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Full text of "La fine di un regno (Napoli e Sicilia)"

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»* 


LA  FINE  DI  UN  REGNO 


R.  DE  CESARE 

(MEMOR) 


LA  FINE  M  UN  KEGNO 

(NAPOLI  E  SICILIA) 

Parte  II. 
REGNO   DI   FEANOESCO   II 


945  .  7-8 


CITTA  DI  CASTELLO 

a  LAPI  TIPOGEAFO-EDITOEE 
1900 


PROPRIETÀ    LETTERARIA 


THE  GETTY  RESEARCH 
INSTITUTE  LIBFÈARY 


PARTE  II. 

REGNO  DI  FRANCESCO  H 


Db  Cxsàxb,  La  fino  di  un  Beg  no  -  Voi.  H. 


CAPITOLO  I 


SoMHABio:  Francesco  II  sale  al  trono  —  Proclama  reale  e  ordine  del  giorno 
all'armata  di  terra  e  di  mare  —  Le  prime  nomine  —  Gli  speranzosi  noi 
nuovo  He  —  Il  ministero  Filangieri  —  Il  trasporto  funebre  di  Ferdi- 
nando —  I  funerali  in  Napoli  e  in  Sicilia  —  Un  epigramma  —  Il  principe 
di  Satriano  e  le  sue  idee  politiche  —  Prime  riforme  —  La  rivolta  del 
Collegio  medico  —  L' insurrezione  degli  Svizzeri  —  Lo  sgomento  della 
famiglia  reale  —  Gli  Svizzeri  a  Capodimonte  —  Maria  Sofia  dà  prova 
di   coraggio  —  L'eccidio  al  campo  di  Marte  —  Le  cause  dell'insurrezione 

—  Un  po'  di  storia  inedita  —  La  famiglia  reale  dopo  la  morte  di  Ferdi- 
nando  II  —  La   Regina  madre  —  Le  sue  gelosie   e  le   sue  irrequietezze 

—  Aneddoti  —  Abitudini  di  Maria  Teresa  e  suo  difetto  di  pronunzia  — 
Maria  Sofia  regina  —  La  cospirazione  per  il  conte  di  Trani  —  Filan- 
gieri ne  parla  al  Re  —  Incidente  fra  Maria  Teresa  e  Filangieri  —  Fran- 
cesco II  e  Maria  Sofia  —  Gli  "  strateghi  „  —  Un  aneddoto  —  Francesco  II 
e  il  suo  misticismo. 

Il  giorno  stesso  della  morte  di  Ferdinando  II,  22  maggio  1859, 
il  duca  di  Calabria  salì  al  trono,  col  nome  di  Francesco  II,  e  l'an- 
nunziò ai  popoli  delle  Due  Sicilie  un  proclama  magniloquente  e 
quasi  mistico,  redatto,  si  disse,  dal  Murena  il  quale  aveva  fama  di 
scrittore  purgato.  Altri  asserì  con  più  fondamento  che  l'avesse 
scritto  Ferdinando  Troja,  e  il  ministro  delle  finanze  lo  avesse  ri- 
toccato ;  ma  è  da  credere  che  furono  entrambi  a  metterlo  in- 
sieme, come  entrambi  lo  portarono  a  firmare  al  giovane  Re,  ohe 
lo  trovò  molto  hello. 

Fu  detto  pure  che  Francesco  II  ne  avesse  scritto,  di  suo  pu- 
gno, un  altro  che  cominciava  con  queste  parole  :  "  Essendo  cessate 
le  speciali  condizioni,  per  le  quali  l'Augusta  e  Santa  Memoria  del 
nostro  Augusto  Genitore  si  vide  costretto  di  sospendere  gli  effetti 
della  Costituzione,  da  Lui  liberamente  largita,  riconvochiamo  i  col- 


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legi  elettorali  pel  giorno  ....„•  Presentato  però  questo  proclama  nel 
Consiglio  dei  ministri,  che  si  convocò  dopo  la  morte  del  Ee,  e  al 
quale  sarebbe  intervenuto  anche  Alessandro  Nunziante,  questi 
sarebbe  stato  il  primo  a  giudicarlo  offensivo  alla  memoria  del  Re 
defunto,  e  con  lui  furono  d'accordo  il  Troja  e  il  Murena.  Pre- 
valse quindi  il  partito  di  respingerlo,  e  Francesco  firmò  invece 
il  proclama  del  Troja  e  del  Murena,  scrivendovi  in  calce  :  "  Quan- 
tunque io  non  mi  persuada  della  forma  del  programma,  che  vuole 
sostituirsi  a  quello  da  me  scritto^  cedo  malvolentieri  alla  proposta 
de  miei  ministri^  sol  perdio  debba  ritenersi  maggiore  della  mia  la 
loro  esperienza  negli  affari  di  Stato  „ .  Il  proclama  sarebbe  stato 
poi  da  lui  afiidato  ad  un  ministro  estero,  che  si  disse  il  Bermudez 
"  a  memoria  delle  sue  proprie  convinzioni  „.  Tutto  ciò  fu  asserito 
e  alcuni  autorevoli  personaggi  mostrano  di  crederlo,  ma  non 
è  storicamente  accertato  e  non  è  verosimile,  tenuto  conto  delle 
condizioni  generali  della  politica  e  dell'  indole  irresoluta  e  timida 
del  nuovo  Re.  Se  quel  proclama  fosse  stato  affidato  al  Bermudez, 
questi  di  certo  non  avrebbe  per  tanti  anni  resistito  alla  ten- 
tazione di  farlo  noto,  tanto  egli  era  incorreggibilmente  va- 
nitoso. 

Nel  proclama  ufficiale  Francesco  implorava  la  misericordia 
divina  per  compiere  i  suoi  doveri,  "  tanto  più  gravi  e  difficili, 
in  quanto  che  succediamo  ad  un  Grande  e  Pio  Monarca,  le  cui 
eroiche  virtù  ed  i  pregi  sublimi  ìion  saranno  mai  celebrati  abba- 
stanza y^.  Imponeva  a  tutte  le  autorità  di  rimanere  in  carica; 
e  la  Real  Maggiordomia  e  Sopraintendenza  di  Casa  Reale  ema- 
nava un  curioso  ordine  per  il  lutto  della  Corte,  obbligatorio  per 
sei  mesi. 

Il  di  seguente,  nell'ordine  del  giorno  all'armata  di  terra  e 
di  mare,  Francesco  faceva  noti  ai  soldati  ed  alla  flotta  gli  ul- 
timi addii  del  suo  augusto  genitore^  con  invito  a  voler  "  insieme 
con  noi  innalzare  all'Onnipotente  Iddio  preghiere  per  la  Grande 
anima  di  quel  Santo  Monarca,  che,  sin  negli  ultimi  istanti  di  sua 
vita,sen  sovveniva,  e  Iddio  pregava  pel  paese  e  per  l'armata  tutta  „. 
Questo  secondo  documento  intiepidì  le  speranze  dei  liberali,  che 
si  facevano  molte  illusioni  circa  gì'  intendimenti  del  nuovo  Re. 
L'ordine  del  giorno  fu  datato  da  Capodimonte,  poiché  la  mattina 
del  23  maggio  la  famiglia  reale  lasciò  Caserta,  e  non  potendo 
prendere  stanza  alla  Reggia  di  Napoli,  dove  doveva  farsi  l'espo- 


—  6  — 

sizione   della  salma  di  Ferdinando  II,   andò  tutta,   in   carrozze 
chiuse,  in  quella  villa. 

Fin  dal  primo  giorno  del  nuovo  regno  corse  la  voce  che  Fran- 
cesco II  avrebbe  cambiato  il  ministero,  sostituendo  il  Filangieri 
al  Troja,  e  la  voce  parve  confermata  dal  fatto  che  il  3  giugno, 
Filangieri  fu  nominato  consigliere  di  Stato,  e  con  lui,  il  prin- 
cipe di  Cassaro  e  il  duca  di  Serracapriola,  con  queste  signifi- 
canti parole:  *  Ci  riserbiamo  di  avvalerci,  sempre  che  lo  stime' 
remo  opportuno^  de'  loro  lumi  e  della  loro  esperienza  „ . 

Gli  speranzosi  nel  nuovo  Re  magnificavano  le  cose,  che  si  sa- 
rebbero vedute  ;  afiermavano  che  il  proclama  ai  sudditi  e  l'ordine 
del  giorno  all'esercito  rivelavano  un'eccessiva  pietà  filiale,  ma  che 
Francesco,  ascoltando  i  consigli  di  suo  zio,  il  conte  di  Siracusa, 
e  gli  impulsi  del  suo  animo,  avrebbe  cambiato  il  ministero,  ini- 
ziate le  riforme,  data  l'amnistia  ai  condannati  politici  e  agli 
esuli  ;  e  i  più  esaltati  aggiungevano  che  avrebbe  fatta  un'alleanza 
offensiva  e  difensiva  col  Piemonte,  per  compiere  l' impresa  na- 
zionale, e  largita  la  Costituzione. 

Alla  battaglia  di  Montebello  era  seguita,  dopo  undici  giorni, 
quella  di  Palestre  e  poi,  il  4  giugno,  la  gran  battaglia  di  Ma- 
genta, la  quale  liberò  la  Lombardia  dall'occupazione  austriaca. 
Si  asseriva  con  insistenza  che  la  Francia  e  l' Inghilterra  avreb- 
bero ristabilite  le  relazioni  diplomatiche  col  nuovo  Re;  si  dava 
per  certo  che  Napoleone  e  Vittorio  Emanuele  gli  avrebbero  pro- 
posto di  unirsi  a  loro  per  compiere  l' impresa  della  indipendenza 
nazionale.  Ma  invece  i  primi  atti  del  nuovo  Re  furono  soltanto 
questi  :  tolse  le  doppie  direzioni  a  Scorza  e  a  Bianchini  ;  sostituì 
a  Scorza  il  magistrato  Galletti,  nel  ministero  della  giustizia  ;  al 
Bianchini,  nella  polizia,  l'altro  magistrato  Francescantonio  Casel- 
la; tolse  al  Murena  la  direzione  dei  lavori  pubblici  per  darla 
air  intendente  di  Bari,  Mandarini.  E  fu  solo,  dopo  1*  imponente 
dimostrazione  per  la  battaglia  di  Magenta,  che  Francesco  si  ri- 
cordò delle  parole  del  padre  e  nominò  il  generale  Carlo  Filan- 
gieri primo  ministro  e  ministro  della  guerra. 

La  dimostrazione  per  Magenta  fu  il  primo  risveglio  delle 
forze  liberali  e  fece  paurosa  impressione  in  Corte.  L' incaricato 
di  affari  e   il   console   generale  di  Sardegna  avevano  illuminati 


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i  palazzi  della  Legazione  e  del  Consolato,  alla  Eiviera  di  Chiaja  ; 
e  la  Legazione  di  Francia,  al  Ohiatamone,  aveva  fatto  altrettanto. 
I  liberali,  in  gran  parte  studenti,  ne  presero  occasione  per  af- 
fermarsi e  affermare  ad  un  tempo  le  loro  simpatie  alla  causa  na- 
zionale, al  conte  di  Siracusa,  il  cui  palazzo  era  a  breve  distanza 
dalla  Legazione  sarda  e  al  governo  francese.  La  dimostrazione 
ebbe  luogo  la  sera  del  7  giugno  e  raccolse  da  due  a  tremila  per- 
sone. I  dimostranti  vennero  alle  mani  con  la  polizia;  Niccola 
Caccavone  ebbe  ferita  lievemente  una  mano  e  Teodoro  Cottrau 
perde  le  scarpe  e  la  voce.  In  Corte  furono  vivacissime  le  invet- 
tive contro  Gropello,  creduto  promotore  della  cosa,  perchè  egli 
aveva,  non  solo  illuminata  la  facciata  del  palazzo,  ma  esposto 
tra  i  candelabri  un  enorme  mazzo  tricolore,  dono  di  alcune  si- 
gnore napoletane  ;  ma  a  lui  non  venne  fatta  la  più  lontana 
allusione  per  quanto  era  avvenuto. 

Non  si  trattò  di  sostanziale  mutamento  nell'  indirizzo  del  go- 
verno ;  n  Filangieri  non  scelse  lui  i  suoi  compagni,  né  alcun 
uomo  di  notevole  importanza  entrò  nel  modificato  ministero. 
De  Liguoro  alle  finanze,  Rosica  all'  interno  e  Ajossa  ai  lavori 
pubblici,  furono  i  nuovi  direttori.  Troja  divenne  consigliere  di 
Stato,  cioè  ministro  senza  portafoglio  ;  Murena  passò  alla  Corte 
Suprema  e  Biancbini  fu  consultore.  Del  vecchio  ministero  ri- 
masero Carrascosa,  nella  stessa  sua  perpetua  qualità  di  ministro 
in  partibus,  e  Carafa,  al  quale  gli  avvenimenti  italiani  e  la 
morte  di  Ferdinando  II  avevano  fatto  perdere  la  bussola.  Que- 
sto ministero,  messo  insieme  a  un  po'  per  volta,  quasi  faticosa- 
mente, rivelava  le  incertezze  del  principe  e  la  varia  natura  delle 
influenze,  alle  quali  soggiaceva  ;  spezzava  la  vecchia  compagine  e 
non  ne  creava  una  nuova,  anzi  alimentava  l' inquietudine  e  le 
diffidenze  della  Corte  e  degli  zelanti.  Francesco,  come  tutte  le 
nature  deboli,  credeva  di  accomodar  tutto,  giuocando  di  equili- 
brio ;  e  univa  il  Casella  e  il  Rosica,  miti  e  sapienti  magistrati, 
e  il  De  Liguoro,  intelligente  funzionario  del  ministero  delle 
finanze,  allo  zelante  e  ignorante  Ajossa,  che  nulla  sapeva  di 
lavori  pubblici,  per  acchetare  la  Regina  vedova  e  tutto  quel  vec- 
chio mondo  ferdinandèo,  che  si  agitava  e  seguiva  con  animo  mal 
disposto  le  prime  novità,  brontolando  contro  il  giovane  Re,  esa- 
gerando e  malignando.  Rosica  era  abruzzese,  e  il  giorno  stesso 
che  andò  al  ministero  fu  trovato  scritto  sopra  una  porta  interna 


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questo  curioso  e  arguto  bisticcio  :  Quello  che  non  rose  il  tempo, 
e  non  rosero  i  sorci,  Achille ....  rosica  !  Egli  era  stato  intendente 
di  Basilicata,  vi  aveva  fatto  mite  governo  e  salvata  parecchia 
gente  dopo  l' impresa  di  Sapri.  Ajossa,  non  sapendo  una  parola 
di  francese,  prese  con  sé  un  interprete,  certo  De  Lauzières,  fratello 
del  noto  giornalista.  Francescantonio  Casella  era  stato  fra  gli 
intimi  di  Carlo  Troja  sino  agli  ultimi  giorni,  anzi  ne  diresse 
il  modesto  mortorio.  Suo  primo  atto,  andando  al  governo,  fa 
il  decreto,  col  quale  veniva  condonato  il  rimanente  della  pena 
ai  condannati  politici  per  i  fatti  del  1848  e  1849,  e  poi  l'altro 
per  il  rimpatrio  di  alcuni  liberali,  che  erano  a  domicilio  forzoso, 
e  finalmente  quello  assai  più  significante,  in  data  16  giugno,  col 
quale  erano  abolite  le  liste  degli  attendibili.  Se  ne  può  imma- 
ginare l' impressione  !  Casella  e  Filangieri  furono  fatti  segno  di 
grandi  dimostrazioni  di  simpatia  da  parte  dei  liberali,  mentre 
i  vecchi  elementi  di  Corte  non  ebbero  più  freno  nelle  loro  ma- 
lignazioni  e  sospetti,  battezzando  il  Filangieri,  il  Casella  e  il 
Rosica  per  traditori,  che  portavano  in  rovina  lo  Stato  e  la  di- 
nastia. Solo  fidavano  nell'Ajossa,  il  quale  in  quei  primi  giorni 
non  aveva  voce  in  capitolo. 

L'avvento  di  Francesco  II  al  trono  non  fu,  nei  primi  tempi, 
salutato  con  feste  e  tripudii.  Il  lutto  ufficiale  lo  impediva  :  lutto 
così  rigoroso,  che  solo  dopo  i  due  primi  mesi,  si  permise  alle  si- 
gnore della  Corte  di  portare  ornamenti  di  diamanti  e  perle,  ma 
espressamente  erano  loro  vietate  le  pietre  preziose  di  colore.  E 
ci  fu  anche  il  lutto  consigliato  dalla  paura,  la  quale  mosse  tanta 
gente  a  vestirsi  suo  malgrado  di  nero  ;  anzi,  in  quei  primi  mesi 
di  estate,  furono  addirittura  aboliti  i  gìlets  bianchi.  Quelli  che 
li  portavano,  erano  tenuti  d'occhio  dalla  polizia,  ammoniti  o  ad- 
dirittura minacciati. 

E  inutile  riferire  i  particolari  sull'  esposizione  e  la  tumula- 
zione della  salma  di  Ferdinando  II  :  si  leggono  nel  Giornale  Uf- 
ficialey  insolitamente  loquace  in  quei  giorni.  Il  cadavere,  com- 
piuta l' imbalsamazione,  fu  vestito  colla  divisa  di  capitano  gene- 
rale dell'  esercito  e  collocato  in  una  cassa  aperta  ;  fu  poi  disceso, 
la  mattina  del  28,  per  una  scala  segreta  e  collocato  in  un  carro 
militare,  che  usci  dal  portone  a  sinistra  della  Reggia.  Da  Ca- 
serta a  Napoli  il  trasporto  si  compì  per  ferrovia,  senza  pompa. 
Nella  Reggia  di  Napoli  restò  esposto  negli  ultimi  tre  giorni  di 


maggio,  coperto  da  un  velo  bianco  e  sollevato  tanto  alto,  clie 
se  ne  vedevano  appena  i  piedi.  Le  guardie  del  Corpo  e  gli  uffi- 
ciali degli  usseri,  in  grande  uniforme,  montavano  la  guardia. 
I  gentiluomini,  ogni  ora,  secondo  il  cerimoniale  della  Corte  di 
Spagna,  facevano  mostra  di  andare  a  prendere  gli  ordini  dal  morto 
Re,  ed  invariabilmente  ripetevano  :  Il  Re  non  risponde.  Nei  primi 
due  giorni,  il  pubblico  fu  ammesso  a  vederlo,  dalle  10  della  mat- 
tina alle  6  della  sera  ;  nell'  ultimo,  dalle  8  a  mezzogiorno.  Il 
concorso  fu  immenso.  Nella  sala  d'Ercole  si  riversò  tutta  Na- 
poli, e  le  provinole  vicine  dettero  largo  contributo  di  curiosi. 
Nel  pomeriggio  del  31,  il  cadavere  fu  trasportato  con  grande 
pompa  a  Santa  Chiara  e  sepolto  nelle  tombe  reali,  dopo  una 
magniloquente  orazione  di  monsignor  Salzano  e  un  memorabile 
accompagnamento. 

Il  3  giugno  si  riaprirono  i  teatri,  e  si  apri  la  serie  dei  fu- 
nerali, in  Napoli  e  nelle  provincie.  Non  vi  fu  Accademia  o  pub- 
blico istituto,  seminario  o  confraternita.  Ordine  cavalleresco  o 
capitolo  collegiale,  cke  non  si  credesse  in  dovere  di  celebrar  suf- 
fragi all'anima  del  morto  E-e.  Fu  una  gara  in  tutto  il  Regno  e, 
naturalmente,  si  distinsero  le  città  di  Napoli  e  Palermo.  Ogni 
esequie  era  chiusa  dal  cosi  detto  elogio  funebre.  Elogi,  che  non 
si  sarebbero  fatti  di  Carlo  V  o  di  Luigi  XIV  o  di  Napoleone,  ven- 
nero con  gran  sicumera  tributati  a  Ferdinando  II.  Fra  i  più  elo- 
quenti oratori  ricordo  don  Antonio  Radente,  che  parlò  in  San- 
t'Antonio Abate;  don  Domenico  Scotto  Pagliara,  il  quale,  col 
Quaranta,  col  Quattromani  e  col  Barbati,  fu  l'epigrafista  latino  di 
occasione  ;  monsignor  Musto,  don  Antonio  Gerbone,  il  canonico 
Frungillo,  che  parlò  nel  duomo  ;  il  padre  Cerchi,  che  a  San  Gia- 
como, nel  funerale  fatto  celebrare  dai  ministri,  recitò  un'ora- 
zione sul  tema  :  Ntdlus  illi  similis  in  legislatoribus  ;  e  l' abate 
don  Giustino  Quadrari,  che,  nel  funerale  dell'  Università,  al  Gesù 
Vecchio,  parlò  sul  tema  :  Viginti  autem  et  novem  anni»  regnavit, 
et  fecit  rectum  coram  Domino  ;  e  basti  ciò  a  provare  a  qual  colmo  di 
esagerazione  può  pervenire  un  falso  misticismo,  pervertito  dalla 
rettorica.  Ma  vinse  tutti  gli  altri  il  funerale  fatto  celebrare  dal 
municipio  di  Napoli  nella  chiesa  di  San  Lorenzo,  parata  a  lutto  e 
avente  nel  mezzo  una  tomba  di  stile  greco-egizio  su  alto  basa- 
mento.   Da  un  lato  c'era  Partenope  piangente  e  dall'altro  il 


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Genio  borbonico.  Pontificò  Salzano  ;  parlò  il  canonico  Scherilio 
e  Quattromani  ridettò  altre  iperboliche  epigrafi.  Si  era  alla 
metà  di  luglio  e  ancora  si  celebravano  esequie  per  Ferdinando  II, 
in  tutto  il  Regno,  compresa  la  Sicilia.  A  Catania,  il  Decurio- 
nato  ne  fece  celebrare  uno  in  duomo,  e  un  altro  se  ne  celebrò 
nella  chiesa  collegiata,  dove  l'elogio  fu  letto  dal  canonico  Giu- 
seppe Coco-Zanghi.  Questo  canonico  divenne  poi  notissimo, 
perchè  in  un  periodico  Catanese,  La  Campana,  pubblicò  un 
articolo  per  dimostrare,  che  le  tre  A  del  nome  di  ^o.xit'' Agata 
contengono  un  grande  mistero,  essendo  quelle  pronunziate  dal 
profeta  Daniele,  quando,  nella  fossa,  disse  :  '^  A,  A,  A,  Domine, 
nescio  loquij^.  E  concludeva,  che  le  tre  ^  di  Agata  avrebbero 
fatta  uscire  illesa  la  vergine  dftlla  fornace,  ora  mutata  in  chiesa 
della  Carcarella,  in  Catania.  Di  questa  stranezza  filologica 
molti  risero,  ma  il  Coco,  morto,  ebbe  il  suo  busto  in  bronzo  nel 
giardino  Bellini,  tra  gl'illustri  catanesi.  Su  tal  busto,  don  Sal- 
vatore Bruno,  ex  canonico  della  cattedrale,  professore  di  greco 
nell'Università  e  arguto  spirito,  fece  il  seguente  epigramma: 

Tu,  sacristanu  fausu 
Chi  flEai  chiautatu  ccà? 
Dimmi:  ohi  tti  nei  misiru 
For3Ì  pri  li  tri  4? 

A  Palermo  pronunciò  l'elogio  funebre  nella  cappella  Palatina 
il  padre  Cumbo,  rettore  dell'Università,  e  in  San  Domenico,  nel 
solenne  funerale,  fatto  celebrare  dal  Senato,  parlò  il  padre  Ro- 
mano, gesuita,  ma  in  Sicilia  si  ebbe  più  misura. 

A  Roma,  per  cura  del  cardinale  Girolamo  d'Andrea,  fu  ce- 
lebrato un  solenne  ufficio  funebre  in  Sant'Andrea  della  Valle, 
con  iscrizioni  storiche.  V  intervennero  il  sacro  collegio,  la  pre- 
latura, l'anticamera  nobile  del  pontefice  e  il  personale  delle  lega- 
zioni di  Napoli,  d' Austria,  di  Spagna  e  di  Toscana. 

Dopo  il  suo  ritomo  da  Palermo,  il  generale  Carlo  Filangieri 
aveva  vissuta  a  Napoli  una  vita  affatto  privata.  Frequentò  assai 
poco  la  Corte,  non  nascondendo  il  suo  malumore  contro  Ferdi- 
nando II  e  contro  il  Cassisi  per  le  cose  di  Sicilia.  Egli  era  de- 
voto ai  Borboni  per  giuramento  di  soldato,  non  per  comunanza 
di  vedute,  aveva  volontà  propria  e  uno  spirito  affatto  moderno. 
Religioso  senza  bigottismo  e  forse  volterriano  in  gioventù,  egli 
rideva  delle  superstizioni  di  Ferdinando  II,  perchè   capiva  che, 


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costruendo  cMese,  sciogliendo  voti  e  coprendosi  di  amuleti,  non 
si  puntellava  un  trono  pericolante.  Assunto  al  governo,  credeva 
di  poter  rinnovare  tutta  la  compagine  dello  Stato,  ma  per  riuscire 
gli  mancavano  due  condizioni  essenziali  :  la  fiducia  del  principe 
e  compagni  di  governo,  capaci  d'intenderlo  e  di  secondarlo  leal- 
mente. Questi  compagni,  tranne  il  Casella  e  il  Rosica,  non  erano 
di  sua  fiducia  ;  non  poteva  tollerare  A j ossa,  ma  gli  fu  giuocoforza 
tollerarlo.  Parecchi,  tra  i  quali  l'Ischitella,  gli  fecero  più  tardi  rim- 
provero di  aver  accettato  il  governo  in  quelle  condizioni.  ^  Non- 
ostante, avrebbe  forse  superato  tutte  queste  difficoltà,  se  avesse  avu- 
to vent'anni  di  meno,  ma  né  lui,  ne  altri  poteva  superarle  nelle 
condizioni  che  ho  descritte,  e  fu  vittima  del  suo  ideale,  quello  di 
conciliare  le  esigenze  dei  nuovi  tempi  con  la  dinastia  dei  Borboni. 

Filangieri  si  mise  all'opera  con  molta  fede  e  buona  volontà. 
Come  primo  atto  mandò  via  il  Cassisi  da  ministro  di  Sicilia  a 
Napoli  e  lo  sostituì  con  Paolo  Cumbo,  a  lui  devoto  ;  tolse  allo  Spac- 
caforno  la  direzione  dell'  interno  e  lo  sostituì  con  don  Michele 
Celesti,  al  quale  era  rimasto  affezionato  ;  ne  ci  volle  poco  per 
indurre  il  Re  a  consentire  ai  decreti  su  riferiti,  e  partico- 
larmente a  quello  circa  gli  attendibili.  Alcune  sue  ordinanze, 
per  l'umile  argomento  cui  si  riferivano,  provocarono  commenti 
umoristici  ;  ma  altre  furono  consigliate,  come  quelle  intese  a 
rendere  meno   orribili  le  prigioni,  da  doveri  di  cristiana  carità. 

Non  era  quanto  si  aspettava,  ma  il  presidente  dei  ministri 
non  aveva  le  mani  libere,  né  poteva  fare  assegnamento  sull'  ini- 
ziativa, o  almeno  sopra  un  intelligente  concorso  dei  suoi  com- 
pagni di  governo,  ne  credeva  prudente  allarmare  troppo  il  timi- 
do Re  e  la  Corte  sospettosa,  la  quale  non  aveva  fiducia  in  lui  e  lo 
rivelava  senza  mistero. 

Rivolse  le  sue  cure  all'esercito,  rimasto  con  lo  stesso  ordi- 
namento datogli  da  lui  nei  primi  anni  di  Ferdinando  II.  Aspi- 
rava a  farne  un  esercito  di  combattimento,  all'altezza  delle  mi- 
lizie moderne,  non  un  istrumento  di  regno,  come  aveva  fatto  il 
defunto  Re.  Capiva  quanto  fosse  necessario  rilevare  politicamente 
il  Regno  di  fronte  all'  estero,  tornare  in  buoni  rapporti  con  la 
Francia  e  l'Inghilterra,  soprattutto  con  la  Francia,  ed  entrare 
in  accordi  col  Piemonte,  nell'interesse  dei   due  maggiori  Stati 


Mémoires  et  souvenirs  de  ma  vie,  —  Paris,  15  mars  1864. 


-  11  — 

d'Italia    e  delle  due    Monarchie,    strettamente   imparentate.     I 
tempi  erano  grossi  e  occorrevano  decisioni  pronte  e  radicali. 

Quando  venne  ricevuto  dal  nuovo  Re  il  barone  Hùbner,  per 
presentargli  le  congratulazioni  dell' imperatore  d'Austria,  Filan- 
gieri non  era  ancora  ministro.  Quel  ricevimento  ebbe  luogo  il 
4  giugno  e  destò  nuove  inquietudini  nei  liberali,  perchè  si  dif- 
fuse la  voce  che  l'Hùbner  fosse  venuto  per  negoziare  una  lega 
fra  Napoli  e  Vienna.  Ma  risorsero  le  speranze,  quando  giun- 
sero, quasi  contemporaneamente,  il  conte  di  Salmour  e  il  barone 
Brenier,  che  Napoleone  III  tornava  ad  accreditare  presso  la 
Corte  di  Napoli,  dandogli  per  segretario  quel  barone  Aymè, 
mezzo  napoletano  e  mezzo  francese,  che  doveva,  più  tardi,  avere 
una  parte  in  quei  tenebrosi  intrighi  di  Corte,  che  precedettero 
l'Atto  Sovrano  del  25  giugno,  e  soprattutto  quando  Filangieri 
consigliò  il  Re  a  mandare  uno  dei  suoi  gentiluomini  a  rallegrarsi 
con  Napoleone  III  e  con  Vittorio  Emanuele  della  vittoria  di  Sol- 
ferino. Il  Re  scelse  per  tale  missione  il  duca  di  Bovino,  genero 
del  Filangieri,  come  colui,  il  quale  dava  maggiori  garanzie  di 
essere  meno  liberale.  Ma  questa  nomina,  tutta  d' iniziativa  del 
Re,  ebbe  tale  successo  d' ilarità,  che  il  Filangieri  scongiurò  il  So- 
vrano di  scegliere  altri,  e  fu  scelto  il  principe  d' Ottajano. 

Nel  1859,  il  Collegio  medico  contava  più  di  300  alunni,  di- 
stinti in  quattro  corsi  :  dei  fisici,  degli  antepratici,  dei  pratici 
e  dei  chirurgi.  N'era  rettore  il  canonico  Caruso,  calabrese, 
la  cui  devozione  a  Ferdinando  II  e  al  ministro  Murena  toccava 
il  fanatismo.  Alto,  bruno,  robusto,  peloso  come  un  orso,  era 
allora  nel  vigore  degli  anni.  Gli  occhi  neri  e  le  folte  soprac- 
ciglia gli  davano  un  aspetto  quasi  truce.  Rozzo  e  privo  di  cul- 
tura, era  amministratore  del  giornale  La  Verità,  che  dirigeva  il 
prete  Scioscia  di  Pescopagano,  e  aveva  diretto  il  ricovero  di  men- 
dicità nella  badia  del  Morrone,  lasciandovi  pessima  fama.  Quando 
egli  fu  chiamato  a  capo  del  collegio  medico,  la  disciplina  di 
questo  lasciava  molto  a  desiderare.  Frequenti  le  faghe  notturne 
dei  collegiali,  le  serenate  nel  fondo  dei  pozzi  e  altre  cosette  ga- 
lanti. Caruso,  per  ristabilir  la  disciplina  cominciò  a  pretendere 
che  studenti  e  professori  gli  baciassero  la  mano,  e  tutti  gliela 
baciavano,  perchè  in  poco  tempo  egli  era  divenuto  lo  spavento 
degli   uni   e   degli  altri.     Quattro   soli  professori  non   si  piega- 


-  12  - 

rono  mai  a  quest'atto  servile  e  furono  :  il  Manfrè,  medico  del 
principe  don  Luigi  e  nemico  implacabile  del  rettore,  il  De  Renzis, 
don  Salvatore  de  Renzi  e  il  Perrone,  al  quale  il  Caruso  fece 
un  giorno  una  solenne  ramanzina  alla  presenza  dei  suoi  alun- 
ni. Caruso  spingeva  il  rigorismo  ai  peggiori  eccessi.  Egli 
non  solo  vigilava  le  azioni,  ma  si  studiava  d' intuire  i  pen- 
sieri dei  giovani,  e  guai  se  li  scopriva  men  clie  ortodossi,  in  re- 
ligione e  in  politica.  I  prefetti,  poveri  e  piccoli  preti  di  pro- 
vincia, pagati  a  sei  ducati  il  mese,  gli  riferivano  tutto,  e  le 
punizioni  che  andavano  dai  rimproveri  al  piatto  capovolto,  dal 
carcere  lieve  al  penale  e  dall'espulsione  alla  consegna  alla  po- 
lizia, fioccavano  senza  pietà.  La  sorveglianza,  cke  egli  eserci- 
tava e  faceva  esercitare  sugli  alunni,  era  divenuta  insopporta- 
bile. Compariva  all'improvviso  nelle  camerate,  e  se  trovava  da 
ridire  su  qualche  cosa,  non  risparmiava  ingiurie  e  schiaffi,  e  spesso 
incolpava  gli  alunni  di  mancanze  immaginarie. 

Morto  Ferdinando  II  e  caduto  il  Murena,  gli  alunni  delibera- 
rono di  ricorrere  al  nuovo  Re  e  inviarono  parecchie  suppliche 
a  lui  e  al  direttore  Scorza.  Si  disse  che  l'alunno  Tommaso  de 
Amicis  di  Alfedena,  venuto  poi  in  fama  nella  professione  sua, 
scrivesse  il  ricorso  al  Re  ;  l'alunno  Francesco  Colucci  di  Bari, 
che  fu  più  tardi  garibaldino  e  giornalista,  ne  scrisse  un  altro 
allo  stesso  Scorza,  ma  non  se  ne  vide  effetto.  E  fu  allora  che  si 
deliberò  d'insorgere.  I  tempi  erano  un  po'  mutati,  e  le  notizie 
della  guerra  d'Italia  accendevano  le  teste.  L'insurrezione  fu 
organizzata  dagli  antepratici  e  dai  fisici  che  si  misero,  durante 
la  messa,  in  relazione  con  le  altre  camerate,  mercè  forti  mance 
ai  servi,  e  fu  diretta,  oltre  che  dal  De  Amicis  e  dal  Colucci, 
dagli  alunni  Fedele  Ranieri,  calabrese,  Alfonso  Guarino,  napo- 
letano, Pietro  de  Caro  di  Benevento,  Enrico  de  Renzi,  figliuolo 
del  professore,  e  Giovanni  Antonelli  :  erano  anche  nella  cospi- 
razione gli  alunni  Di  Monte,  TJrsini,  Ria,  Fiorito  e  Lobello.  Do- 
veva aver  luogo  la  sera  della  festa  di  San  Luigi,  che  ricorre  il 
21  giugno:  festa,  per  la  quale  il  rettore  aveva  domandata  ad 
ogni  giovane  una  piastra  di  contributo,  volendo  celebrarla  più. 
solennemente  che  negli  altri  anni,  ma  a  quella  tassa  gli  alunni  si 
erano  rifiutati.  La  resistenza  insolita  aveva  reso  furioso  il  Ca- 
ruso e  moltiplicate  le  punizioni. 

Venne  dunque  la  sera  del   21   giugno.    A  un'ora  di  notte, 


-is- 
si vide  una  fiammella  alla  seconda  finestra  della  camerata  de- 
gli antepratici  messa  fuori  dall' Ursini.  Era  il  segnale  conve- 
nuto, cui  rispose  altra  fiammella  dall'ultima  finestra  della  came- 
rata dei  fisici,  al  secondo  piano.  Si  era  stabilito  di  gridare: 
abbasso  Caruso,  fitori  Caruso,  e  cacciarlo  dal  refettorio  :  il  resto 
veniva  da  se.  A  due  ore  di  notte,  l'ora  della  cena,  scesero  tran- 
quillamente gli  alunni  in  refettorio,  meno  i  chirurgi,  timorosi 
di  compromettere  la  laurea  medica.  I  più  esaltati  portavano  di 
nascosto  i  ferri  anatomici.  Recitato  il  benedicite,  mentre  l'alun- 
no di  turno,  salito  sul  piccolo  pergamo,  cominciava  a  leggere 
un  trattato  di  anatomia  (quella  sera  la  lettura  era  sul  terzo  paio 
di  nervi),  dai  banchi  dei  pratici,  addossati  al  muro,  a  sinistra 
della  grande  porta,  si  udì  il  primo  grido  :  abbasso  Caruso.  Il  ret- 
tore corse  verso  il  luogo,  donde  era  partita  la  voce,  ma  alle  sue 
spalle  le  grida  si  moltiplicarono  e  il  fracasso  divenne  infernale  : 
trecento  gole  urlavano  e  trecento  braccia  battevano  con  forza 
i  coltelli  sui  vassoi  in  segno  di  minaccia. 

Caruso,  da  principio,  non  ebbe  paura,  anzi  credè  poter  do- 
mare la  tempesta.  Difatti  non  si  mosse.  Le  grida  si  udivano 
dalla  strada  Costantinopoli  e  da  Fona,  e  la  notizia  di  una  ri- 
volta al  Collegio  medico  si  diffuse,  in  breve,  nel  vicinato.  Il 
Caruso,  pallido  e  ansante,  visto  che  non  riusciva  a  ristabilire 
l'ordine,  decise  ritirarsi,  ma  prima  si  arrestò  sui  gradini  della 
porta  piccola  e  di  là,  con  lo  sguardo  fisso  sui  dimostranti,  con 
le  mani  nelle  ampie  tasche  della  zimarra,  ruppe  in  parole  di 
minaccia,  ordinando  al  lettore  con  tutta  la  sua  voce  di  ripren- 
dere la  lettura.  Fu  la  più  imprudente  delle  provocazioni,  per- 
chè i  giovani,  perduta  la  testa,  cominciarono  a  scaraventare  con- 
tro di  lui  piatti,  bicchieri,  bottiglie  e  quanto  era  sopra  le  tavole. 
Quella  sera  si  servivano  a  cena  le  triglie  fritte,  e  anche  queste 
volarono  contro  il  rettore.  Non  c'era  tempo  da  perdere.  Il  prefetto 
Guadagno,  inviso  anche  lui,  apri  la  porta,  ne  cacciò  fuori  il  Caruso 
e  ne  prese  il  posto,  mentre  questi  mandò  ad  avvisare  la  polizia. 

Uscito  il  rettore  dal  refettorio,  continuò  il  baccano.  Ven- 
nero svelte  le  lunghe  e  massiccie  panche  di  quercia  e  i  ferri 
dei  lumi;  e  armati  di  panche  e  di  ferri,  i  giovani  corsero  al 
corridoio  del  secondo  piano,  che  precedeva  l'appartamento  del 
rettore.     Egli  vi  si  era  asserragliato;  la  porta,  ben  solida,  resi- 


-     14:     - 

steva  agli  urti  dei  pali  e  delle  panche,  adoperate  come  leve.  Al- 
cuni scesero  in  porteria  e  sbarrarono  l' ingresso.  Erano  le  11,  e 
ancora  gli  alunni,  schiamazzando,  cingevano  d'assedio  l'apparta- 
mento del  rettore,  cercando  di  romperne  la  porta,  quando,  con 
le  lagrime  agli  occhi,  giunse  il  vicerettore,  un  buon  vecchio  cui 
tutti  volevano  bene  e,  a  mani  giunte,  li  pregò  di  consegnargli 
le  chiavi  della  porteria,  perchè  un  battaglione  di  Svizzeri  aveva 
circondato  il  collegio  e  gli  zappatori  stavano  per  sfondarne  la  por- 
ta. Era  vero  e  si  udivano  già  i  primi  colpi.  Consegnate  le  chiavi, 
i  giovani  tornarono  nelle  rispettive  camerate.  Entrarono  gli 
Svizzeri,  ma  in  atteggiamento  benigno.  ^  In  porteria  s'insediò  il 
commissario  del  quartiere,  Capasse,  che  arrestò  venticinque  alun- 
ni e  li  chiuse  nel  vicino  carcere  di  Sant'Aniello,  affidato  alla 
custodia  del  padre  Cutinelli  e  del  padre  Planes,  gesuiti.  Furono 
tra  gli  arrestati  gli  alunni  Ursini,  Di  Monte,  Ria,  Fiorito,  Lo- 
bello,  Antonelli,  Pugliatti,  Severino,  Rossi,  Zanello,  Sollazzo, 
Libroia,  Nicoletti,  De  Lellis  e  Casciuolo. 

La  mattina  il  Collegio  era  occupato  militarmente.  Dopo  la 
messa,  i  giovani  furono  chiamati  nella  sala  dell'accademia,  una 
gran  sala,  coi  banchi  disposti  ad  anfiteatro  e  destinata  alle  le- 
zioni d'anatomia.  Vi  trovarono  il  generale  Lanza  in  grande 
uniforme  e  il  direttore  Scorza,  che  raccomandarono  la  calma. 
Lanza  parlò  in  gergo,  com'egli  soleva,  e  fu  bonario.  Caruso 
assisteva,  ma  non  disse  verbo.  Aveva  la  mano  fasciata  da  una 
benda  nera,  poiché  s'era  fatto  salassare  dalla  paura. 

Dopo  pochi  giorni,  assunse  le  funzioni  di  rettore  il  sacerdote 
Scacchi,  che  era  stato  vicerettore  ed  allora  dirigeva  il  con- 
servatorio di  San  Pietro  a  Maiella  ;  fu  poi  nominato  rettore  il 
canonico  Lamberti,  parroco  di  Sant'Anna  di  Palazzo,  che  vi  re- 
stò sino  alla  rivoluzione,  quando  quell'ufficio  fu  secolarizzato 
e  venne  conferito  a  Cammillo  de  Meis,  reduce  dall'esilio.  De 
Meis  fu  l'ultimo  rettore  del  Collegio  medico,  travolto  anch'esso 
nelle  rovine  dei  vecchi  ordini.  Vivaio  di  medici  e  di  chi- 
rurgi valorosi,  non  di  ciarlatani,  più  o  meno  fortunati,  il  Col- 
legio medico  era  a  Napoli  popolare.  Anche  oggi  si  ricordano 
quei  giovani,  vestiti  di  bleu  in  inverno  e  di  verde  bottiglia  in 
estate,  col  cappello  a  punta,  tutto  nero  e  i  gigli  borbonici  ri- 
camati sull'alto  bavero  dell'uniforme.  La  prigionia  dei  giovani 
non  durò  più  di  tre  mesi  e  non  vi  fu  processo.     Durante  la  pri- 


-  15  — 

gionia  furono  consigliati  di  fare  una  supplica  al  Re,  perchè  alla 
direzione  del  Collegio  fossero  posti  i  gesuiti,  ma  non  vollero, 
benché  loro  si  promettesse  la  grazia  sovrana. 

Ma  assai  più  grave  di  questo  baccano  incruento  di  giovani  me- 
dici, ribelli  al  rettore,  fu  l' insurrezione  militare  che  scoppiò  a  due 
settimane  di  distanza.  Parlo  di  quella  dei  soldati  Svizzeri,  che  eb- 
be un  epilogo  cosi  sanguinoso  e  conseguenze  politiche  tanto  gravi. 

La  rivolta  fu  ampiamente  narrata  dal  Giornale  Ufficiale.  Io 
aggiungerò  che  lo  spavento  dei  cittadini  fu  in  quella  notte 
addirittura  indescrivibile.  Gli  Svizzeri  furono  sempre  riguardati 
dai  napoletani  con  terrore,  soprattutto  dopo  il  16  maggio.  Ve- 
derli in  sommossa  attraversare  Napoli  di  notte  dal  Carmine  a 
Oapodimonte,  a  passo  di  carica,  a  suon  di  tamburo,  armati  di 
tutto  punto  e  con  le  bandiere  conquistate  nei  loro  quartieri;  e 
udire  i  frequenti  colpi  di  fucile  e  le  grida  di  gioia  selvaggia  e  di 
vendetta,  ad  un  tempo,  contro  i  loro  ufficiali,  era  tale  uno  spet- 
tacolo, da  giustificarne  la  paura.  Sarà  bene  narrare  con  la  mag- 
giore precisione  come  andarono  le  cose. 

I  reggimenti  svizzeri,  di  guarnigione  a  Napoli,  erano  tre, 
poiché  il  primo  era  a  Palermo.  Di  quei  tre  reggimenti,  il  quarto, 
reclutato  nel  cantone  di  Berna,  aveva  l'orso  cantonale  sulla 
bandiera,  I  primi  malumori  si  erano  manifestati  in  questo  reg- 
gimento, al  pervenire  delle  notizie  di  ciò  che  si  discuteva  nel- 
l'assemblea federale  a  proposito  degli  assoldamenti.  E  quando, 
dopo  il  voto  di  quell'assemblea,  venne  ordinato  al  comandante 
del  quarto  reggimento  di  far  togliere  dalla  bandiera  lo  stemma 
cantonale  e  questi,  alla  sua  volta,  comunicò  l'ordine  al  sarto, 
che  vi  si  oppose,  la  diffusione  della  notizia  sollevò  cosi  vi- 
vaci proteste  e  tali  impeti  d'ira,  che  gli  ufficiali  stimarono 
prudente  consiglio  impedire  l'uscita  dei  soldati,  in  quella  sera. 
Difatti,  un  gruppo  di  soldati  del  terzo  reggimento,  andato  al 
quartiere  del  Carmine,  dove  alloggiava  il  quarto,  non  vi  potè 
penetrare,  e  fu  cosi  che  quest'ultimo  reggimento  non  partecipò 
alla  sommossa,  la  quale  venne  compiuta  quasi  interamente  dal 
terzo,  e  per  una  circostanza  particolare.  Questo  reggimento,  de- 
cimato in  modo  inverosimile  nei  combattimenti  di  Catania  dieci 
anni  prima,  anzi  ridotto  a  soli  300  uomini,  era  stato  via  via  ri- 
costituito con  elementi  fatti  venire  di  fresco  dalla  Svizzera.    E 


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questi,  serbando  più  vive  e  più  fresche  le  impressioni  del 
proprio  paese,  «i  sentivano  feriti  più  dei  loro  compagni  dalle 
nuove  disposizioni,  le  quali  negavano  loro  la  cittadinanza  e  lo 
stemma  cantonale,  finché  erano  al  servizio  di  potenze  straniere. 

Le  autorità  furono  colte  alla  sprovvista.  Il  direttore  di  polizia, 
Casella,  assicurava  ingenuamente  di  non  aver  nulla  preinteso  della 
rivolta.  A  tutelare  l'ordine  e  a  prender  le  necessarie  precauzio- 
ni, di  fronte  ad  eventuali  gravi  conseguenze,  il  generale  Filan- 
gieri, accompagnato  dal  generale  Lanza,  dal  maresciallo  Garofalo, 
direttore  del  ministero  della  guerra  e  dal  colonnello  Buonopane, 
girava  per  i  luoghi  più  esposti  e  per  i  quartieri  delle  milizie, 
impartendo  ordini  ed  istruzioni,  e  vegliò  la  notte. 

La  nuova  della  sommossa  pervenne  confusamente  a  Capodi- 
monte,  ma  non  s' immaginava  che  gì'  insorti  si  sarebbero,  come  av- 
venne, diretti  proprio  là,  risoluti  a  chiedere  al  E.e  che  fosse  loro 
mantenuta  la  nazionalità  propria,  o  che  il  governo  li  licenziasse, 
accordando  loro  la  paga  degli  altri  sei  mesi,  ne'  quali  doveva  dura- 
re la  capitolazione.  Scarsa  truppa  custodiva  Oapodimonte.  Uden- 
do avvicinarsi  forze  armate  a  passo  di  carica,  si  credette  da  prin- 
cipio che  fossero  reggimenti  mandati  a  maggior  tutela  della  fa- 
miglia reale.  Ma,  conosciuta  la  verità,  si  die  l'allarme  e  si  chiu- 
sero i  cancelli  del  parco.  Era  circa  la  mezzanotte.  Il  retroam- 
miraglio  Del  Re,  che  comandava  il  debole  presidio,  lo  dispose  a 
resistenza.  Francesco  mostravasi  inquieto  ;  paurosi  gli  altri  prin- 
cipi ;  presente  a  se  stessa  soltanto  la  Regina,  la  quale,  udendo  ap- 
pressarsi il  tamburo,  usci  sulla  terrazza  della  sua  camera  da  letto 
per  vedere  lo  spettacolo.  La  Regina  madre,  cui  avevano  detto 
trattarsi  di  una  rivolta  militare,  consigliò  di  chiamar  subito  gli 
Svizzeri  a  difesa,  ma  quando  udì  che  questi  erano  gl'insorti, 
corse  presso  i  figliuoli  piccini,  che  fece  svegliare  e  vestire,  per 
tenerli  pronti  ad  una  fuga. 

Nulla  si  sapeva  di  preciso,  anzi  si  temeva  che  fossero  insorti 
tutti  e  tre  i  reggimenti  e  si  avviassero  a  Oapodimonte,  per  far 
prigioniera  la  famiglia  reale.  Il  Del  Re,  il  duca  di  Sangro  e 
il  colonnello  Sohumacker  uscirono  incontro  ai  rivoltosi  presso  il 
cancello  principale,  per  sapere  che  volessero.  Non  vi  erano  uf- 
ficiali, ne  capi,  e  perciò  non  fu  possibile  parlamentare,  né  senza 
fatica  si  riuscì  a  capire  qualche  cosa.  Erano  poco  meno  di  un 
migliaio,  armati  ed  eccitati  in  sommo  grado.     Parvero  calmarsi, 


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quando  fu  loro  assicurato  che  il  Re,  favorevolmente  disposto 
verso  di  loro,  avrebbe  riflettuto  sulle  loro  domande,  e  ohe  in- 
tanto ne  avessero  attese  le  risoluzioni  al  campo  di  Marte. 

GÌ'  insorti  si  avviarono  allora  verso  Capodiohino,  tirando  colpi 
di  facile  in  aria.  Bivaccarono  sul  campo  e  vi  rimasero  sino  alla 
mattina.  Nella  notte,  il  ministero  dispose  che  i  battaglioni  di 
cacciatori,  rimasti  fedeli,  sotto  il  comando  del  generale  Nun- 
ziante, andassero  al  campo  di  Marte  e  imponessero  il  disarmo 
ai  ribelli.  Ma,  quando  questi  videro  avvicinarsi  i  loro  com- 
pagni armati  e  con  una  batteria  di  cannoni,  ritenendo  che  an- 
dassero per  massacrarli,  ed  esasperati  perchè  non  si  erano  uniti 
a  loro  nella  rivolta,  cominciarono  a  far  fuoco,  obbligando  cosi  il 
Nunziante  ad  ordinare  una  scarica  di  facili  e  una  di  mitraglia,  per 
cui  s'ebbe  a  deplorare  quella  carneficina,  che  produsse  in  Napoli 
incancellabile  impressione  di  spavento  e  per  la  quale  fu  censurato 
aspramente  il  Nunziante,  che  si  disse  aver  agito  per  troppo  zela 
verso  il  Re,  dal  quale  era  stato  nominato  pochi  giorni  prima 
aiutante  generale,  e  sua  moglie,  dama  di  Corte.  Dello  zelo  inop- 
portuno vi  fu,  perchè  gl'insorti,  dopo  i  primi  colpi  si  sbanda- 
rono per  le  campagne,  e  il  Nunziante  continuò,  ciononostante, 
a  comandare  il  fuoco,  tanto  che,  mentre  nel  13"  battaglione  cac- 
ciatori non  vi  farono  che  due  feriti,  degli  Svizzeri  insorti,  20  ri- 
masero morti,  76  furono  feriti,  262  fatti  prigionieri.  Nella  notte 
seguente  fu  eseguito  il  trasporto  dei  morti  e  dei  feriti,  argomento 
di  pietà  del  popolo  napoletano.  Filangieri  affidò  al  Nunziante 
quella  triste  missione,  perchè  essendo  stato  egli  l'organizzatore 
dei  cacciatori,  compresi  gli  Svizzeri,  ne  aveva  tutta  la  fiducia. 

Così  la  rivolta  fu  domata,  e  il  Re,  per  consiglio  di  Filangieri, 
sciolse  tutti  e  quattro  quei  reggimenti  mercenarii.  Fino  ad  oggi 
erano  quasi  ignote  le  vere  cause  di  quella  sommossa,  che  tanto 
gli  zelanti,  quanto  i  liberali  di  Napoli  attribuirono  all'opera  del 
Piemonte,  e  gli  emigrati  napoletani  all'opera  dei  liberali  di  Na- 
poli. E  poiché  nel  partito  legittimista  è  sempre  radicata  l'opi- 
nione ohe  vi  avesse  avuto  mano  il  Piemonte,  io  ho  voluto,  con 
recenti  e  minuziose  indagini,  chiarire  questo  punto  del  breve 
regno  di  Francesco  II. 

Innanzitutto,  bisogna  ricordare  che  le  capitolazioni  fra  il  go- 
verno di  Napoli  e  il  governo  svizzero  erano  scadute  fin  dal  1866; 

Db  Omabs,  La  fin»  di  un  Segno  •  Voi.  II.  2 


-  18  - 

e  non  essendo  riuscito  a  Ferdinando  II  di  rinnovarle,  aveva  pre- 
ferito accordarsi,  per  altri  cinque  anni,  coi  comandanti  dei  quattro 
reggimenti  e  del  battaglione  di  artiglieria.  Il  governo  federale 
lasciò  correre,  ma  a  una  sola  condizione,  che  non  si  chiamassero 
più  reggimenti  svizzeri,  e  difatti,  da  quell'anno  si  chiamarono 
ufficialmente  reggimenti  esteri.  Alla  fine  del  1869  scadeva  dun- 
que il  quinquennio,  e  fra  il  governo  napoletano  e  il  governo 
federale,  fin  dal  gennaio  di  quell'anno,  cominciarono  le  tratta- 
tive, per  tornare  alle  vecchie  capitolazioni,  o  almeno  per  otte- 
nere che  continuasse  l'accordo  intervenuto  con  i  comandanti  dei 
reggimenti.  Le  trattative,  per  conto  del  governo  napoletano, 
erano  condotte  dal  Oanofari:  trattative  laboriose,  le  quali  non 
lasciavano  sperare  alcun  esito  favorevole,  sia  per  effetto  dei 
nuovi  tempi,  sia  perchè  nella  Dieta  il  partito  radicale  era  in 
prevalenza,  e  sia  infine  per  le  accuse  mosse  dall'Europa  liberale 
al  governo  svizzero,  in  seguito  ai  fatti  del  16  maggio  in  Napoli 
ed  alle  giornate  di  Messina  e  Catania. 

Bisogna  ricordare  anche  che,  oltre  al  Re  di  Napoli,  il  Papa 
aveva  al  suo  soldo  due  reggimenti  svizzeri,  i  quali  si  erano  bat- 
tuti con  valore  a  Vicenza  nel  1848.  Mutato  l'animo  del  pon- 
tefice, quei  reggimenti  non  si  erano  mostrati  molto  disposti  a 
seguire  gli  ordini  del  generale  Zucchi,  che  principalmente  con 
loro  voleva  ristabilire  l'ordine.  In  seguito  a  questa  resistenza, 
i  comandanti,  fra  i  quali  era  il  Latour,  furono  destituiti  e  i  reg- 
gimenti svizzeri  sciolti,  rimanendo  al  soldo  del  pontefice  pochi 
ufficiali,  fra  i  quali  ricordo  il  Kolbermatter,  che  fu  poi  ministro 
della  guerra  del  Papa,  il  De  Courten  e  il  De  Goddy.  Furono 
questi  e  pochi  altri,  che  più  tardi  ricomposero  un  nuovo  reggi- 
mento svizzero,  il  quale  domò  1'  insorta  Perugia  fra  le  stragi  e 
i  saccheggi,  quattro  giorni  dopo  la  battaglia  di  Solferino,  quando 
cioè  in  tutta  Europa  le  idee  liberali  erano  prevalenti  nei  governi 
e  nella  stampa.  Quei  fatti,  per  la  natura  loro  e  per  i  gridi  di 
protesta  che  sollevarono  dovunque  ne  giunse  l'eco,  eccitarono  nella 
stessa  Svizzera  uno  sdegno  cosi  forte  contro  gli  assoldamenti, 
che  la  quistione  venne  agitata  di  nuovo  nella  Dieta  federale,  e 
fu  deliberato  che  i  reggimenti  svizzeri  stipendiati  da  Stati  esteri, 
che  poi  erano  Napoli  e  Roma,  perdessero  la  cittadinanza  d'ori- 
gine, nel  tempo  che  erano  sotto  le  armi,  e  fosse  loro  proibito 
di  portare  sulla  bandiera  del  proprio  reggimento  lo  stemma  can- 


—  19  - 

tonale.  Il  partito  radicale  ben  sapeva  che  gli  Svizzeri  non  si 
sarebbero  rassegnati  a  tali  condizioni,  e  desideroso  com'era  di 
lavare  le  maccbie  di  Napoli  e  di  Sicilia,  e  quella  più  recente  di 
Perugia,  voleva  farla  finita  con  le  capitolazioni,  le  quali  erano 
causa  di  continue  accuse  e  polemiche  e  costituivano  veramente 
una  vergogna  per  la  Repubblica. 

Ministro  di  Sardegna  a  Berna  era  il  signor  Jockeau,  ed  è 
verosimile  che  egli  ne  riferisse  al  suo  governo  ;  ma  nella  sua 
corrispondenza  del  tempo,  anche  in  quella  più  riservata,  secondo 
recenti  indagini  eseguite  nell'archivio  del  ministero  degli  esteri, 
non  se  ne  trova  traccia.  Il  governo  piemontese  e  meno  ancora 
gli  esuli  napoletani  non  vi  ebbero  mano  in  nessun  modo,  ed  in 
prova  di  questa  affermazione  posso  citare  due  autorevoli  testi- 
monianze :  quella  di  Silvio  Spaventa,  il  quale  conservò  sino  agli 
ultimi  giorni  di  sua  vita  tenace  memoria  di  tutti  gli  avvenimenti 
di  allora,  e  che  vivendo  in  quei  giorni  a  Torino,  era  in  grado,  per 
l'autorità  sua  fra  gli  emigrati,  di  conoscer  bene  le  cose;  e  quella 
di  Gaspare  Finali,  intimo  del  Farini,  che  aveva  alla  sua  volta 
tanta  intimità  con  Cavour.  Anzi,  secondo  loro,  non  solo  il  go- 
verno del  Piemonte  non  vi  ebbe  parte,  ma  la  notizia  della  rivolta 
degli  Svizzeri  riuscì  una  sorpresa  a  Torino  per  tutti,  compreso 
il  ministero. 

La  spiegazione,  storicamente  esatta  da  me  data,  dissipa  la 
favola  che  Cavour  agisse  sul  governo  federale  ;  favola,  che  il  Ca- 
nofari  accreditava  per  dare  una  ragione  plausibile  dei  suoi  in- 
successi, e  Francesco  II  mostrava  di  credere  per  un  altro  verso, 
quando  nelle  istruzioni  mandate  al  suo  ministro,  aggiungeva  di 
suo  pugno  :  "  i  soldati  svizzeri  sono  sedotti  dall'oro  del  Piemonte  „ 
e  gli  raccomandava  che  facesse  notare  questa  circostanza  al  go- 
verno federale.  E  ugualmente  inattendibile  si  rivela  l'altra  di- 
ceria, che  la  decisione  del  governo  svizzero  si  dovesse  al  lavoro 
di  una  conmiissione  di  emigrati,  formata  da  Scialoja,  da  Leo- 
pardi e  da  Antonino  Plutino,  i  quali  avrebbero  agito  per  mezzo 
del  ministro  piemontese  a  Berna.  Quello,  invece,  che  il  partito 
radicale  svizzero  aveva  preveduto,  avvenne.  Grli  Svizzeri  al  ser- 
vizio del  Re  di  Napoli  non  vollero  rassegnarsi  a  divenire  estranei 
al  proprio  paese  e  insorsero. 

La  perdita  dei  reggimenti  svizzeri  fu  la  maggiore  scossa  al- 
l'edificio, che  cominciava  a  screpolarsi    e   segnò    il    primo  vero 


-  20  — 

inalaniio  per  la  dinastia.  Invano  si  tentò  ripararvi  più  tardi, 
quando  Filangieri  non  c'era  più,  facendo  venire  soldati  bava- 
resi ed  austriaci,  prima  incorporandoli  nei  reggimenti  indi- 
geni e  poi  formandone  un  reggimento  a  parte,  che  fu  il  13**  cac- 
ciatori. Quei  bavaresi  ed  austriaci,  condotti  dai  vapori  del  Lloyd, 
sbarcavano  a  Molfetta  e  io  li  ricordo  bene.  Erano  bei  giovani, 
pieni  di  salute,  i  quali  venivano  a  servire  una  causa,  che  non 
capivano  e  mormoravano  a  bassa  voce:  fife   Caripalde. 

Gli  sdegni  della  Regina  madre  e  del  vecchio  partito  di  Corte 
per  le  due  sommosse,  in  quarantacinque  giorni,  furono,  assai 
aspri.  Filangieri  era  particolarmente  preso  di  mira.  Anche  il  Re 
ne  restò  impressionato.  Non  si  ebbe  più  ritegno  a  parlare  di  tra- 
dimento, la  fatale  parola,  che  doveva  accompagnare  il  breve  regno 
di  Francesco  II,  dal  principio  alla  fine  ! 

Nella  famiglia  reale  e  in  tutta  la  Corte,  dopo  la  morte  di 
Ferdinando  II,  si  cominciò  a  vivere  più  liberamente.  Il  conte 
di  Trani,  il  conte  di  Caserta  e  persino  il  conte  di  Girgenti  dice- 
vano di  voler  fare,  appena  finito  il  lutto  stretto,  viaggi  all'e- 
stero, dove  non  erano  stati  mai,  e  di  voler  abitare  ville  e  quar- 
tieri indipendenti:  tutte  cose  che  non  avrebbero  neppur  sognate, 
vivo  il  padre.  Si  facevano  fotografare  in  divisa  militare,  o  da 
cacciatori  con  relativi  cani  e  carniere,  non  escluso  don  Pasqua- 
lino, conte  di  Bari,  che  aveva  sette  anni,  e  distribuivano  larga- 
mente le  loro  fotografie.  In  esse  il  conte  di  Trani  vestiva  la 
divisa  di  ufficiale  di  marina,  il  conte  di  Caserta  da  ufficiale  di 
artiglieria,  il  conte  di  Girgenti  da  ufficiale  dei  cacciatori,  e  il 
conte  di  Bari  da  soldato  di  linea,  con  l'immenso  cappellone  pe- 
loso e  in  posizione  di  presentare  le  armi.  Bei  giovanotti,  vigo- 
rosi e  pieni  di  vita.  Il  conte  di  Girgenti  aveva  piglio  più  furbo  e 
somigliava  tutto  suo  padre.  Del  resto  i  figliuoli  di  Ferdinando  II, 
comprese  le  femmine,  avevano  marcato  tipo  borbonico,  tranne  il 
conte  di  Trani  che  somigliava  sua  madre.  Col  fratello,  dive- 
nuto Re,  non  si  mostravano  diversi  di  quel  che  si  erano  sempre 
mostrati  con  lui,  cioè  familiarissimi.  Francesco  non  era  per  essi 
il  Sovrano,  ma  Lasa.  Gli  davano  del  tu,  come  per  lo  innanzi 
e  non  sempre  temperavano  il  tono  di  familiarità,  piuttosto  vol- 
garuccio,  al  quale  erano  abituati,  del  che  il  Re  s'avea  un  po'  a 
male.     Questi  poi  in  privato  li  chiamava  per  nome,  ma  in  pre- 


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senza  di  estranei  non  li  indicava  che  per  titolo.  E  così  dice- 
va ;  mio  fratello  Trani,  mio  fratello  Caserta^  e  ai  piccoli  dava 
il  don^  come  facevano  tutti  in  Corte.  Il  dolore  non  si  leggeva 
sul  volto  dei  figliuoli  e  dei  fratelli  del  morto  Re.  Il  conte  di 
Siracusa  era  andato  ad  abitare  a  Capodimonte;  secondo  alcuni 
per  stare  più  vicino  al  nipote  e,  secondo  altri,  per  intrighi  amorosi 
o  per  far  dispetto  alla  Regina  madre,  che  lo  detestava.  Gli  astri, 
che  avevano  più  brillato  intorno  al  magno  pianeta  sparito  dall'o- 
rizzonte il  22  maggio,  cominciavano  ad  oscurarsi.  Unica,  vera- 
mente inconsolabile,  era  l'ex  regina  Maria  Teresa,  la  quale  sentiva 
di  aver  tutto  perduto.  Esercitando  un  vero  dominio  sull'animo 
del  marito,  essa  regnala  e  governava,  pur  non  avendone  l'appa- 
renza, e  ben  si  può  dire  che  non  si  movesse  foglia  in  Corte  senza 
che  ella  lo  volesse,  nessuna  volontà  essendovi  superiore  alla  sua. 
L' indole  di  Maria  Teresa  aveva  qualche  cosa  di  enimmatico,  pa- 
rendo che  in  lei  non  prevalessero  che  la  gelosia  e  la  parsimo- 
nia. Era  gelosa  del  marito  sino  alla  puerilità;  gelosa  dell'af- 
fetto che  il  marito  aveva  per  i  figli;  gelosa  delle  sue  dame  e 
delle  sue  cameriste,  tanto  che  di  cameriste  fini  per  non  averne 
nessuna.  Una  delle  ultime  fu  donna  Emilia  Paisler.  Un  giorno 
di  estate,  donna  Emilia,  dovendo  uscire,  indossò  un  vestito  nuovo 
e  mise  un  cappello  di  paglia,  molto  grazioso.  Il  Re,  trovan- 
dosi a  passare,  si  fermò  a  guardarla  e  le  disse  con  familiarità 
napoletana  che  quella  paglia  le  stava  proprio  bene.  L'udì  la  Re- 
gina e  non  aprì  bocca  ;  ma  da  quel  momento  non  chiamò  più, 
ne  volle  più  avere  accanto  a  se  la  Paisler.  Le  cameriste  e  le 
donne  di  camera  evitavano  il  Re,  per  non  incorrere  nello  sde- 
gno della  Regina- 
Alcuni  anni  prima  aveva  fatto  di  peggio.  Una  delle  came- 
riste di  Maria  Cristina,  donna  Guglielmina  de  Palma,  era  di- 
venuta camerista  di  Maria  Teresa,  la  quale  si  era  affezionata  a 
lei,  donnina  di  molto  tatto  e  di  fine  intelligenza.  Le  cameriste 
non  erano  donne  di  camera,  ma  dame  intime  di  compagnia  e 
dovevano  essere  signorine  o  vedove,  e  appartenere  a  famiglie 
borghesi,  ma  di  buon  casato.  Le  vedove  si  chiamavano,  con 
nome  spagnolo,  azafatte.  La  De  Palma  fu  chiesta  in  moglie  nel 
1843  da  Francesco  Kònig,  controllore  di  casa  reale  e  figliuolo 
del  fido  corriere  di  gabinetto  di  Maria  Carolina.  Ella  ne  die 
rispettosamente  partecipazione  alla  Regina,  e  questa  ne  fu  cosi 


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indispettita,  che  non  osando  opporvisi,  né  in  altro  modo  sfogar© 
il  suo  dispetto,  investi  la  signorina  De  Palma  e  fortemente  la 
graffiò  0,  come  si  dice  a  Napoli,  la  scippò  tutta.  Tre  anni  dopo 
la  De  Palma  restò  vedova  con  una  figliuola  e  seguitò  ad  abi- 
tare in  Corte,  ma  la  Regina  non  la  richiamò  più.  Solo  il  Re 
fa  sempre  cortese  con  lei,  anzi  da  monsignor  De  Simone  la  fece 
interrogare  se  avesse  voluto  divenire  azafatta  della  futura  du- 
chessa di  Calabria,  ma  Maria  Teresa  non  volle.  ^ 

Pur  abituata  alla  vita  di  Corte,  Maria  Teresa  aveva  vera- 
mente abitudini  parsimoniose  e  non  da  Regina.  Si  compiaceva 
mostrarsi  sgarbata  con  le  dame  dell'aristocrazia.  La  signora 
Kònig-Scalera  mi  raccontava,  che  spesso  alle  nobili  signore,  le 
quali  andavano  a  farle  visita,  la  Regina  lasciava  fare  anticamere 
di  mezze  giornate  e  poi  le  faceva  licenziare  dalla  camerista,  con 
queste  parole  :  "  Dite  che  le  ringrazio,  e  che  tornino  domani  „ . 
Quante  principesse,  duchesse  e  marchese  scendevano  le  scale  della 
Reggia,  fuori  della  grazia  di  Dio  ....  ma  tornavano  il  di  se- 
guente !  La  Regina  le  riceveva  freddamente,  scambiando  il  mi- 
nor numero  possibile  di  parole  nel  suo  accento  tra  il  dialettale  na- 
poletano e  il  tedesco,  ch'era  cosi  duro  e  cosi  brutto.  A  sentire. 
Maria  Cristina,  al  contrario,  fu  piena  di  riguardi  per  tutti,  per  le 
sue  cameriste  e  per  le  dame  e  voleva  gran  bene  alla  De  Palma, 
nelle  cui  braccia  mori,  e  che  chiamava  affettuosamente  Guillaumi- 
ne.  Mentre  Maria  Cristina  si  era  rassegnata  a  certe  strane  esigenze 
della  Corte  di  Napoli,  Maria  Teresa  non  subì  nulla  che  a  lei  non 
facesse  comodo.  La  principessa  di  Bisignano,  moglie  del  maggior- 
domo maggiore,  avendo  la  chiave  della  camera  della  Regina,  usava 
largamente  del  diritto  di  entrare  senza  farsi  annunziare.  Maria 
Cristina  non  vi  si  oppose  mai;  Maria  Teresa  le  tolse  la  chiave. 

Vestita  con  borghese  semplicità,  abborrente  dagli  spettacoli, 
dalle  feste  e  da  tutto  ciò  ch'era  vita  clamorosa  di  Corte,  ella  non 
aveva  charme  punto  punto.  Occhi  chiari,  fronte  spaziosa,  bocca 
larga,  capelli  senz'acconciatura,  sguardo  freddo,  c'era  qualche 
cosa  di  duro  in  tutta  la  piccola  persona.     Molte  sere,  sul  punto 


'  L'unica  figliuola  di  donna  Guglielmina  Kònig  de  Palma  sposò  il  mio 
amico  Erminio  Scalerà,  e  a  lei,  eh'  è  donna  colta  e  intelligente,  devo  pa- 
recchio di  queste  notizie  intime  della  Corte. 


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di  andare  al  teatro,  diceva  di  non  sentirsi  bene,  o  addirittura  di 
aver  mutato  pensiero,  e  al  teatro  non  andava  naturalmente  nep- 
pure il  Re.  Quindi  contrordini  alle  scuderie  e  controawisi  al  tea- 
tro, dove,  fin  dalla  mattina,  si  era  disposto  il  servizio  speciale 
per  i  Sovrani.  Preferiva  la  vita  di  famiglia  e  la  compagnia  del 
marito  a  tutto.  Non  pronunziava  l'erre,  per  cui  chiamava  suo 
marito  Ferdinando]  e  il  suo  intercalare,  udita  una  notizia,  era:  "Za 
divo  a  Ferdinando  „  .  Conosceva  tutti  gli  alti  funzionari  e  al- 
cuni prediligeva,  ed  erano  i  più  zelanti.  Alle  volte,  quando  il 
Re  stando  a  Caserta  o  a  Gaeta,  si  occupava  degli  affari  di  Stato 
con  ministri  o  direttori,  intendenti  o  vescovi,  la  Regina  vi  as- 
sisteva e  spesso  interloquiva;  ed  altre  volte  origliava  da  una 
stanza  vicina.  Nulla  le  sfuggiva,  dai  particolari  più  intimi  di 
Corte,  agli  affari  più  gravi  dello  Stato.  Era  dai  liberali  dete- 
stata più  del  Re  e  suscitava  in  loro  maggiori  antipatie,  che  non 
ne  suscitasse  il  marito.  Essa  aveva  una  volontà  decisa  ed  era 
religiosa  fino  all'ostentazione.  Udiva  la  messa  tutte  le  mattine, 
assisteva  alla  benedizione  tutte  le  sere,  diceva  il  rosario  col  Re 
e  coi  figliuoli,  si  confessava  non  meno  di  una  volta  al  mese  e 
distribuiva  parecchie  elemosine.  Non  invano  si  ricorreva  qual- 
che volta   a  lei,  ma   non  era  agevole  il  ricorrervi. 

S' immagini  quali  sentimenti  si  dovessero  agitare  in  una  donna 
cosi  fatta,  che  non  poteva  sentir  amore  per  il  figliastro,  dive- 
nuto Re  e  che  lei  seguitò  a  chiamare  familiarmente  Franceschino. 
Non  sembrava  umano  che  quella  donna,  per  quanto  religiosa,  si 
rassegnasse  a  perdere  tutto  il  suo  potere  e  a  vedere,  al  suo  posto, 
una  giovanetta  di  diciotto  anni,  la  quale,'da  meno  di  quattro  mesi, 
era  venuta  nel  Regno,  ignara  di  tutto,  anche  della  lingua  e  con 
tendenze  cosi  opposte  alle  sue  :  una  giovanetta,  che  lei  aveva  trat- 
tata dal  primo  momento,  come  un'educanda  e  della  quale  unica 
distrazione  erano  i  suoi  pappagalli,  i  suoi  cani  e  i  suoi  cavalli, 
0  il  passar  molte  ore  del  giorno  nelle  scuderie  o  al  maneggio,  ov- 
vero il  far  lunghe  passeggiate  a  cavallo,  in  costume  di  amazzone, 
nel  bosco  di  Capodimonte,  accompagnata  da  uno  o  due  maggior- 
domi; una  giovanetta  che  cambiava  abiti  più  volte  al  giorno 
e  si  faceva  fotografare  a  cavallo,  in  carrozza,  in  piedi,  da  Re- 
gina con  la  corona,  o  più  spesso  di  profilo,  ed  anche  in  grande 
abito  scollato  e  diamanti  sulla  testa,  sola,  o  in  compagnia  del 
marito  e  dei  cognati  in  grande  uniforme.     V'ha  anche  di  più. 


-  24  - 

Maria  Teresa  aveva  voluto  che  accanto  alla  giovane  duchessa  di 
Calabria  fosse  posta  una  donna  di  sua  fiducia,  la  quale  venisse 
abituandola  a  quell'ambiente  di  Corte,  in  cui  non  doveva  esistere 
che  una  volontà  sola,  quella  della  Regina.  Aveva  creduto  di 
trovare  questa  donna  nella  Rizzo,  marsigliese  di  origine  e  vedova 
con  parecchi  figliuoli  di  un  credenziere  di  Corte,  morto  caden- 
do da  una  scala  a  chiocciola  della  Reggia  di  Napoli.  La  Rizzo  era 
presso  i  quarant'anni  :  non  bella,  ma  piacente  e  vivacissima  e 
furba  assai  più  che  non  convenisse.  Maria  Teresa,  per  non  farla 
montare  in  superbia,  non  aveva  voluto  che  fosse  nominata  aza- 
fatta,  ma  avesse  l'ujSficio  più  umile  di  donna  di  camera.  Tutte  que- 
ste cautele  di  Maria  Teresa  non  dovevano  però  riuscire  a  nulla. 
Chi  poteva  immaginare  una  successione  cosi  fulminea  ?  Francesco 
aveva  sempre  avuti  per  la  matrigna  i  maggiori  riguardi  e  la  chia- 
mava mammà  e  le  ubbidiva  in  tutto,  forse  in  cuor  suo  non  aman- 
dola. Morto  il  padre,  non  so  se  intendesse  quanto  sarebbe  stato 
minore  il  dolore  della  Regina,  se  egli,  Francesco,  non  fosse  esi- 
stito o  non  avesse  preso  moglie  ;  ovvero,  morto  il  padre,  avesse 
abdicato  a  favore  di  suo  fratello,  il  conte  di  Trani.  Ma  inve- 
ce il  giovane  Re  fu  sempre  correttissimo  verso  la  matrigna,  co- 
me apparve  anche  nell'esecuzione  del  testamento  paterno,  e  spesso 
segui  i  consigli  di  lei  che  non  furono  mai  i  più  savii. 

La  giovane  Regina,  invece,  cominciò  a  rivelar  subito  una 
volontà  propria,  quasi  non  le  paresse  vero  di  scuotere  quella 
specie  di  compressione,  in  cui  per  opera  della  suocera  era  vissuta 
a  Bari  e  a  Caserta.  Nessuna  dimostrazione  di  vero  afietto  la 
Regina  fece  mai  alla  duchessa  di  Calabria  in  quei  quattro  mesi  ; 
ne  era  umano  che  nutrisse  affetto  per  lei,  futura  Regina  e 
tedesca,  perchè  altra  caratteristica  dell'indole  di  Maria  Teresa 
fu  quella  di  non  mostrare  affetto  o  premura  per  i  suoi  parenti 
di  Austria,  e  la  venuta  di  sua  sorella  Maria  e  del  fratello  Gu- 
glielmo, nell'occasione  delle  nozze,  fu  piuttosto  cagione  di  noia 
che  di  compiacenza  per  lei. 

Non  è  dunque  a  maravigliare,  se,  data  una  situazione  come 
questa^  venisse  fuori  la  voce  di  una  congiura  da  parte  della  Re- 
gina madre,  per  sbalzare  dal  trono  Francesco  e  sostituirgli  il  fi- 
gliuolo di  lei,  il  conte  di  Trani.  Persone  intime  di  Corte  nega- 
rono il  concorso  suo   nella  cospirazione,  ma  altri  l'affermarono 


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in  maniera  assoluta.  A  Foggia  venne  arrestato  il  celebre  birro 
Merenda,  e  a  Foggia  si  gridò  pure  :  Viva  Luigi  I.  Della  cospi- 
razione si  parlava  molto  in  Puglia  e  io  lo  ricordo  bene,  e  si 
diceva  che  era  il  partito  della  Regina  madre  cbe  cospirava,  aiu- 
tato dalla  camarilla,  da  monsignor  Gallo,  da  qualche  generale  e 
da  alcuni  vescovi,  tra  i  più  fedeli  alla  memoria  di  Ferdinando  II. 
Si  citavano  fra  questi,  monsignor  Pedicini  di  Bari,  monsignor 
Matarozzi  di  Bitonto,  monsignor  Longobardi  di  Andria,  monsi- 
gnor Apuzzo  di  Sorrento,  monsignor  lannuzzi  di  Lucerà,  col 
padre  Paradiso,  rettore  di  quel  collegio  dei  gesuiti  e  con  un 
monaco  di  San  Giovanni  di  Dio,  andato  da  Foggia  a  Lucerà,  e 
con  monsignor  d'Avanzo  di  Castellaneta.  Si  disse  pure  che  il 
centro  della  cospirazione  fosse  la  Puglia,  dove  i  ricordi  del  viag- 
gio e  dei  principi  erano  più  vivi  e  i  vescovi  più  devoti;  e 
della  Puglia  si  aggiunse  essere  stata  scelta  come  punto  prin- 
cipale la  provincia  di  Foggia,  soprattutto  perchè  nativo  di  Foggia 
era  il  padre  Borrelli.  Le  apparenze  della  verosimiglianza  erano 
anche  troppe.  Forse  non  tutte  queste  voci  avevano  fondamento, 
e  forse  qualche  vescovo,  di  quelli  ohe  ho  citati,  vi  era  estraneo  ; 
ma  certo  è,  che  il  ministero  raccolse  le  prove  della  congiura 
non  solo  nelle  Puglie,  ma  in  altre  provinole  del  Regno,  e  Fi- 
langieri presentò  quelle  prove  al  Re,  il  quale  senza  neppur  po- 
sarvi gli  occhi  sopra,  buttò  le  carte  in  un  camino,  dicendo  al 
primo  ministro  :  ^  È  la  moglie  di  mio  padre  j^.  Ed  è  vero  anche 
ohe,  venuta  la  cosa  a  notizia  di  Maria  Teresa,  questa  se  ne  dolse 
col  Re  e  disse,  e  ripetettero  con  lei  i  suoi  partigiani,  che  quei 
documenti  e  quei  gridi  erano  opera  di  pochi  facinorosi  nemici 
di  lei,  per  metterla  in  mala  vista  col  figliastro  e  crear  divisioni 
nella  famiglia.  E  vero  infine  che  la  Regina,  la  quale  odiava 
Filangieri,  incontratolo  in  quei  giorni  nella  Reggia  di  Napoli, 
gli  chiuse  violentemente  l'uscio  sulla  faccia.  Caduto  Filangieri, 
della  cospirazione  non  si  parlò  più,  anzi  le  relazioni  apparenti 
tra  Francesco  II  e  Maria  Teresa  furono  cordiali  e  divennero 
cordialissime,  quasi  affettuose,  a  Roma. 

Una  cospirazione  per  il  conte  di  Trani,  quando  fosse  riuscita, 
avrebbe  rappresentato  un  ritorno  a  Ferdinando  II,  e  ciò  non  pare- 
va possibile,  n  conte  non  era  simpatico  ;  non  aveva  la  bonarietà 
di  Francesco,  ne  la  festosità  di  Alfonso  e  di  Gaetano  :  taciturno  e 
impenetrabile,  somigliava  tutto  sua  madre.  Quelli  che  han  conser- 


-  26  — 

vato  affetto  alla  memoria  di  Maria  Teresa,  escludono  qualunque 
cospirazione  da  parte  di  lei  ;  assicurano  ch'essa  amava  il  figliastro, 
né  era  capace  di  tradirlo  e  narrano  ohe,  quando  Francesco  II 
si  ammalò  di  vaiuolo  al  Quirinale,  durante  la  dimora  in  Roma, 
mentre,  temendo  il  contagio,  nessuno  di  famiglia  lo  avvicinava, 
Maria  Teresa,  per  assisterlo,  contrasse  lo  stesso  morbo.  Ma  ciò 
non  toglie  che  sia  verissimo  quanto  ho  narrato  circa  i  fatti  di 
Foggia,  l'incidente  tra  il  Re  e  Filangieri  e  tra  Filangieri  e 
Maria  Teresa,  essendovi  prove  inconfutabili,  le  quali  furono 
anche  avvalorate  dalle  istruzioni  date  da  Cavour  al  conte  di 
Salmour,  che  giunse  a  Napoli  pochi  giorni  dopo  :  istruzioni  che 
contenevano  anche  quella  di  ottenere  dal  Re,  che  la  regina 
Maria  Teresa  fosse  allontanata  dalla   capitale. 

Finché  visse  Ferdinando  II,  i  legami  della  famiglia  reale  fu- 
rono strettissimi  :  morto  lui,  tutto  rallentò  e  rallentarono  anche 
quei  vincoli.  Persino  la  Rizzo  mutò  contegno,  il  che  irritava 
singolarmente  Maria  Teresa.  Donna  Nina  largamente  secondava 
Maria  Sofìa  nei  suoi  gusti  bizzarri,  e  soprattutto  nello  strano  de- 
siderio di  rinnovare  troppo  spesso  le  sue  gioie.  Fu  anche  osser- 
vato e  lo  si  affermò,  non  senza  malizia  che,  divenuta  Regina,  Maria 
Sofìa  si  mostrasse  più  affettuosa  col  Re.  Avevano  comune  a  Ca- 
podimonte  quel  ricco  letto  dove  avevano  dormito  Francesco  I  e 
Isabella,  e  sul  quale  si  vedono  ancora  le  iniziali  F.  L  A  Napoli, 
dove  andarono  dopo  la  sommossa  degli  Svizzeri,  presero  stanza 
nell'appartamento  sulla  darsena,  al  piano  della  splendida  ter- 
razza e  dormivano  anche  insieme,  come  insieme  uscivano  quasi 
ogni  giorno  in  vettura. 

Qualcuno  aveva  notato  ohe  una  vera  intimità  coniugale  era  co- 
minciata fra  i  giovani  sposi  a  Caserta,  circa  un  mese  dopo  il  ritorno 
da  Bari,  quando  fu  veduto  il  padre  Borrelli  avere  lunghi  e  intimi 
coUoquii  con  la  Rizzo  e  poi  col  principe  ereditario.  La  Rizzo  ave- 
va, come  si  è  già  detto,  confìdato  al  padre  Borrelli  che  il  matrimo- 
nio non  fosse  stato  consumato,  perchè  Francesco  si  decideva  di 
andare  a  letto,  quando  la  moglie  era  stata  già  vinta  dal  sonno,  e 
dal  suo  levarsi  di  buon'ora  e  con  ogni  cura,  per  non  svegliarla.  Il 
Re  era  pieno  bensì  di  deferenza  con  Marie,  regalandole  homhons 
e  fiori,  ma  aveva  un'invincibile  timidità  di  accostarsi  a  lei,  e 
al  più  si  limitava  a  baciarle  e   ribaciarle  la  fronte  o  la  mano. 


r-      27      - 

Questi  imbarazzi  e  questi  timori  furono  vinti  dal  padre  Borrelli, 
ed  è  ben  verosimile,  percbè  l'ascendente  che  questi  aveva  su 
Francesco  II,  era  immenso,  né  lo  stesso  Borrelli,  uomo  incapace 
di  mentire,  dubitò  di  confessarlo  in  Roma  a  persona  di  sua 
fiducia.  Certo  il  contegno  di  Maria  Sofia  verso  Francesco  ap- 
parve mutato  sul  finire  di  aprile  ;  divenuta  Regina,  fu  più 
ajffettuosa,  più  espansiva  e  gaia  addirittura.  Le  prime  tristezze 
non  tornarono  più,  ma  cominciarono  le  prime  innocenti  strava- 
ganze. Per  esempio,  stando  a  tavola,  ella  diceva  talvolta  al  Re  : 
"  Francois,  est-ce  que  tu  permettes  que  Vienne  Lyonne  ?  „  E  lui,  che 
non  sapeva  negarle  nulla,  e  le  voleva  bene  e  gliene  volle  finché 
visse,  rispondeva  :  "  Qui,  ma  chère  „  ;  e  allora  ella  ordinava  che  ve- 
nisse Lyonne,  che  era  una  magnifica  cagna  di  Terranova,  seguita 
da  tre  o  quattro  cagnolini  i  quali  si  cacciavano  nelle  gambe  dei 
commensali,  con  poco  gusto  di  questi  ;  abitudine,  che  Maria  Sofia 
serbò  anche  a  Roma  e  a  Parigi,  e  che  formava  una  delle  sue  favo- 
rite distrazioni.  Stando  a  Napoli,  non  adoperò  mai  quell'ascen- 
sore a  mano,  chiamato  'a  macchina,  ohe  Ferdinando  II  aveva 
fatto  costruire.  Dei  tre  fratelli  poi  del  defunto  Re,  nessuno 
aveva  autorità  sul  nipote,  che,  dal  canto  suo,  diffidava  di  loro, 
soprattutto  dello  zio  Luigi,  il  quale  andava  di  rado  a  vederlo, 
come  di  rado  vi  andava  il  conte  di  Siracusa.  Solo  il  conte 
di  Trapani,  don  Franceschino,  più  noto  sotto  il  nome  di  don  Cicco 
Paolo  (si  chiamava  Francesco  di  Paola),  che  abitava  nel  palazzo 
reale,  mostra  vasi  affettuoso  e  premuroso  con  Francesco,  e  questi 
con  lui.  Egli  era  il  più  giovane  dei  fratelli  di  Ferdinando  II, 
e  il  più  ricercato  nel  vestire.  Aveva  anche  lui  la  passione  di 
farsi  fotografare  da  cacciatore  o  da  ufficiale  di  marina,  e  nul- 
l'altro  di  particolare.  Considerata  nel  suo  insieme,  la  famiglia 
reale  presentava  l' immagine  di  una  famiglia  senza  capo  e  senza 
guida,  dove  ciascuno  tirava  a  fare  quel  che  voleva,  e  dove  l'au- 
torità del  nuovo  Re  era  più  formale  che  reale. 

Bisogna  cercare,  veramente,  in  questa  situazione  di  famiglia 
le  vere  e  intime  cause  dei  dubbii,  delle  perplessità,  delle  paure 
e  delle  contraddizioni,  ohe  distinsero  il  breve  regno  di  France- 
sco II  nelle  sue  varie  fasi,  cioè  nei  quattro  mesi  che  governò 
Filangieri,  nell'  interregno  di  Carrascosa,  nella  nomina  del  prin- 
cipe di  Cassare  e  infine  nell'Atto  Sovrano  del  26  giugno:  quin- 
dici mesi  addirittura  straordinarii  per  errori,  debolezze  e  perples- 


-  28  — 

sita,  da  una  parte  ;  egoismi  e  viltà,  dall'altra.  Ma  io  non  scrivo 
la  storia  politica  di  quel  tempo,  e  solo  ne  raccolgo  alcune  memorie 
intime,  cercando  di  star  lontano  dalla  politica  il  più  che  posso, 
sebbene  il  breve  regno  di  Francesco  II  sia  stato  politico,  dal 
principio  alla  fine.  Solo  Filangieri  ebbe  l'intuito  della  situazione, 
ma  egli  non  era  libero,  come  non  libero  era  il  Sovrano;  non 
concordi  i  suoi  consiglieri  intimi,  non  tutti  '  sinceri,  ne  i  sin- 
ceri erano  i  più  illuminati.  Francesco  inclinava  a  governare 
come  suo  padre,  ma  capiva  che  i  tempi  non  erano  gli  stessi,  e  si  la- 
sciava guidare,  un  po'  dai  ministri,  i  quali  andarono  in  quindici 
mesi  da  Ferdinando  Troja  a  Liborio  Romano,  e  più,  da  un  pic- 
colo gruppo  di  Corte,  che  il  generale  Filangieri  chiamava  per 
celia  gli  strateghi,  e  che  erano  Latour,  Nunziante,  Del  Re,  San- 
gro  e  Ferrari  ;  e  poi,  a  intervalli,  dalla  matrigna,  dal  confessore 
e  dal  padre  Borrelli,  i  quali  ne  paralizzavano  la  debole  volontà, 
alimentando  sospetti  contro  questi  e  contro  quelli,  e  rendendo 
più  invincibili  le  naturali  perplessità  sue.  Il  più  sincero  era  di 
certo  il  padre  Borrelli,  e  il  più  intelligente  l'ammiraglio  Del 
Re,  che  aveva  faccia  bonaria  e  distinta,  e  pareva  un  inglese 
quando  vestiva  la  sua  bella  divisa.  Essendo  egli  un  uomo  di 
studii,  la  sua  influenza  sul  Re,  al  quale  restò  fedelissimo,  fu 
molto  limitata  e  non  mai  funesta.  Al  giovane  Re  non  difettava 
un  certo  acume,  ma  il  suo  spirito  era  fatalistico  e  timido  ;  e  questa 
timidezza  o  fatalismo,  uniti  a  un  senso  di  misticismo  trasfusogli 
nel  sangue  dalla  madre  e  degenerato  in  napoletana  bigotteria, 
che  si  manifestava  nella  paura  puerile  di  peccare  e  in  una  certa 
noncuranza  per  le  vanità  del  mondo,  spiegano  la  sua  sincera  e 
quasi  non  umana  rassegnazione  alla  perdita  del  trono,  e  l' indul- 
genza verso  tutti  coloro  che  lo  avevano  abbandonato  o  mal  servito. 

Riferirò  un  aneddoto.  In  uno  dei  primi  giorni  del  suo  regno,  si 
trovò  in  conferenza  col  De  Liguoro,  direttore  del  ministero  delle 
finanze,  il  quale  gli  faceva  alcune  proposte.  Erano  seduti  en- 
trambi innanzi  ad  una  tavola,  la  quale,  ad  un  tratto,  cominciò  a 
vacillare.  Il  De  Liguoro  girava  gli  occhi  intorno,  per  vedere  donde 
venisse  il  movimento.  Accortosene  il  Re,  gli  disse  :  "  Bada  che 
sono  io  che  mi  agito  e  fo^  agitare  la  tavola  :  questo  è  cattivo  segno, 
perchè  vuol  dire  che  avrò  poca  vita  „ .  E  rispondendogli  il  De  Li- 
guoro   che  tali   pensieri    dovevano    essere    allontanati,    perchè 


-  29  - 

la  vita  dei  Sovrani  appartiene  ai  popoli  che  governano,  France- 
sco rispose  :  "  Caro  signore  ;  io  non  tengo  né  alla  vita  né  al  regno, 
perchè  io  penso  a  ciò  che  sta  scritto:  dominus  dedit,  dominus 

ahstulit,  e  dico  :  Dio  dà,  Dio  toglie  „ .  Alcune  volte,  portandosi 
le  mani  alla  testa,  fu  udito  esclamare,  come  Luigi  l' infingardo  : 
^ Dio,  Dio!  Com^ è  pesante  questa  corona!  „  e  altre  volte:  "  Come 
sono  noiosi  questi  onori!  „.  Egli  veramente  non  trovava  conforto 
che  in  discorsi  ascetici,  e  spesso  parlava  di  sua  madre  e  si  chiudeva 
nella  camera  dove  la  pia  donna  mori,  per  pregare  innanzi  alla 
immagine  di  lei.  Quella  camera  era  rimasta  tal  quale,  per  volontà 
di  Ferdinando  II,  il  quale  ne  aveva  data  la  chiave  al  figlio. 
Francesco,  benché  giovanissimo,  quasi  non  aveva  bisogni  fisici  ; 
poteva  stare  una  giornata  intera  senza  prender  cibo  ;  mangiava 
consuetamente  poco,  quasi  senza  gusto  ;  non  amava  la  caccia,  co- 
me i  suoi  fratelli,  né  di  andare  a  cavallo,  come  sua  moglie,  ma  non 
gli  era  possibile  non  sentir  la  messa  ogni  giorno,  non  confessarsi 
una  volta  al  mese,  non  recitare  il  rosario  tutte  le  sere  e  non  con- 
versare sopra  argomenti  sacri  col  padre  Borrelli,  con  monsignor 
Gallo,  con  monsignor  Salzano  e  con  quanti  ecclesiastici  frequen- 
tavano la  Corte.  Amava  sua  moglie,  ma  si  è  visto  come  si  con- 
ducesse con  lei.  Se  scriverò  le  memorie  della  Corte  di  Napoli  a 
Roma,  il  carattere  di  Francesco  II,  sotto  questo  rapporto,  ne 
uscirà  più  completo.  Ho  messo  insieme  aneddoti  e  confessioni, 
e  una  serie  di  biglietti  amorosi  del  Re  ad  una  bella  signora,  che 
assai  amò,  ma  platonicamente  :  un  platonismo,  che  per  quanto 
non  sembri  verosimile,  fu  vero. 

Quest'indole  mistica  e  fatalistica  e  le  tante  ambizioni,  vol- 
garità e  cupidigie  che  si  agitavano  intorno  a  lui,  dovevano 
creare  nella  Corte  un  disquilibrio  molto  profondo,  il  quale  rallen- 
tava i  legami  più  stretti,  quelli  del  sangue,  e  scompigliava  i  ge- 
rarchici, nel  tempo  stesso  che,  nel  resto  d' Italia,  si  maturavano 
i  nuovi  destini  e  i  napoletani  non  prendevano  sul  serio  il  nuovo 
Re  e  ridevano  delle  sue  ingenuità,  stranamente  esagerandole, 
quasi  per  riprender  fiato  dalla  paura,  che  per  tanti  anni  avevano 
avuta  del  padre  di  lui. 


CAPITOLO  II 


Sommario:  Le  prime  feste  per  il  nuovo  Sovrano  —  Francesco  II  e  Maria  Sofia 
al  duomo  —  La  cerimonia  religiosa  —  Poesie  di  circostanza  —  Il  solenne 
baciamano  alla  Reggia  —  Un  incidente  comico  —  La  gala  al  San  Carlo  —  La 
Danza  inaugurale  —  Altre  gale  e  le  nuove  monete  —  Nuovi  lavori  in  Napoli 

—  Inaugurazione  dell'anno  scolastico  al  Gesù  Vecchio  —  Il  discorso  del  pa- 
dre Ibello  —  Le  nuove  cattedre  universitarie  —  Gli  studii  privati  — 
L'esame  di  catechismo  ai  medici  —  Un  epigramma  —  Il  programma  po- 
litico di  Filangieri  —  La  venuta  del  conte  di  Salmour  —  Salmour,  Filan- 
gieri e  Ferdinando  Troja  —  Una  risposta  caratteristica  di  Troja  —  Le 
intenzioni  del  Re  —  Lettera  inedita  di  Salmour  a  Cavour  —  I  versi 
di  don  Geremìa  Fiore  —  Francesco  II  respinge  il  progetto  di  Costituzione, 
presentatogli  da  Filangieri  —  Testo  del  progetto  —  Filangieri  si  dimette  e 
ai  ritira  a  Pozzopiano  —  Una  lettera  di  Francesco  II  —  La  venuta  di  Eo- 
guet  —  Lettere  di  Filangieri  e  di  Brenier  —  Mutazioni  del  ministero  — 
Il  campo   militare  ai  confini  d'Abruzzo  e  la  stazione  navale  a  Giulianova 

—  Il  principe  di  Cassare  succede  a  Filangieri  —  Leggerezza  stupefacente. 

Le  prime  feste  per  l'avvenimento  al  trono  di  Francesco  II 
cominciarono  il  24  luglio,  poiché  in  quel  giorno  si  chiudeva  il 
primo  periodo  del  lutto,  e  durarono  sino  al  27.  Il  nuovo  sin- 
daco, principe  d'Alessandria,  aveva  dato  incarico  agli  architetti 
Leonardo  Laghezza,  Antonio  Francesconi  e  Carlo  Paris,  di  de- 
corare con  trofei  e  arazzi  il  lungo  percorso,  che  dalla  Reggia 
conduce  al  duomo,  per  Toledo  e  port'Alba.  Fu  la  parte  della 
città  più  addobbata,  ma  trofei  ed  arazzi  ornavano  quasi  tutte  le 
vie  principali.  Al  largo  del  Mercatello  era  stata  costruita  una 
grande  impalcatura,  che  costò  essa  sola  seimila  ducati  e  servi  as- 
sai mediocremente.  Restando  in  piedi  per  alcuni  mesi,  die  occa- 
sione ad  una  lite.  Napoli  era  tutta  in  festa  e  nelle  tre  sere  vi 
furono  splendide  luminarie.     La  prima  e  grande  cerimonia  ufiGl- 


—  32  — 

ciale  doveva  essere  la  visita  dei  Sovrani  alla  cappella  di  San  Gen- 
naro e  si  compi,  con  magnificenza,  la  mattina  del  24.  Alle  dieci, 
una  salva  dai  forti  e  dai  legni  da  guerra  pavesati  a  festa,  an- 
nunciò l'uscita  dei  Sovrani  dalla  Reggia,  i  quali,  seguiti  da  tutta 
la  Corte  in  gran  gala  e  da  dieci  paggi  con  torce  accese,  s'av- 
viarono in  vetture  di  gran  gala  al  duomo,  in  mezzo  a  cordoni  di 
truppa,  dietro  i  quali  si  stipava  una  folla  plaudente.  Le  car- 
rozze procedevano  quasi  al  passo  e  da  tutti  si  ammirava  Maria 
Sofia,  che  indossava  un  vestito  bizzarro  ed  era  bellissima. 

Discesero  il  Re  e  la  Regina  innanzi  alla  porta  maggiore  del 
tempio,  sotto  un  baldacchino  sostenuto  dagli  Eletti  della  città, 
e  in  chiesa  furono  ricevuti  dall'arcivescovo  Riario  Sforza  e  dal 
capitolo  metropolitano.  L'arcivescovo,  deposta  la  mitra  e  il  pa- 
storale, die  loro  a  baciare  il  legno  della  Croce  e  porse  Taoqua 
benedetta.  Il  duomo  era  decorato  riccamente:  drappi  di  seta 
ornavano  il  cornicione  dell'abside,  tendine  di  merletto  cadevano 
sui  finestroni.  A  cornu  evangelii  sorgeva  il  trono  reale  con  due 
sedie,  due  inginocchiatoi  e  due  cuscini  ;  a  cornu  epistolae,  un 
palchetto  per  i  principi  e  nella  navata,  due  tribune,  una  per  il 
corpo  diplomatico  e  l'altra  per  l'aristocrazia  ascritta  al  libro 
d'oro.  Dirigeva  la  musica  il  maestro  Parisi  e  pontificava  il  Riario 
Sforza.  La  sedia  e  il  cuscino  del  Re  erano  coperti  da  un  setino, 
che  il  principe  di  Bisignano  tolse,  quando  il  cardinale  col  suo 
forte  vocione  intonò:  domine  salvum  fac  Regem  nostrum  Franciscum 
Secundum  et  Reginam  nostram  Mariam  Sophiam.  Detta  la  messa, 
venne  cantato  il  Te  Deum.  Dopo  la  benedizione,  Riario  Sforza 
presentò,  secondo  il  costume,  mazzetti  di  fiori  ai  Sovrani  e  ai 
principi  ed  insieme  si  recarono  alla  cappella  di  San  G-ennaro. 
Sebbene  la  testa  del  santo  fosse  esposta  sull'altare,  il  sangue 
raccolto  nelle  ampolline  si  liquefece  :  "  avvenimento  nuovo,  scri- 
veva il  foglio  ufficiale,  a  memoria  d'uomo,  da  tutti  udito  con  di- 
vota compiacenza,  ed  a  ragione  riguardato  come  faustissimo  pre- 
sagio „ .  Tornarono  i  Sovrani  alla  Reggia  con  lo  stesso  corteo 
e  di  là  assistettero  allo  sfilare  delle  truppe,  che  rientravano  nei 
quartieri.  Per  la  circostanza  non  mancarono  i  versi.  Son  da 
ricordare,  nella  loro  rozza  ingenuità,  quelli  che  si  leggevano 
sulla  porta  principale  della  chiesa  del  Gesù,  scritti  da  don  Do- 
menico Anzelmi: 


m 


-  33  - 

Napoli  esulta  di  ben  giusto  orgoglio, 
Giubila  di  letizia  senza  pari, 
Vedendo  il  giovin  Re  salire  al  soglio, 
Mentre  la  madre  avviasi  per  gli  altari. 

Il  giorno  dopo,  ci  fu  il  solenne  baciamano  secondo  le  re- 
gole della  più  rigorosa  etichetta  di  Corte.  Fu  un  avvenimento 
per  il  mondo  ufficiale  e  per  l'aristocrazia,  poiché  da  varii  anni 
baciamani  non  ve  n'erano  stati  più.  Nella  sala  del  trono,  sotto 
il  baldacchino,  stavano  i  Sovrani,  circondati  dai  principi,  dagli 
alti  dignitari,  dai  prelati  e  dalle  dame  di  Corte  :  il  Re,  come  di 
consueto,  in  uniforme  di  colonnello  degli  usseri  e  la  Regina  col 
manto  e  la  corona.  L'aspetto  della  sala,  affollata  di  tante 
persone,  che  vestivano  ricche  divise  e  portavano  Ordini  caval- 
lereschi d'ogni  nazione  e  incedevano  e  s' inchinavano  con  gravità, 
era  imponente  davvero.  Senonchè,  a  un  tratto,  su  questa  va- 
rietà di  colori  brillanti,  cominciò  a  disegnarsi  una  lunga  stri- 
scia nera,  che  dalla  porta  lentamente  andava  svolgendosi  fino 
al  trono.  Era  la  magistratura,  in  toga  e  cappello  alla  don 
Basilio.  Alla  stranezza  del  contrasto  e  più  alla  comicità  dello 
spettacolo,  Maria  Sofia  scoppiò  in  una  risata  giovanilmente 
schietta,  che  presto  si  comunicò  a  tutti  i  presenti  e  partico- 
larmente ai  principi.  Il  riso  è  epidemico  e  non  c'era  verso 
di  frenarlo,  ne  voltando  la  faccia,  né  facendo  mostra  di  tossi- 
re. Fu  la  nota  allegra  della  cerimonia.  In  questo  primo 
baciamano,  al  sindaco  ed  al  Corpo  della  città  di  Napoli  venne 
tolto  l'antico  privilegio  di  tenere  il  capo  coperto  alla  presenza 
dei  Sovrani,  come  narrerò  parlando  più  innanzi  dell'ultimo  De- 
curionato. 

Alle  otto  pomeridiane  del  giorno  26,  nell'appartamento  della 
Regina,  i  Sovrani  ricevettero  le  signore  napoletane  ammesse 
al  baciamano,  e  alle  nove  andarono  al  San  Carlo,  dove  vi  era  il 
grande  spettacolo  di  gala,  da  lungo  tempo  preparato.  Il  teatro 
con  i  palchi  adorni  di  rose  e  l' illuminazione  quintuplicata,  gre- 
mito di  personaggi  ufficiali  in  divisa,  presentava  tale  uno  spet- 
tacolo di  magnificenza,  che  Maria  Sofia  ne  rimase  colpita.  I 
Sovrani  furono  accolti  da  lungo  applauso.  Si  cantò  prima  la 
Danza  inaugurale  di  Niccola  Sole,  messa  in  musica  da  Merca- 
dante,  e  si   esegui  poi  la  danza  nazionale  del  Giaquinto   con  i 

Dx  CzsABX,  La  fine  di  un  Segno  -  Voi.  II.  8 


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costumi  delle  provinole  del  Regno,  dalle  quali  era  rappresentata 
la  nazione.  La  danza  nazionale  era  la  tarantella.  Cantarono  le  si- 
gnore Bendazzi,  Fricci  e  Dory,  il  tenore  Mazzoleni  e  il  cele- 
bre Coletti,  che  riscosse  maggiori  applausi.  Nel  ballo  si  distin- 
sero le  ballerine  sorelle  Osmond  e  i  ballerini  Baracani  e  Wal- 
pot.  I  Sovrani  restarono  in  teatro  fino  all'ultimo,  e  n'uscirono 
fragorosamente  applauditi. 

L'inno  di  Niccola  Sole  fu  argomento  di  acerbe  critiche,  da 
parte  dei  letterati  liberali,  che  non  sapevano  perdonare  al  vate 
lucano  l'incomprensibile  voltafaccia.  Si  disse  che  ve  l'avesse 
costretto  la  polizia  ;  si  disse  ch'egli  fosse  uno  degli  speranzosi  nel 
nuovo  Re  e  che  potesse  in  lui,  meridionalmente,  più  la  vanità  che 
la  coerenza.  Certo  n'ebbe  molte  amarezze,  perchè  la  Danza  inau- 
gurale non  piacque,  né  come  musica,  né  come  poesia  ;  e  il  poeta 
se  ne  accorò  tanto,  che,  ritiratosi  nel  suo  paesello  nativo, 
vi  mori,  come  si  è  détto,  negli  ultimi  giorni  di  dicembre,  non 
ancora  quarantenne. 

Nell'agosto  il  Re  e  la  Regina  andarono  a  Quisisana,  e  qui 
devo  riferire  uno  degli  aneddoti  più  caratteristici,  circa  la  vita 
intima  dei  giovani  Sovrani.  Passarono  a  Quisisana  l'agosto,  e 
vi  era  con  la  Corte  anche  il  padre  Borrelli.  Questi  stando  a 
Quisisana,  invitò  presso  di  sé  il  padre  Eugenio  Ferretti  da  Oria, 
intimo  suo  amico  e  scolopio  egli  pure.  Avvenne  che  un  giorno 
il  padre  Ferretti,  uomo  di  timorata  coscienza,  stando  solo  nelle 
camere  del  padre  Borrelli,  sentì  rumori  e  risa  nella  prossima  ca- 
mera, dalla  quale  lo  separava  un  uscio  chiuso.  Vinto  dalla 
curiosità,  si  mise  a  spiare,  attraverso  il  buco  della  serratura,  e 
che  vide?  Vide  il  Re,  che,  indossata  una  crinolina,  rideva  e 
saltellava  attorno  alla  Regina,  la  quale  rideva  essa  pure  a  cre- 
papelle. La  scena  durò  un  momento,  perché,  raccontava  il  pa- 
dre Ferretti  a  un  intimo  suo,  i  Sovrani  passarono  subito  in  altra 
camera.  Il  padre  Ferretti  rivelava  in  grande  confidenza  quel  che 
aveva  visto,  solo  per  convincere  l'amico  della  bontà  infantile 
di  Francesco  II,  del  quale  era  idolatra.  Nel  suo  racconto  non 
vi  era  punta  malizia. 

Il  giorno  8  settembre,  i  Sovrani  andarono  a  Piedigrotta 
e  la  festa  riusci  più  solenne,  ricorrendo  in  quel  giorno  l'ono- 
mastico  della   Regina.     Il    Re  passò  in    rivista  le  truppe  e   la 


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sera  ci  fu  gala  al  San  Carlo.  Il  4  ottobre,  onomastico  del  Re, 
si  tenne  circolo  in  Corte,  e  furono  decorati  tutti  coloro  che  si 
«rane  distinti  nel  viaggio  dei  Sovrani  nelle  Puglie,  per  il  ma- 
trimonio; e  il  16,  onomastico  della  Regina  madre,  Francesco  II 
ordinò  altra  gran  gala,  la  illuminazione  degli  edifici  pubblici  e 
salve  delle  artiglierie.  Il  5  ottobre,  i  Sovrani  visitarono  l'espo- 
sizione di  belle  arti  al  Museo  e  vi  ammirarono  il  Gladiatore 
ferito  del  conte  di  Siracusa,  il  quale  n'ebbe  dal  Re  vivi  ralle- 
gramenti. Nell'agosto  erano  già  venute  fuori  le  prime  piastre 
"d'argento,  con  l'effigie  del  nuovo  Re  e  la  scritta  :  Franciscus  II 
Dei  gratta  ReXy  e  la  leggenda  :  Providentia  optimi  principia,  in 
lettere  rilevate  intorno  alla  moneta,  non  incise,  come  sulle  pia- 
stre di  Ferdinando  II.  Il  nuovo  conio  riusci  bellissimo  e  so- 
migliantissima la  testa  del  Re,  incisa  da  Luigi  Arnaud  che  fu 
nominato  poi  direttore  del  reale  laboratorio  di  pietre  dure.  Egli 
aveva  ottenuta  la  grazia  speciale  di  poter  segnare  le  sue  iniziali, 
L-A,  appena  visibili,  sotto  la  testa  del  Re,  e  quelle  due  lettere 
furono  dai  liberali  interpetrate  per  lega  austriaca.  Evidentemen- 
te si  cominciava  a  perdere  la  tramontana. 

Il  nuovo  Re  volle  occuparsi  delle  cose  di  Napoli  e  trovò 
nel  principe  d'Alessandria,  uomo  di  criterio  e  di  discreta  atti- 
tudine agli  uffici  pubblici,  un  cooperatore  valido.  Oltre  alle 
ordinanze  di  polizia  urbana,  che  il  ministero  pubblicò,  Fran- 
cesco II  volle  che  si  affrettassero  i  lavori  di  Mergellina,  della 
via  di  Chiaja,  della  Pace,  delle  Fosse  del  grano,  ch'erano  un 
monte  di  macerie,  e  fosse  compiuta  la  strada  della  Pietatella. 
Ordinò  inoltre,  e  il  municipio  esegui,  due  nuovi  ponti  in  ferro 
a  Foria,  uno  presso  la  chiesa  di  San  Carlo  all'Arena  e  l'altro 
presso  la  parrocchia  dei  Vergini:  entrambi  sostituirono  i  due 
vecchi  ponti,  uno  in  ferro  e  l'altro  in  legno,  che,  in  un  tempo- 
rale scoppiato  sulla  città  il  20  settembre  1866,  erano  stati  tra- 
volti dalla  piena  e  gettati  contro  il  muro  della  chiesa  di  San- 
t' Antonio  Abate,  senza  il  quale  ostacolo  sarebbero  andati  a  finire 
addirittura  in  mare,  per  l'alveo  dell'Arenacela.  E  dire  che  sino 
al  1842,  quando  Ferdinando  II,  come  si  è  visto,  fece  costruire 
il  primo  ponte  in  ferro  sull'asse  del  vicolo  Saponari,  trasferito 
poi  sull'asse  della  via  Pontenuovo,  a  Foria  era  addirittura  inter- 
rotta la  circolazione  durante  la  piena,  e  il  numero  delle  disgra- 
zie  che  si  verificavano    era  grande.     Il   Re  richiamò  in  vigore 


-  36  - 

le  regole  dell'Ordine  Costantiniano,  che  prescrivevano  doversi 
portare,  non  sospesa  al  collo  ma  all'occhiello,  la  croce  dell'Or- 
dine, mettendo  cosi  fine  all'abuso  che  ne  facevano  i  cavalieri. 
Aggiunse  alla  Società  reale  borbonica  un  posto  per  l' incisione, 
e  vi  nominò  l'Aloysio  Juvara  e  compì  un  altro  atto  lodevole^ 
istituendo  a  Torre  del  Greco  una  scuola  nautica. 

Il  6  novembre,  fu  inaugurato  con  maggior  pompa  il  nuovo 
anno  scolastico  all'Università.  Professori  e  studenti  andarono 
al  Gresù  Vecchio,  per  assistere  alla  messa  dello  Spirito  Santo, 
che  doveva  precedere  la  cerimonia.  Il  parroco,  padre  Ibello^ 
incuorò  i  professori  ad  insegnare  una  scienza  cristiana,  special' 
mente  ora,  egli  disse,  che  le  aberrazioni  di  malsicure  dottrine 
minacciano  di  divenire  sem,pre  più  infeste.  L'allusione  era  troppo 
diretta,  per  non  essere  compresa  da  studenti  e  da  maestri. 
L'Università  brillò,  in  quell'anno,  di  vita  insolita.  Vi  furono 
istituite  quattro  nuove  cattedre  nella  facoltà  di  giurisprudenza, 
e  parve  nuova  anche  quella  di  diritto  penale,  la  quale,  dopo  la 
morte  del  Nicolini,  era  rimasta  vacante  ed  a  coprirla  fu  chia- 
mato l'esimio  magistrato  Sante  Roberti.  Le  altre  cattedre  furon 
quelle  di  diritto  amministrativo,  data  al  Murena  ;  di  economia 
sociale  (non  politica)  data  al  Bianchini,  e  di  diritto  interna- 
zionale privato,  data  al  Rocco.  Murena  lesse  una  prolusione 
enfatica  e  zeppa  di  citazioni,  e  Bianchini,  una  serie  di  lezioni  a 
pochi  discepoli,  i  quali  si  maravigliavano  che  il  professore  leg- 
gesse sempre  le  sue  lezioni,  e  non  ne  improvvisasse  mai  una.  Era 
il  Bianchi  ìàomo  di  modi  gentili,  lento  e  solenne,  e  anche  sulla 
cattedra  cupido  di  vanità.  Egli,  citando  il  celebre  economista 
francese  Say,  lo  chiamava  Seit  dando  luogo  a  vivaci  motteggi 
da  parte  della  scolaresca.  La  cattedra  del  Rocco  era  la  più 
frequentata,  ma  non  in  maniera,  che  il  concorso  della  studentesca 
potesse  paragonarsi  agli  affollamenti  di  oggi,  molto  babilonici 
e  meno  profittevoli. 

Fiorentissimi  in  quell'anno  furono,  invece,  gli  studii  privati- 
Quelli  più  in  voga,  erano  gli  studii  di  diritto  di  Francesco  Pe- 
però, di  Enrico  Pessina,  di  Luigi  Capuano,  di  Filippo  de  Bia- 
sio, di  Raffaele  Fioretti  e  di  Luigi  Zumbani.  Peperò  comin- 
ciava le  sue  lezioni  nelle  prime  ore  della  mattina,  e,  d'inver- 
no, la  sala  non   ampia    e    affollata   era   debolmente    rischiarata. 


-  37  - 

da  una  lucerna.  Il  suo  studio  aveva  sede  in  Bonafiociata  vec- 
chia, alla  Pignasecca,  nel  palazzo  di  fronte,  che  credo  portasse 
allora  il  numero  30.  Pessina  insegnava  nel  seminario  dei  no- 
bili -,  De  Biasio,  al  Gavone  ;  Capuano,  alla  Concezione  a  Mon- 
tecalvario.  Fra  gli  studenti  di  Pepere,  di  Pessina,  di  Capuano 
e  di  De  Biasio  in  quell'anno,  ricorderò  alcuni,  ohe  occuparono 
poi  alti  posti  nell'insegnamento,  nella  magistratura  o  nell'am- 
ministrazione dello  Stato:  Guglielmo  Capitelli,  il  compianto 
Vito  Sansonetti,  Pietro  Marsilio,  Enrico  Perfumo,  Ferdinando 
Lestingi,  Federico  Criscuolo,  Vincenzo  Colmayer,  Niccola  Cianci, 
Federico  Lanzetta,  Alfonso  Cammarota,  Francesco  Girardi,  i  fra- 
telli Minichini,  oltre  a  due  valorosi,  che  la  morte  rapi  innanzi 
tempo,  Emesto  Faraone  e  Cesare  Boccardi,  prete  di  Molfetta. 

Frequentatissimi,  nella  medicina  e  nella  chirurgia,  gli  studii 
privati  di  Carlo  Gallozzi,  di  Giuseppe  Buonomo,  di  Luigi  Ama- 
bile, di  Tommaso  Vernicchi,  di  Federico  Tesorone  e  di  Fran- 
cesco Prudente.  Tesorone  insegnava  alla  salita  degl'  Incurabili, 
al  numero  40.  Egli  fu  il  primo,  che  facesse  venire  da  Parigi 
uno  scheletro  umano  di  cartapesta,  per  le  sue  lezioni  molto  lo- 
date di  anatomia  e  chirurgia.  Carlo  Gallozzi,  che  aveva  tra  i 
suoi  discepoli  Antonelli,  Frusci  ed  Enrico  de  Eenzi,  venuti  più 
tardi  in  celebrità,  aveva  studio,  per  la  parte  teorica,  in  una 
casa  a  Fontana  Medina  e  per  la  parte  operatoria,  agl'Incura- 
bili. Godeva  fin  d'allora  onorato  nome  tra  i  giovani  chirurgi 
napoletani,  e  il  suo  studio  privato  rimontava  al  1852,  quando 
Ferdinando  II  ne  concesse  nuovamente  la  facoltà,  che  dopo  il 
1849  era  stata  tolta  a  tutti,  senza  eccezione.  Ma  ai  chirurgi 
e  ai  medici,  i  quali  chiedevano  il  permesso  di  aprir  studio  pri- 
vato, s' imponeva  un  esame  di  catechismo  molto  curioso  ;  anzi 
vi  era  una  commissione  di  vigilanza  ad  hoc,  preseduta  da  mon- 
signor Apuzzo.  Fra  le  domande  del  catechismo,  alle  quali  si 
doveva  rispondere,  ricordo  queste  :  La  morte  di  Gesù  fu  reale 
o  apparente?  Le  sacre  stimmate  di  San  Francesco  d'Assisi  erano 
segni  soprannaturali,  o  piaghe  erpetiche?  Potrebbe  il  magnetismo 
spiegare  il  miracolo?  Come  ammettersi  la  verginità  di  Maria, 
dopo  il  parto  ?  La  dottrina  di  Carus  e  V  immortalità  delVanima, 
e  cosi  via  via.  Rispondere  bene  a  questi  quesiti,  ragionando  e 
discutendo,  in  senso  perfettamente  ortodosso,  era  condizione  per 
i  chirurgi  e  i  medici  di  ottenere  la  facoltà  dello  studio  priva- 


-  38  - 

to,  ma  con  l'obbligo  di  denunziare  alla  commissione  di  vigi- 
lanza il  nome  e  l'indirizzo  degli  studenti  ascritti  (solo  i  gio- 
vani laureati  furono  esclusi  da  questo  obbligo)  ;  di  pagare  dieci 
carlini  l'anno  e  di  far  lezione  con  l'uscio  aperto. 

I  professori  di  diritto  e  quelli  di  lettere  italiane  e  latine  non 
subivano  alcun  esame;  ma  gli  altri  obbligM  erano  comuni.  Il 
padre  Cercià,  gesuita,  aveva  studio  di  diritto  canonico;  Luigi 
Palmieri,  il  padre  Balsamo,  don  Agostino  de  Carlo  e  don  Fe- 
lice Toscano,  di  filosofia;  e  il  Palmieri  era  cosi  facile  di  parola, 
che  i  suoi  uditori  gli  avevano  affibbiato  quest'epigramma,  cbe 
egli  parlasse  prima  di  pensare  a  quel  cbe  doveva  dire.  Tuc- 
ci  e  De  Angelis  avevano  la  scuola  di  matematica  più  frequen- 
tata; e,  dopo  loro,  il  Cua  e  Achille  Sannia.  Bruto  Fabricatore 
e  l'abate  Lamanna,  puristi  della  vecchia  scuola,  insegnavano 
grammatica  e  lettere,  e  il  Lamanna  aveva  fra  i  suoi  scolari 
Diego  Colamarino  e  Rocco  Zerbi,  che  chiamava: 

Spiritello  di  fiamma  vivida  e  pura. 

Don  Griuseppe  Lamanna  era  canonico  e  filologo,  camminava 
sulle  orme  del  Puoti,  accentuandone  le  esagerazioni  puriste  e 
aggiungendovi  delle  sdolcinature  ridicole.  Insegnava,  per  esem- 
pio, che  una  lettera  dovesse  chiudersi  cosi  :  mi  vi  professo  ed  ac 
comando.  Il  marchese  di  Caccavone  lo  avea  in  uggia  e  lo  fla- 
gellò con  questo  epigramma,  ch'è  uno  dei  più  arguti,  usciti  dalla 
penna  mordace  di  lui: 

Al  canonico  don  Giuseppe  Lamanna 
professore  di  filosofia. 

Il  vostro  Mezzofante, 
Glie  a  possedere  è  giunto 
Venti  idiomi  e  venti, 
È  come  un  elefante, 
Che  non  vai  nulla  a  fronte 
Di  un  fringuellin,  che  ai  venti 
Affida  l'ali,  canta, 
E  da  un  gentile  istinto 
A  rallegrare  è  spinto 
E  la  pianura  e  il  monte. . . . 
O  divino  ignorante  ! , . . 

Era  molto  accreditato  l'istituto  Borselli,  dove  insegnavano 
Tommaso  Arabia,   Federico  Persico,  Antonio  Galasso,  Antonio 


-  39  - 

Vitelli  e  Francesco  Pepere,  ohe  vi  dava  lezioni  di  diritto  di  na- 
tura. Quasi  tutti  questi  etudii,  in  particolare  i  giuridici,  erano 
centri  di  aspirazioni  liberali,  specie  quelli  del  Pepere,  del  Pes- 
sina  e  del  De  Biasio.  Nella  lezione  suU'albinaggio,  Pepere  ci- 
tava il  progetto,  presentato  nella  Camera  del  1848  da  Roberto 
Bavarese,  esule  a  Pisa,  in  virtù  del  quale  al  sistema  di  recipro- 
canza  verso  gli  stranieri,  voluto  dall'articolo  9  delle  leggi  civili, 
sarebbe  stato  sostituito  il  sistema  dell'uguaglianza  fra  i  cittadini 
napoletani  e  quelli  degli  altri  Stati  d' Italia  ;  e  di  tanto  entu- 
siasmo s'infiammava  nel  pronunziare  quel  chiaro  nome,  che  i 
giovani  scoppiavano  in  applausi.  Aveva  pure  buon  numero  di 
studenti  don  Lorenzo  Zaccaro,  che  dettava  lezioni  di  grammatica 
e  di  letteratura.  Non  voglio  chiudere  questi  ricordi,  senza  ram- 
mentare i  due  bonarii  e  caratteristici  impiegati  dell'Università, 
addetti  all'  iscrizione  agli  esami,  don  Mauro  Minervini  e  don  Leo- 
poldo Rossi,  molto  amati  dai   giovani. 

Il  principe  di  Satriano  ebbe  ì'  intuito  della  situazione  politica. 
Per  salvare  la  dinastia  e  l'autonomia  del  Regno,  due  cose  che  gli 
stavano  ugualmente  a  cuore,  bisognava  cambiare  strada  nella  poli- 
tica estera  e  nell'interna.  Profittando  del  ristabilimento  delle  rela- 
zioni diplomatiche  con  la  Francia  e  coli'  Inghilterra,  egli  stimava 
che  la  politica  del  nuovo  Re  dovesse  avere  per  base  l'amicizia  delle 
potenze  occidentali,  soprattutto  della  Francia.  Forse  anche  per 
i  ricordi  gloriosi  della  sua  gioventù,  Filangieri  aveva  una  fidu- 
cia illimitata  in  Napoleone  III.  Capiva  essere  interesse  del- 
l' Imperatore  che  il  Regno  di  Napoli  non  fosse  cancellato  dalla 
carta  di  Europa,  sia  diventando  un  focolare  rivoluzionario,  sia 
affrettando  un'unità  nazionale  immatura  e  ohe  sarebbe  riuscita  a 
tutto  benefizio  del  Piemonte,  Ma  bisognava  far  subito  ragione  ai 
nuovi  tempi,  non  solo  volgendo  le  spalle  all'Austria  e  stringen- 
dosi alla  Francia,  ma  mutando  sistema  all'  interno,  con  uno  Statu- 
to bensì,  ma  alla  napoleonica:  non  Costituzione  bozzelliana,  di 
anarchica  memoria,  com'egli  diceva.  Questo  programma  di  Filan- 
gieri era  secondato  alla  sua  volta  da  Napoleone,  il  quale,  per 
mezzo  del  barone  Brenier,  molto  insisteva  perchè  fosse  attuato. 

Tale  programma  acquistò,  si  può  dire,  forma  concreta,  quan- 
do giunse  il  conte  di  Salmour,  inviato  dal  gabinetto  di  To- 
rino in  missione  straordinaria,  per  condolersi  della  morte  di  Fer- 


—  40  — 

dinando  II  e  salutare  il  successore.  Dico  forma  concreta,  perchè 
Sabnour,  il  quale  era  segretario  generale  del  ministero  degli  este- 
ri e  intimo  di  Cavour,  ebbe  da  lui  istruzioni  copiose  e  precise,  con- 
tenute in  una  lunga  lettera  del  27  maggio  e  che  possono  conden- 
sarsi in  queste  :  procurare  l'unione  delle  due  Corti  in  una  stretta 
comunanza  di  pensieri  e  di  opere,  ed  indurre  il  nuovo  principe  ad 
assicurare  col  Piemonte  l' impresa  dell'  indipendenza  nazionale,  di- 
chiarando pronta  guerra  all'Austria  e  mandando  parte  dell'eser- 
cito sul  Po  o  sull'Adige  ;  stipulare  una  lega  offensiva  e  difen- 
siva con  la  reciproca  guarentigia  dell'integrità  dei  due  Stati; 
concedere  riforme  giuste  e  liberali  per  far  paghi  i  voti  del 
paese;  dichiarare  che  lo  Statuto  fondamentale  del  1848  era 
mantenuto  in  diritto,  ma  che  se  ne  rimandava  l'attuazione  a 
guerra  finita;  concedere  piena  amnistia  agli  esuli  e  ai  prigio- 
nieri politici;  cercare,  a  rendere  più  agevoli  i  negoziati  per 
l'alleanza,  che  fosse  allontanata  dalla  Corte  l'ex  regina  Maria 
Teresa,  e  penetrando  il  conte  di  Siracusa,  al  fine  di  mantenerlo 
saldo  nei  suoi  propositi  italiani  e  liberali.  Per  tutto  il  resto 
prender  consiglio  dal  conte  di  Gropello.  ^ 

Dopo  Magenta  e  Solferino  le  istruzioni  divennero  più  am- 
pie, come  si  vedrà.  Salmour  giunse  a  Napoli  pochi  giorni  dopo 
la  dimostrazione  per  la  battaglia  di  Magenta.  Sia  che  lo  scopo 
della  missione  si  sapesse  prima  del  suo  arrivo  o  s'indovinasse, 
certo  è  che  l'annunzio  della  sua  venuta  non  venne  bene  ap- 
preso in  Corte.  Fu  considerata  come  un'  insidia,  che  il  Piemon- 
te volesse  tendere  al  Re  di  Napoli,  il  quale,  ricordando  l'ultimo 
consiglio  di  suo  padre,  aveva  dichiarata  la  neutralità  e  intendeva 
perseverarvi.  In  Corte  erano  tutti  d'accordo  su  questo.  E  però 
la  polizia,  temendo  dimostrazioni  da  parte  dei  liberali  all'arrivo 


*  La  lunga  lettera  di  Cavour  a  Salmour  fu  pubblicata  nell'ottavo  vo- 
lume della  Storia  documentata  della  diplomazia  europea  in  Italia,  di  Ni- 
COMEDE  Bianchi,  ma  n'è  sbagliata  la  data:  invece  del  27  maggio,  vi  è 
scritto  27  giugno  :  errore  forse  tipografico,  ma  poco  giustificabile,  trat- 
tandosi di  documenti  storici.  Il  27  giugno  Salmour  era  a  Napoli  da  15 
giorni.  Del  resto,  gli  errori  di  date  e  di  nomi  circa  le  cose  napoletane 
sono  tutt'altro  che  rari  in  quell'istoria,  o  meglio  zibaldone  di  documenti 
importanti,  che  al  Bianchi  costò  poco  di  raccogliere,  essendo  egli  diretto- 
re degli  archivii  di  Stato.  Però,  riguardo  alla  missione  Salmour  glie  ne 
sfuggi  uno  importantissimo,  che  a  me  è  riuscito  di  trovare  negli  stessi 
archivii  di  Stato. 


-  41  - 

dell'agente  piemontese,  aveva  fatto  occupare  la  piazza  del  Castel- 
lo e  la  piazza  San  Ferdinando  da  pattuglie  di  soldati  e  da  nu- 
merose guardie  di  polizia.  Il  console  di  Sardegna,  Eugenio  Fa- 
sciotti,  aveva  fissato  per  Salmour  un  appartamento  all'albergo 
d' Inghilterra,  alla  Riviera,  a  poca  distanza  dal  Consolato  e  dalla 
Legazione  sarda.  Salmour  giunse  alle  cinque  di  mattina,  ed  al 
Fasciotti,  andato  a  riceverlo  a  bordo  del  battello,  chiese  che  vi 
era  di  nuovo.  "  Tutto  di  buono,  rispose  il  console  ;  per  onorare 
Vostra  Eccellenza,  il  governo  ha  fatto  uscire  la  truppa  sulle  piaz- 
ze y^'  Salmour,  difatti,  andando  all'albergo,  videi  soldati  e  Fa- 
sciotti  celiando  gli  spiegò  il  motivo  per  cui  vi  erano.  Dal  Gropello 
fu  poi  informato   minutamente  della  vera  condizione  delle  cose. 

Il  giorno  stesso  dell'arrivo  di  Salmour,  Filangieri  fu  no- 
minato presidente  del  Consiglio  dei  ministri.  I  rapporti  di  Fi- 
langieri coli'  inviato  sardo  divennero,  in  breve,  intimi,  come  di- 
vennero intimi  con  Brenier  e  col  ministro  d' Inghilterra,  Elliot. 
La  esistenza  del  Regno  delle  Due  Sicilie  era  considerata  dalla 
vecchia  Europa  come  una  garanzia  di  equilibrio  e  di  pace,  e 
dalle  potenze  occidentali  come  una  necessità  per  sciogliere  la 
questione  italiana,  che  ogni  giorno  si  veniva  più  complicando. 

Ma  da  qual  via  e  in  qual  modo  vincere  gli  scrupoli  e  i  dub- 
bii  del  Re  ?  Il  programma  era  troppo  ardito,  o  meglio  il  vaso 
era  troppo  grande,  e  lo  spago  per  misurarlo  cosi  corto  !  Nel  Con- 
siglio dei  ministri,  Filangieri  non  poteva  contare  sopra  una 
maggioranza  favorevole  alle  sue  idee,  né  con  quel  sistema 
politico  le  deliberazioni  si  prendevano  a  maggioranza  o  a  mi- 
noranza tra  i  ministri.  Al  Filangieri  aderivano  i  direttori  Rosi- 
ca, Casella  e  De  Liguoro,  ma  piuttosto  per  affetto  a  lui  ;  gli  altri 
seguivano  la  vecchia  scuola,  che  metteva  capo  al  Carrascosa  e 
al  Troja,  il  quale,  essendo  consigliere  di  Stato,  assisteva  ai  Con- 
sigli e  vi  aveva  seguito.  Filangieri  capiva  che  era  pericoloso  por- 
tare così  decisiva  quistione  nel  Consiglio  dei  ministri  e  suggerì 
al  Salmour  di  vedere  il  Troja,  avendo  questi  grande  autorità  sul 
Sovrano  e  sui  vecchi  elementi  della  Corte  :  vedere  il  Troja  e  pene- 
trame  il  pensiero,  sia  rispetto  alle  riforme,  che  all'alleanza  e  al- 
l'ardito disegno,  maturatosi  in  quei  giorni  e  attribuito  a  Napo- 
leone, di  allargare,  se  mai,  i  confini  del  Regno  fino  a  Perugia  e 
ad  Ancona.    Napoleone  preferiva  avere  i  napoletani  a  difesa  del 


-  42  - 

pontefice,  non  i  legittimisti  di  Francia,  di  Spagna  e  del  Belgio, 
comandati  da  un  generale  come  Lamoricière. 

Salmour  segui  il  consiglio,  ma  il  Troja  dalle  prime  parole  si 
mostrò  contrario  a  ogni  novità,  non  che  all'abbandono  da  parte 
del  Re  di  Napoli  di  quella  neutralità,  che  Ferdinando  II  aveva 
raccomandata  come  testamento  politico  al  figlio.  E  udita  1*  idea 
di  un  allargamento  eventuale  di  confini  oltre  il  Tronto,  spalancò 
gli  occhi,  e  tutto  agitato,  quasi  convulso,  rispose  :  "  Vuie  che  dicite, 
chella  è  robba  d'  'o  Papa  „  ;  ^  e  lealmente  dichiarò  all'  inviato 
sardo  che  egli  avrebbe  pregato  il  Re  a  respingerla,  senza  di- 
scuterla. Questo  raccontò  il  Salmour  a  qualche  intimo.  Si  disse 
anche  che  il  suo  colloquio  col  Troja  fosse  stato  dal  Salmour  ri- 
ferito in  un  rapporto  speciale  a  Cavour,  ma  di  tale  rapporto  non 
v'è  traccia  negli  archivii.  Forse  non  fa  abbastanza  abile  Filan- 
gieri nel  consigliare  Salmour  a  vedere  il  Troja,  o  non  fu  abba- 
stanza abile  Salmour,  parlando  al  Troja  :  certo  è,  che  quando  il 
presidente  dei'ministri  presentò  al  Re  le  proposte,  Francesco,  ri- 
petendo le  parole  del  Troja,  le  respinse  con  tale  vivacità,  ohe  Fi- 
langieri die  le  sue  dimissioni  e  solo  dopo  molte  insistenze,  e  per- 
chè ancora  non  aveva  perduta  la  speranza  di  riuscire  a  qualche 
cosa,  s'indusse  a  ritirarle.  Il  17  giugno,  Francesco  II  scese  appo- 
sitamente da  Capodimonte  per  ricevere  il  Salmour,  ma  il  ricevi- 
mento non  varcò  i  limiti  di  una  compassata  cortesia,  con  rela- 
tivo scambio  di  augurii  e  di  saluti.  Un  accenno  all'alleanza, 
fatto  dal  diplomatico  piemontese,  non  venne  raccolto  dal  Re,  il 
quale  aveva  ereditato  dal  padre  un  senso  invincibile  di  sfiducia 
e  di  avversione  per  il  Piemonte  e  per  i  suoi  uomini  politici. 

Dopo  l'udienza,  su  proposta  di  Filangieri,  il  Re  insigni  Sal- 
mour dell'alta  onorificenza  di  San  Gennaro,  e  il  Salmour,  in 
data  del  20,  ne  ringraziava  il  presidente  del  Consiglio,  con  una 
lettera  che  si  chiudeva  cosi  :  "  La  prego  di  porre  anticipatamen- 
te ai  piedi  di  S.  M.  Siciliana  l'espressione  della  mia  più  sentita 
riconoscenza  per  V  impartitomi  segnalato  favore.  Mi  pregio  in 
pari  tempo,  eccellentissimo  signore  Principe,  di  testimoniarle  gli 
atti  del  mio  più  alto  ossequio  „ .  ' 

I  liberali  fecero  grandi  dimostrazioni  a  Salmour  all'arrivo  e 
alla  partenza,  e  molti  andarono  a  visitarlo,  insinuando  nell'animo 

'  Voi  che  dite?  Quella  è  proprietà  del  Papa. 
•  Archivio  Filangieri. 


—  43  - 

sno  dei  sospetti  circa  la  sincerità  del  Filangieri  e  apertamente 
dichiarandogli  non  essere  possibile  alcun  accordo  fra  i  liberali  e 
la  dinastia  dei  Borboni,  né  esser  possibile  che  il  Re  facesse  causa 
comune  col  Piemonte  per  l'indipendenza  d'Italia  e  concedesse 
l'amnistia  e  la  Costituzione.  In  realtà,  erano  interessi  e  idee 
diverse  che  si  urtavano  fra  loro  e  concorrevano  ad  accrescere 
le  difficoltà  della  missione  del  Salmour.  Se  il  Piemonte  voleva 
tutto  quello  che  si  è  visto.  Napoleone  si  contentava  di  molto 
meno  ;  e  mentre  consigliava  una  Costituzione,  non  gli  pareva  più 
necessario,  dopo  le  prime  vittorie,  il  concorso  dell'esercito  na- 
poletano alla  guerra.  L'Inghilterra,  dal  canto  suo,  nemica  della 
dinastia  borbonica,  ma  più  del  defrinto  Sovrano,  consigliava  la 
Costituzione,  ma  senza  entusiasmo,  notandosi  pure  che  l'azione 
dell'Elliot  non  era  cosi  persistente  come  quella  del  Brenier.  D'al- 
tronde, mentre  le  proposte  del  Piemonte  erano  respinte  dalla 
Corte,  sembravano  troppo  moderate  ai  liberali  di  Napoli  e 
agli  esuli  napoletani,  i  quali  di  quel  rigetto  erano  più  com- 
piaciuti che  desolati,  forse  prevedendo  dove  si  andava  a  fini- 
re. Il  presidente  del  Consiglio,  dal  canto  suo,  favorevole  ad 
un  eventuale  ingrandimento  del  Regno,  nonché  all'amnistia  e 
all'alleanza  col  Piemonte,  non  voleva  tornare,  neppure  per  so- 
gno, alla  Costituzione  del  1848,  come  volevano  il  Piemonte  e 
l'Inghilterra.  Egli  vagheggiava  una  Costituzione  napoleonica, 
di  cui  aveva  dato  incarico  a  Giovanni  Manna  di  redigere  un 
progetto.  Per  navigare  in  mezzo  a  queste  contrarie  correnti, 
sarebbe  occorsa  persona  più  abile  e  più  paziente  del  Salmour, 
uomo  rispettabile  e  gentiluomo,  ma  che  non  era  in  grado  di  va- 
lutare tutte  le  difficoltà  e  trarne  il  maggior  vantaggio  possi- 
bile. Difatti  il  colloquio  suo  con  Troja  ebbe  esito  infelice,  e 
forse  fa  imprudenza  averlo  provocato,  nò  die  prova  di  acutez- 
za diplomatica,  raccogliendo  qualunque  voce  gli  riferissero  i  libe- 
rali e  riferendola  a  Cavour.  Si  mostrava  poi  veramente  inge- 
nuo, quando  scriveva  a  Cavour  dell'  impossibilità  di  ottenere  con- 
cessioni dal  governo  napoletano  senza  la  forza,  e  lo  consigliava 
ad  ottenere  che  l'Inghilterra  mandasse  la  sua  flotta  a  Napoli 
e  minacciasse  di  bombardare  la  città,  se  il  Re  non  concedesse  la 
Costituzione  ! 

Salmour  restò  a  Napoli  sino  alla  metà  di  luglio  e  ne  parti, 
quando  ebbe  acquistata  la  convinzione  che  non  vi  era  nulla  da 


—  44  - 

fare.  In  data  5  luglio  scrisse  a  Cavour  questa  caratteristica 
lettera,  unico  documento  inedito  di  quella  missione,  esistente 
nell'archivio  segreto  di  Cavour: 

Naplea,  la  5  JutlUt  1859, 
Mon  cher  et  excellent  ami, 

J'  ai  coupé  court  h  notre  corréspondance  particuUere,  parce  que  tu 
w'  as  plus  le  temps  de  me  lire.  Je  dois  néanmoins  aujourd*  hui  te  dire 
un  mot  au  svjet  de  Vordre,  que  tu  m'as  donne  de  rester  ici,  fonde  sur 
Vespoir  que  tu  as  tovjours  d'un  changement  dans  la  politiqu^  Anglaise, 
vis  h  vis  de  Naples. 

tP  admets  ce  changement,  mais  il  n'aboutira  à  rien,  ou  tout  au  plus 
h  faire  rompre  encore  les  rélations  diplomatiques.  Il  n'y  a  rien  h  espérer 
de  ce  Gouvernement,  si  on  ne  l'exige  pas  par  la  force,  ainsi  tant  que 
V Angleterre  n'aura  pas  une  flotte  dans  le  pori  de  Naples,  tant  qu'elle  ne 
fera  pas  demander  ce  qu'  elle  voudra  par  le  Commandant  de  cette  flotte, 
sous  la  menace  d'un  bombardement,  elle  fera  toujours  la  sotte  figure, 
qu'  elle  vient  tout  récemment  de  faire.  Or  comme  elle  ne  prendra  jamais 
assez  h  coeur  les  intérèts  de  ce  malheureux  pays,  qu'elle  a  constamment 
trompé  dans  son  attente,  elle  n'  userà  jamais  de  ce  seul  et  unique  m,oyen 
d'obtenir. 

C  est  malheureux,  mais  e'  est  ainsi,  et  des  lors,  que  peut-on  espérer 
du  Ministere  Palmerston,  si  non  l'échec  qu'  il  a  subi  lors  de  la  rupture 
des  rélations  diplomatiques,  ou  bien  celui  tout  chaud  du  Ministere  Forj, 
lequel  n'  a  pas  méme  obtenu  la  neutralité,  puisque  Naples  l'avait  pro- 
clamée  avant  l'arrivée  de  Sir  Elliot. 

C  est  dommage  car  dans  ce  Tnoment  l' Angleterre  aurait  unbien  beau 
role  h  jouer  en  imposant  au  Eoi  de  Naples  la  Constitution,  que  la  popu- 
lation  reclame.  Au  jjoint  où  est  la  guerre,  peu  importe  h  V Angleterre 
que  la  neutralité  succombe  sous  la  constitution  puisqu'  avant  que  celle  - 
ci  fonctionne,  et  surtout  avant  que  le  contingent  Napolitain  soit  en  tigne 
avec  l'armée  Franco-Sarde,  la  guerre  sera  finie.  Ainsi  tandis  que  V An- 
gleterre obtiendrait  le  but  qu'elle  se  propose  par  le  maintien  de  la  neu- 
tralité Napolitaine,  elle  en  atteindrait  un  autre  bien  autrement  important 
pour  elle,  celui  de  contrebalancer  puissamment  par  un  fait  Italien,  V  in- 
fluence  de  la  France  en  Italie,  et  d'acquérir  par  ce  mème  fait,  unepré- 
pondérance  majeure  dans  le  Congrès,  qui  raglerà  définitivement  les  affaires 
d' Italie.  En  effet  en  assurant  le  regime  représentatif  dans  les  deux  Sici- 
les,  V Angleterre  prépare  la  voie  à  ce  que  ce  regime,  qui  est  déjh  le  notre, 
devienne  celui  de  la  Confédération  Italienne,  et  par  le  fait  de  la  promul- 
gation  de  ce  regime  à  Naples  elle  rend  h  V  Italie  neuf  millions  d' Italiens, 
qu'elle  en  séparé  actuellement  par  la  protection  dont  elle  entoure  les  plus 
odieux  des  Gouvernements.  La  démission  de  Filangieri,  qui  va  replonger 
plus  bas  que  jamais  ce  pays,  serait  une  excellente  occasion  pour  l' Angle- 
terre  de  faire  cet  acte  de  vigueur,  qui  la  réhabiliterait  dans  l'esprit  des 
Italiens.  Mais,  je  te  le  rép'éte,  elle  continuerà  comme  par  le  passe,  et  elle 
obtiendra  les  mèmes  résultats  negati fs  pour  elle,  et  de  plus  en  plus  fa- 
cheux pour  cet  intéressant  et  si  malheureux  pays. 


-  45  - 

Je  te  soumets  ces  considérations  par  ce  que  je  crois  que  tu  te  fais 
illusion  en  espérant  quelque  chose  de  bon  de  la  politique  du  nouveau 
Cabinet  Anglais  vis  h  vis  de  Naples,  d'ailleurs  je  reste  h  mon  poste,  et  je 
ferai  exactement  ce  que  tu  me  prescriras  dans  la  lettre,  que  tu  m'as  an- 
noncée,  et  que  je  n'ai  pas  encore  regue.  Persv/ide-toi  seulement  que  sans 
la  force  on  n'obtient  rieri  de  bon  d'un  Gouvernement  tei  gwe  celui-ci. 

Ma  position  est  de  plus  en  plus  désagréable,  mais  je  commence  h 
m'  y  faire.  Ma  sante  en  a  un  peu  souffert  mais  je  vais  mieux.  Adiexi,, 
mille  tendres  et  sincères  amitiés.  Tout  à  Toi 

Firmato:  —  De  Salmour. 

P.S.  Filangieri  a  retiré  sa  démission,  ce  qui  ne  change  l'opinion  que 
je  t' ai  exprimée  que  dans  le  sens  qu'il  faut  que  l'Angleterre  Vachete,  car 
il  est  par  intérèt  personnel  oppose  h  la  Constitution,  pour  laquelle  il  sera 
si  on  lui  garantii  à  tout  événement  la  continuation  du  service  du  Majo- 
rat  de  12  000  Ducats,  que  le  Boi  de  Naples  lui  a  donne  avec  le  titre  de 
Due  de  Taormina  apres  la  pacification  de  la  Sicile. 

Du  reste  on  organise  de  plus  en  plu^  les  Lazzaroni,  et  le  Boi  dit 
Tiardiment  vouloir  s'  en  servir,  en  commengant  à  les  lancer  contre  Gro- 
pello,  qu'  il  accuse  d'avoir  été  le  provocateur  de  la  manifestation  du  7 
Juin  demier.  C  est  ni  plus  ni  moins  qu'en  plein  conseil  que  le  jeune  Boi 
tieni  d'aussi  absurdes  propos;  crois-moi  il  est  pire  que  son  pòre,  car  il 
n'  en  a  pas  l'esprit  et  il  en  a  tous  les  mauvais  instincts.  ^ 

Neppure  fra  le  carte  del  Salmour  si  trovò  alcuna  memoria 
circa  la  missione  di  lui  a  Napoli;  anzi,  nel  suo  testamento  olo- 
grafo, col  quale  chiamava  erede  la  marchesa  Scati  sua  più  pros- 
sima parente  in  Italia,  vietò  in  modo  esplicito  che  si  desse  pub- 
blicità, diretta  o  indiretta,  a  quanto  si  fosse  potuto  ritrovare 
nelle  sue  carte.  E  il  marchese  Vittorio  Scati,  figlio  della  erede, 
da  me  pregato  di  mandarmi  qualche  notizia  intima  circa  quella 
missione,  mi  scriveva  :  "  Nella  lunga  consuetudine  e  familiarità, 
che  ebbi  col  conte  di  Salmour,  ben  di  rado  mi  accadde  di  sentirlo 
a  ricordare  la  sua  missione  a  Napoli,  né  mai  entrò  in  particolari  : 
quasi  glie  ne  fosse  rimasta  poco  grata  memoria  „ . 

Il  Pasquino  del  3  luglio  1859  raffigurava  Salmour  in  atto  di 
trivellare  un  buco  in  mezzo  al  mare,  con  la  scritta:  U  conte  di 
Salmour  a  Napoli.  Ma  la  nota  comica  fu  data  da  don  Geremia 
Fiore,  prete  e  poeta  all' Ingarriga,  il  quale  scrisse  un'ode  poli- 
tica al   Re.     Eccone   due   strofette,   finora   inedite,   nelle  quali 


*  Estratto,  d'ordine  ministeriale,  dall'archivio  segreto  del  conte  di  Ca- 
vour, esistente  in  questo  archivio  di  Stato.  -  In  fede:  Torino,  21  febbraio  1896. 


—  46  - 

don  Geremia  ammoniva  Francesco  familiarmente    si,  ma   cate- 
goricamente : 

Ti  consiglio  pel  tuo  meglio 

Di  accordarti  con  D'Azeglio, 

E  col  conte  di  Salmour, 

Inviato  da  Cavour. 

Che  se  incalzan  più  le  botte, 

Se  gli  austriaci  han  più  biscotte, 

Se  s' imbroglian  più  le  carte, 

Noi  sarem,  per  Bonaparte. 

Veramente  D'Azeglio  non  c'entrava,  ma  per  don  Geremia 
D'Azeglio  era  sinonimo  di  Piemonte.  ^ 

Filangieri,  fallita  la  missione  piemontese  e  respinti  i  ripetuti 
consigli  di  Napoleone  e  dell'Inghilterra,  non  si  die  per  vinto. 
Gli  avvenimenti  incalzavano  ;  le  Legazioni  si  erano  ribellate  al 
Papa;  e  con  Parma  e  Modena,  le  quali  avevano  rovesciate  le 
loro  piccole  sovranità,  si  era  costituito  un  governo  dell'Emilia, 
come  si  era  costituito  un  governo  della  Toscana.  Villafranca 
parve  che  dovesse  strozzare  la  rivoluzione,  e  Cavour  fu  li  li  per 
perdere  la  testa.  Cominciò  allora  quell'  insistente  e  tenebroso  la- 
voro della  diplomazia  europea  intorno  alla  cosi  detta  quìstione 
italiana,  e  cominciò  con  esso  il  periodo  delle  agitazioni  nel  Re- 
gno e  delle  maggiori  speranze  dei  liberali.     Oggi  si  diceva  che 


*  Don  Geremia  Fiore,  oggi  vicebibliotecario  alla  Branoacciana,  pub- 
blicò nel  1861  un  volumetto  di  versi,  dal  titolo:  Poesie  politiche,  con  de- 
dica al  magnanimo  Vittorio  Emanuele  di  Savoia,  Re  d'Italia.  I  versi, 
molto  curiosi,  ricordano  quelli  sopra  citati,  i  quali  non  sono  compresi  nel 
detto  volume,  ma  a  don  Geremia  vennero  generalmente  attribuiti,  allora. 
Egli  fu  sempre  liberale,  cioè  anti-borbonico,  ed  è  anche  oggi  nella  sua  se- 
nilità avanzata,  un  prete  simpatico  ed  elegante.  In  un'ode,  dal  titolo: 
La  fine  di  Ferdinando  II,  cosi    descrisse  la  malattia  del  Re: 

Un  paralento  cancro  maledetto 
GU  fa  il  diavolo  a  qaattro  entro  a  ana  coscia, 
K  rodendo,  s'allarga,  per  diletto, 
Dall'anguinaglia  alla  p»noiaooia  floscia: 
Vi  genera  tumori,  e  ogQor  più'cresce, 
Glie  mentre  aa  se  ne  taglia,  un  altro  n'esce, 

E  rilevando  la  stranezza  dei  bollettini  dei  medici  diceva: 

E  questo  bralioblo,  ohe  tatto  appuzza, 
Disordine  dai  medici  è  chiamato 
Nel  boUettin,  ohe  stitico  tagliuzza 
Sue  monche  frasi  in  stile  rabescato: 
Se  il  fiuti,  non  ha  nulla  d'ippocratico. 
Ma  è  un  gergo,  anzi  un  ribobolo  enigmatico. 


—  47  - 

Garibaldi,  divenuto  generale  della  lega  militare  dell'  Italia  cen- 
trale, avrebbe  varcata  la  frontiera  d'Abruzzo  e  portata  la  rivo- 
luzione ;  domani  si  facevano  circolare  notizie  molto  inquietanti 
sulla  Sicilia,  la  quale  non  era  punto  tranquilla. 

Filangieri  non  tollerando  più  uno  stato  di  cose  cosi  incerto 
e  inconcludente,  ruppe  gì'  indugi  e  la  mattina  del  4  settembre, 
presentò  addirittura  al  Re  lo  schema  di  Statuto  redatto  da  Gio- 
vanni Manna,  suo  vecchio  amico  e  la  persona  di  maggior  cultura 
politica,  che  avesse  Napoli  in  quel  tempo.  Fin  dai  primi  giorni 
di  agosto,  Filangieri  lo  aveva  incaricato  di  un  progetto  di  Sta- 
tuto, che  meglio  rispondesse  alle  condizioni  delle  Due  Sicilie. 
Manna  lo  fece,  e  in  altre  tre  lunghe  conferenze  fu  discusso  da 
entrambi,  e  modificato  particolarmente  riguardo  alla  Sicilia,  se- 
condo i  suggerimenti  di  Filangieri.  Il  manoscritto  fu  conse- 
gnato a  Brenier,  perchè  il  principe  di  Satriano  riteneva  indispen- 
sabile che  r  Imperatore  ne  avesse  notizia  e  lo  approvasse,  e  alla 
fine  di  agosto  Brenier  lo  rese  con  alcune  lievi  postille,  che  Fi- 
langieri e  Manna  introdussero  nel  .testo.  La  sera  del  2  settem- 
bre, Brenier  partecipò  al  presidente  dei  ministri  la  piena  adesione 
del  suo  governo  a  quel  progetto,  aggiungendo  essere  desiderio 
dell'Imperatore  che  non  si  mettesse  tempo  in  mezzo  alla  sua 
adozione  e  alla  promulgazion^,  ed  infatti  la  mattina  del  4  Fi- 
langieri lo  presentò  al  Re,  non  tacendogli  che  Napoleone  III  lo 
aveva  esaminato  ed  approvato.  t 

Era  Statuto  affatto  napoleonico  :  costituzione  con  poteri  li- 
mitati e  ben  definiti  della  Camera  elettiva.  Manna  scrisse  an- 
che le  belle  parole,  le  quali,  poste  in  bocca  al  Re,  precedono  il 
prezioso  documento,  che  qui  io  pubblico  per  la  prima  volta.  ^ 


*  Ricordevoli  delle  generose  intenzioni  del  Nostro  Augusto  Genitore,  che 
primo  in  Italia  diede  l'esempio  degli  ordini  rappresentativi,  quantunque 
la  forza  degli  avvenimenti  lo  costringesse  a.  sospenderne  V  attuazione,  e  con- 
siderando che  le  gravi  ragioni  d'impedimento  possono  stimarsi  cessate,  ci 
siamo  col  Divino  aiuto  e  nella  pienezza  de'  Nostri  poteri,  determinati  a 
richiamare  i  Nostrì  amatissimi  sudditi  al  godimento  di  quelle  istituzioni, 
con  cui  si  governano  oggi  la  più  parte  delle  nazioni  civili  di  Europa. 

Nel  prendere  questa  importante  risoluzione,  Noi  ci  siamo  confidati 
principalmente  nel  senno  e  devozione  dei  Nostri  popoli,  i  quali  concor- 
rendo con  Noi  nel  desiderio  d'iniziare  una  nuova  èra  di  prosperità  nazio- 
nale, riceveranno  certamente  con  gratitudine  la  nuova  forma  che  ci  siamo 


—  48  ~ 

L'esperienza  del  1848  dava  i  suoi  frutti.  La  forma  politica,  con 
questo  Statuto  diveniva  costituzionale,  è  vero,  ma  lo  Stato  e  il 
suo  governo  non  uscivano  dalle  mani  del  Re,  il  cui  potere  non 
veniva  limitato,  ma  solo  coadiuvato  nell'esercizio.  Nonostante  la 
costituzione  di  un  Senato  e  di  una  Camera  dei  deputati,  al  Re 
rimaneva,  con  tutti  gli  altri  attributi   della   sovranità,  anche  la 

risoluti  di  dare  al  nostro  Statuto  ;  e  che  senza  allontanarci  dalle  basi  delle 
leggi  organiche  del  Regno,  ci  assicura  le  principali  condizioni  dell'ordine 
rappresentativo. 

La  continua  e  franca  discussione  di  un  largo  Consiglio  di  Stato  man- 
terrò, in  tutto  il  suo  splendore  l'iniziativa  Sovrana,  e  conserverà  il  movi- 
mento e  la  vita  governativa  dove  più  conviene  che  sieno,  cioè  inforno  a 
Noi  ed  a'  Nostri  Ministri. 

Un  Senato,  composto  dei  più  gravi  e  distinti  personaggi  del  Paese,  è 
destinato  a  dare  alla  Legislatura  una  base  solida,  ed  un  sicuro  punto  di 
appoggio,  potendosi  trovare  all'occorrenza  ne'  suoi  eccezionali  poteri  una 
riserba  salutare  da  somministrare  aiuti  efficaci  al  Governo  ed  alla  Ca- 
mera elettiva. 

Finalmente  il  Corpo  Legislativo  non  mancherà  dei  suoi  veri  ed  essen- 
ziali poteri,  essendo  da  Noi  chiamato  a  discutere  e  votare  le  leggi,  a  di- 
scutere e  votare  le  imposte,  e  ad  esaminare  ed  acclarare  i  conti  dello  Stato. 
L' importanza  di  queste  attribuzioni  non  e  menomata  punto  da  certi  tem- 
peramenti indispensabili  a  rendere  tranquille  e  mature  le  discussioni,  ed 
a  crescere  decoro  e  sicurezza  al  primo  Corpo  deliberante  dello  Stato. 

La  nostra  fiducia,  lo  ripetiamo,  e  nel  senno  e  devozione  dei  Nostri 
Popoli,  di  cui  ricordiamo  con  amore  le  lunghe  prove  di  fedeltà.  Ma  più 
ancora  Noi  fidiamo  nella  coscienza  delle  Nostre  intenzioni  e  nel  Supremo 
aiuto  della  Divina  Provvidenza,  nel  cui  Nome  ci  siamo  risoluti  a  sanzio- 
nare e  promulgare  il  presente  Statuto  : 

Gap.  I. 
Disposizioni  generali. 

Art.  1.  —  La  persona  del  Re  è  sacra  ed  inviolabile.  Egli  governa  per 
mezzo  de'  suoi  Ministri,  del  Consiglio  di  Stato,  del  Senato  e  del  Corpo  le- 
gislativo. 

Art.  2.  —  Il  Re  comanda  le  forze  di  terra  e  di  mare;  dichiara  la  guerra, 
fa  i  trattati  di  pace  e  di  alleanza;  fa  i  trattati  di  commercio,  i  quali  han 
forza  di  legge  per  le  modifiche  di  tariflPe  in  essi  stipulate.  Nomina  a  tutti 
gl'impieghi  dell'Amministrazione  pubblica;  fa  i  decreti  e  regolamenti  ne- 
cessari per  la  esecuzione  delle  leggi. 

Egli  solo  ha  la  iniziativa  delle  leggi.  La  giustizia  si  amministra  in  suo 
nome.  Egli  esercita  il  diritto  di  grazia  e  di  amnistia.  Egli  sanziona  e 
promulga  le  leggi  ed  i  Senato-consulti. 

n  Re  ordina  ed  autorizza  tutti  i  lavori  di  pubblica  utilità,  e  tutte  le 
imprese  d' interesse  generale.    Laddove  importino  obblighi  e  sussidii  del  Te- 


-  49  — 

iniziativa  delle  leggi  e  delle  opere  pubbliche,  e  il  potere  della 
Camera  dei  deputati,  o  Corpo  legislativo  com'è  chiamato,  e  il 
cui  presidente  e  vicepresidente,  come  quelli  del  Senato,  erano  di 
nomina  regia,  veniva  letteralmente  limitato  a  discutere  e  votare  le 
leggi  e  le  imposte  e  ad  esaminare  i  conti  della  pubblica  azienda. 
Non  leggi    d'iniziativa   parlamentare,  non  imposizioni  di  pub- 

soro,  una  legge  sarà  necessaria  per  approvare  il  credito  prima  di  mettersi 
in  esecuzione. 

Soltanto  pei  lavori  di  conto  dello  Stato,  non  suscettivi  di  concessione, 
i  crediti  possono  essere  aperti  per  urgenza  come  straordinari,  per  essere 
sottoposti  al  Corpo  legislativo  nella  prima  sessione. 

Il  Re  ha  il  diritto  di  dichiarare  lo  stato  d'assedio  in  una  o  più  Pro- 
vincie del  Regno,  salvo  a  riferirne  al  piii  presto  possibile  al  Senato,  il  quale 
può  propome  la  cessazione,  qualora  gliene  parrà  cessato  il  bisogno.  Le  con- 
seguenze dello  stato  d'assedio  debbono  essere  dichiarate  con  una  legge. 

H  Re  presiede  quando  lo  crede  conveniente,  il  Senato  ed  il  Consiglio 
di  Stato. 

Art.  3.  —  La  difesa  del  Regno  e  della  Corona  è  affidata  allo  esercito  nazio- 
nale. Non  potrà  servire  sotto  le  bandiere  alcuna  milizia  estera,  se  non  nella 
proporzione  dei  sussidi,  che  il  Corpo  legislativo  credesse  utile  votare  parti- 
colarmente a  questo  oggetto. 

Art.  4.  —  Il  potere  legislativo  è  esercitato  congiuntamente  dal  Re,  dal 
Senato  e  dal  Corpo  legislativo. 

Art.  B.  —  I  Ministri,  i  membri  del  Consiglio  di  Stato,  del  Senato,  del 
Corpo  legislativo,  gli  uffiziali  di  terra  e  di  mare,  i  magistrati  ed  i  funzio- 
nari pubblici,  prestano  giuramento  nei  seguenti  termini:  Giuro  fedeltà  al 
Re  ed  obbedienza  allo  Statuto. 

Art.  6.  —  Il  Senato  stabilisce  l' ammontare  della  lista  civile  per  la  du- 
rata di  ciascun  Regno. 

Art.  7.  —  Rimanendo  come  sono  state  finora  comuni  per  la  Sicilia  di 
qua  e  di  là  dal  Faro  le  spese  della  lista  civile,  della  guerra  e  marina  e  del 
Corpo  diplomatico,  la  rata  a  carico  della  Sicilia  di  là  dal  Faro  rimane  li- 
mitata a  soli  4  milioni  di  ducati  annuali,  che  saranno  portati  in  introito 
deUo  Stato  -  discusso  della  Sicilia  di  qua  dal  Faro. 

Art.  8.  —  H  Re  nel  convocare  il  Senato  ed  il  Corpo  legislativo  per  le 
loro  ordinarie  sessioni  in  ciascun  anno,  determinerà  col  medesimo  decreto 
di  convocazione,  se  le  sessioni  debbono  aver  luogo  in  Napoli  o  in  Palermo. 

Gap.  n. 
,    Del  Senato  del  Regno. 

Art.  9.  —  H  Senato  è  composto  di  membri  scelti  e  nominati  dal  Re, 
fra  gli  alti  funzionari  dello  Stato,  fra  grandi  proprietari  del  Regno,  e  fra 
le  maggiori  notabilità  del  Clero,  della  Nobiltà,  delle  scienze,  delle  lettere 
e  del  commercio.    Il  numero  non  potrà  eccedere  60  per  la  Sicilia  di  qua 

Db  Cesarx.  La  flné  di  un  Segno  -  Voi.  II.  A 


—  50  - 

blici  lavori,  non  petizioni  di  cittadini  alla  Camera.  Queste  po- 
tevano rivolgersi  solo  al  Senato,  il  quale,  composto  di  80  sena- 
tori e  potendo  essere  preseduto  dal  Re,  rappresentava  una  specie  di 
Consiglio  aulico,  custode  delle  leggi  e  le  cui  sedute  non  erano  pub- 
bliche, e  che  con  senato-consulti  poteva  interpetrare,  completare 
e  modificare  lo  Statuto.     Con    questo  Senato,  con   ministri,  che 


dal  Faro,  e  20  per  la  Sicilia  al  di  là  dal  Faro.  Pel  primo  anno  il  numero 
non  sarà  minore  di  48  per  la  prima  e  di  16  per  la  seconda. 

Art.  10.  —  La  carica  di  Senatore  è  a  vita  ed  inamovibile.  Una  dota- 
zione annua  di  due.  3000  è  annessa  alla  dignità  di  Senatore.  I  soldi,  pen- 
sioni ed  averi  di  ogni  specie  saranno  imputati  nella  suddetta  dotazione. 

Art.  11.  —  Il  Presidente  e  Vicepresidenti  saranno  nominati  dal  Re  fra 
i  senatori.  L'assegnamento  del  Presidente  durante  l'anno  sarà  di  due.  6000, 
imputandosi,  come  sopra,  soldi,  pensioni  ed  averi  di  ogni  specie. 

Art.  12.  —  Il  Re  convoca  e  proroga  il  Senato.  La  durata  delle  due 
sessioni  ordinarie  sarà  la  stessa  di  quelle  annuali  del  Corpo  legislativo. 

Le  sedute  del  Senato  non  sono  pubbliche,  ed  i  verbali  delle  sue  sessioni 
non  potranno  essere  pubblicati  per  le  stampe,  salvo  che  il  Senato  medesimo 
a  maggioranza  di  due  terzi  non  giudiclii  doversi  fare  eccezione  a  questa  regola. 

Art.  13.  —  n  Senato  è  il  custode  delle  leggi  organiche  e  fondamentali 
del  Regno.  Nessuna  legge  può  essere  promulgata  prima  di  essere  sottoposta 
alla  sua  approvazione.  Esso  può  rifiutarla  a  tutte  quelle  leggi  che  portas- 
sero oifesa  alla  religione,  alla  morale,  allo  Statuto,  alla  sicurezza  individuale, 
alla  inviolabilità  della  proprietà,  all'uguaglianza  de'  Cittadini  innanzi  alla 
legge,  alla  difesa  ed  integrità  del  territorio  nazionale. 

Art.  14.  —  Il  Senato  regola  per  via  di  Senato-consulti  tutto  ciò  che 
non  è  stato  preveduto  dal  presente  Statuto,  e  che  può  essere  stimato  ne- 
cessario alla  sua  attuazione,  e  specialmente  la  elezione  de'  Deputati  al  Corpo 
legislativo,  l'esercizio  della  stampa,  la  responsabilità  ministeriale,  le  gua- 
rentigie personali  dei  membri  del  Corpo  legislativo  e  del  Senato  medesimo. 
Spiega  e  dichiara  allo  stesso  modo  il  senso  degli  articoli  del  presente  Sta- 
tuto, che  potessero  dar  luogo  ad  interpretazione. 

Art.  15.  —  I  Senato-consulti  saranno  sottoposti  all'approvazione  so- 
vrana.   Il  Re  approvandoli  li  promulga  in  Suo  nome. 

Art.  16.  —  Il  Senato  può  annullare  tutti  gli  atti,  che  o  dal  Governo, 
e  dal  Corpo  legislativo  o  dai  particolari  gli  saranno  denunziati  come  lesivi 
alle  leggi  organiche  e  fondamentali  del  Regno.  Il  diritto  di  petizione  si 
esercita  solamente  presso  il  Senato.  Ninna  petizione  può  essere  presentata 
al  Corpo  legislativo.  Un  Consigliere  di  Stato,  nominato  dal  Re,  riferirà 
al  Senato  sulle  posizioni  che  il  Senato  avrà  rimesso  allo  esame  de'  Ministri. 

Art.  17.  —  I  Ministri  non  possono  essere  messi  in  stato  di  accusa  se  non 
che  dal  Senato,  il  quale  con  Senato-consulto  approvato  dal  Re  stabilirà  le 
norme  e  la  competenza  per  giudizi  di  tal  fatta. 

Art.  18.  —  Il  Senato  può  con  rapporto  indirizzato  al  Re  presentare  le 
basi  dei  progetti  di  legge,  che  giudicherà  di  un  grande  interesse  nazionale. 

Art.  19.  —  Il  Senato  può  proporre  delle  modifiche  al  presente  Statuto 


-   51  — 

non  dovevano  essere  deputati,  e  con  un  Consiglio  di  Stato,  che 
doveva  redigere  i  progetti  di  legge  e  di  regolamenti,  che  aveva 
attribuzioni  contenziose  e  sosteneva  i  progetti  dinanzi  al  oorpo 
legislativo,  si  può  giudicare  quale  ampia  parte  lasciassero  il  Manna 
e  il  Filangieri  al  potere  regio  e  a  tutti  i  maggiori  Ordini  dello 
Stato.     Oltre  a  questo  concetto  informatore,  lo  Statuto  contiene 


che  con  l'approvazione  del  Re  potranno  essere  presentate  alla  discussione 
e  deliberazione  del  Corpo  legislativo. 

Art.  20.  —  In  caso  di  scioglimento  del  Corpo  legislativo,  e  fino  alla 
nuova  convocazione,  il  Senato  provvede  sulle  proposte  del  Governo,  a  tutto 
ciò  che  può  occorrere  all'andamento  del  Governo  medesimo. 

Gap.  III. 
Del  Corpo  legislativo. 

Art.  21.  —  Il  Corpo  legislativo  è  composto  di  Deputati  eletti  dai  col- 
legi elettorali  di  ciascun  distretto  del  Regno,  nelle  forme  e  modi,  che  sa- 
ranno determinati  con  un  decreto  del  Senato  approvato  dal  Re.  Per  la 
convocazione  del  primo  Corpo  legislativo  un  decreto  del  Re  stabilirà  prov- 
visoriamente le  norme  delle  elezioni. 

Art.  22.  —  Il  numero  dei  Deputati  sarà  calcolato  alla  ragione  di  due 
per  ogni  distretto  amministrativo  del  Regno  salvo  le  eccezioni  che  saranno 
indicate  per  Napoli,  Palermo  ed  altri  distretti  della  Sicilia  di  qua  e  di  là 
dal  Faro. 

Art.  23.  —  I  Deputati  sono  nominati  per  6  anni.  La  prima  nomina 
cesserà  di  dritto  appena  approvato  il  Senato-consulto  definitivo  per  le  ele- 
zdoni.  I  Deputati  al  Corpo  legislativo  riceveranno  durante  le  sessioni  ordi- 
narie e  straordinarie  una  indennità  di  due.  5  per  ciascun  giorno,  oltre  una 
indennità  di  due.  150  per  spese  di  viaggio.  Il  doppio  delle  indennità  per 
spese  di  viaggio  sarà  attribuito  a  quelli  Deputati  del  Corpo  legislativo  che 
dovranno  trasferirsi  dal  continente  nell'isola  o  dall'isola  nel  continente. 

Art.  24.  —  n  Decurionato  di  ciascun  Comune  forma  e  discute  le  liste 
degli  elettori  e  degli  elegibili.  Gli  elettori  riuniti  in  collegio  elettorale,  sul 
capoluogo  del  Distretto,  procederanno  a  maggioranza  ed  a  scrutinio  segreto 
alla  elezione  dei  Deputati  del  Distretto  medesimo.  Agli  elettori  sarà  attri- 
buita una  conveniente  indennità  di  viaggio. 

Art.  26.  —  Sono  elettori  tutti  i  nazionali  che  abbiano  il  pieno  eserci- 
zio dei  dritti  civili,  che  sieno  domiciliati  da  6  anni  almeno  in  uno  dei 
comuni  del  distretto,  che  abbiano  compiuto  i  25  anni  di  età,  che  non  sieno 
in  istato  di  fallimento,  né  sottoposti  a  nessun  giudizio  criminale,  e  che 
posseggono  una  rendita  imponibile  non  minore  di  due.  40  annuali. 

Art.  26.  —  Sono  elettori  senza  bisogno  deUa  suddetta  rendita  tutti  i 
Decurioni,  Sindaci  ed  Eietti  in  esercizio,  gli  impiegati  al  ritiro  con  pensio- 
ne non  minore  di  annui  due.  100,  gli  uffizi  ali  militari  che  godono  una  pen- 
sione di  ritiro,  gli  ecclesiastici  meramente  secolari,  i  membri  ordinari  delle 
Reali  Accademie   e    Società  Economiche  del  Regno,  i  titolari  cattedratici 


-  62  - 

disposizioni  caratteristiche  assai  notevoli.  Prevedendo  lo  Stato 
d'assedio  e  una  sospensione  dello  Statuto,  esso  impediva  che  in  cir- 
costanze straordinarie  il  governo  fosse  costretto  ad  uscire  dalla 
legalità  per  rimettere  l'ordine.  Stabiliva  inoltre  un'indennità  di 
viaggio  e  di  soggiorno  ai  deputati,  un'indennità  di  viaggio  agli 
elettori,  un  minimo  di  censo  per  questi  e  per  gli  eliggibili  ;  stipen- 


delle  Regie  Università,  Licei  e  Collegi  del  Regno,  e  laureati  dalle  Regie 
Università  eserciti,  da  5  anni  almeno,  tma  professione  liberale,  ed  i  com- 
mercianti aventi  per  conto  proprio  uno  stabilimento  di  manifatture  e  di 
commercio  per  cui  si  paghi  almeno  un  fitto  di  due.  60  annui  nelle  Comuni, 
di  due.  100  ne'  capoluogM  di  Provincia,  e  di  due.  200  in  Napoli  e  Palermo. 

Art.  27.  —  Sono  elegibili  tutti  quelli  die  avendo  i  requisiti  espressi 
nell'art.  25  abbiano  compiuta  l'età  di  anni  80,  e  posseggano  una  rendita 
imponibile  non  minore  di  annui  due.  240. 

Art.  28.  —  Sono  elegibili  senza  bisogno  della  suddetta  rendita  i  mem- 
bri ordinari  delle  tre  R.  Accademie,  i  titolari  delle  Regie  Università,  i 
laureati  delle  Università  suddette,  ohe  da  10  anni  almeno  esercitano  una 
professione  liberale,  i  militari  dal  grado  di  maggiore  in  sopra,  i  compo- 
nenti dell'Ordine  giudiziario  dal  grado  di  Giudici  di  Tribunale  Civile  in 
sopra. 

Art.  29.  —  Gl'Intendenti,  i  Segretari  Generali,  i  Sottointendenti  in  funzione 
non  possono  essere  elegibili.  I  Deputati  che  accettino  un  pubblico  impiego, 
o  una  promozione  nella  carica  che  posseggono,  durante  le  loro  funzioni, 
non  possono  continuare    senza  sottoporsi  allo  sperimento  della  rielezione. 

Art.  30.  —  Il  Corpo  legislativo  discute  e  vota  i  progetti  di  legge  e  le 
imposte. 

Art.  31.  —  Gli  Stati  -  discussi  d' introito  e  di  esito  da  presentarsi  in 
ciascun  anno  alle  deliberazioni  del  Corpo  legislativo,  saranno  stampati 
a  cura  del  Ministero  delle  Finanze,  prima  dell'apertura  delle  sessioni.  Gli 
Stati  —  discussi  delle  spese  porteranno  le  loro  divisioni  e  suddivisioni  am- 
ministrative per  capitoli  e  per  articoli.  H  voto  del  Corpo  legislativo  avrà 
luogo  per  ministeri.  La  ripartizione  del  credito  attribuito  a  ciascun  Mi- 
nistero per  capitoli,  è  regolata  per  via  di  Decreto  del  Re,  inteso  il  Con- 
siglio di  Stato.  Sono  similmente  autorizzate  per  via  di  decreti  del  Re, 
inteso  il  Consiglio  di  Stato,  le  inversioni  da  un  capitolo  all'altro. 

Queste  ripartizioni  sono  applicabili  agli  Stati  -  discussi  dell'anno. 

Art.  32.  —  A  cura  anche  del  Ministero  delle  Finanze  saranno  stam- 
pati alla  chiusura  di  ciascun  esercizio  i  rendiconti  generali  da  essere  pre- 
sentati ed  acclarati  dal  Corpo  legislativo.  Saranno  stampati  non  più  tardi 
del  1°  ottobre  di  ciascun  anno  per  l'ultimo  esercizio  chiuso. 

Art.  33.  —  Ogni  emendamento  di  progetti  di  legge  che  venisse  adot- 
tato dalla  commissione  incaricata  dell'esame  di  tali  progetti,  dovrà  senza 
altra  discussione  essere  rimesso  per  mezzo  del  Presidente  del  corpo  legi- 
slativo al  Consiglio  di  Stato.  Se  il  Consiglio  di  Stato  lo  rigetta,  l'emen- 
damento non  potrà  essere  sottomesso  alla  deliberazione  del  Corpo  le- 
gislativo. 

Art.  34.  —   Le   sessioni  ordinarie   del   Corpo   legislativo   durano   tre 


-  63  - 

diava  i  senatori  e  i  presidenti  delle  due  Camere;  estendeva  la 
durata  della  legislatura  a  sei  anni,  ma  limitava  quella  delle  sessioni 
a  tre  mesi.  Se  le  sedute  del  Corpo  legislativo  erano  pubbli- 
che, i  giornali  non  potevano  riferirne  che  il  resoconto  ufficiale. 
E  inj5ne  da  notare  l'articolo  8,  secondo  il  quale  le  sessioni  pote- 
vano essere  convocate  dal  Re  a  Napoli  o  a  Palermo. 


mesi.    Le  sue   sedute   sono    pubbliche,  ma  la  domanda  di  cinque  membri 
basta  per  costituirsi  in  comitato  segreto. 

Art.  85.  —  Le  sedute  del  Corpo  legislativo  potranno  essere  pubbli- 
cate per  la  stampa,  ma  con  la  semplice  riproduzione  del  verbale  compi- 
lato, a  cura  del  presidente,  ed  inserito  nel  giornale  officiale  del  Regno. 
Una  commissione  composta  dal  Presidende  suddetto  e  dai  presidenti  delle 
sezioni,  esaminerà  il  verbale  suddetto  prima  d'essere  pubblicato.  H  voto 
del  presidente  del  Corpo  legislativo  è  preponderante  in  caso  di  parità.  Le 
operazioni  e  votazioni  del  Corpo  legislativo  non  possono  in  altra  guisa 
essere  attestate,  che  per  mezzo  del  verbale  suddetto. 

Art.  36.  —  n  presidente  e  vicepresidenti  del  Corpo  legislativo  sono  no- 
minati annualmente  dal  Re  fra  i  Deputati  medesimi.  Il  presidente  del 
Corpo  legislativo  riceverà  l'annuo  assegnamento  di  duo.  60CX). 

Art.  37.  —  I  Ministri  non  possono  essere  membri  del  Corpo  legislativo. 

Art.  38.  —  Il  Re  convoca,  proroga  e  .discioglie  il  Corpo  legislativo. 
In  caso   di   scioglimento  il  nuovo  Corpo  legislativo   sarà  convocata   fra 
sei  mesi. 

Gap.  IV. 
Del  Consiglio  di  8t<Uo, 

Art.  39.  —  H  Consiglio  di  Stato  si  compone  di  Consiglieri  di  Stato 
ordinarli  al  numero  di  12  per  la  Sicilia  di  qua  dal  Faro,  e  di  6  per  la  Sicilia 
di  là  dal  Faro,  di  Consiglieri  di  Stato  straordinarii  che  non  saranno  più  di 
8  per  la  prima  e  di  4  per  la  seconda,  e  di  Consiglieri  di  Stato  onorari,  che 
non  saranno  più  di  10  per  la  prima,  e  di  5  per  la  seconda.  Ci  saranno 
inoltre  12  relatori  con  soldo  e  12  uditori,  dei  quali  4  con  soldo  ed  8  senza 
soldo,  da  nominarsi  per  concorso  si  gli  uni  che  gli  altri. 

Art.  40.  —  La  qualità  di  Consigliere  di  Stato  ordinario  e  straordina- 
rio e  di  relatore  del  Consiglio  di  Stato,  è  incompatibile  con  quella  di  Se- 
natore o  di  Deputato  al  Corpo  legislativo.  I  Consiglieri  di  Stato  ordinarli 
non  possono  neppure  occupare  altra  carica  pubblica  con  soldo.  Non  di 
meno  gli  uffizi  ali  generali  di  terra  e  di  mare  possono  essere  Consiglieri  di 
Stato  ordinarli,  considerandosi  in  missione  per  tutta  la  durata  delle  loro 
funzioni  in  Consiglio  di  Stato,  conservando  la  loro  anzianità. 

Art.  41.  —  I  Consiglieri  di  Stato  ordinarii  sono  nominati  dal  Re  e  da 
lui  rivocabili.  I  Consiglieri  di  Stato  straordinarii  sono  scelti  dal  Re  fra  gli 
alti  funzionari  dello  Stato,  per  dovere  senza  altro  soldo  e  indennità  inter- 
venire con  voto  deliberativo  nelle  assemblee  generali  del  Consiglio  di  Stato. 
Finalmente  il  titolo  di  Consigliere  di  Stato  onorario  è  conferito  dal  Re  ad 
altri  fonzionarii  pubblici  fuori   attività,   e  che  con  speciale  ordine  del  Re 


-  64  — 

Con  questo  Statuto  e  con  l'appoggio  di  Napoleone,  Filan- 
gieri credeva,  com'egli  notò  nei  suoi  appunti,  ^  allontanare  la 
rovina  "  della  quale  minacciano  il  Reame  la  sfrenata  ambizio- 
ne del  Piemonte,  le  mene  del  conte  di  Cavour,  di  Mazzini  e  di 
Garibaldi,  nonché  la  manifesta  inimicizia  del  gabinetto  inglese  „. 

Il  Re  non  fece  buon  viso  alla  proposta,  anzi  la  considerò  pe- 
ricolosa e  imprudente,  ne  interpellò  su  di  essa  il  Consiglio  di 
Stato.  Rispose  a  Filangieri  poche  e  confuse  parole,  die  fecero 
ritenere  al  presidente  del  Consiglio,  che  veramente  Ferdinando 
II  avesse  fatto  giurare  al  figlio  di  non  mutare  la  forma  di  go- 
verno. Il  Re  impose  al  Satriano  di  tacere  su  quanto  era  av- 
venuto, ponendolo  cosi  nella  posizione  di  esser  giudicato  leg- 
giero dal  Breuier,  al  quale  aveva  promesso,  forse  un  po'  incauta- 
mente, più  di  quanto  potesse  ottenere  dal  Sovrano.  E  il  Filan- 
gieri, con  lettere  del  5  e  6  settembre,  rassegnò  le  sue  dimissioni 
da  presidente  dei  ministri  e  da  ministro  della  guerra,  allegando 


potranno  essere  chiamati  a  intervenire  con  voto  deliberativo  nelle  suddette 
assemblee  generali. 

Art.  42.  —  I  Consiglieri  di  Stato  ordinari!  godranno  un  soldo  di  an- 
nui due.  2600.  I  Relatori  di  annui  due.  600,  e  gli  Uditori  un  soldo  di 
annui  due.  800. 

Art.  43.  —  I  Ministri  di  Stato  interverranno  con  voto  deliberativo,  e 
prendono  grado  e  posto  nel  Consiglio  di  Stato. 

Art.  44.  —  n  Re  può  presedere  il  Consiglio  di  Stato.  Egli  nomina 
il  Presidente  ordinario  del  Consiglio  medesimo,  il  quale  può  presedere  anche 
quando  lo  crede  conveniente  ciascuna  sezione  del  Consiglio. 

Art.  45.  —  Il  Consiglio  di  Stato  è  incaricato  di  redigere  dietro  gli  or- 
dini del  governo,  i  progetti  di  legge  ed  i  regolamenti  di  amministrazione 
pubblica,  e  di  risolvere  le  questioni  che  si  elevano  in  materia  di  ammi- 
nistrazione ordinaria  e  contenziosa. 

Art.  46.  —  Il  Consiglio  di  Stato  sostiene  a  nome  del  Governo  la  di- 
scussione dei  progetti  di  legge  innanzi  al  Senalo  ed  al  Corpo  legislativo. 
I  Consiglieri  che  dovranno  prendere  la  parola  a  nome  del  Governo  sono 
designati  dal  Re. 

Art.  47.  —  Uno  speciale  decreto  del  Re  stabilirà  la  ripartizione  e  at- 
tribuzione delle  Sezioni,  ed  il  servizio  interno  del  Consiglio  di  Stato. 

Disposizioni  generali. 

Art.  48.  —  Le  disposizioni  dei  Codici  delle  Dae  Sicilie  e  tutte  le 
leggi  e  decreti  pubblicati  finora,  che  non  sieno  in  contraddizione  col  pre- 
sente Statuto,  si  conserveranno  in  vigore,  fino  a  che  non  sieno  legalmente 
aboliti  0  modificati. 

*  Archivio  Filangieri. 


—  oo  — 

ragioni  di  età,  di  salute  e  di  famiglia.  Il  giorno  7  settembre, 
Francesco  II  mandò  da  lui  il  maresciallo  di  campo,  Francesco 
Ferrari,  che  gli  consegnò  una  sua  lettera  autografa,  colla  quale 
gli  si  concedeva  un  permesso  di  quaranta  giorni  e  gli  si  ordinava 
di  affidare  la  firma  della  presidenza  a  Carrascosa  e  del  ministero 
della  guerra,  al  direttore  maresciallo  di  campo,  barone  Gaetano 
Garofalo,  il  quale,  nella  sua  gioventù,  aveva  preso  parte  alla  cam- 
pagna d' Italia  nell'esercito  di  Murat  contro  gli  austriaci,  e  go- 
deva fama  di  ufficialo  intelligente.  Ecco  la  caratteristica  let- 
tera :  ' 

Fortioi,  7  settembre  lfa50. 
Caro  Principe, 

Non  posso  esprimervi  quanto  dolore  e  quanto  dispiacere  ò  provato  nel 
leggere  le  vostre  due  lettere,  in  seguito  delle  quali  non  posso,  per  debito 
di  coscienza,  astenermi  dall'autorizzarvi  di  farvi  aiutare  nella  firma  della 
voluminosa  corrispondenza  dei  due  ministeri  da  Carrascosa  e  da  Garofalo. 
Io  però  non  mi  asterrò  di  continuare  a  indirizzarmi  a  voi,  quando  mi  ne- 
cessita, per  le  varie  branche  di  servizio,  in  questi  momenti  principalmente. 

Questa  mattina  ò  visitato  il  7°  Battaglione  Cacciatori:  la  pace  regna- 
va nel  quartiere,  mangiavano  con  ilarità  l'ottimo  ordinario  ed  il  buonissi- 
mo pane. 

Ieri  vi  avrei  desiderato  con  me,  massime  ai  Granili,  ove  ttttto  in  or- 
dine ò  trovato:  il  Sommo  Iddio  presto  presto  vi  permetterà  uscire  di  casa 
per  meco  venire  a  confabulare.  Se  io  non  mi  trovassi  in  Napoli  in  tale 
giorno,  basta  farmelo  conoscere  per  qui  venire  subito. 

Il  Signore  e  la  Vergine  SS.  ma  conservino  sempre  in  perfetta  salute  il 
mio  amico  costante  Carlo  Filangieri. 

Accettate,  caro  principe,  le  parti  del  costante 

Vostro  afF.mo  Feanobsco. 

Filangieri  eseguì  gli  ordini  e  andò  ad  abitare  la  villa  De  Luca 
a  Pozzopiano,  presso  Sorrento,  ma  sulla  porta  della  camera  da 
letto  fece  apporre  un  cartello  con  le  seguenti  parole  :  questo  scritto 
inibisce  l'entrata  a  chicchesia,  perchè  prova  che  o  sono  fuori,  o 
non  voglio  vedere  nessuno.     E  di  fatti  si  rese  invisibile. 

Le  dimissioni  del  principe  di  Satriano  produssero  enorme  im- 
pressione, e  più  stupito  e  addolorato  di  tutti  ne  fu  il  Brenier,  il 
quale  aveva  assicurato  il  suo  governo  che  il  Re  di  Napoli  avrebbe 
quale  certamente  accolto  quel  progetto  di  Costituzione.  Il  14  set- 
tembre,  Brenier  si  recò  a  Pozzopiano  e  insistè  presso  Filangieri 


'  Arcbivio  Filangieri. 


-  66  — 

perchè  facesse  note  le  ragioni,  che  lo  avevano  obbligato  a  dimet- 
tersi, anche  per   scolpare   lui,   Brenier,  presso  il  suo  governo. 

In  quello  stesso  mese  giunse  a  Napoli  il  generale  Eoguet, 
inviato  da  Napoleone.  Roguet  era  figlio  del  senatore  conte  Ro- 
guet,  che  era  stato  antico  colonnello  di  Filangieri.  Brenier  lo 
condusse  a  Sorrento,  e  a  lui  e  al  Roguet  Filangieri  fini  per  fare 
intendere,  che  le  ragioni  delle  dimissioni  erano  proprio  quelle 
che  il  pubblico  riteneva,  cioè  che  il  Re,  consigliato  dal  Papa  e 
dagli  antichi  ministri  e  intimi  del  padre,  aveva  respinta  la 
proposta  di  Costituzione.  Roguet  gli  confessò  ohe  questo  si  era 
capito  molto  chiaramente,  e  che  perciò  lo  scopo  vero  della  sua 
missione  era  quello  di  indurre  il  Re  a  concedere  lo  Statuto.  B 
giorno  seguente  al  colloquio,  che  era  il  1"  ottobre,  Filangieri 
scrisse  al  Re  questa  lettera  :  "  Vidi  ieri  sera  il  conte  Roguet, . . . 
il  generale  mi  disse  essere  stato  incantato  di  V.  M.,  delle  sue 
sembianze,  delle  sue  maniere,  del  suo  contegno,  della  bella  intel- 
ligenza e  perspicacia  che  traspirano  nelle  sue  parole  ;  ma  con 
una  soggiunta  a  questi  ben  meritati  encomii  feoemi  intendere 
qual  era  nel  fondo  l'oggetto  della  sua  missione  ;  poiché  imme- 
diatamente dopo  di  quello  profieri  le  seguenti  parole  :  "  Et  si 
cet  important,  quoique  jeune  Souverain,  comprend  sa  position, 
celle  de  l'Italie  et  celle  de  l'Europe  en  general,  et  se  convain- 
cra  de  la  necessitò  de  donner  à  son  royaume  des  institutions 
monarchiques  et  constitutionelles,  oomme  celles  de  la  Franco, 
non  seulement  il  devrait  compter  sur  le  ferme  appui  de  1'  Em- 
pereur  Napoléon,  mais  quelsque  soient  les  événements,  il  joue- 
rait  le  premier  róle  en  Italie  „.  Su  di  ciò  permettendomi  d'in- 
terromperlo, replicai  :  "  Et  si  le  Roi  n'était  d'avis  de  ne  rien 
changer  aux  lois  et  aux  institutions,  qui  régissent  la  Monarchie 
des  Deux  Siciles,  que  pensez-vous  qu'  il  arriverait  ?  Ed  egli, 
senza  esitare  un  sol  momento,  risposemi  :  Je  ne  saurais  próvoir 
dans  ce  cas  que  des  malheurs  pour  votre  pays  et  pour  votre 
Souverain  „.  Il  giorno  dopo,  il  Re  gli  rispose  in  questi  termini 
precisi  :  "  Ho  letto  attentamente  la  vostra  lettera  di  ieri,  e  più 
mi  convinco  che  la  rovina  di  questo  povero  paese  è  il  pessimo 
contatto  ed  influenza  degli  stranieri  „.  *  Contemporaneamente  or- 
dinava a  Carafa  d'insistere  presso  Antonini,  perchè  facesse  nota 


Archivio  Filangieri. 


-  67  — 

al  conte  Valewski  la  ingerenza  o  inframettenza  di  Brenier  per 
la  concessione  dello  Statuto.  È  anche  da  ricordare  un'altra  let- 
tera, che  Filangieri  aveva  scritto  a  Brenier  negli  ultimi  giorni 
di  settembre,  per  far  impedire  che  Garibaldi  varcasse  la  frontiera 
napoletana,  come  in  quei  giorni  si  temeva,  e  per  cui  era  stato 
formato  il  campo  trincerato  negli  Abruzzi,  sotto  il  comando  del 
Pianell.  Brenier  gli  aveva  risposto  ohe  l'avrebbe  fatto,  ma  ag- 
giungeva :  "  Je  comprends,  que  l'on  use  de  toutes  les  précautions 
possibles  pour  repousser  une  attaque  venant  de  ce  coté  ;  qu'  on 
envoie  éventuellement  un  corps  d'armée  ;  mais  je  vous  prie,  mon 
Prince,  de  ne  pas  oublier,  que  vous  avez  entre  les  mains  le 
projectile  le  mieux  fait  pour  attaquer  Garibaldi  et  écraaer  l'in- 
fame, comme  disait  Voltaire  d'  un  tout  autre  ennemi.  Ce  projec- 
tile serait  d' un  eflfet  certain  selon  moi,  puisqu'  il  aurait  pour 
efFet  de  briser  l'arme  de  Garibaldi  la  plus  redoutable:  le  mé- 
contentement  des  populations  „. 

Filangieri  mandò  originalmente  questa  lettera  al  Re,  unen- 
dovi altra  copia  dello  Statuto  presentato  il  4  settembre,  quasi 
credesse  all'efficacia  di  un  nuovo  tentativo.  Il  Re  lo  ringraziò 
e  gli  restituì  la  copia  senza  dir  nulla  in  proposito. 

Il  16  ottobre,  il  principe  di  Satriano  riscrisse  al  Re,  insi- 
stendo nelle  dimissioni  e  il  Re  rispose,  invitandolo  a  pranzo, 
alla  Favorita.  Il  Filangieri,  mostrandosi  gratissimo,  soggiunse 
nella  risposta  : . . . .  '^  Si  degni  V.  M.  giovedì  venturo  (era  il  giorno 
fissato  al  pranzo)  di  accogliere  benignamente,  nella  mia  persona, 
il  Suo  devoto  aitaccatisaimo  aiutante  generale,  e  non  più  il  Suo 
ministro,  poiché  decisamente  la  mia  età  e  la  mia  salute  non  mi 
permettono  in  nessun  modo,  di  affrontare  nuovamente,  e  di  resi- 
stere al  lavoro  agitato  e  tormentoso,  pei  tristi  tempi  nei  quali  vi' 
viamo,  alle  angustie  ed  alle  immense  responsahilità,  inseparabili 
dalle  funzioni  ministeriali  „ .  E  il  18  ottobre^  fa  seguire  a  que- 
sta, altra  lettera  insistente,  che  si  chiudeva  cosi  :  "  Riprenda, 
Signore,  i  miei  portafogli,  e  mi  ritenga  nell'ambita  destinazione 
di  Suo  fedele  soldato  „.  * 

L' insistenza  di  Filangieri  era  effetto,  in  parte,  del  suo  ca- 
rattere vivace  e  suscettibile,  e  in  parte  delle  mutazioni  che,  ap- 
pena allontanato  lui,  si  erano  compiute  nel  ministero,  a  sua  in- 


'  Archivio  Filangieri. 


—  58  — 

saputa.  Al  mite  Casella,  nella  direzione  della  polizia,  era  stato 
sostituito  l'Ajossa,  dopo  che  si  era  obbligato  il  Casella  a  man- 
dare una  circolare  segreta  agl'intendenti,  in  data  22  giugno, 
colla  quale  s'  imponeva  loro  di  non  tener  conto  del  decreto  del 
16  giugno,  relativamente  agli  attendibili!  .... 

Era  stato  formato  intanto  al  confine  di  Abruzzo  un  campo 
militare,  sotto  il  comando  del  Pianell,  lasciandosi  credere  che 
avesse  per  iscopo  meno  di  tutelare  la  frontiera  napoletana, 
quanto  di  dar  braccio  forte  alle  truppe  pontifìcie,  qualora  fos- 
sero assalite  da  corpi  di  volontari  o  da  forze  regolari.  Que- 
sto corpo  di  osservazione  era  appoggiato  alla  fortezza  di  Civi- 
tella  ed  era  sostenuto  da  una  parte  della  squadra,  sotto  il  co- 
mando del  capitano  di  fregata  Napoleone  Scrugli,  clie  comandava 
il  Tasso.  Un  furioso  fortunale  disperse  i  pochi  bastimenti,  e  il 
Tasso  arenò  alla  foce  del  Tronto  per  imperizia,  si  disse,  del  co- 
mandante, la  quale  imperizia  fu  però  unanimemente  esclusa  dagli 
uomini  di  mare.  Di  quell'arenamento  disgraziato  lo  Scrugli,  che 
era  un  brav'  uomo,  ma  irascibile  e  di  scarsa  cultura,  fu  inconsola- 
bile per  tutta  la  vita.  Le  altre  due  navi,  la  Veloce  e  il  Fieramo- 
sca,  erano  comandate,  la  prima  da  Barone  e  la  seconda  da  Flo- 
res. Era  imbarcato  a  bordo  della  Veloce  Paolo  Cottrau,  alfiere  di 
vascello,  giovanissimo  e  vivacissimo.  Nelle  sue  lettere  alla  fa- 
miglia egli  parlava  a  lungo  di  quella  stazione  navale,  molto  noio- 
sa, descrivendo  con  mirabili  colori  la  costa  abruzzese.  Ecco  il 
brano  di  una  sua  lettera  del  9  ottobre,  da  tata  da  Giulianova: 

Questa  nostra  stazione  in  Adriatico  comincia  ad  annoiarci ,  come 
credo  avervi  detto  più  volte,  tanto  più  che  non  se  ne  vede  punto  la  fine. 
Le  coste  della  Puglia  e  quelle  degli  Abruzzi  clie  noi  percorriamo  sono  senza 
dubbio  belle  e  le  ultime  soprattutto  presentano  in  taluni  punti,  come  il 
Vasto,  Ortona  e  Giulianova,  delle  bellezze  comparabili  solo,  per  dolcezza 
di  contorni  e  splendidezza  di  luce,  a  quelle  del  nostro  caro  Cratere.  Nel 
fondo  qui  vedi  le  maestose  cime  culminanti  di  questo  gruppo  d'Appennino  : 
la  Maiella,  il  Gran  Sasso  d'Italia,  che  il  sole  indora  dei  suoi  raggi  molto 
prima  dell'umile  Marina  e  sulla  cui  cima  l'aquila  si  annida  solitaria.  Poi 
delle  vaste  pianure  con  dolce  declivio,  irrigate  da  molti  fiumi,  ubertose  e 
coperte  di  vigne,  di  case  e  di  giardini,  scendono  verso  il  mare;  ma  per  lo 
più  non  vi  giungono,  il  loro  ultimo  lembo  fermandosi  ad  una  certa  al- 
tezza in  modo  che  quasi  ti  presentano  un  alto  piano,  come  è  per  esempio 
il  Piano  di  Sorrento  o  la  Valle  Equana  ;  solo  che  qui,  al  disotto  di  questo, 
tu  vedi  un  altro  piano,  un  altro  pendio,  la  marina,  che  pare  proprio  l'an- 
tico fondo  del  mare  rimasto  a  secco. 


-  69  - 

La  formazione  di  questo  corpo  alla  frontiera,  preceduta  da 
una  dichiarazione  del  Re,  piena  di  ostentata  riverenza  al  Papa, 
ridestò  i  sospetti  del  Piemonte,  dal  quale  furono  chieste  spiega- 
zioni, e  fece  pessima  impressione  a  Parigi,  temendo  l' Imperatore 
che  quel  nerbo  di  truppe  potesse  all'occorrenza  aiutare  le  mi- 
lizie pontificie,  arruolate  fra  i  legittimisti  di  Europa  con  a  capo 
il  Lamoriciere.  Nell'interno,  la  polizia  con  Ajossa  alla  testa 
non  trovava  posa.  Filangieri  sentiva  di  non  poter  più  oltre 
tollerare  la  responsabilità,  anche  lontana,  di  tanti  errori  e  tornò 
a  insistere  nelle  dimissioni,  fino  a  che  il  31  gennaio  1860, 
con  affettuosa  lettera  scritta  anche  di  suo  pugno,  Francesco  II 
lo  esonerò  dalle  cariche  di  presidente  del  Consiglio  e  di  mini- 
stro della  guerra.  Ma  il  decreto  ufficialo  non  venne  fuori  che 
alla  metà  di  marzo,  quando  contemporaneamente  il  Re  chiamò 
a  succedergli,  nella  presidenza,  il  decrepito  principe  di  Cassaro 
e  un  altro  vecchio,  il  generale  Winspeare,  nel  ministero  della 
guerra.  Cosi  ebbe  fine  quel  curioso  periodo  di  governo,  nel 
quale  i  più  importanti  decreti  erano  sottoscritti  nella  comica 
forma  :  per  il  presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e  ministro  della 
Guerra  impedito,  il  ministro  senza  portafoglio  —  Raffaele  Car- 
rascosa. 

La  nomina  del  principe  di  Cassaro  fu  una  vera  esumazione. 
Non  aveva  aderenti  né  a  Napoli,  ne  in  Sicilia  e  gli  mancava 
ogni  autorità  di  governo.  Volle  che  al  Cumbo,  ministro  di 
Sicilia,  nominato  da  Filangieri,  fosse  sostituito  il  principe  di 
Comitini,  che  accettò,  ma  poi,  pentito  o  impaurito,  non  ne  volle 
più  sapere.  Il  Cassaro  fu  solo  in  apparenza  il  ministro  di  Sici- 
lia, mentre  in  realtà  lo  fu  il  direttore  Bracci,  devoto  al  Cassisi 
e  nemico  di  Filangieri.  Questi  passò  gran  parte  dell'inverno 
del  1860  a  Pozzuoli,  nella  villa  Avellino,  assistito  affettuosa- 
mente dalla  figlia  a  lui  prediletta,  Teresa,  la  quale,  fra  mille 
ansie,  vegliava  alla  salute  dell'unica  figliuola  inferma.  A  Poz- 
zuoli, Filangieri  trovò  modo  di  occupare  il  suo  tempo,  studiando 
problemi  idraulici  e  militari.  Né  il  Re,  ne  i  ministri  lo  richie- 
sero più  di  consiglio,  finché  non  vennero  dalla  Sicilia  le  prime 
notizie  allarmanti. 


CAPITOLO  III 


SoMUABio:  Esposizione  artistica  del  1859,  paragonata  a  qnella  del  1855  —  Pit- 
tori e  scultori  che  vi  presero  parte  —  Il  Bozzelli  critico  —  Morelli,  Mal- 
darelli,  Celentano,  Mancinelli,  Vertunni  e  Di  Bartolo  —  Il  conte  di  Sira- 
cusa e  Alfonso  Balzioo  —  Il  pensionato  di  Boma  e  l' istituto  di  belle  arti 
—  I  fratelli  Palizzi  e  la  scuola  di  Filippo  —  I  morti  e  i  superstiti  —  L'or- 
dinamento degli  scavi  d'antichità  e  del  Museo  d'archeologia  —  Giuseppe 
Fiorelli  e  i  suoi  casi  nel  1848  —  Processato,  imprigionato  e  destituito  — 
Lavora  in  un  negozio  di  asfaltista  per  campare  la  vita  —  Diviene  segre- 
tario del  conte  di  Siracusa  —  Quanto  l'Italia  gli  deve!  —  Il  prosciuga- 
mento del  Fucino  e  il  principe  Torlonia  —  Varie  vicende  dell'opera  —  La 
medaglia  di  Vittorio  Emanuele. 

Nell'estate  di  quell'anno  si  tenne  in  Napoli  un'esposizione  di 
belle  arti,  che  fu  visitata  il  3  ottobre,  dal  Re,  dalla  Regina  e  da  tutta 
la  Corte.  Erano  corsi  quattro  anni  dalla  mostra  del  1856,  inaugu- 
rata dal  Re  ai  30  di  maggio,  nelle  sale  del  museo  borbonico.  Al- 
lora i  lavori  d'arte  esposti  superarono  il  numero  di  800  e  tra 
gli  espositori  principali  ricordo  Niccola  Palizzi,  uno  dei  tre 
fratelli  di  Filippo,  Domenico  Morelli,  Alfonso  Balzico,  Federico 
Maldarelli,  Saverio  dell'Abbadessa,  il  Mancini,  il  Mancinelli,  Ber- 
nardo Celentano,  con  due  grandi  quadri.  San  Stanislao  Kostka 
infermo  a  morte,  e  Santo  Stefano  al  sepolcro,  dopo  il  martirio, 
nonché  Biagio  Molinari,  ch'espose  la  Schiavitù  degV  Israeliti  in 
Egitto.  Il  soggetto  di  questo  quadro  era  un'allegoria  alle  tristi 
condizioni  politiche  del  Regno,  suggeritagli  da  Alfonso  Casano- 
va, e  del  quale  il  Molinari  era  entrato  in  dimestichezza- per  mezzo 
del  suo  concittadino,  amico  e  protettore  Giuseppe  Antonacci, 
ch'era  cognato  del  Casanova,  e  dal  quale  fu  acquistato  il  quadro. 
Molinari  dipinse  nel  1869,  col  valoroso  Ignazio  Perricci,  gli  affre- 


—  62  — 

schi  in  Castelcapuano  e  morì  giovane,  a  quarantatre  anni,  nel 
28  maggio  1868.  Gli  amici  gli  eressero  un  monumento  nel  cam- 
posanto di  Napoli,  con  un  busto  in  marmo,  opera  di  Tommaso 
Solari.  Alfonso  Balzico,  non  ancora  trentenne,  espose  parecclii 
lavori,  e  più  apprezzato  fra  tutti,  fu  il  Noli  me  tangere^  cke  rap- 
presentava, in  proporzioni  maggiori  del  varo  Cristo  e  la  Mad- 
dalena: gruppo  molto  pregiato  e  di  cui  il  Mastriani  scrisse  un 
articolo  laudativo  nella  Rondinella,  e  raccolse  anche  dal  Re 
vivi  elogi.  Il  critico  di  quella  mostra  fu  il  Bozzelli,  il  quale, 
ritiratosi  dalla  politica,  era  presidente  della  Società  reale  borbo- 
nica, ed  abitava  il  pianterreno  del  palazzo  Latilla.  Il  Bozzelli 
intitolò  le  sue  critiche  Cenni  estetici,  ma  altro^che  estetica  e  quale 
critica  !  Chiamava  la  Santa  Vittoria  del  *  Maldarelli  quadro  lo- 
datissimo;  del  bozzetto  del  telone  di  San  Carlo  del  Mancinelli  di- 
ceva :  quest'opera  fa  onore  alla  scuola  napoletana,  ed  è  ormai 
tempo  che  si  cessi  dall' invidiare  a  noi  stessi  le  nostre  glorie]  e 
del  paesaggio  del  Mancini:  paesaggio,  con  verità  di  piani,  arric- 
chiti  di  pecore  e  di  pastori,  e  di  bella  esecuzione  per  opportuno 
colorito.     Ecco  tutta  la  critica. 

La  mostra  del  1859  riuscì  più  copiosa,  ed  ebbe  critici  forse  più 
competenti,  ma  non  meno  iperbolici.  Fra  i  dipinti  levarono  rumore 
i  Cani  da  caccia  di  Niccola  Palizzi,  e  piacquero  il  Martirio  di  San 
Trifone  di  Beniamino  d' Elia,  i  quadri  di  Ruggiero,  di  Toker,  di 
Capocci,  di  Oaldara,  di  Mancini,  di  Spanò,  di  Jovine  e  di  Postiglio- 
ne, e  i  paesaggi  di  Fiorelli,  di  Cortese,  di  Pagano,  di  Edoardo  Dal- 
bono  e  di  Achille  Vertunni.  Vi  erano  però,  fra  tutti  questi  ar- 
tisti, grandi  disparità  di  merito  :  alcuni  erano  ultimi  campioni 
dell'arte  decadente;  altri  destinati  a  rappresentare  il  progresso 
dell'arte  nuova,  come  il  Palizzi,  il  Vertunni  e  il  giovane  Dal- 
bono.  Il  Mancinelli,  padre  di  Gustavo,  fu  giustamente  conside- 
rato come  il  caposcuola  dell'ultima  falange  degli  accademici,  la 
quale  ora  si  giudica  ben  altrimenti  da  quello  che  era  giudicata 
trent'anni  fa.  Il  Mancinelli,  infatti,  ha  lasciato  di  quell'arte  do- 
cumenti importanti,  fra  i  quali  basterebbe  ricordare  il  San  Carlo 
Borromeo  che  comunica  un  appestato,  quadro  che  fu  stimato  ai 
suoi  tempi,  e  può  essere  stimato  anche  oggi,  una  forte  opera 
d'arte.  Maravigliosi,  per  purezza  di  disegno,  i  suoi  cartoni,  i 
quali,  specialmente  quello  della  Morte  di  Giacobbe,  meriterebbero 
di  essere  collocati  in  una  pubblica  pinacoteca. 


—  63  - 

Carlo  Tito  Dalbono  scrisse  nel  Nomade  varii  articoli  sulla 
mostra,  e  portando  a  cielo  il  quadro  del  Palizzi,  concluse  enfa- 
ticamente: "  Viva  te  e  i  tuoi  cani;  essi  ti  faranno  miglior  com- 
pagnia di  certi  ttomini  d^oggi! „.  I  premiati  non  furono  molti. 
Al  conte  di  Siracusa,  che  aveva  esposte  cinque  statue  di  varie 
dimensioni,  e  fra  esse  il  Gladiatore  ferito,  molto  lodato,  venne  ag- 
giudicata una  medaglia  d'oro  stragrande.  Medaglia  d'oro  ebbe 
il  Yertunni;  medaglie  d'argento,  il  catanese  Francesco  di  Bartolo, 
che  già  si  affermava  incisore  di  gran  talento,  Euriso  Capocci  ed 
Eduardo  Dalbono.  Onorevole  menzione  ebbe  Domenico  Morelli, 
non  ricordo  se  per  ^'Iconoclasti  o  per  i  Martiri  cristiani.  La 
medaglia  d'oro  aggiudicata  al  Vertunni  riscosse  il  plauso  ge- 
nerale, perchè  tutti  ricordavano  questo  giovane  elegante,  che 
ad  un  tratto  aveva  volte  le  spalle  ai  codici,  era  andato  a  Roma, 
vi  aveva  aperto  studio  e  in  pochi  anni  si  era  affermato  pittore 
insuperabile  della  campagna  romana.  Albe,  tramonti,  stagni 
con  bufali,  acquedotti  mozzi,  bestiame  brado,  Ostia,  Porto  d'An- 
zio e  Astura:  ecco  i  soggetti  dei  suoi  quadri.  Capocci,  Cortese, 
Raffaele  Tancredi,  Fiorelli  e  Mancini  facevano  con  onore  le 
prime  armi  in  arte.  Fiorelli,  fratello  dell'archeologo,  morì  gio- 
vanissimo; gli  altri  son  venuti  in  gloriosa  fama. 

Napoli  aveva,  al  pari  di  altri  Stati,  un  pensionato  in  Roma, 
dove  mandava  a  perfezionarsi  i  più  valorosi  fra  i  suoi  giovani 
artisti.  Il  pensionato  aveva  sede  all'  ultimo  piano  della  Farne- 
sina, proprietà  del  Re.  Lo  dirigeva  il  commendatore  Filippo 
Marsigli,  noto  autore  della  Morte  di  Marco  Bozzari  e  della 
Morie  del  conte  Ugolino,  e  monsignor  Santelli  n'era  l' ispettore  ec- 
clesiastico. Il  pensionato  durava  sei  anni.  Gli  ultimi  artisti, 
mandati  da  Ferdinando  II  in  Roma,  furono  Raffaele  Postiglione 
ed  Angelo  Scetto,  pittori  ;  Antonio  Cipolla  e  Pasquale  Veneri, 
architetti  e  Tommaso  Solari,  scultore,  i  quali  tornarono  in  Na- 
poli alla  fine  del  1847. 

I  moti  del  1848  consigliarono  Ferdinando  II  a  non  inviar 
più  giovani  artisti  a  Roma,  e  cosi  continuarono  a  bandirsi  i  con- 
corsi per  pensioni  in  Roma,  ma  con  la  residenza  in  Napoli.  Sem- 
bra un  bisticcio,  ejìpure  dal  1848  al  1860  continuarono  a  con- 
cedersi borse  di  perfezionamento  ad  artisti  per  il  pensionato  di 
Roma,  ma  con  l'obbligo  di  stare  a  Napoli    o  di  andare  per  qual- 


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che  tempo  a  Firenze.  I  giovani  del  pensionato  di  Eoma  rinsci- 
vano  quasi  tutti  professori  nell'  istituto  di  belle  arti,  diretto  da 
Pietro  Valente,  assistito  da  due  ispettori  ecolesiastioi,  don  Gen- 
naro Sommella  e  don  Michele  Yalvo.  V  insegnavano  il  Manci- 
nelli,  l'Aloysio  Juvara,  Cammillo  Guerra,  Luigi  Arnaud,  Raffaele 
Postiglione  e  Gennaro  Ruo.  I  primi  artisti,  che  alla  fine  del 
1848  vinsero  i  concorsi  per  studiare  a  Eoma,  ma  viceversa  stu- 
diarono a  Napoli  e  a  Firenze,  furono  Saverio  Altamura  e  Do- 
menico Morelli  per  la  pittura  ;  Antonio  Sorbilli  ed  Alfonso  Bal- 
zico,  per  la  scultura  ;  Giustino  Fiocca  e  Giuseppe  Sorgente,  per 
l'architettura.  Niccola  Palizzi,  fratello  di  Giuseppe  e  di  Filippo, 
ottenne  nello  stesso  anno  la  nuova  pensione,  istituita  per  lo  stu- 
dio del  paesaggio.  Egli  mori  nel  fiore  della  vita,  paesista  vigo- 
roso, più  per  intuito  che  per  studio,  restando  però  inferiore  ai  suoi 
fratelli  Giuseppe  e  Filippo,  ohe  l'uno  in  Francia,  l'altro  in  Italia, 
pervennero  ad  alta  fama.  Un  quarto  fratello,  Francesco  Paolo, 
andato  anche  lui  a  Parigi,  ove  dipingeva  con  successo  la  Natu- 
ra morta,  mori  giovanissimo.  I  fratelli  Palizzi  erano  di  Vasto, 
e  Filippo,  meritamente  considerato  un  maestro  caposcuola  della 
nuova  maniera  della  pittura,  ispirata  dal  vero,  fu  un  maravi- 
glioso  interprete  della  natura  vivente,  soprattutto  per  gli  ani- 
mali e  specie  per  gli  asini,  i  quali  grazia  a  lui,  furono  accolti 
nei  più  eleganti  salotti  di  Europa  e  di  America.  Egli  ap- 
parteneva alla  scuola  detta  di  Posillipo,  la  quale  lavorava 
all'aria  aperta,  al  cospetto  della  grande  natura,  mentre  nell'Ac- 
cademia si  studiava  il  pezzo,  a  luce  voluta.  Ebbe  lo  studio  al 
vico  Freddo,  ora  strada  Poerio  ;  poi  al  vico  Cupa  alla  Itiviera, 
prima  che  passasse  in  uno  dei  due  studii,  che  Giovanni  "Won- 
viller,  mecenate  dell'arte  napoletana  di  quel  tempo,  fece  per 
lui  e  pel  Morelli  costruire  a  bella  posta  nel  suo  palazzo,  in 
via  Pace.  Lo  studio,  che  Filippo  Palizzi  aveva  al  vico  Cupa, 
rimpetto  all'antico  gazometro,  era  modestissimo,  ma  fu  là  che 
egli  visse  gli  anni  più  belli  della  sua  vita  artistica.  In  quel 
tempo  i  forestieri  convenivano  numerosi  a  Napoli  e  vi  si  fer- 
mavano per  lungo  tempo  :  tutti  visitavano  quel  piccolo  tempio 
dell'arte,  in  quella  sudicia  via.  Il  Palizzi  vi  dimorava  quasi 
solitario,  chiuso  nella  durezza  e  nella  taciturnità  del  suo  carat- 
tere ;  vi  si  raccoglieva  dopo  le  sue  campagne  artistiche,  che  d'ordi- 
nario faceva  a  Cava  dei  Tirreni  ;  e    là,  riuniti    i  suoi  bozzetti, 


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componeva  quadri  che  i  forestieri  compravano  a  prezzi  rilevanti 
per  quei  tempi,  ma  che  ora  farebbero  ridere,  tanto  modesti  erano 
rispetto  a  quelli  di  oggi.  Aveva  inoltre  una  piccola  famiglia  di 
animali  vivi,  che  erano  i  suoi  modelli  e  i  suoi  migliori  amici, 
come  diceva  lui.  Filippo  Palizzi  è  morto  di  recente  a  ottan- 
tun'anni  compiuti,  e  l'ultimo  suo  lavoro  fu  un  quadro  per  la 
chiesa  di  San  Pietro  di  Vasto,  sotto  il  quale  scrisse,  dopo  averlo 
compiuto,  queste  parole  : 

"  Oggi  16  giugno  1898  compio  anni  80,  e  sto  lavorando  in 
"  questo  quadro  JEcce  Agnus  Dei,  promesso  in  dono  alla  Chiesa 
"  di  San  Pietro  del  mio  paese  nativo,  Yasto.  Questa  tela  io 
"  eseguo  con  gran  trasporto,  e  spero  portarla  a  termine  felice- 
"  mente.  Mi  auguro  che  i  miei  concittadini  l' accetteranno  di 
"  buon  grado  e  vorranno  conservarla  in  memoria  dell'  affetto 
"  grande  del  loro  concittadino  Filippo  Palizzi  „.  Ma  fu  in  quegli 
anni  tra  il  1857  e  il  1859,  quando  esegui  il  bellissimo  ritratto 
del  fratello  Giuseppe,  ora  conservato  nel  museo  Filangieri,  e  i 
due  quadri  per  la  sala  da  bigliardo  di  Andrea  Colonna,  che  il  Pa- 
lizzi raggiunse  l'apice  della  sua  rinomanza. 

La  scuola,  alla  quale  il  Palizzi  appartenne,  fu  la  ripercussione 
del  movimento  rivoluzionario  dell'arte,  iniziato  in  Francia  dalla 
scuola  detta  del  1830,  ed  ebbe,  in  Napoli,  campioni  non  trascu- 
rabili, come  il  Duclaire,  il  Pitloo,  i  Carelli,  ma  soprattutti  Gia- 
cinto Gigante,  che  può  considerarsene  l' iniziatore,  essendo  stato 
precursore  dello  stesso  Palizzi.  Gli  acquarelli  del  Gigante  sono 
lavori  da  resistere  al  più  severo  esame  critico.  Disgraziatamente 
poco  si  conserva  di  lui,  ma  basta  citare  l'interno  della  cappella 
del  tesoro  del  duomo  di  Napoli,  quadro  bellissimo  che  si  ammira 
nella  pinacoteca  di  Capodimonte. 

Morto  giovane,  Giustino  Fiocca  lasciò  fama  di  se  in  opere 
idrauliche,  in  ponti  e  strade.  Domenico  Morelli,  che  trovavasi 
il  16  maggio  al  palazzo  Lieto  e  fu  ferito  alla  faccia,  lavorò  con 
tenace  fede  ed  acquistò  grande  celebrità.  Derivato  anche  lui 
dalla  nuova  scuola,  se  ne  fece* maestro,  poiché  ai  principii  na- 
turalistici dell'arte  nuova  aggiunse  un  alto  sentimento  di  poesia, 
il  quale  rivela  l'artista  assai  più  del  pittore.  La  sua  indole  fan- 
tastica egli  la  esprimeva  non  solo  nell'arte  del  dipingere,  ma  an- 
che, vorrei  dire,  nel  dipingere  l'arte.     Il  suo  aspetto,  la  sua  ma- 

Db  Cesare.  La  fine  di  un  Regno  -  Voi.  II.  5 


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niera   di  vestire,   la  sua  voce,  il  lampo  dei  suoi  profondi  occhi 
neri,   un   senso  di   mistero,  clie    egli   dava   alle   sue  parole,   fa- 
cevano   di   lui   una    specie   di   mago:   qualità   tutte,  delle  quali 
egli   possedeva  piena   coscienza  e    di   cui    si   serviva   abilmente 
per  trasfondere   il   suo   pensiero    in   quello  dei    giovani.     Viag- 
giando   molto    in  Italia ,    e   rappresentando   egli    quella    scuola 
che  da  Napoli   traeva   origine,  diffuse   fra  i   giovani  artisti  ita- 
liani di  quel   tempo   il   nuovo   verbo,    ond'è    che   presto   la  sua 
fama  divenne   più  italiana   che   napoletana.     Fu  nello  studio  al 
palazzo    Wonviller,  che    compi    le    opere    più    belle    della    sua 
seconda    maniera,  come  la    Madonna  del    barone    Compagna,    il 
Tasso  dello  stesso  Wonviller,  la  Odalisca  del  Maglione  ed  altre. 
Oggi,  da  tutti  riverito  e  stimato,  è  senatore  del  Regno.     Balzico 
vive  a  E-oma  e  porta  allegramente  il  peso  degli  anni  e  del  de- 
naro che  ha  accumulato  col  lavoro.     A  Torino,  a  Roma  e  a  Na- 
poli vi  son  traccio  luminose  del  suo  scalpello.  Saverio  Altamura, 
il  forte  autore  del  Trionfo  di  MariOj  acquistò  alto  nome  in  arte, 
dipingendo    i  soggetti  più  opposti  con  la  stessa  vigorìa  di  senti- 
mento e  di  colorito.     Le  esequie  di  Buondelmonte,  il  Ritratto  di 
Carlo  Troja,  che  è  alla  pinacoteca  di  Firenze,  sono  antiche  sue 
opere,  che  destano  anche  oggi  viva  ammirazione.     Bel  giovane 
ai  suoi  tempi,  fu  assai  fortunato  con  le  donne,  anche  in  età  ma- 
tura.    Figurò  tra  i  più  ardenti  nel  1848,  e  quando  venne  la  rea- 
zione, il  conte  di  Aquila  lo  fece  fuggire  e  stette  in  esilio  alcuni 
anni.     E  morto  vecchio,  povero  e  assai  rimpianto.     Foggia,  sua 
città  natale,  gli  ha  decretato  un  monumento.     Achille  Vertunni 
mori  a  E-oma,  dopo  lunga  infermità,  due  anni  or  sono,  e  di  quel 
suo  magnifico  studio  in  via  Margutta,    già  ritrovo  di  tutta  una 
società  artistica  cosmopolita,  non  rimane  più  nulla.     Grande  ar- 
tista e  gran  signore,  guadagnò  quanto  volle  e  tutto  spese.     Fatto 
segno  al  rispetto  e  all'amore  dei  suoi  concittadini  e  di  quanti  ama- 
no l'arte,  vive  a  Catania  il  mio  carissimo  Francesco  di  Bartolo. 

La  singolare  topografìa  antica  del  Regno  e  le  tradizioni  di 
dotti  studii  archeologici,  impiantatevi  dal  capuano  Mazzocchi, 
erano  condizioni  assai  favorevoli  ad  assicurare  sviluppo  pieno  e 
completo  degli  studii .  antiquarii  nel  Napoletano.  Ma  invece  un 
ordinamento  legislativo  solo  formale,  le  pastoie  imposte  ad  ogni 
ramo  di  cultura  e  quel   senso  di  decrepitezza,  che  investiva  gli 


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organi  tutti  del  governo  borbonico,  produssero  il  loro  effetto  le- 
targico anche  in  questa  parte  della  cultura  nazionale,  nel  Museo 
borbonico,  come  sugli  scavi  di  Pompei  e  sulle  stesse  pubbli- 
cazioni archeologiche. 

La  tutela  sulle  antichità  era  regolata  da  due  decreti  de'  13 
«  14  maggio  1822.  Severissime  prescrizioni  colpivano  gli  espor- 
tatori e  coloro,  che  in  qualsiasi  modo  si  attentavano  a  modificare 
lo  stato  dei  monumenti  antichi,  né  era  lecito  procedere  a  scavi 
-di  sorta,  senza  permessi  e  lunghi  piati.  Siffatti  rigori,  impron- 
tati dal  famoso  editto  Pacca  di  Roma,  naufragarono  innanzi  alle 
abitudini  partenopee  ed  alla  corruttela  politica  delle  supreme 
autorità,  e  si  risolvevano  o  in  abusi  contro  determinate  per- 
sone, o  in  eccezioni  e  favoritismi  in  prò  di  altre.  Divenne  fa- 
moso un  ministro,  che  si  formò  una  cospicua  collezione  di  anti- 
chità col  prodotto  degli  scavi.  Per  agevolare  queste  turpitudini 
e  sfuggire  a  siffatti  rigori,  si  contaminava  il  patrimonio  della 
scienza  con  false  indicazioni.  Si  attribuivano  al  Lazio  oggetti 
ritrovati  nella  Puglia,  all'Etruria  altri  di  Campania,  e  scavi  operati 
venti  0  trent'anni  innanzi,  si  gabellavano  per  ritro^^amenti  recen- 
tissimi. Cosi  la  ricostruzione  del  complesso  delle  singole  scoperte 
divenne,  per  la  scienza,  diflficilissima,  se  non  impossibile.  E  in- 
calcolabile il  danno  arrecatole  dall'avidità  del  Santangelo,  che 
perturbò  gravemente  gli  effetti  della  legge,  nonché  l'azione  della 
commissione  suprema  di  antichità  e  belle  arti.  Questo  Istituto, 
che  rimontava  a'  tempi  di  Murat,  si  trasformò,  solo  per  un  decreto 
del  7  dicembre  1856,  in  Sopraintendenza  degli  scavi  e  del  Mu- 
seo. Aveva  attribuzioni  scientifiche  ed  amministrative,  ma  più 
di  nome  che  di  fatto. 

Il  più  deplorevole  disordine  regnava  nelle  ricche  collezioni 
del  Museo,  a  buon  diritto  noverato  tra'  primi  di  Europa,  per 
l' importanza  e  il  numero  immenso  delle  opere  d'arte  raccoltevi. 
Ammassate  e  chiuse  nei  magazzini  giacevano  le  antiche  pitture 
murali  di  Pompei.  La  raccolta  epigrafica,  disposta  ancora  se- 
condo le  classi  dello  Smezio  e  del  Pauvinio,  ristabilita  nel  1823 
dall'abate  Guarini,  si  era  quasi  duplicata  ;  ma  le  lapidi  soprag- 
giunte rimanevano  confuse  con  le  precedenti  o  disseminate  per 
l'androne  e  pe'  giardini  del  Museo  ;  i  frammenti  di  uno  stesso 
marmo  deposti  in  luoghi  diversi;  i  titoli  falsi  o  sospetti  accop- 
piati ai  genuini  ;  uniti  a'  marmi  antichissimi  quelli  delle  età  più 


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recenti  ;  di  ordinamento  geografico  in  codeste  iscrizioni  neppure 
l'inizio.  E  dire  die  il  Mommsen  avea  pubblicato  il  Corpus 
delle  iscrizioni  antiche  del  Napoletano,  disposte  geograficamente^ 
sin  dal  1852!  Più  strana  vicenda  ebbe  nel  Museo  una  certa 
raccolta  cbe  chiamarono,  ed  in  parte  era,  pornografica,  che  fu  or- 
dinata nel  1819,  da  Francesco  I,  allora  duca  di  Calabria,  nel  fine 
di  chiudere  in  una  stanza  gli  oggetti  osceni  o  tenuti  per  tali, 
e  renderli  più  o  meno  visibili,  con  uno  speciale  permesso  del 
Re,  sino  al  1849.  Ma  nel  1852,  trasportati  tutti  quegli  oggetti 
in  un  antro,  ne  fu  murata  la  porta,  "  perchè  si  distruggesse  qua- 
lunque esterno  indizio  della  funesta  esistenza  di  quel  gabinetto, 
e  se  ne  disperdesse  per  quanto  era  possibile  la  memoria  „.  Quat- 
tro anni  appresso,  si  tolsero  poi  dalla  pinacoteca  e  si  chiusero 
in  luogo  umido  ed  oscuro  trentadue  quadri  e  ventidue  statue  di 
marmo,  perchè,  si  disse,  corrompitrici  della  morale!  Yi  erano 
tra'  primi  la  Danae  del  Tiziano,  la  Venere  che  piange  Adone  di 
Paolo  Veronese,  il  Cartone  di  Michelangelo  con  Venere  ed  Amore, 
le  Virtù  di  Annibale  Caracci  e,  tra  le  seconde,  la  Nereide  sul 
^istrice,  che  sarebbe  stata  distrutta,  "  se  lo  scultore  Antonio  Cali 
si  fosse  ricusato  più  volte  ad  occultare,  con  restauri  di  marmo, 
le  nudità  della  figura  „ .  L' istessa  raccolta  delle  statue  di  bron- 
zo, tesoro  speciale  del  Museo  di  Napoli,  era  divisa  tra  grandi  e 
piccole,  ne'  corridoi  o  tra  gli  utensili  di  bronzi  :  il  palmo  o  la 
mezza  canna  era  stato  l'unico  criterio  scientifico  che  avea  presie- 
duto al  loro  ordinamento  ;  non  si  era  neppur  pensato  al  canone 
fondamentale  per  la  storia  dell'arte,  che  la  materiale  vicinanza 
di  ogni  opera  di  scultura  servisse  allo  studio  dello  sviluppo  sto- 
rico della  plastica  !  Dei  papiri  della  biblioteca  Ercolanese  rima- 
nevano non  svolti  e  non  disegnati,  epperò  inediti,  quasi  1270 
dei  1763,  che  costituiscono  i  preziosi  avanzi  della  biblioteca  greca 
e  latina  rinvenuta  in  Ercolano  nel  1752. 

Non  ebbero  miglior  sorte  gli  scavi  di  Pompei.  Per  un  vizio 
di  origine,  che  rimontava  ai  primi  scavi  tentati  nel  secolo  pas- 
sato, questi  erano  stati  diretti  meno  a  restituire  alla  luce  l'an- 
tica, bellicosa  ed  opulenta  città  dei  Sanniti,  e  a  palesare  alla 
scienza  la  vita  tutta  loro  e  dei  Romani,  che  a  rinvenire  una 
maggior  copia  di  oggetti  antichi.  Tale  era  stato  lo  scopo  dello 
prime  ricerche  a'  tempi  di  Carlo  III,  tale  si  mantenne  negli  ul- 


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timi  anni  della  Monarchia.  Si  scavava  a  solo  scopo  di  avidità. 
Pompei  era  un  campo,  un  tesoro  da  sfruttare:  lo  cliiamavano, 
come  Caserta,  un  real  sito.  Quando  uno  scavo  cominciato  si 
credeva  poco  fruttuoso,  lo  si  abbandonava  presto.  Cosi  molti 
«difìzii  rimanevano  in  parte  inesplorati,  altri  nuovamente  ingom- 
bri, se  non  ricoperti,  da  monticelli  di  pomici  e  di  ceneri,  per 
gli  scavi  adiacenti.  Una  specie  di  tela  di  Penelope.  Si  lavo- 
rava senza  scopo  scientifico  e  senza  alcuna  scientifica  serietà. 
Pompei  era  divenuto  un  luogo  di  ricbiamo  dei  forestieri  a  Na- 
poli, un  luogo  da  soddisfare  soprattutto  la  curiosità  de'  regnanti  e 
de'  principi,  che  vi  capitavano,  e  da  fornire  uno  svago  per  la  Cor- 
te istessa.  Gli  scavi  operati  dal  1855  al  1860  furono  misera  cosa. 
In  media  non  lavoravano  più  di  venticinque  operai  al  giorno, 
adibiti,  s'intende,  anche  alla  ordinaria  manutenzione,  cosi  che  ben 
pochi  ne  rimanevano  per  i  nuovi  scavi.  Questi,  negli  anni  di 
cui  parlo,  si  limitarono  ad  aprire  la  via  detta  di  Oleonio,  che,  dalla 
Stdbiana  va  ad  incontrare  l'altra  àeW Abbondanza.  Lungo  e  fa- 
ticoso fu  il  lavoro  al  disterro  del  peristilio  delle  nuove  Terme, 
e  del  sotterraneo  del  tempio  della  Fortuna.  La  casa  più  im- 
portante, che  venne  in  luce  in  questo  tempo,  fu  quella  della 
famiglia  Popidia,  detta  volgarmente  del  Citarista,  edifizio  che 
levò  gran  rumore  presso  gli  archeologi,  come  fra'  dilettanti, 
per  la  magnificenza  signorile,  per  il  grandioso  viridario,  cinto  da 
portico  di  diciotto  colonne,  per  gì'  insigni  dipinti  che  fregiavano 
le  mura  dell'esedra,  e  che  ora  sono  tra'  più  celebri  del  museo  di 
Napoli.  Non  capitava  forestiero,  al  quale  le  guide  non  additassero 
V Arianna  addormentata,  cui  si  approssima  Bacco,  e  l'Oreste  e  Pi- 
lade  innanzi  a  Toante,  col  ratto  dell'idolo  di  Diana,  che  Ifigenia 
tenta  :  opere  ritrovate  tutte  nella  casa  del  Citarista. 

La  Corte  si  recava  normalmente  una  o  due  volte  all'anno 
agli  scavi  pompeiani.  Frequenti  occasioni  si  dettero  a  tali  gi- 
te, specialmente  durante  l'anno  1855.  Vi  andò  col  duca  e  la 
duchessa  di  Brabante  ai  18  giugno  ;  pochi  di  appresso,  il  6 
di  luglio,  col  Re  di  Portogallo  ed  il  duca  di  Oporto,  che  fu  poi 
il  genero  di  Re  Vittorio  Emanuele  ;  nell'agosto  coll'arciduca  Mas- 
similiano d'Austria;  il  Re,  la  Regina  ed  i  principi  reali  vi  ri- 
tornarono il  27  settembre,  e  di  nuovo  la  Regina  con  gli  arcidu- 
chi d'Austria,  a'  9  di  novembre.  Ma  di  tutta  la  Casa  reale  il  solo 
vero  appassionato  visitatore  di  Pompei  era  don  Leopoldo,  conte 


-To- 
di Siracusa.  Egli  vi  andava  con  la  sua  nota  coterie  elegante, 
e  col  Fiorelli,  che  n'era  il  segretario  e  la  magna  pars,  e  nel 
biennio  1855-56  vi  tornò  non  meno  di  quattro  volte.  Nei  due 
anni  seguenti  le  gite  della  Corte  e  de'  principi  esteri  si  fecero 
più  rade;  durante  il  1857  vi  andarono  il  Re  di  Baviera,  il  prin- 
cipe d'Orange  e  quelli  di  Joinville;  a'  18  settembre  vi  tornò 
sempre  con  la  famiglia  reale  Ferdinando  II,  e  questa  fu  per  lui 
l'ultima  gita  alla  monumentale  necropoli.  Sul  finire  del  1858 
vi  si  recarono  i  ducbi  di  Modena  ed  il  principe  Alberto  di  Prus- 
sia. E  mentre  la  Corte  stava  a  Bari  per  la  malattia  del  Re, 
tornarono  a  Pompei  gli  arciduchi  di  Austria.  L'ultimo  principe 
di  casa  Borbone  che  la  rivide,  fu  il  conte  di  Siracusa  nel  giorno 
19  settembre  1859,  e  lungamente  si  fermò  quella  mattina  nella 
casa  del  Citarista. 

Durante  l'anno  1860  i  lavori  a  Pompei  tacquero  affatto.  Si 
trasandarono  persino  le  riparazioni  ordinarie.  Solo  a'  20  di  di- 
cembre, fra  insolita  attività  di  centinaia  di  operai,  in  prossimità 
del  tempietto  d' Iside  e  delle  nuove  terme,  ricominciarono  le 
nuove  ricerche,  quelle  che  assicurarono  le  sorti  avvenire  della 
storica  necropoli,  che  acquisirono  alla  scienza  non  dimenticabili 
scoperte  e  dettero   fama   europea  a  Giuseppe  Fiorelli. 

Sopraintendente  degli  scavi  di  Pompei  e  del  Museo  di  Napoli 
sin  dal  1851  era  Domenico  Spinelli,  principe  di  San  Giorgio. 
L'avo  suo  era  stato  vittima  dei  sanfedisti  nel  novantanove.  Nel 
mondo  ufficiale  passava  per  uomo  dotto  in  numismatica,  ma  nella 
società  si  susurrava  che  la  nota  opera  apparsa  sotto  il  suo  nome 
intomo  alle  monete  cufiche  non  fosse  tutta  farina  del  suo  sacco. 
Attorno  allo  Spinelli  vi  erano  don  Bernardo  Quaranta,  Giam- 
battista Finati  e  Stanislao  d'Aloe.  Dell'amministrazione  del 
Museo  facevano  anche  parte  Fausto  e  Felice  Niccolini,  che  pub- 
blicarono una  grande  opera  su  Pompei,  splendida  più  per  lusso 
di  carta  e  di  disegni,  che  per  valore  archeologico.  Né  bisogna 
dimenticare  don  Giulio  Minervini,  finito  anche  male.  Dirigeva 
gli  scavi  pompeiani  l'architetto  Genovese,  capo  locale  del  per- 
sonale era  don  Raffaele  Campanelli,  e  soprastante  capo  don  An- 
tonio Imparato.  A  guardare  la  necropoli  avevano  messo  i  Ve- 
terani; libero  ne  era  l'ingresso;  ma  il  più  gran  disordine  re- 
gnava nel  personale,  e  i  visitatori  soggiacevano  a  richieste  pe- 
tulanti e  indecorose  di  mancia  continue. 


-  71  — 

Vi  era  altresì,  prima  del  1848,  un  altro  ispettore  agli  scavi 
di  Pompei.  Un  giovinetto,  figlio  di  vecchio  e  prode  soldato 
di  artiglieria,  mandava  nel  1841  da  Napoli  alcune  sue  osser- 
vazioni numismatiche  all'Istituto  tedesco  di  archeologia  di  Ro- 
ma. Il  suo  scritto,  sobrio  ed  acuto,  rivelò  un  vivido  intelletto, 
precocemente  erudito  e  fu  accolto  benevolmente  e  presto  inse- 
rito nel  BuUettino  già  famoso  dell'Istituto.  Cinque  anni  dopo 
quel  giovane ,  ventitreenne  appena ,  essendo  nato  agli  8  di 
giugno  1823,  tanto  era  salito  in  alto  nella  estimazione  dei  suoi 
colleghi,  che  fu  eletto  vicepresidente  della  sezione  di  archeolo- 
gia nel  settimo  Congresso  degli  scienziati.  Subito  dopo  lo  nomi- 
narono, per  merito,  ispettore  degli  scavi  di  Pompei.  Quel  gio- 
vane, benché  di  famiglia  lucerina,  come  Ruggiero  Bonghi,  era 
nato  a  Napoli  e  si  chiamava  Giuseppe  Fiorelli,  e  di  lui  questo  li- 
bro ha  già  fatto  più  volte  menzione.  Gli  avvenimenti  del  1848 
lo  trovarono  ricco  di  ingegno,  di  entusiasmo,  di  fede  negli  studii 
e  nelle  sorti  della  patria.  Fu  de'  più  operosi  liberali,  e  ira' 
custodi  di  Pompei  formò  una  compagnia  di  artiglieri,  in  servizio 
della  patria  e  delle  libere  istituzioni.  Procurati  due  cannoni, 
offri  l'opera  sua  e  de'  custodi  pompeiani  al  sottointendente  di  Ca- 
stellamare,  per  la  guardia  nazionale  del  distretto.  Ecco  la  ca- 
ratteristica ed  enfatica  lettera,  ch'egli  scrisse  allora,  e  che  venne 
stampata  nel  Tempo  del  10  marzo  : 

I  custodi  delle  rovine  di  Pompei,  usati  a  vivere  taciturni  tra  gli 
squallidi  avanzi  di  un  popolo,  che  da  18  secoli  è  scomparso  dalla  terra, 
hanno  ivi  giurata  fedeltà  al  Re  ed  alla  Costituzione,  con  un  grido  che 
rimbombando  fra  queste  solitudini,  troverà  certamente  un'eco  nel  cuore 
di  tutti  gl'Italiani,  della  cui  antica  gloria,  potere  ed  indipendenza  qui  go- 
losamente conserviamo  molte  sacre  reliquie.  Da  questo  giorno  noi  cre- 
diamo avere  un  obbligo  di  più  verso  la  patria  nostra,  quello  cioè  di  essere 
pronti,  come  ogni  altro  cittadino,  alla  difesa  delle  provvide  istituzioni  testé 
donate  all'  Italia  dalla  sapienza  dei  suoi  reggitori,  e  benedette  dal  Sommo 
Pontefice,  che  iu  nome  di  Dio  richiamò  su  queste  acque,  gloriose  di  bellici 
trionfi,  su  queste  terre,  tomba  di  barbari  aggressori,  su  queste  Alpi,  indo- 
mabili e  fiere  dell'  innata  libertà,  quella  grazia  celeste,  onde  si  abbellirono 
queste  italiche  contrade,  già  potenti  e  temute  da  tutti  i  popoli  del  mondo. 

Pertanto  il  luogo  di  nostra  dimora,  e  la  custodia  dei  monumenti  a 
noi  affidati,  ne  vietano  di  poterci  riunire  sotto  le  insegne  della  guardia 
nazionale,  che  per  opera  vostra,  o  signore,  va  bellamente  ordinandosi  in 
questo  distretto,  di  tal  che  saremmo  forzati  a  non  poter  dividere  con  tanti 
generosi  fratelli  l'onorevole  carico  d'impugnare  un'arma  per  la  difesa  di 
questa  patria,  amata  da  noi  più  d'ogni  cosa  mortale.  Epperò  abituati  a 
trattare  i  forti  istrumenti  delle  opero  di  terra  e  di  costruzioni,  abbiamo  di- 


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visato  dedicarci  al  maneggio  delle  artiglierie  nazionali,  a  cui  molti  citta- 
dini non  potrebbero  addirsi  per  la  grave  fatica  ed  il  lungo  e  continuato 
esercizio  di  che  abbisognano  le  manovre  de'  cannoni.  Questo  voto  di  un 
pugno  di  uomini,  lontani  dalla  società,  è  sagro  ;  ed  io  interprete  dei  sen- 
timenti di  tutti  lo  presento  a  Voi,  onde  ne  facciate  consapevole  il  Mini- 
stero dell'Interno,  da  cui  dipendono  le  forze  armate  dei  cittadini. 

Da  questo  giorno  tutte  le  opere  superanti  ai  doveri  del  nostro  im- 
piego saranno  dedicate  ad  approvare  gli  usi  e  le  pratiche  dalla  vita  di  un 
artigliere,  a  me  non  nuove,  perchè,  nato  di  vecchio  e  prode  soldato  di  ar- 
tiglieria, ed  a  molti  de'  compagni  note  pe'  racconti  de'  padri  loro,  i  quali 
custodi  di  queste  rovine  ne'  difficili  tempi  del  1799,  tutti  corsero  all'armata 
ad  ingrossare  le  file  degli  artiglieri  e  de'  zappatori. 

Cittadino,  la  nostra  volontà  è  decisa;  tra  poco  20  uomini  potranno 
caricare  due  cannoni  e  puntare  alla  distruzione  dei  nemici  della  patria. 
Noi  non  attendiamo  che  un  vostro  appello,  il  quale  ne  indichi  essere  ac- 
cetta alla  guardia  nazionale  del  Distretto  l'opera  nostra,  e  le  non  lievi  fa- 
tiche che  dovremmo  durare;  e  fidate  poi  nella  purezza  delle  nostre  inten- 
zioni, concepite  qui  dinanzi  alle  mura  di  una  città  osca,  che  non  mai  fu 
vinta  dalla  guerra  sociale  ;  nella  fermezza  de'  nostri  proponimenti,  giurata 
per  l'ombra  di  quel  soldato,  che  lasciato  a  custodire  la  porta  Erculanea 
di  questa  città,  trovammo  morto  al  suo  posto,  mettendo  innanzi  alla  vita 
l'onore  ;  nell'ardore  de'  nostri  affetti,  comechè  tutti  nati  d'appresso  a  que- 
sto Vesuvio  non  è  guari  rimugghiante  di  spaventevoli  tuoni  di  libertà. 

Il  primo  squillo  di  tromba  cittadina  che  ne  invita  a  pugnare  all'om- 
bra del  vessillo  tricolore  dell'  italico  risorgimento,  troverà  noi  desti  e  pronti 
a  seguire  i  reggimenti  della  guardia  nazionale  del  distretto  ;  il  lampo  de' 
cannoni  costituzionali  ridurrà  cenere  il  malvagio  nemico  della  italiana 
redenzione,  come  la  folgore  del  cielo,  dove  la  stella  Ausonia  ritorna  a  sfa- 
villare, di  fulgidissima  luce,  quale  nelle  notti  più  serene  dei  secoli  che 
furono. 

Pompei,  4  marzo  184S 

L'Ispettore  degli  scavi  di  Pompei 
Giuseppe  Fiorblli. 

Come  si  può  immaginare,  cominciata  la  reazione,  non  tarda- 
rono le  accuse  politiclie  a  colpire  il  Fiorelli.  Il  ministro  Lon- 
gobardi nel  4  novembre  1848,  su  denuncio  ricevute,  invitò  la  po- 
lizia del  distretto  di  Castellamare  ad  indagare  sul  conto  del  Fio- 
relli, di  Raffaele  d'Ambra  e  di  Giuseppe  Abate,  perniciosissimi 
per  carattere  torbido,  autori  di  sospette  unioni  in  Pompei  nelle 
quali  distinguevansi  i  più  esaltati  demagoghi.  Una  inchiesta  pre- 
parata da  un  ispettore  di  polizia,  fu  riconosciuta  un  mese  dopo, 
sufficiente  ad  essere  tramutata  in  un  regolare  processo  penale. 
Ben  cinque  volte  tornò  il  processo  all'esame  della  Corte  criminale, 
fino  a  quando,  prosciolto  il  D'Ambra,  non  senza  le  meraviglie 
de'  suoi  compagni,  il  Fiorelli  venne  tratto  in  arresto  a'  24  apri- 


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le  1849  e  poco  di  poi  fu  seguito  in  carcere  dall'Abate,  ch'era 
pittore  e  disegnatore  a  Pompei.  Il  Fiorelli  si  difese  strenua- 
mente in  una  memoria  scritta  nelle  carceri  di  Santa  Maria  Ap- 
parente, dimostrando  che  le  accuse  mossegli  partivano  da'  bassi 
impiegati  di  Pompei,  reclutati  dal  noto  direttore  Carlo  Bonucci, 
per  sfogare  gli  astii  ed  i  rancori,  che  si  era  tirati  addosso,  per 
aver  disvelato  tutte  le  ladronerie  che  si  commettevano  da  lunga 
data  in  quella  amministrazione.  Nonostante  le  più  irrefragra- 
bili  pruove  delle  calunnie  ond'erano  mosse  le  accuse  di  repub- 
blicanismo  e  di  attentato  alla  sicurezza  dello  Stato,  il  Fiorelli 
non  potè  prima  del  gennaio  1850,  ottenere  una  sentenza  che 
lo  metteva  fuori  carcere  per  insufficienza  di  indizii.  Ma  uscito 
dal  carcere,  il  valentuomo  si  trovò  a  vivere  come  in  un  de- 
Berto. Destituito  dall'ufficio,  senza  alcun  patrimonio,  senza  po- 
tere far  nulla  nel  campo  degli  studii,  dovette  per  campare  la 
vita,  ridursi  a  lavorare  in  una  officina  di  asfaltista,  certo  Erba, 
ed  egli  ricordava  nella  sua  tarda  età  di  avervi  trasportati  sugli 
omeri  i  sacchetti  di  terra  !  Il  merito  di  avere  sottratto  un  uomo 
di  tanto  valore  da  così  ingrata  e  vergognosa  situazione  fu  del 
conte  di   Siracusa,  ed  è  debito  di  registrarlo  a  suo  onore. 

Questi  lo  chiamò  a  suo  segretario  particolare,  sfidando  quasi 
gli  sdegni  della  Corte  e  gli  commise  la  direzione  degli  scavi, 
che  per  sua  privata  munificenza  intraprese  nell'agro  Cumano.  I 
lavori  cominciarono  nel  1863,  e  presto  si  scopri  l'ubicazione  del 
tempio  di  Giove  statore  ed  un  pubblico  edificio  ricco  di  marmi 
e  di  opere  scultorie.  Menò  gran  rumore  la  scoperta  di  un  se- 
polcro greco,  adoperato  anche  ne'  posteriori  tempi  di  Diocleziano, 
e,  cosa  singolarissima,  vi  furono  trovati  degli  scheletri  con  te- 
sta di  cera.  Fu  un  fatto  che  rimarrà  forse  senza  esempio,  e 
che  dette  luogo  a  numerose  ipotesi  dei  dotti,  i  quali  non  usci- 
rono mai  dal  campo  delle  semplici  ipotesi.  De  Rossi,  Cave- 
doni,  Quaranta,  Minervini,  Guidobaldi,  Finati,  Pisano,  Verdino, 
oltre  il  Fiorelli,  dissertarono  sulla  meravigliosa  scoperta.  Gli 
scavi  Cumani  furono  i  soli  dell'epoca,  che  non  si  fossero  intra- 
presi per  speculazione  commerciale,  epperò  vennero  condotti  con 
riguardo  a  tutto  ciò  che  poteva  avere  interesse  scientifico.  Il 
Fiorelli  ebbe  lodi  ed  incoraggiamenti  dall'Istituto  archeolo- 
gico di  Roma.  Egli  pubblicò  due  importantissime  opere  su  co- 
deste scoperte,  una  nel  1853,  l'altra  nel  1857,  che  fu  specialmente 


-  14.  - 

notevole  per  le  magnificile  riproduzioni  artistiche  de'  vasi  dipinti, 
dalle  quali  tornò  molto  onore  alla  tecnica  napoletana.  Fu 
come  conseguenza  di  questi  scavi,  clie  si  scopri  il  passaggio  sot- 
terraneo tra  l'antica  Cuma  ed  il  lago  d'Averno,  e  i  due  pre- 
giati vasi  di  vetro  ritraenti  i  più  celebrati  luoghi  delle  spiag- 
gie  di  Baia  e  di  Pozzuoli,  illustrati  nel  1858  dal  De  Rossi.  Fe- 
cero anche  altri  scavi  nell'agro  puteolano,  in  questi  anni,  lord 
Walpole  e  il  barone  di  Lotzbeck,  mentre  lo  Scherillo  si  occupò 
degli  sgombri  dell'Anfiteatro  e  del  Porto  Giulio. 

Ma  l'essere  stato  il  Fiorelli  quasi  divelto  a  forza  dalla  quoti- 
diana vita  di  Pompei,  condusse  il  suo  acuto  intelletto  alla  serena 
e  comprensiva  contemplazione  della  grandezza  di  quella  città  e  del 
compito  singolare  che  gli  eventi  le  avevano  dato  nella  storia 
della  società  umana,  come  della  necessità  di  esplicarlo  e  di  rag- 
giungerlo in  tutta  la  sua  ampiezza.  "  Sappiamo  del  gran  mondo 
romano,  soleva  egli  dire,  dai  suoi  fasti,  dalla  immensa  lettera- 
tura sua;  ma  lo  conosceremo  in  modo  diverso  e  meravigliosa- 
mente reintegrato,  ed  alla  scienza  utilissimo,  quando  andremo 
a  sorprendere  questa  loro  città,  nella  sua  interezza,  quale  si  tro- 
vava in  quella  notte  de'  23  di  agosto  del  79  dell'era  volgare  ; 
quando  saremo  penetrati  in  quelle  case,  in  quegli  edifici!  pubblici 
e  privati,  ed  avremo  appreso  da'  più  piccoli  oggetti  usati  il  grado 
di  loro  civiltà,  i  commerci,  le  industrie,  gli  usi,  i  costumi  „ .  Inna- 
morato di  sì  vasto  concetto,  rivelò  per  il  primo  al  mondo  colto 
l'alta  importanza  degli  antichi  giornali  delle  escavazioni  pom- 
peiane, e  li  publicò  tutti.  Datosi  quindi  conto  dell'area,  su  cui 
si  svolgeva  la  intera  città,  pensò  alla  tabula  o  piano  generale 
di  essa,  ai  suoi  confini,  alle  parti  già  scavate  ed  a  quelle  ancora 
sotterrate,  a'  metodi  de'  nuovi  scavi  a  farsi.  Ricostruì  mental- 
mente la  città  stendentesi  su  quel  colle  di  lave  vulcaniche  ;  dalla 
disuguale  elevazione  delle  vie  interne,  rifece  la  intera  topografia; 
guardò  alle  quattro  grandi  strade  che  la  intersecano  da  mezzo- 
giorno a  settentrione,  e  da  oriente  ad  occidente,  ne  trasse  la 
divisione  in  regioni  ed  in  insulae,  e  ne  formò  un  completo  pro- 
gramma. Quando  Giuseppe  Fiorelli  nel  settembre  1858  dette 
l'annunzio  di  queste  sua  idea  in  un  semplicissimo  manifesto,  im- 
presso a  piccolo  numero  di  esemplari,  ohe  gli  mancavano  i  da- 
nari, per  moltiplicarli,  la  meraviglia   fu  grande.     "  Sottopongo, 


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diceva,  tout  court,  per  ora,  un'interessante  verità  archeologica 
agli  studiosi  „ .  Parve  strano  che  nessuno  fino  allora  avesse 
pensato  a  cosa  tanto  semplice  ed  insieme  di  così  alta  importanza 
scientifica.  GÌ' invidi  barbassori  dell'Accademia  archeologica  e 
del  Museo,  gli  scrittori  delle  quotidiane  dissertazioncelle  sopra 
anelli,  fibole,  torsi  di  statue,  ne  furono  come  sconvolti.  Il  Fio- 
relli  contava  trentacinqu'anni  appena,  e  con  un  colpo  di  ingegno 
e  di  audacia  si  assideva  su  tutti.  L'istesso  don  Giulio  Miner- 
vini,  suo  amico,  ma  costante  emulo  insieme,  il  quale  col  suo  Bui- 
lettino  archeologico,  già  fondato  dall'Avellino,  avea  quasi  il  mo- 
nopolio degli  studii  e  delle  scoperte  antiquarie  nel  Regno,  do- 
vette rendersi  banditore  del  magnifico  progetto  del  Fiorelli,  tanto 
strepitosa  fu  la  scoperta  dell'intera  topografia  pompeiana.  Fu 
il  frutto  di  un  pensiero  tenace,  proseguito  con  ostinata  conti- 
nuità. Cosi  il  carcerato  di  Santa  Maria  Apparente  e  l'ispet- 
tore destituito  rispose,  dopo  dieci  anni  di  studii,  di  stenti  e  di 
privazioni,  al  governo  napoletano!  Per  non  uscire  dal  campo 
archeologico,  ricorderò  che  i  sospetti  della  polizia  napoletana  si 
estesero  sino  a'  viaggi  scientifici  del  padre  Raffaele  Garrucci  della 
Compagnia  di  Gesù,  il  quale  nell'inverno  del  1860  dovè  rinun- 
ziare alle  sue  escursioni  archeologiche  nel  Napoletano  ! 

La  magnificenza  e  l'alto  criterio  scientifico  del  progetto  Fio- 
relli, e  il  gran  valore  dell'uomo  apparvero  nelle  loro  vere  pro- 
porzioni, quando  vennero  a  lui  affidati  gli  scavi  di  Pompei, 
La  ricostruzione  scientifica  di  Pompei,  non  dissociata  da  un 
severo  ordinamento  amministrativo,  rimarrà  etemo  monumento 
del  suo  ingegno.  Chi  potrà  dimenticare  la  grande  impressione 
universalmente  suscitata,  quando  il  Fiorelli,  guidato  dal  suo  pen- 
siero della  ricostruzione  della  vita  romana,  per  mezzo  di  Pom- 
pei, riusci  a  ritrovarvi  un  mucchio  di  corpi  umani,  quali  erano 
79  anni  dopo  l'èra  di  Cristo  ?  Alfonso  della  Valle  di  Casanova, 
scriveva  "  vedendo  interi  e  rifatti  que'  corpi,  riportai  una  delle 
più  forti  commozioni  eh'  io  ho  provato  nella  mia  vita  „ . 

In  Italia,  nel  1856,  lo  studio  dell'archeologia,  salvo  poche  e 
distinte  eccezioni,  era  piuttosto  trascurato  :  scomparivano  Sec- 
chi, Cavina,  Orioli  e  le  file  de'  vecchi  diradavano.  Napoli  e 
le  provinole  meridionali  erano  per  troppo  tempo  quasi  sfuggite 
alle  ricerche  della  scuola  tedesca  specialmente.  Le  relazioni 
dell'Istituto  germanico  nel  Mezzogiorno    duravano,   se   non  in- 


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terrotte,  languidissime.  Si  restringevano  a  qualche  rapporto 
isolato  di  viaggiatori  oltramontani,  nonostante  gli  sforzi  del  Ge- 
rhavel  da  Roma  per  riaprire  questo  campo  della  scienza.  Quasi  si 
rimpiangevano  i  tempi  (1830-1840)  di  Enrico  Guglielmo  Schultz, 
il  quale  teneva  al  corrente  delle  scoperte  antiquarie  napoletane 
i  tedeschi  dell'  Istituto  di  Roma  ;  ne  avea  potuto  ancora  aversi 
l'opera  magistrale  di  lui,  assai  aspettata,  sui  monumenti  dell'arte 
del  Medio  Evo  nell'  Italia  meridionale,  che  non  fu  publicata  prima 
del  1860  a  Dresda,  dopo  la  sua  morte,  e  che  riusci  tanto  più 
ricca  di  quella  dell'  Huillard-BréchoUes,  edita  a  spese  del  muni- 
ficentissimo  duca  di  Luines  nel  1843.  Innanzi  a'  primi  nuovi 
rapporti  di  Brunn  su  Pompei,  il  campo  dell'archeologia  a  Na- 
poli era  tenuto  dal  Garrucci,  dal  Guidobaldi,  dal  Quaranta,  dal 
Finati,  dal  Minervini,  l'ultimo  de'  quali,  come  ho  detto,  eserci- 
tava col  suo  BuUettino  quasi  un  monopolio,  per  quanto  le  pubbli- 
cazioni di  esso  avvenissero  sempre  con  ritardi  e  con  interruzioni 
di  mesi  e,  qualche  volta,  di  un  anno  intero  !  E  se  le  scoperte 
relative  alla  gente  osca  avevano  trovato  in  Giuseppe  Colucci  un 
acuto  e  dotto  illustratore,  se  il  Mommsen  traeva  partito  dagli 
scavi  del  1857-58  a  Pietrabbondante  per  riconoscere  il  Bovianum 
vetus,  né  queste  ne  altre  ricerche  del  grande  epigrafista  su  gli 
avanzi  messapioi  scuotevano  il  torpore  degli  studii  antiquarii  e 
filologici  nel  Napoletano. 

Ma  l'opera  veramente  grandiosa,  alla  quale  si  lavorava  in  quel- 
l'anno, era  il  prosciugamento  del  lago  Fucino.  I  primi  lavori 
del  famoso  acquedotto  Claudiano  risalivano  al  1823,  ed  il  me- 
rito di  avere  finalmente  indotto  il  governo  napoletano  a  ten- 
tarli, spettava  a  Carlo  Afan  de  Rivera,  direttore  generale  dei 
ponti  e  strade,  il  Paleocapa  dell'Italia  meridionale.  Assai  lo 
avevano  coadiuvato  nell'esecuzione.  Luigi  Giura,  che  ne  fu  il 
direttore  speciale  e  quel  Marino  Massari,  ingegnere  capo  della  pro- 
vincia di  Aquila  e  padre  di  Giuseppe  Massari,  che  ebbe  il  corag- 
gio, nell'ottobre  1829,  di  percorrere  in  un  battello  per  844  me- 
tri l'antico  emissario  mezzo  rovinato  e  rigurgitante  di  acqua. 
Malgrado  però  questi  precedenti  di  non  antica  epoca,  la  gloria  di 
aver  dato  alla  gigantesca  opera  le  proporzioni  magnifiche,  che 
poi  ebbe,  e  di  averla  affidata  ad  un'  amministrazione  tecnica  e 
finanziaria  di  prim'ordine,  spetta  al  principe  Alessandro   Torlo- 


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nia.  I  lavori  iniziati  dall'Afan  de  Rivera  erano  stati  concepiti 
con  molta  parsimonia,  nel  fine  soprattutto  di  vincere  gli  ostacoli, 
che  da  ogni  Iato,  e  per  varii  interessi,  venivano  sollevati  alla 
esecuzione  del  magnifico  progetto.  E  poiché  in  idraulica  le  ope- 
re incomplete  ed  insufficienti  sono  destinate  a  cadere,  e,  infuria- 
tesi le  acque  del  lago  nel  1835,  tutti  i  lavori  andarono  perduti. 
Gli  oppositori  vinsero,  il  governo  si  disanimò  e  ne  segui  l'ab- 
bandono totale  dell'impresa.  Si  costituì  più  tardi  una  società 
anonima,  che  riassunse  l'impresa,  ma  con  un  capitale,  che  in 
breve  sarebbe  stato  ingoiato  dalla  vastità  dell'opera.  Questo  ca- 
pitale non  superava  i  cinque  milioni  di  lire,  ed  il  principe  Tor- 
lonia  aveva  acquistato  la  metà  delle  azioni.  Non  era  stato  pos- 
sibile raggruzzolare  una  maggior  somma  né  all'estero,  ne  nel 
Regno.  Il  Torlonia  intuì  col  suo  acume  quanto  incompleto  fosse 
il  progetto  approvato  dal  governo  napoletano  ;  notò  la  insuffi- 
cienza dei  mezzi,  e  previde  le  delusioni  che  ne  sarebbero  deri- 
vate. Allora  si  rivelò  la  grandezza  dell'animo  di  lui.  Milio- 
nario, sentì  la  nobile  ambizione  di  realizzare  per  la  scienza, 
per  l'arte,  per  l'agricoltura  del  suo  paese  e  della  nostra  età,  un 
progetto  ancora  più  vasto  di  quello  altra  volta  concepito  dagli 
imperatori  romani  con  i  loro  trentamila  schiavi,  e  non  esitò,  in- 
nanzi ad  una  così  magnanima  idea,  di  seguire  la  generosa  ispi- 
razione, nonostante  il  rischio  a  cui  esponeva  l' immensa  sua  fortu- 
na e  l' immane  lavoro  cui  si  sobbarcava.  Riscattò  quindi  recisa- 
mente il  capitale  sociale  ed  assunse  da  solo  la  gigantesca  impresa. 
Tutto  in  questa  opera  del  Torlonia  fu  mirabile  per  ardire,  per  ma- 
gnificenza, e  per  raro  acume  pratico.  Egli  ne  affidò  l'esecuzione 
ad  uno  de'  più  illustri  ingegneri  francesi,  il  De  Montricher,  che  si 
era  coperto  di  gloria  in  una  delle  più  vaste  costruzioni  idrau- 
liche della  Francia,  l' acquedotto  di  Marsiglia.  Messo  il  Torlo- 
nia, dall'onestà  e  dalla  sagacia  del  Montricher,  nell'alternativa 
di  scegliere  fra  un  progetto  più  modesto  ma  più  incerto  nel- 
la sua  riuscita,  ed  un  altro  di  singolare  grandiosità,  ma  as- 
sai più  dispendioso,  scelse  quest'  ultimo.  E  giammai  tanto  co- 
raggio e  tanta  fede  ebbero  un  premio  più  degno  nel  com- 
pleto successo  dell'opera.  Studii  geologici,  idrologici,  archeo- 
logici, storici  e  di  ingegneria  idraulica  vennero  innanzitutto 
compiuti  con  splendida  larghezza.  Dopo  pochi  mesi  dalla  con- 
cessione, sul  lago,  innanzi  l' imboccatura  dell'emissario,  era  già 


—  78  - 

fondata  una  doppia  diga  a  ferro  di  cavallo,  per  impedire  clie  le 
acque  si  riversassero  nel  traforo,  prima  che  l' incile  fosse  riedifi- 
cato, e  racconciato  e  corretto  il  lungo  corso  dell'emissario.  Gli 
antichi  pozzi  e  cuniculi  si  vedevano  già  ripurgati  e  ricostruiti. 
Sull'alto  del  monte  Salviano  erano  sorte  vaste  scuderie,  immensi 
magazzini,  macchine,  fabbriche  di  mattoni,  fornaci,  fucine  e  of- 
ficine d'arte  lignaria,  di  funi  e  gomene  di  ogni  sorta:  era  tutta 
una  città  che  sorgeva,  fitta  di  una  popolazione  di  operai,  di  mi- 
natori, di  marrajuoli,  di  magnani,  di  fabbri,  di  malangoni,  di  car- 
pentieri. Né  mancò  una  chiesetta  edificata  per  loro.  Tutto  rive- 
lava, accanto  alla  grandezza  dell'impresa  e  degli  ingenti  capitali 
che  assorbiva,  la  prudenza,  l'ordine,  la  dottrina  che  la  governava. 

Le  difficoltà  tecniche  e  logistiche,  che  si  dovettero  superare, 
furono  immense.  Le  comunicazioni  tra  Avezzano  e  Napoli  erano 
difficilissime.  Un  deplorevole  pregiudizio  militare  e  politico 
aveva  potentemente  contribuito  a  far  giacere  la  Marsica,  ed  una 
gran  parte  degli  Abbruzzi,  in  uno  stato  completo  d'isolamento 
e  di  abbandono.  Quivi  era  la  più  lunga  frontiera  del  Regno  li- 
mitrofo agli  Stati  del  Papa,  e  per  renderla  meno  accessibile  ad 
un'  armata  nemica,  non  si  era  voluto  costruire  strade  di  comu- 
nicazione. Si  era  promesso  a  Gregorio  XVI  la  costruzione  di 
una  strada  carrozzabile  da  Roma  a  Napoli  la  quale,  seguendo 
la  valle  dell'Aniene,  sino  ad  Arsoli  e  costeggiando  la  frontiera  di 
Carsoli,  si  sarebbe  svolta  sul  bacino  del  Fucino,  per  discendere 
lungo  la  valle  del  Liri,  a  Sora  ed  a  Napoli.  Il  Papa  fece  bensì  co- 
struire la  strada  che  attraversava  i  suoi  Stati,  ma  il  governo  napo- 
letano non  tenne  la  parola  per  il  tronco  a  lui  spettante,  a  causa  di 
quel  pregiudizio  strategico  e  politico.  Questa  quasi  barbara  con- 
dizione d' isolamento  della  Marsica  raddoppiò  le  enormi  difficoltà 
per  l'impresa  del  Fucino.  Molte  materie  prime,  molti  istru- 
menti  di  lavoro  bisognava  farli  venire  da  Napoli,  e  fu  uopo  an- 
che, e  spesso,  di  ricorrere  a  Marsiglia.  Specialmente  molti  ope- 
rai e  macchinisti  e  minatori  dovettero  venire  dall'estero.  Ciò 
naturalmente  faceva  oltrepassare  le  più  ragionevoli  e  più  larghe 
previsioni  nella  condotta  dell'opera.  Non  prima  del  1865  si 
potè  mettere  mano  ai  lavori  dell'emissario.  Si  trattava  di  pe- 
netrare nelle  viscere  della  terra,  a  cento  metri  sotto  il  suolo  e 
fra  le  rovine  di  ogni  sorta  dell'acquedotto  romano,  del  quale  si 


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dilatavano    tutte    le    proporzioni.     Le   difficoltà   erano    enormi. 
Ma  gravissima  fu   quella  della   morte    prematura    del    Montri- 
cher,  seguita  a  Napoli,   per  tifoidea  acuta,    a  quarantotto  anni, 
nel  28  maggio  1858,  mentre  con  la  giovane  famiglia  si  recava  in 
breve  congedo  a  Marsiglia.     Il  principe  Torlonia  affidò  allora  il 
proseguimento  dell'opera  ai  due  ingegneri,  ch'erano  quasi  i  depo- 
sitarli del  pensiero  di  Montricher,  Bermont  e  Brisse.     La  storia 
dei  lavori  tecnici  occorsi  per  liberare  l'emissario  dalle  acque  e  dalle 
rovine,  che  l' ingombravano,  riempie  l'animo  di  meraviglia  e  di 
ammirazione.     Il  principe   Torlonia  non  si   dissimulava  che   la 
sola  persona,  la  quale  nel  governo  napoletano  desiderava  since- 
ramente la  riuscita  della  grande  intrapresa,  era  il  Re.     In  questo 
desiderio  del  Re  si  racchiudeva  la  sola  garenzia  morale,  che  il 
Torlonia  trovasse    contro   le   gravezze  del  contratto   impostogli 
nella  concessione.     L'amministrazione    napoletana  non   si  dava 
pace  per  essersi  vista  sfuggire  dalle  mani  una  cosi  colossale  oc- 
casione di  proventi    e  di  lucri,    e    sollevava    continue  difficoltà, 
che  facevano  strano  contrasto  con  la    magnanima  condotta  del- 
l' impresa.     Sicché,  morto  Ferdinando  II,  il  Torlonia  si   affrettò 
ad  esporre  al    suo   successore   il  grave  rischio  che  egli  correva, 
ed  ingiustissimo,  per  una  clausola  incidentale  contenuta  nel  con- 
tratto, alla  cui  importanza  non  si  era  dato  alcun  peso,  ma  che 
si  sarebbe  verificata  quando  le  acque  del  Fucino  sarebbero  sboc- 
cate nel  Liri.     Per   quella   frase,  più  che   clausola,    il    Torlonia 
avrebbe  dovuto   regolare,  se  non  addirittura   sistemare,  il  corso 
del  Liri  !     Fu  fatta  allora  una  transazione,  per  la  quale  il  prin- 
cipe pagò   al  tesoro  napoletano  una  somma  di  ventimila  ducati, 
e  fu  esonerato  dall'  ingiusta  clausola,  ottenendo  inoltre  una  pro- 
roga di  otto  anni    per  la   esecuzione  del    prosciugamento.     Fu 
questo   il  solo  atto  del  Regno  di  Francesco  II  relativo  all'opera 
del  Fucino.     Tutto  il  lavoro  durò  ventidue  anni,  e  fu  nel  giu- 
gno 1875  che  le  acque    più  basse  del  bacino  lacustre  passarono 
nell'emissario,  e  il  Fucino  scomparve.     La  spesa  ascese  a  circa 
quarantotto   milioni.     Si  restituirono    alla    cultura    e    alla  pro- 
duzione   nazionale    ventiquattromila  ettari  di  terreno,  dei  quali 
nove  mila  vennero  attribuiti  a  comuni  ed  a  privati  limitrofi  al 
prosciugato  lago,  e  quindici  mila  al  Torlonia.     Questa  gravissima 
questione  circa  l'appartenenza  dei  terreni  rivieraschi  fu  risoluta 
felicemente  da   Silvio   Spaventa,  ministro   dei    lavori    pubblici. 


-  80  - 

il  quale  in  memoria  riconoscente  di  tanta  munificenza,  fece  co- 
niare una  grande  medaglia  in  onore  di  Alessandro  Torlonia  con 
iscrizione  dettata  da  Luigi  Settembrini,  che  dice  così  : 

ALEXANDRO  TORLONIAE 

ROMANO    V.    P. 

QUOD    FUCINI    LAOUS 

EMISSIS     AQUIS     DERIVATISQUE 

ITALIAE   AGRUM   AUXERIT 

OPUS   IMPERATORIBUS   AC  REGIBUS 

FRUSTRA   TENTATUM 

AERE    SUO    EXPLEVERIT 

AB    ANNO   MDOOOLV 

AD    ANNUM   MDOOOLXXV 

Il  principe  Torlonia  andò  a  ringraziare  Vittorio  Emanuele,  do- 
natore della  medaglia,  la  quale  ha  sull'altra  faccia  la  testa  del 
Re,  con  le  parole  :  Victorius  Emmanuel  Italiae  Bex.  Bellissimo 
lavoro  d'arte,  e  ultimo,  di  Luigi  Arnaud. 


CAPITOLO  IV 


SoHHABio:  Le  ferrovie  nel  Begno  —  Come  si  costruivano  e  si  esercitavano  — 
Le  stazioni  —  L'armamento  delle  rotaie  —  L'episodio  del  capostazione  Mar- 
riello  —  Il  macchinista  reale  Coppola  —  Il  segnale  umano  nei  viaggi  del 
He  e  un  incidente  —  GÌ'  impiegati  ferroviari  fedelissimi  —  Una  grazia  con- 
cessa —  Le  vetture  reali  —  Uno  scontro  a  Cancello  —  Parole  di  Maria 
Teresa  a  Coppola  —  Il  direttore  Fonseca  —  L'amministrazione  ferroviaria 

—  I  biglietti,  il  loro  prezzo  e  gli  orarli  —  Disposizioni  curiose  —  Le  conces- 
sioni ferroviarie  di  Francesco  II  —  I  riordinatori  delle  ferrovie  napoletane 
nel  1861  —  L'ultimo  Decurionato  —  Lettere  di  Romano  e  di  Garibaldi  al 
principe  d'Alessandria  —  L'ultimo  bilancio  del  Decurionato  —  Le  entrate 
e  le  spese  —  Le  spese  di  culto  —  I  regali  al  Ee  —  Le  opere  pubbliche  —  Le 
spese  per  le  nozze  e  per  la  salita  al  trono  di  Francesco  —  I  rapporti  tra  il 
nuovo  Ee  e  il  Decurionato  —  Un  incidente  caratteristico  al  baciamano  — 
Il  Decurionato  perde  un  privilegio  —  Gli  uffici  municipali  a  San  Giacomo 

—  Il  vecchio  Decurionato  e  il  nuovo  Municipio  —  Il  Risanamento  —  I 
due  sindsbci  più  benemeriti. 

Quando  Francesco  II  sali  al  trono,  le  ferrovie  del  Regno, 
partendo  da  Napoli,  avevano  per  estremo  limite  Capua,  Castel- 
lamare,  Nocera  e  Samo  :  in  tutto,  meno  di  duecento  chilome- 
tri. Ferdinando  II  fu  il  primo  a  costruire  strade  ferrate  in  Ita- 
lia, e  il  tronco  Napoli-Portici  venne  inaugurato  il  26  settembre 
1839  e  aperto  all'esercizio  il  4  ottobre  successivo.  Quattro  anni 
dopo,  il  20  dicembre  1843,  era  stata  aperta  la  Napoli-Caserta,  pro- 
lungata nel  1846  fino  a  Capua.  Per  l'apertura  della  ferrovia  di 
Caserta  fu  coniata  una  medaglia  commemorativa,  incisa  dall'Ar- 
naud,  col  motto  viarum  moras  hominis  sollertia  vicit,  e  dall'altra 
faccia  il  ritratto  del  Re,  col  motto  Ferdinandus  II  Siciliar.  Rex 
Providentiss.  Nel  1846,  il  Re  volle  congiunto  Cancello  con  Nola 
e,  dieci  anni  dopo,  Nola  con  Sarno  per  raggiungere  San  Seve- 

Da  Cksare.  La  fltié  di  un  Regno  -  Voi.  II.  6 


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rino,  ma  il  tronco  fino  a  San  Severino  non  si  aprì  all'eser- 
cizio che  nel  1861.  Nello  stesso  anno  fu  pure  inaugurato  l'al- 
tro tronco  Capua-Presenzano,  bene  avviato,  col  resto  della  linea 
sino  al  Liri,  quando  Francesco  II  lasciò  Napoli.  Queste  erano 
le  linee  regie,  cioè  costruite,  esercitate  e  amministrate  dallo 
Stato.  Avevano  rotaie  di  una  bontà  inarrivabile,  perchè  otte- 
nute, laminando  le  canne  dei  fucili  presi  nel  disarmo  dopo  il 
15  maggio.  Si  adoperavano  inoltre  ottimi  materiali  inglesi  nella 
costruzione  delle  locomotive,  le  quali  per  molti  anni  prestarono 
eccellente  servizio.  Non  vi  era  insomma  lesineria  di  nessuna 
specie  nella  costruzione  del  materiale  mobile  e  nell'esercizio. 

L'inaugurazione  del  primo  tronco  fu  grandiosa  e  costituì 
l'avvenimento  di  tutta  Napoli.  V'intervenne  la  Corte  con  tutto 
il  mondo  ufficiale,  e  piacemi,  a  tal  proposito,  ricordare  l' incidente 
occorso  alla  signora  Cottrau,  figliuola  di  Felice  Cerillo,  capodi- 
visione al  ministero  dell'interno.  Essa  era  incinta,  e  durante 
la  corsa  di  ritorno  dalla  Favorita  a  Napoli,  presa  dai  dolori  del 
parto,  si  sgravò  giunta  appena  a  casa,  d'un  bel  marmocchio  ro- 
seo, al  quale  fu  dato  il  nome  di  Alfredo.  ^ 

Le  linee  regie  erano  costruite  dal  genio  militare  e  dirette 
da  uomini  di  valore,  come  il  Fonseca,  il  Del  Carretto,  il  Ver- 
neau,  il  Yerdinois,  l'Andruzzi,  alcuni  dei  quali  entrarono  poi 
nell'esercito  e  nelle  amministrazioni  italiane.  Esse  erano  anche 
militarmente  esercitate.  I  soldati  del  genio  facevano  da  sorve- 
glianti e  da  cantonieri.  Il  tracciato  piegò,  del  resto,  assai  spesso 
ai  capricci  del  Sovrano  e  agi'  intrighi  dei  cortigiani.  Ogni  sta- 
zione aveva  una  storia  più  o  meno  confessabile.  Espressamente 
vietati  i  tunnels,  per  le  occasioni  che  davano  ad  immoralità. 
Si  ripeteva  il  detto  del  Re,  che  sulle  ferrovie  sue  non  voleva 
pertusi,  ^  e  difatti  in  tutta  la  vecchia  linea  non  ve  n'è  uno.  Ogni 
stazione  aveva  una  cappella,  per  dar  modo  al  personale  sparso 
sulla  linea  di  udir  la  messa  all'alba  dei  giorni  festivi.  Il  servi- 
zio pubblico  era  sospeso  nei  giorni  della  settimana  santa,  e  di 
notte  non  v'era  movimento  di  treni. 


'  Rivedendo  queste  pagine,  non  è  senza  commozione  che  ricordo  il  po- 
vero Alfredo  Cottrau,  morto  nel  maggio  del  1898,  non  ancora  sessantenne. 
Fu  ingegnere  di  ferrovie  e  costruttore  di  molto  talento,  e  fece  col  lavoro 
una  cospicua  fortuna. 

•  Vocabolo  dialettale,  che  vuol  dire  buchi. 


-  83  — 

Benché  il  genio  non  avesse  avuta  occasione  di  mostrare 
grande  abilità  nella  costruzione  delle  linee  regie,  dove  nessuna 
difficoltà  tecnica  ebbe  a  presentarsi,  si  può  affermare  con  tutta 
sicurezza,  che  nessuna  linea  fu  più  solidamente  e  accuratamente 
costruita  di  quelle  :  basti  dire,  che  il  riempimento,  dopo  le  pa- 
ludi ohe  circondano  Napoli  verso  Casalnuovo,  fu  ottenuto  con 
terreno  pistonato  dai  soldati.  Vero  è  che  le  rotaie  di  quella  li- 
nea avevano  bisogno  di  più  solida  base,  poiché  non  poggiavano 
su  traversine  di  quercia,  ma  erano  tenute  a  posto  con  forti  cu- 
nei di  legno  nei  cuscinetti  di  ghisa,  fissati  su  grossi  blocchi  di 
pietra  vesuviana.  Tale  armamento  era  facilmente  smontabile, 
e  se  ne  ebbe  una  prova  il  15  maggio  1848,  quando  fu  dato  or- 
dine al  presidio  di  Capua  di  far  partire  immediatamente  due 
reggimenti  di  fanteria  per  Napoli.  Il  generale  Cardamone,  co- 
mandante di  quel  presidio,  die  subito  opportune  disposizioni  al 
capostazione  Marriello,  il  quale,  ardente  liberale  com'era,  e  in 
relazione  col  Comitato  di  Santa  Maria,  mentre  preparava  i 
treni  per  la  partenza  dei  soldati,  ebbe  il  tempo  di  mandare 
persona  di  fiducia  al  Comitato  stesso,  suggerendo  di  smontar 
prontamente,  a  qualche  chilometro  di  distanza,  un  buon  tratto 
di  binario.  Quattro  colpi  ben  dati  ai  cunei  di  legno  misero  fa- 
cilmente le  rotaie  fuori  posto.  Intanto  il  primo  treno  parte,  e 
il  Marriello  monta  sulla  macchina  per  evitare  un  disastro,  se 
mai  il  macchinista  non  si  fosse  accorto  a  tempo  che  le  rotaie 
erano  smontate.  Difatti  nulla  accadde,  ma  i  reggimenti  non 
giunsero  a  Napoli  che  l' indomani,  per  la  via  di  Aversa,  quando 
non  ce  n'era  più  bisogno.  Il  Re  andò  su  tutte  le  furie  contro 
il  Marriello,  che  un  po'  conosceva  ;  e  quantunque  sembrasse  cal- 
mato quando  seppe  ch'egli  era  sulla  locomotiva,  ne  ordinò  po- 
scia la  destituzione  e  ci  fu  anche  un  processo,  che  non  ebbe  se- 
guito. Nel  1860,  mutati  i  tempi,  il  Marriello  divenne  capo  del 
movimento  sulla  stessa  linea. 

Oltre  Pietrarsa,  che  lavorava  per  le  ferrovie,  alla  stazione 
di  Napoli  vi  erano  officine  per  la  riparazione  e  il  mantenimento 
delle  locomotive  e  dei  vagoni.  Gli  operai  di  queste  officine 
chiesero  in  grazia  a  Ferdinando  II  di  costruire  una  locomotiva, 
per  dimostrare  che  non  la  sola  Pietrarsa  n'era  capace.  La  loco- 
motiva fu  costruita  e  intitolata  al  Duca  di  Calabria;  e  il  Re, 
adoperandola  nei  suoi  viaggi  fra  Napoli  e  Caserta,  soleva  dire  che 


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trottava  meglio  delle  altre.  Essa  fu  sempre  guidata  dal  macclii- 
nista  Coppola,  che  l'aveva  messa  su  ed  era  molto  ben  veduto  dal 
Re,  il  quale  sulla  bancliiiia  della  stazione  di  Napoli  gli  por- 
geva spesso  la  mano  per  il  riverente  bacio,  prima  di  confidargli 
la  vita.  Il  Coppola  vive  tuttora,  dopo  aver  prestato  per  circa 
trent'anni  un  lodevole  servizio  nelle  ferrovie  italiane,  e  dopo 
aver  dato  nel  figlio  Enrico,  direttore  della  Napoli-Baiano,  un 
distinto  specialista  per  l'esercizio  economico  delle  ferrovie. 

Senza  campanelli  di  allarme  né  segnali  speciali,  inventati  dopo 
lungo  tempo,  il  capo  maccbinista  era  sulla  macchina  indipendente 
affatto  dalla  volontà  del  Sovrano  che  viaggiava.  Ciò  non  essen- 
do di  prammatica,  si  trovò  modo  di  rimediarvi,  facendo  viaggiare 
un  capo  convoglio  sul  predellino  della  vettura  reale,  afferrato  alla 
maniglia  o  passamano  dello  sportello.  Il  capomacchinista  guar- 
dava continuamente  quell'  infelice,  messo  li  per  trasmettergli  gli 
ordini  reali,  di  rallentare  o  di  accelerare  la  corsa  o  anche  di 
fermare  il  treno.  Era  incaricato  di  tale  pericoloso  ufficio  un 
tale  Marcellino  Belli,  che  un  giorno  vi  rischiò  la  vita.  Preso 
da  capogiro,  era  per  cadere  sulla  via,  quando,  per  sua  fortuna, 
avvedutosene  uno  del  seguito,  lo  sorresse  e  lo  fece  entrare  nel 
vagone  reale,  dove  fu  confortato  e  poi  promosso.  Da  allora  si 
rinunziò  al  segnale  umano. 

Il  luogo  più  adatto  per  ottenere  favori  e  grazie  da  Ferdi- 
nando II,  che  si  compiaceva  di  parlar  con  tutti  e  di  tutto,  era  il 
marciapiede  della  stazione  di  Napoli  nel  momento  della  partenza 
del  treno  reale.  Gl'impiegati  della  ferrovia  erano  tenuti  in  con- 
cetto di  fedelissimi.  Un  giorno  appunto,  sul  famoso  marciapiede, 
i  capisquadra  dell'officina  veicoli  chiesero  al  Re  di  lasciar  fare  ad 
ognuno  di  loro  un  vagone  di  modello  differente  ad  uso  dei  viag- 
giatori, e  il  Re,  cui  piacque  l' idea  barocca,  ne  concesse  l'attua- 
zione. Sarebbero  stati  più  degni  di  museo  che  di  ferrovie,  quei 
tipi,  forzatamente  dissimili,  che  furono  trovati  ancora  in  costru- 
zione nel  1860.  Basterà  citarne  uno  di  forma  ellittica,  con  scul- 
ture in  legno  all'esterno,  con  leoni,  dalla  cui  bocca  uscivano  le 
aste  dei  respingenti:  tutto  costruito  in  noce  e  con  ferramenta 
potrei  dire  cesellate.  Fu  compiuto,  e  servi  poi  per  brevi  gite 
del  Re  Vittorio  Emanuele.  y 

Le  vetture  reali  sulla  linea  Napoli- Caserta  erano  tre,  e  poco 


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dissimili  dalle  nostre  attuali  carrozze-saloni.  Quella,  dove  pren- 
deva posto  il  Re,  volgendo  le  spalle  alla  locomotiva,  era  fode- 
rata di  velluto  rosso  e  non  aveva  nessun  segno  distintivo,  clie 
indicasse  il  posto  da  lui  occupato.  Stranissima  invece  fu  la  car- 
rozza reale,  che  servi  ai  primi  viaggi  sulla  linea  di  Castella- 
mare  :  era  tutta  scoperta,  come  una  vettura  di  via  rotabile,  con 
la  differenza  che  non  potea  chiudersi  a  volontà  come  quella.  Era 
foderata  interamente  di  damasco  rosso  e  somigliava  un  vagone 
merci,  riccamente  addobbato  :  s' immagini  un  po'  la  polvere,  onde 
erano  avvolti  gli  augusti  viaggiatori.  E  nei  primi  anni  nessun 
vagone  per  bagaglio  o  merci  doveva  intercedere  fra  la  locomo- 
tiva e  le  vetture  reali,  per  maggior  sicurezza  :  soltanto  la  vettura 
in  cui  viaggiava  il  Re  era  collocata  in  mezzo  ad  altre  due. 

Dal  1843  al  1869,  una  volta  sola  Ferdinando   II   rischiò  la 
vita  in  ferrovia,  e  fu  prima   del  1848,   in  una  ricorrenza  della 
festa  di  San   Gennaro,  quando,  dopo  aver  assistito  al  miracolo, 
tornò   a   Caserta,  dove  erano  stati   spediti   qualche  ora  prima  i 
bagagli    e    sei  cavalli   storni    bellissimi,   dai   quali  fu  tirata   la 
vettura,  che  lo  aveva  condotto  al  duomo.    Giunto  il  treno  reale 
a    Cancello,   prima   di    entrare    nella    stazione,    il    macchinista 
Antonini,  morto  nel   1868  in  un  disastro  ferroviario,  non   s'era 
accorto   ohe  il  treno  reale  entrava  in  un  binario,  dove  era  fer- 
mo  il  treno   dei  cavalli.     Ma  il  Coppola,  capomacchinista,   con 
fulminea  prontezza,  riusci  a  fermarlo,  tanto  da  far  sfondare  con 
la  locomotiva  soltanto  la  parte  dell'ultimo  carro,  dal  quale  uno 
dei   cavalli  scivolò  sulla  rotaia.     Fermato  il   treno,   il   Coppola 
narrò  l'accaduto  al  Re,  che  se  n'era  appena  accorto.     Questi,  che 
sedeva  fra  i  generali  Cellammare  e  Saluzzo,  scese  subito  dal  treno, 
e  considerato  il  pericolo    corso,    s'inginocchiò   a   capo   scoperto 
sul  marciapiede  della  stazione,  e  con  tutti  i  presenti  recitò  tre 
avemmaria  per  ringraziare  la  Vergine,  e  una  preghiera  a  San  Gen- 
naro, che  lo  aveva  voluto  miracolosamente  salvo  il  giorno  della 
festa  sua.     E   rivolgendo   la  parola  al  Coppola,  lo  invitò  a  re- 
carsi il  di  appresso  alla  Reggia,  desiderando  rivederlo.     L' indo- 
mani, il    Galizia  portò  al  Coppola,  prima  che  questi   si  presen- 
tasse alla  Reggia,  una  polizza  del  Banco  di  trecento  ducati,  ma 
questi    se  ne  mostrò   poco  contento.     Il  Re,   saputa  la  cosa,  lo 
chiamò,  nò  il  Coppola  fu  imbarazzato  nel  confermare  il  suo  scon- 


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tento,  giacche,  più  del  danaro,  tenea  all'onore  di  essere  ammes- 
so alla  presenza  reale.  Il  Re  aggiunse  un  aumento  di  dieci  du- 
cati allo  stipendio  mensile  del  suo  salvatore  e  questi  ne  fu  sod- 
disfatto. 

Ferdinando  II  amava  fare  con  la  massima  rapidità  i  suoi 
viaggi  ;  e  i  trentadue  chilometri  fino  a  Caserta  glieli  facevano 
percorrere  in  mezz'ora,  con  una  velocità  di  sessantasei  chilometri 
l'ora,  che  molti  nostri  treni  diretti  non  raggiungono  oggi.  La 
maggior  velocità  ricordata  fu  quella  di  un  viaggio  del  conte  d'A- 
quila da  Napoli  a  Santamaria  :  40  chilometri  in  ventisette  minuti, 
cioè  88  chilometri  l'ora.  La  regina  Maria  Teresa,  invece,  prefe- 
riva andar  piano,  soprattutto  quando  conduceva  o  mandava  i  figli 
a  Caserta.  Diceva  al  Coppola  :  "  Voi  dovete  andav  piano  come 
un  somavello  „ . 

Nessuna  differenza  sostanziale  era  fra  i  vagoni  viaggiatori  di 
allora  e  questi  di  oggi:  pareti  diritte  e  non  sagomate,  più  bassi 
di  soffitto,  nessun  esempio  di  terrazzini  nelle  testate,  ma  vi  si 
saliva  più  comodamente,  essendo  i  marciapiedi  delle  stazioni  pre- 
disposti per  entrare  a  livello  del  vagone,  come  si  vede  ancora 
a  Nocera,  a  Cava,  a  Castellamare  e  com'  è  in  Inghilterra.  Pe- 
rò le  terze  classi  erano  tutte  senza  sedili,  ne  vi  furon  messi  pri- 
ma del  1860.  Ciò  permetteva  insaccarvi  quanta  più  gente  vo- 
lesse il  capotreno.  Talvolta,  le  prime  classi  erano  a  salone, 
come  ne  son  rimaste  alcune  sulla  linea  di  Castellamare.  In 
seguito  a  una  piccola  sommossa  d'impiegati  malcontenti  o  li- 
berali, come  si  disse,  contro  il  Fonseca  direttore  delle  ferrovie 
nel  1848,  Ferdinando  II,  in  omaggio  alla  pubblica  opinione  in 
apparenza,  ma  veramente  perchè  desiderava  allontanare  il  Fon- 
seca, divenuto  potentissimo,  lo  destinò  alla  costruzione  dellaf 
linea  Capua-Ceprano.  Fra  i  dimostranti  fu  il  Faucitano,  condan- 
nato a  morte  tre  anni  dopo,  per  aver  gettate  fra  la  folla,  che 
in  piazza  di  San  Francesco  da  Paola  acclamava  Pio  IX,  delle 
vipere  vive,  le  quali  produssero  uno  dei  più  epici  fuie  fuie  ^  che 
Napoli  ricordi. 

Curiosa  l'amministrazione,  che  presedeva  all'esercizio  delle 
linee  regie.  Non  di  rado  uomini  integerrimi  ne  furono  a  capo, 
ma  nelle  classi  inferiori  la  corruzione  era  grandissima  e  toUe- 

*  Fuggi-fuggi. 


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rata.  Si  esercitava  principalmente  sulle  forniture.  Un  posto 
alla  strada  ferrata  era  il  maggior  premio,  al  quale  potesse  aspi- 
rare chi  86  ne  sentiva  degno,  per  meriti  più  o  meno  confessa- 
bili.  Si  sapeva  che  il  magazziniere  B.  era  protetto  da  quel  ge- 
nerale e  il  capofificina  C.  da  quella  dama  o  camerista.  Limite  ai 
posti,  nessuno  ;  una  parvenza  di  organici  lasciava  la  porta  aperta 
a  una  quantità  rispettabile  di  soprannumeri  e,  oltre  a  questi,  vi 
erano  gli  aspiranti  al  soprannumerato,  i  quali  non  avevano  stipen- 
dio e  dovevano  quindi  accomodarsi  alla  meglio  :  lo  stipendio,  per 
quelli  che  n'erano  provveduti,  era  affatto  ridevole.  Curiosa 
amministrazione,  dico,  nella  quale  non  si  sognava  neppure  che 
potesse  esservi  un  qualunque  rapporto  fra  l'entrata  e  la  spesa. 
I  biglietti  ferroviari  erano  di  carta  colorata  comune  e  di  for- 
ma più  grande  degli  attuali,  di  colori  differenti,  secondo  le  classi. 
Ricordo  bene  il  giallo,  il  rosso  e  il  bianco  e  ho  sotto  gli  occhi 
un  orario  dei  mesi  di  settembre  e  ottobre  dell'anno,  di  cui  ragio- 
no, trovato  fra  le  carte  di  mio  padre,  che  passò  quei  mesi  per  mo- 
tivi di  salute  in  Torre  del  Greco.  Quell'orario  è  della  dimensione 
di  un  foglio  quadrato  di  venti  centimetri,  scritto  da  una  parte  e 
dall'altra,  con  avvisi  e  annotazioni  circa  le  tariffe  per  bagagli 
e  piccoli  oggetti.  Sono  curiosi  alcuni  avvisi.  Alle  persone  di 
giacca  e  coppola,  alle  donne  senza  cappello,  ai  domestici  in  livrea, 
ai  soldati  e  bassi  uffiziali,  si  accordavano  ribassi  sulla  terza  classe, 
e  ciò  al  fine  d' impedire  che  cenciosi  o  sporcaccioni  viaggiassero 
in  ferrovia.  Così  da  Portici  a  Napoli  le  persone  di  giacca  e 
coppola  pagavano  in  terza  classe  cinque  grani,  cioè  un  grano 
di  meno.  Il  fine  si  raggiungeva  in  gran  parte,  perchè,  se  la  dif- 
ferenza di  terza  classe  fra  Napoli  e  Portici  era  di  un  grano,  da 
Napoli  a  Torre  del  Greco  era  di  quattro  ;  a  Torre  Annunziata, 
di  otto;  a  Castellamare,  di  dieci;  a  Pompei  e  Scafati,  di  do- 
dici e  cosi   via  via. 

Chi  veniva  dalle  provincie  prendeva  il  vapore,  come  allora  si 
diceva,  a  poca  distanza  da  Napoli  :  i  calabresi  e  i  basilischi,  a 
Nocera;  i  pugliesi  e  gli  avellinesi,  a  Nola;  gli  abruzzesi,  a  Ca- 
pua,  e  i  salernitani,  a  Sarno  e  a  Nocera.  Per  i  pugliesi  era 
piuttosto  un  impaccio  che  un  comodo,  e  però  molti  preferivano 
smontare  con  la  stessa  carrozza  che  li  aveva  condotti,  diretta- 
mente a  Porta  Capuana,  cioè  all'ingresso  di  Napoli,  o  partire 
in  carrozza  dalle  proprie   locande,  le  quali  per  i  pugliesi  e  per 


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quasi  tutfc'i  provinciali   benestanti,   erano   quelle  della  via  Fio- 
rentini, dei  Gruantai  e  della  Oorsea. 

Le  concessioni  ferroviarie  per  le  grandi  linee  di  Puglia,  di 
Calabria  e  di  Abruzzo,  date  da  Ferdinando  II  nel  1866  e  1866, 
erano  rimaste,  come  si  è  veduto,  lettera  morta.  Francesco  II 
ebbe  in  animo  di  accrescere  le  strade  ferrate,  accelerando  i  lavori 
in  corso  e  costruendo  la  linea  di  Puglia,  ma  non  ne  ebbe  il 
tempo.  Egli  ricordava  bene  le  peripezie  dell'ultimo  viaggio  in 
quelle  provincie.  Alcune  concessioni  nuove  furon  fatte  sol- 
tanto nel  breve  e  fortunoso  periodo  costituzionale.  Tra  le  linee 
regie  e  quelle  della  società  francese  Bayard,  concessionaria 
della  Napoli-Portici,  e  che  aveva  spinte  le  sue  rotaie  fino  a 
Castellamare  da  una  parte,  a  Nocera  e  a  Vietri  dall'  altra,  il  Re- 
gno d'Italia  trovò  nel  Napoletano  soli  226  chilometri  di  ferrovia, 
compresi  quelli  che  furono  aperti  all'esercizio  nel  1861.  Il  Pie- 
monte e  la  Lombardia  ne  avevano  in  esercizio  oltre  mille  e 
cinquecento  e  parecchie  centinaia  in  costruzione.  Se  comincia- 
rono più  tardi,  non  si  arrestarono  cosi  presto.  La  Sicilia,  come 
si  è  detto,  non  aveva  un  chilometro  solo  di  strada  ferrata. 

Il  primo  riordinamento  delle  ferrovie  napoletane  fu  compiuto 
nel  1861  dall'ingegnere  Ettore  Alvino,  che  ebbe  a  suoi  efficaci 
collaboratori  due  giovani  intelligenti  e  coraggiosi,  Francesco 
Martorelli  e  Alzimiro  Lion.  Tutt'e  due,  dopo  avere  studiata  in- 
gegneria- all'Università,  presero  le  armi  nel  1860,  e  terminata 
la  campagna,  entrarono  nell'a.mministrazione  delle  ferrovie  ;  e  il 
Martorelli,  che  i  suoi  amici  chiamano  ancora  Checchino^  fu  più 
tardi  un  pezzo  grosso  nelle  strade  ferrate  italiane.  Quando  il 
Grandis  nel  1862  venne  incaricato  dal  governo  di  consegnare 
le  ferrovie  napoletane  alla  società  delle  Romane,  ebbe  a  ma- 
ravigliarsi dell'opera  riformatrice,  che  l'Alvino  e  i  suoi  collabo- 
ratori vi  avevano  compiuta  in  poco  tempo. 

Sindaco  della  città  di  Napoli  era,  dalla  fine  del  1867,  il  prin- 
cipe d'Alessandria,  che  lasciò  fama  di  abile  amministratore  e  fu 
consigliere  comunale  nel  1888  e  nel  1889.  Ferdinando  II,  se- 
guendo la  tradizione  di  porre  a  capo  della  città  di  Napoli  pa- 
trizi napoletani  non  più  doviziosi,  lo  aveva  chiamato,  dopo  alcu- 
ni mesi  d' interregno,  a  succedere  a  don  Antonio  Carafa  di  Noja. 
Il  sindaco  durava  in  ufficio  tre  anni,  ma  poteva  essere  confer- 
mato, e  il  Carafa  aveva  avute  tre  conferme.     Nel  1866,  il  Re  lo 


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mise  in  riposo,  continuandogli  l'assegno  sindacale  di  160  ducati 
al  mese,  sino  a  che,  come  si  leggeva  nello  stato  discusso  del  Co- 
mune, non  sarà  promosso  ad  una  competente  carica.  Questa 
promozione  non  giunse  mai,  e  l' assegno  gli  fu  pagato  sino 
al  1862. 

Il  breve  e  agitato  periodo  costituzionale  non  portò  alcuna 
innovazione  nel  Corpo  della  città  di  Napoli,  ma  Garibaldi  il 
giorno  9  settembre  1860  fece  tabula  rasa  di  tutto  l'antico.  *  Gari- 
baldi avrebbe  voluto  mantenere  il  principe  d'Alessandria,  che  egli 
conobbe  a  Salerno  la  mattina  del  7,  e  col  quale  giunse  a  Napoli, 
ma  il  D'Alessandria  il  giorno  dopo  mandò  le  sue  dimissioni,  rice- 
vendone dal  Romano,  ministro  della  dittatura,  questa  risposta  : 

Nel  nome  dell'  invitto  Dittatore  generale  Garibaldi,  son  lieto  di  po- 
terle manifestare  i  sentimenti  della  sua  calda  simpatia  e  viva  stima  pel 
modo  come  Ella  ha,  qual  rappresentante  del  Municipio,  provveduto  sinora 
all'amministrazione  del  medesimo,  ed  ora  alla  transizione  necessaria  dal 
vecchio  ordine  di  cose  al  nuovo. 

Dolente  il  Dittatore  di  non  potersi,  per  l'onorevolissima  sua  delica- 
tezza, piuttosto  unica  che  rara,  continuare  a  giovarsi  dell'opera  sua,  si  ri- 
serba di  farne  tesoro  non  appena  le  circostanze  glielo  permetteranno. 

Kapolii  8  settembre  1860. 

firmato:  L.  Romano. 


*  Erano  Decurioni  della  città  di  Napoli,  quando  fu  promulgato  l'atto 
sovrano  del  25  giugno,  e  continuarono  ad  esserlo  sino  al  9  settembre  :  Giu- 
seppe Onofri,  il  principe  di  Roccella,  Agostino  Piarelli,  Antonio  Maiuri, 
Paolo  Gonfalone,  Raffaele  Capobianco,  Francesco  Cappella,  Gonaro  Como, 
Matteo  Fossetti,  Giovanni  Alberto  Petitti,  Giovanni  de  Horatiis,  Luigi  de 
Biase,  Francesco  Amato,  conte  Michele  Gaetani,  Luciano  Serra  duca  di 
Cardinale,  Francesco  Spinelli  dei  principi  di  Scalea,  Domenico  Antonio 
Vacca,  Vincenzo  Napoletani,  il  commendatore  Passante,  Raffaele  Curcio, 
il  principe  di  Ardore,  Giovanni  Cianciulli,  Antonio  Mastrilli,  marchese  di 
Selice,  Lorenzo  Bianco,  Stanislao  d'Aloe,  Luigi  de  Conciliis,  Francesco 
Bruno,  Ambrogio  Mendia,  Ferdinando  Tommasi,  Giuseppe  Guida.  Erano 
Eletti:  per  San  Ferdinando,  Luigi  Masola  dei  marchesi  di  Trentola ;  per 
Chiaja,  Alfonso  de  Giorgio  ;  per  San  Giuseppe,  Carlo  Marnili,  duca  di  San 
Cesario;  per  Montecalvario,  Filippo  Patroni  Griffi;  per  Avvocata,  Gaetano 
Altieri  ;  per  Stella,  Giacomo  Monforte  ;  per  San  Carlo  all'Arena,  France- 
sco Parisi;  per  la  Vicaria,  Ippolito  Porcinari;  per  San  Lorenzo,  Eugenio 
Crivelli  dei  duchi  di  Roccaimperiale  ;  per  Mercato,  Michele  Caracciolo,  du- 
ca di  Brienza;  per  Pendino,  Ludovico  Maria  Paterno  e  per  Porto,  il  mar- 
chese Tommaso  Patrizi.     I  nomi  degli  Aggiunti  è  superfluo  riferirli. 


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E  dopo  la  nomina  del  nuovo  sindaco  in  persona  di  Andrea 
Colonna,  avvenuta  il  giorno  9  settembre,  Garibaldi  diresse  al 
coerente  sindaco  che  si  ritirava,  questa  lettera  molto  onorevole  : 

Napoli,  10  settembre  1880. 
Signore, 

Il  decreto,  con  cui  ho  provveduto  alla  nomina  df)l  suo  successore  nel- 
l'ufficio di  Sindaco  di  questa  capitale,  è  stato  un  omaggio  che  ho  dovuto 
rendere  alla  sua  politica  delicatezza.  So  che  l'opera  sua,  a  giudizio  del- 
l'universale, è  riuscita  utilissima  al  Municipio,  e  di  ciò,  che  la  onora,  io 
pure  le  rendo  grazie.  Confido  che  non  sia  lontano  il  momento  in  cui  io 
possa  rivederla  in  qualche  pubblico  ufficio,  degno  di  Lei. 

Soddisfo  poi  ad  un  bisogno  del  mio  cuore,  manifestandole  la  mia  viva 
riconoscenza,  pel  modo  veramente  patriottico,  con  cui  Ella  ha  adempiuto 
nel  giorno  7  del  corrente,  alla  missione  affidatale,  insieme  al  comandante 
della  Guardia  Nazionale. 

Il  Dittatore 
firmato  :  Gr.  Garibaldi.  ^ 

Il  nuovo  Decurionato  si  riunì  la  prima  volta  il  18  settem- 
bre sotto  la  presidenza  del  nuovo  sindaco,  Andrea  Colonna,  e 
come  suo  primo  atto,  deliberò  di  offrire  a  Garibaldi  la  cittadi- 
nanza napoletana  e  di  presentare  all'  "  illustre  Dittatore  delV Ita- 
lia meridionale,  la  sua  adesione  al  Regno  d^ Italia,  sotto  lo  scettro 
costituzionale  del  Ee  Vittorio  Emmanuele  „ . 

L'ultimo  bilancio,  detto  stato-discusso,  fu  quello  approvato 
nel  1858  e  che  doveva  durare  per  il  quinquennio  1858-1862.  Le 
entrate  comunali  raggiungevano  la  cifra  di  697370  ducati,  e  di 
questi  rimanevano  disponibili,  ogni  anno,  3000  ducati.  Quei  bi- 
lanci, redatti  in  modo  chiarissimo,  perchè  a  ciascun  capitolo  era 
annessa  la  sua  spiegazione,  rivelavano  le  condizioni  di  Napoli  e 
le  competenze  del  Decurionato  :  competenze  e  condizioni,  che 
sdegnano  qualunque  paragone  colle  presenti.  Basterebbe  con- 
frontare le  cifre  di  quei  bilanci,  con  quelle  di  oggi.  Il  maggior 
cespite  di  entrata  erano  i  molini,  non  appaltati  ma  tenuti  in 
amministrazione  e  che  rendevano  40000  ducati;  immediatamente 
dopo   seguivano    gli    af&tti   delle   terre    municipali,   per   20000. 


'  Queste  due  lettere  furono  pubblicate  nel  Corriere  di  Napoli  dal  figlio 
del  defunto  ex  sindaco,  Carlo  Pignone  del  Carretto,  oggi  principe  di  Ales- 
sandria. 


—  91   - 

Trascuro  i  cespiti  minori,  per  notare  soltanto  che  il  Comune 
aveva  2376  ducati  di  rendita  iscritta  sul  gran  libro.  Tra  le 
rendite  straordinarie  figurava  in  primo  luogo  la  resta  di  cassa 
del  precedente  esercizio,  che  nell'ultimo  bilancio  ascendeva  a 
mille  ducati  e  che  allora,  in  tutti  gli  esercizi  finanziari,  non 
mancava  mai,  come  oggi,  pur  troppo,  manca  sempre.  Modestis- 
simo era  il  reddito  presunto  dalle  multe  per  contravvenzioni 
alla  polizia  urbana  e  ai  pesi  e  misure  :  appena  centodieci  ducati  ; 
e  ancora  più  modesto,  ridicolo  quasi,  l'altro,  di  quarantanove 
ducati,  delle  multe  per  contravvenzioni  al  contratto  di  illumi- 
nazione della  città.  Quasi  150000  ducati  erano  costituiti  dal 
primo  e  secondo  3  %  pagati  dai  proprietari  di  case  in  Napoli, 
e  8820  ducati  dalla  sovrimposta  dei  grani  addizionali  sulla  fon- 
diaria. Qnal  difierenza  con  oggi  !  Il  nuovo  camposanto,  a  Pog- 
gio reale,  dava  al  Comune  una  rendita  annua  di  circa  15000 
ducati. 

Una  delle  entrate  straordinarie  più  cospicue,  ma  che  il  Decu- 
rionato  non  riusciva  mai  a  determinare  in  una  cifra  precisa,,  era 
quella  dei  160  000  ducati,  che  la  Tesoreria  generale  doveva  sbor- 
sare come  reddito  della  sovrimposta  del  primo  e  secondo  5  °/o  sui 
dazi  di  consumo.  Nello  stato-discusso  si  legge  :  "  Il  collegio  fa 
premura,  che  il  conteggio  venga  subito  eseguito,  a /fin  di  conoscersi 
Veffettivo  avere  del  Comune,  e  l'aumento  che  ne  potrà  risultare 
possa  addirsi  in  aggiunzione  alle  somme  destinate  per  opere  di  so- 
vrano comando,,.  Parole  buttate  al  vento.  Altro  capitolo,  che 
figurava  tra  le  rendite  straordinarie  meno  sicure,  era  quello  co- 
stituito dai  rimborsi,  che  faceva  il  ministero  della  guerra  per 
somministrazioni  e  trasporti  militari^  per  i  quali  il  Decurionato 
anticipava  le  spese.  Capitolo  non  mai  sicuro,  perchè  si  segnava 
bensì  nello  stato-discusso,  ma  il  ministero  della  guerra  prorogava 
o  diminuiva  i  versamenti,  a  suo  piacere. 

Ancora  più  interessante  e  curiosa  è  la  parte  che  riguarda  le 
spese.  Circa  60000  ducati  rappresentavano  tutti  gli  stipendi 
agli  impiegati,  compresi  i  dodici  giudici  regi  dei  quartieri,  e  gli 
impiegati  ai  giardini  e  alla  Real  Villa  di  Capodimonte.  Gl'im- 
piegati di  cancelleria  erano  settantuno,  con  stipendi  che  varia- 
vano da  un  massimo  di  cento  ducati,  quanti  ne  aveva  il  cancelliere 
maggiore,  a  un  minimo  di  sei.  Negli  ultimi  anni  fu  cancelliere 
maggiore  Luigi  Moltedo,  succeduto  nel  1850  a  certo  Carobelli  e 


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collocato  in  riposo  nel  gennaio  del  1861.  La  trasformazione  del 
cancelliere  maggiore  nel  segretario  generale,  come  si  chiama  oggi, 
avvenne  in  persona  di  Francesco  Dinacci,  che  successe  al  Moltedo, 
ed  ebbe  alla  sua  volta  per  successore  nel  1877,  Carlo  Camma- 
rota,  uomo  di  gran  valore  amministrativo  e  vera  pietra  ango- 
lare di  queir  immensa  azienda,  in  tutti  questi  anni  di  vita  mu- 
nicipale agitatissima.  Il  Cammarota  è  oggi  in  riposo,  come  si 
è  detto. 

L'illuminazione  costava  78  000  ducati,  ma  tranne  Toledo, 
Chiaja,  la  Marina  e  Foria,  scarsamente  illuminate  da  rari  fanali 
di  un  gaz  molto  scialbo,  il  resto  della  città  era  rischiarato  ad 
intervalli  da  lampade  ad  olio  e  da  lumi  accesi  sotto  le  sacre  im- 
magini, secondo  i  buoni  ammonimenti  del  padre  Rocco.  Le 
spese  di  culto  e  di  beneficenza  assorbivano  parecchie  migliaia  di 
ducati.  Cinquecento  ducati  si  spendevano  per  la  festa  del  Corpus 
Domini,  e  al  tesoro  di  San  Gennaro  se  ne  pagavano  4000  per" 
il  mantenimento  della  cappella  del  santo,  come  si  pagano  anche 
oggi.  Le  spese  di  culto  per  le  chiese  parrocchiali  raggiunge- 
vano la  cifra  di  circa  quindici  mila  ducati,  e  per  le  riparazioni  a 
dette  chiese  se  ne  spendevano  quattro  mila.  Le  offerte  annuali  ai 
santi  patroni  non  costavano  meno  di  due  mila  ducati,  ed  egual 
somma  si  stanziava  pel  dono  da  umiliarsi  a  Sua  Maestà  (D.  G.) 
nella  ricorrenza  della  Santa  Pasqua  e  del  Santo  Natale.  Questi  doni 
consistevano,  ordinariamente,  in  ortaggi  e  frutta  fuori  stagione,  vi- 
telli di  Sorrento,  lavori  di  ebanisteria  ed  altre  cose  pregiate  o  fa- 
stose, che  i  sindaci  per  ingraziarsi  il  Re  di  volta  in  volta,  vi  ag- 
giungevano, sicché  la  somma  prevista  era  sempre  superata.  Il 
dono  più  sfarzoso  che  si  ricordi,  fu  quello  fatto  a  Ferdinando  II 
dal  sindaco  Carafa,  nel  Natale  del  1866,  allo  scopo  di  procu- 
rarsi, come  si  disse,  la  riconferma  nell'  ufficio  sindacale  per  un 
altro  triennio.  Ma  non  gli  riusci,  nonostante  che  il  Re,  quan- 
do gli  fu  presentata  la  proposta  di  metterlo  in  riposo,  dicesse: 
"  Oh  !  mi  dispiace  assai  di  doverlo  mandare  a  casa,  proprio 
adesso  che  mi  ha  fatto  quel  bel  regalo  „ .  Nel  Natale  del  1869,  a 
Francesco  II  il  Decurionato  offrì  in  dono  una  scrivania  con  se- 
dia di  ebano  e  tartaruga,  e  un  armadio  con  finimenti  di  bronzo, 
stile  Luigi  XV.  Il  lavoro  fu  eseguito  dall'ebanista  Beniamino 
Perris,  al  quale  si  pagarono  750  ducati.  Questi  doni  si  tra- 
sportavano in  modo  solenne  :  era  quasi  una  processione  da  Mon- 


—  93  - 

teoliveto  alla  Reggia,  e  Toledo  in  quella  occasione  riboccava  di 
spettatori.  Nel  Natale  del  1860  e  nella  Pasqua  del  1861,  anche 
Vittorio  Emanuele  ebbe  i  suoi  doni  ed  anche  allora  venne  ecce- 
duta la  previsione  del  bilancio.  Fu  regalata  tanta  e  tanta 
roba,  che  occorsero  per  trasportarla  ben  cinquanta  facchini. 
Anche  questi  doni  furono  ugnali  a  quelli  che  si  facevano  ai 
Borboni:  due  vitelle  con  ricche  gualdrappe,  ohe  costarono  set- 
tantaquattro ducati  ;  mobili,  fiori,  frutta,  dolci  e  confetture,  og- 
getti di  corallo  e  una  statua  pagata  allo  scultore  Balzico  set- 
tecento ducati,  e  che  rappresentava  una  coquette  del  secolo  XVI  : 
grazioso  lavoro  che  segnò  l'inizio  della  fortuna  del  chiaro  arti- 
sta, perchè  Vittorio  Emanuele  volle  conoscerlo  e  gli  affidò  altri 
lavori. 

Seicento  ducati  si  distribuivano  ai  poveri  per  Natale  e  per 
Pasqua,  e  non  poche  opere  di  beneficenza  gravavano  sul  bilan- 
cio comunale,  dove  figuravano,  non  molto  largamente,  le  opere 
pubbliche.  Cinquantamila  ducati  per  la  ricostruzione  delle  strade; 
12  000  per  la  loro  pulizia  ed  annaffiamento  e  130000  per  opere  pub- 
bliche di  sovrano  comando.  Per  avere  un'  idea  delle  somme  stan- 
ziate per  qualche  speciale  opera  pubblica,  ricordo  che  per  la  strada 
Maria  Teresa,  oggi  corso  Vittorio  Emanuele,  erano  fissati  30  000 
ducati;  6000,  per  la  strada  di  Mergellina;  2000,  per  la  strada 
San  Giovanni  a  Carbonara;  10  000,  per  la  copertura  del  canale 
di  Carmignano  ;  15  000  per  i  lavori  alle  Fosse  del  grano  e  4800 
per  la  pescheria  :  cifre  che  fanno  maraviglia  oggi.  Per  le  feste 
civili,  cioè  per  gli  onomastici  ed  i  compleanni  della  famiglia 
reale,  erano  stabiliti  2500  ducati. 

Ma  a  rompere  l'armonia  dello  stato-discusso,  vennero  le  nozze 
del  duca  di  Calabria.  In  così  fausta  circostanza,  onde  esulti  il 
popolo  tutto  di  questa  fedelissima  metropoli,  e  duratura  ne  ri- 
manga la  ricordanza  —  così  si  legge  nel  verbale  dell'adunanza 
del  Decurionato  del  due  gennaio  1859  —  si  stabili  di  spendere 
12  000  ducati  :  6000,  in  luminarie,  musica  e  feste  religiose  ;  3000, 
per  elemosine  ai  poveri  e  3000  per  centoventi  maritaggi,  di  26  du- 
cati ciascheduno.  Altre  spese  si  decretarono  il  3  luglio  1859,  per 
festeggiare  il  fausto  avvenimento  delV ascensione  al  trono  di  S.  M. 
Francesco  II  ;  12  000  ducati  per  luminarie  e  feste  ;  3000  per 
elemosine  e  per  maritaggi,    nonché    quei  3000  ducati   che  non 


—  94  — 

furono  distribuiti  in  occasione  delle  nozze.  Pél  fondo  ove  gravare 
la  cennata  cifra  di  ducati  15  000  —  concludeva  la  deliberazione 
—  non  trovandosi  ancora  approvato  lo  stato  finanziero,  il  Decurio- 
nato  ha  opinato  di  pagarsi  per  ora  a  cassa  aperta^  e  poscia  re- 
golarizzarsi con  quelli  articoli  che  offriranno  latitudine.  E  si  vuoi 
sapere  quali  erano  per  il  Decurionato  gli  articoli  cbe  offrivano 
maggiore  latitudine  ?  Erano  la  scuola  nautica,  a  cui  si  sottrae- 
vano 1762  ducati;  gli  interessi  ai  propretari  danneggiati  per 
4000  ducati  ;  il  convitto  veterinario,  cui  si  toglievano  150  du- 
cati; ma  le  più  malmenate  furono  le  spese  sanitarie,  la  cui  ci- 
fra meschina  di  1800  ducati  fu  ridotta  a  meno  della  metà  ! 

I  rapporti  tra  l'eccellentissimo  Corpo  della  città  di  Napoli  e 
il  nuovo  Re,  non  furono  cordiali  per  un  incidente  che  va 
riferito.  Vero  è  che  il  Decurionato  fece  cantare  il  4  febbraio 
un  solenne  2'e  Deum  in  duomo  ed  avrebbe  pur  celebrate  le  altre  fe- 
ste, stabilite  per  la  fausta  occasione  delle  nozze,  se  il  principe  di 
Bisignano  non  avesse  comunicato  da  Bari,  il  7  marzo,  al  sindaco, 
un  ordine  sovrano  che  le  sospendeva.  Vero  è  pure  che  altre  feste 
il  Comune  aveva  disposte,  per  l'avvento  di  Francesco  II  al  trono, 
ma  fu  appunto  questa  circostanza,  che  die  origine  ai  dissensi 
fra  il  Decurionato  e  il  nuovo  Re.  L'incidente  avvenne  nel  so- 
lenne baciamano  del  25  luglio,  per  il  quale  il  sindaco  aveva 
pubblicato  il  cerimoniale  da  seguirsi.  Secondo  questo  cerimo- 
niale, che  il  principe  d'Alessandria  aveva  creduto  opportuno 
ristampare,  dopo  che  da  vari  anni  la  curiosa  cerimonia  non  aveva 
più  luogo,  sarebbero  stati  ammessi  a  baciar  la  mano  ai  Sovrani, 
prima  i  generali,  poi  i  reali  paggi,  indi  la  Consulta,  quarto  il  Corpo 
della  città  e  poi  gli  altri.  Il  Corpo  della  città  di  Napoli  aveva 
comune  con  gli  ambasciatori,  i  cavalieri  gran  croce  di  San  Fer- 
dinando e  i  Grandi  di  Spagna,  il  privilegio,  che  risaliva  a  un 
diploma  di  Carlo  VI  del  24  settembre  1711,  di  tenere  il  capo 
coperto  alla  presenza  dei  Sovrani.  Gli  Eletti  si  coprivano  quan- 
do il  sindaco  pronunziava  il  discorso  e  restavano  col  cappello 
in  testa  anche  durante  la  risposta  del  Re.  Dopo  il  15  maggio 
1848,  i  discorsi  furono  aboliti  e  venne  a  mancare  l'occasione  di 
riaffermare  il  privilegio.  Francesco  II,  si  disse,  aveva  promesso 
di  ripristinare  e  discorsi  e  privilegio,  ma  invece  colse  la  prima 
circostanza  per  confermarne  l'abolizione,  la  quale  veramente  ma- 
ravigliò  tutti  e  suscitò   pettegolezzi    infiniti.     Il   sindaco  e  gli 


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eletti,  tornati  a  Monteoliveto,  stesero  un  verbale  dell'  avve- 
nimento, e  questo  verbale  che  consacra  alla  storia  le  più  mi- 
nute circostanze  di  quel  fatto,  non  è  superfluo  esumare,  a  più 
completa  cognizione  dei  tempi.  Eccolo  :  "  L'Eccellentissimo  Cor- 
po della  città  di  Napoli  si  è  riunito  in  àbito  senatorio  in  gran 
gala,  nella  galleria  di  Monteoliveto  presso  la  real  Corte,  a  pren- 
dere parte,  a  seconda  del  cerimoniale  di  etichetta,  al  solenne  ba- 
ciamano, e  complimentare  con  un  discorso,  solito  a  farsi  in  simili 
circostanze,  S.  M.  il  re  Francesco  II,  per  la  sua  assunzione  al 
trono  delle  Due  Sicilie.  Giunto  ai  piedi  della  scala  della  Reggia, 
vi  è  stato  ricevuto  dall'usciere  maggiore,  ed  alla  porta  superiore 
da  S.  E.  il  marchese  di  Pescara  e  Vasto,  cerimoniere  maggiore 
di  S.  M.  D.  G.,  il  quale  dirigendosi  a  S.  E.  il  sindaco,  gli  ha 
detto  che  S.  M.  il  Re  volea  che  V  Eccellentissimo  Corpo  della  città 
di  Napoli  non  si  coprisse  innanzi  al  Real  Trono,  avendo  dato  si- 
mile ordine  per  tutti  gli  altri  Grandi  di  Spagna,  ambasciatori  e 
cavalieri  G.  C.  di  San  Ferdinando,  insino  a  quando  S.  E.  il  sin- 
daco non  venisse  autorizzato  a  riprendere  la  parola  nei  solenni 
baciamani.     Di  tutto  ciò  si  è  preso  atto  nel  presente  verbale  „ . 

Gli  ujQfici  del  Comune  avevano  fede  a  Monteoliveto.  Il  loro 
passaggio  a  San  Giacomo  fu  approvato  dal  ministero,  su  propo- 
sta del  prefetto  La  Marmora  nel  1862,  e  ancora  attende  la  con- 
ferma dal  potere  legislativo.  Nello  stesso  anno,  dunque,  comin- 
ciò l'esodo  degli  uffici.  Il  nuovo  municipio  occupò  in  San  Gia- 
como gran  parte  del  palazzo,  anzi  la  parte  migliore,  che  guarda 
la  piazza  e  il  mare.  L'aula  fu  costruita  al  primo  piano,  ma  es- 
sendo angusta  per  ottanta  consiglieri,  per  i  giornalisti  e  per  il 
pubblico,  il  sindaco  Capitelli  ne  fece  costruire  una  più  capace, 
al  secondo  piano,  ch'è  la  presente.  La  divisione  amministrativa 
del  municipio  nelle  dodici  sezioni,  oltre  i  villaggi,  rimase  la 
stessa  fino  al  sindacato  del  marchese  di  Campolattaro,  che  volle 
abolire  le  sezioni  coi  relativi  vicesindaci  e  aggiunti,  non  so  con 
quanto  profitto  dell'amministrazione  municipale  e  comodo  del 
pubblico.  Gli  storici  carrozzoni,  che  servivano  al  sindaco  e  agli 
eletti  per  andare  processionalmente  a  Piedigrotta,  al  Duomo  e  al 
Carmine  a  tagliare  i  capelli  al  Crocifisso,  sono  adesso  al  museo 
di  San  Martino. 

Confrontando  i   due    bilanci    dell'  ultimo    Decurionato  e  del 


-  96  - 

presente  municipio,  si  vede  e  si  giudica  tutto  il  cammino  per- 
corso in  39  anni.  Da  uno  stato-discusso  di  697  370  ducati,  a  un 
bilancio  di  23  milioni  e  mezzo  di  lire,  quale  cammino  invero  e 
quante  opere  compiute!  Dal  primo  debito  del  1861,  di  circa  15  mi- 
lioni, contratto  per  le  vivaci  insistenze  del  luogotenente  Cialdini, 
a  quelli  posteriori  che  raggiunsero  i  160  milioni,  quante  oc- 
casioni di  confronti  e  di  studio,  di  orgogli  e  forse  anche  di 
pentimenti  !  Certo  la  città  è  ben  altro  di  quella  che  era  nel  1860. 
Ohi  la  ricorda  allora  quasi  non  la  riconosce,  tanto  rapida  n'è  stata 
la  trasformazione  esteriore.  Era  forse  provvidenziale  che  avve- 
nisse una  grande  sventura,  come  il  colera  del  1884,  per  proce- 
dere al  cosiddetto  risanamento,  che,  in  nome  della  santa  giusti- 
zia e  dell'onore  italiano^  lo  Stato  rese  possibile,  concorrendovi 
con  cento  milioni,  senza  i  quali  la  città  sarebbe  rimasta,  nei  suoi 
quattro  quartieri  più  popolosi,  la  stessa  che  fu  ai  tempi  degli  Spa- 
gnoli e  dei  Borboni:  teatro  d'immondizie  materiali  e  morali  e 
di  epidemie  permanenti.  Le  forze  economiche  della  città,  pur 
rendendo  otto  volte  maggiore  il  bilancio  comunale,  mercè  nuovi 
e  gravi  balzelli  e  quasi  continui  debiti,  non  sarebbero  bastati 
a  risanare  Napoli.  Per  quanto  lo  sventramento  non  risponda 
a  tutto  ciò  che  se  ne  attendeva,  e  sia  riuscita  piuttosto  una  me- 
diocre trasformazione  edilizia  che  una  buona  opera  sociale  e  mo- 
rale, è  sempre  un'opera  santa,  e  fra  altri  dieci  anni,  se  sarà  com- 
pita, collocherà  Napoli  non  solo  fra  le  più  belle  città  del  mondo, 
ma  fra  le  più  sane  ;  e  i  due  nomi  che,  nella  numerosa  serie  dei  sin- 
daci, vanno  particolarmente  ricordati  per  le  loro  audacie  e  per 
le  grandi  cose  che  compirono  o  iniziarono,  son  quelli  di  Gugliel- 
mo Capitelli  e  di  Niccola  Amore. 


^: 


CAPITOLO  V 


Sommario  :  La  vita  nelle  Provincie  —  Galantuomini  e  non  galantuomini  —  Vec- 
chie e  nuove  giamberghe  —  Il  giuoco  e  la  beneficenza  —  I  nobili  nelle 
Provincie  —  Napoletani  e  provinciali  —  La  proprietà  fondiaria  e  gli  affit- 
tuari —  Latifondisti  e  pìccoli  possidenti  —  La  vita  economica  —  Le  con- 
greghe e  loro  rivalità  —  La  settimana  santa  —  Tipi  caratteristici  e  un  re- 
duce di  Antrodoco  —  Le  esteriorità  della  ricchezza  —  La  carrozza,  la  mensa 
e  la  casa  —  Pinacoteche  private  —  Centri  di  maggiore  civiltà  e  di  cospira- 
zioni liberali  —  Aquila  e  Lecce  —  Le  feste  religiose  —  Epigramma  per  la 
festa  di  San  Giustino  a  Chieti  —  Seminari  e  collegi  —  Ricordi  e  confronti 

—  Il  fenomeno  di  Daniele  Nobile  a  Chieti  —  La  cultura  e  le  tendenze  — 
Trionfavano  i  reazionari  —  Particolari  sugli  attendibili  —  L'educazione  dei 
giovani  —  I  viaggi  in  Puglia  e  le  bettole  di  Ariano  —  L'insicurezza  delle 
strade  —  I  teatri  —  Interessi  e  bisogni  pubblici  —  Le  autorità  nei  Comuni  : 
sindaci,  primi  eletti  e  capi  urbani  —  L'  indifferenza  delle  autorità  superiori 

—  Confronti. 

La  vita  del  Regno  si  concentrava  in  Napoli  per  le  provinole 
continentali  ;  in  Palermo,  Messina  e  Catania  per  la  Sicilia  ;  quella 
delle  provinole  era  di  una  maravigliosa  monotonia.  Assenza  quasi 
assoluta  di  bisogni  morali,  e  limitati  i  materiali  al  puro  neces- 
sario. Vi  era  una  distinzione  di  ceti  tutta  convenzionale:  ga- 
lantuomini e  7ìon  galantuomini.  Coloro  che  vivevano  del  loro  censo, 
0  esercitavano  professione,  o  vestivano  il  soprabito,  detto,  con 
tradizionale  classicità,  giamberga,  erano  galantuomini  e  avevano 
diritto  al  don.  Gli  altri  formavano,  veramente,  un  sol  ceto.  Nel 
resto  d' Italia  la  parola  galantuomo  aveva  significato  morale  ;  nel- 
l'antico Regno,  esclusivamente  sociale.  Il  ceto  dei  galantuomini 
si  suddivideva  in  prime  giamberghe  (gente  nuova)  e  vecchie  giam- 
berghe, cioè  signori,  le  cui  famiglie  contavano  qualche  secolo  di  esi- 
stenza e  avevano  in  casa  il  ritratto  degli  avi,  e  mobili,  libri,  stoffe, 

Dk  Cesare.  Laflnt  di  un  Regno  •  VoL  II.  7 


-  98  - 

argenterie  e  quadri  di  qualche  valore.  Veramente,  soltanto  que- 
sti erano  considerati  i  veri  galantuomini,  ai  quali  incombeva 
quasi  il  dovere  di  non  far  nulla,  reputandosi  disonorevole  l'eserci- 
zio di  una  professione.  Legame  di  ceto  fra  galantuomini  pareva 
che  vi  fosse,  ma  nessuno  ve  n'era  in  realtà  tra  i  ricchi  e  i  non 
ricchi.  Ciascuno  viveva  per  se,  e  il  mondo  proprio  era  la  pro- 
pria famiglia,  e  neppur  sempre,  perchè  non  rari  i  casi  di  fiere 
avversioni  e  di  liti  clamorose  tra  i  membri  della  stessa  famiglia, 
quasi  sempre  per  ragioni  d' interesse.  Naturalmente,  i  galantuo- 
mini ricchi  erano  i  veri  potenti  e  i  soli  temuti.  Reputandosi 
una  classe  privilegiata,  perchè  la  ricchezza  garantiva  in  ogni 
caso  l'impunità,  guardavano  con  aria  compassionevole  quelli 
ohe  non  erano  ricchi,  e  con  la  protezione  delle  autorità,  eserci- 
tavano il  locale  dominio,  quasi  sempre  a  base  di  prepotenze  e  di 
favori.  Ed  era  cosi  radicata  l'opinione  che  col  denaro  si  otte- 
nesse tutto,  che  il  ricco  era  posto,  per  generale  consenso  e  quasi 
per  diritto  naturale,  in  una  condizione  privilegiata.  Questi  ric- 
chi di  provincia,  i  più  conosciuti,  s' intende,  avevano  spesso  pa- 
renti o  persone  influenti  in  Corte  o  nei  ministeri  e  vi  ricorre- 
vano, non  indarno,  nelle  occasioni.  Alcuni  conoscevano  il  Re» 
e  all'occorrenza  si  rivolgevano  proprio  a  lui,  senza  intermediarli. 
L'uguaglianza  di  tutti  innanzi  alla  legge  era  una  convenzionale 
bugia  che  non  maravigliava  nessuno;  e  la  vita  sociale  infor- 
mata da  un  solo,  vero  e  tenace  sentimento,  l'amore  di  sé,  per 
cui  avveniva  che  ciascuno  godesse  più  delle  disgrazie  che  delle 
fortune  altrui,  e  si  alternassero  l' invidia  e  la  compassione.  L'o- 
zio alimentava  l' indiscrezione  :  l' ingerirsi  dei  fatti  altrui  e  il 
tagliare  i  panni  addosso  al  prossimo  era  la  più  dilettevole  delle 
occupazioni,  com'era  quella  del  giuoco,  alimentata  anche  dal- 
l'ozio, e  che  il  governo  non  riusci  mai  a  frenare.  I  principali  gio- 
catori avevano  qualche  celebrità  e  ogni  paese  contava  i  suoi.  La 
cronaca  del  giuoco  offriva  una  miniera  di  aneddoti  caratteristici, 
e  il  clero  dava  un  discreto  contingente  alla  classe  dei  giocatori, 
né  tra  le  signore  mancavano  giocatrici  appassionate. 

La  ricchezza  di  rado  sentiva  alcun  dovere  sociale.  Raris- 
simo il  caso,  in  quegli  anni,  di  qualche  lascito  pio.  Ve  ne  fu  uno 
nel  1865,  che  menò  rumore.  Paolo  Tonti  di  Cerignola,  ricco 
possidente,  morendo  il  7  marzo  di  quell'  anno,  destinò  il  suo  vi- 


—  99  — 

stoso  patrimonio  ad  opere  di  carità  e  di  culto,  e  parve  ciò  una 
stravaganza,  da  sollevar  forse  più  critiche  che  lodi  :  tanto  si  era 
alieni  dal  pensare  ohe  si  .potesse,  morendo,  lasciare  ^il  proprio 
patrimonio  ai  poveri.  Quasi  tutta  la  beneficenza  si  concentrava 
a  Napoli,  a  Palermo  e  nelle  città  maggiori  del  Regno.  Nelle 
provinole  minori  non  esistevano  asili  d' infanzia,  ne  ricoveri  di 
mendicità,  né  sodalizi  di  mutuo  soccorso,  ma  solo  qualche  ricovero 
o  istituto  per  orfani  e  proietti,  o  qualche  ospedale  che  accoglieva 
i  poverissimi,  perchè  anche  i  poveri  sentivano  invincibile  repu- 
gnanza  di  entrarvi,  non  vinta  neppure  oggi.  Bitonto  aveva  l'or- 
fanotrofio Maria  Cristina,  e  Giovinaazo  l'ospizio  dei  trovatelli; 
Terra  di  Lavoro  aveva  le  Annunziate  di  Capua  e  di  Gaeta  e  il 
San  Lorenzo  di  Aversa,  tra  i  suoi  ospizii  principali,  e  cosi  Lecce  e 
Foggia,  Aquila  e  Catanzaro  ;  mentre  altre  provinole,  come  Avel- 
lino, Campobasso,  Potenza,  ne  erano  sprovviste.  Pochissime  città 
minori  possedevano  qualche  istituto  di  beneficenza  e  tra  esse  va 
solo  ricordata  Marcianise,  la  quale  aveva  ricchissime  opere  pie, 
amministrate  fin  d'allora  da  quel  canonico  Novelli,  che  più  tardi 
figurò  come  grande  agente  elettorale  in  Terra  di  Lavoro,  e  mori 
lasciando  una  cospicua  sostanza.  Un  solo  manicomio,  quello  di 
Aversa  ;  e  solo  negli  ultimi  anni,  un  francese,  certo  Florent,  ne 
fondò  uno  privato  a  Capodichino.  Vi  erano  le  Commissioni  di  be- 
neficenza, che  ordinariamente  somministravano  elemosine  e  piccoli 
sussidii  in  caso  di  malattia,  o  in  determinate  solennità,  il  qual  ge- 
nere di  elemosina  era  pur  adoperato  dai  ricchi,  nelle  feste  solenni 
o  per  i  morti.  Vi  era  poi  una  miseria  speciale,  perchè  quasi  oc- 
culta, in  quella  parte  della  borghesia,  la  quale,  dato  fondo  al 
patrimonio  per  dissipazione  o  disgrazie,  e  più  sovente  per  igna- 
via, non  trovava  da  far  nulla,  né  si  rassegnava  ad  esercitare  un 
mestiere,  per  il  pregiudizio  di  considerar  vile  qualunque  lavora 
della  mano.  C'era  perciò  in  ogni  comune  un  nucleo  piuttosto 
forte  di  fannulloni,  viventi  di  piccole  risorse  e  che  divenivano  una 
specie  di  stato  maggiore  dei  più  ricchi,  tipo  fra  il  cliente,  il  con- 
fidente e  lo  sparafucile.  Erano  gli  spostati  di  quella  società,  e 
dettero  più  tardi  il  maggior  contingente  alle  cospirazioni  e  indi 
alla  rivoluzione.  La  miseria  di  tante  famiglie  non  aveva  le  forme 
esterne  dell'  indigenza,  perchè  si  viveva  con  poco  e  vi  era  una 
certa  vanità  a  celare  il  bisogno.  Spesso,  per  opera  delle  auto- 
rità provinciali,   riusciva  a  qualche   persona  di   queste  famiglie 


—  100  - 

ottenere  un  impieguccio  nelle  amministrazioni  locali,  poiché  in 
quelle  dello  Stato  gl'impieghi  erano  patrimonio  ereditario  dei 
napoletani.  Molte  famiglie  della  borghesia,  cadute  in  bisognor 
raccoglievano  le  ultime  risorse  e  correvano  a  Napoli  a  cercar 
fortuna,  non  altrimenti  di  quel  che  fanno  oggi  i  contadini  ca- 
labresi, abruzzesi  e  lucani,  emigrando  in  America. 

I  nobili  vivevano  in  gran  parte  a  Napoli,  e  solo  di  tanto  in 
tanto  facevano  una  gita  nelle  provincie,  per  riscuotere  le  rendite, 
rinnovare  gli  affitti,  ma  più  spesso  per  contrarre  un  debito  o  ven- 
dere una  tenuta.  L'arrivo  del  principe  o  del  duca  nel  paese  natio 
era  occasione  desiderata  di  conviti  e  di  balli,  ed  argomento  di  acu- 
te e  maligne  congetture.  I  nobili  generalmente  non  erano  simpa- 
tici ai  provinciali,  che  li  consideravano  napoletani^  e  l'essere 
napoletano  non  era  per  i  nostri  vecchi  una  raccomandazione  ; 
che,  certo  a  torto,  napoletano  era  per  essi  sinonimo  d'imbro- 
glione. Quel  parlare  sarcastico  e  quell'aria  di  canzonatura 
perenne,  per  cui  non  si  capiva  se  dicessero  sul  -serio  o  da  burla, 
riusciva  ai  provinciali  intollerabile.  Ne  questi  avevano  torto, 
perchè  i  nobili  si  permettevano  sovente  scherzi  inverosimili,  ne 
sempre  di  buona  lega,  e  canzonavano  le  loro  abitudini,  le  diffidenze 
e  le  tirchierie,  non  risparmiando  quelli,  alla  cui  borsa  erana 
costretti  a  ricorrere.  In  Sicilia,  invece,  i  nobili  andando  nei 
loro  feudi,  erano  festeggiati  e  fatti  segno  ad  ogni  sorta  di 
ossequii,  ma  vi  andavano  assai  più  di  rado. 

A  studiar  bene  i  fenomeni  della  vita  morale  e  sociale  d'al- 
lora, non  si  può  non  riconoscere  che  i  rapporti  fra  gli  abitanti 
della  capitale  e  quelli  delle  provincie  erano  improntati  a  scam- 
bievole diffidenza.  Se  fra  Napoli  e  la  Sicilia,  per  ragioni  di  sto- 
ria e  incompatibilità  di  razza,  la  diffidenza  raggiunse  gli  estremi 
di  un'avversione  indomabile,  bisogna  pur  riconoscere  che  fu 
alimentata,  quasi  in  ogni  tempo,  dal  governo.  Fra  Napoli  e  le 
Provincie  del  continente  non  avrebbe  dovuto  essere  così  ;  ma  il 
napoletano  si  considerava  un  privilegiato,  e  i  provinciali  erano 
per  lui  una  razza  inferiore  sol  perchè  goffi  nel  discorrere,  nel 
vestire,  nel  muoversi.  Quando  i  provinciali  erano  ricchi,  si  dava 
lor  biasimo  dai  napoletani  di  non  saper  godere  le  ricchezze,  e 
s'imputava  loro  a  colpa,  se,  venendo  a  Napoli,  non  si  lasciassero 
spogliare,  e  a  maggior  colpa,  se  si  circondassero  di  cautele  e  di 


-  101  — 

sospetti.  E  i  provinciali,  esagerando  alla  lor  volta,  reputavano  i 
napoletani  imbroglioni  e  bugiardi,  e  ne  stavano  in  guardia,  ma 
non  in  guisa  da  sfuggire  sempre  alle  trappolerie  dei  più  audaci, 
e  da  non  cader  vittime  di  raggiri,  molte  volte  esilaranti,  soprat- 
tutto se  le  vittime  erano  ricclii  preti,  avidi  di  guadagni,  o  gio- 
vani inesperti,  avidi  di  piaceri,  o  gabbamondi  in  busca  di  numeri 
al  lotto.  Il  vero  è  che  i  napoletani  ritenevano  che  la  provincia 
fosse  in  obbligo  di  dar  loro  ciò  che  volevano,  ed  elevavano  agli 
onori  di  semidivinità  quei  gonzi,  i  quali,  scendendo  nella  capi- 
tale, privi  di  esperienza  e  di  talento,  si  facevano  portar  via  il 
patrimonio  fra  giuochi,  donne  e  bagordi.  Sarebbe  divertentissimo 
un  racconto  delle  trdstole,  che  si  consumavano  a  Napoli  e  a  Pa- 
lermo, a  danno  dei  provinciali. 

La  ricchezza  territoriale  era  accentrata  in  poche  famiglie, 
soprattutto  nelle  Calabrie,  in  Basilicata  e  in  Capitanata.  Tranne 
che  in  Terra  di  Lavoro,  nel  Barese  e  nel  Leccese,  non  esisteva 
altra  piccola  proprietà,  che  quella  della  terra  vignata  intor- 
no ai  Comuni.  Le  famiglie  veramente  ricche  non  davano  quasi  al- 
tro impiego  alla  ricchezza,  che  acquistando  ordinariamente  altre 
terre.  Vi  era  della  vanità  nel  possedere  grandi  estensioni  di 
terreno,  messe  poi  a  coltura  estensiva  di  cereali  e  di  ulivi,  o 
non  coltivate  punto,  ma  solo  tenute  ad  uso  di  pascolo  anche 
per  difetto  di  popolazione.  Se  questa  abbondava  in  Terra  di 
Bari  e  in  Terra  d'Otranto,  nonché  nelle  provinole  di  Napoli,  di  Ca- 
serta e  di  Reggio,  difettava,  dove  più  e  dove  meno,  quasi  dap- 
pertutto. La  mancanza  di  strade  rendeva  difficile  l'equilibrio 
tra  l'eccesso  e  la  mancanza  di  popolazione,  nelle  varie  provinole. 
La  Sicilia  interna  ne  era,  e  n'à  anche  oggi,  inverosimilmente, 
sprovvista. 

Molti  possidenti  di  Puglia  e  di  Calabria  si  erano  venuti 
alienando  dall'agricoltura.  Davano  in  fitto  le  tenute,  vendevano 
gli  armenti  e  si  ritiravano  a  Napoli,  sedotti  dalla  vita  dei  si- 
gnori. Ritirarsi  a  Napoli  era  pel  possidente  di  provincia  il  più 
vagheggiato  ideale,  che  fu  largamente  realizzato  nei  primi  anni 
della  rivoluzione,  quando  il  brigantaggio  rese  malsicure  le  cam- 
pagne. Gli  affittuari  e  coloni,  che  coltivavano  le  terre,  erano  in- 
vece gente  laboriosa,  parca  e  avveduta,  e  vennero  formando  via 
via  un  nuovo  ceto,  senza  i  pregiudizii  e  le  borie  dei  galantuomini. 


—  102  — 

E  si  formarono  cosi  nuove  fortune,  clie  alla  fine  del  Regno  erano 
numerose,  specie  nelle  Puglie  e  nella  Campania,  accresciute 
com'erano  dal  buon  prezzo  dei  grani,  delle  lane,  dei  latticini, 
delle  mandorle  e  degli  olii  di  oliva,  e  soprattutto  dalla  tenuità 
delle  imposte.  Niente  tasse  sui  consumi  o  sugli  affari  o  sulle  suc- 
cessioni ;  e  le  imposte,  nei  comuni,  clie  non  avevano  beni  proprii, 
limitate  a  pochissimi  grani  addizionali  sulla  fondiaria.  Le  tasse 
erano  ristrette  alla  carta  da  bollo,  a  pochi  balzelli  doganali  di 
entrata  o  di  uscita,  e  alla  fondiaria,  regolata  con  un  sistema, 
ohe  il  più  facile  e  il  più  semplice  non  si  saprebbe  immaginare. 
Ferdinando  II  era  inesorabile  su  questo  punto,  come  si  è  ve- 
duto. Purché  non  si  pagasse,  gì'  importava  poco  che  i  piccoli  co- 
muni fossero  addirittura  letamai.  Il  nuovo  ceto  degli  agricoltori 
era  ricco  di  fede  e  di  audacia,  e  dove  riusci  a  trovar  capitali  a  con- 
dizioni miti,  prosperò  veramente.  Ceto  benemerito,  che  serbò 
vivo  il  culto  della  pecora,  l'ultima  a  morire  delle  industrie  armen- 
tizie  ;  migliorò  l'agricoltura  ;  cumulò  i  risparmii  ;  educò  i  proprii 
figli  e  si  venne  incivilendo  ;  ma  quando,  vinto  dalla  vanità,  volle 
raggiungere  ad  un  tratto  un  grado  sociale  superiore  a  quello  di 
origine,  dissipò  spesso  il  frutto  delle  sue  economie. 

Parsimoniosa  era  la  vita,  e  mancando  le  occasioni  di  spendere, 
si  verificava  a  puntino  il  detto  :  essere  più  facile  fare  dallo  scudo 
mille  scudi,  che  dal  niente  fare  lo  scudo.  C'era  la  passione  o 
addirittura  la  mania  del  risparmio,  molte  volte,  per  diffidenza, 
tenuto  senza  frutto.  Non  vi  erano  casse  per  raccoglierlo  e  la 
rendita  pubblica  superava  la  pari.  Mancando  il  capitale  cir- 
colante, l'interesse  dei  mutui  era  alto,  e  la  media  non  infe- 
riore al  dieci  per  cento  con  ipoteca.  Chi  dava  il  danaro  all'otto, 
era  segnato  a  dito  come  un  filantropo.  Il  mutuo  ipotecario 
veniva  adoperato  nei  prestiti  delle  grosse  somme.  Le  somme 
piccole  eran  date  sopra  semplici  obbligazioni,  dette  boni,  i  quali 
non  si  registravano  e  spesso  non  erano  scritti  neanche  su  carta  da 
bollo.  Il  far  debiti  si  reputava  vergognoso,  e  chi  contraeva  un 
mutuo  con  ipoteca,  andava  a  stipularlo  presso  un  notaro  di  altro 
paese,  con  l' illusione  di  mantenere  il  segreto.  Dico  illusione, 
perchè  si  sapeva  del  debito  prima  ancora  che  ne  fosse  rogato 
1  atto.    Era  una  società  semplice  e  senza  segreti. 

Bassi  i  salarli,  proporzionati  alla  tenuità  della  vita,  e   bassa 


—  103  - 

la  misura  dei  compensi  ai  professionisti.  Con  tre  piastre,  o  quat- 
tro ducati  (16  o  17  lire),  una  famiglia  faceva  il  suo  abbona- 
mento col  medico  per  tutto  l'anno  ;  quasi  ridevole  il  compenso 
agli  avvocati  innanzi  al  giudice  regio,  e  assai  lontani,  da  quelli  di 
oggi,  i  compensi  agli  avvocati  innanzi  ai  tribunali  e  alle  Corti. 
Un  avvocato,  il  quale  avesse  fatta  una  grossa  sostanza  con  la 
professione,  non  godeva  generalmente  buona  fama. 

Tutta  l'attività  sociale  era  concentrata  nell'unica  forma  di 
associazione  permessa:  la  congrega  o  confraternita  laicale.  Riva- 
lità quindi  fra  congreghe  e  congreghe,  che  si  rivelava  nelle  feste 
dei  rispettivi  patroni  e  nei  cosiddetti  diritti  di  preminenza  nelle 
processioni  e  sin  negli  addobbi  delle  chiese,  soprattutto  in  set- 
timana santa,  quando  si  costruiva  il  sepolcro  di  Gesù,  che  era 
un  teatro  con  scene,  personaggi  e  trasparenti,  e  rappresentava 
episodii  della  vita  di  Cristo,  o  fatti  del  Vecchio  Testamento.  Ogni 
congrega  aveva  un  capo,  detto  priore,  e  un  sacerdote  per  l'esercizio 
del  culto,  detto  padre  spirituale,  eletti  col  sistema  delle  fave  e  dei 
ceci.  Le  congreghe,  invidiose  l'una  dell'altra,  si  combattevano  con 
un  certo  accanimento  fra  loro.  Ma  non  erano  le  congreghe,  come 
ho  detto,  i  soli  partiti  visibili  :  c'erano  anche  gli  occulti.  0  i  due 
galantuomini  più  ricchi  di  ogni  comune  davano  il  nome  a  due 
fazioni,  che  si  contrastavano  l' influenza  e  il  dominio  locale  ;  o 
il  ricco  faceva  partito  con  tutti  i  ricchi  contro  le  mezze  fortune 
o  contro  gli  sprovvisti  di  ogni  fortuna,  i  quali  avevano  per  capo 
un  professionista  o  un  letterato.  Si  odiavano  in  segreto  e  cerca- 
vano di  rovinarsi  con  denunzie.  Una  denunzia  politica  bastava 
a  rovinare  una  famiglia. 

Ogni  comune  contava  fra  i  galantuomini  una  serie  piuttosto 
copiosa  di  tipi  caratteristici,  battezzati  come  tali  dalla  voce 
pubblica.  Vi  era  lo  stravagante,  detto  fanatico,  perchè  vive- 
va in  maniera  diversa  dagli  altri,  e  mangiava  e  dormiva  in 
ore  diverse  ;  e  se  le  stravaganze  parevano  eccessive,  era  bollato 
come  pazzo  addirittura.  Vi  era  l'uomo  dabbene,  a  giudizio  di 
tutti,  il  cui  consiglio  si  cercava  nei  momenti  difficili  ;  l' uomo 
generoso,  alla  cui  borsa  si  poteva  ricorrere  senza  il  pericolo  di 
un  rifiuto,  per  piccole  sovvenzioni  s'intende;  lo  scialacquatore 
che  stupidamente  dava  fondo  al  patrimonio  ;  l'uomo,  la  cui  parola 
era  sacra,  e  quello  che  la  rimangiava  con  la  stessa  facilità  con 
cui  l'aveva  data;  il  bugiardo   celebre  e  il  professionista  onesto 


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o  disonesto.  C  era  il  veccMo  soldato  di  Napoleone,  con  la  me- 
daglia di  Sant' Elena,  circondato  dal  rispetto  dei  giovani,  ai  quali 
raccontava  gli  episodii  delle  campagne  di  Russia  e  di  Germania  ; 
c'erano  i  soldati  e  i  veccH  funzionarli  di  Murat,  i  quali  serbavano 
un  vero  culto  alla  memoria  dell'  infelice  Re  e  sopravviveva  qual- 
che reduce  di  Antrodoco,  che  narrava  la  fuga  con  immagini  umo- 
ristiche.  Ricordo  che  uno  di  questi,  già  vecchio  ai  tempi  della 
mia  gioventù,  descriveva  quella  fuga  con  un'  immagine  scultoria  : 
'^ad  un  tratto^  egli  diceva,  alV apparire  della  cavalleria  austriaca, 
dei  soldati  nostri  non  si  videro  che  culi  e  tacchi  \  „ .  C'erano  i  filo- 
drammatici e  i  filarmonici,  e  gli  strumenti  musicali  più  adoperati 
erano  il  violino,  la  chitarra  francese  e  il  flauto.  Non  fu  prima 
del  1860  che  si  generalizzarono  i  pianoforti.  Nel  carnevale  del 
1857  don  Acentino  Mayo,  ricevitore  generale  di  Chieti,  in  occa- 
sione di  una  gran  festa  da  ballo,  cui  apri  le  sue  sale,  fece  venire 
un  magnifico  harmonium  a  sedici  registri,  e  fu  il  primo  che  si  ve- 
desse, e  per  molti  anni  rimase  il  solo  in  tutto  l'Abruzzo.  C'era  il 
poeta,  che  scriveva  sonetti  per  nozze,  per  battesimi  o  per  morti,  e 
l'epigrammista  burlone,  che  metteva  fuori  le  satire  anonime  e 
mandava  gì'  inviti  ai  tipi  più  curiosi ,  o  perchè  si  ritrovassero  a 
pranzo  da  un  comune  amico,  o  corressero  da  un  altro  in  fin  di  vita, 
o  montassero  la  guardia  al  sepolcro  di  Gesù  il  giovedì  santo,  e 
rammentassero  di  far  bene  la  caduta  all'  intonazione  del  Gloria^ 
nel  sabato  santo.  Il  sepolcro  di  Gesù  era  una  vera  rappre- 
sentazione teatrale.  Il  sabato  santo,  quando  il  celebrante  in- 
tonava il  Gloria  e  si  scioglievano  le  campane,  le  figure  di  car- 
tone, che  stavano  a  rappresentare  i  soldati  di  guardia  al  se- 
polcro e  che  volgarmente  si  chiamavano  giudei,  venivan  fatte  ca- 
dere a  terra.  Di  qui  lo  spirito  dello  scherzo,  anche  più  salace  per 
il  fatto,  che  il  volto  dei  giudei  era  quanto  di  più  brutto  si  potesse 
immaginare.  E  vi  erano  infine  due  altri  tipi  caratteristid.,  quello 
dell'avaro  sfarzoso  e  del  cacciatore  abile.  La  caccia  era  lo  sport 
più  di  moda.  Naturalmente,  alcuni  di  questi  tipi  pagavano  un 
larghissimo  tributo,  in  varie  forme,  all'iperbole;  e  uno  dei  diver- 
timenti più  graditi  era  l'ascoltare  le  imprese  di  caccia,  con  relative 
straordinarie  bravure  di  cani,  di  tiri  e  di  prede. 

Una  famiglia  ricca  non   si  concepiva   senza   la    carrozza    e 
senza  alcune   condizioni  esteriori,   nella   vita  e  nelle  abitudini. 


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Dopo  Napoli,  le  provinole,  che  contavano  maggior  numero  di 
carrozze  private,  erano  le  Puglie  e  la  Campania,  perchè  le  più 
ricche  e  le  meno  sprovviste  di  strade.  Seguivano  Chieti  e 
Aquila,  ma  soprattutto  Chieti,  dove  i  signori  avevano  magnifiche 
vetture  con  pariglie,  e  il  maggior  lusso  lo  faceva  quel  don  Acen- 
tino  Mayo,  sumenzionato,  il  quale  aveva  sposata  una  figliuola  del 
Santangelo  e  aveva  danaro  da  buttare.  La  vettura  serviva  ai 
brevi  viaggi  e  alle  scampagnate;  serviva  per  andare  incontro 
alle  autorità  e  ai  forestieri  e  per  riaccompagnarli;  serviva  ai 
battesimi,  alle  nozze  e  ai  funerali  :  tutte  occasioni  straordi- 
narie. Col  poco  uso,  le  carrozze  duravano  molto,  ma  diven- 
tavano antiquate  e  più  antiquata  la  livrea,  o  mostra  di  livrea, 
per  cui  tutto  Vattelage  suscitava  V  ilarità  dei  nobili  che  venivano 
da  Napoli. 

Parca  la  mensa  anche  dei  ricchi.  Vi  erano  famiglie  signo- 
rili, che  davano  alla  tavola  un  apparato  sontuoso,  con  cuochi  e 
servi.  Alcune  famiglie  calabresi  conservavano  le  vecchie  tra- 
dizioni, secondo  le  quali  le  signore,  nelle  grandi  occasioni,  sede- 
vano a  mensa,  tenendo  i  guanti  alle  mani.  Le  famiglie  ricche 
che  spendevano  poco  per  il  pranzo,  erano  indicate  alla  gene- 
rale maldicenza.  H-ari  gì'  inviti,  tranne  fra  persone  intime  nelle 
feste  solenni.  Gl'inviti  erano  riserbati  ai  forestieri,  parenti, 
amici,  i  quali  si  recavano  da  un  paese  all'altro,  in  occasione  di 
feste  0  di  fiere.  Un  po'  per  vanità,  ma  molto  per  bontà  di  cuore, 
molte  famiglie,  la  cui  mensa  era  ordinariamente  frugale,  diveni- 
vano di  una  larghezza  sontuosa,  quando  c'era  l'ospite,  soprat- 
tutto se  l'ospite  occupava  un  uffizio  pubblico,  civile  o  ecclesia- 
stico. Erano  pranzi  con  portate  innumerevoli  e  infinite  varietà 
di  antipasti,  di  conserve  e  di  latticinio  Caratteristiche  le  in- 
sistenze all'ospite  per  obbligarlo  a  mangiare  :  "  Mangiate,  man- 
giate, voi  dovete  viaggiare  ;,  ;  e  le  insistenze  erano  sincere  e  si 
durava  fatica  a  schermirsene.  Non  sempre  la  padrona  di  casa, 
nelle  famiglie  borghesi,  assisteva  al  pranzo,  o  perchè  la  vecchia 
etichetta  non  lo  permetteva,  o  perchè  era  più  necessaria  la  sua 
presenza  in  cucina. 

L'alimentazione  più  comune  era  di  paste,  di  legumi  e  di 
ortaggi:  paste  fatte  in  casa,  come  il  pane;  che  anzi,  se  per  le 
paste  era  tollerato  acquistarne  sulla  piazza,  per  il  pane  l'acqui- 
starlo indicava  povertà.    La  carne  di  manzo,   tranne  nei  capo- 


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luoghi  di  provincia  e  di  circondario,  era  rarissima;  ordinaria- 
mente, si  mangiava  carne  di  castrato,  di  pecora  o  di  agnello, 
poUi  nelle  grandi  occasioni,  e  carne  di  maiale  nell'  inverno. 

I  ricchi  e  gli  agiati  abitavano  case  proprie.  La  prima  affer- 
mazione della  ricchezza  era  l'acquisto  della  casa,  dove  non  abi- 
tava che  la  famiglia,  perchè  il  meridionale,  soprattutto  il  siciliano, 
dà  alla  home  il  carattere  di  gelosa  intimità  e  non  ammette  che 
vi  possa  abitare  e  quasi  penetrare  altri.  Nella  casa  il  ricco  rac- 
coglieva quanto  era  necessario  alla  sua  famiglia,  e  ordinaria- 
msnte,  annesso  alla  casa  era  il  giardino  o  l'orto,  per  cui  non 
si  rendeva  necessario  uscire.  Nelle  case  erano  quasi  ignoti  i 
cosiddetti  conforti  o  costose  superfluità  moderne,  e  di  quadri 
non  si  vedevano  che  immagini  sacre  in  caratteristiche  stampe,  o 
litografìe  di  scene  rappresentanti  gli  episodii  di  Genovieffa  di 
Brandeburgo,  ovvero  i  quattro  poeti  italiani,  o  i  grandi  composi- 
tori di  musica,  o  le  quattro  stagioni.  Nelle  case  più  antiche  e  più 
ricche  si  vedevano  stampe  napoleoniche  o  mitologiche,  specchiere 
e  candelabri  del  tempo  dell'  impero,  ritratti  ad  olio  degli  antenati 
con  la  caratteristica  lettera  in  mano,  sulla  cui  sopraccarta  si  leg- 
geva il  nome  del  personaggio,  dipinto  sulla  tela  nel  costume  del 
tempo.  Dopo  la  guerra  di  Crimea  vennero  di  moda  gli  episodii 
e  i  personaggi  di  quelle  battaglie  ;  e  dopo  il  1859,  nelle  case  dei 
liberali,  si  vedevano  litografìe  colorate  delle  battaglie  di  Mon- 
tebello,  di  Palestro,  di  Magenta,  di  Solferino,  con  i  ritratti  di 
Napoleone  III  e  dei  generali  francesi. 

Earissime  le  pinacoteche  private.  L'Abruzzo,  patria  dei  fra- 
telli Palizzi  e  dello  Smargiassi,  era  la  sola  regione  dove  fossero 
interessanti  raccolte  private.  Vanno  ricordate  quelle  delle  fa- 
miglie Dragonetti  e  De  Torres  in  Aquila,  e  dei  marchesi  Cap- 
pelli a  San  Demetrio,  nonché  la  raccolta  di  don  Filiberto  de 
Laurentiis  in  Chieti,  erede  di  quel  Niccola  de  Laurentiis,  che 
nei  principii  del  secolo  onorò  la  pittura  napoletana.  La  rac- 
colta Cappelli  andò  divisa  fra  gli  eredi  di  Luigi  e  di  Domeni- 
co, fratelli  maggiori  di  Emidio,  l'autore  della  Bella  di  Camarda, 
che  fu  Pari  nel  1848  e  deputato  di  San  Demetrio  nella  prima 
legislatura  del  Parlamento  italiano  e  che  insegnò  il  latino  a 
Euggiero  Bonghi,  giovinetto.  Figliuoli  di  Luigi  Cappelli  sono  : 
Raffaele,  deputato  di  San  Demetrio  e  già  ministro  degli  esteri, 
e    Antonio,    senatore    del  Regno.     Aquila,   Catanzaro    e    Lecce 


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erano  forse,  tra  i  capoluoghi  delle  provincie  continentali,  le 
città  più  civili.  Più  lontane  da  Napoli,  risentivano  meno  gli 
influssi  delle  volgarità  della  capitale.  Aquila,  gentilissima  città, 
più  sabina  che  napoletana,  aveva  frequenti  contatti  con  Roma  ;  e 
Lecce,  alla  cortesia  innata  della  sua  gente,  univa  uno  squisito 
senso  d'arte,  di  gusto  e  d'arguzia. 

Ogni  provincia  aveva  la  sua  vita  locale,  maggiore  in  quelle 
che  erano  sede  di  Gran  Corti  Civili,  come  Aquila,  Catanzaro  e 
Trani,  e  quella  della  provincia  di  Bari  era  divisa  fra  Bari  e 
Trani,  perchè  la  Gran  Corte  Civile  e  i  tribunali  risedevano  in 
quest'ultima  città,  popolata,  forse  più  che  non  sia  oggi,  di  magi- 
strati, avvocati  e  curiali.  I  capi  delle  Corti  e  dei  tribunali  erano 
generalmente  persone  colte,  e  però  intorno  a  loro  si  raccoglieva 
quel  po'  di  mondo  intellettuale,  formato  da  professionisti  o  dai 
possidenti  più  istruiti.  E  si  raccoglieva  intomo  ai  capi  della  ma- 
gistratura, più  ancora  che  intorno  agi'  intendenti,  perchè  costo- 
ro, a  differenza  degli  attuali  prefetti,  vivevano  molto  raccolti, 
anzi  ritenevano  essere  più  dignitoso  per  loro  tenersi  lontani  dalla 
gente.  Anche  quelli,  che  avevano  famiglia,  vivevano  vita  riti- 
rata, né  amavano  di  offrir  pranzi  o  balli.  L'intendente,  più  che 
l'amministratore  della  provincia,  era  il  capo  della  polizia,  nonché 
il  vicario  del  Sovrano,  quello  che  poteva  perdere  una  famiglia  solo 
che  lo  volesse,  non  essendo  dei  suoi  atti  responsabile  che  soltan- 
to innanzi  al  Re.  E  perciò  era  stranamente  temuto,  e  ciascu- 
no si  studiava  di  farsi  notare  il  meno  possibile.  Alcuni  inten- 
denti, come  Ajossa  a  Bari,  Sozi  Carafa  a  Lecce,  Mandarini  a 
Chieti,  Mirabelli  ad  Avellino,  Guerra  a  Foggia,  Mazza  a  Co- 
senza, Roberti  a  Teramo,  esercitarono  un  senso  di  vero  terrore. 

La  grande  distrazione  nelle  provincie  continentali,  come  in 
Sicilia,  erano  le  feste.  Da  aprile  a  novembre  si  celebravano  fe- 
ste religiose  tutte  le  domeniche.  Ogni  città  o  piccolo  comune 
aveva,  come  del  resto  anche  ora,  il  suo  Santo  patrono.  Come 
in  Sicilia  Santa  Rosalia,  Sant'Agata  e  la  Madonna  della  Let- 
tera, cosi  San  Niccola  a  Bari,  coi  caratteristici  e  affollati  pel- 
legrinaggi; Sant'Oronzio  a  Lecce  ;  la  Madonna  dei  Sette  Veli  a 
Foggia;  San  Matteo  a  Salerno,  con  la  copiosa  fiera  di  merci  e 
bestiame;  San  Gerardo  a  Potenza;  San  Modestino  ad  Avellino; 
San  Bernardino  ad  Aquila  ;  San  Giustino  a  Chieti,  e  cosi  via  via. 


-  108  - 

Erano  feste  magnificile,  che  duravano  più  giorni,  con  bande,  lu- 
minarie, globi  areostatici,  cuccagne,  fuochi  pirotecnici,  spari  di 
mortaletti,  corse  di  cavalli  e  fiere.  Nell'Abruzzo,  le  feste  di  Chieti 
erano  le  più  rinomate,  e  nel  1865  fu  affidato  l' incarico  di  orga- 
nizzarle al  sindaco  don  Florindo  Briganti,  al  primo  eletto,  don 
Giambattista  Saraceni,  e  al  segretario,  tal  don  Vincenzo,  sopran- 
nominato lu  brutto.  Alla  vigilia  della  festa,  si  lessero  per  le 
cantonate  della  città  questi  versi  : 

Povero  San  Giustino! 
In  mano  a  un  Brigante  e  un  Sajacino 
E  in  mano  a  don  Vincenzo  lu  brutto 
Che  magna  franco  pesce,  carne  e  tutto  ! 

L'anno  dopo,  altri  versi  colpirono  un  barocco  restauro  del 
duomo,  che  il  vescovo  monsignor  Saggese  affidò  a  un  mediocre 
pittore,  tal  Del  Zoppo: 

E  il  nostro  San  Giustino 

Più.  non  ravvisa  il  suo  soggiorno  ; 
Ogni  parete,  ogni  arco  ed  ogni  muro 
Sono  imbrattati  e  luridi  all'eccesso, 
E  reclaman  dal  vescovo  futuro, 
La  scopa  e  il  gesso. 

Oltre  i  licei  con  corsi  universitari,  dei  quali  si  è  parlato,  vi  erano 
collegi  privati  od  appartenenti  ad  Ordini  religiosi,  come  a  Trani 
i  Domenicani,  e  a  Lecce  i  Teatini  ;  senza  contare  i  molti  seminarli, 
quasi  uno  per  diocesi,  tra  i  quali  di  maggior  reputazione  erano 
quelli  di  Molfetta,  di  Conversano,  di  Matera,  di  Aquila,  di  Chieti  e 
di  Lanciano.  Il  seminario  di  Molfetta  doveva  il  suo  nome  a  una 
serie  di  buoni  vescovi,  al  rettore  Sergio  de  Judicibus,  e  ad  un  com- 
plesso di  condizioni  fortunate,  per  cui  quella  città  era  divenuta  da 
mezzo  secolo  centro  di  cultura  classica.  In  quegli  anni  i  detti 
seminarli  erano  all'apice  della  celebrità,  e  basterà  ricordare  che, 
compiuta  la  rivoluzione,  i  migliori  professori  e  i  più  valorosi  gio- 
vani di  quegl'  istituti  furono  chiamati  nell'  insegnamento  governa- 
tivo 0  nell'amministrazione  scolastica,  e  altri  onorarono  più  tardi 
le  lettere,  le  scienze  e  la  politica.  Ricordo  fra  i  miei  compagni 
del  seminario  di  Molfetta  Giovanni  Beltrani,  Gaetano  Semeraro, 
Giuseppe  Panunzio  e   il   mio  carissimo   Eafiaele  Basile,  spirito 


—  109  - 

colto  e  integro,  cui  un'eccessiva  modestia  ha  impedito  di  farsi 
largo  nel  mondo.  Pietro  de  Bellis,  Domenico  Morea,  Giuseppe 
Orlandi,  Pietro  de  Donato  Griannini  e  Donato  Jaja  erano  semi- 
naristi a  Conversano;  Michele  Torraca  a  Matera  ;  Vito  Sanso- 
netti,  Antonio  Casetti  e  Davide  Lupo  alunni  dei  Teatini  di  Lec- 
ce, ne  svestirono  l'abito  prima  ohe  andassero  studenti  a  Napoli. 
E  fra  i  professori  di  quei  seminarli,  i  quali,  dopo  il  1860,  entra- 
rono nell'insegnamento  governativo  o  nell'amministrazione  sco- 
lastica dello  Stato,  ricordo  Girolamo  Nisio  e  Orazio  Pansini,  di 
Molfetta  ;  Baldassarre  Labanca,  di  Agnone  e  Pietro  De  Belile,  di 
Conversano. 

Per  il  collegio  di  Chieti,  non  si  può  non  ricordare  un  feno- 
meno rarissimo  e  forse  unico  :  un  ragazzo  di  dodici  anni,  na- 
tivo di  Gessopalena,  povero  come  Giobbe,  che  si  chiamava  Da- 
niele Nobile.  Per  virtù  congenita  e  senza  educazione  di  sorta» 
egli  risolveva  estemporaneamente  i  più  astrusi  problemi  di  arit- 
metica. Piccolo,  quasi  deforme,  nevrotico,  dalla  bocca  enorme  e 
dagli  occhi  sporgenti,  balbuziente,  apata  e  col  cuore  non  aper- 
to ad  altri  affetti,  tranne  quello  per  sua  madre,  egli,  entrato 
in  collegio,  imparò  a  memoria  quanto  nessun  uomo  potrebbe  im- 
parare in  tutta  la  vita.  Recitava  la  Divina  Commedia  dalla  prima 
all'  ultima  terzina,  senza  mettere  una  parola  in  fallo  ;  ripeteva 
lunghi  brani  di  classici  e  giunse  persino  ad  imparare  il  dizionario 
italiano-latino.  Ma  i  superiori,  temendo  che  glie  ne  venisse  male, 
ricorsero  all'  influenza  del  suo  confessore,  e  questi  ottenne  che  il 
ragazzo  si  fermasse  alla  lettera  d.  Era  stato  compagno  di  Cam- 
millo  de  Meis,  e  crebbe  sviluppando  la  sua  memoria  in  maniera 
veramente  portentosa  ;  ma  la  sua  virtù  singolare  stava  nel  ri- 
spondere prontamente  e  senza  riflessione  apparente  e  con  mirabi- 
le precisione,  a  tutti  i  quesiti  più  difficili  di  aritmetica.  Ferdi- 
nando II,  andato  a  Chieti  nel  maggio  del  1847,  ricevette  raggua- 
gli di  questo  giovanetto  e  volle  conoscerlo.  Gli  mosse  varie  do- 
mande, ed  ebbe  pronte  risposte,  verificate  esattissime.  Allora  volle 
fargliene  anch'egli  una,  che  formolo  cosi  :  "  Io  nacqui  nel  giorno 
tale  dell'anno  tale,  alla  tale  ora,  e  fino  a  questo  momento  (cavando 
l'orologio  e  notando  1  minuti  primi  e  i  secondi)  quanti  an- 
ni, mesi,  giorni,  ore,  minuti  primi  e  secondi  ho  vissuto .?  „.  E 
il  Nobile  prontamente  rispose;  e  le  cifre  furono  raccolte  e  sot- 


-  110  - 

toposte  a  riprova  dagli  ufficiali  che  accompagnavano  il  Re.  La 
prova  però  non  riusci,  essendosi  verificato  che  le  cifre,  date 
dal  Nobile,  erano  di  molto  superiori  alle  vere.  Egli  spalancò 
gli  occhi,  contrasse  la  bocca  e  parve  impazzasse.  Il  E-e  ne  ebbe 
pietà  e  lo  incuorò  dicendogli:  ^ Bipensa  hene  y,.  Egli  tacque  per 
pochi  istanti,  tenendo  gli  occhi  fissi  sui  numeri  scritti  dagli 
ufficiali.  Ad  un  tratto  ruppe  in  un  urlo  di  gioia  e,  balbettando, 
esclamò  :  "  Voi,  voi  non  avete  calcolati  gli  anni  bisestili,  con  le 
differenze  delle  ore  „ .  Gli  ufficiali  rifecero  i  calcoli  e  riconob- 
bero che  Nobile  aveva  ragione.  Il  Re  gli  concesse  sei  ducati  al 
mese,  vita  durante.  Fatto  adulto,  non  ebbe  fortuna,  e  in  quegli 
anni  era  bidello  del  collegio,  mangiava  e  dormiva  pochissimo, 
e  il  suo  maggior  divertimento  nei  mesi  di  vacanza  era  quello 
di  girare  i  paesi  della  prc»vincia,  per  visitare  i  suoi  compagni. 
Mori  dopo  il  1860. 

Il  1799  e  il  1848  avevano  lasciato  ricordi  incancellabili  di 
spavento.  Il  gran  numero  di  prigionieri  politici,  e  quello  cosi 
sterminato,  di  "  attendibili  „  che  non  vi  era  comune  o  borgo 
che  non  ne  avesse,  teneva  la  gente  in  grande  paura.  I  pochis- 
simi che  cospiravano,  davano  di  certo  prova  di  grande  coraggio. 
Nessuno  credeva  possibile  una  rivoluzione  ;  nessuno  sognava  che 
la  dinastia  dei  Borboni,  ritenuta  incrollabile,  potesse  cadere  ad 
un  tratto,  e  nessuno  immaginava  la  morte  di  Ferdinando  II,  a 
49  anni.  L'unità  italiana  veniva  ritenuta  un  sogno  di  settarii  ; 
e  i  cittadini  più  eletti,  che  avevano  nel  1848  applaudito  al  nuovo 
ordine  di  cose,  erano  in  carcere  o  iscritti  nella  lista  degli  at- 
tendibili, la  quale  si  divideva  in  tre  categorie.  Appartenevano 
alla  prima  i  capi  del  partito  liberale  e  i  più  compromessi  con 
discorsi  o  con  atti  ;  alla  seconda,  i  liberali  meno  ardenti  e  meno 
compromessi;  alla  terza,  i  gregarii,  fra  i  quali  si  noveravano 
semplici  operai,  bottegai  ed  anche  contadini  illetterati.  L'af- 
tendibile  era  soggetto  alla  sorveglianza  della  polizia;  gli  era 
vietato  di  allontanarsi  dalla  sua  residenza  senza  permesso  del- 
l'autorità politica,  e  se  erasi  dedicato  all'insegnamento,  gli  era 
proibito  di  tenere  studio  privato  ;  se  uomo  di  affari,  di  prender 
parte  a  pubblici  incanti.  La  vigilanza,  nei  capiluoghi  di  circon- 
dario 0  di  provincia,  era  esercitata  severamente  dalle  autorità  di 
polizia  e  dalla  gendarmeria.  A  Chieti,  ancor  più  del  reggimento  di 


-  Ili  — 

guarnigione,  che  per  parecclii  anni  fu  il  primo  di  linea,  comandato 
dal  colonnello  G-iuseppe  Pianell,  il  quale  lasciò  di  sé  grato  ricor- 
do, bastava  a  mantener  l'ordine  uno  sciocco  ma  temuto  caporale 
di  gendarmeria,  certo  Piccione,  il  quale  nei  rapporti  ufficiali 
usava  la  formula:  Noi  don  Placido  caporal  Piccione. 

Nei  capiluoghi  di  mandamento,  la  vigilanza  era  esercitata 
dal  giudice  regio,  che  riuniva  in  sé  le  funzioni  giudiziarie  e 
di  polizia;  e  negli  altri  paesi  dai  gendarmi  o  dal  capo  urbano, 
il  quale  si  arrogava  talvolta  anche  la  facoltà  di  mandare  gli 
attendibili,  per  qualche  ora,  al  corpo  di  guardia  o,  come  si  so- 
leva dire,  al  fresco. 

I  reazionarii  trionfavano.  Essi  schernivano  gli  attendibili  e 
non  mancavano  di  denunziarli  per  rancori  personali,  o  per  ven- 
dette partigiane.  Ad  ogni  più  lieve  sospetto  di  perturbazioni 
o  cospirazioni,  il  ministero  di  polizia  ordinava  perquisizioni  do- 
miciliari degli  attendibili,  più  noti  per  grado  sociale  o  per  cul- 
tura, e  guai  se  si  fosse  trovata  una  carta  men  che  innocente.  La 
diffidenza  e  il  sospetto  quasi  generali,  perchè  il  governo  era  di- 
venuto un  partito.  Nelle  amministrazioni  comunali  erano  stati 
inesorabilmente  destituiti  tutti  coloro,  che,  durante  il  breve  pe- 
riodo costituzionale,  furono  assunti  agli  uffici  municipali  ;  e  de- 
curioni, eletti  e  sindaci  furono  scelti  tra  i  più  fidi  reazionarii. 
Purché  fossero  manifestamente  fedeli  al  E-e  e  godessero  una  di- 
screta opinione  in  fatto  di  morale  e  di  religione,  non  si  richie- 
deva altro  requisito.  Gl'intendenti,  nominati  dai  ministeri  co- 
stituzionali, corsero  la  stessa  sorte  dei  sindaci,  e  quando  erano 
traslocati,  si  temeva  sempre  di  peggio.  Restò  proverbiale  il  saluto 
che  un  signore  di  Trapani  fece  all'intendente  Rigilisi,  il  qua- 
le, nel  congedarsi  perchè  trasferito  altrove,  assicurava  che  il 
suo  successore  era  meglio  di  lui.  "  MeggMu  lu  tintu  pruvatti  — 
gli  fu  risposto  —  ca  lu  megghiu  a  pruvari  „ .  ^  Industrie,  com- 
merci, miglioramenti  economici,  venivano  in  seconda  linea.  Si 
tentò  qualche  cosa  per  gli  stabilimenti  di  pubblica  beneficenza, 
ma  con  poco  profitto.  Il  Consiglio  degli  Ospizi,  che  nel  capoluogo 
accentrava  e  dirigeva  ogni  minuto  particolare  delle  amministrazio- 
ni locali  di  carità,  veniva  preseduto  dall'  intendente,  ma  n'era  vice- 


*  Val  meglio  il  brutto  provato  che  il  bello  da  provare. 


—  112  — 

presidente  il  vescovo,  e  metà  dei  consiglieri  erano  ecclesiastici 
tutti  di  fiducia  del  vescovo.  Nella  provincia  di  Terra  di  Lavoro 
si  verificava  una  singolare  anormalità.  Il  vecchio  tenente  gene- 
rale Pietro  Vial,  comandante  le  armi,  che  abitava  nella  Reggia  di 
Caserta  e  conferiva  direttamente  col  Re,  esercitava  anch'egli  la 
polizia.  Senza  curarsi  dell'intendente,  ordinava  ai  sottointen- 
denti e  agli  ispettori  carcerazioni,  scarcerazioni  ed  anche  confini, 
a  suo  piacimento. 

Poca  vita  nei  cafie,  maggiore  nelle  farmacie  ;  pochissimi 
ricevimenti  privati;  piuttosto  frequentati  gli  spettacoli  teatrali, 
ma  sottoposti  a  ridicola  censura.  Le  casine,  i  circoli  e  i  clubs  non 
nacquero  che  coi  nuovi  tempi.  Di  carnevale  erano  generali  i  balli, 
detti  festini,  e  quelli  popolari  erano  chiamati  a  Lecce  débosce,  e 
a  Chieti  tresconi,  divertentissimi. 

Le  ragazze  andavano  in  un  monastero  o  in  qualche  istituto 
del  capoluogo,  e  le  più  ricche  nei  vecchi  educandati  di  Napoli, 
ma  il  maggior  numero  rimaneva  a  casa  ed  apprendeva  il  leg- 
gere e  lo  scrivere  da  maestre  paesane.  Era  però  bandito  il  pre- 
giudizio dalle  classi  civili  di  non  dare  alcuna  istruzione  alle 
ragazze.  I  giovani,  tornati  da  Napoli,  solevano  prender  moglie 
e  mettevan  su  casa  ed  esercitavano  la  professione  ;  ma  i  più  ricchi, 
prendendo  esempio  dal  Re  e  dai  principi  reali,  ostentavano  per 
le  lettere  e  per  i  letterati  un  volgare  disprezzo,  per  cui  altra 
fonte  di  inimicizie  era  la  rivalità  fra  ricchi  ignoranti  e  persone 
istruite,  ma  senza  fortuna;  e  il  governo,  che  poggiava  tutto 
il  suo  edifizio  sulla  possidenza,  preferiva  nelle  cariche  pubbliche 
quelli  a  questi,  ma  soprattutto  diffidava  dei  ricchi  divenuti  po- 
veri, perchè  riteneva  che  fra  loro  si  annidassero,  a  preferenza, 
i  liberali.  E  liberale  per  Ferdinando  II  era  anche  sinonimo  di 
spiantato  e  nemico  della  pace  sociale. 

Negli  ultimi  tempi  la  cultura  divenne  più  diffusa.  Quasi 
ogni  capoluogo  di  provincia  aveva  un  negozio  di  libraio,  e  al- 
cune opere,  come  la  Storia  Universale  di  Cantù,  V Enciclopedia 
popolare  e  la  guerra  di  Crimea,  e  geografìe  e  atlanti  e  opere 
giuridiche  ebbero  fortuna.  Divenne  un  mobile  più  comune  la 
libreria,  dove  si  vedevano  allineati  i  volumi,  con  buone  rile- 
gature. Più  tardi  vennero  di  moda  le  edizioni  Le  Mounier  e 
le  belle  edizioni  francesi  illustrate.    Si  leggeva  e  si  studiava  di 


-  113  — 

più,  e  la  cultura  era  forse  meno  varia  di  oggi,  ma  più  solida,  so- 
prattutto la  classica. 

Ogni  provincia  aveva  un  centro  speciale  di  cultura  e  un  pic- 
colo fuoco  di  liberalismo  :  Trani,  Molfetta  e  Putignano  per  Bari  ; 
Manduria,  patria  di  Niocola  Schiavoni  e  dei  maggiori  condan- 
nati politici,  per  Lecce  ;  Avellino  e  Cosenza  per  le  proprie  Pro- 
vincie ;  Monteleone,  Catanzaro  e  Reggio  per  le  tre  Calabrie,  e 
della  provincia  di  Chieti  questo  centro  era  Ripa  Teatina,  dove 
abitava  una  zia  materna  di  Cammillo  de  Meis,  donna  Chiara 
Maria  Cardone  in  Garofalo.  Il  fattore  del  De  Meis,  Gregorio 
di  Labio,  vi  andava  da  Bucchianico  nei  giorni  di  mercato  e  por- 
tava le  notizie  del  padrone  ai  pociiissimi,  che  lo  rammentavano 
senza  paura.  A  Bomba  invece  nessuno  avrebbe  osato  in  pub- 
blico chiedere  notizie  dei  fratelli  Spaventa,  esule  uno,  ed  erga- 
stolano a  Santo  Stefano,  l'altro. 

La  cultura  politica  era  patrimonio  di  pochi  ben  privilegiati  ; 
le  classi  dirigenti  ritenevano  il  resto  d'Italia,  da  Roma  in  su, 
un  paese  straniero,  non  per  la  geografìa  e  assai  meno  per  la 
storia,  ma  per  la  distanza,  che  separava  il  Regno  da  Roma, 
dov'era  il  Papa  ;  da  Firenze,  dov'era  il  Granduca  ;  da  Milano 
e  da  Venezia,  dov'  erano  gli  austriaci  :  austriaci.  Papa  e  Gran- 
duca legati  strettamente  alla  Corte  di  Napoli  da  vincoli  di 
parentela,  di  religione  e  di  politica,  i  quali  vincoli  stringe- 
vano ad  un  tempo  le  piccole  Corti  di  Modena  e  di  Parma  a 
quelle  di  Vienna  e  di  Napoli.  Il  Piemonte,  che  aspirava  ad  es- 
sere una  grande  potenza,  andando  a  combattere  in  Crimea  e  di- 
scutendo la  questione  italiana  nel  Congresso  di  Parigi,  teneva 
accesa  la  fede  di  quanti  speravano  tempi  migliori  ;  ma  era  piutto- 
sto una  fede  religiosa  che  convinzione  politica,  tanto  pareva 
inconcepibile  quel  che  avvenne  pochi  anni  dopo.  Le  classi  diri- 
genti non  erano  al  corrente  delle  notizie  del  giorno,  e  s' indica- 
vano a  dito  quelli  che  ricevevano  qualche  giornale  da  Napoli. 
La  grande  maggioranza  era  rassegnata  ad  uno  stato  di  cose,  che 
sembrava  non   potesse  migliorare  e  assai  meno  mutare. 

Non  si  viaggiava  che  dai  soli  ricchi  e  la  gran  mèta  del  viaggio 
era  Napoli,  'u  casalone,  considerata  dai  provinciali  sede  delle  uma- 
ne maraviglie.  Tornando  in  provincia,  non  finivano  di  decan- 
tarne le   bellezze.     Persino   i  lazzaroni   erano  trovati  spiritosi  e 

De  Cesare.  La  fine  di  un  Régno  •  VoL  II.  8 


—  114  — 

graziosi,  sino  ad  appropriarsene  il  linguaggio  e  le  maniere.  Il 
viaggio  importava  spese  non  lievi,  perchè  durava  sette  giorni  da 
Lecce,  dieci  da  Reggio,  cinque  da  Aquila,  punti  estremi  delle  pro- 
vinole continentali.  Molti  calabresi  di  Catanzaro  e  di  Cosenza 
s' imbarcavano  al  Pizzo,  dove  approdava  il  vapore  una  volta  la 
settimana,  e  poicbè  non  vi  era  porto,  ne  banchina,  ma  solo  uno 
scoglio,  se  il  mare  era  grosso,  il  battello  non  approdava  e  si 
rimaneva  al  Pizzo  otto  giorni.  Per  la  linea  di  Puglia,  che  era 
relativamente  la  più  sicura,  il  traffico  veniva  fatto  da  quelle  enor- 
mi e  solide  carrozze  di  Avellino  dipinte  in  giallo. 

Foggia,  Ariano  e  Avellino  erano  tappe  di  obbligo  per  i  pu- 
gliesi. Passato  l'Appennino,  si  cominciava  ad  aver  conoscenza 
del  dialetto  napoletano,  perchè  alla  terminazione  in  consonanti 
dure  si  sostituiva  quella  delle  consonanti  dolci,  e  da  Ariano  la 
povera  gente  chiama  tata  o  papà  il  genitore,  e  diminutivo  di 
Luisa  è  Luisella.  Da  Ariano  ad  Avellino  s' incontrava  1'  erto  va- 
lico dell'Appennino,  detto  la  Serra,  dove  si  sostituivano  i  bovi  ai 
cavalli.  La  seconda  di  queste  città  era  l'anticamera  di  Napoli, 
ed  aveva  tre  o  quattro  locande,  la  più  rinomata  delle  quali  fu 
negli  ultimi  tempi  quella  detta  delle  Puglie,  posta  sulla  via  mae- 
stra, quasi  nel  mezzo  della  città,  dove  si  mangiava  e  dormiva 
bene,  e  il  cui  esercente,  certo  Tarantino,  aveva  smessa  un'altra 
sua  osteria  più  antica,  detta  del  Principe.  Ad  Ariano  le  locande 
erano  bettole,  ma  rese  piacevoli  da  una  cena  squisita  di  pollastri 
e  prosciutto:  cena  servita  da  ragazze  paffute,  le  quali  non  si 
commuovevano  alle  occhiate  dolci  degli  studenti,  usciti  di  fre- 
sco dai  collegi  o  dai  seminarli.  Sono  grate  reminiscenze  della 
mia  giovinezza,  del  mio  primo  viaggio  a  Napoli,  dei  miei  amici 
quasi  tutti  spariti  dal  mondo,  e  quelle  impressioni,  che  pa- 
reva fossero  eccezionali  per  ciascuno,  erano  comuni  a  tutti. 
Viaggio  quasi  sempre  allegro,  essendo  comune  il  caso  che  più 
studenti  o  famiglie  lo  facessero  insieme,  servendosi  di  più  car- 
rozze. 

Ma  ciò  che  rendeva  difficile  e  pericoloso  il  viaggiare,  era 
l'insicurezza  delle  strade.  Il  vallo  di  Bovino  per  i  pugliesi,  il 
piano  di  Cinquemiglia  per  gli  abruzzesi,  la  Sila,  il  Cilento  e  lo 
Scorzo,  per  quelli  che 'venivano  dalle  Calabrie  e  dalla  Basilicata, 
erano  tradizionali  e  paurosi  nidi  di  malandrini.  Sovente  gli  stes- 
si proprietarii  di  taverne,  lungo  le  strade,  fiutata  una  buona  pre- 


-   115  - 

da  inerme,  mettevano  su  prestamente  uomini  loro  e  ne  formava- 
no una  piccola  banda,  la  quale,  bendandosi  il  volto  e  puntati  i 
fucili  contro  i  viandanti,  gridava  forte  il  tradizionale:  faccia 
a  terra,  e  li  spogliava  d'ogni  avere.  La  gendarmeria  del 
vicinato  non  di  rado  teneva  mano  a  questi  ladri  di  occa- 
sione. Erano  noti  fra  i  più  celebri  organizzatori  di  picco- 
le bande  improvvisate,  i  tavemari  dello  Scorzo  sulla  via  del- 
le Calabrie,  e  del  Passo  di  Mirabella  sulla  via  delle  Puglie; 
anzi  si  affermava  che  costoro  fossero  vecchi  avanzi  delle  bande 
di  Ruffo.  Si  preferiva  perciò  viaggiare  in  molti,  con  tre  o  quat- 
tro carrozze,  portare  il  fucile  carico  a  palla  e  scendere  nei  luo- 
ghi più  pericolosi,  coll'arma  tra  le  mani,  per  istornar  qual- 
che agguato.  Vero  è  che  negli  ultimi  anni  del  regno  di  Fer- 
dinando II  c'era  una  discreta  sicurezza  nell'attraversare  quei 
luoghi,  ma  la  fama  antica  accendeva  le  fantasie  e  le  paure. 
Avanti  che  si  costruissero  le  strade  rotabili,  cioè  fino  ai  primi 
anni  di  questo  secolo,  si  aveva  l'abitudine  di  far  testamento 
prima  d'intraprendere  il  viaggio  dalle  provinole  a  Napoli.  Le 
tre  grandi  strade  per  le  Calabrie,  le  Puglie  e  gli  Abruzzi  segna- 
rono una  vera  rivoluzione  nel  viaggiare.  E  si  abbreviarono  le 
distanze  anche  di ,  più  negli  ultimi  anni  del  regno  di  Ferdi- 
nando II,  quando  fu  impiantato  un  quotidiano  servizio  postale 
fra  Napoli  e  le  provincie,  del  quale  potevano  profittare  sin  cin- 
que viaggiatori,  e  le  cui  corse,  con  cambi  frequenti  di  cavalli, 
non  faceano  soste  neanche  la  notte.  Viaggiare  nella  posta  era 
viaggiare  da  signori;  ma  se  si  risparmiavano  le  locande,  erano 
di  rito  le  laute  mance  ai  postiglioni  e  al  corriere.  Ma  i  più 
preferivano  l'antico  sistema  di  viaggiare  con  le  carrozze  di 
Avellino,  perchè  si  riposava  la  notte,  si  andava  in  compagnia  e 
c'erano  le  fermate  caratteristiche  di  Ariano  e  di  Avellino. 

Più  comuni  i  viaggi  nei  capiluoghi  delle  provincie  o  dei 
tribunali.  Vi  si  andava  per  affari  giudiziarii  o  amministrativi, 
o  anche  per  l'apertura  di  un  teatro,  perchè  generalmente  i  ca- 
piluoghi di  provincia  avevano  un  teatro,  e  parecchie  città  del- 
la stessa  provincia,  un  teatrino.  Quello  di  Bari,  bellissimo,  dopo 
quindici  anni  di  lavoro  e  ottantacinquemila  ducati  di  spese, 
fu  inaugurato  il  4  ottobre  1855  ;  ed  oltre  a  Bari,  avevano,  nelle 
Puglie,  teatri  o  teatrini  stabili  Barletta,  Trani,  Molfetta,  Bitonto, 
Foggia,  Cerignola,  Lucerà;  e  teatri  d'occasione,  quasi  tutt'i  co- 


—  116  - 

mimi  grossi.  Si  chiamavano  d'occasione,  perchè  si  piantavano 
in  ampie  sale  terrene,  o  in  qualche  castello  abbandonato.  Chie- 
ti,  Lanciano,  Avellino,  Caserta,  Capua,  Catanzaro,  Seggio,  Cosen- 
za e  Trapani  avevano  teatri  stabili  anch'esse.  In  quello  di  Chieti 
si  alternavano  opere  di  musica  e  di  prosa,  e  la  stagione  comin- 
ciava il  primo  di  ottobre,  per  finire  col  carnevale.  A  Chieti  can- 
tarono Graziani  e  Delle  Sedie,  e  nel  1857  vi  debuttò  nel  Marco 
Visconti  la  celebre  Giovannoni.  Non  vi  fu  quasi  teatro  di  pro- 
vincia, dove  non  si  rappresentasse  il  Trovatore.  Per  gli  scrupoli 
di  monsignor  Gallo,  il  bel  teatro  di  Avellino  rimase  chiuso  fino 
al  1860.  Quel  teatro  era  stato  costruito  sui  ruderi  di  una  chiesa, 
e  solo  quando  ne  furono  vuotate  le  sepolture,  il  vescovo  tolse  il 
divieto.  E  il  teatro  di  Trani,  forse  più  antico  e  certo  di  maggior 
celebrità  di  tutti,  ha  avuto  recentemente  un'interessante  illu- 
strazione. ^  I  teatruccoli  d'occasione  con  compagnie  randagie  ave- 
vano sempre  il  Pulcinella,  perchè  non  s' immaginava  teatro  di 
prosa  senza  questa  maschera,  e  spesso  per  mandar  via  i  comici 
disgraziati,  occorreva  una  colletta,  detta  guanto. 

Nessuna  sollecitudine  ispiravano  le  cose  pubbliche,  ma  molta 
viceversa  era  la  vanità  di  figurare  a  capo  del  proprio  comune. 
Le  autorità  comunali  erano  il  sindaco,  il  primo  e  il  secondo  elet- 
to, i  decurioni,  il  capourbano,  il  sottocapourbano,  il  conciliatore 
ed  il  supplente  giudiziario  (ora  vicepretore)  :  tutti,  naturalmente, 
di  nomina  regia  e  scelti  molte  volte  tra  i  più  notevoli  del  paese, 
non  intinti  però  di  liberalismo.  Si  era  sindaco  e  decurione  a  tempo, 
conciliatore,  supplente  o  capourbano  a  vita  ;  il  primo  eletto  sog- 
giaceva a  più  frequenti  mutazioni,  avendo  egli  il  governo  della 
piazza  e  fissando  il  prezzo  dei  commestibili,  per  cui  non  andava 
esente  da  maldicenze.  Gli  urbani  o  guardie  urbane  erano  una 
milizia  locale,  composta  generalmente  di  operai  e  di  bottegai  e 
contadini,  i  quali  non  vestivano  divisa  e  sojo  portavano,  in  ser- 
vizio, una  coccarda  rossa  al  cappello  o  alla  coppola.  C'era  nei 
comuni  un  posto  di  guardia,  dove  ogni  sera  gli  urbani  conveni- 
vano alla  spicciolata  per  turno,  armati  di  schioppi  di  loro  pro- 
prietà.    Avevano  il  privilegio  di  ottenere  gratuitamente  il  porto 


'  Giuseppe  Peotomastro,  Cronistoria  del  teatro  di  Trani.  —  Trani, 
V.  Vecchi,  1899. 


-  117  - 

d'armi,  ma  non  il  permesso  di  cacciare.  Nei  piccoli  paesi  il  ca- 
pourbano  era  l'uomo  più  temuto  dopo  il  giudice  regio,  perchè 
vigilava,  riferiva,  denunziava,  dava  informazioni  al  giudice,  al- 
l' intendente  o  al  sottointendente,  ma  non  aveva  neppur  lui  l'ob- 
bligo dell'uniforme,  per  cui,  compiuta  la  rivista,  egli  non  sapeva 
che  cosa  fare  della  sciabola. 

Quasi  non  si  sentiva  nessun  bisogno  pubblico.  L'igiene  si 
trascurava  in  modo  che  le  condizioni  della  maggior  parte  dei  co- 
muni, ma  singolarmente  dei  più  piccoli,  erano  orribili  addirittura. 
Non  fogne,  non  corsi  luridi,  non  cessi  nelle  case,  scarso  l'uso 
di  acqua,  dove  o'  era  naturalmente  ;  quasi  nessun  uso,  dove  non 
c'era.  Poche  le  strade  lastricate  o  acciottolate ,  pozzanghere  e 
fanghiglia  nelle  altre,  e  in  questo  gran  letamaio  razzolavano  polli, 
e  grufolava  il  domestico  maiale.  Bisogna  ricordare  che  nei  paesi 
meridionali,  generalmente,  i  contadini  vivono  nell'abitato,  nella 
parte  vecchia,  eh'  è  quasi  sempre  più  negletta  e  fomite  di  malattie 
infettive.  Ma  tutto  ciò  sembrava  così  naturale,  che  nessuno  ho  ne 
maravigliava  ;  e  se,  di  tanto  in  tanto,  si  compiva  qualche  opera 
pubblica,  era  piuttosto  un  abbellimento  o  una  superfluità.  La 
povera  gente  era  abbandonata  a  sé  stessa,  mentre  il  galantuomo, 
o  aveva  le  case  sulla  strada  principale,  ovvero  innanzi  al  suo  por- 
tone si  faceva  costruire  un  metro  di  lastricato,  per  suo  uso  per- 
sonale.    I  municipii,  come  si  è  detto,  non  avevano  mezzi. 

Non  il  principe,  non  le  autorità  si  maravigliavano  di  un  si- 
mile stato  di  cose.  Ferdinando  II  aveva  percorse  più  volte  le 
Provincie,  e  le  condizioni  moralmente  e  socialmente  miserrime, 
le  vedeva,  ma  non  le  intendeva.  Se  non  rivolse  mai  le  sue 
cure  alla  capitale,  non  era  sperabile  che  le  rivolgesse  alle  Pro- 
vincie. Certi  bisogni  erano  superfluità  per  lui  ;  gli  bastava  or- 
dinare la  costruzione  di  una  nuova  chiesa  o  convento,  per  credere 
di  aver  cosi  appagato  il  voto  delle  popolazioni.  Negli  ultimi 
tempi  manifestò  una  certa  energia  nel  volere  la  costruzione  dei 
cimiteri  ;  ma  in  tanta  parte  del  Regno,  di  qua  e  di  là  dal  Faro, 
anche  dopo  di  averli  costruiti,  si  seguitò  a  seppellire  i  galantuo- 
mini nelle  chiese  e  a  buttare  la  povera  gente  nelle  "  fosse  car- 
narie  „.  Anche  innanzi  alla  morte  l'eguaglianza  civile  era  una 
parola  senza  significato  ! 

Ecco  in  breve  la  vita  delle  provincie  col  suo  male  e  col  suo 
bene,  come  tutte  le  cose  umane,  ma  che  rispondeva  ad  una  con- 


—  118  - 

dizione  sociale  e  morale,  storica  ed  economica,  clie  poteva  ve- 
nirsi modificando  via  via,  ma  clie  non  era  lecito  mutare  di  punto- 
in  bianco.  E  la  rivoluzione  violentemente  la  mutò,  nella  sua 
parte  esteriore,  con  un  diritto  pubblico,  il  quale  non  fu  inteso 
altrimenti,  che  come  reazione  meccanica  a  tutto  il  passato.  Il 
nuovo  diritto  non  rifece  l' uomo,  anzi  lo  pervertì.  La  vecchia^^ 
società  si  trovò  come  ubbriacata  da  una  moltitudine  di  esigenze 
e  pregiudizi  nuovi,  per  cui  ciascuno  vedeva  nel  passato  tutto  il 
male  e  nelle  cosi  dette  idee  moderne  tutto  il  bene,  donde  il  biso- 
gno di  por  mano  a  creare  tante  cose  ad  un  tempo,  utili  e  inu- 
tili. Non  vi  fu  comune,  anche  di  mediocre  importanza,  che  non 
si  coprisse  di  debiti.  Da  nessuna  partecipazione  alla  vita  pub- 
blica, si  andò,  d'un  tratto,  ad  un  eccesso  di  partecipazione  : 
alla  politica,  eleggendo  i  deputati  ;  al  municipio,  alle  provincia 
e  alle  Camere  di  commercio,  i  consiglieri.  Una  quantità  di  tempo, 
anzi  il  maggior  tempo  sottratto  ad  occupazioni  utili,  e  quel  che 
fu  peggio,  con  un  fatale  strascico  di  odii  spenti  e  rinascenti,  di 
gelosie,  di  ambizioni,  di  vanità,  di  volgarità  e  d'interessi  da  di- 
fendere o  da  far  prevalere  :  una  nuova  forma  di  guerra  civile  in 
permanenza,  e  una  nuova  tirannide,  quella  delle  maggioranze 
d'occasione,  e  quel  eh'  è  più  disastroso  ancora^  la  totale  distru- 
zione del  carattere,  che  fu  sempre  cosi  deficiente.  Come  nella 
Camera  dei  deputati,  cosi  nei  Consigli  comunali  e  provinciali,  i 
nemici  di  ieri  diventano  gli  amici  di  oggi  e  viceversa,  non 
in  nome  di  principii,  ma  d'interessi,  di  vanità  e  d'ambizioni 
di  rado  confessabili.  Si  mutano  gli  odii  in  amori  e  gli  amori 
in  odii,  e  si  smarrisce  spesso  la  coscienza  del  bene  e  del  male. 
A  farlo  apposta,  non  si  sarebbe  potuto  immaginare  un  sistema 
peggiore  per  guastare  la  gente.  Nei  primi  anni  del  nuovo  re- 
gime, gli  odii  locali,  repressi  per  tanto  tempo,  furiosamente  scop- 
piarono, e  i  maggiori  ricchi  furono  bollati  per  retrivi  ed  esclusi 
da  ogni  partecipazione  alla  vita  pubblica  ;  si  sfogarono  vecchi 
rancori  e  si  consumarono  non  poche  vendette,  soprattutto  nel 
periodo  della  legge  Pica  del  1863,  e  della  legge  Crispi  del  1866. 
Poi  si  fecero  le  paci  in  apparenza,  ma  in  sostanza  gli  odii  non 
si  prescrissero.  Suggellandosi  uno  dei  più  iniqui  pregiudizi 
di  uguaglianza  apparente  e  meccanica,  le  provincie  dell'antico 
Regno  ebbero  leggi  e  ordinamenti  affatto  contrarli  al  loro  ca- 
rattere, alle  loro  tradizioni,  al  loro  grado  di  cultura.    I  piccoli 


-  119  — 

comuni  della  Sicilia,  della  Basilicata,  dell'Abruzzo,  delle  Calabrie, 
dei  due  Principati  e  potrei  aggiungere  di  tanta  parte  dello  Stato 
Romano,  sono  governati  dalle  stesse  leggi,  le  quali  gover- 
nano le  grandi  città  dell'Italia  del  nord  e  del  centro.  Non  si 
tenne  conto  di  nulla,  ma  tutto  fu  confuso  in  un'  unità  meccanica, 
che,  a  considerarla  bene,  è  la  causa  dei  presenti  malanni  e  dei 
pericoli,  che  minacciano  il  nuovo  Regno.  Se  le  leggi  politiche 
dovevano  essere  uguali  per  tutto  il  paese,  le  leggi  organiche  do- 
vevano tener  conto  della  storia  e  della  geografia  :  due  cose,  le 
quali  non  si  possono  offendere  impunemente,  ma  che  offese,  si 
vendicano,  e  la  vendetta  è  tanto  più  terribile,  in  quanto  si 
compie  in  nome  della  legge  morale  ! 


CAPITOLO   VI 


Sommario:  La  vita  mondana  a  Napoli  —  Il  baciamano  del  !<>  gennaio  1860  — 
La  stagione  teatrale  al  San  Carlo  e  negli  altri  teatri  —  Il  Caffè  (V Europa  — 
11  Caff^  della  Perseveranza  e  della   Gran  Brettagna  —  Bicordi  e  aneddoti 

—  Le  notizie  politiche  e  il  Comitato  dell'Ordine  —  Come  nacque  e  chi  gli 
dette  il  nome  —  Teodoro  Cottrau  e  Giuseppe  Gravina  —  Arresti  ed  esilii 

—  Le  burle  alla  polizia  —  La  vita  mondana  a  Palermo  —  Le  nozze  della 
Stefanina  Starrabba  di  Eudinl  —  I  "  saloni  „  e  le  botteghe  di  moda  —  I 
Caff^  d'Oreto  e  di  Sicilia  —  Le  villeggiature  dei  signori  —  Il  giuoco  del 
lotto  —  La  vita  sociale  a  Catania  —  Teatri,  alberghi  e  clubs  —  Le  signore 
più  belle  e  i  giovani  più  eleganti  —  L' irrigazione  della  piana  di  Catania 

—  L'intendente  Panebianco  e  il  suo  carteggio  intimo  con  Maniscalco  — 
La  vita  di  Messina  —  Feste  religiose  e  mondane  —  La  Madonna  della  Let' 
tera  —  Due  sindaci  —  Maturano  i  nuovi  tempi  —  Apparenze  e  realtà. 

La  vita  mondana  rifiori  in  tutto  il  suo  splendore,  dopo  che  Na- 
poli riebbe  finalmente  una  Corte.  Tornarono  ad  aprirsi  le  gran- 
di sale  della  Reggia  ai  ricevimenti  ed  alle  antiche  cerimonie.  Il 
corpo  diplomatico  c'era  tutto.  La  Corte  non  mancava  a  nes- 
suno dei  grandi  spettacoli  teatrali,  come  a  nessuna  festa  reli- 
giosa. Francesco  II  riprese,  in  breve,  le  tradizioni  interrotte  da 
suo  padre,  e  l'intervento  di  una  Corte  cosi  numerosa  come  la  sua, 
in  un  teatro,  in  una  chiesa,  in  una  pubblica  cerimonia,  era  di 
per  sé  interessante  spettacolo. 

Il  1"  gennaio  1860  ebbe  luogo  il  baciamano  di  uso,  che  riusci 
più  afifollato  e  brillante  del  primo.  Il  largo  di  Palazzo  presentò 
in  quel  giorno  l'aspetto  delle  grandi  occasioni.  Una  folla  enorme 
vi  si  addensava,  per  veder  passare  tanti  cocchi  di  gala,  che  por- 
tavano alla  Reggia  diplomatici,  ministri,  arcivescovi  e  prelati 
e  alti  funzionari  civili  e  militari,  in  grande  uniforme.     I  Sovrani, 


—  122  — 

che  furono  di  una  cortesia  senza  pari,  erano  come  di  pramma- 
tica sul  trono,  circondati  dai  principi  e  dalle  principesse. 

La  sera  stessa,  gran  gala  al  San  Carlo.  "  Al  chiarore  dei 
quintuplicati  ceri,  scriveva  l'enfatico  cronista  del  Giornale  Uffi- 
ciale, era  bello  il  vedere  in  tutti  gli  ordini  di  palchi  e  in  tutta 
la  platea  sfolgorare  ricchi  abbigliamenti,  divise,  decorazioni, 
tutti  i  fregi  preziosi  ed  infinitamente  svariati,  dei  quali  il  grado, 
il  fasto,  le  distinzioni  sociali,  la  moda,  il  decoro,  la  bellezza  fanno 
sfoggio  pomposo  in  tali  occasioni  „ .  All'apparire  del  Ee  e  della 
Regina  scoppiarono  gli  applausi.  Erano  in  compagnia  dei  conti 
di  Trani  e  di  Caserta,  del  conte  di  Siracusa,  del  conte  d'Aqui- 
la coi  suoi  figli,  del  conte  e  contessa  di  Trapani.  Si  esegui  il 
ballo  Rita  del  Taglioni,  musicato  dal  G-iaquinto,  e  la  Boschetti 
e  il  "Walpot  fecero  andare  in  frenesia  il  pubblico.  Eicco  l'alle- 
stimento scenico,  rischiarato  in  ultimo  da  raggi  di  luce  di  ma- 
gnesio, che  investirono .  tutto  il  teatro.  Il  16  gennaio,  com- 
pleanno del  Ee,  si  ripetettero  feste  e  ricevimenti. 

Il  18  di  quel  mese,  ci  fu  a  Castellamare  il  varo  della  Bot' 
bone,  fregata  ad  elica  di  prima  classe,  costruita  da  Giuseppe  de 
Luca,  ingegnere  del  genio  navale  e,  dopo  il  1860,  deputato  e 
direttore  generale  al  ministero  della  marina,  padre  di  Eoberto, 
oggi  direttore  del  cantiere  Armstrong  a  Pozzuoli.  La  festa 
del  varo,  allietato  dalla  presenza  de'  Sovrani,  de'  principi  e  di 
quasi  tutto  il  mondo  ufficiale,  riusci  splendida. 

In  settembre,  s' inaugurò  la  stagione  al  San  Carlo  con  la  Se- 
miramide e  col  nuovo  ballo  Elzebel,  che  ebbe  esito  infelice.  Tor- 
narono poi  in  iscena  il  Trovatore  e  la  Violetta^  che  colle  infinite 
rappresentazioni  avevano  annoiate  financo  le  sedie  di  ferro  fuso, 
come  dissero  i  critici.  Sorte  migliore  ebbe  la  Norma,  con  la 
Steffenoni,  che  piacque  più  della  Spezia,  di  cui  aveva  pari  l'al- 
tezza, ma  assai  più  bella  la  voce,  e  col  Negrini  che  fu  un  Poi- 
Mone  perfetto.  Piacquero  i  nuovi  balli,  Vida  di  Badoero  e  il 
Benvenuto  Cellini,  nel  quale  debuttò  Guglielmina  Salvioni,  la  cui 
bellezza,  che  fece  perder  la  testa  agli  hàbitués  del  San  Carlo, 
fu  poi  oscurata  dalla  Boschetti,  la  quale,  nel  ballo  Loretta  l'in- 
dovina del  coreografo  Costa,  fanatizzò  addirittura  i  napoletani. 
La  Loretta  si  rappresentò  più  volte  e  la  Boschetti  fu  giudicata  la 
prima  ballerina  del  suo  tempo.  Torelli,  n^W Omnibus,  per  definire 
entusiasticamente  il  talento  di  lei,  così  chiudeva  una  sua  poesia  : 


—  123  — 

Quando  a  ballar  la  vedi, 

Ti  pare  che  il  cervel  l'abbia  nei  piedi. 

La  signora  Amina  era  allora  nella  pienezza  dei  suoi  mezzi  :  gra- 
ziosa, piena  di  brio  e  di  charme,  contava  poco  più  di  vent'anni, 
feri  molti  cuori  e  più  profondamente,  si  disse,  quello  del  conte 
d'Aquila.  Al  San  Carlino,  il  sommo  Petito  la  rifece  nella  pa- 
rodia di  quel  ballo,  e  il  comicissimo  De  Angelis  rifece  Walpot. 
Ballavano  il  passo  a  due,  ed  a  vederli  si  scoppiava  dal  ridere.  La 
parodia  della  Loretta  al  San  Carlino  segnò  uno  degli  avvenimenti 
teatrali  del  tempo. 

Al  Teatro  Nuovo  si  rappresentò  il  Ser  Pomponio  del  maestro 
Tommassini,  su  parole  di  Marco  d'Arienzo;  si  riprodussero  più 
tardi  Cicco  e  Cola  e  Piedi  grotta  e,  ancora  più  tardi,  vi  andò  in 
iscena  una  musica  nuova  del  maestro  Valente,  Biondolina,  con 
parole  di  Almerindo  Spadetta.  Al  Fondo  si  rappresentò  nel- 
l'ottobre il  Pipelet,  ma  l'esito  non  ne  fu  brillante,  ne  le  sorti 
di  quel  teatro  si  rialzarono  più.  Parve  un  momento  che  si  vo- 
lesse ergere  ad  emulo  del  San  Carlo  il  Circo  Olimpico,  il  quale 
riapri  le  sue  porte  con  la  Traviata  e  le  chiuse  coi  Lombardi. 

Ai  Fiorentini  piacquero  molto  i  Sogni  d'am(yre  di  Scribe,  con 
la  Sivori  e  la  Maggi,  il  Vestri,  l'Alberti  e  il  Bozzo,  e  caddero 
la  Donna  romantica  e  V  Olindo  e  Sofronia,  giudicati  vecchiumi, 
mentre  invece  la  commedia,  gli  Uomini  di  mille  colori  dell'Al- 
tavilla, dove  ciascun  atto  finiva  con  pugnalate  ed  assassinii,  ebbe 
successo  discreto.  Negli  ultimi  giorni  di  dicembre  1869  e  nei 
primi  del  1860,  vi  si  rappresentò  la  Francesca  da  Rimini,  con 
clamorose  accoglienze.     All'apostrofe  di  Paolo  all'Italia: 

Per  te,  per  te,  che  cittadini  hai  prodi, 

che  il  Majeroni  accentuava  colla  sua  bella  voce  baritonale,  ca- 
deva il  teatro  dagli  applausi,  ma,  dopo  poche  rappresentazioni, 
l'Alberti  fu  invitato  a  smettere.  Sarebbe  lungo  enumerare  tutti 
gli  spettacoli  dei  teatri  di  quel  tempo  così  a  Napoli,  come  nelle 
provinole,  e  le  promesse  degl'impresari,  in  parte  mantenute  e  in 
parte  no;  e  ugualmente  lungo  il  tener  conto  delle  critiche  dei 
letterati  e  delle  ardenti  polemiche,  che  continuavano  ad  avere  il 
posto  d'onore  nei  giornali. 

Comparvero  in   quell'anno   le   ultime   strenne   della  vecchia 


—  124  - 

maniera  e  fece  la  sua  ultima  apparizione  la  Farfalla  di  Vin- 
cenzo Corsi,  con  prose  di  Floriano  del  Zio,  di  Antonio  Piccirilli 
e  versi  di  Carlo  Barbieri,  Federico  Persico,  Enrico  Cossovicii, 
Gustavo  Pouchain,  Marco  d'Arienzo,  Simone  Capodieci  :  strenna, 
la  quale,  per  far  onore  al  nome  suo,  si  apri  con  alcune  melo- 
diose ottave  della  signora  Venturina  Ventura  di  Trani,  e  si 
chiuse  con  alcune  strofe  di  Domenico  Zerbi,  padre  di  Rocco  : 
strofe  ed  ottave  dedicate  alla  Farfalla.  Vincenzo  Corsi,  avvo- 
cato e  uomo  di  lettere,  aveva  data  reputazione  alle  sue  strenne 
per  la  scelta  dei  collaboratori,  i  quali  trattavano  o  cantavano  i 
soggetti  più  vaporosi,  più  sentimentali  e  meno  compromettenti. 
Le  ultime  parole  di  quella  strenna  furono  :  "  Buon  Natale  e  ot- 
timo Capodanno  :  gentili  lettori  e  leggitrici  lo  accettate  ?  È  fatto 
col  cuore  !  Ci  rivedremo  l'anno  che  viene  „ .  L'anno  venne,  e  che 
anno!,  ma  la  Farfalla  non  più.  Vincenzo  Còrsi  è  oggi  avvo- 
cato anziano  e  specialista  per  la  Corte  dei  conti. 

Non  furono  aperti  altri  caffè  di  qualche  importanza,  e  il 
Caffè  di  Europa  seguitò  ad  avere  il  primato.  Frequentato  dalla 
nobiltà  e  dalla  borghesia  ricca,  aveva  aperte  alcune  sale  al 
mezzanino,  dove  pranzavano  gli  eleganti  indigeni  ed  i  forestieri 
di  distinzione.  Finito  lo  spettacolo  al  San  Carlo,  il  Caffè  di 
Europa  raccoglieva,  fino  ad  ora  tarda,  gli  hahitués  dei  maggiori 
teatri  :  letterati,  buongustai  di  musica,  epigrammisti  e  giovani  del 
bel  mondo  ;  tutti  discutevano  a  voce  alta  e  si  divulgavano  epigram- 
mi, attribuiti  al  D'Urso,  al  Caccavone  o  al  Proto.  Il  Caffè  di 
Europa  era  riguardato  come  una  specie  di  Gerusalemme  dai  napo- 
letani non  nobili,  non  eleganti  e  privi  di  spirito.  C'era  anche  il 
Caffè  Nocera  in  via  di  Chiaja,  frequentato  specialmente  dai  mili- 
tari, ma  non  poteva  competere  con  quello.  Si  raccontava  del  suo 
esercente  uno  specioso 'aneddoto.  Essendosi,  nei  primi  mesi  del 
1860,  recato  il  Nocera  dal  Re  per  chiedergli  non  so  qual  favore, 
Francesco  II  gli  disse  :  "  Il  tuo  caffè  è  molto  frequentato,  perchè  da 
te  vengono  i  Realisti  „ .  E  il  Nocera  non  potè  tenersi  dal  rispon- 
dere :  "  Maestà,  chi  vi  dà  cchiìi  i  Realisti  ?  A  do'  stanno  ?  * 

I  signori  frequentavano  anche  il  piccolo  e  aristocratico  Caffè 
del  Benvenuto  in  via  di  Chiaja  e  vi  prendevano  il  gelato,  che  si 


'  Matotà,  ohi  vi  d&  più  i  Realisti?  dove  sono? 


-  125  — 

riteneva  il  non  plus  ultra  del  genere.  Ed  i  provinciali,  soprattutto 
i  calabresi,  avevano  il  Caffè  delle  Due  Sicilie,  ora  d'Italia,  e  il 
Testa  d'Oro,  a  Toledo,  mentre  gli  studenti  di  Puglia  frequenta- 
vano il  De  Angelis  e  quelli  di  Basilicata  il  Salvi,  pure  a,  Toledo, 
ma  più  particolarmente  i  caffè  degli  studenti  eran  quelli  di 
Foria  e  di  via  dei  Tribunali.  Un  manipolo  di  persone  colte, 
professori  e  studenti,  si  cominciò  a  riunire  nei  primi  mesi  del 
1869  in  un  piccolo  e  umile  caffè  in  via  di  Costantinopoli,  se- 
conda o  terza  bottega  a  sinistra  di  port'Alba,  esercitato  da  un 
don  Michele,  del  quale  nessuno  cercò  mai  di  sapere  il  cognome. 
Un  po'  alla  volta,  e  definitivamente  dopo  la  morte  di  Ferdi- 
nando II,  ne  crebbero  i  frequentatori  ed  erano  tra  questi:  An- 
gelo Beatrice,  Luigi  Amabile,  Tommaso  Vernicchi,  Pietro  Ca- 
vallo, Enrico  Pessina,  Giuseppe  Laudisi,  oggi  deputato,  Tito  Livio 
de  Sanctis,  Giuseppe  Buonomo,  Peppino  Volpe  di  Campobasso, 
geniale  improvvisatore  di  versi  faceti  e  genialissimo  tipo;  Gae- 
tano Tanzarella  di  Ostuni,  Niccola  Pedicini,  Vincenzo  e  Nun- 
ziato  Tandurri,  Pasquale  Trisolini,  Ferdinando  Mele,  Francesco 
Vizioli  e  Antonio  Galasso,  il  quale,  ancora  giovanissimo,  si  era 
rivelato  di  gran  valore  nel  concorso  al  grande  archivio  di  paleo- 
grafia greca.  Erano  meno  assidui  Francesco  Fede,  Luigi  de 
Crecchio,  Domenico  Capozzi,  Aniello  d'Ambrosio,  Raffaele  Maturi, 
Giustino  Mayer,  Basilio  Assetta,  Giuseppe  Polignani,  Giuseppe 
Lombardi,  Ugo  Petrella,  Amilcare  Lanzilli,  Beniamino  Canna vina, 
e  i  suoi  fratelli  Florido  e  Leopoldo,  Fedele  Cavallo,  Rosario  Cio- 
cio,  Vincenzo  Tenore,  Beniamino  Marciano,  Carlo  Contrada  :  tutti 
giovani  pieni  di  fede  liberale,  unitari  convinti  e  che  onorarono 
più  tardi  il  Parlamento,  l' Università  e  le  pubbliche  amministra- 
zioni. Il  Laudisi,  caldissimo  e  imprudentissimo,  andava  a  leg- 
gere i  giornali  francesi  in  quel  caffè,  che,  per  l'assiduità  dei  fre- 
quentatori e  la  costanza  delle  parche  abitudini,  fu  battezzato  dal 
Beatrice:  Caffè  della  Perseveranza.  I  fogli  francesi  erano  al 
Laudisi  forniti  da  Buteaux  e  D'Aubry,  librai  al  vico  Campana. 
Emanuele  Paolucci,  cancelliere  di  polizia  e  famoso  sciaradista^ 
era  pur  egli  de*  frequentatori  di  quel  caffè.  Da  principio  fa  cre- 
duto una  spia,  ma  ingiustamente,  perchè  ai  suoi  superiori  dava  a 
credere  che  quei  giovani  si  radunassero  per  comporre  e  sciogliere 
sciarade.  E  quando  la  polizia,  per  accertarsene,  vi  mandò  una 
vera  spia  travestita,  questa  non  udì  parlar  d'altro  che  di  pranzi 


—  126  - 

squisiti  e  di  sciarade  pornografiche,  nelle  quali  il  Volpe  era  maestro 
insuperato.  Fu  il  Paolucci,  che,  riconosciuto  il  nuovo  visitatore, 
ne  aveva  avvertiti  i  compagni.  E  il  Volpe  giunse  sino  al  punto 
di  dare  ad  intendere  alla  spia,  che  preterito  derivasse  da  prete 
e  rito,  e  parrocchiano  da  occhi  e  ano  !  Dopo  una  ventina  di  giorni 
di  canzonatura,  la  spia  dovè  battere  i  tacchi. 

Altri  caffè,  dove  si  riunivano  giovani  liberali,  eran  quelli 
della  Gran  Brettagna,  allo  Spirito  Santo  e  del  Cipolla^  al  pa- 
lazzo De  Rosa.  Vi  convenivano  Ottavio  Serena,  Tommaso  Sor- 
rentino, Luigi  de  Orecchio,  i  fratelli  Tufari,  Oarlo  Padiglione, 
Leopoldo  de  Bernardis  e  quello  stesso  Peppino  Volpe,  che  im- 
provvisava epigrammi  e  sciarade.  In  una  sera  del  marzo  1859, 
i  frequentatori  erano  più  numerosi  del  solito  e  ridevano  sgan- 
gheratamente, udendo  il  Volpe  che  metteva  in  versi  un  mani- 
festo di  libraio.  Ad  un  tratto,  il  caffè  fu  invaso  da  birri,  e  il 
Oampagna,  che  li  guidava,  comandò  a  tutti  di  non  muoversi, 
anzi  di  spogliarsi  completamente.  Il  terrore,  che  invase  i  mal- 
capitati, fu  solamente  temperato  dalla  situazione  oltre  ogni  dire 
comicissima,  nella  quale  si  trovò  il  Volpe,  che,  corpulento  co- 
m'era, non  trovava  modo  di  spogliarsi  né  di  rivestirsi.  Furono 
perquisiti,  ma  non  si  trovò  nulla. 

Altro  caffè  di  q^ualche  rinomanza  era  quello  dei  Commercianti, 
a  Fontana  Medina,  frequentato  dalle  persone  della  vicina  Borsa. 
Il  Caffè  Buono,  celebre  nel  1848,  era  già  sparito  e  di  altri  caffè  di 
qualche  celebrità,  oltre  quelli  che  ho  citati,  non  ve  n'  erano  altri, 
perchè  la  frequenza  abituale  in  queste  botteghe  non  cominciò 
che  dopo  il  1860  ;  né  allora  vi  erano  birrerie,  e  molto  meno  re- 
staurants  nei  caffè.  Il  pasticciere  svizzero,  che  primo  apri  bot- 
tega nel  1858,  fu  lo  Spiller,  al  palazzo  Berlo,  dov'è  ora  il  Ca- 
flisch  e  fece  fortuna.  Erano  a  Toledo  molti  altri  pasticcieri,  ma 
tutti  napoletani,  e  su  loro  portava  la  palma  il  Pintauro,  con  le 
sue  celebri  sfogliatelle,  rimasto  al  suo  posto  fra  tante  vicende. 

Famosissime  le  pizzerie,  fra  le  quali  bisogna  ricordare  quella 
antichissima  in  via  Sant'Anna  di  Palazzo  che,  per  i  napoletani, 
è  ancora  la  via  di  Pietro  il  Pizzaiuolo,  e  contava  allora  più  di 
un  secolo  di  vita,  ed  è  sopravvissuta  a  tante  vicende.  Altre  due 
pizzerie,  anche  molto  frequentate,  erano  quelle  al  vicolo  delle 
Campane  e  al  vico  Rotto  San  Oarlo,  dove  i  modesti  frequenta- 
tori del  massimo  teatro  napoletano,  e  anche  i  letterati  del  tempo 


-  127  — 

solevano  andare  a  far  il  cenino  e  a   discutere   sulle  impressioni 
dello  spettacolo. 

Ma  le  strenne,  le  polemiche  letterarie  e  i  teatri  non  erano 
più  la  sola  occupazione  del  pubblico,  come  una  volta.  Le  no- 
tizie politicbe,  con  la  coda  delle  iperboli,  di  cui  era  magno  ar- 
tefice quel  buono,  loquace  e  immaginoso  Teodoro  Cottrau,  tene- 
vano il  primo  posto,  nonostante  gli  arresti  e  le  cosi  dette  retate. 
Le  notizie  politicbe  date  dal  Comitato  dell'Ordine,  che  rappre- 
sentò la  prima  organizzazione  delle  forze  liberali,  e  fuse  insieme 
gli  elementi  mazziniani,  piuttosto  scarsi,  gli  elementi  mode- 
rati e  monarchici,  più  numerosi  e  autorevoli,  e  i  giovani  più 
ardenti,  i  quali  non  vedevano  salute  che  nel  Piemonte,  erano  co- 
municate nello  stabilimento  musicale  di  Teodoro  Cottrau,  ai  fre- 
quentatori di  esso,  ed  a  Giuseppe  Gravina,  e  questo  bastava  per- 
chè in  poco  tempo  tutta  Napoli  ne  fosse  piena.  Il  Gravina,  che 
fu  dopo  il  1860  ispettore  di  pubblica  sicurezza,  era  d'inesauribile 
credulità  e  di  più  inesauribile  iperbole.  Se  ne  raccontavano 
tante  di  lui,  che  una  vai  la  pena  di  registrare.  Al  Congres- 
so degli  scienziati  di  Napoli  convennero  uomini  insigni  d'o- 
gni parte  d'Italia,  e  ci  venne,  tra  gli  altri,  di  Toscana,  il  cele- 
bre geologo  Targioni  Tozzetti.  Il  Gravina,  giovanissimo,  ch'era 
smanioso  di  discorrere  e  di  darsi  importanza,  diceva  a  tutti  :  "  Ho 
conosciuto  Targioni  eh' è  uomo  dotto  assai,  ma  Tozzetti  è  superiore 
a  Targioni  y,.  Da  allora  gli  rimase  il  nomignolo  di  Tozzetti,  e 
lui  andava  in  bizza.  Ora  è  vecchio  e  in  riposo.  Ogni  volta  che 
vede  un  antico  amico,  gli  corre  incontro,  lo  bacia  e  piange.  Egli 
e  Teodoro  Cottrau  furono  gì'  iperbolici  e  instancabili  organi  del 
partito  liberale,  dal  1859  al  1860.  Il  negozio  del  Cottrau,  in  piazza 
San  Ferdinando,  divenne  via  via  il  maggior  centro  di  propa- 
ganda liberale,  una  vera  fucina  di  notizie  esagerate  o  addirittura 
inventate.  Frequentavano  quel  negozio  molti  liberali,  e  ricor- 
do, tra  gli  altri,  Fedele  de  Siervo,  che  dopo  il  1860  fu  sindaco 
di  Napoli  ed  oggi  è  senatore;  Niccola  Attanasio,  che  fu  pre- 
fetto e  morì  povero  e  dimenticato  ;  Niccola  Ercole,  allora  gio- 
vanissimo e  cognato  del  Cottrau  ;  Beniamino  Caso  che  fu  depu- 
tato di  Piedimonte,  il  marchese  Ercole  Cedronio,  Giuseppe  Ro- 
sati, Cammillo  Caracciolo,  Giuseppe  e  Attilio  de  Martino  e  tanti 
altri.  Cottrau  fu  più  volte  chiamato  dalla  polizia,  e  rispondendo 


—  128  — 

ch'egli  era  francese  e  amico  di  Brenier,  non  fa  mai  arrestato.  Do- 
po la  morte  di  Ferdinando  II,  la  polizia  non  ebbe  più  continuità. 
Nei  pochi  mesi  ohe  vi  stette  a  capo  l'Ajossa,  si  rinnovarono  gli  ec- 
cessi, ma  a  intermittenze  e  le  celebri  retate  si  compivano  ordi- 
nariamente verso  la  mezzanotte.  I  feroci  circondavano  un  caffè, 
ritenuto  sospetto  e  arrestavano  quanti  vi  eran  dentro  e  li  me- 
navano alla  prefettura,  dove  i  più  fortunati  se  la  cavavano  con 
una  lavata  di  testa,  che  loro  faceva  il  commissario,  ovvero,  se 
provinciali,  con  lo  sfratto  da  Napoli.  I  più  tapini  erano  chiusi 
alla  Vicarìa  o  a  San  Francesco,  in  attesa  d'un  giudizio  che  non 
veniva  mai.  Una  sera  del  febbraio,  la  polizia,  facendo  una  re- 
tata nel  caffè  Testa  d' oro^  arrestò,  fra  gli  altri,  alcuni  dei  più 
noti  borbonici  usciti  allora  dai  Fiorentini.  Se  ne  rise  molto  e 
il  commissario  fu  punito.  Un'altra  sera,  in  una  retata  al  Caffè 
De  Angelis,  vi  capitò  don  Niccola  Gigli  e  lo  scandalo  fu  più 
enorme,  perchè  il  Gigli  era  stato  ministro  nel  1849  ed  era  di 
sicura  fede  borbonica.  Ma  alla  polizia  non  riusci  mai  di  scoprire 
la  sede  del  Comitato  dell'Ordine,  e  solo  potè  arrestarne  più  tardi 
i  componenti  più  audaci.  Una  delle  ragioni  del  successo  di 
questo  Comitato  fu  il  suo  nome,  felicemente  escogitato  dal  gio- 
vane studente  Giuseppe  Lombardi  di  San  Gregorio  Magno,  uno 
dei  più  operosi,  anzi  dei  più  temerarii  nelle  cospirazioni  di  quel- 
l'anno. Il  Comitato  dell'Ordine  si  riuniva  nei  primi  tempi  in  casa 
di  Giuseppe  Lazzaro,  e  ne  fecero  parte  Gennaro  de  Filippo,  Cam- 
millo  Caracciolo,  Giacinto  Albini,  Francesco  de  Siervo,  Pietro 
Lacava,  il  Lombardi  e  pochi  altri,  i  quali  rappresentavano,  co- 
me ho  detto,  la  fusione  delle  forze  liberali.  Maraviglioso  fu 
l'effetto  della  parola  Ordine^  dato  a  un  Comitato  rivoluzionario, 
il  quale  aveva  un  piccolo  timbro  a  secco,  che  il  Lombardi  custodi 
fino  a  quando  non  fu  costretto  ad  emigrare  anche  lui. 

Levò  gran  rumore  l'arresto  di  Enrico  Pessina,  di  Giovanni 
de  Falco,  di  Giuseppe  Vacca,  di  Gennaro  de  Filippo,  di  Fede- 
rico Quercia,  di  Giuseppe  de  Simone  e  di  Gaetano  Zir,  notis- 
simi, alcuni  per  posizione  sociale,  e  altri  per  valore  d' ingegno. 
Qualche  mese  prima  Ferdinando  Mascilli,  che,  dopo  l'attentato 
di  Agesilao  Milano,  era  stato  per  circa  due  anni  chiuso  senza 
processo  nel  carcere  di  Santa  Maria  Apparente,  aveva  ottenuto, 
per  ispeciale  intercessione  del  Cianciulli  zio  della  moglie,  di 
esser  confinato  a  Capri,  né  da  quell'isola  tornò  prima  della  co- 


-  129  - 

stitiizione.  Gli  arrestati  furono  la  mattina  seguente  quasi  tutti 
imbarcati  sul  Vatican,  e  con  decreto  d'esilio  indefinito  dal  Regno, 
fatti  partire  alla  volta  di  Livorno.  Il  Vacca  e  il  De  Falco  otten- 
nero di  emigrare  a  Roma.  Fu  arrestato  anche  il  prete  Perez, 
ex-gesuita,  in  casa  del  quale  si  stampò  per  qualche  tempo  il  gior- 
naletto clandestino,  Il  Corriere  di  Napoli^  i  cui  caratteri  di  piom- 
bo erano  stati  rubati  a  spizzico  in  varie  tipografie.  Il  giorna- 
letto era  perciò  un  ammasso  di  caratteri  diversi.  La  cassetta  coi 
caratteri  andava  ramingando  di  casa  in  casa,  e  spesso  la  polizia 
perquisiva  una  casa,  quando  la  cassetta  n'  era  partita,  ma  scova- 
tala analmente  presso  la  famiglia  Forte,  arrestò  tre  fratelli  e  tre 
sojelle  di  questa  famiglia.  La  pubblicazione  del  Corriere  di  Na- 
poli, tanto  utile  in  quei  giorni  alla  causa  liberale,  fu  uno  dei 
maggiori  e  più  utili  lavori  del  Comitato  dell'Ordine. 

Un  episodio  curioso.  AU'Immacolatella,  mentre  gli  arrestati 
s'imbarcavano,  un  marinaio  domandò  a  un  altro  chi  fosse  quel 
giovane  pallido  e  con  la  zazzera,  che  si  mandava  in  esilio  ;  e, 
rispostogli  che  era  il  Quercia,  il  migliore  scrittore  di  giornali, 
che  avesse  allora  Napoli,  quel  marinaio  esclamò  :  "  Com'è  f.../o 
Re  ;  'o  manna  fora,  pecche  chillo   'o  pitta  meglio  „ .  * 

L'esilio  del  Quercia  e  dei  suoi  compagni  fu  dovuto,  si  disse, 
a  suggerimento  del  conte  d' Aquila,  capo  della  camarilla.  Questi 
faceva  finte  carezze  al  Quercia,  sino  a  confidargli  il  sospetto  che 
un  articolo  dei  Dèbats  sulla  camarilla  di  Corte,  e  segnatamente 
su  di  lui,  dipinto  come  nemico  astioso  di  ogni  libertà,  fosse 
stato  scritto  a  Napoli.  Il  Quercia  naturalmente  negò,  e  nella 
notte  venne  arrestato.  Ma  la  profezia  del  marinaio  dell' Imma- 
colatella  doveva  avverarsi,  perchè  il  Quercia,  giunto  a  Firenze, 
fu  invitato  a  scrivere  nella  Nazione,  dove  già  collaboravano  altri 
tre  esuli  napoletani,  Spaventa,  Settembrini  e  Nisco  ;  e  d'allora  fu- 
rono in  quattro  a  ripetere  sulle  colonne  di  quel  giornale,  non 
doversi  dar  tregua  ai  Borboni  di  Napoli,  e  a  dipingerne  il  go- 
verno con  i  colori  più  tristi.  Pessina  fu  nominato  professore  di 
diritto  penale  a  Bologna. 

Furono  banditi  più  tardi  Giuseppe  Fiorelli,  segretario  partico- 
lare del  conte  di  Siracusa,  Cammillo  Caracciolo  e  ultimo,  nel  mag- 


1  Com'è  f... .  il  Re;  lo  manda  fuori,  perchè  quello  lo  dipinga  meglio. 
De  Cesake.  La  fina  di  un  Regno  -  Voi.  II.  9 


-  130    - 

gio,  Luigi  Indelli,  il  quale,  dopo  una  fuga  avventurosa,  riparò  a  Li- 
vorno. Più  tardi  vennero  arrestati  via  via  il  marchese  Rodolfo  d'Af- 
flitto, il  barone  Giuseppe  Gallotti,  Antonio  Capecelatro,  i  fratelli 
Carlo  e  Luigi  Giordano,  Giuseppe  Saffioti,  Giuseppe  Ferrigni,  il 
marchese  di  Monterosso  e  Stanislao  Gatti,  che  furono  rilasciati 
dopo  poco  tempo,  ad  eccezione  dei  Giordano  e  del  Saffioti,  i  quali  eb- 
bero prigionia  più  lunga.  I  Giordano  villeggiavano  alla  villa  Fo- 
rino a  Portici  e  vennero  arrestati  dall'  ispettore  Castaldi  nella 
notte  dal  28  al  29  settembre,  dopo  una  minuziosa  visita  domici- 
liare. La  polizia  non  scopri  le  carte  più  compromettenti,  perchè 
nascoste  in  cantina,  ma  potè  sequestrare  alcune  lettere  di  Carlo 
Poerio,  di  Giuseppe  Pisanelli,  di  Francesco  Stocco,  di  Ferdinando 
Bianchi,  di  Aurelio  Saliceti,  di  Raffaele  Mauro,  e  un  memorandum 
dettato  in  francese  da  Antonio  Ranieri  e  scritto  da  Gabriele 
Costa,  memorandum  che  il  giorno  seguente  avrebbe  dovuto 
essere  consegnato  a  Brenier,  il  quale  villeggiava  a  Castellamare. 
Arrestati,  furono  condotti  a  Santa  Maria  Apparente,  che  rigur- 
gitava di  liberali,  e  dove  la  prima  sera,  da  alcuni  popolani  di  San 
Giuseppe  furono  a  loro  e  agli  altri  condetenuti,  mandati  cinquanta 
gela/ti,  che  la  polizia  fece  tornare  indietro.  Un'  altra  visita  esegui 
la  polizia  nell'appartamento  loro  a  Napoli  e  vi  sequestrò  per- 
sino un  ritratto  ad  olio,  opera  del  pittore  Andrea  Cefaly,  il  quale 
rappresentava  Carlo  Giordano  nell'atto  di  leggere  il  Siede.  I 
Giordano  scelsero  a  difensore  Federico  Castriota,  il  quale  voleva 
associarsi  l'avvocato  Francesco  de  Luca,  che  pii^  tardi  fu  de- 
putato di  Sinistra  e  notissimo  massone,  ma  il  De  Luca  prima  ac- 
cettò e  poi  non  volle  più  saperne.  Essi  uscirono  da  Santa  Ma- 
ria Apparente  due  giorni  dopo  la  Costituzione. 

Insieme  con  loro  fu  arrestato  anche  il  barone  Genovese,  il  qua- 
le, stupito  del  suo  arresto,  chiese  ai  feroci  se  per  caso  non  fosse 
mutato  il  governo.  Avrebbe  dovuto  essere  arrestato,  pare  incre- 
dibile, anche  Gaetano  Filangieri,  figliuolo  del  principe  di  Sa- 
triano,  le  cui  dimissioni  da  presidente  dei  ministri  e  da  ministro 
della  guerra,  erano  state  accettate  ufficialmente  il  31  gen- 
naio. Ma  la  cosa  parve  enorme,  essendo  Gaetano  Filangieri 
gentiluomo  di  camera,  e  il  mandato  non  fu  eseguito.  Ci  fu 
anche  ordine  di  arresto  per  il  principe  di  Camporeale,  e  un 
commissario  andò  ad  eseguirlo.  Il  principe,  come  Pari  di  Sicilia, 
aveva  votata  nel  1848  la  decadenza  della  dinastia  dei  Borboni, 


-  131  - 

e  aveva  fama  di  liberale.  Si  trovava  quella  sera  in  sua  casa 
il  ministro  di  Spagna,  Bermudez.  Fu  detto  al  commissario  che 
il  principe  era  assente,  mentre  invece  stava  in  casa.  Il  com- 
missario non  lo  credette,  penetrò  nel  salotto  e  chiese  chi  fos- 
sero i  due  signori  che  vi  trovò.  Bermudez  rispose,  declinando 
la  sua  qualità  di  ministro  di  Spagna,  e  soggiunse  che  l'altro  era 
il  suo  segretario.  Il  poliziotto  fece  un  inchino  ed  usci,  ma  non 
persuaso  della  cosa,  aspettò  giù  nel  portone  che  il  Bermudez 
andasse  via,  e  gli  tenne  dietro  sino  al  palazzo  della  legazione  di 
Spagna.  Col  Bermudez  usci  anche  il  principe  di  Camporeale, 
che  passò  quella  notte  e  altre  successive  alla  legazione  di  Spagna, 
sino  a  quando  non  potè  lasciar  Napoli. 

Un'altra  burla  fu  fatta  alla  polizia  da  Luigi  de  Gennaro,  ge- 
nero del  Ferrigni,  e  che  abitava  col  suocero.  Si  sapeva  che  il 
Ferrigni  sarebbe  stato  arrestato;  e  quando  i  birri  andarono  a 
casa  sua  e  chiesero  di  lui,  si  presentò  loro  il  De  Gennaro  e 
disse  :  Eccomi  qui,  son  io  ;  e  avendo  quelli  osservato  che  era  troppo 
giovane,  donna  Enrichetta  Ferrigni,  signora  di  vivace  ingegno  e 
sorella  di  Antonio  Ranieri,  rispose  loro  seriamente  :  "  L'ingegno  e 
la  fama  non  si  misurano  dai  peli  del  mento  „.  E  cosi  arrestarono 
il  supposto  Ferrigni  e  lo  condussero  in  prefettura  ;  ma  qui  giunto 
e  introdotto  dal  prefetto  di  polizia,  fu  scoperta  la  burla.  Il  giovane 
De  Gennaro  se  la  cavò  con  un  mesetto  di  carcere,  e  il  Ferrigni, 
che  prima  riparò  in  casa  di  Giovanni  Manna  e  poi  dai  Craven, 
ottenne  che  il  mandato  d'arresto  non  avesse  seguito.  Ma  que- 
.gli  arresti  non  facevano  più  paura,  anzi  si  disse  che  qualcuno 
si  fosse  lasciato  arrestare,  o  fosse  fuggito  a  sfogo  di  vanità.  Si 
sentiva  nell'aria  che  i  tempi  erano  mutati  e  accennavano  a  mu- 
tazioni maggiori.  Non  vi  furono  processi,  e  molti  arrestati  ven- 
nero posti  in  libertà,  quando  il  generale  Caracciolo  di  San  Vito,  nei 
primi  giorni  di  giugno,  fu  nominato  direttore  di  polizia,  e  l'Ajossa» 
fu  licenziato  come  un  cattivo  servitore.  Dopo  che  lasciò  l'uffizio, 
andava  protestando,  che  molti  di  quegli  arresti  erano  dovuti  alla 
polizia  occulta,  rappresentata  da  Nunziante  e  da  Scaletta  ;  ed  è  ca- 
ratteristico un  colloquio,  che  egli  ebbe  con  Gaetano  Filangieri, 
e  che  riferirò  più  innanzi. 

Memorabile  fu  la  settimana  santa  di  quell'anno.  Il  Re,  la 
Regina  e  i   principi   in  gran   lutto,   seguiti   da   numerosa    Cor- 


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te,  uscirono  a  piedi  dalla  Reggia  il  giovedì  santo  e  andarono 
prima  a  San  Francesco  da  Paola,  dove  ebbe  luogo  la  cerimonia 
della  lavanda,  clie  il  Re  volle  personalmente  eseguire.  Nelle 
ore  pomeridiane  visitarono  i  sepolcri,  sempre  a  piedi,  traver- 
sando Toledo  due  volte,  tra  la  generale  curiosità.  Il  19  marzo 
andarono  in  forma  pubblica  a  San  Giuseppe  dei  Nudi,  pregarono 
in  quel  santuario  e  presero  la  benedizione.  Anche  nei  momenti 
di  maggiori  ansietà  politiche,  non  mancarono  a  nessuna  cerimo- 
nia religiosa.  E  sin  nel  maggio,  tre  giorni  prima  dello  sbarco 
di  Garibaldi,  si  recarono  in  forma  pubblica  al  duomo  e  pregarono 
nella  cappella  di  San  Gennaro,  e  due  giorni  avanti  erano  stati 
alla  processione  della  traslazione  delle  reliquie. 

Le  mutazioni  delle  autorità  in  Napoli  si  succedevano  un  po' 
alla  volta.  Ricordo  le  principali.  All'intendente  di  Napoli,  Cian- 
ciulli,  nominato  consultore  di  Stato,  fu  sostituito  il  principe 
d'  Ottaiano,  don  Giuseppe  de'  Medici,  sopraintendente  generale 
di  salute.  Con  la  sostituzione  del  Cianciulli  disparve  la  triade 
caratteristica  degli  ultimi  anni  di  Ferdinando  II,  la  triade  dei 
famosi  soprannomi,  imposti  dal  Re  ;  Carafa  (il  sindaco),  Torquato 
Tasso;  Cianciulli  (l'intendente)  '0  trommone  dell' acquaiuolo,  e 
Troja  (presidente  dei  ministri)  Sani'' Alfonso  alla  smerza. 

Con  lo  stesso  decreto,  che  nominava  il  principe  d' Ottaiano 
intendente  di  Napoli,  il  25  febbraio,  fu  istituita  una  commis- 
sione edilizia,  per  presentare  un  "  disegno  generale  di  tutti  i 
miglioramenti  ed  ampliazioni,  da  portarsi  all'abitato  della  città 
di  Napoli,  tanto  con  la  formazione  dei  nuovi  quartieri  e  rioni, 
che  con  l'apertura  di  nuove  strade  e  piazze,  e  con  la  rettifica 
delle  attuali „.  Ne  fu  presidente  il  Rosica,  direttore  dell'interno 
e  vi  appartennero  l'ex  intendente  Cianciulli,  il  nuovo  intenden- 
te principe  d'Ottaiano,  il  sindaco,  principe  d'Alessandria,  don 
Antonio  Spinelli  di  Scalea,  il  barone  Giacomo  Savarese,  il  ge- 
nerale D'Escamard,  don  Benedetto  Lopez  Suarez  e  ne  fu  segre- 
tario l' ingegnere  Luigi  Oberty.  Parecchi  ingegneri  del  corpo  di 
acque  e  strade  furono  destinati  alla  dipendenza  della  commissio- 
ne, che  doveva  principalmente  studiare  l'allargamento  della  città 
dal  lato  orientale,  fra  l'Arenaccia,  Poggioreale,  lo  Sperone  e  il 
mare  ;  progettare  un  nobile  accesso  al  duomo  e  rettificare  la  sa- 
lita del  Museo,  allora  assai  malagevole.  La  commissione  si  mise 
all'opera  con  molto  buon  volere,  distinguendosi  sopra  tutti  Già- 


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corno  Bavarese,  fratello  di  Eoberto,  uomo  d'ingegno  acuto  e  vario, 
che  ebbe  autorità,  prima  tra  i  liberali,  poi  tra  i  borbonici,  e  fi- 
nalmente tra  i  malcontenti  e  i  disillusi  del  nuovo  ordine  di  cose* 
Era  dotto  in  materie  economicbe  e  finanziarie.  Di  natura  scettica 
e  sarcastica,  ostentava  una  gran  fede  nella  virtù  e  gli  piaceva 
motteggiare  su  tutto.  Si  raccontava  che,  durante  la  guerra 
di  Crimea,  a  Ferdinando  II  che  un  giorno  gli  chiedeva  da  qual 
parte  dei  contendenti  fosse  il  buon  diritto,  rispondesse  :  "  Maestà^ 
per  dare  un  giudizio,  bisogna  sapere  prima  chi  sarà  il  vincitore  „ . 

La  gaiezza  della  vita  di  Napoli  in  quei  mesi  fu  pari  a  quella 
di  Palermo,  dove  gli  ultimi  inverni  del  1859  e  del  1860, 
nonostante  le  continue  agitazioni  politiche,  furono  i  più  alle- 
gri, soprattutto  nell'alta  società,  la  quale  cominciò  a  divenire 
un  campo  meno  chiuso,  ammettendo  nel  suo  seno  i  borghesi 
più  ricchi,  e  anche  i  nobili  di  recente  creazione.  Benché  l'odio 
per  i  napoletani  continuasse  nella  sua  maggior  >  intensità,  i  più 
alti  rappresentanti  del  governo  non  furono  mai  messi  da  parte 
dalla  società  aristocratica.  La  Reggia  seguitò  ad  e»  sere  frequen- 
tata forse  più  ancora  che  ai  tempi  di  Filangieri,  e  il  principe  di 
Castelcicala,  i  direttori  e  Maniscalco,  primo  fra  tutti,  nonché  gli 
alti  ufficiali  dell'esercito  erano  simpaticamente  ricevuti  nei  gran- 
di saloni  patrizii,  così  come  molti  signori  siciliani  seguitavano 
a  popolare  le  anticamere  delle  Reggie  di  Napoli  e  di  Caserta, 
spillando  beneficii  e  onori.  E  da  ripetere  che,  in  occasione  del 
matrimonio  del  duca  di  Calabria,  furono  parecchi  i  giovani  del- 
l'aristocrazia chiamati  a  coprire  cariche  di  Corte.  La  vita  del- 
l'aristocrazia era  vivace  e  allegra,  e  si  affermava  con  balli,  conviti 
e  matrimonii,  cosi  come  quella  del  popolo  aveva  le  sue  mag- 
giori manifestazioni  nelle  feste  religiose,  massima  fra  tutte  quella 
di  Santa  Rosalia,  che  assumeva  il  carattere  di  vero  avvenimento 
in  tutta  l' Isola.  I  particolari  di  quella  festa  sono  stati  testé  rac- 
colti, con  lodevole  diligenza  e  illustrati  con  acuta  erudizione, 
da  Maria  Pitrè  :  ^  una  signorina  di  rara  cultura  e  d' ingegno 
eletto,  che  porta  degnamente  il  nome  del  padre. 

Il  maggior  matrimonio  di  quell'anno  fu  quello  della  Stefanina 


1  Maria  Pitrè,  Le  feste  di  Santa  Rosalia  in  Palermo  e  della  Assunta 
in  Messina.  —  Palermo,  Reber,  1900. 


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Starrabba  di  Eudini.  Ella  sposò  nell'ottobre  del  1859  il  conte  di 
Caltanissetta,  primogenito  del  principe  di  Paterno,  e  benché  il 
matrimonio  di  lei  non  avesse  tutta  la  pompa,  che  circondò  le 
nozze  di  sua  sorella  maggiore,  Caterina,  la  quale,  due  anni  in- 
nanzi, aveva  sposato  Federico  Gravina  di  Montevago,  grande  di 
Spagna  e  noto  col  vezzeggiativo  di  Fifi,  nondimeno  se  ne  parlò 
molto  per  alcuni  aneddoti  esilaranti.  Si  ricordava  che  al  padre 
di  Fifi  furono  rivolte  una  sera  dalla  principessa  di  Radaly,  che 
lo  sorprese  nel  suo  giardino,  mentre  compiva  un'  operazione  mol- 
to...  .  prosaica,  queste  argutissime  parole  :  "  Je  savais  que  les 
grands  d' Espagne  pouvaient  se  couvrir,  pas  se  découvrir  !  „  Ma 
l'aneddoto  principale  del  matrimonio  della  Stefanina  fu  invece 
quest'altro.  Il  principe  di  Paterno,  padre  dello  sposo,  era  uno 
dei  tipi  più  bizzarri  del  patriziato  siciliano.  Il  matrimonio  fu 
compiuto  nella  villa  Rudini  all'Olivuzza,  quella  stessa  che  nel 
settembre  del  1866  gli  autori  dei  famosi  tumulti  incendiarono, 
e  che  il  municipio  di  Palermo  indennizzò  al  marchese  Di  Rudinir 
allora  sindaco.  Accostandosi  l'ora  della  cerimonia,  il  principe 
non  si  vedeva  comparire.  E  il  figliuolo,  non  senza  preoccupa- 
zione, corse  a  casa  e  trovò  che  il  padre  dormiva  della  grossa, 
avendo  tutto  dimenticato.  Si  vesti  allora  in  furia  e  comparve 
alle  nozze  con  pantaloni  color  pisello,  panciotto  giallo  e  giubba 
amaranto  :  una  toilette  fatta  apposta  per  suscitare,  come  suscitò, 
la  maggiore  ilarità.  Ne  volle  che  la  carrozza,  la  quale  doveva 
portare  gli  sposi  a  Santa  Flavia  nella  magnifica  villa  Paterno, 
fosse  scortata  dai  compagni  d'arme,  come  il  bonario  don  Franco 
aveva  ottenuto  da  Maniscalco;  e  poi  quasi  li  sgridò,  quando 
gli  sposi  si  affacciarono  al  balcone  della  villa,  per  rispondere  a 
una  dimostrazione  assai  caratteristica  da  parte  della  gente  che 
si  affollava  sulla  strada.  La  sposa,  a  ventitre  anni,  era  nel  fiore 
della  bellezza  e  lo  sposo  ne  contava  trentotto.  Divenuto  prin- 
cipe di  Paterno  dopo  la  morte  del  padre,  Corrado  Moncada  fu 
nominato  senatore  del  Regno  d' Italia  nel  1892  e  mori  a  Napoli 
nel  1895,  a  settantaquattr'anni.  Il  presente  deputato  di  Augusta, 
conte  di  Cammarata,  è  il  suo  secondo  figliuolo. 

Poche  le  botteghe  di  barbiere,  chiamate  come  a  Napoli,  "  sa- 
loni „ .  I  migliori  erano  reputati  quelli  del  Serù  e  del  Messina  al 
Toledo,  sull'angolo  di  via  Mezzani  e  presso  il  Duomo,  e  di  Ba- 


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stiano  Ballo  in  via  Macqueda.  Primo  sarto  per  gli  uomini, 
Giorgio  Amabilino,  che  faceva  onore  al  suo  nome,  tanto  era  gen- 
tile e  squisito,  e  Ferdinando  Calvi  ;  per  le  signore,  Luigi  Milazzo 
e  la  celebre  Calabro,  che  aveva  carrozza  propria.  Sarto  accre- 
ditato era  anche  il  Ciralli,  la  cui  notorietà  sali  addirittura  a  ce- 
lebrità, a  causa  di  una  clamorosa  barruffa  succeduta  in  sua  casa, 
in  occasione  di  un  matrimonio.  Spentisi  i  lumi,  corsero  ba- 
stonate alla  cieca  e  venne  fuori  un  motto,  che  tuttora  vive  :  Fi- 
nire a  festa  di  Ciralli.  Botteghe  di  moda  erano  quelle  di  monsieur 
Merle  e  del  Langer  a  Toledo,  per  chincaglierie  e  gioielli;  del- 
l'Hugony,  del  Cardon  e  del  Senés  per  profumerie  ;  del  Santoro  e 
del  Lodi  per  guanti  e  cravatte.  Il  Cardon  aveva  per  insegna  di 
bottega:  l'ami  des  ew/an^5,  perchè  vendeva  anche  giocattoli.  La 
prima  casa  editrice  era  quella  della  ditta  Pedone,  che  cominciò 
con  Giovanni,  associatosi  prima  ad  Antonio  Muratori  e  poi  al 
Lauriel,  e  divenuta  celebre  in  tutto  il  Regno  delle  Due  Sicilie 
per  le  sue  belle  edizioni.  Aveva  bottega  con  annessa  biblioteca 
in  piazza  Bologni.  Ma  le  più  belle  edizioni  furono  fatte  in  que- 
gli anni  da  Francesco  Lao,  editore  del  Giornale  di  Sicilia  e  sin- 
golarmente protetto  dal  generale  Filangieri,  il  quale  gli  fece 
stampare,  con  eleganza  di  tipi,  la  Scienza  della  legislazione  del 
padre,  che  figura  pubblicata  a  Parigi  e  che  si  vendeva  al  prezzo 
di  una  piastra,  benché  fosse  libro  proibito  !  Il  Lao,  che  aveva  la 
tipografìa  in  via  Celso,  fu  indiscutibilmente  il  primo  tipografo, 
ed  anche  un  po'  editore,  dell'  Isola,  guadagnò  molto  e  mori  in 
miseria. 

Avvocati  principi  nel  fóro  civile  erano  Scoppa,  Viola,  Belila, 
Napolitani,  Agnetta,  Di  Marco  e  Todaro.  Il  Di  Marco  fu  deputato 
nella  prima  legislatura  per  il  collegio  di  Oorleone,  e  del  Todaro 
si  è  discorso.  Nel  fóro  penale  portavano  il  primato  per  dottrina, 
integrità  e  coraggio  civile,  il  marchese  Maurigi,  il  quale,  mutati 
i  tempi,  fa  procuratore  generale  della  Cassazione  di  Palermo  e 
senatore,  Giuseppe  Mario  Puglia,  del  quale  si  è  pure  discorso, 
ed  anche  Gaetano  Sangiorgi,  che  ebbe  parte  notevole  dopo  il 
1860,  mori  senatore  del  Regno  e  fu  fratello  ad  Antonio,  morto 
l'anno  scorso,  primo  presidente  della  Cassazione  di  Palermo  e 
senatore  egli  pure.  Il  Maurigi  era  padre  del  presente  deputato. 
Fra  i  medici  celebri,  oltre  al  Gorgone,  al  Pantaleo  e  a  don  An- 
tonino Longo,  che  contò  come  clinico   valoroso,  e  oggi  fa  ma- 


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raviglia  come  possa  esser  stato  tenuto  per  tale,  si  contava  Gae- 
tano La  Loggia,  il  quale,  benché  notoriamente  liberale,  non 
soffri  molestie  dalla  polizia,  avendo  curato  e  salvato  il  primo 
figlio  del  Maniscalco.  Il  La  Loggia,  eccellente  uomo,  era  ancbe 
celebre  per  una  delle  più  madornali  dimenticanze,  che  richiama 
quella  del  principe  di  Paterno  :  la  sera  delle  sue  nozze  dimen- 
ticò che  doveva  andare  a  sposare,  e  gì'  invitati  e  i  fratelli  della 
sposa  dovettero  correre  a  cercarlo  di  qua  e  di  là  per  tutta  Paler- 
mo !  Aveva  reputazione  anche  il  Cervello,  già  professore  di  mate- 
matica, come  il  suo  amico  e  collega  Giuseppe  Coppola,  e  poi  di 
materia  medica  all'  Università  ;  a  lui  è  succeduto  degnamente  il 
figliuolo  Vincenzo. 

I  caffè  erano  pochissimi,  non  essendovi  abitudine  di  frequen- 
tarli, anzi  non  erano  molto  stimati  coloro  che  li  frequentavano. 
Più  noti,  VOreto  in  piazza  Marina  e  il  Sicilia  in  via  Toledo.  Il 
primo  esiste  tuttora  nella  sua  caratteristica  modestia,  e  il  secon- 
do ha  cambiato  nome.  I  nuovi  tempi  non  hanno  mutate  le  abi- 
tudini, e  di  caffè,  dopo  il  1860,  non  ne  son  sorti  che  due  soli: 
uno  ai  Quattro  Canti  di  campagna,  e  uno  presso  ai  Quattro  Canti 
di  città,  detto  il  Progresso.  Nei  nuovi  tempi  si  apri  il  Caff^ 
Bologni,  sotto  il  palazzo  Riso,  che  fu  vera  fucina  elettorale.  Quivi 
si  riunivano  i  caporioni  di  parte  democratica,  e  quivi  si  battez- 
zavano consiglieri  comunali  e  si  criticava  l'opera  delle  ammini- 
strazioni del  comune.  Naturale  che  i  critici  più  arrabbiati  fossero 
quelli,  cui  gli  amici  pervenuti  al  potere  negavano  l'elezione  a 
qualche  pubblico  uffizio,  o  un  qualunque  favore,  o  magari  un 
biglietto  per  feste  al  Municipio  o  per  i  fuochi  d'artifizio,  in  oc- 
casione del  festino.  Sarebbe  assai  aneddotica  ed  oltremodo  cu- 
riosa la  narrazione  della  vita  del  Caffè  di  donna  Rusidda,  come 
era  comunemente  inteso  dai  frequentatori.  I  principali  alberghi 
erano  la  Trinacria  al  fóro  Borbonico,  con  ingresso  dall'angusta 
via  Butera  e  l'Hotel  de  France  in  piazza  Marina  ;  e  chi  volesse  sa- 
perne di  più,  potrebbe  consultare  la  celebre  guida  di  Sicilia,  che 
pubblicò  nel  1869  il  padre  Salvatore  Lanza,  o  meglio,  la  Guida 
istruttiva  per  Palermo  e  suoi  dintorni  del  beneficiale  Girolamo  di 
Marzo  Ferro,  regio  cappellano  dei  reali  veterani.  Come  guida  pra- 
tica anzi,  sarebbe  preferibile  questa,  riprodotta  su  quella  di  don 
Gaspare  Palermo  e  che  si  legge  con  vivo  interesse  anche  oggi.  Ma 
questi  alberghi,  particolarmente  i  secondarli,  lasciavano  molto  a 


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desiderare,  tanto  che  don  Lionardo  Vigo  di  Acireale,  l'autore 
del  Ruggiero,  il  siciliano  più  siciliano  e  più  enfatico  del  suo 
tempo,  facendo  nel  giugno  del  1861  un  viaggio  nell'alta  Ita- 
lia, scriveva  da  Torino  :  "  A  Torino  sono  alberghi  e  trattorie  di 
cui  in  Sicilia  non  si  ha  idea  „....  E  da  Genova,  il  4  luglio  dello 
stesso  anno  :  "  Siamo  barbari  a  lato  a  Genova  „ .  E  persino  par- 
lando di  Aci,  sua  patria,  da  lui  tanto  amata  e  cantata,  scri- 
veva dopo  aver  visto  Como  "  Como  è  Aci  gentile,  Aci  è  Como  sel- 
vaggio „  ;  e  da  Milano,  il  6  giugno  1861  :  "  Torino  è  glaciale  e 
francese  ;  Milano  è  caloroso  ed  italiano  „ .  Sono  lettere  caratteri- 
stiche scritte  al  padre,  alla  moglie  e  al  figlio.  Fu  quella  la  prima 
e  ultima  volta,  in  cui  il  Vigo,  sessantenne,  lasciò  l' Isola  nativa.  ^ 

Il  giuoco  del  lotto,  ripristinato  nelle  provinole  napoletane 
l'anno  1713,  passò  e  si  diffuse  in  breve  tempo  in  Sicilia  ove  fu 
chiamato:  locu  di  Napoli.  La  superstizione  popolare  siciliana 
lo  favori  grandemente,  e  fin  d'allora  furono  formulati  dal  po- 
polo tutti  quei  proverbi  e  modi  di  dire  caratteristici,  che  ancora 
rimangono.  Né  solo  il  popolino  giuocava,  ma  erano  giocatori 
anche  tutti  quelli  che  costituivano  la  piccola  borghesia,  attratti 
dalla  speranza  di  un  grosso  guadagno,  e  che  volentieri  si  priva- 
vano ogni  settimana  di  quanto  non  era  strettamente  necessario, 
e  tentavano  la  fortuna.  Così  sorsero  cabale,  regole  e  contro- 
regole, alle  quali  con  ardore  e  fiducia  si  applicavano  le  menti 
puerili  e  fantastiche  di  molti.  I  più  reputati  cabalisti  erano  per 
il  solito,  come  sono  oggi,  i  frati  ;  e  la  cieca  fiducia  che  essi 
riscuotevano,  incitava  molti  a  indossare  la  tonaca  per  sfruttare 
ancor  meglio  la  superstizione  popolare.  Chi  raggiunse  maggior 
celebrità  nell'Isola  fu  un  tal  fra  Luigi,  morto  da  una  ventina 
d'anni,  ma  ancor  presente  alla  memoria  di  molti.  Ogni  suo  ge- 
sto, ogni  sua  parola  venivano  commentati,  studiati  diligente- 
mente, e  poi  convertiti  in  numeri.  Infiniti  sono  poi  i  meto- 
di immaginati  per  favorire  la  vincita  :  la  superstizione  vi  porta 
il  maggior  contributo  con  una  caratteristica  confusione  di  sacro 


^  Giambattista  Grassi  Beetazzi,  Vita  Intima.  —  Lettere  inedite  di 
Lionardo  Vigo  e  di  alcuni  illustri  suoi  contemporanei  —  Catania,  cav.  Ni- 
colò Giannetta  editore,  1896,  pag.  230  e  231  —  Lo  stesso  autore  pubblicò  l'an- 
no appresso,  anche  pei  tipi  del  Giannetta:  Lionardo  Vigo  e  i  suoi  tempi. 


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e  di  profano.  Si  giuocano  anche  terni  e  ambi  periodici:  ogni 
anno  il  17  gennaio,  giorno  di  Sant'Antonio,  si  giuoca  4  (porco),  9 
(santo)  e  17  (giorno  del  mese).  Dopo  che  si  è  giuocato,  la  cre- 
denza vuole  che  si  custodisca  religiosamente  la  polizza  e  la  si 
ponga  vicino  ad  un'  immagine  di  San  (jriuseppe  e  si  preghi  il  santo 
fervorosamente.  La  passione  del  lotto  aveva  dato  origine  a  tutta 
una  letteratura.  Nel  1847  da  Michele  Valente  si  pubblicò  a  Pa- 
lermo un  libro  intitolato  :  Dialoghi  fra  il  Destino,  la  Fortuna, 
il  Desiderio  e  il  Capriccio,  ovvero  modo  facilissimo  di  arricchire 
al  lotto.  Si  pubblicava  ogni  anno  L'Astrologia,  almanacco  di 
Rutilia  Benincasa  nata  Fanfarricchio,  una  specie  del  celebre 
Barbanera  di  Foligno.  Chi  poi  volesse  saperne  di  più,  può  con- 
sultare la  bellissima  pubblicazione  di  Giuseppe  Pitrè:  Usi,  co- 
stumi, credenze  e  pregiudizii  del  popolo  siciliano:  pubblicazione 
unica  nel  suo  genere. 

Vincenzo  Florio,  aprendo  la  Sicilia  al  mondo,  aveva  por- 
tato una  rivoluzione  nei  patriarcali  costumi  dell'Isola.  Se  nel 
1846  fu  impiantata  la  prima  navigazione  a  vapore  fra  Napoli  e 
Palermo,  e  nel  1849  i  primi  vapori  di  Florio  cominciarono  a 
solcare  i  mari  lontani,  negli  ultimi  anni  la  Sicilia  aveva  comu- 
nicazioni dirette  e  periodiche  con  Grenova,  Livorno,  Marsiglia 
e  New-York,  e  due  volte  la  settimana  con  Napoli,  il  che  sem- 
brava una  grande  fortuna.  Nel  1856,  a  causa  del  tempo^  per  tren- 
tasei giorni  Palermo  non  ebbe  alcuna  notila  dal  continente  e 
nessuno  se  ne  maravigliò.  Se  prima  del  Florio  era  segnato  a  dito 
ohi  facesse  un  viaggio  fuori  l'Isola,  cominciò  poi  ad  acca- 
dere il  contrario  fra  i  signori  e  la  ricca  borghesia.  Ma  il  nuo- 
vo amore  per  i  viaggi  all'  estero  (credo  non  vi  sia  esempio  di  vil- 
leggiature in  Isvizzera  e  in  Lombardia  prima  del  1860),  non  di- 
stolse i  signori  dalle  loro  tradizionali  e  magnifiche  villeggiature 
della  Bagheria,  di  Santa  Flavia  e  dei  Colli.  A  Bagheria  erano  le 
ville  Butera,  Palagonia,  Valguarnera  e  la  Certosa,  dove  il  capric- 
cio del  vecchio  principe  di  Trabia  volle  rappresentare  in  cera 
un'  intera  comunità  di  certosini  e  i  personaggi  più  celebri  del 
suo  tempo.  Intorno  a  un  tavolo,  in  una  colletta,  siedono  fra 
gli  altri,  in  abito  monacale,  grandi  al  vero,  Ferdinando  I  di 
Borbone,  Luigi  XVI  e  il  principe  di  Butera.  Tutti  sono  ri- 
tratti ed  hanno  la  loro  importanza  storica.     Il  palazzo  del  prin- 


-  139  - 

cipe  di  Palagonia,  considerato  dal  Goethe  come  tempio  della 
demenza,  ha  vòlte  e  mobili  stranissimi,  con  sedie  intarsiate  di 
agate  e  dozzine  di  mostri,  alla  creazione  dei  quali  non  giunse 
neppure  la  fantasia  dell'Ariosto.  Quella  villa  fu  venduta,  con 
tutto  il  contenuto,  dagli  amministratori  della  eredità  del  prin- 
cipe di  Palagonia  e  la  vendita  provocò  scandali  e  diatribe,  che 
andarono  a  finire  in  tribunale.  Acquirenti  ne  furono  i  Ca- 
stronuovo  di  Bagheria.  Da  qui  a  Santa  Flavia  la  distanza  è 
assai  breve,  e  a  Santa  Flavia  sono  disseminate  altre  magnifi- 
che ville,  tra  le  quali  quella  dianzi  ricordata  del  principe  di  Pa- 
terno. I  dintorni  di  Palermo  sono  tutti  un  incanto,  da  qualunque 
punto  si  voglia  guardarli,  perchè  non  vi  è  città  al  mondo  che  offra 
tanta  varietà  di  spettacolo.  A  vedere  la  città  dalla  parte  del  mare, 
si  direbbe  strozzata  dai  monti  che  la  circondano  :  monti  arsicci 
e  scoscesi,  dalle  cime  aguzze  e  stravaganti.  Palermo  non  s' iner- 
pica come  Napoli  su  per  le  colline  verdi,  ma  si  distende  in  quella 
magica  conca  d'oro,  offrendo  tanti  diversi  spettacoli,  quanti  sono  i 
punti  dai  quali  si  contempla  e  coi  più  strani  effetti  ottici.  Il 
mare,  cristallino  e  quasi  etereo,  forma  lo  sfondo  di  tanti  quadri, 
i  quali  esaltano  lo  spirito  e  fanno  levare  un  inno  alla  Provvi- 
denza. E  il  piano  di  Palermo,  sia  salendo  verso  Monreale,  sia 
verso  i  colli  e  le  pendici  del  Pellegrino,  fra  Partanna  e  Mon- 
dello, sia  verso  Bagheria,  anzi  fino  a  Termini,  è  tutto  una  foresta 
di  agrumi,  popolata  da  borghi,  più  numerosi  fra  i  Colli  e  Par- 
tanna. Borghi  bianchi,  in  mezzo  a  giardini,  dove  vive  una  po- 
polazione laboriosa,  maliziosa  e  stranamente  suscettibile,  la  quale 
dette  il  maggior  contingente  in  ogni  tempo  alla  mafia  e  alle  som- 
mosse palermitane,  e  dove  non  si  sa  concepire  un  uomo  senza 
fucile,  né  altra  giustizia  che  non  sia  la  propria,  quando  si  sia 
ricevuta  una  offesa,  che  non  si  creda  di  rivelare.  Nel  contemplare 
con  un  mio  carissimo,  da  un  vecchio  fortilizio  di  Mondello,  quella 
spiaggia  e  quei  monti,  si  riceve  la  impressione  che  il  capo  Zaffe- 
rano, a  forma  di  cono  sporgente  dalle  acque,  fosse  il  punto  estremo 
del  monte  Pellegrino  :  cosi  bizzarri  sono  gli  effetti  ottici  di  quella 
marina,  in  una  giornata  di  primavera. 

Rivaleggiavano  con  Palermo,  nella  vita  dei  teatri,  dei  balli 
e  delle  villeggiature,  le  città  di  Catania  e  di  Messina.  Al 
Comunale   di   Catania   andò   in   iscena  nel  1868,  con    lusso  di 


—  140  — 

addobbi  scenici,  il  Pirata  del  Bellini,  con  la  Sutton.  Quel 
teatro,  dotato  dal  comune  con  1600  ducati,  rimaneva  aperto 
quattro  mesi  dell'anno  e  ne  era  ordinariamente  impresario  don 
Cesare  Tornabene,  un  elegante  signore,  il  quale  aveva  pure  un 
magazzino  di  vestiari.  Il  Pirata  destò  fanatismo.  Diresse  l' orche- 
stra il  maestro  Rosario  Spedalieri,  e  scenografo  fu  Carmelo  de  Ste- 
fano. L'anno  innanzi  era  stata  rappresentata  la  Straniera,  con  la 
Prati,  col  Bettazzi  tenore,  col  Bandi  baritono  e  vi  ebbe  ottimo 
successo.  Dei  trattenimenti,  che  in  quegli  anni  destarono  mag- 
giore impressione  e  lasciarono  più  vivo  ricordo,  vanno  ricordate 
le  improvvisazioni,  che  nel  1862  vi  fece  la  Giannina  Milli.  Il 
Comunale  serviva  per  musica   e   prosa. 

Tommaso  Salvini,  che  fu  preceduto  nel  1854  dalla  compa- 
gnia Domeniconi,  la  quale  rimase  mezzo  decimata  dal  colera 
di  queir  anno ,  andò  la  prima  volta  in  Catania  nell'  ottobre 
del  1858,  con  la  compagnia  diretta  dall'artista  Cesare  Dondini, 
nella  quale  era  prima  attrice  Clementina  Cazzola.  Il  Salvini 
recitò  al  Comunale  e  fu  festeggiatissimo.  Molta  gente  vi  andava 
dalla  villeggiatura  e  tornava  la  stessa  sera,  dopo  la  recita.  Di 
produzioni  furono  date  :  Otello,  Francesca  da  Rimini,  Elisabetta 
d'Inghilterra,  Le  smanie  della  villeggiatura  e  La  forza  dell'amor 
materno.  La  sera  del  9  ottobre  ebbe  luogo  la  prima  recita,  e 
quando  il  gran  tragico  apparve  sulla  scena,  fu  una  pioggia  di 
versi  e  di  fiori. 

Un  sonetto  dell'avvocato  Emmanuele  Rapisardi,  fratello  del 
pittore  Michele,  ebbe  acerba  critica  per  la  forma  e  per  un  ingiu- 
sto rancore  verso  il  proprio  paese,  che  si  vide  trasparire  in  quei 
versi  e  che  suscitò  una  polemica  nel  Giornale  di  Catania.  E  si 
ebbe  ragione,  perchè  il  sonetto  era  proprio  questo  : 

A  TOMMASO  SALVINI. 
(Acrostico) 

Tristo  quel  cor,  che  ad  ogni  affetto  è  muto; 
Onta  a  quel  cor,  che  nella  melma  giace; 
Muta  è  per  essi  ogni  beltà  verace; 
Morta  è  l'arte;  il  sublime  è  sconosciuto. 

Ad  essi,  di  natura  anco  rifiuto, 
Spenta  è  in  eterno  ogni  celeste  face; 
Odiano  il  di;  la  notte  ad  essi  è  pace; 
Sol  la  forma  han  dell'  uom,  l'alma  del  bruto. 


-  141  — 

A  te  però  dinanzi  or  li  vegg'io 
Levati  udirti,  ed  agitati  e  scossi 
Veder  per  te,  dirsi  per  te  beati. 

In  te  chi  parla,  se  non  parla  un  Dio? 
Non  son  costor  per  te  tanto  commossi? 
Il  son  color  d'alto  sentir  dotati? 

Le  opere  di  musica  erano  a  preferenza  belliniane,  in  omag- 
gio al  grande  maestro,  la  cui  memoria  esaltava  ed  esalta  i 
catanesi,  ma  non  fu  prima  del  1860,  che  Catania  costruì  un 
grandioso  teatro,  intitolandolo  al  sommo  maestro  e  concittadino, 
al  quale  innalzò  pure  un  monumento  e  ne  trasportò  le  ceneri  Ha 
Parigi. 

Catania  aveva,  oltre  ai  suoi  giornali,  una  specialità  signifi- 
cante :  un  negozio  di  libri,  con  gabinetto  di  lettura,  fondati  l' uno 
e  l' altro  dal  toscano  Ettore  Fanoi,  il  quale  trasformò  la  libreria, 
come  il  Viessieux,  in  gabinetto  di  lettura,  proprio  nel  centro 
della  città,  sotto  la  casa  Vasta.  Dei  giornali,  va  ricordato  il 
Giornale  di  Catania,  che  si  occupava  di  politica  estera,  con 
gazzettino  commerciale ,  rivista  dei  mercati ,  movimento  del 
porto  e  teatri.  Va  anche  ricordata  la  piccola  rivista  del  gabi- 
netto Gioenico,  organo  della  celebre  e  antica  accademia.  Fondata 
nel  1834,  visse  fino  al  1865,  conservando  lo  stesso  formato  in 
ottavo,  con  copertina  gialla  e  il  motto  :  Prudens  magis  quam 
loquax.  Era  un  giornale  strettamente  scientifico.  Si  pubbli- 
cava inoltre  il  Giornale  dell'  Intendenza,  ufficiale  per  gli  atti 
di  ciascuna  provincia,  che  veniva  fuori  a  fascicoli  ed  era  stam- 
pato in  quello  stabilimento  del  regio  Ospizio,  diretto  da  Cre- 
scenzo Galatola,  il  quale  se  non  può  proprio  dirsi  il  fondatore 
dell'arte  tipografica  in  Catania,  che  aveva  da  qualche  secolo 
buone  tipografie,  ne  è  il  maggior  benemerito. 

I  cluhs  servivano  anche  da  caffè,  e  in  via  Stersicorea,  ai 
Quattro  Cantoni,  era  quello  dei  nobili,  col  Caffè  di  Parigi, 
che  bruciò  nel  1862,  e  i  Caffè  Sicilia  e  Tricomi,  tuttora  esistenti, 
nonché  il  Casino  della  Borsa,  dove  conveniva  l'alta  borghesia 
e  si  davano  memorabili  feste  da  ballo.  La  vita  sociale  era 
animatissima,  e  in  carnevale  assai  si  gareggiava  in  maschere  e 
balli.  La  casa ,  che  raccoglieva  la  società  più  eletta ,  era 
quella  del  principe  di  Biscari,  gran  signore,  munificente  e 
stravagante.     Vi  convenivano  quanti  uomini   illustri  visitava- 


-   142  - 

no  Catania,  e  Giuseppe  E-egaldi  vi  fu  ospite  gradito  nel  1842. 
In  casa  Biscari  esisteva  pure  un  museo  di  anticliità  interes- 
santissimo, cosi  come  ad  Acireale  il  barone  Pennisi  possedeva 
un  notevole  medagliere.  Non  erano  però  queste  le  sole  collezioni 
archeologiche  private.  Lo  studio  dell'archeologia  fu  sempre  in 
grande  onore  non  solo  a  Catania,  ma  in  'tutta  la  Sicilia.  I  cata- 
nesi  avevano,  come  i  messinesi,  la  passione  della  caccia  e  della  vil- 
leggiatura, la  quale  cominciava  ai  primi  di  settembre  e  finiva  ai 
Morti.  Più  che  passione,  era  per  essi  una  vera  mania.  Vil- 
leggiavano al  Bosco,  contrada,  dove  sono  compresi  i  villaggi  del 
versante  meridionale  dell'Etna,  cioè  Mascalucia,  San  Giovanni 
La  Punta,  Via  Grande,  Trecastagne  e  San  Gregorio;  e,  tra  le 
ville  più  eleganti,  vanno  ricordate  quelle  del  principe  di  Biscari 
a  Mascalucia,  del  marchese  San  Giuliano  alla  Leucatia  e  del  prin- 
cipe Carcaci  ad  Aci  Sant'Antonio,  tappe  di  gitanti  e  di  cacciatori 
e  però  divertentissime.  È  da  ricordare  anche  la  villa  Curro  a 
San  Giovanni  la  Punta,  aperta  ai  villeggianti  dei  borghi  vicini. 
Eccellevano  tra  le  più  belle  signore  del  tempo  la  marchesa 
di  San  Giuliano,  figlia  anche  lei  del  principe  di  Cassare  e  ma- 
dre del  presente  ministro  delle  poste  ;  la  signora  Pettini,  moglie 
dell'  amministratore  del  principe  di  Manganelli  ;  le  sorelle  Laura 
e  Teresa  Nani,  la  signora  Elena  Cali,  nata  San  Giuliano,  la  si- 
gnora Catalano,  moglie  del  professore  di  diritto  penale  dell'  Uni- 
versità e  madre  del  defunto  diplomatico.  A  Catania,  come  a  Pa- 
lermo, le  signore  non  uscivano  sole,  o  uscivano  coperte  col  lungo 
e  caratteristico  manto  di  seta  nera,  quando  andavano  in  chiesa  o 
a  far  visite  di  confidenza  ;  in  carrozza  non  si  adoperava  il  manto. 
La  casa  San  Giuliano  era  anch'essa  aperta  alla  più  eletta  società. 
I  giovani  più  eleganti  del  tempo  erano  il  barone  Pucci,  il  barone 
Pauli  di  Scordia,  Matteo  Sava  di  Belpasso  e  Ludovico  Florio,  che 
credeva  di  somigliare  a  Vittorio  Alfieri  e  portava  delle  cravatte 
monumentali,  come  il  tragico  astigiano.  Il  barone  Felice  Spi- 
taleri,  il  duca  Pramestieri,  il  barone  Saverio  Landolina  e  i  fratelli 
Oasalotto  venivano  anch'  essi  considerati  fra  i  signori  più  galanti  ; 
esisteva  pure  un  gruppo  di  giovani,  i  quali  avevano  fama  di  va- 
ghezza ed  erano  :  un  fotografo,  chiamato  Zurria,  un  dentista,  chia- 
mato Cacciaguerra  e  un  avvocato  Patti,  onde  si  disse  : 

I  tre  belli  della  terra 
Zurria,  Patti  e  Cacciaguerra; 


—  143  - 
E  poiché  non  bastavano,  il  poeta  aggiunse  : 

Ma  voi  saper  volete 
Dove  beltà  riposa? 
In  Gaetan  Mondello 
E  Salvator  La  Hosa, 

perchè  anche  costoro  la  pretendevano  a  belli.  E  tra  gli  eleganti 
non  va  dimenticato  l' ingegnere  Niccolò  Ardizzone,  poeta  satirico 
e  parente  del  barone  Spitaleri. 

Catania,  che  possiede  oggi  quel  giardino  pubblico  Bellini, 
indiscutibilmente  uno  dei  primi  di  Europa,  e  il  giardino  fuori 
porta  Uzeda,  sul  mare,  non  ne  aveva  nessuno  prima  del  1860. 
Suonava  la  musica  alla  Marina,  fra  la  porta  suddetta  e  il  palazzo 
arcivescovile,  e  si  fitta  vano  le  sedie,  al  grido  burlesco  tradizio- 
nale: Franchi  di  cimici^  mentre  i  venditori  di  piccoli  biscotti 
offrivano  la  loro  merce,  gridando  :  Nciminati  'w  facci  'a  musica.  ' 
Il  popolo  accorreva  numeroso  a  sentire  la  musica,  come  correva 
numeroso  in  piazza  Stersicorea,  per  assistere  alle  parate  militari. 
Sulla  piazza,  dov'è  ora  il  monumento  al  Bellini,  sorgeva  una  sta- 
tua di  Ferdinando  II  ;  in  piazza  degli  Studi  e  proprio  innanzi  al- 
l'Università, sorgevano  le  statue  di  Carlo  III  e  di  Ferdinando  IV, 
e  in  piazza  dei  Cereali,  quella  di  Francesco  I.  Di  tutte  queste 
statue  oggi  non  ve  n'è  più  una.  ^ 

Meschine  le  locande.  Va  ricordata  quella  di  don  Salvatore 
Abbate,  filodrammatico,  il  quale  recitò  con  Salvini  nell'ottobre  del 
1868.  L'albergo  più  antico  e  forse  migliore,  era  quello  in  piazza 
del  duomo,  dietro  l'elefante  ;  ma  quando  diluviava,  ingrossandosi 
il  fiume  Amenano,  che  una  volta  scorreva  nella  città,  e  rac- 
coglieva nel  basso  anche  le  acque  delle  colline  vicino  alla  sua  fo- 
ce, i  forestieri  vi  rimanevano  bloccati.  V'era  pure  la  locanda  della 
Colomba,  che  serviva  ai  ritrovi  amorosi,  e  ancora  esiste  in  via 
Zappala  Bozzomo. 

Maestro  di  scherma  più  reputato  era  quel  Blasco  Florio,  ohe 


1  Vuol  dire:  coperti  di  sesamo  e  di  fronte  alla  musica. 

*  Furono  del  pari  distrutte  le  altre  clie  sorgevano  nel  Fòro  Borbonico, 
oggi  Italico,  di  Palermo.  Delle  bellezze  di  questi,  e  di  altri  monumenti  che 
abbellivano  ed  arricohivano  quella  passeggiata,  fauna  viva  descrizione  il 
Palermo  nella  Guida  di  Palermo,  riprodotta  poi  dal  Di  Marzo  Ferro  e 
che  è  il  più  completo  libro  del  genere. 


-   144  - 

aveva  avuta  la  vivace  polemica  con  F  Inguaggiato  di  Palermo, 
e  la  cui  sala  era  frequentata  dai  giovani  signori  e  dai  borghesi 
più  noti. 

I  negozianti  principali  a  Catania  erano  Eduardo  Jacob,  Alfio 
Scuto,  De  Benedetto,  Motta  e  Calogero  Costanzo.  Fra  i  negozi 
di  tessuti  di  lana  e  generi  esteri  vanno  ricordati  quelli  di  Fi- 
schetti  e  di  Gentile  ;  e  di  tessuti  indigeni  di  cotone,  quelli  di  Do- 
vi, Russo,  Licciardello.  Pregiati  ed  importanti  erano  i  tessuti 
in  seta,  che  si  fabbricavano  in  larga  scala  e  si  mandavano  in 
tutto  il  Regno.  Rinomati  i  negozi  dei  fratelli  Auteri  che  tene- 
vano un'importante  succursale  a  Napoli,  e  quelli  di  Fragalà. 
L'industria  della  seta,  assai  fiorente  e  fonte  di  lavoro  lucroso 
per   Catania,   decadde   dopo  il  1860. 

Quelli  che  non  frequentavano  i  circoli,  né  case  private,  so- 
levano radunarsi  la  sera  nelle  farmacie,  dove  si  fermavano  sino 
a  due  ore  dopo  l'avemaria,  in  attesa  che  le  persone  di  servizio 
andassero  a  prenderli  all'ora  designata  con  le  lanterne,  essendo 
scarsa  l'illuminazione  pubblica,  la  quale  veniva  aiutata  dalla 
maggior  parte  dei  padroni  di  casa,  che  sul  loro  portone  accen- 
devano il  lampione.  E  dire  che  oggi  è  una  delle  città  meglio 
illuminate  d'Italia.  La  festa  di  Sant'Agata,  aveva  la  curiosa 
specialità  delle  cosi  dette  Ntuppatelle,  che  erano  le  signore, 
le  quali  nascondendosi  il  volto  col  Manto,  prendevano  i  signo- 
ri a  braccio,  e  si  facevano  condurre  a  passeggio  e  comprare 
dolciumi. 

Si  rifece  vivo  l'antico  disegno  d' irrigare  la  piana  di  Catania 
con  le  acque  del  Simeto.  L' idea  risaliva  fino  al  1826  ;  ma  no- 
nostante gli  illuminati  eccitamenti  di  Giambattista  Guarneri 
e  di  Carlo  Afan  de  Rivera,  non  prese  forma  concreta,  che  nel- 
l'agosto 1846,  quando  l'ingegnere  napoletano  Enrico  Dombrè 
presentò  un  progetto  completo.  Il  governo  di  Napoli  non  l'ap- 
provò che  nel  marzo  del  1852,  per  le  insistenze  di  Filangieri. 
Si  formò  la  società  con  un  capitale  di  180  000  ducati,  inferiore  di 
molto  a  tanta  opera,  per  la  quale  occorreva  una  somma  almeno  di 
due  milioni  e  mezzo.  Cominciarono  i  lavori  nel  dicembre  del  1868. 
Il  primo  arginamento  venne  eseguito  presso  la  "  Barca  di  Pa- 
terno „,  e  di  là  furono  fatti  partire  i  canali  principali.  Questi 
lavori  non  dettero  però  tutto  l'utile  che  se  ne  sperava.   Della  nuova 


-  145  — 

forza  motrice  fu  utilizzata  solo  quella  del  canale  destro,  che 
muove  anche  oggi  due  mulini  da  grano;  mentre  la  forza  del 
canale  di  sinistra,  di  circa  cento  cavalli,  rimase  morta.  Il  Si- 
meto  è  il  maggior  fiume  di  Sicilia,  ricco  di  acque,  soprattutto 
nella  piana,  a  pochi  chilometri  dalla  foce.  Né  da  allora  si  è  fatto 
altro,  nonostante  che  a  Catania  siano  tutti  convinti  della  ne- 
cessità di  quest'opera,  che  farebbe  di  quella  piana  feracissima 
e  delle  convalli  superiori,  la  regione  più  ubertosa  del  mondo. 
Oggi  i  lavori  incompiuti  ammorbano  1'  aria,  perchè  alimentano 
una  quantità  di  piante  palustri  lungo  i  condotti. 

Era  intendente  della  provincia  il  conte  Angelo  Panebianco 
di  Terranova,  il  cui  fratello,  frate  conventuale  a  Roma,  fu  creato 
cardinale  da  Pio  IX  nel  1861.  L'intendente  aveva  fama  di 
rigidezza  eccessiva  in  politica,  ma  in  verità  non  si  ricorda  alcun 
suo  eccesso  veramente  biasimevole.  Teneva  bensì  d'occhio  i  li- 
berali e  li  molestava  all'occorrenza,  tanto  da  indurre  Luigi  Gra- 
vina, oggi  senatore  del  Regno,  a  lasciar  Catania  nel  1852  e  ad 
emigrare  volontariamente  a  Malta.  Il  Gravina  era  stato  aiutante 
di  campo  del  generale  Mierolawski.  L'intendente  nativo,  come 
ho  detto,  di  Terranova,  apparteneva  a  ricca  e  civile  famiglia, 
ma  il  titolo  di  conte  l'ebbe  da  Pio  IX,  ad  insistenza  del  fratello 
cardinale.  Governò  Catania  circa  nove  anni,  e  fu  tenuto  in  gran- 
de considerazione  da  Filangieri  e  da  Maniscalco  ;  da  quest'  ulti- 
mo soprattutto,  il  quale  soleva  scrivergli  lettere  autografe,  che 
si  aprivano  con  un  pregevole  amico,  e  si  chiudevano  costantemen- 
te :  credetemi  pieno  di  affetto.  Le  lettere  difatti  che  gli  scriveva, 
erano  addirittura  intime,  e  con  lui  si  abbandonava  a  sfoghi  e  a 
confidenze,   delle    quali   a  nessun   costo  avrebbe   onorato   altri. 

Nelle  lettere,  che  vanno  dal  febbraio  1859  a  pochi  giorni  dopo 
il  tentativo  della  Gancia,  si  leggono  periodi  di  questo  genere  : 
"  Una  mano  di  occulti  demagoghi  agitano  a  quando  a  quando  il 
paese,  ma  non  sono  ignorati  dal  direttore  di  polizia.  Io  rifuggo 
dalle  prigionie  politiche,  di  un  castigo,  che  nobilita  per  cosi  diro 
della  canaglia,  che  nulla  sente  di  generoso  e  peregrino  ;  li  seguo 
da  lunga  mano,  aspettando  l'occasione  di  dare  un  colpo  ardito  „ . 
—  Dopo  l'attentato  contro  di  lui,  l'epistolario  ha  un  tono  più 
severo,  anzi  addirittura  minaccioso.  —  "  Uno  dei  flagelli  della  Si- 
cilia —  scriveva  in  data  20  ottobre  1859  —  sono  i  magistrati,  che 

De  Cesabs.  La  fin»  di  un  Regno  -  Voi.  II.  10 


—  146  — 

manomettono  la  giustizia  e  alimentano  il  malcontento  „.  E  in  al- 
tra del  10  novembre  :  "  La  magistratura  disserve  e  non  serve  il 
governo,  ed  una  delle  fatalità  del  paese  sta  nella  mala  ammini- 
strazione della  giustizia  civile  e  penale  „.  E  concludeva  :  "  I  tempi 
sono  tristi,  e  non  vedo  ancora  un  raggio  di  speranza  per  uscire  da 
tanti  guai  „.  Il  21,  scrive,  più  caratteristicamente:  "  La  nobiltà 
palermitana  mi  onora  del  suo  odio,  per  averla  io  calpestata,  quan- 
do pensò  di  agitarsi  :  io  mi  rido  di  questa  malvoglienza  e  di  que- 
sti odii  „ .  E  in  data  del  29  dicembre,  facendogli  gli  auguri  per  il 
nuovo  anno,  gli  dice  :  "  La  mia  salute  risente  ancora  le  conseguen- 
ze dell'attentato  ;  il  paese  è  materialmente  in  calma  ;  i  tristi  si 
preparano  ad  una  lotta,  se  ad  essi  verrà  un  ausilio  dallo  straniero. 
Noi  li  aspettiamo  a  pie  fermo  „ .  Per  lui  lo  straniero  era  il  Pie- 
monte, e  Garibaldi  per  esso,  il  cui  nome  ricorre  più  volte  in  que- 
sto epistolario,  perchè  Maniscalco  si  può  dire  intuisse  ciò  che 
avvenne  pochi  mesi  dopo.  Difatti,  in  una  lettera  degli  11  feb- 
braio 1860,  lunga  e  sempre  tutta  di  suo  pugno,  scriveva  :  "  Le 
vostre  apprensioni  sulle  condizioni  perigliose,  nelle  quali  si  trova 
la  Sicilia,  sono  divise  da  me  e  da  quanti  sono  attaccati  alla  causa 
dell'ordine.  Io  non  temo  un'insurrezione,  ma  temo  d'uno  sbarco  di 
emigrati.  Gli  agitatori  sanno  che  non  si  possono  misurare  colle 
forze  del  governo,  e  contano  sull'  ausilio  straniero.  La  mala 
contentezza  si  fa  sempreppiù  maggiore  e  tutti  credono  l'auto- 
rità perduta.  Dio  salvi  il  Re  ed  il  Regno  e  dia  forza  a  noi  per 
scongiurare  i  pericoli,  che  minacciano  la  quiete  del  Reame  „ .  E 
sette  giorni  dopo  scriveva  :  "  Palermo  è  agitata,  ed  io  temo  che 
fra  non  guari  verremo  alle  mani  con  una  gioventù  dissennata. 
Il  sangue  ricada  sul  capo  di  coloro  che  provocheranno  la  lotta  „ . 
E  alla  fine  di  febbraio  :  "  Lo  spirito  fazioso  imperversa  in  Pa- 
lermo, e  si  manifesteranno  sintomi  gravi.  Io  sono  apparecchiato 
a  tutto,  e  ricorrerò  alle  ultime  estremità  „ .  E  il  13  marzo,  con 
spirito  profetico  :  "  Qui  v'  è  una  certa  calma,  ma  calma  aspet- 
tante. La  febbre  politica  ferve,  e  gli  animi  sono  disposti  ad  un 
movimento.  Nessun  effetto  hanno  prodotto  le  ultime  sovrane 
largizioni  in  Palermo  „.  Dieci  giorni  prima  del  tentativo  della 
Gancia,  scriveva  :  "  Il  paese  sta  sulle  bragi  e  si  fanno  sforzi  so- 
vrumani per  contenere  i  rivoluzionari.  La  rivoluzione  di  Sicilia 
è  aspettata  in  Italia.  Dio  ci  aiuterà  ed  il  nostro  buon  Re,  il 
cui  senno  è  superiore  alla  età  Sua,  saprà  scongiurare  la  procella  „ . 


—  147  — 

E,  quindici  giorni  dopo,  in  data  del  20  :  "  L' insurrezione  è  vinta 
dappertutto,  ed  ora  non  resta  che  consolidare  l'ordine  che  fu, 
ove  più  ove  meno  scosso.  La  vostra  provincia  è  stata  ammire- 
vole ;  siane  lode  alla  vostra  operosità  „ .  ^ 

Della  vita  sociale  di  Messina  ho  avuto  occasione  di  parlare, 
narrando  l'ultimo  viaggio  di  Ferdinando  II,  nel  1862.  Messina 
grazie  al  porto  franco  e  agli  altri  privilegi  di  cui  godeva,  gareg- 
giava con  Palermo  nello  splendore  di  quella  vita,  e  per  alcuni 
riguardi  la  superava.  Città  soprattutto  mercantile  e  signora  dello 
stretto,  grande  e  storica  via  fra  l'Oriente  e  l'Occidente,  il  suo  ceto 
più  influente  e  operoso  era  quello  dei  commercianti  e  dei  ban- 
chieri. Benché  desolata  prima  dal  bombardamento  del  1848  e 
poi  dal  colera  del  1854,  che  vi  fece  strage,  non  perdette  mai  il 
suo  aspetto  di  città  gaia  e  ospitale.  Fra  le  più  belle  signore  del 
tempo  erano  la  Giulia  G-rill  Clausen,  figlia  del  console  danese 
Clausen  e  moglie  di  Paolo  Grill,  negoziante  ricchissimo,  rap- 
presentante la  ditta  Valser  ;  la  signora  Di  Cola,  la  maggioressa 
Piccirilli,  e  fra  le  più  belle  signorine,  le  Parlato  e  le  Fischer.  Prin- 
cipe fra  gli  avvocati,  Vincenzo  Picardi,  padre  di  Silvestro,  oggi 
deputato  di  Messina. 

Messina,  non  centro  di  studii,  benché  avesse  un'Università,  era 
di  tutte  le  città  dell'  Isola  la  meno  isolana.  La  sua  vicinanza  al 
continente,  le  antiche  e  non  mai  interrotte  relazioni  sue  con  Napoli, 
dettero  sempre  a  Messina  una  fisonomia  propria,  dissimile  so- 
prattutto da  quella  della  rivale  Catania,  stretta  dall'Etna  e  dal 
mare.  Le  colonie  di  commercianti  stranieri,  soprattutto  tedeschi, 
congiunsero  Messina  ai  più  lontani  paesi  e  le  dettero  consuetu- 
dini e  gusti  cosmopoliti,  ingentilendone  i  costumi  e  le  idee.  In 
quegli  anni  i  suoi  commerci  fiorirono  e  il  porto  franco  fu  una 
miniera  d'oro.  Se  parecchi  messinesi  ebbero  in  ogni  tempo  l'a- 
more della  libertà  e  dell'  indipendenza,  questo  era  per  i  più  un 
amore  piuttosto  platonico  ;  il  popolo  non  odiava  i  Borboni  e  ne 
die  una  prova  nell'ultimo  viaggio  di  Ferdinando  II.  Popolo  in- 
clinato anch'esso  all'  iperbole,  la  sua  fede  religiosa  aveva  bisogno 
di  manifestarsi  con  pompe  straordinarie  e  quasi  inverosimili.  So 
i  pregiudizi  per  la  jettatura  erano  pari  a  quelli  di  Napoli,  la  divo- 


^  Archivio  Panebianco. 


-  148  - 

zione  per  la  Madonna  della  Lettera,  patrona  della  città,  e  per  l'As- 
sunta, superava  forse  quella  di  Palermo  per  Santa  Rosalia  e  di 
Catania  per  Sant'Agata.  E  più  radicata  v'era  la  tradizione  del 
soprannaturale,  poiotè  davvero  la  Madonna,  che,  dall'opposta  riva 
di  Reggio,  scrive  ai  messinesi  una  lettera  in  lingua  ebraica,  da 
San  Paolo  tradotta  in  greco  e  da  Lascari  in  latino,  e  comincianto 
con  le  parole  :  vos  omnes  fide  magna,  e  ne  affida  il  recapito  a  San 
Paolo  stesso,  varca  di  molto  i  limiti  anclie  del  miracoloso.  Le  pro- 
cessioni vi  erano  frequenti,  lunghe  e  solenni,  e  vi  solevano  parte 
cipare  gentiluomini  recanti  ceri  accesi,  uniti  alla  folla  e  alle 
numerose  congreghe  ;  ne  mancavano  poi  magnifiche  luminarie 
e  fuochi  pirotecnici  sul  mare,  come  in  tutta  la  Sicilia.  Que- 
sta fede  religiosa,  che  si  nutriva  di  pompe  esteriori,  non  era, 
bisogna  riconoscerlo,  senza  radice  vera  nelle  coscienze  dei  mes- 
sinesi. La  donna,  popolana,  borghese  o  patrizia,  era  madre  esem- 
plare, figliuola  devota  e  quasi  sempre  moglie  fedele  ed  onesta. 
La  mafia,  che  in  Palermo  e  in  altre  parti  dell'  Isola  aveva  diffu- 
sione quasi  in  ogni  ordine  sociale,  era  poco  diffusa  a  Messina, 
dove  si  è  anche  oggi  più  sinceri,  più  espansivi  e  meno  violenti. 
Benché  gelosi,  come  tutti  gì'  isolani,  nei  messinesi  la  gelosia  ap- 
pariva meno.  Nei  teatri,  nei  passeggi  pubblici,  nei  balli,  le  abi- 
tudini, borghesi  od  aristocratiche,  erano  affatto  continentali.  Non 
accadeva  di  vedere,  come  in  altre  città  della  Sicilia,  entrando 
in  una  sala  da  ballo,  gli  uomini  da  una  parte  e  le  signore  dal- 
l'altra. E  ciò  perchè,  come  ho  detto,  i  contatti  con  gli  stra- 
nieri avevano  cancellato  quasi  interamente  il  ricordo  de'  vec- 
chi costumi,  e  soppresse  le  forme  esteriori  d'una  gelosia  tanto 
più  ridicola,  quanto  meno  acconcia  a  serbare  la  fedeltà  coniu- 
gale. Messina  si  affermava  sempre  sorella  primogenita  di  Cata- 
nia, e  se  riconosceva  la  superiorità  di  Palermo,  la  subiva  di 
mala  voglia. 

Fu  sindaco  in  quel  tempo  il  marchese  di  Cassibile,  ricco  ma 
strano  signore,  che  tentò  più  tardi  la  deputazione  e  non  vi 
riusci  mai.  Egli  fu  sostituito  dal  barone  Felice  Silipigni,  che 
tanto  si  distinse  nella  tremenda  epidemia  colerica  del  1854,  e 
lasciò  buon  nome  e  raccolse  grandi  lodi  dal  generale  Filangie- 
ri, il  quale,  in  occasione  del  colera,  si  recò  personalmente  a 
Messina  a  distribuire  soccorsi  e  a  rincuorare  la  cittadinanza,  at- 
territa forse  più  che  a  Palermo. 


~  149  — 

L' indipendenza,  ecco  la  parola  magica  clie  politicamente  esal- 
tava il  siciliano  di  qualunque  grado  e  creava  una  vera  egua- 
glianza, anzi  la  sola  eguaglianza  sociale,  nell'odio  contro  i  na- 
poletani. Sotto  quella  vernice  di  gaiezza  e  di  benessere  covava 
un  fuoco  sempre  vivo  di  odii  e  di  rancori  verso  i  napoletani.  I 
nuovi  tempi  maturavano,  e  la  Sicilia  dei  siciliani,  chiunque  ne 
fosse  il  Re,  anche  un  tiranno,  pur  di  vederlo  nella  vecchia  Reg- 
gia normanna,  con  una  magnifica  Corte,  accendeva  le  fantasie. 
Un  Niruni  o  chiano  'u  palazzu,  e  più  comunemente:  'u  Riuzzo 
o  chiano  'u  palazzu,  ecco  l' ideale  ed  ecco  il  lievito  del  mal- 
contento, che  in  quei  mesi  si  andava  addensando.  Se  il  fondo 
del  carattere  siciliano  è  l'orgoglio,  le  manifestazioni  dell'orgoglio 
sono  infinite,  e  sovente,  per  un  eccesso  di  furberia,  prendono  le 
forme  più  umili  e  carezzevoli.  Se  l'accattone,  non  mai  lacero 
e  sporco,  stendendo  la  mano  si  studia  di  umiliarsi  il  meno  ohe 
può  ;  se  il  popolo  ribelle  alle  prepotenze  vi  soggiace  con  falsa  ras- 
segnazione, quando  non  può  reagire,  senza  dimenticar  mai  ;  se  il 
signore  simula  e  dissimula  a  perfezione  e  non  si  lascia  sco- 
prire, nondimeno  la  vita  esteriore  dell'  Isola,  in  quegli  ultimi  mesi 
del  1859,  non  rivelava  davvero  ciò  che  avvenne  poco  tempo 
dopo  :  la  tentata  insurrezione  del  4  aprile  e  poi  lo  sbarco  di  Ga- 
ribaldi a  Marsala  agli  11  di  maggio  e  il  suo  ingresso  a  Palermo 
il  27  di  quel  mese.  Gli  avvenimenti  nel  resto  d'Italia  fecero 
precipitare  le  cose  nella  Sicilia. 


CAPITOLO   VII 


Sommario:  La  cospirazione  liberale  in  Sicilia  —  Dimostrazione  per  la  vittoria 
di  Solferino  —  Incidente  di  Maniscalco  al  club  dell'  Unione  —  Il  primo  Co- 
mitato liberale  —  La  tradizione  rivoluzionaria  di  Palermo  —  Le  squadre 

—  Il  tentativo  insurrezionale  di  Giuseppe  Campo  nell'ottobre  del  1859  — 
Eapporto  di  Castelcicala  e  nota  del  Re  —  I  liberali  e  Maniscalco  —  Atten- 
tato di  Farinella  contro  la  sua  vita  —  Particolari  —  Riorganizzazione 
del  Comitato  —  Mazzini  e  Crispi  da  una  parte,  Giuseppe  La  Farina  dal- 
l'altra —  Enrico  Benza  a  Palermo  —  Curioso  rapporto  di  Castelcicala  — 
I  nobili  entrano  nella  cospirazione  —  Il  padre  Ottavio  Lanza  —  Il  testa- 
mento del  principe  di  Scordia  e  Butera  —  Si  fa  un  Comitato  unico  —  Il 
vecchio  barone  Pisani  —  Si  provvedono  fondi,  fucili  e  bombe  —  I  prepara- 
tivi di  Francesco  Riso  —  L'inchiesta  di  Pisani  juniore  —  L'opera  della 
polizia  —  Si  delibera  d' insorgere  il  4  aprile  —  Il  piano  dell'  insurrezione 

—  'U  zu  Piddu  Rantieri  —  Arresti  e  perquisizioni  —  Come  la  polizia  sco- 
pri il  complotto  —  Un  verbale  dell'  ispettore  Catti  —  La  verità  storica  — 
Le  precauzioni  del  governo. 

Vera  cospirazione  politica  organizzata  non  vi  fu  in  Sicilia 
prima  della  morte  di  Ferdinando  II.  I  conati  di  Garzilli  e  di 
Bentivegna,  repressi  nel  sangue,  non  ebbero  altro  effetto  che 
di  accrescere  il  lievito  di  odio  dei  siciliani  per  il  governo  di 
Napoli.  Se  nel  1848  l' idea,  che  prevalse,  fu  l' indipendenza  del- 
risola,  gli  orizzonti  erano  più  larghi  nel  1859.  Si  era  formato 
il  Regno  dell'Italia  del  nord;  la  Toscana  e  l'Emilia  si  reggevano 
a  dittatura,  e  i  dittatori  erano  di  fatto  luogotenenti  di  Vittorio 
Emanuele  ;  e  gli  uomini  più  eminenti,  esuli  del  1848,  mandavano 
dall'esilio  moniti  e  speranze.  L'idea  nazionale  e  il  sentimento 
della  grande  patria  riscaldavano  il  petto  dei  liberali  siciliani, 
i  quali  nelle  nuove  condizioni  politiche  dell'Italia  vedevano  la 
garenzia   del    successo.     La    prima   manifestazione    liberale    si 


-  162  — 

compi,  raccogliendo,  per  iniziativa  principalmente  di  Corrado 
Valguarnera  duca  dell'Arenella,  figlio  giovanissimo  del  principe 
di  Niscemi,  oggi  senatore  del  Regno,  soccorsi  per  i  feriti  della 
guerra  dell'indipendenza;  e  la  prima  dimostrazione  fu  fatta 
per  la  vittoria  di  Solferino,  illuminando,  la  sera  del  26  giugno, 
i  clubs  della  città.  Si  tentò  anzi  dai  giovani  più  animosi  di  far 
illuminare  tutta  la  città  ;  ma,  oltreché  per  i  clubs^  non  vi  si  riusci 
che  per  poche  case  di  piazza  Marina  e  di  piazza  Bologni.  I  clwbs 
di  Palermo  sono,  giova  ricordarlo,  a  pianterreno.  Al  club  àe\- 
V  Unione,  in  piazza  Bologni,  detto  della  Pagliarola  o  delle  sette 
finestre^  uno  dei  più  antichi  della  città,  preseduto  dal  vecchio 
marchese  Ugo  delle  Favare,  borbonico  schiettissimo,  i  giovani 
socii  Francesco  Vassallo  e  Francesco  Brancaccio  di  Carpino,  di 
loro  testa  ordinarono  al  maestro  di  casa  l'illuminazione,  e  poi- 
ché non  vi  erano  candelieri  pronti,  fu  adoperato  un  lampadario. 
Il  marchese  Ugo,  temendo  qualche  molestia  dalla  polizia,  si  ri- 
solvette di  tornare  a  casa  ;  e  restarono  nel  club  pochi  soci,  tra  i 
quali  il  Brancaccio,  il  Vassallo  e  il  barone  di  Rosabia,  un  vec- 
chio dalla  lunga  barba  bianca,  il  quale,  seduto  fuori,  pareva  si 
volesse  godere  lo  strano  spettacolo.  Venivano  difatti  rumori  con- 
fusi giù  dalla  Marina  ;  ai  quali  segui  l'avanzarsi  di  una  gran  folla, 
con  Maniscalco  alla  testa.  Si  seppe  che  il  direttore  della  poli- 
zia, circondato  da  molta  sbirraglia,  aveva  lui  stesso  con  uno  scu- 
discio mandati  in  pezzi  i  lumi  dei  primi  clubs.  Giunto  che  fu 
innanzi  a  quello  deìV  Unione,  chiese  chi  avesse  dato  l'ordine  di 
illuminarlo,  e  nessuno  rispose.  Brancaccio  e  Vassallo  si  per- 
dettero nella  folla;  il  barone  di  Rosabia  non  si  mosse,  ma  un 
servo  del  club  rivelò  che  l'ordine  era  stato  dato  appunto  dai  primi 
due.  Il  Maniscalco,  allora,  mandò  in  pezzi  egli  stesso  l'inno- 
cente lampadario,  e  ordinò  l'arresto  di  Brancaccio  e  di  Vassallo, 
che  riuscirono  a  mettersi  in  salvo.  L'atto  compiuto  personal- 
mente da  Maniscalco  urtò  il  sentimento  pubblico  e  riaccese  più 
forti  gli  odii  contro  di  lui. 

Si  sentiva  il  bisogno  di  costituire  un  primo  e  vero  Comitato 
direttore  del  movimento  liberale,  perchè  direzione  non  vi  era. 
Ne  fecero  parte  da  principio  l' ingegnere  Tommaso  Lo  Cascio, 
Salvatore  Cappello,  Salvatore  Buccheri,  Emanuele  Faja,  i  fra- 
telli Di  Benedetto,   Domenico   Cortegiani,   Andrea   Rammacca, 


-  153  - 

il  vecchio  barone  Pisani  e  suo  figlio  Casimiro,  Martino  Beltra- 
mi-Scalia,  Giambattista  Marinuzzi,  Francesco  Vassallo,  Enrico 
Albanese,  Andrea  d' Tirso,  Giuseppe  Campo  e  Francesco  Bran- 
caccio. La  mente  e  l'autorità  maggiore  del  Comitato  erano 
quelle  del  vecchio  barone  Pisani;  gli  altri  appartenevano  qua- 
si tutti  alla  borghesia  facoltosa,  che  rappresentava  la  maggior 
resistenza  al  governo  dei  Borboni.  Martino  Beltrami  Scalìa, 
genero  del  barone  Pisani,  era  insegnante  privato,  come  si  è 
veduto  ;  Buccheri  era  negoziante  di  ferramenta  ;  Cortegiani,  far- 
macista e  fratello  dell'agente  del  duca  di  Aumale;  Marinuzzi 
iniziava  la  sua  professione  nel  fóro;  E-ammacca  aveva  bottega 
di  cambiavalute  in  via  Toledo;  i  fratelli  Di  Benedetto  discreti 
benestanti,  e  l'Onofrio  anche  medico,  e  Andrea  d'Urso  era  l'uomo 
d'affari  della  contessa  di  San  Marco,  la  quale  fu  tanto  utile  alla 
causa  liberale.  Questa  signora  era  ultima  di  casa  Filangieri 
San  Marco  e  vedova  del  conte  di  Sommatine,  anch'egli  di  casa 
Lanza,  morto  di  colera  nel  1837.  Francesco  Brancaccio  viveva 
nel  mondo  aristocratico  e  non  aveva  requie  né  prudenza. 

La  tradizione  rivoluzionaria  di  Palermo  era  questa:  contare 
sul  concorso  della  campagna,  cioè  poter  disporre  nelle  campa- 
gne vicine  di  persone  coraggiose  e  sicure,  le  quali  potessero 
raccogliere  intorno  a  se  altri  elementi,  egualmente  coraggiosi 
e  risoluti,  raccozzati  soprattutto  fra  quei  contadini  nomadi  onde 
son  ricche  le  campagne  siciliane  :  contadini  e  facinorosi,  riso- 
luti a  formare  squadre,  a  combattere  la  forza  pubblica,  a  sac- 
cheggiare uf&ci  doganali  e,  penetrati  che  fossero  in  Palermo, 
fare  man  bassa  sulle  amministrazioni  governative,  unendosi  alla 
mafia  cittadina.  Per  loro  la  rivoluzione  voleva  dire  distruzione 
di  ogni  freno  politico  e  legale.  Le  squadre  furono  tanta  parte  dei 
moti  palermitani  in  ogni  tempo,  fino  ai  più  recenti,  dopo  il 
1860;  ma  se  ne  furono  la  forza,  ne  furono  anche  la  debolezza, 
perchè  gli  elementi  torbidi  che  entrarono  a  farne  parte,  non 
poteano,  per  le  loro  pretensioni,  essere  facilmente  tenuti  a  segno. 
Il  Comitato  s' illudeva  da  principio  di  poterne  fare  a  meno,  ma 
non  era  possibile,  e  se  n'ebbe  la  prova  in  un  primo  tentativo  d'in- 
surrezione, fatto  nell'ottobre  del  1859  da  Giuseppe  Campo,  il  qua- 
le, dichiarando  di  poter  disporre  di  molta  gente  in  Bagheria,  ave- 


-  154  — 

va  persuaso  il  Comitato  che  sarebbe  stato  agevole  tentare  un  mo- 
to insurrezionale  il  giorno  9  ottobre,  con  questo  piano.  All'alba  di 
quel  giorno,  una  squadra,  dopo  aver  inalberata  in  Bagheria  la  ban- 
diera tricolore,  e  disarmata  la  poca  forza  pubblica,  raccogliendo 
via  via  altri  uomini  armati  a  Misilmeri  e  a  Yillabate,  sarebbe 
scesa  a  Palermo  ;  ed  allora,  al  rumore  di  alcune  fucilate  verso  la 
porta  Sant'Antonino,  i  cospiratori  della  città  sarebbero  corsi  alle 
armi,  e  con  l'aiuto  delle  bombe  e  delle  squadre,  avrebbero  attac- 
cata la  truppa,  e  la  rivoluzione  si  sarebbe  compiuta.  Griuseppe 
Campo,  giovane  di  grande  coraggio,  ma  non  di  pari  esperienza, 
aveva  fatto  assegnamento  sulle  spavalderie  di  un  suo  castaido,  tal 
Gandolfo,  il  quale  gli  aveva  dato  ad  intendere  di  poter  disporre 
di  tutti  gli  uomini  d'azione  di  Bagh.eria  e  vicinanze,  i  quali  ad 
un  cenno  si  sarebbero  raccolti  sotto  la  sua  direzione.  Ma  in- 
vece intorno  al  Campo,  la  sera  del  giorno  8  ottobre,  non  si  tro- 
varono che  cinque  o  sei  uomini  armati.  La  mattina  del  9,  il 
Comitato  di  Palermo,  non  avendo  alcuna  notizia  da  Bagheria, 
inviò  colà  Giambattista  Marinuzzi,  il  quale,  tornato  ad  ora  tarda» 
riferi  che  il  Campo,  per  defìcenza  di  uomini,  non  aveva  potuto 
mantenere  la  promessa;  ma  l'avrebbe  mantenuta  il  di  seguente. 
E  difatti  nella  notte  tra  il  10  e  l'il,  il  Campo,  con  un  pugno 
di  uomini,  guidato  da  un  certo  D'Alessandro,  irruppe  prima  in 
Santa  Flavia,  dove  assalì  la  guardia  urbana,  poi  in  Porticello, 
dove  assali  e  disarmò  la  caserma  doganale,  ed  in  ultimo  in  Vil- 
labate,  dove  invase  il  posto  della  guardia  urbana  e  la  casa  del 
suo  capo,  certo  Salmeri.  Ma  fu  lì  che,  raggiunti  da  un  mani- 
polo di  soldati  e  di  compagni  d'arme,  gl'insorti  furono  sgo- 
minati dal  numero  prevalente  della  forza,  ed  il  Campo  trovò 
rifugio  in  casa  Federigo,  ai  CiacuUi.  Imbarcatosi  poi  per  Ge- 
nova, scese  co'  Mille  a  Marsala,  dove  ebbe  compagni  i  fra- 
telli Achille  e  Francesco,  de'  quali  il  primo  avea  già  fatto  parte 
della  spedizione  di  Calabria  nel  1848,  e  salì  poi  nell'esercito 
nazionale  al  grado  di  colonnello  ;  e  l'altro,  che  già  serviva  nello 
esercito  sardo,  pervenne  nell'  italiano  all'alto  grado  di  tenente  ge- 
nerale. Un  terzo  fratello,  compiuta  che  fu  l'impresa  di  Garibaldi^ 
si  arrolò  anch'egli  nella  cavalleria  italiana,  ma  non  vi  durò  a  lun- 
go. Alla  generosità  dell'animo  furon  pari  nei  fratelli  Campo  la  in- 
tegrità del  carattere,  il  valore  e  la  intrepidezza  ;  e  larga  quanto 
meritata  la  stima  in  cui  eran  tenuti  dai  loro  concittadini. 


—  155  — 

Del  movimento  il  principe  di  Castelcicala  informò  il  governo 
di  Napoli  con  un  rapporto  diretto  il  12  ottobre  al  ministro  di 
Sicilia  a  Napoli,  il  quale  gli  rispondeva,  il  19,  che  il  Re  aveva 
di  suo  pugno  annotato  sul  rapporto  :  "  Inteso  degli  ordini  dati; 
inteso  con  soddisfazione  per  la  pronta  repressione  ;  si  preferisca 
però  sempre  il  prevenire  molto,  per  reprimere  poco  „ . 

Il  movimento  falli,  e  le  conseguenze  furono  nuove  carcera- 
zioni e  disarmo  ;  provvedimento  quest'ultimo,  al  quale  Maniscalco 
tenne  più  che  ad  ogni  altro.  Dei  componenti  del  Comitato, 
alcuni  furono  arrestati;  altri  si  salvarono  emigrando,  e  fu  tra 
questi  Paolo  Paternostro,  che  da  poco  era  tornato  dall'esilio. 

Andato  a  vuoto  quel  tentativo,  e  procedendo  le  cose  d' Italia 
con  maggior  fortuna,  si  tornò  all'opera.  Lo  scoglio,  contro  il 
quale  s'infrangeva  ogni  conato  rivoluzionario,  era  Maniscalco. 
Tolto  lui  di  mezzo,  si  credeva  impresa  facile  compiere  la  rivo- 
luzione. Sul  suo  capo  si  erano  cumulati  grandi  odii  ed  erano 
odii  di  liberali  e  di  facinorosi  insieme,  perchè  Maniscalco  col- 
piva con  la  stessa  severità  gli  nni  e  gli  altri,  anzi,  in  verità, 
più  questi  che  quelli.  Dal  giorno  che,  salito  al  trono  il  nuovo 
Re,  Filangieri  era  divenuto  presidente  dei  ministri,  e  Cassisi  licen- 
ziato, il  potere  di  Maniscalco  non  ebbe  limite.  Castelcicala  lascia- 
va fare  ;  Spaccaforno,  deposto  dal  suo  ufficio  di  direttore  dell'  inter- 
no e  passato  alla  Consulta,  era  divenuto  il  peggior  diffamatore  del 
suo  vecchio  collega.  I  membri  meno  scrupolosi  del  Comitato  ave- 
vano immaginato  parecchi  mezzi  per  paralizzare  Maniscalco,  o  ad- 
dirittura sopprimerlo.  Pensarono  un  momento  di  sequestrarlo  col 
primo  figliuolo,  perchè  egli  aveva  l'abitudine  di  fare  delle  passeg- 
giate a  cavallo  fuori  la  città,  accompagnandovi  questo  suo  figliuolo, 
convalescente  da  una  grave  malattia.  Per  qualche  tempo  lo  appo- 
starono, ma  il  colpo  falli.  Pensarono  allora  di  farlo  ammazzare,  e 
non  fu  difficile  trovare  nei  bassi  fondi  della  mafia  chi  vi  si  pre- 
stasse. La  mafia,  che  detestava  Maniscalco,  aveva  indispensabili 
contatti  col  Comitato,  perchè,  purtroppo,  quando  si  cospira,  non  si 
distingue.  Si  trovò  la  persona,  e  fu  tal  Vito  Farina,  soprannomi- 
nato Farinella,  giovinastro  fra  i  più  temerarii,  vigilato  dalla  po- 
lizia per  pessimi  precedenti.  Costui  accettò  l'incarico,  mercè  il 
compenso  di  dugento  onze,  cioè  seicento  ducati,  e  per  parecchie 
domeniche  stette  ad  aspettare   la   sua   vittima  nei   pressi   della 


-  156  — 

cattedrale,  dove  il  direttore  andava  con  la  famiglia  a  sentire  la 
messa.  E  la  domenica  27  ottobre  del  1859  l'aggredì  alle  spalle, 
lo  feri  di  pugnale  nei  reni,  e  credendo  di  averlo  finito,  si  per- 
dette nel  cortile  di  San  Giovanni,  anzi  nei  labirinti  di  quel 
cortile,  davvero  intricatissimi,  onde  all'usciere  Oliva,  che  accom- 
pagnava il  ferito,  riusci  impossibile  dargli  la  caccia.  L'assassino 
s'era  attaccato  al  viso  una  barba  fìnta,  cbe  ebbe  cura  di  gettar 
via,  appena  compiuto  il  misfatto.  Fosse  allucinazione  ottica  del 
Maniscalco  o  stordimento,  gli  parve  che  il  feritore  fosse  alto  di 
statura,  e  la  polizia  arrestò  tutti  coloro,  che,  su  tale  contrassegno, 
potessero  esser  sospetti  di  aver  compiuto  il  misfatto.  Il  Fari- 
nella,  che  invece  era  piccolo  e  sbarbato,  venne  tratto  in  arresto 
per  sospetto,  ma  otto  giorni  dopo  fu  rimesso  in  libertà,  nulla 
essendosi  potuto  provare  sul  conto  di  lui,  benché,  come  si  disse, 
sottoposto  a  tortura.     Maniscalco  guari  peraltro  in  pochi  giorni. 

Dal  di  dell'attentato  Maniscalco  perse  addirittura  i  lumi;  la 
polizia  cominciò  a  mostrarsi  più  inesorabile  con  i  supposti  nemici 
del  Re,  anzi  divenne,  in  alcuni  casi,  bestiale.  Non  aveva  pace, 
perche  non  riusciva  a  scoprire  l'assassino  e  i  mandanti.  Rite- 
neva che  i  liberali  avessero  armata  la  mano  del  sicario,  ma 
^mancavano  le  prove.  Il  De  Sivo  accusa  come  mandanti  del 
delitto  i  giovani  nobili,  né  ©sita  a  farne  i  nomi,  affermando  di 
averli  rilevati  dalle  "  Memorie  „  di  Maniscalco.  E  nomina  il 
principe  di  Sant'Elia,  il  principe  Antonio  Pignatelli,  il  ba- 
rone Riso,  il  principe  di  San  Cataldo,  Casimiro  Pisani  juniore, 
Corrado  Niscemi  e  il  marchesino  Rudini.  Ma  ciò  è  falso  :  nes- 
suno di  costoro  ebbe  parte  nell'assassinio,  e  i  superstiti  lo  as- 
sicurano sulla  loro  parola  d'onore,  come  ritengono  che  il  Fa- 
rinella  abbia  agito  invece  ad  istigazione  di  qualcuno  fra  i  mem- 
bri più  caldi  del  Comitato,  e  fanno  il  nome  di  taluno,  morto  da 
poco  senatore  del  Regno.  Quando  il  G-overno  borbonico  fini  in 
Sicilia,  molti  si  fecero  belli  del  fatto  e  ottennero  da  Garibaldi  un 
sussidio  pel  Farinella.  E  fu  vergogna.  Non  so  quali  prove 
avesse  il  Maniscalco  per  ritenere  i  giovani  nobili  mandanti  del- 
l'assassino ;  le  sue  memorie  non  furono  mai  pubblicate;  i  fi- 
gli non  le  hanno  ;  nessuno  le  ha  vedute  ;  e  persona,  che  ebbe  tutta 
la  fiducia  di  lui,  interrogata,  mi  rispose  :  "  mi  risulta  quasi  in 
modo  assoluto  che  Maniscalco  non  scrisse  mai  le  sue  memo- 
rie, anzi  non  ne  mostrò  mai  il  più  lontano  pensiero  „ . 


-  157  - 

E  inutile  dire  che  Maniscalco  ebbe  congratulazioni  da  ogni 
parte  ;  il  Re  gli  concesse  un'alta  onorificenza  e  un  aumento  di 
assegno,  e  il  suo  potere  crebbe  tanto,  che  in  Sicilia  nessuno  contava 
più  di  lui.  Il  suo  carattere  divenne  più  acre  e  più  sarcastico. 
Mi  narra  Giambattista  Marinuzzi,  che  salendo  un  giorno  le  scale 
dei  ministeri,  si  trovò  in  mezzo  a  una  folla  di  donne,  che  cir- 
condavano Maniscalco,  il  quale,  salendo  egli  pure,  riceveva  suppli- 
che che  quelle  donne  gli  porgevano,  accompagnandole  con  augu- 
rii  di  lunga  vita.  Maniscalco,  crollando  il  capo,  rispondeva: 
"  Non  ci  credo  che  voi  preghiate  Dio  per  me,  lo  pregherete  piuttosto 
perchè  mi  faccia  crepare  „. 

Anche  negli  ultimi  tempi,  quando  la  procella  si  addensava  da 
ogni  parte,  egli  serbò  vivo  il  sentimento  della  gratitudine  verso 
coloro  ai  quali  doveva  qualche  cosa.  Non  molestò  il  dottor  La 
Loggia,  che  sapeva  libéralissimo,  perchè  gli  aveva  guarito  il 
figlio  ;  e  allo  stesso  Marinuzzi,  che  sapeva  liberale,  rese  un  favore, 
che  questi  forse  non  si  aspettava.  Un  fratello  del  Marinuzzi, 
giovanissimo,  aveva  tentato  di  rapire  una  ragazza  in  Partinico, 
nel  momento  che  andava  in  chiesa  per  maritarsi.  Maniscalco 
ne  aveva  ordinato  l'arresto,  ma  presentatoglisi  Giambattista  Ma- 
rinuzzi, fratello  di  Michele,  avvocato  di  lui,  lo  consigliò  di  ag- 
giustar tutto  con  la  famiglia  della  ragazza,  promettendogli  che 
la  cosa  non  avrebbe  avuto  seguito.  E  cosi  fu.  A  Maniscalco  si  fa- 
ceva risalire  la  responsabilità  di  ogni  sopruso,  e  nella  polizia  di 
Palermo  vi  erano  arnesi  ben  tristi,  come  in  tutte  le  polizie  dei 
governi  assoluti  e  anche  non  assoluti:  polizie,  che  non  distin- 
guono né  sull'uso  dei  mezzi,  ne  sul  valore  morale  delle  persone. 

Alla  direzione  del  Comitato  si  aggiunsero  Francesco  Perro- 
ne-Paladini,  Mariano  Indelicato,  Ignazio  Federigo,  Salvatore  Per- 
ricone  e  Giuseppe  Bruno,  tutti  borghesi.  Bisognava  riordinare 
le  fila  della  cospirazione;  riprendere  le  relazioni  con  quanti 
erano  scampati  alle  ricerche  della  polizia  ;  riunire  in  un  sol  fa- 
scio i  liberali  dell'Isola,  e  intendersela  soprattutto  con  quelli 
di  Messina,  dov'era  Giacomo  Agresta,  anima  della  cospirazione 
messinese,  che  aveva  larghi  rapporti  con  gli  equipaggi  di  legni 
esteri,  e  riceveva  giornali,  stampe  clandestine  e  libri,  che  man- 
dava a  Palermo  per  mezzo  del  corriere  postale  Carmine  Agnese. 

Sui  cospiratori  di  Sicilia   premevano    due  influenze  diverse: 


-  158  - 

una  metteva  capo  a  Malta,  a  Mazzini,  a  Crispi  e  a  Rosolino  Pilo, 
e  incuorava  a  rompere  gl'indugi  e  ad  insorgere  a  qualunque 
costo,  pur  d' insorgere,  in  nome  dell'unità  nazionale.  Una  lettera 
di  Mazzini,  del  2  marzo  1860,  diretta  agli  amici  di  Palermo  e  di 
Messina,  suggeriva  di  non  badare  a  forme  di  governo,  ne  ai  con- 
sigli di  moderazione,  che  venivano  da  Torino  e  da  Firenze,  ma 
di  osare  :  "  Osate,  perdio  !  diceva,  sarete  seguiti;  ma  osate  in  nome 
delV  Unità  Nazionale  :  è  condizione  sine  qua  non  „ . 

Già  Francesco  Crispi,  nell'agosto  del  1859,  era  andato  a  Pa- 
lermo, dopo  essere  stato  a  Messina  e  a  Catania  ;  e  vi  era  andato  sotto 
il  nome  di  Manuel  Pareda,  con  un  passaporto  procuratogli  da 
Mazzini.  I  particolari  del  viaggio  sono  narrati  da  lui  stesso, 
nel  suo  Diario.  A  Palermo  conferi  con  pochi  amici,  ai  quali 
lasciò  una  forma,  in  creta,  di  bombe  all'Orsini.  Il  consiglio  di 
Crispi  di  fabbricare  queste  bombe,  che  si  sarebbero  dovute  get- 
tare tra  i  soldati  nelle  caserme  e  negli  uffici  pubblici,  fu  ac- 
colto, ma  senza  costrutto.  Crispi  avrebbe  voluto  che  s'insor- 
gesse il  4  ottobre,  onomastico  del  Re,  gettando  quelle  bombe 
fra  la  truppa,  mentre  tornava  dalla  rivista  militare.  La  truppa 
si  sarebbe  allora  sbandata  dalla  paura  e  le  squadre  sarebbero 
entrate  in  città.  Egli  prometteva,  a  nome  di  Mazzini,  la  ve- 
nuta di  Garibaldi  e  altri  aiuti. 

L'altra  influenza  metteva  capo  a  Torino  e  a  Genova,  ed  era 
rappresentata  dagli  esuli  di  maggior  conto,  e  principalmente  da 
Giuseppe  La  Farina,  divenuto  l'anima  della  Società  Nazionale  e 
intimo  di  Cavour.  Erano  di  accordo  col  La  Farina,  fra  gli  altri. 
Michele  ed  Emerico  Amari,  il  marchese  di  Torrearsa,  Filippo 
Cordova,  Mariano  Stabile,  Matteo  Raeli,  Vincenzo  Errante, 
Vito  d' Ondes  Reggio.  La  Società  Nazionale  voleva  evitare  nel- 
l' Isola  qualunque  movimento,  che  non  avesse  per  fine  l'unione 
col  Piemonte;  schivare  qualunque  pericolo  d'inframmettenze 
mazziniane,  le  quali  erano  a  temere,  e  avrebbero  potuto  com- 
promettere la  riuscita  dell'impresa;  preparare  l'insurrezione, 
facendovi  partecipare  tutti  gli  ordini  sociali,  e  insorgere  al  mo- 
mento opportuno,  quando  cioè  fosse  data  al  Piemonte  l'occasione 
di  un  aiuto  efficace,  che  salvasse  le  apparenze.  Cosi  appunto  con- 
sigliava Cavour.  Questi  a  tal  fine  mandò,  nel  febbraio  del  1860, 
a  Palermo  Enrico  Benza,  lo  stesso  che  poi  fu,  per  poco  tempo, 
segretario  particolare  di  Vittorio  Emanuele  e  nel  1862  console  a 


-  159 


Tunisi.  Il  Benza  giunse  a  Palermo,  raccomandato  da  La  Farina 
al  principe  Antonio  Pignatelli  e  si  disse  inviato  da  Cavour, 
anzi  parente  di  lui  e  intimo  del  Re.  L'accompagnava  sua  mo- 
glie, bellissima  donna;  viaggiavano  con  sfarzo  signorile  e  ven- 
nero fatti  segno  alle  più  simpatiche  accoglienze  da  parte  dei  gio- 
vani del  patriziato,  dai  quali  furono  dati  ricevimenti  e  conviti  in 
onor  loro.  Il  Benza  ebbe  questa  missione  in  Sicilia,  come  ne 
ebbe  una  l'anno  appresso  a  Roma,  ed  un'  altra  nel  1862  ad  Atene, 
Costantinopoli  e  Bukarest.  Era  uno  di  quegli  agenti  di  fiducia 
di  Vittorio  Emanuele,  che  Cavour  adoperava  secondo  le  circo- 
stanze. Il  Benza  consigliava  d' insorgere,  ma  quando  però  l'in- 
surrezione presentasse  sicurezza  di  riuscita  e  offrisse  al  Piemonte 
l'occasione  di  poter  intervenire,  in  modo  occulto  o  palese,  se- 
condo il  caso.  Egli  non  poteva  non  destare  i  sospetti  della  po- 
lizia, dalla  quale  fu  tenuto  d'occhio,  e  il  luogotenente  non  mancò 
riferire  a  Napoli  che  era  giunto  a  Palermo  questo  agente  pie- 
montese, festeggiato  da  parecchi  giovani  dell'aristocrazia.  E 
quando  egli  s' imbarcò  per  Napoli,  lo  stesso  luogotenente  inviava 
al  ministro  di  Sicilia  questo  curioso  rapporto  :  ^ 


Oggetto 

Sui  Piemontese  ENRICO  6Ei\ZA 


^ 


8.  M.  retta  inteso  ed  or- 
dina che  si  sorveglino  rigoro' 
samente  : 


Barone  Riso 

Epaminonda  Radini  .  . 

Duca  Cesarò 

Cav.  Sciara 

Figli  del  Cav.  Palizzolo 
Francesco  Brancaccio  . 
Principe  Pignatelli  .  . 

Cav.  Carcano 

Marehesino  Budini  .  . 


giocattre 

id. 

id. 

id. 
itultri 

id. 

id. 

id. 

id. 


Palermo,  ai  febbraio  1860. 

Eccellenza, 

Il  Cav.  Enrico  Benza,  che  formò  argomento  del 
mio  foglio  del  14  dello  stante,  n.  271,  il  giorno  18 
s' imbarcava  «mZ  Vesuvio  per  cotesta  Capitale. 

Il  funzionario  di  Polizia  di  questa  delegazione 
marittima  ne  avvertiva  il  Vomviissario  di  Polizia  di 
quella  di  Napoli,  e  gli  accennava  che  forse  qualche 
carta  crimiìiosa  poteva  trovarsi  sulla  persona  o  nel 
bagaglio  di  questo  sospetto  viaggiatore. 

Egli  fu  accompagnato  a  bordo  da  undici  persone, 
parte  giuocatori,  parte  novatori,  i  cui  nomi  atanno 
a  manco  scritti. 

Corse  voce  due  giorni  innanzi  la  sua  dijiartita 
che  il  Benza  dovea  essere  latore  di  una  lettera  al  Re 
Vittorio  JSììivianuele,  per  dimandare  l'Annessione  e 
che  questa  petizione  sarebbe  stata  firmata  dalle  per- 
sone pili  cospicue  del  paese. 

Molto  si  ^  parlato  di  questa  supplica,  ma  nessuno 
l' ha  veduta  e  firmata. 

Negli  ultimi  di  sua  dimora  in  questa  città,  il  Ben- 
za si  ha  dato  un'imjtortanza  politica  ed  ha  fatto 
intendere  con  linguaggio  che  sconfinava  al  ciarlati- 
nismo  (sic)  cAe  una  covimissione  si  aveva  dal  Conte 
Cavour,  che  dice  essere  s7io  Cugino. 

Questo  straniero  debba  essere  severamente  sor- 
vegliato. 

Tolgo  a  premura  far  ciò  palese  a  V.  E.  per  la 
debita  sua  intelligenza. 

li  Latgileieile  Geitralt 
Firmato  :   Castelcicala. 


1  Archivio  Brancaccio 


—  160  - 

I  consigli  di  moderazione  trovavano  scarso  ascolto  tanto  nel 
Comitato  borghese,  quanto  fra  i  giovani  nobili,  che  avevano  avvi- 
cinato il  Benza  :  gli  uni  e  gli  altri  stimavano  indecoroso  qualun- 
que indugio.  Nei  primi  giorni  del  nuovo  anno  era  stato  distribuito 
a  migliaia  di  copie  in  Palermo  e  per  tutta  l' Isola  il  celebre  ma- 
nifesto, cbe  si  chiudeva  con  le  parole:  Viva  l'Italia!  Viva  Vit- 
torio Emanuele! 

Si  era  impazienti,  ma  mancavano  danari  ed  armi.  Coi  po- 
chissimi fucili  sottratti  nei  disarmi,  non  si  poteva  fare  la  rivo- 
luzione. Da  Malta  si  promettevano  armi,  ma  non  arrivavano  ; 
e  le  insistenze,  che  da  Palermo  e  da  Messina  sul  finire  del  1859 
si  mandavano  a  Garibaldi  perchè  scendesse  in  Sicilia,  provoca- 
rono dal  generale  risposte  rassicuranti,  ma  solo  quando  i  siciliani 
fossero  pronti  alla  riscossa.  Il  Comitato  decise  di  entrare  in 
più  intima  relazione  con  quei  pochi  giovani  del  patriziato,  i 
quali,  pur  appartenendo  a  famiglie  legittimiste,  ed  alcuni  aven- 
do anche  cariche  di  Corte,  mostravansi  non  abborrenti  dai  civili 
progressi.  Coi  loro  nomi  e  coi  loro  mezzi  si  poteva  dare  alla 
cospirazione  un  contenuto  di  serietà  e  di  forza.  In  un  paese  come 
la  Sicilia,  dove  l' ordinamento  sociale  è  a  base  di  gerarchia,  occor- 
reva anche  nella  cospirazione  una  gerarchia.  E  fu  dopo  la  par- 
tenza dell'  agente  cavurriano,  che  per  mezzo  dei  Pisani  e  del  Bran- 
caccio, furono  presi  accordi  definitivi  coi  nobili,  e  col  padre  Ot- 
tavio Lanza  particolarmente,  eh'  era  il  più  anziano,  o  meglio, 
il  meno  giovane  di  loro.  Gli  altri  varcavano  di  poco  i  venti 
anni.  Erano  stati  quasi  tutti  discepoli  di  Pisani,  il  quale  aveva 
loro  ispirato  sentimenti  liberali  e  nazionali.  Questi  giovani  nobili 
non  costituirono  mai  un  vero  Comitato  :  erano  amici  e  si  vedeva- 
no ogni  giorno,  tenendosi  al  corrente  di  quanto  avveniva.  I  nomi 
loro  sono  quasi  tutti  compresi  nell'elenco  di  quelli  che  accompa- 
gnarono il  Benza  a  bordo,  e  qualificati  per  giocatori  o  novatori.  * 

Ma  l'uomo  di  maggiore  autorità  fra  loro  era  veramente  il 
padre  Ottavio  Lanza,  prete  dell'  Oratorio,  uno  dei  molti  figliuoli 
del  vecchio  principe  di  Trabia.    Aveva  trentasette  anni.    In  lui 

'  E  da  aggiungere  Corrado  Niscemi,  che  poi  ebbe  tanta  parte  nelle 
cose  pubbliche.  Emmanuele  Notarbartolo  di  San  Giovanni  vi  è  indicato  col 
titolo  di  cavalier  Sciava.  In  quei  giorni,  non  reputandosi  sicuro  a  Paler- 
mo, parti  per  Firenze. 


-iel- 
la bontà  dell'  animo  era  pari  alla  sincerità  e  saldezza  delle  con- 
vinzioni politiche,  che  con  temerità,  maravigliosa  in  un  ecclesia- 
stico, professava  palesemente.  Antiborbonico  incorreggibile,  ga- 
reggiava in  questi  sentimenti  con  suo  fratello  primogenito,  il 
principe  di  Butera  e  Soordia,  morto  in  esilio  a  Parigi,  come 
si  è  detto,  nel  giugno  del  1855,  assistito  dal  figliuolo  Francesco, 
che  ve  l'aveva  accompagnato.  Egli,  il  principe,  prima  di  la- 
sciar Genova,  dove  dimorava  con  la  sua  numerosa  famiglia,  quasi 
prevedendo  la  prossima  fine,  benché  avesse  soli  49  anni,  aveva 
scritto  il  suo  testamento  politico,  eh' è  una  splendida  pagina  di 
fede  e  di  senno.  ^    Mori  due  mesi  dopo. 

Dei  nobili  cospiratori  il  padre  Lanza,  adunque,  era  veramente 
il  capo.     Si  riunivano   d'ordinario   in   casa  sua,   o   in   casa   Ri- 


'  Eccolo  integralmente: 

''  L'anno  1865  il  giorno  24  aprile  in  Genova,  io  sottoscritto  Pietro 
Lanza  e  Branciforti  ho  scritto  di  proprio  pugno  a'  termini  delle  leggi  vigenti 
in  Sicilia  e  firmato  il  presente  mio  testamento  olografo,  che  ho  consegnato 
al  mio  caro  fratello  Padre  Lanza  dell'  Oratorio  di  San  Filippo  Neri  di  Paler- 
mo perchè  lo  dasse  in  deposito  presso  il  Padre  Preposito  dell'Olivella  affine 
di  pubblicarsi  ed  avere  il  suo  pieno  vigore  seguita  che  sarà  la  mia  morte. 

"  Riflettendo  maturamente  sulla  brevità  ed  inanità  della  vita  umana 
e  sui  pericoli,  cui  va  essa  esposta,  e  potendo  da  un  istante  all'  altro  essere 
chiamato  da  questa  all'  altra  vita,  credo  convenevole  e  doveroso  esprimere 
in  questo  foglio  l'ultima  mia  volontà,  e  disporre  del  mio  patrimonio,  rac- 
comandandone a'  miei  eredi  e  successori  ed  esecutori  testamentarii  lo  esatto 
adempimento  in  tutte  le  singole  parti;  quindi  raccolti  i  pensieri  e  senti- 
menti miei  tutti  ed  invocato  l'aiuto  del  divino  spirito  cosi  la  riepilogo  e 
manifesto. 

"  1°  Chieggo  perdono  a  Dio  onnipotente  di  tutte  le  mie  colpe  e  de'  pec- 
cati commessi  da  quando  ebbi  l'uso  della  ragione  e  per  tutto  il  periodo 
della  mia  vita,  imploro  la  infinita  misericordia  per  i  meriti  del  Redentore 
Signor  nostro  Gesù  Cristo  e  per  intercessione  della  Beata  Vergine,  e  nel 
punto  di  morte  raccomando  specialmente  a  Dio  l'anima  mia,  perchè  spoglia 
e  monda  da'  vincoli  materiali  e  dagli  affetti  terreni  possa  essere  accolta 
nell'eterna  beatitudine  e  godere  la  gioia  e  la  pace  de'  giusti  e  degli  eletti. 

"  2°  Io  non  rammento  avere  giammai  fatto  di  proposito  male  a  chic- 
chesia,  ho  anzi  avuto  ognora  il  sentimento  ed  il  desiderio  del  bene  e  l' ho 
praticato  per  quanto  era  in  me,  allorché  l'occasione  mi  si  è  offerta.  Ho 
sempre  procurato  di  aiutare  e  di  soccorrere  il  prossimo.  Però  se  qualcuno 
avessi  offeso  senza  volerlo  ne  chiedo  solenne  ammenda. 

"  3"  Perdono  a'  miei  nemici,  se  ne  ho,  ed  a  chi  mi  abbia  offeso  ;  parti- 
colarmente poi  nel  punto  di  morte  non  serbo  odio,  né  rancore  contro  chi 
mi  ha  fatto  passare  nell'esilio  i  più  begli  anni  della  mia  vita,  allontanan- 
domi dal  seno  della  famiglia  e  dandomi  così  la  maggior  pena  che  il  mio 

Db  Cesare.  La  fine  di  un  Regno  -  Voi.  II.  H 


—  162  — 

so  ;  e  percliè  la  polizia,  sorprendendoli,  non  sospettasse  di  nulla, 
sedevano  attorno  ad  un  tavolo,  sul  quale  stavano  disposti  bicchie- 
ri, carte  da  giuoco  e  danari,  per  dare  ad  intendere  all'occorren- 
za che  erano  li  a  divertirsi.  Essi,  ripeto,  non  costituirono  mai 
un  Comitato  :  l'unico  Comitato  si  riuniva  in  casa  di  Enrico  Al- 
banese, in  via  Lungarini,  e  qualche  volta,  in  casa  di  Antonino 
Lomonaco  all'Albergheria,  in  un  vicolo  che  si  chiamava  allora 
Siggittari,  ed  ora  porta  il  nome  del  Lomonaco,  che  fu  un  bravo 
uomo,  un  bravo  patriota  e  un  distinto  avvocato. 

G-li  accordi  tra  il  Comitato  e  i  nobili  divennero  via  via  più 
intimi.  Si  era  alla  fine  di  febbraio  del  1860.  Si  senti  la  ne- 
cessità di  stringerli  maggiormente,  e  si  die  incarico  al  Brancaccio, 
ch'era  l'anello  di  congiunzione  tra  l'uno  e  gli  altri,  di  suggellarli 
definitivamente,  conducendo  Corrado  Niscemi  al  Comitato  borghe- 
se per  intendersi  circa  le  armi,  il  danaro  e  la  costituzione  di  un 
Comitato  unico  con  un  sol  capo.  Ma  il  giorno  28  febbraio  Bran- 
caccio venne  arrestato,  e  il  suo  arresto  mandò  all'aria  quanto 
si  era  stabilito.  La  sera  dello  stesso  giorno  fu  arrestato  anche 
il  barone  G-rasso,  persona  afiatto  innocua,  mentre  conduceva  la 
moglie  a  teatro.  Il  suo  arrivo  in  prefettura,  insieme  alla  mo- 
glie, die  luogo  a  una  scena  esilarante.  Il  Comitato  unico  non  si 
costituì  che  nella  prima  metà  di  marzo,  e  ne  fu  presidente  il  vec- 


cuore  abbia  provata,  quale  fu  quella  di  essere  separato  e  lontano  dal  mio 
venerato  genitore,  allorché  Dio  lo  chiamava  agli  eterni  riposi. 

"  4"  Raccomando  caldamente  a  tutti  i  miei  figli  di  tener  sempre  cara 
la  fede  e  la  patria.  Per  fede  intendo  la  credenza  in  Dio  trino  ed  uno,  la 
rucamazione  e  redenzione  di  Gesù.  Cristo  figlio  suo  e  Signor  nostro  e  di 
tutte  le  verità  rivelate  insegnate  con  tradizionale  e  non  interrotta  conti- 
nuazione nel  simbolo  degli  Apostoli  della  Chiesa  Cattolica,  che  siede  in 
Roma,  e  le  di  cui  dottrine  e  precetti  mantenuti  coli' unità  racchiudono  la 
verità  e  compresi  rettamente  e  puramente  praticati,  essi  soltanto  son  ca- 
paci a  render  paga  e  soddisfatta  la  coscienza  umana  nel  pelago  tempestoso 
della  vita. 

"  Per  patria  intendo  la  Sicilia  e  l' Italia.  Si  adoprino  dunque  i  miei 
figli  ad  essere  buoni  cristiani  cattolici  e  buoni  cittadini  e  saranno  cosi 
uomini  onesti  e  generosi. 

"  Sfuggano  ed  evitino  le  opinioni  estreme,  si  guardino  sempre  ed  in 
ogni  cosa  dagli  eccessi,  oppugnino  e  detestino  la  tirannide,  come  la  licenza, 
e  confidino  non  nel  plauso  della  corrotta  società  ohe  porta  gli  errori  in 
trionfo,  ma  nella  misericordia  Divina  e  nella  pace  e  serenità  della  propria 
coscienza  „.  ^ 

*  AreMvio  Scalea. 


-  163  - 

chio  barone  Pisani.  Era  il  Pisani  uomo  tenace,  di  poche  parole  e 
di  modi  risoluti,  ed  aveva  a  favor  suo  i  precedenti  del  1848. 
Viveva  modestamente,  dando  lezioni  d'italiano  nell'istituto  fem- 
minile della  signora  Giulia  Scalla  e  sembrava  un  solitario.  Il 
principe  di  Satriano  gli  aveva  offerto  di  rioocupare  il  posto  di  capo 
di  ripartimento  nel  ministero  dell'  interno,  che  copriva  quando 
scoppiò  la  rivoluzione  nel  1848,  ma  il  Pisani  con  dignitose 
parole  aveva  rifiutato. 

Compiuta  la  rivoluzione  del  1860,  Pisani  fu  segretario  di 
Stato  per  gli  esteri  con  Garibaldi;  e  poi  per  la  pubblica  istru- 
zione, col  marchese  di  Montezemolo,  primo  luogotenente  del  Re. 
Dal  collegio  di  Prizzi  fu  eletto  deputato  nel  1861,  e  mori  se- 
natore del  Regno  nel  1881.  Suo  figlio  ebbe  parecchi  ufficii  pub- 
blici ;  fu,  tra  l'altro,  presidente  della  deputazione  provinciale  di 
Palermo  e  mori  due  anni  or  sono.  Nelle  diverse  riunioni  del 
Comitato  non  si  discorreva  che  dei  modi  più  opportuni  per  insor- 
gere. Generali  le  impazienze  e  anche  le  illusionL  Chi  aveva 
fede  che,  scoppiata  la  rivoluzione,  sarebbe  sceso  a  capitanarla 
Garibaldi,  nel  quale  si  aveva  una  fede  immensa  ;  chi  sperava  in 
Vittorio  Emanuele  e  nel  Piemonte,  ritenendo  che  ne  il  Re,  nò 
Cavour  avrebbero  assistito  impassibili  ad  un  movimento  uni- 
tario in  Sicilia  ;  chi  s' illudeva  che  Mazzini  avrebbe  mandato 
aiuti  alla  sua  volta.  Si  era  impazienti,  ma  i  denari  mancava- 
no. S'immaginò  un  mezzo,  che  il  più  semplice  e  il  più  audace 
non  era  possibile  di  escogitare.  Si  decise  di  prendere  dalla  Cassa 
di  sconto  del  Banco  di  Sicilia  seimila  ducati  con  le  firme  dei 
signori  più  facoltosi.  Era  tanta  la  fede  nel  trionfo  della  ri- 
voluzione, che  si  beliberò  di  portare  questo  primo  debito  a  conto 
del  futuro  governo  provvisorio.  Il  barone  Riso  fu  nominato 
cassiere  del  Comitato,  e  una  cambiale,  per  la  somma  suddetta, 
e  firmata  dal  padre  Lanza  e  dal  barone  Lorenzo  Camerata 
Scovazzo,  fu  scontata  al  Banco.  Questa  cambiale  si  sarebbe 
estinta  prò  rata  dai  sottoscrittori:  i  compagni  firmarono  tante 
cambiali,  corrispondenti  alla  quota  di  ciascuno.  Si  cercò  di  rac- 
cogliere altre  somme  dagli  amici  più  sicuri,  ma  il  danaro  si  met- 
teva insieme  con  difficoltà.  Il  principe  di  Sant'  Elia  dette  ses- 
santa ducati,  e  fu  l'offerta  maggiore.  Assicurata  alla  meglio 
la  parte  finanziaria,  si  cominciò  ad  acquistare  armi  e  munizioni. 
Per  i  fucili,  che  dovevano  essere  almeno  trecento,  furono  stabiliti 


-  164  - 

tremila  ducati.  Francesco  Camerata,  fratello  di  Lorenzo,  re- 
duce da  Malta,  riferi  che  laggiù  potevano  aversi  dugento  fu- 
cili a  sei  ducati  ciascuno,  e  che  Mazzini  ne  offriva  altri  dugento. 
Ma  le  difficoltà  del  trasporto  essendo  quasi  insuperabili,  venne 
risoluto  di  comprarli  nell'  interno  della  Sicilia,  in  quei  paesi  dove 
si  era  riuscito  a  sottrarli  nei  frequenti  disarmi.  La  polvere  fu  data 
da  Andrea  Rammacca,  che  la  faceva  lavorare  clandestinamente 
in  una  sua  fabbrica,  chiusa  dopo  il  disarmo,  e  da  tal  Faja  ;  il  piom- 
bo fu  fornito  dal  Briuccia,  negoziante  di  ferramenta  ;  e  le  bombe, 
sul  modello  lasciato  dal  Crispi,  vennero  fabbricate  da  uno  sviz- 
zero, di  nome  Chentrens,  il  quale  aveva  una  piccola  fonderia  di 
ferro  a  porta  di  Termini.    Ecco  tutti  gli  apparecchi  per  insorgere. 

Il  Comitato  aveva  bisogno  di  proseliti  influenti  nel  ceto  po- 
polare e  bisognava,  per  quanto  era  possibile,  non  aver  contatti 
con  la  mafia.  Alla  fine  di  febbraio,  avevano  aderito  al  Comi- 
tato due  giovani  animosi  :  uno,  maestro  fontaniere,  di  nome  Fran- 
cesco Riso  e  l'altro,  sensale  di  animali  bovini,  chiamato  Salva- 
tore La  Placa.  Entrambi,  ben  provvisti  del  loro,  avevano  nelle 
rispettive  classi  larghe  aderenze  e  simpatie.  Riso  era  un  bel 
giovane,  vivacissimo,  intelligente  e  non  aveva  legami  compro- 
mettenti coi  bassi  fondi  sociali.  Di  vanità  sconfinata,  decise 
di  entrare  nel  movimento,  quando  ebbe  la  prova  materiale  che 
ne  facevano  parte  i  signori,  e  ne  volle  conoscere  alcuni.  Ebbe 
tremila  ducati  e  facoltà  di  raccogliere  uomini  e  armi.  Egli  abi- 
tava nelle  vicinanze  del  convento  della  G-ancia,  e  li  aveva  la  sua 
bottega.  Per  riporre  le  armi  e  poi  nascondervi  gli  uomini,  che 
dovevano  insorgere,  prese  in  fitto  una  casetta  in  via  della  Zecca 
e  vi  mandò  ad  abitare  una  sua  amante  ;  poi  prese  anche  in  fìtto 
un  magazzino  in  via  Magione.  Questo  magazzino  era  diviso  in 
due  parti;  nella  prima  lavorava  da  falegname  una  persona  di 
fiducia  del  Riso,  e  nella  retrobottega  fu  subito  costituito  un 
deposito  d'armi  e  munizioni.  Infine,  un  terzo  magazzino  fu  da 
lui  appigionato  addirittura  nel  convento,  dalla  parte  detta  di 
Terra  Santa,  dando  a  credere  al  guardiano  che  gli  servisse  per 
deposito  dei  materiali  necessari  al  suo  mestiere.  Un  quarto  de- 
posito d'armi  esisteva  poi,  fin  dall'anno  innanzi,  per  opera  di 
Rosario  ed  Agata  d'Ondes  Reggio,  nei  giardini  fra  Monreale 
e  Palermo,  e  nelle   campagne   di   Misilmeri,  Torretta  e  Carini.. 


-  165  - 

Il  Comitato  operava  con  la  più  raffinata  astuzia.  È  ben  dif- 
ficile vincere  il  siciliano  in  fatto  di  scaltrezza,  poiché  la  tendenza 
a  procedere  per  vie  tortuose  e  coperte  è  piuttosto  generale  nella 
razza,  anche  quando  non  si  tratti  di  cospirare.  Maniscalco  era 
siciliano  anche  lui,  e  però  si  giuocava  di  scaltrezza  da  una  parte 
e  dall'altra,  si  da  dare  origine  a  una  ricca  messe  di  aneddoti  esi- 
laranti. Il  fatto  vero  è  questo,  che  Maniscalco  non  trovava  più 
spie  fuori  degli  agenti  in  divisa;  ne  dopo  il  4  aprile  ne  trovò 
fuori  di  quei  comici  e  disprezzati  agenti  in  borghese,  detti  ta- 
scheftari  dal  tasco,  che  loro  aveva  messo  sul  capo.  Ne  sapevano, 
insomma,  più  gli  estranei  alla  polizia,  che  la  polizia  stessa.  Fran- 
cesco Riso,  il  quale  aveva  avuto  pieni  poteri,  mal  pativa  gl'in- 
dugi, affermando  che  tutto  era  pronto  per  insorgere,  tanto  che  le 
sue  impazienze  parvero  sospette;  e  Pisani,  juniore,  elevando 
qualche  dubbio  circa  il  modo  onde  il  Riso  spendeva  il  danaro  del 
Comitato,  propose  una  specie  d' inchiesta,  che  il  Comitato  affidò  a 
lui  stesso.  L' inchiesta  constatò  infatti  che  Riso  aveva  agito  con 
qualche  leggerezza,  facendo  costruire  un  gran  numero  di  lancie 
inservibili,  e  cucir  giubbe  e  berretti  di  velluto  nero  con  nastri 
tricolori  :  berretti  e  giubbe  quasi  inutili  ;  mentre  né  tutti  i  fucili 
erano  pronti,  ne  montato  l'unico  cannone  in  legno,  di  cui  Chen- 
trens  aveva  eseguito  i  vari  pezzi.  Di  effettivo  non  vi  erano  che 
settanta  fucili  e  cento  bombe  all'Orsini  !  Il  disegno  e  le  dimen- 
sióni del  cannone  le  aveva  fornite  lo  stesso  Pisani,  ricavandole 
da  una  Guida  per  le  guerriglie  nella  guerra  di  montagna.  Esso 
era  formato  da  doghe  di  legno  duro,  tenute  insieme  da  forti 
cerchi  di  ferro.  Poteva  ben  tirare  parecchi  colpi,  prima  di  scop- 
piare, e  non  aveva  nulla  di  comune  con  quella  parodia  di  can- 
none, che  è  un  semplice  tronco  di  legno  mal  bucato  e  che  si 
conserva  nel  Museo  di  Palermo. 

L' inchiesta  fatta  dal  Pisani  non  fu  dunque  confortante.  Riso 
non  parve  l'uomo  che  si  era  creduto  ;  ebbe  qualche  ammonimen- 
to, e  com'è  naturale,  mal  tollerò  i  dubbi  sollevati  sulla  sua  opera, 
non  perdonò  al  Pisani  juniore  la  parte  spiegata  contro  di  lui, 
e  stette  ad  aspettare  che  il  Comitato  stabilisse  il  giorno  per 
insorgere.  Gli  eccitamenti  si  avvicendavano  con  gli  scora- 
menti. Un  giorno  Antonio  Pignatelli  lesse  ai  suoi  amici  una 
lettera  del  D'Ondes  Reggio,  il  quale,  mostrando  di  scrivere  in 
nome  del  governo  piemontese,  dichiarava  che  questo   non   pò- 


-  166  - 

teva   soccorrere  ne  di  un  uomo,  ne  di   una  cartuccia  l'insurre- 
zione, e  consigliava  di  attendere. 

La  polizia  intanto  aumentava  la  sua  vigilanza.  Castelcicala 
era  andato  a  Napoli  per  assicurare  il  governo  che  la  Sicilia  era 
tranquilla;  e  Maniscalco,  rimasto  padrone  della  situazione,  e 
procedendo  interamente  d'accordo  col  generale  Salzano,  coman- 
dante della  piazza,  moltiplicava  la  sua  attività.  Ogni  giorno 
corre»7ano  voci  di  nuovi  arresti  e  nuove  perquisizioni.  Si  temè 
che  la  polizia  avrebbe  perquisita  la  casa  del  padre  Lanza,  ma  fu 
invece  perquisita  minuziosamente  quella  del  barone  Riso,  dove  gli 
amici  di  lui  si  adunavano.  La  polizia  portò  via  le  armi  personali 
del  barone,  benché  egli  ne  avesse  regolare  permesso,  ed  essendogli 
stato  consigliato  di  allontanarsi  per  pochi  giorni,  al  fine  di  non 
confermare  i  sospetti,  il  Riso  si  affrettò  a  consegnare  al  padre  Lan- 
za, che  la  tenne  sino  al  4  aprile,  la  cassa  del  Comitato,  coi  tre- 
mila ducati  che  vi  erano  rimasti,  per  pagare  le  squadre  nel 
primo  giorno  dell'insurrezione. 

L' indugio  disanimava,  e  i  capisquadra  si  mostravano  semprep- 
più  impazienti  ;  ma  essendo  varii  i  pareri  circa  il  giorno  da  fissare^ 
i  nobili  dichiararono  che  dal  canto  loro  ne  rimettevano  al  vecchio 
Pisani  la  scelta.  Pisani  e  Marinuzzi  avevano  avuto  lo  stesso  inca- 
rico dal  Comitato.  Prima  di  fissare  la  giornata  del  4  aprile  per 
l' insurrezione,  Pisani  volle  sentire  l'avviso  del  padre  Lanza  e  del 
Pignatelli,  e  questi  furono  di  parere  che  era  bene  scelto  quel  gior- 
no, che  cadeva  di  mercoledì  santo.  Pisani  aveva  riflettuto  che 
in  quella  giornata  le  truppe  non  sarebbero  state  chiuse  nei  quar- 
tieri, come  nei  giorni  successivi  della  settimana  santa,  e  che, 
trovandosi  il  luogotenente  a  Napoli,  vi  sarebbe  stata  incer- 
tezza   da    parte  delle  autorità. 

Fissato  il  4  aprile,  i  capi  del  Comitato  si  riunirono  negli  uffici 
del  Ballato,  con  Francesco  Riso  per  fissare  gli  ultimi  accordi,  che 
furono  questi.  Gli  uomini,  i  quali  dovevano  prendere  le  armi 
dentro  Palermo,  avrebbero  formati  tre  gruppi:  il  primo,  al  co- 
mando del  Riso,  doveva  riunirsi  la  sera  del  3  aprile  nel  ma- 
gazzino dentro  il  convento;  il  secondo,  sotto  gli  ordini  di  Sal- 
vatore La  Placa,  raccogliersi  nel  magazzino  di  via  Magione  ;  e 
il  terzo,  guidato  da  Salvatore  Perricone,  nella  casa  in  via  della 
Zecca  :  tutti  i  quali  posti  erano  stati  dal  Riso,  come  si  è  già  detto, 


-  167  — 

presi  in  fitto  per  depositarvi  armi  e  munizioni.  La  mattina  del  4, 
avuto  il  segno  degli  spari  dei  mortaletti  alla  Fieravecckia,  do- 
vevano uscire   contemporaneamente  i   tre   gruppi,  e  assaltare   i 
corpi  di  guardia  e  i  commissariati  di  polizia.     Domenico  Corte- 
giani,  cui  era  dato  il   comando   delle   squadre   di  Misilmeri,   si 
sarebbe   mosso    nella  notte  ;  e  passando    da  Villabate    e  borgbi 
vicini  per  riunirsi  agli  altri,  si  sarebbe  accostato  a  Palermo,  for- 
zando porta  di  Termini.    Alla  stessa  ora  sarebbero  discese  nella 
parte  opposta  della  città  le  squadre   di  Carini,  Cinisi,  Torretta, 
Sferracavallo  e  Colli,  condotte  dai  fratelli  Di  Benedetto,  e  cbe 
avevano  per  capi  speciali  Guerrera,  Tondù  e  Bruno,  ed  avrebbero 
attaccate   le   caserme   a   San   Francesco  di  Paola  e  ai  Quattro- 
venti. Il  Comitato  aveva  provveduto  perchè  i  capi  di  queste  squa- 
dre fossero  persone  superiori  ad  ogni  sospetto,  e  tali  erano  i  Di  Be- 
nedetto, il  Cortegiani,  il  Tondù  e  il  Bruno  ;  ma  per  altre  squadre 
bisognò  affidarsi  a  capi  di  ben  diversa  indole,  i  quali  operavano  per 
secondi  fini,  ed  erano  gente  buona  soltanto  a  menare  le  mani. 
Queste    altre    squadre    erano   riunite    sotto  il  comando  di  certi 
Lupo  e  Badalamenti.     Quest'ultimo,  conosciuto   col  soprannome 
'u  zu  Piddu,  Rantieri,  era  un  capraro  di  straordinario  coraggio, 
facinoroso  e  mafioso,  al  quale  la  polizia  poco  tempo  prima  aveva 
applicata  una  pena  feroce:   quella   di   sospenderlo    col   capo  in 
giù  e  applicargli  sulle  piante  dei  piedi  non  so  quante  vergate, 
per  cui  i  piedi  divennero  stranamente  gonfii  e  le  piante  incal- 
lite.    Si  voleva  da  lui  la  confessione  non   so  di  qual  reato  non 
politico,   ma   'u  zu  Piddu  soffri  tutto,  rispondendo   senza  com- 
muoversi :    "  Nun   sacciu   niente  „ .     Si   può    immaginare    quale 
fosse  l'animo  suo  verso  la  polizia  e  verso  l'autorità.  'U  zu,  Piddu 
e  Lupo  avevano  raccolti   contadini  nomadi,  giovanissimi   quasi 
tutti,    nelle    campagne  di  Pagliarelli,   Porrazzi,    Mezzomorreale 
e  Rocca  ;  e  poiché  questi  erano  diffidenti  del  Comitato,  memori 
dei  fatti  dell'ottobre,  il  Comitato  mandò  loro  in  ostaggio  Giam- 
battista   Marinuzzi,    che  vi  andò    il  giorno  2.     Pisani  distribuì 
ai  diversi  capisquadra  biglietti   d'  istruzione   con  segni  conven- 
zionali, e  assegnò  a  ciascuno  le   somme   per  sussidiare  i  propri 
uomini  fino  al  giorno  4  :  somme  che  furono  loro  pagate  dal  Ram- 
macca.     Nel  pomeriggio  di  quel  giorno  alcuni  capisquadra,  vo- 
lendo conoscere  di  persona  i  principali  componenti  del  Comitato, 
e  prendere   gli  ultimi   accordi,  si  diedero  con  costoro  la  posta 


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nella  retrobottega  di  una  bettola,  tenuta  da  Mario  Yillabianca, 
nella  via  detta  ora  Mariano  Stabile.  Quella  riunione  fu  nu- 
merosa e  allegra.  Non  vi  era  dubbio  per  nessuno  clie  la  rivo- 
luzione avrebbe  vinto.  La  polizia  intanto  non  dormiva.  Il 
giorno  2  aprile,  fu  arrestato  Mariano  Indelicato,  e  dall'  ispettore 
G-andolfo  si  tentò  anche  di  arrestare  Marinuzzi,  il  quale,  con  auda- 
cia inverosimile,  traversando  le  vie  di  Palermo  in  carrozza  sco- 
perta, con  capsule,  due  canne  da  fucile  e  polvere,  si  mise  in 
salvo,  anticipando  la  sua  gita  presso  Rantieri  di  quararantott'ore. 
La  polizia  esegui  una  visita  domiciliare  in  casa  del  Perrone  Pala- 
dini, proprio  nel  momento,  in  cui  gli  era  stata  portata  della  pol- 
vere. La  presenza  di  spirito  del  falegname  Bivona  salvò  tutto  ; 
poiché  questi,  vedendo  la  polizia,  cacciò  la  polvere  nel  paniere 
destinato  alle  compere  giornaliere  e,  porgendolo  alla  signora  Pa- 
ladini, le  disse  forte  :  "  Qua,  signora,  c'è  lo  zucchero  „ .  In  se- 
guito a  questi  fatti,  la  sera  del  2  si  tenne  un'altra  riunione  in 
casa  Lanza.  Qualcuno  sconsigliò  il  movimento,  giudicandolo 
intempestivo;  qualche  altro  non  si  vide  più,  e  il  padre  Lanza  co* 
suoi  giovani  amici  non  trovava  posa.  La  mattina  del  3,  giunse 
al  Lanza  un  biglietto  con  queste  parole  :  "  Fra  mezz'ora  onze 
cento.  Telegrafate  Messina  Catania  „ .  Lanza,  dopo  i  pagamenti 
fatti  alle  squadre,  non  aveva  più  danaro,  ma  il  barone  Riso  pagò 
del  suo  la  somma  richiesta.  La  seconda  parte  dell'avviso,  man- 
dato dal  vecchio  Pisani,  confermava,  com'è  chiaro,  gli  accordi, 
ingiungendo  di  avvisare  Messina  e  Catania,  perchè  insorgessero. 
E  facile  immaginare  le  ansie  e  i  varii  episodii  di  quel  giorno, 
vigilia  della  rivolta.  Verso  sera  il  Pisani,  juniore,  si  recò  nella 
villa  del  duca  d'Aumale,  ai  Porrazzi,  per  informare  il  Marinuzzi 
di  alcuni  dubbi  sorti  circa  l'opportunità  d' insorgere,  e  facilmente 
superati.  Lo  trovò  armato,  in  mezzo  ad  altri  armati,  pronti  a 
marciare  all'alba  del  di  seguente.  A  casa  l'aspettava  il  dottor 
Griuse;^e  Lodi,  il  quale,  da  parte  di  G-iovanni  Raffaele,  lo  scon- 
giurò d' impedire  la  rivoluzione,  perchè  sarebbe  stata  un  grande 
errore,  non  essendo  nulla  veramente  preparato  ;  ma  il  Pisani  gli 
rispose  d' ignorare  assolutamente  quanto  avveniva,  e  che  ad  ogni 
modo  il  dottor  Raffaele  gli  dava  soverchia  autorità,  credendolo 
capace  di  arrestare  la  rivoluzione.  E  poiché  concluse  il  discorso 
con  le  parole  :  "  il  dado  è  tratto  „ ,  Lodi  se  ne  andò,  replicando  : 
"  Su  di  voi  dunque  ricadrà  la  responsabilità  del  sangue,  che  do- 
mani sarà  inutilmente  versato  „. 


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Pino  alle  ore  pomeridiane  del  giorno  3  aprile,  nonostante 
l' immenso  suo  lavorio,  la  polizia  nulla  aveva  scoperto.  Fu  so- 
lamente nella  sera,  che  venne  a  saperne  qualcosa,  ma  tanto  bastò 
perchè  la  rivoluzione  fallisse.  I  particolari  di  un  avvenimento 
di  tanta  importanza  storica  risultano  da  un  verbale,  redatto  dal- 
l'ispettore di  polizia  Andrea  Catti,  il  7  aprile,  verbale,  che  si 
pubblica  la  prima  volta.  È  scritto  in  una  forma,  che  non  deve 
maravigliare,  tenuto  conto  dell'assenza  di  qualsiasi  cultura  let- 
teraria in  quegli  agenti,  ma  rivela  in  qual  modo  riusci  alla  po- 
lizia di  scoprire  il  complotto.     Ecco  il  caratteristico  verbale  : 

Innanti  noi,  Andrea  Catti  Ispettore  di  Polizia  su  questo,  si  è  presen- 
tato il  Guardia  di  Polizia  Francesco  Basile,  tenendo  seco  gli  arrestati  no- 
minati Gioachino  Muratore  del  fu  Antonino  e  di  nessuna  professione,  ed 
Alessandro  Urbano  del  fu  Carlo,  di  condizione  impiegato  alla  R.  Tesoreria, 
e  ci  ha  fatto  manifesto  che  veniva  di  arrestare  i  sudetti  individui  per  di- 
sposizione del  di  lui  Commissario  Cav.  D.  Gioacchino  Carreca,  dapoichè 
veniva  quest'ultimo  reso  sciente  dal  sudetto  Basile,  che  i  soprannominati 
il  giorno  3  del  corrente  mese,  alle  oro  19  d'Italia,  gli  avevano  confidato 
che  per  la  dimani,  alle  ore  10  d'Italia,  si  dovevano  eglino  trovare  dentro 
il  Convento  della  Gancia,  per  indi  insieme  a  tanti  altri,  dare  l'assalto  alla 
città;  anzi,  a  di  più,  che  bramavano  i  sudetti  individui,  che  il  Basile  si 
fosse  data  la  premura  di  fare  un  numero  di  persone  per  tutti  quanti  riu- 
scir all'impegno. 

Ricevutasi  da  noi  la  sopradetta  dichiarazione,  dietro  di  aver  fatta  con- 
segna degli  arrestati,  siamo  passati  ad  interpellare  la  guardia  su  quanto 
appresso  : 

D.  —  È  mestieri  che  ci  avessimo  a  rapportare  quale  si  fu  la  vostra 
risposta  all'invito  ricevuto,  e  se  mai  gli  individui  di  cui  è  parola,  cono- 
scevano che  voi  facevate  parte  della  Polizia. 

R.  —  Signore,  il  mio  contradire  si  fu  che  non  poteva  farne  che  il  nu- 
mero di  15,  su  dei  quali  vi  riposava,  essendo  gli  altri  infami  ;  e  ciò  lo  dissi 
perchè  mi  convinsi  momentaneamente  che  i  soprannominati  non  avevano 
conoscenza  di  fare  io  parte  della  Polizia.  In  fatti  appena  da  loro  mi  di- 
visi, mi  portai  frettolosamente  dal  mio  Sig.  Commissario,  e  narrandogli  il 
tutto  mi  ricevei  l'ordine  di  arrestarli,  il  che  nel  momento  mi  è  riuscito. 

Interpellati  gli  arrestati  su  quanto  loro  veniva  addebitato,  il  Muratore 
rispose,  che  fu  vero  che  il  giorno  3  del  corrente  alle  ore  19  essendo  in 
compagnia  del  suo  f ratei  cognato  Alessandro  Urbano  facendo  via  per  la 
strada  del  Carmine  avvicinando  il  Basile,  gli  disse  che  per  la  dimani  do- 
veva nascere  una  insurrezione  popolare,  e  che  l'adunanza  era  su  Convento 
della  Gancia,  ma  che  ciò  lo  rapportava  come  una  nuova  raccolta  da  voce 
popolare.  Negò  di  averlo  invitato  a  prestarsi  a  fare  uomini,  ma  che  vi 
rimase  a  dargli  semplice  conoscenza  dello  avvenire  e  non  altro,  e  tutto  per- 
<;hè  il  Basile  era  di  lui  conoscente  ed  ignorava  appartenere  alla  Polizia. 
Disse  finalmente  che  il  suo  cognato  non  prese  parola,  e  che  la  sera  dello 
stesso  giorno  ritornando  a  transitare  dalla  casa  del  Basile  parlato  avendo 


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con  le  di  lui  donne,  le  fece  manifesto  clie  cercava  la  sua  serva  per  farsi 
provvista  di  pane  ed  altro,  poiché  la  dimani  si  voleva  per  certo  una  in- 
surrezione, e  quindi  non  voleva  rimanere  digiuno. 

Ricliiesto  essendo  noi  l'arrestato  Urbano  sullo  assunto  rispose,  che  egli 
fu  presente  a  quanto  viene  di  rapportare  il  suo  cognato,  ma  non  prese 
ninna  parola  e  non  intese  la  parte  della  Gancia. 

Il  Basile,  che  per  l'imbecillità  o  la  malvagità  di  quei  due, 
aveva  saputo  che  sarebbe  scoppiata  l' insurrezione  la  dimane  nei 
pressi  della  Gancia,  non  era  un  fìnto  liberale,  né  aveva  bottega 
di  chiavettiere  in  via  del  Comune,  come  fu  asserito  :  era  invece  uno 
di  quegli  agenti  adoperati  a  tener  d'occhio  i  bassi  fondi  della 
mafia;  tanto  è  ciò  vero,  ch'egli,  come  risulta  dal  suddetto  ver- 
bale, aveva  facoltà  di  arrestare,  e  arrestò  difatti  l'Urbani  e  il 
Muratori.  Che  questi  poi  ignorassero  con  chi  avevano  da  fare,  è 
verosimile.  A  me  non  è  riuscito  avere  alcuna  notizia  di  costoro,^ 
ma  è  certo  che  furono  essi  i  delatori,  forse  ignorando  che  il  Ba- 
sile era  un  agente  di  polizia.  Rimane  poi  escluso  che  abbiano 
parlato  del  convento  della  Gancia,  come  del  centro  della  rivol- 
ta, perchè  se  la  sera  del  giorno  3,  la  polizia  avesse  conosciuta 
questa  particolarità,  non  avrebbe  esitato  un  momento  ad  inva- 
dere e  perquisire  il  convento,  e  avrebbe  scoperto  tutto.  Si  noti 
che  il  verbale  porta  la  data  del  7  aprile,  e  che  l' ispettore  Catti 
potè  aggiungervi  di  sua  testa  la  circostanza  della  riunione  nel 
convento  della  Gancia,  già  passata  nel  dominio  della  storia,  e 
attribuirla  al  Basile,  per  dare  maggior  peso  alla  deposizione  di 
costui.  Questa  era  pure  l'opinione  del  Pisani,  il  quale  escludeva 
che  la  sera  del  3  vi  fosse  stata  alcuna  perquisizione  in  quel  con- 
vento, come  hanno  affermato  alcuni,  ma  senza  prove,  per  con- 
cludere, con  la  consueta  leggerezza,  che  la  polizia  fu  ingannata, 
dai  religiosi  conniventi  coi  cospiratori  ;  mentre  altri  affermarono 
invece  che  i  religiosi  avessero  denunziato  il  complotto.  Ma  tutte 
queste  non  sono  che  fandonie,  perchè  i  religiosi,  come  risultò  lu- 
minosamente dal  processo,  non  sapevano  nulla,  ed  in  ciò  con- 
sentono anche  le  persone  più  intelligenti  di  Palermo.  Al  capi- 
tano Ohinnici,  il  Maniscalco,  che  aveva  de'  sospetti  sui  frati,  die 
ordine  di  bloccare  nella  notte  le  uscite  del  convento,  ma,  religio- 
sissimo com'era,  quell'ufficiale  non  si  credette,  in  base  di  sem- 
plici sospetti,  autorizzato  a  penetrare  con  la  forza  in  un  con- 
vento di  francescani.     La  polizia,  posta  sull'avviso  dall'agitazione 


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che  si  manifestò  nella  città  fin  dal  giorno  2,  prevedendo  immi- 
nente una  sommossa,  non  aveva  mancato  di  prendere  le  necessa- 
rie misure  :  fece  infatti  collocare  due  pezzi  di  artiglieria  in 
piazza  Marina,  nel  punto  che  guarda  l'ingresso  della  chiesa 
della  Gancia  ;  rafforzò  i  Commissariati  e  i  posti  di  guardia  ;  fece 
accampare  una  compagnia  di  cacciatori  nelle  altre  piazze  e  man- 
dò in  giro  tutta  la  notte  grosse  pattuglie  di  soldati  e  compagni 
d'arme  per  la  città.  E  poiché  i  fuochi,  che  si  vedevano  nella 
notte  sulle  montagne  confermavano  il  sospetto  che  le  squadre 
sarebbero  venute  in  città,  rafforzò  le  porte  e  mandò  il  mag- 
gior Polizzy  con  due  compagnie  di  linea  e  uno  squadrone  di 
cacciatori  a  cavallo  nel  vicino  villaggio  di  San  Lorenzo,  dove  sa- 
peva che  si  sarebbe  riunito  il  maggior  numero  d' insorti,  mentre 
altre  pattuglie,  miste  di  soldati  e  compagni  d'arme,  furono  man- 
date fuori  delle  altre  porte.  E  Maniscalco  stette  ad  aspettare  il 
di  seguente. 


CAPITOLO  Vili 


Sommario:  L'alba  del  4  aprile  —  Le  impazienze  di  Salvatore  La  Placa  —  Il 
primo  conflitto  con  la  truppa  —  Francesco  Riso  esce  dal  convento  —  è 
ferito  e  arrestato  —  Si  arrestano  i  frati  —  La  loro  innocenza  —  La  re- 
pressione —  I  tredici  fucilati  —  I  nobili  arrestati  in  casa  Pignatelli  —  Par- 
ticolari circa  l'arresto  del  padre  Lanza  —  Importante  lettera  del  barone 
Pisani  —  Curiose  vicende  del  processo  Riso  —  Le  tre  deposizioni  di  lui  nel 
testo  originale  —  Testimonianza  del  padre  Calogero  Chiarenza  —  Eifles- 
sioni  e  particolari  inediti  —  Un  rapporto  di  Maniscalco  a  Napoli  —  Mu- 
tazioni nel  Comitato  liberale  —  Altre  dimostrazioni  —  Lo  sbarco  di  Roso- 
lino Pilo  a  Messina  —  Sue  audacie  —  S'invoca  Garibaldi  da  Palermo  e 
da  Messina  —  Opera  di  Francesco  Crispi. 

All'alba  del  4  aprile,  i  convenuti  spari  dei  mortaletti,  in 
piazza  della  Fiera  Vecchia,  non  vi  furono,  perchè  alla  persona 
incaricata  non  riusci  di  eseguirli,  a  causa  delle  pattuglie  che 
percorrevano  la  città,  e  dell'occupazione  militare  delle  piazze. 
Le  squadre,  che  da  Misilmeri  e  Villabate  si  erano  nella  notte  ap- 
prossimate alla  città,  non  udendo  il  segnale,  tornarono  indietro, 
e  cosi  fecero  tutte  le  altre.  La  squadra,  dov'era  il  Marinuzzi, 
quella  cioè  di  'u  zu  Piddu,  avvicinatasi  alla  città  fino  alla  sesta 
casa,  sostenne  un  po'  di  scaramuccia  con  una  colonna  di  truppa, 
ed  in  quell'attacco  'u  zu  Piddu  non  mancò  di  confermare  quel 
coraggio  freddo,  anzi  potrei  dire  fatalistico,  onde  son  dotati  i 
popolani  di  Sicilia.  Tirò  molte  fucilate,  non  dicendo  una  parola 
e  solo  cercando  di  coprirsi  l'ampia  persona,  mentre  faceva  fuoco. 
Ma  essendo  la  truppa  in  numero  esorbitante,  anche  questa  squa- 
dra tornò  indietro.  Quelle  di  Carini  e  di  Torretta  si  sbandarono 
per  un  falso  allarme  provocato  da  un  cavallo  in  fuga,  e  le  altre 
si  ritirarono  in  disordine  sulle  montagne  e  vi  stettero  con  varia 
fortuna  fino  all'arrivo  di  Rosolino  Pilo  e  di  Garibaldi. 


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Ma  nella  città  fu  peggio.  Bench.è  non  avesse  udito  lo  sparo 
dei  mortaletti,  Salvatore  La  Placa,  ohe  comandava  gli  uomini 
chiusi  alla  Magione,  visto  che  si  faceva  tardi  e  impaziente  di 
altri  indugi,  usci  coi  suoi,  e  transitando  per  viuzze  poco  frequen- 
tate di  quello  strano  quartiere  della  KaJza,  abitato  da  pescatori, 
lavoratori  di  funi  e  ricamatrici,  e  che  secondo  Q-iuseppe  Pitrè 
contiene  i  più  legittimi  discendenti  della  razza  araba,  tentò  di 
congiungersi  ai  compagni  che  erano  dentro  il  convento.  Ma  fatti 
pochi  passi  dalla  parte  detta  di  Terrasanta,  s'incontrò  in  una 
grossa  pattuglia  comandata  dal  Chinnici  e  venne  con  essa  alle 
mani.  Vi  furono  morti  e  feriti  da  ambo  le  parti.  Al  rumore  delle 
fucilate,  Riso  e  i  suoi,  saliti  alle  finestre,  si  diedero  a  tirare  contro 
i  soldati,  a  gettare  bombe  e  a  suonare  la  campana  a  stormo.  La 
Placa,  ferito  al  petto  e  lasciato  a  terra  per  morto,  fu  pietosamen- 
te nascosto  da  alcuni  popolani  di  buon  cuore,  i  quali,  non  avendo 
mezzi  per  curare  la  grave  ferita  di  lui,  spaccarono  in  due  una 
gallina  viva  e,  cosi  calda  e  sanguinante,  l'applicarono  sulla  piaga. 
La  Placa  guari,  e  il  27  maggio,  all'assalto  di  porta  Carini,  fu 
nuovamente  ferito  ad  una  gamba,  il  che  non  gli  tolse  però  di 
entrare  in  Palermo.  Il  Riso,  che  non  udiva  rumori  di  fucilate 
lontane,  esortato  dai  tremanti  e  stupiti  frati  a  cessare  dal  fuoco, 
tentò  uscire  dal  convento,  non  è  ben  chiaro,  se  per  trovar  rifugio 
in  casa  del  padre,  ch'era  a  poca  distanza  di  là,  o  per  accertarsi 
di  quel  che  avveniva  in  città,  e  del  motivo  pel  quale  la  terza 
colonna  degl'  insorti  non  si  moveva.  Ma  appena  fuori  la  porta 
•del  convento,  stramazzò  colpito  d'arme  da  fuoco  in  più  parti  del 
corpo.  Arrestato,  fu  portato  sopra  un  carretto  all'ospedale  ci- 
vico di  San  Francesco  Saverio.  De'  suoi  compagni,  alcuni  ven- 
nero uccisi  nel  combattimento  ;  altri  sopraffatti  dal  numero,  ven- 
nero arrestati,  o  si  dispersero,  e  due  trovarono  scampo  nelle  se- 
polture del  convento,  dalle  quali  non  furon  tratti  fuori,  com'è 
noto,  prima  di  cinque  giorni. 

Sfondata  da  un  obice  la  porta  del  convento,  i  soldati  fecero 
man  bassa  su  tutto  ;  saccheggiarono  la  chiesa  ;  il  padre  Gian- 
nangelo  da  Montemaggiore  cadde  ucciso  e  i  frati  tutti,  ritenuti 
complici,  furono  percossi  malamente  e  tratti  in  arresto.  Questi 
frati  della  Gancia,  che  il  romanzo  rivoluzionario  e  le  asserzioni 
borboniche  fecero  apparire  antesignani  ed  eroi  del  4  aprile  e,  se- 
condo altri,  traditori  e  spie,  non  furono  né  l'una  cosa,  ne  l'altra. 


—  176  — 

Essi  ignoravano  ciò  clie  era  seguito  fra  il  guardiano  e  il  Riso,  né 
il  guardiano  sospettò  mai  che  il  magazzino  appigionato  al  Riso 
nel  vicolo  del  Soccorso,  e  allora  detto  pannuzza  della  Gancia, 
dovesse  servire  ad  altri  usi,  e  che  insieme  alla  calce  e  ai  doc- 
cioni vi  fossero  nascosti  fucili,  bombe  e  cartucce.  L' innocenza 
loro  risultò  dal  processo,  mentre  il  tradimento  non  risultò  da 
nessuna  testimonianza  seria,  non  potendosi  dir  tale  l'asserzione 
del  De  Sivo,  che  il  frate  Michele  da  Sant'Antonio  rivelasse  il 
giorno  prima  a  Maniscalco  quanto  si  tramava  nel  convento.  La 
rivolta  del  4  aprile  fini  con  la  tragedia  dei  tredici  fucilati  e  il 
martirio  di  Giovanni  e  Francesco  Riso. 

Palermo  col  suo  distretto  venne  posta  in  istato  d'assedio,  ac- 
centrandosi i  poteri  nell'autorità  militare,  rappresentata  dal  ma- 
resciallo Salzano,  comandante  la  prima  divisione  del  corpo  di 
esercito  e  della  provincia  e  piazza  di  Palermo.  Questi  rimise 
in  vigore  le  ordinanze  di  Filangieri  per  i  detentori  d'arme  e  i 
ribelli,  coi  relativi  consigli  di  guerra,  ed  insieme  a  Maniscalco 
telegrafò  a  Napoli,  atteggiandosi  entrambi  a  trionfatori  e  ne  eb- 
bero lode,  com'è  naturale.  Invocavano  un  esempio,  ed  era  que- 
sto, che  i  ribelli  fatti  prigionieri  con  le  armi  alla  mano  e  che 
certo  sarebbero  stati  condannati  a  morte  dal  Consiglio  di  guerra, 
fossero  fucilati  al  più  presto.  Erano  tredici,  e  fra  essi,  il  padre 
di  Francesco  Riso,  estraneo  all'  azione  e  forse  anche  alla  cospi- 
razione, e  infermo  in  casa  sua  quando  venne  arrestato.  Il  gover- 
no perdette  i  lumi  addirittura,  e  coi  lumi,  la  coscienza.  Furono 
quei  tredici,  senza  ombra  di  difesa,  condannati  a  morte  e  fucilati 
con  procedura  infame,  dieci  giorni  dopo  la  tentata  rivolta.  Fu 
cosi  orribile  l' impressione  di  quell'eccidio,  che  i  soliti  zelanti  dis- 
sero che  il  Re  volesse  graziarli,  e  ne  fosse  stato  dissuaso  dal 
principe  di  Cassare.  Che  quel  vecchio,  rigoroso  reazionario,  fosse 
persuaso  della  necessità  dell'esempio  e  con  lui  tutti  gii  altri  mi- 
nistri, è  ben  verosimile  ;  ma  che  del  preteso  ordine  di  sospendere 
le  fucilazioni  mandato  da  Napoli,  Castelcicala,  Salzano  e  Mani- 
scalco non  avessero  tenuto  conto,  è  una  bugia,  perchè  la  sera  del 
5  aprile  Castelcicala  tornò  a  Palermo  ;  e  per  quanto  mezzo  esauto- 
rato innanzi  al  governo,  non  si  sarebbe  mai  prestato  al  giuoco. 
Il  Bracci,  nel  libro  altre  volte  citato,  afferma  che  il  principe  di 
Cassaro  riconosceva  con    Castelcicala    e    Comitini   la    necessità 


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di  un  esempio,  mentre  il  Cassisi,  non  più  ministro  di  Sicilia, 
consigliava  la  clemenza;  afferma  egli  pure  che  il  Re  mandò 
la  sera  stessa  del  4  l'ordine  di  sospendersi  tutte  le  eventuali 
sentenze  di  morte  e  che  quest'ordine  telegrafico  giunse  effetti- 
vamente a  Palermo,  ma  non  fu  eseguito.  E  non  potendo  con- 
ciliare il  predetto  ordine  con  l'eccidio ,  né  volendo  conclude- 
re che  il  Re,  affermando  di  aver  sospesa  ogni  sentenza  di  morte, 
avesse  detta  una  cosa  falsa,  conchiude  colle  parole  :  "  un  mi- 
stero ricopre  questo  tremendo  fatto  :  il  tempo  solo  potrà  squar- 
ciarne il  velo  !  „ .  Il  mistero  non  può  essere  che  questo  :  Fran- 
cesco II,  mitissimo  d'indole,  forse  manifestò  la  sua  inclinazione 
di  fare  la  grazia,  anche  perchè  quel  tentativo  di  sommossa  non 
ebbe  conseguenze  serie,  ma  dissuasone  dai  suoi  consiglieri,  con- 
vinti della  necessità  di  dare  un  esempio,  non  ebbe  la  forza  di 
fare  da  se.  Era  tradizione  della  diplomazia  napoletana  quella 
di  scagionare  il  Re  di  cose  in  nessun  modo  giustificabili.  Si  era 
fatto  altrettanto  per  Agesilao  Milano  e  il   barone  Bentivegna. 

A  Palermo  regnava  il  terrore.  I  più  compromessi,  come  i 
due  Pisani,  andarono  a  nascondersi  in  casa  del  maestro  D'Asdia, 
loro  stretto  congiunto,  e  vi  stettero  sino  al  3  maggio.  Sapendo 
che  la  polizia  li  ricercava  insistentemente,  come  autori  principali 
della  rivolta,  potettero  con  mille  malizie  trovare  rifugio  sopra  un 
legno  da  guerra  sardo,  che  li  condusse  a  Cagliari.  Altri  fuggirono 
in  campagna,  sopportando  una  vita  di  pericoli,  di  emozioni  e  di 
patimenti,  o  trovarono  sicurezza  oltre  mare.  Il  Marinuzzi  non 
rientrò  a  Palermo  che  il  27  maggio,  con  G-aribaldi. 

Maniscalco,  dopo  l'arresto  di  Riso,  ebbe  in  mano  le  fila  della 
cospirazione.  Non  era  uomo  da  mezzi  termini.  Allo  zelo  per 
la  causa  che  serviva,  si  era  aggiunto  l'interesse  di  scoprire  gli 
autori  del  suo  attentato.  Per  lui  non  vi  era  dubbio  che  autori 
ne  fossero  quelli  stessi,  i  quali  avevano  organizzata  la  rivoluzione 
del  4  aprile,  e  principalmente  quei  giovani  nobili,  denunziati 
poi  dal  Riso.  Bisognava  mostrare  che  il  governo  non  aveva 
riguardi  per  nessuno.  Seppe  che  in  casa  del  principe  Antonio 
Pignatelli  erano  raccolti,  la  sera  del  3  aprile,  il  barone  Gio- 
vanni Riso,  il  principe  Corrado  Niscemi,  il  principe  di  G-iar- 
dinelli  Griovanni  Notarbartolo ,  noto  anche  lui  col  titolo  di 
cavalier  Sciara.     Vi  erano  andati  per  aspettare  i  risultati  della 


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rivoluzione  e  tenersi  pronti  a  costituire  un  governo  provvi- 
sorio. La  mattina  del  7  aprile,  con  grande  apparato  di  sol- 
dati e  compagni  d'arme,  Maniscalco  fece  cingere  d'assedio  il 
palazzo  Monteleone  all' divella.  I  particolari  dell'arresto,  non 
privi  d'interesse,  furono  narrati  da  Antonio  Pigna telli  in  un 
suo  opuscolo,  ^  dove  è  riferito  pure  il  magnanimo  atto  di  Cor- 
rado Niscemi,  il  quale,  non  essendo  compreso  fra  gli  arrestati, 
volle  dividerne  la  sorte  e  rifiutò  di  separarsi  dai  compagni  e 
fu  arrestato  con  loro.  Ammanettati  fra  i  gendarmi,  quei  giova- 
ni animosi,  traversando  via  Toledo  a  piedi,  furono  menati  alle 
grandi  prigioni.  Chiusi  nel  compartimento  cellulare,  destinato 
ai  reati  politici,  vennero  sottoposti  al  trattamento  più  rigoroso, 
che  poi  fu  mitigato,  perchè  troppo  ne  soffriva  il  padre  Lanza,  la 
cui  salute  malferma  destava  inquietudini.  Nessuna  comunica- 
zione col  mondo  esterno,  neppure  fra  cella  e  cella.  Una  notte 
furono  svegliati  dal  carceriere,  accompagnato  dal  capitano  Dò 
Simone,  ohe  impose  loro  di  seguirlo.  Il  carceriere  faceva  segni, 
come  per  avvertirli  che  sarebbero  stati  fucilati;  invece  furono 
condotti,  con  grande  apparato  di  gendarmi  al  forte  di  Castellamare 
e  consegnati  a  quel  comandante,  ch'era  il  colonnello  Briganti,  il 
quale  non  fu  loro  avaro  di  riguardi.  Maniscalco  voleva  deferirli 
al  Consiglio  di  guerra,  ottenerne  sentenza  di  morte  per  complicità 
necessaria  e  disfarsene  senza  tante  lungaggini,  ma  né  Castelci- 
cala,  ne  il  governo  di  Napoli  lo  permisero,  non  essendo  quei 
giovani  asportatori,  né  detentori  di  armi,  ne  essendo  stati  arre- 
stati in  azione.  L'animoso  avvocato  marchese  Maurigi  parlò 
efficacemente  a  Castelcicala,  e  lo  convinse  dell'assoluta  illega- 
lità del  procedimento  voluto  da  Maniscalco.  L'altissima  posi- 
zione sociale  di  quei  giovani  fu  quella  veramente  che  li  salvò; 
vennero  deferiti  ai  tribunali  ordinari,  e  non  era  peranco  termi- 
nata l'istruttoria,  quando  Garibaldi  entrò  a  Palermo. 

Gabriele  C  esarò,  allora  più  noto  col  titolo  di  marchesino  di 
Fiumedinisi  fu  arrestato  il  giorno  8  aprile,  e  il  giorno  11, 
nelle  ore  pomeridiane,  il  padre  Ottavio  Lanza,  a  bordo  d'un 
clypper  americano,  dove  si  era  rifugiato  dopo   l'arresto  dei  suoi 


*  Fatti  storici  della  rivoluzione  del  1848  in  Sicilia,  raccolti  dal  Prin- 
cipe Antonio  Piqnatblli  di  Montblbonb.— Napoli,  Stab.  tip.  dell'Unio- 
ne, 1878. 

Db  Czsari.  La  fin»  di  un  Regno  •  Voi.  II.  12 


-  178  - 

amici.  Ve  l'aocompagnarono  sua  sorella,  la  contessa  Tasca  d'Al- 
merita,  coi  suoi  quattro  figliuoli,  fra  i  quali  era  il  giovinetto  Giu- 
seppe, ora  deputato  al  Parlamento.  A  bordo  del  clypper,  clie  si 
cliiamava  Taconnay,  era  il  proprietario  e  armatore  ad  un  tempo, 
né  costui,  né  l'equipaggio  parlavano  altra  lingua  che  l' inglese. 
L'arresto  avvenne  in  circostanze  curiose.  Il  Lanza  leggeva  nel 
salotto  del  clypper,  quando  si  avvicinarono  al  bastimento  tre  bar- 
che con  ufficiali  e  guardie  di  polizia,  chiedendo  di  salire  a  bordo. 
Il  proprietario  permise  che  salissero  due  persone  solamente.  Una 
di  esse  era  1'  ispettore  Puntillo,  il  quale,  entrato  nel  salotto  e 
visto  il  Lanza,  lo  avvicinò,  e  senza  malgarbo  gli  disse  che 
aveva  ordine  di  arrestarlo  e  mostrò  l'ordine  firmato  da  Mani- 
scalco. Il  proprietario  e  1'  equipaggio,  informati  dalla  giovane 
contessina  Tasca,  ora  principessa  di  Scalea,  che  parlava  bene 
l'inglese,  del  motivo  per  cui  quei  due  erano  saliti  a  bordo,  in- 
tendevano fare  opposizione  anche  con  la  forza.  Il  padrone  di- 
chiarava che,  essendo  il  legno  di  nazionalità  americana,  nessuno 
aveva  il  diritto  di  fare  arresti  a  bordo  ;  ma  il  Puntillo  mostrò  un 
foglio  del  console  americano,  il  quale  autorizzava  la  visita  e  l'arre- 
sto. Il  padre  Ottavio,  che  conservò  una  grande  serenità  di  spi- 
rito, pregò  i  parenti  e  l'equipaggio  di  non  fare  inutili  opposi- 
zioni, e  disse  al  Puntillo  che  era  pronto  a  seguirlo.  Fu  fatto 
scendere  in  una  delle  barche  della  polizia,  accompagnato  dal 
pianto  dei  parenti  e  dalle  invettive  degli  americani  contro  il 
governo  borbonico.  Venne  condotto  alle  grandi  prigioni,  e  poi 
al  forte  di  Oastellamare,  dov'erano  i  suoi  amici.  Gioverà  forse  sa- 
pere che  gli  americani  e  gì'  inglesi,  residenti  a  Palermo,  saputo 
l'atto  inesplicabile  del  console  americano  Baston,  ne  fecero  so- 
lenne protesta  al  governo  degli  Stati  Uniti,  che  mandò  un  basti- 
mento da  guerra  per  fare  un'inchiesta,  dopo  la  quale  il  con- 
sole venne  rimosso  e  poi  destinato  altrove. 

I  nobili  arrestati  erano  sette,  non  tutti  quelli  indicati  dal 
Riso,  ma  solo  quelli,  che  credettero  dover  loro  rimanere  a  Pa- 
lermo nel  momento  del  pericolo,  cioè  il  padre  Ottavio  Lanza,  An- 
tonio Pignatelli,  Corrado  Niscemi,  Giovanni  Riso,  il  principe  di 
Giardinelli,  Gabriele  Cesarò  e  Giovanni  Notarbartolo,  fratello 
del  povero  Emmanuele,  che  aveva  preso  volontario  servizio  nel- 
l'esercito sardo.     Non  è   credibile  l'impressione   che  produssero 


-  179  — 

questi  arresti  in  Sicilia,  a  Napoli  e  in  tutta  Italia.  Erano  dav- 
vero i  più  chiari  nomi  della  nobiltà  siciliana.  A  Torino  corse 
voce  che  fossero  stati  fucilati.  Il  potere  di  Maniscalco  appariva 
anche  maggiore  di  quello  che  realmente  era,  anzi  appariva  l'unico 
potere  resistente.  Il  marchese  di  Spaccaforno,  con  l'aria  sua 
consueta  tra  lo  scettico  e  l' indiflferente,  diceva  che  il  governo 
sarebbe  stato  più  forte,  se,  dopo  i  fatti  del  1848,  avesse  ascol- 
tato il  consiglio  di  suo  padre.  Cassare,  e  anche  il  consiglio 
suo  e  di  Cassisi:  decapitare  Palermo,  portando  la  capitale  a 
Messina  o  a  Catania. 

Francesco  Riso  denunziò  scientemente  la  congiura  e  i  con- 
giurati ?  Ecco  un  punto  interessante,  sul  quale  non  si  è  fatta  an- 
cora una  chiara  luce.  Il  La  Lumia,  che  scrisse  sotto  l' impressione 
dei  fatti  avvenuti  pochi  mesi  prima,  rappresenta  il  Riso  come 
un  eroe,  e  narra  che  Maniscalco  andò  personalmente  a  vederlo, 
promettendogli  la  grazia  anche  del  padre,  se  avesse  rivelato  i 
complici,  ma  non  ne  ottenne  nulla  ;  e  fu  invece  la  polizia,  che, 
dopo  quel  colloquio  sparse  voce  di  avere  il  filo  di  tutta  la  trama, 
nella  speranza  di  promuovere  confessioni  spontanee  da  parte  di 
altri,  ma  "  fu  turpe  e  scellerato  artifizio  „  ,  conclude  il  La  Lu- 
mia. ^  Trentasette  anni  dopo,  anche  il  De  Marco  ^  rivendicò  la 
memoria  del  Riso,  pubblicando,  fra  i  documenti,  le  testimonianze 
dei  medici,  che  lo  curarono  e  assistettero  fino  allo  morte,  ed 
escludenti  ogni  rivelazione  da  parte  di  lui.  Ma  né  il  La  Lumia, 
né  il  De  Marco  si  dettero  cura  di  studiare  il  processo  del  4  aprile. 
Casimiro  Pisani,  juniore,  invece  riteneva  il  contrario,  documen- 
tando l'affermazione  con  prove  inconfutabili.  A  lui  era  riuscito 
avere  in  mano  quel  processo,  miracolosamente  sottratto  al  saccheg- 
gio, che  si  fece  nella  cancelleria  del  tribunale,  dopo  l'entrata  di 
Garibaldi.  Il  Pisani,  dunque,  leggendo  le  deposizioni  di  France- 
sco Riso,  constatò  "  che  egli  tutto  aveva  rivelato  ;  che  aveva 
"  indicato  tutti  i  cospiratori,  dei  quali  conosceva  i  nomi,  ma 
"  specialmente   su  di  me  (Pisani)   aveva  riversato   tutte  le  re- 


'  Isidoro  la  Lumia,  La  restaurazione  borbonica  e  la  rivoluzione  del 
1860  in  Sicilia,  dal  4  aprile  al  18  giugno.  Ragguagli  storici.  —  Paler- 
mo, 1860. 

'  Emanuele  de  Makco,  La  Sicilia  nel  decennio  avanti  la  spedizione 
dei  Mille.  —  Catania,  Monaco  e  Mollica,  1898. 


—  180  - 

**  sponsabilità,  giungendo  perfino  a  dire,  che  aveva  saputo  uni- 
"  camente  da  me  taluni  fatti,  dei  quali  egli  era  stato  partecipe 
"e  testimone  „.  Il  Pisani  copiò  integralmente  le  deposizioni 
di  Riso  e  ne  fece  tre  copie.  Quel  processo  subì  stranissime  vi- 
cende, che  bisogna  rivelare,  perchè  sono  davvero  caratteristiche. 
Al  Pisani  lo  fece  chiedere  il  barone  Rocco  Camerata  Scovazzo, 
da  Ignazio  Federico  ;  e  qui  sarà  bene  che  io  lasci  la  parola  al 
Pisani  stesso,  che,  poco  tempo  prima  di  morire,  mi  scrisse  cosi  : 

"  Quel  processo  non  lo  riebbi  più,  e  per  quante  insistenze  io  ed  i  miei 
amici,  specialmente  il  sig.  G.  B.  Marinuzzi,  facemmo  presso  il  barone  Ca- 
merata, tutto  riusci  inutile.  Finalmente,  scorsi  molti  anni,  ed  essendo  mi- 
nistro dell'interno  l'on.  Crispi,  io  presentai  un  reclamo  in  linea  ufficiale, 
chiedendo  che,  a  termine  di  legge,  quel  processo  venisse  depositato  presso 
l'Archivio  di  Stato.  Allora,  per  mezzo  del  deputato  Cordova,  furono  aperte 
delle  trattative  tra  il  ministro  Crispi  e  il  senatore  Rocco  Camerata  Sco- 
vazzo, e  costui  alla  fine,  dopo  tante  tergiversazioni,  addivenne  a  conse- 
gnare il  processo,  ma  a  patto  che  dovesse  rimanere  in  potere  di  Crispi. 
E  Crispi  accettò  di  farsene  depositario,  e  dopo  qualche  tempo  dispose,  che 
fosse  officialmente  trasmesso  e  depositato  presso  l'Archivio  di  Stato  di 
Palermo.  Avendo  io  ciò  saputo,  mi  recai  dal  direttore  di  esso  Archivio, 
e  lo  pregai  di  farmi  rivedere  quel  documento,  pel  cui  ricuperamento  avevo 
tanti  anni  tribolato.  Ottenuto  un  tale  favore,  ed  avendo  riandato  le  rive- 
lazioni di  Biso,  mi  accorsi,  con  mia  somma  sorpresa,  che  l'ultimo  foglio  inter- 
medio d' un  quinterno,  precisamente  il  foglio  che  contiene  la  deposizione  di 
Biso  fatta  il  17  aprile,  e  che  è  la  più  importante,  era  stato  ricopiato  dalla 
stessa  mano,  che  aveva  scritto  il  foglio  primitivo  ed  adulterato,  interpo- 
nendo il  nome  del  barone  Bocce  Camerata  Scovazzo  nei  fatti  più  impor- 
tanti della  cospirazione  che  Biso  rivelava  ....  Scoperta  quella  falsificazione, 
io  ne  informai  i  miei  amici  di  Boma,  i  quali  mi  consigliarono  di  sporgere 
regolare  querela,  che  fu  in  fatti  presentata  a  firma  mia,  di  Martino  Bel- 
trami  Soalia,  di  G.  B  Marinuzzi  e  di  Mariano  Indelicato.  L'autorità  giu- 
diziaria, previo  il  consenso  della  Presidenza  del  Senato,  non  potè  fare  a 
meno  d'ordinare  un'istruttoria,  dalla  quale  risultò  luminosamente,  che 
quel  foglio,  da  me  incriminato,  era  stato  effettivamente  adulterato,  giac- 
ché della  copia  delle  deposizioni  di  Biso,  che  io  aveva  estratto  al  1860, 
quando  quel  processo  fu  per  la  prima  volta  in  mio  potere,  io  in  progresso 
di  tempo  ed  in  varie  epoche  ne  avevo  fatte  altre  due  copie,  che  a  titolo 
di  curiosità  storica  avevo  dato  a  due  miei  amici,  e  queste  due  copie  fu- 
rono consegnate  al  giudice  istruttore.  Di  più,  è  vero  che  il  foglio  adul- 
terato è  della  medesima  calligrafia  di  tutto  il  resto,  e  che  apparteneva  ad 
un  commesso  giurato,  che  più  non  era  in  vita  al  tempo  di  quest'istrutto- 
ria ;  ma  l' inchiostro  —  quantunque  parimenti  azzurro  —  pure  è  di  una 
tinta  più  carica  ed  il  foglio  di  carta  è  un  poco  diverso  del  resto  del  quin- 
terno. Compiutasi  l'istruttoria,  fu  mandata  al  Ministro  di  Grazia  e  Giu- 
stizia, che  era  allora  l'on.  Zanardelli,  pel  di  più  a  praticarsi  ;  e  Zanardelli 


-  181  — 

conservò  tutto  V  incartamento  nel  tiretto  del  suo  scrittoio,  aspettando  oho 
fosse  compiuto  il  periodo  di  80  anni  ;  ed  allora,  allegando  ohe  ogni  azione 
giuridica  era  per  legge  prescritta,  mandò  tutto  a  conservarsi  in  Archivio  1  „ 

Queste  vioende,  veramente  curiose,  potrebbero  far  sorgere  dei 
dubbi  circa  la  genuinità  delle  deposizioni  di  fìiso  ;  ma  per  ren- 
dersi conto  di  questi  dubbii,  occorre  avere  innanzi  il  testo  pre- 
ciso e  le  date  delle  deposizioni  di  lui.  Riso  depose  tre  volte  :  il 
giorno  6  aprile,  la  dimane  dell' insurrezione  ;  il  17,  dopo  la  fu- 
cilazione del  padre  e  il  22  dello  stesso  mese.  Il  testo  è  quale 
oggi  si  legge  nel  volume  del  processo,  esistente  nell'archivio  di 
Stato  di  Palermo. 

Al  giudice  del  circondario  Tribunali,  il  6  aprile,  Francesco 
Riso  rese  il  seguente  interrogatorio: 

R.  —  Signore,  ieri  mattina  circa  le  ore  10  Yt  d'Italia  allo  uscire  di 
casa  fui  inseguito  dalla  forza  militare  e  di  pulizia,  ed  asilatomi  dentro  il 
Convento  della  Gancia,  quivi  fui  ferito  da  colpo  di  arma  a  fuoco  non  so 
perchè  e  individualmente  da  chi. 

D.  —  Perchè  usciste  da  casa  a  quell'ora? 

B.  —  Perchè  attendeva  come  è  solito  a  quell'  ora  i  maestri  pontonieri 
miei  salariati  per  lavorare. 

D.  —  Dove  dovevate  andare  a  lavorare  ? 

B.  —  Non  aveva  destino  determinato  perchè  me  ne  aspettavo  l'inchie- 
sta dai  miei  dipendenti.  Dessi  posso  indicarli  per  nome  e  sono  Giambattista, 
Cosimo,  Federico,  Giovanni,  Mariano. 

D.  —  Erano  venuti  ? 

B.  —  Io  non  potei  ciò  vedere,  perchè  come  scesi  da  casa  fui  aggre- 
dito dalla  forza  pubblica  e  mi  asilai  tantosto  nel  Convento  della  Gancia. 

Dichiara  non  potere  firmare. 

La  seconda  dichiarazione,  fatta  al  giudice  Prestipino,  il  17 
aprile,  è  la  seguente  ; 

D.  —  Cosa  volete  rapportare? 

B.  -^  Per  serenità  di  mia  coscienza  e  per  tutto  quello  che  di  male  ne 
potrebbe  venire  appresso  contro  la  mia  patria  debbo  dichiararle  che  sin  da 
due  mesi  indietro  fui  parlato  da  don  Casimiro  Pisani  ad  oggetto  di  far 
parte  con  altri  e  riunire  della  gente  per  suscitare  una  rivolta  in  Palermo 
e  cosi  armandoci  tutti  contro  le  autorità  cambiare  la  forma  dell'attuale 
Governo. 

Richiesi  io  il  Pisani  chi  si  erano  le  persone  che  facevano  capo  in 
tale  rivolta  ;  mi  disse  che  vi  erano  il  barone  Riso,  il  figlio  del  Duca  di  Ce- 
sare, cioè  il  Duchino,  il  barone  Cammarata,  quello  che  abita  sulla  strada 
Macqueda  sotto  la  casa  del  patrocinatore  Calamaro,  il  figlio  del  Duca   di 


-  182  — 

Monteleone,  quello  ohe  attualmente  trovasi  arrestato,  il  principe  di  Giar- 
dinelli,  il  figlio  del  marchese  Rudini,  il  di  cui  nome  ignoro,  il  figlio  del 
principe  di  Nisoemi.  Questi  tutti  si  riunivano  tra  di  loro,  contribuivano 
il  danaro,  lo  passavano  in  mano  del  sudetto  Pisani  ;  questi  lo  dava  a  me 
ad  oggetto  di  comprare  armi,  polvere,  e  munizioni  da  guerra,  associare 
persone,  e  cosi  scoppiare  la  rivolta  come  già  ho  detto. 

D.  —  Chi  erano  le  persone  che  apprestavano  le  armi  e  le  munizioni 
da  guerra? 

B.  —  La  polvere  la  comprava  per  mezzo  di  don  Nenò  Rammacca,  che 
era  uno  dei  congiurati  coi  sudetti  individui.  Desso  si  prendeva  il  danaro  dei 
suaccennati  soggetti,  si  pagava  prima  la  polvere  ohe  me  ne  diede  da  circa  ad 
un  quintale,  ed  il  rimanente  del  danaro  lo  passava  a  me  ed  io  compravo  dei 
fucili  per  mezzo  di  diversi  giovani  che  li  avevano  occultati  e  per  mezzo  di 
diversi  villici,  di  cui  in  questo  momento  non  ricordo  i  rispettivi  nomi  e  co- 
gnomi. Cosi  comprate  tali  armi  le  occultava  porzione  in  un  magazzino  eh© 
teneva  in  fitto  nel  Convento  della  Grancia  ed  altra  porzione  in  un  magaz- 
zino allo  Spasimo  e  propriamente  vicino  la  Magione,  che  un  maestro  falle- 
gname  aveva  preso  in  affitto  da  una  donna.  In  detto  magazzino  veni- 
vano occultate  le  coppole  coi  nastri  tricolori,  le  granate,  che  da  un  giovane 
fonditore  di  ferro  si  costruivano  in  una  fonderia  fuori  porta  di  Termini 
all'  insaputa  del  suo  principale,  come  ancora  fondeva  le  lance.  Vi  si  ripo- 
stava anche  la  polvere  ed  altre  munizioni  da  guerra. 

D.  —  Indicateci  i  nomi  e  cognomi  del  fallegname  che  fitto  il  magaz- 
zino e  di  colui  che  fondeva  le  granate  e  le  lance. 

B.  —  Mi  sento  male,  non  ricordo  in  questo  momento  detti  nomi  e  co- 
gnomi. Mi  sovviene  però  che  il  fallegname  mori  sul  conflitto  alla  Gancia 
quando  io  fui  ferito. 

D.  —  T  religiosi  della  Gancia  avevano  scienza  di  tale  attentato  e  delle 
munizioni  che  voi  occultaste  in  detto  loro  magazzino  ? 

B.  —  Non  Signore,  sono  tutti  innocenti.  Uno  di  quei  religiosi,  che 
mi  disse  essere  il  Guardiano,  mi  affittò  quel  magazzino  due  mesi  addietro 
per  onze  4,  me  ne  rilasciò  il  ricevo  che  io  conservai  in  casa  mia.  I  fucili  e 
le  munizioni  da  guerra  li  portava  io  stesso  di  notte  o  di  giorno  nascosta- 
mente senza  farmi  vedere  dai  religiosi  e  da  chicchessia.  Oh  !  fermo .... 
Ora  ricordo  che  il  maestro  che  fitto  il  magazzino  presso  la  Magione  chia- 
mavasi  maestro  Michele  fallegname  e  murifabro  che  abitava  nella  strada 
del  Capo,  oggi  ucciso. 

D.  —  Rapportateci  da  chi  era  stata  stabilita  la  giornata  per  succedere 
la  rivoluzione. 

B.  —  I  suocennati  soggetti,  capi  della  cospirazione,  stabilirono  fra  di 
loro  che  il  giorno  4  aprile  all'alba  doveva  attaccarsi  il  fuoco  da  me  alla 
Fieravecchia. 

Venne  da  me  il  sudetto  Pisani  e  fecemi  sentire  tale  puntamento; 
io  allora  chiamai  diversi  giovani  che  erano  uniti  con  me,  li  feci  venire 
alla  mia  casa,  che  resta  vicino  la  Gancia,  dovendo  dire  che  eravamo  riu- 
niti per  fare  dei  lavori  nella  mia  casa.  Venuti  con  effetto  all'alba  del 
detto  giorno,  porzione  si  armarono  di  quei  fucili  che  trovavansi  nel  Magaz- 
zino alla  Gancia,  ed  una  porzione  di  individui  si  recarono  ad  armarsi  nel 
Magazzino  sopra  la  Magione.    Io  intanto  mandai  una  persona  alla  Fiera- 


-  183  - 

vecchia,  luogo  destinato  per  incominciare  il  fuoco,  onde  conoscere  se  fosse 
arrivata  la  squadra  che  era  destinata  ad  aspettare  me  in  quel  locale. 
Questa  ancora  non  era  venuta.  Era  fatto  tardi  ed  intesi  ohe  il  fuoco  era 
cominciato  alla  Magione.  Allora  io  con  i  miei  compagni  cominciammo  a 
far  fuoco  propriamente  nel  Vico  della  Gancia  contro  i  compagni  d'armi  e 
del  Capitano  d'armi  Chinnici  e  della  polizia,  e  non  potendo  più  starci  a 
fronte  ci  trincerammo  nel  Convento  della  Gancia,  discassando  una  porta 
dalla  parte  di  Terrasanta  per  salire  sopra  il  Convento.  Cosi  saliti  comin- 
ciammo a  far  fuoco  contro  la  truppa  e  la  polizia  da  sopra  le  tegole.  Indi 
io  cominciai  a  suonare  la  campana  per  convocar  gente.  Vedendoci  per- 
duti e  che  nessuno  veniva  in  soccorso,  lasciai  le  armi,  discesi  per  andar- 
mene in  casa.  Arrivato  vicino  il  portone  della  Gancia  pria  di  sortir  fuori 
la  forza  pubblica  e  i  militari  mi  vibrarono  sei  fucilate  e  cosi  caddi  a  terra 
ferito  e  non  potei  recarmi  più  in  casa  mia  e  nulla  più  vidi  e  intesi. 

D.  —  Diteci,  foste  voi  qualche  volta  in  riunione  coi  succennati  capi 
della  setta  ?    Nell'affermativa  diteci  cosa  si  parlava  e  che  si  stabiliva. 

R.  —  Non  signore,  io  giammai  intervenni  nelle  riunioni  che  si  face- 
vano forse  una  volta  a  turno  in  casa  dei  riferiti  soggetti.  Una  sola  volta 
accostai  il  barone  Riso  e  parlammo  di  cose  tutte  estranee  alla  cospira- 
zione ;  anzi  qui  mi  ricordo  che  io  rimasi  di  sotto  di  due.  300  per  la  com- 
pra fatta  di  fucili  e  munizioni  e  che  il  Pisani  doveva  portarmi  ma  non  li 
ricevei  più. 

D.  —  Narrateci  se  tale  riunione  portava  qualche  nome  proprio. 
R.  —  Si  signore,  ci  sentivamo  tra  di  noi  col  nome  di  congiura. 
D.  —  Indicateci  i  nomi  e   cognomi  di  tutti  coloro   che   erano  asso- 
ciati con  voi  per  fare  la  rivolta,  e  che  stipendio  gli  corrispondevate  ogni 
giorno. 

R.  —  Gli  individui  che  dovevano  far  fuoco  nella  mia  squadra  erano  cin- 
quanta procurati  da  due  miei  confidenti  Francesco  La  Chiena  e  un  certo  An* 
tonino  il  di  cui  cognome  non  mi  ricordo  in  questo  momento,  ambidue  mura- 
tori, ai  quali  quel  giorno  che  si  fece  fuoco  di  mercoledì  santo  contro  la  forza 
pubblica  e  la  truppa  gli  diedi  onze  10  per  dividerle  fra  di  loro  e  dal  giorno 
seguente  in  poi  dovevano  percepire  il  soldo  di  tari  4  al  giorno  per  uno.  I 
cennati  due  individui  conoscono  i  nomi  e  cognomi  degli  altri  cinquanta. 
Ora  però  mi  è  stato  detto  che  i  detti  due  muratori  trovansi^in  arresto. 

D.  —  Indicateci  a  quanti  ascendevano  i  fucili  che  trovavansi  con- 
servati. 

R'  —  Da  circa  a  70  ed  altri  ve  ne  erano  incompleti,  cioè,  o  senza 
grillo  o  senza  fascetta  o  mancanti  di  tenieri  che  si  dovevano  costruire. 

D.  —  La  rivolta  doveva  forse  avverarsi  in  altro  tempo,  o  era  defini- 
ti vamente  stabilita  pel  4  aprile? 

■B.  —  Giorno  stabilito  non  ve  ne  era,  dapoichè  si  aspettava  una  or- 
ganizzazione tra  noi  perfetta  ad  associarsi  un  numero  maggiore  di  per- 
sone per  formare  la  congiura;  quando  poi  venivano  dalla  polizia  ricercati 
l'avvocato  Perrani  ed  un  certo  Indelicato,  due  dei  nostri  congiurati,  du- 
bitando che  la  congiura  si  poteva  conoscere  dalla  polizia,  né  fu  perciò  che 
si  stabili  il  giorno  4  aprile  per  mandarvi  ad  esecuzione  la  rivolta.  Di  fatti 
un  giorno  o  due  prima  si  fece  conoscere  a  tutte  le  persone  associate  alla 
congiura  ohe  si  era  stabilito  detto  giorno  per  mandarsi  ad  effetto  ;  ed  a  me 


-  184  - 

fu  comunicato  l'ordine  da  don  Casimiro  Pisani,  ed  io  lo  feci  sentire  ai  miei, 
e  cosi  egli  esegui  con  gli  altri  che  io  non  conosco. 

D.  —  I  fatti  che  finora  mi  avete  narrato  si  conoscevano  da  altre  per- 
sone?   Nell'affermativa  indicatele. 

R.  —  Dette  notizie  che  io  le  ho  date  si  maneggiavano  da  me  con  Pisani. 
Egli  al  certo  conosce  delle  altre  persone  alle  quali  faceva  le  stesse  confi- 
denze che  con  me  e  che  io  non  conosco  per  non  avermele  giammai  confi- 
date, all'infuori  dei  Capi  della  rivolta,  barone  Riso  e  comp,  che  di  già  le 
ho  dichiarato,  e  che  più  volte  egli  il  Pisani  mi  riferiva  quando  mi  portava 
il  danaro  dai  medesimi  contribuito. 

Datagli  dal  Cancelliere  funzionante  lettura  egli,  il  Riso,  ha  modificato 
solamente  che  le  surriferite  operazioni  si  praticavano  da  lui  solamente  com- 
prando gli  oggetti,  i  fucili  e  le  munizioni  senza  che  il  Pisani  fosse  interve- 
nuto in  tali  compre. 

^   \  ^  .   .      ^^ 

L' ultima  deposizione  del  22  aprile,  fu  la  seguente  : 

D.  —  Cosa  volete  rapportarci? 

R.  —  In  continuazione  della  mia  precedente  dichiarazione  innanzi  a 
Lei  fatta  mi  sono  ricordato  che  fra  gli  individui  associati  per  far  fuoco  il 
mattino  del  4  aprile  corrente  contro  le  truppe  e  la  polizia  alla  Gancia  onde 
mandare  ad  effetto  la  rivolta  e  cosi  cambiarsi  la  forma  dell'attuale  Go- 
verno vi  era  Filippo  Martillaro  fallegname,  e  questi  quello  stesso  giorno 
fece  parte  della  divisione  delle  onze  10  da  me  state  consegnate  a  Francesco 
La  Chiena  per  dividerle  fra  tutti  gì'  intervenuti  alla  Gancia  in  quel  giorno, 
che  credo  che  erano  circa  22. 

Debbo  dirle  ancora  per  serenità  di  mia  coscienza  che  colui  che  attentò 
alla  vita  del  Sig.  Direttore  di  Polizia  si  fu  un  Palermitano  con  un  col- 
tello avvelenato,  e  che  aveva  avuta  la  promessa  di  onze  200  sebbene  non 
conosco  da  chi. 

Questo  fatto  lo  appresi  dopo  consumato  l'attentato  da  persone  che  nel 
proposito  tennero  discorsi. 

D.  —  Potete  indicare  le  persone  che  tennero  tal  discorso  e  con  chi 
parlavano  ? 

R.  —  Non  ricordo  in  questo  momento  chi  si  fossero  state  tali  persone. 
Parlavano  tra  di  loro  ed  io  le  avvicinai  perchè  miei  conoscenti. 

D.  —  Conoscete  forse  se  la  cospirazione  e  lo  attentato  contro  la  si- 
curezza interna  fosse  stato  spinto  ed  agevolato  da  qualche  potenza  estera  ? 

R.  —  Credo  che  no,  giacché  tra  congiurati  giammai  ebbi  a  sentire  di- 
scorso che  alcuna  potenza  estera  spingeva  ed  agevolava  la  rivoluzione  che 
doveva  aver  luogo  in  Palermo. 


Queste  furono  le  deposizioni  giudiziarie.  Quelle  da  lui  rese 
all'ospedale,  la  mattina  stessa  dell'  arresto,  dove  giunse  più  morto 
che  vivo,  mi  sono  riferite  da  un  superstite  che  fu  testimone  ocu- 
lare, il  padre  Calogero  Chiarenza,  cappellano  assistente  nell'  ospe- 
dale stesso.     "  La  mattina  del  4  aprile  del  1860,  prima  di  mezzo 


—  185  - 

"giorno  —  scrive  il  Chiarenza  —  venne  trasportato  all'ospedale, 
"  accompagnato  da  soldati  e  da  gendarmi,  Francesco  Riso.  Si 
"vedeva  un  uomo  elegantemente  vestito,  con  gli  occhi  chiusi, 
"  che  di  tanto  in  tanto  li  apriva,  e  saettavano,  guardando  i  cu- 
"  riosi  che  gli  stavano  intomo.  La  bocca  era  chiusa,  né  io  gli 
"  sentii  proferire  un  minimo  lamento  :  stava  muto  come  una 
"  statua.  Questa  scena  avveniva  avanti  il  portone  dell'  ospedale, 
"  dove  si  trovava  il  cavaliere  Salesio  Balsano,  amministratore 
"  del  pio  luogo.  Questi  ordinò  che  il  ferito  fosse  trasportato 
"nell'infermeria  dalle  persone  addette  al  servizio  dell' ospedale. 
"L'uomo,  che  guidava  il  carretto,  e  i  soldati  che  l'accompa- 
"  gnavano,  tornarono  indietro.  E-iso  fu  trasportato  sopra  una 
"  barella  nell'  infermeria,  al  secondo  piano  ;  adagiato  sopra  un 
"  letto,  venne  subito  interrogato,  com'  è  di  uso,  dall'  infermiere 
"  maggiore,  Antonino  Gallo.  Prima  domanda  :  Come  vi  chior 
"  mate  f  -  Risposta  :  Francesco  Riso  di  Giovanni.  —  Seconda  do- 
"  manda:  Quanti  anni  avete ì  -  Risposta:  Ventott' anni  circa.  — 
"  Terza  domanda  :  Cìie  mestiere  o  professione  esercitate  ?  -  Risposta 
"  con  voce  vibrata  :  Congiurato.  —  L' infermiere  qui  gli  disse  : 
"  Dovete  rispondere  alle  mie  domande.  -  E  lui  :  Cospiratore  per 
"  r  unità  d' Italia  con  Vittorio  Emanuele.  —  L' infermiere  rispose  : 
"  Noi  conosciamo  per  nostro  Re  Francesco  II  f, .  Ad  altre  domande, 
"  chiusi  gli  occhi,  non  rispose  più  „ . 

Fermiamoci  un  po'  sulle  une  e  sulle  altre.  In  questa  prima 
deposizione  Riso  dà  prova  di  eroismo,  e  cosi  pure  in  quella  del 
giorno  5,  innanzi  al  giudice.  La  seconda,  quella  del  17,  è  ve- 
ramente deplorabile.  Egli  riferisce  tutto  ciò  che  sapeva,  con 
nomi,  cognomi  e  particolari.  Se  per  giustificarla  in  qualche  ma- 
niera, si  potrebbe  osservare  che  gli  arresti  del  Pignatelli,  del 
Lanza  e  dei  loro  amici  erano  già  avvenuti,  non  puossi  però  non 
notare,  che  altre  misure  di  rigore  furono  prese  dopo  quelle  rive- 
lazioni. Che  i  giovani  signori,  tratti  in  arresto,  fossero  ben  noti 
alla  polizia,  basterebbe  a  dimostrarlo  la  nota  di  Castelcicala  al 
governo  di  Napoli,  relativa  alla  partenza  da  Palermo  del  Benza, 
con  l' annotazione  :  S.  M.  resta  inteso  ed  ordina  che  si  sorveglino 
rigorosamente  ;  ma  non  è  men  vero  ch'essi  erano  sub  iudice,  benché 
prove  dirette  non  si  avessero  contro  di  loro.  Quelle  prove  non 
sorsero  che  dalle  affermazioni  del  Riso.  D'altra  parte  è  cosi 
inverosimile  il  fatto  che  la  polizia,  quella  polizia,  avesse  lasciato 


-  186  - 

in  pace  per  dodici  giorni,  un  uomo  che  poteva  morire  da  un  mo- 
mento all'altro,  senza  tentare  ogni  mezzo  per  strappargli  delle 
rivelazioni,  che  non  si  può  respingere  il  dubbio,  che  l' interrogato- 
rio, registrato  ufficialmente  dall'  autorità  giudiziaria  il  17  aprile, 
fosse  la  conferma  di  precedenti  confidenze,  strappate  da  Mani- 
scalco, recatosi  più  volte  ad  interrogare  il  Riso  all'ospedale. 

Per  fare  una  maggior  luce  su  questo  disgraziato  incidente,  io 
volli,  dunque,  interrogare  Io  stesso  don  Calogero  Ohiarenza,  che 
assistette  il  E-iso  con  un  affetto  e  un  coraggio  veramente  esem- 
plari. Il  Chiarenza,  che  ha  settantasette  anni,  ritiene  che  il  Riso 
non  avesse  fatto  al  Maniscalco  delle  esplicite  dichiarazioni  nelle 
varie  volt©  che  questi  andò  all'ospedale,  ma  suppone,  con  forti 
dubbi,  che,  abbindolato  dal  direttore  di  polizia,  il  quale  gli  la- 
sciò sperare  la  vita  del  padre,  uscisse  in  qualche  rivelazione. 
E  qui  sarà  bene  riferire  le  parole  stesse,  contenute  nella  pre- 
ziosa lettera  del  Chiarenza,  che  porta  la  data  del  31  luglio  del 
1898.  "  Un  giorno,  che  non  posso  precisare  —  sono  sue  pa- 
role —  Francesco  Riso  fecemi  segno  di  volermi  parlare  ;  l' av- 
vicinai, e  senza  precauzione  mi  domandò  cosa  sapessi  di  sua 
padre.  Io  non  gli  risposi,  perchè  eravi  una  guardia  di  polizia 
seduta  rimpetto  al  letto  dell'ammalato;  lui  capì,  ma  io,  volen- 
dolo veramente  informare,  mi  riserbai  di  farlo  per  la  notte  seguente. 
Mi  provvidi  del  Giornale  di  Sicilia,  che  riferiva  i  nomi  dei  tredici 
fucilati.  Come  cappellano  assistente  ai  moribondi,  essendo  ogni 
notte  di  guardia,  e  potendo  nel  percorrere  le  infermerie  avvici- 
nare gli  ammalati,  per  i  conforti  religiosi,  vidi  che  la  guardia 
di  polizia,  di  pia,ntone  al  letto  di  Riso,  dormiva  e  russava;  mi 
accostai  al  letto,  e  con  tutta  precauzione,  al  lume  di  un  piccolo 
fanale  ad  olio,  che  noi  cappellani  assistenti  portavamo  di  notte 
per  le  infermerie,  avvicinatomi  al  letto  di  Riso,  gli  mostrai  il 
giornale,  e  gli  feci  leggere  i  nomi  delle  tredici  vittime.  Quando 
giunse  al  nome  del  padre  suo,  che  era  il  sesto  o  il  settimo  fra 
gli  annotati,  si  sbigottì,  non  potè  proferir  parola,  prese  il  len- 
zuolo fra  i  denti,  e  dopo  alcuni  istanti,  mi  chiese  risolutamente 
se  si  potesse  avere  una  pistola,  perchè  avutala  avrebbe  chiamato- 
Maniscalco,  fingendo  volergli  parlare,  e  quando  se  ne  fosse  an- 
dato, nel  voltare  le  spalle,  avrehbegli  sparato  come  un  cane  :  lo 
giuro  sull'ara  dell'onore  e  della  verità,  mi  disse.    La  pistola  dopo 


-  187  - 

due  giorni  di  ricerca  mi  fu  apprestata  da  un  tale  Palumbo  di 
Trapani,  studente  di  medicina  allora  in  Palermo.  Avuta  la  pi- 
stola con  le  solite  precauzioni  e  con  molto  terrore  e  spavento, 
perchè  eravi  lo  stato  d'  assedio  e  si  correva  pericolo  della  fuci- 
lazione, la  consegnai  al  Riso,  che  a  cagione  dello  sfinimento 
delle  sue  forze  non  era  in  grado  di  adoprarla,  e  la  pistola  ritornò 
allo  studente  Palumbo  „. 

Il  Chiarenza,  che  ha  serbato  un  vero  culto  per  la  memoria  del 
Riso,  e  di  tutto  informò  in  quei  giorni  il  suo  amico  Rocco  Ricci 
Gramitto,  col  quale  abitava,  fa  anche  un'osservazione  non  priva 
di  verosimiglianza.  Egli  dice  :  "  Non  credo  che  Francesco  Riso 
abbia  rivelata  la  cospirazione,  ma  bisogna  conoscere,  ohe  ebbe  le 
febbri  di  assalimento  per  cagione  delle  varie  ferite  ricevute,  e 
perciò  la  testa  non  era  sempre  a  posto.  Io  per  verità  non  so  nulla 
di  preciso,  ma  il  mio  forte  dubbio  sta  in  questo  :  che  o  fu  sedotto 
da  Maniscalco  nelle  varie  volte  che  veniva  all'ospedale,  promet- 
tendogli di  liberare  il  padre,  mentre  il  padre  era  fucilato  ;  o  che 
Maniscalco  profittasse  dei  momenti  di  delirio  febbrile  dell'  in- 
fermo, per  sapere  qualche  cosa,  tanto  ripugna  che  il  Riso,  il 
quale  mori  il  27  aprile,  abbia  rivelato  cospirazione  e  complici  „. 

E  ricostruendo,  dopo  tanti  anni,  questi  fatti  e  circostanze, 
si  può  dedurne  che  Francesco  Riso,  ferito  a  morte,  non  era  del 
tutto  padrone  di  se  ;  che,  credendosi  abbandonato  dai  membri  del 
Comitato,  ma  soprattutto  dai  signori,  volesse  vendicarsi  di  loro, 
e  in  ispecie  di  Casimiro  Pisani  juniore,  al  quale  non  aveva  perdo- 
nata l'inchiesta  e  una  risposta  piuttosto  sprezzante,  fattagli  la 
sera  del  3  aprile,  quando  egli.  Riso,  aveva  chiesto  se  si  sarebbe 
chiuso  anche  lui,  Pisani,  nella  Gancia;  e  che  infine,  amantissimo 
di  suo  padre,  infermo  e  innocente,  non  avesse  resistito  al  deside- 
rio di  salvarlo.  L' ira,  onde  fu  preso,  quando  seppe  dal  Chiaren- 
za che  il  padre  era  stato  fucilato  fin  dal  14,  tre  giorni  prima 
della  fatale  deposizione,  —  ira  che  accelerò  la  morte  —  spiega 
non  solo  l'immensa  sua  pietà  filiale,  ma  il  proposito  di  vendicarsi 
di  colui,  che  l'aveva  cosi  iniquamente  ingannato.  Riso  potè 
avere  delle  attenuanti,  e  in  ogni  caso  non  fu  un  traditore  ob- 
brobrioso, ma  piuttosto  una  vittima.  Le  sue  rivelazioni,  dopo 
tutto,  non  costarono  la  vita  a  nessuno.  Rimane  poi  escluso 
in  maniera  assoluta,  che  il  Camerata  Scovazzo  inventasse  lui 
tutta  intera  la  deposizione  di  Riso,  perchè  il  Camerata  era  ignaro 


-  188  - 

di  tanti  particolari,  noti  soltanto  a  chi,  come  il  Riso,  faceva 
parte  della  cospirazione.  Il  Camerata,  è  vero,  non  vi  era  estra- 
neo coi  suoi  fratelli,  ma  vi  ebbe  una  parte  così  secondaria,  che 
senti  il  bisogno  di  accrescersela,  per  ottenere  la  nomina  a  senato- 
re: nomina,  che  ebbe  difatti  nel  1865,  quando  fini  di  rappre- 
sentare il  collegio  di  Serradifalco.  E  per  quanto  infine  si  vo- 
glia ritenere,  che,  anche  dopo  la  morte  del  Riso,  Casimiro  Pisani, 
juniore.  trapassato  da  meno  di  due  anni,  non  avesse  perdonato  a 
Riso  qualche  sua  leggerezza  o  vanità  giovanile,  non  si  può  in 
nessun  modo  ammettere  che  egli  asserisse  il  falso,  quando  affer- 
mava a  tanti  ed  a  me,  ciò  che  ho  riferito  e  che  del  resto  ri- 
sulta dal  processo. 

Questi  Camerata  Scovazzo  erano  originarli  di  Catania,  ma  di- 
moranti a  Palermo  :  liberali  tutti  e  tre  e  possidenti  discreti.  Rocco, 
autore  della  sostituzione  del  foglio,  mori  nel  1892  nella  sua  città 
natia  ;  e  i  fratelli,  morti  anche  loro,  furono  deputati  :  Lorenzo,  di 
Acireale  e  Francesco,  di  Mistretta. 

Con  le  fucilazioni,  gli  arresti,  il  disarmo  e  i  consigli  di 
guerra,  la  rivoluzione  parve  domata,  ma  lo  spirito  pubblico,  so- 
prattutto a  Palermo,  era  in  uno  stato  di  tensione  ed  eccitazione 
incredibile.  Si  potrebbe  affermare  che  tutta  la  città  fosse  dive- 
nuta una  sola  fucina  di  cospirazione.  È  caratteristico  un  rappor- 
to, che  in  quei  giorni  Maniscalco  mandava  al  ministero  a  Napoli  : 
"  È  notevole,  egli  scriveva,  che  il  mutamento,  che  va  accentuan- 
"  dosi  nella  propaganda,  che  gì'  istigatori  di  disordini  vanno  fa- 
"  cendo  ;  mentre  pel  passato  si  è  parlato  solamente  di  voler  at- 
"  tentare  all'  attuale  ordine  di  cose  per  cercar  di  conseguire  la 
"  separazione  dalle  provincie  napoletane,  adesso  si  accenna  a 
"principii  unitarii,  a  riunione  con  l'Italia  superiore  „. 

Altri  uomini  sostituirono  nella  direzione  del  movimento 
quelli  del  4  aprile.  Ricordo  il  dottor  Gaetano  La  Loggia,  il 
quale  era  a  conoscenza  di  quanto  si  preparava,  ma  non  vi  prese 
parte  attiva,  credendo  intempestivo  il  movimento.  Era  uomo 
di  molta  autorità  e  fu,  finche  visse,  direttore  del  manicomio  di 
Palermo.  Ricordo  ancora  l'avvocato  Pietro  Messineo,  Pietro  Na- . 
selli  e  Ignazio  Federigo.  L'opera  di  costoro,  che  fu  brevissima, 
8Ì  limitava  a  pubblicare  proclami  eccitanti  il  popolo  alla  ribel- 


¥' 


-  189  — 

lione,  a  promuovere  dimostrazioni  e  subbugli  per  le  strade,  a  spar- 
gere cartellini  umoristici  contro  la  polizia,  a  tener  vivo  insomma 
il  fuoco  della  rivolta.  Un  giorno  si  dava  l'ordine  di  non  doversi 
andare  per  via  Toledo,  e  nessuno  vi  andava  ;  un  altro  giorno,  che 
tutti  dovessero  andare  in  via  Macqueda  e  tutti  vi  correvano  ;  un 
altro  giorno,  che  non  si  dovesse  giocare  al  lotto  e  nessuno  gioca- 
va. Messineo  aveva  una  tipografia  clandestina,  che  a  Maniscalco 
non  riusci  di  scoprire.  Forse  ebbe  dei  sospetti  per  La  Loggia 
ma  non  osò  toccarlo,  perchè  questi,  come  ho  detto,  aveva  curato 
qualche  tempo  prima  un  figliuolo  di  lui  ;  ma  un  giorno  corse 
anche  voce  che  La  Loggia  fosse  stato  tradotto  in  arresto,  ma  fu 
voce  destituita  di  fondamento. 

Tale  era  lo  stato  degli  animi,  quando  si  seppe  che  Roso- 
lino Pilo  era  sbarcato  a  Messina,  dopo  un  fortunoso  viaggio. 
Pilo  aveva  a  Palermo  amici,  parenti  e  partigiani  in  gran  nu- 
mero :  era  un  patrizio  di  famiglia  retriva,  audacissimo,  simpati- 
cissimo e  mazziniano  ardente.  Da  Messina  potè  condursi  nelle 
vicinanze  di  Palermo,  all'  Inserra,  presso  i  Colli,  dando  prova  di 
un'audacia  che  ha  dell'inverosimile.  Egli  era  col  Corrao  e  qual- 
che altro  compagno.  Marinuzzi  ne  fu  avvertito  e  andò  a  tro- 
varlo, e  insieme  si  scambiarono  più  timori  che  speranze.  Le  squa- 
dre tenevano  ancora  le  montagne,  ma  erano  stremate  di  numero 
e  di  fede,  e  alcune  si  erano  sciolte.  Pilo  confidò  a  Marinuzzi  che 
tra  pochi  giorni  Garibaldi  sarebbe  sceso  in  Sicilia,  e  che  perciò 
bisognava  tener  alto  ed  eccitato  lo  spirito  pubblico,  e  impedire  a 
qualunque  costo  che  le  ultime  squadre  si  sbandassero.  La  venuta 
di  Garibaldi,  egli  disse,  avrebbe  riacceso  il  faoco  e  aveva  ragione. 
Senza  Garibaldi,  che  era  stato  invocato  dai  patrioti  di  Palermo 
e  di  Messina  fin  dall'  anno  innanzi,  quando  era  alla  Cattolica, 
qualunque  altro  tentativo  sarebbe  stato  pazzo.  "  Noi,  mi  scri- 
veva Casimiro  Pisani,  lo  pregammo  pregandolo  di  veder  modo 
come  portare  quei  suoi  volontari  in  Sicilia,  dove  il  terreno  era 
preparato,  lo  spirito  pubblico  eccitatissimo,  e  il  suo  arrivo  avreb- 
be fatto  divampare  l'Isola  intera.  Garibaldi  ci  rispose,  accen- 
nando brevemente  le  ragioni,  per  le  quali  non  poteva  fare  ciò 
che  da  noi  si  chiedeva  e  terminando  colla  seguente  promessa: 
"  Fate  che  in  un  angolo  della  vostra  Isola  sventoli  una  bandiera  ita- 
liana, e  siate  sicuri  che  io  ed  i  miei  amici  accorreremo  ad  aiutarvi  „ . 
Questo  fatto,  conchiudeva  il  Pisani,  lo  asserisco  sulla  mia  pa- 


-   190  — 

rola,  e  fui  io  stesso  che  in  momenti  pericolosi  dovetti  distrug- 
gere quella  lettera,  insieme  con  molti  altri  documenti  „.^  Ma 
chi  veramente  indusse  Garibaldi  a  far  la  spedizione,  appena 
un  mese  dopo  il  4  aprile,  fu  Francesco  Crispi,  il  quale,  prima  a 
voce  e  poi  in  iscritto,  aveva  promesso  agli  amici  di  Sicilia  che,  al 
primo  annunzio  di  rivolta  nell'  Isola,  Garibaldi  vi  sarebbe  sbarca- 
to, per  mettersi  alla  testa  della  rivoluzione.  Il  nome  del  duce  era 
popolarissimo  nell'  Isola,  come  lo  era  nelle  provincie  continentali 
del  Regno.  "  U  di  lei  affacciarsi  in  questa  contrada  non  sarebbe 
meno  della  tromba  del  giudizio  che  nella  gran  notte  richiama  gli 
estinti,  gli  scriveva  il  Comitato  di  Messina  ;  venga,  signore,  e  que- 
sta contrada  risuonerà  i  suoi  vesperi  „ .  ^ 


1  Negli  ultimi  fascicoli  ^qW Archivio  storico  Siciliano,  che  pubblica 
quella  benemerita  Società  di  storia  patria,  il  signor  G.  Paolucoi  ha  stam- 
pato un  interessante  studio,  dal  titolo  :  Rosolino  Pilo.,  memorie  e  docu- 
Tìienti,  dal  1857  al  1860.  È  quanto  di  più  completo  si  sia  scritto  finora 
sopra  la  figura  più  temeraria  dell'insurrezione  siciliana.  Pilo  fu  davvero 
il  precursore  di  Garibaldi;  fu  colui,  che  tenne  vivo  il  fuoco  della  rivolta 
in  quel  mese  di  maggiori  sgomenti,  che  corse  dalla  tentata  e  sofi'ocata  insur- 
rezione della  Gancia,  allo  sbarco  a  Marsala.  Mori  combattendo  a  San  Mar- 
tino, il  21  maggio.  I  documenti  pubblicati  dal  Paolucci  gettano  molta  luce 
sugli  avvenimenti  di  quei  giorni. 

*  Cospirazione  e  rivolta,  monografìa  di  Raffaela  Villari.  —  Messina, 
tip.  D'Amico,  1881. 


CAPITOLO  IX 


SoiaiA.Rio:  La  rivoluzione  nelle  provinoie  —  A  Trapani  e  a  Marsala  —  I  tor- 
bidi a  Messina  —  Il  proclama  di  uno  studente  e  l' indirizzo  del  Senato  al 
Ee  —  Catania  e  il  generale  Ciary  —  Provvedimenti  per  Messina  e  Catania 

—  Eapporti  fra  il  E«  e  Castelcicala  —  I  capi  militari  in  Sicilia  —  Un  pro- 
clama del  Luogotenente  —  Il  lavoro  delle  squadre  —  Si  attende  Garibaldi 

—  Disordini  nell'  Isola  —  L'azione  dell'  Inghilterra  —  Il  generale  Laudi 
bì  avvia  verso  Calatafimi  —  Arriva  ad  Alcamo  —  Le  istruzioni  che  ebbe 

—  Rapporti  del  Laudi  —  La  condotta  di  lui  —  La  flotta  di  crociera  e  le 
istruzioni  del  Governo  —  Come  avvenne  lo  sbarco  a  Marsala  —  Le  canno- 
nate dello  Stromboli  e  della  Partenope  —  Incidenti  della  spedizione  gari- 
baldina sino  a  Marsala  —  La  condotta  dei  legni  inglesi  Arguì  e  Intrepid 

—  La  verità  storica  —  False  voci  di  tradimento  —  Si  scende  a  Marsala  — 
I  Mille,  le  loro  divise,  le  loro  armi  e  la  loro  cassa  —  Crispi,  Castiglia,  An- 
drea Eossi  e  Pentasuglia  —  La  presa  di  possesso  del  telegrafo  —  Particolari 
interessanti  —  I  primi  atti  di  Garibaldi  —  La  giornata  di  Calatafìmi  —  La 
ritirata  dì  Laudi  apre  a  Garibaldi  la  via  di  Palermo. 

La  rivoluzione,  soffocata  a  Palermo,  non  trovò  eco  nelle  pro- 
vinole. A  Trapani  si  costituì  un  Comitato  insurrezionale,  che 
ottenne  dal  debole  intendente  la  liberazione  di  alcuni  prigio- 
nieri politici,  e  la  formazione  di  una  guardia  civica  con  ban- 
diera tricolore.  Il  colonnello  lauch,  che  vi  comandava  il  tre- 
dicesimo di  linea,  si  sbarrò  in  quartiere,  dichiarandosi  impotente 
a  frenare  il  tumulto. 

Nella  vicina  Marsala  l'insurrezione  scoppiò  il  6  aprile,  pro- 
mossa e  compiuta  da  Abele  Damiani,  coadiuvato  dai  suoi  amici 
Giuseppe  Garaffa  e  Giacomo  Curatolo  Taddei  e  da  quegli  stesai 
popolani,  che  aiutarono  più  tardi  Garibaldi.  Quel  console  sardo, 
Sebastiano  Lipari,  a  differenza  del  suo  collega  di  Trapani  dette, 
non  spontaneamente,  come  fu  affermato,  la  bandiera  tricolore  ;  si 


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gridò:  Viva  V Italia  e  Viva  Vittorio  Emanuele.,  e  si  formò  una  squa- 
dra, la  quale  doveva  marciare  sopra  Palermo.     Ma  la  squadra  non 
partì,  il  Damiani  trovò  scampo  sopra  una  cannoniera  inglese  e 
non  ci  fu  altro  in  quella  provincia.     Il  governo  depose  l' inten- 
dente, deferi  a  un  consiglio   di   guerra   il   comandante,  aprì  un 
processo  penale,  e  a  rimettere  l'ordine  in   Trapani  e  a  Marsala 
inviò    il    generale    Letizia    con    una    colonna   mobile,    formata 
da  quattro  compagnie  di  linea,    due    di  cacciatori  e  due  canno- 
ni.    Letizia,  o  il  marchese  Letizia,    come   preferiva   esser  cMa- 
mato,    era  un   altro    bollente   AcMlle   dell'esercito   napoletano  ; 
non  privo  aifatto  di  coraggio  e  in  gioventù   era  stato  forte  tira- 
tore di  pistola.     Da  poco   promosso   brigadiere,   si   offri  sponta- 
neamente di  andare  in  Sicilia.     Sbarcò  a  Trapani,  procedette  al 
disarmo  e  mandò   due   compagnie  a  Marsala,  dove   l'agitazione 
ancora  durava.     Eistabilito  l'ordine  superficialmente  e  fatti  de- 
cretare dal  governo  alcuni  lavori  nel  porto  di  Trapani,  e  premii 
d'incoraggiamento  fra  i  numerosi  proprietarii   di  quelle   saline, 
Letizia  fu  richiamato  a  Palermo  con  la  sua  colonna,  e  vi  giunse 
la  sera  del  10  maggio.     Avanti  di  partire,  ordinò  che  i  due  can- 
noni fossero  restituiti  allo  Stromboli,  che  ve  li  aveva  sbarcati  j 
i  quali  cannoni,  imbarcati  la  mattina   del  giorno  11  dal  Capri 
e  riconsegnati  nello  stesso  giorno  allo  Stromboli,  furono  la  causa, 
come  si  vedrà,  per  la  quale  Q-aribaldi  potè  sbarcare  a  Marsala 
senza  molestia,  da  parte  dei  legni  di  crociera.     Trapani  fu  quasi 
sempre  agitata  in  quegli  anni,  per  opera  principalmente  di  Vito 
Lombardo,  viceconsole  sardo  ed  oggi  impiegato  presso  quella  Ca- 
mera di  commercio.     Le  aspirazioni  liberali,  come  le  burle  alla 
polizia,  ebbero  sempre  per  capo  il  Lombardo,  che,  valendosi  della 
sua  qualità,  ne  proteggeva  e  favoriva  gli  autori.  Nel  1866,  tal  Ga- 
spare Orlando,  avuto  un  litigio  col   genero  del  comandante  del 
presidio,  promise  di  schiaffeggiarlo  pubblicamente.     E  lo  fece,  di 
pieno  giorno,  nella  via  principale,  mentre  quello  passeggiava  in- 
sieme a  un  militare  e  ad  un  funzionario  borbonico.     Lo  schiaf- 
feggiato si  volse,  con   la  caratteristica   espressione  ""Neh!  ch'er 
è?  . . .  „  e  l'Orlando  pacificamente  andò  via,  si  nascose  nella  casa 
del  Lombardo  e   di  là  emigrò  liberamente.     Poco  dopo,  tal  Ga- 
spare Fontana,  arrestato  con  altri  per  cospirazione  politica,  attuò 
con  singolare  forza  d'animo  il  disegno  di  fingersi  pazzo,  e  vi  riuscì. 
Al  tempo  della  guerra  di  Crimea,  passò  per  Trapani,  carico  di 


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truppa,  il  Vaf^  della  marina  militare  sarda,  comandato  da  Ulisse 
Isola.  Per  mezzo  del  Lombardo,  furono  strette  relazioni  politiclie, 
ma  il  Varo,  circondato  sempre  dalle  imbarcazioni  della  polizia, 
fu  costretto  a  partire  al  più  presto.  Curioso  il  fatto,  che  i  ma- 
rinai sardi,  cui  si  offersero  dei  fichi  d' India,  pensarono  di  man- 
giarli colla  buccia  e  le  spine  lacerarono  loro  la  bocca. 

La  polizia  faceva  anche  la  guerra  alle  barbe,  com'è  noto.  Il 
Lombardo  ne  portava  allora  una  assai  lunga,  e  non  voleva 
tagliarla.  Invitato  al  commissariato  di  polizia,  vi  trovò  il  bar- 
biere pronto  per  raderlo,  ma  egli  invocò  la  sua  qualità  di  console 
estero.  Il  commissario  restò  perplesso,  e  lo  mandò  via,  ma  scrisse 
a  Palermo,  invocando  istruzioni,  e  ci  volle  una  nota  del  luogo- 
tenente per  affermare  l'intangibilità  di  quella  barba  consolare! 

Tranne  a  Trapani  e  a  Messina,  non  vi  furono  in  tutta  l' Isola  che 
disordini  lievi,  repressi  dappertutto  con  poca  fatica.  A  Messina 
ci  fu  pure  un  vero  tentativo  di  rivolta,  sebbene  sin  dal  1^  aprile 
ne  fossero  stati  cacciati  gli  studenti,  i  quali,  prima  di  partire,  di- 
stribuirono a  migliaia  di  copie  questo  proclama,  redatto  dal  loro 
compagno  Francesco  Todaro,  studente  di  terzo  anno  di  medicina  : 

Gli  Studenti  ai  Messinesi. 

Messinesi!  —  Giacohè  l'amor  di  patria  va  registrato  come  a  delitto 
capitale,  e  la  parola  libertà  mette  alla  Genia  Borbonica  spavento  come  lo 
spettro  d'Agesilao,  noi  perchè  apostoli  siamo  espulsi  da  questa  bella  figlia 
dell'italico  suolo. 

Addio,  fratelli,  addio!  Qualunque  separazione  i  nostri  cuori  non  si  par- 
tiranno giammai  dai  vostri. 

Fratelli,  l'ora  è  sonata,  il  tricolorato  vessillo,  inalberato  nell'alta  Ita- 
lia, non  tarderà  a  sventolare  sulle  nostre  mura.  Al  vostro  appello  le  no- 
stre braccia,  i  nostri  petti  son  vostri. 

Ritorneremo  dalla  campagna,  come  leoni  daUa  foresta:  combatteremo, 
la  patria  sarà  libera  e  noi  prodi  soldati. 

Addio,  fratelli,  addio!  Gridate  con  noi:  Vìva  l'Italia. 

1  disordini  di  Messina  furono  provocati  in  parte  dall'  insipienza 
dell'intendente  Artale,  il  quale,  accaduti  i  primi  moti,  propose  per 
domarli  la  formazione  di  una  guardia  civica  e  lo  stato  d'as- 
sedio insieme!  Egli  non  andava  punto  di  accordo  col  mare- 
sciallo Russo,  comandante  della  cittadella.  Nei  giorni  8,  9  e  10 
aprile,  i  torbidi  ebbero  dolorose  conseguenze  di  morti  e  feriti, 
onde  bisognò  richiamare  l' intendente  e  proclamarvi  davvero   lo 

Dz  Cesasx.  La  fine  di  un  Regno  -  Voi.  II.  18 


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stato  d'assedio.  Nel  maresciallo  Russo  si  concentrarono  tutt'i 
poteri,  ma  egli,  alla  sua  volta,  non  andava  di  accordo  col  ge- 
nerale Gaetano  Afan  de  Rivera,  comandante  la  terza  divisione 
del  corpo  d'esercito.  Non  esitò  a  minacciare  il  bombardamento 
della  città  ;  e  poiché  era  rozzo  e  spavaldo,  si  temette  che  volesse 
veramente  eseguire  la  minaccia.  I  consoli  di  Francia  e  d' Inghil- 
terra avrebbero  fatte  delle  proteste,  non  solo  a  difesa  dei  proprii 
connazionali,  ma  anche  della  popolazione  di  Messina,  ed  è  vero- 
simile anche  questo,  perchè,  dopo  le  sanguinose  repressioni  del 
giorno  10,  non  si  temeva  che  i  tumulti  potessero  rinnovarsi. 
A  Catania  i  disordini  furono  lievissimi  e  vennero  facilmente 
sedati.  Intendente  e  comandante  militare  andavano  in  pieno  ac- 
cordo. Intendente  era  il  principe  di  Fitalia,  nipote  di  Ruggiero 
Settimo,  succeduto  ad  Angelo  Panebianco  ;  e  comandante,  il  gene- 
rale Tommaso  Clary,  nipote  dell'arcivescovo  di  Bari  e  figliuolo  del 
vecchio  generale.  Il  Olary  mori  a  Roma  nel  marzo  del  1878, 
quasi  ottantenne.  Quando  io  lo  conobbi,  era  un  amabile  vec- 
chio, pieno  di  vivacità  e  non  privo  d' ingegno  :  borbonico  sincero 
e  convinto,  non  a  torto,  che  senza  l'opera  del  Piemonte,  occulta 
da  principio,  palese,  fin  troppo,  dopo  Marsala,  e  senza  l'aiuto 
morale  dell'  Inghilterra  e  della  Francia,  la  rivoluzione  in  Sicilia 
non  avrebbe  avuta  fortuna.  Nel  1860  il  Clary  contava  fra  i 
migliori  generali  dell'esercito  e  da  un  anno  comandava  la  bri- 
gata di  Catania.  In  data  16  aprile  egli  riferiva  al  luogotenente 
che  il  suo  vero  flagello  a  Catania,  era  quel  vice  console  inglese 
leans,  come  suo  flagello  a  Messina,  dove  venne  destinato  più 
tardi  al  comando  della  cittadella,  era  quell'altro  console  inglese, 
Riccards,  messo  su,  diceva  egli,  dai  fratelli  Leila,  console  l'uno 
e  viceconsole  l'altro  di  Sardegna.  E  già  prima  del  Clary,  il  ma- 
resciallo Russo,  con  suo  rapporto  del  19  aprile,  li  aveva  denun- 
ziati, ma  inutilmente. 

Il  governo  dette  prova  di  energia  dappertutto;  e  Rosolino 
Pilo,  sbarcato  la  sera  del  9  aprile  a  Messina,  con  pochi  compa- 
gni, aveva  dovuto,  per  sottrarsi  alla  caccia  della  polizia,  tro- 
vare scampo  nelle  montagne  di  Palermo,  con  la  convinzione, 
come  si  è  detto  innanzi,  ohe  si  trattava  oramai  di  partita  ri- 
messa a  miglior  tempo,  salvo  che  Graribaldi,  del  quale  affer- 
mava la  prossima   venuta,   non   fosse   riuscito  a  riaccendere   il 


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fuoco.  Ristabilito  l'ordine,  il  Senato  di  Messina  votò  il  17  aprile 
■un  indirizzo  di  fedeltà  al  Re,  pregandolo  di  non  voler  chiamare 
responsabile  tutta  la  città  del  fatto  di  pochissimi  cattivi,  ai  qtiali 
stava  a  cuore  l'appropriazione  delValtrui  fortuna,  e  supplicandolo 
perchè  facesse  tornar  tutto  nelV ordinario  stato^  onde  animare  il 
commercio,  e  còsi  nella  circolazione  dei  valori^  trovare  maggior 
utile.  Questo  indirizzo,  ohe  portava  le  firme  del  sindaco  Felice 
Silipigni  e  dei  decurioni,  principino  di  Mola,  baronello  La  Corte, 
Luigi  Benoit  e  Giuseppe  Castelli,  non  fu  giudicato  abbastanza 
ortodosso,  facendosi  in  esso  qualche  allusione  poco  benevola  al- 
l'autorità militare,  onde  il  sindaco  venne  destituito.  E  poiché 
il  Senato  messinese  chiedeva  lavori  per  aiutare  la  povera  gen- 
te, il  Re  concesse  un  prestito  di  quattromila  ducati,  al  quale  atto 
di  regia  munificenza  il  Senato  rispose  il  giorno  22  con  un  al- 
tro indirizzo  più  enfatico,  di  fedeltà  e  riconoscenza.  Una  mo- 
desta largizione  di  benefizii  immediati,  e  la  promessa  di  pros- 
simi lavori  pubblici  furono  abilmente  sfruttate  dal  governo  in 
quei  giorni.  A  Messina  venne  infatti  soppresso  il  doppio  dazio  di 
stallaggio  sui  depositi  del  porto  franco,  e  condonate  multe  ai  con- 
tribuenti di  fondiaria.  A  Catania  fu  promessa  una  strada  fer- 
rata, di  cui  l'Isola  non  aveva  neppure  l'idea,  un  nuovo  porto 
con  scala  franca,  il  tribunale  di  commercio,  una  cassa  di  sconto, 
e  la  promozione  della  sede  vescovile  a  metropolitana,  E  poiché 
nell'anno  innanzi  era  stata  piuttosto  scarsa  la  raccolta  del  grano, 
e  piuttosto  alti  ne  erano  i  prezzi,  accresciuti,  naturalmente,  dalle 
continue  agitazioni  politiche,  il  Re  concesse  un  prestito  di  do- 
dicimila ducati  alla  città  di  Palermo,  e  alcune  franchigie  doga- 
nali. Tutti  i  comuni  dell'  Isola  furono  poi  assoluti  dal  pagamento 
di  un  residuo  della  tassa  sulle  aperture,  già  abolita. 

Ma  a  Napoli  non  si  era  tranquilli.  Il  Re  mandava  istru- 
zioni quotidiane  direttamente  a  Castelcicala,  non  solo  di  carat- 
tere militare,  ma  anche  di  carattere  politico  e  amministrativo 
al  doppio  fine  di  combattere  le  bande,  e  di  prevenire  il  te- 
muto sbarco  di  Garibaldi.  Il  governo  di  Napoli,  informato  da 
qualche  mese,  ma  imprecisamente  dei  disegni  di  lui,  acquistò 
la  certezza  della  sua  venuta  nel  Regno,  nei  primi  giorni  di 
maggio,  e  mandava  al  luogotenente  istruzioni  e  moniti  anche 
severi,  parendogli   che  il  Castelcicala    non    si   rendesse   abba- 


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stanza  conto  della  gravità  della  situazione ,  dopo  il  suo  ri- 
torno a  Palermo.  E  il  principe  forse  punto  dal  rimorso  d'aver 
assicurato  il  Re,  alla  vigilia  del  4  aprile,  clie  la  Sicilia  era 
tranquilla,  inclinava,  anclie  per  l'indole  sua  flemmatica,  ad 
attenuare  gli  avvenimenti.  Egli  non  dubitava  infatti  di  scri- 
vere a  Napoli  che  le  bande  erano  formate  dì  ladri,  e  non 
d' insorti  politici,  e  cbe  non  dovevano  dar  pensiero,  perchè,  incal- 
zate ogni  giorno  dalle  colonne  mobili,  si  scioglievano  via  via, 
e  più  tardi  scrisse  che  a  Carini  erano  state  addirittura  sgomi- 
nate. Ma  il  vero  è,  che  benché  egli  fosse  il  comandante  ge- 
nerale delle  armi,  e  in  quei  giorni  avesse  assunto  il  titolo  di 
"  generale  in  capo  „  non  riusciva  neppure  a  domare  le  riva- 
lità fra  i  generali  da  lui  dipendenti.  A  Messina  erano  note 
le  gelosie  fra  il  Russo  e  l'Afan  de  Rivera,  le  quali  degenera- 
rono in  aperta  rottura,  sino  al  punto  che  il  Russo  fu  do- 
vuto richiamare.  A  Palermo,  il  Salzano  seguitava  ad  avere  i 
pieni  poteri,  e  ciò  non  andava  a  garbo  dei  generali  Cataldo  e 
Primerano,  i  quali  a  capo  delle  colonne  mobili,  nei  circondarli 
di  Termini  e  di  Cefalù,  non  riuscivano  che  a  stancare  inutil- 
mente le  truppe.  In  altre  provinole,  i  comandanti  non  anda- 
vano d'accordo  con  gl'intendenti.  Il  governo  di  Sicilia  doveva 
poi  guardarsi  anche  dagli  impiegati  proprii,  i  quali  erano  si- 
ciliani quasi  tutti.  Il  giorno  14  aprile,  il  generale  Clary  scri- 
veva da  Catania  al  luogotenente  queste  caratteristiche  parole  : 
"  Gl'impiegati  Siciliani  hanno  insito  indistintamente  il  sentimento 
siciliano,  cioè  voler  essere  indipendenti  da  Napoli,  e  questi  sono 
i  buoni.  Gli  altri  servono  pel  soldo,  ma  al  momento  di  un  movi- 
mento spariscono,  per  gettarsi  al  partito  che  potrebbe  restar  vinci- 
tore y,.  E  quando  dopo  l'attacco  sanguinoso  di  Carini,  parve  al 
luogotenente  che  l'ordine  fosse  ristabilito,  abolì  di  sua  testa  lo 
stato  d'assedio  a  Palermo  e  nel  distretto,  e  in  un  proclama  alla 
popolazione,  dopo  di  aver  ricordato  l'indulto  concesso  dal  Re 
per  tutti  quei  traviati  che  avessero  deposte  volontariamente  le  armi,, 
e  dopo  la  constatata  ripristinazione  dell'ordine,  scriveva  :  "  Ri- 
mane tuttavia  un  dovere  a  compiersi,  quello  di  far  cessare  le  scor- 
rerie dei  più  tristi  delle  disciolte  bande,  i  quali  non  credendo  di 
tornare  quieti  alle  case  loro,  deposte  le  speranze  del  bottino,  han 
posto  mano  alla  vita  e  alle  robe  altrui  e  ad  abominevoli  fatti  y^. 
Ma  in  quel  giorno  stesso  (3  maggio)  non  mancò  di  richiamare 


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in  vigore  le  ordinanze  di  Filangieri  per  gli  asportatori  e  deten- 
tori d'armi  senza  permesso,  per  effetto  delle  quali,  i  contrav- 
ventori, sottoposti  a  consigli  di  guerra  subitanei,  potevano,  com'è 
noto,  essere  fucilati. 

In  Corte  erano  sempre  vive  le  inquietudini  ;  e  però  non  si 
cessava  di  mandar  sempre  istruzioni  e  piani  al  Castelcicala,  il 
quale  cominciò  a  comprendere  che  il  Re  e  i  ministri  non  ave- 
vano più  fiducia  in  lui  ;  tantoppiù  che  sapeva  essere  gli  ordi- 
ni e  i  moniti  più  severi  suggeriti  al  Re  dal  principe  di  Satriano, 
singolarmente  quelli  che  si  riferivano  ai  movimenti  delle  truppe  ; 
e  non  ignorava  di  essere  stata  offerta  ripetute  volte  al  Filangieri 
la  luogotenenza  di  Sicilia.  I  movimenti  militari  sembravano 
ordinati  apposta  per  demoralizzare  le  truppe,  rallentando  quei 
vincoli  di  disciplina,  che  nell'esercito  napoletano,  il  quale  era 
in  Sicilia  esercito  di  occupazione,  non  erano  forti.  Per  un  ma- 
linteso sentimento  del  proprio  dovere  il  Castelcicala  non  mandò 
le  dimissioni;  egli  si  mostrava  convinto  che  avrebbe  col  suo 
sistema  ristabilito  l'ordine  nell'  Isola,  e  vi  sarebbe  forse  riuscito 
se  avesse  avuto  altri  generali  al  suo  comando.  Di  soldati  non  ave- 
va difetto  :  in  Sicilia  se  ne  contavano  più  di  trehtamila  negli 
ultimi  giorni  di  aprile,  comprese  le  guarnigioni  delle  fortezze. 

Rosolino  Pilo  teneva  accese  le  speranze  dei  liberali  e  le  auda- 
cie degli  insorti  ;  egli  affermava  sempre  imminente  l'arrivo  di  Ga- 
ribaldi con  un  esercito  di  volontarii  bene  armati  ;  e  le  afferma- 
55Ìoni  sue  erano  improntate  a  tanta  sicurezza,  che,  diffuse  con 
grande  abilità,  anche  fra  i  soldati,  fecero  divenire  sentimento  ge- 
nerale nell'  Isola,  in  quella  prima  settimana  di  maggio,  che  Gari- 
baldi fosse  veramente  alle  porte.  Un  giorno  lo  si  diceva  sbarcato  a 
Trapani  ;  un  altro  a  Sciacca  ;  poi  a  Girgenti.  La  fantasia  meridio- 
nale lavorava  in  tutti  i  modi,  e  nelle  campagne  la  polizia  non  riu- 
sciva più  a  garantire  la  sicurezza.  Si  rompevano  i  fili  del  telegrafo  ; 
si  sequestravano  e  svaligiavano  le  corriere  postali  e  i  procaccia  ;  si 
compivano  atti  di  rapina,  credendosi  di  combattere  cosi  il  governo.  * 
Le  squadre  ingrossavano,  reclutando  gente  d'ogni  risma  e  la 
mafia,  che  in  quei  giorni  assumeva  un'aria  addirittura  provoca- 
trice, si  dava  un  gran  moto.  Si  stancava  maledettamente  la  trup- 
pa con  imboscate  e  marce  faticose.  I  distretti  di  Cefalù  e  di  Ter- 
mini erano  agitati  più  che  mai,  e  i  generali  Primerano  e  Cataldo, 


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clie  comandavano  quelle  colonne,  facevano  eseguire  marce  senza 
costrutto.  Le  notizie  che  pervenivano  dall'interno  dell'Isola, 
erano  quasi  paurose  ;  dappertutto  la  convinzione  che  Garibaldi  era 
alle  porte  ;  dappertutto  disordini  e  temerarie  resistenze  all'autorità. 
Maniscalco  non  era  più  in  grado  di  frenare  la  marea.  Nella  notte 
del  6  maggio  un  pugno  di  insorti  attacca  gli  avamposti  di  Mon- 
reale ;  è  respinto,  ma  il  fatto  accresce  in  Palermo  l'allarme  della 
polizia  e  le  speranze  dei  liberali.  Tutti  quelli  che  possono  fuggire 
lasciano  la  città.  Il  giorno  9,  il  Comitato  ordina  nuovamente, 
con  cartellini  anonimi,  che  nessuno  debba  passare  per  via  Toledo 
e  tutti  debbano  correre  in  via  Macqueda.  L'ordine,  manco  a  dirlo, 
è  eseguito  anche  questa  volta  :  via  Macqueda  rigurgita  di  gente  ; 
le  signore  ai  balconi  sventolano  i  fazzoletti  ;  si  grida  dovunque  : 
Viva  l'Italia  e  Viva  Vittorio  Emanuele  ;  accorrono  pattuglie  di  sol- 
dati, ma,  incalzate  dalla  folla,  son  costrette  a  far  uso  delle  armi. 
Yi  è  un  morto  e  vi  sono  tre  feriti.  Vengono  prese  nuove  misure 
per  rinforzare  la  guarnigione  di  Palermo,  e  la  sera  del  10  vi  rien- 
trano le  colonne  del  generale  Letizia  e  del  maggiore  d'Ambrosio. 
Nei  porti  di  mare  erano  non  meno  frequenti  gli  allarmi,  sia  che  vi 
apparisse  qualche  legno  sardo  con  bandiera  tricolore,  sia  che  spun- 
tasse qualche  legno  inglese.  La  profonda  persuasione  che  l'In- 
ghilterra favoriva  la  rivoluzione  paralizzava  il  governo.  Si  vedeva 
la  mano  degl'  inglesi  dappertutto,  anche  nelle  cose  più  insignifican- 
ti. Un  po'  la  tradizione  dei  Borboni  di  Napoli  e  di  Francia,  che  ve- 
devano nell'  Inghilterra  il  costante  nemico  ;  un  po'  la  condotta 
dei  consoli  inglesi  di  Palermo,  Messina  e  Catania,  e  un  po'  la  pre- 
senza della  flotta  Brittannica,  che  si  trovava  a  protezione  degli 
interessi  inglesi,  cosi  numerosi  nell'  Isola,  concorrevano  ad  autoriz- 
zare questi  sospetti.  Maniscalco  restò  sulla  breccia  fino  all'ul- 
timo, mostrando  di  non  aver  paura,  ma  senza  però  nascondersi 
la  gravità  estrema  della  situazione,  e  persuaso  che  se  veramente 
Garibaldi  fosse  sbarcato,  con  molti  uomini  ed  armi,  l'Isola  sa- 
rebbe insorta  come  un  sol  uomo,  se  non  si  fosse  fatta  tabula  rasa 
'  dei  generali,  a  cominciare  dal  comandante  in  capo. 

Incalzando  le  informazioni  sul  prossimo  sbarco  di  Garibaldi, 
tutta  la  truppa  fu  mobilizzata  in  colonne,  sotto  il  comando  di 
un  generale,  di  un  colonnello  o  di  un  maggiore,  secondo  che 
erano  più  o  meno  numerose.     La  colonna  destinata  ad   operare 


-  199  - 

nel  circondario  di  Trapani,  ebbe  l'ordine  di  marciare  per  Calata- 
fimi  e  partì  all'alba  del  6  maggio.  Ne  aveva  il  comando  Fran- 
cesco Landi,  da  poco  promosso  generale.  Contava  circa  settant  an- 
ni, aveva  preso  parte  ai  moti  del  1820,  a  stento  montava  a  ca- 
vallo e  preferiva  andare  in  carrozza.  Se  il  comando  non  fosse  stato 
a  lui  affidato,  sarebbe  toccato  al  Von  Mechel,  straniero,  e  questa 
considerazione  fece  si,  che  nel  Consiglio  di  guerra  convocato  dal 
luogotenente  e  al  quale  intervenne  pure  il  consigliere  Galletti, 
fosse  stato  deciso  di  dare  il  comando  di  quella  colonna  al  Landi, 
il  quale,  nonostante  l'età,  era  in  fama  di  buon  militare.  Aveva 
comandato  per  alcuni  anni  il  sesto  reggimento  fanteria,  Farnese. 
Landi,  partito  nelle  prime  ore  del  giorno  6,  ascoltò  la  messa 
a  Monreale,  perchè  era  domenica,  e  s'incamminò  a  piccole  tap- 
pe per  Oalatafimi.  I  fili  e  i  pali  telegrafici  erano  quasi  dap- 
pertutto spezzati  ;  le  poste  non  funzionavano  e  le  campagne  in- 
vase da  insorti  e  malviventi,  che  su  per  giù  erano  molte  volte  la 
stessa  cosa.  Landi  procedeva  con  grandi  cautele,  non  avendo  uffi- 
ciali di  stato  maggiore,  né  servizio  d'informazioni  e  d'ambulanza. 
Le  corrispondenze  doveva  mandarle  e  riceverle  con  pedoni, 
per  mezzo  dei  giudici  regi  e  dei  sottointendenti.  Pare  stra- 
no che,  essendo  Palermo  la  base  di  operazione  della  colonna  di 
lui,  ed  essendo  questa  diretta  a  Calatafimi,  cioè  alla  distanza  di 
quarantaquattro  miglia,  circa  ottanta  chilometri,  non  si  fosse  prov- 
veduto, con  tanta  cavalleria,  ad  un  servizio  rapido  e  sicuro  di 
informazioni  tra  quel  corpo  e  il  comando  in  capo.  Landi  arrivò 
la  mattina  del  12  ad  Alcamo,  dove  fu  ospite  del  cavalier  Luigi 
Ferro,  ricevitore  generale  della  provincia  di  Trapani,  persona 
assai  facoltosa  e  molto  amata  dai  suoi  concittadini.  Era  borbo- 
nico convinto,  benché  avesse  dato  in  moglie  l'unica  figliuola  al 
barone  di  San  Giuseppe,  liberale  ed  intimo  del  barone  Mokarta 
di  Trapani,  ch'era  un  Fardella.  Il  San  Giuseppe  tenne  nascosto 
il  Mokarta  nei  locali  della  ricevitoria,  senza  che  il  suocero  potesse 
sospettarne  nulla.  I  fratelli  Santanna,  nativi  anch'essi  di  Alcamo, 
contavano  tra  i  liberali  della  città,  anzi  il  maggiore  di  essi,  Ste- 
fano, che  aveva  titolo  di  barone,  fu  colui  che  condusse  la  prima 
squadra  incontro  a  Garibaldi.  Naturalmente  tra  il  Ferro  e  i  San- 
tanna non  vi  era  buon  sangue,  ma  il  Ferro  non  aveva  paura,  e 
volle  rimanere  in  Alcamo,  per  meglio  seguire  le  vicende  di  quei 
giorni.    Sapendo  che  il  Landi  non  poteva  rimanere  lungo  tempo 


—  200  — 

a  cavallo,  offri  la  sua  vettura,  tirata  da  due  forti  sauri,  e  cosi 
Laudi  parti  per  Oalatafìmi  la  notte  del  12,  e  vi  arrivò  all'alba 
del  13.  Appena  giunto,  scrisse  al  generale  in  capo  una  lettera 
eh'  è  una  querimonia  dalla  prima  all'ultima  parola. 

Le  istruzioni  date  a  lui  e  al  colonnello  Donati,  che  coman- 
dava il  reggimento  dei  carabinieri,  erano  d'  "  impedire  uno  sbarco 
di  emigrati,  vociferato  di  volersi  effettuare  lungo  il  littorale  tra 
Mazzara  e  Capo  San  Vito„.  Ho  il  testo  autografo  di  quelle  istru- 
zioni, firmato  dal  Castelcicala.  ^  Il  governo  di  Sicilia  era  dunque 
informato,  non  solo  dello  sbarco,  ma  del  luogo  dove  approssi- 
mativamente si  sarebbe  compiuto.  Come  potè  avvenire  che,  sa- 
pendosi tutto  questo,  e  disponendosi  la  sollecita  partenza  di  Laudi 
per  Oalatafìmi  e  Trapani,  venisse  richiamata  la  colonna  del  Letizia, 
proprio  da  Trapani  e  da  Marsala?  Riesce  inesplicabile,  quando 
non  si  voglia  tener  presente  la  confusione  regnante  nel  comando 
generale  di  Palermo,  diviso  fra  il  luogotenente  e  il  generale  Sal- 
zano. Difatti,  le  istruzioni  date  da  Castelcicala  al  Laudi  furono 
accompagnate  da  un  altro  foglio  di  istruzioni,  minuziose  e  pro- 
lisse, date  dal  Salzano,  le  quali  sembravano  fatte  apposta  per 
imbrogliare  la  testa  di  quel  generale.  ^  E  quando  lo  sbarco 
fu  compiuto,  senza  che  riuscisse  alla  flotta  di  crociera  impe- 
dirlo e  assai  meno  alla  colonna  del  Laudi,  la  quale  giunse,  ri- 
peto, all'alba  del  giorno  13  a  Oalatafìmi,  il  generale  in  capo 
mandò,  la  mattina  del  12,  altre  istruzioni  al  Laudi:  ma  queste 
non  giunsero  che  alle  nove  antimeridiane  del  giorno  14,  im- 
piegando più  di  quarantott'ore  !  ^ 

Il  giorno  prima  di  ricevere  queste  ultime  istruzioni.  Laudi 
aveva  scritta  al  generale  in  capo  una  lettera,  la  quale,  come  ho 
detto,  era  tutta  una  querimonia.  Si  doleva  di  non  aver  nep- 
pure un  ufficiale  di  stato  maggiore,  ne  servizio  d'ambulanza, 
né  di  comunicazione.  "  Per  trasmettere  all'È.  V.  questo  mio 
rispettoso  foglio^  egli  dicea,  non  ho  trovato  altro  mezzo  che  quello 
di  spiccare  un  pedone  al  sottointendente  di  Alcamo,  interessandolo 
di  procurare  egli  altro  mezzo  per  farlo  giungere  all'  E.  V.  „.  Si 
doleva  pure  che  il  promessogli  battaglione  del  decimo  di  linea  non 


'  Archivio  Landi. 
»  Id  id.  3  Id.  id. 


—  201  - 

era  ancora  apparso,  e  dichiarava  di  non  trovar  prudente,  prima 
che  arrivasse  questo  battaglione,  di  muovere  sopra  Salemi,  '^^dove 
evvi  una  squadra  armata,  composta  non  dagli  sbarcati,  ma  di  gente 
raccogliticcia  „ .  Egli  appariva  ignaro  dei  movimenti  della  banda 
sbarcata.  Solo  da  alcune  vaghe  relazioni  il  Landi  congetturava 
che  la  detta  banda  siasi  piazzata  nella  Casina  di  Fardella,  nelle 
vicinanze  di  Trapani,  pur  protestando  però  di  non  prestarvi  fede, 
""poiché  poca  0  nessuna  fiducia  ripongo  su  i  pedoni  esploratori  di 
questo  paese  (i  quali  sono  sempre  in  contraddizione  fra  loro),  dove 
lo  spirito  pubblico,  specialmente  della  plebe,  è  all'eccesso  esaltato, 
tanto,  che  ieri  sera  già  partì  una  quota  di  facinorosi  di  questo 
Comune,  per  tmirsi  alle  squadre  „ .  ^ 

Il  giorno  14  scriveva:  "  Le  masse  degV insorti  crescono  sempre 
di  più,  e  vanno  a  stazionarsi  tutte  a  Salemi,  dove  sembra  che  abbiano 
fissato  quartiere  generale,  ivi  trovansi  pure  gli  emigrati,  sbarcati 
a  Marsala  „ .  Solo  in  quel  giorno  gli  riusci  di  sapere  la  ve- 
rità. Riferiva  che  il  dì  seguente  avrebbe  marciato  sopra  Salemi, 
ma  poi,  quasi  pentito,  modificava  la  sua  risoluzione.  Temeva  ag- 
guati attraverso  le  folte  boscaglie  di  ulivi,  e  dichiarava  perciò  che 
più  prudente  consiglio  sarebbe  stato  quello  di  attendere  il  ne- 
mico a  Calatafimi,  posizione  tutta  militare,  molto  vantaggiosa  al- 
l'offensiva e  alla  difensiva,  ed  essenzialmente  necessaria  per  im- 
pedire che  le  bande  si  scaricassero  (sic)  sopra  Palermo  da  questo 
lato  della  consolare  „.^  Chiedeva  da  ultimo  che  un'altra  colonna 
fosse  uscita  da  Palermo  per  la  linea  di  Partinico  ed  Alcamo,  per 
prendere  il  nemico  alle  spalle.  "  Tentare  un  assalto  a  Salemi 
sarebbe  un'imprudenza  ed  un  avventurare  la  mia  colonna  fra  la 
imboscata  nemica.  ^  È  curioso  che  di  questo  rapporto,  il  quale 
segna  il  numero  43,  ed  è  datato  •  da  Calatafimi,  la  mattina  stessa 
della  battaglia  (16  maggio)  siano  state  fatte  dal  generale  tre 
bozze,  tutte  di  sua  mano,  e  in  ciascuna  delle  quali  si  nota  lo 
studio  suo  di  dimostrare  che  l'attacco  sopra  Salemi  sarebbe  la 
maggiore  delle  imprudenze. 

Questo  era  il  generale,  incaricato  di  sostenere  il  primo  urto 
dei  Mille.  Egli  non  possedeva  nessuna  di  quelle  qualità  teme- 
rarie che  decidono  delle  vittorie  ;  sentiva  di  trovarsi  in  un  paese 


^  Archivio  Landi. 

«  Id.  id.  3  id.  id. 


—  202  — 

nemico  e  di  non  potersi  fidare  di  nessuno  ;  non  aveva  stato  mag- 
giore, ne  servizio  d' informazioni  e  d'esplorazioni  ;  nò  ancora  sa- 
peva il  numero  degli  sbarcati.  Di  Garibaldi  gli  repugna  scri- 
vere il  nome,  e  solo  in  una  parte  della  sua  corrispondenza  parla 
dei  ganhaldesi.  Più  che  a  vincere,  egli  pensava  a  lasciarsi  li- 
bera la  ritirata  su  Palermo,  cosi  lontana  e  che,  giova  ricordarlo, 
era  la  sua  base  di  operazione  ;  forse  s' illuse  di  mettere  in  fuga 
gli  "  sbarcati  „  come  diceva  lui,  al  primo  urto  ;  ma  dopo  la  corag- 
giosa e  tenace  resistenza  di  quelli,  mutò  consiglio  e  non  pensò  che 
alla  ritirata.  Ad  un  vecchio  generale,  pieno  d' incertezze  e  di  cau- 
tele, che  seguiva  in  carrozza  il  suo  esercito,  mettete  di  fronte  un 
duce  come  Garibaldi,  e  la  giornata  di  Calatafimi,  nella  quale  com- 
battono da  una  parte  mille  uomini,  male  armati  e  con  due  soli  vec- 
chi cannoni,  e  dall'altra  poco  meno  di  quattromila  con  artiglierie, 
è  troppo  spiegata,  senza  bisogno  d' inventar  tradimenti  e  traditori. 

Fin  dal  18  aprile  una  parte  della  flotta  era  stata  destinata 
in  crociera  sulle  tre  coste.  Il  governo  aveva  noleggiati  quattro 
piroscafi  della  società  Florio  e  due  della  società  Napoletana;  li 
aveva  armati  di  buoni  cannoni,  e  datone  il  comando  a  giovani 
ufficiali  della  marina  da  guerra.  Tutta  la  flotta  di  crociera  era 
formata  da  quattordici  bastimenti  e  due  rimorchiatori,  e  la  costa 
più  guardata  era  quella  di  occidente,  da  Capo  San  Vito  a  Maz- 
zara,  dove  si  temeva  lo  sbarco,  con  vigilanza  speciale  sulle  Ega- 
di. Vi  erano  destinate  la  fregata  Partenone  con  sessanta  cannoni  ; 
la  corvetta  Valoroso  con  dodici,  entrambe  a  vela  ;  la  pirocor- 
vetta Stromboli  con  sei,  e  il  vapore  Capri,  già  mercantile,  coman- 
dato da  Marino  Caracciolo,  con  due  cannoni.     Al  sud  di  Mazzara 

.  .  .  ' 

sino  al  Capo  Passaro,  incrociavano  altri  legni,  tra  i  quali  V Ar- 
chimede e  V Ercole.  Della  crociera  occidentale  aveva  il  comando 
il  capitano  di  vascello  Francesco  Cossovich  a  bordo  della  Par- 
tenone] e  comandante  in  secondo  era  quello  stesso  Eduardo  d'A- 
mico, che,  sei  anni  dopo,  fu  capo  delio  stato  maggiore  di  Per- 
sane a  Lissa.  Lo  Stromboli  era  comandato  da  Guglielmo  Acton, 
ohe  vi  prese  imbarco  fin  dal  18  aprile.  Egli  aveva  come  sot- 
totenente di  vascello  Cesare  de  Liguoro  ;  e  a  bordo  del  Valoroso, 
comandato  da  Carlo  Longo,  c'era,  collo  stesso  grado  di  sottote- 
nente, Enrico  Accinni.  De  Liguoro  e  Accinni,  saliti  ai  più 
alti    gradi   della    marina    italiana,   sono   fra   i  pochi    superstiti 


-  203  - 

di  quella  giornata.  Non  scarsa  dunque  la  crociera,  ma  neppure 
numerosa,  tenuto  conto  della  lunghezza  della  costa.  Se  nessuno 
dei  legni  poteva  dirsi  adatto  a  un  servizio,  che  richiede  navi 
agili,  rapide  e  bene  armate,  la  divisione  era  nondimeno  ricca  di 
ottanta  bocche  da  fuoco,  ed  aveva  inoltre  il  sussidio  dei  semafori. 
Lo  Stromboli,  considerato  il  bastimento  più  forte,  era  una  pirocor- 
vetta a  ruote  piuttosto  lenta,  e  la  Partenope,  una  fregata  a  vela, 
che,  in  caso  di  bisogno,  doveva  esser  rimorchiata  dal  primo  o 
dal  Capri.  La  divisione  non  aveva  truppa  da  sbarco,  perchè  il 
governo  non  previde  il  caso  che  i  legni  di  crociera  dovessero 
giungere  a  sbarco  compiuto,  come  avvenne.  Per  il  governo  la 
crociera  doveva  soltanto  impedire  "  ad  ogni  costo,  lo  sbarco  dei  fili- 
bustieri, respingendoli  colla  forza,  catturando  loro  i  legni,  e  di  tutto 
dando  comunicazione  telegrafica  a  Napoli  e  a  Palermo  „ .  Erano 
queste  le  istruzioni  date  ai  comandanti.  Ve  n'  era  poi  una  riserva- 
tissima,  quella  che  "  imbattendosi  in  alto  mare  o  nei  porti  dell'Isola 
con  legni  esteri,  se  da  guerra,  li  sorvegliassero  con  garbo,  onde  non 
compromettere  il  real  governo  ;  e,  occorrendo  li  seguissero,  dovendo 
sempre  opporsi  a  sbarco  di  gente  armata;  e  se  mercantili,  seguirli 
dappresso,  prevenendo  qualunque  intenzione  ostile  „ .  E  v'ha  di  più. 
Il  giorno  10  maggio  Castelcicala  aveva  avvisato  coi  semafori  i 
comandanti  delle  divisioni  di  crociera,  che  Garibaldi  era  partito 
con  la  spedizione  da  Quarto,  e  che  però  stessero  bene  in  sull'avviso. 
Nella  notte  dal  10  agli  1 1,  due  legni  della  crociera  occidentale  usci- 
rono dal  porto  di  Marsala  e  fecero  rotta  per  Sciacca  e  Girgenti. 
Lo  Stromboli,  che  era  a  Sciacca,  fece  rotta  la  mattina  degli  11 
per  Trapani,  per  ricaricare  dal  Capri  i  due  cannoni  lasciati  dal 
Letizia.  Il  caricamento  di  questi  cannoni  portò  via  due  ore. 
Lo  Stromboli  incontrò  il  Capri  fra  le  11  Vg  ®  mezzogiorno;  e  i 
due  comandanti  Acton  e  Caracciolo  si  scambiarono  anche  le  no- 
tizie della  crociera  ;  dopo  di  che  lo  Stromboli  lentamente  prosegui 
la  rotta  per  Trapani,  dove  andava  a  far  carbone,  e  il  Capri  per 
Soiacca.  Giunto  all'altezza  di  Marsala,  ch'erano  circa  le  ore  due, 
Acton  scorse  nel  porto,  oltre  a  due  Gun-  Wessels,  qualche  altra 
cosa,  di  cui  non  seppe  dapprima  rendersi  conto.  Avvicinandosi 
a  tutto  vapore,  distinse,  via  via,  due  legni  mercantili,  che  com- 
pivano operazioni  di  sbarco  ;  e  più  lontano,  sul  porto,  uomini 
armati,  alcuni  dei  quali  vestiti  di  rosso.  ^Credette  da  principio 
che  fossero  marinari    inglesi,    sbarcati  dalle  cannoniere.     Ma  a 


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misura  che  si  avvicinava,  cominciò  ad  avere  un'  idea  più  esatta 
di  quanto  avveniva,  mentre  i  semafori  della  Favignana  e  della 
Colombaja  segnalavano  la  discesa  di  gente  armata  a  Marsala. 
Non  vi  fu  più  dubbio  per  lui:  la  tanto  attesa  e  temuta  spedi- 
zione di  Garibaldi,  di  quel  G-aribaldi,  cbe  egli,  Acton,  prendendo 
il  comando  dello  Stromboli^  aveva  promesso  al  Be  di  buttare  in 
mare,  si  compiva  sotto  i  suoi  occbi  !  Appressandosi  di  più  all'an- 
coraggio, Acton  mise  la  nave  in  assetto  di  combattimento,  facendo 
abbattere  la  portelleria  dei  cannoni.  I  due  Gun-Wessels  erano 
r  Intrepid  e  VArgus.  Il  comandante  del  primo  segnalò  di  non 
cominciare  il  fuoco  prima  cbe  fossero  tornati  a  bordo  alcuni 
suoi  marinari,  e  Acton  per  cortesia  internazionale  attese,  ma  per 
poco.  Ordinò  al  sottotenente  De  Liguoro  di  andare  a  ricono- 
scere meglio  i  vapori  misteriosi,  e  a  far  noto  ai  comandanti  delle 
cannoniere  inglesi,  cbe  avrebbe  aperto  il  fuoco  senza  attendere 
altro.  Tornò  De  Liguoro  e  riferì  che  lo  sbarco  era  quasi  com- 
piuto, e  che  da  quei  due  vapori  con  bandiera  sarda  erano  discesi 
un  migliaio  di  uomini  armati  con  Garibaldi,  e  avevano  occupata 
la  città.  Acton,  benché  convinto  di  non  poter  far  più  nulla 
contro  un  fatto  compiuto,  fece  tirare  alcuni  colpi  sui  bastimenti 
già  vuoti  e  altri  in  direzione  del  porto  ;  ma  i  colpi,  che  non  fu- 
rono più  di  una  diecina,  non  produssero  effetto,  per  la  distanza 
del  bersaglio.  Giunta  intanto  la  Partenone,  passò  a  poppa  dello 
Stromboli  e  tirò  un'intera  fiancata  in  direzione  del  porto,  ma 
per  la  stessa  ragione  anche  queste  cannonate  riuscirono  innocue. 

Lo  sbarco  a  Marsala  fu  accidentale.  Sono  noti  i  particolari 
di  quel  viaggio  fortunoso.  Garibaldi  segui  vie  ignote  per  elu- 
dere la  crociera,  impiegando  sei  giorni  da  Quarto  a  Marsala. 
Garibaldi,  Crispi  e  Salvatore  Castiglia,  che  comandava  in  secondo 
il  Piemonte,  ed  era  espertissimo  uomo  di  mare,  avevano  risoluto 
di  sbarcare  a  Porto  Palo,  fra  Sciacca  e  Mazzara,  a  poca  distanza 
da  Selinunte,  e  fu  deciso  di  scendere  a  Marsala,  sol  quando  .la 
mattina  degli  11  maggio,  incontrato  presso  le  Egadi  un  veliero 
inglese  che  veniva  da  Marsala,  Castiglia  domandò  se  vi  fossero 
legni  napoletani  in  quel  posto,  e  gli  fu  risposto  di  no.  Ma  an- 
dando più  innanzi,  Garibaldi  si  accorse  che  vi  erano  due  legni  da 
guerra  con  alberatura  bianca,  e  credette  d'essere  stato  ingannato. 


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Interrogò  allora  il  ras  ^  di  una  paranza  da  pesca,  che  veniva  da 
Marsala,  se  vi  erano  legni  napoletani  nel  porto,  e  dopo  che  gli  fu 
risposto  :  "  Pigghiaro  'w  largo  „  lo  richiese  se  vi  fosse  guarnigione, 
al  che  il  ras^  sempre  in  gergo  siciliano,  replicò  che  la  truppa 
era  partita  il  giorno  innanzi.  E  anche  qui  c'è  un  mezzo  ro- 
manzo da  sfrondare.  Non  è  vero,  come  è  stato  detto,  che  Gari- 
baldi invitasse  quel  ras  a  bordo  del  Piemonte  e  facesse  da  lui 
pilotare  la  spedizione  nel  porto  di  Marsala.  Il  ras  che  poi  si 
seppe  chiamarsi  Antonio  Strazzera  "  invitato,  ci  segui  e  ci  aiutò 
—  sono  parole  dette  a  me  da  Crispi  —  nel  porto  allo  sbarco  dei 
volontari.  Il  Piemonte  era  comandato  da  Garibaldi,  e  in  sott'ordi- 
ne  da  Salvatore  Castiglia,  che  faceva  da  pilota  ;  per  quelle  funzioni 
non  avevamo  bisogno  di  estranei  „ . 

Marsala  era  dunque  sguarnita  di  navi  e  di  soldati  regi,  e 
sorgeva  là  dirimpetto,  con  le  sue  bianche  case  e  le  sue  campa- 
gne verdi  :  tranquillo  era  il  mare,  splendida  la  giornata,  ne  ap- 
pariva sull'orizzonte  fumo  di  battelli  o  vela  sospetta.  Andan- 
dosi più  innanzi,  fu  dissipato  l'equivoco  :  le  due  cannoniere  erano 
inglesi,  ma  per  l'alberatura,  a  una  certa  distanza,  potevano  essere 
credute  napoletane,  poiché,  è  da  ricordare,  che  alcuni  legni  da 
guerra  napoletani  erano  stati  costruiti  in  Inghilterra  e  avevano 
le  alberature  simili  alle  inglesi  ;  come  anche  altri,  costruiti  a 
Castellamare  e  completati  a  Pietrarsa,  erano  modellati  sullo 
stesso  disegno.  Tolto  di  mezzo  quest'altro  dubbio,  Garibaldi, 
senza  altri  indugi,  decise  di  profittare  di  quelle  condizioni,  1& 
quali  non  solo  permettevano  lo  sbarco,  ma  garantivano  l'oc- 
cupazione, e  ordinò  al  Lombardo  che  a  tutto  vapore  seguisse 
la  rotta  del  Piemonte  sopra  Marsala.  Ricevuto  l'ordine,  Bixio 
scrisse  sopra  un  pezzo  di  carta  queste  pai'ole  :  Garibaldi  è  sbar- 
cato a  Marsala,  oggi  11  maggio  1860,  e  chiuso  lo  scritto  in 
una  bottiglia,  la  lanciò  in  mare.  Dei  due  Gun-  Wessels,  ancorati 
nel  porto  di  Marsala ,  VArgus  era  giunto  la  sera  innanzi  diretto 
a  Malta;  Vlntrepid  rimaneva  a  protezione  delle  case  inglesi  di 
Marsala,  Ingham  e  Woudhouse,  e  faceva  parte  della  squadra 
comandata  dall'  ammiraglio  Mundy ,  che  imbarcava  a  bordo 
dell' Hannibal,  e  la  quale,  pochi  giorni  dopo,  si  raccolse  a  Pa- 
lermo.    A  Marsala   era   avvenuto  il  piccolo   movimento   insur- 


1  Parola  araba,  che  vuol  dire  capitano  di  legno  da  pesca. 


-  206  - 

razionale,  del  quale  si  è  parlato.  Fu  detto  insistentemente  ;  ed  è 
ancora  ripetuto  con  forte  convinzione,  che  lo  sbarco  di  Garibaldi 
fosse  stato  favorito  dai  due  legni  inglesi  ;  clie  le  cannoniere  erano 
andate  apposta  a  Marsala  per  aiutarlo,  e  cbe  questo  fosse  un  gran 
segreto,  il  quale  Garibaldi  e  Crispi  non  confessarono  mai.  La  ve- 
rità è,  che  i  due  legni  si  trovavano  a  Marsala  per  caso.  E  vero 
che  il  console  inglese,  residente  a  Marsala,  signor  Collins,  ricor- 
resse al  comandante  deW  Intrepid,  pregandolo  d'intervenire, 
perchè  dal  bombardamento  fossero  risparmiati  i  magazzini  e 
gli  edifici,  sui  quali  sventolava  la  bandiera  britannica;  e  fu 
appunto  per  questo,  e  perchè  alcuni  marinari  scesi  a  terra 
non  erano  tornati  a  bordo,  che  il  comandante  delV Intrepid 
pregò  il  comandante  dello  Stromboli  d' indugiare  di  poco  il  bom- 
bardamento e  di  salvare  quegli  edifizii.  Acton  vi  consentì,  come 
ho  detto,  ma  l'attesa  non  durò  die  mezz'ora;  e  se  anche  lo 
Stromboli  avesse  incominciato  a  bombardare  un'ora  prima,  il  ri- 
sultato non  sarebbe  stato  diverso,  perchè  lo  sbarco  era  quasi  com- 
piuto. Un'interrogazione  su  questo  argomento  fu  mossa,  nel 
Parlamento  inglese ,  da  Osborne  a  lord  Russel ,  il  quale  di- 
chiarò che  il  comandante  napoletano  avrebbe,  solo  per  cortesia, 
sospeso  il  fuoco  per  permettere  il  rimbarco  ai  marinari  inglesi. 
Francesco  Crispi,  che  fu  il  secondo  personaggio  della  spedizione, 
anzi,  sotto  alcuni  rapporti,  fu  il  primo,  afferma  in  modo  assoluto, 
che  lo  sbarco  a  Marsala  fu  accidentale  ;  che  il  Piemonte  e  il  Lom- 
bardo, entrando  in  quel  porto,  passarono  fra  i  due  Gun-Wessels, 
dai  quali  non  ebbero  aiuto,  ne  diretto,  ne  indiretto  ;  che  lo  Strom- 
boli giunse  quando  lo  sbarco  era  compiuto,  e  che  il  brevissimo 
bombardamento  cessò,  quando  i  comandanti  dello  Stromboli  e 
della  Partenope  si  persuasero  ohe  era  tempo  perduto.  Acton  e 
Cossovich,  non  avendo  truppa  di  sbarco,  si  rassegnarono  a  tirare 
delle  cannonate  contro  il  Lombardo  arenato  e  a  catturare  il  Pie- 
monte, non  immaginando  neppure  un  colpo  di  audacia:  quello, 
per  esempio,  di  mettere  a  terra  le  ciurme  delle  navi  e  attaccare 
i  filibustieri,  sotto  la  protezione  dei  cannoni  della  flotta.  Rimor- 
chiarono il'  Piemonte  a  Napoli  come  trofeo  della  vittoria,  contri- 
buendo, senza  volerlo,  ad  accreditare,  essi  per  i  primi,  la  versione 
che  _i  legni  inglesi  avessero  aiutato  lo  sbarco  di  Garibaldi.  Certo 
«  però  che  se  lo  Stromboli  non  avesse  perduto  due  ore  di  tempo, 


—  207  - 

per  ricevere  i  cannoni  dal  Capri,  lo  sbarco  difficilmente  si  sa- 
rebbe compiuto  in  condizioni  cosi  favorevoli,  o  addirittura  sarebbe 
stato  impedito.  Guglielmo  Acton  non  era  uomo  da  venir  meno 
al  suo  dovere,  né  in  quei  giorni  era  cominciata  la  demoralizza- 
zione della  flotta;  ma  nel  suo  stato  di  servizio  vi  è  davvero  una 
lacuna.  Egli  ottenne  il  comando  dello  Stromboli  il  18  aprile,  e  lo 
lasciò  il  23  giugno,  e  da  questo  giorno  al  6  agosto,  in  cui  fu  no- 
minato comandante  in  secondo  del  Monarca,  non  vi  è  traccia  di 
servizio  da  parte  sua.  Questa  circostanza  confermerebbe  la  voce 
ch'egli  fosse  stato  punito  per  il  fatto  di  Marsala,  e  mandato  in 
confine  ad  Ischia,  ma  consiglio  di  guerra  non  risulta  che  vi 
fosse.  Il  23  giugno  la  Sicilia  poteva  considerarsi  perduta  e  le 
voci  contro  le  pretese  fellonie  erano  più  alte  e  insistenti,  e 
colpivano  senza  distinzione  tutti  coloro,  che  avevano  avuto 
parte  principale  nelle  cose  dell'Isola  :  Acton  e  Cossovich,  Laudi 
e  Lanza  principalmente,  e  poi  tutti  gli  altri.  E  da  ricordare 
che  Garibaldi  non  aveva  di  artiglierie  che  i  due  ferrivecchi, 
presi  a  Talamone,  e  i  quattro  legni  napoletani  disponevano,  ripeto, 
di  ottanta  bocche  da  fuoco.  Crispi,  Accinni  e  De  Liguoro,  ri- 
cordando i  fatti  di  quel  giorno  e  i  varii  fortunati  incidenti,  con- 
cludono che  veramente  quello  sbarco  fu  voluto  dalla  Provvi- 
denza. L'Inghilterra  non  vi  entrò  per  nulla  e  la  relazione  del  co- 
mandante Marryat  deW Intrepid,  lo  conferma:  relazione  datata 
da  Malta  il  14  maggio,  tre  giorni,  cioè,  dopo  l'avvenimento  ;  *  ma 
l'opinione  contraria  non  si  dà  per  vinta. 

Il  De  Sivo,  che  vide  traditori,  tradimenti  e  viltà  dappertutto, 
non  disdegijiò  di  rimproverare  il  governo  di  non  aver  fatto  im- 
piccare Acton  e  Cossovich.  Se  avessero  avuto  truppe  da  sbarco 
e  non  se  ne  fossero  serviti,  avrebbero  certo  meritata  l'accusa  di 
tradimento  o  di  viltà;  ma  di  essere  giunti  tardi  a  Marsala  non 
ebbero  colpa  davvero.  Il  Cossovich  fu  tra  i  pochi  comandanti 
di  marina,  che  non  prese  servizio  col  Regno  d'Italia,  e  Guglielmo 
Acton  passò  nella  marina  italiana  dopo  la  partenza  di  France- 


^  H.  F.  Winnington-Ingram,  Rear  Admiral-Hearts  of  Oak.  —  (Chapter 
XIV.  — Extracfs  prom  My  Private  Journal  Wliilt  Comanding  H.  M.  S.  ^^Ar- 
gu8„  on  the  Coast  of  Sicily,  in  1860,  including  the  Landing  of  Garibaldi). 
—  London,  "W.  H.  AUen  and  Co.,  13,  Waterloo  Place,  Pali  Mail.  S.  W.  1869. 


-  208  - 

SCO  II  da  Napoli,  e  dopo  aver  difeso  onoratamente  e  coraggiosa- 
mente nella  notte  del  10  agosto  il  Monarca,  nelle  acque  di  Ca- 
stellamare  di  Stabia,  e  mandato  a  vuoto  l'infelice  disegno  del 
Depretis,  prodittatore  a  Palermo,  di  impadronirsi  di  quel  le- 
gno, a  suggarimento  del  Persane.  Il  fatto  di  Castellamare,  clie 
per  poco  non  costò  la  vita  all'Acton,  segna  una  delle  pagine  più 
onorevoli  della  carriera  di  lui,  e  ne  fu  dal  Ee  Francesco  II  rimu- 
nerato con  la  croce  di  cavaliere  di  San  Ferdinando  e  del  Merito. 

Graribaldi  aveva  dato  ordine  a  Orispi,  a  Castiglia,  ad  Andrea 
Rossi  e  a  Pentasuglia  di  prender  terra  immediatamente,  sia  per 
disporre  quanto  occorreva  allo  sbarco,  sia  per  impossessarsi  del 
telegrafo  elettrico,  del  municipio,  delle  carceri  e  della  tesoreria. 
Castiglia  e  Andrea  Rossi  si  recarono  a  bordo  di  tutt'i  legni, 
ancorati  nel  porto,  e  imposero  loro,  a  nome  di  Garibaldi,  di 
mandare  le  rispettive  imbarcazioni  al  Piemonte  e  al  Lombardo^ 
e  l'ordine  fu  di  buona  voglia  eseguito.  Anche  la  paranza  di  Straz- 
zera  servi  allo  sbarco,  il  quale  fu  compiuto  ordinatamente,  in 
meno  di  due  ore.  Orispi,  con  pochi  volontari,  quasi  tutti  berga- 
maschi, corse  al  Municipio.  In  città  non  si  vedeva  nessuno, 
tranne  qualche  accattone  e  un  frate  domenicano,  che,  sventolando 
il  fazzoletto,  gridava:  Viva  l'Italia.  Era  di  venerdì.  Orispi  con- 
vocò il  sindaco  e  i  decurioni;  mise  guardie  alle  carceri,  perchè 
nessuno  dei  detenuti,  profittando  di  quanto  avveniva,  potesse 
evadere  ;  s' impadroni  della  cassa  erariale  con  regolare  verbale  di 
consegna  e  proclamò  il  governo  provvisorio  in  nome  di  Garibaldi. 

Pentasuglia  corse  al  telegrafo,  e  puntando  un  revolver  sul 
petto  dell'impiegato,  s'impossessò  della  macchina.  L'impiegato 
aveva  già  trasmessa  a  Palermo  la  notizia  dello  sbarco,  con  quei 
particolari  che  potè  procurarsi.  Il  telegrafo  elettrico  era  in  di- 
retta comunicazione  col  luogotenente,  anzi  la  macchina  dell'uf- 
ficio di  Palermo  stava  proprio  nel  gabinetto  del  Galletti,  il  quale 
aveva  alla  sua  immediazione  un  telegrafista  di  fiducia,  chiamato 
De  Palma,  tuttora  vivo.  Furono  chieste  da  Palermo  maggiori 
notizie,  e  soprattutto  se  la  città  era  tranquilla,  al  che  il  Pentasu- 
glia rispose:  Tranquillissima:  i  due  vapori  arrivati  sono  vapori 
nostri.  Lia,  contraddizione  lampante  con  le  prime  notizie  e  l'os- 
servazione fatta  al  Galletti  dal  De  Palma,  che  era  cambiata  la 
mano  del  telegrafista,  persuasero  il  primo  che  lo  sbarco  di  Gari- 
baldi  era    avvenuto  e  il  telegrafo   già   passato  in  mano  di  lui. 


-  209  - 

Galletti  ordinò  allora  che  fosse  rotto  il  filo  fra  Palermo  e  Mar- 
sala.   Era  un'ora  dopo  mezzogiorno. 

Garibaldi,  con  la  sciabola  sulla  spalla  sinistra,  portata  a  modo 
di  bastone,  dava  ordini  e  raccomandava  a  tutti  la  calma  ;  e  quan- 
do lo  sbarco  fu  compiuto,  e  vide  che  i  legni  napoletani  si  ac- 
costavano, ordinò  di  chiudere  le  porte  della  città  ;  ma  fu  inutile, 
perchè  un  temuto  sbarco  di  truppe  non  si  verificò  e  il  bom- 
bardamento cessò  presto.  Alcuni  giovani  marsalesi,  nascosti 
innanzi  alla  casa  comunale,  gettarono  qualche  timido  grido  di 
Viva  V  Italia,  Viva  Vittorio  Emanuele.  Garibaldi  affidò  al  mu- 
nicipio il  governo  politico  della  città  ;  dettò  a  Marsala  il  famoso 
.primo  proclama  ai  siciliani  e  si  occupò  del  suo  esercito,  che  ve- 
deva tutto  schierato  per  la  prima  volta  sotto  i  suoi  occhi.  Che 
esercito!  Non  arrivavano  a  centocinquanta  quelli  che  indossa- 
vano la  camicia  rossa  :  altri  erano  in  borghese.  Giuseppe  Sirtori, 
capo  dello  stato  maggiore,  era  vestito  in  nero,  col  cappello  a 
cilindro:  curiosa  figura  tra  il  medico  e  il  prete;  Nullo  portava 
un  mantello  bianco,  come  capo  delle  guide  ;  Tùrr  vestiva  all'un- 
gherese; Bixio  indossava  l'uniforme  di  tenente  colonnello  pie- 
montese :  grado  ch'egli  aveva  nel  34°  di  linea  ;  Crispi  anche  lui  in 
abito  nero  ;  la  signora  Monmasson  vestiva  da  uomo,  e  Garibaldi 
indossava  il  famoso  puncho,  e  sotto  il  puncho^  la  camicia  rossa,  e 
in  testa  un  berretto  tondo.  Giuseppe  Campo  portava  la  bandiera. 
Ne  a  Salemi,  né  a  Vita,  nò  a  Calatafimi  crebbe  il  numero  delle 
camicie  rosse;  anzi,  dopo  le  disastrose  marce  che  precedettero 
l'entrata  a  Palermo,  parecchi  di  quei  guerrieri  erano  cosi  laceri, 
che  loro  cadevano  a  brandelli  giubbe  e  pantaloni. 

La  cassa  dei  Mille,  quando  si  parti  da  Quarto,  era  di  cin- 
quantamila lire  ;  quando  si  giunse  a  Palermo,  era  di  ventimila  : 
tutta  la  marcia  non  costò  che  trentamila  lire.  Ne  ufficiali  ne 
militi  prendevano  paga.  Ciascuno  aveva  un  peculio  proprio, 
abbondante  o  scarso,  secondo  la  condizione  rispettiva.  I  ge- 
novesi e  i  bergamaschi  erano  i  meglio  forniti  di  danaro  e  aiu- 
tavano i  compagni,  benché  di  questi  aiuti  non  si  sentisse  il  bi- 
sogno, perchè  da  Marsala  a  Palermo  non  corsero  che  due  set- 
;timane.  Di  armi,  non  se  ne  parla:  fucili  di  guardia  nazionale, 
quasi  tutti  arrugginiti.  Solo  i  carabinieri  genovesi,  comandati 
da  Mosto,  erano  benissimo  armati.  Luigi  Cavalli,  mio  collega 
alla  Camera  dei  deputati,  mi  narra  che  a  Calatafimi  dovè  adope- 

De  Cesare.  La  fine  di  un  Segno  •  Voi.  II.  lA 


—  210  — 

rare  ben  quindici  capsule,  perckè  il  suo  fucile  sparasse  una  volta. 
A  Vita  quasi  tutti  lasciarono  i  mantelli  e  soffrirono  il  freddo  nella 
notte.  Partirono  da  Marsala  alle  cinque  della  mattina,  e  la  prima 
tappa  fu  Bampagallo.  Garibaldi,  Sirtori,  Crispi  e  i  comandanti 
delle  sette  compagnie  si  provvidero  di  cavalli  alla  meglio  ;  e  a 
dorso  di  due  muli  furono  caricate  le  due  famose  artiglierie  prese 
ad  Orbetello  e  sulla  culatta  delle  quali  si  leggeva  la  data  della 
fusione:  una  data  molto  antica,  naturalmente. 

La  giornata  di  Calatafìmi  è  narrata  dal  generale  Landi 
con  sufficiente  sincerità,  nei  suoi  rapporti  e  nella  sua  difesa. 
Egli  non  immaginava  tanta  resistenza  da  parte  degli  sbarcati. 
Si  battè  per  otto  ore,  ma  sempre  rimanendo  sulla  difensiva  e  non 
avendo  altra  mira  che  di  lasciarsi  libera  l'unica  strada  su  Paler- 
mo, per  tornarvi  colla  colonna  intatta.  Non  impiegò  in  battaglia 
tutte  le  truppe,  che  ascendevano  a  circa  quattro  mila  uomini, 
compreso  il  battaglione  del  maggiore  Sforza,  che  si  era  unito  a 
lui;  e  quando  verso  sera  si  avvide  che  il  lungo  combattimento 
non  faceva  indietreggiare  i  garibaldini,  decise  ritirarsi,  in- 
vece di  aspettare  gli  aiuti,  considerando  la  ritirata,  come  egli 
dice  nella  sua  ingenua  auto-difesa,  la  migliore  delle  vittorie.  ^ 
Quando  le  trombe  dei  regi  sul  finire  del  giorno  suonarono  la 
ritirata,  fu  una  grande  sorpresa,  seguita  da  un'esplosione  di 
gioia,  nel  campo  garibaldino.  Non  era  ritenuta  possibile.  I  Mille 
avevano  consumate  le  munizioni  ;  erano  stanchi  del  lungo  e  di- 
sperato combattimento;  avevano  avuti  parecchi  morti  e  molti 
feriti  e  nessun  aiuto  dalla  squadra  del  Santanna,  che  si  limitò 
a  guardare  dalle  creste  dei  monti  quello  che  avveniva  nel  basso. 
Garibaldi  stesso  era  ferito  al  fianco  destro  da  un  sasso,  scara- 
ventatogli da  un  soldato  dell'ottavo  battaglione  Cacciatori,  il 
quale  gli  aveva  per  due  volte  rivolto  il  fucile  a  poca  distanza , 
ma  l'arma  non  prese  fuoco.  Di  squadre  numerose  e  armate  solo 
la  fantasia  del  generale  borbonico  popolava  le  campagne  e  i 
colli  attorno  Calatafìjni.  Se  il  Landi  si  fosse  avanzato  e  i  bat- 
taglioni di  cacciatori  fossero  giunti  il  13  o  il  14  a  Marsala, 
l'impresa  di  Garibaldi  poteva  dirsi   compromessa;  ma  il  Landi 


^  Autodifesa  del  generale  Landi,  manoscritto  esistente  nell'archivio  di 
saa  famiglia. 


—  211   - 

non  aspettò,  ripeto,  gì'  invocati  rinforzi,  e  nelle  prime  ore  della 
sera  si  mise  in  marcia  di  ritirata. 

Se  il  risultato  vero  di  quello  scontro  fu,  come  azione  mili- 
tare, che  i  garibaldini  e  i  regi  conservarono  le  proprie  posizioni, 
moralmente  fu  un  disastro.  Oalatafimi  apri  le  porte  di  Palermo 
alla  rivoluzione.  La  ritirata  del  Landi  fu  la  prima  debacle^  alla 
quale  tennero  dietro  tutte  le  altre  ;  fu  l' inizio  di  quella  profonda 
demoralizzazione,  per  cui  si  capitolò  a  Palermo  con  una  guarni- 
gione di  ventimila  uomini  e  si  perdette  la  Sicilia.  Sul  capo  del 
Landi  si  addensarono  tremende  accuse:  si  affermò  che  si  fossa 
venduto  a  Garibaldi  mercè  una  polizza  di  quattordicimila  ducati  ; 
e  la  sua  morte,  che  si  disse  improvvisa,  accrebbe  i  sospetti  infa- 
manti e  questi  mutò  in  certezza,  più  tardi,  il  principe  di  Castelcica- 
la.  H  Landi  apri  la  serie  dei  generali  bollati  traditori,  prima  in 
Sicilia  e  poi  nel  continente.  Morì  nel  1862,  dopo  alcuni  giorni 
di  malattia,  e  non  già,  come  dissero  gli  scrittori  borbonici,  im- 
provvisamente, e  di  dolore,  dopo  che,  avendo  mandato  al  Banco  a 
riscuotere  i  quattordicimila  ducati,  senti  rispondersi  che  ne  era  sta- 
ta alterata  la  somma  !  Uno  dei  figliuoli  scrisse  a  Garibaldi  invocan- 
do la  sua  testimonianza,  e  Garibaldi  lealmente  smenti  l'accusa.  ^ 
Certo  fu  grave  errore  aver  dato  al  Landi  il  comando  di  maggiore 
responsabilità,  potendosi  prevedere  che  la  sua  colonna  avrebbe 
con  maggiore  probabilità  affrontato  il  primo  urto  di  Garibaldi  ; 
più  grave  errore  d'averglielo  dato  nelle  condizioni  riferito;  e 
massimo  errore  aver  richiamato  Letizia  da  Trapani,  come  fu  colpa 
inescusabile  e  inesplicabile  non  aver  fatto  arrivare  in  tempo  a 
Marsala  i  battaglioni  chiesti  dopo  lo  sbarco  dei  Mille.  Occorre- 
va un  solo  governo,  e  ve  n'erano  due  :  a  Napoli  e  a  Palermo  ;  oc- 
correva un  sol  uomo  a  comandare,  ed  erano  in  tanti,  sospettosi 
e  gelosi  l'uno  dell'altro  ;  occorrevano  generali  pieni  di  fede  e  de- 
siderosi di  battersi,  e  un  Re  amato  e  temuto,  mentre  France- 
sco II  non  era  nò  quello,  né  questo  ;  e  dei  generali,  ciascuno  cer- 


*  I  figli  del  generale  Landi,  olie  servirono  nell'esercito  italiano,  furono 
cinque.  Antonio  venne  collocato  a  riposo  nel  1895,  col  grado  di  tenente 
generale  ;  Michele  e  Niccola  pervennero  al  grado  di  tenente  colonnello  ; 
Luigi  a  quello  di  capitano,  e  Francesco  mori  giovanissimo,  tenente  di  fan- 
teria. I  primi  quattro  presero  parte  alla  campagna  del  1866,  e  due  son  vivi. 
Essi  conservano  la  risposta  di  Garibaldi,  fatta  pubblicare  in  un  giornale 
^  Napoli. 


—  212  — 

cava  ripararsi  dalla  procella  come  meglio  poteva,  schivando  ogni 
responsabilità,  perciiè  nessuno  era  veramente  convinto  clie  quello 
stato  di  cose  valesse  la  pena  di  difenderlo,  col  sacrificio  della 
propria  vita,  o  della  propria  reputazione! 

A  Palermo  il  combattimento  di  Oalatafìmi  fu  saputo  nella  not- 
te del  16,  in  maniera  curiosa.  Il  ricevitore  generale  Ferro  venne 
informato  da  un  suo  campiere  clie  il  Laudi  aveva  fatta  suonare 
la  ritirata.  Da  Alcamo  si  erano  un  po'  seguite  le  vicende  della 
giornata;  si  era  veduto  il  fumo  dei  fucili  e  udito  il  cannone. 
n  Ferro,  temendo  non  per  sé,  ma  per  la  sicurezza  del  sottopre- 
fetto Domenico  lezzi,  mal  veduto  dai  liberali,  lo  condusse  seco 
in  carrozza  sino  al  punto  più  prossimo  della  marina  di  Oastel- 
lamare,  e  appena  giunti,  s' imbarcarono  per  Palermo  e  vi  giun- 
sero nella  notte,  informando  di  tutto  il  luogotenente  e  Maniscal- 
co. Il  Ferro  era  nonno  materno  del  presente  barone  di  San 
Giuseppe,  senatore  del  Regno. 


CAPITOLO  X 


Sommario:  Canofari  annunzia  la  partenza  di  Garibaldi  —  Colloquio  tra  Fran- 
cesco II  e  Filangieri  —  Casteloicala  telegrafa' a  Napoli  lo  sbarco  a  Mar- 
sala —  Consiglio  di  Stato  del  14  maggio  —  Filangi<^ri  e  Ischitella  rifiu- 
tano di  andare  in  Sicilia  —  Filangieri  propone  il  generale  Lanza  —  Il  Ea 
lo  accetta  —  Le  dimissioni  di  Castelcicala  —  Particolari  su  Ferdinando 
Lanza  —  Un  incidente  comico  —  Bapporto  di  Maniscalco  —  La  situazione 
che  trovò  Lanza  a  Palermo  —  Suo  sconforto  —  Si  majida  Al,essandro  Nun- 
ziante —  Inettitudine  dei  generali  —  Differenza  fra  i  due  eserciti  com- 
battenti nell'Isola  —  Confusioni  e  contraddizioni  —  Una  supposta  lettera 
di  Garibaldi  —  Le  bugie  del  Oiomale  Ufficiale  e  la  Qronqca  degli  avveni- 
menti di  Sicilia  —  I  nobili  siciliani  a  Napoli  —  Le  difese  di  Castelcicala 
—  Postume  lettere  sue  al  generale  Bonanno  —  Continua  il  mistero  —  Ca- 
stelcicala non  rivede  più  il  Be. 

Alle  otto  pomeridiane  del  6  maggio  1860,  mentre  in  Corte  si 
facevano  i  preparativi  per  la  visita,  che  l' indomani  il  Re  avreb- 
be fatta  alla  cappella  di  San  Gennaro,  giunse  un  telegramma 
di  Canofari,  il  quale  annunziava  essere  partiti  il  giorno  innan- 
zi da  Genova  due  vapori  carichi  di  gente  armata,  diretti  pey  la 
Sicilia  0  per  le  coste  di  Calabria.  Già  da  un  pezzo,  com'è  noto, 
la  polizia  di  Palermo  e  di  Napoli  era  informata  che  si  preparava 
uno  sbarco  di  Garibaldi  nel  Regno.  Non  ignorava  che  Garibaldi 
era  a  Genova,  dove,  con  Medici,  Bixio^  Crispi,  Bertani  e  altri 
suoi  fidi,  attendeva  a  raccogliere  volontari,  emigrati  e  armi,  sol- 
lecitando i  preparativi  d' imbarco  per  un'  impresa  in  Sicilia  o 
nel  continente  napoletano  ;  e  perciò  fin  dal  20  aprile,  erano  state 
destinate  quattordici  navi  da  guerra  e  due  rimorchiatori,  a  fare 
un  servizio  di  crociera  intomo  l' Isola,  con  quelle  istruzioni,  che 
ho  minutamente  riferite  nel  capitolo   precedente.    Il  ministero 


-  214  - 

e  la  Corte  erano  inoltre  convinti  che  il  Piemonte  aiutava  l' impre- 
sa, facendo  mostra  d'ignorarla  o  di  disapprovarla.  Altre  informa- 
zioni, pervenute  qualclie  tempo  prima  alla  polizia,  lasciavano 
credere  che  Garibaldi  fosse  a  Tunisi. 

L'annunzio  di  Canofari  non  giunse  dunque  improvviso  ;  ma 
il  pubblico  ne  seppe  qualche  cosa  solo  la  sera  del  di  seguente, 
quando  arrivò  da  Genova  il  vapore  il  Quirinale  delle  Message- 
ries,  il  quale  recò  la  notizia  che  a  Genova  eran  tutti  in  festa, 
per  la  partenza  di  una  grossa  spedizione  in  Sicilia,  capitanata 
da  Garibaldi.  Alle  due  del  giorno  7,  il  Re,  tornato  dal  duomo  a 
Portici,  mandò  Nunziante  a  chiamar  Filangieri,  e  a  lui  rivelò 
la  cosa  e  gli  chiese  alcuni  consigli  circa  la  convenienza  di  far  par- 
tire nuove  truppe  per  la  Sicilia.  Era  abbattuto  e  volle  che  Filan- 
gieri pranzasse  a  Corte.  Vi  pranzò  anche  il  conte  d'Aquila,  che 
mostra  vasi  furioso  contro  Maniscalco  ;  né  a  dir  male  di  Maniscalco 
era  solo  il  conte  d'Aquila.  Il  principe  di  Rammacca  faceva  al- 
trettanto in  quei  giorni,  e  il  Re  gli  rispondeva:  "jffaz  ragione,  ma 
in  questo  momento  non  posso  cambiare  ne  il  direttore  di  polizia,  ne 
il  comandante  della  piazza  di  Palermo,  ne  tutta  la  compagnia  dei 
Carega,  Puntillo,  Chinnici  ;  pazienza  dunque,  ed  aspetta  j^.  Il  prin- 
cipe di  Rammacca  era  stato  Pari  nel  1848,  tra  i  più  esaltati, 
per  cui  andò  fuori  dal  Regno  ;  ma  ad  intercessione  di  Cassisi  ebbe 
grazia  dal  Re,  si  converti,  si  stabili  a  Napoli  e  andava  a  Corte.  ^ 

Il  giorno  11,  a  un'ora  dopo  mezzogiorno,  il  principe  (Ji  Ca- 
stelcicala  annunziò  con  un  telegramma  al  Re  lo  sbarco  di  Gari- 
baldi a  Marsala,  e  il  Giornale  Ufficiale,  non  potendo  più  tacere, 
riferi,  quattro  giorni  dopo,  il  fatto  in  questi  termini  :  "  Un  atto  di 
flagrante  pirateria  veniva  consumato  1'  11  maggio  mercè  lo  sbarca 
di  gente  armata  alla  marina  di  Marsala.  Posteriori  rapporti  han 
chiarito  esser  la  banda  disbarcata  di  circa  800,  e  comandata  da 
Garibaldi.  Appena  quei  filibustieri  ebbero  preso  terra,  evitarono 
con  ogni  cura  lo  scontro  delle  reali  truppe,  dirigendosi,  per 
quanto  ci  vien  riferito,  a  Castelvetrano,  minacciando  i  pacifici 
cittadini,  e  non  risparmiando  rapine,  e  devastazioni  di  ogni  sorta 
nei  comuni  da  loro  attraversati.  Ingrossatisi  nei  primi  quattra 
giorni  della  loro  scorreria  con  gente  da  loro  armata  e  profusa- 
mente pagata,  si  spinsero  a  Calatafimi  „ . 


'  Archivio  Filangieri. 


—  216  - 

Il  12  maggio,  il  governo  di  Napoli  inviava  ai  suoi  rappre- 
sentanti all'estero  questo  dispaccio,  sottoscritto  da  Carafa  :  "  Mal- 
grado gli  avvisi  dati  da  Torino  e  le  promesse  di  quel  governo  di 
impedire  la  spedizione  di  briganti  organizzati  ed  armati  pubblica- 
mente, pure  essi  sono  partiti  sotto  gli  occhi  della  squadra  sarda, 
e  sbarcati  ieri  a  Marsala.  Dica  a  codesto  ministero  tale  atto  di 
selvaggia  pirateria  promossa  da  Stato  amico  „ .  E  nel  pomeriggio 
del  14  maggio,  il  ministro  Canofari  rimise  al  conte  di  Cavour 
una  nota  assai  vivace,  colla  quale  si  dichiarava  responsabile  il 
governo  piemontese  della  spedizione  di  Garibaldi,  e  lo  si  ac- 
cusava di  averla  favorita.  Rispose  Cavour  respingendo  le  ac- 
cuse, e  citando,  come  prova  delle  sue  affermazioni,  il  fatto  di 
avere  impedita  la  partenza  di  altri  due  legni,  carichi  di  volon- 
tari, pronti  a  raggiungere  Garibaldi. 

Nello  stesso  giorno,  14  maggio,  si  riunì  a  Napoli  il  Consi- 
glio di  Stato.  Per  la  prima  volta,  da  quando  non  era  più  mi- 
nistro, vi  fu  invitato  il  principe  di  Satriano,  e  v'  intervenne  an- 
che il  conte  d'Aquila.  Essendo  infermo  il  principe  di  Cassare, 
riferì  per  lui  Ferdinando  Troja.  Non  si  parlò  che  delle  cose 
di  Sicilia,  e  si  fecero  da  tutti  i  ministri  grandi  pressioni  su  Fi- 
langieri, per  indurlo  ad  andare  nell'  Isola,  con  pienissimi  poteri. 
Ma  Filangieri  ricusò,  mettendo  innanzi  la  grave  età  e  l' impossi- 
bilità fisica  di  assumere,  in  momenti  cosi  gravi,  una  tale  im- 
presa. Il  Re  lo  scongiurò  di  salvare  una  seconda  volta  la  Si- 
cilia alla  Monarchia,  ma  egli  persistè  nel  rifiuto  e  propose  un 
piano  di  difesa,  che  parve  eccellente  e  fu  accettato.  E  poiché 
non  si  voleva  più  il  Castelcicala,  al  quale  si  faceva  risalire 
tutta  la  causa  di  quanto  era  avvenuto,  fu  deciso  di  far  partire 
subito  per  Palermo  il  colonnello  Barbalonga,  con  l'incarico  di 
invitare  il  luogotenente  a  chiedere  il  suo  richiamo.  Ma  urgeva 
provvedere  al  successore,  e  il  Filangieri  stesso  propose  a  tale  uf- 
ficio, con  tutti  i  poteri  deW Alter  Ego,  prima  il  generale  principe 
d' Ischitella,  che  il  Re  accettò,  incaricando  lo  stesso  Filangieri 
di  fargliene  la  proposta;  e  poi,  quando  l' Ischitella  rifiutò,  per- 
chè, come  egli  disse,  non  voleva  andare  in  Sicilia  a  fare  il  car- 
nefice, ^  propose  il  tenente  generale  Ferdinando  Lanza,  già  suo 


'  Mémoires  et  souvenirs  de  ma  vie  —  Parigi,  16  marzo  1864 


—  216  — 

capo  di  stato  maggiore  in  Sicilia.  Al  Lanza,  che  era  sicilia- 
no, fii  dato,  come  segretario  di  Stato,  Pietro  Ventimiglia,  procu- 
ratore generale  della  Corte  dei  conti  di  Palermo.  Non  fu  una^ 
scelta  felice  quella  del  Lanza;  ma  a  chi  più  tardi  ne  mosse  la- 
gnanza al  Filangieri,  che  lo  aveva  proposto,  Filangieri  rispose 
che  non  c'era  di  meglio.  Si  affermò  che  la  prima  idea  del  Re 
e  del  ministero  fosse  quella  di  affidare  lo  stesso  incarico  al  Car- 
rascosa,  e  che  il  Re  gli  avesse  detto  :  "  Caro  Raffaele,  preparata 
a  partir  subito  per  Palermo  con  poteri  reali,  per  domare  la  rf- 
voluzione  „  ;  e  che  Carrascosa  fosse  andato  a  casa  a  far  le  vali- 
gie. Si  disse  pure  che,  per  intrighi  del  Nunziante,  quella  nomina 
non  avesse  seguito,  ma  io  credo  la  voce  infondata,  perchè  Car- 
rascosa era  ancora  più  vecchio  di  Lanza  e  d' Ischitella.  Si  disse 
infine  e  con  più  fondamento,  che  il  Re,  visto  Filangieri  irremo- 
vibile e  non  meno  irremovibile  l' Ischitella,  volesse  mandarvi  il 
Nunziante  e  che  questi  vi  si  rifiutasse  ;  certo  è  che  il  giorno  seguen- 
te il  Re  mandò  a  chiamare  Filangieri,  e  tornò  a  insistere  presso  di 
lui,  con  le  più  vive  espressioni,  ma  il  principe  di  Satriano  non 
si  lasciò  vincere,  solo  facendo  intendere  che  se  il  giorno  3  aprile, 
prima  della  insurrezione  della  Gancia,  il  Re  gli  avesse  offerto  di 
andare  in  Sicilia,  egli  vi  sarebbe  andato.  Francesco  era  in  ansie, 
perchè  attendeva  da  un  momento  all'altro  l'annuncio  di  una  bat- 
taglia. Fu  dopo  quest'ultimo  passo  fatto  verso  Filangieri,  che 
il  Re  affidò  a  Lanza  la  luogotenenza  e  il  comando  generale  del- 
l' Isola,  e  lo  fece  partire  quella  notte  stessa. 

Prima  di  andar  oltre  nella  narrazione,  bisogna  ricordare  ohe 
nel  marzo  il  principe  di  Castelcicala,  comandante  in  capo  delle 
armi  nell'  Isola,  e  che  aveva  ai  suoi  ordini  tre  divisioni  con  tre 
marescialli  di  campo  e  varii  generali  di  brigata,  fu  chiamato  a 
Napoli.  Richiesto  dal  Re,  assicurò  che  la  Sicilia  era  tranquil" 
lissima^  e  si  trovava  ancora  a  Napoli  quando  giunse  la  notizia 
dell'  insurrezione  del  4  aprile.  E  noto  che  fu  la  sorpresa  grande 
e  clamorosa  in  Corte,  e  Castelcicala  ebbe  ordine  di  partire  imme- 
diatamente con  istruzioni  severessime  per  reprimere  l' insurrezio- 
ne :  ordini,  che  il  Castelcicala  giudicò  pericolosi  o  inefficaci,  e 
non  volle  assumerne  la  responsabilità,  per  cui,  il  15  aprile,  inviò 
le  sue  dimissioni,  pregando  il  Re  a  volerlo  esonerare  dall'ufficio, 
al  più  presto.  Castelcicala  era  violentemente  attaccato  dagli 
zelanti,  che  lo  chiamavano  responsabile  di  tutto  :  il  governo  non 


-   217  - 

gli  dava  forza,  ma  si  rifiutava  di  accettarne  le  dimissioni  ;  ma  tm 
mese  dopo,  avvenuto  lo  sbarco  di  Graribaldi,  lo  invitava,  per  non 
dire  che  lo  costringeva,  a  ripeterle.  In  una  lettera  al  principe  della 
Scaletta,  in  data  28  maggio  1862,  da  Parigi,  il  Castelcicala  scriveva  : 

Nella  notte  del  15  maggio  1860,  il  colonnello  Barbalonga  si  recò  presso 
di  me  a  Palermo  per  trovar  modo  di  farmi  volontariamente  rinunziare  al 
comando  delle  armi  in  Sicilia,  che  il  Re,  dicea  Barbalonga,  volea  affidare 
al  general  Filangieri.  La  notizia  di  quella  missione  del  Barbalonga  fu  da 
lui  e  da  altri  sparsa  ad  arte  in  tutto  quel  Corpo  d' esercito,  onde,  venu- 
tami meno  ogni  forza  morale  essenzialmente  necessaria  al  Comando,  dovetti 
indurmi  a  condiscendere,  ad  ogni  costo,  a  quella  poco  onorevole  proposizio- 
ne. Non  dirò  quanto  soffrii,  e  come  esitai.  La  devozione  all'Augusto  No- 
stro Signore  la  vinse  su  tutte  le  considerazioni  personali,  e  scrissi  la  let- 
tera voluta,  chiedendo  il  mio  rimpiazzo.  La  lettera  giunse  :  e  fui  rimpiaz- 
zato non  dal  Filangieri,  ma  da  Lanza  e  perchè  a  me  si  sostituisse  Lanza 
è  a  credere  che  la  manovra  de'  miei  nemici,  o  meglio  di  nemici  del  Re  fxx 
molto  abilmente  diretta.  Alle  conseguenze  naturali  di  quella  manovra, 
che  dovette  gittar  su  me  il  discredito  e  la  diffidenza,  io  attribuii  ed  attri- 
buisco tuttavia  la  Sovrana  indifferenza  manifestatasi  a  mio  riguardo  in  mo- 
menti solenni,  quando  cioè  trattavasi  di  distinguere,  in  faccia  al  mondo 
intero,  i  veri  dai  falsi  servitori  della  dinastia.  ' 

In  quel  giorno  stesso,  15  maggio,  il  generale  Ferdinando 
Lanza  fu  dunque  nominato  commissario  straordinario  in  Sicilia, 
con  tutti  i  poteri  deW Alter  Ego.  Era,  ripeto,  la  persona  meno 
adatta  a  coprire  questo  ufficio.  "Vecchio  a  settantadue  anni,  non 
aveva  i  precedenti  militari  di  Castelcicala  e  di  Filangieri,  ne  era 
tm  gran  signore  di  nascita,  come  i  suoi  predecessori.  L' esser 
nato  a  Palermo,  ma  non  dalla  storica  famiglia  dei  Lanza  o  dei 
Lancia,  gli  toglieva  credito,  anziché  dargliene.  Era  tenente  ge- 
nerale da  un  anno  ;  comandava  la  piazza  e  la  provincia  di  Napoli  ; 
era  stato  capo  dello  stato  maggiore  del  principe  di  Satriano  nella 
campagna  di  Sicilia,  e  si  ricordava  il  caso  comico,  che  gli  era 
capitato  nella  prima  rassegna  militare,  poche  settimane  dopo 
l'ingresso  delle  truppe  regie  in  Palermo.  E  il  caso  fu  questo. 
Ricorrendo  il  30  maggio  l'onomastico  del  Re,  il  principe  di  Sa- 
triano ordinò  una  rivista  al  Fòro  Borbonico,  di  tutte  le  trup- 
pe della  guarnigione,  fra  le  quali  erano  due  reggimenti  sviz- 
zeri. Ma  in  quel  giorno,  a  causa  di  una  pioggia  torrenziale, 
la  rivista   non  potè  aver  luogo,  e  il  Filangieri  l'ordinò  per  la 


1  Archivio  Scaletta. 


—  218  - 

domenica  successiva.  E  proprio  sul  più  bello,  quando  tutte 
le  truppe  erano  schierate,  si  rabbuiò  il  tempo  dalla  parte  del 
monte  Pellegrino,  e  un  tremendo  acquazzone  impedi  la  con- 
tinuazione della  rivista.  Le  truppe  ebbero  ordine  di  tornare  in 
tutta  fretta  ai  quartieri.  Ma  le  vie  di  Palermo  erano  torrenti, 
e  la  prima  parte  di  via  Toledo,  quella  che  va  da  porta  Felice  sino 
a  piazza  Marina,  chiamata  Cassero  morto,  era  divenuta  un  lago  ; 
i  soldati  ci  guazzavano  dentro,  e  i  pantaloni  bianchi  dei  sol- 
dati svizzeri  facevano  pietà.  Il  Lanza,  capo  dello  stato  mag- 
giore, era  a  cavallo,  in  grande  uniforme  e  decorazioni.  Pro- 
prio innanzi  al  palazzo  delle  finanze,  dov'  è  ora  il  Banco  di 
Sicilia,  il  cavallo  cadde  e  trascinò  nell'acqua  il  cavaliere,  che 
ne  usci  come  un  pulcino,  perdendo  alcune  medaglie  e  il  cap- 
pello piumato.  L'ilarità  non  ebbe  freno,  e  l'incidente,  abba- 
stanza disgraziato  per  un  ufficiale  superiore,  tornò  alla  memoria 
dei  palermitani,  quando  egli  vi  tornò  come  Alter  Ego  del  B-e 
e  mise  fuori  un  proclama  dimesso,  che  parve  quasi  un  atto  di 
scusa  e  di  sottommissione. 

La  sera  del  16  ne  fu  dato  l'annunzio  al  Castelcicala,  che  non 
se  ne  commosse,  anzi  firmò  l'ultima  relazione  sullo  stato  del- 
l'Isola, annunziando  nuovi  moti  avvenuti  a  Catania,  a  Girgenti, 
a  Noto  e  a  Cefalù,  e  da  temersi  a  Messina.  Nulla  sapeva  ancora 
dello  scontro  di  Calatafimi  e  relativa  ritirata  del  Laudi,  che  seppe 
la  notte  dal  Ferro.  Castelcicala  partì  la  mattina  del  17  e  la  con- 
segna dell'ufficio,  del  palazzo,  nonché  delle  vistose  scuderie,  delle 
quali  il  Lanza  molto  si  compiacque,  fu  data  dal  Grallotti.  Mani- 
scalco, smesso  ogni  riguardo,  mandò  personalmente  al  E-e  la  sera 
stessa  del  lo  maggio  un  memorandum  allarmantissimo,  che  era 
quasi  un  atto  di  accusa  contro  Castelcicala,  Vi  si  leggeva:  "  Peg- 
giora lo  spirito  pubblico  di  Palermo  ;  la  fazione  rivoluzionaria,  di- 
venuta potentissima,  minaccia  il  massacro  dei  devoti  della  monar- 
chia legittima;  il  terrore  invade  tutti;  gl'impiegati  disertano  i 
loro  posti  ;  la  voce  del  dovere  non  è  più  intesa  ;  vi  è  una  disgrega- 
zione sociale  ;  tutti  fuggono  sui  legni  in  rada  per  la  tema  di  un 
generale  eccidio,  in  caso  di  conflitto.  Solo  l'esercito  conserva 
piena  confidenza,  ed  è  disposto  ad  ogni  sacrifizio  per  l'onore  della 
reale  bandiera  ;  fa  d'uopo  però  di  una  mano  intelligente  e  vigoro- 
sa per  ben  comandarlo  e  per  rilevare  il  prestigio  del  governo 
quasi  del  tutto  spento.     E  difatti,  la  manifesta  inazione  del  luo- 


-  219  - 

gotenente  uel  uon  voler  impegnare  le  colonne  separate  ad  attac- 
care Garibaldi,  fa  accrescere  la  costui  importanza  in  faccia  ai  sici- 
liani „ .  Ed  egli  stesso,  il  direttore  di  polizia,  era  cosi  convinto 
dell'  imminente  mina,  che  mandò  la  famiglia  a  Napoli,  affidandola 
alle  cure  del  principe  di  Satriano,  col  quale  mantenne  in  quei 
giorni  un  vivo  carteggio.  E  la  signora  Maniscalco  coi  figliuoletti, 
dei  quali  il  maggiore  aveva  cinque  anni,  prese  alloggio  in  un  ap- 
partamento alla  riviera  di  Chiaja,  che  Filangieri  aveva  fatto  fit- 
tare,  e  dove  il  vecchio  generale  andava  a  far  visita  all'atterrita  si- 
gnora, rassicurandola  circa  le  cose  di  Palermo,  nel  tempo  stesso  che 
rassicurava  Maniscalco  che  la  sua  famiglia  era  al  sicuro  in  Napoli. 

Al  Lanza  si  era  dato  un  piano  circa  il  modo  di  ripartire  le 
truppe  e  prendere  animosamente  l'offensiva  ;  ma  appena  giunto, 
egli  ebbe  come  prima  notizia  la  ritirata  del  Laudi  da  Calatafi- 
mi,  e  l'avanzarsi  di  Garibaldi.  Trovò  le  autorità  demoralizzate 
o  atterrite;  diffusa  e  radicata  la  convinzione,  che  oramai  senza 
più  mistero  l'Inghilterra,  la  Francia  e  il  Piemonte  favorivano 
la  rivoluzione.  Nella  notte  egli  vedeva  illuminati  i  monti  della 
Conca  d'oro,  soprattutto  dalla  parte  di  Gibilrossa  e  Misilmeri> 
ed  erano  i  fuochi  delle  squadre,  le  quali,  a  giudicare  da  quei 
fuochi,  apparivano  tanto  numerose.  Le  notÌ2iie  più  strane  si  av- 
vicendavano: chi  diceva  che  Garibaldi  era  alle  porte,  confor- 
tando l'asserzione  con  l'ordine  del  giorno  pubblicato  dopo  Ca- 
latafìmi,  e  con  la  lettera  a  Rosolino  Pilo.  In  tale  condizione 
dello  spirito  pubblico,  Lanza  pubblicò,  il  18,  quello  sbiadito  e  ti- 
mido proclama,  il  quale  prometteva,  come  già  fece  Filangieri 
nel  1849,  un  principe  della  real  famiglia  per  luogotenente  ge- 
nerale del  Re  :  promessa  che  nessuno  prese  sul  serio,  anzi  si  ri- 
cordò che  Ferdinando  II  non  l'aveva  mantenuta  nel  1849,  come 
si  ricordò  il  celebre  capitombolo  nell'acqua  piovana  del  nuovo  luo- 
gotenente. La  sera  del  17  egli  inviò  il  suo  primo  rapporto  al  Re 
sullo  stato  della  Sicilia,  quasi  tutta  insorta  ed  invasa  da  delirio 
rivoluzionario,  ed  aggiungeva  queste  gravi  parole  :  "  Palermo  at- 
tende il  momento  opportuno  per  sollevarsi.  Vi  perdura  lo  stato 
d'assedio  ;  la  posizione  è  tristissima  ;  tutti  emigrano  ;  strade  de- 
serte ;  comunicazioni  interrotte  ;  distrutti  i  telegrafi  ;  senza  no- 
tizie :  insomma  lo  stato  della  città  è  allarmantissimo,  perchè  sa- 
putosi l'esito  del  combattimento   di  Calatafimi  „.     All'arrivo  di 


-  220  — 

questo  dispaccio  il  Re  e  il  suo  primo  ministro,  che  era  sem- 
pre il  principe  di  Cassaro,  decisero  di  far  subito  partire  Ales- 
sandro Nunziante  per  Palermo,  coli' incarico  di  persuadere  il 
Lanza  a  prendere  l'offensiva.  Il  Nunziante  lo  trovò,  secondo 
riferi  al  suo  ritorno,  in  uno  stato  di  prostrazione  ;  rifuggiva  dal- 
l'offensiva ;  riteneva  che  non  si  dovesse  sguarnire  Palermo  :  qui 
egli  voleva  aspettare  Garibaldi  e  sconfìggerlo,  e  nel  caso  che 
questo  piano  non  riuscisse,  ritirarsi  su  Messina.  Lanza  non  mo- 
strava maggior  capacità  militare  del  Castelcicala,  anzi  appariva 
in  lui  un  minor  ardimento  e  una  prudenza  che  rasentava  dav- 
vero la  timidità.  Il  Nunziante  non  lo  risparmiò  punto,  men- 
tre Maniscalco  si  doleva  che  il  luogotenente,  col  pretesto  di  non 
fornire  al  popolo  di  Palermo  nuovi  motivi  di  irritazione,  avesse 
ordinata  la  chiusura  di  tutti  i  corpi  di  guardia,  che  egli  aveva 
stabiliti  per  la  polizia,  nei  quartieri  più  popolosi  e  facinorosi 
della  città.  Si  disse  pure  che  Lanza  l'avesse  fatto  per  aiutare  la 
rivoluzione,  e  che,  distribuendo  le  truppe  per  la  difesa  di  Palermo, 
fortificasse  la  linea  nord-ovest,  lasciando  indifesa  la  parte  sud-est, 
dalla  quale  entrò  Garibaldi.  Lanza  fu  demolito  appena  dopo 
il  suo  arrivo,  sia  presso  il  Re,  sia  presso  il  governo  di  Napoli 
e  di  Palermo,  che  non  credevano  alle  sue  parole.  Passò  anche 
lui  per  traditore,  ma  fu  semplicemente  inetto.  Paralizzato  dal- 
l'ambiente, non  ebbe  un  lampo  d'audacia,  anzi  si  trovò  subito 
in  disaccordo  coi  generali  da  lui  dipendenti,  e  in  primo  luogo 
col  Salzano,  il  quale  aveva  conservato  i  poteri  ottenuti  il  4 
aprile,  e  corrispondeva  direttamente  col  Re  e  col  ministero. 
Surrogato  il  Salzano  dal  brigadiere  Bartolo  Marra,  il  Lanza  non 
dette  punto  corso  a  quest'ordine,  e  Salzano  restò,  e  restò  anche  il 
Marra,  cui  fu  dato  il  comando  degli  avamposti  a  porta  di  Termini 
il  giorno  26  maggio  ;  e  restarono  quasi  tutti  i  generali,  la  cui  inca- 
pacità era  fuori  discussione.  Il  Re  non  perdonò  mai  a  Filangieri  la 
scelta  del  Lanza,  e  avendolo  riveduto  il  16  giugno,  dopo  che  la 
perdita  della  Sicilia  poteva  considerarsi  definitiva,  non  gli  parlò 
delle  cose  dell'  Isola,  ne  delle  trattative  con  Napoleone  per  una 
mediazione.  Solo  gli  disse,  che  aspettava  di  essere  attaccato  da 
Garibaldi  sul  continente,  ma  che  contava  combattere  e  difendersi 
a  oltranza.  ^ 


^  Archivio  Filangieri. 


—  221  — 

I  due  eserciti,  i  quali  si  trovavano  di  fronte  in  Sicilia,  erano 
tanto  diversi  l'uno  dall'altro,  non  solo  per  numero,  ma  per  lo 
spirito  che  li  animava  e  per  la  causa  ohe  difendevano.  Da 
una  parte,  Fardimeuto  più  cieco,  la  temerità  sino  all'eroismo  e 
una  fede  apostolica  nella  causa  per  cui  combattevano,  e  alla 
quale,  salpando  da  Quarto,  i  Mille  avevano  fatto  sacrificio  della 
propria  vita.  Dall'altra,  un  esercito  numericamente  grosso,  ma 
senza  ideali,  senza  capi,  nò  solida  organizzazione  e  destinato 
a  combattere  solo  per  la  causa  del  E-e,  il  quale  non  era  più 
Ferdinando  II. 

Da  una  parte  un  duce,  creduto  invitto  dai  suoi  soldati  e  dai 
suoi  nemici,  circondato  dalla  leggenda  e  il  cui  nome  ricordava, 
pur  troppo,  quella  fatale  ritirata  di  Velletri,  che  non  fu  una 
fuga,  ma  ne  ebbe  tutta  l'apparenza  :  ritirata,  che  die  all'esercito 
napoletano  il  sentimento  della  propria  impotenza  a  combattere 
un  nemico,  il  quale  non  aveva  paura  della  morte.  Dall'altra 
parte,  vecchi  generali,  brontoloni  e  scettici,  i  quali  non  si  sti- 
mavano, anzi,  con  napoletano  costume,  si  diffamavano  l'un  l'altro, 
apparendo  peggiori  di  quel  che  realmente  fossero  e  repugnavano 
dal  fuoco,  anzi  dai  perigli.  La  volontà  di  Garibaldi  non  si  di- 
scuteva dai  suoi  militi,  i  quali,  pur  essendo  un'accolta  di  uomini 
non  tutti  atti  alle  armi,  o  ohe  nelle  armi  facevano  le  prime 
prove,  consideravano  la  disciplina  militare  come  una  religione. 
Combattevano  con  la  certezza  di  avere  per  sé  il  favore  delle  po- 
polazioni di  tutta  l' Italia,  e  alle  loro  spalle  il  Piemonte,  nonché 
le  simpatie  dei  popoli  liberi  del  mondo.  I  soldati  napoletani 
erano  certi  del  contrario. 

Di  qui  i  primi  sgomenti  e  le  prime  incertezze  del  vecchio 
Lanza,  e  il  rifiuto  di  prendere  l'offensiva  e  di  accettare  quell'altro 
piano,  che  il  18  maggio,  dopo  la  giornata  di  Calatafimi,  gli 
andò  a  proporre  il  Nunziante  ;  di  qui  il  suo  pensiero  di  concen- 
trare ogni  difesa  a  Messina,  e  poi  le  sue  perplessità  e  le  sue  ma- 
novre sbagliate,  e  i  malumori  e  gli  equivoci  tra  lui  e  Salzano 
e  gli  urti  fra  Salzano  e  Marra,  e  le  disubbidienze  di  Von-Mechel, 
che  comandava  il  primo  reggimento  estero,  e  i  contrasti  fra  co- 
stui e  Del  Bosco,  e  la  contusione  magna,  accresciuta  dal  fatto 
che  ufficiali  superiori  andavano  e  venivano  da  Napoli,  con  or- 
dini e  contrordini. 


-  222  - 

Il  Lanza,  dopo  poclii  giorni,  divenne  un  Alter  Ego  da  burla. 
Egli  vedeva  la  propria  autorità  disconosciuta  dai  suoi  dipendenti  ; 
e  scorato  dagl'insuccessi  militari  e  dalla  demoralizzazione,  che 
già  invadeva  l'esercito,  telegrafò  al  ministro  della  guerra,  che 
"  si  desiderava  la  morte  a  settantatre  anni  di  età,  contandone  ses- 
santasei di  S'irvizio  „.  Pochi  giorni  dopo  il  sho  arrivo,  gli  era 
stata  recapitata  questa  lettera,  già  diffusa  per  Palermo  prima 
che  pervenisse  a  lui,  e  che  egli  credette  fosse  davvero  di  Gari- 
baldi, mentre  non  si  potì'ebbe  affermarlo  con  sicurezza  neppure 
oggi  ;  anzi  si  potrebbe  affermare  apocrifa  : 

Garibaldi  al  Luogotenente  Generale. 
Eccellenza, 

Spìnto  da  doveri  della  mia  missione  vengo  ad  indirizzarvi  poche  linee.  — 
Fra  quanti  preposti  al  potere  del  Re  di  Napoli  voi,  o  Eceellenza,  siete  ec- 
cezionalmente onesto,  e  saprete  anteporre  ai  doveri  di  suddito  gli  altri  più 
cari  di  cittadino  e  d'Italiano.  —  Sarete  persuaso  che  la  causa  di  Francesco  II 
è  irrimediabilmente  perduta  —  gli  sforzi  saranno  inutili,  la  resistenza  fu- 
nesta, perchè  io  col  mio  coraggio,  e  quello  di  numerosi  prodi,  e  col  pre- 
stigio della  santa  causa  che  difendo,  sarò  in  Palermo,  e  vincerò. 

Risparmiate  o  Eccellenza,  alla  Europa  lo  scandoloso  spettacolo  di  una 
guerra  fratricida,  e  di  vedere  scorrere  il  sangue  di  uomini  che  unica  favella 
parlano,  che  lo  stesso  sole  riscalda. 

Se  queste  esortazioni  troveranno  un'  eco  generosa  in  voi  e  nella  truppa 
che  comandate  ;  se  al  pari  delle  guarnigioni  di  Girgenti  e  di  Trapani,  i 
soldati  di  codesta  capitale  fraternizzeranno  coi  fratelli  Italiani,  l' onore 
delle  armi,  e  i  debiti  riguardi  saranno  dovuti  alla  militare  divisa.  Però 
ove  questi  consigli  non  saranno  intesi,  mi  protesto  con  voi,  e  vi  dichiaro 
che  so  fare  la  guerra,  ma  non  come  all'ordinario,  e  farò  passare  a  fil  di 
spada  chiunque  dei  vostri  sarà  fatto  prigioniero  e  non  darò  quartiere  a 
nessuno.    Pensateci  ! 

Garibaldi. 

I  soldati  napoletani  non  vincevano  che  nelle  colonne  del  Gior- 
nale Ufficiale  di  Napoli,  il  quale  in  quei  giorni  dovette  ricorrere  a 
tutte  le  risorse  della  sua  rettorica  per  magnificare  il  valore  delle 
truppe  regie  e  i  loro  fantastici  successi.  Vi  era  si  il  proposito 
di  non  far  conoscere  la  verità  al  pubblico  ;  ma,  d'altro  canto,  il 
governo  e  il  suo  organo  erano  i  primi  ad  essere  ingannati,  forse 
senza  malizia,  dai  capi  delle  colonne  militari  che  combattevano 
in  Sicilia.  Questi,  non  abituati  alla  tattica  di  G-aribaldi  e  non 
indovinandone  mai  una  mossa,  chiamarono  disfatta  la  fìnta  ri- 
tirata di  lui  neir  interno  dell'  Isola,  e,  mentre  egli  meditava 
l'ardito  colpo  di  mano  su  Palermo,   scrivevano  che,  sbaragliato 


-  223  - 

e  inseguito  a  Corleone,  stava  imbarcandosi  per  lasciar  la  Si- 
cilia. Il  Giornale  Ufficiale,  con  una  curiosa  sicumera,  affermava 
che  i  garibaldini  erano  stati  sconfitti  a  Partinico,  a  Monreale, 
al  Parco,  a  Piana  de'  Greci  e  a  Corleone,  e  che  a  Partinico  era 
stato  fatto  prigioniero  il  colonnello  Bixio,  o  il  figlio  stesso  di  Gari- 
baldi, e  presso  Monreale,  unica  verità,  ucciso  Rosolino  Pilo.  Vi 
si  leggevano  periodi  di  questo  genere  :  "  Siamo  lieti  nel  ripetere 
ohe  il  valore,  col  quale  le  reali  truppe  affrontano  dovunque,  com- 
battono e  mettono  in  fuga  le  bande  degl'  insorti,  in  qualsivo- 
glia numero  si  presentino,  è  superiore  ad  ogni  elogio  „.  Chi  non 
avrebbe  creduto  alle  parole  del  foglio  ufficiale,  quando  il  gene- 
rale Nunziante  portava  a  Napoli,  come  segno  di  vittoria,  due 
giubbe  garibaldine  giudicate  in  Corte  non  belle,  ne  brillanti? 
Tutti  concorrevano  a  rappresentare  una  parte  in  questa  triste 
commedia,  prodromo  della  tragedia  finale. 

Quasi  tutti  i  nobili  siciliani,  devoti  ai  Borboni,  erano  fug- 
giti a  Napoli  e  circondavano  il  vecchio  principe  di  Cassare.  Si 
facevano  discorsi  sulle  cose  dell'  Isola,  variamente  congetturando. 
Non  erano  quei  nobili  benevoli  a  Maniscalco,  che  pur  avevano 
adulato.  Chi  asseriva  ch'egli  coi  suoi  eccessi  aveva  provocata  la 
rivoluzione  ;  chi  gli  dava  dell'  imprevidente,  e  chi  addirittura  del 
traditore,  paragonandolo  a  Fouchè.  Più  furioso  contro  di  lui  si 
mostrava  sempre  il  conte  d'Aquila.  Al  Re  mancava  ogni  preci- 
sione di  concetto  ;  il  suo  verbo  favorito  era  sperare  ;  suo  padre 
aveva  accumulato  un  capitale  di  odii  in  Sicilia,  ed  egli  era  chia- 
mato a  portarne  la  responsabilità  e  non  se  ne  rendeva  conto, 
anzi  sperava! 

n  principe  di  Castelcicala  aveva  la  coscienza  di  aver  fatto  il 
suo  dovere,  ne  si  acquetò  alle  accuse  che  gli  furono  rivolte, 
quando  uscendo  dal  campo  del  vago,  presero  forma  concreta  e  pre- 
cisa in  quella  Cronaca  degli  avvenimenti  di  Sicilia,  la  quale  venne 
fuori  nel  1863,  e  ch'è  una  raccolta  di  documenti  autentici  circa 
le  cose  di  quel  tempo  :  libro  divenuto  oggi  rarissimo.  L'auten- 
ticità di  quei  documenti  mi  è  occorso  più  volte  di  controllare, 
scrivendo  questi  volumi.  Il  Castelcicala  riversava,  invece,  la  re- 
sponsabilità della  giornata  di  Calatafimi  da  una  parte  sul  tradi- 
mento del  generale  Landi  e  dall'altra  sul  mancato  aiuto  di  quei  due 
battaglioni,  ch'egli  aveva  chiesto  antecedentemente  e  ch'era  sicuro 


—  224  - 

sarebbero  sbarcati  a  Marsala  il  giorno  12  maggio,  mettendo  Gari- 
baldi fra  due  fuochi  e  tagliandogli  la  ritirata.  Egli  era  persuaso 
di  aver  fatto  il  suo  dovere,  avvisando  il  Re  subito  che  lo  sbar- 
co a  Marsala  era  avvenuto,  richiedendo  i  due  battaglioni  e  aven- 
done in  risposta  che  questi  sarebbero  sbarcati  a  Marsala  il  di 
seguente.  In  seguito  a  tali  assicurazioni,  egli  aveva  mandata 
nella  notte  analoghe  istruzioni  al  generale  Landi  e  al  maggiore 
Sforza,  di  concertare  i  loro  movimenti  con  le  truppe  che  dove- 
vano sbarcare  il  12  a  Marsala,  provenienti  da  Napoli.  Questi 
battaglioni  arrivarono  tre  giorni  dopo,  perchè  si  disse  che  Nun- 
ziante proponesse  farli  venire  dal  campo  degli  Abruzzi.  Non  due 
battaglioni  di  cacciatori,  ma  quattro  battaglioni  di  fanteria  e 
una  batteria  di  artiglieria  furono  fatti  imbarcare  nella  notte  del 
12  maggio  a  Q-aeta,  sotto  il  comando  del  generale  Bonanno,  alla 
volta  di  Palermo,  dove  avrebbero  ricevute  le  irruzioni.  E  giun- 
sero a  Palermo  la  mattina  del  14,  troppo  tardi  per  raggiungere 
Marsala  e  servire  allo  scopo.  Ecco  le  precise  parole  del  prin- 
cipe di  Castelcicala,  che  tolgo  dalla  sua  lettera  degli  11  dicem- 
bre 1864,  diretta  oXV  Union  di  Parigi. 

Conformemente  al  piano  fissato  da  prima,  tre  battaglioni  cacciatori 
partendo  da  Napoli  dovevano  rendersi  immediatamente  sul  posto  dove  lo 
sbarco  di  Garibaldi  sarebbesi  effettuato.  Il  10  maggio  io  ricevetti  il  primo 
avviso  dello  avvicinarsi  di  Garibaldi  e  lo  trasmisi  immediatamente  alla 
flotta,  il  comandante  della  quale  mi  accusò  ricezione  del  mio  dispaccio. 
L'il  Garibaldi  sbarcò  a  Marsala.  Il  giorno  stesso  il  Capo  del  Governo 
ne  fu  avvertito  e  promise  per  l'indomani  l'invio  a  Marsala  dei  battaglioni 
cacciatori. 

Queste  truppe  non  giunsero  mai.  Vogliano  coloro,  che  si  occupano  di 
redigere  la  storia  di  questi  deplorevoli  avvenimenti,  ricordare  questo  fatto 
la  cui  importanza  fu  suprema  !  Io  lo  ripeto  e  lo  preciso.  L' Il  maggio  1860 
un'ora  dopo  mezzogiorno  io  ricevetti  l'avviso  dello  sbarco  di  Garibaldi:  ad 
un'ora  e  dieci  minuti  trasmisi  la  notizia  a  Napoli,  domandando  i  promessi 
battaglioni;  alle  cinque  e  mezza  giunse  la  risposta;  si  prometteva  per  l'in- 
domani, 12,  l'arrivo  a  Marsala  dei  chiesti  rinforzi. 

Il  generale  Landi,  che  comandava  in  Alcamo,  ed  il  prode  maggiore 
Sforza,  che  io  aveva  inviato  lo  stesso  giorno  a  Trapani  con  un  battaglione, 
ricevettero  nel  corso  della  notte  le  mie  istruzioni  per  concertare  i  loro  mo- 
vimenti con  quelli  delle  truppe  attese  da  Napoli.  Queste  truppe  non  si  vi- 
dero mai. 

Il  13  allorché  acquistai  la  triste  convinzione  che  non  bisognava  più 
contarci,  riunii  le  forze  di  Landi  e  di  Sforza,  dando  loro  l'ordine  di  mar- 
ciare innanzi.  L'autore  della  Cronaca  dice  che  il  battaglione  di  Sforza  da 
Girgenti  fu  spedito  in  Alcamo  per  rinforzare  Landi.     No,  no:  il  battaglione 


-  225  - 

Sforza  da  Girgenti  venne  spedito  a  Trapani,  ove  restò  due  giorni,  per  at- 
tendervi l'avviso  dell'arrivo  dei  battaglioni  provenienti  da  Napoli,  e  fu 
solo  dopo  due  giorni  di  aspettativa  che  il  battaglione  di  Sforza  fu  spedito 
da  Trapani  ad  Alcamo  per  rinforzare  Laudi. 

Si  sa  quello  che  Landi  fece  a  Calatafimi  (quel  Laudi  che  il  Re  avea 
nominato  generale  otto  giorni  prima)  ma  è  utile  che  si  sappia,  che  se  si 
fosse  tenuta  la  parola,  se  non  si  fosse  impedito  con  perfidi  consigli  dati 
all'Augusto  mio  Sovrano,  la  partenza  dei  promessi  rinforzi,  Landi  non 
avrebbe  avuto  il  tempo  di  rendere  la  sua  memoria  si  tristemente  celebre. 

Giova  però  osservare  che  il  solo  ritardo  dei  due  battaglioni 
non  spiegherebbe  la  giornata  di  Calatafimi,  poiché  in  Sicilia  non 
vi  erano  meno  di  trentamila  uomini,  aumentati  il  giorno  14 
dalla  brigata  Bonanno,  la  quale  invece  di  sbarcare  a  Marsala 
il  12,  sbarcò  il  14  a  Palermo,  dove  restò  quasi  inoperosa  ;  e 
però  il  Castelcicala  scriveva  al  Bonanno  :  "  Ma,  signor  gene- 
rale, nel  ricevere  1'  11  aprile  l'ordine  di  partire  per  Palermo, 
non  avete  voi  capito  che  il  Re,  voi  ed  io  andavamo  ad  es- 
sere vittime  del  più  orribile  tradimento,  voi,  che  sapevate 
benissimo  che  annunziando  io,  lo  stesso  giorno,  lo  sbarco  di 
Garibaldi,  aveva  chiesto  l'invio  immediato  a  Marsala  dei  due 
battaglioni  promessi?  „  E  aggiungeva:  "  Aussi,  fai  repoussé 
comme  une  amère  dérision,  Voffre  du  commandant  de  la  flotte,  qui 
se  disait  prèt  à  vous  transporter  à  Marsala:  vous  y  seriez  arrivé 
le  15,  c'est  à  dire  quatre  jours  après  le  débarquement  de  l'en- 
nemi,  qui  avait  déjà  gagné  l'intérieur  de  Vile,  et  doni  les  traces 
étaient  perdues.  Vous  dites  avoir  protesté  contre  mon  refus^  etje 
vous  crois  car  vous  étes  un  soldat  d' honneur  ;  mais  je  regrette,  et 
vous  devez  le  regretter  autant  que  moi,  qu'au  lieu  de  protester  contre 
mes  ordres  à  Palerme,  vous  n'ayez  pas  protesté  à  Naples  contre 
cet  ordre,  qui,  en  vous  éloignant  si  traitreusement  du  terrain  de  la 
lutte  dans  un  moment  décisif,  a  permis  à  Garibaldi,  d'avancer, 
à  Landi  de  trahir  „ .  Per  Castelcicala  il  Landi  aveva  tradito  e 
lo  afferma  a  chiare  note.  Fu  poi  errore,  equivoco  o  anche  tra- 
dimento, se  quella  brigata  impiegò  più  di  due  giorni  di  viaggio, 
e  si  diresse  a  Palermo,  anziché  a  Marsala  ?  Le  temps  ne  favorirà 
pas  la  traversée,  rispose  il  Bonanno  al  Castelcicala,  confessando 
che  egli  sapeva  il  motivo  di  quella  partenza  improvvisa.  Lasciando 
il  porto  di  Gaeta,  fappris,  egli  scrive,  que  Garibaldi  était  dé- 
barqué  à  Marsala;  que  de  Palerme  on  avait  demandé  deux  ba- 
taillons  pour  les  faire  débarquer  dans  le  port,  oU  il  était  débarqué 

De  Cesabf,  La  fine  di  un  Regno  •  Voi.  I.  15 


—  226  - 

et  pour  le  poursuivre.  Tutto  questo  non  avrebbe  nesso  logico  con 
la  rotta  su  Palermo,  pour  connaitre  l'endroit,  secondo  egli  dice,  oU 
devait  débarquer  la  hrigade  tout  entière,  ou  deux  bataillons  seu- 
lement.  '  E  perciò  anche  questo  incidente  rimane  un  mistero  ; 
e  se  la  responsabilità  del  fatto  debba  attribuirsi  al  Bonanno  o 
al  brigadiere  Salazar,  il  quale  comandava  i  cinque  vapori  da  guer- 
ra che  trasportarono  la  brigata,  non  vi  è  alcun  documento  che 
lo  attesti. 

Il  principe  di  Castelcicala,  costretto  a  chiedere  le  sue  dimis- 
sioni, non  ebbe,  dopo  il  16  maggio,  alcuna  responsabilità  diretta  o 
indiretta    negli   avvenimenti   di  Sicilia,  e  tornò  a  Napoli,  dove 
non  fii  ricevuto  dal  Re.     Il  giorno  22  maggio,  primo  anniversa- 
rio della  morte  di  Ferdinando  II,  egli  assistette  ai   solenni  fu- 
nerali, che  furono  celebrati  nella  chiesa  di  San  Ferdinando.    Po- 
chi gli  rivolsero  la  parola,  volendosi  vedere  in  lui  il  solo  respon- 
sabile delle  cose  di  Sicilia.  Quella  cerimonia  fu  lugubre  sotto  ogni 
rapporto,    e    parve    davvero    il   funerale   della   Monarchia.     No- 
minato consigliere  di  Stato,  il  Castelcicala  ebbe  avviso  di  tenersi 
a  disposizione  del  governo  per  una  missione  di  fiducia,  che  non 
ebbe  più.    Lasciò  Napoli   il   giorno  8  settembre,   accompagnato 
dal   suo   fido   segretario   Domenico  Galletti,   dopo    aver   invano 
chiesto  di  seguire  il  Re  a  Gaeta.     Egli  mori  a  Parigi  nel  novem- 
bre del  1866,  senza  aver  più   veduto  Francesco  II  e  fu  questo, 
credo,  il  maggior  dolore  della  sua  vita,  che  cercò  di  sfogare  in 
quella  lettera  al  principe  della  Scaletta,  di  cui  ho  riportato  in- 
nanzi il  brano  più  caratteristico. 


^  Le  prince  de  Castelcicala.  —  Paris,  Imprimerle  de  Dubuissons  et  C. 
1866. 


CAPITOLO   XI 


SouuABio:  Le  agitazioni  di  Palermo  e  la  polizia  —  Arresti  e  fughe  —  Una  no- 
tizia priva  di  documenti  —  Garibaldi  entra  a  Palermo  —  Primi  scontri  — 
Il  bombardamento  della  città  —  1  primi  successi  dei  garibaldini  —  Il  governo 
municipale  eletto  da  Garibaldi  —  Il  29  maggio  —  La  prima  tregua  —  L'arrivo 
della  colonna  Von-Mechel  —  H  maggiore  Bosco  —  Le  navi  napoletane  ed 
estere  nel  porto  —  Si  conosce  a  Napoli  l' ingresso  di  Garibaldi  —  Gli  emigrati 
e  la  rivoluzione  in  Sicilia  —  Una  missione  in  Inghilterra  —  Documenti  in- 
teressanti —  Consiglio  di  Stato  del  30  maggio  —  Gravi  parole  del  generale 
Filangieri  —  Proposte  e  deliberazioni  —  Un  giudizio  del  Ee  su  Garibaldi 

—  Congresso  diplomatico  alla  Reggia  —  Primo  liberalismo  di  Nunziante  — 
Altri   Consigli  di  Stato  —  Il    piano  di  Filangieri  e  il  generale  Nunziante 

—  Il  ministro  Brenier  —  I  consigli  di  De  Martino  —  Filangieri  e  gli  zelanti 

—  Il  principe  di  Satriano  si  ritira  a  Pozzopiano  —  Visita  improvvisa  del 
He  —  La  fine  di  Carlo  Filangieri  e  l'opera  sua  —  Suo  monito  al  figlio. 

A  Palermo  si  viveva  in  un'agitazione,  che  si  può  immaginare. 
Memorabili  giorni  di  speranze  e  di  sgomenti  !  Si  diceva  che  Ga- 
ribaldi, dopo  il  fatto  d'armi  di  Calatafimi,  si  avanzava  a  grandi 
marce  sopra  Palermo  e  che  a  lui  si  era  unito  Rosolino  Pilo, 
con  tutte  le  squadre.  Il  Comitato  invisibile  comunicava  notizie 
e  mandava  ordini,  con  cartellini  stampati  alla  macchia.  Il  più 
curioso  fu  quello  che  avvisava  un'  altra  volta  la  popolazione 
di  non  giuocare  al  lotto.  Gli  aocattoni  dei  bastimenti  nel 
porto  di  Palermo  ricusavano  di  accettare  l'elemosina  data  dai 
marinai  napoletani,  col  patto  di  gridare  :  Viva  il  Re.  Benché 
fossero  in  vigore  le  ordinanze  sul  disarmo,  si  dissotterravano  tutte 
quelle  armi  bianche  e  da  fuoco,  che  si  erano  potute  celare  con 
mille  malizie,  ed  erano  state  soprattutto  nascoste  dalla  mafia. 
Nessuno  credette  che  Garibaldi  fosse  stato  sconfitto  a  Calatafimi, 


—  228  - 

e  che  Eosolino  Pilo  fosse  stato  ucciso  a  San  Martino,  il  21  mag- 
gio; si  seppe  e  si  diffuse  invece  rapidamente  la  notizia,  clie 
quasi  tutte  le  squadre,  ricomposte  dopo  il  4  aprile,  si  erano- 
riunite  a  Misilmeri,  intorno  a  Garibaldi.  Marinuzzi  vide  Gari- 
baldi la  prima  volta  a  Misilmeri  e  gli  narrò  i  particolari  della 
morte  di  Pilo.  A  Misilmeri  fu  passato  a  rassegna  l'esercito  delle 
squadre,  che  rappresentava  il  maggior  contingente  armato,  che 
la  rivoluzione  siciliana  portava  a  Garibaldi.  Erano  giovani  vil- 
lani quasi  tutti,  armati  malamente  di  pali,  di  forche,  di  falci 
e  di  coltelli  e  pochi  con  vecchi  fucili:  erano  caprari  e  bovari, 
giovanetti  di  campagna,  picciuotti,  quasi  tutti  scalzi,  e  pochi  gli 
elementi  civili.  Questi  villani  non  chiedevano  per  battersi  che 
un  trunco  d'albero  o  nu  petrone^  per  difendersi  la  faccia  e  il  petto, 
ed  erano  entusiasti  di  Garibaldi,  di  quel  Garibaldi,  marito,  se- 
condo essi,  di  una  bella  signora  che  si  chiamava  Talia,  la  quale 
era  figlia  di  un  Re  valoroso  e  potente,  che  si  chiamava  Vittorio 
Emanuele,  amico  della  Sicilia  e  nemico  dei  napoletani. 

La  polizia  fece  in  quei  giorni  i  suoi  ultimi  sforzi.  Il  14 
maggio,  fu  arrestato  Martino  Beltrami  Scalia,  il  quale  aveva 
potuto  sfuggire  fino  allora  agli  arresti,  perchè  erano  a  Palermo 
due  Martini  Beltrami,  e  si  era  potuto  giuocare  di  equivoci  e 
di  astuzie.  Questi  due  Martini  Beltrami  erano  tipi  diversi  e 
militavano  in  due  differenti  campi  politici.  L'attuale  senatore 
genero,  come  si  è  detto,  del  barone  Pisani  e  professore  di  geografia 
nell'istituto  Daita,  era  stato  uno  degli  elementi  più  operosi  e  più 
indomiti  delle  cospirazioni  liberali  in  tutti  quegli  anni.  Il  15 
aprile  Maniscalco  ordinò  l'arresto  di  Rocco  Ricci  Gramitto,  co- 
spiratore animoso  e  figliuolo  di  Giovanni  Gramitto,  uno  dei  qua- 
rantatre esclusi  dall'amnistia,  e  che  mori  in  esilio  a  Malta  nel 
1850.  Maniscalco  credeva  che  il  Ricci  Gramitto  fosse  corso 
a  Girgenti,  sua  patria,  dopo  la  giornata  del  4  aprile,  e  però 
in  data  del  15  inviò  all'  intendente  di  quella  provincia  il  se- 
guente ordine  :  si  piaccia  ordinare  che  il  nominato  don  Rocco 
Gramitto  di  Girgenti  sia  tratto  agli  arresti,  per  essere  costui  un 
cospiratore.  ^  Ma  il  Gramitto,  messo  sull'avviso  dai  suoi  ami- 
ci, dapprima  si  nascose  e  poi  il  26  aprile  lasciò  Palermo  e,  su- 
perando  con    molte   astuzie   infiniti  pericoli,   potè   riparare   in 

^  Archiivio  Ricci  Gramitto.  —  Il  Ricci  Gramitto  è  ora  consigliere  de- 
legato nella  prefettura  di  Roma. 


-  229  - 

provincia  di  Girgenti  e  sfuggire  alla  polizia.  E  anche  con  la 
fuga  potè  sottrarsi  agli  arresti  il  barone  Narciso  Cozzo,  una 
delle  figure  più  geniali  del  movimento  rivoluzionario. 

Il  barone  Cozzo  prese  le  armi  il  4  aprile  e  col  Ricci  G-ramitto 
e  il  padre  Calogero  Chiarenza  si  avviò  verso  la  Gancia.  Fu- 
rono fermati  a  mezza  via  dalle  preghiere  di  Francesco  Perrone 
Paladini,  che  dall'alto  di  una  finestra  disse  loro  di  non  prose- 
guire, per  evitare  un  sicuro  pericolo,  poiché  la  rivoluzione  era 
stata  domata  alla  Gancia,  come  loro  avevano  temuto,  quando 
andati  alla  Fiera  vecchia^  nelle  prime  ore  di  quel  giorno,  non 
videro  nessuno,  e  per  poco  non  vennero  fatti  prigionieri  e  fu- 
cilati. Il  Cozzo  potè  lasciare  Palermo  e  raggiunse  Garibaldi  al 
campo  di  Renne,  e  con  Garibaldi  tornò  a  Palermo  il  27  maggio; 
si  battette  a  Milazzo  e  morì  il  4  ottobre  nell'ospedale  di  Caserta, 
in  seguito  a  ferita  riportata  in  uno  scontro  alla  Scafa  della  For- 
mica, sulla  riva  destra  del  Volturno.  L'ultimo  suo  duello  lo 
ebbe  col  cavaliere  Camerata,  fratello  del  marchese  Limina,  per- 
chè in  casa  Agnetta  il  Camerata  aveva  discorso  in  senso  ostile  di 
Francesco  Brancaccio,  chiuso  alla  Vicaria  per  motivi  politici. 
Il  Cozzo  era  amicissimo  del  Brancaccio. 

Qui  occorre  fermarsi  sopra  una  notizia,  che  corse  a  Palermo  in 
quei  giorni,  e  fu  registrata  in  quella  Cronaca  degli  avvenimenti 
di  Sicilia,  già  ricordata.  Fu  detto,  dunque,  che  alcuni  dei  pochi 
nobili  rimasti  a  Palermo  avessero  aperta  qualche  trattativa  col 
generale  Lanza  per  ottenere  la  Costituzione  del  1812,  assicurando 
che  cosi  la  rivoluzione  avrebbe  avuto  termine,  e  Garibaldi  si 
sarebbe  fatto  imbarcare  a  Trapani  ;  ma  si  voleva  la  mediazione 
dell'ammiraglio  inglese  Mundy.  Il  pretore  di  Palermo  si  sa- 
rebbe presentato  a  Lanza,  latore  della  proposta,  e  Lanza  avrebbe 
dichiarato  di  non  poterla  accettare,  ma  che  qualora  egli  volesse 
sottoporre  qualche  nota  rispettosa  al  Re,  egli  l'avrebbe  rasse- 
gnata al  real  trono.  Il  pretore  allora,  si  disse,  convocò  i  decurio- 
ni, ma  nessuno  rispose,  e  solo  gli  fu  fatto  sapere  che  la  rap- 
presentanza municipale  si  sarebbe  riunita  quando  fosse  allon- 
tanato Maniscalco,  e  formata  una  guardia  civica.  Il  Lanza  ne 
avrebbe  informato  il  Re  con  un  dispaccio  del  22  maggio. 

Il  testo  del  dispaccio,  che  avrebbe  di  certo  qualche  impor- 
tanza storica,  non  è  pubblicato  ;  e  però  non  si  può  controllare  l'è- 


—  230  — 

Battezza  della  notizia  in  tutti  i  suoi  particolari:  esattezza,  alla 
quale  contrasta  il  fatto  che  dai  registri  ufficiali,  contenenti  i 
verbali  delle  sedute  del  Decurionato,  nulla  risulta  relativamente 
a  pratiche  di  tal  genere;  anzi  l'ultima  seduta  del  Decurionato 
ebbe  luogo  1'  8  marzo  del  1860,  quasi  un  mese  prima  dell'  in- 
surrezione della  Gancia.  Vi  furono  trattati  affari  amministra- 
tivi, e  la  tornata  fu  preseduta  dal  pretore,  principe  di  G-alati. 
V'intervennero  i  decurioni  Lello,  Bagnasco,  barone  Attanasio, 
D'Anna,  barone  Vagginelli,  Fermaturi,  Giovenco,  Zerega,  mar- 
chese Torretta,  Gramignani,  Lombardo,  Bertolini,  Martorana, 
Albengo,  Ondes,  Del  Tignoso,  Pasqualino,  Arduino,  Ardizzone, 
Bruno,  Corvaja,  Travali,  Scribani,  Balsano,  Silvestri,  Viola  e 
Todaro:  ventisette  sopra  trenta.  Io  non  escludo  che  possa  es- 
servi stata  qualche  riunione  privata  di  decurioni,  ma  non  ve 
n'  è  notizia  ufficiale,  ne  alcuno  ricorda  il  fatto  riferito  dal  Lanza 
nel  suo  dispaccio  del  22  maggio  e  registrato  nella  Cronaca. 

Nonostante  la  forte  guarnigione  di  ventimila  uomini,  con 
quaranta  pezzi  di  artiglieria,  non  compresa  la  forte  colonna 
mandata  ad  inseguire  Garibaldi  nell'  interno,  Lanza  non  lascia- 
va di  chiedere  a  Napoli  nuovi  rinforzi,  e  il  26,  vigilia  della 
Pentecoste,  furono  mandati  a  Palermo  altri  1200  soldati  dei  ca- 
rabinieri esteri.  La  polizia  aveva  tolto  da  alcuni  giorni  i  ba- 
tacchi alle  campane,  e  la  statua  caratteristica  del  vecchio  Pa- 
lermo era  stata  chiusa  nei  magazzini  dello  "  Spasimo  „.  È  su- 
perfluo ripetere  quanto  avvenne  in  quei  giorni,  e  eh'  è  narrato  in 
numerose  pubblicazioni,  ma  soprattutto  con  molti  particolari  dalla 
Cronaca^  la  quale  di  tutte  le  narrazioni  di  allora  è  la  più  esatta 
e  la  più  documentata. 

L' ingresso  di  Garibaldi  in  Palermo,  nelle  prime  ore  della  do- 
menica 27  maggio,  stupì  il  mondo.  Tutta  la  città  insorge  ;  suo- 
nano le  campane  a  stormo  ;  "  ogni  casa,  ogni  abituro,  scrive  la 
"  Cronaca  diviene  per  gl'insorti  una  piazza  d'armi,  per  tirare 
"a  colpo  sicuro  sulle  regie  truppe,  mentre  queste  non  possono 
"  sparare  che  contro  le  mura.  Dalle  finestre  e  dai  loggiati 
"  si  fanno  cadere  sulle  truppe  stesse,  mobili,  tavole  di  marmo 
.  "  e  quant'altre  masserizie  la  rabbia  rivoluzionaria  e  il  terrore 
"  impresso  dai  capi  del  movimento,  fra  gli  abitanti  può  sug- 
'^  gerire  „.  Marra,  che  comanda  gli  avamposti  a  porta  di  Ter- 
mini, non  riesce  a  far  indietreggiare  gli  assalitori,  che  sloggiano 


-  231  — 

il  nemico  dal  caratteristico  ponte  dell'Ammiraglio,  sul  quale  si 
combatte  animosamente  da  ambo  le  parti.  Il  ponte,  costruito  al 
tempo  di  Ruggiero  dall'ammiraglio  Giorgio  Antiocheno,  compa- 
gno dell'avventuroso  normanno,  quando  l'Oreto  era  veramente 
un  fiume,  è  ampio,  a  schiena  d'asino,  e  con  dieci  luci,  quasi 
tutte  interrate.  Oggi  è  fuori  d'uso,  essendosi  costruito  un  al- 
tro ponte  accanto,  in  piano,  ma  è  benissimo  conservato.  Di  là 
scende  la  strada  da  Misilmeri  e  da  Gibilrossa,  ed  è  detto  anche 
ponte  delle  Teste,  perchè  fino  al  secolo  scorso  vi  si  esponevano 
in  una  o  più  gabbiette  di  ferro,  le  teste  recise  dei  condan- 
nati. A  poca  distanza  vi  è  il  piccolo  e  sentimentale  cimitero 
dei  giustiziati,  testimone  dello  strano  culto  che  la  popolazione 
di  Palermo  ha  per  essi,  politici  o  comuni,  poco  importa,  pur- 
ché morti  per  mano  di  uomo,  e  creduti  perciò  purificati  col  sa- 
crificio della  vita.  Si  va  su  quelle  tombe  a  interrogarli,  e  si 
crede  averne  le  risposte.  La  fantasia  popolare  vede  di  notte 
le  anime  dei  giustiziati  vaganti  sulle  rive  dell'  Greto ,  dove 
per  vecchia  tradizione  si  va  a  lavare  la  lana,  che  deve  servire 
per  il  letto  degli  sposi.  Giuseppe  Pitrè,  il  più  geniale  e  pro- 
fondo illustratore  delle  tradizioni  popolari  della  Sicilia,  ha  scrit- 
to nel  volume  quarto  della  sua  Biblioteca,  uno  studio  vera- 
mente interessante  ed  emozionante  su  questo  strano  culto,  dal 
titolo:  Le  anime  dei  corpi  decollati  (Armi  de  li  corpi  decullati).^ 
Il  generale  Laudi,  che  dopo  Calatafimi  aveva  ottenuto  un 
inesplicabile  comando  a  Palermo,  è  sloggiato  dalla  Gran  Guardia^, 
e  ripiega  al  largo  del  Palazzo  Reale,  dove  si  vanno  concentrando 
altre  truppe.  Letizia  si  batte  al  rione  Ballerò,  ed  ha  qualche  suc- 
cesso, scacciandone  i  rivoltosi  e  bruciando  le  barricate  ;  Cataldo, 
che  comanda  a  porta  Macqueda  e  al  giardino  inglese,  attaccato 
con  veemenza,  chiede  aiuti  a  Laudi,  che  gli  manda  due  com- 
pagnie, ma  riesce  a  sostenersi  per  poco,  e  poi  ripiega  inglorio- 
samente al  palazzo  Reale  ;  è  richiamato  da  Monreale  in  tutta 
fretta  il  generale  Bonanno  con  la  sua  brigata.  Alle  sei  si  ordina 
al  forte  di  Castellamare  di  cominciare  il  bombardamento,  e  a 
mezzogiorno  ai  legni  da  guerra  di  fare  altrettanto.  Il  forte 
lancia  bombe,  e  da  Palazzo  Reale  si  tira  a  mitraglia.     Palermo 


1  Giuseppe  Pitrè,  Biblioteca  delle  tradizioni  popolari  $iciliane. 


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è  un  inferno,  e  quella  giornata  è  forse  la  più  memorabile  della 
sua  storia. 

Si  combatte  alle  porte,  nelle  vie,  nelle  piazze;  si  prendono 
d'assalto  campanili,  conventi,  palazzi  e  barricate;  per  effetto  del 
doppio  bombardamento,  ohe  non  ha  tregua,  si  sviluppa  il  fuoco 
in  molti  punti  della  città  ;  le  milizie  regie  si  battono  con  acca- 
nimento, pari  all'  accanimento  disperato,  con  cui  si  battono  gari- 
baldini ed  insorti.  Da  una  parte  e  dall'  altra  si  comprende  esser 
quella  1'  ultima  carta  del  gran  giuoco.  Cade  ucciso  il  colonnello 
ungherese  Tukery  al  ponte  dell'  Ammiraglio  ;  Benedetto  Cairoli  e 
Giacinto  Carini,  feriti  gravemente,  son  creduti  morti  ;  gli  atti  di 
valore  e  di  temerità  non  si  contano  ;  la  pugna  è  tremenda,  perchè 
si  fa  a  corpo  a  corpo,  nelle  vie  anguste  della  città;  G-aribaldi 
è  pari  a  sé  stesso,  e  dopo  trentasei  ore  di  marcia  e  di  combat- 
timento, non  mostra  stanchezza.  Ha  il  quartiere  generale  al 
palazzo  Pretorio,  nel  cuore  della  città  ;  con  calma  non  umana 
provvede  a  tutto  ed  è  certo  della  vittoria.  Sono  intorno  a  lui 
Crispi,  segretario  di  Stato,  che  si  occupa  di  organizzare  il  nuovo 
governo;  Sirtori,  Nullo,  Manin,  Dezza  e  Missori,  che  vanno  e 
vengono,  portando  notizie  e  ordini.  Al  palazzo  Reale  sta  il 
luogotenente  immobile  e  imbarazzato,  e  con  lui  sta  Maniscalco. 
Sulla  piazza  egli  ha  concentrate  molte  truppe,  delle  quali  non  sa 
che  farsi.  Gli  avamposti  occupano  l'arcivescovato,  e  di  là  al  pa- 
lazzo Pretorio  la  distanza  è  poca  cosa.  Le  notizie,  che  pervengo- 
no al  Lanza,  non  sono  liete,  perchè  nonostante  la  resistenza  delle 
truppe  e  il  bombardamento  non  interrotto,  la  rivoluzione  non  si 
dà  per  vinta,  ma  egli  si  mostra  indifferente.  Alle  quattro,  Ca- 
taldo ripiegando  al  palazzo  Reale  lascia  sguarnita  l'importante 
posizione  dei  Quattroventi,  e  con  essa  rimangono  sguarnite  le 
prigioni.  Sbuca  da  queste  una  vera  fiumana  di  malfattori,  circa 
duemila,  che  vanno  a  rinforzare  gl'insorti,  dopo  essersi  im- 
padroniti di  quattro  cannoni,  abbandonati  dalle  truppe.  La 
ritirata  dai  Quattroventi  segna  il  primo  disastro  dei  regi  in 
Palermo.  La  sera  di  quel  giorno,  tutta  la  parte  bassa  della  città 
è  in  balìa  degl'  insorti,  tranne  il  palazzo  delle  finanze  e  il  forte 
di  Castellamare. 

Lanza  non  sente  il  bisogno  di  tentare  personalmente  qualche 
cosa,  e  solo  invia  corrieri  in   varie  direzioni    per  richiamare  la 


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colonna  Von-Mechel,  uscita  il  21  ad  incontrare  Garibaldi,  e  ri- 
vela abbastanza  sangue  freddo  in  quell'  immenso  pandemonio  del 
suo  stato  maggiore.  La  colonna  Von-Mechel  era  formata  da  eccel- 
lenti truppe,  e  il  comandante  era  buon  militare,  più  ricco  di  co- 
raggio ohe  di  talento,  più  di  ostinazione  cbe  di  risoluzione.  Egli 
nonri  usci  a  persuadersi  dell'  inganno,  in  cui  lo  trasse  Garibaldi  al 
Parco,  quando  gli  fece  credere  che,  per  la  via  di  Corleone,  s'inter- 
nava nell'  Isola,  abbandonando  le  artiglierie.  Von-Mechel  se  ne 
persuase  solo  quando  ebbe  dal  generale  in  capo  l' ordine  di  rien- 
trare a  Palermo,  invasa  da  Garibaldi.  Si  disse  che  il  maggiore 
Bosco,  il  quale  comandava  un  battaglione  di  quella  colonna,  ac- 
cortosi dell'  inganno,  consigliasse  Von-Mechel  a  tornare  indietro, 
mettendo  Garibaldi  fra  due  fuochi,  e  sbaragliando  la  rivoluzione 
nel  piano  della  Guadagna,  ma  che  il  comandante,  tenace  come 
tutti  quelli  della  sua  razza,  (era  svizzero)  non  gli  desse  retta. 
Questo  giovane  maggiore  Bosco,  che  figurò  in  Sicilia,  a  Gaeta  e 
poi  a  Roma  come  il  bollente  Achille  dell'  esercito  napoletano  e  del 
legittimismo,  e  da  maggiore  divenne  in  pochi  mesi  colonnello 
e  generale,  era  pieno  di  valore,  ma  in  lui  la  vanità  oscurava  il 
valore,  perchè  non  sapeva  affermarlo  che  teatralmente,  come  se 
fuori  gli  occhi  del  mondo,  non  vi  fossero  stimoli  o  rischi  per 
lui.  Era  un  bel  giovane  e  anche,  si  diceva,  à  bonne  fortune, 
benché  i  malevoli  sussurrassero  che  egli  non  potesse  giovarsi 
molto  di  questa  fortuna.  Si  rese  comicamente  celebre  mandando 
a  sfidare  Garibaldi,  e  proponendogli  di  metter  fine  cosi  alla 
guerra,  ma  è  certo  che  fece  il  suo  dovere  e  il  suo  nome  va  ri- 
cordato e  onorato.  Se  una  metà  degli  ufficiali  borbonici  avesse 
fatto  il  proprio  dovere,  sia  pure  teatralmente  come  il  Bosco,  la 
fortuna  delle  armi  regie  in  Sicilia  sarebbe  stata  diversa.  Dun- 
que Von-Mechel  non  volle  sentire  il  consiglio  di  Bosco,  né  prima, 
né  poi  e  non  tornò  a  Palermo,  che  chiamatovi  dal  Lanza,  al- 
l'alba del  30  maggio,  tre  giorni  dopo  che  Garibaldi  vi  era  en- 
trato. Sulle  ore  tarde  della  notte  andò  via  via  scemando  il  fuoco, 
ma  tutto  lasciava  credere  che  sarebbe  stato  ripreso  l'indomani. 
Lanza  fece  interrogare  la  sera  del  27  l'ammiraglio  inglese  per 
mezzo  del  comandante  Chretien,  se  volesse  ricevere  a  bordo  due 
generali  incaricati  di  trattare  un  breve  armistizio  per  seppellire  i 
morti  e  curare  i  feriti.  Mundy  risponde  afiermativamente,  a  con- 
dizione che  i  due  generali  trattino  con  Garibaldi.     Lanza  replica 


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clie  con  Garibaldi  non  vuol  trattare,  e  all'  alba  del  28  son  riprese 
le  ostilità,  ma  meno  intensamente.  Si  conservano  le  posi- 
zioni; il  forte  di  Castellamare  fulmina  a  intervalli,  e  con  esso 
alcuni  legni  della  squadra  e  particolarmente  la  fregata  Ercole, 
comandata  dal  Flores,  cbe  imboccando  via  Toledo,  tira  granate, 
le  quali  producono  più  spavento  cbe  danno.  Gli  altri  sono  oc- 
cupati ad  agevolare  lo  sbarco  dei  due  battaglioni  di  carabinieri 
esteri,  mandati  da  Napoli,  al  comando  del  maggiore  Migy.  Ar- 
rivati il  giorno  innanzi,  non  erano  potuti  sbarcare,  a  causa  del 
combattimento,  cbe  ferveva  su  tutta  la  linea.  La  mattina  del 
28  giunge  da  Napoli  il  colonnello  Buonopane,  sottocapo  dello 
stato  maggiore  dell'  esercito,  con  medici,  chirurgi,  impiegati  d' o- 
spedali,  materassi  e  medicinali  per  curare  i  feriti.  Sono  i  primi 
aiuti  che  invia  Napoli;  gli  altri,  in  maggior  quantità,  arrivano 
il  di  seguente,  a  bordo  del  Mongibello.  Buonopane  rimane  nel 
forte  di  Castellamare,  dove  rimangono  pure  i  due  battaglioni 
esteri,  che  solo  la  sera  del  29,  a  baionetta  calata  e  per  vie 
recondite,  possono  arrivare  al  palazzo  Reale.  Il  comandante 
Migy  consegna  al  generale  Lanza  i  plichi  d'istruzioni,  portati 
dal  colonnello  Buonopane. 

Benché  si  combatta  da  una  parte  e  dall'altra  con  meno  in- 
tensità del  giorno  innanzi,  ma  con  pari  tenacia,  la  fortuna  delle 
armi  comincia  ad  arridere  agi'  insorti,  i  quali  riescono  a  impos- 
sessarsi dell'  ospedale  militare,  per  viltà  del  comandante  e  tra- 
dimento del  cappellano.  La  truppa  coi  malati  trova  rifugio  nel 
forte  di  Castellamare.  Quel  magnifico  ospedale  fu  di  grande  aiuto 
ai  feriti  garibaldini  e  Garibaldi  se  ne  mostrò  singolarmente  lieto  e 
non  disperò  più  della  vittoria  finale.  Potè  riposare  poche  ore  nella 
notte  dal  27  al  28,  in  una  camera  del  palazzo  Pretorio,  dopo 
aver  dettato  un  enfatico  ordine  del  giorno  al  popolo  di  Palermo 
e  dopo  aver  dichiarato  sciolto  il  municipio,  e  nominato  pretore 
il  duca  della  Verdura  e  senatori  il  principe  di  San  Cataldo, 
il  barone  Casimiro  Lo  Piccolo,  Federigo  Conte,  Vincenzo  Fa- 
vara,  Salvatore  Oacoamo,  Giovanni  Costantino,  Gaspare  Loja- 
cono,  Ercole  Fileti,  Francesco  Ugdulena,  Salvatore  Cusa,  Paolo 
Amari  e  Francesco  de  Cordova. 

Questi  dodici  senatori  avevano  l'incarico  di  provvedere  al 
ristabilimento  del  Decurionato,  che  Garibaldi  chiamò  "  Consiglio 
Civico  „.     Il  decreto  porta  la  firma  del  segretario  di  Stato,  Fran- 


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Cesco  Crispi.  Fa  il  primo  atto  di  autorità  dittatoriale  compiuto 
da  Garibaldi,  comandante  in  capo  le  forze  nazionali.  Il  titolo 
di  Dittatore  lo  assunse  qualche  giorno  dopo. 

Il  giorno  29  fu  disastroso  per  i  regi  nelle  prime  ore.  Alle 
undici,  dopo  breve  combattimento,  abbandonano  le  posizioni  dei 
Benedettini,  dell'Annunziata  e  del  bastione  di  Montalto  ;  alle  due 
gì*  insorti  occupano  il  campanile  della  cattedrale,  ad  un  tiro 
di  fucile  dalla  spianata  del  palazzo  Reale,  dov'è  accampato  il 
grosso  delle  truppe  ;  tirano  dall'eAto  e  ammazzano  molti  solda- 
ti, soprattutto  artiglieri.  Lanza  ordina  al  generale  Colonna  di 
riprendere  le  prime  tre  posizioni  e  al  generale  Sury  di  scacciare 
gì'  insorti  dalla  cattedrale  ;  si  combatte  con  accanimento  dalle 
due  parti,  e  ai  generali  suddetti  riesce  di  riprendere  le  posizio- 
ni. Sono  molti  i  morti,  moltissimi  i  feriti;  i  regi  non  tanno 
più  l'ospedale,  e  per  le  comunicazioni  interrotte  non  possono 
ricevere  i  soccorsi  giunti  da  Napoli.  In  quel  giorno  soltanto 
i  soldati  feriti  salirono  a  356.  Lanza  fa  ripetere  le  propo- 
ste all'ammiraglio  Mundy  di  una  breve  tregua,  mentre  Garibaldi, 
non  certo  perduto  d'animo  per  gli  avvenimenti  della  giornata, 
decreta  la  formazione  della  guardia  nazionale;  apre  una  sotto- 
scrizione per  provvedere  ai  bisogni  della  guerra;  stabilisce  la 
pena  di  morte  contro  i  rei  di  furto  e  di  saccheggio  ;  vieta  di 
percorrere  le  strade  a  mano  armata  senza  essere  sotto  la  dire- 
zione di  un  capo;  istituisce  un  comitato  per  gli  arruolamenti 
e  proibisce  di  perseguitare  gl'impiegati  dell'antica  polizia.  Que- 
sti suoi  decreti  rivelano  il  bisogno  di  aver  uomini,  armi  e 
danaro  e  di  mettere  un  argine  alle  violenze  di  quei  malandrini 
usciti  dalle  prigioni  il  27,  che  si  abbandonano  al  furto  e  al 
saccheggio  e  accrescono  la  confusione  e  il  terrore.  Oramai  si 
combatte  da  tre  giorni;  le  provviste  sono  esaurite  da  parte  de- 
gl'insorti; non  vi  sono  più  armi;  manca  il  danaro;  abbon- 
dano i  feriti,  e  gli  aiuti  promessi  dall'  interno  dell'Isola  non  ar- 
rivano. La  giornata  del  29  si  chiude  più  tragicaAente.  Il  forte 
di  Castellamare  ricomincia  il  fuoco,  e  un  terribile  incendio  ma- 
nifestatosi presso  la  chiesa  di  San  Domenico,  accresce  lo  spavento 
nella  città,  mentre  brucia  il  palazzo  Carini,  il  convento  del  Can- 
celliere minaccia  rovina,  e  quello  di  Santa  Caterina,  presso  il 
palazzo  Pretorio,  è  in  preda  alle  fiamme. 


—  236  - 

L'ammiraglio  inglese,  interrogato  dal  comandante  Chretien, 
aveva  risposto  che  il  Lanza  si  rivolgesse  direttamente  a  Garibaldi 
per  un  breve  armistizio.  E  il  Lanza,  vincendo  le  sue  incertezze 
e  forse  i  suoi  scrupoli,  scrisse  a  Garibaldi  nelle  prime  ore  del 
giorno  30,  chiedendogli  una  "  breve  sospensione  d'armi,  da  trat- 
tarsi sul  legno  inglese  dai  generali  Letizia  e  Chretien,  onde  sot- 
terrare i  morti  e  imbarcare  i  feriti  „ .  Al  Dittatore  non  parve 
vera  quella  richiesta,  e  si  affrettò  a  rispondere  al  generale  napo- 
letano, che  accettava  la  tregua,  e  annunziando  di  aver  dato  gli 
ordini  apportuni  per  far  cessare  il  fuoco  su  tutta  la  linea. 

Quell'armistizio  fu  la  provvidenza  della  rivoluzione,  la  quale 
correva  tutte  le  probabilità  di  essere  sepolta  nella  città  di  Pa- 
lermo, essendo  in  vista  dalle  prime  ore  della  mattina  del  80  la 
colonna  Von-Mechel,  composta  di  quelle  tali  truppe  vogliose  di 
battersi,  con  comandanti  giovani  e  di  valore.  Si  avanzava  a 
rapida  marcia,  cercando  di  pigliar  posizione  dalla  Flora  a  porta 
Sant'Antonino.  Fu  rimproverato  al  Von-Mechel  di  non  aver  av- 
visato in  tempo  il  generale  in  capo  delParrivo  ;  altri  disse  che  il 
Lanza  lo  sapeva  dal  giorno  innanzi;  certo  è  che  la  sorte  della 
rivoluzione  fu  decisa  in  quella  memorabile  mattina  del  30  maggio  ; 
imperocché  la  colonna  Von-Mechel  non  incontrò  alcuna  resistenza 
entrando  nella  città  ;  sbaragliò  gì'  insorti  a  porta  di  Termini  ; 
prese  di  assalto  otto  barricate  e  s'  impossessò  della  Fiera  vecchia, 
che  era  il  centro  della  rivoluzione.  Dalla  Fieravecchia  al  palazzo 
Pretorio,  dov'era  Garibaldi  col  quartiere  generale,  la  distanza 
è  poca  cosa.  Furono  momenti  di  trepidazione  nello  stato  mag- 
giore di  Garibaldi  e  si  credette  persino  che  Lanza  avesse  tra- 
dito, proponendo  l'armistizio  ;  ma  non  era  vero,  poiché  alle  10  */g 
due  capitani  di  stato  maggiore,  Bellucci  e  Nicoletti,  furore  man- 
dati dal  Lanza  ad  ordinare  a  Von-Mechel  di  arrestarsi  e  sospen- 
dere le  ostilità,  poiché  si  era  in  armistizio.  Il  quale  fu  concluso 
alle  due,  a  bordo  deìVHannibal,  fra  Garibaldi  e  il  maggior  Cenni, 
da  una  parte,  e  i  generali  Letizia  e  Chretien,  dall'altra  ;  armistizio, 
o  meglio  tregua,  che  gli  scrittori  borbonici,  soprattutto  il  cappel- 
lano militare  Butta,  chiamarono  il  suggello  del  tradimento  di 
Lanza.  ^ 


^  Un  viaggio  da  Boccadifalco  a  Gaeta,  memorie  della  rivoluzione  sici' 
liana  dal  1860  al  1861.  —  Napoli,  De  Angelis,  1882. 


—  237  — 

Nella  rada  di  Palermo  erano,  oltre  alla  squadra  inglese  sotto 
il  comando  dell'ammiraglio  Mundy  e  formata  da  tre  bastimenti, 
una  squadra  francese  con  tre  navi  ;  una  squadra  austriaca,  con 
due  ;  un  legno  della  flotta  sarda,  il  Governolo,  comandato  dal  mar- 
chese d'Aste  ;  una  fregata  spagnola,  una  americana  e  nove  legni 
della  flotta  napoletana.  Vi  erano  inoltre  circa  cento  legni  mer- 
cantili, sui  quali  si  erano  rifugiate  molte  famiglie.  La  flotta  na- 
poletana ancorava  più  prossima  alla  città,  fra  le  prigioni  e  il 
quartiere  dei  Quattro  Venti,  e  fu  da  quel  punto  che  bombardò  Pa- 
lermo nei  giorni  27  e  28,  dirigendo  i  suoi  tiri  a  palazzo  Preto- 
rio, ma  cosi  malamente,  che  molte  palle  e  granate  andarono  a 
cadere  sulla  spianata  del  Palazzo  Reale,  dove  ammazzarono  pa- 
recchi soldati  sul  monastero  di  Santa  Caterina,  prossimo  al  palaz- 
zo municipale  ;  e  su  quello  del  Cancelliere,  dopo  i  Quattro  Canti. 

Le  squadre  estere  furono  mute  spettatrici  di  quell'eccidio. 
Delle  regie  truppe  morirono  soli  quattro  ufficiali,  204  fra  sottuffi- 
ciali e  soldati,  e  circa  6CX)  furono  i  feriti.  Fu  notata  la  spropor- 
zione enorme  nel  numero  dei  morti  e  dei  feriti  tra  ufficiali  e  sol- 
dati: circostanza,  la  quale  provocò  più  tardi  da  Garibaldi  l'arguta 
osservazione,  ch'egli  aveva  combattuto  in  Sicilia  un  esercito  senza 
generali,  e  sarebbe  andato  poi  a  combattere  un  generale  senza 
soldati,  accennando  al  Lamoricière.  Il  solo  comandante,  che  di- 
mostrò un  certo  interesse  a  far  cessare  quella  carneficina,  con 
manifeste  simpatie  per  gì'  insorti,  fu  l'ammiraglio  Mundy.  L'oc- 
cupazione di  Palermo  giunse  a  Napoli  come  un  colpo  di  ful- 
mine ;  il  Giornale  Ufficiale  tentò  attenuarla,  dicendo  che  Gari- 
baldi era  entrato  a  Palermo  per  disperazione,  dopo  le  sconfitte 
subite  al  Parco,  a  Piana  de'  Greci  e  a  Corleone  ;  ma  che  la  co- 
lonna, la  quale  aveva  vinto  a  Corleone,  "  corse  subito  a  Palermo, 
e  per  la  porta  di  Termini,  una  di  quelle  per  cui  il  Garibaldi  era 
entrato,  forzatala  e  riconquistatala,  entrò  in  città  ed  occupò  parte 
delle  posizioni  due  giorni  prima  prese  dalla  gente  del  ridetto 
Garibaldi,  entrato  per  la  porta  medesima.  Forti  perdite  hanno 
a  deplorarsi  per  parte  delle  Reali  truppe,  al  cui  immenso  va- 
lare  ha  reso  luminoso  omaggio  lo  stesso  nemico,  ma  tali  per- 
dite sono   di   gran   lunga  minori  di  quelle  patite  dalle  bande  „. 

La  prima  notizia  dell'  ingresso  di  Garibaldi  a  Palermo  fu 
portata  in  Napoli  dall'avviso  V Amalfi,  partito  da  Palermo  alle 
dieci  della  mattina  del  27,  mentre  infuriava  il  bombardamento. 


—  238  — 

Lanza  scrisse  due  parole,  annunciando  die  G-aribaldi  era  en- 
trato nelle  prime  ore  della  mattina,  ma  clie  ne  sarebbe  scac- 
ciato subito.  Passarono  ventiquattr'ore  e  non  si  seppe  altro.  Il  Re 
impaziente  venne  da  Portici  la  mattina  del  29,  e  ne  riparti  subito. 
Le  notizie  ufficiali  si  conobbero  la  mattina  del  29  da  una  lettera 
del  console  inglese  di  Palermo  ad  Elliot,  lettera  portata  da  un  va- 
pore da  guerra  austriaco,  proveniente  da  colà.  Confermava  l'en- 
trata di  Garibaldi  e  annunziava  il  primo  armistizio.  Il  giorno  30, 
i  consoli  di' Francia,  di  Spagna,  d'Austria  e  Russia  ebbero  iden- 
tici rapporti  dai  loro  colleghi  con  maggiori  particolari,  e  li  co- 
municarono a  Carafa.  Nel  rapporto  inviato  a  Bermudez,  si  af- 
fermava che  Salzano  e  lo  stato  maggiore  fossero  prigionieri.  Le 
notizie  produssero  a  Napoli  un'  impressione  indimenticabile,  e  la 
sera  del  29  vi  fu  una  piccola  dimostrazione,  con  grida  di  Viva 
la  Sicilia,  Viva  Garibaldi.     Venne  dispersa  dalla  polizia. 

La  notizia  dell'entrata  di  Garibaldi  a  Palermo  sbalordi  e 
commosse  tutta  l'Italia  e  l'Europa  liberale.  Non  si  pensò  che 
a  rafforzare  la  rivoluzione.  Mentre  Agostino  Bertani  raccoglieva 
denari  e  armi  a  Genova,  gli  emigrati  napoletani  e  siciliani  che 
erano  a  Torino,  escogitarono  un  mezzo  anche  più  eroico,  propo- 
nendo a  Medici  e  a  La  Farina  di  mandare  in  Inghilterra  Agostino 
Plutino,  con  l'incarico  di  provvedere  di  vapori  la  rivoluzione. 
Mancavano  si  i  danari,  ma  non  si  arrestarono  a  tale  difficoltà  ; 
anzi,  conferendo  al  Plutino  l' incarico  dell'acquisto,  posero  espli- 
citamente a  carico  del  governo  da  costituirsi  in  Sicilia,  il  debito 
non  lieve  che  si  andava  a  contrarre.  Si  era  perduta  ogni  misu- 
ra nel  valutare  le  difficoltà,  e  n'è  prova  questo  caratteristico  docu- 
mento^ che  io  pubblico  integralmente  :  è  il  mandato  che  Medici  e 
La  Farina  e  alcuni  dei  più  autorevoli  emigrati  dettero  al  loro 
amico,  in  data  di  Torino,  29  maggio  : 

Il  signor  Agostino  Plutino  è  incaricato  di  recarsi  in  Inghilterra, 
colà  provvedere  in  soccorso  della  Rivoluzione  siciliana,  all'acquisto  di 
battelli  a  vapore  a  grande  velocità  e  a  poca  immersione,  che  verranno 
posti  a  disposizione  di  chi  avrà  assunto  la  direzione  militare  di  nuove 
spedizioni.  Il  sottoscritto  s' interesserà  di  fare  approvare  dal  Governo, 
che  sarà  costituito  in  Sicilia,  qualunque  stipulazione  fosse  per  essere  con- 
venuta  a  riguardo  di  detti  vapori  dal  signor  Agostino  Plutino. 

Firmato  :  G.  Mbdioi. 


—  239  — 

E  più  giù  sullo  stesso  foglio  : 

Confermo  quanto  ha  scritto  disopra  il  colonnello  Medici,  e  prometto 
di  aiutare  V  impresa  con  i  mezzi,  che  fornirà  la  sottoscrizione  in  favore 
della  Sicilia  aperta  dalla  Società  Nazionale  Italiana. 

Il  signor  Fiutino  è  incaricato  pure  di  trattare  in  Francia  e  ovunque 

^°^^^^  Il  Fresidente  (firmato)  La  Farina. 

E  più  innanzi,  sempre  sullo  stesso  foglio  : 

Il  latore  della  presente  è  il  signor  Agostino  Fiutino,  già  colonnello 
della  guardia  nazionale  di  Reggio  di  Calabria  e  fratello  dell'ex-deputato 
Antonino  Fiutino,  che  è  partito  per  Sicilia  con  la  spedizione  del  generale 
Garibaldi. 

Noi  qui  sottoscritti  e  già  deputati  al  Farlamento  e  cittadini  di  quelle 
Provincie  conferiamo  con  la  presente  al  sullodato  nostro  egregio  concit- 
tadino Agostino  Fiutino,  pieno  mandato  con  le  più  ampie  facoltà,  affinch'è 
promuova  la  raccolta  di  tutti  i  mezzi  necessari  per  sostenere  e  diffondere 
il  moto  nazionale  nelle  Due  Sicilie  impegnando  la  nostra  parola  di  far  ra- 
tificare il  suo  operato,  e  qualunque  contratto  egli  sarà  per  conchiudere 
con  case  inglesi,  non  appena  sarà  costituito  un  Governo  nazionale. 

Torino,  6  giugno  1860. 

Firmati:  Cablo  Poebio,  già  deputato  al  Parlamento 
di  Napoli  —  Duca  di  Caballino,  Sigismondo  Ca- 
STBOMEDiANo  —  PiETBO  Leopabdi,  già  deputato 
al  Pari.  Nap.,  e  inviato  straordinario  e  ministro 
plenipotenziario  presso  la  Beai  Corte  di  Sarde- 
gna —  Giuseppe  Pisanelli,  già  deputato  al  Pari. 
Nap.  —  Antonio  Ciccone,  id.  id.  —  Raffaele  Con- 
FOBTi,  id.  id.  —  Giuseppe  Tripepi,  nominato  nel 
1848  Commissario  del  potere  esecutivo  nella  pro- 
vincia di  Beggio  —  Cav.  Eaffaele  Pibia.  ' 

E  in  data  1°  giugno,  Salvatore  Tommasi  presentava  e  rac- 
comandava il  Fiutino  ad  Antonio  Panizzi,  perchè  lo  coadiuvasse 
neir  impresa.  * 

Il  30  maggio,  alle  10  '/g  del  mattino,  fu  tenuto  un  grande 
Consiglio  di  stato  e  di  famiglia,  al  quale  intervennero  i  conti 
d'Aquila,  di  Trapani  e  di  Trani,  e  Filangieri,  Troja  e  Giuseppe 
Ludolf,  ministri  di  Stato.  Filangieri  fu  mandato  a  chiamare 
alle  11  Vj.  Appena  giunto,  Francesco  II  lo  invitò  a  parlare.  Fi- 
langieri disse,  che,  anche  in  quei  momenti,  cosi  paurosi  e  gravi, 


*  Archivio  Platino. 

•  Id.  id. 


—  240  — 

era  costretto  a  ripetere  quanto  espose  altre  volte,  che  cioè  la 
politica  napoletana  doveva  trasformarsi,  abbandonando  l'Austria 
e  seguendo  la  Francia  ;  cbe  tale  trasformazione  avrebbe  dovuto 
compiersi  fin  dal  giorno  che  il  Piemonte  e  la  Francia  vinsero 
a  Magenta  e  a  Solferino,  e  fin  d'allora  concedere  una  Costitu- 
zione imperiale,  e  di  accordo  col  Piemonte  e  con  Napoleone, 
occupare  le  Marche,  per  togliere  al  Piemonte  l'occasione  d'in- 
vaderle, dal  momento  che  il  Papa  aveva  raccolti  a  sua  difesa  i 
legittimisti  di  tutta  Europa,  e  datone  il  comando  al  generale 
Lamoricière.  "  Ma  le  mie  convinzioni^  soggiunse,  non  convinsero 
il  Re,  e  n'ebbi  gran  dolore,  perchè  presentii  le  sventure  che  ora  ci 
sovrastano.  Mi  son  permesso  già  da  tempo  di  sottomettere  al  Re 
la  mia  opinione,  cioè  che  in  Sicilia  non  si  compie  un'  insurrezione^ 
ma  tutta  una  rivoluzione,  e  le  rivoluzioni  non  si  combattono  col 
cannone,  ma  si  cerca  conquistarle  moralmente  „ .  ^ 

Propose  di  mandare  a  Parigi  persona  adatta  per  trattare  con 
l'Imperatore,  e  ottenerne  le  necessarie  guarentigie  per  l' inte- 
grità del  Regno,  o  almeno  delle  provinole  continentali.  Il  ge- 
nerale Carrascosa  lealmente  gli  disse  :  "  Se  l'Eccellenza  Vostra 
fosse  partita  il  4  aprile  per  la  Sicilia,  la  causa  del  Re  sarebbe 
trionfata  nelV  Isola  „ .  Filangieri  gli  rispose  :  "  F'  ingannate,  ge- 
nerale. Quando  io  abbandonai  il  30  settembre  1854  la  Sicilia, 
portai  meco  la  convinzione,  che  il  sistema  di  governo,  che  si  vo- 
leva imporre  da  Cassisi  a  quel  paese,  l'avrebbe  fatto  presto  o  tardi 
perdere  alla  Monarchia  napoletana  „ .  ^ 

Il  conte  d'Aquila  aderì  con  grande  disinvoltura  a  Filangieri, 
dichiarando  che  Brenier  gli  aveva  detto  più  volte,  che  se  il  Re 
avesse  dato  uno  Statuto  a  tipo  imperiale,  la  Francia  avrebbe  ga- 
rantita l'integrità  della  Monarchia.  Vi  aderì  anche  il  vecchio 
Cassare,  presidente  del  Consiglio  e  vi  aderirono  Carafa  e  Comi- 
tini,  però  dichiarando  non  credere  opportuno  mandare  persona 
a  Parigi:  potersi  trattare  direttamente  con  Brenier.  Il  Re  in- 
caricò Carafa  di  convocare  i  ministri  esteri  per  assodare  la  circo- 
stanza riferita  dal  conte  d'Aquila. 

Sulla  proposta  di  un  mutamento  radicale  nella  politica  in- 
terna ed  estera,  lunga  e  vivacissima  fu  la  discussione.  Chi  era 
per  la  resistenza  ad  ogni  costo  ;  ohi  si  contorceva  come  il  conte 


'  Archivio  Filangieri.  '  Id.  id. 


—  241  - 

di  Trapani  ;  chi  si  teneva  la  testa  fra  le  mani  e  non  diceva  verbo, 
come  il  conte  di  Trani;  chi,  invece,  diceva  delle  bestialità  come 
Ajossa.  Il  Re  non  sembrava  molto  preoccupato  ;  anzi  fu  in  quel 
Consiglio,  che  rivelò  le  sue  tendenze  fatalistiche  quando  disse  : 
^  Don  Peppino  —  cosi  egli  chiamava  Garibaldi  —  ha  le  mani 
nette,  ma  egli  è  un  sipario;  dietro  di  lui  stanno  le  potenze  occi- 
dentali e  il  Piemonte  che  hanno  decretata  la  fine  della  dinastia  „ . 
Venuti  ai  voti  sulla  proposta  Filangieri,  votarono  a  favore  il 
conte  d'Aquila,  il  principe  di  Cassare,  Winspeare,  Gamboa,  Scorza, 
il  principe  di  Comitini,  il  conte  Ludolf,  ed  egli  stesso,  Filangieri, 
coi  direttori  Rosica,  Ajossa  e  Carafa  ;  la  respinsero  Troja  e  Oar- 
rascosa,  tenaci  sino  all'  ultimo  ;  si  astennero,  cioè  non  risposero 
né  si,  ne  no,  il  conte  di  Trani,  il  conte  di  Trapani  e  il  direttore 
De  Liguoro.  Filangieri  comunicò  i  punti  essenziali  del  suo 
Statuto,  proponendo  che  l'inviato  straordinario  ne  informasse  mi- 
nutamente Napoleone.  Un  altro  congresso  seguì,  un'ora  dopo, 
ma  fu  tutto  diplomatico.  Si  riunirono  alla  Reggia,  invitati  da 
Carafa,  i  ministri  esteri,  che  erano  quelli  di  Francia,  d' Inghil- 
terra, di  Sardegna,  di  Spagna,  di  Russia,  d'Austria,  di  Prussia, 
degli  Stati  Uniti  e  il  nunzio  pontificio.  Carafa  espose  il  motivo 
della  riunione,  e  Brenier  fece  dichiarazioni  più  restrittive  :  con- 
cesso lo  Statuto,  egli  sperava  che  l'Imperatore  avrebbe  dato  delle 
guarantigie  ;  EUiot  disse  di  non  avere  istruzioni  e  doverne  rife- 
rire al  suo  governo  ;  gli  altri  opina  rono  che  i  rispettivi  governi 
avrebbero  garantita  l' integrità  della  Monarchia,  e  questa  dichia- 
razione, o  meglio  opinamento  dei  ministri,  parve  senza  consi- 
stenza, non  avendo  alcun  potere  per  farla. 

Il  giorno  seguente  vi  fu  nuovo  Consiglio  di  Stato  ;  Carafa  riferì 
l'esito  della  riunione  dei  ministri  esteri,  ma  nulla  d' importante 
vi  fu  deciso. 

Un  vapore  francese,  giunto  alle  cinque  di  quel  giorno,  portò 
le  notizie  più  recenti  di  Palermo,  confermando  il  primo  armistizio. 
Il  bombardamento  era  cessato;  aveva  distrutto  sessantaquattro 
case  e  parecchi  edifìzii,  e  uccisa  molta  gente  in  città.  Rotta  ogni 
comunicazione  col  mare,  erano  concentrati  attorno  a  Palazzo 
Reale  da  dieci  a  dodicimila  uomini.  La  situazione  non  pareva 
disperata,  ma  del  Lanza  non  si  avevano  nuove  dirette,  e  il  telegrafo 
fra  l'Isola  e  il  continente  seguitava  ad  essere  interrotto.  Le  noti- 
zie produssero  molta  agitazione  ;  pattuglie  di  guardie  di  polizia  e 
di  cavalleria  erano  schierate  a  Toledo,  a  Chiaja  e  a  Santa  Lucia. 

Db  Cesare.  La  fine  di  un  Regno  -  Voi.  II.  16 


-  242  — 

I  liberali  ripetevano  una  frase  di  Garibaldi  :  fra  quindici  giorni  a 
rivederci  a  Napoli.  Questa  frase  era  stata  ripetuta  anche  in  Corte, 
e  Nunziante,  cominciando  in  quel  giorno  a  liberaleggiare,  di- 
ceva che  il  Re  dovesse  fare  delle  concessioni  ;  che  il  maledetto 
vapore  austriaco  era  stato  l'uccello  del  malaugurio,  e  l'Austria, 
come  sempre,  la  rovina  di  Napoli  ! 

Il  1*^  giugno,  vi  fu  nuovo  Consiglio  di  Stato  per  decidere  se 
si  dovesse  proporre  al  Re  la  concessione  dello  Statuto.  Troja, 
Carrascosa,  Scorza  e  Ajossa  si  mostrarono  più  che  mai  avversi. 
Fu  riferito  che  Brenier  avesse  detto  dovere  prima  il  Ee  dare  la 
Costituzione,  e  poi  egli  scriverebbe  a  Walewski  per  chiedere  la 
promessa  e  desiderata  guarentigia.  Venne  deciso  di  affidare  a  Fi- 
langieri, G-amboa  e  Carafa  l' incarico  di  formulare  un  progetto 
di  Costituzione,  il  quale  fosse  un  mezzo  termine  tra  quello  pro- 
posto l'anno  innanzi  da  Filangieri,  la  Costituzione  bozzelliana 
del  1848  e  la  sarda.  Dopo  il  Consiglio,  il  Re  si  trattenne  a  par- 
lare coi  principi  reali,  con  Filangieri  e  Carafa,  delle  cose  di  Si- 
cilia. Erano  arrivati  quella  mattina  da  Palermo  il  generale  Le- 
tizia e  il  colonnello  Buonopane,  inviati  da  Lanza,  e  avevano  ri- 
ferito al  Re  tutto  ciò  che  vi  era  accaduto,  dal  27  al  30  mag- 
gio, descrivendo  con  colori  molto  oscuri  lo  stato  dell'esercito  e  le 
condizioni  di  Palermo  e  concludendo  che,  allo  stato  delle  cose, 
non  vi  era  altro  da  fare  che  ritirarsi.  Il  principe  di  Satriano 
espose  al  Re  tutto  un  piano  per  la  ritirata,  consigliando  il  con- 
centramento delle  truppe  ai  Quattro  Venti,  come  il  punto  più 
adatto  anche  per  un  eventuale  imbarco  di  queste.  Il  piano  fu 
approvato  dal  Re,  che  ordinò  di  far  ripartire  il  giorno  stesso  Le- 
tizia e  Buonopane,  con  la  Saetta.  Ma,  nella  notte  seguente,  Filan- 
gieri venne  chiamato  in  gran  fretta  a  Portici,  e  vi  trovò  col  Re, 
Nunziante  e  Latour.  Il  Re  gli  disse  ohe  Letizia  e  Buonopane  non. 
erano  ancora  partiti,  perchè  Nunziante  e  Latour,  due  di  quelli, 
che  Filangieri  chiamava  per  ironia  gli  strateghi,  consigliavano  un 
altro  piano,  e  questo  era  di  far  muovere  le  truppe  per  la  pianura 
della  Guadagna,  in  prossimità  del  mare,  verso  sant'Erasmo  ;  di 
formare  in  quel  punto  un  campo  trincerato  ;  di  tenere  il  forte 
di  Castellamare  e  la  batteria  del  molo,  perchè  al  momento  op- 
portuno si  potesse  ricominciare  il  bombardamento  della  città. 
Filangieri  disapprovò  vivacemente  questo   piano  ;   disse   perico- 


-  243  - 

iosa,  anche  perchè  malsana,  la  pianura  della  Guadagna:  solo 
luogo  di  concentramento  per  una  ritirata  essere  i  Quattro  Venti. 
E  poiché  Nunziante  faceva  delle  osservazioni,  Filangieri  Ip  in- 
vitò bruscamente  ad  andare  lui  ad  eseguire  quel  piano,  di  cui  si 
rivelava  l'autore.  Nunziante  confessò  di  essersi  ingannato,  e 
-aderì  al  giudizio  di  Filangieri,  il  quale,  a  proposito  del  bombarda- 
mento, osservò  che  l' insurrezione  non  era  più  domabile  col  can- 
none, e  scongiurò  il  Re  a  non  dare  questi  ordini,  i  quali  avreb- 
bero risollevate  contro  di  lui  le  ire  dell'  Europa  liberale.  Il  Re 
parve  persuaso.  Uscendo  dalla  sala  del  Consiglio,  Latour  disse 
ad  alcuni,  che  erano  in  anticamera  :  ""Filangieri  ha  avuto  due  torti: 
nel  1848  di  non  aver  rasa  Palermo,  ed  ora  di  non  volerla  far 
bombardare  per  salvare  il  suo  maggiorasco  „ .  Alle  cinque  della 
mattina  ripartì  la  Saetta  per  Palermo,  con  istruzioni  esplicite 
date  a  Letizia  e  a  Buonopane,  di  far  eseguire  la  ritirata  ai  Quat- 
tro Venti,  e  ninna  istruzione  esplicita  circa  il  bombardamento.  ^ 

Il  giorno  4,  Letizia  e  Buonopane  tornarono  di  nuovo  a  Na- 
poli, a  bordo  dello  stesso  legno.  Vennero  a  chiedere  altre  istru- 
zioni, poiché  Garibaldi,  protetto  dalla  flotta  inglese,  imponeva 
una  regolare  capitolazione,  collo  sgombero  di  Palermo  da  parto 
delle  truppe  regie.  Letizia  si  lodava  molto  dei  modi  e  delle 
forme  di  Garibaldi,  e  il  Re  lo  ascoltava  con  curiosità  e  quasi 
con  compiacenza!  Disse  anche  che  gli  ufficiali  napoletani,  pas- 
sati a  Garibaldi,  erano  soli  dodici,  e  tra  essi,  due  capitani.  Ri- 
partirono il  giorno  stesso,  con  istruzioni  che  le  truppe  uscireb- 
bero da  Palermo  con  tutti  gli  onori  militari,  imbarcandosi  con 
equipaggi,  bagagli  e  materiali  da  guerra,  ai  Quattro  Venti  per 
Napoli:  convenzione,  la  quale  poi  venne  sottoscritta  il  6  giugno 
da  Garibaldi,  Letizia  e  Buonopane.  Il  Lanza  non  vi  ebbe  parte, 
e  se  ne  chiamò  irresponsabile. 

Gli  avvenimenti  incalzavano.  Nella  notte  dal  4  al  6  giugno, 
Brenier  ebbe  una  lunga  conversazione  col  Re,  la  quale  si  pro- 
trasse sino  alle  2  Vj  della  mattina.  Si  parlò  delle  cose  di  Sicilia 
e  del  progetto  di  Costituzione,  e  degli  studii  che  vi  faceva  la 
commissione  incaricata  di  redigerlo.  Brenier  andò  a  trovare 
Gamboa,  e  questi  gli  disse  essere  divenuto  necessario  modificar© 
parecchie  disposizioni  del  progetto  Filangieri  in  senso  più  liberale, 


1  Archivio  Filangieri. 


—  244  - 

cercando  di  conciliare  quel  progetto  con  lo  statuto  piemontese, 
e  con  quello  di  Napoli  del  1848  ;  ma  clie  il  Re  era  ancora  incerto 
circa  l'opportunità  di  concederlo.  Brenier  confermò  a  Gamboa 
le  sue  dichiarazioni,  non  nascondendo  che  uno  statuto  di  tipo 
non  imperiale,  concesso  in  quelle  condizioni  del  Regno  e  di 
tutta  Italia  e  accompagnato  dall'amnistia,  avrebbe  potuto  pro- 
durre gravi  conseguenze,  ma  che  il  non  darne  alcuno  sarebbe 
maggior  pericolo. 

Il  giorno  6,  era  giunto  Griacomo  De  Martino  da  Roma.  Vide 
subito  il  Re,  presente  Carafa,  e  gli  disse  che  il  non  aver  voluto 
sentire  i  consigli  della  Francia  e  di  Filangieri  l'avevano  condot- 
to al  punto  in  cui  si  trovava  ;  che  egli,  un  mese  prima,  quando 
venne  a  Napoli,  era  latore  dei  voleri  della  Francia,  accettati  da 
Cavour.  La  Francia,  avrebbe  detto  De  Martino,  chiedeva  riforme 
politiche  e  amministrative  ;  voleva  che  il  Re  di  Napoli  occupasse 
le  Marche  e  l'Umbria  come  armata  italiana  e  nazionale,  e  non 
come  birri  del  Papa,  e  in  ricambio  gli  avrebbe  garantita  l'in- 
tegrità dei  suoi  Stati;  il  Re,  rifiutando,  aveva  sacrificato  tutto 
ad  una  falsa  politica  austro-papale:  ora  essere  troppo  tardi,  an- 
che perchè  il  Papa  era  divenuto  il  più  forte  istrumento  del 
partito  legittimista  in  Francia,  per  cui  dubitava  dell'efficacia  e 
sincerità  di  aiuti  da  parte  dell'  Imperatore  :  ad  ogni  modo  si 
dichiarava  pronto  a  partire.  Cosi  egli  riferi  di  aver  parlato  al 
Re,  ma  è  da  credere,  conoscendo  l'uomo,  che  il  suo  linguaggio 
fosse  stato  meno  esplicito  e  soprattutto  men  duro. 

I  borbonici  più  incorreggibili,  i  quali  non  ebbero  mai  per  Fi- 
langieri alcun  sentimento  di  benevolenza  e  neppure  di  giustizia, 
e  non  lo  lasciarono  immune  da  sospetti  oltraggiosi  e  da  inique 
calunnie,  dissero  e  scrissero  che  il  principe  di  Satriano  aveva 
contribuito  più  di  tutti  a  far  perdere  la  Sicilia,  perchè  egli,  salito  al 
governo  col  nuovo  Re,  aveva  come  primo  atto  licenziato  Cassisi, 
sostituendolo  con  Paolo  Cumbo,  sostituito  alla  sua  volta,  quando- 
Filangieri  si  fu  dimesso,  dal  principe  di  Comitini  ;  perchè  si  era 
rifiutato  di  tornare  nell'Isola  coi  pieni  poteri,  e  perchè,  infine^, 
aveva  proposto,  in  sua  vece,  il  vecchio  e  incapace  Lanza.  li- 
rifiuto  di  andare  in  Sicilia  era  giustificato  dal  fatto,  che  il  Fi- 
langieri si  sentiva  vecchio,  con  la  moglie  inferma  e  intendeva 
quanto  i  tempi  fossero  mutati.     L'aver  suggerito  il  Lanza,  dopo. 


-  246  — 

il  rifiuto  d'Ischitella  e  di  Nunziante,  potrebbe  parere  inespli- 
cabile a  chi  ignora  quanto  misera  fosse  la  condizione  militare 
del  Regno:  tutti  generali  vecchioni,  che  non  valevano  più  di 
Lanza,  e  in  Sicilia  occorreva  mandare  un  vecchio  generale,  pre- 
feribilmente siciliano.  Il  Filangieri,  che  lo  aveva  avuto  per  suo 
capo  di  stato  maggiore  nella  spedizione  di  Sicilia,  portava  di 
lui  opinione  un  po'  diversa,  e  riconosceva  che  l'arrivo  del  Lanza 
a  Palermo  era  stato  in  coincidenza  con  la  vittoria  di  Garibaldi 
a  Calatafimi,  la  quale  distrusse  quel  po'  di  morale  rimasto  nel- 
l'esercito. Rideva  anche  lui,  Filangieri,  di  alcune  ingenuità  del 
Lanza,  il  quale,  giunto  a  Palermo,  proprio  l' indomani  di  Cala- 
tafimi, chiedeva  con  interesse  a  Domenico  Galletti,  che  gli  dava 
la  consegna  del  palazzo  Reale,  se  le  carrozze  e  i  cavalli,  che 
erano  nelle  scuderie,  gli  appartenevano;  e  avutone  in  risposta 
che  gli  appartenevano  come  luogotenente,  incaricava  lo  stesso 
Galletti  di  telegrafare  ai  figli  a  Napoli  che  vendessero  i  caval- 
li e  le   carrozze  di  casa. 

Il  principe  di  Satriano  che  portava  a  Francesco  II  sincero 
affetto,  tornò  a  visitarlo,  il  giorno  16  ;  ma  il  Re  non  gli  parlò  di 
politica  e  il  vecchio  generale  riparti  per  quella  stessa  villa  De 
Luca,  a  Pozzopiano,  odiato  dagli  zelanti  e  dagli  strateghi,  intimi, 
ascoltati  e  funesti  consiglieri  di  Francesco;  ma  non  volendo 
prender  partito  coi  liberali  antidinastici,  perchè  egli  era  dinastico 
e  voleva  l'autonomia  del  Regno,  ma  di  potente  e  civil  Regno, 
con  una  Costituzione,  la  quale  limitasse  si  alcuni  poteri  del 
principe,  ma  rendesse  i  ministri  responsabili  solo  verso   di   lui. 

Pochi  giorni  dopo  il  suo  ritiro  a  Pozzopiano,  avvenne  un 
altro  incidente.  In  un  pomeriggio  di  giugno,  mentre,  disteso 
sopra  una  poltrona,  il  principe  di  Satriano  leggeva  il  suo  fa- 
vorito Journal  des  Débats,  un  servo  gli  annunziò  che  una  lan- 
cia a  vapore  della  regia  marina  si  accostava  alla  villa,  e  ohe 
nella  lancia  aveva  veduto  il  Re.  Filangieri  si  ritirò  nella  sua 
camera.  Francesco  II  si  trattenne  con  lui  più  di  un'ora,  in 
colloquio  segreto.  Quando  il  Re  andò  via,  Gaetano  Filangieri 
corse  dal  padre,  e  lo  interrogò  sul  colloquio.  Ma  il  vecchio  ri- 
spose :  "  J'ai  réfusè  „  e  non  disse  altro,  ne  altro  si  seppe  di 
quella  visita.  Lasciò  Napoli  il  giorno  11  agosto,  diretto,  con 
la  moglie  inferraa,  per  MarsigKa.  Da  circa  due  mesi  non  aveva 
più  veduto  il  Re.     Lasciava  Napoli   con  la  convinzione,   che 


-  246  — 

non  vi  era  più  scampo  per  i  Borboni,  e  vi  tornò  nel  1862^ 
poche  ore  prima  che  vi  morisse  sua  moglie,  ne  da  Napoli  si  mos- 
se più.  Rifiutò  uffici  ed  onori  dal  nuovo  governo,  ma  non  rim- 
piangendo i  Borboni,  che  egli  credeva  essere  stati  artefici  ciechi 
della  propria  rovina.  Si  spense  nel  1867  a  San  Giorgio  a 
Cremano,  a  ottantatre  anni,  non  di  vecchiaia,  come  si  disse, 
ma  di  una  polmonite  che  contrasse,  volendo  rendere  un  favore 
a  un  suo  congiunto.  La  condotta  di  questo  valoroso  vecchio 
soldato,  che  ebbe  di  certo  dei  difetti,  ma  che  fu  l'unica  testa 
politica,  che  abbia  avuto  il  Regno  di  Napoli  nell'ultimo  secolo, 
mutati  i  tempi,  fu  ancora  più  nobile.  Egli  non  imitò  tanti 
altri,  i  quali,  dopo  avere  sfinittati  i  Borboni  sino  all'ultimo, 
si  affrettarono  a  passare,  armi  e  bagaglio,  nel  campo  nemico, 
rinnegando  la  vecchia  bandiera,  o  abbandonarono  F  inesperto 
Re  al  suo  fato.  Certo,  se  Carlo  Filangieri  ebbe  grandi  soddisfa- 
zioni nella  vita,  sofferse  pure  grandi  e  profonde  amarezze,  per 
le  calunnie,  alle  quali  lo  fecero  segno  le  leggerezze,  le  invidie 
e  le  malignità  dei  suoi  concittadini.  Onde  non  è  maraviglia 
se  nelle  sue  carte,  io  leggessi,  scritte  di  suo  pugno,  come  monito 
al  figlio  Gaetano,  queste  terribili  parole:  "  . .  . .  credimi, per  chiun- 
que ha  un  po'  d'onore  e  un  po'  di  sangue  nelle  vene,  è  una  gran 
calamità  m^lte  volte  nascere  napoletano  ....„.' 


'  Archivio  Filangieri. 


CAPITOLO  XII 


SoMMAKio:  Alla  vigilia  dell'Atto  Sovrano  —  Intrighi  di  Corte  —  Eapporti  di 
Antonini  e  De  Martino  da  Parigi  e  parole  di  Napoleone  III  —  Il  libera- 
lismo del  conte  d'Aquila  —  La  sua  intimità  col  Brenier  —  Una  rivelazio- 
ne —  Il  Consiglio  di  Stato  del  21  giugno  a  Portici  —  Parole  del  principe 
di  Cassare  e  di  Carrascosa  —  Il  Ee  manda  De  Martino  a  Eoma  —  I  con- 
sigli di  Pio  IX  —  L'Atto  Sovrano  del  25  giugno  —  Il  nuovo  ministero  — 
I  primi  disordini  —  L'aggressione  del  ministro  francese  —  Il  proclama  di 
Liborio  Eomano  —  La  guardia  cittadina  —  1  nuovi  direttori  e  i  principali 
ministri  —  Spinelli,  Manna,  Torella,  De  Martino,  De  ""Cesare  e  Giaccbi  — 
Si  richiama  in  vigore  lo  Statuto  del  1848  —  Commissioni  e  riforme  —  De- 
stituzioni e  nuove  nomine  —  L'amnistia  e  la  serata  al  San  Carlo  —  Il  ri- 
tomo dei  liberali  esiliati  —  Malumori  contro  l'esercito  —  La  giornata  del 
15  luglio  —  Pianell  ministro  della  guerra  —  Proclami  di  Francesco  II  e 
strana  circolare  di  Pianell  —  La  Guardia  Nazionale  —  Don  Liborio  Eo- 
mano —  Maria  Teresa  a  Gaeta  —  Maria  Sofia  e  donna  Nina  Eizzo. 

L'Atto  Sovrano,  approvato  in  massima  nel  gran  Consiglio  di 
Stato  e  di  famiglia  del  30  maggio,  non  venne  fuori  che  il  25 
giugno.  Sarebbe  molto  difficile  tener  conto  minuto  di  tutto 
quell'insieme  di  dubbi  e  di  perplessità  da  parte  del  Re  ;  d'intri- 
ghi, di  sospetti  e  di  paure  da  parte  degli  zelanti  ;  ed  anche 
delle  pressioni  diplomatiche  del  Brenier,  con  cui  aveva  stretto 
intimi  rapporti  il  conte  d'Aquila,  il  quale,  divenuto  ad  un  tratto, 
come  si  è  visto,  costituzionale  e  liberale,  cercava  di  oscurare  la 
fama  del  fratello,  il  conte  di  Siracusa,  che,  il  8  aprile,  aveva 
scritta  al  Re  la  celebre  lettera,  la  quale  levò  tanto  rumore  in 
Italia  e  in  Europa.  La  conversione  del  conte  d'Aquila  alle  idee 
liberali  si  rivelò  dopo  la  catastrofe  di  Palermo.  Divenne  costi- 
tuzionale arrabbiato  e  con  lui  quasi  tutto  il  partito  retro- 
grado.   Il  duca  di  Bivona  diceva  :   "  Senza  la  Costituzione  non 


—  248  — 

si  può  andare  avanti  „ .  Si  verificava  questo  caso  curioso,  die 
i  retrogradi  diventavano  costituzionali,  e  i  vecchi  liberali,  uni- 
tarii  tutti.  Giorni  memorabili  furono  quelli,  nei  quali  uno  dei 
drammi  più  caratteristici,  che  la  storia  ricordi,  si  svolse  nella 
Corte,  nel  governo  e  nell'  animo  stesso  del  Re,  in  preda  alle 
più  opposte  correnti,  ma  rassegnato  e  quasi  inconsapevole  ; 
dramma  familiare  e  politico,  che  interessava  non  solo  il  Regno, 
ma  tutta  l'Europa,  perchè  tutta  l'Europa  aveva  gli  occhi  su  Na- 
poli, sperando  o  temendo  le  varie  nazioni  che  il  fuoco  rivoluzio- 
nario, comunicandosi  dalla  Sicilia  al  continente,  mandasse  in 
fiamme  la  dinastia  e  il  Regno.  De  Martino  parti  la  sera  del  6, 
accompagnato  dal  generale  Roberti,  e  questa  compagnia  diede 
luogo  ad  ameni  commenti,  perchè  era  noto  che  Roberti  non  sa- 
peva una  parola  di  francese.  S' imbarcarono  per  Marsiglia  sulla 
Saetta,  e  giunsero  a  Parigi  il  giorno  11. 

De  Martino  era  latore  di  una  lettera  autografa  di  France- 
sco II  per  Napoleone,  e  di  un  lungo  dispaccio  con  documenti 
per  Antonini  e  Thouvenel;  né  più  tardi  del  giorno  successivo 
all'arrivo,  12,  fu  con  Antonini  ricevuto  a  Fontainebleau.  Il  Re 
e  il  ministero,  intanto,  sia  per  i  fatti  di  Sicilia,  sia  per  agevo- 
lare la  riuscita  della  missione  di  De  Martino,  cominciarono  a  fare 
delle  concessioni.  Il  9  giugno  uscirono  da  Santa  Maria  Appa- 
rente alcuni  detenuti  politici,  fra  i  quali  il  noto  avvocato  Griu- 
seppe  Saffioti.  E  tre  giorni  dopo,  il  maresciallo  duca  Caracciolo 
di  San  Vito  fu  chiamato  a  sostituire,  come  direttore  di  polizia, 
l'Ajossa,  licenziato  in  una  forma,  che  fece  a  tutti  molta  im- 
pressione. La  mattina  del  12  giugno,  andando  infatti  al  mini- 
stero all'ora  solita,  trovò  il  suo  posto  occupato  dal  nuovo  diret- 
tore. Si  disse  che  il  licenziamento  di  lui  fosse  opera  di  Brenier, 
e  non  è  inverosimile.  Ajossa  non  trovò  un  amico  in  quella 
occasione,  la  più  triste  della  sua  vita,  né,  dopo  di  allora,  occupò 
altri  ufficii  ;  e,  mutati  i  tempi,  andò  a  chiudersi  in  Calabria,  nel 
suo  borgo  d'origine,  dove  si  spense  nell'oscurità  nel  1876,  dopo 
aver  fatto  tremare  il  Regno  ed  essere  stato  il  terrore  special- 
mente delle  Provincie,  da  lui  amministrate.  In  quei  primi  gior- 
ni della  sua  disgrazia  era  addirittura  furioso.  Il  16  giugno, 
incontrato  Gaetano  Filangieri,  gli  disse  che  l'ingratitudine  dei 
Borboni  era  proverbiale,  e  che  dopo  vent'anni  di  servizio  era 
stato  trattato  come  Intenti  e  Del  Carretto.     Filangieri  gli  ri- 


~  249  - 

spose,  con  aria  di  scherzo,  che  lui  aveva  minato  Casella,  ed  era 
stato  minato  alla  sua  volta.  Ajossa  diceva  corna  di  Nunziante, 
attribuendo  a  lui  gli  ultimi  eccessi  della  polizia. 

Il  maresciallo  Caracciolo  di  San  Vito  era  uomo  giusto  e  one- 
sto, ma  povero  d' ingegno  e  d'energia.  E  poiché  era  sordo,  si  disse 
che  almeno  avrebbe  avuto  il  vantaggio  di  non  porgere  ascolto  alle 
delazioni.  Il  giorno  dopo  la  sua  nomina  uscirono  da  Santa  Maria 
Apparente  altri  quarantadue  detenuti  politici,  e  tutta  la  compagine 
della  vecchia  polizia  n'ebbe  una  scossa  abbastanza  forte.  Prima 
per  telegramma,  e  poi  con  rapporti  speciali  del  13  e  del  16  giu- 
gno, diretti  a  Carafa,  il  marchese  Antonini  rese  conto  partico- 
lareggiato del  colloquio  avuto  a  Fontainebleau,  riferendo,  di 
tanto  in  tanto,  le  parole  stesse  dell'  Imperatore,  piene  di  benevo- 
lenza per  la  persona  del  Re,  ma  punto  rassicuranti  circa  le  in- 
tenzioni sue,  riguardo  alla  proposta  di  mediazione  fattagli  dai 
delegati  napoletani.  "  La  Sardegna  sola  può  arrestare  la  rivolu- 
zione, disse  l' Imperatore  ;  piuttosto  che  a  me,  è  al  re  di  Sardegna 
che  avreste  dovuto  dirigervi;  è,  contentando  l'idea  nazionale,  che 
potreste  solo  arrestare  la  corrente;  le  concessioni  interne,  separate 
da  quella, per  se  stesse,  non  avrebbero  scopo;  nessuno  le  accetterà  „. 
I  dispacci  di  Antonini  produssero  viva  impressione  a  Napoli  ;  ma, 
al  solito,  gli  zelanti  della  Corte  e  del  governo  accusavano  il  De 
Martino  di  avere,  d'accordo  con  l'Antonini,  caricate  le  tinte,  per 
forzare  la  volontà  del  Re.  Le  parole  di  Napoleone:  "i7  faut 
s'entendre  avec  Turin  „  ;  e  queste  altre  :  "  è  troppo  tardi,  un  mese 
fa  le  riforme  avrebbero  potuto  prevenir  tutto,  ora  è  troppo  tardi  ; 
la  Francia  è  in  una  posizione  difficile;  le  rivoluzioni  non  si  ar- 
restano con  parole,  ed  ora  la  rivoluzione  esiste  e  trionfa  ;  è  a  To- 
rino,  è  a  Torino  che  bisogna  agire;  date  a  Cavour  un  argomento 
di  fatto,  un'arma  valida,  un  interesse  a  sostenervi,  e  lo  farà;  una 
lotta  ulteriore  in  Sicilia  è  impossibile  „  ;  queste  frasi,  dunque,  ag- 
giunte a  quelle  del  secondo  rapporto  di  Antonini  :  "  spero  mi  si 
renderà  giustizia  che  non  ho  mai  fatto  concepire  alcuna  speranza  „ 
furono  dagli  zelanti  interpetrate  come  esagerazioni  interessate. 
Quando  il  De  Martino  tornò  a  Napoli  e  confermò  i  particolari 
del  lungo  colloquio  di  Fontainebleau,  ebbe,  quindi,  fredda  acco- 
glienza dal  Re,  dai  ministri  e  dai  cortigiani  intimi. 

In  Corte  i  sospetti  e  le  paure  crescevano  di  giorno  in  giorno. 
Per  spiegare  le  premure  del  Brenier  e  la  sua  intimità  col  conte 


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d'Aquila,  si  affermava  che  a  lui,  corto  a  quattrini,  don  Luigi 
promettesse  danaro  e  titolo  di  duca,  qualora  fosse  riuscito  ad 
indurre  il  Re  a  dare  lo  Statuto.  Il  conte  d'Aquila  sperava  in 
tal  modo,  secondo  le  voci,  di  avere  nelle  cose  del  Governo  quel- 
l' ingerenza  o  influenza,  clie  non  ebbe  mai.  Altri  asserivano  cbe,- 
persuaso  che  la  Costituzione  avrebbe  affrettata  la  catastrofe  del 
nipote,  egli  meditasse  una  sua  reggenza.  Certo,  il  liberalismo  di 
fresca  data  di  don  Luigi,  ritenuto  fino  allora  il  capo  della  ca- 
marilla, non  si  credeva  sincero  e  offriva  argomento  alle  più 
strane  congetture.  Egli,  da  principio,  trattò  col  Brenier,  per 
mezzo  del  barone  Aymé,  primo  segretario  della  legazione  fran- 
cese, e  poi  direttamente.  L'Aymé  era  mezzo  napoletano,  come 
dissi,  perchè  figliuolo  di  un  generale  di  Murat  e  di  una  princi- 
pessa di  Caramanico,  e  aveva  col  conte  vecchia  amicizia.  Ad  al- 
cuni suoi  intimi,  ed  a  persona  di  riguardo,  che  a  me  l'ha  rife- 
rito, l'Aymé  raccontava  che  il  Brenier  insistesse  presso  Fran- 
cesco II  per  una  sollecita  concessione  dello  Statuto,  e  per  un 
mutamento  radicale  nella  politica,  non  perchè  tali  fossero  le 
istruzioni  esplicite,  che  egli  riceveva  da  Parigi,  ma  nello  in- 
teresse personale  del  conte  di  Aquila,  e  di  pieno  accordo  con 
lui  ;  ciò  che  conferma  naturalmente  i  sospetti,  ai  quali  ho  dianzi 
accennato.  • 

Ma  la  verità  su  tal  punto  non  si  saprà  mai.  Certo  il  Bre- 
nier agiva  con  una  insistenza,  da  legittimare  dei  sospetti; 
certo  maggiori  ne  destava  il  liberalismo  improvviso  del  conte 
d'Aquila.  Io  riferirò  un  aneddoto,  che  narrava  il  barone  Aymé, 
morto  a  Napoli,  dieci  anni  or  sono,  e  che,  se  fu  un  uomo  di 
intelligenza  e  di  cultura  appena  mediocri,  aveva  la  memoria 
fresca,  ed  era  signore  di  nascita  e  di  maniere.  Egli  dunque 
narrava,  che,  stabiliti  gli  accordi  fra  il  Brenier  e  il  conte  d'A- 
quila, questi,  in  una  sera  di  giugno,  nella  casa  di  una  sua  aman- 
te, al  palazzo  Torlonia  a  Mergellina,  abbozzò,  presente  l'Aymé, 
l'Atto  Sovrano,  e  formò  la  nota  dei  possibili  ministri.  Poi, 
sempre  con  l'Aymé,  si  recò  dal  Brenier  a  mostrargli  la  bozza 
dell'Atto  Sovrano  e  la  lista  dei  nuovi  consiglieri  della  Corona. 
Brenier  approvò  tutto  ;  solo  disse  opportuno  sostituire  alle  parole  : 
ampia  amnistia,  queste  altre  :  generale  amnistia.  Nella  medesima 
notte,  lasciato  il  Brenier,  il  conte  e  l'Aymé  si  recarono  dalle 
persone  designate  come  ministri,   che  tutti,  eccetto  De  Sauget, 


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preconizzato  ministro  della  guerra,  accettarono.  Andarono  poi 
da  don  Liborio  Romano,  che  abitava  al  palazzo  Salza,  ora  Ba- 
gnara,  alla  Riviera,  designato  come  prefetto  di  polizia.  Il  Ro- 
mano nelle  sue  Memorie  accenna  a  questa  visita  notturna, 
senza  però  dire,  che  gli  fu  fatta  dal  conte  d'Aquila,  qualche 
giorno  prima  dell'Atto  Sovrano.  Don  Liborio  era  a  letto;  ri- 
cevè i  visitatori  in  veste  da  camera,  e  accettò,  con  palese  com- 
piacenza, il  posto  offertogli,  e  che  ottenne  difatti. 

Il  conte  di  Trapani,  informato  delle  pratiche  del  conte  d'Aqui- 
la, non  lo  accompagnò  però  in  queste  gite  notturne,  ma  sta- 
bilì col  fratello  di  recarsi  l'indomani  a  Portici,  dov'era  il  Re, 
per  proporgli  l'Atto  Sovrano.  Ma,  il  domani;  seppero  che  il 
principe  di  Cassare,  presidente  del  Consiglio,  avvertito  di  quanto 
meditavano  i  due  principi,  aveva  deciso,  per  istigazione  della 
Regina  madre,  di  farli  arrestare  al  ponte  della  Maddalena.  Chie- 
sero ed  ottennero  una  carrozza  della  legazione  francese,  e  in- 
sieme con  loro  vi  salirono  l'Aymé  e  il  marchese  Troiano  Fol- 
gore, colonnello  di  marina.  Mossero  verso  Portici,  la  sera.  Al 
ponte  della  Maddalena  la  polizia  fermò  la  carrozza,  ma  l'Aymé 
dichiarò  che  apparteneva  alla  legazione  di  Francia,  e  protestando 
contro  ogni  possibile  offesa,  ottenne  di  proseguire.  Videro  su- 
bito il  Re,  che  si  dichiarò  contrario  a  qualunque  mutamento; 
ma  quando  i  due  zii  gli  ripetettero  le  esplicite  assicurazioni 
del  Brenier,  aggiungendo,  come  prova,  il  fatto  di  essere  là  an- 
dati nella  carrozza  della  legazione  francese,  ed  insieme  al  se- 
gretario di  questa,  egli  ne  parve  scosso  e  lasciò  sperare  una 
risoluzione  diversa.  In  tutto  questo  racconto  e'  è  del  verosimile, 
ma  manca  sinora  la  base  storica. 

La  promulgazione  dell'Atto  Sovrano,  da  farsi  il  24  giugno,  fu 
decisa  in  un  Consiglio  straordinario  di  Stato  e  di  famiglia,  che 
ebbe  luogo  a  Portici,  il  21  di  quel  mese,  dopo  il  ritomo  del 
De  Martino  da  Parigi,  e  con  l'intervento  dei  tre  principi  suddetti, 
dei  ministri,  dei  direttori  e  dei  consiglieri  di  Stato,  che  presero 
parte  a  quello  del  30  maggio,  tranne  Filangieri  che  non  vi  fu  in- 
vitato. In  questo  Consiglio  si  lessero  i  dispacci  di  Antonini,  i 
quali  fecero  profonda  impressione,  soprattutto  per  le  parole  che 
chiudevano  il  secondo  di  essi  :  "  Non  sono  chiamato  a  dare  con- 
sigli^ ma  il  real  governo  o  ha  ancora  una  forza  bastante  a  reprì- 


-  262  — 

mere  la  rivoluzione;  o  altrimenti  non  ha  tempo  a  perdere,  per 
accettare  le  condizioni,  sotto  le  quali  l'Imperatore  vuole  far  credere 
di  prendere  la  mediazione  presso  i  suoi  alleati  „ . 

Il  Consiglio  di  Stato,  con  undici  voti  favorevoli  e  tre  con- 
trari, decise  di  proporre  al  Re  di  tradurre  in  atto  le  tre  proposte, 
cioè  :  Costituzione  del  1848,  accordo  col  Piemonte  e  istituzioni 
speciali  per  la  Sicilia.  Sempre  tenaci  nelle  loro  opinioni,  Troja, 
Scorza  e  Carrascosa  furono  contrarii  a  tutto.  Il  principe  di 
Cassaro  motivò  il  suo  voto,  dichiarando  che,  avverso  per  prin- 
cipi! alle  concessioni,  soprattutto  nelle  circostanze  presenti,  il 
primo  effetto  di  esse  sarebbe  di  togliere  forza  al  Governo,  nel 
momento  in  cui  ne  aveva  maggior  bisogno;  ma  poiché  non  vi 
era  più  scelta  nei  mezzi  di  resistenza,  avendo  i  ministri  degli 
esteri,  della  guerra  e  della  polizia  dichiarato  di  averli  tutti 
esauriti,  ed  essendo  la  posizione  disperata  in  faccia  alla  sentenza 
dell'Europa  e  della  necessità,  ogni  considerazione  o  sentimento  dO' 
veva  cedere  al  dovere  di  salvare  il  trono  e  la  dinastia,  e  tale  do- 
vere imponeva  quest'ultima  prova,  per  quanto  fosse  pericolosa  e 
diffìcile.  Carrascosa  non  esitò  ad  affermare,  che  la  Costituzione 
sarebbe  la  tomha  della  Monarchia. 

I  ministri,  prima  di  separarsi,  discussero  se,  concedendo  il 
Re  la  Costituzione,  essi  dovessero  cedere  il  posto  a  un  nuovo 
gabinetto.  Alcuni  riconobbero  doveroso  il  rimanere,  ma  la 
maggioranza  fu  favorevole  alle  dimissioni.  Il  Re  non  fu  pre- 
sente al  Consiglio,  perchè  dal  giorno  18  era  a  letto  con  febbre, 
che  si  disse  biliosa.  Da  qualche  giorno  egli  era  divenuto  triste, 
come  se  un'interna  voce  gli  dicesse  che,  dando  la  Costituzione, 
la  dinastia  era  spacciata.  Il  generale  Letizia  che,  tornando  da 
Palermo  la  sera  del  7,  andò  subito  a  trovarlo,  disse  che  il  Re 
era  molto  perplesso  ed  agitato  su  quel  che  dovesse  fare;  ma 
che  avendo  ricevuto  una  lettera  di  Pio  IX  scritta  di  suo  pu- 
gno, nella  quale  lo  consigliava  di  resistere  e  di  nulla  concedere, 
ogni  esitazione  era  stata  in  lui  vinta.  Il  giorno  17,  che  era 
domenica,  il  Re  non  volle  ricevere  il  conte  d'Aquila,  il  quale 
del  rifiuto  era  furiosissimo,  e  ricorse  allo  stratagemma  innanzi 
raccontato.  Quando  Francesco  II  fu  informato  delle  delibera- 
zioni prese  dai  ministri,  si  lasciò  dire  che  le  approvava  ;  ma,  la 
sera  stessa,  di  sua  iniziativa  fece  ripartire  De  Martino  per 
Roma,  desiderando  di  avere  un   altro   consiglio   dal   Papa,   pri- 


-  263  — 

ma  di  decidersi.  Il  risultato  del  colloquio  del  De  Martino  con 
Pio  IX  fu  quello,  ohe  veramente  decise  Francesco  II  a  pubbli- 
care l'Atto  Sovrano.  Il  Papa  volle  essere  a  lungo  informato  della 
missione  compiuta  dal  De  Martino  a  Parigi,  e  la  loro  conver- 
sazione, ondeggiante  di  argomento  in  argomento,  fu  più  accade- 
mica che  politica,  più  sentimentale  che  concludente.  Il  rapporto 
del  24  giugno  del  De  Martino  rivela  tutto  V affannoso  imbarazzo, 
in  cui  egli  si  trovò  innanzi  al  pontefice,  e  gl'imbarazzi  dello 
stesso  Pio  IX,  il  quale  approvava  l'amnistia  ;  riconosceva  neces- 
sario dare  istituzioni  separate  a  Napoli  e  alla  Sicilia,  ma  faceva 
vivaci  riserve  sulla  proposta  di  alleanza  col  Piemonte,  per  la 
parte  che  riguardava  i  diritti  della  Santa  Sede  "  diritti,  egli  di- 
ceva, che  una  tale  alleanza  avrebbe  compromessi,  e  coi  diritti  sa- 
crosanti della  religione  non  vi  è  mai  transazione  a  farsi  „ .  I  con- 
sigli del  Papa  vinsero  dunque  anche  le  ultime  riluttanze  del  Re, 
il  quale,  la  mattina  del  25,  si  decise  a  sottoscrivere  l'Atto  So- 
vrano, e  lo  firmò  da  solo,  senza  neppure  la  controfirma  del  pre- 
sidente dei  ministri  che  cessava  dall'ufficio,  ne  di  quello  che  lo 
assumeva.  Nella  notte  dal  22  al  23  fece  chiamare  Filangieri,  che 
giunse  a  Portici  la  mattina  di  buon'ora.  Informatolo  di  quanto 
era  avvenuto,  gli  chiese,  se  anche  lui  era  dello  stesso  avviso  dei 
suoi  ministri.  Filangieri  gli  rispose,  che  al  punto  cui  si  era 
pervenuti  forse  non  era  da  fare  altro.  E  la  sera  del  24  volle 
anche  interrogare  il  padre  Borrelli,  dicendogli  :  "  La  Regina  e 
quelli,  che  la  consigliano,  vogliono  che  io  dia  la  Costituzione,  tu 
che  ne  pensi  f  „  Il  padre  Borrelli  lo  scongiurò  a  respingere  tale 
consiglio  :  "  La  Costituzione  avrebbe  affrettata  la  rivoluzione  „ .  Il 
Re  rispose  :  "  Non  posso  seguire  le  tue  idee,  benché  le  creda  giustis- 
sime j^',  e  il  frate:  '^  Si  ricordi  Vostra  Maestà  di  questo  giorno,, 
ch'è  il  24  giugno,  festa  di  S.  Giovanni,  l'ultimo  giorno,  forse,  che 
io  bacio  la  mano  al  Re  di  Napoli  „. 

Il  Giornale  Ufficiale  pubblicò,  la  sera  del  26,  il  tanto  atteso- 
Atto  Sovrano,  che  era  questo  : 

Atto  Sovbano. 

Desiderando  di  dare  a'  Nostri  amatissimi  sudditi  un  attestato  della  no- 
stra Sovrana  benevolenza,  Ci  siamo  determinati  di  concedere  gli  ordini 
costituzionali  e  rappresentativi  nel  Regno  in  armonia  co'  principii  italiani 
e  nazionali  in  modo  da  garentire   la   sicurezza  e  prosperità  in  avvenire  e 


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da  stringere  sempre  più  i  legami  che  Ci  uniscono  a'  popoli  che  la  Provvi- 
denza Ci  ha  chiamati  a  governare. 

A  quest'oggetto  siamo  venuti  nelle  seguenti  determinazioni  : 

1''  Accordiamo  una  generale  amnistia  per  tutti  i  reati  politici  fino 
a  questo  giorno  ; 

2*^  Abbiamo  incaricato  il  commendatore  D.  Antonio  Spinelli  della 
formazione  d'un  nuovo  Ministero,  il  quale  compilerà  nel  più  breve  ter- 
mine possibile  gli  articoli  dello  Statuto  sulla  base  delle  istituzioni  rappre- 
sentative italiane  e  nazionali  ; 

3"  Sarà  stabilito  con  S.  M.  il  Re  di  Sardegna  un  accordo  per  gl'in- 
teressi comuni  delle  due  Corone  in  Italia  ; 

4°  La  nostra  bandiera  sarà  d'ora  innanzi  fregiata  de'  colori  nazionali 
italiani  in  tre  fasce  verticali,  conservando  sempre  nel  mezzo  le  armi  della 
nostra  Dinastia; 

5*^  In  quanto  alla  Sicilia,  accorderemo  analoghe  istituzioni  rappre- 
sentative che  possano  soddisfare  i  bisogni  dell'Isola;  ed  uno  de'  Principi 
della  nostra  Beai  Casa  ne  sarà  il  Nostro  Viceré. 

Portici,  25  giugno  1880. 

firmato  :  Francesco. 

Il  Sì  seguente,  il  Giornale  Ufficiale  s'intitolò  Giornale  Costi- 
tuzionale del  Regno  delle  Due  Sicilie,  e  il  27_,  annunziò  il  nuovo 
ministero,  cosi  costituito  :  Antonio  Spinelli,  presidente  del  Con- 
siglio ;  Giacomo  de  Martino,  ministro  per  gli  affari  esteri  ;  Gre- 
gorio Morelli,  per  la  giustizia  ;  il  principe  di  Torella,  Niccola  Ca- 
racciolo, per  il  culto,  ed,  interinalmente,  per  la  pubblica  istru- 
zione ;  Giovanni  Manna,  per  le  finanze  ;  Federigo  del  Re,  per 
l' interno  e  polizia  generale  ;  il  maresciallo  Giosuè  Ritucci  per 
la  guerra  ;  il  vice-ammiraglio  Francesco  Saverio  Garofalo  per  la 
marina;  il  marchese  Augusto  Lagreca  per  i  lavori  pubblici  ;  l'av- 
vocato Liborio  Romano,  prefetto  di  polizia.  Il  De  Martino  era 
ministro  di  Napoli  a  Roma  ;  Morelli,  procuratore  generale  della 
Corte  criminale  di  Salerno  ;  Del  Re^  controllore  generale  alla 
tesoreria;  il  maresciallo  Ritucci,  uno  dei  più  vecchi  generali,  e 
il  retroammiraglio  Garofalo,  uno  dei  più  vecchi  ammiragli,  fra- 
tello del  maresciallo  barone  Gaetano,  e  che,  come  questi,  aveva 
servito  in  gioventù  sotto  Murat,  ed  era  stato  uf&ciale  sulla  nave 
comandata  dal  Bausan,  la  quale,  accerchiata  dalla  flotta  inglese, 
riuscì  a  traversarne  le  fila  ed  entrare  nel  porto  di  Napoli  ;  e,  da 
ultimo,  il  principe  di  Torella  era  succeduto  da  pochi  anni  nel 
titolo  a  suo  padre  Giuseppe,  che  fu  ministro  di  Ferdinando  dopo 
il  16  maggio.  Del  vecchio  ministero  restò   soltanto   Carafa  per 


-  255  - 

pochi  giorni,  mal  rassegnandosi  a  non  più  ricevere  il  corpo  diplo- 
matico.    I  nuovi  direttori  furono  nominati  più  tardi. 

Erano  nel  porto  sette  legni  francesi  e  due  inglesi,  che  presero 
parte  alle  salve.  Brenier  diceva  che  le  due  flotte  erano  in  rada 
per  evitare  possibili  saccheggi  da  parte  della  plebe  reazionaria, 
ed  anche  un  possibile  bombardamento,  qualora,  non  decidendosi  il 
Re  a  dare  la  Costituzione,  fosse  scoppiata  la  rivoluzione  a  Napoli. 
Elliot  assicurava  persino  che  Mazzini  era  in  Sicilia,  e  certo  le 
preoccupazioni  del  governo  erano  tali,  che,  la  sera  del  18,  sei- 
mila uomini  usciti  dai  Granili,  andarono  ad  accamparsi  tra  Ba- 
gnoli e  Pozzuoli,  temendosi  colà  uno  sbarco  di  rivoluzionarii. 

La  mattina  del  26,  il  Re  e  la  Regina  tornarono  a  Napoli  in 
carrozza  scoperta.  Il  Re  cercava  di  mostrarsi  ilare,  ma  era  pal- 
lido ed  abbattuto  per  le  febbri  sofferte.  Lungo  il  percorso  fu- 
rono rispettosamente  salutati,  ma  non  ebbero  le  clamorose  acco- 
glienze che  si  aspettavano.  Il  giorno  27,  tra  le  salve  dei  legni 
ancorati  nel  porto,  s'inalberò  la  bandiera  tricolore  sui  castelli 
e  sulle  navi  da  guerra.  Nella  scelta  dei  nuovi  ministri  ebbe 
non  piccola  parte  il  conte  d'Aquila,  o  almeno  grande  fu  il  suo 
affaccendarsi  perchè  cosi  si  credesse.  Avrebbe  voluto  che  Giu- 
seppe Ferrigni  fosse  ministro  di  giustizia,  ed  ebbe  all'uopo  fre- 
quenti coUoquii  con  lui;  ma  il  Ferrigni  non  volle  saperne.  Si 
narra  che  allo  Spinelli,  il  quale  insistette  anche  la  sua  parte 
perchè  egli  entrasse  nel  ministero,  il  Ferrigni  rispondesse  essere 
Francesco  II  un  moribondo,  al  che  si  aggiunse  pure  che  lo  Spi- 
nelli avrebbe  replicato  :  "  Ma  noi  da  medici  pietosi  cerchiamo  di 
prolungarne  le  ore  „ .  L'aneddoto  è  riferito  in  un  opuscolo,  ve- 
nuto alla  luce  nel  1895  e  dedicato  alla  memoria  del  Ferrigni  ;  e 
vi  è  pur  pubblicato  il  testo  della  letterina  che  il  Ferrigni  scrisse 
al  conte  d'Aquila  in  data  del  26  giugno.  ^  Al  marchese  Rodolfo 
d'Afflitto  fu  offerto  il  ministero  dell'interno,  che  non  volle  ac- 
cettare, perchè  l'alleanza  col  Piemonte  non  era  assicurata,  e  la 
Costituzione,,  data  precipitosamente,  parvegli  che  distruggesse  il 
vecchio  governo  senza  la  possibilità  di  formarne  uno  nuovo. 

Per  il  28  il  Re  dispose  che  vi  fosse  gran  gala,  con  le  con- 


'  Luigi  Aktonio  Villari,   Cenni  e  ricordi  di  Giuseppe  Ferrigni.  — 
Napoli,  tipografia  Priore ,  1895. 


-  256  — 

suete  salve  e  l'illuminazione  dei  pubblici  edifìci  e  dei  teatri. 
A  questa  letizia  ufficiale  non  rispose  la  letizia  pubblica,  perchè, 
mentre  da  una  parte  il  Comitato  dell'Ordine  consigliava  ed  im- 
poneva di  accogliere  la  Costituzione  con  freddezza,  dall'altra  parte, 
nella  stessa  giornata  del  26,  scoppiarono  i  primi  tumulti  a  Napoli, 
contro  la  polizia  e  divennero  gravissimi  il  27.  Furono  aggredite 
e  ferite  alcune  pattuglie  di  feroci]  investiti  i  commissariati  di  po- 
lizia ;  manomessi  gli  archivi!  ;  bruciate  le  carte  ;  ucciso  un  odiato 
spione  ;  feriti  alcuni  commissarii  e  ispettori,  e  compiuti  non  po- 
chi atti  di  saccheggio  a  danno  di  privati,  soprattutto  nei  quar- 
tieri bassi,  per  cui  molti  negozi  si  chiusero,  molti  forestieri  fug- 
girono e  molti  cittadini  ripararono  nelle  città  vicine.  Alle  8 
della  sera  del  26,  ci  fu  di  peggio.  Mentre  il  ministro  Brenier 
usciva  nella  sua  carrozza  dal  palazzo  del  Nunzio,  fu  malamente 
percosso  due  volte  sul  capo  con  mazza  di  ferro,  e  ferito;  né 
mai  si  seppe  l'autore  e  meno  ancora,  lo  istigatore  dell'aggres- 
sione, la  quale  destò  indignazione  e  paura  ad  un  tempo.  Il  Re 
mandò  subito  al  palazzo  della  legazione  francese  i  suoi  due 
aiutanti  Ischitella  e  Sangro,  a  chiedere  notizie  e  ad  esprimere 
il  suo  rammarico  per  quanto  era  avvenuto  ;  il  conte  d'Aquila 
vi  tornò  due  volte,  trattenendovisi  sino  alle  due  e  mezzo  della 
mattina;  i  vecchi  e  i  nuovi  ministri  mandarono  o  portarono  le 
condoglianze;  e  un  indirizzo,  sottoscritto  da  parecchi  cittadini, 
manifestò  l' indignazione  dei  napoletani  per  l' ignobile  attentato. 
L'attentato  a  Brenier  fu  creduto  dai  liberali  opera  della  rea- 
zione, poiché  egli  era  stato  uno  dei  più  insistenti  sollecitatori 
della  Costituzione.  Su  denunzia  non  si  sa  di  chi,  il  prefetto  Ro- 
mano fece  imprigionare  i  fratelli  Manetta,  che  avevano  fama  di 
incorreggibili  reazionari  e  di  gente  audace  e  manesca,  ritenendoli 
addirittura  gli  autori  del  triste  fatto.  Il  processo  fu  istruito 
dallo  stesso  presidente  della  G-ran  Corte  criminale,  Ezio  Gin- 
nari.  Nessuna  prova  però  si  potè  raccogliere,  nonostante  una 
circolare  rimasta  famosa,  con  la  quale  il  detto  presidente  invi- 
tava gli  Eletti  ad  indicare  i  nomi  dei  più  noti  camorristi  delle 
varie  sezioni,  per  chiamarli  a  deporre  sul  fatto.  Del  resto,  quan- 
do Brenier,  caduti  i  Borboni,  lasciò  Napoli,  mandò  una  lettera 
ufficiale  al  Pisanelli,  guardasigilli  della  dittatura,  proclamando 
l'innocenza  dei  Manetta  e  reclamandone  la  liberazione.  Nondi- 
meno il  nuovo  procuratore  generale  De  Falco  emise  il  suo  atto 


-  257  — 

d'accusa  contro  costoro  per  crimine  di  eccitamento  alla  guerra 
civile,  accompagnato  da  ferita  che  aveva  prodotto  deturpamento 
permanente  (secondo  il  giudizio  del  perito  Palasciano),  sulla  per' 
sona  dell'ambasciatore  di  Francia,  signor  Brenier,  reato  che  dal 
codice  napoletano  era  punito  coi  ferri  dai  ventiquattro  ai  tren- 
t'anni.  I  Manetta  furono  validamente  difesi  dall'avvocato  Fran- 
cesco Bax.  Avendo  Garibaldi  concessa  un'amnistia  per  i  reati  po- 
litici, non  congiunti  a  reati  comuni,  il  De  Falco  sostenne  essere 
l'amnistia  inapplicabile  ai  Manetta  ;  ma  dopo  l'arringa  di  Bax  in 
pubblica  udienza  e  dopo  che  Enrico  Pessina,  divenuto  coi  nuovi 
tempi  sostituto  procuratore  generale,  si  associò  alle  argomenta- 
zioni di  lui,  la  Corte  criminale  ordinò  la  scarcerazione  degli  ac- 
cusati, i  quali  si  ritirarono  a  Malta  e  vi  stettero  più  anni.  Si 
disse  anche,  che  Brenier  chiedesse  per  indennità  dell'aggressione 
un  milione  di  ducati,  ovvero  il  palazzo  reale  del  Chiatamone.  Ma 
egli  veramente  non  chiese  nulla,  tranne  che  fossero  fatte  al  suo 
Sovrano  speciali  scuse  dell'  insulto,  di  cui  era  stato  vittima. 

Temevansi,  nel  giorno  seguente,  peggiori  disordini  e  altre 
scene  di  sangue.  Si  diceva  che  il  partito  reazionario  avrebbe 
profittato  di  quell'occasione  per  rinnovare  la  Santafede,  indurre 
il  Re  a  ritirare  la  Costituzione  e  a  nominare  un  ministero  di 
resistenza.  Nella  notte  dal  27  al  28,  fu  proclamato  lo  stato  di 
assedio,  dandosi  al  generale  Caracciolo  di  San  Vito  il  comando 
della  piazza.  La  mattina  del  28,  il  nuovo  prefetto  di  polizia, 
Liborio  Romano,  pubblicò  il  suo  primo  manifesto,  col  quale 
proibiva  gli  attruppamenti  e  le  grida  di  ogni  specie,  che  potreb- 
bero ingenerare  tumulti.  Il  manifesto  cominciava  cosi  :  "  Le  no- 
velle istituzioni  promettitrici  e  garanti  al  nostro  bel  paese  d^un 
lieto  e  prospero  avvenire  non  possono  convenientemente  radicarsi 
e  produrre  frutti  soavi  (sic),  se  il  popolo  non  dà  prova  di  averle 
Tneritate,  aspettando  con  pazienza  le  nuove  leggi  e  il  tempo  del- 
l'oprare, rispettando  V ordine  pubblico,  le  persone  e  la  proprietà  „. 
Il  ministero  costituzionale  iniziava  la  sua  opera,  proclamando  lo 
stato  d'assedio,  ma  ciò  faceva  per  garantire  l'ordine  e  per  avere 
il  tempo  di  formare  una  guardia  cittadina,  a  tutela  della  pub- 
blica quiete,  cosi  come  disse  nella  sua  prima  ordinanza  il  nuovo 
ministro  dell'interno,  Federico  del  Re.  Furono  date,  difatti,  il 
dì  seguente,  le  necessarie  istruzioni  agli  Eletti  della  città,  per 
preparare  le  liste  della  guardia  nazionale. 

Dk  Cesark,  La  fine  di  un  Segno  -  Voi.  II.  17 


—  258  — 

Il  ministero  del  27  giugno  era  formato  quasi  tutto  di  uomini 
miti  e  dottrinari,  non  atti  a  lottare  contro  la  marea  che  incalzava 
da  ogni  parte  e  dalla  quale  furono  addirittura  travolti,  quando 
all'Atto  Sovrano  segui,  quattro  giorni  dopo,  l'amnistia  che 
spalancò  le  carceri  e  iniziò  il  ritorno  degli  emigrati.  Si  è  ve- 
duto che  Napoli  fu  in  preda  di  gravi  tumulti  nelle  sere  del  26 
e  del  27  giugno,  tanto  che  si  fu  costretti  a  ricorrere  allo  stato 
d'assedio,  per  pochi  giorni.  La  vecchia  polizia  era  sparita,  e  una 
guardia  cittadina  si  andava  formando.  Liborio  Romano,  si  disse, 
per  consiglio  di  un  vecchio  generale  borbonico,  ebbe  l'idea  di 
reclutarla  fra  i  camorristi  e  fra  quei  guappi,  mezzo  patrioti  e  mezzo 
camorristi,  amnistiati  anche  loro  e  usciti  dalla  Vicaria  e  da 
San  Francesco,  o  tornati  dalle  isole.  Credeva  facile  cosa  po- 
terli disciplinare  e  s'illudeva  forse  di  redimerli.  I  picciotti  di  sgar- 
ro sostituirono  i  feroci  ;  e  ogni  capocamorrista,  Michele  'o  Chiaz- 
ziere,  lo  Schiavetto,  il  Persianaro,  Salvatore  de  Crescenzo,  detto 
Tore  'e  Crescienzo,  e  altri  non  meno  celebri  divennero  gli  entu- 
siasti e  romorosi  capisquadra  di  questa  nuova  e  strana  guar- 
dia, senza  uniforme  e  senz'armi,  che  solo  portava  un  nodoso 
bastone  in  mano  e  una  coccarda  tricolore  al  cappello. 

Fu  un  atto  ardito  e  forse  necessario  per  garantire,  in  quei 
giorni,  l'ordine  pubblico  :  atto  probabilmente  consigliato  al  Ro- 
mano dalla  disperata  condizione  delle  cose,  e  che  se  da  principio 
impedi  peggiori  disordini,  tenne  nonpertanto  la  città,  prima  che 
fosse  formata  la  guardia  nazionale,  in  uno  stato  di  paurosa  sovraec- 
citazione.  Napoli  era  in  balìa  dei  camorristi  ;  e  se  non  mancarono 
atti  di  probità  e  di  generosità,  specialmente  nei  primi  tempi,  non 
tardarono  i  malanni.  Cominciarono,  specie  da  parte  dei  mezzo 
camorristi,  cioè  dei  guappi  patrioti,  le  minacce  e  le  estorsioni  a 
danno  dei  borbonici  o  dei  presunti  borbonici,  le  vendette  pri- 
vate, il  contrabbando  alla  dogana  e  alle  barriere  ;  e  crebbe  enor- 
memente il  giuoco  clandestino  del  lotto.  Bisognava  passar  sopra 
a  tutto,  anche  perchè  quella  polizia  fini  per  servire  ai  due  Comi- 
tati dell'  Ordine  e  di  Azione,  soprattutto  a  questo,  che  più  la 
carezzava  e  mostrava  di  tenerla  in  qualche  conto.  L'atto  di  don 
Liborio  ebbe  il  suo  bene  e  il  suo  male  e  potè  essere  giustificato 
dalle  circostanze  ;  ma  il  male  peggiore  fu  quello  di  avere  inquinata 
la  nuova  polizia,  in  guisa  che,  quando  Spaventa,  ministro  sotto  la 
luogotenenza  del  principe  di  Carignano,  volle  epurarla,  la  camor- 


—  259  - 

ra,  facendo  causa  comune  con  le  guardie  nazionali  di  più  bassa 
lega,  e  con  le  quali  aveva  maggiori  contatti,  insorse  violente- 
mente, e  il  coraggioso  ministro  per  poco  non  vi  lasciò  la  vita. 

La  prima  nomina  di  direttore,  con  decreto  del  6  luglio,  fu 
quella  di  Carlo  de  Cesare,  che  contava  trentasei  anni  e  aveva 
fatto  il  letterato  nella  sua  prima  gioventù,  e  poi,  datosi  a  studii 
di  scienze  economiche  e  sociali,  si  era  acquistato  bel  nome  ed 
aveva  vinto,  due  anni  prima,  in  pubblico  concorso,  il  premio  isti- 
tuito da  Michele  Tenore,  all'Accademia  Pontaniana.  Era  intimo 
del  Manna,  il  quale  lo  volle  suo  collaboratore  nel  ministero  delle 
finanze.  Durante  il  decennio,  aveva  sofferte  persecuzioni  ;  era 
stato  imprigionato  e  confinato  ;  si  era  aperto  contro  lui  e  contro 
i  suoi  fratelli  e  altri  egregi  cittadini  di  Spinazzola,  un  processo 
di  cospirazione  per  la  setta  dell'unità  d' Italia  ;  era  stato  atten- 
dibile, e  la  sua  persona  e  la  sua  casa,  al  vico  Sergente  Maggiore, 
accanto  a  quella  di  Ferdinando  Mascilli,  erano  state  dalla  polizia 
tenute  sempre  d'occhio.  Liborio  Romano  scelse  per  direttore  il  suo 
antico  amico.  Michele  Giacchi,  avvocato  civile  di  grido,  che  fu 
deputato  di  Campobasso  nel  184S  e,  nei  primi  anni  della  rea- 
zione, potè  sottrarsi  ai  processi  per  la  protezione  del  generale 
Lecca,  di  cui  era  avvocato  ;  ma  poi  fu  confinato  per  qualche 
anno  a  Sepino,  sua  patria,  e  potè  tornare  a  Napoli  per  le  insi- 
stenze dello  stesso  generale  Lecca,  cui  il  Re  voleva  bene,  e 
chiamava,  celiando,  il  mio  fido  greco^  per  la  sua  origine.  Romano 
aveva  alla  sua  volta  sofferte  maggiori  persecuzioni  :  era  stato  pri- 
ma confinato  a  Patù,  suo  borgo  nativo,  dopo  i  moti  del  1820; 
prigioniero  in  Santa  Maria  Apparente  prima  e  dopo  il  1848  ; 
esule  in  Francia  per  qualche  anno,  e  nel  1859  sottratto  dal  conte 
d'Aquila  ad  una  nuova  prigionia. 

Romano,  De  Cesare  e  Giacchi  rappresentavano  nel  ministero 
una  specie  di  tratto  d'unione  fra  il  nuovo  governo  e  i  liberali 
che  tornavano  dall'esilio,  o  uscivano  dalle  prigioni.  Si  aggiunga 
che  ministro  effettivo  per  l' interno  era  Giacchi,  il  quale  aveva 
testa  più  organica  di  don  Liborio  ;  e  ministro  delle  finanze  fu, 
quasi  dal  primo  giorno,  Carlo  de  Cesare,  perchè  il  Manna,  alla 
metà  di  luglio,  andò  a  Torino  per  trattare  la  lega,  e  non  ne 
tornò  che  a  Regno  finito.  Furono  anche  direttori  :  Giuseppe 
Miraglia,  alla  grazia  e  giustizia  ;  Michele  Capecelatro,  alla  ma- 


—  260  — 

rina,  e  il  barone  di  Letino,  Salvatore  Carbonelli,  ai  lavori  pub- 
blici ;  ma  questi  non  avevano  colore  politico  accentuato.  Mira- 
glia  fu,  più  tardi,  presidente  della  Corte  di  Cassazione  di  Roma, 
ed  ora  è  in  riposo  ;  Micbele  Capecelatro  era  fratello  maggiore  di 
Alfonso  e  di  Antonio  ;  e  il  barone  di  Letino,  rimasto  fedele  ai 
Borboni,  fu  ministro  per  le  finanze  nel  ministero  di  Gaeta.  Il 
barone  di  Letino  e  il  Miraglia  sono  i  soli  superstiti,  credo,  di  quel 
ministero. 

Dei  nuovi  ministri,  la  maggior  forza  morale  era  il  presidente 
del  Consiglio,  don  Antonio  Spinelli.  Questi  era  vissuto  dodici 
anni  fuori  della  vita  pubblica,  ma  era  stato  sopraintendente  degli 
archivi  di  Stato  ;  consultore,  ministro  di  agricoltura  e  commer- 
cio, e  incaricato  di  stabilire  trattati  di  commercio  con  le  prin- 
cipali potenze  di  Europa.  Aveva  pubblicati  importanti  lavo- 
ri sulle  opere  pie  della  città  di  Napoli  e,  fra  gli  altri,  un'in- 
chiesta rimasta  famosa  per  profondità  di  vedute  e  coraggio  ci- 
vile, e  della  quale  Ferdinando  II  ebbe  quasi  paura,  tanto  da 
lasciarla  cadere  in  oblio.  Era  uomo  di  forte  carattere  e  di  grande 
dirittura  di  animo.  Sperò,  accettando  la  presidenza  del  mini- 
stero costituzionale,  in  una  resurrezione  del  Regno  di  Napoli, 
confederato  col  Piemonte  ;  ma,  al  punto  a  cui  erano  giunte  le 
cose,  non  se  ne  nascondeva  le  difficoltà.  Il  conte  d'Aquila,  ohe 
si  dette  un  gran  da  fare  per  mettere  insieme  quel  ministero, 
andò  a  chiamarlo,  da  parte  del  Re.  Lo  Spinelli  era  alla  sua 
villa  di  Barra  e,  pur  sentendo  tutta  la  gravità  del  sacrifizio 
che  gli  s'  imponeva,  accettò,  con  la  coscienza  di  sacrificarsi  al 
bene  del  paese.  Liberale  e  costituzionale  convinto,  disse  agli 
amici  che  gli  facevano  premura  di  accettare,  costargli  molto 
l'annullamento  della  sua  persona,  perchè,  ove  mai  la  rivoluzione 
trionfasse,  egli  non  sarebbe  venuto  mai  meno  agli  obblighi  mo- 
rali, che  feran  per  legarlo  alla  dinastia  pericolante.  E  così  fu. 
Coi  nuovi  tempi  non  accettò  alcun  ufficio,  ma  fu  largo  di  con- 
sigli a  quanti  glie  ne  richiesero,  e  più  volte  il  principe  di  Ca- 
rignano  si  rivolse  non  indarno  a  lui,  per  essere  esattamente 
informato  su  uomini  e  cose  del  Napoletano,  durante  la  luogo- 
tenenza. E  da  registrare  a  proposito  di  lui  un  aneddoto  cu- 
rioso e  doloroso  ad  un  tempo.  Il  giorno,  che  i  camorristi  di 
Napoli  insorsero  contro  Spaventa,  poco  mancò  che  lo  Spinelli 
non  vi  lasciasse  la  vita.     Lo  scambiarono  per  Spaventa,   assa- 


-  261  - 

lirono  la  carrozza,  in  cui  egli  era,  presso  il  palazzo  De  Rosa 
a  Toledo,  pugnalarono  un  cavallo,  ferirono  il  cocehiere  e,  senza 
r  intervento  coraggioso  di  un  ufficiale  dello  stato  maggiore,  sa- 
rebbe caduto  sotto  i  colpi  di  que'  farabutti.  Dal  giorno  che  Fran- 
cesco II  partì,  egli  rientrò  nella  vita  privata,  non  volle  onorifi- 
cenze e  neppure  la  nomina  a  senatore  del  Regno.  Mori  a  ot- 
tantotto anni,  nell'aprile  del  1873,  assistito  amorevolmente  dai 
suoi  figliuoli  e  rimpianto  dai  molti  amici.  Gli  scrittori  bor- 
bonici accusarono  anche  lui  di  tradimento,  ma  mai  accusa  fu 
più  stolida.  Lo  Spinelli  si  sacrificò  ad  una  situazione,  tanto  nuova 
storicamente,  quanto  difficile,  e  la  cui  non  remota  fine  egli  stesso, 
accettando  il  ministero,  aveva  preveduta.  Era  un  uomo  di  co- 
scienza, non  uno  scettico  vanitoso  e  inconsapevole,  come  Libo- 
rio Romano.  Giovanni  Manna  era  stato  ministro  nel  1848  ;  ma, 
pur  volendo  l'autonomia  del  Regno,  non  moriva  di  tenerezza  per 
i  Borboni,  e  il  principe  di  Torella,  fratello  maggiore  di  Cammillo 
Caracciolo,  era  un  brav'uomo,  nervosissimo,  liberale  a  suo  modo, 
molto  religioso  e  municipale  schietto.  Lo  dicevano  assai  versato 
nel  diritto  canonico,  e  fu  forse  per  questo  che  lo  nominarono  mi- 
nistro per  il  culto.  Giovanni  Manna  non  aveva  occupato  alcun  uf- 
ficio nel  decennio  ;  era  vissuto  tra  i  suoi  studii,  e  con  pochi  e  fidi 
amici,  dovendo  alla  sua  parentela  col  generale  Sabatelli,  di  cui  era 
genero,  se  non  fu  processato,  soprattutto  perchè  aveva  conservato 
vivo  il  suo  culto  per  Carlo  Troja  e  la  sua  amicizia  con  i  colleghi 
del  ministero  del  3  aprile,  esuli  in  Piemonte.  Spinelli  e  Manna 
erano  le  maggiori  autorità  del  ministero  ;  ma,  fra  tutti,  si  rite- 
neva più  destro  il  De  Martino,  uomo  di  talento  di  certo,  ma  la 
cui  azione  diplomatica,  come  ministro  costituzionale,  fu  una  serie 
d'insuccessi,  nonostante  la  fede,  da  lui  fin  troppo  e  aperta- 
mente dimostrata ,  che  sarebbe  riuscito  a  impedire  lo  sbarco 
di  Garibaldi  sul  continente,  interessando  tutta  l'Europa  alla 
conservazione  del  Regno.  Contava  molte  amicizie  nella  diplo- 
mazia, e  riusciva  simpatico  per  la  persuadente  loquela  e  la  vi- 
vace fantasia  meridionale,  ma  in  fondo  era  scettico  e  repugnava, 
un  po'  meno  dei  suoi  colleghi,  da  qualunque  misura  concludente 
contro  quelli  che  cospiravano  e  si  agitavano  per  mandare  in 
fiamme  e  Regno  e  dinastia. 

Nel  primo   giorno    di   luglio,   il   ministero,  in  una  sua  rela- 
zione al  Re,  lo  aveva  invitato  a  richiamare  in  vigore  lo  Statuto 


—  262  —  • 

del  1848,  il  quale  Statuto,  essi  dicevano ,  se  dopo  qualche  tempo 
si  trovò  sospeso  in  conseguenza  di  luttuosi  avvenimenti  che  non 
accade  ora  rammentare,  non  però  fu  mai  abrogato.  E  con  de- 
creto dello  stesso  giorno,  Francesco  II  lo  richiamava  in  vigore, 
convocando  i  collegi  elettorali  per  il  19  agosto,  e  il  Parlamenta 
per  il  10  settembre.  Da  questo  momento  l'attività  del  mini- 
stero sembrò  eclusivamente  rivolta  a  nominar  commissioni,  per 
preparare  progetti  di  legge  e  riforme.  Il  2  luglio,  il  marescialla 
Cutrofìano  dichiarava  tolto  lo  stato  d'assedio,  anche  perchè  in 
quel  giorno  corse  voce  che  fosse  stata  conclusa  la  lega  col  Pie- 
monte, onde  gran  folla  attese  innanzi  alla  Reggia  il  Re,  che 
si  diceva  sarebbe  uscito  in  carrozza  con  Villamarina  e  Brenier» 
Si  affermava  che  il  Re  di  Piemonte  avesse  risposto  :  "  accettare 
l'alleanza  e  attendere  con  gran  piacere  la  missione  straordina- 
ria, che  gli  s' inviava  per  trattare  la  lega  ;  pregare  il  Re  di  avere 
in  vista  più  le  idee  nazionali  che  le  particolari  franchigie;  de- 
siderare la  cooperazione  dei  buoni  ufficii  della  Corte  di  Napoli 
fra  lui  e  la  Santa  Sede  ;  non  opporre  nulla  alla  condizione  di  non 
riconoscere  l'annessione  delle  Romagne  „ .  Il  3  luglio,  il  prin- 
cipe di  Torcila  chiamava  Leopoldo  Tarantini,  Saverio  Baldac- 
chini, Carlo  Toraldo  e  Raffaele  Lucarelli  a  far  parte  della  com- 
missione per  preparare  il  progetto  di  legge  sulla  stampa.  Ad 
elaborare  la  legge  elettorale,  il  ministro  dell'interno  nominavar 
Giuseppe  Aurelio  Lauria,  Giuseppe  Colonna  di  Stigliano,  il  mar- 
chese Rodolfo  d'Afflitto  e  Costantino  Crisci;  e,  due  giorni  dopo, 
Antonio  Troysi,  Gaetano  Ventimiglia,  Giuseppe  Gailotti,  Ga- 
briele Capuano,  Carlo  de  Cesare,  Costantino  Baer,  Tito  Cacace, 
Francesco  Sorvillo,  Luigi  Balsamo  e  Alessandro  Gicca  venivano 
chiamati  a  studiare  i  progetti  finanziari  da  presentarsi  alle  Ca- 
mere. Il  7  luglio,  erano  limitate  le  funzioni  di  polizia  alla- 
punizione  dei  reati,  e  si  prometteva  di  conservare  degli  antichi 
impiegati  solo  quelli,  che  per  la  loro  morale  ed  intemerata  con- 
dotta, non  avessero  demeritato  della  pubblica  opinione.  Il  10 
luglio,  il  Consiglio  di  Stato  aboliva  la  pena  delle  legnate. 

Cominciò  l'ecatombe  dei  vecchi  uomini.  Neil'  intendenza  di 
Napoli,  al  principe  di  Ottaiano  succedeva  Giovanni  Cenni  ;  e 
vennero  messi  al  ritiro  gl'intendenti  Mandarini,  Sabatelli,  Sozi 
Carafa  e  Dommarco  ;  il  segretario  generale  della  prefettura^ 
Merenda   e    i   commissari  di  polizia,    Maddaloni,  Morbillo,   De 


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Spagnolis  e  Campagna.  Salvatore  Murena  era  "  discaricato  „ 
dall'ufficio  di  professore  di  diritto  amministrativo  nell'Università, 
e  da  quello  di  consultore  di  Stato  ;  anzi  alla  Consulta  si  compiva 
una  vera  rivoluzione,  poiché  nuovi  consultori  furono  nominati 
Giovanni  Vignali,  Giuseppe  Aurelio  Lauria,  Luigi  Dragonetti 
e  Rodolfo  d'Afflitto  ;  mettendosi  in  riposo,  oltre  al  Murena,  il 
duca  di  Serraoapriola ,  Roberto  Betti,  Leopoldo  Corsi,  Raimondo 
de  Liguoro,  Vincenzo  de  Sangro  e  Giuseppe  de  Marco. 

Il  decreto  d'amnistia  per  i  condannati  politici,  promesso  nel- 
l'Atto Sovrano,  fu  pubblicato  il  3  luglio  :  amnistia  completa, 
non  a  solo  benefìcio  di  quelli  che  erano  ancora  sotto  processo, 
ma  di  tutti  gli  altri,  rinchiusi  nelle  prigioni  o  esiliati  in  per- 
petuo dal  Regno.  Si  pensò  subito  a  soccorrere  i  detenuti  e  i 
deportati  poveri  e  si  stabili  di  dare,  a  loro  beneficio,  uno  spet- 
tacolo al  San  Carlo.  Questo  ebbe  luogo  la  sera  di  sabato,  21  lu- 
glio. La  compagnia  drammatica  dei  Fiorentini  si  prestò  gra- 
tuitamente a  recitarvi  una  commedia.  Si  eseguirono  due  balli  : 
il  Mulatto  e  la  Margherita  Gauthier  ;  furono  cantati  da  Ruggiero 
Antonioli,  Vera  Lorini,  dal  Guicciardi,  da  Bertolini  e  da  Marco 
Arati  alcuni  pezzi  dei  Foscari,  dei  Lombardi,  deW Attila  e  della  Fa- 
vorita ;  ed  i  coristi  eseguirono  il  coro  dei  Lombardi,  fra  strepitosi 
applausi.  Il  teatro,  manco  a  dirlo,  era  fìtto  di  spettatori.  La 
vendita  dei  biglietti  fruttò  oltre  a  mille  ducati,  e  le  offerte  vo- 
lontarie più  di  cinquecento.  Il  Re  largì  duemila  ducati,  e  ot- 
tocento i  principi,  e  l'intero  prodotto  ascese  a  ducati  4371,  19. 
Nonostante  queste  manifestazioni  di  letizia,  la  tranquillità  pub- 
blica in  Napoli  e  in  molte  provincie  era  ogni  momento  turbata 
da  dimostrazioni  ed  eccessi  di  ogni  specie.  Cresceva  il  panico 
nella  città.  Si  ritiravano  i  depositi  dal  Banco  ;  si  vendeva  la 
rendita,  e  i  cambiavalute  non  cambiavano  più  polizze  in  oro. 
Il  napoleone  valeva  cinque  ducati,  cioè  quasi  una  lira  e  mezza 
più  del  suo  valore  reale.  Il  cambio  dell'argento  in  oro  sali  dal 
3  airS  71)  '  la  rendita  scese  di  parecchi  punti. 

Quel  turbolento  entusiasmo,  provocato  in  gran  parte  dalla 
guardia  cittadina,  composta,  come  si  è  veduto,  di  camorristi  e  di 
guappi  patrioti,  e  tenuto  vivo,  per  interesse  e  per  bisogno  tutto 
meridionale,  di  estrinsecarsi,  si  manifestava  in  ogni  occasione, 
anche  futile,  ma  soprattutto  per  il  ritorno  degli  emigrati,  più 
accentuatamente  antidinastici.     Non  passava  giorno,  che  all'  Im- 


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macolatella  non  avvenissero  scene,  clie  degeneravano  in  tumulti. 
All'arrivo  di  Poerio,  di  Settembrini,  di  Pisanelli,  di  Spaventa, 
d'Imbriani,  di  Mariano  d'Ayala,  di  Sandonato,  di  Conforti,  di 
Mancini  e  di  altri,  notissimi,  un'  onda  di  popolo  correva  clamo- 
rosamente a  festeggiarli  ;  e  Ferdinando  Mascilli,  relegato  a  Capri, 
fu  al  suo  arrivo,  portato  in  trionfo  addirittura.  Il  grido  di 
quelle  dimostrazioni  era  sempre  :  Viva  V  Italia  e  Viva  Garibaldi. 
Un  giorno,  una  dimostrazione  guidata  dai  giovani  Alfonso  Ca- 
pitelli e  Carmine  Senise,  rompendo  i  cordoni  della  truppa,  mosse 
dallo  Spirito  Santo  per  la  villa  Tommasi,  a  Capodimonte,  dove 
abitava  Villamarina.  Il  ministro  sardo  non  si  lasciò  vedere,  ma 
i  dimostranti  furono  lietamente  accolti  dai  segretarii  della  lega- 
zione, e  incitati  a  proseguire.  La  complicità  della  legazione 
sarda  al  movimento   unitario  appariva  fin  troppo  palese. 

Le  provocazioni  alla  truppa  erano  continue,  essendo  essa  in 
sospetto  di  cospirare  contro  la  libertà.  Nelle  ore  pomeridiane  del 
15  luglio,  i  granatieri  della  guardia  reale,  provocati,  si  disse, 
da  una  di  quelle  dimostrazioni,  reagirono  con  violenza,  sciabo- 
lando pareocliia  gente  al  grido  di  Viva  il  Re,  sacclieggiando 
qualche  bottega  e  destando  il  terrore  nella  città.  Tra  quelli, 
che  patirono  violenza,  son  da  ricordare  il  ministro  di  Prussia  e 
l'ammiraglio  francese  Le  Barbier  du  Tinan.  I  ministri,  impau- 
riti dal  gran  fermento  dello  spirito  pubblico,  si  dolsero  col  Re 
di  quanto  era  avvenuto,  credendo  anche  loro  che  i  granatieri 
avessero  agito  per  consiglio  della  setta  reazionaria.  Don  Libo- 
rio diceva  di  aver  documenti  per  provarlo,  ma  non  provò  nulla. 

Dopo  questo  incidente,  il  ministro  della  guerra  Ritucci  cede  il 
posto  al  generale  Giuseppe  Salvatore  Pianell,  o  Pianelli,  come  i 
borbonici  lo  chiamavano  e  seguitarono  a  chiamarlo  per  dileggio, 
sostenendo  che  il  suo  vero  cognome  fosse  Pianelli,  e  che  per 
vanità  ne  avesse  egli  soppressa  l'ultima  lettera.  Contempora- 
neamente usciva  dal  ministero  Federigo  del  Re,  uomo  eccellente 
e  colto,  ma  di  nessuna  attitudine  politica,  e  gli  succedeva  Li- 
borio Romano.  Un  proclama  reale  dello  stesso  giorno  lodava 
il  contegno  dei  sudditi,  che  non  si  erano  abbandonati  ad  eccessi  ; 
ed  in  esso  il  Re  si  augurava,  ohe  "  la  dimoile  arte  del  governare 
ci  verrà  come  spianata  e  fatta  più  facile  da'  lumi  di  una  stampa 
saggia  e  veramente  nazionale,  e  dal  concorso  di  tutti  gli  uomini 
di  alto  senno  politico  e  civile,  che  sederanno  nelle  Camere  legisla- 


—  265  - 

Uve  ri'  Altro,  più  caldo,  fu  nello  stesso  giorno  pubblicato  per 
l'esercito  e  per  l'armata,  e  vi  era  scritto  :  "  Voi  entrerete^  leal- 
mente, in  questa  nobile  e  gloriosa  via,  e  vi  unirete  al  patto 
Costituzionale,  che  ci  lega  in  una  sola  famiglia  ;  voi  sarete  cani' 
pioni  di  giustizia,  di  umanità,  di  disciplina,  d'amor  di  patria, 
voi  la  speranza  dei  vostri  concittadini,  sarete  saldo  sostegno  del 
Trono  e  delle  nuove  istituzioni  e  strumento  della  grandezza  e  pro- 
sperità nazionale  j,. 

Ma  il  documento,  clie,  in  solennità  enfatica  e  in  una  stra- 
nezza singolare  di  stile,  superò  tutti  gli  altri,  fu  la  circolare 
diretta,  sempre  il  16  luglio,  dal  nuovo  ministro  Pianell,  all'e- 
sercito. Concludeva  così:  "•  Gli  ujjiziali  generali  e  di  qualunque 
rango,  i  sottouffiziali  e  soldati,  abbiano  perciò  in  mente,  che  Re 
costituzionale,  alleanza  italiana,  autonomia  propria,  bandiera  ita- 
liana,  ormai  ci  riuniscono  come  in  una  sola  famiglia,  onde  di- 
mostrare che  siam  tutti  mallevadori  delle  novelle  istituzioni,  pro- 
fittevoli all'universale,  e  segnatamente  a  quanti  sono  o  s' incammi- 
Tiano  nella  gloriosa  carriera  delle  armi  „ .  Il  giorno  20  luglio, 
Gregorio  Morelli  era  sostituito  da  Antonio  Maria  Lanzilli,  insi- 
gne magistrato,  e  Raffaele  Farina  veniva  nominato  prefetto  di 
polizia. 

Ma  l'uomo  onnipotente  in  quel  difficile  periodo  era  don  Liborio 
Romano.  Un  esempio  di  popolarità,  cosi  generale  e  indiscussa, 
non  si  trova  che  nei  pochi  giorni  del  potere  di  Masaniello  ;  ma 
quelli  furono  giorni,  e  la  potenza  di  don  Liborio  durò,  inconte- 
stata, circa  tre  mesi.  La  camorra,  divenuta  polizia  mercè  di  lui, 
lo  inneggiava  senza  tregua  ;  la  guardia  nazionale,  forte,  il  17  lu- 
glio, di  seimila  uomini  e,  due  giorni  dopo,  di  circa  diecimila, 
lo  chiamava  il  suo  papà.  Il  Re  aveva  nominato  generale  di 
quella  milizia  il  principe  d' Ischi tella,  già  ministro  della  guerra 
e  marina  con  Ferdinando  II,  e  che  aveva  il  privilegio,  unico 
nel  Regno,  e  assolutamente  eccezionale  nell'esercito,  di  portare 
tutta  la  barba.  Era  vecchio  e  vanitoso,  e  affermò  nelle  sue  Me- 
morie di  essere  stato  forzato  dal  Re  a  prendere  quel  comando, 
perchè  il  paese  aveva  fede  nelle  sue  opinioni  liberali,  mentrechè 
di  questo  liberalismo  nessuno  veramente  si  era  mai  accorto  !  Il 
capo  dello  stato  maggiore  fu  il  duca  di  Cajaniello;  e  i  primi 
dodici  capi  di   battaglioni   furono  il  barone   Giuseppe  Galletti, 


—  266  - 

Gaetano  Mezzacapo,  il  barone  Pietro  Compagna,  Giacomo  Gian- 
nuzzi-Savelli,  Luigi  Giordano,  Giuseppe  Gallone,  principe  di  Mo- 
literno,  Vincenzo  Pignatelli,  principe  di  Strongoli,  Niccola  de 
Siervo,  Luciano  Serra,  il  barone  Federico  Bellelli,  Francesco 
Pinelli  e  Domenico  Ferrante.  Alcuni  non  accettarono,  e  fu  tra 
questi  Luigi  Giordano,  il  quale  era  tanta  parte  del  Comitato  del- 
l' Ordine,  e  cbe  lealmente  credette  di  non  poter  conciliare  il 
nuovo  ufficio  con  quello  di  cospiratore  indomabile  e  coraggioso 
per  l'unità  nazionale.  Gli  successe  don  Paolo  Gonfalone.  Il 
giorno  17,  uscirono  le  prime  pattuglie,  accolte  da  applausi  stre- 
pitosi; e,  la  sera  stessa,  l'entusiasmo  non  ebbe  freno,  quando 
don  Liborio,  da  due  giorni  promosso  ministro,  andò  con  Iscbi- 
tella  a  visitare  i  quartieri  delle  diverse  sezioni.  Il  23  luglio, 
il  comandante  in  capo  e  i  comandanti  dei  dodici  battaglioni, 
gli  fecero  un  ampolloso  indirizzo,  salutandolo  liberatore  della^ 
patria  e  paragonandolo  a  Demostene. 

Don  Liborio  era  una  sfinge.  Egli,  che  si  lasciava  trascinare, 
per  amore  di  vanità,  dalla  corrente,  perchè  impotente  a  frenarla, 
aveva  per  tutti  una  parola  cortese  e  un  sorrisetto  benevolo,  che 
sembrava  malizioso  e  profondo  :  l'aveva  per  gli  esuli  che  torna- 
vano ;  per  i  prigionieri  che  uscivano  dalle  prigioni,  quasi  tutti 
suoi  vecchi  amici,  colleghi  o  clienti  :  tutti  antidinastici,  sia  che 
fossero  cavurriani,  garibaldini  o  mazziniani.  A  tutti  lasciava  in- 
tendere ch'egli,  nuovo  cittadino  di  Gand,  stesse  li  per  conto  di 
Cavour  o  di  Garibaldi.  Al  Re,  ai  ministri,  ed  agli  autonomisti 
diceva  poi,  ma  più  faceva  dire  dagli  altri,  che  egli  solo  era  ca- 
pace di  salvare  la  dinastia  ed  il  Regno,  e  di  consolidare  gli  or- 
dini liberi.  L'uomo  era  scettico  e  vano,  avvocato  per  giunta, 
e  ricco'  di  quella  malizietta  italo-greca,  insinuante  e  carezze- 
vole, che  è  propria  dei  suoi  conterranei,  noti  in  Puglia  col 
nome  di  capustieddi.  Patù  è  nel  Capo  di  Lecce.  Veramente 
don  Liborio  non  fece  nulla,  ne  per  affrettare  gli  avvenimenti, 
né  per  ritardarli,  ne  per  dirigerli  a  un  fine  preciso,  né  per  at- 
tenuarne gli  effetti,  perchè  egli  non  aveva  alcun  concetto  poli- 
tico e  rifuggiva,  per  temperamento,  da  ogni  violenza  o  rischiosa 
responsabilità.  Quell'onda  popolare,  incalzante  e  turbolenta,  se 
ne  lusingava  tanto  la  vanità,  in  fondo  lo  lasciava  freddo.  Era 
vecchio,  e  non  v'era  pericolo  che  il  sangue  gli  salisse  al  cer- 
vello.    Egli  si  è  dipinto  da  sé  nelle  sue  Memorie  e  non  é  colpa 


-  267  - 

di  nessuno,  se  apparisce  in  quelle  pagine    mediocrissimo  uomo, 
senza  ombra  di  coscienza  politica. 

Il  terrore  aveva  invasa  la  Reggia.  La  Regina  madre  se  ne 
andò  a  Gaeta  coi  figliuoli  e  col  padre  Borrelli,  imbarcandosi  al 
Granatello,  a  bordo  della  Saetta,  comandata  dal  fido  Raffaele 
Criscuolo.  Fuggirono  i  gesuiti,  e  parecchi  dignitarii  di  Corte, 
tra  i  quali  il  principe  di  Bisignano.  Il  Re  era  calmo  e  sorridente, 
e  pareva  tranquillo  delle  sue  sorti.  Maria  Sofia  continuava  la 
sua  vita  di  prima,  e  faceva  i  suoi  bagni  e  relativo  zumbo,  nelle 
acque  del  porto  militare.  Alcuni  anni  dopo,  donna  Nina  Rizzo 
diceva  ai  suoi  intimi,  che  la  sola  a  non  aver  paura,  in  quei  mo- 
menti, fu  la  Regina.  La  Rizzo  ne  aveva  guadagnato  interamente 
l'animo  ;  e  Maria  Sofia  la  colmava  di  doni,  come  di  doni  colmava 
anche  la  figliuola  maggiore  di  lei,  che  spesso  .si  vedeva  passeg- 
giare nella  Reggia  con  abiti  di  lusso,  regalatile  dalla  Regina.  Un 
giorno,  fu  veduta  traversare  Toledo  in  ricchissimo  abito  bianco 
da  ballo,  e  tutti  si  domandavano  chi  fosse  quella  ragazza  strava- 
gante. Nella  Reggia  le  stranezze  della  piccola  Rizzo,  la  quale 
non  aveva  quindici  anni,  erano  anche  maggiori  e  muovevano  il 
riso:  unica  nota  amena,  fra  tanta  tristezza.  Francesco  II,  il 
quale  non  aveva  simpatie  per  la  Rizzo,  non  riusci  mai  ad  ot- 
tenere dalla  Regina  che  ne  moderasse  il  contegno. 


CAPITOLO  XIII 


SoHMABio:  Nuovi  intendenti  e  sottointendenti  —  Il  patriziato  legittimista  —  Il 
E,e  e  il  ministero  —  Le  dimissioni  del  generale  Nunziante  —  H  giura- 
mento degl'  impiegati  e  delle  truppe  —  La  libertà  di  stampa  —  I  princi- 
pali fogli  politici  —  Un'ordinanza  del  comandante  la  piazza  di  Napoli  e  lo 
espediente  dolVOmnibua  —  Il  programma  del  ministero  —  Disordini  nelle 
Provincie  —  Patti  di  Taranto  e  di  Bari  —  La  persecuzione  dei  vescovi  — 
Il  vescovo  di  Muro  e  il  vescovo  di  Gastellaneta  —  Attentato  contro  que- 
st'ultimo —  Un  rapporto  del  so ttoin tendente  di  Gaeta  —  Documenti  carat- 
teristici —  Protesta  degli  Acquavivesi  contro  monsignor  Falconi  —  Una 
nota  dell'  intendente  di  Bari  —  Rapporto  di  Giacchi  al  ministro  di  poli- 
zia contro  i  vescovi  d'Ariano,  di  Muro,  di  Bitonto,  di  Bovino  e  contro  mon- 
signor Falconi  —  Telegramma  del  maresciallo  Flores  contro  l'arcivescovo 
di  Bari  —  Il  vescovo  di  Sessa  parte  dalla  sua  diocesi  —  La  ribellione  de^ 
seminario  di  Matera  —  I  vescovi  di  Trani,  di  Molfetta  e  di  Conversano. 

Il  Giornale  Ufficiale  seguitava  a  pubblicare  liste  di  proscri- 
zione. H  veccbio  mondo  si  veniva  sfasciando,  inesorabilmente. 
Tutti  gì'  intendenti,  parecchi  sottointendenti,  procuratori  generali, 
presidenti  di  Corti  criminali,  giudici  e  impiegati  minori  di  altri 
ministeri,  venivano  dispensati  dal  servizio,  o  messi  in  ritiro  o 
in  attenzione  di  destino.  Erano  queste  le  formole  di  uso,  mentre 
quella,  rimasta  famosa:  destituito  in  omaggio  alla  pubblica  opi- 
nione,  fu  introdotta  dalla  dittatura.  I  ministri,  specie  don  Li- 
borio, presentavano  lunghe  liste  di  proscrizione  al  Re,  il  quale 
cercava  diminuire  il  numero  dei  colpiti,  od  attenuarne  gli  effetti. 
Qualche  volta  die  prova  di  fermezza,  scrivendo  accanto  ad  alcuni 
nomi  :  no,  no  ;  e  altre  volte  cancellandoli  di  suo  pugno.  Ma  que- 
ste liste,  che  furono  ben  povera  cosa  rispetto  a  quelle,  veramente 
silliane,  che  si  pubblicarono  sotto  la  dittatura,  mentre  non  ac- 
contentavano i  liberali  più  esigenti,  alienavano  dal  Re  gli  ultimi 


—  270  — 

fedeli,  i  quali  lo  accusavano  di  debolezza  nel  subire  le  pressioni 
del  ministero,  e  soprattutto  di  Romano  e  di  G-iacchi,  senza  con- 
tare, naturalmente,  le  ire  dei  colpiti,  che  arrivavano  al  cielo. 
Oramai  le  provinole  avevano  nuovi  intendenti,  nuovi  capi  della 
magistratura  e,  soprattutto,  nuovi  capi  di  polizia.  Filippo  Capone, 
da  qualche  anno  reduce  dall'esilio,  fu  nominato  intendente  di 
Avellino  ;  Domenico  Giannattasio,  a  Salerno  ;  Alfonso  de  Caro,  a 
Lecce  ;  Giuseppe  Tortora-Brayda,  a  Campobasso  ;  Giuseppe  Den- 
tice di  Accadia;  a  Reggio;  Pasquale  Giliberti,  a  Cosenza  ;  Cataldo 
Nitti,  a  Potenza;  il  conte  Francesco  Viti,  a  Caserta;  Pasquale 
de  Virgilii,  a  Teramo  ;  Ignazio  Larussa,  a  Catanzaro  ;  il  barone 
Coppola,  a  Bari:  tutti  sinceramente  costituzionali,  ma  sospetti, 
quasi  tutti,  agli  unitarii,  perchè  partigiani  della  confederazione  ; 
ne  sospetti  soltanto,  ma  tenuti  d'occhio  in  tutte  le  loro  mosse,  e 
perciò  in  condizioni  molto  difficili,  politicamente,  anzi  pericolose 
addirittura,  e  quasi  umilianti  per  essi.  I  ministeri  subivano 
grandi  mutazioni  nel  personale,  principalmente  quello  di  polizia. 
Si  può  affermare  che  di  questo  ministero,  e  dei  vecchi  suoi  fun- 
zionarli, non  rimanesse  quasi  nessuno  in  carica. 

Il  patriziato  legittimista,  il  quale,  dal  giorno  che  venne  con- 
cessa la  Costituzione,  fu  posto  da  parte,  si  credeva  in  dovere  di 
manifestare  la  sua  napoletana  indifferenza  per  quel  che  avve- 
niva. Parecchi  di  quel  patriziato  lasciavano  Napoli  un  po'  alla 
volta,  e  i  rimasti  non  si  tenevano  dal  mostrare  al  Re  il  loro  dispet- 
to, nà  potendo  altrimenti  protestare  contro  di  lui  e  contro  gli  atti 
del  suo  Governo,  decisero  di  togliergli  il  saluto.  Quando  lo  in- 
contravano per  via,  o  lo  causavano,  o  fìngevano  non  vederlo, 
nò  si  conciliarono  con  lui,  che  qualche  anno  dopo,  a  Roma.  Po- 
trei fare  dei  nomi,  ma  è  meglio  lasciarli  nella  penna. 

Al  Re  erano  riferite  tutte  queste  cose,  e  sinceramente  se  ne 
affliggeva.  Notava  ohe  ogni  giorno  il  vuoto  si  faceva  maggiore 
intorno  a  lui.  Oramai  dei  vecchi  amici  non  se  ne  vedeva  intorno 
che  pochi,  e  dei  nuovi  non  si  fidava.  Fra  i  ministri,  mostrava 
predilezione  per  Spinelli  e  Torcila,  e  una  relativa  fiducia  nel 
De  Martino,  il  quale,  con  le  due  missioni  di  Manna  e  Winspeare  a 
Torino,  e  di  La  Greca  a  Parigi,  contava  di  far  argine  alla  rivolu- 
zione invadente  e  salvare  alla  dinastia  le  provincie  continentali. 
Diffidava,  in  modo  fin  troppo  palese,  del  Romano,  che  chiamava 
familiarmente  don  Liborio]   e  per  celia,  qualche  volta,   tribuno 


-  271  - 

romano;  ma  non  osava  far  atto  di  resistenza,  perchè  intendeva 
ohe  in  quel  momento  don  Liborio  era  più  forte  di  lui.  Lo  su- 
biva, e  solo  magramente  se  ne  vendicava,  motteggiandolo  in 
segreto. 

Ma  ciò  che  afflisse  veramente  Francesco,  fu  l'evoluzione  im- 
provvisa e  imprevedibile  di  Nunziante,  di  quell'Alessandro  Nun- 
ziante, che,  colmato  di  onori  e  di  benefizi  da  Ferdinando  II,  del 
quale  fu,  in  dieci  anni,  l'amico  intimo  e  il  consigliere  fido,  era 
stato  da  lui,  Francesco,  nominato  suo  aiutante,  incaricato  d' im- 
portanti missioni,  come  fu  l'ultima  in  Sicilia  e  consultato  in  ogni 
emergenza.  Nunziante,  Latour,  Sangro  e,  qualche  volta,  Ferrari, 
erano,  come  ho  detto,  gli  strateghi,  che  il  Re  consultava  a  prefe- 
renza, e  purtroppo  aveva  ascoltati  un  anno  prima,  quando  re- 
spinse il  programma  di  Filangieri,  i  consigli  di  Napoleone  e 
le  proposte  di  Salmour.  Il  2  luglio,  Nunziante  mandò  al  Re 
le  sue  dimissioni  da  generale;  e  poiché  questi  indugiava  a  ri- 
spondere, quindici  giorni  dopo  gli  diresse  un'altra  lettera,  in- 
sistendo. E  avendogli  il  ministro  della  guerra  partecipato,  che 
il  Re  gli  aveva  concesso  il  ritiro  e  la  facoltà  di  andare  all'e- 
stero, Nunziante  protestò  e  volle  ad  ogni  costo  le  dimissioni,  anzi 
rimandò,  teatralmente,  i  diplomi  e  le  insegne  cavalleresche  a 
lui  conferite,  scrivendo  di  non  poter  '^  più  portare  sul  petto  le 
decorazioni  di  un  governo,  il  quale  confonde  gli  uomini  onesti, 
retti  e  leali  con  quelli,  che  meritano  soltanto  disprezzo  „ .  Con- 
temporaneamente sua  moglie,  donna  Teresa  Calabritto,  duchessa 
di  Mignano,  scriveva  al  Re  :  "  Sire,  il  posto  di  dama  di  Corte 
non  mi  appartiene;  e  però  restituisco  a  V.  M.  il  brevetto  di  no- 
mina y, .  Né  contento  di  questo,  Nunziante  dirigeva  due  ordini 
del  giorno  ai  battaglioni  dei  cacciatori  da  lui  comandati,  e  alla 
divisione  mobile,  prendendo  da  loro  commiato,  e  loro  inculcando 
sentimenti  patriottici  e  italiani. 

Queste  lettere  e  questi  ordini  del  giorno,  che  i  giornali  non 
mancarono  di  pubblicare,  produssero  fortissima  impressione  in 
tutto  il  Regno,  anzi  in  tutta  Italia;  suscitarono  molti  e  varii 
commenti  e  avrebbero,  secondo  si  afferma  dal  Nisco,  determinato 
il  conte  di  Cavour,  al  quale  il  Nunziante  partecipò  pure  le  sue  di- 
missioni, con  ampie  dichiarazioni  di  sensi  unitari,  ad  agire  pron- 
tamente e  apertamente,  per  porre  la  rivoluzione  napoletana  sotto 


-  272  - 

la  bandiera  della  monarchia  di  Savoia^  e  V esercito  e  l'armata  del 
Napoletano  a  difesa  d'Italia.  La  sera  del  3  agosto,  Niccola  Nisco 
tornò  a  Napoli  e,  per  incarico  di  Cavour,  andò  subito  a  trovare 
il  Nunziante.  Lo  trovò  costernato,  perchè,  venuto  in  sospetto 
di  promuovere  un  "  pronunciamento  „  tra  i  cacciatori,  gli  era 
stato  ingiunto  di  partire,  tra  ventiquattr'ore,  per  l'estero.  Difatti 
partì,  la  nàattina  dopo,  assicurando  il  Nisco  che,  a  qualunque 
costo,  ad  ogni  avviso  di  Cavour  sarebbe  tornato,  per  servire  la 
causa  italiana.  Andò  in  Isvizzera  ;  fu  richiamato  di  là,  dopo  po- 
chi giorni,  da  Cavour;  tornò  a  Napoli,  ma  restò  a  bordo  della 
Maria  Adelaide  col  Persane,  come  appresso  si  dirà. 

Caratteristici  sono  i  due  giuramenti  prescritti  dopo  l'Atto  So- 
vrano, per  gì'  impiegati  e  per  i  militari.  Il  giuramento,  che  do- 
vevano prestare  gì'  impiegati,  fu  redatto  1'  otto  luglio  e  merita 
di  esser  riferito: 

"  Prometto  e  giuro  innanzi  a  Dio  fedeltà  ed  ubbidienza  a  Fran- 
cesco Ilf  Re  del  Regno  delle  Due  Sicilie,  ed  esatta  ubbidienza  ai 
suoi  ordini  ;  prometto  e  giuro  di  compiere^  col  massimo  zelo  e  con 
la  massima  probità  ed  onoratezza,  le  funzioni  a  me  affidate;  pro- 
metto e  giuro  di  osservare  e  di  fare  osservare  la  Costituzione  del 
10  febbraio  1848,  richiamata  in  vigore  da  S.  M.  il  Re  N.  S.  con 
R.  Decreto  i°  luglio  1860;  prometto  e  giuro  di  osservare  e  di  far 
osservare  le  leggi,  i  decreti  e  i  regolamenti  attualmente  in  vigore; 
e  quelli  che  saranno  sanzionati  e  pubblicati  in  avvenire  nei  ter- 
mini della  Costituzione  medesima;  prometto  e  giuro  di  non  volere 
appartenere  ora  né  mai  a  qualsivoglia  associazione  segreta.  Così 
Dio  mi  aiuti  „. 

Ai  militari,  schierati  nelle  città  dov'erano  di  presidio,  i  co- 
mandanti leggevano  ad  alta  voce  la  Costituzione,  e  gridavano, 
prima,  tre  volte,  Viva  il  Re  ;  poi,  tre  volte.  Viva  la  Costituzione  : 
grida  che  i  soldati  dovevano  anche  tre  volte  ripetere.  Il  giura- 
mento, dato  dalle  truppe  a  Gaeta,  fu  cagione,  come  si  vedrà,  di 
denunzie  e  di  accuse,  perchè,  tranne  quello  d'artiglieria,  gli  al- 
tri reggimenti  non  vollero  ripetere  Viva  la  Costituzione  ;  e  al 
triplice  grido  di  Viva  la  Costituzione,  risposero  invece  con  un 
triplice  grido  di  Viva  il  Re. 

Della  libertà  di  stampa  si  abusava  in  tutti  i  sensi.  Videro 
la  luce  giornali  e  giornaletti   d'ogni   formato,   quasi   tutti,   per 


—  273  - 

non  dir  tutti,  antidinastici,  unitari,  cavurriani,  garibaldini,  maz- 
ziniani, tutto  insomma,  fuor  che  dinastici  e  costituzionali.  Solo 
foglio  costituzionale  fu  F  Italia,  che  lealmente  sostenne  la  fede- 
razione e  il  regime  costituzionale,  cioè  il  programma  del  mini- 
stero. La  dirigeva  Francesco  Rubino,  antico  liberale,  che  fece  " 
parte,  nel  1848,  della  spedizione  di  Venezia  con  Guglielmo  Pepe, 
e  aveva  sofferte,  al  suo  ritorno,  non  poche  molestie  e  lunga 
prigionìa  nel  castello  di  Bari.  Era  uomo  di  geniale  cultura  e 
scrittore  di  versi  e  di  drammi,  amico  intimo  di  Carlo  de  Cesare 
e  polemista  valoroso.  I  suoi  articoli  del  1860  non  si  rileggono, 
oggi,  senza  riconoscervi  un  senso  quasi  profetico.  Egli  antive- 
deva le  conseguenze  di  un'  unità  senza  preparazione,  la  quale 
non  s' intendeva  che  come  ingrandimento  del  Piemonte.  Rubino 
occupò,  più  tardi,  alti  uffici  amministrativi,  ed  è  morto  da  pochi 
anni  a  Napoli  sinceramente  rimpianto.  Ruggiero  Bonghi,  tor- 
nato dall'esilio,  fondò  nell'agosto  il  Nazionale,  che,  apertamente 
unitario  e  cavurriano,  polemizzava  con  l' Italia^  e  iniziò  subito 
quella  vivacissima  guerra  a  don  Liborio,  che  non  ebbe  tregua. 
Scrivevano  nel  Nazionale  Diomede  Marvasi,  Federico  Quercia, 
Emilio  Pascale,  Antonio  Turchiarulo,  Eduardo  Fusco,  Aniello 
Vescia  e  altri  giovani  animosi.  Marvasi  e  Quercia  erano  anch'essi 
tornati  di  fresco  dall'esilio.  Proprietario  del  giornale  era  Anni- 
bale Laudi,  nipote  del  generale,  e  vi  era  un  comitato  direttivo 
preseduto  da  Silvio  Spaventa.  La  guerra  mossa  a  don  Liborio 
era  provocata  dal  sospetto  che  questi  non  fosse  sincero;  e  che, 
mentre  assicurava  i  cavurriani  di  essere  con  loro,  cercasse  di- 
sfarsene, anche  con  la  violenza,  facendone,  una  volta  o  l'altra, 
arrestare  i  più  audaci.  Era  pure  unitaria  V Opinione  Nazio- 
nale, fondata  da  Tommaso  Arabia  e  scritta  da  lui  e  da  Vincenzo 
Cuciniello,  quasi  esclusivamente.  I  fogli  letterari  divennero  po- 
litici e  antidinastici,  quasi  tutti,  e  ricorderò  l' Iride,  dove  se- 
guitarono a  scrivere  i  fratelli  De  Clemente.  Ma  questi  fogli, 
insieme  al  Nazionale  e  2IV  Opinione  Nazionale,  non  vanno  con- 
fusi con.  quella  folla  di  giornaletti,  eccessivi  e  sfrenati,  e  di 
foglietti  volanti,  per  i  quali  il  prefetto  di  polizia  non  trovava 
parole  sufficienti  di  biasimo.  "  Miserabili  scritture,  egli  li  chiamò 
in  un  pubblico  proclama,  senza  concetto,  senza  forma  di  stile,  non 
dico  italiano,  ma  umano,  condannate  all'oblìo,  prima  quasi  di  ve- 
nire  alla  luce  della  pubblicità  „.     Un'eccezione  va  fatta  per  il 

De  Cesahe,  La  fine  di  un  Regno  •  Voi.  IT.  18 


—  274  — 

Tuono,  giornaletto  quotidiano  umoristico,  che  vide  la  luce  nella 
prima  metà  di  luglio  ed  era  diretto  da  Vincenzo  Salvatore,  diciot- 
tenne, con  la  collaborazione  di  Michelangelo  Tancredi.  Il  Tìiono 
ebbe  un  momento  di  celebrità  per  aver  ripubblicato  i  graziosi 
versi  del  Fischietto,  all'  indirizzo  di  Manna  e  Winspeare,  andati 
a  Torino  a  trattare  la  lega.  Quei  versi  avevano  per  titolo: 
Tanti  saluti  a  casa,  e  sarà  bene  esumarne  alcune  strofe  davvero 
spiritose.    La  prima  diceva: 

Signori  stimatissimi! 
Rispetto  e  convenienza 
di  salutare  impongono 
chi  muove  alla  partenza. 
Per  cui  servo  umilissimo, 
togliendosi  il  berretto, 
a  farvi  i  convenevoli 
accingesi  il  Fischietto. 
Lia.  musa  egli  solletica, 
che  di  nuovo  estro  invasa, 
vi  si  prosterna,  e  v'augura: 
Tanti  saluti  a  casa! 


E  seguitava  cosi: 


Forse,  chi  sa,  partendosi 
di  là  con  aria  lieta 
^voi  credevate  facile 
una  diversa  mèta? 
Forse,  tra  i  fumi  e  i  brindisi, 
vedendolo  gaio  e  arzillo, 
vi  parve  malleabile 
assai  papà  Cammillo? 
L'anima  forse  candida 
non  era  persuasa, 
che  alfine  vi  dicessero 
Tanti  saluti  a  casa? 


E  l'ultima  era  questa: 


Or  via,  tornate  subito 
con  rassegnato  piglio  ! 
Tornate;  e  se  v'interroga 
di  messer  Bomba  il  figlio, 
non  iscordate  il  semplice 
notissimo  versetto. 


-  275  — 

che  in  oggi  a  voi  ripetono 
Torino  e  il  Fischietto. 
Gli  dite:  Italia  libera 
vuol  far  tabula  rasa! 
Ecco  la  porta!  —  ditegli 
Tanti  saluti  a  casa! 

li  Tuono  ripubblicò  i  versi,  sol  mutando 
Di  messer  Bomba  il  figlio 

in  quest'altro  : 

Quel  povero  coniglio. 

Ma  questa  pubblicazione  non  andò  immune  da  conseguenze. 
La  città,  essendo  di  nuovo  in  istato  di  assedio,  il  comandante 
della  piazza,  che  era  il  Cutrofiano,  ordinò  l'arresto  del  direttore 
e  mandò  alla  tipografia  De  Angelis,  dove  si  stampava  il  Tuono, 
una  pattuglia  di  soldati  con  un  ufficiale.  Poclii  momenti  prima 
vi  era  giunto  un  ispettore  della  nuova  polizia  creata  da  don  Li- 
borio, certo  Falangola,  ad  avvertire  il  Salvatore  che  si  mettesse 
in  salvo.  E  questi  fece  appena  in  tempo  ad  uscire  dalla  tipogra- 
fia, col  Falangola  stesso,  incrociandosi  con  la  pattuglia  che  vi 
entrava,  la  quale  non  sospettò  neppure  poter  essere  il  giornalista, 
quel  giovane  sbarbatello,  che  ne  usciva  in  compagnia  di  un  ispet- 
tore di  sicurezza.  E  sul  finire  di  agosto  lo  stesso  giornaletto  co- 
minciò il  suo  primo  articolo  coi  noti  versi  del  Trovatore  : 

Miserere  di  un'alma  già  vicina 
Alla  partenza,  che  non  ha  ritomo. 

E  allora  fu  soppresso,  ma  ricomparve  il  di  seguente,  con 
un  nuovo  titolo  :  /  Tuoni,  e  la  soppressione  servi  di  argomenta 
agli  altri  giornali,  ma  soprattutto  al  Nazionale,  di  protestare 
contro  la  violenza  alla  libertà  di  stampa!  Salvatore  scrisse  in 
altri  giornali  serii  e  umoristici  ;  fu  corrispondente  da  Firenze 
del  Piccolo,  della  Patria  e  della  Perseveranza)  poi  entrò  nel 
Banco  di  Napoli,  e  ne  diresse,  con  probità,  intelligenza  e  fer- 
mezza, le  sedi  di  Bari,  di  Venezia  e  di  Genova,  come  ora  dirige 
quella  di  Milano. 

Il  ministero  si  vide  costretto  a  stabilire  una  cauzione  per 
ogni  giornale  politico,   dando  facoltà  al  comandante  di  piazza 


-  276  - 

di  metter  fuori  un'ordinanza,  comminante  la  sospensione  dei  fo- 
gli politici,  i  quali  non  avessero  adempiuto  al  versamento  di 
quella  cauzione  in  tremila  ducati,  da  depositarsi  in  contanti,  o  in 
rendita  iscritta.  .  Appena  uscita  l'ordinanza,  il  Nazionale  versò  la 
cauzione,  mentre  l' Italia  potè  sottrarsene,  mediante  un  permesso 
speciale.  Ma  la  misura  era  grave  e  sollevò  tanto  rumore,  che 
il  ministero  accolse  un  mezzo  termine  burlesco,  suggerito  àdl- 
V  Omnibus,  di  accettare,  cioè,  per  cauzione  un  biglietto  di  tenuta 
di  ducati  tremila,  dando  due  mesi  di  tempo  per  adempiere  alle 
disposizioni  di  legge.  Con  tale  ripiego,  non  meno  di  quindici, 
tra  giornali  e  giornaletti,  seri  ed  umoristici,  seguitarono  a  vede- 
re la  luce  in  Napoli.  L'ordinanza  del  comandante  di  piazza  fu 
in  data  16  agosto  ;  ma,  per  lo  spediente  dell'  Omnibus^  essa  re- 
stò quasi  lettera  morta,  perchè  il  biglietto  di  tenuta  fu  facile  a 
quasi  tutti  quei  giornali  di  procurarselo.  La  libertà  della  stam- 
pa, con  i  suoi  eccessi,  costituì  la  vera  debolezza  del  ministero 
costituzionale,  le  cui  buone  intenzioni  erano  sospette,  o  addi- 
rittura calunniate,  e  la  cui  opera,  incerta  e  inefficace,  ispirava 
non  minori  diffidenze. 

L'onda  incalzava,  e  il  ministero  cercava  frenarla,  ma  non  vi 
riusciva.  Il  4  agosto,  pubblicò  il  suo  programma,  dal  quale 
molto  si  attendeva.  Cominciava  col  dichiarare,  che  avrebbe 
difesa  la  religione,  proposte  le  riforme  comunali,  riattivate  le 
opere  pubbliche,  e  prometteva  attuazione  piena  e  sincera  della 
Costituzione.  Continuava,  in  curioso  stile  polemico  :  "  il  Go- 
verno eccita  il  patriottismo  di  quanti  vi  ha  uomini  onorandi  ad 
agevolarlo  con  l'opera  loro,  e  ricorda  le  parole  di  un  grande  ita- 
liano :  non  dichino  (sic)  gli  uomini  :  io  non  feci,  io  non  dissi,  per- 
che  comunemente  la  vera  laude  è  di  poter  dire  :  io  feci,  io  dissi  „ . 
Prometteva,  riguardo  alla  politica  estera,  la  lega  col  Piemonte. 
"  Il  ministero,  soggiungeva,  è  pronto  e  deciso  a  tutto  intrapren- 
dere, tutto  operare  per  raggiungere  il  grande  scopo  del  consolida- 
mento della  monarchia  costituzionale  e  della  italiana  indipenden- 
za,,. E  concludeva,  augurandosi  che  la  futura  rappresentanza 
^  sarà  l'opinione  legale  della  vera  maggioranza,  cui  solo  è  dato 
sperdere  diffinitivamente  le  incertezze,  annullare  fin  l'eco  importuna 
del  passato,  e  farsi  guida  delle  giuste  e  legali  aspirazioni  „ . 

Questo  programma,  al  contrario,  non  produsse  effetto:  troppa. 


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era  l'esaltazione  degli  animi,  e  troppo  rapidamente  correvano 
le  cose  verso  il  destino  fatale.  Non  si  ebbe  il  tempo  di  eleg- 
gere i  deputati  ;  e  solo  i  giornali  pubblicarono  liste  di  candidati, 
fra  i  quali  preferiti  erano  gli  esuli  e  i  prigionieri  di  più  accen- 
tuata fede  unitaria.  Per  il  distretto  di  Trani  ricordo  che  fu- 
ron  candidati  Saverio  Baldacchini,  Felice  Nisio,  Sabino  Scoc- 
-chera,  Lorenzo  Festa  Campanile,  Ottavio  Tupputi,  l'abate  Vito 
Fornari,  Giuseppe  Àntonacci,  Giuseppe  Beltrani,  Simone  de 
Bello.  Compilate  che  -furono  le  liste,  Liborio  Romano,  il  giorno 
11  agosto,  inviò   agl'intendenti  la  seguente  circolare: 

Signore!  —  Il  giorno  delle  elezioni  de'  Deputati  al  Parlamento  si 
avvicina,  ed  è  d'uopo  ohe  il  governo  le  dia  istruzioni  capaci  di  dirigere  la 
sua  condotta  in  circostanza  cosi  imponente  pel  nostro  avvenire.  Prima 
di  tutto  clie  il  Paese  sia  libero  intieramente  da  ogni  influenza  estranea 
alle  proprie  convinzioni  degli  elettori.  Il  Governo  non  intende  di  proporre 
candidati,  ma  intende  ed  lia  il  dovere  di  evitare  ogni  pressione  da  qualun- 
que parte  essa  venga  sulla  volontà  dei  votanti.  Ella  quindi  vigilerà  affin- 
chè nessuno  intrigo  si  formi,  nessuna  consorteria  abbia  luogo  a  fine  d'im- 
porre un  uomo  anziché  un  altro.  Quello  che  il  Governo  desidera,  quel 
che  il  Paese  attende  è  che  dall'urna  elettorale  escano  nomi  di  persone  spec- 
chiate per  la  loro  onestà,  incapaci  di  viltà  politiche,  e  soprattutto  attac- 
cate a'  principii  della  Indipendenza  Italiana  o  della  Monarchia  Costituzio- 
nale che  ci  regge.  A  tal  fine  Ella  adopererà  i  suoi  consigli,  badando  alla 
stretta  esecuzione  della  legge  elettorale,  e  mantenendo  intatto  l'ordine 
pubblico,  senza  di  cui  nessuna  libertà  può  esistere.  Il  Governo  sa  che 
varie  liste  di  nomi  corrono  attorno  per  essere  raccomandate  agli  elettori  : 
senza  voler  entrare  menomamente  a  discutere  il  merito  delle  persone  pro- 
poste, sente  nondimeno  il  debito  di  dichiarare,  che  esso  è  stato  totalmente 
estraneo  alla  formazione  di  quelle  liste.  Mercè  la  solerzia  che  ella  userà, 
mercè  soprattutto  il  buon  senso  del  Paese,  il  Governo  ha  quasi  la  certezza 
che  il  giorno  delle  prossime  elezioni  sarà  benedetto  come  quello  che  avrà 
dato  al  Regno  una  Camera  onesta,  prudente,  indipendente  e  monarchica- 
mente costituzionale. 

Per  il  19  agosto,  vennero  convocati  i  collegi,  ma  ne  fu  pro- 
rogata la  convocazione  al  26  ;  il  20  agosto,  si  ebbe  un'  altra 
proroga  sino  al  30  settembre,  perchè  i  disordini,  verificatisi  in 
Sicilia  e  in  Calabria,  non  erano  favorevoli  ad  una  libera  elezione^ 
come  diceva  il  decreto. 

Nelle  provinole  regnava  tutt'altro  che  ordine  e  tranquillità. 
Sospetti  e  denuncie  di  promuovere  la  reazione  si  succedevano 
«enza  tregua;  se  gl'intendenti  erano  stati  mutati,  rimanevano  in 


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carica  tutt'  i  vecchi  sottointendenti,  paralizzati,  intimoriti  e  privi 
di  ogni  autorità.  I  più  perseguitati  erano  i  vescovi  ;  quei  vescovi, 
che,  prima  dell'Atto  Sovrano,  si  erano  mostrati  più  devoti  al- 
l'antico regime  e,  dopo,  meno  teneri  delle  istituzioni  liberali,  e 
si  fantasticava  che  promovessero  cospirazioni  reazionarie.  Rap- 
porti ufficiali  e  denunzie  private  li  dipingevano  al  ministero 
dell'interno  e  polizia,  come  perturbatori  della  pubblica  quiete. 
Alcuni  furono  espulsi  dalle  loro  sedi  ;  altri,  temendo  l' ira  po- 
polare, se  ne  allontanarono.  Il  sindaco,  di  Muro,  in  Basilicata, 
Decio  Lordi,  denunziava  il  25  luglio  il  suo  vescovo,  pregando 
il  .ministro  a  richiamare  "  a  rigor  di  posta  nella  capitale  il  pre- 
lato, che  freme  all'ombra  delle  costituzionali  franchigie,  che  arma 
in  questi  luoghi  una  possente  reazione  guidata  dai  pregiudizi  re- 
ligiosi „.  Contro  il  vescovo  di  Castellaneta,  monsignor  D'Avan- 
zo, che  minava  lo  statuto  costituzionale,  scrisse  al  ministro,  due 
giorni  dopo,  il  27  luglio,  un  canonico  chiamato  don  Francesco 
Rizzi.  Il  vescovo  lo  sospendeva  a  divinis  ed  istruiva  contro  di 
lui  un  processo  per  mostrarlo  macchiato  di  peccati  carnali;  ma 
poi,  costretto  a  fuggire,  fu  salvo  per  miracolo.  Andando  in 
carrozza  da  Castellaneta  a  Gioia,  in  un  punto  solitario,  uno  sco- 
nosciuto gli  sparò  contro  una  fucilata.  La  palla  colpi  la  croce 
pettorale,  e  il  vescovo  se  la  cavò  con  grandissimo  spavento.  Più 
tardi,  D'Avanzo  fu  cardinale  e  mori  nel  1884,  in  Avella  sua 
terra  d'origine. 

A  tale  eccesso  si  spingevano  i  sospetti  contro  i  vescovi,  che 
se  ne  sorvegliava  ogni  passo.  Udite  il  curioso  rapporto,  riser- 
patissimo  oltremodo,  diretto  il  2  agosto  dal  sotto  intendente  di 
Gaeta  al  ministro  dell'interno: 

Eccellenza  !  —  Ieri  in  Sessa,  oggi  in  Gaeta.  Ò  conosciuto  che  jeri 
mattina  partiva  da  questa  piazza  diretto  per  costà  monsignor  Gallo  con 
un  prete  di  seguito  e  don  Gaetano  Talizia:  giunto  nell'albergo  della  posta 
di  Sant'Agata  di  Sessa,  ove  si  rinfrescano  i  cavalli,  calò  da  quest'ultimo 
Comune  il  vescovo  monsignor  Girardi,  uomo  notissimo  oltremodo  per  le 
sue  idee  antiliberali  ;  ebbero  un'ora  circa  di  abboccamento,  e  poscia  cia- 
scuno prese  la  sua  via.  Mi  è  stato  impossibile  di  conoscere  di  che  trat- 
tavasi.  Ho  però  istituita  in  Sessa  su  di  quel  Prelato  e  di  qualche  suo 
cagnotto  la  più  stretta  ed  accurata  sorveglianza.    Ne  gradisca  l' intelligenza^ 

Il  sottintendente 
,  firmato:  Gabtani. 


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Maggiori  erano  le  ire  contro  monsignor  Falconi,  prelato  pa- 
latino di  Acquaviva  e  Altamura  e  devotissimo,  come  si  è  ve- 
duto, alla  dinastia  regnante.  Q-iuseppe  Capriati,  sindaco  di  Bari 
da  due  anni,  e  nominato  intendente  provvisorio  della  provincia, 
il  14  agosto,  rimetteva  al  ministero  dell'interno  una  supplica, 
firmata  da  circa  sessanta  cittadini  di  Acquaviva,  galantuomini, 
artigiani  e  contadini,  i  quali,  rifacendo  la  vita  di  monsignor  Fal- 
coni e  dipingendolo,  con  iperbole  rivoluzionaria,  quale  dilapi- 
datore delle  casse  pie  e  religiose,  disturbatore  di  monache  e 
reazionario  furente,  chiedevano  che  fosse  allontanato.  ^ 

E  il  Capriati  confortava  di  sua  autorità  questo  memorandum 
con  una  sua  nota  riservata  e  pressante,  che  vai  la  pena  di  rife- 
rire, come  segno  dei  tempi: 

Eccellenza, 

Poiché  Vostra  Eccellenza  si  degnava  onorarmi  delle  provvisorie  fun- 
zioni d' intendente  in  questa  Provincia,  fu  mio  primo  pensiero  il  richia- 
mare convenientemente  i  Sindaci  e  Comandanti  le  Guardie  Nazionali  dei 
Comuni,  al  sacro  dovere  di  spiegare  tutto  lo  zelo  e  l'energia  perchè  la  pub- 
blica tranquillità  non  venisse  nelle  rispettive  giurisdizioni  menomamente 
compromessa  per  opera  dei  tristi  reazionari,  inculcando  la  maggior  soler- 
zia per  isventare  a  tempo  e  reprimere  ogni  reo  conato. 

Di  risposta  a  queste  premure  il  Sindaco  di  Acquaviva  in  data  12  vol- 
gente, mi  ha  diretto  il  seguente  uffizio  : 

"  Di  riscontro  al  suo  foglio  riservatissimo  del  10,  andante  mese,  mi  pre- 
gio assicurarla  che  qui,  per  la  solerzia  della  Guardia  Cittadina  e  dei  libe- 
rali, non  è  stato  finora  turbato  l'ordine  pubblico.  Non  però  i  tristi  rea- 
zionari al  margine  segnati  :  1°  Giudice  Regio  ;  2"  parroco  don  Giuseppe  te- 
soriere lacovelli  ;  3°  D.  Giovanni  Antonio  barone  Molignani,  ex  capo  urbano; 
4*  D.  Francesco  barone  Molignani  ;  5°  D.  Francesco  Saverio  Spinelli  ; 
6^  D.  Francesco  canonico  Cirielli  ;  7"  D.  Francesco  sacerdote  Cirielli,  in- 
stancabilmente agiscono,  spargendo  voci  sediziose  presso  il  volgo  ;  ed  at- 
tendono il  momento  opportuno  per  spingerlo  ad  una  ribellione  contro  l'at- 
tuale ordine  politico,  nella  speranza  che  potesse  ritornare  il  tempo  della 
vecchia  opprimente  polizia.  Essi  non  pertanto,  anziché  ag^re  per  proprio 
conto,  seguono  l' impulso,  e  le  disposizioni  del  famigerato  reazionario  mon- 
signor D.  Giandomenico  Falconi,  prelato  ordinario  delle  Reali  Chiese  di 
Altamura  ed  Acquaviva,  essendovi  una  perenne  diurna  corrispondenza  di 
corrieri  tra  i  due  paesi. 

'■'■  Il  detto  prelato  non  soddisfatto  di  avere  instancabilmente  gravato  la 
mano  sul  ceto  de'  liberali  per  il   corso  di  circa  dodici  anni,  con  persecu- 


^  Pubblicai  nella  prima  edizione  il  testo  di  questo  documento,  note- 
vole non  per  le  verità  che  contiene,  ma  per  le  esagerazioni  e  le  volga- 
rità che  vi  abbondano. 


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zloni  ingiuste  e  tiranniche,  si  sforza  ora  di  farli  bersaglio  all'ira  popolare. 
Ed  è  stato  per  questo  motivo  che  questi  onesti  cittadini  hanno  levato  la 
loro  voce  al  Q-overno,  dirigendo  valevolissima  rimostranza  a  S.  E.  il  Ministro 
della  Polizia  Generale,  ad  oggetto  di  ottenere  l'allontanamento  del  prelato 
medesimo,  monsignor  Falconi,  come  unico,  ed  esclusivo  mezzo  di  rido- 
nare la  pace  a  questa  sventurata  popolazione. 

"  Ed  io  unendo  i  miei  piati  (sic)  ai  loro,  prego  caldamente  l'autorità  di 
lei  d'interporre  i  valevolissimi  suoi  uffici  presso  il  lodato  Eccellentis- 
simo Ministro,  perchè  si  ottenga  il  desiderato  allontanamento  del  riferito 
prelato  da  questa  diocesi,  nel  fine  di  prevenirsi  positivi  disordini,  che  po- 
trebbero da  un  giorno  all'altro  verificarsi;  tanto  maggiormente  che  lo  stesso 
ha  in  pronto  vistosi  mezzi  peculiari  (sic)  valevoli  a  concitarne  la  plebe  „. 

Io  quindi,  nello  adempiere  a  sommettere  all'È.  V.  tutto  ciò,  non  sa- 
prei che  uniformarmi  allo  avviso  del  funzionario  suddetto,  intorno  alla  ne- 
cessità di  doversi  impreteribilmente  allontanare  da  quella  Diocesi  e  Giu- 
dicato il  Prelato  Palatino,  e  Giudice  Regio  don  Ferdinando  Massari,  men- 
tre per  gli  altri  denotati  al  margine,  la  pregherei  a  volermi  dettare  le  mi- 
sure di  sorveglianza,  reclamate  dalle  circostanze. 

Il  sindaco  di  Bari  funzionante  da  intendente 

firmato  :  Giuseppe  Capriati. 

Come  potè  avvenire  olie  il  sindaco  di  Bari  divenisse,  ad  un 
tratto,  intendente?  E  come,  da  intendente  e  sindaco,  concorresse  a 
dar  forza  alla  rivoluzione?  Bisogna  sapere  che  l'intendente  fun- 
zionante Coppola  era  stato  richiamato,  e  nominato  in  sua  vece  in- 
tendente di  Bari  Mariano  Englen  ;  ma  questi,  non  potendosi  recar 
presto  nella  nuova  sede,  il  ministero  fu  obbligato  a  trovare,  su  due 
piedi,  un  capo  interino  della  provincia,  e  nominò  a  tale  Tifficio  il 
Capriati,  che  era  sindaco  durante  la  dimora  della  Corte  a  Bari,  ed 
era  stato  insignito  della  croce  di  Francesco  I,  in  occasione  del  ma- 
trimonio del  duca  di  Calabria.  Era  giovane,  d' idee  temperate,  di 
famiglia  benestante  e  di  naturale  talento,  simpatico  a  tutti.  Cu- 
mulò per  un  mese  i  due  uffici  e  die  prova  di  fermezza.  E  poiché 
nel  circondario  di  Barletta,  che  era  il  più  agitato,  anzi  tutto  in 
fermento  rivoluzionario,  occorreva  un  sottointendente  risoluto  e 
di  vecchia  fede  liberale,  e  il  nuovo  sottointendente  Pacces,  destina- 
tovi da  Rossano,  non  si  decideva  a  recarsi  in  residenza,  il  Ca- 
priati propose  a  tale  ufficio,  e  il  ministero  approvò,  Giuseppe 
Beltrani,  da  tre  giorni  rinominato  sindaco  di  Trani,  dopo  di  es- 
sere stato  da  quella  carica  destituito  nel  1848,  per  non  aver  voluto 
firmare  F  indirizzo  per  l'abolizione  dello  Statuto  ;  e  quindi  attendi- 
bile e  sorvegliato  negli  ultimi  dieci  anni.  Era  uomo  di  molta  sa- 
gacia amministrativa,  di  carattere  risoluto,  di  ricca  e  signorile  fa- 


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miglia  e  legato  da  vecchia  amicizia  al  Capriati.  Il  9  agosto,  questi 
gli  telegrafò  :  "si  compiaccia  immediatamente  e  senza  il  menomo  in- 
dugio recarsi  a  Barletta,  e  intimare  a  quel  sottointendente  che  il 
ministero  gli  accorda  un  mese  di  congedo.  Nello  stesso  tempo  ella 
assumerà  le  funzioni  di  sottointendente  del  distretto,  confidando 
nel  suo  patriottismo,  probità  ed  influenza,  che  l'ordine  e  la  può- 
blica  tranquillità  vengano  confermati  e  garantiti  dagli  attacchi  di 
ogni  estremo  e  nemico  partito.  TI  presente  telegramma  le  varrà  di 
credenziale  presso  tutte  le  autorità  del  distretto  „ .  Il  Beltrani, 
eseguendo  l'ordine  ricevuto,  il  dì  appresso,  10  agosto,  si  recò  a  Bar- 
letta ;  e,  fatte  le  debite  comunicazioni  al  sottointendente  De  Bel- 
lis,  il  giorno  11  assunse  le  nuove  funzioni,  seguitando  a  essere 
sindaco  di  Trani,  anzi  cumulando  i  due  uffici  fino  al  20  settembre, 
nel  qual  giorno  il  governatore  della  provincia  autorizzò  il  sindaco 
di  Barletta,  ad  assumere  lui  le  funzioni  di  sottointendente,  che 
tenne  fino  al  29  di  quel  mese,  quando  giunse  il  titolare  Pacces. 
Il  direttore  Giacchi  informava  de'  reclami  degl'  intendenti  con- 
tro i  vescovi  il  ministro,  con  una  relazione  interessantissima  e 
inedita.  Essa  porta  la  data  del  18  agosto  e  la  riferisco  inte- 
gralmente nel  suo  stile  solenne  : 

Eccellenza, 

Il  principio  di  autorità  e  di  obbedienza  alle  leggi  umane,  sublimato  a 
dovere  verso  Dio,  e  la  franca  esplicazione  delle  naturali  doti  e  facoltà  al- 
l'uomo largite  dallo  stesso  Dio  fecero  di  tutt'i  tempi  la  divina  religione  di 
Cristo,  fondamento  di  ordine  e  di  libertà.  Il  perchè  quelli  che  ai  di  no- 
stri, o  che  sono  a  nostra  memoria,  i  quali  nell'ordine  civile  vollero  fon- 
dare alcunché  di  stabile  e  duraturo,  sempre  dalla  religione  ne  presero  il 
principio  ;  e  con  i  loro  ordinamenti  vollero  alle  sue  cose  procacciar  lustro 
e  protezione,  e  le  persone  dei  suoi  ministri  circondare  di  rispetto  e  vene- 
razione, come  buoni  figliuoli  a  padri  amorevoli  e  virtuosi.  E  drittamente 
operarono  ;  e  per  non  uscire  dalla  storia  dei  giorni  in  cui  viviamo,  mai 
in  nessun  tempo  l'episcopato  fu  fatto  segno  a  tanta  considerazione  in  Ita- 
lia come  ora,  né  mai  se  ne  addimostrò  più.  meritevole  ;  perciocché  se  non 
mancarono  di  quelli  che  qua  e  là  male  operando  e  contro  lo  spirito  del 
Vangelo,  recaronsi  in  atto  di  attraversare  ed  impedire  la  santa  impresa 
della  italiana  nazionalità  ed  indipendenza,  il  maggior  numero  bene  ha  po- 
tuto dire  col  maestro  :  '■^Ego  sum  postar  bonus  et  cognosco  oves  ineas  et  co- 
gnoBCunt  me  meae  „.  Costoro ,  conoscenti  delle  lor  pecorelle  e  conosciuti 
da  esse,  seppero  e  sanno  guidarle  nella  via  della  salute,  non  plaudendo  al 
dispotismo,  negazione  d'ogni  dritto,  e  del  Vangelo  che  è  il  dritto  per  ec- 
cellenza; ma  predicando  la  legge  di  carità,  che  fratelli  ci  vuole  e  libera- 
mente cospiranti  al  sublime    scopo,    cui  verge  l'umanità  tutta  quanta,  il 


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regno  dei  giusti  sulla  terra,  del  regno  imperituro  dei  cieli,  caparra  pro- 
messa e  desiderata. 

A  questi  fondamenti  affidate  le  nostre  sorti,  esse  non  possono  peri- 
colare. 

Ma  non  possiam  neppur  torcere  lo  sguardo  da  una  trista  esperienza, 
la  quale  e'  insegna  non  far  tanto  di  bene  dieci  buoni  vescovi,  che  più.  non 
possa  far  di  male  un  solo  cattivo.  Il  cbe  se  per  tutti  è  vero,  molto  è  più 
vero  per  noi,  i  quali  viviamo  in  un  paese  uscito  pur  ora  da  un  sistema 
governativo  assurdo  sopra  tutti,  in  cui  non  poca  parte  si  ebbe  l'episcopato 
spesso  della  legge  di  carità  mal  ricordevole,  al  punto  di  farsi,  se  non  sem- 
pre strumento,  certo  laudatore,  e  nelle  coscienze  dei  semplici  ed  ignoranti 
strenuo  difenditore  della  maggior  tirannide  che  mai  ci  fusse.  In  questo 
stato  di  cose  m'è  forza  chiamare  l'attenzione  di  V.  E.  sul  contegno  che 
alcuni  vescovi,  certo  non  quelli  del  Vangelo,  serbano  a  riguardo  de'  rin- 
novellati ordini  costituzionali,  contegno  non  evangelico,  non  civile,  pieno 
di  scandali,  funestissimo  alla  cosa  pubblica,  per  la  Chiesa  stessa  fonte  di 
discredito  e  di  disamore,  se  sopra  le  persone  non  stessero  le  cose  e  le  pro- 
messe infallibili  del  divin  Redentore. 

Un  fatto  ho  da  segnalare  a  V.  E.  quasi  universale,  e  che  in  modi  più. 
o  meno  espressi  si  ripete,  in  presso  che  tutte  le  diocesi  del  Regno;  ed  è 
che  i  Vescovi  si  scuoprono,  generalmente  parlando,  avversi  al  nuovo  or- 
dine di  cose.  Solamente  ci  ha  differenza  nel  modo,  che  alcuni  fanno  allo 
Statuto  una  Qpposizione  quasi  direi  passiva,  non  consentendo  che  si  svolga 
con  quelle  libertà  ed  in  quella  larga  maniera,  che  si  richiede  a  voler  che 
porti  frutti  degni  della  maturità  dei  tempi  in  che  siamo.  Altri  poi,  più 
vivo  contrasto  facendogli,  e  quasi  la  divisa  vestendo  di  congiuratori,  di- 
mentichi ad  un  tempo  e  dell'ufficio  sacerdotale  e  del  debito  di  cittadini, 
colla  parola  che  è  possente  sulle  loro  labbra,  e  con  atti  scopertamente 
ostili,  si  fanno  centri  di  reazione,  e  gli  onesti  liberali  inducono  a  pensieri 
che  non  ebber  mai,  togliendo  forza  al  Governo,  ed  il  paese  ponendo  in 
sullo  sdrucciolo  di  cadere  nell'  anarchia.  Costoro,  Eccellentissimo  Signore, 
non  vogliono  essere  più  a  lungo  tollerati,  senza  richiamarli  al  dover  loro 
di  pastori  e  di  cittadini.  Ed  io,  che  molti  potrei  additarne,  per  ora  ne 
addito  questi  pochi,  che  più  degli  altri,  per  pubblici  fatti,  vennero  in  fama 
di  non  buoni  coltivatori  della  vigna  del  Signore. 

Il  vescovo  d'Ariano  '  ha  dovuto  fuggire  dalla  sua  sede.  Egli  dirà  forse 
che  il  lupo  entrò  nel  gregge  e  disperse  pecore  e  pastore  ;  ma  il  lupo  sono 
essi  i  cattivi  pastori,  che  il  gregge  ribellano  alla  pastoral  verga.  Né  per- 
chè manchi  il  vescovo,  sappiamo  che  nella  diocesi  d'Ariano  la  religione 
abbia  sofferto  danno  o  detrimento  alcuno.  Ciò  vuol  dire,  quello  che  è  pur 
di  fede,  che  alla  Chiesa,  se  i  suoi  pastori  l'abbandonino,  non  venne,  ne  mai 
verrà  meno  l'assistenza  dell'invisibile  uni  versai  Pastore. 

Ma  se  questo  è  vero,  non  sarà  men  certo  che  ripetendosi  fatti  di  tanta 
gravità,  la  morale  pubblica,  e  la  disciplina  della  Chiesa  debba  patirne  non 
poco.  Sarebbe  uno  scandalo  da  non  potersi  mettere  in  dubbio,  ed  è  debito 
di  quelli,  che  seggono  al  timone  dello   Stato,  il  fare  che  non  avvenga. 


*  Si  ricordi  ch'era  monsignor    Caputo,  il  preteso  avvelenatore  di  Fer- 
dinando II. 


-  283  — 

Con  questo  intendimento,  e  nel  fine  ancora  di  toglier  materia  a'  disordiu 
le  cui  conseguenze  mal  si  saprebbero  misurare,  prego  l' E.  V.  fare  in  moda 
ohe  tosto  sia  allontanato  dalla  sua  sede  monsignor  Falcone,  prelato  delle 
chiese  di  Altamura  ed  Acquaviva,  un  tempo  1  iberale  per  ambizione,  poscia 
per  ambizione  persecutore  di  liberali,  laudatore  impudente  del  governo  di- 
spotico, ed  oggi,  per  non  poter  cancellare  tanti  profondi  vestigi  di  dispo- 
tico operare,  macchinatore  indefesso  di  reazione  assolutista.  Sia  pur  dalla 
sede  sua  allontanato  il  vescovo  di  Muro,  non  meno  del  Falcone,  a  parole 
ed  a  fatti,  pericoloso  nel  novello  ordine  di  cose.  Siano  infine  allontanati 
i  vescovi  di  Bitonto  e  Bovino,  pastori  anche  essi  immemori  del  sublime 
lor  ministerio,  cittadini  ribelli  alle  leggi  dello  Stato,  e  nel  popolo  semina- 
tori di  scandali  e  turbolenze  pericolosissime. 

Queste  cose,  che  ho  l'onore  di  rassegnarle,  l'È.  V.  le  abbia  per  ferme. 
Non  può  il  ministero  di  Polizia  rispondere  della  pubblica  tranquillità,  se 
le  cause  de'  disordini  non  sian  rimosse  con  prudenza  e  fermezza  ad  un 
tempo;  e  tra  queste  cause  prima  è  il  contegno  dell'Episcopato  rimpetto 
al  rinnovato  Statuto  Costituzionale.  Cessi  questo  contegno,  ed  il  paese  è 
salvo,  in  quanto  umanamente  possa  esser  salvato. 

Sono  di  V.  E.  \ 

H  direttore  dell'interno  e  polizia 

firmato  :  M.  Giacchi.  *■ 

Non  erano  ancora  stati  presi  tutti  i  provvedimenti  chiesti  dal 
Giacchi,  che,  in  data  29  agosto,  il  maresciallo  di  campo  Flores 
dirigeva  da  Bari  ai  ministri  della  guerra  e  dell'interno  il  se- 
guente telegramma: 

"  È  impellente  che  sgombri  da  Bari  V  arcivescovo,  che  è  uni- 
versalmente dbborritOj  ed  il  resto  dei  gesuiti  qui  rimasti.  Prego 
dare  ordini  impellenti,  non  volendo  compromettere  la  tranquillità 
del  paese,  la  quale  è  nella  massima  velleità  (sic).  Dia  ordini 
per  non  avere  scandali  compromessi  (sic)  „. 

Per  il  2  settembre  il  vescovo  di  Sessa  era  chiamato  a  Na- 
poli ad  audiendum  verbum]  ed  egli  fu  fatto  partire  dalla  sua 
residenza,  scortato  da  guardie  nazionali,  per  salvarlo  dall'ira 
del  popolo  che  lo  accompagnò  sin  fuori  il  paese,  con  grida  di 
fuori  e  di  abbasso,  con  fischi  e  minacce,  e  sparando  mortaletti 
e  fucili  in  segno  di  giubilo.  Molti  vescovi  lasciarono  le  sedi, 
per  paure  immaginarie;  altri  per  paure  reali,  come  quello  di 
Foggia,  assai  malviso.  Monsignor  lannuzzi,  vescovo  di  Lucerà, 
restò  in  diocesi  sino  al  10  settembre,  ma  s'impauri,  quando, 
in  una  dimostrazione  dopo  l'entrata  di  Garibaldi,  fu  chiama- 
to  al    balcone    del    palazzo    vescovile   a   benedire   le    bandiere 


'  Archivio  Giacchi. 


—  284  — 

tricolori.  Si  affermò  che,  in  quell'occasione,  parecchi  facino- 
rosi gli  scroccassero  delle  somme,  per  calmare,  dicevano,  gli 
spiriti  inaspriti,  e  forse  fa  questa  non  l'ultima  causa  che  de- 
terminò la  sua  partenza.  Andò  in  Andria,  sua  patria,  e  non 
tornò  in  Lucerà  che  nel  settembre  del  1865  e  vi  mori  il  21  ago- 
sto del  1871,  Il  vescovo  Prascolla,  spirito  battagliero,  fu  condan- 
nato dalla  Corte  di  assise  di  Foggia,  il  30  settembre  1862,  a 
due  anni  di  carcere  e  a  lire  4500  di  multa,  insieme  al  canonico 
penitenziere  don  Vincenzo  Chiulli,  per  avere  entrambi  pubbli- 
cato scritti  provocanti  disubbidienza  alle  leggi  dello  Stato.  Per 
grazia  sovrana,  la  pena  fu  commutata  in  un  anno  di  esilio, 
che  scontò  a  Como.  L' arcivescovo  di  Matera  e  Acerenza,  mon- 
signor Rossini,  fuggi  da  Matera,  dopo  la  ribellione  dei  semina- 
risti che  lo  detestavano.  Fra  i  più  vivaci  ribelli  all'autorità 
dell'arcivescovo,  era  stato  il  seminarista  Michele  Torraca,  oggi 
deputato.  I  vescovi,  rimasti  nelle  diocesi,  furono  ben  pochi  e 
incorsero  poi,  ingiustamente,  nelle  ire  di  Roma.  Oltre  al  semi- 
nario di  Matera,  erano  focolari  di  cospirazione  unitaria  quelli  di 
Molfetta  «  di  Conversano  ;  ma  il  vescovo  di  Molfetta,  monsignor 
Guida,  non  era  ne  carne  ne  pesce  in  politica,  e  fu  tra  quelli  che 
lasciarono  la  sede  per  timori  immaginarli  ;  mentre  monsignor  Mu- 
cedola  era  adorato  dai  suoi  seminaristi,  dalle  cui  fila  erano  usciti, 
da  poco  tempo,  due  giovani  di  grande  valore  e  a  lui  carissimi, 
Pietro  de  Bellis,  che  poi  fu  preside  e  provveditore  agli  studii,  e 
Domenico  Morea,  il  lodato  autore  del  Chartularium  Cupersanense. 
Fra  i  pochi  vescovi,  che  non  abbandonarono  la  diocesi  in 
quei  giorni,  furono  quelli  di  Trani  e  di  Conversano.  Don  Giu- 
seppe Bianchi  Dottula,  vescovo  di  Trani,  era  un  signore  di 
nascita  e  di  maniere,  di  limitata  capacità,  ma  pio  e  caritate- 
vole e  non  aveva  nemici.  Di  famiglia  devotissima  ai  Borboni, 
dopo  l'attentato  di  Agesilao  Milano,  indisse  una  processione 
straordinaria,  in  ringraziamento  di  essere  stata  preservata  la 
vita  del  Re,  e  invitò  alla  processione,  che  doveva  aver  luogo  il 
20  dicembre  di  quell'anno  il  sindaco,  i  decurioni  di  Trani  e  altre 
autorità.  Fece  girare  la  lettera  tra  i  decurioni,  con  invito  di 
apporvi  la  firma  a  margine,  ma  salvo  quattro  di  essi,  tutti  gli 
altri  si  dichiararono  impediti  o  indisposti.  Trani  fu  sempre  città 
liberale  nella  sua  gran  maggioranza,  anzi  frondista  più  che  li- 
berale, veramente.     Lo  stesso  arcivescovo  aveva  fatto  celebrare 


-  285  - 

solenni  funerali  nella  sua  diocesi  a  Ferdinando  II,  invitandovi 
le  autorità  e  i  cittadini  di  maggior  nome,  con  una  lettera  che 
si  chiudeva  cosi  :  "  Non  abbiamo  bisogno  di  lunghe  parole,  per 
esortare  tutti  all'adempimento  di  questi  pietosi  ujjizii.  Più,  elo- 
quenti delle  nostre  parole  sono  le  grate  reminiscenze,  per  le  quali 
il  nome  dell'  augusto  Ferdinando  II  ha  meritato  nella  storia  una 
grande  pagina  gloriosa  ed  il  compianto  universale  „.  Ma  ciò  non 
tolse  che,  partito  Francesco  II,  si  lasciasse  indurre  dai  liberali 
tranesi  a  mandare  a  Vittorio    Emanuele   il   seguente  indirizzo: 

"  L' arcivescovo  di  Trani  e  Nazaret,  nel  proprio  nome  e  del 
suo  gregge,  supplica  V.  M.  a  venire  in  Napoli  per  suggellare  la 
grande  opera  dell'  unità  italiana  e  per  restaurare  la  tranquillità 
e  la  pace  tra  i  popoli  di  queste  ridenti  contrade.  Si  degni  ascol- 
tare questi  voti  supplichevoli,  ed  il  Signore  degli  eserciti  ricolmi 
la  M.  V.  delle  sue  celestiali  benedizioni  „. 

Monsignor  Niccola  Guida,  vescovo  di  Molfetta,  aveva  natura 
timidissima.  Restò  in  diocesi  sino  a  tutto  il  settembre,  quando 
parti  di  Molfetta  anche  don  Vito  Fomari,  che  gli  era  di  scudo 
contro  i  liberali  più  esaltati,  quantunque  neppur  tra  costoro  con- 
tasse proprio  de'  nemici.  I  professori  liberali  del  seminario  non 
avevano  infatti  avuto  molestie  da  lui,  anzi  aveva  tollerato  che 
Girolamo  Nisio  tenesse  uno  studio  privato,  che  era  una  piccola 
fucina  di  cospirazione. 

Monsignor  Mucedola,  indirizzò  il  29  agosto,  una  patriottica 
pastorale  al  suo  clero  "  A  voi,  egli  diceva,  a  cui  spetta,  per 
ragione  del  ministero,  aprir  la  mente  agl'ignoranti,  rivolgomi 
con  tutto  zelo,  perchè  insegniate  loro,  che  governo  libero  va 
bene  congiunto  a  ragione,  a  virtù,  a  legge,  a  religione,  anzi  di 
essa  è  base  e  fondamento.  Insegnino  i  ministri  dell'Altare,  che 
il  bene  comune  è  sempre  da  preferire  al  bene  individuale,  che 
necessariamente  debbono  andare  in  giù  gì'  interessi  privati,  messi 
a  confronto  agli  interessi  della  madre  comune,  la  Patria.  Smetta 
ognuno  queir  Io,  che  tanto  è  pregiudizievole  ad  ogni  maniera 
di  beni  ;  sia  libero  si,  ma  onesto,  ma  giusto,  ma  virtuoso  ;  im- 
pari che  la  vita  dell'uomo  è  vita  di  sacrifici,  di  abnegazione 
secondo  gl'insegnamenti  del  Redentore  „.  Questa  pastorale  levò- 
gran  rumore. 


CAPITOLO  XIY 


Sommario:  Il  Comitato  dell'Ordine  e  il  Comitato  d'Azione  —  Giacchi  chiama 
Spaventa  e  De  Filippo  —  Paure  generali  ma  infondate  —  Particolari  cu- 
riosi —  Il  funerale  a  Guglielmo  Pepe  —  Tutti  divengono  liberali  —  La 
condizione  del  ministero  —  Colloquio  fra  D'Ayala  e  Pianali  —  Pianell  ri- 
fiuta il  pronunciaviento  dell'esercito  —  Maniscalco  a  Napoli  e  sua  partenza 
per  Marsiglia  —  Il  passaporto  —  La  guerra  ai  reazionari!  —  La  Guardia 
Nazionale  —  Alcuni  Consigli  di  Stato  —  La  situazione  nelle  provincie  —  A 
Taranto  —  Due  rapporti  del  sottointendente  d'Isemia  —  La  famiglia  reale 

—  Un  rapporto*  su  Murena,  Palumbo,  Governa  e  De  Spagnolis  —  Gaeta 
centro  di  reazione  —  La  sorveglianza  su  Maria  Teresa  —  Sospetti  sul  conte 
d'Aquila  —  Pretesa  cospirazione  di  lui  e  suo  esilio  dal  Eegno  —  Una  lettera 
di  Luigi  Giordano  —  Il  conte  di  Siracusa  —  La  sua  lettera  del  24  agosto 
al  Ke  —  Dopo  la  sua  morte  —  La  contessa  di  Siracusa  e  Giuseppe  Fiorelli 

—  I  rapporti  di  Manna  e  di  Lagreca  —  In  Sicilia  —  Depretis  prodittatoro 

—  Garibaldi  a  Messina  e  il  manifesto  di  Emanuele  Pancaldo  —  L'attentato 
contro  il  Monarca  —  Lo  "  squagliamento  „  della  Marina  —  Anguissola  e 
Vacca  —  I  pochi  fedeli  —  Il  giudizio  della  storia  —  Sintomatica  circolare 
di  Giacchi  e  un  proclama  reazionario. 

Erano  giorni  di  esaltazione  e  di  generale  trepidazione  in- 
sieme. Spaventa  aveva  assunta  la  direzione  effettiva  del  Comi- 
tato dell'Ordine,  che  si  ricostituì  con  Pier  Silvestro  Leopardi, 
per  presidente,  Q-ennaro  Bellelli  per  segretario,  e  con  un  Consiglio 
direttivo,  formato  da  Rodolfo  d'Afflitto,  Andrea  Colonna,  Sa- 
verio Baldacchini,  Griuseppe  Pisanelli,  Antonio  Ranieri,  Cam- 
millo  Caracciolo,  Giuseppe  Vacca,  Gioacchino  Saluzzo,  Antonio 
Ciccone,  Luigi  Giordano,  Costantino  Crisci,  Mariano  d'Ayala, 
e  lui,  Spaventa,  che  spingeva,  con  grande  energia,  quasi  sfidando 
il  governo,  il  lavoro  diretto  a  far  insorgere  le  provincie  continen- 
tali, soprattutto  la  Basilicata  e  la  Calabria,  prima  che  Garibaldi 
sbarcasse   sul   continente,  o   almeno   prima   che  arrivasse  a  Na- 


—  288  - 

poli.  Il  Comitato  mandò  Gennaro  de  Filippo  a  Messina,  per 
assicurare  il  dittatore  che  sul  continente,  tutto  si  disponeva  se- 
condo il  suo  desiderio  di  quei  giorni  :  fare,  cioè,  insorgere  le  pro- 
vinole prima  del  suo  sbarco  in  Calabria.  Il  Comitato  d'Azione 
venne  su  quando  il  Comitato  dell'Ordine,  rifatto  il  9  luglio,  dopo 
il  ritorno  degli  esuli,  assunse  un  contegno  decisamente  cavurria- 
no,  onde  per  reazione  si  accentuò  garibaldino,  con  una  tinta  di 
mazziniano  e  di  municipale.  Lo  fondarono  e  ne  furono  la  mag- 
giore forza  Giuseppe  Libertini,  Giuseppe  Ricciardi,  Filippo  Agre- 
sti, Niccola  Mignogna,  nonché  Giacinto  Albini  e  Giuseppe  Lazza- 
ro. Pietro  Lacava  restò  come  tratto  d'unione  fra  i  due  Comitati, 
che  si  trovavano  però  d'accordo  nel  promuovere  l'insurrezione 
nelle  provinole  prima  dello  sbarco  di  Garibaldi;  e  poiché  la  pro- 
vincia, la  quale  si  assicurava  meglio  apparecchiata  ad  insorgere, 
e  dalla  quale  si  chiedevano  capi  militari  e  civili,  era  la  Basilicata, 
il  Comitato  dell'Ordine  fece  partire  per  Corleto,dove  aveva  sede  un 
Comitato  insurrezionale,  il  colonnello  Cammillo  Boldoni  e  Pietro 
Lacava,  ai  quali  si  unirono  il  Mignogna  e  l'Albini  del  Comitato 
d'Azione.  Il  Mignogna  era  stato  dei  Mille,  e  Garibaldi  lo  aveva 
inviato  sul  continente  per  affrettarvi  l' insurrezione,  con  Giuseppe 
Pace,  Domenico  Damis,  Ferdinando  Bianchi  e  Francesco  Stocco. 
Gli  altri  quattro  restarono  in  Calabria,  dove  furono  utilissimi  al- 
l'insurrezione :  Pace  e  Damis,  nel  circondario  di  C astro villari; 
Bianchi  in  quello  di  Cosenza  e  Stocco  in  provincia  di  Catanzaro, 
dove  pure  si  era  costituito  un  Comitato  insurrezionale  il  24  ago- 
sto, che  proclamò  la  rivoluzione,  e  il  26  indisse  il  plebiscito  per 
la  nomina  dei  prodittatori. 

Il  maggior  pericolo  per  le  istituzioni  lo  rappresentava  il  Co- 
mitato dell'Ordine,  ohe  aveva  più  seguito  e  più  credito  a  Na- 
poli e  nelle  provinole,  disponeva  di  molti  mezzi  ed  era  in  diretta 
relazione  con  Cavour,  coi  suoi  agenti  di  Napoli,  con  Yillamarina 
e,  dopo  il  3  agosto,  con  Persano.  Non  era  possibile  che  il  mi- 
nistero mostrasse  più  oltre  di  non  vedere,  e  fu  deciso  di  dare 
qualche  esempio  di  energia.  Giacchi  chiamò  Spaventa  e  De  Fi- 
lippo ,  e  col  suo  fare  paterno,  loro  fece  intendere  che,  seguitando 
a  condursi  in  quel  modo,  il  governo  si  sarebbe  trovato  nella  do- 
lorosa necessità  di  arrestarli  e  allontanarli  da  Napoli.  Spaventa 
rispose  che  non  prometteva  nulla:  poche  settimane  ancora,  ag- 
giunse, e  la  rivoluzione  sarebbe  compiuta;  ma  Giacchi  tornò  a  rac- 
comandargli calma  e  prudenza,  confortando  le  sue  parole  con  mas- 


—  289  - 

siine  di  Tacito,  com'era  suo  costume.  Anche  gli  amici  raccoman- 
davano prudenza  a  don  Silvio,  e  lo  consigliavano  ad  allontanarsi 
di  casa,  assicurandolo  che  la  polizia  o  l'autorità  militare,  una 
notte  0  l'altra,  l'avrebbe  arrestato  ;  e,  seguendo  il  consiglio.  Spa- 
venta, dormi  parecchie  notti  or  qua  or  là.  L'arresto  di  Niccola 
Nisco,  proposto,  secondo  egli  afferma,  dal  ministro  De  Martino, 
non  fu  eseguito,  per  l'opposizione  del  presidente  del  Consiglio, 
Antonio  Spinelli.  Il  timore  di  essere  arrestati  invadeva  singolar- 
mente i  capi  del  movimento  unitario.  Giunse  in  quei  giorni  a  Na- 
poli, si  era  alla  metà  di  agosto,  Giuseppe  Devincenzi,  mandatovi 
da  Cavour  per  adoperarsi  con  Visconti  Venosta,  Mezzacapo,  Finzi 
e  Nisco,  perchè  l' esercito,  ad  imitazione  del  toscano,  si  pronun- 
ziasse per  la  causa  nazionale.  Prima  di  lasciarlo  partire  per  Na- 
poli, Cavour  gli  aveva  date  due  lettere  di  presentazione,  una  per 
Persane,  l'altra  per  Villamarina,  dicendogli  queste  precise  parole  : 
"  Eccovi  le  due  lettere,  ma  tenete  a  mente  questo  che  vi  dico  ;  quan- 
do volete  conchiudere,  andate  da  Persano  ;  e  quando  non  volete 
concludere j  andate  da  Villamarina  „.  Il  Devincenzi  era  tenuto 
d'occhio  dalle  varie  polizie.  Egli  sinceramente  afferma  che  in  al- 
cune notti,  non  dormi  neppur  lui  in  casa  sua  ;  e  che  anzi,  una 
la  passò  in  carrozza,  con  Pisanelli,  Gioacchino  Saluzzo  e  Cammillo 
Caracciolo.  Temevano  la  polizia  segreta  della  Corte,  che  vera- 
mente non  c'era  ;  temevano  quella  del  Romano,  e  più  che  ogni 
altro,  temevano  quest'ultimo,  perchè  era  stato  loro  assicurato  che 
don  Liborio  volesse  farli  arrestare,  condannare  e  fucilare,  per  alto 
tradimento,  dichiarandoli  complici  di  Nunziante.  Questi  era  tor- 
nato a  Napoli,  ma  rimaneva  a  bordo  della  Maria  Adelaide,  e  di  là, 
con  le  istruzioni  avute  da  Cavour,  non  lasciava  di  lavorare  per 
il  pronunciamento  dell'esercito,  ma  senza  conclusione.  A  tale 
scopo,  vide  più  volte  il  Devincenzi  e  il  Nisco,  nonché  i  capi  del 
Comitato  dell'Ordine,  ed  una  volta  anche  Antonio  Ranieri,  che  De- 
vincenzi era  andato  a  chiamare,  e  il  quale  di  malavoglia  si  recò 
a  bordo  della  Maria  Adelaide,  senza  tornarvi  più.  A  bordo  della 
Maria  Adelaide  si  rifugiarono  per  alcune  notti,  il  Nisco,  Gioac- 
chino Saluzzo,  il  colonnello  Carrano,  ed  altri  che  più  si  tenevano 
malsicuri. 

La  verità  è,  che  tutti  avevano  motivo  di  temere  :  i  reazio- 
narii  temevano  i  liberali;  i  liberali,  i  reazionarii;  gli  unitarii 
cavurriani  temevano  garibaldini  e  mazziniani  ;  questi  come  quel- 

De  Cesare,  La  fine  di  un  Rtgno  •  Voi.  II.  19 


—  290  — 

li;  i  militari  temevano  i  borghesi,  e  questi,  i  militari,  e  il  go- 
verno temeva  tutti  senza  esser  temuto  da  alcuno.  Nessuno  si  sen- 
tiva veramente  sicuro  del  domani,  e  lo  stesso  don  Liborio,  cosi 
popolare  e  potente,  temeva  per  la  sua  vita,  immaginando  che 
gli  elementi  della  vecchia  polizia,  pagati  dalla  Corte,  potessero 
assassinarlo  di  notte.  E  questi  timori  egli  comunicò  ai  suoi 
amicissimi  e  conterranei,  Mariano  e  Griuseppe  Arietta,  chiedendo 
loro  di  passare  la  notte  negli  uffici  della  loro  banca,  ch'era  al- 
lora dov'è  oggi,  nel  palazzo  Ottajano  a  Monteoliveto.  Per  alcu- 
ne sere  don  Liborio  scendeva  in  carrozza  chiusa  dalla  sua  villa 
a  Posillipo,  e  andava  a  casa  sua,  al  palazzo  Salza  alla  Riviera  di 
Ohiaja,  dove  cambiava  gli  abiti,  e  poi  ne  usciva  in  altra  vettura, 
che  lo  lasciava  al  vicolo  Calzettari,  alla  Corsea,  dove  riesce  una 
scala  secondaria  del  palazzo  Ottajano.  Un  antico  e  fido  custode 
della  banca  Minasi  e  Arietta  gli  apriva  l'uscio  di  questa  scala 
di  servizio,  ed  egli  passò  cosi  alcune  notti  nei  deserti  locali  della 
banca,  scrivendo,  leggendo  e  concedendo  poche  ore  al  sonno. 
Giacchi,  mandata  la  famiglia  a  Sepino  si  era  procurato  un  pas- 
saporto inglese  e  uno  chèque  di  duemila  sterline  sopra  una  banca 
di  Londra,  e  portava  sempre  con  se  e  l'uno  e  l'altro,  per  ispicca- 
re  il  volo,  quando  occorresse.  Anche  Nunziante,  nelle  poche 
volte  che  scendeva  dalla  Maria  Adelaide,  era  guardato  a  vista  da 
agenti  del  Comitato  dell'Ordine. ,  Il  patriota  De  Grazia,  che  fu 
poi  delegato  di  polizia,  uomo  coraggioso  e  aitante  della  persona, 
vegliava  alla   sicurezza  di  Nunziante. 

Non  erano  tutti  timori  immaginari.  Il  ministero  non  ave- 
va più  forza  ;  sentiva  mancargli  il  terreno  sotto  i  piedi,  venir- 
gli meno  la  fiducia  del  Re,  ma  repugnava  da  concludenti  misure 
di  rigore,  le  quali  forse  non  erano  neanche  più  possibili.  I  mi- 
nistri, specie  don  Liborio  e  De  Martino  e  un  po'  anche  Spinelli  e 
Torcila  ;  e  i  direttori,  specie  De  Cesare  e  Giacchi,  erano  circondati 
dagli  esuli  di  maggior  conto,  amici  loro,  i  quali  ne  paralizzavano 
l'azione,  assicurandoli  che  dietro  Garibaldi  e'  era  il  Piemonte  e 
c'erano  le  potenze  occidentali,  e  che  per  i  Borboni  non  vi  era 
più  scampo.  Mariano  d'Ayala  ruppe  gì'  indugi  e  andò  a  proporre 
al  Pianell,  suo  vecchio  amico  e  camerata,  la  dedizione  dell'esercito 
alla  causa  nazionale,  com'era  avvenuto  in  Toscana,  ma  n'ebbe  in 
risposta  :  "  I  tuoi  ragionamenti  sono  troppo  sublimi,  e  io  non  li 
intendo  „ .    D'Ayala  faceva  la  sua  propaganda,  incessante  e  corag- 


—  291  — 

giosa,  nell'alto  mondo  militare,  ma  nessuno  gli  dava  retta.  Con 
parole  ispirate  apriva  nel  Lampo  una  pubblica  sottoscrizione,  per 
cittadini  funerali  all'anima  benedetta  di  Guglielmo  Pepe.  Le 
esequie  furono  celebrate,  la  mattina  dell'otto  agosto,  nella  chiesa 
dei  Fiorentini,  e  riuscirono  solenni  per  concorso  di  liberali,  di 
tutti  gli  esuli,  di  popolani  mutilati  a  Marghera,  e  del  conte  di 
Siracusa,  che  vi  assistette,  in  compagnia  di  G-iuseppe  Fiorelli. 
Ma  il  prefetto  di  polizia  non  permise  che  fosse  esposta  nella 
chiesa  l'epigrafe  scritta  da  Antonio  Ranieri,  che   era  questa  : 

ITALIANI   DI   NAPOLI 
IN    QUESTO   TEMPIO   SI    FANNO   SOLENNI   FUNERALI 

A  GUGLIELMO  PEPE 

SOLDATO    GENERALE   E   MARTIRE 

ED    EROE   SEMPRE 

DIFESE   NEL   LXXXXIX   VIGLIENA   NEL   XLIX   VENEZIA 

E  FORTE  DI  QUELLA  FEDE  CHE  TRIONFA  DI  TUTTO 

INCARNÒ    TANTO    IL    NOME    SUO    IN    QUELLO    d'ITALIA 

OHE  TORNERÀ  SPONTANEO  SOPRA  OGNI  LABBRO 

QUANDO   IL    PENSIERO    DI    VII   SECOLI 

SARÀ   COMPIUTO 


NACQUE   IN    ISQUILLACE   A  Dt  XXIII  DI   FEBBRAIO  MDCOLXXXIII 
MORI   IN   TORINO   A   Di    Vili   AGOSTO    MDCCOLV 


Finita  la  messa,  tutti,  uscendo  dalla  chiesa,  ruppero  nel  grido  : 
Viva  r  Italia.  In  tale  ambiente,  si  può  immaginare  quale  effetto 
potevano  produrre  queste  enigmatiche  parole,  che  il  nuovo  prefet- 
to di  polizia,  Giuseppe  Bardari,  pubblicò  in  un  suo  proclama  del 
20  agosto  :  "  E  pertanto,  egli  diceva,  lealtà  per  lealtà  !  Pronto  io 
ai  sacrifizi  e  alle  spine  delle  funzioni  che  mi  sono  affidate,  sarà 
tutta  dei  miei  concittadini  la  gloria  se  nel  tempo  che  mi  sarà  dato 
sostenerle,  potrò,  mercè  il  concorso  delle  loro  virtù,  compirle  con 
alcuna  lode,,.  Parole,  parole,  parole!  Il  Bardari  era  calabrese  ; 
nella  prima  gioventù  era  stato  amico  di  Michele  Bello,  fucilato 
nel  1847  a  Reggio  e  aveva  scritto  dei  melodrammi,  tra  i  quali  la 
Maria  Stuarda,  musicata  dal  Donizetti;  fu  giudice  regio  a  Monte- 
leone  nel  1848,  e  per  la  parte  presa  nei  rivolgimenti  di  Calabria, 
dopo  il  15  maggio,  fu  destituito  e  processato.    A  Napoli  esercì- 


—  292  - 

tava  l'avvocatura  con  discreta  fortuna,  era  intimo  di  Romano  e 
non  moriva  di  tenerezza  per  i  Borboni.  Fu  prefetto  di  polizia 
sino  agli  8  settembre  e  poi  consigliere  della  Corte  dei  conti. 

A  Napoli  erano  divenuti  tutti  liberali,  con  questa  sola  diffe- 
renza, come  si  è  detto,  cbe  i  borbonici  erano  costituzionali,  e  i 
veccbi  liberali,  tutti  unitarii  con  Casa  di  Savoia.  Il  ministero 
era  con  costoro  d'accordo  solo  nell'  invocare  e  prendere  misure  di 
rigore  contro  i  reazionari,  veri  o  supposti,  delle  provinole  ;  contra 
i  vescovi  e  contro  gl'impiegati  del  vaccbio  regime.  Però  il  Co- 
mando della  piazza  di  Napoli  era  come  sottratto  al  ministero,  per- 
ete aveva  una  specie  di  giurisdizione  propria,  e  comandava,  occor- 
rendo, alla  guardia  nazionale.  Da  quel  Comando  partivano  ordini 
di  perquisizioni  e  anche  di  arresti,  all'  insaputa  del  ministero  ; 
e  il  giorno  23  agosto,  per  ordine  di  detto  Comando,  venti  guardie 
nazionali  del  primo  battaglione,  e  un  plotone  di  cacciatori  della 
guardia  reale,  col  comandante  di  piazza  in  persona  e  un  giu- 
dice, procedettero  alla  perquisizione  in  casa  del  noto  liberale 
calabrese,  Salvatore  Correa,  al  palazzo  Cirella.  La  perquisizione 
riusci  infruttuosa  :  il  comandante  del  primo  battaglione,  facendone 
rapporto  al  ministro  dell'  interno,  osservava,  che  "  tali  visite  es- 
sendo state  replicate  volte  eseguite,  e  sempre  collo  stesso  risultato^ 
non  fanno  molto  favorevole  impressione  nello  spirito  della  Guardia 
Nazionale^  tuttoché  la  disciplina  farà  sempre  ciecamente  obbedire  i 
comandi  che  potranno  venire  dal  comando  della  Beai  Piazza  „ .  Il 
comandante  del  primo  battaglione  era  Achille  di  Lorenzo,  suc- 
ceduto al  barone  Galletti,  dimissionario.  Nell'agosto,  dei  capi 
della  guardia  nazionale,  cioè  di  quei  primi  capibattaglione,  che 
avevano  firmato  nel  luglio  il  magniloquente  e  comico  indirizzo  a 
don  Liborio,  rimaneva  il  solo  Domenico  Ferrante.  I  nuovi  erano: 
Achille  di  Lorenzo,  Gioacchino  Barone,  Francesco  Caravita  di  Si- 
rignano,  il  marchese  di  Monterosso,  Raffaele  Martinez,  il  marchesa 
di  Casanova,  Paolo  Confalone,  Michele  Praus,  il  marchese  Paolo 
UUoa,  il  duca  d'Accadia  e  Giovanni  Wonviller,  anzi  Giovannino 
"Wonviller,  come  lo  chiamavano  gli  amici.  Allora  era  giovane, 
elegante,  galante,  uno  dei  lion^  alla  moda. 

Con  gli  animi  cosi  agitati,  le  voci  più  balorde  trovavano 
credito,  e  le  paure  più  puerili  erano  all'ordine  del  giorno.  Il 
16  agosto,  una  pattuglia  di  truppa  regolare  s'incontrò  al  largo 


-  293  - 

della  Carità,  con  un'altra  di  guardia  nazionale  e  la  prima  ce- 
dette all'altra  la  destra,  secondo  il  regolamento  militare.  Per 
questo  fatto,  la  sera  in  tutta  Napoli  si  raccontava  che  l'uffi- 
ciale della  truppa  aveva  ordinato  il  fuoco  contro  la  guardia  na- 
zionale, ed  era  dovuto  all'opposizione  del  sergente,  se  al  largo 
della  Carità  non  fosse  succeduto  un  massacro.  Le  cannonate  per 
salve  di  gioia  o  per  saluti  erano  sempre  cause  di  terrori.  In 
una  mattina,  verso  la  metà  d'agosto,  mentre  nella  chiesa  della 
Sanità,  affollata  di  gente,  si  celebrava  la  messa,  rimbombarono 
alcune  cannonate  :  il  prete  fuggi  dall'altare,  i  devoti  dalla  chiesa, 
molti  furono  feriti  e  una  donna  abortì.  Anche  a  Sant'Agostino 
degli  Scalzi,  il  prete  che  celebrava  la  messa,  cadde  svenuto 
e  la  gente  raccolta  in  chiesa  si  diede  disordinatamente  alla  fuga. 
A  ripristinare  l'ordine  e  la  tranquillità,  fra  tanta  insanabile 
e  crescente  turbolenza,  che  quella  polizia,  affidata  all'alta  e  alla 
bassa  camorra,  non  concorreva  certo  a  scemare,  i  ministri  si  mo- 
stravano impotenti.  Né  è  senza  un  profondo  stupore,  che  si  ri- 
pensa di  quali  e  quante  cose  disparate,  e  fin  puerili,  si  occupas- 
sero quei  ministri  nei  varii  Consigli  di  Stato.  Per  dame  una 
idea,  riferirò  gli  argomenti  discussi  in  tre  Consigli  alla  fine 
di  luglio.  In  quello  del  18  si  deliberò  d'imbarcare  sopra  un 
legno  a  vela  e  inviare  alle  isole  Tremiti,  per  mettere  in  salvo  le 
loro  vite  minacciate,  le  guardie  di  polizia,  siciliane  e  napoletane, 
espulse  dal  servizio  e  accantonate,  per  misura  di  sicurezza,  ai  Gra- 
nili. Fu  discusso  e  deciso  che  il  procuratore  generale,  don  Nicoola 
Rocco  conservasse  l'ufficio  di  revisore  della  Civiltà  Cattolica;  e 
poiché  gli  impiegati,  licenziati  nel  1849,  chiedevano  con  alte  grida 
di  esser  riammessi  in  servizio,  e  a  quei  gradi,  che  avrebbero  rag- 
giunti qualora  avessero  servito  nei  dodici  anni,  i  ministri,  at' 
tese  le  difficili  condizioni  della  finanza,  deliberarono  di  restituirli 
semplicemente  ai  posti,  che  lasciarono  al  tempo  della  loro  de- 
stituzione. Provocarono  cosi  proteste,  ire  ed  accuse  iperboliche 
di  traditori  e  di  reazionarii,  soprattutto  da  parte  di  quelli,  cho 
erano  stati  in  esilio  o  in  prigione. 

Nel  Consiglio  del  21  luglio  era  stato  dato  incarico  al  mi- 
nistro dell'interno  di  scrivere  agl'intendenti,  perchè  mandas- 
sero rapporti  sulla  condotta  dei  vescovi  e  del  clero,  specialmente 
in  ordine  alle   novelle  istituzioni,  e  si   son   veduti  i  resultati  di 


-  294  - 

tale  incliiesta.  Nello  stesso  Consiglio  si  stabili  che  ciascun  mi- 
nistero acquistasse  quindici  copie  del  Manuale  del  cittadino  co- 
stituzionale, edito  dal  Perrotti  ;  e  si  discusse  sopra  una  speoiosa^ 
domanda  di  alcuni  impiegati  e  ufficiali,  i  quali  chiedevano  un 
giudice,  che  rivedesse  le  obbligazioni  da  loro  contratte  con  gli 
usurai!  La  domanda  fu  respinta,  donde  nuove  cagioni  di  mal- 
contento. Nel  Consiglio  del  22  luglio  venne  deliberato  di  al- 
lontanare da  Napoli,  ^er  salvare  gli  individui  e  la  pubblica  quiete^ 
gli  ex  ministri  Troja,  Scorza  e  Murena,  l'ex  direttore  e  l'ex  pre- 
fetto di  polizia  Mazza  e  Governa,  il  colonnello  D'Agostino  e  gli 
ex  agenti  di  polizia,  Schinardi,  Barone,  Jervolino,  Doria  e  Mani- 
scalco. Quest'ultimo,  arrivato  il  giorno  8  giugno,  aveva  preso  al- 
loggio presso  la  sua  famiglia,  in  un  appartamento  alla  Riviera,  a 
poca  distanza  dal  palazzo  Salza,  dove  abitava  don  Liborio  Roma- 
no, vivendovi  ritirato  e  senza  veder  nessuno,  tranne  Filangieri 
e  suo  figlio  Gaetano.  All'ordine  di  partire  comunicatogli  per- 
sonalmente da  don  Liborio,  rispose  che  sarebbe  andato  a  Marsi- 
glia, e  parti  infatti  con  la  famiglia  il  28  luglio.  Il  passaporto 
rilasciatogli  dal  ministro  degli  affari  esteri,  diceva  cosi  :  "  Par- 
tendo per  Marsiglia  il  cav.  don  Salvatore  Maniscalco  di  Messina 
di  anni  47,  con  la  moglie,  la  madre,  cinque  piccoli  figli  ed  un 
domestico.  Salvatore  Romano  ecc.  „ .  E  conteneva  i  seguenti  pon- 
notati:  proprietario^  statura  giusta,  viso  regolare,  capelli  biondi  y^. 
Giunse  a  Marsiglia  il  31  luglio,  e  il  6  agosto  di  quell'anno  stesso 
andò  in  Avignone,  come  si  rileva  dallo  stesso  passaporto.  Ma- 
niscalco, oltreché  della  medaglia  d'oro  per  la  campagna  di  Si- 
cilia, era  insignito  di  quasi  tutti  gli  Ordini  cavallereschi  di 
Europa,  e  la  lettera  con  la  quale  Drouyn  de  Lhuys  gli  comunicavìu 
la  nomina,  a  nome  dell'  Imperatore,  di  uffiziale  della  Legion  d'o- 
nore, era  piena  di  cortesie.  Perchè  indicasse  sua  patria  Messina^ 
nessuno  ha  saputo  dirmi,  neppure  il  figliuolo.  Inoltre  il  mini- 
stero deliberò  di  rinnovare  la  metà  dei  Decurionati,  togliendo  i 
più  vecchi  decurioni  di  nomina,  e  scegliendo  i  nuovi  fra  gli  eleg- 
gibili, 0  secondo  la  nuova  legge  elettorale,  o  secondo  quella  del 
1848;  e  deliberò  infine  di  nominare  sindaci  le  persone  di  mag- 
giore onestà,  capacità  ed  attaccamento  agli  attuali  ordini  costitU' 
zionali.  Tale  ricomposizione  per  il  6  agosto  avrebbe  dovuto  es- 
sere compiuta  ;  ma  non  se  ne  fece  nulla,  e  il  Decurionato  di  Na- 
poli restò  tale  e  quale  fino  all'  ingresso  di  Garibaldi. 


—  295   — 

Nelle  Provincie  regnava  maggior  disordine,  che  nella  capi- 
tale. I  devoti  all'antico  regime,  anche  i  più  pacifici,  erano  so- 
spettati, spesso  fantasticamente,  di  favorire  la  reazione.  Il  15 
agosto,  a  Bari,  si  disse  insultata  la  guardia  nazionale.  Ci  furono 
molti  arresti,  e  con  la  solita  iperbole  pugliese,  si  affermò  che  1 
disturbatori  fossero  pagati  dall'arcivescovo,  dai  gesuiti  e  da  al- 
cuni cittadini  in  fama  di  borbonici,  a  sei  carlini  per  uno  !  Più 
gravi  e  veri,  i  fatti  di  Taranto.  Un  gruppo  di  popolani,  prendendo 
pretesto  da  un  caricamento  di  grano,  cominciò  a  tumultuare,  e 
per  due  giorni  non  solo  impedi  il  caricamento,  ma  ruppe  in 
violenze  contro  i  legni  e  contro  i  marinai  di  questi.  Vi  furono 
inoltre  minacce  di  saccheggio  alle  case  dei  principali  cittadini. 
L'autorità  politica,  rappresentata  dal  sottointendente  Giovanni 
de  Monaco,  non  spiegò  l'energia  necessaria.  Il  De  Monaco,  ri- 
masto in  ufficio,  si  mostrava  apertamente  contrario  alla  con- 
cessa Costituzione,  né  più  della  sua  fu  energica  l'azione  de'  gen- 
darmi, comandati  dal  tenente  Attanasio,  de'  quali  si  disse  anzi 
che  provocassero  quei  moti.  La  sera  del  17  luglio,  quando 
ogni  agitazione  era  cessata,  poco  innanzi  l'avemaria,  una  pat- 
tuglia di  soldati  di  riserva,  passando  innanzi  al  caffè  Moro, 
sulla  piazzetta  di  Santa  Caterina,  luogo  d'ordinario  convegno 
dei  più  distinti  cittadini,  si  fermò  e  intimò  ai  molti,  che  in 
quell'ora  erano  li  seduti,  di  sgombrare.  Rimasto  l'ordine  ine- 
seguito, i  soldati,  dopo  aver  scambiate  vivaci  parole  coi  cit- 
tadini, passarono  innanzi,  ma  poco  dopo  sopravvenne  una  pat- 
tuglia di  gendarmi,  comandata  dal  tenente  Attanasio,  la  quale, 
appéna  fu  sulla  piazzetta,  si  fermò,  ed  al  comando  a  brevi  in- 
tervalli, dato  da  quell'ufficiale  di  :  "  alt,  front,  fuoco  „  lasciò 
partire  molte  fucilate,  tirate  però,  a  quanto  poi  parve  dall'al- 
tezza delle  traccia  rinvenute  sulle  pareti,  più  con  animo  di  far 
paura  che  di  far  male.  Il  ferito  fu  un  solo,  piuttosto  lieve- 
mente e  di  rimbalzo.  Venne  però  attestato  da  alcuni  signori, 
che  la  pattuglia  si  diresse,  a  passo  celere,  verso  il  quel  caffè, 
dopo  essersi  incontrata,  in  piazza  San  Costantino,  col  sottoin- 
tendente De  Monaco,  dal  quale  avrebbero  sentito  pronunziare 
la  parole:  "Fate  fuoco  „.  Vera  o  falsa  questa  circostanza,  certo 
è  che  il  De  Monaco,  udendo  le  fucilate,  non  mostrò  maravi- 
gliarsene, né  si  recò  sul  luogo  dell'avvenimento.  Il  fatto  eccitò 
vivamente  la  cittadinanza,  la  quale   nel   di   seguente  chiese  ed 


-  296  - 

ottenne  dal  maggiore  De  Oornè,  comandante  la  piazza,  persona 
ben  veduta  ed  amica  dei  maggiorenti  della  città,  che  venisse 
armata  la  guardia  nazionale  coi  fucili  delle  truppe  di  deposito 
nel  castello.  L'armamento  della  guardia  nazionale  ristabili  l'or- 
dine e  impaurì  il  De  Monaco,  il  quale,  smessa  la  consueta  arro- 
ganza, chiese  il  patrocinio  di  alcuni  influenti  cittadini,  ed  ot- 
tenne cosi  di  partire  qualche  giorno  dopo  con  la  numerosa  fami- 
glia, di  notte  tempo,  da  Taranto.  ^ 

L'opera  dei  Comitati  insurrezionali,  specie  di  Cosenza  e  di 
Basilicata,  mirava  a  persuadere  il  popolo  che  Francesco  II,  alla 
prima  occasione,  avrebbe  ritirata  la  Costituzione.  I  Comitati 
lasciavano  vedere  dovunque  reazioni  e  congiure,  e  cosi  si  sfoga- 
vano vendette  e  vecchi  rancori.  Ma  la  città,  che  più  dava  da  fare 
al  ministero,  era  Gaeta,  dove  la  truppa,  come  ho  detto,  non  aveva 
voluto  gridare  Viva  la  Costituzione.  Questo  fatto  destò  tali  in- 
quietudini, che  quel  sindaco  scrisse  direttamente  al  ministero 
perche  fossero  allontanati  gli  ufficiali  reazionari  D'Emilio,  Can- 
dela e  Prato  ;  i  camorristi  Niccola  e  Paolo  Gallo,  Paolo  Freiles, 
Salvatore  Saggese,  Antonio  Esposito  e  alcune  guardie  della  vec- 
chia polizia,  e  fossero  nel  tempo  stesso  mandate  armi  per  la  guar- 
dia nazionale.  Arresti  ed  esilii  di  reazionarii  si  succedevano  a 
Reggio,  donde  venivano  espulsi  "  gli  sbirri  siciliani,  arrestati  e 
.minacciati  di  vita,  insieme  al  boia,  don  Vincenzo  Siclari,  di  questa 
città,  che  aveva  stretta  relazione  colla  detta  sbirraglia  „.  Cosi 
scriveva  l' intendente  di  Reggio  al  ministero  ;  e  Giacchi  decre- 
tava a  margine  del  rapporto  :  "  bello  esempio  di  patria  carità  e 
di  energia  in  aver  così  celeremenie  salvato  il  proprio  paese  da  si~ 
curo  disastro.     Se  ne  abbia  per  ora  lodi  senza  fine  „ . 

Le  guardie  nazionali,  sorte  in  fretta  e  in  furia,  mancavano 
generalmente  di  disciplina  e  di  armi,  ed  erano  impotenti  a  man- 
tenere l'ordine.  Il  sottointendente  d'Isernia  chiedeva  truppe, 
quasi  presago  dei  futuri  eccidii  del  30  settembre  ;  truppe  doman- 


^  Ne  segui  un  lungo  processo.  Il  De  Monaco  riparò  a  Roma,  e  nel  1862 
fu  condannato  in  contumacia  a  14  anni  di  lavori  forzati,  per  reato  di  com- 
plicità in  mancata  strage.  H  suo  procuratore  don  Michele  Quercia  di  Trani 
chiese  che  lo  si  ammettesse  alla  reale  indulgenza  del  17  novembre  1863. 
Ma  la  domanda  fu  rigettata  dalla  Sezione  d'accusa,  e  l'avvocato  Bax  ne 
sostenne  il  ricorso  in  Cassazione. 


—  297  - 

dava  l'intendente  di  Avellino,  dichiarando  di  non  potere  rispon- 
dere dell'ordine  pubblico  senza  mezzi  per  provvedervi,  e  quan- 
do "  le  guardie  nazionali  sono  mal  organizzate  ed  armate,  e  spesso 
fan  parte  di  quegli  stessi  che  commettono  abusi  „.  L' intendente 
di  Foggia  implorava,  con  vive  parole  che  si  aumentasse  la  guar- 
dia cittadina  nei  comuni,  dov'  era  maggiore  il  bisogno,  soprat- 
tutto dopo  i  primi  tentativi  di  reazione  a  Bovino,  a  Sanseve- 
ro  e  a  Montefalcone  ;  e  facendo  un  quadro  desolante  della  pro- 
vincia, in  balia  dei  partiti  estremi,  il  rivoluzionario  e  il  reazio- 
nario, dichiarava  apertamente,  che,  ove  la  forza  pubblica  si  allon- 
tanasse, egli  se  ne  lavava  le  mani.  Non  altrimenti  scrivevano 
quasi  tutti  gli  altri  intendenti.  Il  sindaco  e  il  comandante  della 
guardia  nazionale  di  Lucerà  telegrafavano  al  ministro  dell'  in- 
terno che  in  quel  carcere  erano  600  detenuti,  fra  i  quali  160  rea- 
zionarii  di  Bovino  ;  e  che,  partita  la  gendarmeria  e  mancando 
la  guardia  nazionale  di  armi  e  di  attitudini,  il  carcere  rimaneva 
senza  custodia.  Dal  comandante  della  guardia  nazionale  quei  160 
reazionari  di  Bovino  erano  chiamati  addirittura  vandali. 

Riferisco  integralmente  due  rapporti,  l'uno  del  25  agosto,  e 
l'altro  del  27,  tutt'e  due  di  Giacomo  Venditti,  sottointendente 
d'Isernia,  a  meglio  mostrare  lo  stato  delle  provinole  e  la  con- 
dizione di  quelle  autorità. 

Questo  del  26  agosto  fu  diretto,  riservatamente,  a  Giacchi  : 

Signor  Direttore, 

Quantunque  da  qualche  giorno  mi  trovo  a  capo  di  questo  distretto,  pure 
mi  f o  il  dovere  dirle  clie  in  generale  lo  spirito  reazionario  non  è  del  tutto 
sopito,  ed  oltre  i  fatti  deplorevoli  di  Carpinone,  di  tratto  in  tratto  si  ma- 
nifestano nelle  plebaglie  rozzi  sentimenti  di  avversione  all'ordine  costitu- 
zionale, non  mai  scevri  da  quelli,  forse  principali,  di  rapina  e  saccheggio. 
Che  anzi  io  credo  che  si  faccia  entrare  nella  mente  delle  plebi  Pidea  di 
potersi  arricchire  impunemente  a  nome,  e  sotto  l'usbergo  del  Realismo,  Ma 
tra  tutti  i  paesi  del  distretto,  Isemia  presenta  il  gravissimo  sconcio  di  una 
ladronaia,  sostenuta  da  ladruncoli,  che,  travisandosi,  svaligiano  i  viandanti, 
e  tornano  alle  proprie  case  a  godersi  la  fatta  rapina.  Un  siflfatto  guido 
fu  sostenuto  dalla  passata  polizia,  e  da  qualche  galantuomo  protettore,  e 
che  ne  ha  fatto  sin'ora  buon  prò.  Cosi  nella  sera  del  di  21  corrente  una 
carrozza  fu  fermata  su  la  strada  postale,  e  due  signori  cognominati  Bo- 
nois  e  Valentini,  che  venivano  d'Abruzzo,  furono  rubati  di  ducati  4(X),  ed 
altri  oggetti,  e  percosso  il  cocchiere,  cui  furono  tolti  carlini  quattro. 

Le  più  energiche  misure  sono  già  prese  per  porre  un  argine  a  tanto  ma- 


-  298  - 

lanno,  fino  a  farlo  scomparire  del  tutto.  A  clie  fare  mi  è  indispensabile 
il  positivo  concorso  della  forza  pubblica  e  nazionale,  e  delle  altre  autorità 
e  tutti  mi  promettono  assistenza,  massime  questa  guardia  cittadina  la. 
quale  per  l'oggetto  dev'essere  accresciuta  di  altre  persone. 

Ma  debbo  pregarla  francamente  cbe  deve  scomparire  in  questo  luogo 
ogni  traccia  della  vecchia  polizia,  la  quale  è  troppo  mal  vista.  E  però  mi 
fò  il  dovere  di  proporle  ad  ispettore  di  polizia  di  questo  distretto  il  signor 
don  Gerardo  Cimone,  del  fu  don  Raffaele,  nativo  d' Isernia,  patrocinatore 
del  Tribunale  Civile  di  Napoli,  ivi  domicili  ato,  il  quale  riunisce  tutti  i  nu- 
meri, onestà,  energia,  istruzione,  e  ciò  che  più  interessa,  un'opinióne  van- 
taggiosa, e  ben  meritata  in  questo  distretto.  * 

Ed  io  mi  attendo  con  tutta  fiducia,  che  Ella  si  compiaccia  accogliere 
questa  mia  proposta,  e  nominarlo  subito  per  lo  bene  positivo  di  questa  gente.* 

L'altro  rapporto  era  del  seguente  tenore: 

In  Fornelli  l'ordine  pubblico  veniva  minacciato  fin  da  ieri  l'altro,  e  fui 
richiesto  di  una  forza  da  spedirsi  il  mattino  di  domenica,  giorno  designato, 
dai  perturbatori.  La  forza  vi  è  andata  composta  di  tre  gendarmi  e  circa 
30  guardie  nazionali  d' Isernia,  H  mattino  fu  calmo,  nelle  ore  pom.  il  popolo- 
si è  riunito  minaccioso  variamente  armato  contro  i  nazionali.  Il  capona- 
zionale  di  Fornelli  mi  ha  chiesto  per  apposito  mezzo  altra  forza  per  rista- 
bilire l'ordine  ed  ho  ricevuto  l'uffizio  ad  un'ora  circa  di  notte.  L'arciprete 
di  là  ne  è  stato  1'  istigatore  giusta  l'uffizio  sudetto.  Reduci  di  colà  i  suo- 
natori della  filarmonica  d' Isernia  ed  esaminati,  han  detto  :  che  dopo  scritto 
l'uffizio  l'azione  si  è  fortemente  impegnata.  A  capo  de'  popolani  i  gen'- 
darm.i  che,  sventolando  i  loro  bonnets,  a  nome  del  He,  aizzavono  il  po- 
polaccio contro  i  nazionali.  Dopo  inutili  tentativi  di  pace  si  è  impegnata 
l'azione.  I  nazionali  si  sono  rinchiusi  nelle  case.  Si  dice  qualche  morto 
o  ferito,  non  sapendosi  precisare  da  qual  parte. 

Un  gendarme,  fuggito  di  là,  e  qui  giunto,  ore  3  italiane,  ci  ha  detto 
che  i  nazionali  erano  assediati  nelle  case,  e  che  ci  voleva  altra  forza  re- 
gia. Ho  disposto  sul  momento  tutta  questa  d' Isernia;  cioè  9  gendarmi,  4 
guardie  doganali  e  12  nazionali,  comandate  dal  tenente  Basile,  che  sonosi 
recati  colà,  ed  aspetto  il  buon  esito  dopo  di  aver  raccomandato  al  tenente 
medesimo  tutta  la  possibile  energia  sotto  la  più  stretta  responsabilità.  In 
altri  paesi  viene  pure  minacciato  l'ordine  pubblico.  Isernia  si  è  commossa, 
pel  pericolo  dei  suoi,  e  ci  vuol  molto  per  poterla  mantenere. 

Ore  5  della  notte:  —  I  corrieri  postali  interni  ritornano,  perchè  una 
mano  di  ladri  li  hanno  battuti  e  tolte  le  valigie.  Qui  vi  è  bisogno  di  molta- 
e  prontissima  forza  militare.    Si  daranno  più  precisi  dettagli.  * 


^  Il  Cimone,  ottimo  funzionario  di  P.  S.,  è  morto  da  alcuni  anni  que- 
store di  Firenze. 

2  Archivio  Giacchi. 

3  Id.  id. 


-  299  - 

La  famiglia  reale,  com'era  da  prevedersi,  die  l' immagine  della 
discordia  e  del  più  ingiustificabile  egoismo,  via  via  che  si  ap- 
pressava Fora  finale.  Si  è  veduto  come,  dopo  la  morte  di  Fer- 
dinando II,  l'unione  domestica  fosse  più  apparente  che  reale. 
Invece  di  raccogliersi  tutta  intorno  al  Re  e  far  causa  comune 
con  lui  che  rappresentava  la  Monarchia  e  la  dinastia,  consi- 
gliarlo sinceramente  e  sorreggerlo,  o  cadere  con  lui,  la  famiglia 
reale,  tranne  il  conte  e  la  contessa  di  Trapani,  si  condusse  ben 
altrimenti.  Come  ho  detto,  fin  dai  primi  giorni  di  luglio  la 
regina  Maria  Teresa  se  ne  andò  con  i  suoi  figliuoli  a  Gaeta,  im- 
barcandosi al  Granatello.  Restarono  a  Napoli  il  conte  di  Trani 
e  il  conte  di  Caserta,  L'ex  Regina  era  il  babau,  non  tanto 
dei  vecchi,  quanto  dei  nuovi  liberali,  ed  è  superfluo  ripetere 
che  i  liberali  non  si  numeravano  più,  e  i  più  accesi  eran  quelli, 
naturalmente,  i  quali  non  avevano  levato  un  ragno  dal  buco. 

La  partenza  dell'ex  Regina  con  la  famiglia  per  Gaeta  fece 
penosa  impressione  nella  Corte.  Molti  cominciarono  a  far  pre- 
parativi di  partenza,  dicendo  che  anche  il  Re  aveva  intenzione 
di  abbandonare  Napoli.  Il  principe  d' Ischitella,  il  quale,  lasciato 
il  comando  supremo  della  guardia  nazionale,  aspettava  l'altro, 
ohe  non  ebbe  mai,  di  comandante  generale  dell'esercito,  vedeva  il 
Re  tatti  i  giorni  e  lo  scongiurava  di  non  prendere  quella  risolu- 
zione di  abbandonare  Napoli.  Francesco  II  lo  assicurò  che  non 
sarebbe  partito,  e  anzi  era  risoluto  a  difendersi,  e  a  tal  fine  voleva 
mettere  lui,  Ischitella,  a  capo  dell'esercito  per  dar  battaglia  a 
Garibaldi  nel  piano  fra  Salerno  ed  Eboli.  Narra  l' Ischitella  che 
fu  per  questo,  ch'egli  die  le  dimissioni  da  comandante  della  guar- 
dia nazionale  ed  attribuisce  al  tradimento  di  Pianelli  (sic)  so 
non  ebbe  quel  comando. 

Andata  dunque  Maria  Teresa  a  Gaeta,  e  ricoveratisi  colà  al- 
cuni funzionarli  destituiti  e  alcuni  bassi  arnesi  della  vecchia 
polizia,  subito  cominciarono  nei  giornali  e  nei  caflTè  le  querimonie 
che  Gaeta  diventava  un  covo  di  reazionari.  Le  voci  erano  con- 
fermate ed  esagerate,  naturalmente,  dal  già  accennato  rifiuto  di 
quelle  truppe  a  giurare  la  Costituzione.  A  Gaeta  si  trovavano  tra 
gli  altri,  l'ex  ministro  Murena  e  l'ex  ispettore  di  polizia  Palumbo; 
a  Castellone,  l'ex  consultore  Governa  e  ad  Itri,  l'ex  commissario 
De  Spagnolis.  Il  ministero  credeva  a  quelle  voci,  o  almeno  le  in- 
sistenze erano  tali,  da  muoverlo  ad  agire  come  se  vi  credesse.     E 


-  300  — 

perciò  Q-iacchi  dispose  un  servizio  di  speciale  sorveglianza  su  quelle 
persone,  affidato  al  sottointendente  di  Mola,  Gaetani.  Anche  il 
Dentice  d'Accadia,  sebbene  promosso  intendente  a  Reggio,  per  la 
conoscenza  che  aveva  di  Gaeta,  dove  per  molti  anni  era  stato  sot- 
tointendente, mandò  in  proposito  qualche  rapporto  speciale  e  con- 
fidenziale. 

Pubblico  integralmente,  perchè  assai  caratteristico,  quello  del 
21  agosto,  relativo  a  Murena,  a  Palumbo,  a  Governa,  a  De  Spa- 
gnolis  e  alle  guardie  della  vecchia  polizia.  Si  legga  nella  sua 
genuina  ortografìa: 

Il  ministro  al  ritiro  sig.  commendatore  Murena  recavasi  non  è  guari  nella 
Beai  Piazza  di  Gaeta,  e  dopo  di  essere  stato  ospitato  con  la  intera  sua  fami- 
glia per  qualche  giorno  nell'Episcopio  dall'arcivescovo  monsignor  Cammarota 
suo  affine,  à  ivi  appigionato  una  casa,  ove  attualmente  dimora.  Il  suo  con- 
tegno è  riservatissimo,  indifferente,  e  sotto  ogni  rapporto  non  censurabile. 

Trovasi  pure  in  quella  piazza  l'ex  Ispettore  di  Polizia  sig.  Palumbo 
il  quale  à  ricbiamato  presso  di  sé  ancbe  la  famiglia.     Si  anno  di  lui  non 
favorevoli  prevenzioni,  essendo  fama  cbe  in  carica  siasi  condotto  assai  tri- 
stamente.    Ciò  nonostante  vive  ora  in  Gaeta  ritirato  e  circospetto. 

Dimorano  ancbe  in  quella  R.  Piazza  le  Guardie  di  Polizia  che  presta- 
rono servizio  alla  dipendenza  del  comm.  sig.  Faraone.  Avendo  il  di  loro 
contegno  dato  luogo  ad  apprensioni  per  confabulazioni  con  sotto  uffiziali 
e  soldati  della  guarnigione  ritenuti  per  camorristi,  il  Sindaco  sig.  cav. 
Ianni  non  à  mancato  di  farne]gli  opportuni  rilievi  presso  il  sig.  Maresciallo 
Governatore,  il  quale  per  mezzo  dello  Ispettore  locale  di  Polizia  sig.  Ro- 
gano, si  è  limitato  alla  minaccia  di  espulsione  dalla  Piazza,  qualora  non 
serbassero  condotta  riservata  ed  irreprensibile. 

In  Mola  poi,  e  propriamente  in  Castellone,  à  preso  stanza  con  la  sua 
famiglia  il  Consultore  al  ritiro  sig.  comm.  Governa,  ove  à  locata  una  casa. 
Essendo  stato  a  dimora  per  più  anni  in  quel  Comune,  quando  esercitava 
la  carica  di  Giudice  Regio,  vi  acquistava  non  poche  relazioni  e  vi  lascia- 
va nel  dipartirsene  la  popolazione  amica.  Nell'attualità  si  mantiene  senza 
riserva  alcuna  nelle  relazioni  stesse. 

Finalmente  anche  l'ex  commissario  signor  De  Spagnolis  venne  nel 
cadere  del  passato  mese  in  Itri,  ove  à  parenti,  e  si  è  mantenuto  per  al- 
quanti giorni  nascosto.  Vuoisi  che  ora  siasi  da  colà  allontanato  prenden- 
do la  volta  del  vicino  Stato  Pontificio,  o  quella  degli  Abruzzi.  ^ 

Ma  i  timori  crescevano,  e  persona  degna  di  fede  scriveva 
da  Gaeta  ad  Enrico  Costantino,  ufficiale  del  genio  e  questi  la 
comunicava  al  ministero,  una  lunga  lettera  su  Gaeta,  che  oggij 
vi  era  scritto,  sembra  un  centro  di  reazione.     Non  potendo  resi- 


*  Archivio  Giacchi. 


-  301  - 

etere  oltre  alle  pressioni,  che  venivano  da  ogni  parte,  il  29  lu- 
glio Giacchi  scriveva,  tutta  di  suo  pugno,  una  riservatissima 
all'intendente  di  Caserta,  conte  Yiti,  la  quale  cominciava  cosi: 
^  Gaeta  e  quelli  che  vi  son  dentro  (e,  si  noti,  c'era  quasi  tutta 
la  famiglia  reale)  richiamano  tutta  l'attenzione  del  Governo  „ .  E, 
parlando  del  giuramento  delle  truppe,  continuava  :  "  Viva  il  Re, 
che  è  buono  e  benefico,  ma  viva  anche  la  Costituzione,  che  ci  ha 
liberati  da  tanti  istrumenti  di  tirannide,  nemici  del  loro  paese 
non  pure,  ma  dello  stesso  Re,  che  essi  disservivano,  servendo  solo  a  sé 
ste.m  „ .  *  E  conchiudeva,  ordinando  che  si  arrestassero  l'ex  ispet- 
tore Palumbo,  i  camorristi,  denunziati  antecedentemente  dal 
sindaco  di  Gaeta  e  dieci  guardie  della  vecchia  polizia.  Questi 
ordini  vennero  eseguiti  e,  contemporaneamente ,  gli  arrestati 
furono  tutti  accompagnati  dai  gendarmi  al  confine  pontificio. 

Anima  della  cospirazione  reazionaria  si  riteneva  che  fosse  la 
Regina  madre  ;  e  perciò  Giacchi  aveva  stabilito  un  altro  servi- 
zio speciale  di  polizia,  per  tener  d'occhio  lei  e  la  sua  gente, 
incaricandone  lo  stesso  sottointendente,  il  quale  aveva  alla  sua 
dipendenza  un  commissario  di  polizia  molto  abile,  chiamato  Por- 
tillo.  Per  avere  un'idea  di  quanto  fosse  accurata  la  sorveglianza 
su  Maria  Teresa,  pubblico  anche  questo  rapporto,  inviato,  il  7 
agosto,  dal  Gaetani  al  direttore  dell'interno: 

Poiché  conosco  che  questo  telegrafo  elettrico  è  sotto  la  dipendenza 
del  generale  governatore,  e  quindi  si  sanno  tutti  i  dispacci,  cosi  debbo 
incomodarla  per  via  di  lettere,  come  meglio  posso  adempiere  al  mio  dif- 
ficile incarico.  Questa  mane  le  ho  segnalato,  che  alle  ore  11  antim.  giun- 
geva la  Corvetta  Spagnuola  "  Villa  de  Bilbao  „  :  al  momento,  che  sono  le 
ore  24,  giunge  a  mia  notizia  che  S.  M.  la  Regina,  la  quale  non  à  voluto 
vedere  finora  alcuna  autorità  di  qualunque  ramo,  non  escluso  il  generale 
governatore,  riceverà  dimani  il  Comandante  del  legno  spagnuolo.  Cono- 
scendo altro,  lo  porrò  subito  a  di  lei  conoscenza  „.  ' 

Non  meno  della  Regina  madre,  erano  sorvegliati  in  Napoli 
tutt'i  i  membri  della  famiglia  reale,  ad  eccezione  del  conte  di 
Siracusa,  caldo  più  che  mai  d' italianità.  Erano  sorvegliati 
dalla  polizia  di  don  Liborio  e  da  quella  del  Comitato  dell'Ordi- 
ne, e  la  maggiore  sorveglianza  si  esercitava  sul  conte  d'Aquila 
e  sul  conte  di  Trapani.     Il  conte   d'Aquila,    già  capo  della  ca- 


1  Archivio  Giacchi.  *  Id.  id. 


—  302  — 

marilla,  e  poi  intimo  del  Brenier  e  fautore  della  Costituzio- 
ne aveva,  da  qualche  settimana,  mutato  contegno,  ed  equivoca- 
mente si  agitava,  ingenerando  nel  ministero  il  dubbio  cH'egli 
meditasse  qualche  colpo  di  testa,  forse  una  congiura,  allo  scopo 
di  spodestare  il  nipote,  liberarsi  di  qualche  ministro  e  farsi  pro- 
clamare reggente.  Il  conte  aveva  natura  più  turbolenta  che  ri- 
soluta, ed  era  mal  viso.  Furono  sequestrate  in  dogana  alcune 
casse  di  armi  e  di  abiti  militari,  giunte  all'  indirizzo  di  lui;  abiti 
ed  armi,  che  confermarono  le  apparenze  della  cospirazione ,  ma 
da  quali  elementi  fosse  questa  avvalorata  e  su  quali  probabilità 
si  fondasse,  neppure  oggi  si  conosce  con  precisione.  Don  Liborio 
propose  quindi,  in  Consiglio  dei  ministri,  l'allontanamento  del 
conte^  e  if  E-e  vi  aderì.  E  la  mattina  dopo  il  principe  riceveva 
la  seguente  comunicazione,  che  tentava  salvare  almeno  le  ap- 
parenze :  "  Altezza,  S.  M.  il  Re,  seguendo  il  parere  del  Consiglio 
dei  ministri,  e  pensando  ai  bisogni  del  servizio  della  sita  reale 
marina,  ordina  che  V.  A.  s'imbarchi  immediatamente  sul  Reale 
Vapore  "  Stromboli  „ ,  ove  troverà  istruzioni  in  piego  suggellato, 
cui  V.  A.  potrà  aprire,  quando  sarà  lontano  venti  miglia  da 
terra  ;  e  ciò  affine  di  compiere  commissioni  concernenti  la  reale  ma- 
rina —  firmato  Garofalo  „ . 

Il  conte  si  recò  subito  alla  Reggia,  ma  non  potè  vedere 
il  Re.  Gli  scrisse  e  non  ebbe  risposta.  Alle  sei  della  sera,  il 
generale  Palomba,  antico  precettore  del  principe,  andò  da  lui,  e 
gli  ripetette  in  nome  del  Re,  l'ordine  d' imbarcarsi  senza  indugio. 
E  nella  mezzanotte  del  14  agosto,  don  Luigi  lasciò  Napoli  sulla 
goletta  il  Menai,  protestando  contro  la  violenza  cui  soggiaceva. 
Da  bordo  scrisse  una  lettera  d'addio  al  Re  e  salpò  direttamente 
per  Marsiglia,  dove  giunse  la  sera  del  17. 

Liborio  Romano  consacrò  il  fatto  nelle  sue  Memorie,  magnifi- 
cando, come  usava,  la  importanza  dell'atto  da  lui  compiuto.  Il  conte 
di  Trapani  fu  alla  sua  volta  sospettato  come  partecipe  del  tentati- 
vo di  reazione,  fatto  da  un  prete  legittimista  francese,  certo  De 
Sauclières,  in  casa  del  quale  si  rinvennero  duemila  copie  di  un  pro- 
clama :  Appello  di  salvezza  pubblica,  affisso  in  alcuni  quartieri  nella 
notte  del  29  agosto.  Il  De  Sauclières  fu  arrestato  e  processato, 
senza  però  che  dal  processo  si  scoprisse  nulla  riguardo  al  conte  di 
Trapani.  Ma  la  partenza  del  conte  d'Aquila  fu  oggetto  di  strani 
commenti  e  di  più  strane  paure.    A  dame  un'  idea,  gioverà  pub- 


—  303  - 

blicare  un  brano  di  lettera,  che  Luigi  Giordano,  animoso  tramite 
tra  il  Comitato  dell'Ordine  e  il  Comitato  insurrezionale  di  Co- 
senza, scriveva  a  quest'ultimo,  in  data  13  agosto: 

La  nostra  situazione  è  tristissima  poiché  siamo  minacciati  dalla  rea- 
zione, e  ieri  nella  capitsde  si  passò  una  giornata  ed  una  notte  spavente- 
vole per  tutti.  Il  contedi  Aquila,  cioè  il  principe  don  Luigi,  avea  orga- 
nizzato il  più.  terribile  e  schifoso  moto  reazionario,  assoldando  circa  6000 
galeotti  come  lui,  ed  incitandoli  alla  santafede,  protetti  forse  da  qualche 
corpo  militare  a  lui  devoto.  Il  ministero,  e  soprattutto  don  Liborio  Romanoi 
si  è  portato  egregiamente,  poiché  oltre  all'avere  sequestrate  nella  darsena 
molte  casse  di  fucili  e  revolver,  dirette  al  principe  suddetto  per  armarne  i  suoi 
adepti,  si  portò  vmitamente  agli  altri  ministri  e  al  corpo  diplomatico  a 
palazzo,  e  obbligò  il  Re  a  cacciare  un  ordine  di  bando  per  il  signor  zio. 
Questa  notte  dovea  partire,  ma  vi  è  qualche  dubbio  sulla  sua  partenza  ; 
opperò  al  momento  che  scrivo  la  capitale  è  tuttavia  in  allarme,  e  potrebbe 
nascere  da  un  momento  all'altro  qualche  terribile  crisi.  Gli  ammiragli 
però  piemontese,  inglese  e  francese  han  promesso  al  primo  segnale  di  al- 
larme di  far  sbarcare  dalle  flotte  4000  uomini.  La  Guardia  nazionale  pure 
è  ammirevole  pel  servizio  che  presta,  ed  è  cosi  affiancata  dal  popolo,  che 
ci  dovran  pensar  bene  a  far  la  santafede  i  cosi  detti  reazionari.  Con  tutto 
ciò  l'agitazione  è  universale,  e  lo  spavento  de'  timidi  è  giunto  al  colmo  .  * 

Di  questa  cospirazione  del  conte  d'Aquila  non  mi  è  riuscito 
avere  alcun  particolare  storicamente  vero.  Il  Nisco  la  dà  come 
certa,  ed  aggiunge  che  in  quella  cospirazione  fossero  l' Ischitella, 
il  principe  della  Rocca -e  Girolamo  Ulloa,  chiamato  prima  dal  Re 
per  affidargli  il  comando  supremo  dell'esercito,  e  poi  non  più  da- 
togli, per  le  vivaci  proteste,  si  disse,  del  colonnello  Bosco.  L'Ischi- 
tella  non  ne  fa  motto  nelle  sue  memorie,  anzi  si  dichiara  fede- 
lissimo a  Francesco  II  e  attribuisce  a  se  il  merito  di  averlo 
consigliato  a  mandare  un'altra  missione  a  Parigi,  per  pregare 
r  Imperatore  a  salvare  il  Regno  e  la  dinastia.  Afferma  pure  che 
il  Re  accettò  il  suo  consiglio  e  lo  incaricò  della  missione,  ma 
che  fu  da  lui  rifiutata  perchè  troppo  tardi,  aggiungendo  di  aver 
proposto  invece  il  duca  di  Caianiello,  che  accettò.  E  conchiude 
poi  cosi:  .. .  era  a  Napoli  che  avrei  potuto  essergli  utile,  se  avesse 
voluto  ....  avevamo  quarantamila  uomini  riuniti  attorno  alla  ca' 
pitale,  che  non  avrebbero  né  disertato^  ne  tradito,  se  avessero  avuto 
alla  loro  testa  qualcuno  su  cui  poter  contare.  Il  Nisco,  alla  sua 
volta,  pare  che  confonda  l' incarico  dato  dal  Re  ad  Ischitella  di 


'  Archivio  Morelli. 


-  304  — 

formare  un  nuovo  ministero  negli  ultimi  giorni  di  agosto,  un 
dieci  giorni  prima  che  il  Re  partisse,  come  afferma  l' Ischi tella 
stesso,  col  preteso  complotto  del  conte  d'Aquila,  del  quale  com- 
plotto nulla,  insomma,  lo  ripeto,  si  sa  di  certo  e  di  concludente» 
e  a  me  sembra  del  tutto  inverosimile  che  entrasse  a  fame  parte 
principale  Girolamo  Ulloa.  Il  complotto  avrebbe  dovuto  avere  per 
fine  una  Saint-Barthélemy  dei  liberali,  e  la  proclamazione  del 
conte,  prima  a  Reggente  e  poi  a  Re.  Partito  il  conte  d'Aquila, 
restarono  soli  centri  borbonici  in  Napoli,  i  ritrovi  presso  il  conte 
di  Trapani,  presso  il  conte  Leopoldo  Latour,  Ernesto  Carignano 
Somma  di  Circella,  Caracciolo  di  Castelluccio,  la  farmacia  reale 
Ignone  in  via  di  Ohiaja  e  la  bottega  da  parrucchiere  di  Germain 
a  Toledo.  La  polizia  teneva  d'occhio  questi  ultimi  due  locali,  i 
quali,  a  misura  che  la  rivoluzione  si  avanzava,  diventavano  mena 
frequentati  :  negli  ultimi  giorni  poi  non  vi  era  più  alcun  centro 
apparente.  I  commenti  nell'alta  società  napoletana  erano  i  più 
diversi,  e  vivacissime  le  recriminazioni.  Una  sera  il  ministro 
inglese  Elliot  disse  profeticamente  ad  alcuni  intimi:  "  Tutto  è 
colpa  della  ritardata  Costituzione.  Francesco  II  perderà  la  Sici- 
lia, perderà  Napoli;  e  poi  l'Italia  unita  attaccherà  la  Venezia  j,. 
Un'altra  sera,  i  Ludolf  dicevano  orrori  di  Castelcicala  in  casa 
Torcila,  e  la  principessa  di  Torcila  protestò  vivacemente,  dicen- 
do :  "  Ma  non  è  stata  opera  vostra  e  della  camarilla  il  richiamo  di 
Filangieri  e  V  invio  di  Castelcicala  ?  „ 

Della  famiglia  reale  l'unico,  che  i  liberali  non  sospettassero 
di  propaganda  reazionaria,  era  il  conte  don  Leopoldo  di  Siracusa,^ 
il  quale,  smesso  ogni  riguardo,  fraternizzava  con  essi,  né  era  parco 
di  rimproveri  e  di  accuse  al  nipote,  che  non  vedeva  più.  Ri- 
peteva sovente  :  "  Era  destino  che  la  dinastia  di  Carlo  III  do-- 
vesse  finire  con  un  imbecille  !  „ .  Entrato,  per  mezzo  del  Villa- 
marina,  in  intime  relazioni  col  Persano,  giunto  nelle  acque  di 
Napoli  fin  dal  3  agosto,  non  gli  nascose  i  suoi  sensi  altamente 
italiani.  E  poiché  l'ammiraglio  si  maravigliava  con  Fiorelli  di 
questo  principe  borbonico,  zio  del  Re  e  cosi  tenero  dell'unità 
d'Italia,  il  Fiorelli  lo  informava  dei  precedenti  del  principe  e- 
della  lettera  scritta,  ai  primi  di  aprile,  al  nipote  perchè  entrasse 
nella  via  liberale,  dipingendogli  cosi  l'uomo,  la  cui  indole  apertOr 
ed  aliena  da  ogni  infingimento  non  gli  permetteva  di  ciò  nasconderCy 


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come  forse  sarebbe  stato  conveniente.  Ma,  giudicata  oggi  con  im- 
parzialità storica,  la  condotta  di  questo  principe,  il  quale,  protetto 
dalla  squadra  piemontese,  dava,  nell'ora  del  pericolo,  il  calcio 
dell'asino  a  suo  nipote,  fu  assai  volgare,  per  non  bollarla  con  più 
aspra  parola.  E  a  compiere  l'opera  gloriosa,  don  Leopoldo,  se- 
guendo il  consiglio  di  Persano  e  di  Cavour,  il  quale,  si  disse,  gli 
avesse  fatta  offrire  la  luogotenenza  di  Toscana,  il  24  agosto  inviò 
al  Re  questa  lettera:  documento  degno  di  essere  ricordato,  per 
mostrare  il  lacrimevole  spettacolo,  che  offrivano  i  Borboni  di 
Napoli  in  quel  momento   supremo! 

•Sire, 

Se  la  mia  voce  si  levò  un  giorno  a  scongiurare  i  pericoli  che  sovra- 
stavano la  Nostra  Casa,  e  non  fu  ascoltata,  fate  ora  che  presaga  di  mag- 
giori sventure  trovi  adito  nel  vostro  cuore,  e  non  sia  respinta  da  improv- 
vido e  più  funesto  consiglio.  Le  mutate  condizioni  d'Italia,  ed  il  senti- 
mento della  unità  nazionale,  fatto  gigante  nei  pochi  mesi  che  seguirono 
la  caduta  di  Palermo,  tolsero  al  governo  di  V.  M.  quella  forza  onde  si 
reggono  gli  Stati,  e  rendettero  impossibile  la  Lega  col  Piemonte.  Le  po- 
polazioni della  Italia  superiore,  inorridite  alla  nuova  delle  stragi  di  Sicilia, 
respinsero  co'  loro  voti  gli  ambasciatori  di  Napoli,  e  noi  fummo  doloro- 
samente abbandonati  alla  sorte  delle  armi,  soli, ''privati  di  alleanze,  ed  in 
preda  al  sentimento  delle  moltitudini,  che  da  tutti  i  luoghi  d' Italia  si  sol- 
levarono al  grido  dì  esterminio  lanciato  contro  la  Nostra  Casa,  fatta  segno 
alla  universale  riprovazione.  Ed  intanto  la  guerra  civile,  che  già  invade 
le  Provincie  del  continente,  travolgerà  seco  la  dinastia  in  quella  suprema 
rovina,  che  le  inique  arti  di  consiglieri  perversi  hanno  da  lunga  mano  pre- 
parata alla  discendenza  di  Carlo  III  Borbone  ;  il  sangue  cittadino,  inutil- 
mente sparso,  inonderà  ancora  le  mille  città  del  Reame,  e  voi,  un  di  spe- 
ranza e  amore  dei  popoli,  sarete  riguardato  con  orrore,  unica  cagione  di  una 
guerra  fratricida. 

Sire,  salvate,  che  ancora  ne  siete  in  tempo,  salvate  la  Nostra  Casa 
dalle  maledizioni  di  tutta  l'Italia!  Seguite  il  nobile  esempio  della  Regale 
Congiunta  di  Parma,  che  allo  irrompere  della  guerra  civile  sciolse  i  sud- 
diti dalla  obbedienza,  e  li  fece  arbitri  dei  proprii  destini.  L'Europa  ed  1 
vostri  popoli  vi  terranno  conto  del  sublime  sagrifizio;  e  Voi  potrete,  o 
Sire,  levare  confidente  la  fronte  a  Dio ,  che  premierà  l'atto  magnanimo 
deUa  M.  V.  Ritemprato  nella  sventura  il  vostro  cuore,  esso  si  aprirà  alle 
nobili  aspirazioni  della  Patria,  e  Voi  benedirete  il  giorno  in  cui  generosa- 
mente vi  sacrificaste  alla  grandezza  d'Italia. 

Compio,  o  Sire,  con  queste  parole  il  sacro  mandato,  che  la  mia  espe- 
rienza m'impone;  e  prego  Iddìo  che  possa  illuminarvi,  e  farvi  meritevole 
delle  sue  benedizioni. 

Di  V.  M. 

Napoli  2i  agosto  1860  Affezionatissimo  zio 

Leopoldo  conte  di  Siracusa. 

Db  Cksare,  La  fine  di  un  Regno  •  VoL  II.  20 


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Oommentando  questa  lettera,  il  Nazionale  diceva  :  "  Ogni  pro- 
vincia d' Italia  muore,  l' Italia  nasce  „ . 

L'ultimo  giorno  di  agosto,  il  conte  di  Siracusa  s'imbarcò 
sulla  Costituzione^  messa  ai  suoi  ordini  dal  Persano  e  parti  per 
G-enova  e  Torino.  La  luogotenenza  di  Toscana  gli  rimase  in  gola 
e  mori  l'anno  dopo  nel  marzo,  a  Pisa,  dov'è  sepolto. 

A  proposito  della  fine  del  conte  di  Siracusa,  piacemi  riferire  un 
aneddoto  intimo.  Il  conte  di  Cavour  incaricò  il  Fiorelli  d'annun- 
ziare, coi  debiti  riguardi,  la  morte  del  conte  alla  contessa  sua  mo- 
glie, la  quale  era,  com'è  noto,  una  principessa  di  Savoia,  sorella 
del  principe  Eugenio  di  Carignano  e  aveva  nome  Maria  Vittoria 
Filiberta.  Dopo  la  catastrofe  dei  Borboni,  ella  restò  a  Napoli, 
nel  suo  bel  palazzo  alla  Riviera,  da  tutti  rispettata.  Quel  ma- 
trimonio non  fu  modello  di  felicità,  troppa  essendo  la  difformità 
di  carattere  nei  coniugi.  Il  conte  di  Siracusa  era  un  volgare 
buontempone,  tutto  napoletano  ;  scettico  e  superstizioso,  in  fatto 
di  religione;  impressionabile,  mobile,  loquace,  femminiero,  con 
una  larga  dose  di  quella  familiarità  caratteristica  dei  Borboni, 
e  che  spesso  degenerava  in  mala  educazione.  Portava  lunga  la 
barba,  quasi  per  sfidare  la  polizia  che  alle  barbe  lunghe  muoveva 
guerra.  Quando  viaggiava  in  ferrovia,  se  era  di  estate  e  vedeva 
chiusi  gli  sportelli  della  carrozza  del  treno,  ne  rompeva  i  vetri 
con  la  punta  del  bastone.  La  contessa,  invece,  era  un'asceta;  vi- 
veva ritiratissima  ;  schivava  le  compagnie ,  e  mentre  suo  marito 
liberaleggiava,  essa  era  una  retriva  furente ,  non  per  animo  triste, 
ma  per  eccessivi  scrupoli  religiosi.  Aveva  una  figura  molto  co- 
mune, anche  perchè,  non  si  seppe  mai  se  per  umiltà  o  per  ava- 
rizia, vestiva  assai  dimessa.  Il  conte  non  le  era  stato  fedele  mai. 
Ho  riferito  l'aneddoto  del  colpo  apoplettico,  dal  quale  fu  preso 
nel  1858;  e  che,  rinnovatosi  a  Pisa,  gli  troncò  la  vita  a  quaran- 
tott'anni.  Fiorelli  andò,  dunque,  dalla  contessa;  e,  prendendo 
le  cose  un  po'  alla  larga,  le  disse  che  il  conte  si  era  gravemente 
ammalato  a  Pisa,  e  che. ...  ;  ma  la  contessa  gli  spezzò  la  parola, 
dicendogli,  secca  secca:  '^ Eììl  bien;  fai  compris;  il  est  7nort„  ; 
e  al  cenno  affermativo  di  Fiorelli,  rimasto  interdetto  dinanzi  a 
tanta  indifferenza,  soggiunse  :  "  Il  Va  voulu  „  ;  e,  voltandogli 
le  spalle,  piantò,  senz'altro,  il  fido  segretario  di  suo  marito. 
Di   questa  morte   ella  non  si    afflisse    punto,    e    seguitò    a    vi- 


—  307  — 

vere  a  Napoli,  una  vita  da  convento   fino   a  che  vi  mori   dopo 
il  1870. 

La  lettera  del  conte  di  Siracusa,  scritta  dal  Fiorelli,  produsse, 
com'era  da  prevedere,  un  effetto  immenso.  Erano  giorni  quelli  di 
continue  sorprese  stupefacenti,  e  i  giornali  liberali  portarono  alle 
stelle  don  Leopoldo.  Si  era  cosi  perduta  la  misura  del  senso  morale, 
che  questi  atti  trovavano  laudatori  entusiastici.  I  ministri  ne  fu- 
rono impensieriti,  ma  il  Re  si  mostrò  quasi  indifferente.  Di  fronte 
a  questa  intema  decomposizione ,  il  lavoro  diplomatico  a  Torino 
e  a  Parigi  andava  in  fumo.  Invano  il  Manna  e  il  Winspeare, 
a  Torino,  e  il  Lagreca  a  Parigi,  chiedevano  che  la  Francia  e 
il  Piemonte  ottenessero  da  Garibaldi  una  tregua  di  sei  mesi, 
per  condurre  a  termine  le  trattative  di  un'alleanza  col  Re  di 
Sardegna  e  per  riunire  il  Parlamento  napoletano.  Cavour,  presa 
nelle  sue  mani  la  direzione  del  movimento  nazionale,  e  messo  a 
disposizione  del  Persano  un  milione  di  lire,  che  questi,  come 
confessa  nel  suo  Diario,  non  spese  che  in  piccola  parte,  aveva 
tenuto  a  bada  i  due  delegati  napoletani,  tanto  che  il  Manna,  ac- 
cortosi della  corbellatura,  la  sera  del  10  agosto  parti  per  Parigi, 
seguito,  dopo  pochi  giorni,  da  Canofari  che  andava  a  surrogare 
Antonini,  il  quale,  stanco  alla  sua  volta  degl'insuccessi  e  più  di 
essere  lasciato  senza  istruzioni,  aveva  mandate  le  sue  dimissioni. 
Manna  fu  uno  degli  invitati  al  pranzo  diplomatico ,  che  il  ministro 
Thouvenel  die,  il  15  agosto,  ai  rappresentanti  esteri  per  la  fe- 
sta dell'  Imperatore.  A  quel  banchetto  assistette  anche  il  Lagre- 
ca, il  quale,  privo  di  qualunque  attitudine  diplomatica,  non  aveva 
saputo  0  potuto  far  nulla,  anzi  si  era  smarrito  nelle  riserve  im- 
postegli, quando  partì  da  Napoli.  Le  quali  riserve  furono  an- 
che cagione  del  suo  insuccesso,  secondo  confessò  più  tardi  il 
conte  di  Persigny  al  barone  di  Letino,  Carbonelli,  direttore 
dei  lavori  pubblici,  anzi  reggente  di  quel  ministero,  durante  l'as- 
senza del  Lagreca.  Le  relazioni  negative  di  Manna  e  di  La- 
greca  erano  argomento  di  tristezza  per  i  ministri,  più  ancora 
che  per  il  Re,  il  quale  non  mutava  il  suo  contegno,  ora  apatico  e 
fatalistico,  ora  sospettoso  e  sarcastico.  Nei  Consigli  di  Stato 
egli  udiva  le  relazioni  dei  ministri  e  dei  direttori,  e  faceva  le  sue 
osservazioni,  spesso  acute  e  argute,  senza  però  curarsi  se  erano 
accolte  0  no.  Qualche  volta  si  divertiva,  facendo  pallottole  di 
carta  e  buttandole  in  aria,  o  cincischiando  con  la  matita  sui  fogli, 


—  308  - 

che  gli  erano  dinanzi.  Solo  prorompeva  in  qualche  raro  scatto 
d' ira  contro  il  Piemonte,  contro  il  Persano  e  contro  il  Yillama- 
rina,  i  quali  cospiravano  sotto  i  suoi  occhi,  senza  ritegno,  ma  era 
ben  lungi  dal  provocare  contro  essi  misure  severe. 

Dopo  la  sanguinosa  giornata  di  Milazzo,  che  fu  il  20  luglio, 
e  la  capitolazione  di  quel  forte  e  poi  di  quella  di  Messina,  la  Si- 
cilia, tranne  le  fortezze  di  Messina  e  di  Augusta,  ubbidiva  tutta 
a  G-aribaldi,  che  vi  aveva  nominato  suo  prodittatore  il  Depretis, 
Il  quale,  ricevendo  il  municipio  o  Senato  di  Palermo,  non  du- 
bitò di  parlare  esplicitamente  del  nuovo  Regno  d'Italia,  che  si 
costituiva  e  della  sua  capitale,  che  doveva  esser  Roma,  sino  a 
pubblicare  lo  Statuto  del  Piemonte  e  ad  imporre  ai  funzionarli 
pubblici  questo  giuramento  :  "  Giuro  di  esser  fedele  a  S.  M.  Vit- 
torio Emanuele^  di  osservare  lealmente  lo  Statuto  e  le  leggi  dello 
Stato,  e  di  esercitare  le  mie  funzioni  nel  solo  scopo  della  difesa 
del  Re  e  della  patria  „ .  Contro  questi  atti  protestò  il  De  Mar- 
tino con  nota  alle  potenze,  in  data  del  21  agosto;  protesta  che 
dal  Bonghi  fu  chiamata  nel  Nazionale  "il  canto  del  cigno  „. 
Garibaldi  entrò  a  Messina  con  Cosenz  e  Bixio,  il  giorno  30  lu- 
glio e  vi  nominò  governatore  Emanuele  Pancaldo,  che  poi  fu 
deputato  di  estrema  sinistra  :  una  testa  accesa,  che  diresse  ai  suoi 
concittadini,  nell'assumere  il  potere,  questo  incredibile  manifesto  : 

Messinesi!  —  li  Dittatore,  creandomi  vostro  governatore,  ritenne  ciò 
clie  io  gli  significai:  cioè,  che  nella  sola  vostra  convergenza  (sic)  mi  repu- 
tai idoneo  e  suflS,ciente  alla  Dittatura  distrettuale  che  indosso  (sic).  Vi 
prego  dunque  accordarmi  la  vostra  efficienza  (sic)  e  presentarvi  meco  so- 
lidali (sic)  al  cospetto  de'  gravi  doveri,  che  mi  circondano,  senza  sopraf- 
farmi quando  la  vostra  convergenza  (sic)  mi  rende  eguale  alla  vostra  cor- 
porativa dignità  (sic).  In  quanto  a  me  posso  somministrarvi  due  elementi 
(sic),  e  rendermi  in  essi  solo  risponsabile  di  tutte  le  mie  operazioni,  la  più 
perfetta  abnegazione  di  me  stesso  e  il  buon  volere.  Tutt'altro  che  mi  è 
d'uopo  lo  invoco  da  voi.  ed  in  questa  fiducia  mi  pongo  all'impresa. 

Da  quel  giorno,  Messina  divenne  il  centro  dei  preparativi 
per  la  campagna  sul  continente. 

I  lavori  per  la  spedizione  erano  condotti  innanzi  con  feb- 
brile attività.  Le  forze  garibaldine  si  concentravano  tra  Mes- 
sina e  Punta  di  Faro,  e  i  contatti  tra  la  riva  sicula  e  la  cala- 
brese   erano    frequentissimi,    malgrado    la    presenza   di    alcune 


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navi  regie  nello  stretto.  Il  giudizio  della  storia  sulla  condotta 
della  marina  napoletana  nel  1860,  dal  principio  alla  fine  del 
gran  dramma  rivoluzionario,  sarà,  forse,  severissimo.  Fin  dal 
10  luglio,  Amilcare  Anguissola,  comandante  della  fregata  Fe- 
loce  nel  porto  di  Messina,  incaricato  di  scortare  il  vapore  Bra- 
sile, che  portava  truppe  a  Milazzo,  fece  rotta  per  Palermo,  dove 
si  die  a  Garibaldi  che  l'accolse  con  festa.  Garibaldi  mutò  nome 
alla  nave,  dandole  quello  di  Tukery,  e  fu  il  terzo  battesimo,  perchè, 
bisogna  ricordare,  quella  nave  fu  comperata  nel  1848  dal  Go- 
verno siciliano  in  Inghilterra  e  si  chiamò  Indipendenza.  Ebbe 
un  nuovo  comandante  in  persona  del  Burone-Lercari,  che  appar- 
teneva alla  marina  sarda,  e  che  col  Lovèra,  col  Oanevaro  ed  altri 
ufficiali  di  quella  marina,  era  corso  volontariamente  in  Sicilia  a 
prestar  servizio  nella  nuova  flotta,  che  Garibaldi  organizzava. 
In  questa  entrarono  pure,  col  grado  di  tenenti,  gli  ex-alfieri  di 
vascello  Accinni,  Cottrau  e  Libetta,  i  quali  si  erano  corretta- 
mente dimessi  in  luglio.  Fecero  tutta  la  campagna  con  Gari- 
baldi ;  e  Paolo  Cottrau,  come  ho  altrove  ricordato,  è  morto  da  due 
anni,  col  grado  di  viceammiraglio,  vivamente  rimpianto. 

Il  Depretis,  prodittatore,  nominò  ministro  per  la  marina  si- 
oula,  il  Piola  Caselli,  alto  ufficiale  nella  flotta  sarda;  ma  orga- 
nizzatore effettivo  di  quella  improvvisata  marina  fu  l' Anguis- 
sola. Il  Tukery,  che  aveva  contribuito  al  successo  della  gior- 
nata di  Milazzo,  ebbe  poi  l' incarico  di  catturare  le  navi  regie, 
in  rotta  fra  la  Sicilia  e  Napoli  e  catturò  infatti  VElha,  che  da 
Messina  portava  uffiziali  a  Napoli,  e  il  Duca  di  Calabria^  che 
veniva  da  Napoli. 

Giovanni  Vacca,  comandante  del  Monarca,  il  maggior  legno 
da  guerra  della  marina  napoletana,  e  che  era  in  allestimento  a 
Castellamare,  offri  al  Persane  di  lasciar  prendere  il  bastimento,  lui 
assente,  a  condizione  però  che  l'assalto  avvenisse  di  notte  e  fosse 
compiuto  con  abilità  e  audacia.  Il  Persane  comunicò  il  disegno 
al  Depretis,  che  incaricò  il  Piola  stesso  della  impresa  :  impresa  as- 
solutamente pazza,  anche  se  fortunata,  perchè  il  Monarca  non 
era  bastimento  da  poter  servire  in  quelle  circostanze,  e  perchè 
mezzo  disarmato.  Il  tentativo  non  riusci,  perchè  il  Tukery  sba- 
gliò manovra,  avendo  un  cilindro  della  macchina  che  non  fun- 
zionava. L'as-alto,  dato  con  impeto,  fu  respinto,  per  la  valo- 
rosa e  onorata  difesa  che  fecero  del  bastimento   il   comandante 


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Guglielmo  Acton,  il  quale  nella  miscliia  restò  ferito  da  una 
palla  di  mosclietto  al  ventre,  e  l'uffiziale  Cesare  Romano.  Il 
Tukery  ebbe  undici  morti  e  molti  feriti  ;  ma,  quel  che  fu  più 
doloroso,  due  sue  imbarcazioni,  caricbe  di  carabinieri  genovesi, 
i  quali  dovevano  dare  un  altro  assalto  al  Monarca  vennero  ca- 
povolte nella  rapida  manovra  per  dare  indietro.  Quasi  tutti 
perirono.  Il  Monarca  fu  ribattezzato  poi  col  nome  di  Re  Ga- 
lantuomo. Erano  a  bordo  del  Tukery,  in  quella  notte,  che  fu 
dal  13  al  14  agosto,  oltre  al  Piola,  al  Burone,  al  Lo  vera  e  ai 
Canevaro,  piemontesi,  il  giovane  Trefìletti,  siciliano,  e  i  due 
fratelli  Cottrau,  Paolo  e  Giulio  :  il  primo,  promosso  in  quei 
giorni  tenente  di  vascello;  e  il  secondo,  volontario  dilettante, 
cbe,  per  bisogno  di  emozioni  e  per  affetto  fraterno,  si  era  im- 
barcato a  Palermo  per  quella  spedizione.  In  seguito  al  tenta- 
tivo contro  il  Monarca^  il  giorno  stesso  fu  proclamato  a  Na- 
poli lo  stato  d'assedio  ;  ma  questo  non  rallentò  l'azione  dei  due 
Comitati,  non  moderò  il  linguaggio  della  stampa  unitaria,  e  non 
frenò  le  cospirazioni  di  Villamarina  e  di  Persane,  di  Visconti 
Venosta  e  di  Finzi,  di  Ribotty  e  di  Mezzacapo,  di  Nisco  e  di 
Devincenzi  e  di  tutti  i  liberali  unitarii,  ne  lo  sfacelo  progres- 
sivo della  marina  militare. 

A  proposito  del  tentativo  sul  Monarca^  Luigi  Giordano  scri- 
veva al  Comitato  di  Cosenza: 

La  scorsa  notte,  nel  porto  di  Castellamare,  si  è  appressato  un  legno. 
Interrogato,  ha  risposto  :  Legno  francese,  che  àncora.  Nessuno  vi  ha  più 
badato.  Intanto  sopra  due  lance  discesero  degP  individui,  fra'  quali,  dicesi, 
Garibaldi  han  tagliato  le  gomene  del  vascello  napoletano  il  Monarca,  di 
80  cannoni,  e  poscia  han  cominciato  a  tagliare,  mercè  di  scalpelli,  la  gran 
catena.  La  guardia  del  vascello  si  taceva,  sicché  si  è  creduto  dagli  uomi- 
ni della  scialuppa  che  il  legno  era  senza  guardia.  Agivano  quindi  da  di- 
sperati e  senza  molti  riguardi.  Uno  di  loro  disse:  Questa  maledetta  ca- 
tena non  vuol  cedere.  Allora  la  guardia  del  vascello  si  è  accorta,  che  i 
colpi  del  martello  erano  su  la  catena  del  Monarca^  mentre  credevali  sul 
legno,  che  avea  dichiarato  di  voler  ancorare.  Si  gridò  all'arme  !  I  soldati, 
accorsi  al  loro  posto,  si  avvidero  dell'inganno,  e  s' impegnò  un  attacco  fra 
le  scialuppe,  i  soldati  e  il  fortino  di  Castellamare.  Le  scialuppe,  dopo  bre- 
ve resistenza,  si  ritirarono,  ed  avvicinatosi  il  vapore  il  Veloce^  imbarcò  gli 
uoinini  e  prese  il  largo.  ^ 


*  Archivio  Morelli. 


-  311  - 

Fosse  patriottismo  estemporaneo,  o  volgare  egoismo,  o  febbre 
rivoluzionaria  ohe  tutti  invadeva,  anche  col  pericolo  della 
propria  vita,  o  effetto  delle  sue  tradizioni  antidinastiche  e  dei 
ricordi  di  Caracciolo  e  di  Murat;  o  fossero  tutte  queste  cose 
riunite  insieme,  certo  è,  che  sulla  marina  da  guerra,  fin  dal 
giorno  che  Garibaldi  sbarcò  a  Marsala,  Francesco  II  non  potè 
più  contare.  Data  la  Costituzione,  la  marina  fu  perduta  alla 
dinastia  dei  Borboni.  Il  comandante  del  Capri,  Marino  Carac- 
ciolo, scriveva  a  Persano  di  attendere  i  suoi  ordini  per  inalbe- 
rare la  bandiera  nazionale,  che  poi  inalberò,  andando,  dopo  l'en- 
trata di  Garibaldi  a  Napoli,  a  conquistare  il  forte  di  Baia,  il 
cui  comandante,  al  Caracciolo,  che  gì' intimava  la  resa  in  nomo 
del  Dittatore  ricusò  di  arrendersi,  dicendogli  :  "  A  qualunque 
altro  si;  a  voi,  no  y,.  Gli  ufficiali  superiori  Vitagliano,  Burone 
e  Scrugli,  invitati  a  prestar  servizio,  si  rifugiarono  sulla  Maria 
Adelaide,  e  non  ne  scesero  che  dopo  l'entrata  di  Garibaldi. 

Pochi  rimasero  fedeli  alla  causa  del  Re.  Ricordo,  tra  questi,  il 
Lettieri  e  il  Pasca,  i  quali  andarono  a  Gaeta.  Il  Pasca,  che  coman- 
dava la  Partenope,  si  distinse  nella  difesa  della  fortezza  e  fu  uno 
dei  tre  ufficiali  superiori,  che,  per  la  piazza  di  Gaeta,  sottoscrissero 
la  capitolazione.  Egli  ebbe  grado  di  "  generale  della  Real  Ma- 
rina „ ,  ed  è  morto  di  recente.  Altri  ufficiali,  tra  i  quali  il  Rug- 
giero, il  Bargagli,  il  Rivera,  il  Flores,  il  Vergara,  il  Carbonelli, 
il  Bracco,  il  Rocco,  ancora  giovani,  non  vollero  entrare  nella 
marina  nazionale;  e  i  più  vecchi,  ammiragli  o  capitani  di  yqt 
scello,  Garofalo,  Palumbo,  Mollo,  Lavia,  Capecelatro,  Miceli, 
Marin,  lauoh,  Cossovich  si  ritirarono  volontariamente  dal  servizio. 

Fra  le  varie  interpretazioni,  date  per  spiegare  lo  squaglia- 
mento della  marina,  vi  fu  quella  che  l'armata  napoletana  fosse 
tutta  ascritta  alla  massoneria.  Ma  non  è  vero.  I  massoni  erano 
ben  pochi,  e  solo  ostentava  di  esserlo  il  conte  d'Aquila,  grande 
ammiraglio,  il  quale  portava  un  anello  al  dito,  e  facendone  mo- 
stra nei  giorni  del  suo  liberalismo,  lasciava  intendere  che  egli 
era  liberale  e  frammassone.  Non  fu  dunque  la  dissoluzione  della 
marina  opera  di  setta  o  di  denaro,  né  proposito  deliberato  di 
tradimento;  fu  effetto  dell'ambiente,  come  si  direbbe  oggi,  ossia 
di  quella  generale  frenesia,  per  cui  tutto  venne  manomesso  ed  of- 
feso da  parte  di  tanti,  i  quali  avevano  giurata  fede  ai  Borboni, 
e  che  al  giuramento  credevano  non  venir  meno,  passando  nelle 


-  312  - 

fila  dei  nemici  loro;  e  fu  anche  effetto  di  quel  certo  senso  di 
leggerezza  o  irrequietezza,  che  distingueva  la  marina  napoletana 
e  un  po'  della  sua  tradizione.  Francesco  Caracciolo  aveva  fatto 
altrettanto  nel  1799. 

Alla  richiesta  di  armi,  di  truppe,  di  gendarmi,  da  parte  de- 
gl'  intendenti,  alla  dissoluzione  crescente,  ai  parziali  sbandamenti 
militari,  ai  disordini,  alle  diserzioni  variamente  provocate,  che 
non  mancavano,  il  governo  tentò  provvedere,  in  ultimo,  con 
questa  circolare,  diretta  il  29  agosto  da  Giacchi  agli  intendenti 
e  sottointendenti,  e  che  è  importantissima,  come  la  constatazione 
ufficiale  dello  sfacelo  e  dell'  impotenza  del  ministero  : 

Le  condizioni  in  che  versiamo,  non  sono  le  più  felici,  e  sarebbe  follia 
farsi  illusione  del  contrario.  Da  tutte  parti  vengono  a  questo  Ministero 
novelle  di  disordini  e  domande  che  vi  si  provvegga,  mandando  forze  rego- 
lari, per  contener  gli  animi  nella  moderazione  e  nel  rispetto  dovuto  alla 
pubblica  potestà  ed  ai  diritti  dei  singoli  cittadini.  Ma  sciaguratamente 
♦  sembra  che  i  mandatari  del  potere  non  s'abbiano  formata  un'idea  giusta 
dello  Stato,  del  paese  e  de'  mezzi  che  sono  in  poter  loro,  per  resistere  alla 
piena  delle  passioni  politiche,  che  meglio  si  direbbero  egoistiche,  le  quali 
spingono  alla  reazione  da  un  lato,  a  contrari!  eccessi  dall'altro.  L'esercito 
(dovrebbero  essi  saperlo)  non  è  in  grado  di  molto  operare  per  la  quiete 
interna  del  Regno,  distratto  com'è  contro  le  esteme  aggressioni,  né  d'altra 
parte  gioverebbe  sempre  usare  il  braccio  militare  a  reprimere  e  contenere 
i  perturbatori  dell'ordine  pubblico,  quando  a  conseguire  lo  stesso  scopo  vi 
fossero  altri  modi  più.  civili  e  più  alle  presenti  condizioni  accomodati.  ^ 

E  loro  consigliava  di  mettersi  d'accordo  con  gli  uomini  d'or- 
dine, con  i  proprietari  di  terre,  con  gli  ecclesiastici,  e  di  usare 
della  guardia  nazionale.  "  /S' informino  le  signorie  loro,  conti- 
nuava, a  questo  gran  principio  della  salute  pubblica,  ed  io  spero, 
anzi  me  ne  vanto  certo,  troveranno,  fino  ne'  più  piccoli  villaggi, 
tanto  che  basti  a  tener  testa  a'  tristi  sommovitori  de'  popoli  contro 
il  presente  ordine  di  cose  „ .  E  concludeva  :  "  Degli  effetti  ne 
terrà  loro  gran  conto  la  patria  „ . 

Questa  circolare  è  proprio  la  fotografia  del  momento.  L'Om- 
nibus  notò  che  essa  rivelava  l' impotenza  del  governo  e  ag- 
giunse :  **  tal'  è  la  condizione  presente,  e  noi  crediamo  che  in  tal 
condizione  di  cose  il  partito  più  logico  sia  quello  che  non  cerca 


*  Archivio  Giacchi. 


—  313  - 

di  affrettare  gli  avvenimenti,  inevitabili  pur  troppo,  ma  che  li  at- 
tende „.  E  in  verità,  lo  sfacelo  irreparabile,  che  invadeva  tutti 
i  rami  dell'amministrazione,  e  che  l'opera  dei  due  Comitati  aiuta- 
va in  tutt'  i  modi,  e  nel  tempo  stesso  lo  sbarco  di  Garibaldi  a  Me- 
lito  e  le  sue  prime  fortune  ;  l'azione  palese  e  risoluta  del  Pie- 
monte ;  la  condotta  della  famiglia  reale  rispetto  al  Re  e  lo  sban- 
damento dell'esercito  erano  tutti  segni  chiarissimi  che  si  era  alla 
vigilia  della  catastrofe.  Ma  ancora  si  aveva  fede  in  una  re- 
sistenza nelle  Calabrie,  dov'erano  più  di  ventimila  uomini,  tra 
Bagnara,  Monteleone  e  Cosenza,  con  un  maresciallo  in  capo  e 
cinque  generali. 

La  sera  di  quello  stesso  giorno  29,  vi  fu  grande  allarme  in  Na- 
poli e  la  città  fu  tutta  corsa  da  pattuglie  di  cavalleria  e  fanteria. 
Benché  si  succedessero  i  bollettini  delle  vittorie  di  Garibaldi  in 
Calabria,  pubblicati  dai  fogli  liberali  a  lettera  di  scattola,  cor- 
reva voce  e  allarmava  tutti,  che  il  governo  avesse  sequestrati 
nella  strada  di  Santa  Teresa  a  Chiaja  molte  armi,  le  quali  dove- 
vano servire  al  partito  reazionario,  per  tentare  un  ultimo  e  de- 
cisivo colpo  in  Napoli.  E  veramente  la  polizia  sequestrò  quella 
notte  alcuni  revolvera,  nonché  quarantamila  copie  di  un  procla- 
ma che  i  giornali  si  affrettarono  a  pubblicare,  inneggiando  a  don 
Liborio,  come  a  salvatore  della  patria.     Il  proclama  diceva: 

Sire! 

Quando  la  patria  è  in  pericolo,  il  Popolo  lia  diritto  di  domandare  al 
suo  Re  di  difenderlo,  perchè  i  Re  son  fatti  per  i  Popoli,  e  non  i  Popoli  per  i 
Re.  Noi  dobbiamo  loro  ubbidire,  ma  essi  debbono  sapere  difenderci  ;  e  per 
questo  Iddio  loro  ha  dato  uno  scettro  ed  una  spada. 

Oggi,  o  Sire,  il  nemico  è  alle  nostre  porte;  la  Patria  è  in  pericolo.  Da 
quattro  mesi,  un  avventuriere,  alla  testa  di  bande  reclutate  in  tutte  le  na- 
zioni, ha  invaso  il  Regno,  ed  ha  fatto  scorrere  il  sangue  dei  nostri  fratelli. 
11  tradimento  di  alcuni  miserabili  l'ha  aiutato;  una  diplomazia  più.  mise- 
rabile ancora,  l'ha  secondato  nelle  sue  colpevoli  intraprese.  Fra  giorni, 
questo  avventuriere  e'  imporrà  il  suo  giogo  odioso,  perchè,  i  suoi  disegni  li 
conosciamo  tutti,  e  Voi  ancora,  o  Sire.  Quest'uomo,  d'altronde,  non  ne  fa 
alcun  mistero:  sotto  pretesto  di  unificare  quel  che  non  è  stato  mai  unito, 
egli  vuole  farci  Piemontesi,  per  meglio  scattolicarci  e  quindi  stabilire  un 
governo  repubblicano  sotto  l'odiosa  Dittatura  di  un  Mazzini  di  cui  sarà 
«gli  anche  U  braccio  e  la  spada. 

Ma,  Sire,  noi  siamo  napoletani  da  secoli:  Carlo  II,  Vostro  immortale 
bisavolo,  ci  tolse  per  l'ultima  volta  dal  pesante  giogo  straniero.    Noi  vo- 


-  314  — 

glìamo  dunque  oggi  restare  e  morire  napoletani  con  la  bella  civilizzazione 
che  con  tanta  saviezza  questo  Re  ci  donò.  Il  figlio  di  Ferdinando  II  non 
potrebbe  tenere  con  mano  ferma  lo  scettro  cbe  ha  ereditato  da  suo  padre 
di  gloriosa  rimembranza?  H  figlio  della  venerabile  Maria  Cristina  ci  abban- 
donerebbe vilmente  al  nemico?  Francesco  II,  nostro  dilettissimo  Sovrano, 
non  avrebbe  le  virtù  e  le  qualità  del  più  umile  dei  Re?  No,  no,  ciò  non 
può  essere. 

Sire,  salvate  dunque  il  vostro  Popolo  !  Noi  ve  lo  domandiamo  a  nome 
della  religione  che  vi  ha  consacrato  Re,  a  nome  della  legge  ereditaria  del 
Regno  che  vi  ha  dato  lo  scettro  dei  vostri  antenati,  a  nome  del  diritto  e 
della  giustizia  che  vi  fanno  un  dovere  di  vegliare  continuamente  alla  vo- 
stra salvezza  e,  se  è  necessario,  di  morire  per  salvare  il  vostro  Popolo.  Ma 
la  Patria  in  pericolo  vuole  quattro  cose;  eccole: 

1°  n  vostro  Ministero  tutto  intero  vi  tradisce  ;  i  suoi  atti  ne  fanno 
fede;  le  sue  relazioni  coi  Giudei  e  i  Pilati  lo  attestano.  Che  il  vostro  Mi- 
nistero sia  dunque  sciolto  e  surrogato  da  uomini  onesti  e  devoti  alla  vo- 
stra Corona,  ai  vostri  Popoli  ed  alla  Costituzione. 

2"  Molti  stranieri  cospirano  contro  il  vostro  trono  e  contro  la  nostra 
nazionalità.    Che  questi  stranieri  siano  espulsi  dal  Regno. 

3°  Numerosi  depositi  di  armi  esistono  nella  vostra  capitale.  Che  un 
disarmamento  sia  ordinato. 

4°  La  Polizia  è  tutta  intera  devota  al  nemico.  Che  la  Polizia  sia 
sciolta  e  surrogata  da  una  Polizia  onorevole  e  fedele. 

Sire,  ecco  quel  che  vi  domanda  il  vostro  Popolo  napoletano.  La  vo- 
stra Armata  è  fedele  tanto  quanto  è  brava.  Prendete  dunque  una  spada 
e  salvate  la  Patria!  Quando  si  ha  per  sé  il  diritto  e  la  giustizia,  si  ha 
con  sé  Iddio! 

Viva  il  Re  nostro  Francesco  II!  Viva  la  Patria!  Viva  la  brava  Ar- 
mata napoletana. 

In  quei  giorni  stessi  il  G-overno  credè  necessario  sostituire 
l'intendente  di  Catanzaro  Giannuzzi  Savelli  con  Luigi  Vercilli'^ 
e  il  Capone  di  Avellino,  col  conte  Onorato  Caetani. 


CAPITOLO  XV 


SoMMABio:  Ultimo  numero  del  Oiomale  di  Sicilia  sotto  i  Borboni  e  primo  nu- 
mero sotto  la  Dittatura  —  Monsignor  Naselli,  arcivescovo  di  Palermo  e 
suoi  rapporti  con  Garibaldi  —  Garibaldi  nella  cattedrale  di  Palermo  e  Giu- 
dice della  Monarchia  —  La  liberazione  dei  nobili  —  Feste  ed  entusiasmi 
popolari  —  La  condotta  dei  giovani  patrizi  —  La  guardia  del  palazzo  dit- 
tatoriale —  Graduati  e  militi  —  I  siciliani  a  Milazzo  —  Il  principe  di  Sca- 
lea ed  Emanuele  Notarbartolo  di  San  Giovanni  —  Ricordi  interessanti  — 
Caricature  ed  epigrammi  sull'esercito  —  Il  colonnello  Buonopane  e  suoi 
precedenti  —  Le  accuse  contro  di  lui  —  Gli  altri  generali  borbonici  in 
Sicilia  —  Confessioni  di  Maniscalco  a  Gaetano  Filangieri  —  Il  generale 
Clary  —  Particolari  e  sue  lettere  postume  —  Il  capitano  Sciacquariello  — 
Giudizi  sull'opera  militare  nell'Isola  —  Le  Memorie  di  Pianell  —  L'opera 
di  Cavour  a  Napoli  —  Sue  inquietudini  —  Manda  Visconti,  Finzi,  Bibotty, 
Devincenzi,  Nisco,  Mezzacapo  e  Schiavoni  —  Particolari  inediti  e  curiosi 
—  Svanisce  il  disegno  di  un  pronunciamento  militare  —  Confessioni  di  Emi- 
lio Visconti  —  Una  lettera  di  Cavour,  portata  da  Niccola  Schiavoni. 

L'ultimo  numero  del  Giornale  di  Sicilia  vide  la  luce  il  26  mag- 
gio 1860,  vigilia  della  Pentecoste  e  dell'  ingresso  di  Garibaldi  ;  e 
l'ultimo  decreto,  pubblicato  in  prima  pagina,  in  corpo  dodici 
fu  quello,  col  quale  don  Angelo  Maniscalco,  in  data  del  9  mag- 
gio, veniva  nominato  effettivamente  ricevitore  della  dogana  di 
Messina.  Era  il  primo  figliuolo  del  Maniscalco  e  contava  cinque 
anni.  Quel  decreto,  riguardante  un  bambino,  aveva  tre  volte  la 
firma  del  principe  di  Cassare,  presidente  del  Consiglio  dei  mini- 
stri e  ministro  per  la  Sicilia,  nonché  la  firma  del  Lanza,  col  ti- 
tolo di  commissario  straordinario  con  l'Alter  Ego,  e  quella  del 
Bracci,  per  certificato  conforme.  La  nomina  del  piccolo  Maniscalco 
a  quel  posto  assai  lucroso  era  stata  il  regalo  di  battesimo  fattogli 


—  316  - 

da  Ferdinando  II.  Il  Giornale  di  Sicilia  ricomparve  il  7  giugno 
nello  stesso  formato,  ed  in  quel  primo  numero,  al  posto  dello 
stemma  borbonico,  c'era  quello  di  Savoia;  al  posto  del  decreto 
per  il  figliuolo  di  Maniscalco,  il  decreto  da  Salemi,  col  quale 
Garibaldi  si  proclamava  dittatore,  in  nome  d' Italia  e  Vittorio 
Emanuele.  Al  Ventimiglia,  partito  per  Napoli,  succedeva  nella 
direzione  Isidoro  La  Lumia,  col  dottor  Griuseppe  Lodi.  Della  vec- 
chia redazione  rimasero  Girolamo  Ardizzone,  il  quale  era  stato  il 
collaboratore  più  assiduo,  ed  a  cui  il  giornale  fu  affidato  poco 
tempo  dopo;  Giuseppe  Antonio  Arieti,  Luigi  Corvaja  e  Francesco 
Scibona  Battolo.  In  quella  guisa,  che,  avvenuto  l' ingresso  di 
Filangieri  a  Palermo  e  dopo  l'attentato  di  Agesilao  Milano,  il 
Giornale  di  Sicilia  pubblicò  per  mesi  interi  gli  indirizzi  di  fedeltà 
e  di  felicitazioni  da  parte  dei  comuni  tutti  dell'Isola  a  Fer- 
dinando II,  lo  stesso  giornale  iniziò  la  serie  degl'  indirizzi  degli 
stessi  comuni  a  Garibaldi,  perchè  s'investisse  della  dittatura,  che 
aveva  assunta  sin  dal  14  maggio  a  Salemi.  E  negli  avvisi  teatrali 
dello  stesso  foglio  si  cominciò  a  leggere  dal  25  giugno,  anche 
questo:  "  Teatro  Nazionale  a  San  Ferdinando:  Salvatore  Ma- 
niscalco, dramma  e  ballo  „ .  Il  teatro  nazionale  era  il  pre- 
sente teatruccolo  "  Umberto  „  ;  ma  prima  del  27  maggio  era  sem- 
plicemente "  teatro  San  Ferdinando  „ .  E  inutile  dire  che  quella 
rappresentazione  era  tutta  una  sfuriata  contro  l'ex  direttore  di 
polizia,  la  cui  persona,  al  comparire  sulla  scena,  era  salutata  da 
un  uragano  di  fischi  e  da  un  coro  selvaggio  d' imprecazioni. 

L'arcivescovo  di  Palermo,  monsignor  Naselli,  non  si  mosse 
dal  suo  posto  nei  giorni  terribili,  nei  quali  a  Palermo  si  com- 
batteva e  si  moriva  ;  e  quando  il  nuovo  ordine  di  cose  fu  stabi- 
lito, egli  non  esitò  a  riconoscerlo  e  andò  a  visitare  il  dittatore, 
cosi  come  questi,  consapevole  della  forza  del  sentimento  religioso 
in  Palermo  e  in  tutta  la  Sicilia,  nonché  dell'  intimo  accordo  esi- 
stente fra  il  clero  e  il  laicato,  si  limitò  a  pubblicare  soltanto  il 
decreto  che  sopprimeva  i  gesuiti  e  i  liguorini,  come  già  fece  la 
rivoluzione  nel  1848.  Se  nell'esecuzione  di  quel  decreto  vi  fu- 
rono eccessi  vergognosi,  ch'è  meglio  non  ricordare,  la  colpa  non 
si  può  far  risalire  a  Garibaldi,  ma  ad  alcuni  di  quegli  elementi 
indigeni,  per  i  quali  la  libertà  era  profitto  e  violenza.  Garibaldi 
anzi  tenne  in  quei  giorni  un  contegno  di  austera  moderazione  e 


-  317  - 

tolleranza:  andò  in  pellegrinaggio  alla  grotta  di  Santa  Eosalia 
al  Monte  Pellegrino,  e  nella  festa  della  Santa  assistette  alla 
messa  pontificale;  anzi,  assumendo  la  dignità  di  legato  aposto- 
lico e  giudice  della  Monarchia,  montò  sul  trono  in  camicia  ros- 
sa, e  alla  lettura  dell'  Evangelo  snudò  la  spada  per  la  difesa 
della  fede  cattolica.  Tanto  poteva  in  lui  la  forza  dell'ambiente  : 
un  ambiente  di  vivace  e  quasi  primitivo  sentimento  religioso,  per 
cui  il  sacerdote,  prete  o  frate,  è  ritenuto  anche  oggi  in  Sici- 
lia non  diverso,  ma  superiore  ai  membri  degli  altri  ordini  so- 
ciali. Il  sentimento  religioso  fu  una  delle  ragioni  del  successo 
della  rivoluzione.  Il  popolino  di  Palermo  attribuiva  a  Garibaldi 
un  potere  soprannaturale  e  lo  riteneva  persino  congiunto  di 
Santa  Rosalia,  la  quale,  secondo  la  tradizione,  era  figliuola  di 
un  conte  siciliano,  di  nome  Sinibaldo.  La  somiglianza  fra  i  due 
nomi  suggellava  la  credenza. 

Prima  del  27  maggio,  quando  i  soldati  regi  partivano  da  Pa- 
lermo, i  marinai  siciliani,  saliti  sulle  antenne  dei  loro  bastimenti, 
davano  loro  la  malandata  col  grido  fuori,  fuori,  assassini,  per 
non  più  tornare  ;  ma  dopo  quel  giorno  l'odio  verso  i  soldati  na- 
poletani era  di  molto  scemato,  anzi  erano  frequenti  i  casi,  nei 
quali  questi  fraternizzavano  nelle  bettole  coi  popolani  e  insieme 
gridavano  :  Viva  Garibaldi.  L'esercito  borbonico;  giova  ripeterlo, 
era  formato  da  una  sola  delle  Sicilie,  cioè  dalla  continentale: 
l'Isola  godeva  il  privilegio  di  non  aver  leva,  e  nell'alta  ge- 
rarchia militare  erano  pochi  i  generali  siciliani.  Ricorderò  fra 
essi  il  Lanza,  tenente  generale  e  ultimo  luogotenente  ;  il  conte 
Giuseppe  Statella,  che  mori  in  Roma  nel  1862  e  il  principe  della 
Scaletta,  morto  egli  pure  a  Roma,  nel  1889.  L'esercito  napole- 
tano era  sinceramente  odiato  in  Sicilia  anche  per  questo,  e  l'odio 
veniva,  con  eguale  sincerità,  ricambiato  da  parte  dei  militari,  che 
assumevano   in  Sicilia  aria  da  conquistatori  e  prepotenti. 

Dopo  l'ingresso  di  Garibaldi,  l'avvenimento  maggiore  nella 
città  di  Palermo  fu  la  liberazione  dei  sette  giovani  nobili,  ar- 
restati in  seguito  alla  tentata  sommossa  del  quattro  aprile.  La 
loro  prigionia  durò  sino  all'ultimo  momento,  cioè  fino  al  19 
giugno,  nel  qual  giorno  partì  da  Palermo  il  grosso  delle  truppe 
regie  col  generale  Lanza.  Quei  prigionieri  furono  considerati  co- 
me ostaggi  di  guerra,  e  corsero  più  volte  il  pericolo  di  essere  fuci- 


—  318  — 

lati.  Il  19  giugno,  dunque,  il  Lanza,  prima  d' imbarcarsi  per  Na- 
poli, andò  ad  aprir  loro  le  porte  delle  prigioni,  rivolgendo  ai  pri- 
gionieri queste  parole  :  "  Sono  dolente  di  essire  stato  strumento  invo- 
lontario delle  loro  sofferenze  „ .  Portati  in  trionfo  da  una  folla  plau- 
dente, andarono  a  ringraziare  Garibaldi,  ciie  li  accolse  con  grande 
effusione.  Egli  aveva  preso  alloggio  da  pochi  giorni  al  palazzo 
Reale,  ma  di  questo  occupava  soltanto  il  quartiere  ch'è  sulla  porta 
Nuova,  oggi  detta  di  Calatafìmi  :  quartiere  modesto,  dal  quale  si 
gode  una  vista  stupenda  da  Monreale  al  mare,  attraverso  la  via 
Toledo.  Quei  giovani,  tranne  il  padre  Lanza,  infermo,  chiesero  al 
Dittatore  di  seguirlo  come  volontari!,  e  Garibaldi  li  accettò.  La 
loro  liberazione  fu  causa  di  una  dimostrazione  che  ancora  si  ri- 
corda. Il  Giornale  Ufficiale  della  dittatura  pubblicava  in  pro- 
posito un  articolo  magniloquente,  che  diceva  cosi: 

I  prigionieri  politici  del  forte  di  Castellamare,  quei  giovani  eletti  per 
cui  abbiamo  palpitato  in  mezzo  alle  varie  vicende  d'una  lunga  e  procel- 
losa lotta,  sono  resi  alle  nostre  braccia.  La  tirannide  gli  strappava  alle 
proprie  case,  alle  proprie  famiglie,  e  credeva  umiliarne  la  fiera  e  dignitosa 
alterezza  facendo  dei  loro  lacci  spettacolo  alla  città  fremebonda  :  il  popolo 
li  ha  ricondotti  in  trionfo.  Onore  a  quei  giovani  !  a  quei  rampolli  di  una 
aristocrazia  cittadina,  che,  con  unico  esempio,  mezzo  secolo  addietro  immo- 
lava spontanea  alla  patria  i  suoi  privilegi  feudali;  e  poi,  confusa  nel  po- 
polo, divideva  per  tanti  anni  i  dolori,  gli  oltraggi,  le  speranze  e  le  fortune 
del  popolo. 

Dalla  moltitudine  affollata  oggi  sulla  piazza  della  Vittoria,  in  mezzo 
al  rimbombo  dei  sacri  bronzi,  al  lieto  suono  di  militari  strumenti,  allo 
sventolare  di  cento  bandiere,  un  grido  di  riconoscenza  e  di  affetto  si  è  le- 
vato all'eroico  Liberatore  dell'Isola. 

Questa  sera  la  città  sciritillante  di  fuochi  ha  veduto  un  popolo  in- 
tero d'ogni  età  e  d'ogni  classe,  versarsi  nella  via  principale,  e  abbando- 
narsi al  sereno  tripudio  di  una  di  quelle  feste  che  non  hanno  nome  né 
luogo  nei  calendari  ufficiali,  ma  che  sono  destinate  a  rimanere  durevoli 
nelle  pagine  della  storia. 

La  condotta  di  questi  nobili  è  ben  degna  di  essere  ricordata 
anche  oggi.  Il  Lanza,  il  Pignatelli,  il  Niscemi,  il  Riso,  il  Cesarò, 
il  Notarbartolo  e  il  Giardinelli  appartenevano  alle  maggiori 
famiglie  dell'Isola;  rivelarono  dignità  e  coraggio  durante  la 
prigionia,  rifiutando  l'indulto  e  mostrarono  all'Europa  che  la 
rivoluzione  in  Sicilia  non  era  opera  delle  classi  infime,  non  degli 
elementi  più  compromessi  moralmente,  non  degli  esuli  deside- 
rosi di  tornare  in  patria,  non  dei  mazziniani,  ne  degli  autono- 


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misti,  come  diceva  e  ripeteva  la  diplomazia  napoletana  ;  ma  era 
vero  e  unanime  movimento  popolare,  suscitato  si  da  varie  cagioni, 
ma  tutte  ispirate  politicamente  da  un  sentimento  unico  :  l' indi- 
pendenza da  Napoli  e  l'unione  all'  Italia,  con  un  governo  moral- 
mente migliore.  Di  quei  giovani  patrizi  del  1860  sono  super- 
stiti il  principe  di  Niscemi,  senatore  del  Regno,  il  barone  Gio- 
vanni Riso,  il  principe  di  Giardinelli  e  Giovanni  Notarbartolo, 
fratello  del  povero  Emmanuele. 

Un  decreto  del  30  giugno,  che  portava  le  firme  di  Garibaldi 
dittatore  e  del  segretario  di  stato  della  guerra,  Vincenzo  Orsini, 
diceva  :  "  volendo  annuire  alle  reiterate  istanze  fatte  da  molti 
"  tra  i  benemeriti  cittadini,  che  prepararono  e  coadiuvarono  il 
"  movimento  siciliano  „  :  veniva  istituito  un  corpo  speciale,  che  si 
chiamò  col  nome  poco  felice  di  "  Guardie  del  palazzo  dittatoriale  „ . 
Venne  formato  difatti  dai  cittadini  più  noti  e  più  animosi,  che 
preparfirono  e  coordinarono  il  risorgimento  siciliano  ed  erano 
centoventi.  Di  questo  corpo  eletto  fu  comandante,  col  grado  di 
capitano,  Gaetano  La  Loggia  ;  il  principe  Antonio  Pignatelli  ne 
fu  luogotenente;  il  barone  Giovanni  Riso,  sottotenente;  Cor- 
rado Niscemi,  Martino  Bel  trami  Scalia  e  Casimiro  Pisani,  junio- 
re,  ne  furono  sergenti;  il  principe  di  Giardinelli  e  Giovanni 
Notarbartolo  di  San  Giovanni  ne  furono  caporali;  e  Gabriele 
C esarò,  che  era  forse  il  più  giovane,  milite,  ma  i  militi  erano 
pareggiati  a  sottotenenti,  e  via  via  gli  altri  graduati.  In  questa 
compagnia  di  onore,  che  ricordava  le  cento  guardie  di  Napoleone, 
e  le  guardie  del  Corpo  dei  Borboni,  entrarono,  anche  come  sem- 
plici militi,  Enrico  Albanese,  Andrea  Rammacca,  Francesco  Bran- 
caccio di  Carpino,  Paolo  Paternostro,  Narciso  Cozzo,  Mariano  In- 
delicato, Francesco  Perrone  Paladini,  Rocco  Ricci  Gramitto. 
Giambattista  Marinuzzi  ne  fu  il  furiere.  Corpo  veramente  eletto, 
che  in  quei  giorni  rese  buoni  servigi  anche  alla  sicurezza  pubbli- 
ca. I  più  giovani  si  arruolarono  addirittura  con  Garibaldi  e  si 
batterono  a  Milazzo  e  sotto  le  mura  di  Capua.  E  qui  occorre 
ricordare,  che  Francesco  Lanza  di  Scalea,  oggi  senatore  del  Re- 
gno, ed  Emmanuele  Notarbartolo  di  San  Giovanni,  del  cui  effe- 
rato assassinio  in  questo  momento  tanto  si  parla,  in  vista  dei  gran- 
di avvenimenti  che  si  preparavano,  avevano  preso  servizio  volon- 
tario, nel  febbraio  del  1859,  nell'esercito  sardo  ;  e  Cavour,  per  il 
nome  delle  loro  famiglie  e  il  significato  politico,  che  rappresentava 


—  320  — 

il  loro  atto,  li  aveva  indotti  ad  entrare  nella  scuola  militare 
d'Ivrea,  donde  uscirono  sottotenenti,  il  Lanza  dei  granatieri  e  il 
Notarbartolo  della  brigata  Aosta.  Si  erano  dimessi  appena  saputo 
lo  sbarco  di  Garibaldi  e  corsero  nell'  Isola  a  prender  parte  alla 
rivoluzione.  Scalea  parti  con  Medici,  e  Notarbartolo  fece  parte  di 
quella  fortunosa  spedizione,  che,  catturata  dal  Fulminante,  venne 
rimorchiata  a  Gaeta.  Quella  spedizione  era  partita  da  Cornigliano 
presso  Genova,  la  notte  dall'  8  al  9  giugno,  sul  Charles- Jeanes, 
clypper  americano,  rimorchiato  dal  vaporino  l' Utile  con  bandiera 
sarda.  Era  un  migliaio  di  volontari  sotto  il  comando  di  Clemente 
Corte,  poi  generale  e  deputato,  morto  senatore  del  Regno,  il  quale 
allora  aveva  grado  di  maggiore,  ed  avrebbero  dovuto  raggiungere 
a  Cagliari  il  resto  della  spedizione  Medici,  e  colà  ricevere  armi, 
munizioni  e  uniformi.  La  cattura  avvenne  nella  notte  dal  9  al  10, 
e  la  nave,  condotta  a  Gaeta,  ancorò  sotto  il  tiro  delle  batterie  del 
porto.  Ma  poiché  i  volontari  passavano  per  emigranti,  il  Piemonte 
e  gli  Stati  Uniti  protestarono,  ma  invano.  La  cattura  durò  sino 
ai  primi  di  luglio,  quando,  concessa  la  Costituzione,  il  governo 
di  Napoli  si  affrettò  a  liberarli,  e  poterono  quei  giovani  prender 
parte  alla  battaglia  di  Milazzo.  Emmanuele  Notarbartolo  vi 
trovò  tanti  suoi  amici  di  Palermo,  e  basterà  ricordare  Narciso 
Cozzo,  il  Brancaccio,  i  due  fratelli  Ricci  Gramitto,  Rocco  e  In- 
nocenzo, Stefanino  de  Maria,  Pietrino  San  Martino,  e  vi  trovò 
pure  Francesco  Scalea,  Achille  Basile  e  Corrado  Niscemi,  che  la 
signora  Mario  fece  poi  morire  a  Cajazzo  !  ^  E  fra  quelli,  che  dopo 
aver  seguito  Garibaldi  al  Volturno,  entrarono  poi  nell'eser- 
cito, ricorderò  Francesco  Brancaccio  di  Carpino,  che  si  battette  a 
Custoza  e  vi  guadagnò  la  medaglia  al  valor  militare.  Lanza  di 
Scalea  entrò  in  diplomazia. 

Una  caricatura  dello  Charivari  aveva  riassunta  la  situazione 
dell'esercito  napoletano  in  Sicilia,  dipingendo  un'armata,  nella 
quale  i  soldati  avevano  le  teste  di  leone,  gli  ufficiali  la  testa  d'asi- 
no, e  i  generali  erano  acefali,  con  questa  annotazione  in  piedi  :  Vai- 
la Varmée  du  voi  de  Naples  en  Sicile  !  Feroce  caricatura,  ma  non 
immeritata,  rispetto  ai  generali  che  dettero  cosi  desolante  prova 
d' incapacità  e  di  scetticismo.     Non  furono  traditori,  ma  incredi- 


^  Jessib  White  Mario,  La  vita  di  Garibaldi,  voi.  I,  cap.  XXV,  pag.  26, 


-  321  - 

bilmente  inetti  e  noncuranti,  non  solo  della  causa  che  difende- 
vano, ma  della  loro  stessa  reputazione  :  primo  fra  tutti,  il  Lanza, 
il  quale  non  ebbe  un  sol  lampo  di  risoluzione,  e  che  chiusosi 
in  palazzo  Reale  dal  suo  arrivo  a  Palermo,  non  ne  usci  che  per 
sottoscrivere  il  secondo  armistizio,  dopo  un  iniquo  e  inutile 
bombardamento  ! 

Si  è  parlato  del  Lanza  e  del  Laudi,  ma  sarà  bene  spendere 
una  parola  per  gli  altri.  Il  colonnello  Cammillo  Buonopane, 
che  in  quei  giorni  fece  da  spola  fra  Napoli  e  Palermo  e  sot- 
toscrisse con  Garibaldi  la  convenzione  finale,  veniva  ritenuto 
il  più  dotto  ufficiale  dell'esercito,  ed  era  sottocapo  dello  stato 
maggiore.  Aveva  precedenti  liberali,  e  prima  del  1848  era  stato 
amico  di  Mariano  d'Ayala  e  di  Nicoola  Schiavoni,  ma  dopo  il 
1848,  divenne  assolutista  convinto.  Era  intimo  dell'abate  don 
Mauro  Minervini  e  aveva  in  moglie  una  baronessa  Garofalo.  Ri- 
cordo che  quando,  dopo  il  1860,  Niccola  Schiavoni  tornò  dall'esi- 
lio, rivide  il  Buonopane  in  casa  del  Minervini.  I  due  amici  si 
narrarono  a  vicenda  i  proprii  casi  ;  e  il  Buonopane,  rimasto  bor- 
bonico, benché  dopo  la  convenzione  del  6  giugno,  sospettato  di 
tradimento,  fosse  relegato  in  Ischia,  non  nascose  allo  Schiavoni 
tutta  l'amarezza  sua  per  sì  ingiusti  sospetti.  Mori  nell'agosto 
del  1862.  Egli  non  aveva  nessuna  delle  qualità  acconcie  per  il 
posto  che  occupava,  né  gli  riusci  di  formare  un  piano  di  guerra 
contro  Garibaldi,  e  quando  gli  fosse  riuscito,  non  sarebbe  stato 
possibile  farlo  accettare  dal  Lanza,  la  cui  incapacità  era  sol- 
tanto superata  dalla  testardaggine  di  voler  fare  a  modo  suo, 
e  ch'egli  disprezzavà.  Capo  dello  stato  maggiore  era  il  ge- 
nerale Ischitella,  il  quale  valeva  meno  del  Buonopane,  e  che  in 
quei  giorni  rappresentò,  in  modo  cosi  perfetto,  la  parte  del  con- 
fusionario, che  interloquiva  su  tutto  e  non  riusciva  a  far  indo- 
vinare che  cosa  veramente  volesse.  Il  Letizia  pareva  il  più 
risoluto,  e  benché  vecchio,  rivelava  vivacità  giovanile,  ma  il  suo 
spirito  era  più  vivace  che  illuminato,  anzi  scettico  e  leggiero  nel 
fondo:  non  aveva  paura,  ma  neppure  iniziativa.  Sotto  il  co- 
mando di  un  generale  intelligente  e  audace,  il  Letizia  si  sarebbe 
fatto  onore;  lasciato  a  sé  stesso,  fu  travolto  nel  vottice  della  co- 
mune rovina.  I  cognomi  di  Letizia  e  di  Buonopane  davano 
luogo  ad  epigrammi,  da  parte  dei  liberali.  Uno  dei  più  ripetuti 
era,  che  non  si  poteva  perdere  con  letizia  e  buono  pane^  o  che  si 
sarebbe  perduto . . .  allegramente  ! 

Db  Cebarx,  La  fine  di  un  Regno  -  Voi.  II.  21 


-  322  - 

I  generali  Giovanni  Salzano  e  Graetano  Afan  de  Rivera  non 
difettavano  di  qualità  militari  :  il  secondo  possedeva  più  cultura 
generale  clie  militare,  era  figliuolo  del  celebre  idraulico  e  cu- 
gino di  Rodrigo,  generale  di  artiglieria  ;  ma  aveva  poco  tatto  e 
a  Messina  si  era  bisticciato  col  Russo.  Primerano  e  Cataldo  non 
avevano  alcuna  repatazione,  neppure  nell'esercito,  anzi  al  Cataldo 
si  rimproverò  l'abbandono  della  posizione  ai  Quattro  Venti,  che 
rese  impossibile  ogni  resistenza  in  Palermo.  A  tal  proposito,  Ma- 
niscalco, giunto  a  Napoli  l' otto  giugno,  diceva  a  Gaetano  Filan- 
gieri che  l'abbandono  dei  Quattro  Venti,  da  parte  del  Cataldo 
con  quattromila  uomini,  senza  essere  stato  aggredito;  la  ostina- 
zione di  Von-Mechel  di  continuare  con  la  sua  colonna  la  marcia 
su  Corleone,  invece  di  girare  sopra  Misilmeri  e  piombare  addosso 
a  Garibaldi;  l'esitazione  di  questa  colonna  nell'attaccare,  di  ri- 
torno, Palermo  dalla  parte  meridionale,  nonché  l'abbandono  da 
parte  del  generale  Laudi  della  Gran  Guardia,  in  piazza  Bologni, 
erano  state  le  principali  cagioni  dell'avvenuto  disastro.  E  aggiun- 
geva :  "  rovinoso  fu  il  primo  armistizio,  ed  anche  più  il  secondo. 
La  mattina  del  primo  armistizio  gli  attacchi  di  Garibaldi  erano 
molto  rallentati,  perchè  egli  mancava  di  munizioni;  Palermo, 
durante  i  primi  armistizi,  si  fortificò,  costruendo  innumerevoli 
barricate  e  tutte  le  saettiere  aperte  nelle  case  ;  l' incertezza,  l'esi- 
tazione  di  Lanza  erano  tali  da  non  farsi  un'idea  „.^ 

II  Clary,  che  comandava  a  Catania,  aveva  discrete  qualità  mi- 
litari ;  era  blagueur^  non  quanto  Bosco,  ma  un  po'  gli  somigliava. 
Da  Catania  fu  mandato  a  Messina,  dopo  l' ingresso  di  Garibaldi  a 
Palermo  ;  e  da  Messina,  dopo  la  capitolazione,  fu  mandato  a  Na- 
poli; poi  segui  Francesco  LE  a  Roma,  generosamente,  non  aven- 
done pensione,  né  assegno.  Da  Roma,  venuto  in  sospetto  delle 
autorità  francesi,  fu  ricacciato  in  secondo  esilio  a  Civitavecchia. 
Mori  borbonico  impenitente,  convinto  che  la  causa  del  disastro 
era  dovuta  a]  tradimento  di  Nunziante  e  di  Pianell  principalmente, 
e  poi  di  tutti  gli  altri.  Egli  si  condusse  bene  a  Catania,  resistendo 
il  31  maggio  al  tentativo  di  rivoluzione  ;  ma  la  sua  condotta  a 
Messina  non  andò  immune  da  accuse.  Si  era  a  oltre  mezzo  giugno, 
e  la  Sicilia,  tranne  Messina,  Siracusa  e  Augusta,  ubbidiva  a  Ga- 
ribaldi.   A    Messina    il   Clary  formò   un  piano   arditissimo  per 


*  Archivio  Filangieri. 


-  323  — 

rioccupare  Palermo  e  Catania,  e  andò  a  proporlo  al  Re,  il  quale  era 
a  Portici.  Nell'anticamera  avvenne  una  ecena  molto  vivace 
tra  lui  e  il  vecchio  conte  Ludolf,  suocero  di  Pianell,  alla  quale 
presero  parte  Alessandro  Nunziante  e  Rodrigo  Afan  de  Rivera, 
i  quali,  col  Ludolf,  credevano  doversi  accordare  la  Costituzione, 
mentre  il  duca  di  Sangro  era  di  diverso  parere.  Il  piano  del 
Clary  fu  approvato  dal  Re,  ed  egli  ebbe  il  comando  di  tutte  le 
truppe  raccolte  a  Messina  ;  ma  quando  si  trattò  di  eseguirlo, 
prese  tempo,  affacciò  delle  difficoltà  e  non  se  ne  fece  nulla.  Il 
28  luglio  capitolò  con  Medici,  e  il  2  agosto  ebbe  a  Messina  un 
caratteristico  colloquio  con  Garibaldi,  che  fu  da  lui  riferito  in  un 
dispaccio  al  Re.  Garibaldi  gli  avrebbe  manifestate  in  quel  collo- 
quio le  seguenti  intenzioni  :  "  non  voler  fare  tregua  ;  esser  deciso 
che  l'Italia  dovesse  essere  una  ;  volersi  prima  disfare  del  Regno 
di  Napoli,  poi  attaccare  il  Papa,  e  dopo,  la  Venezia,  e  questa  li- 
berata, passare  a  riprendere  Nizza  dalla  Francia  ;  disfarsi  del  Re 
di  Napoli,  0  col  combatterlo  o  col  farselo  alleato,  e  con  esso  fare 
il  resto  ;  in  ogni  caso  il  Re  di  Napoli  non  dovrebbe  che,  o  restare 
sotto  Vittorio  Emanuele,  o  andarsene  „ .  *  Il  13  dello  stesso  mese,  il 
Clary  s' imbarcò  per  Napoli,  lasciando  il  comando  della  cittadella 
al  generale  Fergola.  I  suoi  rapporti  sono  interessanti  per  chi  vo- 
glia penetrar  meglio  i  fatti  di  quei  giorni,  e  spiegar  come,  oltre 
al  combattimento  di  Milazzo,  non  vi  fosse  più  alcuna  resistenza 
da  parte  delle  regie  truppe  in  Sicilia.  Giungendo  a  Napoli  il  14 
agosto,  sul  vapore  Maria  Teresa,  il  Clary  si  presentò  al  Pia- 
nell, ministro  della  guerra,  dal  quale  "  fu  ricevuto  con  molto 
sussiego,  e  si  senti  annunziare  che  la  patria  aveva  molto  a 
dolersi  di  lui  „ .  *  La  stessa  Cronaca  continua  :  "  Clary  chiede 
militarmente  un  consiglio  di  guerra  che  non  è  però  mai  con- 
vocato; il  colonnello  Anzani  gli  fa  sentire  che  non  può  essere 
ricevuto  in  avvenire  dal  Re.  Presenta  da  ultimo  i  documenti 
della  sua  gestione  contabile  negli  ufficii  del  ministero  della  guer- 
ra per  liquidare  un  credito  di  ducati  18000,  oltre  di  altri  ducati 
7  500  per  diverse  spese  „ .  ^ 

Dopo  tanti  anni,  sono  capitate  sotto  i  miei  occhi  alcune  let- 
tere inedite  del  generale  Clary,  datate  nel  1863  da  Civitavecchia, 


Cronaca,  pag.  233. 
Id.,  pag.  241. 


—  324  - 

dove,  cosi  egli  confessa,  i  francesi  lo  tenevano  prigioniero.  In 
una  narra  quel  che  avvenne  a  Catania,  dopo  il  31  maggio  ed  è 
bene  riferirla  : 

Dopo  la  vittoria  di  Catania  (31  maggio  1860)  venne  la  colonna  coman- 
data dal  signor  maresciallo  di  campo  Afan  de  Rivera,  la  quale  si  divise  in 
due  porzioni,  una  s'imbarcò  con  lui,  e  andiede  a  rafforzar  la  guarnigione 
di  Messina,  l'altra  rimase  con  me,  in  aumento  alle  mie  truppe.  La  mat- 
tina del  1"  giugno  1860  comparve  un  vapore  clie  portava  il  brigadiere  Ro- 
drigo Afan  de  Rivera  e  il  colonnello  Sponsilli,  i  quali  mi  ordinarono  di 
ritirarmi.  Risposi  che  non  potevo,  risposi  chiaramente  ed  impertinente- 
mente "  che  simile  disposizione  non  poteva  venire  che  da  nemici  del  Re  N.  S., 
"  che  alla  fine  de'  conti  Sua  Maestà  mi  avea  scritto  pochi  giorni  prima, 
"che  mi  fossi  sostenuto  fino  all'ultimo,,  e  ora,  dopo  un  esito  tanto 
felice,  io  non  credea  di  dover  ubbidire,  tanto  più  che  se  fossi  stato  scon- 
fìtto per  la  strada  (giacché  io  mi  disponevo  a  marciar  sopra  Palermo)  avrei 
ripiegato  o  a  Siracusa  o  a  Trapani.  Infine  non  volea  partire,  ecco  l'assunto. 
Soggiunsero  tutti  due  (Rodrigo  Afan  de  Rivera  e  Sponsilli)  —  Generale, 
•mettete  il  vostro  rifiuto  per  iscritto  —  Subito.  —  In  presenza  loro,  nella 
stanza  del  telegrafo  elettrico,  gli  scarabocchiai  un  solenne  rifiuto.  Parti- 
rono il  giorno  stesso  per  Siracusa  ed  Augusta.  Cosa  fossero  andati  a  fare 
non  lo  so;  ma  so  che  s'inquietarono  pure  con  il  maresciallo  Rodriguez  (che 
fu.  sbalzato  al  ritiro  pochi  giorni  dopo).  Ritornarono  a  Catania,  si  presero 
le  armi,  le  bandiere  ch'io  avea  prese  sul  nemico,  e  mi  dissero  che  un  di- 
spaccio loro  giunto  "  mi  metteva  in  istato  d'insubordinazione,  e  ch'io  do- 
"  veva  ritirarmi  sopra  Messina  subito  „.  Chiamai  tutti  gli  uflfiziali  Capi 
de'  Corpi  (tra  quali  vi  era  Sciaquariello  figlio  unico  di  Afan  de  Rivera  che 
comandava  la  batteria  di  obici  a  trascino)  e  loro  dissi  il  volere  dei  Re, 
che  que'  signori  erano  portatori.  Tutti,  eccetto  De  Biasio  capitano  d' arti- 
glieria, Gabriel  tenente  d' artiglieria,  due  capitani  de'  lancieri  e  cacciatori 
a  cavallo,  tutti  gli  altri  cominciarono  a  gridare  che  essendo  questa  la  in- 
tenzione del  Re,  essi  non  volevano  parer  ribelli.  Allora  dichiarai  alto  a 
Rodrigo  Ri  vera  e  Sponsilli  ch'io  intendeva  che  mi  mettessero  in  iscritto 
gli  ordini  sovrani.  Ciò  fecero,  e  conservo  questo  documento;  ma  sapete 
che  le  carte  non  sono  presso  di  me.    Presso  a  poco  eccolo: 

"  Signor  Generale, 
"É  volere  di  Sua  Maestà  il  Re  N.    S.   ch'Ella  con  tutte  le  truppe  di 
"  suo  comando,  ripieghi  sopra  Messina,  ove  riceverà  ulteriori  ordini. 

Il  Brigadiere  all'immediazione  di  S.  M.  il  Re 
firmato:  Rodrigo  Afan  db  Ri  vera  „. 

Nello  stesso  tempo  essendo  il  telegrafo  impedito,  mandai  dove  si  po- 
teva fare  un  segnale,  e  scrissi  a  Severino,  che  mi  rispose:  Eseguite. 

Sciacquariello,  ricordato  in  questa  lettera,  era  un  giovanetto 
diciottenne,  tenente  di  artiglieria  che  comandava  una  batteria  di 
obici   a   trascino,  e  aveva  avuto   dai   compagni  quel  nomignolo 


—  325  — 

per  il  vivace  e  festoso  ingegno,  l'agile  persona  e  la  graziosita  dei 
modi.  Si  era  distinto  il  31  maggio  a  Catania,  nella  sanguinosa 
repressione  di  quella  sommossa,  e  aveva  riportata  una  ferita  alla 
gamba  destra.  Tornato  a  Napoli  dopo  lo  sgombero  di  Catania, 
fu  promosso  capitano  di  stato  maggiore  e  divenne  aiutante  di 
campo  del  generale  Pianell,  ministro  della  guerra.  Più  tardi 
andò  a  Gaeta  dov'era  il  padre,  e  fece  il  dover  suo.  Figlio  unico 
del  brigadiere  Rodrigo  Afan  de  Rivera,  aveva  compiti  i  suoi  stu- 
dii  nel  collegio  militare.  Sciacquariello  si  chiamava  Achille, 
ed  oggi  è  deputato  di  Napoli,  luogotenente  generale  e  fu  mini- 
stro dei  lavori  pubblici  per  due  settimane. 

Quale  interesse  vi  era,  dunque,  perchè  fosse  abbandonata  Ca- 
tania alla  rivoluzione,  e  le  truppe  col  loro  comandante  si  riti- 
rassero a  Messina  ?  Nelle  altre  lettere  lo  stesso  Clary  chiama  do- 
lorosissimo il  ritiro  a  Messina  e  afferma  aver  poi  avuto  ordini  da 
Pianell  "  di  cedere  Messina  e  di  entrare  in  trattative  col  nemico, 
di  fargli  la  proposta  della  cessione  dell'  Isola  con  tutte  le  piazze 
forti,  purché  lasciasse  libero  il  continente  „ .  Dichiara  di  aver  dato 
solenni  rifiuti  a  questi  ordini,  aggiungendo  inoltre  di  avere  avuto 
direttamente  dal  Re  ordini  di  cedere  Siracusa  ed  Augusta,  e  di 
essere  andato  in  Napoli  per  impedirlo,  e  ne  fa  impedito  —  sono 
sue  parole  —  però  il  documento  sta  in  mano  mia,  e  non  esce» 
E  cosi  poi  conchiude  :  "  Pianell  non  ha  mai  scritto  di  andar  in 
"  soccorso  di  Bosco,  anzi  mi  toglieva  tutt'  i  mezzi  per  soccor- 
"rerlo.  Se  avesse  regolarmente  esternata  la  volontà  che  un 
"  soldato  doveva  esternare  per  l' onore  delle  armi  e  del  paese,  io 
"  avrei  pagata  cara  la  infamia  che  si  fece  compire  a  Milazzo  „ . 
Questa  lettera,  contiene  tutta  una  serie  di  recriminazioni  e  di 
spavalderie  ;  e  ciò  facilmente  si  spiega,  imperocché  il  Clary,  non 
vedendo  le  cose  che  sotto  il  prisma  di  Catania  e  di  Messina, 
perdeva  il  concetto  del  disastro  irreparabile,  che  si  andava  matu- 
rando. Le  lettere  di  lui  sono  sottoscritte  D'Artagnan,  e  datate 
tutte  da  Civitavecchia  nel  luglio  del  1863,  quando  il  De  Sivo  ap- 
parecchiava la  sua  celebre  storia.  Egli  ignorava  che  il  Pianell 
aveva  formato  tutto  un  piano  di  resistenza  sul  continente,  poiché 
in  quanto  alla  Sicilia,  così  egli  ohe  i  suoi  colleghi  del  ministero  e  il 
Re  erano  di  accordo  che  non  si  potesse  più  difenderla.  La  riusci- 
ta del  piano  del  ministro  della  guerra  esigeva,  come  condizione 
imprescindibile,  che  il  Re  si  mettesse  alla  testa  delle  truppe  ;  ma 


-  326  - 

non  fu  potuto  eseguire  per  le  incertezze  di  costui.  Achille  Afan 
de  Eivera,  aiutante  di  campo  del  generale  Pianell,  mi  afferma 
ch'egli  andò  tre  volte  a  fare  imbarcare  i  cavalli  del  ministro 
per  Pizzo  e  per  Sapri,  e  tre  volte  ordinò  che  fossero  sbarcati.  Le 
esitanze  del  Re  furono  caratteristiche  in  quei  giorni,  esitanze 
militari  e  politiche,  che  fecero  veramente  trionfare  la  rivoluzione 
da  Reggio  a  Napoli.  Certo  la  condotta  del  Pianell  si  presta  agli 
attacchi  dei  suoi  nemici  e  soprattutto  di  quelli  in  mala  fede.  Al 
Pianell  non  uomo  politico,  e  per  giunta  ministro  costituzionale, 
sfuggiva  il  solo  concetto  esatto,  che  per  rimediare  in  modo  conclu- 
dente a  quello  sfacelo,  bisognasse  far  fronte  indietro  :  ritogliere  la 
Costituzione,  rimandare  gli  esuli  fuori  del  Regno,  fucilare  Liborio 
Romano  e  far  marciare  il  Re  nelle  Calabrie  a  capo  dell'esercito. 
Altro  rimedio  non  era  possibile  per  salvare  il  Regno.  Ma  man- 
cava l'uomo,  mancava  il  principe,  e  non  si  sentiva  più  il  pungolo 
del  proprio  dovere,  soprattutto  dai  militari.  Tutti  concorrevano 
a  far  precipitare  le  cose  perchè  nessuno  mostrava  di  avere  più 
interesse  a  conservare  quell'ordine  politico.  L'edifìzio  crollava  da 
ogni  parte.  Il  Pianell  ha  lasciate  le  sue  Memorie,  con  ob- 
bligo che  non  dovessero  pubblicarsi  che  alla  morte  dei  suoi  coe- 
tanei, e  le  Memorie  sono  in  potere  della  vedova  di  lui,  tuttora 
vivente.  L'Afan  de  Rivera,  che  ha  conservato  per  il  Pianell 
sincero  affetto,  mi  dice  che  più  volte  egli  ha  fatto  vive  premure 
perchè  fossero  pubblicate,  ritenendo  che  la  condotta  del  gene- 
rale in  quei  tristi  giorni  ne  uscirebbe  pienamente  giustificata. 

L'esercito  e  la  marina  furono  rovinati,  è  vero,  dalla  Costitu- 
zione, che  scompigliò  ogni  vincolo  di  gerarchia,  ma  anche  da 
quello  spirito  d'indifferentismo,  di  tolleranza  e  di  falsa  pietà, 
radicato,  anzi  connaturato  all'  indole  meridionale.  Compatimen- 
to scambievole,  per  cui  era  attutito  il  senso  del  lecito  e  del- 
l' illecito,  potendo  la  pietà  per  le  persone  farne  perdonare  i  vizii, 
e  anche  le  colpe.  Se  poi  queste  persone  erano  in  conto  di  fedeli, 
allora  si  chiudevano  tutti  e  due  gli  occhi.  Indifferentismo  giu- 
stifìcataanohe  da  questo  :  dall'  opinione  divenuta  generale  che  il 
Regno  delle  Due  Sicilie  dovesse  scomparire  dalla  storia,  e  che 
perciò  non  valesse  la  pena  di  riscaldarsi  per  una  dinastia,  la  quale 
non  aveva  più  difensori,  ne  amici  in  Europa. 


-  327  - 

I  momenti  erano  di  una  difficoltà  eccezionale  ;  Cavour  lo  ca- 
pì da  principio  e  non  ebbe  pace.  Ordinò  al  Persane  di  andare  a 
Napoli  con  la  flotta,  e,  giunto  cb'ei  vi  fu,  la  presenza  dell'ar- 
mata sarda  accrebbe  l'ardire  degli  unitarii  e  degli  uomini  di  or- 
dine. Prima  ancora  del  Devincenzi,  del  Nisco  e  del  Nunziante, 
aveva  mandato  a  Napoli,  a  breve  distanza  l'uno  dall'altro,  Emilio 
Visconti  Venosta,  Q-iuseppe  Finzi,  Ignazio  Ribotty  e  Carlo  Mez- 
zacapo,  per  farli  cooperare  al  pronunciamento  militare  e  al  com- 
pimento della  rivoluzione  sul  continente  prima  dell'arrivo  di  Ga- 
ribaldi, e  prima  che  sorgessero  complicazioni  diplomatiche,  che 
egli  aveva  ben  motivo  di  temere.  Ma  il  pronunciamento,  che 
pareva  a  Cavour  il  solo  mezzo  per  giustificare  la  rivoluzione 
innanzi  all'Europa,  non  fu  possibile.  Quel  che  narra  il  Nisco, 
a  proposito  della  conversazione  che  ebbero  il  Devincenzi  e 
il  D'Afflitto  col  De  Sauget  ed  altri  ufficiali  superiori  nel  quar- 
tiere di  Pizzofalcone,  mi  è  confermato,  con  nuovi  partico- 
lari, dal  Devincenzi.  Sono  notevoli  le  gravi  parole,  con  le  quali 
il  vecchio  De  Sauget  pose  termine  al  colloquio  :  "  lui  e  i  suoi  coìr 
leghi,  ancor  che  il  volessero^  non  potrebbero  per  verun  modo  salvare 
l'esercito  napoletano.  Non  aver  da  gran  tempo  essi  più  alcuna  auto- 
rito,  sull'esercito;  non  essere  in  modo  alcuno  più  sentiti  i  loro  con- 
sigli ;  più  essi  erano  elevati  nei  gradi,  meno  erano  possenti;  poiché 
Valito  corrompitore  di  ogni  ordine  nello  Stato,  quello  della  polizia, 
s'era  introdotto  nell'esercito  ;  il  soldato  faceva  la  spia  al  caporale, 
il  caporale  al  sergente,  il  sergente  al  tenente,  questi  al  capitano  .... 
Spero,  soggiunse,  che  noi  siamo  andati  esenti  da  questa  tabe„. 

Emilio  Visconti  Venosta,  il  più  autorevole  degli  agenti  di 
Cavour  a  Napoli,  aveva  appena  trent'anni,  ma  rivelava  vecchia 
serietà  di  cospiratore.  Giunse  colà  pochi  giorni  dopo  la  promul- 
gazione dell'Atto  Sovrano,  prima  che  Garibaldi  sbarcasse  in 
Calabria  e  prima  della  battaglia  di  Milazzo.  Cavour,  che  mol- 
to l'apprezzava,  lo  mandò  a  chiamare,  e  nel  colloquio  seguito 
fra  loro,  alla  presenza  di  Farini,  ministro  dell'  interno,  gli  fece 
intendere  che  egli  aiutava  Garibaldi  ;  ma  nel  tempo  stesso  si 
preoccupava  dell'avvenire,  se  Garibaldi,  e  forse  con  lui  i  partiti 
estremi,  rimanessero  padroni  di  metà  dell'Italia,  e  più  ancora, 
se  n  movimento  italiano  sfuggisse  alla  direzione  del  governo  del 
E-e.     Egli  aggiunse  che  i  pericoli  maggiori  si  potevano  proba- 


—  328  — 

bilmente  prevenire,  se  Napoli,  prima  dell'arrivo  di  Garibaldi, 
avesse  fatta  la  sua  rivoluzione  in  nome  dell'unità  e  della  di- 
nastia nazionale,  rappresentata  laggiù,  come  altrove  in  Italia, 
dagli  elementi  temperati;  e  se  soprattutto  al  moto  popolare  si 
fosse  unito  il  moto  militare,  la  manifestazione  nazionale  del- 
l'esercito, come  era  avvenuto  a  Firenze.  Il  Cavour  era  persuaso 
esser  questo  l'unico  modo  per.  impedire  che  l'esercito  napoleta- 
no si  sfasciasse,  e  per  averlo,  come  una  forza  organizzata  e 
pronta  nel*  caso,  allora  non  improbabile,  che  l'Austria  attac- 
casse. E  perciò  incaricava  il  Visconti  Venosta  di  andare  a 
Napoli,  per  indagare  se  questo  piano  avesse  probabilità  di  riu- 
scita, e   per  informarlo  del  vero  stato  delle  cose. 

Emilio  Visconti  giunse  a  Napoli  con  Cario  Mezzacapo,  colon- 
nello di  stato  maggiore  nell'esercito  dell'Italia  del  nord,  ed  oggi 
generale  e  senatore.  Il  Mezzacapo  aveva  da  Cavour  la  missione 
speciale,  come  napoletano,  di  valersi  delle  sue  numerose  relazioni 
tra  gli  antichi  compagni  d'armi,  per  penetrarne  le  intenzioni  e  in- 
durli a  riconoscere  la  necessità  di  salvare  l'esercito,  facendolo  di- 
chiarare per  l'unità  nazionale.  Alcuni  giorni  dopo,  inviato  pure  da 
Cavour,  giunse  Giuseppe  Finzi,  uomo  di  azione  e  con  propositi  de- 
liberati ad  agire.  Egli  prese  alloggio  all'albergo  di  Roma,  dov'era 
Visconti,  ed  entrambi  procedevano  d'accordo  col  Comitato  del- 
l'Ordine, Pochi  giorni  appresso  arrivò  mandato  pure  da  Ca- 
vour, il  generale  Ignazio  Ribotty,  già  capo  militare  dell'  infelice 
rivoluzione  calabrese  nel  1848,  e  poi  prigioniero  per  alcuni  anni 
nelle   carceri  di  Sant'Elmo. 

Tutto  questo  armeggio,  quasi  alla  luce  del  sole,  non  poteva 
sfuggire  al  ministero,  e  il  ministro  De  Martino  mandò  a  dire  al 
Visconti,  confidenzialmente,  che  lasciasse  Napoli,  non  volendo 
il  governo  sentirsi  costretto  a  farlo  arrestare.  Rispose  il  Visconti 
che  egli  era  un  deputato,  e  l'arresto  di  un  membro  del  Parla- 
mento avrebbe  offerta  al  conte  di  Cavour  una  favorevole  occasio- 
ne diplomatica.  Egli  non  ebbe  più  molestie,  e  non  ne  ebbero  il 
Finzi,  il  Ribotty  ed  il  Mezzacapo  ;  anzi  tutti  seguitarono  a  co- 
spirare sotto  gli  occhi  del  Re,  benché  il  fine  vero  della  cospi- 
razione non  fosse  raggiunto,  per  la  decisa  opposizione  del  Pianell 
a  permettere  il  pronunciamento. 

Nelle  relazioni,  che  Visconti  Venosta  mandava  a  Cavour,  sin 


-  329  - 

dal  principio  scrisse,  che  il  timore  manifestato  da  taluni  esuli 
napoletani  a  Torino,  che  l'annuncio  della  Costituzione  e  della 
lega  col  Piemonte  avrebbe  fatto  sorgere  un  partito  municipale, 
non  esisteva;  che  l'opinione  pubblica  a  Napoli  era,  nella  gran- 
dissima maggioranza,  dominata  da  una  forte  corrente  unitaria  e 
annessionista,  ma  che  nel  tempo  stesso  gli  pareva  poco  probabile 
una  rivoluzione  a  Napoli,  perchè  i  liberali  più  avanzati  preferivano 
aspettare  Garibaldi  ;  e  i  moderati  temevano,  tentando  un  moto 
insurrezionale,  che  si  ripetesse  il  15  maggio.  E  neppure  na- 
scondeva, sebbene  non  sconsigliasse  di  tentarlo,  che  a  Napoli 
nulla  si  sarebbe  concluso  per  iniziativa  militare.  Piuttosto  con- 
sigliava, come  mezzo  più  pratico  e  sicuro,  di  promuovere  l'in- 
surrezione nelle  provinole,  singolarmente  in  Calabria  e  in  Basi- 
licata, per  effetto  della  quale  Garibaldi,  giungendo  sul  continente, 
avrebbe  trovata  la   rivoluzione   compiuta,   o  quasi  compiuta. 

Giuseppe  Finzi,  al  contrario,  con  l'energia  e  la  tenacia  del  suo 
carattere,  volle  esaurire  tutti  i  tentativi  e  tutt'  i  mezzi  per 
vedere  se  un  moto  popolare  a  Napoli  fosse  possibile.  Ma  non 
tardò  a  convincersi  che  non  lo  era,  se  non  associandolo  ad  un 
moto  militare,  ed  in  questo  caso,  il  solo  corpo  dell'esercito,  che 
mostrasse  qualche  spirito  di  nazionalità,  era  quello  dei  cacciatori, 
e  il  solo  uomo,  il  quale  potesse  avere  su  di  esso  un'influenza, 
credeva  fosse  il  Nunziante,  già  partito  da  Napoli  quando  Finzi  vi 
giunse.  E  furono  le  lettere  del  Finzi,  che  determinarono  l' in- 
vito fatto  da  Cavour  al  Nunziante,  ch'era  nella  Svizzera,  di  tor- 
nare a  Napoli  per  promuovervi  un  moto  militare. 

Il  Ribotty  poi  aveva  ideato  lo  strano  progetto  di  impadro- 
nirsi, da  solo,  di  Castel  Sant'Elmo,  con  la  complicità  di  taluni 
tra  gli  ufìSciali  del  forte.  A  tal  fine  si  recava  di  notte  lassù,  e 
aveva  abboccamenti  con  gli  ufficiali,  i  quali,  strano  sintomo  della 
condizione  morale  dell'esercito,  consentivano  a  parlare  con  lui 
della  proposta,  pur  non  sapendo  risolversi  a  nulla.  Finalmente, 
il  2  agosto,  con  Gioacchino  Saluzzo,  principe  di  Lequile,  si  recò 
dal  maggiore  Gennaro  de  Marco,  comandante  del  forte,  e  a  nome 
di  Cavour,  gli  propose  a  bruciapelo  di  cedere  il  castello  alla  guar- 
dia nazionale,  che  vi  avrebbe  inalberata  la  bandiera  tricolore, 
prima  che  Garibaldi  entrasse  a  Napoli.  Offriva  in  compenso  al 
De  Marco  il  grado  di  colonnello,  ma  il  fiero  ufficialerispose  :  "  L'o- 
nore, di  un  soldato  non  si  compra;  prima  di  essere  soldato  io  fui 


—  330  - 

cittadino,  quindi  giuro  sul  mio  onore,  che  a  costo  della  vita  non 
mi  opporrò  mai  al  movimento  nazionale  „. 

L'unica  azione  veramente  efficace,  esercitata  dai  mandatari! 
del  conte  di  Cavour,  fu  quella  consigliata  da  principio  dal  Viscon- 
ti Venosta:  promuovere  l'insurrezione  nelle  provincie,  intendersi 
coi  capi  e  inviare  armi.  Negli  ultimi  giorni  però,  dopo  lo  sban- 
damento delle  truppe  regie  in  Calabria,  e  quando  il  governo 
perdeva  sempre  più  forza  e  prestigio,  si  pensò  di  tentare  una  ma- 
nifestazione allo  scopo  di  dare  il  tratto  alla  bilancia  :  far  partire 
il  Re  e  nominare  un  governo  provvisorio,  sotto  gli  auspicii  di 
Vittorio  Emanuele.  Ma  era  tardi.  Il  conte  di  Cavour,  con 
un  dispaccio  al  Persane,  fece  sapere  che  un'azione  diversa  e  di- 
stinta da  quella  di  Garibaldi  sarebbe  stata,  al  punto  a  cui  eran 
giunte  le  cose,  senza  effetto  e  capace  forse  di  far  sorger  qualche 
grave  discordia.  Il  conte  aveva  preso  il  suo  partito  e  decisa  la 
spedizione  nelle  Marche  e  nell'  Umbria.  Si  era  ai  primi  di  set- 
tembre. Ho  voluta  riassumere  qui  l' opera  di  Cavour  a  Napoli, 
perchè  meglio  si  possa  giudicarla  nel  suo  complesso,  e  perchè 
nessuno  ne  ha  scritto  finora  con  esattezza,  e^assai  meno  il  Persano. 
Devo  all'amicizia  di  Emilio  Visconti  Venosta  se  ho  potuto  farlo 
con  esattezza  e  precisione. 

E  devo  egualmente  all'amicizia  di  Niccola  Schiavoni  un  al- 
tro particolare,  che  rivela  ancora  di  più  l'inquietudine  febbrile 
di  Cavour  in  quei  giorni.  Non  contento  di  aver  mandato  a  Na- 
poli il  Visconti  Venosta,  il  Finzi,  il  Ribotty,  il  Mezzacapo,  il 
Nisco,  il  Devincenzi,  il  Nunziante,  egli  non  era  punto  tranquillo 
circa  gli  avvenimenti,  che  con  tanta  rapidità  si  succedevano  nelle 
Provincie  meridionali.  Sapendo  da  Poerio  e  da  Massari  che  il  loro 
amico  Niccola  Schiavoni,  reduce  da  Londra,  doveva  recarsi  a  Na- 
poli, li  pregò  di  fargli  sapere  che  desiderava  vederlo.  Schiavoni, 
giunto  a  Genova,  trovò  una  lettera  di  Poerio  che  lo  chiamava  in 
fretta  a  Torino.  Vi  giunse  e  trovò  Massari  che  l'aspettava  alla 
stazione,  e  lo  condusse  da  Poerio.  Tutti  e  tre  andarono  dal 
ministro  a  casa,  e  trovatolo  che  andava  a  pranzo,  vi  furono  da 
lui  invitati.  Diede  poscia  allo  Schiavoni  una  lettera  scritta  tutta 
di  suo  pugno,  e  diretta  al  Devincenzi,  raccomandando  allo  Schia- 
voni stesso  di  partir  subito  e  consegnarla  al  destinatario,  dopo 
che  di  essa  gli  ebbe  per  sommi  capi  riferito  il  contenuto,  ch'era 


-  331  - 

questo  :  tentare  ogni  via  per  ottenere  un  pronunciamento  militare, 
per  cui  Garibaldi  trovasse  compiuta  le  rivoluizione  al  suo  arrivo  in 
Napoli.  Schiavoni  parti  subito  ;  giunse  a  Napoli  negli  ultimi  giorni 
di  agosto,  consegnò  a  Devincenzi  la  lettera  di  Cavour  ;  insieme 
andarono  da  Villamarina,  ma  questi  rispose  loro:  troppo  tardi! 
Si  era  difatti  al  2  settembre  e  le  cose  precipitavano  con  una 
rapidità  spaventosa.  Garibaldi  già  marciava  su  Napoli,  senza 
ormai  trovare  più  alcuna  resistenza  nel  suo  cammino. 


CAPITOLO  XVI 


SoMMABio:  L' insnrrezione  nello  provincie  —  Il  Comitato  di  Basilicata  —  Gl'in- 
sorti a  Potenza  e  l'intendente  Nitti  —  Documenti  inediti  e  postume  rive- 
lazioni —  Il  Comitato  di  Cosenza  —  Discorso  di  Donato  Morelli  —  Il  Co- 
mitato di  Terra  di  Bari  —  Strano  tipo  di  Sottointendente  —  Movimenti 
in  Abruzzo  —  GÌ'  insorti  d'Avellino  e  la  reazione  di  Ariano  —  La  legione 
del  Matese  —  Il  Comitato  di  Benevento  —  Il  decreto  che  dichiara  decaduto  il 
governo  temporale  del  Papa  —  Aneddoti  —  Il  clero  rivoluzionario  —  Bap- 
porti  di  intendenti  e  sottointendenti  —  Relazioni  del  comandante  di  Alta- 
mura,  dell'  intendente  di  Lecce  e  del  sottointendente  di  Vallo  —  Garibaldi 
in  Calabria  —  La  presa  di  Seggio  —  Un  biglietto  caratteristico  —  La  morte 
del  colonnello  Dusmet  —  Inazione  di  Vial,  di  Briganti  e  di  Melendez  — 
Vial  in  casa  Gagliardi  —  Leggerezze  e  volgarità  —  Un  motto  di  De  Sauget 
—  Giovani  ufficiali  che  disertano  e  partono  per  il  Piemonte  —  I  capi  delle 
bande  insurrezionali  —  La  marcia  di  Garibaldi  —  Lo  sbandamento  di  So- 
veria  e  il  telegramma  d'Acrifoglio  —  Il  generale  Flores  in  Puglia  —  Sua 
marcia  avventurosa  per  Napoli  e  suo  arresto  a  Grottaminarda  —  Disordini 
e  confusione  —  Il  governo  perde  la  testa  —  Il  Consiglio  di  Stato  del  25 
agosto  —  Gravi  parole  di  Antonio  Spinelli  e  di  Carrascosa  — Le  incertez- 
ze del  He  e  dei  ministri  —  Maria  Sofia  —  Si  respinge  l'offerta  di  Girolamo 
UUoa  —  Precedenti  dubbii  di  questo  generale  —  Le  dimissioni  del  ministe- 
ro —  Tentativi  per  formarne  un  altro  —  Nessuno  accetta  —  Pianell  e  Ischi- 
tella  —  Pianell  lascia  Napoli  —  Don  Liborio  Bomano  e  il  suo  "  memoran- 
dum n  —  L'opera  sua  — •  Fu  un  traditore? 

Prima  ancora  che  Q-aribaldi  e  Bixio,  nella  notte  sopra  il  20 
agosto,  sbarcassero  a  Melito  ;  e  Cosenz  e  Assanti,  all'  alba  del  22 
sbarcassero  a  Favazzina,  tra  Scilla  e  Bagnara,  la  rivoluzione  era 
matura  nelle  popolazioni  calabresi  e  lucane.  Il  Comitato  insur- 
rezionale di  Basilicata,  il  quale  aveva  sede  a  Corleto,  giunti  ohe 
furono  colà  Boldoni,  Albini,  Mignogna  e  Lacava,  proclamò,  la  sera 
del  16  agosto,  in  casa  Senise,  la  rivoluzione,  al  grido  di  Garibaldi 
dittatore,  Italia  e  Vittorio  Emanuele  ;  affidò  il  comando  delle  forze 


—  334  - 

insurrezionali  al  Boldoni  e  nominò  capo  dello  stato  maggiore  Car- 
mine Senise,  oggi  senatore  e  già  prefetto  di  Napoli.  Da  casa 
Senise  usci  il  drappello  rivoluzionario,  preceduto  dalla  bandiera 
tricolore,  con  la  croce  di  Savoia  che  le  signorine  di  quella  famiglia 
avevano  cucita  con  le  loro  mani.  Anima  della  insurrezione  era 
Giacinto  Albini  di  Montemurro,  il  quale,  intermediario  tra  il 
Comitato  dell'  Ordine  e  i  non  molti  patriotti  della  provincia,  era 
stato  con  suo  fratello  Niccola,  Carmine  Senise,  dianzi  ricordato, 
e  Pietro  Lacava,  a  capo  della  decennale  cospirazione.  Il  Comi- 
tato di  Corleto,  del  quale  faceva  parte  anche  Domenico  de  Pietro, 
aveva  larghe  diramazioni  in  tutta  la  provincia  ;  avendo  fino  dal- 
l'anno  innanzi  istituito  de'  sottocomitati  rivoluzionarii,  con  uno 
o  più  capi.  A  Miglionico  e'  era  Giovan  Battista  Matera  ;  a  Mon- 
tescaglioso,  Francesco  Lence  ;  a  Saponara,  Giulio  Giliberti  ;  a 
Potenza,  Orazio  Petruccelli,  Cammillo  Motta  e  il  prete  Rocco 
Brienza  ;  a  Pietragalla,  Saverio  de  Bonis  ;  ad  Avigliano,  Niccola 
Mancusi;  a  Genzano,  Federico  Mennuni;  a  Rotonda,  Berardino 
Fasanella  ;  a  Saponara,  il  padre  Serafino  da  Centola  ;  a  Castelsara- 
ceno,  il  padre  Giuseppe  da  Canfora.  Di  tutti  i  componenti  non 
ricordo  i  nomi,  ma  sono  esattamente  registrati  nella  Cronistoria  di 
Michele  Lacava,  miniera  ricchissima  di  documenti  di  quel  tempo,  e 
nel  libro  del  Racioppi  sui  moti  di  Basilicata.  E  dicasi  altrettanto 
di  parecchie  altre  provincie  del  continente,  nelle  quali,  dove  più, 
dove  meno,  esistevano  Comitati  dell'Ordine,  che  contavano  affiliati 
tra  le  diverse  classi  dei  cittadini,  principalmente  nella  borghesia 
agiata.  I  comandanti  delle  guardie  nazionali  vi  erano  ascritti, 
generalmente  ;  e  ascritti,  quasi  tutti  gli  studenti,  e  quanti  erano 
giovani  dai  sedici  ai  trenta  anni;  né  mancavano  preti,  frati  e 
seminaristi  ;  ed  in  tutti  era  una  gara  nel  raccogliere  danaro  e 
armi,  e  nell'apparecchiarsi  a  insorgere. 

Il  primo  drappello  d'insorti,  giunto  a  Corleto,  fu  quello  di 
Pietrapertosa,  comandato  da  Francesco  Garaguso.  Era  partito 
tra  canti  e  suoni,  e  il  giovane  Michele  Torraca  ne  salutò  la  par- 
tenza declamando,  vestito  da  seminarista,  sulla  piazza  del  suo 
borgo  alpestre,  una  poesia  patriottica.  Un'altra  colonna  d'in- 
sorti si  concentrava  a  Genzano,  sotto  il  comando  di  Davide  Men- 
nuni e  un'altra  ad  Avigliano  sotto  il  comando  di  Niccola  Man- 
cusi, prete.     La  colonna  di  Genzano,  oltre   ai  genzanesi,  racco- 


-  335  — 

glieva  gì'  insorti  di  Forenza,  Acerenza,  Mascheto,  Palmira  e  Spi- 
nazzola  :  in  tutto,  286  uomini,  dei  quali  trenta  erano  spinazzolesi, 
giunti  a  Genzano  la  sera  del  17  agosto,  sotto  il  comando  di  Vin- 
cenzo Agostinacchio.  La  colonna  di  Avigliano  raccoglieva  volon- 
tari di  Avigliano,  Ruoti  e  Rionero.  Col  capitano  Castagna,  che 
comandava  i  quattrocento  gendarmi  della  provincia,  da  lui  raccol- 
ti a  Potenza,  dove  il  12  agosto  era  giunto  il  nuovo  intendente  Ca- 
taldo Nitti,  avevano  iniziate  pratiche  per  una  capitolazione  Gio- 
vanni Giura  ed  Emilio  Petruccelli,  ufficiali  della  guardia  nazio- 
nale. Il  Castagna  aveva  loro  risposto  :  "  Io  non  deporrò  le  armi  ; 
"  se  gli  insorti  saranno  in  tal  numero,  che  io  non  possa  affrontarli 
"  con  la  certezza  di  batterli  e  disperderli,  mi  ritirerò  ;  ma  in  caso 
"opposto  li  attaccherò,  essendo  questo  il  mio  dovere;  in  ogni 
"caso  risparmierò  la  città  „.  Gl'insorti,  dei  quali  parlava  il  Ca- 
stagna e  che  si  riteneva  sarebbero  i  primi  arrivati  a  Potenza,  la 
mattina  del  18,  dalla  parte  opposta  a  quella  donde  si  attendevano 
gì'  insorti  di  Corleto,  erano  le  colonne  del  Mennuni  e  del  Mancusi. 
Il  Castagna  era  dunque  sull'avviso  da  parecchi  giorni  ;  e 
poiché  correvano  voci  inquietanti  per  la  città,  e  da  un  mo- 
mento all'altro  si  attendevano  gì'  insorti,  si  era  dapprima  rifiu- 
tato all'  invito  del  procuratore  generale,  Michelangelo  de  Cesare, 
oggi  senatore  del  Regno,  di  mandare  a  Matera  dei  gendarmi  per 
ristabilirvi  l'ordine,  dopo  la  carneficina  dell'otto  agosto.  E  fu  solo 
più  tardi,  che  pentito  del  rifiuto,  e  spinto  da  nuove  insistenze,  del 
De  Cesare,  ne  spedi  una  quarantina  con  un  tenente.  E  fu  provvi- 
denziale, perchè  pochi  giorni  dopo,  in  quella  città,  dove  era  rimasto 
il  vecchio  sottointendente  Frisicchio,  si  fu  a  un  punto  di  veder 
rinnovate  le  scene  di  sangue,  potute  evitare  anche  mercè  l'o- 
pera del  ricevitore  distrettuale,  barone  De  Flugy,  giovane  ele- 
gante e  animoso,  il  quale  corse  dal  sottointendente  e  chiamò  re- 
sponsabili lui  e  1'  ufficiale  dei  gendarmi  di  quanto  poteva  acca- 
dere. Né  il  Frisicchio  né  1'  ufficiale  erano  disposti  a  far  nulla,  e 
probabilmente  una  seconda  carneficina  avrebbe  insanguinata  Ma- 
tera ;  ma  le  coraggiose  parole  del  De  Flugy  indussero  quei  due 
a  disporre  che  i  gendarmi,  divisi  in  drappelli,  sciogliessero  i 
gruppi  di  contadini  minacciosi  e,  arrestandone  alcuni,  riuscissero 
a  mantenere  l'ordine.  Il  De  Flugy,  figliuolo  del  generale,  vive 
tuttora,  ed.  è  il  padre  Romarico  de  Flugy  d'Aspermont,  abate  ge- 
nerale  della  Congregazione  Cassinese  della  primitiva  osservanza. 


—  336  — 

Le  colonne  del  Mennuni  e  del  Mancusi  marciarono  su  Potenza 
la  sera  del  17  e  accamparono  a  poca  distanza  dalla  città.  La  matti- 
na del  18,  il  Castagna  raccolse  i  suoi  gendarmi  sulla  spianata  di 
San  Rocco,  per  andar  loro  incontro  o  per  eseguire  una  ricognizio- 
ne innocente,  come  disse.  I  cittadini  di  Potenza  credettero  inyeee 
che  si  allontanasse  per  non  tornarvi  più.  Ma,  dopo  poco  tempo, 
ecco  che  i  gendarmi  inopinatamente  rientrano  in  città  in  attitudine 
minacciosa,  fanno  fuoco  sui  cittadini,  che  erano  corsi  alle  armi, 
ammazzano  una  diecina  di  persone  e  poi  se  la  battono  verso  Pi- 
gnola, Tito  e  Picerno,  dove  furono,  di  mano  in  mano,  disar- 
mati da  poche  guardie  nazionali  di  Tito,  comandate  dall'  intre- 
pido Ulisse  Caldani,  una  delle  più  simpatiche  e  generose  figure 
di  quel  periodo.  Molto  verosimilmente  il  Castagna,  viste  dalle 
alture  di  San  Rocco  le  bande  accampate,  comandò  l'occupazione 
della  città  e  del  quartiere  della  guardia  nazionale  ;  altrimenti 
la  sua  mossa  non  avrebbe  spiegazione.  Ma,  incontrata  l' impre- 
veduta resistenza  in  città,  e  temendo  di  trovarsi  fra  due  fuochi, 
ordinò  la  ritirata,  che  in  breve  divenne  sbandamento.  Avevano 
appena  i  gendarmi  lasciata  la  città,  erano  le  dieci  antimeridiane, 
che  i  liberali  di  Potenza  mandarono  Giovanni  Corrado  e  Rocco 
Brienza  a  chiamare  gì'  insorti,  i  quali  non  si  fecero  attendere. 
Entrò  prima  la  colonna  di  Genzano,  poi  quella  di  Avigliano  ;  e 
verso  sera,  gì'  insorti  di  Corleto,  con  Boldoni,  Senise  e  Mignogna. 

L' intendente  Nitti  convocò  tutte  le  autorità,  per  consigliarsi 
sui  provvedimenti  da  prendere.  E  di  quell'adunanza  ecco  il 
verbale,  redatto,  dal  sottointendente,  che  fungeva  da  segretario, 
Raffaele  Ajello  :  documento  caratteristico  che  vede  qui  la  luce 
per  la  prima  volta  : 

Noi  Cataldo  Nitti,  intendente  della  provincia  di  Basilicata,  abbiamo 
fatto  venire  alla  nostra  presenza  i  signori  don  Luigi  Cioffi,  maggiore  fun- 
zionante da  comandante  le  armi  nella  provincia  pel  titolare  infermo;  don 
Raffaele  d'Agnese,  presidente  della  Gran  Corte  criminale;  don  Francesco 
Guidi,  presidente  del  Tribunale  civile;  don  Miclielangelo  de  Cesare,  procu- 
ratore generale  funzionante  ;  don  Raffaele  Piscione,  regio  procuratore  fun- 
zionante; i  giudici  criminali:  don  Giuseppe  Martino,  don  Michelangelo  Du- 
rante, don  Giuseppe  Altobelli  e  don  Leopoldo  de  Luca;  il  giudice  civile 
don  Francesco  Barone;  il  giudice  regio  don  Luigi  Scorza,  il  supplente  don 
Giovanni  Andrea  Bononati  ;  il  sindaco  don  Luigi  Lavanga  ;  il  commissario 
di  polizia  don  Giovanni  Pepe,  ed  i  signori  don  Raffaele  Ajello,  sottointen- 
dente destinato  a  consigliere,  don  Francesco  Berni  e  don  Carmine  Monte- 
sano,  consiglieri;  ed  abbiamo  loro  fatta  la  seguente  proposta: 


-  337  — 
Signori  ! 

La  condizione  attuale  della  Provincia  è  pur  troppo  nota  alle  SS.  W., 
perchè  i  gravissimi  fatti  che  la  costituiscono  in  questo  stato,  si  sono  com- 
piuti, e  si  compiono  tuttavia  sotto  gli  occhi  di  tutti. 

I  contingenti  di  uomini  armati,  che  da  tutt'  i  Comuni  della  Provincia 
son  qui  arrivati,  e  che  per  diverse  direzioni  si  spingono  innanzi,  indicano 
abbastanza  qual'è  lo  spirito  di  essa,  e  lo  dichiarano  vieppiù  i  sanguinosi 
fatti,  che  nella  giornata  di  ieri  si  sono  in  questa  città  compiuti. 

I  capi  di  questo  movimento  si  sono  a  me  presentati  questa  mane,  e 
mi  hanno  dichiarato  ch'essi  sono  risoluti  ad  assumere  il  governo  provviso- 
rio della  Provincia,  per  attuarlo  secondo  i  loro  principii,  ed  allontanare  i 
mali  dell'anarchia. 

Obbligato  a  rispondere  nel  più  breve  termine,  ho  creduto  mio  dovere 
convocare  le  SS.  W.,  onde;  manifestarvi  che  non  essendovi  come  conservare 
lo  stato  normale  che  perdurò  sino  a  ieri  mattina,  sorge  la  necessità  di  de- 
porsi da  noi  intendente  i  nostri  poteri. 

GÌ'  intervenuti  tutti  convengono  che  lo  stato  di  questa  città  e  della  Pro- 
vincia è  quale  si  è  (prospettato  dal  signor  intendente,  e  stimano  che  nel- 
l'attualità ogni  opposizione  non  farebbe  che  richiamare  maggiori  mali,  e 
compromettere  la  pubblica  tranquillità. 

firmato:  Cataldo  Nitti. 

Seguono  le  altre  firme.  Una  copia  conforme  all'  originale  fu 
sottoscritta  dal  segretario  sottointendente  Ajello. 

La  notte  del  18  agosto,  in  casa  Viggiani  fu  costituito  il  go- 
verno prodittatoriale.  Si  pensò  prima  di  formare  un  governo 
provvisorio  di  cinque  persone,  del  quale  avrebbero  fatto  parte 
Giacinto  Albini,  Niccola  Mignogna,  Cammillo  Boldoni  e  Carmine 
Senise;  ma,  essendo  insorte  difficoltà  per  la  scelta  del  quinto 
nome,  si  addivenne  alla  prodittatura,  e  Boldoni  e  Senise  ebbero 
il  comando  militare. 

La  mattina  del  19,  fii  proclamato  difatti  il  governo  prodit- 
tatoriale con  Albini  e  Mignogna  prodittatori,  e  Boldoni  coman- 
dante in  capo  delle  forze  insurrezionali.  Fu  anche  fondato  un 
giornale  ufficiale,  che  si  chiamò  II  Corriere  lucano.  L' inten- 
dente, invitato  a  prender  parte  al  nuovo  governo,  dignitosamente 
rifiutò  ;  e,  non  riconoscendo  altra  autorità  legittimamente  costi- 
.tuita,  che  quella  del  municipio,  ad  esso  rimise  il  governo  della 
città.  Come  a  Napoli  pervenne  la  notizia  dei  fatti  di  Basilicata. 
il  ministero  ordinò  al  sesto  reggimento  di  linea,  di  stanza  a  Sa- 
lerno, di  muovere  immediatamente  per  Potenza  a  combattere 
r  insurrezione.     Era  un  reggimento  estero,  formato  in  gran  parte 

De  Cxsabe,  La  fina  di  un  Regno  •  Voi.  II.  fiB 


—   338  — 

da  bavaresi.  Parti  infatti  ;  ma,  giunto  ad  Auletta,  fu  richiamato, 
olii  disse  per  riunirlo  alle  forze  che  si  concentravano  a  Salerno, 
e  chi  affermò,  per  effetto  di  una  lettera  dell'Albini  a  Liborio  Ro- 
mano. La  verità  è,  che,  giunta  la  notizia  che  il  reggimento 
era  in  marcia  su  Potenza,  fu  grande  la  commozione  nella  città, 
prevedendosi  un  eccidio  e  forse  la  fine  dell'  insurrezione,  la  quale 
disponeva  di  vecchie  armi  e  di  non  molti  armati.  Il  governo  pro- 
dittatoriale fece  quindi  partire  per  Napoli,  nella  notte  dal  20 
al  21,  Pietro  Lacava,  dando  a  lui,  non  una  lettera,  come  si  disse, 
ma  la  copia  degli  atti  dell'  insurrezione  che  il  Lacava  nascose 
in  fondo  alla  vettura.  E  parti.  Giunto  in  Auletta,  si  trovò  in 
mezzo  ai  soldati  bavaresi,  che  lo  avrebbero  fucilato,  se  fosse  stata 
perquisita  la  carrozza.  Lo  salvò  un  vecchio  prete  chiamato  Cag- 
giano,  il  quale  die  a  credere  agli  ufficiali  che  quel  giovane  era 
figliuolo  del  giudice  Baccicalupi,  destituito  dal  governo  insurre- 
zionale. E  fu  cosi  che  il  Lacava  passò.  Giunto  a  Napoli,  andò 
subito  da  don  Liborio,  a  casa,  e  gli  espose  la  gravità  della  si- 
tuazione e  tutt'  i  pericoli  di  un  eccidio,  perchè  il  governo  in- 
surrezionale disponeva,  come  fece  intendergli,  di  molte  forze, 
e  aveva  il  favore  delle  popolazioni  di  tutta  la  provincia.  Don 
Liborio  però  non  rispose  e  non  promise  nulla.  Lacava  non  mancò 
d' informare  di  tutto  anche  i  due  Comitati,  invocando  il  loro  con- 
corso per  scongiurare  il  pericolo  che  correva  la  rivoluzione. 

Intanto  le  forze  insurrezionali  si  erano  concentrate  a  Vietri 
di  Potenza,  a  poca  distanza  da  Auletta,  ed  avendo  il  colon- 
nello Boldoni  deciso  l'attacco  delle  truppe  borboniche  per  la 
notte  dal  22  al  23  agosto,  queste  abbandonarono  precipitosa- 
mente il  campo  e  si  misero  in  ritirata  verso  Salerno.  Il  23,  la 
cavalleria  insurrezionale  che  le  insegui,  potè  solo  impadronirsi 
di  molti  carri  della  retroguardia,  con  vettovaglie  e  foraggi.  Due 
giorni  dopo  furono  richiamati  da  Eboli  due  reggimenti  bavaresi, 
che  vi  avevano  formato  una  specie  di  campo  trincerato,  e  così 
rimase  libero  il  passo  alla  rivoluzione  fino  a  Salerno.  Questa  si 
allargò  in  tutta  la  Basilicata  e  si  estese  nella  vicina  provin- 
cia di  Avellino,  senz'altre  difficoltà.  Il  traffico  ordinario  per 
quei  luoghi  era  aperto  e  continuato,  e  senza  veri  pericoli,  no- 
nostante l'accampamento  dei  soldati  borbonici.  Da  Napoli  vi 
andavano  ogni  giorno  volontarii  e  gente  d'ogni  colore,  e  a  Napoli 


-  339  - 

si  accedeva  liberamente,  senza  subire  arbitrii  polizieschi  né  sor- 
veglianza di  sorta. 

A  Cosenza,  il  Comitato  rivoluzionario,  composto  da  Donato 
Morelli,  Pietro  e  Carlo  Compagna,  Francesco  Guzolini  e  Dome- 
nico Frugiuele,  era  divenuto  governo  di  fatto.  Intestava  i  suoi 
decreti  :  Italia  e  Vittorio  Emanuele,  faceva  dai  Comuni  della  pro- 
vincia proclamare  decaduta  la  dinastia,  mentre  a  Cosenza  erano 
tremila  uomini  di  guarnigione,  comandati  dal  brigadiere  Cal- 
darelli.  L' intendente  Giliberti,  vecchio  liberale,  repugnando  da 
misure  di  rigore,  mandò  le  sue  dimissioni  il  22  agosto,  e  il  mu- 
nicipio, a  titolo  di  onore,  gli  conferiva  la  cittadinanza  cosentina. 
La  sera  del  25,  lui  presente,  e  presenti  due  colonnelli  della 
guarnigione,  il  Comitato  insurrezionale,  seguito  da  una  folla  di 
rivoluzionarli  e  di  gridatori,  si  riunì  nell'Intendenza,  dove  Do- 
nato Morelli,  dopo  aver  descritte  le  miserande  condizioni  dell'eser- 
cito in  Calabria,  e  annunziato  che  Garibaldi  si  avanzava  fra  i 
tripudii  delle  popolazioni  e  gli  sbandamenti  dei  regi,  propose  che 
la  guarnigione  fraternizzasse  col  popolo.  L' intendente  dimissio- 
nario non  fiatò,  e  i  due  colonnelli  promisero  di  riferir  tutto  al 
comandante  in  capo. 

Il  Comitato  insurrezionale  di  Terra  di  Bari,  preseduto  da 
Luigi  de  Laurentiis,  e  di  cui  facevano  parte,  tra  gli  altri,  Can- 
dido Turco,  sindaco  di  Altamura,  Pietro  Tisci  di  Trani,  Ric- 
cardo Spagnoletti  di  Andria,  Raffaele  Rossi  di  Spinazzola,  Vin- 
cenzo Rogadeo  di  Bitonto,  Girolamo  Nisio  di  Molfetta,  Cammillo 
Morea  di  Putignano,  il  francescano  padre  Eugenio  da  Gioia,  e 
Ottavio  Serena,  che  ne  era  il  segretario,  aveva  aderito,  sin  dal 
giorno  21,  al  Comitato  dell'Ordine,  cioè  alVunità  nazionale  con 
Vittorio  Emanuele,  Re  dell'Italia  una  ed  indipendente.  Il  30, 
proclamò  il  governo  provvisorio,  con  un  triumvirato,  composto 
da  De  Laurentiis,  Rogadeo  e  Teobaldo  Sorgente.  Il  giorno  22 
era  giunto  intanto  in  Altamura  il  nuovo  sottointendente  Fran- 
cesco Campanella,  ex  giudice  regio,  destituito  nel  1849  per  le 
sue  opinioni  liberali.  Alto,  magro  e  non  senza  qualche  pretesa 
di  eleganza,  questo  curioso  tipo  di  sotto  intendente  costituzio- 
nale non  turbò  affatto  l'opera  del  Comitato  rivoluzionario,  anzi, 
chiusosi  in  casa,  scrisse,  prima  un  manifesto  e  poi  un  sonet- 
to... .  a  Vittorio  Emanuele,  chiedendo  il  permesso  al  segretario 
Serena  di  stampare  e  l'uno  e  l'altro  nella  tipografìa,  che  il  Co- 


—  340  — 

mi  tato  aveva  aperta  nei  locali  terreni  della  sottointendenza.  Il 
manifesto  sospingeva  tutti  alla  mèta,  cui  il  dito  di  Dio  ci  ha  in- 
camminati  ;  e  il  sonetto,  piuttosto  arrembato,  cominciava  : 

Principe  invitto,  cui  sta  tanto  a  cuore 
Il  ben  d'Italia  che  arriscMar  la  vita 
Non  paventi  per  lei,  con  vivo  ardore 
Chiede  essa  ancor  dal  tuo  potere  aita. 

Questo  Campanella  era  già  membro  del  Consiglio  direttivo 
del  Comitato  di  Putignano,  dove,  prima  ancora  dello  sbarco  di 
Garibaldi,  era  stato  trasferito  da  Trani  il  Comitato  centrale  della 
provincia,  per  sospetto  di  tradimento,  che  si  era  avuto  da  parte 
di  un  tale,  che  fu  visto  un  giorno  uscire  dal  palazzo  dell'  Inten- 
denza di  Bari. 

Quando  ad  Altamura  si  costituì  il  governo  provvisorio,  i  regi, 
sotto  il  comando  del  Flores,  erano  accampati  a  Toritto  e  la  città 
mancava  di  armi  e  munizioni.  Boldoni  avea  un  bel  dire:  armatevi, 
armatevi,  ma  dentro  Altamura  non  si  trovava  che  Mennuni  con 
pochi  uomini  male  armati  e  peggio  equipaggiati,  e  si  trovavano 
pochi  volontarii,  venuti  da  alcune  città  della  provincia.  Gli 
altamurani  temevano  quindi  da  un  momento  all'altro  un  assalto 
da  parte  dei  regi  ;  quando  a  rassicurarli,  Girolamo  Nisio  loro  pro- 
mise che  avrebbe  mandato  da  Molfetta  due  vecchi  cannoni  di 
trabaccolo,  che  servivano  per  gli  spari  della  festa  di  San  Cor- 
rado. Difatti,  tornato  a  Molfetta,  il  Nisio  ottenne  da  Tommaso 
Panunzio,  impiegato  regio  e  console  d'Austria,  quei  cannoni, 
e  a  sue  spese,  sotto  la  scorta  di  suo  fratello  Luigi,  volontario 
della  colonna  di  Trani,  li  mandò  in  Altamura.  I  due  cannoni 
furono  impostati  alla  porta  di  Bari;  ma  se  gl'insorti,  i  quali 
con  quei  due  pezzi  da  museo  si  credevano  invincibili,  li  aves- 
sero adoperati,  mal  sarebbe  colto  loro,  anziché  ai  nemici.  In 
Capitanata  il  Comitato  dell'Ordine  temeva  si  volesse  proclamare 
il  governo  provvisorio,  sotto  l' influenza  del  Comitato  d'Azione, 
che  vi  aveva  proseliti,  e  inviò  colà  Cesare  de  Martinis  per  impe- 
dirlo. Il  De  Martinis,  nativo  di  Cerignola,  benché  giovanissimo, 
aveva  molto  seguito  in  quella  provincia;  egli  vi  andò  con  com- 
mendatizie e  duemila  ducati  datigli  dal  D'Afflitto,  per  conto  del 
Comitato  dell'Ordine.  Ebbe  a  superare  non  poche  difficoltà,  ma 
riusci  a  non  far  proclamare  a  Foggia  il  governo   provvisorio. 


—  341  - 

I  danari  servirono  ad  ottenere  lo  sbandamento  di  alcuni  ufficiali 
e  di  parecchi  soldati  della  colonna  di  Flores,  che  dalle  Puglie 
tornavano  a  Napoli,  anzi  tutta  la  somma  fu  audacemente  offerta 
allo  stesso  generale  da  Achille  de  Martinis,  padre  di  Cesare  e  sin- 
daco di  Cerignola.  Il  Flores  rifiutò,  dichiarando  che  non  avrebbe 
mai  rivolte  le  armi  contro  i  patrioti,  ma  non  avrebbe  neppur  per- 
messo lo  sbandamento  della  colonna,  che  riportò  quasi  intatta 
sino  ad  Ariano,  benché  uno  squadrone  del  secondo  reggimento 
dei  dragoni  avesse  gran  voglia  di  buttare  le  armi.  La  maggior 
parte  della  somma  fu  restituita  dal  De  Martinis  al  D'Affitto. 

L'Abruzzo  pareva  tranquillo.  L' insurrezione  vi  scoppiò  più 
tardi,  ma  vi  covava  da  qualche  tempo.  Nella  provincia  di 
Chieti  vi  eran  tre  Comitati,  uno  per  circondario.  Di  quello 
di  Chieti  era  anima  Raffaele  de  Novellis  ;  del  Comitato  di  Lan- 
ciano, Tommaso  Stella;  e  di  quello  di  Vasto,  Silvio  Ciccarono, 
che  comandava  la  guardia  nazionale.  Questi  egregi  cittadini, 
e  specialmente  il  Ciccarono  e  il  De  Novellis,  erano  devoti  a  Silvio 
Spaventa.  A  Teramo  l'azione  divenne  più  apparente,  dopo  che 
uscirono  dalla  fortezza  di  Pescara  i  patrioti  che  vi  erano  stati 
chiusi.  La  fortezza  restò  vuota  per  lo  sbandamento  della  guar- 
nigione, avvenuto  dopo  il  conflitto  fra  il  12°  cacciatori  e  alcune 
compagnie  di  zappatori  minatori.  Aquila  pareva  tranquilla,  ma 
quella  tranquillità  non  affidava. 

Dopo  l'occupazione  di  Reggio  e  i  primi  successi  militari,  la  ri- 
voluzione si  affermò  nelle  tre  Calabrie  e  nelle  provinole  di  Bari, 
Potenza,  Avellino  e  Benevento.  I  pochi  divennero  molti,  e  poi 
tutti.  Fosse  improvviso  sentimento  d'italianità,  o  desiderio  del 
nuovo,  0  paura  di  navigar  contro  la  corrente,  certo  è  che  si  rac- 
coglievano in  larga  copia  armi  e  danari  ;  si  scrivevano  proclami 
incendiarli  ;  si  armavano  giovani  ;  si  mobilizzavano  guardie  na- 
zionali ;  si  sottoscrivevano  impegni  e  obblighi  di  fornire  contin- 
genti armati,  e  questi  si  armavano  con  fucili  d'ogni  specie,  con 
pistoloni,  colubrine,  vecchi  fuoconi,  picche,  forche,  spiedi  e  maz- 
ze con  coltelli  attaccati  in  cima  :  era  tutto  l'arsenale  del  1820 
e  del  1848,  che   rivedeva  il  sole. 

Ad  Avellino,  che  ubbidiva  esclusivamente  al  Comitato  del- 
l'Ordine, dirigevano  il  movimento,  oltre  al  De  Concily,  il  pro- 
fessor Francesco  Pepere,  Raffaele  Genovese,  Florestano  Galasso, 
Angelo  Santangelo,   Cesare  Oliva,  Vincenzo  Salzano,  Vincenzo 


-  342.  — 

de  Napoli,  che  fu  uno  dei  più  ardenti  e  dei  più  generosi,  e  che 
dopo  il  1860  organizzò  pure  e  mantenne  a  sue  spese  una  com- 
pagnia per  combattere  il  brigantaggio,  e  poi  Onofrio  Parente, 
Pasquale  Piciocchi  e  il  padre  Nitti:  tutti  giovani  di  rispettabile 
posizione  sociale.  Cesare  Oliva,  tornato  dall'esilio,  era  corso  nella 
sua  provincia  nativa  a  portare  l'aiuto  del  suo  braccio  e  della  sua 
mente.  Il  padre  Nitti  era  scolopio,  rettore  del  collegio  e  faceva  da 
cassiere  del  Comitato.  Francesco  Peperò  aveva  chiuso  lo  studio, 
ed  era  andato  tra  i  suoi  conterranei  ad  aiutare  il  movimento,  so- 
prattutto come  intermediario  fra  il  Comitato  dell'Ordine  ei  libera- 
li avellinesi.  Ad  Avellino  era  avvenuto,  qualche  tempo  innanzi, 
un  doloroso  conflitto  tra  i  cittadini  e  i  soldati  bavaresi,  i  quali 
avrebbero  insultati  o  provocati  alcuni  operai,  che  .addobbavano  il 
quartiere  della  guardia  nazionale  o,  secondo  altri,  sarebbero  stati 
da  costoro  malamente  offesi.  La  verità  non  si  è  saputa  ancora 
con  certezza.  Il  conflitto  avrebbe  potuto  degenerare  in  un  eccidio, 
se  il  colonnello  Santamaria,  comandante  lo  squadrone  di  carabi- 
nieri a  cavallo,  di  stanza  in  quella  città,  non  si  fosse  interposto 
con  i  suoi  uomini  ;  e  se  il  giorno  dopo,  i  bavaresi  non  avessero  la- 
sciato Avellino,  per  raggiungere  il  proprio  reggimento  a  Nocera 
dei  Pagani.  I  rivoluzionarli  mossero,  la  notte  del  2  settem- 
bre, con  altri  insorti  alla  volta  di  Ariano,  per  proclamarvi  il 
governo  provvisorio,  mettendovi  a  capo  il  vecchio  colonnello  De 
Concily  ;  ma,  la  mattina  del  4,  quei  terrazzani,  messi  su  dai  rea- 
zionarii,  che  avevano  dato  loro  ad  intendere  che  gì'  insorti  vole- 
vano portar  via  la  statua  d'argento  di  Sant'Oto,  patrono  della  città, 
assalirono  le  squadre  insurrezionali,  che  arrivavano  alla  spiccio- 
lata, e  ne  fecero  una  strage.  Rimasero  sul  terreno  oltre  due- 
cento morti.  Da  Ariano  i  superstiti,  col  De  Concily  a  capo, 
con  Vincenzo  Carbonelli,  destinato  al  comando  dell'esercito  ri- 
voluzionario irpino,  con  Rocco  Brienza,  delegato  del  governo 
provvisorio  di  Basilicata  e  con  altri  animosi,  uscirono  in  gruppo 
e  coi  fucili  spianati,  riparando  a  Greci,  dove  si  fermarono  una 
notte  e  un  giorno,  ma  furono  costretti  a  sloggiarne  per  l'avvici- 
narsi del  generale  Flores  e  della  sua  colonna.  Il  6  settembre 
proclamarono  il  governo  provvisorio  a  Buonalbergo. 

Beniamino  Caso  aveva  organizzata  a  Piedimonte  d'Alife,  sua 
patria,  la  legione  del  Matese  che  era  una  compagnia  di  120  uomini, 


—  343  - 

duce  Giuseppe  de  Blasiis,  il  quale  aveva  per  suoi  ufficiali  Pasquale 
Turiello,  Francesco  Martorelli,  Grioacchino  Toma  ed  Eduardo  Cas- 
sola, divenuti  poi  notissimi,  per  uffici i  occupati  e  opere  d' ingegno. 
De  Blasiis  era  stato  spedito  dal  Comitato  dell'Ordine.  Questa 
legione,  armata  di  buoni  fucili,  di  cui  l'aveva  provveduta  una 
nave  sarda,  ancorata  nel  porto  di  Napoli,  era  la  sola  banda  insur- 
rezionale da  Napoli  in  su  ;  e  i  paesi,  nei  quali  operava,  non  era- 
no favorevoli,  come  la  Calabria,  la  Puglia  e  la  Basilicata,  anzi 
vi  erano  più  frequenti  le  reazioni  delle  plebi  contro  la  borghesia 
liberale.  Essa  proclamò  a  Benevento  la  caduta  del  potere  tem- 
porale dei  Papi  nel  Regno  di  Napoli,  e  contribuì  a  domare  la 
reazione  di  Ariano. 

A  Benevento,  sin  dai  primi  giorni  di  agosto,  il  governo  ponti- 
ficio, che  nell'ultimo  decennio  era  stato  equanime  e  mite,  del  che 
gli  va  resa  giustizia,  come  è  debito  pur  renderla  anche  all'ottimo 
arcivescoyp  cardinal  Carafa,  non  esisteva  che  di  nome.  Le  poche 
truppe,  ivi  di  guarnigione,  avevano  abbandonate  le  caserme,  e  sui 
monti  di  Paupisi  si  erano  unite  al  De  Marco.  Il  Comitato  insur- 
rezionale era  composto  di  Salvatore  Rampone  presidente,  Dome- 
nico Mutarelli,  Giacomo  Venditti  e  Francesco  Rispoli  segretario. 
Il  Rampone,  uomo  ardito  e  tenace,  il  quale  nel  1849  aveva  servita 
la  repubblica  romana,  era  in  continui  carteggi  coi  due  Comitati 
di  Napoli  ;  e  dal  Comitato  di  Azione  riceveva  il  26  agosto  questa 
lettera  caratteristica,  che  vai  la  pena  di  riferire: 

Il  Comitato  Unitario .  Nazionale,  conoscendo  che  cotesto  Comitato  di 
Benevento  da  più  tempo  operosamente  lavora  per  raggiungere  l'unità  e  la 
libertà  d'Italia,  sotto  lo  scettro  costituzionale  di  Vittorio  Emanuele,  di- 
chiara che  tenendosi  da  costà  unità  di  azione  con  le  provinole  del  Regno, 
fin  da  ora  si  considera  come  capoluogo  di  provincia  napoletana,  e  quindi 
questo  Comitato  farà  si  che  ad  ogni  costo  si  realizzi  tale  promessa,  non 
abbandonando  giammai  i  Beneventani  alla  discrezione  del  governo  pontificio. 

In  quella  città,  i  preti,  gli  scolopii  e  perfino  gli  stessi  domeni- 
cani, favorivano  le  aspirazioni  liberali  :  tutti  i  cittadini,  atti  alle 
armi,  erano  divisi  in  sezioni  e  armati.  Il  decreto,  col  quale  fu 
proclamata  la  caduta  del  potere  temporale  del  Papa,  porta  la 
data  del  3  settembre,  ed  eccolo,  nella  sua  integrità,  pubblicato 
qui  la  prima  volta  : 

In  nome  di  Vittorio  Emanuele  Re  d'Italia  —  Dittatore  Gari- 
baldi —  Provincia  di  Benevento  :  "  Le  forze  insurrezionali  beneventane 
hanno  dichiarato  decaduto  il  governo  pontificio,  ed  hanno  costituito  un 


-  344  - 

governo  provvisorio,  composto  dei  cittadini  Salvatore  Rampone,  Giuseppe 
de  Marco,  Domenico  Mutarelli,  Niccola  Vessichelli,  marchese  Giovanni  de 
Simone,  Gennaro  Collenea  „. 

Appena  questo  decreto  fu  sottoscritto,  Griuseppe  de  Marco,  clie 
aveva  gran  seguito  in  quei  luoghi  e  fu  benemerito  della  causa 
liberale,  capovolse  il  ritratto  di  Pio  IX,  clie  pendeva  da  una 
parete  della  stanza  dov'erano  ;  e  Martorelli  e  Cassola  vi  posero  in- 
nanzi due  baionette  incrociate.  È  rimasto  celebre,  tra  i  superstiti 
della  "  legione  „  del  Matese,  un  motto  del  Turiello,  grave  e  so- 
lenne anche  allora,  che  era  quasi  ventenne.  Uscendo  la  compa- 
gnia da  Piedimonte,  abbattè  gli  stemmi  borbonici  nel  primo  pae- 
sello per  il  quale  passò  ;  e,  compiuto  l'atto  rivoluzionario,  Tu- 
riello uscì  gravemente  in  queste  parole  :  "  Ed  ora,  o  signori, 
siamo  fucilahili  „.  Il  moto  rivoluzionario  di  Benevento,  se  non 
ebbe  importanza  intrinseca,  contribuì  forse  a  far  abbandonare 
il  piano  di  difesa  proposto  da  Pianell,  di  attendere  Garibaldi  fra 
Eboli,  Salerno  e  Avellino.  In  uno  degli  ultimi  consigli  di  guerra, 
preseduto  dal  Re  stesso,  il  Von-Mechel  manifestò  il  timore,  che, 
attuandosi  quel  piano,  potesse  l'esercito  essere  tagliato  fuori  dalla 
ritirata  sopra  Capua  per  opera  delle  colonne  rivoluzionarie  del 
Beneventano.  Però  ne  il  Von-Mechel,  ne  il  governo  avevano 
un'idea  esatta  di  quelle  compagnie,  le  quali  erano  quattro  in 
tutto,  e  non  arrivavano  a  mille  uomini  male  armati  e  tutti  nuovi 
alle  armi. 

A  rendere  più  generale  il  movimento,  contribuiva  il  basso 
clero  in  Calabria  e  in  Basilicata.  Preti  e  frati  gettavano  l'abito 
e  vestivano  la  camicia  rossa  ;  e  cingendosi  di  un  gran  nastro  tri- 
colore il  cappello,  si  creavano  cappellani  delle  squadre  insurre- 
zionali, o  predicatori  nelle  piazze.  Si  distinguevano  gli  Ordini 
mendicanti  e  i  preti  delle  chiese  ricettizie,  o  quelli  che  non  fa- 
cevano parte  di  capitolo  e  avevano  abbracciato  il  sacerdozio  per 
crearsi  uno  stato.  In  Calabria,  specie  in  provincia  di  Cosenza, 
parecchi  cleri,  ed  anche  alcune  comunità  monastiche  si  mescola- 
rono in  mossa  al  movimento.  ^  Era  una  generale  frenesia,  e  i 
documenti  di  quell'epoca  non  si  rileggono  senza  maraviglia, 
mista  a  tenerezza.     Quanta  fede,  quanta   audacia,  quanta  non- 


»  Vedi:   Una  famiglia  di  patrioti^  di  R.  de  Cesare.  —  Roma,  For- 
zarli, 1889. 


-  345  - 

curanza  di  pericoli,  e  che  puri  ideali,  e  affascinanti  illusioni  !  Il 
Turiello  calcola,  e  forse  non  a  torto,  che  il  numero  degl'  insorti 
fra  le  Calabrie,  le  Puglie,  la  Basilicata,  l'Avellinese,  il  Salerni- 
tano e  la  Campania,  fosse  non  inferiore  ai  18  000. 

Per  avere  un'  idea  dell'effetto  che  tutta  questa  agitazione 
produceva  sulle  autorità  militari  distaccate  nelle  provincie,  ba- 
sterà leggere  un  dispaccio  del  26  agosto,  inviato  dal  comandante 
le  truppe  di  Altamura  al  generale  Flores  che  era  a  Bari,  e  da 
Flores,  il  27,  trasmesso  al  ministero.  Sparsasi  in  Altamura  la 
notizia  che  tremila  garibaldini,  comandati  da  Boldoni,  marcia- 
vano verso  la  città,  il  comandante  delle  truppe,  gli  ufficiali,  il 
sindaco  e  l'ispettore  di  polizia  si  riunirono  a  consiglio  presso 
il  sottointendente  Campanella  ;  "  e,  scrive  il  comandante,  venu- 
"  tosi  alla  disamina  dei  fatti  in  questione,  ne  fu  dato  rimarcare 
"  una  soverchia  tendenza  in  persona  della  su  enunciata  prima 
"  autorità,  perchè  noi  fossimo  addivenuti  alla  comune  volontà  di 
*  cedere  le  armi  alla  venuta  di  essi  Garibaldesi  (sic);  oppure  met- 
"  terci  di  consenso  con  essi,  soggiungendo  che  non  si  sarebbero 
"  chiamati  responsabili  nel  caso  opposto,  poiché  non  aveano  a 
"  fidarsi  sul  movimento  popolare.  Tutti  i  militari  si  sono  fran- 
"  camente  opposti  a  tanto  baldanzoso  consiglio,  anzi  han  divi- 
"  sato  rimanere  in  città  fino  a  quando  sarebbero  comparsi  i  pre- 
"  citati  Garibaldesi  (sic),  ma  siccome  ai  detti  il  sindaco  aggiun- 
"  geva  di  far  bandizzare  (sic)  la  venuta  dello  Straniero,  ho  sti- 
"  mato  più  conducente  per  ovviare  ogni  qualunque  sinistro,  riu- 
"  nire  la  truppa,  ed  accompagnarla  militarmente  non  molto  lungi 
"  dal  paese,  per  osservare  tutte  quante  le  operazioni  vi  si  pos- 
"  sono  praticare  „ . 

Da  Lecce,  l' intendente  Alfonso  de  Caro  mandava,  il  28  agosto^ 
un  rapporto  allarmante,  che  cominciava  cosi  :  "  La  rivolta  delle 
"  Calabrie,  il  governo  provvisorio  attuato  in  Basilicata,  le  voci 
"  che  corrono  sulla  possibilità  di  simile  avvenimento  nella  limi- 
"trofa  Bari,  han  suscitato  grave  fermento  in  questa  provincia 
"  di  mia  amministrazione  „.  Anche  più  allarmante  era  il  rap- 
porto inviato,  il  31  agosto,  dal  Giannattasio  intendente  di  Sa- 
lerno, comunicante  al  ministro  dell'interno  un  altro,  speditogli 
da  Giuseppe  Giannelli,  sottointendente  a  Vallo,  il  quale  do- 
po  il   1860  fu  consigliere   delegato   e   funzionò   da  prefetto   a 


-  346  — 

Trapani,  ed  ora  vive  a  Nocera  dei  Pagani.     Uditelo  nella  sua 
integrità  : 

Eccellenza, 

Con  due  telegrammi  ho  rassegnato  a  V.  E.  ciò  die  mi  ha  riferito  il 
sottointendente  di  Sala  qui  giunto  quest'oggi,  e  ciò  che  mi  ha  scritto  il 
sottointendente  di  Vallo  circa  i  gravi  avvenimenti  succeduti  ieri  in  que' 
distretti.  Col  primo  di  essi  le  soggiunsi  che  domani  lo  stesso  sottointen- 
dente di  Sala  avrebbe  avuto  l'onore  di  conferirsi  in  Napoli  presso  1'  K  V. 
ad  oggetto  di  ragguagliarla  dei  particolari  di  tali  avvenimenti.  Con  l'al- 
tro le  dissi  che  avrei  in  seguito  comunicato  a  V.  E.  il  rapporto  del  sotto- 
intendente di  Vallo,  che  ora  le  trascrivo,  per  essere  cosi  concepito  : 

"  La  calma  e  la  tranquillità  nell'ordine  pubblico  di  questo  distretto,  e 
specialmente  di  questo  capoluogo,  stato  eccezionale  nei  passati  giorni,  è  finita 
tutta  ad  un  tratto  questa  mattina  30  agosto.  Verso  mezzogiorno  numerose 
masse  di  gente  armata  sono  venute  da  varii  punti  del  distretto  in  questo 
capoluogo,  ed  al  loro  arrivo  i  tamburi  della  Guardia  Nazionale  hanno  suo- 
nato a  raccolta.  Quindi  un  gran  numero  di  uomini  ricchi,  poveri,  vecchi, 
giovani  specialmente  quelli  che  si  reputavano  attaccatissimi  alla  dinastia 
Borbonica,  sono  convenuti  in  armi  nella  pubblica  piazza,  ove  spiegata  una 
bandiera  con  lo  stemma  della  Beai  Casa  di  Savoja  e  coi  colori  italiani, 
ordinati  ed  armati  in  maniera  assai  regolare,  sono  partiti  di  qui  al  grido 
di    Viva    Vittorio  Emanuele  „. 

Lo  stesso  pare  che  sia  avvenuto  anche  in  altri  siti,  o  che  sia  pros- 
simo ad  avvenire,  benché  niun  rapporto  uffiziale  mi  sia  ancora  pervenuto. 
Qui  intanto  i  più  notevoli  cittadini  provvedono  alla  tranquillità  pubblica. 
Comprenderà  bene  quale  difficoltà  abbia  la  mia  posizione  attuale.  Cionon- 
pertanto  debbo  assicurarla  che  la  pace  ed  i  diritti  costituiti  dei  privati 
sono  oltremodo  rispettati.  Tutti  spinti  dal  solo  sentimento  politico,  e 
coloro  che  tengono  la  somma  delle  cose,  sono  assai  scrupolosi  pei  mezzi 
che  si  propongono  usare,  imperocché  hanno  assunto  per  loro  divisa  di  sa- 
grifìcar  tutto  per  la  patria,  tranne  l'onore.  Del  resto  tengono  il  concorso 
personale  e  pecuniario  dei  più  ricchi  del  distretto,  come  già  diceva  ;  hanno 
armi  e  munizioni  a  sufficienza;  opperò  non  sembra  che  siano  da  temersi 
violenze  ed  eccessi  contro  la  gente  pacifica.  È  d'uopo  finalmente  io  le  av- 
verta, che  un  movimento  cosi  generale,  cosi  spontaneo,  come  questo,  io 
non  credo  sia  mai  avvenuto,  e  che  sarebbe  cosa  assai  improvvida  dargli  il 
carattere  di  quelle  turbolenze  che  avvengono  per  una  data  occasione,  an- 
ziché per  una  coscienza  di  opinione  politica  da  Innga  pezza  preconcetta. 

Il  giorno  dopo,  un  altro  allarmantissimo  rapporto  spediva 
lo  stesso  sottointendente  di  Vallo,  e  fu  questo: 

Dopo  averle  rassegnato  il  rapporto  della  data  di  ieri,  intorno  alla  sol- 
levazione di  gente  armata  verificatasi  in  questo  capoluogo,  mi  é  arrivata 
notizia,  che  un  simile  movimento  ha  avuto  luogo  in  tutto  il  distretto,  di- 
modoché l'insurrezione  può  dirsi  esservi  divenuta  generale,  ed  esser  partite 
numerose  bande  di  armati  da  molte  parti  di  esso  verso  le  alture.  Non  posso 


-  347  — 

specificarne  le  particolarità,  perchè  mi  mancano  sull'obbietto  rapporti  uffi- 
ziali;  ma  son  fatti  oramai  di  cui  non  è  a  dubitarsi.  Unico  ne  è  lo  scopo: 
la  proclamazione  di  Vittorio  Emanuele  a  Re  d'Italia,  ed  all'uopo  concor- 
demente s'innalza  la  bandiera  di  Casa  Savoja.  Stimo  mio  debito  infor- 
marne 1  Autorità  di  Lei  per  gli  effetti  di  risultamento.  ' 

Cosi  scrivevano  quasi  tutti  i  sototintendenti  agl'intendenti,  i 
quali  trascrivevano  integralmente  i  rapporti  al  ministero,  a  scanso 
di  responsabilità,  chiedendo  istruzioni,  o  anche  non  chiedendone. 
Non  c'era  più  che  soltanto  l'ombra  d'un  governo!  Il  mini- 
stero non  aveva  ordini  da  dare,  né  provvedimenti  da  consigliare, 
ne  aiuti  da  spedire,  e  cercava  invano  di  provvedere  con  la  cir- 
colare Giacchi  e  con  l'invio  di  segreti  agenti  nelle  provincie, 
per  ridestarvi  la  fede  negli  ordini,  costituzionali.  A  Cosenza, 
don  Liborio,  tanto  per  continuare  a  rappresentar  la  commedia, 
mandò  La  Cecilia,  Cognetti  e  Mosciaro,  con  la  missione  di  pro- 
mettere, da  parte  del  Re,  opere  pubbliche  e  benefizi  d'ogni  sorta, 
e  di  eccitare  le  autorità  a  far  argine  alla  rivoluzione  ;  ma  il  Co- 
mitato insurrezionale,  saputo  lo  scopo  che  li  guidava,  li  fece  ar- 
restare e  li  rimandò  indietro. 

Nella  notte  dal  19  al  20  agosto,  Garibaldi  e  Bixio  sbarcaro- 
no a  Melito  sulla  costa  calabrese  ;  e,  all'alba  del  22,  Cosenz  e  As- 
santi  a  Favazzina.  Già  fin  dal  giorno  8,  era  sbarcata  la  prima 
banda  garibaldina  ad  Alta  Fiumara,  per  impadronirsi  del  forte  di 
Torre  Cavallo.  La  formavano  350  uomini,  e  ne  erano  ufficiali  Mis- 
sori,  Musolino,  Mario,  Nullo.  Agostino  Plutino,  da  pochi  giorni 
reduce  dalla  sua  missione  in  Inghilterra;  la  raggiunse  verso 
Aspromonte  conducedonvi  un  buon  manipolo  di  volontari  cala- 
bresi. Due  giorni  prima  Antonino  Plutino,  che  si  apparecchia- 
va a  discendere  con  Garibaldi  in  Calabria,  avvisò  suo  fratello 
Agostino,  che  tra  il  19  e  il  20  sarebbero  sbarcati  a  Melito,  e 
che  perciò  la  banda  si  tenesse  pronta  a  marciare  sopra  Reggio 
o  sopra  Melito  per  unirsi  a  Garibaldi.  Questa  lettera  fu  portata 
al  campo  di  Aspromonte  da  Fabrizio  Plutino  oggi  prefetto  del 
Regno  e  allora  diciottenne,  a  suo  padre.  La  banda,  accampata  nel- 
la contrada  Montalto,  accolse  la  notizia  con  festa  e  si  mise  in  as- 
setto di  partenza.  E  quando  nella  notte  dal  19  al  20  Garibaldi  sbar- 
cò, Antonino  Plutino  ne  die  avviso  al  nipote  Fabrizio  con  un  bi- 

1  Archivio  Giacchi. 


-  348  - 

glietto  curioso,  scritto  col  lapis  su  carta  molto  ordinaria,  e  che 
diceva  cosi  :  "  Garibaldi  è  sbarcato  con  ottomila  uomini.  Avvisate 
Agostino  subito  subito  che  scendano  sopra  Reggio  -  firmato  :  Nino 
Plutino,  e  con  un  poscritto  più  curioso  :  il  corriere  che  viene  fatelo 
fare  colazione  „ .  ^  Non  vi  fu  bisogno  di  mandare  alcun  avviso  agli 
insorti  di  Aspromonte,  i  quali,  saputo  che  Garibaldi  era  sbarcato, 
per  le  vie  dei  monti  scesero  a  Melito,  si  unirono  a  lui  ed  entra- 
rono con  lui  e  con  Bixio  a  Reggio.  Non  arrivavano  in  tutti 
a  tremila.  Entrarono  in  Reggio  nella  notte  del  21,  e  al  loro 
appressarsi,  vi  fu  da  principio  lo  scambio  di  alcune  fucilate  con 
le  truppe  accampate  sulla  piazza  del  duomo,  sotto  il  comando 
del  colonnello  Dusmet,  e  poi  un  vero  combattimento,  con  molti 
morti  e  feriti.  Il  Dusmet,  circondato  dai  suoi  ufficiali,  era  nel 
portone  del  palazzo  Ramirez.  All'appressarsi  dei  garibaldini,  or- 
dinò all'artiglieria  di  avanzarsi,  e  dandone  egli  stesso  l'esempio, 
si  slanciò  ad  affrontare  il  nemico.  Colpito  a  tradimento  da  una 
fucilata  quasi  a  bruciapelo,  cadde,  e  cadde  morto  con  lui  nel 
breve  combattimento,  un  suo  figliuolo  ventenne.  Unico  esempio 
di  personale  valore  nell'esercito  regio,  dal  giorno  che  Garibaldi 
sbarcò  a  Melito,  sino  a  Napoli  !  Il  grosso  della  guarnigione  si 
ritirò  nel  forte,  comandato  dal  vecchio  generale  Galletti,  il  quale, 
si  disse  dagli  scrittori  legittimisti,  che  facesse  entrare  per  tra- 
dimento i  garibaldini  nella  città,  ma  non  fu  vero.  La  piazza 
si  arrese  il  22. 

Tutte  le  forze  regie  in  Calabria,  sotto  il  comando  del  ma- 
resciallo Vial,  che  aveva  il  quartier  generale  a  Monteleone, 
ascendevano  a  circa  ventimila  uomini.  Giambattista  Vial,  figlio 
del  vecchio  generale,  non  era  mai  stato  al  fuoco  ;  era  lettore  ap- 
passionato di  romanzi,  suonatore  di  piano  e  ballerino  discreto. 
Si  godeva  i  sontuosi  pranzi  di  casa  Gagliardi,  a  Monteleone  ;  e  la 
sua  noncuranza  arrivò  al  punto,  che,  se  in  mezzo  alla  conversa- 
zione gli  veniva  recapitato  un  dispaccio,  egli,  senza  aprirlo,  lo 
cacciava  in  tasca  dicendo  :  "  poi  se  ne  parla  „ . 

Occupata  Reggio,  mentre  Garibaldi,  a  rapide  marcie,  si  di- 
rigeva su  Monteleone,  i  generali  Melendez  e  Briganti,  accam- 
pati tra  Villa  San  Giovanni  e  Bagnara,  non  si  mossero,  e  solo 
il  Briganti  mandò  due  compagnie  in  ricognizione  sulla  via  di 
Reggio.     Queste   scambiarono   poche   fucilate   inconcludenti  coi 


Archivio  Plutino. 


—  349  — 

garibaldini,  che  tornarono  indietro  e  poi  capitolarono.  Erano 
circa  tremila  uomini.  È  noto  che  il  Briganti  nella  marcia  di  ri- 
tirata sopra  Monteleone  fu  ucciso  dai  suoi  soldati,  esasperati  da 
tanta  viltà,  sulla  piazza  di  Mileto.  E  per  giudicare  meglio  chi 
fosse  il  generale  in  capo,  basterà  sapere  che,  stando  egli  a  tavola 
in  casa  Gagliardi,  non  si  tenne  dal  chiedere  sorridendo  al  padrone 
di  casa  :  "  Questo  posto  lo  destinate  a  Peppiniello  ?  „  "Di  certo, 
rispose  il  marchese  Enrico  Gagliardi,  se  voi  V abbandonate  „ .  E 
pochi  giorni  prima,  con  burbanzosa  spavalderia,  aveva  detto  che 
egli  avrebbe  pescato  Peppariello,  qualora  osasse  passare  lo  stretto  ! 
Il  Vial  non  voleva  uscire  da  Monteleone  e  pretendeva  invece  che 
agissero  i  generali  da  lui  difendenti,  ma  questi  non  erano  men 
di  lui  sdegnosi  di  pericoli.  Vecchia  ruggine  esisteva  tra  Vial 
e  Pianell,  e  tra  Vial  e  Melendez.  Fu  certo  grave  errore  aver 
affidato  il  comando  supremo  delle  forze  in  Calabria  al  Vial,  il 
quale  non  aveva  alcuna  reputazione  nel  mondo  militare,  dove 
si  diceva  che  avesse  fatta  carriera  per  la  protezione  di  suo  pa- 
dre, il  vecchio  generale  Pietro  Vial,  di  cui  si  è  parlato. 

Il  Pianell  aveva  dato  al  Vial,  il  giorno  stesso  che  questi  parti 
per  Pizzo,  il  22  luglio,  tutto  un  piano  di  difesa,  le  cui  linee 
generali  erano  queste  :  impedire  qualunque  sbarco  di  garibaldini 
sulle  coste  calabresi;  e  avvenuto  lo  sbarco,  disperderli  rapida- 
mente ;  tenere  il  quartier  generale  a  Monteleone,  col  grosso  del- 
l'esercito, perchè  così  avrebbe  potuto,  per  via  di  terra  o  di  mare, 
venire  in  aiuto  di  Gallotti,  di  Briganti  e  di  Melendez,  se  assaliti 
da  forze  maggiori,  tra  Reggio  e  Bagnara.  Pianell  non  aveva 
forse  preveduto  uno  sbarco,  anzi  il  maggiore  sbarco  d'insorti, 
con  Garibaldi  alla  testa,  a  Melito,  tra  il  capo  Spartivento  e  il 
capo  dell'Armi,  quasi  alle  spalle  di  Reggio.  Ma  Vial,  sorpreso, 
non  esegui  quel  piano,  nella  stessa  guisa  che  il  Melendez  e  il  Bri- 
ganti non  ubbidirono  a  lui.  Melendez  non  si  mosse  da  Bagnara, 
come  si  è  detto,  e  Vial,  esaurite  tutte  le  vie  per  richiamarlo  all'ob- 
bedienza, lo  abbandonò  a  se  stesso,  esclamando  :  '^  È  un  e....,  che 
non  vuol  sentire;  si  vada  a  far  buggerare  y,.  Ne  questi  disaccordi 
erano  la  sola  debolezza  dell'esercito  regio.  Oramai,  ne  soldati,  ne 
ufficiali  sentivano  più  la  forza  del  proprio  dovere  ;  l'ambiente  che 
li  circondava,  era  veramente  ostile,  ma  la  fantasia  meridionale  fa- 
ceva loro  vedere  pericoli  e  nemici  più  di  quanti  ve  ne  fossero  dav- 
vero.   Il  nome  di  Garibaldi  esercitava  un  fascino  misterioso   sui 


—  360  — 

loro  animi,  mentre  la  Costituzione  aveva  fatto  divenire  fazioso  il 
grido  di  Viva  il  Re  !  Dappertutto  vedevano  gente  in  armi,  comi- 
tati e  governi  prowisorii  ;  leggevano  giornali  e  proclami  rivolu- 
zionarli ;  udivano  prediche  nelle  chiese  e  nelle  piazze,  mentre  cre- 
scevano le  diserzioni,  le  seduzioni  e  la  paura  di  cader  vittime  del 
furore  popolare  o  del  tradimento  dei  proprii  commilitoni.  I  co- 
mandanti, senza  istruzioni  precise  del  governo,  o  a  queste  dissub- 
bidendo,  avevano  finito  col  persuadersi  che  non  era  veramente  il 
caso  di  pigliarsela  calda  per  una  causa  da  tutti  abbandonata.  Uno 
dei  De  Sauget  in  un  gruppo  d'ufficiali,  alludendo  al  Re,  fu  udito 
un  giorno  esclamare  :  "  Ma  se  l'Europa  non  lo  vuole,  perchè  dob- 
biamo farci  ammazzare  per  lui?. . . .  „  • 

I  capi  delle  bande  insurrezionali,  militari  improvvisati,  e  i  capi 
dei  Comitati  e  dei  governi  prowisorii  appartenevano  ad  alta  posi- 
zione sociale,  circondati  dalla  pubblica  stima.  In  Basilicata,  Da- 
vide Mennuni,  anima  calda  di  patriottismo,  era  un  ricco  possidente 
di  Genzano  ;  Vincenzo  Agostinacchio,  che  comandava  il  contingen- 
te degli  Spinazzolesi  mossi  alla  volta  di  Potenza  insorta,  era  av- 
vocato e  benché  di  gracile  salute,  aveva  indomita  forza  d'animo; 
avvocato  era  Teobaldo  Sorgente;  possidente.  Luigi  de  Lauren- 
tiis;  prete,  che  aveva  gettata  la  sottana,  Niccola  Mancusi;  e 
ricchi  il  marchese  Gioacchino  Cutinelli,  che  mori  senatore  del 
Regno  d' Italia  ;  Domenico  Asselta,  che  fu  deputato  ;  e  così  Niccola 
Franchi,  gli  Scutari  e  i  Sole,  cugini  del  poeta,  e  cosi  tanti  altri, 
in  Puglia,  in  Basilicata,  ma  principalmente  in  Calabria,  dove 
milionarii,  come  i  Morelli,  i  Compagna,  gli  Stocco,  il  Guzo- 
lini,  i  Quintieri,  i  Labonia,  i  Barracco,  erano  a  capo  dei  Co- 
mitati o  li  sovvenivano.  Non  erano  certo  bande  di  straccioni, 
perchè  la  borghesia  più  eletta  vi  dava  largo  contingente.  La 
rivoluzione  si  compiva  in  nome  dell'  idea  morale  ;  e  i  ricordi 
storici,  e  le  poesie  patriottiche  infiammavano  di  ardore  lirico 
quei  cospiratori  e  quei  soldati.  Disfarsi  dei  Borboni,  conseguire  la 
libertà  durevolmente,  tradurre  in  atto  il  pensiero  di  Dante  e  di 
Machiavelli  e  confidare  in  una  rigenerazione  morale  ed  economica 
da  un  nuovo  stato  di  cose,  che  non  fosse  Repubblica,  ritenuta  sino- 
nimo di  disordini,  ma  Monarchia  costituzionale  e  nazionale,  con  un 
Re,  divenuto  anche  lui  una  leggenda  :  ecco  l' ideale  che  sfuggiva 
alle   analisi  e  alle  riflessioni,  e  mutava  la  conservatrice  e  ricca 


—  351   - 

borghesia  in  forza  rivoluzionaria  ;  ideale  non  fumoso,  anzi  in  via 
di  realizzazione  per  un  provvidenziale  concorso  di  circostanze. 
Altri  giovani  di  civili  e  ricche  famiglie  correvano  in  Sicilia 
Botto  mentito  nome.  Ricordo,  fra  gli  altri,  Francesco  Spirito, 
oggi  deputato  ;  Giuseppe  Mondella,  di  Benevento  ;  Silvio  Buo- 
noconto,  Achille  Napolitano  e  Giovanni  Bardari,  figlio  del  pre- 
fetto di  polizia.  Spirito,  Buonoconto,  Napolitano  e  Bardari 
s' imbarcarono  a  Napoli  per  Messina,  battezzandosi  per  suonatori 
ambulanti  diretti  a  Giarre,  in  Sicilia.  Disertarono  sul  finire  di 
luglio  e  corsero  in  Piemonte  ad  arruolarsi  i  fratelli  Francesco 
e  Michele  de  Renzis,  ufficiali,  il  primo  del  genio  e  il  secondo 
degli  usseri;  Rodolfo  Acqua  viva  e  Gaetano  Pomarici,  guardie 
del  corpo  e  Giovanni  Garofalo,  ufficiale  di  fanteria.  Queste  di- 
serzioni fecero  molto  effetto  nell'esercito  e  nella  società  napo- 
letana, per  l'alta  posizione  sociale  dei  disertori.  Ebbero  una 
lettera  di  presentazione  dal  Villamarina  per  Cavour,  che  li  ac- 
colse a  braccia  aperte  e  li  fece  immediatamente  entrare  nell'e- 
sercito piemontese:  Francesco  de  Renzis  nel  genio.  Michele  de 
Renzis  e  Garofalo  in  Genova  cavalleria,  Acquaviva  in  Nizza 
cavalleria  e  Pomarici  in  Piemonte  Reale.  Quest'  ultimo  si  uccise 
a  Firenze  qualche  anno  dopo;  Rodolfo  Acquaviva  è  morto  da 
parecchi  anni,  e  dei  due  De  Renzis,  Francesco  è  ambasciatore 
a  Londra,  e  Michele  è  deputato  di  Capua  e  generale  di  caval- 
leria in  posizione  ausiliaria. 

Da  Reggio  a  Napoli  non  fu  più  tirato  un  colpo  di  fucile,  e  Ga- 
ribaldi, dapprima  con  la  sua  avanguardia  e  poi  precedendo  questa, 
con  poche  guide  e  cavalieri  e  con  Enrico  Cosenz  sempre  vicino, 
da  lui  nominato  ministro  della  guerra,  proseguiva  la  sua  marcia, 
acclamato  come  il  Dio  della  vittoria.  Trovava  dovunque  lo  Stato 
disciolto,  e  a  lui  si  arrendevano  generali  abbandonati  dai  proprii 
soldati.  Quella  campagna,  o  per  dir  meglio,  quella  marcia  trionfa- 
le, attraverso  le  Calabrie,  è  stata  narrata  da  me  con  documenti 
inediti  e  interessanti  in  altro  mio  libro.  '  Si  arresero  Melendez 
e  Briganti  e  fu  ucciso  quest'  ultimo  dai  suoi  soldati,  perchè  sospet- 
tato di  tradimento  ;  capitolò  Vial  che  s'imbarcò  a  Pizzo  per  Na- 
poli ;  capitolò  Caldarelli  col  Comitato  di  Cosenza  ;  si  sbandò  Ghio 
con  diecimila  uomini  a  Soveria  Mannelli;   e  cosi  la  strada  sino 


*  R.  DE  Cesare,  op.  cit. 


-  362  - 

a  Salerno,  spazzata  degli  ultimi  avanzi  di  difesa,  restò  libera 
allo  incedere  del  glorioso  manipolo,  il  quale  non  si  trovò  tra  i 
piedi  clie  soltanto  de'  gruppi  di  soldati  paurosi  o  inermi,  che 
salutavano,  con  terrore,  i  vincitori,  al  loro  apparire.  Lo  sban- 
damento di  Soveria  fu  l'episodio  decisivo  di  quella  campagna, 
per  il  quale  si  affermò  il  trionfo  della  rivoluzione  sul  conti- 
nente, e  che  ispirò  a  Garibaldi  il  celebre  telegramma,  da  lui 
dettato  a  Donato  Morelli,  la  mattina  del  31  agosto,  nella  casa 
rustica  di  Acrifoglio  :  "  Dite  al  mondo  che  ieri  coi  miei  prodi  ca- 
labresi feci  abbassare  le  armi  a  10  000  soldati,  comandati  dal 
generale  Ghio.  Il  trofeo  della  resa  fu  dodici  cannoni  da  campo, 
diecimila  fucili,  trecento  cavalli,  un  numero  poco  minore  di  muli 
e  immenso  materiale  da  guerra.  Trasmettete  a  Napoli,  e  dovunque, 
la  lieta  novella  „ . 

Ancte  in  Puglia  l'esercito  non  die  prova  di  maggiore  energia  ; 
ma  se  per  la  Calabria  la  neghittosità  delle  truppe  fu  principalmente 
da  ascriversi,  come  si  è  veduto,  all'inettezza  dei  capi;  al  mare- 
sciallo di  campo  Filippo  Flores,  che  comandava  la  colonna  delle 
Puglie,  non  potè  veramente  attribuirsi  l'insuccesso  completo  del- 
l'opera sua.  Il  Flores,  al  quale  fu  mossa  l'accusa  di  aver  ordinato 
alle  sue  truppe  l'atto  di  sottomissione  al  nuovo  ordine  di  cose, 
spiegò  la  sua  condotta  in  un  piccolo  opuscolo  venuto  alla  luce  il  10 
luglio  1862,  ed  ora  raro  per  quanto  interessante.  Flores  disponeva 
di  poche  forze  per  mantenere  la  calma  in  tre  provincie,  mentre  or- 
dini e  contrordini  da  Napoli  paralizzavano  l'azione  di  lui.  Tutta 
la  sua  colonna,  divisa  fra  le  provincie  di  Bari,  di  Capitanata  e 
di  Terra  d'Otranto,  si  riduceva  a  uno  squadrone  di  gendarmeria, 
un  battaglione  di  gendarmeria  a  piedi,  due  squadroni  del  secondo 
reggimento  dragoni  e  due  di  carabinieri,  incompleti  di  uomini  e 
di  cavalli,  oltre  a  mezza  batteria  di  obici.  C'erano  bensì  delle 
compagnie  di  riserva,  ma  potevano  considerarsi  come  uno  schele- 
tro di  soldatesca.  Alla  mancanza  di  uomini  si  aggiungeva  quella 
delle  munizioni  ;  e  per  quanto  il  Flores  insistesse  per  avere  al- 
tri soldati,  non  gli  fu  mandato  che  il  generale  Bonanno  con  al- 
cune compagnie  del  tredicesimo  di  linea,  Lucania^  il  cui  spirito 
militare  era  addirittura  spento,  dopo  i  disastrosi  eventi  di  Sici- 
lia. Al  generale  Bonanno,  che  gli  manifestava  non  avere  le  sue 
truppe  altra  munizione  da  guerra,   che   semplicemente   quella   di 


-  353  — 

"  dote  „  esaurita  la  quale,  la  fucileria  e  i  pezzi  sarebbero  rima" 
sti  in  perfetto  stato  d'inazione,  Flores  non  seppe  che  cosa  ri- 
spondere. 

L' ultimo  ordine,  che  il  Flores  ricevesse  da  Napoli,  fu  di 
"  lasciar  la  gendarmeria  in  tutti  quelli  luoghi,  ne'  quali  occor- 
"  resse  tener  guardia  alle  prigioni,  e  tutelar  l'ordine  per  quanto 
"  lo  si  potesse  ;  e  col  restante  delle  schiere  muovere  a  raggiun- 
"  gere  in  Avellino  il  generale  Scotti,  che  ne  avrebbe  assunto  il 
"  superiore  comando  „ .  E  si  noti,  che  quest'ordine  si  mandava 
al  Flores,  quando  questi  aveva  già  date  le  sue  dimissioni,  col 
seguente  telegramma  del  26  agosto  :  "  Domando  il  mio  ritiro,  e 
"  chieggo  a  chi  rassegnare  la  mia  missione,  che  non  posso  più 
"  onorevolmente  disimpegnare  „ .  Queste  dimissioni  furono  an- 
che provocate  dal  fatto,  che  il  governo  avea  sospeso  il  richiamo 
dei  due  squadroni  di  dragoni,  proposto  dal  Flores,  perchè  indi- 
sciplinati, come  ancora  dalle  diserzioni  del  tredicesimo  di  linea, 
le  quali  crescevano  di  giorno  in  giorno.  E  proprio  sul  momento 
di  muovere  per  Avellino  essondo  giunto  a  Flores  l'ordine  di 
estrarre  dal  Banco  di  Bari  le  somme  di  regio  conto,  egli  rispon- 
deva cosi  :  "  Questo  Banco,  mi  assicura  1'  intendente,  non  con- 
"  tiene  che  numerario  di  pertinenze  particolari,  né  estrarre  si 
"  potrebbe  denaro  senza  ordini  diretti  dal  ministro  delle  finanze, 
"  e  senza  serio  allarme  di  tutte  le  popolazioni  „ . 

A  misura  che  il  Flores  eseguiva  la  ritirata  su  Avellino,  i  go- 
verni provvisòri  si  proclamavano  via  via  alle  sue  spalle.  Ogni 
paura  cessava.  Flores  dovè  continuare  la  ritirata  senza  risorse  ; 
spirata  la  quindicina,  sarebbero  mancati  alle  truppe  i  viveri,  de' 
quali  non  avrebbe  potuto,  senza  violenza,  provvedersi  dai  Comu- 
ni, né,  il  maresciallo,  cui  le  condizioni  di  salute  non  consentivano 
neppure  di  reggersi  a  cavallo,  poteva  fidarsi  dei  suoi  uomini,  tran- 
ne che  della  mezza  batteria  e  dei  due  squadroni  incompleti  di  ca- 
rabinieri. A  quattro  miglia  da  Ariano,  da  parte  del  generale  Bo- 
nanno, gli  veniva  consegnato  un  urgentissimo  messaggio^  recato  da 
apposita  staffetta,  contenente  l'ordine  di  recarsi  aNapoli  ;  ed  egli 
dovè  proseguire  il  viaggio  con  la  moglie  ed  i  figli  in  carrozza,  per- 
chè, pochi  giorni  prima,  caduto  a  terra  per  un  male  sopravvenu- 
togli, si  era  ferito  a  un  ginocchio.  Giunto  nelle  prime  ore  della 
notte  a  Grottaminarda,  fu  fermato  sulla  via  da  un  drappello  d'in- 
sorti avellinesi,  mandato  dal  De  Concily  ad  arrestarlo.     Coman- 

Db  Oeiabe,  La  fine  di  un  Regno  •  VoL  II.  88 


-  354  - 

dava  il  drappello,  sprovvisto  completamente  di  armi,  Francesco 
Peperò,  e  ne  facevano  parte  Florestano  Galasso  e  Vincenzo  Sal- 
zano. Grii  insorti  trattarono  con  ogni  riguardo  il  generale  e  la 
sua  signora,  e  lo  condussero  alla  presenza  del  vecchio  De  Concily, 
che  lo  trattenne,  e  due  giorni  dopo,  il  9  settembre,  lo  lasciò 
prosegure  per  Avellino,  già  occupata  dal  generale  Tùrr.  Di  là,  il 
Flores  scrisse  al  generale  Bonanno  il  quale  aveva  preso  il  co- 
mando della  colonna,  "  che  il  prodigare  inutil  sangue  riputava 
"  folle  provvedimento,  senza  punto  vantaggiare  quella  causa  de- 
"  bollata  in  Sicilia  pria,  a  fronte  delle  migliori  truppe  delle  quali 
"il  Eegno  disponesse,  e  di  poi  in  tutti  li  punti  del  Napoletano; 
"  e  massime  negli  Abruzzi,  nelle  Calabrie,  che  offrivano  ben  altri 
"  elementi  a  poter  resistere  ;  eppure  nulla  erasi  operato  da  miglio- 
„  rare  un  avvenire  inevitabile  „ .  Consigliava  quel  generale,  di 
non  menare  a  selvaggia  carneficina  un  pugno  di  gente  che  dovea 
infallibilmente  soccombere^  e  concludeva  che,  se  lui,  Bonanno,  ab- 
bisognasse di  un  ordine,  per  si/fattamente  governarsi,  gì'  impartiva 
l'ordine  e  ne  assumeva  la  responsabilità. 

Chiudendo  il  suo  scritto,  il  maresciallo  Flores  accenna  alle 
cause  generali  che  resero  impossibile  ogni  seria  resistenza  mi- 
litare in  Sicilia,  prima  e  poi  nel  continente  ;  e  giova  riferire  le 
sue  parole,  perchè  esse  confortano  autorevolmente,  nella  bocca 
di  un  uomo  che  prese  parte  a  quegli  avvenimenti,  quanto  io  ho 
detto.  "  Si  dovè  cedere,  scrisse  il  Flores,  perchè  impossibile  era 
"resistere;  perchè  l'elaborata  opera  della  Rivoluzione  era  con- 
"sumata;  perchè  la  truppa  difettava  dove  impellente  erane  il 
"  bisogno  ;  soverchiava  dove  non  era  necessaria  ;  ordini  e  con- 
"  trordini  sucoedevansi  ;  tutto  era  messo  in  opera  per  disgustare 
"  ed  alienare  quelli  che  sempre  dato  avean  saggio  di  devozione 
"  e  di  fedeltà  ;  infine,  era  suonata  quell'ora  fatale  designata  dal 
"  destino,  in  cui  il  Trono  dovea  crollare  „ .  Per  invito  del  De 
Sanctis,  nominato  governatore  di  Avellino  dal  dittatore,  Flores 
si  recò  poi  a  Napoli,  dove  Garibaldi  lo  ricevette  al  palazzo  d'An- 
gri,  dichiarandosi  soddisfatto  della  condotta  di  lui.  Flores  mori 
nel  1868. 

Dopo  lo  sbandamento  di  Ghio  e  la  dissoluzione  di  tutto  l'eser- 
cito in  Calabria,  il  ministero  non  si  raccapezzò  più.  Il  gior- 
no innanzi,  cioè  il  29  agosto,  nel  Consiglio  di  Stato  era  stato 


-  365  - 

deciso  di  resistere  a  Garibaldi  e  di  attaccarlo,  ove  ne  fosse  il 
caso,  tra  Eboli  e  Salerno  o  tra  Salerno  e  Napoli.  Fra  le  truppe 
di  Calabria,  i  battaglioni  stranieri  distaccati  fra  Napoli  e  Sa- 
lerno, e  la  guarnigione  di  Napoli,  si  poteva  disporre  di  60  000 
uomini,  con  abbondanti  provvigioni  da  guerra  e  da  bocca,  alle 
quali  si  sarebbe  potuto  anche  più  largamente  provvedere  con 
una  parte  dei  sei  milioni  di  ducati,  del  prestito  fatto  con  Roth- 
schild.  "  Io  non  dissimulo,  disse  Spinelli  in  quel  Consiglio,  che 
"  sventuratamente  il  nostro  esercito  è  demoralizzato  e  sconfidato  ; 
"  ma  quando  il  Re  si  porrà  alla  testa,  esso  riprenderà  il  corag- 
"  gio  e  la  disciplina,  e  si  rifarà  delle  patite  sconfitte.  E  se  pur 
"  sarà  destino  il  soccombere,  cadremo  con  onore,  e  ci  salveremo 
"dall'onta  di  fuggire  d'innanzi  ad  un  pugno  di  uomini,  i  quali 
"  altra  forza  non  hanno,  che  il  prestigio  dell'ardito  loro  capo  „ . 
E  soggiunse  :  "  Che  se  V.  M.  pensasse  invece  lasciar  la  capitale, 
"  e  provvedere  altrimenti  alla  difesa  dello  Stato,  lo  faccia  pure  ; 
"  ma  prenda  immediatamente  le  opportune  disposizioni  ed  operi 
"  con  la  massima  energia,  perchè  ogni  istante,  che  si  perde,  può 
"  compromettere  le  sorti  del  Regno  „.  Il  ministro  della  guerra, 
che  vedeva  sfumato  il  suo  piano  di  difesa  in  Calabria,  ne  fece 
un  altro  per  la  difesa  presso  Salerno,  ma  proponeva  che  il  Re 
marciasse  a  capo  delle  truppe,  al  fine  di  rialzare  il  morale  dei 
soldati,  dopo  l'effetto  disastroso,  che  i  fatti  di  Calabria  avevano 
prodotto  sulle  milizie.  Il  vecchio  Carrascosa,  chiamato  a  con- 
siglio, disse  al  Re  :  "  Vostra  Maestà  monti  a  cavallo,  e  noi  sa- 
"  remo  tutti  con  Vostra  Maestà  ;  o  cadremo  da  valorosi,  o  but- 
"  teremo  Garibaldi  in  mare  „ .  Anche  Ischitella  era  di  questo 
avviso,  ma  voleva  per  sé  il  comando  supremo  dell'esercito,  e 
parve  molto  irritato  di  non  ottenerlo,  dopo  che  il  Re  gli  fece 
discutere  il  piano  di  battaglia  col  ministro  Pianell,  e  ne  lesse 
la  relazione,  firmata  solo  da  lui ,  Ischitella,  poiché  Pianell,  non 
approvando  la  nomina  di  costui,  non  volle  sottoscriverla.  Si 
detestavano  a  vicenda  i  due  uomini,  e  l' Ischitella  non  rispar- 
mia il  Pianell  nel  suo  opuscolo,  il  quale  rivela  ancora  una  volta 
nello  scrittore  un  uomo  vanitoso  e  romoroso,  che  aveva  servi- 
to Murat  e  Ferdinando  II  fino  alla  morte,  e  che,  generale  della 
guardia  nazionale  con  don  Liborio  Romano,  lasciò  questo  uffi- 
cio ;  aspettando  il  comando  supremo  dell'esercito  per  combattere 
Garibaldi.     Quanto  pronto  di  favella,   tanto  egli  era  inetto  al- 


-  366  - 

l'azione,  ombroso  e  collerico,  ma  nell'  insieme,  non  privo  di  solda- 
tesca sincerità.  Passarono  cosi  alcuni  giorni,  sino  a  che,  nella 
notte  dal  30  al  31,  si  seppe  l'inconcepibile  sbandamento  di 
Soveria,  e  lo  incedere  trionfante  della  rivoluzione  in  Calabria  e 
in  Basilicata,.  I  generali  non  credettero  più  di  sicura  riuscita 
il  disegno  di  Pianell,  perdettero  la  bussola  ancbe  loro,  e  di  altro 
non  8Ì  parlò  che  di  tradimenti,  di  oro  piemontese  e  di  causa 
disperata.  Una  nuova  spedizione  di  truppe  in  Calabria  fu  cre- 
duta inutile.  Gli  ordini  erano  stati  dati,  ma  proprio  nel  momento 
dell'  imbarco  giunse  il  contrordine,  provocato  dalle  solite  esage- 
razioni, che  Q-aribaldi,  dopo  lo  sbandamento  di  Soveria,  mar- 
ciasse, senz'altri  ostacoli,  su  Napoli,  e  vi  potesse  arrivare  da  un 
momento  all'altro. 

Il  Re  mostravasi  calmo,  come  persona  cbe  mediti  qualcbe 
nuovo  disegno.  La  regina  Maria  Sofìa,  più  risoluta,  accettava 
senza  discuterlo  qualunque  piano  di  azione,  e  insisteva  ohe  il 
Re  si  mettesse  a  capo  dell'esercito,  offrendosi  di  seguirlo.  Fran- 
cesco II  assisteva  passivamente  ai  consigli  dei  generali;  ma 
questi  non  venivano,  in  maggioranza,  ad  altra  conclusione  che 
non  fosse  la  loro  sfiducia  nell'esercito  e  nel  ministro  della  guer- 
ra; che  anzi  il  Bosco,  promosso  da  poco  a  generale,  arrogante 
quanto  loquace,  perchè  si  era  battuto  con  valore  in  Sicilia,  cri- 
ticava senza  mistero  il  piano  del  ministro  e  osservava  che,  uscen- 
do il  Re  da  Napoli,  vi  sarebbe  scoppiata  la  rivoluzione  e  il  Re  si 
sarebbe  trovato  fra  due  fuochi.  Queste  critiche  ed  osservazioni 
del  Bosco  riuscivano  assai  gradite  al  Re,  il  quale  usava  molto  fa- 
miliarmente con  lui  e  lo  chiamava  Ferdinandino.  Ischitella,  che 
vedeva  Francesco  II  tutt'i  giorni,  contribuiva  con  le  sue  esage- 
razioni e  contraddizioni,  a  confondergli  la  testa.  Egli  consi- 
gliava bensì  un'azione  vigorosa  col  Re  a  capo  dell'esercito,  ma 
sconsigliava  di  lasciar  Napoli.  Ed  il  Pianell,  allora,  visto  che 
le  sue  proposte  non  venivano  accolte  e  che  il  Re  non  si  deci- 
deva a  nulla,  e  visto  dall'altro  lato  che  Garibaldi  e  la  rivolu- 
zione si  avanzavano  senz'altro  ostacolo,  manifestò  a  Spinelli  il 
proposito  di  dimettersi  da  ministro  e  da  generale,  e  lasciar  Napoli. 

Le  incertezze  del  Re  contribuivano  a  rendere  più  difficile 
l'opera  dei  ministri,  i  quali,  eccetto  il  Romano,  erano  profon- 
damente inquieti.  Il  presidente  del  Consiglio,  che  aveva  accet- 
tato il  governo,  come  il  compimento  di  un  sacro  dovere,  appa- 


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riva  preoccupato  e  triste  ;  il  principe  di  Torcila,  nervoso  più  del 
consueto  ;  e  De  Martino,  pur  mostrandosi  disinvolto  e  sorridente, 
rivelava  anche  lui  di  aver  perduta  ogni  fede  nella  diplomazia.  I 
ministri  intendevano  che  il  fatale  momento  si  appressava,  e  non 
si  dissimulavano  che  l'autorità  loro  presso  il  Re  andava  ogni 
giorno  diminuendo,  e  ohe  l'azione  civile  del  governo  quasi  non 
esisteva  più.  L'azione  era  tutta  militare,  se  azione  poteva  dirsi. 
I  consigli  di  generali  si  succedevano,  ma  si  rifuggiva,  come  s'è 
visto,  da  ogni  risoluzione,  né  sarebbe  proprio  possibile  ricosti- 
tuire la  storia  precisa  di  quei  giorni  famosi,  perchè,  coloro  che  vi 
ebbero  parte,  la  narravano  ciascuno  a  modo  suo,  e  ciascuno  aveva 
ragione,  mentre  la  verità  è  che  tutti  si  mostrarono  inferiori  alla 
singolare  gravità  del  caso.  Avvenivano  le  cose  più  strane.  Il 
generale  Ritucci  si  era  dimesso  da  comandante  della  piazza  di 
Napoli,  e  nonostante  che  il  ministero  si  fosse  opposto  alla  no- 
mina del  generale  Cutrofiano  a  successore  di  lui,  il  Re  la  volle. 
Era  il  Cutrofiano  tenuto  in  conto  di  retrivo  e  di  uomo  violento, 
e  nella  sua  nomina  si  vide  una  minaccia  di  reazione.  Il  mini- 
stero lasciò  intendere  al  Re  che  si  sarebbe  dimesso,  anzi  pre- 
sentò le  dimissioni.  Francesco  non  ne  parve  spaventato,  e  per 
un  momento  sembrò  deciso  a  nominare  un  ministero  di  re- 
sistenza, e  a  farla  finita  con  la  rivoluzione.  Non  a  Pietro  Ul- 
loa,  ma  ad  Ischitella  die  l' incarico  di  formare  il  nuovo  ministe- 
-ro,  ma  al  solito,  quando  si  fu  all'esecuzione,  il  vecchio  generale 
non  seppe  cavarsela,  perchè,  come  egli  confessa,  tutti  si  rifiuta- 
vano di  essere  ministri  in  quel  momento,  in  cui  si  vedeva  la  dis- 
soluzione del  Regno,  e  nessuno  voleva  compromettersi.  Interpellò 
Stanislao  Falconi,  Pietro  Ulloa  e  Niccola  Gigli,  i  quali  tutti  e 
tre,  sia  per  la  gravità  della  situazione,  sia  per  la  poca  serietà  di 
lui,  risposero  di  no. 

Erano  giorni  di  tristezza  e  di  confosione  nella  Reggia  e  nel 
governo.  Consigli  diversi,  proposte  contradittorie,  paure,  so- 
spetti, malignazioni  e  soprattutto  esagerazioni,  che  s'incrocia- 
vano, mentre  i  fedeli  continuavano  a  disertare  la  causa  e  il  nu- 
mero degli  unitarii  cresceva  in  ragione  geometrica.  Si  afifermava, 
e  io  credo  con  qualche  fondamento,  che  il  generale  G-irolamo 
Ulloa,  venuto  a  Napoli  in  quei  giorni,  e  bene  accolto  dal  par- 
tito legittimista,  avesse  fatto  proporre  al  Re  di  assumere  il  co- 


—  358  — 

mando  in  capo  delle  truppe,  per  dar  battaglia  a  Garibaldi 
nella  pianura  di  Eboli.  L'Ulloa  aveva  alta  reputazione  mili- 
tare. Si  era  battuto  a  Yenezia  con  Pepe  ;  era  stato  dieci  anni 
in  esilio  a  Firenze,  dove  ebbe  il  comando  dell'esercito  toscano 
dal  governo  provvisorio,  dopo  la  partenza  del  Granduca.  In 
questo  comando  non  fece  buona  prova,  anzi  die  origine  a  so- 
spetti di  varia  natura,  avvalorati  dalla  circostanza  cbe,  durante 
l'esilio,  era  vissuto  in  intimità  con  l'elemento  più  retrivo  di  Fi- 
renze, rivelando  per  le  cose  di  Napoli  opinioni  non  decisamente 
nazionali  e  unitarie,  anzi  francesi  e  murattiste.  Quando  Rica- 
soli  e  Farini  conclusero  la  lega  militare  dell'Italia  centrale, 
gli  preferirono  nel  comando  supremo,  prima  Garibaldi  e  poi  il 
Fanti.  Di  ciò  irritato  stranamente,  l'Ulloa  si  recò  a  Napoli 
dov'era  suo  fratello  Pietro,  amico  del  conte  d'Aquila  e  mescolato 
con  lui  in  quel  dubbio  conato  di  cospirazione  ;  né  quindi  è  inve- 
rosimile cbe  facesse  offrire  la  sua  spada  al  Re,  come  fu  detto. 
Ma  l'offerta  non  poteva  essere  accolta  per  la  sfiducia,  cbe  il  nome 
di  lui  destava  negli  ufficiali  più  vecchi  e  più  zelanti,  i  quali  ricor- 
davano che  l' Ulloa,  essendo  andato  con  Pepe  a  Venezia,  aveva  di- 
subbidito agli  ordini  di  Ferdinando  II,  e  aveva  poi  servita  la  rivo- 
luzione in  Toscana.  Si  disse  pure  che  Pianell,  nutrendo  gelosia  per 
l'Ulloa,  non  volesse  lasciargli  l'onore  di  salvare  la  dinastia.  Di  ciò 
mancano  documenti  autentici,  sebbene  la  cosa  non  sia,  lo  ripeto, 
inverosimile.  Punto  verosimile,  al  contrario,  è  quanto  il  Nisco 
afferma,  che,  cioè,  Girolamo  Ulloa  appartenesse  alla  cospirazione 
promossa  dal  conte  d'Aquila,  la  quale  non  fu  mai  cosa  concreta, 
come  il  Nisco  stesso  l'afferma,  esagerandone  l' importanza,  più  di 
quanto  non  l'abbia  ingrandita  lo  stesso  Romano,  interessato  a 
gonfiarla,  per  accrescersi  il  merito  di  averla  soffocata.  Nulla,  nulla 
prova  che  Girolamo  Ulloa  partecipasse  a  quel  complotto,  anzi  è 
da  credere  l'opposto,  perchè  l' Ulloa  era  in  voce  di  murattista  e 
il  barone  Ricasoli  aveva  persino  sospettato  che  egli  lavorasse 
a  Firenze  nell'  interesse  del  principe  Napoleone  per  la  creazione 
di  un  Regno  di  Etruria.  Certo,  i  suoi  rapporti  col  principe  Na- 
poleone furono  molto  intimi. 

Ogni  giorno  si  annunziavano  nuove  fughe  di  fedeli^  e  nuove 
conversioni  di  quelli  che  restavano.  Si  dimettevano  anche  il 
conte  di  Trani  e  il  conte  di  Trapani:  il  primo,  da  colonnello 
di  stato  maggiore,  e  il  secondo,  da  ispettore  della  guardia  reale. 


-  369  — 

Il  Pianell  dichiarava,  ohe,  allo  stato  delle  cose,  non  gli  conve- 
niva rimanere  più  oltre  nel  ministero.  Scrisse  direttamente  al 
Re  la  sera  del  2  settembre,  inviando  le  sue  dimissioni  anche  da 
generale,  spiegando  i  motivi  che  lo  inducevano  a  questo  passo, 
e  chiedendo  il  permesso  di  allontanarsi  dal  Regno.  Contempo- 
raneamente il  ministero,  sentendosi  completamente  esautorato, 
senza  ministro  della  guerra  e  senza  comandante  della  guardia 
nazionale,  e  quasi  certo  di  essere  riuscito  a  scongiurare  la  guerra 
civile  nelle  mura  di  Napoli,  ripresentò,  la  mattina  del  3  settem- 
bre, le  sue  dimissioni.  Francesco  II  mandò  il  desiderato  permesso 
a  Pianell,  che  lasciò  Napoli  la  sera  del  3,  e  in  quello  stesso  giorno 
nominò  comandante  della  guardia  nazionale  il  vecchio  generale 
Roberto  de  Sauget;  ma  non  accettò  le  dimissioni  del  ministero, 
forse  preoccupato  dallo  spavento  che  al  primo  annuncio  di  quelle 
dimissioni  s'era  destato  in  Napoli,  nonché  per  l'ordine,  che  si  di- 
ceva da  lui  dato  ai  comandanti  dei  forti,  di  tirare  sulla  città,  al 
primo  accenno  di  sommossa  o  all'appressarsi  di  Garibaldi.  I  libe- 
rali, unitarii  e  autonomisti,  facevano  da  parte  loro  vive  premure 
ai  ministri  dimissionarii  perchè  rimanessero  al  loro  posto.  Il 
Re  richiamò  Spinelli  la  sera  del  3,  e  gli  fece  intendere  che  ave- 
va già  in  mente  una  risoluzione  definitiva,  e  che  forse  il  do- 
mani gliel'avrebbe  comunicata.  I  ministri,  pur  non  ritirando 
le  dimissioni,  rimasero  al  loro  posto,  ma  l'agitazione  a  Napoli 
in  quei  giorni  fu  indescrivibile,  anche  perchè  venne  ad  arte  spar- 
sa la  voce  che  il  Re  avesse  promesso  alla  plebaglia  di  far  la 
santafede  all'avvicinarsi  di  Garibaldi. 

Il  solo  che  sembrava  incosciente  di  quel  che  avveniva,  era 
don  Liborio  Romano,  nuotante  fra  le  opposte  correnti,  senza  un 
fine  preciso,  né  la  visione  di  quel  ch'egli  volesse;  ma  in  ap- 
parenza sorridente  e  sicuro  di  se.  Fin  dal  20  agosto,  egli  (si 
legge  nelle  sue  Memorie)  aveva  presentato  al  Re  un  memoran- 
dum^ scritto  da  lui  :  memorandum,  che  non  fu  letto  in  Consiglio 
di  ministri,  ma  che  i  ministri  conoscevano,  secondo  egli  afferma, 
senza  darne  prova.  In  questo  documento,  il  Romano  rilevava 
1*  incompatibilità,  ogni  giorno  crescente,  fra  il  popolo  e  la  dina- 
stia, e  la  impossibilità  nei  ministri  costituzionali  di  modificare 
0  disprezzare  il  sentimento  pubblico  come  anche  l' impossibilità  di 
fermare   Garibaldi,   il  quale,   aiutato   dal   Piemonte,   procedeva 


—  360  - 

vittorioso,  essendo  la  regia  marina  in  piena  dissoluzione  ed  aven- 
do l'esercito  rotto  ogni  vincolo  di  disciplina  e  di  obbedienza  gerar' 
chica.  Sconsigliava  la  resistenza  e,  unica  via  di  salute,  propo- 
neva al  Re  di  allontanarsi  dalla  capitale  "  Che  la  M.  Y.,  con- 
"  eludeva,  si  allontani  per  poco  dal  suolo  e  dalla  Reggia  dei 
"  suoi  maggiori  ;  che  investa  di  una  reggenza  temporanea  un 
"  ministero  forte,  fidato,  onesto,  a  capo  del  quale  sia  preposto, 
"  non  già  un  principe  reale,  la  cui  persona,  per  motivi  che  non 
"  vogliamo  indagare,  ne  farebbe  rinascere  la  fiducia  pubblica,  ne 
"  sarebbe  garentia  solida  degl'interessi  dinastici,  ma  bensì  un 
"  nome  cospicuo,  onorato,  da  meritar  piena  la  confidenza  della 
"  M.  V.  e  del  paese  „.  E  naturalmente,  questo  nome  cospicuo  ed 
onorato  non  poteva  essere  che  il  suo. 

Ammesso  che  questo  memorandum  fosse  stato  presentato  ve- 
ramente il  giorno  20  agosto,  secondo  afferma  il  Romano,  questi 
nel  Consiglio  del  29  approvava,  insieme  con  gli  altri  ministri, 
la  resistenza  a  Garibaldi  fra  Salerno  e  Napoli,  e  una  nuova  e 
vivace  protesta,  che  il  De  Martino  inviò  alle  potenze  appena 
fu  conosciuto  lo  sbarco  di  Garibaldi  in  Calabria.  E  poiché  alle 
cose  più  serie  di  questo  mondo  si  accompagna  sempre  una  nota 
di  comicità,  il  giorno  30  venne  fuori  un  decreto  del  29  che 
autorizzava  lui  stesso,  Romano,  ministro  dell'  interno,  a  creare  un 
debito  di  sessantamila  ducati,  per  costruire  e  addobbare  la  sede 
provvisoria  del  Parlamento  alle  Fosse  del  grano!  Don  Liborio  si 
apparecchiava  ad  aprire  il  Parlamento  napoletano  con  la  stessa 
incoscienza,  con  la  quale  lasciava  credere  ai  cavurriani,  che  egli  era 
lì  per  indurre  il  Re  a  lasciar  Napoli  e  ad  affrettare  il  compimento 
dell'unità  nazionale;  ai  garibaldini  e  ai  mazziniani  del  Comitato 
di  Azione,  ch'egli  stava  lì  ad  impedire  che  l'unità  d'Italia  si 
compisse  a  benefìzio  del  Piemonte,  resistendo  agl'intrighi  di 
Villamarina  e  di  Persane  e  alle  sollecitazioni  del  Comitato  del- 
l'Ordine ;  ed  agli  autonomisti,  che  fosse  in  pericolo  l'autonomia  e 
l'indipendenza  del  Regno! 

Banderuola  in  balia  dei  venti,  Liborio  Romano  si  dava  l'aria 
di  dominar  lui  i  venti,  compiaciuto  e  soddisfatto  di  sé  ;  dava  ra- 
gione a  tutti  ed  era  il  solo  dei  ministri,  che  non  sembrasse 
impensierita)  del  domani.  I  borbonici  lo  bollarono  per  traditore, 
mentre  i  cavurriani  di  Napoli  lo  attaccarono  con  violenza  e  non 
sempre  con  giustizia,  e  il  solo,  ohe  ne  tentasse  la  difesa,  fu  quel 


-  361  - 

partito  di  Sinistra,  il  quale,  generato  dal  Comitato  di  Azione, 
reclutò  nelle  sue  fila  quanti  vi  erano  più  malcontenti,  più  tur- 
bolenti e  più  retrivi;  nel  quale  partito  il  Romano  si  schierò  e 
militò  finché  visse,  detestando  i  moderati  e  il  loro  governo,  e 
forse,  in  cuor  suo,  punto  dal  rimorso  di  dover  passare  alla  storia 
per  traditore.  Egli  non  tradì,  perchè  non  ebbe  la  coscienza  esatta 
di  quel  che  facesse,  ilia  si  lasciò  trascinare  dalla  corrente:  ca- 
poscuola glorioso  di  tutti  quei  voltafaccia  politici  e  parlamentari, 
più  in  piccolo  e  più  volgarmente  egoistici,  dei  quali  siamo  testimo- 
ni ogni  giorno  in  questo  periodo  di  parlamentarismo  degenerato. 
I  fatti  non  confortano  l'accusa  di  tradimento,  ne  questa  si  sareb- 
be levata  contro  Liborio  Romano,  se  egli,  senza  interruzione, 
non  fosse  rimasto  ministro  di  Garibaldi,  e  non  avesse  assunto, 
quasi  dal  primo  giorno,  un  contegno  di  ostilità  stizzosa  contro 
tutto  ciò  che,  sia  pure  inconsapevolmente,  egli  stesso  aveva  con- 
tribuito a  creare.  Don  Liborio,  dopo  trentanove  anni  di  regime 
parlamentare,  non  può  giudicarsi  un  fenomeno  morale  inverosi- 
mile, né  una  pianta  esotica  del  nostro  paese  ! 


CAPITOLO  XVII 


SoHHABio:  Il  Re  si  decide  a  lasciare  Napoli  —  Suo  colloquio  con  Carlo  de  Ce- 
sare —  Garibaldi  a  Eogliano,  a  Botonda,  ad  Auletta  e  a  Salerno  —  Confusio- 
ne e  timori  a  Napoli  —  Incidente  caratteristico  —  I  capibattaglione  della 
guardia  nazionale  e  il  sindaco  dal  He  —  Consiglio  di  Stato  del  5  settembre  — 
Timori  per  la  partenza  del  Re  —  Il  proclama  reale  —  Chi  lo  possiede  —  II  ma- 
nifesto del  prefetto  di  polizia  —  Preparativi  per  la  partenza  —  Il  notamente 
degli  oggetti,  ohe  Francesco  II  portò  a  Gaeta  —  Il  Re  al  marchese  Impe- 
riale —  I  ministri  e  i  direttori  dal  Re  —  Sue  parole  a  don  Liborio  e  a 
Giacchi  —  L'ultimo  baciamano  e  gli  ultimi  addii  —  Dalla  Reggia  al  porto 

—  H  corpo  diplomatico  —  Bermudez  de  Castro  —  La  protesta  alle  potenze 

—  Si  parte  alle  ore  sei  —  Incidenti  e  particolari  —  I  teatri  di  Napoli  la 
sera  del  6  settembre  —  Il  ministero,  il  sindaco  e  il  comandante  della  guardia 
nazionale  —  La  traversata  dei  Sovrani  da  Napoli  a  Gaeta  —  Le  navi  regie 
si  rifiutano  d'obbedire  —  Aneddoti  —  Francesco  II  e  Vincenzo  Criscuolo  — • 
Il  telegramma   di   Garibaldi  a  don  Liborio  —  La  risposta  di  don  Liborio 

—  Gli  episodii  di  Salerno  e  le  irrequietezze  di  Garibaldi  —  Sua  improvvisa 
risoluzione  di  partire  per  Napoli  —  I  particolari  di  quel  viaggio  e  i  per- 
sonaggi che  accompagnarono  il  dittatore  —  Arrivo  dei  Sovrani  a  Gaeta  la 
mattina  del  7  settembre,  e  arrivo  di  Garibaldi  a  Napoli,  a  un'ora  —  Inci- 
denti alla  stazione  di  Napoli  —  La  folla  separa  Garibaldi  da  Cosenz  —  Il 
sindaco  D'Alessandria  sparisce  —  A  Gaeta  e  le  parole  del  padre  Borrelli. — 
Particolari  inediti  —  Fine  del  Regno. 

In  tante  incertezze,  inquietudini  e  abbandoni,  il  E,e  carez- 
zava il  suo  partito  :  lasciar  Napoli  e  andare  a  Gaeta,  chiamarvi 
quella  parte  della  flotta  che  non  aveva  disertato,  e  concentrando 
fra  Gaeta  e  Capua  le  truppe  disponibili,  formar  la  linea  di  di- 
fesa tra  le  due  fortezze  e  tra  il  Volturno  e  il  Garigliano,  con 
la  frontiera  libera  sino  a  Roma.  Le  provinole,  da  Napoli  in  su, 
non  erano  insorte,  né  si  prevedeva  la  spedizione  di  Fanti  e  di 
Cialdini  nell'Italia  centrale,  ne  la  sconfitta  di  Lamoricière  a 
Castelfidardo,  né  la  presa  di  Ancona,  né,  infine,  la  marcia  di  Vit- 


-  364  - 

torio  Emmanuele  per  le  Marche,  verso  il  Regno  :  marcia  compiuta 
trale  maraviglie  dell'  Europa  liberale,  e  una  specie  di  pauroso  stu- 
pore dell'  Europa  reazionaria.  Tra  due  fortezze  ben  agguerrite  e 
con  milizie  fedeli,  poteva  Francesco  II  opporre  salda  e  lunga  re- 
sistenza :  con  una  sola  sconfìtta  il  prestigio  di  Garibaldi  sarebbe 
finito  e  finito  con  esso  il  prestigio  della  rivoluzione.  Avveduto 
consiglio,  che  si  disse  mandato  dall'Austria  e  dal  Lamoricière,  e 
che  il  Re,  alla  fine,  decise  di  seguire,  ma  senza  farlo  ancora 
intravedere  ai  suoi  ministri. 

Nella  notte  dal  3  al  4  settembre,  egli  mandò  a  chiamare 
d'urgenza  il  direttore  delle  finanze  Carlo  de  Cesare,  il  quale, 
dopo  la  partenza  del  Manna  per  Torino,  funzionava  da  ministro, 
e  dopo  avergli  detto  che  era  deciso  di  abbandonare  con  l'eser- 
cito la  capitale,  per  muovere  contro  Garibaldi,  soggiunse  essere 
assolutamente  necessario  provvedersi  del  danaro  occorrente  per 
oltre  la  quindicina.  Il  De  Cesare  rispose  che  non  gli  era  pos- 
sibile secondare  tali  desiderii,  prima  che  spirasse  la  decade. 
Il  Re  replicò  che  bisognava  in  ogni  caso  provvedere,  ricorrendo 
alle  casse  del  Banco  ;  ma  il  De  Cesare  replicò  che,  reggendo  lui 
il  ministero  delle  finanze,  non  lo  avrebbe  mai  consentito,  essen- 
do i  depositi  'privati  una  cosa  sacra  ;  ad  ogni  modo,  ove  il  Re 
credesse  diversamente,  poteva  bene  esonerarlo  dall'ufficio.  Fran- 
cesco II  tornò  a  insistere,  ma  il  direttore  tenne  fermo.  Il  Re 
lo  licenziò  dopo  averlo  presentato  alla  Regina,  che  conversava 
con  alcuni  uffiziali.  Uscito  dalla  Reggia,  il  De  Cesare  si  recò 
dal  Ciccarelli,  reggente  del  Banco  e  lo  avverti  a  trovarsi  d'ao- 
cordo  con  lui,  ove  il  Re  persistesse  nel  pensiero  di  chiedere  i 
depositi  privati'     Ma  il  Re  non  vi  persistette. 

Garibaldi  passò  la  giornata  del  31  agosto  a  Rogliano,  in  casa 
Morelli,  e  vi  dettò  due  decreti:  con  uno  aboliva  la  tassa  sul 
macinato  per  tutte  le  granaglie,  tranne  per  il  frumento,  e  ridu- 
ceva il  prezzo  del  sale;  e  con  l'altro  concedeva  ai  poveri,  gra- 
tuitamente, gli  usi  di  pascolo  e  di  sementa  nelle  terre  demaniali 
della  Sila.  Passò  la  notte  seguente  a  Cosenza  e  ne  riparti  il  primo 
settembre,  accompagnato  da  non  più  di  trenta  persone,  fra  uffi- 
ciali e  guide.  Ricordo,  tra  gli  altri,  Enrico  Cosenz  che  non  lo 
lasciò  più  sino  a  Napoli;  Thùrr,  Corte,  Caldesi,  Avezzana,  Mu- 
solino,  Nullo,  Mordini,  Missori,  Serafini,   e   due   giornalisti,  che 


—  365  -- 

erano  anche  volontari!:  Carlo  Arrivabene  e  Antonio  Gallenga, 
corrispondenti  di  giornali  inglesi.  Attraversando  il  resto  della 
Calabria,  sino  al  primo  paese  di  Basilicata,  che  fu  Rotonda,  trovò 
la  rivoluzione  compiuta  dappertutto.  Fra  i  molti  scrittori,  i  qualij 
più  0  meno  confusamente,  descrissero  quella  marcia,  vanno  ec- 
cettuati Giacomo  Racioppi  e  Michele  Lacava,  le  cui  narrazioni 
Bono  precise  e  documentate. 

Da  Rotonda,  dove  giunse  il  2  settembre,  Garibaldi  scese  alla 
marina  di  Scalea,  dove  s' imbarcò.  Arrivò  la  sera  del  3  a  Sapri 
dov'  era  approdata,  il  giorno  innanzi,  la  divisione  di  Rustow  e 
Pianciani,  la  quale,  ultima  arrivata,  divenne  l'avanguardia  del- 
l'esercito garibaldino.  Il  giorno  4,  il  dittatore  si  fermò  all'osteria 
del  Fortino,  presso  Casalnuovo,  dove  ricevè  Niccola  Mignogna  e 
Pietro  Lacava,  che  lo  salutarono  a  nome  del  governo  provvisorio 
di  Basilicata  e  gli  portarono  seimila  ducati,  in  tante  piastre  e 
colonnati:  somma  che  riusci  gradita  al  Dittatore  e  fu  spesa,  quasi 
tutta,  in  sussidii  ai  soldati  di  Caldarelli,  i  quali,  dopo  la  capitola- 
zione di  Cosenza,  si  ritiravano  verso  Napoli  e,  dopo  una  nuova  ca- 
pitolazione fatta  con  Garibaldi,  deposero  le  armi.  Mignogna  e  La- 
cava  si  unirono  al  dittatore,  e  con  lui  passarono  la  notte  a  Salerno 
ed  entrarono  il  7  settembre  a  Napoli,  come  si  dirà.  All'alba  del 
6  Garibaldi  fu  in  Auletta,  dove  ricevè  Giacinto  Albini,  altro 
prodittatore  di  Basilicata,  e  lo  nominò  governatore  della  stes- 
sa provincia,  con  pieni  poteri.  Ricevè  pure  Salvatore  Tom- 
masi  e  Raffaele  Pirla,  delegati  del  Comitato  dell'Ordine,  e  Giu- 
seppe Libertini,  delegato  del  Comitato  di  Azione,  i  quali  anda- 
rono da  lui  per  ottenere  ch'egli,  arrivando  a  Napoli,  prendesse 
consiglio  e  ispirazione  dai  rispettivi  Comitati;  ma  Garibaldi, 
in  quella  guisa  che  a  Casalnuovo,  aveva  nominato  Bertani  segre- 
tario generale  della  dittatura,  da  Auletta  scrisse  ai  due  Comi- 
tati di  Napoli ,  come  invito  alla  concordia,  queste  parole  :  "  Ai 
signori  Giuseppe  Libertini,  Raffaele  Conforti,  Giuseppe  Pisanelli, 
Filippo  Agresti,  Cammillo  Caracciolo  di  Bella,  Giuseppe  Ricciardi 
e  Andrea  Colonna:  —  Per  il  bene  della  causa  dell'unità  italiana^ 
vi  prego  di  riunirvi  a  comporre  il  Comitato  unitario  nazionale. 
Attendo  ogni  aiuto  dal  vostro  illuminato  e  ardente  patriottismo  „ . 
Libertini,  Agresti  e  Ricciardi  appartenevano  al  Comitato  di 
Azione  ;  Pisanelli,  Caracciolo  e  Colonna,  al  Comitato  dell'  Or- 
dine, e  Raffaele  Conforti  a  nessuno  dei  due,  pur  avendo  la  fidu- 


-  366  - 

eia  di  entrambi.  Ma  l'invito  di  Garibaldi  fu  senza  effetto,  o 
meglio  non  valse  che  a  lasciar  credere  ai  sette  su  norainati  che 
essi  fossero  investiti  di  suprema  sovranità,  non  esclusa  quella  di 
proclamare,  come  proclamarono,  il  di  seguente,  Garibaldi  ditta- 
tore del  Regno,  e  ciò  a  consiglio  di  Villamarina,  consigliato  alla 
sua  volta  da  Cavour,  il  quale  non  recedeva  dal  proposito  di  mo- 
strare alla  diplomazia,  che  il  movimento  aveva  qualche  cosa  di 
spontaneo  per  lo  meno  nella  città  di  Napoli. 

La  mattina  del  4  settembre,  intanto,  dopo  la  notizia  dello 
sbarco  della  colonna  di  Eustow  a  Sapri,  la  quale  si  diceva  forte 
di  quattromila  uomini,  mentre  in  realtà  era  assai  men  numerosa, 
ebbe  luogo  un  ultimo  Consiglio  di  generali,  il  quale,  ad  unani- 
mità, deliberò  di  non  potersi  resistere  a  Garibaldi,  ne  tra  Cam- 
pagna e  Salerno,  né  tra  Salerno  e  Napoli,  e  non  rimanere  altra 
linea  di  difesa  che  tra  Capua  e  Gaeta,  tra  il  Volturno  e  il  Ga- 
rigliano.  Non  v'era  più  ministro  della  guerra,  e  neppure  un  co- 
mandante della  piazza  di  Napoli,  che  aveva  lasciato  il  posto  il  gior- 
no innanzi,  senza  che  alcun  decreto  lo  deponesse.  Tutto  il 
ministero  era  dimissionario.  I  generali  sottoscrissero  un  ver- 
bale, e  lo  firmò  pure  Ischitella,  il  quale,  dopo  aver  firmato, 
spezzò  teatralmente  la  penna,  come  si  affermò.  I  ministri  dimis- 
sionarli avevano  di  nuovo  scongiurato  il  Re  a  smettere  ogni  pen- 
siero di  difesa  dentro  Napoli  ;  e,  pregati  dal  Re  di  dare  una  lista  di 
personaggi  per  formare  un  nuovo  ministero,  non  vi  si  rifiutarono, 
ma  fecero  intendere,  che  ne  il  Serracapriola,  né  il  Buonanno,  né  il 
Falconi,  ne  il  Roberti,  né  il  generale  Filippo  Colonna,  dei 
quali  si  facevano  i  nomi,  avrebbero  accettato,  avendo  già  alcuni 
di  costoro  resistito,  tre  giorni  prima,  all'  invito  d' Ischitella.  Il 
Re  fece  allora  un  ultimo  tentativo  con  Pietro  Ulloa,  e  la  no- 
tizia diffusa  dai  giornali  accrebbe  le  incertezze  e  le  paure.  Un 
ministero  preseduto  dall' Ulloa  sarebbe  stato  un  ministero  di  re- 
sistenza ad  ogni  costo,  specie  se  l' Ulloa,  come  si  aggiungeva 
avrebbe  preso  per  ministro  della  guerra  suo  fratello  Girolamo. 
Ruggiero  Bonghi,  nel  Nazionale^  faceva  dell'  ironia  a  spese  di  que- 
st'ultimo, dichiarando  di  credere  la  cosa  impossibile,  perchè  non 
era  lecito  di  credere,  che  Francesco  II  volesse  formare  il  ministero 
di  Gioacchino  Murat,  ne  che  Gioacchino  Murai  si  contentasse  che 
lo  si  fosse  formato  in  modo,  da  dover  essere  screditato  prima  di 
giungere.    Ma  tutto  l'articolo  rivelava  la  preoccupazione  e  il  ti- 


-  367  — 

more  di  una  reazione  violenta  e  sanguinosa,  e  concludeva  :  ^11  Re 
vuol  ancora  resistere  ?  Ebbene  s'accampi  coi  soldati  che  gli  restan 
fedeli  in  qualche  parte,  di  dove  Garibaldi  abbia  a  passare,  e  com- 
batta. Noi  compiangeremo  la  sua  risoluzione,  ma  non  vilipende- 
remo  la  sua  reale  fierezza  „ . 

Girolamo  Ulloa,  alla  sua  volta,  protestava  con  una  lettera 
contro  le  insinuazioni  del  Nazionale  e  contro  la  voce,  che  gli  fosse 
stata  fatta  direttamente  o  indirettamente  alcuna  offerta  di  porta- 
foglio, e  elle  egli  l'avesse  accettata  nell'  interesse  del  Murat.  Io 
rispondo  con  tutta  V  indignazione  di  un  uomo  onesto,  egli  diceva, 
offeso  gratuitamente  ;  essi  mentiscono ....  né  mai  il  pretendente  di 
Napoli  ha  trovato  un  nemico  più  pronunziato  di  me. 

Il  tentativo  dell'  Ulloa  non  riuscì.  Ebbe  più  rifiuti  cbe  non 
ne  avesse  avuti  l' Iscliitella  ;  e  tra  coloro,  cbe  rifiutarono,  fu  Giu- 
seppe Aurelio  Lauria,  consultore  di  Stato.  Si  rese  ancora  più 
manifesta  l'impossibilità  di  formare  un  governo.  I  generali,  in- 
terpetrando  forse  il  sentimento  del  Re,  che  aveva  resistito  ai 
consigli  di  tentar  la  difesa  a  Salerno  o  di  farla  a  Napoli,  dichia- 
rarono ch'era  meglio  farla  tra  Oapua  e  Gaeta:  consigli  tutti, 
che  si  succedevano  con  vertiginosa  confusione.  Solo  il  vecchio 
Carrascosa  disse  apertamente  al  Re  :  **  Se  Vostra  Maestà  mette  il 
piede  fuori  di  Napoli,  non  vi  tornerà  piìiy^*  H  futuro  storico 
dovrà  bene  fermarsi  su  questo  punto,  per  determinare  tutte  le  re- 
sponsabilità militari  di  quei  giorni.  Dico  tutte,  perchè  non  è  giu- 
stizia chiamar  capro  espiatorio  dello  sfacelo  il  solo  Pianell,  come 
fecero  gli  scrittori  legittimisti.  I  consigli  dei  militari  erano  anzi 
più  inconcludenti  e  contradittorii  di  quelli  dei  ministri  ;  lo  spi- 
rito di  corpo  si  era  affievolito  nei  capi  più  che  nei  soldati;  e 
i  capi  seguitavano  a  denigrarsi  ed  a  diffidare  l'un  dell'altro,  ed 
erano  venuti  quasi  tutti  in  sospetto  al  Re.  Si  confidava  nei 
battaglioni  stranieri,  ma  anche  questi,  stranamente  accozzati, 
risentivano  il  generale  malessere.  Oggi  però,  spente  le  ire,  si 
può  bene  affermare  che  ne  i  comandanti  dei  forti  ebbero  mai 
ordine  di  bombardare  Napoli,  come  generalmente  si  temeva 
e  forse  da  taluni  si  crede  ancora  ;  né  l' idea  di  tentare  la  di- 
fesa a  Napoli  fu  messa  innanzi  con  precisione  e  coraggio.  Fu 
davvero  desolante  lo  spettacolo,  che  presentavano  in  quei  giorni 
i  capi  dell'esercito.  Tutta  l'azione  del  ministero  mirava  invece 
ad  impedire  la  resistenza  dentro  Napoli,  ed  era  efficacemente  eoa- 


-  368  — 

diuvata  dal  cardinal  arcivescovo  Sisto  Riario  Sforza,  il  quale  prega- 
va il  Re  di  non  mutare  Napoli  in  un  campo  di  eccidio,  e  di  non  ar- 
recar danno  alle  tante  chiese  e  ai  cent'ottanta  monasteri  della  città. 

La  mattina  del  6  settembre,  il  Re  chiamò  Spinelli  e  parte- 
cipatogli che  aveva  deciso  di  ritirarsi  con  l'esercito  fra  Capua 
e  Gaeta,  gli  ordinò  di  scrivere  un  proclama  di  addio  ai  napo- 
letani. Licenziato  Spinelli,  il  Re  usci  dalla  Reggia  in  un  le- 
gnetto  scoperto,  insieme  con  la  Regina  e  due  gentiluomini. 
Non  appariva  impensierito  ;  mentre  la  Regina  sembrava  ilare,  e 
discorreva  con  vivacità  ora  con  lui  e  ora  con  i  due  gentiluomini. 
I  passanti  si  levavano  il  cappello,  e  i  Sovrani  rispondevano  cor- 
tesemente ai  rispettosi  saluti.  Non  vi  furono  però  evviva,  né 
dimostrazioni,  né  clamori.  In  via  di  Chiaja,  proprio  sul  princi- 
pio, dovettero  fermarsi  per  un  ingombro  di  vetture  e  di  carri. 
In  una  delle  prime  botteghe  sotto  la  Foresteria,  oggi  prefettura, 
stava  allora  la  farmacia  reale  Ignone,  la  quale  aveva  sull'inse- 
gna i  gigli  borbonici,  ed  il  cui  esercente  era  stato  un  noto  e 
furioso  borbonico.  Una  scala,  poggiata  all'insegna,  impediva  il 
transito  delle  vetture.  Il  Re  si  fermò  e  vide  che  alcuni  operai, 
saliti  sulla  scala,  staccavano  dalla  tabella  i  gigli  ;  additò  con  la 
mano  a  Maria  Sofìa  la  prudente  operazione  del  farmacista,  e  nes- 
suno dei  due  se  ne  mostrò  commosso,  anzi  ne  risero  insieme. 
Molto  più  commosso  di  loro  fu  il  duca  di  Sandonato,  che  in  quel 
momento  passava  di  là  e  vide  tutto.  Il  duca  racconta  la  do- 
lorosa impressione  che  egli  provò,  assistendo  a  quella  scena.  A 
mezzogiorno  i  Sovrani  tornarono  alla  Reggia. 

Dal  tocco  alle  due,  Francesco  II  ricevette  i  dodici  capibatta- 
glione  della  guardia  nazionale,  con  alla  testa  il  nuovo  comandante 
De  Sauget  e  il  sindaco.  Comunicò  loro  la  sua  risoluzione  di  lascia- 
re la  capitale,  perchè,  egli  disse  :  il  vostro  ....  e  nostro  don  Peppino 
è  alle  porte  ;  li  ringraziò  per  aver  mantenuto  1'  ordine  in  Na- 
poli; loro  raccomandò  di  fare  altrettanto  nella  sua  assenza,  la 
quale  riteneva  brevissima,  e  disse  infine,  che  aveva  mantenuta  la 
promessa  loro  fatta  il  26  agosto,  di  non  dare  mai  ordini  di  dan- 
neggiare la  città.  Parlò  commosso,  cercando  a  stento  le  parole. 
Alle  quattro  ci  fu  Consiglio  di  Stato.  Il  Re  annunciò  ufìSlcial- 
mente,  che  si  recherebbe  dove  chiamavalo  la  difesa  de'  suoi  le- 
gittimi diritti.    I  ministri  e  i  direttori  presentarono   alla  firma 


-  369  — 

numerosi  decreti,  anche  di  minima  importanza,  che  Francesco  II 
firmò,  senza  osservazione.  Ordinò  al  De  Martino  di  dirigere  an- 
cora una  protesta  alle  potenze,  e  a  Spinelli  disse  che  tornasse  la 
sera  da  lui.  Spinelli  vi  tornò,  e  gii  lesse  il  proclama  d'addio  e 
la  protesta  alle  potenze.  Francesco  II  approvò  l'uno  e  l'altra, 
anzi  del  proclama  parve  cosi  soddisfatto,  che  chiese  allo  Spinelli 
se  lo  avesse  scritto  lui.  E  avendogli  Spinelli  detto  essere  opera 
di  don  Liborio,  Francesco  II,  secondo  narra  il  Romano  stesso  a 
sfogo  della  sua  inesauribile  vanità,  avrebbe  risposto  :  '^  Io  me  ne 
ero  accorto  dallo  stile  ;  Romano  ha  veramente  espresso  i  sentimenti 
dell'animo  mioj,.  Invece  il  Romano  non  lo  scrisse,  ma  lo  fece 
scrivere  dal  prefetto  di  polizia  Bardari.  Io  ho  veduta  la  bozza 
di  quel  proclama,  di  carattere  del  Bardari,  religiosamente  con- 
servata dal  figliuolo  Luciano,  giudice  del  tribunale  di  Napoli. 
La  bozza  rivela  una  circostanza  curiosa:  il  Bardari  aveva  co- 
minciato così  il  proclama  :  Vana  è  la  vita  de'  Monarchi,  ma  poi 
mutò  pensiero.  Al  proclama  lo  Spinelli  e  il  Romano  non  apporta- 
rono che  lievi  modificazioni. 

Un'altra  vanità  del  Romano  !  Egli  affermò  nelle  sue  memo- 
rie, che  il  Re  avrebbe  confidato  al  signor  Oarolus,  ministro  del 
Belgio  a  Napoli,  la  intenzione  di  nominare  lui,  don  Liborio, 
luogotenente  con  pieni  poteri^  come  il  ministro  più  popolare,  e  che 
ne  fosse  distolto  dagli  altri  ministri,  specie  dal  De  Martino  ; 
ma  ciò  non  risulta  da  nessun  documento  ;  e  poiché  quelle  Me- 
morie non  sono  modello  di  verità  storica,  è  da  ritenere  che  non 
fosse  questa  l'idea  del  Re. 

Fin  dalla  mattina  del  6  settembre  si  era  sparsa  la  voce  che  il 
Re  partiva.  Dal  palazzo  reale  uscivano  numerosi  carri  di  bagagli 
e  di  casse,  che,  scortati  da  militari,  prendevano  la  via  dì  Capua. 
Altra  roba  si  caricava  a  bordo  del  Messaggero  e  del  Delfino, 
che  ormeggiavano  nel  porto  militare,  presso  la  banchina  d'im- 
barco. Gli  oggetti  di  uso  trasportati  furono  molti  ;  e  di  preziosi, 
anche  molti,  come  si  vede  nel  Notamento  della  mobilia,  qua- 
dri, oggetti  di  argento  ed  altro  portato  da  Francesco  II,  allorché 
lasciò  Napoli  nel  6  settembre  1860:  documento  intimo  procura- 
tomi dal  mio  amico  Giovanni  Beltrani.  *     H  più  prezioso  degli 


'  Notamente  della  mobilia,  quadri,  oggetti  di  argento  ed  altro  portato 
da  Francesco  II  aDorchè  lasciò  Napoli  nel  6  settembre  1860. 

Dal  grande  appartamento  di  etichetta  in  Napoli.  —  Un  quadro 

Da  Gbsàrb,  La  fino  di  un  Segno  •  Voi.  II.  2A 


—  370  - 

oggetti  portati  a  Gaeta  fu  quel  magnifico  quadro  di  Raffaello,  che 
più  tardi,  come  si  è  detto,  il  Re  donò,  o  per  meglio  dire  non 
seppe  negare  all'avido  Bermudez  e  del  quale  solo  rimase  a  noi  la 
magnifica  incisione,  che  ne  fece  l'Aloysio  luvara,  pubblicata  a 
Roma  dalla  Calcografia  Camerale,  nel  1873.  Questo  quadro  fu 
offerto  poi  dal  Bermudez  al  museo  del  Louvre,  che  gli  propose 
lire  130  000,  ma  egli  ne  pretendeva   dugentomila.     E   poiché  la 


su  tavola  alto  palmi  6  ed  once  4  %  e  largo  palmi  6  ed  once  4  denotante 
l'apparizione  della  Beata  Vergine  col   Bambino  a  San  Pietro,    San   Paolo, 
San  Giovanni,  Santa  Caterina  ed  altra  Santa  Vergine,  sopra  di  detto  qua- 
dro altra  tavola  centinaia  di  palmi  6  ed  once  4  %,  per  palmi  3  ed  once  2 
ove  è  dipinto  il  Padre  Eterno  con  due  Angeli;  autore  Raffaele   Sanzio    di 
Urbino,  con  cornice  intagliata  e  dorata  contenente  due  quadri  in  uno.  — 
TJn  quadro  dipinto  su  tela,  alto  palmi  4  ed  oncia  una,  denotante  il  ritratto 
di  Alessandro  Farnese;  autore  Tiziano   Vecellio,  con   cornice  intagliata   e 
dorata.  —  Una  statua  a  raezzo  busto  di  marmo  bianco,  denotante  Pio  IX, 
poggiata  sopra  colonna  di  marmo  portasanta   con   cimasa   di   marmo   sta- 
tuario e  zoccolo  di  marmo  portovenere;  in  fronte  di  detta   colonna  vi   è  il 
camauro,  due  chiavi.  —  Un  quadro  a  mosaico   di   palmi  2  y^  per  2  y^  de- 
notante San  Pietro,  con  cornice  di  legno  riccamente  intagliato  e  dorato.  — 
Un'urna  col  corpo  di  Santa  Jasonia,  figura  grande   al   vero  di  cera  ricca- 
mente vestita  che  trovasi  piazzata  sotto  l'altare  della  Cappella  privata.  — 
Un  geroglifico  simbolico  tutto  di  argento,  denotante  una  base   ove  poggia 
un  libro  con  sopra  l'agnello  simbolico,  quattro  angeli   all'intorno,   due   di 
essi  più  in  alto  tengono  sospeso  un  bacile  con  la   testa   di   San   Griovanni 
Battista.  —  Un  quadro  a  mosaico  ovale  rappresentante  una  testa  di  Gesù 
spirante;  copia  di  Guido  Rena,  con  cornice  quadrata  dorata  e  sesti  a  due 
ordini  d'intaglio;  autore  Giuseppe   Michelacci    fiorentino  1822.  —  Un  pio- 
colo  quadretto  ad  olio  sopra  lapislazzuli  alto  once  4  y^  per  once  3  Vg,  rap- 
presentante la  Beata  Vergine   col  Bambino,  cornice  di  legno   ebano,  e  16 
pietrine  ovali  incastrate  sul  legno  di  lapislazzuli  e  corniola,  intorno  la  cor- 
nice ornata  di  metallo  dorata,  sulla  cimasa  un  corallo  di   lapislazzulì.  — 
Un  cassettino  impellicciato  di  mogano,  simile  ad  un  appendi  orologi,  dentro 
del  quale  una  corona  di  pietra  agata  bianca  di  cinque   poste,  montata  in 
oro  con  grande  medaglia  del  simile  metallo  massiccio.  —  Sessantasei  reli- 
quarii  e  reliquie  diverse,  che  erano  in  giro  alle  pareti  del  suddetto  orato- 
rio privato.  —  Un  quadro  ovale  dipinto  su  porcellana,  denotante  il  ritratto 
di  Luigi  XVni  con  cornice  di  legno  intagliato  e   dorato.    —   Un  quadro 
dipinto  ad  olio  sopra  tela,  denotante   il  ritratto   dell'Arciduca  Carlo,   con 
cornice  dorata.  —  Il  vaso  di  porcellana  e  le  dodici   fioriere   simili   coi  ri- 
tratti della  Famiglia  Borbone  tolti  dalla  giardiniera  piazzata  in  mezzo  al- 
l'ultima stanza  dello  appartamento  di  etichetta.  —  Il  tavolino  tondo  della 
fabbrica  di  Parigi,  base  quadrata  di  bronzo  dorato,  piede  a  colonna  di  por- 
cellana con  lavori  rilevati  di  rame  e  foglie  dì  dattero:   su  di  essa  poggia 
il  piano,  anche  di  porcellana  lumeggiata  in  oro,  con  numero  nove  vedute 
di  Parigi.  —  Il  tavolino   tutto  di   bronzo  dorato,  tondo,    con  tre  piedi   a 


-  371  - 

tela  non  era  in  buone  condizioni,  Bermudez  ebbe  l' infelice  idea 
di  farla  restaurare.  Il  quadro  non  trovò  più  compratori.  Egli  lo 
depositò  al  Kensiugton  Museum,  dove  oggi  si  vede  nella  sala  dei 
dipinti  donati,  e  nel  suo  testamento  dispose  di  lasciarlo  all'ex  Re. 
Notevole  tra  gli  oggetti  portati  via  il  numero  dei  reliquarii,  che 
ammontarono  a  sessantasei,  oltre  ad  un'urna,  contenente  il  corpo 
di  Santa  lasonia,  figura  in  cera,  al  naturale,  riccamente  vestita , 


zampe,  base  triangolare,  aulla  quale  poggiano  tre  figure  alate  ed  in  mezzo 
di  essa  sorge  una  colonna  scanelata  con  rame  all'intorno  e  sei  gigli;  il 
piano  di  detto  tavolino  è  formato  a  mosaico  con  in  mezzo  una  coppa,  in 
cui  si  veggono  bere  quattro  colombi  di  diversi  colori.  Della  mancanza  dei 
suddetti  oggetti  il  Custode  signor  Natale  non  ha  presentato  ricevi,  ma 
però  le  sue  assertive  sono  state  fatte  presenti  gli  Aiutanti  Custodi  ed  i 
frottori  dei  Reali  appartamenti,  ed  i  verbali  sono  stati  firmati  da  Natale 
Pisco  e  dal  Natale. 

Dall'Officio  di  Tappezzeria.  —  La  cassa  con  la  biancheria  che  s' in- 
viava nella  Real  Casina  in  Ischia  nei  tempi  di  villeggiatura,  fu  nei  primi 
giorni  di  settembre  1860  presa  dal  signor  Ferdinando  Romano,  Uffiziale 
della  R.  Controlleria  e  fatta  imbarcare  per  Gaeta.  Essa  si  distingueva  da 
trentotto  lenzuola  di  tela  di  Olanda,  trentotto  cusciniere  simili,  dodici  len- 
zuola di  tela  di  lino,  dodici  cusciniere  simili,  dodici  lenzuola  ordinarie,  do- 
dici cusciniere  simili,  dodici  tovaglie  di  turitto,  dodici  dette  più  fine  e 
trenta  mappine.  —  Sessanta  tovaglie  tra  quelle  di  fiandra  e  di  turitto,  do- 
dici dette  di  turitto,  ventiquattro  lenzuola  di  tela  di  Olanda,  ventiquattro 
cusciniere  simili  e  trenta  panni  di  retret,  che  esistevano  nell'Officio,  fu- 
rono egualmente  inviate  in  Gaeta  dallo  stesso  sig.  Romano. 

Dalla  Tappezzeria  di  Portici.  —  Furono  anche  inviati  in  Gaeta  sei 
materassi  e  quattro  cuscini  per  Persone  Reali,  una  tavola  imbottita  ed 
una  coverta  ricamata.  —  NB.  Per  la  mancanza  degli  inventarii  dello 
appartamento,  che  si  occupava  da  Ferdinando  II,  di  quello  di  Francesco  II 
e  dell'altro  del  conte  di  Trani,  nulla  può  dirsi  so  sì  abbiano  o  no  portato 
oggetti.  Allorché  perverranno  e  ne  sarà  fatto  il  riscontro,  non  si  man- 
cherà di  darne  notizia  all'autorità  superiore. 

Dall'Officio  del  Credenziere.  —  L'intiero  servizio  di  argento  di 
Francia  per  sessanta,  con  due  scopette.  —  Tutto  il  servizio  di  argento 
da  viaggio  per  trentasei  persone.  —  Trentacinque  zuppiere  assortite.  — 
Diciannove  anime  di  zuppiere,  ed  i  due  coverchi  di  anime  di  zuppiere.  — 
Centotrentasei  piatti  diversi,  tra  quelli  per  zuppiere,  per  terine,  per  por- 
tate e  per  fiammenghine.  —  Cinquantasei  campane.  —  Seicentosettantotto 
piattini.  —  Settanta  saline.  —  Otto  salsiere  complete.  —  Una  molletta 
per  asparagi.  —  Sessantacinque  tra  coppini  e  cucchiai  da  ragù,  e  ceppi- 
nette  per  zucchero.  —  Millecentoquattordici  cucchiai.  —  Millecentocinqne 
forchette.  —  Millecentoventitre  coltelli.  —  Centoquaranta  posatine  com- 
plete. —  Otto  palette  dorate  per  gelati.  —  Sessanta  cocciole  dorate  per 
buffet.  —  Ventiquattro  ovaroli  con  quattro  piedistalli.  —  Dodici  surtout  — 
Otto  recipienti  per  surtout.  —  Dugentotto  sotto  bicchieri.  —  Centoquattro 


—  372  — 

e  senza  contare  altri  numerosi  quadri  di  santi  e  immagini  sacre, 
a  dimostrazione  ancora  una  volta  della  pietà  religiosa  di  Fran- 
cesco. Bisogna  tener  conto  che  nel  Notamento  non  sonosegnate 
le  casse  di  abiti  e  di  oggetti  personali  dei  Sovrani. 

Di  certo,  non  tutta  questa  roba,  annotata  nell'elenco,  fu  por- 
tata dal  Re  a  Gaeta.  Il  documento  segna  la  data  del  31  di- 
cembre 1862  e  dà  luogo  a  qualche  riflessione.  Quando  fu  ese- 
guito l'inventario  degli  oggetti  esistenti  alla  fine  del  1862, 
nella  Casa  Reale  di  Napoli,  tutte  le  mancanze  furono  verosimil- 


sotto  bottiglie.  —  Cento  postiglioni.  —  Dodici  lavabiccMeri.  —  Dodici  rin- 
frescatoi.  —  Otto  caffettiere.  —  Cinque  zucclieriere.  —  Ventisei  mollette 
ed  altre  tre  di  plaquet  dorato.  —  Millequindici  cucchiarini  da  caffè.  — 
Nove  vasi  dorati.  —  Undici  guantiere.  —  Nove  casseruole.  —  Due  palet- 
te. —  Settantuno  spiedini.  —  Sette  dejeuner.  —  Una  vivandiera  com- 
pleta. —  Cinque  cassettini  in  pelle,  contenente  ognuno  dodici  forchette  per 
le  ostriclie.  —  Diciassette  pezzi  di  piato  che  dalla  Salseria  di  Caserta  fu- 
rono portati  in  Napoli.  —  NB.  Il  servizio  di  argento  di  Francia  sopra  in- 
dicato fu  piazzato  in  ventisei  casse,  quelle  stesse  che  vennero  da  Parigi  uni- 
tamente al  suddetto  servizio,  e  gli  altri  argenti  poi  furono  piazzati  in  al- 
tre casse  e  baulli,  che  esistevano  nell'Officio  del  Credenziere,  ed  il  tutto 
imbarcato  e  trasportato  in  Gaeta  dagli  Aiutanti  dell'Officio  Ferri,  Naschet 
e  Loffredo,  i  quali  han  rilasciato  al  Capo  tre  notamenti  da  essi  firmati  di 
tutti  i  su  menzionati  oggetti  che  dagli  impiegati  dello  Officio  del  Ragio- 
niere e  Pagatore  Generale  si  sono  tenuti  presenti  nel  riscontro  eseguitosi 
del  25  agosto  ultimo. 

Porcellana.  —  Due  insalatiere.  —  Ventiquattro  piatti  da  zuppa  con 
orli  dorati.  —  Cinquanta  detti  da  salvietta,  idem.  —  Quattro  tazze  da  brodo 
con  orli  dorati.  —  Sessantadue  tazze  per   caffè  e  thè. 

Cristalli.  —  Dodici  fruttiere,  unitamente  ad  altrettante  di  argento.  — 
Cinquanta  bicchieri  verdi  pel  vino  del  Reno.  —  Cinquanta  bicchieri  per 
champagne.  —  Un  cassettino  con  una  zuccheriera  di  argento  dorato  ed 
anima  di  cristallo.  —  Sei  bottiglie  per  acqua.  —  Sei  dette  per  vino.  — 
Dodici  bicchieri  per  acqua.  —  Dodici  detti  per  vino.  —  Due  caraffine  lisce 
per  scertont.  —  Cinquanta  bicchieri  per  vino  e  per  acquette. 

Plaquet.  —  Una  zuccheriera.  —  Una  molletta  per  zucchero.  —  Quat- 
tro guantiere  mezzane  dorate.  —  Quattro  panierini  per  thè. 

Biancheria  da  tavola.  —  Dugentottantasei  tra  grandi  mensali,  mez- 
zani e  piccoli.  —  Dieci  fasce.  —  Quattromilacentotre  salviette  di  varie 
dimensioni.  —  Oltre  a  trentasei  tromboni  di  stagno  con  fodera  di  rame  e 
due  canestre.  —  NB.  La  stessa  osservazione  fattasi  per  gli  argenti  vale 
ancora  pei  suindicati  descritti  oggetti. 

Dall'officio  della  Real  Cereria.  —  Centoquindici  candelieri  di 
argento.  —  Più  altri  ventisei  come  sopra.  —  Più  altri  dodici  ritirati  dal 
conte  di  Aquila  (?)  —  Cinque  casse  di  legno  per  trasporto  di  candelieri  — 
Due  dette  per  trasporto  della  cera. 


-  373  — 

mente  comprese  in  quell'elenco;  e  poiché  eran  corsi  più  di  due 
anni,  molta  roba  potè  essere  stata  sottratta,  o  smarrita  per  motivi 
diversi.  La  Reggia  di  Napoli  fu  una  specie  di  demanio  pubblico 
per  qualche  tempo.  Neppur  sembra  verosimile  che  Francesco  II, 
il  quale  partiva  con  la  certezza  di  tornare  al  più  presto,  por- 
tasse via  tutta  quella  roba  a  Gaeta,  dove  non  vi  poteva  essere 
penuria  di  servizii  da  tavola  e  da  letto,  poiché  Ferdinando  II 
<3on  tutta  la  famiglia  vi  aveva  fatte  in  quegli  anni  lunghe  dimore. 

Napoli  era  in  preda  ad  un  sentimento  misto  di  curiosità,  di  stu- 
pore e  di  terrore.  Il  Re  partiva,  ma  non  seguito  da  tutta  la 
truppa.  Rimaneva  il  nono  di  linea,  comandato  dal  colonnello 
Girolamo  de  Liguoro,  a  Castelnuovo  ;  il  sesto,  sotto  il  comando 
del  colonnello  Perrone,  nei  tre  forti  del  Carmine,  dell'Uovo  e 
di  Sant'Elmo;  il  tredicesimo  cacciatori,  col  maggiore  Golisani, 
a  Pizzofalcone  ;  un  battaglione  di  gendarmi  e  un  reggimento 
di  marina,  col  generale  Marra,  all'arsenale.  Questi  seimila 
soldati,  cosi  distribuiti,  dimostravano  che  il  Re,  pur  lasciando 
Napoli  e  prevedendo  che  Garibaldi  vi  sarebbe  entrato,  si  lu- 
singava che  i  forti  sarebbore  rimasti  in  proprio  potere.  Perciò 
vivissime  le  apprensioni  dei  cittadini,  non  sapendosi  come  e 
dove  si  andasse  a  finire.  E  giungendo,  come  al  solito,  notizie  con- 
tradittorie  di  Garibaldi,  e  incrociandosi  le  verità  con  le  bugie  e 
le  iperboli,  e  tutti  parlando  a  vanvera  e  accompagnando  le  pa- 
role con  gesti  caratteristici,  giuramenti,  canzonature  e  dimo- 
strazioni di  paura,  gli  animi  erano  invasi  veramente  dal  timore 
del  bombardamento  della  città,  ovvero  del  saccheggio  della  pleba- 
glia, appena  partito  il  Re.  Le  famiglie  compromesse  col  vecchio 
regime,  e  molte  famiglie  della  ricca  borghesia  lasciarono  quindi 
Napoli  e  ripararono  nelle  provincie  vicine  o  all'estero.  Tutte  le 
speranze  erano  riposte  nella  guardia  nazionale,  che  si  rese  ve- 
ramente benemerita  dell'ordine  pubblico  in  quei  giorni. 

Quel  giorno,  6  settembre,  cadeva  di  giovedì,  ed  era  una 
splendida  giornata.  Nelle  ore  antimeridiane,  fu  pubblicato  il 
Proclama  Reale  : 

Fra  i  doveri  prescritti  ai  Re,  quelli  dei  giorni  di  sventura  sono  i  più. 
grandiosi  e  solenni,  ed  io  intendo  di  compierli  con  rassegnazione  scevra  di 
debolezza,  con  animo  sereno  e  fiducioso,  quale  si  addice  al  discendente  di 
tanti  monarchi. 


—  374  — 

A  tale  uopo  rivolgo  ancora  una  volta  la  mia  voce  al  popolo  di  questa 
Metropoli,  da  cui  debbo  ora  allontanarmi   con  dolore. 

Una  guerra  ingiusta  e  contro  la  ragione  delle  genti  ba  invaso  i  miei 
Stati,  nonostante  ch'io  fossi  in  pace  con  tutte  le  potenze  Eviropee. 

I  mutati  ordini  governativi,  la  mia  adesione  ai  grandi  principii  nazio- 
nali ed  italiani  non  valsero  ad  allontanarla,  che  anzi  la  necessità  di  di- 
fendere la  integrità  dello  Stato  trascinò  seco  avvenimenti  cbe  ho  sempre 
deplorati.  Onde  io  protesto  solennemente  contro  queste  inqualificabili  osti- 
lità, sulle  quali  pronunzierà  il  suo  severo  giudizio  l'età  presente  e  la  futura. 

II  corpo  diplomatico  residente  presso  la  mia  persona  seppe  fin  dal  prin- 
cipio di  questa  inaudita  invasione  da  quali  sentimenti  era  compreso  l'ani- 
mo mio  per  tutti  i  miei  popoli,  e  per  questa  illustre  città,  cioè  garentirla 
dalle  rovine  e  dalla  guerra,  salvare  i  suoi  abitanti  e  loro  proprietà,  i  sa- 
cri templi,  i  monumenti,  gli  stabilimenti  pubblici,  le  collezioni  di  arte,  e 
tutto  quello  che  forma  il  patrimonio  della  sua  civiltà  e  della  sua  gran- 
dezza, e  che  appartenendo  alle  generazioni  future  è  superiore  alle  passioni 
di  un  tempo. 

Questa  parola  è  giunta  ormai  l'ora  di  compierla.  La  guerra  si  avvi- 
cina alle  mura  della  città,  e  con  dolore  ineffabile  io  mi  allontano  con  una 
parte  dell'esercito,  trasportandomi  là  dove  la  difesa  dei  miei  diritti  mi  chia- 
ma. L'altra  parte  di  esso  resta  per  contribuire,  in  concorso  con  l'onore- 
vole Guardia  Nazionale,  alla  inviolabilità  ed  incolumità  della  capitale,  che 
come  un  palladio  sacro  raccomando  allo  zelo  del  Ministero.  E  chieggo  al- 
l'onore ed  al  civismo  del  Sindaco  di  Napoli  e  del  Comandante  della  stessa 
Guardia  Cittadina  risparmiare  a  questa  Patria  carissima  gli  orrori  dei  di- 
sordini interni  ed  i  disastri  della  guerra  civile  ;  al  quale  uopo  concedo  a 
questi  ultimi  tutte  le  necessarie  e  più  estese  facoltà. 

Discendente  da  Tina  Dinastia  che  per  ben  126  anni  regnò  in  queste  con- 
trade continentali,  dopo  averle  salvate  dagli  orrori  di  un  lungo  governo 
viceregnale,  i  miei  affetti  sono  qui.  Io  sono  napoletano,  né  potrei  senza 
grave  rammarico  dirigere  parole  di  addio  ai  miei  amatissimi  popoli,  ai  miei 
compatriotti. 

Qualunque  sarà  il  mio  destino,  prospero  od  avverso,  serberò  sempre 
per  essi  forti  ed  amorevoli  rimembranze.  Raccomando  loro  la  concordia, 
la  pace,  la  santità  dei  doveri  cittadini.  Che  uno  smodato  zelo  per  la  mia 
Corona  non  diventi  face  di  turbolenze.  Sia  che  per  le  sorti  della  presente 
guerra  io  ritomi  in  breve  fra  voi,  o  in  ogni  altro  tempo  in  cui  piacerà  alla 
giustizia  di  Dio  restituirmi  al  Trono  dei  miei  maggiori,  fatto  più  splendido 
dalle  libere  istituzioni  di  cui  l'ho  irrevocabilmente  circondato,  quello  che 
imploro  da  ora  è  di  rivedere  i  miei  popoli  concordi,  forti  e  felici. 

firmato:  Francesco. 

Il  proclama,  con  la  firma  autografa  di  Francesco  II,  è  posse- 
duto da  me.  Copiato  su  carta  imperiale,  esso  fu  mandato  alla 
firma  del  Re,  che  ve  l'appose  con  molti  ghirigori,  com'egli  so- 
leva ;  e  chiuso  in  un  altro  foglio,  suggellato  col  timbro  reale,  fa 


-  376  — 

rimandato  a  Spinelli,  con  questo  indirizzo  :  Signor  Ministro,  se- 
gretario di  statOj  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,  e  sulla 
sopraccarta  scritto  :  pressantissima.  Carlo  de  Cesare,  che  faceva 
parte  del  Consiglio  dei  ministri,  ritenne  lui  questo  documento 
storico. 

Ad  accrescere  la  profonda  impressione,  che  destò  il  proclama 
del  Re,  si  aggiunse  il  manifesto  del  prefetto  di  polizia,  Bardari  ; 
manifesto  rispondente  anch'esso  alla  gravità  veramente  tragica 
di  quell'ora: 

Cittadini  ! 

n  Re  parte.  Tra  un'eccelsa  sventura  che  si  ritira,  e  un  altro  princi- 
cipio  che,  trionfando,  si  avanza,  la  vostra  condotta  non  può  essere  dub- 
biosa. L'una  v'impone  il  raccoglimento  al  cospetto  della  Maestà  ecclis- 
sata,  l'altro  esige  il  senno,  l'annegazione,  la  prudenza,  il  civile  coraggio. 
Nessuno  fra  voi  turberà  lo  svolgimento  degli  eroici  destini  d'Italia;  nes- 
suno penserà  di  lacerare  la  patria  con  mani  o  vindici  o  scellerate.  Invece 
attenderete  con  calma  il  di  memorando,  che  aprirà  al  nostro  paese  la  via 
per  uscire  dalle  ambagi  e  da'  pericoli  senza  nuove  convulsioni,  senza  spargi- 
mento di  sangue  fraterno.  Quel  giorno  è  vicino;  ma  intanto  la  città  resti 
tranquilla  e  non  si  commova,  il  commercio  prosegua  fiducioso  il  suo  corso, 
ognuno  rimanga  nelle  ordinarie  occupazioni  della  vita;  tutte  le  opinioni  si 
uniscano  nel  sublime  accordo  della  patria  salvezza.  Per  vostra  tutela  la 
polizia  è  in  permanenza;  la  Guardia  Nazionale  veglia  sotto  le  armi. 

Cosi,  o  Cittadini,  non  renderete  inutile  il  longanime  sacrificio  di  coloro 
che  affrontando  le  crudeli  incertezze  della  situazione,  si  sono  immolati  al 
reggimento  della  cosa  pubblica,  e  deviando  i  pericoli  che  sovrastavano  alla 
libertà  vostra  ed  alla  indipendenza  della  Nazione,  ne  furono  i  vigili  e  fermi 
custodi.  Essi  proseguiranno  il  sublime  mandato,  e  seno  certi  che  la  vo- 
stra concordia,  l'ordinato  vostro  procedere,  li  aiuterà  ancora  a  vincere  le 
difficoltà  che  restano  ;  son  certi  che  non  saranno  costretti  ad  invocare  la 
severità  della  legge  contro  il  dissennato  agitarsi  dei  partiti  estremi  ;  ed  in 
tal  guisa  le  nostre  sorti  saranno  compiute,  e  se  la  Storia  terrà  conto  del 
patriottismo  de'  governanti,  sarà  generosa  dispensiera  di  gloria  alla  civile 
sapienza  di  questo  popolo  veramente  italiano. 

Vincenzo  Criscuolo  era  comandante  del  Messaggero.  Chia- 
mato dal  Re  la  mattina  del  6,  di  buon'ora,  aveva  ricevuto  l'or- 
dine di  tenersi  pronto  col  suo  legno  per  partire  alle  sei  del  giorno. 
Verso  le  dieci,  il  Re  lo  mandò  a  chiamare  di  nuovo,  perchè  le 
navi  piemontesi,  ancorate  nella  rada  di  Santa  Lucia,  si  erano 
collocate  con  rapida  manovra  all'  uscita  del  porto  militare  ;  e  vi 


-  376  - 

si  erano  collocate  apposta  per  impedire,  come  confessa  senza 
mistero  il  Persano,  che  la  flotta  seguisse  il  Re.  Si  era  detto 
a  Francesco  che  il  Carlo  Alberto  e  la  Maria  Adelaide  gli  avreb- 
bero impedita  la  partenza,  e  lo  si  consigliava  di  partire  incognito, 
con  bandiera  estera  :  consiglio  che  avrebbe  dato  anche  il  Romano. 
Oriscuolo  però  esortò  il  Re  a  non  partire  come  un  fuggitivo,  ma 
su  legno  proprio  e  a  bandiera  spiegata  ;  e  Francesco  gli  riconfermò 
gli  ordini.  Il  Messaggero,  sul  quale  il  Re  doveva  imbarcarsi,  era 
un  piccolo  avviso  della  marina  militare,  di  circa  250  tonnellate, 
discretamente  veloce,  del  tutto  simile  alla  Saetta^  e  però  fu  gene- 
rale la  opinione  che  il  Re  partisse  a  bordo  della  Saetta.  Cosi 
ritenne  anche  il  De  Sivo.  Il  Persano,  benché  fosse  nel  porto  di 
Napoli,  affermò  con  la  consueta  leggerezza  che  il  Re  partisse  a 
bordo  del  Colon,  uno  dei  due  legni  spagnuoli,  ma  questi  legni 
seguirono  il  Messaggero,  e  a  bordo  del  Colon  prese  imbarco  il  mi- 
nistro di  Spagna  Bermudez  de  Castro  col  personale  tutto  della 
legazione. 

Francesco  II  aveva  compilato  un'  elenco  piuttosto  lungo, 
delle  persone  di  Corte  che  dovevano  seguirlo;  ma  non  tutte  ri- 
sposero al  supremo  appello.  Il  principe  di  Bisignano,  maggior- 
domo maggiore,  si  era  allontanato  da  Napoli,  come  si  è  detto, 
lasciando  la  firma  e  la  direzione  degli  affari  al  marchese  Nic- 
cola  Targiani,  direttore  delle  caccie  reali.  Dei  quattro  capi  di 
Corte,  il  solo,  che  si  trovò  presente,  fu  il  marchese  Imperiale, 
cavallerizzo  maggiore,  al  quale  il  Re  disse  :  "  La  tua  fedeltà  alla 
mia  persona  non  la  dimenticherò  giam,mai  ;  ma  voglio  che  anche 
tu  serbi  una  memoria  di  ciò  „  e  offrendogli  il  gran  cordone  del- 
l'Ordine di  San  Ferdinando,  aggiunse:  '^  Poche  volte  credo  che 
il  motto  di  quest'Ordine  sia  stato  così  bene  applicato  come  alla  tua 
persona:  fidei  et  merito  „.  Nell'elenco  dei  familiari  fu  messa 
donna  Nina  Rizzo,  col  titolo  di  camerista,  ma  Francesco  II  can- 
cellò quel  titolo  e  vi  scrisse  di  sua  mano  cameriera. 

Delle  guardie  del  corpo  solo  diciassette  fecero  sapere  al  Re 
che  lo  avrebbero  seguito  a  Gaeta,  e  lo  seguirono  difatti,  par- 
tendo la  sera  stessa  per  Capua.  Altri  erano  partiti  la  sera  in- 
nanzi col  conte  di  Caserta,  il  quale,  promosso  maggiore  di  ar- 
tiglieria da  pochi  giorni,  aveva  il  comando  di  due  batterie.  Le 
guardie  del  corpo,   rimaste   fedeli   al  Re,  furono  il  conte  Luigi 


-  377  - 

Milano,  esente  maggiore,  Giovanni  Castellano,  Giuseppe  e  Carlo 
Mazzara,  Cesare  Mayer,  Giuseppe  Soalese,  Filippo  Pironti,  Luigi 
Natale  Galiani,  Luigi  Siciliani,  Antonio  Grosso,  Francesco  Al- 
tieri, Antonio  Ciccarelli,  Giulio  Pugliese,  Alfredo  Friozzi,  Be- 
nedetto Andreassi,  Francesco  Laudi,  Giovanni  Caracciolo  del 
Sole  e  Carmelo  Rodino. 

Ci  fu  altro  Consiglio  di  ministri  alle  4  ;  anzi  si  può  dire  che  in 
quel  giorno  i  ministri  e  i  direttori  sedessero  in  permanenza.  Spi- 
nelli, annunziata  la  partenza  del  Re,  dichiarò  che  era  dovere 
di  tutti  andare  a  salutarlo.  Andarono  infatti  alla  Reggia  e  fu- 
rono immediatamente  ricevuti.  Francesco,  sorridente  e  quasi 
scherzoso,  fu  cortese  e  abbastanza  espansivo.  A  don  Liborio  ri- 
volse queste  precise  parole,  che  uno  dei  presenti,  stretto  congiunto 
mio,  ricordava  sempre:  "7)on  L«6Ò,  guardai  'w  cuollo  y^,  volendo 
forse  intendere:  se  torno,  ti  faccio  la  festa;  ovvero,  secondo  la 
versione  data  dal  Romano  stesso  nelle  sue  Memorie  •'  "  Ma  ba- 
date al  vostro  capo  „  ;  con  relativa  risposta  di  lui  :  "  Sire,  farò  di 
tutto  per  farlo  rimanere  sul  busto  il  più  che  sia  possibile  „ .  Il  Re 
stava  in  piedi  e  percorreva  a  passi  lenti  l'ampia  sala.  A  Giacchi 
disse  :  "  Don  Michele  Giacchi,  mi  congratulo  ch'ella  ha  servito  molto 
bene  il  paese  „ .  E  il  Giacchi,  di  risposta  :  "  Ed  ho  la  coscienza  di 
aver  servito  ugualmente  bene  Vostra  Maestà  ;  che  se  la  Maestà 
Vostra  mi  avesse  fatto  V onore  di  chiamarmi  in  altri  momenti,  ed 
avesse  ascoltato  i  miei  consigli,  non  si  troverebbe  nelle  attuali  con- 
dizioni y, .  Ed  avendo  il  Re  replicato  :  "  Voi  sognate  V  Italia  e 
Vittorio  Emmanuele;  ma  pur  troppo  sarete  infelici  j,',  Giacchi  ri- 
prese :  "  Noi  abbiamo  il  corto  vedere  di  una  spanna.  Il  futuro  lo 
sa  solo  Iddio.  Vostra  Maestà  parta  in  pace,  e  sia  pur  sicura  che 
questi  suoi  concittadini  non  dimenticheranno  che  la  Maestà  Vostra, 
col  suo  allontanamento  da  Napoli,  avrà  risparmiato  a  questa  città, 
che  le  diede  i  natali,  gli  orrori  della  guerra  civile  „ .  Il  Re,  con 
aria  sarcastica,  soggiunse:  "  Grazie,  grazie  „ .  ^  Volgendosi  po- 
scia a  De  Martino,  gli  diresse  poche  parole,  sorridendo  sull'tm- 
potenza  della  sua  diplomazia  e  gli  annunziò  di  averlo  insignito 
dell'Ordine  Costantiniano.     Con  De  Cesare  fu  cortese,  ma  freddo, 


1  Archivio  Giacchi. 


-  378  — 

né  fece  cenno  del  colloquio  avuto  con  lui  la  notte  dal  3  al  4  set- 
tembre, e  del  quale  colloquio  il  De  Cesare  non  aveva  mancato 
d'informare  i  ministri,  i  quali  avevano  approvata  la  sua  condot- 
ta. Con  Spinelli  e  Torella  fu  affettuoso;  li  ringraziò  e  loro 
disse  di  averli  nominati  cavalieri  di  San  Gennaro.  A  Spinelli 
aggiunse  che,  tornando  a  casa,  vi  avrebbe  trovato  qualche  ri- 
cordo della  sua  sovrana  benevolenza  ;  ma  questi  ricordi  in  casa 
Spinelli  non  si  videro  mai.  Francesco  II,  molto  probabilmente, 
aveva  dati  ordini  in  proposito  ;  ma  nella  grande  confusione,  che 
segui  alla  partenza  di  lui,  non  vennero  eseguiti,  ovvero  gli 
oggetti  destinati  allo  Spinelli  furono  altrimenti  usati.  Tutti  era- 
no compresi  della  solennità  del  momento.  Torella  singhiozzava 
in  preda  alla  più  profonda  commozione.  Il  solo  barone  Carbo- 
nelli,  direttore  dei  lavori  pubblici,  non  era  presente,  perchè  sin  dal 
giorno  innanzi  si  trovava  a  Gaeta,  per  rendersi  conto  se  alcuni 
lavori  da  farsi  colà  fossero  di  competenza  del  ministero  della 
guerra  o  di  quello  dei  lavori  pubblici.  Il  Re  mostrava  indifferenza, 
ma  era  manifesto  il  grande  sforzo  che  faceva  per  dominarsi.  Non 
si  lasciò  andare  a  nessun  atto  di  debolezza,  né  invitò  i  ministri, 
come  si  disse,  di  seguirlo  a  Gaeta.  Solo  al  De  Martino  disse  che 
gli  avrebbe  mandato  da  Gaeta  istruzioni  per  il  corpo  diplomatico. 
I  ministri  e  i  direttori,  senza  essere  stati  ricevuti  dalla  Regina, 
andarono  via  pochi  momenti  prima  che  i  Sovrani  scendessero 
alla  darsena,  in  preda  anch'essi  ad  una  viva  emozione  ;  e  il  Giacchi, 
tornato  al  Ministero,  scrisse  a  sua  moglie  una  lettera,  che  rivela 
tutta  la  impressione  di  quel  momento  solenne  "  . .  . .  Sorto  sul  mo- 
mento da  Palazzo  (son  le  6  pom.),  dove  mi  son  recato  coi  ministri 
e  colleghi,  per  prendere  congedo  dal  Ee.  Ah!  che  spettacolo  su- 
blime ;  oh  !  le  grandezze  di  questo  mondo  !  che  il  Signore  ne  pre- 
servi  da  tante  insane  passioni  e  ne  informi  solo  alle  sue  sante  leggi. 
Dopo  avergli  tutti  baciato  la  mano,  mi  à  usata  la  distinzione  di 
chiamarmi  in  disparte  a  nome,  mi  à  trattenuto  per  un  bel  pezzetto 
8U  cose,  che  come  Iddio  vorrà,  ve  le  dirò  a  voce ....  Una  dinastia 
che  finisce  f  Dimani  rassegneremo  i  nostri  poteri  a  Garibaldi,  puri 
e  senza  macchia  ;  così  possa  egli  proseguirli ....  Per  me  ò  la  gran 
ventura  di  aver  salvato  il  paese  e  questo  è  il  più  gran  titolo  di 
nobiltà  per  la  mia  famiglia  .  . . .  „  ^    Questa  lettera  dimostra  an- 


'  Archivio  Giacchi. 


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Cora  una  volta,  che  il  proposito  del  ministero  in  quei  giorni  era 
di  far  partire  il  Re  da  Napoli,  per  impedire  che  la  città  diven- 
tasse il  teatro  di  un  eccidio,  e  la  frase  iperbolica  del  Giacchi^ 
di  aver  salvato  il  paese,  ne  è  chiara  conferma.  Don  Liborio  giu- 
stificava cosi  la  sua  condotta  ;  e  certo  l'aver  confortato  il  Re 
alla  partenza  che  Francesco  II  del  resto  aveva  decisa  sin  dal 
giorno  2  settembre,  in  seguito  ai  consigli  di  Roma  e  di  Vienna, 
è  l'unico  titolo  di  onore  per  quel  ministero  disgraziato.  La  fan- 
tasia più  fervida  non  potrebbe  immaginare  che  cosa  sarebbe  suc- 
ceduto a  Napoli,  so  il  Re  vi  si  fosse  difeso,  avendo  i  castelli  in 
poter  suo ,  e  dalla  sua  la  guarnigione,  la  plebaglia  e  le  influenze 
del  partito  borbonico  e  del  clero.  Dall'altra  parte  non  vi  erano 
cha  i  dodici  battaglioni  della  guardia  nazionale,  e  la  polizìa,  cioè 
la  camorra  divenuta  autorità  rivoluzionaria,  e  l'esercito  garibal- 
dino, sparpagliato  in  Calabria,  che  faticosamente  marciava  per 
Napoli. 

Un  vero  ricevimento  del  corpo  diplomatico  non  vi  fu  :  i  mi- 
nistri esteri  andarono  la  mattina  alla  Reggia,  per  ossequiare  il 
Re,  ma  non  ufficialmente.  Andarono  il  nunzio,  monsignor  Gian- 
nelli;  il  ministro  d'Austria,  conte  Szèchènyi;  quello  di  Prus- 
sia, conte  Perponcher-Sedlintzky;  quello  di  Russia,  il  principe 
"Wolkonsky;  il  ministro  di  Sassonia,  conte  Kleist  Loos  e  Caro- 
lu3,  ministro  del  Belgio.  Non  risulta  da  alcun  documento,  né 
da  alcuna  testimonianza,  per  quanto  io  abbia  indagato,  che  il 
marchese  di  Villamarina  si  recasse  anche  lui  a  salutare  Fran- 
cesco Il  ;  anzi  può  affermarsi  che  non  vi  andò,  come  non  anda- 
rono i  ministri  di  Francia  e  d'Inghilterra.  Il  Villamarina  aveva 
lavorato  col  Persano  e  col  Comitato  dell'Ordine  per  impedire 
che  il  grosso  della  flotta,  che  era  nel  porto,  seguisse  il  Re  a  Gaeta. 
Le  navi  erano  otto.  Nel  diario  del  Persano  è  riferito  tutto  il  la- 
voro fatto  per  impedire  che  quelle  navi  seguissero  il  Re,  quando 
ne  ebbero  l'ordine  :  lavoro  ben  riuscito,  a  giudicarlo  dai  risultati, 
perchè  un  solo  legno,  la  Partenope,  comandata  da  Roberto  Pa- 
sca, esegui  l'ordine.  Il  Persano  ne  mena  gran  vanto  e  ne  at- 
tribuisce a  sé  il  maggior  merito.  Narra  pure  che  verso  sera, 
dopo  la  partenza  del  Re,  il  Villamarina  andò  a  chiedergli  un 
legno  per  andare  a  conferire  con  Garibaldi  a  Salerno,  e  che 
da  lui  gli  fu  dato   VAutkion,  sul   quale   Villamarina  s'imbarcò. 


.     —  380  - 

Afferma  inoltre  che  VAuthion  tornò  in  rada  la  mattina  del  7, 
riconducendo  il  ministro.  Ma  di  questo  viaggio  non  vi  sono 
altre  testimonianze,  ne  alcuno  di  quelli,  che  erano  a  Salerno 
con  Garibaldi,  ricorda  di  avervi  veduto  il  Villamarina,  o  di 
a,ver  saputo  ch'egli  vi  fosse  andato.  Il  senatore  Fasciotti  mi  as- 
sicurava che  il  Villamarina  non  vide  Garibaldi  che  a  Napoli, 
due  giorni  dopo  l' ingresso,  e  solo  permise  a  lui,  console  sardo, 
di  andare,  in  proprio  nome,  a  salutare  il  dittatore,  al  palazzo 
Angri,  conducendo  seco  il  figliuolo  del  Villamarina,  Emmanuele, 
che  presentò  a  Garibaldi,  il  quale  fece  ad  entrambi  molte  cor- 
tesie. Ho  potuto  constatare  più  volte  che  non  tutte  le  circostan- 
ze narrate  dal  Persano  nel  suo  diario,  circa  gli  avvenimenti 
di  quei  giorni,  sono  esatte,  né  ciò  deve  maravigliare,  conoscen- 
dosi la  leggerezza  dell'uomo. 

Due  ore  prima  della  partenza,  il  De  Martino  aveva  comunicata 
ai  ministri  di  Napoli,  accreditati  presso  le  Corti  estere,  la  pro- 
testa firmata  dal  Re  e  da  lui  :  protesta  più  gonfia  che  solenne  : 

Da  ohe  un  ardito  condottiero,  con  tutte  le  forze  di  che  l'Europa  rivo- 
luzionaria dispone,  ha  attaccato  i  nostri  domimi,  invocando  il  nome  d'un 
sovrano  d'Italia,  congiunto  ed  amico,  Noi  abbiamo,  con  tutti  i  mezzi  in 
poter  nostro  combattuto  durante  cinque  mesi,  per  l' indipendenza  de'  nostri 
Stati.  La  sorte  delle  armi  ci  è  stata  contraria.  L'ardita  impresa  che  quel 
sovrano  nel  modo  più  formale  protestava  sconoscere,  e  che  non  pertanto 
nella  pendenza  di  trattative  di  un  intimo  accordo,  riceveva  ne'  suoi  Stati 
principalmente  aiuto  ed  appoggio,  quella  impresa  cui  tutta  Europa,  dopo 
aver  proclamato  il  principio  di  non  intervento,  assiste  indifferente,  lascian- 
doci solo  lottare  contro  il  nemico  di  tutti,  è  sul  punto  d'estendere  i  suoi 
tristi  effetti  sin  suUa  nostra  capitale.  Le  forze  nemiche  si  avanzano  in 
queste  vicinanze.  D'altra  parte  la  Sicilia  e  le  provincie  del  continente,  da 
lunga  mano  e  in  tutti  i  modi  travagliate  dalla  rivoluzione,  insorte  sotto 
tanta  pressione,  han  formato  de'  governi  provvisorii  col  titolo  e  sotto  la 
protezione  nominale  di  quel  sovrano,  ed  hanno  confidato  ad  un  preteso  Dit- 
tatore l'autorità  ed  U  pieno  arbitrio  de'  loro  destini. 

Forti  sui  nostri  dritti  fondati  sulla  storia,  sui  patti  intemazionali  e  sul 
dritto  pubblico  europeo,  mentre  Noi  contiamo  prolungare,  sinché  ne  sarà 
possibile,  la  nostra  difesa,  non  siamo  meno  determinati  a  qualunque  sacri- 
fizio, per  risparmiare  gli  orrori  di  una  lotta,  e  dell'anarchia  a  questa  vasta 
metropoli,  sede  gloriosa  delle  più  vetuste  memorie,  e  culla  delle  arti  e  della 
civiltà  del  reame.  In  conseguenza  Noi  moveremo  col  nostro  esercito  fuori 
delle  mura,  confidando  nella  lealtà  e  nell'amore  dei  nostri  sudditi,  pel  man- 
tenimento dell'ordine  e  del  rispetto  all'autorità.  Nel  prendere  tanta  deter- 
minazione, sentiamo  però  al  tempo  stesso  il  dovere,  che  ci  dettano  i  Nostri 


-  381  - 

dritti  antichi  ed  inconcussi,  il  Nostro  Onore,  l' interesse  dei  Nostri  Eredi  e 
successori,  e  più  ancora  quello  dei  Nostri  amatissimi  sudditi,  ed  altamente 
protestiamo  contro  tutti  gli  atti  finora  consumati  e  gli  avvenimenti,  che 
sonosi  compiuti,  o  si  compiranno  in  avvenire.  Riserbiamo  tutt'i  nostri 
titoli  e  ragioni,  sorgenti  da  Sacri  incontrastabili  diritti  di  successione,  e 
dai  trattati,  e  dichiariamo  solennemente  tutt'i  mentovati  avvenimenti  e 
fatti  nulli,  irriti,  e  di  niun  valore,  rassegnando  per  quel  che  Ci  riguarda 
nelle  mani  dell'Onnipotente  Iddio  la  Nostra  causa  e  quella  dei  Nostri 
popoli,  nella  ferma  coscienza  di  non  aver  avuto  nel  breve  tempo  del 
nostro  Regno  un  sol  pensiero,  che  non  fosse  stato  consacrato  al  loro  bene 
ed  alla  loro  felicità.  Le  istituzioni  che  abbiamo  loro  irrevocabilmente  ga- 
rentito  ne  sono  il  pegno.  Questa  nostra  protesta  sarà  da  noi  trasmessa  a 
tutte  le  Corti  ;  e  vogliamo  che,  sottoscritta  da  Noi,  munita  del  suggello 
delle  nostre  arme  reali,  e  contrassegnata  dal  nostro  ministro  d'affari  esteri, 
sia  conservata  ne'  nostri  reali  ministeri  di  Stato  degli  affari  esteri,  della 
Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri,  e  di  grazia  e  giustizia,  come  un  mo- 
numento di  opporre  sempre  la  ragione  e  il  dritto  alla  violenza  e  all'usur- 
pazione. ^ 

Napoli,  6  settembre  1860. 

firmato  :  FRANCESCO 

firmato  :  Giacomo  db  Martino 

I  rappresentanti  delle  potenze  chiesero  telegraficamente  istru- 
zioni ai  rispettivi  governi  su  quel  che  loro  convenisse  di  fare, 
se  lasciar  Napoli  e  seguire  il  Re  a  Gaeta,  o  raggiungerlo.  Il  Ber- 
mudez  aveva  telegrafato  che,  se  il  governo  non  gli  permetteva 
di  seguire  Francesco  II  come  rappresentante  della  Spagna,  lo 
avrebbe  seguito  come  privato.  Ebbe  risposta  di  accompagnarlo, 
anzi  di  scortarlo  coi  due  legni  spagnuoli,  ancorati  nel  porto. 
Tutti,  com'è  noto,  tranne  i  ministri  di  Francia  e  d' Inghilterra, 
ebbero  risposta  di  andare  a  Gaeta,  e  vi  andarono  difatti  e  vi  re- 
starono durante  l'assedio.  Bermudez  s' imbarcò  sul  Colon,  come 
si  è  detto,  e  parti  il  giorno  stesso. 

Tanto  per  non  venir  meno  alla  tradizione,  i  Sovrani  ammi- 
sero al  bacio  della  mano  i  presenti  ;  ma  la  cerimonia  parve  una 
malinconica  parodia  di  quegli  splendidi  baciamani,  i  quali  ave- 


^  Questa  è  la  versione  italiana  dell'  importante  documento,  quale  venne 
stampata  allora.  Il  testo  ufficiale,  in  francese,  si  trova  pubblicato  in: 
GcKte,  Documents  officiels,  Paris,  1861,  pag.  1-3;  ma  questa  versione  in 
italiano,  è  una  traduzione  fedele,  tranne  qualche  piccola  variante  di  forma, 
del  testo  ufficiale. 


—  382  — 

vano  avuto  luogo,  per  la  salita  al  trono  e  per  il  Capodanno  del 
1860.  Oltre  a  coloro,  che  avrebbero  accompagnati  i  Sovrani 
a  Gaeta,  non  più.  di  una  ventina  di  persone  erano  accorse  alla 
Reggia,  tra  militari  e  impiegati  di  Casa  Reale.  I  servi  c'erano 
quasi  tutti.  Le  donne  piangevano,  e  la  Regina  le  confortava, 
dicendo  loro  :  torneremo  presto,  ciò  che  pareva  avvalorato  dalla 
circostanza  che  la  Regina  lasciava  quasi  intatto  il  suo  guardaroba. 
I  mille  beneficati  e  i  mille  cortigiani  dell'ora  della  fortuna,  non 
si  videro  nell'ora  della  sventura!  Al  sindaco  D'Alessandria  il  Re 
rivolse  speciali  raccomandazioni,  perchè  fosse  tutelato  l'ordine 
nella  città.  E  mentre  quegli  ultimi  fedeli  avevano  le  lacrime  agli 
occhi,  Francesco  pareva  tranquillo  e  sicuro  del  prossimo  ritorno. 

La  partenza  era  fissata  per  le  sei,  e  alle  cinque  e  mezzo  i 
Sovrani  scesero  per  la  scala  a  chiocciola,  detta  caracò.  Il  Re 
dava  il  braccio  alla  Regina.  Egli  vestiva,  al  solito,  la  divisa  mi- 
litare, e  lei,  un  semplice  abito  da  viaggio,  con  grande  cappello  di 
paglia  adorno  di  fiori.  Andavano  innanzi  a  tutti.  Seguivano 
dappresso  il  principe  Niccola  Brancaccio  di  Rufiano,  maresciallo 
di  campo  e  cavaliere  di  compagnia,  del  Re  ;  i  tenenti  generali 
di  Sangro,  Ferrari,  Statella,  Caracciolo  di  San  Vito,  Latour  e  il 
viceammiraglio  Del  Re  :  tutti  e  sei  aiutanti  generali  ;  la  duchessa 
di  San  Oosario,  dama  d'onore  della  Regina;  l'abate  Eicholzer, 
suo  confessore  ;  il  marchese  Imperiale  e  qualche  altro.  Per  vigi- 
lare gli  ultimi  preparativi  della  partenza,  il  cavalier .  Ruiz  de 
Balesteros,  segretario  particolare  del  Re,  i  camerieri  addetti  alla 
persona  di  Francesco  II,  Agostino  Mirante  e  Giuseppe  Natale, 
e  donna  Nina  Rizzo  erano  già  a  bordo.  Non  vi  era  però  il  co- 
mandante Oriscuolo,  il  quale  era  sceso  a  terra  alle  cinque,  e 
mentre  tornava  a  bordo,  sul  ponte  dei  Cavalli  fu  circondato  da 
sei  sconosciuti,  che  minacciosamente  gì'  imposero  di  non  lasciar 
partire  il  Re.  Egli  finse  di  cedere  e  cosi  potè  tornare  a  bordo» 
ma  non  prima  però  ohe  vi  fossero  saliti  i  Sovrani.  Fin  dalle 
quattro  il  Crisouolo  aveva  fatto  salpare  per  Gaeta  il  Delfino,  sul 
quale  era  caricata  la  maggior  parte  del  bagaglio  dei  Sovrani  e  del 
seguito.  Il  Delfino  era  comandato  dal  nostromo  Giacomo  Persico, 
persona  fidatissima. 

Prima  di  dare  il  segno  della  partenza,  il  Re  ordinò  al  Cri- 
scuoio  di  segnalare  ai  legni  della  squadra  l'ordine  di  seguirlo  a 


-  383  - 

Gaeta.  Crisciiolo  ubbidì,  ma  le  regie  navi  non  si  mossero.  Af- 
fettuosi furono  gli  ultimi  addii  e  molte  le  lacrime.  La  Regina 
pareva  poco  commossa,  anzi  non  perse  mai  la  sua  presenza  di 
spirito.  Alle  sei  precise,  il  Mesmggero  salpò  dal  porto  di  Napoli, 
scortato,  a  poca  distanza,  dai  due  vapori  spagnuoli. 


La  città  era  calma:  i  teatri  quasi  tutti  aperti,  ma  non  af- 
follati. Al  San  Carlo  si  rappresentava  l'opera  II  Folletto  di 
Gressy  e  il  ballo  Margherita  Gauthier;  ai  Fiorentini  Michele  Per- 
rin  ;  alla  Fenice  e  al  Sebeto  La  battaglia  di  Tolosa^  e  al  San  Car- 
lino, Le  fìnte  inglesi. 


Il  ministero,  cbe  non  aveva  più  alcun  carattere  ufficiale,  ri- 
fiutò le  ripetute  offerte  del  Yillamarina,  il  quale,  nello  interesse 
dell'ordine  pubblico,  chiedeva  di  far  occupare  la  città  dai  bersa- 
glieri piemontesi,  già  pronti  sulla  Maria  Adelaide.  Si  avvisò  in- 
vece di  chiamare  presso  di  sé  il  sindaco  e  il  generale  della  guardia 
nazionale,  naturali  rappresentanti  della  città,  perchè  ne  trattasse- 
ro la  resa  alla  forza  materiale  di  Garibaldi,  cessando  cosi  i  peri- 
coli della  guerra  civile,  o  della  dedizione  incondizionata  al  Pie- 
monte. Il  principe  d'Alessandria  e  il  generale  de  Sauget  furono 
incaricati  di  recarsi,  a  tal  fine,  a  Salerno,  la  mattina  seguente 
di  buon'ora  ;  ma  prima  di  essi,  furon  fatti  subito  partire  due  uffi- 
ciali della  guardia  nazionale,  che  furono  il  comandante  del  primo 
battaglione  Achille  di  Lorenzo,  ed  il  luogotenente  Luigi  Rendi- 
na,  con  una  lettera  diretta  a  Garibaldi,  con  la  quale  il  mini- 
stero gli  annunciava  che  il  Re  era  partito,  e  la  dimane  di  buon'o- 
ra, sarebbero  andati  a  Salerno  il  sindaco  e  il  comandante  della 
guardia  nazionale,  per  prendere  gli  accordi  opportuni  circa  l' in- 
gresso del  dittatore.  Il  Di  Lorenzo  e  il  Rendina  partirono  da 
Napoli  con  la  ferrovia,  alle  sette.  Non  trovarono  novità  a  Por- 
tici; poche  bandiere  tricolori  a  Torre  del  Greco  e  più  a  Torre 
Annunziata,  dove  uno  sconosciuto,  che  viaggiava  nello  stesso 
vagone,  toltosi  l'abito  borghese,  si  mostrò  con  la  camicia  rossa  ; 
e,  montato  sul  tetto  del  treno,  cominciò  a  gridare  furiosamente  : 
Viva  l'Italia  e  Viva  Garibaldi.  A  Pagani  fu  fatto  però  discendere, 
perchè  la  stazione  seguente,  quella  di  Nocera,  era  occupata  dai 


—  384  - 

caociatori  bavaresi.  A  Cava,  dove  scesero,  percliè  ultimo  limite 
della  ferrovia,  i  due  ufficiali  videro  bandiere  e  lampioncini  tri- 
colori, e  seppero  che  Q-aribaldi  era  giunto  a  Salerno  sin  dalle 
cinque  e  aveva  preso  alloggio  all'  Intendenza.  Arrivarono  a 
Salerno  che  erano  le  dieci,  e  facendosi  largo  nella  folla,  la  quale 
poco  tempo  prima  aveva  fatto  scempio  della  statua  di  Ferdi- 
nando II,  che  era  nel  cortile  del  palazzo,  furono  ricevuti  da  Cosenz, 
perchè  Garibaldi  dormiva.  Consegnarono  la  lettera  a  Cosenz, 
il  quale  disse  loro  di  tornare  fra  due  ore,  per  la  risposta  ;  torna- 
rono e  seppero  che  Graribaldi  li  avrebbe  ricevuti  l' indomani 
alle  sei,  e  che  intanto  telegrafassero  al  sindaco  e  al  comandante 
della  guardia  nazionale  che  il  dittatore  li  attendeva  al  più  pre- 
sto, e  partissero  perciò  immediatamente.  Telegrafarono  a  Spi- 
nelli e  ne  ebbero  in  risposta  che  D'Alessandria  e  De  Sauget  sareb- 
bero arrivati  la  mattina,  di  buon'ora.  Garibaldi  intanto  tele- 
grafò a  Liborio  Romano,  in  questi  termini: 

Al  signor  Ministro  dell'Interno  e  della  Polizia  —  Napoli. 

Appena  qui  giunge  il  siudaco  ed  il  comandante  la  Guardia  Nazionale 
di  Napoli,  clie  attendo,  io  verrò  fra  voi.  In  questo  solenne  momento  vi 
raccomando  l'ordine  e  la  tranquillità,  che  si  addicono  alla  dignità  di  un 
popolo,  il  quale  rientra  deciso  nella  padronanza  dei  propri  diritti. 

n  dittatore  delle  Due  Sicilie 
Giuseppe  Garibaldi. 

Liborio  Romano  gli  rispose  col  telegramma  seguente  : 

All'  invittissimo  general  Garibaldi,  dittatore   delle  Due  Sicilie,  Liborio  Ro- 
mano, ministro  dell'interno  e  polizia: 

Con  la  maggior  impazienza  Napoli  attende  il  suo  arrivo  per  salutarla 
il  Redentore  d'Italia,  e  deporre  nelle  sue  mani  i  poteri  dello  Stato  e  ipro- 
prii  destini. 

In  questa  aspettativa,  io  starò  saldo  a  tutela  dell'ordine  e  della  tran- 
quillità pubblica:  la  sua  voce,  già  da  me  resa  nota  al  popolo,  è  il  più  gran 
pegno  del  successo  di  tali  assunti. 

Mi  attendo  gli  ulteriori  ordini  suoi,  e  sono  con  illimitato  rispetto 

Di  Lei  dittatore  invittissimo 
Liborio  Romano. 


-  385  — 

Intanto  il  Messaggero  filava  verso  Gaeta.  Nel  canale  di  Precida, 
sull'imbrunire,  incontrò  il  resto  della  flotta.  Erano  le  fregate  a 
vapore  Fieramosca,  Ruggiero,  Sannita  e  Guiscardo,  sotto  il  comando 
del  capitano  di  vascello  Carlo  Longo,  che  si  trovava  a  bordo  del 
Fieramosca.  Queste  navi  erano  partite  nella  notte  del  4  al  5  da  Na- 
poli, dopo  che  il  Re  aveva  fatto  assicurare  gli  equipaggi,  che  andar 
vano  a  formar  crociera  fra  Cuma  e  Precida,  e  non  sarebbero  andati 
più  oltre  ;  il  che  fu  necessario  di  assicurare,  perchè  gli  equipaggi 
non  volevano  partire,  temendo  di  non  tornare  più  a  Napoli. 

Per  mezzo  del  portavoce  il  Re  fece  ordinare  al  Guiscardo, 
più  vicino  al  Messaggero^  di  mandare  il  comandante  a  bordo. 
Questi  era  il  capitano  di  fregata  Federico  Martini,  che  andò  dal 
Re  e  n'ebbe  l'ordine  di  cambiar  rotta  per  Gaeta.  Nello  stesso 
tempo  il  Re  ordinò  al  Criscuolo  di  far  scendere  in  mare  una 
lancia  con  un  ufficiale  di  bordo,  per  comunicare  le  stesse  dispo- 
sizioni agli  altri  bastimenti.  Il  Martini  non  tacque  ohe,  all'  annun- 
zio di  cambiar  rotta,  si  sarebbe  facilmente  ribellato  l'equipaggio 
della  sua  nave  ;  ma  Francesco  rispose  che  non  lo  credeva,  e  in- 
vitò l'ammiraglio  Del  Re  di  andare  a  bordo  del  Guiscardo  a 
verificare  le  cose.  Il  Del  Re  vi  andò  col  Martini,  e  appena  co- 
municò agli  ufficiali  l'ordine  del  Sovrano  di  seguirlo  a  Gaeta, 
si  levò  un  coro  di  proteste,  alle  quali  fece  eco  una  parte  della 
ciurma.  Il  Del  Re  disse  :  ho  capito^  e  tornò  a  bordo  del  Mes- 
saggero ^  a  riferire  quel  che  aveva  visto  e  ascoltato.  Nò  mag- 
gior fortuna  ebbe  l'ordine  mandato  per  mezeo  della  lancia  alle 
altre  tre  navi,  anzi  il  comandante  di  una  di  queste  rispose,  che 
per  poco  non  prendeva  a  cannonate  la  lancia  e  quelli  che  vi  eran 
dentro.  Cosi  brutale  risposta  non  fu  riferita  dal  Criscuolo  al  Re, 
il  quale  però  la  intuì.  Le  quattro  navi  proseguirono  la  rotta 
per  Napoli,  dove  giunsero  festeggiatissime.  Il  giorno  seguente, 
per  decreto  di  Garibaldi,  furono  aggregate  alla  squadra  nazionale, 
sotto  gli  ordini  dell'  ammiraglio  Persane.  Gli  ufficiali  vennero 
confermati  nei  loro  gradi,  dopo  che  ebbero  prestato  giuramento 
di  fedeltà  a  Vittorio  Emanuele,  a  bordo  della  Maria  Adelaide, 
Pochi  giorni  dopo,  le  navi  cambiarono  nome. 

La  Partenopea  fregata  a  vela,  partita  quasi  contemporanea- 
mente al  Messaggero,  giunse  a  Gaeta  la  mattina  del  giorno  8. 
Persane  afferma  averla  fatta  partire  per  la  poca  sua  importanza, 
non  senza  aggiungere  cinicamente  :  ce  la  prenderemo  a  suo  tempo. 

Dx  CzsARx,  La  fin»  di  un  Regno  •  Voi.  n.  8B 


—  386  — 

Durante  la  traversata,  non  vi  furono  a  bordo  refezioni,  ne 
conversazioni.  Nessuno  osava  rompere  quel  triste  silenzio.  Verso 
le  dieci  la  Regina  si  ritirò  in  un  camerino  di  coperta,  e  sdraiatasi 
sopra  un  sofà,  accennò  ad  assopirsi,  vestita  com'era.  Il  coman- 
dante non  ebbe  il  coraggio  d'invitarla  a  ritirarsi  in  luogo  più 
adatto,  né  andò  molto  ch'ella  fu  vinta  dal  sonno.  Il  Re  passeg- 
giava con  la  testa  china,  solo  ;  e  il  Criscuolo,  per  non  disturbarlo, 
salì  sul  ponte  di  comando  a  fumare.  Il  mare  era  tranquillissimo. 
Verso  mezzanotte,  non  sentendo  più  camminare  il  Re,  Criscuolo 
chiese  al  cameriere  Mirante  :  "  Agostino,  il  Re  dorme  .^  „  —  "  >S«  „ 
egli  rispose  ;  ma,  dopo  pochi  minuti,  ecco  riapparirlo,  ed  accosta- 
tosi al  Criscuolo,  gli  disse  :  "  Vincenzino,  io  credo  che  l'armata  na- 
vale mi  abbia  interamente  tradito,  e  quindi  nessuna  delle  navi,  da 
noi  chiamate,  ci  seguirà  a  Gaeta  „ .  Criscuolo,  per  confortarlo,  gli 
rispose  di  non  dividere  tali  apprensioni,  mentre  sapeva  bene  che 
neppure  tutto  l'equipaggio  del  Messaggero  era  completamente  fede- 
le, tanto  che  egli  aveva  dovuto  ricorrere  a  qualche  minaccia,  per- 
chè il  fuochista  e  altri  marinari  facessero  il  loro  dovere.  Il  Re  ag- 
giunse :  "  /  napoletani  non  hanno  voluto  giudicarmi  a  ragion  veduta; 
io  però  ho  la  coscienza  di  aver  fatto  sempre  il  mio  dovere,  ma  però 
ad  essi  rimarranno  solo  gli  occhi  per  piangere  „ .  E  ad  alcune 
parole  confortanti  ripostegli  da  Criscuolo,  soggiunse  :  "  Io  non  so 
come  il  rimorso  non  uccide  tutti  quelli  che  mi  hanno  tradito  ; 
solo  Dio,  caro  Vincenzino,  potrà  compensare  la  tua  fedeltà  ;  io  però, 
dal  canto  mio,  mai  ti  dimenticherò  „ .  Poi  gli  chiese  :  "  Dov^  è  la 
signora  .^  „  e  saputolo,  si  maravigliò  che  la  Regina  dormisse 
in  quel  camerino,  dove  a  quell'  ora  doveva  sentir  freddo.  "  An- 
diamo,  riprese,  e  persuadiamola  a  ritirarsi  „.  Entrarono  infatti  nel 
camerino,  ma  visto  che  la  moglie  dormiva,  Francesco  II  non  volle 
svegliarla  ;  e  solo,  per  difenderla  dalla  brezza  notturna,  si  tolse 
un  piccolo  mantello,  che  aveva  sulle  spalle  e  glielo  stese  sopra. 
Erano  le  due  dopo  la  mezzanotte. 

All'alba  del  7  settembre,  Di  Lorenzo  e  Rendina  furono  pre- 
sentati da  Cosenz  a  G-aribaldi,  che  loro  fece  cordialissima  acco- 
glienza. Si  parlò  del  prossimo  arrivo  del  sindaco  e  del  coman- 
dante della  guardia  nazionale,  che  Garibaldi  era  impaziente  di 
vedere.  Né  tardarono  a  giungere,  accompagnati  da  Emilio  Ci- 
vita, segretario  del  Romano,  da  Domenico  Fermante,  capobatta- 


—  387  - 

gliene  della  guardia  nazionale  e  dall'  ispettore  di  polizia  Cozzo- 
longo.  Garibaldi  li  ricevette,  circondato  da  Cosenz,  Bertani, 
Missori  e  Nullo.  Prese  il  primo  la  parola  De  Sauget,  e  disse  che 
Napoli  attendeva  l'arrivo  del  dittatore,  ma  che  a  lui  sembrava 
più  opportuno  che  l'arrivo  fosse  rimesso  al  giorno  dopo,  per  aver 
tempo  di  tornare  a  Napoli  e  occupare  con  la  guardia  nazionale 
i  posti  militari  della  città.  Ed  avendogli  Garibaldi  ansiosamente 
chiesto  :  "  Ma  Napoli  non  mi  attende  per  oggi  ?  „  De  Sauget 
rispose,  che  i  napoletani  ignoravano  ancora  la  presenza  di  lui  a 
Salerno  ;  né  fu  che  dopo  quest'assicurazione,  che  Garibaldi  con- 
senti di  malavoglia  a  ritardare  di  un  giorno  il  suo  ingresso 
a  Napoli,  fi  chiedendogli  il  De  Sauget  istruzioni  per  il  servi- 
zio di  piazza,  rispose  il  dittatore,  quasi  infastidito  :  "  Intorno 
a  tatto  ciò  se  la  senta  col  generale  Cosenz  ....  col  generale  Co- 
senz (riscaldandosi)  cK  è  uno  dei  migliori  generali  d' Italia,  quan- 
tunque si  ostini  a  portare  ancora  i  distintivi  di  colonnello  „.  In- 
fatti Cosenz  portava  una  giubba  di  fanteria  e  un  berretto  da 
colonnello.  De  Sauget  replicò  :  "  Non  dica  a  me,  generale^  chi 
è  Enrico  Cosenz  ;  io  lo  conobbi  fin  da  quando  era  in  collegio,  e 
so  quanto  vale  „ .  E  Garibaldi  :  "  Se  lei  lo  ha  conosciuto  in  col- 
legio, io  V  ho  conosciuto  sul  campo  di  battaglia  „ .  Dopo  questo 
dialogo,  Civita  narrò  i  dissapori  scoppiati  la  sera  innanzi  fra  i 
due  Comitati,  i  maneggi  di  Villamarina  per  far  occupare  la  città 
dai  bersaglieri  piemontesi,  la  condizione  anormale  del  ministero, 
di  cui  solo  una  piccola  parte  era  rimasta  in  piedi,  l'assenza  di 
ogni  governo  e  infine  gli  accordi,  nei  quali  erano  venuti  i  due 
Comitati,  di  costituirsi  in  governo  provvisorio  sino  all'arrivo  del 
dittatore  :  governo  provvisorio  formato  da  quegli  stessi,  ai  quali 
Garibaldi,  con  suo  dispaccio  da  Auletta,.  si  era  indirizzato,  invo- 
cando la  concordia  tra  i  liberali  e  invitandoli  a  formare  un  Co- 
mitato unico. 

Informato  Garibaldi  di  tutto  questo,  si  levò  impetuosamente 
e  disse  :  Napoli  dunque  corre  dei  pericoli  :  bisogna  andarci  oggi, 
anzi  sul  momento.  E  a  nulla  valsero  le  preghiere  del  De  Sauget 
e  le  insistenze  del  Bertani  e  del  Nullo,  i  quali  sapevano  essere 
Nocera  ancora  occupata  dalle  truppe  bavaresi,  e  i  castelli  di 
Napoli  dai  soldati  borbonici.  Il  giovane  Eugenio  Assanti,  te- 
nente della  guardia  nazionale  di  Napoli,  giunto  anche  lui  da 
Napoli,  sostenjpva   che   si   dovesse   partir   subito  rimproverando 


—  388  — 

quelli  che  si  mostravano  contrarli.  Ma  ciò  clie  fece  decidere 
Garibaldi  a  partire  su  due  piedi,  fu  la  notizia  della  costi- 
tuzione di  quel  Comitato,  che  lo  aveva  proclamato  dittatore 
delle  Due  Sicilie  !  Credeva  che  fosse  una  manovra  di  Cavour  e 
dei  cavurriani,  benché  ne  facessero  parte  il  Libertini,  il  Eicciardi 
e  l'Agresti,  tutt'altro  che  cavurriani.  E  tanto  se  ne  adirò  che, 
appena  giunto  a  Napoli,  e  sentito  dal  Romano  che  quella  procla- 
mazione era  stata  fatta  a  consiglio  di  Silvio  Spaventa,  ne  or- 
dinò l'arresto,  che  non  fu  eseguito,  perchè  la  notizia  non  era 
vera.  La  partenza  di  Garibaldi  fu  telegrafata  a  Napoli  da  De 
Sauget,  il  quale  ordinò  pure  che  i  battaglioni  della  guardia  na- 
zionale si  raccogliessero  presso  la  stazione.  Nelle  prime  ore  del  7 
settembre  il  Romano  aveva  fatto  affìggere  quest'altro  manifesto  : 

AL  POPOLO  NAPOLETANO. 
Cittadini  ! 

Olii  vi  raccomanda  l'ordine  e  la  tranquillità  in  questi  solenni  momenti 
è  il  liberatore  d'Italia,  è  il  generale  Garibaldi.  Osereste  non  esser  docili  a 
quella  voce,  cui  da  gran  tempo  s' inchinano  tutte  le  genti  Italiane  ?  No  cer- 
tamente. Egli  arriverà  fra  poeto  ore  in  mezzo  a  noi,  ed  il  plauso  che  ne 
otterrà  chiunque  avrà  concorso  nel  sublime  intento,  sarà  la  gloria  più  bella 
cui  cittadino  italiano  possa  aspirare. 

Io  quindi,  miei  buoni  Concittadini,  aspetto  da  voi  quel  che  il  dittatore 
Garibaldi  vi  raccomanda  ed  aspetta. 

Napoli,  7  settembre  1860. 

Il  Ministro  deU' Interno  e  della   Poliz.  Qen. 

Liborio  Romano. 


Si  parti  da  Salerno  alle  nove  e  mezzo.  La  guardia  nazionale 
e  le  squadre  insurrezionali  del  Salernitano  volevano  seguire  Ga- 
ribaldi, ma  egli  non  volle.  Di  Lorenzo  e  Rendina  precedevano 
con  altro  legno  a  tutta  corsa,  per  telegrafare  al  capostazione 
di  Cava  di  far  sgomberare  dai  bavaresi  la  stazione  di  Noe  era,  ma 
questi  n'erano  partiti  la  notte,  avendo  saputo  che  Garibaldi  era 
giunto  a  Cava,  mentre  a  Cava  non  era  giunto,  veramente,  che 
l' inglese  Peard,  uno  stravagante,  il  quale  somigliava  molto  nel 
fisico  al  dittatore  e  faceva  la  campagna  per  conto  proprio.  A  Cava 
chiesero  del  sindaco,  che  era  il  giovane  marchese  Atenolfì,  ma 
questi,  che   aveva   veduto   Garibaldi  la  sera  innanzi  a  Salerno, 


—  389  — 

«ra  partito  per  Napoli  con  la  prima  corsa,  accompagnandovi  il 
colonnello  Ludovico  Frapolii,  mandato  a  prendere  possesso  degli 
uffioii  telegrafici.  L'Atenolfi,  che  poi  fu  deputato  ed  oggi  è  se- 
natore del  Regno,  accompagnò  il  Frapolii  da  Liborio  Romano, 
il  quale  rispose  che  non  aveva  alcun  potere  per  consegnare  al 
Frapolii  il  servizio  telegrafico  dello  Stato;  ma  saputosi  che  Ga- 
ribaldi arrivava  a  mezzogiorno,  il  Frapolii,  accompagnato  sempre 
dall' Atenolfi,  andò  all'ufficio  centrale  dei  telegrafi,  che  era  a 
San  Giacomo,  e,  senza  tanti  complimenti,  ne  prese  possesso  in 
nome  del  dittatore. 

A  Cava,  Garibaldi  giunse  alle  11.  Impossibile  descrivere 
l'ultima  tappa  di  quel  viaggio.  Garibaldi,  D'Alessandria,  De 
Sauget,  Cosenz,  Di  Lorenzo,  Civita,  Bertani,  Nullo,  Missori,  Ren- 
dina,  Gusmaroli,  Ferrante,  il  padre  Pantaleo  in  abito  francescano, 
con  fascia  tricolore,  pistole  e  sciabola;  Mario,  Canzio,  Stagnetta, 
gli  ufficiali  della  guardia  nazionale  di  Napoli,  Luigi  de  Monte, 
Francesco  Ferrara  ed  Eugenio  Assanti,  l' inglese  Peard,  Niccola 
Mignogna  e  Pietro  Lacava  :  ecco  tutto  l' esercito  e  il  seguito 
del  dittatore.  Presero  posto  confusamente  in  due  saloni  e  in 
altre  carrozze,  e  si  partì  con  treno  speciale,  anzi  specialissimo,  che 
procedeva  lento  fra  due  muraglie  umane,  dalle  quali  partivano 
grida  di  febbrile  commozione.  A  Cava  segui  una  scena  curiosa. 
Tutte  le  donne,  vecchie  e  giovani,  vollero  baciare  Garibaldi  sulle 
guance,  e  il  generale  lo  permise.  A  Nocera  quel  capostazione 
fece  passare  1'  ultimo  treno  di  cacciatori  bavaresi  della  retro- 
guardia nei  magazzini  di  deposito,  per  far  passare  il  treno 
trionfale  della  rivoluzione.  Garibaldi,  richiesto  dove  volesse  al- 
loggiare a  Napoli,  rispose  :  "  io  vado  dove  vogliono;  solo  desidero, 
appena  arrivato,  di  visitar  San  Gennaro  „.  Dopo  Portici,  il  treno 
si  fermò  bruscamente.  Tutti  si  affacciarono  agli  sportelli,  per 
vedere  che  cos'era,  e  videro  un  ufficiale  di  marina  che  s'avan- 
zava, correndo  e  gridando:  '^ Dov'è  Garibaldi? „  Garibaldi  ri- 
spose: ^Dev'essere  il  capitano  del  '^ Calatafimi j,  lo  facciano  ve- 
nire  „.  Appena  giunto,  il  capitano,  che  non  era  quello  del 
"  Calatafimi  „ ,  ansante  per  la  corsa  fatta,  disse  al  dittatore  :  "  Lei 
dove  vai  È  impossibile  ch'entri  in  Napoli;  vi  sono  i  cannoni 
dei  borbonici  puntati  contro  la  stazione  „.  E  Garibaldi,  tranquil- 
lo: ^  Ma  che  cannoni;  quando  il  popolo  accoglie  in  questo  modo, 
non  vi  son  cannoni;  avanti  „.    Il  capitano  non  osò  dire  altro,  né  si 


—  390  — 

seppe  chi  ve  V  avesse  mandato,  né  chi  fosse.  Il  diario  del  Persano, 
pur  cosi  ricco  di  particolari  insulsi,  non  ne  fa  motto.  Dei  super- 
stiti nessuno  sa  dire  di  più.  Quell'ufficiale  intendeva  forse  parlare 
delle  batterie  del  Carmine,  ma  l' incidente  fini  in  una  risata  ge- 
nerale. Presso  alla  stazione  di  Napoli,  De  Sauget,  vedendo 
molti  operai  ferroviarii,  disse  al  Rendina  :  "  È  imprudente  far 
discendere  Garibaldi  in  mezzo  a  costoro,  che  son  tutti  soldati  con- 
gedati e  impiegati  borbonici;  appena  il  treno  si  fermerà,  corri 
fuori  la  stazione  e  fa  entrare  il  primo  battaglione  di  guardia 
nazionale,  che  troverai,  perchè  faccia  cordone  ;  io  pregherò  Gari- 
baldi di  attendere  „. 

Ma,  fermato  appena  il  treno,  Garibaldi  disse  :  "  Scendo  un 
momento  per  soddisfare  un  piccolo  bisogno  j^]  e  mentre  Rendina 
saltava  giù  da  uno  sportello,  per  eseguire  l'ordine  di  De  Sauget, 
Garibaldi  scese  dallo  sportello  opposto  ;  ^  ed  ecclissatosi  per 
un  momento,  ricomparve  in  mezzo  a  tutti,  calmo  e  bonario. 
Don  Liborio  era  alla  stazione,  coi  direttori  De  Cesare  e  Giacchi  e 
nessun  altro  ministro.  Era  il  tocco  dopo  mezzogiorno.  Domenico 
Ferrante  li  presentò  a  Garibaldi  e  il  Romano  recitò  i  primi  periodi 
di  un  indirizzo,  che  poi  fu  stampato  e  diffuso.  Garibaldi  strinse 
la  mano  a  lui  e  ai  direttori  ;  avrebbe  voluto  avere  con  se  don  Li- 
borio nella  carrozza,  ma  li  separò  la  folla,  che  nessuno  riusciva 
più  a  contenere.  Il  sindaco  d'Alessandria  disparve.  La  guardia 
nazionale  era  stretta  in  mezzo  da  una  moltitudine  invasata.  Già 
fin  dalle  10  della  mattina  si  raccoglievano  nelle  vie,  che  da  To- 
ledo vanno  alla  stazione,  gruppi  di  popolani  con  bandiere  d'ogni 
grandezza,  mazze  e  stendardi.  Si  assisteva  a  scene  esilaranti, 
anzi  grottesche.  Il  conte  Giuseppe  Ricciardi,  in  piedi,  dentro  una 
carrozza,  agitando  una  bandiera  tricolore,  urlava  per  Toledo  :  "  A 
mezzogiorno  arriva  il  dittatore  ;  tutti  alla  stazione  „ .  Aveva  persa 
la  voce,  quando,  scorto  il  più  giovane  dei  fratelli  Cottrau,  Ar- 
turo, in  uniforme  di  guardia  nazionale,  gì'  impose  di  salire  in 
carrozza  con  lui,  gli  affidò  la  bandiera  e  dai  robusti  polmoni  di 


1  II  particolare  è  riferito,  con  parole  ancora  più  veristiche,  da  Luigi 
Bendina,  in  due  sue  lettere  sull'entrata  di  Garibaldi  a  Napoli,  pubblicate 
nella  Lega  del  Bene  (dicembre  1888  e  gennaio  1889),  insieme  ad  altri  aned- 
doti non  privi  di  qualche  curiosità. 


-  391  — 

Arturo  Cottrau  fece  continuare  a  gridare  :  "  A  mezzogiorno  arriva 
il  dittatore;  tutti  alla  stazione  „.  La  nota  popolana  Sangiovan- 
nara,  andava  anche  lei  in  carrozza,  alla  stazione,  seguita  da  gran 
folla  di  popolani  della  Pignasecca  con  bandiere,  grandi  coccarde  e 
picohe.  Nel  momento  dell'arrivo  del  treno  fu  tanta  la  confusione, 
ohe  Cosenz,  al  quale  Garibaldi  aveva  ordinato  di  cavalcare  ac- 
canto a  lui,  ne  fu  separato,  ne  lo  rivide  sino  alla  sera.  A  Cosenz 
fu  offerto  uno  dei  cavalli,  preparati  per  il  dittatore  e  i  suoi  uffi- 
ciali. Egli  vi  montò,  e  accompagnato  dal  capitano  Carlo  Co- 
lonna, entrò  in  Napoli,  percorrendo  la  via  della  Marina  e  rice- 
vendo dalle  sentinelle  del  Carmine  il  saluto  militare.  Smontò 
ad  un  palazzo  al  Grottone,  dove  abitava  sua  madre,  ch'egli  era 
ansioso  di  riabbracciare  dopo  dodici  anni.  ^  Garibaldi  arrivò  alla 
Foresteria  due  ore  dopo,  perchè  gli  fu  impedito  di  montare  a 
cavallo,  e  invece  percorse  il  lungo  cammino  in  carrozza,  a  passo 
lento,  non  potendo  i  cavalli  aprirsi  che  a  stento  la  via.  Nella 
carrozza  del  dittatore  non  vi  era  dunque  né  il  Cosenz,  che  parti 
prima,  né  il  sindaco  di  Napoli,  e  neppure  il  Romano,  perchè  la 
folla  enorme  li  aveva  separati  da  Garibaldi.  Vi  montò  invece 
Demetrio  Salazaro,  che  faceva  sventolare  un  bandierone,  quello 
stesso  preparato  per  i  funerali  di  Guglielmo  Pepe,  e  che  aveva 
da  una  parte  il  cavallo  sfrenato,  emblema  di  Napoli  e  dall'altra, 
il  leone  di  San  Marco:  bandiera  che  Garibaldi  baciò,  dicendo: 
presto  saranno  liberati  i  nostri  fratelli.  E  montarono  altri  dei 
quali  non  si  ha  memoria.  Alcuni  di  questi  particolari  furono 
riferiti  in  una  corrispondenza  da  Napoli  al  Journal  des  Débats, 
in  data  7  settembre,  pubblicata  il  15  di  quel  mese,  e  da  un  opu- 
scolo del  Salazaro.  ^  I  giornali  del  tempo  non  danno  alcun  par- 
ticolare. Garibaldi,  in  piedi  nella  carrozza,  pareva  dominasse 
quella  fiumana  di  popolo  frenetico.  Pietro  Lacava,  uno  dei  pochi 
superstiti,  oggi  ministro   dei   lavori  pubblici    e  che  segui  Gari- 


^  Devo  questi  ultimi  particolari  alla  grande  amicizia,  che  mi  legò  al 
generale  Enrico  Cosenz,  uno  degli  uomini  più.  benemeriti  e  più  modesti  del 
Kisorgimento  nazionale,  e  cosi  schivo  a  parlare  della  gran  parte  da  lui 
avuta  nell'impresa  garibaldina,  che,  nonostante  le  insistenze  degli  amici 
più  intimi,  non  si  decise  mai  a  scrivere  i  suoi  ricordi. 

'  Cenni  sulla  rivoluzione  siciliana  del  1860.  —  Napoli,  Stabilimento 
tipografico  di  K  Ghio  in  Scmta  Teresa  agli  Studi!,  1866. 


—  392  — 

baldi  da  Casalnuovo  a  Napoli,  confessa  che  quello  fu  lo  spetta- 
colo più  grandioso,  al  quale  abbia  assistito. 

Alle  sei  di  quella  stessa  mattina,  Francesco  II  e  Maria  Sofìa, 
dopo  dodici  ore  di  navigazione,  arrivarono  a  Gaeta.  Furono 
ossequiati  a  bordo  dai  principi,  dalle  autorità  e  dai  principali 
fuggiaschi.  Alle  nove  scesero  a  terra  e,  all'  ingresso  del  piccolo 
palazzo  reale,  trovarono  la  Regina  madre,  le  principesse  e  il 
padre  Borrelli.  Questi,  piangendo,  baciò  e  ribaciò  la  mano  del 
Re,  che  gli  disse  :  "  Ricordo^  padre  Borrelli,  ciò  che  mi  dicesti  a 
Portici  la  sera  del  24  giugno  „ .  E  il  padre  Borrelli  :  "  Se  Vostra 
Maestà  non  è  stato  un  gran  Re  in  terra,  sarà  un  gran  santo  in 
Cielo  y,.  Cosi  finiva  il  Regno  delle  due  Sicilie,  e  finiva  di  re- 
gnare, dopo  126  anni,  la  dinastia  dei  Borboni. 


INDICE -SOMMARIO 


Capitolo  I Pag.  3 

Francesco  II  sale  al  trono  —  Proclama  reale  e  ordine  del  giorno  al- 
l'armata di  terra  e  di  mare  —  Le  prime  nomine  —  Gli  speranzosi  nel  nuovo 
Ee  —  Il  ministero  Filangieri  —  Il  trasporto  funebre  di  Ferdinando  —  I 
funerali  in  Napoli  e  in  Sicilia  —  Un  epigramma  —  Il  principe  di  Sa- 
triano  e  le  sue  idee  politiche  —  Prime  riforme  —  La  rivolta  del  Collegio 
medico  —  L' insurrezione  degli  Svizzeri  —  Lo  sgomento  della  famiglia 
reale  —  Gli  Svizzeri  a  Capodimonte  —  Maria  S  ofia  dà  prova  di  coraggio  — 
L'eccidio  al  campo  di  Marte  —  Le  cause  dell'  insurrezione  —  Un  po'  di  sto- 
ria inedita  —  La  famiglia  reale  dopo  la  morte  di  Ferdinando  II  —  La  Regina 
madre  —  Le  sue  gelosie  e  le  sue  irrequietezze  —  Aneddoti  —  Abitudini  di 
Maria  Teresa  e  suo  difetto  di  pronunzia  —  Maria  Sofia  regina  —  La  cospi- 
razione per  il  conte  di  Trani  —  Filangieri  ne  parla  al  Ee  —  Incidente 
fra  Maria  Teresa  e  Filangieri  —  Francesco  II  e  Maria  Sofia  —  Gli  "  strate- 
ghi „  —  Un  aneddoto  —  Francesco  II  e  il  suo  misticismo. 

Capitolo  II Pag.  31 

Le  prime  feste  per  il  nuovo  Sovrano  —  Francesco  II  e  Maria  Sofia 
al  duomo  —  La  cerimonia  religiosa  —  Poesie  di  circostanza  —  Il  solenne 
baciamano  alla  Eeggia  —  Un  incidente  comico  —  La  gala  al  San  Carlo  —  La 
Danza  inaugurale  —  Altre  gale  e  le  nuove  monete  —  Nuovi  lavori  in  Napoli 

—  Inaugurazione  dell'anno  scolastico  al  Gesù  Vecchio  —  Il  discorso  del  pa- 
dre Ibello  —  Le  nuove  cattedre  universitarie  —  Gli  studii  privati  — 
L'esame  di  catechismo  ai  medici  —  Un  epigramma  —  Il  programma  po- 
litico di  Filangieri  —  La  venuta  del  conte  di  Salmour  —  Salmour,  Filan- 
gieri e  Ferdinando  Troja  —  Una  risposta  caratteristica  di  Troja  —  Le 
intenzioni  del  Ee  —  Lettera  inedita  di  Salmour  a  Cavour  —  I  versi  di 
don  Geremia  Fiore  —  Francesco  II  respinge  il  progetto  di  Costituzione, 
presentatogli  da  Filangieri  —  Testo  del  progetto  —  Filangieri  si  dimette  e 
si  ritira  a  Pozzopiano  —  Una  lettera  di  Francesco  II  —  La  venuta  di  Eo- 
guet  —  Lettere  di  Filangieri  e  di  Brenier  —  Mutazioni  del  ministero  — 
Il  campo  militare  ai  confini  d'Abruzzo  e  la  stazione  navale  a  Giulianova 

—  n  principe  di  Cassare  succede  a  Filangieri  —  Leggerezza  stupefacente 


-  396  — 
Capitolo  III Pag.  61 

Esposizione  artistica  del  1859,  paragonata  a  quella  del  1855  —  Pittori 
e  scultori  che  vi  presero  parte  —  Il  Bozzelli  critico  —  Morelli,  Malda- 
relli,  Celentano,  Mancinelli,  Vertunni  e  Di  Bartolo  —  Il  conte  di  Siracusa 
e  Alfonso  Balzico  —  Il  pensionato  di  Eoma  e  l'istituto  di  belle  arti  —  I 
fratelli  Palizzi  e  la  scuola  di  Filippo  —  I  morti  e  i  superstiti  —  L'ordina- 
mento degli  scavi  d'antichità  e  del  Museo  d'archeologia  —  Giuseppe  Fio- 
relli  e  i  suoi  casi  del  1848  — •  Processato,  imprigionato  e  destituito  — 
Lavora  in  un  negozio  di  asfaltista  per  campare  la  vita  —  Diviene  segre- 
tario del  conte  di  Siracusa  —  Quanto  l' Italia  gli  deve  !  —  Il  prosciuga- 
mento del  Fucino  e  il  principe  Torlonia  —  Varie  vicende  dell'  opera  —  La 
medaglia  di  Vittorio  Emanuele. 


Capitolo  IV Pag.  81 

Le  ferrovie  nel  Eegno  —  Come  si  costruivano  e  si  esercitavano  —  Le 
stazioni  —  L'armamento  delle  rotaie  —  L'episodio  del  capostazione  Mar- 
riello  —  Il  macchinista  reale  Coppola  —  Il  segnale  umano  nei  viaggi  del 
Ee  e  un  incidente  —  GÌ'  impiegati  ìqttoyS&tì  fedelissimi  —  Una  grazia  con- 
cessa —  Le  vetture  reali  —  Uno  scontro  a  Cancello  —  Parole  di  Mari» 
Teresa  a  Coppola  —  Il  direttore  Fonseca  —  L'amministrazione  ferroviaria  — 
I  biglietti,  il  loro  prezzo  e  gli  orarii  —  Disposizioni  curiose  —  Le  conces- 
sioni ferroviarie  di  Francesco  II  —  I  riordiUatori  delle  ferrovie  napoletane 
nel  1861  —  L'ultimo  Decurionato  —  Lettere  di  Eomano  e  di  Garibaldi  al 
principe  d'Alessandria  —  L'ultimo  bilancio  del  Decurionato  —  Le  entrate 
e  le  spese  —  Le  spese  di  culto  —  I  regali  al  Ee  —  Le  opere  pubbliche  — 
Le  spese  per  le  nozze  e  per  la  salita  al  trono  di  Francesco  —  I  rapporti 
tra  il  nuovo  Ee  e  il  Decurionato  —  Un  incidente  caratteristico  al  baciamano 
—  n  Decurionato  perde  un  privilegio  —  Gli  uffici  municipali  a  San  Giaco- 
mo —  Il  vecchio  Decurionato  e  il  nuovo  Municipio  —  Il  Eisanamento  — 
I  due  sindaci  più  benemeriti. 


Capitolo  V Pag.  97 

La  vita  nelle  Provincie  —  Galantuomini  e  non  galantuomini  —  Vec- 
chie e  nuove  giamberghe  —  Il  giuoco  e  la  beneficenza  —  I  nobili  nelle 
Provincie  —  Napoletani  e  provinciali  —  La  proprietà  fondiaria  e  gli  affit- 
tuari —  Latifondisti  e  piccoli  possidenti  —  La  vita  economica  —  Le  con- 
greghe e  le  loro  rivalità  —  La  settimana  santa  —  Tipi  caratteristici  e  un 
reduce  di  Antrodoco  —  Le  esteriorità  della  ricchezza  —  La  carrozza,  la 
mensa  e  la  casa  —  Pinacoteche  private  —  Centri  di  maggiore  civiltà  e  di 
cospirazioni  liberali  —  Aquila  e  Lecce  —  Le  feste  religiose  —  Epigramma 
per  la  festa  di  San  Giustino  a  Chieti  —  Seminari  e  collegi  —  Eicordi  e  con- 
fronti —  Il  fenomeno  di  Daniele  Nobile  a  Chieti  —  La  cultura  e  le  tendenze 
—  Trionfavano  i  reazionari  —  Particolari  sugli  attendibili  —  L'educazione 
dei  giovani  —  I  viaggi  in  Puglia  e  le  bettole  di  Ariano  —  L' insicurezza 
delle  strade  —  I  teatri  —  Interessi  e  bisogni  pubblici  —  Le  autorità  nei 
Comuni:  sindaci,  primi  eletti  e  capi  urbani  —  L'indifferenza  delle  autorità 
•superiori  —  Confronti. 


-  397  - 
Capitolo  VI. Pag.  121 

La  vita  mondana  a  Napoli  —  Il  baciamano  del  1°  gennaio  1860  —  La 
stagione  teatrale  al  San  Carlo  e  negli  altri  teatri  —  Il  Caffi  d' Europa  — 
H  Caff^  della  Perseveranza  e  della  Oran  Brettagna  —  Bicordi  e  aneddoti 

—  Le  notizie  politiche  e  il  Comitato  dell'Ordine  —  Come  nacque  e  chi  gli 
dette  il  nome  —  Teodoro  Cottrau  e  Giuseppe  Gravina  —  Arresti  od  esilii 

—  Le  burle  alla  polizia  —  La  vita  mondana  a  Palermo  —  Le  nozze  della 
Stefanina  Starrabba  di  Rudini  —  I  "  saloni  „  e  le  botteghe  di  moda  —  I 
Caffè  d'Oreto  e  di  Sicilia  —  Le  villeggiature  dei  signori  —  Il  giuoco  del 
lotto  —  La  vita  sociale  a  Catania  —  Teatri,  alberghi  e  club»  —  Le  signore 
più  belle  e  i  giovani  più  eleganti  —  L' irrigazione  della  piana  di  Catania 

—  L'intendente  Panebianco  e  il  suo  carteggio  intimo  con  Maniscalco  — 
La  vita  di  Messina  —  Peste  religiose  e  mondane  —  La  Madonna  della  Let- 
tera —  Due  Sindaci  —  Maturano  i  nuovi  tempi  —  Apparenze  e  realtà. 

Capitolo   VII    Pag.  161 

La  cospirazione  liberale  in  Sicilia  —  Dimostrazione  per  la  vittoria  di 
Solferino  —  Incidente  di  Maniscalco  al  Club  dell'Unione  —  Il  primo  Co- 
mitato Liberale  —  La  tradizione  rivoluzionaria  di  Palermo  —  Le  squadre 

—  Il  tentativo  insurrezionale  di  Giuseppe  Campo  nell'ottobre  del  1859  — 
Eapporto  di  Castelcicala  e  nota  del  Ee  —  I  liberali  e  Maniscalco  —  At- 
tentato di  Farinella  contro  la  sua  vita  —  Particolari  —  Eiorganizzazione 
del  Comitato  —  Mazzini  e  Crispi  da  una  parte,  Giuseppe  La  Farina  dal- 
l'altra —  Enrico  Benza  a  Palermo  —  Curioso  rapporto  di  Castelcicala  — 
I  nobili  entrano  nella  cospirazione  —  Il  padre  Ottavio  Lanza  —  Il  testa- 
mento del  principe  di  Scordia  e  Butera  —  Si  fa  un  Comitato  unico  —  Il 
vecchio  barone  Pisani  —  Si  provvedono  fondi,  fucili  e  bombe  —  I  prepa- 
rativi di  Francesco  Riso  —  L'inchiesta  di  Pisani  juniore  —  L'  opera  della 
polizia  —  Si  delibera  d' insorgere  il  4  aprile  —  Il  piano  dell'  insurrezione 

—  'U  zu  Piddu  Mantieri  —  Arresti  e  perquisizioni  —  Come  la  polizia  sco- 
pri il  complotto  —  Un  verbale  dell'  ispettore  Catti  —  La  verità,  storica  — 
Le  precauzioni  del  Governo. 

Capitolo   Vili Pag.  173 

L'  alba  del  4  aprile  —  Le  impazienze  di  Salvatore  La  Placa  —  Il  pri- 
mo conflitto  con  la  truppa  —  Francesco  Eiso  esce  dal  convento  —  É  fe- 
rito e  arrestato  ■ —  Si  arrestano  i  frati  —  La  loro  innocenza  —  La  repressione 

—  I  tredici  fucilati  —  I  nobili  arrostati  in  casa  Pignatelli  —  Particolari 
circa  l'arresto  del  padre  Lanza  —  Importante  lettera  del  barone  Pisani  — 
Curiose  vicende  del  processo  Eiso  —  Le  tre  deposizioni  di  lui  nel  testo 
originale  —  Testimonianza  del  padre  Calogero  Chiarenza  —  Eiflessioni  e 
particolari  inediti  —  Un  rapporto  di  Maniscalco  a  Napoli  —  Mutazioni  nel 
Comitato  liberale  —  Altre  dimostrazioni  —  Lo  sbarco  di  Eosolino  Pilo  a 
Messina  —  Sue  audacie  —  S' invoca  Garibaldi  da  Palermo  e  da  Messina  — 
Opeia  di  Francesco  Crispi. 

Capitolo  IX. ,     Pag.  191 

La  rivoluzione  nelle  provincie  —  A  Trapani  e  a  Marsala  —  I  torbidi 
a  Messina  —  Il  proclama  di  uno  studente  e  l'indirizzo  del  Senato  al  Ee  — 
Catania  e  il  generale  Clary  —  Provvedimenti  per  Messina  e  Catania  —  Eap- 


-  398  - 

porti  fra  il  Ee  e  Castelcicala  —  I  capi  militari  in  Sicilia  —  Un  proclama 
del  Luogotenente  —  Il  lavoro  delle  squadre  —  Si  attende  Garibaldi  —  Di- 
sordini nell'Isola  —  L'azione  dell'Inghilterra  —  Il  generale  Laudi  si  av- 
via verso  Calatafimi  —  Arriva  ad  Alcamo  —  Le  istruzioni  che  ebbe  —  Rap- 
porti del  Laudi  —  La  condotta  di  lui  —  La  flotta  di  crociera  e  le  istruzioni 
del  Governo  —  Come  avvenne  lo  sbarpo  a  Marsala  —  Le  cannonate  dello 
Stromboli  e  della  Partenope  —  Incidenti  della  spedizione  garibaldina  sino 
a  Marsala  —  La  condotta  dei  legni  inglesi  Argus  e  Intrepid  —  La  verità 
storica  —  False  voci  di  tradimento  —  Si  scende  a  Marsala  —  I  Mille,  le 
loro  divise,  le  loro  armi  e  la  loro  cassa  —  Orispi,  Castiglia,  Andrea  Eossi 
e  Pentasuglia  —  La  presa  di  possesso  del  telegrafo  —  Particolari  interes- 
santi —  I  primi  atti  di  Garibaldi  —  La  giornata  di  Calatafimi  —  La  riti- 
rata di  Laudi  apre  a  Garibaldi  la  via  di  Palermo. 

Capitolo  X Pag.  213 

Canofari  annunzia  la  partenza  di  Garibaldi  —  Colloquio  tra  France- 
sco II  e  Filangieri  —  Castelcicala  telegrafa  a  Napoli  lo  sbarco  a  Marsala 

—  Consiglio  di  Stato  del  14  maggio  —  Filangieri  e  Ischitella  rifiutano  di 
andare  in  Sicilia  —  Filangieri  propone  il  generale  Lanza  —  Il  Ee  lo  ac- 
cetta —  Le  dimissioni  di  Castelcicala  —  Particolari  su  Ferdinando  Lanza 

—  Un  incidente  comico  —  Eapporbo  di  Maniscalco  —  La  situazione  che 
trovò  Lanza  a  Palermo  —  Suo  sconforto  —  Si  manda  Alessandro  Nun- 
ziante —  Inettitudine  dei  generali  —  Differenza  fra  i  due  eserciti  combat- 
tenti nell'Isola  —  Confusioni  e  contraddizioni  —  Una  supposta  lettera  di 
Garibaldi  —  Le  bugie  del  Giornale   Ufficiale  —  I  nobili  siciliani  a  Napoli 

—  Le  difese  di  Castelcicala  e  la  Cronaca  degli  avvenimenti  di  Sicilia  —  Po- 
stume lettere  sue  e  del  generale  Bonanno  —  Continua  il  mistero  —  Castel- 
cicala  non  rivede  più  il  Ee. 

Capitolo  XI Pag.  227 

Le  agitazioni  di  Palermo  e  la  polizia  —  Arresti  e  fughe  —  Una  noti- 
zia priva  di  documenti  —  Garibaldi  entra  a  Palermo  —  Primi  scontri  —  Il 
bombardamento  della  città  —  I  primi  successi  dei  garibaldini  —  Il  governo 
municipale  eletto  da  Garibaldi  —  Il  29  maggio  —  La  prima  tregua  —  L'arri- 
vo della  colonna  Von-Mechel  —  Il  maggiore  Bosco  —  Le  navi  napoletane  ed 
estere  nel  porto — Si  conosce  a  Napoli  l'ingresso  di  Garibaldi  —  Gli  emigrati 
e  la  rivoluzione  in  Sicilia  —  Una  missione  in  Inghilterra  —  Documenti  inte- 
ressanti —  Consiglio  di  Stato  del  30  maggio  —  Gravi  parole  del  generale 
Filangieri  —  Proposte  e  deliberazioni  —  Un  giudizio  del  Ee  su  Garibaldi 

—  Congresso  diplomatico  alla  Eeggia  —  Primo  liberalismo   di   Nunziante 

—  Altri  Consigli  di  Stato  —  Il  piano  di  Filangieri  e  il  generale  Nunziante 

—  Il  ministro  Brenier  —  I  consigli  di  De  Martino  —  Filangieri  e  gli  ze- 
lanti —  Il  principe  di  Satriano  si  ritira  a  Pozzopiano  —  Visita  improv- 
visa del  Ee  —  La  fine  di  Carlo  Filangieri  e  l'opera  sua  —  Suo  monito  al 
figlio. 

Capitolo  XII    Pag.  247 

Alla  vigilia  dell'Atto  Soviuno  —  Intrighi  di  Corte  —  Eapporti  di  An- 
tonini e  De  Martino  da  Parigi  e  parole  di  Napoleone  III  —  Il  liberalismo 
del  conte  d'Aquila  —  La  sua  intimità  col  Brenier  —  Una  rivelazione  — 


—  399  — 

Il  Consiglio  di  Stato  del  21  giugno  a  Portici  —  Parole  del  principe  di 
Cassaro  e  di  Carrascosa  —  Il  Be  manda  De  Martino  a  Boma  —  I  consigli 
di  Pio  IX  —  L'Atto  Sovrano  del  25  giugno  —  Il  nuovo  ministero  —  I 
primi  disordini  —  L'aggressione  del  ministro  francese  —  Il  proclama  di 
Liborio  Romano  —  La  guardia  cittadina  —  I  nuovi  direttori  e  i  principali 
ministri  —  Spinelli,  Manna,  Torcila,  De  Martino,  De  Cesare  e  Giacchi  — 
Si  richiama  in  vigore  lo  Statuto  del  1848  —  Commissioni  e  riforme  —  De- 
stituzioni e  nuove  nomine  —  L'amnistia  e  la  serata  al  San  Carlo  —  Il  ri- 
tomo dei  liberali  esiliati  —  Malumori  contro  l'esercito  —  La  giornata  del 
15  luglio  —  Pianell  ministro  della  guerra  —  Proclami  di  Francesco  II  e 
strana  circolare  di  Pianell  —  La  Guardia  Nazionale  —  Don  Liborio  Bomano 

—  Maria  Teresa  a  Gaeta  —  Maria  Sofìa  e  donna  Nina  Bizzo. 

Capitolo  XIII Pag.  269 

Nuovi  intendenti  e  sottointendenti  —  Il  patriziato  legittimista  —  11 
Ite  e  il  ministero  —  Le  dimissioni  del  generale  Nunziante  —  Il  giura- 
mento degl'  impiegati  e  delle  truppe  —  La  libertà  di  stampa  —  I  princi- 
pali fogli  politici  —  Un'ordinanza  del  comandante  la  piazza  di  Napoli  e  lo 
espediente  dell'  Omnibus  —  H  programma  del  ministero  —  Disordini  nelle 
Provincie  —  Fatti  di  Taranto  e  di  Bari  —  La  persecuzione  dei  vescovi  — 
n  vescovo  di  Muro  e  il  vescovo  di  Castellaneta  —  Attentato  contro  que- 
st'  ultimo  —  Un  rapporto  del  sottointendente  di  Gaeta  —  Documenti  carat- 
teristici —  Protesta  degli  Acquavi  vesi  contro  monsignor  Falconi  —  Una 
nota  dell'intendente  di  Bari  —  Bapporto  di  Giacchi  al  ministro  di  poli- 
zia contro  i  vescovi  d'Ariano,  di  Muro,  di  Bitonfco,  di  Bovino  e  contro  mon- 
signor Falconi  —  Telegramma  del  maresciallo  Flores  contro  l'arcivescovo 
di  Bari  —  Il  vescovo  di  Sessa  parte  dalla  sua  diocesi  —  La  ribellione  del 
seminario  di  Matera  —  I  vescovi  di  Trani,  di  Molfetta  e  di  Conversano. 

Capitolo  XIV Pag.  287 

Il  Gomitato  dell'  Ordine  e  il  Comitato  d'Azione  —  Giacchi  chiama 
Spaventa  e  De  Filippo  —  Paure  generali  ma  infondate  —  Particolari  cu- 
riosi —  Il  funerale  a  Guglielmo  Pepe  —  Tutti  divengono  liberali  —  La 
condizione  del  ministero  —  Colloquio  fra  d'Ayala  e  Pianell  —  Pianell  ri- 
fiuta il  pronuncicnnento  dell'esercito  —  Maniscalco  a  Napoli  e  sua  partenza 
per  Marsiglia  —  Il  passaporto  —  La  guerra  ai  reazionarii  —  La  Guardia 
Nazionale  —  Alcuni  Consigli  di  Stato  —  La  situazione  nelle  provincie  —  A 
Taranto  —  Due  rapporti  del  sottointendente  d'Isernia  —  La  famiglia  reale 

—  Un  rapporto  su  Murena,  Palumbo,  Governa  e  De  Spagnolis  —  Gaeta 
centro  di  reazione  —  La  sorveglianza  su  Maria  Teresa  —  Sospetti  sul  conte 
d'Aquila  —  Pretesa  cospirazione  di  lui  e  suo  esilio  dal  Begno  —  Una  lettera 
di  Luigi  Giordano  —  Il  conte  di  Siracusa  —  La  sua  lettera  del  24  agosto 
al  Be  —  Dopo  la  sua  morte  —  I  rapporti  di  Manna  e  di  Lagreca  —  In  Si- 
cilia —  Depretis  prodittatore  —  Garibaldi  a  Messina  e  il  manifesto  di  Ema- 
nuele Pancaldo  —  L' attentato  contro  il  Monarca  —  Lo  "  squagliamento  „ 
della  Marina  —  Anguissola  e  Vacca  —  I  pochi  fedeli  —  11  giudizio  della 
stcfria  —  Sintomatica  circolare  di  Giacchi  e  un  proclama  reazionario. 

Capitolo  XV    Pag.  316 

Ultimo  ntunero  del  Giornale  di  Sicilia  sotto  1  Borboni  e  primo  numero 
sotto  la  Dittatura  —  Monsignor  Naselli,  arcivescovo  di  Palermo  e  suoi  rap- 
porti con  Garibaldi  —  Garibaldi  nella  cattedrale  di  Palermo  e  giudice  della 


—  400  —  % 

Monarchia  —  La  liberazione  dei  nobili  —  Feste  ed  entusiasmi  popolari  — 
La  condotta  dei  giovani  patrizi  —  La  guardia  del  palazzo  dittatoriale  — 
Graduati  e  militi  —  I  volontarii  siciliani  a  Milazzo  —  Il  principe  di  Scalea 
ed  Emanuele  Notarbartolo  di  San  Giovanni  —  Ricordi  interessanti  —  Cari- 
cature ed  epigrammi  sull'esercito  —  Il  colonnello  Buonopane  e  i  suoi  prece- 
denti —  Le  accuse  contro  di  lui  —  Gli  altri  generali  borbonici  in  Sicilia  — 
Confessioni  di  Maniscalco  a  Gaetano  Filangieri  —  Il  generale  Clary  —  Parti- 
colari e  sue  lettere  postume  —  Il  capitano  Sciaequariello  —  Giudizi  sull'opera 
militare  nell'  Isola  —  Le  Memorie  di  Pianell  —  L'opera  di  Cavour  a  Napoli 
—  Sue  inquietudini  —  Manda  Visconti  Venosta,  Finzi,  Kibotty,  Devincenzi, 
Nisco,  Mezzacapo  e  Schiavoni  —  Particolari  inediti  e  curiosi  —  Svanisce  il 
disegno  di  un  pronunciamento  militare  —  Confessioni  di  Emilio  Visconti  — 
Una  lettera  di  Cavour,  portata  da  Niccola  Schiavoni  —  Le  cose  precipitano. 


Capitolo  XVI   ..     .. Pag.  333 

L'insurrezione  nelle  provincia  —  Il  Comitato  di  Basilicata  —  Gl'in- 
sorti a  Potenza  e  l'intendente  Nitti  —  Documenti  inediti  e  postume  rive- 
lazioni —  Il  Comitato  di  Cosenza  —  Discorso  di  Donato  Morelli  —  Il  Co- 
mitato di  Terra  di  Bari  —  Strano  tipo  di  sottointendente  —  Movimenti 
in  Abruzzo  —  Gl'insorti  d'Avellino  e  la  reazione  di  Ariano  —  La  legione 
del  Matese  —  Il  Comitato  di  Benevento  —  Il  decreto  che  dichiara  decaduto  il 
governo  temporale  del  Papa  —  Aneddoti  —  Il  clero  rivoluzionario  —  Eap- 
porti di  intendenti  e  sottointendenti  —  Relazioni  del  comandante  di  Alta- 
mura,  dell'intendente  di  Lecce  e  del  sottointendente  di  Vallo  —  Garibaldi 
in  Calabria  —  La  presa  di  Eeggio  —  Un  biglietto  caratteristico  —  La  morte 
del  colonnello  Dusmet  —  Inazione  di  Vial,  di  Briganti  e  di  Melendez  — 
Vial  in  casa  Gagliardi  —  Leggerezze  e  volgarità  —  Un  motto  di  De  Sauget 

—  Giovani  ufficiali  che  disertano  e  partono  per  il  Piemonte  —  I  capi  delle 
bande  insurrezionali  —  La  marcia  di  Garibaldi  —  Lo  sbandamento  di  So- 
veria  e  il  telegramma  d'Aorifoglio  —  Il  generale  Flores  in  Puglia  —  Sua 
marcia  avventurosa  per  Napoli  e  suo  arresto  a  Grottaminarda  —  Disordini 
e  confusione  —  Il  governo  perde  la  testa  —  Il  Consiglio  di  Stato  del  25 
agosto  —  Gravi  parole  di  Antonio  Spinelli  e  di  Carrascosa  —  Le  incertezze 
del  Ee  e  dei  ministri  —  Maria  Sofia  —  Si  respinge  1'  offerta  di  Girolamo 
Ulloa  —  Precedenti  dubbii  di  questo  generale  —  Le  dimissioni  del  ministero 

—  Tentativi  per  formarne  un  altro  —  Nessuno  accetta  —  Pianell  e  Isohi- 
tella  —  Pianell  lascia  Napoli  —  Don  Liborio  Eomano  e  il  suo  "  memoran- 
dum „  —  L'opera  sua  —  Fu  un  traditore? 


Capitolo  XVII Pag.  363 

H  Ee  8i  decide  a  lasciare  Napoli  —  Suo  colloquio  con  Carlo  de  Cesare  — 
Garibaldi  a  Eogliano,  a  Eotonda,  ad  Auletta  e  a  Salerno  —  Confusione  e  ti- 
mori a  Napoli  —  Incidente  caratteristico  —  I  capibattaglione  della  guardia 
nazionale  e  il  sindaco  dal  Ee  —  Consiglio  di  Stato  del  5  settembre  —  Timori 
per  la  partenza  del  Ee  —  Il  proclama  reale  —  Chi  lo  possiede  —  Il  manifesto 
del  prefetto  di  polizia  —  Preparativi  per  la  partenza  —  Il  notamento  degli 
oggetti,  che  Francesco  II  portò  a  Gaeta  —  Il  Ee  al  marchese  Imperiale  — - 
I  ministri  e  i  direttori  dal  Ee  —  Sue  parole  a  don  Liborio  e  a  Giacchi 
—  L'  ultimo  baciamano  e  gli  ultimi  addii  —  Dalla  Eeggia  al  porto  —  Il 


-  401  - 

corpo  diplomatico  —  Bermudez  do  Casti'o  —  La  protesta  alio  potenre  — 
Hi  parte  alle  ore  sei  —  Incidenti  e  particolari  —  I  teatri  di  Napoli  la  sera 
del  0  sottembro  —  Il  ministero,  il  sindaco  e  il  comandante  della  guardia 
nazionale  —  La  traversata  dei  Sovrani  da  Napoli  a  Gaeta  —  Le  navi  regie 
si  rifiutano  d'obbedire  —  Aneddoti  —  Francesco  II  e  Vincenzo  Crisciiolo 
—  Il  telegramma  di  Garibaldi  a  don  Liborio  —  La  risposta  di  don  Libo- 
rio —  Gli  episodi  di  Salerno  e  le  irrequietezze  di  Garibaldi  —  Sua  improv- 
visa risoluzione  di  partire  per  Napoli  —  I  particolari  di  quel  viaggio  o  i 
personaggi  clie  accompagnarono  il  Dittatore  —  Arrivo  dei  Sovrani  a  Gaeta 
la  mattina  del  7  settembre  e  arrivo  di  Garibaldi  a  Napoli,  a  un'ora  —  In- 
cidenti alla  stazione  di  Napoli  —  La  folla  separa  Garibaldi  da  Gosenz  e  da 
Romano  —  11  sindaco  D'Alessandria  sparisce  —  Le  parole  del  padre  Borelli 
a  Francesco  —  Particolari  inediti  —  Fine  del  Begno. 


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