Skip to main content

Full text of "La fortuna di Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto"

See other formats


Digitized  by  the  Internet  Archive 

in  2011  with  funding  from 

University  of  Toronto 


http://www.archive.org/details/lafortunadipitagOOgian 


ALBERTO  GIANOLA 


LA 

FORTUNA  DI  PITAGORA 

PRESSO  I  ROMANI 

dalle  orìgini  fino  al  tempo  di  Augusto 


.>^ 


CATANIA 

FRANCESCO  BATTUTO  —  Editork 

1921 


PROPRIETÀ    LETTERARIA 


J^-^ 
<^^ 


Catania  —  Stab.  Tip.  S.  Di  Mattai  &.  C.  —  1921. 


A 

GIORGIO  E  GUSTAVO  DEL  VECCHIO 

FRATERNAMENTE 


PREFA2IONB 


La  filosofia  di  Pitagora^  che  è  generalmente  conosciuta 
appena  in  alcuni  dei  suoi  punti  fondamentali^  come  la 
metempsicosi^  Varmonia  delle  sfere^  la  scienza  dei  nu- 
meri^  l'astensione  dai  cibi  carnei  e  dalle  fave^  era  in 
realtà  un  complesso  assai  vasto  e  profondo  di  dottrine^ 
un  ve?v  e  propìzio  sistema  di  speculazione  e  di  morale, 
la  cui  conoscenza  ci  è  tuttavia  possibile  soltanto  in  pic- 
cola parte^  sì  per  la  scarsità  dei  documenti  scritti  ori- 
ginali, dovuta  alla  nota  tradizione  della  segretezza  che 
i  più  dei  suoi  cultori  osservarono  scrupolosamente,  sì 
per  le  amplificazioni^  le  falsificazioni  e  le  invenzioni 
che  partorirono  le  fantasie  di  tardi  seguaci^  di  pseudo- 
eruditi  e  di  mistificatori.  E  però  indubbio  che  tale  filo- 
sofia fu  non  dilettantismo  di  mistici  fanatici^  ma  vera 
e  ragionata  speculazione^  a  cui  si  accompagnò^  parallela, 
ima  conseguente  e  logica  ragione  di  vita,  sì  che^  men- 
tre da  un  lato  potè  attrarre^  seducendole  col  fascino 
delle  verità  da  essa  chiarite  e  con  V armonica  bellezza 
dei  suoi  insegnamenti.^  le  anime  di  molti  cui  pungeva 
r assillante  aculeo  della    conoscenza.,    incontrò    daW altro 


—  VI  — 

ostacoli  e  derisioni  da  parie  di  aristocrazie  interessate 
o  di  volghi  ignobili  e  sciocchi. 

Divulgata.^  se  non  creata  interamente  ex  novo,  nel  se- 
colo sesto  a.  C.  per  opera  di  Pitagora^  del  quale ^  come 
di  Omero,  alcuni  misero  perfino  in  dubbio  Vesistenxa^ 
fu  coltivata^  prima  che  altrove,  sulle  rive  dell' Ionio  ^  nella 
Magna  Grecia  e  in  Sicilia.,  di  dove  si  diffuse,  sebbene 
osteggiata.,  nella  Grecia  ed  in  Roma.  Ricca.,  com'essa 
era.,  di  principii  che  oggi  si  direbbero  idealistici  e  tra- 
sceridentali.,  ed  accompagnandosi.,  come  ho  detto.,  a  una 
sua  particolare  armonica  concezione  della  vita  indivi- 
duale e  collettiva^  teorica^  insomma  e  pratica  nello  stesso 
tempo.,  essa  era  ben  atta  ad  informare  di  se  religione 
e  scienza.,  politica  e  morale.^  consuetudini  e  leggi. 

Essa  fu  da  molti  connessa  non  pure  con  anteriori  an- 
tichissime dottriìie  della  Grecia^  deW Egitto^  delV India 
e  per  fin  della  Cina.,  dalle  quali  sarebbe  in  tutto  o  in 
parte  derivata  e  con  le  quali  ebbe  non  dubbi  punti  di 
somiglianza,  ma  altresì  con  la  posteriore  filosofia  di  Pla- 
tone, in  molte  parti  ricalcata  sulle  sue  orme.  Conservata 
poi  per  lungo  tempo  immune  da  elementi  estranei,  e  tra- 
mandata, senza  il  sussidio  della  scrittura,  nel  segreto 
delle  scuole,  essa  ebbe  nuovo  rigoglio  per  opera  dei  filo- 
sofi alessandrini,  quando,  inalveatesi  nel  suo  letto  altre 
correditi  di  pensiero,  alimentò  le  speculazioni  della  teo- 
sofia neoplatonica  e  ?ieopitagorica  di  Plotino,  di  Porfi- 
rio e  di  altri  molti,  e  diede  origine  a  molteplici  scrit- 
ture, quali  più  quali  meno  profonde  ed  attendibili,  in- 
torno alla  vita  ed  ai  primi  insegnamenti  delV  antico 
maestro.  Da  essa  infine  tras.sero  ispirazione  alcuni  filo- 
sofi della  rinascenza,  e  qualche  sua  derivazione  può 
dirsi  non  del  tutto  spenta  anche  oggi. 


—  VII     - 

Importantissimo  e  utilissimo  sarebbe  dunque^  massime 
per  noi  Italiani,  lo  studiare  la  storia  di  questa  dottri- 
na e  il  ricercarne  e  ìiarrarne  le  vicende  nei  vari  tempi 
e  nei  vari  paesi:  poiché^  sebbene  molti  abbiano  fatto  stu- 
di e  ricerche  in  proposito  —  basterà  ricordare^  fra  tanti, 
i  lavori  del  Bitter  (1),  dello  Zeller  (2),  del  Gomperz  (3), 
dello  Chaignet  (4)  e  del  Mullach  (5),  e,  in  Italia,  del  Ca- 
pellina (6),  del  Cento  fanti  (7),  del  Gognetti  De  Martiis  (8), 
del    Ferrari    (9),    del    Ferri  (10)  --  e    benché    da    tutti 


(1)  Heinrich  Ritter,  Oeschichte  der  Pythagor.  Philosopkie,  Ham- 
burg, 1826. 

(2)  Eduard  Zellbe,  Pythagoras  und  die  Pythagorassage,  in  Vor- 
tràge  und  Abhandlungen  geschichtlichen  Inhalts^  Leipzig,  1865  e 
Die  Philosopkie  der  Oriechen  ecc..,   voi.  P  pp.  279  e  segg. 

(3)  Theod.  Gomperz.  Les  penseurs  de  la  Grece,  trad.  de  la  2* 
ed.  alleni,  par  A.  Raymond,  Paris,  Alcan,  1904. 

(4)  A.  E.  Chaignet,  Pythagoi^e  et  la  philosopkie  pythagor.,  Pa- 
ris, 1873. 

(5)  Fr.  G.  a.  Mullach,  De  Pythagora  eiusque  dìseipulis  et  suc- 
cessoribus,  in  Fragmenta  philosoph..  graecor.  v.  II,  Paris,  1881, 
pp.  I-LVII. 

(6)  Domenico  Capellina,  Delle  dottrine  dell'antica  scuola  pitago- 
rica contenute  nei  Versi  d'oro,  in  Memorie  della  R.  Aecad.  di 
Scienxe  di  Torino,  serie  II,  t.  XVI  (Ì857),  pp    37-109. 

(7)  Silvestro  Centofanti,  Studi  sopra  Pitagora  (1846)  nel  volu- 
me La  letteratura  greca,  Firenze,  Le  Monnier,  1870  [Opere,  voi.  I, 
5p.  359  e  segg). 

(8)  CoGNETTi  De  Martiis,  L'Istituto  Pitagorico,  in  Atti  della  R. 
Accad.  delle  Scienxe  di  Torino,  24  (1888-89)  e  nel  volume  Socia- 
lismo antico,  Torino,  Bocca,  1889,  pp.  459-496. 

(9)  Sante  Ferraiu,  La  scuola  e  la  filosofia  pitagorica,  in  Rivi- 
sta ital.  di  Ulosofia,  1890,  I  e  II. 

(10)  L.  Ferri,  Sguardo  retrospettivo  alle  opinioni  degl'Italiani 
intorno  alle  origini  del  pitagorismo,  in  Atti  della  R.  Accademia 
dei  Lincei,  Rendiconti,  serie  4,  6,  1890,  1  pp.  532-547. 


—  VITI  — 

questi  e  da  altri  studiosi  non  solo  si  siano  raccolte  molte 
notizie^  ma  si  siano  anche  esaminate  e  discusse  quistio- 
ni  importaìitissiìne^  pure  troppe  cose  ancora  rimangono 
da  chiarire  e  da  risolvere  della  storia  ch'io  chiamerò 
esterna  del  Pitagorismo;  e  fors'anche^  riprendendone  i?i 
esame  il  contenuto,  ossia  tenendo  V occhio  alla  sua  sto- 
ria interna,  che  è  poi,  per  la  filosofia,  la  sola  importan- 
te, qualche  verità,  io  penso,  già  acquisita  e  insegnata 
dall'antico  saggio,  potrebbe  dimostrarsi  anche  oggi  vali- 
damente fondata  e  tale  da  poter  resistere  agli  assalti  del 
nostro  più  acuto  criticismo. 

Gli  studi  raccolti  in  questo  volume  furono  già  da  me 
in  gran  parte  pubblicati,  dal  1904  in  poi,  o  in  opuscoli 
0  in  Riviste;  ma  poiché  ho  dovuto,  ìiel  corso  delle  mie 
ricerche,  modificare  alcune  delle  conclusioni  alle  quali 
ero  giunto,  e  nuovi  fatti  ho  potuto  chiarire,  mi  sono 
indotto,  anche  per  aderire  al  desiderio  e  alle  sollecita- 
zioni di  be7ievoli  amici,  a  ristamparli  tutti  insieme. 

Spero  che  il  tenue  contributo  chHo  porto  alla  storia 
che  or  ora  dissi  esterna  del  Pitagorismo  varrà  almeno 
a  dimostrare  che  intorìio  a  queste  importantissime  dot- 
trine non  si  è  detto  ancora  tutto  e  che  inolio  ancora  si 
può  indagare  e  scoprire. 


INTRODUZIONE 


Da  diverse  tradizioni  furono  connessi  i  piiì  antichi  istituti 
religiosi  e  politici  di  molte  città  dell'Italia  meridionale  con 
il  Pitagorismo  (1);  ne  fa  meraviglia  che  alle  dottrine  di 
Pitagora  si  facessero  risalire  anche  le  prime  istituzioni  e 
le  più  antiche  leggi  di  Roma:  Numa,  il  sacro  legislatore 
della  città  capitolin'a,  fu  ritenuto  scolaro  di  Pitagora,  e  le 
stesse  leggi  delle  dodici  tavole,  copiate  dalle  legislazioni 
della  Magna  Grecia  e  della  Sicilia,  che  alla  loro  volta 
traevano  ispirazione,  se  non  origine,  dal  Pitagorismo,  fu- 
rono altresì  ricongiunte  con  questo. 

Sarebbe  indubbiamente  assai  utile  e  interessante  poter 
determinare  in  che  consistessero  questi  legami  di  dipen- 
denza e  stabilire  con  precisione  quali  furono  gl'influssi 
dell'antica  sapienza  italica  sulla  formazione  delle  credenze 
e  degli  istituti  religiosi  e  della  fondamentale  legislazione 


(1)  Seneca,  per  esempio,  (Epist.  ad  Lueilium^  90)  sull'autorità 
di  Posìdonio,  dice,  parlando  dei  grandi  legislatori  dell'Italia:  «Hi 
non  in  foro,  nec  in  consultorum  atrio,  sed  in  Pythagorae  ilio 
sanctoque  secessu  didicerunt  jura,  quae  fiorenti  lune  Siciliae  et 
per  Italiani  Oraeciae  ponerent  ». 

1. 


2  — 


romana;  ma  purtroppo,  sebbene  qualche  lieve  tentativo  si 
sia  fatto  in  proposito,  non  è,  per  ora,  possibile  una  deter- 
minazione neppure  approssimativa. 

Ma  insieme  con  questa  azione,  da  alcuni  ritenuta  sol- 
tanto leggendaria,  su  ciò  che  costituì  l'anima  della  vita 
civile  di  Roma,  esercitò  il  Pitagorismo  un  ulteriore  in- 
flusso, determinando  nel  corso  dei  secoli,  attraverso  le 
vicende  della  sua  storia  vasta  e  complessa,  una  corrente 
di  pensiero  sua  propria,  continua  o  interrotta,  palese  o 
recondita? 

Di  vera  e  propria  tradizione  scritta  non  ci  restano  trac- 
ce, se  non  frammentarie;  di  una  tradizione  orale  abbiamo 
invece  meno  scarsi  indizi  e  con  certezza  sappiamo  di  non 
pochi  seguaci  che  la  dottrina  pitagorica  ebbe  in  Roma. 
Anzi  noi  possiamo  rilevare  fin  d'ora,  anticipando  in  parte 
le  conclusioni  di  queste  nostre  ricerche,  che  questi  inna- 
morati cultori  di  una  così  riposta  e  difficile  sapienza  non 
furono  già  uomini  oscuri  uè  poeti  o  scrittori  di  second 'or- 
dine, ma  cittadini  illustri,  grandi  poeti  e  celebri  letterati, 
pensatori  insigni  e  grandi  uomini  politici  ;  cosicché  la  filo- 
sofia pitagorica,  non  morta  nella  scrittura  o  negli  insegna- 
menti orali,  ma  viva  e  operante  nelle  menti  di  magistrati 
famosi,  come  Appio  Claudio  e  il  maggiore  Scipione,  nelle 
fantasie  di  poeti  eccellenti,  come  Ennio  e  Virgilio,  nei 
cuori  di  cittadini  nobilissimi,  come  Figulo,  Yarrone  e  i 
Sestii,  accompagnò  in  certo  modo  passo  per  passo  il  pro- 
gredire della  potenza  e  della  grandezza  di  Roma;  finché 
poi,  sopra  la  sua  efficienza  pratica  e  la  sua  virtù  fattiva 
prevalendo  l'elemento  speculativo,  che,  data  la  naiura  e 
l'indole  dei  Romani,  era  il  meno  idoneo  ad  allettarli,  e 
all'antica  razionalità  delle  dottrine  sovrapponendosi  da  un 
lato  fantasticherie  e  aberrazioni  come  quelle  di  un  Apol- 


—  3 


Ionio  di  Tiana,  e  dall'altro  frammischiaudosi  elementi  ete- 
rogenei di  origine  greca,  orientale  e  forse  anche  cristiana, 
essa  si  ritirò  di  nuovo  nel  silenzio  e  nella  segretezza  di 
qualche  scuola,  illuminò  appena  la  vita  e  lo  spirito  di 
qualche  solitario  amante  della  verità  e  del  sapere,  e  finì 
per  disperdersi  e  dileguare  nelle  acque  torbide  delle  spe- 
culazioni di  un  Macrobio  o  di  un  Eulogio. 

Se  io  mi  sono  indotto  pertanto  a  raccogliere  con  la 
maggior  diligenza  possìbile  i  ricordi,  le  testimonianze,  le 
tracce,  o. palesi  o  recondite,  o  tenui  o  larghe,  che  di  sé. 
ha  lasciato  il  pensiero  pitagorico  nella  storia  e  nella  let- 
teratura dell'antica  Roma,  gli  è  che  altri  lavori  e  studi 
esaurienti  intorno  al  mio  tema  non  mi  è  accaduto  di  tro- 
vare. Brevi  cenni  riassuntivi  si  trovano  bensì  nelle  opere 
dello  Zeller,  dello  Chaignet,  del  MuUach,  nella  Storia  di 
Roma  del  Pais,  e  in  storie  generali  e  particolari  della 
letteratura  romana;  ma  in  sostanza  io  ho  dovuto  fare  lun- 
ghe e  pazienti  indagini,  per  mettere  insieme  notizie  sparse 
qua  e  là  un  po'  dappertutto.  L'importanza  e  il  valore  delle 
mie  ricerche  non  consistono  dunque  nella  novità  dei  ri- 
sultati, ma  piuttosto  nello  svolgimento  dato  a  un  tema  fin 
qui  appena  malamente  sfiorato  da  qualche  erudito,  nella 
quantità  delle  notizie  raccolte  e  nell'ordinamento  che  ne 
ho  fatto,  seguendo  l'ordine  cronologico;  e  qualche  que- 
stione spero  anche  di  avere  maggiormente  chiarita,  seb- 
bene, per  la  scarsità  dei  dati  sui  quali  era  concesso  co- 
struire, non  sempre  abbia  potuto  giungere  a  conclusioni 
definitive. 


CAPITOLO  PRIMO 


Inìzi   leggendari   e  storici 


1.  Il  Pitagorismo  e  le  più  antiche  istituzioni  di  Roma.  —  2.  Testi- 
monianze G  prove.  —  3.  I  carmina  convivalia.  —  4.  Numa  e 
Pitagora.  —  5.  Le  leggi  delle  XII  tavole  nei  loro  rapporti  col 
Pitagorismo.  —  6.  Il  carme  pitagorico  di  A.  Claudio  Cieco. 

1.  —  Che  molte  delle  antiche  istituzioni  di  Roma  fossero 
derivate  dalla  filosofia  pitagorica  fu  riconosciuto  ed  am- 
messo esplicitamente  da  Cicerone,  il  quale  nel  principio 
del  quarto  libro  delle  Tusculane  (§§  2-4)  lasciò  scritto  : 
«  Pythagorae  doctrina  cum  longe  lateque  flueret,  pernia- 
navisse  mihi  videtur  in  hanc  civitatem,  idqtce  cum  coniec- 
tura  probabile  est,  tum  quibusdam  etiam  vestigiis  indica- 
tur  » .  A  conforto  dunque  della  sua  opinione  egli  addusse 
due  argomenti,  uno  congetturale  e  uno  di  fatto:  «  Quis 
enim  est  qui  putet,  —  così  egli  continua  —  cum  fiorerei  in 
Italia  Graecia  potentissimis  et  maximis  urbibus,  ea  quas 
Magna  dieta  est,  in  eisque  primum  ipsius  Pythagorae, 
deinde  postea  Pythagoreorum  tantum  nomen  esset,  nostro- 
rum  hominum  ad  eorum  doctissimas  voces  aures  olausas 


—  6 


fuisee  f  Quin  etiam  arhitror  propter  Pythagoreorum  admi' 
rationem  Niimam  quoque  regem  pytagoreum  a  posteriori- 
bus  existimatum.  Nam  cum  Pythagorae  dìsciplinam  et 
instituta  cognoscerent  regisque  eius  aequitatem  et  sapien- 
tìam  a  maiorihus  suis  accepisseut^  aetates  autem  et  tem 
pora  ignorarent  propter  vetustatenij  eum,  qui  sapientia 
excelleret,  Pythagorae  auditorem  crediderunt  fuisse  » .  E 
questa  è  la  congettura;  la  constatazione  di  fatto  poi  è, 
che  nelle  istituzioni  romane  e  in  alcune  antiche  scritture 
vi  sono  molte  non  indubbie  tracce  di  Pitagorismo.  Quanto 
alle  istituzioni,  egli  trova  materia  di  raffronto  nell'uso  dei 
canti  e  della  musica  :  «  Vestigia  autem  Pythagoreorum, 
quamquam  multa  colligi  possunt,  paucis  tamen  utemur.... 
Nam  cum  carminibus  soliti  illi  esse  dicantur  et  praecepta 
quaedam  occultius  tradere  et  mentes  suas  a  cogitationum 
intentione  eantu  fidibusque  ad  tranquillitatem  traducere, 
gravissimus  auctor  in  Originibus  dixit  Caio  morem  apud 
maiores  hunc  epuìarum  fuisse ^  ut  deinceps^  qui  accubarent, 
canerent  ad  tibiam  clarorum  virorum  laudes  atque  virtu- 
tes.  Ex  quo  perspicuum  est  et  cantus  tum  fuisse  discriptos 
vocum  sonls  et  carmina.  Quamquam  id  quidem  etiam  XII 
tabulae  declarant,  condi  iam  tum  solltum  esse  carmen  ; 
quod  ne  licer  et  fieri  ad  alter  ius  iniuriam^  lege  sanxerunt. 
Wec  vero  illud  non  eruditorum  temporum  argumentum  est, 
quod  et  deorum  puloinaribus  et  epulis  magistratuum  fides 
praecinunt,  quod  proprium  eius  fuit,  de  qua  loquor,  di- 
sciplinae  » .  E  quanto  alle  antiche  scritture  egli  ricorda  un 
carme  di  Appio  Cieco,  che  a  lui  pare  pitagoreo:  «  Mihi 
quidem  etiam  A.ppii  Cacci  carmen,  quod  valde  Panaetius 
laudat  epistula  quadam,  quae  est  ad  Q.  Tuberonem,  Py- 
thagoreum  videtur^?.  E  finalmente  conclude:  <^ Multa  etiam 
sunt  in  nostris  institutis  ducta  ab  illis  ;  quae  praetereo, 


7  — 


ne  ea,  quae  repperisse  ipsi  putamur^  aliunde  didicisse  vi- 
deamur».  È  davvero  un  peccato  che  Cicerone,  per  senti- 
mento  di  orgoglio  nazionale  —  che  non  doveva  peraltro 
essere  soltanto  suo  —  e  forse  anche .  per  ragioni,  se  non 
di  Stato,  come  oggi  si  direbbe,  almeno  di  prudenza  e  di 
utilità  pubblica,  abbia  creduto  necessario  di  tacere  intorno 
a  queste  molte  altre  derivazioni  d'istituti  romani  dal  Pita- 
gorismo, alle  quali,  come  si  è  visto^  accenna  per  ben  due 
volte;  tanto  piii  che  egli^  e  per  le  cariche  da  lui  coperte, 
e  per  la  conoscenza  che  aveva  della  scienza  augurale  e 
sacerdotale,  e,  in  genere,  per  la  sua  larga  e  profonda 
cultura  storica,  letteraria  e  filosofica,  era  bene  in  grado 
di  fornirci  in  proposito  notizie,  documenti  e  prove  certo 
assai  interessanti.  Ci  è  forza  dunque  accontentarci  di  que- 
sta sua  affermazione  categorica,  per  quanto  generica,  e 
vedere,  anzitutto,  se  e  quanto  i  suoi  argomenti  siano  va- 
lidi e,  in  secondo  luogo,  se  ci  si  offrano  altri  indizi  prò 
0  contro  la  sua  tesi. 

2.  -  Che  in  verità  i]  Pitagorismo  importato  nella  Magna 
Grecia  nel  sesto  secolo  avanti  Cristo,  «  temporihiis  isdem 
—  come  dice  lo  stesso  Cicerone  —  quibus  L.  Brutus  pa 
triam  liberavit  »  (1)  e  propagatosi  in  tutta  l'Italia  meri- 
dionale, dove  si  conservò  poi  per  molti  secoli,  non  dovesse 
rimanere  ignoto  ai  Romani  e  dovesse  esercitare  su  di  loro, 
presto  0  tardi,  qualche  influsso  notevole,  è  ovvio,  e  le 
presenti  ricerche  dimostrano  appunto  la  cosa  alla  luce  dei 
fatti.  Ma,  la  questione  è  ora  di  vedere  se  tale  influsso  si 
possa  far  risalire  veramente  ai  tempi  di    Pitagora   e   dei 


(1)  Ibid.  §  2.  Cfr.  1,  16,  8,  dove  è  detto  che  Pitagora  venne  in 
Italia  «  Superbo  regnante  » . 


—  8 


suoi  primi  seguaci,  come  Cicerone  credette,  oppure,  come 
credette  Livio  e  con  lui  gli  storici  moderni,  se  esso  si  sia 
fatto  sentire  soltanto,  per  opera  di  neo-pitagòrici,  dopo  la 
conquista  della  Campania  e  della  Magna  Grecia,  che  fu 
interamente  compiuta  nel  265  a.  C.  ;  e,  d' altra  parte,  se 
questa  azione  sia  stata  così  larga  e  profonda  da  dover 
lasciare  molte  ti^acce  di  sé  negli  istituti  politici  e  religiosi 
di  Roma,  o  se  si  sia  esercitata  solo  sulle  prime  manife- 
stazioni dell'arte  musicale  e  letteraria  e  sulle  prime  spe- 
culazioni filosofico-religiose. 

Due  fatti,  piccoli  ma  significativi,  pare  a  me  che  dimo- 
strino, anzitutto,  come  già  parecchie  generazioni  prima 
dell'Arpinate,  e  precisamente  fin  dal  secolo  quarto  a.  C, 
cioè  prima  della  conquista  dell'Italia  meridionale,  dovette 
essere  convinzione  di  molti  in  Roma  che  a  Pitagora,  alla 
sua  dottrina  e  alle  sue  leggi  fosse  debitrice  di  molto  la 
città.  Il  primo  di  questi  fatti  è  che  durante  la  guerra 
sannitica  fu  innalzata  a  Pitagora  ai  lati  del  Comizio  in 
Roma,  per  volere  di  Apollo,  una  statua,  che  vi  rimase 
poi  sino  ai  tempi  di  Siila  (1).  Ora  la  guerra  contro  i  San- 
niti si  combattè  in  tre  periodi,  l'ultimo  dei  quali  va  dal 
298  al  290  a.  C.  ;  e  il  Pais  crede  che  la  cosa  si  debba 
ritenere  avvenuta  appunto  in  questi  anni  ;  ma  in  realtà 
non  vi  sono  ragioni  che  ci  vietino  di  farla  risalire  an- 
che ad  uno  dei  due  periodi  precedenti.  L'altro  fatto,  un 
poco  posteriore,  è  che  dopo  la  presa  di  Turis,  di  Eraclea 


(1)  La  cosa  ci  è  attestata  da  Plinio,  il  quale  però  non  cita  la 
fonte  da  cui  ha  attinto  la  notizia.  Dice  egli  infatti  (JV.  H.  XXXIV, 
26):  Invento  et  Pythagorae  et  Alcibiadi  in  eornibus  Comitii  positas 
(statuas),  cum,  bello  Samniti  Apollo  Pythius  iussisset  fortissimo 
Oraiae  gentìs  et  alteri  sapientissimo  simulacra  celebri  loco  dicari  » . 
Cfr.  Plutaeco,  Numa^  VIIL 


—  9    - 

e  di  Taranto  (272  a.  C.)  e  con  l'arrivo  nella  città  di  Livio 
Andronico,  che  ne  divenne  il  poeta  sacro  ed  ufficiale, 
furono  dichiarati  cittadini  romani,  Pitagora  e  il  suo  alunno 
Zaleuco  (1).  Ora  perche  mai  sarebbero  stati  concessi  a  Pi- 
tagora due  onori  così  distinti  e  di  carattere  pubblico,  se 
non  si  fossero  riconosciute  le  sue  benemerenze  verso  la 
città?  Evidentemente  in  quei  tempi  più  antichi  l'orgoglio 
nazionale  non  aveva  ancora  oscurato,  come  più  tardi,  il 
senso  della  verità  storica!  Ciò  premesso,  veniamo  ad  esa- 
minare la  possibilità  degl'influssi  pitagorici  sulla  più  antica 
civiltà  capitolina,  secondo  le  prove  che  ce  ne  dà  Cicerone. 

3.  —  I  carmina  convivalia^  che,  ormai  disusati  nell'età 
ciceroniana,  erano  invece  ancora  in  uso  al  tempo  della 
seconda  guerra  punica  (218-202  a.  C.)  e  che  risalivano, 
come  affermò  Catone,  a  molte  generazioni  prima  di  lui, 
furono  certamente  anteriori  alla  legislazione  decemvirale, 
che  è  della  metà  del  secolo  quinto:  Cicerone  infatti,  per 
dimostrare  l'esistenza  di  canti  accompagnati  da  strumenti 
musicali,  e  quindi  di  una  civiltà  abbastanza  evoluta  nei 
tempi  più  antichi  di  Roma,  ricorda  nel  passo  citato,  in- 
sieme con  la  testimonianza  di  Catone,  il  fatto  che  le  leggi 
delle  dodici  tavole  comminavano  gravi  pene  a  chi  avesse 
usato  quei  canti  «  ad  alterius  inkiriam  »  (2).  Senonchè 
Cicerone,  come  appare  da  un  altro  passo  dei  suoi  scritti,' 


(1)  Vedasi  il  framm.  5  nei  Fragni.  Hist.  Graec.^  II,  p.  273  e 
Symm.  ep.  X,  25. 

(2)  Cfr.  De  rep.  IV,  fr,  12  :  «  Nostrae  duodecim  tabulae^  quuni 
perpaueas  res  capite  sanxissent,  in  his  hane  quoque  saneiendam 
pukiverunt,  si  quis  occentavisset  sive  earmen  condidisset  quod  in- 
famiam  faeeret  fìagitiumve  alteri  »  e  vedi  auche  Plinio,  Nat.  Hist. 
XXVIII,  2,  10-17. 


—  10  — 

audò  anche  più  oltre,  ritenendoli  già  esistenti  a)  tempo 
del  re  Numa  (1).  Se  così  è,  non  avrebbe  dunque  dovuto 
valere  anche  per  essi  l'obiezione  che  l'Arpinate  moveva, 
come  si  è  veduto,  alla  leggenda  che  il  re  Numa  fosse 
stato  scolaro  di  Pitagora?  Neppure  di  questi  antichissimi 
canti  egli  poteva  logicamente  ammettere  la  derivazione 
dall'analoga  costumanza  dei  Pitagorici,  se  Numa  che  Ji 
istituì  visse,  secondo  la  cronologia  ufficiale,  a  cui  il  nostro 
autore  credeva,  piti  di  cento  anni  innanzi  la  venuta  del 
filosofo  di  Samo.  Cosicché  o  il  raffronto  istituito  da  Cice- 
rone e  la  analogia  da  lui  messa  in  rilievo  non  ha  alcun 
valore  storico  —  e  così  dovrebbe  ritenersi  senz'altro,  se 
fosse  indiscutibilmente  fondata  la  cronologia  della  più  an- 
tica storia  di  Roma  — ,  oppure  ~  come  è  più  probabile, 
in  conformità  dei  risultati  generali  e  particolari  a  cui  è 
giunta  la  critica  storica  nell'esame  delle  primitive  leggende 
romane  —  l'ipotesi  della  derivazione  dei  canti  dal  Pitago- 
rismo ha  un  fondamento  di  vero,  e  in  tal  caso  è  da  rite- 
nere che  fosse  errata  la  tradizione  cronologica,  in  quanto 
faceva  risalire  al  secolo  ottavo  un'usanza  che  dovette  essere 
posteriore  al  seste  secolo  a.  C.  Quanto  poi  all'analogia 
considerata  in  se,  in  che  consisteva  essa?  Semplicemente 


(1)  De  orai.  111,51, 197:  «Nikil  est  autem  tam  eognatum  mentibus 
nostris  quam,  numeri  atque  voces  ;  qtiibus  et  excitamicr  et  ineendi- 
mur  et  lenìmur  et  languescimus  et  ad  hilaritatem  et  ad  tristitiam 
saepe  deducimur  ;  quorum  Ula  sumnia  vis  carminibus  est  aptior 
et  eantibus,  non  neglecta^  ut  mihi  videtur,  a  Numa  rege  doctissimo 
maioribusque  ìiostris^  ut  epularum  sollemnium  fides  ac  tibiae  Sa- 
liorumque  versus  Indicarli  ;  maxime  autem  a  Graecìa  vetere  cele- 
brata ».  Di  questi  canti  poi  Cicerone  parla  anche  altrove,  e  cioè 
nel  Brutus^  19,  75  e  nelle  Tusculane  I,  2,  3.  Si  vedano  anche 
Tacito,  Ann.  Ili,  5,  Val.  Massimo  II,  1,  10,  Nonio  ad  assa  voce 
ed  ivi  Yabbone,  de  vita  pop.  rom.^  fi.  II,  20,  Kettner. 


11 


nell'uso  comune  del  canto  e  deUa  musica  in  occasione  di 
feste  religiose  e  di  banchetti  pubblici,  non  già  nel  conte- 
nuto dei  canti  stessi,  che  gli  uni.  cioè  i  Pitagorici,  ado- 
perarono come  mezzo  terapeutico  e  di  insegnamento  eso- 
terico, e  gli  altri  invece,  cioè  i  Komani,  per  esaltare  la 
memoria  degli  antichi  eroi;  come  i  Pitagorici  erano  soliti 
tramandare  sotto  il  vincolo  della  segretezza  certi  insegna- 
menti in  forma  di  canzoni  e  riposare  per  mezzo  di  canti 
accompagnati  dalla  lira  le  menti  affaticate  dalla  lunga 
meditazione,  così  gli  antichi  Romani  solevano,  al  principio 
dei  banchetti,  cantare  al  suono  delle  tibie  le  lodi  e  le  virtù 
degli  eroi,  ed  ebbero  anche  l'usanza  di  far  precedere  tanto 
alle  mense  in  onore  degli  dei,  quanto  ai  banchetti  dei  ma- 
gistrati, il  suono  delle  lire,  il  che  fu  pure  caratteristico 
dei  Pitagorici.  Insomma,  le  piìi  antiche  manifestazioni  del- 
l'arte musicale  in  Roma  si  ebbero  per  l'influsso  diretto 
del  Pitagorismo. 

4.  —  A  quel  modo  che  si  è  dimostrata  la  possibilità  che 
siano  derivate  dal  Pitagorismo  queste  antichissime  mani- 
festazioni dell'arte  musicale,  si  potrebbe  anche  riconoscere 
come  verisimile  —  contrariamente  a  ciò  che  ne  pensava 
Cicerone  —  la  notizia  dei  rapporti  fra  Numa  e  Pitagora. 

La  notizia  che  il  re  Numa  sia  stato  scolaro  di  Pitagora 
è  probabilmente  anteriore  al  terzo  secolo  a.  C.  ;  anzi  il 
Pais  afferma  (1)  che  essa  si  deve  forse  far  risalire  ad  Ari- 
stosseno, .  Ma  in  tal  caso  sarebbe  necessario  credere  che 
questi  conoscesse  una  cronologia  della  storia  romana  di- 
versa da  quella  che  fu  poi  consacrata  dalla  storiografia 
ufficiale,  secondo  i  computi  della  quale  l'esistenza  di  Nu- 


(1)  Storia  di  Roma,  I*,  p.  19  e  387. 


12 


ma  fu  anteriore  di  oltre  un  secolo  a  quella  di  Pitagora. 
Tanto  è  vero  che  quasi  tutti  gli  scrittori  presso  i  quali 
troviamo  ricordata  tale  notizia  —  Cicerone,  Dionigi  d'^li- 
carnasso,  Diodoro  Siculo,  Livio,  Ovidio,  Plutarco,  Plinio  — 
notano  e  discutono  variamente  questa  inconciliabilità  cro- 
nologica, concludendo  tutti  press'a  poco  come  fa  Manilio 
nel  De  re  piiblica  di  Cicerone,  che  dice  la  storia  di  queste 
relazioni  non  sufficientemente  provata  dai  pubblici  annali 
e  quindi  da  ritenersi  «  un  errore  inveterato  »  (l).  Ora  che 
dal  punto  di  vista  romano  o  di  scrittori  romanizzanti  così 
dovesse  concludersi,  è  troppo  naturale:  data  la  indiscuti- 
bile verità  della  tradizione  e  della  relativa  cronologia,  non 
poteva  esservi  dubbio  per  loro  sulla  impossibilità  per  parte 
di  Numa  di  essere  stato  alunno  di  Pitagora.  Ma  tale  im- 
possibilità non  esiste  per  noi,  che  sappiamo  come  la  storia 
delle  origini  di  Roma  sia  di  formazione  relativamente  assai 
tarda,  come  i  computi  cronologici  che  a  quella  si  riferi- 
scono siano  il  risultato  di  una  lunga  elaborazione  tradi- 
zionale, quasi  interamente  destituita  d'ogni  fondamento  di 
verità,  e  infine  come  molte  figure  della  leggenda  siano 
soltanto  dei  simboli  rappresentativi  di  un  complesso  di 
fatti  0  di  istituzioni  appartenenti  talvolta  a  tempi  succes- 
sivi e  diversi.  Tolto  dunque  l'ostacolo  cronologico  che,  se 
era  validissimo  per  i  contemporanei  di  Cicerone,  non  sus- 
siste più  oggi  che  la  critica  storica  ha  demolito  l'antichis- 
sima cronologia  di  Roma,  non  rimane  altra  obiezione  che 


(1)  Ciò.  De  re  pubi.  Il,  15,  28:  «Inveteratus  ho77tinum  errore. 
Cfr.  DioN.  Halic.  II,  59  ;  Diod.  Sic.  Vili,  14  {.Exc.  de  vlrt.  et  vii. 
p.  549);  Livio  I,  18  e  XL,  29;  Plut.  iVwma  I,  3;  YIII,  5  sgg.; 
Plinio,  Nat.  Hist.  XIII,  27.  —Quanto  alla  testimonianza  di  Ovidio 
si  veda  più  innanzi,  al  cap.  IX. 


—  13   -«. 

quella  sollevata  da  Livio,  il  quale  ritenne  impossibile  ogni 
rapporto  fra  Numa  e  Pitagora  anche  per  ragioni  di  di- 
stanza e  di  lingua.  Dice  egli  infatti  :  «  Auctorem  doctrinae 
«  eius  [i.  e.  Numae]^  quia  non  exstat  alius,  falso  Samium 
«  Pythagoram  edunt,  quem  Servio  Tullio  regnante  Bomae, 
«  centum  amplius  post  annos,  in  ultima  Italiae  ora  circa 
«  Metapontum  Heracleamque  et  Crotona  iuvenum  aemu- 
«  lantium  studia  coetus  habuisse  constai.  Ex  quibus  locis, 
«  etsi  eiusdem  aetatis  fuisset^  quae  fama  in  Sabinos  f 
«  aut  quo  linguae  commercio  quemquam  ad  cupiditatem 
«  discendi  excivisset  f  quove  praesidio  unus  per  tot  gentes 
«  dissonas  sermone  moribusque  pervenisset  f  suopte  igitur 
«  ingenuo  temperatum  animum  virtutibus  fuisse  opinor 
«  magis  instructumque  non  tam  peregrinis  artibus  quam 
«  disciplina  tetrica  ac  tristi  veterum  Sabinorum^  quo  ge- 
«  nere  nullmn  quondam  incorruptius  fuit  »  (1).  Ma  nel 
campo  della  storia,  come  giustamente  osserva  il  De  Mar- 
chi (2),  è  forse  detta  l'ultima  parola  sui  rapporti  che  lega- 
rono in  antico  la  civiltà  della  Magna  Grecia  con  le  più 
barbare  popolazioni  italiche  del  centro  ?  E  d' altra  parte 
la  esistenza  ammessa  da  Livio  di  una  «  disciplina  tetrica 
ac  tristis  »  presso  i  Sabini  dell'ottavo  secolo  a.  C.  non  è 
cosa  molto  più  problematica  di  quello  che  non  sia  pro- 
babile l'andata  di  qualche  sabino  o  romano  nella  Magna 
Grecia  nel  secolo  sesto?  La  leggenda  dei  rapporti  fra 
Numa  e  Pitagora  dovrebbe  dunque,  a  parer  iiostro,  accet- 
tarsi come  rispondente  a  verisimiglianza,  e  il  regno  di 
Numa,   se  questi  è  realmente   esistito,  o,    in  ogni    modo, 


(1)  Livio,  I,  18. 

(2)  Passi'scelti  da  Tito  Livio  ad  illustrare  le  istituzioni  religiose^ 
politiche  e  militari  di  Roma  antica,  Milano,  Vallardi,  1907  p.  65. 


—   14  — 

il  formarsi  di  tutti  quegli  istituti  di  carattere  religioso  che 
la  tradizione  riportava  a  lui,  dovrebbe  ritenersi  posteriore 
almeno  al  tempo  di  Pitagora,  ossia  posteriore  al  secolo 
sesto,  appunto  perchè  dalla  tradizione  era  tenuto  in  stretto 
rapporto  di  dipendenza  dal  Pitagorismo.  In  tal  modo  non 
sarebbe  più  necessario,  come  fa  il  Pais,  di  ritenere  inven- 
tata da  Aristosseno  l'altra  notizia,  che  risale  appunto  a 
questo  filosofo  del  quarto  secolo,  che  parla  genericamente 
di  Romani  accorsi  ad  ascoltar  Pitagora  (1),  e  piii  facil- 
mente si  comprenderebbero  alcuni  dati  della  leggenda. di 
Numa,  la  scoperta  dei  famosi  libri  pitagorici  di  questo  re, 
e  il  fatto  che  qualche  scrittore,  per  esempio  Ovidio,  am- 
metta la  realtà  dei  rapporti,  senza  neppure  discuterla. 

Raccontava  ancora  la  tradizione  che  Numa  ebbe  tanta 
venerazione  per  il  suo  maestro  Pitagora,  che  volle  dare 
a  un  proprio  figlio  il  nome  di  Mamerco,  in  onore  dell'omo- 
nimo figlio  del  filosofo  (2).  Che  significato  può  avere  questo 
nuovo  particolare  ?  Alcuni  hanno  creduto  di  scorgere  in 
esso  un  tentativo  da  parte  degli  Emili  Mamertini  di  far 
risalire  in  tal  modo  le  proprie  origini  al  tempo  di  Numa. 
Se  così  fosse,  noi  dovremmo  allora  ammettere  che  quando 
il  particolare  fu  inserito  nella  leggenda,  la  cronologia  di 
questa  non  era  ancora  quella  ufficiale:  altrimenti  il  tenta- 
tivo sarabbe  stato  puerile.  Ma  così  veramente  non  è,  come 
fu  giustamente  osservato  dal  Mtiller  (3);  probabilmente  il 


(lì  npoo'^X'9'Ov  S'aùxcp  (cioè  Pitagora),  &<;  cpvjoiv  'Apiaxógsvog,  xal 
Asuxavol  xal  MsooàTiiot  xal  Hsuxéxioi  xal  'Ptojjtalot.  Così  dice  Por- 
firio nel  Gap.  22  della  Vita  di  Pitagora;  e  il  medesimo  affermano, 
senza  citare  Aristosseno,  Diogene  Laerzio  (Vili,  14)  e  Giamblico 
{Vita  Pythag,  241).  Quanto  al  Pais,  vedasi  St.  di  Roma  I^, 
p.  678-679  n.  e  altrove. 

(2)  Plutarco,  Numa  YIII,  11  ;  P.  Emilio  I. 

(3)  Q.  Ennius,  Pietrob.  1884,  p.   162  n. 


-^  15  — 

particolare  non  ebbe  altro  ufficio  che  di  avvalorare  con 
un  indizio  di  piii  la  leggenda.  Un'altra  notizia,  a  propo- 
sito della  quale  non  è  veramente  fatta  menzione  alcuna 
di  Pitagora,  è  quella  che  si  riferisce  alla  Musa  Tacita,  per 
la  quale  Numa  ebbe  particolare  venerazione  (1).  Allude 
forse  essa  alla  pratica  del  silenzio  e  della  segretezza,  di 
cui  parla  costantemente  la  tradizione  pitagorica?  È  pos- 
sibile. E  il  miracolo  della  mensa  carica  di  ricco  vasellame, 
che  il  re  avrebbe  fatto  apparire  dinanzi  agli  occhi  di  co- 
loro che  dubitavano  delle  sue  facoltà  soprannaturali  (2), 
non  ricorda  le  analoghe  facoltà  magiche  attribuite  a  Pita- 
gora dalla  tradizione?  Veramente  queste  due  notizie,  per 
il  loro  carattere  favoloso,  potrebbero  indurci  a  credere 
l'austera  e  quasi  mistica  figura  di  Numa  una  proiezione 
storica  immaginaria,  plasmata,  in  parte,  a  immagine  del 
saggio  di  Samo.  Ma  un  altro  fatto,  sulla  cui  verità  storica 
non  è  possibile  il  dubbio,  sembra  indurci  a  conclusione 
diversa;  voglio  alludere  al  fatto  della  scoperta  dei  famosi 
libri  di  Numa,  avvenuta  nel  191  a.  C,  in  occasione  di 
uno  scavo  sul  Gianicolo.  Ora  data  la  realtà  della  scopei-ta 
e  la  inverosimiglianza,  come  vedremo  nel  capitolo  seguente, 
di  una  falsificazione,  noi  dobbiamo  ammettere,  con  la  tra- 
dizione, che  questi  libri  fosseì'o  veramente  antichi.  Siano 
poi  essi  stati  opera  del  saggio  Numa  —  la  cui  esistenza, 
come  s'è  già  detto,  dovrebbe  necessariamente  porsi  in 
un'epoca  posteriore  al  sesto  secolo  — •  o  di  qualche  altro 
sapiente  imbevuto  di  sapienza  greco-italica,  essi  starebbero 
sempre  a  dimostrare  che  effettivamente  il  Pitagorismo  eser- 
citò una  qualche  azione  sull'antica  civiltà  capitolina. 


(1)  Plutarco,  Numa^  Vili. 

(2)  DioN.  Hauc,  U,  60. 


—  16  — 

Dal  complesso  di  queste  notizie  e  di  questi  fatti  noi 
possiamo  dunque  inferire  che  non  solo  la  leggenda  dei 
rapporti  fra  i  due  legislatori  dovette  essere  assai  difPusa 
ed  antica,  ma  che  altresì  essa  ha  un  certo  fondamento  di 
vero  :  di  guisa  che  se  Cicerone  la  disse  «  inveteratus  ho- 
minum  error  »  noi  possiamo  senz'altro  accettarne  la  vetu- 
stà; e  quanto  all'erroneità,  essa  fu  probabilmente  soltanto 
un  desiderio  di  uomini  di  stato  e  di  eruditi  animati  da 
un  eccessivo  orgoglio  nazionale.  Per  la  qual  cosa  Ovidio, 
che  pure  scrisse  dopo  che  diversi  storici  avevano  mosso 
alla  leggenda  le  critiche  accennate,  potè  ben  accettarla 
senza  discuterla  affatto  come  una  cosa  ovvia  e  risaputa  (1) 
e  fare  in  certo  modo  dipendere  le  istituzioni  religiose  at- 
tribuite a  Numa  (2),  persino  la  sua  riforma  del  calenda- 
rio (3),  dalla  educazione  pitagorica  da  lui  ricevuta. 

5.  —Anche  alcune  disposizioni  legislative  delle  dodici  ta- 
vole—  che  appartengono  alla  metà  del  quinto  secolo  a.  C.  — 
furono  messe  in  relazione  col  Pitagorismo;  cosa  ben  natu- 
rale, se  si  pensi  alla  loro  origine:  non  erano  esse  infatti 
ricalcate  sulle  orme  delle  legislazioni  della  Magna  Grecia, 
che,  alla  lor  volta,  com'è  ben  noto,  si  informavano  ai  prin- 
cipii  di  quella  dottrina?  Ora  questa,  che  sarebbe,  per  dirla 
con  Cicerone,  semplice  coniectura,  ha  poi  la  sua  riprova 
nel  contenuto  delle  leggi  stesse,  quale  può  desumersi  dai 
frammenti  che  ce  ne  rimangono.  Infatti  il  diritto  punitivo 
in  esse  sancito  s'ispirava  al  principio  del  taglione:    «  Si 


(1)  Metam-.  XV,  ]-8,  479-484;    Fast.  Ili,    151-154;    Pont.  Ili, 
3,  41-46. 

(2)  Metam.  XV,  479-484. 

(3)  Fast.  1.  e. 


—  17  — 

membrum  rup{s)it^  ni  cum  eo  pacit^  tallo  està  »,  dice  il 
secondo  frammento  della  ottava  tavola,  e  questo  principio, 
che,  come  attesta  Demostene,  ebbe  largo  svolgimento  nelle 
leggi  di  Zaleuco  (1),  era  indubitatamente  tolto  dai  Pitago- 
rici, i  quali  lo  ricollegavano  alla  dottrina  dei  numeri.  Dice 
infatti  Aristotile  (2)  che  la  giustizia  era  da  loro  conside- 
rata come  ràvTi7i;£7cov'9'ó(;,  perchè  consisteva  in  una  pro- 
porzione —  non  inversa,  ma  diretta,  come  notò  bene  lo 
Zeller  (3)  —  fra  l'offeso,  l'offensore  e  il  giudice  ;  nel  che 
essi  applicarono,  secondo  la  critica  aristotelica,  i  criteri 
della  giustizia  commutativa  ad  un  ordine  in  cui  non  può 
aver  luogo  che  la  distributiva.  Ora,  dice  il  Chiappelli  in 
un  suo  breve  studio  (4),  in  qual  modo  si  determinasse  dal 
Pitagorismo  e  quali  applicazioni  avesse  questa  teorica  del 
taglione  non  possiamo  dire,  né  possiamo  quiudi  sapere 
quali  elementi  di  essa  penetrassero  nelle  dodici  tavole  e 
a  quali  trasformazioni  andasse  soggetta  in  Roma.  Un  punto 
tuttavia  è  possibile  stabilire,  sebbene  solo  in  modo  nega- 
tivo. Alla  legge  generale,  nelle  dodici  tavole,  seguivano 
le  leggi  speciali:  la  prima  di  esse  riguardava  la   diversa 


(1)  Timocr.  744  :  «  ò'^xoz  yàp  aòxó^t  vó|i.oo,  èdtv  tig  òcp'S-aXiJLÒv 
è%xó4>ì|7,  àvTsxxócIjat  itapaaxsiv  xòv  éauxoQ  xal  oò  XP'^M-*''^^^  xt|i7j- 
oswg  oòSs|Jtiac,  àTceiÀTjaat  xtg  Xéyexat  èy^d-pòg  è/.'^-pcp  Iva  Ixovxt  òcpS-aX- 
jjiòv  Sxt  aòxoù  èxxóc|^st  zoùzo'*  xòv  §va  ».  Le  medesime  parole  si 
ritrovano  in  quello  che  1'  autore  della  Grande  Morale  ci  riferisce 
dei  Pitagorici,  il  ohe  è  una  riprova  del  rapporto  storico  fra  questi 
e  Zaleuco. 

(2)  Eth.  Nic.  Y,  8,  1132  b.  1  (ed.  Susemihl)  :  «  Soxst  5s  xtat 
xal  xò  àvxt7C£7iov'9'òc  slvat  ànXGòq  dCxatov  còaicep  oi  nuO-ayópsiot 
Icpaaav.  è^pL^o'^xo  yàp  àuXwc  '^à  SCxaiov  xò  dcvxtTCSTtovO'òc  dcXXcp  ». 

(3)  [\  360. 

(4)  Sopra  alcuni  frammenti  delle  XII  tavole  nelle  loro  relazioni 
con  Eraclito  e  Pitagora,  in  Areh.  giuria,  voi.  XXXV. 

2, 


—  18  — 

misura  della  pena  per  l'ingiuria  recata  a  un  libero  o  ad 
uno  schiavo  (1).  Ora  i  Pitagorici  non  pare  che  avessero 
fatta  questa  distinzione,  se  l'autore  della  Grande  Morale 
combatte  la  dottrina  pitagorica  del  taglione,  come  quella 
che  non  si  può  applicare  incondizionatamente  al  servo  o 
al  libero,  poiché  di  quanto  quello  cede  a  questo,  di  tanto, 
se  gli  abbia  fatto  ingiuria,  deve  accrescersi  la  pena  cor- 
rispondente (2).  E  in  verità  siffatta  distinzione  era  bensì 
impossibile  nel  sistema  dei  Pitagorici,  per  i  quali  il  corpo 
era  come  il  carcere  dell'anima,  che  vaga  in  una  perenne 
trasmigrazione,  e  il  più  alto  precetto  etico  era  l'imitazione 
degli  dei  per  via  della  virtù,  l'osservanza  delle  leggi  e  il 
rispetto  verso  tutti  gli  uomini;  ma  era  invece  possibilis- 
sima, anzi  necessaria,  nella  legislazione  di  Roma,  dove  così 
netto  era  il  distacco  fra  cittadini  liberi  e  schiavi. 

6.  —  Abbiamo  anche  veduto  come  a  Cicerone  paresse 
ispirato  ai  principii  della  filosofia  pitagorica  il  poemetto  di 
Appio  Claudio  Cieco,  che,  censore  nel  312  e  console  nel 
307  e  nel  296  a.  C,  fu  indubbiamente  uno  dei  personaggi 
storici  più  importanti  e,  se  non  il  primo,  certo  uno  dei 
primi  rappresentanti  di  una  larga  cultura.  Orbene,  che  il 
giudizio  di  Cicerone  non  fosse  errato  parrebbero  dimostrare 
a  sufficienza  i  pochi  frammenti  che  di  quella  poesia  ci  sono 
rimasti.  E  in  verità  la  famosa  sentenza  «fahrum  esse  suae 
quemque  fortunae  »  non  potrebbe  esprimere  meglio  il  fon- 
damento della  dottrina  morale  di  Pitagora  ;  e  l' altra,  altis- 


(1)  Si  veda  il  fr.  3  della  stessa  tav.  Vili  ;  «  Manu  fustive  si  os 
fregit  libero  CCC,  [si]  servo  GL  poenani  subito  ». 

(2)  Magn.  Mar.    I,  34,  1194,   a.  35:    «  xò  Si^  TotoaTov  o5x  èaxt 
Tipòg  &7iavxag*  oò  yàp  laxi  Stxaiov  olxéx^  Tcpòg  èXsud-spóv  xaOxóv  »  etc- 


—  19  — 

sima,  come  dice  il  Pascoli  (1),  se  fosse  certa  la  lezione  e 
r  interpretazione  :  «amicum  cum  vides  obliscere  miserias; 
inimicus  sies;  commentus  nec  libens  aeque  [idem  tamen 
teneto]  »^  che  il  Pascoli  stesso  traduce:  «tu  dimentichi 
la  tua  miseria  quando  vedi  un  amico;  ora  sia  tuo  nemico 
"quello  che  tu  vedi:  ebbene,  pensatamente,  e  non  volen- 
tieri come  con  l'amico,  tieni  lo  stesso  contegno,  tuttavia  » , 
è  pure  strettamente  conforme  alla  dottrina  pitagorica,  che 
insegnava  amore  e  fratellanza  ;  il  terzo  infine  «  sui  quem- 
que  oportet  animi  coìnpotem  esse  semper  nequid  fraudis 
stuprique  ferocia  pariat  » ,  non  e  certo  disforme  dalle  pra- 
tiche e  dagli  esercizi  spirituali  degli  adepti  al  Pitagorismo, 
che  dovevano  acquistare  padronanza  assoluta  non  pure  del 
proprio  corpo,  ma  anche  delle  proprie  attività  interiori, 
per  dirigerle  al  bene. 

Non  si  apponeva  dunque  male  Cicerone.  Senonchè  an- 
che intorno  all'autenticità  di  questo  antico  poema,  che 
sarebbe  una  delle  prime  manifestazioni  letterarie  di  Roma, 
si  sono  sollevati  dei  dubbi.  Il  fatto  che  la  notizia  di  esso 
era  data  da  Panezio  in  una  sua  lettera  a  Quinto  Tuberone 
ha  indotto  per  esempio  il  Pais  (2)  a  pensare  che  si  tratti 
di  una  falsificazione  posteriore,  «  da  collegarsi  con  le  altre 
falsità  che  andavano  sotto  il  nome  di  Aristosseno  intorno 
ai  Romani  scolari  di  Pitagora  e  su  Pitagora  cittadino  di 
Roma  » .  Ma  come  è  ciò  possibile,  se  Aristosseno  e  Appio 
furono  contemporanei?  E  se  Appio  visse,  come  è  certo, 
nel  tempo  in  cui  furono  sottomesse  la  Campania  e  la  Lu- 
cania^ che  ragione  c'è  per  negare  che  egli  abbia  potuto 
conoscere  quelle  dottrine  e  da  esse  trarre  ispirazione  per 


(1)  Lyra  romana,  Livorno,  1895,  p.  XXXII. 

(2)  St.  di  Roma  I,  2,  p.  671  n. 


-    20  — 

il  suo  poemetto?  E  poi  come  dubitare  con  qualche  fon- 
damento dell'autenticità  dell'opera  che  un  Panezio  e  un 
Cicerone,  a  distanza  di  tempo  relativamente  breve,  attri- 
buirono ad  Appio  stesso,  tanto  più  che  il  medesimo  Pais 
riconosce  che  l'efficacia  della  filosofìa  tarentina  si  esercitò 
sopra  gli  uomini  di  stato  romani  «  dal  tempo  di  Appio  e 
di  Pirro  »  ?  L' ipotesi  di  una  falsificazione,  della  quale  poi 
non  si  vedrebbe  neppur  chiaramente  la  ragione,  non  ci 
sembra  dunque  per  nulla  fondata;  sì  che  noi  possiamo 
con  chiudere  che  la  dottrina  del  filosofo  di  Samo,  in  con- 
formità dei  dati  tradizionali,  esercitò  una  qualche  azione 
tanto  sulla  più  antica  civiltà  di  Koma,  a  partire  dal  sesto 
secolo  a.  C,  quanto  sui  primi  prodotti  del  pensiero  e 
dell'  arte. 


CAPITOLO  SECONDO 


Quinto  Ennio  e  i  snoì  tempi 

1.  Ennio  e  Catone.  — 2.  Ennio  in  Roma  e  il  circolo  degli  Scipioni.  — 
3.  Il  sogno  degli  Annali.  —  4.  Sua  importanza  per  la  diffusione 
delle  dottrine  pitagoriche  in  Roma.  —  5.  L'  «Epicharmus  ».  — 
6.  Ennio  e  il  razionalismo.  —  7.  I  libri  di  Numa.  —  8.  Culti 
Bacchici  e  sette  orfiche  in  Italia  nel  principio  del  sec.  II  a.  C.  — 
9.  Stazio  Cecilie  e  Marco  Pacuvio.  —  10.  I  comici.  —  11.  Caio 
Lucilio. 

1. — Chi,  più  d'ogni  altro,  contribuì  a  diffondere  in  Roma 
la  conoscenza  delle  dottrine  di  Pitagora  fu  senza  dubbio 
il  poeta  Ennio  (239-169  a.  C),  il  grande  padre  della  cul- 
tura e  della  letteratura  romana.  Nativo  di  Rudie,  paese 
fortemente  ellenizzato  fra  Brindisi  e  Taranto,  egli  aveva 
studiato  in  quest'ultima  città,  che  era  il  centro  italico,  in 
cui  si  conservavano  più  pure  le  tradizioni  pitagoriche. 
Versato  nel  greco,  nell'osco  e  nel  latino,  egli  diceva  scher- 
zando di  avere  tre  cuori  (1).  Nel  204  si  trovò  a  militare 
in  Sardegna  fra  gli  ausiliari  che  Taranto  aveva  mandato 


(1)  Gellio,  N.  a.,  XVIII,  17. 


—  22  — 

ai  Romani,  e  quivi  da  Marco  Porcio  Catone,  che  era  più 
giovane  di  lui  di  cinque  anni,  fu  invitato  a  recarsi  a  Roma. 
Come  si  spiega  tale  invito  ?  Quali  vincoli  si  stabilirono  fra 
questi  due  giovani,  destinati  a  sì  grandi  cose,  che  si  incon- 
trarono fra  gli  orrori  di  una  guerra  di  conquista?  Furono 
vincoli  di  simpatia  e  di  amicizia  creati  dalla  comune  gran- 
dezza d'animo  e  da  comuni  aspirazioni?  0  si  erano  essi 
già  conosciuti  cinque  anni  prima,  nel  209,  quando  Catone 
quindicenne  fu  in  Taranto  ospito  del  pitagorico  Nearco  ?  (1). 
Questo  mi  sembra  più  probabile.  D'altra  parte  la  profonda 
scienza  e  il  forte  intelletto  del  Rudino  dovettero  certo 
colpire  l'animo  eletto  e  la  mente  aperta  di  Catone,  che 
alle  qualità  pratiche  del  futuro  uomo  di  stato  univa  le 
attitudini  del  poeta  e  dell'artista,  del  pensatore  e  del  filo- 
sofo. In  virtù  della  sua  sapienza  Ennio  dovette  apparire 
al  nobile  cittadino  di  Roma  come  assai  atto  a  cantare  le 
antiche  gesta  della  città;  ed  è  forse  per  questo  che  Ca- 
tone, ragionando  con  lui  delle  istorie  primitive  della  patria 
e  delle  relazioni  che  essa  ebbe  con  la  Magna  Grecia,  dovette 
suggerirgli  l'idea  del  poema,  che  quegli  poi  realmente 
scrisse,  e  per  la  composizione  di  esso  ojffrirsi  di  agevolar- 
gli la  conoscenza  dei  documenti  e  dei  materiali  storici  e 
promettergli  tutto  il  suo  aiuto  ;  il  quale,  e  per  la  condi- 
zione e  per  l'ingegno  dell'offerente,  non  poteva  non  ap- 
parire ad  Ennio  prezioso  e  inestimabile.  Al  poeta  d'altro 
lato,  piena  l'anima  dell'antica  sapienza  della  sua  terra,  di 
quella  sapienza  che  nessuno 

in  somnis  vidit  priu'  quam  sam  discere  coepit  (2) 


(1)  Plutarco,   Gaio  maior^  4-5.  —  Cioeeone,  Caio  maior,  12,  39; 
21,  78. 

(2)  Annalee,  VII.  fr.  124  (Yalmagoi). 


—  23  — 

dovette  balenare  come  in  uno  splendore  radioso  l'idea  di 
illustrare  col  suo  canto  le  antiche  imprese  di  Roma  e,  al 
tempo  stesso,  di  farsi  banditore  di  una  sapienza  scono- 
sciuta alla  città  che  forse  il  suo  spirito  veggente  presagiva 
sarebbe  stata  nuova  fucina  di  cultura  e  di  sapere  e  maestra 
di  nuova  civiltà  alle  più  lontane  generazioni! 

2.  —  Venuto  in  Roma,  Ennio  vi  passò  quasi  per  intero 
l'altra  metà  delia  sua  vita,  dedicandosi  totalmente  agli 
studi  e  alla  poesia  e  a  diffondere  fra  la  gioventìi  colta 
della  città  l'amore  del  sapere.  Egli  chiamò  intorno  a  sé, 
a  formare  un  circolo  di  studiosi,  i  piti  influenti  e  noti 
cittadini  e  da  essi  seppe  farsi  amare  ed  onorare  per  le 
cognizioni  vaste  e  profonde,  per  la  nobiltà  dell'animo  e 
l'integrità  del  carattere,  per  la  modestia  della  vita  e  d6i 
costumi,  per  la  dolcezza  dei  modi  e  del  parlare.  Ad  ascol- 
tarlo accorsero  fra  gli  altri  Scipione  Africano,  Scipione 
Nasica,^  Aulo  Postumio  Albino  (1),  Marco  e  Quinto  Fulvio 
Nobiliore,  e  con  tali  amicizie  egli  seppe  vivere  sempre 
poverissimo  e  pur  sempre  sereno,  mostrando  così  con  l'ef- 
ficacia dell'esempio,  che  le  verità  da  lui  insegnate  e  pra- 
ticate erano  realmente  le  più  atte  a  dare  la  felicità  e  la 
pace.  Se  vogliamo  credere  a  Gelilo,  il  grammatico  Lucio 
Elio  Stilone  soleva  dire  che  Ennio  fece  il  ritratto  di  sé 
medesimo  nei  seguenti  versi  degli  Annali,  che  descrivono 
il  vero  amico: 

Haece  locutus  vocat,  quocum  bene  saepe  libenter 
mensam  sermonesque  suos  rerumque  suarum 
comiter  inpartit,  magnam  cum  lassus  diei 
partem  trivisset  de  summis  rebus  regundis 


(1)  Fu  «  decemvir  sacrorum  »  nel  173  a.  C.  (Livio,  XLII,  10). 


—  24  — 

275      Consilio  indù  foro  lato  sanctoque  senatu  ; 

quo  res  audacter  magnas  parvasque  iocumque 
eloqueretur  cuncta  [simul]  malaque  et  bona  dictu 
evomeretj.si  qui  vellet,  tutoque  locaret; 
quocum  multa  volup  [et]  gaudia  clamque  palamque, 

280      ingenium  quoi  nulla  malum  sententia  suadet 

ut  faceret  facinus  levis  aut  malus  ;  doctus,  fidelis, 
suavis  homo,  facundus,  suo  contentus,  beatus, 
scitus,  secunda  loquens  in  tempore,  commodus,  verbum 
paucum,  multa  tenens  antiqua  sepulta,  vetustas 

285      quem  facit  et  mores  veteresque  novosque  tenentem 
multorum  veterum  leges  divomque  hominumque, 
prudenter  qui  dieta  loquive  tacereve  posset  (1). 

In  questo  ritratto  tu  vedi  l'immagine  del  vero  sapiente 
pitagorico,  che  sa  trattare  le  faccende  pubbliche  e  raccor 
gliersi  nella  meditazione,  che  sa  parlare  con  piacevolezza 
e  con  facondia  e  tacere  a  tempo  opportuno,  che  non  com- 
mette mai  il  male,  neppure  per  leggerezza,  fedele  nell'a- 
micizia e  servizievole^  contento  del  suo,  felice,  che  infine 
sa  molte  cose  profonde  e  recondite,  ma  le  tiene  ermeti- 
camente chiuse  nel  fondo  della  sua  anima,  per  non  darle 
in  balìa  di  inetti,  e  le  svela  soltanto  a  chi  si  mostri  atto 
ad  intenderle. 

E  anche  possibile,  come  osserva  acutamente  il  Pascal  (2), 
che  in  questi  versi  Ennio  abbia  voluto  altresì  rappresen- 
tare i  suoi  rapporti  col  grande  Scipione,  del  quale  si  po- 
trebbe dire  assai  piii  convenientemente  quello  che  Macro- 
bio  scrisse  dell'Emiliano,  che  cioè  fosse   «  vir  non  minus 


(1)  Gellio,  N.  a.  XII,  47:  «  L.  Aelium  Stilonem  dicere  solitum 
ferunt,  Q.  Ennium  de  semet  ipso  haec  scripsisse  picturamque  istam 
morum  et  ingenii  ipsius  Q.  Enni  factam  esse  ».  I  versi  sono  se- 
condo il  testo  dato  dal  Valmaggi  (=  vv.  294  ss.  Mìjller  =  fr.  194 
Baehrens). 

(2)  Antologia  latina,  Milano,  1899,  p.  16. 


—  25  — 

philosopMa  quam  virtute  praecellens  »  (1);  e  l'ipotesi  tanto 
pili  è  accettabile  se  pensiamo  che  Scipione  fu  forse  il  mi- 
gliore dei  discepoli  del  poeta,  il  quale  lo  ebbe  in  tanta 
considerazione  da  comporre  intorno  a  lui  un  poemetto 
—  Scipio  —  e  da  fargli  dire  : 

A  Sole  exoriente  supra  Maeotis  paludes 

nemo  est  qui  factis  me  aequiperare  queat. 

Si  fas  endo  plagas  caelestum  ascendere  cuiquam  est, 

mi  soli  caeli  maxima  porta  patet  (2). 

E  Cicerone  stesso,  appunto  per  la  sua  sapienza,  oltre 
che  per  la  fama  delle  sue  imprese,  non  lo  scelse  come 
protagonista  del  Sogno  famoso  col  quale  terminava  il  De 
Repuhlicaf 

3.  —  Di  Ennio  fu  notissimo  ai  Romani  il  sogno  col  quale 
incominciavano  gli  Annales  e  di  cui  ci  sono  rimasti  ap- 
pena alcuni  frammenti  (3)  insieme  con  le  testimonianze  di 
Lucrezio,  di  Cicerone,  di  Orazio,  di  Persio  e  di  altri  (4). 


(1)  In  Somnium  Seipionis^  I,  3. 

(2)  Cicerone,  Tuse.  V,  49;  Seneca,  e/),,  108  e  altri.  Seneca  poi, 
nell'ep.  86,  dice,  parlando  appunto  di  Scipione:  «  animus  eius  in 
eaelum^  ex  quo  erat^  rediisse  persuadeo  rtiihi  ». 

(3)  Vedili  in  V.  J.  Vahlen  Enn.  poes.  rei.,  Lipsiae,  2^  ediz.  1902, 
pp.  4-6;  L.  MuELLEE,  Q.  Enni  carm.  rei.,  Petrop.  MDCCCLXXXV, 
pp.  3-5,  e  nei  Frag.  poet.  rovn.  coli.  Baehrens,  Lipsiae,  1886.  Vedi 
anche  le  osservazioni  del  Mueller,  Q.  Ennius,  Pietroburgo,  1884, 
p.  139  e  seg.  e  lo  studio  del  Valmaggi  pubblicato  nel  Bollettino  di 
filai,  classica,  III,   259  e  seg. 

(4)  Lucrezio,  I,  112-126;  Cicerone,  Somn.  Scip.,  I,  10;  Aead,  II, 
16,  51;  27,  88;  Orazio,  Ep.  II,  1,  52-54;  Persio,  prol.  2  sg., 
sai.  VI,  10-11;  Schol.  in  Pers.  prol.  2;  VI,  9;  Sehol.  Cruq.  in 
Horat.,  Ep.  Il,  1,  52;  Frontone,  ep.  IV,  12,  p.  74  Nab.;  Sergio, 
ad  Aen.^  II,  274,  ecc. 


—  26  — 

Questo  sogno  che  «  levò  grande  rumore  nel  mondo  ro- 
mano e  di  cui  spesso  si  parlala,  ora  con  serietà  filosofica, 
ora  per  ischerzo,  tanto  che  divenne  quasi  proverbiale  »  (1), 
doveva  essere  abbastanza  lungo.  Al  poeta  addormentato 
sarebbe  apparso  sul  monte  Parnasso  (2)  il  fantasma  pian- 
gente (3)  di  Omero  a  dargli  lunghe  spiegazioni  intorno 
all'ordine  dell'universo  (4),  alle  trasmigrazioni  di  ogni  ani- 
ma umana  attraverso  un  proprio  ciclo  di  vite  (5)  e  alla 
sopravvivenza  nelle  caverne  d'Acheronte  di  una  forma 
intermedia  fra  l'anima  e  il  corpo  (6)  e  a  ricordargli  le 
mutazioni  della  propria  anima,  trasformatasi,  dopo  la  morte 
del  corpo,  in  un  pavone  (7)    e  rinata   appunto  in  lui,    il 


(1)  A.  Pasdera,  Il  sogno  di  Scipione^  Torino,  Loescher,  1890, 
p.  4  nota. 

(2)  Persio,  Prol.  1  3  :  «  Nec  fonte  labra  prolui  eaballino  Nee  in 
bicipiti  sommasse  Parnasso  Memim.,  ut  repente  sic  poeta  prodi- 
rem  »,  e  Schol.  ad  V.  21  «  tangit  Ennium^  qui  dicit  se  vidisse 
sommando  in  Parnaso  Homerum  sibi  dicent em  quod  eius  anima 
in  suo  esset  eorpore  * . 

(3)  La  ragione  di  questo  pianto  non  è  detta.  Era  forse  pianto  di 
gioia  per  il  momentaneo  ritorno  a  contatto  con  un  essere  terreno  ? 

(4)  Lucrezio,  I,  126  :   «  rerum  naturam  expandere  dictis  ». 

(5)  Lucrezio,  I,  113  :  «  an  contra  nascentibus  insinuetur  (ani- 
ma) »  e  116  :  «  a?^  pecudes  alias  insinuet  se  ». 

(6)  Lucrezio,  1,  120-123  :  «  Etsi  praeterea  tamen  esse  Acherusia 
tempia  Eìinius  asternis  exponit  versibus  eidem  Quo  ncque  perma- 
neant  aniìnae  ncque  corpora  nostra,  Sed  quaedam  simulacro  modis 
palleniia  miris  » . 

(7)  Persio,  Sat.  VI,  10  sg.  :  «  Cor  iubet  hoc  Enni,  postquam 
destertuit  esse  Maeonides  Quintus  pavone  ex  pythagoreo  ».  Tertul- 
liano, de  an.,  e.  33:  «  pavum  se  meminit  Homerus  Ennio  som- 
mante »  ;  Hbid.^  e.  34:  «  perinde  in  pavo  retunderetur  Homerus, 
sieut  in  Pythagora  Euphorbus  »  ;  cfr.  eiusd.  de  resurrectione^  I, 
G.  1,  e  AcRON,  in  carm.  I,  28,  10;  Persio,  YI,  9,  e  schol.  ;  Lat- 
tanzio in  Theb.  Ili,  484. 


—  27  — 

discendente  del  re  Messapo  (1),  il  poeta  rudino.  Tale, 
press'a  poco,  il  contenuto  di  questo  sogno,  notevolissimo 
non  solo  per  l'esposizione  delle  dottrine  filosofiche,  ma 
altresì  per  l' accenno  alle  ti-asformazioni  e  incarnazioni 
dell'  anima  di  Omero,  e  per  1'  affermata  parentela  spiri- 
tuale dei  due  poeti. 

Che  il  pavone  poi,  importato,  come  sembra,  nel  secolo 
sesto  a.  C.  dall'  Oriente  in  Samo,  la  patria  di  Pitagora, 
avesse  nella  filosofia  mistica  di  questo  iniziato  un'impor- 
tanza considerevole,  è  certo  (2):  e  poiché  era  anche  — 
per  la  colorazione  delle  penne  -  simbolo  del  cielo  stel- 
lato, al  quale  salivano  dopo  ogni  morte  corporea  le  anime 
umane  (onde  l'espressione  per  me  simbolica  del  fieri  pa- 
vom  usata  da  Ennio)  (3),  opportunamente  fu  scelto  dal 
poeta  e  dalla  tradizione  che  egli  seguì,  per  accogliere  l'a- 
nima di  Omero,  già  ritenuto  per  samio,  come  Pitagora. 

4.  —  Il  fatto  che  il  grande  poema  storico  degli  Annales, 
il  quale  ebbe  da  parte  dei  Romani  un  culto  analogo  a 
quello  che  noi  tributiamo  alla  Divina  Commedia,  incomin- 
ciava con  tale  sogno,  ebbe  grande  importanza  per  la  dif- 
fusione e  conoscenza  del  pensiero  pitagorico  in  Roma  ; 
poiché,  appunto  per  lo  studio  che  del  poema  si  fece,  fin 


(1)  Servio,  ad  Aen.  VII.  691  ;  Silio  Italico,  XII,  393. 

(2)  MuELLER,  Q.  Ennius^  p.  143  sg.  Cfr.  Hehn,  Kulturpflanxen 
und  Hausthiere,  2^  ediz.,  p.  309. 

(3)  Dall'interpretazione  letterale  data  a  tale  espressione  o  ad  altre 
consimili  nacque  forse  presso  gli  antichi  —  uno  dei  primi  fu  Seno- 
fane, contemporaneo  di  Pitagora,  nei  versi  citati  da  Diogene  Laer- 
zio (YIT,  36)  i  quali  peraltro  hanno  un'  intonazione  scherzosa,  se 
non  satirica  —  l'opinione  che  Pitagora  credesse  nella  metempsicosi 
anche  animale. 


~   28  — 

dal  secondo  secolo  a.  C.  nelle  scuole  di  grammatica  e  di 
rettori ca  (1)  e  per  le  pubbliche  letture  di  esso,  ancora  in 
uso  nelle  città  di  provincia  ai  tempi  d'Aulo  Gelilo  (2),  si 
dovette  necessariamente  mantenere  viva  in  Roma  stessa 
e  in  Italia  la  conoscenza  di  quella  parte  della  dottrina  di 
Pitagora,  che  nel  sogno  si  ricordava  e  che  era  poi  una 
delle  principali  di  detto  sistema.  Difatti  sono  assai  fre- 
quenti nella  letteratura  posteriore  —  e  noi  le  vedremo  — 
le  allusioni  alla  teoria  della  metempsicosi;  la  quale  del 
resto  fu  forse  introdotta  in  Roma  anche  per  altro  tramite, 
sia  cioè  per  mezzo  dei  Misteri,  nei  quali  si  insegnavano 
appunto  dottrine  per  molti  rispetti  somiglianti  alle  pita- 
goriche, sia  per  mezzo  della  filosofia  platonica  e  stoica, 
che,  secondo  una  tradizione  abbastanza  diffusa  e  anteriore 
air  apparire  del  neo-pitagorismo,  era  derivata  almeno  in 
qualche  parte  fondamentale,  dalle  dottrine  pitagoriche 
stesse. 

5.  —  Se  nel  poema  di  Ennio  vi  fossero  altri  accenni 
alla  filosofia  pitagorica  non  ci  è  dato  conoscere  dagli  scarsi 
e  slegati  frammenti  che  ce  ne  restano  :  ma  non  è  impro- 
babile che,  a  proposito  di  Numa,  fossero  non  solo  notate 
incidentalmente,  ma  fors'anche  illustrate  con  una  certa 
ampiezza  le  somiglianze  fra  le  sue  leggi  ed  istituzioni  e 
quelle  del  filosofo  di  Samo.  In  tal  caso  da  Ennio  per  la 
prima  volta  sarebbe  stata  inserita  in  un'opera  storica  e 
letteraria  latina  la  notizia  desunta  dalla  tradizione  orale  an- 
teriore, che  il  gran  re  avesse  avuto  a  maestro  Pitagora  (3). 


(1)  SvETONio,  de  gramm.  2. 

(2)  Noetes  Attieae,  XVI,  6,  1,  e  XVIII,  5. 

(3)  MuELLBB,  Q.  Ennius^  p.  161  sg. 


—  29  — 

In  altro  scritto  invece  noi  sappiamo  con  certezza  che 
Ennio  trattò  ancora  delle  dottrine  pitagoriche:  e  precisa- 
mente ìieìVUpicharmuSy  un  poemetto  così  intitolato  dal 
nome  del  filosofo  siciliano,  che  era  tenuto  per  uno  dei  più 
valenti  seguaci  della  scuola  italica  (1).  Anche  in  questo 
lavoro  poetico,  il  nostro  scrittore  finse  un  sogno: 

Nam  videbar  somniare  med  ego  esse  morluum  (2j 

e  che  il  poeta  comico  Epicarmo  gli  comunicasse,  nelle 
regioni  infernali,  dottrine  di  filosofia  naturale  suU 'origine 
e  sulla  natura  delle  cose.  Notevole,  fra  gli  altri,  è  il  verso 
nel  quale  si  identifica  il  corpo  alla  terra  e,  secondo  il 
noto  simbolismo  mistico,  l'anima  al  fuoco: 

.  .  .  terra  corpus  est,  et  mentis  ignis  est  (3). 

Al  qual  proposito  Yarrone,  citando,  un  altro  verso  dello 
stesso  Ennio,  scriveva:  «  animalium  semen  ignis  qui  anima 
ac  mens:  qui  caldor  e  caelo^  quod  Mnc  innumerahiles  et 
immortales  ignes.  Itaque  Epicharmus  de  mente  umana  dicit: 

istic  est  de  sole  sumptus  isque  totus  mentis  est  (4). 


(1)  Yahlen,  0.  e,  p.  XCII-XCIII  e  cfr.  L.  Y.  Schmidt,  Quaest. 
epich.  p.  53.  Yedasi  anche  lo  studio  del  Pascal,  Le  opere  spurie 
di  Epicarmo  e  l'Epieharmus  di  Ennio  in  Biv.  di  fìlol.  e  di  istrux. 
classica^  a.  XLYIl,  f.  P,  genn.  1919  pagg.  66  sgg. 

(2)  Cicerone,  Aead.  pr.^  II,  16,  51. 

(3)  Prisciano,  YII,  p.  764  P.  (I,  p.  335  K.).  Cfr.  gli  scolii  al- 
l'Eneide, YI,  724-732. 

(4)  De  lingua  latina^  Y,  39.  Cfr.  Mueller,  op.  cit.,  p.  Ili  sg. 
Sul  pitagorismo  del  poeta  v.  a  pag.  70.  Un'altra  sentenza  pitago- 
rica è  quella  che  ricorda  Cicerone  {de  divin.^  II,  62,  127)  a  pro- 
posito dei  sogni  :  «  aliquot  somnia  vera^  inquit  Ennius^  sed  omnia 
noenum  necesse  est  ». 


—  30  -™ 

6.  —  Ma  oltre  che  alle  opere  letterarie,  le  quali,  come 
sì  è  detto,  ebbero  efficacia  fino  al  secondo  secolo  dopo 
Cristo,  Ennio  rivolse  l'attività  dell'  ingegno,  trasfondendovi 
i  tesori  della  sua  sapienza,  all'insegnamento  orale;  senza 
dire  poi  che  l'esempio  della  sua  vita  intemerata  spronò 
all'  esercizio  costante  della  virtù  tutti  quelli  fra  i  nobili 
cittadini  di  Roma  che  accostandolo  l'amarono.  Egli  si  stu- 
diò di  volgere  le  loro  menti  ad  una  libertà  di  pensiero  e 
ad  una  concezione  individuale  delle  cose,  alla  quale  non 
erano  certo  avvezzi  i  Romani,  educati  sotto  una  disciplina 
ferrea.  Abituando  le  loro  intelligenze  alle  bellezze  ed  alle 
sottigliezze  della  cultura  greca,  insegnando  in  privato  le 
dottrine  di  Pitagora,  combattendo  nel  nome  di  Evemero 
le  superstiziose  credenze  popolari,  e  deridendo  i  sacerdoti 
ignoranti,  predicando  infine  che  l'uomo  ha  da  trovare  in 
se  stesso,  nelle  profondità  dell'anima,  il  fondamento  del 
proprio  valore,  della  propria  libertà  e  della  propria  feli- 
cità, diede  impulso  a  una  vera  rivoluzione  razionalistica 
nello  spirito  romano  (1)  :  sì  che  fra  quei  valorosi  soldati 
e  pratici  legislatori  cominciò  ad  essere  tenuta  in  conto  la 
cultura,  ad  esercitarsi  la  libera  attività  del  pensiero  anche 
in  fatto  di  fede,  e  a  formarsi  un'aristocrazia  vera  e  legit- 
tima, fondata  su  ciò  che  l'  uomo  ha  di  più  sostanziale  e 
di  proprio,  cioè  su  l'intelligenza  e  sullo  spirito. 

Non  è  improbabile  che  appunto  per  questo  Catone,  il 
quale,  sopra  tutto  e  innanzi  tutto,  vedeva  l'interesse  e  il 
bene  dello  Stato,  osteggiasse  il  movimento  a  cui  aveva 
dato  egli  stesso  involontario  impulso  e  perseguitasse  l'A- 


(1)  GiussANi,  Letterat.  romana^  Milano,  Yallardi,  p.  90.  Si  veda 
anche  su  Ennio  il  saggio  critico  del  Lenchantin  De  Gubernatis  (To- 
rino, Bocca,  1915). 


-  Bl  - 

fricano  (1);  tanto  che  questi,  avendo  suscitato  contro  di  sé 
molte  ire  violente  e  molte  accuse  politiche,  si  ritirò  sde- 
gnosamente nella  sua  villa  di  Literno,  nella  Campania, 
dove  morì  nel  183  (2). 

7.  Proprio  in  questi  anni,  facendosi  uno  scavo,  furono 
scoperti  i  famosi  libri  di  Numa,  i  quali,  per  un  caso  assai 
strano,  venivano  molto  opportunamente  a  confermare  gli 
insegnamenti  pitagorici  di  Ennio  (3).  La  notizia  della  sco- 
perta risale,  per  quel  che  ci  è  noto,  all'annalista  Cassio 
Emina,  il  quale,  secondo  ci  riferisce  Plinio  (4),  narrava 
come  un  impiegato  di  nome  Cneo  Terenzio,  facendo  dei 
lavori  in  un  suo  podere  sul  Gianicolo,  avesse  scoperta  e 


(1)  V.  Livio,  XXXVIII,  54. 

(2)  Sull'esilio  e  sulla  morte  di  Scipione  Africano  Maggiore  vedi 
C.  Pascal,  Fatti  e  leggende  di  Roma  antica^  p.  85-96. 

f3)  Si  veda,  intorno  a  questi  libri,  lo  studio  del  Lasaulx,  Ueber 
die  Bueeher  des  Numa^  negli  Atti  dell' Accademia  di  Monaco  del 
1849. 

(4)  Nat.  Eist.  XIII,  84  =  Hist.  Rom.  rell.  I,  p.  106-107  Peter: 
«  Cassius  B.em,ina^  vetustissimus  auctor  annalium,^  quarto  eorum, 
^ibro  prodidit^  Cn.  Terentium,  scribam  agrum  suum,  in  lanieulo 
repastinantem  offendisse  arcani  in  qua  Numa  qui  Romae  regna- 
vii  situs  fuisset.  In  eadem  libros  eìus  repertos  P.  Cornelio  L.  f. 
Gethego^  M.  Bebio  Q.  f.  Pamphilo  coss.  ad  quos  a  regno  Numae 
colliguntur  anni  DXXXV,  et  hos  fuisse  a  charta^  maiore  etiam- 
num  mir acuto  quod  tot  infossi  duraverunt  annis.  Quapropter  in 
re  tanta  ipsius  Heminae  verba  ponam;  mirabantur  alii  quomodo 
ìlli  libri  durare  potuissent^  ille  ita  rationem  reddebat :  «  Lapidem 
fuisse  quadratum  cireiter  in  medio  arde  vinctum,  candelis  quoque 
versus.  In  eo  lapide  insuper  libros  inpositos  fuisse.,  propterea  ar- 
bitrarier  tineas  non  tetigisse:  in  his  libris  scripta  erant  philoso- 
phiae  Pythagoricae  ;  eosque  combustos  a  Q.  Petilio  praetore  quia 
philosophiae  scripta  essent  ». 


—  32  — 

scavata  la  tomba  del  re  Numa,  che  conteneva  i  libri  di 
lui  ;  e,  cosa  di  cui  molti  si  meravigliarono,  cotesti  libri  di 
carta  s'erano  perfettamente  conservati  ;  ma,  come  spiegava 
lo  stesso  Terenzio,  tale  conservazione  era  dovuta  al  fatto 
che,  essendo  posti  sopra  una  pietra  quadrata  che  si  trovò 
quasi  nel  mezzo  della  tomba,  erano  rimasti  immuni  dal- 
l'umidità, ed  essendo  spalmati  di  cedro,  le  tignole  non  li 
avevano  rosi.  I  libri  stessi  poi  contenevano  scritti  di  filo- 
sofìa pitagorica,  per  la  qual  ragione  furono  poco  dopo 
bruciati  dal  pretore  Quinto  Petillio.  Lo  stesso  racconto 
fece  pure  l'annalista  X.  Calpurnio  Pisone  Censorio  Fru- 
gì  (1),  secondo  il  quale  però  detti  libri  erano  sette  di  di- 
ritto pontificio  e  altrettanti  pitagorici.  Quattordici  erano 
pure,  secondo  1'  annalista  C,  Sempronio  Tuditano  (2)  e 
contenenti  i  decreti  di  Numa.  Secondo  Valerio  Anziate 
infine  (3)  essi  erano  invece  ventiquattro,  dodici  pontificali 
scritti  in  latino  e  dodici  di  filosofia  scritti  in  greco,  e  non 
si  sarebbero  trovati  proprio  nella  tomba  di  Numa,  ma  in 
un'arca  adiacente. 

Se  il  racconto  è  vario  nei    particolari,    tuttavia   questi 


(1)  Plinio,  /.  e.  =  H.  R.  rell.  I,  p.  122-123,  P.  :  «  Hoc  idem 
tradii  0.  Piso  censorius  primo  commentari  or  um,^  sed  libros  septem 
iuris  pontifìcii  totidemque  Pythagoricos  fuisse  ». 

(2)  Plinio  l.  e.  =  H.  R.  rell.  I,  p,  142-143  P  :  «  Tuditanus 
decimo  tertio  Numae  decretorum  fuisse  » . 

(3)  Plinio  /.  e.  :  «  libros  XII  fuisse  ipse  Varrò  Humanarum 
antiquitatum  septimo.  Antias  secundo  libros  fuisse  XII  potiti  fi- 
cales  latinos^  totidem  graecos  praecepta  philosophiae  continentes  » . 
Cfr.  Plutarco,  Numa,  22  ;  Livio,  XL,  29,  ^  =z  H.  R.  rell.  I, 
p.  240-241  P.  Si  noti  però  che  il  Peter  crede  (/.  e.  p.  CC.)  che 
Livio  abbia  citato  per  errore  Valerio  Anziate  invece  di  Calpurnio 
Pisone. 


33 


ed  altri  autori  (1)  sono  concordi  nell'affermare  sia  la  sco- 
perta dei  libri,  durante  il  consolato  di  P.  Cornelio  Cetego 
e  di  M.  Bebio  Panfilo  (191  a.  C),  sia  la  loro  pronta  di- 
struzione per  opera  del  pretore  Petillio.  Cosicché  non  è 
possibile  dubitare  che  il  fatto  sia  avvenuto.  Senonchè  la 
critica  pili  recente  si  è  affrettata  ad  affermare  che  essi 
dovettero  essere  un'abile  falsificazione  di  qualche  scrittore, 
fanatico  delle  nuove  idee  pitagoriche,  in  quegli  anni  ap- 
punto diffuse  in  Roma  dal  grande  Ennio,  e  accettate  da 
Scipione  Africano  e  da  altri  illustri  cittadini.  Ma  ad  una 
grossolana  falsificazione  fatta  in  quei  tempi  medesimi  noi 
non  vogliamo  credere.  Non  ci  racconta  costantemente  la 
tradizione  pitagorica  che  base  dell'  insegnamento  di  questa 
dottrina  era  la  segretezza  e  il  mistero  ?  E  proprio  un 
pitagorico  avrebbe  divulgato  le  dottrine  della  sua  scuola, 
in  un'opera  così  voluminosa,  ricorrendo  a  uno  stratagemma 
così  poco  serio,  ed  anche  così  inutile,  dal  momento  che  già 
la  tradizione  ammetteva  la  filiazione  degli  istituti  e  delle 
leggi  religiose  di  Numa  dal  Pitagorismo  ?  Ed  è  poi  possi- 
bile che  fra  i  senatori  romani,  i  quali  decretarono,  su  parere 
del  pretore,  l'abbruciamento  dei  libri  così  miracolosamente 
scoperti,  non  vi  fosse  alcuno  in  grado  di  comprendere  una 
così  grossolana  mistificazione?  Poiché  non  c'è  dubbio  che 
i  libri  furono  bruciati  con  la  convinzione  che  essi  fossero 
realmente  quelli  del  re  sapiente  (2),  e  perchè  contenevano, 


(1)  V.  ancora  le  testimonianze  di  Yarrone,  conservataci  da  S.  A- 
gostino  {De  civ.  dei^  YII,  34),  di  Livio  (XL,  29,  da  cui  ha  desunto 
la  sua  narrazione  Lattanzio,  Inst.  I,  22),  di  Valerio  Massimo  (I,  1, 
12),  di  Festo  (p.  173  M.  =  p.  182  Thewr.),  di  Plutarco  {Numa, 
22)  e  del  de  vir.  ili.  3. 

(2)  Livio  osserva  ohe  questa  convinzione  derivò  dall'  opinione 
diffusa  che  Numa  fosse  stato  discepolo  di   Pitagora,    opinione    che 

8. 


34 


secondo  la  testimonianza  di  Varrone^  la  spiegazione  degli 
stituiti  religiosi  di  Numa  (cur  quidque  in  sacris  fuerlt 
institutum)^  fondati,  come  quelli  di  tutte  le  religioni,  su 
ragioni  fisiche  e  filosofiche  e  sopra  una  concezione  parti- 
colare della  natura. 

Ora,  dice  assai  giustamente  lo  Chaignet  (1),  questa  inter- 
pretazione razionale  ed  umana  delle  credenze  e  delle  isti- 
tuzioni religiose,  togliendo  ad  esse  un'  origine  e  un  fon- 
damento sovrannaturale,  avrebbe  certo,  divulgandosi,  tolta 
ogni  consistenza  a  quella  religione   «  di  stato  »   che,  come 
tutte  le  religioni  dogmatiche,  si  esauriva  per  i  più  nelle 
pratiche    del  culto    (le   «  religiones  »   di  cui  parla    Livio) 
esigendo,  come  condizione  della  propria  esistenza,  la  fede 
cieca  e  l'ignoranza  superstiziosa.  E  proprio  a  questo  pen- 
sarono il  pretore  urbano  e  il  Senato,    che  si  affrettarono^ 
a  far  scomparire  sul  rogo  i  pericolosi  libri,  nei  quali  era 
filosoficamente  provata  ed  attestata    1'  origine    del    diritto 
pontificale  romano,  cardine  e  fondamento  primo  dello  Stato, 
dall'occultismo  pitagorico  (2);  se  pure  il  motivo  di  tale  di- 
struzione non  fu  quello  stesso  per  il  quale^  come  abbiamo 
già  veduto.  Cicerone  non  volle  troppo  approfondire  la  ri- 
cerca e  la  dimostrazione  dei  rapporti  fra  il  Pitagorismo  e 
i  piii  antichi  istituti  di  Roma.  Stando  al  racconto  di  Plu- 


egli,    certo    per   ragioni    cronologiche,    chiama    un    «  mendacio  » 
(XL,  29). 

(1)  Pythag.  et  laphilos.  pytkag.^  Parigi,  Didier,  1874,  v.  I,  p.  136. 

(2)  È  interessantissimo  a  questo  proposito  il  passo  di  S.  Ago- 
stino {De  eivit.  dei  VII,  34),  il  quale  spiega  per  quali  ragioni 
«  demoniache  »  Numa  compose  i  suoi  libri  e  poi  li  fece  seppellire 
nella  sua  tomba,  e  il  Senato  li  fece  abbruciare.  Né  meno  interes- 
sante è  il  capitolo  seguente  (35 j,  in  cui  si  parla  delle  arti  «  idro- 
mantiche  »  e  delle  evocazioni  di  Numa. 


^  35  — 

tarco,  infine,  questi  libri  erano  stati  scritti  da  Numa  stesso 
e  per  ordine  suo  sepolti  con  lui;  e  ciò  perchè,  secondo 
la  massima  pitagorica,  non  era  bene  affidare  la  conser- 
vazione d'una  dottrina  segreta  a  caratteri  senza  vita,  an- 
ziché alla  sola  memoria  di  quelli  che  ne  erano  degni.  E, 
forse,  per  questa  medesima  ragione  i  Pitagorici  romani 
non  dovettero  fare  molta  opposizione  alla  proposta  di 
distruggere  i  libri  stessi,  gelosi  come  erano  delle  loro 
dottrine,  allora,  come  sempre,  facilmente  suscettibili  di 
scherno  e  di  riso,  se  male  interpretate  o  fraintese  (1). 

8.  —  Nel  tempo  in  cui  Ennio  si  adoperò  così  efficace- 
mente per  introdurre  in  Roma  l' antica  sapienza  della 
Magna  Grecia,  di  qui  si  diffondevano  per  l' Italia  e  pe- 
netravano nella  grande  metropoli  anche  i  culti  bacchici 
e  le  sette  orfiche,  intimamente  legate  con  le  pitagoriche 
per  gli  stretti  rapporti  che  vi  erano  fra  le  due  dottrine 
segrete.  Contro  gli  uni  e  le  altre  si  pubblicarono  senato- 
consulti  (2)  e  si  istituirono  tribunali  (quaestiones  de  Bac- 
chanalibus  sacrisque  noeturnis  extra  ordinem),  che  ne  di- 


(1)  Uno  scrittore  israelita  del  secolo  XYII,  il  Sklden,  nell'intro- 
duzione dell'opera  De  jure  naturali  et  gentium  iuxta  diseìplìnam 
Hebraeorum  stampata  a  Londra  nel  I6l0,  volendo  sostenere  ch.e 
ogni  sapienza  viene  dagli  Ebrei  o  piuttosto  dalla  rivelazione  tre 
volte  rinnovata,  di  cui  gli  Ebrei  erano  i  depositari,  afferma  invece 
che  Numa  Pompilio  era  in  segreto  un  adoratore  del  vero  Dio,  che 
i  libri  da  lui  lasciati  e  scoperti  solo  parecchi  secoli  dopo  la  sua 
morte  erano  la  giustificazione  della  sua  fede  e  la  glorificazione  del 
Dio  d' Israele,  e  che  appunto  per  questo  il  Senato  ne  ordinò  la 
distruzione,  perchè  racchiudevano  la  condanna  della  religione  di  Stato. 

(2)  Nel  186  se  ne  pubblicò  per  tutta  l'Italia  uno  (scoperto  nel 
1692  in  Calabria)  che  ordinava,  fra  le  altre  cose:  *  Bacas  vir  ne- 
quis  adiese  velet  eeivis  romanus  neve  nominus  latini  » . 


—  36  -- 

mostrano  la  diffusione  e  la  forza:  e  Livio  ci  riferisce  il 
violento  discorso  che  il  pretore  Lucio  Postumio  Tempsano 
pronunciò  nell'anno  186  a.  C.  contro  i  seguaci  dei  mal- 
vagi culti  forestieri  :  «  contra  pravìs  et  externis  religio  - 
nidus  captas  mentes  »  (1).  E  ben  vero  che  queste  asso- 
ciazioni misteriose  —  clandestinae  conmrationes  ^  come  dice 
Livio  (2)  —  e  questi  culti  sempre  perseguitati  dall'  orto- 
dossia romana  venivano  in  parte  dall' Etruria  e  dalla  Cam- 
pania, ma  le  ricerche  giudiziarie  ne  fecero  scoprire  diversi 
focolari  nell'Apulia,  in  tutta  l'Italia  meridionale,  e  spe- 
cialmente a  Taranto,  che  come  si  è  già  visto,  era  uno  dei 
centri  d'origine  del  Pitagorismo  (3). 

Così  delle  tavolette  d' oro,  scoperte  recentemente  in 
tombe  dell'Italia  meridionale,  presso  l'antica  Thiirium  e 
che  risalgono  alcune  al  secolo  lY  e  altre  al  principio  del 
sec.  Ili  a.  C.  (4),  ci  conservano  l'eco  di  versi  orfici  che 
sino  ad  ora  non  si  conoscevano  per  altro  che  per  una  cita- 
zione di  Proclo,  neo-pitagorico  del  quinto  secolo  (5):    «  lo 


(1)  Livio,  XXXIX,  15. 

(2)  XXXIX,  9,  18,  41  ;  XL,  19. 

(3)  Livio  XXXIX,  41  :  «  L.  Postumius  praetor,  cui  Tarentum 
provincia  evenerat^  reliquias  Bacchanalium  quaestionis  cum  omni 
exsecutus  est  cura  »  e  XL,  19  :  «  L.  Duronio  praetori^  cui  pro- 
vincia Apulia  evenerat^  adiecta  de  Bacchanalibus  quaestio  est  : 
cuius  residua  quaedam  velut  semina  ex  prioribus  malis  iam  priore 
anno  adparuerant  ». 

(4)  Cfr.  Kaibel,  Inscr,  graecae  Siciliae  et  Italiaè  n.  638-642. 
Alcuni  testi  da  lui  omessi  si  trovano  in  Comparetti,  Notixie  degli 
scavi^  1880,  p.  155  e  nel  Journal  of  Hellenic  Studies  III,  p.  114  sg. 
Cfr.  anche  Comparetti  Laminette  orfiche  edite  ed  illustrate^  Fi- 
renze 19lO. 

(5)  Framm.  224  Abel:  «ótctcóte  S'Sv^pcDTtog  izpoXinx)  ^àog  "^sXCoio  » 
quasi  uguale  al  fr.    n.  642,    1  :    «  àXX'  Ó7ióxa|j,  ^^ux^  KpaXin-Q  cpàog 


—  37  — 

sono  sfuggita  al  cerchio  delle  pene  e  delle  tristezze  (1)  », 
grida  in  uno  slancio  di  speranza  l'anima  che  ha  «  subita 
tutta  intera  la  pena  delle  sue  azioni  inique  »  e  che  ora 
«  implorando  il  suo  soccorso  »,  s'avanza  verso  la  regina 
dei  luoghi  sotterranei,  la  santa  Persefone,  e  verso  le  altre 
divinità  dell'Ade;  essa  si  vanta  di  appartenere  alla  loro 
«razza  felice»,  e  domanda  ad  esse  che  la  mandino  ora 
nelle  «  dimore  degl'innocenti  »  e  attende  da  esse  la  pa- 
rola di  salvezza  :  «  Tu  sarai  dea  e  non  piìi  mortale  !  » 
In  questi  brani  poetici,  dice  il  Gomperz,  bisogna  vedere 
redazioni  diverse  d'un  testo  comune  piti  antico.  Parecchie 
altre  tavole,  che  risalgono  in  parte  alla  stessa  epoca,  sono 
state  trovate  nelle  stesse  località  ;  altre  sono  state  scoperte 
nell'isola  di  Creta  (2)  e  datano  dall'epoca  romana  poste- 
riore: tutte  prescrivono  all'anima  la  sua  strada  nel  mondo 
sotterraneo  (3).  Ora  è  notevole  il  fatto  che  il  cap.  125  del 
«  Libro  dei  Morti  »  egiziano  contiene  una  confessione  ne- 
gativa dei  peccati,  che  sembra  1'  amplificazione  di  quello 
che  le  tre  tavole  di  Turio  condensavano  in  poche  parole  (4). 
In  queste,  come  in  quello,  l'anima  del  defunto  proclama 
con  enfasi  la  sua  «  purezza  »   e  solo  su   questa    purezza 


YieXloio*.  Il  Kern  (Aus  der  Anomia^  Berlino,  1890,  p.  87}  ha 
richiamato  1'  attenzione  su  queste  ed  altre  coincidenze.  Y.  anche 
H.  DiELS,  nella  raccolta  dedicata  al  Gomperz,  Vienna,  1902,  p.  l  sg. 

(1)  Cioè  alla  serie  delle  rinascite  e  delle  esistenze  terrestri. 
Y.  Gomperz,  Les  penseurs  de  la  Qrèce^  Paris,  Alcan,  1904,  v,  I, 
pag.  141  sg. 

(2)  Y.  JouBiN,  Inscription  crétoise  relative  à  l'Orphisme,  Bull. 
de  corr.  héll.  XYII,  121-124. 

(3)  Y.  qualche  parallelo  buddico  in  Rhys  Davids,  Suddhism, 
p.  161. 

(4)  Cfr.  Maspéro,  Bibl.  Egyptol.  II,  469  sg.  e  Brttgsoh,  Steinin- 
schrift  und  Bibelwort.  Y.  anche  Maspero,  Hist.  ancienne^  p.  191. 


—  38  — 

fonda  la  sua  speranza  in  una  felice  immortalità.  Se  l' a- 
nima  dell'  Orfico  pretende  di  avere  espiato  «  le  azioni 
inique  »  e  quindi  si  sa  liberata  dalla  sozzura  che  ne  de- 
riva, l'anima  dell'  Egiziano  enumera  tutte  le  colpe  che  ha 
saputo  evitare  nel  suo  pellegrinaggio  terrestre.  Pochi  fatti, 
dice  il  Gomperz,  nella  storia  della  religione  e  dei  costu- 
mi sono  tali  da  meravigliarci  piii  del  contenuto  di  que- 
st'antica confessione,  in  cui  si  vedono  accanto  alle  colpe 
rituali,  e  ai  precetti  di  morale  civile  accolte  da  tutte  le 
comunità  incivilite,  l'espressione  d'un  sentimento  morale 
non  comune  e  che  ci  può  persino  sorprendere  per  la  sua 
squisita  delicatezza:  «  Io  non  ho  oppresso  la  vedova!  Non 
ho  allontanato  il  latte  dalla  bocca  del  lattante  !...  Non  ho 
reso  il  povero  più  povero!...  Non  ho  trattenuto,  l'operaio 
ai  suo  lavoro  più  del  tempo  stabilito  nel  contratto  !...  Non 
sono  stato  negligente!  Non  sono  stato  fiacco!...  Non  ho 
messo  lo  schiavo  in  cattivo  aspetto  presso  il  suo  padro- 
ne!... Non  ho  fatto  versare  lacrime  a  nessuno!....  »  Ma 
la  morale  che  scaturisce  da  questa  confessione  non  si  è 
contentata  di  proibire  il  male;  ha  anche  prescritto  degli 
atti  di  beneficenza  positiva  :  «  Dappertutto,  grida  il  morto, 
ho  sparso  la  gioia!  Ho  cibato  chi  aveva  fame,  dissetato 
chi  aveva  sete,  vestito  chi  era  nudo  !  Ho  dato  una  barca 
al  viaggiatore  in  pericolo  di  arrivar  tardi  !»  ET  anima 
giusta,  dopo  aver  subito  iiyiumerevoli  prove,  arriva  final- 
mente nel  coro  degli  dei.  «  La  mia  impurità,  grida  piena 
di  gioia,  mi  è  tolta,  e  il  peccato  che  mi  stava  addosso 
l'ho  gettato.  Giungo  in  questa  regione  degli  eletti  glo- 
riosi.... »  «  Yoi  che  mi  state  dinanzi^  aggiunge  rivolta  agli 
dei  già  nominati,  tendetemi  le  braccia....,  sono  anch'  io 
uno  dei  vostri  !  » 


—  39  - 

Nessuna  meraviglia  quindi  che  gli  scrittori  del  tempo 
di  Ennio,  quasi  tutti  venuti  a  Roma  dal  mezzogiorno, 
fossero  più  o  meno  imbevuti  di  così  fatte  dottrine. 

Di  un  grande  poeta  comico.  Stazio  Cecilio,  morto  nel 
168,  che  fece  parte  del  collegium  poetarum  dell'Aventino 
e  abitò  in  Roma  nella  stessa  casa  con  Ennio,  ci  restano 
troppo  scarsi  frammenti  perchè  possiamo  dir  nulla  del 
contenuto  morale  e  filosofico  dell'opera  sua.  Certo  però 
r  intimità  sua  col  poeta  di  Rudie  dovette  esercitare  un 
qualche  influsso  sulla  formazione  del  suo  gusto  e  della 
sua  arte. 

Con  Ennio  visse  pure  in  Roma,  sino  alla  più  tarda  età, 
frequentando  anch'egli  il  circolo  degli  Scipioni,  il  nipote 
Marco  Pacuvio,  che,  nato  a  Brindisi  nel  220,  si  ritirò  poi 
a  Taranto  dopo  il  140  e  vi  mon  novantenne.  Che  egli 
dipendesse  spiritualmente  da  Ennio,  ne  fanno  fede,  oltre 
che  l'esplicita  dichiarazione  di  Pompilio  : 

Pacvi  diseipulus  dieor  ;  porro  is  fuit  Enni^ 
Emiius  Musar um^  Pompilius  clueor^ 

i  due  frammenti  del  suo  Ghryses^  nel  primo  dei  quali 
mostra  la  stessa  libertà  di  spirito  e  di  parola,  rispetto  ai 
falsi  sacerdoti,  che  già  abbiamo  notata  in  Ennio: 

....  nam  istis^  qui  linguam  avium  intellegunt, 
plusque  ex  alieno  iecorc  sapiunt^  quam  ex  suo, 
magis  audiendum  quam  ausoultandum  eenseo  (1)  ; 


(1)  pr.  Cic.  de  div.  I,  57,  181  ;  il  terzo  verso  anche  pr.  Nonio 
246,  9.  Si  confrontino  i  versi  di  Ennio  :  «  Sed  superstitiosi  vates 
impudentesque  arioli,  Aut  inertes  aut  insani  aut  quibus  egestas 
imperai,  Qui  sibi  semitam  non  sapiunt^  alteri  monstrant  viam^ 
Quibus  divitias  pollicentur,  ab  eis  draeumam  ipsi  petunt  »,  e  gli 


—  40  — 

e  nel  secondo  esprime  intorno  all'etere  un  concetto  affatto, 
pitagorico,  che  troveremo  anche  in  Virgilio:        v 

hoc  vide^  circum  supraque  quod  complexu  continet 

terram.... 

solisque  exortu  capessit  candorem,  oecasu  nigret, 

id  quod  nostri  eaelum  memorante   Orai  perhiheni  àethera  : 

quidquid  est  hoe^  omnia  animai^  format^  alit\  auget^  creai, 

sepelit  recipitque  in  sese  omnia  omniumque  idem  est  pater, 

indidemque  eadem  aeque  oriuntur  de  integro  atque  eodem  occidunt. 


mater  est  terra;  ea  parit  corpus^  animam  aether  adiugat  (1). 
Istic  est  is  lupiter'  quem  dìco^  quem  Or  acci  vocant 
a'érem:  qui  ventus  est  et  nuhes;  Ì7nber  postea, 
atque  ex  imhre  frigus  :  ventus  post  fit,   aer  denuo, 
kaece  propter  luppiter  sunt  ista  quae  dico  tibi, 
quia  mortalis  aeque  turhas  beluasque  omnes  iuvat. 

Il  passo,  dice  il  Pascal  {Antol.  latina^  Milano,  1899,  p,  30  n.) 
era  libera  traduzione  del  Crisippo  euripideo,  del  quale  è  rimasto  il 
fr.  836  Nauck';  e  trovò  altro  traduttore  in  Lucrezio  II,  991-1005. 
Se  il  pensiero  esposto  da  Euripide  del  Cielo  o  Giove  nostro  padre 
e  della  Terra  madre  risale  al  suo  maestro  Anassagora  (500-430 
circa),  fu  peraltro  indubbiamente  abbastanza  comune  fra  i  mistici. 

10.  —  Questi  versi  ed  alcuni  altri  (2),  se  sono  per  sé  poca 
cosa,  tuttavia,  tenuto  conto  della  scarsità  dei  frammenti 
superstiti  di  questi  primi  poeti  di  Roma,  mostrano  una 
certa  continuità  di  pensiero,  che  non  può  sfuggire  neppure 
ad  un  esame  superficiale.  Così,  per  lasciare  in  disparte  i 


altri  :   «  Qui  sui  quaestus   causa    fìctas   suscitant    sententias  »    e 
«  Omnes  dant  consilium  vànum  atque  ad  voluptatem  omnia  ». 

(1)  Congiunse  così  questi  versi  (citati  in  diversi  luoghi  da  Var- 
HONE,  Cicerone  e  Nonio)  lo  Scaligero.  Questo  concetto  dell'aria  poi 
ricorda  i  versi  dell' Epickarmus  di  Ennio  : 

(2)  Y.  per  es.  i  fr.  46  e  52  del  Pascal  (p.  30  e  35). 


—  41  — 

versi  di  Accio,  che  ritornano  sullo  stesso  concetto,  e  che 
si  possono  anche  spiegare  con  la  dipendenza  dai  tragici 
greci  (1),  nonché  il  suo  concetto  della  virtìi  (2),  come  non 
pensare  alle  dottrine  pitagoriche  —  diretto  o  indiretto  ne 
sia  stato  r  influsso  — ,  quando  leggiamo  sentenze  come 
queste  di  Sesto  Turpilio  (morto  nel  103  a.  C),  Tuna  che 
ci  afferma  la  felicità  consistere  nella  limitazione  dei  de- 
siderii  : 

Profecto  ut  quisque  minimo  contentus  fuit^ 

ita  fortunatam  vitam  vixit  m,axime^ 

ut  philosopki  aiunt  isti^  quibus  quidvis  sat  est  (3). 

e  l'altra  che  così  definisce  la  difficoltà  del  sapere  : 

Ita  est:  verum  haut  facile  est  venire  ilio  uhi  sita  est  sapientia. 
Spissum  est  iter:  ajnsci  haut  possis  nisi  cum  magna  miseria? (i) 

E  se  i  grammatici  che  ci  hanno  conservato  i  frammenti 
di  questo  poeta  (200  versi  appena),  avessero  badato  piìi 
al  pensiero  che  alla  forma  e  quindi  ci  avessero  dato  una 
raccolta  di  sentenze,  piuttosto  che  un  catalogo  di  arcaismi 


(1)  V.  i  fr.  60  e  61  del  Pascal  (p.  41)  e  le  note. 

(2)  Pascal  (p.  42)  :  «  .  .  .  .  nam  si  a  me  regnum  Fortuna  atque 
opes  Eripere  quivit^  at  virtutem  non  quìit  »  e  «  Scin  ut  quem- 
eumque  tribuit  fortuna  ordinem^  Numquam  ulta  humilitas  inge- 
nium  infirmai  bonum  ?  » 

(3)  pr.  Pbisciano  III,  425  Keil.  Il  Pascal  (p.  67)  sl  pkilosophi... 
isti  annota  :  «  i  Cinici  ?  »  Io  credo  piuttosto  che  qui  il  poeta,  imi- 
tatore di  Monandro,  abbia  alluso  ai  Pitagorici,  dei  quaU  sappiamo 
quanto  si  siano  burlati  i  comici  ateniesi  della  commedia  di  mezzo, 
di  cui  Gellio  {N.  a.  IV,  il)  potè  scrivere:  mediae  comoediae pro- 
prium  argumentum  fuit  Fythagoreorum  exagitatio  ». 

(4)  pr.  Nonio  392,  26  (Pascal,  p.  67).  Si  notilo  spissum..  iter., 
che  forse  può  intendersi  in  senso  proprio,  non  traslato. 


—  42  — 

e  di  idiotismi,  potremmo  forse  citare    altri    passi    ugual- 
mente notevoli  e  significativi. 

Così  veramente  notevoli  sono  le  sentenze  di  comici 
ignoti  citate  dal  Pascal  (1),  che  certo  non  sarebbero  fuor 
di  luogo  nei  carmina  aurea  pitagorici  e  che  riprendono 
motivi  etici,  già  da  noi  accennati,  proprii  tanto  del  Pita- 
gorismo quanto  di  altri  sistemi  posteriori: 

1.  Sui  quique  mores  fingunt  fortunam  hominihus,  (2) 

2.  Non  est  beatus^  esse  se  qui  non  putat.  (3) 

3.  Is  minimo  egei  mortalis,  qui  minimum  cupit. 

4.  Quod  vult  habet^  qui  velie  quod  satis  est  potest.  (4) 

5.  In  nullum  avarus  bonus  est^  in  se  pessimus.  (5). 

6.  Ab  alio  expectes  alteri  quod  feceris.  (6) 

7.  Beneficia  in  volgus  eum  largiri  institueris 
perdenda  sunt  multa^  ut  semel  ponas  bene.  (7) 

8.  ....  quid  ?  tu  non  intellegis 

tantum  te  adimere  gratiae  quantum  morae 
adicis  ?  (S) 


(1)  pag.  68  sg. 

(2)  pr.  Cic,  Farad.  5,  35,  che  lo  riferisce  ad  un  sapiens  poeta; 
esso  ricorda  la  sentenza  di  A.  Claudio  su  citata.  Secondo  alcuni  si 
tratterebbe  di  un  altro  verso,  che  il  Lachmann  ricompone  così  : 
suis  fingitur  fortuna  cuique  moribus.  V.  anche  pr.  Nepote,  Vita 
Att.  Il,  6  ed  altri,  di  cui  il  Ribbeck,   Gom.  Fragm.^  p.   147. 

(3)  pr,  Seneca,  epist.  9,  21.  Che  la  felicità  e  1'  infelicità,  come 
dice  questa  sentenza,  siano  proiezioni  subbiettive  dello  spirito  o  non 
l'effetto  di  cause  esterne,  è  verità  che  i  Pitagorici  affermarono  ripe- 
tutamente   Cfr.  PuBL.  Siro  I,  56,  Q,   7  Meyer. 

(4)  Questa  e  la  precedente  pr.  Seneca,  epist.  108,  11.  Cfr.  la 
prima  sentenza  di  Turpilio  su  citata. 

(5)  pr.  Seneca,  ejìist.  108,  9. 

(6)  pr.  Lattanzio,  div.  inst.  I,  16,  lO.  Cfr.  pr.  Lampeid.  Alex. 
Sever.  51  :  «  quod  tibi  fieri  non  vis.,  alteri  ne  feceris  »  e  nei  Garm. 
epigr.  lat.  192,  3  Buecheler:    «^ab  alio  speres,  alteri  quod  feceris». 

(7)  pr.  Seneca,  de  benef.  I,  2  ;  cfr.  Ennio  pr.  Cic.  de  off.  18,  62: 
«  benef acta  male  locata  malefacta  arbitror  » . 

(8)  pr.  Seneca,  de  benef.  II,  5,  2. 


—  43  — 

Così  pare  degni  di  nota  sono  i  seguenti  frammenti: 

1.  Felicitas  est  quam  voeant  sapientiam.  (1) 

2.  Tutare  amici  eausam,  potis  es,  suscipe. 
Obicitur  erimen  eapitis^  purga  fortiter. 

In  amici  causa  es,  imm,o  certe  potior  es.  {2} 

3.  Iniuriarum  remedium,  est  oblivio.  (3) 

Ma  queste  sono  quisquilie,  che,  se  pur  dimostrano  una 
certa  diffusione  del  pensiero  pitagorico  in  Roma,  non  pos- 
sono tuttavia  essere  prese  per  se  come  indizi  di  una  vera 
e  propria  tradizione  locale.  Poiché  per  le  dipendenze  della 
poesia  e  della  letteratura  latina  dalla  greca  è  da  credere 
che  anche  gli  accenni,  spesso  accidentali,  a  quelle  dottrine 
filosofiche,  fossero  presi  di  sana  pianta  dalle  opere  che  gli 
scrittori  latini,  massime  i  comici,  o  imitavano  o  traduce- 
vano. Il  fatto  tuttavia  di  trovarli  frequenti  anche  in  opere 
prettamente  romane  dimostra  che  le  dottrine  stesse  ave- 
vano un  contenuto  ideale  —  morale  specialmente  —  con- 
sono allo  spirito  e  ai  bisogni  del  popolo  romano,  il  quale, 
sopra  ogni  cosa,  ebbe  un  profondo  senso  del  giusto,  che 
poi  attuò  nel  suo  mirabile  sistema  di  leggi. 

11.  —  Infine,  anche  dalle  poesie  satiriche  di  Caio  Lucn.10 
(180-103  a.  C.)  noi  potremmo  certo  aver  notizia  del  Pita- 
gorismo, quale  egli  potè  osservarlo  praticato  e  seguito  in 
Roma  al  tempo  suo,  se  ci  restassero,  dei  suoi  trenta  libri 
di  satire,  i  libri  XXVIII  e  XXIX,  nei  quali  pare  che  si 
occupasse  principalmente  di  mettere  in  parodia  e  in  deri- 
sione, ed  anche  di  sottoporre  a  critica  seria,  sì  pel  conte- 


(1)  QuiNTiL.  YI,  3,  97. 

(2)  Charis.  V,  p.  253  P. 

(3)  Seneca,  epist.^  94,  28. 


—  44  —       . 

nuto  che  per  la  forma,  i  filosofi,  le  loro  opere  e  i  loro 
sistemi.  Ma  disgraziatamente  anche  di  questo  poeta  poco 
o  nulla  ci  resta.  Anch'egli,  bensì,  come  Ennio,  ebbe  mente 
libera  dai  pregiudizi  volgari  : 

Ut  pueri  infantes  credunt  signa  omnia  ahena 

vivere  et  esse  homines^  sic  ist  soinnia  fèda 

vera  putant^  credunt  signis  cor  inesse  in  ahenis  (1) 

sono  versi  del  1.  XV  delle  Satire.  E  un  altro  bellissimo 
frammento,  forse  del  libro  IV,  ci  dimostra  quanto  alto  e 
nobile  fosse  il  concetto  ch'egli  ebbe  della  virtìi: 

Virtus,  Albine,  est  pretium  persolvere  rerum 

quis  in  versatnm\  quis  vivimus  rebus  potesse, 

virtus  est  homini  seire  id  quod  quaeque  valet  res  ; 

virtus  seire  homini  rectum^  utile  quid  sit^  honestum^ 

quae  bona,  quae  mala  item,  quid  inutile,  turpe,  inhonestum  ; 

virtus^  quaerendae  fène^n  rei  seire  modumque  ; 

virtus^  divitiis  pretium  persolvere  posse  ; 

virtus^' id  dare^  quod  re  ipsa  debètur  honori  ; 

hostem  esse  atque  inimicum  hominum  morumque  malo  rum, 

contra  defensorem  hominum  morumque  bonorum, 

magnifècare  hos,  his  bene  velle^  his  vivere  amicum  ; 

commoda  praeterea  patriai  prima  putare^ 

deinde  parentum^  tertia  iam  postremaque  nostra.  (1) 


(1)  fr.  354  del  Bàhrens  =  Latta.nzto.  I,  22,   13. 
(1)  fr.  119  del  Bàhr.  ■=  Latt.  VI,  5,  2. 


CAPITOLO  TERZO 


Sette  e  scuole  pitagoricbe  in  Roma  nel  I  secolo  a.  C. 


1.  I  Qenethliaei.  —  2.  P.  Nigìdio  Figulo  e  la  sua  scuola  segreta. 
3.  La  scuola  dei  Sestii. 


1.  — Da  Sant'Agostino  (1)  ci  è  stato  conservato,  del- 
l'opera Yarroniana  De  gente  populi  romani^  un  passo  per 
noi  importantissimo:  «  Genethliaci  quidam  scripserunt  esse 
in  renascendis  Jiominibus  quam  appellant  TraXtyysveatav 
Graeci  ;  hanc  scripserunt  confici  in  annis  numero  CDXL^ 
ut  idem  corpus  et  eadem  anima j  quae  fuerint  coniuncta 
in  cor  por  e  aliquando,  eadem  rursus  redeant  in  coniun- 
etionem  » .  Chi  erano  mai  questi  scrittori,  i  quali  credevano 
nella  risurrezione  dell'anima  e  della  carne  e  ne  fissavano 
persino  il  compimento  nello  spazio  di  quattrocento  e  qua- 
ranta anni?  Essi  erano  studiosi  di  discipline  magiche  ed 
astrologiche,  a  cui  si  davano  anche  i  nomi  di  magi^  di 
caldei  e  di  matematici.  Abbastanza  numerosi  in  Roma  nel 
II  e  I  secolo  a.  C,  col  decadere  dei  culti  ufficiali  e  l'in- 


(l)  De  civitaie  dei,  XXII,  28. 


-  46  — 

filtrarsi  di  riti  stranieri,  massimamente  dall'Egitto  e  dal- 
l'Asia, divennero  a  grado  a  grado  così  potenti  da  trovarsi 
persino  ad  essere  qualche  volta  arbitri  delle  sorti  dello 
stato.  Poiché,  come  dice  il  Pascal  in  un  suo  geniale  e 
interessante  studio  (1),  svolgendo  in  particolare  la  dottrina 
della  resurrezione  dei  morti  (filiazione  diretta  della  metem- 
psicosi pitagorica)  la  fecero  entrare  in  un  sistema  di  loro 
particolari  teorie,  la  congiunsero  con  predizioni  contenute 
nei  sacri  oracoli  della  Sibilla,  e  presunsero  anche  di  co- 
noscere dall'osservazione  delle  stelle  il  corso  degli  eventi 
umani.  Essi  non  partivano,  come  gli  aruspici  e  gl'indovini, 
dal  concetto  che  gli  dei  manifestassero  la  volontà  loro  per 
mezzo  di  segni  particolari,  ma  dal  concetto,  razionalmente 
svolto,  «  che  tutto  fosse  armonico  e  regolato  da  leggi  e  da 
rapporti  immutabili  nell'universo  e  che  quindi,  all'apparire 
di  determinati  fatti  o  fenomeni  dovesse  normalmente  se- 
guire l'avverarsi  di  determinati  eventi  umani  » .  Era  dunque, 
aggiunge  il  Pascal,  «  un  tentativo  di  giustificazione  scien- 
tifica, tratta  dal  fondo  della  dottrina  pitagorica  e  platonica, 
della  credenza  popolare  che  la  vita  di  ciascun  uomo  fosse 
regolata  dall'  astro  che  lo  aveva  visto  nascere  » .  Strani 
davvero  questi  scienziati-filosofi  che  si  sforzano  di  ribadire 
con  argomenti  razionali  e  di  ridurre  a  ragioni  scientifiche 
le  superstiziose  credenze  del  volgo!  e  che  riescono  tanto 
bene  nel  loro  proposito  da  far  sentire  a  Favorino  (li  sec. 
d.  C.)  il  bisogno  di  abbattere  con  una  confutazione  siste- 
matica il  loro  edifizio  logico  (2),  ancora  saldo  sulle  sue  basi 


(1)  La  resurrezione  della  carne  nel  mondo  pagano,  in  Atene  e 
Roma  del  marzo  1901  e  in  Fatti  e  leggende  di  Roma  antica,  Fi- 
renze, 1903  pp.   186  e  segg. 

(2)  AULO  Gellio,  Noet.  Att.  XVI,  1,  riporta  quasi  testualmente 
il  discorso  di  Favorino. 


—  47  — 

a  più  di  due  secoli  di  distanza!    Io  in  verità  non  posso 
acconsentire  col  Pascal  che  quest'idea  di  un  ciclo    mon- 
dano computato  a  quattro  secoli    di    110    anni    ciascuno 
venisse  ai  Genetliaci  dalla  tradizione  popolare:   gli  argo- 
menti che  il  Pascal  porta  a  sostegno  della  sua  affermazione 
mi  inducono  piuttosto  a  credere  il  contrario^    e  cioè  che 
l'idea    stessa  fosse  comune   alla   filosofia    mistica    greco- 
italico-romana  (1)  e  da,  questa  passasse  poi  al  volgo   per 
mezzo  dei  responsi  sibillini  (2)  e  dei  poeti  che  l'accolsero 
e  la  diffusero  per  il  popolo  (3).  Di  più,  un'altra  credenza 
notevolissima  fu  propria  e  del  Sibillismo  e  dei  Genetliaci  : 
la  credenza  cioè  che  ultimo  dio  del  ciclo  mondano  dovesse 
essere  il  Sole  od  Apollo  (4)  che  avrebbe    bruciato    l'uni- 
verso e  riportata    l'età    dell'oro,  con    gli    antichi  uomini 
rinnovati  alla  vita;    quell'Apollo  che  pure  Orazio  (Carm. 
I,  2)  invocò    perchè    venisse    a    redimere    l'umanità    dal 
peccato  : 

Tandem  venias^  precamur^ 
ISube  candentes  umeros  amictus 
Augur  Apollo. 


(1)  Così  Cicerone  ci  parla  nel  De  divin.  II,  46,  97  di  un'  altra 
scuola  di  astrologi  per  la  quale  1'  estensione  di  tempo  era  molto 
maggiore,  e  cioè  di  470000  anni  ! 

(2)  pr.  Probo  a  Yirg.  Ed.  IV,  4  :  «  La  Sibilla  cumana  ha  pre- 
detto che  dopo  quattro  secoli  sarebbe  avvenuta  la  palingenesi  ». 

(3)  Orazio,  I,  2,  v.  29  e  sg.  ;  Virgilio,  Ed.  IV,  lO  ;  Aen.  VI, 
748-751;  Ovidio,  Melavi.  I,  89  sgg.;  Persio,  Sat.  V,  47  sg. 

(4)  Servio  nel  commento  al  v.  10  della  IV  ecl.  di  Virgilio  riporta 
il  seguente  passo  del  quarto  libro  de  diis  di  P.  Nigidio  Figulo  : 
«  Quidam  deos  et  eoì'um  genera  temporibus  et  aetatibus  fdistin- 
guunt).,  inter  quos  et  Orpheus;  prim,um,  regnum,  Saturni^  deinde 
lovis^  tum  Neptuni^  inde  Plutonis  ;  nonnuUi  etiam^  ut  magi,  aiunt 
Apollinis  fore  regnum,,  in  quo  videndum  est.,  ne  ardorem  sive  illa 
ecpyrosis  adpellanda  est.,  dieant  » .  Vedasi  anche  il  Lobeck,  Aglao- 
phamus^  pag.  791  sgg. 


—     4:«     — - 

La  rigenerazione  degli  uomini  e  la  conflagrazione  del- 
l'universo per  virtù  di  Apollo  —  conflagrazione  probabil- 
mente simbolica  e  che  tuttavia  potè  essere  aspettata  da 
alcuno  come  reale  ed  effettiva  (1)  —  furono  dunque  due 
concetti  paralleli  ed  uniti  anche  nel  dogma  pagano,  e  più 
precisamente  in  quelle  dottrine  mistiche,  nelle  quali  sap- 
piamo quanta  parte  e  che  profonda  significazione  avesse 
il  mito  apollineo  e  solare,  E  come  può  tutto  questo  essere 
stato  creazione  popolare?  Veramente  forse  un  po'  troppo, 
e  non  solo  in  fatto  di  mitologia  e  di  credenze,  si  vuole 
attribuire  al  popolo,  a  questo  essere  impersonale,  così  im- 
maginoso e  così  balordo,  così  ricco  di  fantasia  e  così  cre- 
denzone! Non  è  assai  più  verosimile  pensare  a  una  genesi 
più  elevata  e  razionale,  a  una  creazione  veramente  intel- 
lettuale e  filosofica,  che,  passando  dai  dotti  agli  indotti, 
dai  sapienti  agi'  ignoranti,,  si  materializza  e  degenera  dal- 
l'essenza primitiva,  o,  meglio  ancora,  acquista  con  moto 
parallelo  e  continuo,  nuovi  aspetti  e  nuove  significazioni 
realistiche  e  concrete? 

In  ogni  modo  siamo  così  arrivati  alle  più  grossolane 
deformazioni  che  il  pensiero  pitagorico  dovette  subire  in 
Koma,  uscendo  dal  segreto  sacrario  delle  scuole  dei  saggi 
e  mescolandosi,  in  mezzo  al  popolo,  a  credenze  d'altra 
derivazione.  Non  è  quindi  meraviglia  che  siffatte  credenze, 
aberrazioni  d'un  pensiero  originariamente  profondo,  fossero, 
come  vedremo  più  innanzi;  oggetto  di  riso  nel  teatro  po- 
polare, e  d'altra  parte  si  spiega  assai  bene  come  i  seguaci 
del  Pitagorismo  dell'antica  maniera,  per  sottrarre  le  loro 


(1)  Y.  il  passo  dei  Garm.  Sih.JN^  175  sgg.,  forso  dell'Sl  od  82 
d.  C,  citato  dal  Pascal  e  che  questi  crede  composto  da  qualche 
terapeuta  od  esseno. 


—  49  -- 

dottrine  al  ridicolo  cui  venivano  esposte  nei  loro  contatti 
col  popolo,  sentissero  il  bisogno  di  raccogliersi  nuovamente 
in  segreto,  nel  silenzio  delle  loro  case  e  delle  loro  scuole, 
per  meditare,  lontano  dal  profanum  vulgus,  V  antica  sa- 
pienza loro  tramandata  attraverso  tante  generazioni. 

2.  —  Chi  sopra  ogni  altro  si  curò  di  far  rivivere  la  filo- 
sofìa di  Pitagora,  che,  in  un  certo  senso,  poteva  dirsi  ormai 
estinta  come  complesso  di  teorie  e  d'insegnamenti  pratici 
ben  distinti  da  quelli  di  altre  scuole,  fu  un  grande  sapiente, 
del  quale  in  verità  ben  poco  sappiamo,  contemporaneo  e 
amicissimo  di  Cicerone.  Il  quale  appunto  nel  proemio  del 
Timaeus  seu  de  Universo  lasciò  scritto  parlando  di  P. 
Nigidio  Figulo:  «  Fuit  vir  ille  cum  ceteris  artihus,  quae 
«  quidem  dignae  libero  essente  ornatus  omnibus^  tum  acer 
«  investigator  et  diUgens  earum  rerum  quae  a  natura  invo- 
«  lutae  videntur  » .  E  poi  continuava:  «  Deniqiie  sic  ludico 
«  post  illos  nobiles  Pythagoreos^  quorum  disciplina  exstincta 
«  est  quodam  modo^  ìiunc  extitisse  qui  illam  renovaret  » . 

Nato  forse  verso  il  105,  già  senatore  nel  63,  pretoro 
nel  59,  legato  in  Asia  nel  52  (1),  e  infine  esiliato  da  C. 
Griulio  Cesare,  forse  non  soltanto,  come  ora  vedremo,  per 
aver  seguita  la  causa  di  Pompeo,  morì  in  esilio  nel  45  (2). 


(1)  Cicerone  nel  Timeo  ir.  1,  t.  Vili  p.  131  Bait.  ci  dà  notizia 
di  questa  sua  legazione  con  le  parole  :  «  qui  (Nigidius),  eum.  me 
in  Gilieiatn  profieiscentem  Ephesi  expectavisset,  Romam,  ex  lega- 
tìone  ipse  decedens  etc.  ». 

(2)  SvETONio  fr.  85  =  Hieron.  ad  Euseb.  ckron.  olimp.  183,4  =  45 
a.  C.  :  «  Nigidius  Figulus  Pythagoricus  et  magus  in  exsilio  m^o- 
ritur  ».  Si  noti  che  ancora  una  volta  vediamo  qui  congiunti,  come 
nella  tradizione  che  si  riferisce  a  Numa  e  come,  del  resto,  sempre, 
il  Pitagorismo  e  la  magia.  S.  Agostino  (De  civ.  dei  V,  3)  parlando 
di  Nigidio,  lo  chiama   «  mathematicus  ». 

4. 


—  50  -— 

Per  il  suo  sapere  fu  giudicato  secondo  ai  solo  Yarrone, 
e  benché  non  ci  restino  che  pochi  e  scuciti  frammenti 
dei  suoi  scritti  (1),  pure  sappiamo  che  egli  scrisse  molto  e 
con  profondità  di  ricerche  «  che  arrivava  fino  all'astruse- 
ria »,  come  dice  il  Giussani  (2),  cioè  oltrepassava  quel  limite 
al  di  là  del  quale  gli  equilibrati  uomini  comuni  non  ve- 
dono che  nebbie  e  fantasmi,  immaginazioni  e  utopie.  Sam- 
MONico,  come  ci  riferisce  Macrobio  (II,  12)  lo  disse  «  maxi 
mus  rerum  naturaUum  indagator  »,  e  lo  stesso  Macrobio 
[Sat.  YI,  8)  lo  dice  «  ìiomo  omnium  bonàrum  artlum  di- 
scipUnis  egregius  » ,  e  così  pure  Cicerone,  come  s'è  visto, 
lo  giudicò  acuto  e  diligente  studioso  dei  più  involuti  feno- 
meni naturali,  e  precisamente  di  quelle  ricerche  e  di  quegli 
studi,  che  furono  la  cura  di  pochi  solitari  d'  ogni  tempo, 
quasi  sempre,  forse  a  torto,  misconosciuti  dai  più.  Sant'A- 
GOSTUso  lo  disse  *  matematico  '  e  Svetonio  '  pitagorico  e 
mago  '.  Ora,  che  Nigidio  fosse,  o  almeno  tosse  ritenuto 
mago,  dimostrano  anche  altre  testimonianze  e  dello  stesso 
SvETONio  e  di  Apuleio  e  di  Dione  Cassio.  Il  primo  racconta 
come  cosa  nota  a  tutti  che  il  giorno  in  cui  Ottaviano  nac- 
que, discutendosi  in  Senato  intorno  alla  congiura  di  Cati- 
lina,  ed  Ottavio,  per  causa  appunto  della  moglie  partoriente, 
essendo  arrivato  un  po'  in  ritardo,  Publio  Mgidio,  cono- 
sciuta la  causa  dell'indugio  e  l'ora  precisa  del  parto,  affermò 
che  era  nato  uno  che  sarebbe  stato  signore  di  tutta  la  ter- 
ra (3).  Una  predizione,  dunque,  dovuta,  secondo  il  racconto 


(1)  Cfr.  NiGiDii  FiGULi  operum  reliquiae  collegit  A.  Swoboda,  1889. 

(2)  Storia  della  Ietterai,  romana^  Vallardi,  1902,  p.  230. 

(3)  SvETON.,  Aug.  94:  a  quo  natus  est  die,  cuni  de  Catilinae  co- 
niuratione  ageretur  iti  Curia  et  Octavius  ab  uxDris  puerperium 
serius  adfuisset,  nota  ac  vulgata  est  res    P.    Nigidium  comperta 


—  si- 
che di  essa  fa,  con  qualche  leggera  variante,  Dionb  Cassio 
(1.  XLY,  cap.  T),  alle  elucubrazioni  astrologiche  di  Nigi- 
dio.  Apuleio  a  sua  volta  (1)  riferisce  di  aver  letto  in 
Varrone  che  un  certo  Fabio,  avendo  smarrito  una  forte 
somma  di  denaro,  andò  da  Nìgidio  per  consultarlo  e  questi, 
per  mezzo  di  fanciulli  eccitati  (instinctosj  con  sortilegi  ed 
incantesimi  (Carmine)^  ossia,  coma  oggi  si  direbbe,  ipno- 
tizzati con  parole  o  formule  magiche,  gli  seppe  dire  dov'era 
stata  sepolta  la  borsa  con  una  parte  delle  monete,  che  le 
altre  erano  state  distribuite,  e  che  una  ne  aveva  anche 
il  filosofo  Catone;  ciò  che  fu  pienamente  confermato  dai 
fatti.  E  dove  mai  aveva  acquistate  il  nostro  filosofo  siffatte 
conoscenze  magiche  ed  astrologiche?  Forse  durante  un 
viaggio  in  oriente,  fatto  in  gioventìi  ?  Non  sappiamo,  seb- 
bene d'altro  lato  sappiamo  che  appunto  in  oriente  o  nella 
Grecia  imparò  che  la  terra  si  muove  con  la  velocità  della 
ruota  di  un  vasaio  (2). 


morae  causa,  ut  horam  quoque  partus  acceperit,  adflrmasse  domù 
num  terrarum  orbi  natum  ». 

(1)  De  magia  42,  p.  53,  9  Krueg.  «  Mernini  me  ajìud  Varro- 
nem  philosophum,  virum  accuratissime  doctum  atque  eruditum, 
eum  alia  eiusm,odi,  tum,  hoc  etiam,  legere...  item,que  Fabium,^  cum 
quingenios  denarium  perdidisset^  ad  Nigidium  consultum,  venisse; 
ab  eo  pueros  cannine  instinctos  indicavisse^  ubi  locorum  defossa 
esset  crumena  cum,  parte  eorum,  celeri  ut  forent  distribuii^  unum 
etiam  denarium^  ex  eo  numero  habere  Catonem  philosophum^  quem 
se  a  pedissequo  in  stipem  Apollinis  accepisse  Caio  confessus  est  ». 

(2)  Ciò  si  desume  da  una  nota  del  Gommentum  a  Lucano  (I,  639), 
dove  è  detto  che  Nigidio  ebbe  il  soprannome  di  Figulo  perchè  «  re- 
gressus  a  Oraecia  dixii  se  didicisse  orbem  ad  celeritaiem  rotae 
fi.guli  torqueri  »•  Del  soprannome  altri  davano  una  ragione  un  po' 
diversa,  in  rapporto  con  la  famosa  obiezione  dei  due  gemelli  così 
spesso  fatta  agli  astrologi  e  di  cui  fanno  ricordo,    fra  gli  altri,    lo 


-  52  "-> 

Quanto  alle  opere  di  Nigidio,  del  quale  sappiamo  ancora 
che  usava  una  dieta  assai  parca  (1),  possiamo  dire  che 
furono  molte  e  di  varia  natura:  egli  scrisse  di  filosofia, 
di  astrologia  e  anche  di  filologia  (2).  Di  lui  si  ricorda 
un'opera  intorno  agli  dei  in  almeno  XIX  libri,  nel  quarto 
dei  quali,  per  esempio,  trattava  dei  vari  regni  ed  età  degli 
dei,  secondo  Orfeo  e  i  Magi,  e  nel  sesto  e  nel  decimo 
accennava  alla  teoria  etrusca  delle  quattro  specie  di  dei 
penati  :  quelli  di  Giove,  quelli  di  Nettuno,  quelli  degl'In- 
feri e  quelli  degli  uomini  (3),  cioè,  probabilmente,  gli  spi- 
riti celesti,  acquatici,  terrestri  (gli  elementari  dell'  oc- 
cultismo medievale)  ed  umani.  Perchè  di  quest'opera  ci 
restino  così  pochi  frammenti,  appena  dieci,  lo  dice  il  gram- 
matico Sp:rvio  in  una  nota  slU.^ Eneide  (X,  175):  <i^  N'igidius 
solus  est  post  Varronem  ;  licet  Varrò  praecellat  in  theo- 
logia^  Me  in  eommunihus  litteriSy  nam  uterque  utrumque 
scripserunt  » .  La  luce  di  Varrone  dunque  oscurò  quella 
di  Nìgidio,  i  cui  libri  intorno  agli  dei  erano  letti  soltanto, 
come  dice  lo  Swoboda  (4),  dagli  investigatori  della  dottrina 


stoico  Diogene  presso  Cicerone  (De  divinai.  II,  43,  90),  Gellio, 
N.  A.  XIV,  1,  26,  lo  PsEUDO  Quintiliano  {Deelam.  Vili,  12)  e  S. 
Agostino  1.  e. 

(1)  IsiDOR.,  Origin.  XX,  2,  10:  Nigìdius  :  nos  ìpsi  ieiunìa  ien- 
taeulis  levibus  solvimus. 

(2)  Egli  sostenne,  come  ci  attesta  Gellio  N.  J..,  X,  4,  ohe  il 
linguaggio  è  d'origine  naturale  e  non  convenzionale. 

(3)  Arnob.  adv.  nat.  Ili,  40,  p.  138,  5  seg.  Reiff  :  «  idem  (Ni- 
gidius)  rursus  in  libro  VI  exponit  et  X,  disciplinas  etruseas  se* 
quens,  genera  esse  Penatium  quattuor  et  esse  lovis  ex  his  alios^ 
alios  Neptuni.^  inferorutn  tertios,  mortalium  hominum  quartos., 
inexplicable  nescio  quid  dieens  » . 

(4)  P.  NiGiDU  FiGULi  operum  reliquiae  coli,  emend.  enarr.  quae- 
stiones  nigidianas  praemisit  Ant,  Swoboda,  Vindob.,  1889,  p.  25, 


—  53  — 

più  recondita,  come,  ad  esempio,  quel  Cornelio  Labeone, 
uomo  assai  dotto,  che  visse  nel  terzo  secolo  d.  C.  (1).  Di 
Nigidio  sono  ricordati  anche  tre  scritti  intorno  alla  divi- 
nazione per  mezzo  delle  viscere  (2)  e  intorno  ai  sogni  (3), 
una  Sphaera  graecanica  (4)  e  una  Sphaera  barbarica  (5), 
un  libro  intorno  agli  animali  ed  altri,  interamente  o  quasi 
interamente  perduti. 

Un'altra  causa  di  questa  perdita  è  spiegata  in  parte  da 
Gellio  (N.  a.  XIX,  14,  8)  il  quale  ci  fa  sapere  precisa- 
mente che  mentre  le  opere  di  Varrone  erano  lette  e  co- 
nosciute da  tutti  «  Nigidianae  commentationes  non  proinde 
in  vulgus  exibant  et  obscuritas  subUlitasque  earum  tam- 
quam  parum  utilis  derelicta  est  » .  Dunque  gli  scritti  di 
Nigidio  avevano  un  carattere  piuttosto  riservato  e  segreto, 
erano  poco  intellegibili  ai  piìi  per  la  loro  sottigliezza.  E 
che  significa  cotesta  oscurità  e  sottigliezza  che  è  poi  ab- 
bandonata perchè  poco  utile?  e  da  chi  fu  abbandonata? 
dai  lettori  o  dagli  scrittori  in  genere  o  dai  cultori  di  quelle 
stesse  dottrine  filosofiche  ?  Se  noi  pensiamo  alla  diffusione 
delle  conoscenze  pitagoriche,  sempre  maggiore  dal  tempo 
della  morte  di  Figulo  a  quello  in  cui  Gellio  scriveva  (se- 
colo II  d.  C.)  e  all'infinito  numero  di  profezie,  di  predi- 
zioni, di  oracoli  che  sempre  piìi  chiaramente  annunziavano 
l'avvento  di  un'età  nuova  e  di  uomini  migliori  ;  se  pen- 
siamo che  fu  questa  appunto  l'età  nella  quale,  pochi  de- 


(1)  Si  veda,  intorno  a  lui,  Kettner,  Cornelius  Labeo,  Progr.  Port, 
dell'anno  1877. 

(2)  Gellio,  N.  A.  XVI,  6,  12. 

(3)  Giov.  LoR.  Lido,  de  ostentìs  e.  45  p.  95,  14  —  96,  3  Wachsm. 

(4)  Serv.  ad  Georg.  I,  43  e  I,  2l8. 

(5)  Serv.  ad  Qeory.  I,  19. 


54 


cenni  dopo  il  Cristo  apparso  in  oriente  a  dare  la  nuova 
parola  divina  agli  uomini,  in  Roma  fece  la  sua  apparizione 
la  strana  figura  di  Apollonio  di  Tjana,  il  Pitagora  redi- 
vivo, che  ebbe  immagini  e  culto  divino  da  parte  degl'im- 
peratori, non  può  esservi  alcun  dubbio  :  se  Figulo  fu 
costretto  ad  insegnare  in  segreto  e  a  pochi  fedeli  amici 
le  conoscenze  che  aveva,  avvolgendole  in  oscure  sottigliezze 
nei  suoi  scritti  (e,  non  ostante  tale  precauzione,  ebbe  molte 
noie)  ;  se  lo  stesso  dovettero  fare,  dopo  di  lui,  come  or  ora 
vedremo,  i  Sestii,  che  furono  ugualmente  perseguitati;  le 
vecchie  dottrine  di  Pitagora  andarono  tuttavia  sempre  più 
diffondendosi,  sì  che  fu  permessa  via  via  maggior  libertà 
di  parola  e  d'azione  ai  loro  seguaci,  che  poterono  final- 
mente abbandonare  in  gran  parte  la  segretezza  e  il  mi- 
stero in  cui  si  chiudevano  e  il  simbolismo  oscuro  di  cui 
si  servivano  prima. 

Lucano  nella  sua  Farsaglia  (I,  639  seg.)  riferisce  una 
oscura  predizione  di  Nigidio,  che^  com'egli  dice,  si  studiò 
di  conoscere  gli  dei  e  i  segreti  del  cielo  e  in  queste  co- 
noscenze astrologiche  fu  superiore  ai  sapienti  dell'Egizia 
Menfi  : 

At  Figulus,  cui  cura  deos  secret ac/ue  caeli 
nosse  fuit^  quem  non  stellarum  Aegyptia  Memphis 
acquar  et  visu  numerisque  moventibus  astra^ 
aut  hic  errata  ait,  ulla  sine  lege  per  aevum 
mundus  et  incerto  discurrunt  sidera  motu  : 
aut,  si  fata  7novent,  orbi  generique  paratur 
humano  matura -lues 

Egli  predisse  dunque  alla  terra  e  agli  uomini  un  vicino 
flagello,  proprio  come,  prima  di  lui,  avevano  fatto  e  con 
lui  facevano  i  Genetliaci.  Ora,  dobbiamo  noi  veramente 
pensare,  a  proposito  di  siffatte  predizioni,  che  si  tratti  di 


—  55  — 

semplici  manifestazioni  sentimentali  del  desiderio  di  tempi 
migliori?  Certo  le  condizioni  dei  cittadini  romani  e  del 
mondo,  su  cui  l'aquila  di  Roma  andava  stendendo  e  allar- 
gando sempre  più  le  sue  ali  insanguinate,  erano  assai  tristi; 
ma  d'altra  parte  le  predizioni  sono  troppe  e  troppo  precise 
talvolta  e  troppo  vicine  alla  manifestazione  del  Cristiane- 
simo, per  non  dover  pensare  a  qualche  relazione,  misteriosa 
senza  dubbio  e  in  parte  inesplicabile,  ma  pure  innegabil- 
mente certa. 

Comunque  sic^,  poiché,  secondo  le  parole  surriferite  di 
Cicerone,  con  Nigidio  Figulo  si  iniziò  in  Roma  un  vero 
e  proprio  risveglio  delle  dottrine  pitagoriche,  vediamo  ora 
in  qual  guisa  egli  tentasse  questo  rinnovamento  dell'an- 
tica disciplina  italica. 

Noi  possiamo  desumerlo  da  altre  testimonianze,  le  quali 
non  solamente  accennano  a  una  vera  e  propria  scuola,  a 
un  sodaliciumy  a  una  factiOy  ma  vi  accennano  in  modo, 
che  possiamo  anche  comprendere  quale  fine  il  sodalizio 
stesso  abbia  avuto,  o  almeno  in  quale  considerazione  fosse 
tenuto  da  chi,  forse  troppo  tenero  e  non  disinteressato 
amico  del  nuovo  ordine  di  cose  creato  in  Roma  dal  trionfo 
di  Cesare,  accoglieva,  senza  approfondirle  uè  vagliarle  trop- 
po, accuse  vaghe  e  imprecise  formulate  contro  i  fautori 
dell'antico  regime  repubblicano.  Si  leggono  infatti  negli 
scolii  bobbiensi  all'orazione  di  Cicerone  contro  Vatinio  (1) 
queste  notevolissime  notizie  :  «  Fuit  autem  illis  temporibus 
«  Wigidius  quidam^  vir  doctrina  et  eruditione  studiorum 
«  praestantissimus,  ad  quem  plurimi  conveiiiebant.  Haec 
«  ab  obtrectatoribus  velati  factio  ininus  probabili s  iacti- 
«  tabatnr,  qaamvis  ipsi  Pythagorae    sectatores  existimari 


(1)  V.  tomo  V,  part.  2,  p.  317  delI'Orelli. 


56 


«vellent»,  e  altrove  (1)  si  dice  di  un  tale  che  €  ablit 
«  in  sodalicium  sacrile^ii  Nigidiani  » .  In  casa  sua  dunqae 
Nigidio  radunava  molte  persone,  che  vi  si  iniziavano  ai 
misteri  della  filosofia  pitagorica  e  forse  anche  vi  si  dedi- 
cavano a  pratiche  mistiche,  come  ci  persuade  la  ciarlata- 
neria di  quel  Yatinio,  che,  volendo  farsi  credere  pitagorico 
e  dottissimo,  faceva  evocazioni  di  morti  e  si  abbandonava 
a  nefandità  d'ogni  genere  (2).  E  questi  convegni  finirono 
col  suscitar  dicerie,  maldicenze,  sospetti,  calunnie,  e  vi 
furono  degli  ohtrectatoreSy  i  quali  andavano  sussurrando 
qua  e  là  che  quella  era  una  setta  riprovevole  e  sacrilega; 
le  quali  calunnie,  credute  tanto  più  facilmente  quanto  mi- 
nore era  il  numero  degli  onesti  in  quei  tempi  così  torbidi, 
furono  forse  un  ottimo  pretesto  per  legittimare  l'allonta- 
namento da  Roma  e  l'esilio  di  un  uomo  d'antica  tempra 
repubblicana.  Che  poi  il  tentativo  di  Nigidio  avesse  un 
carattere  anche  politico  e  che  egli  vagheggiasse,  nella  rico- 
stituzione del  sodalizio  pitagorico  e  quindi  nella  eguaglianza 
sociale  e  nella  comunanza  dei  beni,  il  sogno  della  nuova 
felicità  umana,  è  cosa  più  che  probabile,  ma  non  certis- 
sima (3).  E  così  il  sapientissimo  mago,  il  maestro  pitago- 


(1)  PsEUD.  CicER.  in  Sali.  resp.  5,  14. 

(2)  «  Tu  qui  te  Pythagoriaum  soles  dieere  et  hominis  doctissitni 
nomen  tuis  immanibus  et  barbar is  moribus  praetendere....  cum 
inaudita  ac  nefaria  saera  susceperis^  eum  infernrum  animas  eli- 
cere, Gum  puerorum  extis  Deos  manes  rnaetare  soleas  »  Cicesone, 
in  Vatinium  6,  14.  Dal  che  si  può  vedere,  sia  detto  incidental- 
mente, che  lo  spiritismo  non  è  un'invenzione  moderna! 

(3)  V.  quanto  afferma  a  proposito  di  lui  e  dei  Sestii  il  Pascal  : 
Il  rinnovamento  umano  negli  scrittori  di  Roma  antica  (Riv.  d'I- 
talia, gennaio  1902.  p.  98,  poi  nel  voi.  Fatti  e  leggende,  Firenze, 
Le  Monnier,  1903). 


—  57   — 

rico,  il  matematico  P.  Nigidio  morì  nell'esilio,  nel  tempo 
stesso  che  ìp  Roma  intercedeva  per  lui,  allo  scopo  di  otte- 
nerne il  richiamo  in  patria,  l'amico  Cicerone.  Ma  doveva 
essere  davvero  tenuto  per  uomo  assai  pericoloso  il  sacri- 
lego Figulo,  se,  non  ostante  che  i  famigliari  di  Cesare  e 
quelli  ch'egli  avea  più  cari  ne  parlassero  con  ammirazione 
e  ne  avessero  alta  stima,  il  divo  lulio  non  si  lasciò  troppo 
commuovere,  a  favore  del  fiero  repubblicano  !  Gli  è  che 
in  verità  in  quel  momento  di  trapasso  dalla  repubblica 
(o  meglio  dall'anarchia)  all'assolutismo  l'interesse  dello 
Stato  e  della  giustizia  aveva  assai  piccolo  valore,  di  fronte 
agli  interessi  e  alle  ambizioni  dei  singoli  competitori. 
Tutto  questo  si  rileva  da  una  lettera,  fortunatamente  con- 
servataci, nella  quale  Cicerone,  dando  notizia  all'  esiliato 
delle  pratiche  ch'egli  faceva  indirettamente  presso  Cesare 
e  delle  speranze  che  aveva  di  poter  presto  riuscire  a  otte- 
nergli il  perdono,  dice  cose  così  interessanti  e  adopera 
espressioni  di  così  alta  stima,  che  metterebbe  conto  davvero 
che  la  riferissimo  per  intero  (1).  Basti  accennare  tut- 
tavia che  egli  si  rivolge  a  lui  come  ad  uomo  «  uni 
omnium  doctissimo  et  sanctissimo  et  maxima  quondam 
gratta  »  e  suo  amicissimo,    e    che  accingendosi  a  conso- 


(1)  È  la  lettera  13*  del  quarto  libro  Ad  familiares,  dell'anno  46 
a.  C.  In  essa  dice  bensì  Cicerone  :  «  Videor  mihi  prospicere  pri- 
mum  ipsius  animuìn,  qui  plurimufn  potest,  propensum  ad  salutem 
tuam  »,  ma  questa  era  la  semplice  illusione,  creata  in  lui  dall'  a- 
micizia  che  aveva  per  Figulo  e  dal  desiderio  che  sentiva  del  suo 
ritorno  ;  poiché  in  realtà  il  povero  filosofo  fu  lasciato  morire  in 
esilio.  E  sì  che  —  come  aggiunge  ancora  Cicerone  —  «  familiares 
eius  (cioè  di  Cesare),  et  ii  quidein,  qui  UH  iucundissimi  sunt, 
mirabiliter  de  te  et  loquuntur  et  sentiunt  »  e  di  piii  «  accedit  eodem 
vulgi  voluntas  vel  potius  consensus  omnium  »  ! 


—  58  — 

larlo  crede  opportuno  di  premettere  :  «  at  ea  quidem  fa^ 
cultas  vel  tui  vel  alterius  consolandi  in  te  summa  est^  si 
umquam  in  ullo  fuit  »  ;  cosicché  «  eam  partem^  quae  ab 
exquisita  quadam  ratione  et  doctrina  proficiscitur,  non 
attingam:  tibi  totani  relinquam  »;  e  concliiudendo  termina 
col  pregarlo  «  animo  ut  maximo  sis  nec  ea  solum  memi- 
neris,  quae  ab  aliis  magnis  virls  accepistij  sed  illa  etiam, 
quae  ipse  ingenio  studiisque  peperisti.  Quae  si  colliges^  et 
sperabis  omnia  optime  et  quae  aecident,  qualiacamque  erunt, 
sapienter  feres.  Sed  haec  tu  melius  vel  optime  omnium  » . 
Ora  se  insieme  con  queste  eloquenti  e  perspicue  parole 
si  ricordano  i  versi  citati  della  Farsaglia,  e  se  si  pensa 
ancora  al  contenuto  dei  frammenti  che  di  questo  sapiente 
ci  sono  rimasti  e  ai  titoli  delle  opere  ch'egli  scrisse,  pos- 
siamo formarci  un'idea  approssimativa  del  genere  di  dot- 
trina e  di  conoscenze  che  ebbe  e  di  cui  si  fece  maestro: 
il  misticismo  pitagorico,  la  dottrina  dei  numeri,  la  divina- 
zione (quella  che  oggi  si  direbbe  chiaroveggenza)  in  tutte 
le  sue  forme,  l'astrologia;  il  tutto  espresso  e  significato  in 
un  modo  oscuro  e  involuto,  forse  per  via  di  simboli,  che 
fu  poi  una  delle  cause  maggiori,  se  non  la  maggiore  di 
tutte,  per  la  quale  le  opere  di  lui  furono  poco  lette  e  a 
poco  a  poco  caddero  nell'oblio. 

3.  —  E  dopo  la  morte  del  maestro,  che  ne  fu  dei  suoi 
seguaci?  Probabilmente  non  si  dispersero  e  continuarono 
a  riunirsi;  tanto  piìi  che  non  mancava  certo  fra  loro  chi 
potesse  indirizzarli  e  illuminarli  con  la  sua  autorità  e  la 
sua  dottrina.  In  quegli  stessi  anni  infatti,  o  poco  dopo, 
ci  fu  in  Roma  un'altra  setta,  ch'io  non  dubito  punto  fosse 
continuazione  di  quella  di  Nigidio,  o  certo  frutto  dei  suoi 
insegnamenti:    voglio   alludere   alla    «  Sextiorum  nova  et 


—  59  — 

romani  rohoris  seda  »  ^  la  quale  però  «  Inter  initia  sua, 
quum  magno  impetu  coepisset,  extincta  est  »  (1).  Decisa- 
mente i  tempi  non  erano  favorevoli  alla  filosofìa,  anzi  a 
certa  filosofia  !  E  in  verità  non  potevano  essere  molti  quelli 
che,  in  Roma,  desiderassero  di  attendere  sul  serio  alle 
speculazioni  filosofiche:  le  ricchezze  e  la  potenza  della 
nuova  Roma  imperiale  offrivano  troppi  svaghi,  troppi  di- 
vertimenti, troppe  orgie,  perchè  vi  fosse  tempo  e  voglia 
di  dedicarsi  a  meditazioni  gravi  ed  ingrate  !  Cosicché  gli 
sforzi  di  quei  pochi,  i  quali  avrebbero  pur  voluto  richia- 
mare i  concittadini  alla  serietà  d'una  vita  meno  fatua  e 
più  dignitosa,  dovevano  riuscire  vani  o  sortire  effetti  poco 
duraturi. 

Chi  furono  cotesti  Sestii,  ai  quali  accenna  Seneca?  Le 
notizie  che  ce  ne  sono  rimaste  sono  assai  scarse,  ma  suffi- 
cienti tuttavia  a  farceli  ammirare,  in  tempi  di  tanta  corru- 
zione, come  uomini  desiderosi  piii  delle  gioie  del  pensiero 
che  di  quelle  dei  sensi,  amanti  più  della  verità  e  della 
scienza  che  delle  ricchezze  e  degli  onori;  come  uomini 
infine,  nei  quali  tanto  più  risplende  l'onesta  virtù,  quanto 
maggiori  intorno  si  addensano  le  tenebre  del  vizio. 

Del  primo  di  essi,  di  nome  Quinto,  parla  specialmente, 
e  sempre  con  parole  di  profonda  e  sentita  ammirazione, 
il  più  grande  dei  moralisti  romani,  Seneca,  in  quelle  sue 
mirabili  Lettere  a  Lucilio  piene  di  tanta  filosofica  sapienza 
e  così  degne  d'essere  studiate  e  meditate  più  che  non 
siano  !  In  una  di  queste,  la  novantottesima,  volendo  egli 
provare  al  suo  alunno  che  spesso  molti  disprezzarono  quei 
beni  che  i  più  desiderano  come  fonti  di  felicità,  cita  gli 
esempi  di  Fabrizio  e  di  Tuberone,  e  poi  aggiunge  che  il 


(1)  Seneca,   Quaest.  nat.  cap.  ultimo. 


60 


padre  Sestio,  pur  essendo  nato  in  tali  condizioni  da  dovere 
un  giorno  governare  la  cosa  pubblica,  rifiutò  persino  la 
carioa  di  senatore,  offertagli  da  Giulio  Cesare  ;  poiché  egli 
non  annetteva  alcuna  importanza  ai  pubblici  onori,  rite- 
nendoli, come  sono,  troppo  incerti  e  transitori  (1).  Una 
rinunzia  di  questo  genere  non  era  certamente  cosa  che 
tutti  sapessero  e  volessero  fare  in  quei  tempi  di  sfrenate 
ambizioni  ;  e  tanto  meno  poi  per  ragioni  filosofiche  !  Ma 
tanfo:  il  nostro  Sestio  ambiva  per  la  sua  persona  altro 
ornamento  che  non  fosse  il  laticlavio  :  ornamento  meno 
visibile  e  meno  ricercato,  ma  più  dignitoso  e  più  vero, 
che  fosse  conquista  della  sua  intelligenza  e  della  sua  virtù, 
che  nessuno  potesse  riprendergli  e  che  egli  potesse  libe- 
ramente trasmettere  senza  pericolo  di  manomissioni  o  di 
latrocinii,  l'ornamento  insomma  della  sapienza  ;  per  la  quale 
fu  acceso  di  tanto  amore,  che  non  facendo,  in  sul  principio, 
progressi  sufficienti  a  soddisfare  appieno  il  suo  vivo  desi- 
derio, fu  sul  punto,  un  giorno,  di  suicidarsi  (2). 

Come  degli  onori,  ei  non  fu  avido  neppure  dolle  ric- 
chezze; anzi  si  racconta  di  lui  che,  trovandosi  in  Atene, 
ripetè  quanto  aveva  già  fatto  il  filosofo  Democrito,  il  quale, 
avendo  previsto  da  certi  segni  astrologici  una  carestia  d'olio, 
prima  dell'epoca  del  raccolto  —  che  la  bellezza  delle  olive 
faceva  sperare  sarebbe  stato  abbondante  —  comperò  a  buon 


(1)  €  Honores  repulit  pater  Sextius,  qui,  ita  natus  ut  rempu- 
hlicam  deberet  capessere,  latum  clavum,  divo  lulio  dante,  non  re- 
cepii; intelligehat  enim,  quod  dari  posset,  et  eripi  posse  ». 

(2)  Plutarco,  «  Del  modo  di  conoscere  i  propri  progressi  nella 
virtù  »,  §  5:  «  KaGànep  cpaol  Ségxtóv  xs  xòv  'Pa)|iaIov  àcpetxóxa  xàg 
èv  x-^  TióXst  xtjjiàg  xal  ipxàg  5ià  cpiXoaocpiav  èv  òè  xqi  cptXoaocpsIv 
aB  TiàXiv  5uo7ia'9-oQvxa  xal  xp(tà\),e>foy  xtp  Xóyt})  x^^®'^"^?  "^^  np{bzo)t, 
dXtyow  Ssyjaat  xaxa3aX«tv  éaoxòv  ix  xivog  Sti^poug  ». 


—  61  "- 

mercato  tutto  l'olio  del  paese,  e  poi,  sopravvenuta  real- 
mente la  carestia,  restituì  ai  primi  proprietarii  la  merce 
acquistata,  appagandosi  d'aver  provato  così  che  gli  sarebbe 
stato  facile  arricchirsi  quando  lo  avesse  coluto  (1). 

Ma  che  uomo  era  Sestio  !  Che  scrittore  vigoroso  e  ardito, 
e  come  diverso  da  tanti  filosofi  che  scrivendo  siedono  in 
cattedra,  discutono,  cavillano,  e  non  danno  all'anima  alcun 
vigore  perchè  non  ne  hanno  !  A  leggere  Sestio  —  son  pa- 
role di  Seneca  -  si  sente  ch'è  pieno  di  vita  e  di  vigore, 
uno  spirito  libero  e  superiore,  uno  che  ha  virtù  d'ispirarti 
sempre  una  gran  fiducia  in  te  stesso  !  In  qualunque  stato 
d'animo,  quando  si  legge  il  suo  libro,  si  sfiderebbe  la 
fortuna  e  si  avrebbe  la  forza  di  lottare  contro  qualsiasi 
ostacolo!  Poiché  egli  ha  questo  grande  merito,  che,  pur 
mostrandoti  tutta  la  grandezza  della  felicità  suprema,  non 
ti  fa  disperare  di  raggiungerla:  egli  la  mette  bensì  molto 
in  alto,  ma  in  luogo  accessibile  a  chi  la  voglia  conqui- 
stare, sì  che  ammirandola  tu  speri  (2).  Quale  più  alta  lode 


(1)  Plinio,  Naturalts  Historia^  XVIII,  68,  9- 10  :  «  Ferun 
Demoeritum,  qui  primus  intellexit  ostenditque  curri  terris  caeli 
societatem,  spernentibus  hanc  curam  eius  opulentissimis  civium, 
praevista  ohi  cavitate  ex  futuro  Vergiliarum  or  tu....  magna  tum 
vìlitate  propter  spem  olivae,  coemisse  in  toto  tractu  ornne  oleum, 
mirantibus  qui  paupertatem,  et  quietem  doctrinarum  ei  sciebant 
in  primis  cordi  esse.  Atque  ut  apparuit  causa,  et  ingens  divitia- 
rum  cursus,  restituisse  mercem  anxiae  et  avidae  dominorum,  poe- 
nitentiae,  contentwm  ita  probasse  opes  sibi  in  facili,  quum  vellet, 
fore.  Hoc  postea  Sextius  e  romanis  sapientiae  adsectatoribus  Atkenis 
fecit  eadem  ratione  ». 

(2)  Seneca,  Epistola  LXIY:  «  Lectus  est  deinde  liber  Quinti 
Sextii  patris;  magni,  si  quid  miài  credis,  viri,  et,  licet  neget. 
Stoici.  Quantus  in  ilio,  Dii  boni,  vigor  est,  quantum  anim,i!  Hoc 
non  in  omnibus  philosophis  invenies.  Quorumdam,  scripta  clarum 


—  62  — 

per  un  uomo,  di  questa  entusiastica  esaltazione  fatta  da 
Seneca  ? 

E  i  suoi  insegnamenti  poi  quanto  erano  sentiti  e  pro- 
fondi, altrettanto  erano  semplici  ed  eificaci.  Vuoi  tu  persua- 
dere un  uomo  della  bruttezza  dell'ira  ?  egli  ammaestrava: 
portalo,  mentr'è  adirato,  innanzi  a  uno  specchio  e  fa  che 
vi  si  veda  riflesso  ;  poi  fagli  intendere  che  s'ei  vedesse  a 
quel  modo  anche  l'orridezza  dell'anima  sua  sconvolta  ed 
agitata  ne  sarebbe  atterrito  (1).  Della  onestà  e  della  virtù 
egli  ebbe  così  alto  e  giusto  concetto  che  sostenne  l'uomo 


habent  tantum  nomen,  cetera  exsanguia  sunt.  Instìtuu7it,  dìspu- 
tant,  cavillantur  :  non  faciunt  animum,  quia  non  habent.  Quuni 
legeris  Sextium,  dices:  Vivit,  viget,  liber  est,  supra  hominem  est, 
dimittit  tne  plenum  ingentis  fiduciae.  In  quacumque  positione 
mentis  sim;  quum  hune  lego,  fatebor  tibi,  libet  omnes  casus  pro- 
vocare, libet  exelamare  :  Quid  eessas,  Fortuna?  congredere!  para- 
tum  vides.  Illius  animum  induo,  qui  quaerit  ubi  se  experiaiuT, 
ubi  virtutem  suam  ostendat, 

Spumantemque  davi  pecora  inter  inertia  votis 
Optai  aprum,  aut  fulvum  descendere  monte  leonem. 

Libet  aliquid  habere,  quod  vincam,  cuius  patientia  exereear. 
Nam  hoc  quoque  egregium  Sextius  habet,  quod  et  ostendet  Ubi 
beatae  vitae  ìuagnitudinem,  et  desperationem  eius  non  faciet.  Seies 
illam,  esse  in  excelsOy  sed  volenti  penetrabilem.  Hoc  idetn  virtus 
tibi  ipsa  praestabit,  ut  illam  admireris,  et  tamen  speres  » . 

(1)  Seneca,  De  ira^  lib.  II,  oap.  36  :  «  Quibusdam,  ut  ait 
Sextius^  iratis  profuit  aspexisse  speculum;  perturbavit  illos  tanta 
mutatio  sui:  velut  in  rem  praesentem  adducti  non  agnoverunt  se, 
et  quantulum  ex  vera  deformitate  imago  illa  speculo  repercussa 
reddebat  ?  animus  si  ostendi^  et  si  in  ulta  materia  perlueere  pos- 
set.,  intuentes  nos  confunderet,  aier  maculosusqite,  aestuans.,  et 
distortus,  et  tumidus.  Nunc  quoque  tanta  deformitas  eius  est  per 
ossa  carnesque,  et  tot  impedimenta.,  effiuentis  :  quid  si  nudus  o- 
stenderetur  ?  et  e. 


—  68  - 

onesto  non  per  altro  essere  inferiore  al  sommo  Giove,  che 
per  avere  una  virtù  meno  stabile  e  duratura  ;  ma  per  tutto 
il  tempo  in  cui  si  conservi  onesto  essere  altrettanto  felice 
quanto  Giove,  non  essendovi  tra  la  perfezione  e  quindi 
la  felicità  umana  e  la  divina  differenza  se  non  di  durata. 
Ond'è  che  egji  potè  veramente  additare  ai  volonterosi  il 
bel  cammino  della  virtù  ed  esclamare  :  «  Di  qui  si  monta 
alle  stelle!  di  qui:  seguendo  frugalità,  temperanza^  for- 
tezza »  —  e  non  già  (par  quasi  sottintendere)  per  decreto  di 
popolo  0  di  senato  !  —  e  potè  confortare  anche  all'ascesa, 
persuadendo  che  gli  dei  aiutano  i  buoni  stendendo  ad  essi 
la  mano.  .  .  .  (1). 


(1)  Seneca,  Epistola  LXXIII:  «  Solebat  Sextìus  dicere^  «  lovem 
plus  non  posse  ^  quam  honum  virum,^.  Plura  lupiter  habet^  guae  ' 
praestet  hominibus;  sed   inter  duos  honos  non  est  melior,  qui  lo- 
cupletior  :  non  magis^  quam  inter  duosj   quibus  par  saientia  re- 
gendi  gubernaeulum  est^  meliorem  dixeris,  cui  maius  speciosiusque 
navigium  est.  lupiter  quo  antecedit  virum  bonum!  Diutius  bonus 
est.  Sapiens  nihilo  se  minoris  aestimat.^  quod  virtutes  eius  spatio 
breviore  clauduntur.   Queniadmodum  ex   duobus  sapientibus^  qui 
senior  decessiti  non   est  beatior  <?o,  euius    intra  pauciores  annos 
terminata    virtus    est  :    sìe  Deus  non  vincit    sapiente  ut  felicitate^ 
etiam,  si  vincit  aetate.  Non  est  virtus  maior^  quae  longior.  lupi- 
ter  omnia  habei;  sea  nempe  aliis  tradidit  habenda.  Ad  ipsum  hie 
unus  usus  pertinet.^  quod  utendi  omnibus  causa  est:  sapiens  tam 
aequo  omnia  apud  alias  videi  contemnitque^  quam  lupiter.,  et  hoc 
se  magis  suspicit.,  quod  lupiter  uti  illlis  non  poteste  sapiens  non 
vult.  Credamus  itaque    Sextio    monstranti  pulcherrimum   iter  et 
clamanti  :  *  Hac  itur  ad  astra  !  hae,  secundum  frugalitatem:,  hac, 
secu7idum  fortitudineyn  !  »  Non  sunt  Dii  fastidiosi,  non  invidi  ; 
admittunt,  et  ascendentibus  manum  porrigunt.  Miraris  hominem 
ad  deos  ire?  Deus  ad  homines  venit\  immo.,  quod  propius  est.,  in 
hom.'ines  venit.  Nulla  sine  Beo  mens   bona  est.  Semina  in  corpo- 
ribus  kumanis  divina  dispersa  sunt;  quae  si  bonus  cultor  excipit.^ 


64 


Questa  sicura  fede,  questa  virile  forza  di  pensiero  susci- 
tatrice di  virtù,  era  la  nota  caratteristica  degli  scritti  di 
Sestio,  di  quest'uomo  profondo,  che  filosofava  scrivendo 
in  greco  con  gravità  romana,  e  che  paragonava  l'uomo 
sapiente,  cinto  di  tutte  le  buone  energie  del  suo  animo, 
a  un  esercito  che,  in  paese  nemico,  marcia  compatto  e 
pronto  alla  battaglia  (1). 

Ed  esercitando  sui  migliori  uomini  di  Roma,  come  per 
esempio  quel  Lucio  Grassizio  di   cui   parla    Svetonio  (2), 

simìlia  origini  prodeunt;  et  paria  his,  ex  quibus  erta  sunt^  sur- 
gunt:  si  malus^  non  aliter  quam  humus  sterilis  ac  palustris^  ne- 
cat,  ac  deinde  creai  purganienta  prò  frugihus  » . 

(1)  Seneca,  Epistola  LIX  :  «  Sextium  ecce  quam  maxiìne  lego^ 
virum  acrem^  graecis  verbis^  romanis  moribus  philosophantem. 
Movit  me  imago  ab  ilio  posila  :  ire  quadrato  agmine  exercitum^ 
ubi  hostis  ab  omni  parte  suspectus  est,  pugnae  paratum.  Idem^ 
inquit^  sapiens  facere  debet;  omnes  virtutes  suas  undique  expan- 
dat^  ut  ubicumque  infesti  aliquid  orietur,  illic  parata  praesidia 
sint^  et  ad  nutum  regentis  sine  tumultu  respondeant.  Qitod  in 
exercitibus  his^  quos  imperatores  magni  ordinant,  fieri  videmus^ 
ut  imperium  ducis  simul  omnes  copiae  sentiant^  sic  dispositae, 
ut  signum  ab  uno  datum,  peditem  simul  equitemque  percurrat  ; 
hoc  aliquanto  magis  necessarium  esse  nobis  Sextius  ait.  UH  enim 
saepe  hostem  timuere  sine  causa  ;  tutissimumque  illi  iter,  quod 
suspeetissimum  fuit.  Nihil  siultitia  pacatum  habet  ;  tam  superne 
UH  meius  est,  quam  infra  ;  utrumque  trepidai  latus  ;  sequuntur 
pericula^  et  occurrunt\  ad  omnia  pavet  ;  imparata  est^  et  ipsis 
terretur  auxìliis.  Sapiens  autem^  ad  omnem  incursum  munitus 
est  et  intentus:  non  si  paupertas^  non  si  luctus,  non  si  ignomi- 
nia^ non  si  dolor  impetu?n  faciat^  pedem  referet.  Interritus  et 
contra  illa  ibii^  et  inter  illa.  Nos  multa  alligante  multa  debilitante 
diu  in  istis  vitiis  iacuimus  ;  elui  difficile  est  :  non  enim  inquinati 
sumus,  sed  infecti  ». 

(2)  Nel  De  illustr.  grammat.,  §  18,  rammenta  di  lui  che  «  ad 
Q.  Sextii  philosophi  sectam  transiisse  dicitur  ^ .  Alcuni  codici 
però  invece  di  Q.  Sextii  leggono  Q.  Septimii. 


--  65  - 

questa  sua  efficace  robustezza  di  pensiero,  e  affascinandoli 
col  vigore  della  sua  persuasione  e  con  la  nobiltà  della  sua 
vita,  sdegnosa  d'ogni  viltà  e  d'ogni  bassezza,  potè  far  sor- 
gere quella  «  romani  rohoris  seda  » ,  di  cui  abbiamo  fatto 
già  cenno  e  che,  se  fu  subito  soffocata,  ebbe  tuttavia  dei 
seguaci  e  prosecutori  isolati,  come  lozione  di  Alessandria, 
che  fu  maestro  anche    di    Seneca  (1),   Cornelio  Gelso   (2), 


(1)  Dì  lui  parla  Lattanzio,  Divin.  institui.  lib.  VI,  §  24. 
Vedi  anche  Gellio,  èi.  A.,  I,  8.  Nella  interessante  epistola  108^ 
Seneca,  parlando  di  se  al  suo  Lucilio,  gii  dice  come  oltre  al- 
l'avere imparato  ad  astenersi  per  sempre  dalle  ostriche,  dai  fun- 
ghi, dai  profumi,  dal  vino,  dai  bagni,  e  ad  usar  materassi  duri, 
aveva  anche  incominciato,  da  giovane,  ad  astenersi  dalla  carne,  e 
ciò  per  gli  insegnamenti  di  Soxione^  che  dimostrava  la  inutilità  e 
i  danni  di  questo  cibo,  valendosi,  oltre  che  degli  argomenti  di  Pi- 
tagora e  di  Sestio,  anche  di  ragioni  proprie.  Riporto  quasi  per  in- 
tero il  passo  di  Seneca,  che  suona  così  :  «  Quonìam  coepi  Ubi  ex- 
ponere  quantum  maior  impetu  ad  philosophiam  iuvenis  aeeesse- 
rhn,  quam  senex  pergam^  ?ion  pudebit  fatevi^  quem  mihi  amorem 
Pytkagorae  iniecerit  Sotion.  Docebat^  quare  ille  animalibus  ab- 
siinuisset^  quae  postea  Sextius.  Dissimilis  utrique  causa  erat^  sed 

uirique  magnifica.  Rie  etc...  At    Pythagoras Haee  quum  ex- 

posuisset  Sotton  et  implesset  argumentis  suis:  Non  credis^  inquit, 
aììimas  in  alia  corpora  atque  alia  describi.,  et  migrationem  esse 
quam  dicimus  mortem?  Non  credis  in  his  pecudibus  ferisve  aut 
aqua  m,ersis  illum  quondam  hominis  animum  morari?  Non  cre- 
dis nihil  perire  in  hoc  mundo,  sed  anulare  regionem?  nec  tantum 
caelestia  per  eertos  circuitus  verti,  sed  ammalia  quoque  per  vices 
ire.,  et  animos  per  orbem  agi  ?  Magtii  ista  crediderunt  viri.  Ita- 
que  iudicium  quidetn  tuum  sustine:  ceterum  omnia  tibi  integra 
serva.  Si  vera  sunt  ista.,  abstinuisse  animalibus  innoeentia  est., 
si  falsa  frugalUas  est.  Quod  istic  credulitatis  tuae  àamnum  est  ? 
Alimenta  tibi  leonum  et  vulturum.  eripio.  His  instinstus  abstinere 
animalibus  coepi.,  et  anno  peracio  non  tantum  facilis  erat  m,ihi 
consuetudo.,  sed  dulcis...  » 

(2)  Quintiliano,  Lib.  X,  1,  124:  «  Scripsit  non  parum  multa 
Cornelius   Celsus.,  Sextios  secutus.,  non  sine  cultu  ae  nitore  ». 


—  66  — 

Papirio    Fabiano  (1),  Moderato    di    Cadice  (2)    ed    altri. 

I  Sestii  dei  quali  abbiamo  notizia  furono  due:  il  primo 
quello  di  cui  si  è  parlato  finora,  che  sarebbe  vissuto  al 
tempo  di  Augusto  e  anche  di  Cesare,  se,  come  dice  Se- 
neca^ rifiutò  il  laticlavio  «  divo  lulio  dante  »  (3),  e  avrebbe 
pure,  secondo  il  surriferito  passo  di  Plinio  (4)  dimorato, 
non  sappiamo  quando  né  per  quanto  tempo,  in  Atene; 
l'altro,  suo  figlio,  anch'esso  di  prenome  Quinto,  che  pro- 
seguì l'insegnamento  paterno,  che  fu  ritenuto,  sebbene  a 
torto,  autore  delle  sentenze  filosofiche  note  sotto  il  nome 
di  Sesto  pitagorico  (5),  della  cui  vita  infine  non  sappiamo 
assolutamente  nulla. 

Ora,  di  qual  dottrina  furono  maestri  questi  filosofi,  solitari 
ricercatori  di  verità  in  un  mondo  di  gaudenti  e  di  tristi? 


(1)  Seneca,  Epist.  C;  cf.  Seneca  il  retore  al  lib>  II  delle  Con- 
troversie^ prefaz. 

(2)  Questo  filosofo  pitagorico  visse  al  tempo  di  Nerone,  fu  famo- 
so per  i  suoi  insegnamenti  intorno  alla  scienza  simbolica  dei  nu- 
meri, fu  maestro  di  Lucio  Etrusco  (v.  Plutarco,  Quaest.  Gonviv. 
Vili,  7)  e  scrisse  un'opera  voluminosa  intorno  alla  dottrina  pita- 
gorica (V.  Porfirio,  Vita  di  Pitag.  p.  33  ed.  Nauck;  Stefano  Bi- 
zantino e  Suida,  sotto  la  voce  Fàdeipa).  Cfr.  pure  Porfirio,  Vita  di 
Plotino  e.  20  e  S.  Gerolamo,  Adv.  Ruflnum  III. 

(3)  Epist.  XCVIII  già  citata.  Di  un  Sestio,  filosofo  pitagorico., 
che  fiorì  ai  tempi  d'Augusto,  parla  Eusebio  [Chron.,  all'  olimpiade 
195.  1  =  1  d.  C).  Dobbiamo  dunque  ritenere  il  nostro  Sestio  vis- 
suto press'a  poco  fra  il  70' a.  C.  e  il  5  d.  C. 

(4)  Natur.  Eist.,  XVIII,  68,  10. 

(5)  Vedile  nella  collezione  del  Mìjllach,  Fragmenta  philosopho- 
rum  graecorum,  Parigi,  Firmin-Didot,  voi.  I  (1875)  p.  522  e 
voi.  II  (1881)  pp.  116-117,  e  leggi,  a  proposito  della  paternità  di 
esse,  oltre  a  ciò  che  ne  dice  lo  stesso  Mullach  v.  II,  pp.  XXXI  sg.), 
anche  l'esauriente  discussione  che  fa  lo  Zeller,  Die  Philosophie 
der  Qriechen^  voi.  IV,  III  ediz.  (Leipzg  1880),  pp.  679  e  681  nota. 


67 


Essi  ebbero  intanto  una  propria  dottrina  psicologica,  se, 
come  riferisce  Claudiano  Mamerte  (1)  spiegarono  che  l'a- 
nima è  «  una  certa  forza  incorporea,  ilìocale  e  inafferra- 
«  bile,  che,  essendo  capace  senza  spazio,  assorbe  e  contiene 
«  il  corpo  » .  Ma  questo  evidentemente  è  troppo  poco  per 
determinare  a  che  scuola  essi  appartennero.  E  ben  vero 
che  Seneca,  come  abbiamo  già  veduto  riferisce  (nella  Epi- 
stola LXIY)  che  «  volere  o  no  »  (licei  neget),  il  padre  Sestio 
era  uno  stoico;  ma  quel  «  volere  o  no  »  ci  fa  compren- 
dere che  in  realtà  Sestio  non  si  professava  stoico.  E  infatti 
qualche  altra  testimonianza  lo  dice  pitagorico  (2),  e  tale  lo 
proverebbero  non  solo  le  sue  conoscenze  astrologiche,  dimo- 
strate dalla  famosa  esperienza  dell'olio,  ma  altresì  alcune 
abitudini  della  sua  vita,  come  quella  di  fare  alla  fine  di  ogni 
giorno  l'esame  di  coscienza  (3)  e  quella  di  astenersi  dai 
cibi  carnei  (4),  l'una  e  l'altra,  com'è  ben  noto,  proprie  dei 
seguaci  del  Pitagorismo.  Senonchè,  riguardo  a  quest'ultima 
è  da  notare  che  Sestio  non  la  giustificava,  come  Pitagora, 


(1)  De  statu  anirnae,  II,  8  :  «  ...  Eomanos  etiam^  eosdemque 
philosophos  testes  citamus^  apud  quos  Sextius  pater^  Sextius  fìlius 
propenso  in  exercitium  sapientiae  studio  apprime  philosophati 
sufzt,  atque  hane  super  omni  anima  attulere  sententiatft .  Incor- 
poralis,  inquilini^  omnis  est  anima  et  lUocalis  atque  indeprehensa 
vis  quaedam  \  quae  sine  spatio  capax  corpus  haurit  et  continet-» . 

(2)  Y.  pag.  preced.,  nota  3.  . 

(3)  Seneca,  De  ira^  lib.  Ili,  e.  XXXVI,  2:  «  Faciebat  hoc 
Sextius  ut  consuniTnato  die^  quum  se  ad  noeturnam  qutetem.  re- 
cepisset^  interrogaret  animum  suum  :  Quod  hodie  malum  tuum 
sanasti  ?  cui  vitio  obstitisti  ?  qua  parte  ntelior  es?  » . 

(4)  A  questo  proposito,  oltre  alla  Up.  CVIII  di  Seneca  riportata 
nella  nota  seguente,  si  suol  citare  il  passo,  conservatoci  da  Orige- 
ne, «  (contra  Celsum  »,  lib.  YIII,  p.  397  ed.  di  Cambridge),  che 
suona:  «  Il  cibarsi  di  carni  è  indifferente,  ma  l'astenersene  è  più 
conforme  a  ragione  ».  Tale  sentenza  però  è  di  Sesto  pitagorico,  non 
già  del  nostro  Sestio. 


—  es- 
cori la  dottrina  della  metempsicosi,  ma  con  argomenti  che 
ai  Romani  dovettero  parer  più  ragionevoli,  perchè  meno 
astrusi  :  «  gli  uomini,  egli  infatti  insegnava,  hanno  altri 
«alimenti,  senza  bisogno  di  nutrirsi  di  sangue;  e  poi  ci 
«  si  abitua  alla  crudeltà  provando  piacere  nel  divorar  della 
«carne;  si  deve  dunque  ridurre  al  minimo  ciò  che  può 
«  alimentar  la  lussuria  »  e  concludeva  dicendo  che  «  la 
«  varietà  dei  cibi  è  contraria  alla  salute  e  innaturale  per 
«  i  nostri  corpi  »   (1). 

Ci  sembra  quindi  lecito  di  poter  affermare  che  i  Sestii 
non  furono  ne  stoici  ne  pitagorici,  ma  ebbero  un  proprio 
sistema,  eclettico  quasi  senza  dubbio,  con  prevalenza  di 
elementi  pitagorici  ;  e  che  questo  loro  sistema  non  fu  ne 
inorganico,  né  dubitoso  (come  quello  degli  accademici  del- 
l'ultima maniera)  né  materialista  (come  l'epicureo),  sibbene 
avvivato  da  una  profonda  fede,  illuminato  da  una  chiara 
luce  spirituale  e  fondato  su  convinzioni  ben  salde  e  su 
opinioni  precise  e  indubitabili;  un  sistema  d'ideo  insomma, 
che  non  era  una  piìi  o  meno  piacevole  distrazione  o  un'o- 
ziosa occupazione  dell' intelletto,  ma  una  vera  e  propria 
forza  organizzatrice  e  ordinatrice  della  vita,  e  per  ciò  ap- 
punto destinato  a  raccogliere  pochi  seguaci  e  a  vivere  per 
tempo  assai  breve,  in  quella  sentina  di  ambizioni,  di  cor- 
ruzioni, di  violenze,  di  immoralità,  che  era  divenuta  la 
grande  Roma  nel  trapasso  dalla  repubblica  all'Impero. 


(1)  Seneca,  Epist.  CVIII  :  «  hie  {Sextius)  homini  satis  alimen- 
torum  eitra  sanguinem  esse  eredebat.  et  criiclelitatis  eonsuetudi- 
nem  fieri^  ubi  in  voluptatem  esset  addueta  laceratio.  Adiciebat 
contrahendam  materiam  esse  luxuriae^  eolligebat  bonae  valetudini 
contraria  esse  alimenta  varia  et  nostris  aliena  eorporibus  ». 


CAPITOLO  QUARTO 


Pitagora  e  le  sue  dottrine  negli  scrittori  latini 
del  primo  secolo  avanti  Cristo. 

I. 
Lncrezio  e  il  poema  «  Della  Natura  » 

1.  Lucrezio  e  il  poema  Della  Natura.  —  2.  Epicuro  contro  Pitagora 
a  proposito  di  immortalità  dell'anima  e  di  metempsicosi.  —  3.  Ac- 
cenni alla  metempsicosi  nel  proemio  del  primo  canto.  Il  sogno  di 
Ennio. — 4.  Polemiche  intorno  all'anima  nel  terzo  canto:  la  dot- 
trina dell'  anima-armonia.  —  5.  Argomenti  epicurei  contro  la 
preesistenza  dell'anima  e  la  metempsicosi.  — 6.  Insussistenza  del 
timore  della  morte  nell'ipotesi  della  reincarnazione.  —  Riassunto 
e  conclusione. 


1.  —  Poiché  si  è  visto  come,  dopo  Nigidio,  i  Sestii  cerca- 
rono di  restaurare  in  Roma  il  culto  del  Pitagorismo,  non 
sarà  certo  inutile  indagare  quali  tracce  esso  aveva  lasciato  di 
sé  nella  letteratura  romana  del  primo  secolo  avanti  Cristo, 
siano  esse  vere  e  proprie  trattazioni  sistematiche  o  sem- 
plici notizie  incidentali  :  così  infatti  potremo  non  solo  farci 
un'idea  del  giudizio  che  ne  fecero   gli  scrittori   di   quel 


—  70  — 

tempo,  ma  ci  si  offrirà  anche  il  modo  di  esporne  e  chia- 
rirne qualcuno  dei  punti  più  importanti  o  di  metterne  in 
luce  gli  aspetti  più  notevoli. 

Certo,  in  un'età  nella  quale  le  più  svariate  credenze 
religiose  e  i  più  diversi  sistemi  di  filosofìa  affluendo  in 
Koma  da  ogni  parte  del  mondo,  e  specialmente  dalla  Grecia 
e  dall'Asia,  vennero  a  pocoJiniformandosi  per  vicendevole 
influsso  e  preparando  cosf  il  terreno  che  doveva  di  lì  a 
non  molto  accogliere  e  far  germogliare  il  seme  della  nuova 
fede  cristiana,  non  è  facile  sceverare  e  seguire  uno  per 
uno  i  vari  indirizzi  di  pensiero;  massime  poi  quelli  che, 
come  la  filosofia  pitagorica,  essendo  molto  antichi  e  avendo 
avuto  larga  diffusione  e  gran  numero  di  seguaci,  trasmi- 
sero parte  dei  loro  principii  alle  speculazioni  filosofiche 
posteriori.  Ma  un  poco  di  diligenza  e  di  pazienza  ci  per- 
metterà almeno  di  raccogliere  tutti  quei  passi  di  scrittori 
latini  dell'ultimo  periodo  repubblicano  nei  quali  si  fa  espli- 
cita menzione  di  Pitagora,  e  di  esaminare  altresì  quei 
luoghi  in  cui,  senza  nominarlo,  si  accenna  però  a  dottrine 
e  a  pratiche  di  vita  che  appartennero  indubbiamente,  per 
concorde  consenso  dell'antichità,  al  sistema  del  filosofo  di 
Samo. 

Incominceremo  pertanto  dal  poema  di  Lucrezio,  che 
fu,  come  tutti  sanno,  il  più  mirabile  tentativo  di  elabora- 
zione poetica  in  lingua  latina  di  un  sistema  filosofico  greco, 
e  precisamente  del  sistema  epicureo.  Altri  felici  tentativi 
di  esporre  in  versi  dottrine  di  filosofi  greci  erano  bensì 
stati  fatti  da  Appio  Claudio,  da  Ennio,  da  qualche  altro, 
ma  per  brevi  trattazioni  ;  sì  che  Lucrezio  —  pur  conscio 
della  grandezza  del  cantore  degli  Annales  —  potè  ben  affer- 
mare con  legittimo  orgoglio  di  essere  il  primo  a  tentare 
di  esprimere  poeticamente,  nella  lingua  del  Lazio  e  del- 


71 


r  Italia  romana,  non  ancora  assueta  alle  sottigliezze,  alla 
profondità,  alla  precisione  del  linguaggio  filosofico,  le 
speculazioni  dei  Greci. 

Il  poema  Della  Natura  infatti  non  solo  espone  con 
ordine  sistematico  la  complessa  dottrina  di  Epicuro  intor- 
no air  essere  delle  cose  in  generale,  all'  infinità  dell'uni- 
verso, ai  moti  e  alle  forme  atomiche,  alla  natura,  com- 
posizione e  mortalità  dell'  anima,  alle  cause  delle  sensa- 
zioni e  delle  funzioni  fisiologiche,  alle  origini  del  mondo 
e  della  vita  vegetale  e  animale,  alle  cause  dei  fenomeni 
meteorici  e  tellurici,  ma  discute  anche,  perchè  abbiano 
piti  sicuro  fondamento  i  principii  della  dottrina  epicurea, 
le  opposte  e  diverse  dottrine  di  altre  scuole  filosofiche,  e 
combatte  le  argomentazioni  contrarie  e  le  obiezioni  pos- 
sibili degli  avversari. 

Di  questa  opera  dunque,  costruttiva  in  quanto  elabora 
su  fondamenti  nuovi,  e  polemica  in  quanto  combatte  e 
distrugge  principii  vecchi  o  diversi,  è  ben  naturale  che 
noi  dobbiamo  tener  presente  soprattutto  la  parte  polemica, 
per  vedere  se  e  quanto  in  essa  il  poeta  —  e  prima  di  lui 
Epicuro  —  abbia  tenuto  conto  delle  dottrine  di  Pitagora. 

2.  —  Ora,  su  due  punti  essenzialmente  il  poeta  discute 
e  lotta  ad  oltranza  contro  indirizzi  di  pensiero  diversi  dal 
suo  :  sulla  teoria  atomica  e  sulla  teoria  dell'  anima.  E  a 
proposito  della  prima  combatte  e  confuta  esplicitamente, 
nominandoli,  Eraclito,  Empedocle,  Anassagora.  Del  filosofo 
di  Samo  invece  non  fa  il  nome  neppure  una  volta,  né 
qui  ne  in  altra  parte  dei  poema;  ma  ciò  non  toglie  che 
un  attento  esame  del  poema  stesso  non  ci  permetta  di 
scoprire  dove  e  quando,  pur  senza  dirlo,  il  poeta  pensi 
a  combattere  i  principii  della  filosofia  pitagorica, 


—  72  — 

È  ben  nota,  in  verità,  la  disistima  che  Epicuro  ebbe 
per  la  matematica;  il  che  parrebbe  che  dovesse  farci  esclu- 
dere senza  altro  qualsiasi  considerazione,  da  parte  diluì, 
per  un  sistema  che  aveva  studiato  e  rappresentato  sotto 
l'aspetto  numerico  il  mondo,  e  nel  quale  le  ricerche  ma- 
tematico-musicali avevano  tanta  parte.  In  realtà  però  pos- 
siamo escludere  a  priori  soltanto  questo:  che  Epicuro  te- 
nesse presenti  in  qualche  modo  le  dottrine  della  scuola 
italica  nella  parte  fisica  del  suo  sistema.  E  infatti  lo  stu- 
dio del  poema  di  Lucrezio  conferma  senz'  altro  questa 
induzione;  tanto  nella  parte  teorica  che  in  quella  polemica 
dei  primi  due  canti,  che  contengono  1'  esposizione  e  lo 
svolgimento  dei  principii  epicurei  intorno  al  mondo  e  alla 
materia,  e  la  teoria  atomica,  manca  aJffatto  qualsiasi  ac- 
cenno, anche  indiretto  e  lontano,  alle  dottrine  pitagoriche. 

Ma  queste,  oltre  al  mondo  fisico,  governato  dal  numero 
e  dall'  armonia,  abbracciavano  anche  il  metafisico  (anima 
e  dei),  e  quanto  all'anima,  pur  considerando  anche  di 
questa  l' aspetto  numerico  e  musicale,  sviluppavano  so- 
prattutto il  concetto  della  sua  eternità  :  non  mai  nata, 
perchè  esistente  ab  aeterno^  essa  vive,  perenne  e  immor- 
tale, attraverso  un  ciclo  indefinito  di  vite  terrene  (me- 
tempsicosi). Sotto  questo  aspetto  pertanto  la  filosofia  di 
Pitagora  dovette  pure  essere  tenuta  in  qualche  conside- 
razione da  Epicuro,  se  scopo  fondamentale  della  sua  spe- 
culazione fu  di  combattere  i  due  grandi  timori  onde  nasce 
r  intelicità  umana,  cioè  il  timore  della  morte  e  quello 
degli  dei,  e  se,  per  vincere  il  primo,  difese  con  tutte  le 
armi  della  logica  il  principio  della  materialità  e  della 
mortalità  dell'anima.  Non  risalivano  forse  in  gran  parte 
alla  filosofia  pitagorica  la  dottrina  platonica  e  le  specu- 
lazioni stoiche  intorno  alla  origine  divina  e  all'immortali- 


73 


tà  dell'  anima  ?  E  la  filosofia  pitagorica  non  si  uniformava 
forse,  spiegandole  e  chiarendole,  alle  più  inveterate  su- 
perstizioni, alle  più  profonde  convinzioni,  alle  più  diffu-se 
credenze  religiose  degli  uomini  ? 

Se  Epicuro  avesse  avuto  solo  lo  scopo  della  costruzione 
teorica  dei  suo  sistema,  sarebbe  stato  sufficipnte  che,  ac- 
cettata da  Democrito  la  teoria  atomica  e  fattane  1'  appli 
cazione  al  mondo  fisico,  V  estendesse,  come  fece  realmente, 
al  mondo  psichico  (per  lui  i'  anima  constava  infatti  d'  un 
aggregato  d'atomi  sensiferi),  per  trarne  la  conseguenza 
della  mortalità  dell'  anima  o,  più  precisamente,  del  ne- 
cessario dissolversi  dei  suoi  atomi  alla  morte  del  corpo. 
Ma,  giova  ripeterlo,  egli  volle  anche  soprattutto  combat- 
tere il  timore  della  morte,  il  quale  nasce,  secondo  lui, 
dal  pensiero  —  alimentato  dalle  superstizioni  religiose,  e 
dalle  favole  dei  poeti  e  dei  vati  —  che,  morto  il  corpo, 
l'anima  sopravviva.  Ora,  fra  le  varie  forme  di  tale  cre- 
denza una  ve  n'  era  —  largamente  diffusa  dalla  religione, 
dai  misteri,  da  oscure  predizioni  sibilline,  da  filosofi  e  da 
poeti  —  secondo  la  quale  1'  anima  non  solo  continuava 
ad  esistere,  ma  poteva,  ad  intervalli,  rivivere  in  nuovi 
corpi  e  ritessere  più  d'  una  volta  la  trama  della  vita  ter- 
rena :  insomma  l'antichissima  credenza  nella  metempsi- 
cosi. E  per  di  più  questa  credenza,  anche  nei  termini 
strettamente  epicurei,  poteva  in  un  certo  senso  (come  ve- 
dremo) apparire  ammissibile,  in  quanto  cioè,  nell'  infinità 
del  tempo  e  nel  perpetuo  dissolversi  e  ricomporsi  degli 
atomi  materiali,  era  ben  lecito  ammettere  come  possibile 
il  ricostituirsi  dell'  identico  conglomerato  atomico  che  ri- 
creasse di  nuovo  il  medesimo  corpo  e  la  medesima  ani- 
ma. Data  dunque  questa  possibilità  teorica,  si  comprende 
ohe  Epicuro  o  i  suoi  seguaci  dovessero  esaminarla  anche 


—  74  — 

al  lume  della  logica  interna  del  loro  sistema,  per  dedarne 
le  loro  conseguenze  in  rapporto  alle  due  questioni  del- 
l'eternità dell'anima  e  del  timore  della  morte. 

Tanto  ciò  è  vero,  che  Lucrezio  svolge  appunto  in  mo- 
do ampio  ed  esaurientissimo  tale  ipotesi  e  tale  discussione 
polemica,  là  dove  vuol  dimostrare  la  mortalità  dell'anima 
e  la  vanità  del  temere  la  morte. 

3.  Ma  prima  di  esaminare  ed  analizzare  questa  parte 
del  poema  che  si  riallaccia  così  strettamente  con  la  dot- 
trina pitagorica,  è  necessario  premettere  che  già  al  prin- 
cipio del  primo  libro,  in  quel  mirabile  e  tormentato  proe- 
mio dove  il  poeta  espone  le  ragioni,  l' ordine  e  la  materia 
della  sua  trattazione,  è  fatto  cenno  delle  varie  credenze 
e  opinioni  intorno  all'  anima  e  dell'  importanza  capitale 
che  la  soluzione  del  problema  psicologico  ha,  nel  sistema 
epicureo,  in  ordine  alla  necessità  di  sradicare  dall'  animo 
umano  il  timore  della  morte. 

E  questo  cenno,  sia  in  se  stesso,  sia  per  il  ricordo  che 
ad  esso  si  collega  del  famoso  sogno  di  Ennio,  ha  pure 
importanza  per  il  nostro  tema. 

Per  rassicurare  infatti  Memmio  —  al  quale  il  poema  è 
dedicato  —  che  potrebbe  dubitare,  accettando  la  dottrina 
epicurea,  di  commettere  atto  di  scellerata  empietà,  Lu- 
crezio dimostra  che  anzi  la  religione  fu  causa  che  gli 
uomini  commettessero  delitti  nefandi,  come  il  sacrificio 
d*  Ifigenia  in  Aulide  (vv.  80-101).  E  poi  soggiunge  che, 
vinto  anche  il  timore  degli  dei,  può  tuttavia  rimaner 
sempre  quell'  altro  timore,  che  è  alimentato  dalle  spaven- 
tose favole  dei  poeti  sulla  vita  d'  oltretomba,  da  sogni  e 
da  apparizioni,  e  trova  la  sua  ragion  d'  essere  nell'  igno- 
ranza umana  intorno  alla  vera  natura  dell'  anima  (vv.  102- 


—  75  — 

126).  Di  qui  pertanto  la  necessità  di  studiare  —  insieme 
con  la  natura  delle  cose  celesti,  degli  dei  e  della  mate- 
ria —  anche  il  problema  dell'  essenza  dell'  anima  e  della 
natura  dei    sogni  e  delle  visioni  (vv.  127-135). 

E  precisamente  nei  versi  112-126  si  accenna  in  par- 
ticolare alle  varie  dottrine  intorno  all'origine  dell'anima  e 
intorno  alla  sorte  che  le  tocca  quando  muore  il  corpo: 

112      Ignoratur  enim  quae  sii  natura  animai, 

nata  sit^  an  cantra  nascentihus  insinuetur^ 
et  simul  intereat  nobiscum  morte  dir  empia, 

115       an  tenehras  Orci  visat  vastasque  lacunas^ 
an  pecudes  alias  divinitus  insinuet  se, 
Ennius  ut  noster  ceeinit,  qui  priìnus  amoeno 
detulit  ex  Helicone  perenni  fronde  coronam, 
per  gentis  Italas  kominuìu  quae  darà  clueret\ 

120      etsi  praeterea  tamen  esse  Acherusia  tempia 
Ennius  aeternis  exponit  versibus  edens^ 
quo  ncque  permanent  (1)  animae  ncque  corpora  nostra^ 
sed  quaedam  simulacra  modis  pallentia  miris; 
unde  sibi  exortam  semper  fiorentis  Homeri 

125       commemorai  speciem  lacrimas  effundere  salsas 
coepisse  et  rerum  naturam  expandere  diciis  (2). 

Quanto  all'  origine  dell'  anima,  Epicuro  sosteneva  che 
essa  era  nativa  (nata)-^  ma  altri  invece  la  credeva  entrata 
già  fatta  nel  corpo  al  momento  della  nascita  (an  contra 


(1)  Mi  pare  qui  perfettamente  accettabile  la  lezione  già  proposta 
dal  GoBEL  (permanent  è  coug.  pres.  da  pcrmanare)^  che  è  la  più 
ragionevole  correzione  del  permaneant  dato  dai  codici.  Ne  so  ve- 
dere in  qual  modo  tale  correzione  urti,  come  dice  il  Giussani,  con- 
tro il  senso  di  permanare. 

(2)  In  questi  versi,  come  in  quelli  che  citerò  più  innanzi,  mi 
attengo  alla  lezione  e  alla  grafìa  data  dal  Giussani  (De  rerum  na- 
tura, Torino,  Loescher,  1896-1898;. 


—  76   ~ 

nascentibus  insinuetur).  Quanto  alla  sorte  che  1'  aspettava 
al  morire  del  corpo  le  opinioni  invece  erano  tre:  l'epicu- 
rea, che  r  anima  si  dissolvesse  col  dissolversi  degli  atomi 
corporei  [simili  intereat  nobiscum  morte  dirempta)  ;  la 
popolare,  che  scendesse  all'Orco,  o  Ade  o  Averne  [te- 
nebras  Orci  visat  vastasque  ìacunos)  ;  la  pitagorica,  che 
passasse  per  virtù  divina  nel  corpo  di  altri  animali  (pe- 
cudes  alias  divinitus  insinuet  se  ).  Le  due  ultime  però 
non  erano  in  contraddizione  fra  loro  ;  tanto  è  vero  ap- 
punto che  Ennio,  nel  sogno  famoso  degli  Annali,  pur 
esponendo  la  teoria  pitagorica,  ammise  altresì  1'  esistenza 
dell'Ade  e  dei  templi  Acherontei^  ai  quali  però  discen- 
deva non  già  l'anima  (questa  passava  —  subito?  —  in 
altri  corpi),  ma  un'  ombra,  come  a  dire  un  doppio,  del- 
l'anima stessa,  di  mirabile  pallore:  come  quella  precisa- 
mente che  egli  narrava  gli  fosse  apparsa  nel  sogno  — 
doppio  dell'  anima  del  divino  Omero  —  che,  piangendo  a- 
mare  lagrime,  gli  svelò  l'essere  delle  cose. 

E  dunque  evidente,  per  questo  accenno  alla  dottrina 
psicologica  epicurea  in  contrapposizione  con  quella  di  altri 
filosofi  ed  anche  di  Pitagora,  che  nel  terzo  libro  di 
Lucrezio  dobbiamo  trovare  discussa  in  qualche  modo  —  e 
lo  è  infatti  esaurientemente  —  la  teoria  pitagorica  della 
metempsicosi  (1). 

4.  Ma  non  v'  è  forse  cenno  d'  un'  altra  concezione  che 
fu  propria  di  Pitagora  e  dei  suoi  seguaci  ;  voglio  dire 
della  concezione  dell' anima- armonia? 


(1)  La  cosa,  del  resto,  è  tanto  più  evidente  se  si  pensi  clie  Lu- 
crezio compose  verosimilmente  questa  parte  del  proemio  del  primo 
libro,  quando  già  aveva  composto  il  terxo.  Si  veda  in  proposito 
la  paziente  e  lucida  analisi  del  Giussani  voi.  II,  pag.  4-5). 


-  77  — 

È  un  fatto  che  il  poeta,  nel  terzo  canto,  prima  di  ac- 
cingersi a  determinare  la  natura  materiale  -  atomica  del- 
l'anima  nelle  sue  due  distinzioni  dì  animus  od  anima., 
confuta  una  dottrina  • —  certo  ancor  diffusa  ai  suoi  gior- 
ni —  che  negava  1'  esistenza  dell'  anima,  o  meglio  le  ne- 
gava una  consistenza  sua  propria,  non  pure  extracorporea, 
ma  nel  corpo  stesso,  concependola  soltanto  come  una  spe- 
cie di  armonia  delle  funzioni  organiche  : 

98  sensum  aniìni  certa  non  esse  in  parte  lo^atuìn^ 

vermn  habitum  quendam  vitalem  corporis  esse^ 

100        karmoniam  Orai  quam  dieunt^  quod  faciat  nus 
vivere  eum  sensu^  nulla  curn  in  parte  siet  ìuens  : 
ut  bona  saepe  valetudo  eum  dicitur  esse 
corporis,  et  non  est  tamen  haec  pars  ulta  valentis, 
sic  animi  sensum  non  certa  parte  reponunt. 

Ora  chi,  prima  di  Epicuro,  aveva  svolto  cosiffatta  dot- 
trina, che  anche  ai  tempi  di  Platone  e  di  Aristotile  era 
tanto  diffusa  da  far  sentire  all'  uno  e  air  altro  (1)  la  ne- 
cessità di  confutarla  ?  Pitagora  e  i  suoi  seguaci,  e  spe- 
cialmente, fra  questi,  Filolao  (2),  avevano  bensì  accettato 
e  svolto  il  concetto  dell'  anima-armonia;  ma  che  però  tale 
concetto  non  potesse  avere  pei  Pitagorici  il  senso  datogli 


(1)  Platone,  Fedone^  e.  XXXVI  e  XLI  -  XLY;  Aristotile,  Del- 
Vanima^  I,  4.  Dopo  Aristotile  la  svolsero  ancora,  accettandola  e 
difendendola,  Aristosseno  talentino  (Cicerone,  Tuseulane.,  I,  l9)"  e 
DiCEARCo  di  Messina  (Cicerone,  ibidem^  I,  20). 

(2)  La  si  fa  risalire  veramente  a  Parmenide  e  a  Zenone  d'  Elea 
(DioG.  Laerzio  IX,  29):  ma  che  debba  riconoscersi  anche  come 
propria  di  Pitagora  e  di  Filolao  dimostrò  già  il  Boeckh  nel  suo 
Philolaos.,  (p.  177);  tanto  è  ciò  vero  che  nel  dialogo  platonico  chi 
la  espone  è  Simmia,  discepolo  d,l  Filolao,  ed  Echecrate  pitagoreo 
la  riconosce  per  propria  dottrina  {Fedone.,  e.  XXXVIII). 


—  78  — 

qui  da  T  ucrezio  e  neppure  quello  datogli  da  Simmia  nel 
dialogo  di  Platone,  è  appena  necessario  di  dire,  se  esso 
si  accordava  —  nel  sistema  di  quella  scuola  —  con  l'altro 
della  metempsicosi,  ossia  con  il  concetto  della  preesistenza 
e  immortalità  dell'  anima  stessa.  L' ironia  lucreziana  dun- 
que dei  versi  131-135: 

...  recide  harmoniai 
fìomen^  ad  organicos  alto  delatum  Heliconi 
—  sive  aliunde  ipsi  porro  traxere  et  in  illam 
trastulerunt^  proprio  quae  tum  res  nomine  egehat  - 
quid  quid  id  est  habeant.  . 

—  come  le  argomentazioni  di  Socrate  nel  Fedone  —  era- 
no volte  non  contro  la  teoria  di  Pitagora,  ma  contro 
quella  interpretazione  e  limitazione  materialistica  di  essa, 
per  cui  r  anima  era  ridotta  a  semplice  funzione  del  corpo. 
Ed  è  ben  naturale  che  —  così  limitata  e  interpretata  —  la 
combattessero,  insieme  con  gl'idealisti  platonici,  anche  i 
materialisti  epicurei  :  poiché  per  gli  uni  rappresentava  la 
negazione  della  essenza  individuale  e  quindi  della  immor- 
talità dello  spirito,  e  per  gli  altri,  significava  l' inesisten- 
za di  quella  quarta  sostanza  atomica  (la  sostanza  senso- 
riale) onde  essi  concepivano  costituita  (insieme  con  le  altre 
tre  sostanze  elementari  aria,  freddo  e  caldo)  1'  anima  u- 
mana  (1).    Si  comprende  quindi    che  Lucrezio,    prima  di 


(1)  Per  Epicuro  1'  anima  è  bensì  nativa  e  mortale,  ma  è  però, 
fin  che  vive  il  corpo,  sostanziata  di  materia  atomica  ed  è  parte 
dell'  essere  umano  —  ne  più  ne  meno  di  quel  che  ne  siano  parte 
le  mani,  i  piedi,  gli  occhi,  ecc.  (Luce.  Ili,  94-97)  —  e  localizzata 
nel  petto,  di  dove  si  diffonde  per  tutto  il  corpo,  è  adibita  alla  re- 
cezione dei  moti  e  delle  immagini  sensoriali  e  alle  funzioni  intel- 
lettuali :  sì  che  ammettendo  la  teoria  dell'anima-armonia  veniva  a 
cadere  tutta  la  teoria  psicologica  degli  atomi    sensiferi,    delle  im- 


—  79  — 

accingersi  alla  esposizione  della  teoria  psicologica,  confu- 
tasse questa  dottrina,  che  non  solo  negava  all'  anima  una 
sua  localizzazione  nel  corpo,  ma  veniva  in  ultima  analisi 
a  negarne  1'  esistenza  (1). 

5.  Dimostrata  la  materialità  dell'animo  (vv.  94-416),  Lu- 
crezio passa  a  dar  le  prove  —  ventotto  in  tutto  —  della 
sua  mortalità.  Ora  vi  è  un  gruppo  di  queste  che  combat- 
tono il  concetto  della  immortalità  sotto  l'aspetto  non  già 
del  persistere  dell'  anima  dopo  la  morte,  ma  del  suo  pree- 
sistere alla  nascita  del  corpo  e  della  possibile  pluralità 
delle  sue  esistenze  terrene  (vv.  668-710,  711-738,  739-766, 
774-781). 

Qui  siamo  evidentemente  nel  campo  della  metempsicosi, 
e  occorrerà  quindi  esaminare  quest'  altro  centinaio  di  versi. 

Veramente  non  soltanto  i  Pitagorici  —  con  la  dottrina 
della  metempsicosi  —  ammisero,  fra  gli  antichi,  un'  esi- 
stenza pre-terrena  dell'  anima,  ma  anche  Platone  e  gli 
Stoici;  e  inoltre,  come  ho  già  osservato  più  volte,  tale 
dottrina  non  fu  che  la  elaborazione  filosofica  d'  una  cre- 
denza largamente  diffusa  nelle  leggende  popolari,  nella 
poesia,  neir  arte,  e  rafi'orzata  se    non  derivata,    dagli  in- 


magini,  dei  sogni,  delle  visioni,  delle  allucinazioni  (anche  queste 
vere  immagini  materiali)  che  V  anima  riceve  dal  di  fuori,  ma  non 
produce  essa  stessa. 

(1)  Cicerone  infatti,  parlando  di  Aristosseno  e  di  Dicearco,  dice 
appunto  che  essi  con  la  loro  teoria  venivano  a  dimostrare  «  nihil 
esse  omnino  animum^  et  hoc  esse  nomen  totum  inane^  frustraque 
ammalia  et  animantes  appellari,  neque  in  homine  inesse  animum 
vel  animam  nec  in  bestia  ■»  {Ttcsc.^  I,  21),  e  più  esplicitamente 
più  sotto  (31 1:  «  Dicearehus  quidem  et  Aristoxenus. ...  nullum 
omnino  animum  esse  dixerunt  ». 


—  80  — 

segnamenti  religiosi  che  s' impartivano  nei  Misteri.  Sì  che 
gli  argomenti  di  Lucrezio  —  possiamo  affermarlo  con  si- 
curezza —  non  sono  esclusivamente  contro  i  Pitagorici. 
Ma  poiché  Pitagora,  se  anche  trovò  già  nei  Misteri  e  fra 
il  popolo  tale  credenza,  e  se  pure  la  derivò,  c?ome  vo- 
gliono, dall'  Egitto,  fu  veramente  il  primo  che  le  diede 
veste  filosofica,  e  su  di  essa  fondò  41  suo  sistema  dottri- 
nario, dal  quale  mossero,  dopo  di  lui,  e  Platone  e  gli 
altri,  così  dobbiamo  pur  esaminare  le  ragioni  del  poeta 
epicureo,  che  venivano,  in  sostanza,  a  battere  in  breccia 
ed  a  scalzare  uno  dei  capisaldi  della  filosofia  pitagorica. 
Gli  argomenti  che  Lucrezio  adduce  contro  1'  opinione 
della  preesistenza  dell'anima  sono  quattro,  svolti  in  quattro 
successivi  e  continui  gruppi  di  versi,  e  rincalzati  poi  — 
dopo  conchiusa  questa  parte  fondamentale  della  sua  trat- 
tazione —  nella  meravigliosa  invettiva  contro  il  timore 
della  morte. 

a)  Il  primo  argomento  (vv.  668-676)  è  desunto  dalla 
mancanza  in  noi  di  ogni  ricordo  dell'  esistenza  anteriore 
alla  nascita  (1):  se  la  nostra  anima  è  esistita  un'altra  volta 
e  quindi  è  entrata  nel  corpo  al  momento  della  nascita  (2), 
perche  non  siamo  assolutamente  in  grado  di  ricordarci 
del  tempo    trascorso  e  non    serbiamo    in  noi  qualche  ri- 


(1)  C  è  bisogno  di  rammentare  che  appunto  ctalla  realtà  di  tale 
ricordanza  —  rappresentata  non  già  dalla  reminiscenza  di  parti- 
colari di  una  anteriore  vita  terrena,  ma  dalla  inoppugnabile  e  in- 
controvertibile esistenza  delle  ideo  innato  nella  mente  di  ciascun 
uomo  —  Platone  deduceva  la  necessità  d'un'anteriore  esistenza 
dell'  anima  e  quindi  della  sua  immortalità  ?  (Yedunsi  nel  Fedone 
ì  capitoli  l8-22ì. 

2)  E,  come  si  vede,  io  svolgiiuento  di  quel  che  ha  accennato 
nel  verso  113  del  proemio  al  primo  canto. 


—  81  — 

membranza  delle  nostre  azioni  passate  ?  Dunque  l'anima 
ha  mutato  così  da  potere  perdere  interamente  la  facoltà 
di  ricordare  le  proprie  vicende  ?  Se  così  è,  questo  non 
differisce  molto  dalla  morte  ;  bisogna  quindi  concludere 
che  r  anima  di  prima  è  morta  e  che  quella  che  abbiamo 
in  questa  vita  è  stata  creata  proprio  in  questa  vita  (1). 
Ora  si  noti  che  il  poeta  non  trae,  dalla  mancanza  della 
memoria  del  passato,  la  conclusione  che  sembrerebbe  le- 
gittima :  «  dunque  1'  anima  non  è  preesistita  »  ;  ma  dice 
soltanto  che  —  dato  pure  che  potesse  essere  material- 
mente esistita  —  il  fatto  di  non  serbar  coscienza  del 
passato  dimostra  che  ora  essa  ha  cambiato  personalità 
(personalità  infatti  non  è  altro  che  persistere  di  una  me- 
desima coscienza),  cioè  che  è  morta  da  quella  che  era,  per 
diventare  un'altra. 

Praeterea  si  immortalis  natura  animai 
constai  et  in  corpus  nascentibus  insinuatur, 

670  cur  super  ante  actam  aetatem  meminisse  nequimus 

nec  vestigia  gestarum  rerum  ulla  tenem^us  ? 
nani  si  tanto  operest  animi  mutata  potestas, 
omnis  ut  actarum  exciderit  retinentia  rerum, 
non,  ut  opinor,  id  a  lete  iam  longiter  errai; 

675  quajjropter  fateare  necessest  quae  fuii  ante 

interasse,  et  quae  nune  est  nunc  esse  creaiam. 

Insomma  in  questi  versi  non  si  nega  la  possibilità  che 
siano  preesistiti,  e  quindi  che  esistano  in  eterno  i  com- 
ponenti materiali  dell'  anima,  ma  bensì  si   nega  il  persi- 


fl)  Su  questo  argomeDto  della  mancanza  di  ogni  ricordo,  come 
vedremo  fra  poco,  Lucrezio  ritorna  ancora,  prima  con  un  semplice 
cenno  (al  v.  766)  e  poi  più  innanzi  (vv.  845  e  seguenti)  accennan- 
do alla  possibilità  della  rinascita  dell'anima  e  del  corpo. 


—  82   — 

stere  in  eterno  della  coscienza,  che,  per  Epicuro,  deriva 
dai  moti  atomici  dei  quattro  componenti  dell'anima. 

D'altra  parte,  continua  il  poeta,  se  1'  energia  vitale  del- 
l'anima entra  in  noi  quando,  formato  il  corpo,  usciamo 
alla  luce  del  mondo,  essa  dovrebbe  vivere  non  come  fa  — 
che  si  vede  che  è  cresciuta  col  corpo  e  con  le  membra 
immedesimandosi  nel  sangue,  —  ma  dovrebbe,  non  fusa 
col  corpo,  vivere  a  sé  come  in  una  prigione.  Ora,  poiché 
avviene  proprio  il  contrario  — ■  e  cioè  1'  anima  é  diffusa 
per  tutto  il  corpo,  sì  che  ogni  parte  di  esso  sente,  e  cre- 
sce e  si  sviluppa  col  corpo  stesso  —  segno  é  che  non  é 
entrata  in  esso  perfetta,  e  che,  partecipando  delle  vicende 
del  corpo,  nasce  (e  quindi  anche  muore)  con  esso.  E  am- 
messo pure  che,  •  perfetta  e  in  sé  raccolta  all'atto  di  en- 
trare nel  corpo,  si  diffondesse  poi  subito  in  ogni  sua  parte 
appena  entrata,  questo  equivarrebbe  a  uno  scomporsi  e 
dissolversi  per  cambiar  natura:  insomma  equivarrebbe  a 
un  morire  per  rinascere  tosto  altra  da  quella  di  prima 
(vv.  677-710). 

b)  Un  altro  argomento  pare  al  poeta  di  poter  trarre 
dal  fatto  del  formarsi  dei  vermi  onde  pullula  il  cadavere 
in  putrefazione.  Se  l'anima  che  li  avviva  non  è  costitui- 
ta, come  pensava  Epicuro,  da  residui  frammentari  dell'ani- 
ma primitiva,  (il  che  dimostra  che  l'anima  stessa,  potendo 
frazionarsi,  é  peritura  e  mortale)  bisognerebbe  ammette- 
re —  ed  eccoci  ancora  alla  metempsicosi  —  che  nei  vermi 
si  incarnino  anime  preesistenti;  nel  qual  caso,  lasciando 
pure  a  parte  la  stranezza  che  mille  subentrino  là  di  dove 
una  è  partita,  o  esse  stesse  si  formano  il  proprio  corpo 
dalla  materia  putrescente,  o  lo  trovano  già  fatto  e  vi  en- 
trano ;  ma  nella  prima  ipotesi  non  si  capirebbe  perchè, 
piuttosto  che  restar  libere,  dovessero  affaticarsi  spontanea- 


-  83  — 

mente  a  rinchiudersi  in  un  carcere  corporeo,  dove  neces- 
sariamente dovranno  soffrire;  nella  seconda  varrebbe  il 
ragionamento  fatto  precedentemente  che  un'  anima  non 
può  entrare,  intrecciarsi  ed  espandersi  in  un  corpo  già 
formato  senza  snaturarsi  (vv.  711-738). 

720  quod  si  forte  animus  extrinsecus  insinuari 

vermibus  et  privas  in  corpora  posse  venire 
eredis,  nec  reputas  cur  milia  multa  animarum 
conveniant  unde  una  recesserit,  hoc  tamen  est  ut 
quaerendum,  videatur  et  in  discrimen  agendum, 

725  utrum  tandem  animae  venentur  semina  quaeque 

vermiculorum  ipsaeque  sibi  fabricentur  ubi  sint, 
an  quasi  corporibus  perfectis  insinuentur . 
at  neque  cur  faciant  ipsae  quareve  laborent 
dicere  suppeditat,  neque  enim,  sine  corpore  cum  sunt, 

730  sollicitae  volitant  morbis  alguque  fameque  : 

corpus  enim  magis  his  vitiis  adfine  laborat, 
et  mala  multa  animus  contage  fungitur  eius. 
sed  tamen  his  esto  quamvis  facere  utile  corpus 
cui  subeant:  at  qua  possint  via  nulla  videtur. 

735  haut  igitur  faciunt  animae  sibi  corpora  et  artus, 

nec  tamen  est  uiqui  perfectis  insinuentur 
corporibus:  neque  enim  poterunt  suptiliter  esse 
conexae,  neque  consensus  contagia  fient. 

c)  In  terzo  luogo,  se  veramente  ci  fosse  la  metem- 
psicosi, perchè  non  dovrebbe,  nelle  sue  peregrinazioni, 
un'anima  di  leone,  per  esempio,  capitare  in  un  cervo  o 
quella  d'un  avoltoio  in  una  colomba,  e  viceversa,  per 
modo  che  ne  nascessero  leoni  e  avoltoi  timidi,  cervi  e 
colombe  feroci  ?  Invece  i  caratteri  psichici  delle  singole 
specie  si  ereditano  e  sono  costanti  in  esse  al  pari  dei 
caratteri  fisici.  Se  l'anima  immortale  mutasse  solo  i  corpi, 
questa  costanza  non  vi  sarebbe  o,  almeno,  soffrirebbe 
molte  eccezioni.  E  se,  d'altra  parte  è  1'  anima   che,    mu- 


—  84  — 

tando  corpo,  muta  carattere,  allora  vuol  dire  che  essa  non 
rimane  la  stessa,  che  cambia  natura,  insomma  che  muore 
per  rinascere  un'altra  (vv.  789-751): 

Dejiiqiie  cur  acris  violentia  triste  leonum 
740  seminium  sequitur,  volpes  dolus,  et  fuga  cervi» 

a  patribus  datur  et  patribus  pavor  incitai  artus^ 
et  iam  cetera  de  genere  hoc,  cur  omnia  membris 
ex  ineunte  aevo,  generascunt  ingenìoque, 
si  non,  certa  suo  quia  serrane  seminioque 
745  vis  aniìiti  pariter  crescit  cum  corpore  toto  ? 

quod  si  immortalis  foret  et  mutare  soler  et 
corpora,  permixtis  anirnantes  moribus  essent, 
eff'ugeret  canis  Hyrcano  de  semine  saepe 
cornigeri  incursum  cervi,   tremeretque  per  auras 
750  aeris  accipiter  fugiens  veniente   columba, 

desiperentque  homines,  saperent  fera  saecla  ferarum. 
illud  enini  falsa  fertur  ratione,  quod  aiunt 
immortalem  animam  mutato  corpore  flecti  : 
quod  m^utatur  enim  dissolvitur,  interit  ergo. 

Se  poi  si  volesse  invece  sostenere  la  metempsicosi  solo 
entro  i  limiti  di  ciascuna  specie,  e  dire  che  un'  anima 
umana  non  s'incarna  successivamente  in  altro  che  in  uomi- 
ni (1),  allora  si  potrebbe  sempre  chiedere:  perchè  può,  di 


(1)  Così,  a  mio  avviso,  svolse  il  concetto  delle  trasmigrazioni 
deli'  anima  la  scuola  pitagorica:  limitandolo  cioè  entro  i  confini 
della  specie  umana,  die  se  quasi  tutte  le  testimonianze  attribui- 
scono ai  seguaci  di  Pitagora  1'  interpretazione  più  lata  a  cui  Lu- 
crezio accenna  nei  versi  or  ora  citati,  tali  testimonianze  si  può 
dimostrare  che  o  sono  esagerate  per  amor  di  polemica  o  di  satira, 
0  sono  errate  per  confusione  della  metempsicosi  pitagorica  con 
quella  egiziana  od  orientale  in  genere,  o,  in  qualche  caso,  possono 
spiegarsi  dando  un  signifiv,ato  simbolico  al  passaggio  dell'ani- 
ma nel  corpo  di  un  animale.  In  tale  categoria  rientra,  per  me,  la 
testimonianza  di  Ennio  che,  nel  sogno  già  citato  degli  Annali,  fa- 


—  85  — 

saggia  che  era,  diventare  sciocca,  dal  momento  che  non 
s'  è  mai  visto  un  fanciullo  assennato  né  un  piccolo  pu- 
ledro esperto  come  un  robusto  cavallo  ?  Forse  che  la  men- 
te in  un  corpo  tenero,  si  fa  tenera  anch'  essa  ?  Allora 
dunque  non  è  immortale  se,  trasmutando  corpo,  perde  in 
tal  modo  la  vita  e  il  sentimento  di  prima  (vv.  758-766): 

Sin  animas  hominum  dicent  in  corpora  sem,per 
ire  humana,  tamen  quaerain  cur  e  sapienti 
760  stulta  qiieat  fieri,  nec  prudens  sit  puer  ullus, 

762  nec  tam  doctus  equae  pullus  quam  fortis  el^ui  vis  ? 

scilicet,  iìi  tenero  tenerascere  eorpore  ìnentem 
confugient,  quod  si  iavi  fìt,  fateare   necesscst 
765  mortalem  esse  animam,  quoniam  mutata  per   artus 

tcmto  opere  amittit  vitam  sensumque  priorem. 

d)  Infine  —  e  siamo  così  alla  chiusa,  di  sapore 
umoristico,  di  questa  serie  di  argomentazioni  contro  la 
preesistenza  e  la  metempsicosi  —  non  è  cosa  oltremodo 
ridicola,  dice  il  poeta,  che  ad  ogni  accoppiamento  e  ad 
ogni  parto  di  animali  stiano  lì  pronte  delle  anime,  e,  in 
numero  innumerevole,  immortali  aspettino  membra  mor- 
tali, e  lottino  e  gareggino  a  chi  prima  e  di  preferenza 
riesca  a  penetrare  ?  Se  pure  non  e'  è  fra  le  anime  il  patto 
che  chi  prima  arriva  a  volo  entri  per  prima  e  cosi  non 
ci  sia  fra  loro  nessuna  lotta  violenta  (vv.  774-781)  : 

Denique  conubia  ad  Veneris  partusque  ferarum 
llb  esse  animas  praesto  deridieulum  esse  videtur, 

expeetare  immortalis  niortalia  membra 
innumero  numero,  ceriareque  praeproperanter 


cendo  esporre  dall'  anima  di  Omero  la  dottrina  di  Pitagora,  lo  fa 
anche  dire  d'essere  divenuta  un  pavone  («  pavone  »  qui  significa 
«  cielo  »).  Perciò  credo  prettamente  pitagorica,  e  non  stoica,  la 
dottrina  della  metempsicosi  che  svolge  Virgilio  nel  sesto  dell'Eneide. 


—  86   — 

inter  se  quae  prima  potissimaque  insinuetur  ; 
si  non  forte  ita  sunt  animarum  foedera  pacta, 
780  ut,  quae  prima  volans  advenerit,  insinuetur 

prima,  neque  inter  se  contendant  virihus  hilum. 

6.  Qui  terminano  gli  accenni  che  Lucrezio  fa  alle  cre- 
denze e  dottrine  pitagoriche  :  ma  poiché  subito  dopo,  in 
quella  parte  di  questo  stesso  terzo  canto  in  cui  si  dimo- 
stra la  vanità  del  timore  della  morte,  è  formulata  l' ipo- 
tesi della  resurrezione  delia  medesima  anima  nel  mede- 
simo corpo,  e  tale  ipotesi -è  stata  da  qualcuno  identificata 
con  V  analoga  dottrina  pitagorico-stoica  della  palingenesi, 
dobbiamo  esaminare  anche  questo  passo. 

Continuata  e  compiuta  dunque  la  dimostrazione  della 
mortalità  dell'anima,  il  poeta  ne  trae  subito  la  legittima 
conseguenza  che  la  morte  non  ci  riguarda  per  nulla  (v.  828- 
829).  Come  non  abbiamo  sentito  niente  di  ciò  che  è  acca- 
duto prima  della  nostra  nascita  (perchè  l' anima  nostra 
non  esisteva),  così  non  sentiremo  nulla  dopo  morti,  per- 
chè una  volta  avvenuto  il  distacco  fra  corpo  ed  anima 
(e  la  conseguente  dissoluzione  di  questa)  noi,  che  esistia- 
mo solo  per  l'intima  unione  di  entrambi,  non  esisteremo 
e  quindi  non  sentiremo  più  (vv.  830-840).  E  giunto  a 
questo  punto  conclusivo  il  poeta  avrebbe  potuto  fermarsi, 
come  infatti,  sembra,  si  fermò  in  una  prima  redazione 
del  poema,  nella  quale  seguivano  a  questa  dimostrazione 
i  versi  860-867  che  la  rincalzano.  Senonchè  piti  tardi, 
tornandovi  sopra  fece  un'aggiunta  in  cui  è  formulata  la 
suddetta  ipotesi,  che  dobbiamo  appunto  esaminare  (1). 


(1)  Accetto  senz'  altro  le  conclusioni  del  Giussani,  sì  per  l' in- 
terpretazione dei  vv.  860-867,  sì  per  la  composizione  di  tutto  que- 
sto interessante  brano.  Rimando  perciò  il  lettore  all'opera  già  ci- 
tata, voi.  Ili,  pp.  106-107. 


—  87  — 

Poiché  in  essa  è  detto  anzitutto  che  se  pura,  dopo 
avvenuta  la  separazione,  l'aDima  avesse  facoltà  di  sentire, 
anche  in  tal  caso  la  cosa  non  riguarderebbe  punto  noi, 
che  siamo  solo  in  quanto  anima  e  corpo  sono  stretti  in 
un'esistenza  unica  (vv.  841-844). 

La  quale  ipotesi  peraltro  (che  1'  anima  senta  staccata 
dal  corpo)  s'intende  bene  da  tutto  quel  che  il  poeta  ha 
detto  precedentemente,  che  non  era  assolutamente  ammis- 
sibile (1),  perchè  fuori  del  corpo  l'anima  neppure  esiste, 
consistendo  la  morte,  per  lui,  nel  rompersi  del  legame 
tra  corpo  ed  anima  e  nell'immediato  dissiparsi  degli  ato- 
mi di  questa,  appena  rimasta  priva  del  suo  coibente. 

Ma  vi  era  però  un'altra  ipotesi,  la  quale  per  di  più 
poteva  apparire  ad  alcuno  non  del  tutto  in  contrasto  — 
come  la  precedente  —  con  la  dottrina  epicurea  ;  l'ipotesi 
cioè  di  un  possibile  ricrearsi  materialmente  identico  del 
nostro  essere,  anima  e  corpo.  Anche  in -questo  caso  però 
la  morte  non  ci  riguarderebbe  affatto  per  l' interruzione 
della  coscienza  personale  fra  le  due  esistenze.  E  tale  ipo- 
tesi appunto  il  poeta  svolge  nei  versi  845  e  seguenti,  in 
questo  modo  : 


(1)  Il  Giussani  ha  creduto  invece  di  poter  sostenere  che  l'ipotesi, 
per  quanto  strana,  non  è  però  in  contraddizione  assoluta  —  in  a- 
stratto  —  con  la  teoria  epicurea.  Ora  a  me  le  sue  ragioni  non 
sembrano  buone,  e  perciò  credo  piuttosto  che  qui  Lucrezio  abbia 
formulata  un'  ipotesi  che  è  interamente  al  di  fuori  della  dottrina 
d'  Epicuro  :  come  poteva  infatti  pensare  che  una  qualsiasi  persi- 
stenza del  sentire  dell'  anima  fosse  possibile,  dopo  il  distacco  dal 
corpo,  se  per  lui  l'anima  non  poteva  assolutamente  esistere  fuori 
del  corpo  che  la  tiene  unita  ?  Perchè  dunque  Lucrezio  ha  formulata 
l'inverosimile  ipotesi  ?  Forse  unicamente  come  ipotesi  di  transizio- 
ne alla  successiva;  se  pure  non  si  tratta  qui  di  un'argomentazione 
per  absurdum. 


—  88  — 

845  iVec,  si  materiem  nostram  collegerit  aetas 

post  ohitum  rursumque  redegerit  ut  sita  nunc  est, 
atque  iterum  nobis  fuerint  data  lumina  vitac, 
pertineat  quiequam  tamen  ad  nos  id  quoque  factum, 
interrupta  semel  cum,  sit  repetentia  nostri; 

850  et  nune  nil  ad  nos  de  nobis  attinet,  ante 

qui  fuimus,  neque  iain  de  illis  nos  adficit  angor, 
nam  cum  respicias  immensi  temporis  omne 
praeteritum  spatium,,  tum.  motus  m,ateriai 
multimodis  quam  sint,  facile  hoc  adcredere  possis, 

855  semina  saepe  in  eodem,  ut  nunc  sunt,   ordine  posta 

haee  eadem,  quibus  e  nunc  nos  sumus,  ante  fuisse  : 
nee  m,emori  tamen  id  quimus  reprehendere  mente  : 
inter  enim  iectast  vitai  pausa,  vageque 
deerrarunt  passim  m,otus  ab  sensibus  omnes. 

Ora  a  prima .  vista  questa  ipotesi  potrebbe  apparire 
identica  a  quella  già  formulata  nei  versi  668-676,  dove 
si  fa  pur  cenno  della  interruzione  della  coscienza.  Tanto 
che  si  è  voluto  da  alcuno  vedere  in  questi  versi  un'allu- 
sione alla  dottrina  dei  Genetliaci,  i  quali  credevano  che 
nello  spazio  di  440  anni  il  medesimo  corpo  e  la  mede- 
sima anima  rivivessero  insieme  (1)  e  ciò  dipendentemente 
dalla  dottrina  della  palingenesi  universale  che  era  propria 
dei  Pitagorici  e  degli  Stoici.  Ma  in  verità  qui  non  si 
tratta  punto  di  questo,  poiché  mentre  in  quei  versi  si 
parla  del  rinascere  della  medesima  anima  in  nuovi  corpi, 
e  nella  dottrina  dei  Genetliaci  si  parla  del  ricongiungersi 
dell'identica  anima  e  dell'identico  corpo  (nell'  un  caso  e 
neir  altro  però  1'  anima  non  ha  mai  perduto  la  sua  perso- 
nalità),   qui    invece    si    considera  il  caso  di  una    duplice 


(1)  Il  primo  a  pensar  questo  è  stato  l'editore  inglese  di  Lucre- 
zio, il  Munro,  il  quale  cita  il  passo  di  S.  Agostino  {De  civ.  Dei 
XXII,  28)  che  ho  già  riportato  al  principio  del  Gap.  III. 


—  89  — 

creazione  ex  novo  per  accozzamento  degli  stessi  atomi, 
cioè  si  considera  la  possibilità  della  rinascita  d'  un  iden- 
tico aggregato  atomico  corporeo-psichico  nel  rispetto  della 
teoria  epicurea.  Che  poi  ciò  fosse  legittimo  e  logico  è 
un'altra  quistione  (1);  ma  sta  di  fatto  che  Lucrezio  for- 
mula r  ipotesi  secondo  la  logica  del  sistema  di   Epicuro. 

7.  Cosicché,  per  riassumere  e  concludere,  abbiamo  ve- 
duto che  il  nostro  poeta  accenna  a  quattro  diverse  opi- 
nioni intorno  all'anima:  1*)  che  essa  non  esiste  a  so,  ma 
risulta  dall'  armonia  delle  funzioni  organiche  (teoria  di 
Aristosseno  e  Dicearco);  2*)  che  essa  nasce  e  si  distrug- 
ge col  corpo,  ma  ha  una  propria  ubicazione  nell'organi- 
smo umano  (nel  petto)  e  risulta  di  quattro  elementi  (moto, 
caldo,  freddo,  sostanza  atomica  sensoriale)  (teoria  epicu- 
rea); 3*)  che  essa  sopravvive  al  corpo  e  scende  nell'Ade, 
donde  può  uscire  per  apparire  agli  uomini  (credenza 
popolare);  4^)  che  essa,  non  solo  sopravvive  al  corpo,  ma 
è  preesistita  ad  esso  e  può  incarnarsi  più  volte.  E  abbia- 
mo veduto  come  quest'ultima  dottrina,  della  quale  abbia- 
mo fatto  particolare  esame,  fu  intesa  e  interpretata  in 
modi  diversi:  a)  l'anima  immortale  passa  attraverso  mol- 
teplici esistenze,  cambiando  specie  animale  (teoria  egiziana); 
h)  l'anima  immortale  passa  attraverso  molteplici  esistenze, 
ma  entro  i  limiti  della  propria  specie  e  conservando  la 
propria  identità  personale  (teoria  pitagorica-platonica-stoica); 
e)  l'anima  può  bensì  rinascere,  magari  nell'identico   corpo. 


(1)  L'ha  posta  con  molta  sottigliezza  il  Giussani  {op.  cit.  pa- 
gina 105-106).  Ma  si  veda  anche  quello  che  osserva  in  prop9SÌto  il 
Pascal  nel  suo  scritto  «  Morte  e  resurrezione  in  Luerexio  »  pub- 
blicata nella  Riv.  di  Filologia  classica  dell'ottobre  1904  e  ristam- 
pato nel  volume  Oraecia  capta,  pag.  67  e  seguenti. 


90 


senza  però  conservare  la  propria  identità  personale  (ipo- 
tesi (1)  epicurea-lucreziana). 

La  teoria  b  poi  alla  sua  volta  fu  diversamente  svilup- 
pata, poiché  vi  era  chi  sosteneva  che  l' anima  potesse 
bensì  reincarnarsi,  ma  in  corpi  sempre  nuovi;  chi  invece 
che  si  reincarnasse  nel  medesimo  corpo,  e  ciò  in  atti- 
nenza a  una  dottrina  più  generale,  anzi  universale,  se- 
condo la  quale  non  pur  l' anima  e  il  corpo  umano  anda- 
vano soggetti  a  periodici  ritorni  alla  vita,  ma  tutto  l'uni- 
verso si  distruggeva  e  si  ricreava  perfettamente  identico 
(pitagorici,  stoici  e  genetliaci). 

Con  questa  teoria  però  non  veniva  distrutta  la  credenza 
nell'Ade  o  Averne  come  luogo  di  espiazione,  poiché,  se 
anche  l'anima  riviveva,  scendeva  all'  Ade  un  suo  doppio 
(eidolon,  simulacrum)  che  poteva  anche  riuscirne  (e  ve- 
rosimilmente si  distruggeva  nell'atto  che  l'anima  tornava 
a  nuova  vita  terrena)  (Ennio). 

Quanto  alla  teoria  pitagorica  in  particolare,  abbiamo 
veduto  che  Lucrezio  ne  parla,  in  sostanza,  in  due  luoghi: 
1**)  nel  proemio  del  primo  libro  (vv.  112-126)  ;  2")  nella 
confutazione  dell'ipotesi  della  preesistenza  dell'anima  nel 
terzo  libro  (vv.  668-676,  720-738,  739-757,  758-766,  774- 
781);  e  che  non  debbono  ritenersi  affatto  come  riferi- 
menti a  Pitagora  né  il  cenno  alla  dottrina  dell'  anima- 
armonia  (e.  Ili,  vv.  98-135)  né  l'ipotesi  della  rinascita, 
come  è  formulata  nei  vv.  845-859  dello  stesso  libro. 


(1)  Ipotesi  la  credo,  e  non  vera  teoria  di  Epicuro  ;  che,  in  so- 
stanza, Lucrezio  la  formula  come  tale,  per  potere  opporre  l'  argo- 
mento per  lui  capitale  della  interruzione  della  coscienza  anche  a 
coloro  che,  dal  punto  di  vista  della  sua  stessa  dottrina,  avessero 
potuto  pensare  ad  una  eventuale  rinascita  dell'  anima  col  medesi- 
mo corpo. 


II. 


Frammenti  della  dottrina  di  Pitagora  desunti  dalle  opere 
di  Marco  Terenzio  Varrone. 

1.  M.  Terenzio  Varrone  :  suoi  scritti  pitagorici  e  sua  conoscenza 
del  Pitagorismo.  —  2.  Frammenti  della  dottrina  di  Pitagora  de- 
sunti dalle  opere  di  Varrone:  a)  La  leoria  dei  numeri  e  sue  ap- 
plicazioni. 6)  Pitagora  e  i  due  fabbri,  e)  La  teoria  degli  accordi 
musicali,  d)  La  stessa  applicata  al  corso  dei  pianeti:  l'armonia 
delle  sfere  e  del  mondo,  e)  Sua  curiosa  estensione  al  decorso  del 
puerperio,  f)  I  numeri  e  la  musica  in  relazione  con  le  pratiche 
della  vita.  —  3.  Altri  accenni  alla  dottrina  pitagorica:  i  quattro 
aspetti  delle  cose  e  i  quattro  elementi  ;  magia  ;  metempsicosi;  il 
divieto  di  mangiar  fave.  ~  4.  Varrone  e  gli  altri  scrittori  del 
primo  secolo  av.  Cristo. 


1.  —  Veri  e  propri  trattati  d' indole  pitagorica  sappia- 
mo con  certezza  che  compose  Marco  Terenzio  Varro- 
ne di  Rieti,  il  quale,  nato  nel  116  av.  Cr. ,  morì  quasi 
nonagenario  nel  27.  Eruditissimo  in  ogni  campo  del  sa- 
pere, fu,  appunto  per  questo,  incaricato  da  Giulio  Cesare 
di  mettere  insieme  ed  ordinare  in  Roma  una  grande  bi- 
blioteca, specialmente  di  opere  latine  e  greche  ;  ciò  che 
gli  diede  agio  di  allargare  e  approfondire  ancor  più  le 
sue  conoscenze   enciclopediche,    delle    quali  si  valse  per 


—  92  - 

comporre  innumerevoli  opere,  trattando  dei  più  svariati 
argomenti,  occupandosi  d' ogni  genere  di  ricerche,  racco- 
gliendo con  cura  particolare  tutte  le  tradizioni  sacre  e 
profane  della  patria,  e  dettando  pure^  a  quel  che  ci  ha 
lasciato  scritto  Quintiliano,  un'  opera  filosofica  in  versi 
{praecepta  sapientiae  versibus  tradidit)  (1).  Della  sua 
prodigiosa  attività  e  di  una  ricchissima  messe  di  opere 
letterarie,  storiche,  filosofiche,  scientifiche  —  si  ricordano 
di  lui  non  meno  di  74  opere  in  620  libri  —  non  ci  re- 
stano purtroppo  che  scarsi  avanzi  (  poco  più  di  nove  li- 
bri )  e  numerose  citazioni,  massime  dei  Santi  Padri,  che 
da  Varrone  attinsero  largamente  notizie  d'  ogni  sorta.  Sì 
che  siamo  quasi  all'oscuro  sul  contenuto  della  maggior 
parte  dei  suoi  scritti,  di  molti  dei  quali  ci  resta  appena 
appena  il  titolo.  Così  dei  suoi  famosi  Logistorici^  che  era- 
no in  76  libri,  e  contenevano  discussioni  di  argomento 
filosofico  con  miscela  di  notizie  storiche,  conosciamo  i  ti- 
toli di  alcuni,  nei  quali  si  doveva  trattare  più  o  meno 
largamente  di  filosofia  pitagorica  :  tali  sono  1'  Attico  o  dei 
numeri  (Atticus  sive  de  nunieris)  il  Tuberone  o  dell'  ori- 
gine umana  {Tubero  seii  de  origine  humana)  il  Gallo  o 
delle  meraviglie  {Gallus  de  admiraìidis),  il  libro  de  sae- 
culis  e  r  altro  de  philosophia;  ma  quale  ne  fosse  preci- 
samente il  contenuto  non  sappiamo.  Così,  d'  altra  parte, 
ci  è  rimasta  notizia  d'  un'  opera  in  nove  libri  intorno  ai 
principii  dei  numeri  (de  principiis  numerorum),  la  quale, 
messa  accanto    sìiV  Attico  già    citato  e  alla  testimonianza 


(1)  intorno  a  Varrone  si  veda  l'opera  di  Gaston  Boissier,  Etude 
sur  la  vie  et  les  ouvrages  de  Varron.  Per  i  libri  Antiquitatum 
rerum  divinarum  pubblicati  nel  47  av.  Cr.  si  consulti  lo  studio 
dall'  Agahd  nei  JahrhUcher  f.  class.  Philologie^  24*©^  Supplement- 
band  I  Heft,  Leipzig,  1898. 


—  93  — 

di  Gellio  (Notti  Attiche  3,10),  che  riferisce  come  Varrone 
trattò  in  maniera  oltremodo  compiuta  del  numero  sette- 
nario (  Varrò  de  numero  septenario  scripsit  admodum 
conquisite)^  prova  che  il  grande  reatino  dovette  conoscere 
profondamente  la  teoria  pitagorica  e  specialmente  la  dot- 
trina fondamentale  dei  numeri  (1). 

2.  —  È  veramente  un  peccato  che  di  tali  opere  non 
resti  quasi  nulla,  giacché  da  esse,  avremmo  forse  potuto 
trarre  molta  luce  a  chiarimento  di  questa  famosa  dottrina, 
che  era  il  pernio  della  speculazione  metafisica  e  simbolica 
di  Pitagora.  Qualche  passo  tuttavia  che  ce  ne  è  rimasto, 
vale  a  dimostrarci  che  larghe  e  geniali  applicazioni  potè 
avere  per  opera  del  Maestro  e  dei  suoi  seguaci  la  teoria 
stessa,  che  fu  feconda  di  eccellenti  e  mirabili  scoperte 
nel  campo  delle  scienze  sperimentali. 

a)  Poiché  le  investigazioni  matematiche  dei  Pitago- 
rici non  furono  soltanto  rivolte  alla  ricerca  delle  proprie- 
tà dei  numeri,  ma  anche  fuori  dei  campi  dell'  aritmetica 
e  della  geometria,  trovarono  le  più  nuove  e  piìi  larghe 
applicazioni  nel  vasto  e  infinito  campo  dei  fenomeni  na- 
turali. 

Una  delle  prime  e  forse  la  più  importante  scoperta  di 
Pitagora  fu  dovuta  a  una  di  quelle  felici  intuizioni  che, 
in  ogni  tempo,  sono  state  il  privilegio  del  genio;  intendo 
parlare  della  determinazione  matematica  degli  accordi,  che 
poi  dalla  musica,  applicata  a  particolari  fatti  della  natura, 


(1)  Già  il  Kathgeber  {Orossgriechenland  unti  Pythagoras^  Gotha 
1855,  p.  423)  scrisse  :  «  Dem  M.  Terentius  Varrò  aus  Reato,  der 
aufgeklàrt  iiber  Pyihagoras  war,  bot  sein  Werk  hobdomades  Gele- 
genheit  zur  Erwàhnung  dar  ». 


94 


portò  a  molte  curiose  osservazioni  come  quelle  che  ri- 
guardano le  due  diverse  specie  di  parto  (a  termine  e 
settimino),  e,  applicata  all'  astronomia,  portò  alla  teorica 
dell'  armonia  delle  sfere  e  alla  concezione  dell'  universo 
come  di  un  tutto  perfettamente  armonico  (kósmos). 

h)  Fu  un  caso  che  fece  volgere  la  mente  speculativa 
di  Pitagora  alla  ricerca  della  teoria  matematica  degli  ac- 
cordi musicali,  la  cui  determinazione,  prima  di  lui,  era 
affidata  semplicemente  all'orecchio  degl'intenditori.  Pas- 
sando un  giorno  per  istrada  accanìo  a  due  fabbri  che 
martellavano  alternatamente  un  ferro  sopra  l' incudine, 
egli  fu  colpito  dai  suoni  cadenzati  e  armonici  dei  mar- 
telli :  quelli  acuti  dell'  uno  rispondevano  così  giustamente 
a  quelli  gravi  dell'  altro,  che,  entrando  ritmicamente  nel 
suo  cervello,  di  vari  colpi  ne  nasceva  un  solo  accordo. 
Ebbe  così  la  sensazione  materiale  di  un  fenomeno,  intorno 
al  quale  già  da  qualche  tempo  lavorava  col  pensiero,  e 
non  si  lasciò  sfuggire  1'  occasione  per  chiarirlo.  Avvici- 
natosi ai  fabbri,  osserva  più  da  presso  il  loro  lavoro  e 
nota  i  suoni  che  erano  prodotti  dai  colpi  di  ciascuno. 
Credendo  che  la  loro  diversità  di  tono  dipendesse  dalla 
diversa  forza  degli  operai,  fa  che  essi  si  scambino  i  mar- 
telli :  e  si  accorge  che  invece  essa  dipende  da  questi. 
Allora  volse  tutta  la  sua  attenzione  a  determinare  con 
esattezza  i  due  pesi  e  la  loro  differenza,  poi  fece  fare  altri 
martelli  più  o  meno  pesanti  di  quei  due;  ma  dai  loro  colpi 
nascevano  suoni  diversi  da  quei  primi  e  per  di  più  non 
intonati. 

e)  In  tal  modo  capì  che  l'accordo  dei  suoni  doveva 
nascere  da  un  determinato  rapporto  matematico  dei  pesi, 
che  cercò  subito  di  calcolare;  trovati  che  ebbe  tutti  i  nu- 
meri che  corrispondevano  ai  pesi  dai  quali  nascevano  suo- 


—  95  — 

ni  intonati,  passò  dai  martelli  alle  corde  musicali:  prese 
alcune  budello  di  pecora  o  nervi  di  bue  di  eguale  gros- 
sezza e  lunghezza,  facendole  tendere  per  mezzo  di  pesi 
proporzionati  a  quelli  di  cui  aveva  fatto  il  computo  e  de- 
terminato il  rapporto  coi  martelli  ;  fattele  risuonare  per 
mezzo  della  percussione,  non  solo  trovò  che  le  corde  tese 
da  pesi  uguali  vibravano  all'unisono  al  vibrare  di  una  sola 
di  esse,  ma  ottenne  altresì  suoni  armonici  precisamente 
dalle  corde  i  cui  pesi  stavano  in  rapporto  di  3:4  (  5tà 
xeaaàptóv  o  èrul  xpiTov  o  supe?^  tertium),  di  2  :  3  (5tà  Tcévxe) 
e  di  2:4  (5tà  Traawv).  Per  averne  poi  un'altra  riprova, 
ripetè  r  esperienza  con  alcuni  flauti,  in  questo  modo:  ne 
fece  preparare  quattro  di  calibro  uguale,  ma  di  lunghezza 
diversa,  il  primo,  poniamo,  lungo  6  pollici,  il  secondo  8 
il  terzo  9  e  il  quarto  12  ;  poi  facendoli  sonare  a  due  a 
due  trovò  che  il  primo  e  il  secondo  armonizzavano  in 
accordo  diatessdron  (6  :  8  =:  3  :  4);  il  primo  e  il  terzo  in 
accordo  diapènte  (6  :  9  =  2  :  3)  e  il  primo  e  il  quarto  in 
accordo  diapason  (  6  :  12  ^=i  2:4)  (1).  In  tal  modo  egli 
riuscì  molto  genialmente  alla  determinazione  matematica 
degli  accordi,  ciò  che  permise  in  seguito  di  estendere  e 
perfezionare  la  teoria  della  musica.  E  il  caso  che  lo  con- 
dusse alla  scoperta  non  è  molto  dissimile  da  quello  per 
il  quale  il  Galilei,  dall'osservazione  dei  movimenti  d'una 
lampada  in  chiesa,  fu  tratto  a  investigare  e  scoprire  le 
leggi  della  oscillazione  del  pendolo^  o  da  quello  in  virtù 
del  quale  Newton,  per  la  caduta  di  un  pomo,  arrivò  a 
scoprire  le  leggi    della    gravitazione    universale.    Tanto  è 


(1)  Vedasi  la  narrazione,  desunta  da  scritti  varroniani,  in  Ma- 
cROBio,  Gomm.  ad  Somnium  Scipionis,  II,  1,  9  e  Censorino,  de 
die  natali  10,7. 


96 


vero  che  il  genio  in  ogni  tempo  e  in  ogni  luogo  sa  trarre 
partito  dalle  cose  e  dai  fatti  più  semplici  ! 

d)  E  una  volta  messosi  su  questa  via,  che  mirabile 
serie  di  investigazioni  non  seppe  escogitare  quella  pro- 
fonda mente  speculativa,  che,  dall'osservazione  dì  due 
fabbri  all'incudine  arrivò  non  pure  alle  leggi  dell'armonia 
musicale,  ma  a  scoprire  1'  armonia  dei  cieli  e  di  tutto 
r  universo  !  Poiché  applicando  i  suoi  calcoli  al  corso  e 
alle  distanze  degli  astri  e  dei  pianeti  vaganti  fra  il  cielo 
e  la  terra  —  dai  quali,  secondo  lui,  era  regolato  il  corso 
della  vita  e  degli  eventi  umani  —  trovò  che  essi  avevano 
un  moto  euritmico,  e  intervalli  coi  rispondenti  ai  toni,  e 
suoni,  proporzionatamente  alla  loro  tonalità,  in  tale  accor- 
do, da  formare  una  dolcissima  armonia,  non  però  perce- 
pibile da  orecchio  umano,  per  la  sua  forza  che  supera  la 
facoltà  del  nostro  udito. 

Calcolate  infatti  le  distanze  dalla  Terra  a  ciascun  pia- 
neta in  stadi  italici  di  625  piedi,  trovò  che  dalla  Terra 
alla  Luna  ci  sono  circa  126000  stadi  ;  e  questo  rappre- 
sentava per  lui  r  intervallo  di  un  tono;  dalla  Luna  a  Mer- 
curio (Stilbon)  calcolò  una  distanza  uguale  alla  metà,  ossia 
un  semitono;  di  qui  a  Venere,  altrettanto;  da  Venere  fino 
al  Sole,  tre  volte  tanto,  come  a  dire  un  tono  e  mezzo.  Il 
Sole  quindi  distava,  secondo  lui,  dalla  Terra  tre  toni  e 
mezzo,  formando  così  con  essa  un  accordo  diapente  e 
dalla  Luna  due  toni  e  mezzo,  formando  un  accordo  diates- 
sdron.  Dal  Sole  poi  a  Marte  (Pyrois)  stimava  esserci  e- 
guale  distanza  che  dalla  Terra  alla  Luna,  ossia  un  tono; 
di  qui  a  Giove  (Phaeton),  la  metà,  ossia  un  semitono;  da 
Giove  a  Saturno,  altrettanto,  cioè  ancora  un  semitono;  di 
qui  finalmente  al  cielo  delle  stelle  fisse,  press'  a  poco  un 
mezzo  tono  ;  e   però    da  questo  cielo  al  Sole   poneva  un 


FIRMAMENTO 


Orbita  di 


•e 


Orbita  di 


•e 


Orbita  di 


Orbita  del 


Saturno 


Giove 


Mabte 


e- 


3 

Q. 

o 
o 
II» 

H 
K> 

0 

•d 

Wi 

0 
0 
0 


■O- 


SOLE 


Orbita  di 


■e 


Orbita  di 


Orbita  della 


1 


Vbnehe 


Mercurio 


■e- 


LUNA 


©■ 


0 
•0 

Wi 

0 
0 
0 


0 


TJSKBà, 


d> 


> 

3 

Q. 
•« 
O 

o 
tt) 


0 
•0 
u 
0 
0 
0 

cs 
i) 

0 


> 
»3 
o 
8 
ti 


0 
•0 
u 
0 
0 
0 


e 

0 


0      ^ 


7. 


—  98  — 

intervallo  diatessdron  (di  due  toni  e  mezzo),  e  dallo  stesso 
cielo  alla  Terra  un  intervallo  in  accordo  diapason  (di  sei 
toni)  (1). 

e)  Per  queste  osservazioni  e  scoperte  è  ben  naturale 
che  Pitagora  dovesse  convincersi  che  nell'  universo  tutto 
è  regolato  dal  numero,  ossia  che  nulla  vi  è  di  casuale,  di 
fortuito,  di  tumultuario,  ma  tutto  procede  da  leggi  divine 
e  da  una  determinata  e  determinabile  proporzione  (2).  Sic- 
ché dalla  musica  e  dall'  astronomia  passando,  per  esempio,  ' 
alla  tisiologia,  trov^ava  nel  decórso  del  puerperio  ancora 
una  riprova  della  regolarità  matematica  dei  fenomeni  na- 
turali. Orbene,  la  curiosa  applicazione  che  Pitagora  fece 
della  dottrina  dei  numeri  al  più  complesso  e  meraviglioso 
dei  processi  fisiologici,  cioè  alla  generazione,  era  appunto 
spiegata  in  una  delle  opere  varroniane  su  ricordate  (Tu- 
bero seu  de  origine  humana). 

Queir  acuto  e  profondo  osservatore  infatti  avendo  stu- 
diato accuratamente  il  decorso  delle  due  diverse  specie  di 
parto,  l'uno  di  sette  (settimino)  e  Y  altro  di  dieci  mesi 
lunari  (a  termine)  che  avvengono  rispettivamente  210  e 
274  giorni  dopo  la  concezione,  e  avendo  determinato  i. 
numeri  corrispondenti  ai  giorni  nei  quali,  per  ognuno  dei 
due  parti,  si  compiono  i  mutamenti  più  importanti  —  del 
seme  in  sangue,  del  sangue  in  carne,  della  carne  in  for- 
ma umana  —  trovò  che  il  parto  settimino  è  in  rapporto 
col  numero  6  e  quello  a  termine  col  numero  7;  non  solo, 
ma  che  i  nùmeri  suddetti,  tanto  nell'  uno  quanto  nell'al- 
tro, si  trovano  nello  stesso  rapporto  degli  accordi  musi- 
cali. Ed  ecco  in  qual  modo. 


(1)  Censorino,  de  die  natali,  cap.  13. 

(2)  Maorobio,   Oomm.  in  Somnium  Soip.  Il,  U,  7  e  4,  14. 


—  99  — 

Nel  parto  di  sette  mesi,  per  i  primi  sei  giorni  dopo  la 
fecondazione,  V  umore  che  è  contenuto  nell'  utero  è  di 
aspetto  lattiginoso  ;  nei  successivi  otto  giorni  è  di  aspetto 
sanguigno.  Il  rapporto  fra  6  e  8  è,  come  abbiamo  veduto 
più  volte,  quello  precisamente  che  forma  accordo  diatessd- 
ron  (6:8  =  3:4).  Nel  terzo  stadio  si  hanno  9  giorni, 
in  cui  comincia  la  trasformazione  dell'  umore  sanguigno 
in  carne  :  e  il  9  col  6  forma  il  secondo  accordo  diapènte 
(6:9  =  2:  3);  finalmente  nei  12  giorni  seguenti  si  ot- 
tiene il  corpo  già  formato  :  e  il  rapporto  di  12  con  6 
forma  il  terzo  accordo  diapason  (6  :  12  .^r:  1  :  2).  Questi 
quattro  numeri  6,  8,  9,  12  sommati  insieme  formano  35 
giorni,  i  quali  moltiplicati  per  6  danno  appunto  il  nu- 
mero totale  dei  giorni,  di  durata  della  gestazione,  ossia 
210.  Nel  parto  a  termine  invece,  con  analogo  ragiona- 
mento, il  calcolo  era  basato  sui  numeri  7,  9  1/3,  10  1/2, 
14,  che  sommati  insieme  danno  40  e  una  frazione;  40 
moltiplicato  per  7  dà  280,  da  cui  detraendo  6  si  ha  274. 
Vale  a  dire  che  nel  parto  di  dieci  mesi  iL  mutamento 
del  seme  in  umore  latteo  avviene  in  sette  giorni  anziché 
in  sei,  e  la  formazione  del  corpo  è  già  avvenuta  dopo 
40  giorni  interi,  che  moltiplicati  per  7  danno  280,  cioè 
quaranta  settimane  ;  ma  poiché  il  parto  avviene  nel  primo 
giorno  dell'ultima  settimana,  così  bisogna  detrarre  sei 
giorni,  onde  ne  restano  274.  Tanto  il  210  che  il  274  so- 
no veramente  due  numeri  pari,  laddove  Pitagora  dava 
speciale  importanza  al  numero  dispari,  tanto  da  ritenere  — 
in  virtii  delle  sue  molteplici  osservazioni  —  che  tutto  è 
regolato  da  esso  (1)  :  ciò  non  pertanto,  osserva  Censorino 


(1)  Macrobio,    Saturnal.    I,    13,  5  ;    Solino,  I,  39  ;    Servio,    ad 
Bmol.  Vili,  75. 


—  100  — 

che  riporta  tutto  questo  passo  Yarroniano,  egli  non  era 
qui  in  contraddizione  con  se  stesso,  perchè  i  due  dispari 
209  e  273  sono  bensì  compiuti,  ma  non  si  compie  ne  il 
210^  né  il  274"  giorno  in  cui  il  parto  avviene;  in  con- 
formità precisamente  di  quanto  ha  fatto  la  natura  sia  ri- 
guardo alla  durata  dell'  anno  (365  giorni  più  una  frazione) 
che  a  quella  del  mese  (29  giorni  più  una  frazione)  (1). 

;Non  è  il  caso  di  entrare  qui  in  merito  al  valore  in- 
trinseco e  alla  veracità  di  siffatte  osservazioni.  Poiché 
anche  se  errori  vi  sono,  bisogna  naturalmente  tener 
conto  da  un  lato  della  diversità  dei  mezzi  d'indagine  e  di 
esperimento  da  oggi  a  ventisei  secoli  or  sono,  e  pensare 
dall'  altro  che  molte  delle  applicazioni  della  teoria  dei  nu- 
meri non  dovettero  neppure  essere  l' opera  diretta  di  Pi- 
tagora, ma  il  prodotto  delle  speculazioni  dei  suoi  seguaci. 
In  ogni  modo  però  risulta  chiaro  dal  poco  che  si  è  ve- 
duto sin  qui  che  le  speculazióni  stesse  non  rimanevano 
campate  nell'aria  e  nelle  nebulosità  della  metafisica,  ma 
trovavano  la  loro  base  e  la  loro  ragion  d'  essere  nell'  os- 
servazione scientifica  dei  fatti  naturali;  sì  che  fu  indub- 
biamente merito  di  Pitagora  e  dei  suoi  discepoli  quello  di 
aver  dato  un  nuovo  impulso  alla  scienza;  e,  fatta  ragione 
dei  tempi,  non  fu  merito  piccolo. 

f)  Se  la  teoria  dei  numeri  trovava  così  mirabili  ri- 
scontri nella  natura  e  nei  suoi  fenomeni,  è  ben  naturale 
che  ad  essa  dovesse  pure  conformarsi  la  vita  pratica 
degli  uomini,  almeno  di  quelli  che  si  iniziavano  ai  mi- 
steri e  alle  profonde  verità  del  Pitagorismo.  Ond'  é,  per 
esempio,  che  un'altra  testimonianza  varroniana  ci  ricorda 


(l)  Censorino,  de  die  natali  9  e  11.  Si  confronti   con    questo  il 
passo  di  Gellio,  Notti  attiche,  III,  10,  7. 


-  101  -^ 

la  particolare  considerazione  in  cui  erano  tenuti  i  così 
detti  numeri  cubici,  ai  punto  che  persino  nello  scrivere 
i  Pitagorici  ne  tenevano  conto  scrupolosamente  badan- 
do di  comporre  in  una  sola  volta  216  righe  o  versi 
(216i=r  6  X  6  X  6)  e  non  mai  piìi  di  tre  volte  tanto!  (1). 

Ora  questo  è  uno  di  quei  particolari  che,  presi  a  se, 
prestano  facilmente  il  fianco  al  riso  e  alla  satira;  ma  in 
verità  se  noi  non  possiamo  spiegarci  la  cosa  in  modo  ra- 
gionevole, ciò  può  dipendere  dal  fatto  che  non  conosciamo 
tutto  il  complesso  della  dottrina  e  della  vita  pitagorica  ; 
poiché  è  ben  possibile  che  pratiche  di  questo  genere  rien- 
trassero nell'  ambito  del  sistema  per  puro  amor  dell'  ordi- 
ne e  doll'euritmia,  al  solo  scopo  di  far  sottostare  a  una 
certa  regola  anche  gli  atti  minimi  e  più  insignificanti 
della  vita  ;  se  pure  non  si  tratta,  qui  e  in  altri  casi,  di 
esagerazioni  dei  seguaci  o  di  degenerazioni  dei  primitivi 
insegnamenti  del  Maestro. 

Ma  senza  soffermarci  troppo  su  cosiffatte  quisquilie,  è 
ben  noto  d'altra  parte  —  ed  è  ancora  Varrone  che  parla  — 
quanta  parte  avesse  la  musica  nel  sistema  educativo  di 
Pitagora,  e  come  egli  medesimo  se  ne  dilettasse  al  punto, 
che  ogni  sera  prima  di  addormentarsi  e  ogni  mattina  al 
suo  svegliarsi  cantava,  accompagnandosi  con  la  cetra,  per 
meglio  disporre  1'  animo  ai  suoi  pensieri  divini  (2). 

3.  —  Oltre  a  queste  notizie,  che  io,  valendomi  delle 
indagini  già  fatte  da    altri  (3),    ho  cercato  di  esporre  si- 

(1)  ViTRirvio,  De  arehiteetura  V  pr.  p.  104,  1. 

(2)  Censorino,  de  die  natali  12,  4. 

(3)  Si  veda  nell'  opuscolo  di  A.  Schmekel,  De  Ovidiana  Pytha- 
goreae  doctrinae  adumbratione  (Giyphiswadensiae,  MDCCCLXXXV) 
l'appendice  a  pagina  76  «  Varronis  Pythagoreae  doctrinae  frag- 
menta  continens  ». 


stematicamente  raggruppandole  intorno  alla  dottrina  dei 
numeri,  altre  se  ne  trovavano  nelle  opere  di  Yarrone, 
intorno  alla  vita  di  Pitagora,  intorno  alla  sua  scuola  e  ai 
suoi  seguaci  e  intorno  ai  principii  del  suo  sistema. 

Così  Yarrone  poneva  1'  esistenza  di  Pitagora  al  tempo 
di  Tarquinio  Prisco  (1)  e  quindi  implicitamente  non  ac- 
cettava la  tradizione  che  Numa  fosse  stato  suo  scolaro  a 
Crotone.  Anch'egli  attribuiva  a  Pitagora  il  merito  di 
essersi  chiamato  per  primo  filosofo,  cioè  amante  del  sa- 
pere, e  ricordandone  il  maestro  Ferecide  faceva  risalire  : 
già  a  questo  1'  uso  di  pratiche  magiche  per  indovinare  il 
futuro  ;  come  pure  accennava  altrove  alla  sua  andata  a 
Turio  (Sibari)  nella  Calabria  (2).  E  Sant'  Agostino  ci  ha 
conservato  un  altro  passo  nel  quale  Yarrone,  da  vero 
romano,  esprimeva  la  sua  ammirazione  perchè  1'  ultima 
cosa  che  Pitagora  insegnava  ai  suoi  discepoli,  quando  già 
fossero  perfetti,  sapienti  e  felici,  era  quella  del  governare 
la  cosa  pubblica  (3). 

Appartiene  al  libro  quinto  dell'  opera  intorno  alla  lin- 
gua latina  un  brano  in  cui  Yarrone  afferma  che  Pitagora 
insegnava  «  due  essere  i  principii  d'  ogni  cosa,  come  fi- 
«  nito  e  infinito,  bene  e  male,  vita  e  morte,  giorno  e 
«  notte.  E  quindi  parimenti  due  i  modi  di  essere  :  stato 
«  e  moto;  ciò  che  sta  fermo  o  si  muove,  corpo;  il  dove 
«  si  muove,  spazio;  il  quando  si  muove,  tempo  ;  ciò  che 
«  vi  è  nel  movimento,  azione;  e  avvenire  appunto  perciò 
«  che  quasi  tutte  le  cose  siano  quadripartite  ed  eterne, 
«  poiché  ne  paò  mai  esservi  stato    tempo  se  non  prece- 


(1)  S.  Agostino,  de  civitate  dei  XYIII,  25. 

(2)  Ibidem,  XYIII,  37  e  YIII,  4;  Tertulliano,  dean.  28;  Apol.  46. 

(3)  S.  ìlggstino,  de  ordine  II,  20,  54. 


—  108  — 

«  duto  da  moto,  —  se  tempo  è  appunto  l' intervallo  fra 
«  un  moto  e  l' altro  —  ;  né  moto  senza  spazio  e  senza 
«  corpo,  perchè  l'uno  (il  corpo)  è  ciò  che  si  muove  e 
<^  r  altro  (lo  spazio)  il  dove;  né  può  mancare  l'azione  dove 
«  e'  è  movimento;  onde  le  due  coppie  di  principii  :  spazio 
«  e  corpo,  tempo  e  azione  »  (1).  Altrove  ci  ricorda  Var- 
rone  un  altro  pensiero  fondamentale  di  Pitagora,  assunto 
poi  pili  tardi  da  Aristotile,  quello  cioè  che  l'esistenza  de- 
gli animali  e  però  anche  dell'uomo  non  ha  mai  avuto 
principio  nel  tempo,  perchè  sono  sempre  esistiti  (2).  E 
parimenti  faceva  risalire  a  lui  quella  teoria  dei  quattro 
elementi  (terra,  acqua,  aria  ed  etere  o  fuoco)  che  comu- 
nemente si  suole  invece  attribuire  ad  Empedocle  di  Gir- 
genti,  vissuto  un  secolo  dopo  (3).  Non  mancava  neppure 
nelle  opere  varroniane  qualche  accenno    alla  teoria  pita- 


(1)  Yabro,  de  Lingua  Latina,  Y,  11  :  «  Pythagoras  Samius  ait 
omnium  rerum  initia  esse  hina^  ut  finitum  et  infinitum^  honum 
et  malum^  vitam  et  mortem.,  diem  et  noctem.  Quare  item  duo, 
status  et  m,otus  ■:  quod  stat  aut  agitatur,  corpus  ;  uhi  agitatur 
locus;  dum.  agitatur,  tempus;  quod  est  in  agitatu,  aetio;  quare 
fit^  ut  ideo  fere  omnia  sint  quadripartita  et  ea  aeterna,  quod  nc- 
que unquam  tempus  quin  fuerit  motus,  eius  enim  intervallum 
tempus;  ncque  motus  ubi  non  locus  et  corpus,  quod  alter um  est 
quod  moveiur,  alterum  uhi;  ncque  uhi  agitatur,  non  actio  ihi; 
igitur  initiorutn  quadrigae  :    locus  et  corpus,  tempus  et  actio  ». 

(2)  Vaerò,  de  re  rustica,  1,  3  :  «  Sive  enim  aliquod  fuit  prin- 
cipium  generandi  animalium,  ut  putavii  Thales  Milesius  et  Zeno 
Gittieus  ;  sive  cantra  principium  horum  exstitit  nullum,  ut  cre- 
didii  Pythagoras  Samius  et  Aristoteles  Stagirites\  necesse  est  hu- 
manae  vitae  a  summa  memoria  gradatine  descendisse  » .  Cfr.  Cen- 
SORINO,  de  die  natali,  IV,  3. 

(3)  ViTRUVio,  de  architectitra,  V,  1  ;  Servio,  ad  Aeneid.  VI, 
724;  ad  Geòrgie  IV,  2l9;  Ovidio,  Metamorfosi,  XV,  237  e  seg. 
E  cfr.  Diogene  Laerzio,  VIII,  25. 


—  104  — 

gorica  deir  eternità  dell' anima  (1)  e  alla  sua  dottrina  della 
metempsicosi  (2),  a  conferma  della  quale  ricordava  persi- 
no le  sue  vite  anteriori,  essendo  stato  prima  un  certo 
Etalide,  poi  Euforbo,  poi  il  pescatore  Pirro  e  finalmente 
Ermotimo  (3).  Altrove  ancora  Yarrone  accennava  alle  pra- 
tiche di  evocazioni  dei  morti,  che  del  resto  erano  larga- 
mente usate  neir  antichità,  come  dimostra,  fra  le  altre,  la 
rappresentazione  di  una  scena  di  necromanzia  dipinta  in 
un  monumento  cretese,  scoperto  da  poco,  che  risale  ai 
tempo  pre-omerico  (1500-1400  av.  Cr.)  della  così  detta 
civiltà  micenea  o  minoica  (4). 

È  finalmente  quasi  superfluo  dire  che  Varrone  non 
mancò  di  parlare  del  famoso  divieto  pitagorico  di  man- 
giar fave,  connesso  con  la  credenza  nella  metempsicosi 
e  con  la  concezione  che  Pitagora  ebbe  della  vita  post- 
mortale  (5). 


(1)  Symmaghus,  Ep.  I,  4. 

(2)  Vabro,  Sat.  Menipp.^  ed.  B  framm.  127  (=  Nonio  Marcello, 
p.  121,  26);  Tertulliano,  de  mi.  27  e  34;  ad  nat.  I,  19;  S.  Ago- 
stino, de  cìv.  dei  18,  45;   Scholia  in  Lucan.  p.  289,  11  e  304,  13. 

(3)  Tertulliano,  de  an.  28,  31  e  34;  Sant'A&ostino,  Trinit.  XII, 
24. 

(4)  Sant'Agostino,  de  civ.  dei  VII,  35  «  Quod  genus  divinatiò- 
nis  idem  Varrò  e  Persis  dicit  allatum,  quo  et  ipsum  Numam,  et 
postea  Pythagoram  philosophum  usum  fuisse  commemorai  ;  ubi 
adhihito  sanguine  etìam  inferos  perhibet  sciseitari  et  nekyoman- 
teian  graeee  dicit  vocari  » .  Quanto  alle  rappresentazioni  di  scene 
di  necromanzia  si  veda,  per  esempio,  Drerup,  Omero  (Bergamo 
I9l0)  a  p.  176  e  relativa  tavola  a  colori;  e  si  ricordi  la  famosa 
Nekuia  omerica  del  libro  XI  dell'Odissea. 

(5)  Tertulliano,  Apol.  47  ;  de  anima,  33  ;  Plinio,  Nat.  Hist. 
XVIII,  118,  XXXV,  160. 


—  106  - 

4.  —  Tali  a  un  di  presso  le  notizie  di  contenuto  pitago- 
rico, che  si  possono  far  risalire  a  Varrone.  Data  l'esiguità 
delle  opere  superstiti  e  la  varietà  degli  autori  da  cui  fu- 
rono raccolte,  esse  sono  slegate  e  frammentarie,  ma  tali 
però  da  farci  ancora  una  volta  rimpiangere  la  perdita 
quasi  totale  dell' enciclopedia  varroniana,  con  la  quale  si 
è  certo  perduto  per  sempre  un  ricco  tesoro  di  notizie 
utili  e  importanti  per  la  storia  del  Pitagorismo  nell'anti- 
chità classica. 

Ma  poiché  dei  materiale  già  sistematicamente  raccolto 
da  Yarrone,  come  delle  sue  speculazioni  e  delle  sue  ri- 
cerche storico-filosofiche  debbono  essersi  serviti  non  poco 
gli  scrittori  contemporanei  o  che  vissero  poco  dopo  di  lui, 
così,  continuando  a  cercare  le  tracce  di  Pitagorismo  ri-- 
maste  nelle  opere  di  altri  scrittori  di  questo  tempo,  po- 
tremo ricostruire  e  svolgere  qualche  altro  punto  della 
dottrina  di  Pitagora  e  compiere  così  il  quadro  della  co- 
noscenza che  ne  ebbero  i  contemporanei  di  Cesare  e  di 
Augusto. 


111. 

Appio  Olaadio  Palerò    -  Cicerone  e  il  «  Somninm  Scipionis  ». 

i.  Appio  Claudio  Palerò  e  la  seienxa  augurale.  —  2.  Marco  Tullio 
Cicerone  e  la  sua  eonoscenxa  del  Pitagorisìno.  -  3.  Notixie 
intorno  a  Pitagora  e  alle  sue  dottrine  desunte  dalle  opere  cice- 
roniane. —  4.  //  «  Sogno  di  Scipione  %  :  a)  Suo  carattere 
pitagorico  e  profetico;  b)  Contenuto  e  materia  di  esso:  la  via 
lattea;  vita  e  morte;  il  suicidio;  le  sfere  celesti  e  la  loro  armonia; 
la  terra  e  le  sue  xone;  la  gloria  terrena;  anima  e  corpo;  V im- 
mortalità dell'  anima. 


1.  —  Fra  gli  amici  di  Marco  Terenzio  VarroDe  è  degno 
di  essere  ricordato  queir  Appio  Claudio  Fulcro,  del  quale 
sappiamo  che  fu  augure,  pretore  nei  57  a.  C,  console 
nel  54,  censore,  governatore  della  Cilicia  e  legato  in  rap- 
porti di  amicizia  anche  con  Cicerone,  di  cui  ci  restano 
diverse  lettere  a  lui  indirizzate. 

Convinto  che  la  scienza  augurale  avesse  il  suo  fonda- 
mento non  già  nel  desiderio  o  nel  bisogno  di  giovare 
anche  con  1'  ausilio  potentissimo  della  religione  agii  in- 
teressi dello  Stato  —  come  la  pensava  l' altro  grande 
augure  C.  Claudio  Marcello  —  ma  che  realmente  fosse 
un  dono  concesso  dagli  dei  agli    uomini,    perchè    questi 


-  108  — 

fossero  in  grado  di  meglio  intendere  la  loro  volontà  e  di 
regolare,  uniformandosi  a  questa,  la  propria  condotta  pub- 
blica e  privata  (1),  era  solito  far  sortilegi,  oroscopi,  evo- 
cazioni di  morti  (2);  ne  più  né  meno  di  quello  che,  secondo 
la  tradizione  aveva  fatto  in  antico  il  re  Numa  (3)  e  di 
quel  che  avevano  fatto  il  filosofo  Ferecide  di  Siro,  il  suo 
discepolo  Pitagora,  e  Platone  (4).  Questa  convinzione  , 
suffragata  dalle  dette  pratiche  della  divinazione  artificiale 
cui  era  dedito,  dovette  appunto  indurre  Appio  a  scrivere 
quei  suo  «  liber  auguralis  '> ,  forse  di  carattere  polemico, 
che  dedicò  all'  amico  Cicerone  (5).  lì  quale  fra  T  interpre- 
tazione utilitaria  e  razionalistica  di  quelli  che  la  pensavano 
come  Marcello,  e  la  fede  ortodossa  di  coloro  che  la  pen- 
savano come  Appio  Claudio,  ebbe  un'opinione  intermedia, 
in  questo  senso  :  che  cioè  una  vera  e  propria  scienza  e 
arte  augurale  fosse  già  esistita  in  antico,  ma  che  di  essa 
però  non  fosse  più  depositario,  al  tempo  suo,  il  collegio 
degli  auguri,  poiché,  per  il  lungo  tempo  trascorso  e  per 
r  abbandono  e  la  negligenza  in  cui    s'  era    lasciata,    era, 


(1)  CicEBONE,  de  divìnatione,  L.  II,  13,  32  :  «  sed  est  in  conlegio 
vestro  inter  Marcellum  et  Appiutn,  optimos  augures,  ynagna  dis- 
sensio  fnam  eorum  ego  in  libros  incidi),  quom  alteri  plaeeat 
auspieia  ista  ad  utilitatem  esse  reipublicae  composita,  alteri  di- 
sciplina vestra  quasi  divinare  mdeatur  posse  » . 

(2)  CiCEE.,  Tusculane,  1.  I,  16,  37  :  <  inde  ea,  quae  meus  amicus 
Appius  nekyomanteia  faciebat  ».  Cfr.  de  divinat.  I,  10,  30  ;  58, 
132. 

(3)  Si  cedano  in  S.  Agostino,  Città  di  Dio,  l.  VII,  i  capitoli 
34  e  35. 

(4)  CioEE.,   Tuscul,  I,  16,  38  j  17,  39. 

(5)  CicER.,  Ad  familiares,  3,  4,  1  ;  9,  3,  11,  4  ;  Varrone,  R. 
R.  3,  2f  2. 


109 


secondo  lui,  svanita  (1).  Dichiarazione  questa,  che  per 
essere  fatta  da  un  augure  di  tanta  autorità,  non  è  certo 
di  lieve  momento. 

Sarebbe  in  verità  molto  interessante  addentrarsi  nella 
ricerca  di  quel  che  fosse  proprio  questa  ra antica,  come 
la  chiamavano  i  greci,  o  aruspicina,  che  tanta  parte  ebbe 
nella  vita  privata  e  pubblica  degli  Elioni  e  degli  antichi 
Italici;  ma  questa  trattazione  mi  porterebbe  troppo  lon- 
tano dal  tema  di  cui  ora  sto  occupandomi.  E  del  resto 
ricerche  abbastanza  ampie,  se  non  proprio  in  tutto  sod- 
disfacenti ed  esaurienti,  sono  già  state  fatte  in  proposito  (2). 
Basti  dire  pertanto  che  la  mantica  o  arte  divinatoria  si 
esercitava  in  forme  e  modi  diversi  —  con  T  osservazione 
del  volo  degli  uccelli  in  un  punto  determinato  del  cielo 
detto  templum  (onde  trasse  origine  la  parola  contempla- 
zione), con  1'  esame  dei  visceri  (cuore,  polmone,  fegato) 
di  animali  sacrificati  a  questo  scopo  (hostiae  consultato- 
riae\  con  la  interpretazione  o  ermeneutica  dei  sogni,  con 
la  considerazione  dei  fenomeni  celesti  (tuono,  lampo,  ful- 
mine, ecc.),  cogli  oracoli,  coi  pubblici  e  privati  carmi 
profetici  -  ;  e  che  era  pure  praticata  da  Pitagora,  il 
quale  vi  annetteva  anzi  un  particolarissimo  valore,  tanto 
da  voler    essere    ritenuto    egli    stesso  augure  (3)  :  il  che 


(1)  CicER.,  de  legìbus  1.  II,  13,  33  ;  «  Sed  dubium  non  est, 
quin  haec  disciplina  et  ars  auguruni  evanuerit  jam  et  vetustate 
et  neglegentia.  Ita  neque  illi  (cioè  Marcello)  adsentior,  qui  negai 
unquam  in  nostro  conlegio  fuisse,  neque  UH  ;cioè  Appio)  qui  esse 
etiam  nunc  putat  ».  Cfr.  de  divinai.  11^  33,  70. 

(2)  Si  vedano,  fra  gli  altri,  i  due  importanti  lavori  del  Bochsen- 
schììtz,  Sogni  e  cabala  nelV  antichità,  Berlino  1868,  e  del  Cak- 
TANi-LovATELLi,  Sogni  e  ipnotismo  nelV  antichità,  Roma  1889. 

(3i  CiCEBONE,  de  divinatione,  L.  I,  3,  5  «  ....  huic  rei  (cioè 
alla  divinazione)  magnani  auctoritatem  Pythagoras,..  tribuit,  qui 


no 


naturalmente  non  poteva  pretendere  senza  dare  qualche 
prova  di  virtù  profetica  ;  e,  secondo  la  tradizione,  egli 
ne  diede  infatti  non  poche. 

2.  —  Altro  amicissimo  di  Varrone  fu,  come  è  noto, 
Marco  Tullio  Cicerone^  che  visse  dal  106  al  43  a.  C. 

Negli  scritti  che  in  gran  numero  ci  restano  di  lui  fre- 
quentissimi sono  gli  accenni  a  Pitagora,  alla  sua  scuola 
e  alla  sua  filosofia  ;  non  però  tali  da  farci  pensare  a  una 
elaborazione  personale  e  originale,  o  all'  approfondimento 
di  qualche  parte  delle  dottrine  pitagoriche.  Seguace  come 
fu  di  un  eclettismo  che  stava  fra  1  '  accademismo  e  lo 
stoicismo  dell'  ultima  maniera,  iniziato  ai  misteri  religiosi, 
augure  anch'  esso,  appassionato  se  non  profondo  cultore 
della  filosofia  greca,  della  quale  si  fece  divulgatore  fra  i 
Romani,  creando  quasi  ex  novo  per  essi,  dopo  il  mirabile 
tentativo  poetico  di  Lucrezio,  la  lingua  filosofica,  autore 
anche  di  molte  opere,  nelle  quali,  con  squisito  senso  di 
arte,  trattò  dei  più  svariati  argomenti  sì  metasifici  che 
morali,  Cicerone  ebbe  senza  dubbio  una  conoscenza  ab- 
bastanza larga  dell' antica  filosofia  italica,  l'unica  forse 
che  avesse  già  avuto  in  Roma  insigni  divulgatori  e  se- 
guaci, come  Appio  Claudio  Cieco  ed  Ennio,  e  rinnovatori 
come  Nigidio. 

È  anche  indubitato  che  molto  gli  giovarono  per  tale 
conoscenza  —  oltre  che  1'  assiduo  studio  dei  filosofi  gre- 
ci —  r  amicizia  di  Varrone  e  dello  stesso  Nigidio  Figulo, 
e  la  lettura  dei  loro  scritti,  per  noi  perduti.  Ma  non  per 


etiam  ipse  augur  vellet  esse  ».  Cfr.  I,  39,  87  ed  anche  45,  102  : 
«  Neq^ue  solum  deorum  voces  Pythagoreì  observitaverunt,  sed  etiam 
hominum,  quae  vocant  omina  ■» . 


—  Ili  — 

questo  possiamo  dire  che  i'Arpiuate  avesse  fatto  parti- 
colari studi  intorno  a  quel  sistema  di  dottrine,  che,  se 
collimavano  in  parecchi  punti  con  le  sue  convinzioni  per- 
sonali, tuttavia^  per  il  simbolismo  onde  erano  involute, 
si  prestavano  assai  meno  delle  posteriori  e  piìi  note  filo- 
sofie ad  essere  facilmente  comprese  dai  profani  e  divulgate 
artisticamente. 

3.  —  In  ogni  modo,  volendo  raccogliere  dalle  sue  opere 
le  notizie  che  si  riferiscono  a  Pitagora  e  alla  sua  scuola, 
dovrei  prendere  le  mosse  da  quel  passo  delle  Tuscolane 
(libro  IV,  1-4)  in  cui  Cicerone  parla  delle  dottrine  pita- 
goriche, della  loro  diffusione  in  Italia  e  delle  tracce  che 
esse  lasciarono  nelle  istituzioni  e  nelle  leggi  dì  Roma.  Ma 
poiché  ne  ho  già  discusso  lungamente,  rimando  senz'altro 
i  lettori  al  primo  capitolo  di  questo  studio. 

Di  Pitagora  Cicerone  dice  in  due  luoghi  che  fu  disce- 
polo di  Ferecide  (1),  specialmente  per  la  sua  dottrina 
suir  eternità  dell'  anima,  in  quanto  egli  insegnava  1'  esi- 
stenza di  un'  anima  universale,  compenetrante  tutta  la 
natura  e  ciascuna  delle  sue  manifestazioni,  e  la  deriva- 
zione da  essa  di  ogni  anima  umana  (2).  E  per  ciò  che 
riguarda  la  natura  di  questa,  Cicerone  stesso  accettò  la 
distinzione  -  fatta  prima  da  Pitagora  e  poi  da  Platone  — 


(1)  De  divinatione,  I,  50,  112  ;  Tusculane  I,  16,  38:  «  Pherecides 
Syrius  primuìn  dixit  anìmos  esse  hominum  sempiternos.  ..  Rane 
opìnionem  discipulus  Pytkagoras  ìnaxime  confirmavit  ». 

(2)  De  natura  deorum,  I,  11,  27  :  «  Pytkagoras  censuìt  ani- 
mum  esse  per  naturatn  rerum  omnem  intentum  et  eonmeantem, 
ex  quo  nostri  animi   earperentur  ».  De  seneetute    21,  78  :   «  Au- 

dieham,  Pythagoram  Pythagoreosque numquam  dubitasse,  quin 

ex  universa  mente  divina  delibatos  animos  haberemus  ». 


—  112  — 

dell'  anima  in  due  parti,  V  una  ragionevole,  in  cui  questi 
filosofi  ponevano  la  tranquillità,  cioè  una  placida  immu- 
tabile costanza,  e  V  altra  irragionevole,  onde  traevano 
origine  i  moti  torbidi  sì  dell'  ira  come  del  desiderio  (1). 
Per  la  quale  credenza  V  uno  e  l'altro  ammisero  la  pos- 
sibilità di  accrescere  le  forze  conoscitive  dello  spirito, 
specialmente  nel  sonno,  quando  a  questo  l' uomo  si  fosse 
disposto  opportunamente  con  particolare  dieta  e  con  una 
meditazione  preparatoria  (2)  ;  e  credettero  nella  divinazione, 
al  punto  che  Pitagora,  come  ho  già  ricordato,  pretendeva 
di  essere  egli  stesso  profeta.  Cicerone  seppe  anche  dei 
viaggi  di  quest'  ultimo  nelle  terre  più  lontane  (3),  del  suo 
colloquio  con  Leonte,  il  capo  dei  Fliasii,  in  cui  per  la 
prima  volta  si  chiamò  filosofo  (4),  della  successiva  venuta 
in  Italia,  dei  suoi  studi  di  geometria  e  del  sacrificio  d'un 


(1  )  Tusculane,  IV,  5,  lO  :  «  Veterem  illarti  equidem  Pytkagorae 
pri/num,  dein  Platonis  diseriptionem  sequar,  qui  anlìnum  in 
duas  partes  dividunty  alter  ani  rationis  participem  f aduni  y  alte- 
rani  expertem  ;  in  participe  rationis  ponunt  tranquillitatemy  id 
est  placidam  quietarnque  constantiam,  in  illa  altera  'ruotus  turbi- 
dos  cum  irae,  twìn  cupiditatis,  conirarios  ìnimicosque  rat  ioni  ». 
Cfr.  libro  I,  17,  39. 

(2)  De  divinatione,  II,  58,  119:  «  Pythagoras  et  Plato,.,  quo 
in  somnis  certiora  videamus,  praeparatos  quodam  eultu  atque 
victu  proficisci  ad  dormiendum  jubent  ;  faba  quidem  Pythagorei 
utiqus  abstinere,  quasi  vero  eo  cibo  mens,  non  venter  infletur  ». 
Sulle  meditazioni  serotino,  ma  di  altro  genere,  vedasi  De  senectule 
11,  38  :  Pythagorii  quid  quoque  die  dixissent,  audissent,  egissent, 
eommemorabant  vesperì  »  ;  e  sulla  astinenza  dalle  fave  si  con- 
fronti de  divinatione  I,  30,  62  e  II,  58,  119. 

(3)  TuseuL,  IV,  19,  44;  25,  55;  de  fìnibus  V,  19,  50;  29,  87. 

(4)  TuseuL,  V,  3,  8  e  segg.  Cfr.  sopra  e  vedi  Diogene  Laerzio, 
Proemio,  12,  che  desume  la  notizia  da  un  libro  di  Eraclide  pontioo. 


—  113  — 

bue  alle  Muse  per  aver  trovata  la  soluzione  d'un  teorema  (1), 
della  sua  dimora  a  Crotone  (2)  e  a  Taormina  in  Sicilia  (3), 
della  sua  operosa  vecchiezza  (4)  e  infine  della  sua  dimora 
e  della  morte  a  Metaponto  (5). 

Quanto  alla  dottrina  e  alla  scuola,  oltre  al  noto  prin- 
cipio autoritario  dell'  ipse  dixit^  che  biasima  (6),  e  a  quello 
che  ho  accennato  or  ora  della  natura  dell'  anima,  Cicerone 
ricorda  la  teoria  dei  numeri  (7),  1'  armonia  del  mondo  e 
il  culto  della  musica  (8),  l'astinenza  dai  sacrifìcii  cruenti 
e  il  rispetto  per  gli  animali,  naturale  e  logica  conseguenza 
del  concetto  pitagorico  della  vita  (9),  il  divieto  del  suici- 
dio (10)  e  infine  la  bella  concezione  dell'  amicizia,  vera 
comunanza  di  spiriti  e  di  vita  (11),  che  diede  fra  gli  altri 
il  mirabile  e  notissimo  esempio  di  Damone  e  Finzia  (12); 
oltre  ai  quali  il  nostro  scrittore    ricorda   altri    pitagorici. 


(1)  De  nat.  deorum,  III,  36,  88.  La  cosa  per  altro  non  par  cre- 
dibile a  Cicerone,  perchè  Pitagora  si  sa  che  non  volle  sacrificare 
una  vittima  neppure  ad  Apollo  delio,  per  non  bagnare  di  sangue 
un  altare.  E  non  ha  torto. 

(2)  De  re  publica  II,  15,  28;  ad  Atticum  IX,  19,  3. 

(3)  De  consul.  3.  Cfr.  Giamblico,    Vita  Pythag .  122. 

(4)  De  senectute  7,  23. 

(5)  De  finibus  V,  2,  4. 

(6)  De  nat.  deor.,  I,  5,  10.  Per  la  critica  ed  il  valore  di  questo 
principio  autoritario  si  veda  nell'Appendice  «  Il  sodalizio  pitago- 
rico di  Crotone  » . 

(7)  Tuscul.,  I,  10,  20  ;  Acad.  pr.  II,  37,  118  e  Somnium  Sei- 
pionis,   12  e  18. 

(8)  De  nat.  deor.,  Ili,  11,  28  ;  Tuscul.,  Y,  39,  113. 
(,9)  ibid..  Ili,  36,  88:  de  re  pubi.,  Ili,  11,  19. 

(10)  De  senect.,  20,  73  ;  prò  Scauro,  4,  5. 

(11)  De  officiis,  I,  17,  56;  de  legibus,  I,  12,  34;  Tuscul.,  Y,  23,  66. 
a2)  Tuscul.  Y,  22,  63;  de  officiis,  III,  10,  45;  de  finibus,  II, 

24-79;  Cfr.  Porfirio,   V.  P.  59. 

8. 


—  lU  — 

e  cioè  Filolao  di  Crotone  e  il  suo  discepolo  Archita  di 
Taranto,  Echecrate  di  Locri,  Timeo  ed  Acrione  contem- 
poranei di  Platone  (1). 

Di  quest'ultimo  poi  egli  dice  esplicitamente  che,  dopo 
la  morte  di  Socrate,  prima  si  recò  in  Egitto  e  poi  in  Italia 
e  in  Sicilia  per  conoscere  da  vicino  le  verità  scoperte  da 
Pitagora,  e  che  stette  molto  con  Archita  e  Timeo  e  potè 
procurarsi  i  commentarli  di  Filolao  (che  esponevano  per 
iscritto  per  la  prima  volta  le  dottrine  del  maestro,  fino 
allora  trasmesse  solo  oralmente  e  sotto  il  vincolo  della 
segretezza)  ;  e  poiché  allora  appunto  era  più  che  mai  ce- 
lebre nella  Magna  Grecia  il  nome  di  Pitagora,  praticò 
con  Pitagorici  e  si  dedicò  ai  loro  studi.  Tanto  che,  pre- 
diligendo egli  Socrate  sopra  ogni  altro  e  volendo  rappre- 
sentarlo adorno  di  ogni  virtù  e  sapienza,  fuse  insieme  la 
piacevolezza  e  la  sottigliezza  socratica  con  1'  oscurità  del 
simbolismo  pitagorico  e  nei  suoi  dialoghi  fece  parlare  il 
maestro  in  modo  che,  anche  quando  discuteva  di  morale 
e  di  politica,  si  studiò  di  mescolarvi  i  numeri,  la  geometria 
e  r  armonia,  alla    guisa  di  Pitagora  (2).    Dal    quale    poi 


(1)  De  finibus,  V,  29,  87. 

(2)  De  re  pubi.,  I,  10,  16  :  <  In  Platonis  libris  multis  locis 
ita  loquitur  Socrates,  ut  etiam  cum  de  moribus,  de  virtutibus 
denique  de  republica  disputet,  numeros  tamen  et  geometriam  et 
harmoniam  studeat  Pythagorae  more  eoniungere.  Tum  Scipio  : 
Sunt  ista,  ut  dtcis,  sed  audisse  te  credo,  Tubero^  Platonem,  So- 
crate mortuo,  primum  in  Aegyptum  discendi  causa,  post  in  Ita- 
liam  et  in  Siciliani  contendisse,  ut  Pythagorae  inventa  perdisceret, 
eumque  et  cwrn  Arehyta  Tarentino  et  cum  Timaeo  Locro  multum, 
fuisse  et  Philolai  commentarios  esse  nanctum,  quunique  eo  tem- 
pore in  his  locis  Pythagorae  nomen  vigerci,  illum  se  et  hominibus 
Pythagoreis  et  studiis  illis  dedisse.  Itaque  cum  Socratem  uniee 
dilexisset   eique   omnia   tribuere   voluisset ,    leporem    Socraticum 


—  115  — 

tolse  di  peso  la  dottrina  ferecidea  sull'eternità  dell'anima, 
aggiungendovi  però  di  suo  una  spiegazione  razionale  (1). 
Un  complesso  dunque  di  notizie,  o  meglio  di  accenni, 
superficiali  e  sconnessi,  che  rappresentano  press'a  poco 
il  grado  di  conoscenza  che  del  Pitagorismo  ebbero  gli 
uomini  colti  dell'età  di  Cicerone. 

4.  —  Ma  vi  è  un'  opera  di  questo  fecondo  scrittore, 
anzi  un  frammento  della  sua  opera  "più  importante,  sul 
quale  dobbiamo  fermare  un  poco  più  particolarmente  la 
nostra  attenzione,  per  la  molteplicità  degli  elementi  pita- 
gorici che  contiene:  voglio  dire  il  Sogno  di  Scipione^ 
così  famoso  e  di  tanta  importanza  per  la  storia  della  mi- 
stica, sia  considerato  in  se  stesso  sia  per  i  commenti  che 
ebbe  ;  poiché  intorno  ad  esso  si  affaticarono  molti  ingegni, 
da  Macrobio  e  da  Eulogio,  che  ne  fecero  amplissima  ana- 
lisi nel  quarto  secolo  (2),  all'inglese  Wynn  Westcott,  che 


suMilìtatemque  sermonis  cum  obscuritate  Pythagorae  et  cum  illa 
flurimarum  artium  gravitate  contexuit  » . 

(1)  TuscuL,  I,  17,  39  :  «  Platonem  ferunt,  ut  Pythagoreos  cogno- 
sceret,  in  Italiam  venisse  et  didleisse  Pythagorea  omnia  primumque 
de  animorum  aeternitate  non  solum  sensisse  idem  quod  Pytha- 
goram  sed  rationem  etiam  attutisse  » .  Cfr.  De  amicitia,  IV,  13  : 
«  Neque  enim  adsentior  iis,  qui  nuper  haec  disserere  coeperunt, 
cum  corporibus  simul  animos  interire  atque  omnia  m>orte  deieri. 
Plus  apud  me  antiquorum  auctoritas  valet,  vel  nostrorum  m>ajo- 
Tum....  vel  eoriim,  qui  in  hac  terra  fuerunt  magnamque  Orae- 
ciam,  quae  nunc  quidem  deleta  est,  tum  florebat,  institutis  et 
praeceptis  suis  erudierunt,  vel  eius,  qui  Apollinis  oraeulo  sapien- 
tissimus  est  iudieatus,  qui  non  tum  hoc,  tum  illud,  ut  in  plerisque, 
sed  idem  semper,  animos  hominuvi  esse  divinos,  iisque,  cum  ex 
corpore  excessissent,  reditum  in  eoelum  patere  optimoque  et  iu~ 
stissimo  cuique  expeditissimum.  Quod  idem  Scipioni  videbatur » 

(2)  AuRELii  Maceobii  Ambrosii  Theodosii  V.  ci.  et  inlustris  Gom- 
Quentarius  ex  Cicerone  in  Somnium  Scipionis  libri  duo.  -  -  Favonii 
EuLoan  oratoris  almae  Karthaginis  Disputatio  de  somnio  Scipio- 
nis, scripta  Superio  y.  e.  cos.  Provinciae  Bizacenae. 


—  116  — 

non  molti  anni  addietro  ne  pubblicò  una  traduzione  di- 
cendolo senz'  altro,  (non  so  però  con  quale  fondamento 
che  non  sia  una  semplice  presunzione  ipotetica)  un  fram- 
mento dei  Misteri  (1). 

a)  Mi  preme  tuttavia  di  mettere  subito  in  chiaro  che, 
affermando  pitagorico  il  contenuto  di  questo  sogno,  non 
voglio  con  ciò  asserire  né  che  Cicerone  fosse  un  seguace 
di  quella  filosofia,  né  che  desumesse  direttamente  le  idee 
informative  del  sogno  stesso  da  scritti  pitagorici  :  poiché 
so  bene  che  studi  fatti  recentemente  da  valentissimi  cri- 
tici come  il  Gylden  (2),  il  Corssen  (3),  il  Pascal  (4),  hanno 
messo  in  chiaro  che  fonti  ciceroniane  per  la  materia  di 
esso  furono  o  poterono  essere  Platone,  Posidonio  ed  Era- 
tostene.  Ma  sta  di  fatto  che  noi  troviamo  raccolti  in  esso 
tutti  0  quasi  i  concetti  suesposti,  che  Cicerone  stesso  at- 
tribuiva a  Pitagora  e  ai  suoi  seguaci  ;  il  che  dimostra 
ancora  una  volta,  se  pur  ve  ne  fosse  bisogno,  che  i  filo- 
sofi posteriori  fecero  proprie  e  tramandarono  l'uno  all'altro 
molte  delle  idee  e  degli  insegnamenti  della  scuola  croto- 
niate.  L' idea  poi  di  valersi  d'  un  sogno  per  fare  un'espo- 
sizione di  principi  filosofici  già  era  venuta,  agli  albori 
della  letteratura  romana,  a  un  grande  scrittore  e  poeta, 
pitagorico  per  giunta:  voglio  dire  Ennio,  del  quale  si  é 
già  veduto  nel  capitolo  secondo. 


(1)  Somnium  Seipionis.  The  vision  of  Scipio  considered  as  a 
fragment  of  the  Mysteries,  London,  1899. 

(2)  Vestigia  Platonis  in  Gieeronis  Somnio  Scipioìiis,  1848. 

(3)  De  Posidonio  Rhodio  M.  T.  Gieeronis  in  l.  I  Tuscul.  disp. 
et  in  Somnio  Seipionis  auctore.  Bonnae,   1878. 

(4)  Di  una  fonte  greca  del  «  Somnium  Seipionis  »  di  Cicerone, 
nei  rendiconti  della  R.  Accademia  di  Archeologia,  Lettere  e  belle 
Arti  di  Napoli,  1902.  Ripubblicato  in  «  Oraecia  Capta  »,  Firenze, 
Le  Monnier,  1905. 


—  117  — 

Sicché  possiamo  ben  dire  pitagorica  l' ispirazione  di 
questo  bellissimo  frammento  ciceroniano:  tanto  più  che 
abbiamo  sentito  or  ora,  per  bocca  dello  stesso  Cicerone, 
che  opinione  Pitagora  e  i  suoi  avessero  intorno  al  sonno 
e  alle  forze  conoscitive  dello  spirito  nel  riposo  e  nella 
quiete  del  corpo. 

Questo  sogno,  poi,  secondo  le  osservazioni  di  Macrobio, 
partecipava  contemporaneamente  di  tutte  e  tre  le  forme 
principali  o  profetiche  dei  fenomeni  del  sonno,  oracolo, 
visione  e  sogno:  oracolo  (oraculum  =^  xpr^pta-ctafió?),  in 
quanto  apparvero  a  Scipione  addormentato  il  padre  Lucio 
Emilio  Paolo  e  il  padre  adottivo  Scipione  Africano  Mag- 
giore, uomini  venerandi,  che  avevano  anche  coperto  ca- 
riche sacerdotali,  e  gli  predissero  quello  che  egli  avrebbe 
fatto  come  generale  e  come  magistrato  e  la  sua  morte  a 
56  anni  ;  visione  (visio  =  Spajjta),  in  quanto  durante  il 
sonno  parve  all'  Emiliano  di  essere  trasportato  in  cielo  e 
più  precisamente  nella  via  lattea,  —  dove  avrebbe  poi 
dovuto  tornare  dopo  morto  a  godervi  la  felicità  concessa 
da  Dio  ai  buoni  reggitori  degli  Stati  —  e  di  lassù  con- 
templare r  universo  e  i  pianeti  e  la  terra  stessa  divisa 
nelle  sue  cinque  zone  ;  sogno  propriamente  detto  {som- 
nium  3=  ovetpo?),  perchè  la  profonda  verità  delle  cose  a 
lui  dette  dalla  grande  anima  di  Scipione  non  poteva  essere 
svelata  e  chiarita  senza  il  lume  dell'  ermeneutica  (1). 
Tanto  è  vero  che  il  commento  interpretativo  di  Macrobio 
è  di  gran  lunga  più  esteso  che  tutti  i  sei  libri  della  Re- 
pubblica, e  non  meno  lunga  è  la  dissertazione  di  Eulogio, 
che  verte  specialmente  intorno  alle  qualità  mistiche  dei 
numeri  e  alla  musica  delle  stelle. 


(1)  Macbobio,  1.  I,  e.  3. 


—  118  - 

b)  Volendo  dunque  Cicerone  esaltare  i  grandi  uomini 
che  -si  resero  benemeriti  della  patria  e  mostrare  quale 
premio,  dopo  la  morte,  fosse  dato  alle  loro  virtù,  quello 
cioè  di  ritornare  alla  loro  patria  celeste,  immaginò  che 
uno  degli  interlocutori  dei  dialoghi  intorno  alla  Repub- 
blica, Publio  Cornelio  Scipione  Emiliano,  narrasse  agli 
altri  interlocutori  un  sogno  da  lui  fatto  quando,  essendo 
tribuno  in  Africa,  fu  ospite  del  re  Massinissa,  grande 
amico  di  Scipione  il  Maggiore. 

Uscita  dal  corpo  durante  il  sonno,  V  anima  dell'  Emi- 
liano si  trova  trasportata,  a  un  tratto,  nella  via  lattea, 
dove,  giusta  le  credenze  dei  Pitagorici,  avevano  loro  sede 
le  anime  degli  eroi,  tanto  prima  di  scendere  in  terra  a 
vestirsi  d'  umana  carne,  come  dopo  aver  fatto  il  loro  pel- 
legrinaggio quaggiù  (1). 

Ascoltata  dall'  Africano  la  predizione  delle  sue  imprese 
e  della  sua  morte,  che  sarebbe  avvenuta    quando  la  sua 


(1)  Somnium  5,  13  :   «  Omnibus    qui   patriani  conservaverint, 
adiuverinty  auxerint,  certuni  esse  in  caelo  defìnitum    locum,    ubi 

beati  aevo  sempiterno  fruantur Harum  rectores  et  conservatores 

hinc  profeeti  huc  revertuntur  ».  Al  qual  proposito  osserva  il  Cors- 
SEN  (op.  cit.  p.  46)  che  l' idea  è  forse  presa  dai  Pitagorici.  Infatti 
a  proposito  dei  versi  12-13  del  1.  XXIV  della  Odissea,  in  cui  è 
detto  che  le  anime  dei  Proci  guidate  da  Hermes  «  andavano  alle 
porte  del  Sole  e  al  popolo  dei  Sogni  e  poi  giunsero  nel  prato  degli 
asfodeli,  dove  abitano  le  anime,  ombre  dei  trapassati  »  scrisse  Por- 
firio (àe  antro  ISiympharum,  e.  28)  che  il  popolo  dei  sogni  non 
sono  altro  che,  secondo  Pitagora,  le  anime  che  dicono  raccogliersi 
nel  cerchio  della  via  lattea.  Poiché  il  prato  degli  asfodeli  i  Pitago- 
rici appunto  lo  immaginarono  in  quel  cerchio.  Anche  Plutarco  (de 
faeie  in  orbe  lun.,  p.  943  G.)  scrisse  che  le  anime  dei  buoni  si 
indugiavano  per  un  certo  tempo  nella  parte  più  tranquilla  del  cielo 
che  chiamavano  prati  dell'  Ade. 


-  119  — 

età  avesse  percorso  «  uno  spazio  di  otto  volte  sette  giri 
e  rivoluzioni  del  sole  e  questi  due  numeri  (ognuno  dei 
quali,  per  ragioni  proprie  a  ciascuno  di  essi,  era  ritenuto 
perfetto)  avessero  compiuto  col  naturale  succedersi  degli 
anni  la  somma  a  lui  predestinata  »  (1),  e  saputo  —  quasi 
a  conforto  del  suo  triste  destino  —  che  egli  pure  sarebbe 
salito  lassù,  dove  si  trovava  anche  suo  padre  Paolo, 
«  dunque,  chiede,  siete  vivi  tu  e  mio  padre  e  gli  altri 
che  crediamo  estinti  ?»  «  E  come  !  gli  risponde  Scipione, 
anzi  noi  che  siamo  volati  quassù  liberandoci  dai  legami 
corporei  come  da  un  carcere  siamo  veramente  vivi  ;  la 
vostra,  che  si  chiama  vita,  è  morte  ».  E  riveduta,  con 
intensa  commozione,  1'  anima  del  padre,  chiede  ad  essa  : 
«  Perchè  dunque,  se  questa  è  la  vera  vita,  debbo  in- 
dugiarmi e  vivere  ancora  sulla  terra  ?  »  «  Perchè,  gli 
viene  risposto,  se  quel  Dio  a  cui  appartiene  tutto  l'uni- 
verso non  ti  ha  prima  liberato  dal  carcere  corporeo,  non 
ti  può  essere  aperto  l'adito  a  queste  sedi  beate.  Gli  uomini 
sono  stati  creati  per  dimorare  sulla  terra,  che  occupa 
il  centro  del  creato,  ed  è  stato  dato  ad  essi  l'animo, 
originario  di  quei  fuochi  eterni  che  chiamate  costellazioni 
e  stelle  e  che,  di  forma  sferica  e  circolare,  animati  da 
menti  divine,  fanno  i  loro  giri  e  descrivono  le  orbite  loro 
con  prestezza  mirabile.  Perciò  tu  e  tutti  gli  uomini  pii 
dovete  trattenere  l'animo  vostro  nei  legami  corporei  e 
non  disertare,  contro  la  volontà  di  chi  ve  l'ha  data, 
dalla  vita  d'  uomini,  perchè  non  sembri  che  voi  vogliate 


(1)  Somnium  4,  12.  Della  pienezza  o  perfezione  dei  due  nume- 
ri 8  e  7  parla  a  lungo  Macrobio  nei  capitoli  Y  e  VI,  adducendone 
partitamente  le  ragioni  ;  e  ciò,  naturalmente,  secondo  le  teorie  e 
le  speculazioni  pitagoriche.  Altrettanto  dicasi  di  Eulogio. 


—  120  — 

sottrarvi  al  compito  umano  assegnatovi  da  Dio  (1)  » .  Perciò 
il  padre  lo  esorta  ad  essere  giusto  ed  a  coltivare  la  pietà, 
perchè  così  vivendo  si  aprirà  la  via  per  ritornare  al  cielo 
fra  quel  santo  stuolo  di  anime  che,  già  vive  ed  ora  se- 
parate dalla  materia  corporea,  abitano  la  via  lattea  (2). 
Dalla  quale  poi  l' Emiliano  contempla  estatico  lo  spettacolo 
dell'  universo  stellato  e  il  roteare  dei  nove  cerchi  o  meglio 
globi,  di  cui  il  pili  esterno,  che  abbraccia  gli  altri,  è 
quello  delle  stelle  fisse,  o  firmamento,  lo  stesso  dio  su- 
premo che  tiene  uniti  e  racchiude  in  sé  tutti  gli  altri, 
cioè  i  cieli  di  Saturno,  di  Griove,  di  Marte,  del  Sole,  di 
Venere,  di  Mercurio,  della  Luna,  nel  mezzo  dei  quali  sta, 
immobile,  la  Terra  (3).  E  mentre  osserva  i  cieli  roteanti, 
ecco  lo  colpisce  un'  armonia  solenne  e  dolce,  quella  cioè 
che  è  prodotta  dal  movimento  delle  sfere  e  dal  loro  per- 
cuotere neir  aria,  onde  si  producono  suoni  acuti  e  gravi, 
che  insieme  formano  i  sette  accordi  della  lira  (4)  :  proprio 
secondo  la  dottrina  pitagorica,  che  ho  già  chiarita  nel 
capitolo  precedente.  L' ammirazione  per  la  grandezza  e 
la  novità  delle  cose  che  vede  e  ode  non  fa  però  che 
Scipione  distolga  gli  occhi    dalla  terra,  sì  che  l'Africano 


(1)  Somnium,  7,  15.  Cfr.  il  luogo  già  ricordato  del  De  seneetute 
(20,  73)  dove  è  detto  esplicitamente  che  questo  concetto  è  di  Pi- 
tagora :  «  vetat  Pythagoras  iniussu  imperatoris,  id  est  dei,  de 
praesidio  et  statione  vitae  decedere  ». 

(2)  Somnium,  8,  16. 

(3)  Tutta  questa  concezione  della  terra  immobile  nel  centro  di 
un  ambiente  sferico,  intorno  al  quale  s'aggirano  col  firmamento  i 
sette  cieli  planetarii,  è  prettamente  pitagorica  ;  e  tale  fu  pure,  se- 
condo il  Martini,  la  scoperta  della  direzione  del  corso  dei  pianeti 
e  della  eclittica.  Vedasi  il  Gìjnther,  Oeschichte  der  antiken  Natur- 
wissenschaft  in  Miiller's  Handbuch  V,  1. 

(4)  Somnium  10, 18-19.  Cfr.  Quintiliano,  Insite,  oratoria,  I,  10, 12. 


—  121  — 

gliene  mostra  parte  a  parte  i  circoli,  le  zone,  le  acque 
e  conclude  che  essa  è  campo  ben  ristretto  per  la  gloria 
degli  uomini  :  onde  la  vanità  della  gloria  stessa,  la  quale 
non  può  neppur  durare  lo  spazio  di  uno  solo  dei  grandi 
anni  mondani  (1).  «  Se  tu  dunque,  conchiude  la  grande 
anima,  vorrai  mirare  in  alto  e  tenere  volto  lo  sguardo  a 
questa  dimora  eterna,  non  curarti  dei  discorsi  del  volgo 
né  porre  la  speranza  delle  tue  azioni  nei  premi  degli 
uomini  :  bisogna  che  la  virtù  per  sé  stessa  con  le  sue 
blandizie  ti  tragga  alla  vera  gloria  »  (2).  Esaltato  dallo 
spettacolo  delle  cose  viste  e  dalle  promesse,  dalle  predi- 
zioni, dai  consigli  uditi,  l' Emiliano  promette  di  adope- 
rarsi con  tutta  r  anima  per  il  bene  della  patria  e  1'  avo 
lo  conferma  nel  suo  proposito  dichiarandogli  V  immorta- 
lità dell'  anima.  «  Ricordati  che  non  tu,  ma  il  tuo  corpo 
è  mortale  ;  e  che  tu  non  sei  quello  che  codesta  forma 
corporea  fa  apparire:  ciascuno  é  ciò  che  é  l'anima  sua, 
non  quella  parvenza  che  può  mostrarsi  a  dito.  Sappi  che 
tu  sei  DÌO;  se  divina  è  quella  forza  che  anima,  che  sente, 
che  ricorda,  che  prevede,  che  regge  e  modera  e  muove 
questo  corpo,  a  cui  è  preposta,  così  come  il  sommo  Dio 
regge,  modera,  muove  il  mondo  ;  e  come  lo  stesso  Dio 
eterno  muove  il  mondo  per  qualche  rispetto  mortale,  così 
il    fragile    corpo   è   mosso    dall'  animo    sempiterno  »   (3). 


(1)  Della  durata  di  circa  12000  anni'  comuni,  secondo  le  dottrine 
dei  Genetliaci,  dei  quali  ho  accennato  nel  capitolo   terzo. 

(2)  Somnium,   17,  25. 

(3)  Somnium,  18,  26  :  «^  Tu  vero  enìtere  et  sic  haheto,  non  esse 
te  mortalem  sed  corpus  hoc;  nee  enini  tu  is  es,  quem  forma  ista 
declarat  :  sed  mens  cuiusque  is  est  quisque,  non  ea  figura,  quae 
digito  demonstrari  potest.  Deum  te  igitur  scito  esse,  siquidem  est 
deus,  qui  viget,  qui  sentit,  qui    meminit,  qui  providet,    qui   tam 


—  122  — 

«  Tu  esercita  questo  nelle  più  nobili  cure:  e  nobilissime 
sono  le  cure  spese  per  il  bene  della  patria  (1);  onde 
l'animo  che  in  esse  si  adopera  e  si  esercita  volerà  piti 
velocemente  in  questa  sede  e  dimora  sua.  Anzi  tanto  più 
presto  vi  verrà  se,  fin  da  quanto  è  chiuso  nel  corpo  saprà 
uscirne  e,  contemplando  quel  che  è  fuori  di  esso,  stac- 
carsene il  più  possibile.  Perchè  gli  animi  di  quelli  che 
si  abbandonano  ai  piaceri  del  corpo  e  si  rendouo  quasi 
schiavi  di  essi  e,  sotto  l'impulso  dei  desideri  obbedienti 
ai  piaceri,  violano  i  diritti  divini  e  umani,  usciti  dal  corpo 
vanno  svolazzando  intorno  alla  terra  e  non  ritornano  a 
questo  luogo  se  non  dopo  aver  trascorso  in  perenne  agi- 
tazione molti  secoli  »  (2).  E  con  1'  enunciazione  di  questi 
concetti  pitagorico-platonici  il  magnifico  sogno  finisce. 


regit  et  tnoderatur  et  movet  id  corpus,  cui  praepositus  est  quam 
kune  mundum  ille  princeps  deus  ;  et  ut  mundum  ex  quadam 
parte  mortaleni  ipse  deus  aeternus,  sic  fragile  corpus  animus 
senipiternus  movet  ». 

(1)  Anche  questo,  è  bene  ricordarlo,  era  un  concetto  pitagorico; 
tanto  è  vero  che  Pitagora,  serbava  come  insegnamento  ultimo  ai 
suoi  discepoli  quello  relativo  all'  esercizio  dei  pubblici  poteri.  V. 
S.  Agostino,  de  ordine  II,  24,  54. 

(2)  Somnium,  21,  29  :  «  Hanc  tu  exerce  optimis  in  rebus  :  sunt 
autem  optimae  curae  de  salute  patriae,  quibus  agitatus  et  exer- 
citatus  animus  velocius  in  hanc  sedem  et  domum  suam  pervolabit. 
Idque  ocius  faeiet,  si  jam  tum,  cum  erit  inclusus  in  corpore, 
eminebit  foras  et  ea,  quae  extra  erunt,  contemplans  quam  maxime 
se  a  corpore  abstrahet.  Namque  eorum  animi,  qui  se  corporis 
voluptatibus  dediderunt  earumque  se  quasi  ministros  praebuerunt 
impulsuque  libidinum  voluptatibus  oboedientium  deorum  et  homi- 
num  iura  vìolaverunt,  eorporibus  elapsi  circum  terram  ipsam 
volutantur  nec  hunc  in  locum  nisi  multis  exagitati  saeculis  rever- 
tuntur  ». 


lY. 
Mimi  —  Q.  Orazio  Placco  —  P.  Virgilio  Marone. 

l.  Riflessi  pitagorici  nel  teatro  popolare.  —  2.  Pitagora  nella  poe- 
sia oraziana  :  fave,  metempsicosi,  Euforbo.  —  3.  Virgilio  e  la 
filosofia.  —  4.  La  <iuarta  ecloga.  —  5.  Le  Georgiche.  —  6.  La 
«  storia  dell'  anima  »  nel  sesto  libro  dell'  Eneide.  —  7.  Ragioni 
artistiche  di  essa  e  suo  valore  per  la  determinazione  del  pensiero 
filosofico   virgiliano. 


1.  —  Nel  tempo  del  quale  ci  stiamo  occupando  non 
è  a  credere  che  la  conoscenza  del  Pitagorismo  avesse  i 
suoi  riflessi  soltanto  negli  scritti  di  prosa  e  di  poesia  del 
genere  di  quelli  che  abbiamo  già  visti,  destinati  a  un 
pubblico  eletto  e  relativamente  limitato  ;  che  anzi  l' inse- 
gnamento fondamentale  della  dottrina  di  Pitagora,  cioè 
la  metempsicosi,  e  il  precetto  dietetico  dell'astinenza  dalle 
fave  erano  così  entrati,  come  oggi  si  direbbe,  nel  domi- 
nio pubblico,  da  essere  oggetto  di  satira  e  di  riso  nel 
teatro  popolare.  Fra  quelle  specie  di  farse  infatti  che  fu- 
rono i  mimi  è  ricordata  una  Nekyomanthia  (Evocazione 
di  morti)  di  Decimo  Laberio,  che  fu  contemporaneo  di 
Cicerone  (105-43  a.  C.)  e  del  quale  Tertulliano  ricorda 
una  satirica  interpretazione  della  metempsicosi  :   «  Insom- 


~  124  — 

ma,  se  qualche  filosofo  affermasse,  come  dice  Laberio 
secondo  1'  opinione  di  Pitagora,  che  1'  uomo  si  fa  dal  mulo 
e  la  serpe  dalla  donna,  e  in  tavore  di  questa  opinione 
volgesse,  con  parola  efficace,  tutti  gli  argomenti  possibili, 
non  incontrerebbe  1'  approvazione  di  tutti  e  non  indur- 
rebbe forse  anche  a  credere  che  ci  si  debba  perciò  aste- 
nere dalle  carni  animali?  Chi  potrebbe  esser  sicuro  di 
non  comperare  eventualmente  del  manzo  di  qualche  suo 
antenato  ?  »  (1).  Laberio  dunque  avrà  tirato  scherzosa- 
mente in  ballo  in  qualche  farsa,  della  quale  nulla  peraltro 
sappiamo,  la  teoria  di  Pitagora  ;  e  non  è  neppur  difficile 
pensare  che  gliene  abbia  data  occasione  una  situazione 
comica  in  cui  fossero  in  contrasto  1'  ostinata  cocciutag- 
gine d'  un  uomo  e  la  velenosa  malizia  d'  una  donna.  Il 
commento  e  le  deduzioni  ironiche  circa  l'astensione  dalle 
carni  che  aggiunge  Tertulliano  ricordano  quella  che  è 
forse  la  prima  testimonianza,  in  ordine  di  tempo,  che  ci 
rimanga  intorno  alla  metempsicosi  pitagorica  ;  voglio  dire 
i  noti  versi  di  un'elegia  di  Senofane  {contemporaneo  di 
Pitagora,  ma  un  po'  più  giovane  di  lui)  : 

E  dicon  eh'  egli  un  giorno,  vedendo  un  cagnuol  maltrattato, 

Ebbe  di  lui  pietà,  poscia  in  tal  guisa  parlò  : 
€  Cessa,  ne  bastonarlo,  poiché  vive  in  lui   d'  un  amico 

r  anima,  che  ravvisai,  quando  1'  ho  udita  guair  »  (2). 


(1)  Tertulliano,  Apologia,  48:  «  Age  jam,  si  qui  philosophus 
adfirmet,  ut  ait  Laherius  de  sententia  Pythagorae,  hominem  fieri 
ex  m,ulOy  colubram,  ex  muliere,  et  in  eam,  opinionem,  omnia  argu- 
m,enta  eloquii  virtute  distorserit,  nonne  consensum  movebit  et  fìdem, 
infiget  etiam  ah  animalibus  abstinendi  propterea  ?  persuasum,  quis 
habeat,  ne  forte  bubulam  de  aliquo  proavo  suo  obsonet  ?  » 

(2)  I  versi  ci  furono    conservati  da  Diogene   Laeezio   (Vili,  36) 


—  125  — 

Anche  in  questi  versi  infatti,  come  nel  commento  di 
Tertulliano,  attribuendosi  a  Pitagora  la  metempsicosi  an- 
che animale  (per  una  falsa  estensione  però,  come  ho  già 
detto),  se  ne  mette  scherzosamente  in  mostra  il  lato  ri- 
dicolo. 

Di  un  altro  mimo  dello  stesso  autore,  intitolato  Cancer, 
è  rimasto  uno  spunto  di  verso,  in  c«i  si  accenna  a  un 
«  dogma  pitagorico  »,  che  molto  probabilmente  possiamo 
ritenere  che  fosse  la  stessa  metempsicosi  (1).  Finalmente 
Cicerone  e  Seneca  ci  hanno  conservato  il  ricordo  di  un 
terzo  mimo,  di  autore  sconosciuto,  intitolato  Faba  (2), 
del  quale  sarà  forse  stato  argomento  la  satira  dello  stesso 
dogma  di  Pitagora  e  dei  precetti  riguardanti  il  vitto  e 
1'  astensione  dalle  fave  (3).  Né  è  davvero  il  caso    di  me- 


e  prendendoli  da  lui,  li  ha  citati  anche  Suida  (sotto  la  voce  Xeno- 
phanes).  Si  veda  a  proposito  di  essi  e  delle  altre  antiche  testimo- 
nianze pitagoriche  che  risalgono  ad  Eraclito,  Empedocle,  Ione,  ecc. 
ciò  che  ha  scritto  lo  Zeller  nei  Siizungsber.  d.  preuss.  Akad. 
1889,  n.  45,  pag.  985.  Si  è  recentemente  messo  in  dubbio  che 
questi  versi  si  riferiscano  a  Pitagora  ;  ma  tali  dubbi  sembrano  al 
GoMPERz  (Penseurs  de  la  Orèce,  p.  135  nota)  infondati.  Ed  ha  per- 
fettamente ragione. 

(1)  Prisoiano.  vi,  2,  pag.  679  P.  e  Anon.  Bern.  negli  Anal. 
Helvet.  dell'  Hagen,  pag.  98,  33  e  109,  3  :  «  nec  pythagoream 
dogmam  docius  ». 

(2)  Cicerone,  ad  AH.  XVI,  13  :  «  videsne  consulatum  illum  no- 
strum,  quem  Curio  antea  apotheosin  vocabat,  si  hic  factus  erit, 
fabam  mimum  futurum  ?  »  e  Seneca  Apocoloc.  9  :  o  olim  magna 
res  erat  deum  fieri,  iam  fabam  mimum  fecistis  ».  Debbo  tuttavia 
notare  che  da  qualcuno  si  è  proposto  di  leggere  ■8-aù[jia  in  luogo 
del  primo  fabam,  e  famam  in  luogo  del  secondo.  V.  in  proposito 
la  Eiv.  di  filol.  class,  del  gennaio  1913,  pag.  75-76. 

(3)  D.  Capocasale  in  un  suo  breve  lavoro  {Il  mimo  romano, 
Monteleone,  1903,  pag.  49)  pensa  che  «  forse  vi  si  dovea  mettere 


—  126  — 

ravigliarsene,  solo  che  si  consideri  con  che  argomenti 
piccini  e  con  che  sciocche  ragioni  si  cercava  di  persua- 
dere della  necessità  di  tale   astensione  (1). 

2.  —  Del  resto  anche  Orazio  (65-8  a.  C.)  si  prese 
amabilmente  gioco  di  questi  due  stessi  punti  della  dot- 
trina pitagorica.  Che  se  in  una  delle  sue  satire  rievocava 
con  vivo  senso  di  nostalgia  le  parche  cenette  di  campa- 
gna fatte  di  fave  e  di  erbaggi  conditi  col  lardo,  è  evi- 
dente che  egli  —  da  buon  epicureo  —  si  infischiava  del 
precetto  del  filosofo;  non  solo,  ma  lo  prendeva  anche  un 
po'  in  giro,  facendo  addirittura  la  fava  «  consaguinea  di 
Pitagora  »   (2). 

E  la  prima  parte  della  famosa  ode  d' Archita  non  pare, 
per  dirla    col   Pascoli,    «  un    attacco  ai  sistemi    filosofici 


in  azione  la  parentela  che  esiste  —  secondo  Pitagora  —  tra  la  fava 
e  r  uomo,  ed  il  passaggio  dell'  anima  in  una  fava  ».  Ora  queste, 
più  che  opinioni  del  severo  filosofo,  furono  certo  stramberie  di 
begli  spiriti,  che  gliele  attribuirono  per  burlarsi  meglio  di  lui  e 
delle  suo  idee,  come  fece  Orazio,  per  esempio. 

(1)  Si  veda,  per  esempio,  il.  capitolo  43  della  vita  di  Poefirionk. 

(2)  Orazio.    Sat.  II,  6,  63-64: 

0  quando  faba   Pythagorae   cognata  siwiulque 
XJneta  satis  'pingui  ponentur  oluscula  lardo  ? 

Un'  altra  scherzosa  allusione  vogliono  vedere  i  più  degli  inter- 
preti d'  Orazio  nel  v.  21  della  XII  Epist.  del  libro  I  {veruni  seu 
pisces  seu  porrun  et  caepe  trucidas)^  dove  riferendosi  il  verbo  tru- 
cidare non  solo  ai  pesci,  ma  anche  ai  porri  e  alle  cipolle  {quasi 
che  anche  in  queste,  come  nella  fava,  si  trovassero  anime  dei 
morti)  verrebbe  a  prendersi  un  po'  in  giro  1'  amico  Iccio  —  che 
s'  occupava  di  filosofia  —  e  con  lui  la  dottrina  pitagorica  della 
metempsicosi,  alla  quale  verrebbe  data  una  ben  larga  estensione. 
Qualcuno  peraltro  (per  es.  il  Ritter)  nega  ogni  allusione. 


—  127  — 

che  ammettono  la  sopravvivenza  dello  spirito,  sistemi 
quasi  personificati  in  Archytas,  per  opera  del  quale  il 
Pythagorismo  entrò  nelle  dottrine  di  Platone  ?  »  (1).  Dice 
infatti  il  poeta  :  «  Te,  o  Archita,  che  misuravi  il  mare  e 
la  terra  e  l' innumerabile  arena,  tiene  ora  fermo  presso 
il  lido  di  Matinata  lo  scarso  dono  di  poca  sabbia,  e  nulla 
ti  giova  aver  esplorato  1'  aria,  dove  altri  che  l'uomo  abita, 
e  aver  corso  per  la  volta  del  cielo  con  Tanimo  destinato 
a  morire.  È  morto  anche  il  padre  di  Pelope,  che  pur 
banchettava  con  gli  dei,  e  Titone,  che  fu  tolto  alla  terra 
e  sollevato  neir  aria,  e  Minosse,  che  fu  ammesso  agli  ar- 
cani di  Giove,  e  il  regno  dei  morti  tiene  anche  il  figlio 
di  Panto  (Euforbo),  che  scese  alF  Orco  un'  altra  volta 
(dopo  la  sua  nuova  incarnazione  in  Pitagora),  sebbene, 
con  lo  scudo  che  fece  staccare  (dalla  parete  del  tempio 
di  Giunone  argiva  in  Micene)  data  testimonianza  del 
tempo  della  guerra  trojana,  non  avesse  concesso  alla  nera 
morte  (così  affermava  lui)  niente  più  che  i  nervi  e  la 
pelle  (2);  e  tu  (che  eri  un  grande  pitagoreo),  splendido 
mallevadore  della  verace  scienza  del  tutto  lo  sai  bene.- 
Ma  tutti  ne  attende  un'  uguale  notte  senza  fine  e  tutti 
dobbiamo  calcare  una  volta  sola  (e  non  più,  come  tu  credi) 
la  via  che  conduce  sotterra.  Le  furie  offrono  alcuno  gra- 


(1)  Pascoli,  Lyra  romana,  Livorno,  Giusti,  1895,  p.  163.  Per 
altri  modi  d' intendere  quest'  ode,  che  è  la  28*  del  lib.  I,  si  veda 
il  commento  dell'  Ussani,  Le  liriche  di  Orazio,  Torino,  Loescher, 
1900,  voi.  I,  pag.  119-L22,  e  in  particolare  1' opuscolo  dello  stesso 
autore  Uode  d'  Archita.  Roma,   1893. 

(2)  habentque 

Tartara  Panthoiden  iterum  Orco 
Demissurn,  quamvis  clipeo  Trojana  refixo 

Tempora  testatus  nihil  ultra 
Nervos  atque  cutem  morti  concesserat  atrae. 


—  128  — 

dita  vista  al  bieco  Marte  ;  il  mare  insaziabile  è  ministro 
di  morte  ai  naviganti  ;  si  susseguono  senza  posa  i  fune- 
rali sì  dei  vecchi  che  dei  giovani,  l'implacabile  Proserpina 
non  ebbe  mai  rispetto  ad  alcun  capo  ». 

E.  evidente  che  qui  Orazio,  affermando  recisamente  che 
tutti,  senza  distinzione,  subiremo  un  egual  destino  mor- 
tale, e  contrapponendo  in  particolare  la  sua  affermazione 
al  ricordo  «  di  Pitagora  redivivo  » ,  come  lo  chiama  altra 
volta  (1),  fa  doli'  ironia  bella  e  buona  alle  spese  del  «  fi- 
gliuolo di  Panto  ». 

3.  —  E  Virgilio  (15  ott.  70-21  sett.  19  a.  C.j  in  qual 
conto  tenne  le  dottrine  pitagoriche  ?  Esercitarono  esse 
qualche  influsso  sul  suo  pensiero  e  lasciarono  traccio  vi- 
sibili neir  opera  sua,  dal  momento  che  sappiamo  —  per 
quello  che  ce  ne  dice  egli  stesso  e  per  quello  che  ci 
hanno  tramandato  i  suoi  biografi  e  commentatori  —  che 
egli  ebbe  grande  inclinazione  agli  studi  filosofici  e  che 
desiderio  di  tutta  la  sua  vita  fu  quello  di  potervisi  de- 
dicare di  proposito  ? 

Nel  tempo  in  cui  Figulo  e  i  Sestii  tentarono  di  far 
rivivere  in  Roma  la  filosofia  pitagorica,  è  possibile  pen- 
sare che  uno  spirito  come  quello  di  Virgilio,  colto,  cu- 
rioso e  naturalmente  portato  alle  speculazioni  filosofiche, 
non  ne  abbia  avuto  conoscenza?  Per  me  non  solo  non 
v'  è  argomento  di  dubbio,  ma  credo   di  poter  dire  anche 


(1)  In  uno  degli  Epodi  (XV,  21)  Orazio  accenna  ancora  alle 
varie  vite  di  Pitagora  nel  verso  «  nee  te  Pythagorae  fallant 
arcana  renati  »,  dove  è  da  notare  anclie  1'  allusione  al  carat- 
tere  segreto  e  misterioso  della  dottrina  (arcana)  Nelle  Satire  no- 
mina una  volta  (II,  4,  3)  Pitagora  con  Socrate  e  con  Platone  e 
nelle  Epistole  ricorda  il  sogno  pitagorico  di  Ennio  (II,  1,  52). 


—  129  — 

a;  ì^i1^    Dicerone,  come  ho  già  mo  strato  nelle   precedenti 
credette  di  ravvisare  nelle   pratiche  e  nei  prin- 
Pitagorismo  Torigine   di  molte  delle  più  antiche 
L  romane,  e  con  Cicerone  lo  avranno  creduto  na- 
;e  anche  altri.  Orbene  Virgilio,  che  con  1'  opera 
giore    mirò  a   rappresentare  in  un    meraviglioso 
r  insieme  le  origini  e  lo  svolgersi  della   potenza 
(1)  e  che  perciò  fece  lunghi  studi  intorno    alle 
)  e  alle  antichità  romane,  dovette  proprio  in  modo 
re  rivolgere  la  sua  attenzione  alla   filosofia    pita- 
a  quale  per  di  più  aveva    già   ispirato    anche  il 
Ennio^  la  cui  opera  degli  Annali  fu  uno  dei  mo- 
i  quali  fu  condotta  1'  Eneide.  Questo  mi  par   che 
i  affermare  con  certezza,  anche  indipendentemente 
3same  analitico  dell'  opera  poetica  di  Virgilio  ;  che 
procediamo  a  questo    esame  —  ancorché    molto 
rio  —  non    solo    sarà    confermata  a  posteriori   la 
induzione,  ma  dovremo  senz'altro  assentire  al  giu- 
)he  di  lui  fece  il  Fontano,  quanda  lo  disse  esplici- 
te  «  poeta    augurale  e  profondo    conoscitore    della 
la  di  Pitagora  »   (2). 

ne  tutti  sanno,  agli   studi    filosofici    Virgilio    attese 

alla    prima    giovinezza  e  fu  avviato    in    essi  da  un 

;ro  epicureo,  dal  gran  Sirene,    com'egli  lo    chiama. 

r  amore  dei    «  docta    dieta  »    di  lui    egli    avrebbe 


(1)  Servio,  ad  Aen.  VI,  752:  «  Qui  bene  consideret  inveniet 
omnem  romanam  historiarti  ab  Aeneae  adventu  usque  ad  sua 
tempora  summatim  celebrasse  Virgilium,  quod  ideo  latet  quia 
eonfusus  est  ordo,    etc.  ». 

(2)  «  Poeta  auguralis  pythagoricaeque  doctrinae  peritissimus  » , 
come  è  detto  in  una  nota  al  Commento  di  Macrobìo  al  Somnium 
Seipionis,  nella  edizione  di  Lione  del  1670,  pag.  66. 

9. 


—  130  — 

anche  rinunziato  in  gran  parte  alle  «  dolci  Muse  ^  ! 
Yano  proposito  !  che  queste  tennero  sotto  la  loro  amabile 
tirannia  1'  animo  suo,  e  Virgilio  fu  poeta  prima  che  filo- 
sofo. Filosofia  fu  in  lui  solo  in  potenza  :  i  germi  latenti 
nel  suo  pensiero  —  che  pur  si  delinea  abbastanza  chia- 
ramente a  chi  ne  mediti  l' opera  poetica  —  sarebbero 
certo  cresciuti  in  fioritura  d'  arte,  se  fosse  vissuto  più  a 
lungo,  sì  che,  condotta  a  perfezione  1'  Eneide,  egli  avesse 
potuto  finalmente  appagare  il  desiderio  —  lungamente 
maturato  e  più  volte  espresso  —  di  poter  attendere  alla 
poesia  filosofica  :  così  noi  avremmo  forse,  accanto  al  poerna 
di  Lucrezio,  alta  e  mirabile  esposizione  del  materialismo 
epicureo,  un  poema  virgiliano  informato  ai  principi  del- 
l' idealismo  pitagorico-stoico. 

L'  avviamento  epicureo  eh'  egli  ebbe  da  Sirone,  e  l'ani- 
mirazione  che  sentì  per  la  grande  arte  di  Lucrezio  la- 
sciarono bensì  qualche  traccia,  e  non  soltanto  formale, 
neir  opera  sua  giovanile,  nei  poemetti  bucolici  e  nelle 
Georgiche  ;  ma  in  queste  stesse  poesie  già  si  manifesta 
abbastanza  chiaramente  un  indirizzo  filosofico  affatto  op- 
posto. Sulla  concezione  epicurea,  ma  con  molta  libertà  e 
larghezza  di  movenze,  è  foggiata  quella  specie  di  teoria 
sull'origine  del  mondo  che  Sileno  espone  nella  sesta  ecloga 
(vv.  31  e  seguenti)  ;  ma  dobbiamo  ben  guardarci  dal  darle 
un'  importanza  maggiore  di  quella  che  essa  ha  realmente, 
col  trasferirla  da  Sileno  a  Virgilio  e  col  dedurne  perciò 
che  questi  fosse  epicureo  ;  poiché  nel  campo  dell'  arte  e 
della  poesia  sono  possibili  ben  altre  finzioni,  e  1'  artista 
fa  parlare  i  personaggi  che  sono  figli  della  sua  fantasia 
secondo  criteri  e  leggi  lor  proprie.  Non  solo,  ma  alla 
stessa  stregua  allora  altri  potrebbe  ritenere  specchio  delle 
idee  e  concezioni  virgiliane  la  quarta  ecloga,  che  fu  scritta 


—  131  — 

poco  prima  della  sesta  ;  anzi  lo  potrebbe  a  maggior  ra- 
gione, anzitutto  perchè  in  essa  il  poeta  canta  in  persona 
propria,  in  secondo  luogo  perchè  il  concetto  che  l' informa 
tornerà  insistente  e  sempre  più  preciso  negli  scritti  po- 
steriori. Ma  in  verità  il  pensiero  di  Virgilio  non  doveva 
in  quegli  anni  essere  ancora  definitivamente  orientato  e 
formato. 

4.  —  La  quarta  ecloga  fu  composta  quando  il  poeta 
aveva  ventinove  anni,  e  precisamente  alla  fine  del  41  a. 
C,  allorché  stava  per  entrare  in  carica  Asinio  Pollione, 
console  designato  per  1'  anno  successivo  (1).  Sulla  inter- 
pretazione di  questo  carene,  così  stranamente  suggestivo, 
s'  è  tanto  discusso,  che  non  si  sente  davvero  il  bisogno 
d'  una  nuova  discussione.  Basti  quindi  accennare  che  dai 
commentatori  cristiani  si  credette  di  poter  vedere  in  que- 
st'  ecloga,  scritta  in  tempi  così  vicini  all'  apparizione  del 
Cristo,  qualche  accenno  alla  imminente  venuta  del  Messia; 
anzi  il  fanciullo  di  cui  si  celebra  la  nascita  fu  addirittura 
identificato  col  Nazareno.  Non  e'  è  da  meravigliarsene, 
che  r  intuizione  artistica  —  nei  grandi  —  giunge  tal- 
volta a  tali  profondità  e  1'  espressione  poetica  acquista 
tal  forza  di  significazione  e  un  tale  carattere  "di  univer- 
salità, che  essa  par  quasi  attingere  inesauribilmente,  dalle 


(1)  Oeneralraente  si  ritiene  composta  al  principio  del  40,  anziché 
alla  fine  del  41;  ma  essendo  la  pace  di  Brindisi  stata  conchiusa 
sul  finire  del  41,  ed  essendo  avvenuta  pure  in  quello  scorcio  di 
anno  la  nascita  del  figlio  di  Pollione,  Asinio  Gallo  (che,  secondo 
Servio,  nacque  appunto  Pollione  eonsule  designato),  mi  pare  che 
non  possa  esservi  ragione  di  incertezza  ;  tanto  più  che  in  tal  modo 
meglio  s' intende  il  futuro  inibii  che  accompagna  il  te  eonsule  del 
y.  11. 


.     —  132  — 

disposizioni  dell'animo  e  dagli  atteggiamenti  del  pensiero 
di  chi  legge,  aspetti  e  valori  sempre  nuovi.  Ma  che  poi 
proprio  Virgilio  abbia  consapevolmente  profetizzato  la 
venuta  di  Cristo  per  conoscenza  che  avesse  delle  predi- 
zioni messianiche,  questa  è  un'  altra  quistione,  risoluta 
dai  critici  in  senso  non  del  tutto  negativo  (1). 

Certo  è  che,  in  occasione  della  nascita  d'  un  fanciullo 
—  che  si  ritiene  generalmente  sia  stato  Asinio  Gallo,  figlio 
di  Pollione,  a  cui  è  dedicata  l' ecloga  —  il  poeta  affermava 
ormai  venuta  1'  ultima  età  (quella  di  Apollo)  predetta  dal- 
l'oracolo  in  versi  della  Sibilla  di  Cuma,  e  sul  punto  di 
iniziarsi  da  capo,  incominciando  dall'  anno  del  consolato 
di  Pollione  (40  a.  C),  una  nuova  serie  di  generazioni 
umane,  un  nuovo  anno  mondano,  col  quale  sarebbe  tor- 
nata sulla  terra  la  vergine  Astrea  (la  giustizia)  e  sareb- 
bero tornati  i  beati  tempi  del  regno  di  Saturno  (ossia 
r  età  dell'  oro)  e  «  dall'  alto  cielo  sarebbe  fatta  scendere 


(1)  Il  Mancini  p.  es.,  nel  suo  commento  alle  Bucoliche  (Sandron, 
1903)  ha  scritto  (p.  48/  :  «  Non  si  può  appunto  escludere  assolu- 
«  tamente  (sebbene  io  non  lo  creda  necessario)  che  Virgilio  avesse 
«  in  qualche  modo  conoscenza  delle  profezie  messianiche  certo 
«  pervenuta  a  Eoma,  e  che  ne  traesse  qualcosa  per  tratteggiare 
«  il  suo  puer,  che  di  questa  conoscenza  sentisse  insomma  gli  ef- 
«  fotti  l'economia  del  carme  ».  Per  la  rinomanza  che  Virgilio  si 
acquistò  fra  i  Cristiani  con  questa  ecloga,  per  ha  quale  fu  sollevato 
alla  dignità  dei  profeti  che  predissero  la  venuta  di  Cristo,  si  veda 
il  CoMPAEETTi,  Virgilio  nel  Medio  Evo  (Firenze,  1896,  I,  p.  133 
e  seg.)  e  gli  scritti  ivi  citati.  L' interpretazione  cristiana  di  questa 
poesia  era  già  molto  in  voga  presso  gli  scrittori  del  quarto  secolo. 
Si  vedano  anche  i  lavori  di  C.  Pascal  :  Il  culto  rf'  Apollo  in  Roma 
nel  secolo  di  Augusto  e  La  questione  delV  Ecloga  IV  di  Virgilio 
(Torino,  1888),  ristampati  nel  volume  Commentationes  vergilianae 
(Palermo,  R.  Sandron,  1903). 


—  133  — 

una  nuova  progenie  d'  uomini  »  (v.  7  :  jaw,  nova  pro- 
genies  caelo  demittitur  alto).  Sì  che  il  fanciullo,  allora 
nascente,  avrebbe  visto  scomparire  del  tutto  la  «  gens 
ferrea  »  e  crescere  insieme  con  lui  la  «  gens  aurea  » 
e  «  ricevendo  la  vita  degli  dei  »  avrebbe  veduto  sulla 
terra  dei  ed  eroi  e  anch'  egli  si  sarebbe  mescolato  con 
loro:  nella  giovinezza  avrebbe  veduto  ancora  —  residui 
delle  colpe  delle  età  trascorse  (e  in  pari  tempo  condizione 
necessaria  al  ripetersi  delle  vicende  umane)  —  nuove 
spedizioni  marittime,  come  quella  d'  Argo,  e  nuove  guerre, 
come  la  trojana,  finche  poi  nella  maturità  avrebbe  goduto 
a  pieno  la  felice  pace  della  nuova  età,  della  quale  già 
si  allietavano  e  cielo  e  terra  e  mare. 

Come  si  vede  da  questo  accenno,  siamo  lontani  le 
mille  miglia  da  Epicuro  !  E  che  cos'  è  poi  questa  conce- 
zione d' una  palingenesi  che  Virgilio  tratta  con  sì  pro- 
fondo entusiasmo  poetico  ?  Pura  finzione  del  suo  spirito? 
No,  senza  dubbio.  Una  predizione  dei  carmi  sibillini  pro- 
metteva certo  con  V  età  d'  Apollo  —  1'  ultimo  dei  grandi 
periodi  della  vita  universale  —  il  rinnovamento  del  mondo 
e  il  ritorno  dell'età  dell'oro;  non  solo,  ma  teorie  filoso- 
fiche allora  correnti  e  che  ho  già  avuto  occasione  di  ri- 
cordare, ammettevano  anch'  esse  il  rinnovarsi  periodico 
dell'  universo  e  il  ripetersi  perfettamente  identico  dei  me- 
desimi eventi  e  il  ritorno  alla  vita  degli  stessi  corpi  e 
delle  stesse  anime  (teoria  pitagorico-stoica  e  dei  genetliaci). 
Pensò  dunque  Virgilio,  nel  fingere  che  proprio  col  co- 
minciare dell'anno  40  si  iniziasse  l'ultima  età  mondana 
designata  dai  carmi  sibillini,  a  queste  teorie  ?  A  me  pare 
che  non  se  ne  possa  dubitare.  Solo  ci  si  potrà  chiedere 
se  queir  <  altro  Tifi  » ,  quell'  «  altra  nave  Argo  che  tra- 
sporterà ancora  gli  eroici  compagni  »,   «  le  altre  guerre  » 


—  134  — 

che  si  rinnoveranno  e  «  il  grande  Achille  »,  che  ancora 
«  sarà  mandato  a  Troja»,  indichino  l'identico  ripetersi 
di  tali  eventi,  il  ritorno  al  medesimo  punto  della  vita 
universale,  oppure  indichino  soltanto  una  generica  legge 
dei  ricorsi  storici.  Il  vecchio  Servio  infatti,  pur  così  vi- 
cino ai  tempi  del  poeta,  non  seppe  decidere:  potendo 
quei  nomi  simboleggiare  genericamente  il  ritorno  di  eventi 
simili,  ma  non  proprio  gli  stessi.  "Certo  però  che,  asse- 
gnando Virgilio  alla  seconda  età  dell'  oro  già  imminente 
quei  medesimi,  identici  caratteri  che  la  tradizione  dotta 
e  popolare  assegnava  alla  prima,  si  sarebbe  piuttosto  in- 
dotti ad  ammettere  1'  ipotesi  che  il  poeta  abbia  raffigurato 
e  rappresentato  in  atto,  coi  colori  smaglianti  della  sua 
arte  divina,  l' avverarsi  della  teoria  pitagorico-stoica  della 
palingenesi.  E  ancora  :  parlando  della  <^  nova  progenies  », 
la  quale  «  eaelo  demittitur  alto  » ,  a  che  cosa  ebbe  pre- 
cisamente il  pensiero  il  poeta  ?  Ebbe  innanzi  alla  sua 
immaginazione  come  un  flusso  di  anime  emananti  dal- 
l'anima universale  all'  inizio  del  nuovo  anno  o  periodo 
mondano  posto  sotto  1'  egida  di  Apollo  ?  (1). 

L' anima  del  fanciullo  —  nel  pensiero  del  poeta  —  non 
v'ha  dubbio  che  appartenesse  a  questa  nuova  progenie 
spirtale:  ora,  poiché  il  fanciullo  è  chiamato  «  cara  deum 
suboles,  magnum  lovis  mcrementum  »  (v.  49),  non  par- 
rebbe che  si  dovesse  intendere  altrimenti  che  la  sua  anima 
è  emanata  pura  e  semplice  direttamente  da  Giove,  e 
Giove  starebbe  qui  a  indicare,  più  che  il  supremo  dio 
dell'Olimpo  pagano,  quel  principio  divino  che  è  l' anima 


(1)  Mi  pare,  non  ostante  il  diverso  parere  di  qualche  commen- 
tatore (p,  es.  del  Pestalozza),  che  si  debba  precisamente  dare  al- 
l' espressione  il  suo  senso  proprio  e  letterale. 


—  135  ~ 

dell'universo,  secondo  la  teoria  che  "Virgilio  doveva  an- 
cora riprendere  piìi  tardi,  nel  secondo  delle  Georgiche,  e 
che  doveva  svolgere  più  compiutamente  là  dove,  dall'ani- 
ma di  Auchise,  fa  esporre  ad  Enea,  giù  negli  Elisii,  la 
famosa  «  storia  dell'  anima  ». 

Vero  è  che,  come  ho  già  rilevato,  bisogna  andar  molto 
cauti  nella  interpretazione  di  siffatti  motivi  poetici  e  nel- 
r  inferire  da  essi  il  pensiero  filosofico  animatore  operante 
neir  artista;  che  questi  può,  indipendentemente  dai  pro- 
cessi logici  normali,  assurgere  per  pura  intuizione  alla 
visione  totale  o  parziale  di  grandi  verità.  Nel  caso  nostro 
il  poeta,  prendendo  bensì  lo  spunto  da  un  fatto  reale 
com'era  la  predizione  sibillina,  ha  forse  raccolto  intorno 
ad  essa  reminiscenze  d'altra  origine  ed  aggiunti  elementi 
nuovi  di  pura  elaborazione  fantastica;  ed  espressioni  poe- 
tiche di  tale  natura  sono  per  sé  indeterminate  e  male  si 
prestano  ad  essere  analizzate  e  misurate  con  le  rigide 
seste  della  logica.  Non  potevamo  però  non  tenerne  conto, 
almeno  come  indice  di  quella  tendenza  mistico-idealistica, 
che  ancora  e  meglio  doveva  rivelarsi  più  tardi,  in  suc- 
cessivi momenti  dell'  attività  poetica  del  nostro  autore. 

5.  —  Da  ispirazioni  così  diverse  e  lontane  come  quelle 
della  sesta  e  quarta  ecloga  appar  probabile  dunque  che 
prima  dei  trent'anni  Virgilio  non  avesse  ancora  definiti- 
vamente orientato  e  fermato  il  suo  pensiero  ;  e  forse  non 
lo  aveva  neppure  orientato  definitivamente  quando  —  dal 
37  al  30  —  compose  le  Georgiche  ;  poiché  in  queste  si 
osservano  ancora  da  un  lato  somiglianze  di  pensiero  e 
di  forma  con  il  poema  lucreziano,  e  dall'altro  si  incontrano 
immagini  e  concetti  stoico-pitagorici.  Mi  basti  ricordare, 
per  questi  ultimi,  i  bellissimi  versi  del  quarto  libro  (219- 


~  136  — 

227),  nei  quali  il  poeta  accenna,  senza  ancora  accettarla 
come  propria,  ma  con  evidente  simpatia,  la  concezione 
panteistica  (che  fu  prima  di  Pitagora  e  poi  di  Platone  e 
degli  stoici)  secondo  la  quale  1'  anima  di  tutti  gli  esseri 
viventi  non  è  che  una  parte,  più  o  meno  grande,  dello 
spirito  divino  che,  suscitando  in  mille  forme  la  vita,  per- 
vade e  penetra  tutto  1'  universo,  e  a  cui  tutto  ritorna. 

His  quidam  signis  atque  kaec  exempla  secuti 
220  esse  apibus  partem  divinae  mentis  et  haustus 

aetherios  dixere  :   deum  namque  ire  per  omnia, 
terrasque  traefusque  maris  eaelumque  profundum. 
Hine  peeudes,  armenta,  viros,  genus  omne  ferarum^ 
quemque  sibì  tenues  naseentem  arcessere  vitas  ; 
225  seilieet  hue  reddi  deinde  ae  resoluta  referri 

omnia,  nec  morti  esse  locum,  sed  viva  volare  \ 
sideris  in  numerum  atque  alto  succedere   eaelo. 

Il  filosofo,  esponendo  il  pensiero  come  di  altri  (quidam... 
dixere)^  fa  ancora  le  sue  riserve;  ma  il  poeta  evidente- 
mente vi  aderisce,  e  l'altezza  dell'arte  ci  dice  la  profon- 
dità dell'  adesione  sentimentale.  Non  solo  ;  ma  il  fatto 
che  uno  di  questi  versi  mirabili  (il  222)  non  è  nuovo, 
ma  Virgilio  lo  ha  ripreso  tal  quale  dalla  quarta  ecloga 
(v.  31),  lega  idealmente  questa  col  passo  delle  Georgiche. 

L' animo  di  Yirgilio  ha  dunque  ondeggiato  certo  a 
lungo  prima  di  aderire  a  quelle  idee  contro  le  quali  ave- 
vano combattuto  la  dottrina  di  Sirone  e  1'  arte  di  Lucrezio; 
ma  il  suo  temperamento  prima  e  poi  le  convinzioni  che 
via  via  si  vennero  elaborando  in  lui  col  maturare  degli 
anni  e  degli  studi  dovettero  riportarvelo  fatalmente  ;  sic- 
ché quando,  iniziati  gli  studi  per  1'  Eneide,  immergendosi 
tutto  nelle  ricerche  intorno  alle  origini  e  alle  antichità 
romane,  si  trovò    di    fronte  al  Pitagorismo,    che    la  leg- 


—  137  — 

genda  collegava  colla  sacra  figura  del  re  Numa,  che 
aveva  ispirato  anche  l' arte  di  Ennio  e  che  aveva  in  que- 
gli anni  cultori  come  Nigidio  e  come  i  Sestii,  egli  do- 
vette sentirsi  preso  tutto  quanto  da  quelle  idee  e  assimi- 
larle ancora  più  profondamente,  tanto  che  ad  esse  volle 
poi  dare  anche  più  precisa  e  più  degna  espressione  là  pro- 
prio dove  il  poema  attinge  la  più  alta  romanità  e  acquista 
nel  medesimo  tempo  carattere  di  universalità. 

6.  --  Al  principio  del  sesto  libro  dell'Eneide,  che  si 
riteneva  generalmente  dagli  antichi  contenesse  la  più  pro- 
fonda dottrina  virgiliana,  Servio  credette  di  dover  premet- 
tere queste  parole:  «  Tutto  Virgilio  è  pieno  di  scienza, 
nella  quale  tiene  il  primo  luogo  questo  libro,  di  cui  la 
parte  principale  è  tolta  da  Omero  (cioè  dalla  Nékyia  del 
canto  XI  dell'  Odissea).  Alcune  cose  sono  dette  semplice- 
mente (cioè  senza  allegoria),  molte  sono  prese  dalla  storia, 
molte  provengono  dall'alta  sapienza  dei  filosofi  e  teologi 
egizi;  talché  parecchi  hanno  scritto  interi  trattati  su  cia- 
scuna di  tali  cose  che  trovansi  in  questo  libro».  Di  que- 
sti trattati  peraltro  a  noi  non  ne  è  giunto  alcuno,  nemmeno 
quello,  certo  assai  interessante  dal  punto  di  vista  del 
nostro  tema,  che  scrisse  Macrobio,  1'  erudito  grammatico 
del  quinto  secolo  ;  poiché  dei  suoi  Saturnali,  che  pure 
ci  restano  in  buona  parte,  è  andata  perduta  proprio  quella 
parte  in  cui  si  conteneva  l' esame  del  valore  filosofico 
dell'  opera  virgiliana  (1).  E  un  peccato,  perchè  Macrobio, 


(1)  Il  compito  di  tale  esame  se  1'  era  assunto,  nei  dialoghi  dei 
Saturnaii,  Eustaxio,  filosofo  per  i  suoi  tempi  assai  erudito,  come 
ci  fa  sapere  Macrobio  stesso  l'I.  I,  e.  V)  ;  anzi,  per  la  superiorità 
della  filosofia  sopra  ogni  altro  ordine  di  cognizioni,  1'  esposizione 
di  Eustazio  era  la  prima  di  tutte,  come  appare  da  ciò  che  è  detto 


—  138  — 

come  neo-platonico,  avrà  certo  messi  in  rilievo  gii  ele- 
menti pitagorico-platonici  del  pensiero  di  Virgilio,  del 
quale,  per  esempio,  ricordando  nel  commento  al  Somnium 
Scipionis  (I,  6,  44)  il  terque  quaterque  beati,  riconosce 
neir  espressione  la  dottrina  pitagorica  dei  numeri  (1). 

Non  è  certo  il  caso  di  andar  cercando,  come  qualche 
antico  ha  fatto  (2),  in  ogni  espressione,  in  ogni  parola 
di  questo  mirabile  libro,  al  quale  doveva  ispirarsi  Dante 
Alighieri,  i  sensi  più  reconditi,  le  piti  astruse  allegorie, 
e  di  immaginare  le  intenzioni  più  riposte  del  poeta  nel 
comporlo.  Ma  sopra  un  punto  in  particolare,  che  è  come 
la  chiave  di  volta  di  questo  canto  e  che  indubbiamente 
è  di  quelli  che  Servio  ha  detto  provenire  dall'alta  sa- 
pienza dei  filosofi  e  teologi  egizi,  noi  fermeremo  la  nostra 
attenzione.  ♦ 

Enea,  con  la  scorta  della  Sibilla  di  Cu  ma  è  sceso  al- 
l' Inferno.  Passata  la  palude  Stigia  sulla  barca  di  Caronte, 
attraversato  1'  anti-inferno  o  limbo  (dove  sono  le  anime 
dei  neonati,  dei  condannati  a  morte  ingiustamente,  dei 
suicidi)  e  ai  campi  dolorosi  (dove  sono  i  morti  per  causa 
d'  amore  e  famosi  guerrieri),  lasciato  a  sinistra  il  Tartaro 


nel  e.  XXIV  dello  stesso  1.  I.  Senonchè  il  libro  seguente  è  mu- 
tilo ;  e  la  mutilazione  è  forse  dovuta  allo  zelo  degli  scrittori  cri- 
stiani, e  si  deve  far  risalire  al  tempo  in  cui  questi  tendevano  ad 
accentuare  il  carattere  profetico-cristiano  di  Virgilio. 

(1)  Por  Maorobio,  Virgilio  non  solo  è  dotto  in  ogni  genere  di 
sapere,  ma  è  decisamente  infallibile.  Nel  commento  al  Somnntm 
lo  dice  nullius  disciplinae  expers  (I,  6,  44)  e  diseiplinarum  om- 
nium perìHssimus  (I,  15,  12)  ;  così  nei  Saturnali  (I,  16,  12)  : 
omnium  diseiplinarum  peritus. 

(2j  Per  esempio  Elio  Donato,  il  quale  attribuiva  a  Virgilio  un 
sapere  straordinario  e  cercò  nei  suoi  versi  dottrine  risposte  e  scopi 
filosofici  ai  quali  certamente  non  aveva  pensato  mai. 


—  139  — 

(dove  subiscouo.  le  pene  più  orribili  le  anime  di  tutti  co- 
loro che  in  qualche  modo  hanno  violato  le  Jeggi  umane 
e  divine)  è  giunto  nell' ampio  Elisio,  liete  pianure  che 
sono  il  felicissimo  regno  dei  beati 

locos  laetos  et  amoena  mrecta 

630  fortunatorum  nemorum  sedesque  heatas. 

Quivi,  in  una  luce  perpetuamente  serena  e  fiammante, 
le  anime  dei  beati  (eroi  morti  per  la  patria,  sacerdoti, 
poeti,  filosofi  ed  artisti,  benemeriti  della  umanità)  trascor- 
rono la  vita  su  colli  ameni  e  per  valli,  in  prati  ed  in  bo- 
schetti, sulle  rive  di  ameni  ruscelli,  continuando  le  loro 
abitudini  ed  occupazioni  terrene  :  fra  esse  è  Museo,  al 
quale  Enea  chiede  notizie  d'  Anchise  e  che  gli  si  offre 
per  guida.  Il  padre  d'  Enea  stava  in  quel  momento  ad 
osservare  con  attenzione  le  anime  che  si  trovavano  chiuse 
nel  fondo  di  una  valle  verdeggiante,  destinate  a  ritornare 
alla  vita  terrena,  passando  in  rassegna  fra  esse  quelle 
che  dovevano  rincarnarsi  nei  suoi  discendenti,  per  cono- 
scerne il  destino,  le  vicende,  il  carattere,  le   opere  future. 

At  pater  Anchises  penitus  eonvalle  virenti 
680  inclusas  animas  superumque  ad  lumen  ituras 

lustrabat  studio  recolens  omnemque  suorum 
forte  recensebai  numeruni  carosque  nepotes 
fataque  fortunasque  virum  7noresque  manusque. 

Avviene  fra  padre  e  figlio  un  commoventissimo  incon- 
tro, dopo  il  quale  Enea  vede  da  un  lato  della  valle  un 
bosco  appartato  e  cespugli  pieni  di  suoni  e  il  fiume  Lete 
(il  fiume  dell'  oblio)  che  lambisce  quelle  placide  sedi  e 
intorno  a  questo  una  infinita  moltitudine  di  anime  svo- 
lazzanti e  che  riempiono  tutta  la  pianura    del    loro    sus- 


—  140  — 

surro,  simile  al  ronzio  che  fanno  pei  prati,  nei  sereni 
meriggi  estivi,  le  api,  quando  si  posano  su  ogni  sorta  di 
fiori  e  si  addensano  intorno  ai  candidi  gigli  (1).  L'  eroe, 
stupito,  ne  chiede  al  padre  la  ragione,  e  che  fiume  sia 
quello,  e  che  uomini  quelli  che  si  affollano  così  nume- 
rosi sulle  sue  rive.  E  il  padre  subito  gli  risponde  :  «  Le 
anime  alle  quali  è  dovuto  per  destino  un  altro  corpo, 
bevono  alle  onde  del  fiume  Lete  le  acque  che  sigilleranno 
in  loro  per  lungo  tempo  il  ricordo  degli  affanni  e  della 
vita  trascorsa  »: 

animae,  quibus  altera  fato 
corpora  debentur,  Lethaei  ad  fluminis  unda'm 
715  seeuros  latices  et  longa  oblivia  potant. 

Queste  anime  appunto  egli  si  accinge  a  mostrargli, 
enumerandogli  e  indicandogli  fra  esse  tutti  i  suoi  di- 
scendenti (i  re  Albani  e  gli  eroi  gloriosi  di  Roma  da 
Silvio  a  Marcello  il  giovane)  perchè  s'  allieti  con  lui  di 
essere  finalmente  giunto  alle  spiaggie  d' Italia.  Ed  Enea 
subito  gli  chiede  :  «  0  padre,  si  deve  dunque  credere 
che  alcune  anime  di  qui  tornino  alla  luce  del  cielo  e  ri- 
tornino una  seconda  volta  nell'  impaccio  del  corpo  ?  qual 
mai  assurdo  desiderio  della  vita  terrena  hanno  le  infe- 
lici ?  »  : 

0  pater,  anne  aliquas  ad  caelum  hinc  ire  puiandum  est 
720    sublimis  animas  iterumque  ad  tarda  reverti 

corpora  ?  quae  lueis  miseris  iam  dira  cupido  ? 


(1)  Nella  concezione  orfica  pare  che  le  anime  destinate  alla  pa- 
lingenesi fossero  chiamate  api  ;  donde  la  ragione  della  similitudine 
(Sabbadini). 


—  141  — 

Ed  ecco  subito  Anchise  esporgli  quella  eh*  io  ho  chia- 
mata la  storia  dell'anima  : 

«  Anzitutto  un'  interiore  forza  spirituale  anima  il  cielo, 
la  terra,  i  mari,  la  luna,  il  sole,  le  stelle,  e  un'  intelli- 
genza infusa  per  tutte  le  sue  parti  agita  e  compenetra 
la  gran  mole  dell'  universo.  Di  qui  gli  uomini  e  gli  ani- 
mali che  vivono  sulla  terra,  che  volano  per  1'  aria^  che 
si  muovono  negli  abissi  del  mare  :  essi,  particelle  dell'a- 
nima universale  disseminate  nello  spazio,  hanno  vigore 
etereo  e  origine  celeste  ;  ma,  più  o  meno,  li  inceppa  la 
lue  corporea  e  le  membra  terrene  e  periture  li  ottun- 
dono. Oud'  è  che  essi  vanno  soggetti  a  timori  e  desideri, 
a  gioie  e  dolori  e,  chiuse  nelle  tenebre  e  in  cieco  car- 
cere, le  anime  disconoscono  il  cielo  onde  derivano.  Tanto 
che,  anche  quando  nel  dì  del  trapasso  le  abbandona  la 
vita,  non  si  stacca  tuttavia  dalle  infelici  ogni  male  né 
le  lasciano  interamente  le  sozzure  corporee  ;  molte  delle 
quali  anzi;  avendole  profondamente  intaccate,  devono  ne- 
cessariamente crescere  nel  loro  intimo  per  lungo  tempo 
in  modi  meravigliosi.  Perciò  sono  sottoposte  a  pene  e 
pagano  con  supplizi  il  fio  delle  passate  colpe  :  delle  cui 
infezioni  alcune  si  purificano  rimanendo  sospese  ed  espo- 
ste all'  azione  dei  venti,  altre  immerse  in  un  profondo 
abisso  d' acqua  (negli  abissi  oceanici  ?),  altre  bruciando 
nel  fuoco.  Tutti  subiamo  da  morti  la  nostra  espiazione, 
dopo  la  quale  passiamo  nell'  ampio  Elisio  ;  e  pochi  sol- 
tanto restiamo  nelle  sue  liete  pianure,  finche  un  lungo 
volgere  d'anni,  compiuto  il  tempo  prescritto,  cancella  le 
traccio  d'ogni  sozzura  contratta  nel  corpo  e  lascia  puro 
il  senso  etereo  e  il  fuoco  della  semplice  aura.  Tutte 
queste  invece,  quando  son  volti  mille  anni,  sono  chiamate 
da  Dio  in  gran  numero  al  fiume  Lete,  perchè,  immemori 


—  142  — 

del  passato,  rivedano    la    volta    del    cielo  e  comincino  a 
sentire  di  nuo^vo  la  volontà  di  rincarnarsi  nei  corpi  v. 

«  Principio  caelum  ac  terras  camposque  liquentis 
725     lucentemque  globum  lunae  Titanìaque  astra 

spiritus  intus  alit  totamque  infusa  per    artus 

mens  agitai  molem  et  magno  se  corpore  miscet. 

inde  hominum  pecudumque  genus  vitaeque  volantum 

et  quae  marmoreo  feri  monstra  sub  aequore  pontus. 
730    igneus  est  oUis  vigor  et  caelestis  origo 

seminibus,  quantum  non  noxia  corpora  tardant 

terrenique  liebetant  artus  moribundaque  membra. 

hinc  metuunt  cupiuntque,  dolent  gaudentque,  neque  auras 

dispiciunt  clausae  tenebris  et  carcere  caeco. 
735    quin  et  supremo  cum  lumino  vita  reliquit, 

non  tamen  omne  malum  miseris  nec  funditus  omnes 

corporeae  excedunt  pestes,  penitusque  necesse  est 

multa  diu  concreta  modis  inolescere  miris. 

ergo  exercentur  poenis  veterumque  malorum 
740     supplicia  expendunt.  aliae  panduntur  inanes 

suspensae  ad  ventos,  aliis  sub  gurgite  vasto 

infectum  elicitur  scelus  aut  exuritur  igni  ; 

quisque  suos  patimur  manis  ;  exinde  per  amplum 

mittimur  Elysium  ;  et  pauci  laeta  arva  tenemus, 
745    donec  longa  dies,  perfecto  temporis  orbo, 

concretam  exemit  labem  purumque  relinquit 

aetherìum  sensum  atque  aurai  simpliois  ignem. 

has  omnis,  iibi  mille  rotam  volvere  per  annos, 

Lethaeum  ad  fluvium  deus  evocai  agmine  magno, 
750     scilicet   immemores  supera  ut  convexa   revisant 

rursus  et  incipiant  in  corpora  velie  reverti  ». 

Qui  non  siamo  più  di  fronte  evidentemente  a  concetti 
vaghi  e  imprecisi,  ma  all'  esposizione  alta  e  solenne  di 
una  teoria,  nella  quale  è  riaffermato  anzitutto  (vv.  725- 
729)  il  concetto  di  uno  spirito  immanente  nell'  universo, 
di  carattere  divino  e  intelligente,  di  cui    tutti  gli    esseri 


—  143  — 

animati  —  uomini  e  bruti  —  sono  delle  manifestazioni  ; 
cioè  il  medesimo  concetto  che  abbiamo  già  veduto  nel 
quarto  delle  G-eorgiche,  e  perfettamente  identico  a  quello 
che  Cicerone,  come  s'  è  visto,  attribuiva  a  Ferecide,  mae- 
stro di  Pitagora  (1).  Di  piti  la  forza  spirituale,  di  origine 
divina  ed  eterea,  che  è  nell'  uomo  e  negli  animali,  e 
concepita  in  perfetta  antitesi  con  la  materia  del  loro 
corpo,  che  è  per  l'anima  un  carcere,  un  peso,  un  impe- 
dimento, e  che  è  la  causa  degli  errori,  delle  passioni, 
delle  colpe,  dei  traviamenti.  Sicché  la  vita  è  un  male 
(vv.  730-734).  Anche  questo  concetto  di  un  dualismo  o 
antagonismo  fra  spirito  e  materia  non  ò  nuovo  ed  ap- 
partenne già  anch'  esso  all'  antica  filosofia  pitagorica,  come 
s'  è  pure  veduto  (2).  Ma  se  la  vita  è  un  male  per  tutti, 
per  i  malvagi  e  per  i  buoni,  tutti,  dopo  la  morte,  deb- 
bono purificarsi  delle  infezioni  corporee.  La  purificazione 
infatti  avviene  per  mezzo  di  pene  e  di  tormenti,  non 
però  eterni,  che  debbono  subirsi  per  il  tempo  necessario 
all'  espiazione  perfetta. 

Ne  sono  mezzi  i  tre  elementi  dell'  aria,  dell'  acqua  e 
del  fuoco  (quelli  stessi  che  si  adoperavano  appunto  nelle 
cerimonie  simboliche  dei  misteri).  Dopo  1'  espiazione  pu- 
rificatrice tutte  le  anime  passano  nell'  Elisio,  luogo  di 
beatitudine,  dove  alcune  poche,  quelle  degli  eletti  che 
furono  in  terra  i  migliori,  rimangono  a  godere  una  serena 
felicità,  anche  questa  non  eterna,  ma  che  dura  fintantoché 
non  sia  compiuto  il  tempo  prescritto  —  tempo  assai 
lungo,  quanto  è  necessario  perchè  si  esaurisca  e  scom- 
paia da  sé  il  loro  attaccamento  alla  vita  terrena  e  il  ri- 


Ci  i  De  Natura  Deorum  1,  li,  27  e  De  Senectute  21,  78. 
(2)  Cicerone,  Somnium  Seipìonis,  ?,  15  e  altrove. 


—  144  — 

cordo  delle  belle  opere  umane  (1)  —  per  riprendere  poi 
la  primitiva  natura  eterea  e  spirituale  e  di  nuovo  dis- 
solversi in  seno  all'  anima  universale.  Le  altre  invece,  e 
sono  la  gran  maggioranza,  trascorsi  mille  anni  in  una 
delle  convalli  confinanti  con  1'  Elisio,  vengono  chiamate 
da  Dio  a  bere  nelle  acpue  purificatrici  del  fiume  Lete 
r  oblio  della  vita  trascorsa  e  si  incarnano  in  nuovi  corpi. 
Non  s' intende  peraltro,  poiché  Anchise  non  lo  dice,  se 
queste  ultime  anime,  destinate  a  nuova  vita,  quando  ri- 
torneranno poi  ancora,  dopo  la  seconda  morte  e  conse- 
guente espiazione  negli  elementi,  all'  Elisio,  vi  resteranno 
tutte  in  attesa  di  convertirsi  in  puro  etere  e  spirito,  o 
se  parte  di  esse  dovrà  ritornare  nuovamente  sulla  terra. 
Nel  primo  caso  il  numero  delle  esistenze  terrene  sarebbe 
limitato  ad  un  massimo  di  due  —  una  con  prevalenza 
del  male  e  una  del  bene  — ,  nel  secondo  sarebbe  inde- 
finito. Ma  in  un  modo  o  nell'  altro  la  teoria  della  resur- 
rezione è  assai  chiara  e  il  ciclo  dell'  esistenza,  dal  mo- 
mento in  cui  r  anima  si  stacca  dallo  spirito  universale 
fino  al  momento  in  cui  si  ricongiunge  ad  esso,  è  perfet- 
tamente conchiuso  ;  il  concetto  panteistico  e  il  processo 
di  involuzione  ed  evoluzione  dello  spirito,  appena  accen- 
nati nel  quarto  delle  Georgiche,  sono  qui  svolti  compiu- 
tamente. Né  si  può  dubitare  che  anche  1'  ultima  parte 
che  si  riferisce  alle  pene  e  ai  premi  d'oltretomba  (vv.  735- 
747)  e  che  espone  la  dottrina  della  metempsicosi  (vv.  748- 
751),  sia,  come  le  prime,  foggiata  secondo  i  principi  del- 
l' Orficismo  e  del  Pitagorismo. 


(1)  Appunto  per  tale  attaccarne nto,  esse  continuano    nell'  Elisio 
le  occupazioni  a  cui  attendevano  sulla  terra. 


—  145  — 

7.  —  Sarebbe  certo  oltremodo  interessante  svolgere 
questi  principii  fino  alle  ultime  conseguenze  logiche,  e 
chiederci,  per  esempio,  se  in  tale  concezione  il  processo 
di  emanazione  delle  anime  dallo  spirito  universale  avve- 
nisse una  volta  tanto,  o  ad  intervalli,  o  ininterrottamente. 
Si  vedrebbe  allora  che,  non  potendo  avvenire  ne  una 
volta  tanto  (perchè  in  tal  caso,  col  ritornare  continuo 
delle  anime  individuali  in  seno  all'  anima  universa,  ne 
sarebbe  seguita  in  un  determinato  momento  la  scom- 
parsa della  vita  dalla  terra),  né  ininterrottamente  (parche 
in  tal  caso,  essendo  sempre  infinitamente  maggiore  il 
numero  dei  cattivi  che  non  quello  dei  buoni,  a  un  certo 
punto  sarebbe  prevalso  irrimediabilmente  sulla  terra  il 
male),  ma  dovendo  considerarsi  come  avverantesi  ad  in- 
tervalli, r  idea  di  tale  processo  d' emanazione  si  ricolle- 
gherebbe alla  teoria  già  accennata  dei  grandi  anni  mon- 
dani (1).  Così  ancora,  poiché  dall'  anima  universale  ema- 
nano non  solo  quelle  degli  uomini,  ma  anche  quelle  dei 
bruti,  ci  si  potrebbe  chiedere  che  cosa  dovesse  avvenire 
di  queste,  alla  morte  dei  loro  corpi.  E  si  vedrebbe  come, 
dal  modo  in  cui  dovette  esser  risolto  questo  problema  da 
qualcuno,  potrebbe  esser  nata  appunto  l'ipotesi  —-  quasi 


(1)  Ognuno  di  questi  anni  o  periodi  della  vita  universale  era 
diviso  in  dieci  mesi  (di  mille  anni  ciascuno)  e  ogni  mese  era  sotto 
il  particolare  influsso  d'  una  delle  divinità  maggiori,  concepita  forse, 
filosoficamente,  come  aspetto,  manifestazione,  atteggiamento,  ema- 
nazione particolare  del  dio  universale.  La  durata  però  degli  anni 
stessi  era  computata  anche  altrimenti,  ma  sempre  di  parecchi  se- 
coli ;  e  in  ciascun  anno,  che  si  iniziava  con  un  processo  sempre 
identico  di  emanazione,  ritornavano  sulla  terra  le  stesse  anime  e 
si  ripetevano  gli  stessi  eventi.  Si  ricordi  quel  che  abbiamo  visto 
più  su  (§  4)  parlando  della  quarta  ecloga. 

10. 


—  146  — 

unanimemente  attribuita  a  Pitagora  —  d'  una  metempsi- 
cosi anche  animale  (1). 

Ma  prescindendo  da  queste  considerazioni,  che  ci  por- 
terebbero al  di  là  di  quello  che  Virgilio  ci  ha  voluto  o 
potuto  dire,  come  si  concilia  questa  storia  dell'  anima 
con  tutta  la  rappresentazione  precedente  dell'  anti-inferno 
e  del  Tartaro  ?  È  evidente  che  una  contraddizione  fon- 
damentale esiste  :  che  1'  esistenza  delle  anime  nel  prein- 
feruo  e  le  punizioni  evidentemente  eterne  che  subiscono 
quelle  dei  malvagi  nel  Tartaro  non  si  possono  accordare 
con  le  pene  temporanee  per  mezzo  dei  tre  elementi.  Sic- 
ché noi  siamo  indotti  a  pensare  che  nella  rappresentazione 
virgiliana  dell'  oltre  tomba  si  debba  forse  vedere  un  ten- 
tativo mal  riuscito  —  per  la  mancata  elaborazione  ultima 
del  poema,  impedita  dalla  immatura  morte  di  Virgilio  — 
di  fondere  insieme  quella  che  era  rappresentazione  po- 
polare e  il  concetto  o  rappresentazione  filosofica  del  poeta. 

E  poiché,  considerata  in  sé  stessa,  questa  storia  sug- 
gestiva e  profonda  ha  un  senso  compiuto  e  perfetto,  e 
d'  altra  parte  sappiamo  che  Virgilio  compose  1'  Eneide  a 
pezzi  staccati,  che  poi  collegava  insieme,  non  vorrebbe 
la  voglia  di  credere  che  essa  sia  stata  scritta  a  parte, 
fors'  anche  indipendentemente  e  in  tempo  anteriore  a 
quello  della  composizione  del  poema,  e  poi  opportuna- 
mente inserita  in  questo,  allorché  il  poeta  —  artista,  fi- 


(1)  Qualcuno  cioè  potrebbe  aver  pensato  che  le  incarnazioni  del- 
l' anima  fossero  non  tutte  necessariamente  in  corpo  umano,  ma 
anche  in  corpi  d'animali,  terrestri,  acquatici  od  aerei,  secondo  che 
le  colpe  precedenti  fossero  da  espiare  nell'uno  piuttosto  che  nel- 
r  altro  elemento  :  e  la  vita  animale  avrebbe  perciò  rappresentato 
uno  stato  di  vita  intermedio  fra  due  vite  umane. 


—  147  — 

losofo,  cittadino  nello  stesso  tempo  —  concepì  l'idea  di 
valersi,  per  esaltare  la  grandezza  della  Patria  e  per  la 
rappresentazione  dei  grandi  spiriti  di  Roma,  della  dot- 
trina della  metempsicosi,  antichissima  e  largamente  dif- 
fusa e  conforme  alle  credenze  religiose  dei  suoi  concit- 
tadini e  già  consacrata  dall'  arte  di  Ennio  ?  Anzi  non  mi 
parrebbe  neppure  arrischiato  il  pensare  che  si  dovesse 
proprio  vedere  in  essa  un  brano  di  quel  poema  della 
Natura  al  quale  Virgilio  già  pensava  quando  finì  il  se- 
condo canto  delle  Georgiche  (vv,  475-494),  e  forse  ad- 
dirittura il  principio  del  poema  stesso  o  1'  idea  madre 
eh'  esso  avrebbe  svolta  :  principio  ed  idea  eh'  egli  certo 
prese  e  imitò  da  Ennio,  i  cui  Annali,  come  abbiamo  ve- 
duto, si  iniziavano  appunto  con  1'  esposizione  della  dot- 
trina della  metempsicosi  (1).  In  tale,  ipotesi  dunque  la 
teoria  messa  in  bocca  ad  Anchise  non  sarebbe  soltanto 
una  finzione  poetica,  un  mezzo  artisticamente  perfetto 
per  ottenere  una  grande  e  suggestiva  efficacia  di  rappre- 
sentazione, ma  esprimerebbe  la  genuina  e  schietta  con- 
cezione di  Virgilio,  il  risultato    ultimo  di  quel    contra^^to 


(1)  Molti  raffronti  fra  Ennio  e  Virgilio  fa  Macrobio  nel  l.  VI 
dei  Saturnali;  ma,  per  dire  la  verità,  non  vi  è  cenno  alcuno  di 
rapporti  formali  o  sostanziali  fra  1'  esposizione  di  Anchise  ad  Enea 
e  quella  di  Omero  ad  Ennio.  Potrebbe  darsi  tuttavia  che  se  ne 
parlasse  in  quella  parte  dei  Saturnali  che  è  andata  perduta  e  nella 
quale  appunto  si  conteneva  1'  esame  del  valore  filosofico  dell'opera 
virgiliana  fatto  da  Eustazio.  D'  altra  parte  però  è  indubitabile  una 
effettiva  somiglianza  di  contenuto  fra  i  due  squarci  poetici,  come 
sono  indubbie  alcune  analogie  di  pensiero  fra  i  due  poeti.  E  gli 
arcaismi  che  si  trovano  in  Virgilio  {ollis,  aurai)  potrebbero  essere 
un  altro  indizio  d'  imitazione  enniana.  —  Anche  il  Pascal  (Gom- 
mentat.  vergilianae,  p.  143  sgg.)  ha  dimostrato  che  Virgilio  ha 
derivato  la  sua  esposizione  dottrinale  dal  proemio  degli  Annales. 


—  148  — 

a  cui  abbiamo  accennato  fra  l' idealismo  pitagorico-stoico 
e  il  materialismo  epicureo,  sarebbe  insomma  il  suo  testa- 
mento filosofico.  Mirabile  testamento  davvero,  che  la- 
sciava in  eredità  alle  più  lontane  generazioni  l' alta  e 
sublime  espressione  artistica  d'una  teoria  che,  sorta  agii 
albori  del  pensiero  nelle  più  remote  età  dell'  uomo,  tra- 
smessa di  generazione  in  generazione  da  una  civiltà  al- 
l' altra,  dall'  Oriente  all'  Occidente,  custodita  con  cura 
gelosa  nel  mistero  dei  santuari,  insegnata  come  la  verità 
più  sacra  e  più  recondita,  s'  illuminò  ancora  una  volta, 
come  già  nei  miti  immortali  di  Platone,  alla  luce  della 
poesia  e  dell'  arte. 


V. 
Pitagora  e  U  sne  dottrine  nella  poesia  di  Ovidio. 

1.  La  tradizione  di  Numa  scolaro  di  Pitagora  in  Ovidio.  —  2.  Na- 
•  tura,  estensione,  contenuto  degli  insegnamenti  pitagorici  secondo 
il  canto  XV  delle  Metamorfosi  ;  vegetarianismo  ;  metempsicosi  ; 
flusso  universale  della  materia  e  trasformazioni  cosmiche  e  so- 
ciali; Pitagora  profeta  della  grandezza  di  Roma  e  d'Augusto.  — 
3.  Ovidio  e  il  Pitagorismo.  —  4.  Fonti  e  valore  storico  della 
esposizione  ovidiana.  —  5.  Conclusione. 

1.  —  Ho  già  parlato  nel  cap.  I  della  tradizione,  se- 
condo la  quale  il  re  Numa  Pompilio  sarebbe  stato  sco- 
laro di  Pitagora.  Raccogliendo  là  tutte  le  testimonianze 
di  questa  tradizione,  ho  anche  accennato  a  quella  che  ne 
fa  Ovidio  (43  a.  C.  - 17  d.  C.)  nel  quindicesimo  e  ultimo 
canto  delle  Metamorfosi  (vv.  1-8,  479-484).  Essa  ha  una 
importanza  specialissima  e  merita  di  essere  studiata  sepa- 
ratamente dalle  altre  anche  per  questo,  che  della  tradi- 
zione stessa  il  poeta  si  vale  per  fare  un'esposizione,  se 
non  profonda,  tuttavia  molto  estesa  —  la  più  estesa  e  la 
pili  organica  che  ci  rimanga  nella  letteratura  romana  — 


150 


della  tìlosofia  pitagorica,  specialmente  in  attinenza  a  due 
punti  fondamentali  di  essa:  l'astensione  dai  cibi  carnei  e 
la  metempsicosi. 

Dice  dunque  Ovidio  (vv.  1S\  che,  scomparso  Romolo, 
si  cercò  subito  chi  potesse  addossarsi  un  peso  tanto  grave 
com'era  il  governo  di  Roma,  succedendo  a  un  tal  re,  e 
che  una  fama  non  menzognera  designò  all'impero  Numa, 
già  famoso  per  la  sua  giustizia,  per  la  sua  pietà,  e,  so- 
pratutto, per  la  sua  sapienza:  che,  non  solo  conosceva  a 
perfezione  i  riti  della  sua  gente,  la  gente  Sabina,  ma, 
abbracciando  con  la  vasta  anima  più  larghi  concepimenti 
ed  essendo  avido  di  scrutare  i  più  ardui  problemi  della 
natura,  aveva  abbandonato  la  nativa  Curi  e  si  era  recato 
a  Crotone  : 

Quaeritur  interea  qui  tantae  pondera  niolis 
Sustineat,  tantoque  queat  succedere  regi. 
Destinai  imperio  elarum  praenuntia  veri 
Fama  Numam.  Non  ille  satis  cognosse  Sabinae 
5  Oentis  habet  ritus  :  animo  maiora  capaci 

Goncipit,  et  quae  sit  rerum  naiura  requirit. 
Iluius  amor  curae,  patria  Guribusque  relictis, 
Fecit,  ut  Herculei  penetraret  ad  hospitis  urbem. 

Quivi  insegnava  Pitagora  —  e  segue  appunto  nei  versi 
60-478,  l'esposizione  delle  dottrine  di  questo  filosofo,  che 
or  ora  esamineremo  —  e  Numa  ne  ascoltò  le  lezioni;  dopo 
di  che  ritornò  in  paCria  e  prese  le  redini  del  governo  di 
Roma,  insegnando  al  popolo  del  Lazio  i  riti  sacrificali  e 
le   arti  della  pace: 

Talibus  atque  aliis  instructo  pectore  dictis 
480  tn  patriam  remeasse  ferunt.,  ultroque  petitum 

Acoepisse  Numam>  populi  Latiaris  kabenas: 
Goniuge  qui  felix  nym^pha  ducibusque  Gamenis 


—  151  — 

Sacrificos  docuit  ritus,  gentemque  feroci 
Adsuetam  bello  pacis  traduxit  ad  artes. 

Come  si  vede  —  e  l'ho  già  rilevato,  —  Ovidio  non 
solo  accetta  senza  discuterla,  come  cosa  ovvia  e  risaputa^ 
la  tradizione  che  faceva  di  Numa  un  discepolo  di  Pita- 
gora, ma  vien  pure  in  certo  modo  a  mettere  in  connes- 
sione di  dipendenza  le  istituzioni  religiose  attribuite  a 
Numa  e  l' educazione  pitagorica  da  lui  ricevuta  ;  per 
quanto  con  l'accennata  collaborazione  della  ninfa  Egeria 
e  delle  Camene  la  leggenda  abbia  certamente  voluto  rap- 
presentare la  parte  che  ebbe  l'elemento  indigeno  nella 
creazione  degl'istituti  religiosi  romani  del  piìi  antico  pe- 
riodo regio  (1).  Il  poeta  pertanto,  non  tenendo  conto  dei 
dubbi  e  delle  critiche  messe  innanzi  da  qualche  erudito, 
preferì  seguire  senz'altro  la  tradizione  leggendaria,  che 
pur  Cicerone  aveva  chiamata  inveteratus  hominum  ei-ror; 
e  ciò  non  tanto  perchè  siffatta  tradizione  gli  offriva  mi- 
rabilmente il  modo  di  esporre  quella  dottrina  della  me- 
tempsicosi ch'era  la  piìi  naturale  conclusione  d'un  poe- 
ma come  le  Metamorfosi,  quanto  perchè,  molto  probabil- 
mente, la  tradizione  era  più  che  mai  viva  nella  coscienza 
dei  contemporanei,  per  i  quali  il  poeta  scriveva  (2),  mas- 
sime dopo  la  recente  rinascita  del  Pitagorismo  in  Roma. 


(1)  Lo  stesso  Ovidio,  in  altro  luogo  {Fast.  Ili,  151-154)  accenna 
alla  possibilità  che  la  riforma  del    calendario    sia    stata    ispirata  a 

Numa  dal  filosofo  di  Samo  :    «  Primus Pompilius   menses  sen- 

sit  abesse  duos  Sive  hoc  a  Samio    doctus,  qui  posse  renasci   Nos 
putat,  Egeria  sive  monente  sua  ». 

(2)  Un  ultimo  accenno  alla  medesima  tradizione  si  legge  nella 
terza  elegia  dei  terzo  libro  delle  Pontiche,  dove  il  poeta,  immagi- 
nando di  parlare  in  sogno  all'  Amore  di  cui  si  professa  maestro, 
lo  rimprovera  di  essersi  comportato  verso  di  lui  ben  altrimenti  da 
quello  che  fecero  altri  discepoli  verso  i  loro  maestri  :  Eumolpo 
verso  Orfeo,  Achille  verso  Chiroue,  Numa  verso  Pitagora.,  ecc.  : 


—  152  - 

2.  —  In  Crotone  teneva  dunque  scuola  Pitagora;  il 
quale,  nativo  dell'isola  di  Samo,  aveva  abbandonato  spon- 
taneamente la  patria,  mal  sopportando  la  tirannide  onde 
era  governata,  e  s'eia  dato  a  profondi  studi  di  filosofia. 
Per  virtù  di  questi  «  egli  potè  elevarsi  con  la  mente, 
per  quanto  fossero  lontani  nella  immensità  dello  spazio 
celeste,  fino  agli  dei  e  scrutare  con  gli  occhi  dell'intel- 
letto ciò  che  la  natura  ha  negato  alla  vista  degli  uomini»: 

60  Vir  fuit  hic,  ortu  Satnius  ;  sed  fugcrat  una 

Et  Samon  et  dominos^  odioque  tyrannidis  eocul 
Sponte  erat.  Isque^  licet  caeli  regione  remotos^ 
Mente  deos  adiit  et  quae  natura  nogabat 
Visihus  humanis^  oculis  ea  pectoris  hausit. 

Ecco  subito,  in  questi  magnifici  versi,  messo  in  evi- 
denza Pitagora,  e  determinata  con  molta  precisione  e  con 
grande  efiìcacia  rappresentativa  la  natura  del  suo  misti- 
cismo, fondato  sopra  l'esercizio  assiduo  dell'intelletto  e 
la  profonda  intensità  del  meditare,  per  giungere  alla  vi- 
sione e  alla  comprensione  delle  più  alte  verità. 

65  Cumque  animo  et  vigili  perspexerat  oinnia  cura 

In  medium  discenda  dahat,  coetusque  silentum 
Dictaque  mirantum  magni  primordia  mundi 
Et  rerum  causas  et,  quid  natura,  docebat  : 
Quid  deus,  unde  nives^  quae  fulminis  esset  origo, 

70  luppiter  an  venti  discussa  nube  tonarent^ 

Quid  quateret  terras,  qua  sidera  lege  fnearent, 
Ed  quodcumque  latet. 


At  non  Chionides  Eumolpus  in  Orphea  talis  ; 

In  Phryga  nee  satyrum  talis  Olympus  erat  ; 
Praemia  nec  Chiron  ab  Achilli  talia  eepit, 

Pythagor aeque  ferunt  noti  nocuisse  Numam. 
Nomina  neu  referam  longutn  collecta  per  aevum, 

Discipulo  perii  solus  ab  ipse  meo. 


—  153  — 

E  in  questi  altri  versi  ecco  parimenti  accennata  con 
grande  chiarezza  la  vastità  e  larghezza  degl'insegnamenti, 
che  il  filosofo  impartiva  all'attonita  e  silenziosa  schiera 
dei  discepoli  e  che  abbracciavano  «  le  origini  primordiali 
dell'universo,  Je  cause  della  materia  e  l'essenza  della  na- 
tura e  della  divinità,  l'origine  delle  nevi  e  del  fulmine, 
del  tuono  e  del  terremoto  e  le  leggi  onde  è  regolato  il 
corso  degli  astri:  insomma,  tutti  i  problemi  più  reconditi 
della  filosofia  naturale  e  della  scienza  »  (1). 

Egli  'per  primo,  aggiunge  ancora  il  poeta,  vietò  di  ci- 
barsi di  carne,  sconsigliando  bensì  tale  astensione  con 
molta  dottrina,  ma  senza  riscuotere  la  meritata  approva- 
zione : 

Primusque  anitnalia  mensis 
Arguii  imponi  :  primus  quuni  talibus  ora 
Docta  quidem  solvit,  sed  non  et  eredita,  verbis. 

Ed  ecco  appunto  il  filosofo  combattere,  in  prima  per- 
sona, l'uso  delle  carni  (vv.  75-95)  e  descrivere  l'età  del- 
l'oro, quando  gli  uomini  non  conoscevano  ancora  tale 
uso  (vv.  96-142);  e  poi,  ispirato  dalLi  divinità,  eccolo  ac- 
cingersi, con  più  alto  afilato  poetico,  a  trattare  questioni 
più  ardue  e  a  svelare  più  riposti  misteri  : 

Et  quoniam  deus  ora  movet,  sequar  ora  moventem 
Rite  deum,   Delphosque  meos  ipsumque  recludarn 
145  Aethera  et  augustae  reserabo  or  acuta  mentis. 

Magna,  nee  ingeniis  evestigata   priorum, 
Quaeque  diu  latuere,  canam.  luvat  ire  per  alta 


il)  I  vv.  67-71,  cke  riassumono  la  supposta  fisica  pitagorica, 
sono  manifestamente  ispirati  da  Lucrezio,  dice  il  Lafaye,  Les  mé- 
tamorphoses  d' Ovide  et  leurs  modèles  grecs,  Paris,  Alcan,  1904, 
p.  197;  masi  accordano  pure  benissimo  coi  principii  dello  stoicismo. 


—  L54  — 

Astra  \  iuoat  terris  et  inerti  sede  relieta 
Nube  vehi,  validique  umeris  insistere  Atlantis^ 
150  Palantesque  homines  passim  ac  rationis  egentes 

Despectare  procul^   trepidosque  obitur/ique  timentes 
Sic  exhortari,  seriemque  evoltere  fati. 

«  E  poiché  sento  di  parlarvi  per  ispirazione  divina, 
seguirò  gl'impulsi  del  dio  che  mi  fa  parlare  secondo  il 
rito,  e  vi  svelerò  i  miei  arcani  e  lo  stesso  etere  e  vi 
schiuderò  gli  oracoli  fin  qui  nascosti  nel  profondo  della 
mia  mente.  Vi  canterò  cose  grandi,  né  mai  scrutate  dalle 
menti  dei  padri,  e  che  per  lungo  tempo  restarono  occulte. 
Mi  piace  andare  tra  le  sublimi  stelle  ;  mi  piace  abban- 
donata la  terra  e  questa  inerte  dimora,  lasciarmi  traspor- 
tare da  una  nube  e  poggiare  sulle  spalle  del  vigoroso 
Atlante  e  guardare  da  lontano  gli  uomini  sparsi  qua  e 
là  e  ancora  irragionevoli,  e  ad  essi,  che  aspettano  con 
trepido  timore  la  morte,  infondere  coraggio  e  schiudere 
la  visione  del  loro  destino  con  queste  parole...  » 

Siamo  alla  rivelazione  della  metempsicosi,  la  cui  cono- 
scenza appunto  deve  distruggere  negli  uomini  il  timore 
della  morte  : 

0  genus  attonitu7n  gelidae  formidine  ìnortis  ! 
Quid  Styga,  quid  tenebras  et  nonnina   vana  timetis, 
155  Materieni  vatum^  falsique  perieula  mundi?  (1) 

Corpora,  sive  rogus  fiamma,  seu  tabe  vetustas 
Abstulerit^  mala  posse  pati  non  ulla  putetis,  ^ 

Morte  careni  animae;  semperque  priore  relieta 
Sede  novis  domibus  vivunt  habitantque  reeeptae. 

(1)  Cade  ovvio  a  questo  punto  il  raffronto  coi  famosi  versi  delie 
Georgiche  (II,  490-492)  : 

Felix,  qui   potuit  rerum  eognoscere  caussas, 
Atque  metus  omnis  et  inexorabile  fatum 
Subiecit  pedibus  strepitumque  Acherontis  avari, 


—  155  — 

«  0  schiatta  attonita  per  lo  spavento  della  fredda  morte  ! 
Che  temete  lo  Stige,  la  tenebra  e  i  suoi  nomi  vani,  fan- 
tasie di  poeti  e  pericoli  d'un  mondo  inesistente?  Non 
crediate  che  i  corpi,  o  li  abbia  distrutti  il  rogo  con  la 
sua  fiamma,  o  il  tempo  con  la  putredine,  possano  soffrire 
mali  di  sorta,  E  quanto  alle  anime,  esse  non  muoiono  ;  e 
sempre,  abbandonata  una  sede,  vivono  e  abitano  in  di- 
more che  nuovamente  le  accolgono  ». 

E  in  prova  di  ciò  Pitagora  ricorda  (vv.  160-164)  d'es- 
sere vissuto  ancora,  al  tempo  della  guerra  troiana,  nel 
corpo  d'  Euforbo.  Poi  segue,  piìi  specificatamente  chiarita 
ed  espressa,  la  dottrina  della  metempsicosi  animale,  vol- 
garmente attribuita  a  Pitagora  : 

165  Omnia  mutantur,  nìhil  interit  :  errai  et  illìne 

Hue  venit^  hine  illuc,  et  quoslibet  occupai  artus 
Spiritus:  eque  feris  humana  in  corpora  transita 
Inque  feras  noster,  nec  tempore  deperii  ullo, 
■    Utque  novis  facilis  signatur  cera  figuris, 

170  Nec  manet  ut  fuerat^  nec  formas  servai  easdem, 

Sed  iarnen  ipsa  eadeni  est;  animam  sic  semper  eandem 
Esse^  sed  in  varias  doceo  migrare  fèguras. 

«  Tutto  si  trasmuta,  niente  muore.  Lo  spirito  va  er- 
rando e  si  muove  di  là  a  qui,  di  qui  a  là,  e  s'incarna 
nel  corpo  che  si  presceglie;  e  dalle  fiere  passa  nei  cor- 
pi umani  e  viceversa,  né  mai  vien  meno.  E  come  la  molle 


che  si  sogliono  riferire  ad  Epicuro.  Entrambi  i  filosofi  dunque  giun- 
gevano alla  medesima  conseguenza  pratica  (inanità  del  timore  della 
morte)  partendo  da  premesse  assolutamente  opposte  :  1'  uno,  cioè 
Pitagora,  dimostrando  che  il  morire  è  soltanto  trasformazione,  o 
passaggio  dell'  anima  d'una  in  altra  forma  di  vita  corporea;  l'al- 
tro, cioè  Epicuro,  dimostrando  che  il  morire  è  annientamento  to- 
tale e  definitivo  della  personalità  per  il  disgregamento  degli  atomi 
onde  l'anima  si  compone. 


156 


cera  si  foggia  in  nuove  figure,  sì  che,  pur  non  restando 
quale  era  prima  e  non  conservando  le  stesse  forme,  tut- 
tavia è  sempre  la  stessa,  così  vi  dico  che  l'anima  ò  sem- 
pre la  medesima,  senonchò  passa  sotto  varii  aspetti  »  (1). 

Da  ciò  un  nuovo  argomento  per  astenersi  dall'usar 
carne  (vv.  173-175). 

A  questo  punto  la  trattazione  di  Pitagora  si  allarga,  e 
il  filosofo  passa  a  dimostrare  1'  evoluzione  perpetua  e  il 
divenire  incessante  di  tutto  il  creato  : 

Et  quoniam  magno  feror  aequore  plenaque  ventis 
Vela  dedi  :  nihil  est  tato,  quod  perstet,  in  orbe. 
Cuncta  fluuni,  omnisque  vagans  formatur  imago. 

«  E  poiché,  aperte  le  vele  al  vento,  navigo  in  alto 
mare,  sappiate  che  non  vi  è  nulla  di  immobile  in  tutto 
l'universo.  Tutto  fluisce,  e  si  foggia  incessantemente  ogni 
mutevole  aspetto  ». 

E  questa  nuova  proposizione  illustra  con  una  lunga 
serie  di  esempi,  tratti  dai  fenomeni  celesti,  dall' avvicen- 
darsi  delle  stagioni,  dalla  vita  dell'uomo  e  dalle  vicissi- 
tudini degli  elementi  (vv.  179-251). 

Ma  la  natura  non  ci  offre  solo  lo  spettacolo  di  muta- 
menti regolari,  determinati  da  leggi  immutabili  ed  uni- 
versali ;  si  compiono  anche  intorno  a  noi,  nei  corpi  inor- 
ganici e  negli  organici  trasformazioni  impreviste,  che  i 
saggi  osservano  con  curiosità,  ma  di  cui  essi  ignorano 
le  cause  :  questi  fenomeni  straordinari  —  spesso  elencati 
e  descritti  nel  periodo    alessandrino,    in    opere   intitolate 


(1)  Questa,  prima  parte  deiresposizione  ovidiana  è  molto  proba- 
bilmente modellata  sul  «  Sogno  »  degli  Annali  di  Ennio  di  cui  si 
è  già  visto. 


—  157  — 

Paradoxa  —  Ovidio  li  fa  esporre  da  Pitagora,  non  sen- 
za qualche  anacronismo,  nei  vv.  252-417  (i  vv.  307-336 
riguardano  le  proprietà  di  certi  corsi  d'acqua^  mirabiiia 
fontium  et  fiuminum)^  a  cui  fanno  seguito  altri  (vv.  418- 
452),  che  descrivono  le  rivoluzioni  avvenute  nelle  società 
umane,  sino  al  glorioso  principaio  d'Augusto,  predetto 
già  da  un  oracolo  fin  dal  tempo  della  caduta  di  Troia  : 

Nune  quoqiie  Dardaniam  fama  est  eonsurgere  Rotnam^ 
Appenninigenae  quae  proxiyna  Thybridis  undis 
Mole  sub  ingenti  rerum  fundamina  pomi. 
Haec  igitur  forviam  crescendo  mutata  et  olim 

435  Immensi  caput  orbis  erit.  Sic  dicere  vates 

Vaticinasque  ferunt  sortes  :  quantumque  recordor, 
Dixerat  Aeneae^  cum  res  Troia?ia  labaret^ 
Prìamides  Helenus  /lenti  dubioque  salutis  :  (1) 
«  Nate  dea^  si  nota  satis  praesagia  nostrae 

440  Mentis  habes^  non  tota  cadet  te  sospite  Troia. 

fiamma  libi  ferrumque  dabunt  iter:  ibis,  et  una 
Pergama  rapta  feres,  donec  Troiaeque  tibique 
Externum  patria  contingat  am,ieius  arvum, 
Urbem  etiam  cerno  Phrygios  debere  nepotes, 

445  Quanta  nec  est  nec  erit  nec  visa  prioribus  annis. 

Hanc  aia  proceres  per  saecula  longa  potentem^ 
Sed  doininam  rerum  de  sanguine  natus  Tuli 
Efficiet.   Quo  cum  tellus  erit  u>sa,  fruentur 
Aetheriae  sedes^  caelumque  erit  exitus  illi  ». 
Raec  Helenum  eecinisse  penatigero  Aeneae 
Mente  mem,or  refero,  cognataque  moenia  laetor 
Crescer  e,  et  utiliter  Phry gibus  vieisse  Pelasgos. 

Così  Pitagora  è  fatto  profeta   della  divina  e  fatale  po- 
tenza d'Augusto,   come   con    analogo    procedimento,    nel 


(1)  La  sola  predizione  che  troviamo  accennata,  a  proposito  di 
Enea,  nei  poemi  omerici,  si  legge  nel  e.  XX  &q\V  Iliade  (vv.  302, 
306-308),  e  fu  riprodotta  da   Virgilio  {Aen.,  IH,  97-98). 


—  .158  -^ 

poema  virgiliano  la  dottrina  pitagorica  della  metempsicosi 
è  assunta  quale  mezzo  artistico  per  la  predizione  della 
futura  grandezza  di  Rom3. 

Nei  pochi  versi  che  seguono  (453-478)  Pitagora  final- 
mente ritorna  al  punto  di  partenza  e  conchiude  :  «  Poi- 
ché tutto  cambia,  poiché  al  termine  della  vita  la  nostra 
anima  passa  in  nuovi  corpi,  anche  animali,  non  uccidia- 
mo le  bestie;  chi  può  sapere  se,  uccidendole  non  faccia- 
mo scorrere  il  sangue  di  nostri  congiunti  ?  » . 

3.  —  Analizzato  così  il  contenuto  della  esposizione 
ovidiana,  vien  fatto  naturalmente  di  chiedersi  quale  sia 
stato  r  atteggiamento  del  poeta  di  fronte   al  Pitagorismo. 

Ne  fu  egli  per  avventura  un  seguace  ?  A  questa  do- 
manda noi  possiamo  rispondere  negativamente  senz'  om- 
bra di  esitazione  :  la  vita  e  l'operosità  poetica  di  Ovidio, 
anche  nel  periodo  posteriore  alla  composizione  delle  Me- 
tamorfosi, furono  in  antitesi  troppo  stridente  con  gl'inse- 
gnamenti e  la  pratica  pitagorica,  per  poter  immaginare 
0  pensare  che  egli  fosse  dedito  con  qualche  fervore  a 
quelle  dottrine  ;  d' altra  parte  Ovidio  non  ebbe  certo  tem- 
pra di  filosofo  né  eccessivo  amore  per  le  ricerche  e  spe- 
culazioni astruse.  Che  però  una  certa  simpatia,  o  almeno 
una  certa  insistenza  del  suo  pensiero  su  quella  filosofia 
ci  sia  stata,  pare  evidente,  se  non  solo  nell'  opera  sua 
maggiore  le  ha  fatto  così  larga  parte,  con  una  esposizio- 
ne quasi  sistematica,  ma  altre  volte  ancora  accenna  ad 
essa,  come  nel  citato  luogo  dei  Fasti  e  in  alcuni  versi 
delle  Tristezze  (1). 


(1)  ìrist,,  III,  .3,  59-64: 

Atque  utinam  pereant  anhnae  cum  eorpore  hostrae^ 
Effugiatque  avido»  pars  mihi  nulla  rogos. 


—  159  — 

E  quasi  certamente  poi  questa  predilezione  del  poeta 
si  deve  ritenere  l'effetto  della  rinascita  del  Pitagorismo, 
che  era  stata  operata  in  Roma  da  Nigidio  nella  prima 
metà  del  secolo  (onde  abbiamo  già  visto  quan  te  e  quali 
traccie  se  ne  riscontrino  nella  letteratura  dell'  età  di  Ci- 
cerone e  di  Yarrone),  e  che  al  tempo  stesso  del  poeta 
fece  sorgere  la  scuola  dei  Sestii  :  sì  che  Ovidio  potè  averne 
notizia  sia  dalle  opere  degli  scrittori  che  appartenevano 
alla  generazione  precedente  alla  sua,  sia  dalla  viva  voce 
e  dagli  scritti  di  qualcuno  dei  nuovi  seguaci. 

4.  —  Gli  studiosi  infatti  che,  proponendosi  la  questio- 
ne delle  fonti  di  quest'ampia  trattazione  ovidiana  del  Pi- 
tagorismo, hanno  cercato  di  risolverla,  per  poter  quindi 
determinare  il  valore  storico  della  trattazione  stessa,  hanno 
riconosciuto  in  sostanza  che  tali  fonti  debbono  essere 
state  0  le  opere  varroniane  (le  Antiquitates  rerum  divi- 
narum    e   sopratutto  il    dialogo    Gallus^    de    admirandis) 


Nam  si  morte  carens  vacua  volai  altus  in  aura 
Spiritus,  et  Samii  sunt  rata  dieta  senis, 

Inter  Sarmaiicas  Romana  vagabitur  umbras^ 
Ferque  feros  manes  kospita  semper  erit. 

Il  poeta  si  augura  che  abbiano  ragione  coloro  che  «  1'  anima  col 
corpo  morta  fanno  »  e  che  nessuna  parte  del  suo  essere  sfugga 
alle  fiamme  del  rogo,  poiché  diversamente,  egli  dice,  «  se  lo  spi- 
rito, immortale,  vola  alto  nelle  vuote  regioni  dell'  aria  e  sono  veri 
gì'  insegnamenti  del  vecchio  di  Samo,  1'  ombra  di  un  Romano  sarà 
costretta  a  vagare  fra  le  ombre  dei  Sarmati  e  sarà  sempre  un'e- 
stranea tra  feroci  anime  di  morti  ».  Il  passo  è  importante,  perchè 
mostra  che,  di  fronte  al  pensiero  della  morte,  il  poeta  era  in  so- 
stanza ancora  incerto  fra  coloro  che  negavano  e  quelli  che  affer- 
mavano la  immortalità  dell'anima. 


—  160  — 

oppure  gli  scritti  di  Nigidio,  o  dei   Sestii,  od    anche  dei 
loro  discepoli  Papirio  Fabiano  e  Sozione  (1). 

Sicché,  qualunque  si  accetti  delle  ipotesi  messe  innanzi, 
sta  di  fatto  che  le  fonti  a  cui  Ovidio  ha  attinto  non  sono 
moìto  anteriori  a  lui. 

D'altra  parte,  anche  tenendo  conto  del  fatto  che  Ovidio, 
più  poeta  che  filosofo,  non  intese  certo  di  trattar  l'argo- 
mento con  rigore  di  metodo  scientifico  e  filosofico,  atte- 
nendosi scrupolosamente  a  questo  o  a  quell'autore  ;  ma 
che  avrà  usato  di  una  certa  libertà  e  indipendenza,  e  che 
(pur  valendosi,  se  si  vuole  di  uno  o  più  modelli,  oltre 
che  dei  ricordi  e  delle  cognizioni  sue  personali)  avrà  se- 
guito soprattutto  il  suo  sentimento  artistico,  giovandosi 
della  materia  dogmatica  nella  forma  genuina  soltanto 
nei  limiti  atti  a  recare  efficacia  estetica  all'  opera  sua  e 
non  poco  forse  aggiungendo,  sopprimendo  o  modificando 
di  sua  propria  intenzione;  si  è  riusciti  tuttavia  a  mo- 
strare, per  esempio,  che  certe  intrusioni  nel  sistema  pi- 
tagorico di  principii  appartenenti  ad  altri  sistemi  —  come 
a  quelli  di  Eraclito  e  di  Empedocle  —  non  sono  affatto 
imputabili  ad  Ovidio,  ma  dovevano  già  essere  avvenute 
negli  scrittori    dai  quali   egli  attinse  (2).  La    sua  esposi- 


(1)  Si  vedano  in  proposito  le  opere  seguenti  :  Hottingee,  De 
Pythagora  omdiano  \ìn  Opuseula  philologica,  Leipzig  1817,  pag. 
100-107);  A.  ScHMEKKL,  De  omdiana  Pythagoreae  doctrinae  adum- 
hratione,  Gryphiswad,  1885  e  Die  Philosophie  der  mìttleren  Stoa, 
Berlin,  1892,  pag.  434,  451,  ecc.  (dove  sono  modificate  in  parte  le 
conclusioni  dell'opera  precedente);  G.  Lafaye,  op.  cit.,  cap.  X. 

(2)  Per  Eraclito  si  veda  C  Pascal,  La  dottrina  pitagorica  e  la 
eraclitea  nelle  Metamorfosi  ovidiane^  Mantova,  1909  ripubblicato 
nel  volume  Scritti  varii  di  Letteratura  Latina,  1920,  p.  207;  e 
per  Empedocle  il  volume  dello  stesso  autore  Graecia  capta ^  Firen- 
ze, Le  Mounier,  1904,  pag.  129-15]. 


—  161  — 

zione  del  sistema  di  Pitagora  acquista  pertanto  il  valore 
di  documento  storico,  in  quanto  che,  supplendo  in  parte 
alla  deficienza  delle  nostre  cognizioni  m  proposito,  dovuta 
alla  perdita  delle  opere  di  Yarrone,  di  Nigidio,  dei  Sestii,^ 
ci  mostra  molto  approssimativamente  in  che  consistesse 
il  neo-pitagorismo  romano  del  primo  secolo  avanti  Cristo. 

5.  —  L'esame  che  abbiamo  così  compiuto  della  lettera- 
tura latina  dalle  origini  fino  a  tutto  il  secolo  della  sua 
maggior  fioritura  ci  ha  dimostrato  non  solo  che  il  Pita- 
gorismo fu  nelle  varie  età  di  Roma  abbastanza  largamente 
conosciuto,  ma  che  d'ispirazione  pitagorica  sono  alcune 
delle  pili  eloquenti  pagine  che  quei  tempi  ci  hanno  tra- 
mandate, come  il  sogno  di  Ennio,  il  sogno  di  Scipione 
e  il  sesto  canto  dell'  Eneide  :  sicché  dobbiamo  concludere 
che  nelle  idee  che  quel  sistema  svolse  era  implicita  una 
grande  e  mirabile  virtìi  di  esaltazione  poetica  ed  artistica. 
Se  riflettiamo  d'altra  parte  che  quelle  idee  esercitarono 
notevole  influsso  nel  sorgere  delle  più  antiche  istituzioni 
romane,  e  che  contro  di  esse  mossero  guerra  invano  l'arte 
titanica  di  Lucrezio,  la  satira  maliziosa  di  Orazio,  la  forza 
politica  di  Cesare  e  di  Augusto  (nella  lotta  contro  il  so- 
dalizio di  Nigidio  Figulo  e  la  scuola  dei  Sestii),  dobbiamo 
tenere  per  certo  che  in  esse  fosse  insita  una  grande  forza 
di  resistenza  e  quella  specie  di  malìa  fascinatrice  che  su- 
scita le  pili  alte  energie  morali.  Se  le  idee  tanto  piii  val- 
gono quanto  maggiore  è  il  sentimento  che  le  accompagna 
e  che  le  trasforma  in  forze  vive  cioè  operanti  nella  vita 
degli  individui  e  dei  popoli,  le  concezioni  pitagoriche, 
venute  da  sì  lontane  scaturigini  e  assurte  a  così  varie, 
molteplici,  alte  manifestazioni  d'arte,  di  pensiero,  di  mo- 
li. 


—  162  — 

ralità  nel  periodo  della  civiltà  romana,  ebbero  certo  valore 
altissimo. 

Che  se  poi,  uscendo  fuori  dai  limiti  del  nostro  tema, 
pensiamo,  alla  forza  di  resistenza  che  esse  mostrarono,  al 
loro  persistere  attraverso  i  secoli  e  attraverso  tante  vicis- 
situdini del  pensiero,  ai  loro  successivo  e  alterno  rina- 
scere con  sempre  rinnovato  vigore  nei  momenti  di  più 
intensa  attività  spirituale  —  nella  Magna  Grecia  con  Pi- 
tagora, in  Atene  con  Platone,  in  Alessandria  coi  teosofi 
neo-platonici,  in  Roma  con  Ennio  e  con  Virgilio,  in  Co- 
stantinopoli con  l'imperatore  Giuliano,  nell'Italia  dell'ul- 
timo rinascimento  con  Giordano  Bruno  —  e  se  riflettiamo 
che  oggi  ancora  esse  vivono  nell'  Oriente  asiatico,  ope- 
ranti con  la  forza  della  fede  in  milioni  di  coscienze,  e 
che  accennano  per  diversi  segni,  in  questa  nuova  prima- 
vera dell'idealismo,  a  risorgere  anche  nel  mondo  occiden- 
tale (1),  noi  possiamo  con  sicurezza  affermare  che  esse 
non  furono  apparizione  fugace  ed  effimera  d'un  pensiero 
individuale,  ma  parole  di  quel  linguaggio  eterno  che  sgorga 
perenne  dalle  più  profonde  radici  dell'anima  umana. 


(1)  Si  veda,  per  esempio,  tanto  per  citare  un  magnifico  libro  di 
scienza,  V  opera  di  W.  Mackenzie  Alle  fonti  della  vita  (Genova, 
Formiggini,  1912)  e  la  recensione  che  io  ne  feci  nel  Giornale  del 
Mattino  di  Bologna  del  7  marzo  1912. 


APPENDICI 


I. 


p:  U  P  H  O  R  B  o  s. 


Pubblicato    nella    Rivista  Ligure   di    Scienze ,   Lettere    ed    Arti^ 
a.  XXXIX,  fase.  2  (marzo-aprile  1912)  Genova. 


1.  La  figura  di  Eùphorbos  nell' Iliade. —  2.   Pitagora  rincaraazione 
di  Eùphorbos.  —  3.  Altre  incarnazioni  di  Pitagora. 


1.  —  Y'è  forse  alcuno  per  il  quale,  meglio  che  per 
Eùphorbos  figlio  di  Panto,  possa  ripetersi  il  famoso  ver- 
so dell'antico  commediografo,  che  il  Leopardi  tradusse 
«  muor  giovane  colui  ch'ai  cielo  è  caro  »  ?  Poiché  ve- 
ramente fu  caro  agli  dei,  se,  morto  nel  fior  degli  anni 
sotto  le  mura  della  sua  Troja  per  mano  del  divino  Me- 
nelao, dopo  aver  ferito,  primo  fra  i  Trojani,  il  fortissimo 
Patroclo,  Eùphorbos  ebbe  la  ventura  non  solo  di  una 
spiritual  vita  immortale  ne  la  immortalità  dell'Iliade,  ma 
di  lasciare  altresì  il  suo  nome,  come  ora  vedremo,  legato 
per  sempre  al  ricordo  di  un  grande  pensiero  e  di  una 
più  grande  vita  :  al  pensiero  e  alla  vi+a  di  Pitagora. 

Fusa  nel  vivo  indistruttibile  metallo  della  poesia  d'  0- 
mero,  la  figura  dei  giovinetto  eroe  appare,  nel  racconto 
dell'  antica  gesta,  nel  momento  più  acuto  dell'  azione  guer- 
resca. Quando,  per  l' ostinato  disdegno  di  Achille ,  più 
grave  è  per  i  Greci  il  pericolo  nella  memoranda  giornata 
del  combattimento  presso  alle  navi,  Patroclo,  indossate  le 
armi  dell'amico  e  ricondotti   i  Mirmidoni    alla    battaglia, 


—  166  — 

verso    l'ora  del  tramonto  si  trova    coi    suoi  di  fronte  ad 
Ettore,  che  Apollo  protegge  :  in  tre  assalti  egli  ha  uccisi 
«  tre  volte  nove  »   nemici,  ma  al  quarto  assalto  un  colpo 
del  dio  gli  ha  tolto  l'elmo,  infranta  la  lancia,  fatto  cadere 
lo  scudo,  slacciata  la  corazza: 

II.  XVI,  805  Smarrito  il  cor,  fiaccate  le  valide  membra,  fermossi 
e  titubò.  Di  dietro  allor  con  la  punta  de  l'asta 
infra  le  spalle,  al  dosso,  Io  colse  da  presso  un  trojano, 
il  Pantoide  Euforbo,  che  tutti  vinceva  gli  eguali 
con  la  lancia  e  sul  cocchio  e  al  muover  degli  agili  piedi, 

810     ed  anche  allor,  venuto  appena  sul  carro,  sbalzati 
venti  nemici  avea,  di  guerra  già  prode  campione. 
Primo  ei  vibrò  con  1'  asta  un  colpo  su  Patroclo  auriga  ; 
ne  lo  scrollò  ;  poi  corse  indietro  e  tornò  ne  la  mischia, 
tratta  fuor  da  le  carni  la  lancia  di  frassino;  incontro 

815    Patroclo,  ancor  che  ignudo,  ei  già  non  attese  a  l'assalto  (1). 
Patroclo  allor,  stordito  dall'urto  di  Febo  e  da  l'asta, 
anco  a  1'  amiche  schiere  traeva,  fuggendo  la  morte. 
Ma  com'  Ettore  vide  dal  ferro  piagato  ritrarsi 
Patroclo  generoso,  il  varco  s'  aprì  tra  la  mischia, 

820    presso  gli  venne  e,  d'asta  vibratogli  un  colpo,  lo  giunse 
sotto  a  r  addome  :  fuori  n'  uscì  da  l'opposto  la  punta. 
Quei  con  fragor  giù  cadde,  e  grave  fu  il  lutto  de'  Danai. 


(1)  I  versi  814-815  trovo  segnati  come  spurii  nella  quinta  edi- 
zione del  DiNDORF,  curata  dallo  Hentze"  (Lipsia,  1890),  sulla  quale 
è  stata  condotta  la  presente  traduzione.  Ma  non  mi  pare  ohe  sia 
proprio  necessario  inquadrare  fra  parentesi  i  due  versi,  così  ome- 
rici pur  nell'apparente  disordine  dei  particolari  accennati  :  prima 
la  pronta  ritirata  del  giovinetto  trojano,  poi  il  trarre  dalle  carni 
di  Patroclo  1'  asta  ;  l' idea  preponderante  per  il  poeta  (cantore  in- 
nanzi a  un  pubblico  di  ascoltatori),  dopo  accennato  1'  ardito  colpo 
del  giovine,  è  quella  del  suo  rapido  sottrarsi  alla  vendetta  di  Pa- 
troclo ;  fermata  questa,  il  poeta  si  riprende  p3r  aggiungere  an- 
cora un  particolare  descrittivo  (lo  sforzo  dello  strappare  dalla  fe- 
rita la  lancia)  e  per  rincalzare  l'idea  della  fuga  di  fronte  a  Patroclo, 


—  167  — 

Suir  eroe  atterrato  Ettore  si  vanta  e  lo  schernisce,  ma 
il  caduto  ne  rintuzza  1'  orgoglio,  affermando  che  la  vitto- 
ria non  è  stata  merito  suo,  sì  degli  dei:  che  lo  hanno 
ucciso  la  Moira  e  il  figlio  di  Latona  «  e,  degli  uomini, 
Eùphorbos  »;  e  predettagli  la  fine  imminente  per  mano 
d'Achille,  muore  e  rimane  supino  in  mezzo  al  campo  di 
battaglia,  mentre  Ettore  insegue  Automedonte,  che  cerca 
di  portare  in  salvo  il  cocchio  d'Achille. 

A  guardia  del  cadavere  di  Patroclo  si  fa  innanzi  l'A- 
tride  Menelao,  armato  di  lucido  bronzo,  tenendo  davanti 
al  morto,  in  sua  difesa,  la  lancia  e  il  rotondo  scudo,  fer- 
mo d'uccidere  chiuncfue  osi  accostarsi.  Ed  ecco  ancora 
Eùphorbos,  il  cui  intervento  dà  luogo  ad  uno  dei  piìi 
begli  episodi  della  battaglia  : 

II.  XVII,  9  Pronto  di  Panto  il  figlio,  esperto  nel' asta  (1),  s'avvide 
ch'era  atterrato  Patroclo,  e  fattosi  subito  innanzi 


che,  pur  ferito  e  spoglio  della  difesa  delle  armi,  era  sempre  un 
troppo  temibile  nemico,  anche  per  un  più  esperto  guerriero  che 
non  fosse  Eùphorbos.  Poiché  Omero  non  ha  voluto  certo  rappresen- 
tare questa  fuga  come  atto  di  viltà  !  È  tutt'altro  che  vile  il  figlio 
di  Panto,  come  dimostrerà  fra  poco  nell'  impari  duello  con  Mene- 
lao. Sicché  non  mi  pare  corrispondente  né  allo  spirito  né  alle  pa- 
role del  testo  omerico  la  traduzione  che  dà  il  Monti  di  questo  passo: 

Anzi  dal  corpo  ricovrando  il  ferro 

Si  fuggi  pauroso,  e  nella  turba 

Si  confuse  il  fellon,  che  di  Patroclo 

Benché  piagato  e  già  dell'armi  ignudo 

Non  sostenne  la  vista.  {IL  XVI,   1146-1150) 

(1)  L'epiteto  (eummelies)  non  é  certo  ozioso  :  infatti  già  il  poeta 
ha  detto  che  Eùphorbos  primeggiava  fra  i  coetanei  «  con  la  lancia  » 
(XVI,  809),  e  che  «  con  l'asta  acuta  »  ha  ferito  Patroclo  (XVI,  806 
e  XVII,  lo),  come  con  l'asta  dà  un  colpo  J'  ultimo  !)  nello  scudo 
di  Menelao  (XVIi,  43-45). 


168 


disse  al  figlio  d'Atreo,  al  prode  guerrier  Menelao  : 
«  0  Menelao,  divino  germoglio,  signor  di  gran  genti, 
vanne,  abbandona  il  morto,  qui  lascia  le  spoglie  cruento  (1). 
Prima  di  me  nessuno,  fra'  Teucri  o  gì'  illustri  alleati, 

15    giunse  con  1'  asta  Patroclo,  in  mezzo  al  furor  de  la  mischia: 
lascia  eh'  io  m'  abbia  dunque  quest'inclito  onor  fra'  Trojani, 
0  che  la  dolce  vita  dal  petto  ti  strappi  il  mio  ferro  ». 
Bieco  d'ira  rispose  il  biondo  figliuolo  d'Atreo  : 
«  Bello  davver,  gran  Giove,  con  tanta  insolenza  vantarsi  ! 

20    Certo  mai  fu  sì  grande  '1  furor  di  pantera  o  leone 
0  di  cignal  feroce,  a  cui  nel  fiorissimo  petto 
gonfiasi  il  cor  superbo,  alter  di  sua  grande  possanza, 
qual  de'  figli  di  Pauto,  esperti  ne  l'asta,  è  la  boria  ! 
Ne  ad  Iperènor  tuo,  rettor  di  cavalli,  già  valse 

25    di  giovinezza  il  fiore,  allor  che  sprezzante  affrontommi 
e  disse  me  fra'  Danai  il  più  dispregevol  guerriero  ! 
Or  ei  non  più,  te  '1  dico,  da'  suoi  propri  piedi  portato, 
ad  allietar  ritorna  la  cara  consorte  e  i  parenti  ! 
Così  la  tua  baldanza,  se  pur  d'affrontarmi  tu  ardisci, 

30     rintuzzerò.  Ma  io  ancor  ti  consiglio  a  ritrarti 

dov'è  folta  la  turba.  Chi  è  saggio  prevede  l'evento  ». 
Disse  così,  ma  quello  ne  pur  gli  die  retta  e  rispose  : 
«  Or,  Menelao  divino,  trar  dunque  dovrò  gran  vendetta 
pel  fratel  eh'  uccidesti  -  e  ancor  tu  me  '1  dici  vantando  - 

35     e  nel  segreto  talamo  tu  n'hai  vedovata  la  sposa, 
e  i  genitor  nel  lutto  e  in  muto  cordoglio  gittasti  ! 
Oh  !  che  per  me  dei  miseri  avrebbe  il  cordoglio  una  tregua, 
se  la  tua  testa  io  stesso  e  l'armi  portandomi  in  Troja, 
fra  le  man  lo  gittassi  a  Panto  e  a  la  diva  Frontide! 

40     Ma  non  più  a  lungo,  ornai,  s' indugi  a  far  prova  con  l'armi 
s'  io  m'  abbia  saldo  il  core  o  pieno  di  vile  paura  ». 
Detto  così,  die  un  colpo  nel  tondo  perfetto  suo  scudo, 
ma  non  lo  franse  il  ferro  ;  bensì  gli  si  torse  la  punta 
nel  poderoso  usbergo.  S'  avventa  secondo  con  1'  asta 


(1)  Le  armi  di  Patroclo,  sciolte  e  fatte  cadere  dal  colpo  d'Apollo, 
giacevano  in  terra  poco  lungi  dal  cadavere. 


~  169  — 

45     l'Atride  Menelao,  pregato  in  suo  cor  Giove  padre, 

e,  mentre  quei  s'  arretra,  il  coglie  a  la  fossa  del  collo; 
dentro  spinge  con  forza  calcando  la  mano  pesante, 
e  dall'opposto  n'  esce  pel  tenero  collo  la  punta. 
Cadde,  die  un  tonfo  e  V  armi  su  lui  con  fragor  risonare  ; 

50    s' insanguinar  le  chiome,  che  simili  aveva  a  le  Grazie,  (1) 
i  capelli  ricciuti,  eh'  avvinti  eran  d'oro  e  d'  argento. 
Come  talora  un  florido  arbusto  d'ulivo  si  nutre 
in  solitario  loco,  allor  che  molt'  acqua  vi  sgorghi, 
bello,  pien  di  rigoglio,  e  poi,  come  l'  agita  il  soffio 

55     di  tutti  i  venti,  un  velo  di  candidi  fior  lo  ricopre,  (2; 
ma  piombando  improvviso  un  vento  con  turbine  grande 
dalla  fossa  lo  schianta  e  a  terra  disteso  lo  abbatte; 
tale  di  Panto  il  figlio,  esperto  ne  l'  asta,  Eiiforbo 
l'Atride  Menelao  uccise  e  spogliava  de  l'armi, 

60    Come  —  allor  eh'  un  robusto  leone  cresciuto  fra'  monti  * 
da  pascolante  gregge  rapì  la  giovenca  più  bella, 


(1)  Cioè  ricciute,  come  dice  nel  verso  seguente,  e  non  bionde^  co- 
me ha  interpretato  alcuno,  per  es.  il  Koppen,  forse  ricordando  Pin- 
daro Nem>.  5  fine.  Le  Grazie  furono  sempre  rappresentate  con  lun- 
ghi ricci  spioventi  sì  nelle  arti  plastiche  e  figurative,  sì  nella  let- 
teratura dei  Greci  (cfr.  Omero,  Inno  ad  Apollo,  194  sg.  e  Stesicoro, 
fr.  XIII  neìV  Antol.  della  melica  greca  di  A.  Taccone).  —  Si  veda 
in  proposito  quello -che  scherzosamente  Luciano,  noi  Sogno,  fa  dire 
a  Micillo  :  questi,  fra  le  altre  cose  dice  al  suo  gallo-Pitagora:  «  e 
«  mi  sembra  che  Omero  per  questo  abbia  detto  le  tue  chiome  si- 
«  mili  alle  Grazie,  perchè  «  avvinte  eran  d'oro  e  d'  argento  »:  in- 
«  trecciate  infatti  con  1'  oro  e  rilucendo  con  esso  apparivano,  evi- 
«  dentemente,  molto  piiì  pregevoli  e  desiderabili  »  (XIII). 

(2)  Accenna  forse  il  poeta  coi  «  soffi  di  tutti  i  venti  »  la  sta- 
gione di  primavera,  quando  —  fra  il  marzo  e  1'  aprile  —  le  piante 
s'  incurvano  bensì  sotto  i  venti,  ma  si  rivestono  anche  della  loro 
fioritura  annuale  ;  anzi  parmi  che  accenni  qui  proprio  alla  prima 
fioritura*  del  bell'arboscello  d'ulivo,  che  poi  il  primo  turbine  schian- 
ta, cosi  come  l'asta  di  Menelao,  troncando  la  vita  del  giovinet- 
to forte  ed  ardimentoso,  fa  cadere  il  serto  di  fiVite  speranze  che 
già  s' intesseva  intorno  al  suo  capo. 


—  170  — 

cui  la  cervice  infranse  tenendola  forte  co'  denti, 
poi,  facendola  a  brani,  le  viscere  ingolla  col  sangue  — 
intorno  a  lui,  da  lunge,  si  nnuovon  con  grande  frastuono 
65     cani,  villan,  pastori,  ma  farglisi  presso  ad  alcuno 
non  regge  il  cor,  che  tutti  li  fa  scolorir  la  paura; 
così  Jiessun  de'  Teucri  ha  l'alma  nel  petto  sì  ardita, 
eh'  osi  affrontar  da  presso  la  forza  del  gran  Menelao, 

E  questi  agevolmente  porterebbe  via  le  splendide  armi 
di  Eùphorbos,  se  non  glielo  impedisse  Febo  Apollo,  il 
quale,  presentatosi  ad  Ettore  sotto  1'  aspetto  di  Mente,  lo 
consiglia  a  desistere  dall'  inutile  inseguimento  dei  cavalli 
d'Achille  e  ad  accorrere  invece  là  dove 

or  Menelao  frattanto,  il  figlio  pugnace  d'Atreo, 
89     corso  a  difender  Patroclo,  uccise  il  miglior  de'  Trojani, 
il  Pantoìde  Euforbo  e  spento  n'  ha  il  valido  ardire. 

Ettore  infatti,  pronto,  si  fa  largo  tra  le  schiere,  vede 
r  uno  che  toglie  le  magnifiche  armi,  1'  altro  disteso  in 
terra  e  il  sangue  che  sgorga  dalla  ferita,  irrompe  fulmi- 
neo con  orribili  grida,  e  Menelao,  riconosciutolo  subito, 
non  osando  da  solo  tenergli  testa,  lascia  a  malincuore  il 
corpo  di  Patroclo  e  si  ritira  verso  i  suoi,  per  chiamare 
qualcuno  in  soccorso.  Così  egli  non  ha  potuto  neppure 
portar  via  con  sé  sul  suo  cocchio  la  preziosa  armatura; 
della  quale  tuttavia  dovette  certo  impadronirsi  più  tardi, 
quando  i  Trojani  sconfitti  furono  costretti  a  rinchiudersi 
entro  le  mura.  E  non  sarà  stato  quello  il  meno  glorioso 
trofeo  di  guerra  che  avrà  riportato  con  se  a  Micene. 

2.  —  Ma  Eùphorbos,  morto  di  così  bella  morte  e  glo- 
rificato già  dalla  divina  arte  d'  Omero,  non  rinacque  per 
avventura,  dopo  quattro  secoli,  a  nuova  vita  e  ad  opere 
non  meno  belle  e  gloriose? 


—  171  — 

Poiché  alcune  antiche  testimonianze  ci  hanno  traman- 
dato che  Pitagora,  il  celeberrimo  fondatore  della  scuola 
italica,  l'assertore  più  famoso  della  dottrina  della  metempsi- 
cosi, «  nel  tempio  di  Hera  Argiva,  veduto  uno  scudo  di 
«  bronzo,  disse  che  quello  portava  e  gli  era  stat^  tolto 
«  da  Menelao  quando  era  Eùphorbos.  E  degli  Argivi, 
«  staccato  lo  scudo,  vi  videro  realmente  inciso  il  nome 
«  d'Eùphorbos  ».  Così  afferma  uno  scoliaste  d'Omero 
(//.  XVII,  28)  e  così  altri,  fra  gli  antichi  scrittori,  ricor- 
dano 0  accennano  la  cosa.  Chi  non  rammenta  infatti,  tanto 
per  citare  i  piìi  noti,  quella  famosa  ode  d'Archita,  dove 
Orazio  afferma  appunto,  non  senza  una  sottile  ironia,  che 
«  il  regno  dei  morti  tiene  anche  il  figlio  di  Panto,  sceso 
«  all'Orco  un'altra  volta,  sebbene,  con  lo  scudo,  che  fece 
«  staccare,  data  testimonianza  dei  tempi  della  guerra  troja- 
«  na,  non  avesse  concesso  alla  nera  morte  niente  più  che 
«  i  nervi  e  la  pelle?  »  (1)  Il  buon  Orazio,  tra  scettico 
ed  epicureo,  non  ebbe  evidentemente  molta  fede  nella  me- 
tempsicosi e  si  burlò  un  poco  di  «  Pitagora  redivivo!  »  (2) 
Anche  Ovidio,  che  nell'  ultimo  canto  delle  Metamorfosi 
fa  esporre  da  Pitagora  stesso  le  sue  dottrine,  lasciò  espli- 
cito ricordo  della  tradizione,  facendo  dire  al  filosofo  : 

Ben  io  —  sì  lo  rammento  —  nei  dì  della  guerra  di  Troja 
ero  il  figliuol  di  Panto,  Euforbo,  cui  stette  nel  petto 


(1)  Orazio,   Garm.  I,  28  vv.  9-13  : 

habentque 

Tartara  Panthoiden  iterum  Orco 
Demissum,  quamvis  clipeo  Trojana  refixo 

Tempora  testatus,  nihil  ultra 
Nervos  atque  cutem  morti  concesserat  atrae. 

(2J  Id.  Epod.  VI,  21:  «  nec  te  Pythagorae  fallant  arcana  renati  » 


172 


la  grave  lancia  infissa,  per  man  .del  più  giovine  Atride, 

Riconobbi  lo  scudo,  che  già  la  sinistra  mia  tenne, 

or  non  è   molto  in  Argo  nel  tempio  sacrato  di  Giuno  ».  (1) 

E  ancora  due  secoli  dopo  il  filosofo  neo-platonico  Por- 
firio^ raccogliendo  in  una  breve  biografia  molte  notizie 
intorno  a  Pitagora,  lasciò  scritto  che  questi  «  ricordava 
«  a  molti  di  quelli  che  si  recavano  da  lui  la  precedente 
«  vita  che  1'  anima  loro  aveva  vissuto  già  un  tempo  pri- 
«  ma  di  essere  legata  nel  corpo  d'  allora.  E  di  sé  stesso 
«  rivelò  con  prove  indubitabili  d'essere  stato  Euphorbos 
«  figlio  di  Panto.  E  dei  versi  omerici  cantava,  accompa- 
«  gnandosi  mirabilmente  con  la  lira,  quelli  di  preferenza: 

50  s' insaguinàr  le  chiome,  che  simili  aveva  a  le  Grazie, 
i  caj)elli  ricciuti,  eh'  avvinti  eran  d'oro  e  d'argento. 
Come  talora  iTn  florido  arbusto  d'ulivo  si  nutre 
in  solitario  loco,  allor  che  molt'  acqua  vi  sgorghi, 
bello,  pien  di  rigoglio,  e  poi,  come  1'  agita  il  soffio 

55  di  tutti  i  venti,  un  velo  di  candidi  fior  lo  ricopre, 

ma  piombando  improvviso  un  vento  con  turbine  grand® 
dalla  fossa  lo  schianta  e  a  terra  disteso  lo  abbatte  ; 
tale  di  Panto  il  figlio,  esperto  ne  1'  asta,  Eiiforbo 
r  Atride  Menelao  uccise  e  spogliava  de  l'armi. 

<  Poiché  quel  che   si  racconta    dello    scudo  di  questo 
«  Euphorbos  frigio,  che  si  trovava  in  Micene,  nel  bottino 


(1)  Ovidio,  Metamorph.  XV,  vv.  160-164: 

Ipse  ego  —  nam  memini  —  Trojani  tempore  belli 
Panthoìdes  Euphorbus  eram,  cui  pectore  quondam 
Haesit  in  adverso  gravis  basta  minoris  Atridae. 
Cognovi  clipeum,  laevae  gestamina  nostrae, 
Nuper  Abanteis  tempio  lunonis  in   Argis, 


—  173  — 

«  trojano  dedicato  a  Giunone  Argiva,  lo  passo    sotto  si- 
«  lenzio  come  cosa  ben  nota  »   (1). 

La  tradizione  dunque  era  assai  diffusa  Tra  gli  antichi. 
Ora  quale  ne  sarà  stata  1' origine?  Un'invenzione  pura  e 
semplice  ?  Potrebbe  anche  essere;  nel  qual  caso  dovrem- 
mo evidentemente  pensare  a  qualche  discepolo  o  seguace 
del  Maestro,  il  quale,  per  confermarne  meglio  la  dottrina 
della  metempsicosi,  avesse  immaginato  di  sana  pianta  la 
storiella,  cercando  poi  di  accrescerle  autorità  col  farne 
autore  lo  stesso  Pitagora.  0  l' invenzione  sarebbe  nata  da 
quel  che  abbiamo  udito  or  ora  narrare  da  Porfirio,  che 
il  filosofo,  appassionato  lettore  d'  Omero,  recitava  e  can- 
tava spesso  i  delicati  e  soavi  versi  della  morte  d' Eùphor- 
bos  ?  Anche  questo  è  possibile.  Ma  a  me  pare  molto  più 
semplice  e  forse  più  ovvio  —  senza  andare  vanamente  fan- 
tasticando in  ipotesi  —  credere  senz'altro  alla  concorde 
testimonianza  degli  antichi.  Vi  è  forse  nella  cosa  alcun- 
ché che  trascenda  i  limiti  della  credibilità  e  della  vero- 
simiglianza? Pitagora  non  credeva  davvero  alla  metempsi- 
cosi, e  non  era  anzi  questo  il  pernio  della  sua  psicologia 
e  della  sua  morale,  e  convinzione  (non  pura  ipotesi  spe- 
culativa) profonda,  certa,  inoppugnabile  sua  e  dei  suoi 
seguaci  ?  Dunque  e  ben  possibile  che  egli,  il  quale  aveva 
virtù  taumaturgiche  (tanto  che  nella  sua  vita  il  meravi- 
glioso, anzi  il  miracoloso,  ebbe  gran  parte)^  egli,  che  tante 
profonde  e  misteriose  cose  aveva  imparato  nei  suoi  viaggi 
in  Egitto  e  nell'  Oriente,  esercitando  quelle  sue  pratiche 
magiche  ai  vita,  profondando  lo  spirito  in  quelle  sue  me- 


(1)  PoRPHTRii,  Vita  Pythagorae^  26,  27.  Così  presso  Luciano  nei 
Dialoghi  dei  morti  (20),  quando  Eaoo  presenta  Pitagora  a  Menippo, 
questi  si  rivolge  subito  a  lui  con  le  parole:  «Salve,  o  Eùphorbos  ». 


—  174  — 

ditazioni  —  così  intense,  che  erano  quasi  astrazioni  dal 
corpo  ed  estasi  vere  e  proprie  — ,  credesse  di  leggere 
nel  suo  passato  la  storia  della  propria  anima  e  ne  desse 
notizia  ~  se  non  proprio  alle  turbe  —  agi'  iniziati  della 
sua  scuola, .  agi' intimi,  ai  più  perfetti,  da  qualcuno  dei 
quali  poi  la  cosa  sarà  stata  divulgata.  Insomma  per  me 
r  attribuire  a  Pitagora  stesso,  anziché  allo  spirito  inven- 
tivo di  qualche  zelante  discepolo,  1'  accenno  alle  sue  vite 
anteriori  non  ha  nulla  di  inammissibile  e  di  men  che 
credibile  :  lo  zelo  dei  seguaci  avrà  forse  potuto  aggiunge- 
re qualcosa,  inventare  qualche  nuovo  particolare  o  ma- 
gari immaginare  qualche  nuova  esistenza,  ma  l' origine 
prima  di  siffatti  racconti  si  può  proprio  far  risalire  allo 
stesso  Maestro.  Il  quale  dunque  potè  realmente  dire  e 
naturalmente  anche  credere  —  poiché  non  é  ammissibile 
la  malafede  in  un  uomo  di  tanta  autorità,  la  cui  vita  fu 
tutta  un  apostolato  di  verità  e  di  bene  —  di  essere  stato 
Eùphorbos. 

Ma  in  tal  modo  —  si  potrebbe  osservare  —  se  noi 
accettiamo  per  vero  quello  che  1'  antichità  concorde  ci  ha 
tramandato,  che  cioè  Pitagora  credette  e  diede  a  credere  di 
essere  stato  il  giovinetto  figlio  di  Panto,  ne  verrebbe  di 
conseguenza  che  egli  avrebbe  anche  creduto  nella  realtà 
storica  d'  Eùphorbos,  non  già  iato  dalla  feconda  fantasia 
d'  Omero,  ma  vissuto  in  carne  ed  ossa.  E  che  per  que- 
sto ?  Chi  mai  dei  Greci  del  sesto  secolo  avanti  Cristo  — 
per  non  dire  di  quelli  dei  secoli  posteriori  -  -  non  credette 
nella  realtà  della  guerra  trojana,  e  dubitò  della  esistenza 
di  Agamennone,  di  Achille,  di  Menelao,  di  Ulisse,  di 
Ettore,  di  tutta  la  bella  schiera  degli  eroi  dell'  Iliade  e 
dell'  Odissea?  Né  la  critica  storica  demolitrice,  né  la  qui- 
stione    omerica    erano  nate    ancora,  e  Federico  Augusto 


—  175  — 

Wolf  doveva  tardare  ancora  ventiquattro  secoli  a  nascere 
e  a  lanciare  pel  mondo  la  stupefacente  teutonica  mostruo- 
sità dei  suoi  Prolegomeni  ad  Omero  !  (1) 

3.  —  Di  Pitagora  gli ''antichi  conobbero  anche  altre 
incarnazioni,  anteriori  e  posteriori.  Soggiunge  infatti  Por- 
firio, un  poco  più  innanzi  :  «  Affermava  di  essere  già  vis- 
«  suto  precedentemente,  dicendo  d'  essere  stato  prima  Eù- 
«  phorbos,  poi  Etàlide,  in  terzo  luogo  Ermótimo,  poi  Pirro 
«  e  allora  Pitagora.  Con  che  dimostrava  che  1'  anima  è 
«  immortale  e  riesce,  in  chi  sia  purificato,  a  ricordarsi 
«  dell'antica  sua  vita  »  (2).  Ma  Diogene  Laerzio  ci  ha 
conservato  in  proposito  una  testimonianza  —  che  risali- 
rebbe ad  Eraclide  Pontico  (discepolo  di  Platone,  Speu- 
sippo  ed  Aristotile)  —  la  quale  differisce  da  quella  di 
Porfirio  non  solo  perchè  fa  di  Eùphorbos  la  seconda  in- 
carnazione, essendo  stata  la  prima  quella  di  Etalide,  ma 
anche  perchè  riferisce  ad  Ermótimo  (terza  incarnazione), 
anziché  a  Pitagora,    1'  episodio  dello  scudo,    che  sarebbe 


(1)  Veramente  si  é  incominciato  già  da  qualche  tempo  ~  anche 
in  Germania  —  ad  essere  un  po'  meno  radicali  in  fatto  di  nega- 
zioni. E  a  quel  modo  che  il  Beloch,  per  esempio,  ammise  come 
possibile  che  «  fra  gì'  innumerevoli  eroi  venerati  nelle  diverse  parti 
del  mondo  greco  ve  ne  fosse  qualcuno  che  in  realtà  una  volta  si 
mosse  sulla  terra  in  carne  ed  ossa  »  (I,  p.  121),  così  il  Drerup 
{Ornerò^  Bergamo,  1910)  afferma  d'esser  «  disposto  a  vedere  in 
Agamennone,  Menelao,  Nestore,  Ajace,  forse  anche  in  Priamo  e 
in  altre  figure  dell'  epopea,  reali  persone  storiche  »  (p.  226).  Gli 
rimangono  però  gravi  dubbi  sulla  realtà  storica  della  spedizione 
contro  Troja  (p.  231  e  seg.). 

(2)  l.  e,  45.  Della  cosa  discussero  anche  gli  scrittori  cristiani, 
come  Tertulliano  (de  anima  28,  31,  34),  Lattanzio  {Epit.  Instit. 
dio.  36),  Sant'Agostino  {Irinit.  XII,  24). 


—  176  ~ 

inoltre  stato  appeso  nel  tempio  di  Apollo  a  Branchidas, 
e  non  a  Micene.  Ma  ecco  senz'  altro  le  parole  di  Laerzio  : 
«  Dice  Eraclide  Pontico  che  egli  (Pitagora)  afPermava  di 
«  se  d'  esser  già  stato  Etalide  e  ritenuto  figlio  di  Her- 
«  raes  (1).  E  che  Hermes  gli  disse  di  scegliere  quel  che 
«  volesse,  tranne  F  immortalità  :  onde  egli  chiese  il  dono 
«  di  conservare  da  vìvo  e  da  morto  il  ricordo  di  tutti 
«  gli  eventi.  Che  pertanto  in  vita  si  ricordava  di  tutto, 
«  e  dopo  che  fu  morto  conservò  egualmente  la  memoria. 
«  Che  in  seguito  rinacque  Euphorbos  e  fu  ferito  da  Me- 
te nelao  ;  ed  Euphorbos  diceva  d'  essere  stato  un  tempo 
«  Etalide  e  di  aver  avuto  da  Hermes  quel  dono  e  ricor- 
«  dava  le  trasformazioni  dell'anima  com'erano  avvenute, 
«  e  attraverso  quali  piante  ed  animali  fosse  passata,  e 
«  che  cosa  l'anima  avesse  sofferto  nell'Ade,  e  qual  sorte 
«  attenda  le  altre  anime.  E  che  quando  Euphorbos  morì 
«  la  sua  anima  passò  in  Ermòtimo,  che  alla  sua  volta, 
«  volendo  dare  una  prova  dell'esser  suo,  andò  a  Bran- 
«  chidas  ed  entrato  nlel  tempio  d'  Apollo  mostrò  lo  scudo 
«  che  Menelao  vi  aveva  appeso,  ormai  imputridito,  re- 
«  stando  solo  la  parte  esterna  d'avorio  (2).   E  che  quan- 


ti) Dobbiamo  forse  in  questa  ipotetica  discendenza  da  Hermes, 
il  dio  dei  misteri,  vedere  significata  la  iniziazione  di  Pitagora  alle 
dottrine  ermetiche?  Mi  par  probabile;  se  pure  non  dobbiamo  vedere 
in  ciò,  come  noli'  altra  comune  tradizione  che  faceva  di  Pitagora 
un  «  figlio  d'Apollo  »,  delle  espressioni  del  linguaggio  mistico 
fraintese. 

(2)  Pausania,  nella  descrizione  che  ci  ha  lasciata  dell'  Heraion 
di  Micene,  dice  ben  chiaro  che  nel  pronao  del  tempio,  a  destra, 
dov'  era  la  statua  della  dea,  vi  era  «  anche  appeso  in  voto  uno 
scudo,  quello  che  Menelao  già  tolse  ad  Euphorbos  in  Ilio  ».  (De- 
scriptio  Graeciae  II,  17,  3).  Ora,  poiché  sappiamo  che  Pausania 
descrive  nell'  opera    sua    proprio  quel  che  ha  visto  coi  suoi  occhi 


—  177  - 

«  do  Erraótimo  morì,  rinacque  Pirro  pescatore  di  Delo  ; 
«  e  di  nuovo  si  ricordava  tutto  :  come  fosse  stato  prima 
«  Etalide,  poi  Eùpborbos,  poi  Ermótimo,  poi  Pirro.  E 
«  che  quando  Pirro  morì,  rinacque  Pitagora  e  si  ricorda- 
«  va  di  tutto  quel  che  s'  è  detto  »  (1).  Non  solo,  ma  a 
sentir  Gelilo  anzi  i  due  filosofi  Clearco  e  Dicearco  —  vis- 
suti fra  il  quarto  e  il  terzo  secolo  avanti  Cristo  —  avreb- 
bero lasciato  scritto  che  Pitagora  rivisse  ancora  altre  tre 
volte,  come  Pirandro,  come  Calliclea  e  finalmente  come 
una  bella  etera  chiamata  Alce  (2). 

E  così  r  anima  d'  Eùphorbos,  essendo  vissuta  otto  volte- 
e  avendo  sperimentato,  chiusa  nel  carcere  corporeo,  le 
più  varie  condizioni  d' esistenza,  sarà  essa  —  dopo  aver 
compiuto  il  ciclo  assegnatole  dal  suo  proprio  destino  -— 
tornata  a  dissolversi  nel  gran  mare  dell'  anima  univer- 
sale ?  (3)  o  non  avrà  continuato  ancora  a  vestirsi  d'uma- 
na carne,  indefinitamente,  secondo  la  favola  di  Luciano? 


(tanto  che  una  sua  indicazione  guidò  lo  Schhemann  alla  scoperta 
delle  famose  tombe  dei  re  nel  foro  di  Micene),  avrà  egli  veduto 
quell'antichissimo  logoro  avanzo,  o  una  copia  in  bronzo  fattane 
fare  di  poi,  o  addirittura  un  qualunque  scudo  che  i  sacerdoti  del 
tempio  vi  abbiano  appeso  in  tempi  tardivi  a  ricordo  e  testimonianza 
dell'antica  notissima  tradizione?  Pausania  in  ogni  modo  visse 
nella  2^  metà  del  secondo  secolo  dopo  Cristo. 

(1)  Diogene  Laerzio,  Vili,  4-5. 

(2)  Gellio,  Noctes  Attieae,  IV,  11  :  «...  .  Pythagoram  vero 
«  ipsum,  sicut  celebre  est,  Euphorbum  primum  fuisse,  dictitasse;  ita 
«  haec  remotiora  sunt  bis,  quae  Glearchus  et  Dicaearchus  memo- 
«  riae  tradiderunt,  fuisse  eum  postea  Pyrandrum,  deinde  Callicleam, 
«  deinde  feminam  pulchra  facie  meretricem,  cui  nomen  fuerat 
«  Alce  ». 

(3)  Se,  come  è  probabile,  Platone  ha  desunto  dal  Pitagorismo  i 
principii  a  cui  informa  la  teoria  delle  pene  d'  oltretomba  nel  De 
republica  (X,  615)  —  secondo  la  quale  chi  aveva  commesso  ingiu- 

12. 


—  178  - 

«  Lungo  sarebbe  a  dire  —  così  parla  il  suo  gallo  fìlo- 
«  sofo  (Pitagora  redivivo  anche  questo!)  —  in  qual  forma 
«  r  anima  mia  venisse  via  da  Apollo  volando,  ed  entrasse 
«  in  corpo  di  uomo,  e  qual  pena  sofferisse  in  tal  guisa... 
«  Mentre  eh'  io  era  Eùphorbos  combattei  a  Troja,  e  quivi 
«  ucciso  da  Menelao,  dopo  qualche  tempo  ne  venni  a  stare 
«  in  Pitagora  ;  ma  fra  1'  un  tempo  e  V  altro  non  ebbi 
«  casa,  aspettando  che  Mnesarco  (1)  mi  apparecchiasse 
«  r  abitazione....  —  Ma  quando  ti  spogliasti  di  Pitagora 
«  (domanda  Micillo  al  suo  gallo)  di  che  ti  vestisti?  —  Di 
«  Aspasia,  femmina  di  mondo,  di  Mileto  — .  .  .  —  E  dopo 
«  Aspasia  qual  uomo  o  qual  nuova  donna  diventasti?  — 
«  Grate,  cinico.  —  0  figliuolo  di  Giove,  qual  differenza! 
«  Di  femmina  di  mondo,  filosofo  !  —  Poi  re,  poi  un  po- 
«  verello,  poi  satrapo,  poi  cavallo,  poi  gazzera,  poi  ranoc- 
«  chio,  e  mille  altre  cose  che  non  finirei  mai  a  dirle  tutte. 
«  Ma  sopra  tutto  fui   gallo  spesso   (vita    da  me  sopra  le 


stizia  verso  un  altro  doveva  subire  dieci  volte  quella  medesima 
ingiustizia  e  occorreva  quindi  lo  spazio  di  dieci  vite  per  scontare 
le  colpe  della  prima  —  bisognerebbe  veramente  ammettere  (s' in 
tende  bene,  dal  punto  di  vista  di  Pitagora  e  della  sua  dottrina) 
almeno  altre  due  vite.  — -  Per  il  luogo  platonico  e  le  relazioni  che 
esso  può  avere  avuto  con  il  dogma  cristiano  della  resurrezione  si 
veda  ciò  che  ha  scritto  il  Pascal  nella  Rassegna  Contemporanea 
del  dicembre  1911  (ripubblicato  in  Credenze  d'oltretomba^  II,  pa- 
gina 199). 

(1)  Padre  di  Pitagora.  Si  noti  poi  che  qui  Luciano  sorvola  sul- 
le altre  note  incarnazioni  del  filosofo.  Ma  altrove  {Vera  Historia^ 
II,  21)  egli  dice:  «  In  quel  tempo  appunto  ci  venne  (nella  città  di 
«  Soveria  nell'  isola  dei  Beati)  Pitagora  di  Samo,  che  allora  aveva 
«  finita  la  settima  mutazione,  vissuto  le  sette  vite,  compiuti  i  sette 
«  periodi  dell'anima,  ed  aveva  d'oro  tutto  il  lato  destro.  Fu  de- 
«  ciso  d'  ammetterlo  con  gli  altri  beati,  ma  non  si  sapeva  se  chia- 
«  marlo  Pitagora  od  Euforbo  ». 


—  179  — 

«  altre  amatissima)  servendo  ad  altri  molti,  a  re,  a  pove- 
«  relli,  a  ricchi  uomini;  e  finalmente  vivo  in  tua  compa- 
«  gnia,  facendomi  beffe  cotidianamente  di  te,  che  ti  que- 
«  reli  della  tua  povertà,  e  piangi  e  ammiri  i  ricchi  perchè 
«  non  sai  i  mali  che  comportano...  »  (1). 

E  con  l'amabile  arguzia  lucianea  possiamo  ben  chiu- 
dere questa  singolare  istoria  d' Eùphorbos  figlio  di  Panto, 
il  quale  fu  veramente  molto  caro  ai  celesti. 


(1)  Luciano,  Il  Sogno  o  il  Gallo  (secondo  la  traduzione  di  Ga- 
sparo Gozzi).  Si  legga  tutto  questo  piacevolissimo  dialogo.  Il  no- 
stro autore  del  resto  scherza  in  parecchi  altri  luoghi  su  Eùphor- 
bos; mi  sembra  inutile  riferirli;  basterà  vedere  un  qualunque  indice 
delle  opere  di  Luciano. 


II. 

IL  SODALIZIO   PITAGORICO 
DI   CROTONE. 


Edito  nel  1904  dalla  ditta  Nicola  Zanichelli  di  Bologna.  Tradotto 
e  pubblicato  in  The  Theosophieal  Review  (Londra)  voi.  XXXVII, 
n.  219-20  (nov.-dic.  1905). 


1.  Oggetto  del  presente  studio.  --  2.  Origiiae  o  formazione  del  So- 
dalizio pitagorico.  —  3.  Carattere  e  scopi  di  esso.  —  4.  Sua  du- 
rata. —  5.  Suo  ordinamento.  —  6,  Natura  degl'insegnamenti 
che  vi  si  impartivano.   —  7.  Conclusione. 


L  —  Una  tradizione  che  fu  diffusa  e  concorde  nel- 
r  antichità  anche  prima  dell'  apparizione  del  neo-pitagori- 
smo, narra  che  il  filosofo  di  Samo,  dopo  aver  viaggiato 
nelle  regioni  d'  Oriente  —  in  Fenicia,  nella  Babilonia,  in 
Caldea,  nella  Persia,  nell'  India  e  in  particolare  nell'  E- 
gitto  —  e  ^ver  presa  quivi  conoscenza  delle  dottrine  se- 
grete che  i  saggi  ed  i  sacerdoti  vi  professavano,  proprio 
nello  stesso  tempo  in  cui  fiorivano  nella  Cina  Lao-Tse 
(604-520  a.  C.)  e  nell'India  Gotamo  Buddho  (560-480)  (1) 
venne  a  Crotone,  una  delle  più  fiorenti  fra  le  città  della 
Magna  Grecia,  dove,  acquistato  subito  largo  seguito  di 
ammiratori,  istituì  un  celebre  Sodalizio.  Di  questo  ap- 
punto intendo  ora  di  esporre  le  origini,  la  durata  e  la 
costituzione,  valendomi  delle  notizie  abbastanza  numerose 
e  particolareggiate,  perchè  possiamo  farcene  un'  idea  esatta. 


(1)  Cfr.  le  osservazioni  contenute  nel  cap.  I  dello  studio  di  G. 
De  Lorenzo  suU'  Bidia  e  il  Buddhismo  antico  (Bari,  Laterza,  1904, 
22  ediz.  1919). 


—  184  — 

che  ce  ne  hanflo  lasciato,  fra  gli  altri,  Diogene  Laerzio  (1), 
Porfirio  (2),  GiambJico  (3),  Clemente  Alessandrino  (4), 
nonché,  incidentalmente,  gli  scrittori  classici  maggiori, 
delle  quali  poi  si  servirono,  in  misura  piii  o  meno  larga, 
con  criteri  più  o  meno  discutibili,  gli  storici  moderni  del- 
la filosofia  greca  in  generale  e  del  movimento  pitagorico 
in  particolare,  come  il  Krische  (5),  lo  Chaignet,  il  Cen- 
tofanti,  lo  Zeller,  il  Cognetti  de  Martiis,  lo  Schuré  (6) 
ed  altri. 

2.  —  Quanto  SiìVorigme  dell'  Istituto,  la  tradizione  con- 
corde narra  che  verso  la  LXIP  Olimpiade  (530  a.  C.)  o 
poco  dopo  (7)  Pitagora,  giunto  a  Crotone,  forse  accom- 
pagnato da  numerosi  discepoli  che  ve  lo  seguirono  da 
Samo  (8),  cominciò  a  tenere  in  pubblico  discorsi  tali  da 
conquistare  subito  la  simpatia  degli  uditori,  accorrenti  in 
gran  numero  ad  ascoltare  la  sua  parola  ispirata  (9),  che 


(1)  Vitae  et  placìta  clarorum  philosophorum  1.  YIII  e.  I. 

(2)  De  vita  Pythagorae. 

(3)  De  pythagorica  vita. 

(4)  Stromat.  libri,  passim. 

(5)  De  soeietatis  a  Pythagora  in  urbe  Orotoniatarum  conditae 
scopo  politico  commentano^  Gotting,  1831. 

(6)  Les  Qrands  Initiès,  Paris  1902,  pp.  267  sgg.  Ed.  ital.  (Bari, 
Laterza,  1905).  Per  gli  altri  autori  v.  note  a  p.  186  e  192. 

(7)  Variano  dal  529  al  540  le  date  proposte  relativamente  all'  anno 
della  sua  partenza  da  Samo;  la  prima  data  è  ammessa  dall' Ueberweg, 
Qrundr.  I,  16,  1'  altra  è  in  Bernhardy,  Orundr.  d.  gr.  Liti.  p. 
I,  pag.  755.  Il  Lenormant  {La  Grande  Orèee)  sta  pel  532.  Quanto 
all'  arrivo  in  Crotone,  il  Bernhardy  crede  che  nel  540  Pitagora  vi 
si  trovasse  già. 

(8)  GlAMBL.    29. 

(9)  V.  Porfirio  /.  e.  20,  che  riferisce  la  notizia  da  Nicomaco  e 
Cfr.   GlAMBL.   l.  e.  30. 


^  185  — 

predicava  verità  non  mai  udite  prima  d'allora  in  quella 
regione  e  da  quegli  uomini.  Accolto  con  molta  deferenza 
tanto  dal  popolo  quanto  dalla  parte  aristocratica,  che  al- 
lora aveva  nelle  mani  il  governo,  per  V  entusiasmo  su- 
scitato dalla  sua  predicazione,  fu  eretto  dai  suoi  ammira- 
tori un  ampio  edificio  in  marmo  bianco  —  homakoeion 
od  uditorio  comune  (1)  —  nel  quale  egli  potesse  inse- 
gnare comodamente  le  sue  dottrine  ed  essi  ridursi  a  vi- 
vere sotto  la  sua  guida.  La  tradizione,  quale  la  troviamo 
presso  Giamblìco  e  presso  Porfirio,  aggiunge  altri  parti- 
colari: Pitagora,  entrato  nel  ginnasio,  avrebbe  parlato  ai 
giovani  che  vi  si  trovavano  suscitandone  l' ammirazione  (2), 
del  che  venuti  a  conoscenza  i  magistrati  e  i  senatori 
avrebbero  manifestato  il  desiderio  di  sentirlo  anch'  essi  ; 
ed  egli,  venuto  dinanzi  al  Consiglio  dei  Mille,  vi  ottenne 
tale  approvazione  da  essere  invitato  a  rendere  pubblico 
il  suo  insegnamento^  al  quale  infatti  molti  accorsero  pron- 
tamente, mossi  dalla  fama,  subito  dilBFusa  per  tutto  il 
paese,  della  grande  austerità  d' aspetto,  della  dolce  soavità 
d'eloquio,  della  profonda  novità  di  ragionamenti  del  fo- 
restiero. Via  via,  la  sua  autorità  crebbe  in  modo  che  egli 
potè  esercitare  nella  città  una  vera  dittatura  morale;  poi 


(1)  Si  noti  che  Clemente  (Strom.  I,  lo)  lo  identifica  con  quella 
che  al  suo  tempo  chiamavasi  Ecclesia,  cioè  alla  Chiesa  cristiana. 

(2)  V.  in  Giamblìco  op.  cit.  37-57  un  largo  sunto  di  questo  di- 
scorso, che  ci  dà  un'  idea  di  quello  che  fosse  l'  insegnamento  esso- 
terico di  Pitagora.  La  diversità  notata  a  questo  proposito  dallo 
Zeller  fra  il  racconto  di  Giainblico  e  quello  di  Porfirio  non  mi  pare 
sufficiente  per  trarne,  com'  egli  fa,  l' induzione  che  il  discorso  ri- 
ferito dal  primo  non  può  essere  stato  preso  da  Dicearco,  citato  dal 
secondo  ;  ad  ogni  modo  è  fuori  di  dubbio  che  Dicearco  stesso  lo  co- 
nosceva, se  potè  dire  che  conteneva  «  molte  belle  cose  ». 


186 


si  allargò,  diffondendosi  nei  paesi  vicini  della  Magna  Gre- 
cia e  nella  Sicilia,  a  Sibari,  a  Taranto,  a  Reggio,  a  Ca- 
tania, ad  Imera,  a  Girgenti;  dalle  colonie  greche,  dalle 
tribù  italiche  dei  Lucani,  dei  Peucezi,  dei  Messapii  ed 
anche  da  Roma  (1)  vennero  a  lui  discepoli  di  ambo'  i 
sessi  ;  e  piìi  celebri  legislatori  di  quelle  regioni,  Zaleuco, 
Caronda,  Numa  ed  altri,  l' avrebbero  avuto  per  maestro  (2), 
sì  che  per  merito  suo  si  sarebbero  ristabiliti  dovunque 
r  ordine,  la  libertà,  i  costumi  e  le  leggi  (3).  In  questo 
modo,  dice  il  Lenormaiit  (4),  «  egli  potò  giungere  a  rea- 
lizzare l'ideale  d'una  Magna  Grecia  composta  in  unione 
nazionale^  sotto  l' egemonia  di  Crotone,  non  ostante  la 
diffeirenza  di  razze  degli  Elleni  italioti  »  ;  il  che  peraltro 
ò  inesatto,  poiché,  come  vedremo,  l'intendimento  di  Pi- 
tagora nella  sua  azione  e  nella  sua  predicazione  non  fu 
politico  0  nazionale,  ma  essenzialmente  umano.  Forse,  ag- 
giunge un  altro  scrittore  (5),  non  fu  estranea  all'acco- 
glienza avuta  dal  filosofo  ed  al  successo  da  lui  riportato, 
una  persona  con  la  quale  egli  doveva  essersi  trovato  in 
rapporto  quand'era  a  Samo,  cioè  il  celebre  medico  ero- 
tonese  Democede.  Ma  senza  dubbio,  più  che  a  conoscenze 
personali,  l'approvazione  ottenuta  da  Pitagora  in  Crotone 
e  l'entusiasmo  da  lui  suscitato  in  tutta  la  Magna  Grecia 


(1)  DiOG.  VITI,  15;  PoEF.  22  ecc. 

(2)  V.  Seneca,  90,  6  che  cita  Posidonio  ;  Diog.  Vili,  16;  Forf. 
21  ;  GiAMBL.  33,  104,  130,  172;  Eliano,  Var.  Hist.  Ili,  17  ;  Diod. 
XII,  20. 

(3)  V.  DioG.  Vili,  3;  Porf.  21  sg  ,  54;  Giambl.  33,  50,  132, 
214;  Cic.  Tusc.  V,  4,  10;  Diod,  ìragm.  p.  554;  Giustino  XX,  4; 
Dione  Crisost.  or.  49,  p.  249  ;  Plut.  c.  princ.  philos.  I,  11,  p.  776. 

(4)  Op.  ciL,  V.  I,  p.  75, 

(5)  Cognetti  De  Martiis,  Socialismo  antico^  (Torino,  1889Ì  p.  465. 


—  187  — 

furono  piuttosto  l'effetto  da  un  lato  delle  virtù  intrinse- 
che delle  sue  dottrine  e  del  suo  insegnamento,  e  dall'  al- 
tro della  disposizione  e  attitudine  di  quelle  genti  a  in- 
tenderlo ed  apprezzarlo.  Poiché  il  misticismo  ed  ogni 
moto  idealistico  trovò  sempre  fra  loro  un  generale  e  pron- 
to assenso  e  un  gran  numero  di  seguaci,  sia  nei  tempi 
più  antichi,  sia  durante  il  medio  evo  e  nell'  età  moder- 
na (1).  In  queste  attitudini  dei  popoli  del  mezzogiorno 
sta  la  ragione  del  rapido  diffondersi  delle  dottrine  pita- 
goriche, che  furono  accettate  quasi  universalmente  :  tanto 
che  molti  (2),  i  migliori  per  intelligenza  e  per  elevatezza 
morale,  presi  d'ammirazione  per  la  profonda  scienza  del 
Maestro,  si  accostarono  a  lui,  e,  desiderosi  di  penetrare 
più  addentro  nella  conoscenza  del  suo  sistema  filosofico, 
di  cui  intravvidero  ed  intuirono  la  vastità  e  la  compren- 
sione, si  ridussero  a  poco  a  poco  a  vivere  con  lui,  atti- 
rati nella  sua  orbita  d'azione  e  di  pensiero  da  quella 
spontanea  simpatia  che  hanno  sempre  esercitato  sugli  al- 
tri tutti  i  grandi  apostoli  dell'  umanità. 

Così  fu  formato  il  Sodalizio,    del    quale  fu    poi  aperto 


(1)  Così  p.  es.  l'idea  religiosa  di  cui  si  fece  poi  paladino  e  ca- 
valiere S.  Francesco,  partì  appunto  dalla  Calabria,  con  l'abate  Gioac- 
chino da  Fiore  (V.  Tocco  L'Eresia  nel  M.  E.^  lib.  li,  eie  II). 
Del  resto  il  Pitagorismo  si  mantenne  sempre  vivo  nell'  Italia  Me- 
ridionale, (di  dove  penetrò  in  Roma  con  Ennio)  e  vi  sorse  a  nuo- 
vo splendore  nei  sec.  XYI  e  XVII  con  la  Scuola  di  Bernardino 
Telesio,  dalla  quale  uscirono,  fra  gli  altri,  il  Campanella  e  il  Bru- 
no—Cfr.  David  Levi,   Giordano  Bruno^  Torino,  1888  pp.  124  sgg. 

(2)  Porfirio  op.  cit.^  20  sgg.,  racconta  che  più  di  duemila  cit- 
tadini con  le  mogli  e  i  figli  si  raccolsero  nell'  Homakoeion  e  vis- 
sero mettendo  in  comune  i  loro  beni  e  reggendosi  con  statuti  dati 
loro  dal  filosofo,  che  veneravano  come  un  Dio. 


—  188  — 

l'accesso  a  tutti  i  buoni  —  uomini  e  donne  (1)  — :  e  alla 
sua  filosofica  famiglia  il  Maestro  diede  quel  medesimo  or- 
dinamento che  aveva  forse  visto  attuato  nelle  scuole  del- 
l' Oriente  e  dell'  Egitto,  nelle  quali  come  s' è  accennato, 
egli  aveva  probabilmente  preso  conoscenza  dei  Misteri. 
L'istituto  divenne  ad  un  tempo  un  collegio  d'educazione, 
un'accademia  scientifica  e  una  piccola  città  modello,  sot- 
to la  direzione  d'  un  grande  iniziato  ;  e  per  mezzo  della 
teoria  accompagnata  dalla  pratica,  delle  sciq^ze  unite  alle 
arti,  vi  si  giungeva  lentamente  a  quella  scienza  delle 
scienze,  a  queir  armonia  magica  dell'  anima  e  dell'  intel- 
letto con  l'universo,  che  i  Pitagorici  consideravano  come 
l'arcano  della  filosofia  e  della  religione.  La  scuola  pita- 
gorica ha  perciò  un'importanza  assai  grande,  perchè  fu 
il  piti  notevole  tentativo  d' iniziazione  laica  :  sintesi  an- 
ticipata dell'  ellenismo  e  del  cristianesimo,  essa  innestò  il 
frutto  della  scienza  sull'albero  della  vita,  e  conobbe  quin- 
di quell'attuazione  interna  e  viva  della  verità  che  sola 
può  dare  la  fede  profonda;  attuazione  efiìmera,  ma  d'im- 
portanza capitale,  perchè  ebbe  la  fecondità  dell'  esempio  (2). 

3.  —  Secondo  che  fu  data  maggiore  importanza  all'uno 
0  all'altro  degli  elementi  costitutivi  della  dottrina  pita- 
gorica 0  alle  forme  e  agli  effetti  esteriori  di  essa,  diverso 


(1)  Sulle  donne  pitagoriche  sarebbe  opportuno  e  desiderabile  uno 
studio,  che  darebbe  certo  gran  luce  su  molti  fatti.  Ad  esse  era 
impartito  un  insegnamento  particolare  ed  avevano  iniziazioni  pa- 
rallele, adattate  ai  doveri  del  loro  sesso.  Giamblioo,  op.  eit.  267, 
dà  i  nomi  di  17,  tutte  chiarissime— -Cìt.  ihid.  30,  54,  132;  Dioo. 
Vili,  41  sg.  ;  PoRF.  i9  sg.  ecc.  —V.  anche  Schure,  op.  cit.  pa- 
gine 379  sgg. 

(2)  ScHURÈ  op.  cit.  p.  314. 


189 


fu  il  criterio  che  gli  studiosi  portarono  nel  giudicare  per 
quali  intendimenti  il  filosofo  avesse  voluto  creare  questo 
Sodalizio. 

Alcuni  non  ne  videro  che  l'intento  politico;  così,  se- 
condo il  Krische,  «  la  società  ebbe  meramente  lo  scopo 
di  restaurare,  consolidare  e. accrescere  il  potere  decaduto 
degli  ottimati  e,  subordinati  a  questo,  due  altri  scopi,  uno 
morale  e  l'altro  di  coltura:  di  rendere  cioè  i  suoi  mem- 
bri buoni  ed  onesti,  affinchè,  se  fossero  chiamati  al  reg- 
gimento della  cosa  pubblica,  non  abusassero  del  loro  po- 
tere con  l'opprimere  la  plebe,  e  questa  comprendendo 
che  si  provvedeva  al  suo  benessere,  stesse  contenta  al 
suo  stato  ;  e  di  far  studiare  la  filosofia  a  coloro  che  si 
accingessero  al  governo  dello  Stato,  perchè  non  si  può 
aspettare  un  governo  buono  e  sapiente  se  non  da  chi  sia 
colto  ed  erudito  »  (1).  Ora  quanto  sia  incompiuta  ed  im- 
perfetta questa  opinione  del  Krische  apparirà  dal  seguito 
del  nostro  studio.  Gli  intenti  del  riformatore  non  furono 
politici  soltanto,  ma  anche  morali,  filosofici  e  religiosi  ; 
né  il  suo  insegnamento  voleva  mirare  solo  a  Crotone,  o 
alla  Magna  Grecia,  sibbene  ^Wuomo  in  generale  ;  il  con- 
tenuto politico  che  esso  poteva  avere  era  quindi  appena  una 
parte,  e  neppure  la  principale,  di  un  larghissimo  sistema 
scientifico  e  filosofico,  che  abbracciava  tutto  lo  scibile. 
Altrimenti,    nota    giustamente    lo  Zeller,  non  si  spieghe- 


(1)  l.  e.  p  101  —  Cfr.  il  giudizio  del  Meinees,  Hist.  d.  scienc. 
etc.  V.  II,  p.  ]85  e  quello  molto  strano  del  Mommsen,  St.  di  Roma 
antica^  Roma-Torino  1903,  v.  I,  p.  124  sg.  :  «  Siffatte  tendenze 
«  oligarchiche  informavano  la  lega  solidaria  degli  «  Amici  »  (?), 
«  fregiata  del  nome  di  Pitagora  ;  essa  ingiungeva  di  venerare  la 
«  classe  dominatrice  come  divina,  di  trattare  come  bestie  quei 
«  della  classe  servile  ecc.  »  ! 


—  190  — 

rebbe  l' indirizzo  fisico  e  matematico  della  scienza  pitago- 
rica, e  il  fatto  che  le  testimonianze  piti  antiche  intorno 
a  Pitagora  ci  mostrano  in  lui  più  che  l'uomo  di  Stato, 
il  teurgo,  il  profeta,  il  sapiente  e  il  riformatore  morale  (1). 
In  realtà  egli  mirava  ad  elevare  nello  spirito  e  nei  costu- 
mi i  suoi  discepoli,  sia  impartendo  loro  una  cultura  e 
una  scienza  univ  ersale,  sia  facendo  ad  essi  praticare  la 
più  rigorosa  disciplina  dell'animo  e  delle  passioni.  Con 
questo  egli  otteneva  anche  lo  scopo,  eminentemente  civile 
e  umanitario,  di  migliorare  via  via  sempre  più  facilmente 
e  largamente  i  cittadini  e  gli  uomini  tutti,  poiché  ogni 
discepolo  portava  poi  necessariamente  fuori  della  scuola, 
nella  sua  vita  domestica  €  pubblica,  la  moralità  e  la  dot- 
trina in  quella  acquistata,  diffondendola  con  la  parola  e 
con  l'esempio  tra  i  famigliari,  i  parenti,  gli  amici.  E  in 
conseguenza  di  ciò  dovette  compiersi  a  poco  a  poco  un 
mutamento  anche  nel  governo  della  città,  per  il  fatto 
che  i  primi  ad  approfittare  e  a  .far  tesoro  delle  nuove 
dottrine  essendo  stati  probabilmente  gli  ottimati,  questi 
0  direttamente,  se  ne  facevano  parte,  o  indirettamente, 
se  erano  privati  cittadini,  dovettero  portare  nel  governo 
un  nuovo  indirizzo  razionale  e  una  più  rigorosa  moralità. 
L' alleanza  quindi  fra  il  Pitagorismo  e  l'aristocrazia,  come 
osserva  ancora  lo  Zeller,  fu  non  la  ragione,  ma  l'effetto 
dell'indirizzo  generale  della  scuola  che  chiamava  a  sé  i 
migliori  ;  e  se  la  tradizione  ci  rappresenta  il  Sodalizio  co- 
me un'  associazione  politica,  ciò  è  vero  a  patto  che  non 
vogliamo  anche  affermare  che  il  suo  indirizzo  religioso, 
etico  e  scientifico  sia    stato  una  conseguenza    della  posi- 


ci) V.  Eraclito  pr.  Dioc.  Vili,  6;  Erodoto  IV,  95  —  Zeller,  D. 
PhiL  d,   Oriech.  P  p.  328. 


191 


zione  che  i  pitagorici  presero  nel  campo  politico  ;  perchè 
invece  fu  proprio  il  contrario. 

Assai  diversamente  giudicò  la  natura  della  società  pi- 
tagorica il  Grote  (1),  che  la  disse  di  carattere  religioso 
ed  esclusivo,  e  ad  un  tempo  attivo  e  spadroneggiante, 
poiché  i  suoi  membri  attivi  avevano  appunto  1'  ufficio  di 
influire  nel  governo  e  sul  governo,  mentre  i  contempla- 
tivi attendevano  agli  studi;  proprio  come  nella  organizza- 
zione dei  Gesuiti  coi  quali,  dice,  i  Pitagorici  presentano 
una  notevole  somiglianza.  Secondo  lui  insomma  i  seguaci 
del  filosofo  non  furono  che  «  un  privato  e  scelto  nucleo 
d'uomini,  di  fratelli^  che  abbracciarono  le  fantasie  reli- 
giose del  Maestro,  il  suo  canone  etico,  i  suoi  germi  (?  !) 
d' una  idea  scientifica  e  manifestarono  la  loro  adesione 
con  particolari  osservanze  e  riti  ».  In  tutto  questo  vi  è 
appena  qualche  ombra  di  vero;  1'  esagerazione  ha  tolto  la 
mano  all'autore.  Il  concetto  religioso  ci  fu  senza  dubbio 
in  Pitagora,  esso  costituiva  anzi  il  pernio  di  tutto  l' in- 
segnamento esoterico,  e  il  punto  di  partenza  della  mera- 
vigliosa dottrina  dei  numeri  che  lo  simboleggiava;  ma  non 
si  trattò  punto  di  fantasie  più  o  meno  strane  e  irrazio- 
nali ch'egli  volesse  dare  ad  ii\  tendere  ai  suoi  seguaci,  sì 
bene  di  quella  stessa  dottrina  religiosa  che  in  Egitto,  in 
Oriente  e  in  Grecia  si  insegnava  nei  Misteri  e  nelle  scuole 
filosofiche,  unica  nella  sua  sostanza  —  benché  diversa 
nelle  forme  e  nei  simboli  esteriori  —  perché  dovunque 
derivata  dalla  stessa  tradizione,  e,  per  quanto  mistica, 
fondata  tuttavia  saldamente  sopra  una  verace  e  controlla- 
bile esperienza.  Il  paragonare   poi  il  sodalizio  stesso  alla 


(]  )  Hist.  of.   Oreeee^  T.  IV,  p.  544;  cfr.  Ritter,   Oeseh.  d,  Phi- 
los,  I,  p.  365  sgg. 


192 


setta  gesuitica,  è  un  errore,  che  dimostra  in  chi  ha  po- 
tuto fare  simile  raffronto  ben  poca  penetrazione  nello  spi- 
rito che  informava  quell'  antichissimo  istituto  ;  è  un  giu- 
dicarlo dalle  sole  apparenze  esteriori,  un  disconoscerne 
gì'  intenti  non  settarii,  ma  plrofondamente  umani,  uno  svi- 
sare infine  l'opera  di  uno  dei  pili  grandi  pensatori  e  apo- 
stoli che  r  umanità  abbia  avuto. 

Più  vicino  al  vero  è  il  giudizio  del  Lenormant,  in  quan- 
to egli  seppe  vedere  sotto  le  fo'^m^  della  religione  l' in- 
tendimento morale  di  Pitagora  (1);  ma  ancora  più  giusto 
e  compiuto,  perchè  rispondente  a  tutti  i  dati  di  fatto  la- 
sciatici dalla  tradizione,  è  quello  che  del  Sodalizio  diede 
uno  storico  italiano,  il  Centofanti,  col  definirlo  una  So- 
«  ci  età  modello,  la  quale,  se  intendeva  a  migliorare  le 
«  condizioni  della  civiltà  comune  e  aspirava  ad  occupare 
«  una  parte  nobilissima  e  meritata  nel  governo  della  cosa 
«  pubblica,  coltivava  ancora  le  scienze,  aveva  uno  scopo 
«  morale  e  religioso  e  promoveva  ogni  buona  arte  a  per- 
«  fezionamento  del  vivere  secondo  un'  idea  tanto  larga 
«  quanto  è  la  virtualità  delV  umana  natura  »  (2).  Con 
lui  si  accordarono  press'  a  poco  lo  Chaignet  (3)  e  lo  Zel- 
ler  (4),  per  il  quale  la  scuola  si  distingueva  da  tutte  le 
associazioni  analoghe  «  per  il  suo  indirizzo  morale  »  pog- 
giato su  motivi  religiosi  or  guidato  da  sani  metodi  d'edu- 
cazione e  di  istruzione  scientifica.  Il  Duncker  quindi  scris- 
se con  molta  verità  che  Pitagora  fu  «  non  solo  il  Maestro 
«  d'  una  nuova  sapienza,  ma  altresì  il  predicatore  di  una 


(1)  Op.  Git.  l,  p.  83. 

(2)  Studi  sopra  Pitagora,    nel   voi.    La  Letteratura  greca    (Fi- 
renze, Le  Monnier),   Opere^  p.  401  sg. 

(3)  Pythagore  et  la  philos.  pythag.  I,  p.  98. 

(4)  Die  Philos.  der  Orieehen  V"  p.  328. 


—  193  ~ 

«  nuova  vita,  il  fondatore  di  un  culto  nuovo  e  il  bandi- 
«  tore  d' una  nuova  fede  »  (1).  Soltanto  tale  novità ,  va 
intesa  come  relativa  ai  luoghi  e  ai  tempi  ;  poiché,  come 
ho  detto  sopra,  il  fondo  esoterico  della  dottrina  aveva  ori- 
gini assai  remote. 

4.  —  Se  tale  era  dunque  l' intento  della  Società  pita- 
gorica, se  al  di  sopra  di  ogni  altra  considerazione  il  grande 
di  Samo  pose  quella  di  riformare  interiormente  gli  uomini 
e  con  ciò  di  modificare  anche  —  necessariamente  —  le 
condizioni  esterne  della  vita  individuale  e  sociale,  se  egli 
mirò  a  costituire  una  religione  fondata  sul  sentimento  in- 
teriore e  non  sulle  pratiche  esterne  del  culto,  alle  quali 
ben  raramente  ed  in  pochi  corrisponde  un'adeguata  cono- 
scenza e  persuasione,  e  che  perciò  acquistano  un  valore 
di  mera  superstizione  e  di  vuoto  formalismo  dogmatico, 
era  troppo  naturale  che  la  nuova  istituzione  dovesse  su- 
scitare i  timori  degli  elementi  conservatori  della  società 
crotouese  ed  italiota,  e  sopra  tutto  le  ire  di  quegli  ari- 
stocratici ignoranti  che  ne  erano  stati  esclusi  per  deficien- 
za intellettuale  e  morale,  e  dei  sacerdoti  che  vedevano 
allontanarsi  dalla  religione  tradizionale  e  quindi  sfuggire 
al  loro  dominio  tanta  parte  —  la  parte  migliore  —  della 
gioventìi.  E  le  calunnie  che  tutti  costoro  seppero  sparge- 
re, dovevano  purtroppo  trovare,  come  sempre,  facile  cre- 
dulità nel  volgo  e  pronto  aiuto  in  tutti  coloro  che  dalle 
nuove  idee  vedevano  lesi  o  minacciati  i  loro  interessi  per- 
sonali; tanto  pili  che  —  come  accade  in  ogni  nuovo  mo- 
vimento d'idee  che  tocchi  e  trasformi  l'assetto  politi- 
co e  sociale,  —    delle    incertezze,    degli    errori,  delle  de- 


(5)  Qeseh.  d,  Alter.  VI,   p.  636. 

13. 


—  194  — 

bolezze,  della  violenza  partigiana  di  qualcuno  fra  gli  adepti 
e  fautori  della  Società  avranno  ben  tosto  cercato  di  trarre 
partito,  mettendole  in  rilievo,  gli  avversari  delle  nuove 
dottrine.  Ma  di  questo  noTi  è  fatto  ricordo  da  nessun  au- 
tore. È  fatto  invoce  espresso  ricordo  di  un  tal  Cilene, 
aristocratico,  che  per  la  sua  crassa  ignoranza  e  per  la  sua 
inettitudine  non  potè  essere  ammesso  a  far  parte  del  So- 
dalizio interno,  e  che  «  pien  d'  ira  e  di  corruccio  »  co- 
minciò a  brigare  fra  i  malcontenti,  a  spargere  voci  calun- 
niose, a  mettere  in  cattiva  luce  le  cerimonie  e  1'  azione 
segreta  della  Società,  continuando  la  lotta  con  quell'a- 
sprezza e  quella  tenacia  che  gli  veniva  dall'orgoglio  gra- 
vemente offeso  e  dalla  certezza  di  essere  spalleggiato  da 
molti.  Egli  in  questo  modo,  favorito  com'  era  anche  dalla 
sua  elevata  condizione  sociale  e  dalle  idee  democratiche, 
allora  penetrate  nella  Magna  Gi'ecia  da  cui  seppe  abil- 
mente trarre  vantaggio,  potò  creare  nel  Consiglio  Sovrano 
dei  Mille  una  forte  opposizione,  che,  allargandosi  e  diffon- 
dendosi fra  il  popolo,  facilmente  ingannato  dalle  apparen- 
ze esteriori  sotto  alle  quali  non  vedeva  altro  che  mistero, 
dette  poi  luogo  ad  una  vera  e  propria  sommossa  contro 
il  filosofo  ed  i  suoi  seguaci  (500  a.  C.  circa).  Così  che,  se 
il  moto  fu  effettivamente  moto  di  popolo  contro  il  reggi- 
mento arivStocratico,  l'ispirazione  tuttavia  venne  dalla  parte 
meno  buona  dell'  aristocrazia  e  dal  sacerdozio  ufficiale  (1). 
Un  decreto  di  proscrizione  bandì  senz'  altro  Pitagora,  die, 
dopo  aver  cercato  invano  ospitalità  a  Caulonia  ed  a  Locri, 
fu  accolto  in  Metaponto,  dove  morì  non  molto  tempo  do- 
po ;  ed  una  fiera  persecuzione  fu  iniziata  contro  i  pitago- 


(1)  V.  in  proposito  ciò  che  dice  con  molta  verità  il  Centofanti, 
op.  cit.  p.  4l6  sgg. 


—  195  — 

rici,  parte  uccisi  e  parte    cacciati    anch'  essi    in  bando  e 
profughi  nelle  terre  vicine. 

La  durata  del  Sodalizio  fu  dunque  assai  breve,  di  non 
pili  che  quarant'  anni  ;  tuttavia  1'  efficacia  dell'  insegna- 
mento pitagorico  durò  per  lungo  tempo  attraverso  i  se- 
coli (1)  e  la  sua  fiamma  non  si  spense  mai,  conservata 
religiosamente  e  religiosamente  trasmessa  di  generazione 
in  generazione  dagli  eletti  a  cui  fu  affidato  via  via  il  sa- 
cro deposito  (2)  ;  cosicché  il  fondo  delle  dottrine  esoteri- 
che si  mantenne,  e  i  tempi  successivi  in  grande  o  in  pic- 
cola parte  poterono  conoscerle. 

5.  —  Nel  sodalizio  si  distinguevano  due  classi  di  adepti; 
quella  degli  ammessi  ad  un  grado  di  iniziazione  (disce- 
poli genuini  o  famigliari)  e  quella  dei  novizi  o  semplici 
uditori  (acustici  o  pitagoristi);  ai  primi,  distinti  alla  loro 
volta  in  varie  classi,  forse  in  corrispondenza  coi  diversi 
gradi,  (pitagorici,  pitagorei,  fisici,  matematici,  sebastici)  e 
discepoli  diretti  del  Maestro,  era  fatto  l'insegnamento  eso- 
terico 0  segreto;  gli  altri  potevano  assistere  solo  alle  le- 
ziorìi  esoteriche,  di  contenuto  esr^enzialmente  morale  (3),  e 


(1)  AmsTOTiLE  ci  fa  sapere  (Polii.  V,  lO)  che  \q  sissitie  italiche, 
anteriori  a  tutte  le  altre,  duravano  tuttavia  nel  suo  secolo;  certo 
per  la  congiunzione  loro  coi  posteriori  istituti  pitagorici.  V.  Cen- 
TOFANTi,  op.  ni.  p.  383  e  cfr.  Cognetti  De  Martiis,  op.  cit.  p.  466. 

(2.)  Il  Pitagorismo  appare  nel  mondo  romano  e  noli'  Italia  me- 
dioevalo e  moderna  in  tutti  i  periodi  di  risorgimento  filosofico.  La 
repubblica  utopistica  di  Platone  come  quella  del  Campanella  ripro- 
ducono molto  da  vicino  l' ideale  di  vita  che  fu  realmente  praticato 
neir  istituto  Crotonese. 

!3;  V.  Clem.  Stromat.  V.  575  D  ;  Ippol.  Eefut.  I,  2,  p.  8,  14  ; 
PoRF.  37  ;  GiAMBL.  72,  80  sg.,  87  sg.;  Gell.  I,  9,  Cfr.  anche  Yil- 
LOisoN,  Anecd.  II,  216.  -    Secondo  uno  scrittore  dal  quale  attinse 


19t) 


non  erano  ammessi  alla  presenza  di  Pitagora,  ma,  come 
dice  la  tradizione,  lo  sentivano,  talvolta,  parlare  da  die- 
tro un  velario  che  lo  nascondeva  ai  loro  occhi. 

Prima  di  ottenere  l'ammissione  non  solo  ai  gradi  d'i- 
niziazione, ma  anche  al  noviziato,  bisognava  subire  prove 
ed  esami  rigorosissimi,  poiché,  diceva  Pitagora,  «  non 
ogni  legno  era  adatto  per  farne  un  Mercurio  »;  anzitut- 
to, come  ci  narra  Aulo  Gelilo  (1),  un  esame  fisionomico 
che  attestasse  della  buona  disposizione  morale  e  delle 
attitudini  intellettuali  del  candidato  (2);  se  questo  esame 
era  favorevole  e  se  le  informazioni  procurate  intorno  alla 
moralità  e  vita  anteriore  erano  soddisfacenti,  egli  era 
ammesso  senz'altro  e  gli  era  prescritto  un  determinato 
periodo  di  silenzio  (echemythia),  che  variava,  secondo  gli 
individui,  dai  due  ai  cinque  anni,  durante  i  quali  non 
gli  era  lecito  che  di  ascoltare  ciò  che  era  detto  da  altri, 
senza  mai  chiedere  spiegazioni  nò  fare  osservazioni.  In 
questo  come  nel  lungo  meditare  e  nella  piìi  rigorosa  e 
severa  disciplina  delle  passioni  e  dei  desideri  praticata 
per  mezzo  di  prove  assai  difficili,  prese  dall'iniziazione 
egiziana,  consisteva  il  noviziato  (parashevé).  a  cui  erano 


Fozio  (Cod.  349),  gh  adepti  erano  distinti  in  Sebastici,  politici, 
matematici,  Pitagorici,  Pitagorei  e  pitagoristi  ;.  e  lo  stesso  scrittore 
aggiunge  che  i  discepoli  diretti  di  Pitagora  erano  chiamati  pitago- 
rici, i  discepoli  di  questi  pitagorei  e  i  discepoh  essoterici  o  novizi 
pitagoristi.  Dal  che  il  Roeth  (II,  pag.  455  sg.,  756  sg.,  823  sg., 
966;  b  104)  deduce  che  i  membri  della  piccola  scuola  pitagorica 
erano  chiamati  pitagorici  e  quelli  della  grande  pitagorei  ;  ed  a  ra- 
gione, purché  non  si  identifichino  questi  ultimi  con  i  pitagoristi  o 
discepoli  essoterici,  ma  bensì  si  considerino  come  gh  iniziati  di  pri- 
mo grado. 

(1)  Noci.  Att.  I,  9. 

(2)  OmaiNE  fa  Pitagora  inventore  della  «  fisionomica  ». 


—  197  — 

sottoposti  gli  acustici.  Costoro  appena  avevano  imparato, 
col  lungo  tirocinio,  le  due  cose  piti  difficili,  cioè  l'ascol- 
tare e  il  tacer  e,  erano  ammessi  fra  i  matematici  (1)  e 
allora  soltanto  potevano  parlare  e  domandare,  ed  anche 
scrivere  su  ciò  che  avevano  udito,  esprimendo  liberamen- 
te la  loro  opinione.  Nel  tempo  stesso  che  imparavano  ad 
accrescere  la  potenza  delle  loro  facoltà  psichiche,  la  loro 
sapienza  si  faceva  a  grado  a  grado  più  elevata  e  più  va- 
sta, sino  a  giungere  all'intelligenza  deìV  Essere  assoluto, 
immanente  neil'  universo  e  nell'  uomo  :  chi  arrivava  a 
questa  che  era  la  più  alta  cima  della  speculazione  filo- 
sofica, e  che  segnava  la  fine  di  tutto  l' insegnamento  eso- 
terico, otteneva  il  titolo  corrispondente  a  questa  inizia- 
zione epoptica,  cioè  il  titolo  di  perfetto  (teleìos)  e  di  ve 
nerahile  (sehastikós)  ;  oppure  chiamavasi  per  eccellenza 
nomo. 

L'  obbligo  essenziale  che  si  imponeva  agli  adepti  era 
quello  del  silenzio  (2)  e  della  segretezza  verso  gli  altri, 
senza  eccezione  per  parenti  o  per  amici.  Tanto  che  per- 
sino i  già  iniziati,  se  avessero  lasciato  trapelare  qualche 
cosa  agli  estranei,  erano  espulsi  come  indegni  di  appar- 
tenere alla  Società  e  considerati  come  morti  dagli  altri 
confratelli,  che  innalzavano  ad  essi  nell'  interno  dell'  isti- 


(Ij  Così  chiamati  dalle  discipline  che  professavano,  cioè  la  geo- 
tnetria^  la  gnomonica,  la  medicina^  la  musica  ed  altre  d'  ordine 
superiore,  per  mezzo  delle  quali  si  elevavano  alle  più  sublimi  ed 
eccelse  vette  della  scienza  umana  e  divina.  -  Sulla  medicina  v.  E- 
LiANO,    Var.  Hist.  IX,  22. 

(2)  V.  Tauro  pr.  Gellio,  L  e;  Diog.  Vili,  10;  Apul.  Fior.  II, 
15;  Clem.  Strom.  V,  580  A;  Ippol.  Refut.  I,  2,  p.  8,  14;  Giamel. 
71  sg.,  94;  cfr.  21  sg.;  Filop.  De  an.  D  5  b;  Luciano,  Vii.  auct. 
3;  Plut,  De  curios.  p.  309. 


—  198  — 

tuto  un  cenoiafio  (1).  È  rimasta  famosa  e  proverbiale 
quindi  la  fermezza  con  la  quale  i  Pitagorici  sapevano  cu- 
stodire il  segreto  su  tutto  ciò  che  riguardava  la  scuola  (2). 
Allo  stesso  modo  era  considerato  come  morto  chi,  pur 
avendo  dato  buone  speranze  di  sé  e  della  sua  elevatezza 
spirituale,  finiva  col  mostrarsi  inferiore  al  concetto  che 
aveva  fatto  nascere  dalla  sua  capacità.  Tali  casi  però,  ò 
bene  notarlo,  dovettero  essere  assai  rari,  poiché  la  lun- 
ghezza del  tempo  di  prova  che  precedeva  il  passaggio  da 
un  grado  a  un  altro  aveva  appunto  lo  scopo  di  rendere 
impossibili  o  di  limitare  al  minimo  gl'inganni  e  le  de- 
lusioni. 

L'essere  stato  accolto  fra  i  novizi  ed  anche  la  ricevuta 
iniziazione  non  obbliga^^a  per  nulla  alla  vita  cenobitica. 
Molti  anzi,  o  per  la  loro  condizione  sociale  o  perchè  non 
sapessero  rinunziare    interamente    al    mondo    o  per  altre 


(1)  A  questo  proposito  sappiamo  da  Clemente  (^S^row.  V,  574  D), 
che  riferisce  una  tradizione  ben  nota,  come  Ipparco,  a  causa  ap- 
punto dell'  avere  fatto  conoscere  la  dottrina  segreta  del  Maestro 
con  un  suo  famoso  scritto  in  tre  libri,  del  quale  ci  parlano  anche 
Diogene  Laerzio  (VITI,  lo)  e  Giamblico  (199),  fu  cacciato  dalla 
Scuola.  Cfr.  Oeigune,  Cantra  Celsurn  III,  p.  142  e  II,  p.  67  Can- 
tab,;  GiAMBL.  17;  Th.  Canterus,   Var.  Leet.  I,  2. 

(2)  V.  Plut.  Numa^  22;  Aristocle  p.  Edseb.  pr.  ev.  XI,  3,  1; 
PSEUDO  Liside  pr.  GiAMBL.  75  sg.  e  Diog.  VIII  42;  Giambl.  226  sg., 
246  sg.  (ViLLOisoN,  Aneed.  II,  p.  216);  Porf.  58;  un  anonimo  pr. 
Menagio  in  DioG.  VIII,  50.  Cfr.  Platon.,  jS'p.  II,  314,  l'afferma- 
zione di  Neante  su  Empedocle  e  Filolao,  e  il  racconto  dello  stesso 
scrittore  e  di  Ippoboto  (pr.  Giambl.  189  sg.)  secondo  il  quale  Myl- 
lia  e  Timycha  sopportarono  i  più  crudeli  tormenti  e  1'  ultima  si 
tagliò  la  lingua,  piuttosto  che  rivelare  a  Dionigi  il  vecchio  la  ra- 
gione dell'astinenza  dallo  fave.  Così  Timeo  (pr.  Diog.  Vili,  54)  af- 
ferma che  Empedocle  e  Platone  furono  esclusi  dall'  insegnamento 
pitagorico,  perchè  accusati  di  «  logoklopia  ». 


-    199  — 

ragioni,  continuavano  la  loro  vita  ordinaria,  che  natural- 
mente informavano  ai  principii  morali  e  alle  conoscenze 
acquisite,  diffondendo  così  con  la  pratica  e  con  la  parola 
il  bene  a  cui  l'insegnamento  appunto  mirava.  Erano 
questi  i  membri  attivi^  di  cui  ci  parlano  alcune  testimo- 
nianze; gli  altri  invece,  gli  speculativi^  vivevano  sempre 
nell'Istituto,  dove,  in  perfetto  accordo  con  tutte  le  altre 
pratiche  e  leggi  dell'Istituto  stesso,  le  quali  miravano  so- 
pratutto a  far  scomparire  ogni  forma  di  egoismo  e  di 
orgoglio  individuale,  era  praticata  un'assoluta  comunione 
di  beni.  E  non  è  poi  così  strano  da  doversene  negare  la 
verità  (1),  che  uomini  dati  a  speculazioni  filosofiche  e  re- 
ligiose e  a  pratiche  morali,  e  che  vivevano  insieme'  per 
uno  scopo  unico,  mettessero  in  comune  i  loro  beni,  per 
il  vantaggio  dell'insegnamento  e  per  la  diffusione  delle 
loro  idee.  Che  cosa  poteva  trattenere  i  discepoli  interni^ 
non  legati  più  dai  vincoli  del  mondo,  da  questa  comu- 
nione di  beni  ?  E  quanto  agli  esterni,  non  è  naturale 
pensare  che,  per  la  virtù  della  fratellanza  e  dell'amore 
acquistata  nel  comune  insegnamento,  ciascuno  mettesse 
spontaneamente  tutte  le  sue  sostanze,    anzi    tutto  se  me- 


(1)  Secondo  lo  Zeller  lo  testimonianze  di  Epicuro  (o  Diocle)  pr. 
Diog.  X,  Il  e  di  TiMKO  di  Taurom.  ibid.^  Vili,  10)  che  fu  anche, 
secondo  Fozio  (Lex.  y.  v.  Koinà)  introdurre  da  Pitagora  la  comu- 
nità dei  beni  fra  gli  abitanti  della  Magna  Grecia  sono  troppo  re- 
centi. Ma  cfr.  anche  gli  Schol.  in  Fiat.  Phaedr.  p.  312  Bekk.,  e 
le  testimonianze  che  troviamo  in  Dioo.  VILI,  IO;  Gell.  I,  9;  Ippol. 
Refut.  I,  2  p.  12;  Porf.  20;  Giamrl.  30,  72,  168,  257  ecc.  —  Il 
Krische  {l.  e.  p.  27)  crede  che  fonte  di  questa  tradizione  sia  stata 
una  falsa  (?)  interpretazione  della  nota  massima  «  le  cose  degli 
amici  sono  comuni  »;  il  che  mi  pare  ben  poco  fondato,  se  si  pensi 
che  non  è  neppur  corto  che  questa  massima  appartenesse  in  modo 
particolare  ai  pitagorici  (Aristot.   FAh.  Nic.  IX,  8,  1168  b  0). 


-    200  — 

desimo  a  disposizione  dei  suoi  confratelli  ?  (1).  Ed  infatti 
noi  sappiamo  che  i  Pitagorici  usavano  particolari  segni 
di  riconoscimento  (2)  ~  come  il  pentagono  (3)  e  lo  gno- 
mone (4),  incisi  sulle  loro  tessere,  e  la  forma  caratteri- 
stica  del  saluto  (5)  —  dei  quali  dovevano  servirsi  sia  per 
conoscersi  ed  aiutarsi  subito  a  vicenda  nei  loro  bisogni 
sia  per  essere  accolti,  fuori  di  Crotone,  dagli  adepti  di 
altre  scuole  consimili,  numerose  così  nella  Magna  Grecia 
come  nella  Grecia  e  nell'Oriente  (6). 

La  vita  che  si  conduceva  nell'  istituto  da  quei  disce- 
poli che  vi  rimanevano  in  permanenza  ci  e  sufficiente- 
mente nota  per  le  narrazioni  dei  neo-pitagorici  e  per  le 
notizie  sparse  qua  e  là  nelle  opere  dei  più  antichi  autori. 
Tutto  era  ordinato  con  norme  precise  che  nessuno  tra- 
sgrediva mai  (7);  il  che  si  intende  facilmente,  se  si  pen- 
si che  ognuna  di  esse  aveva  la  sua  giustificazione  razio- 
nale e  che,  salvo  alcune    rigorosamente  prescritte,  erano 


(1)  V.  DioD.  Siculo  Exeerpt.  Val.  Wess.  p.  554;  Diog.  Vili,  21. 

(2)  GiAMBL.  238. 

^3)  V.  gU  Sckol,  alle  Nuvole  di  Aristofane  611,  I,  249  Dind. 

(4)  Krische  l.  e.   p.  44. 

(5)  Luciano,  De  Salut.^  e.  5. 

(6)  Per  questo,  e  forse  per  altre  analogie  (come  quella  delle  a- 
dunanze  notturne  di  cui  ci  parla  Diog.  VIII,  15)  si  è  paragonato 
da  alcuno  l' Istituto  pitagorico  con  altre  società  segrete  dei  nostri 
tempi.  V.  su  questo  proposito  un  cenno  fuggevole  nel  Dici,  de 
biogr.  génér.^  Firmin-Didot,  Paris,  1862,  t.  41,  col.  243-244:  «  Les 
souvenirs  de  collège  formaient  sans  doute  pour  les  pythagoriciens 
ce  lien  sacre  qu'  on  a  depuis  voulu  assimiler  à  je  ne  sais  quelle 
société  de  Roseeroix  ou  de  Francs-ma^ons  ». 

(7)  PoBF.  20,  22  sg.  che  cita  Nicomaco  e  Diogene  (autore  d'  un 
libro  sui  prodigi);  Giambl.  68  sg.,   96  sg.,  165,  256. 


—  201  — 

date  più  in  forma  di  redola  o    di  consiglio,  che    di  vero 
e  proprio  comando  (1). 

Di  buon  mattino,  dopo  Ja  levata  del  sole,  i  cenobiti 
si  alzavano  e  passeggiavano  per  luoghi  tranquilli  e  silen- 
ziosi, fra  templi  e  boschetti,  senza  parlare  ad  alcuno  pri- 
ma di  avere  ben  disposto  il  loro  animo  con  la  medita- 
zione ed  il  raccoglimento.  Poi  si  adunavano  nei  templi 
0  in  luoghi  simili,  ad  imparare  e  ad  insegnare  —  poi- 
ché ciascuno  era  e  maestro  e  discepolo  (2)  —  e  pratica- 
vano continuamente  particolari  esercizi  per  acquistare  la 
padronanza  delle  passioni  e  il  dominio  dei  sensi,  svilup- 
pando in  modo  speciale  la  volontà  e  la  memoria  e  le  fa- 
coltà superiori  e  più  riposte  dello  spirito.  Non  si  trat- 
tava peraltro  né  di  mortificazione  della  carne  e  rinun- 
zia forzata  ed  obbligatoria  ai  piaceri  normali  delia  vita, 
ne  di  altre  simili  aberrazioni  fratesche  e  conventuali:  Pi- 
tagora voleva  soltanto  che  ognuno  si  mettesse  in  grado 
di  assoggettare  il  corpo  allo  spirito,  per  modo  che  que- 
sto fosse  libero  nelle  sue  operazioni  e  nel  suo  svolgi- 
mento interiore  :  ma  il  corpo  doveva  essere  mantenuto 
sano  e  bello,  perchè  in  esso  lo  spirito  avesse  uno  stru- 
mento perfetto  quant'  er  :  possibile  :  onde  gli  esercizi  gin- 
nastici d' ogni  genere  fatti  ali'  aria  aperta,  e  le  prescri- 
zioni minuziose  intorno  all'  igiene  e  specialmente  ai  cibi 
e  alle  bevande.  In  generale  i    pasti  erano    assai    parchi, 


(1)  Il  rispetto  alia  libertà  individuale  era  una  delle  caratteristi- 
che, e  forse  la  più  bella  del  metodo  pedagogico  pitagoreo.  V.  su 
tale  metodo  F.  Cramek,  Pythag.  quomodo  educaverit  atque  insti- 
siuerit  (1833). 

(2)  Anche  questa  era  una  sapiente  e  razionale  disposizione,  abi- 
tuando i  discepoli  alla  virtù  attiva. 


—  202  — 

ridotti  al  puro  necessario,  eJiminaudo  tutto  ciò  che  potes- 
se offuscare  la  serena  funzione  dello  spirito  ed  aggravare 
inutiluiente  lo  stomaco.  Pane  e  miele  al  mattino,  erbe 
cotte  e  crude,  poca  carne  e  solo  di  determinate  qualità 
ed  animali,  raramente  il  pesce  e  pochissimo  vino  la  sera 
durantB  il  secondo  pasto  (1),  il  quale  doveva  essere  ter- 
minato prima  del  tramonto,  ed  era  preceduto  da  passeg- 
giate, non  pili  solitarie,  ma  a  gruppi  di  due  o  tre,  ■  e  dal 
bagno.  Terminato  il  pranzo,  i  commensali,  riuniti  intorno 
alle  tavole  in  numero  di  dieci  o  meno,  si  trattenevano  a 
discorrere  piacevolmente,  a  leggere  ciò  che  il  più  anzia- 
no prescriveva,  di  poesia  e  di  prosa,  e  ad  ascoltare  della 
buona  musica  che  disponeva  gli  animi  alla  gioia  e  ad 
una  dolce  armonia  interiore.  Poiché  «  la  musica,  onde 
tutte  le  parti  del  corpo  sono  composte  a  costante  unità 
di  vigore,  è  anche  un  metodo' d'igiene  intellettuale  e  mo- 
rale, e  però  compieva  i    suoi  effetti    nell'anima  perfetta- 


I 


(1)  La  tradizione  più  diffusa  ci  parla  di  assoIui;a  astinenza  dalle 
carni,  dal  vino  e  dalle  fave.  Pitagora  forse  era  un  puro  vegetaria- 
no, come  ci  attestano  Eunosso  pr,  Porf.  7  ed  Onesicreto  (sec.  IV 
a.  C.)  pr.  Strab.  XV.  1,  65  p.  716  Gas.  Ma  non  possiamo  affer- 
mare che  tale  dieta  fosse  assolutamente  obbhgatoria  per  tutti  :  al- 
trimenti non  potremmo  spiegarci  come  mai  alcune  testimonianze 
parlino  di  certe  qualità  di  carne  rigorosamente  proibite.  Probabil- 
mente P  astinenza  dalle  carni  e  dal  vino  (  quella  delle  fave  pare 
fosse  prescritta  nel  modo  più  formale  e  categorico)  fu  un  semplice 
uso,  derivante  dal. bisogno  o  dal  desiderio  di  manteaer  sempre  sve- 
glio lo  spirito  e  di  rendere  meno  tirannico  —  pur  conservandolo 
sano  —  il  corpo  e  meno  forti  le  sue  esigenze.  La  dottrina  della 
trasmigrazione  delle  anime  non  entrava  per  nulla  in  tale  divieto  ; 
poiché  essa  aveva  un  significato  e  un  valore  assai  diverso  da  quel- 
lo normalmente  attribuitole,  secondo  la  comune  credenza  della  sua 
derivazione  dall'  Egitto. 


—  203  — 

mente  disciplinata  di  ciascun  pitagorico  »  (1).  Non  man- 
cavano iiifìno,  durante  la  giornata,  alcune  semplici  ceri- 
monie religiose,  piii  precisamente  simboliche,  che  servi- 
vano a  mantenere  sempre  vivo  e  presente  in  ognuno  il 
culto  ed  il  rispetto  di  quell'Essenza  da  cui  emanava  e  a 
cui  doveva  tornare  —  secondo  la  dottrina  mistica  del 
Maestro  —  il  principio  animico  e  sostanziale  di  ciascun 
individuo  umano. 

Altre  testimonianze  ci  parlano  di  astensione  dalla  cac- 
cia, dell'uso  di  vesti  bianche  !2)  e  di  capelli  lunghi  (3). 
Quanto  slìV  obblUjo  del  celibato  di  cui  parla  lo  Zeller, 
non  solo  non  ò  dato  da  alcuna  testimonianza  (4),  ma  è 
contrario  anzi  a  quelle  molte  che  ci  parlano  di  Teano, 
moglie  di  Pitagora,  dalla  quale  questi  avrebbe  avuto  piìi 
figli  (5)  ed  alle  altre  ove  sono  determinate    le  norme  ri- 


(1)  Cento  FANTI,  op.  cit.  p.  390. 

i2)  GiAMBL.  100,  149  che  desunse  forse  la  notizia  da  Nicomaco 
cfr.  RoHDE,  Rh,  Mas.  XXVI,  3  5  sg.,  47).  Aristosseno,  da  cui  è 
forse  presa  —  mediatamente  —  la  notizia  contenuta  nel  §  lOO,  non 
parlava  che  dei  Pitagorici  del  suo  teuipo.  V.  Apul.  De  Magia  e  56; 
Filostb.   Apollo??..  I,  32,  2;   Elian(.,    V.    (Iht.  XTI.   32. 

(3)  FlLOSTR.    l.    C. 

(4)  Egli  cita  veramente  Clem.  Strom.  IH,  435  C.  e  Diog.  Vili, 
19  ;  ma  nel  primo  di  questi  luoghi  è  detto  solo .  che  da  alcuni  si 
affermava  i^he  i  Pitagorci  «  si  tenevano  lontani  dall'amore  carna- 
le »;  ciò  che  non  significa  punto  che  l'amore  stesso  fosse  loro 
proibito  :  anche  qui  probabilmente  si  trattava  di  una  semplice  pra- 
tica liberamente  voluta  dai  più  degli  adepti.  Nel  secondo  luogo  ci- 
tato è  detto  semplicemente  che  Pitagora  «  non  si  seppe  mai  che  si 
abbandonasse  a  pratiche  sessuali  » . 

(5)  Ermesianatte  pr.  Ateneo  XllI,  599  a;  Diog.  Vili,  42;  Porf. 
19  ;  GiAMBL.  132,  146,  265;  Clem.  Paedag.  Il,  e.  0,  p.  204; 
Strom.  I,  309,  IV,  522  D.;  Plut.  Coniug.  praec.  31,  p.  142  ;  Stob. 
Eel.  I,  302;  Fiorii.  74,  32,  53,  55;  Fiorii.  Monac.  268-270  (Stob. 
Fior.  ed.  Mein.  IV,  289  sg.);  Teodoreto,  Semi.   12. 


—  204  — 

guardo  al  tempo  più  opportuno  per  dedicarsi  all'amore  (1); 
e  contrario  poi  —  ciò  che  è  piìi  importante  —  allo  spirito 
della  dottrina  del  filosofo,  per  il  quale  la  famiglia  era  sa- 
cra, e  i  doveri  ad  essa  inerenti  erano  indicati  con  molta 
precisione  ed  accuratezza,  massime  nell'insegnamento  fatto 
alle  donne.  Anche  il  celibato  insomma  non  dovette  essere 
che  una  pratica  dei  piìi  ferventi  discepoli,  i  quali,  dediti 
interamente  alle  speculazioni  filosofiche  ed  agli  studi,  cre- 
dettero forse  di  trovare  nei  vincoli  di  famiglia  un  osta- 
colo alla  libertà  dei  loro  studi  e  delle  loro  meditazioni. 

6.  —  Queste,  in  breve  le  notizie  che  ci  restano  della 
storia  esterna  dell'  Istituto  e  del  suo  ordinamento  interno. 
Per  quello  che  riguarda  in  particolare  l'insegnamento,  ab- 
biamo dunque  veduto  che  esso  era  duplice  e  che  per 
essere  ammessi  a  quello  chiuso  o  segreto  era  necessario 
aver  dimostrato,  con  lunghi  anni  di  prova,  di  esserne  de- 
gni e  di  avere  tutte  le  attitudini  necessarie  a  riceverlo. 
Chi  non  dava  tali  garanzie  poteva  usufruire  soltanto  del- 
l'insegnamento  esoterico  o  comune,  privo  di  ogni  sim- 
bolismo e  alla  portata  di  tutti,  di  carattere  essenzialmente 
morale.  Abbiamo  anche  accennato  che  i  discepoli  esote- 
rici erano  iniziati  gradatamente  a  forme  sempre  piìi  ele- 
vate di  conoscenze  —  teoriche  e  pratiche  — ,  nascoste 
sotto  il  velo  di  particolari  formule  simboliche,  facili  da 
ricordare  e  schematiche,  le  quali  avevano  il  vantaggio 
che,  conosciute  dai  profani,  non  rivelavano  per  nulla  il 
loro  senso  riposto  e  metaforico  (2).  Con  ciò  si  voleva  evi- 


I 


(1)  DioG.  vili,  9. 

(2)  L'  Arte  Mnemonica  di  Eaimondo  Lullo  (sec.  XIII-XIV),  uno 
dei  precursori  del  Beuno  e  maestro  di  Gioacchino  da.  Fiore,  di  Cor- 


—  205  — 

tare  il  pericolo  che  conoscenze  d'ordine  superiore  fossero 
date  in  balia  a  menti  inette  a  comprenderle,  le  quali, 
appunto  per  questo,  le  divulgassero  poi  con  restrizioni, 
limitazioni  e  imperfezioni  derivanti  dalla  loro  intelligenza 
inadeguata  e  così  nascesse  il  discredito  e  il  ridicolo  sulle 
dottrine  fondamentali  e  su  tutto  l'insegnamento.  Il  cri- 
terio usato  neir  impartirle  era  dunque  che  «  non  si  do- 
vesse dir  tutto  a  tutti  »  e  tale  criterio  —  aristocratico 
nel  senso  più  ampio  e  più  bello  della  parola  —  del  pro- 
porzionare le  conoscenze  alla  capacità  individuale,  non 
può  certo  reputarsi  illogico  o  segno  di  vana  superbia  e 
di  orgoglio  intellettuale  :  anzitutto  ò  accaduto  in  ogni 
tempo  che  dottrine  intrinsecamente  buone  abbiano  via  via 
perduto,  col  troppo  diffondersi,  gran  parte  della  loro  per- 
fezione primitiva  ed  abbiano  finito  o  con  V  andare  sog- 
gette ad  ogni  sorta  di  travestimenti  e  di  inquinamenti  od 
anche  col  perdere  affatto  il  loro  contenuto  sostanziale, 
pur  conservando  le  manifestazioni  esterne  e  i  segni  for- 
mali di  esso  ;  in  secondo  luogo  non  essendo  mai  chiesto 
all'individuo  più  di  quello  che  le  sue  facoltà  naturali  e 
le  sue  conoscenze  effettive  potessero  comportare,  e  lo  svol- 
gimento delle  facoltà  stesse  procedendo  secondo  quella 
progressione  che  la  natura  pone  nell' esplicarle  e  secondo 
i  gradi  della  superiorità  loro  nell'  ordinata  ed  armonica 
conformazione  della  persona  umana,  non  veniva  ad  esse- 
re turbato  in  nessun  momento  quell'  equilibrio,  nel  quale 
sì  conteniperano  in  armonia  perfetta  le  varie  attitudini  di 
ciascuno,  e  ne  nasceva  per  l' individuo  stesso  una  pace 
indisturbata  e  una  fiducia  in  se  medesimo,  che  non  dava 


NELio  Agrippa,  del  Paracelso  ecc.,  ebbe  lo  stesso  carattere  di  una. 
simbolica  universale,  intelligibile  ai  soli  iniziaci. 


—  206   — 

mai  luogo  allo  scoraggiamento  e  allo  sconforto.  Tutta  la 
vita  era  quindi  sottoposta  alla  legge  d'un' educazione  si- 
stematica e  c(mtiuua,  e  delle  attitudini  individuali  face- 
vano uno  studio  diligente,  coscienzioso  ed  incessante  quelli 
che  erano  piti  in  alto  nell'  ascesa  verso  la  perfezione. 

Nei  rapporti  degli  adepti  fra  loro  e  con  gli  altri  uomi- 
ni era  legge  suprema  l' amore,  e  questo  infatti  regnava 
sovrano  tra  quelle  anime,  avide  soltanto  di  ben©  e  desi- 
derose di  attuare  quant'  ò  possibile  in  questa  vita  quel- 
l'ideale di  giustizia  che  è,  attraverso  i  secoli,  la  perenne 
aspirazione  di  tutti  i  buoni.  Nella  scuola  e  nell'  insegna- 
mento invece  era  il  principio  autoritario  che  prevaleva  ; 
principio  razionale  e  giusto  quando  corrisponda  a  una 
vera  gradazione  di  merito  e  di  valore  individuale,  e  per 
nulla  insopportabile,  quando  l'insegnamento  sia  animato 
0  vivificato  dall'  amore  reciproco  fra  discepoli  e  maestri, 
e  quelli  abbiano  in  questi  fiducia  e  stima  illimitata.  Chi 
si  avvia  per  la  stiada  del  sapere  e  vuole  arrivare  all'ac- 
quisto di  un  qualsiasi  sistema  di  conoscenze  ha  sempre 
nozione  imperfetta  e  inadeguata  delle  verità  che  impara, 
finche  non  sia  giunto  a  comprenderne  per  intero  l'ordine 
necessario  ;  e  le  verità  stesse,  imparate  che  siano,  non 
sono  mai  sufficienti  a  costituire  il  sapere,  se  non  vi  si 
unisca  l'esperienza  positiva  della  loro  realtà.  Ma  poiché 
non  tutte  le  nozioni,  come  si  è  già  detto,  potevano  es- 
sere intese  da  tutti  pienamente  e  ciò  non  di  meno  era 
necessaria  la  loro  conoscenza,  anteriore  a  quella  delle  lo- 
ro ragioni  intrinseche  ed  ideali,  non  era  possibile  l'inse- 
gnamento di  esse  senza  il  principio  d'autorità.  E  d'altro 
lato,  non  potendo  questa  medesima  autorità  essere  tolle- 
rata a  lungo  dai  discepoli,  se  alla  simpatia  non  si  fosse 
accompagnata  anche  la    persuasione,    nata  dal    riconosci- 


207 


mento  sperimentale  di  altre  verità  prima  soltanto  apprese, 
era  giustissimo  il  priocipio  di  coordinare  l'insegnamento 
teorico  ed  il  pratico.  Oud'  è  che  gli  adepti  accettavano 
volentieri  e  senza  discutere  le  dottrine  che  gli  iniziati 
superiori  insegnavano  in  forma  di  precetti  brevi,  sempli- 
ci, facili,  simbolici,  sìa  perchè  erano  rafforzate  dall'auto- 
rità suprema  del  Maestro  da  cui  derivavano,  sia  perchè 
gradatamente  era  anche  insegnato  a  ciascuno  il  metodo 
per  verificarle  praticamente  da  se  medesimo.  Uipse  dixit 
era  pertanto,  come  dice  benissimo  il  Centofanti  (1),  «  la 
parola  dell'autorità  razionale  verso  la  classe  non  ancora 
condizionata  alla  visione  delle  verità  più  alte  e  non  par- 
tecipante al  sacramento  della  Società  »,  mentre  poi  il 
vedere  in  ?>7/r>  Pitagora  «valeva  appunto  la  meritata  ini- 
ziazione all'arcano  della  Società  e  della  scienza  ». 

7.  —  Resterebbe  ora  da  dire  in  che  cosa  consisteva 
l'insegnamento  impartito  con  un  metodo  così  rigoroso  e 
prudente,  quale  era  la  nuova  parola  che  Pitagora  portò 
fra  quelle  popolazioni,  così  piena  di  fascino  da  persuadere 
tante  nobili  intelligenze  ed  ammaliare  tanti  cuori,  e  a 
quale  spirito  era  informato  un. sistema  educativo,  che  non 
solo  sui  giovani,  ma  anche  sugli  uomini  aveva  tanto  po- 
tere da  trasformarne  la  natura  morale  e  tutta  la  costitu- 
zione psichica.  Ma  poiché  questa  esposizione  della  dottri- 
na pitagorica  è  già  stata  fatta  da  molti  (2),  basti  qui  il 
dire  che  eèsa,  riprendendo  ed  ampliando  il  pensiero  reli- 


(1)  Op.  cit.  p    405. 

(2)  Puoi  vederla  esposta  assai  bone  nei  citati  lavori  del  Cento- 
fanti  e  dello  ScHURÈ  ;  per  quanto  a  quost'  ultimo  manchi  in  parte 
il  necessario  corredo  di  prove  e  di  testimonianze. 


—  208  — 

gioso  che  la  tradizioDe  leggendaria  personificò  in  Orfeo, 
coordinava  le  ispirazioni  orfiche  in  un  sistema  vasto  e 
compiuto,  e  che,  essendo  fondata  su  un  sapere  sperimen- 
tale e  accompagnata  da  un  ordinamento  razionale  di  tutta 
la  vita,  mirava  a  perfezionare  gli  individui,  non  solo  con 
l'approfondirne  e  l'estenderne  le  conoscenze  teoriche,  ma 
anche  essenzialmente  con  l'accrescerne  a  grado  a  grado 
la  ricchezza  delle  forze  interiori,  per  lo  sviluppo  —  ot- 
tenuto con  lunghe  e  pazienti  pratiche  (1)  —  delle  facoltà 
latenti  del  riposto  ego  divino,  principio  sostanziale  di  ogni 
attività  dell*  uomo. 


(1)  Erano  pratiche  magiche  che  si  usavano  del  resto  in  tutte  le 
scuole  mistiche  e  che  non  eccedevano,  se  non  apparentemente  e 
solo  per  i  profani,  i  limiti  della  natura  ;  e  chi  abbia  una  cono- 
scenza anche  superficiale  di  questi  studi  sa  bene  che  la  magia  non 
era  altro  che  un'arte,  che  si  acquistava  con  cognizioni  ed  esercizi 
particolari  e  s.egreti.  Per  le  testimonianze  sull'  uso  di  queste  pra- 
tiche V.  Plut.  Numa  8,  Apul.  De  Magia  3l  ;  Porf.  23  sgg.,  34 
sg.;  GiAMBL.  36,  60  sgg.,  142,  dove  sì  parla  di  «  antichi  scrittori 
degni  di  fede  ».  Cfr.  anche  Ippol.  Refut.  I,  2,  p.  10  ,  Euseb.  pr. 
ev.  X,  3,  4  ;  Aristot.  p.  Eliano  II,  26  e  lY,  17  ecc. 


NDICE  DEL  VOLUME 


'ag 

VII 

» 

1 

» 

5 

» 

21 

Prefazione      ........ 

Introduzione 

Capitolo  peimo  :  Inizii  leggendarii  e  storici     . 

»         secondo  :  Quinto  Ennio  e  i  suoi  tempi     . 

■»        TERZO  :  Sette  e  scuole  pitagoriciie  in  Rojna  nel 

I  secolo  a.  C >>        45 

»         QUARTO  :  Pitagora  e  le  sue  dottrine  negli  scrit- 
tori latini  del  primo  secolo  a.  C.  .         .      »         69 

I.  —  Lucrezio  e  il  poema  «  Delia  Natura  »,      »        ivi 

II.  — .  Frammenti  della  dottrina  di  Pitagora  de- 
sunti dalle  opere  di  M.  Terenzio  Varrone    .      »         91 

III.  —  Appio  Claudio  Pulcro  —  Cicerone  e  il 

«  Somnium  Scipionis  »  ....      »       107 

IV.  —  Mimi  —  Q.  Orazio  Fiacco  —  P.  Virgilio 

Marone  ........       123 

V.  —  Pitagora  e  le  sue  dottrine  nella    poesia 

di  Ovidio       , »       149 

Appendici 

I.  —  Eitphorhos  .         .         .         .         .         .  •      .         .      »       163 

II.  —  Il  Sodalizio  pitagorico  di  Crotone       ...»       181 


ERRATA-CORRIGE 


tg. 

6 

rigs 

i  2 

pytagoreum 

pythagoreum 

» 

8 

» 

ultima 

Turis 

Turio 

-> 

15 

» 

!3 

fatto 

fatta 

» 

16 

> 

14 

persino 

e  persino 

» 

26 

» 

27 

permaneant 

permanont 

» 

34 

* 

34 

stituiti 

istituti 

» 

40 

» 

16-21 

Queste  6  righe 

sono  rimaste   inter 

nel  testo,  mentre  andavano  in  i 

pie  di  pagina 

• 

» 

44 

» 

6 

ist 

isti 

» 

47 

» 

10 

per 

fra 

» 

53 

» 

15 

intellegibili 

intelligibili 

» 

» 

» 

ultima 

Geory. 

Georg. 

» 

61 

» 

19 

ferun 

ferunt 

» 

» 

» 

22 

prae  vista 

praevisa 

» 

63 

» 

26 

aequo 

aeque 

» 

» 

» 

27 

ilUis 

illis 

» 

65 

» 

18 

maior 

maiore 

» 

66 

9 

32 

Mullach  V. 

Mullach  (v. 

» 

» 

» 

ultima 

Leipzg 

Leipzig 

» 

67 

» 

3? 

«  (Centra 

(  «  Centra 

•» 

70 

» 

7 

a  poco 

a  poco  a  poco 

» 

72 

» 

3 

senza  altro 

senz'altro 

B  Gianola,   Alberto 

21^  La  fort-una  de  Pitagora 

G5  presso   i  Romani  dalle  origini 

fino  al  tempo  di  Augusto 


PLEASE  DO  NOT  REMOVE 
CARDS  OR  SLIPS  FROM  THIS  POCKET 

UNIVERSITY  OF  TORONTO  LIBRARY