai  tormenti  delia  tortura  perchè  nei 
momenti  del  dolore  più  atroce  aveva  pensato  alla  forca  e  al  disonore, 
che  lo  aspettavano,  se  si  fosse  lasciato  vincere  dalla  sofferenza  (Ideologia, 
Voi.  II,  Parte  VII,  ed  Elementi  di  fil.,  Parte  I,  Sez.  I,  Gap.  VI). 

(1)  Mi  par  quindi  errata  l'affermazione  del  Ferri  {Essai  etc,  Livre  1, 
Chap.  I,  pag.  11)  che  il  Gioia  non  faccia  che  ammettere  i  principi  del 
sensismo  e  applicarli. 


—  130  — 


CAPITOLO  IV.  —  Romagnosi 

VITA  E  OPERE  (1).  —  Gian  Domenico  Romagnosi  nacque 
in  Salsomaggiore  1' 11  dicembre  1761  (2)  dal  dottor  Bernardino 
e  da  Marianna  Trompelli.  Suo  padre,  di  famiglia  patrizia,  aveva 
la  laurea  notarile,  ed  era  stato  podestà  nei  feudi  della  Galli- 
nella, di  Scipione,  di  Salso  Minore,  di  Montebello;  allora  era 
commissario  delle  saline  di  Salsomaggiore;  divenne  poi  magi- 
strato delle  finanze  e  delegato  camerale  in  Piacenza.  Egli  voleva 
che  suo  figlio  seguisse  la  stessa  carriera  sua,  e  lo  sottopose  fin 
dalla  tenera  età  a  un'  educazione  severa.  Il  piccolo  Gian  Dome- 
nico era  costretto  a  otto  e  più  ore  di  studio  arido,  consistente 
neir imparare  il  latino  prima  dell'italiano,  le  regole  grammaticali 
prima  d'aver  idee  da  esprimere,  filze  di  nomi  e  di  verbi,  pappa- 
gallescamente. Era  per  lui  una  vera  tortura,  che  gì'  incuteva  solo 
avversione  allo  studio;  dimostrò  quindi  nei  primi  passi  (a  Salso- 
maggiore prima,  poi  a  Borgo  S.  Donnino,  nel  Collegio  di  latinità, 
dov'era  stato  mandato  a  undici  anni)  disamore  alla  fatica  mentale. 


(1)  C.  Canto,  Notizia  di  G.  D.  Romagnosi  (Prato,  Guasti,  1840); 
Giuseppe  Sacchi,  Biografia  di  G.  D.  Romagnosi  colV Appendice  degli 
ultimi  giorni  di  Romagnosi  di  Defendente  Sacchi  (in  Annali  Uni- 
versali di  statistica,  agosto  e  sett.  1835,  Siena,  Porri,  1835,  e  Prato, 
Guasti,  1840,  insieme  con  la  Notizia  del  Cantìi);  Defendente  Sacchi, 
Necrologia  di  G.  D.  Romagnosi  (nel  Cosmorama  pittorico,  1831,  num.25, 
e  Prato,  Guasti,  1840,  con  la  Notizia  detta);  Anonimo,  Alcune  notizie 
intorno  alla  vita  e  alle  opere  di  G.  D.  Romagnosi  piacentino  (Lugano, 
Ruggia,  1835,  e  Prato,  Guasti,  1840,  pure  con  la  Notizia  del  Cantìi); 
Giuseppe  Ferrari,  La  mente  di  G.  D.  Romagnosi  (Milano,  Libreria 
Edit.  Milanese,  1913);  Alessandro  De  Giorgi,  Cenni  sulla  vita  di  G. 
D.  Romagnosi  (in  Opere  filosofiche  edite  ed  inedite  di  G.  D.  Roma- 
gnosi,  Milano,  Pcrelli  e  Mariani,  1842);  PoLi,  Op.  cit.,  Volume  IV, 
§§  433-439;  D.  MiSTRALi,  G.  D.  Romagnosi  martire  della  libertà  ita- 
liana, precursore  dell'  idea  sociale  moderna,  Borgo  S.  Donnino,  Ver- 
deri  e  C,  1907;  Luzio,  //  processo  Pellico-Maroncclli,  Milano,  Co- 
gliati,  1903,  Spec.  Cap.  VI  e  Appendici  XII  e  XIII;  A.  Monti,  G.  D. 
Romagnosi  ■  Contributo  biografico,  in  Nuova  Antologia,  1  maggio  1918. 

(2)  Per  la  data  vedi  Mistrali,  Op.  cit.,  pag.  8. 


—  131  — 

Fu  perciò  una  gioia  per  il  fanciullo  l'essere  ammesso,  il  novembre 
del  1775,  nel  collegio  Alberoni  (ad  un  miglio  da  Piacenza).  Ivi 
alla  sua  mente  già  agitata  dal  bisogno  profondo  di  meditare  si 
rivelò  la  luce  che  doveva  poi  guidarlo  in  tutto  il  cammino  di  sua 
vita:  il  Saggio  analitico  sulle  facoltà  dell'  anima  del  Bonnet  (1). 
Lo  ebbe  da  un  collegiale  in  cambio  della  Regola  per  l'ordinazione 
dei  sacerdoti  (2);  e  lo  lesse  con  un  palpito  segreto.  Vegliava  le 
lunghe  notti  chino  sul  libro  prediletto,  e  gli  pareva  d'averne  già 
scorso  o  meditato  il  contenuto;  solo  che  prima  brancolava  un 
po'  nell'ombra;  ora  invece  trovava  un  luminoso  filo  conduttore, 
che  gli  mostrava  la  via  da  seguire  nello  scrutare  gli  abissi  del- 
l' uomo  e  della  natura.  Il  Romagnosi  considerava  come  una  for- 
tuna r  aver  trovato  queir  opera;  spesso  anzi  baciava  dinanzi  ai 
suoi  discepoli  il  volume,  al  quale  attribuiva  la  sua  dirittura  nel 
ragionare  (3). 

Nel  collegio  Alberoni  si  segnalò  nello  studio  delle  matema- 
tiche applicate,  della  geometria  e  sopra  tutto  della  fisica.  Erano 
allora  esaminati  specialmente  i  fenomeni  della  luce  e  dell'  elettri- 
cità (allo  scopo  di  fissarne  le  leggi).  Il  Romagnosi  nelle  vacanze 
autunnali  convertiva  la  sua  stanzuccia  in  una  camera  ottica;  di 
notte  s'  alzava  dal  letto  per  osservare  dalla  finestra  i  guizzi  dei 
lampi;  sperimentava  1'  elettricità  su  sé  stesso  con  gli  apparecchi 
fisici,  e  talora  era  dai  compagni  raccolto  da  terra  tutto  stordito 
dalle  scosse  potenti  che  ne  aveva  ricevute. 

Per  la  logica  e  la  metafisica  ebbe  professori,  nel  primo  anno, 
Giovanni  Antonio  Comi,  pavese  (che  ricordava  con  tanto  affetto), 
e,   in   parte   del   secondo,   Francesco   Chiabrandi,  di  Alessandria. 


(1)  Romagnosi,  Introduzione  allo  studio  del  diritto  pubblico  uni 
versale,  Tomo  II,  pag.  172,  Milano,  Rusconi,  1825.  Tra  i  manoscritti 
del  Romagnosi  fu  anche  trovato  un  compendio  della  filosofia  del 
Locke,  che  il  Cantù  {Op.  cit.,  pag.  101,  nota)  dice  scritto  dal  filosofo 
a  diciotto  anni. 

(2)  Giuseppe  Sacchi  dice:  in  cambio  d'un  esemplare  di  Virgilio. 

(3)  Era  testo  di  filosofia  nel  Collegio  Alberoni  il  complesso  delle 
opere  di  Cristiano  Wolf.  11  Cattaneo  perciò  sostiene  nei  Saggi  di  filo- 
sofia civile  (pag.  101),  che,  più  che  il  Bonnet,  esercitò  grande  efficacia 
sul  Romagnosi  il  Wolf.  A  me  non  pare;  poiché  il  metodo  del  Roma- 
gnosi  non  è  certo  quello  razionale  e  deduttivo  del  filosofo  tedesco. 


-   132  — 

Gli  studi  naturalistici  gli  fecero  trascurare  quelli  di  teologia;  ma, 
contro  r  aspettativa  dei  j3rofessori,  rispose  benissimo  anche  alle 
domande  più  difficili  rivoltegli  in  questa  materia. 

Il  Romagnosi  ricordò  sempre  con  piacere,  durante  la  sua  vita, 
gli  anni  trascorsi  nel  Collegio  Alberoni  (1).  Vi  ebbe  compagno 
Melchiorre  Gioia,  a  cui  fu  legato  fin  negli  ultimi  anni  da  schietta 
amicizia  (2), 

Uscì  dal  collegio  nelle  vacanze  del  1781,  dopo  otto  anni  di 
studi;  poiché  non  aveva  persistito  nella  risoluzione  mostrata  per 
alcun  tempo  di  darsi  al  sacerdozio;  ed  entrò  in  Piacenza  nello 
studio  d'  un  avvocato,  a  studiar  leggi.  Ma,  tornato  a  casa,  in  Sal- 
somaggiore, per  le  vacanze  dell'  autunno,  vi  fu  trattenuto,  quasi 
in  castigo,  tutto  l' anno  seguente  dai  suoi  parenti,  i  quali  non 
vedevano  di  buon  occhio  che  il  giovane  si  fosse  innamorato  d'una 
bella  fanciulla  di  Piacenza,  inferiore  a  lui  per  condizione  sociale. 
Durante  l'anno  trascorso  in  famiglia  si  diede  di  nuovo  allo  studio 
delle  scienze  naturali,  e  osservò  che  l'ago  calamitato  d'una  bus- 
sola, toccata  da  un  filo  d'argento  comunicante  con  una  pila  elet- 
trica, diverge  parecchi  gradi  dalla  direzione  del  polo  e  non  sente 
più  l'attrazione  del  ferro;  i  suoi  esperimenti,  ripresi  poi  nel  1802, 
furono  pubblicati  nella  Gazzetta  di  Rovereto  il  3  agosto  1803,  e 
mostrarono  le  somiglianze  esistenti  tra  il  fluido  elettrico  e  quello 
magnetico.  Sedici  anni  dopo,  questa  stessa  osservazione  fu  ripe- 
tuta con  esperimenti  più  esatti  e  scientifici  dallo  svedese  Oerstedt, 
e,  pubblicata,  fece  chiasso;  ma  il  prof.  Configliacchi  nel  suo  Gior- 
nale di  Fisica  il  1820,  e  il  1827  il  prof.  Libri  ntVC  Antologia  di 
Firenze  ne  rivendicarono  il  merito  al  Romagnosi.  Cessato  intanto 
il  periodo  di  sua,  diciamo  così,  reclusione  in  Salsomaggiore,  compì 
in  Parma  il  corso  di  giurisprudenza,  e  1' 8  agosto  1786  ottenne 
la  laurea;  tornò  allora  in  Piacenza,  dove  il  padre  era  giudice  de- 


(1)  Dedicò  ai  Missionari  del  Collegio  l'opera  sua  SnlV insegnamento 
primitivo  delle  matematiche;  e  cominciò  a  scrivere,  quasi  in  segno  di 
riconoscenza,  una  Vita  del  Cardinale  Alberoni  (in  Biblioteca  Italiana, 
1S34;  vedi  Articoli  intorno  alla  vita  del  Cardinale  Alberoni  in  Opere 
storico-filosofiche  e  letterarie  del. Romagnosi,  Ediz,  De  Giorgi,  Milano, 
Pereili  e  Mariani,  18-14,  Volume  unico,  Parte  li,  pag.  871  e  seg.). 

(2)  Del  Gioia,  come  si  sa,  scrisse  una  biografia. 


—  133  ~ 

legato,  e  si  diede  ad  esercitare  la  sua  professione,  pur  non  tra- 
lasciando gli  studi  scientifici  e  filosofici.  Iscritto  alla  Società  let- 
teraria di  Piacenza,  vi  lesse  qualche  dissertazione  (1);  ebbe  così 
modo  di  stringere  amicizia  con  alcuni  giovani  studiosi.  Pare  che 
con  questi  (specie  con  Gaetano  Godi)  discutesse  a  lungo  se  la 
pena  di  morte  sia  possibile  nello  stato  di  natura;  egli  era  per  il 
no;  ma,  non  riuscendo  a  convincere  i  suoi  amici,  stabilì  di  pro- 
vare la  sua  opinione  con  un'  opera  poderosa.  Scrisse  così  la  Ge- 
nesi del  diritto  penale  (Pavia,  1791)  (2),  la  quale  gli  procacciò 
fama  e  ammirazione  di  scienziati;  cosicché  gli  furono  offerti  vari 
uffici  lucrosi  e  onorevoli.  Trovandosi  male  nel  suo  paese,  anche 
perchè  i  parenti  volevano  ancora  tenerlo  in  una  specie  di  sog- 
gezione, accettò  di  andare  a  Trento  come  pretore.  Allora  la  città 
italiana  era  capoluogo  d' un  principato  in  apparenza  indipen- 
dente (3),  che  rientrava  nel  sacro  romano  impero  ed  era  retto  da 
un  vescovo  e  amministrato  da  un  consiglio  aulico.  Per  render 
giustizia  vi  era  chiamato  un  pretore  di  fuori,  il  quale  era  eletto 
dal  municipio  e  confermato  dal  principe.  li  Romagnosi  stette  molto 


(1)  Una  Sali'  amore  delle  donne  considerato  come  motore  precipuo 
della  legislazione,  in  cui  (nella  seduta  del  23  giugno  1789)  confutava 
il  celebre  paradosso  dell' Helvétius  sulle  donne  (questo  discorso  fu  pub- 
blicato a  Trento  il  1792).  Secondo  l'anonimo  autore  di  Alcune  notizie 
intorno  alla  vita  e  alle  opere  di  G.  D.  Romagnosi  (pag.  198,  nota)  il 
Romagnosi  avrebbe  letto  (il  1790)  nella  ricordata  Società  letteraria  di 
Piacenza  anche  le  altre  due  dissertazioni  Che  cosa  è  uguaglianza?  e 
Cile  cos'è  libertà?,  che  però  furono  pubblicate  a  Trento  l'una  il  1792, 
il  1793  l'altra  (ripubblicate  più  volte,  anche  in  La  filosofia  civile  di 
G.  D.  Romagnosi  a  cura  di  F.  de  Sarlo,  Lanciano,  Carabba). 

(2)  Il  fondamento  del  diritto  di  punire,  secondo  il  Romagnosi,  va  ri- 
cercato nel  diritto  naturale  di  difesa,  che  compete  a  tutti  gli  organismi 
viventi. 

(3)  La  casa  d'Austria,  che  sin  dall'anno  1363  era  divenuta  erede 
della  contea  del  Tirolo,  esercitava  come  tale  un  diritto  di  protettorato 
o  di  avvocazia  sul  principato  vescovile  di  Trento.  Tale  diritto  era  re- 
golato da  speciali  convenzioni,  tra  le  quali  le  così  dette  compattate  dei 
vescovi  Giorgio  di  Hack  e  Giovanni  Hinderbach  (anni  1454  e  1468), 
secondo  cui  ai  conti  del  Tirolo  era  riservato  il  diritto  esclusivo  di  en- 
trare a  piacimento  nelle  fortezze  e  nei  castelli  del  vescovado,  di  eleg- 
gere il  capitano  comandante  il  presidio  di  Trento  e  di  mantenervi  quanti 


—  134  - 

volentieri  in  quei  luoghi,  la  cui  popolazione  stimava  specie  per 
la  veridicità  e  schiette0za,  come  anche  per  l'amore  dell'ordine  e 
della  giustizia.  Dopo  esser  stato  confermato  per  tre  anni  succes- 
sivi (1)  neir  ufficio  di  pretore,  fu  dal  principe-vescovo  Pier  Vi- 
gilio dei  conti  di  Thunn  (2)  nominato  consigliere  aulico  (6  mag- 
gio 1793).  Allora  l'Italia  era  in  sommovimento  perla  discesa  dei 
Francesi,  e  danzava  ebra  intorno  agli  alberi  della  libertà.  Il  Ro- 
magnosi,  sebbene  volgesse  sempre  con  amore  il  suo  pensiero 
all'  Italia,  preferì  provvisoriamente  alla  vita  agitata  della  penisola 
la  tranquilla  dimora  nelle  montagne   trentine,  ove,  rinnovando  i 


soldati  credessero.  Ma  oltre  a  questi  e  ad  altri  diritti  (fra  i  quali  quello 
di  giudicare  in  appello  sulle  controversie  dibattute  nei  tribunali  vesco- 
vili) i  conti  del  Tirolo  avevano  vecchie  pretese  di  sovranità  assoluta  sul 
principato,  le  quali  avevano  dato  origine  a  liti  interminabili.  Perciò 
l'indipendenza  di  Trento  era,  più  che  reale,  apparente.  Vedi  L.  Mar- 
chetti, //  Trentino  nel  Risorgimento,  Albrighi,  Segati  e  C,  1913,  Voi.  I, 
pag.  2-3,  nota. 

(1)  Giuseppe  Sacchi  dice  veramente  che  il  pretore  a  Trento  era 
eletto  ogni  tre  anni  (Op.  cit.,  pag.  138),  invece  ii  Cantù  {Op.  cit., 
pag.  30),  Defendente  Sacchi  (Op.  cit.,  pag.  182)  e  il  Ferrari  (Op. 
cit.,  Gap.  IV,  pag.  59)  dicono  che  il  Romagnosi  fu  confermato  per  tre 
anni  succesivi;  sicché  parrebbe  che  ii  pretore  fosse  eletto  ogni  anno. 

(2)  Fu  l'ultimo  della  serie  otto  volte  secolare  dei  principi  ecclesia- 
stici tridentini  e  uno  dei  più  servili  all'Imperatore  e  conte.  Appena 
eletto,  si  recò  a  Vienna  per  regolare  i  rapporti  dello  Stato  tridentino 
con  l'Imperatrice  Maria  Teresa,  e  concluse  con  questa  un  trattato  che 
fu  come  la  sentenza  di  morte  del  principato.  Giacché  si  adattò  mediante 
esso  a  perequare  le  imposte  del  principato  secondo  le  patenti  emanate 
dal  governo  del  Tirolo,  aderì  al  principio  della  coscrizione  militare,  ac- 
cettò le  dogane  austriache  stabilite  ai  confini  del  paese,  ammise  che  il 
capitano  il  quale  rappresentava  a  Trento  l'Imperatore  come  conte  del 
Tirolo,  avesse  il  diritto  di  definire  le  controversie  d'indole  militare  e 
finanziaria  a  lui  sottoposte  dalle  comunità  trentine  dipendenti  dal  ve- 
scovo. Infine  nel  1784  andò  a  Vienna  ad  offrire  all'Imperatore  il  suo 
principato  contro  una  discreta  ed  adeguata  somma.  Ma  il  Gonsiglio  di 
Stato  di  Vienna  respinse  la  proposta,  per  non  affrontare  le  ire  della 
Dieta  dell'Impero,  al  quale  apparteneva  il  vescovado.  Morì  il  17  gen- 
naio 1800  in  una  sua  villa  in  Val  di  Non,  dove  s'era  ritirato  durante 
l'invasione  deireserciio  francese.  Vedi  Op.  cit.  del  Marchetti,  Gap.  1  del 


—  135  — 

suoi  studi  di  geologia,  cercava  d'interpretare  le  «  medaglie  della 
natura  »,  e  dava  consigli  nelle  cause  (1).  Ma  1'  onda  procellosa 
della  rivoluzione  francese  doveva  giungere  fin  lassù.  Nel  settembre 
del  1796  i  soldati  del  Wurmser,  vinti  dai  Francesi  nella  battaglia 
di  Rovereto,  dovettero  ritirarsi  dinanzi  alla  minaccia  delle  schiere 
vittoriose.  La  città  di  Trento,  abbandonata  dagli  Austriaci  e  anche 
dal  principe-vescovo,  restava  in  balia  dei  vincitori.  I  cittadini  di 
Trento  si  raccolsero  a  consiglio  per  salvare  la  città.  Il  Romagnosi 
propose  di  non  cedere  se  non  con  onore,  e,  a  tal  fine,  fece  di- 
struggere il  ponte  sull'Adige  e  difendere  la  riva  su  cui  sorge  la 
città,  con  due  pezzi  d'artiglieria.  I  Francesi,  vedendo  questi  pre- 
parativi di  difesa,  entrarono  dopo  negoziati  onorevoli  per  gli 
abitanti,  e  non  recarono  danno  alcuno  alla  città.  Il  Romagnosi 
seppe  anche  provvedere  alla  sussistenza  dell'  esercito,  ripartendo 
il  contributo  dei  viveri  fra  tutti  i  Comuni  del  territorio;  il  quale 
provvedimento  fu  accolto  lietamente  dagli  abitanti  e  con  lode 
dal  duce  supremo  dei  Francesi.  Tornati  poi  gli  Austriaci,  fu  ac- 
cusato da  un  malvagio  di  aver  favorito  i  Francesi  e  di  voler  ten- 
tare un  mutamento  di  governo;  fu  perciò  tratto  nelle  carceri  di 
Innsbruck.  Ma,  dopo  il  processo,  ne  uscì  tanto  innocente,  che  il 
suo  calunniatore  fu  scacciato  in  esilio.  In  quell'occasione  furono 
stampati  a  Rovereto  versi  italiani,  latini  e  in  dialetto  trentino  con 
questo  titolo:  Pel  felice  ritorno  da  Innsbruck  dell'  illustrissimo 
signor  Gian  Domenico  Romagnosi  ex  pretore  di  Trento  e  consi- 
gliere aulico  d'onore  di  S.  A.  reverendissima  véscovo  e  principe  di 
Trento,  a  significazione  di  sincero  giubilo  dell'  innocenza  ricono- 


Vol.  I.  Conosceva  il  Romagnosi  queste  macchie  del  suo  principe-vescovo? 
Probabilmente  no.  Ad  ogni  modo  egli  era  un  pubblico  funzionario,  che 
esercitava  scrupolosamente  la  sua  professione.  Del  resto  in  qualunque 
altra  parte  d'Italia  sì  fosse  recato,  regnava  la  stessa  servitù. 

(1)  Il  1795  era  stato  proposto  dall'Accademia  di  Mantova  un  quesito 
per  determinare  «  in  quali  materie,  dentro  a  quali  circostanze  e  fino  a 
qual  segno  il  giudìzio  del  pubblico  si  abbia  a  tenere  per  un  criterio 
di  verità  ».  Il  Romagnosi  scrisse  allora  le  Ricerche  sulla  validità  dei 
giudica  del  pubblico  a  discernere  il  vero  dal  falso,  che  inviò  all'Ac- 
cademia. Ma  il  manoscritto  andò  perduto  nel  trambusto  della  guerra 
del  1796.  Fortunatamente  il  Romagnosi  serbava  una  copia  del  lavoro, 
che  fu  pubblicato  dopo  la  sua  morte  (1*  Edìz.  1836,  Milano). 


—  136  — 

sciata  (1).  Ricaduto  poi,  per  le  vicende  della  guerra,  il  Trentino 
nel  dominio  dei  Francesi,  il  Romagnosi  fu  dal  generale  Mathieu 
Dumas  nominato  segretario  generale  del  consiglio  superiore,  creato 
in  Trento  il  9  gennaio  1801;  nel  quale  ufficio  cercò  d'ispirare 
sentimenti  di  moderazione  e  di  tolleranza.  Intanto  Ferdinando, 
duca  di  Parma,  dopo  aver  vergognosamente  comperata  da  Na- 
poleone la  salvezza  e  integrità  del  suo  staterello  con  due  milioni 
di  lire,  millesettecento  cavalli  e  grano  e  oltre  venti  quadri  dei 
meglio,  moriva,  pare  di  veleno  propinatogli,  alla  Badia  di  Fonte- 
vivo  (Q  ottobre  1802),  ove  si  era  recato  ospite  del  Collegio  dei 
nobili  di  Parma.  Allora  Napoleone  ordinò  senz'altro  alle  sue  mi- 
lizie di  occupare  lo  Stato  parmense,  nominandone  amministratore 
generale  il  Moreau  di  Saint-Méry,  consigliere  di  Stato  e  uno  dei 
comandanti  della  legion  d'onore.  Le  raccomandazioni  di  Mathieu 
Dumas,  di  Macdonald  e  di  Pastoret  presso  il  conte  Moreau  di 
Saint-Méry  valsero  al  Romagnosi  la  nom.ina  di  professore  di  di- 
ritto pubblico  nell'Università  di  Parma  (31  dicembre  1802).  L'in- 
segnamento gli  diede  occasione  a  Parma  di  comporre,  per  comodo 
dei  suoi  scolari,  un'altra  opera  magistrale:  V Introduzione  allo  studio 
del  diritto  pubblico  universale  (Parma,  1805),  che  dedicò  al  suo 
protettore  conte  Moreau  di  Saint-Méry  (2).  A  causa   della   fama 


(1)  Al  seguito  di  questa  raccolta  furono  stampate  un'iscrizione  e  due 
lettere  del  Cesarotti,  il  quale  lodava  una  traduzione  del  Pervigilium 
Veneris,  pubblicata  dal  Romagnosi,  ed  esortava  il  filosofo  a  dedicarsi 
alla  poesia.  La  detta  traduzione  era  stata  pubblicata  a  Trento  il  179Q 
col  titolo:  Al  celebrarsi  delle  ben  augurate  nozze  tra  la  nobile  signora 
contessa  Teresa  d' Arco  ecc.  col  nobile  signor  barone  Pier  Paolo  de 
Alteinbnrgcr  ecc.  si  pubblica  questa  nuova  e  fedele  versione  del  Per- 
vigilium  Veneris  a  significazione  di  sincero  giubilo,  di  dovuta  gratitu- 
dine e  di  profondo  rispetto.  Altri  saggi  poetici  del  Romagnosi  vedi  in 
MlSTRALI,  Op.  cit.,  pag.  19. 

(2)  Nella  2»  Ediz.  d^W Introduzione  (Milano,  Rusconi,  1825)  il  Roma- 
gnosi  v'aggiunse  cinque  lettere  {snW  Ordinamento  della  scienza  della 
cosa  pubblica)  a  Giovanni  Valeri,  professore  di  ragione  criminale  alla 
Università  di  Sien?,  da  lui  assai  stimato  (vedi  Della  suprema  economia 
etc,  Parte  II,  Gap.  XXIX,  §  213).  Lo  scritto  Che  cos'  è  la  mente  sana? 
è  dedicato  al  Valeri.  Q.  Sacchi  (Op.  cit.,  pag.  156)  dice  che  il  Valeri 
insegnava  le  dottrine  giuridiche  del  Romagnosi. 


—  137  — 

acquistata  dal  Romagiiosi  come  professore  e  come  giureconsulto 
i  ministri  del  proclamato  Regno  d' Italia  lo  consultarono  per  la 
compilazione  del  codice  penale  (28  giugno  1806);  poi,  non  con- 
tentandosi di  averne  i  giudizi  da  lontano,  lo  vollero  a  Milano  per 
il  nuovo  ordinamento  del  governo  (26  agosto  1806).  Il  Romagnosi 
si  recò  quindi,  l'ottobre  del  1806,  nella  capitale  del  Regno  d'Italia, 
e  contribuì,  come  relatore,  a  compilare  il  Codice  di  procedura  pe- 
nale (1).  Le  occupazioni  di  Milano  lo  obbligarono  a  rinunziare 
alla  cattedra  di  Parma,  tanto  più  che  era  stato  nominato,  il  28  gen- 
naio 1807,  consultore  del  Ministero  di  Giustizia.  Siccome  però 
quest'  ufficio  non  era  che  onorifico,  in  compenso  della  cattedra 
a  cui  aveva  rinunciato  a  Parma,  fu  il  18  febbraio  del  1807  nomi- 
nato professore  di  diritto  civile  all'  Università  di  Pavia  (2),  donde 
piìi  presto  poteva  recarsi  a  Milano,  quando  la  sua  opera  fosse 
stata  necessaria.  Ma  potè  tenere  quella  cattedra  solo  un  anno;  che 
gli  obblighi  dell'insegnamento  non  gli  permettevano  di  allonta- 
narsi spesso  da  Pavia;  cosicché  il  secondo  anno,  richiamato  a 
Milano  per  assistere  il  Ministero  di  Giustizia,  dovè  rinunziare  al- 
l' insegnamento.  In  compenso  gli  fu  però  affidata  a  A^ilano  una 
cattedra  speciale  di  alta  legislazione  (18  gennaio  1809),  dalia  quale 
doveva  formare  i  futuri  giureconsulti  e  magistrati.  Inoltre  il 
6  marzo  di  quell'anno  fu  nominato  Ispettore  delle  dottrine  legali; 
in  quel  tempo  cooperò  pure,  come  membro  d'una  commissione 
legislativa,  a  redigere  il  Codice  penale  italiano  (3);  era  anche  con- 
sultato intorno  alle  più  importanti  questioni  amministrative  e 
giudiziarie;    infine    il    governo    gli    affidò  (18  febbraio    1811)    il 


(1)  Il  Romagnosi  propose,  dopo  le  ultime  discussioni,  aggiunte  e  ri- 
forme, che  furono  pubblicate  col  titolo:  Alcune  e  piti  necessarie  ag- 
giunte e  riforme  al  progetto  del  Codice  di  procedura  penale  pel  Regno 
d'Italia  (Milano,  1806). 

(2)  Mentre  era  professore  a  Pavia,  pubblicò  due  discorsi:  Discorso 
sulla  questione  guai  sia  il  governo  pili  adatto  a  perfezionare  la  legi- 
slazione civile  (Pavia,  1807);  Discorso  sui  vantaggi  che  alV  istruzione 
pubblica  risultano  dal  codice  Napoleone  (Pavia,  1808). 

(3)  La  spedizione  del  disegno  di  tale  codice  a  Parigi  fu  ritardata; 
perciò  Napoleone,  avendolo  chiesto  e  non  trovato  ancora  pronto,  de- 
cretò l'applicazione  del  codice  francese  anche  in  Italia.  Così  tutto  il 
lavoro  del  Romagnosi  e  di  altri  fu  sprecato. 


—  138  — 

compito  di  dirigere  un  Giornale  di  giurisprudenza  amministrativa 
e  civile,  per  chiarire  il  nuovo  sistema  di  leggi.  È  davvero  stupe- 
facente l'attività  del  Romagnosi  dal  1807  al  1814  (1).  L'eccessivo 
lavoro  danneggiò  il  suo  organismo,  cosicché  il  19  aprile  del  1812 
fu  colto  da  una  grave  emiplegia,  che  gli  paralizzò  tutta  la  parte 
destra  del  corpo,  impedendogli  la  parola  e  tenendolo  in  pericolo 
di  vita  parecchi  mesi.  A  poco  a  poco,  per  le  cure  sollecite,  si 
riebbe,  pur  rimanendo  inerte  nel  braccio,  nella  mano  e  nella 
gamba  destra  per  tutto  il  resto  di  sua  vita.  A  causa  della  malattia, 
degli  aiuti  prestati  alle  sorelle  (che  erano  in  condizioni  econo- 
miche poco  floride)  e  agli  amici,  delle  spese  sostenute  per  la 
Massoneria,  a  cui  si  era  affiliato  probabilmente  fra  il  1806  e  il 
1808  (fondò  una  loggia,  la  Gioseffina),  era  quasi  in  miseria. 
Andò  allora  ad  abitare  in  casa  di  una  signora  milanese,  «  Ma- 
dama Maggi  >:  la  quale  si  era  impossessata  di  tutti  i  guadagni 
e  dei  cuore  di  lui;  e  gli  aveva,  in  cambio,  ammobiliato  un  ricco 
appartamento;  ella  gli  dava  inoltre  dei  regali,  specialmente  di 
biancheria,  di  cui  pare  che  il  Romagnosi,  sprofondato  nelle  sue 
meditazioni,  avesse  molto  bisogno.  Si  compivano  intanto  avveni- 
menti importantissimi.  Il  colosso  napoleonico  crollava,  e  in  Mi- 
lano si  formavano  due  parti:  quella  del  clero  e  dei  nobili,  che 
voleva  il  ritorno  dell'Austria,  e  quella  degl'Italici  'puri,  che  aspi- 
rava alla  conservazione  de!  Regno  d'Italia,  ma  senza  i  Francesi, 
con  un  governo  costituzionale  e  nazionale.  Entrambe  dunque  con 
fini  diversi  miravano  alla  caduta  del  governo  napoleonico;  co- 
sicché si  giunse  ai  tumulti  in  cui  fu  ucciso  il  Prina  (20  aprile  1814). 


(1)  Ecco  le  opere  che  pubblicò  in  varie  occasioni:  Saggio  filosofico- 
politico  suir istruzione  pubblica  legale  (Milano,  1807);  Esposizione  della 
controversia  sulla  riduzione  delle  donazioni  anteriori  al  codice  Napo- 
leone (Milano,  1811);  Discorso  sul  soggetto  ed  importanza  dello  studio 
dell'alta  legislazione  (Milano,  1812);  Giornale  di  giurisprudenza  uni- 
versale (uscì  a  Milano  sullo  scorcio  del  1811  e  durò  fino  al  1814;  ne 
abbiamo  otto  tomi  e  due  fascicoli  del  tomo  nono;  in  esso  son  compresi 
alcuni  opuscoli  editi  pure  a  parte,  come  Sulle  prede  marittime,  Mi- 
lano, 1813,  Della  cittadinanza  e  della  forensità,  Milano,  1814,  etc); 
Salili  necessità  delle  scuole  speciali  in  Milano,  e  particolarmente  di 
quella  di  pubblica  amministrazione  (Milano,  1814);  Principii  fondamen- 
tali del  diritto  amministrativo  onde  tesserne  le  instituzioni  (Milano,  1814). 


—  139  — 

11  Romagnosi,  pur  non  immischiandosi  nei  tumulti,  aveva  simpatia 
per  gl'Italici  puri;  tanto  che,  avendo  il  1813,  nell'ultima  puntata 
del  Giornale  di  giurisprudenza,  stampato  in  un  Noia-Bene  le  se- 
guenti parole:  «  È  sotto  ai  torchi  il  V  fascicolo  dell'anno  1814. 
II  giornale  continuerà,  riportando  anche  le  variazioni  che  per  av- 
ventura avvenissero  »,  egli  fu  sottoposto  a  un  interrogatorio  dalla 
polizia  intorno  allo  scopo  della  Nota.  Il  20  aprile  1814  Milano 
rimase  senza  governo,  essendo  sciolti  il  Senato  e  il  Consiglio  dei 
Ministri.  Il  Podestà  raccolse  il  Consiglio  Comunale  presieduto  dal 
conte  Gian  Luca  della  Somaglia;  fu  decisa  la  convocazione  dei 
collegi  elettorali  e  la  nomina  d'una  Reggenza  provvisoria.  Oli 
eletti  erano  tutti  partigiani  dell'Austria;  nessuno  degl'  Italici  puri. 
L'Austria,  a  cui  la  pace  di  Parigi  aveva  assegnato  il  Veneto  e  la 
Lombardia,  prendendo  pretesto  dalla  morte  del  Prina,  mandò  a 
Milano  il  generale  Bellegarde,  per  ristabilirvi  l' ordine,  abolì  il 
Senato  e  i  Collegi  elettorali,  e  impose  di  nuovo  il  sijo  dominio 
sulle  terre  agognate.  Da  quel  momento  comincia  il  lavorio  pa- 
ziente e  nascosto  di  tutti  i  patriotti  italiani,  che  aspiravano  all'unità 
nazionale;  è  un  sordo  sommovimento  che  preannuncia  un'  eru- 
zione vulcanica.  Già  sullo  scorcio  del  1814  si  ordì  a  Milano  una 
congiura  militare  (a  cui  presero  parte  quasi  tutti  i  capi  apparte- 
nenti al  disciolto  esercito  nazionale)  per  scacciare  l'Austria  e  ri- 
stabilire il  Regno  d'Italia.  Anche  il  Romagnosi  fu  indirettamente 
implicato  in  tale  cospirazione;  giacché  a  questa  partecipava  un 
avvocato  uditore  presso  la  sua  scuola:  Giovanni  Sovera  Lattuada 
di  Ponte  Curone  (Lomellina),  il  quale  ebbe  1*  incarico  di  redigere 
lo  schema  della  futura  Costituzione,  e,  a  tal  fine,  ebbe  dal  Ro- 
magnosi il  permesso  di  giovarsi  del  manoscritto  della  sua  opera 
ancora  inedita  <  La  scienza  delle  Costituzioni  »  (pubblicata  poi 
col  titolo  Della  costituzione  d'una  monarchia  nazionale  rappresen- 
tativa). Scoperta  la  congiura  per  opera  d'una  spia,  e  incarcerato 
il  Lattuada,  il  generale  austriaco  Bellegarde  ordinò  una  perquisi- 
zione in  casa  del  Romagnosi  per  sequestrare  il  manoscritto.  Ma 
rimase  con  tanto  di  naso,  poiché,  all'  apparire  dei  poliziotti,  i 
fogli  compromettenti  furono  gettati  per  una  finestra  nel  giardino 
sottostante  dal  fedele  domestico  e  ammanuense  del  Romagnosi, 
Angiolino  Castelli,  nobile  e  grande  animo,  quantunque  incolto, 
che,  per  poter  capire  il  grande  scrittore,  leggeva  le  biografie  degli 
uomini  celebri.  Ma  la  polizia  austriaca  segnò  nel  suo  libro  nero 


—  140  — 

il  Romagnosi,  e  cominciò  a  perseguitarlo  in  tutti  i  modi.  Già  la 
Reggenza  (composta  di  austriacanti),  avendo  destituito  dai  pub- 
blici uffici  tutti  i  forestieri,  voleva  mandar  via  anche  il  nostro  fi- 
losofo. Ma,  giacché  questi  aveva  ottenuta  la  cittadinanza  del  regno 
lombardo-veneto,  fu  lasciato  nell'insegnamento  dell'alta  legisla- 
zione con  r  aggiunta  del  diritto  canonico,  mentre  gli  si  faceva 
sperare  una  cattedra  all'Università  di  Pavia.  Ma  questa  non  gli 
fu  mai  data;  anzi  nel  settembre  del  1817,  essendo  state  abolite 
le  scuole  speciali,  fu  mandato  via  con  l' irrisoria  pensione  di 
mille  duecento  cinquantacinque  lire  l' anno.  Fu  un  brutto  mo- 
mento. La  signora  Maggi  o  il  marito  di  lei  aveva  perduto,  al 
ritorno  degli  Austriaci,  ventimila  lire  di  rendita;  voleva  tuttavia 
mantener  sempre  in  casa  lo  stesso  lusso  e  decoro;  gettò  quindi 
il  Romagnosi  in  una  rete  di  debiti,  d' intrighi  e  di  seccature,  sfrut- 
tando il  credito  del  nome  di  lui,  fino  a  che  un  sequestro  del  pa- 
drone di  casa  per  fitti  arretrati  e  un  altro  dei  creditori  costrin- 
sero la  signora  a  fuggir  di  Milano.  Anche  questa  volta  il  Roma- 
gnosi  fu  soccorso  e  salvato  dal  suo  angelo  tutelare,  il  Castelli, 
che  cercava  con  tutte  le  sue  forze  di  liberarlo  dai  creditori  e  dalla 
fame.  Lasciò  così  la  casa  della  signora  intrigante,  ma  non  Milano; 
dove,  chiesto  e  ottenuto  il  19  novembre  del  1819  il  permesso 
d' insegnare  privatamente,  cercò  di  tirare  innanzi  alla  meglio  la 
vita  (1),  scrivendo  anche  in  giornali.  Fu  fondato  in  quel  tempo 
(3  settembre  1818)  dai  letterati  patriotti  che  frequentavano  la  casa 
del  conte  Porro  Lambertenghi  (già  deputato  ai  Comizi  Cisalpini 
di  Lione)  //  Conciliatore,  in  cui  scrivevano,  agitando  la  bandiera 
de!  romanticismo  e  della  libertà,  Silvio  Pellico,  il  marchese    Lu- 


(1)  Il  1815  pubblicò  il  1"  volume  dell'opera  Della  costituzione  d'una 
monarchia  nazionale  rappresentativa  (con  la  falsa  indicazione  Filadel- 
fia, 1815;  in  realtà  fu  stampato  a  Lugano)  senza  il  suo  nome.  Ma  una 
sentenza  con  cui  si  chiude  il  volume  indica  l'autore,  poiché  ciascuna 
parola  che  essa  contiene  comincia  con  una  delle  lettere  di  cui  è  for- 
mato il  cognome  Romagnosi.  Questo  libro  sosteneva  la  causa  dell'  in- 
dipendenza e  della  libertà  d'Italia;  perciò,  come  vedremo,  il  Romagnosi 
dovette  renderne  conto  nel  processo  del  '21  a  Venezia.  Il  1820  pubblicò 
(per  uso  dei  giovani  che  istruiva  privatamente)  col  titolo  di  Assunto 
primo  della  scienza  del  diritto  nazionale  (Milano,  1820)  le  lezioni  te- 
nute in  Milano  dalla  cattedra  di  alta  legislazione. 


—  141  — 

dovico  De-Bréme,  Pietro  Borsieri,  Giuseppe  Pecchie,  Federico 
Gonfalonieri,  il  marchese  Ermes  Visconti,  il  dottor  Giovanni  Ra- 
sori,  Giovanni  Berchet,  il  prof.  Adeodato  Ressi  dell'  Università 
di  Pavia  (1).  Anche  il  Romagnosi  vi  pubblicò  degli  scritti;  e  più 
tardi  si  trovò  col  Pellico  e  altri  coinvolto  nei  famosi  processi 
del  '21. 

È  noto  che  allora  gli  animi  ardenti  dei  giovani  italiani  comin- 
ciavano ad  esser  conquistati  dalla  Carboneria,  ramo  della  setta 
dei  Massoni,  diffusisi  in  Italia  specialmente  al  tempo  di  Napoleone, 
che  se  n'era  valso  come  d'uno  strumento  di  governo  (Napoleone 
aveva  ricevuto  il  titolo  di  astro  supremo  della  luce  massonica; 
Eugenio  Beauharnais,  Giuseppe  Bonaparte  e  il  Murat  erano  stati 
Grandi  Maestri).  Già  una  condanna  di  Carbonari  si  era  avuta  nel 
Lombardo-Veneto  il  1818,  quando  l' affiliato  Antonio  Villa,  per 
imprudenze  commesse  nel  paesello  della  Fratta  (Polesine),  era 
stato  tratto  in  arresto  il  16  dicembre,  e,  spinto  dall'astuto  com- 
missario Lancetti,  aveva  scioccamente  denunciato  i  compagni 
Oroboni,  Don  Marco  Fortini,  Munari,  Foresti,  Solerà  e  altri,  che 
lo  avevano  tutti  seguito  in  prigione  (2).  L'Austria  dopo  questo 
fatto  aveva  inasprito  la  vigilanza  e  dato  incarico  al  magistrato  ti- 
rolese Antonio  Salvotti  d'irretire  i  cospiratori.  Si  venne  così  al 
processo  Pellico-Maroncelli.  Piero  Maroncelli,  proveniente  da  Forlì 
(sua  città  natale),  conobbe  a  Milano  Silvio  Pellico,  allora  istitutore 
dei  figli  del  conte  Porro  Lambertenghi,  gli  svelò  d'esser  carbo- 
naro, l'aggregò  alla  setta  col  grado  di  Maestro.  Per  mezzo  del 
Pellico  fu  facile  aver  l'aiuto  del  conte  Porro,  il  quale,  sdegnato 
per  la  soppressione  del  Conciliatore  (che  per  ordine  dell'Austria 
aveva  dovuto  cessare  di  vivere  il  17  ottobre  1819),  accolse  lieto 
l'idea  di  sostituire  al  giornale  una  «  Vendita  »  di  Carbonari;  entrò 


(1)  A.  CoMANDiNi,  Nel  primo  centenario  del  Conciliatore  >  (1818- 
1918)  in  Rivista  d^ Italia,  30  settem.  1918,  e  //  «foglio  azzurro  »  dei 
Carbonari  in  Milano  in  //  Secolo  XX,  1»  settem.  1918.  II  Pellico  era 
segretario  del  cenacolo.  Il  Conciliatore  sorse  in  opposizione  alla  Bi- 
blioteca Italiana  dell'Acerbi,  che  era  piuttosto  ligia  al  governo  austriaco, 
benché  avesse  prima  avuti  come  collaboratori,  sia  pure  non  molto  en- 
tusiasti, il  Pellico  stesso,  il  Bréme  e  il  Borsieri. 

(2)  Questo  processo,  noto  col  nome  dì  processo  Foresti-Solera,  è 
narrato  dal  Luzio  {Op.  cit.,  Gap.  I). 


—  142  — 

nella  setta,  e  si  adoperò  per  la  propaganda..  11  31  agosto  1820  il 
Pellico  si  recò  dal  Romagnosi  per  invitarlo  ad  entrare  nella  Car- 
boneria. Il  filosofo  rifiutò,  ritenendo  imprudente  il  tentativo;  e  lo 
accomiatò  con  le  parole:  ^  Non  vogliate  pericolare  per  cotesta 
riunione  italiana,  che  io  da  un  momento  all'altro  vi  potrei  dare 
tutte  le  fila  -.  Il  Pellico  ebbe  l'impressione  che  il  Romagnosi 
sostanzialmente  fosse  d'accordo  coi  cospiratori,  e  incaricò  un 
compagno  d' insistere  presso  il  filosofo.  Ma  per  un'  imprudenza 
del  Maroncelli,  che  affidò  al  sarto  Giovanni  Pirotti  una  lettera 
compromettente  da  consegnare  al  fratello  suo  a  Bologna,  fu  sco- 
perto tutto.  In  quella  lettera  erano,  fra  gli  altri,  nominati  come 
partecipi  del  movimento  patriottico  il  Romagnosi,  il  Gioia  e  Silvio 
Pellico;  di  più,  vi  si  chiedeva  la  Costituzione  di  Romagnosi 
stampata  a  Lugano  .  Il  Maroncelli  e  il  Pellico,  carcerati  (ot- 
tobre 1820),  furono  da  prima  inquisiti  a  Milano,  dove  il  processo 
assunse  una  piega  piuttosto  sodisfacente  specie  per  il  Pellico; 
ma  furono  poi  condotti  a  Venezia  presso  la  Commissione  spe- 
ciale per  i  delitti  d'alto  tradimento;  colà,  messi  alle  strette  dalla 
dialettica  incalzante  del  Salvotti,  finirono  col  rivelare  tutto,  tra 
l'altro  d'aver  avuto  colloqui  politici  con  Romagnosi,  Arrivabene 
e  Ressi.  Seguirono  perciò  altri  arresti,  fra  i  quali  quello  del  Ro- 
magnosi (giugno  1821)  (1),  accusato  d'aver,  contro  la  legge,  omesso 
di  denunciare  il  Pellico,  pur  sapendolo  carbonaro.  Anche  il  Ro- 
magnosi fu  condotto  a  Venezia,  e  gettato  nelle  carceri  di  S.  Mi- 
chele di  Murano.  Egli  si  difese  abilmente:  affermò  d'  aver  avuto 
un  fuggevole  colloquio  col  Pellico,  ma  di  non  ricordarne  i  par- 
ticolari, a  causa  dell'  emiplegia  sofferta.  Aggiunse  che  del  resto 
non  poteva  se  non  avergli  risposto  con  Bacone  che  le  sette  non 
producono   mutazioni,  almeno   estese  ed  efficaci  (2),  Durante  lo 


(1)  Anche  l'Arrivabenc  e  il  Ressi  furono  arrestati. 

(2)  Nella  sua  difesa  il  Romagnosi,  credendo  che  il  Pellico  l'avesse 
denunciato  per  ottenere  mitigazione  di  pena,  adoperò  verso  il  poeta 
saiiizzese  parole  aspre  ed  amare,  che  mi  duole  siano  uscite  dalle  sue 
labbra.  Spesso  questi  eroi  dell'indipendenza  italiana  perdevano  la  bus- 
sola nelle  angustie  del  carcere!  II  Pellico  aveva  rivelato  tutto  perchè, 
in  seguito  alle  confessioni  del  Maroncelli,  non  potè,  a  causa  della  sua 
squisita  coscienza  morale,  mentire  e  contradire  l'amico.  Si  legga  a 
pag.  117  dell'opera  del  Luzio  la  nobilissima  lettera  del  Pellico. 


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svolgimento  della  causa,  avuto  il  permesso  di  studiare  e  scrivere, 
compose  V  Insegnamento  primitivo  delle  matematiche,  che  fu  poi 
pubblicato  a  Milano,  il  1822  (1).  Stette  nelle  carceri  di  Murano 
dall' 11  giugno  al  10  dicembre  1821,  quando  fu  assolto  «  dal  delitto 
di  alto  tradimento,  per  omessa  denuncia,  ad  esso  imputato,  e  dal 
pagamento  delle  spese,  venendo  riconosciuta  la  di  lui  innocenza  ». 
All'uscire  di  carcere  però  fu  dal  governo  austriaco  spiato  con- 
tinuamente e  sottoposto  ancora  a  persecuzioni  subdole,  vili,  abiette: 
gli  fu  tolto  il  permesso  di  dar  lezioni  private  di  studi  legali  (2), 
onde  dovette  arrabattarsi  in  tutti  i  modi  per  trarre  avanti  l' in- 
ferma vita.  Dava  consultazioni  legali,  scriveva  introduzioni  di  cause 
civili,  allegati  e  atti  per  i  tribunali,  benché  in  nome  d'altri  avvo- 
cati (che  in  nome  suo  non  gli  era  permesso),  i  quali,  quando 
vincevano  le  cause,  s'arrogavano  tutto  il  merito,  e  al  Romagnosi 
non  davano  del  ricco  guadagno  se  non  quanto  si  dà  ad  uno 
scrivano;  componeva  articoli  per  giornali  e  abbozzi  di  nuove 
opere  (3).  Scrisse  neWApe  Italiana  (1822,  Voi.  1,  pag.  81,  e  Voi.  II 
pag.  3)  alcune  Osservazioni  su  la  Scienza  Nova  di  Vico,  e  sparse 
i  tesori  del  suo  sapere  nella  Biblioteca  Italiana,  neW  Antologia, 
nella  Minerva,  neW Indicatore  e  sopra  tutto  negli  Annali  di  sta- 
tistica, che  chiamava  //  suo  giornale.  Non  ostante  tutto  questo 
lavoro,  il  Romagnosi  non  viveva  nell'agiatezza;  il  Castelli  gli  con- 
sigliava di  scrivere   opere  lucrose;  «  ma  la  filosofia  non  gli  per- 


(1)  Diede  occasione  a  quest'opera  principalmente  il  libro  del  Wronskv 
intitolato  Introdiiction  à  la  philosophie  des  inathétnatiques  et  tecnique 
de  V  algorithmie,  Paris,  1811. 

(2)  Questo  divieto  proveniva  dall'imperatore  stesso  d'Austria.  Vedi 
Luzio,  0/7.  cit.,  pag.  140. 

(3)  Allora  appunto,  cercando  di  colmare  la  lacuna  che  esisteva  nella 
giurisprudenza  civile  rispetto  alle  leggi  che  riguardano  le  acque,  scrisse 
il  trattato  Della  condotta  delle  acque  secondo  le  vecchie,  intermedie  e 
vigenti  legislazioni  de^  diversi  paesi  d^  Italia  colle  pratiche  rispettive 
loro  nella  dispensa  di  dette  acque  (Milano,  1822-25).  Quest'opera  fu 
rifusa  in  Della  ragion  civile  delle  acque  nella  rurale  economia  (Mi- 
lano, 1829),  lavoro  interrotto  dalla  morte  del  filosofo.  Il  1824  pubblicò 
il  solo  manifesto  di  un  Dizionario  ragionato  positivo  delle  pili  impor- 
tanti parole  della  giurisprudenza  romana,  francese  ed  austriaca  (Mi- 
lano, 1824),  e  il  1826  Scritti  scelti  o  rari  di  storia  e  letteratnraiPnvìn,  1826). 


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mise  d'occuparsene  *.  Venne  allora  in  suo  aiuto  un  ricco  e  ge- 
neroso industriale  lombardo:  Luigi  Azimonti,  che  dal  1822  in  poi 
lo  accolse  ospitalmente' e  lautamente  durante  i  mesi  autunnali 
nella  sua  villa  di  Carate  Brianza,  e,  per  non  avvilire  e  addolorare 
il  grande  pensatore,  mandava  il  danaro  occorrente  pei  suoi  bi- 
sogni al  Castelli,  il  quale  doveva  cercare  che  il  filosofo  non  se 
n'accorgesse  o  non  avesse  a  dolersene.  <  Un  filosofo  -,  egli  scri- 
veva al  Castelli,  <  pensa  agli  altri  e  non  a  sé,  occupandosi  di 
studi,  i  quali  noi  dobbiamo  promuovere  a  bene  della  società  col 
pensare  noi  a  ciò  che  lo  riguarda  dal  canto  della  nettezza  per- 
sonale e  del  suo  mantenimento  il  più  salubre  ed  adatto    . 

In  mezzo  a  queste  difficoltà  apparve  un  raggio  di  speranza: 
alla  fine  del  1824,  Lord  Guilford,  incaricato  dal  governo  britan- 
nico di  fondare  un'Università  a  Corfù,  lo  invitava  ad  insegnarvi, 
con  lauto  stipendio,  la  parte  che  gli  piacesse  del  corso  di  giuri- 
sprudenza. Il  Romagnosi  accettò  con  entusiasmo  l' invito,  e  già 
sognava  di  godere  alfine  neh'  isola  famosa  la  libertà  invano  so- 
spirata per  tanto  tempo.  Sognava  di  vedere  sorgere  e  svilupparsi 
una  nuova  scuola  di  filosofia,  feconda  di  una  civiltà  più  grande 
delle  passate.  Ma....  occorreva  il  passaporto.  Lo  chiese  alla  po- 
lizia, e  lo  fece  richiedere,  per  mezzo  dell'ambasciatore  britannico 
a  Vienna,  dal  conte  di  Guilford.  La  risposta  da  prima  fu  favo- 
revole. Ma  quando,  alla  fine  dell'aprile  1825,  presentò  regolare 
domanda,  trovò  difficoltà  e  lungaggini;  poi,  il  15  maggio,  la  po- 
lizia lo  avvertì  che  «  partendo  con  lui  Angelo  Castelli,  era  ne- 
cessaria l'assicurazione  che  la  famiglia  Castelli  non  avrebbe  man- 
cato dei  mezzi  necessarii  di  sussistenza  >.  Era  evidentemente  una 
maligna  scusa  del  governo  austriaco.  Allora  l' Azimonti  si  obbligò 
presso  il  governo  di  provvedere  lui  al  mantenimento  della  famiglia 
del  Castelli.  Ma  l'Austria,  come  il  lupo  della  favola,  irritata  d'aver 
visto  fallire  la  sua  falsa  manovra,  e  volendo  ad  ogni  costo  com- 
mettere una  perfidia,  dichiarò  «.  che  l'Imperatore  Francesco  I  non 
poteva  permettere  che  un  uomo  di  tanto  ingegno  e  che  era  stato 
sotto  processo  politico  abbandonasse  i  suoi  stati  »  !  Così  il  sogno 
di  libertà  e  di  lavoro  benefico  svanì  tristamente,  e  il  grande  pen- 
satore tornò  alla  fredda  realtà.  Si  rimise  al  lavoro  con  più  energia 
di  prima;  con  1'  anno  1826  cominciò  infatti  quasi  un  nuovo  pe- 
riodo della  sua  vita;  giacché  estese  i  suoi  studi  a  quattro  nuovi 
campi:  l'ideologia,  la  storia,  la  statistica  e  l'economia  politica  in 


-   145  — 

relazione  alla  filosofia  civile.  Nelle  Questioni  sull'ordinamento  delle 
statistiche  civili  dimostrava,  d'accordo  col  Gioia,  come  la  stati- 
stica possa  acquistar  la  solidità  d'una  scienza;  in  Che  cos^è  la 
mente  sana?  Indovinello  massimo  che  potrebbe  valere  poco  o  nulla 
(Milano,  1827)  trattò  i  problemi  fondamentali  dell'ideologia  (1). 
Avendo  poi  Francesco  Forti  osservato  ntW  Antologia  di  Firenze 
(febbraio  1828,  anno  Vili,  Voi.  XXIX)  che  la  dimostrazione  circa 
la  dipendenza  delle  sensazioni  dagli  oggetti  esterni  data  dal  Ro- 
magnosi  in  Che  cos'è  la  mente  sana?  potrebbe  esser  contradetta 
dagli  scettici,  egli  scrisse,  in  risposta,  Della  suprema  economia  del- 
l'umano sapere  in  relazione  alla  mente  sana  {Mìhno,  1828).  II  1831 
raccolse  in  L'antica  morale  filosofia  esposta  quanto  alla  peripate- 
tica dal  Zanotti,  alla  stoica  e  pitagorica  da  vari  greci,  aggiuntavi 
la  delineazione  di  quella  di  Iacopo  Stellini  (Milano,  Ferrarlo,  1831) 
scritti  d'altri  pensatori,  che  giovassero  all'evoluzione  morale  de- 
gl'  Italiani  (2).  Riteneva  assai  utile  anche  Io  studio  della  logica; 
ripubblicò  quindi  la  Logica  pei  giovanetti  del  Genovesi,  che  cre- 
deva molto  adatta  a  <  tutelare  il  deposito  della  sana  dottrina  ri- 
cevuta dai  nostri  maggiori  >  dagli  «  assalti  tentati  contro  i  fon- 
damenti del  poter  logico  >  da  parte  della  filosofia  tedesca  (3); 
e  v'aggiunse  le  Vedute  fondamentali  suW arte  logica  (Abitano,  Fon- 
tana, 1832)  (4). 


(1)  Egli  spiega  così  il  titolo  del  suo  lavoro:  -  Egli  è  un  indovinello, 
perchè  l'uomo  interiore  non  si  vede  e  non  si  tocca;  egli  poi  potrebbe 
valer  poco  se  ci  arrestassimo  alla  sola  descrizione  dei  costitutivi  opi- 
nati della  mente  sana;  potrebbe  poi  valer  niente,  sia  che  falliamo  nelle 
risposte,  sia  che  non  le  proviamo  a  dovere,  sia  finalmente  che  preten- 
diamo di  penetrare  nelle  essenze  reali  e  nelle  cause  prime  .  Vedi  Ra- 
s^ione  del  Discorso  premessa  a!  lavoro,  pag.  472  dell' Ediz.  De  Giorgi. 

(2)  Questi  scritti  sono:  la  Filosofia  morale  di  F.  M.  Zanotti,  il  Ma- 
nuale d'EPiTTETO  tradotto  dal  Pagnini,  la  Tavola  di  Cebete  Tebano 
tradotta  pure  dal  Pagnini,  frammenti  d'altri  pitagorici,  come  Archita, 
Ipodamo  Turrio,  Eurifanio,  Iparco,  Teage,  Polo,  Sesto  pitagorico,  e  la 
Delineazione  della  filosofia  morale  scritta  dallo  Stellini  stesso  {Opere 
storico-filosofiche  e  letterarie  di  G.  D.  Romaonosi,  Ediz.  De  Giorgi, 
Volume  unico,  Parte  lì,  pag.  1386  e  seg.). 

(3)  Ragione  dell'Opera,  pag.  5  (,Ediz.  De  Giorgi). 

(4,1  Oltre  queste  opere  sono  importanti  per  l'ideologia  i  seguenti 
scritti:  Esposizione  storico-critica  del  Kd'ttismo  e  delle  consecutive  dot- 


—  146  — 

Nell'aprile  del  1830  un  programma  accademico,  pubblicato 
dall'Ateneo  delle  Arti  di  Parigi,  con  cui  s' invitavano  i  dotti  a 
determinare  i  caratteri,  del  vero  incivilimento,  lo  spinse  ad  oc- 
cuparsi di  questo  argomento  e  dal  punto  di  vista  filosofico  e  dal 
punto  di  vista  storico.  Innanzi  tutto  mostrò  negli  Annali  univer- 
sali di  statistica  (1830,  Voi.  XXVI)  come  quel  tema  si  sarebbe 
dovuto  svolgere;  quando  poi,  nell'agosto  del  1831,  fu  dall'Ateneo 
di  Parigi  premiato  il  difettoso  lavoro  scritto  da  Vittorio  Franklin 
in  risposta  al  quesito,  il  Romagnosi  credè  opportuno  di  rifar  lui 
il  lavoro;  pubblicò  quindi  negli  Annali  universali  di  statistica  (1) 


trine  -  Articolo  di  G.  D.  Romagnosi  su  l'opera  del  barone  Pasquale 
Galluppi  intitolata:  Lettere  filosofiche  su  le  vicende  della  filosofia 
relativamente  ai  principi  delle  conoscenze  umane  da  Cartesio  fino  a 
Kant  inclusivamente  (in  Biblioteca  Italiana,  1828,  Voi.  L,  pag.  163;  e 
1829,  Voi.  LUI,  pag.  180);  Questioni  su  le  apparenze  fisiche,  su  resten- 
sione  e  su  la  durata  (spazio  e  tempo)  -  Articolo  su  l'opera  di  Ermes 
Visconti  intitolata:  Saggi  filosofici  (in  Biblioteca  Italiana,  1829,  Vo- 
lume LVI,  pag.  184);  Libertà  morale  -  Articolo  su  l'opera  dell'  ab.  Giu- 
seppe Grones  intitolata:  Saggio  di  filosofia  teoretica  (in  Biblioteca 
Italiana,  1830,  Voi.  LVII,  pag.  338);  Dottrina  logica  del  Galuppi  -  Ar- 
ticolo su  gli  «<  Elementi  di  filosofia  -  del  Galluppi  (in  Biblioteca  Ita- 
liana, 1827,  Voi.  XLVII,  pag.  45);  Educazione  mentale  -  Articolo  sopra 
il  Saggio  di  un  corso  di  filosofia  del  prof.  Baldassare  Poli  (in  Bi- 
blioteca Italiana,  1829,  Voi.  LIV,  pag.  406);  Progressi  e  sviluppi  della 
filosofia  e  delle  scienze  metafisiche  dal  principiare  del  XIX  secolo  - 
Articolo  tradotto  dalle  Philosophical  Transactions  con  annotazioni  di 
G.  D.  Romagnosi  (in  Indicatore,  1835,  Serie  IV,  Voi.  I,  pag.  5);  Dell'uso 
della  dottrina  della  ragione  nclV amministrare  l'economia  dell'inci- 
vilimento (Discorso  pubblicato  a  Firenze  il  1835).  Tutti  questi  scritti 
sono  stati  pubblicati  di  nuovo  in  Opere  filosofiche  edite  ed  inedite  di 
G.  D.  Romagnosi,  Ed.  De  Giorgi.  Tra  le  opere  postume  sono  da  ricor- 
dare: Ricerche  sulla  validità  dei  giudicii  del  pubblico  a  discernere  il 
vero  dal  falso  (\^  Ediz.,  Milano,  1836);  Piano  ragionato  di  un'opera 
che  deve  portare  il  titolo:  Delle  leggi  dell'umana  perfettibilità  per 
servire  ai  progressi  delle  scienze  e  delle  arti;  Discorso  sull'ordina- 
mento della  filosofia  morale;  Sul  talento  logico;  Degli  enti  morali. 
Anche  questi  scritti  si  trovano  stampati  nelle  dette  Opere  filosofiche 
edite  ed  inedite  pag.  725  e  seg. 

(1)  L'anno  1832,  Voi.  XXXI,  pag.  129-241,  e  Voi.  XXXII,  pag.  17-145. 
La  Parte  II  (che  riguarda  il  risorgimento  della  civiltà  italiana)  era  stata 


—  147  — 

la  memoria  Sali' indole  e  sai  fattori  dell'  inciviliinento  con  esempio 
del  suo  risorgimento  in  Italia,  in  cui  indicò  l'ordine  e  le  leggi 
secondo  cui  procede  l'incivilimento  delle  nazioni  (1). 

Stabilite  le  leggi  dell'incivilimento,  volle  tracciarne  anche  l'ori- 
gine storica.  Già  fin  dal  1827  aveva  pubblicate  delle  ricerche  sul- 
l'India antica  in  continuazione  all'opera  di  Guglielmo  Robertson 
{Ricerche  storiche  sali'  India  antica  di  Guglielmo  Robertson  con  note, 
supplementi  e  illustrazioni  di  G.  D.  Romagnosi,  Milano,  1827)  (2). 
Continuò  quelle  ricerche  pubblicando  studi  notevolissimi  (3),  in 
cui  cercò  di  mostrare  la  genesi  e  il  cammino  seguito  dalla  civiltà 
nel  suo  propagarsi  traverso  i  continenti. 

Altri  ed  altri  articoli  e  opuscoli  scrìsse  intorno  allo  stesso  ar- 
gomento o  su  questioni  affini  (4)  (importanti  quelli  sull'economia 
politica  pubblicati  negli  Annali  di  statistica).  Tanta  operosità  era 


pubblicata  già  prima,  sebbene  non  intieramente,  negli  Annali  stessi  l'anno 
1829  (Voi.  XX!,  pag.  117-125,  e  Voi.  XXII,  pag.  33-97). 

(1)  Si  noti  che  la  Parte  I  di  questo  lavoro  è  quasi  identica  al  libro 
IV  delle  Vedute  fondamentali  sull'arte  logica,  che  tratta  appunto  del- 
l'incivilimento,  e  alla  Ragione  delV Opera  del  libro  Della  ragione  ci- 
vile delle  acque.  XW  Indole  e  fattori  delV  incivilimento  fanno  seguito, 
quasi  Parte  III,  le  Vedute  eminenti  per  amministrare  V economia  su- 
prema delV  incivilimento,  che  mandò  manoscritte  nel  settembre  del  1834 
all'Accademia  delle  scienze  morali  e  politiche  di  Francia,  di  cui  era  stato 
eletto  membro  alla  fine  del  1833  (sono  stampate  nell'Ediz.  De  Giorgi, 
Opere  storico-filosof.  e  leti.,  Parte  I,  pag.  227). 

(2)  Opere  storico-filosofiche  e  letterarie.  Voi.  unico.  Parte  II,  Ediz. 
De  Giorgi,  pag.  911  e  seg. 

(3)  1  principali  sono:  Esame  della  storia  degli  antichi  popoli  ita- 
liani di  Giuseppe  Micali  in  relazione  ai  primordi  dell'  italico  incivili- 
mento (in  Biblioteca  Italiana,  1833);  Catalogo  di  scelte  antichità  etrusche 
trovate  negli  scavi  del  principe  di  Canino  Luciano  Bonaparte  -  Osser- 
vazioni del  prof.  G.  D.  Romagnosi  intorno  ad  una  nota  del  principe 
di  Canino  (Biblioteca  Italiana,  1830);  Museo  etrusco  chiusino  (Biblio- 
teca Italiana,  1831).  Questi  articoli  sono  ristampati  in  Opere  storico- 
filosof  e  leti.,  Ediz.  De  Giorgi,  Parte  I,  pag.  438  e  seg. 

(4)  Vedi  tutti  questi  articoli  ristampati  in  Opere  stor.-fil.  e  lett., 
Ediz.  De  Giorgi,  Sezione  lì,  pag.  259  e  seg.  I  piii  importanti  sono:  Cenni 
su  i  limiti  e  su  la  direzione  degli  studi  storici  (premessi  dal  Romagnosi 
all'edizione  pubbl.  in  Milano  nel  1832  del  Saggio  di  C.  fannelli  su  la 
natura  e  necessità  delta  scienza  delle  cose  e  delle  storie  umane);  Al- 


—  148  — 

veramente  prodigiosa  in  un  uomo  che  aveva  sofferto  il  1812  un 
forte  attacco  d'apoplessia,  ed  era  obbligato  a  starsene  la  maggior 
parte  del  giorno  a  letto'  Ma  questo  vulcano  d'energia  a  poco  a 
poco  doveva  per  legge  di  natura  spegnersi.  Sul  finire  del  1833 
fu  lì  lì  per  andarsene  a  causa  d'una  flogosi  polmonare.  Si  riebbe 
alquanto  nel  dolce  e  salubre  soggiorno  di  Carate,  dove,  come  al 
solito,  fu  ospite  del  nobile  Azimonti  nell'estate  del  1834.  Ma  nel- 
r  inverno  del  1835  il  male  ritornò,  e,  non  ostante  le  cure  affet- 
tuose del  Castelli  e  dei  medici,  il  grande  spirito  1*8  giugno  1835 
cessò  di  vivere  questa  vita.  I  discepoli  più  cari  e  più  illustri,  fra 
i  quali  il  Cattaneo  e  Giuseppe  Ferrari,  insieme  con  l' Azimonti, 
raccolsero  le  sue  parole  estreme,  e  per  1'  ultima  volta  gli  dona- 
rono dei  fiori,  che  tanto  gli  piacevano.  La  salma  fu  trasportata 
per  espressa  sua  volontà  a  Carate,  dove  aveva  godute  le  dolci 
gioie  dell'  amicizia.  Sotto  il  suo  ritratto,  che  aveva  lasciato  come 
ricordo  aU'Azimonti,  aveva  scritto:  <■  Desidero  che  sieno  poste  sulla 
mia  tomba  queste  parole  di  S.  Paolo:  cursuni  consumavi,  fidem 
servavi  »  (1). 


IL  METODO.  —  Benché  il  Romagnosi  dica  spesso  le  lodi  del- 
l'analisi, specie  quale  procedimento  adatto  ad  ottenere  l'evidenza  (2) 


cani  pensieri  sopra  un^ ultra-metafisica  filosofia  della  storia  (lettera  al 
sig.  P.  Viessieux,  inserita  ntW  Antologia  di  Firenze,  1832,  Voi.  XLVI, 
pag.  23);  Discorso  su  le  ricerche  da  instituirsi  intorno  la  scienza  sim- 
bolica degli  antichi  e  dei  sussidi  necessari  per  intraprenderle  (in  An- 
tologia, 1327);  Elogio  storico  di  Melchiorre  Gioia  {Biblioteca  Italiana, 
1828);  Articoli  intorno  alla  vita  del  Cardinale  Alberoni  (in  Biblioteca 
Italiana,  1834)  etc. 

(1)  L'Austria,  dopo  le  numerose  persecuzioni  a  cui  aveva  sottoposto 
il  Romagnosi,  osò  perfino  profanare  la  tomba  di  lui  il  24  novembre  184S 
per  ricercarvi  armi,  bandiere  e  tamburi,  che  un  calunniatore  aveva  detto 
esservi  stati  nascosti,  dopo  il  ritorno  degli  Austriaci  in  Lombardia,  dal 
marchese  Ferdinando  Cusani  Gonfalonieri  (Vedi  A.  Vannucci,  /  mar- 
tiri della  libertà  italiana,  Firenze,  Le  Monnier,  1860,  pag.  261,  nota). 

(2)  Ricerche  sulla  validità  dei  giudicii  del  pubblico  a  discernere  il 
vero  dal  falso,  Parte  11,  Sezione  I,  Gap.  IV;  Parte  IV,  Sez.  Il,  Gap.  I-V 
(cito  sempre  l'ediz.  delle  Opere  filosofiche  edite  ed  inedite  di  G.  D. 
Ro.MAGNOSi  con  annotazioni  di  Alessandro   De  Giorgi,  Volume  unico, 


—  149  — 

e  a  formare  le  idee  generali  (1),  pure  non  ritiene  che  sia  l'unico 
metodo  scientifico;  accanto  ad  essa  colloca  la  sintesi  (2).  Aggiunge 
che  l'analisi  dev'essere  preceduta  da  «  viste  generali  e  confuse 
di  assunto  »  (ipotesi),  che,  pur  dovendo  ricevere  conferma  dal- 
l'analisi, preparano  le  ricerche  delia  ragione;  giacché  senza  di  esse 
l'analisi  non  si  potrebbe  effettuare  con  ordine,  né  si  vedrebbe  se 
rimanga  o  no  qualcosa  da  esaminare  (3).  Anzi  propende  a  ripro- 
vare come  impropria  la  distinzione  fra  metodo  analitico  e  metodo 
sintetico,  giacché  secondo  lui  il  metodo  nella  sua  indole  propria 
e  complessiva  non  é  né  analitico  né  sintetico;  è  discorsivo;  certo 
in  esso  intervengono  le  funzioni  di  distinguere  e  di  congiungere, 
di  separare  e  di  unire;  ma  la  caratteristica  sua  é  quella  di  passare 
dall'una  all'altra  funzione,  secondo  dati  rapporti,  per  giungere  a 
una  data  meta.  Un  barcaiolo  che  dirige  la  sua  barca  col  remo  su 
un  lago,  mostra  tutti  i  momenti  del  metodo  scientifico.  Egli  fende 
l'acqua  col  remo  e  la  divide:  ecco  la  funzione  analitica;  egli  alza 
il  remo  dall'acqua,  e  questa  si  riunisce:  ecco  la  funzione  sintetica; 
egli  s'avanza  a  colpi  ripetuti:  ecco  il  corso  o  discorso.  Il  mecodo 
è  costituito  da  tutti  questi  atti  in  quanto  conducono  a  riva.  Esso 
non  è  dunque  se  non  un  corso  di  funzioni  mentali  (sintetiche, 
analitiche,  progressive)  dirette  all'acquisto  di  cognizioni  vere  (4). 
In  questo  cammino  progressivo  dove  bisogna  giungere  e  fermarsi? 
Agli  assiomi  medi  (5).  Ogni  vera  scienza,  naturalmente,  è  fondata 
sui  fatti  (6);  finché  però  noi  ci  aggiriamo  tra  i  particolari  concreti 


Milano,  Perelli  e  Mariani,  1842).  Cfr.  Della  suprema  economia  dell'umano 
sapere,  Parte  II,  Gap.  XVI,  §  154. 

(1)  Ricerche  sulla  validità  dei  giudicii  etc,  Parte  II,  Sez.  i,  Gap.  VA. 
Vedi  anche  Della  suprema  econ.,  §  154. 

(2)  La  logica  pei  giovanetti  dell'abate  A.  Genovesi  (Ediz.  De  Giorgi), 
Libro  I,  Gap.  I,  §  31  e  §  77  (aggiunta  del  Romagnosi).  Gfr.  Delle  leggi 
dell'  umana  perfettibilità,  §  665. 

(3)  Delle  leggi  dell'  umana  perfettibilità,  §  657. 

(4)  Vedute  fondamentali  sulV  arte  logica,  Libro  II,  Gap.  VI,  §  827. 

(5)  L'espressione  è  tolta  da  Bacone  {De  dignitate  et  augmentis 
scientiarum,  Libro  V,  Gap.  II). 

(6)  Perciò  «  fuori  del  buon  metodo  induttivo  non  vi  è  salute,  o  sia 
mezzo  a  scoprire  le  ragioni  assegnabili  delle  cose  •>  {Della  suprema 
economia,  Parte  II,  Gap.  XXIII,  §  185). 


—  150  — 

senza  possederne  la  visione  complessiva,  siamo  condannati  alla 
sfera  delle  sensazioni  (quindi  alla  corteccia  apparente  delle  cose), 
e  restiamo  esclusi  da  quella  delle  scienze.  Schiavi  della  fortuna, 
siamo  costretti  a  procedere  con  un  empirismo  casuale.  Ma,  cor- 
rendo all'  estremo  opposto  e  arrestandoci  alla  somma  generalità, 
alle  formule  sfumate  ,  ci  troviamo  razionalmente  nulli,  e 
siamo  condannati  ad  una  impotenza  ultrametafisica  (1).  Bisogna 
dunque  stare  nel  mezzo  fra  tali  estremi.  Nella  vita  reale  c'è  in- 
fatti un'  unità  sistematica,  la  quale  non  si  raggiunge  tanto  col  co- 
gliere solo  alcuni  particolari,  quanto  col  sorpassarli:  esiste  cioè 
una  sfera  che  respinge  le  nozioni  che  peccano  o  per  difetto  o 
per  eccesso:  perciò,  quando  si  tratta  di  architettare  le  scienze  na- 
turali del  mondo  sia  esteriore,  sia  interiore,  si  deve  assumere  una 
posizione  contemplativa  né  troppo  vicina,  da  cui  non  si  possa 
abbracciare  il  complesso  delle  cose,  né  troppo  lontana,  dalla  quale 
spariscano  le  particolarità  necessarie  a  costituire  la  scienza  e  a 
regolare  le  arti.  <  La  soverchia  vicinanza  al  concreto  ci  condanna 
allo  sgranato,  la  soverchia  lontananza  ci  condanna  allo  sfumato  : . 
Che  cosa  fate  per  es.  adoperando  un  cannocchiale?  Lo  allungate 
fin  dove  potete;  ma  poi  lo  raccorciate  e  lo  allungate  di  nuovo, 
fino  a  che  trovate  il  punto  nel  quale  vedete  più  cose  e  nella  ma- 
niera più  distinta.  Ecco  l'economia  di  tutte  le  scienze  d'osserva- 
zione. Appunto  così  si  ottengono  quegli  assio/ni  medi  che,  mentre 
non  esigono  un  grande  sforzo  d'astrazione,  sodisfano  gli  uomini  di 
solido  giudizio  e  di  consumata  esperienza.  <  Qui  ^s  egli  conclude, 
«  sta  lo  scopo  dell'italiana  filosofia  (2).  <  L'italiana  gioventù  non 
amerà,  io   spero,  d'  occuparsi   di   fantasmi   alchimistici  o  di   mo- 


(1)  Filosofia  ultra-metafisico  il  Romagnosi  chiama  per  es.  quella  di 
Hegel  (vedi  Alcuni  pensieri  sopra  un' ultra  metafisica  filosofia  della 
storia  in  Opere  storico-filosofiche  e  letterarie  edite  ed  inedite  di  G. 
D.  ROMAONOSi  riordinate  ed  illustrate  da  A.  De  Giorgi,  Milano,  Perrelli 
e  Mariani,  1844,  Volume  unico.  Parte  I,  pag.  284  e  seg.).  Anche  la  filo- 
sofia di  Kant,  essendo  fondata  sugli  a  priori,  è  per  il  Romagnosi  ste- 
rile e  priva  di  valore. 

(2)  Per  tutta  questa  parte:  Vedute  fondamentali,  Libro  l,Cap.  I.Sez.  Il, 
SÌ5  591-593,  e  Libro  I,  Gap.  Ili,  Sez.  1, 4?  626;  Della  suprema  economia, 
Parte  11,  Gap.  XXXil,  §§  222  e  223,  e  Gap.  XXXIII,  §§  224-225;  Dei- 
raso  della  dottrina  della  ragione,  etc,  §  491.  Le  critiche  sull'analisi 
sono,  naturalmente,  rivolte  al  Condillac.  Del  quale   non  gli  piace  nep- 


—  151  — 

strarsi  con  istrambotti  sibillini.  Sia  essa  italiana,  tutta  italiana,  e 
nienf  altro  che  italiana;  ma  italiana  pensatrice,  operosa  e  concorde; 
ed  allora  salirà  ad  un  primato  certamente  serbatole  dalla  natura 
segnatamente  nella  terra  natale  di  Dante,  di  Machiavelli  e  di 
Galilei  »  (1). 

4: 

L' IDEOLOGIA.  —  Come  il  metodo  del  Romagnosi  segue  una 
via  di  mezzo,  così  l' ideologia  sua  sta  fra  il  sensualismo  e  1'  in- 
tellettualismo, fra  r  idealismo  e  il  realismo  ingenuo,  fra  lo  speri- 
mentalismo induttivo  e  il  trascendentalismo  («  li  scandali  trascen- 
dentali »)  (2). 

La  sensazione  provocata  dal  mondo  esterno,  dice  il  Romagnosi, 
è  il  primo  fondo  dell'  intelletto;  non  si  pensa  senza  sentire  (3). 
Ma  rio  non  accoglie  passivamente  la  sensazione;  reagisce  imme- 
diatamente ad  essa  con  «  vibrazioni  »  sue  proprie  (4);  di  modo 
che  è  assurdo  immaginare  sensazioni  informi  entrate  nell'  anima 
e  modellate  dalla  mente.  Non  esistono  punto  sensazioni  informi 
importate  o,  peggio  ancora,  modellate:  l'Io  non  è  una  specie  di 
fonderìa  dove  già  esistano  beli' e  pronti  aei  modelli  o  sigilli,  che 
diano  forma  alle  larve  provenienti  di  fuori  !  La  sensazione  è  il 
risultato  del  rapporto  reale  fra  l'anima  e  le  cose  esterne,  è  l'ef- 
fetto di  due  potenze  (il  me  e  il  non  me)  operanti  sul  fondo  comune 
della  sensibilità.  Prima  dell'  azione  di  queste  due  potenze  non 
esiste.  Essa  è  semplice,  necessaria  e  immutabile  come  la  direzione 
diagonale  d'un  mobile  spinto  da  due  forze  ad  angolo  retto. 
L' azione  delle  due  forze  precede  come  causa;  ne  segue  una  di- 


pure la  finzione  della  statua;  scrive  infatti:  «  Per  quanto  caute  e  fini 
sieno  le  analisi  della  filosofia  del  pensiero,  esse,  allorché  sieno  fatte 
colle  statue  a  piacere  animate  e  con  condizioni  ipotetiche,  lasciano 
spesso  un  non  so  che  di  indefinito,  il  quale  non  soddisfa  pienamente, 
e  d'altronde  mancano  di  leggi  positive  e  accertate  »  {Vedute  fond., 
Libro  I,  Gap.  II,  §  620;  Suprema  economia,  Parte  II,  Gap.  XXXI,  §  219). 
(1)  Alcuni  pensieri  sopra  un' ultra-metafisica  filosofia  della  storia, 
pag.  295.  (2)  Della  suprema  econ..  Parte  lì,  Gap.  XIX,  XX  e  XXVI. 

(3)  La  logica  pei  giovanetti  del  Genovesi,  Libro  I,  Gap.  I,  §  72  (ag- 
giunta del  Romagnosi). 

(4)  Vedute  fondamentali,  Libro  1,  Gap.  VI,  §  704. 


—  152  — 

rezionc  unica,  la  quale  non  si  può  cambiare  se  non  si  muta 
r  azione.  Essa  già  in  sul  nascere  è  compiuta;  e  non  può  più  es- 
sere modellata,  poiché  è  un  atto  necessario  dello  stesso  Io  effet- 
tuato in  lui  (1). 

Da  ciò  derivano  due  conseguenze:  prima  di  tutto  che  non  si 
può  parlare  di  sensazioni  trasformate  (Condillac),  poiché  la  sen- 
sazione non  si  può  trasformare;  è  fin  da  principio  quello  che  è  (2); 
poi  che  la  sensazione  (l'atto  conoscitivo),  essendo  in  ultima  ana- 
lisi conformata  e  appropriata  dall'  io  senziente,  non  si  può  con- 
siderare né  come  esclusivamente  sensoriale,  né  come  esclusiva- 
mente spirituale  (cioè  come  fattura  della  mente  sola).  Perciò  i 
termini  sensualismo  (indicante  la  dottrina  che  fa  derivare  tutte  le 
idee  dai  sensi)  e  spiritualismo  o  intellettualismo  (indicante  la  teoria 
che  le  trae  tutte  dal  fondo  dell'anima)  sono  inventati  senza  di- 
scernimento, poiché  è  assurdo  parlar  di  sensualismo  e  di  spiri- 
tualismo come  di  sistemi  distinti  e  predominanti  (3).  Il  sistema 
vero  è  quello  della  compotenza,  il  quale  concepisce  la  conoscenza 
come  il  prodotto  di  una  funzione  solidale,  per  cui  i  sensi  pro- 
vocano la  potenza  senziente,  e  questa  reagisce  a  quelli  (4).  Dal  che 
naturalmente  segue  che  cade  la  teoria  del  Locke  (e  del  Condillac) 
secondo  cui  l'anima  sarebbe  una  tabula  rasa  su  cui  vadano  a  im- 
primersi i  caratteri  (che  cioè  accolga  passivamente  le  impressioni), 
giacché  r  anima  non  è  un  ricettacolo  inerte  d*  impressioni,  ma 
coopera  attivamente  alla  conoscenza  (5). 


(1)  Vedute  fondamentali,  Libro  1,  Gap.  VI,  §  727;  Progressi  e  svi- 
luppi della  filosofia  con  note  del  Romagnosi,  §  433;  Che  cos'è  la  mente 
sana?  Parte  I,  Gap.  Vili,  §  43;  Dell'uso  della  dottrina  della  ragione  etc. 
Gap.  il,  5^  478. 

(2)  Esposizione  storico-critica  del  Kantismo,  pag.  585,  nota  2;  Ve- 
dute fondamcntpli.  Libro  II,  Gap.  VI,  §  815  («  lo  non  dissi  e  non  dirò 
mai  che  le  nostre  cognizioni  siano  altrettante  sensazioni  trasformate  >). 
Si  noti  anche  che  il  Romagnosi  distingue  il  giudicare  dal  sentire  {Ri- 
cerche sulla  validità  dei  giudicii  etc.  Parte  I,  Gap.  II,  §  21  e  22). 

(3)  Dell'uso  della  dottrina  della  ragione  etc,  §  560;  Progressi  e  svi 
lappi  della  filosofia,  §  433;  Vedute  fondamentali,  Introduzione,  pag.  216, 
nota  1.  (4)  Della  suprema  economia,  Parte  II,  Gap.  XIX,  §  170. 

i5)  Vedute  fondamentali,  Libro  1,  Gap.  VI,  §  703;  Della  suprema  eco- 
nomia. Parte  II,  Gap.  XVI,  §  153. 


—  153  — 

Ora,  in  che  consiste  propriamente  la  reazione  dell'anima  alle 
impressioni  esterne?  Consiste  nella  rete  dei  rapporti  fondamen- 
tali che  sono  stabiliti  fra  le  varie  sensazioni  e  che  vanno  consi- 
derati non  più  come  impressioni  sensoriali,  ma  come  prodotti 
dell'attività  riferente  dell'intelletto  (1).  Quest'attività  intellettiva 
è  detta  dal  Romagnosi  senso  logico  o  razionale.  Il  quale  interviene 
in  ogni  atto  conoscitivo,  e,  di  fronte  al  materiale  fornito  dai  sensi, 


(1)  Si  noti  che  secondo  il  Romagnosi  la  riflessione  del  Locke  e  tutte 
le  idee  relative  emesse  dal  senso  intimo  non  sono  che  le  seconde  in- 
tenzioni, degli  Scolastici  (Vedi  Progressi  e  sviluppi  della  filosofia  etc, 
pag.  647).  Ora,  le  seconde  intenzioni  non  sono  che  idee  di  rapporti, 
cioè  risultati  dell'attività  riferente  dell'intelletto  (Secunda  intentio  est 
relatio  relationis,  f andata  in  obiecto  cognito,  ad  aliud  obiectum  co- 
gnituni).  11  che  conferma  che  il  senso  logico  non  è  se  non  l'attività 
riferent2  dell'intelletto.  Ben  so  che  il  Romagnosi  chiama  <;  facoltà  oc- 
culta, recondita,  ineffabile  etc.  questo  senso,  e  talora  lo  vuol  distin- 
guere dal  potere  intellettivo  (  Vedute  fondamentali,  Libro  1,  Capitolo  VI, 
§  684).  Ma  si  considerino  le  seguenti  parole  di  lui  stesso:  ^  Volendo 
quindi  conoscere  ciò  che  dobbiamo  attribuire  al  senso  logico,  noi  tro- 
viamo che  i  modi  definitivi  deW  intelligenza,  provocati  dalla  sensibi- 
h'tà,  appartengono  a  questo  senso:  la  prima  somministra  il  fondo;  il 
secondo  attribuisce  la  forma  del  verbo  »  {Che  cos'è  la  mente  sana? 
Parte  li,  §  61).  Inoltre,  tra  gii  uffici  del  senso  logico  egli  pone  quello  di 
<  conformare  inostri  atti  psicologici  che  qualificano  l'intendere  >  {Op. 
cit.,  Parte  li,  §  62).  Ancora:  in  Dell'uso  della  dottrina  della  ragione 
etc.  (§  522)  dice  che  il  senso  logico  si  mescola  alle  cinque  funzioni  del- 
l'intelletto (che  secondo  lui  sono:  potere  e  senso  assumente,  potere  e 
senso  discernente,  potere  e  senso  coordinante,  potere  e  senso  conclu- 
dente, potere  e  senso  esprimente)  e  ne  costituisce,  con  le  sue  suità,  i 
modi  e  le  forme.  Aggiunge  che  questi  modi  e  forme,  associandosi  a 
quelle  funzioni,  non  possono  avere  un  posto  a  parte:  sono  come  le  par- 
ticelle e  gli  articoli  del  discorso  che  di  per  sé  non  costituiscono  un 
processo  mentale.  Da  questi  luoghi  risulta  che  il  Romagnosi  stesso  viene 
in  fondo  a  identificare  il  senso  logico  con  l'attività  intellettuale.  Insomma: 
la  capacità  di  percepire  i  rapporti  fra  gli  enti  è  il  presupposto  di  tutti 
gli  atti  intellettivi  (astrazione,  generalizzazione,  formazione  dei  concetti, 
giudizio,  ragionamento)  in  quanto  che,  se  non  ci  fosse  quella  capacità, 
questi  atti  sarebbero  impossibili.  Ma  si  tratta  non  di  un'attività  speciale, 
misteriosa,  trascendentale,  sibbene  della  funzione  propria  dell'intelletto, 
che  ne  costituisce  la  caratteristica  e  il  fondamento. 


—  154  — 

stabilisce  se  una  data  cosa  è  simile  o  dissimile,  maggiore  o  mi- 
nore rispetto  ad  un'altra,  singolare  o  plurale,  assoluta  o  relativa, 
semplice  o  complessa,  individuale  o  collettiva.  Le  idee  di  numero, 
d'  estensione,  di  tempo  etc.  sono  dunque  opera  di  questa  facoltà 
intima  (1).  Esistono  per  es.  due  alberi  di  struttura  di  foglie  e  di 
altezza  diversa.  L'alto,  il  basso,  la  differenza  di  forma,  la  somi- 
glianza (di  altri  caratteri)  etc.  sono  concetti  tutti  mentali,  emessi 
dal  nostro  fondo  all'occasione  e  in  conseguenza  dell'idea  dei  detti 
alberi.  Non  sono  né  astrazioni,  né  impasti  del  concreto;  sono  ag- 
giunte della  mente  (2).  Sono  segnature  razionali,  emissioni  intime, 
logie  (da  Àó^o?,  ragione),  che  costituiscono  il  verbo  intellettuale  o 
umano.  Esse  sono  provocate  dalle  qualità  sensoriali  (suoni,  colori, 
odori,  sapori,  caldo,  freddo,  duro,  molle  etc),  le  quali  si  possono 
chiamare  segnature  positive  a  sensoriali  (3);  ma  non  si  riducono 
a  queste,  anzi  le  superano;  cosicché,  analizzando  un  atto  cono- 
scitivo, noi  vi  troveremo  sempre  due  segnature:  l' una  dovuta 
all'azione  dei  sensi  o  a  quella  delle  facoltà  riproduttrici  delle  sen- 
sazioni (4),  l'altra  alla  reazione  dello  spirito,  il  quale  con  i  suoi 
atti  dà  origine  come  a  un  nuovo  mondo:  il  mondo  della  ragione 
o  dell'intelletto.  Il  senso  logico,  creatore  delle  segnature  razionali, 
è  infatti  la  caratteristica  della  vita  intellettiva  umana.  «  L'  alfa  e 
l'omega  della  umana  intelligenza  appartiene  propriamente  a  questo 
senso  >;      il  suo  primo  ed  ultimo  officio  predomina  in  ogni  fun- 


(1)  Che  cos'è  la  mente  sana?  Parte  II,  §§  48  e  59. 

(2)  Della  suprema  economìa,  Parte  II,  Gap.  XIX,  §  174. 

(3)  Op.  cit.,  Parte  11,  Gap.  XIX,  §  165. 

(4)  Il  Romagnosi  distingue  tre  facoltà,  diciamo  così,  inferiori:  la 
sensualità,  V  immaginazione  e  la  memoria,  le  quali  concorrono  a  formare 
il  campo  materiale  del  potere  intellettivo;  questo  invece  è  una  facoltà 
superiore,  che  elabora  quel  materiale  {Vedute  fondamentali,  Libro  I, 
Gap.  VI,  §  688).  Secondo  il  Romagnosi  poi  le  emissioni  dell'intelletto 
semplici  ed  elementari  sarebbero  sei:  l"  i  rapporti;  2°  le  qualifiche;  3"  le 
logie  e  antilogie;  4"  le  versioni;  5>*  le  sui-conformazioni;  6°  le  consape- 
volezze {Vedute  fondamentali.  Libro  I,  Gap.  VI,  Sez,  II).  Oltre  queste 
vi  sarebbero  poi  le  emissioni  complessive.  Non  mi  trattengo  su  queste 
distinzioni,  perchè  esse  non  fanno  che  complicare  e  oscurare  la  dot- 
trina del  Romagnosi;  cosicché  ne  costituiscono  piuttosto  un  difetto  che 
un  pregio. 


-    155  — 

zione  intellettuale,  e  quindi  anche  morale,  talché  si  può  dire  che 
nel  mondo  razionale  tutto  viene  ordinato  e  compiuto  per  virtù 
di  luì  >  (1).  Talvolta  il  Romagnosi  chiama  universali  >>  o  «  idee 
ontologiche  •  i  concetti  dei  rapporti  posti  dal  senso  logico;  e 
dice  che  essi  possono  predicarsi  di  tutte  le  idee  possibili  appar- 
tenenti anche  a  sensi  diversi.  Così  supponiamo  che  1'  anima  sia, 
dall'occhio  o  dall'orecchio  o  dal  tatto  o  dagli  altri  sensi,  avver- 
tita dell'azione  di  un  oggetto;  essa  può  sempre  dire  che  quel- 
r  oggetto  esiste,  ossia  eh'  ella  lo  sente,  e  lo  sente  per  una  irresi- 
stibile necessità.  Ecco  l' idea  di  esistenza,  idea  ontologica  comune 
a  tutti  gli  oggetti  presentati  dai  diversi  sensi.  Così  pure,  se  da 
un  senso  qualunque  è  eccitata  una  sensazione  singola,  l'intelletto 
può  affermare  che  1'  oggetto  è  unico  e  determinato.  In  tal  modo 
l'idea  di  unità  e  di  forma  determinata  è  propria  di  tutte  le  cose 
possibili,  cioè  di  tutte  le  idee  possibili  dell'anima.  Del  pari  l'idea 
di  successione  e  di  permanenza,  di  uniformità  e  di  discrepanza,  di 
stato  assoluto  e  di  stato  relativo,  di  essere  e  di  nulla  non  sono 
che  espressioni  del  carattere  comune  a  tutte  le  idee  di  qualunque 
senso,  attuale  o  possibile.  Se  infatti  l'uomo  acquistasse  anche  un 
sesto  senso,  ne  acquistasse  migliaia  di  piìi,  o  fosse  ridotto  ad 
averne  un  numero  assai  minore,  e  fin'  anche  uno  solo,  o,  se  si 
vuole,  venisse  anche  privato  di  tutti,  l'anima  potrebbe  sempre 
concepire  le  idee  universali  su  dette.  L'  anima  non  ne  potrebbe 
esser  privata  mai;  percepirebbe  l'identità  e  la  diversità  degli  enti, 
anche  se  non  fosse  unita  a  un  corpo;  poiché  esse  sono  del  tutto 
proprie  della  natura  di  lei,  sono  V espressione  delle  affezioni  natu- 
rali della  sua  forza  intellettiva  in  qualunque  tempo  o  circostanza. 
Le  idee  ontologiche  sono  dunque  i  fondamenti  primi  e  immuta- 
bili della  ragione  umana;  e  il  loro  numero  esprime  il  numero 
delle  operazioni  possibili,  necessarie,  naturali  e  costanti  dell'anima 
all'  occasione  delle  idee  (2). 

Le  idee  matematiche  {unità  e  diversità,  più  e  meno,  limiti  etc.) 
sono  le  più  vicine  alle  ontologiche,  e,  per  un  certo  lato,  si  con- 


(D  Che  cos'è  la  mente  sana?  Parte  II,  Gap.  X,  §  57. 

(2)  Ricerche  sulla  validità  dei  giudicii  del  pubblico  a  discernere  il 
vero  dal  falso,  Parte  II,  Sez.  I,  Gap.  XVII;  Che  cos^  è  la  mente  sana? 
Parte  II,  §§  47  e  49. 


-  156  — 

fondono  con  esse.  Questo  fa  sì  che  la  sfera  delle  matematiche 
abbia  un'estensione  per  noi  immensa  (1). 

Si  potrebbe  però  osservare:  —  La  facoltà  che  afferma  i  rapporti 
è  quella  giudicatrice;  il  senso  logico  s' identifica  dunque  col  giu- 
dizio? —  No,  risponde  il  Romagnosi.  Il  giudizio  presuppone  il 
senso  logico,  giacché  esso  non  fa  che  enunciare  i  rapporti,  ma  non 
li  pone,  non  li  crea.  Infatti,  per  poter  giudicare,  bisogna  prima  di- 
scernere le  somiglianze  e  le  differenze,  e  questo  è  appunto  1'  uf- 
ficio del  senso  logico  (2). 

Non  si  deve  confondere  il  senso  logico  neppure  con  la  con- 
sapevolezza, ossia  con  la  facoltà  di  essere  consapevoli  delle  nostre 
idee  e  delle  nostre  affezioni  (coscienza  riflessa  o  riflessione).  La 
consapevolezza  ci  fa  avvertire  una  data  operazione  psichica,  ma 
presuppone  tale  operazione.  Quindi  prima  ci  vuole  1'  emissione 
del  senso  logico;  poi  viene  l'avvertimento  di  essa;  cosicché  il  senso 
logico  differisce  dalla  consapevolezza,  come  il  battere  delle  ore  di 
un  orologio  differirebbe  dal  sentimento  avvertito  che  1'  orologio 
avrebbe,  se  fosse  possibile  attribuirgli  un'anima  umana  (3). 

Del  pari  il  senso  logico  non  va  confuso  con  l'attenzione. 
Questa  può  coadiuvare  una  data  funzione,  rischiarandola,  ma  non 
crearla;  essa  può  avvivare  l' intuizione  o  concentrare  la  mente  su 
una  data  parte  d'un  oggetto;  ma,  tosto  che  l'idea  è  discernibile 
e  avvertita,  il  senso  logico  agisce  e  dà  l'essere  al  verbo  pieno 
dell'intelletto  (4).  Dunque  la  funzione  del  senso  logico  è  origi- 
naria, irriducibile. 

* 
*  * 

li  senso  logico,  cooperando  con  l'attività  sensoriale  trasforma 
il  sentire  in  conoscere  o  intendere  (5),  che  altro  è  il  sentire  e  altro 
il  conoscere  (6).  Anche  volgarmente  si  distingue  il  conoscere  dal 


(1)  Discorso  sull'indole  e  generazione  naturale  dei  primitivi  con- 
cetti matematici,  Gap.  XXII. 

(2)  Che  cos'è  la  mente  sana?  Parte  II,  Gap.  X,  §  59. 

(3)  Op.  cit.,  §  58.  (4)  Op.  cit.,  §  53. 

(5)  Suprema  economia,  Parte  li,  Gap.  XXVll,  §  204, 

(6)  '   All'intelletto  appartiene   propriamente  il  conoscere  »  {Vedute 
fond.,  Libro  I,  Gap.  VI,  §  683). 


—   1^7  — 

sentire;  infatti  ogni  giorno  si  ode  dire:  il  tale  ha  sentito  e  non 
inteso  nulla.  La  parola  conoscere,  derivata  dal  latino  cognoscere 
(noscere  cani),  esprime  infatti  un  concetto  risultante  dal  sentire 
accompagnato  da  un'  altra  funzione  interna.  Non  si  può  quindi 
negare  che  nella  cognizione  propriamente  detta  entrino  elementi 
non  acquisiti  dai  sensi  (1);  tutti  i  rapporti  sopra  menzionati  sono 
elementi  siffatti.  Ma  d'  altra  parte  bisogna  riconoscere  che  la  na- 
scita di  tali  elementi  extraempirici  (non  sensoriali)  è  eccitata  sempre 
da  qualche  intuizione  sensoriale.  Il  Romagnosi  chiarisce  questi 
concetti  con  un  esempio.  Io  entro,  egli  dice,  in  una  stamperia; 
vedo  comporre  una  pagina,  per  esempio  un  sonetto;  ed  ecco  la 
pagina  spiegata  sotto  il  mio  sguardo.  Allora  leggo  il  sonetto:  nel 
leggerlo  mi  pare  di  rilevare  da  una  parte  che  il  senso  corra  bene, 
ma  dall'  altra  che  sia  difettoso,  e  che,  di  più,  contenga  idee  in- 
compatibili. Ora  domando:  dove  e  quando  esercito  io  il  potere 
intellettivo  ?  Voi  mi  rispondete  che  io  lo  esercito  allorché  com- 
prendo le  convenienze  dei  concetti  e  ne  formo  un  tutto  appro- 
priato. Ma,  se  quella  pagina  non  fosse  stata  composta,  impressa 
sopra  un  foglio,  e  posta  sotto  gli  occhi  miei,  sarebbe  stato  mai 
possibile  eh'  io  avessi  giudicato  della  convenienza  e  sconvenienza 
delle  idee  ivi-  espresse  ?  Or  bene,  la  sensazione,  l' immaginazione 
e  la  parola  fanno  le  veci  della  stamperia;  la  conoscenza  corri- 
sponde alla  lettura;  la  percezione  della  convenienza  e  della  scon- 
venienza costituisce  l'atto  del  potere  intellettivo.  Perciò  la  cogni- 
zione consiste  propriamente  negli  atti  del  detto  potere;  ma  ha 
come  base  le  sensazioni  (2). 

Inoltre  bisogna  badare  che  gli  elementi  extrasensoriali  non 
sono  forme  o  leggi  preesistenti  alla  conoscenza  (innate).  Si  vuole 
infatti  intendere  per  forma  il  modo  d' agire  di  qualche  facoltà 
mentale?  Ma,  allora,  questo  modo  è  indivisibile  dall'atto.  Io  per 
es.  ho  predisposizione  a  compiere  con  le  dita  e  con  la  mano  mo- 
vimenti per  suonare  il  pianoforte;  ma  questi  movimenti  non  esi- 
stono prima  della  sonata;  esistono  solo  con  la  sonata;  e,  quando 
esistono,  ne  segue  la  sonata,  la  quale  non  esprime  che  un  ef- 
fetto loro. 


(1)  Vedute  fond.,  Libro  11,  Gap.  VI,  §  815-816. 

(2)  Op.  cit.,  Libro  I,  Gap.  VI,  §  684. 


—  158  — 

La  legge  poi  è  per  sé  un'azione  che  non  ha  alcuna  forma  fi- 
gurativa, la  quale  possa  essere  impressa  negli  oggetti.  Dov'è  un 
ordine  permanente  di  causalità,  ivi  è  un  ordine  di  effetti  che  si 
chiamano  leggi.  Si  vuole  forse  parlare  di  quest'ordine?  Allora  è 
meglio  parlare  di  costituzione  naturale,  e  non  di  forme  preesistenti 
dei  fenomeni  ideali.  Ma,  in  tal  caso,  a  che  si  ridurrà  la  cosa?  Si 
ridurrà  a  dire  che  noi  siamo  costituiti  in  modo  da  sentire,  cono- 
scere, ragionare.  Ecco  tutto.  Sebbene  dunque  fra  il  sentire  iniziale 
e  r  intendere  definitivo  esista  distinzione,  e  perciò  l' intelligenza 
non  si  debba  confondere  con  la  percettibilità  puramente  senso- 
riale, tuttavia  gli  elementi  intellettivi  non  si  possono  considerare 
come  forme  innate  preesistenti  all'  atto  conoscitivo  (1). 


La  funzione  del  senso  logico,  consistendo  in  una  reazione 
proveniente  dal  nostro  interno,  è  del  tutto  soggettiva.  Il  senso 
logico,  scrive  il  Romagnosi,  ci  dice  quale  sia  la  funzione  sogget- 
tiva esercitata  dall'anima  in  conseguenza  dell'azione  esterna.  In- 
fatti, quando  la  mente  pronuncia  che  la  tal  cosa  per  es.  è  diversa 
da  un'altra,  dice  due  proposizioni  ad  un  tempo:  1'  che  essa  sente 
l'apparenza  d'una  cosa;  2"  che  sente  d'esercitare  la  funzione  di 
discernere  gli  esseri.  La  prima  è  oggettiva,  cioè  relativa  alla  cosa; 
la  seconda  è  tutta  soggettiva,  ossia  riferita  all'  Io  pensante,  ed 
esprime  la  funzione  dell'anima  esercitata  all'occasione  di  quel 
fenomeno.  Tutte  le  idee  ontologiche  si  possono  e  debbono  inter- 
pretare in  questa  maniera  (2).  Esse  non  ci  vengono  di  fuori;  sono 
pure  logie,  suità  (3),  cioè  esprimono  solamente  modi  di  essere, 
funzioni  fondamentali  ed  ultime  dell'  anima  nostra.  Le  altre  idee 
significano  i  diversi  effetti  degli  esseri,  in  quanto  vengono  a  im- 
pressionare l'anima  umana,  male  universali  esprimono  tutto  ciò 
che  r  anima  mette  di  suo  nella  conoscenza,  tutto  ciò  che  essa 
ricava  totalmente  dal  suo  fondo  all'occasione  delle  segnature  sen- 


f1)  Vedute  fondamentali,  Libro  II,  Gap.  VI;  Clic  cos'è  la  mente  sana? 
Parte  li,  §§  45-51.  Cfr.  Vedute  fond.,  Libro  11,  Gap.  V  (dove  dimostra 
r  impossibilità  di  nozioni  umane  innate). 

(2)  Clic  cosW  la  mente  sana?  Parte  11,  §§  48-49. 

(3)  Vednte  fondamentali,  Libro  I,  Gap.  VI,  {<  704. 


—  159  — 

seriali.  Così  il  numero  non  esiste  nella  realtà:  è  un  concetto  del 
nostro  spirito  (1).  Del  pari  in  natura  esistono  per  es.  due  colonne; 
ma  i  caratteri  di  essere  l'una  più  alta  o  più  grossa  o  più  diritta 
dell'  altra  etc,  sebbene  siano  da  me  attribuiti  alle  colonne,  pure 
consistono  in  idee  tutte  mie,  nate  in  me  dal  confronto  delle  co- 
lonne medesime  (2).  Perciò  considerare  l' ente  in  genere  e  le  sue 
proprietà  come  qualcosa  di  diverso  dall'  anima,  è  un  modo  di 
pensare  del  tutto  falso  (3);  esso  è,  almeno  in  parte,  cioè  almeno 
riguardo  ai  rapporti,  una  costruzione  del  soggetto. 


O,  allora,  siamo  caduti  nel  soggettivismo  e  nell'idealismo?  No, 
risponde  il  Romagnosi;  giacché  si  può  dimostrare  che  esiste  fuori 
di  noi  qualcosa  d'  oggettivo,  che  è  causa  delle  nostre  idee.  Sup- 
poniamo per  un  momento,  egli  dice,  che  sia  vero  l' idealismo. 
Ciò  non  ostante,  ragionando  su  quanto  è  ammesso  dall'idealista 
stesso,  si  può  convincerlo  di  falsità.  L' idealista  infatti  ammette 
la  propria  esistenza  e  il  sentimento  delle  proprie  idee.  Egli  quindi 
deve  riconoscere  che  queste  idee  sono  fra  loro  diverse  e  successive, 
e  che  nella  loro  successione  non  mantengono  un  ordine  stabile 
e  uniforme.  Infatti  egli  sente  in  sé  stesso  di  avere  ora  l' idea  di 
un  colore,  ora  di  un  altro,  ora  di  un  suono,  ora  di  un  sapore, 
ora  di  un  odore,  ora  d'un  contatto,  ora  del  freddo,  ora  del  caldo, 
ora  della  virtù,  ora  del  vizio,  ora  del  bello,  ora  dell'  utile  etc; 
egli  sente  pure  che  tutte  queste  idee  si  succedono,  si  ripetono,  si  va- 
riano in  infinite  maniere.  Sente,  per  esempio,  che  un  gruppo  di 


(1)  Discorso  sull'indole  e  generazione  naturale  dei  primitivi  con- 
cetti matematici,  Gap.  XXII,  §  §  824  e  867-871. 

(2)  Vedute  fondamentali,  Libro  1,  Gap.  VI,  §  705,  e  Libro  II,  Gap.  Ili, 
§763. 

(3)  Quindi  l'ontologia,  ossia  la  scienza  dell'ente  \n  generale,  cioè 
in  quanto  egli  è  un  essere,  non  è  altro  precisamente  che  la  scienza  di 
quelle  operazioni  dell'anima  umana,  le  quali  ella  perennemente  e  inva- 
riabilmente eseguisce  nell' esercitare  la  sua  facoltà  di  sentire;  ella  è  una 
ragionata  storia  naturale  eterna  delle  operazioni  dell'umana  cognizione 
{Ricerche  sulla  validità  dei  giudiciì  etc,  Parte  II,  Sez.  I,  Gap.  XVII, 
§§  224-228  e  235). 


—  160  — 

impressioni,  ch'egli  chiama  il  suo  corpo,  lo  segue  senza  dipartirsi 
mai  da  lui;  sente  che  molte  altre,  le  quali  chiama  idee  famigliari, 
abituali,  domestiche,  si  riproducono  e  ripetono  sempre  press'  a 
poco  le  medesime,  ma  associate  con  infinite  altre,  che  son  susci- 
tate dalla  variatissima  esperienza  giornaliera. 

D'altra  parte  non  può  negare  ch'egli  stesso,  queir /o  ch'egli 
sente  immedesimato  con  tutte  le  idee,  è  il  fondamento  unico  di 
tante  successive  mutazioni:  cioè  che  tutte  si  producono  e  variano 
in  un  solo  soggetto  eh'  è  sempre  il  medesimo  (1). 

Abbiamo  qui  dunque  da  una  parte  una  molteplicità  d'impres- 
sioni che  si  mutano  e  s' avvicendano  perpetuamente,  dall'  altra 
l'unità  semplice  dell'Io. 

Ebbene,  da  questo  segue  ch'egli  non  ha  nell'essenza  dell'es- 
sere suo  alcuna  n/;tt^//a«zrt  a  produrre  piuttosto  l'una  che  l'altra 
mutazione  o  idea,  giacché,  secondo  l' ipotesi,  egli  è  la  causa  unica 


(1)  Il  Romagnosi  dà  del  resto  una  dimostrazione  dell'unità  e  sem- 
plicità dell'Io.  Mi  pare,  egli  dice,  che  si  debba  ammettere  come  un  as- 
sioma della  ragione  che  l'idea  à^Wcrite  reale,  applicata  a  un  soggetto, 
sia,  per  necessità  metafisica,  inseparabile  dall'idea  di  unità;  cosicché, 
quando  l'uomo  afferma  che  un  dato  ente  esiste  ed  e  reale,  deve  anche 
ammettere  che  è  unico;  infatti,  se  la  realtà  o  l'entità  fossero  molteplici, 
si  dovrebbe  dire  non  che  quell'ente  esiste,  ma  che  quei  tali  enti  esi- 
stono; e,  se  esistessero  realmente,  dovrebbero  aver  pure  tutte  le  pro- 
prietà, determinazioni,  forze  e  azioni  propria  e  individuali.  Quindi  ogni 
effetto  prodotto  da  più  enti  in  natura  si  dovrebbe  necessariamente  at- 
tribuire all'entità  intrinseca  e  singolare  di  ciascuno  (che  un'azione  non 
può  attribuirsi  se  non  a  un  ente  reale  e  non  al  nulla,  che  non  è  capace 
di  azione  alcuna).  Ora,  se  così  è,  segue  che,  se  il  mio  essere  avesse 
un'unità  collettiva,  sarebbe  veramente  un  aggregato  di  più  esseri  di- 
stinti l'uno  dall'altro.  Ma,  siccome  la  sensazione  esiste  in  me,  poiché  io 
la  sento,  perciò,  rispetto  a  queir /'t?  mio  che  la  esprime,  dev'essere  ne- 
cessariamente propria  di  esso  solo.  Giacché  ncll'agire  o  nel  compiere 
o  nel  ricevere  qualunque  modificazione  è  impossibile  metafisicamente 
che  un  ente  esca  da  sé  stesso  (egli  non  può  sentire  che  in  sé  stesso), 
essendo  l'azione  e  il  sentimento  lo  stesso  ente  operante  e  seziente.  E' 
dunque  evidente  che  quell'/o  che  sente  e  pensa  in  me  è  singolare,  sem- 
plice, indivisibile  {Ricerche  su  la  validità  dei  giudicii  etc.  Parte  IH, 
Sez.  I,  Cap.  VI,  §§  692-695.  Vedi  anche  Della  definizione  dell'uomo, 
aggiunta  al  Libro  1,  Cap.  I  della  Logico  del  Of.novfsi,  §  60  e  nota  1). 


-  161  - 

di  tutti  i  cangiamenti,  quindi,  se  avesse  ripugnanza  a  produrne 
uno  determinato,  come  si  spiegherebbe  che,  invece,  di  fatto  li 
produce  tutti  indifferentemente,  e  che  i  fenomeni  psichici  son 
vari  e  transitori  ?  Questo  non  potrebbe  accadere,  se  egh  fosse 
dalla  sua  natura  spinto  a  produrne  solo  uno  speciale,  determinato. 
Dunque,  esaminando  il  soggetto  comune  di  tutte  le  modificazioni 
interne,  è  forza  riconoscere  che  l'essere  suo  si  deve  considerare 
come  una  potenza  comune,  indifferente,  capace  di  produrre  egual- 
mente tutte  le  modificazioni  su  dette;  perciò  non  si  può  supporre 
determinato  per  natura  a  produrne  una  piuttosto  che  un'  altra. 

Ora,  siccome  tali  modificazioni  sono  successive,  consideria- 
mone con  r  immaginazione  la  prima.  In  tal  caso,  avendo  noi  da- 
vanti un  essere  capace  per  natura  a  produrle  tutte,  ma  per  sé 
stesso  indifferente  a  ciascuna  in  particolare,  non  troviamo,  in  lui 
solo,  ragione  alcuna  per  cui  debba  incominciare  piuttosto  dall'una 
che  dall'altra.  Dunque,  per  averne  una  in  particolare,  dev'essere 
determinato  da  qualche  stimolo  esterno.  Ecco  quindi  che  la  prima 
idea  nostra  dev'  esser  determinata  da  qualche  oggetto  esterno. 

Quel  che  s' è  detto  della  prima  idea,  si  deve  ripetere  delle 
successive.  Giacché  é  un  fatto  d' esperienza  comune  che  non 
sempre  un'  idea  determinata  succede  a  un'  altra  speciale,  ma  la 
stessa  spesso  succede  a  diversissime,  e  in  vari  tempi  é  seguita  da 
idee  e  sentimenti  molteplici  e  disparati  (dopo  l' idea  d'  odore  di 
rosa  io  posso  per  es.  avere  quella  di  colore  celeste  o  di  virtù 
sociale).  Ora,  siccome  iì  fondo  dell'essere  senziente  interviene,  per 
così  dire,  come  quantità  comune  e  simile,  come  potere  indifferente, 
in  tutte  le  modificazioni  successive  del  nostro  interno,  non  si 
potrebbe  certo  trovare  in  lui  la  ragione  determinante  delle  infinite 
differenze  di  associazioni  e  successioni  dei  cangiamenti.  Dunque 
tale  ragione  sarà  nell'idea  stessa.  Ma  questa,  qualunque  sia,  é  per 
sua  natura  determinata  (ossia  é  in  sé  stessa  quella  che  é  ed  é  di- 
versa da  ogni  altra);  perciò,  se  la  forma  o  natura  o  forza  sua  fa 
sì  che  debba  succederle  un'idea  particolare,  non  potrà  certo  poi 
fargliene  succedere  un'altra  diversa  da  questa,  e  tanto  meno  pa- 
recchie altre  disparate  e  sentimenti  d' indole  diversa;  poiché  sa- 
rebbe contradittorio  che  la  sua  natura  in  un  momento  la  deter- 
minasse verso  un'  idea  e  in  un  tempo  posteriore  verso  un'  altra. 
Bisogna  dunque  ricorrere  a  qualche  fattore  esterno  che  spieghi 
siffatte  differenze  di  successione  d' idee;  cosicché  è  chiaro  che 

II 


—  162  — 

l'essere  nostro  senziente  deve  riconoscere  fuori  di  sé  stesso  la 
causa  determinante  di  tutte  le  affezioni  della  sua  sensibilità,  ed 
ammettere  che  esiste  qualcosa  di  reale  e  di  attivo  fuori  di  noi, 
che  è  la  causa  eccitatrice  delle  nostre  idee  (1). 

Si  potrebbe  però  osservare:  —  Sta  bene;  c'è  fuori  di  noi  qual- 
cosa di  reale  che  è  causa  eccitatrice  delle  nostre  idee.  Ma  così 
non  è  ancora  provato  che  tale  causa  sia  una  pluralità  di  sostanze 
finite  (i  corpi  materiali).  Potrebbe  darsi  benissimo  che,  come  so- 
stiene il  Berkeley,  tutte  le  nostre  idee  fossero  opera  di  una  sola 
sostanza  esterna,  spirituale,  infinita  (Dio),  agente  sul  nostro  spi- 
rito. Allora  il  mondo  materiale  esterno  diverrebbe  una  fantasma- 
goria illusoria. 

Ma,  risponde  il  Romagnosi,  prima  di  tutto  non  si  richiede  una 
forza  infinita  per  determinare  una  forza  finita:  dunque  dalla  na- 
tura delle  mie  sensazioni  non  posso  con  necessità  concludere  che 
esse  derivino  immediatamente  da  una  sostanza  infinita.  Di  più, 
la  natura  avventizia  e  contingente  delle  mie  sensazioni  mi  avverte 
d'una  natura  simile  dell'azione  che  le  produce:  dunque  io  devo 
concludere  che  la  causa  determinante  delle  mie  sensazioni  è  av- 


(1)  Ricerche  sulla  validità  dei  giudicii  etc,  Parte  III,  Sez.  I,  Cap.  II 
e  HI;  Che  cos'è  la  mente  sana?  Parte  I,  Cap.  V.  Si  noti  che  il  Ro- 
magnosi riteneva  insufficiente  la  dimostrazione  data  dal  Tracy  dell'esi- 
stenza degli  oggetti  esterni;  giacché  «  col  dare  la  genesi  della  credenza 
dell'esistenza  delle  cose  esterne,  come  fecero  Condillac  e  Destutt  de 
Tracy,  altro  non  si  fa  che  indicare  V  origine  di  un  giudizio  e  non  la 
verità  di  questo  giudizio  >>  {Esposizione  storico-critica  del  Kantismo, 
§  260).  Ma  mi  pare  eh'  egli  qui  esageri.  Il  Tracy,  come  ha  ben  detto 
il  Ferrari  {Op.  cit.,  pag.  120),  ha  cercato  non  l'origine  storica,  ma  la 
dimostrazione  logica  dell'esistere  degli  oggetti  esterni,  fondata  su  prin- 
cipi razionali;  e  anche  il  Romagnosi  non  fa  che  mostrare  per  quali  ra- 
gioni o  principi  il  soggetto  debba  ammettere  qualcosa  di  esterno;  dunque 
anche  lui  non  fa  che  indicare  la  genesi  logica  della  credenza  negli  og- 
getti esterni.  Ne  mi  sembra  che  ci  sia  bisogno  d'altro.  Del  resto,  come 
abbiamo  visto,  il  Tracy  in  questo  punto  non  ripete  la  dimostrazione 
condillachiana;  va  oltre.  Quindi  l'obiezione  riguarda,  se  mai,  il  Con- 
dillac. Piuttosto  il  Tracy,  dopo  aver  dimostrato  l'esistenza  degli  oggetti 
esterni,  va  a  cadere  in  un  idealismo  fenomenistico.  Qui  è  il  punto  de- 
bole della  sua  dottrina,  e,  come  vedremo,  sarà  il  punto  debole  anche 
della  filosofia  del  Romagnosi. 


—  163  — 

ventizia  e  contingente.  Ma  poi,  Berkeley  e  i  suoi  seguaci  non 
possono  certo  negare  le  azioni  volontarie  dell'  uomo  sul  mondo 
esterno;  devono  dunque  riconoscere  in  noi  una  forza  alla  quale 
obbedisce  1'  esterno.  Ora,  se  s'  ammette,  com'  essi  fanno,  che  gli 
enti  esteriori  sono  illusioni  e  che  noi  in  realtà  siamo  in  rapporto 
solo  con  la  potenza  infinita,  bisogna  concludere  che  la  forza  nostra 
finita  sia  capace  di  far  obbedire  a  sé  stessa  questa  potenza  infi- 
nita, la  quale  d'  altra  parte  è  1'  unica  autrice  delle  nostre  azioni. 
Ora,  com'  è  mai  possibile  che  una  forza  infinitamente  piccola 
faccia  obbedire  a  sé  stessa  una  forza  infinitamente  grande,  che, 
nello  stesso  tempo,  é  il  suo  fondamento?  Ciò  é  assurdo.  Dunque 
siamo  costretti  ad  ammettere  una  pluralità  di  enti  esterni  e  l'azione 
loro  sul  nostro  interno  (1). 

Questa  dimostrazione  dell'  esistenza  del  mondo  esteriore,  chi 
ben  consideri,  é  fondata  sul  principio  di  causa,  in  quanto  che 
bisogna  o  dire  che  il  sorgere  della  prima  idea  e  delle  successive 
nell'animo  nostro  non  ha  una  causa  (e  allora  si  viola  il  principio 
di  causa)  o  riconoscere  (seguendo  appunto  il  detto  principio)  che, 
giacché  non  può  avere  tale  causa  nell'Io,  l'ha  nel  mondo  esterno 
(pluralità  di  esseri  finiti)  (2).  Ma  che  valore  ha  il  principio  di 
causa  ?  Esso  per  il  Romagnosi  è  una  forma  particolare  del  prin- 
cipio di  contradizione  (3);  e,  giacché  questo  è  per  lui  la  verità 


(1)  Che  cos'  è  la  mente  sana?  Parte  I,  Gap.  VII,  §§  36-38. 

(2)  0/7.  cit.,  Parte  I,  Gap.  V,  §  26. 

(3)  Op.  cit.,\nogo  citato.  Vedi  anche  DeW  uso  della  dottrina  della 
ragione,  §  475,  e  Vedute  fondamentali.  Libro  II,  Gap.  I,  §§  736  e  737 
(«  Dato  un  atto  e  un  fatto  che  attualmente  esiste  e  che  prima  non  esi- 
steva, ne  segue  per  ciò  stesso  che  prima  poteva  realmente  esistere  e 
non  esistere.  Poteva  esistere,  come  lo  prova  la  positiva  sua  esistenza; 
poteva  non  esistere,  come  lo  prova  l'anteriore  sua  non  esistenza.  Dunque 
deve  esistere  un  perchè  dallo  stato  meramente  possibile  egli  sia  passato 
allo  stato  reale.  Questo  perchè  dicesi  causa.  A  cui,  come  correlativo  si- 
multaneo, corrisponde  l'effetto,  il  quale  appunto  è  questo  stesso  atto  o 
fatto,  in  quanto  l'esistenza  di  lui  viene  giudicata  impossibile  senza 
l'azione  di  questo  perchè.  Ecco  la  causalità  speculativa,  la  quale  viene 
dimostrata  in  forza  dello  stesso  principio  di  contraddizione  e  di  neces- 
sità logica  applicato  all'origine  comunque  occulta  di  un  atto  o  fatto 
qualunque  ).  Il  Romagnosi  non  si  nasconde  le  difficoltà  sollevate  a 
proposito  del  principio  di  causa  da  Hume.  Ma,  egli  osserva,  sia  pur  vero 


—  164  — 

assoluta,  l' immutabilità  logica,  il  principio  primo  che  domina 
tanto  le  verità  di  ragione,  quanto  quelle  di  fatto,  anche  il  prin- 
cipio di  causa  ha  per  lui  un  valore  logico  assoluto  (1). 


che  io  non  possa,  nell'avvenimento  che  precede,  scorgere  la  causa  ef- 
ficiente di  quello  che  segue;  sarà  però  vero  del  pari  che  questa  succes- 
sione costante,  che  tutti  vedono  nel  mondo,  è  un  fatto  positivo.  Ora, 
di  questo  fatto  deve  esistere  un  perchè.  L'unica  difficoltà  consiste  nel 
porre  il  dito  sull'autore  preciso  del  fatto  positivo.  Ma  che  importa 
questo?  A  me  basta  che  la  successione  sia  assicurata  da  una  mano  che 
sta  sotto  e  che  fa  seguire  un  fatto  ad  un  altro.  Concluderò  quindi 
con  rigore  logico  che  l'antecedente  sarà  per  me  segnale  del  susseguente, 
almeno  fino  a  che  continuerà  lo  stato  attuale  dell'universo,  in  seno  al 
quale  avviene  tale  successione. 

Inoltre  il  ragionamento  di  Hume  si  fonda  su  un'  astrazione  pura- 
mente dialettica.  In  esso  infatti  lo  stato  delle  cose  come  viene  immagi- 
nato? Come  una  pittura  immobile  e  inanimata,  incapace  di  qualunque 
trasmissione  di  forza  e  di  qualunque  efficienza.  Ma  le  cose  in  natura 
non  si  presentano  in  questo  stato  inerte.  Quel  sasso  che  veggo  fermo, 
dopo  lo  vedo  in  movimento;  le  foglie  di  quell'albero,  prima  immo- 
bili, le  veggo  scuotersi  e  agitarsi.  Qui  dunque,  rimanendo  a  conside- 
rare lo  stesso  oggetto,  lo  vedo  cambiar  di  stato.  Ora,  in  tal  caso  sorge 
o  no  la  ricerca  d'un  perchè?  Qui,  confrontando  i  fatti,  devo  o  no  uscire 
dalla  sfera  delle  quiddità  per  entrare  in  quella  delle  causalità?  L'argo- 
mento di  Hume  è  dunque  incompleto  e  sofistico. 

Infine,  nessuno  può  negare  che  l'uomo  è  dotato  d'un  certo  grado 
di  energia,  per  cui  è  sempre  padrone  di  eccitare  le  forze  della  natura. 
Se  dall'esperienza  ci  risultasse  che  da  certi  atti  non  si  producono 
sempre  certi  effetti  predestinati;  se  per  es.,  gettato  un  sasso,  accadesse 
talvolta  ch'esso  restasse  a  mezz'aria,  l'effetto  della  caduta  non  si  po- 
trebbe ridurre  a  legge  costante.  Del  pari,  se  spingendo  di  mia  volontà 
una  palla  di  biliardo  accadesse  talvolta  a  me  e  ad  altri  di  restare  im- 
mobile pur  non  incontrando  ostacolo  alcuno,  allora  non  potrei  dire  che 
un  corpo  spinto  da  una  forza  per  legge  di  natura  si  muove  sempre; 
ma,  constando  il  contrario  e  per  giunta  in  un'azione  liberamente  pre- 
destinata ed  effettuata  da  me  con  la  mia  forza  voluta,  io  conchiudo  che, 
sebbene  non  conosca  il  nesso  fra  il  mio  volere  e  l'effetto  seguito,  pure 
posso  assicurare  che  l'effetto  si  verificherà  finché  l'ordine  dell'universo 
rimarrà  così.  Basta  dunque  considerare  come  segnale  certo  la  causa  detta 
da  me  efficiente,  per  poter  predire  gli  effetti  come  se  si  conoscesse  l'in- 
tima causalità  reale  {Vednte  fondamentali,  Libro  II,  Cap.  I,  §§  740-745). 

(1)  Vedute  fondamentali,  Libro  I,  Cap.  IV,  §§  655-657;  Della  su- 
prema economia,  §§  106  e  197. 


—  165  — 

Non  è  dunque  dubbio  che  non  esista  una  pluralità  di  sostanze 
esterne.  Ma  da  ciò  segue  che  noi  conosciamo  l' essenza  di  tali 
sostanze?  No.  Come  giustamente  ha  detto  il  Condillac  e  poi  ha 
ripetuto  Kant,  sia  che  col  pensiero  e'  inalziamo  fino  al  cielo,  sia 
che  discendiamo  fin  negli  abissi,  non  usciamo  mai  fuori  di  noi 
stessi  (1);  noi  siamo  in  rapporto  immediato  non  con  gli  oggetti 
esterni,  ma  sempre  con  le  nostre  idee;  e  solo  a  traverso  queste 
vediamo  gli  enti  esterni.  Come  le  piante  non  assimilano  se  non 
certi  succhi  della  terra  e  certi  gas  dell'  aria,  così  noi  non  acco- 
gliamo se  non  certe  segnature  delle  cose.  11  conoscere  si  riduce 
insomma  a  percepire  quanto  di  ideabile  e'  è  nelle  cose  (l' essere 
e  il  fare  ideabile,  cioè  le  particolarità  di  stato  e  le  particolarità 
d'azione  degli  oggetti)  (2).  Del  resto  non  sappiamo  nulla.  Perciò 
conosciamo  le  cose  non  in  sé,  ma  solo  come  ci  appaiono  a  tra- 
verso le  nostre  idee  (fenomeni).  Pretendere  di  conoscere  le  cose 
in  sé  è  un  assurdo  logico,  per  ciò  stesso  che  la  mia  conoscenza 
è  un'  azione  mia,  compiuta  dentro  di  me,  un  mio  modo  di  esi- 
stere, e  non  una  trasfusione  sostanziale  dell'  entità  dell'  oggetto 
nella  mia  intelligenza  (3).  La  verità,  dice  il  Romagnosi,  è  di  solito 
definita  una  conformità  dei  nostri  giudizi  con  lo  stato  reale  delle 
cose.  Ma  come  si  deve  intendere  lo  stato  reale  delle  cose?  O  s'in- 
tende come  una  conoscenza  degli  oggetti  qual'  è  realmente  tra- 


(1)  Suprema  economia,  Parte  II,  Gap.  XVI,  §  153,  e  Gap.  XX,  pag. 
547,  nota;  Vedute  fondamentali,  Libro  I,  Gap.  V,  §  666;  Questioni  su 
le  apparenze  fisiche  etc,  §  301;  Indole  e  generazione  naturale  dei  pri- 
mitivi concetti  matematici,  §  824. 

(2)  Che  cos'  è  la  mente  sana?  Parte  II,  §  45;  Vedute  fondam.,  Libro  I, 
Gap.  VI,  §  686. 

(3)  II  Romagnosi  distingue  (press' a  poco  come  il  Bonnet)  l'essenza 
logica  dall'essenza  reale  delle  cose.  Per  essenza  logica  intende  quel 
complesso  d'idee  per  cui  noi  ci  formiamo  il  concetto  di  una  cosa  in 
modo  da  non  confonderla  con  un'altra.  U essenza  reale  invece  è  per 
lui  quel  complesso  di  qualità  sostanziali  di  una  cosa  qualunque,  anche 
ignota,  senza  le  quali  essa  non  può  realmente-  esistere  in  natura.  Ora, 
secondo  il  Romagnosi,  la  mente  umana  può  ragionare  solo  su  l'essenze 
logiche,  e  trarre  la  certezza  e  l'evidenza  solo  dalla  loro  considerazione. 
Gosì  nell'essenza  logica  dei  corpi  troviamo  i  caratteri  dell'estensione 
e  della  solidità;  ma  nessuno  potrà  dimostrare  mai  che  questi  esistano  nei 


—  166  — 

smessa  a  noi  (o  almeno  come  qualcosa  di  conoscibile),  o  s'intende 
come  un  modo  di  essere  e  di  fare  che  sfugge  alla  nostra  facoltà 
di  conoscere.  Non  c'è  via  di  mezzo.  Nel  primo  caso  l'espressione 
ha  un  senso  ragionevole,  e  si  risolve  nel  dire  che  la  giustezza  dei 
nostri  giudizi  consiste  nella  conformità  loro  con  lo  stato  intero 
della  conoscenza  a  noi  realmente  trasmessa.  Allora  il  paragone  è 
stabilito  fra  due  termini  conoscibili,  poiché  è  posto  fra  due  stati 
che  possono  essere  afferrati  dalla  mente  umana,  e  che  esistono 
nella  mente  stessa.  Ma,  se  parliamo  di  un  essere  e  di  un  fare  per 
noi  inafferrabile,  o,  meglio,  non  producente  impressione  alcuna 
nella  mente,  che  senso  si  può  dare  all'  espressione  stato  reale  delle 
cose?  Io  non  posso  uscire  fuori  di  me  stesso.  Dunque  l'universo, 
che  suppongo  esistere,  non  è,  né  può  essere,  quanto  a  me,  altro 
che  un  fenomeno  ideale  prodotto  dentro  di  me  dall'azione  deter- 
minata dei  rapporti  reali  che  passano  fra  il  mio  essere  pensante 
e  r  universo  esteriore. 

Nella  nostra  conoscenza  quindi  e'  è  del  soggettivo  in  quanto 
non  solo  i  rapporti  tra  i  fenomeni  sono  posti  e  creati  dal  sog- 
getto, ma  anche  in  quanto  tutto  il  mondo  è  rappresentazione  del 
soggetto  (1).  Così  però,  si  può  osservare,  non  siamo  ricaduti  in 
queir  idealismo  che  si  voleva  evitare  ? 

Bisogna  intendersi,  risponde  il  Romagnosi;  in  fondo,  tutto  è 
idealismo,  e  tutto,  rispetto  all'  uomo,  si  conosce  e  si  fa  per  via 
del  solo  idealismo.  Fingete  pure  migliaia  di  mondi  che  circondino 


corpi  (nell'essenza  reale).  Lo  stesso  dicasi  della  durata.  L'estensione  e 
la  durata  si  devono  dunque  considerare  non  come  qualità  o  modi  di 
essere  propri  e  intrinseci  delle  cose  reali  esistenti  fuori  di  noi,  ma  solo 
come  modi  d'essere  e  fatture  della  nostra  mente,  provocate  dall'azione 
degli  oggetti  esterni,  che  sono  in  rapporto  con  noi  {Questioni  su  le  ap- 
parenze fisiche  etc,  §  305  e  315).  Perciò,  aggiunge  il  Romagnosi,  -  non 
so  comprendere  per  quale  ragione  il  più  celebre  metafisico  moderno 
(Locke),  avendo  negato  l'esistenza  reale  dei  colori,  dei  suoni,  dei  sa- 
pori, degli  odori,  della  durezza,  del  caldo,  del  freddo,  etc,  siasi  deter- 
minato a  lasciare  ai  corpi  la  figura,  l'estensione  e  la  solidità,  quasi  che 
anche  sì  fatte  proprietà  non  fossero  pure  nostre  idee,  e  che  un'idea 
nostra  potesse  divenire  proprietà  di  un  ente  giudicato  composto  »  {Ri- 
cercìie  su  la  validità  dei  giudicii  eie,  Parte  HI,  Sez.  !,  Gap.  Vili,  §711). 
(1)  Ricerche  sulla  validità  dei  giudicii,  Parte  111,  Sez.  I,  Gap.  Vili. 


—  167  — 

r  uomo:  sarà  sempre  vero  eh'  egli  non  può  né  conoscerli  né  ope- 
rare su  di  essi  se  non  mediante  le  idee,  giacché  non  può  in  nessun 
modo  uscire  fuori  di  sé  stesso.  Solo  che  bisogna  distinguere 
r  idealismo  puro,  isolato,  e  l' idealismo  associato  con  la  natura 
esterna;  la  quale  agisce  suU'  uomo  interiore,  mentre  questo,  a  sua 
volta,  reagisce  su  quella.  In  tal  caso  io  so  che  esiste  qualcosa 
fuori  di  me,  che  esercita  un'  azione  su  me;  ma  io  non  posso  sen- 
tire quest'azione  che  dentro  di  me.  Io  sento  il  risultato  dell'azione 
fra  il  me  e  il  non-me;  ma  é  impossìbile  che  possa  conoscere  questo 
stato  di  cose  reale  a  guisa  dell'originale  d'una  copia.  Perchè  le 
mie  idee  si  potessero  considerare  come  copie  degli  oggetti  esterni, 
dovrei  uscire  fuori  di  me  e  paragonarle  con  gli  originali.  Il  che 
é  impossibile;  perciò  le  idee  vanno  prese  semplicemente  come 
segni  degli  oggetti  esteriori.  Per  ben  capire  come  un'  idea  possa 
essere  un  risultato  reale  e  vero  senza  essere  una  copia,  si  può 
considerare  il  seguente  esempio.  Nei  gabinetti  di  fisica  vi  si  pre- 
senta da  una  parte  una  tavola  imbrattata  di  vari  colori,  nel  cui 
complesso  non  si  scorge  nessuna  figura  d'oggetti  famigliari;  dal- 
l' altra  uno  specchio  cilindrico,  nitido.  Voi  collocate  questo  ci- 
lindro nel  mezzo  della  tavola;  ed  ecco  comparire  la  figura  di  un 
serpente  o  di  un  animale  o  di  una  siepe  etc.  Tale  immagine  esi- 
steva prima  nella  tavola  o  nello  specchio  ?  No.  Da  che  dunque 
é  derivata?  Dai  rapporti  combinati  dell'una  e  dell'altro.  È  dunque 
il  risultato  dell'  azione  e  reazione  reciproca  di  tutt'  e  due.  Ma 
questo  risultato  esprime  forse  l' essere  e  il  fare  proprio  della  ta- 
vola o  dello  specchio  ?  No. 

Del  pari,  la  direzione  orizzontale  e  la  verticale  ad  essa  per- 
pendicolare sono  diverse  fra  loro;  ma  sono  così  semplici,  che  non 
sì  possono  mutare:  l'angolo  retto,  che  ne  nasce,  é  immutabile. 
Tracciate  sopra  una  tavola  queste  due  linee  ad  angolo  retto,  e  fate 
muovere  un  corpo  prima  secondo  1'  una,  dopo  secondo  1'  altra.  Po- 
nete poi  questo  corpo  sull'  angolo,  e  spingetelo  simultaneamente 
secondo  le  due  direzioni:  allora  si  moverà  secondo  la  diagonale. 
Ma  la  diagonale  non  è  né  orizzontale  né  verticale.  Ecco  similitu- 
dini imperfette  che  possono  far  capire  come  dall'  azione  e  dalla 
reazione  fra  il  me  e  il  non-me  possa  risultare  un  che,  il  quale  non 
rassomigli  né  al  me,  né  al  non-me:  esso  sarà  segno  dell'  azione 
reale  dì  tutt'  e  due;  ma  è  impossìbile  che  rappresenti  1'  essere  e 
il  fare  intrinseco  dell'  uno  o  dell'  altro. 


—  168  — 

Del  resto,  quand'anche  potessimo  giungere  a  conoscere  le  cose 
in  sé  stesse,  e  accertarci  che  i  nostri  concetti  sono  rassomiglianti 
allo  stato  reale  delle  cose,  che  cosa  guadagneremmo  per  il  valore 
delle  scienze  ?  Niente,  fino  a  che  non  ci  assicurassimo  che  per 
mezzo  di  queste  somiglianze  possiamo  ragionare  e  operare  sulla 
natura  in  modo  da  ottenerne  dell'  utile.  Ora,  per  avere  tale  sicu- 
rezza, v' è  forse  bisogno  di  conoscere  le  cose  in  sé  stesse?  (1). 
No.  Noi  sappiamo  che  le  sensazioni,  le  idee  sono  segni  reali  e 
naturali,  a  cui  corrispondono  in  natura  cose  e  modi  di  essere 
reali.  In  tal  caso  si  può  ragionare  sui  segni  come  sulle  esistenze. 
Infatti,  se  io,  guardando  solo  lo  specchio,  e  non  badando  alla 
tavola  dipinta,  vedo  avvenire  qualche  cambiamento  nella  forma 
e  nella  posizione  delle  immagini,  posso  dire  con  ragione  che  esso 
avvenga  nella  tavola  stessa  o  in  altri  oggetti  posti  di  contro,  senza 
eh'  io  abbia  bisogno,  per  asserir  ciò,  di  guardar  la  tavola.  Ora, 
si  può  dire  lo  stesso  delle  nostre  idee,  che  sono  come  le  imma- 
gini dello  specchio.  Così,  quantunque  mi  sia  ignota  la  realtà  d'una 
sfera,  pure  dovrò  dire  che  all'idea  ch'io  ne  ho  corrispondono  in 
natura  rapporti  tali,  per  cui  le  proporzioni  dal  centro  alla  super- 
ficie debbono  essere  uguali;  cosicché,  se,  vedo  avvenire  in  essa 
qualche  cambiamento  di  forma  o  di  relazioni,  devo  affermare  che 
questo  avviene  anche  nello  stato  reale  delle  cose  esterne  (2).  Perciò, 
agendo  sui  segni,  si  agisce  sulle  cose  ignote  corrispondenti  a  tali 
segni;  cosicché  si  agisce  sulla  natura  stessa  reale  e  vivente.  Allora 
i  giudizi  veri  di  osservazione  equivalgono  a  giudizi  reali  di  fatto; 
allora  il  fatto  e  il  vero  si  possono  assumere  come  equivalenti.  Non 
importa  indovinare  come  il  nostro  disegno  interno  si  realizzi 
esternamente.  Che  danno  arreca  l' ignorare  come  si  operi  la  di- 
gestione e  la  nutrizione,  quando  si  conoscono  gli  alimenti  sani 
e  il  modo  di  usarne?  Quando  so  di  connettere  le  idee  delle  forze 
nei  loro  rapporti  ben  conosciuti  e  provati,  so  di  architettare  con 
effetto.  Questo  mi   basta  (3).  Ma,  si  può  osservare,  come  in  tal 


(1)  Vedute  fondamentali,  Libro  1,  Gap.  V,  §  664  e  seg,;   Che  cos'è 
la  mente  sana?  Parte  II,  Gap.  IX,  §  51. 

(2)  Ricerche  su  la  validità  dei  giudicii  etc,  Parte  III,  Sez.  I,  Gap.  X, 
§§  735  e  739. 

(3)  Che  cos'è  la  mente  sana?  Parte  1,  Gap.  Vili,  §§  43  e  44. 


—  169  — 

caso  distingueremo  il  reale  dall'apparente?  Ogni  sensazione,  ogni 
idea  è  fenomeno,  apparenza;  e  perciò  stesso  non  ci  dice  di  cor- 
rispondere e  somigliare  allo  stato  reale  delle  cose:  dunque  non  è 
vera;  e,  siccome  noi  non  possiamo  uscire  fuori  delle  nostre  idee, 
nulla  è  vero,  tutto  è  un  inganno.  Piano,  osserva  il  Romagnosi. 
È  temerario  affermare  che  l' idea  non  somigli  al  reale.  Se  è  im- 
possibile conoscere  le  cose  in  sé  stesse,  segue  che  s'ignora  asso- 
lutamente se  r  idea  sia  difforme  o  conforme  al  reale,  e  che  non 
si  può  né  affermare  né  negare  tale  difformità  o  conformità.  L' af- 
fermazione e  la  negazione  sono  giudizi  di  paragone  fra  due  ter- 
mini noti;  ma,  se  ci  manca  la  conoscenza  della  realtà,  a  cui  rife- 
riamo le  apparenze,  con  qual  diritto  asseriamo  la  difformità?  Come 
dire  che  la  tal  copia  non  é  conforme  al  suo  originale,  se  non  co- 
nosciamo affatto  r  originale  ? 

Le  affermazioni  scettiche  sono  dunque  avventate;  noi  possiamo 
dir  solo  d' avere  dinanzi  un'  apparenza.  Questa,  se  non  è  copia, 
sarà  sempre  qualcosa  di  determinato  e  di  finito,  che  si  può  de- 
scrivere nel  suo  tutto  e  nelle  sue  parti,  e  confrontare  con  altre 
idee  (apparenze).  Non  basta.  Sappiamo  che  questa  pretesa  copia 
o  non  copia  dev'essere  stata  prodotta  da  qualche  agente  esterno, 
sia  uomo,  sia  bestia,  sia  essere  inanimato:  sicché  si  deduce  che  é 
effetto  di  qualcosa  di  reale.  Dunque,  pur  ignorando  se  somigli  o 
no  a  qualcosa  di  reale,  dobbiamo  considerarla  sempre  come  ri- 
sultato dell'azione  della  sua  causa.  Nel  che  non  si  ha  un'illusione, 
ma  una  realtà  e  un  segno  di  realtà;  giacché  è  vero  e  indubita- 
bile che  si  tratta  di  un  effetto  reale  di  una  causa  reale  (1).  Dunque, 
mentre  nell'  idealismo  puro  non  si  può  veramente  distinguere  il 


(1)  Vedute  fondamentali,  Libro  II,  Gap.  IV.  Per  chiarire  come  in  tal 
caso  non  importi  che  l'essenza  dell' oggetto  agente  sia  ignota,  il  Roma- 
gnosi  aggiunge:  Se  un  uomo  a  me  sconosciuto  mi  parla  dalla  camera 
vicina  a  voce  alta  e  intelligibile,  potrò  io  negare  l'esistenza  di  un  es- 
sere che  mi  parla,  quantunque  io  non  sappia  chi  egli  sia?  potrò  negare 
chele  parole  intese  derivano  da  una  potenza  che  agita  l'aria  in  quella 
data  maniera?  La  verità  della  mia  percezione,  in  tal  caso,  in  che  con- 
siste? Nel  cogliere  tutti  i  suoni  trasmessi  al  mio  udito  e  per  me  discer- 
nìbili, e  nel  considerarli  come  segni  reali,  cioè  come  derivanti  veramente 
da  una  potenza,  sia  pure  ignota,  posta  fuori  di  me  {Esposizione  storico- 
critica  del  Kantismo,  §  282). 


—  170  — 

reale  dall'  immaginario  (giacché  in  esso  tutto  è  isolato,  indipen- 
dente dall'esterno  e  quindi  immaginario),  invece  nell'  idealismo 
associato  si  può  benissimo.  In  questo  il  reale  è  un  nostro  pensiero 
accompagnato  da  un  giudizio  tacito  il  quale  afferma  che  sussiste 
fuori  di  noi  un  oggetto  ad  esso  corrispondente;  l' immaginario, 
all'  opposto,  è  un  pensiero  accompagnato  da  un  tacito  giudizio 
il  quale  asserisce  che  fuori  di  noi  non  sussiste  un  oggetto  corri- 
spondente. In  tal  caso  la  verità  oggettiva  non  proviene  da  una 
legge  di  somiglianza  fra  idee  e  oggetto,  ma  da  una  legge  di  cor- 
rispondenza necessaria;  essa  quindi  si  risolve  sempre  nella  confor- 
mità dei  nostri  giudizi  coi  segni  reali  corrispondenti  comunicati 
dalla  natura,  sia  pure  ignota,  dell'  oggetto  (1). 

* 
*  * 

Questi  sono  i  risultati  dell'analisi  dell'uomo  interiore  (ideo- 
logia), la  quale  per  il  Romagnosi  ha  massima  importanza  (2) 
Essa  però  va  integrata  con  la  filosofia  civile  (3),  giacché  non  si 
può  negare  l'azione  della  mente  e  del  cuore  dell'uomo  collettivo 
ossia  della  società  civile,  sulla  mente  e  sul  cuore  dell'individuo 
Infatti  l'uomo  individuo  nasce,  cresce,  vive  e  muore  in  seno  al 
l'uomo  collettivo;  le  fonti  principali  delle  opinioni  vere  o  false 
delle  virtù  e  dei  vizi  derivano  da  determinate  condizioni  di  questo 
uomo  collettivo  (4).  L'individuo  nascendo  non  ha  che  la  capacità 
ed  il  germe  chiuso  dell'intelligenza;  egli  lo  sviluppa  in  società  e 
per  mezzo  solo  della  società  (5);  nella  quale  la  tradizione  non 


(1)  Dottrina  logica  del  Galluppi,  §§  352  e  353. 

(2)  Che  cos'  è  la  mente  sana?  §  4.  Si  noti  che  anche  il  Romagnosi, 
come  gl'ideologi  francesi,  identifica  la  metafisica  con  l'ideologia  {Dot- 
trina logica  del  Galluppi,  §  343). 

(3)  Vedute  fondamentali,  Libro  IV,  Gap.  XXV,  §  102S. 

(4)  "■  Nella  persona  individua  di  una  nazione  civile  dovete  immaginare 
corpo,  anima,  vita,  funzioni,  età,  e  quindi  salute  e  malattie  a  somiglianza 
d'un  individuo  animale.  Territorio,  popolazione  e  governo  formano  il 
corpo  di  questa  nazione,  senza  che  si  possa  mai  scindere  la  triplice  con- 
correnza di  queste  parti.  Opinione,  beni  e  forza  formano  V  anima  di 
questa  persona  {Su  V  indole  e  su  i  fattori  deW  incivilimento,  Parte  I, 
Gap.  XIII,  §  67;  Vedute  fondamentali  sull'arte  logica.  Libro  IV,  Gap.  XII). 

(5)  Della  definizione  dell'uomo,  §  67. 


—  171  — 

solamente  dell'età  sua,  ma  anche  di  quelle  dei  suoi  antenati  lo 
rende  ricco  e  forte,  somministrandogli  il  linguaggio  e  tutto  il  pa- 
trimonio ideale  cumulato  dai  contemporanei  e  dai  maggiori  suoi; 
e  insultati  delle  ricerche  scientifiche  d'innumerevoli  generazioni 
gì' insegnano  com'egli  possa  attuare  i  fini  della  sua  volontà.  L'in- 
dividuo isolato  è  dunque  un'astrazione;  l'uomo  reale  è  quello  ci- 
vile (1).  Perciò  la  filosofia  dell'uomo  interiore  sarebbe  cieca  senza 
quella  civile;  solo  questa  è  la  «  piena  filosofia  »;  tant'è  vero  che, 
quando  studiamo  l' uomo  nel  suo  interno  (ideologicamente),  lo  as- 
sumiamo come  simbolo  di  tutta  la  specie,  e  quel  che  affermiamo 
o  neghiamo  di  lui,  lo  intendiamo  applicato  anche  alla  specie  (2). 


(1)  Vedute  fondamentali,  Libro  I,  Gap.  I,  Sez.  II,  §§  594,  595,  602, 
603,  Gap.  Ili,  Sez.  II,  §§  635-636,  Libro  II,  Gap.  VI,  §  842,  Libro  IV, 
Gap.  V,  §  984;  Della  suprema  economia,  §§  101,  111,  215,  218. 

(2)  Vedute  fondamentali,  Libro  I,  Gap.  II,  §  608.  A  quali  risultati 
conduce,  secondo  il  Romagnosi,  Io  studio  della  filosofia  civile?  Rispon- 
dere a  questa  domanda  ci  trarrebbe  fuori  dell'ambito  delle  ricerche  pro- 
posteci in  questo  lavoro.  Ricorderemo  soltanto  che  per  il  Romagnosi 
la  civiltà  è  un  fatto  preparato  e  stimolato,  sì,  dalla  natura,  ma  non 
spontaneo,  istintivo,  giacché  l'uomo  è  per  natura  perfettibile,  ma  la 
perfettibilità  è  solo  una  possibilità,  una  capacità,  non  un  atto;  ci  vo- 
gliono quindi  circostanze  speciali  perchè  la  potenza  diventi  atto  {Su 
l'indole  e  su  i  fattori  dell' incivil.,  Introd.,  §202;  cfr.  Cenni  su  i  limiti 
e  su  la  direzione  degli  studi  storici,  §  3).  Ne  volete  la  prova?  Se  la 
civiltà  fosse  veramente  un  prodotto  istintivo  dell'uomo,  dovremmo  tro- 
varla in  qualunque  parte  del  globo  abitata;  invece  vi  sono  dei  popoli 
che  vivono  allo  stato  selvaggio.  Non  c'è  quindi  nessun  principio  psi- 
cologico naturale  per  cui  si  possa  affermare  che  tutti  i  popoli  diver- 
ranno civili,  come  non  c'è  nessun  principio  fisico  per  cui  si  possa 
asserire  che  ogni  bosco  da  sé  stesso  si  convertirà  in  campo  coltivato. 
La  perfettibilità  umana  è  la  capacità  d'apprendere  le  condizioni  che 
rendono  possibile  il  vivere  sociale  (come  la  capacità  d'imparare  a  leg- 
gere, a  scrivere  etc).  Se  queste  condizioni  non  s'imparano,  non  si  sanno. 
Dì  più,  esse  <  sono  un'  invenzione  pari  a  quella  della  scrittura,  della 
stampa,  della  polvere  d'archibuso,  dei  parafulmini  etc.  »  (Su  l'indole 
e  su  i  fattori  etc,  Parte  II,  Introduzione),  La  civiltà  è  dunque  un  pro- 
dotto della  riflessione,  della  ragione;  è  una  specie  di  pedagogia  sociale, 
un'arte  particolare,  l'arte  di  educare  ì  popoli,  di  svolgere  e  dirigere 
l'attività  umana  in  certe  direzioni.  Quindi,  contro  il  Vico,  che  faceva 
dipendere  il  progresso  da  un  impulso  intimo  del  consorzio  sociale,  il 


—  172 


OSSERVAZIONI.  —  Il  Romagnosi  è  senza  dubbio  il  maggiore 
o  uno  dei  maggiori  ideologi  italiani.  La  sua  vasta  mente  si  rivolse 
in  ideologia  sopra  tutto  al  problema  della  conoscenza,  nel  quale 
i  risultati  delle  sue  ricerche  sono  così  differenti  da  quelli  dei  fi- 
losofi francesi  iniziatori  del  movimento  filosofico,  che  il  sensismo 
oramai  non  si  riconosce  più.  Egli  infatti,  proseguendo  la  critica 
e  la  riforma  del  Soave  e  del  Gioia,  non  solo  non  si  appagò  più 
della  semplice  analisi,  ma  ancora  mise  in  evidenza  l'attività  del 
soggetto  nella  conoscenza,  e  provò  che  con  gli  elementi  senso- 
riali sono  intimamente  connessi  elementi  intellettivi  inesplicabili 
coir  empirismo  rude.  Inoltre,  dimostrando  che  dev'esserci  qualche 


Romagnosi  sostiene  che  la  civiltà  è  trasmessa  ai  popoli  da  altri  popoli 
(è  dativa,  non  nativa).  Tutti  i  consorzi  inciviliti  a  noi  noti,  egli  dice, 
«X  citano  apportatori  stranieri  del  loro  incivilimento  >;  ecco  quindi  che 
acquistano  grandissima  importanza  nella  storia  (anche  qui  il  Romagnosi 
si  oppone  al  Vico)  persone  illuminate  e  geniali  come  Zoroastro,  Confucio, 
Numa  etc.  {temosfori  o  apportatori  di  civiltà),  che  grandeggiano  sulle 
folle  anonime,  e,  proponendosi  con  chiara  coscienza  fini  rispondenti 
alle  esigenze  della  civiltà,  conducono  le  nazioni  verso  il  perfezionamento 
sociale.  Ma,  si  può  osservare,  se  la  civiltà  è  trasmessa  da  popolo  a  po- 
polo, sarà  pur  dovuta  nascere  una  volta  presso  qualche  paese  della 
Terra,  senza  essere  comunicata  da  altre  genti.  Certo,  risponde  il  Ro- 
magnosi; ma  questo  è  accaduto  una  volta  sola  per  circostanze  felicis- 
sime: è  stato  come  un  miracolo,  «  una  scintilla  di  fuoco  »,  una  crisi, 
che  ora  non  si  riscontra  più  nella  storia  {Su  l' indole  e  su  i  fattori  del- 
l'inciv.,  Parte  I,  Cap.  IX,  §  46;  Vedute  fond.,  Libro  IV,  Cap.  Vili,  §  987). 
Dal  suo  luogo  d'origine  la  civiltà  si  diffuse  in  quelle  regioni  del  globo 
nelle  quali  il  terreno  e  il  clima  la  favorivano  (vedi  per  tutta  questa 
parte  specialm.  Su  r  indole  e  su  i  fattori  dell' iiicivil.;  Vedute  eminenti 
per  amministrare  l'economia  dell' incivil.;  Vedute  fondam.  sull'arte 
logica,  Libro  IV;  Della  ragione  civile  delle  acque.  Ragione  dell'opera; 
Osservazioni  su  la  Scienza  Nuova  di  Vico;  La  filosofia  di  G.  D.  Ro- 
magnosi a  cura  di  Fr.  De  Sarlo,  Lanciano,  Carabba,  Introduzione). 
Secondo  il  Romagnosi  i  primi  temosfori  sarebbero  venuti  dal  centro 
dell'Asia  sulle  coste  settentrionali  dell'Africa,  donde  traverso  il  Medi- 
terraneo sarebbero  passati  in  Italia  {Ricerche  storiche  sull'India  antica 
etc;  Esame  della  storia  degli  antichi  popoli  italiani  di  G.  Micali  etc). 


—  173  — 

causa  oggettiva  delle  nostre  impressioni,  cercò  di  disperdere  quel 
fenomenismo  idealistico  da  cui  erano  stati  irretiti  il  Condillac  e 
i  suoi  seguaci.  Di  più,  mostrò  l'importanza  della  sociologia  per 
lo  studio  dell'uomo;  egli  è  un  vero  precursore  dei  moderni  so- 
ciologi e  sostenitori  della  dottrina  della  «  solidarietà  ».  Il  che 
prova  anche  com'egli  avesse  sempre  lo  sguardo  rivolto  alla  vita 
pratica,  e  rifuggisse  dalle  scienze  di  pure  astrazioni.  Del  resto  il 
concetto  suo  stesso  della  verità  (la  quale  per  lui  non  è  di  rasso- 
miglianza con  V  essenza  della  natura  invisibile,  ma  di  corrispon- 
denza con  V azione  di  questa  natura)  è  in  fondo  prammatistico.  È 
anzi  notevole  che  precisamente  dal  punto  di  vista  prammatistico 
egli  cerca  d'eliminare  il  noumeno  kantiano  come  un  caput  mor- 
tuum.  A  lui  infatti  non  importa  conoscere  le  cose  in  sé  stesse; 
gli  basta  poter  conoscere  l'effetto  corrispondente  all'azione  dei 
corpi  sulla  nostra  sensibilità,  e  agire  sugli  esseri  esterni  per  otte- 
nerne dell'utile;  che,  in  tal  caso,  anche  se  a  noi  sfugge  l'intima 
natura  loro,  le  nostre  sensazioni  non  cesseranno  perciò  di  essere 
un  effetto  reale  e  vero  di  queir  azione  e  reazione;  e  noi  non  ces- 
seremo d'agire  sugli  oggetti  esterni  a  traverso  i  loro  segni.  Un 
atteggiamento  simile  egli  assume  di  fronte  al  problema  del  valore 
del  principio  di  causa. 

Che  cosa  si  può  osservare  a  queste  sue  vedute?  Innanzi  tutto 
non  mi  pare  ch'egli  dia  un'idea  chiara,  precisa  del  suo  senso  lo- 
gico: lo  chiama  infatti  «  facoltà  occulta,  recondita,  ineffabile  etc.  », 
quasi  si  trattasse  d'un  potere  trascendente  e  misterioso,  che  sfug- 
gisse all'analisi  della  mente.  Inoltre  le  idee  dei  rapporti  emananti 
da  esso  ora  sono  presentati  come  dipendenti  (1),  ora  come  indi- 
pendenti dai  sensi  (2).  Anche  l'espressione  senso  logico  è  equivoca 
e  impropria;  egli  non  si  è  ancora  liberato  del  tutto  dalla  termi- 
nologia e  dalle  idee  dei  sensisti  francesi.  Di  piìi,  le  categorie  (idee 
dei  rapporti)  sono  da  lui  ritenute  soggettive;  cosicché  nel  suo  si- 


(1)  Vedute  fondamentali,  Libro  I,  Cap.  VI,  §  684,  Libro  II,  Gap.  VI, 
§  813;  Che  cos'  è  la  mente  sana?.  Parte  II,  Cap.  X,  §  52. 

(2)  Discorso  siiW  indole  e  generazione  naturale  dei  primitivi  con- 
cetti matematici,  Cap.  XXII,  §  866;  Ricerche  sulla  validità  dei  giu- 
dica tic,  Parte  II,  Sez.  I,  Cap.  XVII,  §  224;  Che  cos'  è  la  mente  sana? 
Parte  II,  Cap.  IX,  §  47. 


—  174  — 

stema  l'oggetto  è  in  certo  modo  costruito  dal  soggetto,  sia  pure  al 
l'occasione  delle  intuizioni  sensoriali.  Ed  è  curioso  che,  mentre  egli 
combatte  Kant  per  gli  a-priori,  cade  in  fondo  nelle  stesse  esagera- 
zioni del  filosofo  di  Koenigsberg;  che  i  rapporti  richiedono  certo 
l'attività  del  soggetto,  in  quanto  che,  se  non  ci  fosse  una  mente 
che  paragonasse  gli  oggetti  ed  esplicasse  l'attività  riferente,  i  rap- 
porti per  noi  non  ci  sarebbero;  ma  questo  non  vuol  dire  che  essi 
siano  una  creazione  arbitraria  dell'uomo;  il  soggetto,  secondo  le  con- 
dizioni dell'esperienza  e  secondo  i  caratteri  degli  oggetti,  enuncia 
certi  rapporti  piuttosto  che  certi  altri  (rapporti  di  causa,  d'inerenza 
etc);  dunque  il  soggetto  nell' applicare  l'attività  riferente  si  fonda 
su  circostanze  oggettive.  Inoltre  i  rapporti  valgono  in  sé  e  per  sé, 
indipendentemente  dal  nostro  riconoscimento  (due  oggetti  per  es. 
non  cessano  d'essere  eguali  o  differenti  sol  perchè  noi  non  con- 
sideriamo la  loro  uguaglianza  o  differenza):  dunque  sono  oggettivi. 
Infine  anche  la  dimostrazione  dell'esistenza  di  oggetti  esterni 
non  mi  pare  priva  di  difetti  (1).  Essa,  come  s'è  visto,  è  fondata 
sul  principio  di  causa.  Ora,  che  valore  ha  questo  principio?  Se- 
condo il  Romagnosi  è  un'applicazione  speciale  del  principio  di 
contradizione.  Ma  è  noto  che  il  principio  di  causa  è  irriducibile 
a  qualsiasi  altro,  rappresenta  un'  esigenza  della  mente  ben  diversa 
da  quella  della  mancanza  di  contradizione;  tant'è  vero  che,  come 
ha  ben  dimostrato  David  Hume,  data  una  causa,  si  può  senza 
contradirsi  negare  l'effetto  o  supporne  un  altro.  Se  del  resto  si 
esamina  la  prova  del  Romagnosi,  si  vede  che  essa  già  presuppone 
il  principio  di  causa:  ^<  Dato  un  atto  o  un  fatto  che  attualmente 
esiste,  e  che  prima  non  esisteva  »,  egli  scrive,  «  ne  segue  per  ciò 
stesso  che  prima  poteva  realmente  esistere  e  non  esistere.  Poteva 
esistere,  come  lo  prova  la  positiva  sua  esistenza;  poteva  non  esi- 
stere, come  lo  prova  l'anteriore  sua  non  esistenza.  Dunque  deve 
esistere  un  perchè  dallo  stato  meramente  possibile  egli  sia  passato 
allo  stato  reale  ».  Ebbene,  tale  ragionamento  presuppone  appunto 
la  verità  che  si  vorrebbe  dimostrare  (che  ogni  effetto  ha  una  causa, 


(1)  Il  BONNET  nel  Volume  XVIII  delle  sue  Oeiivres  (Vite  da  Leibni- 
tianisme,  pag.  105-106,  nota)  muove  alla  monadologia  del  Leibniz  un'obie- 
zione che  ricorda  questa  prova  del  Romagnosi.  Ma  il  Romagnosi  cono- 
sceva l'operetta  indicata  del  Bonnet?  È  difficile.  Almeno  non  la  cita  mai. 


—  175  — 

un  perchè)  (1),  giacché  esso  si  riduce  a  dire  che  il  nulla  non  può 
produrre  effetto  alcuno:  ma  questo....  non  è  altro  che  il  principio 
di  causa.  Insomma  non  si  può  ammettere  un  effetto  senza  causa, 
ma  tale  impossibilità  deriva  non  dal  principio  di  contradizione, 
bensì  da  un  principio  speciale.  Il  quale  è  l' applicazione  d' una 
categoria  dell'intelletto,  esprime  quindi  una  delle  funzioni  di  quel 
senso  logico  che  il  Romagnosi  giustamente  considera  come  l'es- 
senza e  la  caratteristica  della  mente  umana.  Ma  il  guaio  è  che  il 
Romagnosi  afferma  che  le  funzioni  del  senso  logico  sono  sogget- 
tive; cade  quindi  nella  difficoltà  di  voler  dimostrare  l' esistenza 
degli  oggetti  esterni  con  un  principio  soggettivo:  fonda  dunque 
l'oggettivo  sul  soggettivo....  Ecco  perchè  egli,  non  ostante  i  suoi 
sforzi,  non  s' è  mai  potuto  liberare  dall'  idealismo;  ecco  perchè 
deve  concludere:  in  fondo  tutto  è  idealismo  (2). 

Questi  difetti  del  resto  non  scemano  l' importanza  del  sistema 
del  Romagnosi  nel  movimento  degl'  ideologi:  esso  rappresenta 
sempre  un  notevolissimo  passo  innanzi  rispetto  alle  teorie  dei  fi- 
losofi di  Francia. 

Ci  resta  infine,  anche  per  il  Romagnosi,  da  esaminare  se  egli 
penda  al  materialismo,  come  qualcuno  (3)  ha  affermato,  o  allo 
spiritualismo,  come  potrebbe  farci  credere  la  sua  dimostrazione 
dell'unità  e  semplicità  dell'Io.  Ebbene,  è  facile  vedere  che  anche 
lui,  come  tutti  gli  altri  ideologi,  rimane  agnostico.  Abbiamo  in- 
fatti già  detto  che  secondo  la  sua  dottrina  noi  conosciamo  non 
le  essenze  degli  oggetti,  ma  solo  i  fenomeni.  Egli  dice  che  la  so- 
stanza è  un  non  so  che  d' indefinibile,  una  chimera  (4);  che  noi 
non  possiamo  conoscere  cosa  sia  in  sé  stesso  il  principio  vitale  (5) 


(1)  L'aveva  già  notato  il  Ferrari  {Op.  cit.,  Gap.  IX,  pag.  121). 

(2)  11  suo  prammatismo  poi  cade  nei  difetti  e  nelle  esagerazioni  dì 
tutte  le  forme  di  prammatismo.  Egli  uice  che  non  importa  sapere  come 
si  operi  la  digestione  e  la  nutrizione  quando  si  conoscono  gli  alimenti 
sani  e  il  modo  d'  usarne.  Ma  quest'affermazione  distrugge  tutta  la  scienza 
teorica,  che  pur  sussiste  ed  è  il  fondamento  delle  arti  pratiche. 

(3)  Per  esempio  il  Rosmini  {Rinnovamento,  Libro  III,  Gap.  XXXIV, 
pag.  398-400  della  2"  Ediz.). 

(4)  Suprema  economia,  Parte  II,  Gap.  XXV. 

(5)  Vedute  fondamentali.  Libro  IV,  Gap.  V,  §  984. 


-  176  — 

o  qualsiasi  altra  forza  della  natura  (1).  Lo  stesso  dice  dell'anima, 
giacché  noi  definiamo  1'  anima  secondo  la  conoscenza  non  della 
sua  realtà  intima,  ma  delle  sue  operazioni  da  noi  conosciute  (2); 
del  pari,  ignoriamo  la  natura  e  il  modo  del  commercio  fra  anima 
e  corpo  (3).  Anche  la  creazione  della  materia  dal  nulla  gli  pare 
un  enigma  insolubile  (4).  <  Per  la  qual  cosa  »,  conclude,  «  lungi 
d'arrogarci  la  pretesa  di  possedere  la  scienza  universale,  noi  con- 
fessiamo d' ignorare  non  solamente  ciò  di  cui  non  abbiamo  an- 
cora le  prove  di  fatto,  ma  eziandio  fino  a  qual  segno  possano 
essere  inoltrate  le  nostre  scoperte.  Dunque  provvisorio  viene  da 
noi  riguardato  lo  stato  dello  scibile  umano,  e  stolida  la  pretesa 
di  chiunque  ci  proclama  un  non  plus  ultra  »  (5). 


CAPITOLO  V.  —  Delfico 

Dall'Italia  settentrionale  passando  alla  meridionale,  dobbiamo 
subito  dire  che  il  movimento  filosofico,  a  causa  in  parte  della 
mancanza  d' unità  politica,  in  parte  degli  scarsi  mezzi  d' informa- 
zione e  di  comunicazione,  nel  Napoletano  si  svolse  quasi  del  tutto 
indipendente  da  quello  del  Nord  della  penisola.  Esso  infatti  ebbe 
origine  dal  Genovesi  e  poi  si  sviluppò  a  poco  a  poco  fino  al 
Delfico  e  al  Borrelli  senza  ricevere  alcuna  efficacia  notevole  dai 
filosofi  dell'  Italia  settentrionale.  Il  Ferri  (6)  osserva  giustamente 
che  tra  le  due  parti  della  penisola  e'  erano  così  pochi  rapporti, 
che  era  più  facile  e  più  sicuro  per  un  Napoletano  mantenere,  a 
traverso  il  mare,  una  corrispondenza  scientifica  con  sapienti  d'altre 
nazioni  che  con  quelli  d' Italia.  Tuttavia  non  bisogna  esagerare. 
La  tempesta  rivoluzionaria,  che  sconvolse  tutta  la  patria  nostra, 
produsse  un  certo  rimescolio  di  uomini  delle  varie  regioni:  cosi  il 
Soave  fu  sbalestrato  a  Napoli,  il  Delfico  a  S.  Marino.  Gli  stessi  Fran- 
cesi invasori  costituivano  un  legame  fra  Nord  e  Sud.  Inoltre  non 


(1)  Che  cos'è  la  mente  sana?  Parte  I,  Cap.  Il,  §  11. 

(2)  Op.  cit.,  ivi.  (3)  Op.  cit.,  §  33. 

(4)  Libertà  morale,  Ediz.  De  Giorgi,  pag.  624. 

(5)  Suprema  economia,  Parte  II,  Cap.  XXVI. 

(6)  Op.  cit.,  Cap.  11,  pag.  37. 


—  177  — 

erano  molto  rari  i  viaggi  che  i  dotti  del  tempo  intraprendevano 
a  scopo  di  studio:  così  il  Delfico  viaggiò  due  volte  nell'  Italia  set- 
tentrionale, e  vi  conobbe  vari  personaggi;  fu  anzi  in  corrispondenza 
col  Soave,  col  Cicognara,  con  l'Amoretti,  con  Gaetano  Melzi  (1). 
Lo  Spallanzani  fu  nel  Regno  delle  due  Sicilie.  Il  Leopardi  fu  a 
Milano,  a  Bologna,  a  Firenze,  a  Pisa.  Quindi  non  mi  pare  che, 
come  dice  il  Ferri,  proprio  delle  barriere  separassero  allora  le  Pro- 
vincie meridionali  dal  centro  e  dal  Nord  della  penisola. 


VITA  E  OPERE  (2).  —  Durante  la  guerra  per  la  successione 
d'Austria  Carlo  di  Borbone,  re  di  Napoli,  inviò  nel  1742  un  eser- 
cito in  soccorso  dei  Franco-Ispani  verso  Pesaro.  Avendo  egli  però 
già  sottoscritto  un  trattato  di  neutralità,  dovette  ritirare  le  sue 
milizie  in  seguito  alle  minacce  degl'  Inglesi,  che  mandarono  una 
temibile  flotta  nel  golfo  di  Napoli.  Allora  gli  Austriaci,  coman- 
dati dal  conte  di  Lobkowitz,  inseguirono  l'esercito  in  ritirata;  ma, 
giunti  al  Tronto,  si  diressero  verso  Roma,  pensando  che  la  con- 
quista del  regno  di  Napoli  sarebbe  stata  più  facile  per  quella  via. 
Il  Lobkowitz  però  lasciava  al  conte  di  Soro  mille  micheletti  e 
cinquecento  usseri,  acciocché  entrasse  nel  regno  per  la  via  di 
Ascoli  Piceno,  subito  che  vedesse  gli  Abruzzi  sguarniti  di  forze. 


(1)  Delfico,  Opere  compi.,  Teramo,  Fabbri,  1901-1Q04,  Voi.  IV,  pa- 
gine 203,  204,  258,  259.  Il  Delfico  leggeva  i  giornali  di  Milano  {Opere 
citate.  Voi.  IV,  pag.  86). 

(2)  R.  Liberatore,  M.  Delfico  in  Biografia  degli  italiani  illustri  etc. 
pubblicata  dai  De  Tipaldo,  Voi.  II,  pag.  328-346;  G.  Cantalamessa-Car- 
BONi,  Sulla  vita  e  sugli  scritti  del  Commendatore  Melchiorre  de'  Mar- 
chesi Delfico,  commentario,  in  Giornale  Arcadico,  Tomo  XLV,  pa- 
gine 156-187;  G.  Pannella,  Brevi  cenni  storici  su  la  vita  e  su  le  opere 
di  M.  D.  in  Opere  complete  di  M.  Delfico,  Nuova  Ediz.  curata  dai 
professori  G.  Pannella  e  L.  Savorini,  Teramo,  Fabbri,  1901-1904,  Voi.  I, 
pag.  V-XXXIIl,  e  Voi.  IV,  pag.  369  e  seg.;  N.  Palma,  Storia  ecclesiastica 
e  civile  della  regione  piti  settentrionale  del  Regno  di  Napoli  detta 
dagli  antichi  Praetutium,  nei  bassi  tempi  Aprutium,  Nuova  Ediz.,  Te- 
ramo, Fabbri,  1890-94,  Voi.  Ili,  Gap.  XCIII  e  seg.,  e  Voi.  V,  Sez.  III,  § 
VII,  pag.  173-184;  G.  Gentile,  Op.  cit.,  Gap.  II. 

12 


—  178  — 

Infatti  il  Soro  il  7  giugno  1744,  passato  il  confine,  venne  a  Te- 
ramo. Melchiorre  Delfico  nacque  appunto  in  quel  tempo  (1  ago- 
sto 1744)  nel  Castello  di  Leognano  (1),  feudo  della  famiglia,  nella 
Valle  Siciliana  (2),  da  Margherita  Civico  e  da  Bernardo,  che  si 
erano  colà  rifugiati  all'  avanzarsi  degli  Austriaci.  Scacciati  questi, 
la  famiglia  Delfico  tornò  a  Teramo,  sua  sede  fin  da  remoti  tempi. 
Ivi  Melchiorre,  insieme  con  i  suoi  due  fratelli  maggiori  Giov.  Ber- 
nardino e  Giov.  Filippo,  si  diede  ai  primi  studi,  che  compì  all'età 
di  undici  anni;  fu  allora  mandato  a  Napoli,  all'  Università,  coi 
fratelli.  Colà  ebbe  come  professore  di  filosofia  il  Genovesi  (3);  ma 
non  potè  seguire  con  assiduità  i  corsi  di  studio  a  causa  della  sua 
malferma  salute.  Tuttavia  lavorava  da  sé,  tanto  che  nel  1768  scrisse 
due  importanti  Memorie  (4),  che  presentò  al  ministro  Tanucci  e 
a  Ferdinando  de  Leon,  avvocato  della  Corona.  Esse  furono  lodate 
dal  Tanucci  e  presentate  al  Sovrano;  ma  restarono  lettera  morta 
negli  archivi  di  Casa  Reale. 

Intanto  Melchiorre  Delfico  ammalava  d' emottisi,  e  nell'  anno 
1768  stesso  dovette  tornare  a  Teramo.  Ivi  nel  '69  sveste  l'abito 
di  chierico,  che  gli  avevano  fatto  indossare  i  parenti;  nel  '74 
perde  il  padre;  lavora  assiduamente,  e  pubblica  nel  '74  stesso  il 
Saggio  filosofico  sul  matrimonio,  nel  '75  gì'  Indizi  di  morale,  che 
furono  sequestrati  sotto  i  torchi  a  pag.  240.  Negli  anni  seguenti, 
per  conoscere  le  condizioni  della  sua  patria  e  trovare  i  mezzi  atti 
a  migliorarla,  compì  vari  viaggi  per  la  sua  provincia,  per  il  Regno 
di  Napoli  e  per  l' Italia  tutta  (5). 


(1)  Presso  il  fiume  Vomano,  che  nasce  dal  Gran  Sasso  d' Italia  e  si 
getta  nell'Adriatico. 

(2)  Si  chiama  Valle  Siciliana  tutto  il  paese  montuoso  a  destra  del 
Vomano.  Questa  denominazione  ricorda  la  permanenza  in  quei  luoghi 
dei  Siculi,  i  quali  pare  siano  rimasti  colà  più  di  tre  secoli,  essendo  stati 
cacciati  da  una  specie  di  confederazione  italica  più  di  mille  anni  prima 
di  Cristo  (Palma,  Op.  cit,  Voi.  I,  pag.  30-31).  Ai  Siculi  successero  gli 
Umbri,  poi  gli  Etruschi,  infine  i  Galli. 

(3)  II  Delfico  chiama  il  Genovesi  «  padre  e  creatore  dei  nostri  in- 
gegni   -  (Opere,  Voi.  Ili,  pag.  256). 

(4)  Intorno  ai  diritti  sovrani  di  Napoli  sulla  città  di  Benevento,  e 
Saggio  isterico  delle  ragioni  dei  Sovrani  di  Napoli  sopra  la  città  di 
Ascoli  d^ Abruzzo  oggi  nella  Marca  (in  Rivista  Abruzzese,  1890). 

(5)  Nell'alta  Italia  fu  nel  1788  e  nel  1812.  In  questi  ed  in  altri  viaggi 


—  179  — 

Come  sappiamo,  era  quello  un  periodo  di  riforme  per  tutti  gli 
Stati  d' Europa,  dovute  specialmente  alle  opere  di  pensatori  in- 
signi e  al  risveglio  della  coscienza  popolare,  che  giunse  poi  ad 
abbattere  le  vecchie  forme  di  società  con  la  rivoluzione.  Nel  regno 
di  Napoli  e  di  Sicilia,  a  cui  apparteneva  il  Delfico,  era  a  capo 
del  movimento  innovatore  il  ministro  Bernardo  Tanucci,  che  tanto 
sotto  Carlo  III  di  Borbone,  quanto  sotto  Ferdinando  IV  cercò  in 
ogni  modo  di  migliorare  le  condizioni  pessime  del  popolo.  Mel- 
chiorre Delfico,  che  dai  cuore  suo  buono  era  spinto  a  beneficare 
i  concittadini,  seguì  subito  con  interesse  questa  corrente  di  pen- 
siero e  di  riforma.  Frutti  dei  suoi  viaggi  e  delle  sue  meditazioni 
furono  infatti  diversi  scritti  miranti  al  miglioramento  del  suo 
paese  (1);  i  quali  lo  resero  noto  ai  suoi  concittadini,  e  lo  fecero 
nominare,  dal  Re,  Assessore  militare  della  provincia  di  Teramo 
prima,  e  poi  membro  della  seconda  deputazione  destinata  a  un 
più  efficace  sollievo  delle  Calabrie  percosse  nel  1783  dal  terremoto. 

Intanto  scoppiò  in  Francia  la  rivoluzione,  che  rese  i  realisti 
diffidenti  delle  riforme  e  delle  proposte  degli   uomini  colti  (2); 


conobbe  il  Mascheroni,  lo  Spallanzani,  il  Volta,  il  Filangieri,  il  Beccaria, 
il  Panini,  il  Soave,  i  due  Verri,  l'Alfieri,  lo  Zimmermann,  lo  Scarpa  e  altri. 

(1)  Discorso  sullo  stabilimento  della  milizia  provinciale  (Napoli,  Por- 
celli, 1782);  Memoria  sulla  coltivazione  del  riso  comune  in  provincia  di 
Teramo  (Napoli,  Porcelli,  \1%Z)\  Elogio  del  Marchese  D.Francescantonio 
Grimaldi  (Napoli,  Orsino,  1784);  Memoria  sul  tribunale  della  grascia 
e  sulle  leggi  economiche  nelle  provincie  confinanti  del  regno  (Napoli, 
Porcelli,  1785);  Memoria  sulla  necessità  di  rendere  uniformi  i  pesi  e  le 
misure  del  regno  (Napoli,  Porcelli,  1787);  Memoria  su'  regii  stucchi, 
0  sia  su  la  servitù  dei  pascoli  invernali  nelle  provincie  marittime  degli 
Apruzzi  (Napoli,  1787);  Discorso  sul  tavoliere  di  Puglia  e  su  la  neces- 
sità di  abolire  il  sistema  doganale  presente  e  non  darsi  luogo  ad  al- 
cuna temporanea  riforma  (Napoli,  1788);  Riflessioni  su  la  vendita  dei 
feudi  umiliate  a  S.  R.  M.  (Napoli,  Porcelli,  1790);  Lettera  a  Sua  Ec- 
cellenza il  Signor  Duca  di  Cantalupo  Intendente  generale  dei  reali 
Stati  allodiali  su  i  feudi  devoluti  (Napoli,  1795);  un  Discorso  sull'  abo- 
lizione della  pena  di  morte  (inedito). 

(2)  <  Esposti  più  d' ogni  altro  all'  ira  del  Governo  e  alle  trame  delle 
spie  erano  i  dotti  ed  i  sapienti,  per  la  fallace  opinione  che  il  rivolgi- 
mento francese  fosse  opera  della  filosofia  e  dei  libri,  piìi  che  dei  bisogni 
e  del  secolo....  1  libri  del  Filangieri  furono  sbanditi,  e  in  Sicilia  bruciati; 


—  180  — 

cosicché  nacque  un  dissidio  fra  i  conservatori  e  gì'  innovatori,  il 
quale  procurò  fastidì  e  -accuse  a  Melchiorre  Delfico,  nemico  aperto 
del  vecchiume  e  dei  pregiudizi  (1);  tanto  che  nel  '98,  quando  i 
Francesi  erano  già  ad  Ascoli  Piceno,  e  avevano  proclamata  la 
repubblica,  egli  e  tutti  di  sua  famiglia,  accusati  di  tener  mano 
con  i  repubblicani  e  di  tendere  a  rovesciare  il  trono  di  Napoli, 
furono  tenuti  prigioni  nel  proprio  palazzo,  con  cancellate  di  ferro 
alle  finestre  e  guardie  al  portone.  All'  avvicinarsi  dei  Francesi  i 
Delfico  furono  liberi;  Melchiorre,  chiamato  dal  Goudar,  coman- 
dante degli  Abruzzi,  a  Pescara,  fu  nominato  presidente  dell'alto 
Consiglio  che  governava  tutt'  e  tre  le  Provincie  abruzzesi;  e  a 
Napoli  fu  nominato,  insieme  col  Pagano,  col  Cirillo  etc.  (2),  membro 
prima  del  Corpo  Legislativo,  poi  del  Direttorio.  Egli  andò  a  Pe- 
scara a  far  parte  del  governo  repubblicano,  ma,  con  dispiacere 
dei  patriotti,  non  a  Napoli;  anzi,  ritiratisi  i  Francesi,  e  sciolto  il 
governo  provvisorio,  egli,  per  fuggire  i  torbidi  e  i  pericoli  del 
Regno  (3),  nel  maggio  del  1799,  col  nome  di  Carlo  Cauti,  riparò, 
con  due  parenti,  per  mare,  sul  monte  Titano,  a  S.  Marino,  dove 
scrisse  1'  opera  sua  più  famosa:  la  storia  della  piccola  ma  <-.  in- 
concussa -  repubblica  (4),  di  cui  fu  nominato  cittadino  onorario. 
Là  rimase  sei  anni,  pur  uscendone  talvolta,  per  vari  motivi  (5), 


il  Pagano,  il  Cirillo,  il  Delfico,  il  Conforti    erano  mal  visti  e  spiali  ». 
Colletta,  Storia  del  Reame  di  Napoli,  Libro  III,  §  11. 

(1)  Sono  di  questo  tempo  le  Ricerche  sul  vero  carattere  della  giu- 
risprudenza romana  e  dei  suoi  cultori  (Napoli,  Porcelli,  1791),  che  cer- 
carono di  mostrare,  contro  l'opinione  dei  contemporanei,  lo  scarso 
valore  della  giurisprudenza  e  della  civiltà  romana  in  genere. 

(2)  Cfr.  M.  Gioia,  Opere  minori,  Voi.  XIII,  pag.  260. 

(3)  In  questo  periodo  di  convulsioni  sociali  andò  disperso  e  perduto 
a  Pescara  il  museo  numismatico  raccolto  dalla  famiglia  Delfico,  ricchis- 
simo principalmente  di  monete  attestanti  l'antichissima  floridezza  italiana 
nei  tempi  anteriori  alla  civiltà  di  Roma. 

(4)  Memorie  storiche  della  Repubblica  di  S.  Marino,  Milano,  Fran- 
cesco Sonzogno,  1804. 

(5)  Una  volta  per  stampare  le  Memorie  della  Repubblica  di  S.  Ma- 
rino, un'altra  per  pubblicare  a  Forlì  i  Pensieri  su  l'istoria  e  su  la 
incertezza  ed  inutilità  della  medesima  (Forlì,  Reveri  e  Casali,  1806),  che 
fecero  molto  chiasso.  Nel   1805  a  Milano  stampò  anche  una  Memoria 


—  181  — 

e  ne  partì  il  1806,  quando  fu  chiamato  a  Napoli  da  Giuseppe 
Bonaparte,  che  lo  nominò  Consigliere  di  Stato  e  per  qualche  mese 
anche  Ministro  dell'Interno.  Dal  1806  al  1816  tenne  altri  uffici, 
e  propose  molte  riforme  sull'istruzione  pubblica,  sull'organizza- 
zione dei  tribunali,  sul  catasto  etc.  (1).  Parecchie  istituzioni  utili 
e  benefiche,  come  il  manicomio  d'Aversa,  dovettero  a  lui  la  loro 
nascita.  L'attività  sua  lo  rese  caro  ai  Bonaparte:  Giuseppe  lo  no- 
minò commendatore  dell'ordine  delle  due  Sicilie,  e  il  Murat  barone. 
Nel  1813  una  caduta  causatagli,  nell'  uscire  da  palazzo  reale, 
dall'urto  d'una  carrozza,  per  cui  si  ruppe  il  collo  d'un  femore 
e  rimase  zoppo  per  tutta  la  vita,  1'  obbligò  a  stare  in  riposo  a 
casa  per  molti  mesi,  cosicché  dovette  tenersi  lontano  dalla  poli- 
tica, e  quindi  non  prese  parte,  forse  con  sua  sodisfazione,  né  alla 
nuova  alleanza  stretta  dal  Murat  con  l'Austria  dopo  la  campagna 
di  Russia,  né  alla  capitolazione  di  lui.  La  malattia  non  lo  distolse 
però  dagli  studi.  Ascritto  all'Accademia  di  Archeologia  Ercola- 
nese,  alla  Pontaniana,  all'  Istituto  d' incoraggiamento  e  all'  Acca- 
demia delle  scienze,  di  cui  fu  più  volte  presidente,  lesse  in  questa, 
nella  riunione  del  17  febbraio  1813,  le  Ricerche  sulla  sensibilità 
imitativa  considerata  come  il  principio  fisico  della  sociabilità  della 
specie  e  del  civilizzanienfo  dei  popoli  e  delle  nazioni  (2),  e,  l'anno 
seguente,  la  prima  parte  della  Memoria  su  la  perfettibilità  orga- 
nica, considerata  come  il  principio  fisico  dell'  educazione  (3).  L'in- 
dipendenza d'azione  da  lui  mantenuta  rispetto  al  Murat  gli  rese 


sulla  libertà  del  commercio  (nella  Collezione  degli  scrittori  classici  ita- 
liani di  economia  politica,  edita  dal  Custodi,  parte  moderna,  Voi.  XXXIX) 
scritta  in  occasione  d'  un  concorso  bandito  dall'  Accademia  di  Padova. 
Nel  1804  fu  al  Delfico  offerta  la  cattedra  di  storia  e  diplomazia  dell'Uni- 
versità di  Bologna;  ma  egli  non  1'  accettò. 

(1)  Di  questo  tempo  sono  i  Pensieri  sopra  alcuni  articoli  relativi 
all'  organizzazione  dei  tribunali  (Napoli,  Stamperia  reale,  ISOS;,  la  Ale- 
moria  sulla  tassa  fondiaria  del  1803  (pubblicata  nella  Rivista  Abruz- 
zese, Fase.  V-VI,  Anno  II),  le  Osservazioni  su  di  un  progetto  d' istru- 
zione pubblica  -  Discorso  (pubblicato  in  Rivista  Abruzzese,  Anno  II, 
Fase.  IX  e  X). 

(2)  Pubb.  nel  I  Volume  degli  Atti  della  R.  Accademia  delle  scienze 
(Napoli,  Stamperia  reale,  1819,  pag.  343-376). 

(3)  Anche  questa  nel  Volume  di  Atti  citato  (pag.  377-415). 


-  182  - 

possibile  di  essere  fra  quelli  che,  aspirando  all'  iuta  nazionale 
il  19  maggio  1814  offrirono  la  corona  d'Italia  a  >lapoleone  nel' 
r  isola  d'  Elba.  Anzi  la  relazione  intorno  alle  tenenze  politiche 
dei  principali  Stati  d'Italia  è  attribuita  in  massim  parte  a  lui  (1). 

Tornati  i  Borboni  sul  trono  di  Napoli  il  163,  Il  Delfico  si 
ritrasse  dalla  vita  politica.  Non  ebbe  però  noie  pr  la  sua  attività 
politica  passata;  che  troppo  era  stimato.  Ricevè  n^i  settecento 
lire  mensili  come  pensione  di  Consigliere  di  Stato  •  ome  stipendio 
di  presidente  della  commissione  creata  per  riordiare  gli  archivi 
del  regno.  Potè  così  lavorare  in  pace  e  pubblica'  vari  scritti  im- 
portanti, tra  cui  la  Seconda  memoria  su  la  perfettiu  la  organica  (2) 
e  le  Nuove  ricerche  sul  Bello  (Napoli,  Nobile,  183)  (3). 

Nella  primavera  del  1820  tornò  a  Teramo,  lieimente  accolto. 
Ma  nell'estate  dello  stesso  anno  ne  riparti  per  Npoli  a  favorirvi 
la  proclamazione  del  governo  costituzionale.  Ni  settembre  del 
1820  fu  eletto  deputato  a  Teramo  e  a  Napoli;  op>  per  quest'ul- 
timo collegio;  e  il  9  luglio  fu  nominato  da  Ferdiando  1  uno  dei 
quindici  componenti  la  giunta  provvisoria  che  ippresentava  il 
Parlamento  prima  della  convocazione  di  queste  Sedè  al  Parla- 
mento, ma  per  breve  tempo,  che  per  motivi  di  saite  il  17  ottobre 
si  dimise  da  deputato.  Tornò  quindi  alla  vita  trnquilla  (4);  ma 


(1)  Vedila  in  Opere  complete  (ediz,  cit.),  Voi.  IV,  ^ag.  325-333. 

(2)  Letta  il  6  Luglio  1816  nella  Regale  Accademi  delle  scienze  di 
Napoli  e  pubblicata,  con  la  prima,  negli  Atti  della  ledesima.  Voi.  I, 
pag.  417445. 

(3)  Sono  anche  di  questo  periodo  di  tempo  i  segueii  scritti:  Lettera 
al  Chiar.mo  Signor  Abate  D.  Gaspare  Selvaggi  sali  tragedia  (pubbl. 
nel  Giornale  Enciclopedico  di  Napoli,  Anno  XII,  N.  ,  1815);  Sull'im- 
putabilità del  sordomuto  -  Lettera  a  Pasquale  Litratore,  Teramo, 
2  febb.  1816  (pubblicata  nel  Giornale  Abruzzese  di  :ienze.  lettere  ed 
arti  di  Chieti,  N.  XVI,  aprile  1838);  Ragionamento  s  '>.  '^'t" 
nell'Accademia  delle  Scienze  il  1»  Dicembre  1818  e  pul  '  1'  Voi. 
degli  Atti  della  medesima  a  Napoli,  jI  1825. 

(4)  Tuttavia  non  potè  trattenersi  dal  difendere  i  jVni?:r!  che  il  7  di- 
cembre 1S20  recarono  al  Pariamento  il  messaggio  reg;t  e  due  dei  quali 
furono  posti  in  stato  d'accusa;  scrisse  a  tal  fine  nel  nornale  Costitu- 
zionale, il  23  dicembre,  un  articolo  intitolato  Poc^  drf  su  r  accusa 
de'  Ministri. 


—  183  — 

con  olore  vide  la  caduta  del  governo  costituzionale  e  il  ritorno 
della  nonarchia  assoluta.  Fu  a  Torre  del  Greco,  poi  a  Teramo, 
indi  Napoli,  infine  il  1823  di  nuovo  a  Teramo,  donde  non  uscì 
più  (i.  Sebbene  vecchio,  non  rimase  in  ozio  neppure  allora;  passò 
gli  uimi  anni  di  sua  vita  in  opere  benefiche  e  in  dotti  studi  (2). 
Colpo  d'  apoplessia,  amorevolmente  assistito  dagli  amici  e  dai 
pareri,  spirò  il  2  giugno  1835.  Lasciò  scritto  nel  testamento  che 
gli  fcsero  celebrati  funerali  semplici,  senza  pompa  alcuna.  Oggi 
il  Covitto  Nazionale  e  il  Liceo  di  Teramo  s' intitolano  da  lui  ; 
e  un  )Usto  di  marmo  dello  scultore  Pagliaccetti,  collocato  su 
per  i  scalinata  che  conduce  alle  scuole  classiche,  ricorda  agli 
studcti  abruzzesi  la  vita  luminosa  del  loro  illustre  concittadino 
tutta  ledita  alla  ricerca  del  vero  e  al  bene  così  della  patria  come 
del  pnere  umano. 


(1  Lasciò  a  Napoli  ottima  memoria  di  sé  e  una  preziosa  raccolta 
di  ed.ioni  del  primo  secolo  della  stampa  da  lui  riunite  a  gran  fatica 
nel  crso  di  molti  anni. 

(2  Sono  degli  ultimi  anni  i  seguenti  scritti:  Proposta  di  alcuni  mezzi 
econoUci  per  supplire  agli  attuali  bisogni  dello  Stato  (marzo  1822, 
pubbcata  in /?fV/s^fl  Abruzzese,  Anno  II,  Fase.  VII);  Dell'  importanza 
di  fa  precedere  le  cognizioni  fisiologiche  allo  studio  della  filosofia 
intelttuale  (Discorso  tenuto  nella  Reale  Accademia  di  Napoli  il  1823; 
pubbcato  nella  Rivista  Abruzzese,  Anno  II,  Fase.  I  e  II);  Della  an- 
tica nmismatica  della  città  di  Atri  nel  Piceno  con  discorso  prelimi- 
nare i  le  origini  italiche  dei  Pelasgi  e  dei  Tirreni  (Teramo,  Ange- 
letti,  S24);  Breve  cenno  sul  porto  di  Pescara,  Pescara,  1825  (pubbl.  in 
Riv.  .bruz.,  Anno  III,  Fase.  IX);  Della  antica  numismatica  della  città 
di  Ali  con  alcuni  opuscoli  su  le  origini  italiche  -  Schiarimenti  al 
Mica  e  lettera  al  Conte  G.  Zurlo  su  le  antiche  ghiande  missili  di 
piami  (Napoli,  Angelo  Trani,  1826);  Della  preferenza  dei  sessi  (Siena, 
P<  ri  1829);  Lettera  all'autore  delle  Memorie  intorno  i  letterati  e  gli 
anis  ascolani  (Ascoli,  Cardi,  1830);  La  fiera  franca  in  Pescara  (in 
Giornle  abruzzese  di  Chieti,  1838,  num.  XIV  e  XVI);  Espressioni  della 
partiilar  riconoscenza  della  provincia  e  città  di  Teramo  dovuta  alla 
memcia  dell'  immortai  Ferdinando  I  (negli  Annali  civili  del  Regno 
delle  lue  Sicilie,  Voi.  II,  1833).  Questi  scritti  e  quasi  tutti  quelli  prece- 
denteiente  citati  si  trovano  nelle  Opere  complete.  Ad  essi  bisogna  ag- 
giungre  un  Discorso  su  le  favole  esopiane  premesso  agli  Apologhi  di  A. 
Tuli  e  pubblicato  in  parte  da  C.  Campana  nell'opuscolo  Delle  scienze 


—  184  — 


IL  DELFICO  E  GL'IDEOLOGI.  —  Su  Melchiorre  Delfico  ha 
esercitato  grande  efficacia  tutto  il  movimento  filosofico  francese 
del  secolo  XVIII,  eh'  egli  conosce  assai  bene.  Lo  avvicina  agli 
enciclopedisti  l' eudemonismo,  l' amore  per  le  riforme,  la  lotta 
contro  i  pregiudizi.  Si  capisce  quindi  come  le  sue  opere  doves- 
sero assumere  un  carattere  eminentemente  pratico.  Secondo  lui 
«  non  sono  le  idee  astratte  e  le  sublimi  nozioni  che  possono  far 
meritare  il  titolo  rispettabile  di  filosofo.  Se  la  virtù  non  è  posta 
in  azione,  se  le  grandi  idee  non  diventano  di  qualche  uso,  se  la 
fiaccola  s'asconde  sotto  il  moggio,  non  solo  si  è  in  colpa,  masi 
è  reo  di  lesa  umanità,  colpa  che  meriterebbe  maggior  castigo  che 


e  delle  lettere  in  Teramo  sullo  scorcio  del  sec.  XVIII;  lo  scritto  Della 
solitudine,  pubblicato  nel  Giornale  Abruzzese,  1840,  XV,  pag.  114-144; 
e  una  raccolta  di  pensieri  pubblicata  dopo  la  morte  del  Delfico  dal 
Conte  di  Longano,  Gregorio  De  Filippis,  a  iNapoli,  il  1841,  col  titolo 
seguente:  La  Delficina,  o  sia  raccolta  di  pensieri  di  Melchiorre  Del- 
fico sopra  svariati  argomenti,  rinvenuta  fra  gli  scritti  postumi  di  lui, 
con  un  discorso  e  alcune  note  dell'  editore  (ripubblicata  nelle  Opere 
complete,  pag.  379-395  del  Voi.  IV).  Alcuni  manoscritti  che  furono  af- 
fidati a  Luigi  Dragonetti  (Delfico,  Opere,  Voi.  IV,  pag.  77  e  99-91;  sul 
Dragonetti  vedi  Gentile,  Op.  cit.,  pag.  196-98  e  276-79)  per  l'ultima 
revisione  e  che  si  conservano  nella  Biblioteca  delia  famiglia  Delfico 
non  sono  stati  pubblicati,  perchè  secondo  gli  editori  non  sono  che  un 
rifacimento  d'idee  già  espresse  dall'autore.  È  anche  notevole  l'episto- 
lario, edito  in  parte  nelle  Opere  complete  (Voi.  IV);  il  quale  contiene 
la  corrispondenza  del  Delfico  con  Pasquale  Borrelli,  con  Cataldo  Jan- 
nelli,  con  Destutt  de  Tracy,  con  lo  Spallanzani,  col  Filangieri,  col  Soave, 
col  Dragonetti  etc.  Merita  di  esser  ricordata  anche  una  memoria  Ietta 
il  1819  all'  Accademia  delle  scienze  e  intitolata  Pochi  cenni  su  i  veri 
fondamenti  delle  scienze  morali,  la  quale  rimase  inedita,  ma  ispirò, 
secondo  quanto  dice  il  Delfico  stesso  {Opere,  Voi.  IV,  pag.  56),  V  Essai 
philosophique  sur  le";  phénomcnes  de  la  vie  (Parigi,  1819)  del  Moroan, 
medico  e  filosofo  inglese.  Sono  rimasti  inediti  anche  gli  scritti  filosofici 
seguenti:  Sulle  origini  ed  i progressi  delle  società,  ossia  Saggio  filo 
sofico  sulla  storia  del  genere  umano,  e  Osservazioni  sopra  alcune  dot- 
trine politiche  del  Segretario  fiorentino. 


—  185  — 

il  disprezzo  e  V  oblìo  »  (1).  Tutte  le  ricerche,  arti  e  scienze  che 
non  siano  dirette  a  rendere  gli  uomini  felici,  devono  secondo  lui 
esser  bandite  dalla  cultura  umana  (2);  poiché  non  vi  può  esser 
nulla  di  più  importante  che  lo  stabilire  la  felicità  della  specie  (3). 
Evidente  più  che  in  qualsiasi  altro  scrittore  è  in  lui  l'antisto- 
ricismo. Piuttosto  che  invidiare  ed  ammirare  gli  antichi,  egli  scrive, 
piuttosto  che  aspirare  tutto  giorno  ad  imitarli,  onoriamoli  di  uno 
sguardo  di  compatimento  se  furono  più  lontani  di  noi  dal  cono- 
scere i  veri  principi  della  civiltà  (4).  Per  lui  la  lotta  contro  «  l'im- 
menso ammasso  de'  pregiudizi  e  degli  errori,  retaggio  della  pri- 
mordiale ignoranza  »,  così  bene  iniziata  dalla  libera  ragione  nel 
secolo  XVII  e  XVIII,  non  era  ancora  finita.  Falsi  numi  tenevano 
ancora  sedi  ed  altari  nel  «  tempio  della  sapienza  »  (5).  Perciò 
egli  scrisse  contro  la  credenza  nell'  importanza  della  giurispru- 
denza romana  e  nella  grandezza  del  popolo  romano,  il  quale 
chiamò  abominevole  e  feroce  (6),  contro  gli  assertori  dell'utilità 
dello  studio  della  storia  (7),  contro  i  vecchi  metafisici,  che  si  fon- 
davano su  ipotesi  vaghe.  Lo  accosta  agli  analisti  in  genere  il  ri- 
cercare l'origine  delle  idee  (8),  lo  scomporre  il  complesso  psichico 
nel  semplice  (9),  l'accettare  la  dottrina  che  tutte  le  cognizioni  siano 


(1)  Elogio  del  March.  Grimaldi  in  Opere  complete,  Voi.  Ili,  pag.  244. 

(2)  Delficina,  §§  LUI,  XCVI,  CVI. 

(3)  Memoria  su  la  perfettibilità  organica  in  Opere  complete,  Voi.  Ili, 
pag.  503.  (4)  Delficina,  §§  V  e  VII. 

(5)  Pensieri  su  l'istoria,  Prefazione  {Opere  complete,  Voi.  II,  pag.  13). 

(6)  Ricerche  sul  vero  carattere  della  giurisprudenza  romana  e  de' 
suoi  cultori  {Opere  complete.  Voi.  I,  pag.  90  e  seg.). 

(7)  Pensieri  su  V istoria,  Opere,  Voi.  II.  Per  le  critiche  mosse  al  Del- 
fico per  questo  riguardo  (tra  le  quali  sono  molto  importanti  quelle  di 
Cataldo  Jannelli)  vedi  Gentile,  Op.  cit.,  pag.  66-70.  Per  l'antistoricismo 
dei  filosofi  francesi  vedi  I  Voi.  di  questa  mia  opera,  pag.  29-30.  Il  Delfico 
cita  {Pensieri  su  V  istoria.  Gap.  III)  il  Volney;  ma  secondo  lui  questi 
non  è  andato  sino  in  fondo  nella  critica  della  storia;  egli  va  oltre  il 
filosofo  francese,  che  aveva  sostenuto  1'  utilità  della  storia  per  la  vita 
politica. 

(8)  Indizi  di  morale,  spec.  §  3  {Opere,  Voi.  I,  pag.  1-85),  e  Nuove 
ricerche  sul  Bello,  spec.  Gap.  I  {Opere,  Voi.  II,  pag.  85-294). 

(9)  Indizi  di  morale.  Parte  I,  §  I,  pag.  8.  Vedi  anche  Nuove  ricerche 
sul  Bello,  Discorso  preliminare. 


—  186  — 

un  prodotto  della  sensibilità  (1),  l'uso  d'un  metodo  piano  e  sem- 
plice (analisi),  fondato  sull'esperienza.  Lasciò  scritto  che,  nell'ado- 
lescenza avendogli  la  fortuna  fatto  pervenire  nelle  mani  le  immor- 
tali opere  del  Locke  e  del  Condillac,  parve  che  il  suo  spirito 
prendesse  «  una  nuova  modificazione  ed  un  gusto  particolare  pei 
morali  sentimenti  »  (2);  in  una  lettera  al  Dragonetti  dichiarò:  «  Do- 
poché il  mio  spirito  soffrì  la  modificazione  dal  Trattato  delle  sen- 
sazioni, non  l'ho  turbato  più,  perchè  mi  vi  sono  trovato  comodo, 
non  trascurando  però  le  successive  osservazioni  le  quali  hanno 
potuto  migliorarlo  »;  e  tutte  le  volte  che  gli  si  presenta  l'occasione 
fa  l'elogio  del  Locke,  del  Condillac,  del  Bonnet,  del  Tracy  (3). 
Ma  la  maggiore  efficacia  esercitarono  su  lui  il  Condorcet  e  il 
Cabanis.  Al  Condorcet  infatti  si  riconnette  per  il  concetto  della 
perfettibilità  della  specie  umana,  che,  come  vedremo,  ha  per  lui 
tanta  importanza;  al  Cabanis  deve  le  principali  sue  idee  filosofiche. 
E  lo  confessa:  infatti,  sebbene  nelle  sue  prime  opere  critichi  la 
teoria  del  Condorcet,  che,  secondo  lui,  fu  fissata  e  difesa  dallo 
scrittore  francese  «  in  un  ondeggiamento  dello  spirito  fra  lo 
stato  di   entusiasmo  e  di  ragione  >    (4),    pure  finisce  coU'accet- 


(1)  Dell'  importanza  di  far  precedere  le  cognizioni  fisiologiche  allo 
studio  della  filosofia  {Opere,  Voi.  IH,  pag.  570).  Si  noti  che  negl'Indizi 
di  morale  (Parte  II,  §  II,  pag.  55)  egli  afferma  che  il  giudizio  è  qual- 
cosa di  più  della  sensazione,  e  che  noi  siamo  attivi  giudicando  e  pas- 
sivi nel  sentire.  Tuttavia  non  fa  dell'  attività  giudicatrice  una  funzione 
a  sé,  diversa  dalla  sensibilità,  ma  la  considera  piuttosto  come  una  specie 
di  sensibilità,  che  chiama  sensibilità  riflessa  (vedi  Op.  cit.,  1.  e,  pag.  56). 

(2)  Pannella,  Brevi  cenni  etc,  pag.  IX. 

(3)  Vedi  Nuove  ricerche  sul  Bello,  Discorso  preliminare,  pag.  194; 
Delficina,  §  LVI;  Della  importanza  di  far  precedere  etc,  pag.  582.  Per 
la  lettera  al  Dragonetti  vedi  Opere,  Voi.  IV,  pag.  54. 

(4)  Pensieri  su  l'istoria.  Gap.  Ili  (pag.  106  del  II  Voi.  delle  Opere 
complete).  La  dottrina  della  perfettibilità  della  specie,  di  cui,  come  scrive 
il  Condorcet  stesso  {Esquisse  d' un  tableau  historique  des  progrès  de 
l' esprit  humain,  Paris,  Librairie  de  la  Bibl.  nat.,  1897,  Tome  II,  pag.  15), 
furono  i  primi  e  più  illustri  apostoli  il  Turgot,  il  Price  e  il  Priestley, 
fu  dal  Condorcet  abbozzata  nella  Vie  de  M.  Turgot  (Londres,  1786)  e 
fissata  poi  n(t\V  Esquisse  (pubbl.  il  1795),  in  cui,  considerata  con  uno 
sguardo  vasto  e  sintetico  la  storia  della  cultura  umana  a  traverso  nove 
periodi,  il  Condorcet  ne  ricava  la  legge  della  perfettibilità  indefinita,  e 


—  187  — 

tarla  (1);  quanto  al  Cabanis,  lo  chiama  il  maggior  filosofo  forse 
che  abbia  avuto  la  facoltà  medica  da  Ippocrate  ai  nostri  tempi  »,  e 
scrive  che  le  sue  proprie  idee  non  sono  che  uno  sviluppo  di  quelle 
del  filosofo  francese  (2). 

Vediamo  dunque  come  il  Delfico  applicò  e  svolse  il  pensiero 
del  Cabanis. 


Innanzi  tutto  il  Delfico,  al  pari  del  Cabanis,  crede  nella  ne- 
cessità di  far  precedere  le  cognizioni  fisiologiche  allo  studio  della 
filosofia  intellettuale.  Il  Cabanis  afferma  che  lo  studio  parallelo 
dell'  organismo  e  della  psiche  deve  iniziare  il  nuovo  metodo,  che 


cerca  anche  di  stabilire  i  probabili  progressi  futuri  (decimo  periodo) 
dello  spirito,  che,  secondo  lui,  consisteranno  specialmente  nella  distru- 
zione dell'ineguaglianza  fra  le  nazioni,  nel  diffondersi  dell'uguaglianza 
nei  popoli  singoli,  e  nel  perfezionamento  psichico  e  corporeo  dell'uomo. 

(1)  L'idea  della  perfettibilità  della  specie  da  prima  oscillò  un  po' 
vaga  dinanzi  alla  mente  del  Delfico.  Nelle  Memorie  storiche  della  Re- 
pubblica di  S.  Marino  (Conclusione)  suscitò  in  lui  de'  dubbi.  Nei  Pen- 
sieri su  V  istoria  (Cap.  Ili)  gli  apparve  come  capace  d' *  incontrare 
molte  difficoltà  o  distinzioni  .  Infine,  dopo  la  lettura  dei  Rapports  del 
Cabanis,  fu  da  lui  accettata  senza  incertezze  come  perfettibilità  orga- 
nica e  quindi  (per  il  rapporto  tra  fisi  e  psiche)  anche  psichica. 

(2)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa  considerata  come  il  principio 
fisico  della  sociabilità  della  specie  e  del  civilizzamento  dei  popoli  e 
delle  nazioni,  Parte  I,  pag.  481  del  Voi.  Ili  delle  Opere.  Si  noti  anche 
r  asserzione  de!  Delfico  >  che  1'  uomo  non  è  una  statua,  una  macchina, 
ma  un  essere  vivente  la  cui  forza  sensoria  ora  attiva,  ora  passiva  ci  si 
manifesta  in  una  moltiplicità  di  fenomeni  >  {Nuove  ricerche  sul  Bello, 
Cap.  I,  pag.  209):  la  quale  ricorda  la  critica  mossa  dal  Cabanis  alla 
teoria  del  Condillac.  Si  badi  anche  all'insistere  che  fa  il  Delfico,  come 
il  Cabanis,  sulla  sensibilità  interna  {Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa. 
Parte  I,  pag.  473;  Nuove  ricerche  sul  Bello,  Cap.  1,  pag.  203,  etc).  Si 
noti  infine  che  il  Delfico,  al  pari  del  Cabanis,  accettò,  nelle  Memorie 
storiche  della  Rep.  di  S.  Marino  (1804),  Cap.  IX,  la  così  detta  teoria 
del  clima.  Tuttavia  aveva  respinta  questa  nelle  Ricerche  sul  vero  ca- 
rattere della  giurispr.  romana  (1791),  e  tornò  poi  a  respingerla  nei 
Pensieri  su  V  istoria;  ma  dovette  infine  riavvicinarlo  ad  essa  la  lettura 
dei  Rapports  del  Cabanis. 


—  188  — 

renderà  positive,  di  fantastiche  che  erano,  le  scienze  morali.  Il 
Delfico  (1)  ritiene  che  lo  studio  dei  fatti  fisiologici  possa  divenire 
la  base  reale  che,  dando  unità  alle  varie  dottrine,  ponga  fine  alla 
lotta  delle  sette  filosofiche  (2),  e  renda  efficace  1'  educazione  e 
r  istruzione  pubblica,  suggerendo  regole  positive  sull'  esercizio 
delle  nostre  facoltà  psichiche  (3). 

Ma  il  Delfico  trae  i  principi  stessi  delle  sue  ricerche  dalla  dot- 
trina del  Cabanis.  Per  il  quale  legge  degli  esseri  viventi  è  l'attra- 
zione organica;  perciò  la  simpatia  diviene  per  lui  l'istinto  fonda- 
mentale della  vita,  la  vita  stessa,  e,  siccome  con  le  tendenze  simpa- 
tetiche si  confonde  l' imitazione,  questa  pure  ha  suo  fondamento 
neir  attrazione  organica:  è  quindi  fenomeno  generale  degli  esseri 
viventi,  e  ha  importanza  specialmente  per  l'educazione  e  la  per- 
fettibilità dell'uomo  (4).  Ecco  il  punto  della  dottrina  del  Cabanis 
che  è  sviluppato  dal  Delfico.  Il  quale  comincia  dall' osservare  (5) 
che  i  filosofi  non  hanno  abbastanza  considerato  il  fenomeno  del- 
l'imitazione  nell'origine  sua,  per  vedere  se  esso  abbia  organi  pr.r- 
ticolari  o  particolarmente  addetti  al  suo  esercizio,  e  una  sede 
speciale.  Ora,  sebbene  né  gli  studiosi  delle  funzioni  dell'organismo 
umano,  né  gli  accurati  indagatori  delle  sue  parti  ci  abbiano  po- 
tuto indicare  un  organo  particolarmente  addetto  alla  sensibilità 
imitativa,  pure  dalla  costante  osservazione  si  può  facilmente  rile- 
vare che,  oltre  il  sistema  nervoso,  in  cui  essa  deve  avere  un  centro 
particolare,  due  degli  organi  esteriori  dei  sensi  sono  suoi  stru- 
menti principali:  quello  dell'  udito  e  quello  della  vista.  Appunto 
mediante  questi  organi  si  manifestano  i  primi  atti  dell'  imitazione; 
e  da  essi  dipende  in  gran  parte  1'  ulteriore  svolgimento  di  tale 
facoltà.  Cosicché,  derivando  l' imitazione  da  disposizioni  fisiche 
dell'organismo  che  ne  rendono  necessari  gli  effetti,  l'uomo  é  imi- 
tatore come  è  veggente:  cioè,  ricevendo  date  impressioni  per  i  sensi 
dell'  udito  e  della  vista,  deve  avere  nella  sua  macchina  analoghi 


(1)  Della  importanza  di  far  precedere  le  cognizioni  fisiologiche  etc. 
pag.  567-588. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  574  e  seg.  (3)  Op.  cit.,  pag.  583. 

(4)  Vedi  Voi.  I  di  questa  mia  opera,  pag.  194-201. 

(5)  Vedi  per  tutta  questa  parte  le  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa 
etc,  Parte  I,  pag.  473  e  seg. 


—  189  — 

movimenti  e  modificazioni  corrispondenti  alle  impressioni  ricevute. 
Perciò  fin  dai  più  antichi  tempi  i  primi  conoscitori  dell'  uomo 
(Aristotele  per  es.)  lo  chiamarono  un  animale  imitatore:  quasi  che 
questa  qualità  o  condizione  fosse  la  più  caratteristica  e  costitutiva 
dell'  essere  suo  (1). 

Gli  atti  imitativi  talvolta  sono  volontari,  tal'  altra  sono  invo- 
lontari o  restano  in  uno  stato  intermedio  fra  gì'  istintivi  e  i  vo- 
lontari. Come  mai  in  vero  poter  vedere  l' azione  della  volontà 
nello  sbadiglio  che  si  comunica  agli  astanti,  nel  riso  che  si  ripete 
senza  causa,  nel  sorriso  imitativo  dei  bambini,  nelle  convulsioni 
che  si  propagano  per  effetto  solo  dell'  impressione  ricevuta  pel 
senso  della  vista?  Di  più,  i  medici  conoscono  uno  stato  di  sì  al- 
terata sensibilità  imitativa,  in  cui  il  paziente  con  disgusto  e  do- 
lore e  contro  sua  volontà  si  sente  forzato  ad  imitare  e  ripetere 
tutti  gli  atti  che  vede  compiere;  e  non  trova  altro  modo  di  riposo 
che  il  sottrarsi  alla  vista  di  sì  forti  impressioni.  Tutto  sembra 
dunque  provare  evidentemente  non  solo  che  l' imitazione  abbia 
i  suoi  organi  speciali,  ma  ancora  che-  tali  movimenti  si  compiano 
pur  nel  silenzio  della  volontà.  Data  questa  capacità  importantis- 
sima dell'uomo,  se  ne  devono  avere  molte  manifestazioni  mediante 
gli  organi  detti  (vista  e  udito).  Le  più  importanti  si  riscontrano: 

r  nel  linguaggio  (per  mezzo  dell'udito).  Infatti  l'origine  prima 
del  linguaggio  si  ha  nell'onomatopea,  cioè  nel  ripetere  con  suoni 
articolati  le  impressioni  e  sensazioni  ricevute  per  1'  organo  del- 
l'udito: dunque  in  un'imitazione  dettata  dalla  natura  (2).  I  primi 
uomini   in  vero  crearono  il  linguaggio   imitando  con   la  voce  il 


(1)  Prima  del  Delfico  in  Italia  avevano  parlato  dell'  imitazione  il 
Filangieri  (nel  Tomo  IV  della  Scienza  della  legislazione,  pag.  69)  e 
Mario  Pagano  nel  discorso  Suir  origine  e  natura  della  poesia  (Saggi 
politici,  Napoli,  1783-S5,  Voi.  I,  Append.  al  Saggio  I). 

(2)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa.  Parte  I,  pag.  474.  L'onoma- 
topea  era  comunemente  invocata  dagl'  ideologi  italiani  per  spiegare 
r  origine  del  linguaggio.  Vedi  per  es.  Soave,  Ricerche  intorno  all'  isti- 
tuzione naturale  d' una  società  etc;  Gioia,  Elementi  di  filosofia,  Se- 
zione III,  Art.  II,  Gap.  Vili;  cfr.  Genovesi,  Logica  per  i  giovinetti, 
Libro  I,  Gap.  V.  Anche  il  Pagano,  per  spiegare  il  linguaggio,  ricorreva 
air  onomatopea,  riconnettendosi  al  Vico  (vedi  Gentile,  Op.  cit.,  pa- 
gine 71-72). 


—  190  — 

muggito  del  tuono,  il  fischio  della  folgore,  il  soffio  del  vento,  le 
voci  degli  animali,  il  moto  delle  acque  correnti  e  fenomeni  simili; 
e,  mentre  il  ripetersi  delie  impressioni,  agevolando  i  movimenti, 
produceva  le  abitudini  e  fissava  le  voci,  nel  tempo  stesso  i  suoni 
divenuti  segni  andavano  a  formare  il  deposito  della  memoria  e 
la  base  del  linguaggio.  La  prova  di  questo  è  che  non  solo  le 
lingue  antiche  e  moderne  offrono  numerosi  esempì  d'onomatopea, 
ma  ancora  che  quelle  parole  le  quali  mostrano  una  certa  origi- 
narietà  ed  esprimono  sensazioni  semplici  o  primitive,  son  sempre 
corrispondenti  al  carattere  dell'  impressione  ricevuta:  per  esempio 
le  voci  soave,  dolce,  ameno,  molle,  fluido,  acre,  aspro,  fiero,  duro, 
terribile,  feroce  (1).  Il  De  Brosses  (2),  aggiunge  il  Delfico,  ha  mo- 
strato come  per  una  successiva  imitazione  gli  effetti  delle  impres- 
sioni ricevute  dall'udito  siano  passati  a  indicare  analoghe  modi- 
ficazioni ricevute  dagli  altri  sensi.  L'onomatopea  perciò  si  può 
considerare  come  il  segreto  per  intendere  il  linguaggio. 

È  vero  che  questa  facoltà  onomatopeica,  benché  sia  comune 
a  tutta  la  specie,  non  si  può  considerare  come  generale  e  per- 
manente nel  suo  esercizio;  giacché  lo  stato  di  società  non  ci  fa 
sentire  più  il  bisogno  di  tali  imitazioni.  Tuttavia  scorgiamo  ancora 
le  tracce  di  queste  nei  fanciulli,  che  imitano  non  solo  le  voci 
degli  esseri  viventi,  ma  spesso  i  rumori  di  macchine  e  di  stru- 
menti. Tale  è  poi  la  forza  di  questa  meccanica  imitatrice,  che 
giunge  fino  a  rendere  periodici  i  movimenti  imitativi,  ripetendo 
i  suoni  anche  quando  l'organo  dell'udito  non  ne  riceve  l'impres- 
sione attuale.  È  noto  ai  fisiologi  il  fatto,  riferito  nelle  Transactions 
Philosoph.,  di  queir  imbecille  contadino,  che,  uso  a  ripetere  i 
tocchi  dell'orologio  della  sua  parrocchia,  li  ripeteva  ancora  allo 
stesso  punto,  anche  quando,  per  qualche  accidente  accaduto,  quella 
macchina  restava  in  silenzio.  Ed  io,  aggiunge  il  Delfico,  ho  veduto 
un  fanciullo  di  quattro  anni,  cieco  e  nello  stato  d' idiotismo,  che 
ripeteva  costantemente  alcuni  rumori  anche  lungo  tempo  dopo 
eh'  erano  cessati. 

Pure  in  alcune  specie   d'  animali  si  trovano  esempi  di  attività 


(1)  Seconda   memoria  su  la  perfettibilità   organica,    pag.    544   del 
Voi.  II!  delle  Opere. 

(2)  in  Traile  de  la  formation  mécaniqiie  des  langues,  Paris,  1765. 


—  191  — 

imitatrice  dei  suoni;  così  gli  uccelli,  facendo  gustare  all'uomo  in 
società  le  delizie  dei  loro  accenti  naturali,  apprendono  poi  da  lui 
nuove  e  piià  concertate  cantilene.  Non  è  questa  una  vera  imita- 
zione organica  ?  (1). 

Se  neir  origine  del  linguaggio  tanta  parte  ebbe  l' imitazione, 
pure  mediante  questa  si  conservano  le  lingue;  giacche  solo  per 
imitazione  i  fanciulli  arrivano  gradatamente  a  mettere  in  esercizio 
gli  organi  vocali. 

2"  nella  scrittura  (per  mezzo  della  vista).  Le  lettere  nella  loro 
origine  non  furono  altro  che  immagini  delineate,  le  quali  poi 
passarono  a  indicare  le  semplici  modificazioni  degli  organi  della 
voce,  e  divennero  gli  elementi  della  parola.  Tali  furono  infatti  i 
caratteri  chiamati  simbolici,  usati  nei  tempi  più  remoti,  e  di  cui 
ci  restano  ancora  i  ricordi  nei  libri  e  nei  monumenti.  Furono 
dunque  certamente  prodotti  dell'  imitazione  (2).  Anche  la  stampa, 
che  tanto  giovamento  ha  arrecato  alla  civiltà  dei  popoli,  è  un 
risultato  della  facoltà  imitatrice,  non  essendo  altro  che  un  com- 
plesso di  simboli  che  riproducono  la  scrittura  (3). 

3°  nella  fisonomia  (ancora  per  mezzo  della  vista).  Chi  è  che 
avendo  sorriso  ad  un  bambino  o  ad  una  bambina  di  pochi  mesi 
non  abbia  veduto  quasi  all'  istante  ripetersi  sui  loro  volti  quei 
movimenti  muscolari  che  sono  per  noi  l' espressione  fisica  del 
riso  e  della  gioia  ?  Se  non  vogliamo  attribuir  lor«.  delle  idee  in- 
nate e  la  facoltà  di  farne  uso  ad  arbitrio,  non  possiamo  spiegare 
il  fenomeno  se  non  riconoscendo  una  corrispondenza  naturale 
degli  organi  predisposti  a  produrre  tale  modificazione.  Lo  stesso 
dicasi  di  altri  sentimenti,  per  es.  Io  sdegno,  espressi  dalla  fiso- 
nomia del  bambino  all'occasione  d'impressioni  differenti  (4).  Se 
s'  obietta:  —  Tal  fenomeno  non  si  riscontra  universalmente  —, 
si  risponde:  —  È  vero;  ma  questo  può  accadere  o  perchè  l'occhio 
del  bambino  non  si  fissa  con  attenzione  su  1'  oggetto  che  gli  si 
presenta,  o  perchè  la  sensibilità  è  distratta  da  altre  impressioni 


(1)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa  etc.  Parte  1,  pag.  474  e  475. 

(2)  Op.,  cit.,  Parte  I,  pag    478.  (3)  Op.  cit.,  Parte  li,  pag.  493. 

(4)  Questo  è  uno  dei  fatti  più  discussi  nel  moderno  problema  del- 
l' Einfìihlung.  Vedi  G.  Calò,  L'  «  Einfiihlung  »,  /,  in  Cultura  Filoso- 
fica, anno  IV,  N.  2. 


—  192  — 

più  forti.  Dopo  qualche  anno,  però,  quanto  più  i  fanciulli  diven- 
tano imitatori,  specie  delle  funzioni  liturgiche  e  degli  esercizi  mi- 
litari !  E  non  per  altro  motivo  che  per  la  maggiore  frequenza  e 
intensità  delle  impressioni  che  ne  ricevono.  Per  questa  stessa  ra- 
gione r  imitazione  è  spesso  un  fenomeno  dell'  amore,  in  cui  non 
solo  sono  imitati  i  vezzi  o  le  leziosaggini,  ma  spesso  si  ripetono 
sollecitamente  le  parole  altrui  nel  tacito  moto  delle  labbra  —  (1). 
3°  neW  attività  estetica  (ancora  per  mezzo  della  vista).  Per  il 
Delfico  il  bello,  considerato  negli  oggetti,  consiste  nella  combi- 
nazione di  quelle  qualità  visibili  che  ci  recano  diletto  mediante 
l'organo  della  vista,  e,  riguardo  a  noi,  in  quelle  gradevoli  sensa- 
zioni che  per  lo  stesso  organo  passano  a  impressionare,  pure  di- 
lettevolmente, il  sistema  nervoso;  cosicché  si  potrebbe  brevemente 
definire:  «  tutto  ciò  che  ci  dà  sensazioni  gradevoli  mediante  l'or- 
gano della  vista  »  (2).  Ora,  nei  luoghi  in  cui  gli  oggetti  (rigogliosi 
prodotti  della  vegetazione,  graziose  figure  d'animali,  sublimi  spet- 
tacoli della  natura  circonfusi  di  una  luce  vaga  nei  suoi  riflessi  e 
nei  colori  varieggianti,  e  specialmente  forme  femminili  illuminate 
dai  sogni  d' amore)  suscitavano  più  intensamente  e  più  spesso 
le  dette  impressioni  piacevoli  negli  uomini,  questi  furono  spinti, 
dalla  loro  tendenza  all'  imitazione,  a  rappresentare  i  vaghi  oggetti 
che  si  offrivano  alla  loro  vista.  Così  Tirsi  mosse  incerto  il  braccio 
a  tracciare  su  1'  arena  o  su  le  cortecce  dei  faggi  e  degli  allori 
r  immagine  di  Fillide  lontana.  Così  gli  uomini  primitivi  fissarono 
in  sassi  informi  o  in  rozzi  schizzi  d'animali  o  d'alberi  o  di  numi 
e  d'  eroi  le  loro  più  semplici  impressioni  estetiche.  Certo  non  si 
potevano  chiamar  belli  questi  primi  disegni  delle  forme  viventi, 
questi  primi  ritratti  delineati  dall'amore;  ma  furono  essi  il  germe 
delle  arti.  Quando  poi  l'uomo  potè  formarsi  idee  astratte  e  com- 
plesse, esercitò  la  sua  sensibilità  con  ripetute  sensazioni  analoghe, 
e,  mediante  la  memoria  e  l'immaginazione,  potè  paragonare  varie 
impressioni,  allora  le  sensazioni  passeggere,  divenute  permanenti 
ed  attive,  si  moltiplicarono  con  la  scoperta  di  nuovi  rapporti  fra 


(1)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa,  Parte  I,  pag.  475  e  476. 

(2)  Nuove  ricerche  sul  Bello,  Cap.  1  e  li.  Una  spiegazione  simile 
dava  dell'origine  dell'idea  del  beHo  il  Condillac,  il  quale,  nel  Traile 
des  sens.,  scriveva:  ^  On  appelle  beau  tout  ce  qui  plaìt  à  la  vue,  à 
r  cui  et  au  toucher   >. 


—  193  — 

le  idee  e  gli  oggetti  e  fra  le  idee  stesse;  e  gli  organi  della  sensi- 
bilità e  dell'  intelletto,  così  felicemente  modificati,  trovando  una 
necessaria  corrispondenza  in  quelli  del  movimento  volontario,  cer- 
carono di  rappresentare  gli  oggetti  imitandoli  tecnicamente.  Così 
nacquero  le  varie  specie  di  arti,  e,  se  si  potesse  seguirne  il  progresso, 
si  vedrebbe  come  l'imitazione,  dopo  aver  cercato  a  lungo  d'av- 
vicinarsi alla  natura,  seppe  poi  abbellirla,  e,  senza  offenderla,  su- 
perarne i  confini.  Onde  sorse  il  bello  ideale,  il  quale  si  ottenne 
con  lo  scegliere  le  parti  e  i  modi  che  sono  in  natura,  e  col  com- 
binarli poi  come  in  natura  non  compariscono,  secondo  una  ra- 
gione ideale,  producendo  così  un  complesso  di  qualità  atte  a 
suscitare  nuove  sensazioni  e  idee  di  bellezza  e  di  piacere  (proprio 
come  Omero  tracciò  il  ritratto  di  Agamennone  facendo  una  scelta 
di  organi,  e  come  Anacreonte,  nell'Ode  XXVIII,  dettò  al  pittore 
il  ritratto  dell'oggetto  della  sua  passione  amorosa,  raccogliendo 
in  un  tutto  le  particolari  bellezze  dei  numi). 

Senza  la  facoltà  imitativa  dunque,  che  ha  tanta  parte  in  tutte 
le  operazioni  della  mente  e  tanta  correlazione  con  tutta  la  sensi- 
bilità, il  bello  ideale  e  le  belle  arti  non  sarebbero  sorte  giammai  (1). 

4°  nella  vita  sociale  e  morale  (per  mezzo  della  vista  e  dell'udito). 
Il  più  importante  dei  fenomeni  imitativi  è  la  simpatia,  che  ha 
tanto  valore  nella  vita  morale.  Come  infatti  sorge  per  il  Delfico 
la  vita  morale?  Secondo  lui  non  vi  sono  sensazioni  indifferenti, 
ma  o  piacevoli  o  dolorose.  Ora,  l'uomo,  dopo  aver  ricevute  molte 
di  queste  sensazioni,  riflettendoci  su,  e  generalizzando  le  loro  qua- 
lità, si  forma  l' idea  di  piacere  e  di  dolore,  quindi  di  bene  e  di 
male:  poiché  tutto  ciò  che  suscita  una  sensazione  piacevole  è  per 
lui  un  bene,  mentre  tutto  ciò  che  provoca  una  sensazione  dolo- 
rosa è  per  lui  un  male  (2).  Ebbene,  quando  l'uomo  ha  acquistate 


(1)  Nuove  ricerche  sul  Bello,  spec.  Gap.  Ili,  e  Ricerche  su  la  sen- 
sibilità imitativa,  Parte  I,  pag.  477  e  478.  Vedi  anche  Lettera  al  Chia- 
rissimo Signor  Abate  Don  Gaspare  Selvaggi  sulla  tragedia,  pag.  403 
e  seg.  del  Voi.  IV  delle  Opere.  Alle  Nuove  ricerche  sul  Bello  ha  ac- 
cennato il  Croce  {Estetica,  4»  Ediz,,  Bari,  Laterza,  1912,  pag.  413  e  547), 
perchè  vi  ha  trovati  preannunzi  di  concetti  suoi  (importanza  data  al- 
l' espressione,  critica  dei  diversi  generi  di  stile). 

(2)  Onde  la  grande  affinità  e  relazione  fra  il  bello  e  il  bene  {Nuove 
ricerche  sul  Bello,  pag.  206  e  216,  e  l' intiero  Cap.  VI).  Tutta  questa 
parte  ricorda  il  Condillac. 

13 


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le  idee  di  piacere  e  di  dolore  e  quindi  di  bene  e  di  male,  ed  ha 
conosciuto  nei  suoi  simili  la  stessa  conformità  d' idee  e  di  bisogni, 
cioè  i  rapporti  reali  che  li  uniscono,  sente  per  essi  simpatia.  Ora, 
che  cos'è  la  simpatia?  È  una  manifestazione  della  sensibilità  imita- 
tiva, è  sentire  ciò  che  sente  un  altro:  si  potrebbe  quindi  chiamare 
consensibilità  o  imitazione  interna.  Mediante  essa  infatti  noi  quasi 
imitiamo  psichicamente  gli  altri,  assumiamo  il  loro  stesso  atteg- 
giamento psichico,  veniamo  ad  avere  lo  stesso  stato  d'animo,  e 
spesso  assumiamo,  in  corrispondenza,  anche  lo  stesso  atteggia- 
mento corporeo  (imitazione  esterna).  Se  i  sentimenti  che  un  altro 
prova  sono  dolorosi,  allora  noi,  simpatizzando  con  lui,  proviamo 
compassione.  Ora,  appunto  la  compassione  ha  condotto  gli  uomini 
allo  stato  sociale  e  morale  (1).  Infatti,  se  la  si  esamina  nei  suoi 
elementi,  si  vede  che  essa  consiste  in  un  movimento  interiore,  che, 
suscitato  in  noi  mediante  l'organo  della  vista  o  quello  dell'udito 
dalle  sofferenze  d'  un  essere  sensibile,  dà  origine  a  nuovi  movi- 
menti analoghi  atti  a  liberarci  dalla  pena  o  a  toglierne  la  causa; 
di  modo  che,  per  non  soffrire  più  nel  veder  soffrire  gli  altri,  noi 
cerchiamo  di  aiutarli  e  beneficarli  liberandoli  dalle  loro  pene.  Così 
non  solo  si  stabilisce  a  poco  a  poco  fra  noi  e  gli  altri  un  senti- 
mento di  viva  solidarietà  (s'inizia  quindi  la  vita  sociale),  ma  anche 
cominciano  a  sorgere  in  noi  tendenze  virtuose:  giacché,  dice  il 
Delfico,  la  virtù  non  è  altro  che  l'abito  di  quelle  azioni  che  sono 
piacevoli  e  utili  e  agli  altri  e  a  noi  stessi  (2);  si  forma  quindi  e  si 


(1)  Le  stesse  idee  espresse  il  Delfico  nell'opera  inedita  ricordata 
Saggio  filosofico  sulla  storia  del  genere  umano,  di  cui  dà  un  cenno 
il  Liberatore  {Op.  cit.,  pag.  343). 

(2)  Vedi  Indizi  di  morale,  Parte  1,  §  li,  111,  IV  e  V,  e  Parie  il,  §  1, 
II,  III  e  IV;  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa.  Parte  1,  pag.  479-482. 
Veramente,  quando  il  Delfico  scrisse  gV  Indizi  di  morale  (1775),  non 
poteva  conoscere  i  Rapports  del  Cabanis  pubblicati  il  1802,  né  quindi 
valersene  nella  morale.  Ma  già  gli  erano  famigliari  gli  scritti  dei  pen- 
satori francesi  che  esercitarono  efficacia  anche  sul  Cabanis;  e  poi  egli 
stesso,  neir  ultimo  periodo  di  sua  vita  (nelle  Ricercìic  sulla  sensibilità 
imitativa,  Parte  I,  pag.  479-482),  ripensando  alle  sue  idee  morali,  le 
riconnetteva  al  problema  dell'  imitazione.  Confronta  del  resto  le  sue 
idee  sulla  compassione  con  quelle  del  Cassina  (vedi  pag.  35-36  di 
questo  Voi.). 


—  195  — 

consolida  a  mano  a  mano  il  mondo  morale  con  i  suoi  molteplici 
rapporti.  Siccome  poi  la  civiltà  di  un  popolo  consiste  non  nella 
potenza,  nelle  ricchezze,  nel  lusso,  nelle  arti  e  nelle  scienze,  ma 
precisamente  nella  moralità,  ossia  nelle  abitudini  di  benevolenza 
e  compassione  (1),  ecco  che  con  lo  sviluppo  sempre  maggiore  dei 
sentimenti  e  degli  abiti  morali,  che  possono  divenire  talvolta  ere- 
ditari, sorge  a  poco  a  poco  anche  la  civiltà  di  un  popolo;  cosicché 
anche  questa  ha  la  sua  sorgente  nell'  imitazione  (2). 

Tutti  i  fenomeni  indicati  sono  dunque  effetti  dell'imitazione,  e 
provano  1'  esistenza  d'  un  apparato  organico  della  facoltà  imita- 
tiva, il  quale  partecipa  a  quelli. 


Accertati  questi  fatti,  si  doveva  senza  dubbio  presentare  alla 
mente  pratica  del  Delfico  la  seguente  domanda:  —  Ne  possiamo 
trarre  qualche  giovamento  per  il  genere  umano  ?  — 

S' è  osservato,  risponde  il  Delfico,  che  la  perfettibilità  degl'  in- 
dividui e  della  specie  è  uno  dei  principali  caratteri  della  razza 
umana,  e  che,  essendo  essa  indeterminata  per  sua  natura,  ne  re- 
stano ancora  ignoti  i  limiti.  Esaminando  infatti  gli  organi  dei  sensi 
e  quelli  del  movimento  s'  è  visto  che  in  essi  è  possibile  un  mi- 
glioramento organico,  e  che  quindi  1'  uomo  è  perfettibile  organi- 
camente. Che  cos'è  dunque  la  perfettibilità  organica?  È  la  possi- 
bilità non  di  creare  nei  corpi  viventi  organi  o  facoltà  nuove  atte 
a  procurarci  sensazioni  e  idee  nuove,  ma  di  migliorare  gli  organi 
già  formati,  dando  ad  essi  abitudini  nuove,  le  quali,  quanto  più 
saranno  ripetute,  tanto  più  si  faranno  stabili,  fino  al  punto  da 
diventar  permanenti  ed  ereditarie  (3). 

Ora,  la  perfettibilità  organica  è  la  condizione  indispensabile 
(il  principio  fisico)  dell'educazione:  giacché  questa  non  è  in  fondo 
che  il  miglioramento   organico  (e  quindi   psichico)  dell'  uomo,  e 


(1)  Perciò  il  Delfico  non  ha  simpatia  per  la  civiltà  romana. 

(2)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa,  Parte  II. 

(3)  Seconda  memoria  su  la  perfettibilità  organica,  pag.  536-538.  Per 
il  Delfico  la  perfettibilità  organica  è  propria  dell' uomo,  non  degli  ani- 
mali. Perciò  egli  combatte  il  De  la  Mettrie  {Op.  cit.,  pag.  534  e  seg.). 


—  196  — 

la  dottrina  dell'  educazione  o  pedagogia  non  è  che  la  scienza  la 
quale  ne  indica  i  principi  e  i  metodi  d' esecuzione.  Ebbene,  in 
che  modo  si  può  migliorare  organicamente  1'  uomo  ?  In  fondo, 
dandogli  delle  buone  abitudini;  e,  siccome  queste  si  formano  col 
ripetersi  delle  stesse  impressioni,  sensazioni  o  movimenti  su  gli  or- 
gani sensori,  e  l'organo  dell'imitazione  è  il  più  predisposto  a  tal 
fine,  ecco  che  esso  si  rivela  uno  dei  più  propri  e  adatti  a  ricevere 
i  movimenti  analoghi  e  ad  acquistare  quelle  abitudini  che  s' indicano 
come  il  risultato  dell'educazione:  in  altri  termini,  l'organo  della 
imitazione  diventa  il  vero  organo  della  pedagogia.  Perciò  grande 
utile  può  venire  al  genere  umano  dai  fenomeni  d' imitazione  (1). 

La  prova  di  quanto  s'è  detto  si  può  trovare  in  vari  fatti.  Os- 
servando per  es.  le  scuole  speciali  consacrate  esclusivamente  a 
particolari  professioni,  si  vede  chiaro  come  la  parte  d'  azione,  che 
accompagna  sempre  la  parte  d' istruzione,  non  si  faciliti  fino  al 
punto  da  diventare  abitudine  se  non  per  mezzo  delle  continue 
ripetizioni,  che  fanno  svolgere  la  facoltà  imitatrice.  Così  nelle 
scuole  di  nautica  la  destrezza  straordinaria  e  1'  equilibrio,  che  si 
acquistano  mediante  1'  esecuzione  di  una  grande  molteplicità  di 
movimenti,  sono  miglioramenti  che  si  producono  non  solo  pel  mec- 
canismo delle  facoltà  intellettuali,  ma  per  l' attività  di  tutti  gli 
organi  adoperati  allo  scopo  particolare.  Lo  stesso  può  dirsi  delle 
grazie  e  maniere  d' espressione  che  s' imparano  nelle  scuole  di 
ballo.  Del  pari,  chi  non  sa  quale  differenza  esista  tra  lo  sguardo 
dei  profani  e  quello  dei  pittori  o  professori  di  disegno  nello  scor- 
gere in  un  quadro  l'adempimento  delle  leggi  del  bello?  Ora,  sic- 
come tale  diversità  deve  avere  una  causa,  questa  non  potrà  tro- 
varsi che  nel  particolare  esercizio  dell'  organo  della  vista,  che  la 
natura  ha  reso  capace  di  tanti  movimenti;  si  dovrà  quindi  con- 
cludere che  in  tale  organo  s'  è  prodotto  un  cambiamento;  se  no, 
si  supporrebbe  un  effetto  senza  causa.  Lo  stesso  deve  accadere 
in  coloro  che,  lungamente  esercitati  a  misurar  le  distanze,  acqui- 
stano tanta  abilità  da  potersi  dispensare  degl'  istrumenti  geome- 
trici; e  in  quelli  che,  avendo  gradatamente  esercitato  l' organo 
dell'  udito  secondo  le  regole  dell'  armonia,  percepiscono  quelle 
discordanze  che  restano  inavvertite  ai  profani. 


(1)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa,  Parte  li,  pag.  486. 


—  197  — 

Ma  gli  effetti  sopra  accennati  si  riscontrano  specialmente  nel- 
l'organo che  più  distingue  l'uomo  dagli  altri  esseri  viventi:  quello 
della  voce.  Se  il  vagito  dell'  uomo  rassomiglia  in  qualche  modo 
alle  voci  degli  animali,  quale  differenza  fra  questi  tristi  suoni  e 
la  parola  o  le  modulazioni  del  canto  !  Ebbene,  se  la  parola  è  il 
movimento  di  un  organo  imitativo,  i  gradi  del  suo  perfeziona- 
mento non  potranno  esser  altro  che  le  successive  modificazioni 
che  quell'  organo  va  ricevendo  a  traverso  i  suoi  esercizi,  combi- 
nati con  quanto  l' intelligenza  e  l' immaginazione,  per  i  naturali 
consensi,  gli  possono  partecipare.  Infatti  ai  fanciulli  s'insegna  la 
buona  pronuncia  col  ripetere  loro  i  suoni  e  col  mostrare  talvolta 
ad  essi  la  modificazione  stessa  dell'organo,  il  che  si  fa  specie  con 
quelli  che  o  per  cattiva  abitudine  o  per  qualche  lieve  difetto  or- 
ganico s'allontanano  dalla  retta  pronuncia.  Più  si  troverebbe  vera 
quest'  osservazione,  se  si  volesse  estenderla  alle  modulazioni  ca- 
nore della  voce,  per  le  quali  gli  organi  non  di  tutti  sono  egual- 
mente adatti.  Lo  stesso  si  potrebbe  dire  della  combinazione  istan- 
tanea degli  atti  della  mente  e  del  movimento  rapidissimo  delle 
mani  sulla  tastiera  del  pianoforte,  così  facilmente  e  sorprenden- 
temente eseguito  dai  professori  di  armonia;  e,  se  nella  poesia  si 
volesse  distinguere  la  parte  sublime  appartenente  all'  immagina- 
zione dalla  parte  meccanica  che  ne  costituisce  il  ritmo  e  la  mi- 
sura, si  riconoscerebbe  che  l' abitudine  ai  componimenti  estem- 
poranei dipende  pure  dall'esercìzio  degli  organi. 

Ma  se  i  sensi  esterni  e  gli  organi  del  movimento  sono  suscet- 
tibili di  modificazioni  miglioratrici  e  di  un  maggior  svolgimento 
delle  loro  facoltà,  da  ciò  segue  necessariamente  che  gli  organi 
stessi  del  senso  interno  (i  centri  del  sistema  nervoso),  i  quali  for- 
mano un  tutto  e  sono  in  continuo  concerto  con  quelli  esteriori, 
possono  e  debbono  pur  essi  partecipare  a  questo  perfezionamento. 
Considerando  infatti  i  progressi  successivi  della  facoltà  che  si 
chiama  attenzione,  apparirà  ben  chiaro  che  solo  con  un  esercizio 
lungo  e  ordinato  essa  si  rafforza  e  manifesta  gli  effetti  più  impor- 
tanti. Chi  in  vero  non  ha  sentito  in  sé  stesso  come  nell'esercizio 
dell'attenzione  gli  organi  propri  di  questa  abbiano  un  movimento 
forzato  e  penoso,  che  spesso  non  si  sopporta,  e  come  con  la  ri- 
petizione di  tali  movimenti  si  vada  formando  un'  abitudine  e  svi- 
luppando un'energia  che  facilita  sommamente  le  operazioni  del- 
l'anima e  rende  insigni  le  menti  nella  ricerca  del  vero?  Ciò  che 


—  198  — 

s' è  detto  dell'  attenzione  può  ripetersi  della  memoria;  anzi  spe- 
cialmente nei  fenomeni  della  memoria  si  scorgono  le  felici  ope- 
razioni della  sensibilità  imitativa.  Tutti  questi  fatti  dimostrano 
dunque  con  la  massima  evidenza  che  la  perfettibilità  organica 
costituisce  la  base  del  miglioramento  dell'  uomo  o  il  principio 
generale  dell'  educazione,  e  che  1'  organo  dell'  imitazione  rappre- 
senta il  miglior  mezzo  per  attuarlo.  Così  la  pedagogia  riesce  ad 
acquistare  una  base  fisica,  e  può  arrecare  benefici  grandissimi  al 
genere  umano  (1). 

La  politica  potrebbe  seguire  le  orme  della  pedagogia.  Se  in- 
fatti si  riflette  che,  come  s' e  accennato,  la  vera  civiltà  dei  popoli 
consiste  nella  disposizione  della  sensibilità  più  favorevole  alla  be- 
nevolenza e  nella  manifestazione  dei  sentimenti  più  utili  al  benes- 
sere comune,  si  vede  subito  che  lo  Stato,  dandoci  delle  impres- 
sioni le  quali  modifichino  la  sensibilità  nelle  disposizioni  alla  be- 
nevolenza, potrà  anche  facilitare  il  progresso  morale,  giacché 
r  uomo  morale  non  è  che  il  risultato  delle  impressioni  o  sensa- 
zioni ricevute.  Ora,  se  i  sentimenti  di  benevolenza  si  producono 


(1)  Memoria  su  la  perfettibilità  organica,  pag.  519  e  seg.  Il  Delfico 
crede  di  poter  trarre  vantaggi  straordinari  dalla  perfettibilità  organica, 
anzi  spera  quasi  di  trasformare  e  rigenerare  l'esistenza  e  la  società 
umana.  Il  che  si  capisce  specie  da  ciò  die  dice  riguardo  agli  organi 
vocali.  Questi  secondo  lui  nell'  uomo  si  dovrebbero  chiamare  organi 
della  parola,  non  della  voce;  poiché  gli  animali  sono  capaci  di  emet- 
tere solo  la  voce,  cioè  semplici  suoni,  mentre  l'uomo  pronuncia  suoni 
articolati,  cioè  modificati  differentemente,  secondo  che  l' aria  che  li 
produce  è  obbligata  a  ricevere  le  modificazioni  che  gli  organi  parti- 
colari (gola,  palato,  lingua,  denti,  labbra)  le  comunicano.  Ora,  questa 
differenza  tra  la  voce  dell'  uomo  e  quella  degli  animali  deve  avere  una 
causa;  quindi,  sebbene  gli  organi  vocali  siano  comuni  all'uomo  e  agli 
animali  della  stessa  classe,  bisogna  pur  dire  che  in  essi  si  nasconda 
qualche  differenza  essenziale.  Questa  non  può  consistere  in  un'  imper- 
fezione degli  organi  delle  altre  specie  in  confronto  a  quelli  dell'uomo; 
poiché,  allora,  sussisterebbe  non  una  differenza  assoluta  fra  la  voce 
umana  e  quella  degli  animali  irragionevoli,  ma  solo  irregolarità  e  im- 
perfezione in  quella  dei  bruti.  Deve  dunque  trattarsi  d'una  differenza 
totale,  che  forse  non  è  se  non  una  -differenza  nelle  disposizioni  interne 
degli  organi  del  senso  e  del  movimento  e  nella  corrispondenza  di  questi 
con  quelli  della  voce  e  dell'  articolazione.    Neil'  uomo  forse  gli  organi 


—  199  — 

e  si  aumentano,  o  si  diminuiscono  e  distruggono  in  ragione  delle 
continuate  e  ripetute  impressioni  favorevoli  o  contrarie,  bisognerà 
dare  e  ripetere  nuove  serie  d' impressioni  e  sensazioni,  che,  faci- 
litando agii  organi  dell'  imitazione  i  movimenti  corrispettivi,  pro- 
muovano sentimenti  e  abitudini  di  benevolenza  e  compassione. 
Le  leggi  dovrebbero  mirare  a  questo  scopo,  giacché  esse  sono 
il  primo  e  il  più  potente  stimolo  all'  imitazione.  Anche  ciò  che 
si  chiama  spirito  pubblico,  carattere  nazionale,  amor  di  patria, 
rispetto  delle  leggi  etc.  non  è  che  un  risultato  inavvertito  del- 
l' imitazione,  una  modificazione  necessaria  delle  impressioni  più 
ripetute;  si  può  quindi  creare  non  col  ricorrere  alla  violenza,  al 
timore,  alle  oblique  speculazioni  della  politica,  ma  col  muovere, 
mediante  la  forza  delle  leggi,  gli  organi  dell'imitazione.  Insomma 
la  sensibilità  imitativa  è  il  più  bel  tesoro  per  poter  creare,  diri- 
gere e  diffondere  i  sentimenti  morali.  Così  non  solo  tutte  le  scienze 
morali  vengono  ad  acquistare  un  nuovo  carattere  fondato  sulla 
natura  e  su  rapporti  necessari,  ma  è  anche  trovato  il  mezzo  posi- 
tivo, sicurissimo  per  liberare  V  uomo  dal  pondo  immenso  della 
tenebra  e  dell'  errore,  e  per  farlo  avanzare  nella  via  della  perfet- 
tibilità e  del  progresso  sociale  (1). 


dell'espressione  e  quelli  della  sensazione  sono  più  intimamente  connesi 
che  nei  bruti,  di  modo  che,  sebbene  questi  siano  forniti  di  lingua  e  di 
labbra,  parti  importantissime  dell'  organo  della  parola,  pure  la  mobilità 
di  queste  è  assai  maggiore  nell'  uomo.  11  che  fa  sperare  prima  di  tutto 
che  la  perfettibilità  progressiva,  essendo  una  caratteristica  del  genere 
umano,  possa  rendere  il  linguaggio  ancor  piìi  perfetto;  e  poi  dimostra 
che  non  la  parola  deriva  dalla  facoltà  di  pensare,  ma  questa  da  quella, 
cioè  che  gli  uomini  pensano  perchè  parlano,  non  già  parlano  perchè 
pensano;  infatti,  non  potendosi  negare  ai  bruti  in  certo  modo  il  pensiero, 
la  parola  non  ne  può  essere  il  prodotto;  giacché  non  si  riscontra  in 
quegli  esseri  (bruti)  in  cui  si  riscontra  la  sua  presunta  causa,  cioè  il 
pensiero  {Seconda  memoria  sa  la  perfettibilità  organica,  pag.  542  e 
seg.;  cfr.  Indizi  di  morale,  %  111,  pag.  23  e  seg.).  Ora,  se  le  modifica- 
zioni organiche  possono  produrre  effetti  tanto  importanti  come  la  pa- 
rola e  quindi  il  pensiero  stesso,  che  cosa  non  se  ne  può  sperare? 

(1)  Ricerche  su  la  sensibilità  imitativa,  Parte  II.  Secondo  il  Delfico 
così  non  sorgerebbe  il  regno  della  monotonia;  poiché  le  differenze  ori- 
ginarie organiche  dei  vari  individui  rimangono  sempre  {Mem.  su  la 
perf.  org.,  pag.  519). 


—  200 


OSSERVAZIONI.  —  Il  Delfico  non  ha  fatto  che  sviluppare  e 
combinare  alcune  idee  del  Condorcet  sulla  perfettibilità  e  del 
Cabanis  sulla  simpatia  e  l' imitazione,  considerando  la  facoltà  e 
r  organo  dell'  imitazione  come  il  mezzo  migliore  della  perfettibi- 
lità organica,  propria  dell'  uomo  e  non  degli  animali. 

La  critica  di  questa  concezione  si  trova  in  parte  nelle  sue 
stesse  opere.  «  L'  uomo  »,  egli  dice,  «  non  è  certamente  composto 
di  materia  bruta  e  malleabile,  per  poterne  far  delle  statue  a  nostro 
talento;  ma,  potendosi  considerare  come  una  statua  di  materia 
vivente  ed  animata,  capace  di  tutti  i  moti  corrispondenti  al  per- 
fezionamento della  sua  destinazione,  bisogna  condurlo  secondo 
il  sistema  che  ci  indica  la  natura,  elevarlo  cioè  alle  sublimi  sfere 
del  bello  e  del  vero  »  (1).  Eppure  altrove  ogni  sua  espressione 
fa  credere  eh'  egli  consideri  1'  uomo  proprio  come  un  ammasso 
di  materia  plasmabile  ad  arbitrio.  Tutto  egli -fa  dipendere  dalle 
variazioni  degli  organi,  e  pare  che  lo  spirito  non  abbia  efficacia 
alcuna  nella  produzione  dei  miglioramenti  che  elevano  1'  uomo 
sugli  animali.  Certo  qualche  volta,  senza  volerlo,  vien  notando 
r  azione  dello  spirito  nei  fenomeni  dell'  imitazione:  dice  per  es. 
che  il  perfezionamento  del  linguaggio  dipende  dalle  modificazioni 
dell'  organo  vocale  combinate  con  quanto  l' intelligenza  e  V  imma- 
ginazione per  i  naturali  consensi  gli  possono  partecipare.  Così  nella 
poesia  distingue  la  parte  meccanica  dalla  parte  sublime  dipendente 
dall'  immaginazione  etc.  Ma  dà  la  maggiore  importanza  alle  mo- 
dificazioni organiche;  il  perfezionamento  dello  spirito  è  solo  un 
effetto  del  miglioramento  fisiologico.  Infatti  ammette  anche  un 
organo  dell'  intelligenza  (2);  quindi,  alludendo  all'  azione  dell'  in- 
telligenza, probabilmente  intende  gli  effetti  dovuti  a  quest'  organo. 
Insomma  egli,  accentuando  un  po'  grossolanamente  quelle  tinte 
di  materialismo  che,  evidenti  nei  Rapports,  erano  poi  scomparse 
nella  Lettre  d  M.  Fauriel  del  Cabanis,  vuol  trovare  la  spiegazione 
di  tutti  i  fatti  psichici  nei  fenomeni  fisiologici,  e  derivare  ogni 
manifestazione    psichica  dalla  struttura  di  determinate   parti    del 


(1)  Memoria  su  la  perfettibilità  org.,  pag.  528. 

(2)  Seconda  memoria  su  la  per/,  org.,  pag.  539. 


—  201  — 

sistema  nervoso  (centri)  e  dell'  organismo  in  genere  (1).  Ora,  è 
noto  che  questa  concezione  è  risultata  falsa  alla  prova  dei  fatti, 
perchè,  mentre  vi  sono  aspetti  della  vita  psichica  (senzazioni,  emo- 
zioni, stati  d'  animo,  istinti  etc.)  che  non  possono  esser  spiegati 
senza  tener  conto  del  correlato  fisiologico  (e  specie  su  questi  il 
Cabanis  aveva  opportunamente  insistito),  è  erroneo  voler  derivare 
tutte  le  attività  spirituali,  anche  le  superiori,  dalle  condizioni  or- 
ganiche considerandole  come  effetti  di  queste  (2).  Ebbene,  il  Del- 
fico cade  appunto  in  questo  difetto,  poiché  dice  espressamente 
(press'  a  poco  come  il  Gali)  che  ci  sono  organi  dell'  imitazione, 
dell'  attenzione,  della  memoria,  dell'  intelligenza  etc,  i  quali,  se 
opportunamente  modificati,  possono  migliorare  le  funzioni  psi- 
chiche dipendenti.  Ma  in  tal  caso  non  si  capisce  come  mai  egli, 
ammettendo   una   perfettibilità   organica,  voglia   limitare   questa 


(1)  Si  noti  però  che  il  Delfico  (poco  coerentemente)  retrocede  di- 
nanzi alle  conseguenze  materialistiche  dei  suoi  scritti.  C'è  per  es.  una 
lettera  di  Q.  M.  Giovene  a  lui  (in  data  16  sett.  1834),  in  cui  si  legge: 
«  Mi  è  piaciuto  assaissimo  quanto  dite  della  ideologia  francese  nata, 
fatta  per  spargere  nella  gioventù  l'ateismo  ed  il  materialismo.  Qual 
gusto  barbaro  insieme  e  vile!  Ultimamente  ho  letto  un  opuscoletto  del 
fu  nostro  amico  padre  Soave  sull'ideologia  del  Tracy,  la  quale  io  non 
conosceva.  Peccato  che  allora  non  era  pubblicato  il  Tomo  della  volontà, 
che  è  il  più  assurdo.  Altra  simile  operetta  ho  avuto  da  un  anonimo 
(il  Regoli)  stampata  in  Viterbo.  Su  questa  particolarmente  si  dimostra 
l'opposizione  perpetua  tra  il  Tracy  e  il  Condillac,  che  pur  chiama  suo 
maestro  »  (Delfico,  Opere,  Voi.  IV,  pag.  202).  Da  queste  parole  si 
capisce  che  anche  il  Delfico  la  pensava  press'  a  poco  come  il  Giovene. 
Eppure  egli  era  stato  in  corrispondenza  col  Tracy  negli  anni  1816  e  17, 
gli  aveva  mandato  opere  sue,  e  ne  aveva  ricevuto  il  Trattato  della 
volontà,  i  Principii  logici  e  il  Commentario  sullo  spirito  delle  leggi. 
Inoltre  entrambi  s'erano  scambiate  parole  d'amicizia,  di  lode  e  di  stima 
(Delfico,  Opere,  Voi.  IV,  pag.  232-240;  cfr.  Voi.  II,  pag.  194,  e  Voi.  IV, 
pag.  386).  Si  noti  anche  che  nella  Seconda  meni,  sulla  perf.  organ., 
pag.  536  e  548,  il  Delfico  fa  dichiarazioni  agnostiche,  quindi  non  ma- 
terialistiche. Cfr.  pure  Della  necessità  di  far  precedere  etc.  pag.  582-584, 
e  Opere,  Voi.  IV,  pag.  54-55. 

(2)  Ricorderò  che,  non  ostante  gli  sforzi  dello  Charcot  e  d'altri,  non 
è  stato  possibile  ammettere  neppure  centri  mnemonici  e  gnostici:  tanto 
meno  centri  speciali  del  giudizio,  della  percezione  delle  forme,  dell'atto 
di   ragionare,  della  fantasia  creatrice  etc.  Certo  l'attività  normale  del 


—  202  — 

air  uomo  soltanto.  La  perfettibilità,  se  è  organica,  dovrà  riscon- 
trarsi in  tutti  gli  esseri  viventi,  quindi  anche  nei  bruti  (1).  Ma 
allora  come  si  spiega  la  differenza  che  passa  fra  1'  uomo  e  il 
bruto?  Come  avviene  il  passaggio  dalla  sfera  dell'animalità  a 
quella  della  cultura  umana?  Fermiamoci  per  es.  su  quanto  il 
Delfico  dice  intorno  al  linguaggio.  L'  uomo,  secondo  lui,  è  capace 
di  parlare,  cioè  d' articolare  la  voce,  i  bruti  no;  dunque  negli 
organi  suoi  ci  dev'  essere  qualche  differenza  che  li  distingua  da 
quelli  degli  animali  irragionevoli.  Ma,  noi  possiamo  osservare, 
questa  differenza  fra  gli  organi  dell'  uomo  e  quelli  d'  animali  a 
lui  vicini  nella  scala  zoologica  non  s'  è  potuta  riscontrare.  E  fa- 
mosa l'affermazione  del  Rudolphi  che  la  mancanza  del  linguaggio 
nella  scimmia  non  dipende  da  una  struttura  imperfetta  dei  suoi 
organi;  e  gli  studi  posteriori  non  hanno  potuto  che  confermare 
quest'  affermazione,  poiché  nell'  esame  anatomico  non  s'  è  potuto 
trovare  alcun  carattere  organico  (sia  di  struttura,  sia  di  co:  ne-- 
sione  fra  le  varie  parti)  che  impedisca  agli  animali  superiori  di 
parlare.  Dunque  la  capacità  umana  del  linguaggio  non  può  di- 
pendere dalla  detta  differenza  organica  (2). 

Come  il  Delfico  esagera  l' importanza  delle  modificazioni  or- 


sistema  nervoso  è  una  condizione  indispensabile  anche  per  le  funzioni 
superiori  dello  spirito,  ma  non  le  spiega.  Come  ha  ben  notato  il  Oal- 
luppi,  nello  stesso  modo  che  sarebbe  assurdo  voler  spiegare  le  parti- 
colarità dell'organismo  tenendo  conto  semplicemente  della  natura  degli 
atti  psichici,  sol  perchè  questi  esercitano  un'azione  su  quelle,  così  sa- 
rebbe assurdo  voler  trovare  la  spiegazione  di  tutti  i  fatti  psichici  nelle 
modificazioni  organiche. 

(1)  11  De  la  Mettrie  infatti  nelle  Considerazioni  sugli  esseri  orga- 
nizzati (citate  da!  Delfico)  ritiene  la  perfettibilità  legge  generale  dei 
corpi  organici.  Del  resto  anche  la  dottrina  evolutiva  del  Darwin  e  spe- 
cialmente le  teorie  di  quegli  scienziati  (Kolmann,  Schwalbe,  Klaatsch, 
Ameghino,  Sergi,  Dubois  etc.)  che  hanno  cercato  di  provare  la  deriva 
zione  dell'uomo  dalle  scimmie,  presuppongono  la  perfettibilità  orga- 
nica di  tutti  i  viventi. 

(2)  Non  mi  fermo  su  quanto  il  Delfico  scrive  intorno  al  pensiero, 
che  dice  un  prodotto  della  facoltà  di  parlare,  poiché  e  facile  ritorcere 
il  suo  argomento.  Egli  infatti  dice:  —  Gli  animali  in  certo  modo  pen- 
sano, ma  non  parlano;  dunque  la  parola  non  può  es=er  un  prodotto 
del  pensiero,  perchè,  se  così  fosse,  dovrebbe  riscontrarsi  anche  nei  bruti, 
che  hanno  la  facoltà  di  pensare.  —  Ma  si  può  obiettare:  —  La  parola 


—  203  — 

ganiche,  così  esagera  quella  dell'  abitudine  e  dell'  imitazione  (1). 
Senza  dubbio  questi  fenomeni  hanno  grande  valore,  poiché 
danno  ragione  di  certi  aspetti  della  psiche.  Ma  è  esagerato  vo- 
lerne fare  il  mezzo  per  spiegare  tutta  la  cultura  umana.  L' imi- 
tazione e  r  abitudine  rappresentano  la  parte  automatica,  mecca- 
nicizzata,  morta,  direi  quasi,  dello  spirito  (2).  Accanto  ad  esse 
e'  è  la  vivente  energia  inventiva  e  costruttrice,  che  si  giova  delle 
abitudini  come  di  una  base,  ma  le  supera,  dando  origine  a  feno- 
meni sempre  nuovi,  e  perciò  non  si  spiega  con  l' imitazione.  Anzi 
il  vero  valore  dell'abitudine  sta  non  in  essa  stessa,  ma  nel  fatto 
che  la  sua  meccanicità  o  automaticità  lascia  disimpegnata  parte 
dell'energia  psichica,  e  rende,  così,  possibile  alle  facoltà  superiori 
di  esplicarsi  ed  evolversi  liberamente,  tendendo  a  fini  superiori. 
Onde  il  progresso. 


CAPITOLO  VI.  —  Borrelli 

VITA  E  OPERE  (3).  —  Pasquale  Borrelli  nacque  1'  8  giugno 
1782  in  una  terruzza  della  provincia  di  Chieti,  chiamata   Torna- 


non  può  essere  causa  del  pensiero,  poiché  in  quegli  esseri  in  cui  non  si 
riscontra  la  facoltà  di  parlare  (bruti)  e'  è  invece  (secondo  voi)  il  pensiero. 
Se  causa  del  pensiero  fosse  la  parola,  ove  questa  mancasse,  non  si 
dovrebbe  trovare  neppur  quello.  Inoltre  è  noto  che  il  Whitney  ha 
giustamente  osservato  che  il  sordomuto  non  parla,  eppure  pensa.  Come 
dunque  la  parola  potrebb' essere  causa  del  pensiero?  — 

(1)  Ai  giorni  nostri  anche  il  Tarde  e  il  Baldwin  hanno  considerato 
r  imitazione  come  il  segreto  per  spiegare  l' evoluzione  psichica  del  bam- 
bino e  i  fenomeni  sociali.  Vedi  Tarde,  La  logiqiie  sociale,  Alcan,  Paris, 
4"  Ediz.,  1912;  Les  lois  de  l' imitation,  6»  Ediz.,  Paris,  Alcan,  1911;  Les 
lois  soriales  -  Esquise  ci'  ime  sociologie,  Alcan,  Paris,  7^  Ediz.,  1913; 
Baldwin,  Le  développement  mental  cliez  l' enfant  et  dans  la  race, 
Trad.  Nourry,  Paris,  Alcan,  1897,  e  Social  and  ethical  interpretations 
in  mental  développement,  Third,  New-Jork,  1902. 

(2)  Infatti  gli  esempi  che  il  Delfico  dà  son  quasi  tutti  d' animali, 
d' imbecilli  e  ri'  idioti. 

(3)  Bibliografia  di  Pasquale  Borrelli,  Coblenz,  presso  Griinbach 
figlio,  1840  (è  probabilmente  un' autobio-bibliografia)  ;  Poli,  Op.  cif., 
Voi.  IV,  §§  440-442;  0.  Gentile,  Op.  cit..  Gap.  IV. 


—  204  — 

reccio  (1);  suo  padre  Gaudenzio  era  ritenuto  dotto  nelle  scienze 
naturali,  e  la  madre  Concetta  d'  Antonio  era  non  meno  colta  che 
pia.  Nel  quarto  anno  di  sua  vita  perde  il  padre;  onde  fu  affidato 
per  i  primi  studi  alla  cura  di  uno  zio  prete,  versato  nei  classici 
latini.  Questi,  per  procurare  qualche  sodisfazione  all'  ingegno  di 
lui,  che  già  si  annunziava  vigoroso,  pensò  di  vestirlo  dell'  abito 
di  chierico  e  di  presentarlo  al  pubblico  di  sul  pergamo  secondo 
un  costume  comune  in  Abruzzo.  Così  ad  otto  anni  egli  recitò 
il  panegirico  della  Madonna  del  Carmine,  a  dieci  quello  di  S.  Ni- 
cola di  Bari.  AH'  età  di  quattordici  anni  fu  mandato  a  studiar 
filosofia  e  matematiche  nel  Collegio  delle  Scuole  Pie  di  Chieti, 
ove  allora  le  insegnava  con  molta  fama  il  Padre  Aquila  (2).  Dopo 
il  corso  d'  un  biennio  dovette  sostenere  un  esame  pubblico:  egli 
rispose  su  tutte  le  parti  del  calcolo  differenziale  ed  integrale  e 
su  r  applicazione  di  esso  a  dieci  teoremi  della  filosofia  naturale 
di  Newton.  Tornato  al  suo  paese,  rendeva  i  più  caldi  ringrazia- 
menti al  P.  Aquila,  il  quale  gli  rispondeva:  «  Io  non  sono  otato 
che  testimonio  del  portentoso  sviluppo  dei  vostri  talenti  ».  Nel 
novembre  del  1798  si  recò  a  Napoli  per  studiarvi  medicina,  e 
coltivò  specialmente  1'  anatomia,  la  fisiologia  e  la  chimica  speri- 
mentale. Nel  1803,  all'età  di  ventun  anno,  pubblicò  in  latino 
un'opera  intitolata:  Principia  zoognosiae  medicinam  physicae  legibus 
scientifica  methodo  superstruentia,  concinnata  ad  usum  domestici 
auditorii  Pasch.  Borrelli  (Neapoli,  MDCCCIII,  ex  typ.  Perge- 
riana)  (3).  Come  si  capisce  dal  titolo,  egli  compose  questo  lavoro 
per  la  scuola  privata  di  scienze  naturali  eh'  egli  teneva.  In  quel 
tempo  però   ebbe   anche   l' incarico   d' insegnar    pubblicamente, 


(1)  Un  Borrelli  da  me  conosciuto  in  Abruzzo  mi  ha  assicurato  che 
la  famiglia  Borrelli  ancora  esiste  a  Tornareccio. 

(2)  Nei  Principi  dì  zoaritmia  (1807)  il  Borrelli  si  dichiarava  debitore 
a  questo  padre  della  sua  istruzione  in  filosofia  e  in  matematica. 

(3)  L'opera  fu  poi  tradotta  in  italiano  dal  dott.  Francesco  Romani 
(Napoli,  1808,  presso  Coda).  In  quest'  opera  egli  applicò  e  sviluppò  i 
principi  del  sistema  di  Giovanni  Brovvn.  Nel  I  Libro  mostrò  che  la  vita 
è  l'effetto  dell'  eccitabilità  o  forza  organica  messa  in  moto  dallo  stimolo, 
e  che  quindi  è  misurata  dal  prodotto  di  queste  due  cause  (tale  relazione 
egli  chiamò  legge  zoaritmica).  Negli  altri  libri  applicò  i  risultati,  otte- 
nuti nel  primo,  alle  malattie  e  alle  cause  loro. 


—  205  — 

nell'Ospedale  Regio  di  S.  Giacomo  degli  Spagnoli,  col  grado 
di  professore  straordinario.  Oramai  era  tanto  innanzi  in  questo 
genere  di  studi,  che  da  tutti  si  credeva  ne  avesse  fatto  l' oggetto 
d'  un'  occupazione  permanente.  Ma  gli  amici,  che  tra  i  suoi  pregi 
scorgevano  una  non  ordinaria  eloquenza,  lo  consigliarono  di 
far  rifulgere  questa  nei  dibattiti  del  foro.  Per  istruirsi  nelle  leggi 
studiò  da  sé  il  Commento  di  Voetio  alle  Pandette  e  il  Diritto  del 
Regno  di  Giuseppe  Maffei  (1);  e  aiutato,  nella  pratica,  da  un 
giovane  procuratore,  si  lanciò  nelle  arringhe  degli  avvocati;  nel 
1805  anzi  pubblicò  alcuni  scritti  a  favore  dei  suoi  clienti.  Una 
grave  sventura  interruppe  però  i  suoi  progressi  in  questa  nuova 
carriera.  Quasi  sul  punto  di  stringersi  in  legame  nuziale  a  un'eletta 
fanciulla,  che  si  segnalava  per  ingegno,  modestia  e  grazia,  ebbe 
a  piangerne  la  morte.  Ella  era  Rosina  Scotti,  nipote  di  quel  Mar- 
cello Scotti,  pio  sacerdote,  che,  salito  a  gran  fama  per  le  sue  pro- 
fonde conoscenze  archeologiche,  fu  poi  una  delle  vittime  dei  pro- 
cessi del  1799  (fu  giustiziato  nel  Mercato  il  4  gennaio  1800). 
Sorella  del  suo  spirito  e  del  suo  cuore  (com'  egli  stesso  dice),  colta 
da  tifo,  morì  quando  appena  aveva  toccato  il  suo  ventunesimo 
anno.  Il  Borrelli  ne  provò  fiero  dolore;  al  quale  diede  sfogo  de- 
dicando alla  povera  morta,  nel  1807,  i  Principii  di  Zoaritmia  (2), 


(1)  Si  tratta  delle  Institutiones  jiiris  civilis  NeapoUtanorum,  in  quibiis 
legiim  NeapoUtanorum  origines  ac  velerà  et  nova  Regni  instituta  enar- 
rantur,  1784.  Il  Gentile  {Op.  cit.,  pag.  96)  attribuisce  il  Diritto  del 
Regno  a  Scipione  Maffei;  ma  dev'  essere  una  svista,  che  Scipione  Maffei 
non  ha  scritto  mai  nulla  di  simile.  L'  opera  in  questione  è  invece  di 
Giuseppe  Maffei,  celebre  giureconsulto,  nato  il  28  febbraio  1728  a  So- 
lofra,  professore  di  giurisprudenza  all'  Università  di  Napoli,  morto  il 
20  marzo  1812. 

(2)  II  Borrelli  suppone  in  quest'opera  che  l'eccitabilità  o  forza  or- 
ganica di  un  animale  al  suo  concepimento  sia  divisa  in  diciannove 
gradi,  e  in  altrettanti  lo  stimolo.  Colloca  i  primi  in  una  linea  superiore 
orizzontale,  i  secondi  in  una  verticale,  in  modo  che  quella  formi  con 
questa  un  angolo  retto.  I  prodotti  di  ciascuno  dei  primi  per  ciascuno 
dei  secondi  son  collocati  nel  mezzo,  come  nella  tavola  pitagorica;  e 
rappresentano  i  diversi  gradi  della  vita,  la  quale,  come  si  è  detto,  è 
proporzionale  alla  forza  organica  moltiplicata  per  lo  stimolo.  Con  questo 
quadro,  secondo  il  Borrelli,  si  può  dar  spiegazione  del  corso  ordinario 
della  vita  dal  concepimento  alla  morte,  della  veglia  e  del  sonno,  della 


—  206  — 

e  componendo,  insieme  con  alcuni  suoi  amici,  una  raccolta  di 
versi  e  di  prose,  nella  cui  dedica,  rivolgendosi  alla  fanciulla,  esprime 
il  suo  amore  per  lei  e  una  grande  ammirazione  per  il  padre  e 
per  le  vittime  del  '99.  Immerso  nel  cordoglio,  aborriva  ormai  le 
occupazioni  di  prima;  perciò  i  suoi  amici  credettero  di  procu- 
rargli un  sollievo  spingendolo  sulla  via  degl'  impieghi  pubblici; 
e  valse  a  deciderlo  piìi  di  tutto  il  consiglio  di  Melchiorre  Delfico, 
che  lo  amava  come  un  figlio. 

Allora  il  Regno  di  Napoli  era  occupato  dall'esercito  francese. 
Per  un  sol  anno  il  Borrelli  fu  segretario  generale  della  commis- 
sione destinata  a  decidere  le  cause  fra  i  baroni  e  i  Comuni.  Nel 
1808  fu  chiamato  a  un  ufficio  simile  presso  la  prefettura  di  polizia 
sotto  Giuseppe  Bonaparte.  Lo  tenne  per  tre  anni,  promovendo 
leggi  e  disposizioni  giuste  e  liberali  (1).  Onde  ne  ebbe  elogi  dalle 
persone  dabbene;  ma  forte  fu  pure  la  reazione  dei  tristi  repressi 
(aveva  per  es.  fatto  il  processo  a  coloro  che,  fingendo  congiu- 
rare ed  eccitando  persecuzioni,  avevano  sparso  per  tre  anni  il 
terrore  e  il  lutto;  ed  alcuni  che  avevano  ritentate  le  medesime 
arti  erano  stati  scoperti  e  stretti  nel  forte  d'  Aquila  etc).  Perciò 
egli,  stanco  della  lotta  e  non  curando  la  diminuzione  dello  sti- 
pendio, chiese  il  passaggio  a  giudice  d'appello.  L'ottenne  il  1812, 
sotto  Murat.  Intanto,  <  sollevandosi  dalla  sua  annosa  tristezza  »  (2), 


predisposizione  alle  varie  specie  di  malattie,  dei  passaggi  dalla  salute 
allo  stato  morboso  e  da  uno  stato  morboso  a  un  altro,  in  fine  dell'or- 
dine con  cui  si  devono  graduare  gli  stimoli  o  le  sottrazioni  di  essi  per 
ristabilir  la  salute.  Lo  sviluppo  di  tutte  queste  idee  può  essere,  secondo 
il  B.,  diretto  in  tutti  i  particolari  dal  calcolo  algebrico.  Un  discepolo 
del  B.,  Gius.  Saliceti,  scrisse  in  proposito  i  vantaggi  dell'  applicazione 
del  calcolo  alla  medicina  (Teramo,  Carducci,  1S05). 

(1)  Durante  questo  periodo  di  tempo  pubblicò  una  Dissertazione 
sui  poemi  d'  Ossian  in  Biblioteca  analitica  di  scienze  e  belle  arti  di 
Napoli  (a  pag.  18  della  Bibliografia  di  P.  D.  si  legge  la  data  di  pubbli- 
cazione Ì811,  poi  invece,  a  pag.  83,  1810).  Considerava  in  essa  i  carat- 
teri del  poema  epico.  Ne  die  fuori  la  prima  parte;  stava  per  pubbli- 
care la  seconda,  quando  il  Delfico  gli  osservò  che  le  sue  ampie  teorie 
non  dovevano  essere  applicate  solo  ai  poemi  di  Ossian.  Perciò  il  Bor- 
relli voleva  rifare  il  lavoro  in  modo  che  abbracciasse  i  più  celebri 
poemi  epici.  Ma  poi  non  se  ne  occupò  più. 

(2)  Bibliografia  di  P.  B.,  pag.  9. 


-  207  — 

non  avendo  più  in  famiglia  che  de'  vecchi  zii  e  la  madre,  aveva 
condotto  in  moglie  una  bella  e  spiritosa  signora  pugliese,  di  Mo- 
nopoli, Carolina  Accinni,  la  quale  era  separata  dal  marito  e  in 
lite  con  questo.  Il  Borrelli,  conosciutala  intorno  il  1800,  l'aiutò 
nella  lite,  e,  ottenuto  per  lei  il  divorzio,  allora  in  vigore  a  Napoli 
secondo  il  codice  napoleonico,  se  la  sposò  (1). 

Tenne  l'ufficio  di  giudice  non  molti  anni;  che  nel  1815  fu  re- 
staurato il  governo  borbonico  e  quindi  abolito  il  divorzio;  onde, 
sorta  una  nuova  lite  per  la  morte  del  primo  marito  dell' Accinni, 
Ferdinando  I  v  si  lasciò  trarre  in  inganno  da  un  destro  calun- 
niatore »  (2),  e  il  4  febbraio  1817  privò  della  toga  il  Borrelli. 
L'  accusa  cadde  su  principi  religiosi  e  politici,  e  sopra  tutto  sul 
modo  in  cui  era  stato  stretto  il  matrimonio  con  1'  Accinni.  Egli 
«  provò  d'  essersi  conformato  in  ogni  cosa  alle  regole  del  con- 
cilio di  Trento  »  (3);  ma  il  re,  «.  non  permettendogli  la  sua  co- 
scienza d'  avere  un  magistrato  che  aveva  menata  in  moglie  una 
divorziata  sotto  1'  occupazione  militare  »,  non  volle  sentir  ragioni. 
Al  divulgarsi  della  notizia,  tutt' e  tre  le  sezioni  della  Corte  d'Ap- 
pello nella  quale  egli  sedeva  sospesero  le  deliberazioni,  e  indi  a 
poco  si  sciolsero.  «  La  casa  del  destituito  offrì  tal  folla  di  visite 
e  di  persone  sì  onorande,  che  forse  altra  simile  non  fu  veduta 
giammai  nelle  abitazioni  degli  uomini  più  cari  alla  fortuna  »  (4). 
Tornò  semplice  avvocato  nel  foro,  e  quel  giorno  la  sala  del  Tri- 
bunale fu  per  lui  cambiata  in  «  teatro  di  gloria  ».  Infine  il  grande 
numero  dei  clienti  che  ricorrevano  a  lui  provò  quanto  fosse  sti- 
mato da  tutti.  Perciò  egli  non  solo  non  fece  alcun  passo  per  ri- 
cuperare l'ufficio,  ma  al  Ministro  di  Giustizia,  che  gli  consigliava 
di  chiedere  il  terzo  del  soldo  (lasciato  a  molti  magistrati  dimessi 
dal  governo  di  Ferdinando  I),  rispose:  «  Non  amo  d'  avere  alcuna 
cosa  che  possa  essermi  tolta  da  nuova  calunnia  »  (5).  Per  tre  anni 


(1)  Fu  questo  l'unico  caso  di  divorzio  avvenuto  a  Napoli  nel  periodo 
di  circa  sei  anni  e  mezzo  in  cui  il  divorzio  vi  fu  in  vigore,  e  seguito 
da  matrimonio  di  uno  dei  due  coniugi  divorziati.  Vedi  B.  Croce,  // 
divorzio  nelle  Provincie  napoletane  (1809-1815)  in  La  scuola  positiva, 
Napoli,  1891. 

(2)  Bibliografia  di  P.  B.,  pag.  9.  (3)  Op.  cit.,  pag.  9,  nota. 
(4)  Op.  cit.,  pag.  10.               (5)  Op.  cit.,  pag.  10. 


—  208  — 

la  sua  fortuna  prosperò  nel  foro,  ma  ben  presto  venne  a  porla 
in  soqquadro  la  rivoluzione  del  luglio  1820.  A  causa  e  della  stima 
ch'egli  godeva  presso  tutti  i  partiti  e  della  prontezza  nell' operare 
e  della  forza  del  dire,  fu  chiamato,  mentre  meno  se  1'  aspettava, 
all'ufficio  di  Presidente  della  Pubblica  Sicurezza.  Da  prima  esitò 
ad  accettarlo;  cede  poi  alle  autorevoli  insistenze  del  principe  vi- 
cario del  Regno,  ma  <  siccome  uomo  che  presagisce  il  suo  danno 
e  non  ha  forza  di  evitarlo  >  (1).  Trovò  lo  Stato  in  condizioni 
assai  strane:  la  carboneria  era  vincitrice,  ed  armata  la  guardia 
nazionale;  la  milizia  intorbidata  dalle  vendite;  il  governo  regale 
umiliato,  timido  e  inerme;  la  plebe  agitata.  Pure  con  la  sua  abilità 
seppe  mantenere  la  calma  e  prevenire  1'  anarchia.  Intanto  la  pro- 
vincia di  Chieti  lo  mandava  quale  deputato  al  Parlamento.  Il  2  ot- 
tobre 1820  ne  fu  nominato  Presidente  (2).  Conseguì  molta  lode 
fino  a  che  continuò  quello  stato  di  cose;  ma,  appena  disciolto 
r  esercito  e  cambiata  la  fortuna,  provò  tutti  i  mali  a  cui  sono 
esposti  coloro  che  hanno  combattuto  gli  eccessi  delle  fazioni  ir- 
ritate. Fu  in  ira  egualmente  e  ai  rigorosi  assolutisti  e  ai  liberali 
sfrenati.  I  primi  lo  fecero  imprigionare  in  Castel  Sant'Elmo  e  poi 
cacciare  in  esilio  con  altri  venti  napoletani,  fra  cui  il  Colletta,  il 
Pepe,  il  Poerio.  Gli  altri  lo  compresero  nel  numero  di  coloro  che 
avevano  contribuito  alla  caduta  strepitosa  del  governo  costi- 
tuzionale (3). 

Si  recò  dunque  esule  a  Trieste;  ma  dopo  diciotto  mesi  dovette 
ritirarsi  col  Poerio  a  Gratz,  ove  rimase  tredici  mesi;  cinque  mesi 
passò  tra  Baden  e  Vienna,  sempre  accolto  con  benevolenza  e 
onori.  Coltivò  allora  con  particolare  passione  gli  studi  filosofici, 
imparò  il  tedesco,  e  così  potè  conoscere  direttamente  le  opere 
di  Kant  ed  alcune  critiche  mosse  in  Germania  al  filosofo  di  Koe- 
nigsberg.  Dando  forma  determinata  e  definitiva  a  idee  germogliate 


(1)  Op.  cit.,  pag.  11. 

(2)  Questo  si  legge  nella  Bibliografia,  pag.  12.  Il  GENTILE  invece 
dice:  Vice  f-'residente  {Op.  cit.,  pag.  98). 

(3'  Anche  il  Colletta  nella  sua  Storia  del  reame  di  Napoli  non  gli 
risparmiò  accuse  derivanti  forse  da  segreto  rancore  personale.  11  Bor- 
relli  si  difese  nel  Saggio  sul  romanzo  storico  di  Pietro  Colletta,  pub- 
blicato in  appendice  alla  Bibliografia  di  P.  B.,  dove  anche  attaccò 
aspramente  il  lavoro  dell'  avversario. 


—  209  — 

nella  sua  mente  prima  del  suo  ventesimo  anno  e  a  poco  a  poco 
sviluppatesi  (1),  scrisse  allora  le  due  opere  sue  principali,  che 
pubblicò  a  Lugano  con  l'anagramma  dà  Pirro  Lallebasque:  V In- 
troduzione alla  filosofia  naturale  del  pensiero  (1824)  e  i  Principii 
della  genealogia  del  pensiero  (1825)  (2).  Le  quali  rappresentano 
solo  una  parte  del  grandioso  edificio  filosofico  eh'  egli  voleva 
costruire.  Infatti  aveva  l' intento  di  scrivere  una  specie  d' enciclo- 
pedia delle  scienze,  componendo  le  seguenti  opere:  I  Principii 
della  genealogia  del  pensiero;  II  Saggio  di  una  storia  delle  idee; 
III  Principii  di  taxipatla  o  classificazione  degli  affetti;  IV  Prin- 
cipii di  ennigiene  o  sia  teoria  del  pensiero  sano;  V  Principii  di 
jasennia  o  sia  medela  del  pensiero  morboso;  VI  Principii  della 
scienza  delle  scienze  o  sia  della  scienza  universale;  VII  Principii 
di  enninomia  o  sia  saggio  sulle  leggi  del  pensiero;  Vili  II  domma 
dell'  immortalità  dell'  anima  considerato  in  quanto  alla  morale 
alla  politica  e  alle  belle  arti  («  in  quest'opera  »,  avverte  il  Bor- 
relli,  «  si  difenderà  espressamente  la  semplicità  o  sia  immateria- 
lità dell'anima  umana  »);  IX  Le  concordanze  della  lingua  greca 
con  la  teoria  del  pensiero  (3).  Parrebbe  che  avesse  scritto  qualche 
altra  parte  di  questa  enciclopedia  scientifica,  ma  che  gli  fossero 
stati  sottratti  i  manoscritti.  Infatti  così  egli  scrisse  n^W  Introdu- 
zione alla  filos.  nat.  del  pensiero:  «  Due  grossi  quaderni  apparte- 
nenti alle  opere,  delle  quali  finora  è  dato  conto,  e  molti  altri  miei 
manoscritti  di  letteratura  àn  cessato  da  qualche  mese  indietro  di 
essere  in  mio  potere.  Perdono  a  colui  che  li  ritiene  la  violazione 
della  ospitalità,  della  buona  fede  e  della  giustizia.  Io  gli  perdono 
il  male  che  mi  à  fatto,  e  quello  molto  piìi  grande  che  intendeva 
di  farmi.  Spero  che  questo  pubblico  avviso  basterà  a  rischiarare 
gì'  incauti,  co'  quali  à  potuto  far  mercato  de'  miei  poveri  auto- 
grafi. Fortunatamente  ò  di  che  supplirli,  benché  non  senza  fa- 
tica »  (4). 


(1)  Bibliografia,  pag.  18. 

(2)  V  Introduzione  fu  annunziata  in  Antologia,  dicembre  1824,  pa- 
gine 177-178.  Neil'  Antologia  stessa  (gennaio  1827,  pag.  83-101,  e  set- 
tembre 1830,  pag.  75-86)  il  Mamiani  pubblicò  una  recensione  sui  Prin- 
cipii, criticandoh',  ma  anche  lodandoli. 

(3)  Introduzione  alla  filos.  naturale  del  pensiero,  pag.  238. 

(4)  Op.  alt.,  pag.  235,  nota. 

14 


—  210  — 

Ma  nessuna  parte  pubblicò  più,  di  questa  enciclopedia.  Le  sue 
opere  filosofiche  fondamentali  son  rimaste  V  Introduzione  e  la  Ge- 
nealogia citate.  Queste  furono  accolte  con  entusiasmo  dal  Delfico, 
che  così  scriveva  al  Borrelli  il  23  dicembre  1826  da  Teramo: 
«  Quando  mi  pervenne  l' Introduzione  di  Lallebasque  credei  ve- 
dere un  messaggero  celeste,  precursore  della  verità  e  del  dominio 
della  ragione;  e  nella  rapidità  del  momentaneo  paragone  della 
mente  dissi:  —  Ecco  un  Bacone  in  Italia,  ma  nel  secolo  XIX!  — 
Tutto  confermava  infatti  quest'immagine  nata  all'istante....  »  (1). 
«  Ma  quando  fra  la  sorpresa  e  la  gioia  pervenni  alla  pagina  188 
nella  quale  1'  autore  espone  la  serie  di  quelle  idee  che  colla  Ge- 
nealogia del  pensiero  debbono  dare  la  genesi  di  tutta  la  scienza 
dell'uomo,  alla  sorpresa  si  accompagnarono  le  più  fondate  spe- 
ranze, le  quali  sorgono  alla  pag.  198  nella  riunione  della  Ideologia 
alla  Fisiologia:  concordia  sempre  proposta  da'  più  ben  intenzio- 
nati filosofi,  e  non  mai  eseguita  con  esito  felice;  ma  che  non 
potrà  mancare  di  venire  a  compimento  sotto  la  mano  d'un  gran 
Fisiologo  ed  Ideologo  ad  un  tempo,  e  che  vede  queste  due  ope- 
razioni combinate  come  un  fenomeno  dell'  uomo  »  (2).  Quando 
poi  ebbe  in  dono  anche  i  due  primi  volumi  della  Genealogia,  così 
scrisse  all'amico  il  20  marzo  1829:  «  La  sezione  terza  mi  è  parsa 
tutta  nuova  e  sublime.  Lo  studio  de'  rapporti  parmi  la  strada  a 
ogni  sapere;  strada  però  poco  frequentata  finora  tanto  nelle  co- 
gnizioni fisiche  che  nelle  morali,  e  voi  l' avete  così  felicemente 
illuminato  »  (3). 

Passato  il  triennio  dell'  esilio,  potè  tornare  in  Italia;  e  stette 
quasi  un  anno  in  Toscana.  Nell'agosto  del  1825  faceva  la  cura 
di  acque  termali  ai  Bagni  di  San  Giuliano  (Pisa),  quando  vi  giunse  la  ^ 
notizia  eh'  egli  poteva  tornare  in  patria.  Gli  abitanti  del  piccolo  tfà 
Comune  si  raccolsero  subito  intorno  all'  edificio  in  cui  egli  di- 
morava, e  con  grida  di  gioia  prevennero  l'avviso  che  poco  dopo 
gli  fu  dato  dal  podestà  del  paese.  <  Giunto  il  dì  della  partenza, 
essi  tutti  circondavano  la  vettura  da  viaggio  che  di  unita  alla  sua 


(1)  Lo  stesso  giudizio  il  Delfico  espresse  in  due  lettere  al  Dragonetti 
{Opere,  Voi.  IV,  pag.  52  e  54); 

(2)  Delfico,  Opere,  Voi.  IV,  pag.  308-309. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  310. 


—  211 

sposa  dovea  ricondurlo  alla  patria;  ed  accomiatato  dalle  loro  la- 
grime, e  lagrimando  con  essi,  e  ricevendo  e  rendendo  i  piìi  te- 
neri auguri,  si  pose  in  viaggio  »  (1).  Festose  accoglienze  ebbe 
anche  a  Napoli,  dove  riprese  ad  esercitare  la  professione  d'  av- 
vocato. Durante  la  sua  assenza,  il  governo  aveva  esaminati  i  conti 
dell'  amministrazione  eh'  egli  aveva  tenuta  come  presidente  del- 
l'assemblea  dei  deputati.  L'unica  irregolarità  trovata  fu  che  il  Bor- 
relli  aveva  fatto  pagare  ad  un  usciere  del  parlamento  l' intiero 
soldo  dell'ottobre  1820,  mentre  egli  era  entrato  in  ufficio  il  2  di 
quel  mese.  Così  il  suo  debito  fu  meno  d'un  ducato.  Del  che  scri- 
vendo il  Delfico  ad  un  suo  amico  di  Milano,  diceva:  «  Il  mio 
Borrelli  ha  voluto  esser  simile  più  al  Bacone  dei  filosofi  che  al 
Bacone  degli  amministratori  »  (2). 

Sebbene  occupatissimo  nell'esercizio  dell'avvocatura,  pubblicò 
alcuni  notevoli  lavori:  tre  opuscoli  sul  colera,  del  quale  egli  stesso 
ammalò  (3),  e  i  Principii  della  scienza  etimologica,  che  furono 
premessi  il  1830  al  II  Volume  del  Vocabolario  universale  della 
lingua  italiana  compilato   da   Raffaello   Liberatore  e  pubblicato 


(1)  Bibliografia,  pag.  16. 

(2)  Uno  scritto  politico  anonimo  del  Borrelli  è:  Casi  memorabili  an- 
tichi e  moderni  del  Regno  di  Napoli,  ricavati  dagli  autografi  del  fu 
conte  Radowski,  Coblenz,  Grùnbach,  1842,  in  16°.  Contiene  importanti 
rivelazioni  di  fatti  di  cui  il  Borrelli  fu  testimone  oculare,  e,  sebbene  a 
pag.  105  egli  si  chiami  da  sé  «  il  famoso  Borrelli  »,  ne  è  certo  lui 
l'autore;  vi  attacca  il  Colletta.  L'illustre  mio  amico  prof.  Vincenzo  Bindi 
mi  ha  assicurato  d'aver  visto  e  letto  una  Memoria  istorica  sulla  con- 
dotta politica  di  Pasquale  Borrelli,  manoscritto  di  26  facciate  in 
4°  grande  con  la  data  1820,  in  cui  si  legge  il  racconto  di  molti  avve- 
nimenti politici  del  Regno  di  Napoli  nel  1820. 

(3)  Il  colera  infieriva  in  Europa  tutta.  Il  Borrelli  se  ne  occupò  (nel- 
l'opuscolo Anticolera,  Napoli,  Fibreno,  1832)  abbozzandone  la  storia, 
notandone  le  fasi  e  indicando  le  maniere  di  scemarne  i  pericoli.  Nel  '35 
e  nel  '36  giunse  e  scoppiò  il  colera  in  Napoli.  Essendosi  ammalata  la 
sua  domestica,  non  volle  mandarla  all'ospedale,  e  la  curò  da  sé.  Perciò 
egli  fu  attaccato  tre  volte  da  violenta  diarrea,  ed  ebbe  altrettante  volte  la 
fortuna  di  superarla.  Istruito  pertanto  da  ciò  che  aveva  osservato  in  sé 
stesso  e  in  altri,  volle  istruire  anche  il  pubblico,  e  diede  fuori  le  Osser- 
vazioni sul  colera  di  Napoli.  Un  terzo  opuscolo  riguardava  la  scoperta 
di  vermi  fatta  nell' aprire  i  cadaveri  dei  colerici. 


I 


—  212  — 

dal  Tramater  a  Napoli  (1),  al  quale  egli  cooperò  per  la  parte 
etimologica. 

Nel  1832  fu  nominato  socio  ordinario  dell'  Accademia  delle 
scienze  di  Napoli;  il  183S  fu  aggregato  alla  Pontaniana,  e  nel  1840 
ne  fu  eletto  Presidente;  vi  lesse  una  memoria  Su  lo  stato  fisico 
e  mentale  di  alcuni  uomini  allevati  senza  l'uso  della  parola  (2)  e 
un  ragionamento  Su  la  guerra  considerata  nelle  sue  relazioni 
morali  (3). 

Nel  183Q  fu  aggregato  all'Istituto  storico  di  Francia.  Scrisse  an- 
che vari  elogi  funebri:  fra  i  quali  ricorderemo  quelli  del  Cav.  Paolo 


(1)  Pubbl.  anche  a  parte:  Intorno  ai  principi  dell'arte  etimologica 
•  Discorso.  Piacenza,  Maino,  1834.  Il  prof.  Bindi  mi  ha  indicato  fra  le 
opere  del  Borrelli  una  Risposta  alle  osservazioni  del  sig.  Pietro  Monti 
su  di  alcune  etimologie  delle  lingue  italiana,  greca  e  latina,  Napoli,  1836. 

(2)  Pubbl.  anche  a  parte,  senza  luogo  ed  anno  di  stampa.  11  Borrelli 
ricorda  in  questo  scritto  i  due  fanciulli  di  Psammetico  e  i  dodici  di 
Achebar,  che  furono  allevati  senza  l'uso  della  parola;  il  giovanetto  li- 
tuano che,  aggruppato  con  gli  orsi,  camminava  sulle  mani  e  sui  piedi; 
il  selvaggio  di  Varsavia  e  il  sordo  muto  di  Chartres  (già  ricordato  in- 
sieme col  giovinetto  lituano  e  con  l'uomo  di  Varsavia  dal  Wolf  in 
Psychol.  ration.,  Veronae,  1779,  §  44,  e  dal  Condillac  in  Essai  sur  Tori- 
ginc  des  conn.  hum.,  Partie  1,  Sec.  IV,  Chap.  11,  §  13),  che  per  improv- 
viso accidente  ricuperò  l'udito,  e  disse  che,  sebbene  spesso  fosse  stato 
a  messa,  non  aveva  mai  concepita  l'idea  di  Dio,  dell'anima,  della  mo- 
ralità delle  azioni  etc;  infine  la  selvaggia  che,  emulando  i  pesci  nel  nuoto 
e  gli  uccelli  nel  lanciarsi  di  albero  in  albero,  fu  sorpresa  il  1731  presso 
il  castello  di  Sogny.  Tutti  questi  individui  mostravano  di  non  possedere 
alcuna  di  quelle  nozioni  dette  dagli  aprioristi  universali  e  necessarie. 
Perciò  il  Borrelli  cerca  di  spiegare  la  loro  vita  con  i  principi  esposti 
nella  sua  Genealogia  del  pensiero  (imitazione  involontaria,  leggi  fisio- 
logiche ed  associazione  d'idee),  e  ne  trae  argomenti  contro  Kant  (§  X), 
secondo  cui  l'idea  psicologica  della  sostanza  pensante  scaturisce  dalla 
forza  interna  dell'anima,  e  contro  il  Reid  e  gli  scozzesi,  secondo  i  quali 
l'atto  intellettivo  per  cui  noi  ammettiamo  l'esistenza  di  Dio  non  è  un 
risultato  della  ragione,  ma  accompagna  di  necessità  la  percezione. 

La  Memoria  fu  pure  inserita  nel  Giornale  abruzzese  (1S37,  Voi.  Ili 
e  IV)  e  in  altri  periodici. 

i'3)  Sa  la  guerra  considerata  nelle  sue  relazioni  morali,  o  sia  sa  di 
alcune  moderne  teoriche  intorno  alla  guerra  -  Discorso  letto  alTAcc. 
Pontaniana.  Mrndrisio,  Lampati,  1841.  Il  lavoro  è  diviso  in  due  parti; 


-  213  - 

Nicola  Giampaolo,  a  cui  successe  nell'Accademia  delle  scienze, 
delia  regina  Maria  Cristina  di  Savoia  e  del  Galuppi  (1).  In 
occasione  della  ristampa  della  Medicina  forense  (System  einer 
vollstàndigen  mediz.  Polizei,  1784-1827)  del  Frank  e  delle  Vite 
delle  donne  illustri  dtWdi  duchessa  d'Abrantes,  scrisse,  per  istanza 
.:egii  editori,  alcune  note  a  queste  opere;  ma  non  potè  continuarle, 
a  causa  delie  sue  occupazioni.  Scrisse  anche  alcuni  Pensieri  mi- 
scellanei (2),  molti   articoli  nei  giornali  (3)  e  una  trentina  di  vo- 


nella  prima  l'A.  espone  le  idee  del  Cousin  (che  son  poi  quelle  di  Hegel) 
sulla  guerra  (la  guerra  sarebbe  una  lotta  d'idee;  vince  il  popolo  che 
incarna  l'idea  migliore;  chi  perde  ha  sempre  torto;  chi  vince  ha  sempre 
ragione);  nella  seconda  esamina  e  critica  questa  teoria  fondandosi  su 
principi  umanitari. 

(lì  Elogio  dedicato  alla  memoria  del  cav.  Paolo  Nicola  Giampaolo 
dal  suo  successore  nella  R.  Accad.  delle  Scienze  di  Napoli  P.  Borrelli 
e  letto  nella  seconda  tornata  del  Nov.  1832,  Napoli,  presso  Saverio  Sta- 
rila, 1S36  (il  Giampaolo  era  un  insigne  predicatore,  e  scrisse  alcune  Le- 
zioni di  metafisica,  1S03).  L'elogio  della  regina  è  intitolato:  Discorso  d'un 
parroco  di  villaggio  su  r  infausta  perdita  della  regina  delle  due  Sicilie 
Cristina  di  Savoia,  Nap.,  1S36  (in  esso  il  B.  immagina  di  trasformarsi 
in  uno  di  quei  parroci  di  villaggio,  di  cui  la  pia  sovrana  soleva  valersi 
per  versare  sul  popolo  le  sue  beneficenze).  L'elogio  del  Galluppi  è  in- 
titolato: Discorso  pronunciato  presso  al  letto  funebre  del  barone  D.  Pa- 
squale Galluppi  (senza  luogo  ed  anno,  ma  Napoli,  1846):  in  esso  il  Bor. 
esprime  la  grande  stima  ch'egli  sentiva  per  il  filosofo  calabrese. 

(2)  In  appendice  alla  Bibliografia  di  P.  B.  citata. 

(.3^  Nella  Bibliografia  di  P.  B.  si  legge  che  nella  Biblioteca  anali- 
tica di  Napoli  c'è  una  sua  lepidissima  novella  intitolata:  Breve  storia 
morale,  enciclopedica,  sacra,  profana  che  va  dalla  creazione  del  mondo 
al  4  ottobre  IS09,  dedicata  alV  impareggiabile  merito  di  chi  vorrà  la- 
mentarsene. Nel  Giornale  abruzzese  (gennaio,  febbraio  e  marzo  183S) 
scrisse  sulla  Definizione  e  denominazion-'  delle  idee  composte,  e  su 
argomenti  vari  ispecialmente  giuridici).  Pubblicò  anche  a  parte  alcuni 
Articoli  estratti  da  varii  giornali  su  di  alcune  rappresentazioni  del 
Teatro  nuovo  (di  Napoli)  nell'anno  1S42,  senza  luogo  ed  anno  (ma 
Napoli),  e  uno  scritto  Sai  principali  restauratori  della  civiltà  italiana  - 
Discorsi  dedicati  al  settimo  congresso  degli  scienziati  italiani,  Men- 
drisio,  Lampati,  1845.  Quest'ultimo  scritto  consta  di  sei  discorsi,  in  cui 
il  Borrelli  esalta  Accursio  o  lo  spirito  della  disciplina,  Dante  o  l'estro 
nazionale,  Galilei  o  lo  spirito  osservatore  e  geometrico,  Vico  o  la  filo- 


—  214  — 

lumi  di  Memorie  legali  (Napoli,  con  varie  date).  Gli  furono  anche 
attribuite  le  Allocuzioni  critiche  dell'abate  Raimondo  Fiduchelli  su 
il  moderno  eclettismo  e  su  altre  dottrine  analoghe  (1).  Pare  inoltre 
che  avesse  sempre  in  mente  di  compiere  l' edizione  delle  sue 
opere  filosofiche  (2).  Passò  così  gli  ultimi  anni  di  sua  vita,  tutto 


logia  comparata  e  trascendente,  Genovesi  o  il  cosmopolitismo  scientifico 
(adopera  quest'espressione  perchè  secondo  lui  il  Genovesi  fece  cono- 
scere nella  nostra  penisola,  corresse  e  sviluppò  tutto  ciò  che  di  meglio 
era  stato  pensato  nelle  altre  nazioni  sulle  scienze  morali  e  specialmente 
sull'economia  politica),  il  Beccaria  o  lo  spirito  dell'indulgenza.  Molti 
articoli  sparse  poi  nella  Biblioteca  analitica  di  scienze  e  belle  arti,  negli 
Annali  delle  conoscenze  utili,  nel  Giornale  enciclopedico  napoletano 
(da  lui  fondato  il  1840),  x\t\V  Aristarco,  nel  Progresso,  neW  Omnibus, 
nelle  Ore  solitarie  etc.  Presentò  molte  relazioni  di  libri  ed  opuscoli  al- 
l'Accademia delle  scienze  (vedi  gii  Atti  di  questa).  Abbiamo  anche  un 
Rapporto  dell'  Accademico  Pasquale  Borrclli  alla  Società  Reale  Bor- 
bonica su  di  un'opera  del  sig.  Pietro  De  Angelis  (s.  I.  e  a.). 

(1)  Era  un*  opera  contro  il  Cousin,  di  cui  secondo  il  Gentile  (Op. 
cit.,  pag.  279,  nota  4)  fu  pubblicato  solo  il  primo  libro  (di  tre)  nel  1838. 
Ma,  siccome  nel  Giornale  Abruzzese  (dicembre  1838)  e'  è  il  sunto  (scritto 
da  G.  Petrini)  anche  della  prima  parte  del  secondo  libro  (in  cui  si  con- 
futavano le  idee  del  Cousin  sullo  spazio,  sul  tempo  e  sulla  classificazione 
delle  categorie)  parrebbe  che  anche  questa  parte  fosse  stata  pubblicata 
nel  '38  (vedi  E.  Allodoli,  //  <  Giornale  Abruzzese  »  del  1838  in 
L'Abruzzo,  agosto  1920,  pag.  438).  Anzi  sembrerebbe  che  poi  ne  usci- 
rono altre  ancora,  poiché  nella  Bibliografia  di  P.  B.  (pag.  81-83)  si 
legge  che  1'  opera  era  divisa  in  cinque  fascicoli,  di  cui  nel  1840  già 
quattro  avevano  visto  la  luce.  Fiduchelli  è  un  pseudonimo.  Nel  Dizionario 
più  volte  citato  del  Melzi  non  c'è  alcuna  notizia  al  riguardo.  Gaetano 
Giucci  (in  Degli  scienziati  italiani  formanti  parte  del  VII  congresso 
in  Napoli  nell'autunno  del  MDCCCXLV,  notizie  biografiche,  Napoli, 
Lebon,  1845,  pag.  73)  dice  che  il  libro  non  è  del  Borrelli.  Ma  è  strano 
che  nella  Bibliografia  di  P.  B.,  pag.  81-83,  le  dette  Allocuzioni  son 
poste  fra  le  opere  del  Nostro.  È  vero  che  ivi  si  aggiunge  che  il  Bor- 
relli "  negò  sempre  di  esserne  l'autore  ».  Ma  se,  come  pare,  il  Borrelli 
stesso  scrisse  la  Bibliografia,  perchè  avrebbe  collocato  fra  le  sue  opere 
le  Allocuzioni,  se  queste  fossero  state  scritte  da  un  altro?  Per  vanità? 
Può  darsi;  ma  mi  par  difficile.  Non  potrebbe  averle  scritte  in  colla- 
borazione con  qualche  altro  o  almeno  esserne  stato  l'ispiratore? 

(2)  BibL,  pag.  22. 


—  215  — 

dedito  al  lavoro  e  stimato  dai  conoscenti.  Ebbe  però  il  dispiacere 
di  vedersi  negato  dal  ministro  di  giustizia,  probabilmente  per  il 
suo  passato,  onde  era  considerato  dalla  polizia  un  «  settario  »  e  un 
«  immorale  »,  il  permesso  di  appartenere  alla  Camera  degli  av- 
vocati e  d' insegnar  in  privato  filosofia  e  diritto.  Colpito  d'  apo- 
plessia air  inizio  del  1848,  visse  ancora  con  lucida  mente,  pre- 
sago dell'imminente  catastrofe,  che  avvenne  nell'aprile  del  1849(1). 

* 

*  * 

IL  METODO.  —  Il  Borrelli,  ideologo  schietto  com'  è,  segue, 
naturalmenfe,  il  metodo  analitico  induttivo.  Ma  non  l'accetta  così 
come  lo  trova;  anzi,  dopo  aver  criticato  gli  altri  metodi  (quello 
scolastico,  quello  ipotetico  di  Descartes,  di  Leibniz  e  di  Kant, 
e  quello  misto  del  Wolf),  esamina  il  metodo  induttivo  stesso  (se- 
guito secondo  lui  dal  Locke,  dal  Condillac,  dal  Bonnet,  dal  Tracy, 
da  Erasmo  Darwin,  dal  Cabanis  e  anche  dal  Dugald  Stewart),  e 
vi  trova  vari  difetti.  Il  primo  di  questi  è  la  mancanza  di  un  lin- 
guaggio preciso.  Se  si  chiede  che  cosa  sia  l' immaginazione  al 
Locke,  al  Condillac,  al  Bonnet,  al  Tracy  etc,  si  avrà  da  ciascuno 
di  essi  una  risposta  differente.  Non  basta.  Talora  si  ha  a  lamen- 
tare incostanza  di  linguaggio  in  uno  scrittore  medesimo:  il  Con- 
dillac per  es.  ora  identifica  l' immaginazione  con  una  memoria 
assai  viva,  ora  col  potere  di  combinare  varie  qualità  di  oggetti 
distinti,  e  di  formar  prodotti  nuovi.  Ebbene,  si  ha  qui  una  specie 
di  cerretaneria;  giacché,  come  aveva  già  notato  il  Locke  (2),  se 
qualcuno  nei  calcoli  desse  alla  cifra  8  ora  il  nome  di  sette,  ora  quello 
di  nove,  secondo  il  proprio  tornaconto,  sarebbe  considerato  come 
un  folle  o  come  un  tristo.  Eppure  i  dotti  nelle  loro  dispute  pro- 
cedono proprio  così;  e  la  loro  colpa  è  tanto  maggiore,  quanto 
più  preziosa  è  la  verità  che  il  denaro.  Anche  il  metaforismo,  il 


(1)  G.  Ceva-Grimaldi  e  Antonio  Scialoia  pubblicarono  due  di- 
scorsi in  lode  di  lui  (Napoli,  Starila,  1849,  in  8°,  pag.  16).  In  questi  di- 
scorsi si  trova  un'effigie  del  Borrelli.  Un  ritratto  del  quale  fu  eseguito 
dal  pittore  Vincenzo  Morani. 

Il  calabrese  Giuseppe  Bizzi-Garofalo  pubblicò  alcuni  versi  in  lode 
del  Borrelli  (Napoli,  1849). 

(2)  Essai,  Livre  IH,  Chap.  X,  §  2. 


—  216  — 

gergo  (che  si  riscontra  talora  pur  nel  Cabanis  e  nel  Darwin)  rende 
il  linguaggio  filosofico  poco  preciso  e  chiaro. 

Secondo  segno  d' imperfezione  è  la  mancanza  d'  una  classifi- 
cazione indiscutibile  degli  atti  psichici.  Il  Locke  per  es.  par  che 
ammetta  due  facoltà  principali;  il  Condillac  le  riduce  ad  una  sola; 
il  Tracy  vede  nell'  animo  quattro  potenze:  sensibilità,  memoria, 
giudizio  e  volontà.  Il  Bonnet  ve  ne  trova  ancor  più.  E  così  dì 
seguito.  Bisogna  dunque  esaminare  questo  punto  dell'  ideologia, 
per  stabilire  alcune  forme  specifiche  e  generiche  degli  atti  psichici, 
le  quali  siano  veramente  irriducibili  le  une  alle  altre,  e  giungere, 
così,  a  quel  segno  a  cui  Lavoisier  ha  condotto  la  chimica  e 
Linneo  la  botanica. 

Altro  punto  da  considerare  è  la  base  dei  nostri  raziocini. 
Le  discussioni  scolastiche  fondate  sul  sillogismo  non  hanno  ge- 
nerato che  questioni  interminabili,  sentenze  vuote  di  senso,  sot- 
tigliezze vane  e  sonore.  Il  Tracy  ha  creduto  di  eliminare  questi 
difetti  riducendo  ogni  forma  di  ragionamento  al  sorite;  ma  anche 
il  sorite,  essendo  un  nesso  di  molti  sillogismi,  ha  bisogno  di 
principi  generali;  questi  dunque  bisogna  ricercare. 

È  ancora  un  segno  d' imperfezione  il  distacco  dell'  ideologia 
dalla  filosofia  naturale  (che  Bacone  chiamava  la  gran  madre  delle 
scienze)  e  specialmente  dalla  fisiologia  (la  quale  ha  moltissima 
importanza  per  il  filosofo,  poiché  nulla  è  più  vicino  all'  uomo 
intelligente  che  1'  uomo  fisico).  Vi  sono  stati,  è  vero,  tentativi  di 
psicologia  fisiologica  da  parte  del  Bonnet,  del  Cabanis  e  del 
Darwin;  ma  non  son  riusciti  (il  Cabanis  per  es.  non  indica  il 
processo  fisiologico  che  serve  come  mezzo  a  ciascuna  funzione 
dello  spirito,  ma  stabilisce  semplicemente  un  paragone  arbitrario 
e  ardito  fra  le  funzioni  psichiche  e  quelle  organiche);  o  almeno 
si  poteva  tar  meglio. 

Infine  è  un  altro  segno  d' imperfezione  dell'  ideologia  la  noncu- 
ranza delle  forze  genitrici  del  pensiero.  Le  altre  scienze  non  si 
son  contentate  di  esaminare  i  fenomeni:  si  sono  elevate  alle /(9rz^ 
(es.  inerzia,  impenetrabilità  dei  corpi,  forza  d' attrazione,  forza 
centripeta,  forza  centrifuga,  irritabilità  dei  muscoli);  e  in  vero,  senza 
la  conoscenza  delle  forze,  ci  sfuggirebbe  1'  anello  per  cui  si  con- 
nettono gli  effetti  alle  cause  rispettive;  1'  universo  diverrebbe  una 
macchina  immensa  di  cui  s' ignorerebbero  gli  ordegni.  Ebbene, 
neir  ideologia  non  e'  è  mai  stato  un'  indagine  delle  forze  genitrici 


—  217  — 

del  pensiero;  e  così  s'è  sottratta  alla  vista  la  parte  più  bella  e 
più  fina  del  processo  intellettivo  e  volitivo;  si  son  separati  atti 
che  per  la  comunanza  d'  origine  erano  fortemente  legati;  si  sono 
riuniti  altri  che,  per  lo  stesso  riguardo,  erano  molto  lontani  e 
diversi.  Eppure  Bacone  aveva  raccomandato  la  ricerca  delle  cause 
vere  e  sufficienti.  Ora,  le  cause  delle  funzioni  psichiche  non  sono 
forze?  Kant  ben  sentì  questo  vuoto  nel  suo  spirito;  solo  che  egli, 
in  luogo  delle  forze,  ricercò  le  forme,  e,  invece  di  perfezionare 
r  opera  del  Locke,  volle  crear  da  capo  la  teoria  del  pensiero  con 
un  metodo  trascendentale,  perdendosi,  così,  in  una  dottrina  visio- 
naria. Bisogna  dunque  riprender  1'  opera;  giacché,  fino  a  quando 
<-  non  daremo  del  pensiero  una  dottrina  dinamica,  noi  non  in- 
contreremo quel  mezzo,  nel  quale  il  vero  à  la  sede  Non  mai 
avremo  il  diritto  di  assicurar  con  fiducia  ciò  che  il  Verulamio 
sperava:  di  aver  fermata  in  futuro  per  sempre  tra  la  empirica  e  la 
razionale  facoltà  una  sincera  e  legittima  concordia  ». 

Tutti  questi  difetti  il  Borrelli  cercò  di  eliminare  nell'  ideologia. 
Quali  mezzi  adoperò?  Non  un  nuovo  metodo,  che  quello  trovato 
gli  pareva  buono.  Ne  fece  solo  un  uso  più  preciso  e  scientifico, 
imprendendo  nuove  analisi;  nelle  quali  tenne  specialmente  presenti 
le  regole  filosofiche  di  Newton:  1°  non  si  devono  ammettere  di 
alcun  effetto  più  cause  di  quelle  che  siano  vere  e  che  siano  in- 
sieme sufficienti  a  poter  spiegare  i  fenomeni;  2°  gli  effetti  natu- 
rali del  medesimo  genere  si  devono  attribuire,  per  quanto  è  pos- 
sibile, alle  cause  medesime;  3°  (conseguenza  delle  due  precedenti) 
gli  effetti  che  sorgono  e  cessano  insieme  o  insieme  crescono  e 
diminuiscono  sono  strettamente  congeneri,  dipendono  quindi  da 
una  sola  causa;  4°  le  qualità  dei  corpi  che  non  si  possono  dimi- 
nuire o  accrescere  e  che  convengono  a  tutti  quelli  a  cui  giunge 
la  nostra  esperienza,  si  debbono  avere  per  qualità  universali  dei 
corpi  ;  5°  nella  filosofia  sperimentale  le  proposizioni  raccolte  dai 
fenomeni  per  induzione  si  devono  tenere,  ronostante  le  ipotesi 
opposte,  per  esattamente  o  prossimamente  vere,  fino  a  che  1'  os- 
servazione di  nuovi  fenomeni  non  le  renda  più  giuste,  o  non  le 
mostri  invece  soggette  a  eccezioni  (1). 

Vediamo  a  quali  risultati  giunse  applicando  tali  regole. 


(1)  Vedi  per  tutta  questa  parte  V  Introduzione  alla  filosofia  naturale 
del  pensiero,  Lugano,  Vanelli,  1824. 


—  218  — 


LA  GENEALOGIA  DEL  PENSIERO.  —  Sullo  spirito  del  Bor- 
relli  produsse  grande  impressione  un  libro  che  «  chiuse  con 
istrepito  il  secolo  XVIII  »:  gli  Elementa  medicinae  (1780)  di  John 
Brown  (1735-1788)  (1).  Nel  quale  in  mezzo  a  molti  errori  lampeggia, 
secondo  il  Borrelli,  una  grande  verità:  /'  eccitabilità  (che  si  chiama 
irritabilità  nel  tessuto  muscolare  e  sensibilità  nel  sistema  nervoso) 
sviluppata  all'  occasione  dello  stimolo  produce  la  vita  (2).  Ebbene, 
anche  per  il  Borrelli,  che  ammirava  il  Brown  e  aveva,  come  si  è 
visto,  fondato  sui  principi  del  biologo  scozzese  la  Zoognosia  e  la 
Zoaritmia,  il  pensiero  non  deriva  che  da  forza  insita  e  stimolo. 
La  forza  insita  si  esplica  però  mediante  tre  forze,  tre  cause  ef- 
ficienti, che  operano  all'occasione  di  uno  stimolo:  quelle  di  sentire, 
di  giudicare  e  di  volere  (3).  Esaminiamole  partitamente. 


Sensazione.  —  Nulla  in  natura  avviene  senza  ragion  sufficiente: 
v'è  quindi  pur  una  ragione  per  la  quale  sentiamo.  Questa  non 
può  esser  tutta  intrinseca  all'  anima,  poiché  la  sensazione  segue 
sempre  a  stimoli  esterni.  Eppure,  si  potrebbe  osservare,  in  molte 
sensazioni  invano  cercheremmo  un  oggetto  stimolante  estrinseco 
al  nostro  corpo:  così  accade  in  quelle  del  delirio  o  della  follia. 
Anche  del  resto  quando  la  mente  non  è  abbandonata  al  disordine 
si  possono  ascoltare  strepiti  senza  che  1'  atmosfera  si  scuota,  ve- 
dere lampi  o  scintille,  senza  che  queste  o  quelli  si  producano  in 
realtà.  Ebbene,  anche  in  tali  casi  uno  stimolo  e' è:  esso  sta  negli 
umori  o  nei  vapori  dell'  interno  del  corpo,  o  nell'  urte  che  un 
organo  riceve  da  un  altro.  Anche  quelle  sensazioni  piacevoli  che 


(1)  Un  altro  abruzzese,  Berardo  Quartapelle  di  Teramo  (per  il 
quale  vedi  Palma,  Op.  cit,  Voi.  V,  pag.  163-66),  aveva  prima  del  Bor- 
relli contribuito  a  illustrare  le  teorie  del  Brown  con  le  Riflessioni  sulla 
nuova  dottrina  medica  del  doti.  Giovanni  Brown  (1797,  s.  1.) 

(2)  Secondo  il  Borrelli  la  sensibilità  del  Cabanis,  base  di  tutti  i  fe- 
nomeni della  vita  animale,  non  sarebbe  che  l'eccitabilità  del  Brown. 

(3)  Introduzione,  Sezione  III,  Gap.  III-V. 


—  219  — 

pare  provengano  dalla  cessazione  di  stimoli  dolorosi  e  che  son  ser- 
vite di  fondamento  alla  teoria  della  natura  negativa  del  piacere,  in 
realtà  hanno  pur  esse  uno  stimolo.  Così,  se  una  fascia  o  una  le- 
gacela, che  tiene  stretta  una  parte  dell'organismo,  è  allentata,  dà 
a  noi  un  senso  di  sodisfazione.  Ma  questa  non  consiste  mica 
nel  semplice  sollievo,  nella  diminuzione  del  dolore;  invece  i  fluidi 
restituiti  alla  circolazione  primitiva  trovano  i  lor  canali  temprati 
in  tal  maniera,  che  danno  origine  a  un  movimento  in  realtà  di- 
lettevole. Del  pari  la  bevanda  che  attraversa  1'  esofago  dell'  asse- 
tato, lo  sparge  di  quel  fluido  mucifero  che  sa  ripararlo  da  at- 
tacchi estranei;  ma,  mentre  comincia  ad  attutire  questi,  cagiona, 
insieme,  alle  fauci  un'  impressione  mite  e  soave.  Anche  1'  azione 
del  calorico  e  delle  sostanze  alimentari  non  si  limita  a  sedar 
gli  urti  molesti:  scuotendo  leggermente  le  fibre  del  corpo,  deve 
suscitarvi  una  modificazione  gradita  di  per  sé.  Insomma  il  vero 
diletto  non  dipende  dalle  sensazioni  che  mancano,  ma  solamente 
da  quelle  che  crescono  per  tale  mancanza;  quindi  proviene  da 
un'  azione  eccitante  (1). 

Ogni  sensazione  trae  dunque  origine  da  uno  stimolo  sul  solido 
animale. 

Ma  la  ragion  sufficiente  della  sensazione  non  può  esser  tutta 
estrinseca  (stimolo);  poiché  il  nostro  spirito  é  fatto  in  modo  che 
dietro  un  eccitamento  produce  un  certo  effetto  anziché  un  altro 
qualunque.  Quindi  la  ragion  sufficiente  del  sentire  dev'essere  parte 
estrinseca  e  parte  intrinseca  all'anima.  Ora,  poiché  la  ragion  suf- 
ficiente per  cui  le  funzioni  possibili  divengono  attuali  si  chiama 
forza,  é  manifesto  che  la  ragione  del  sentire  consiste  in  una  forza 
parte  intrinseca  e  parte  estrinseca  all'anima.  Ma  la  parte  di  una 
forza  è  forza  ancor  essa;  quindi  ragioni  o  cause  delle  sensazioni 
sono  una  forza  estrinseca  all'  anima  e  un'  altra  tutta  intrinseca. 
Senza  che  la  prima  abbia  operato  non  si  esplica  la  seconda;  ma, 
dopo  l'azione  della  prima,  la  sensazione  non  è  prodotta  che  dalla 
seconda.  Dunque  la  prima  é  occasionale,  la  seconda  efficiente; 
quella  é  lo  stimolo,  questa  la  forza  di  sentire  (sensibilità). 

La  sensazione,  essendo,  così,  l'effetto  di  una  forza  interiore, 


(1)  Così  dunque  il  Borrelli  respinge  la  teoria  della  natura  negativa 
del  piacere. 


—  220  — 

ha  tutti  i  requisiti  per  esser  detta  un'azione  (1).  Come  mai,  allora, 
alcuni  ideologi,  per  es.  il  Locke  (2),  l'Helvétius  (3),  il  Voltaire  (4) 
etc.  hanno  talvolta  scritto  che  la  sensazione  è  passiva?  Gli  è  che, 
in  tal  caso,  essi  hanno  adoperato  questa  parola  in  senso  d'invo- 
lontario; e  così  non  hanno  negato  che  la  sensazione  sia  un  atto; 
poiché  ciò  che  è  involontario,  pur  non  dipendendo  dall'arbitrio 
dell'uomo,  ha  il  suo  principio  in  una  forza  interiore  debitamente 
suscitata;  è  quindi  un  atto  come  tutti  gli  altri  fenomeni  psichici  (5). 

Insieme  con  la  sensazione  vanno  considerate  la  così  detta  con- 
templazione lockiana,  la  ricordanza,  l' occupazione,  l'attenzione  e 
l' immaginazione  sensoria  o  fantasia. 

Quando  è  svanito  un  oggetto  che  avevamo  percepito  (per  es. 
una  rosa,  una  scena  teatrale),  possiamo  continuare  a  pensarci;  lo 
stato  mentale  in  cui  allora  ci  troviamo  è  appunto  quello  che  il 
Locke  chiamò  contemplazione.  Questa  è  tanto  simile  alla  sensa- 
zione, che  spesso  si  confonde  con  essa  (così,  fissando  con  molta 
forza  il  pensiero  su  un  fetore  sentito,  ci  pare  di  sentirlo  di  nuovo 


(1)  Quest'azione  è  sempre  av\'ertita  da  noi;  per  il  Borrelli  quindi  non 
esistono  fatti  psichici  incoscienti;  il  che  egli  prova  con  un  importante 
argomento:  «  Quando  altro  fosse  il  sentire,  altro  il  saper  di  sentire,  noi 
potremmo  nello  stesso  modo  saper  di  saperlo  ed  aver  con  ciò  un  altro 
atto.  Se  si  pone  in  fatti  che  l'anima  non  ha  potuto  ravvisare  una  sua 
funzione  se  non  per  via  di  una  seconda,  dovrà  del  pari  concedersi  che 
non  può  ravvisar  la  seconda  se  non  per  via  di  una  terza.  Quando  avremo 
saputo  che  noi  sappiamo  di  sapere  di  aver  sentito  una  volta,  sarà  pur 
forza  che  ne  ammettiamo  in  ugual  modo  una  quarta.  Le  coscienze  in 
somma  offriranno  una  progressione  infinita:  né  potrà  vedersi  a  qual  uso 
debbano  venire  impiegate  -.  Per  evitare  questo  processo  all'iniinito,  non 
resta  se  non  ammettere  che  quello  stesso  atto  che  coglie  per  es.  un 
odor  di  rosa,  ne  contiene  la  coscienza:  che  in  altri  termini  l'anima  e 
sente  ed  è  consapevole  di  sentire.  Non  si  può  quindi  disgiungere  la  co- 
scienza da  alcun  fatto  psichico  {Principii  della  genealogia  del  pensiero, 
Lugano,  Vanelli,  1825,  Voi.  I,  Sez.  I,  Gap.  XVIII,  pag.  56-57). 

(2»  Essai,  Livre  II,  Chap.  IX,  §  I. 

(3)  De  V esprit,  Tomo  I,  pag.  9  (Londres,  1777). 

(4)  Oeuvrcs,  Tomo  1,  pag.  94,  173  (cit.  dal  Bor.). 

(5)  Principii  della  geneal,  Voi.  I,  Lib.  I,  Sez.  I,  e  Voi.  Ili,  Lib.  V, 
Sez.  I.  Si  noti  che  il  Voi.  II  dell' edz.  da  me  esaminata  è  edito  da  Ruggia 
e  Comp.,  successi  a  Vanelli,  il  1828,  e  il  III  da  Ruggia,  il  1829. 


—  221  — 

nella  sua  prima  vivezza).  Entrambe  si  riferiscono  allo  stesso  og- 
getto; entrambe  ce  lo  figurano  nella  maniera  medesima;  in  en- 
trambe si  annunzia  ed  esprime  il  nostro  Io  (esse  cioè  sono  co- 
scienti). Son  dunque  fenomeni  del  medesimo  genere.  Non  è  anzi 
esagerato  il  dire  che  di  queste  due  operazioni  l'una  si  continua  nel- 
l'altra; infatti  alla  prima  è  necessario  un  movimento  cerebrale  che 
si  può  chiamare  sensifero;  e  questo  si  richiede  anche  per  la  se- 
conda; solo  che  nella  prima  esso  è  eccitato  dall'  impulso  di  un 
oggetto  esterno;  nella  seconda  dall'azione  della  volontà  o  (quando 
r  immagine  permane  contro  nostro  volere)  da  quella  di  umori  o 
dì  altri  stimoli  (1). 

Anche  la  ricordanza  non  è  che  una  riproduzione  o  reviviscenza 
della  sensazione  primitiva.  La  contemplazione  e  la  ricordanza  hanno 
gli  stessi  caratteri:  in  entrambe  avvertiamo  la  stessa  cosa.  Se  io, 
dopo  aver  visto  un  fiore,  seguito  a  pensarvi,  Io  contemplo;  se 
dopo  un  mese  di  distrazione,  rivolgo  d' improvviso  il  pensiero  ad 
esso,  ne  ho  la  ricordanza.  L'oggetto  esteriore  in  entrambi  i  casi 
è  lontano.  L' idea  è  in  entrambi  la  stessa,  se  si  prescinde  dai  gradi. 
Talvolta  le  due  funzioni  persino  si  confondono,  come  nella  follia 
e  nel  delirio,  in  cui  si  hanno  ricordi  sì  forti  che  si  considerano 
provocati  da  oggetti  presenti.  Perciò  la  ricordanza  e  la  contem- 
plazione hanno  tanta  unità  di  natura  quanta  la  contemplazione 
e  la  sensazione  primitiva.  Tutt'e  tre  le  funzioni  non  sono  che 
parti  o  momenti  d' una  funzione  medesima  (2). 

L'occupazione  si  ha  quando  una  sensazione  più  forte  delle  altre 
signoreggia  e  quasi  ingombra  senza  nostra  volontà  l'orizzonte 
mentale.  L'attenzione  invece  si  ha  quando  noi  ci  fissiamo  ad  ar- 
bitrio su  qualcuna  delle  sensazioni,  che  può  essere  anche  la  più 
debole,  e  la  rendiamo  più  chiara  di  tutte  le  altre.  Sono,  questi, 
due  atti  ben  distinti  (nel  primo  la  volontà  non  c'entra;  nel  se- 
condo al  sentire  s'aggiunge  il  volere,  anzi  l'essenziale  è  l'atto  di 
volontà);  il  Condillac  invece  li  confonde,  e  solo  così  riesce  a  di- 
mostrare che  attendere  è  sentire. 

Naturalmente,  nello  stesso  tempo  che  siamo  occupati  rispetto 
a  un'idea,  siamo  distratti  rispetto  alle  altre  che  restano  nell'ombra; 


(1)  0/7.  cit.,  Voi.  1,  Libro  I,  Sez.  il,  Gap.  Mll. 

(2)  Op.  cit.,  Voi.  1,  Libro  I,  Sez.  H,  Gap.  IV. 


—  222  — 

di  modo  che  quello  stato  medesimo  che  è  occupazione  quanto  alla 
prima,  è  distrazione  quanto  alle  seconde.  Del  pari,  allorché  at- 
tendiamo a  un'idea,  indeboliamo  o  fughiamo  le  altre:  se  la  nostra 
volontà  attende  alla  prima,  astrae  da  quest'  ultime;  sicché  quello 
stato  medesimo  che  è  attenzione  per  1'  una  è  astrazione  per  le 
altre  (1). 

Una  serie  di  attenzioni  che  siano  però  dirette  ad  un  medesimo 
fine,  è  riflessione  (2). 

La  fantasia  o  immaginazione  sensoria  si  esplica  quando  lo  spi- 
rito, dopo  aver  provato  un  certo  numero  di  sensazioni  primitive 
(per  es.  sensazioni  visive  di  rose),  si  forma  un'  idea  nuova  ento- 
stiva  (per  es.  di  una  rosa  più  grande  di  quelle  viste  o  di  molte 
rose  disposte  in  un  ordine  diverso  dal  percepito)  che  somigli  a 
quelle  in  alcune  note,  ma  ne  differisca  nel  resto.  Le  sensazioni 
primitive  si  possono  chiamare  nozioni  modulari,  quelle  nuove  in- 
vece foggiate  o  fittive  o  fantasmi. 

Il  fantasma  può  dipendere  dalla  nostra  volontà  o  da  altri  sti- 
moli interni.  Nel  primo  caso  è  arbitrario,  nel  secondo  automatico. 
Dopo  aver  per  es.  osservata  una  chiesa,  posso  idearne  un'altra  più 
piccola;  allora  io  agisco  a  mio  piacimento;  quindi  a  ragione  il 
mio  fantasma  si  chiama  arbitrario.  Ma  Pascal  faceva  ogni  sforzo 
per  non  vedere  al  suo  fianco  una  voragine  aperta,  eppure  era  co- 
stretto ad  averla  sempre  presente;  in  tal  caso  quindi  il  fantasma 
si  può  dire  automatico. 

Il  fantasma,  sia  automatico,  sia  arbitrario,  può  esser  poi  o  com- 
manente o  esclusivo.  E  com manente  se  coesiste  o  può  coesistere 
con  le  nozioni  modulari;  esclusivo,  se  non  può.  Dopo  aver  visto 
per  es.  tre  rose,  posso  immaginarne  altre  cento;  allora  questo  mio 
fantasma  non  altera  né  presuppone  alterata  quella  mia  sensa- 
zione: quindi  può  dirsi  commanente.  Ma  se  io,  letto  un  verso  di 
Orazio,  dopo  alcun  tempo  lo  ripeto  e  lo  credo  di  Persio,  ho  al- 
lora un  fantasma  esclusivo,  poiché  la  mia  idea  proviene  dall'alte- 
razione di  un  ricordo  con  cui  non  può  quindi  coesistere:  la  mia 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  1,  Libro  1,  Sez.  111. 

(2)  Tanto  l'attenzione,  quanto  U  riflessione,  essendo  atti  della  vo- 
lontà, dovrebbero  essere  esaminate  con  questa  funzione.  Ma  son  consi- 
derate qui  per  la  relazione  che  hanno  col  sentire. 


—  223  — 

anima  ha  confuso  diverse  sensazioni  incomplete  richiamate  dalla 
memoria,  e  ne  ha  formate  immagini  fantastiche,  che  escludono 
quelle  modulari  (1). 

Abbiamo  così  sempre  esaminata  la  sensazione  da  vari  punti 
di  vista;  che  la  contemplazione  lockiana  è  sensazione  continuata; 
la  ricordanza  è  sensazione  riprodotta;  V  occupazione  è  sensazione 
predominante;  la  fantasia  è  sensazione  alterata;  esse  vanno  quindi 
(secondo  le  regole  di  Newton)  attribuite  tutte  alla  stessa  causa 
(sensibilità) 

Abbiamo  considerata  così  la  prima  forza  o  funzione  dello  spi- 
rito (2);  passiamo  alla  seconda:  il  giudizio. 


Giudizio.  —  Non  si  può,  secondo  il  Borrelli,  formulare  giu- 
dizio alcuno  senza  che  siano  insieme  presenti  allo  spirito  due 
idee,  le  quali  occupino  1'  anima  o  alle  quali  essa  attenda.  Queste 
idee  appunto  costituiscono  lo  stimolo  del  giudizio,  quindi  una 
parte  della  sua  ragion  sufficiente.  Ma  non  bastano:  non  si  ca- 
pisce come  per  la  sola  azione  delle  idee  coesistenti   possa  effet- 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  I,  Libro  I,  Sezione  V. 

(2)  Prima  di  passare  al  giudizio  il  Borrelli  considera  V  associazione 
delle  idee  {Op.  cit,  Voi.  I,  Libro  I,  Sez.  IV)  e  il  fenomeno  dtW  imita- 
zione involontaria;  la  quale  secondo  lui  dipende  dalla  qualità  eccitante 
delle  sensazioni  e  delle  rispettive  tracce  lasciate  da  esse  ne!  cervello 
(moti  sensiferi).  L'idea  o  il  moto  sensifero  nell'individuo  imitatore  cor- 
rispondente all'idea  che  è  nell'individuo  imitato,  e,  a  causa  della  ten- 
denza, propria  delle  idee  o  delle  loro  tracce,  di  tradursi  in  movimenti 
organici  (cioè  di  essere,  direbbe  il  Fouillée,  idee-forze),  trae  il  primo  a 
compiere  atti  eguali  a  quelli  che  compie  il  secondo  {Op.  cit.,  Voi.  I, 
Sez.  VI).  Parlando  dell'imitazione,  il  Borrelli  ricorda  il  Delfico  con  le 
seguenti  parole:  «  La  imitazione  involontaria  à  dunque  un  impero  vastis- 
simo, e  non'  senza  ragione  fu  detto  che  Vuomo  è  animale  di  esempio. 
Questa  verità  sentita  da  molti  e  segnatamente  da  alcuni  scrittori  che 
onorano  Napoli,  è  stata  posta  in  gran  lume  e  destramente  presentata 
sotto  i  suoi  principali  rapporti  da  un  ingegno  eminente  di  quello  stesso 
paese,  dal  commendator  Delfico.  Non  può  ricordarsi  il  suo  nome  senza 
che  ci  venga  alla  mente  la  idea  della  virtù  e  della  scienza  *  {Op.  cit., 
Voi.  I,  pag.  323). 


—  224  — 

tuarsi  il  giudizio;  che  questo  è  un'affezione  che  per  verità  risulta 
da  quelle,  ma  non  potrebbe  risultarne  mai,  se  l'ente  che  giudica 
non  si  trovasse  fornito  di  una  natura  tale,  che,  dietro  l'azione 
dello  stimolo,  compiesse  quell'atto  che  si  chisima. giudizio.  Bisogna 
dunque  concludere  che  la  ragion  sufficiente  del  giudizio  è  in 
parte  nello  stimolo,  e  in  parte  nella  natura  dello  stesso  ente  che 
giudica;  cosicché  il  giudizio  è  un'azione  che  ha  per  causa  due 
forze,  di  cui  l'una,  stimolo,  è  occasionale,  l'altra,  che  potrebbe 
chiamarsi  forza  giudicatrice,  è  efficiente  (1), 

Ma  in  che  propriamente  consiste  quest'atto  del  giudizio?  Nel- 
r avvertire  che  l'una  delle  idee  presenti  allo  spirito  non  è  l'altra, 
dunque  nel  percepire  una  disformità  d' idee.  Anche  i  giudizi  che 
affermano  una  conformità  d' idee  sono  in  fondo  giudizi  di  di- 
versità; infatti  le  idee  che  diciamo  conformi  non  sono,  a  rigor  di 
termini,  l'una  identica  all'altra;  che  in  tal  caso  non  le  distingue- 
remmo. Quando  dunque  chiamiamo  due  nozioni  conformi,  indi- 
chiamo solo  che  la  loro  differenza  è  piccolissima,  quasi  infinite- 
sima. Tale  differenza,  aumentando  fino  ad  un  certo  segno,  fa  che 
in  fine  noi  possiamo  nominarle  disformi.  I  giudizi  di  conformità 
e  di  disformità  delle  idee  sono  dunque  due  specie  di  giudizi  di 
diversità.  Ora,  si  può  dimostrare  che  i  giudizi  si  possono  racco- 
gliere tutti  in  queste  due  specie;  cosicché  si  riducono  tutti  a  giu- 
dizi di  diversità.  Infatti  i  così  detti  giudizi  di  continenza  d' idee, 
in  cui  si  afferma  che  un'  idea  è  in  una'  altra,  e  ai  quali  il  Tracy 
voleva  ridurre  tutte  le  proposizioni,  non   son   che  giudizi  di  di- 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  HI,  Lib.  V,  Sez.  II,  pag.  225-230.  Il  Gentile  {Op. 
cit.,  pag.  140-41  e  148),  fondandosi  sulla  definizione  che  il  Borrelli  dà 
del  giudizio  in  Libro  II,  Sez.  Ili,  Gap.  I  della  Genealogia  (  un'affe- 
zione che  risulta  immediatamente  all'anima,  se  due  idee  coesistenti  o 
insieme  la  occupano  od  ella  insieme  vi  attende  "),  afferma  che  il  Bor- 
relli avrebbe  dovuto  ridurre,  come  gli  altri  sensistì,  il  giudizio  al  sen- 
tire, che  l'occupazione  e  l'attenzione  non  sono  se  non  sensazioni  raf- 
forzate. Ma  noi  abbiamo  visto:  1°  che  per  il  Borrelli  l'attenzione  non 
si  riduce  a  sensazione,  essendo  un  atto  della  volontà;  2»  che  le  due  idee 
le  quali  occupano  l'anima  e  alle  quali  essa  attende  non  costituiscono 
che  lo  stimolo  del  giudizio,  a  cui  deve  aggiungersi  un  atto  speciale  del- 
l'anima. Quindi  mi  pare  che  l'obiezione  mossa  dal  Gentile  al  Borrelli 
non  sia  giustificata. 


—  225  — 

versità  fra  un  elemento  (nota)  e  gli  altri  di  una  nozione  com- 
plessa. Dire  per  es.  che  l'idea  d'una  camera  è  nell'idea  di  un  pa- 
lazzo, è  affermare  che  quella  è  stata  da  noi  distinta  fra  tutte  le 
parti  di  questa,  ossia  eh' è  stata  segregata  o  da  ciascuna  di  esse 
o  solo  da  alcune  o  dal  complesso  di  molte;  il  che  è  enunciare 
una  distinzione  o  diversità  d'idee.  Del  pari  il  giudizio  qualifica- 
tivo è  affermazione  o  negazione  di  una  conformità  tra  una  data 
idea  astratta  e  una  di  quelle  che  formano  una  nozione  composta: 
se  diciamo  per  es.  che  Cesare  è  forte,  asseriamo  che  nell'idea  com- 
posta di  Cesare  è  un  elemento  conforme  all'  idea  astratta  di  forte. 
Anch'esso  quindi  si  riduce  al  giudizio  di  conformità  (o  disfor- 
mità). Pure  i  giudizi  quantitativi  (per  es.  a=b  oppure  x+y  <  x) 
si  riducono  a  quelli  di  conformità:  dire  infatti  eguali  due  cose  è 
lo  stesso  che  qualificarle  conformi  per  la  grandezza;  quando  poi 
chiamiamo  l'una  minore  e  l'altra  maggiore,  non  diciamo  se  non 
che  r  una  eguaglia  una  parte  dell'  altra.  Del  pari,  i  giudizi  di 
proporzione  (2  :  4=8  :  16)  son  giudizi  di  conformità  fra  le  diffe- 
renze o  i  quoti  delle  grandezze  confrontate  (y  e  ^,  ossia  2  : 2). 
E  così  di  seguito.  In  breve:  non  si  troverà  alcun  giudizio  in  cui 
non  si  determini  la  conformità  o  disformità  delle  nostre  nozioni, 
cioè  la  diversità  intercedente  fra  esse.  Giudicare  è  distinguere  (1). 
La  diversità  enunciata  dal  giudizio  è  un  rapporto  o  relazione 
fra  idee.  Ora  che  cos'  è  il  rapporto?  Supponiamo  di  avere  due 
sensazioni  di  suono.  L'attendere  nello  stesso  tempo  ad  esse  è  con- 
frontarle, paragonarle.  11  risultato  di  tale  confronto  è  il  giudizio  (io 
avverto  due  suoni  diversi).  Il  risultato  astratto  di  tale  enunciazione, 
preso  indipendentemente  dall'  atto  dell'  anima,  è  la  diversità  di 
due  suoni.  Tale  diversità  è  appunto  il  rapporto:  il  quale  quindi  si 
può  dire  il  risultato  del  giudizio,  che  è  a  sua  volta  risultato  del 
paragone:  dunque  il  rapporto  è  il  risultato  di  un  altro  risultato 
(cioè  del  giudizio)  (2). 


(1)  Op.  cit,  Voi.  II,  Libro  li,  Sez.  I  e  II. 

(2)  È  quindi  errato  definire  il  g\\\(^'ìz\o\ai  percezione  d^ un  rapporto: 
che  il  rapporto  è  una  forma  astratta  del  giudizio  già  enunciato,  gli  è 
quindi  posteriore,  non  può  dunque  esser  percepito  nel  giudizio  mede- 
simo; che  non  si  può  percepire  ciò  che  ancora  non  è.  In  altri  termini: 
se  il  giudizio  fosse  percezione  del  rapporto,  o  si  formerebbe  con  esso 

IS 


—  226  — 

La  relazione  delle  idee,  quando  è  da  noi  attribuita  agli  oggetti 
a  cui  appartiene,  diventa  relazione  di  oggetti.  In  tal  caso  non  è 
se  non  la  relazione  stéssa  delle  idee,  se  così  può  dirsi,  applicata. 
La  relazione  risiede  dunque  solo  nello  spirito,  o  è  anche  nelle 
cose?  In  vero,  noi  determiniamo  dei  rapporti  perchè  abbiamo  giudi- 
cato. Ma  d'altra  parte  abbiamo  giudicato  perchè  due  idee  che  ci  oc- 
cupavano, o  alle  quali  attendevamo,  avevano  certe  determinazioni, 
certe  qualità,  certe  note  (una  determinata  natura  e  non  un'altra). 
Ora,  queste  qualità,  queste  note,  ciò  insomma  per  cui  avviene 
che  ciascuna  delle  due  idee  possa  eccitare  una  funzione  da  cui 
scaturisca  il  rapporto,  si  può  chiamare  il  principio  prossimo  della 
relazione.  Di  piìi,  le  idee  son  capaci  d'occasionare  un  giudizio, 
sono  insomma  conformate  in  una  data  maniera,  perchè  gli  og- 
getti esteriori,  dai  quali  esse  dipendono,  hanno  esercitata  la  tale 
e  non  la  tal' altra  azione;  e  questi  l'hanno  esercitata  perchè 
erano  forniti  d'una  certa  natura.  I  principi  dei  rapporti  delle 
nostre  nozioni  ne  suppongono  dunque  altri  nelle  cose  percepite: 
questi  si  posson  chiamare  principi  remoti  dei  rapporti.  Perciò  le 
relazioni,  mentre  presentano  un  aspetto  tutto  soggettivo,  in  quanto 
richiedono  l'attività  del  soggetto  che  le  riveli,  hanno  tuttavia  un 
fondamento  oggettivo.  «  La  relazione  >,  dice  il  Borrelli,  <;  in  certo 
modo  può  confrontarsi  ad  un  frutto,  la  cui  pianta  è  radicata  nella 
natura  degli  esseri,  ma  che  sbuccia  intanto  da'  rami  del  nostro 
intelletto.  Non  pretenderà  alcuno  che  il  pomo  debba  in  sé  avere 
i  caratteri  di  quella  terra  in  cui  vegeta  >.  (1).  Così,  quando  Newton 
affermò  che  i  corpi  celesti  gravitano  in  ragion  diretta  della  massa 
e  nella  inversa  dei  quadrati  delle  distanze,  annunziava  un  risul- 
tato dei  suoi  profondi  giudizi.  Egli  aveva  raccolti  questi  dal  pa- 
ragone delle   idee;  aveva  raccolte   le   idee   dall'  osservazione  dei 


o  dopo  di  esso;  invece,  come  s'è  visto,  si  compie  prima.  11  che  vuol 
dire  che  il  giudizio  non  è  una  funzione  che  rispecchi  e  registri 
passivamente  i  rapporti  già  formati,  ma  un'attività  che  rivela  con 
la  sua  azione  un  aspetto  del  reale  e  forma  (mentalmente)  i  rapporti,  i 
quali  son  quindi  qualcosa  di  mentale,  d'intellettivo  (sebbene,  come  ve- 
dremo, abbiano  un  fondamento  o  motivo  oggettivo).  Tant'è  vero  che 
possono  esser  presenti  all'intelligenza  i  termini  senza  che  si  abbia  il 
giudizio.  Perchè  si  abbia  questo,  è  necessario  un  atto  speciale. 
(1)  Op.  cit.,  Voi.  Il,  Libro  11,  Sez.  Ili,  Gap.  VI,  pag.  111-112. 


—  227  — 

fatti;  aveva  ricavati  i  fatti  dalle  impressioni  esterne;  e  aveva  rice- 
vute queste  dalla  natura  degli  esseri.  Dunque  solo  per  effetto  di 
tale  natura  aveva  fissato  un  rapporto;  ma  d'altra  parte  l'aveva 
visto  alla  luce  del  suo  spirito.  Quindi  ciò  che  aveva  eccitato  i 
suoi  pensieri  (il  principio  remoto  del  rapporto)  era  reale,  eterno, 
immutabile,  e,  data  la  stessa  attenzione,  data  la  stessa  esperienza, 
avrebbe  provocato  in  ogni  tempo  il  medesimo  risultato.  Ma  non 
esisteva  la  legge  con  gli  elementi  astratti  che  la  costituiscono: 
questi  son  prodotti  mentali.  È  quindi  giusto  affermare  che  i  corpi 
hanno  sempre  gravitato  in  ragion  diretta  delle  masse  e  nella  in- 
versa dei  quadrati  delle  distanze,  che  cioè  vi  sono  stati  sempre 
quei  dati  in  base  ai  quali  il  giudizio  dell'uomo  avrebbe  potuto 
rivelare  un  rapporto  siffatto;  bisogna  però  aggiungere  che  era 
anche  necessario  il  lampo  di  una  mente  geniale,  che  illuminasse 
e  cogliesse  la  relazione  e  la  esprimesse  mediante  quegli  elementi 
astratti  che  appaiono  nella  formula  scientifica  della  legge.  Nella 
determinazione  dei  rapporti  concorrono  dunque  e  il  soggetto  e 
l'oggetto;  voler  ridurre  tutto  all'azione  dell'uno  o  dell'altro,  è 
errore.  Da  questo  apparisce  chiaro  quanto  sia  ardimentosa  quel- 
r  affermazione  di  Kant  che  l'uomo  dà  le  leggi  all'universo;  poiché 
il  soggetto  conoscente  attribuisce  agli  oggetti  esterni  le  relazioni 
delle  sue  idee,  ed  astrae  le  relazioni  dai  suoi  propri  giudizi;  ma 
nel  formare  i  giudizi  riceve  la  legge  dall'azione  di  quegli  oggetti; 
ed  è  innegabile  che,  solo  perchè  eccitato  da  questi,  egli  viene 
in  sostanza  ad  esplicare  le  sue  funzioni  (1). 


La  sensazione,  quanto  al  tempo,  può,  come  s'  è  visto,  dividersi 
in  primitiva,  continuata,  riprodotta  e  fantastica;  il  giudizio  è  capace 
di  una  divisione  assai  simile.  Così,  dopo  aver  determinato  il  rap- 
porto di  due  nozioni,  ci  accade  spesso  di  rivolgere  ad  esso  la 
mente,  ossia  di  prolungare  il  giudizio:  per  es.  il  geometra  che 
ha  scoperto  una  verità  importante,  gode  di  averla  presente  per 
lungo  tempo  allo  spirito.  Vi  è  dunque  una  contemplazione  lockiana 
per  i  giudizi  come  per  le  sensazioni  primitive.  Del  pari  nessuno 


(1)  Op.  cit,  Voi.  II,  Libro  II,  Sez.  Ili,  spec  Gap.  I-VI. 


-  228  — 

ha  messo  mai  in  dubbio  che  si  dia  una  ricordanza  degli  uni  e  delle 
altre.  Inoltre,  spesso  i  giudizi  risorgono  non  come  si  formarono 
neir  anima,  ma  notevolmente  alterati:  dunque,  al  pari  delle  sen- 
sazioni, possono  divenire  fantasmi.  Potendo  ancor  dipendere  e 
da  idee  entostive  e  da  idee  edostive,  possono  dividersi  anch'  essi 
in  entostivi  ed  edostivi  (1).  Esistono  dunque  varie  somiglianze  fra 
sensazione  e  giudizio;  altre  ancora  se  ne  possono  notare:  entrambi 
implicano  un  annunzio  dell'  Io,  una  certa  avvertenza  d'  esistere, 
insomma  una  cosdenza;  hanno  per  causa  occasionale  uno  stimolo; 
hanno  per  causa  efficiente  una  forza  intrinseca  all'  anima;  sono 
quindi  entrambi  azioni  dello  spirito.  Ma,  non  ostante  queste  so- 
miglianze, il  giudizio,  essendo  risultato  del  paragone  fra  due  ter- 
mini, differisce  profondamente  dalla  semplice  sensazione;  cosicché 
il  celebre  principio  dell'  ideologia  francese  che  il  giudizio  è  sen- 
sazione, non  è  giusto.  L' apparenza  di  veridicità  presentata  da 
questo  strepitoso  teorema  è  dovuta  tutta,  dice  il  Borrelli,  all'equi- 
voco, cioè  alla  molteplicità  di  significati  che  la  parola  sensazione 
assume  presso  i  vari  autori.  Così  il  Condillac  afferma  che  giu- 
dicare è  confrontare,  che  confrontare  è  attendere  a  due  sensazioni 
e  quindi  sentire.  Ora,  la  prima  proposizione  è  falsa.  Infatti  il  con- 
fronto è  condizione  del  giudizio,  ma  non  si  confonde  con  questo. 
11  Condillac  dice:  —  Non  v'è  confronto  senza  giudizio:  dunque  il 
giudizio  è  confronto  — .  Se  ciò  fosse  vero,  io  potrei  dire  del  pari: 
—  Non  v'è  statua  senza  scultore,  lo  scultore  è  dunque  la  statua;  non 
v'  è  figlio  senza  padre,  dunque  il  figlio  è  il  padre  stesso  o  il  padre 
trasformato;  non  si  può  toccare  una  corda  senza  riceverne  un  suono, 
dunque  ricevere  un  suono  non  è  che  toccare  una  corda;  e  quindi 
muovere  la  mano  è  lo  stesso  che  udire  — .  Chi  crederebbe  che  uno 
dei  più  grandi  analisti  dello  spirito  umano  si  sia  permesso  un 
ragionamento  di  tal  natura?  Eppure  è  proprio  così.  Anche  la 
seconda  proposizione  del  Condillac  è  arbitraria  e  falsa:  infatti 
essere  attento  a  due  idee  è  certo  confrontarle.  Ma  1'  attenzione  è 
un  atto  della  volontà,  che  non  fa  se  non  rendere  più  vive  le  idee; 
quando  queste  son  rese  più  vive,  sorge  nell'  anima  un  altro  atto 
che  si  chiama  giudizio.  È  dunque  vero  che  il  giudizio  risulta  lon- 
tanamente dall'  attenzione;  è  però  falso  che  si  confonda  con  essa; 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  H,  Libro  11,  Sez.  IH,  Gap.  XIV. 


—  229  — 

è  poi  assurdo  che  si  confonda  con  la  sensazione  stessa,  la  quale 
ne  è  solo  resa  più  viva.  È  quindi  chiaro  che  qui  il  Condillac 
avviluppa  in  un  groviglio  le  cause  e  gli  effetti,  il  soggetto  e  i 
modi,  le  condizioni  e  i  risultati! 

Gli  stessi  errori  ed  equivoci  si  riscontrano  in  altri  ideologi 
francesi.  Così  1'  Helvétius  afferma  che  le  espressioni  io  giudico 
diverso  e  io  sento  diverso  sono  sinonime.  Ora,  questo  è  vero,  ma 
allora  la  parola  sentire  non  denota  la  funzione  specifica  esplicata 
dall'  anima  quando  gli  oggetti  esteriori  impressionano  i  nervi: 
denota  un  modo  qualunque  d'  avvedersi,  d'  avvertire.  Non  indica 
insomma  la  sensazione  propriamente  detta,  ma  ciò  che  molti  chia- 
mano sentimento,  coscienza.  Ora,  la  coscienza  è  certo  congiunta 
con  ogni  fenomeno  psichico;  e,  se  ogni  atto  in  cui  essa  sorge  si 
vuol  chiamare  un  sentire,  si  potrà  dare  tal  nome  anche  al  giu- 
dizio e  alla  volontà.  Ma  che  avremo  allora  saputo?  Che  il  nostro 
spirito  non  esplica  alcuna  funzione  senza  sapere  di  esplicarla. 
Questo  però  non  vuol  dire  che  le  varie  funzioni  si  confondano! 
Osservazioni  simili  possono  rivolgersi,  a  questo  proposito,  al 
Tracy  (1). 

Giudicare  non  è  dunque  sentire;  V  esercizio  della  facoltà  di 
sentire  è  certo  indispensabile  a  tutte  le  altre;  ma  queste  non  si 
riducono  a  quella. 


Due  o  più  giudizi  connessi  fra  loro  mediante  un  termine  medio 
formano  il  raziocinio. 

Il  Borrelli  cerca  di  determinare  le  varie  forme  di  ragionamento, 
senza  ricorrere  a  principi  generali  (respinge  anche  il  dictiim  de 
omni  et  nullo  aristotelico)  (2),  considerando  solo  i  vari  rapporti 
dei  tre  termini  che  entrano  a  formare  le  due  premesse.  Egli  trova 
una  conferma  della  legittimità  del  suo  procedimento  nel  fatto  che 
spesso  le  persone  del  volgo  o  i  fanciulli  «  argomentano  la  ugua- 
glianza di  due  cose  dal  perchè  esse  ne  uguagliano  un'  altra;  ma 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  Libro  V,  Sez.  II,  Gap.  XIII.  Le  stesse  obiezioni 
rivolte  all' Helvétius  e  al  Tracy  valgono  per  il  Robinet,  che  nella  sua 
Philosophie  natnrelle,  Chap.  IV  (Genève,  1787),  espose  idee  simili. 

(2)  Op.  cit.,  Voi.  II,  pag.  245-247. 


-  230  - 

non  danno  mai  alcun  segno  di  far  entrare  un  assioma  nel  loro 
raziocinio.  Il  solo  modo  di  sconcertarli  sarebbe  quello  di  ridurli 
ad  usare  un  assioma  »  (1). 

Se  però  a  formare  il  raziocinio  non  è  sempre  necessario  un 
principio  generale,  pure  secondo  il  Bprrelli  si  può  ricercare  se 
ogni  processo  di  quest'  atto  si  possa  in  fine  richiamare  a  un 
principio  di  tal  sorta.  Ora,  in  tutte  le  forme  di  ragionamento  in 
fondo  non  si  fa  altro  che  dire:  —  A  è  conforme  a  B;  ma  B  è  con- 
forme a  C;  dunque  A  è  conforme  a  C  —.  Generalizzando  tale  pro- 
cedimento si  può  affermare  che  due  idee  conformi  ad  una  terza 
sono  conformi  tra  loro;  dal  che  deriva  come  conseguenza  imme- 
diata che  due  idee  di  cui  l*  una  è  conforme  ad  una  terza,  mentre 
V  altra  ne  è  totalmente  disforme,  sono  disformi  tra  loro.  È  dunque 
questo  il  principio  d'  ogni  ragionamento. 

Ora,  le  idee  del  raziocinio,  poiché  secondo  tale  principio  son 
tutt'  e  tre  conformi  (che,  se  due  son  conformi  ad  una  terza  e 
quindi  fra  loro,  anche  la  terza,  naturalmente,  sarà  conforme  alle 
altre  due),  si  possono  sostituire  a  vicenda,  e  i  loro  simboli  si  pos- 
sono del  pari  surrogare  fra  loro,  almeno  in  quanto  alludono  a 
ciò  che  esse  hanno  di  conforme;  di  modo  che  la  surrogabilità 
dei  conformi  diviene  il  principio  generale  pratico  del  ragionamento. 
Tale  verità  si  può  chiaramente  intuire  osservando  che  nell'  espres- 
sione verbale  del  processo  sillogistico  la  conseguenza  si  può  ot- 
tenere direttamente  col  surrogare  nell'  una  delle  premesse  all'  ele- 
mento comune  ciò  che  gli  corrisponde  nell'  altra.  Per  es.:  Ciò  che 
ha  parti  fuori  parti,  è  composto;  il  corpo  ha  parti  fuori  parti:  dunque 
il  corpo  è  composto.  Qui  l'elemento  comune  (termine  medio)  è  rap- 
presentato dalle  parole  ha  parti  fuori  parti.  Nella  prima  premessa 
gli  corrisponde  l'espressione  è  composto.  Ora,  sostituendo  nella  se- 
conda all'elemento  comune  (ha parti  fuori  parti)  le  parole  corri- 
spondenti ad  esso  nella  prima,  ossia  è  composto  (dicendo  quindi:  // 
corpo  è  composto),  si  ha  subito  la  conseguenza.  Il  ragionamento  va- 
lido deve  dunque  presentare  i  tre  seguenti  caratteri:  1°  dev'essere 
costituito  di  tre  proposizioni,  di  cui  due  esprimano  il  rapporto  del- 
l' idea  media  con  ciascuna  delle  estreme,  e  la  terza  il  rapporto  fra 
quest'  estreme  stesse;  2°  le  due  prime  debbono  quindi  presentare 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  II,  pag.  196. 


—  231  — 

un  termine  comune  che  sia  combinato  con  due  altri  i  quali  for- 
mino la  terza;  3°  la  terza  in  conseguenza  deve  sorgere  con  la 
più  grande  prontezza,  se  si  surroghi  a  questo  termine  in  una 
delle  due  ciò  che  gli  corrisponde  nell'  altra.  Un  ragionamento 
siffatto  si  può  chiamare,  secondo  il  Borrelli,  sillogismo  riformato  (1). 
Esaminati  così  il  giudizio  e  il  nesso  di  giudizi  (argomento), 
passiamo  alla  terza  funzione:  la  volontà. 


Volontà.  —  Abbiamo  visto  che  la  sensibilità  e  il  giudizio  si 
esplicano  in  seguito  all'  azione  d'  uno  stimolo;  sarà  del  pari  ne- 
cessario uno  stimolo  per  la  volontà.  In  fatti  è  facile  osservare  che 
ogni  atto  volitivo  è  preceduto  da  un  giudizio  per  cui  si  ritiene 
preferibile  uno  stato  ad  un  altro,  che  il  volere  consiste  nel  ten- 
dere ad  uno  stato  in  cui  non  si  è;  ora,  se,  essendo  in  uno  stato 
doloroso  o  piacevole,  io  non  ne  conoscessi  altri,  non  potrei  deside- 
rare di  uscirne;  giacché  desiderare  di  uscirne  è  desiderare  di  entrare 
in  un  altro;  ma  non  si  può  desiderare  d'entrare  in  questo  senza 
conoscerlo.  Non  s'ha  quindi  volontà  se  non  in  quanto  in  un  primo 
momento  paragoniamo  due  modi  di  essere  e  giudichiamo  che 
r  uno  è  preferibile  all'  altrb  (2).  Tale  giudizio  è  appunto  lo  sti- 
molo della  volontà.  Esso  può  chiamarsi  calcolo  volitivo,  e  si  ri- 
duce a  un  semplice  giudizio  intellettuale;  se  infatti  dopo  un  odor 
di  rosa  io  sento  quello  del  giglio,  e  se  il  piacere  che  ricevo  dal 
primo  sorpassa  quello  che  ricevo  dall'altro,  allora,  appunto  perchè 
il  secondo  è  meno  dilettevole  del  primo,  mi  pare  disformt  da 
esso,  e,  perchè  mi  par  disforme  a  causa  del  minor  diletto  che  mi 
reca,  è  stimato  da  me  posponibile.  Trovare  quindi  l'uno  pospo- 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  Il,  Libro  III,  spec.  Sez.  III.  Si  noti  che  il  Borrelli 
propone  una  simbolica  che  non  è  priva  d'importanza  nella  storia  della 
moderna  logica  matematica  o  algoritmia. 

(2)  La  stessa  opinione  è  nel  Bonnet  {Essai  analytique,  Chap.  X, 
pag.  95  e  130  del  Voi.  XIII  delle  Oeuvres).  Per  il  Borrelli  è  quindi  er- 
ronea l'opinione  secondo  cui  è  necessario  uno  stato  spiacevole  per  la 
azione  (Locke,  Essai,  Livre  II,  Chap.  XXI,  §  34;  Condillac,  Extrait 
raisonné;  cfr.  A.  Testa,  Introduzione  alla  filosofia  de IV  affetto.  Pia- 
cenza, Del  Maino,  1829,  pag.  77  e  seg.). 


—  232  - 

nibile  e  l' altro  preferibile  (calcolo  volitivo)  è  in  ultima  analisi  ri- 
tenerli disformi  (giudizio  intellettuale).  Con  questo  giudizio  s' iden- 
tificano e  confondono  anche  il  preferire  e  lo  scegliere;  che  giu- 
dicare preferibile  per  es.  il  restar  seduto  all'  alzarsi  non  è  di- 
verso dal  preferire  effettivamente  il  primo  stato  al  secondo;  del 
pari  le  espressioni  io  preferisco  il  restar  sedato  all'  alzarmi  e  io 
scelgo  di  restar  seduto  invece  di  alzarmi  sono  del  tutto  equivalenti. 
Dunque  il  calcolo  volitivo  o  atto  prelativo  non  differisce  punto 
ùaXVatto  selettivo  (la  scelta);  esso  in  fondo  non  è  che  un  giudizio 
di  preferenza. 

Ma  non  basta.  Questo  giudizio  (stimolo)  è,  come  s' è  visto, 
un  atto  puramente  teoretico.  Per  risentire  la  sua  efficacia,  l'essere 
pensante  dev'esser  costituito  in  una  data  maniera;  altrimenti,  giu- 
dicherà mille  volte,  non  vorrà  mai.  Quindi  la  ragion  sufficiente 
della  nostra  volontà  è  divisa  fra  lo  stimolo  e  queir  energia  in- 
terna che  rende  efficace  l'operazione  di  questo:  è  insomma  divisa 
in  due  forze  o  cause,  di  cui  V una  h  occasionale,  l'altra  efficiente. 
La  forza  efficiente,  che  si  può  chiamare  forza  volitiva  o  volere, 
s' esplica  non  più  in  un  atto  mentale  o  teoretico  (giudizio),  ma 
in  un  atto  pratico,  il  quale  si  riduce  a  uno  sforzo  sui  muscoli  e 
sulle  particelle  sensifere,  cioè  a  un'  azione  con  la  quale  1'  anima 
eccita  i  nostri  organi  a  procurarci  uno  stato  che  abbiamo  pre- 
scelto. Essa  dunque  non  fa  che  eseguire  il  risultato  della  nostra 
scelta  (1);  e  in  relazione  allo  stato  preferito  o  scelto  è  detta  ap- 
petito, in  relazione  al  posposto  o  respinto  si  chiama  avversione; 
ma  più  propriamente  va  detta  volontà  esecutiva  o  volere  (2). 


La  volontà,  come  la  sensazione  e  il  giudizio,  può  dividersi  in 
primitiva,  continuata,  riprodotta  e  fantastica.   Infatti  anche  1'  atto 


(1)  Perciò  la  libertà  per  il  Borrelli,  come  per  il  Locke,  si  riduce  alla 
facoltà  di  eseguire  gli  atti  giudicati  convenient  e  quindi  voluti;  s'esplica 
perciò  non  nella  scelta,  ma  nell'eseguire  la  scelta  fatta.  Il  dire  che  la 
volontà  è  libera  è  pronunciare  una  frase  del  tutto  priva  di  senso,  poiché 
vale  lo  stesso  che  il  dire:  la  volontà  è  comprensiva  della  facoltà  di 
operare  secondo  la  volontà  stessa. 

(2)  Per  tutta  questa  parte  vedi  Óp.  cit.,  Voi.  Ili,  Libro  IV,  e  Libro  V, 
Sezione  IH. 


—  233  — 

di  volere  è  suscettibile  di  una  rimembranza  immediata  (volontà 
continuata)  e  di  una  rimembranza  lontana  (volontà  riprodotta  o 
ricordata).  Del  pari,  nei  ricordi  prossimi  o  remoti,  la  volontà,  oltre 
che  risorgere  genuina  e  fedele,  può  ridestarsi  anche  più  o  meno 
inesatta,  più  o  meno  alterata.  Può  quindi  essere  non  solo  rin- 
novata o  protratta,  ma  pure  fantastica.  Infine  può  succedere  o 
ad  un  giudizio  entostivo  o  ad  uno  ectostivo;  può  quindi  suddivi- 
dersi in  entostiva  ed  ectostiva  (1).  Son  dunque  evidenti  le  analogie 
fra  volontà,  sensazione  e  giudizio.  Non  basta:  la  volontà  è,  al 
pari  delle  altre  due  funzioni  psichiche,  accompagnata  da  coscienza; 
ha  pure  una  forza  intrinseca  come  causa  efficiente,  e  come  causa 
occasionale  una  forza  estrinseca;  è  anch'  essa  un'  azione. 

Tuttavia,  non  si  può  confondere  né  con  la  sensazione  né  col 
giudizio.  Il  Condillac,  che  ha  voluto  identificarla  col  sentire,  ha 
per  questo  riguardo  commesso  lo  stesso  errore  che  a  proposito 
del  giudizio,  ossia  ha  ragionato  nella  seguente  maniera  falsa:  posta 
una  cosa,  se  ne  pone  dnche  un'  altra;  dunque  l' una  è  la  stessa  che 
l' altra,  oppure  guest'  ultima  consiste  nella  prima  trasformata. 

Il  Tracy  poi  dà  il  nome  di  sensazione  ad  ogni  atto  che  sia 
accompagnato  da  coscienza,  quindi  anche  al  volere.  Ma  s'  è  già 
visto  che  così  non  riesce  a  identificare  questi  atti  (2). 

La  sensazione,  il  giudizio  e  il  volere  (3)  hanno  dunque  parecchi 
caratteri  comuni;  il  che  é  naturale,  giacché  son  tutt'  e  tre  funzioni 
psichiche;  ma  ne  hanno  anche  di  peculiari,  che  li  distinguono 
nettamente  fra  loro;  di  modo  che  sono  tre  specie  d'  uno  stesso 
genere;  non  si  possono  quindi  confondere,  come  non  si  possono 
confondere  il  minerale,  il  vegetale  e  1'  animale,  nonostante  che 
tutt'  e  tre  convengano  in  alcuni  caratteri  generici  (4). 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  177-178.  L'attenzione,  come  s'è  visto,  è  un 
atto  della  volontà;  l'abbiamo  però  esaminata  con  la  sensazione  per  i 
rapporti  che  ha  con  questa.  (2)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  326-332. 

(3)  Naturalmente  queste  parole,  come  ogni  altra  che  esprima  idee 
semplicissime,  possono  esser  comprese,  ma  non  definite.  Altrimenti  po- 
tremmo insegnare  il  colore  al  cieco  nato  e  al  sordo  il  suono;  il  che  è 
impossibile  {Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  3;  Voi.  Ili,  pag.  2). 

(4)  Non  mi  son  fermato  sulle  ricerche  fisiologiche  dell'opera  del 
Borrelli,  che  accompagnano  continuamente  quelle  ideologiche,  poiché 
non  mi  paiono  notevoli.  Egli,  risentendo  un  po'  l'efficacia  della  dot- 


—  234 


OSSERVAZIONI.  —  L'  opera  del  Borrelli,  per  i  suor  tempi, 
rappresenta  forse,  dal  punto  di  vista  puramente  ideologico,  l'ana- 
lisi più  accurata  e  più  esatta  della  vita  interiore.  La  sua  caratte- 
ristica è  di  considerare  i  fatti  psichici  dinamicamente  e  genetica- 
mente, non  perdendosi  fra  elementi  atomici  e  sparpagliati  della 
coscienza,  ma  considerando  le  fonti  dei  fenomeni  e  abbracciando 
con  ampio  sguardo  le  funzioni  fondamentali  della  psiche,  che  or- 
dinano e  connettono  quegli  elementi  in  una  data  direzione  e 
danno  origine  a  processi  organici,  dominandoli  in  quanto  forze 
dirigenti.  Tali  funzioni  fondamentali  dell'anima  per  il  Borrelli  sono 
tre:  sentire,  giudicare,  volere;  le  quali  sono   irriducibili  1'  una  ai- 


trina  del  Gali  (vedi  Genealogia,  Voi.  IH,  pag.  339),  ammette  i:el  si- 
stema nervoso  tre  organi  corrispondenti  alle  tre  attività  fondamentali 
dell'anima:  un  organo  della  sensazione,  un  organo  relatifero  (del  giu- 
dizio) e  un  organo  della  volontà.  Ma  è  chiaro  che  l'organo  relatifero 
non  serve  affatto  a  spiegare  l'atto  del  percepire  i  rapporti;  poiché  in 
questo  si  ha  la  distinzione  dei  termini  e  nello  stesso  tempo  la  loro  uni- 
ficazione mentale;  il  che  fisiologicamente  è  inesplicabile.  Anche  quel  che 
dice  sulle  condizioni  fisiologiche  del  richiamo  mutuo  delle  idee  è  oscuro: 
afferma  infatti  che  due  sensazioni  simultanee  devono  lasciare  nel  cer- 
vello tracce  tali  che  la  ripetizione  dell'una  debba  causare  quella  del- 
l'altra; il  che  vuol  dire  che,  sviluppandosi  insieme,  e  in  conseguenza 
esercitando  un  certo  influsso  scambievole,  modificano  le  particelle  cere- 
brali in  tal  modo  che  1'  una  acquisti  la  suscettibilità  di  compiere  un  certo 
atto  quando  sia  stimolato  da  certa  operazione  dell'altra  {Op.  cit.,  Voi.  I, 
Libro  I,  Sez.  IV).  Ora,  non  si  capisce  davvero  come  mai  due  sensazioni 
distinte  possano  modificare  due  cellule  cerebrali,  distinte  e  lontane,  in 
modo  che,  risorgendo  l'una,  risorga  anche  l'altra.  Il  che  riconosce  il 
Borrelli  stesso,  scrivendo:  '  Chi  di  fatti  può  intendere  come  mai  il  mo- 
vimento d'una  particella  sensifera  agisca  su  di  un'altra  che  pur  si  trova 
in  movimento?  Chi  può  farsi  un'idea  veramente  chiara  e  precisa  del 
mutamento  che  accade  per  questa  doppia  azione  nelle  due  picciole 
molle?  E  chi  è  sì  accorto  da  scorgere  come  questo  mutamento  le  lasci 
in  guisa  disposte,  che  la  semplice  riproduzione  del  movimento  dell'una 
sia  stimolo  sufficiente  a  richiamarlo  nell'  altra?  Profondi  arcani  son  questi, 
e  son  forse  destinati  ad  esser  sepolti  per  sempre  nella  parte  più  riposta 
della  costituzione  del  cervello   ^  {Op.  cit.,  Voi.  1,  pag.  342). 


—  235  — 

r  altra.  Perciò  non  si  può  più  per  lui  parlare  di  sensimo.  Egli 
mostra  nel  modo  più  netto  che  la  volontà  e  specialmente  il  giu- 
dizio non  si  possono  ridurre  alla  sensazione.  È  così  compiuto 
quel  movimento  di  critica  dell'  ideologia  francese,  che,  iniziatosi 
in  Italia  col  Soave  e  proseguito  dal  Gioia  e  dal  Romagnosi,  ha 
la  sua  espressione  più  determinata  e  più  chiara  nel  Borrelli.  Me- 
rito del  Borrelli  è  anche  l'aver  ben  messo  in  evidenza  che  il  co- 
noscere non  è  un  fenomeno  passivo.  Il  Condillac  aveva  considerato 
il  sentire,  al  quale  secondo  lui  si  riduce  tutta  la  conoscenza,  come 
passivo;  altri  aveva  osservato  a  questa  dottrina  che  ci  son  funzioni 
psichiche  {per  es.  giudicare,  volere)  che,  non  essendo  passive,  non 
si  posson  ridurre  al  sentire;  ma  il  Borrelli,  al  pari  del  Romagnosi, 
mostra  che  neppure  la  sensazione  si  può  considerare  come  pas- 
siva, giacché  essa  non  risulta  solo  dallo  stimolo  degli  oggetti 
esterni  sull'anima,  ma  richiede  anche  una  forza  insita  nell'anima 
stessa.  Nel  medesimo  modo  che  la  pietra  focaia  sprizza  scintille  non 
solo  perchè  è  colpita  con  1'  acciarino,  ma  anche  perchè  ha  una 
natura  particolare,  così  l' anima  ha  sensazioni  perchè,  dati  gli 
stimoli  esterni,  reagisce  con  la  forza  insita  in  lei. 

Poche  osservazioni  critiche. 

È  una  deficienza  della  classificazione  borrelliana  il  non  consi- 
derare i  sentimenti  come  un  gruppo  particolare  di  fatti  psichici  (I). 
La  caratteristica  della  memoria,  che  è  il  riconoscimento,  gli  sfugge: 
appunto  perciò  egli  identifica  in  certo  modo  la  memoria  con  la  con- 
templazione lockiana  e  con  la  sensazione.  Anche  l'immaginazione 
mi  par  definita  in  senso  troppo  ampio,  tanto  che  comprende 
ogni  fatto  psichico  secondario  che,  per  mutamenti  avuti,  non 
corrisponda  più  alla  realtà  (le  allucinazioni  dei  malati,  i  ricordi 
alterati  etc). 

Notevolissimi  sono  i  risultati  a  cui  il  Borrelli  giunge  a  pro- 
posito della  natura  del  giudizio.  Il  Borrelli  ha  mostrato  in  modo 
esatto  e  preciso  che  le  relazioni  non  si  posson  considerare  come 
un  prodotto  soggettivo,  ma  implicano  un  fondamento  oggettivo. 
Su  questo  punto  egli  vede  molto  più  chiaro  del  Romagnosi,  e  non 
cade  così  nel  soggettivismo  kantiano. 

Quanto  al  ragionamento,  è  chiaro  che  il  Borrelli  non  riesce  a 


(1)  S'è  notato  questo  pure  a  proposito  dell' ideologia  del  Soave. 


—  236  — 

prescindere  da  un  principio  generale,  anzi  da  quello  aristotelico, 
del  sillogismo.  Egli  osserva  che  i  fanciulli  e  le  persone  del  volgo 
non  si  giovano  di  alcun  assioma  nei  loro  raziocini;  ed  è  vero;  ma 
ciò  non  toglie  che  nei  loro  pensieri  sia  implicito  un  principio. 
Essi  certo  questo  non  1'  hanno  chiaro  dinanzi  alla  mente,  ma  lo 
presuppongono.  Del  resto  il  Borrelli  stesso  confessa  che,  sebbene 
a  formare  il  raziocinio  non  sia  sempre  necessario  un  principio  ge- 
nerale, pare  si  può  ricercare  se  ogni  processo  di  quest'atto  si  possa 
richiamare  a  un  principio  di  tal  sorta.  Il  che  equivale  appunto  a 
riconoscere  che  nei  nostri  ragionamenti  è  implicito  un  assioma, 
sebbene  questo  non  sia  chiaro  davanti  allo  spirito.  Anzi  il  prin- 
cipio borrelliano  non  differisce  dal  dictum  de  omni  et  nullo  ari- 
stotelico; giacché,  dicendo  che  due  idee  conformi  ad  una  terza 
son  conformi  tra  loro,  per  es.  che  i  concetti  Terra  e  corpo  girante 
in  orbita  elittica  son  conformi  a  quello  di  pianeta  (cioè  affer- 
mando: i  pianeti  son  corpi  giranti  in  orbite  elittiche  —  1"  pre- 
messa; la  Terra  è  un  pianeta  —  2'  premessa),  e  quindi  son  con- 
formi tra  loro  (ossia:  la  Terra  è  un  corpo  girante  in  orbita  elit- 
tica —  conclusione),  non  si  viene  ad  asserire  se  non  quanto  ci 
autorizza  a  dire  il  dictum  aristotelico,  che  cioè  un  predicato  {corpo 
girante  in  orbita  elittica),  il  quale  appartiene  a  una  classe  di  esseri 
(pianeti)  appartiene  anche  a  tutti  gì'  individui  compresi  in  quella 
classe  (es.  alla  Terra)  (1).  Schematicamente: 

Termine  Medio  (Pianeta)  =  T.  Maggiore  (girante  in  orbita 
elittica); 

T.  Minore  (Terra)  =  T.  Medio  (Pianeta); 

T.  Minore  (Terra)  =  T.  Maggiore  (girante  in  orbita  elittica). 

Si  ha,  così,  in  base  al  principio  borrelliano,  la  prima  figura 
del  sillogismo  aristotelico,  in  cui  è  rigorosamente  applicato  il 
dictum  citato. 

Quanto  alla  volontà,  è  strano  che  il  Borrelli  l'ammetta  come 
energia  originaria,  irriducibile  ad  altre  e  capace  di  agire  su  parti 


(1)  Si  noti  anzi  che  lo  stesso  principio  posto  dal  Borrelli  a  base  del 
ragionamento  è  stalo  espresso  quasi  con  le  stesse  parole  da  un  logico 
moderno,  il  Jevons,  il  quale  però  non  respinge  la  dottrina  aristotelica, 
anzi  cerca  d' integrarla.  Vedi  Jevons,  77?^  substition  of  siniilars,  London, 
Macmillan  e  C,  1869;  ed  Elementary  Lessons  in  Logic,  spec.  Lesson 
XIV  (Macmillan,  1909). 


—  237  — 

dell'  organismo,  ma  nello  stesso  tempo  la  faccia  assistere  passi- 
vamente ai  momenti  più  importanti  e  talvolti  più  tragici  della 
nostra  vita  pratica,  cioè  al  conflitto  dei  vari  motivi,  alla  decisione 
e  alla  scelta  di  una  delle  alternative  (1).  Se  la  volontà  è  capace 
di  agire  sugli  organi  corporei  e  di  dar  quindi  origine  a  cangia- 
menti nel  mondo  materiale,  o  perchè  non  dovrebbe  intervenire 
nella  scelta  dei  vari  motivi  ? 

La  strana  affermazione  del  Borrelli  dipende  del  resto  dall'  iden- 
tità eh'  egli  stabilisce  fra  giudizio  teoretico  e  decisione  pratica  o 
scelta.  Ora,  quest'  identificazione  non  è  giusta.  Trovare  un'  idea 
disforme  da  un'altra  non  è  certo  trovare  l'una  preferibile  e  l'altra 
posponibile.  Quale  delle  due  idee  sarà  la  preferibile?  Questo  non 
risulta  certo  dalla  loro  disformità;  perchè  non  basta,  per  decidersi, 
giudicare  differenti  due  idee;  bisogna  che  intervenga  una  nuova 
attività,  che  dia  un  valore  maggiore  a  uno  dei  termini  e  lo  giu- 
dichi quindi  preferibile.  Del  pari,  il  giudicar  preferibile  una  delle 
alternative  alle  altre  non  è  affatto  lo  stesso  che  preferirla  e  sce- 
glierla effettivamente;  tant'è  vero  che  si  può  teoricamente  rite- 
nerla preferibile,  ma  non  sceglierla  in  realtà  («  e  veggio  il  meglio 
ed  al  peggior  m'  appiglio  »)  (2). 

Ma  queste  lievi  mende  non  sminuiscono  certo  il  valore  del- 
l' opera  del  Borrelli. 

In  fine,  il  Borrelli,  fu  spiritualista  o  materialista  ?  Né  1'  uno 
né  r  altro;  come  gli  altri  ideologi,  egli  fu  agnostico.  Infatti,  seb- 
bene egli  dichiari  di  voler  scrivere  un'  opera  sulla  semplicità  e 
immortalità  dell'  anima  (3),  pure  nelle  opere  d' ideologia  che  ci 
ha  lasciate  resta  sempre  nell'ambito  della  psicologia  descrittiva  (4); 


(1)  Com'è  noto,  questa  è  anche  l'opinione  del  Locke  (.Saggio, 
Libro  II,  Gap.  XXI),  di  Voltaire  {Questions  sur  VEncycl.,  pag.  137  del 
Voi.  XVIH  delle  Oeuvres;  Philosophie  generale,  Chap.  VII,  pag.  513 
e  seg.  del  Voi.  XXXII  delle  Oeuvres)  e  del  Bonnet  {Essai  analytique, 
Chap.  XII,  pag.  129  e  seg.  del  Voi.  XIII  delle  Oeuvres). 

(2)  Petrarca,  Canz.  /'  vo  pensando  etc;  Foscolo,  sonetto  Non  son 
chi  fui  etc.  Si  ricordi  anche  Ovidio  {video  mcliora  proboque,  deteriora 
sequor). 

(3)  Introduzione  alla  filosofia  naturale  del  pensiero,  pag.  229-230 
e  238;  Principi  della  genealogia,  Voi.  l,  pag.  IX,  e  pag.  1-2. 

(4)  Il  Borrelli  stesso  dichiara  di  abbracciare  l'opinione  degli  spiri- 


-  238  — 

e  nelle  ricerche  fisiologiche,  che  possono  sembrare  tendenti  al 
materialismo,  egli  insiste  nel  mostrare  come  I'  ammettere  questo 
o  quell'organo  fisiologico  del  pensiero  non  implichi  idee  né  spi- 
ritualistiche né  materialistiche,  non  pregiudichi  quindi  alla  que- 
stione della  natura  dell'anima  (1).  Tiene  sempre  distinte  le  ricerche 
psicologiche  pure  e  semplici  da  quelle  metafisiche;  anzi  scrive: 
«  Ne'  principii  della  scienza  universale  porrò  in  veduta  che  quel  di- 
partimento dello  scibile,  quale  chiamerò  telosarchia,  è  ben  diverso 
da  quello  cui  la  ideologia  debbe  ascriversi.  L'  uno  è  diretto  da 
regole  che  non  appartengono  all'  altro:  e  perciò  la  miscela  di  en- 
trambi in  una  trattazione  medesima  è  per  entrambi  dannosa.  Trovo 
in  conseguenza  regolare  che  né  il  Locke,  né  il  Condillac,  né  il 
Bonnet,  né  il  Tracy  abbiano  creduto  di  estendere  la  discussione 
ideologica  alla  immaterialità  dello  spirito  »  (2). 

Del  resto  le  dichiarazioni  d'  agnosticismo  son  frequenti  nelle 
opere  del  Borrelli.  Così  riconosce  che  movimenti  del  sistema  ner- 
voso accompagnano  i  fenomeni  del  pensiero,  ma  ripone  «  la  ma- 
niera nella  quale  i  nervi  contraggono  il  moto  e  seguentemente  il 
trasfondono  fra  gli  arcani  pivi  cupi  della  natura  »  (3).  Confessa  di 
ignorare  la  sede  cerebrale  dell'anima  (4)  e  la  maniera  in  cui  il  mo- 
vimento di  una  particella  sensifera  acquisti  il  potere  di  riprodurre 
un  movimento  all'occasione  del  ritorno  del  movimento  di  un'altra 
(associazione  delle  idee)  (5).  Del  pari  dichiara  di  non  aver  voluto 
render  chiaro  nelle  sue  parti  più  intime  il  meccanismo  segreto 
della  imitazione  involontaria  (6).  Afferma  che  non  é  possibile 
comprendere  in  che  consista  l'azione  traslocatrice  di  un  corpo  e 
in  che  maniera  si  trasmetta  ad  un  altro,  come  pure  quale  sia  la 
vera  essenza  dello  sforzo  interiore  volontario  e  in  che  modo  esso  si 


tualisti  che  solo  l'ente  semplice  possa  pensare,  ma  aggiunge  che  di- 
fenderà tale  opinione  in  opere  non  ideologiche  (vedi  Principi  della 
genealogia,  Voi.  1,  pag.  45). 

(1)  Principi  della  genealogia,  Voi.    Ili,    Libro  V,  Sez.  II,  Gap.  IV, 
e  Sez.  HI,  Gap.  IV.  Gfr.  Voi.  Ili,  pag.  213,  413,  414  e  418. 

(2)  Introduzione  etc,  pag.  229. 

(3)  Principi  della  genealogia,  Voi.  1  pag.  43-44  e  332. 

(4)  Op.  cit,  Voi.  I,  pag.  45-46. 

(5)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  342-343. 

(6)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  352. 


—  239  — 

traduca  in  movimento  (1).  Divide  tutti  i  rapporti  dell'  universo  in 
tre  classi:  la  prima  comprende  tutte  le  relazioni  già  scoperte;  la 
seconda,  quelle  non  ancora  conosciute  ma  conoscibili,  le  quali 
saranno  scoperte  dai  nostri  discendenti;  la  terza,  quelle  che  ap- 
partengono ai  problemi  insolubili  per  1'  uomo  e  costituiscono  il 
mistero  della  natura  (2).  «  Io  ignoro  moltissime  cose  »,  con- 
clude (3).  Dunque  egli  resta,  come  tutti  gì'  ideologi,  agnostico. 
Tuttavia  non  si  può  negare  che  in  lui  non  si  leggono  più  frasi 
rudi  quali  quelle  del  Cabanis,  del  Delfico  e  del  Tracy,  che  hanno 
procurato  ai  loro  assertori  l' accusa  di  materialismo.  Anche  la 
sua  propensione  ad  esaminare  le  idee  di  altri  pensatori  mostra 
ch'egli  ha  superato  quel  punto  di  vista  antistorico  così  frequente 
negl'  ideologi.  Il  soffio  potente  di  un  nuovo  spirito  di  cultura 
agita  i  fogli  dei  suoi  scritti. 


CAPITOLO  VII.  —  Ideologi  minori 

Oltre  gl'ideologi  principali,  di  cui  abbiamo  esaminato  le  opere, 
ne  vanno  ricordati  altri  minori. 

Fu  professore  all'  Università  di  Pavia  Giuseppe  Compagnoni, 
nato  a  Lugo  di  Romagna  il  3  marzo  1754  e  morto  nel  dicembre 
del  1833.  Fu  autore  di  parecchie  opere  storiche  e  letterarie  (tra 
cui  le  Veglie  del  Tasso,  date  e  tenute  per  opera  originale  del 
Tasso  stesso)  e  giornalista  (collaborò  al  Alonitore  Cisalpino).  Fu, 
durante  la  Repubblica  italiana,  segretario  generale  del  Consiglio 
di  Stato  e  giudice  del  real  Consiglio  delle  prede  marittime  ; 
inoltre  fu  chiamato  a  parte  della  compilazione  dei  codici  penale, 
militare  e  commerciale.  Ebbe  dopo  Marengo  la  cattedra  d' eco- 
nomia politica  all'Università  di  Pavia;  ma  preferiva  rimanere  a 
Milano  come  Promotore  della  pubblica  istruzione.  Scrisse  gli  Ele- 
menti di  diritto  repubblicano  ossia  principii  di  gius  pubblico  ani- 
versale;  tradusse,  come  sappiamo,  gli  Elementi  d'ideologia  di  De- 


ci) 0/7.  cit.,  Voi.  IH,  pag.  26-27. 

(2)  0/7.  cit.,  Voi.  II,  pag.  108. 

(3)  0/7.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  71.  Cfr.  Voi.  I,  pag.  154-155,  256;  Voi.  Ili, 
pag.  261  e  373. 


—  240  — 

stutt  de  Tracy,  i  quali  ebbero  in  Italia  grande  fortuna.  Al  Trattato 
della  volontà  (Milano,  Sonzogno,  1819)  del  filosofo  francese  (1) 
aggiunse  il  suo  Saggio  d'un  trattato  morale  in  forma  di  cate- 
chismo, in  cui  fondava  tutta  la  vita  etica  sull'amor  proprio.  Questo 
Saggio  era  parte  d'un  compiuto  sistema,  a  meditare  e  comporre 
il  quale  egli  aveva  spesi  molti  anni;  e  lo  teneva  caro  più  di  tutti 
i  suoi  scritti;  ma  ne  smarrì  la  seconda  parte,  a  cui  tentò  supplire 
con  le  Lettere  a  tre  giovani  sulla  morale  pubblica  e  con  gli  otto 
dialoghi  Degli  off  ici  di  famiglia  (Milano,  Stella,  1826).  Lasciò  ine- 
diti La  morale  per  tutti  ed  altri  scritti  (2). 

Va  ricordato  anche  Paolo  Costa  (3)  di  Ravenna  (1771-1836), 
il  quale  insegnò  ideologia  ai  giovani  nel  liceo  di  Treviso  e  in 
quello  di  Bologna  prima,  poi,  a  mo*  dei  filosofi  greci,  nei  ritrovi, 
nei  passeggi,  nell'intimità  familiare,  nella  quiete  della  villa;  dopo 
i  moti  del  '31  fu,  per  motivi  politici,  a  Corfù,  donde  tornò  quasi 
subito  a  Bologna.  Scrisse,  oltre  alcuni  componimenti  poetici  e  una 
Vita  dell'  Alighieri,  il  trattato  Della  elocuzione  (Forlì,  Casali,  1818) 
e  il  volumetto  Dell' analbi  e  della  sintesi  (pubblicato  insieme  con 
l'Elocuzione  citata  a  Bologna,  Turchi,  Veroli  e  C,  1824,  e  anche 
a  parte  nella  Nuova  Collezione  di  opuscoli  letterari,  Bologna, 
Marsigli,  1824),  in  cui  erano  in  germe  le  idee  del  libro  suo  prin- 
cipale, intitolato:  Del  modo  di  comporre  le  idee  e  di  contrassegnarle 
con  vocaboli  precisi  per  potere  scomporle  regolarmente  a  fine  di  ben 
ragionare,  e  delle  forze  e  dei  limiti  dell'  umano  intelletto;  dedicato 
alla  gioventù  delle  Isole  fonie  (Corfù,  1831).  In  quest'opera  egli 
mostrava  come  gli  eccessi  del  materialismo  e  del  trascendenta- 
lismo (di  Kant  e  della  scuola  scozzese)  derivassero  da  due  motivi: 


(1)  Questa  traduzione  del  Trattato  della  volontà  differisce  dall' edi- 
zione francese  per  il  Gap.  II  della  Parte  II  (sull'amore),  che  è  terminato 
(avendo  il  Campagnoni  avuto  il  manoscritto  originale  dal  Tracy).  In 
esso  il  filosofo  francese,  dopo  aver  caratterizzato  1'  amore  come  il  ri- 
sultato del  bisogno  della  riproduzione  congiunto  con  quello  della  sim- 
patia, tratta  del  matrimonio,  del  divorzio  etc. 

(2)  Vedi  Biografia  degli  italiani  illustri  etc.  pubblicata  dal  De  Ti- 
paldo,  Voi.  II,  pag.  181-189  (articolo  di  G.  Rambelli). 

(3)  Biografia  cit.  del  Tipaldo,  Voi.  V,  pag.  9-18  (articolo  del  Ram- 
belli); Elogio  di  P.  Costa  dell'  ab.  F.  Becchi  (in  Del  modo  di  com- 
porre le  idee  etc,  Milano,  Silvestri,  1844,  pag.  V-XVI). 


-  241  — 

perplessità  del  linguaggio  filosofico  e  mancanza  d'una  regola 
precisa  che  segnasse  i  termini  oltre  i  quali  la  ragione  abbando- 
nata a  sé  stessa  non  può  che  traviare.  Per  rimediare  a  tali  eccessi 
volle  innanzi  tutto  «  insegnare  ai  giovani  con  qual'arte  si  debba 
formare  un  linguaggio  composto  di  vocaboli  determinati  ».  Mostrò 
che  a  tal  fine  non  giovano  le  definizioni,  giacché  esse,  essendo 
scomposizioni  d' idee,  presuppongono  il  formarsi  di  queste,  e  son 
perciò  fallaci  se  le  idee  son  composte  male.  Mosse  quindi  dalle 
semplici  sensazioni  e  dai  ricordi  (sensazioni  continuate  o  rinno- 
vate), e  venne  a  mano  a  mano  componendo  le  idee  (complessi 
di  ricordi),  assegnando  a  ciascuna  il  proprio  vocabolo.  Fatta  così 
la  composizione  delle  idee,  ne  riusciva  facile  la  scomposizione, 
ossia  la  definizione  (1).  Per  stabilire  poi  i  limiti  del  ragionamento, 
mostrò  che  i  principi  generali,  su  cui  questo  si  fonda,  son  rica- 
vati dall'  osservazione  dei  fatti  (2),  e  che  quindi  esso  non  può 
avere  una  potenza  che  non  sia  nei  principi,  onde  non  può  risolvere 
questioni  circa  tutto  ciò  che  oltrepassi  la  sfera  dei  fatti,  dai  quali 
si  ricavano  i  principi. 


(1)  11  Costa  chiama  sintesi  la  composizione  delle  idee  compiuta  mo- 
vendo dalle  sensazioni,  ossia  quel  procedimento  mentale  che  il  Condillac 
chiamava  analisi.  Solo  dopo  che  le  idee  sono  state  composte  e  contras- 
segnate con  vocaboli  particolari,  dice  il  Costa,  noi  possiamo  rivolgere 
l' attenzione  alle  parti  loro  e  scomporle,  per  venire  gradatamente,  di  scom- 
posizione in  scomposizione,  agli  elementi  più  semplici.  Quindi  V  analisi 
(scomposizione)  presuppone  la  sintesi;  questa  è  il  vero  metodo  d'inven- 
zione e  d' insegnamento;  quella  non  è  che  il  metodo  di  verifica.  Vedi 
Del  modo  di  comporre  le  idee  etc,  Milano,  Silvestri,  1844,  Cap.  L  e 
seg.',  e  Della  sintesi  e  dell'  analisi  (stamp.  con  l'opera  precedente). 

(2)  Per  questo  riguardo  combattè  specialmente  la  scuola  scozzese 
(Reid,  D.  Stewart),  secondo  cui  nell'anima  sono,  com'egli  dice,  alcune 
leggi  e  modi  suoi  propri  indipendenti  dall'esperienza.  Vedi  Del  modo 
etc,  Cap.  XXVllI-XL.  Il  Costa  si  oppose  anche  al  Rosmini  scrivendo 
una  Confutazione  intorno  al  Nuovo  Saggio  sulV  origine  delle  idee  del 
sig.  Rosmini,  in  difesa  delle  dottrine  del  Locke  e  del  Condillac 
(Op.  cit.,  Appendice,  pag.  347-365).  Notevole  è  anche  l' opera:  Colloquii 
tra  Paolo  Costa  e  Aristarco  Scannabue,  autore  della  Frusta  letteraria 
(il  Baretti),  nei  quali  si  ragiona  di  alcune  false  opinioni  e  segnatamente 
di  quelle  dell'abate  La  Mennais  intorno  il  criterio  della  verità  (Bologna, 
all'insegna  della  Volpe,  1830). 

16 


—  242  — 

Scrissero  due  opere  organiche  d' ideologia  lo  Zelli  e  il  Bini. 
Il  P.  Don  Raffaele  Zelli,  monaco  cassinese,  è  autore  degli  Elementi 
di  filosofia  metafisica  (Firenze,  Ciardetti,  1804;  quarta  ediz.  Bo- 
logna, 1830).  Considerando  la  metafisica  come  la  scienza  dei  prin- 
cipi e  delle  verità  astratte,  egli  la  divide  in  due  parti.  La  prima 
ha  per  oggetto  l' analisi  delle  facoltà  psichiche;  la  seconda,  il 
quadro  generale  delle  conoscenze  umane.  L'  una  prende  il  nome 
d' ideologia  dalle  idee,  che  sono  il  risultato  dell'  esercizio  delle 
facoltà  psichiche  e  la  base  delle  nostre  conoscenze;  1'  altra,  con- 
siderando le  cognizioni  umane  relativamente  alle  principali  facoltà 
di  ricordarsi,  d'immaginare  e  di  ragionare,  prende  rispettivamente 
i  nomi  di  Metafisica  della  storia.  Metafisica  delle  arti  belle  e  Me- 
tafisica razionale  (1).  Neil'  ideologia  lo  Zelli  segue  specialmente 
il  Tracy:  al  pari  di  questo  infatti  considera  le  idee  rispetto  alla 
genesi,  all'espressione,  alla  combinazione  e  deduzione  loro  (2). 
Parlando  della  genesi  delle  idee  o  sensazioni  e  delle  facoltà 
psichiche ,  riduce  1'  attenzione  alla  sensibilità ,  considerandola 
come  il  dirigersi  della  sensibilità  ad  un'  impressione  partico- 
lare (3).  Anche  la  memoria  si  risolve  per  lui  nella  sensibilità, 
perchè  le  idee  riprodotte  o  ricordanze  hanno  origine  dall'  asso- 
ciarsi delle  sensazioni  per  mezzo  dell'  attenzione  (4).  Neppure  il 
paragone  è  per  lo  Zelli  una  facoltà  particolare;  esso  non  è  che 
l'attenzione  o  la  sensibilità  applicata  a  due  sensazioni  o  idee  nel 
medesimo  tempo.  Quando  i  termini  del  paragone  sono  idee  di 
ricordanza,  quest'attenzione  o  sensibilità  che  si  applica  prende  il 
nome  di  riflessione.  Invece  la  volontà,  sebbene  presupponga  il 
sentire  (in  quanto  che  non  c'è  desiderio  o  passione  che  non  abbia 
per  base  un  giudizio,  un  sentimento  di  rapporto  fra  l'oggetto  che 


(1)  Vedi  Elementi  di  fil.  metafisica  di  R....  Z....,  Firenze,  Ciardetti, 
1804,  Parte  I,  pag.  3  e  seg.  È  facile  scorgere  qui  l'efficacia  della  clas- 
sificazione baconiana  delle  scienze,  la  quale  è  veramente  fuori  posto 
in  quest'opera,  perchè  la  classificazione  delle  facoltà  psichiche  del  Tracy 
e  dello  Zelli  è  diversa  da  quella  di  Bacone. 

(2)  Op.  cit.,  Parte  I,  pag.  43. 

(3)  Op.  cit.,  Parie  I,  pag.  46. 

(4)  Op.  cit.,  Parte  I,  pag.  55.  Lo  Zelli  considera  la  facoltà  di  sen- 
tire in  connessione  col  sistema  nervoso,  e,  a  questo  proposito,  cita 
spesso  il  Cabanis  (pag.  48  e  seg.  della  Parte  I). 


—  243  — 

si  appetisce  e  il  bisogno  reale  o  immaginario),  non  si  riduce  ad 
esso.  La  volontà  è  uno  stato  attivo;  la  sensibilità  invece  è  uno 
stato  passivo  (1).  La  volontà  ha  per  lo  Zelli  una  speciale  impor- 
tanza nella  conoscenza  del  mondo  esterno.  Anche  per  questo  ri- 
guardo egli  segue  il  Tracy,  che  secondo  lui  in  questa  ricerca  «  ha 
un  merito  distinto  sopra  tutti  gli  Ideologisti  »  (2).  Pure  nel  de- 
rivare le  idee  delle  qualità  dei  corpi  (inerzia,  movimento,  esten- 
sione etc.)  dalla  resistenza  segue  il  Tracy.  Dunque,  egli  conclude 
col  filosofo  francese,  le  qualità  sensibili  dei  corpi  non  sono  altro 
che  i  rapporti  che  essi  hanno  con  la  nostra  organizzazione;  ed 
un  corpo  qualunque  non  è  altro  per  noi  che  una  cosa  inerte  ed 
estesa  con  le  altre  qualità  che  possiede,  cioè  coi  rapporti  che  ha 
coi  nostri  sensi.  Non  sappiamo  dunque  che  siano  i  corpi  in  sé; 
conosciamo  solamente  quali  relazioni  hanno  coi  nostri  sensi  nel- 
r  ordine  presente  dell'  universo  (3).  Dopo  che  noi,  secondo  lo 
Zelli,  abbiamo  conosciuto  qualcosa  d'esterno,  componiamo  gruppi 
d' idee  corrispondenti  ai  gruppi  d' impressioni  ricevute  dagli  og- 
getti esterni,  e  astraendo  con  i'  aiuto  del  linguaggio,  e  seguendo 
le  analogie  che  scopriamo  nel  confronto  delle  idee,  ne  formiamo 
dei  gruppi  più  o  meno  composti,  generalizziamo,  classifichiamo 
ragioniamo,  e  formiamo  tutto  il  sistema  di  nostre  conoscenze 
Appunto  il  quadro  generale  di  queste  conoscenze  lo  Zelli  consi 
dera  da  ultimo  (4),  trattando  delle  scienze  storiche  (metafisica 
della  storia),  delle  arti  belle,  il  cui  oggetto  è  secondo  lui  l' imi 
tazione  della  natura  (metafisica  delle  belle  arti)  (5),  e  infine  dei 
principali  problemi  della  metafisica  razionale  (del  mondo,  di  Dio 
della  società,  del  destino  dell'uomo  etc),  a  proposito  dei  quali 
combatte  il  materialismo. 

Il  P.  Don  Vincenzo  Bini,  monaco  cassinese  lui  pure,  profes- 
sore di  filosofia  all'  Università  di  Perugia,  è  autore  del  Corso  ele- 
mentare di  lezioni  logico-metafisico-morali  (Perugia,  Società  Tipo- 
grafica, 1815),  che   ricorda,  specie   per   il   disegno,  l'opera  dello 


(1)  Op.  alt.,  Parte  I,  pag.  74. 

(2)  Op.  cit,  Parte  I,  pag.  77. 

(3)  Op.  cit.,  Parte  I,  pag.  87-88. 

(4)  Nella  Parte  IL 

(5)  Op.  cit.,  Parte  II,  pag.  35  e  seg. 


—  244  — 

Zelli,  benché  in  alcuni  punti  se  ne  distingua  e  talora  forse  la 
superi  (1).  Per  lui  lo.  studio  di  Locke  e  di  Condillac  ha  origi- 
nato un  rivolgimento  nel  campo  filosofico,  cosicché  indietro  non 
si  può  più  tornare.  Bisogna  assolutamente  seguire  il  metodo 
di  quei  grandi.  Perciò  egli,  come  gì'  ideologi  in  genere,  dice  : 
«  Immaginiamo  di  incominciare  oggi  a  pensare,  a  parlare,  a  ra- 
gionare ».  Solo  così  é  possibile  rintracciare  la  genesi  delle  no- 
stre conoscenze.  Riduce,  come  il  Tracy,  le  attività  umane  a  tre  : 
pensiero,  parola,  raziocinio  (2).  Il  pensiero  lo  divide  (pure  come 
il  Tracy)  in  sensibilità,  memoria,  giudizio,  volontà.  Trattando  della 
sensibilità  afferma  che  tutte  le  idee  provengono  all'anima  pervia 
degli  organi  sensori  (3);  e  rivela  una  conoscenza  vasta  e  precisa 
dei  risultati  scientifici  ottenuti  fino  al  suo  tempo  nello  studio  del 
sistema  nervoso.  Tuttavia  non  riduce  (come  fa  invece  il  Tracy)  la 
memoria,  il  giudizio  e  la  volontà  al  sentire,  ma  li  distingue  espres- 
samente da  questo  (4).  Anche  nel  problema  della  conoscenza  del 
mondo  esterno  segue  il  Tracy  (5).  Mostra  poi  come  l' uomo,  as- 
suefatto a  riflettere  sugli  oggetti  materiali,  scorga  le  loro  qualità 
comuni  e  le  loro  differenze,  riunisca  quelle  in  gruppi  e  formi, 
così,  le  idee  generali  e  astratte  tanto  fisiche  quanto  morali  e  me- 
tafisiche. Chiude  l'opera  dimostrando  l'immaterialità  dell'anima 
(in  base  all'impossibilità,  per  tutto  ciò  che  é  materiale,  di  perce- 
pire più  cose  in  una  volta)  e  la  sua  immortalità  (6). 


(1)  A  pag.  6  dice  d'aver  adottato  nelle  sue  lezioni  universitarie  sulla 
metafisica  l' opera  dello  Zelli,  suo  amico;  ma,  siccome  a  Perugia  era  stato 
allora  affidato  ad  un  sol  professore  l' insegnamento  e  della  dialettica 
(logica)  e  della  metafisica  e  della  morale,  egli  volle  presentare  ai  giovani 
un'opera  che  facilitasse  loro  la  conoscenza  di  quelle  tre  scienze. 

(2)  Corso  etc.  (ediz.  cit.),  pag.  13. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  20.  Cita  spesso  il  Soave  e  il  Sarti. 

(4)  Op.  cit.,  pag.  41,  86  e  99. 

(5)  Op.  cit.,  spec.  Sezione  XXXVI. 

(6)  Sezione  LVIII  e  LXI.  Per  integrare  l'ideologia  del  Tracy  e  per 
liberarla  dalla  taccia  di  materialismo  il  Campagnoni  premise  al  I  Voi. 
della  Parte  I  degli  Elementi  d^  ideologia  da  lui  tradotti  (pag.  XLIIl-LII) 
questa  dimostrazione  dell'immortalità  dell' anima  del  Bini  (insieme  con 
la  dimostrazione  dell'  esistenza  di  Dio  tolta  dal  Trattato  delle  scienze 
metafisiche  del  Genovesi). 


—  245  - 

Un  quadro  ideologico  quasi  compiuto  presentò  il  professore  P. 
Luigi  Pungileoni  (1762-1844)  (1)  in  tre  articoli  connessi  fra  loro  (2). 
Egli,  pur  plaudendo  al  Trattato  dei  sistemi  del  Condillac,  si  duole 
che  questi  nel  Trattato  delle  sensazioni  abbia  mescolato  luce  e 
tenebra  col  pretendere  di  spiegare  lo  sviluppo  delle  facoltà  in- 
tellettuali per  mezzo  di  osservazioni  su  di  una  statua.  Questa  non 
può  avere  in  sé  tanto  che  basti  per  giungere  alla  conoscenza  di 
sé  e  dei  corpi  esterni.  Lo  studio  dell'uomo  non  si  può  compiere 
che  nell'uomo  stesso  e  nelle  opere  sue,  facendo  distinzione  fra 
uomo  e  uomo  per  quelle  combinazioni  accidentali  di  clima,  di 
educazione  e  di  altri  agenti,  onde  avviene  che  la  natura  nella 
nostra  macchina  non  produce  in  tutti  i  medesimi  effetti.  Per  at- 
tuare questo  disegno,  il  Pungileoni  richiama  alla  sua  memoria  ed 
esamina  «  quell'età  che  può  dirsi  l'alba  della  ragione  »,  ossia 
l'adolescenza.  «  Immagino  pertanto  »,  egli  scrive,  «  un  giovanetto 
bene  organizzato  su  di  un  angolo  di  questa  terra,  in  cui  la  na- 
tura abbia  versato  a  piene  mani  i  suoi  doni.  Di  più  noi  sup- 
pongo ivi  isolato,  ma  solo  alquanti  passi  discosto  dai  suoi  più 
cari.  Egli  è  in  questa  situazione,  prescindendo  da  ogni  suo  mo- 
vimento anteriore  ».  Di  tale  giovanetto  il  Pungileone  esamina 
da  prima  l' odorato  e  il  gusto,  poi  l' udito  e  la  vista.  Ritiene 
che  r  udito  possa  dare  al  giovanetto  la  percezione  di  due  suoni 
dissimili  provenienti  da  corpi  che  non  siano  lui  stesso  e  che 
stiano  fuori  di  lui:  propende  quindi  a  credere  che  le  sensazioni  acu- 
stiche non  siano  semplici  modificazioni  soggettive,  come  pensava 
il  Condillac.  Infatti,  egli  dice,  nell'orecchio  é  per  es.  prodotta  una 
impressione  dolce  dal  canto  dell' usignolo  e  sgradevole  dallo  stri- 
dere del  gufo.  All'  impressione  fisiologica  segue  la  sensazione.  Ora, 


(1)  Vedi  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  X,  pag.  244-246. 

(2)  Dell'  origine  e  delV  accrescimento  delle  umane  cognizioni  -  Os- 
servazioni metafisiche  in  Giornale  Arcadico,  Tomo  XXXIX  (anno  1828), 
pag.  106-117;  Dell'udito  e  della  vista  -  Considerazioni  metafisiche  in 
Giornale  Are,  Tomo  XLII  (1829),  pag.  137-150;  Disamina  sul  senso 
del  tatto  in  Gior.  Are,  Tomo  XLIV  (1829),  pag.  202-213.  Vedi  nel 
Gior.  Are.  stesso  (Tomo  LIV,  anno  1832,  pag.  37-62)  un  altro  articolo 
del  Pungileoni  sui  sogni  (Congetture  sui  sogni).  Il  Pungileoni  è  autore 
pure  di  alcune  Riflessioni  sulla  primaria  cagione  dei  sogni  e  del  son- 
nambulismo (Parma,  Carmignani,  1804)., 


—  246  — 

non  è  possibile  identificare  questi  due  effetti,  l' impressione  e  la 
sensazione,  appartenendo  quella  ai  sensi,  all'anima  questa.  Ma  non 
si  dà  effetto  senza  causa;  quindi  quell'impressione  è  attribuita  ai 
due  uccelli  indicati.  Anche  la  vista  secondo  lui  può  dare  la  per- 
cezione di  qualcosa  d'esterno;  e  a  tal  proposito  cita  l'articolo 
Delle  cateratte  dei  ciechi  nati,  osservazioni  teorico-chimiche  del  pro- 
fessore di  chirurgia  e  di  oftaliniatria  Luigi  de  Gregoris  romano 
(Roma,  1826),  secondo  il  quale  i  ciechi  nati  operati  di  cateratta 
non  vedrebbero  mai  attaccati  alla  cornea  i  primitivi  colori  e  gli 
oggetti  esterni.  Inoltre,  dice  il  Pungileoni,  è  facile  capire  che  un 
uccello,  volando  verso  il  giovanetto,  deve  aumentargli  la  base  del- 
l'angolo ottico,  e,  allontanandosene,  diminuirgliela;  quindi  il  fan- 
ciullo deve,  se  non  conoscere,  almeno  sospettare  che  tali  muta- 
menti siano  l'effetto  del  moto  d'un  corpo  estraneo.  Il  tatto  però, 
secondo  il  Pungileoni  stesso,  precisa  e  chiarisce  la  conoscenza 
del  mondo  esterno.  Tuttavia  non  si  deve  esagerare  l'importanza 
di  questo  senso.  «  Che  il  tatto  sia  il  senso  più  perfetto  degli 
altri,  passi:  ma  che  al  di  lui  magistero  si  debba  il  retto  uso  che 
di  lui  stesso  e  degli  altri  sensi  far  si  può,  ciò  non  è  vero.  Questo 
dipende  da  un  atto  libero  dell'anima,  al  voler  della  quale  il  tatto 
non  meno  degli  altri  sensi  è  soggetto  ».  Insomma  per  il  Pungi- 
leoni è  falsa  quella  psicologia  che  non  tien  conto  dell'attività  del- 
l'anima e  vuol  ridurre  l'uomo  al  corpo  soltanto  e  circoscrivere 
r  intelligenza  entro  il  mondo  sensibile  (1). 

V  è  poi  tutta  una  pleiade  d'  ideologi,  le  cui  opere  sono 
oramai  dimenticate.  Pietro  Schedoni  si  occupò  Delle  influenze 
morali  (Modena,  1810)  ossia,  trascurando  le  teorie  morali  e  le  ve- 
rità astratte,  che  presupponeva  beli'  e  stabilite,  esaminò  quanto  i 
principi  etici  abbiano  efficacia  sui  costumi  dei  popoli,  come  essi 
siano  violati  o  adempiuti  negli  usi  e  nelle  istituzioni  pubbliche  ; 
e  considerò  partitamente  le  piaghe  della  società,  additandole  ai  go- 
verni per  gli  opportuni  provvedimenti,  alcuni  dei  quali  venne 
suggerendo  (2).  11  conte  Giovanni  Ferri  di  San  Costante  di  Fano 


(1)  Ammette  alcune  nozioni,  come  quelle  di  causa  e  d'effetto,  indi- 
pendenti dai  sensi  {Giornale  Are,  Tomo  XLIV,  pag.  202). 

(2)  Io  ho  visto  la  terza  ediz.  (Modena,  Tipografia   camerale,  1824  - 
3  volumi). 


~  247  — 

(1755-1830)  scrisse  Lo  spettatore  italiano,  preceduto  da  un  saggio 
critico  sopra  i  filosofi  morali  e  i  dipintori  d^  costumi  e  d^  carat- 
teri (Milano,  Società  tipografica  dei  Classici  italiani,  1822),  in  cui 
volle  ritrarre  l'uomo  d'ogni  tempo  e  d'ogni  paese,  e  mostrare  i 
doveri  di  ciascuna  età,  di  ciascuno  stato,  tracciando  un  quadro 
della  vita  umana  e  compilando  un  trattato  di  morale  universale 
ispirato  ad  un  filantropismo  vasto  e  sincero  (1).  L'abate  Cestari 
in  Tentativo  secondo  sulla  rigenerazione  delle  scienze  (Milano,  1804) 
tentò  una  classificazione  delle  scienze  non  già  col  criterio  sogget- 
tivo di  Bacone  e  di  D'Alembert,  ch'egli  criticò,  ma  con  un  me- 
todo proprio,  oggettivo  ed  empirico;  e  vagheggiava  una  specie 
di  federazione  tra  i  letterati  di  tutta  l'Europa  (2).  Mariano  Gigli 
{Analisi  delle  idee,  1814)  considerò  la  filosofia  come  la  scienza  di 
ciò  che  si  può  conoscere  «  con  esatte  osservazioni  e  con  espe- 
rienze ben  istituite  ».  Carlo  Lauberg  (1762-1834)  pubblicò  (forse 
tra  il  1786  e  il  1789  a  Napoli)  delle  Riflessioni  sulle  operazioni 
dell'umano  intendimento,  nelle  quali  cercò  di  esporre  «  in  minia- 
tura »  ai  propri  scolari  le  <^  scoperte  »  degl'ideologi  francesi; 
egli  eliminava  la  riflessione  lockiana,  considerandola  come  deri- 
vante dal  sentimento,  ma  non  riduceva  tutto  al  sentire,  da  cui 
distingueva,  al  pari  del  Bonnet,  Vattenzione;  negava  anche  che  il 
tatto  ci  possa  assicurare  della  realtà  del  mondo  esterno,  poiché 
noi  conosciamo  sempre  le  nostre  maniere  di  essere  (3).  G.  Batt. 
Savioli  (Institutiones  metaphysicae  in  epitome  redactae,  Ticini,  1816) 
s'ispirò  alle  dottrine  del  Locke  e  del  Soave.  L'abate  Tommaso 
Troisi  {U  arte  di  ragionare;  Istituzioni  metafisiche,  Napoli,  1826; 
Saggio  filosofico  sulle  leggi  della  natura,  Napoli,  1829)  consi- 
derò i  sensi  come  i  mezzi  delle  nostre  prime  idee,  e  ad  essi  ag- 
giunse la  riflessione,  con  cui  l' anima,  riguardando  le  sensa- 
zioni, può  formarsi  altre  idee.  11  sacerdote  Don  Giuseppe  Maria 


(1)  Vedi  Antologia,  dicembre  1822,  pag.  497-504,  giugno  1824,  pa- 
gine 1-57,  novembre  1830,  pag.  203-208. 

(2)  Poli,  Op.  cit.,  Voi.  IV,  §  370.  Per  altri  genealogisti  delle  scienze 
vedi  Poli,  Op.  cit.  Voi.  IV,  §  449.  Sullo  scritto  del  Cestari  pubblicò 
un  articolo  il  Cuoco  il  1804  nel  Giornale  italiano  di  Milano  (vedi 
Gentile,  Op.  cit.,  pag.  375-376). 

(3)  Vedi  Gentile,  Op.  cit.,  Cap.  III. 


—  248  — 

Mazzarella,  scolaro  del  Capocasale  e  professore  di  filosofia  a 
Pozzuoli  prima,  poi  a  Napoli  {Corso  d' ideologia  elementare, 
Napoli,  Tipografia  Zambraja,  1826),  considerò  come  proprietà 
costitutive  dell'essere  semplice  V attività  e  il  sentimento,  ossia  la 
facoltà  di  sentire  (1).  Carlo  Antonio  Pezzi  {Lezioni  di  filosofia 
della  mente  e  del  cuore,  riformata  e  dedotta  dall'  analisi  dell'uomo, 
Padova),  movendo  dallo  studio  dell'uomo  fisico  o  sensifero,  passò 
a  quello  dell'uomo  attento  o  riflessivo  e  morale,  e  ridusse  tutti  i 
bisogni  morali  a  quello  solo  di  sentire  il  piacere  (bene).  Giuseppe 
Accordino  {Elementi  di  filosofia,  Messina,  Voi.  3,  1822-26-30)  con- 
siderò l'uomo,  nei  primi  momenti  della  sua  esistenza,  come  una 
tabula  rasa,  e  riguardò  tutte  le  facoltà  dell'anima  come  dipendenti 
l'una  dall'altra  e  in  particolar  modo  dalla  sensibilità,  senza  però 
confonderle  tra  loro.  L'abate  D.  Geronimo  Marano  {Delle  regole 
dell'arte  /o^/ca,  Napoli,  1819)  si  fondò  sull'analisi  induttiva,  e  di- 
stinse V  idea  dalia  percezione,  considerando  la  prima  come  un  og- 
getto che  si  presenta  alla  mente  svestito  d'ogni  forma  sensibile. 
Andrea  Abbà,  professore  di  logica  e  metafisica  all'Università  di 
Torino  {Elementa  logices  et  metaphysices,  Taurini,  1829;  Delle  co- 
gnizioni umane,  Torino,  1835;  Lettere  a  Filomato  sulle  credenze 
primitive,  Torino,  1835)  fece  derivare  tutte  le  idee  dal  senso  e  dal- 
l' azione  dell'  anima  consistente  nell'  analisi  e  nella  sintesi.  Giro- 
lamo Alberi  {Del  nescibile,  libro  uno,  Firenze,  Ciardetti,  1824)  mise 
in  evidenza  1'  agnosticismo  degl'  ideologi  e  il  fenomenismo  con- 
dillachiano,  fondando  la  scienza,  eh'  egli  definiva  cognizione 
della  realtà,  sull'osservazione  dei  fatti,  e  considerando  quindi  come 
nescibile  tutto  quanto  oltrepassasse  la  sfera  del  mondo  sensibile. 
Il  dott.  Giuseppe  Passeri  {Della  natura  umana  socievole  ■  Saggio 
fisico-metafisico-politico,  Napoli,  Stamp.  del  Ministero  della  Segre- 
teria di  Stato,  1815)  sostenne  la  necessità  di  tener  prevalentemente 
conto,  nello  spiegare  la  psiche  umana,  dell'  azione  del  corpo  (2). 


(1)  Cfr.  Gentile,  Op.  cit.,  pag.  307-308,  nota  1.  Il  Corso  d'ideologia 
era  preceduto  da  un  Saggio  critico  e  storico  della  Ideologia  de'  filosofi 
antichi  e  moderni. 

(2)  Il  Passeri  (che  nel  frontespizio  del  libro  è  detto  «  fisico  senese  ») 
distingue  nell'uomo  tre  facoltà:  la  sensitività,  la  volontà  libera  e  la 
razionalità  o  capacità  di  ragionare.    La    sensitività  è  propria   non   del 


—  249  - 

Giuseppe  Sanchez  {Influenza  delle  passioni  sullo  scibile  umano,  Na- 
poli, 1823)  ritenne  inconoscibile  per  la  ragione  l'assoluto,  e  trasse 
tutte  le  idee,  anche  quelle  morali,  e  i  concetti  dei  rapporti,  dai 
sensi,  affermando  che  le  idee  aumentano  in  ragione  del  quadrato 
con  due  sensi  e  del  cubo  con  tre.  Ambrogio  Balbi  {Difesa  della 
filosofia,  Lugano,  Vanelli,  1824)  spezzò  una  lancia  a  favore  della 
ideologia  e  della  filosofia  dell'esperienza  contro  V oscurantismo  (1) 
Evasio  Andrea  Gatti,  medico  chirurgo  domiciliato  a  Bologna 
pubblicò  un'  opera  premiata  dall'Accademia  Labronica  di  Livorno 
dal  titolo:  Principi  d'ideologia,  (Libro  I,  Firenze,  Ronchi,  1827) 
Mostrando  vasta  e  profonda  conoscenza  di  tutte  Je  ricerche  fisio 
logiche  e  anatomiche  compiute  fino  al  suo  tempo,  e  specialmente 
di  quelle  sul  sistema  nervoso,  considerò  l'uomo  come  risultante 
di  tre  fattori:  organismo,  forze  istintive  e  anima.  Ritenne  mate- 
riali le  forze  istintive,  poiché  la  loro  azione  cessa  a  causa  di  le- 
gature, compressioni  o  tagli  di  nervi,  o  in  seguito  a  denutrizione, 
a  fatica  eccessiva  etc,  e  si  riparano  mediante  l'uso  di  liquori,  di 
cibi  sostanziosi,  di  riposo  etc.  Proprietà  delle  forze  istintive  con- 
siderò la  sensibilità,  che  così  definì:  «  il  risultato  dì  una  confor- 
mazione speciale  vivente  per  cui  ciascuna  parte  è  atta  a  com- 
piere l'ufficio  cui  fu  destinata  »  (2).  Divise  tale  sensibilità  in  la- 
tente e  manifesta.  La  sensibilità  latente  è  per  lui  la  proprietà  delle 
forze  istintive  che  presiedono  allo  sviluppo,  alla  nutrizione  e  al- 
l' accrescimento  nostro.  Quella  manifesta  è  la  stessa  sensibilità  la- 
tente, ma  sprigionata  da  cause  note  o  ignote;  essa  mantiene  il 


corpo,  ma  dell'  anima,  che  il  Pas.  dice  estesa  (!).  Gli  agenti  sia  esterni 
sia  interni  (clima  e  circostanze  fisiche,  organi  e  apparati  interni,  la  cui 
azione  il  Pas.  esamina  partitamente  e  minutamente)  cagionano  nell'es- 
sere sensitivo  le  prime  determinazioni  e  passioni  naturali  (Parte  I,  Gap.  1). 
La  volontà  può  trascurare  o  accrescere  gì'  impulsi  esterni  o  interni  fis- 
sandovi r  attenzione,  e  schivarli  o  ricercarli,  se  essi  sono  esterni;  e, 
alterando  con  l' immaginazione  le  passioni  naturali,  può  dar  origine  a 
quelle  fattizie  o  fantastiche  (anche  le  passioni  il  Pas.  analizza  nel  Gap.  Il, 
Parte  II).  La  ragione  allora  dev'essere  guida  delle  passioni  naturali  e 
guardia  della  libertà  nella  produzione  delle  nuove,  acciocché  queste 
al  pari  di  quelle  siano  dirette  alla  felicità  dell'  uomo  (Parte  II,  Gap.  III). 

(1)  Vedi  Antologia,  marzo  1825,  pag.  106-107. 

(2)  Principi  d' ideologia  (ediz.  cit.),  §  XXV. 


—  250  — 

calore,  produce  la  digestione,  le  secrezioni,  muove  i  muscoli  per 
la  respirazione  etc.  (1).  Né  l'una  né  l'altra  appartengono  all'anima, 
prima  di  tutto  perchè  son  materiali,  mentre  l'anima  è  immate- 
riale e  semplice  (2),  e  poi  perché  le  operazioni  dell'anima  (per  es. 
paragonare,  volere  etc.)  son  sempre  coscienti,  mentre  tali  non  sono 
gli  atti  della  sensibilità.  Esse  costituiscono  dunque  come  un  anello 
fra  la  materia  organizzata  e  l'anima  (3).  Le  operazioni  o  facoltà 
proprie  dell'anima  (che,  benché  ignota  nella  sua  essenza,  è  inne- 
gabile e  reale)  son  quelle  intellettuali.  Fra  queste  son  connesse 
maggiormente  con  l' organismo  la  percettibilità  (che  è  da  lui  così 
definita:  «  l'esser  noi  fatti  partecipi  di  tutto  che  segue  in  noi  o 
al  di  fuori  per  segreto  concorso  dell'anima  sulla  sensibilità  la- 
tente nell'atto  che  rendesi  manifesta  >>)  (4),  la  volontà  e  la  me- 
moria; invece  il  sentimento,  il  confronto  e  l' immaginazione  dipen- 
dono maggiormente  dall'anima  (5). 

Francesco  Paolo  Bozzelli  di  Manfredonia  (1786-1864)  fu  esule 
a  Parigi  dopo  il  giugno  del  1822,  e  vi  pubblicò  nel  1825  gli 
Essais  sur  les  rapports  primitifs  qui  lient  ensemble  la  philosophie 
et  la  morale  (ristampati  nel  1830  col  titolo  De  l'union  de  la  phi- 
losophie avec  la  morale),  dove,  ricollegandosi  agl'ideologi  francesi 
più  eminenti  e  in  particolar  modo  ail'Helvétius,  presentò  non 
senza  acume  una  teoria  della  vita  morale  prettamente  edonistica  (6). 
G.  Bertolli  {Idee  sulla  filosofia  delle  scienze  morali  e  politiche)  (7) 
volle  applicare  il  metodo  sperimentale  (osservare  i  fatti,  classifi- 
carli e  vedere  come  nascano  gli  uni  dagli  altri)  alle  scienze  mo- 


(1)  Op.  cit.,  pag.  51.  (2)  0/7.  cit.,  pag.  37  e  72. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  37.  (4)  Op.  cit.,  pag.  52  e  127. 

(5)  Op.  cit.,  pag.  110. 

(6)  Gentile,  Op.  cit.,  Cap.  V.  Il  Bozzelli  scrisse  anche  opere  di  este- 
tica e  un  Esquisse  politique,  lodato  dal  Tracy.  In  Antologia,  maggio 
1826,  pag.  38-50,  c'è,  intorno  agli  Essais,  un  articolo  del  Mamiani,  che 
così  si  chiude:  «  Il  cav.  Bozzelli  è  concittadino  del  Lallebasque  (a  cui 
io  mi  compiaccio  di  rendere  il  debito  onore  malgrado  l'asprezza  delle 
sue  repliche  a  qualche  osservazione  già  inserita  nell'Antologia  intorno 
alla  sua  Introduzione  alla  filosofia  naturale  del  pensiero)  e  sostiene 
con  lui  il  primato  ch'ebbe  finora  negli  studi  filosofici  la  patria  del  Vico 
e  del  Genovesi. 

(7)  In  Antologia,  febbr.  1831,  pag.  3Q-50, 


—  251  — 

rali  e  politiche,  e  considerò  come  base  di  queste  l' indagine  del- 
l'uomo  in  quanto  dotato  di  volere,  la  quale  ci  mostra  che  il 
principio  delle  nostre  azioni  è  la  ricerca  del  piacere  e  la  fuga 
del  dolore  (1). 

Il  dott.  Giuseppe  Germani  {Dell' umana  perfezione,  Pavia,  1822) 
derivò  la  perfezione  umana  dalla  legge  delle  circostanze  esterne. 
G.  Scaramuzza  {Esame  analitico  della  facoltà  di  sentire,  Milano, 
1823),  analizzò  la  sensibilità,  e  con  la  semplice  osservazione  cercò 
di  spiegare  i  sogni.  L'abate  Jacopo  Bonfadini,  professore  di  filo- 
sofia teoretica  e  pratica  all'Università  di  Padova,  archivista  e  biblio- 
tecario dell'Accademia  di  scienze,  lettere  ed  arti  di  Padova  stessa, 
restò,  nel  problema  dell'origine  delle  idee,  fedele  all'empirismo, 
sebbene  ammirasse  Kant  (2).  Giovanni  Reguléas  {Nuovo  piano 
d' istruzione  ideologica  sperimentale,  Catania,  1833),  pur  confutando 
il  materialismo,  cercò  di  mostrare  che  tutta  la  vita  dell'  anima  si 
riduce  al  sentire,  e  considerò  la  psicologia  e  l' ideologia  come 
parti  integrali  della  fisiologia.  Il  P.  Domenico  Bruschelli,  profes- 
sore a  Perugia  {Praelectiones  elementares  logico-metaphysicae,  Ma- 
ceratae,  Cortesi,  1831),  derivò  l'esistenza  del  mondo  e  di  Dio 
dall'osservazione  degli  oggetti  che  ci  circondano  (3).  Il  prof.  Pietro 
Buttura  {La  coscienza  -  Dissertazione,  Zara,  Battara,  1829;  Logica, 
Venezia,  1832-33;  Ideologia,  Zara,  1835)  fondò  il  sapere  filosofico 
sulla  coscienza  riguardata  non  solo  nel  senso  morale,  ma  anche 
in  quello  psicologico  (giacché  secondo  lui  i  fatti  di  coscienza  sono 
non  meno  evidenti  di  quelli  conosciuti  per  mezzo  dei  sensi),  e 
distinse  la  sensazione  dall'  idea,  considerando  quella  come  la  ma- 
teria bruta  e  inerte  proposta  al  lavorio  dell'  intelligenza  (i  sensisti, 
egli  dice,  son  come  i  bambini,  che  chiamano  tutte  le  cose  appa- 
rentemente simili  col  medesimo  nome).  L' abate  Giuseppe  Bravi 
{Teorica  e  pratica  del  probabile,  Milano,  1827)  nella  sua  dottrina 
intorno  al  probabile,  foggiata  sull'Essa/  philosophique  sur  les prò- 
babilités  di  Laplace,  ridusse  ogni  certezza  ed  evidenza  alla  «  di- 


(1)  Cita  varie  volte  con  ammirazione  il  Bozzelli,  che  in  fondo  egli 
segue.  Promette  in  fine  un'opera  ampia  sull'argomento. 

(2)  Vedi  l'appendice  a  questo  Volume,  intitolata  La  critica  del  cri- 
ticismo. 

(3)  L'opera  è  divisa  in  tre  parti:  de   homine   cogitante;  de  homine 
sermocinante;  de  homine  agente. 


--  252  ~ 

retta  cognizione  della  particolar  maniera  di  essere  degli  oggetti 
o  sia  dell'esperienza  ».  Epifanio  Fagnani  {Storia  naturale  della 
potenza  umana,  Mortara,  Capriolo,  1833)  considerò  come  potenza 
umana  e  principio  essenziale  della  vita  la  volontà,  che  distinse 
dalla  sensibilità  e  dalla  memoria  e,  s' intende,  dalla  materia.  li 
Bragazzi  nei  suoi  Elementi  di  logica  raccolti  ad  uso  dei  giovani 
propose  come  unico  metodo  filosofico  1'  osservazione  dei  feno- 
meni spirituali  e  come  criterio  del  vero  la  verificazione  empirica. 
Ubaldo  Baldini  (Cenni  sopra  un  nuovo  corso  di  filosofia  elementare, 
Macerata,  1833)  (1)  e  Camillo  Ramelli  {Prospetto  degli  studi  filoso- 
fici nelle  scuole  comunali  di  Fabriano)  facevano  consistere  il  me- 
todo d' insegnamento  della  filosofia  nel  dare  il  possesso  di  quel- 
r  unità  sistematica  che  stabilisse  il  centro,  la  base  e  lo  scopo 
della  scienza  stessa,  e  che  procedesse  dall'  esame  del  mondo 
esterno  a  quello  del  mondo  interno.  Pietro  Nessi  {Schizzo  intorno 
i  principi  d'ogni  filosofia,  Milano,  Società  tipografica  dei  classici 
italiani,  1827)  (2)  sostenne  che  le  nostre  operazioni  psichiche  non 
sono  un  prodotto  della  sola  sensibilità,  giacché  i  sensi  non  ci 
possono  fornire  che  sensazioni  e  immagini,  le  quali  son  sempre 
disparate  e  hanno  bisogno,  per  essere  ordinate  e  connesse,  di  una 
forza  di  natura  assai  più  sublime  dei  sensi:  la  riflessione;  la  quale 
è  fornita  di  certe  disposizioni  originarie,  che,  sviluppate,  si  rac- 
colgono in  formule  scientifiche  e  si  chiamano  leggi,  assiomi  (3) 


(1)  Tali  notizie  sul  Baldini  si  leggono  nel  Poli.  Di  lui  io  ho  potuto 
leggere  le  Riflessioni  sul  mondo  e  sull'  uomo  (Firenze,  Stamperia  del 
Vocabolario  e  dei  testi  di  lingua,  1859).  Anche  in  quest'  opera  il  Bal- 
dini vuole  una  grande  sintesi  ideale  che  abbracci  in  uno  sguardo  tutto 
il  creato;  ma  per  questa  via,  ritenendo  che  T  uomo  non  sia  in  armonia 
né  con  sé  stesso,  né  co'  suoi  simili,  né  con  l'universo,  e  non  abbiala 
capacità  di  ristabilir  quell'armonia,  sostiene  la  necessità,  per  l'uomo 
stesso,  della  rivelazione,  e  lo  riconnette  intimamente  all'ordine  sopran- 
naturale, dandogli  un  fine  trascendente.  Onde  il  B.  s'allontana  dagli 
empiristi,  scrivendo  un'opera,  più  che  filosofica,  teologica. 

(2)  Nella  Prefazione  dice  che  il  suo  scritto  é  semplicemente  «  un 
abbozzo  tratteggiato  da  tale  che,  di  poco  entrato  nel  santuario  delle 
scienze,  non  ha  per  ancora  compiuto  il  quarto  lustro  ■>.  Il  Poli  dà  in- 
dicazioni del  tutto  inesatte  sul  contenuto  di  quest'opera. 

(3)  Schizzo  intorno  i  principi  d' ogni  filosofia  di  P.  Ne i  (ediz. 

cit.),  pag.  35-36. 


-  253  - 

(le  categorie  kantiane  sono  per  lui  idee  a  cui  giunge  la  riflessione 
astraendo  e  generalizzando  le  qualità  degli  oggetti)  (1).  Tommaso 
De  Ocheda  (1757-1831)  di  Tortona,  bibliotecario  della  libreria 
Crevenna  ad  Amsterdam  e  della  Spenceriana  in  Inghilterra,  da 
giovane  scrisse,  secondo  lo  spirito  della  filosofia  lockiana,  un'opera 
intitolata  Della  filosofia  degli  antichi,  divisa  in  tre  parti  (prece- 
dute da  un'  Introduzione),  nelle  quali  esaminava  i  principali  pro- 
blemi della  metafisica  (la  generazione  del  pensiero,  la  natura,  il 
destino  dell'essere  pensante,  l'esistenza  d'un  Essere  primo,  causa 
degli  altri  esseri  etc),  della  morale  e  della  fisica,  avendo  riguardo 
alle  varie  soluzioni  datene  dagli  antichi,  e  paragonando  queste 
con  i  tentativi  moderni  (2).  L' abate  Giuseppe  Grones,  professore 
di  matematica  pura  nel  Liceo  di  Venezia,  scrisse  le  Ricerche  me- 
tafisico-matematiche sulla  lingua  del  calcolo  (Venezia,  1810)  e 
un  importante  Saggio  di  filosofia  teoretica  (Venezia,  Alvisopoli, 
1828)  (3).  Agatino  Longo,  professore  di  fisica  sperimentale  alla 
Università  di  Catania  {Prima  veduta  dei  principi  dell'economia  ci- 
vile, Memorie  due,  Palermo,  1832;  Caratteri,  sede  ed  indole  della 
scienza,  Napoli,  1835)  volle  applicare  all'economia  civile  o  fisio- 


(1)  Op.  cit.,  pag.  151. 

(2)  Vedi  Antologia,  giugno  1831,  pag.  147-156,  e  luglio  1831,  pa- 
gine 154-155.  Il  De  Ocheda  cominciò  e  quasi  condusse  a  termine  pure 
un  Saggio  critico  sulla  filosofia  di  Cicerone.  Egli  però,  sencondo 
quanto  si  legge  ntW  Antologia,  non  avrebbe  pubblicato  né  questo,  né 
l'altro  lavoro. 

(3)  Questo  Saggio  è  diviso  in  tre  parti,  che  trattano  rispettivamente 
dell'  uomo,  del  mondo,  di  Dio.  Nella  prima  il  Grones  dimostra,  contro 
il  Tracy,  la  semplicità  dell'anima  mediante  la  sua  attività.  La  materia 
è  inerte,  egli  dice,  e  i'  uomo  non  può  esser  materia,  perchè  vuole.  Inoltre, 
se  i  pensieri  fossero  una  modificazione  della  materia,  ogni  raziocinio 
sarebbe  un'  alterazione  dell'  individuo,  e  mancherebbe  l' identità  delia 
coscienza.  Pure  contro  il  Tracy  sostiene  che  non  si  può  ridurre  al  sentire 
né  il  volere  (e  qui  cita  il  Soave  e  il  Cousin),  né  il  giudicare  (perchè 
le  relazioni  non  si  possono  sentire).  Tratta  dell'istinto,  dell'abitudine, 
dei  sogni,  del  sonnambulismo  (e  a  tal  riguardo  cita  ancora  il  Soave), 
del  delirio,  della  pazzia  etc.  Nella  seconda  parte  mostra  come,  essendoci 
ignote  le  essenze  dei  corpi,  non  resta  che  considerarli  «  in  riguardo 
alla  loro  qualità,  alla  loro  maniera  d'esistere,  a'  rapporti  loro  scam- 
bievoli ».  Dalla  natura  variabile  delle  qualità  principali  dei  corpi  (specie 


254 


logia  dello  Stato  tutti  i  risultati  della  fisiologia  organica  (1). 
L'abate  Francesco  Pizzolato  {Introduzione  allo  studio  della  filo- 
sofia dello  spirito  umano,  Palermo,  1832)  si  fondò  sull'osservazione 
interna  e  su  quella  esterna,  considerando  la  filosofia  come  scienza 
di  soli  fenomeni.  Il  dott.  Giambattista  Kohen  (1775-1845)  di  Trieste, 
medico  ebreo  passato  al  cristianesimo  e  studioso  di  problemi  fi- 
losofici, nelle  Ricerche  sulV  origine  del  sapere  umano,  esaminati  i 
fondamenti  su  cui  Bacone  aveva  poggiata  la  filosofia,  ne  trasse 
una  classificazione  delle  scienze  e  delle  arti  liberali,  derivandola 
dal  noto  principio  che  ogni  sapere  umano  emana  dai  sensi  esterni, 
dal  sentimento  e  dal  raziocinio,  e  nel  Prospetto  di  scienza  logica 
diede  una  base  sperimentale  alla  logica,  che  divise  in  elementare 
e  applicata,  delle  quali  la  prima  si  occupa  delle  idee,  dei  giudizi 
e  del  sillogismo,  l'altra  addita  le  fonti  e  delle  cognizioni  e  degli 
errori  (2).  Giambattista  Zandonella,  professore  all'Università  di 
Padova  {Elogio  di  Francesco  Bacone  di  Verulamio,  1835)  difese  la 


dell'estensione,  che  varia  col  mutar  delle  figure,  e  della  mobilità,  che 
si  modifica  secondo  l'intensità  e  la  direzione  degl'impulsi)  induce  la 
realtà  della  causa  predeterminante  della  loro  esistenza:  Dio  (pa^.  205-06). 
Per  dimostrare  la  quale  si  giova  anche  della  prova  del  Locke  (l'anima 
non  ha  in  se  la  ragion  sufficiente  della  propria  esistenza).  Nella  terza 
parte  parla  di  Dio,  della  sua  unità,  della  Provvidenza  etc.  Sul  Saggio 
del  Grones  scrisse  un  articolo  il  Romagnosi  (in  Biblioteca  Italiana,  1830, 
Voi.  LVJI,  pag.  338;  ristamp.  in  Opere  filosofiche  del  ROM.,  Ediz.  De 
Giorgi,  pag.  617-630)  criticandolo,  ma  giudicandolo  anche  «  assai  pre- 
gevole   >. 

(1)  11  Poli  (Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  806)  annuncia  urC  Antropologia 
0  scienza  delV  uomo  pensante,  sociale,  morale  e  fisico  del  Longo.  Io 
invece  ho  letto  di  questo  autore  gli  Elementi  di  filosofia  naturale  o 
considerazioni  sulle  verità  primitive  e  fondamentali  della  chimica,  del- 
l' ottica  e  della  meccanica  e  intorno  ai  princìpi  apodittici  della  ma- 
tematica (Napoli,  Giachetti,  1841).  È  un  libro,  più  che  filosofico,  scien- 
tifico; ma  nel  Discorso  prelim.  il  L.  esprime  le  sue  idee  sulle  nozioni 
umane.  Oltre  le  sensazioni,  ammette  le  conoscenze  delle  relazioni  (pa- 
gina XI),  le  quali  seno  per  lui  oggettive;  e,  oltre  le  verità  secondarie, 
ammette  delle  verità  primitive,  che  sono  o  empiriche  o  razionali  (pag.  XX). 

(2)  Biografia  del  Tipaldo,  Voi.  X,  pag.  359-370.  Gli  scritti  sopra  ri- 
cordati appartengono  agli  Opuscoli  di  vario  argomento  (Venezia,  1833) 
del  Kohen,  citati  dal  Poli. 


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logica  induttiva,  le  cui  basi  erano  state  gettate  da  Bacone.  Luigi 
Feletti  {Intorno  ad  una  nuova  sintesi  delle  scienze,  ossia  della 
scienza  dell'umana  perfettibilità  -  Discorso  letto  all'Accademia  del- 
ristituto  delle  scienze  di  Bologna  il  12  marzo  1835)  (1)  considerò 
le  scienze  in  quanto  concorrono  al  perfezionamento  umano:  se- 
condo lui  r  uomo  perscruta  la  natura  e  le  sue  leggi,  in  cui  si  ri- 
vela l'onnipotenza  del  Creatore,  non  già  perchè  si  debba  atter- 
rire nella  considerazione  d'uno  spettacolo  così  sovrumano,  ma 
perchè  veda  in  ogni  atomo,  in  ogni  aura,  in  ogni  stelo,  le  leggi 
dell'unità  e  le  ragioni  dell'analogia,  le  confronti  con  la  propria 
vita,  e  ne  inferisca  la  nobiltà  della  sua  destinazione;  così  la  scienza, 
svelandogli  i  rapporti  intercedenti  fra  lui  e  le  cose  create,  gl'in- 
segna a  dedurne  la  possibilità  di  un  proprio  miglioramento  e  l'ana- 
logia dello  sviluppo  di  lui  con  l'evoluzione  progressiva  del  mondo 
esteriore  (2).  Anche  Alfonso  Testa  di  Borgonovo  (1784-1860),  seb- 
bene più  tardi  sostenne  il  criticismo  kantiano,  fu  da  prima  seguace 
dell'indirizzo  ideologico.  Infatti  r\e\V  Introduzione  alla  filosofia  del- 
l'affetto (Piacenza,  Del  Maino,  1829)  sostenne  che  legge  naturale 
e  immutabile  del  nostro  essere  è  la  ricerca  del  piacere  e  l'aborri- 
mento del  dolore;  dalla  quale  derivano  l'amor  di  sé  (amor  proprio) 
e  la  volontà  costante  di  non  soffrire;  onde  tutte  le  volte  che  ve- 
niamo a  trovarci  in  uno  stato  di  pena,  sentiamo  il  desiderio  di 
un  cambiamento  di  stato,  e  cerchiamo  di  procurarcelo  con  tutti 
i  mezzi  che  sono  a  nostra  disposizione;  se  il  desiderio  è  molto 
forte,  abbiamo  la  passione  (3).  Poi,  nell'opera  Della  filosofia  del- 
l'affetto (Piacenza,  Del  Maino,  1830-1834),  presentò  un'analisi  par- 
ticolareggiata delle  passioni  umane,  considerandole  tutte  come 
forme  varie  d'amor  proprio  (4). 


(1)  In  Ricoglitore,  Anno  III,  Parte  I,  Milano,  Stelfa,  1836,  pag.  28-55. 

(2)  Per  tutti  questi  filosofi  cfr.  Poli,  Op.  cit,  Voi.  IV,  §  426. 

(3)  Vedi  Introduzione  alla  filosofia  dell'affetto  (Ediz.  cit.),  spec.  g  VI, 
pag.  77-91.  A  pag.  93  di  quest'opera  professa  a  Locke,  a  Condillac  e 
a  Destutt  de  Tracy  «  grande  venerazione   »  e  «  debito  grandissimo   >. 

(4)  Ma,  come  s'è  accennato,  il  Testa  ben  presto  si  staccò  dagl'ideo- 
logi, e  prima  in  Della  filosofia  della  mente  (Piacenza,  Del  Maino,  1836) 
s' accostò  al  Leibniz,  respingendo  il  sensismo,  poi  in  Della  critica  della 
ragion  pura  di  Kant  esaminata  e  discussa  da  A.  T.  (Lugano,  1843) 
illustrò  ed  accettò  i  principi  del   criticismo,  in  base  ai  quali  combattè 


-  256  - 

Notevoli  son  pure  le  opere  d'estetica  pubblicate  da  alcuni 
ideologi.  Oltre  quelle,  di  Melchiorre  Delfico,  del  Corniani  e  del 
Cicognara  già  citate,  ricorderemo  il  Saggio  d'estetica  (Venezia, 
Alvisopoli,  1822)  e  i  Principi  di  estetica  (Venezia,  Alvisopoli, 
1827-28)  di  G.  Batt.  Talia,  che  respinse  l' idea  innata  del  bello, 
e  distinse  il  bello  naturale  da  quello  dell'arte,  riconoscendo  però 
che  il  secondo  ha  il  suo  primitivo  esempio  nell'altro;  cosicché 
ripose  il  bello  ideale  (oggetto  delle  arti)  nello  scegliere  fra  tutti 
i  modi  naturali  di  mostrarsi  delle  cose  uno  che  sia  come  l'ot- 
timo per  il  nostro  intento  (in  altri  termini,  la  bellezza  artificiale 
consiste  nel  render  fisso  quel  punto  sommo  a  cui  può  salire  la 
bellezza  naturale,  il  quale,  essendo  per  sé  come  un  lume  passeg- 
gero 0  come  un  lampo  di  perfezione,  é,  per  così  dire,  imprigio- 
nato e  fissato  dall'artista).  Girolamo  Venanzio  {Della  calofilia, 
Libri  tre,  Padova,  Dalla  Minerva,  1830)  ricorse,  per  spiegare  il 
bello,  al  sentimento,  chiamandolo  non  una  verità,  ma  un  senti- 
mento, e  ammise  come  principio  fondamentale  estetico  che  «  l'uomo 
ama  la  vita;  la  vita  risulta  dal  pieno  esercizio  delle  facoltà  che  al 
corpo  e  all'anima  furono  concedute,  e  l'amor  della  vita  non  con- 
siste in  altro  che  nell'intima  soddisfazione  che  proviene  da  tale 
esercizio  »;  onde  secondo  lui  il  bello  naturale  consiste  nell'atti- 
tudine che  hanno  gli  oggetti  esterni  di  porre  in  esercizio  conve- 
niente le  facoltà  sensitive  dell'uomo  e  di  destar  quindi  l'affetto; 
giacché  ogni  esercizio  siffatto  è  un  moto  del  cuore  (affetto);  il 
bello  morale  poi  consiste  nei  sentimenti  e  nelle  azioni  dell'uomo 
procedenti  dall'impressione  della  bellezza  e  costituenti  l'esercizio 
moderato  delle  facoltà  sensitive;  e  il  bello  artificiale  sorge  quando 
in  un  individuo  la  bellezza  produce  le  sue  sensazioni,  e  queste  si 
trasformano  in  immagini,  e  per  effetto  delle  sensazioni  e  delle  im- 
magini sorgono  nell'anima  impulsi  creatori,  che  determinano  la 
volontà.  Ermes  Visconti,  che  lo  Stendhal  (1)  colloca,  accanto  al 


il  Rosmini  e  il  Gioberti  (//  Nuovo  Saggio  dell'  orìgine  delle  idee  del- 
l'abbate Antonio  Rosmini  esaminato  dall' ab.  A.  T.,  Piacenza,  Del  Maino, 
1837;  Considerazioni  sopra  la  Introduzione  allafilosofia  di  V.  Gioberti, 
Piacenza,  1845;  Del  male  dello  scetticismo  trascendentale  e  de'  suoi 
rimedi,  Piacenza,  Del  Maino,  1848).  Cfr.  V.  Molinari,  La  filosofia  e  la 
vita  di  A.  Testa,  Parma,  Grazioli,  1864. 

(1)  Rome,  Naples  et  Florence  (Ediz.  Calmann-Lévy),  pag.  47. 


—  257  — 

Gioia,  tra  i  maggiori  filosofi  d'Italia  (scrisse:  Saggi f ìlosoficì,  Mihno, 
1829;  Saggi  intorno  ad  alcuni  quesiti  concernenti  il  Bello,  Milano, 
1833;  Riflessioni  ideologiche  intorno  al  linguaggio  grammaticale 
d^  popoli  colti)  (1),  contrariamente  agl'ideologi  ricordati  sopra, 
sostenne  l' impossibilità  di  ridurre  i  caratteri  costitutivi  d' ogni 
bello  ad  una  sola  e  primaria  qualità  e  quindi  l'impossibilità  di 
ridurre  ad  un  solo  principio  ogni  specie  di  bellezza  (nel  che  si 
accostava  allo  scozzese  Tommaso  Brown);  ritenne  inoltre  che  il 
fine  estetico  è  da  subordinare  allo  scopo  eminente  di  tutti  gli 
studi:  il  perfezionamento  dell'umanità  (2).  Giuseppe  Longhi  (1766- 
1831),  valente  incisore,  disegnatore  e  letterato,  nella  sua  Calco- 
grafia (Milano,  Stamperia  reale,  1830)  faceva  consistere  il  bello 
dell'arte  in  un  punto  medio  fra  estremi  opposti  (per  es.  il  naso 
perfetto  è  nel  mezzo  d'una  serie  di  nasi  i  cui  estremi  sono  viziosi 
per  eccesso  o  per  difetto;  del  pari  è  bella  l'età  giovanile,  che  è 
nel  mezzo  tra  la  fanciullezza,  la  quale  rappresenta  il  difetto,  e  la 
vecchiaia,  la  quale  rappresenta  l'eccesso)  (3).  Il  Padre  Luigi  Pa- 
squali, professore  all'Università  di  Padova,  scrisse  le  Istituzioni 
di  estetica  (Padova,  Tipografia  del  Seminario,  1827-28),  nelle  quali 
definì  il  bello  come  ciò  che  ci  reca  piacere  mediante  la  vista  o 
l'udito  e  come  brutto  l'opposto,  riconoscendo  però  che  tale  de- 
finizione non  comprende  la  bellezza  oggettiva  (il  bello  in  sé),  che 
ci  sfugge,  perchè  noi  per  la  limitatezza  del  nostro  intelletto  non 
possiamo  vedere  la  ragione  d'ogni  cosa  creata.  Il  dott.  Domenico 
Vaccolini  nelle  Osservazioni  sul  bello  secondo  le  opinioni  di  alcuni 


(1)  Nei  Saggi  filosofici  il  Visconti  sostenne  che  tutte  le  sensazioni 
fisiche  ci  presentano  immediatamente  qualcosa  di  diverso  dall'ente  che 
pensa  e  dalle  modificazioni  sue.  Su  questi  Saggi  il  Romagnosi  scrisse 
un  articolo  nella  Biblioteca  italiana  (anno  1829,  Voi.  LVI,  pag.  184 
e  seg.)  esaminando  specialmente  le  idee  del  Visconti  sullo  spazio  e  sul 
tempo. 

(2)  Cfr.  Croce,  Estetica,  4»  Ediz.,  Bari,  Laterza,  1912,  pag.  416-17.  Il 
Croce  {Op.  cit.,  pag.  413)  ricorda  anche  Delle  leggi  del  bello  (Milano, 
1828)  di  L.  Malaspina,  che  definiva  il  bello  come  «  il  piacere  nascente 
da  una  rappresentazione   >. 

(3)  Vedi  Antologia,  gennaio  1831,  pag.  169-170,  e  maggio  1831, 
pag.  141  (articolo  del  Cicognara).  L'opera  del  Longhi  contiene  anche 
una  parte  storica  sullo  sviluppo  della  calcografia. 

17 


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moderni  (1),  esaminando  le  teorie  estetiche  di  alcuni  pensatori, 
vide  la  difficoltà  di  dare  una  definizione  generale  del  bello,  e 
asserì  che  la  natura  di  questo  ci  sarà  forse  ignota  finché  ci  ag- 
giriamo nel  breve  cerchio  della  vita  mortale;  quantunque  poi,  in 
Dell'ordine,  ossia  del  secreto  della  bellezza  (Discorso  letto  la  sera 
del  12  febbraio  1836  nella  solenne  adunanza  dell'Accademia  de- 
gl'  Industriosi  tenutasi  nel  palazzo  comunale  di  Imola)  (2),  mo- 
strasse di  propendere  verso  1'  opinione  del  Gerdil,  secondo  cui 
è  bello  ciò  che  piace,  e  il  piacere  consiste  nella  percezione  del- 
l'ordine  (3).  È  noto  che  anche  il  Giordani  (1774-1848)  ricorreva 
ai  principi  del  sensismo  e  dell'  ideologia  per  spiegare  gli  effetti 
delle  belle  arti  sullo  spirito  umano. 

Infine,  per  compiere  il  quadro  del  movimento  filosofico  da  noi 
studiato,  dobbiamo  parlare  di  due  spiriti  fratelli:  il  Foscolo  e  il 
Leopardi;  i  quali  furono  essenzialmente  poeti,  ma  sentirono  an- 
ch'essi il  fascino  profondo  dei  problemi  filosofici  del  tempo,  e  tor- 
mentarono la  loro  mente  nella  meditazione  degli  enigmi  dell'uni- 
verso, e  a  traverso  il  loro  dolore  compresero  il  grido  d'angoscia 
alzantesi  da  tutte  le  parti  della  Terra,  ed  espressero  in  versi  e  in 
prosa  questo  dolore  e  quel  tormento. 

Ugo  Foscolo  accettò  e  sviluppò  secondo  la  sua  indole,  con 
una  tinta  di  pessimismo  manifesta  specialmente  nelle  Ultime  let- 
tere di  Jacopo  Ortis,  i  principi  degl'  ideologi  (4).  Per  lui  il  Locke 
è  il  più   grande,  se  non   1'  unico,  dei   filosofi;  il  quale  «  arricchì 


(1)  Sono  vari  articoli  pubblicati  nel  Giornale  Arcadico  dal  1831  in 
poi  (Tomo  L  e  seg.). 

(2)  Giornale  Arcadico,  Tomo  LXVI,  pag.  322-332. 

(3)  Cfr.  Poli,  Op.  cit.,  Voi.  IV,  §§  A^bAAl.  Di  estetica  toccarono 
pure  il  Costa  {Del  modo  etc.  Gap.  XLl  e  seg.)  e  in  genere  tutti  gì'  i- 
deologi  che  pubblicarono  trattati  compiuti  d' ideologia  (per  es.  lo  Zelli, 
il  Bini  etc).  11  Poli  (Op.  cit.,  Voi.  IV,  §  450  ricorda  fra  gli  empiristi  anche 
alcuni  pensatori  che  (come  il  sacerdote  Ferrante  Aporti,'  si  occuparono 
di  pedagogia  e  in  particolare  (come  Ottavio  Giov.  Assarotti,  l'ab.  Ba- 
gutti,  Antonio  Moscatelli,  il  Marcucci)  dell'  arte  d' istruire  i  sordomuti, 
o  (come  Salvatore  De  Renzi)  dell'indole  dei  ciechi  nati. 

(4)  Cfr.  E.  DoNADONi,  Ugo  F.oscolo  pensatore,  critico,  poeta,  Pa- 
lermo, Sandron;  e  Le  Opere  di  U.  Foscolo  commentate  da  E.  Donadoni, 
Napoli,  Perrella,  spec.  pag.  95-97. 


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il  suo  secolo  del  libro  più  eloquente  e  piti  utile  fra  quanti  mai 
illuminarono  il  mondo  ».  «  La  metafisica  platonica  e  cartesiana....  », 
egli  scrive,  «  e  il  gergo  delle  scienze  scolastiche  e  delle  cattedre 
superstiziose  dei  claustrali  si  dileguarono,  appena  pubblicato  quel 
libro;  e  chi  volesse  esaminare  i  sistemi  dell' Elvezio,  di  Rousseau, 
di  Bonnet  e  d'  altri  d'  ogni  nazione,  fino  al  Kant,  che  tornò  al- 
l' idealismo,  si  accorgerebbe  che,  se  gli  errori  sono  di  questi 
autori,  il  fondo  della  verità  dei  loro  libri  è  tutto  desunto  dalle 
teorie  del  libro  di  Locke,  Le  prove  di  questo  libro  erano  sì  evi- 
denti, e  tale  la  forza  dell'eloquenza  con  cui  vennero  esposte,  che 
per  i  primi  dieci  anni  niuno  osò  turbare  né  la  pace  né  la  fama  di 
quell'autore  »  (1).  Base  della  vita  psichica  é  anche  per  lui  la  sen- 
sazione; le  idee  sono  estratti  delle  sensazioni;  onde  chi  non  avesse 
queste,  non  avrebbe  quelle,  e  chi  ha  più  sensazioni,  ha  più  idee  (2). 
Oltre  la  sensibilità  ammette  però  altri  poteri:  la  memoria,  la  fan- 
tasia e  il  desiderio,  che  sono  equilibrati  e  diretti  nei  loro  atti  dalla 
ragione  (3).  Da  questi  principi  il  Foscolo  ricava  una  concezione 
tutta  meccanica  della  vita  cosmica,  sociale  e  individuale.  Primi 
elementi  del  tutto  ritiene  la  forza  cieca,  e,  manifestazione  di  questa, 
il  movimento,  da  cui  gli  esseri  son  perpetuamente  travolti  e  tra- 
sformati («  involve  —  tutte  cose  1'  obblio  nella  sua  notte;  —  e 
una  forza  operosa  le  affatica  —  di  moto  in  moto  »).  La  forza  se- 
condo lui  domina  anche  la  vita  sociale  e  politica,  è  anzi  l'essenza 
stessa  dello  Stato;  onde  egli  accetta  e  sostiene  la  teoria  del- 
l' Hobbes,  il  quale  oppone  al  Rousseau  (4).  La  guerra  è  legge  della 
vita,  e  la  troviamo  così  all'  inizio  come  in  tutto  il  corso  della 
storia  e  della  civiltà;  la  giustizia  è  il  diritto  del  più  forte  (individuo 


(1)  Foscolo,  Opere  edite  e  postume,  Ediz.  Le  Monnier,  Firenze,  1850, 
Voi.  II,  pag.  135-136.  Cfr.  Voi.  Il,  pag.  367. 

(2)  Opere,  Voi.  II,  pag.  65. 

(3)  Opere,  Voi.  II  pag.  64. 

(4)  Opere,  Voi.  I,  pag.  486,  e  Voi.  IV,  pag.  15.  Tuttavia  il  Foscolo 
risentì  l'efficacia  del  Rousseau  specie  nell'Orto,  in  cui  manifestò  odio 
alla  società,  entusiasmo  per  la  natura  e  per  la  vita  campestre,  simpatia 
per  i  poveri,  purezza  nell'amore,  disprezzo  per  la  fredda  ragione.  Pare 
eh'  egli  avesse  tradotto  il  Contrai  Social  (vedi  Serban,  Leopardi  et  la 
France,  Paris,  Champion,  1913,  pag.  209,  nota  1). 


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o  Stato)  (1).  Ma  perchè  la  guerra  è  legge  della  vita?  Perchè  gl'in- 
dividui e  i  popoli  hanno  l' istinto  della  propria  conservazione,  e 
seguono  sempre  il  proprio  interesse,  che  cercano  di  far  trionfare 
ad  ogni  costo;  onde  le  virtù  morali  son  nomi  vuoti  (2);  tutto  è 
egoismo. 

Ma  questi  brutali  ed  aridi  principi  teorici  sono  spesso  corretti 
e  contradetti  in  lui  dal  sentimento  vivo  e  dalle  passioni  ruggenti 
nel  profondo  del  suo  essere;  che  egli  nella  vita  spirituale  dà  il 
primato  al  sentimento  (che  talvolta  chiama  istinto),  non  alla  ra- 
gione. Il  sentimento  genera  le  illusioni  nella  fantasia  (3),  giacché 
l'uomo  è  in  uno  stato  di  perpetuo  desiderio,  e,  siccome  i  suoi  desi- 
deri non  sono  appagati  dalla  fredda  realtà,  egli  ripone  la  sua  felicità 
nella  speranza,  si  crea  le  illusioni  e  i  sogni  (per  es.  principi  re- 
ligiosi, morali,  politici)  (4):  i  quali  son  quindi  radicati  nel  profondo 
dell'  anima,  sono  cioè  una  necessità  assoluta.  <  Gli  uomini  pos- 
sono cangiare,  ma  non  perdere  le  illusioni  »  (5).  Le  illusioni  son 
doni  che  la  saggia  Natura  offre  alla  vita  dell'uomo  «  per  conso- 
larlo della  brevità,  della  inquietudine  e  della  fatale  inimicizia  re- 


(1)  Opere,  Voi.  II,  pag.  186.  Cfr.  Voi.  XI,  pag.  92.  Siccome  la  forza 
domina  tutti  gli  elementi  cosmici,  l'uomo  diventa  un  trastullo  di  questa 
potenza  irresistibile;  onde  il  fatalismo  del  Foscolo.  La  libertà  non  esiste 
per  lui;  perciò  non  ammette  progresso  dovuto  all'  iniziativa  dell'  uomo; 
critica  quindi  aspramente  i  sostenitori  della  teoria  della  perfettibilità 
(tra  i  quali  colloca,  oltre  il  Condorcet,  anche  Kant)  scrivendo:  <^  Locke 
ha  detto:  figliuoli  miei,  esaminate  i  fatti  e  troverete  i  principii,  o,  se 
non  altro,  dalla  serie  costante  e  perpetua  di  molti  fatti,  imparerete  come 
dovrete  condurvi.  E  questi  Tedeschi  dicono:  dai  principii  derivano  ne- 
cessariamente i  fatti....  e  i  principii  sono  che  l' uomo  deve  un  giorno 
o  l'altro  diventare  perfetto  {Opere,  Voi.  VII,  pag.  59;  cfr.  Voi.  HI, 
pag.  120,  e  Voi.  IV,  pag.  93  e  235). 

(2)  Opere,  Voi.  XII,  pag.  137. 

(3)  '  Ciò  che  diciamo  potenza  d' immaginare  sta  più  che  altro  nel 
concorso  del  forte  sentire  e  delle  rimembranze     {Opere,  Voi.  X,  pag.  40). 

(4)  Opere,  Voi.  V,  pag.  100.  Il  Foscolo  chiama  illusione  anche  la 
credenza  nella  vita  dell'oltretomba  {Sepolcri,  v,  24;  cfr.  v.  130). 

(5)  Opere,  Voi.  IV,  pag.  31.  Cfr.  Rosmini,  Opuscoli  filosofici,  Voi.  II, 
pag.  1-27,  Saggio  sulla  speranza  -  Contro  alcune  idee  di  U.  Foscolo. 


—  261  — 

ciproca  della  nostra  specie  »  (1);  perciò  le  scienze,  che  rompono 
il  velo  delle  illusioni,  son  deplorevoli  (2). 

Il  sentimento,  dominando  segretamente  il  corso  della  vita,  dà 
origine  anche  a  due  virtù  benefiche:  la  compassione  e  il  pudore, 
senza  di  cui  la  società  non  potrebbe  né  esistere  né  durare,  «  Due 
forze  »,  scrive  il  Foscolo,  «  compensano  tutte  le  tendenze  guer- 
riere ed  usurpatrici  dell'uomo:  la  compassione  e  il  pudore»  (3). 

Rispetto  alla  metafisica,  anche  il  Foscolo  assume,  come  tutti 
gì'  ideologi,  un  atteggiamento  agnostico.  Così  ripete  più  volte 
che  è  peggio  che  inutile  cercare  le  ragioni  del  bello,  che  questo 
si  sente,  non  si  dimostra  (4);  è  convinto  che  l'indagare  l'origine 
delle  facoltà  umane  e  delle  arti  intellettuali  non  sia  le  più  volte 
che  uno  dei  mille  tentativi  più  ambiziosi  che  utili,  nei  quali  i 
mortali  spendono  1'  ore  e  l' ingegno  (5);  e  scrive:  «  Io  non  so  né 
perchè  venni  al  mondo  né  come,  né  cosa  sia  il  mondo,  né  cosa 
io  stesso  mi  sia.  E  s' io  corro  ad  investigarlo,  mi  ritorno  confuso 
d'una  ignoranza  sempre  più  spaventosa.  Non  so  cosa  sia  il  mio 
corpo,  i  miei  sensi,  l'anima  mia;  e  questa  stessa  parte  di  me  che 
pensa  ciò  eh'  io  scrivo,  e  che  medita  sopra  di  tutto  e  sopra  sé 
stessa,  non  può  conoscersi  mai.  Invano  io  tento  di  misurare  con 
la  mente  questi  immensi  spazi  dell'universo  che  mi  circondano. 
Mi  trovo  come  attaccato  a  un  piccolo  angolo  di  uno  spazio  in- 
comprensibile, senza  sapere  perché  sono  collocato  piuttosto  qui 
che  altrove,  o  perché  questo  breve  tempo  della  mia  esistenza  sia 
assegnato  piuttosto  a  questo  momento  dell'  eternità  che  a  tutti 
quelli  che  precedevano,  e  che  seguiranno.  Io  non  vedo  da  tutte  le 
parti  altro  che  infinità,  le  quali  mi  assorbono  come  un  atomo  »  (6). 


(1)  Opere,  Voi.  II,  pag.  6.  Come  il  Leopardi,  egli  rimpiange  l'età 
mitologica. 

(2)  Opere,  Voi.  I,  pag.  265,  e  Voi.  X,  pag.  391.  Cfr.  Voi.  Xli,  pag.  60. 
Sarà  forse  superfluo  eh'  io  osservi  che  il  Foscolo  si  avvicina  qui  di  nuovo 
a  Rousseau,  e  preannuncia  il  Leopardi.  Può  darsi  che  il  Leopardi  abbia 
realmente  risentita  un'  efficacia  dalla  lettura  di  alcuni  scritti  del  Foscolo 
(cfr.  Serban,  Op.  cit.,  1.  e). 

(3)  Opere,  Voi.  II,  pag.  198.  Cfr.  Voi.  XII,  pag.  99. 

(4)  Tuttavia  propende  a  considerare  il  bello  artistico  come  un'  idea- 
lizzazione della  natura. 

(5)  Opere,  Voi.  IV,  pag.  114  e  268.  Cfr.  Voi.  VI,  pag.  20. 

(6)  Ortis,  dopo  la  lettera  del  20  marzo  1799. 


—  262  — 

Così,  rinunciando  a  una  spiegazione  metafisica  del  mondo,  e  cer- 
cando d'  alleviare  i  dolori  dell'  esistenza  («  le  sciagure  umane  »), 
il  suo  spirito  profondamente  agitato  si  calma  in  un  senso  di  ras- 
segnazione religiosa  e  nella  contemplazione  serena  della  bellezza, 
perdendosi  tra  i  veli  lievissimi  delle  Grazie. 

Più  tormentata  e   più    tragica   è   invece  la  vita    interiore    del 
Leopardi. 


CAPITOLO  Vili.  —  Leopardi 

IDEOLOGIA  E  PESSIMISMO.  —  La  scuola  degl'  ideologi  ci 
ha  dato  uno  dei  più  grandi  lirici  del  mondo:  il  Leopardi. 

Si  considera  di  solito  il  Leopardi  come  un  pensatore  solitario, 
formatosi  sui  classici  greci  e  latini.  Niente  di  più  falso.  Se  si  può 
chiamare  classico  il  Leopardi  per  la  forma  linguistica,  è  ben 
certo  però  che  per  il  contenuto  egli  non  ha  nulla  in  comune 
con  quei  classicheggianti  che,  dimenticando  l'età  e  il  luogo  in 
cui  vivono,  e  l' atmosfera  intellettuale  che  respirano,  vogliono, 
d' un  salto,  trasferirsi  in  paesi  e  tempi  trapassati,  ed  esprimere 
sentimenti  che  nessuno  più  prova.  Si  noti  anzi  che  là  dove  il 
Leopardi  espone  concetti  classici  (nelle  prime  poesie  per  es.)  in- 
troduce a  parlare  i  personaggi  antichi  stessi  (Simonide,  Bruto, 
Saffo);  egli  non  si  dà  mai,  al  pari  di  poeti  greci  e  romani,  a  in- 
vocare Venere  o  Apollo,  né  a  parlare  con  le  Ninfe  o  a  inseguire 
le  Baccanti  per  possederle,  come  se  il  mondo  d'  un  tratto  fosse 
cambiato  al  tocco  d'una  bacchetta  magica,  e  le  Driadi  e  i  Silvani 
fossero  tornati  ad  abbellire  il  mondo.  No;  in  lui  nulla  di  tutto 
questo.  Egli  rimpiange,  è  vero,  il  tempo  in  cui  la  mitologia  greca 
era  in  fiore;   ma   riconosce   che   quel   tempo  è  ormai   morto  (1). 


(1)  Infatti,  riconoscendo  che  la  mitologica  religione  pagana,  «  man- 
cando affatto  dalla  parte  della  persuasione  >,  non  ha  oramai  piià  effetto 
alcuno,  egli  fra  il  1821  e  il  '22  pensava  di  appigliarsi  alla  cristiana,  e 
abbozzava  i  suoi  Inni  cristiani.  Vedi  Carducci,  Degli  spiriti  e  delle 
forme  nella  poesia  di  G.  Leopardi,  Bologna,  Zanichelli,  1898,  pag.  89 
e  seg.;  Leopardi,  Zibaldone  (con  questo  titolo  piuttosto  che  con  quello 
di  Pensieri  di  varia  filosofia  e  di  bella    letteratura    cito,  per  evitare 


—  263  — 

Perciò  nei  versi  suoi  non  si  sente  nessuna  stonatura.  La  robusta 
quercia  del  suo  pensiero  profonda  le  radici  nel  suolo  della  terra 
e  dell'età  sua;  egli  si  formò  sui  libri  allora  più  in  voga  in  Italia, 
i  quali  erano  le  opere  degl'  ideologi.  Per  gustare  e  penetrare  il 
significato  intimo  delle  poesie  e  prose  del  Leopardi,  è  quindi  ne- 
cessario ben  conoscere  la'  cultura  francese  e  italiana  di  quel 
tempo  (1). 

Infatti,  al  pari  degl'  ideologi,  il  Leopardi  pone  1'  esperienza  a 
base  del  conoscere  (2);  afferma  che  le  nostre  idee  e  facoltà  «  de- 
rivano in  tutto  e  per  tutto  dalle  sensazioni  »  (3);  respinge  quindi 
le  idee  innate  (4);  dà  importanza  all'efficacia  che  il  clima  esercita 
sul  linguaggio  e  sul  carattere  così  degl'  individui  come  dei  po- 
poli (5);  accosta  il  suo  sistema  a  quello  del  Locke  (6).  Nelle  sue 
affermazioni  sull'  ideologia  ricorda  specialmente  il  De  Tracy:  con- 
sidera infatti  r  ideologia  come  la  dottrina  che  «  comprende  i  prin- 
cipi di  tutte  le  scienze  e  cognizioni  e  segnatamente  della  scienza 
della  lingua  »  (7):  dice  che  «  la  metafisica  senza  l' ideologia  è 
quasi  appunto  quello  ch'era  l'astronomia  prima  che  fosse  appli- 
cata alla  matematica;  scienza  incertissima,  frivola,  inesatta,  volga- 
rissima  o  piena  di  sogni  e  di  congetture,  senz'  appoggio  »;  che 
«  non  molto  minor  certezza  ed  esattezza  riceve  la  metafisica  dal- 
l' ideologia  che  1'  astronomia  dalla  matematica,  dal  calcolo  »  (8); 
aggiunge  che  «  la  somma  della  tutta  nuova  scienza  ideologica  » 
è  il  principio  che  tutto  il  progresso  delle  cognizioni  umane  con- 
siste nel  vedere  che  un'idea  ne  contiene  un'altra  e  questa  un'altra 


ogni  confusione  con  i  Pensieri,  che  di  solito  si  stampano  con  le  Ope- 
rette morali,  V  opera  postuma  che  il  Leopardi  stesso  chiamò  Zibaldone 
di  pensieri),  Firenze,  Le  Monnier,  1898-lQOO,  Voi.  I,  pag.  367-68. 

(1)  Si  noti  la  sua  tendenza  a  esprimersi  per  aforismi,  simile  a  quella 
dei  Francesi  (Pascal,  La  Rochefoucauld,  Chamfort,  Vauvenargues  etc). 
11  IC  dei  Pensieri  non  è  che  lo  sviluppo  d'  una  massima  del  La  Ro- 
chefoucauld. 

(2)  Zibaldone,  Voi.  1,  pag.  457. 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  99  e  268;  Voi.  VII,  pag.  27. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  311,  457  e  472. 

(5)  Op.  cit.,  Voi.  V,  pag.  270-274,  332-334;  Voi.  VI,  pag.  40-44,  269-27Ò, 
407-409.  (6)  Op.  cit.,  Voi.  HI,  pag.  303. 

(7)  Op.  cit..  Voi.  Ili,  pag.  262.  (8)  Op.  cit..  Voi.  IV,  pag.  176. 


—  264  — 

ancora  etc.  (1);  e  chiama  i  fondamenti  dell'ideologia  «  profondis- 
sime e  quasi  ultime  verità,  che,  ignorate  per  sessanta  secoli,  hanno 
poi  mutato  faccia  alla  metafisica  e  quasi  al  sapere  umano  »  (2). 
Pone  il  Cabanis  e  il  De  Tracy  fra  i  più  grandi  filosofi  moderni  (3). 
Gli  son  noti  anche  gì'  ideologi  italiani:  cita,  approvandolo,  il 
Trattato  dello  Stile  del  Beccaria  (4);  ha  letto  la  Filosofia  della 
statistica  del  Gioia  (5);  cita  spesso  il  Soave  (6),  chiama  verissime 
le  osservazioni  filologiche  di  lui  (7),  gli  s'accosta  nel  giudizio 
sulla  lingua  universale  (8);  conosce  anche  la  Scelta  d'opuscoli  in- 
teressanti pubblicati  a  Milano  con  la  cooperazione  del  Soave  (9). 
Notevolissimo  poi  è  il  gusto  eh'  egli  sente  per  le  ricerche  psico- 
logiche; e  a  questo  proposito  son  da  ricordare  le  sue  osservazioni 
(ch'egli  chiama  teoria)  sul  sentimento  del  grazioso  (10).  Infine, 
quando  alle  dottrine  ideologiche  vide  sottentrare  in  Italia  opinioni 
nuove,  che  risentivano  1'  efficacia  delle  scuole  teologiche  e  spiri- 
tualistiche francesi  (De  Maistre,  De  Ronald,  Chateaubriand,  Royer- 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  22  e  104.  Vedi  nel  I  Voi.  dì  questa  mia 
opera  il  Gap.  V  sul  Tracy  spec.  pag.  222-223  e  242-243. 

(2)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  104-105. 

(3)  Op.  cit..  Voi.  II,  pag.  287.  (4.i  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  221. 

(5)  Op.  cit.,  Voi.  VII,  pag.  118-119. 

(6)  Op.  cit..  Voi.  II,  pag.  197,  351,  370,  371. 

(7)  Op.  cit.,  Voi.  II,  pag.  369. 

(S)  Op.  cit.,  Voi.  V,  pag.  275-280. 

(9)  Op.  cit..  Voi.  II,  pag.  197,  379,  382,  394,  405;  Voi.  Ili,  pag.  106. 

(10)  Criticando  V  Essai  sur  le  Goàt  del  Montesquieu,  riconosce  che 
è  difficilissimo  definire  la  nozione  della  grazia,  e  ci  rinunzia;  cerca  però 
di  descriverne  alcune  note  e  1'  effetto  che  d'  ordinario  essa  produce,  il 
quale  è  secondo  lui  quello  di  scuotere,  solleticare  e  pungere  l'anima 
(<  è  piuttosto  uno  stuzzica-appetito  che  una  soddisfazione  di  esso  ). 
Vedi  Op.  cit..  Voi.  I,  pag.  301-306,  309,  314-315,  343,  347,  356-357;  Voi.  IV, 
pag.  77;  Voi.  VI,  pag.  24-26.  Finisce  però  con  1'  affermare  che  fonte 
principale  della  grazia  è  ;■  lo  straordinario  nel  bello,  e  lo  straordinario 
che  non  distrugge  libello  ,  in  altri  termini  ciò  eh' è  fuor  dell'ordine, 
una  certa  sconvenienza  o  non  perfetta  convenienza  {Op.  cit.,  Voi.  I, 
pag.  479;  391;  Voi.  Ili,  pag.  87,  90-91,  96-97,  116,  130,  213,  228,  242,  361, 
420,  475,  479;  Voi.  IV,  pag.  24,  250,  266;  Voi.  V,  pag.  21-23;  Voi.  VI, 
pag.  326,  332j.  Il  bello  è  convenienza,  la  grazia  un  contrasto,  cioè  una 
certa  sconvenienza  o  almeno  un  certo  straordinario  nella  convenienza 


4 


—  265  — 

Collard,  Cousin   etc.)',  scrisse  satire   amare  contro   i  nuovi  cre- 
denti (1). 

Si  potrebbe  anzi  dire  che  il  Leopardi  trasse  le  ultime  conse- 
guenze delle  dottrine  ideologiche.  Esagerando  il  principio  del 
Condillac  che  tutte  le  facoltà  non  sono  che  trasformazioni  di  una 
sola  fondamentale,  identifica  addirittura  non  pure  il  giudicare  col 
sentire,  ma  anche  la  memoria  con  l' intelletto,  l' immaginazione 
con  la  riflessione,  con  1'  intelletto  etc.  (2).  Inoltre,  egli  dice,  se 
tutto  deriva  dall'esperienza,  niente  è  assoluto  (3);  giacché  l'espe- 
rienza non  ci  dice  se  non   che  qualcosa  è  o  è  così,  non  che  de- 


{Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  210).  La  grazia  insomma  si  potrebbe  definire 
come  il  brutto  nel  bello.  Il  brutto  nel  brutto  e  il  bello  puro  sono  me- 
desimamente alieni  dalla  grazia  {Op.  cit.,  Voi.  VU,  pag.  350).  Nel  Voi.  V, 
pag.  227-228,  distingue  però  due  specie  di  grazia.  L' una,  più  fina,  è 
quasi  un  soave  e  delicatissimo  odore  di  gelsomino  o  di  rosa,  che  non 
ha  nulla  d'  acuto  e  di  mordente,  o  quasi  uno  spiro  di  vento  che  reca 
una  fragranza  improvvisa,  la  quale  sparisce  appena  sentita,  e  lascia  un 
desiderio  vivo,  ma  vano  di  tornarla  a  sentire,  e  lungamente,  e  di  sa- 
ziarsene. Questa  è  indefinibile,  consiste  in  un  non  so  che  d' inesplicabile. 
L'altra  risulta  da  ciò  che  non  è  ordinario,  da  un  difetto,  ed  è  quella 
già  spiegata. 

(1)  Vedi  la  poesia  /  nuovi  credenti  e  la  Palinodia,  versi  208-226. 

(2)  Zib.,  Voi.  Ili,  pag.  169;  Voi.  IV,  pag.  69. 

Non  mi  fermo  su  questa  parte,  che  mi  sembra  la  meno  solida  e 
importante  dello  Zibaldone.  Invece  il  Cantella  (O.  Leopardi  filosofo. 
Parte  I,  Caltanisetta,  1906),  illustrando  tutti  questi  punti,  presenta  il 
Leopardi  come  un  precursore  dell'  Ardigò  e  di  molti  altri  positivisti 
moderni,  quindi  come  un  psicologo  originale,  ben  differente  dai  sensisti 
francesi.  In  chi  conosce  bene  le  dottrine  degl'ideologi  quest'afferma- 
zione desta  il  sorriso.  Effettivamente  esistono  affinità  tra  le  accennate 
idee  del  Leopardi  e  quelle  dell'  Ardigò  e  di  altri  positivisti;  ma  così  le 
une  come  le  altre  non  sono  che  esagerazioni  del  sensismo,  rappresen- 
tano quindi  non  una  dottrina  originale,  ma  una  degenerazione  di  vecchie 
teorie.  Infatti  nessuno  più  oggi  può  certo  parlare  di  facoltà  nel  senso 
scolastico,  giacché  tutti  gli  atti  psichici  emanano  da  un  unico  centro. 
Ma  voler  negare  che  quest'  unico  centro  eserciti  funzioni  diverse  e  as- 
suma atteggiamenti  irriducibili  è  voler  fare  un  pasticcio  e  negare  l'evi- 
denza dei  fatti. 
-  (3)  Zib.,  Voi.  III,  pag.  100  e  267-268. 


—  266  — 

v'essere  o  dev'essere  cosi;  ma  ciò  che  è  cosi,  può  essere  anche  di- 
versamente (non  c'è  nessuna  contradizione  a  concepire  che  le  leggi 
della  natura  siano  mutate,  che  per  es.  un  corpo  abbandonato  a 
sé  stesso  non  cada  verso  il  centro  della  terra);  quindi  nessun 
principio  è  assoluto;  tutto  è  relativo  e  variabile  secondo  i  tempi 
e  i  luoghi:  il  bello,  il  bene,  il  vero  stesso  (1). 

Sono  dunque  innegabili  i  rapporti  fra  il  pensiero  del  Leopardi 
e  quello  degl'  ideologi.  Ma  la  genesi  del  pessimismo  stesso  del 
grande  poeta  non  si  capisce  se  non  si  considera  1'  opera  di  lui 
rispetto  alla  cultura  francese  e  alle  dottrine  degl'  ideologi  in  ispecie. 
Non  so  anzi  comprendere  come  mai  alcuni  siano  andati  a  fru- 
gare, in  traccia  delle  fonti  del  pessimismo  leopardiano,  fra  le  opere 
di  Menandro,  di  Filemone,  di  Plutarco,  di  Plinio,  di  Giovenale, 
del  Gelli  etc,  trovandovi  solo  frasi  spezzate  e  cenci  vecchi  (2),  e 
non  abbiano  invece  cercato  i  motivi  veri  e  profondi  dell'  atteg- 
giamento spirituale  del  sommo  scrittore  (3).  Sono,  a  questo  pro- 


(1)  Per  il  bello  vedi  Op.  cit.,  Voi.  HI,  pag.  6,  78,  85-86,  140-144, 
219-220,  259-260,  430,  446;  Voi.  V,  pag.  102-108,  176,  181,  245-262;  Voi.  VI, 
pag.  355,  359,  395.  Per  il  bene,  Voi.  Ili,  pag.  174,  272,  282;  Voi.  IV, 
pag.  17,  120;  Voi.  V,  pag.  334.  Cfr.  Voi.  1,  pag.  478.  Per  il  vero.  Voi.  I, 
pag.  267;  Voi.  II,  pag.  119;  Voi.  Ili,  pag.  100. 

(2)  Vedi  per  es.  M.  LoSACCO,  Contributo  alla  storia  del  pessimismo 
leopardiano  e  delle  sue  fonti,  Trani,  Vecchi,  1896. 

(3)  In  vero  i  rapporti  fra  il  pensiero  del  Leopardi  e  la  filosofia  fran- 
cese in  genere  sono  stati  intravisti  da  parecchi  critici  (F.  Colagrosso, 
Studi  sul  Tasso  e  sul  Leopardi,  Ferii,  Gherardi,  1883,  pag.  275;  Zanella, 
Storia  della  leti,  italiana  etc,  Vallardi,  Voi.  VI,  pag.  243-244;  Zinoa- 
RELLI,  Operette  morali  di  G.  L.,  Napoli,  Pierro,  1895,  pag.  XL  e  seg.; 
Carducci,  Op.  cit.,  pag.  31-32;  I.  Della  Giovanna,  Le  prose  morali 
di  G.  L.,  Firenze,  Sansoni,  1903,  Pref.,  pag.  VII-VIII).  Ma  questi,  non 
avendo  determinato  bene  i  caratteri  dell'  ideologia  francese,  non  hanno 
né  cercato  né  trovato  i  motivi  veri  del  passaggio  dalla  vita  gaia  e  lu- 
minosa del  settecento  al  pessimismo  dell'ottocento.  Solo  il  Barzellotti 
e  il  Carducci  hanno  accennato  al  mal  del  secolo  .  Anche  il  Serban 
{Leopardi  et  la  France,  Paris,  Champion,  1913),  che  di  recente  s'è  oc- 
cupato dell'argomento,  ha  spesso  stabilito  falsi  rapporti  fra  il  Leopardi 
e  i  pensatori  francesi,  ha  invece  trascurato  le  relazioni  con  gì'  ideologi, 
e  ha  smembrato  in  miseri  frantumi,  l' intuizione  leopardiana  del  mondo 
e  della  vita.  Vedi  la  mia  recensione  in  Pagine  critiche,  1920,  Fase.  2-3. 


—  267  — 

posilo,  da  ricordare  specialmente  due  caratteri  della  scuola  degli 
ideologi:  1'  agnosticismo  e  1'  edonismo  (o  1'  utilitarismo). 

L' agnosticismo,  risultato  della  scienza  approfondita,  doveva 
senza  dubbio  suscitare  negli  animi  una  concezione  fosca  della 
realtà.  Infatti  il  pensiero  di  non  poter  risolvere  i  problemi  più 
tormentosi  dello  spirito  umano,  e  di  doversi  limitare  a  conoscere 
la  superficie  e  apparenza  degli  esseri,  dà  alla  mente  uno  spasimo 
e  una  desolazione  accasciante.  L'  uomo,  il  quale  si  credeva  il  re 
dell'universo,  s'accorge  ora  di  non  sapere  neppure  che  cosa  egli 
sia,  donde  venga  e  dove  vada,  che  cosa  siano  gli  esseri  che  lo 
circondano,  dove  tenda  tutta  l' evoluzione  cosmica  e  la  vita  di 
tante  creature  che  appaiono  e  muoiono  nella  fuga  dei  secoli. 
L' infinito  gli  si  presenta  come  un  abisso  di  mistero  e  d'  ombra, 
dove  la  facella  della  sua  ragione  va  errando  spaurita.  Dinanzi  a 
questo  spettacolo  egli,  con  un  sospiro  malinconico,  china  il  capo 
e  ascolta  il  lamento  del  suo  cuore. 

Ma  anche  l'edonismo  doveva  contribuire  a  suscitare  idee  pes- 
simistiche. Gli  scritti  dei  Francesi  e  Italiani  del  secolo  XVIII  son 
tutti  frementi  del  desiderio  di  felicità.  La  cultura  di  quel  tempo 
dà  r  idea  di  una  corsa,  talvolta  sfrenata,  al  piacere.  Ora,  è  noto 
che  non  e'  è  peggior  metodo  per  ottenere  la  felicità  che  il  ricer- 
carla di  proposito  e  senza  posa.  Tutti  i  «  viaggi  alla  ricerca  della 
felicità  »  son  destinati  a  fallire.  È  vecchia  storia.  «  Verso  levante 
sciolsero  le  vele  —  felicità  sperando  i  naviganti.  —  La  luminosa 
terra,  che  d' incanti  —  inebria  tutti,  per  lor  fu  crudele.  —  Vano 
viaggio,  inutile  desio  !  —  Felicità  non  fu  trovata  mai,  —  e  i  na- 
viganti ricoprì  l'oblio  »  (1).  Questa  stessa  verità  il  Mill  ai  giorni 
nostri  ha  espressa  in  un  paradosso  rimasto  famoso:  «  Se  cercate 
di  esser  felici,  sarete  infelici;  unica  via  alla  felicità  è  proporsi  un 
fine  diverso  dalla  felicità  ».  Ebbene,  questo  paradosso  era  stato 
già  enunciato  dal  Leopardi:  «  In  qualunque  cosa  tu  non  cerchi 
altro  che  piacere,  tu  non  lo  trovi  mai,  tu  non  provi  altro  che  noia, 
e  spesso  disgusto.  Bisogna,  per  provar  piacere  in  qualunque 
azione,  ovvero  occupazione,  cercarvi  qualche  altro  fine  che  il  pia- 
cere stesso.  Così  accade  (fra  mille  esempi  che  se  ne  potrebbero  dare) 


(1)  É  una  melodia  polacca  dello   Chopin.    Parole  di  un  poeta  sco- 
nosciuto. 


—  268  — 

nella  lettura.  Chi  legge  un  libro  (sia  il  più  piacevole  e  il  più  bello 
del  mondo)  non  con  altro  fine  che  il  diletto,  vi  si  annoia,  anzi 
se  ne  disgusta,  alla  seconda  pagina.  Ma  un  matematico  trova  di- 
letto grande  a  leggere  una  dimostrazione  di  geometria,  la  qual 
certamente  egli  non  legge  per  dilettarsi....  Il  piacere  (si  può  dire 
con  perfettissima  verità)  non  vien  mai  se  non  inaspettato;  e  colà 
dove  noi  non  lo  cercavamo,  non  che  lo  sperassimo  »  (1).  Se 
dunque  gli  uomini  desiderano  la  felicità,  conclude  il  Leopardi, 
non  possono  esser  felici;  meno  la  desiderano,  meno  sono  infelici, 
anzi  sarebbero  felici,  se  non  la  cercassero  (2). 

Da  che  dipende  questo  fatto?  Dalla  natura  stessa  del  piacere. 
Come  dimostra  la  psicologia,  il  piacere  è  conseguenza,  non  fine, 
dell'attività;  se  questa  si  esplica  perfettamente,  ad  essa  s'accom- 
pagna, come  alla  giovinezza  il  suo  fiore  (dice  Aristotele),  il  di- 
letto. Quindi,  se  si  vuol  provare  piacere,  bisogna  dirigere  1'  atti- 
vità ad  un  fine  che  non  sia  il  piacere;  e,  se  questo  fine  sarà  rag- 
giunto senza  sforzo,  si  proverà  gioia.  Se  invece  noi  ci  si  propone 
il  piacere  come  fine,  si  va  in  certo  modo  contro  natura,  giacché 
si  vuol  rendere  fine  ciò  che  è  solo  conseguenza  dell'  attività;  e 
allora  il  diletto  svanisce. 

Inoltre  il  piacere  è  fuggitivo,  instabile,  perciò  non  appaga 
pienamente  lo  spirito;  oppure,  anche  se  prolungato,  finisce  come 
qualsiasi  altra  sensazione,  con  lo  stancare  l'anima;  senza  dire  che 
la  sfrenatezza  nei  godimenti  logora  1'  organismo  e  lascia  amara 
la  bocca.... 

Ecco  perchè  ad  Aristippo,  l'assetato  di  felicità,  segue  sempre 
Egesia,  il  persuasor  di  morte.  Ecco  perchè  la  corsa  al  piacere 
del  XVIII  doveva  condurre  al  pessimismo  del  XIX  secolo  (3).  È 


(1)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag.  209.  Vedi  anche  Voi.  VII,  pag.  217-218, 
455,  460.  Cfr.  Voi.  IV,  pag.  292. 

(2)  Voi.  VI,  pag.  231  e  419. 

(3)  Leggere  le  pagine  d'introduzione  del /^f-rt/ dello  Chateaubriand 
(1801);  oltre  il  quale  furono  in  Francia  espressioni  del  diffuso  pessi- 
mismo V  Obermann  di  PiVERT  DE  Senamcour  (1804),  V  Adolfo  di  Be- 
niamino Constant  (1816)  e  la  Confession  d'un  enfant  du  siede  del 
MussET  (1836).  Vedi  Barzellotti,  V  educazione  e  la  prima  giovinezza 
di  A.  Schopenhauer  in  Nuova  Antologia,  1°  febbraio  1S81,  pag.  429,  e 
Carducci,  Op.  cit.,  pag.  21-22.  Non  voglio,  s' intende,  negare  con  ciò 


—  269  — 

infatti  notevole  che  già  prima  del  Leopardi  alcuni  scrittori  italiani, 
che  pur  pongono  come  fine  dell'  attività  umana  il  piacere  e  la 
felicità,  finiscono  col  confessare  che  il  piacere  in  realtà  non  s'af- 
ferra, cosicché  consiste  piuttosto  in  un  sogno  dell'  immaginazione 
che  in  qualcosa  d'effettivo.  Esaminerò  le  ricerche  di  due  ideologi: 
Pietro  Verri  e  Melchiorre  Gioia. 

Il  Verri,  che  pur  riduce  tutti  i  fenomeni  della  sensibilità  al- 
l'amore del  piacere  e  alla  fuga  del  dolore,  (1)  sostiene,  come  s'è 
visto,  la  teoria  della  natura  negativa  del  piacere,  secondo  cui  questo 
non  è  che  una  rapida  cessazione  di  dolore.  Ora,  da  tale  teoria 
segue  non  solo  che  la  felicità  pura  e  costante,  considerata  come 
una  quantità  positiva  e  separata  dal  male,  è  un  sogno,  mentre 
può  darsi  benissimo  fra  gli  uomini  miseria  e  infelicità  (2),  ma  an- 
cora che  nella  vita  sono  più  i  dolori  che  i  piaceri.  Infatti,  la  ces- 
sazione del  dolore,  cioè  il  piacere,  non  può  esser  mai  maggiore 
del  dolore  stesso  (ossia  della  quantità  che  ha  fatto  cessare);  senza 
dire  che  l'uomo  soffre  dolori  che  cessano  lentamente  e  che  perciò 
non  hanno  un  piacere  che  ad  essi  corrisponda.  Dunque  la  somma 
totale  delle  sensazioni  dolorose  dev'essere  in  ogni  uomo  maggiore 


r  efficacia  che  possono  aver  avuta  sul  pessimismo  del  Leopardi  le  do- 
lorose condizioni  e  circostanze  individuali;  ritengo  tuttavia  che  tale  ef- 
ficacia non  sia  stata  decisiva;  prima  di  tutto  perchè  mi  pare  che  non 
si  possa  sul  serio  rendere  sistema  universale  ciò  che  è  un  semplice  sen- 
timento soggettivo;  e  poi  perchè  dall'  esame  delle  opere  del  Leopardi 
risulta  chiaro  che  il  suo  sistema  è  derivato  da  lunga  meditazione.  È  noto 
che  il  Leopardi  stesso  protestò  in  una  lettera  al  De  Sinner  (marzo  1832) 
contro  quelli  che  volevano  vedere  nella  sua  filosofia  un  effetto  delle 
sue  sofferenze. 

Del  resto  le  tristi  condizioni  individuali  possono  essere,  invece  d'una 
prova  a  sfavore,  una  prova  a  favore  della  fondatezza  e  validità  del  pes- 
simismo leopardiano.  11  Leopardi  infatti  potrebbe  dire:  —  Se  io  sono 
infelice  e  malato,  quale  prova  migliore  dell'  imperfezione  del  creato  e 
della  miseria  degli  uomini?  Appunto  perchè  il  mondo  è  imperfetto  e 
malato,  io  soffro.  Se  esso  fosse  perfetto,  anch'  io,  sua  parte,  sarei  neces- 
sariamente tale.  Lo  stesso  dicasi  degli  altri  uomini  che  soffrono  — . 

(1)  Discorso  siilP  indole  del  piacere  e  del  dolore,  Introduz.,  e  §  XIII 
{Opere,  Ediz.  Silvestri,  Milano,  1818,  Voi.  I,  pag.  1  e  105-106). 

(2)  Discorso  sulla  felicità,  §  1  {Opere,  Voi.  I,  pag.  112-113). 


—  270  — 

della  somma  totale  delle  sensazioni  piacevoli  (1).  Ecco  la  prima 
conclusione  pessimistica. 

Inoltre,  osserva  il  Verri,  se  si  prescinde  dai  dolori  e  piaceri 
fisici,  la  cui  origine  dipende  dall'azione  immediata  d'uno  stimolo 
sull'organismo,  nei  piaceri  e  dolori  morali,  in  cui  non  si  riscontra 
tale  azione  immediata,  ha  gran  parte  la  fantasia.  Infatti,  se,  quando 
per  es.  mi  è  annunciato  che  ho  ottenuto  un  ufficio  importante, 
io  col  pensiero  non  mi  slanciassi  subito  nell'  avvenire,  la  notizia 
mi  lascerebbe  indifferente.  Ma  accade  che,  astraendo  dal  presente, 
io  m' immagino  tutti  i  vantaggi  che  mi  deriveranno  dal  cambia- 
mento di  stato,  e  appunto  per  questo  provo  piacere.  Del  pari,  la 
gioia  del  matematico,  quella  che  lo  fa  balzar  nudo  dal  bagno  e 
correre  entusiasmato  per  la  città,  è  la  speranza  dei  piaceri  che 
s'  aspetta  in  avvenire  dalla  stima  degli  uomini  e  dai  benefici  che 
dovrà  riceverne  (2).  Dunque  il  piacere  morale  nasce  dalla  spe- 
ranza; e  questa  non  è  che  un  protendersi  dell'immaginazione  verso 
il  futuro  (3).  Dal  che  segue  che,  siccome  1'  attività  fantastica,  la 
quale  è  quasi  una  magia  ingannatrice,  suscita  desideri  inappaga- 
bili, figli  dell'errore,  le  sensazioni  piacevoli,  passando  dall'imma- 
ginazione alla  realtà,  perdono  sempre  (4).  Son  questi  i  preludi 
delle  melanconiche  note  del  Leopardi  (5).  Ancora  un  passo,  e  si 
arriverà  al  pessimismo  più  disperato. 

Del  resto  anche  il  Gioia,  utilitarista  all'  eccesso,  il  quale  dice 


(1)  Discorso  siiir  indole  etc,  §  VI  {Opere,  Voi.  I,  pag.  43-44)  e  §  XIV 
{Opere,  Voi.  I,  pag.  110). 

(2)  Lo  stesso  dicasi  del  dolore  morale;  solo  che  in  tal  caso  si  prova 
timore  dei  mali  che  ci  aspettano  nell'avvenire;  sicché  tutte  le  sensazioni 
piacevoli  o  dolorose  dipendono  da  tre  soli  principi:  le  fisiche  dall'azione 
immediata  sugli  organi,  le  morali  dalla  speranza  e  dal  timore. 

(3)  Discorso  sull'indole  etc,  §  II. 

(4)  Discorso  sulla  felicità,  §  IV  (Opere,  Voi.  I,  pag.  142-143). 

(5)  S'  è  discusso,  a  proposito  della  Quiete  dopo  la  tempesta,  se  il 
Leopardi  abbia  conosciuto  (indirettamente,  per  mezzo  di  Antonietta 
Tommasini)  la  teoria  del  Verri  sul  piacere.  Ma  pare  di  no  (vedi  /  canti 
di  G.  Leopardi  comr.ientati  da  A.  Straccali,  3*  ediz.  accresciuta  dal- 
l'Antognoni,  Firenze,  Sansoni,  1910,  pag.  193).  Ad  ogni  modo  la  teoria 
del  Verri,  sebbene  conduca  alle  stésse  conclusioni  di  quella  del  Leo- 
pardi, ha  fondamenta  diverse. 


—  271  — 

esplicitamente  che  «  tutta  la  morale  deve  ridursi  ad  un  calcolo 
di  piaceri  e  dolori  particolari,  come  tutta  la  politica  ad  un  cal- 
colo di  piaceri  e  dolori  pubblici  »  (1),  quando  viene  ad  esaminare 
i  piaceri  nella  realtà,  giunge  quasi  alle  stesse  conclusioni  del  Verri. 
Egli  trova  che  il  piacere  ha  un'  esistenza  efimera  e  passeggera,  e 
che  noi  spesso  siamo  felici  senza  che  alcun  oggetto  agisca  sui 
nostri  sensi;  dunque,  conclude,  la  felicità  deve  consistere  non  nel 
possesso  vero  e  proprio  degli  oggetti  da  noi  desiderati,  ma  piut- 
tosto nella  rimembranza  delle  sensazioni  gradevoli  e  nella  dolce 
agitazione  suscitata  in  noi  dalla  speranza  di  rigoderle  e  dal  pre- 
gustarle che  facciamo  nella  fantasia;  ond'  è  chiaro  che  la  felicità 
è  prodotta  da  una  viva  ed  estesa  immaginazione  più  che  da  qual- 
siasi altra  facoltà.  Il  piacere  infatti  si  coglie  piuttosto  in  mezzo 
alle  chimere  brillanti  del  mondo  immaginario  che  tra  gli  oggetti 
del  mondo  esistente.  L' esperienza  ci  mostra  che  noi  siamo  più 
felici  nello  sperare  un  piacere  che  nel  goderlo;  che  talvolta  ci 
rallegriamo  anche  in  mezzo  ai  tormenti  del  corpo;  la  felicità  si 
riduce  dunque  a  una  dolce  illusione  (2). 

Ecco  idee  simili  a  quelle  che  troveremo  nella  «  teoria  del  pia- 
cere »  del  Leopardi:  la  quale  bisogna  esaminare  attentamente  per 
penetrare  il  pensiero  del  grande  scrittore;  giacché  essa  connette 
armonicamente  tutte  le  prose  e  poesie  di  lui,  che  altrimenti  riman- 
gono membra  disiecta. 


LA  TEORIA  DEL  PIACERE.  —  Per  il  Leopardi  la  teoria  del 
piacere  illumina  gli  aspetti  più  reconditi  dell'animo  umano:  essa 
è  il  segreto  per  spingere  lo  sguardo  sin  nel  fondo,  pur  tanto 
oscuro,  del  nostro  cuore.  Anzi  il  non  aver  determinato  bene  la 
natura  del  piacere  è  secondo  lui  il  motivo  delle  spiegazioni  in- 
sufficienti o  erronee  date  di  alcuni  fenomeni  spirituali  dalla  mag- 
gior parte  degli  psicologi.  «  Spesso  -»,  egli  dice,  «  ho  notato  negli 
scritti  de'  moderni   psicologi  che  in  molti  effetti  e  fenomeni  del 


(1)  Teoria  civile  e  penale  del   divorzio  in  Opere   minori,    Lugano, 
Ruggia,  1834,  Voi.  IX,  pag.  4. 

(2)  Filosofia  morale,  Libro  I,  Gap.  I  (Voi.  XIII  delle  Opere  minori, 
pag.  72-73  e  75-78). 


—  272  — 

cuore  umano,  nell'  analizzarli  che  fanno  e  mostrarne  le  ragioni, 
si  fermano  molto  più  presto  del  fine  a  cui  potrebbero  arrivare, 
assegnandone  certe  ragioni  particolari  solamente,  e  questo  perchè 
vogliono  farli  parere  meravigliosi,  come  il  Saint-Pierre  negli  studi 
della  natura,  lo  Chateaubriand  ecc.;  e  non  vanno  alla  prima  o 
quasi  prima  cagione,  che  troverebbero  semplice  e  in  piena  cor- 
rispondenza col  resto  del  sistema  di  nostra  natura.  Questo  ridurre 
i  diversi  fenomeni  dell'animo  umano  a  principi  più  semplici  scema 
la  meraviglia  e  anche  la  varietà,  perchè  moltissimi  si  vedrebbero 
derivati  da  un  solo  principio  modificato  leggermente....  Io  credo 
che  chi  istituisse  quest'analisi  ultima  farebbe  cosa  nuova,  sia  per 
la  mala  fede  o  la  minore  acutezza  degli  antecessori,  e  semplifi- 
cherebbe d'assai  la  scienza  dell'animo  umano,  rapportando  gl'in- 
finiti fenomeni  che  sembrano  anomalie,  perchè  infatti  la  scienza 
non  è  ancora  stabile  né  ordinata  e  ridotta  in  corpo,  a  principi 
universali  o  poco  lontani  da  essi:  opera  principale  e  formatrice 
di  tutte  le  scienze,  e  scopo  ordinario  di  chi  ricerca  le  cagioni 
delle  cose   »  (1). 

Ora  qua!'  è  il  principio  o  il  sistema  d' idee  che  spiega  quasi 
tutti  i  fenomeni  della  psiche  umana  ?  È  appunto  la  teoria  del 
piacere;  ma  questa  su  che  si  fonda?  Sul  fatto  stesso  dell'esistenza 
e  sulle  conseguenze  che  ne  derivano.  Gli  esseri  esistono:  esistendo, 
amano  certo  di  essere;  giacché  «  la  nostra  maniera  di  concepir 
le  cose  appena  ci  permette  d' intendere  come  una  cosa  che  è  non 
ami  di  essere,  parendo  che  il  contrario  di  questo  amore  sarebbe 
come  una  contraddizione  coli'  esistenza  ».  Chi  esiste  non  può, 
propriamente  parlando,  amare  la  morte,  non  può  non  odiarla  il 
più  eh'  egli  possa,  per  la  stessa  ragione  per  cui  non  può  odiar 
sé  stesso  e  amare  il  proprio  male  (2);  giacché  la  propria  esistenza 
e  il  proprio  Io  son  la  stessa  cosa.  Amare  1'  esistenza  e  la  vita  è 
amar  sé  stesso;  perciò  l'amore  di  sé  (amor  proprio)  si  può  con- 
siderare come  una  conseguenza  dell'esistere.  Ora,  dall'amor  pro- 
prio deriva  l'amore  del  piacere,  giacché  chi  si  ama  è  naturalmente 
tratto  a  desiderarsi  il  bene,  che  è  tutt'uno  col  piacere,  a  volersi 
piuttosto  in  uno   stato  di   godimento   che  in  uno   indifferente  o 


(1)  Zibaldone,  Voi.  I,  pag.  160-161. 

(2)  Op.  cit,  Voi.  VI,  pag.  198-200. 


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—  273  — 

penoso,  a  voler  insomma  il  meglio  dell' esistensa,  che  è  l'esistenza 
piacevole,  invece  del  peggio  o  del  mediocre  (1).  Ecco  perchè 
l'anima  umana  (e  così  quella  di  tutti  gli  esseri  viventi)  mira  sempre 
al  piacere,  ossia  alla  felicità,  che,  chi  ben  la  consideri,  è  tutt'uno 
col  piacere  (2).  Dunque  esistenza  —  amore  dell'esistenza  (e  quindi 
amor  proprio)  —  amore  del  piacere.  Procediamo.  La  sete  di  fe- 
licità non  ha  limiti,  perchè  è  ingenita  o  congenita  con  l'esistenza, 
è  compagna  inseparabile  dell'  esistenza  come  il  pensiero:  conse- 
guito infatti  un  godimento,  l' anima  non  cessa  di  desiderare  il 
piacere,  come  non  cessa  mai  di  pensare.  Il  desiderio  della  felicità 
è  dunque  inesauribile;  perciò  non  può  estinguersi  in  questo  o 
quel  piacere,  il  quale  non  può  essere  infinito;  tant'  è  vero  che 
l'uomo,  anche  nel  momento  del  maggior  gaudio  di  sua  vita,  de- 
sidera non  solo  di  più,  ma  infinitamente  di  più  ch'egli  non  abbia, 
cioè  maggior  piacere  in  infinito  o  un  piacere  infinitamente  mag- 
giore, poiché  egli  desidera  sempre  una  felicità  infinita  (3).  Questa 
febbre  termina  solo  con  la  vita;  e  non  ha  limiti  né  per  durata  né 
per  estensione:  non  per  durata,  perchè  non  finisce  se  non  con 
l'esistenza;  non  per  estensione,  perchè  è  sostanziale  in  noi,  non 
come  desiderio  di  uno  o  più  piaceri,  ma  come  desiderio  del  pia- 
cere; ora,  una  tale  natura  deve  avere  il  carattere  dell'infinità,  poiché 
ogni  piacere  è  circoscritto,  ma  non  //  piacere,  la  cui  estensione 
è  indeterminata.  Quindi  non  può  darsi  nessun  piacere  che  uguagli 
né  la  sua  durata,  perché  nessun  piacere  è  eterno,  né  la  sua  esten- 
sione, perchè,  volendo  la  natura  delle  cose  che  tutto  esista  limi- 
tatamente, abbia  confini,  sìa  circoscritto,  nessun  piacere  è  im- 
menso. Dal  che  segue  che  qualunque  diletto  lascia  l'animo  inso- 
disfatto. Se  tu  desideri  un  cavallo,  ti  pare  di  desiderarlo  come 
cavallo  e  come  un  tal  piacere,  ma  in  fatto  lo  desideri  come  piacere 
astratto  e  illimitato.  Quando  giungi  a  possedere  il  cavallo,  trovi 
un  piacere  necessariamente  circoscritto,  e  senti  un  vuoto  nell'anima, 
poiché  quel  desiderio  che  tu  avevi  non  resta  effettivamente  pago. 
Se  anche  fosse  possibile  che  restasse  pago  per  estensione,  non 


(1)  Op.  cit,  Voi.  I,  pag.  287-288. 

(2)  Op.  cit,  Voi.  I,  pag.  288;  Voi.  II,    pag.  318;   Voi.   IV,   pag.   82; 
Voi.  VI,  pag.  219. 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  VII,  pag.  49. 


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potrebbe  per  durata,  che  la  natura  delle  cose  vuol  pure  che  nulla 
sia  eterno;  quindi,  posto  che  quella  causa  materiale  che  t'ha  dato 
un  tal  piacere  una  volta,  ti  resti  sempre  (per  esempio  tu  hai  de- 
siderato la  ricchezza,  l' hai  ottenuta,  e  per  sempre),  resterebbe 
materialmente,  ma  non  più  come  causa  di  un  tal  piacere;  che  tutto 
si  logora,  tutte  le  impressioni  a  poco  a  poco  svaniscono,  e  l'as- 
suefazione, come  toglie  il  dolore,  così  spegne  il  piacere.  S' ag- 
giunga che,  quand'anche  un  godimento  provato  una  volta  durasse 
tutta  la  vita,  non  perciò  1'  animo  sarebbe  pago,  poiché  il  suo  de- 
siderio è  anche  infinito  per  estensione;  quindi  quel  tal  piacere, 
quando  pure  uguagliasse  la  durata  di  questo  desiderio,  non  po- 
tendo uguagliarne  1'  estensione,  lascerebbe  sempre  una  brama  o 
di  piaceri  sempre  nuovi,  come  accade  infatti,  o  di  un  piacere  che 
riempiesse  tutta  l'anima.  Ond' è  facile  concepire  come  il  piacere 
sia  sempre  vanissimo. 

Insomma:  quando  l'anima  desidera  qualcosa  di  piacevole,  cerca 
la  sodisfazione  d'  un  suo  desiderio  infinito,  cerca  cioè  //  piacere 
e  non  un  tal  piacere;  ora  nel  fatto,  trovando  un  piacere  partico- 
lare e  determinato,  ne  segue  che  il  suo  desiderio  non  è  pago; 
perciò  il  piacere  non  è  vero  piacere;  è  mancanza  di  sodisfazione, 
quindi  dolore;  poiché  l' insodisfazione,  l' assenza  del  piacere,  il 
quale  è  la  perfezione  della  vita,  é  non  un  semplice  non  godere, 
ma  un  patire;  che  l'uomo  e  il  vivente  non  può  esser  privo  della 
perfezione  di  sua  esistenza,  e  quindi  della  sua  felicità,  senza  patire 
e  senza  infelicità  (1). 


Conseguenza  immediata  di  tale  teoria  è  che,  siccome  il  desi- 
derio del  piacere  deriva  dall'  amor  proprio,  quanto  più  vivo  è 
questo,  tanto  maggiore  dev'essere  l'infelicità  del  vivente.  Ora,  la 
forza  e  il  sentimento  dell'amor  proprio  è  tanto  maggiore,  quanto 
maggiore  é  la  vita  o  il   sentimento   in   ciascun   essere,  specie  la 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  303.  Perciò  le  sensazioni  non  sono  mai 
veramente  piacevoli,  ma  o  indifferenti  o  dolorose.  Le  indifferenti  però 
sono  come  se  non  esistessero;  restano  dunque  le  dolorose  {Op.  cit., 
Voi.  IV,  pag.  344).  Quindi  1' uomo  è  sempre  in  pena  (Op.  cit.,  Voi.  VI, 
pag.  256). 


—  275  — 

vita  interna,  ossia  1'  attività  dell'  anima  (giacché,  come  s'  è  visto, 
amor  proprio  e  vita  o  esistenza  son  quasi  una  cosa).  Dunque 
r  uomo,  avendo  per  sua  natura  e  organizzazione  esteriore  e  inte- 
riore una  vita  psichica  più  intensa,  deve  avere  maggiore  amor 
proprio  che  qualsiasi  altra  specie  di  viventi.  Quindi  1'  uomo  per 
essenza  propria  è  e  nasce  piìi  infelice  di  tutti  gli  esseri  (1).  Tra 
i  viventi  le  specie  meno  organizzate  (i  polipi,  i  zoofiti  etc),  avendo 
un'  esistenza  piti  materiale  e  meno  di  vita  propriamente  detta, 
devono  essere  meno  infelici.  Le  bestie  in  genere  non  devono  con- 
durre una  vita  tormentata,  vuota,  noiosa  come  quella  umana  (tant'è 
vero  che  non  si  uccidono  mai  volontariamente)  (2).  Tra  gli  uomini 
i  giovani  sono  più  infelici  dei  vecchi,  perchè  hanno  sentimenti 
più  violenti  e  una  sete  più  ardente  di  felicità;  ma,  non  trovando 
il  piacere  in  oggetti  terreni,  provano  maggior  senso  di  privazione 
e  di  vuoto  (3). 

L'  uomo  dunque  non  può  mai  cogliere  nella  realtà  il  piacere. 
Esiste  però  in  lui  la  facoltà  dell'  immaginazione,  la  quale  può  con- 
cepire oggetti  che  non  sono  e  in  un  modo  in  cui  gli  enti  reali 
non  sono.  Ora,  data  la  tendenza  innata  dell'  uomo  al  piacere,  è 
naturale  che  la  facoltà  immaginativa  si  rivolga  di  preferenza  a 
questo;  e,  in  grazia  della  sua  natura,  essa  può  figurarsi  diletti  che 
non  esistono,  e  fingerli  infiniti  in  numero,  in  durata  e  in  esten- 
sione. Così  il  piacere  infinito,  che  non  si  può  trovare  nella  realtà, 
si  trova  nella  fantasia,  dalla  quale  derivano  la  speranza,  le  illu- 
sioni etc.  Perciò  non  è  meraviglia:  1°  che  nell'uomo  la  speranza 
sia  sempre  maggiore  del  bene  e  migliore  del  piacere  stesso,  con- 
tenendo quell'indefinito  che  non  si  trova  nella  realtà  (4);  2°  che 
la  felicità  umana  non  possa  consistere  se  non  nell'  immaginazione 
e  nelle  illusioni,  e  che  quindi  il  piacere  non  è  mai  presente,  ma 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  224-226. 

(2)  Op.  cit,  Voi.  VI,  pag.  230-231,  299.  Cfr.  Canto  notturno  di  un 
pastore  errante  nell'  Asia,  strofe  S'';  Epistola  al  Pepoli;  Dialogo  di 
Plotino  e  di  Porfirio;,  Bruto  Minore;  Elogio  degli  uccelli. 

(3)  Zibal.,  Voi.  IV,  pag.  405;  Voi.  VI,  pag.  230-231.  Vedi  anche 
Dialogo  della  Natura  e  di  un'  Anima  e  Dialogo  di  Malambruno  e  di 
Farfarello. 

(4)  Zibal.,  Voi.  II,  pag.  342. 


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sempre  futuro:  l'atto  proprio  del  piacere  non  si  dà  (1).  Ecco  perchè 
il  sabato  (giorno  d'  attesa  dei  piacere)  è  molto  più  dolce  che  la 
domenica  (giorno  di  festa,  piacere  che  nell'atto  del  godimento  si 
rivela  vuoto  e  amaro).  In  quello  la  mente  riveste  di  colori  va- 
ghissimi l'oggetto  del  desiderio,  va  immaginando  e  contemplando 
seco  a  parte  a  parte  il  gaudio  che  ne  attende  o  spera,  e  prova 
diletto  nel  considerare  e  rappresentarsi  il  modo  in  che  ne  godrà, 
e  le  sue  qualità  e  condizioni  e  circostanze,  anticipando,  anzi  as- 
saporando effettivamente  nella  fantasia  mille  volte  il  piacere  fu- 
turo (2).  «  Già  tutta  r  aria  imbruna,  —  torna  azzurro  il  sereno, 
e  tornan  l'ombre  —  giù  da'  colli  e  da'  tetti  —  al  biancheggiar 
della  recente  luna....  »  (Il  sabato  del  villaggio).  Ecco  anche  perchè 
la  fanciullezza  (tempo  d' attesa  del  piacere)  è  molto  più  bella  della 
giovinezza  (piacere,  festa  della  vita). 

Altre  conseguenze.  Siccome  il  desiderio  del  piacere  è  infinito 
in  estensione,  1'  uomo  soffre  nel  veder  subito  i  limiti  del  suo  go- 
dimento; questi  però  l' individuo  non  molto  profondo  li  scorge 
solo  da  presso,  non  da  lontano.  Quindi  è  chiaro:  1°  perchè  l'ignoto 
sia  più  bello  del  noto;  2°  perchè  1'  anima  preferisca  in  poesia  e 
da  per  tutto  il  bello  aereo,  le  idee  infinite.  L'  anima  in  fatti  pre- 
dilige il  piacere  che  non  può  abbracciare.  La  malinconia,  il  sen- 
timentale moderno  etc.  son  così  dolci  appunto  perchè  immergono 
r  animo  in  un  abisso  di  pensieri  indeterminati,  dei  quali  non  sa 
vedere  il  fondo  né  i  contorni.  Simile  è  la  causa  dell'ebrezza  che 
si  prova  neir  amore;  in  quel  tempo  1'  anima  si  spazia  nel  vago  e 
indefinito;  il  tipo  del  bello  adorato  esiste  non  nella  realtà,  ma 
nella  fantasia,  e  le  illusioni  sole,  non  la  ragione,  ce  lo  possono 
rappresentare  (3);  3"  perchè  l'anima  nostra  odii  tutto  quello  che 
confini  le  sue  sensazioni.  Quindi,  vedendo  la  bella  natura,  ama 
che  r  occhio  si  spazii  quant'  è  possibile.  La  ragione  è  sempre  la 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  II,  pag.  46-48.  Cfr.  Epistolario,  Firenze,  Le  Monnier, 
1892,  Voi.  I,  pag.  455  e  seg.;  Dialogo  d'  un  venditore  d' almanacchi  e 
di  un  passeggere;  Detti  memorabili  di  F.  Ottonieri,  Cap.  il;  Dialogo 
di  T.  Tasso  e  del  suo  genio  familiare;  Il  Parini,  Cap.  X. 

(2)  Zibald.,  Voi.  V,  pag.  427-428.  Cfr.  Dialogo  di  Torquato  Tasso 
e  del  suo  genio  familiare. 

(3)  Vedi  Alla  sua  donna  e  Aspasia,  spec.  »  Raggio  divino  al  mio 
pensiero  »  etc.  Cfr.  il  Cap.  sullo  Stendhal  nel  I  Voi.  di  quest'opera. 


—  277 

stessa:  il  desiderio  dell'  infinito;  in  luogo  della  vista  lavora  l' im- 
maginazione, e  il  fantastico  sottentra  al  reale.  L'anima  s'immagina 
ciò  che  non  vede,  ciò  che  quell'albero,  quella  siepe,  quella  torre 
gli  nasconde,  e  va  errando  in  uno  spazio  immaginario,  e  si  figura 
cose  che  non  potrebbe,  se  la  sua  vista  si  estendesse  da  per  tutto, 
poiché  il  reale  escluderebbe  l' immaginario  (1).  «  Sempre  caro  mi 
fu  quest'ermo  colle,  —  e  questa  siepe  che  da  tanta  parte  —  del- 
l' ultimo  orizzonte  il  guardo  esclude.  —  Ma,  sedendo  e  mirando, 
interminati  —  spazi  di  là  da  quella  e  sovrumani  —  silenzi  e  pro- 
fondissima quiete  —  io  nel  pensier  mi  fingo;  ove  per  poco  —  il 
cor  non  si  spaura.  E  come  il  vento  —  odo  stormir  tra  queste 
piante,  io  quello  —  infinito  silenzio  a  questa  voce  —  vo  compa- 
rando: e  mi  sovvien  l' eterno,  —  e  le  morte  stagioni,  e  la  pre- 
sente —  e  viva,  e  il  suon  di  lei.  Così  tra  questa  —  immensità 
s'  annega  il  pensier  mio;  —  e  il  naufragar  m'  è  dolce  in  questo 
mare  »  (L' Infinito). 

Al  contrario,  basta  che  l'uomo  abbia  veduta  la  misura  d'una 
cosa,  ancorché  smisurata,  basta  che   sia  giunto  a  conoscerne  le 
parti  o  a  congetturarle  secondo  le  regole   della  ragione;   quella 
cosa  immediatamente  gli  par  piccolissima,  gli  diviene  insufficiente, 
ed  egli  ne  rimane  scontentissimo.  Quando  il  Petrarca  poteva  dire 
a  proposito   degli   antipodi,  che  7  dì  nostro  vola  A  gente  che  di 
là  forse  l'aspetta  (Canzone  Nella  stagion,  str.  3),  quel  forse  ba 
stava  per  lasciar  concepire   quella   gente  e  quei  paesi   come  im 
mensi  e   dilettosissimi   all'  immaginazione.   Trovati   che   si  sono 
certo  non  sono  impiccioliti;  ma,  appena  gli  antipodi  si  son  visti 
sul  mappamondo,  é  sparita  ogni   grandezza,  ogni   bellezza,  ogn 
prestigio  dell'  idea  che  se  n'  aveva.  Perciò  la  scoperta   dell'  Ame 
rica  per  opera  di  Cristoforo   Colombo,  anziché  accrescere  la  fé 
licita  del  genere  umano,  1'  ha  diminuita.  «  Nostri  sogni  leggiadri 
ove  son   giti  —  dell'  ignoto   ricetto  —  d' ignoti   abitatori,  o   del 
diurno  —  degli  astri  albergo,  e  del  rimoto  letto  —  della  giovane 
Aurora,  e  del  notturno  —  occulto  sonno  del  maggior  pianeta?  — 
Ecco   svanirò   a   un   punto,  —  e  figurato  é  il   mondo   in   breve 
carta,  —  ecco   tutto   é  simile,  e,  discoprendo,  —  solo   il   nulla 
s'  accresce  »  (Ad  Angelo  Mai). 


(1)  Cfr.  Zib.,  Voi.  I,  pag.  290-291;  Voi.  Ili,  pag.  344-345  e  446-447. 


—  278  — 

Per  la  stessa  ragione  la  matematica,  la  quale  misura  quando 
il  piacer  nostro  non  vuol  misura,  definisce  e  circoscrive  quando 
il  piacer  nostro  non  vuol  confini,  analizza  quando  il  piacer  nostro 
non  vuole  analisi  né  conoscenza  intima  ed  esatta  di  ciò  che  è 
piacevole,  dev'  essere  necessariamente  1'  opposto  del  piacere  (1). 

Anche  la  molteplicità  e  la  vastità  delle  sensazioni  dilettano 
moltissimo  l' uomo.  La  molteplicità  delle  sensazioni  confonde 
l'anima,  le  impedisce  di  vedere  i  confini  di  ciascuna,  toglie  l'esauri- 
mento subitaneo  del  piacere,  la  fa  errare  da  un  godimento  in  un 
altro,  senza  poterne  approfondire  nessuno,  le  dà  quindi  un  diletto 
che  somiglia  in  certo  modo  a  un  piacere  infinito.  La  vastità, 
quand'anche  non  sia  molteplice,  occupa  nell'anima  un  più  grande 
spazio,  ed  è  piìi  difficilmente  esauribile  (2).  Di  qui  l'effetto  straor- 
dinario che  produce  in  noi  la  considerazione  della  vastità  del 
passato.  «  Dolor  mio  nel  sentire  a  tarda  notte  seguente  al  giorno 
di  qualche  festa  il  canto  notturno  de'  villani  passeggeri.  Infinità 
del  passato  che  mi  veniva  in  mente,  ripensando  ai  romani  così 
caduti  dopo  tanto  remore  e  ai  tanti  avvenimenti  ora  passati,  eh'  io 
paragonava  dolorosamente  con  quella  profonda  quiete  e  silenzio 
della  notte,  a  farmi  avvedere  del  quale  giovava  il  risalto  di  quella 
voce  o  canto  villanesco  >  (3).  «  ....Or  dov'  è  il  suono  —  di  que' 
popoli  antichi  ?  or  dov'  è  il  grido  —  dei  nostri  avi  famosi,  e  il 
grande  impero  di  quella  Roma,  e  l'armi,  e  il  fragorio  —  che 
n'  andò  per  la  terra  e  1'  oceano  ?  —  Tutto  è  pace  e  silenzio,  e 
tutto  posa  —  il  mondo,  e  più  di  lor  non  si  ragiona.  —  Nella  mia 
prima  età,  quando  s' aspetta  —  bramosamente  il  dì  festivo,  or 
poscia  —  ch'egli  era  spento,  io  doloroso  in  veglia  —  premea  le 
piume;  ed  alla  tarda  notte  —  un  canto  che  s'udia  per  li  sentieri  — 
lontanando  vanire  a  poco  a  poco  —  già  similmente  mi  stringeva 
il  core  >  (La  sera  del  dì  di  festa). 

Oltre  la  vastità,  il  carattere  stesso  d' indeterminatezza,  che  si 
riscontra  in  tutto  ciò  eh' è  passato,  può  farci  apparire  come  bello 
e  piacevole  quel  che  in  realtà,  nell'  atto  del  godimento,  non  era 


(1)  0/7.  cit.,  Voi.  I,  pag.  340-341. 

(2)  Op.  cit,  Voi.  I,  pag.  271-278.  Cfr.  Voi.  11,  pag.  111-113.  Vedi  anche 
Dialogo  di  un  fisico  e  di  un  metafisico. 

(3)  Zibal,  Voi.  I,  pag.  157. 


—  279  — 

tale  (1);  cosicché  i  piaceri  umani  somigliano  agli  odori,  i  quali 
sogliono  lasciare  maggior  desiderio  di  sé  che  qualunque  altra 
sensazione  (2), 

Di  più,  secondo  la  teoria  detta,  il  desiderio  del  piacere,  es- 
sendo sempre  insodisfatto,  diviene  una  pena  e  una  specie  di 
travaglio  abituale  dell'anima.  Quindi  un  assopimento  dei  sensi  è 
piacevole.  I  Turchi  se  lo  procurano  con  l'oppio.  L'anima  ne  gode 
perchè  in  quei  momenti  non  è  affannata  dal  desiderio,  ma  prova 
un  riposo  dalla  brama  tormentatrice  e  inappagabile  pienamente, 
un  intervallo  come  il  sonno,  nel  quale,  se  ben  forse  non  lascia 
di  pensare,  tuttavia  non  se  n'avvede.  Effetto  simile  all'oppio  pro- 
ducono r  haschisch,  il  tabacco,  1'  alcool  etc.  Cosicché  il  piacere 
non  é  che  un  abbandono  e  un  oblio  della  vita,  una  specie  di 
sonno  e  di  morte;  è  piuttosto  una  privazione  di  sentimenti  che 
un  sentimento  vero  e  proprio.  Non  e'  è  maggior  piacere  né  mag- 
giore felicità  nella  vita  che  il  non  sentirla  (3). 

Inoltre:  la  vita  continuamente  occupata  é  la  più  felice,  quan- 
d' anche  le  occupazioni  e  sensazioni  non  siano  vive  e  varie  (4). 
L'  aqimo  occupato  é  distratto  da  quel  desiderio  innato  che  non 
lo  lascerebbe  in  pace,  o  lo  rivolge  ai  piccoli  fini  della  giornata 
(il  terminare  un  lavoro,  il  provvedere  ai  propri  bisogni  ordinari 
etc.  etc);  giacché  li  considera  allora  come  piaceri,  essendo  pia- 
cere tutto  quello  che  l'anima  desidera;  e,  conseguitone  uno,  passa 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  Il,  pag.  563.  Vedi  la  poesia  Alla  luna  e  le  Ricor- 
danze. 

(2)  Cfr.  Detti  memombili  di  F.  Ottonieri,  Gap.  II.  Da  tale  conside- 
razione il  Leopardi  trae  questo  paradosso:  che,  siccome  1'  aspettativa  e 
il  ricordo  del  piacere  sono  più  dolci  del  piacere  stesso,  i  peggiori  mo- 
menti della  vita,  eccetto  il  tempo  del  dolore  e  del  timore,  sono  quelli 
del  piacere  {Detti  memorabili  etc.  Gap.  II). 

(3)  Zibal.,  Voi.  VI,  pag.  239,  272  e  452.  Gfr.  Dialogo  di  Torquato 
Tasso  e  del  suo  genio  familiare. 

(4)  Si  potrebbe  credere  di  trovar  qui  una  contradizione:  giacché 
prima  s'  è  detto  che  un  assopimento  dei  sensi,  un  oblio  della  vita  (inat- 
tività) è  piacere;  poi  si  dice  che  la  vita  continuamente  occupata  (attività) 
è  felice.  Eppure  contradizione  non  e'  è.  Infatti,  come  osserva  il  Leopardi, 
r  occupazione  non  è  piacere  per  se  {Zib.,  Voi.  VI,  pag.  420),  ma  suscita 
diletto  indirettamente,  distraendoci  dal  desiderio  tormentoso  della  felicità. 


—  280  —  1 

ad  un  altro;  così  che  si  distrae  da  desideri  maggiori,  non  ha  quindi 
modo  d' affliggersi  della  vanità  e  del  vuoto  dell'  universo;  e  la 
speranza  di  quei  piccoli  fini  e  i  piccoli  disegni  sulle  occupazioni 
future  o  sulle  speranze  di  un  esito  generale  lontano  e  desiderato 
bastano  a  riempierlo  e  a  trattenerlo  nel  tempo  del  suo  riposo,  il 
quale  non  è  troppo  lungo,  perchè  sottentri  la  noia;  senza  dire 
che  il  riposo  dalla  fatica  è  un  piacere  per  sé  stesso.  L'  occupa- 
zione si  può  così  paragonare  alla  focaccia  di  Cerbero  insaziabile: 
distrae  1'  animo,  pur  non  potendone  appagare  mai  il  desiderio 
inestinguibile  (1).  y 

Ancora:  il  meraviglioso,  lo  straordinario  è  piacevole,  quan- 
tunque per  la  sua  qualità  e  natura  particolare  non  appartenga 
alla  classe  del  piacevole.  La  meraviglia  rende  l' anima  attonita, 
l'occupa  tutta  e  la  rende  incapace  in  quel  momento  di  desiderare; 
s'aggiunga  che  la  novità,  inerente  alla  meraviglia,  è  sempre  grata 
all'anima,  la  cui  maggior  pena  è  la  stanchezza  dei  piaceri  parti- 
colari. Anche  l' immagine  del  dolore  e  di  scene  terribili  è  piace- 
vole, come  nei  drammi,  spettacoli  e  poemi  d'ogni  sorta.  Purché 
l'uomo  non  tema  o  non  si  dolga  per  sé,  la  forza  della  distrazione 
gli  é  sempre  piacevole. 

La  verità  di  tutto  quanto  s'è  detto  è  confermata  dalla  seguente 
osservazione:  perchè  l' uomo  dovrebbe  provar  pena  e  affanno, 
quando  non  patisse  male  alcuno?  Poniamo  un  uomo  isolato,  senza 
nessuna  occupazione  spirituale  o  corporea  e  senza  nessuna  cura 
o  dolore  positivo,  o  annoiato  dall'  uniformità  d'  un'  impressione 
non  penosa  o  spiacevole  per  sua  natura,  e  ditemi  per  che  motivo 
quest'  uomo  debba  soffrire.  Eppure  vediamo  che  soffre,  e  si  dì- 
spera,  e  preferirebbe  qualunque  travaglio  a  quello  stato.  Per  quale 
ragione  ?  Per  un  desiderio  ingenito  e  inseparabile  dall'  esistenza, 
che  in  quel  tempo  non  è  sodisfatto,  ingannato,  mitigato,  addor- 
mentato, e  si  rivela  quindi  come  dolore  o  noia,  ch'é  lo  stesso  (2). 
La  natura  ha  provveduto  in  tutt'  i  modi  contro  questo  male,  al- 


e  dolore. 


f 


(1)  Op.  cit,  Voi.  VI,  pag.  257,  420-421. 

(2)  La  noia  è  il  desiderio  della  felicità  lasciato,  per  così  dire,  puro 
{Op.  cit..  Voi.  VI,  pag.  127);  e,  siccome  questo  desiderio,  se  non  miti-  » 
gato,  è,  come  s' è  visto,  tormento  e  dolore,   anche  la  noia  è  tormento          ♦ 


I 


—  281  — 

r  orrore  e  ripugnanza  del  quale  nell'  uomo  si  può  paragonare 
queir  orrore  del  vuoto  che  gli  antichi  fisici  supponevano  nella 
natura  per  spiegare  alcuni  fenomeni:  ha  provveduto  col  dare  al- 
l' individuo  molti  bisogni,  e  col  porre  il  piacere  nella  sodisfazione 
del  bisogno,  come  della  fame  e  della  sete,  del  freddo  o  del  caldo 
etc,  quindi  col  volerlo  occupato,  col  cagionargli  timore,  pericoli 
(i  quali  affezionano  maggiormente  alla  vita  e  dissipano  la  noia)  (1), 
convulsioni  degli  elementi  (si  pensi  a  La  quiete  dopo  la  tempesta), 
dolori  e  mali,  poiché  è  più  grato  il  guarir  dai  mali  che  viver 
senza  di  essi  (2). 

« 

Ora  che  abbiamo  esaminata  la  natura  del  piacere,  possiamo 
domandarci:  1'  uomo  nel  corso  dei  secoli  è  stato  mai,  e,  in  caso 
affermativo,  potrebb'  essere  ancora  felice  ? 

Veramente  il  piacere  è  tale  che,  come  s' è  detto,  non  può  esser 
colto  dall'  uomo.  Ma  la  natura  (3),  volendo  render  questo  felice, 
è  ricorsa  all'  unico  mezzo  possibile  per  raggiungere  tale  scopo: 
gli  ha  cioè  suscitato  nella  mente  una  molteplicità  di  vaghe  illu- 
sioni, che  lo  ingannino  dolcemente  (4).  Il  mondo  dunque  per  il 
Leopardi,  come  per  il  Rousseau  (5),  è  «  diretto  alla  felicità  »,  e 
la  natura  ha  creato  l' uomo,  al  pari  di  tutti  gli  altri  esseri,  felice 
e  perfetto  (6).  Noi  infatti  vediamo  che,  quanto  piti  gli  esseri  son 


(1)  Cfr.  Dialogo  di  Cristoforo  Colombo  e  di  Pietro  Gutierrez 
e  l' ultima  strofe  della  poesia  A  un  vincitore  del  pallone. 

(2)  ZibaL,  Voi.  I,  pag.  278-283;  Voi.  IV,  pag.  328;  Dialogo  di  Fede- 
rigo Ruysh  e  delle  sue  Mummie  («  ben  sai  che  la  cessazione  di  qua- 
lunque dolore  o  disagio  è  piacere  per  sé  medesimo  »).  Cfr.  per  tutta 
questa  parte  la  Storia  del  genere  umano. 

(3)  Con  la  Natura  il  Leopardi  identifica  Dio  (ZibaL,  Voi.  I,  pag.  441; 
Voi.  Ili,  pag.  280;  Voi.  VI,  pag.  178  Cfr.  Inno  ad  Arimane). 

(4)  «  A  noi  di  lieti  -  inganni  e  di  felici  ombre  soccorse  -  natura 

stessa  »  (A  un  vincitore  del  pallone). 

(5)  Il  Rousseau  è  citato  e  ricordato  spessissimo  nello  Zibaldone, 
talora  con  le  espressioni  stesse  delle  sue  opere. 

(6)  ZibaL,  Voi.  I,  pag.  220,  293,  436;  Voi.  II,  pag.  23;  Inno  ai  patriar- 
chi, spec.  «  Fu  certo  fu  »  etc,  e  Bruto  Minore,  strofe  4*.  Vedi  anche 


—  282  — 

vicini  alla  madre  natura,  tanto  più  son  contenti  e  beati:  per  es. 
i  Patriarchi,  gli  antichi  Greci  (specie  i  poeti:  Omero  per  es.),  i 
fanciulli  (1)  e  i  giovanetti,  dotati  d'un' immaginazione  più  fresca 
e  vivace  e  perciò  d'una  fioritura  variopinta  d'illusioni.  Ma  l' im- 
maginazione non  può  regnare  senza  l' ignoranza,  almeno  senza 
una  certa  ignoranza,  come  quella  degli  antichi;  giacché  la  cono- 
scenza del  vero,  cioè  dei  limiti  e  delle  definizioni  degli  enti,  cir- 
coscrive r  immaginazione.  Dunque  la  scienza,  la  filosofia  (eh'  è 
nata  dalla  società,  la  quale  appunto  con  la  conversazione  scam- 
bievole civilizza  e  istruisce  1'  uomo,  lo  assuefa  a  riflettere  su  sé 
stesso,  a  comparare,  a  ragionare)  (2)  fa  strage  delle  illusioni,  e 
rende  l' individuo  infelice.  Perciò  esiste  un  conflitto  acerbo  fra 
natura  e  ragione,  un'  inimicizia  implacabile,  che  tormenta  il  cuore 
dei  poveri  mortali. 

La  vita  si  nutre  d' illusioni,  ha  bisogno  di  queste  per  poter 
propagarsi,  espandersi,  traboccare;  non  tende  quindi  alla  ricerca 
della  verità  nuda  e  cruda;  la  verità  assoluta  é  indifferente  per 
r  uomo  (3).  <'  Conviene  che  il  filosofo  si  ponga  bene  in  mente 
che  la  vita  per  se  stessa  non  importa  nulla,  ma  il  passarla  bene 
e  felicemente  o,  se  non  altro,  anzi  sopratutto,  il  non  passarla  male 
e  infelicemente.  E  perciò  non  riponga  l'utilità  in  quelle  cose  che 
semplicemente  aiutano,  conservano  ecc.  la  vita,  considerata  quasi 
fosse  un  bene  per  se  stessa,  ma  in  quelle  che  la  rendono  un  bene, 
cioè  felice  da  vero.  Ma  felice  da  vero  non  la  rende  altro  che  il 
falso,  ed  ogni  felicità  fondata  sul  vero  é  falsissima,  o,  vogliamo 
dire,  ogni  felicità  si  trova  falsa  e  vana,  quando  l' oggetto  suo 
giunge  ad  esser  conosciuto  nella  sua  realtà  e  verità  »  (4).  Pare 
quindi  un  assurdo,  eppure  è  esattamente  vero,  che,  essendo  tutto 
il  reale  un  nulla,  non  v'  é  altro  di  reale  né  altro  di  sostanza  al 
mondo  che  le  illusioni  (5).  «  Il  più  solido  piacere  di  questa  vita  », 
insiste  il  Leopardi,  «  è  il  piacer  vano  delle  illusioni.  Io  considero 
le  illusioni  come  cosa  in  certo   modo   reale,  stante   eh'  elle  sono 


Zibaldone,  Voi.  II,  pag.  380-390,  dove  asserisce  che  l'infelicità  dell'uomo 
è  accidentale  e  indipendente  dal  sistema  della  natura. 

(1)  Cfr.  Pensieri,  CU.  (2)  Zib.,  Voi.  IV  pag.  376. 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  436.  (4)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  410. 

(5)  Op.  cit..  Voi.  I,  pag.  210. 


—  283  — 

ingredienti  essenziali  del  sistema  della  natura  umana,  e  date  dalla 
natura  a  tutti  quanti  gli  uomini,  in  maniera  che  non  è  lecito 
spregiarle  come  sogni  di  un  solo,  ma  propri  veramente  dell'uomo 
e  voluti  dalla  natura  e  senza  cui  la  vita  nostra  sarebbe  la  più  mi- 
sera e  barbara  cosa  ecc.  Onde  son  necessarie  ed  entrano  sostan- 
zialmente nel  composto  ed  ordine  delle  cose  »  (1).  Tolte  le  illu- 
sioni, r  uomo  diviene  snaturato  e  barbaro  (2). 

La  mitologia  era  fonte  ricchissima  d' illusioni,  che  allietavano 
la  vita.  «  Che  bel  tempo  era  quello  nel  quale  ogni  cosa  era  viva 
secondo  l'immaginazione  umana  e  viva  umanamente,  cioè  abitata 
o  formata  di  esseri  uguali  a  noi  !  quando  nei  boschi  desertissimi 
si  giudicava  per  certo  che  abitassero  le  belle  Amadriadi  e  i  fauni 
e  i  silvani  e  Pane  ecc.;  ed  entrandoci  e  vedendoci  tutto  solitu- 
dine, pur  credevi  tutto  abitato!  e  così  de'  fonti  abitati  dalle  Naiadi 
ecc.  E  stringendoti  un  albero  al  seno  te  lo  sentivi  quasi  palpitare 
fra  le  mani,  credendolo  un  uomo  o  donna,  come  Ciparisso  ecc.  ! 
E  così  de'  fiori,  come  appunto  i  fanciulli  »  (3).  «  Vissero  i  fiori 
e  r  erbe,  —  vissero  i  boschi  un  dì  »  etc.  (Alla  primavera  o  delle 
favole  antiche). 

Ora  invece  è  venuta  a  mancare  anche  questa  consolazione  del- 
l'esistenza  {Alla  primavera,  versi  81-91). 

La  desolazione  che  rimane  nell'  anima  dopo  il  disparire  delle 
illusioni  è  paragonata  dal  Leopardi  all'  oscurità  e  mestizia  che 
segue  al  tramonto  della  luna.  «  Quale  in  notte  solinga  —  sovra 
campagne  inargentate  ed  acque  »  etc.  (Il  tramonto  della  luna)  (4). 

Anche  la  virtù,  la  gloria,  la  patria,  la  libertà,  la  giustizia,  la 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  1,  pag.  157.  Cfr.  Epistolario,  Voi.  I,  pag.  278  e  seg. 
Questo  ci  spiega  perchè  mai  una  goccia  d' illusione  e  di  speranza  resti 
sempre  nel  fondo  del  cuore  umano,  anche  nella  disperazione  più  acerba. 
{Zibal.,  Voi.  I,  pag.  246  e  315-318,  Voi.  Ili,  pag.  288-296.  Cfr.  la  poesia 
Risorgimento).  Tanto  la  natura  è  più  forte  della  ragione! 

(2)  Zibal.,  Voi.  I,  pag.  107.  II  Leopardi  stabilisce  una  distinzione 
netta  fra  barbaro  e  selvaggio.  La  barbarie  suppone  già  un  principio  di 
civiltà  incoata,  imperfetta.  Lo  stato  selvaggio  puro  non  è  punto  barbaro; 
il  barbaro  è  già  guasto  (Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  229;  Voi.  VII,  pag.   115). 

(3)  Op.  cit..  Voi.  I,  pag.  175. 

(4)  Vedi  anche  Ricordanze,  spec.  «  O  speranze,  speranze:  ameni 
inganni  »  etc. 


—  284  — 

magnanimità  etc,  insomma  tutto  il  bello  e  il  buono  di  questo 
mondo  si  riduce  a  puri  fantasmi,  a  enti  immaginari:  gli  antichi 
erano  grandi  e  compivano  azioni  eroiche  sol  perchè,  nella  loro 
verde  fantasia,  credevano  a  questi  fantasmi.  Esempio:  l' impresa 
d'Alessandro:  tutta  illusione  (1).  Invece  la  scienza,  venendo  a  sco- 
prire le  verità  che  la  natura  aveva  nascoste  sotto  un  profondis- 
simo arcano,  e  rivelando  la  vanità  delle  illusioni,  conduce  l'uomo 
a  una  scelleraggine  ragionata,  in  quanto  che  lo  spinge  a  credere 
che,  siccome  la  virtù  e  1'  eroismo  sono  inganni  della  natura,  la 
via  migliore  da  seguire  in  questo  mondo  è  non  già  il  mettere  a 
repentaglio  la  vita  e  le  sostanze  proprie  per  chimere,  ma  l'essere 
un  perfetto  egoista,  e  il  far  sempre  quel  che  torna  a  maggior 
comodo  e  piacere  (2). 

Di  più  la  filosofia  rende  l'uomo  vile,  inattivo,  infingardo,  freddo, 
spegnendo  nel  suo  animo  l'entusiasmo,  condizione  essenziale  per 
le  grandi  imprese;  cosicché  un  popolo  di  filosofi  sarebbe  il  più 
piccolo  e  codardo  del  mondo  (3).  La  natura  è  grande,  la  ragione 
è  piccola  (4).  Perciò  i  popoli  non  ancora  civili  hanno  sempre 
trionfato  dei  popoli  colti:  i  Persiani  degli  Assiri;  i  Greci  dei  Per- 
siani già  corrotti;  i  Romani  dei  Greci  giunti  al  colmo  della  civiltà; 
i  settentrionali  dei  Romani  (5):  e  la  causa  della  rovina  di  Roma 
vincitrice  del  mondo  fu  appunto  la  filosofia  greca  (6). 

L'  unico  rimedio  a  questi  mali  prodotti  dal  sapere  sarebbe  il 
ritorno  alla  natura,  alla  vita  spontanea  e  istintiva,  simile  a  quella 
degli  animali  (7),  che  solo   può  rendere  1'  uomo  sereno  e  felice. 


(1)  Zibaldone,  Voi.  I,  pag.  93. 

(2)  0/7.  cit.,  Voi.  I,  pag.  235;  Voi.  V,  pag.  385-389.  Cfr.  Compara- 
zione delle  sentenze  di  Bruto  Minore  e  di  Teofrasto  vicini  a  morte. 

(3)  Zib.,  Voi.  I,  pag.  226;  Voi.  Il,  pag.  39. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  132;  Voi.  V,  pag.  91-92.  Vedi  anche  Dialogo 
di  Timandro  e  di  Eleandro. 

(5)  Zib.,  Voi.  II,  pag.  229. 

(6)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  365-366. 

(7)  «  Io  credo  che  nell'  ordine  naturale  1'  uomo  possa  anche  in  questo 
mondo  esser  felce,  vivendo  naturalmente  e  come  le  bestie  »  {Op.  cit., 
Voi.  I,  pag.  164-165).  5i  badi  però  che  per  il  Leopardi  il  ritorno  allo 
stato  di  natura  oramai  non  è  più  possibile;  1'  uomo  ha  assaggiato  il 
frutto   dell'  albero  della  scienza  del  bene  e  del  male,  e  non  può  risol- 


—  285  — 

È  quindi  assurda  la  così  detta  «  teoria  della  perfettibilità  »  del 
Condorcet,  la  quale  vorrebbe  sviluppare  enormemente  la  ragione 
nell'uomo,  credendo  così  di  renderlo  sempre  migliore  e  più  con- 
tento. Errore  !  La  dottrina  della  perfettibilità  brulica  di  con- 
tradizioni. 

Già  è  dubbio  se  la  cultura  sia  andata  effettivamente  crescendo, 
che  il  numero  dei  veri  dotti  sempre  diminuisce.  Né  si  dica  che 
i  dotti  son  pochi  perchè  le  cognizioni  sono  non  più  accumulate 
in  alcuni  individui,  ma  divise  fra  molti;  e  che  la  copia  di  questi 
compensa  la  rarità  di  quelli.  Le  cognizioni  non  sono  come  le  ric- 
chezze, che  si  dividono  e  si  adunano,  e  sempre  danno  la  stessa 
somma.  Dove  tutti  sanno  poco,  e'  si  sa  poco.  L' istruzione  super- 
ficiale può  essere  non  propriamente  divisa  fra  molti,  ma  comune 
a  molti  non  dotti  (1). 

Ma  poi,  se  1'  uomo  fosse  veramente  nato  a  vivere  secondo  ra- 
gione, sarebbe  dalla  natura  destinato  a  vivere  infelicemente,  cioè 
in  modo  tendente  a  distruggere  la  vita  stessa;  poiché  colui  che, 
persuaso  della  nullità  delle  cose,  è  infelice,  odia  la  vita  e  finisce 
con  r  ammazzarsi  (2).  Infatti  ogni  giorno  nelle  città  s' hanno  a 
lamentare  suicidi.  Anche  la  guerra  è  una  conseguenza  della  vita 
sociale.  Ora,  è  possibile  che  la  natura,  la  quale  vuole  la  vita  e  il 
benessere  delle  creature  sue,  abbia  decretato  che  gli  uomini  pe- 
riscano per  le  loro  medesime  mani  o  si  uccidano  fra  loro?  Non 
è  questa  una  contradizione  ?  (3). 

Inoltre:  la  natura  ha  voluto  che  noi  fossimo  ben  sani  e  ro- 
busti di  corpo;  tutto  potrà  mettersi  in  dubbio,  tranne  che  la  na- 
tura abbia  sempre  mirato  al  benessere  materiale  delle  sue  creature, 
il  quale  quindi  è  perfezione  non  già  accidentale,  ma  essenziale  e 
propria  dell'uomo  e  ordinata  dalla  natura.  Ma  la  civiltà  e  lo  svi- 


levarsi  piìi,  giacché  ciò  che  s'è  conosciuto  non  si  dimentica.  Perciò  il 
migliore  stato  per  1'  uomo  ora  sarebbe  quello  di  una  civiltà  media,  in 
cui  un  certo  equilibrio  fra  la  ragione  e  la  natura  e  un'  ignoranza  media 
mantengono  quanto  è  possibile  delle  credenze  e  illusioni  naturali,  esclu- 
dendo gli  eccessi  della  ragione  {Op.  cit.,  Voi.  447-458;  Voi.  VII,  pag.  116). 

(1)  Dialogo  di  Tristano  e  di  un  amico.  Diversa  opinione  esprime  il 
Leopardi  in  //  Patini,  ovvero  della  Gloria,  Gap.  Vili. 

(2)  Zibaldone,  Voi.  I,  pag.  164-165. 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  VI,  pag.  173  e  seg. 


—  286  — 

luppo  della  ragione  nuoce  al  corpo;  infatti  la  vita  sociale  ha  in- 
trodotto nel  genere  umano  mille  speciali  malattie  che  prima  non 
esistevano,  e  lo  ha,  così,  infiacchito,  tanto  che  gli  antichi  valevano, 
per  la  forza  del  corpo,  ciascuno  per  quattro  di  noi.  Dunque  non 
può  esser  perfezione  dell'  uomo,  giacché  contrasta  con  1'  essenza 
propria  e  naturale  di  lui,  e  ripugna  a  una  qualità  non  accidentale, 
ma  ordinata  dalla  natura  (1). 

Ancora:  tutti  i  così  detti  beni  della  vita  sociale,  le  invenzioni 
e  scoperte  scientifiche  (l' uso  del  linguaggio  articolato,  l' inven- 
zione della  scrittura,  della  stampa,  1'  estrazione  e  lavorazione  dei 
metalli,  l'uso  della  moneta,  di  oggetti  di  lusso,  come  le  gemme  etc, 
la  scoperta  del  fuoco,  la  cottura  delle  carni  e  dell'  erbe,  1"  inven- 
zione del  cannocchiale,  1'  areonautica,  l' invenzione  della  polvere 
pirica,  la  fabbrica  dei  mattoni,  dei  vestiti,  la  nautica  e  quindi  il 
commercio,  dei  popoli,  la  cultura  del  frumento  e  delle  viti,  la  fab- 
brica del  pane  e  del  vino  etc.)  o  son  costate  lunghi  studi,  ricerche, 
fatiche,  viaggi,  o  son  dovute  al  caso.  Ora,  se  tutto  ciò  era  neces- 
sario o  conveniente  alla  perfezione  e  felicità  dell'uomo,  come  mai 
la  natura,  maestra  tanto  accurata  e  finita  in  tutto,  glielo  ha  na- 
scosto e  l'ha  affidato  al  caso?  E  dire  che  l'uomo  si  chiama  una 
specie  privilegiata  e  la  prima  nell'  ordine  di  tutti  gli  esseri  !  Bel 
privilegio  davvero  eh' è  quello  di  veder  tutti  gli  altri  viventi  con- 
seguire immediatamente,  per  istinto,  la  loro  relativa  perfezione  e 
felicità  senza  stenti  ne  sbagli,  ed  egli  intanto,  per  raggiungere  la 
propria,  stentare,  soffrire,  prendere  mille  strade,  sbagliare  mille 
volte  e  tornare  indietro,  e  finalmente  dover  aspettare  lunghissimo 
ordine  di  secoli  per  conseguire  in  parte  il  detto  fine.  È  credibile 
che  la  natura,  nel  formar  l'uomo,  l'abbia  collocato  tanto  lontano 
dalla  perfezione  da  lei  voluta  e  destinatagli?  È  credibile  che  essa 
abbia  posta  la  perfezione  e  felicità  degli  uomini  al  prezzo  doX- 
V  infelicità  di  tante  generazioni,  ossia  di  tutte  quelle  vissute  prima 
che  questa  perfezione  si  potesse  conseguire  ?  (2). 


(\)  Op.  cit.,  Voi.  IH,  pag.  256-259;  Voi.  V,  pag.  228-230.  Cfr.  Dialogo 
di  Tristano  e  di  un  amico.  Da  tutto  questo  si  vede  che  secondo  il 
Leopardi  (contro  quanto  crede  il  Delfico)  non  si  può  parlare  di  perfet- 
tibilità organica  o  fisica.  Per  lui  la  struttura  del  corpo  è  così  meravi- 
gliosa, che  non  solo  non  è  possibile  perfezionarla,  ma  neppure  immagi- 
narla più  perfetta.  Vedi  Zib.,  Voi.  1,  pag.  425-426;  Voi.  Il,  pag.  209-210. 

(2;  Vedi  spec.  Op.  cU.,  Voi.  Il,  pag.  211-214  e  459;  Voi.  IV,  pag.  213,  214; 


—  287  — 

Infine  lo  sviluppo  della  ragione  promuove  e  accresce,  se  mai, 
la  cultura  degl'individui  e  dei  popoli,  ma  non  la  loro  coscienza 
e  dignità  morale,  che  pur  costituisce  il  vero  merito  dell'  uomo. 
«  Valor  vero  e  virtù,  modestia  e  fede  —  e  di  giustizia  amor,  sempre 
in  qualunque  —  pubblico  stato,  alieni  in  tutto  e  lungi  —  da'  co- 
muni negozi,  ovvero  in  tutto  —  sfortunati  saranno,  afflitti  e 
vinti;  —  perchè  die  lor  natura  in  ogni  tempo  —  starsene  in  fondo. 
Ardir  protervo  e  frode,  —  con  mediocrità,  regneran  sempre,  — 
a  gallegiar  sortiti.  Imperio  e  forze,  —  quanto  più  vogli  o  comu- 
late  o  sparse,  —  abuserà  chiunque  avralle,  e  sotto  —  qualunque 
nome.  Questa  legge  in  pria  —  scrisser  natura  e  il  fato  in  ada- 
mante; —  e  co'  fulmini  suoi  Volta,  né  Davy  —  lei  non  cancel- 
lerà, non  Anglia  tutta,  —  con  le  macchine  sue,  né  con  un  Gange  — 
di  politici  scritti  il  secol  novo  »  (Palinodia)  (1).  La  scienza  in- 
somma potrà  produrre  «  l'età  delle  macchine  »,  inalzare  grandiose 
opere  materiali,  ma  non  costruire  il  vero  amico,  l' uomo  virtuoso 
e  magnanimo,  la  donna  fedele  etc.  (2). 

Tutti  questi  argomenti  provano  dunque  che  la  dottrina  della 
perfettibilità  é  falsa.  La  natura  può  esser  corrotta,  non  corretta  (3); 
ogni  allontanamento  da  essa  é  non  perfezione,  ma  corruzione  (4). 
L'  uomo  é  non  perfettibile,  ma  corruttibile  (5). 

Ma  perchè  1'  uomo  s'  é  allontanato  dalla  natura  ?  Perchè  è  il 
più  assuefabile  degli  animali  (6).  Egli  é  come  una  pasta  molle, 
suscettiva  d'ogni  possibile  figura  o  impronta  (7).  Con  l'esercizio 
e  l'assuefazione  riesce  ad  avere  tante  facoltà,  che  in  natura  non 
esistevano.  Tutte  le  facoltà   umane   sono  ottenute  così:  anche  la 


Voi.   V  pag.  62-64.  Vedi   anche   Voi.   II,  pag.  282,    459,    467;   Voi.    Ili 
pag.  340-341;  Cfr.  La  scommessa  di  Prometeo. 
<1)  Cfr.  Inno  ad  A  rimane. 

(2)  Vedi  Proposta  di  premi  fatta  dall'  Accademia  dei  Sillografi. 
Tutta  questa  critica  della  scienza  non  solo  ricorda  gli  scritti  del  Rousseau, 
ma  li  supera  per  solidità  e  ricchezza  d'  argomenti. 

(3)  Zib.,  Voi.  I,  pag.  372. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  322-323. 

(5)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  308  Cfr.  per  tutta  questa  parte  la  Storia 
del  genere  umano. 

(6)  Zibal.,  Voi.  Ili,  pag.  170. 

(7)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  168. 


—  288  — 

ragione  (1).  Non  esiste  in  natura  il  genio,  ossia  una  persona  le 
cui  facoltà  intellettuali  siano  per  sé  stesse  strabocchevolmente 
maggiori  delle  altrui.  II. genio,  come  ha  ben  mostrato  l'Helvétius, 
è  figlio  delle  circostanze  e  dell'assuefazione  (2).  Chi  vuol  vedere 
come  neir  uomo  tutto  sia  esercizio,  osservi  che  le  facoltà  di  cui 
egli  è  capace  sono  maggiori  assai  nell'uomo  maturo  e  civile  che 
nel  fanciullo,  se  pur  questo  non  ne  manca  affatto,  e  crescono  in- 
sieme con  lui  (3).  In  natura  non  esistono  che  disposizioni,  ma  le 
disposizioni  non  sono  facoltà.  Come  la  mano  non  ha  da  natura 
nessuna  facoltà,  anzi  da  principio  è  inetta  alle  operazioni  più  fa- 
cili e  giornaliere,  così  gli  organi  intellettuali  non  hanno  nessuna 
facoltà,  ma  solo  la  disposizione  o  possibilità  di  conseguirne  (4). 
Quindi  tutto  ciò  che  nell'uomo  si  chiama  cultura,  non  esiste  punto 
in  natura:  è  una  crosta  artificiale  (5),  tolta  la  quale  restano  solo 
i  sentimenti  e  istinti  spontanei,  che,  se  fossero  puri,  renderebbero 
l'uomo  felice  (6).  Dunque  l'uomo  non  è  imperfetto  né  in  natura 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  II,  pag.  472;  Voi.  Ili,  pag.  229,  306-308.  «  Il  talento 
non  è  altro  che  facoltà  d' imparare,  cioè  di  attendere  e  di  assuefarsi. 
Per  imparare  intendo  anche  la  facoltà  d' inventare,  di  pensare,  di  sentire, 
di  giudicare  ecc.  >  {Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  295).  È  evidente  che  queste 
parole  ricordano  moltissimo  il  Condillac.  Cfr.  Op.  cit.,  Voi.  V,  pag.  304 
e  seguenti. 

(2)  Op.  cit..  Voi.  Ili,  pag.  286.  Bisogna  però  notare  che  nel  Voi.  Ili 
dello  Zibaldone  (pag.  386-387;  cfr,  pag.  295-296)  il  Leopardi  parla  d'una 
differenza  innata  dei  talenti  umani,  consistente  in  una  diversità  di  di- 
sposizioni (non  di  facoltà).  Parrebbe  quindi  eh'  egli  volesse  opporsi 
all'  Helvétius;  e  così  è  parso  al  Cantella.  Ma  il  Leopardi  non  dà  im- 
portanza alle  disposizioni;  afferma  infatti  che  «  il  talento  è  l'opera  in 
tutto  delle  circostanze  »  (Voi.  Ili,  pag.  386);  tanto  che  «  il  gran  poeta 
può  essere  anche  gran  matematico,  e  viceversa.  Se  non  lo  è,  se  il  suo 
spirito  si  determinò  ad  un  solo  genere  (che  non  sempre  accade),  ciò  è 
puro  effetto  delle  circostanze  »  (Voi.  HI,  pag.  343). 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  24.  Cfr.  Voi.  Ili,  pag.  36-37,  138,  202,  213, 
228,  333-334,  353-355,  390-391;  Voi.  V,  pag.  352. 

(4)  Op.  cit..  Voi.  IV,  pag.  319. 

(5)  «  Non  è  dubbio  che  la  civiltà,  i  progressi  dello  spirito  umano  ecc. 
hanno  accresciuto  mirabilmente  e  in  numero  e  in  grandezza  e  in  esten- 
sione le  facoltà  umane  ■'-  {Op.  cit..  Voi.  VI,  pag.  345). 

(6)  Bisogna  anzi  stare  attenti  e  non  confondere  il  naturale  con  ciò 


\ 


I 


-  289  — 

né  per  natura;  anzi  in  natura  e  per  natura  egli  è  il  più  perfetto 
degli  esseri,  ma  è  anche  più  di  tutti  disposto  a  divenire  imper- 
fetto; giacché  la  suprema  conformità  sua,  che  lo  rende  il  più  mu- 
tabile e  quindi  il  più  corruttibile  di  tutti  gli  esseri  terrestri,  lo 
rende  anche  per  conseguenza  il  più  infelicitabiie,  benché  non  per 
sé  stesso  e  naturalmente  infelice:  lo  rende  cioè  il  più  disposto  a 
potersi  allontanare  dal  suo  stato  naturale  e  quindi  dalla  sua  per- 
fezione e  felicità.  (1). 


Il  Leopardi  trova  una  conferma  delle  sue  idee  nella  Bibbia  e 
nella  mitologia  greca.  Si  legge  infatti  nella  Genesi  (II,  17)  che  il 
solo  comando  che  Dio  diede  all'  uomo  dopo  averlo  posto  in  pa- 
radiso voluptatis  fu:  De  liguo  autem  scientiae  boni  et  mali  ne  co- 
medas,  in  quocumqae  enini  die  comederis  ex  eo,  morte  morieris.  Or 
non  é  questo  un  interdir  chiaramente  all'uomo  il  sapere?  un  voler 
porre  un  ostacolo  agi'  increménti  della  ragione,  come  quella'  che 
Dio  conosceva  esser  per  sua  natura  e  dover  esser  la  distruttrice 
della  felicità  e  perfezione  vera  della  sua  creatura  ?  L'  uomo  già 
sapeva  per  natura,  per  istinto,  cioè  per  opera  immediata  e  primi- 
tiva di  Dio,  tutto  quel  che  gli  conveniva  sapere.  La  colpa  fu  vo- 
lerlo sapere  per  opera  sua,  cioè  non  più  per  natura,  ma  per  ra- 
gione, voler  per  conseguenza  sapere  più  di  quello  che  gli  con- 
veniva, entrare  con  le  proprie  facoltà  nei  campi  dello  scibile,  e 
scoprir  quindi  ciò  che  alle  leggi  di  sua  natura  era  vietato.  Dunque 
la  rovina  dell'  uomo  consisté  non  nel  decadimento,  ma  nell'  in- 
cremento della  ragione  (2). 

Si  consideri  inoltre  che  il  primo  fondatore  della  città,  vale  a 
dire  della  vita  sociale,  secondo  la  scrittura  {Genesi,  C.  IV,  v.  16) 
fu  il  primo  riprovato:  Caino;  il  quale,  dopo  la  colpa,  la  dispera- 


che  deriva  dall'esercizio  e  dall'abitudine;  gran  parte  di  ciò  che  si  chiama 
talento  naturale  non  è  che  assuefazione,  esercizio  ed  opera  di  circo- 
stanze non  naturali,  né  necessarie,  ma  accidentali  {Op.  cit.,  Voi.  V, 
pag.  240).  Onde  la  difficoltà  di  rintracciare  e  seguire  la  natura  vera 
(0/7.  cit.,  Voi.  I,  pag.  148-150). 

(1)  Op.  cit,  Voi.  V,  pag.  66. 

(2)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  441  e  seg.  Vedi  anche  Voi.  1,  pag.  466-468. 

19 


—  290  — 

zione  e  la  riprovazione,  «  primo  i  civili  tetti,  albergo  e  regno  — 
alle  macere  cure,  innalza  »  (Inno  ai  patriarchi).  Dunque  la  società, 
corruttrice  della  natura  umana  e  sorgente  della  maggior  parte  dei 
nostri  vizi,  è  stata  figlia  della  colpa.  E  come  il  primo  riprovato 
fu  il  primo  fondatore  della  società,  così  il  primo  che  definitiva- 
mente la  combattè  e  maledisse  fu  il  redentore  della  colpa:  Gesù  (1). 
Poiché  Gesù  per  primo  personificò  e  definì  col  nome  di  mondo 
l'idea  del  perpetuo  nemico  della  virtù,  dell'innocenza,  del- 
l'eroismo, della  sensibilità  vera,  della  natura:  in  altri  termini  la  so- 
cietà; essendo  pur  troppo  vero  che,  come  l' individuo  per  natura 
è  buono  e  felice,  così  l' individuo  in  società  è  malvagio  e  in- 
felice (2). 

Anche  nella  mitologia  greca  si  trovano  idee  simili,  com'è  pro- 
vato dalla  leggenda  dell'età  dell'oro  e  dalla  favola  di  Psiche,  cioè 
dell'  anima  che  era  felicissima  senza  conoscere,  e  la  cui  infelicità 
provenne  dal  voler  conoscere  (3). 

Tutto  questo  ci  prova  che  l'antica  sapienza  riteneva  che  l'uomo 
non  è  nato  per  il  sapere,  e  che  la  conoscenza,  la  ragione  è  ne- 
mica della  natura  e  della  felicità  (4). 

*  * 

OSSERVAZIONI  —  Questa  teoria  del  piacere  è  senza  dubbio 
importante,  sia  per  la  luce  che  getta  su  tutti  gli  scritti  del  Leopardi, 
sia  per  la  sua  originalità,  che  ben  la  distingue  da  quella  del  Verri 
e  dai  pochi  cenni  sulla  natura  negativa  del  piacere  che  si  tro- 
vano nelle  opere  di  alcuni  filosofi  (5),  sia  anche  per  la  gene- 
ralità e  semplicità  dei  principi  su  cui  si  fonda  e  quindi  per  le 
molteplici  applicazioni  sue.  Essa  si  può  stringere  in  queste  parole: 
il  piacere  è  non  qualcosa  di  positivo  e  reale,  ma  un'  illusione;  la 
quale,  se  creduta   dalla   mente   ingenua,  rende  1'  uomo  sereno  e 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  1,  pag.  296. 

(2)  Op.  cit.,  Voi.  I,  pag.  223;  Voi.  Il,  pag.  91,  332.  Vedi  anche  Pensieri, 
LXXXIV.  Cfr.  Pensieri,  I. 

(3)  Op.  cit.,  Voi.  II,  pag.  105-106,  e  Voi.  IV,  pag.  129-130. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  II,  106;  Voi.  V,  pag.  89-91. 

(5)  Vedi  pag.  124  di  questo  volume. 


—  291 

felice,  ma,  col  progresso  del  sapere,  si  dissipa  come  nebbia  do- 
rata ai  soffi  del  vento  gelido. 

Le  obiezioni  contro  questa  dolorosa  dottrina  si  affollano  nella 
mente  (1).  Non  pare  innanzi  tutto  giusto  che  il  desiderio  della 
felicità,  essendo  inesauribile  e  ininterrotto,  non  possa  esser  sodi- 
sfatto che  da  un  piacere  infinito.  Tutte  le  funzioni  psichiche  e 
organiche  son  continue,  e  cessano  solo  con  la  vita  (anche  nel  ri- 
poso s' esplica  un'  attività  che  reintegra  le  forze  perdute);  vivere 
è  agire;  quindi  il  pensiero,  la  sensibilità,  il  movimento,  la  dige- 
stione, la  respirazione  etc,  dopo  compiuto  un  loro  atto,  passano 
a  effettuarne  un  altro,  e  così  di  seguito.  Ma  1'  atto  particolare, 
raggiungendo  il  fine,  suscita  sodisfazione,  non  lascia  vuoto  e  ama- 
rezza. Dire  che  un  piacere  particolare  non  appaga  l'animo  è  come 
dire  che  intendere  una  verità  particolare  (risolvere  per  es.  un  dato 
problema)  non  susciti  diletto  perchè  poi  si  torna  a  pensare  an- 
cora; ovvero  che,  siccome  il  movimento  è  connaturato  con  la  vita 
e  non  può  finire  se  non  con  questa,  un  movimento  particolare 
non  possa  produrre  sodisfazione;  oppure  che  il  digerir  bene  un 
dato  pasto  non  produca  godimento  perchè  poi  bisogna  tornare 
sempre  a  digerir  cibi. 

Inoltre,  affermare  che  il  piacere  non  è  veramente  piacere  è,  in 
psicologia,  contradizione.  Poiché  i  fatti  interni  sono  percepiti  im- 
mediatamente, senza  un  organo  o  un  mezzo  che  li  possa  alterare; 
non  son  quindi  suscettibili  d'errore,  non  possono  essere  illusioni. 
Perciò  per  chi  prova  piacere  il  godimento  ch'egli  sente  è  un  fatto 
indubitabile;  e,  se  qualcuno  gli  dicesse:  —  Ma  tu,  mentre  credi 
di  provar  piacere,  t' inganni,  poiché  in  fondo,  come  dimostra  la 
metafisica,  provi  insodisfazione  e  dolore,  —  egli  darebbe  in  una 
risata;  che  sa  di  sentir  piacere,  e  il  sentimento  non  si  può  met- 
tere in  dubbio.  La  metafisica  qui  non  e'  entra. 

Strano  è  poi  tutto  quanto  il  Leopardi  dice  sull'uomo.  Ognuno 
sa  che  l'uomo  è  per  natura  un  animale  ragionevole:  ossia  ch'egli 
differisce  dagli  altri  animali  perchè  la  natura  V  ha  creato  ragio- 
nevole (si  definisce  in  fatti  animale  ragionevole);  se  quindi  la  ra- 


(1)  Potrà  sembrare  ardire  questo  mio  voler  criticare  Giacomo  Leo- 
pardi. Ma  le  osservazioni  mie  varranno,  più  che  ad  altro,  a  chiarire  lo 
sviluppo  del  pensiero  del  grande  scrittore.  Spero  quindi  di  esser  scusato. 


—  292  — 

gione,  che  è  la  sua  nota  caratteristica,  Io  conducesse  a  eccessi  e 
spasimi  dolorosi,  bisognerebbe  pur  dire  che  questi  son  naturali. 
Se  invece  si  toglie  all'uomo  la  sua  nota  differenziale,  la  raziona- 
lità^  si  ricade  nella  sfera  delle  bestie  (il  Leopardi  stesso  lo  dice); 
ma  questo,  piuttosto  che  un  ritomo  alla  natura,  mi  pare  un  al- 
iontamento  da  essa,  giacché,  rip>eto,  l'uomo  in  natura  è  non  un 
animale  puro  e  semplice  (un  bruto),  ma  un  animale  ragionevole. 
La  natura  dell'uomo  consiste  quindi  nel  seguire  e  sviluppare  la 
ragione;  togliergli  questa  è  snaturarlo.  Quando  si  argomenta  come 
il  Leopardi  (e  il  Rousseau)  si  equivoca  sul  concetto  di  natura:  si 
considera  cioè  questa  come  natura  esteriore,  come  tutto  ciò  che  è 
fuori  dell  uomo  e  quindi  privo  di  ragione,  quasi  che  l'uomo  stesso 
non  facesse  parte  della  naturai  Del  resto  il  Leopardi  (come  anche 
il  Rousseau),  non  jjotendo  negare  l'evidenza  dei  fatti,  ha  dovuto 
ammettere  nell'  uomo  una  certa  forma  di  ragione;  egli  scrive: 
<  La  ragione  è  nemica  della  natura,  non  già  quella  ragione  pri- 
mitiva di  cui  si  serve  1*  uomo  nello  stato  naturale  e  di  cui  par- 
tecipano gli  altri  animali,  parimente  liberi  e  p>er  ciò  necessaria- 
mente capaci  di  conoscere....  Questa  l'ha  posta  nell'uomo  la  stessa 
natura,  e  nella  natura  non  si  trovano  contraddizioni.  Nemico  della 
natura  è  queir  uso  della  ragione  che  non  è  naturale,  queir  uso 
eccessivo  eh'  è  proprio  solamente  dell'  uomo,  e  dell'  uomo  cor- 
rotto.... i  (1).  Ma  via:  Gli  animali  hanno  la  ragione?  Ad  ogni 
modo,  che  ragione  sarebbe  questa,  che  non  si  sviluppasse  in  guisa 
da  divenir  tale  quale  l'abbiamo  noi?  Una  ragione  che  non  s'ele- 
vasse a  possedere  i  principi  logici,  a  formare  i  concetti  e  la  scienza? 
Sarebbe  una  ragione....  non  ragione:  in  altri  termini,  un  concetto 
contradittorio  (2). 

Strano  è  pure  che  la  natura  susciti  illusioni  in  un  essere  ra- 
gionevole, cioè  in  un  essere  dotato  d' una  facoltà  distruttrice  delle 
illusioni!  Non  è  questo  un  mettere  la  paglia  accanto  al  fuoco? 
Se  del  resto  fosse  vero  che  la  natura  cerchi  di  render  felice  l' uomo 


(1)  Zibaldone,  Voi.  I,  pag.  427-428.  Cfr.  Voi.  Ili,  pag.  3S8-389. 

1^2,»  Addirittura  falso  è  poi  che  la  ragione  in  quanto  facoltà  psichica 
5/  formi.  I  principi  della  ragione  sono  posseduti,  sia  pure  non  esplici- 
tamente, ancfie  dal  fanciullo  o  dal  selvaggio,  il  quale  si  accorge  subito 
che  uno  si  contradice,  che  per  es.  nega  quanto  prima  aveva  affermato. 


—  293  — 

con  le  illusioni,  o  perchè  essa  non  dovrebbe  anche  far  sì  che  la 
ragione  in  lui  non  si  sviluppasse  tanto  da  distruggere  queste  il- 
lusioni benefiche?  (1)  Se  invece  la  ragione  le  distrugge,  la  colpa 
è  senza  dubbio  della  natura.  Poiché  in  fondo  tutto  dipende  dalla 
natura  (che  il  Leopardi,  si  badi,  identifica  con  Dio,  abbozzando 
una  specie  di  panteismo  nebuloso).  Il  poeta  stesso  infatti  finisce 
col  muovere  alla  natura  il  rimprovero  che  essa  inganni  gli  uomini 
con  vaghe  immagini  e  fole  dorate,  e  poi,  quasi  considerandoli 
oggetti  di  trastullo,  li  disilluda  scoprendo  ai  loro  occhi  la  realtà 
nuda  e  cruda;  cosicché  a  poco  a  poco  egli,  probabilmente  senza 
darsi  ragione  del  come  e  del  perchè,  viene  a  mutar  parere  sulla 
natura:  prima  la  chiama  saggia  (2),  santa  (3),  vaga  (4),  benefat- 
trice universale  (5),  incapace  di  contradirsi  (6);  siccome  poi  però 
r  esperienza  gli  mostra  che  pur  troppo  gli  uomini  soffrono,  e 
tutto  in  fondo  dipende  dalla  natura,  finisce  col  considerar  questa 
come  responsabile  delle  sciagure  dei  poveri  mortali.  II  primo  mu- 
tamento nella  sua  concezione  della  natura  si  nota  nella  poesia 
A  Silvia,  una  delle  più  belle  che  siano  state  scritte  da  che  mondo 
è  mondo.  Silvia  è  una  fanciulla  nei  cui  occhi  ridenti  e  fuggitivi 
splendeva  la  bellezza,  e  con  la  quale  il  poeta  ha  trascorso  in  dolce 
compagnia  gli  anni  primi  della  giovinezza,  il  «  maggio  odoroso  » 
della  vita,  quando  le  illusioni  più  fresche  e  più  rosee  sbocciano 
neir  anima  del  povero  mortale.  Ella,  contenta  del  vago  avvenire 
che  aveva  in  mente,  spandeva  la  sua  gioia  nel  canto,  di  cui  so- 
navano le  quiete  stanze  e  le  vie  dintorno;  e  il  poeta,  lasciando 
gli  studi  leggiadri  e  le  sudate  carte,  dai  veroni  della  casa  paterna 
porgeva  gli   orecchi  al  suono   della   voce  di  lei.  «  Mirava  il   ciel 


(1)  Vedi  il  Dialogo  della  natura  e  di  uti'  anima,  dove  tale  obiezione 
è  abbozzata,  ma  non  riceve  risposta. 

(2)  Inno  ai  patriarchi,  verso  112. 

(3)  Alla  primavera,  verso  20. 

(4)  Alla  primavera,  verso  90. 

(5)  Epistolario,  Voi.  I,  pag.  152  (lettera  al  Giordani  del  dicembre  1818). 

(6)  Zibaldone,  Voi.  IV,  pag.  178  (<  E  pure  è  certo  che  più  facil- 
mente potremo  annoverare  le  arene  del  mare  di  quello  che  trovare  una 
sola  contraddizione  in  qualunque  di  quelle  cose  che  la  natura  ha  vera- 
mente e  manifestamente  resa  necessaria  o  destinata  all'  uso  sì  dell'uomo, 
come  di  qualunque  animale,  vegetabile  ecc.  »).  Cfr.  Voi.  I,  pag.  428. 


—  294  — 

sereno,  —  le  vie  dorate  e  gli  orti,"  —  e  quinci  il  mar  da  lungi,  e 
quindi  il  monte....  ; . 

A  questa  visione  così  luminosa  della  vita,  con  1'  andar  degli 
anni,  è  sottentrato  il  dolore  più  acerbo.  La  povera  fanciulla,  «  da 
chiuso  morbo  combattuta  e  vinta  »,  è  morta;  e  nel  cuore  del 
poeta  è  morta  ogni  speranza  e  illusione.  Tutto  quel  mondo  d'in- 
canti e  di  sprazzi  d'oro  è  dileguato  «  all'apparir  del  vero  »,  della 
realtà  nuda  e  cruda,  e,  sotto  il  velo  variopinto  e  fiorito  che  co- 
priva il  creato,  è  apparsa  la  fredda  morte  e  una  tomba  ignuda. 
Allora  il  poeta,  mirando  il  contrasto  stridente  fra  i  due  periodi 
della  sua  esistenza,  dà  in  un'esclamazione  disperata:  «  O  natura, 
natura  —  perchè  non  rendi  poi  —  quel  che  prometti  allor?  perchè 
di  tanto  —  inganni  i  figli  tuoi?  >.  È  qui  evidente  che  la  natura 
stessa  è  considerata  e  autrice  e  distruttrice  delle  illusioni.  La  na- 
tura stessa  ha  promesso  alle  sue  creature  un  cammino  fiorito  e 
odoroso,  e  poi  non  solo  non  mantiene  la  parola,  ma  scopre  cru- 
delmente alla  loro  ragione  la  rude  realtà  e  gli  scheletri  delle  cose, 
che  si  nascondevano  sotto  le  false  apparenze.  Dunque  la  natura 
è  non  pili  buona,  saggia,  vaga,  santa,  ma  cattiva,  maligna,  cru- 
dele. Io  m'ero  ingannato,  confessa  francamente  il  poeta;  e  tutto 
è  finito.  «  Or  poserai  per  sempre  —  stanco  mio  cuor.  Perì  l'in- 
ganno estremo,  —  ch'eterno  io  mi  credei.  Perì....  »  (A  se  stesso). 

Il  cerchio  degl'incanti  adesso  è  rotto;  e  la  natura  si  rivela  in 
tutta  la  sua  brutalità  e  malvagità.  Essa  non  vuole  in  alcun  modo 
la  felicità  degli  esseri  sensibili,  anzi  vi  è  contraria  (1),  e  rimane 
indifferente  ai  loro  strazi.  Perciò  contro  di  essa  (non  più  contro 
la  ragione  dell'uomo)  impreca  il  Leopardi:  <  dà  la  colpa  a  quella  — 
che  veramente  è  rea,  che  de'  mortali  —  è  madre  in  parto  ed  in 
voler  matrigna  >  {Ginestra);  la  chiama  «  crudele  >  (2),  «  empia 
madre  »  (3),  <-  persecutrice  e  nemica  mortale  di  tutti  gl'individui 
d'  ogni  genere  e  specie  eh'  ella  dà  in  luce  »  (4),  carnefice  della 
propria  famiglia,  dei  figliuoli  suoi,  e,  per  dir  così,  del  sangue  e 
delle  viscere  sue  (5).  Essa  ora  gli  si  rivela  brulicante  di  contra- 


(1)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag^.  57;  Cfr.  Inno  ad  Arimane. 

(2)  Palinodia,  verso  170.  (3)  Palinodia,  verso  181. 

(4)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag.  419. 

(5)  Dialogo  della  Natura  e  di  un  Irlandese.  Cfr.  Paralipomeni  della 
Batracomiomachia,  Canto  IV,  spec.  strofe  12*. 


—  295  — 

dizioni  (1):  ci  dà  per  es.  il  bisogno  di  felicità  senza  la  possibilità 
di  sodisfarlo  (2);  partorisce  e  nutre  le  sue  creature  per  ucciderle  (3), 
dà  ad  alcuni  animali  l' istinto,  le  arti,  le  armi  per  assalir  altri,  e 
a  questi  le  armi  per  difendersi,  l'istinto  di  preveder  l'attacco,  di 
fuggire,  di  usar  mille  astuzie  per  salvarsi;  dà  agli  uni  la  tendenza 
a  distruggere,  agli  altri  la  tendenza  a  conservarsi;  dà  ad  alcuni 
animali  l' istinto  e  il  bisogno  di  pascersi  di  certe  piante,  frutta 
etc,  ed  arma  le  piante  di  spine  per  allontanare  gli  animali,  le 
frutta  di  gusci,  di  bucce,  d' inviluppi  d'  ogni  genere.  Essa  mede- 
sima è  r  autrice  unica  delle  difese  e  delle  offese,  del  male  e  del 
rimedio.  Che  groviglio  di  contradizioni!  (4).  Dov'è  piìi  la  natura 
saggia,  desiderosa  della  felicità  dei  viventi,  incapace  di  contradirsi? 
Il  Leopardi  attribuisce  ora  alla  natura  caratteri  del  tutto  opposti 
a  quelli  di  prima  (5);  e  tale  cambiamento  d'idee  è  la  più  evidente 


(1)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag.  18-20,  51-56;  Dialogo  della  Natura  e 
di  un  Irlandese. 

(2)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag.  454. 

(3)  Sopra  un  bassorilievo  antico  sepolcrale,  verso  47;  Cfr.  Palinodia 
«  Quale  un  fanciullo,  con  assidua  cura  etc.  »,  e  Zibaldone,  Voi.  VII, 
pag.  355. 

(4)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag.  135-136.  Vedi  anche  Voi.  VII,  pag.  8, 
51-56.  II  cambiamento  delle  sue  idee  sulla  natura  appare  più  evidente 
che  mai,  oltre  che  nelle  ultime  poesie,  nel  Voi.  VII  dello  Zibaldone. 

(5)  Il  Panzacchi  (in  Teste  quadre,  Bologna,  Zanichelli,  1881,  pa- 
gine 309-310)  nota  una  differenza  davvero  esistente  fra  la  prosa  e  la 
poesia  del  Leopardi;  il  pessimismo  nella  prosa,  egli  dice,  tiene  il  vertice 
del  pensiero  speculativo  dell'  autore  sin  da  principio;  invece  nella  poesia, 
la  quale  in  sé  e  nei  suoi  effetti  per  oltre  i  quattro  quinti  è  tutt'  altro 
che  pessimista,  esso  guadagna  a  gradi  a  gradi  e  nemmeno  con  progresso 
continuato,  ma  a  sbalzi  e  riprese,  l'estetica  di  quello  spirito  travagliato. 
Questa  differenza  osservata  dal  Panzacchi  si  spiega  secondo  me  col 
cambiamento  d' idee  del  Leopardi  sulla  natura.  Le  Operette  morali 
furono  scritte  dopo  le  poesie  del  così  detto  primo  periodo  (vedi  Car- 
ducci, Op.  cit.\  D'  Ancona  e  Bacci,  Manuale  della  leti,  ital.,  2*  Ediz., 
Voi.  V,  pag.  171-173),  che  va  dal  Primo  amore  ai  versi  Alla  sua  donna 
(1816-1823).  In  tali  poesie  la  natura  è  concepita  come  buona  e  benefica; 
quindi  il  pessimismo  non  è  tanto  disperato.  Dopo  questo  primo  periodo 
avvenne  il  mutamento  d'idee  accennato;  il  quale  è  espresso  nelle  Ope- 
rette  morali   (composte  il  1824  e  pubblicate  la  prima   volta  a  Milano 


—  206  — 

critica  del  suo  pensiero  (1),  poiché  distrugge  l'idea  della  Natura- 
Dio  che  provvede  alla  felicità  delle  sue  creature  con  le  illusioni 
dorate  (in  altri  termini,  distrugge  la  sua  teoria  del  piacere  e  la 
sua  dottrina  sulla  natura),  e  le  sostituisce  l'idea  d'una  Natura-Dio 
che,  mentre  dovrebb' essere  principio  d'ogni  bene,  crea  gli  esseri 
per  straziarli:  un  mostro  che  ci  desta  orrore. 

Resta  ad  esaminare  se  sia  fondata  la  taccia  di  materialista,  che 
di  solito  è  attribuita  al  Leopardi  (2). 

Anche  per  lui,  come  per  gl'ideologi  tutti,  abbiamo  a  ripetere 
che  è  il  caso  di  parlare  non  di  materialismo  vero  e  proprio,  ma 
piuttosto  di  agnosticismo. 

Infatti  si  trovano  certo  nel  Leopardi  pensieri  ed  espressioni 
che  sanno  di  materialismo  e  ricordano  sopra  tutto  il  De  Tracy. 
Dice  che  la  mente  nostra  non  solo  non  può  conoscere,  ma  nep- 
pure concepire  altra  maniera  di  essere  che  quella  della  materia; 
tant'è  vero  che  l'essere  e  gli  avvenimenti  spirituali  li  concepiamo 
rassomigliandoli  sempre  a  quelli  materiali  (3);  ond'  è  arrischiata 
ogn'  ipotesi  sul  destino  dell'  anima,  che  noi  chiamiamo  semplice 
e  immateriale,  dopo  la  morte  (4).  Critica  lo  spiritualismo  leibni- 
ziano,  obiettando  che  dalle   monadi   immateriali   non  è  possibile 


il  1827),  nel  VII  Voi.  dello  Zibaldone  (che  va  dal  27  aprile  1824  al  4  di- 
cembre 1832),  poi,  air  inizio  del  secondo  periodo  poetico,  nella  poesia 
A  Silvia  (1828)  e,  durante  il  secondo  periodo,  in  quasi  tutti  i  canti. 
Si  noti  infatti  che  nelle  Operette  morali  la  natura  è  considerata  sempre, 
fuorché,  se  mai,  nella  Storia  del  genere  umano,  come  maligna. 

(1)  In  ultimo  scrive:  <  La  mia  filosofia  fa  rea  d'ogni  cosa  la  natura, 
e,  discolpando  gli  uomini  totalmente,  rivolge  1'  odio,  o  se  non  altro  il 
lamento,  a  principio  più  alto,  all'  origine  vera  de'  mali  de'  viventi  - 
{Zibaldone  Voi.  VII,  pag.  362).  Si  confrontino  queste  parole  con  quelle 
da  lui  scritte  nel  I  Voi.  dello  Zibaldone:  ■■■  Stimando  perfetta  l'opera 
della  natura,  stimo  perfetta  quella  di  Dio;  condanno  la  presunzione 
dell'uomo  di  perfezionar  egli  l'opera  del  creatore      (pag.  441). 

(2)  ZiNGARELLi,  Op.  cit.,  Pref.;  G.  Sergi,  Leopardi  al  lume  della 
scienza,  Sandron,  1899,  pag.  102-103;  G.  N^QR\,  Divagazioni  leopardiane, 
Pavia,  1894-99,  Voi.  VI,  pag.  156-158;  R.  Nazzarì,  La  polemica  leopar- 
diana ecc.,  Roma,  1903,  pag.  69-71.  Cfr.  Gioberti,  //  gesuita  moderno, 
Losanna,  Bonamici,  1847,  Tomo  III,  spec.  pag.  288. 

(3)  Zibaldone,  Voi.  Ili,  pag.  42,  131,  293. 

(4)  Op.  cit..  Voi.  II,  pag.  86-87,  101-103. 


—  297  — 

formar  la  materia,  come  dal  nulla  non  è  possibile  formar  ciò  che 
è  (1).  Aggiunge:  «  Quando  noi  diciamo  che  l'anima  è  spirito,  non 
diciamo  altro  se  non  che  ella  non  è  materia,  e  pronunciamo  in 
sostanza  una  negazione,  non  un'  affermazione  »  (2).  Quindi  ne 
abbiamo  non  un'  idea,  ma  una  semplice  parola  (così  quando  di- 
ciamo: un  corpo  che  non  sia  né  largo,  né  lungo,  né  profondo,  non 
pensiamo  punto  d'averne  un'idea)  (3).  Come  a  Locke  e  a  Voltaire,  a 
lui  par  possibile  che  la  materia  pensi  (4);  scrive  anzi  espressamente: 
«  Che  la  materia  pensi  è  un  fatto.  Un  fatto,  perchè  noi  pensiamo; 
e  noi  non  sappiamo,  non  conosciamo  di  essere,  non  possiamo 
conoscere,  concepire  altro  che  materia.  Un  fatto,  perchè  noi  veg- 
giamo  che  le  modificazioni  del  pensiero  dipendono  totalmente 
dalle  sensazioni,  dallo  stato  del  nostro  fisico;  che  l'animo  nostro 
corrisponde  in  tutto  alle  varietà  ed  alle  variazioni  del  nostro  corpo. 
Un  fatto,  perchè  noi  sentiamo  corporalmente  il  pensiero:  ciascun 
di  noi  sente  che  il  pensiero  non  è  nel  suo  braccio,  nella  sua 
gamba;  sente  che  egli  pensa  con  una  parte  materiale  di  sé,  cioè 
col  suo  cervello,  come  egli  sente  di  vedere  co'  suoi  occhi,  di  toc- 
care colle  sue  mani  »  (5).  Se  gli  spiritualisti,  secondo  lui,  aves- 
sero considerato  tutto  ciò,  avrebbero  trovato  e  troverebbero  assai 
minor  difficoltà  ed  assurdità  nel  materialismo.  Infine  tende  a  con- 
siderare l'uomo  come  formato  non  d'anima  e  corpo,  sibbene  di 
corpo  soltanto  (6). 

Ma,  accanto  a  queste  affermazioni,  ve  ne  sono  altre  che  si  po- 
trebbero benissimo  attribuire  a  uno  spiritualista.  Così  trova  nella 
scontentezza  e  infelicità  dell'  uomo  una  prova  dell'  immortalità 
dell'anima  (giacché,  egli  dice,  è  contro  le  leggi  costanti  della  na- 
tura che  l'ente  principale  del  nostro  globo  non  possa  godere  la 
perfezione  del  suo  essere,  che  è  la  felicità;  perciò  la  nostra  esi- 
stenza non   può   limitarsi  a  questo   mondo)  (7).  Ma  v'  è  di   più: 


(1)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  279-280. 

(2)  Op.  cit,  Voi.  VII,  pag.  29-30. 

(3)  Op.  cit,  Voi.  VII,  pag.  197.  Cfr.  VII,  138-139. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  VII,  pag.  191-192. 

(5)  Op.  cit,  Voi.  VII,  pag.  234-235. 

(6)  Dialogo  di  Tristano  e  di  un  amico  («  Il  corpo  è  1'  uomo   >). 

(7)  Zibaldone,  Voi.  I,  pag.  119,  138-139,  146.  Cfr.  Voi.  I,  pag.  364-365. 
Aggiunge:  «  Può  mai  stare  che  il  non  esistere  sia  assolutamente  meglio 


—  298  — 

non  gli  pare  che  un  ente  capace,  come  1'  uomo,  di  sentire  il  suo 
dolore  e  la  nullità  di  tutte  le  cose  materiali  possa  essere  di  na- 
tura materiale  (1).  Ammette  anche  la  possibilità  dell'esistenza 
di  Dio  (2). 

Dunque?  È  chiaro  ch'egli  non  accetta,  decisamente  né  lo  spi- 
ritualismo, né  il  materialismo;  resta,  come  tutti  gì'  ideologi,  agno- 
stico. Dice  infatti  che  le  nostre  facoltà  di  conoscere  e  d'  amare 
son  limitate;  che,  se  fossero  infinite,  ci  renderebbero  uguali  a 
Dio  (3).  Perciò  noi  ignoriamo  che  cosa  sia  1-  anima  (4),  e  non 
possiamo  in  nessun  modo  conoscere  un  principio  primo  e  uni- 
versale delle  cose  (5),  poiché  l' essenza  di  Dio  non  può  essere 
neppure  concepita  dall'  uomo  (6).  Per  lui  il  progresso  dello  spi- 
rito umano  consiste  nel  conoscere  sempre  più  di  non  conoscere, 
neir  avvedersi  di  saper  sempre  meno  (7).  Quindi  la  conclusione, 
la  sostanza,  il  ristretto,  la  sommità,  la  meta  e  perfezione  della  sa- 
pienza è  il  detto  socratico:  Hoc  unum  scio,  me  nihìl  scire  (8).  Si 


ad  un  essere    che  l'esistere?  Ora   così    accadrebbe    appunto    all'uomo 
senza  una  vita  futura  -  (Op.  cit.,  Voi.  i,  pag.  158). 

(1)  «  Come  potrà  essere  che  la  materia  senta  e  si  dolga  e  si  disperi 
della  sua  propria  nullità?  E  questo  certo  e  profondo  sentimento,  mas- 
sime nelle  anime  grandi,  della  vanità  e  insufficienza  di  tutte  le  cose 
che  si  misurano  coi  sensi,  sentimento  non  di  solo  raziocinio  ma  vero, 
e,  per  modo  di  dire,  sensibilissimo  sentimento  e  dolorosissimo,  come 
non  dovrà  essere  una  prova  materiale,  che  quella  sostanza  che  io  con- 
cepisce e  lo  sperimenta  è  di  un'altra  natura?  Perchè  il  sentire  la  nul- 
lità di  tutte  le  cose  sensibili  e  materiali  suppone  essenzialmente  una 
facoltà  di  sentire  e  comprendere  oggetti  di  natura  diversa  e  contraria: 
ora  questa  facoltà  come  potrà  essere  nella  materia?  »  ^Zibaldone,  Voi.  1, 
pag.  217-218).  Si  legga  anche  la  poesia  Alla  sua  donna. 

(2)  Zib.,  Voi.  Ili,  pag.  269,  285. 

(3)  Op.  cit..  Voi.  1,  pag.  438. 

(4)  Op.  cit.,  Voi.  li,  pag.  86,  101. 

(5)  Op.  cit.,  Voi.  Ili,  pag.  100,  265. 

(6)  Op.  cit.,  Voi.  IV,  pag.  92. 

(7)  Op.  cit.,  Voi.  VII,  pag.  119-120.  Cfr.  VII,  pag.  122-123. 

(8)  Op.  cit..  Voi.  I,  pag.  476.  Vedi  uno  degli  ultimi  pensieri  dello 
Zibaldone  (Voi.  VII,  pag.  462).  Cfr.  Dialogo  di  Tristano  e  di  un  amico: 
«  II  genere  umano,  che  ha  creduto  e  crederà  tante  scempiataggini,  non 
crederà  mai  né  di  non  saper  nulla  né  di  non  essere  nulla  ». 


—  299  — 

noti  anzi  la  sua  titubanza  a  risolvere  persino  il  problema  del  male 
e  del  dolore.  Le  creature  nel  mondo  certo  soffrono,  ma  «  se  di 
questi  mali  particolari  di  tutti  nasca  un  bene  universale,  non  si 
sa  di  chi;  se  vi  sia  qualche  creatura  o  ente,  o  specie  di  enti,  a 
cui  quest'  ordine  sia  perfettamente  buono;  se  esso  sia  buono  as- 
solutamente e  per  se;  e  che  cosa  sia,  e  si  trovi,  bontà  assoluta 
e  per  se;  queste  sono  cose  che  noi  non  sappiamo,  non  possiamo 
sapere;  che  niuna  di  quelle  che  noi  sappiamo  ci  rende  né  pur 
verisimili,  non  che  ci  autorizzi  a  crederle  »  (1). 

È  dunque  evidente  eh'  egli  non  si  sente  1'  animo  di  risolvere 
i  problemi  ultimi  della  filosofia,  né  di  pronunciare  un  giudizio 
netto  e  preciso  sull'  essenza  degli  esseri;  s'  arresta  dinanzi  all'  in- 
conoscibile. Si  può  anzi  dire  che  una  delle  ragioni  della  vaghezza 
e  profondità  delle  sue  poesie,  rotte  di  quando  in  quando  da  do- 
mande affannose,  é  il  tormento  e  lo  spasimo,  quasi,  che  il  Leo- 
pardi prova  dinanzi  agli  enigmi  insolubili  dell'universo.  Egli  per 
es.  si  domanda:  perché,  mentre  1'  uomo  soffre  tanto,  la  natura 
resta  fredda  e  indifferente  ?  (Bruto  Minore).  Perchè  l' animale 
s' appaga  nell'  ozio,  e  l' uomo  no  ?  (Canto  notturno  di  un  pa- 
store etc).  Perché,  esclama  dinanzi  al  ritratto  d'una  bella  donna 
scolpito  in  un  monumento  sepolcrale,  perchè  un  volto  quasi  an- 
gelico, fonte  inenarrabile  d'  eccelsi,  immensi  pensieri  e  sensi,  ad 
un  tratto  per  lieve  forza  diviene  sozzo  a  vedere,  abominoso, 
abietto?  E  perché  la  natura  umana,  ch'é  polvere  ed  ombra,  sente 
tant'alto?  (Sopra  il  ritratto  d'una  bella  donna  etc).  Lo  rendono 
pensoso  il  problema  del  destino  dell'  uomo,  dello  scopo  della 
vita  universale,  l' enigma  della  vita  e  della  morte,  lo  spettacolo 
dell'  infinito.  «  Dimmi,  o  luna,  a  che  vale  —  al  pastor  la  sua 
vita,  —  la  vostra  vita  a  voi  ?  dimmi:  ove  tende  —  questo  vagar 
mio  breve,  —  il  tuo  corso  immortale?...  —  Pur  tu,  solinga,  eterna 
peregrina,  —  che  sì  pensosa  sei,  tu  forse  intendi  —  questo  viver 
terreno,  —  il  patir  nostro,  il  sospirar,  che  sia:  —  che  sia  questo 
morir....  —  Mille  cose  sai  tu,  mille  discopri  —  che  san  celate  al 
semplice  pastore.  —  Spesso,  quand'  io  ti  miro  —  star  così  muta 
in  sul  deserto  piano....  —  e  quando  miro  in  cielo  arder  le  stelle,  — 
dico  fra  me   pensando:  —  a  che   tante  facelle  ?  —  che  fa  1'  aria 


(1)  Zibaldone,  Voi.  VII,  pag.  199. 


—  300  —  , 

infinita,  e  quel  profondo  —  infinito  seren  ?  che  vuol  dir  questa  — 
solitudine  immensa?  ed  io  che  sono?  »  (Canto  notturno  di  un 
pastore  etc). 

Dinanzi  a  tale  spettacolo  l'uomo  diventa  un  atomo.  «  Sovente 
in  queste  piagge....  —  seggo  la  notte;  e  in  su  la  mesta  landa  — 
in  purissimo  azzurro  —  veggo  dall'  alto  fiammeggiar  le  stelle,  — 
cui  di  lontan  fa  specchio  —  il  mare,  e  tutto  di  scintille  in  giro  — 
per  lo  vóto  seren  brillare  il  mondo.  —  E  poi  che  gli  occhi  a 
quelle  luci  appunto,  —  eh'  a  lor  sembrano  un  punto,  —  e  sono 
immense  in  guisa  —  che  un  punto  a  petto  a  lor  son  terra  e 
mare....  —  e  quando  miro  —  quegli  ancor  più  senz'alcun  fin  re- 
moti —  nodi  quasi  di  stelle,  —  eh'  a  noi  paion  qual  nebbia  — 
....  al  pensier  mio  —  che  sembri  allora,  o  prole  dell'uomo?  » 
(Ginestra). 

L'  unica  cosa  certa  dinanzi  a  quest'  immensità  di  mistero  è  il 
nostro  dolore.  «  Arcano  è  tutto  —  fuor  che  il  nostro  dolor  » 
(Ultimo  canto  di  Saffo). 

Dunque  da  una  parte  il  mistero,  dall'  altra  il  dolore:  come 
dovrà  procedere  il  povero  mortale  fra  questi  due  abissi?  In  altri 
termini:  quali  precetti  o  indicazioni  per  la  vita  pratica  si  possono 
trarre  da  quest'  agnosticismo  pessimistico  ? 

11  cristianesimo,  la  più  grande  e  profonda  religione  che  finora 
sia  apparsa  sulla  Terra,  ha  cercato  di  risolvere  questo  problema 
pauroso  rinunziando  a  penetrare  il  mistero  dell'  universo  e  san- 
tificando la  doglia  mondiale  con  l' amore.  Mentre  il  buddismo 
(che  alcuni  esaltano  tanto,  e  vogliono  accostare  al  cristianesimo!) 
fugge  le  sofferenze  e  quindi  la  vita,  non  risolvendo,  anzi  soppri- 
mendo il  problema,  e  cade  nel  vuoto  infinito  del  nirvana,  che 
sotto  la  fredda  serenità  nasconde  1'  egoismo  più  nero  e  più  vile 
e  la  morte  dello  spirito,  il  cristianesimo  (quello  schietto,  s'intende) 
affronta  fortemente  il  dolore,  e  dice  all'uomo:  Nessuna  felicità  tu 
potrai  trovare  nella  scienza;  sii  buono,  benefica  e  ama  gli  altri 
come  te  stesso;  ecco  il  segreto  della  vita.  Così  agendo  tu  nell'ar- 
denza della  carità  non  sentirai  il  male  e  il  dolore,  trasfigurandolo 
nel  puro  e  santo  fiore  del  sacrificio  offerto  ai  tuoi  fratelli,  o,  pur 
sentendolo,  lo  patirai  di  buona  voglia  al  pensiero  ch'esso  arreca 
gioia  ad  altri;  inoltre  vincerai  il  peccato,  poiché  chi  agisce  per 
amore  non  può  peccare,  e  così  potrai  affrontar  sereno  la  morte, 
il  mistero   supremo  che  ti  aspetta;   giacché   chi  non   ha   peccato 


—  301  — 

nessun  male  ha  da  temere.  Se  invece  sarai  cattivo  ed  egoista, 
come  ti  darà  il  cuore  di  andare  al  passo  estremo  ?  Che  cosa  ti 
accadrà  dopo  questa  esistenza  ?  Tu  sarai  infelice  in  vita,  perchè 
tormentato  dal  dubbio  e  dal  rimorso,  e  tremante  di  paura  di- 
nanzi allo  spettro  della  morte. 

'  Ebbene,  la  soluzione  che  del  problema  dà  il  Leopardi  è  press' a 
poco  la  stessa.  Il  cristianesimo  è  stato  uno  degli  oggetti  più  co- 
stanti e  fissi  del  suo  pensiero;  egli  lo  esamina,  lo  interpreta  ripe- 
tutamente, cerca  d'accordarlo  con  le  sue  idee.  La  figura  di  Gesù 
gli  desta  ammirazione  e  amore.  È  noto  infatti  che  fra  il  1821  e 
il  '22  abbozzò  un  Inno  al  Redentore:  nel  quale  si  rivolse  al  Cristo 
non  tanto  come  a  divinità,  ma  piuttosto  come  ad  uomo  e  fratello: 
«  Tu  sapevi  già  tutto  ab  eterno,  ma  permetti  alla  immaginazione 
umana  che  noi  ti  consideriamo  come  più  intimo  testimonio  delle 
nostre  miserie.  Tu  hai  provato  questa  vita  nostra;  tu  ne  hai  as- 
saporato il  nulla,  tu  hai  sentito  il  dolore  e  l' infelicità  dell'esser 
nostro.  Pietà  di  tanti  affanni,  pietà  di  questa  povera  creatura  tua, 
pietà  dell'uomo  infelicissimo,  di  quello  che  hai  veduto;  pietà  del 
genere  tuo,  poiché  hai  voluto  aver  comune  la  stirpe  con  noi,  esser 
uomo  ancor  tu....  E  già  fosti  veduto  piangere  sopra  Gerusalemme. 
Era  in  terra  questa  tua  patria,  giacché  tu  pure  volesti  avere  una 
patria  in  terra;  e  doveva  essere  distrutta,  desolata.  Così  tutti  siam 
fatti  per  infelicitarci  e  distruggerci  scambievolmente;  e  l' impero 
romano  fu  distrutto,  e  Roma  pure  saccheggiata;  e  ora  la  nostra 
misera  patria.... 

Ora  vo  da  speme  a  speme  tutto  giorno  errando,  e  mi  scordo 
di  te,  benché  sempre  deluso.  Tempo  verrà  ch'io,  non  restandomi 
altra  luce  di  speranza,  altro  stato  a  cui  ricorrere,  porrò  tutta  la 
mia  speranza  nella  morte;  e  allora  ricorrerò  a  te.  Abbi  allora 
misericordia  ». 

E  veramente  egli  si  ricordò  di  Gesù:  che,  se  nelle  sue  opere 
si  possono  trovare  espressioni  d'ira  e  di  sprezzo  e,  talvolta,  quasi 
d'odio  contro  gli  uomini  (proveniente  del  resto  dalla  convinzione 
della  loro  malignità,  non  da  intima  cattiveria),  pure  l'ultimo  suo 
canto,  la  Ginestra,  é  canto  di  cristiano  amore  universale.  «  Costei 
[la  natura]  chiama  inimica;  e  incontro  a  questa  —  congiunta  esser 
pensando,  —  siccom'  é  il  vero,  ed  ordinata  in  pria  —  1'  umana 
compagnia,  —  tutti  fra  sé  confederati  estima  —  gli  uomini,  e 
tutti  abbraccia  —  con  vero  amor....  ».  E  anche  nella  conclusione 


—  302  — 


del  Dialogo  di  Plotino  e  di  Porfirio  esprime  concetti  simili:  «  Vi- 
viamo, Porfirio  mio,  e  confortiamoci  insieme:  non  ricusiamo  di 
portare  quella  parte,  che  il  destino  ci  ha  stabilita,  dei  mali  della 
nostra  specie.  Sì  bene  attendiamo  a  tenerci  compagnia  l'un  l'altro: 
e  andiamoci  incoraggiando,  e  dando  mano  e  soccorso  scambie- 
volmente, per  compiere  nel  miglior  modo  questa  fatica  della  vita. 
La  quale  senza  alcun  fallo  sarà  breve.  E  quando  la  morte  verrà, 
allora  non  ci  dorremo:  e  anche  in  queir  ultimo  tempo  gli  amici 
e  i  compagni  ci  conforteranno:  e  ci  rallegrerà  il  pensiero  che, 
poi  che  saremo  spenti,  essi  molte  volte  ci  ricorderanno,  e  ci  ame- 
ranno ancora  ». 


Appendice  alle  Parti  I  e  II 


LA    CRITICA    DEL    CRITICISMO 


La  filosofia  degl'  ideologi,  ammiratori  del  Locke,  ha  una  certa 
affinità  con  la  dottrina  di  Kant.  «  Se  (per  usare  il  linguaggio  di 
Kant)  »,  scrive  1'  Hóffding  (1),  «  per  dogmatismo  s' intende  un 
indirizzo  che  senza  un  sufficiente  esame  delle  condizioni  e  dei 
limiti  della  conoscenza  si  serve  dei  nostri  concetti  per  stabilire 
l'essenza  delle  cose,  laddove  la  filosofia  critica  esaminala  facoltà 
della  conoscenza  prima  di  accingersi  a  speculare  sull'  esistenza, 
la  filosofia  critica  incomincia  definitivamente  con  Giov.  Locke  ». 

Abbiamo  visto  che  il  problema  della  conoscenza  assume  il 
primo  posto  anche  nel!'  indirizzo  degl'ideologi  (in  cui  si  finisce  con 
l'identificare  ontologia  e  dottrina  del  conoscere);  inoltre  costoro 
traggono  dalle  loro  dottrine  conseguenze  che  talvolta  ricordano 
il  criticismo:  per  es.  lo  sfratto  dato  alla  metafisica,  il  fenome- 
nismo agnostico.  È  quindi  interessante  vedere  come  tali  filosofi 
giudichino  Kant. 

Noi  esamineremo  la  critica  mossa  dagl'  ideologi  a  Kant  in 
Francia  prima,  poi  in  Italia. 


La  filosofia  kantiana  che  in  Germania  cominciò  a  destare  vi- 
vamente l'attenzione  dei  pensatori  verso  il  1786  o  87  per  opera 
sopratutto  del  Reinhold,  era  in  Francia,  anche  prima  della  Ri- 
voluzione, conosciuta,  discussa  e  citata  nelle  tesi  a  Strasburgo, 
centro  intellettuale  in  cui  si  studiavano  tutte  le  opere  importanti 
che  apparivano  ad  occidente  e  ad  oriente  del  Reno,  e  in  cui  gli 


(1)  Storia  della  filos.  moderna,  Torino,  Bocca,  2*  Ediz.,  1Q13,  Trad. 
Martinetti,  Voi.  I,  Libro  IV,  Gap.  I,  pag.  364. 


—  304  — 

studenti  tedeschi  s' incontravano  con  quelli  francesi.  Dopo  il  Ter- 
rore, Grégoire,  che  a  quel  tempo  godeva  un'  autorità  letteraria 
notevole,  incoraggiava  coloro  che  volevano  far  conoscere  la  filo- 
sofia kantiana  in  Francia;  Sieyès  stesso,  nel  1796,  si  proponeva  di 
render  noto  Kant;  le  Memorie  dell'Accademia  di  Berlino  che, 
scritte  in  francese,  erano  molto  lette  in  Francia,  facilitarono,  dopo 
il  1792,  lo  studio  della  filosofia  critica;  nel  1796  Ercole  Peyer 
Imhoff  tradusse  le  Osservazioni  sul  sentimento  del  bello  e  del  su- 
blime. Nel  1797  Benjamin  Constant,  nelle  Réactions  politiques,  com- 
batteva una  tesi  sostenuta  da  Kant  nei  Principi  metafisici  della 
dottrina  della  virtù  (1).  Nello  stesso  tempo  apparve  la  traduzione 
del  Disegno  d'un  trattato  di  pace  perpetua;  due  anni  dopo,  quella 
della  Religione  entro  i  limiti  della  pura  ragione  (2).  Nel  1800 
Francois  de  Neufchàteau  presentava  all'  Istituto  il  suo  Conserva- 
teur  ou  recueil  de  morceaux  inédits  d' histoire,  de  politique,  de  Ut- 
térature  et  de  philosophie,  in  cui  i  materiali  raccolti  riguardavano 
specialmente  la  filosofia  di  Kant,  della  quale  si  dava  uno  schizzo 
assai  notevole  e  acuto  (gli  scritti  concernenti  la  filosofia  kantiana 
avevano  il  titolo  Choix  de  divers  morceaux  propres  à  donner  une 
idée  de  la  philosophie  de  Kant  qui  fait  tant  de  bruii).  Ma  Kant 
fu  conosciuto  in  Francia  sopratutto  per  opera  di  Carlo  Villers 
(1765-1815),  illustre  letterato  della  Lorena,  che,  dopo  essersi  ac- 
ceso d' entusiasmo  per  la  rivoluzione,  si  era  ricreduto,  e  aveva 
manifestato  le  sue  idee  in  alcuni  opuscoli,  di  cui  l'ultimo.  De  la 
liberté  (Metz,  1791),  l'aveva  obbligato  a  lasciare  la  Francia  nel  1792; 
egli  si  era  recato  in  Germania,  dove  si  era  dato  allo  studio  della 
letteratura  tedesca  e  sopratutto  della  filosofia  kantiana.  Nel  1797 
pubblicò  a  Berlino  le  Lettres  Westphaliennes  du  Comte  de  R.  M. 
à  Madame  de  H.  sur  plusieurs  sujets  de  philosophie,  de  littérature  et 
contenantes  la  description  pittoresque  d'une  partie  de  la  Westphalie, 
in  cui  trattava  anche  della  filosofia  kantiana;  collaborò  poi    allo 


(1)  La  tesi  era  questa:  che  sarebbe  delitto  la  menzogna  detta  ad  as- 
sassini che  domandassero  se  il  vostro  amico  eh'  essi  perseguitano  non 
si  sia  rifugiato  in  casa  vostra. 

(2)  Parlarono  di  Kant  anche  il  Dorsch  in  due  articoli  sulle  perce- 
zioni oscure  pubblicati  nella  Dècade  (7  e  17  ottobre)  e  il  Prévost  in 
Essais  philosopliiques  de  feti  Adam  Smith,  précédés  d'  un  Précis  de 
sa  vie  et  de  ses  écrits,  par  D.  Stewart,  traduits  par  Prévost. 


—  305  — 

Spectateur  du  Nord,  giornale  fondato  ad  Altona  da  Baudus,  emi- 
grato francese,  e  vi  pubblicò  una  notizia  letteraria  su  Kant  e 
sullo  stato  della  metafisica  in  Germamia  al  momento  in  cui  il  filo- 
sofo di  Koenigsberg  aveva  cominciato  ad  avere  il  grido,  una  breve 
analisi  della  Critica  della  ragion  pura,  poi  la  traduzione  (nel  1798) 
deli' Idea  d'una  storia  universale.  Ma  l'opera  sua  più  importante 
sul  criticismo  fu  l' Exposition  des  principes  fondamentaux  de  la 
philosophie  transcendantale  de  Kant  (1801)  (1),  dedicata  all'  Istituto 
Nazionale  di  Francia,  nella  quale,  dopo  aver  rimproverato  all'  Isti- 
tuto di  non  essersi  mai  occupato  della  nuova  filosofia  (il  che  non 
era  vero),  opponeva  la  dottrina  critica  al  sensismo  e  all'  ideologia 
e  il  metodo  trascendentale  a  quello  empirico,  esaltando  il  primo 
a  detrimento  del  secondo,  inoltre  offendeva  i  Francesi  che  non 
avevano  emigrato  ed  erano  rimasti  fedeli  alla  filosofia  del  XVIII 
secolo.  Questo  libro  suscitò  vivaci  dibattiti.  La  Dècade philosophique, 
in  cui  scrivevano  membri  dell'Istituto,  rispose  (per  mezzo  del  Gin- 
guéné)  al  Villers  combattendolo  anche  con  l'arma  del  ridicolo,  ma 
ammirando  nello  stesso  tempo  la  grandezza  di  Kant,  il  cui  pensiero, 
affermava,  non  si  riconosceva  nell'  analisi  del  suo  espositore.  Nel 
1801  Degérando  fece  all'  Istituto  una  seconda  lettura  (la  prima 
l'aveva  fatta  nel  1799)  della  sua  Mémoire  sur  la  philosophie  de  Kant, 
in  cui  esponeva  e  criticava  il  filosofo  tedesco,  specie  riguardo  al 
metodo  e  all'  oscurità  di  pensiero,  pur  riconoscendone  il  genio 
fecondo  e  ardito  (2).  Il  Villers  rispose  con  lo  scritto  Kant  jugé  par 
V  Institut,  in  cui  attaccava  la  Dècade  e  l' Istituto.  La  Dècade  replicò 
press'  a  poco  con  1'  espressioni  di  prima,  dicendosi  pronta  a  di- 
scutere serenamente  col  Villers  sull'  analisi  dell'  intelletto  da  lui 
presentata.  Si  accese  così  sempre  più  la  disputa,  alla  quale  presero 
parte  Mercier  (3),  Lancelin,    Samuel    Adams,    Degérando,  W.  R. 


(1)  Il  Soave,  come  vedremo,  cita  quest'opera  col  seguente  titolo: 
Philosophie  de  Kant  oii  Principes  fondamentaux  de  la  philosophie 
transcendantale.  Il  titolo  che  si  legge  sopra  è  dato  dal  Picavet. 

(2)  Dopo  l'anno  VI  Degérando  aveva  anche  concepito  il  disegno 
di  tradurre  ed  annotare  l'analisi  del  criticismo  pubblicata  dal  Kieseweter, 
la  Metafisica  dei  Costumi  e  i  Prolegomeni  di  Kant.  Le  sue  traduzioni 
quasi  compiute  erano  passate  per  le  mani  di  parecchi  suoi  amici,  ma 
per  consiglio  di  costoro  non  erano  state  pubblicate. 

(3)  Autore  di  due  Memorie,  la  prima  consacrata  a  Kant,  la  seconda 

20 


—  306  — 

Boddmer,  Destutt  de  Tracy  (che,  citando  l' opera  del  Kinker, 
lodava  1'  autore  e  traduttore  perchè  non  manifestava  né  disprezzo 
né  sdegno  per  coloro  che  erano  meno  di  lui  persuasi  della  verità 
del  criticismo;  e  spiegava  per  quale  ragione  i  filosofi  francesi  non 
potessero  accettare  il  sistema  di  Kant).  Il  risultato  della  disputa 
fu  che  anche  gli  ammiratori  del  criticismo  si  trovarono  concordi 
nel  riconoscere  che  il  libro  del  Villers  era  insufficiente  a  far  co- 
noscere la  filosofia  trascendentale;  Schelling  stesso  nel  Giornale 
critico  della  filosofia,  eh'  egli  pubblicava  in  collaborazione  con 
Hegel,  Io  giudicò  severamente  (1). 


LA  CRITICA  DEL  TRACY.  —  L'  anno  stesso  in  cui  il  Villers 
aveva  pubblicato  la  sua  opera,  Le  Févre,  esaltando  Kant,  tradu- 
ceva dall'  olandese  il  saggio  di  Kinker  contenente  un'  esposizione 
succinta  della  Critica  della  ragion  pura  {Essai  d'  une  exposition 
succincte  de  la  Critique  de  la  raison  pure;  trad.  du  hollandais, 
par  J.  le  F.,  1801).  L'anno  dopo  (1802),  nell'aprile  e  nel  maggio 
(7  e  30  fiorile  dell'  anno  X)  Destutt  de  Tracy  leggeva  all'  Istituto 
un'  importante  memoria,  in  cui  prendeva  per  punto  di  partenza 
precisamente  la  traduzione  di  Le  Févre,  pur  avendo  consultato 
la  traduzione  latina  (del  Born,  professore  all'  Università  di  Lipsia) 
delle  opere  di  Kant  (2)  (egli  non  conosceva  il  tedesco).  Il  titolo 


a  un  paragone  tra  la  filosofia  kantiana  e  quella  del  Fichte;  in  quest'ultima 
aveva,  anche  prima  del  Villers,  difeso  Kant,  eh'  egli  credeva  attaccato 
da  Degérando. 

(1)  Vedi  per  queste  notizie  F.  Picavet,  La  philosophie  de  Kant  e n 
Frante  de  1773  à  1814,  in  Critique  de  la  raison  pratique  de  Kant, 
nouvelle  traduction  frangaise,  2»  Ediz.,  Paris,  Alcan,  1902. 

(2)  Opera  ad  philosophiani  criticani,  latine  versa  a  Friderico  Gottl. 
BoRN,  Lipsiae,  Schwilckertus,  1796-Q8.  Il  Tracy  prevede  che  qualcuno 
potrebbe  obiettargli  ch'egli  non  conosce  Kant  nelle  opere  originali. 
Al  che  risponde  di  non  aver  trascurato  di  studiar  Kant  nelle  opere  sue, 
almeno  nella  versione  latina;  ma  di  esser  ricorso,  data  l'oscurità  di 
Kant,  a  uno  dei  suoi  commentatori  più  reputati.  Dichiara  inoltre  di 
ritenere  che  il  Kinker  abbia  ben  colte  le  idee  di  Kant;  che  ad  ogni  modo 
il  Kinker  rappresenta  una  tendenza,  un'  opinione  per  lui  falsa,  e  perciò 
la  combatte. 


—  307  — 

della  memoria  è  Della  Metafisica  di  Kant,  ovvero  Osservazioni 
sopra  un'  opera  intitolata:  Saggio  d' una  sposizione  succinta  della 
Critica  della  Ragione  pura  di  Pinker,  tradotta  dall'  olandese  in 
francese  da  F.  F.  in  un  volume  in  8°,  Amsterdam,  1801  (1). 

Il  Tracy  comincia  da  una  riflessione  generale  sullo  stato  della 
filosofia  in  Germania.  Essa,  egli  dice,  vi  fa  ancora  setta  come 
altra  volta  presso  gli  antichi  e  come  presso  i  Francesi  nei  secoli 
passati:  cioè  si  adotta  l' intero  sistema  d'  un  filosofo;  si  è  kantiani 
come  si  era  platonici,  stoici  etc.  Questo  prova  che  colà  si  accetta 
del  pari  e  quanto  è  provato  e  quanto  è  appena  verosimile,  che 
r  autorità  dell'  uomo  è  ancor  molta  e  che  quella  di  dimostrazione 
non  vi  regna  assai.  Infatti  comunemente  non  si  chiamano  euclidiani 
coloro  che  adottano  le  dimostrazioni  d' Euclide,  come  non  si 
dicono  newtoniani  coloro  che  hanno  le  stesse  idee  di  Newton 
sul  sistema  dell'  universo.  Fu  loro  dato  tal  nome  finché  quelle 
verità  sembravano  appena  probabili  e  non  provate;  ma  ora  ci 
arrendiamo  alle  dimostrazioni  di  Newton  senz'esser  perciò  new- 
toniani. Insomma  in  quanto  riconosciamo  una  verità  dimostrata 
non  siamo  della  scuola  di  nessuno,  neppure  di  colui  che  primo 
la  scoperse.  Apparteniamo  alla  setta  di  qualcuno  solo  in  quanto 
adottiamo,  fra  le  opinioni  di  lui,  quelle  che  sono  disputabili. 
Quindi  è  che  ora  i  Francesi,  nelle  scienze  ideologiche,  morali  e 
politiche,  in  cui  pochi  punti  son  rigorosamente  provati,  non  hanno 
nessun  capo-setta.  Ciascuno  di  quelli  che  se  ne  occupano  ha  le 
proprie  opinioni  personali,  assolutamente  indipendenti;  e,  se  essi 
convengono  fra  loro  in  molti  punti,  non  se  lo  son  mai  prefisso, 
anzi  spesso  neppure  lo  sanno,  e  talora  neanche  lo  credono  quando 
in  realtà  è  così.  Il  che  prova  che  la  filosofia  è  in  Francia  ad  un 
punto  in  cui  non  è  in  alcun  altro  paese;  prova  che  s'  osservano  i 
fatti,  si  raccolgono  verità,  e  non  s'  ha  l' inopportuna  premura  di 
fondar  sistemi,  meno  ancora  d'  adottarne.  I  Tedeschi,  seguita  il 
Tracy,  ci  credono  in  metafisica  discepoli  di  Condillac,  come  essi 
son  seguaci  di  Kant  o  di  Leibniz.  Non  badano  che  Condillac  non 
ha  dommatizzato,  non  ha  creato  né  preteso  di  creare  alcun  nuovo 


(1)  Sta  in  Principi  logici  e  Memoria  inedita  sulla  Metafisica  di 
Kant  del  conte  Destutt  de  Tracy,  Pavia,  Bizzoni,  1822  (traduz.  di 
Girol.  Nevati).  Non  ho  potuto  trovare  la  Memoria  nell'originale  francese. 


—  308  — 

sistema  filosofico;  che  non  s'  è  assunto  il  compito  di  risolvere 
quasi  nessuna  di  quelle  celebri  questioni  di  psicologia,  di  cosmo- 
logia e  teologia,  che  per  essi  costituiscono  la  metafisica;  e  che 
s'  è  quasi  assolutamente  limitato  ad  esaminare  le  nostre  idee  ed 
i  loro  segni,  a  rintracciarne  le  proprietà  e  a  trarne  qualche  con- 
seguenza. Non  sanno  d'  altronde  che  fra  quei  Francesi  che  si  li- 
mitano, come  lui,  alle  medesime  ricerche,  non  ve  n'  ha  forse  un 
solo  che  adotti  senza  restrizione  i  principi  di  grammatica  di  Con- 
dillac,  o  che  sia  pienamente  sodisfatto  del  modo  in  cui  egli  ha  ana- 
lizzato le  nostre  facoltà  intellettuali.  In  una  parola,  gli  stranieri 
ignorano  che  noi  teniamo  in  gran  conto  in  Condillac  non  i  ri- 
sultati a  cui  egli  è  giunto,  ma  il  suo  metodo.  Questo  non  è  un 
vasto  sistema  filosofico,  né  insegna  a  costruirne.  Anzi  ci  prova 
che  non  siamo  in  grado  di  crearne.  Non  si  tratta  quindi  di  op- 
porre un  sistema  accettato  in  Germania  a  un  altro  adottato  in 
Francia;  bisogna  invece  confrontare  il  sistema  tedesco  col  metodo 
francese.  Ma  in  che  consiste  questo  metodo  ?  Neil'  osservare  i 
fatti  con  la  maggior  diligenza,  nel  non  dedurre  conseguenze  se 
non  con  piena  certezza,  nel  non  considerare  mai  come  fatti  le 
semplici  supposizioni,  nel  non  prendere  a  collegare  le  verità  se 
non  quando  si  connettano  naturalmente  e  senza  lacune,  nel  con- 
fessare francamente  la  propria  ignoranza  e  nel  preferir  sempre 
r  ignoranza  assoluta  a  qualunque  asserzione  appena  verosimile. 
Siccome  abbiamo  seguito  questo  metodo,  nessuna  nazione  ci  pre- 
cede nelle  scienze.  Esso  ci  trattiene  sull'  orlo  dell'  abisso  della 
metafisica  (1). 

Ebbene,  applichiamo  questo  metodo  all'  argomento  di  cui  ci 
occupiamo.  Non  ci  si  fa  menzione  del  celebre  Kant  come  d'  un 
saggio  osservatore  che  sia  giunto  alle  tali  o  tali  altre  scoperte 
particolari,  ben  provate,  ben  verificate.  Ci  si  annunzia  la  filosofia 
di  lui  come  un  vasto  sistema  che  abbraccia  la  metafisica,  la  mo- 
rale, la  politica;  che  dà  una  cognizione  piena  non  solo  del  mondo 
sensibile,  ma  anche  di  quello  intelligibile;  che  rende  facile  la  so- 
luzione di  tutti  i  problemi  tanto  astrusi  sulla  natura  degli  esseri, 
sulla  loro  essenza,  sulla  loro  origine,  sul  loro  destino.  11  nostro 
metodo,  naturalmente,  c'induce  a  diffidare  di  questo  sistema.  Di 


(1)  Op.  cit.,  pag.  130-139. 


—  309  — 

più,  i  seguaci  di  Kant  ci  confessano  che  le  sue  opere  sono  oscure. 
È  questa  un'altra  ragione  per  mettere  in  dubbio  la  solidità  della 
sua  filosofia  (1). 

Premesse  queste  considerazioni,  il  Tracy  passa  a  esaminare 
r  analisi  dell'  intelletto  (ideologia)  kantiana;  ma,  piuttosto  che  ri- 
cercarne i  difetti  intrinseci,  le  contrappone  la  sua  ideologia;  dal 
che  conclude  naturalmente  alla  falsità  di  quella  (2).  Non  è  quindi 
il  caso  di  trattenersi  su  questo  punto.  Più  notevole  è  quanto  il 
filosofo  francese  osserva  suH'  a  priori  kantiano. 

Kant,  egli  dice,  si  studia  di  provare  che  le  facoltà  conoscitive 
dell'  uomo  (sensibilità,  intelletto  e  ragione)  esistono  in  noi  prima 
delle  impressioni  che  ricevono,  ossia  coesistono  originariamente 
con  la  nostra  natura.  Questo  è  vero;  giacché,  se  non  avessimo 
sensibilità,  non  cominceremmo  mai  a  sentire;  se  non  avessimo  la 
facoltà  di  giudicare,  non  cominceremmo  mai  a  giudicare  etc.  Ma 
guardate  quale  conseguenza  Kant  ne  trae  !  Pretende  che  vi  siano 
due  specie  di  cognizioni:  1'  una  originaria  e  primitiva  {cognizione 
pura  0  forma),  derivante  unicamente  dalle  nostre  facoltà;  l'  altra 
(cognizione  d'esperienza)  derivante  dall'applicazione  di  queste  fa- 
coltà agli  oggetti;  i  quali  costituiscono  la  materia  della  conoscenza. 
Ora,  questo  è  falso,  giacché  è  rigorosamente  provato  essere  as- 
solutamente necessario  il  concorso  dei  due  agenti  per  avere  una 
percezione.  Una  facoltà  non  è  che  una  possibilità,  una  capacità, 
una  disposizione  o  attitudine  a  produrre  un  effetto  qualunque. 
Quindi,  se  una  tale  attitudine  non  si  esercita  su  nulla,  è  nulla; 
né  può  risultarne  qualcosa  di  reale.  L'esempio  del  grano  maci- 
nato, che  il  Kinker  adduce  in  appoggio  di  questi  due  pretesi  ge- 
neri di  cognizioni,  giova  invece  a  render  manifesta  la  verità  del 
contrario.  La  cognizione  del  meccanismo  del  mulino  è,  dice  il 
Kinker,  differente  dalla  cognizione  della  materia  macinata;  e  am- 
bedue son  necessarie  per  avere  la  cognizione  intiera  della  farina. 
Vero;  ma  qui  si  hanno  due  agenti  necessari  per  la  produzione 
della  farina:  il  mulino  e  il  grano;  l'uno  fornisce  la  materia,  l'altro 
produce  e  determina  la  forma;  il  che  però  non  fa  due  specie  di 
farina.  Il  mulino  per  sé  solo  non  produce  farina  sola,  né  il  grano, 
per  sé  so\o,  farina  d' esperienza.  È  necessario  assolutamente  il  con- 


ci) Op.  cit.,  pag.  140-143.  (2)  Op.  cit.,  pag.  145-164. 


—  310  — 

corso  d' entrambi  per  avere  la  farina  reale.  Infatti  tale  cognizione 
pura,  che  ricaviamo  da  noi  medesimi,  non  nasce  dalla  nostra  fa- 
coltà di  conoscere  se  non  dopo  che  l'eperienza  ha  posto  in  azione 
questa.  Ma  allora  quella  pretesa  cognizione  pura  è  anch'essa  co- 
gnizione   d' esperienza  !   Si   vuol   forse    intendere   per  cognizione 
pura  la  cognizione  della  facoltà  di  conoscere  esaminata  nei  suoi 
atti?  Ma  allora  non  sarebbe  che  il  risultato  dell'azione  delle  nostre 
facoltà  intellettuali  volte  a  scoprire  le  loro  proprie  operazioni,  le 
loro  leggi,  le  loro  proprietà,  i  loro  limiti,  mediante  lo  studio  dei 
loro  effetti.  In  tal  caso   però  questa  cognizione  (la  critica  della 
ragion  para)  non  sarebbe  che  l' ideologia;  e  questa  è  una  scienza 
sperimentale,  di  fatti.  Ma  non  si  pretende  già  questo.  Si  sostiene 
che  noi  abbiamo  un  fondo  di  cognizioni  a  priori,  che  è  puramente, 
unicamente  e  assolutamente  dovuto  alla  sola  facoltà  di  conoscere; 
e  che  e'  è  una  facoltà  di  conoscere  pura  e  quindi   una  cognizione 
pura  della  sensibilità  pura,  dell'  intelletto  puro  e  della  ragion  pura! 
Esaminiamo  prima  la  sensibilità.  Si  afferma  che  quanto  v'  ha 
di  molteplice  e  di  vario  nelle  nostre  percezioni  è  la  materia;  l'unità 
ne  costituisce  la  forma.  Ora,  tolto   dalle   nostre   percezioni   quel 
che  in  esse  v'  è  di   molteplice  e  di  vario,    che   ne   rimane  ?   nul- 
r  altro  che  le  percezioni  formali  di  tempo  e  di  spazio.  Queste  due 
percezioni  pure,  invariabili,  son  dunque  le  forme  o  le  leggi  della 
nostra  sensibilità,  e  sussistono  in  noi  anteriormente  ad  ogni  per- 
cezione degli  oggetti.  Ecco  quindi  il  tempo  e  lo  spazio  qualificati 
successivamente  come  percezioni  formali,  percezioni  pure,  ed  anche 
come  forme  o  leggi  invariabili  della  sensibilità.  Ma  qui  si  trovano 
uniti  vocabili  contradittorì.  La  sensibilità  è  stata  prima   definita 
da  Kant  la  facoltà  passiva  d'  acquistar  percezioni   immediate  per 
mezzo   delle   impressioni   prodotte  in  noi  dagli   oggetti  sensibili. 
Dunque  una  percezione  è  il  risultato  d'  un'  impressione;  ma  l' epi- 
teto pura  indica  ciò  che  ci  proviene   unicamente  dalle  nostre  fa- 
coltà stesse,  senza  1'  applicazione  di  queste   agli   oggetti,  quindi 
senza  ricevere  impressioni;  dunque   una   percezione  pura  è  //  ri- 
sultato d' un'  impressione  senza  impressione  (contradizione). 

Di  più,  le  percezioni  pure  o  formali  son  dette  anche  forme 
primitive,  leggi  fondamentali  della  sensibilità.  Anche  qui  c'è  con- 
tradizione; giacché,  se  son  percezioni,  non  sono  leggi,  e,  se  son 
'eggi,  non  sono  percezioni.  Ciò  che  accade  in  virtiì  di  una  legge 
non  è  la  legge  stessa.  Per  es.  è  legge  della  nostra  sensibilità  che 


—  311  — 

nessun  oggetto  possa  esser  presente  ai  nostri  occhi  senza  darci 
la  percezione  d'  un  colore  qualunque.  Ma  le  sensazioni  azzurro, 
rosso  etc.  sono  non  la  stessa  legge  generale,  bensì  suoi  effetti. 
Quest'equivoco  ricomparisce  verso  la  fine  dell'articolo  sulla  sen- 
sibilità, dove  si  legge  che  il  tempo  e  lo  spazio  son  forme  di  cui 
la  nostra  facoltà  di  conoscere  riveste  i  fenomeni,  non  già  attri- 
buti delle  cose  in  sé.  Se  con  ciò  si  vuol  dire  che  non  sappiamo 
se  r  estensione  e  la  durata  siano  proprietà  appartenenti  agli  es- 
seri, indipendentemente  dai  nostri  mezzi  di  conoscere,  ed  igno- 
riamo cosa  possa  essere  un  ente  in  sé  stesso  e  indipendentemente 
da  noi,  é  giusto.  Che  solo  mediante  i  nostri  mezzi  conoscitivi 
noi  giungiamo  a  sapere  che  gli  esseri  sono  estesi  e  durevoli,  e 
solo  relativamente  a  questi  mezzi  ci  sembrano  tali;  non  sappiamo 
quindi  se  intelligenze  differenti  dalle  nostre  giudicherebbero  questi 
esseri  medesimi  estesi  e  durevoli.  Ma  é  falso  dire  che  lo  spazio  e 
il  tempo  siano  forme,  cioè  leggi,  di  cui  la  nostra  facoltà  di  co- 
noscere rivesta  i  fenomeni.  Quando  tale  facoltà  é  ben  diretta,  non 
riveste  né  i  fenomeni  né  gli  enti  di  alcuna  forma,  a  nulla  impone 
leggi;  osserva  gli  oggetti,  esamina  i  fenomeni  che  ne  derivano,  e 
riconosce  quali  leggi  essi  seguono.  Ecco  tutto. 

Passiamo  all'  intelletto.  Questo  é  presentato  come  la  facoltà  di 
produrre  da  sé  stessa  delle  percezioni.  Ma  come!  Prima  Kant  ha 
detto  che  l'intelletto  é  la  facoltà  di  riunire  in  concetti  le  percezioni 
della  sensibilità;  esso  non  può  quindi  produr  queste.  Inoltre  é  data 
una  terza  definizione  dell'  intelletto, ^secondo  cui  esso  va  conside- 
rato come  la  facoltà  d'acquistare  nozioni  generali,  la  quale  nei 
suoi  giudizi  riferisce  a  certi  concetti  i  fenomeni  che  le  son  for- 
niti dall'esperienza,  il  che  é  giudicare;  cosicché  é  necessario  che 
r  intelletto  puro  sia  anteriormente  in  possesso  di  certi  concetti 
fondamentali,  che  hanno  la  loro  origine  neh'  intelletto  medesimo 
(categorie).  Si  ritrova  qui  la  stessa  supposizione  gratuita  che  ha 
fatto  dire  a  Kant  che  lo  spazio  e  il  tempo  son  percezioni  esistenti 
nella  sensibilità  prima  d'ogni  fenomeno,  e  lo  stesso  equivoco  che 
lo  ha  poi  indotto  a  convertire  queste  percezioni  in  leggi  o  forme 
della  sensibilità.  Il  che,  come  abbiam  visto,  é  errato.  Inoltre  i 
concetti  son  prodotti  dell'  intelletto,  perciò  non  possono  mai  di- 
venirne le  leggi;  ora,  le  categorie  son  concetti,  non  possono  quindi 
esser  le  regole  primitive  dell'  intelletto. 

Passando  all'esame  della  ragióne,  vediamo  che  l'oscurità  au- 


—  312  — 

menta  ancora.  La  ragion  pura,  ci  si  dice,  consiste  nel  trarre  dalla 
sua  propria  essenza  nuovi  concetti,  nuovi  principi  indipendenti 
dalla  sensibilità  e  dall'  intelletto.  Ma  è  possibile  concepire  tale 
ragione  ?  Che  cosa  avviene  nella  mente  di  chi  usa  simili  espres- 
sioni ?  lo,  confessa  il  Tracy,  non  son  capace  d' immaginarlo.  Di 
più  Kant  asserisce  che  la  ragione,  adottando  le  idee  come  primi 
principi,  procede  in  un  modo  non  solo  differente  da  quello  del 
raziocinio,  ma  diametralmente  opposto  ad  esso.  Ora,  l'umana  ra- 
gione segue  sempre  il  cammino  del  raziocinio,  né  ha  altro  modo 
di  procedere.  Quindi,  se  Kant  batte  una  via  opposta,  vuol  dire 
che  la  descrizione  eh'  egli  dà  della  ragione  è  l' inversa  della  ra- 
gione stessa.  Infatti  noi  e'  inalziamo  sempre  dalle  idee  particolari 
alle  generali,  le  quali  quindi  sono  posteriori  alle  altre;  invece 
r  ignoranza  del  modo  in  cui  si  formano  queste  idee  generali  ha 
indotto  i  filosofi  a  credere  che  esse  esistano  nella  nostra  intelli- 
genza anteriormente  a  tutto,  quasi  tipi  innati.  Infine  si  sostiene 
che  le  tre  scienze  di  cui  consta  la  metafisica  (quella  dell'  anima, 
quella  dell' universo  e  quella  di  Dio)  siano  impossibili  e  illusorie, 
e  che  tuttavia  le  idee,  oggetti  di  queste  tre  scienze,  siano  indispen- 
sabili alla  nostra  ragione  perchè  essa  possa  adempiere  la  propria 
destinazione.  Se  dopo  tutto  ciò,  conclude  il  Tracy,  non  si  è  an- 
cora convinti  che  il  metodo  che  combatto  conduce  a  difficoltà 
insuperabili,  non  so  immaginare  che  cosa  si  potrebbe  aggiungere 
per  dimostrarlo.  Ogni  volta  che  mi  avvengo  in  tali  dottrine,  mi 
compiaccio  con  me  stesso  d'aver  sempre  pensato  e  sostenuto  che 
r  ideologia  è  totalmente  diversa  dalla  metafisica.  Essa  consiste 
nello  studio  dei  nostri  mezzi  conoscitivi,  e  non  è  che  la  logica 
trattata  razionalmente,  cioè  come  non  fu  quasi  mai  trattata  (1). 

Le  osservazioni  più  notevoli  del  Tracy  son  quelle  sul  metodo. 
Qui  effettivamente  egli  coglie  nel  segno;  che  il  metodo  ideologico 
è  ben  differente  da  quello  trascendentale.  Invece  quanto  dice 
suU'a  priori  ha  scarso  valore.  Kant  non  considera  le  forme  come 
nozioni  beli'  e  formate,  indipendenti  dalla  materia;  esse  son  con- 
dizioni della  conoscenza,  le  quali  però  richiedono  sempre  un  con- 
tenuto. Le  forme  senza  materia  son  vuote,  dice  Kant;  e  le  intui- 


(1)  Op.  cit.,  pag.  165-222.  Ho  tralasciato  le  obiezioni  insignificanti. 


—  313  — 

zioni  senza  forme  son  cieche.  Per  aver  la  conoscenza  reale  è  ne- 
cessario il  concorso  delle  une  e  delle  altre.  Quindi  in  questo  punto 
il  Tracy  è,  senza  saperlo,  d'accordo  con  Kant.  C'è  però  una  dif- 
ferenza reale  tra  le  dottrine  dei  due  filosofi,  ed  è  che,  mentre 
r  ideologo  francese  crede  di  poter  spiegare  tutto  con  i  dati  em- 
pirici, Kant  non  è  di  questo  parere,  e  ammette  delle  forme  indi- 
pendenti dall'esperienza,  le  quali  son  condizioni  del  conoscere  e 
costituiscono  il  presupposto  indispensabile  di  ogni  atto  mentale, 
quantunque,  come  s'è  osservato,  di  per  sé  non  diano  conoscenza 
alcuna,  avendo  bisogno  d'  un  contenuto.  Strana  è  la  riluttanza 
del  Tracy  ad  ammettere  che  lo  spazio  e  il  tempo  siano  non  già 
attributi  delle  cose  in  sé,  ma  forme  o  leggi  di  cui  la  nostra  fa- 
coltà di  conoscere  riveste  i  fenomeni;  eppure  egli  è  molto  vicino 
ad  una  concezione  siffatta.  Anche  riguardo  alla  metafisica  le  sue 
idee  s'  accostano  a  quelle  kantiane;  invece  egli  le  combatte  ! 


La  critica  mossa  dal  Tracy  alle  opere  di  Kant  è  per  noi  la 
più  importante  fra  quelle  che  si  ebbero  in  Francia,  giacché  pro- 
viene dal  principale  cultore  dell'  ideologia.  Ma  altri  ancora  s'  oc- 
cuparono del  criticismo.  Nel  1802  W.  R.  Boddmer,  svizzero,  pub- 
blicava il  libro  Le  vulgaire  et  les  métaphysiciens  ou  doutes  et  viies 
critiques  sur  V  école  empirique,  in  cui,  attaccando  la  filosofia  fran- 
cese, esortava  allo  studio  delle  opere  di  Kant  (non  dei  commenti 
o  estratti  di  esse).  Nell'anno  XIII  (1804)  Degérando  nella  sua  opera 
capitale  Histoire  comparée  des  systèmes  de  philosophie  consacrava 
170  pagine  allo  studio  della  filosofia  di  Kant  e  dei  post-kantiani 
(Fichte,  Schelling,  Bouterweck,  Bardili),  esponendo  in  maniera 
assai  esatta  le  linee  fondamentali  del  criticismo  e  aggiungendo 
notevoli  critiche.  Nel  1808  Degérando  si  occupò  di  nuovo  della 
filosofia  kantiana  nel  rapporto  storico  sui  progressi  della  filosofia 
dopo  il  1789  presentato  a  Napoleone  dalla  classe  di  storia  e  let- 
teratura antica  dell'Istituto.  Nel  1805  Prévost,  ne^li  Essnis  de 
pkilosophie,  indicava  dei  punti  che  gli  parevano  messi  ben  in  luce 
da  Kant.  Nel  1805  stesso  Destutt  de  Tracy,  trovando  neW Histoire 
comparée  di  Degérando  una  tendenza  troppo  accentuata  a  parlare 
dei  Francesi  come  di  persone  leggere  e  inferiori  ai  «  profondi  » 
Tedeschi,  affermava  invece  (nella  Logiqué)  che  nei  Tedeschi  e'  é 


—  314 

una  viva  fantasia  e  una  vasta  erudizione,  ma  non  profondità  e 
solidità  di  pensiero  (Degérando,  egli  dice,  confonde  1'  erudizione 
con  la  profondità),  e  ai  discepoli  di  Kant,  che  accusavano  i  Fran- 
cesi d' ignorare  e  di  sdegnare  la  dottrina  del  loro  maestro,  ri- 
spondeva: «  Molti  fra  noi  conoscono  le  idee  di  Kant,  alcuni 
le  accettano;  ma  i  piìi  le  respingono  e  trascurano  perchè  noi, 
coltivando  assai  lo  studio  dell'  intelletto  umano,  pensiamo  in  ge- 
nerale che  queste  idee  si  fondino  su  una  conoscenza  assai  imper- 
fetta delle  nostre  facoltà  intellettuali,  e  a  noi  non  piace  occuparci 
di  ciò  che  ci  pare  poggiato  su  una  base  falsa  ».  Sono  certo 
queste,  aggiungeva  il  Tracy,  le  ragioni  per  cui  gli  amici  di  De- 
gérando gli  sconsigliarono  di  pubblicare  le  sue  traduzioni  di 
opere  kantiane  (1).  Infatti  il  Tracy  riassumeva  con  le  sue  parole 
le  idee  di  tutti  gì'  ideologi  (Lancelin,  Laromiguière,  Thurot,  Dau- 
nou  e  Portalis  pensavano  press'  a  poco  come  lui). 

In  seguito,  Kant  in  Francia  fu  ammirato  e  additato  all'ammi- 
razione del  pubblico  specialmente  da  M.me  de  Staèl  e  dal  Cousin. 
Ma  questi  non  sono  ideologi;  quindi  non  rientrano  nel  nostro 
lavoro. 


LA  CRITICA  DEL  SOAVE.  —  In  Italia  la  filosofia  kantiana 
cominciò  ad  essere  conosciuta  a  traverso  le  opere  francesi  (specie 
quelle  degl'  ideologi)  e  la  traduzione  latina  del  Born. 

Esaminò  primo  il  criticismo  il  P.  Soave  in  La  filosofia  di  Kant 
esposta  ed  esaminata,  edita  la  prima  volta  a  Modena  il  1803  (2). 
Egli  si  fonda,  nell'  esposizione  della  dottrina  kantiana,  sul  libro 
del  Villers  Philosophie  de  Kant  ou  Principes  fondanientaux  de  la 
philosophie  transcendantale,  anzi  usa  per  lo  più  le  medesime  espres- 
sioni dello  scrittore  francese  (3).  Ha  data  un'  occhiata  anche  alla 
traduzione  latina  del  Born,  di  cui  qualche  esemplare,  com'  egli 
stesso  dice,  era  giunto  in  Italia;  ma  aggiunge:  «  Ella  è  scritta  in 


(1)  Élémens  rf'  idéologie,  Paris,  Courcier,  1804,  Partie  III  (Logique), 
una  lunga  nota  da  pag.  279  a  pag.  290. 

(2)  Io  citerò  sempre  l'edizione  Baret,  Milano,  1816  (in  Opere,  \o\.  XV, 
pag.  263  e  seg.). 

(3)  La  filosofia  di  Kant  esposta  ed  esani..  Ed.  citata,  pag.  268. 


—  315  — 

una  maniera  sì  oscura,  enigmatica,  sibillina,  che  io  non  so  se  al- 
cuno abbia  potuto  avere  la  sofferenza  di  leggerla  da  capo  a  fondo 
e  sostenere  la  contenzione  di  spirito  che  è  necessaria  per  ben 
intenderla  »  (1).  Tuttavia  la  cita  (2). 

La  parte  prima  del  lavoro  del  Soave  è  dedicata  all'esposizione 
della  dottrina  kantiana,  la  seconda  alla  critica.  La  quale  egli  di- 
vide in  tre  parti,  esaminando  successivamente  le  tre  facoltà  dalla 
cui  unione,  secondo  Kant,  risulta  il  nostro  potere  di  conoscere: 
la  sensibilità,  l' intelletto  e  la  ragione.  Secondo  Kant  le  rappre- 
sentazioni dello  spazio  e  del  tempo  sono  intime  a  noi  medesimi, 
indipendenti  dagli  oggetti  così  interni  come  esterni,  anteriori  a 
qualunque  rappresentazione  d'oggetti,  soggettive  e  non  oggettive; 
sono  condizioni  necessarie  della  nostra  facoltà  di  conoscere,  son 
le  forme  di  cui  la  nostra  sensibilità  veste  per  sua  natura  tutte  le 
sue  sensazioni.  Ora,  qui,  osserva  il  Soave,  si  vorrebbe  sapere  che 
cosa  siano  e  come  esistano  in  noi  queste  rappresentazioni  dello 
spazio  e  delle  sue  dimensioni,  prima  che  noi  abbiamo  acquistato 
qualche  idea  dell'  esteso;  che  cosa  siano  e  come  esistano  queste 
rappresentazioni  del  tempo  prima  che  qualche  idea  di  successione 
si  sia  presentata  a  noi.  Per  dimostrare  che  esse  esistono  in  noi 
anteriormente  ad  ogni  sensazione,  Kant  non  ha  che  un  argo- 
mento: dice  che  queste  rappresentazioni  sono  in  noi  assolute,  in- 
determinate, infinite,  e  che  quindi  non  possiamo  acquistarle  da 
nessun  oggetto  (finito).  Ma  abbiamo  veramente  queste  rappresen- 
tazioni dello  spazio  e  del  tempo  assoluto  e  infinito?  Noi  abbiamo 
certo  chiarissima  idea  di  uno  spazio  determinato  e  di  un  tempo 
finito;  possiamo  ingrandire  quest'  idea  quanto  ci  aggrada;  pos- 
siamo supporre  che,  oltre  a  tutti  gl'ingrandimenti  che  ci  fingiamo, 
esista  ancora  dell'  altro  spazio  e  dell'  altro  tempo;  allora  diciamo 
che  questo  spazio  e  questo  tempo  (matematico)  sono  infiniti  per 
noi,  cioè  che  noi  non  sappiamo  trovarne  i  confini.  Ma  essi  non 
ci  presentano  che  un'  idea  negativa,  il  che  vuol  dire  che  dello 
spazio  e  del  tempo  che  esistono  oltre  i  confini  a  cui  può  giun- 
gere la  nostra  immaginazione  e  il  nostro   intelletto,  noi  non  ab- 


(1)  Op.  cit.,  Annotazioni,  pag.  379.  Il   Soave  conosceva  il  tedesco. 
Forse  non  avrà  potuto  trovare  il  testo  originale. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  330-331. 


—  316  — 

biamo  nessun'  idea.  È  dunque  falso  che  esista  in  noi  la  rappre- 
sentazione dello  spazio  e  del  tempo  infinito  e  assoluto.  Tutte  le 
nostre  rappresentazioni  del  tempo  e  dello  spazio  sono  limitate  e 
finite.  E  queste,  come  pi"etendere  che  non  possiamo  acquistarle? 
anzi,  che  siano  un  prodotto  originario  della  nostra  forza  e  natura 
intrinseca,  che  siano  forme  soggettive?  Nessun  cieco  nato  ha  po- 
tuto aver  mai  l' idea  dei  colori,  nessun  sordo  nato  l' idea  dei 
suoni;  l'analogia  ci  guida  a  credere  che,  se  qualcuno  nascesse 
senza  odorato  o  senza  gusto  o  senza  tatto,  non  potrebbe  avere 
alcun'  idea  di  ciò  che  si  percepisce  con  questi  sensi;  e  chi  nascesse 
senza  senso  alcuno  non  avrebbe  nessun'  idea.  Ora,  come  supporre 
negli  uomini,  anteriormente  ad  ogni  esperienza  sensoriale,  le  rap- 
presentazioni dello  spazio  e  del  tempo  non  solo  come  possibili, 
ma  come  reali  e  necessarie  e  dipendenti  dalla  loro  forza  e  na- 
tura intrinseca  ? 

Inoltre,  se  esistesse  veramente  in  noi  questa  forza,  se  fosse  una 
condizione  necessaria  della  nostra  facoltà  di  conoscere,  nella  stessa 
maniera  che  siamo  consapevoli  di  aver  questa  facoltà,  non  do- 
vremmo pur  sapere  in  che  modo  essa  sia  fornita  delle  rappresen- 
tazioni dello  spazio  e  del  tempo  prima  d'  ogni  esperienza  senso- 
riale, e,  molto  più,  in  che  modo  essa  vesta  continuamente  le  sue 
sensazioni  di  queste  forme  per  crearne  le  idee  dei  corpi  e  quelle 
dei  pensieri  interni  ?  Un  essere  in  sé,  qual'  è  chiamato  da  Kant 
r  essere  conoscente,  che  generasse  da  se  tutte  le  sue  rappresen- 
tazioni e  non  sapesse  il  modo  in  cui  le  generasse,  né  fosse  pur 
consapevole  di  produrle,  non  sarebbe  l' essere  più  assurdo  ? 

Del  resto  Kant  stesso  afferma  che,  se  noi  non  avessimo  mai 
sensazioni,  non  percepiremmo  in  nessun  modo  Io  spazio,  la  rap- 
presentazione del  quale  si  risveglia  con  la  prima  delle  nostre  sen- 
sazioni; che  tuttavia  quella  non  nasce  da  queste  ed  è  anteriore 
ad  esse.  Ora,  come  conciliare  le  due  cose?  come  concepire  che 
esista  in  noi  anteriormente  e  indipendentemente  dall'  esperienza 
sensoriale  una  rappresentazione  che  però  non  possiamo  formarci 
se  non  all'atto  delle  sensazioni  medesime?  Che  è  questa  rappre- 
sentazione che  non  possiamo  percepire?  È  una  forma  soggettiva, 
risponde  Kant.  Ma  che  dobbiamo  noi  intendere,  o  che  intende 
egli  d'esprimere  con  questo  nome  di  forma?  E  come  poi  questa 
forma,  che  era  in  noi  senza  essere  da  noi  percepita,  si  desta 
ad  un  tratto  alla  prima  sensazione?  Come  avviene  che,  appena 


—  317  — 

desta,  s'avventa  alla  sensazione  che  l'ha  risvegliata,  la  veste  di  sé 
medesima,  con  lei  medesima  si  proietta  fuori  di  noi,  e  tutt'e 
due  si  trasformano  nella  rappresentazione  d'un  oggetto? 

Di  piti,  se  la  prima  sensazione,  contemporaneamente  alla  quale 
si  desta  l' idea  dello  spazio,  fosse  un  odore  o  un  sapore,  o  un 
suono  o  un  colore,  che  idea  di  spazio  potrebbe  mai  destarsi? 
Condillac  ha  dimostrato  che  la  statua,  finché  sia  fornita  dei  soli 
sensi  dell'  odorato,  del  gusto,  dell'  udito  e  della  vista,  non  può 
formarsi  nessun  concetto  né  d'estensione  né  di  spazio,  non  può 
proiettare  nessuna  delle  sue  sensazioni  fuori  di  sé  stessa,  non 
può  avere  nessun' idea  d'oggetti  esterni.  Solo  il  tatto  dà  origine 
a  questa  proiezione;  ma  la  prima  sensazione  tattile  non  fa  nascere 
subito  l'idea  di  spazio;  quante  sensazioni,  quanti  confronti,  quanti 
studi  son  necessari  per  giungere  al  concetto  astratto  di  spazio, 
specie  all'  idea  astrattissima  e  negativa  dello  spazio  puro,  assoluto, 
che  Kant  suppone  positiva  e  inerente  in  noi  prima  di  ogni  sen- 
sazione! E  in  vero  quale  rappresentazione  o  idea  di  spazio  mostra 
d' avere  un  bambino  nei  primi  giorni,  anche  dopo  esser  stato  nel 
seno  materno  circondato  sempre  dalle  sensazioni  tattili,  e  avere 
con  quelle,  dopo  la  nascita,  avute  già  molte  sensazioni  e  di  sapore 
e  di  colore  e  di  suono  e  di  odore?  Quale  proiezione  mostra  egli 
di  fare  delle  sue  sensazioni  ?  Quale  rappresentazione  o  conoscenza 
dimostra  d'  avere  degli  oggetti  esterni  ?  Egli  dà  segni  d'  aver,  sì, 
sensazioni,  ma  di  considerarle  tutte  come  semplici  modificazioni 
dell'  essere  suo;  non  sa  riferirle  a  nulla  d'  esterno,  non  ne  trae 
quindi  ancora  idea  alcuna  d'  oggetti  esteriori.  Orbene,  se  fosse 
una  virtù  intrinseca  e  necessaria  della  nostra  sensibilità  il  vestir 
della  forma  dello  spazio  le  nostre  sensazioni  e  proiettarle  fuori 
di  noi,  dando  origine  alle  idee  degli  oggetti,  il  bambino  non  do- 
vrebbe proiettare  immediatamente  le  medesime  rappresentazioni 
degli  oggetti  che  abbiamo  noi  e  dare  gli  stessi  indizi  o  indizi 
analoghi  d'avere  queste  rappresentazioni?  (1) 

Osservazioni  simili  si  possono  fare  riguardo  al  tempo.  Strana  é 
la  tesi  che  nessuna  percezione  interiore,  nessuna  coscienza  sarebbe 
possibile  in  noi,  se  non  fosse  vestita  della  forma  del  tempo;  che, 
se  facciamo  astrazione  dal  tempo,  non  possiamo  piìi  percepir  noi 


(1)  Op.  cit,  pag.  320-328. 


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medesimi,  né  sentire  qualcosa  che  accada  in  noi.  Poiché  Kant 
stesso  nella  Critica  della  ragion  pura  dice  che  tutte  le  nostre  per- 
cezioni sono  accompagnate  dalla  coscienza  io  penso,  che  questa 
é  la  prima  percezione  originaria,  la  quale,  perché  possa  accom- 
pagnare tutte  le  altre,  dev'  essere  in  origine  senza  compagna;  e 
ripete  poi  nella  Critica  della  ragion  pratica  che  la  coscienza  di 
noi  medesimi  in  tanto  è  certa,  in  quanto  è  assoluta,  non  sotto- 
posta in  alcun  modo  alle  leggi  della  facoltà  di  conoscere,  indi- 
pendente quindi  dalla  forma  del  tempo,  se  fosse  vestita  della 
quale  sarebbe  illusoria  al  pari  delle  altre.  Ora,  come  mai  dice  qui 
che  una  tal  forma  é  assolutamente  necessaria  all'  esistenza  della 
percezione  che  abbiamo  di  noi  stessi?  Non  é  una  contradizione? 
Se  la  coscienza  che  abbiamo  di  noi  stessi  è  indipendente  dalla 
forma  del  tempo,  perché  non  ne  sarebbe  indipendente  la  coscienza 
di  tutte  le  nostre  modificazioni  interiori?  Ma,  risponde  Kant,  è 
indubitabile  che  tutte  le  nostre  affezioni  interne  debbono  compa- 
rirci come  esistenti  o  insieme  o  1'  una  dopo  1'  altra,  cioè  o  nella 
stessa  parte  del  tempo  o  in  momenti  consecutivi;  dunque  appunto 
la  forma  del  tempo  ce  le  fa  sentire.  La  conseguenza  qui  non  é 
legittima.  Certo  io  son  consapevole  d'  un  mio  dolore  in  un  dato 
momento;  ma  non  già  la  rappresentazione  del  tempo  mi  dà  la 
coscienza  o  la  sensazione  del  dolore,  bensì  l'impressione  esterna 
o  interna  da  me  ricevuta;  e,  mentre  io  sento  il  dolore,  a  questo 
solo  penso,  non  già  al  momento  in  cui  lo  sento;  l'anima  mia, 
tutta  occupata  dal  dolore  suo,  specialmente  se  questo  è  subitaneo 
e  violento,  non  si  prende  la  briga  di  pensare  né  al  tempo,  né  ad 
altro.  Ma,  replica  Kant,  se  la  rappresentazione  del  tempo  non 
é  a  priori  e  soggettiva,  per  quali  dei  miei  organi  esteriori  1'  ho 
acquistata?  dov'è  un  oggetto  da  me  percepito  che  sia  il  tempo? 
Qui  Kant  non  ha  visto  che  la  cognizione  del  tempo  si  può 
acquistare  dall'avvertimento  del  succedersi  delle  nostre  sensazioni 
interiori,  o  anche  dal  movimento  esterno  (passaggio  successivo 
dall'  una  all'  altra  parte  dello  spazio),  dalla  successione  di  causa 
e  d'  effetto  etc.  Non  é  dunque  vero  che  la  rappresentazione  del 
tempo  sia  una  forma  a  priori,  anteriore  ad  ogn'  idea  di  succes- 
sione, e  il  presupposto  necessario  di  ogni  percezione  interna  (1). 


(1)  Op.  cit.,  pag.  330  333. 


—  319  — 

Esaminata,  così,  la  sensibilità,  passiamo  all'  intelletto.  È  nota 
la  dottrina  kantiana  delle  categorie,  le  quali  sarebbero  anch'esse 
forme  pure,  leggi  soggettive  a  priori  della  nostra  facoltà  di  co- 
noscere, presupposti  indispensabili  d'  ogni  conoscenza,  perciò  an- 
teriori alla  percezione  degli  oggetti,  che  esse  anzi  coordinano, 
legano,  classificano  e  determinano.  Ma  tutto  ciò  sembra  erroneo 
al  Soave;  che,  qualora  fosse  vero  quanto  dice  Kant,  seguirebbe 
che  noi  giudichiamo  uno  il  sole  e  molte  le  stelle  non  perchè 
vediamo  un  sole  soltanto  e  molte  stelle,  ma  perchè,  fra  tanti  og- 
getti collocati  dalla  nostra  sensibilità  nello  spazio,  piace  all'  intel- 
letto di  applicare  la  sua  categoria  dell'  unità  al  sole  piuttosto  che 
alle  stelle,  e  la  categoria  della  pluralità  alle  stelle  piuttosto  che  al 
sole.  Del  pari  giudicheremmo  diafano  il  vetro  e  non  diafano  il  ferro 
non  perchè  l'uno  dia  passaggio  alla  luce  e  1'  altro  no,  ma  perchè 
r  intelletto  a  quello  applica  la  categoria  dell'affermazione,  a  questo 
quella  della  negazione.  Similmente  giudicheremmo  sostanza  il  sasso 
e  la  sua  figura  rotonda  o  cubica  un  accidente  non  perchè,  cam- 
biandosi la  figura,  il  sasso  tuttavia  sussiste,  ma  perchè  piace  al- 
l' intelletto  di  dare  la  categoria  di  sostanza  piuttosto  al  sasso  che 
alla  figura  e  viceversa.  Guai  a  chi  dicesse  che  la  madre  è  causa 
e  il  figlio  effetto  perchè  questo  nasce  da  quella!  Sarebbe  errore 
da  empirico.  Un  fedele  trascendentalista  deve  dire  che  quel  rap- 
porto sussiste  unicamente  perchè  l' intelletto  applica  alla  prima 
la  categoria  di  causa  e  al  secondo  quella  di  effetto;  e  dev'esser 
pronto  a  sostenere  che,  se  a  qualche  testa  bizzarra  piacesse  il 
contrario,  si  vedrebbe  il  figlio  diventar  causa  e  la  madre  effetto. 

Stranissima  è  poi  X  asserzione  di  Kant  che  queste  categorie 
siano  in  noi  anteriori  alla  conoscenza  di  qualunque  oggetto.  Come 
mai  io  posso  avere  il  concetto  d'  unità  e  pluralità,  senz'  aver  mai, 
non  dico,  veduto,  ma  rappresentato  nella  mia  mente  né  uno  né 
più  oggetti?  come  conoscere  la  distinzione  di  sostanza  e  acci- 
dente, di  causa  ed  effetto,  di  azione  e  reazione,  di  possibilità, 
esistetiza  etc.  prima  di  conoscere  qualche  oggetto  in  cui  questi 
caratteri  si  possano  o  ravvisare  o  supporre? 

Né  si  può  dire  che  Kant  consideri  le  categorie  come  semplici 
potenze,  che  poi  si  riducano  all'  atto  nel  conoscere  gli  oggetti. 
Egli  le  considera  come  cose  reali  e  davvero  esistenti  nell'  intel- 
letto prima  della  conoscenza  di  qualsiasi  oggetto;  anzi  dall'  appli- 
cazione loro  egli  fa  nascere  e  le  immagini  degli  oggetti  e  gli  og- 


—  320  — 

getti  stessi.  Infatti  secondo  il  criticismo  quando  un  concetto  puro 
dell'  intelletto  è  applicato  a  una  forma  pura  della  sensibilità,  di- 
viene uno  schema  o  tipo  primitivo.  Dunque  lo  schematismo  è  l'atto 
risultante  nella  nostra  conoscenza  dall'  applicazione  delle  forme 
dell'  intelletto  puro  a  quelle  della  sensibilità  pura.  Quando  tale 
applicazione  si  fa  ad  una  cosa  individua,  ne  risulta  un'  immagine, 
la  quale,  riferita  ad  una  sensazione,  forma  un  oggetto.  Qui  si 
vede  che  la  formazione  delle  immagini  è  tutta  opera  dei  concetti 
puri  dell'  intelletto  combinati  con  le  forme  pure  della  sensibilità 
anteriormente  non  solo  a  qualunque  oggetto,  ma  anche  a  qua- 
lunque sensazione,  poiché  solo  dal  riferire  le  immagini  alle  sen- 
sazioni risultano  gli  oggetti  (1). 

Nell'esame  della  teoria  kantiana  della  ragione  le  osservazioni 
del  Soave  sono  meno  notevoli;  tuttavia  qualcuna  merita  d'esser 
ricordata.  Riguardo  all'  idea  cosmologica  della  totalità  assoluta  o 
dell'  universo  osserva  per  es.  che  Kant  vede  una  contradizione 
necessaria  tra  la  sensibilità  e  l' intelletto  da  una  parte,  per  cui 
r  infinito  è  troppo  vasto,  e  la  ragione  dall'  altra,  per  cui  ogni 
limite  è  troppo  angusto;  onde  derivano  le  quattro  famose  anti- 
nomie. Ma  come  mai  nel  soggetto  conoscente  qual'  è  supposto 
da  Kant  possono  nascere  queste  contradizioni  e  antinomie?  L'es- 
sere conoscente  è  uno;  la  sensibilità,  l'intelletto  e  la  ragione 
formano  con  lui  una  cosa;  come  può  egli  essere  in  contradi- 
zione con  sé  stesso?  O  ha  o  non  ha  l'idea  d'assoluto.  Se  l'ha 
per  mezzo  della  ragione,  come  può  contradirsi  perchè  non  1'  ha 
per  mezzo  della  sensibilità  o  dell'  intelletto?  Forse  la  sensibilità 
e  l'intelletto  sono  due  cose  separate  da  lui?  Inoltre  Kant  ha  detto 
da  principio  che  le  rappresentazioni  dello  spazio  e  del  tempo, 
come  forme  soggettive  della  sensibilità,  sono  illimitate,  infinite. 
Come  mai  ora  l' infinito  diventa  troppo  vasto  per  la  sensibilità? 

Infine,  secondo  Kant,  il  soggetto  conoscente  costruisce  e,  in 
certo  modo,  crea  1'  universo.  Ora  com'  é  possibile  che  quest'  uni- 
verso eh'  egli  stesso  s'  é  creato  non  debba  egli  sapere  come  se 
Io  sia  creato,  se  finito  o  infinito  rispetto  allo  spazio  e  al  tempo, 
se  composto  di  parti  semplici  o  no  etc.  ?  Come  mai  un  essere 
che  si  crea  da  sé  I'  universo  può  avere  intorno  a  questo  opinioni 
contradittorie?  (2). 


(1)  Op.  cit,  pag.  336-340.  (2)  Op.  cit.,  pag.  341-345. 


—  321  — 

Del  criticismo,  oltre  la  parte  teoretica,  il  Soave  esamina  anche 
la  dottrina  della  ragion  pratica.  Ma  qui  veramente  in  alcuni  punti 
non  interpreta  bene  Kant,  quindi  gli  muove  false  accuse.  Tut- 
tavia fa  pure  qualche  buona  osservazione.  Così  egli  nota  che 
Kant  ha  creduto  di  risolvere  il  problema  della  libertà  con  la  di- 
stinzione fra  il  mondo  dei  fenomeni  e  quello  dei  noumeni.  Ma 
noi  non  sappiamo  che  farci  dei  suoi  fenomeni,  delle  sue  categorie, 
e  della  libertà  di  un  mondo  trascendente;  noi  consideriamo  la 
natura  e  i  suoi  avvenimenti  non  come  fenomeni  (apparenze)  o 
puri  concetti  dell'  intelletto,  ma  come  cose  reali;  quindi  la  sua 
soluzione  non  ci  sodisfa. 

Inoltre  i  dettami  naturali  anteriori  ad  ogni  conoscenza,  i  pre- 
cetti assoluti,  gì'  imperativi  categorici  non  sono  che  parole  vane, 
asserzioni  gratuite,  contradette  dai  fatti.  Anzi  sono  inconcepibili, 
giacché  chi  può  capire  come  mai  uno,  prima  d'  aver  acquistata 
idea  alcuna  del  giusto  e  del  buono,  possa  sentire  in  sé  stesso 
una  legge  che  gli  comandi  quel  ch'egli  non  sa?  Fa  il  giusto  e 
il  buono.  Ma  questo  giusto  e  questo  buono  che  cos'è?  Non  lo 
sappiamo  né  tu,  né  io;  ma  tu  devi  farlo;  ed  io  te  lo  comando 
sotto  pena  che  tu  arrossisca  ai  tuoi  propri  occhi.  Ecco  il  nocciolo 
della  dottrina  kantiana.  Ma  non  é  questa  una  legislazione  del 
tutto  nuova  e  strana?  Il  Soave  conclude  contrapponendo  la  filo- 
sofia sperimentale,  che  é  quella  sua  e  quella  degl'  ideologi,  alla 
trascendentale  di  Kant  (1). 

Questa  critica,  che  gli  storici  della  filosofia  superficialmente 
hanno  spesso  considerata  come  superficiale  (2),  é  invece  (fuorché 
in  qualche  punto,  dove  il  Soave  ha  troppa  fretta  di  sostituire  le  sue 
idee  a  quelle  di  Kant  o  addirittura  interpreta  male  il  criticismo) 
acuta  ed  esatta  (superiore  senza  dubbio  a  quella  del  Tracy).  È 
un  attacco  vivace  dell'empirismo  contro  1'  apriorismo;  ecco  tutto. 
Notevoli  sono   specialmente  i  punti  in  cui  il  Soave    intravede  la 


(1)  Qui  però  il  Soave  interpreta  male  la  dottrina  kantiana,  credendo 
che  questa  consideri  tutto  il  mondo  come  un'  illusione  (mentre  la  filo- 
sofia sperimentale  lo  terrebbe  per  una  realtà).  Il  che  è  falso,  come  ve- 
dremo parlando  della  critica  mossa  dal  Romagnosi  a  Kant. 

(2)  Vedi  per  es.  V.  Cuoco,  Op.  cit.,  pag.  46-47. 


21 


—  322  — 

confusione  kantiana  fra  lo  spazio  (e  il  tempo)  oggettivo  (mate- 
matico) e  quello  soggettivo,  e  nota  l' impossibilità  di  considerare 
lo  spazio  e  il  tempo  soggettivo  come  una  forma  beli'  e  pronta 
nella  nostra  mente,  indrpendente  da  ogni  esperienza.  È  noto  che 
questo  è  uno  dei  punti  più  deboli  della  dottrina  kantiana,  che 
non  regge  al  confronto  dei  fatti,  i  quali  mostrano  che  la  perce- 
zione dello  spazio  si  perfeziona  e  quasi  si  forma  a  poco  a  poco 
con  r  esperienza. 

L'  obiezione  sull'  autocoscienza  non  va,  perchè  1'  unità  sintetica 
originaria  dell'appercezione  secondo  Kant  ci  dice  solo  che  siamo, 
non  come  appariamo  a  noi  stessi,  né  come  siamo  in  noi  stessi  (1). 
Solo  in  questo  senso  è  libera  dalla  forma  del  tempo. 

Importante  è  la  dimostrazione  soaviana  dell'  impossibilità  di 
considerare  le  categorie  come  forme  soggettive,  e  della  necessità 
di  tener  conto  delle  condizioni  e  dei  suggerimenti  dell'  esperienza 
per  r  applicazione  loro.  Giusto  è  quanto  osserva  sulla  dottrina 
dello  schematismo,  secondo  cui  le  categorie  parrebbero  veri  e 
propri  atti  (non  semplici  possibilità)  compiuti  prima  dell'  espe- 
rienza. Lo  schematismo  è  senza  dubbio  una  parte  debole  e  con- 
fusa della  dottrina  kantiana;  Kant,  credendo  di  facilitare  con  esso 
r  applicazione  delle  categorie  al  reale,  crea  nuove  difficoltà. 

Notevoli  sono  le  altre  osservazioni  sulla  ragion  pura  e  sulla 
ragion  pratica. 

* 

LA  CRITICA  DEL  BALDINOTTI.  —  Dopo  il  Soave,  in  Italia 

si  occupò  di  Kant  Cesare  Baldinotti,  già  da  noi  ricordato  fra  i 
simpatizzanti  con  la  filosofia  lockiana  (2).  Il  quale  in  un'appen- 
dice della  sua  opera  Tentaminum  Metaphysicorum  libri  tres  (\%\1) 


(1)  Kritik  der  reinen  Vernunft,  herausgegeben  von  K.  Kehrbach, 
2»  Ediz.,  Leipzig,  Reclam,  Supplement  III,  §  25,  pag.  676. 

(2)  Si  noti  che  il  1808  fu  tradotto  in  italiano  il  trattato  di  Kant  Ueber 
Paedagogik  (compilato  dal  prof.  Teodoro  Rinck,  scolaro  di  Kant,  sopra 
il  corso  di  lezioni  pedagogiche  che  il  celebre  filosofo  teneva  all'Uni- 
versità di  Koenigsberg,  e  pubblicato  il  1803)  col  titolo  Idee  di  E.  Kant 
suir  educazione  pubblicate  dal  doti.  Rinck,  traduz.  dal  tedesco  di  A.  E., 
Milano,  Silvestri,  1808.   A   un'affermazione  di  questo   scritto  si  riferiva 


—  323  — 

esaminò  e  criticò   nelle  linee   generali   la   dottrina   del   filosofo 
tedesco  (1). 

•  Il  Baldinotti  non  vuol  esporre  la  storia  del  kantismo,  il  che 
sarebbe  troppo  arduo  e  lungo.  Rimanda  per  questo  riguardo  il 
lettore  all'  Mistoire  des  systèmes  di  Degérando.  Su  quale  testo  ha 
studiato  la  dottrina  di  Kant?  Sulla  traduzione  latina  del  Born. 
Ma  non  è  sicuro  d' aver  interpretato  giustamente  il  pensiero 
kantiano.  I  seguaci  del  filosofo  tedesco  rispondono  sempre  a 
quelli  che  rivolgono  loro  obiezioni,  di  non  esser  capiti,  anzi  non 
s' intendono  neppure  fra  di  loro;  e  anche  noi,  egli  dice  (forse 
non  senza  una  punta  d' ironia),  siamo  uomini;  e  non  possiamo 
evitare  la  sorte  degli  altri.  Ma  perchè,  osserva,  i  kantiani  non 
adoperano  ogni  cura  e  ogni  studio  per  esser  compresi?  (2). 

Premesse  queste  considerazioni,  passa  ad  esporre  brevemente 
la  dottrina  di  Kant  (3).  Il  quale,  egli  dice,  volle  tentare  un'  impresa 
del  tutto  nuova:  indagare  se  e  in  che  modo  sia  possibile  la  cono- 
scenza del  vero,  che  cosa  sia  conoscere  il  vero,  quale  sia  la  re- 
lazione fra  oggetto  conosciuto  e  soggetto  conoscente;  pensò  così 
di  ricercare  la  possibilità  della  metafisica  e  dell'esperienza.  Secondo 
Kant  gli  scettici  e  i  dommatici,  i  razionalisti  e  gli  empiristi,  i 
materialisti  e  gl'idealisti  sono  assai  lontani  dal  vero  perchè  non 


il  Delfico  il  1814  al  principio  della  sua  Memoria  su  la  perfettibilità  or- 
ganica («  Kant  riguardò  la  teoria  dell'  educazione  come  il  più  gran 
problema  sociale  ancora  irresoluto  »).  Il  Delfico  nominò  Kant  anche  in 
Della  importanza  di  far  precedere  le  cognizioni  fisiologiche  etc,  dove 
accennò  alla  tesi  sostenuta  da  Kant  nell'operetta  Per  la  pace  perpetua 
(ch'egli  forse  conosceva  indirettamente  o  nella  traduzione  francese),  se- 
condo cui  solo  nell'uniformità  delle  idee  e  delle  leggi  dei  popoli  si  può 
trovare  il  fondamento  della  pace  mondiale.  Alla  medesima  tesi  kantiana 
il  Delfico  accennò  nella  detta  Memoria  su  la  perfettibilità  organica. 
Vedi  Delfico,  Opere,  Voi.  Ili,  pag.  506,  512-13  e  577. 

(1)  Caesaris  Baldinotti  Tentaminum  Metaphysicorum  libri  tres, 
Patavii,  Typis  Seminarli,  1817  —  Tentamen  I  —  De  Metaphysica  generali 
liber  unicus  —  Appendix:  De  Kantii  philosophandi  ratione  et  placitis 
ut  ad  Metaphysicam  Qeneralem  referuntur,  pag.  379-400.  Quest'  opera, 
dichiarata  irreperibile  dal  Cicchitti-Suriani  {Op.  cit.,  pag.  79)  è  nella 
Biblioteca  Nazionale  dì  Firenze  (vecchio  fondo  della  Palatina). 

(2)  Op.  cit.,  §§  883-886.  (3)  Op.  cit.,  §§  887-911.. 


—  324  — 

hanno  affrontato  queste  questioni  e  perchè  hanno  trascurato  le 
verità  trascendentali.  Kant  si  diede  a  ricercar  queste  verità  a 
priori,  tentando  di  conciliare  tutte  le  sette  dei  filosofi  e  fra  di 
loro  e  con  la  sua  dottrina.  Ma  non  ci  riuscì;  anzi  suscitò  nuove 
contese.  Il  che  derivò  forse  dall'  oscurità  della  dottrina,  dai  neo- 
logismi contorti  e  non  necessari,  dall'  immensa  moltitudine  di 
questioni,  di  tesi,  di  antitesi,  di  postulati,  di  scolii,  dalla  immode- 
ratezza nel  definire,  interpretare,  spiegare,  distinguere,  dividere,  in- 
fine dalla  natura  stessa  degli  elementi  di  cui  consta  il  criticismo, 
i  quali  non  si  possono  comporre  fra  di  loro.  Onde  la  facile  scap- 
patoia che  il  criticismo   non  sia  compreso  e  perciò  sia  respinto. 

Come  sciolse  Kant  il  problema  della  conoscenza?  Distin- 
guendo per  ciascuna  facoltà  (sensibilità,  intelletto  e  ragione)  una 
materia  e  delle  forme  (1).  Queste  forme  Kant  si  gloria  d' aver 
ricercate  e  trovate  a  priori.  Dunque,  osserva  il  Baldinotti,  la  fi- 
losofia di  Kant  differisce  moltissimo  da  quella  che  dopo  Locke 
s'  è  sparsa  per  quasi  tutta  1'  Europa;  questa  trae  origine  dall'  os- 
servazione, sta  attaccata  all'esperienza,  procede  con  l'una  e  con 
l'altra,  non  si  allontana  mai  dal  loro  fianco.  Kant  invece  a  priori 
tratta  dell'  intelletto  e  ne  dà  la  teoria.  Questo  è,  secondo  il  Bal- 
dinotti, il  delitto  (scelas)  del  sistema  kantiano.  Questa  ne  è  la 
parte  più  arbitraria,  per  nulla  provata,  interamente  ipotetica,  anzi 
opposta  alle  leggi  delle  ipotesi  (2). 

Dopo  aver  toccato  dell'applicazione  delle  forme  alla  materia, 
dei  limiti  e  delia  realtà  delle  nostre  conoscenze,  della  dottrina 
etica  kantiana,  il  Baldinotti  passa  all'  attacco. 

Tutto  r  edificio  del  filosofo  tedesco,  egli  afferma,  crolla  dalle 
fondamenta,  se  si  osserva  che  è  stato  eretto  a  priori,  come  Kant 
stesso  confessa.  Costruire  a  priori  una  teoria  dell'intelletto  umano! 
Dunque  Kant  ebbe  nota  l' essenza  intima  dello  spirito  per  un 
certo  privilegio  suo!  Ma  allora  perchè  non  la  spiegò  chiaramente. 


(1)  Si  noti  che  il  Baldinotti  ha  un'idea  esalta  delle  forme  kantiane: 
infatti  dice  che  è  forma  della  sensibilità,  ossia  legge  sua,  di  non  poter 
separare  l'oggetto  rappresentato  dallo  spazio  e  dal  tempo  {Op.  cit., 
§  894),  e  che  le  forme,  ossia  le  leggi  dell'intelletto,  sono  le  condizioni 
generali  e  necessarie  del  giudizio  {Op.  cit.,  §  895). 

(2)  Op.  cit.,  %  898. 


—  325  — 

come  i  geometri  spiegano  le  loro  figure,  e  i  fisici  le  loro  macchine, 
di  cui  conoscono  1" intima  costruzione  e  natura?  perchè  non  rivelò 
in  che  maniera  aveva  scoperto  le  forme  e  i  loro  caratteri?  (1). 

Inoltre  Kant  pose  quasi  a  base  del  suo  edificio  filosofico  il 
problema  della  possibilità  della  conoscenza;  credeva  anzi  che  le 
stranezze  dei  filosofi  dipendessero  dal  non  aver  risoluto  tale  que- 
stione. Orbene,  questo  problema  è  contradittorio  in  sé,  giacché 
presuppone  la  conoscenza  prima  che  si  sia  provata  la  sua  pos- 
sibilità. Infatti  in  quale  altro  modo  se  non  con  la  conoscenza 
l'intelletto  può  ricercare  e  scoprire  quella  possibilità?  Noi  pro- 
cediamo da  una  cognizione  ad  un'  altra,  ma  manca  la  via  per 
cui  possiamo  procedere  alla  possibilità  della  conoscenza;  poiché 
la  possibilità  della  conoscenza  precede  ogni  cognizione,  e  solo 
con  la  cognizione  noi  possiamo  procedere  ad  essa  (2). 

Di  più:  la  realtà  di  questo  edificio  kantiano  è  nulla.  Tutto  in 
esso  é  apparenza  e  fenomeno:  quindi  niente  é  certo  in  sé.  Poiché 
la  materia  riceve  il  suo  carattere  dalla  forma;  le  forme  non  deri- 
vano dalle  cose,  né  sono  nelle  cose,  ma  appartengono  allo  spirito; 
il  nesso  reciproco  delle  forme  tra  loro  e  di  esse  con  la  materia  de- 
riva del  pari  dallo  spirito.  Da  questo  nesso,  da  quest'applicazione 
provengono  le  nozioni  e  le  idee;  niente  dunque  é  certo  rispetto 
all'oggetto,  ossia  in  sé.  Ma  neppure  rispetto  al  soggetto.  Poiché 
lo  stesso  essere  pensante,  in  quanto  oggetto,  è  apparente,  é  fe- 
nomeno. Dunque  sono  fenomeni  le  forme  di  lui;  fenomeno  é  la 
materia;  fenomeni  sono  le  leggi  secondo  cui  alla  materia  sono 
applicate  le  forme;  l'applicazione  stessa  è  fenomeno.  Kant  in  vero 
dice  che  le  leggi,  le  quali  determinano  tutto,  sono  immutabili  e 
necessarie.  Ma  che  importa  questo,  se  esse  stesse  son  fenomeni, 
se  tutto  è  apparente,  se  ci  volgiamo  sempre  nel  vortice  dei  fe- 
nomeni ?  (3). 

La  ragion  pratica  di  Kant  pone  un  rimedio  a  tutte  queste 
negazioni,  a  tutti  questi  dubbi  ?  Sì,  ma  con  la  fede,  non  con  la 
forza  della  conoscenza;  con  i  postulati,  non  con  le  dimostrazioni. 
Ma   questi   son   rimedi   inefficaci  e  inetti:    che    non    prevengono 


{\)  Op.  cit.,  %  912. 

i2^  Op.  cit.,  %  913.  Come  si  noterà  facilmente,  questa  critica  ricorda 
quella  di  Hegel.  (3)  Op.  cit.,  §§  913-16. 


—  326  — 

mali  pessimi,  non  recano  aiuto  alla  società  e  alla  religione  peri- 
colanti, né  impediscono  la  loro  rovina.  Non  basta:  la  ragion 
pratica  di  Kant  è  non  solo  inutile,  sibbene  assurda.  Postula  in 
vero  r  esistenza  di  Dio  ed  altri  fatti  quasi  egualmente  impor- 
tanti. Ma  dal  postulare  qualcosa  segue  forse  che  questo  qualcosa 
esista  o  possa  accadere  ?  La  ragion  pratica  può  far  sì  che  si 
presti  fede  a  quei  fatti,  ma  non  li  dimostra:  Kant  stesso  dice  che 
di  essi  si  può  provare  il  prò  e  il  cantra,  perchè  non  sono  pro- 
porzionati air  intelletto;  che  quindi  non  si  può  decider  nulla  a 
lor  riguardo.  Dunque  la  ragion  pratica  di  Kant  impone  di  credere 
ciò  che  può  esser  tanto  vero  quanto  falso,  impone  cioè  l'assurdo, 
quindi  è  assurda  essa  stessa. 

Ma  neppure  la  ragion  teoretica  (che  secondo  Kant  regge  il 
sistema  psicologico,  compie  V  opera  delle  altre  facoltà,  le  libera 
da  ogni  condizione,  ed  ha  perciò  idee  complete,  indipendenti  da 
ogni  altra  forma)  può  adempiere  questo  molteplice  suo  compito. 
Che  valgono  infatti  a  tale  scopo  quelle  idee  complete,  quelle  tre 
forme  assolute  (Dio,  1'  universo,  1'  anima)  che  essa  possiede  per 
sua  natura  ?  Kant  ritiene  che  sia  impossibile  mostrare  che  queste 
cose  esistano  oggettivamente  (la  loro  realtà  oggettiva).  Come 
dunque  possono  esser  la  base  e  il  fondamento  delle  altre  cogni- 
zioni ?  Come  possono  rendere  la  ragion  teoretica  adatta  a  tale 
compito  ?  Senza  dubbio  essa  è  impari  a  questo. 

Pertanto  la  ragione  così  pratica  come  teoretica  non  libera  Kant 
da  uno  scetticismo  generale.  Ma  egli  è  anche  dommatico;  infatti 
sostiene  molte  tesi  senza  ragione.  Quale  ragione  per  es.  indusse 
Kant  ad  avanzare  tutte  quelle  asserzioni  sulla  materia,  la  forma, 
le  categorie,  le  leggi  dell'  intelletto  etc.  ?  Su  quale  fondamento 
egli  affermò  che  la  forma  e  le  idee  sono  destituite  di  ogni  realtà 
oggettiva,  non  hanno  alcuna  relazione  esterna?  Nessuna  ragione 
davvero  addusse  di  queste  asserzioni.  Inoltre  chi  non  dommatizza 
confessa  la  debolezza  della  ragione,  segue  l'osservazione  e  l'espe- 
rienza per  determinare  le  facoltà  e  le  leggi  dell'  intelletto;  non 
confida  dunque  di  poter  rivelare  queste  leggi  e  facoltà  a  priori. 
Ma,  siccome  Kant  procede  in  maniera  opposta,  è  evidente  ch'egli 
è  dommatico. 

Queste  considerazioni  c'inducono  ad  affermare  che  Kant  segua 
i  razionalisti.  Costoro  infatti  attribuiscono  tutto  alla  ragione  e 
nulla  all'  esperienza.  Kant  invero  attribuisce  all'  esperienza  i  pri- 


—  327  — 

mordi  del  conoscere,  Insegna  che  non  può  darsi  il  conoscere 
senza  l'applicazione  delle  forme  alla  materia  della  sensibilità,  cioè 
senza  l'esperienza;  ma  questo  a  parole.  È  invece  un  suo  domma 
che  la  possibilità  del  conoscere  si  debba  ricercare  e  dimostrare 
con  la  ragione.  Così  sottomette  l'esperienza  alla  ragione,  la  quale 
non  solo  aggiunge  forza  alla  conoscenza  sperimentale,  ma  anche 
prova  e  dà  la  possibilità  di  essa.  Che  cosa  puzza  maggiormente 
di  razionalismo  ? 

Ma  il  bello  è  che  dalla  natura  della  filosofia  critica  segue  che 
Kant  è  pure  empirista!  Infatti  egli  stesso  sopprime  tutte  le  verità 
di  ragione,  stabilisce  che  tutte  riguardano  i  sensibili.  Ben  è  vero 
che  non  assegna  cognizioni  vere  e  proprie  all'  esperienza;  ma,  se 
le  forme  della  sensibilità  non  danno  una  base  per  l'applicazione 
delle  forme  dell'  intelletto  e  della  ragione,  si  ha  assoluta  mancanza 
di  conoscenza.  Non  e'  è  dunque  conoscenza  che  non  si  riferisca 
a  qualche  oggetto  sensibile.  Se  manca  questa  relazione,  i  nostri 
pensieri  sono  vuoti.  Appunto  per  ciò  egli  rimproverò  Locke,  che 
aveva  tentato  di  provare  1'  esistenza  di  Dio.  Dunque  mai  ci  fu 
forse  empirista  così  radicale. 

Infine  Kant  stesso  dà  ragione  di  credere  ch'egli  si  possa  an- 
noverare fra  gì'  idealisti  e  i  materialisti.  Fra  questi  in  vero  in 
quanto  crede  che  l'esistenza  degli  spiriti  non  si  possa  dimostrare, 
che  quindi  possa  esser  falsa.  Fra  gl'idealisti  poi  perchè  egli  è  un 
idealista  assoluto.  Infatti  che  cosa  conosciamo,  secondo  Kant, 
degli  oggetti  ?  Solamente  che  esistono.  Ma  come  conosciamo 
questo?  Non  in  sé  e  per  sé,  ma  secondo  le  leggi  dell'intelletto, 
che  non  hanno  nessuna  validità  rispetto  all'  oggetto.  Dunque 
r  esistenza  dei  corpi  si  dimostra  solo  soggettivamente,  non  og- 
gettivamente, ossia  è  solo  ideale.  Del  resto,  anche  se  si  dimo- 
strasse oggettivamente,  siccome  ignoriamo,  secondo  Kant,  le  pro- 
prietà e  le  azioni  dei  corpi,  e  siccome  le  forme  della  sensibilità, 
cioè  il  tempo  e  lo  spazio,  sono  solo  in  noi,  sono  leggi  della  nostra 
mente,  in  vero  si  dimostrerebbe  non  che  essi  esistono,  ma  che 
esiste  ciò  di  cui  non  abbiamo  alcuna  idea,  alcuna  conoscenza 
reale,  ciò  che  non  esiste  né  nello  spazio  né  nel  tempo,  ossia  che 
non  esiste.  Kant,  è  vero,  distingue  la  materia  della  sensibilità 
dalla  forma,  quasi  che  quella  venisse  di  fuori;  ma  questa  distin- 
zione è  illusoria;  con  essa  Kant  volle  coprire  il  suo  idealismo. 
Infatti  secondo  lui  stesso  la  materia  è  fenomeno;    le   leggi   della 


—  328  — 

natura,  che  regolano  gli  effetti  della  materia,  sono  creazioni  del- 
l' intelletto;  dalle  leggi  dell'  intelletto  deriva  il  nesso  della  materia 
e  delle  forme  della  sensibilità;  nessun' analogia,  nessuna  relazione 
congiunge  la  materia  kantiana  della  sensibilità  all'oggetto  esterno: 
non  una  relazione  di  somiglianza,  non  una  d' identità,  non  una 
di  causalità:  delle  prime  due  non  si  può  nemmen  parlare;  l'ultima 
poi  Kant  come  potrebbe  provarla,  senza  dimostrare  che  esistono 
gli  oggetti  in  sèi?  Giacché  stabilirebbe  che  sussista  una  relazione 
di  causalità  in  ciò  che  egli  non  mostrerebbe  che  esista.  Quindi 
la  materia  kantiana  è  soltanto  nello  spirito  e  deriva  dallo  spirito, 
non  è  fuori  di  esso.  Dunque  la  sua  indipendenza  dalla  forma  è 
un'  illusione.  Dunque  Kant  ha  cercato  di  coprire  con  essa  il  suo 
idealismo. 

Conclusione:  Kant  non  ha  superato  gli  scogli  in  cui  egli  vide 
naufragare  altri;  ha  dato  anzi  in  essi;  ed  è  caduto  in  tutti  gli  errori 
che  si  meravigliò  non  fossero  stati  evitati  dai  suoi  predecessori  (1). 

Questa  critica,  quantunque  contenga  qualche  buona  osserva- 
zione (stabilisce  per  es,  la  vera  differenza  fra  la  dottrina  di  Locke 
e  il  criticismo,  insiste  sull'oscurità  e  tortuosità  del  linguaggio  cri- 
tico, nota  nei  kantiani  il  vizio  di  dire  di  non  esser  compresi  dagli 
avversari,  coglie  esattamente  il  concetto  kantiano  di  forma,  scova 
neir  intimo  della  dottrina  del  filosofo  di  Koenigsberg  i  germi  del- 
l' idealismo)  dà  talvolta  l' impressione  di  un  vano  esercizio  sco- 
lastico e  retorico.  Infatti  non  si  capisce  come  mai  un  filosofo 
possa  riunire  in  sé  caratteri  così  cozzanti  fra  loro  come  quelli  di 
scettico  e  di  dommatico,  di  razionalista  e  d'empirista,  d'idealista 
e  di  materialista,  che  pur  il  Baldinotti  vuol  attribuire  tutti  a  Kant. 
In  tal  caso  vien  fatto  di  pensare  che  un  sistema  filosofico,  per 
chi  vuol  criticare  per  criticare,  diventa  come  un  pezzo  di  gomma 
elastica,  che  si  può  tirare  in  tutti  i  sensi....  Che  valore  può  avere 
una  critica  siffatta,  che  dimostra  tesi  contradittorie  sullo  stesso 
oggetto?  Si  distrugge  da  sé  (2).  Il  Baldinotti  stesso  ha  affermato  che 
ciò  di  cui  si  può  dimostrare  il  prò  e  il  cantra  é  assurdo.  Dunque.... 


(1)  Per  tutta  questa  parte  vedi  Op.  cit.,  §§  918-927. 

(2)  Forse  il  Baldinotti  crede  d'aver  mostrato  chela  teoria  stessa  di 
Kant  risulti  di  elementi  incompatibili  fra  loro.  Ma  tale  sua  opinione 
non  dipenderebbe  dal  non  aver  inteso  lo  spirito  di  quella  teoria? 


329  — 


LA  CRITICA  DEL  BORRELLI  —  Ben  più  importante  è  la 
critica  del  Borrelli:  il  quale,  per  circostanze  a  noi  note  di  sua  vita, 
aveva  avuto  occasione  di  dimorare  in  terra  tedesca,  d' imparare 
quindi  la  lingua  necessaria  a  leggere  e  interpretare  direttamente 
le  opere  di  Kant  (di  cui  cita  la  Krltik  der  reinen  Vernunft,  Riga, 
1794;  i  Prolegomena  za  einer  jeden  kunftigen  Metaphysik,  Riga, 
1783;  la  Grundlegung  zar  Metaphysik  der  Sitten,  Riga,  1797;  e  la 
Krttik  der  praktischen  Vernunft,  Leipzig,  1818)  e  di  conoscere 
anche  qualche  critica  mossa  al  filosofo  di  Koenigsberg  in  Ger- 
mania stessa  (dei  critici  tedeschi  cita  lo  Stattler,  lo  Zallinger,  il 
Tittel).  L'essenziale  della  critica  è  ntW Introduzione  alla  filosofia 
naturale  del  pensiero  (Lugano,  1824),  Sezione  I,  Cap.  II,  §§  3  e  4. 
Ove,  dopo  una  breve  esposizione  non  tanto  delle  dottrine,  quanto 
del  metodo  di  Kant,  passa  all'attacco.  Tutto  il  sistema  kantiano, 
dice  il  Borrelli,  è  fondato  su  una  divisione  arbitraria  delle  cono- 
scenze umane.  Oltre  quelle  che  ci  son  dettate  dall'  esperienza, 
ne  ammette  altre  a  priori  (forme).  Ma  queste  sono  superflue, 
poiché  si  può  mostrarle  dipendenti  dall'  esercizio  dei  sensi,  dal- 
l' astrazione,  dall'  attenzione,  dall'  analisi,  dalla  sintesi  e  da  ciò 
che  si  suol  chiamare  generalizzazione  d' idee.  Quindi  «  si  dirà 
che  un  ponte  si  è  fatto  per  attraversare  con  pena  uno  spazio, 
per  cui  potea  ritrovarsi  con  miglior  consiglio  un  sentiero  »  (1). 

Ma  le  forme  kantiane  sono  non  solo  inutili,  ma  anche  inintel- 
ligibili. Per  es.  quelle  della  sensibilità  sono  ciò  per  cui  il  molte- 
plice del  dato  acquista  un  certo  ordine  ed  è  rivestito  delio  spazio 
e  del  tempo;  parrebbe  dunque  che  fossero  semplici  attitudini  a 
sistemare  gli  elementi,  ossia  facoltà  o  forze  ordinatrici;  dovreb- 
bero quindi  dar  origine  a  conoscenze  solo  all'urto  degli  oggetti 
esterni  sui  sensi.  Ma  a  tale  interpretazione  s'  oppone  la  sentenza 
di  Kant  stesso,  il  quale  nella  Critica  della  ragion  pura  dice 
espressamente  a  proposito  dello  spazio:  «  Questa  forma  pura 
della  sensibilità   si    chiamerà    essa   stessa   intuizione  pura  »  (2). 


(1)  Introduz.  etc.  (Edz.  cit.),  pag.  57. 

(2)  Kritik  d.  r.  V.  (Edz.  cit.),  pag.  49. 


—  330  — 

Quest'espressione  significa  un  riguardare,  un  modo  di  vedere, 
quindi  non  una  possibilità,  ma  un  atto:  il  quale  sarebbe  non  pro- 
dotto per  via  dell'  esperienza,  ma  a  priori.  Ora,  quest'  atto  può  o 
precedere  o  accompagnare  o  seguire  l' impressione  sensoriale.  Se 
però  di  queste  tre  supposizioni  si  vorrà  ammettere  la  prima,  si 
avrà  un'intuizione  in  cui  non  s'intuisce  nulla.  Nessun  guadagno 
otterremo  volendo  intendere  quest'  atto  o  come  funzione  ordina- 
trice di  nessuna  cosa  ordinabile  o  come  forma  interiore  per  qual- 
siasi materia  formata  ;  che,  in  tal  caso,  riavremo  quelle  idee 
innate  che  oramai  sono  state  distrutte  da  Locke.  La  seconda  e  la 
terza  supposizione  poi  sono  in  contrasto  con  quanto  dice  Kant 
stesso:  infatti  egli  asserisce  che  le  forme  non  sorgono  quando  i 
nostri  sensi  hanno  agito  o  agiscono  ancora,  ma  giacciono  prepa- 
rate neir  animo  e  quasi  prefondate.  Ripete  anzi  spesso  che  non 
sono  né  mediatamente  né  immediatamente  dedotte  dalla  nostra 
esperienza,  ma  che  sono  condizioni  della  possibilità  di  essa. 
Dunque  nessuna  delle  tre  interpretazioni  va;  e  allora  com'è  pos- 
sibile intender  le  forme  kantiane  in  una  maniera  qualunque?  (1) 
È  chiaro  che,  come  s'  è  detto,  esse  sono  inintelligibili. 

Questo  è  confermato  da  altre  considerazioni  che  si  possono 
fare  sullo  spazio  in  particolare.  Lo  spazio,  dice  Kant,  non  è  altro 
che  la  forma  pura  di  tutti  i  fenomeni  del  senso  esterno,  la  con- 
dizione soggettiva  della  sensibilità.  Ora,  secondo  lui  stesso,  la  sen- 
sibilità è  il  potere  di  ricevere  rappresentazioni,  la  receptivitas  im- 
pressionum.  Quindi  si  potrebbe  prima  di  tutto  domandare  come 
mai  la  condizione  d'una  facoltà,  d'una  possibilità,  di  un'attitu- 
dine possa  essere  un  atto.  Ma,  comunque  sia,  resta  sempre  che  è 
una  condizione  soggettiva.  Si  dovrebbe  allora  interpretare  come 
un  modo,  una  forza,  un'affezione  della  mente,  non  come  un  o^- 
getto  sul  quale  quell'affezione  o  forza  o  quel  modo  si  eserciti.  In 
termini  più  precisi:  una  rappresentazione  dello  spazio  non  do- 
vrebb'  essere  che  coscienza  d'  una  determinazione  dell'  ente  pen- 
sante. Eppure  Kant  assicura  che  lo  spazio  è  rappresentato  quale 
una  data  grandezza  infinita  (2),  quale  un  oggetto,  come  è  neces- 
sario realmente  fare  in  geometria  (3).  Questa  nota  dello  spirito  è 


(1)  Introduzione,  pag.  57-59. 

(2)  Kritik  d.  r.   V.,  pag.  53.  (3)  Op.  cit.,  pag.  678,  nota. 


-  331  - 

dunque  così  fatta  che  s' annuncia  per  l' opposto  di  quel  che  real- 
mente è.  È  una  nota  che  per  natura,  per  essenza,  mentisce;  è 
quasi  destinata  a  mostrare  che  il  così  detto  senso  interno,  cioè  la 
coscienza  stessa,  che  è  inclusa  in  ciascuna  delle  operazioni  del- 
l'anima, potrebb' esser  fallace.  Perchè  infatti  non  potrebbe  nello 
stesso  modo  accadere  che  il  giudizio,  il  raziocinio  e  il  volere  del- 
l' uomo  fossero  totalmente  diversi  da  quel  che  gli  si  rivelano  ? 
Se  io  mi  convinco  che  qualcosa,  rappresentato  come  oggetto,  sia 
piuttosto  un  carattere  della  mia  facoltà  rappresentativa,  posso  al 
pari  temere  che  ogni  corpo,  ogni  spirito  e  ogni  altra  cosa  esterna 
e  rappresentata  come  tale  non  sia  un  giuoco  interiore  della  mia 
facoltà  di  conoscere,  una  condizione  soggettiva.  E  allora  quale 
base  mi  rimane  per  sostener  la  certezza  ?  Potrebbe  darsi  che  il 
mio  Io  costituisse  la  sola  cosa  esistente,  e  che  tutta  la  natura  non 
fosse  che  il  gran  campo  delle  mie  illusioni  (1). 

Le  difficoltà  aumentano  quando  la  teoria  delle  forme  è  svolta 
riguardo  all'  intelletto.  Secondo  Kant  le  categorie  devono  essere 
applicate  alla  conoscenza  empirica  (esperienza),  che  rendono  pos- 
sibile e  di  cui  sono  condizioni.  Dunque  prima  dell'  esercizio  dei 
sensi  e'  è  una  categoria,  un  concetto,  una  forma,  a  cui  poi  de- 
v'  esser  data  una  volta  1'  intuizione.  E  che  cos'  è  mai  in  quel 
tempo?  Un  pensiero  vuoto,  un  pensiero  incognitivo,  senza  og- 
getto, e  quasi  un  passatempo  dell'  anima:  in  altri  termini,  un  nulla, 
un  suono  vano.  E  come  considerare  altrimenti  queste  forme  biz- 
zarre, che  possono  indicare  la  quantità  senza  il  quanto,  la  qualità 
senza  il  quale,  la  modalità  senza  la  cosa  a  cui  appartenga,  e  la 
relazione  senza  alcunché  di  relativo  ?  (2). 

Inoltre  non  è  facile  intendere  come  queste  categorie  siano  ap- 
plicate ai  dati  sensoriali.  Il  molteplice  delle  rappresentazioni,  dice 
Kant,  può  esser  dato  in  un'  intuizione.  Ma  nel  punto  in  cui  è 
dato,  le  rappresentazioni  che  ne  fanno  parte  sono  state  distinte 
o  no  ?  Se  sono  state  distinte,  non  è  più  vero  che  la  diversità  sia 
recata  da  una  categoria  dell'  intelletto.  Nel  caso  opposto,  in  che 
mai  consiste  quell'ordine  che  le  forme  pure  dei  sensi  (spazio  e 
tempo)  hanno  dato  alla  materia  del  fenomeno  già  sorto?  Com'è 
in  vero  possibile  che  una  disposizione,  un  sistema  ci  si  presenti 


(1)  Introduzione,  pag.  60-61.  (2)  Op.  cit.,  pag.  62-63. 


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fra  cose  di  cui  non  ci  consti  la  diversità?  Si  può  sviluppare  forma 
di  spazio  o  di  tempo  senza  che  si  scorga  una  cosa  o  fuori  o  dopo 
un'altra,  senza  insomma  che  già  si  avverta  che  l'una  non  è  l'altra? 
Non  giova  punto  rispondere  che  la  cognizione  ha  del  pari  bi- 
sogno e  dell'  intuizione  e  del  concetto.  Che,  quando  il  concetto 
si  applica,  r  intuizione  è  già  beli'  e  fatta,  e  quindi  è  già  stabilito 
r  ordine,  e  già  si  mostra  la  diversità.  Se  no,  bisogna  supporre 
che  vi  sia  un  tempo  infinitesimo,  un  istante  impercettibile  in  cui 
si  abbia  lo  spazio  senza  che  ci  sia  alcun  ordine,  o  che  quest'or- 
dine venga  fuori  senza  che  vi  siano  cose  ordinate,  o  che  siano 
ordinate  delle  cose  le  quali  non  sono  distinte  (1). 

«  Vi  è  »,  conclude  il  Borrelli,  «  chi  dice  che  la  filosofia  di  questo 
illustre  pensatore  sia  la  più  sublime  di  tutte.  Altri  forse  aggiun- 
geranno che  nelle  produzioni  metafisiche  s'innalzi  egli  per  modo 
da  lasciarsi  perder  di  vista;  e  vi  sarà  chi  ami  ripetergli  ciò  che 
l'usignolo  del  Lessing  diceva  un  giorno  alla  lodola:  ti  slanci  forse 
così  in  alto  per  non  essere  udita?   ». 

Il  Borrelli  tornò  ad  occuparsi  di  Kant,  a  proposito  della  dot- 
trina del  giudizio,  nella  Genealogia  (1825),  Libro  II,  Sezione  III, 
Gap.  IX-XI.  Dove,  oltre  l'accusa  di  qualche  improprietà  di  lin-- 
guaggio  (in  cui  però,  più  che  intendere  e  criticare  1'  opinione  di 
Kant,  le  sostituisce  idee  sue),  muove  qualche  obiezione  ai  giudizi 
analitici  e  sintetici.  «  Il  cerchio  è  rotondo  »  è  secondo  Kant  un 
giudizio  analitico.  Ma  l' idea  della  rotondità,  osserva  il  Borrelli, 
è  del  tutto  astratta  e  generica;  né  è  stata  altrimenti  raccolta  che 
dai  paragoni  ripetuti  di  più  superficie  e  di  più  solidi.  Quindi  essa 
non  si  trova  certo  nella  nozione  di  cerchio:  è  solo  conforme  a 
un  elemento  di  questa  (ossia  esprime  un  rapporto  di  conformità, 
non  d' inerenza).  Lo  stesso  può  osservarsi  in  tutti  i  casi  simili. 
Né  i  giudizi  sintetici  differiscono  dagli  analitici.  Le  due  nozioni 
del  giudizio  sono  sempre  distinte  e  separate,  non  sono  mai  l'una 
neir  altra;  solo  il  rapporto  che  si  desume  dal  giudizio  ne  costi- 
tuisce il  legame.  Abbiasi  per  esempio  la  proposizione  «  il  corpo 
è  grave  >  (sintetico,  secondo  Kant).  Qual'é  il  vero  significato  suo? 


(1)  Op.  cit.,  pag.  63-67.  11  Borrelli  aggiunge  un'osservazione  sulla 
morale  kantiana,  il  cui  difetto  fondamentale  gli  pare  consista  nell'aver 
staccato  il  merito  d'esser  buono  dal  vantaggio  d'esser  tale  (utilitarismo). 


—  333  — 

Tutti  ì  corpi  di  cui  abbiamo  esperienza,  se  non  sono  sostenuti, 
cadono  in  basso.  Incontrando  la  nostra  mano  nella  loro  caduta, 
la  spingono  sensibilmente  nella  direzione  medesima,  e  le  impri- 
mono quasi  uno  sforzo.  Dal  paragone  di  questi  fatti  noi  giun- 
giamo alla  fine  a  desumere  una  nozione  generale,  quella  di  tendere 
al  basso,  che  chiamiamo  con  un  nome  generico:  la  gravità,  l'esser 
grave.  Quindi  dire  che  il  corpo  è  pesante  non  è  altro  che,  fra  le 
parti  costitutive  della  nozione  di  esso,  trovarne  una  conforme 
all'  idea  distinta  e  isolata  di  esser  grave.  Non  è  dunque  fare  più 
o  meno  di  quel  che  si  faccia  nel  giudizio  analitico.  Insomma  per 
il  Borrelli  tutti  i  giudizi  enunciano,  come  abbiam  visto,  rapporti  di 
conformità  (=:  diversità  infinitesima);  quindi  la  divisione  loro  in 
analitici  e  sintetici  è  per  lui  erronea.  Inoltre,  aggiunge  il  Borrelli, 
Kant  asserisce  che  i  giudizi  delle  matematiche  pure  siano  tutti 
sintetici.  Ma,  quando  si  dice  che  il  tutto  è  uguale  alle  parti  prese 
insieme  ed  è  maggiore  di  ciascuna  di  esse,  si  enuncia  un  giudizio 
delle  matematiche  pure;  ebbene,  se  fosse  vero  che  l' idea  del  pre- 
dicato è  in  quella  del  soggetto,  non  ne  sarebbe  questo  il  piìi 
semplice  caso  ?  ossia  questo  giudizio  non  dovrebb'  essere  ana- 
litico ?  (1). 

Questa  critica  del  Borrelli  è  senza  dubbio  più  acuta  di  tutte 
quelle  dei  suoi  predecessori.  Tuttavia  non  sempre  coglie  giusto. 
La  prima  osservazione  non  vale  per  Kant,  giacché  questi  dice  più 
volte  nella  Critica  della  ragion  pura  (2)  che  Locke,  avendo  vo- 
luto trarre  dall'  esperienza  anche  i  concetti  puri  dell'  intelletto, 
aprì  la  porta  e  il  portone  alla  fantasticheria;  e  mostra  l' inutilità 
e  vanità  del  tentativo  lockiano.  Quindi,  se  mai,  il  Borrelli  avrebbe 
dovuto  far  vedere  come  Kant  avesse  torto,  e  non  presupporre 
come  dimostrato  ciò  che  invece,  dopo  la  critica  del  filosofo  te- 
desco, era  da  provare  o,  almeno,  da  provar  di  nuovo. 

Quanto  alla  seconda  osservazione,  snW  intuizione  pura,  mi  pare 
che  il  Borrelli  abbia  dato  troppo  peso  a  un'espressione  kantiana 
poco  indovinata.  Il  linguaggio  del  filosofo  tedesco,  che  spesso 
doveva  esprimere  idee  nuove  senza  trovar  pronti  vocaboli  corri- 


(1)  Princ.  della  genealogia  (Ed.  cit.),  pag.  142-145. 

(2)  Kritik  d.  r.  V.,  pag.  104-105  e  111,  nota. 


—  334  — 

spendenti,  va  inteso  non  alla  lettera,  ma  nello  spirito.  Orbene, 
Kant,  per  indicare  la  forma  pura  dell'  intuizione  dello  spazio  e 
del  tempo,  che  secondo  lui  è  una  legge  soggettiva  dello  spirito, 
adopera  effettivamente  l'espressione  intuizione  pura,  proprio  come 
chiama  concetti  puri  le  categorie.  Ma  è  noto  che  le  categorie  (come 
risulta  da  altri  luoghi  della  Critica  della  ragion  pura)  vanno  in- 
tese non  quali  atti,  ossia  concetti  beli' e  formati,  ma  piuttosto 
quali  leggi  o  funzioni  dell'  intelletto,  quali  maniere  necessarie  di 
concepire  e  ordinare  gli  oggetti;  del  pari,  l' intuizione  pura  va  in- 
tesa non  come  atto,  ma  come  legge  della  nostra  attività  conosci- 
tiva, che  si  esplica  a  contatto  dell'esperienza.  «  Come  dunque  », 
scrive  Kant,  «  può  essere  nello  spirito  un'  intuizione  esterna  che 
preceda  gli  oggetti  stessi,  e  in  cui  il  concetto  di  questi  oggetti 
possa  esser  determinato  a  priori  ?  Non  altrimenti,  è  chiaro,  che 
in  quanto  essa  ha  sua  sede  soltanto  nel  soggetto,  come  dispo- 
sizione formale  di  esso  ad  essere  modificato  dagli  oggetti  e  ad  ot- 
tenere, così,  la  loro  rappresentazione  immediata,  cioè  intuizione, 
dunque  solo  come  forma  del  senso  esterno  in  generale  »  (1). 
Quindi  il  vero  termine  sarebbe  forma  pura  dell'  intuizione;  e  Kant 
in  alcuni  luoghi  lo  adopera  (Der  Raum  aber  betrifft  nur  die  reine 
Form  der  Anschauung  —  Der  Raum  die  reine  Form  ihrer  An- 
schauung  ist)  (2). 

L'  obiezione  successiva  sullo  spazio  in  quanto  oggetto  è  senza 
dubbio  forte.  Il  Gentile  (3)  ha  cercato  di  dissiparla  mostrando 
come  Kant  intenda  in  quel  caso  la  parola  oggetto  nel  senso  di 
intuizione  pura  (oggetto  della  mente),  non  di  oggetto  esterno.  Ma, 
quand'  anche  l' intenzione  di  Kant  fosse  tale  (4),  non  si  può  negare 
che  noi,  volgarmente,  ci  rappresentiamo  lo  spazio  come  qualcosa 
d*  esterno.  Ora,  in  che  modo  accade  l' esternarsi  dello  spazio 
(proiettarsi  delle  sensazioni  e  della  forma  fuori  di  noi)?  Le  sen- 
sazioni secondo  Kant   stesso    sono    modificazioni    soggettive;    la 


(1)  Op.  cit.,  pag.  54.  (2)  Op.  cit.,  pag.  56  e  pag.  105. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  121. 

(4)  Potrebbe  anche  darsi  che  Kant  intendesse  talvolta  riferirsi  al  mo- 
mento in  cui  la  forma  è  già  applicata  al  molteplice  sensoriale,  e  con- 
siderare per  astrazione  nel  risultato  della  conoscenza  solo  la  parte  for- 
male (intuizione  pura). 


—  335  — 

forma  pura  dello  spazio  è  condizione  anch'  essa  soggettiva  della 
sensibilità;  come  mai  da  questi  due  fattori  soggettivi  risulta  qual- 
cosa di  oggettivo,  di  esterno? 

Quanto  alle  categorie,  il  Borrelli  esagera  dicendo  che  prima 
dell'  esercizio  dei  sensi  esse  sono  concetti,  pensieri  vuoti,  un  pas- 
satempo dell'  anima.  Le  categorie  sono  leggi,  funzioni  dell'  intel- 
letto che  si  esplicano  solo  a  contatto  dell'esperienza.  Come  sa- 
rebbe ridicolo  dire  che  il  principio  di  non-contradizione,  prima 
di  essere  applicato  ai  dati  sensibili,  sia  una  forma  vuota,  un  pen- 
siero vano,  così  è  ridicolo  dire  questo  delle  categorie.  Il  principio 
di  non-contradizione  è  una  legge  dell'  intelletto  nel  senso  che  la 
nostra  mente  è  costituita  nella  sua  essenza  in  maniera  tale  che 
non  può,  tutte  le  volte  che  compie  un  atto  di  pensiero  su  dati 
oggetti,  contradirsi.  Ma  il  nostro  spirito,  prima  di  compiere 
quest'  atto  di  pensiero,  aveva  forse  presente  quel  principio  come 
formula  vuota?  No  certo.  Solo  tardi,  riflettendo  sul  pensiero  e 
sui  suoi  procedimenti,  noi  lo  enunciamo  come  principio  chiaro 
ed  esplicito.  Lo  stesso  si  può  dire  delle  categorie. 

Importante  è  invece  la  critica  riguardante  la  diversità  delle 
rappresentazioni.  li  Tocco  e  lo  Spaventa  (1)  hanno  cercato  di 
eliminare  la  difficoltà  vista  dal  Borrelli  ammettendo  una  sintesi 
di  primo  grado,  che  pone  un  ordine  fra  i  dati  sensibili,  e  una 
sintesi  di  secondo  grado  (intellettuale),  che  pone  un  ordine  fra  i 
dati  dell'  intuizione.  Ma  è  possibile  che  la  funzione  mentale  del 
distinguere  e  ordinare  assuma  due  forme  così  diverse?  Il  distin- 
guere è  sempre  distinguere,  qualunque  sia  la  natura  del  molte- 
plice da  ordinare;  né  può  cambiare  sol  perchè  muta  il  materiale 
da  distinguere. 

La  critica  contenuta  nella  Genealogia  non  mi  pare  molto  no- 
tevole, sopratutto  perchè  il  Borrelli  tende  a  sostituire  le  proprie 
idee  a  quelle  di  Kant.  Del  resto  Kant  potrebbe  rispondergli:  — 
Anche  se  fosse  vero  che  tutti  i  giudizi  enunciano  un  rapporto 
di  conformità,  non  si  potrebbe  negare  che  altra  è  la  conformità 
espressa  dal  giudizio  «  il  cerchio  è  rotondo  »  (analitico),  altra  è 
quella  enunciata  dal  giudizio  «  il  corpo  è  grave  »  (sintetico)  — . 


(1)  Gentile,  Op.  cit.,  pag.  123.  Cfr.  del  resto  Kritik  d.  r.  V.,  Sup- 
plement  III,  §  24,  pag.  671  e  seg. 


—  336  — 

Giustissima  è  1'  osservazione  sull'  assioma  //  tutto  è  uguale  alle 
parti  etc,  che  è  uno  dei  fondamenti  della  matematica  ed  è  senza 
dubbio  analitico.  Tuttavia  si  ricordi  che  Kant  stesso  muove  a  sé 
tale  obiezione,  ma  la  distrugge  dicendo  che  quel!'  assioma  (come 
alcuni  altri)  non  ha  valore  di  principio,  bensì  serve,  in  quanto 
proposizione  identica,  solo  al  concatenamento  del  metodo  (1). 
Concludendo:  il  Borrelli  muove  a  Kant  una  critica  importante, 
precisa,  chiara,  sempre  acuta,  quantunque  talvolta  sia  dalla  propria 
opinione  impedito  di  veder  spassionatamente  giusto. 


LA  CRITICA  DEL  ROMAGNOSI.  —  Dopo  aver  esaminato 
il  pensiero  del  Borrelli,  bisogna  andare  al  Romagnosi,  per  trovare 
un'  altra  critica  notevole  della  dottrina  kantiana  (2). 

Nessuno  degl'  ideologi,  mi  pare,  era  per  motivi  intrinseci  e 
individuali  in  condizioni  più  favorevoli  del  Romagnosi  per  inten- 
dere la  dottrina  kantiana  (3):  egli  infatti  risolse  il  problema  della 
conoscenza  in  maniera  assai  simile  a  quella  del  filosofo  tedesco, 
e  ne  trasse  un  idealismo  che  ricorda  certo  quello  trascendentale; 


(1)  Op.  cit.,  pag.  652  (Supplement  il). 

(2)  Il  Gioia  accenna  qualche  volta  alla  dottrina  kantiana  nelle  sue 
opere,  ma  non  muove  ad  essa  una  critica  ampia  e  sistematica.  \^t\V Ideo- 
logia (Milano,  1822,  Voi.  I,  pag.  4)  dice  soltanto:  «  Kant,  mettendo  da 
banda  le  origini  esterne,  pretese  che  tutto  il  capitale  ideale  e  sentimen- 
tale dell'uomo  nascesse  dal  fondo  interno  dell'animo  e  dalle  forme 
proprie  del  pensiero  astratto.  Kant  si  presentò  alla  Germania  involto 
in  una  nube  di  parole  scientifiche,  e  dapprima  eccitò  la  sorpresa,  poscia 
l'adorazione.  In  Italia,  pria  di  piegare  il  ginocchio,  si  vuol  vedere  l'idolo 
in  faccia:  io  ricuso  dunque  di  fare  in  questo  scritto  ulteriori  parole  di 
Kant,  e  ripeto //c^  liix  ».  U  Italia  non  s' inkanta,  soleva  dire  il  Gioia; 
e  pare  che  con  questa  frase  volesse  beffare  il  Testa,  che  cercava  di 
diffondere  il  criticismo.  A  lui  il  Testa  rispondeva  che  l' Italia  neppure 
si  contenta  di  false  gioie  (vedi  Molinari,  Op.  cit.,  pag.  116). 

(3)  lo  non  credo  quindi  come  il  Credaro  (//  kantismo  in  G.  D.  Ro- 
magnosi -  Contributo  alla  storia  del  kantismo  in  Italia,  in  Rivista  ita- 
liana di  filosofia,  Roma,  Tipografia  della  R.  Accademia  dei  Lincei, 
luglio-agosto  1887,  Ì5  V,  pag.  34  e  seg.)  che  gl'impulsi  soggettivi  do- 
vessero spingere  il  Romagnosi  a  non  intendere  Kant. 


—  337  — 

anche  il  suo  concetto  delle  categorie  s'  accosta  di  molto  a  quello 
kantiano:  le  sue  emissioni  logiche  o  suità  non  sono  in  fondo  che 
le  categorie  kantiane.  Eppure  combattè  aspramente  la  filosofia 
critica.  O  perchè?  Perchè  egli,  per  circostanze  esteriori  (1),  non 
potè  intenderne  il  significato  intimo.  Il  Romagnosi  non  conosceva 
il  tedesco;  poteva  leggere  la  traduzione  latina  delle  opere  di  Kant 
scritta  dal  Born  e  quella  italiana  del  Mantovani  della  Critica  della 
ragion  pura  (1820-22)  (2);  esistevano  anche,  come  s'è  visto,  studi 
e  traduzioni  francesi  delle  opere  di  Kant;  ma  tutti  questi  scritti 
erano  insufficienti  per  una  chiara  ed  esatta  comprensione  della 
difficile  filosofia  critica.  Inoltre  in  Italia  regnavano  già  dei  pre- 
giudizi su  alcuni  punti  di  questa  filosofia,  seminati  dagli  scritti 
del  Villers,  del  Soave  etc.  Questi  pregiudizi  si  sarebbero  potuti 
dissipare  solo  con  uno  studio  accurato  dei  testi  originali,  che  fu 
impossibile  al  Romagnosi.  Infine  il  filosofo  italiano  si  occupò 
della  dottrina  kantiana  quando  questa  in  Germania  aveva  già 
avute  interpretazioni  respinte  da  Kant  stesso,  e  sviluppi  che  vi 
arrecavano  profondi  mutamenti.  Ebbene,  il  Romagnosi  forma 
d'  ogni  erba  un  fascio,  collocando  nella  scuola  kantiana  i  sistemi 
di  Fichte,  di  Schelling,  di  Hegel,  di  Bardili  etc,  eh'  egli  chiama 
mostruosi,  e  che  a  lui  dovevano  certo  mostrare  il  criticismo  in 
un  aspetto  poco  favorevole  (3). 

Tutto  questo  ci  è  confermato  dall'  esame  degli  scritti  del  Ro- 
magnosi sulla  filosofia  kantiana. 


(1)  Qui  il  Credaro  ha  piena  ragione. 

(2)  Mantovani  Vincenzo  di  Pavia  (1775-1832)  fu  valente  medico  e 
chirurgo,  e,  appunto  come  chirurgo  delle  guardie  regali  italiane,  si  trovò 
nei  campi  di  Austerlitz,  di  Wagram  e  alla  Moschowa.  Messo  a  riposo, 
fu  poi  medico  a  Codogno  e  direttore  dell'ospedale  di  Monza.  Scrisse 
varie  opere  d'argomento  medico  e  fisiologico,  tra  cui  un  Trattato  dei 
sensi  in  supplemento  alla  notomia  del  Soemmering  (Crema,  1822).  Tra- 
dusse il  De  vita  propria  del  Cardano  e  la  Critica  della  ragion  pura 
di  Kant  (Pavia,  Bizzoni,  in  otto  tomi,  di  cui  i  primi  tre  nel  1820,  gli 
altri  cinque  nel  1822). 

(3)  Il  Romagnosi,  naturalmente,  questi  sistemi  post-kantiani  li  cono- 
sceva indirettamente,  a  traverso  un'  opera  del  Buhle  {Storia  della  fi- 
losofia moderna  di  G.  Amadeo  Buhle,  Milano,  Tipografia  del  Com- 
mercio, 1825)  e  un  articolo  dello  Stapfer,  pubblicato  nella  Révue  En- 
cyclopédique  il  febbraio  del  1827. 

22 


—  338  — 

Il  Romagnosi  sì  occupò  del  criticismo  in  due  articoli  (Espo- 
sizione storico-critica  del  kantismo  e  delle  consecutive  dottrine),  che 
pubblicò  nella  Biblioteca  Italiana  (anno  1828,  Voi.  L,  pag.  163, 
e  anno  1829,  Voi.  LUI,  pag.  180)  sull'opera  del  Galluppi  intito- 
lata Lettere  filosofiche  su  le  vicende  della  filosofia  relativamente 
ai  principi  delle  conoscenze  umane  da  Cartesio  fino  a  Kant  inclu- 
sivamente  (Messina,  1827);  espresse  inoltre  il  suo  parere  al  riguardo 
qua  e  là  in  altri  scritti  (1). 

Kant,  dice  dunque  il  Romagnosi,  sorse  quando  due  indirizzi 
filosofici,  l'empirismo  e  il  razionalismo  «  l'un  contro  l'altro  ar- 
mato »  si  disputavano  il  primato.  L' empirismo  poneva  a  base 
delle  sue  ricerche  la  sensazione;  e  fino  a  che  questa  era  «  riguar- 
data nella  sua  prima  posizione,  nessuno  trovava  a  ridire;  ma  al- 
lorché si  volle  trasportarla  con  la  sua  veste  volgare  nella  sfera 
scientifica,  e  costituirla  come  elemento  unico  di  tutto  il  positivo 
naturalmente  conoscibile,  questo  tentativo  fu  riguardato  come  una 
profanazione  del  santuario  dell'  umana  ragione,  e  fu  protestato 
contro  il  diritto  a  lei  attribuito  dalla  scuola  sperimentale  ».  Si 
sostenne  quindi  che  la  sensazione  si  deve  restringere  ai  più  bassi 
servigi  della  mente  umana,  lasciando  all'  intelligenza  il  dominio 
esclusivo  della  parte  superiore.  S'impegnò  così  un'aspra  lotta,  e 
furono  alzate  due  bandiere.  *  In  questo  mezzo  sopravenne  Kant, 
il  quale  parve  accamparsi  da  sé  solo,  e  chiamare  a  sindacato  tutte 
le  scuole  vigenti  ». 

Ei  fé  silenzio,  ed  arbitro 
S'  assise  in  mezzo  a  lor. 


(1)  Della  suprema  economia  dell'  umano  sapere,  Parte  II,  Gap.  XX; 
Note  4=^  e  14»  a  Progressi  e  sviluppi  della  filosofia  e  delle  scienze 
metafisiche  dal  principiare  del  XIX  secolo  (articolo  tradotto  dalle 
Philosophical  Transactions  con  annotazioni  di  G.  D.  Romagnosi  in  In- 
dicatore, anno  1835,  Serie  IV,  Voi.  I,  pag.  5);  Insegnamento  primitivo 
delle  matematiche  (Milano,  1822,  Discorso  VI);  Dell'uso  della  dottrina 
della  ragione  nelV amministrare  l'economia  dell'  ineivilimento  (Firenze, 
1835),  Gap.  Ili;  Discorso  sull'ordinamento  della  filosofia  morale,  Parte  I, 
Gap.  IV;  Che  cos'è  la  mente  sana?  Ragione  del  Discorso,  §§  4  e  5; 
La  logica  pei  giovanetti  dell'abate  A.  Genovesi,  Ragione  dell'opera, 
§  2.  Tutti  questi  scritti  sono  ristampati  in  Opere  filosofiche  del  Roma- 
gnosi,  Ediz.  De  Giorgi,  ch'io  sempre  citerò.  Confr.  anche  Alcuni  pen- 
sieri sopra  un'  ultrametafisica  filosofia  della  storia  (edz.  cit.). 


—  339  — 

«  Allora  fu  alzata  una  terza  bandiera  co  '1  nome  di  criticismo 
o  sia  dottrina  dei  criterio  di  verità  per  verificare  i  fondamenti 
dell'umano  sapere  ».  Si  ebbe  quindi  una  dottrina  non  scientifica 
e  definitiva,  ma  strumentale  per  arrivare  a  qualche  conclusione. 
Quali  furono  i  risultati  a  cui  Kant,  esaminando  la  natura  e  l'o- 
rigine delle  conoscenze  umane,  giunse?  T  Egli  «  non  richiamò 
che  un  fatto  certamente  importante  e  noto,  qual'è  l'esistenza  delle 
segnature  intellettive  a  fianco  delle  sensitive;  e  con  ciò  provocò 
gagliardamente  li  sperimentali  a  compiere  la  dottrina  delle  sen- 
sazioni ».  2°  Inoltre  ripetè  l'osservazione  già  dettata  da  Condillac: 
cioè,  sia  che  col  pensiero  e'  inalziamo  fino  al  cielo,  sia  che  discen- 
diamo fin  negli  abissi,  non  usciamo  mai  da  noi  stessi,  e  per  con- 
seguenza l'universo  non  è  che  un  fenomeno  ideale  che  pensiamo 
prodotto  in  noi  da  qualcosa  d' incognito  e  di  reale  esistente  fuori 
di  noi.  Erano  press' a  poco  questi  i  risultati  a  cui  era  giunto  anche 
il  Romagnosi;  parrebbe  quindi  che  il  filosofo  tedesco  e  quello 
italiano  dovessero  andare  a  braccetto,  d'amore  e  d'accordo.  Ma 
piano....,  dice  il  Romagnosi,  riguardo  al  primo  risultato  s'  ha  da 
osservare  che,  per  ottenerlo,  Kant  non  procedette  come  un  buon 
fisico  che  voglia  scoprire  col  metodo  induttivo  le  cause  e  le  leggi 
occulte  (1),  ossia  non  osservò  i  fenomeni  della  psicologia  speri- 
mentale, per  rivelarne  le  cause;  si  valse  di  una  «  sterile  dialettica 
qualificativa  »,  come  se  si  trattasse  di  descrivere  il  disco  della 
luna  o  di  fare  equazioni  algebriche.  Esaminò  quindi  non  la  ge- 
nesi dei  concetti,  ma  solo  la  loro  composizione  apparente;  e,  non 
avendo  cercato  con  l' analisi  di  veder  come  quei  caratteri  della 
conoscenza  che  sembrano  indipendenti  da  ogni  esperienza  ab- 
biano le  loro  radici  in  questa,  ne  trasse  fuori  gli  assoluti  e  gli 
a  priori  (2).  Egli  ragionò  press' a  poco  così:  «  I  sensi  non  ci  pre- 
sentano idee  intellettuali  e  razionali,  dunque  esse  sono  produzioni 
totalmente  mentali  ».  Il  quale  ragionamento  equivale  a  quest'altro: 
—  II  sangue  non  ci  presenta  né  pane,  né  vino,  né  carne,  né  vege- 
tali: dunque  il  sangue  non  ha  nulla  che  fare  coi  cibi.  —  C'è 
logica  qui?  No;  eppure  gli  a  priori  kantiani  devono  la  loro  ori- 


ci) Che  cos'è  la  mente  sana?  §  4,  pag.  472. 

(2)  Della  suprema  economia  dell'umano  sapere,  Parte  II,  Cap.  XX, 
pag.  546-548. 


—  340  — 

gine  a  un  ragionamento   simile  (1).  La  critica  del   Romagnosi  si 
inasprisce  specialmente  contro  questi  assoluti  a  priori;  i  quali  ap- 
punto lo  inducono  a  dire   che  la  dottrina  gnoseologica  di  Kant 
rappresenta  una    speculazione  che  sta  fra  le  nuvole  e  vi  sta  nu- 
volescamente.  Sta  fra  le  nuvole  perchè  nel  campo  .immenso   del 
possibile   non   adduce  né  ragione  né  fondamento   provato  di  al- 
cuna  legge  e  tendenza   dello   spirito    umano;   anzi   prescinde  da 
qualunque  genesi  positiva  dei  poteri  e  delle  funzioni,  assumendo 
nozioni  assolute.  Ma  qui  si  presenta  il  seguente  dilemma:  o  Kant 
vuol  parlare  di  un'intelligenza  generica  qualunque  o  dell'umana. 
Se  vuol  parlare   d'  una  generica,  per  esempio  di  quella  che  noi 
possiamo  figurarci   aver  comune  con  gli  angeli  o  con  gli  spiriti 
puri,  egli  non  può  non  fondarsi  su  un'  induzione  analogica  con 
r  umana;  se  poi    vuol    parlarci   dell'  intelligenza   umana   quale  ci 
consta,  egli  non  può  considerarla  che  nel  modo  in  cui  è  di  fatto 
costituita.  Allora,  fra  milioni  di  stati  che  si  possono  immaginare, 
uno  solo  rimane,  determinato  e  positivo,  e  perciò  stesso  escludente 
gli  altri  che  l' immaginazione   può  figurarsi.   Quindi  Kant  qui  si 
trova  così  soggiogato  dallo  stato  di  fatto  delle  cose,  che  deve  o 
negare  la  necessità  di  ogni  causa  efficiente  e  determinante,  o  ri- 
nunziare al  trascendentale  e  all'  assoluto  da  lui   immaginato.  Un 
dato  corpo  può  avere  una  figura  o  quadrata  o  rotonda:  ecco  un 
principio  speculativo,  cioè  a  priori,  assoluto.  Questo  corpo  però 
ha  di  fatto  la  figura  rotonda;  ora,  si  cerca  perchè  abbia  piuttosto 
la  rotonda  che  la  quadrata:  ecco  il  principio  positivo  ed  efficiente 
richiesto.  Ma  Kant,  non  pensando  alla  causa  assegnabile  del  modo 
di  essere  dello  spirito  umano,  che  doveva  esaminare  per  dar  va- 
lore alle  pretese  sue  nozioni  a  priori,  ed  assumendo  invece  queste 
manifatture  mentali  come  fattori  stessi  delle  manifatture,  presentò 
una  dottrina  che  riesce  un  vero  castello  in  aria,  ed  ha,  come  dice 
il  proverbio,  il  suo   fondamento   nelle   nuvole  (2),  o,  per  parlare 
esattamente,  è  zero. 

S'  è  detto  in  secondo  luogo  che  vi  sta  nuvolescamente:  vi  sta 
cioè  con  forme  confuse,  sfumate,  cangianti  e  prive  di  valore  pra- 


(1)  Progressi  e  sviluppi  della  filosofia  etc,  pag.  683. 

(2)  Perciò  la  chiama   anche  filosofia  a  vapore,   cioè  vaporosa  {La 
logica  pei  giovanetti  dell' ab.  Genovesi,  §  2). 


—  341 

tico  per  le  azioni  umane.  I  pensieri  di  Kant  sono  tutf  altro  che 
profondi;  essi  non  offrono  che  puri  contorni  superficiali,  ai  quali 
fu  data  un'  immensa  generalità,  senza  che  fosse  cambiata  la  na- 
tura volgare  della  loro  origine.  Sottoponeteli  all'analisi,  e  li  ve- 
drete o  strisciare  per  terra  o  sparire  come  fantasmi  notturni.  E 
in  vero  che  cosa  sono  quei  modelli  a  priori,  i  quali,  come  pun- 
zoni di  stamperia,  ricevono  le  masse  informi  della  sensibilità,  o 
a  mo'  di  sigilli  v'improntano  le  forme  loro,  e  danno  ad  esse  fi- 
gure d'idee?  E  vero  o  no  che  qui  si  costruisce  con  un'analogia 
volgare,  fantastica  e  incompatibile  ?  Incompatibile  perchè,  anche 
se  si  voleva  immaginare,  come  fecero  alcuni  antichi,  l'anima  quale 
una  scintilla  di  fuoco  o  di  aria  purissima,  non  era  possibile  stam- 
parvi dentro  le  forme  stabili  ed  innate  immaginate  da  Kant,  ed 
attribuir  loro  la  virtù  matrice  da  lui  gratuitamente  escogitata. 
D'altra  parte  è  vero  o  no  che  si  può  indicare  l'origine  di  questi 
pretesi  modelli,  mediante  l'analisi?  E,  quand'anche  la  genesi  ne 
fosse  nascosta,  come  può  provare  Kant  che  si  debba  attribuir 
loro  quella  virtù  matrice  da  lui  asserita  ? 

Seguendo  questo  procedimento,  Kant  non  conobbe  mai  ne  la 
genesi,  né  la  natura  reale,  né  il  valore  logico  di  alcune  idee  ge- 
nerali e  delle  ontologiche.  Egli  le  figurò  come  forme  primitive 
ed  ingenite,  con  le  quali  costituì  un  patrimonio  ideale  largitoci 
per  scienza  infusa  e  separato  dal  mondo  reale. 

Ecco  i  frutti  che  porta  la  dialettica  sostituita  all'induzione  gra- 
duale ed  analitica  (1). 

Quanto  poi  all'  idealismo  fenomenico  (secondo  risultato)  il  Ro- 
magnosi  osserva  che  esso  in  Kant  assum.e  una  forma  speciale,  in 
quanto  che  il  filosofo  tedesco  pone  che  tutto  incominci  e  finisca 
dentro  uno  stesso  io  in  virtù  della  sua  natura.  L' io  umano  se- 
condo Kant  è  un  ente  a  sé,  e  1'  universo  è  un  puro  fenomeno 
ideale,  la  rappresentazione  del  quale  si  forma  in  noi  per  un  moto 
indipendente  e  tutto  proprio  del  nostro  io;  cosicché  la  sua  dot- 
trina, perché  sia  distinta  da  quella  del  Berkeley,  che  faceva  inter- 
venire la  divinità  invece  della  materia,  si  può  chiamare  aseismo  (2). 
Ora,  i  difetti  fondamentali  di  questa  forma  d'idealismo  sono  due: 


(1)  Esposizione  storico-critica  del  kantismo,  §§  232-235. 

(2)  Op.  cit.,  §  256. 


—  342  — 

1°  non  prova  l'esistenza  di  qualcosa  di  reale,  che  sia  fuori  di  noi 
e  susciti  le  nostre  idee;  cosicché  considera  la  mente  umana  come 
legislatrice  ideale  dell'universo  e  formatrice  degli  oggetti  esterni  (1); 
2°  ammette  che  ciò  che  suscita  le  nostre  idee  (il  complesso  degli 
oggetti  esterni)  ci  è  ignoto  in  sé  stesso  (noumeno);  e  da  questo 
inferisce  che  noi  non  possediamo  che  figmenti  puramente  nostri 
e  quindi  falsi  (non  corrispondenti  agli  oggetti  esterni  come  la 
copia  al  suo  originale). 

Ma,  osserva  il  Romagnosi,  queste  due  affermazioni  sono  errate; 
la  prima  perchè  é  possibile  dimostrar  l'esistenza  di  qualcosa  fuori 
di  noi  (e  il  Romagnosi  l'ha,  come  s'è  visto,  provata);  la  seconda 
perché  (e  anche  questo  s' é  visto),  se  noi  non  conosciamo  gli  og- 
getti in  sé  stessi,  ciò  non  vuol  dire  che  non  possiamo  conoscerli 
con  verità.  Altro  é  conoscere  con  verità,  ed  altro  è  conoscere  le 
cose  in  sé  stesse.  Un'illusione  naturale  trae  il  volgo  a  figurarsi 
che  la  nostra  mente  sia  come  uno  specchio  che  rifletta  le  imma- 
gini delle  cose,  e  che  quindi,  per  conoscere  con  verità,  noi  ab- 
biamo bisogno  di  vedere  gli  oggetti  (originali)  anche  immediata- 
mente (le  cose  in  sé)  e  paragonarli  con  le  immagini  loro  (copie). 
Ma,  nota  il  Romagnosi,  chi  ha  detto  ai  kantiani  che  per  conoscere 
con  verità  noi  dobbiamo  vedere  così  la  copia  come  l'originale  e 
riscontrare  l'identità  delle  forme?  I  kantiani  hanno  mai  pensato 
a  spiegare  in  che  consista  tanto  la  verità  assoluta,  quanto  la  ve- 
rità di  sensazione?  Non  l'hanno  mai  fatto.  Essi  all'opposto  hanno 
richiesto  un  fatto  assurdo,  e  posto  un  principio  insensato:  quindi 
ne  hanno  derivato  conseguenze  distruggenti  ogni  nostra  cogni- 
zione (acatalepsia).  Kant  avrebbe  dovuto  provare  che  le  apparenze 
delle  cose  non  abbiano  una  derivazione  reale  dall'  esterno,  e  che 
queste  apparenze  non  siano  altrettanti  effetti  reali  produttivi  di 
segni  necessari  dell'essere  e  del  fare  delle  cose;  solo  allora  avrebbe 
provato  r  invincibile  nostra  ignoranza  da  lui  asserita.  Invece,  col 
suo  argomento,  egli  ha  commesso  un  turpe  scambio  del  vero 
punto  della  questione.  Noi  non  possiamo  conoscere  gli  oggetti  esterni 
in  sé  stessi:  dunque  non  possediamo  che  figmenti  puramente  nostri. 
Ecco  r  argomento  fondamentale  di  Kant;  ecco  il  punto  unico  sul 
quale   poggia  e  gravita  tutta  la  mole   del   suo   scetticismo.   Ora, 


(1)  Della  suprema  economia  dell'umano  sapere,  pag.  547-548,  nota. 


—  343  — 

ognun  vede  che,  posto  l'antecedente,  non  ne  deriva  la  conse- 
guenza voluta  da  Kant;  e  che,  parlando  di  cognizione  reale  o  non 
reale,  egli  ha  solennemente  scambiato  i  termini  della  questione. 
Invece  di  cercare  se  le  nostre  conoscenze  dei  fatti  abbiano  una 
derivazione  esterna,  egli  ha  cercato  se  includano  il  concetto  delle 
cose  esterne  considerate  in  sé  stesse:  quasi  che  questo  concetto 
fosse  o  potesse  esser  diverso  da  quello  che  abbiamo,  o  che  l' in- 
tima essenza  delle  cose  si  potesse  rivelare  a  qualsiasi  mente  o 
umana  o  angelica  (1). 

Tale  difetto  della  filosofia  kantiana,  cioè  la  mancanza  di  una 
derivazione  esterna  delle  nostre  conoscenze,  ce  ne  spiega  un  altro: 
il  non  aver  trovato  quel  principio  unico  reale  ed  attivo  che  deve 
naturalmente  connettere  la  scienza  contemplativa  con  quella  ope- 
rativa dell'  uomo.  Questa  mancanza  è  capitale,  decisiva,  e  reca 
danno  a  tutto  il  sistema;  giacché  toglie  a  tutta  quanta  la  proto- 
logia il  carattere  di  vera  scienza  filosofica,  cioè  di  dottrina  dedotta 
da  una  sola  legge  primitiva  e  dimostrata  (che  deve  appunto  rego- 
lare un  soggetto  unico,  qual'  è  1'  uomo)  (2);  e  lascia  una  lacuna 
e  un  dissidio  insanabile  fra  la  ragion  teoretica  e  quella  pratica. 

L'  opera  di  Kant  é  dunque  tutta  corrosa  da  errori,  priva  d 
fondamenti.  Sapete  in  che  consiste  il  suo  vero  merito?  Nel 
r  aver  mosso  dubbi  su  alcune  nozioni  e  su  alcuni  principi  am 
messi  al  suo  tempo  in  Germania.  Col  suo  non  probastl  egl 
spinse  i  pensatori  a  ricercare  le  dimostrazioni,  se  possibili,  di 
quanto  comunemente  si  asseriva,  e  a  rafforzare  quelle  già  addotte; 
obbligò  così  i  filosofi  a  rivedere  i  fondamenti  del  sapere  umano 
e  ad  assicurarsi  della  loro  solidità  prima  di  proceder  oltre;  e  questo 
servigio  non  è  lieve.  Ma  nel  rimanente  non  creò  nulla  che  facesse 
progredire  la  gnoseologia;  anzi  la  fece  retrocedere.  Egli  fu  buon 
censore:  indicò  una  mancanza;  ma  non  seppe  porvi  rimedio.  Quindi 
la  sua  opera  fu  tutta  distruttrice,  nient'  affatto  costruttrice  (3). 


(1)  Esposizione  storico-critica  del  kantismo,  §§  280-284.  Cfr.  De  il' uso 
della  dottrina  della  ragione  etc.  §§  507-510. 

(2)  Espos.  etc,  §  235.  È  questa  anche  l'opinione  del  Buhle  (0/7.  cit., 
Voi.  XIl,  pag.  767).  Cfr.  Discorso  suW ordinamento  della  filosofia  mo- 
rale, pag.  1140. 

(3)  Esposiz.  etc,  §§  234  e  237.  Cfr.  Progressi  e  sviluppi  della  filo- 
sofia etc,  §  425. 


—  344  — 

O  allora,  si  potrebbe  domandare,  come  mai  Kant  sollevò  tanto 
■grido  di  sé?  Non  per  originalità  di  pensiero:  la  quale  non  si 
riscontra  certo  nelle  opere  del  filosofo  tedesco;  giacché  egli,  come 
s'  é  accennato,  non  fece  che  combinare  in  maniera  incoerente  o 
chimerica  le  dottrine  altrui  co'  suoi  cenci  dialettici.  Già  il  Gal- 
luppi  stesso  ha  notato  che  Kant  accozzò  qualche  mezza  verità 
con  alcuni  paralogismi  di  pensatori  moderni,  per  esempio  certe 
vedute  sane  di  Condillac  con  certe  sofisticherie  di  Hume;  riesumò 
le  categorie  aristoteliche,  eh'  egli  volle  violentemente  raffazzonare 
a  suo  modo  e  maritare  con  le  idee  di  Leibniz.  Niente  novità, 
dunque  (1).  Allora?  come  mai  tanta  fama?  Per  la  bizzarria  delle 
dottrine.  Il  pubblico  é  stato  talora  testimone  di  qualche  cervello 
bizzarro,  che  a  bello  studio  pubblicò  fantasie  mostruose,  le  quali 
furono  applaudite  assai  più  delle  composizioni  ottime.  Così,  per 
esempio,  si  narra  che,  quando  il  Goldoni  prese  a  riformare  la 
commedia  italiana  e  i  primi  suoi  tentativi  furono  coronati  dagli 
applausi  del  pubblico,  nacque  questione  fra  lui  e  Carlo  Gozzi 
suir  eccellenza  della  nuova  commedia.  Quegli,  per  difendere  la 
sua  causa,  allegò  gli  applausi  pubblici  che  aveva  ricevuti.  Allora 
il  Gozzi  soggiunse  che  questi  non  provavano  nulla,  e,  per  soste- 
nere col  fatto  la  sua  sentenza,  compose  le  Tre  melarance,  il  Mostro 
turchino  ed  altre  tali  mostruose  bizzarrie,  le  quali  furono  di  fatto 
applaudite.  Ma  quest'  audacia  del  Gozzi  non  potè  impedire  che 
il  pubblico  accogliesse  con  lode  la  riforma  del  Goldoni,  e  che 
le  Tre  melarance  e  il  Mostro  turchino  etc.  fossero  condannati 
alla  dimenticanza.  Del  pari,  quando  la  miglior  parte  d'  Europa 
si  occupava  dello  studio  della  filosofia  fondato  dai  pensatori  in- 
glesi, francesi  e  italiani  su  induzioni  posate  e  giudiziose,  sopra- 
venne Kant,  il  quale,  facendola  da  critico  e  da  riformatore,  pre- 
sentò al  pubblico  la  sua  filosofia  trascendentale,  e  fu  in  Germania 
ammirato,  applaudito,  come  a  Venezia  il  Gozzi.  La  scena  richie- 
deva alquanto  più  tempo,  perché  la  composizione  era  più  vasta 
e  la  materia  meno  volgare;  ma  1'  esito  sarà  certamente  Io  stesso. 


(1)  Esposiz.  etc,  §  269.  Cfr.  Progressi  e  sviluppi  della  filosofia  etc, 
pag.  683.  il  CantÙ  {Notizia  di  G.  D.  Romagnosi,  Edz.  cit.,  pag.  119-120) 
dice  che  il  Romagnosi  chiamò  la  filosofia  di  Kant  una  crisalide  aristo- 
telico-cartesiana  con  le  gambe  in  aria. 


—  345  — 

L'  opera  di  Kant  sarà  sepolta  in  eterno  oblio.  Infatti,  dice  il  Ro- 
magnosi,  il  tentativo  di  riforma  kantiana  è  già  andato  fallito  in 
Inghilterra  e  in  Francia.  In  Italia  poi....  «  se  qualche  meschino 
cervello,  simile  a  que'  scimmiotti  della  moda,  i  quali  si  strozzano 
i  fianchi  e  si  lasciano  crescere  le  unghie  e  la  barba,  si  fa  bello 
di  qualche  strambotto  trascendentale,  ciò  avviene  senza  pericolo 
di  contagio.  Il  buon  senso  italiano  non  permetterà  mai  che  la 
filosofia  e  la  lingua  sua  siano  ridotte  al  segno,  che  una  bella  dica 
seriamente  all'  amante  suo:  Voi  mi  amate  sub iettiv amente  e  non 
obiettivamente.  Ottima  frase  per  dissipare  l' illusione  che  nobilita 
questo  sentimento,  e  ridurlo  ad  un  senso  tutto  animalesco  e  di 
desolante  libertinaggio  »  (1). 

Riassumendo:  Kant  secondo  il  Romagnosi  non  è  un  pensatore 
originale:  egli  infatti  sostenne  l'esistenza  già  nota  delle  segnature 
intellettive  accanto  alle  sensitive,  e  rinnovò  l' idealismo  del  Con- 
dillac.  Per  giungere  però  al  primo  risultato  si  valse  non  del  me- 
todo psicologico  induttivo,  bensì  di  quello  trascendentale,  e  così 
fu  tratto  ad  ammettere  gli  assoluti  e  gli  a  priori.  Ma  degli  asso- 
luti noi  nulla  sappiamo  dire,  poiché  ci  è  dato  conoscere  solo  la 
natura  dell'  intelletto  umano  così  com'  è  in  re;  gli  a  priori  poi, 
concepiti  come  forme  innate  e  preesistenti  all'  esperienza,  sono 
falsi,  giacché  non  esistono  in  noi  nozioni  innate;  e  del  resto  si 
può  indicare  mediante  l' analisi  la  genesi  loro.  Quanto  al  feno- 
menismo idealistico  di  Kant,  vi  si  possono  notare  due  errori: 
1°  esso  non  dà  la  dimostrazione  dell'esistenza  di  qualcosa  di 
reale  a  noi  esterno,  e  perciò  viene  ad  ammettere  che  la  mente 
umana  forma,  costruisce  gli  oggetti  e  dà  leggi  all'  universo;  2"  dal- 
l' impossibilità  di  conoscere  le  cose  in  sé  (noumeni)  inferisce 
r  impossibilità  di  possedere  la  verità  (scetticismo),  mentre  poteva 
evitare  l'acatalepsia  dimostrando  che  le  idee  derivano  dall'azione 
degli  oggetti  esterni.  Quest'ultimo  errore  ne  generò  un  altro:  la 
mancanza  d'unità  nel  sistema,  e  un  dissidio  insanabile  fra  ragion 
teoretica  e  ragion  pratica.  Unico  merito  di  Kant  é  aver  provato 
come  quelle  dimostrazioni  che  erano  comunemente  accettate  al 
suo  tempo  mancassero  di  basi  solide,  e  come  bisognasse  riesa- 
minare i  fondamenti   del  sapere  umano;   quindi  la  sua  opera  è 


(1)  Esposiz.  etc,  §§  266-268. 


—  346  — 

distruttrice;  nulla  costruì.  Egli  perciò  non  sarebbe  degno  della 
fama  acquistatasi;  questa  è  dovuta  solo  alle  bizzarrie  della  sua 
dottrina;  quindi  ben  presto  passerà. 

Tale  critica  è  un  miscuglio  di  vero  e  di  falso.  Esagerata  e  in- 
giusta è  la  taccia  di  non  originalità  attribuita  a  Kant,  la  dottrina 
del  quale  inizia  veramente  un  nuovo  modo  di  considerare  il  pro- 
blema della  conoscenza  e  la  verità;  è  falso  che  Kant  voglia  par- 
lare d"  un'  intelligenza  generica  qualunque;  egli  esamina  e  cerca 
di  spiegare  le  funzioni  e  le  leggi  dell'intelletto  umano  così  com'  è 
(appunto  per  questo  la  conoscenza  nostra  dell'universo  è  secondo 
lui  relativa  alla  forma  mentis  dell'uomo  e  quindi  fenomenica)  (1), 
e,  pur  non  escludendo  che  vi  possano  essere  intelletti  diversi  dal 
nostro,  soggetti  ad  altre  leggi  e  categorie,  i  quali  quindi  abbiano 
del  mondo  una  conoscenza  diversa  dalla  nostra  (per  es.  quella 
divina),  non  pretende  certo  di  rivelarne  la  natura  e  il  modo 
d'  apprendere  gli  oggetti  (2).  È  anche  falso  che  Kant  concepisca 
le  forme  come  idee  beli'  e  formate,  preesistenti  all'  esperienza  o 
come  modelli  materiali  (sigilli,  punzoni  di  stamperia).  Le  categorie 
kantiane  sono,  come  s'è  detto  a  proposito  delle  critiche  del  Bor- 
relli,  leggi  e  funzioni  dell'  intelletto,  maniere  necessarie  e  univer- 


(1)  Kritik  d.  r.  V.,  pag.  668  e  pag.  663-64  (dove  Kant  dice  che  il 
principio  dell'unità  sintetica  dell'appercezione  vale  non  per  ogni  intel- 
letto possibile  in  genere,  ma  solo  per  quello  dalla  cui  appercezione 
pura  nella  rappresentazione  lo  sono  non  è  dato  ancor  nulla  di  molte- 
plice: cioè  per  l'intelletto  umano).  Kant,  è  vero,  dà  una  deduzione  tra- 
scendentale e  non  empirica  dei  concetti  puri  dell'  intelletto,  e  vuol  in- 
dicare le  condizioni  della  possibilità  d'ogni  conoscenza  degli  oggetti; 
ma  intende  sempre  la  conoscenza  umana,  tant'è  vero  che  il  principio 
dell'unità  sintetica  dell'appercezione,  che  è  il  principio  supremo  di  ogni 
uso  dell'intelletto,  vale  solo  per  noi  uomini. 

(2)  Op.  cit.,  pag.  66  («  Noi  non  conosciamo  nient' altro  che  la  nostra 
maniera  particolare  di  percepire  gli  oggetti,  che  non  è  necessaria  per 
ogni  essere,  quantunque  debba  appartenere  a  tutti  gli  uomini  »),  e 
pag.  664  (-^  Esso,  l' intelletto  umano,  non  può  formarsi  neppure  la  più 
vaga  idea  d'un  altro  intelletto  possibile,  o  d'un  intelletto  siffatto  che 
o  intuisse  da  sé  senz'altro  o  possedesse  come  suo  fondamento  un'in- 
tuizione sensibile,  ma  di  natura  diversa  da  quella  che  e  nello  spazio  e 
nel  tempo  «).  Cfr.  pag.  55. 


—  347  — 

sali  per  noi  uomini  di  concepire  e  ordinare  l'universo,  che  si 
esplicano  solo  a  contatto  dell'esperienza.  È  falso  che  Kant  non 
dia  la  dimostrazione  dell'esistenza  di  qualcosa  di  reale  a  noi 
esterno,  che  susciti  le  nostre  idee;  basti  infatti  ricordare  la  sua 
confutazione  dell'  idealismo  di  Cartesio  e  di  Berkeley,  in  cui  di- 
mostra che  la  nostra  stessa  esperienza  interna  è  possibile  solo  se 
si  suppone  un'esperienza  esterna  (percezione  di  qualcosa  di  reale 
esistente  fuori  dell'Io)  (1).  È  falso  pure  che  fra  la  Critica  della 
ragion  pura  e  la  Critica  della  ragion  pratica  ci  sia  dissidio,  che  l'etica 
kantiana  è  una  conseguenza  diretta  e  un'  integrazione  necessaria 
della  filosofia  teoretica  (2).  È  falso  infine  che  la  fama  di  Kant 
dipenda  dalle  bizzarrie  della  sua  dottrina.  È  invece  vero  che  Kant 
trascura  l' analisi  psicologica  (e  questo  è  senza  dubbio  un  suo 
difetto);  è  vero  anche  che  secondo  Kant  la  nostra  mente  è  for- 
matrice degli  oggetti  e  dà  leggi  all'  universo,  non  però  per  la 
ragione  indicata  dal  Romagnosi  (mancanza  d'  una  dimostrazione 
dell'  esistenza  di  qualcosa  di  reale  a  noi  esterno),  ma  per  il  sem- 
plice motivo  che  Kant  crede  di  poter  risolvere  solo  così  il  pro- 
blema della  conoscenza  (è  la  sua  novità,  eh'  egli  paragona  alla 
riforma  copernicana  in  astronomia).  È  anche  vero  che  è  merito  di 
Kant  aver  criticato  le  vecchie  prove  che  si  adducevano  in  filosofia 
e  aver  spinto  i  pensatori  a  maggior  cautela  e  ad   indagini   più 


(1)  Op.  cit.,  pag.  208  e  seg. 

(2)  Kant  ragiona  così:  —  Se  la  conoscenza  del  nostro  intelletto  fosse 
assoluta,  cogliesse  cioè  la  realtà  in  sé,  i  noumeni,  non  ci  sarebbe  posto 
per  la  libertà  e  per  il  mondo  morale;  che  la  conoscenza  intellettiva  non 
ci  presenta  che  fatti  connessi  secondo  la  legge  di  causa  ed  escludenti 
quindi  la  libertà.  Ma,  come  s'  è  visto  nella  Critica  della  ragion  pura, 
la  nostra  conoscenza  intellettiva  è  limitata  ai  fenomeni;  essa  quindi  non 
può  distruggere  le  affermazioni  di  un'altra  scienza  (la  morale)  che  con- 
sideri la  realtà  intelligibile  (noumeni)  di  quei  fenomeni,  e  ammetta  la 
libertà;  che,  in  tal  caso,  oltrepasserebbe  i  suoi  limiti  (i  fenomeni).  In- 
somma l'intelletto  non  può  negare  che  la  libertà  sia  possibile  in  un 
mondo  diverso  da  quello  da  lui  conosciuto.  Tale  possibilità  diventa  cer- 
tezza per  le  prove  morali.  Perciò  nella  limitatezza  stessa  della  conoscenza 
intellettiva  Kant  fonda  la  possibilità  d'affermare  la  libertà  e  l'esistenza 
di  un  mondo  superiore  a  quello  fenomenico;  ecco  perchè  egli  afferma 
che  doveva  sopprimere  il  sapere  per  dar  posto  alla  fede. 


—  348  — 

accurate  e  scrupolose.  Infine  il  Romagnosi  non  rimprovera  a 
Kant  r  ammissione  dei  noumeni,  che  anche  lui  crede  che  le  cose 
in  sé  siano  inconoscibili,  ma,  come  abbiamo  già  detto  parlando 
a  parte  della  sua  dottrina,  cerca  di  superare  il  punto  di  vista 
kantiano  mutando  il  concetto  comune  di  verità  (la  quale  per 
lui  è  non  di  rassomiglianza  con  la  natura  inconoscibile  degli 
oggetti,  ma  di  corrispondenza  con  1'  azione  di  questa  natura),  e 
dando  importanza  solo  all'  azione  che  noi  possiamo  esercitare 
sugli  oggetti  a  traverso  i  segni,  per  ottenerne  dell'  utile  (1).  Ma 
qui  bisogna  osservare  prima  di  tutto  che  Kant  non  considera  già 
(come  pensa  il  Romagnosi)  le  nostre  conoscenze  quali  parvenze 
illusorie  (flgmenti  nostri),  bensì  quali  notizie  di  fenomeni,  che  son 
tutt'  altro  (2);  in  secondo  luogo  che  per  verità  s' intende  comu- 
nemente qualcosa  di  diverso  (corrispondenza  fra  1'  atto  mentale 
e  la  natura  dell'  essere),  e  che  quindi  la  questione  è  mutata. 


LA  CRITICA  DEL  BONFADINI.  —  Dobbiamo  infine  toccare 
della  critica  del  Bonfadini,  già  da  noi  ricordato;  il  quale  il  15  giu- 
gno 1830  lesse  nell'Accademia  di  scienze,  lettere  ed  arti  di  Padova 
un  discorso  analitico  Sulla  critica  della  ragione  pura  di  Kant  (3). 

La  fama  di  Kant  è  ormai  al  colmo  per  tutta  l'Europa.  «  Ben 
mi  sovviene  >,  dice  il  Bonfadini,  «  che  nel  principio  del  secolo 
viaggiando  io  per  la  Germania,  non  era  lecito,  per  così  dire,  di 
porre  in  dubbio  nessuna  delle  proposizioni  della  Critica  del  Kant, 
senza  correre  pericolo  d'  essere  tacciato  di  ostinazione,  o  di  po- 
chezza d' ingegno,  od  almeno  di  non  averne  penetrato  il  vero 
senso;  della  quale  ultima  taccia  difficilmente  si  poteva  andar  libero, 
poiché  la  terminologia  del  Kant  e  l' intralciata  esposizione  delle 


(1)  Mi  pare  che  il  vero  valore  di  questo  atteggiamento  pragmatistico 
del  Romagnosi  sia  sfuggito  al  Credaro  (0/7.  cit.,  Vi,  pag.  56-58). 

(2)  Il  fenomeno  per  Kant  è  qualcosa  di  reale,  non  un  figmento  nostro; 
solo  che  noi  conosciamo  questo  reale  non  com'è  in  sé  (oggettivamente), 
ma  come  ci  si  presenta  a  traverso  i  nostri  mezzi  conoscitivi. 

(3)  Vedere  Nuovi  saggi  della  l.  R.  Accademia  di  scienze,  lettere 
ed  arti  in  Padova,  Volume  III,  Padova,  Tipografia  della  Minerva,  1831, 
pag.  242-258. 


—  349  — 

sue  dottrine  rendevano  l'opera  di  difficilissima  intelligenza  »  (1). 
Il  Bonfadini   s' è  valso,  per   il   suo   lavoro,  della   traduzione   del 
Mantovani  (2);  ed  espone  con  molta  chiarezza  le  linee  fondamen- 
tali della  dottrina  kantiana,  mostrando  come  l'essenziale  del  cri- 
ticismo stia  neir  aver  indicata  1'  esistenza  di  principi  universali  e 
necessari  (definizioni  matematiche,  principio  di  causa  etc),  e  nel- 
r  aver   sostenuto   che   questi   principi,  pur   essendo   indipendenti 
dall'  esperienza    (appunto    perchè    universali   e    necessari),   sono 
però    sintetici,    non    analitici.    Tale    dottrina    desta    ammirazione 
nel  Nostro:  il  quale,  pur  respingendo  i  giudizi  sintetici  a  priori, 
accetta  la  distinzione  fra  giudizi  analitici  e  sintetici  (3),  e  afferma 
che  nessun   altro  filosofo   prima  di  Kant  «  ha  spinto   tant'  oltre 
r  analisi   delle   operazioni   dell'  anima,   ed   anatomizzati,  per  così 
dire,  gli  elementi  delle   umane  cognizioni  »,  e  che  il   filosofo  di 
Koenigsberg  ha  «  forse  il  primo,  o  almeno  piti  precisamente  di 
qualunque   altro,  determinato   sotto   qual   punto   di   vista   debba 
considerarsi  la  metafisica  propriamente  detta,  e  quali  siano  i  pro- 
blemi  che  in   ultima  analisi   essa   propone  a  risolvere  »  (4).  Ma 
questo  senso  d'ammirazione  non  impedisce  al  Bonfadini  di  vedere 
i  lati  difettosi  del  kantismo  e  di  criticarli.  Tre  sono  le  sue  obie- 
zioni principali.  1°  La  tesi  kantiana  che  tutto  il  nostro  sapere  si 
appoggi  a  principi   sintetici,  presa  in  largo   significato,  è  giusta, 
poiché  ogni   nostro   sapere   presuppone  sempre  1'  oggetto  a  cui 
esso  si  riferisce,  e  la  nozione  dell'oggetto  non  si  può  comporre 
che  mediante  giudizi  sintetici.  Così  io  non  potrò  saper  nulla  del- 
l'oro, se  prima  non  mi  sia  formato  il  concetto  di  questo  metallo 
mediante  giudizi  sintetici,  valendomi  dell'esperienza.  Dunque  non 
e'  è  dubbio  che  appunto  i  giudizi  sintetici  amplificano  il  sapere, 
in  quanto  che  offrono  un  maggior  numero  di  oggetti  alla  facoltà 
di  conoscere.  Ma  non  si  può  dire  che  tutto  il  nostro  sapere  de- 
rivi da  essi;  poiché  per  es.  la  scienza  delle  proprietà  del  cerchio 
e  delle  altre  figure  geometriche,  la  debbo  ai  giudizi  analitici  (5). 
2°  È  vero  che  nella  conoscenza  umana  vi  sono  principi   univer- 
sali e  necessari.  Ma  i  loro  caratteri  di  universalità  e  necessità  non 


(1)  Op.  cit.,  pag.  245.  (2)  Op.  cit,  pag.  246. 

(3)  Op.  cit,  pag.  251.  (4)  Op.  cit.,  pag.  257. 

/i;\     rtn      /.fV        riQrr      ORO 


\ó)  up.  CU.,  pag.  zDi. 
(5)  Op.  cit,  pag.  252. 


—  350  — 

ci  devono  indurre  a  considerarli  come  a  priori  (indipendenti  dal- 
l'esperienza).  Bisogna  vedere  se  l'anima,  valendosi  delle  sue  po- 
tenze di  unire,  di  scomporre,  di  astrarre  e  di  anatomizzare,  per 
così  dire,  le  idee  e  le  nozioni  empiriche,  non  possa  formarsi  al- 
cuni concetti,  i  quali,  analizzati,  porgano  cognizioni  dotate  di 
assoluta  necessità  (1).  Per  es.  non  è  possibile  all'anima  trarre 
dall'  idea  empirica  d' estensione  il  concetto  astratto  della  linea 
retta,  unire  poi  tre  linee  rette,  in  modo  che  racchiudano  una  fi- 
gura, e  comporre  quindi  il  concetto  di  triangolo  rettilineo  ?  E 
r  anima  da  tale  concetto  non  può  forse  trarre,  mediante  giudizi 
analitici,  molte  proposizioni  dotate  di  assoluta  necessità  e  tutte 
universali,  perchè  contenute  essenzialmente  nel  concetto  già  for- 
mato di  triangolo  ?  (2).  Kant,  per  provare  1'  esistenza  di  giudizi 
sintetici  a  priori,  ricorre  sempre  al  principio  di  causa;  ma  questo, 
chi  ben  consideri,  può  derivare  dall'  esperienza  interna.  Noi  ab- 
biamo coscienza  che  molti  fenomeni  psichici  sono  del  tutto  di- 
pendenti dalla  libera  azione  della  volontà:  ebbene,  appunto  questa 
coscienza  potrebbe  a  poco  a  poco  far  sorgere  nel  nostro  intel- 
letto il  concetto  di  causa,  che,  allora,  non  sarebbe  più  a  priori. 
Una  spiegazione  simile  si  potrebbe  forse  dare  degli  altri  concetti 
che  Kant  considera  come  a  priori  (3).  3°  Le  idee  di  spazio  e  di 
tempo,  che  Kant  considera  come  indipendenti  dall'  esperienza, 
non  son  certo  tali.  Infatti  non  si  può  capire  come  l' idea  o  con- 
cetto di  spazio  preesista  in  noi,  e  come  l'anima  attenda  soltanto 
r  occasione  dell'  esperienza  per  averne  la  percezione;  poiché  non 
basta,  per  avere  questa,  che  l' anima  sperimenti  le  impressioni 
dei  sensi  in  genere;  è  necessario  invece  che  le  impressioni  siano 
trasmesse  da  alcuni  determinati  sensi  piuttosto  che  da  altri.  Così 
i  due  sensi  dell'  odorato  e  dell'  udito  non  sono  capaci  di  susci- 
tare in  noi  r  idea  dello  spazio;  noi  quindi  non  potremmo  mai 
con  questi  due  mezzi  affermare  che  i  corpi  siano  dotati  d'esten- 
sione ed  esistano   nello  spazio.  È  vero   che  l' anima,  nel   sentire 


(1)  Di  qui  si  vede  che  il  Bonfadini  resta  fedele  al  Locke  e  agl'ideo- 
logi. Lockiana  è  anche  1' affermazione  dell'inconoscibilità  delle  sostanze 
{Op.  cit.,  pag.  250). 

(2)  Op.  cit,  pag.  249. 

(3)  Op.  cit,  pag.  252  e  257. 


—  351  — 

un  odore  conosciuto,  si  rappresenta  l' oggetto  odoroso,  e  lo 
proietta  nello  spazio;  ma  questo  avviene  per  l'associarsi  delle  idee, 
per  cui,  all'  occasione  dell'  odore,  sono  richiamate  alla  mente  le 
idee  dovute  alle  impressioni  tattili  e  visive.  Tale  fatto  psicologico 
ci  deve  destare  almeno  il  sospetto  che  l'anima  concepisca  l'idea 
dello  spazio  mediante  una  certa  organizzazione  dei  sensi  e  il  loro 
modo  di  agire,  che  porgono  l' occasione  di  mettere  in  attività 
alcune  delle  sue  potenze  per  conseguire  il  fine  proposto.  Ma,  in 
tal  caso,  il  concetto  di  spazio  non  è  più  preesistente  a  qualunque 
esperienza  (1). 

Notevole  è  questa  critica  sia  per  la  sua  acutezza,  sia  per  la 
circospezione  e  la  prudenza  con  cui  è  presentata;  e,  quantunque 
talora  sia  espressione  di  empirismo  eccessivo,  merita  considera- 
zione specialmente  per  la  prima  e  la  terza  obiezione.  Quanto  dice 
sul  principio  di  causa  invece  non  scioglie  la  difficoltà;  giacché  noi 
neir  atto  volontario  percepiamo  nella  coscienza,  come  nell'  espe- 
rienza esterna,  un  antecedente  e  un  conseguente;  il  loro  nesso 
causale  ci  sfugge. 

*  * 

Abbiamo  così  esaminate  le  principali  critiche  rivolte  dagl'ideo- 
logi francesi  e  italiani  alla  dottrina  di  Kant  (2).  Non  è  dubbio 
che  costoro  non  mettano  spesso  il  dito  su  piaghe  veramente 
aperte  e  vive  nell'organismo  della  filosofia  trascendentale.  D'altra 
parte  non  si  può  negare  che  talvolta  la  critica  degl'  ideologi  ci 
ricordi  il  giuoco  «  a  mosca  cieca  »,  in  cui  il  bendato  dà  botte 
da  orbo  a  destra  e  a  sinistra,  senza  sapere  dove  e  su  chi,  spesso 


(1)  Op.  cit.,  pag.  256-257.  Tale  obiezione,  come  si  noterà  facilmente, 
ne  ricorda  una  simile  del  Soave. 

(2)  Anche  P.  Costa  {Del  modo  etc,  Gap.  XXIIl  e  XXV)  toccò  della 
teoria  kantiana  dello  spazio  e  del  tempo,  ma  assai  fugacemente  e  con 
qualche  osservazione  critica  poco  notevole.  Pure  il  Nessi  {Schizzo  etc, 
pag.  104-168)  esaminò  la  dottrina  di  Kant  fondandosi  sul  Buhle  e  sulla 
traduzione  italiana  del  Mantovani  (cita  anche  il  compendio  del  Kinker 
e  la  critica  del  Tracy);  ma  la  sua  esposizione  è  assai  schematica,  e  la 
critica  fiacca  (non  fa  che  sostituire  alle  idee  di  Kant  le  sue,  senza  ap- 
profondire l'analisi  delle  opere  del  filosofo  tedesco). 


—  352  — 

picchiando  a  vuoto;  infatti  più  di  una  volta  essi  intendono  male 
il  pensiero  kantiano  e  combattono  con  nubi  della  loro  mente. 
Che  cosa  risulta  dunque  da  questa  polemica?  Prescindendo  dalle 
differenze  particolari,  vediamo  subito  che  il  punto  in  cui  diver- 
gono i  due  indirizzi  filosofici  è  il  metodo;  che  gì'  ideologi  cam- 
minano sul  terreno  dell'  esperienza,  mentre  Kant,  andando  in 
cerca  degli  a  priori,  che  trascendono  1'  esperienza  e  ne  sono  il 
presupposto,  se  ne  allontana.  Senza  dubbio  qui  la  filosofia  kan- 
tiana è  in  isvantaggio;  che  una  dottrina  del  conoscere  fondata 
su  di  un  metodo  non  analiticoempirico  non  sodisfa  le  menti  po- 
sitive. Tuttavia  gì'  ideologi  sono  veramente  riusciti  a  spiegar  tutte 
le  conoscenze  umane  con  l' esperienza  sensoriale  schietta  ?  No; 
r  abbiamo  notato  più  volte  nel  corso  del  nostro  lavoro.  Essi  di 
solito  non  hanno  voluto  ammettere  altra  fonte  del  conoscere  che 
la  sensazione;  ma  o  hanno  snaturato  i  fatti,  o  hanno  dovuto  ab- 
bandonare, pur  con  incertezze  e  tentennamenti,  l'esperienza  sen- 
soriale bruta.  Qui  è  perciò  il  vantaggio  e  la  superiorità  di  Kant 
rispetto  a  loro. 


CONCLUSIONE 


Volgiamo  uno  sguardo  a!  cammino  percorso. 

Noi  abbiamo  innanzi  tutto  esaminato  le  condizioni  della  ge- 
nesi del  movimento  filosofico  degl'  ideologi:  le  quali,  come  ab- 
biamo visto,  non  furono  che  lo  sviluppo  grandioso  della  scienza 
e  quindi  il  diffondersi  del  metodo  analitico  induttivo.  Conse- 
guenza: il  prevalere  della  filosofia  di  Locke  e  il  crollo  dell'edi- 
ficio speculativo  di  Cartesio.  Non  tutto  però  l' edificio  cartesiano 
rovinò:  le  parti  solide  restarono.  Da  queste  circostanze  abbiamo 
derivato  i  caratteri  generali  della  filosofia  del  settecento,  e  ab- 
biamo poi  scorsi  i  problemi  fondamentali  agitati  in  quel  tempo. 

Siamo  indi  passati  all'  esame  del  pensiero  dei  principali  rap- 
presentanti del  movimento  filosofico  in  Francia. 

L' iniziatore  vero  e  proprio  del  movimento  fu  Voltaire:  il  quale 
ingaggiò  battaglia  contro  i  cartesiani,  iniziò  le  prime  ricerche  ideo- 
logiche (specie  sulla  percezione  dello  spazio)  e  quell'agnosticismo 
che  fu  poi  comune  a  tutti  gl'ideologi,  non  ostante  i  tentativi  di 
uscirne  compiuti  da  molti. 

A  Voltaire  seguì  Diderot,  che  nella  Lettre  sur  les  aveugles 
espose  osservazioni  acutissime  sulla  percezione  dello  spazio,  e 
nella  Lettre  sur  les  sourds  et  muets  suggerì  l'idea  &  uri' anatomia 
della  psiche  umana. 

Poi  Buffon,  per  rintracciare  1'  anima  vergine  dell'  uomo  e  as- 
sistere all'aurora  della  vita  psichica,  astraendo  dalla  cultura  qual'è 
ora  sviluppata  e  complessa,  si  trasferì  col  pensiero  all'esperienza 
iniziale  del  primo  uomo,  anticipando,  così,  la  finzione  della  statua 
del  Condillac. 

Ebbero  importanza  per  il  movimento  ideologico  anche  Mon- 
tesquieu e  Rousseau:  l'uno  perii  tentativo  di  determinare  la  vita 
civile   dei   popoli  in   rapporto  al  così  detto  «  ambiente  fisico  »; 

23 


—  354  — 

r  altro  per  il  suo  sentimentalismo  e  per  1'  analisi  delle  passioni 
(come  anche  per  il  suo  spirito  antidommatico). 

Il  primo  ideologo  vero  e  proprio,  colui  che  pose  i  problemi 
fondamentali  del  tempo,  fu  il  Condillac.  Egli  indicò  e  spiegò  in- 
nanzi tutto  il  metodo  da  seguire:  l' analisi;  lo  applicò  poi  allo 
studio  della  vita  psichica,  di  cui  mostrò  la  genesi  e  lo  sviluppo 
ricorrendo  alla  famosa  finzione  della  statua,  escogitata  appunto 
per  realizzare  le  condizioni  più  favorevoli  all'  analisi.  Abbiamo 
visto  che  i  principali  mutamenti  arrecati  da  lui  nella  filosofia 
lockiana  furono:  la  riduzione  di  tutte  le  facoltà  psichiche  al  sen- 
tire; un'analisi  più  esatta  della  nozione  di  spazio;  l'eliminazione 
delle  differenze  fra  qualità  primarie  e  secondarie;  l' asserzione 
della  semplicità  dell'anima  e  la  negazione  della  possibilità  d'at- 
tribuire il  pensiero  alla  materia;  1'  assunzione,  come  criterio  del 
vero,  del  principio  d'identità.  I  germi  di  questi  mutamenti  erano 
però  nella  dottrina  di  Locke;  onde  abbiamo  concluso  che  il  pas- 
saggio dalla  dottrina  del  filosofo  inglese  a  quella  del  filosofo 
francese  era  non  solo  facile,  ma  quasi  necessario  (1). 

La  dottrina  del  Condillac  presentava  però  vari  difetti.  Abbiamo 
visto  infatti  che  l'analisi  senza  la  sintesi  non  dà  una  conoscenza 
esauriente  degli  oggetti  (li  riduce  a  membra  disieda);  che  non  è 
possibile  considerare  tutto  il  sapere  umano  come  una  catena  con- 
tinua di  giudizi  analitici  (identici);  che  il  Condillac  non  dà  sempre 
alla  parola  analisi  \o  stesso  significato;  che  l'analisi  (così  com'è 
concepita  dal  Condillac),  applicata  allo  studio  della  psiche,  ha  sna- 
turato questa;  che  è  impossibile  ridurre  tutte  le  facoltà  psichiche 
al  sentire;  che  il  Condillac  non  è  riuscito  a  spiegare  la  mancanza 
del  linguaggio  nelle  bestie  e  la  presenza  nella  mente  umana  di 
categorie  e  leggi  assolute;  che  il  filosofo  francese  è  stato  tratto 
dai  suoi  principi  a  concepire  l' anima  come  tutta  passiva,  non 
ostante  che  abbia  cercato  invano  di  darle  un'  ombra  d' attività; 
che  gli  è  sfuggito  il  problema   del  subconscio;  che  infine  anche 


(1)  Tant' è  vero  questo,  che  anche  in  Inghilterra  s'era  compiuto  un 
mutamento  simile:  infatti  il  Berkeley  aveva  eliminato  le  differenze  tra 
qualità  primarie  e  secondarie,  aveva  analizzato  più  profondamente  la 
nozione  di  spazio;  1'  Hume  e  poi  I'  Hartley  avevano  sostenuto  e  svilup- 
pato l'associazionismo. 


—  355  — 

r  analisi  della  nozione  di  spazio,  quantunque  notevole  per  il  suo 
tempo,  non  è  priva  di  mende. 

Un  tentativo  simile  a  quello  del  Condillac  fu  compiuto  dal 
Bonnet.  Esistono  però  differenze  fra  l'uno  e  l'altro;  le  quali  sono 
principalmente  le  seguenti:  il  metodo  del  Bonnet  è  veramente 
analitico-induttivo;  egli  non  riduce  tutte  le  attività  psichiche  al 
sentire,  da  cui  distingue  specialmente  i  fatti  di  volontà;  inoltre  il 
Bonnet  tenta  (anticipando  le  ricerche  del  Cabanis)  di  risolvere  i 
problemi  ideologici  con  i  dati  della  fisiologia.  Quindi  il  valore 
dell'  ideologia  bonnetiana  rispetto  a  quella  del  Condillac.  Poco 
notevoli  sono  invece  le  ricerche  propriamente  ideologiche  del- 
l' Helvétius;  di  cui  però  è  importante  1'  analisi  delle  passioni. 

Questi  tentativi,  con  i  loro  difetti,  non  potevano  appagare  tutti 
i  contemporanei.  Doveva  quindi  esser  ripresa  la  discussione  dei 
problemi.  Sorse  infatti  il  Cabanis,  che  rese  sperimentale  V  ideo- 
logia considerando  i  fenomeni  psichici  in  connessione  con  quelli 
fisiologici;  e,  contro  il  Condillac,  mostrò  la  necessità  di  ammet- 
tere sensazioni  d'origine  interna  (istinti,  senso  interno);  l'impos- 
sibilità quindi  di  considerarla  psiche  umana,  all'inizio  della  vita, 
come  una  tabula  rasa;  V  esistenza  di  sensazioni  subconscie;  l' er- 
rore (in  cui  era  caduto  anche  il  Bonnet)  di  considerare  le  facoltà 
psichiche  come  operanti  1' una  indipendentemente  dall'altra;  eia 
necessità  di  coordinar  tutte  queste  in  una  visione  sintetica  ed 
organica.  Il  Tracy  criticò  e  integrò  anche  lui  il  Condillac;  riesa- 
minando il  problema  della  percezione  spaziale,  richiamò  l' atten- 
zione sul  senso  di  movimento  (cinestesi),  e  non  considerò  più  il 
soggetto  come  passivo,  ma  diede  la  dovuta  importanza,  nella  co- 
noscenza, all'  elemento  attivo  e  volontario;  aprì,  così,  la  strada  a 
Maine  de  Biran;  inoltre  diede  forma  definitiva  e  compiuta  alle 
ricerche  grammaticali  fondate  sull'  analisi  dell'  intelletto;  tentò  di 
riformare  la  logica.  Tuttavia  cadde  pur  lui  in  vari  errori.  Confuse 
la  sensibilità  con  la  coscienza,  e  così  cercò,  come  il  Condillac, 
di  mostrare  che  tutte  le  facoltà  psichiche  si  riducono  al  sentire. 
Egli  inoltre,  dopo  aver  creduto  di  provar  1'  esistenza  degli  esseri 
esterni,  cadde  in  un  idealismo  fenomenistico  brulicante  di  con- 
tradizioni. Escluse  ingiustamente  dall'  ideologia  le  scienze  dedut- 
tive; né  riuscì  veramente  ad  abbandonare  i  principi  della  logica 
aristotelica.  Lo  Stendhal  infine,  applicando  il  metodo  degl'  ideo- 
logi, creò  un  vero   gioiello:  il  De  l' amour,  in  cui   analizzò   non 


—  356  — 


solo  r  amore,  ma  le  passioni  in  genere,  e  gettò  le  basi  della  così 
detta  logica  dei  sentimenti. 

Passando  agi'  ideologi  italiani,  abbiamo  esaminato  le  condi- 
zioni che  favorirono  il  penetrare  e  il  diffondersi  della  cultura  fran- 
cese in  Italia.  Le  quali  furono:  le  riforme  dei  principi  promosse 
dagli  studiosi  di  legislazione  e  dagli  economisti;  le  sette  politiche 
e  religiose  (specialmente  giansenismo,  massoneria  etc);  il  fiorire 
delle  scienze  positive  e  di  studi  filosofici  fondati  sull'  esperienza 
(«  sperimentalismo  >);  il  favore  incontrato  nella  nostra  penisola 
dalla  dottrina  del  Gassendi. 

Già  al  principio  del  secolo  la  filosofia  lockiana,  preparando  il 
terreno  all'ideologia,  cominciò  a  diffondersi  per  la  penisola,  seb- 
bene non  senza  contrasti;  e,  nell'  Italia  meridionale,  s' insinuò 
prima  nelle  opere  del  Genovesi,  compenetrò  poi  gli  scritti  di 
molti  pensatori.  Ma  l'azione  della  cultura  francese  fu  più  decisa 
e  profonda  nell'  Italia  settentrionale  specialmente  a  traverso  il 
Beccaria,  Pietro  Verri  e  altri. 

Già  v'erano  dei  lockiani  veri  e  propri,  quando  venne  a  Parma 
il  Condillac,  che  diede  nuovo  impulso  al  movimento  filosofico 
già  iniziato,  esercitando  la  sua  efficacia  specialmente  sui  perso- 
naggi di  Corte;  si  tradussero  le  opere  di  lui;  fu  ammirato,  ido- 
latrato; sorsero  condillachiani  per  tutta  la  penisola.  Neppure  i 
grandi  poeti  rimasero  estranei  al  movimento:  l'Alfieri,  il  Parini 
risentirono  l'efficacia  della  cultura  francese.  Si  capisce  quindi  che 
r  esercito  di  Francia  dovesse  essere  accolto  con  entusiasmo.  Al- 
lora la  cultura  d' oltr'  Alpe  ebbe  sempre  maggior  diffusione  e 
prevalenza. 

Dopo  aver  così  esaminate  le  condizioni  che  prepararono  nella 
nostra  penisola  le  ricerche  ideologiche,  abbiamo  considerato  i  prin- 
cipali ideologi  italiani.  S'è  visto  che  la  filosofia  sperimentale,  da 
noi,  non  fu  una  ripetizione  pura  e  semplice  di  quella  francese; 
seguì,  sì,  il  metodo  analitico-induttivo,  ma  produsse  opere  origi- 
nali, che  giunsero  a  risultati  diversi  da  quelli  dei  filosofi  francesi. 
Anzi  la  caratteristica  dell'ideologia  italiana  fu  questa:  che,  abban- 
donando il  semplicismo  e  i  preconcetti  dei  Francesi,  e  venendo 
sempre  più  a  contatto  dei  fatti,  fu  costretta  a  criticare  sé  stessa 
e  a  mettersi  per  una  nuova  via.  Così  abbiam  visto  che  nell'  Italia 
settentrionale  Francesco  Soave  criticò  la  riduzione,  compiuta  dal 
Condillac  e  dal   Tracy,  di  tutte   le   facoltà   psichiche  a  quella  di 


-  357  — 

sentire;  cercò  d'eliminare  l'idealismo  fenomenistico  nel  problema 
della  realtà  del  mondo  esterno;  liberò  infine  l'etica  dal  soggetti- 
vismo egoistico.  Melchiorre  Gioia  cercò  di  mettere  in  evidenza 
r  azione  dell'  intelletto  sul  materiale  grezzo  e  caotico  dei  sensi, 
mostrando  la  distanza  che  passa  fra  gli  animali  irragionevoli  e 
r  uomo;  diede  un'  analisi  finissima  dei  sentimenti  e  degl'  istinti,  e 
ne  stabilì  le  leggi  fondamentali.  G.  D.  Romagnosi,  proseguendo 
la  critica  e  la  riforma  de!  Soave  e  del  Gioia,  mise  in  evidenza 
r  attività  del  soggetto  nella  conoscenza,  e  provò  che  con  gli  ele- 
menti sensoriali  sono  intimamente  connessi  elementi  intellettivi 
(senso  logico)  inesplicabili  con  1'  empirismo  rude;  inoltre,  dimo- 
strando che  dev'  esserci  una  causa  oggettiva  delle  nostre  impres- 
sioni, cercò  di  sperdere  il  fenomenismo  idealistico  degl'ideologi 
francesi;  infine  mostrò  l' importanza  della  sociologia  per  lo  studio 
dell'  uomo  interiore.  Neil'  Italia  meridionale  poi,  se  Melchiorre 
Delfico  ricalcò  piuttosto  passivamente  le  orme  del  Cabanis  e  del 
Condorcet,  invece  Pasquale  Borrelli  creò  un  sistema  ideologico 
originale.  Egli,  considerando  i  fatti  psichici  dinamicamente  e  ge- 
neticamente, distinse  neh'  anima  tre  funzioni  fondamentali  (sen- 
tire, giudicare,  volere)  irriducibili  Tuna  all'altra,  dimostrò  quindi 
r  impossibilità  di  derivare  dal  sentire  tutte  le  forme  d' attività 
psichica.  Diede,  così,  compimento  a  quella  critica  e  riforma  del- 
l' ideologia  francese  che  era  stata  iniziata  dal  Soave  e  proseguita 
dal  Gioia  e  dal  Romagnosi. 

Oltre  gì'  ideologi  principali  ne  abbiamo  ricordati  molti  altri 
minori  non  già  perchè  le  loro  ricerche  siano  molto  importanti, 
ma  piuttosto  perchè  le  loro  opere  sono  indice  della  grande  dif- 
fusione e  delle  numerose  applicazioni  ch'ebbe  in  Italia  l'indirizzo 
speculativo  da  noi  studiato:  il  quale,  come  s'  è  visto,  fu  ritenuto 
quasi  una  specie  di  rivoluzione  o  di  rinnovamento  nel  campo 
filosofico. 

Col  canto  e  con  la  meditazione  dolorosa  di  Giacomo  Leopardi, 
fratello  spirituale  del  Foscolo,  si  chiude  tragicamente  la  storia 
dell'  ideologia:  il  pessimismo  è  1'  ultima  sua  fase. 

Per  compiere  il  nostro  lavoro,  abbiamo  esaminato  le  critiche 
principali  mosse  dagl'ideologi  francesi  e  italiani  alla  dottrina  di 
Kant  sulla  conoscienza;  e  abbiamo  assistito  ad  un  dibattito  davvero 
interessante. 

Ricordiamo  infine  d'aver  visto  come  tanto  gì'  ideologi  francesi, 


—  358  — 

quanto  quelli  italiani  siano  rimasti  agnostici;  non  si  possono  quindi 
chiamare  propriamente  materialisti  (1). 

Prima  della  seconda  metà  dell'ottocento  l'indirizzo  degl'ideo- 
logi tramontò  al  sopraggiungere  di  nuove  dottrine;  tuttavia  esso 
ebbe  efficacia  su  teorie  filosofiche  collaterali  o  susseguenti,  per 
es.  su  quelle  del  Galluppi,  che  chiamò  la  sua  dottrina  una  «  fi- 
losofia dell'esperienza  »,  del  Mamiani  (specie  durante  la  prima 
fase  del  suo  pensiero)  e  di  tutti  quei  pensatori  italiani  più  recenti 
(Cattaneo,  Gabelli  etc.)  (2)  che  diedero  preponderanza  nelle  loro 
teorie  all'esperienza.  Sicché  si  ha  qui  una  vera  tradizione  filoso- 
fica, che  da  Galilei  si  trasmette  (sempre,  s' intende,  modificata 
dalle  circostanze  di  cultura  e  dalle  varie  tendenze  spirituali  dei 
filosofi)  di  generazione  in  generazione  fino,  si  può  dire,  ai  giorni 
nostri.  Onde  l' importanza  degl'  ideologi. 


Cerchiamo  ora,  senza  discendere  a  ricordare  le  mende  parti- 
colari di  ciascun  filosofo,  di  fissare  i  difetti  più  importanti  e  ge- 
nerali dell'  ideologia,  già  da  noi  accennati  qua  e  là  nel  corso 
del  lavoro. 


(1)  Alcuni,  per  es.  il  Credaro  (//  kantismo  in  G.  D.  Romagnosi, 
pag.  54)  e  il  Gentile  {Dal  Genovesi  al  Galluppi,  pag.  165,  §  112) 
hanno  voluto  sostenere  che  gì'  ideologi  (specialmente  il  Bonnet,  il  Ca- 
banis,  il  Borrelli)  siano  senza  dubbio  materialisti,  non  ostante  che  di- 
chiarino di  non  esser  tali:  giacche  intendono  spiegare  tutti  i  fatti  psichici 
con  i  dati  fisiologici,  di  modo  che  nelle  loro  teorie  l'anima  diviene  inu- 
tile. Ma  allora  sarebbero  materialisti  tutti  i  cultori  della  moderna  psi- 
cologia sperimentale.  Ricercare  le  condizioni  dei  fatti  psichici  non  vuol 
dire  ridurre  questi  a  quelle.  La  necessità  di  tali  condizioni  per  la  vita 
dello  spirito  dimostra  solo  che  questa  ha  bisogno  d'uno  strumento  o  organo 
corporeo;  ecco  tutto.  È  vero  che  spesso  gì'  ideologi  adoperano  espres- 
sioni e  presentano  ipotesi  che  possono  giustificare  quell'accusa  di  ma- 
terialismo. Ma  la  loro  aperta  professione  di  agnosticismo  dissipa  (come 
ho  provato  specie  a  proposito  del  Cabanis)  tale  accusa. 

(2)  Il  Cattaneo  svolse,  com'  è  noto,  specialmente  la  filosofia  civile 
del  Romagnosi,  mostrando  i  difetti  della  psicologia  individuale,  e  so- 
stenendo la  necessità  d' una  psicologia  delle  menti  associate  (studio 
dell'  azione,  formatrice  e  modificatrice,  della  società  sulla  psiche  indi- 
viduale). 


—  359  — 

r  L'uso  della  sola  analisi.  È  difetto  della  maggior  parte  de- 
gl'ideologi, che  conduce  a  smembrare  gli  oggetti  senza  cogliere 
la  loro  unità  viva.  Mi  piace  citare  a  questo  proposito  una  pagina 
poco  conosciuta  del  Leopardi:  «  Supponghiamo  »,  egli  scrive, 
«  che  noi  fossimo  animali  di  specie  diversa  dalla  nostra,  anzi  di 
natura  diversa  dalla  general  natura  degli  animali  che  conosciamo, 
e  non  di  meno  fossimo,  siccome  siamo,  dotati  d' intendimento. 
Se  non  avendo  noi  mai  veduto  né  uomo  alcuno  né  animali  di 
quelli  che  realmente  esistono,  e  ninna  notizia  avendone,  ci  fosse 
portato  innanzi  un  corpo  umano  morto,  e  notomizzandolo  noi 
giungessimo  a  conoscerne  a  una  a  una  tutte  le  piìi  menome  parti, 
e  chimicamente  decomponendolo  arrivassimo  a  scoprirne  ciascun 
ultimo  elemento;  perciò  forse  potremmo  noi  conoscere,  intendere, 
ritrovare,  concepire  qual  fosse  il  destino,  1'  azione,  le  funzioni,  le 
virtù,  le  forze  etc.  di  ciascheduna  parte  d'  esso  corpo  rispetto  a 
sé  stessa,  all'  altre  parti  ed  al  tutto,  quale  lo  scopo  e  1'  oggetto 
di  quella  disposizione  e  di  quel  tal  ordine  che  in  esse  parti  scor- 
geremmo e  osserveremmo  pure  co'  propri  occhi,  e  colle  proprie 
mani  tratteremmo;  quali  gli  effetti  particolari  e  l'effetto  generale 
e  complessivo  di  esso  ordine  e  del  tutto  di  esso  corpo;  quale  è 
il  fine  di  questo  tutto;  quale  insomma  e  che  cosa  la  vita  dell'uomo, 
anzi  se  quel  corpo  fosse  mai  o  dovesse  esser  vissuto;  anzi  pure 
se  dalla  nostra  stessa  vita  non  1'  arguissimo,  o  se  alcuno  potesse 
intendere  senza  vivere,  concepiremmo  noi  e  ritrarremmo  in  alcun 
modo  dalla  piena  e  perfetta  e  analitica  ed  elementare  cognizione 
di  quel  corpo  morto,  l'idea  della  vita?  e  vogliamo  solamente  dire 
l'idea  di  quel  corpo  vivo?  e  intenderemmo  noi  quale  e  che  cosa 
fosse  r  uomo  vivente  e  il  suo  modo  di  vivere  esteriore  o  inte- 
riore? lo  credo  che  tutti  sieno  per  rispondere  che  niuna  di  queste 
cose  intenderemmo  ;  che  volendole  congetturare,  andremmo  le 
mille  miglia  lontani  dal  vero,  o  sarebbe  a  scommettere  milioni 
contro  uno  che  di  nulla  mai,  neanche  facendo  un  milione  di  con- 
getture, ci  apporremmo;  finalmente  eh'  egli  sarebbe  cosa  proba- 
bilissima ch'esaminato  e  conosciuto  quel  corpo  morto,  in  questa 
conoscenza  ci  fermassimo  e  neppur  ci  venisse  in  sospetto  eh'  ei 
fosse  mai  stato  altro,  né  fosse  mai  stato  destinato  ad  esser  altro 
che  quel  corpo  che  noi  lo  vedremmo  o  tale  qual  noi  lo  vedremmo, 
né  della  sua  passata  vita,  né  dell'  uomo  vivo  ci  sorgerebbe  in 
capo  la  più  minima  conghiettura.  Applicando  questa  similitudine 


—  360  — 

al  mio  proposito  dico  che  scoprire  ed  intendere  quale  sia  la  na- 
tura viva,  quale  il  modo,  quale  le  cagioni  e  gli  effetti,  quali  gli 
andamenti  e  i  processi,  quale  il  fine  o  i  fini,  le  intenzioni,  i  de- 
stini della  vita  della  natura  o  delle  cose,  quale  la  vera  destina- 
zione del  loro  essere,  quale  insomma  lo  spirito  della  natura,  colla 
semplice  conoscenza,  per  dir  così,  del  suo  corpo,  e  coli'  analisi 
esatta,  minuziosa,  materiale  delle  sue  parti  anche  morali,  non  si 
può,  dico,  con  questi  soli  mezzi  scoprire  né  intendere,  né  felice- 
mente o  anche  pur  probabilmente  congetturare   >  (1). 

2°  Impossibilità  di  ridurre  tutte  le  forme  di  attività  dello  spi- 
rito al  sentire.  La  sensibilità  dà  il  materiale  alla  vita  dello  spirito; 
ma  questo  esercita  altre  funzioni,  che  elaborano  quel   materiale. 

3°  Mancanza  di  principi  assoluti  e  di  concetti  supremi  (2).  Non 
avendo  ammesse  funzioni  superiori  alla  sensibilità,  gì'  ideologi 
non  potevano  ammettere  l'esistenza  di  concetti  e  di  principi  ve- 
ramente universali  e  assoluti:  tutte  le  idee  si  plasmano  secondo 
essi  sul!'  esperienza  mutevole.  Ma  l' intelletto  umano  ha  senza 
dubbio  principi  assoluti  (per  es.  il  principio  d' identità,  di  non- 
contradizione,  di  causa),  che  devono  essere  e  non  si  possono  quindi 
derivare  dall'  esperienza,  perché  questa  ci  darebbe  sempre  qual- 
cosa che  è  in  un  modo  o  in  un  altro,  ma  non  che  dev'essere  as- 
solutamente (3).  Quindi  in  questo  punto  gl'ideologi  contradicono 


(1)  Zibaldone,  Voi.  V,  pag.  264-269. 

(2)  Questo  carattere  dell'  ideologia  ci  spiega  forse  la  preponderanza 
che  le  passioni  acquistano  rispetto  alla  ragione  nelle  opere  di  molti 
ideologi.  Se  infatti  non  c'è  una  facoltà  che  con  le  sue  norme  assolute 
possa  dominare  il  tumulto  dell'animo,  allora  le  passioni,  libere  da  ogni 
vincolo,  si  danno  ad  una  sfrenata  esultanza.  Se  però  da  un  lato  questo 
carattere  costituisce  un  difetto  dell'ideologia,  può,  dall'altro,  esser  con- 
siderato come  un  pregio,  che  le  passioni  e  i  sentimenti  hanno  impor- 
tanza nella  vita  (il  sentimento  è  il  motore  della  volontà,  perchè  in  fondo 
non  esistono  motivi  senza  un  tono  affettivo  o  senza  un  valore,  eh'  è 
quasi  lo  stesso). 

(3)  Solo  il  Mill  ha  tentato  di  derivare  i  principi  logici  dall'esperienza 
interna;  ma  il  suo  tentativo,  naturalmente,  è  fallito,  perchè  qualunque 
esperienza  non  può  darci  che  principi  relativi  (i  quali  potrebbero  cam- 
biare), mentre  i  principi  logici  sono  assoluti  (non  è  possibile  ammettere 
che  un  giorno  non  valga  più  il  principio  di  non-contradizione  o  che 
ci  sia  stato  un  tempo  in  cui  questo  principio  non  sia  valso  o  che  ci 
possa  esser  mai  un  tempo  siffatto).- 


—  361  — 

ai  fatti.  Veramente  gl'ideologi  italiani  hanno  ammesso  un'attività 
intellettiva  superiore  all'  esercizio  dei  sensi;  onde  la  loro  origi- 
nalità e  importanza  rispetto  ai  filosofi  francesi;  ma  restano  pur  essi 
un  po'  neir  incertezza. 

4°  Questa  mancanza  di  principi  assoluti  dà  origine  ad  un  re- 
lativismo insodisfacente:  insodisfacente  perchè  il  mondo,  in  tal 
caso,  diviene  una  catena  sospesa  in  aria,  non  si  sa  come,  né  perchè, 
un  fiume  senza  sorgente  e  senza  foce,  un'  infinità  di  avvenimenti 
senza  un  sostegno.  Il  che  è  impossibile, 

5"  //  fenomenismo  idealistico.  I  fenomeni  sono....  fenomeni  di 
qualcosa  di  reale.  Quindi  arrestarsi  alle  apparenze  senza  ammet- 
tere delle  sostanze  è  come  voler  appoggiar  dei  corpi  su  sé  stessi  (1). 

6°  La  mancanza  d'una  metafisica.  La  spiegazione  fenomenica 
non  sodisfa  l'animo  umano  (onde  la  visione  pessimistica  del  reale): 
la  mente  nostra  o  in  un  modo  o  in  un  altro  vuol  tentare  una  spiega- 
zione delia  natura  intima  degli  esseri  (specialmente  lo  Schopenhauer 
ha  insistito  sul  bisogno  metafisico  dell'uomo).  Del  resto  gl'ideologi 
stessi  hanno  spesso  oltrepassato  la  cerchia  dei  fenomeni  e  sono 
entrati  nella  metafisica;  giacché  hanno  dimostrato  1'  esistenza  d'un 
principio  psichico  semplice  e  sempre  identico  a  sé  stesso,  l'hanno 
distinto  dalla  materia,  e  hanno  negato  a  questa  la  possibilità  di 
pensare.  11  Condillac  ha  creduto  di  poter  determinare  persino  la 
natura  dell'  Assoluto  !  Dire  che  la  materia  ha  una  natura  diversa 
da  quella  dello  spirito,  tanto  che  non  può  pensare,  dire  che  lo 
spirito  è  semplice  etc.  non  è  indicare  l'essenza,  la  natura  di  questi 
enti  ?  Parlare  delle  qualità  e  della  natura  di  Dio,  non  è  oltre- 
passare il  campo  dei  fenomeni  ?  Del  resto  i  fenomeni  stessi  sono 
manifestazioni  o  almeno  indizi  della  natura  degli  esseri  da  cui 
emanano.  Il  Bonnet  anzi  in  Essai  de  psychologie  (2)  afferma  che 
«  gli  attributi  che  costituiscono  l'essenza  nominale  del  corpo  hanno 
lor  fondamento  nell'essenza  reale  ».  Com'è  possibile  quindi  stu- 
diare i  fenomeni  senza  spingere  lo  sguardo  nella  loro  essenza  ? 

Ecco  i  difetti  principali  dell'  indirizzo  filosofico  da  noi  studiato. 
Ma  questo  ha  senza  dubbio  anche  dei  pregi.  Dei  quali  i  più  no- 
notevoli  sono  i  seguenti: 


(1)  Anche  se  s' ammette  l' esistenza  della  sola  sostanza-soggetto,  si 
cade  nel  solipsismo.  (2)  Pag.  104  (edz.  cit.). 


362 


1  ,•  L' uso  di  un  metodo  positivo  fondato  sull'esperienza.  Abbiamo 
detto  che  1'  analisi  da  sola  è  imperfetta,  ma  non  v'  è  dubbio  che 
la  sintesi,  ossia  quel  metodo  che  pretende  di  trarre,  mediante  un 
processo  puramente  intellettuale,  da  principi  a  priori  tutto  il  reale 
e  tutta  la  ricchezza  meravigliosa  dell'  esperienza,  è  fallace.  Tutti 
i  tentativi  di  costruire  sistemi  mediante  un  processo  puramente 
sintetico  o  deduttivo  sono,  come  ha  ben  mostrato  il  Condillac 
nel  Traité  des  systèmes,  falliti  clamorosamente.  Così  io  non  so 
capire  come  mai  lo  Spinoza,  dopo  aver  detto  {Ethica,  Libro  I, 
Def.  6*)  che  la  sostanza  o  Dio  ha  un  numera  infinito  d'  attributi, 
poi  si  limiti  a  considerare  (nel  Libro  11)  solo  due  di  questi:  l'esten- 
sione e  il  pensiero.  Se  dall'  idea  di  sostanza  potessimo  veramente 
trarre  gli  attributi  suoi  come  dalla  definizione  d'  una  figura  geo- 
metrica le  proprietà  di  questa  (il  che  pretende  lo  Spinoza),  do- 
vremmo poter  ricavarne,  indipendentemente  dall'  esperienza,  il 
numero  infinito  d'  attributi  che  vi  son  contenuti.  Invece  lo  Spi- 
noza ne  sa  derivare  solo  i  due  indicati:  e  il  curioso  è  che  questi 
li  conosciamo  empiricamente.  È,  allora,  evidente  che  qui  egli  s'  è 
fondato  suU'  esperienza,  e  che  solo  in  apparenza  ha  tratti  il  pen- 
siero e  r  estensione  dalla  sostanza  mediante  un  processo  razionale 
deduttivo.  Quali  sono  infatti  gli  altri  attributi?  Nessuno  ce  li 
saprebbe  dire.  Dunque  il  metodo  vero  della  scienza  e  della  filo- 
sofia non  è  che  quello  induttivo,  detto  dagl'  ideologi  analisi  (1). 
Solo  che  questa  non  va  adoperata  da  sola;  va  integrata  mediante 
una  visione  sintetica  e  organica  dell'  oggetto  da  spiegare  (il  Ca- 
banis  e  il  Romagnosi  hanno  ben  visto  la  necessità  di  questa  in- 
tegrazione). 

2.  L' importanza  data  all'  esperienza  interiore  (2).  I  fatti  di  co- 


li) Senza  dubbio  il  mezzo  escogitato  dagridcologi  per  analizzare  la 
psiche  è  talvolta  artificioso  (statua,  primo  uomo  del  Buffon);  la  realtà 
è  ben  diversa  da  questi  fantocci.  Tuttavia  si  badi  che  anche  oggi  si 
riesce  ad  ottenere  l'analisi  di  certi  fatti  psichici  solo  in  casi  anormali 
o  patologici.  S'aggiunga  che  tra  gli  uomini  ci  sono  (raramente  per  for- 
tuna) dei  sordo-muti  ciechi  (El.  Keller,  Laura  Bridgnian),  i  quali  spesso 
per  circostanze  comunissime,  per  es.  per  una  infreddatura,  possono  per- 
dere temporaneamente  anche  l'odorato  e  in  parte  il  gusto,  e  così  realiz- 
zano in  certo  modo  le  finzioni  degi'  ideologi. 

(2)  È  questo  un  carattere  che  distingue  l'ideologia  dal  moderno  po- 
sitivismo (almeno  così  come  fu  presentato  dal  Comtei,  con  cui  tuttavia 
ha  vari  punti  di  contatto. 


—  363  — 

scienza  hanno,  rispetto  a  quelli  esterni,  la  prerogativa  di  essere 
immediati  ed  evidenti,  perciò  immuni  da  errori  e  da  deformazioni. 
Nel  nostro  interno  non  ha  senso  domandare  se  la  conoscenza 
sia  rappresentazione  esatta  e  adequata  dell'  oggetto;  poiché  og- 
getto e  conoscenza  (soggetto)  sono  una  cosa  {io  percepisco  me 
stesso  in  quanto  pensante,  senziente,  volente  etc).  Si  può  certo,  nel- 
r  esperienza  interiore,  prendere  per  evidente  ciò  che  non  è  tale 
(e  il  Condillac  l'ha  mostrato).  Ma  il  caso  non  è  assai  frequente, 
e  se,  procedendo  attentamente,  si  tolgono  le  incrostazioni  che 
possono  impedire  il  nostro  contatto  immediato  con  1'  avvenimento 
interno,  ogni  errore  è  escluso;  che,  se  il  fatto  è  osservato  nella 
sua  immediatezza,  non  è  possibile  sbagliare.  Ora,  l' ideologia  non 
è,  come  s'  è  visto,  che  lo  studio  dei  fatti  interni  (psicologia  in 
senso  ampio);  di  qui  l' importanza  delle  sue  analisi  (fra  le  quali 
hanno  un  pregio  speciale  quelle  dei  fenomeni  affettivi). 

3."  L' antidommatismo.  GÌ'  ideologi,  ricollegandosi  al  Locke, 
hanno  dato  grandissima  importanza  al  problema  della  conoscenza; 
essi  hanno  esaminato  le  condizioni  e  i  mezzi  (facoltà)  di  conoscere, 
prima  di  studiare  l' essere;  e,  per  non  esser  tratti  in  inganno, 
hanno  voluto  analizzare  le  idee  e  le  cognizioni  umane  fin  nelle 
radici  loro  (1);  ossia,  prescindendo  dal  sapere  umano  così  coni*  è 
ora  beli'  e  sviluppato  e  complesso,  hanno  voluto  risalire  alla  sua 
sorgente,  per  assistere  alla  formazione  graduale  di  tutti  i  concetti 
e  principi  (2).  In  questo  senso  sono  stati  precursori  del  criticismo. 

4.°  La  lotta  contro  l'innatismo.  L'ammettere  principi  e  concetti 


(1)  Perciò  mi  pare  che  non  sia  fondata  l'obiezione  del  CousiN  {Phi- 
losophie  de  Locke,  pag.  92)  che  Locke  erroneamente  pone  la  questione 
dell'origine  delle  idee  prima  di  quella  dell'esame  o  inventario  delle 
idee  stesse.  Locke  e  gì'  ideologi,  appunto  perchè  il  sapere,  così  com'  è 
ora,  presenta  dei  caratteri  che  possono  indurci  a  interpretarlo  male, 
hanno  voluto  distruggerlo  dalle  fondamenta,  per  ricostruirne  la  genesi. 
Solo  per  questa  via  hanno  creduto  di  poterne  conoscere  la  natura  vera. 

(2)  Risalendo  all'origine  del  sapere  umano  e  seguendone  lo  sviluppo 
gl'ideologi  hanno  come  schizzato  l'evoluzione  della  psiche.  Ecco  perchè 
il  Dewaule  ha  detto  che  il  Condillac  è  un  precursore  dello  Spencer. 
Ma  bisogna  badare:  1"  che  quello  sviluppo  avviene  in  un  individuo  sin- 
golo e  non  in  una  serie  di  generazioni  (come  vuole  lo  Spencer);  2°  che 
esso  è  una  ricostruzione  ideale  degl'ideologi,  non  un'evoluzione  storica 
(nel  tempo  e  nello  spazio)  certificata  mediante  osservazioni  di  fatti  con- 
creti (che  gl'ideologi  sono  antistorici).  Quindi  siamo  ben  lontani  dal- 
l' evoluzionismo  dello  Spencer. 


—  364  — 

innati  è  segno  o  di  pigrizia  o  d'incapacità  mentale;  e  senza  dubbio 
si  può  mostrare  la  genesi  di  molte  di  quelle  idee  che  gli  antichi 
ritenevano  innate.  Ci  sono  certo,  come  abbiamo  accennato,  prin- 
cipi inderivabili  dall'  esperienza.  Ma  questi  non  sono  certo  innati; 
sono  leggi  dell'  intelletto,  maniere  necessarie  di  concepire  il  reale, 
esigenze  imperiose  della  nostra  ragione,  che  si  esplicano  a  con- 
tatto dell'esperienza  e  trovano  corrispondenza  in  questa.  Così, 
non  è  possibile  considerare  come  innati  il  principio  di  non-con- 
tradizione, quello  di  causa  etc.  Essi  Sono  leggi  del  pensiero,  nel 
senso  che  noi  non  possiamo  pensare  violandoli;  e  li  applichiamo 
subito  che  pensiamo;  ma  è  ridicolo  immaginare  che  essi  siano 
nella  nostra  mente  prima  di  ogni  esperienza  e  di  ogni  pensiero. 
5."  Infine  è  merito  dell'  ideologia  l'aver  messo  un  freno  all' or- 
goglio del  pensiero  e  agli  slanci  della  fantasia,  ponendo  dei  limiti 
alla  nostra  conoscenza.  La  considerazione  dei  puri  fenomeni  non 
sodisfa,  è  vero,  il  nostro  intelletto;  ma  errore  sarebbe  pensare 
che  noi  possiamo  risolvere  tutti  i  problemi  della  metafisica  e  dis- 
sipare tutte  le  tenebre  del  mistero,  che  traboccano  da  tutte  le 
parti  dell'universo,  come  onde  mostruose  d'uno  sconfinato  oceano 
nereggiante.  Alcune  questioni  della  metafisica  si  possono  certo 
risolvere  con  1'  aiuto  dei  dati  dell'  esperienza  e  con  la  luce  della 
nostra  ragione.  Ma  in  molti  altri  problemi  (es.  quelli  dell'  immor- 
talità dell'  anima,  della  natura  dell'  Assoluto  etc.)  non  possiamo 
abbozzare  che  ipotesi  probabili,  e  in  altri  ancora  dobbiamo  ri- 
conoscere la  nostra  ignoranza  e  l' incapacità  della  nostra  mente. 
Vi  sono  problemi  che  noi  non  potremo  risolvere  mai  con  la 
certezza  della  matematica  o  dell'  esperienza  diretta.  Onde,  se 
qualcuno  credesse  di  possedere  il  segreto  per  la  soluzione  di  tutte 
le  difficoltà,  la  bacchetta  magica  per  la  spiegazione  di  tut+i  gli 
enigmi,  non  potremmo  che  ricordargli  le  parole  di  Voltaire  : 
«  È  vero  che  dei  professori  e  sopra  tutto  degli  scolari  sanno 
perfettamente  ogni  cosa....  Ma  la  filosofia  non  rende  ragione  di 
tutto  ». 


AGGIUNTE 


VoL  I,  pag,  12.  —  5' è  discnss-:    >e  0  vere    sczvriiort   de^a   cf: 
lazione  del  sangue  sia  stato    THaTty    parect-::   haz-.:    s:r:er-t: 
sa  staio  Aadrea  Cesalpiao  il519-:ó»'.T  .  Cra.  t  ce-.:    zr.t   tilt   :r 
del  CesalpHK)  si  poò  ricostiMie  nr;   ---^~---    -^---     -^ 
sa^nigno.  Ma,  si  badi,  gli  assert 
dd  CesalpÓK)  rìcoBOSCoao  cke  I 
ma  dimostrò  con  Tane  e  molteplici 
code  a  Ini  è  data  di   solito  la  gloria   ' 
scoperta  della  circolazioat  del  sangui.  .  . 
Vita,  Di  Andrea  Cesalpùu  -  Discorso,  F  VL 

Voi.  I,  pag.  182,  nota  1.  —  I  Rappor. 
formalo  i  Tc-rts  Ili  e  IV  deDe  Oearres  rr~ 
(ediz.  cit.  F.  D:Jo:  et  Bossange  frères 

Voi.  II.  -s?    T2i    nota  6.  —  Platea.  .    .  ..-    .    -   ;  _  --. 
negativa  e  t  .  -e  ìb  Repubblica,  Libro  IX,  Cap.  IX,  : 

Voi.  II,  pag.  ;ye.  —  Aristoleie  duamò  Ywomo  mm  e  - 
tare  in  Poetica,  Cap.  FV.  Cfr.  COMEino,  Didmcfiem  Mmffm. 

Voi.  II,  pag.  213,  nota  1.  —  Il  Borrelli  a  p^.  11  e-     f 
dicalo  alla  memoria  del  Caraliere  Paolo  Sicotm  Girnm, —  —    _    1- 
Napoli,  Starila,  1536    dice  che  il  Oiampaoio  selle  sae 
fisica  si  affidò  agi'  insilamenti  del  Boaaet. 

Voi.  II,  Cap.  VI.  —  Solo  dopo  cke  era  ga  stampato  i 
BorreOi  m'è  rioscito  di  leggoe  V Elogio  di  Pmsqmmit  B^rrtUi,  cke  si 
trova  negli  Atti  della  Reale  Accademia  delie  sdemze,  seiitme  éeOm 
Società  Reale  Borbonica,  Votame  \1  voltno  dda  I  Serici  Napofi, 
Stamperia  Reale,  1S51,  pag.  LXX\' -LXXXl.  Ecco  le  mifide  pìi  makewtM 
che  si  ricavano  da  tale  Elogio.  A  pag.  LXXVl  si  legge  cke  1  BonrS, 
per  conoscere  il  diritto  del  rcguo  BapoiitajBO,  stmfiò  le  tslitaritmi  camt- 
poste  dal  dotto  professore  dell' Uaìrersità  degli  Stedfi  Gimsep^  Ètaffà. 
11  che  conferma  quanto  io  ho  asserito  a  pag.  205  vdel  II  VoL\  nota  1. 
A  pag.  LXXVll  si  dice  che  fl  terzo  opuscolo  (sm  venn  dei  ooieria\ 
a  cui  io  ho  accenmto  a  pag.  211,  Boia  3,  fa  letto  da  Reale  Accad. 
delle  scienze,  la  quale  fece  plaaso  al  lavoro  e  ae  dhpowr  la 


—  366  — 

zione;  ma  questa,  non  si  sa  perchè,  non  avvenne.  A  pag.  LXXVIII-LXXIX 
si  legge:  «  Fu  pure  opinione  di  molti,  né  manca  ancora  chi  lo  accerti, 
esser  lavoro  del  Borrelli  le  Allocuzioni  critiche  su  la  Filosofia  eclet- 
tica, che  nel  1832  [dev'essere  un  errore;  anche  la  Bibliogr.  di  P.  Bor. 
dice:  1838]  comparvero  con  la  data  d'Italia,  e  col  finto  nome  dell' ab. 
Fiduchelli;  lo  che  non  dee  maravigliare,  essendogli  stato  comune  o  di 
serbar  l'anonimo  nelle  sue  produzioni,  o  di  pubblicarle  con  finto  nome, 
o  con  nome  anagrammatico  del  suo,  come  fece  per  le  opere  di  Filo- 
sofia precedentemente  descritte,  le  quali  portavano  in  fronte  il  nome 
di  Pirro  Lallebasque.  Ma,  poiché  egli  costantemente  si  tacque  diman- 
dato su  tal  proposito,  quantunque  consentisse  nella  identità  de'  principii 
co'  suoi,  convien  che  noi  ancora  ci  tacessimo,  asserendo  solamente  che, 
se  l'opera  non  é  effettivamente  sua,  debba  però  esserlo  di  un  qualche 
suo  fedelissimo  allievo  '-.  Il  che  concorda  con  quanto  io  ho  congettu- 
rato (pag.  214,  nota  1).  Si  legge  a  pag.  LXXIX  che  la  I  Parte  della 
Dissertazione  su'  poemi  di  Ossian  fu  pubblicata  il  1810  nella  Bibl.  ana- 
litica. A  pag.  LXXIX  stessa  si  dice  che  forse  l'autore  della  Bibliografia 
di  P.  Borrelli  é  il  Borrelli  stesso.  A  pag.  LXXX  si  legge  che  il  Bor- 
relli nel  1847  presentò  alla  Reale  Accad.  delle  scienze,  in  due  tornate, 
una  memoria  su  La  misura  della  prosperità  pubblica.  «  Ma  questa  », 
si  aggiunge,  «  disgraziatamente  si  è  perduta,  mentre,  approvata  che  fu 
per  gli  Atti,  venne  dal  segretario  perpetuo  passata  alla  Real  Tipografia, 
e  composta  a  strisce  ritornò  nelle  mani  dell'autore,  per  la  debita  cor- 
rezione, quando  quest'uomo  distinto,  utile  all'Accademia  ed  al  pub- 
blico, ci  veniva  repentinamente  da  morte  tolto  ».  Infine  a  pag.  LXXX- 
LXXXI  si  legge  che  il  Borrelli  negli  ultimi  anni  di  sua  vita  tornò  ad 
insegnar  giurisprudenza. 

Oltre  gli  elogi  e  i  discorsi  del  Borrelli  da  me  ricordati  nel  Gap.  VI 
del  Voi.  II,  menzionerò:  Elogio  dedicato  alla  memoria  di  Amadeo  Ric- 
ciardi, Consigliere  della  Corte  suprema  di  giustizia  e  Presidente  della 
gran  Corte  civile  di  Aquila,  Napoli,  Puziello,  1835,  in  8",  pagine  22; 
Elogio  funebre  dedicato  alla  memoria  di  Domenico  Barbaja,  Mendrisio, 
Lampati,  1841,  in  8»,  pagine  31  [il  Barbaja  «  chiamò  »,  come  dice  il 
Bor.,  «  a  nuova  vita  gli  spettacoli  scenici  ■»  a  Napoli;  fu  anche  bene- 
fattore]; Discorso  pronunziato  presso  al  feretro  del  Conte  di  Carnai- 
doli  Francesco  Ricciardi,  presidente  interino  della  Società  R.  Borbo- 
nica, Napoli,  Porcelli  1842,  in  8",  pagine  7. 

Notevoli  son  pure  le  arringhe  del  Borrelli,  alcune  delle  quali  pos- 
sono esser  utili  per  la  storia  di  famiglie  nobili  napolitane.  Ricorderemo: 
Arringhe  a  prò  della  Signora  Eleonora  Angiulli  contro  il  Signor  Vin- 
cenzio Angiulli,  Napoli,  Porcelli,  1842;  Arringhe  innanzi  la  terza  Ca- 
mera della  G.  C.  Civ.  di  Napoli  nella  causa  di  Fieramosca,  o  sia 
Difesa   vocale  della   Contessa  Ricci  Leognani  Fieramosca  contro  la 


—  367  — 

Real  Cassa  di  amortizzazione,  il  Real  Corpo  del  Genio,  il  Commen- 
dator  Leognani  Fieramosca  e  la  Marchesa  Quinzii  nella  causa  delle 
miniere  e  delle  ferriere  di  Castelvetere  e  di  Stilo,  Napoli,  1846,  in  S", 
pagine  170  [contiene  1'  albero  genealogico  della  famiglia  Fieramosca]; 
Ultime  arringhe  delV avvocato  Pasquale  Borrelli  nella  causa  di  Fie- 
ramosca, Napoli,  Porcelli,  1846;  Arringa  dell' avv.  P.  Borrelli  per  la 
principessa  d' A  rianello  su  di  una  controversia  di  successione  e  di  stato, 
Napoli,  Porcelli,  1846,  in  8°,  pagine  80. 

Numerosissime  sono  le  Memorie  legali,  alcune  delle  quali  scritte  in 
collaborazione  con  altri  avvocati.  Possono  esser  talvolta  utili  per  notizie 
storiche,  come  quella  Per  lo  reverendo  collegio  degli  Eddomadarii 
della  Chiesa  Cattedrale  di  Napoli,  Napoli,  1843  (nel  Tomo  XVI  delle 
Memorie  legali  del  Borrelli). 

Ho  visto  anche  un  Rapporto  del  Deputato  Pasquale  Borrelli  al- 
l' Assemblea  nazionale  (firmato  Pasqu.  Borrelli  relatore,  con  data  7  gen- 
naio 1821),  seguito  da  un  Progetto  di  organizzazione  della  guardia 
nazionale  (edito  con  un  Progetto  Bozzelli  sempre  sulla  guardia  nazio- 
nale, scritto  il  28  luglio  1848).  Senza  1.  e  a.,  ma  1848,  in  16",  pagine  122. 

Bisogna  badare  a  non  confondere  con  le  opere  del  nostro  Pasquale 
Borrelli  quelle  di  un  altro  Pasquale  Borrelli,  di  S.  Giorgio  a  Cremano 
(1733-1802).  Del  quale  sono:  Quae  extant  lyrica,  Neapoli,  1858,  in  8"; 
Satyrae  tres  et  ode  una  ex  mendosis  exemplaribus  in  integrum  resti- 
tutae,  notulis  illustratae  et  nunc  primum  editae  D.  Minichino ^  Neapoli, 
Cons,  1881,  in  16°,  pagine  30. 

Il  Prof.  V.  Bindi  ha  richiamato  la  mia  attenzione  su  un  Compendio 
delle  gloriose  gesta  dei  Sommi  Pontefici  Romani  sorti  dal  glorioso 
serafico  Ordine  Francescano,  Teramo,  1835,  di  un  Pasquale  Borrelli. 
Ma  ritengo  che  quest'  opera  non  sia  del  nostro  Borrelli,  e  perchè,  es- 
sendo stata  pubblicata  nel  1835,  dovrebb'  esser  menzionata  nella  Biblio- 
grafia di  P.  Bor.,  che  è  del  1840,  e  perchè  l'argomento  di  essa  mi  par 
poco  confacente  ai  gusti  di  lui. 

Il  prof.  Bindi  stesso  m'ha  indicato  fra  le  opere  del  Borrelli  uno  scritto 
che  tratta  Della  interpretazione  del  diritto  civile  romano  e  moderno 
(Napoli,  1848).  Ma  non  in' è  riuscito  di  trovarlo,  non  ostante  le  più  di- 
ligenti ricerche. 

Voi.  II,  pag.  240-241.  —  Di  Paolo  Costa  sono  state  edite  le  Opere 
complete  (Firenze,  Formigli  e  Fraticelli,  1839).  1  primi  due  volumi  con- 
tengono le  opere  filosofiche,  fra  le  quali,  oltre  quelle  da  noi  ricordate 
a  pag.  240-41  del  Voi.  Il,  sono:  gli  Opuscoli  filosofici  (Voi.  11,  pag.  129- 
230),  di  cui  il  primo,  intitolato  Vanità  dei  principi  sopra  i  quali  si 
fondano  le  teoriche  dei  filosofi  trascendenti,  nel  §  V  (pag.  143-147; 
tratta  dei  Principi  di  Kant,  e  specialmente  delle  idee  del  filosofo  te- 
desco sul  principio  di  causa;  le  Lettere  intorno  ad  un  articolo  nel  quale 


—  368  — 

si  dà  relazione  di  una  meravigliosa  catalessi  (Voi.  II,  pag.  181-201); 
la  Lettera  al  Signor  Carlo  Rusconi  intorno  al  Manuale  filosofico-pra- 
tico della  lingua  italiana,  compilato  da  una  società  di  dotti  sotto  la 
direzione  del  Prof.  Quirico  Viviani  (Voi.  Il,  pag.  203-206);  i  Paradossi 
(Voi.  II,  pag.  207-210);  e  una  Dissertazione  sulla  sintesi  e  V analisi  in 
risposta  ad  un  articolo  del  Giornale  Pisano  (Voi.  II,  pag.  211-230).  Il 
Voi.  III  contiene  opere  letterarie,  tra  cui  la  Vita  di  D.  Alighieri,  da 
noi  ricordata,  un  dramma  (Properzia  de^  Rossi),  una  commedia  (La 
donna  ingegnosa)  etc.  Il  IV  comprende  i  componimenti  poetici  e  le 
lettere. 


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