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Full text of "La morte di Orlando"

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H-f^/V**--*- ' 


Jfùcro  tfr/a/iao  .  'un  fraat'/pr  fucctac  - 


LA    MORTE 
D  I 

ORLANDO 

OTTAVE 


489G27 

H.4.   49 

IN  VENEZIA 

MDCCCVIT. 
rEESSO  ALESSANDEO  GARBO 


* .  I 


•V-M 


V  Editore-  dichiara  di  sua  particolare  prò- 
prietà  la  presente  Opera  ,  e  la  pome 
sotto  la  Salvaguardia,  della  Legge  13. j 
fiorile  Anno.  IX. 


<    1,1  in  .imi 


AVVISO  AL  EETT.ORE:. 

I-I  nome  del  grande  Orlando  è  alla  Fa- 
ma ben  noto»  Ma*  non  pretende  perciò/ 
r Autore-  di  rinnovare  colle  sue  Starw 
ze-  lo  squillo  della  tromba  di  questa* 
Dea,  che  strappando  di  mano  aL Tem- 
po la  falce  ,~non  passeggia  che  fra  gli, 
Allori  ministri  dell'  Immortalità  .  Egli 
aon  presenta  che  un  parto  informa 
d'una  Musa  scorretta,  e  pctrà  chia- 
marsi felice ,  se  questo  debole  parto  ± 
sottratto  alla  sferza  severa  d'una  Cri* 
Ùcsl  magistrale,  respirerà  qualche  istan- 
te di  vita  fra  le  braccia  deli' indulge  n* 
za .„  Egli  non  ardisce  caratterizzar  le 
sue  Stanze  col  titolo  di  Poema  , .  ben  : 
conoscendo  non  avere  osservato  le  in- 
violabili leggi,  che  la  maestosa  Cal- 
liope  rigidamente    prescrive.   JLa   1uji« 


ghezza  degli  cpisodj ,  che  neppure  sorr 
tali,  perchè  sorpassano  l'estensione  del 
principale  argomento  £  questa  lunghez- 
za toglie  alla  composizione  la  necessa- 
ria  unità  ,  che  potrebbe  renderla  degna 
della  denominazion  di  Poema  •  Sembre- 
rebbe all'Autore,  benché  lontano  dal- 
le stolte  illusioni  della  ridicola  super* 
stizione,  vedersi  innanzi  agli  occhi  le 
venerabili  Ombre  d'Omero,  di  Virgi- 
lio, e  de' loro  celebri  imitatori,  che 
destandosi  dal  placido  sonno  della  tom- 
ba onorata  ,  volgesser  bieco  lo  sguardo 
ad  un  audace  insetto,  il  quale  con  de* 
bole  incerto  volo  agguagliarsi  tentasse 
alle  Aquile  del  Parnaso. 


LA     MORTE 

D'  ORLANDO 

I  li»' ni  iiiiw 

CANTO      PRIMO, 


ARGOMENTO. 

len    Angelica   Orlando    è  prato   a    un  fonte  * 
Guerrìer  lui    sfida;    ella  si  st"    in  un  canto* 
Altro  Guerrier  guidato  è  sovra  un   Monte 
Da    una   Vecchia  ,   che    bella    è   per  incanto . 
Ivi    un    vasto    Castello   al\a   la  fronte , 
Ove   i    Demon  si  stanno   [n   laido  anmanto • 
ivi    la   vecchia   Maga    in  varia  ferma , 
A  suo  talento  ,   i  Cavalier  trasforma» 

r>  I. 

^anto  Marte  ,  e  Ciprigna ,  e  canto  Amore, 
)onne ,  Duci ,  Magic  di  strana  sorte  ; 
)el  forte  Orlando  pria  TaJto  valore, 
'©scia  dirò  la  miserabili  morte . 
fa  di  Vate  non  curo  il  sommo  onore, 
«Jè  del  Tempio  d' Apol  tento  le  porte  , 
'oichè  umile  a  strisciar  desio  mi  sprona 
u  le  falde  4i  Pindo,  o  d'Elicona. 


*  CANTO 

II. 

Alto  Scrittoi- j  che  in  dotti  ameni  carmi 
D'Orlando  espressa  ài  la  famosa  insania  } 
GP  illustri'  amori,  i  Cavalieri,  e  l'armi, 
E  di  beltàde  la  tenace  pania, 
Te,  chetivi  immortale  in  bronzi,  in  marmi  j 
Qua!  chi  d'  Achille  celebrò  la  smania  , 
Te  solo  imploro  ,  e  consacrar  mi  vanto 
A  1'  augusto  tuo  nome  il  rozzo  canto. 
III. 

Volta  sempre  ,  e  diretta  a  te  fia  solo  > 
Qual  Genio  tutelar  ,  mia  debil  voce  , 
Come  si  volge  calamita  al  Polo  % 
Come  tendono  i  fiumi  a  la  lor  foce . 
Se  da  gli  alti  riposi  al  basso  suolo 
Chinar  lo  sguardo  a  te  non  grava  ,  o  nuoce, 
Torci  propizio  a  quest* offerta  i  lumi  , 
Cóme  accetta  le  otferte  il  Re  de'  Numi . 
IV. 

Dirò  pria  che  in  vastissima  pianura 
Siede  molto  giocondo  praticello  , 
11  qual  sembra  che  Parte,  e  la  Natura 
Sieri  ite  a  gara  in  far  adorno ,  e  bello  . 
Ad  uscirne  j  a  partir  non  poca  dura# 
fatica  ognun,  che  pósto  à  il  piede  in  quello. 
Esser  quasi  li  par  ne  la  beata 
Sede  per  PUom  primier  da  Dio  creata. 
V. 

tE  Sé  talun  di  sua  beltà  desia 
fi^vero  udir  dal  labbro  mio  ritratto, 
Di  buon  grado  il  farà  la  penna  mia  , 
Com* esser  può  da  rozza  penna  fatto. 
Ma  se  a  vivi  color  pinto  non  tia, 
Ndn  sarà  privo  di  colori  affatto, 
Ed  il  mio  favellar  potria  talvolta 
Kscaf  diletta  a  chi  gentil  m' ascolta  , 


PRIMO.  S 

VI. 

Di  folta  erbetta  è  il  praticel  coperto, 
Che  mille  fiori  adornan  vagamente; 
Più  bei  colori,  o  più  soavi  al  certo 
Odori  alcun  quaggiù  non  vede ,  o  sente . 
Color  vivaci,  onde  mi  veggio  offerto 
Quadro  gentil  ,  che  mi  sta  fisso  in  mente; 
Misto  al  giallo  l'azzurro,  il  bianco  al  rosso, 
Tal  fa  contrasto,  che  spiegar  noi  posso. 
VII. 

Oh  !  qual  di  varj  dilicati  odori 
Scende  gradita  al  cor  dolce  unione, 
Che  i  crudi  affanni,  i  pallidi  timori 
Faria  por  tutti  in  piena  obblivione! 
Sovra  arboscelli  stansi  augei  canori , 
Che  ricreano  cól  canto  le  persone, 
E  gli  arboscelli  fan  corona  intorno, 
Alti  tutti  del  parij  al  prato  adorno. 
Vili.  è 

Circonda  un  ruscelletto  il  suol  fiorito, 
Un  giocondo  purissimo#  ruscello , 
Óve  al  guardo  giammai  non  è  sfuggito 
D'arena  un  minutissimo  granello  . 
A  dolce  sonno  fa  Cortese  invito 
Il  dilettoso  susurrar  di  quello  ; 
Sue  limpid' acque  innaffiano  il  terreno, 
Che  di  fiori  a  le  Ninfe  adorna  il  seno. 
IX. 

Stretto  il  ruscello  è  siche  a  l'altra  sponda 
Uom  con  un  passo  di  leggeri  arriva. 
Ben  difficile^  impresa  è  ch'io  risponda  , 
Se  alcun  chiede  le  vie  ch'io  gli  descriva, 
Quattro  ben  longhe  vie  ,  che  densa  fronda 
Cinge ,  e  di  luceé  in  ogni  parte  priva , 
Là  fronda  a' rami  è  si    intrecciata  ,  e  mista» 
Che  non  vi  puote  penetrar  la  vista , 

A  t 


4  CANTO 

X, 
Ben  lunghe  son  quant' occhio  può  vedere. 
Ma  tutte  pur  diritte  al  par  di  strale. 
Destano  un  sacro  orror,  che  l'alma  fere 
Oltre  a  l'immaginar  d'ogni  Mortale, 
E  tutte  offrendo  singoiar  piacere , 
Offron  ristoro  anco  al  diletto  eguale. 
Presso  al  margine  son  dei  ruscelletto  y 
E  Tuna  a  l'altra  uansi  dirimpetto. 
XI. 
E  contrastai  quegli  arbori  intrecciati 
Ne  le  aite  cimeil  passo  audaci  al  Sole. 
Poggi  intorno  vi  son,  da  cui  mostrati 
SonbegU  oggetti  a  chi  salirvi  vuole; 
E  cittadine  campagne,  e  colli,  e  prati, 
Che  descrivernon  san  le  mie  parole. 
Loco  sì  bello  in  parce  solo  io  mostro  ; 
Altra  lingua  esso  mena,  ed  altro  inchiostro, 
XIL 
Su  l'odoroso  margine  si  stava 
Di  quel  ruscello  un  celebre  Guerriero 
?re$so  a  Donzella,  ch'egli  molto  amava  y 
Che  vaga  avea  l'aspetto,  il  cor  sincero. 
Orlando  quel  Guerriero  si  nomava. 
Per  molte  imprese  degnamente  altero. 
Era  de' Franchi  il  Duce,  e  cento  e  cento 
Trionfi  ottenne  in  bellico  cimento. 
XIII. 
Giusta  mercede  a  tanti  suoi  trofei , 
Diégli  il  Principe  in  don  Città,   e  Castella. 
Angelica  nomavasi  coki, 
Un  de' Visconti  il  Padre  fu  di  quella. 
Ogni  bene  unir  volle  il  Cielo  in  lei, 
La  fé  cortese  ,  valorosa  ,  e  bella , 
E  volle  in  quella  stirpe  gloriosa 
Ufi  a  Donzella  ancor  render  famosa. 


PRIMO,  5 

XIV. 

Stava  ad  Orlando  ella  seduta  appresso , 
Ed  egli  a  lei  le  fiamme  sue  scopria  ; 
E  come  avviene  fra  gli  amanti  spesso, 
Quando  vicino  l'uno  a  l'altro  sia, 
Tanto  incendio  quegli  occhi  in  cor  gli  àn  messo, 
Gli  occhi,  onde  sempre  Amor  V  alme  feria, 
Che  nel  sen  ,  nelle  membra  ,  in  ogni  loco 
Arder  sentiasi  d'amoroso  foco. 
XV. 

Mentre  in  mezzo  a  fresch'aurca  limpid'acque, 
In  tal  dolcezza  •immersi  eran  gii  amanti  , 
Che  rimanesser  lieti  al  Ciel#  non  piacque , 
Odon  romor,  che  non  ucliasi  avanti; 
Poi,  cosa,  che  ad  Orlando  assai    dispiacque, 
Ecco  un  Guerriero,  che  Jor  vien  davanti, 
Gridando  ,  o  ia  Donzella  tu  dei  darme  , 
O,  s'ài  valor,  l'acquisterò  co  l'arine. 
XVI. 

Sì,  s' ài  valor,  che  misurarsi  sdegna 
A  vii  brando  inesperto  il  brando  mio; 
Perciò  ,  se  in  te  sublime  ardir  non  regna  , 
Lasciami  senza  oppor,  quel  che  vogl'io, 
Acciò  non  debba  con  un  arma  indegna 
Ferro  avvilir,  che  tanti  già  ferìo, 
E  tu  non  abbi  inevitabil  morte  , 
Senza  che  alcun  perciò  mi  chiami  uom  forte . 
XVII. 

Di  rabbia  Orlando  a  le  di  lui  parole 
Avvampa  tutto,  e  di  furor  nel  petto, 
Ei ,  che  gli  oltraggi  tollerar  non  suole, 
E  s*  accinge  a  pugnar  pel  caro  oggetto  . 
Col  ferro  in  man  tosto  mostrar  gli  vuole 
Che  non  à  vile  il  cor  ,  ne  il  braccio  inetto  j 
Ogn'indugio  egli  tronca  ,  alcun  ritegno 
^offrir  non  puote  suo  bollente  $degiì) . 

A  3 


«  CANTO 

XVIIL 

Qual,  se  con  empia  Tigre  sitibonda 
Affamato  Leon  venne  a  tenzone 
Ne  l'ampio  Circo,  che  di  gente  abbonda  , 
Per  l'Agnello,  pel  Cervo,  o  pel  Caprone  , 
La  coda  batte ,  e  in  voce  furibonda 
Rugge,  ilpelo  arricciando,  il  fier  Leone; 
La  Tigre  il  guata  ,  e  d'  accortezza  piena , 
Tenta  saltar  su  l'agitata  schiena. 
XIX. 

Ferocemente  sul  Nemico  a  un  tratto 
Cosi  P  invitto  Orlando  allor  si  scaglia  , 
Già  co  la  spada  di  vibrare  in  atto 
Colpo  ,  cui  non  resista  ,  o  piostra  ,  omoglia. 
Col  destrier  quegli  indietro  s'è  ritratto  , 
E  il  ferro  poi ,  che  molto  punge  ,  e  taglia , 
Snuda ,  e  lo  scudo  imbraccia ,  minacciando 
Il  fino  usbergo  trapassar  d' Orlando . 
XX. 

Mentre  l'agii  destrierda  lui  spronato 
Giunge  al  nemico,  che  il  riparo  appresta, 
A  l'improvviso  ei  muta  il  minacciato 
Colpo,  e  volge  Tacciar  contro  la  testa  . 
U  orribil  colpo  il  capo  avria  spaccato , 
Se  la  destra  d'  Orlando  era  men  presta  , 
Ma  ne  l' insidie  belliche  maestro 
li  brocchicro  ei  v'oppose  accorto  e  destro. 
XXL 

Piomba  la  spada,  (non  si  ratto  è  il  lampo) 
Sovra  lo  scudo  ;  eco  a  lo  scontro  orrendo 
Fanno  i^  vicini  Monti,  il  vasto  campo, 
Scuote  il  soglio  di  Giove  il  suon  tremendo, 
Pensa  la  Donna  che  difesa  ,  e  scampo 
Soltanto  puote  ritrovar  fuggendo  . 
Morto  ella  crede  il  suo  diletto  amante, 
E  risolve  fuggir  tutta  tremante . 


PRIMO.  7 

XXII. 

D'altri  mal  che  d'Orlando  esser  non  vuole  , 
Né  vuol  d'  alcun  ,  se  di  lui  resta  priva  . 
La  faccia  bella,  che  di  rose  suole 
Sempre  tinta  vedersi,  ognor  giuliva  , 
Come  qualora  ad  offuscar  del  Sole 
Il  giocondo  splendor  1*  Ecclisse  arriva, 
Or  d'un  mesco  pallor  s'adombra,  e  copre, 
Che  ben  la  doglia  del  suo  cor  discopre. 
XXIII. 

Ah!  cessi  aliin  questo  contrasto  rio, 
E  torni  ad  apparir  tanta  beltade.( 
Ella  ,  il  Cavallo  risalendo  ;  oh  Dio! 
Sclama,  ahi!  me  lassa,  Orlando  mio  già  cade; 
E  fuggendo  gli  dà  l'estremo  addio, 
Che  di  sua  morte  alto  timor  l' invade  , 
Ma  mentrepalpitando  ella  il  mirava  , 
Vide  che  vivo  egli  era,  e  ancor  pugnava* 
XXIV. 

Da  Io  stupor  la  bella  Donna  presa, 
Ferma  il  destriero,  e  a  riguardarlo  stassi. 
Tal  esser  di  Pastor  suol  la  sorpresa, 
Se  pecora  a  1'  ovii  rivolgevi  passi, 
Pecora  pianta  ,  e  invan  chiamata  ,  e  attesa/ 
Del  cui  nome  eccheggiar  fé?  i  tronchi,  e  i  sassi . 
Dubbiosa,  incerta  Angelica  s' appressa  a 
Temendo  quasi  d'ingannar  se  stessa. 
XXV. 

Sembrar  cosa  non  dee  bizzarra  ,  o  strana  , 

he  morto  il  tema  or  che  pugnar  io  vede  . 
Se  oppressa  è  dai  dolor  la  mente  umana, 
fnaspettato  ben  vero  non  crede  . 
Ma  lasciam  quei  Guerrier,  che  in  pugna  vana 
Spendono  il  tempo,  e  non  avran  mercede; 

he  mentre  l'uno  l'altro  va  ferendo, 
Altra  narrar  grande  avventura  intendo. 


8  CANTO 

XXVI. 

Nel  più  forte  di  un  bosco  un  Cavaliero 
Solo  si  stava ,  tacito  ,  e  pensoso  , 
Mesto  pascendo  in  quel  silenzio  il  fero 
Duolo  ,  che  in  seno  egli  serbata  ascoso  ; 
E  nel  sembiante  ei  dimostrava  in  vero 
Esser  molto  infelice,  e  doloroso. 
Dorata  Luna  avea  sovra  1' elmetto, 
Lucido  usbergo  gli  copriva  il  petto  . 
XXVII. 

Era  lo  scudo  suo  di  fino  argento 
Appeso  a  un  tronco,  e  presso  era  il  Cavallo 
Ma  da^  un  Monte  discende  a  passo  lento 
Vecchia,  che  lieto  appieno  esser  farallo. 
L'aspetto  di  colei  mette  spavento, 
Laido  è'1  corpo,  e  deforme ,  il  voltoè  giallo 
Fantasma  sembra  minaccioso,  e  tetro. 
Uscito  allor  da  squallido  feretro. 
XXVIII. 

Poca  su  Possa,  e  nera  pelle  è  stesa, 
Ed  è  la  pelle  sua  vizza,  e  rugosa, 
A  pie  del  Monte?  onde  la  Vecchia  è  yécs 
La  foresta  si  sta  densa ,  e  frondosa , 
In  cui  sorge  sovente  aspra  contesa 
Tra  il  freddo  Borea,  e  l'alta  Quercia  annosa 
L'  annosa  Quercia ,  che  fra  balza  e  balza 
De  l'arduo  Monte  le  sue  cime  innalzaV. 
XXIX. 

Giunta  innanzi  al  Guerrier  la  grinza  Vecchia 
Al  Guerrier,  che  l'aspetto  avea  di  prode, 
A  chieder  curiosa  s'apparecchia 
Qual  sia  la  doglia ,  che  il  tormenta  ,  e  rode 
La  curiosità  mai  non  invecchia  , 
Di  saper  gli  altrui  fatti  ognun  sigode, 
Ed  in  Femmina  ancor  da  gli  anni  oppressa 
Questa  brama  riman  sempre  la  stessa, 


P  *R     I    M     O.  p 

XXX. 

Molto  il  Guerrier  piace  a  la  Vecchia ,  e  stende 
Ambe  ver  lui  quelle  spolpate  braccia  . 
Egli,  perchè  il  dolor  quasi  lo  rende 
Stupido ,  al  suol  tenea  volta  la  faccia  . 
Non  Meteora  alcun  tanto  sorprende  , 
Come  sorpreso  ei  fu  da  la  Vecchiaccia  . 
In  pie  sì  rizza  >  attonito  la  mira  , 
Ed  in  mirarla  un  passo  si  ritira . 
XXXI. 

"Ella,  che  ben  del  suo  stupor  s' avvede  > 
Che  temi,  disse,  o  Giovin  valoroso? 
E'  ver,  fantasma  sembro  a  chi  mi  vede, 
Tanto  è  l'aspetto  mio  brutto  e  schifoso! 
Ma  a  te  non  di  far  danno  ,  anzi  mi  siede 
Di  giovarti  nei  cor  desio  pietoso  ; 
Quel  che  t'ange  di  pur  senza  sospetto, 
E  contento  sarai  d'avermel  detto  , 
XXXII. 

Ma  perchè  non  ti  faccia  vie  più  tristo 
l[  mio  sembiante,  cangerò  pur  anco 
Figura  ,  e  volto  ,  e  non  avrai  tu  visto 
Più  bella  donna  ,  o  più  leggiadra  unquanco  ., 
Ben  di  rispetto  a  meraviglia  misto, 
Che  una  Diva  ei  la  crede  ,  o  poco  manco, 
Colmo  fu  il  Cavalier,  che  in  un  momento 
Vide  quello  stupendo  cangiamento. 
XXXIII. 

Ella  tutta  si  ben  mutò  sembianza 
Per  magica  virtù  d'una  verghetta , 
La  qua!  chiunque  in  ninno  tiene,  avanza 
Tutti  in  beltàde,  in  leggiadria  perfetta. 
Ma  brutta  vecchia  aver  non  dee  speranza. 
D'esser  cangiata  in  bella  giovinetta; 
Quella  verga  parer  fa  il  brutto  bello  , 
Ma  il  brutto  resta,  e  sol  prestigio  è*  quello 

A    t 


IO 


CANTO 


XXXIV. 
E  perciò,  tosto  che  deposta  sia 
La  verga ,  il  brutto  ad  apparir  ritorna . 
Oh  !  qual  folla  di  donne  vi  saria 
Di  e  notte,  e  quando  annotta,  e  quando  aggior 
Intorno  a  quella,  se  per  tal  magia 
Fosse  ogni  Donna  di  bellezza  adorna! 
Che  il  donnesco  piacer  consiste  solo 
Nel  vedersi  d' intorno  amante  stimolo  , 
XXXV. 
11  grinzo  di  colei  pallido  aspetto 
Or  liscio  è  fatto,  e  neve  sembra  ,  e  rosa . 
Scende  in  giusto  confin  naso  ristretto  , 
Da  breve  fronte  fra  i  capelli  ascosa. 
De*  corti  denti  il  puro  avorio  eletto 
Entro  a  picciola  bocca  si  riposa  ; 
Vermiglio  labbro  li  discopre  ,  e  vela  , 
Che  in  dolce  suon  de  Palma  i  sensi  svela, 
XXXVI, 
Scendono  a  Paura  sparsi  i  bei  crin  d'oro, 
De'  quai  più  lunghi  altri  non  vide  il  Sole  ; 
Sottil  ,  lunghetto  è  il  collo,  e  par  lavoro 
Di  torno  il  braccio  candido  qua!  suole 
IVÌunto  vedersi  il^  liquido  tesoro  , 
Che  pecora,  e  giumenta  offre  a  la  prole. 
Terso  alabastro  quella  man  ricopre  , 
Ove  molte  vallette  il  guardo  scopre. 
XXXVII. 
Ogni  dito  nel  mezzo   ingrossa  alquanto, 
E  verso  P  ugna  più  sottil  diventa  ; 
Il  pie  legger,  che  sovra  ogn' altro  à  il  vanto, 
Il  leggiadro  ,  e  gentil  corpo  sostenta, 
spesso  furtivo,  sollevando  il  manto, 
La  gamba  snella  Zefììro  presenta. 
Ben  si  puote  dedur  che  men  vezzoso 
Non  è  di  quel  che  a?par>  quel  eh' è  nascoso. 


PRIMO.  ix 

XXXVIII. 

Ella  avvenenza  spira,  e  leggiadria, 
Tutto  è  lusinga  in  lei,  tutto  è  dolcezza . 
Con  uno  sguardo  debellar  sapria 
Ogn* insensibil  cor,  che  Amor  disprezza. 
O  rida ,  o  parli  ,  o  taccia ,  ella  potria 
Co  la  Dea  gareggiar  «iella  bellezza . 
Par  che  le  Grazie  a  lei  sedute  in  grembo, 
Vcssin  di  fiori  un  odoroso  nembo. 
XXXIX, 

Così  la  Vecchia  per  magia  cangiata , 
Di  canuta  ,  ed  orribile  eh'  ejl'era  , 
In  giovinetta  di  beltà  fregiata  , 
Che  invan  Donzella  aver  pretende  ,  o  spera , 
Disse  al  Guerriero  :  Or  non  ti  sono  ingrata , 
Del  tuo  dolor  dimmi  la  causa  vera  . 
Dal  labbro  stilla  ,  qual  da  favo  suole, 
Il  mei  de  le  dolcissime  parole  . 
XL. 

Ei  dolente  rispose  :  À  che  m' invita 
Il  labbro  tuo,  se  spirto  in  forma  umana, 
O  se  donna  tu  sei  dal  Ciel  fornita 
D'una  possanza  inusitata,  e  strana, 
Ad  inasprir  così  la  mia  ferita,  -% 

Dicendo  quel  che  il  dirti  è  cosa  vana? 
Tutte  palesi  a  te  le  umane  cose 
<^erto  esser  denno ,  che  altrui  sono  ascose. 
XLI. 

E  penso  ancor  che  tutto  oprar  tu  possi, 
Poiché  ti  vidi  io  stesso  oprar  cotanto. 
Con  dolce  riso  i  due  labbretti  rossi 
Le  chiuse  perle  discoprirò  alquanto, 
E  disse:  In  me  nulla.  Signor,  celossi , 
Che  diyin  sia  ,  fò  tutto  per  incanto; 
E  sappi ,  o  Cavalier,  che  la  Magia, 
Arte  illustre,  e  temuta,  è  l'arte  mia  . 

A   6 


12 


CANTO 


XLII. 
Del  cupo  Averno  il  Principe  mandommi 
Moki  suoi  Servi  a  secondar  mie  voglie  , 
Ed  io ,  per  lo  poter  ,  eh*  egli  donommi  > 
Vestir  li  faccio  differenti  spoglie. 
In  mezzo  a  lor  ,  come  Regina,  stonimi , 
Né  il  mar  ,  la  Terra  cosa  alcuna  accoglie, 
Che  al  mio  soggiorno  ,  in  mano  mia  non  giunga,. 
Sol  che  brama  di  quella  il  cor  mi  punga  . 

vvLIII. 

Molte   cose  vi  son  dov'io  risiedo, 
Che  produr  ponno  alti,  e  stupendi  effetti . 
Se  non  t' incresce  venir  meco,  io  credo 
Che  godrai  nel  veder  si  strani  oggetti  . 
Nel  mio  Palagio  io  tutto  scopro  ,  e  vedo-,. 
E  i  casi  tuoi,  benché  da  te  non  detti. 
Ivi  saprò  ,  da  quali  terre  or  vieni, 
Ed  in  Italia  qual  pensier  ti  meni. 
XLIV. 
ro  ti  prego,  rispose  il  Cavaliere,. 
Guidarmi  ove  tu  fai  la  tua  dimora , 
E  grande  onor  mi  fra ,  sommo  piacere 
Vedermi  accoltola  si  gran  Signora. 
Senz'altro  indugio  verso  il  suo  Corsiere- 
Impaziente  egli  avviossi  allora  , 
In  sella  salse  ,  e  con  serena  fronte 
La  Maga  seguitò  verso  quel  Monte. 
XLV. 
E  benché  a  piedi  sia  la  Maga  ,  pure 
Corre  più  del  Cavallo,  che  galoppa  , 
Anzi  non  corre  ,  ma  per  Paure  pure 
Lieve  s'innoltra  ,  e  in  sasso  non  intoppa. 
De  le  infernali  regioni  oscure. 
Spirito  abitator  la  porta  in  groppa. 
Pensi  ognuno  a  suo  senno ,  io  cosi  credo  £ 
Causa  di  tal  prodigio  altra  non  vedo . 


PRIMO.  ij 

XLVI. 

Ti  Cavaliere  da  colei  scortato, 
La  difficile  ascende  alta  Montagna  , 
E  dopo  avere  lungamente  errato, 
Giugne  in  una  bellissima  Campagna. 
Molto  più  che  dai  fiori ,  adorno  è  '1  prato 
Da  un  gran  Castello;  ivi  la  sua  compagna 
S'arresta,  e  dice:  li  fabbricò  l'astuta 
Del  Prence  Belsebù  gente  cornuta. 
XLVII. 
Composto  il  veggio  d'un  acciaio  fina, 
Splendente  al  pari  che  le  stelle,  e  '1  Sole. 
A  punta  adamantina  un  sopraffino 
Lavoro  il  fé  de  le  infernali  Scuole  .# 
Come  m' innoltrerò  sì  che  in  cammino 
Non  mi  manchi  la  lena ,  e  le  parole  , 
Ne  ià  descrizion  di  così  bello 
E  giocondo,  e  mirabile  Castello? 
XLVIII. 
Esso  è  vasto  e  sublime,  e  di  figura 
Quadra,  e  per  quattro  porte  entrar  si  puote 
Son  le  porte  dì  vaga  Architettura  y 
E  su  le  soglie  stan  magiche  note- 
Leggere  in  vano  il  Cavalier  procura 
Quelle  bizzarre  cifre  a  lui  mal  note , 
E  1'  arco  ammira  ,  che  con  dotta  legge 
Le  porte  adorna,  e  P edilìzio  regge. 
XLIX, 
Stansiquelle  rimpetto ,  e  di  splendente 
Verde  diaspro  son  le  imposte  loro , 
Adorne  tuttc^moko  vagamente 
Di  grosse  perle,  e  di  rìnissim'oro. 
La  meraviglia  5  che  il  Guerrier  ne  sente 
In  veder  quel  mirabile  lavoro, 
Io  dir  non  so,  ma  immaginarla  denno 
Tutti  color,  che  anno  criterio  e  senno  . 


té  CANTO 

L. 

Mira  il  grande  Edifizio,  e  non  fa  motto 
Fino  che  giunge  ad  una  porta  presso. 
De  Ja  Maga  a  l'arrivo  ecco  di  botto 
La  porta  aprirsi,  e  v'entra  ella  con  esso; 
Né  dal  Corsiero  ,  che  gli  stava  sotto  , 
Ove  di  quella  porta  era  V  ingresso , 
Scender  gli  sovvenia,  ma  con  gradita 
Voce  la  Maga  ad  ismontar  1*  invita, 

LI. 
Quando  smontato  fu ,  la  bella  mano 
Ella  gli  porse,  e  nel  Castel  guidollo. 
Ivi  spettacol  non  più  visto,  e  strano 
Ei  ritrovò,  che  di  stupor  colmollo. 
Spirti  erravano  intorno  in  volto  umano, 
Tutti  deformi  al  par  dai  piedi  al  collo  ; 
Ma  più  che  le  figure  di  ciascuno. 
Meravigliare  il  fé  quella  di  uno , 

LII. 
Era  cortili  de  la  deforme  schiera 
Il  Capitano  ,  od  esser  tal^  mostrava  ; 
Alto  sedici  braccia  costui  era  , 
Cotanto  ogni  Gigante  ei  superava  ! 
Più  nera  pelle  ove  il  Meriggio  impera 
Non  v'  adi  quella,  che  colui  portava, 
E  lo  schifoso  Mostro  era  sì  grasso 
Che  a  gran  pena  potea  formare  un  passo  » 

LUI. 
Sembrava  il  volto  uno  di  quei  palloni  , 
Che  si  lanciano  in  aria  per  trastullo;^ 
Gli  occhi  parean  di  fulmini .  di  tuoni 
Gravido^  nembo,  che  il  valor  fea  nullo  ; 
E  da  gli  omeri  poi  fino  ai  talloni , 
Né  d* uom  la  forma  avea  ,  ne  di  fanciullo. 
Or  vo* narrar,  se  mal  non  mi  rimembra^ 
'V-eud,  che  ii'Guerrier  vide,  orride membra 


PRIMO,  i* 

LIV. 

Ai  quattro  Iati  de  Ja  gran  testacela 
Vide  un  corno  grossissimo  innalzarsi , 
Che  non  era  men  lungo  di  sei  braccia  * 
E  poteva  co  V  occhio  misurarci  ; 
Il  resto  poi,  che  umano  corpo  abbraccia 
Sotto  al  ventre,  in  lui  vide  raddoppiarsi; 
Quattro  Je  gambe  son  ,  quattro  le  cosce; 
Sembran  pietra  a  chi  ben  non  Je  conosce  . 
LV. 

Sì  smisurate,  e  informi  son  che  appunto 
Pajon  Colonne,  e'1  pie  non  vi  si  vede, 
Ma  s'allargano  in  fin  cosi  che  punto 
Ne  1'  uffìzio  non  mancano  àeì  piede  . 
Il  Cavalier,  che  nel  Castello  è  giunto, 
Un  Simulacro  non  a  torto  il  crede  , 
Né  gU  cade  in  pensier  pur  un  momento 
Non  sia  posto  colà  per  ornamento  ; 
LVT. 

E  che  non  sien  quattro  Colonne  quelle, 
Da  cui  sia  il  Simulacro  sostenuto  . 
L'alme  abitanti  de  le  ardenti  celle 
A  la  Regina  fero  onor  dovuto  . 
Tosto  in  due  file  si  diviser  elle , 
E  corser  poscia  al  Capitan  cornuto 
Per  dargli  aita ,  che  non  puote  ei  solo 
Chinarsi  mai  senza  cadere  al  suolo. 
LVII. 

Come  esprimer  potrei  la  meraviglia 
Di  quel  Guerrier,  che  mobile  ravvisa 
Quel  che  pietra  ei  credeva  ?  Ambe  le  ciglia 
Inarca,  e  quasi  di  sognar  s'avvisa. 
L'altezza  sua,  che  a  Monte  rassomiglia, 
Od  a  Scoglio,  da  cui  l'onda  è  divisa  , 
Un  de  gli  Angeli  ascoso  ivi  dimostra  , 
.Scacciai  già  da  la  celeste  cbis?tt3  „ 


16  CANTO 

LVIII. 

E  gli  altri  pur  tutti  Demonj  ei  stive,?.  , 
Uno  de'quai  d'Aquila  à  il  collo,  e  il  becco, 
La  testa  cì'nom  (  cosa  non  vista  prima) 
D'uomo  i  capelli,  e  il  resto  par  di  Becco  ; 
La  coda  a  di  Cavallo,  e  su  la  cima 
Del  capo  à  di  Monton  due  corna  ;  or  ecco 
Gentil  sembiante  !  Né  men  laidi  ,  e  brutti 
Erano  di  costui  quegli  altri  tutti . 
LIX. 

Il  capo  à\..questo  di  crudel  Leone, 
Le  chiome  di  venefici  serpenti  , 
Di  Tigre  il  corpo,  l'ugna  di  Falcone; 
L'altre  membra  non  sono  differenti  , 
Poste  con  quelle  d'Uomo  al  paragone, 
E  lunga  è  la  sua  coda  palmi  venti  , 
Ma  nera  sì  che  tutta  in  essa  accolta 
D'Inferno  par  l'atra  caligin  folta. 
LX. 

Sembra  quello  una  scimia  ,  un  babbuino, 
E  gli  escon  due  gran  denti  da  la  bocca , 
Lunghi  così  che  da  la  bocca  fino 
Al  suolo  giungon  ,  che  quasi  li  tocca. 
Due  gran  corna  à  di  Cervo,  q  al  cui  vicino 
Due  code  origin  anno,  in  quella  Rocca 
Non  v5  à  chi  n'abbia  due  come  costui, 
Fra  quei,  che  sono  somiglianti  a  luì. 
LXI. 

Non  so  quanto  sien  lunghe  quelle  code* 
£ò  ben  che  sono  piene  di  veleno  . 
Ma  certamente  stancherei  chi  rn'  ode  j 
Se  di  tutti  parlar  volessi  appieno. 
E  perchè  il  mio  cantar,  se  plauso,  e  lode 
Aver  non  può  ,  biasmo  non  abbia  almeno , 
Qui  di  ciò  tacerommi ,  e  dirò  cosa, 
Che  difetto  saria  tenere  ascosa. 


RIMO.  i7 

LXII. 

Quella  ,  ov'  eran  tai  Mostri ,  era  una  stanza 
Tutta  fornita  d'un  bel  drappo  d'oro; 
Un  trapunto  Tadorna  ,  il  quale  avanza 
Ogni  pregiato,  ogni  sottil  lavoro. 
Sì  gran  cose  narrar  non  so  a  bastanza  ò 
Tutto  pinger  vorrei  ,  tutto  scoloro . 
O  Mu$a  ,  ilnaio  pensier  deh!  tu  rinforza, 
Tu  presta  ai  vanni  miei  vigore,  e  forza. 
LXIII. 

Il  leggiadro  trapunto  esprime  quanto 
Fu  àa  la  Maga  di  stupendo  ,  fatto, 
Dei  Demonj  per  opera,  e  d'incanto  . 
Vi  si  vede  ogni  cosa  in  un  sol  tratto; 
E.  del  tetto  si  vede  in  ogni  canto 
Sculto,  e  dipinto  qualche  illustre  fatto; 
Di  tai  prodigj  adorno  ancora,  e  cinto 
E'  il  suol,  con  pietre  a  bei  color  dipinto  . 

lxiv. 

La  Maga  allora  in  più  rimota  parte 
Il  Cavalier,  de  l'ampia  stanza  guida. 
Vedi  là,  disse  ,  quelle  genti  sporte 
Per  io  timor  che  l'nggressor  le  uccida. 
E  tronche  braccia,  e  pie  stanno  in  disparte, 
Bocche  in  atto  d'  alzar  sonore  grida, 
Mentre  il  nemico  i  vinti  insegue,  e  tutto 
Ricolma  il  Campo  di  cruento  lutto, 
LXV, 

Lo  stuol ,  che  fugge  con  sì  grave  danno  , 
Su  le  sponde  abitar  suol  del  Tamigi , 
Venner  color,  che  baldanzosi  vanno, 
Da  la  Senna  ,  che  innaffia  il  gran  Parigi  , 
De' bellicosi  Franchiera  in  quell'anno^ 
Rege  H  quattordicesimo  Luigi  , 
Luigi  in  pace  illustre,  invitto  in  guerra, 
Al  cui  nome  ecch«ggiò  tutta  la  Terra, 


iS  CANTO 

LXVL 

E  com' ei  seppe  le  nemiche  Genti 
Sempre  domar  coj  suo  possente  brando, 
E  le  campagne  di  nemici  spenti 
Col  forte  braccio  ricoprir  pugnando, 
Come  fu  grande  ne'  guerrier  cimenti , 
Fu  giusto  ancor,  clemente  fu  regnando, 
E  cmn  esperta  man  regger  solca 
La  bilancia  difficile  d'Astrea. 
LXVII. 

Sappiate,  o  Gavalier,  ch'io  ne  la  stessa 
Figura  j  in  cui  già  mi  vedeste  prima, 
Fra  Britanni  n'andai,  di  vecchia  oppressa 
Da  gli  anni,  ed  alta  sol  sei  palmi,  e  grimaj 
Ed  in  sembianza  povera  e  dimessa 
Giunsi  in  quella  Città  degna  di  stima , 
Per  tanti,  e  tanti  illustri  Eroi  superba, 
E  che  sul  vasto  Mar  l'impero  serba. 
LXVIII. 

Per  l'aure  quivi ,  da  un  de'  miei  portata 
Spirti,  venni  a  mirar  la  gran  Cittàde  . 
Con  istupor  da  tutti  era  osservata, 
Nessun  cheDonna  io  sia  si  persuade. 
Ma  quando  io  fui  ne  la  Cittàde  entrata, 
E  tutte  intorno  passeggiai  le  strade. 
Stupefatti  rimasero,  e  mi  chiama 
Ciascuno  Maga,  e  il  Popolazzo  esclama: 
LXIX. 

Brutta  vecchia ,  che  fii?  Da  qual   recesso 
Giunta  de' cupi  sei  Regni  infernali? 
A  Pluton  ,  che  t'  inviò, /areniti  adesso, 
Empia,  tornar  co  succhi  tuoi  letali. 
In  un  sol  tratto  a  me  sifèron  presso  , 
Minacciando  vibrar  colpi  mortali  ; 
Io,  che  di  magic' arte  era  munita, 
Paventar  non  potea  per  la  mia  vita  , 


PRIMO,  if 

LXX. 

Non  con  tal  fretta  va  scoccata  freccia, 
O  grave  sasso,  che  dall'alto  piomba,  # 
Né  con  tal  forza  Ariete  a  farsi  breccia , 
Né  s'avventa  Sparvier  sopra  Colomba; 
Come  su  me  quell'importuna  feccia 
Del  Vulgo,  e  a' gridi  suoi  l'aer  rimbomba, 
L'aer,  che  pietà  di  me  par  che  rinserri, 
Fischiando  al  lampo  de' cadenti  ferri. 
LXXI. 

Ma  il  mio  Spirtofedel  voia^  ai  compagni, 
E  in  pochi  istanti  ivi  con  essi  torna  ; 
J>ar  che^  il  terror  gli  segua,  e  gli  accompagni  „ 
E  lor  sieda  su  1'  ugne  ,  e  su  le  corna  . 
Que',  che  l'armi  stringeano,  e  i  lor  compagni , 
Tutti  fuggir;  lo  Spirto  a  me  ritorna, 
E  il  volante  suo  dorso  a  mio  bell'agio 
Mi  riconduce  a  questo  gran  Palagio. 
LXXIL 

Io  contro  quella  Gente  maledetta 
Giurai  di  far  aspra  vendetta  giusta» 
Quando  quella  battaglia  mi  fu  detta, 
A  punir  m'apprestai  l'offesa  ingiusta, 
Ed  a  la  sede,  che  i  malvagi  aspetta  , 
La  qual  di  fumo  è  tutta  sempre  onusta. 
Un  mio  servo  mandai  ,  che  raccogliesse 
Di  nero  fumo  vaste  nubi ,  e  spesse . 
LXXIII. 

E  quelle  fei  dinanzi  agli  Angli  porre 
Sì  che  più  non  vedesser  1'  Inimico  . 
Difeso  fu  più  che  da  muro,  o  torre, 
Ogni  Franco  guerricr  dal  nembo  amico  . 
Non  si  potean  da  gli  occhi  il  fumo  torre 
Gl'Inglesi  ,  e  sciorsi  dal  funesto  intrico  j 
Per  fuggir  tanta  insidia  atroce,  e  nuova 
fi  rinculare,  o  1'  avanzar  non  giova. 


io  CANTO 

LXXIV. 

Not^  vibra  il  Franco  mai  colpo  fallace, 
Per  mio  voler  tutto  ei  discerne  ,  e  vede , 
Scocca  sue  freccie  ,  e  la  tempesta  edace 
Atterra  ognun,  che  salvo  esser  si  crede. 
Prende  così  scaltro  Falcon  rapace 
Il  Passer,  chedel  rischio  non  s'avvede. 
Scaglian  ciechi  i  Britanni ,  e  non  san  dove 
I  dardi  lor  ,  mentre  è  '1  nemico  altrove  . 
LXXV. 

"Ecco  qual  soffre  memoranda  pena 
Chi  d'  oltraggiare  ardisce  un  più  possente; 
Ecco  di  pianto  ,  e  duol  tragica  scena  , 
Ove  ii^  malvagio  pere,  el'  innocente. 
Di  tali  esempj  spaventosi  è  piena , 
E  la  storia  vetusta,  e  la  recente; 
Talora  i  figli  di  colpevoi  Padre 
Perirò  in  braccio  a  la  dolente  Madre. 
LXXVL 

Vedi  que*  porci  là  ;  que'  sassi  vedi , 
Que'  montoni,  que' cervi,  e  quella  chiara 
Acqua  ?  Son  uomin  quei  ;  se   tu  noi  credi  , 
A  veder  meco  vien  cosa  sì  rara  . 
D'  un  Rege  Ispano  uno  è  fìgliuol,  Tancredi 
E'  il  nome  suo  ;  costar  gli  sci  ben  cara 
L'  ingratitudin  ,  che  il  suo  cor  protervo 
Mi  dimostrò,  cangiandolo  in  un  Cervo. 
LXXVII. 

Era  quello  un  Guerricr  prode  ne  P  armi , 
Sua  Patria  è  la  Città  ,  che  Adige  lava, 
Poco  quinci  discosta;  un  tempo  farmi 
Prigioniera  quel  folle  divisava , 
E  tormi  la  mia  Rocca  ,  e  morte  darmi, 
Desio  di  gloria ,  credo  ,  Io  spronava  ; 
In  puro  fiumicello  ei  fu  cangiato  , 
Che  si  duol  ,  mormorando  del  suo  Fato, 


PRIMO.  21 


LXXVIII. 
lo  mi  crcdea  poter  tutte  ridire 
Le  tante  cose,  che  la  Maga  a  detto; 
Ma  questo  Canto  mi  convien  finire 
Che  riposo  a  pigliar  son  io  costretto . 
Perciò  chi  brama  il  mio  racconto  udire  9 
Ad  ascoltarlo  in  altro  tempo  aspetto  , 
E  canterò  ,  se  il  Ciel  mi  fia  cortese» 
Bizzari  casi  ,  e  singolari  Imprese. 


Wìne  del  Cantò  Prime, 


2* 

LA     MORTE 

V  ORLANDO. 


CANTO     SECONDO 


ARGOMENTO. 

frede  il  Guerriero^  cui  la  Maga  è  se  erta  j 
Oton  cioè  ,  quel  sovruman  Castello . 
Sua  prece  a  Ulisse  libertàde  apporta. 
Ei  mira  di  "De mori  sono  drappello . 
Sa  colei  sue  vicende ,  e  lo  conforta . 
Ei  d*  Angelica  adora  il  -volto  bello  > 
Ella  da  un  Mostro  fa  rapirla  tosto. 
Ave  ano   il  ferro  }   Orlando ,  e  Orfeo  >  deposte  t 

Oi 
hi  bella  cosa  che  non  {esse  Amore 
Lunga  dimora  ne  l'umano  petto  , 
Ma  sol  di  nostro  cor  fosse  Signore 
Finché  bastasse  al  corporal  diletto  ; 
Non  prenderiaci  àllor  tanto^  furore 
Per  volto  belio  ,  e  per  leggiadro  aspètto  , 
Che  a  cercar  morte  e'  inducesse  ,  o  darla 
Per  Donna  3  ond*  esser  soli  ne  P  amarla  é 


CANTO   SECONDO.     ìj 

IL 

Quanti,  oh!  quanti  leggiamo,  Amor  crudele, 
De  la  perfidia  tua  funesti  esempli  ! 
Per  colpa  solo  d' Elena  infedele 
Arsi  furon  di  Troja ,  e  tetti,  e  Templi. 
Oh  !  quante  nimistà  ,  quante  querele 
Discopre  ognun,  che  l'opre  tue  contempli! 
E  non  indusser  tuoi  diletti  rei 
Salomon  saggio  ad  adorar  gli  Dei  ? 
III. 

Ah  !  se  com'  Orsa  all'  Orso  ,  e  Vacca  al  Toro , 
Cosi  Femmina  a  1'  Uom  vicina  stesse, 
E#  come  quelli  fan  ,  senza  martoro 
Ei  da  la  Donna  poi  si  disgiungesse, 

Buesta  saria  la  bella  Età  de  l'Oro, 
maggior  ben  ,  che  alcun  bramar  potesse  ; 
K  l'uomo  allor  fa  mente  sana  avrebbe, 
Né  a  gran  perigli,  a  certa  morte  andrebbe. 
IV. 
Deh  !  chi  portò  nel  Mondo  un  tanto  male , 
VA  un  abuso  tal  di  nostra  mente  ! 
Ai  bruto  più  di  femmina  non  cale  , 
Quando  a  quella  pronar  più  non  si  sente; 
E  l'Uomo,  ragionevole  animale, 
Oltre  che  a*  suoi  desir  pronto  ei  consente, 
.Sta  vagheggiando  inutilmente  ancora 
Donna,  e  la  porta  in  cor  scolpita  ognora? 

Per  or  non  lutto ,  ma  contento  ,  e  gioja 
In  Amore  soltanto  olirò ,  e  presento  ; 
Ma  ci   verrà  quel  Nume  avverso  a  noja , 
Vedendo  quanto  à  di  mal  far  talento. 
Al  Guerriero    torniam,    che  non    s' annoja 
Nel    lungo    di    colei  ragionamento* 
De  la   Maga   vò  dir,  che  molte,   e    molte 
Pitture   accenna    in   quel  Palagio  accolte. 


*4  CANTO 

VL 

Poi  eh*  essa   al  favellar  dato   ebbe  fine, 
Ad    altre  stanze    il   Cavalier    condusse 
Per  diramate    scale  alabastrine; 
Sbalordito    il    Guerrier    parea   che   fusse. 
Ben  d'umana  scienza  ogni  confine 
L'Architetto  passò,  che  le  costrusse  . 
Arte  sublime  con  lavoro  egregio 
Decoro  aggiunge  a  la  materia,  e  pregio. 
VII. 

I  ben  divisi  candidi  gradini 
D'aurei  coperti  son  fregi  lucenti. # 
Febo,  che  su  i  Mortali  il  guardo^  inchini  , 
Non    irraggiasti  mai  tali  portenti.  g 
Ben  son  del  nero  Averno  i  Cittadini 
Grandi  Architetti  ,  Artefici  eccellenti. 
Ne'  lunghi  lati  ancor  de  1'  ampie  scale# 
Splende  l'oro  intrecciato;  e  intanto  ei  sale 
Vili. 

E  mira  poscia  con  egual  diletto 
Spettacolo  novello,  inaspettato, 
Leggiadra  sala  tutta  d'oro  schietto, 
E  il  pavimento  è  d'  or  tutto  formato. 
D'oro  son  ie  pareti  ,  e  d'oro  è  il  tetto, 
Di  Sculti  fatti  vagamente  ornato  ; 
Son  pur  d'  oro  le  Statue ,  e  son  sì  belle 
Che  par  di  Fidia  sien,  di  Prasitclle. 
IX. 

E  d'insigne  Scultor  Italo  ,  o  Greco, 
Opra  eran  torse  ,  che  al  Palagio  alcuno 
De' possenti  Demon  tratto  avrà  seco, 
E  n'avrà  fatto  faticar  più  d'uno^ 
Sia  vero ,  o  falso ,  a  gloria  non  mi  reco 
Ciò  discoprir  ,  vi  pensi  pur  ciascuno. 
Io  ben  dirò  cosa  più  strana  assai , 
E  da' Mortali  non  veduta  mai. 


SECONDO.  25 

X. 

Il  pavimento,  ed  ambo  i  muri,  eTl  tetto 
celti  circondari  grossi  diamanti, 
tfi  sarà  chi  non  crede  a  quel  che  ò  detto. 
Né  fia  che  tutti  io  persuader  mi  vanti. 
A  la  bella  Verona  stì  rimpetto# 
La  Rocca  di  costei,  Rocca  d'incanti. 
Il  loco  addito  a  chi  veder  desia 
Lo  stupendo  poter  de  la  Magia. 
XI. 

Con  beil'ordin  la  Sala  è  sostenuta 
Da  colonne,  che  pur  son  d'alabastro. 
Corintio  è  il  capitello  ,  e  la  voluta 
S'aggira  intorno  qual  pieghevol  nastro. 
Perchè  non  so  laude  prestar  dovuta 
A  quella  Sala  splendida  qual  Astro? 
Ma  in  altra  stanza  il  pie  Ja  Maga  move, 
E  mi  sforra  a  portar  le  rime 'altrove . 
XII. 

Entra  la  Maga  in  altra  stanza  bella, 
"Che  di  quattro  è  la  prima j  ivi  conduca 
Il  Cavalier  ,  cheseco  lei  favella     - 
t)e  1'  immensa  virtù  ,  che  in  lei  riluce. 
In  loco  ascoso  egli  entra  poi  con  ella, 
Ove  posar  fino  a  la  nuova  luce 
La  Maga  suol  le  affaticate  membra  , 
Ma  che  riposo   brami    or  non    mi  sembra» 
XIII. 

Bensì  d'esser  goduta  ,  e  di  godere  , 
Poiché  parmi  ritrosa  ella  non  sia  . 
Questo  è  sovente  il  femminil  piacere  , 
Né ,  ciò  dicendo ,  penso  dir  bugia  . 
Ma  l'amor  di  costei  dessi  temere, 
Funesta  cosa  divenir  potria . 
Veduto  abbiam  come  parecchi  amanti 
Ella  in  bruti  cangiò  con  varj  incanti . 

B 


z6  CANTO 

XIV. 

Or  chi  sarà,  che  de  la  stanza  i  begli 
Adornamenti  al  guardo  mio  dichiari  ', 
Se  non  tu ,  Musa ,    dal  cui  labbro  quegli 
liventi  udii ,  che  son  famosi ,  e  chiari  ? 
Tu ,  che  a  cantar  m' inviti ,  e  sproni  degli 
Stupendi  fatti,  acciò  che  alcun  gl'impari; 
Se  pur  degno  a  ragion  poss'  i®  tenermi 
Che  alcun  mie  rime  ad  ascoltar  si  fermi  ♦ 
XV. 

Son  gli  uscj  di  finissimo  rubino  j 
Lemurason  d'orientai  Zaffiro; 
Berillo  rilucente ,  e  cristallino 
Copre  del  vago  tetto  il  vasto  giro. 
Un  aureo  drappo  asconde  il  bianco  lino, 
£u  cui  ella  soddisfa  il  suo  desiro. 
E1  di  verdi  smeraldi  il  letto  cinto', 
lì  suol  copcrt#da  flavo  giacinto . 
XVI. 

In  altra  parte,  ove  la  Maga  vuole, 
Vanne  quel  Cavaliere,  ed  entra  in  loca 
Tutto  di  serpentino  ,  ignoto  al  Sole , 
È  che  dal  cono  disromiglia  poco  . 
Tre  lucerne  tenervi  accese  suole; 
Estinguibil  non  è  di  quelle  il  foco. 
L' internai  turba  ivi  s'aduna,  e  grida 
Ferocemente  con  orrende  strida., 
XVII. 

Poi  che  tutto  mirato  il  Guerrier  ebbe 
Ciò  che  d'esser  veduto  era  più  degno  ; 
Inclita  Donna,  disse,  non  sarebbe 
Tanto  il  mio  ardir  ,  se  non  avesse  regno 
Tanta  in  te  cortesia ,  che  T  ardir  crebbe 
In  me,  che  son  di  tuo  favore  indegno; 
.Ma  poiché  ti  vegg'  io  tanto  cortese, 
La  brama  dQÌ  mio  cor  farò  palese. 


SECONDO»  27 

XVIIL 

Fra  quelli,  che  da  te  nomarmi  udii, 
Che  trasformati  furo  in  questa  Rocca  , 
Un  mio  congiunto  qui  starsi  sentii , 
Onde,  il  confesso,  alta  pietà  mi  tocca. 
Deh  !  se  mie  preci  secondar  desii  , 
Se  rea  non  è  la  mia  richiesta  ,  o  sciocca  , 
Fa  ch'ei  riabbia  le^ perdute  forme, 
E  che  sozzo  non  sia  porco  deforme . 
XIX. 

So  di  chi  parli  ,  in  lieto  volto  disse 
A  lui  la  Maga  ,  e  soddisfatto  sei. 
Non  so  se  alcuno  favellar  l'udisse 
Di  que',  eh' eran  là  dentro,  Angeli  rei  . 
So  che  fu  posto  in  libertàde  Ulisse, 
Che  avvilito  cosi  fu  da  colei  ._ 
Era  Ulisse  il  suo  nome  ;  ei  mille  rese 
Grazie  al  Congiunto,  e  da  quel  Monte  scese • 
XX. 

Ed  altrettanti  fé  ringraziamenti 
Il  Guerriero  a  la  Maga;  ella  il  condusse 
U'  sono  il  pranso  ad  apprestare  intenti 
Molti  suoi  servi,  ch'ella  stessa  istrussc  «, 
Eran  tutti  costor  cuochi  eccellenti  ; 
Le  prese  Lepri  in  pezzi  altri  ridusse, 
Altri  infilza  in  ispiedo,  uccisi  in  caccia, 
Il  Fagiano,  ed  il  Tordo,  e  la  Beccaccia. 
XXI. 

Un  altro  sventra  un  tenero  Vitello, 
Che  mai  non  senti  erba,  non  che  amore; 
Chi  il  Jesso  cuoce  ,  e  chi  l'arrosto,   e  quella 
Un  intingolo  fa  d'ottimo  odore; 
E  pentole  ,  e  graticole  di  bello 
Acciajo  puro  ,  mandano  splendore  , 
E  rispondono  al  par  tutti  quegli  altri 
Arredi  ia  man  de'  Cucinieri  scaltri . 

B  1 


&  C    A    N    T    O 

XXII. 

A  la  Negromantessa  le  vivande 
Recate  sono  in  piatti  di  fin' auro; 
Da  quella  turba  numerosa  ,  e  grande 
Sila  è  servita  di  quel  Popol  mauro. 
Cotanto  il  Lusso  i  suoi  tesori  spande 
Che  mi  potrei  stimar  degno  di  Lauro, 
Se  dir  sapessi  ciò  che  dir  dovrei  , 
Ciò,  che  quivi  s'offerse  a  gli  occhi  miei. 
XXIII. 

D'altra  stanza  dirò,  d'altri  portenti, 
Chf  negliger  non  deggio,  anzi  non  posso. 
Cortvien  che  al  guardo  altrui  nuove  io  presenti 
Cose,  onde  fu  il  Guerrier  sorpreso,  e  scosso. 
Ma  il  mio  timor  che  le  maligne  genti 
M*  accusili  forse,  vo*  che  sia  rimosso, 
Né   tacer  voglio  che  à  due  Guardie  ognuna? 
ibi  quelle  stanze,  e  queste  due  son  una. 
XXIV. 

Qticsto  parrà  diffidi  cosa,  e  strana, 
Ma  dichiararla  s^ero  in  brevi  accenti . 
Sona  costoro  di  figura  umana , 
Coft  unioni  moki  sorprendenti. 
ISel  busto  la*  la  mole  sovrumana 
Due  teste  regge  con  quattr'occhi  ardenti, 
E*  doppio  11  collo,  doppia  ancor  la  taccia, 
E  quattro  son  le  gambe  ,  i  pie  ,  le  braccia. 

xxv.f 

Vieni,  disse  colei,  vieni  a  vedere; 
Mostrar  ti  voglio  quanto  può  Magia, 
B  la  promessa  mi  vedrai  tenere  , 
Tua  stirpe  dirti  ,  il  nome  tuo  qual  sia . 
Ma  di  quell'armi  il  magico  potere 
Pif  noto,  o  Cavaiier  ,  ti  voglio  pria. 
Certo  udrai  Con  piacer  sì  strane  cose, 
Che  al  Vulgo  son  da  denso  velo  ascose. 


SECONDO,  zi 

XXVI. 

Quell*  usbergo  colà  mira  ,  che  splende 
Cosi  che  gli  occhi  di  ciascuno  abbaglia  . 
Sappi  che  quello  invulnerati  rende, 
Né  freccia,  o  brando  lo  penetralo  taglia. 
A  quella  spada  ,  e  a  l'asta,  che  là  pende., 
Nò  ,  riparo  non  è  piastra,  né  maglia; 
Qual  fiume  gonfio,  o  ruinoso  vento, 
Gl'inimici  distrugge  a  cento  a  cento, 
XXVII. 

Quella  faretra  di  freccie  ripiena 
Che  a  l'armi  presso,  che  nomaiu  ,  s-tassi., 
S'  anco  d'  armati  la  campagna  è  piena ,  ; 
Fa  che  un  Guerrier  fra  tutti  illeso  passi  ; 
E  quando  avvien  che  l'abbia  su  la^  schiena* 
Da  vista  umana  ci  non  visibil  fassi  5 
E  vibrar  puote  con  sicura  mano  \ 
Quelle  freccie,  che  mai  volano  iti  vaao.j 
XXVIII. 

Se  del  Nemico  tuo  brami  la  morte  , 
Saratti  il  darla  non  diffidi  cosa  , 
Se  quella  veste  con  parole  accorte  , 
Serbando  in  cor  tua  nimistàde  ascosa, 
Farai  che  il  copra  ;  sì  tenace ,  e  forte 
E5  il  velen  de  la  veste  insidiosa, 
Che  smania  infonde  ne  le  membra  $  e  svelle 
A  chi  sciorsene  tenta ,  anco  la  pelle  , 
XXIX. 

Quegli  orecchini  di  duro  adamante 
Fanno  cangiare  ognuno  in  varie  forme  , 

Bualpiù  gli  piace  ,  e  sì  bizzarre,  e  tante, 
h'ei  sia  rivai  di  Proteo  multiforme  . 
Util  cosanon  poco  ad  un  amante, 
Che  seguir  puote  de  l' amica  l'orme, 
S'ella  è  fida  scoprendo,  o  meretrice, 
JE  .cangiando  sembianze,  esser  felice. 

B  3 


3o  CANTO 

XXX. 

Ben  diversa  da  quelli  è  la  vergketta, 
Che  tu  vedesti  allor  quand'  io  divenni 
Una  bella ,  e  galante  giovinetta  , 
E  che  in  mia  mano  fino  ad  ora  io  tenni  ; 
Perchè  in  amabil  volto,  che  diletta  , 
L'aspetto,  sotto  a  cui  prima  a  te  venni, 
Cangiar  ben  puote,  ma  non  a  possanza 
Di  prestare  a  ciascuno  ogni  sembianza.     «. 
XXXI. 

Forse  tu  di  saper  nutrì  desio  , 
Se  alcun  nemico  insidie  t'  apparecchia  >  # 
Entro  a  quest'acqua,  che  del  sommo  Dìo 
Scopriratti  il  voler,  mira,  e  ti  specchia. 
Fato,  qual  scritto  è  in  Cielo,  o  buono,  o  rio. 
Essa  palesa^  per  usanza  vecchia  , 
Fato,  che  in  van  Mortale  evitar  crede, 
Ch' à  ne  V  Idee  de!  Creator  sua  sede  . 
XXXÌI. 

In  questo  forbitissimo  metallo 
Le  scorse  io  veggio  ,  e  le  future  cose 
Da  noi  lontane  per  lungo  intervallo, 
Né  le  presenti  unqua  mi  sono  ascose, 
E  certa  son  di  non  commetter  fallo, 
Tanta  virtude  il  granPluton  ripose, 
Il  possente  Plutone,  in  questo  Specchio! 
A' miei  detti,  o  Guerrier,  porgi  l'orecchio* 
XXXIII. 

Tutto  dirò  quello  che  dir  promisi  , 
La  Patria ,  i  casi  tuoi ,  senza  ritardo . 
Musulmano  tu  sei,  esser  t'avvisi,  ^ 
Come  di  nobil  schiatta  ,  assai  gagliardo  ; 
E  il  sei,  che  da  te  Eserciti  divisi 
Fuggir  mirasti  con  feroce  guardo, 
E  giacque  estinto  dal  tuo  braccio,  spesso 
Al  suo  Cavallo  il  Cavaliere  appressa , 


SECONDO,  31 

XXXIV. 

Angelica  Visconti  è  lei,  che  adori, 
E  a  trarla  in  tuo  poter  mai  non  giungesti. 
Come  un  arido  legno,  e  dentro,  e  fuori, 
A  le  fiamme  d'Amor  tu  t'accendesti. 
Oh  !  quanto  puote  ne  gli  umani  cori 
Amor!  sol  per  seguirla  allor  ponesti^  t 
Patria ,  Prence  in  obblio  ,  diletti  amici , 
Che  a  te  render  solean  l' ore  felici . 
XXXV. 

E  spendi  sempre  inutilmente  i  giorni , 
E  i  mesi  in  ricercarla  ove  ti  pensi, 
Che  rivolga  suoi  passi,  o  che  soggiorni, 
Senza  che  tue  fatiche  un  ben  compensi. 
Ella  ognor  ti  rinnova  oltraggi,  e  scorni , 
Spregiando  altera  tuoi  martirj  immensi  , 
(Che  d' Amor  quante  volte  le  parlasti  , 
Sempre  dura  ,  e  crudel  la  ritrovasti  # 
XXXVI. 

Otone  è  'l  nome  tuo ,  celebre  n§me 
Fra*  Musulman  ,  cotanto  in  pregio  avuto, 
E  da'  Nemici,  che  ben  sanno  come 
Trattar  l'asta  puoi  tu,  molto  temuto. 
Ma  perderai,  Signor,  tutto  il  tuo  nome, 
Portando  a  quella  amore  non  dovuto, 
Per  cui  tu  lasci  le  sublimi  imprese, 
E  l'armi  al  Tempio  di  Cupido  appese. 
XXXVII. 

Quante  potresti^  amar  leggiadre  Donne, 
Che  non  avriano  il  cor  di  diamante, 
Senza  lasciar  tua  gloria  per  le  gonne , 
E  sendo  molto  più  felice  amante! 
Ella  tacque,  ciò  detto,  e  sospironne; 
Era  invaghita  di  suo  bel  sembiante  . 
Di  sé  dire  intendea,  mentre  diceva 
Che  d'altra  fiamma  ei  sospirar  doveva. 

B  4 


Sz  CANTO 

XXXVIII. 

Sembra  eh'  egli  dovesse  arder  per  lei 
Di  pari  fiamma,  e  por  l'altra  in  obblioj 
Che  sovra  tutte  bella  era  costei , 
E  ingrata  quella,  e  alui  nemica  udìo  . 
Ma  fatto  era  il  bel  viso,  e  gli  occhi  bei, 
Dai  Demon  per  incanto ,  e  non  da  Dio  , 
Onde  in  obblivione  beltà  vera 
Por  non  volle  per  falsa ,  e  passeggera  . 
XXXIX. 

E  le  rispose  :  Inclita  Donna ,  molto 
Tanta  possanza  tua  pregio,  ed  ammiro, 
Ma  non  fia  ver  che  ad  altro  oggetto  volto 
Sia  P  amor  mio,  né  altro  abbia  desiro  ; 
E  benché  io  conosca  quanto  è  stolto, 
Qwnnto  è  folle  P  amor  ,#  per  cui  sospiro  x 
Piagnendo  sempre  mia  infelice  sor:e, 
Le  catene  amerò  lino  a  la  morte , 
XL, 

Al  seguace  fedel  di  Maometto 
Trista ,  e  dolente  ella  rispose  allora  : 
E  ben  ,  poiché  s\  l'ami,  ed  io  t'ò  detto 
Che  felice  farotti ,  avrai  tu  ora 
In  tuo  poter  de  Pamor  tuo  P oggetto, 
Che  date  desiato  indarno  fora. 
Ei  di  giubilo  allor  tutto  fu  pieno, 
E  non  potea  nasconderlo  nel  seno  t 
XLI, 
Pensa  la  Maga  che  P amore  ardente 
Sarà  col  soddisfarlo  intiepidito. 
Non  al  certo  spuntar  puossi  altramente 
L'acuto  strai  ,  che  un  ajma  abbia  ferito  „ 
Spera  che  il  Cavalier  più  che  al  presente. 
Allora  udrà  del  labbro  suo  l'invito. 
Il  desìo  secondato,  o  tosto  cessa, 
O  lan^ue  almeno,  ed  al  suo  fin  s'appressa 


«ECOND  0,  n 

XLII. 

Qual  Madre ,  se  tornato  acuito  Tede 
Il  caro  figlio,  che  pcrdutoavea 
Fanciullo  ancor  ,  di  nuziali  tede 
Unico  frutto,  e  morto  lo  piangea; 
A  sé  medesma,  a  gli  occhi  suoi  non  crede  ^ 
Che  tal  vista  le  par  fallace  idea; 
Quand'esser  Madre  alfin  si  rassicura ^ 
Muta  cade  su  lui,  parla  Natura . 
XLHL 

Così  il  Guerriero^ che  la  legge  onora 
Dì  Maometto,  attonito  rimase  . 
ti  non  ispera  aver  colei,  che  adora, 
Colei  ,  che  l'alma  granfiammo.,  gì' invase. 
Ch'  ella  in  sue  man  giunger  potesse  allora^ 
Follìa  credette,  e  non  si  persuase; 
A  lui  1'  impresa  si  diffidi  parve 
Che  non  di/è  fede  a  le  Tartaree  larve. 

xu'v. 

Ma  del  prodigio  s'avvedrà -ben  presto  . 
Un  alato  Demon  tosto  ne  venne  ; 
Dir  non  saprei  come  agii  tanto,  e  presto 
Volte  avesse  cpstuHe  lievi  penne. 
Senza  ch'ella  il  chiamasse  ,  egli  fu  lesto^ 
E  per  udir  suoi  cenni,  il  voi  ritenne, 
L'audace  volo  emulator  de'  Venti; 
Fila  sciolse  la  lingua  a  questi  accendi , 
XLV. 
Vanne,  buon  Servo,  senza  indugio  in  tracce 
~D'  Angelica  Visconti ,  che  in  un  vago 
Prato  il  suo  Orlando  con  attenta  faccia 
Mira ,  che  per  lei  pugna  appresso  un  Lago., 

1  feroce  Guerrier  freme ,  e  minaccia, 
Di  sangue  mai,  né  di  vendetta  pago. 
In  gran  Campagna  il  praticel  vedrai, 
A  Modena  vicin  lo  troverai, 

3  s 


34  CANTO 

XLVI. 

Giunto  per  P  aer  puro  al  praticello) 
Mentre  pugnan  color  senza  sospetto, 
La  Donna  prenderai  ;  tosto  con  quello 
Al  Ciel  tu  poggerai,  leggiadro  aspetto. 
Scenderai  poscia  qualveUce  Augello  , 
Entro  a  questo  Palagio;  io  qui  t'aspetto; 
E  la  faretra  mia,  per  cui  veduto 
Tu  non  sarai ,  potrà  recarti  aiuto . 
XLVIL 

Non  altrimenti^  Quegli  le  rispose, 
Che  apprestandosi  a  ciò  che  fugli  imposto, 
E  ne  lo  spazioso  aer  si  pose, 
E  a  Modena  suo  voi  diresse  tosto  . 
Ce  la  faretra  ad  occhio  urnan  s'ascose, 
Cte  su  gli  omeri  pria  s'aveva  posto, 
E  più  che  lampo,  e  più  che  vento,  ratto  * 
Sovra  Modena  giunse  in  un  sol  tratto. 
XLVIII. 

Indi  molte  girò  Campagne,  e  molte  > 
Calando  per  trovar  questa  Donzella, 
Poi  di  nuovo  salia  ,  tenendo  volte 
Altrove  l'ali  ove  credea  foss'ella; 
E  un  pezzo  intorno  per  pianure  colte 
In  traccia  ei  venne  d'  Angelica  bella  . 
Sempre  cercata  pur  l'avesse  in  vano, 
E  gito  fosse  più  da  lei  lontano  ! 
XLIX. 

Giunse  in  fine  al  bel  prato,  e  visto  il  pui 
Ruscello,  e  quella  pugna,  ed  a' rivali 
Donna  vicinategli  fu  ben  sicuro, 
Che  dessa  eli' era,  e  sovra  le  ferme  ali 
Calò  veloce,  apportator  di  duro 
Fato  a  la  bella  Donna  ,  e  di  gran  mali.. 
Me*ntre  fuor^ d'ogni  rischio  ella  si  crede, 
Già  rapita  si  sente,  e  alcun  non  vede. 


SECONDO.  35 

L. 

Come  se  Incauto  Cervo  erra  in  Foresta  , 
Ove  insidiator  Lupo  si  cela, 
E  altero  va  di  sua  ramosa  testa , 
Che  a  T  occulto  Nemico  lo  rivela  ; 
Di  lui  strazio  quel  Lupo  a  far  s'  appresta  , 
E  quando  tempo  gliene  parasi  svela. 
Pria  co  l'acuto  dente  gli  die  morte, 
Che  Quel  s'avvegga  di  sua  dura  sorte. 

-L/X  • 

In  un  attimo  fé  PAugel  cernuto' 
Con  quella  preda  a  la  Magion  ritorno  . 
L'  adorator  di  Maometto  astuto 
Quanta  chiudessein  cor  gioja  quel  giorno  , 
E  qual,  poi  che  in  sua  man  s'ebbe  veduto, 
Rabbia  fesse  in  Angelica  soggiorno  , 
Ciascuno  il  pensi;  ma  chi  udir  desia, 
Ne  l'altro  Canto  soddisfatto  fia . 

Uh 

Prima  deg^  io  de' due  rivali  dire, 
Che  buona  pezza  aveano  combattuto, 
E  l'uno  l'altro  sol  potè  ferire, 
Ma  non  per  mano  d'un  l'altro  è  caduto. 
Brama  alcun  del  Guerriero  il  nome  udire, 
Che  a  pugnar  contro  Orlando  è  qui  venuto, 
Quel  prode  Orlando,  Capitan  de' Franchi , 
A  cui  gloria,  ed  onor  non  fia  che  manchi  . 
LUI. 

Egli  Orfeo  si  nomava  ,  e  di  Scozia  era  , 
Figlio  del  Re,  giovin  di  primo  pelo. 
In  sen  chiudeva  alma  orgogliosa  ,  e  fiera, 
E  tutto  ardeva  di  guerriero  zelo. 
Ei  nutria  speme  che  sua  destra  altera 
Stender  potesse  a  l'altrui  gloria  un  velo, 
Come  il  grand'Astro,  allor  che  i  rai  diffonda 
Il  trcmol  lume  de  le  stelle  asconde. 

JB  6 


$6  CANTO 

LIV. 

Costui  ferito  dal  possente  Amore  , 
A'  cui  lacci  son  presi  anco  gii  Eroi , 
Verso  colei,  chegli  à  rapito  il  core  , 
Desioso  volgeva  i  passi  suoi. 
Oh!  se  saputo  avesse  che  il  dolore 
D'inutil  fiamma  ei  soffrirebbe  poi  , 
Che  mentre  a  lui  serbato  fora  il  fiele, 
Altri  gustcria  intanto  il  dolce  mele  : 

LV*. 

Certo  a  pugnar  non  si  saria  condutto, 

Ma  l'Avvenir  ad  occhio  «man  s'asconde. 
E'  gagliardo  costui ,  e  sovra  tutto 
I  più  prodi  co  l'arte  egli  confonde. 
Cedere  a  tempo  il  veggio  ,  e  corre  il  frutto 
Quando  Fortuna  a'  voti  suoi^  risponde  ; 
Ora  opporre  lo  scudo,  ora  innoltrarsi  , 
Talor  fingere  i  colpi ,  o  lunghi ,  o  scarsi . 
LVI, 
Quando  l'industre  Orfeo  vide  che  in  vano 
Vincer  tentava  il  valoroso  Orlando, 
Al  Nemico  fé  cenno  co  la  mano 
Ch'egli  si  stesse,  poi  depose  il  brando. 
Signore,  il  primo  siete,  che  lontano 
Da  ogni  mortai  mandar  non  so  pugnando  , 
Valor  pari  non  vidi  ^  assai  gran  male 
Deggio  stimar  che  siate  il  mio  rivale. 
LVII. 
Per©  che  a  forza  io  son  di  voi  nemico, 
La  Donna  amando  da  voi  pure  amata  ; 
Ma  giusto  io  sono,   e  il  falso  mai  non  dico  } 
Dee  bravura  cotanta  esser  lodata  , 
Me  al  certo  men  che  se  mi  foste  amico  % 
E1  la  vostra  virtù  da  me  pregiata  . 
Or  bastante  in  pugnar  tempo  si  spese, 
Alquanto  ,  prego,  sospendia»  le  offese* 


SECONDO,  37 

Lvrii. 

Ecco  che  II  biondo  Febo  &  Teti  in  seno 
Vanne  a  celarsi ,  e  ne  rosseggia  1'  onda  . 
Tosto  che  Aurora  ai  fior  verserà  in  seno 
Il  -rugiadojs  umor,  che  la  circonda, 
Noi  pugneremo  in  questo  loco  amer;o 
Al  susurrar  de  l'agitata  fronda  . 
JVIa  quali  amici  or  ci  onoriamo,  e  amianti 
Ed  alcun  segno  d'amistà  dpniamei . 
LIX. 

Di  nostre  risse  Amor,  cui  tutto  cede* 
Solat  è  cagion,  né  la  tua  morte  io  brama, 
.Sì  disse  ,  e  una  faretra  in  don  gli  diede 
Kella  okre^  a  quanto  Immaginar  possiamo, 
in  basso  rilievo  vi  si  vede  , 
Qual  da'  Poeti  celebrarla  udiamo, 
Espressa  in  forme  portentose,  e  nuove,, 
La  guerra  messa  da' Giganti  a  Giove. 
LX. 

Svelgono  quelli  intrepidi ,  robusti 
Fino  dalor  salde  radici  i  Monti  , 
E  quesu  vau  ,  quasi  di  pietra ,  onusti 
T)e  ie  divelte  rupi,  agili ,  e  pronti  . 
Qual  vibrato  pallone  ,  a  colpi  giusti 
Lanciano  i  massi  ,  e  fan  che  audace  menti 
L'empio  lavor  di  man  profane,  e  felle., 
£ovra  le  nubi  a  minacciar  le  Stelle, 
LXI. 

Questi  veggio  appuntar  duri  tronconi} 
F,  quelli  al  foco  rassodar  le  punte, 
.Spera.ndo^  aver  la  Regicrn  de'  tuoni , 
Quando  i  Numi  a  ferir  fossero  giunte. 
Jsle  l'altra  parte  son  cantra  i  felloni 
JJos sa -divina  ,  umana,  insiem  congiunte; 
Avvi  Ercol  prode,  che  l'iniqua  frotta 
fJrtaj  fere  ,  ed  uccide 3  e  mette  in  rotta. 


}l  CANTO 

LXIL 

Palla  non  fu  dal  gran  cimento  esclusa, 
Ma  scnlta  è  in  atto  di  guidar  la  zuffa. 
Oh!  come  fugge  poi  vinta,  e  confusa 
L'audace  truppa,  e  '1  pie  nel  sangue  tuffa. 
Il  Dio  del  Tirso,  che  l'acqua  ricusa, 
Con  gran  valor  co' perfidi  s'azzuffa; 
E  l'altro  Dio,  cui  sac™  e  '1  Pin  selvaggio, 
Con  sua  tromba  ior  toglie  ogni  coraggio. 
LXIII. 

Aurato  è  '1  tutto,  ed  anco  aurati  strali 
In  sé   rinchiude  la  gentil  faretra  , 
Che^  ornar  potria  d'Amor  gli  omeri,  e   l'ali  , 
Anzi  che  apportar  Morte  orrida  ,  e  tetra. 
Ecco  un  bicchier,  che  Ambrosia  a  gl'Immortali 
Merta  ne'  campi  ministrar  de  l'Etra; 
D'  un  cristallo  è  '1  bicchier,  sì  puro,  e  terso 
Che  da  l'aria  non  par  punto  diverso. 
rLXIV. 

Eper  entro,  e  di  fuor  boschetti,  e  prati, 
E  vi  siveggion  case,  e  monticclli,é 
Che  pei  lavori  tutti  a  l'occhio  grati 
La  maestria  dimostran  di  chi  fèlli, 
Son  nel  cristallo  stesso  lavorati, 
E  la  difficoltà  li  fa  più  belli  ; 
L'orlo  ne  adorna,  e  '1  pie  ,  cerchio  di  fino* 
Di  color  vivacissimo,  rubino. 
LXV. 

Disse  ad  Orlando  il  generoso  Orfeo  ; 
Anco  questo  bicchiero  accetta  in  dono. 
Dir  non  ti  posso  il  nome  di  chi  il  feo, 
Ben  so  che  fatto  fu,  moit'anni  sono; 
£  v'è  chi  dice  che  nel  Mondo  reo 
Portoli©  Giove  aduna  amante  in  dono, 
E  il  celeste  bicchier  fu  da  colei 
Forse  in  dono  lasciato  a  gli  Avi  miei . 


SECONDO.  i9 

LXVI. 

Tacque  Orlando  sorpreso  in  veder  quanto 
Era  il  Gnerrier  cortese  al  par  che  ardito  ; 
E  quando  ei  Telmo  trassesi  ,  altrettanto 
Stupì  del  giovani  1  volto  fiorito  , 
E  disse;  In  guerra  tua  scienza,  e  tanto 
Valor,  di  che  tu  sei,  Giovin  ^  fornito  , 
E  l'alma  liberal,  che  al  par  si  prezza, 
E  la  virtude  in  tanta  giovinezza  ; 

Lxyn. 

Ben  fanno  che  a  ragion  mi  meravigli  , 
E,  benché  mio  rivai  ,  t'ami  ,  ed  onori  .  > 
Sicn ,  fin  che  il  braccio  a  forzaci!  ferro  pigli  > 
Stretti  da  mutuo  affetto  i  nostri  cori . 
E  perchè  i  doni  d'Amistà  son  figli  , 
Come  di  Marte  figli  son  gli  Allori, 
Acciò  tu  veggia  ch'io  mentir  non  soglio  , 
Darti  pegni  d'affetto,  io  pur  ti  voglio  . 
LXVIII. 

Disse,  e  un  pugnai  bellissimo  gli  offerse > 
Che  a  chiunque  feria  morte  recava  ; 
Perchè  più  volte  nel  velen  1'  immerse 
De' Numi  il  Fabbro,  mentre  il  lavorava. 
La  via  nel  ferro  quel  velen  s'aperse, 
Che  nel  metal  rovente  penetrava  . 
Esce  il  veleno ,  e  mai  non  esce  in  vano  , 
Se  vibrato  è  il  pugnai  da  forte  mano. 
LXIX. 

E,'  il  manico  di  nero  ebano  ,  adorno 
Di  chiodi  d'oro,  e  ne  le  parti  estreme 
Aureo  cerchietto  gli  s'aggira  intorno, 
Gradito  al  guardo,  e  spaventoso  insieme. 
Pera  quell'acciaro  ad  ogni  acciar  fa  scorno, 
Che  in  van  Mortai  d'opra  divina  a  speme; 
E  scudi  sempre,  elmi,  ed  usberghi  passa, 
Tentata  impresa  inutil  mai  non  lassa. 


4P     CANTO    SECONDO. 

LXX, 

pir  non  saprei  se  di  metallo  fosse, 
Od*  altro  ,  il  foder.,  poiché  il  copre  tutto 
Di  feroce  Leon  pelle ,  che  mosse 
A  Orlando  guerra  ,  e  fu  da  lui  distrutto  \ 
Anco  rete  sotti! ,  che  parea  fosse 
De'  sudori  d'  un  Nume  illustre  frutto  ., 
Diede  Orlando  ad  Orfeo;  quella  parea, 
Che  Marte  inviluppò  con  Citerea. 
LXXL 

Volser  toste  gli  amanti,  i  c.upid'  occhi 
Verso  colei,  cui  fido  .amor  giuraro \ 
E  par  x:he  ad  ambi  il  cor  dal  petto  sboccili 
Quando  non  veggo.n  più  l'aspetto  caro . 
Qual  Cervo  corre,  nel  cui  ventre  scocchi 
Dardo ,  seco  traendo  il  colpo  amaro  , 
Corrono  i  duo  Guerricr,  cercano  insieme 
Ctflei  j  che  sola  è  lor  conforto  5  e  speme . 
J.XXII. 

Così  Leon ,  che  a  Leonessa  presso 
Giace,  s'altro  Leon  avvien  ch'ei  veggia 
Dal  Monte  scender,,  che  il  desire  stesso 
Mostra  ruggendo  ,  e  '1  bosco  intorno  ecchegg'ia; 
Torbido  il  guata,  e  del  furor  l'eccesso 
In  quel  guardo  feroce  arde ,  e  lampeggia  ; 
Se  poi  quella  s'invola,  entrambe  il  piede 
Portano  altrove  a  ricercar  le  prede. 
LXXIII. 

Van  gì* infelici  in  questa  parte,  e  in  quella^ 
E  in  van  sidolgpn  de  l'avverso  Fato. 
Ahi  !  Sorte  iniqua,  la  gentil  Donzella  , 
Sclaman,  per  cui  vivea,tu  m'ài  furato. 
E  il  caro  nome  d'Angelica  bella 
Van  ripetendo  in  questo,  ed  in  quel  lato ^ 
Quando  una  voce  ,  che  li  fé  stupire , 
Come  poscia  dirò ,  lor  parve  udire . 
Fine  del  Carne  Seconde. 


4* 

LA     MORTE 

D'  ORLANDO. 


CANIO     TERZO, 


*Hft» 


ARGOMENTO. 

Orlando  ,  e  Orfeo ,  attoniti ,  *  dolenti  , 
Indarno  van  do  la  Denteila  in  traccia  ,, 
Zi*  tragge  il  Moftro  per  le  vU  ds  Venti  , 
Poscia  la  firinge  Olon  fra  le  fue  braccia  . 
E*  pofta  in  ceppi ,  e  vani  fa  lamenti  , 
La  rivai  coppia  il  rio  Cafìel  minaccia  . 
JLa  Maga  invia  contr*  e(f  un  folto  Jìuolo  , 
Che  tutto  è  {pento  ,  e  non  riman  che  un  fph  ,. 

Et 
mpio  Demon,del  tuo  Fatror  nemico, 
Quante  apparecchi  a  P  Uom  crude  sciagure* 
Del  menzognero  Amor  perfido  amico  ! 
Spesso  miste  al  Piacer  fiere  avventure  , 
Come  serpi  tra  i  fiori  in  prato  aprico  x 
A  gii  amanti  prepari,  aspre  sventure. 
Ah!  di  me  prima  favellar  dovrei  , 
£he  in  duro  laccio  posi  i  piedi  miei , 


4*4  CANTO 

IL 

Questa,  ch'io  narrerò,  vicenda,  basti 
Sola  a  mostrar  che  son  d'Amor  le  strade 
Colme  di  spine,  e  pochi  fior  rimasti 
Vi  son,  che  il  rioDemon  li  coglie,  e  invade. 
Oh!  qual  tu  sia,  che  Amor  mai  non  provasti, 
Felice  te,  se  femminil  Beltàde 
Mai  con  guardo,  or  pietoso,  ed  ora  altero, 
Del  tuo  gelido  cor  ebbe  l'impero! 
III. 

Spargeva  a  Paure  le  querele  sue 
Angelica  ,  e  sua  voce  àn  conosciuto^ 
Ambo  i  Guerrier,  che  volsersi  ambiduc 
Là,  onde  il  grido  parea  fosse  venuto. 
Quell'infelice  apparve  a  tutti  e  due, 
Per  l'aer  tratta;  e  come  darle  ajuto  > 
Ma  vista,  oh  !  rio  destin,  l'ebbero  a  pena, 
E  seco  il  rapitor  lungi  la  mena. 
IV. 

Prima  alquanto  su  l'ali  il  Mostro  errendo 
Che  impazziti  godea  veder  gli  amanti , 
Librato  stette,  e  li  guatò  ridendo, 
Se  pur  d'Averno  ridon  gli  abitanti. 
Indi  scosse  le  penne,  al  Cìel  salendo; 
Sparge  Angelica  in  van  sospiri ,  e  pianti ,' 
Rapita  ella  si  sente ,  e  non  sa  come  ; 
Si  batte  il  petto,  e  stracciasi  le  chiome. 
V. 

Esser  fatta  si  duol  Femmina  imbeile, 
Costretta  a  tollerar  si  fatto  eccesso; 
E  maledicon  le  nemiche  stelle 
Gli  amanti ,  che  privar  veggionsi  adesso 
De  la  Regina  de  le  Donne  beile, 
Che  tanto  illustra,  e  onora  il  vago  sesso  ; 
Ma  quel  che  acerbo  più  rende  1' affanno, 
E' che  nulla  veder  3  comprender  sanuo. 


T    E    R     Z     O.  43 

VI. 

Orfeo  dicea  ;  Qualmai  opra  di  Dio, 
O  pur  d'Inferno,  mirabile  è  questa? 
Ella  portata  va,  ma  non  vid'io 
Chi  la  portasse ,  e  fesse  gir  sì  presta . 
Ora  che  a  vista  umana  ella  fuggi©, 
Che  più  fare,  o  tentar,  ne  Jice,  o  resta? 
Seguirla  nò,  che  non  sappiamo  dove, 
Ed  in  van  porteremmo  i  passi  altrove. 
VII. 

Qui  rimanerci?  Amore  ah!  noi  permette. 
Sì,  fuggiam  questo  loco,  Orlando  disse, 
Funesto  loco,  che  furor  mi  mette; 
A  morte  andìam,se  il  Cie^  per  nói  la  scrisse. 
Ti  seguo ,  disse  Orfeo  ^  chi  avria  predette 
Inutili  così  le  nostre  risse  ? 
E  l'uno,  e  l'altro  eran  confusi  tanto 
Che  lasciaro  ai  Destrier  gli  scudi  a  canto. 
Vili. 

E  a  piedi  van ,  come  duo  cani#  ratti 
Allor  che  inseguon  Lepre  fuggitiva, 
E  ciechi  son  dal  presto  correr  fatti  , 
Sì  che  periglio  il  pie  non  fugge,  o  schiva. 
Così  gli  Amanti  furibondi  ,•- e  matti 
Cercano  in  Terra  lei  ,  che  in  Ciel  fuggiva. 
Del  Musulman  favellar  deggio  adesso, 
Come  pria  mi  sovvien  d'aver  promesso. 
IX. 

Poi  che  Angelica  bella,  inutii  pianto 
Spargendo  a  l'aure  da' vezzosi  lumi,^ 
Pianto,  che  avria  di  man  con  dolce  incanto 
Svelto  il  folgor  tremendo  al  Re  de'  Numi; 
Poi  che  a  voi  (  non  è  augello  agile  tanto  ) 
Passò  ville,  Città,  ruscelli  ,  e  fiumi, 
Entro  al  magico  alfin  Castello  giugne , 
Di  quel  Mostro  infermi  fra  l'ale,  e  l'ugne 


44  CANTO 

X. 

Incèrto  Oton  V  attende,  e  impaziente, 
Che  averla  in  suo  poter  brama  il  perverso. 
Quando  venir  la  vede,  immantinente 
Si  scagHa  al  collo  suo  candido,  e  terso; 
Stretta  1* abbraccia,  né  pietà  pur  sente 
Del  suo  dolor,  del  suo  destino  avverso. 
Sordo  a'  gemiti  suoi,  l'empio  trasporta 
La  vaga  Donna  ,  che  già  sembra  morta . 
XI. 

In  una  stanza  la  trasporta,  dove 
Non  ardisce  d'  entrar  mia  Musa  casta  ,. 
E  pensa  di  portar  le  rime  altrove , 
Che  quant'ella  ne  disse,  a  lei  già  basta; 
Dall'Istoria  però  non  le  rimove, 
Che  parte  da  parlarne  l'è  rimasta. 
Lasciar^  colui  ,  che  per  io  gran  contento 
Avea  chiuse  le  labbra  ad  ogni  accento  • 
XII. 

Erano  già  le  Tenebre  fuggite, 
Amiche  dei  misfatto,  e  l'alma  luce 
Àvea  tutte  le  cose  colorite, 
.La  luce  ,  che  il  piacer  quaggiù  conduce -.. 
Solo  a  la  bella  Donna  d' infinite 
Doglie  ,  e  querele  essa  fu  guida,  e  duce; 
Angelica  converte  i  rai  splendenti 
In  due  di  pianto  perenni  sorgenti . 
XIII. 

Chi  Je  calde  accennar  dal  nero  ciglio. 
Su  le  gote  potria  lagrime  sparse  ? 
Gote,  ove  rosa  insiem  fìoria  col  Giglio; 
Chi  le  volte  contar  eh'  ella  stracciarse 
Osò  le  chiome  ,  e  fé  de  l'ugna  artiglio,, 
Onde  al  turgido  seno  oltraggio  farse  ? 
Come  non  v'  arrestaste  ,  o  Soie  ,  o  Venti , 
Per  udirne  i  dolcissimi  lamenti  ? 


TERZO.  45 

XIV, 

tassai  Dìcea,  chi  mi  rapì?  Qua!  forza 
Qua  mi  trasse  d'Averne?  Ove  son  io  ? 
Ah!  se  il  Ciel  non  m'aita,  e  mi  rinforza.. 
Oltraggiato  esser  deve  ilpudor  mio. 
A  saziar  questo  crudel  mi  sforza 
Il  lascivo  ,  che  1*  arde  ,  empio  desio  ; 
Eccomi  óra  in  sue  man,  qual  concubina;, 
Ecco  che  a'  suoi  piaceri  ei  mi  destina . 
XV, 

A' suol  piaceri  ?  Ah  !  non  fia  ver,  morrommi 
Anzi  che  1*  onor  mio  altra  macchia  abbia  ; 
Solo  di  questa  pur  sempre  dorrommi , 
Sempre  in  pensarvi  avronne  angoscia  ,  e  rabbia . 
Oh  '.morissi  io  pur  qui!  Più  non  vedrommi 
Pregiata  sì  che  il  prisco  onor  riabbia, 
Sfregio  m'  apporterà  ,  s'io  resto  in  vita  , 
Fossi  Vergine  ancor,  Tesser  rapita. 
XVI. 

Oh  !  se  qui  mi  vedessi ,  o  caro  Orlando  ^ 
Orlando  mio  ,  che  per  me  forse  or  pugni , 
Quel  ciglio  K che  rivolgi  sospirando 
Ài  mio  sembiante  ,  e  mai  da  me  disgiugni 
Quand' io  son  teco  ,  nel  tuo  cor  serbando 
Quel  puro  affetto  ,  a   cui  Virtù  congiugni, 
Or  che  il  fregio  miglior  tolto  vedresti , 
Quanto  da  me  sdegnoso  il  ritrarresti  ! 
XVII. 

Voi,  che  d'intorno  v'aggirate,  o  Venti, 
E  l'umano  parlar  sempre  accogliete, 
Deh  !  fra  voi  replicate  i  miei  lamenti , 
Voi  ,  che  i!  mio  pianto,  il  mio  dolor  sapete. 
Ma  ta  cagionai  tanti  miei  tormenti 
Cauti  ad  ogni  mortai  sempre  rncete  ; 
Quegli  accenti  pietosi  a  me  rivolti 
L'orecchio  mio,  non  altro  orecchio,  ascolti- 


4*  CANTO 

XVIII. 

O  caro  Padre  i  o  dolce  Madre ,  o  cari 
Tetti  degli  Avi,  dunque  vi  lasciai 
Per  gire  incontro  a  infamia ,  a  pianti  amari  ? 
Certo  dal  mi©  partire  altro  aspettai, 
Che  gli  uomin  non  volea  fossermi  avari 
Di  laude,  la  qual  sola  io  desiai  , 
E  per  la  qual  sublimi  andai  cercando 
Imprese  ,  dove  esercitar  mio  brando  . 
XIX. 

Ecco  la  gloria  mia  ,  d'  ogni  vittoria 
Ecco  qual  colgo  memorando  frutto. 
Per  questo  iniquo  ne  l'altrui  memoria, 
Misera!  il  pregio  perderommi  tutto. 
Non  il  mio  nome  adornerà  la  Storia, 
Ma  coperto  sarà  d'  infamia ,  e  lutto  ; 
Il  nemico  Destino  a  me  non  lascia 
Che  il  funesto  poter  d'esser  bagascia. 
XX. 

O  miei  Congiunti,  o  mioGerman ,  che  nella 
Crudel  vicenda  ora  il  Pensier  ricorda, 
Né  per  parente  più  ,  né  per  Sorella 
Temami,  al  pregar  mio  vostr'alma  sorda; 
Mi  spregiercste  più  che  abbietta  ancella, 
Se  di  tal  macchia  a  voi  m'offrissi  lorda. 
Ah!  sol  tra  Fiere  io  star  ne  le  Foreste 
Deggio  ,  se  pur  merto  abitar  fra  queste. 
XXI. 

Deh  !  sotto  al  pie  del  perfido  ,  che  abborro, 
Si  spalanchi  il  tuo  sen  ,  profonda  Terra. 
Alto  Fattore  eterno,  a  te  ricorro; 
Dunque  tua  destra  ancora  il  fulmin  serra? 
In  tanta  infamia  or  dunque ,  ahi  !  lassa ,  incorro  ? 
Idee  tremende  al  mio  Pensier  fan  guerra  ; 
Nel  bujo  orror,  che  mi  circonda,  e  preme, 
Non  s'offre  un  raggio  di  propizia  speme. 


TERZO.  47 

XXII.  ; 

Ei  d'avermi  in  sue  mani  esulta,  e  vanne  , 
Senza  debita  pena,  altero,  e  baldo, 
E  cagion  poi  di  risa  altrui  faranne , 
Vanterassi  che  sazio  è  il  desir  caldo. 
Il  nome  mio  ,  come  di  Putta,  andranne 
Di  bocca  in  bocca  allor  per  quel  ribaldo. 
Ah  !  non  fia  ver  ;  onte  soffrir  non  soglio, 
Con  queste  mani  trucidarlo  voglio  . 
XXIII. 

Tal  la  Donna  bellissima  lamento 
Fa  nel  palagio,  e  il  pianto  a' detti  è  misto. 
Chi  pari  al  suo  non  sentirla  tormento  , 
Se  piagner  tal  Beltàde  avesse  visto  ? 
Alma  di  ghiaccio,  che  su  l'Alpi  il  vento 
Nel  Verno  indura  burrascoso  ,  e  tristo , 
Sola  potria . ...  Ma  nò  ,  che  sciorre  il  gelo 
Può  quel  ciglio,  emulando  il  Dio  di  Deio. 
XXIV. 

Ah!  maledetto  sia^  quel  l'uomo  sempre, 
Ch' è  del  pianto  cagion  di  Donna  bella  , 
E  i  cui  desk  non  vinca  ,  o  non  rattenipre 
Solo  il  pensìer  che  spiacer  ponno  a  quella» 
Non  d'  uomo  sono  alme  di  tali  tempre, 
Ma  de  la  Fiera  più  spietata,  e  fella, 
Se  si  crudo  animai  fu  al  mondo  messo, 
Che  oltraggi  un  suo  simil  di  vario  sesso  • 
XXV. 

La  Maga  intanto  ,  che  pel  Musulmani» 
Arde  d'  amor,  che  non  le  lascia  pace, 
Avea  tentato  con  parole  in  vano 
D' indurlo  ad  eseguir  quel  che  a  lei  place» 
Ad  amarla ,  e  non  gir  da  lei  lontano  ; 
Ma  troppo  a  lui  quella  proposta  spiace  , 
F,  risponde  che  Angelica   sol   ama, 
E  eh'  altra  Donna  mai  bramò,  ne   brama» 


4S 


CANTO 


XXVI. 

Mille  volte  colei  svelògli  il  core, 
Mille  promesse  fé  ,  preghi ,  e  minacele  ; 
Ma  poiché  vide  ancor  pari  l'amore, 
E  di*  ci  seguìa  d'Angelica  le  traccre, 
In  non  più  inteso  mai  montò,  furore, 
E  il  diede  in  guardia  a  quelle  brutte   faccie* 
Poi  dispettosa  a  lui  le  spalle  volse  , 
E  bestemmiando  ,  altrove  il  pie  rivolse. 
XXVII. 
Non  di  tanto  furor  freme,  e  si  cruccia 
Qrsa,  che  vota  ritrovò  la  tana  , 
Siecom'  ella  s'adira  ,  e  si  corruccia  , 
Arsa,  e  compresa  da  una  fiamma  vana. 
Come?  dicea,  son  io  vii  femminuccia 
Kata  a  gl'insulti  de  la  Plebe^  insana > 
O,  qual  di  prezzolata  meretrice, 
Di  me  fare  a  costui  rifiuto  lice? 
XXVIII. 
Tanto  soffrir  da  quell'audace  io  deggio  ? 
Né  mi  rammento  or  più  di  mia  possanza  ? 
Carco  di  ferri  per  lo  men  suo  peggio, 
Far  noi  posso  languir  senza  speranza? # 
E  usar  h  forza ,  poiché  ben  m'  avveggio 
Ch'ogni  promessa  è  vana,  ogni  doglianza , 
E  '1  mio  desir  tosto  che  tratto  io  m' abbia  i 
Preda  infelice  farlo  di  mia  rabbia  ? 
XXIX. 
Ah^  troppo  t'amo,  Otone  ,  a' danni  tuoi 
Io  non  penso  per  ora  ;  i  più  dementi 
Or  s'  usin  mezzi ,  i  più  severi  poi . 
Sì  disse,  e  come  brsgia  erano  ardenti 
D'amor,  d'invido  sdegno  i  lumi  suoi  ; 
Sfogo  cercando  agli  aspri  suoi  tormenti , 
Ad  Angelica  poi  venne  di  volo, 
Che  ancor  bagnava  col  suo  pianto  il  suolo. 


T     E    R    Z     O.  4, 

XXX. 

Empia  ,  disse ,  per  te  crucciomi ,  e  peno  , 
Pel  volto  tuo  pallido  al  par  di  morto.  # 
Gran  beltà  in  ver  !  Certo  che  a  mille  il  se«® 
Infiammato  abbi  tu  ,  credenza  io  porto  . 
Oh  !  di  pugne  d'  Eroi  ben  degna  appieno , 
E  di  fare  ad  ogn' uomo  il  viver  corto . 
Empia  !  ma  ben  tu  ne  sarai  punita ,  # 
Per  gran  tormenti  io  ti  riserbo  in  vita. 
XXXI. 

Tu ,  del  Vulgo  vilissimo  rifiuto , 
Tu  di  tanto  martor  mi  sei  cagione? 
Tanto  osasti  di  far?  Tanto  ài  potuto  ? 
E  a*  avrai ,  qual^  tu  merti ,  guiderdone. 
Io  stessa  con  mie  mani  avrei  voluto 
Strapparti  il  core  ,  e  don  farne  ad  Otone  » 
Quel  cor  già  palpitante,  o  Donna  casta; 
Ma  questa  pena  a'  torti  miei  non  basta . 
XXXII. 

Meco  verrai  da  ferrei  ceppi  stretta  > 
Ove  per  tuo  supplizio  vo' menarti. 
A  tali  accenti,  illustre  Giovinetta, 
Che  tuo  valor  unqua  non  sai  scordarti , 
La  cui  grand* alma  non  divenne  inetta, 
Che  sventura  giammai  vii  non  può  farti  > 
Non  temi,  nò,  ma  di  virtùde  figlio 
Arse  furor  nel  tuo  leggiadro  ciglio. 
XXXIII. 

Con  torvo  sguardo  intrepida  dicesti. 
Vii  de  l'empio  Demon  serva,  e  ministra  * 
Cosi  mi  parli?  E  pensi  tu  che  questi 
Detti  io  paventi,  o  ventura  sinistra? 
Che  implorassi  pietà  forse  credesti? 
Esca  a  lo  sdegno  mio  tuo  dir  ministra. 
Angelica  conosci  ;  ancor  mi  pende 
L'acciaro  al  fianco,  «  nutvo  sangue  attende 4 


50  CANTO 

XXXIV. 
Mi  credi  forse  imbelle  Donna  umile, 
Non  atta  il  ferro  a  maneggiar,  ch'io  porto; 
Meco  ardisci  parlar  con  uno  stile  , 
Che,  se  perir  dovessi,  io  non  sopporto. 
Non  isperar  con  tradimento  vile, 
Che  al  mio  pudor  fé  tanto  oltraggio  ,  e  torte 
Anco  avvilir  la  destra  mia  guerriera, 
Ministra  a  I'  ire  di  quest'alma  altera  . 

xxxy. 

Non  rispondo  avtuoi  scherni,  e  non  li  cure 
Ma  risponderti  ponno  i  colpi  miei .  • 
Ferma,  Angelica,  il  loco  è  mal  sicuro, 
Se  il  ferro  osi  snudar,  incauta  sei. 
Ve* come  stanno  qual  falange,  o  muro, 
Affollati  su  te  gli  Angeli  rei. 
Quell'empia  Magi,  che  di  foco  è  tutta  , 
Vuol  che  in  ceppi  le  sii  dietro  condutta. 
XXXVI. 

Fermate  ,  o  crudi ,  deh  !  come  potete 
Strigner  la  bella  mano,  opra  d'Amore? 
Mirate,  il  sangue,  cui  la  via  chiudete, 
Tutta  la  tinse,  ohimè  J  del  suo  colore. 
Ah!  se  di  lei  pietà  voi  non  avete, 
Come  mai  vi  produsse  il  gran  Fattore? 
Come  aver  puote  sì  torbide  l'acque, 
Da  pura  vena  quel  ruscel,  che  nacque? 
W  XXXVII. 

Ah!  rimirate  quel  leggiadro  viso, 
Che  mirar  non  si  può  senza  pietide, 
Che  secso  in  Terra  par  dal  Paradiso; 
E  il  bianco  sen ,  che  spunterìa  le  spade  ; 
E  gli  occhi  neri,  in;  cui  lagrime,  e  riso 
Ben  si  sanno  ad  ogn'aima  aprir  le  strade', 
E  il  nobii  cor  ,  che  può,  quando  sospira, 
Marce  feroce  impietosir  ne  V  ira . 


TERZO.  51 

XXXVIII. 
Ma  si  lasci  il  pregar,  se  in  vati  sì  prega  . 
aìunge  a  la  Maga  un  de'custodHnnanzì , 
;hicdendo  favellar  ,  s'  ella  noi  niega  . 
li  duo  Guerrieri  aver  veduto  dianzi 
.acconta  a  quella  maladctta  Strega , 
he  a  molti  chieser,  se  passar  poc'anzi 
vesser  vista  ,  come  Vener  ,  bella , 
;r  l'aure  a  volo,  una  gentil  Donzella» 

XXXIX. 
A  cui  dicea  che  fu  dato  in  risposta 
he  Donzella  passar  mai  non  fu  vista, 
!a  che,  se  fu  rapita,  or  sia  deposta 
eme  da  ler  di  trarla  a  sorte  trista; 
le  molti  ,  e  molti  portare  a  sua  posta 
;rta  Vecchiaccia  strega  orrida  in  vista  » 

nel  Palagio  suo  tutto  d'  acciaro  , 
ide  mai  non  uscir  quelli,  ch'entrar©: 

XL. 

E  che  perciò  comun  credenza  ferma 
che  a  la  sede  sien  quelli  mandati 
chi  non  riede  a  questa  vita  inferma  ; 
ie  vinti  sempre  sono,  e  trucidati 
lor,  che  la  Montagna  alpestre,  ed  erma  5 
'gon ,  di  liberargli  lusingati  , 
e  s' innalza  quel  sublime ,  adorno 
stcl ,  d'acciajo  tutto  cinto  intorno. 
XLI. 
recava  il  Demon  che  que' Guerrieri 
ibi  risposer:  Non  temiam  periglio; 
preso  aveano  baldanzosi ,  alteri , 
r  io  Monte  il  cammin  con  franco  ciglio» 
tti  la  Maga  aljor  gli  altri  pensieri 
ito  ad  annunzio  tal  caccia  in  esiglio, 
udendo  per  desio  d'alta  vendetta  , 
itro  1  Gucrrier  manda  suoi  Serri  in  fretta; 

C  1 


f*  CANTO 

XLIL 
Pensando  gii  che  fatti  in  un  sol  punto 
Gli  avmno  in  pczri  pria  che  alcun  di  Tore 
Fosse  innanzi  venuto ,  e  al  Castel  giunto  'f 
Ben  facil  crede  il  superar  costoro. 
Vuol  che  sia  quindi  il  Fopol  suo  congiunto 
Perchè  là  dove  Palme  anno  martoro, 
Dee  scender  poi  con  general  corteggio  , 
Del  fero  Pluto  a  l'avvampante  seggio-, 
'     XLIII. 
"Kè  far  lo  può ,  se  a  la  difesa  starsi 
Alcun  dee  di  sua  Reggia  incontro  i  duo,. 
Né  vuol  ,  per  aspettarli,  ivi  restarsi 
Finché  ti  Palagio  arrivino  ambiduo. 
Dietro  disegna  Angelica  menarsi , 
Vittima  farla  de  io  sdegno  suo  . 
A  Fiuto»,  come  a  Giudice  ,  la  guida, 
£  lascia  ehe  sua  pena  egli  decida- 
XLIV. 
di$scx?tf  de'duo  di  generoso,  e  prode, 
Soggiunse  il  vigil  Nunzio,  à  l'apparenza, 
Ambi  pari  dolor,  sdegno  li  rode, 
Né  d'altezza  é  fra  lor  gran  differenza. 
Tutto  efuesto  la  bella  Angelica  ode , 
'fc  crede,  e  giusta  è  ben  la  sua  credenza  , 
Che  sieno  Orlando ,  e  Orfeo  ;  smania  la  pren 
Quaftcto  il Demon ,  che  l'armi  accenna, intenc 
XLV. 
Colui  dicea  i  Lucida  pelle  copre 
L'elmode  V  uno,  e  51  iiscio  usbergo  ,  e  bianc 
Che  d'illustre^  pennello  adornan  l'opre; 
tftì  £$ta  ei  stringe ,  à  una  faretra  al  fianco*. 
Pinti  guaina  ii  curvo  acciar  ricopre  , 
M%  ffon  fia  il  traccio  in  debellarlo  stanco  , 
Poiché  il  vidi  marciar  con  mia  sorpresa 
mi  smà®  privai,  e  mal  pui  far  difesa- ,- 


T    E    R    2    O-  fi 

XLVI. 

L'altro  à  di  ferro  V armatura,  adorna 
li  figure  di  basso  rilievo. 
Dicea  Ja  Donna  :  Ah  !  che  in  me  più  non  torp* 
"alma,  o  piacer*,  palpitar  sempre  io  davo, 
Mtro  che  affanno  in  me.  più  non  àcggiorn^ 
sol  d'affanno  mi  nutro,  e  pianto  bevo. 

;he  mai  sperar,  qual  posso  lusinghiero 
\  tanti  indizi  aver  dolce  pensiero? 
XLVIL 
Amato  Orlando,  ah!  che  tu^in  breve  --t&ck? 
Giacerai  fra  la  polve,  a' Corvi  pasto, 
E  nel  vederti  ognor  da  me  diviso,         v 
Kon  fia  conforto  alcuno  a  me  rimasto .♦ 
S'è  pietosa  mia  destra  a!  caro  viso 

Ihiuderà  i  lumi  in  segno  d'  amor  casto^ 
Niè  il  labbro  mio  potrà  dal  labbro  amafd 
li  fuggente  raccorre  estremo  fiato  . 

Duolsi  instai  juisa  Angelica  piagnendo 
E  per  doppia  cagion  piagne,  e  si  duole,/ 
Urlando,  e  Orfeo  si  stanno  combattendo 
Hon  alma  forte,  che  temer  non  suole.; 
E  dando  colpi,  e  colpi  ribattendo; 
Gredo  a  mirarli  si  fermasse  il  Sole.  # 
Sanno  intrepidi  opporsi  a  ben  due  mille. 
Né  di  lor  sangue  mai  spargon  due  stille. 
£LIX. 

L' un  presso  a  l'altro  ben  vicini  stannp 
Ferocemente  co  la  lancia  in  resta  ; 
Loro  incontro  i  Nemici  invfilc  vanno, 
Altri,  cornuto,  tien  bassa  la  testa, 
Altri  co  l'ugne,  altri  prepara  danno 
Col  rostro,  altri  a  ferire  i  denti  appresta» 
Son  dal  Palagio  in  ilieci  file  usciti, 
In  dugentp  per  fila  ripartiti. 

£•* 


54  e    A    N    T    o 

L. 

Mentre  a  sfidar  le  turbe  maladette 
Corre,  di  Morte  in  traccia,  il  forte  Orlando 
Un  di  que' Mostri  innanzi  se  gli  mette» 
Orribil  vista  !  1'  ugne  sfoderando  . 
Il  gran  Guerrier  la  lancia  gì5  intromette 
Nel  ventre .  e  '1  tergo  passa ,  e  il  trae  pugnandc 
Tutto  infilzato  in  questa  lancia  stessa, 
Che  infilza  ancor  chi  dopo  lui  s'appressa. 
LI, 

D'estinte  salme  allor  che  tutta  è  ingombra; 
Venti  passi  lontano,  o  più,  la  slancia, 
La  spada  afferra,  e  il  pian  la  spada  ingombri 
Ben  pia  che  fatto  non  avea  la  lancia. 
L'impedito  sentier  si  schiude  ,  e  sgombra  , 
A  chi  il  petto  tagliando,  a  chi  la  pancia,, 
Ambe  innalza  le  bracc;a ,  e-'l  foro  cade 
Precipitoso,,,  e  raìile  s'apre  stratta. 

Mìscr  ch'i  l'urto,  e  la  possanza  sente- 
Di  quella  spada,  che  il  gagliardo  mena  ! 
Tanto  è  il^  furor  di  sua  sdegnata  mente 
Che  quegli  estinti  egli  discerne  a  pena. 
Ne  gli  omeri  un  ferì  l'arma  possente  , 
Passò  nel  petto,  e  arteria  infranse,  e  vena* 
Indi,  pel  fianco  a  riuscir  ne  venne  , 
Né  l'armatura  punto  la  ritenne. 
LUI. 

Chi  dir  potrà  di  quel  funesto  ferro 
L'opre  sublimi  ,  e  gli  apportati  danni? 
Non  io,  che  col  Pensier  mal  veggio,  e  afferrc 
I  busti  tronchi ,  ed  i  recisi  vanni . 
Oh 'in  qual  m'aggiro,  mi  confondo,  ed  erro 
Labirinto  d'orror,  d'urli,  d'affanni! 
Volan  braccia  qua,  e  là,  teste,  e  man  monche, 
E  il  «angue  scorre  da  le  membra  tronche* 


T     E     £     Z     O.  55 

LIV. 
L'industre  Orfeo  de  Y empie  turbe  latanro 
Men  cheOrlando, non fea scempio,  e  macello. 
Ei,  poscia  ch'ebbe  combattuto  alquanto. 
Destro  consiglio  prese,  utile,  e  bello. 
Diessi  ratto  a  fuggir  ,  veloce  tanto 
Quant'ei  fuggia  »  seguialo  ostil  drappello  . 
Dugento  ,  o  pochi  men,  fosser  cred'iot 
Che  d'ucciderlo  avean  speme,  e  desio.. 
LV. 

Ma  nel  fuggir,  cangiando#  sempre  strada  , 
Gioco  il  Guerriero  de' Nemici  fassi. 
Si  divide  la  truppa  ,  e  si  dirada , 
Incerta  sempre  ov'ei  diriga  i  passi. 
Par  Pipistrello  ,  che  per  l'aer  vada , 
O  veloce  balen  ,  che  strisci,  e  passi; 
Cotanto  agile  il  pie  con  mente  scaltra 
Rivolge  Orfeo  ver  1'  una  parte*  e  V  &Ufój* 
LVL 

QlKmcfo  tempo  g,l[  parvi  ,  io  e»  tatefl 
A  qire?>  evi  prinn  il  kz$Vh  3i  ptóiJ  r*     •• 
Marte  sarebbe  furioso  t$taft>* 
E  Giove,  aìlor  che  irato  ai  fui  min  sciolse 
L'ali  tremende,  e  de  le  nubi  il  seno 
Squarciò  tuonando,  e  l'aure,  e  il  Mar  sconvolse* 
Mai  con  tanto  furor  punì  la  Terra, 
Con  quanto  Orfeo  ricominciò  la  guerra. 
LV». 

Restaro  que'Dcmon  tutti  storditi 
Sì  chetar  più  non  san  schermo  ,  e  difesa  > 
Come  in  pollajo  stan  polli  smarriti  , 
Che  appressarsi  la  Volpe  abbiano  intesa. 
Quanti  atterrati  furo ,  indi  feriti 
Da  ferrea  punta  entro  a  la  gola  scesa! 
Quanti  cercan  fuggir  ,  e  nel  fuggire 
Senza  riparo  deggiono  morire! 

C  4 


16  C    A    N    T    'O 

LVIII. 
Ma  un  di  color  più  baldanzoso,  e  fratfco, 
Che  Tali  aveva,  gli  si  fece  contro  . 
Ferirlo  tenta  Orfeo  nel# braccio  manco, 
Ma  non  regge  sua  lancia  al  duro  incontro  ; 
Sì  spezza  ,  e  'l  ventre  discoperta  ,  e  '1  fianco 
Resta  ad  Orfeo  dopo  l'orrendo  Scontro. 
L'empio  afferrollo  ,  se  lo  strinse  al  petto  , 
E  per  Paure  il  portò  quel  maladetto. 
LIX. 
L\ugne  aveva  costui  di  Tigre,  e  Pardo, 
E  disegnava  al  suo  Castello  presso 
Portar  quel  miser  Cavalier  gagliardo, 
E  dopo  averlo  tutto  in  brani  messo , 
Spettacol  farne  de  la  Maga  al  guardo, 
E  tanti  estinti  vendicar  con  esso. 
Per  angol  dritto  ei  s'innalzò  dal  piano.; 
^Occhio  mortai  vederlo  tenta  in  vano. 
LX. 
In  mezzo  a  l'acqua  il  destro  Orfeo  trovossi  » 
3E  s'avvide  che  quella  era  una  nube. 
Su  l'empio  rapitor  tosto  lanciossi, 
E  il  brando  gli  cacciò  dal  petto  al  pube. 
Chi  vide  in  Campo  al  gran  cimento  mossi 
Guerrieri  ardenti  da  squillanti  tube, 
Pari,  o  maggior,  immagini  lo  sdegno, 
Che  accese  Orfeo  nel  trucidar  P  indegno. 
LXI. 
Fu  sua  ventura  che  afferrar  le  braccia 
A  colui  ,  mal  accorto  ,  non  sovvenne . 
Gli  altri  Demonj  con  attenta  faccia 
Miraro  il  sangue  ,  che  per  P  aer  venne  . 
Alcun  non  è  ,  che  a  tal  vista  si  taccia, 
Che  sangue  esser  d'Orfeo  quel  sangue,  tenne, 
Ed  urli  innalza  di  contento  quella 
Al  celeste  Fattor  turba  rUbélla „ 


T    E     R    Z     O..  ## 

LXIL  .' 

Vider  -poscia  cader  da 'l'alto  il  Mostro  , 
Né  discerner  potean  la  sua  figura  ;  , 
Credean  perciò  ch'ei  fosse  HGuerrier  nostra, 
E  di  farsegli  appressa  ognun  procura. 
Su  cadaver  così  cacciando  il  rostro, 
Suol  di  Corvi  piombar  la  turba  oscura;*, 
O  tal  di -Mosche  l'importuna  truppa 
JPutrid'  esca  .circonda  ,  ed  inviluppa  . 
LXIII. 

Ma  poi  che  steso  se  lo  vider  presso, 
E  alfin  conobber  quell'inganno  loro, 
Rimase  ognun  da  sdegno,    e  duolo  oppresse,. 
Ed  attoniti  fur  tutti  costoro. 
Così ,  se  avvien  che  incognito  recesso 
Più  l' ascoso  non  chiuda  aureo ,  tesoro , 
Muto  rimansi ,  con  aperto  labbro 
L'avaro,  che  sudar  fé  in. vano  il  Fabbro. 
XXIV. 

Dietro  al  Demon  scendea  frattanto  -Or  feyy , 
Simile  ad  uom,  che  d'alta  scala  scenda i 
Sì  bel  bello  cadere  Iddio  lo  fèo , 
Ed  a  corpo  diritto,  opra  stupenda? 
Iddio  ,  che  sempre  vuol  punito  il  reo , 
Acciò  che  il  giusto,  e  'l.'iwon  più  non  gite  rida. 
In  mezzo  ci  scese  a  gl'inimici  sciocchi, 
Che  sovra  lui  fisi  teneano  gli  occhi. 
XXV. 

E  a  menar  -cominciò  ben  ben  je  mani , 
Ma  quei ,  sdegnati  di  veder  lor  speme 
Così  delusa,  e  i  loro  sforzi  vani  , 
Si  scagliar  tutti  a  lui  d'intorno  assieme, 
Trucidarlo  sperando,  e  farlo  in  brani; 
La  densa  folla  Orfeo  circonda,  e  preme; 
Se  men  perito  in  arme  era,  ed  esperto  , 
'are  il  .Sol  jhù  non  udrebbe  al  certo, 

C   5 


5*  CANTO 

LXVI. 

Prodigio  fa,  fu  quel  valor,  che  inspira  ,. 
Ne  1*  alme  elette  il  Reggitore  eterno. 
Propizio  a  lui  nel  gran  cimento  spira 
Possente  soffio,  animator,  superno; 
Soffio,  che  inutil  fé  de  gli  empj  Pira  , 
Sì  eh*  ei  farne  potè  strano  governo, 
Soffio,  che  Grazia  è  detto,  e  l'Uomo  assorto 
In  vasto  Mar,  talor  sospinge  al  Porto-, 
LXVII. 
In  questo  Mar  cruda,  fatai  procella 
M'assalse  un  dl,anè  giunsi^  a  pormi  insalvo> 
Che  ad  uno  scoglio  urtò  mia  Navicella  , 
In  cui  da  l'onde  io  mi  credea  già  salvo. 
Ruppe  la  Nave,  e  me  la  Sorte  fella 
Del  burrascoso  Mar  gittò  ne  1'  alvo . 
Eù  la  procella,  o  Nicc,  il  tuo  bel  viso, 
Fu  la  scoglio  un  tuo  sguardo,  un  tuo  sorrisa, 
LXVIII. 
Or  poiché  ricovrare  io  più  non  spero 
La  dolce  ,  e  cara  iibertàde  antica  , 
Fa  parermi  raen  grave,  e  meno  austero 
Il  laccio ,  ove  mi  tien  Sorte  nemica  ; 
Un  sorriso  concedi,  un  lusinghiero 
Sguardo,  se  non  d'amante,  almen  d* amica. 
Son  questi  i  fili  pur  ,  fili  segreti  , 
Che  mi  strinser  prigioa  ne  le  tue  reti  ì 
LXIX. 
Ma  d'  Orlando  si  parli ,  che  n'è  tempo , 
E  si  lasci  il  mio  cor  ne  la  sua  pena. 
Orfeo ,  come  già  dissi  ,  in  breve  tempo 
D'estinti  fé  quella  Campagna  piena. 
Tutti  gli  uccise;  vista  in  alcun  tempo 
Non  fu  da  alcun  si  varia  ,  e  strana  scena  ; 
Sparse  giacean  de  l'infernali  torme 
Le  moltiplici  al  suol  bizzarre  ferine . 


TERZO.  .59 

LXX. 

E  dopo  questa  genera^  sconfitta  » 
Ove  pugnava  Orlando  ,  i  passi  drizza 
Il  vincitore,  a  la  cui  destra  invitta 
Fortuna  arride,  e  ira  lui  l'ardore  attizza. 
Da  lungi  mira  avverso  stuol  ,  che  gitta  ' 
A  terra  Orlando  ,  e  '1  pie  tosto  ei  dirizza 
Ove  da  tanti  oppresso  Orlando  cade 
Fra  il  balenar  di  minacciami  spade. 
LXXI. 

Tanto  non  corse  mai  per  la  Foresta 
Cervo  ,  fuggendo  l'anelante  Cane. 
Vola  ,  e  Orlando  salvar  speme  gli  resta  > 
Né  vuole  il  Cielo  sue  speranze  vane  . 
Il  suo  furor  ne  gli  occhi  ei  manifesta  , 
Che  a  quelle  genti  ancor  da  Itn  lontane 
Mandan  la  Morte  co  gli  ardenti  sguardi , 
Morte,  che  poco  fia  che  a  giunger  tardi  ; 
LXXII. 

Era  già  per  piombar  sui  capo  illustre 
Un  fiero  colpo,  anzi  dugento  insieme  , 
Quando  la  voce  del  Guerriero  industre 
Ode  l'iniquo  stuol,  che  Orlando  preme. 
Fermate,  empj  ,  tai  man  non  fia  che  illustre. 
Tal  sangue  mai  :  conduca  a  l'ore  estreme, 
O  me  la  vostra ,  o  voi  la  destra  mia  ; 
E  il  vincere  ,  e  il  morir  gloria  mi  fia. 
LXXIII. 

Cosi  dicca;  ciascun,  che  orribif  voce 
Mandava  a  l'aure,  udendo  Orfeo }  si  tace* 
E  come  sasso,  che  partì  veloce 
Dà  la  rotante  fionda,  e  a  terra  giace, 
Quella  tremenda  pria  Schiera  feroce 
Immota  rende  il  prode  Orfeo  sagace, 
Orfeo  ripien  de  la  celeste  aita, 
Che  ad  Orlando  cosi  serbò  la  vita. 

e  6 


éo  C    A    N    T    O 

LXXIV. 

In  pochi  istanti  Orfeo  giunse  vicino 
Al  prode  Orlando  ,  e  cominciò  la  pugna.; 
Chi  dal  destro  l'assai,  chi  dal  mancino 
Lato ,  ma  non  vai  dente  ,  o  corno ,  od  ugna  . 
Come  caccia  l'Aurora  in  sul  mattino 
L'Ombre  notturne ,  Orfeo  cosi,  che  impugna 
La  scintillante  sua  vittrice  spada, 
Tutti  li  scaccia,  e  s'apre  alfin  la  strada, 
LXXV. 
Orlando  allor,  benché  morir  credesse, 
Gli  empj  mirava  con  feroce  guardo, 
E  ben  cred'io  che  Morte  ei  non  temesse;; 
A  temer  non  s'abbassa  un  cor  gagliardo. 
Fatto  così  da  sue  ferite  stesse 
Feroce  più,  freme  il  Leone,  e  il  Pardo. 
Or  che  propizio  tanto  ii'Ciel  gli  arride, 
In  piedi  ei  salta,  e  di  costor  si  ride. 
■LXXVI. 
Ma  la  cagion ,  per  cui  fu  allor  1'  invitto 
Eroe  gittato  al  suol,  tacer  non  deggio, 
Ei ,  che  ne'  rischj  ognor  d'aspro  conflitto 
Mostrò  quanta  possanza  abbia  in  lui  seggio. 
Colui,  che  V atterrò ,  fé  il  gran  tragitto 
D'Averno  ai  Regni  ,we  già  sua  salma  io  veggio. 
Ben  dopo  tanta  impresa  esser  dovea 
Scesa  lieta  a  Pluton  quell'alma  rea. 
LXXVII. 
Costui  fra  tutti  era  maggior  d'altezza-, 
Marciava  armato  di  due  corna  orrende; 
Strana  di  quelle  corna^  è  la  lunghezza. 
Ma  ben  dir  non  saprei  quanto  s'estende. 
Superava  costui  tutti  in  fierezza  , 
Sempre  avvezzo  ad  oprar  cose  stupende; 
Far  di  «è  risonar  era  sua  brama, 
Ne  gli  Abissi  del  Tartaro,  la*  Fama.. 


T     E    R    Z     O.  si 

Lxxvm. 

'Questi  s'oppose  al  prode Ortendo,  e  in  fretta 
Al  petto  su©  drizzò  feroce  il  corno; 
Orlando  gli  va  incontro,  e  non  l'aspetta, 
Sebben  molti  nemici  avesse  intorno. 
Chi  estinto  cade  ,  e  chi  a  fuggir  s'aifretta, 
Più  temendo  il  morir  che  il  proprio  scorno . 
Quand'ei  iù  presso,  il  Mostro  ad  altra  parte 
Drizzò  le  corna. con  prestezza,  ed  arte. 

LXXIX. 
E  dove  il  petto  minacciava  prima, 
Ora  nel  fianco  mira  5  e  ne  le  braccia , 
E  di  forar  co  l'appuntata  cima 
Di  quelle  corna  il  tergo ,  o  il  sen ,  minaccia, 
Ed  altre  parti,  ch'io  non  dico  in  rima, 
Che  chi  ben  dir  non  sì,  meglio  è  si    taccia,; 
Va  volteggiando,  e  Orlando  tien  rivolto 
À  quell'iniquo  traditore  il  volto. 

LXXX. 
"Dopo  lungo  pugnar  di  questa  foggia 
[1  forte  Orlando  un  corno  alfin  gli  afferra , 
Dal  suol  l'innalza  j  il  Mostro  a  l'aer  poggia , 
E  torna  poi  precipitando,  a  terra. 
'Balza  cosi  su  popolata  loggia 
Fra  il  Vulgo  spettator  di  lieta  guerra, 
Il  Cane  assalitor  dal  Tauro  spinto, 
-Ma  il  Tauro  in  vece  or  dalGucrricr  fu  vinto. 

LXXXI. 
II  Demon  dir  vogl'io,  che  per  ajuto 
"Di  Pluto  forse,  danno  alcun  non  ebbe. 
Pien  di  rabbia  a  pugnar  torna  il  cornuto., 
Veloce' tanto  Augel  non- volerebbe. 
^Orlando  morto  già  Pavea  creduto, 
'Ma  quando  il  credea  meo,  vicin  se  l'ebbe. 
Mancava  un  palmo  che  colui  dal  manco 
>n  lo  ferkse.fin  al- dcstro.iance  . 


fe  CANTO 

LXXXIL 

Ma  se  ne  avvide  ,  e  si  ritrasse  alquanto  r 
L'empio,  che  del  suo  sangue  avea  gran  sete> 
Con  sue  perfide  insidie  oprò  cotanto 
Che  quasi  l'onda  il  trasse  a  ber  di  Lete, 
Vo' dire  a  Morte,  il  cui  funereo  manto 
D' obblio  ricopre,  e  tristi  cose,  e  liete  ; 
Obblio  fatai  ,  che  Palme  allor  circonda, 
E  di  Lete  fu  detto  esser  ne  P  onda . 
LXXXIII. 

Menzogna  questa  fu  ,  strana  follìa 
De  le  Favole  antiche  de'  Pagani  , 
Fra  cui  di  falso  il  Ver  si  rivestia  , 
Cosa  gradita  a  gl'intelletti  umani, 
Cadde  Orlando  così  come  cadrìa 
Un  robusto  Cignal  cinto  da  Cani. 
Gli  empj.,  che  tutti  numerar  non  posso, 
Quando  il  veggion  cader,  gli  sono  addosso*. 
LXXXIV. 

E  il  cingon  tutti  con  orrende  grida  , 
Ma  in  un  baleno  ei  si  levò  di  terra. 
Non  ferocia  minore  in  cor  gli  annida , 
Ed  eccol  pronto  a  rinnovar  la  guerra. 
Di  quello  stuoi  ,  che  a  la  battaglia  ei  sfida  , 
Il  numeroso^ circolo  disserra; 
li  sorgere,  U  cader,  fra  cento,  e  cento 
La  strada  aprirsi ,  e  uscir,  fu  un  sol  momento» 
LXXXV. 

L'empio  raggiugrie  ,  equandomen  sei- crede, 
Ei  P afferra  nel  petto,  e  il  getta  al  suolo; 
Con  la  sinistra  mano,  e  '1  destro  piede 
Fermo  il  tien  sì  che  un  pie  non  muove  solo. 
Già  il  destro  braccio,  il  ferro  alzò,  ma  il  vede 
L' attento  osservator  nemico  stuolo  , 
E  vola  ad  arrestar  quel  colpo,  e  arriva 
Mentre  lo  Spirto  reo  quasi  fuggiva  . 


T    E    R     Z.  G.  6$ 

LXXXVI. 

Orlando  allor  da  tance  man  nemiche 
Con  un  sol  croi  lo  sciolse  il  braccio  forte» 
Ma  per  l'aita  de  le  truppe  amiche 
Sorge  il  malvagio  ,  e  spera  a  lui  dar  morte. 
Cotesta  palma  a  tante  palme  antiche 
Aggiunger  vuol ,  di  che  il  fregiò  la  Sorte  ; 
Trenta  passi  ,  e  più  forse ,  addietro  torna  , 
indi  s'avanza,  e  basse  tien  le  corna. 
LXXXVII. 

Non  tanto  presti ,  non  tanto  feroci 
Fra  lor  soglion  cozzar  Montoni ,  e  Tori . 
Colui  s'i-nnoltra  con  orrende  voci, 
E  risuonano  l'aure  a' suoi  clamori. 
Non  teme  Orlando  quelle  grida  atroci  ; 
Fan  le  grida  tremar  gì'  imbelli  cori  '> 
Alza  a  due  mani  il  ferro  ,  e  stretto  il  tiene  » 
Bieco  mirando  il  traditor,  che  viene . 
LXXXVIII. 

Mentr'ci  s' appressa ,  con  orrendo  botto 
Piombò  quel  ferro,  e  gli  spezzò  la  testa, 
Ma  nel  punto  medesmo  il  corno  à  rotto 
Il  duro  usbergo ,  e  a  terra  Orlando  resta  • 
Cosi  talora  a  l'Elefante  sotto 
Il  Liocorno  muor  ne  la  Foresta  . 
Il  Mostro  esser  credea  tanto  veloce 
Da  poter  isiuggir  quel  colpo  atroce. 
LXXXIX. 

Rotto  l'usbergo  f li ,  ma  il  ventre  illeso , 
Cadde  Orlando  a  quell'urto,  Orfeo  v'accorse. 
Ma  ben  son  io  da  meraviglia  preso 
Dì  nuova  zuffa  ,  che  lor  fare  occorse  . 
Tutto  dichiarerò  quel  che  n'ò  inteso, 
E  il  tutto,  o  poco  men,  ne  dirò  forse. 
Io  vo' parlar  di  prodigiosa  guerra, 
In  cui  l*un  pugna  in  Ciclo,  e  l'altro  in  terra  . 


*4  C     A    N    T    O 

xc. 

Nuova  battaglia  ,  e  se  non  nuova  ,  rara., 
*     "Onde  stupir  dee  chi  la  veda ,  o  senta  . 
S'  alzan  dal  suolo  quattro  Mostri  a  gara  , 
Co  Tali  stese,  lunghe  palmi  trenta. 
Come  sul  campo  il  buon  cukor  quand'ara,. 
Per  cammin  dritto  il  bue  di  guidar  tenta-, 
"D'altra  messe  bramosi  ,  in  compagnia 
Solca n  quei  1'  aure  per  diritta  via  . 
XCI. 
E  Saigon  sì  che  umano  occhio  sfuggirò  , 
Io  dir  non  posso  quanto  sien  saliti  ; 
Ma  poco  andò  che  i  duo  Guerrieri  udirò 
Spaventosi  urli ,  e  ne  furo  storditi  ;  t 
E  volto  il  guardo  ove  il  romor  sentirò, 
Vider  ch'eran  da  quelli  ambo  assaliti, 
Da  que' feroci  Spiriti  infernali, 
Che  librati  cosi  scendean  su  l'ali. 
XCIL 
In  due-e  due  s'erano  divisi, 
E  brama  avean  di  trucidarli,  e  speme  . 
^Gii  occhi  i  Guerrier  su  gli  empj  aveano  fisi*, 
Che  l' uno ,  e  V  altro  esser  sorpreso^  teme  ; 
E  come  al  Ciel  tenean  rivolti^  i  visi , 
Così  le  punte  de  Je  spade  insieme. 
Calano  quelli ,  sfoderando  1'  ugna  , 
v.Che  possente,  qual  ferro,  è  ne  la  pugna.. 

xeni. 

E  de' Guerrier  sul  capo  in  larghi  giri 
Volantina  i  duo  Guerrier  non  prende  sonneu 
'Essi  rnandandi  rabbia  airi  sospiri, 
Perchè  afferrar  le  vaste  ali  non  ponno  • 
Così  sembra  Mastin  si  crucci  ,  e  adiri, 
Che  tenta  in  van  farsi  di  Mosca  donno; 
Così  talora  il. Cacciatore  esperto 
Freme  ><  d' AugeL  mirando  i  1  volo  incerto . 


T    E    X    X    O,  <*5 

XCIV. 
Credono  averli  già  sotto  la  spada  y 
E  menan  colpo  fier  da  farli  in  pezzi , 
Ma  non  accade  mai  che  a  colpir  vada 
Que' Mostri  il  ferro,  o  i  vanni  tagli,  o  spezzi 
Passa  qual  fulmin ,  che  dal  Cielo  cada  , 
Ciascun  di  quelli,  e  par  que' colpi  sprezzi, 
Que' colpi,  che  di  riso  a  lui  son  causa  , 
Né  mai  frappon  ne  P  assalirli  pausa . 

xcv. 

Ma  dopo  ai-fin  cotanti,  sforzi  vani 
Il  prode  Orlando  impavido  recise 
D'un  Mostro  un  ala  ,  e  con  grand'urli,  e  strani 
Cadde  il  ribaldo,  e  ']  v itici tor  1*  uccise. 
Ei  vide  poscia  Orfeo  star  fra  le  mani 
D'un,  che  dal  suol  tre  palmi  lo  divise. 
t>a  la  faretra  acura  freccia  tratta , 
Sovra  il  flessiti!  arco  egli  i'  adatta . 
XCVI. 

E  mira  con  attenti  occhi,  qual  uomo  , 
Che  a  scopo  tiri ,  e  bene  il  colpo  aggiusti., 
In  man  tenendo  de  la  spada  il  pomo; 
Colpi  non  v'ànno  più  di  quello  giusti. 
Ferì  nel  core  appunto,  e  a  l'empio  domo 
Da  tal  ferita ,  i  membri  pria  robusti 
Mancar  di  lena  ;  Orfeo  dal  crudo  artiglio 
Scampò  cadendo,  e  dal  fatai  periglio. 
XCVII. 

Ma  per  deluder  l'inimico,  a  terra, 
Là  dov'era  caduto,  ei  si  rimase, 
Ei,  che  accortezza  spesso  utile  in  guerra 
Esser  più  che  valor,  si  persuase. 
Di  Bellona  un  seguace  unqua  non  erra , 
Se  uno  stolto  furor  mai  non  l' invase  , 
Se  accoppiando  a  valor  destrezza  ,  ed  arte, 
Da  prudenza ,  e  ragion  non  si  diparte  . 


66  CANTO 

XCVIII. 

Or  egli  in  terra  si  rimase  dunque  , 
Onde  far  mostra  che  per  tal  caduta  , 
O  gamba,  o  braccio  rotto  abbia,  quantunque» 
ÌNè  salute,  ne  forza  avea  perduta. 
£  in  ver  ferito  il  crederla  chiunque 
Ignaro  fosse  di  sua  mente  astuta  . 
De' quattro  il  terzo  allora  agii  calava  , 
Che  morto  j  o  a  morte  presso  il  giudicava  . 
XCIX. 
Lo  scaltro  Orfeo ,  quando  vicino  il  vede  y 
Gli  afferra  un  ala ,  e  tosto  in  pie  si  rizza  , 
L'ala  recide,  al  suolo  il  caccia  ,  un  piede 
Gli  pon  su^  ventre  ,  e  il  ferro  al  seri  dirizza. 
Ma  del  periglio  il  quarto  allor  s'  avvede 
Compagno  alato,  e  scende  pien  di  stizza  j 
Sua  preda  Orfeo  fu  di  lasciar  costretto  , 
Mentre  a  volo  accorrea  quei  maiadetto. 
C. 
Mj  hsn  poco  pugnar  dovrà  con  questo  . 
Girava  intorno  al  capo  suo  quell'empio  j 
Pensava  intanto  Orfeo  come  nel  presto 
Volo  coglierlo  possa,  e  farne  scémpio. 
Queir  insidiator  veloce,  e  lesto, 
ì)ar  volea  d'accortezza  illustre  esempio. 
Ma  vano  era  il  desìo  ,  che  ovunque  ei  fosse  » 
Col  ferro  ©gnor  seguiva  Orfeo  sue  mosse; 
CI. 
Orfeo,  chealfin,  quando opportun  gli  parve y 
In  mezzo  al#  ventre  gli  slanciò  la  spada  ; 
Ma  fantasmi  quel  ferro  ,  e  spettri ,  e  larve  A 
Cosa  stupenda  !  par  che  a  ferir  vada , 
Poiché  il  nemico  in  altro  loco  apparve  % 
In  un  attimo  ai  voi  mutando  strada . 
Sì  conficcò  nel  suol  l'acuto  acciaro, 
E  vuote  ai  CaYalkr  le  man  resta.ro  =, 


TERZO.  61 

CU. 

Che  mai  far  puote  fra  nemici  tanti  ; 
Senza  difesa  aver  ,  lo  scaltro  Orfeo  > 
Altri  dietro  Passale  ,  altri  davanti, 
Gran  colpi  vibra  quello  stuolo  reo. 
Felice  lui ,  che  sempre  in  tutti  i  canti 
Suo  fino  usbergo  resistenza  feo  ! 
Ei  cole  braccia  dividea  la  frotta, 
Di  cui  gran  parte  avea  la  lancia  rotta. 
CHI. 

L'armi  tutte  spezzava  il  duro  usbèrgo  ► 
Largo  intanto  il  sentier  velocemente 
Orfeo  s'aprìa,  molti  lasciando  al  tergo, 
E  giunse  ov' era  il  brando  suo  lucente, 
Poi  disse  al  Mostro  :  Entro  al  tuo  sangue  il  tirgo} 
A  quel  Mostro  medesimo  ivi  presente. 
Che  dì  vederlo  ancor  vivo  ,  ed  illeso 
Fra  tanti,  e  inerme  ,  si  mostre  sorpreso. 

Trucidarlo  costui  volea  ,  ma  il  gjrese 
Orfeo  pel  ventre,  e  ben  lo  tenne  stretto. 
L'altro  Demon,  che  libero  si  rese, 
Ch'egli  atterrato  avea,  siccome  ò  detto, 
S'apparecchia  frattanto  a  nuove  Imprese, 
Ma  Orlando  accorre  ,  e  gli  trafigge  il   petto* 
Tutti  cosi  que'volator  compagni  ; 
Sceser  di  Pluto  a'  tenebrosi  stagni  » 
CV. 

Farsi  ad  Orlando  incontro,    e  morte  acerba 
Aver  dal  forte  braccio ,  era  lo  stesso . 
Di  molto  sangue  egli  fé  rossa  l'erba 
Pria  di  stender  quell'empio  a  gli  altri  appresso. 
Memoria  Orfeo  de  la  sua  spada  serba  , 
E  riaverla  già  s'  era  promesso  ; 
Ma  in  van  la  scorse ,  in  van  quasi  afferrolla  % 
Che  lo  rispinse  la  nemica  folla . 


6%  CANTO 

CVL 

Rapilla  un  Mostro,  e  dal  Guerriero  acconto 
Ben  sei  tiri  di  pietra  allontanossi* 
Disse  altero  insultando:  Non  a  torto 
Per  questo  brando  tuo  éa.  te  pugnassi  : 
Te  lo  rendMo;  quanti©  sarai  tu  morto  , 
Dirai  eh'  io  per  te  fei  quanto  far  puossi. 
Disse,  e  lanciollo  con  robusta  mano 
Lungi  cosi  che  noi  può  braccio  umano  'é 
CVIL 

Colpì  ne  la  corazza  ,  e  a  forar  quella 
Giunse  la  punta,  che  veloce  venne* 
Poco  mancava  che  pelle  ,  e  budella 
Forasse,  ma  sì  entro  non  pervenne* 
Salvato  Orfeo  da  la  crude!  procella  , 
In  porto  allor  col  ferro  suo  si  tenne  i 
Contro  il  vile  aggressor  ei  tosto  move.* 
£  vorria  trucidarlo  in  grembo  a  Giove  - 
CVIIL 

Grida:  Or  sì ,  traditor,  ti  pentirai 
Di  quel  cortese  don,  che  tu  mi  festi  . 
Perchè  mille  tornar  evolte  non  sai 
Da  gli  Abissi  del  Tartaro  funesti  ? 
Io  n'avrei  ben  di  che  allegrarmi  assai, 
Che  mille  volte  per  mia  man  cadresti  ; 
Sebben  pena  non  v'à,  pensata,  o  detta 3 
Che  basti  a  far  tutta  la  mia  vendetta  . 
CIX. 

Sfavasi  iì  folle  ad  aspettar  quel  fiero 
Nemico,  e  l'insultava  ve  sen'  ridea  ; 
Ferir  lo  vuol ,  ma  caccia  il  gran  -Guerriero 
Suo  brando  vincitor  ne  P  alma  rea . 
Orlando  ancor  da  forte  Cavaliero 
Stupende  Imprese,  e  memorande  fea; 
E  Puno,  e  l'altro,  in  questa,  e  in  quella  pa^te^ 
Nuovi  sempre  .miete*  L^un  idi  Marte » 


TERZO.  69 

CX. 

Cantor,che  di  Calliope  a'  sommi  onori 
Primo  aspirasti  con  Argiva  tromba, 
Se  osasti  tu  fra'  marziali  ardori 
A' Numi  stessi  minacciar  la  tomba  ; 
Biasmo  non  fia  per  me  ,  se  1'  erbe ,  e  i  fiori 
Di  sangue  innaffia  stuol,  ch'estinto  piomba» 
Stuolo  internai ,  ma  fra  mortali  spoglie, 
Che  servia  de  la  Maga  a  l' empie  voglie. 
CXI. 

Que'  pochi ,  che  restar ,  -diérsi  a  fuggire , 
Ma  in  van  fuggian  ,  che  i-I  vincitor  sempre  anno 
Al  tergo  ,  e  tutti  deggiono  morire; 
Potè  un  solo  sottrarsi  al  eomu»  danno. 
Questi  avea  1'  ali ,  e  noi  poter  ferire 
fcssi,  che  al  par  di  lui  volar  non  sanno. 
Ma  d'Amor  scena  offrire  or  deggio  a&rocs, 
Quando  riabbia  la  già  rauca  voce  * 


Witti  dtl  Cam»  Ttti0¥ 


70 


LA     MORTE 

D*  ORLANDO. 


CANTO  QUARTO, 


ARGOMENTO. 

Vlìjfe ,  alter  che  dal  [offerto  f corno 
Otone  il  traffe^,  e  libertà  gli  refe  , 
Al  Cairo ,  Patria  fua  ,  fece  ritorno  * 
E  con  fioja  il  Stiltan  fu»  nome  inteff  . 
Fefie  ,  /  gioire  (i  fero  ,  ed  in  quel  giorno 
Fé  di  Turena  il  "Duca  illujìri  Imprefe  . 
Ma  Vliffe  (ahi  !  rea  vicenda  ,  afpra  ,  inudita  \) 
JPuafi  a  P  amante  fua  tolfe  la  vita  . 


T  L 

JLo  credo  che  non  siavi  affetto  umano 
Dannoso  sì  come  il  tiranno  Amore, 
Né  che  a  vicende,  in  cui   l' ingegno  è  vano, 
Guidi,  come  Amor  guida  un  amatore. 
Pur  da  speme  fallace  il  Vulgo  insano 
Vinto,  e  sedotto,  gli  dà  in  preda  il  core. 
Benché  Amor  celi  in  poco  ben  gran  male, 
Suo  dominio  è  possente ,  e  universale . 


CANTO    QUARTO.      71 

IL 

Amo*,  cred'io,  nel  fatai  pomo  chiuso 
Si  stava  un  tempo  nel  terrestre  Eliso, 
E  allor  che  a  tanti  mali  il  varco#  schiuso 
Fu  dal  pomo  fatai  ,  colto,  e  diviso  ,# 
In  un  sol  punto  uscir,  yenner  quaggiuso, 
Lungi  cacciando  la  Letizia,  il  Riso, 
E  Morte,  e  Stenti ,  e  Fame,  e  Peste  ,  e  Guerra; 
E  Amor  con  essi  dominò  la  Terra  . 
III. 

Forse  a  conforto  de  le  Donne  posto, 
Poiché  la  Donna  pel  voler  supremo 
A  maschil  giogo  il  collo  sottoposto 
Tener  dovea ,  ma  con  ardire  estremo 
Vietollo  Amor,  che  tal  poter  ben  tosto 
Perder  ci  fé  ,  né  più  Io  riavremo; 
E  la  Donna  di  noi  fatta  Regina  , 
A  servir  ci  condanna,  e  ci  destina. 
IV. 

Reginaal  pari  una  gentil  Donzella 
Era  d'Ulisse  ,  che  a  dure  soggiacque 
Strane  avventure  acerbe  ,  e  sol  per  ella  , 
Le  quai  per  ben  cantar  convienmi  a  V  acque 
Bever  Castalie,  e  d'estro  una  faceta 
Agitar  pria,  se  spenta  in  me  non  giacque.  . 
Di  questo  Ulisse  altrove  già  parlai, 
E  in  quel  Palagio  magico"  il  trovai. 
V. 

Nel  gran  Palagio  de  la  Maga  ,  in  cui 
]  gli  languiva  in  dura  prigionia, 
Di  Porco  in  forma;  or  libertade  a  lui 
Concessa  venne  ,  ed  uom  tornò  quai  pria  . 
Piacque  a  la  Maga  il  Turco  Oton  ;  costui, 
Che  d'Ulisse  cugin  credo  che  sia  , 
Tal  grazia  ottenne:  Ulisse  il  pie  disciolto 
Al  Cairo,  Patria  sua,  tosto  à  rivolto. 


n         C   A    N    r   o 

VL 

E  benché  lungo  fosse  quel  viaggi*  » 
Che  da  l'Adige  ir  dee  fino  a  1*  Egitto  y 
E  gli  facesse  Amor  creder  più  saggio 
Altro  diffidi  rnen  sceglier  tragitto; 
Il  patrio  affetto  gì5 inspirò  coraggio, 
E  co' venti  lo  spinse  a  far  conflitto  . 
Prima  a  l'antica  andò  Madre  d'Eroi, 
Città ,  cui  reca  il  Mar  gli  omaggi  suoi . 
VII. 

L'Adriatico  Mar,  che  in  scn  le  scorre, 
Che,  quasi  in  ceppi,  in  lei  rinchiuso  osservo* 
Che,  mentre  minacciosa  altrove  corre, 
Le  bacia  i  pie ',  come  a  Tiranno  il  Servo  ; 
E  la  difende  più  che  muro,  o  torre, 
Dal  forte  braccio  d'aggresser  protervo; 
E  col  propizio  flutto  i  curvi  Legni 
Spinge  a  tuonar  su' vorticosi  Regni. 
Vili. 

Su  questi  lidi  popolati ,  adorni , 
Poco  Ulisse  rimase;  egli  imbarcossi 
In  Nave,  che  salpar  dovea  in  quc'giorni» 
E  quindi  ne  1'  Egeo  Mare  portossi  ;  # 
Venne  poi  d'Alessandria  ne' contorni 
Per  l'altro  Mare,  che  a  ragion  nomossi 
Mediterraneo  ,  in  cui  Nocchiero  esperta 
Teme  le  varie  Terre,  il  vento  incerto  . 
IX. 

Quand'ei  fu  giunto  al  patrio  suol ,  la  Fama 
Feri  l'orecchio  del  Sultan ,  che  allora 
Colà  si  stara;  assai  quel  Prence  l'ama, 
E  il  suo  valor ,  la  sua  vinùde  onora  . 
Saputa  avendo  sua  venuta,  ei  brama 
Vederlo,  e  ne  sospira  il  tempo,  e  l'ora; 
E  per  far  di  piacer  solenne  mostra. 
Vuol  che  s'appresti  una  pomposa  giostra. 


QUARTO.  73 

X. 

Fu  la  giostra  apprestata  ,    e  molti  in  quella 
)a  vicine  Città  giunser  ,  Guerrieri  , 
i  fèria  ancor  più  numerosa,  e  bella, 
}uei  ,  che  là  risedean,  ricchi  Stranieri, 
:he  sapeai*  trattar  l'Asta  ,  e  starsi  in  sella  , 
clorosi ,  ed  esperti  Cavalieri  ; 
Eugenio  di  wSavoja ,  e  di  Turrena 
i  Duca,  e  quel  di  Guisa,  e  quel  di  Mena  ; 

Ali 

E  di  Lorena  quel  ,   non  meno  in  arme , 
Dhe  gli  altri  tutti,  poderoso,  e  chiaro, 
vlusa  gentil ,  in  sì  diffidi  carme 
^on  sia  tuo  braccio  di  soccorso  avaro  . 
Tu  sorregger  mi  puoi  ,  tu  puoi  guidarmi 
\  dolce  frutio  d'uno  studio  amaro  . 
3olce  mi  fi  a  >  se  avvien  che  tanto  io  salga 
^he  a  tutte  a  dir  sì  belle  Imprese  io  valga  . 
XII. 

Giunge  il  dì,  che  prefìsso  era  a  la  giostra. 
Tutta  è  già  la  Cittàde  a  gioja  ,  a  festa  , 
È  quinci  e  quindi  ne  V  agon  si  mostra 
jeneroso  Destrier  di  breve  testa  , 
su  cui  vien  Cavalier,  ch'esser  dimostra 
Gagliardo,  e  prode,  e  'ICorsier  mai  s'arresta, 
Dì  denso  Vulgo  irrequieto  stuolo 
Tutto  ricopre,  e  si  contrasta  il  suolo. 
XIII. 

L'aer  di  plausi,  e  liete  voci  suona, 
~he  ne  la  Region  van  de  le  Stelle; 
"hi> danze  intreccia,  e  chi  festosi  intuona 
nni,  le  palme  a  celebrar  novelle. 
Tocchi,  cui  splendor  V  oro,  e  lustro  dona, 
Chiudon  piovani  amanti,  e  Donne  beile, 
E  a  piedi  ancor  mille  Donzelle  ,  e  mille 
Amorose  nei  cor  mandan  faville. 

D 


.74  C     A    N    T    O 

XIV. 

Vut  odi  quel  lieto  dì  questi  i  diletti 
Pria  che  il  Prence  giugnesse  ,  e  '1  Prence  vcan 
Con  pompa  tal  che  né  di  labbro  i  detti 
Esprimer  san  ,  né  le  migliori  penne . 
Innanzi  a  lui  sovra  Destrieri  eletti, 
Pi  veloci  Forier  stuolo  pervenne  > 
Il  cui  vestito  ricco,  e  rilucente 
^fupor  iettò  ne  l'affollata  gente. 
XV. 
Ppscia  i  primi  venian  di  quella  Corte, 
Ciascun  fregiato  di  pomposa  veste  , 
p'oro,  e  di  perle,  poiché  lor  la  Sorte 
fDiè  le  conchiglie  ,  ove  s'ascondon  queste 
Il  fren^  mordcan ,  bramando  gir  più  forte, 
I  Corridor,  che  drappo  d'or  riveste, 
Prappo,  al  cui  lembo  le  pendenti  perle 
JMerayigiia,  e  piacer  fanno  in  vederle. 
XVI. 
Il  gran  Sultano  apparve  in  soglio  d*  oro  , 
f)a*più  fini  abbellito,  e  rari  intagli, 
Che  su  tavola  posa,  al  cui  lavoro 
Nessun  altro  lavor  ria  che  s'agguagli. 
^è  su  Papa  s'innalza  in  Concistoro^ 
JVIai  baldacchin  ,  che  tanto  gli  occhi  abbagli 
.Siccome  quel ,  che  tutto  ardea  di  gemme 
Ctiunte  colà  da  l'Indiche  maremme: 
XVII. 
"E  sotto  a  quello,  e  a  l'aureo  soglio  intorni 
Terso'  vetro  s'aggira  ,  ove  ad  alcuno 
Chiuso  il  varco  non  è  <le'  rai  del  giorno, 
JVTa  il  gran  Sultano  ascondesi  a  ciascuno. 
Serico  vel  d'aurei  trappunti  adorno 
fi  sembiante  regal  cela  ad  ognuno  ; 
Oh?  stolto,  e  folle  Orientai  costume, 
Per  cui  Despota  reo  si  crede  un  Nume,1 


U  A  -il  T  (K  75 

XVIII. 

t>ue  lunghe  file  di  Soldati  starino  < 
Uato  a  quelli  ,  che  de  l'aureo  seggio 
on  portatori,  e  i  Cortigiani  fanno 
ti  Trono  augusto ,  splendido  corteggio  « 

Cavalieri  ad  apprestarsi  vanno 
i  l'alte  Imprese,  che  narrare  ordeggio; 
l  densa  intanto,  come  turgid'onda,  ', 

'olla  volgar  l' Anfiteatro  innonda  . 
XIX. 

Quattro  son  le  gran  porte  a' quattro  iati 
)i  quel  grande  vastissimo  recinto, 
Hiattro  i  grand' archi  son  ,  de'  più  pregiati 
/[armi  ,  e  l'imposte  d'assai  ben  dipinto 
,egno ,  in  cui  molti  veggionsi  intagliati 
suerricr,  che  in  giostre,  od  ijrijattaglie  àn  vinto** 
l  vi  -si  veggion  prati,  e  viste  amene  3 
)ual  su  fallaci  Teatrali  scene. 
XX. 

Girano  intorno  intorno  ampj  gradini 
"regi  a  ti  al  pari ,  e  vagamente  pinti . 
vi  Stranieri  assisi ,  e  cittadini 
ennsi  a  bclP  agio  ,  a  iieti^  plausi  accinti  e 
adorna  sorge  di  lavor  divini 
.oggia  nel  mezzo;  i  vincitori,  i  vinti 
*1irar  dee  quindi  il  Prence,  ivi  innalzate 
In  Trono  sta  superbamente  ornato  . 
XXI. 

Un  Trono  augusto ,  ove  profuse  sono 
.ucide  gemme  *li  color  diversi  , 
'ivi  colori  ,  che  sul  ricco  Trono 
n  bell'ordine  stan  misti,  e  dispersi. 
'olà  di  trombe,  e  di  timballi  al  suono 
l  superbo^  Sultan  venne  a  sedersi; 
l  i  Cavalier,  che  brama  ardente,  e  speme 
iutrian  di  palme,  entraro  in  Campo  insieme  t 

D  i 


1*  C    A    N    T    O 

XXII. 

L'armatura  d'acciajo  aveva  Ulisse, 
E  per  cimiern^Giove  avea  i'.'Augeilo. 
Contro  uh  Guerner ,  che  in  molte  illustri  ris 
Molta  fama  acquistò,  venne  a  duella. 
Ciascun  tenea  l'avide  luci  fisse 
Sovra  questo  Campion  gagliardo,  e  snello, 
D'alta  persona,  e  portamento  altero  , 
Che  rapace  su  l'elmo  avea  Sparviero. 
XXIII. 

Questi  era  un  cortigian  del  gran  Signore 
Cortigian,  ma  valente  ,  e  in  fresca  etàde  . 
Ei  non  conobbe  mai  che  sia  timore , 
E  mischiarsi  oseria  fra  mille  spade  . 
Caccia  gli  sproni  per  desio  d'  onore 
Nel  Corsier,  che  divorasi  le  strade; 
Minaccia  Ulisse  co  la  lancia  in  resta, 
Ulisse  il  colpo  a  riparar  s'  appresta  . 
XXIV. 

Ribatte  quello  ,  ed  un  tosto  ne  vibra, 
-Cui  questi  oppon  suo  ben  temprato  scudo  \ 
Molto  volteggia  poscia,  e  in  una  fibra 
Porta  al  destrier  d'Ulisse  un  colpo  crudo. 
Più  non  regge  il  Destrier,  tanto  lo  sfibra 
L'aspra  ferita  !  e  non  di  gloria  ignudo, 
(  Perchè  impavido  ognor  ìli  ne  la  guerra  )  : 
Or  salma  è  fatto  a  la  premuta  terra. 
XXV. 

E  a  terra  insieme  Ulisse  cade  a  un  tratt 
Ma  nel  medesmo  istante  in  piedi  ei  balza  : 
Contro  ai  Nemico,  che  d'averlo_  fatto 
Prigionier  già  credeva,  il  ferro  innalza. 
Ben  fu  la  pugna  alio*  diversa  affatto, 
A  piedi  è  Tun,  l'altro  a  cavallo  incalza  '> 
Ma  la  spada  d'  Ulisse  nlhn  si  ruppe, 
•E  mi  ^rido  si  levo  Ira  quelle  truppe. 


QUARTO.  77 

XXVI. 

Non  perdette  perciò  l'usato  ardire 
Il  prode  Ulisse,  ma  spiccando  un  salto 
Sul  nemico  destrier  ,  volle  ,  o  morire, 
D  trarsi  alfin  dal  disuguale  assalto. 
I  Cavaiier  fé  da  la  sella  uscire, 
E  del  suolo  il  cacciò  sul  verde  smalto  ; 
Cotanto  fu  quell'improvviso  crollo, 
Che  dar  gli  fé  pigliandolo  pel  collo! 
XXVII. 

Sbalordito  a  quell'urto  il  Giovin  cadde  , 
E  cadde  Ulisse  sbilanciato  ,  insieme; 
Simil  cosi  ventura  ad  ambi  accadde, 
Sé  P  un,  né  1'  altro  il  palafreno  or  preme. 
Via  ben  con  miglior  sorte  allor  ricadde 
Ulisse  ,  che  al  Guerrier  non  lasciò  speme, 
\  quel  Guerrier,  che  dal  nemico  stesso, 
Che  sovra  lui  piombò,  videsi  oppresso. 
XXVIII. 

Parea  che  fosse,  il  brando  rotto,  inerme 
Rimaso  Ulisse,  ma  tenendol  fermo 
Con  mano  al  petto  :  O  tu  ,  disse,  doverme 
vincer  credevi,  me  privo  di  schermo; 
Ma  t'ingannasti,  e  non  degg'io^  dolerme 
Del  brando ,  e  dt\  destrier,  che  or  giace  infermo  . 
Son  vendicato  ,  e  mi  compensa  appieno 
Lo  stile  acuto,  che  t'immergo  in  seno. 
XXIX. 

Disse,  e  tratto  un  pugnale  ,  in  cor  gliel  pose  * 
Quello  spirto  volò  sciolto  da  salma, 
Da  la  salma  terrena,  in  cui  s'ascose 
Per  pochi  lustri  queir  impavid' alma. 
Come  a  pena  sbocciate  alcune  rose 
Svelle  di  Ninfa  ,  o  di  Pastor  la  palma  , 
Ov' altre  invecch'an  su  l'intatto  stelo, 
Così  dispon  di  nostra  vita  il  Cielo  . 

D  3 


78,  C     A     N:    T     0 

XXX. 

Nel  vasto  Campo  apparve  poscia  altero- 
Altro,  che  di  Gigante  avea  sembianza, 
Alto  sciamando:  E  qual  fra  voi  Guerriero 
Tanto  coraggio -avrà  ,  tanta  baldanza, 
Che  venir  meco  osi  a  duello  fiero  ?. 
Qua!  braccio  è  tal,  che  tanta  abbia  costanza 
Non  intendo  sfidar  chi  morir  teme  , 
Pugnar  meco,  e- morir  ,  ne  vanno  insieme. 
XXXI. 

Detto,  si  tacque,  e  con  superbo  ciglio 
Fermossi  a  riguardar  in  ogni  parte. 
In  campo  azzurro  era  dipinto  un.  giglio 
Su  1'  ampio  scudo;  ei  ra&sembrava   a  Mart< 
Insurse  tosto  un  fremito,  un  bisbiglio 
Fra  que%  che  di  pugnar  conosco»  Parte, 
E  aon  ponno  soffrir  che  tanto  insulto 
A  si- prodi  Querrier  rimanga  inulte. 
XXXII. 

Pare  a  ciascun  non  vendicar,  sé  stesso,, 
Se  non  l'uccide  di  sua  propria  mano  ; 
Vansi  que'  prodi  1'  uno, a  l'altro  appresso., 
Ognun  primo  sfidar  vuol  quelP  insano  . 
Sfavillano,  gli  acciar ,  da  1*  ira  oppresso 
Sta  il  Turco  impaziente,  e  '1# Cristiano  . 
Intanto  l'empio  alteramente  insulta, 
Beffeggia,  e  rip'e  ,  e  pel  contento  esulta» 
XXXIII. 

O  Guerrier ,  ripetea ,  d'  alto  coraggio , . 
Viltà  coprite  di  furor  col  velo; 
Ben  differite  con^  avviso  saggio 
Pugna,  che  a  voi  scaglia  di  Morteli  telo  « 
L'indugio  a  tutti  noireca  vantaggio  , 
A  me,  il  cui  nome  si  solleva  al  Ciclo, 
A  voi,  che  salvi  da  funesta  sorte 
Siete  casi  d'avere  ,.q  scorno  ,  e  morte  =>, 


Q  U  ART  Ov  %f 

XXXIV.  < 

Risposta  furo-  ai  non  soffribil  dettr 
Girati  brandi ,  e  risananti  scudi , 
È  torvi  sguardi,  che  infiammati  petti 
jMostravan  d'  ira  ,  e  non  di  valor  nudi  ; 
'ira,  e  valor  ,  onde  i  tremendi  effetti 
Par  che  F  audace  di  provar  si  studi. 
\  A  parlar  prese  Ulisse  ,■  ognun  tacea  ,, 
Desioso  d'  udir  ciò  ch'ei  dicea. 
XXXV. 

A  tanto  ardir  ,  magnanimi  Sigrrori, 
Di  giusto  sdegno  ardete,  ed  io  pur  n'ardo; 
Vili  chiama  il  ribaldo  i  nostri  cori , 
Insopportabil  torto  ad  noni  gagliardo.1 
In  Campo,  e  senza  inutili  clamori 
Dessi  veder  chi  più  sarà  codardo . 
Veggio  che  di  pugnar  desia  ciascuno  T 
Ma  n*n  può  cantra  un  sol  pugnar  più  d'uno  v 
XXXVI. 
Onde  ,  acciò  che  di  voi  nessun  si  dolga 
Che  il^  bramato  contento  a  lui  si  furi 
Non  giustamente,  e  a  mal  ciò  non  si  tolga  t, 
E  non  abbian  principio  odj  futuri;. 
La  Sorte  sola  il  dubbio  nostro  sciolga  ». 
Ma  pria  ciascun  di  rispettarla  giuri. 
I  nonni  insieme  chiudami  in  un  elmo  ,. 
Chi  da  la  Sorte  eletto  ria  ,  vedrelmo. 
XXXVII. 
E  perche  nulla  oprar  suddito-  debbe 
Senza  l'alto  voler  óqì  suo  Sovrano, 
Questo  consiglio  mio,  se  non  v' increbbe, 
Conto  facciamo  a  chi  lo  scettro  à  in  mano  ; 
Poiché  il  Prence  talun  forse  potrebbe 
Sceglier  di  noi  per  trucidar  P  insano  . 
Tale  è  1'  avviso  mio,  voi  lo  seguite, 
©,  s'altro  pur  ve  n'  à  migliore  ,  il  ci  ite.- 

D   4, 


So  CANTO 

XXXVIII. 

Non  altra  ebbe  risposta  al  parlar  suo 
Che  il  plauso  universal  di  que' valenti  > 
E  disser  tutti  :  Quest'avviso  tuo 
Tu  palesa  al  Sultano  in  pochi  accenti . 
Veder  ben  presto  di  cotesti  duo 
Braman  Ja  pugna  i  nostri  cori  ardenti  . 
Vola  Ulisse  al  Sovrano,  e  in  questi  sensi 
Comincia  a  favellar  ,  come  conviensi  . 
XXXIX. 

O  gran  Signor  del  Sole ,  e  de  la  Luna  ,. 
O  Re  de*  Re,  d'ogni  mortai  maggiore, 
Una  grazia  ti  chieggio ,  e  tema  alcuna 
Al  tuo  cospetto  or  non  mi  preme  il  core. 
In  me  lo  stuol  de'Cavalier  s'aduna 
Al  tuo  Soglio,  implorando  un  sol  favore .  - 
Rivalità  di  gloria,  che  e' invita 
Gli  allori  a  disputar,  ti  fia  gradita  . 
XL. 

Udisti  l'empio  come  tutti  insulta  , 
E  baldanzoso  vassene,  e  superbo, 
E  perchè  vede  ancor  l'offesa  inulta, 
Guerrier  ci  chiama  senza  possa,  e  nerbo» 
D'alta  vendetta  in  ogni  petto  è  sculta 
Fervida  brama,  e  di  certame  acerbo; 
Ma  chi  debba  pugnar  ,  siam  tutti  incerti  » 
E  per  troppo  furor  restiamo  inerti . 
XLI. 

Tu  non  vedesti  stoppia ,  o  carta  ,  o  pece  * 
O  secco  legno  arder  cotanto  mai . 
TI  tumulto  chetare  a  me  non  lecci 
E  se  il  chetassi  tu,  faresti  assai; 
Onde ,  se  tu  secondi  or  la  mia  prece , 
ferig'lio,  e  danno  universal  torrai . 
Odi  come  ognun  grida,  i  brandi  mira* 
Odi  gli  scudi  interpreti  de  l'ira- 


QUARTO.  Si 

XLII. 

Tutti  contro  ad  un  sol  certo  non  dcnno 
Certame  far,  che  ognun  di  far  desia, 
È  se  pugnasse  alcun  senz'altrui  cenno. 
Da  qualche  invida  man  la  morte  avria, 
E  a  me  pur  Tira  toglierebbe  il  senno, 
Nemica  avrebbe  anco  la  spada  mia  , 
Che  non  minor  rabbia,  e  furor  mi  prende, 
JVIi«  cor  non  meno  a  la  vendetta  intende . 
XLIII. 

Ben  tu  vedi,  o  Signor,  eh' é  giusta  cosa 
Che  tal  vendetta  universa-l  si  faccia; 
Un  più  lungo  indugiar  d'obbrobriosa 
Ci  macchierebbe  non  delebil  taccia, 
Che  allor,  siccome  quell'audace  or  osa  , 
Oderebbe  ciascun  schernirci  in  faccia. 
Vano  fora  accennar  con  altri  detti 
Di  sì  turpe  ritardo  i  tristi  effetti. 
i  XLIV. 

Or  poiché  tutti  nò ,  né  dee  pugnare 
Uno  a  talento  suo,  né  puote  inulto 
Restar  l'oltraggio,  a  si  funeste  gare 
Dia  fin  la  Sorte,  e  vendichiam  l'insulto» 
Così  sol  puossi  ,  a  mio  parer,  sedare  , 
Senza  alcuno  avvilir  ,  questo  tumulto  . 
E  qual  concessa  fia  nostra  richiesta 
Dal  più  saggio  dei  Re,  se  non  lo  è  questa? 
XLV. 

Tacque,  sì  detto,  l'Orator  facondo, 
E  in  lieto  volto  il  Prence  a  lui  rispose. 
Generoso  Gucrrier ,  sempre  giocondo 
Fummi  il  poterti  far  gradite  cose. 
Ma  qualunque  esponesse  uomo  del  Mondo 
Sìmii  richiesta,  qual  da  te  s'espose, 
Rifiutar  non  potrei  l'assenso  mio; 
Ode  ancor  giusta  prece  il  giusto  Iddio. 

D   ; 


U.  Ct   A    N    T    Q 

XLVL 
Agl'Ente  sommo  in  Terra  io  m'assomigì?<;* 
Poiché  il  Mortai,  che  il  Fato  eterno  elegge 
Go  la  forza  a  regnar,  e  col  consiglio, 
Sempre,  dal  Ciel  ricever  dee  h  legge  . 
Tacque  il  Sultano,  e  intanto ,  qua!  Naviglio  5 
Che  ne' flutti  s'aggira  ,  e  non  si  regge, 
Ondeggiai!  l'alme  de' Guerrier ,  che  speme  3 
E  impaziente  sdegno  agita,  e  preme* 
XLV'II. 
Corse  Ulisse  veloce,,  e  ad  essi  giunse^ 
Bramato  apportator  di  tal  novella. 
JNè  mai  si  vide  uom  ,  che  Cupide  punse  » 
.Seguir  cosi  la  timida  Donzella  ; 
Né  affamato  Leon  mai  sovi aggiunse 
Rapido  sì  la  Cerva,  o  ver  l'  Agnella  . 
Correa  sì  ratto  ,  e  in  sì  mirabil  forma  s . 
Che  quasi  Impressa  non  lasciava  l'orma,. 
XLVIII. 
Tosto  l'elmetto  ei  levasi  di  testa, 
E  scritti  sono  su  pallette  i  nomi . 
Ciascuno  tutti  vendicar  protesta, 
E  tutti  stringori  de  le  spade  i  pomi . 
Ulisse ,, acciò,  che  perdesìo  di  questa  <# 
Pugna  non  tema  alcun  ch'egli  sé  nomi» 
Ad  un  fanciullo  non  ancor  bilustre. 
La  cura  affida  de  la  scelta  illustre  «. 
XLIX. 
Ma  pria,  qualunque. n'uscirà  ,  sì giura, 
Pel  gran.Macone  di  non  fare  un  zitto  ; 
Pel  gran.  Macone,  a  la  cui  sepoltura 
Cotante  Genti  far  soglion  tragitto  ; 
Di  cpi  la  felicissima  impostura 
Die  celeste  suggello  a^uel  suo  scritto, 
Scritto,  che  turpe  antico  ozio  distrusse  3 
E  Gente,  imbelle  a  trionfar  condisse... 


Q  UÀ  R  T  O;.  %J 

~~» 

L. 

Prende  l'elmo  a  due  man  quel  giovinetto  ] 
Che  non  conosce  di  menzogna  il  velo. 
Agita  i  nomi  ,  e  fa  crollar  1'  elmetto  , 
Fd  ogni  Gavalier  fa  preci  al  Gielo, 
Desiando  goder  tanto  diletto, 
E  vibrar  con  sua  man  di  Morte  il  telo. 
Nuda  ne  l'elmo  allor  scese  Fortuna  , 
Spesso  di  ben  ,  giammai  di  mal  digiuna  . 
LI. 

Gol  suo  ciuffetto,  e  d'olio  unta,  e  bisunta *> 
Di  man  fuggendo  a  chi  tenerla  pensa  ; 
Fortuna ,  che  a  Virtù  raro  congiunta , 
Spesso  a' malvagi  i  suoi  favor  dispensa. 
Non  fu  sua  scelta  or  da  Ragion  disgiunta-?. 
Scelta ,  che  molti  errori  suoi  compensa  . 
Il  vel  si  trasse,,  e  de' Guerrieri  invitti 
Lesse,  e  rilesse  tutti  i  nomi  scritti. 
LII. 

L'ultimo- nome,  che  mirò  fu  quello^ 
Del  Duca  di  Turrena  ,  a  cui  cortese 
Fu  de  l'aita  sua,  perciò  egli  è  bello, 
E  d'amor  quindi  ella  per  lui  s'accese. 
Il  cieco  Nume  di  trofeo  novello 
Fregiò  sue  tante  gloriose  Imprese  . 
Al  Prence  presso  un  di  la  Diva  giunse, 
Trattasi  il  vel,  lo  vide,  e  Amorfia  punse** 
LI1L 

Da  quell'istante  amico  il  Nume  arderò' 
Ebb'ei,  che  prima  lo  crucciava  tanto, 
Duo  negri  occhi  vivaci ,  un  volto  altero 
Non  se  lo  fer  più  sospirare  a  canto; 
Mortecon  lui  divise  il  vasto  Impera, 
Vittoria  il  ricoprì  col  ricco  manto  , 
E  sempre  allor  che  apparve  armato  in  guerra  , 
Sotto  al  pie*  denaator  tremò  la  terra. 

,      D  6 


S4  CANTO 

LIV. 

Lieta  Fortuna  il  caro  nome  porge 
A  quel  Fanciul,  che  ad  alta  voce  il  legge: 
Niun  la  possente  Dea  ravvisa,  e  scorge; 
Avido  ascolta  ognun  chi  il  Fato  elegge. 
Cosi  Pastor,  se  l'atro  nembo  sorge, 
Mentre  pascendo  erra  disperso  il^  gregge , 
L'  orecchio  tende ,  e  ferma  al  primo  tuono  , 
De  le  canne  ineguali  il  vario  suono. 
LV. 
Ma  intanto  fra  lo  stuol  di  que' Guerrieri 
Givano  errando  tre  ribalde  Vecchie, 
Che  i  più  sereni  dì  torbidi ,  e  neri 
Fanno  al  Mortai,  se  lor  presta  l'orecchie, 
F,  con  perfidi  detti  ,  e  menzogneri 
Fan  che  l'odio,  e'1  livor  mai  non  invecchie. 
Invidia  è  l'una,  e  mordesi  le  labbia, 
|La  sieguon  l'altre,  e  son Calunnia,  e  Rabbia. 
LVI. 
Vassene  Fnvidia  ognor  vestita  a  lutto, 
Perchè  de  l'altrui  ben  molto  le  duole. 
Di  pianto  asperso  è '1  volto  laido,  e  brutto, 
Sparuta  è  più  che  un  etico  esser  suole. 
Curiosa  spiar  tenta  per  tutto  , 
Ed  orecchiar,  che  saper  tutto  vuole. 
Sempre  inquieta  ,  mai  non  beve,  o  dorme, 
3Siè  in  capanne  giammai  porta  sue  orme. 
LVII. 
Rabbia  feroce  con  pupilla  ardente 
La  sieguein  atto  da  destar  paura, 
Digrigna  i  denti  ,  e  co  le  man  cruente 
Lacera  il  manto,  e  far  vendetta  giura. 
Scossa  da  l'ira,  onde  assalir  si  sente, 
Vacillante  sMnnoltra,  e  mai^  sicura  ; 
È  il  viso  atroce,  e  l'irto  crin  si  straccia 
Avidamente  co  le  scarne  braccia. 


QUARTO.  *f 

LVI1I. 

Seco  Calunnia  vien  ,  Mostro  deforme, 
Che  d'una  mano  sì  fa  velo  al  volto, 
Al  volto  orrendo,  e  fra  le  incaute  torme 
Sparge  un  velen  ,  eh' è  facilmente  p.ccolto  . 
Copre  candida  veste  il  corpo  informe  , 
Il  corpo  sozzo  in  puro  velo  avvolto  , 
Guata  a  l'intorno,  e  par  che  tema,  o  creda 
Che  alcun  Mortale  il  suo  sembiante  veda  . 
LIX. 

Vanno  così  fra'  Cavalieri  errando^ 
Quelle  Furie  d'Averno  in  compagnia  . 
Il  Duca  di  Turrena  ,  il  suo  spronando 
Generoso  Corsier,  se  ne  venia. 
L'asta  strignea,  pendeagli  al  fianco  il  brando, 
Dcplice  cuojo  il  petto  ricopria  , 
E  su  l'elmetto  la  bizzarra  Dea 
Volubil  ruota  con  un  pie  premea . 
LX. 

Ei,  senza  motto  far,  co  l'asta  bassa 
Vien  di  galoppo  ad  incontrar  l'audace  , 
L'audace  Cavalier ,  che  mai  non  lassa 
Di  minacciar  col  brando,  e  mai  non  tace. 
Ma  qual  torrente,  che  spumante  passa 
Allor  che  pioggia  il  duro  gel  disface , 
Come  Aquilon  ,  Libeccio,  o  ver  Levaste, 
Che  dal  suolo  talor  svelgon  le  Piante; 
LXI. 

Piomba  il  Prence  cosi  velocemente 
Su  quel  superbo;  ci  se  n'avvede  a  pena, 
E  mentre  cerca  di  ritrarsi,  sente 
Colpo  improvviso,  e  fìer,  che  il  Duca  mena. 
Passa  l'asta  lo  ^cudo,  ed  il  possente 
Usbergo,  ma  quell'urto  il  colpo  frena. 
Spuntossi  il  ferro  ne  1* usbergo  fitto  ; 
Colui  io  svelse,  e  cominciò  il  conflitto. 


m         C    te  N    T    a 

imi. 

Con  dae  occhi  di  foco  egli  si  slancia 
Sul  Prence  allor,  che  il  saldo  scudo  innalza;; 
Poi  quell'audace  co  l'acuta  lancia 
Il  nemico  Destrier  preme,  ed  incalza 
Sì  che  il  ferro  gli  caccia  entro  a  la  pancia  3- 
Crolla  il. Cavallo,  il  Cavaiier  giù  sbalza  \t 
Afferra  il  Prence,  d'ira  pien,  di. rabbia, 
Quell'asta,  acciò  colui  non  la  riabbia  . 
LXIII. 

Non  io,  ma  né  rimaner  dei  tu  in  sella  , 
Il  forte  esclama  valoroso  Duca  . 
Ecco  tua  lancia,  ah!  possa  io  far  che  quella: 
Cavallo  a  niorte ,  e  Cavaiier  conduca  . 
Lanciala  ei  tosto ,  e  la  gagliarda ,  e  snella. 
Anca  del  Palafren. quel  ferro^ buca  , 
E  fino  al  pie  de  l'inimico  giunge 
Nei  lato  opposto,  e  lievemente  il. punge». 
LXIV. 

Come  Pantera  il  Cacciatore  assale  ,< 
Se  de'  figli  trovò  spoglia^  U  tana  , 
Costui  così,  che  molto  in  guerra  vale,- 
E  già  tutto  fremea  di  rabbia  insana  , 
Vibra  sa  l'elmo  al  Duca  un  colpo  tale. 
Che  ferrea  maglia  a  ripararlo  è  vana  ;. 
Ma  ài  forto  scudo  gli  salvò  la  testa, 
Che  a  l'urto  orrendo- sbalordita  resta. 
LXV. 

Chi  visto  avesse  in  sì  tremendo  istante 
Quegli  affollati  Spcttator  diversi, 
Visto  avria  impallidir  ogni  sembiante , 
E  molti  aver  gli  occhi  di  pianto  aspersi  ... 
Morto  il  Prence  credeano ,  o  ver  spirante, 
Ma  ben  poco  egli  stette  a  riaversi; 
Tornò  lo  Spirto  da  suo  breve  esigjio, 
Quasi  accorrendo  a.  cosi  gran  periglio.- 


Q  UÀ  R  7  O,  Sr 

LXVI. 

Non  di  timore,  o  di  stupor  quell'alma 
Guerriera,  e  grande,  alcun  palesa  indizio. 
Ne  dispera  giammai  d'aver  la  palma  , 
Ne  vendicar  dispera  il  malefìzio  . 
Ah!  fin  ch'aura  vital  regga  Ja  salma 
Di  queste  membra  co  l'usato  uffizio  , 
Non  mi  vedrai,  diesagli  il  Duca,  oppresso; 
Torno  al  cimento,  e  sono  ancoralo,  stesso. 
LXVII. 

Lancia  lo  scudo  venti  braccin  lun2e3. 
E  feroce  a  due  man  !a  spada  afferra  . 
Usbergo  a  rintuzzar  quella  non  giunge 
Spada  tremenda,  e  celebrata  in  guerra. 
Se  di  possente  man  ministra,  punge >. 
Sempre  di  sangue  ostil  fuma  la  terra* 
Né  strano  par  che  di  tal. tempra  fusse, 
Poiché  braccio  morrai  non  la  costrussc,, , 
LXVIII. 

Forse.  Tori-gin  sua  vetusta,  e  strana  ^ 
Fia  che  alcun  creda  prodigiosa,  troppo. 
Creda  che  vuol,  non  è  mia  Musa  vana 
A. l'altrui  mente-mai  d'opporre  intoppo. 
Di  tre  Spirti  è  composta,  ed  è  Romana  , 
Spirti  congiunti  insìem  dal  Nume  zoppo. 
V'è  l'Afro  Scipio,   il  gran  Pompeo  sconficco 
Misto  al  suo  vincitor ,  Cesare  invitto.,. 
LXIX. 

A  Marte  avea  lo  zoppo  Dio  promesso 
Di  lavorargli  una  possente  spada, 
Da  cui  tutto  a  mina  ,  a  strage  messo 
Ivsser  debba,  dovunque  il  ferro  cada. 
Quest'alme  illustri,  che  il  desire  stesse 
D'onor  guidò  su  la  medesma  strada , 
Strada  di  sangue,  e  d'immortali  pruove, 
.ALgran  coietto,  si  prostrar  di  Giove.. 


SS  CANTO 

LXX. 

E  Cesar  disse:  Alto  Signor  del  Mondo, 
Sommo  Re  de5 Mortai,  Padre  de* Numi, 
Ben  grave  fu  del  nostro  braccio  il  pondo  , 
Elo  «anno  Città,  Campagne,  e  Fiumi. 
Ci  fu  d'allori  il  brando  ognor  fecondo  r 
Né  tai  lauri  crediam  Tempo  consumi  ; 
Ma ,  se  il  concedi  Tu ,  novella  gloria 
Aver  potremo,  e  più  chiara  memoria  . 
LXXI. 

Concedi,  o  Nume,  che  la  spada  forte. 
Che  a  Marte  debbe  lavorar  Vulcano, 
E  che  debbe  apportar  terrore ,  e  morte  , 
Formi  co' nostri  cor  àtì  Dio  la  mano  . 
Nuova  è  V  impresa,  e^  ad  opra  di  tal  sorte 
Giunger  maif  non  sapria  l'ingegno  umano  ^ 
Ma  impossibil  non  è,  ben  lo  sappiamo  > 
Ad  Artefice  Dio  quanto  chiediamo . 
LXXII. 

Piacque  al  gran  Giove  la  bizzarra  inchiesta; 
Ed  a  Vulcan  d' adempierla^  fé  cenao  . 
Lo  zoppo  Fabbro  ad  ubbidir  s'appresta, 
Che  servir  Giove  Uomini,  e  Numi  denno. 
La  spada  ei  lavorò  ;  primo  con  questa 
Marte  pugnò  contro  la  Dea  del  senno  , 
Del  Xantp  in  riva,  e  più  non  1'  ebbe  sec»> 
Poi  che  ferito  fu  colà  da  un  Gr*co* 
LXXIII. 

Quella  ferita  tolsegli  la  Iena  , 
E  il  brando  cadde;  ma  se  alcun  desia 
Di  questo  ferro  aver  contezza  piena, 
Non  ne  dee  ricercar  la  Musa  mia  . 
Ella  di  chieder  non  pigliossi  pena 
Come  dei  Duca  in  mano  or' giunto  sia, 
Ma  scender  vide  il  colpo  atroce,  e  fiero 
In  nud' certaade 3  e  narrar  puote  il  vero. 


QUARTO.  Z9 

LXXIV. 

Alza,  a  due  man  quella  tremenda  spada 
Feroce  il  Duca,  che  i  perigli  sprezza, 
L'altro  lo  scudo  oppon ,  ma  il  ferro  strada 
S' apre  ,  e  lo  scudo  ,  come  vetro ,  spezza . 
Cede ,  qual  gei ,  su  cui  bipenne  cada  , 
La  ferrea  maglia  a  parar  colpi  avezza , 
La  ferrea  maglia  de  l'elmetto  ,  e  al  vento 
Dispersa  vola  in  cento  parti,  e  cento. 
LXXV. 

Fendette  il  cranio  il  fatai  ferro ,  e  giunge 
Quindi  al  cervello ,  e  lo  passò  del  pari , 
E  passò  per  la  bocca  ,  e  in  due  disgiunse 
Parti  la  lingua  >  che  di  detti  amari 
Sonar  fé  l'aura,  e  il  mento,  e  il  collo  punse  * 
(  Mai  non  si  vider  colpi  a  questo  pari) 
Il  petto,  il  cor  recise,  entro  s'immerse 
Al  ventre  3  e  alfìn  la  destra  coscia  aperse  .. 
LXXVI. 

Superbo  il  Duca  di  quel  colpo  illustre , 
Mira  sdegnoso  il  corpo  estinto,  e  parte  ; 
Ne  la  guaina,  di  Vulcano  industre 
Ripone  il  ferro  ,  che  l'agguaglia  a  Marte.. 
Chi  può  ridir  quanto  sollevi,. e  illustre 
Fama  il  suo  nome,  e  la  sua  bellic'arte? 
Il  denso  Vulgo  ebbro  per  gioja  ,  e  folle  , 
A  l'aure  i  viva,  e  '1  suon  di  palme  estolle.. 
LXXVII. 

Ma  che  vuol  dirquesto  romor  ,  eh'  io  sento? 
Duo  Guerrier  veggio  su  Destrier  veloci . 
Turban  costoroil  popolar  concento 
De  le  giulive  risonanti  voci . 
Entran  nel  Circo ,  a  singoiar  cimento 
I  più  forti  sfidando ,  i  più  feroci  ; 
Ma  che  uno  sguardo  pria  mertino  ,  parmi 
Gli  scudi  loro,  le  corazze,  e  l'armi. 


9p.  C     A     N     T    O 

LXXVIII. 

L'uno  a  io  scudo  ,  la  corazza,  e  l'asta; 
Coperta,  e  l''clm©,#di  scagliosa  pelle 
Dr  Drago ,  e  suo  cimiero  è  de  la  casta 
Diana  il  Fratel ,  che  le  tenèbre  espelle. 
Per  ben- descriver  sua  persona,  basta 
Dir  ch'uom  più  bello  non  dipinse  Apelle  , 
Né  si  leggiadro,  e  di  si  vago  aspetto  , 
Che  mostra  ascosa  un  alma  grande  in-  petto 
LXXIX. 

Non  de  l'agii  Corsier  silenzio  serbo  , 
E'  Leardo  il  Destriero,  a  macchie  rosse v 
Vivace,  irrequieto-,  e  pien  di  nerbo, 
Ninno  ad  esso  egual  credo  vi  fosse . 
Picciolo  à  il  capo  ,  corto ,  alto ,  e  superbo  ^ 
Salta  animoso  le  più  hrghe  fosse, 
Le  gambe  snelle,  e  lunghe  som  le  chiome, 
Larga  la  groppa,  e  Vecipelo  à  nome 
LXXX. 

L'altro  Guerrier  ,  né  per  la  sua  presenta 
Nobil ,  regal ,  nèt  per  bellezza  cede  . 
Non  saprei  chi  di  lor  la  preminenza 
Metti,  che  in  nulla  un  d'essi  l'altro  eccede 
Costui  tranquillo  non  appnr  ,  nèsenza 
Alto  dolor,  ch'espresso  in  lui  si  vede; 
Il  suo  vestito  è  tutto  quanto  nero  , 
E  l'emblema  del  pianto  à  per  cimiero- 
LXXXI. 

Quando  il  Sultan  li  vide,  immantinente 
Gli  fé  venire  al  suo  cospetto  innanzi; 
Vennero  i  Cavalieri  alteramente, 
Né  v'à  su  l'orme  lor  chi  non  s'avanzi. 
Loro  chiede  il  Sultan  cortesemente 
Se,  come  i  Cavalicr  ,  che  giunser  dianzi-,, 
Volèano  il  nome  lor  fargli  palese 
Bria  d'apprestarsi  a  gloriose.  Imprese-., 


Q  U;  A  R  T  O  V  or 

LXXJCII. 

Disse  Quel ,  che  il  Destrier  premea  leardo  : 
Altissimo  Signor,  Re  de  la  Luna, 
Dirotti,  il  nome  mio  senza  ritardo  , 
E  di  costui,  eh*  è  meco,  in  veste  bruna» 
Il  Duca  ioscno  di  Tolosa,  ed  ardo 
D'alto  desir  di  bellica  Fortuna . 
Di  Lituanj'3  il  Duca  egli  si  chiama, 
Qui  meco  il  trasse  di  giostrar  la- brama*. 
LXXXIIL 

Il- gran  Sultano  con  giocondo  volto 
Rispose  :  Il  vostro  aspetto,  o  Cavalieri ,, 
Ben  vidimostra.  valorosi  molto, 
Cortesi  in  pace,  e  ne  le  pugne  alteri. 
Soddisfar  nebil  brama  or  non  v' è  tolto, 
E  di  vostro  valor  dar  segni  veri; 
Dunque  n'andate-,  e  l'oprar  vostro  egregio» 
Kuova  cagionmi  dia  d'avervi  in,  pregio. 
LXXXIV. 

Ma  perchè  voi,  che  forestieri  siete, 
Giunti  a  questa  Gittade  in  questo  punto, 
Lo  stabilito  premio  non  sapete  , 
Che  debbe  a'  primi  allori,  essere  aggiunto; 
Quell'armatura,  che  brillar  vedete 
Di  tanta  luce,  il  premio  è  quella  appunto 
Di  chi  plauso  otterrà  maggior  d'  ogni  altro  , 
E  che  in  pugnar  fla  più  valente,  e  scaltro  ., 
LXXXV. 

Guari  n&fl  e  che  da  un  Ministro  mio 
L'asta ,  lo  scudo ,  eil  vago  elmetto  io  m'ebbi», 
Tolti  ad  uno  assassin,  che  uccise,  ed  io 
Con  altri  arredi  l'armatura  accrebbi  ;., 
E  per  destar  ne' Gavalicr  desiV 
Di  quel  trofeo,  suoi  ricchi  fregi  io  crebbi, 
Di  molte  gemme,  e  scelte  perle,  ed  oro., 
Adorno  il  feci  con  gentil  lavoro. 


9*  CANTO 

LXXXVI. 

Tacque  il  Sultan;  da  nobile  ardimento 
Volar  sospinti  i  Cavalier  famosi 
A  dimostrar  con  cento  prove ,  e  cento 
Quanto  fossero  esperti,  e  valorosi. 
E  come  avvezza  a  contrastar  col  vento 
Quercia  ,  che  a  V  aure  innalza  i  rami  annosi  r 
Sprezza  Aquilon,  qual  veaticel  di  Maggio  ; 
Tutti  incontra  i  perigli  il  lor  coraggio. 
LXXXVII. 

Quante  lancie,  e  corazze  ,  e  quanti  rotti 
Elmetti  fur  dai  brandi  lor  possenti  ! 
Quanti  Guerrier  furo  a  Pavel  condotti 
Da  questi  prodi  Cavalieri  ardenti  ! 
Ne  r  arte  di  pugnar  sembrano  indotti 
Quei,  che  pur  dianzi  oprato  avean  portenti. 
Al  buon  Sultan  mirar  lo  stuolo  incresce 
Di  tanti  estinti,  che  ognor  più  s'accresce. 
LXXXVIII. 

Tant' opre  fero,  e  celebrate  Impreso 
Le  spade  lor  !  né  dir  si  puote  il  come. 
Di  queste  spade  il  mcrto  appien  comprese 
Chi  loro  impose  glorioso  nome  . 
Quella,  che  il  duca  di  Tolosa  prese, 
Di  Tugita-petù  à  il  chiaro  sopranome, 
E  fu  detta  quell'altra  Uomìn-dUama , 
Che  al  fianco  il  Duca  avea  di  Lituania  . 
LXXXIX. 

Ulisse  alfine,  che  non  può  soffrire 
Che  questi  duo  Signor  vincano  tu?ti  y 
Senza  che  alcun  gli  possa  far  morire  , 
O  di  lor  sangue  almen  sua  spada  brutti  ; 
A  duello  s*  avvisa  di  venire , 
Che  spera  coglier  de  la  pugna  i  frutti , 
E  vendicar  tutti  i  Guerrieri  insieme, 
De'  quai  ciascun  molto  si  duole ,  e  freme . 


QUARTO.  n 

xc. 

A  tal  effetto  el  manda  un  suo  Scudiero 
Per  novell'arme  ,  e  per  lo  suo  Cavallo, 
Ch'era  molto  gagliardo,  e  molto  fiero, 
Di  sauro  mantel  ,  che  tira  al  giallo  ; 
Balzan  di  staffa  ,  e  ne  la  chioma  nero; 
Candida  stella  in  fronte  adorno  fallo  : 
E  dico  a  chi  saper  suo  nome  brama  , 
Che  Tasiìpo  da  tutti  egli  si  chiama. 
XCI. 

E  Tassìpo  vuol  dir  dì  pti  teìccs  , 
Secondo  la  comune  opinione  ; 
E  questa  mi  cred'io  sia  Greca  voce; 
Ma  favelliam  de  1'  immortai  tenzone. 
Vien  lo  ScudicT  co  l'animai  feroce, 
Che  altrui  servir  non  vuol  che  al  suo  Padrone, 
Spara,  s'impenna,  s'altri  in  sella  salga, 
E  fa  veder  quanto  in  trar  calci  ei  valga. 
XCII. 

Vengon  poi  le  bell'armi  sfavillanti, 
Che  il  forte  Achille  avea,  figlio  di  Teti  ; 
In  cui  Vulcano  l'è  lavori  tanti , 
Quand'eran  presso  a  Troja  i  Greci  abeti. 
Armi  ,-  di  cui  narrò  già  tutti  i  vanti 
Il  più  antico,  il  più  grande  fra  i  Poeti, 
Che  primo  seppe  coronar  la  fronte 
D'  Epici  allori  in  vetta  al  doppio  Monte  . 

xeni. 

Veste  Ulisse  quell'armi  assai  più  dure 
Tel  ferro,  e  salde  al  par  che  diamante, 
Sperando  che  Fortuna  a  lui  non  iure 
L'onor  cercato  in  van  da  spade  tante. 
Vendicar  le  altrui  brama  onte,  e  sciagure  * 
Morte  sfidando  intrepido,  e  costante; 
S'  avanza  in  Campo,  e  l'alta  idea  sublime 
In  questi  sensi  al  gran  Sultano  esprime. 


rn  G    A    "N  '  f    o 

XCIV. 
O  gran  Re  de  Ja  Terra,  e  de  la  Luna^ 
Io  m'accingo  a  pugnar  con  que'  Signori , 
A  le  cui  destre  non  è  destra  alcuna, 
Che  opporsi<  sappia ,  e  svelga  lor  gli  allori  •. 
Pugnar  voglio,  e  perir,  ove  Fortuna 
Non  m' accordi  propizia  i  suoi  favori . 
Non  ci  partir ,  Signor  ;  fia  meglio  estinto 
Ne  la  tomba  giacer,  che  viver  vinto. 

xcv. 

E  se  vincer  saprò ,  piena  vittoria 
Aver  desio  :  sì  dice  il  buono  Ulisse. 
Veder  come  la  vita  ei  per  la  Gloria 
Perder  volea,  l'alma  del  Prence  affllisse-. 
Ma  chi  a  Guerner-,  che  per  l'onor  si  gloria 
Morte  incontrar,  vietar  potrla  le  risse? 
Al  desir  generoso  il  Prence  arrise, 
E  in  resta  il  Cavalier  la  lancia  mise» 
XCVI. 

Qual  per  veloce  Daino,  o  Capriolo, 
L'imi  l'altro  ad  assalir  vansi  i  Leoni, 
Vanne  al  nemico  Ulisse  allor -di  volo^ 
Sul  Palafren  ,  cui  mon  bisognan  sproni; 
Perch'esso  intende  i  cenni  suoi  non  solo, 
Ma  sembra  che  con  lui  pensi ,  e  ragioni  , 
E  sa ,  ne  l'arce  de  la  pugna  dotto, 
Quando  gir  di  galoppo,  o  passo,  o  trotto» 
XCVII. 

E  sa  non  meno  di  tornei ,  di  giostre , 
E  sa  di  salto,  e  sa  di  corsa  insieme. 
Ma  ritorniamo  a  le  battaglie  nostre, 
E  passiam  dal  Cavallo  a -Quel,  che  il  preme* 
Voi»  che  m'udite,  a  me  le  orecchie  vostre 
Porgete,  udendo  queste  pruove  estreme. 
Primo  a  pugnar  s'innoltra  il  Cavaliere, 
Che  dissi  vesti  aver  lugubri  ,  e  nere. 


QUARTO.  95 

XCVIII. 

Chi  narrar  puote  appieno  i  mandritti, 

I  manrovesci ,  ed  i  fendenti  orrendi.; 
Ne  l'elmo,  ne  Jo  scudo  i  colpi  fitti, 

E  di  taglio,  e  di  punta,  aspri,  e  tremendi; 

E  le  difese  de' Guerrieri   invitti, 

E  l'insidie,  e  gl'inganni  alti,  e  stupendi; 

II  ritrarsi,   il  parar,  cedendo  il  loco, 
E  l'innoltrarsi  con  novello  foco? 

XCIX. 

Ulisse  mena  un  così  fìer  marritto, 
Che  fa  il   nemico  staifeggiare  a   destra. 
Ma  Quel  si  tiene  su  la  sella  ritto  , 
«Che  molto  a  la  persona  agile,  e^  destra. 
Tosto  in  sella  rimette  il  pie  diritto, 
"Tira  co  l'asta  una   punta  maestra; 
Se  Ulisse  non  avea  T'armi  d'Achille, 
In  cento  pezzi  ei  lo  faceva,  o  in  mille* 
C. 

Tatfìpo  si  ritrae,  che  il  colpo  vede, 
"Ma   tanto  nò,  ch'esso  sfuggirlo   possa, 
Ed   il  suo  Cavalier  morto  già  crede, 
E  del  suo  sangue  già  la   terra  rossa . 
Ma  quando  salvo  essere  ancor  s'avvede 
Il  suo  Padroni,  ripiglia  lena,  e  possa; 
Striscia  col  piede  il  suol,  tende  l'orecchia, 
E  lieto  a' nuovi  cenni  s'apparecchia. 

ci. 

Torna  veloce  alcuna  passi  addietro, 
Che  piombar  sul  Nemico  Ulisse  vuole. 
Alza  il  Destrier  nube  di  polve,  e  tetro, 
E  fosco  rende  lo  splendor  dtì  Sole. 
Tal ,  per  meglio  cozzar,  ritrarsi  indietro 
Il  Capro  audace  ne?  le  pugne  suole, 
indi  T.mìpo  si  sofferma,  e  attende, 
Fin  che  ci' Ulisse  un  nuovo  cenno  intende. 


5*  CANTO 

CIL 

Tosto  Ulisse  a  due  mani  il  ferro  stringe, 
E  dentro  in  sella  ben  si  serra ,  e  forte , 
Tutto  in  sé  si  raccoglie,  e  si  ristringe, 
Gli  omeri  incurva,   innalza  il  braccio  forte, 
Pronto  a  la  nota  voce,  che  il  sospinge, 
Vola  Tanipo  apportàtor  di  morte. 
Volse  il  Nemico  al  gran  periglio  il  guardo  , 
Ma  troppo  iu  ne  la  difesa  tardo . 

cui. 

Tal  fu  nell'urto  che  ben  palmi  diece 
Balzò  quell'empio  lungi  dal  Cavallo  • 
Opra  sublime  allor  Tassipo  fece , 
Menando  un  colpo,  che  non  giunse  in  fallo  . 
Cotanta  Impresa  sua  tacer  non  lece , 
Sul  Nemico  piombò  senza  intervallo. 
Era  colui  caduto  prima  in  terra  , 
Ma  in  pie  risalsc  a  rinnovar  la  guerra . 
CIV. 

Con  Ulisse  Tassipo  allora  arriva, 
E  si   forte  gli  dà  col  petto  un  urto, 
Che  in  van  reggersi  ei  tenta ,  in  vano  ei  schiva 
Di  ricader^  non  anco  ben  risurt*. 
Come  jfulmine  ,  o  strai  ,  gli   soprarriva 
Quel  colpo  orrendo,  che  l'assai  di  furto. 
Cangiar  sua  sorte  in  van  Mortai  s'avvisa, 
Dal  sordo  Fato  a  ferree  cifre  incisa. 
CV. 

Salta  di  sella  Ulisse,  indi  gli   tolle 
Ratto  come  un' baleno ,  elmo ,  e  visiera; 
Alza  la  spada  poi  per  farla  molle 
Di  sangue ,   e  in  atto  di  ferirlo   egli  era . 
Ma  che  ?  T*  arretri ,  o  Musa  ,  e  fra  le  zolle 
Il   plettro  celi,  onde  pria  givi  altera, 
E  di  cinabro  tue  guance  colori, 
Tieni  ai  suol  gli  occhi  fisi,  e  t'addolori? 


evi. 

Motto,  è  vero,  ài  da  dir,  ma  cf'alcifn  opjra 
Mai  capace  non  fia  chi  nulla  tenta. 
9eh!  ripiglia  tua  cetra,  e  sì  t'adepra 
"he  qualche  orecchio  con  piacer  ti  senta; 
^è  ti  doler,  se  fia  che  ognor  tu  scopra 
ama  a  tue  rime  neghittosa  ,  e  lenta; 
;e  fia  che  sembri  a  Critico  feroce 
netto  il  plettro  tuo,  rauca  la  voce. 
CVII. 

Vigli  Nocchier ,  se  di  Mercante  ingordo 
^e  voci  udisse  ne  l'ondoso  Regno, 
le  alleviasse,  a  le  sue  preci  sordo, 
)i  Merci  il  pondo,  allor  che  affonda  il  Legno; 
e  al  Figlio  il  Genitore  util  ricordo 
<Jon  desse  mai  per  non  destar  suo  sdegno  ; 
<Jè  il  Duce  mai ,  se  a'  suoi  Guerrier  non  piac£, 
iuerra  mover  volesse ,  o  trattar  pace  ; 
CVIII. 

Mente  avmno  costor  debile ,  insana  ; 
tolto  è  colui,  che  fallir  sempre  teme. 
)r  narra,  o  Musa,  guai  vicenda  strana 
tupor  desta  in  Ulisse,  e  gioja  insieme, 
ria  del  Nemico  ogni  difesa  è  vana  , 
1  petto  Ulisse  con  un  pie  gli  preme , 
.'elmo  gli  tragge,  ed  il  Guerrier  Donzella 
Jlor  diventa,  di  sembianza  bella. 
CIX. 

Ne  sol  Donna  divien,  ma  («dite  caso 
Teraviglioso  in  ver!)  colei,  che  adora, 
ungi  da  cui  non  pur  vide  a  l'Occaso 
ante  fiate  il  Dio,  che  i  fior  colora; 
la  il  vide,  uscito  dal  Celeste  Vaso, 
ntrar  ne' Pesci,  e  ritornarvi  ancora  » 

far  di  luce  Ja  faretra  adorna 
1  Sagittario,  ed  ai  Capron  le  corna» 


9%  CANTO 

ex. 

Oh!  qual  d'  Ulisse  fu  l'alta  sorpresa, 
Ed  a  tenero  affetto  il  duolo  misto , 
Quando  la  Beila,  ond'egli  à  1'  alma  accesa 
In  atto  di  ferire  ei  si  iù  visto  ! 
Come  Pastor  ,  che  da  lontano  intesa 
A'  del  Lupo  la  voce  ,  e  l'urlo  tristo  , 
OverFanciul,chein  mezzo  a'fior)ch'ei  coglie 
Vede  un  Serpe  strisciar  con  nuove  spoglie; 
CXI. 

Cosi  rimase  attonito  il  meschino, 
Ch'avea  perduto,  ben  può  dirsi,  il  senno, 
CaddegU  brando  ,  e  scudo,  e  a  lei  vicino, 
Com' estinto  ,  piombò  senza  far  cenno. 
Ella,  che  giunta  pel  voler  divino 
Credeasi  al  fin,  cui  tutti  giunger  denno, 
Or  che  il  suo  vincitor  a  terra  vede , 
Quasi  a  sé  stessa,  a  gli  occhi  suoi  non  crede 
C'XII. 

Pur  fra  sé  stava  immaginando  come 
Esser  potesse  la  strana  ventura, 
E  ripetea  d'Ulisse  il  caro  nome 
.E  pareale  veder  la  sua  figura. 
Tutti,  al  mirar  quelle  disperse  chiome  t 
E  l'aspetto  gentil,  che  ogn'alma  dura 
Ammollir  puotc ,  ed  infiammare  il  gelo, 
De  Ja  sua  vita  rcser  grazie  al  Ciclo, 
CXIII. 

Ulisse  intanto,  allor  che  si  riebbe 
Da  lo  stupore,  che  suoi  spirti  lega, 
Poi  che  soavemente  mirato  ebbe 
Jl  volto,  in  cui  le  Grazie,  Amor  fan  lega 
In  cor  la  pugna  asprissima  gli  crebbe   . 
Di  varj  affetti ,  e  dargli  pace  nega  ; 
Dolor,  confusione,  amore,  ed  ira  , 
Fan  che  si  cruccia ,  e  duol;  freme,  e  sospira 


QUARTO.  99 

CXIV. 
Ah!  sotto  a  qual ,  dicea,  nemica  stella 
L'infelice  natal,  misero!  trassi? 
Perchè  in  quel  seno  ,  in  quella  faccia  bella 
Volle  il  Destin  ch'io  Tempia  man  portassi? 
Ah!  pria  eh' a  la  mia  vita,  a  te,  Donzellai 
Dolce  mio  ben,  l'armi  crudel  voltassi  , 
Perchè  il  mio  corpo  ne  la  polve  involto, 
Qui  negletto  non  giacque ,  ed  insepolto  ? 

cxv. 

O  pur,  se  tale  era  il  voler  del  Cielo, 
Ch*  io  dovessi  incontrar  questa  battaglia  , 
Che  non  traesti  dal  caduco  velo 
Quest'alma  ,  cui  niuna  in  dolor  s'agguaglia? 
Che  non  si  ruppe  il  brando  mio,  qual  gelo* 
Non  cedette,  qual  cera,  ogni  mia  maglia  ? 
Dritto  era  ben  che  chi  ferimmi  l'alma, 
Ferisse  ancor  quest'infelice  salma  . 
CXVI. 

Or  che  miei  giorni  sol  vivo  a  tuo  danno, 
'Che  sol  vivea  per  tua  difesa,  e  scude, 
Se  i  nostri  dolci  amor  degno  men  fanno, 
Prendi  quel  brando,  e  me  ferisci  ignudo. 
Tutte  quegli  occhi  bei  le  vie  già  sanno 
Di  questo  cor,  senza  sua  colpa  crudo; 
Perciò  diffidi  opra  a  te  non  fia 
11  trapassarlo,  o  dolce  amica  mia. 
CXVII. 

Mi  basta  sol  che  da  pietà  sii  presa 
De  l'estrema  d'amor  pruova,  eh'  io  dono, 
E  a  farmi  lieve  il  duol ,  che  si  mi  pesa ., 
La  man  mi  porga  in  segno  di  perdono. 
Trasse^ quindi  un  sospir  da  l'alma  accesa, 
E  volti  a  lui  tutti  gli  sguardi  sono. 
Ma  già  laMusa  affaticata,  e  stanca, 
Tacer  desia,  perché  di  lena  manca» 
Fine  del  Canto  Quarto , 
E  z 


JPO 

I  A     M  0  Pt  TE 

D' 

ORLANDO. 

CANTO    QUINTO, 

ARGOMENTO. 

La  Maga  a  v'aitar  Plato  *'  appresta  ; 
fuole  Angelica  trar  seco  a  P  Averne  , 
Magica  specchio  pei  le  manifesta 
"Di  setti  Mostri  ogni  pensiero  interno  , 
La  strage  udendo  ,  in  lei  furor  si  desta  ,* 
Ma  con  novello  stuol  scende  a  P  Inferno  „ 
Là  di  mense  i  Demcn  fanno  apparecchio  . 
Scoppiarne  polve  assorda  a  lei  P  orecchio  » 

XVloki ,  e  molti  son  quei,  che  gran  vicende, 
E  strane,  e  crude,  anno  in  amor  patito, 
E  in  narrarle  ciascun  diletto  prende. 
Come  il  nembo  Nocchier  narra  sul  lito. 
Ma  quel  che  a  raccontar  mia  Musa  imprende, 
Io  non  m'avviso  alcuno  l'abbia  udito. 
Molti  soifrir  quaggiù  strana  ventura, 
Ma  non  poggiaro  al  Ciei  per  1* aria  pura . 


CANTO    QUINTO.      ióf 

IL 

Quelli ,  che  fero  opra  mirabil  tanto , 

Furo  Angelica  ,  Orlando  ,  Orfeo  sagace. 

Francia,  di  questo  voi  non  darti  vanto  y. 

Di  questo  volo  prodigioso  ,  audace  . 
JNon  lice  i  Venti  disfidar  cotanto 
\Ad  ingegno  mortai,  soffrilo  in  pace; 
'Di  Chimica  costor  non  àn  bisogno; 

Questo  un  voi  si  dirà,  quello  un  tuo  sogno  T 

Aììor  che  vede"  il  Globo  spinto  in  arto,' 
Ride  Borea  con  Austro,  e  sen  sollazza; 
Or  qua,  or  là  gli  fa  spiccare  un  salto, 
Come  suol  farsi  di  pallone  in  piazza: 
O,  mentre  sorge  più  sublime,  ed  alto, 
Chiede  gli  Augelli  la  pennuta  razza) 
Irati  alfi»  di  tanto  umano  orgoglio. 
Lancia»  P acrea  Nave  ad  uno  scoglio. 
IV. 

Che  mai  veder,  che  mai  discerner  vuole 
Il  volator,  onde  tai  rischi  affronti i 
Forse  le  macchie  discoprir  del  Sole, 
O  de  l'argentea  Luna  i  Mari,  i  Monti? 
O  veder  meglio  che  quaggiù  non  suole  , 
li  girar  de'  Pianeti,  or  lenti,  or  pronti? 
Le  varie  membra,  i  var}  corpi,  il  sesso 
Di  que' Mortali  in  questo,  o  quel  recedo  ? 
V. 

Chi  fia,  che  speri  ne  l'aereo  Marc 
L'incerta  Nave  reggere  a  talento, 
E  salvo,  e  lungi  da  procelle  andare, 
Correre  a  un  tratto  cento  miglia  ,  e  cento 
E  scoprir  molte  cose,  ed  esplorare, 
E  render  vano  il  liquido  elemento  ;  > 
Se  pria  con  arte  ben  diversa  ,  e  varia 
Dal  noto  veleggiar,  non- coglie  l'aria? 

E    3; 


102  CANTO 

VI. 

Statti  a  mirar  con  curiose  ciglia 
Lo  stupendo  viaggio,  o  Francia  tutta. 
Colei ,  che  fé  cotanta  meraviglia  , 
Fu  la  ria  Vecchia  in  magic5  arte  istrutta. 
Che  di  spirti  racchiude  empia  famiglia 
Nel  suo  Castello  j  in  forma  strana ,  e  brutta 
Siccome  io  dissi,  e  per  Otoa  la  bella 
Angelica  rapì ,  gentil  Donzella  . 
VII, 

Stava  la  Strega  impaziente  ,  e  calda 
D'ira,  e  di  rabbia  ,  ad  aspettare  il  fine 
De  la  pugna  feral  ,  che  la  ribalda 
Sua  truppa  spinse  a  l' infernal  confine . 
I  duo  Guerrier,  che  Amore  arma  , e  riscalda 
Imprese  fero,  il  dissi  già,  divine, 
Or  co  1'  asta  possente  ,  ed  or  col  brando  ;. 
L'un  d'essi  Orfeo-,  T  altro  si  chiama  Orlando 
Vili. 

Si  rammenti  ciascun  che  sono  amanti 
Di  questa  appunto  Angelica  rapita  ,# 
Cui  svelse  Otone  per  favo^ d'incanti 
Virgineo  fior  più  caro  a  lei  che  vita  ; 
Che  incatenata  dopo  oltraggi  tanti  , 
Chiedea  mercede ,  ma  non  era  udita; 
Che  sovra  un  Cocchio,  avvinta  allor  da  ferri 
Fu  posta  in  mezzo  a  que'  Deraonj  sgherri . 
IX. 

JEran  trecento  i  Cocchi  ,  e  tutti  lesti  , 
Tirato  ognun  da  sei  Cavalli  alati  ; 
Quel  de  la  Maga  era  il  primier  fra  questi  j 
Ed  eran  tutti  riccamente  ornati. 
Quasi  fra  tanti  alcun  non  v'à,  che  resti, 
E  salga  su  que'  Cocchi  apparecchiati, 
Che  la  parte  maggior  de  Tempia  Corte 
In  fuga  tutta  ,  od  anzi  è  messa  a  morte  ^ 


Q  U  1  N  T  a,  loj. 

X. 

Duolsi  Angelica  intanto  ,  e  in  quel  sembiante 
lì  ligustro  gentil  celò  le  rose;# 
Un  velo  a  1*  occhio  nero,  lagrimante  y 
,'  Fé  la  palpebra,  dove  Amor  s'  ascose  . 
:,  lì  Nume  arderò  al  pianto  suo  stillante 
a  Tempra  l'acute  freccie  insidiose  .    .   ( 
j  Quegli  occhi  bei,  modestamente  bassi  , 
Sapriano  quasi  impietosire  i  sassi. 
XI. 

E  come  soglion  fertili  rugiade 
Bagnare  i  fior  ne  l'ora  mattutina  , 
Innaffia  il  pianto,  che  dal  viso  cade, 
Quella  rosa  del  sen ,  che;  non  à  spina. 
J  Qualor  ti  veggio  passeggiar  le  strade 
Del  lucido  Oriente,  al  Sol  vicina, 
Costei  mi  sembri  ,  o  rugiadosa  Aurora  ; 
Anzi,  perdona,  eli'  è  più  bella  ancora ~ 
XII, 

Chi  mai  non,  seme  lacerarsi  il  petto  y 
D'Angelica  mirando  il  crude  affanno, 
I  duri  ferri,  onde  quel  braccio  stretto r 
E  le  due  man  di  latte  avvinte  stanno  ? 
A  chi  non  foran  di  mestizia  oggetto 
Que'Soli,  che  di  nebbia  aspersi  vanno, 
Sereni  prima,  sfavillanti,  e  chiari, 
Or  ricolmi  d'umor,  di  luce  avari  ? 
XIII. 

Pur  quell'umor,  che  da' bei  lumi  scorre, 
Nido  si  fa  di  pargoletti  Amori, 
Che  il  volo  incerto  su  le  gote  a  sciorre 
Vanno,  e  del  sen  fra  i  turgidi  tesori . 
In  argenteo,  ruscel  s'aggira  ,  e  corre 
StuoJ  di  pesci  così,  di  più  colori. 
Ogni  .Amorino  per  natio  costume 
Folleggia  ,  e  i  Mostri  di  ferir  presume. 

E    4 


5c4         CANTO 

XIV. 

Sorride  un  d'#essi ,  depon  l'arco  ,  e  tende! 
Arco  novello,  il  curvo  sopracciglio, 
Ed  uà  capello  de' più  lunghi  prende, 
Che  di  Latona  anco  ornerebbe  il  Figlio  . 
Del  sottil  arco  ad  un  confin  l'appende, 
E  v'adatta  uno  strai  bianco  qua!  giglio  ;. 
Poi  cheto  cheto  ben  s'  appiatta ,  e  cela 
Ne  l'occhio,  dove  la  palpebra  il  vela. 
XV. 

Qual  bravo  Arder ,  che  in  uno  stretto  assedia 
Da  murata  Città  scaglia  la  freccia  , 
D'  un  merlo  e  l'altro  ne  io  spazio  medio  ,. 
E  si  rannicchia  tutto  allor  che  freccia  ; 
Un  colpo  mira,  cui  nou  v'à  rimediò  , 
Il  picciolDio,  che  il  cria  tolse  a  la  treccia, 
E  fra  1'  un  pel  de  la  palpebra,  e  l'altro,, 
L'  acuto  dardo  vibra  agile,  e  scaltro.. 
XVI. 

Parte  la  freccia  ,  e  fra  q*$'  fylostn  giunge  ; 
Un  ferisce  primier  ,  che  il  capo, erige 
Cornuto  ,  e'i  voi  seguendo,  u-n altro  punge ^ 
Indi  al  petto  del  terzo  si  dirige, 
Il  quarto  infilza  ,  e  foco  a  foco  aggiunge, 
Foco  d' Amor  al  foco  atro  di  Stige  ; 
Al  quinto  il  cor  ,  la  mente  al  sesto  invola  3 
Al  settimo  la  lingua ,  e  la  parola  • 
XVII. 

Que'  sette  Mostri,  che  piagata  l'alma 
Aveano  tutti  da  mortai  ferita  , 
Rapic  voleano  Angelica,  e  dar  calma 
A  l'amorosa  lor  smania^  infinita  ; 
Non  per  trarla  de' ceppi  a  grave  salma». 
Ch' è  pietà,  pei  Demon  cosa  inaudita  i 
Kon  a  tanta  beltà  per  fare  omaggio, 
Anzi  per.  far  a.  sua  vi  nude  oltraggio. 


QUINTO.  roy 

XVIII. 

La  vecchia  Maga  ,  che  saper  ia  sorte 
Brama  de' suoi  ,  che  più  tornar  non  vede. 
Piglia  uno  specchio  per  veder  se  a  morte 
Fùr  tratti,  o  altrove  anno  rivolto  il  piede. 
Di  quello  specchio  è  la  Magia  sì  forte, 
Che  di  rutto  ,  al  mirarvi,  ella  s'  avvede, 
Fin  de  gli  altrui  pensieri,  e  vede  in  esso 
De' sette  amanti  il  tradimento  espresso. 
XIX. 

Al  destin  di  sue  truppe  or  più  non  pensa.,. 
E  punir  vuol  que'  meditati^  inganni. 
Arde  contro  costor  di  rabbia  immensa, 
Ed  invoca  Pluton ,  che  li  condanni . 
A  lei  propizio  suo  favor  dispensa 
Plutone  amico  suo  già' da  mole' anni; 
E,  costor,  che  volean ,  d'amor  sospinti, 
Angelica  abbracciar  ,  cadono  estinti  . 
XX. 

Né)  solo  estinti,  ma  così  distrutti 
Che  i% membri  lor  sembrano  a  Paure  sparsi  >', 
Purdi^  colei,  benché  li  veggia  tutti 
Estinti  ,  Pira  ancor  non  può  calmarsi; 
E  per  Magia  que' corpi  sozzi,  e  brutti, 
Fa  che  tornin  più  volte  a  rinnovarsi  ; 
Riveder  si  compiace,   e  si  diletta, 
Spettacolo  crudel  d'aspra  vendetta  . 

xxi: 

Quando  rimase  il  suo  furor  satollò 
Di  vederli  morir,  serbolii  a  vita, 
Ma  in  ferrei  ceppi,  emani ,  e  piedi ,  e  collo, 
Niuno  fra  quei  Demon  die   loro  aita. 
Stretti  eran  si  chQ  non  potean  dar  crollo  , 
£  lalor  pena,  e  rabbia  era  infinita. 
Lascio  costoro  al  lor  supplizio  ,  e  scorno, 
lì  de  le  specchio  a  favellar  ritorno  . 


io*         CANTO 

XXII. 

TI  fido  specchio  la  Negromantessa 
Del  gran  conflitto  incerta  ,  avea  ripreso  ; 
Ma  un  alato  Demon  ,  che  a  lei  s'appressa 
Scorge,  rimaso  da  la  pugna  illeso  . 
Agii  costui  scese  dinanzi  ad  essa  , 
Ed  anelante,  qual  chi  resse  un  peso, 
Disse  :  O  Regina ,  con  novello^  esempio 
Que'  duo  Guerrier  de' Servi  tuoi  fèr  scempio.. 
XXIII. 

E  risuonar  seguaci  a  tai  parole 
Urli  s'udirò  spaventosi  ,  immensi  , 
Che  d*  Averno  mandar  ne  gli  antri  suole 
Spirto  dannato  fra^  tormenti  intensi . 
Quanto  la  Maga  si  corrucciate  duole, 
Credo  inutile  il  dir  ,  ciascuno  il  pensi . 
Quei  fero  cor*,  mai  di  vendette  sazio, 
Or  d'  un  vano  furor  prova,  lo  strazio. 
XXIV. 

Sue  calde  preci  al  gran  Pluton  diresse, 
Bestemmiando  il  Motor  de  la  Natura. 
Propizio  il  Nume  quelle  genti  stesse, 
Che  il  ferrò  spinse  a  la  sua  Reggia   oscura  *. 
Tosto  le  rese,  e  fé  che  riprendesse 
Niìjove  orribili  spoglie  ogn'alma.  impura, 
Sì  che  ottenne  colei  truppa  novella 
Pari  a  l'estinta,  anzi  maggior  di  quella. 
XXV. 

Un ,  che  fra  tutti  avea  più  lunga  coefo  , 
Più  grossa  pancia ,  e  più  sublime  corno , 
A  sì  fatto  parlar  la  lingua  snoda, 
Lingua,  che  ognor  favella,  e  notte  e  giorno. 
Par  chein  udirlo  ognun  s'allegri  ,  e  goda 
De'  suoi  compagni  ,  che  gli  stanno  intorno . 
Egli  a  la  Maga  il  suo  parlar  rivolta; 
Calma  colei  lo  sdegno ,  e  attenta  ascolta* 


Q  V  I  N  T  0\  io; 

XXVI. 

Donna ,  disse  costui ,  chi  può  ridirti 
De* duo  Guerrier  le  fortunate  Imprese? 
Son  l'aite  cose  ,  che  m'accingoa  dirti, 
Cose  viste  da  me,  non  d'  altri  intese. 
Tutto  lo  stuol  de' bellicosi  spirti, 
Compagni  miei,  tutto  a  l' A  verno  scese; 
Ad  essi  il  chiedi  or  che  a  te  fair  ritorno  , 
Mercè  di  Pluto,  dal  comui*  soggiorno  . 
XXVII. 
fn  parte  almeno  aver  dal  labbro  mio 
Contezza  puoi  de  la  battaglia  strana  . 
Narrò  gli  aspri  cimenti  il  Mostro  rio, 
E  de*  Guerrier  la  forza  sovrumana . 
La  Maga  allor,  che  bestemmiava  Dio, 
E  di  vendetta  brama  avea  non  vana  , 
Ordinò  che  a  seder  ciascuno  gisse 
Ne' Cocchi  ,  e  al  gran  viaggio  s'allestisse» 
XXV  IIi'- 
Nuove  cose  io  <TIrò ,  nuovi  portenti , 
Cui  presrata  non  ria  credenza  intera; 
Ma  non  gitto  per  questo  il  fiato  ai  Venti, 
Mi  basta  dir  che  la  mia  storia  è  vera. 
Tratta  per  l'aure  dai  Destrieri  ardenti, 
Vola  superba  la  dannata  schiera. 
Ma  qua!  si  sparge  dal  primier  fra' Cocchi 
Vivo  splendor,   che  offusca  tanto  gli  occhi? 
XXIX. 
Par  che  hVauro  ,  o  preziosa  pietra 
Vibri  tal  luce  ,  che  la  vista  assale  ; 
Nò  qual  materia  quella  sia  ,  penetra  , 
Mentre  il  cocchio  s' invola  ,  occhio  mortale., 
Poiché  l'Astro  maggior,  che  irraggia  l'etra, 
Di  luce  il  copre  ,  e  a  sé  lo  rende  eguale. 
Pur  quel  che  tanto  i  riguardanti  abbaglia , 
Non  è  che  sola,  chiusa  in  vetro,  paglia. 

E  6 


*o8.         C    A,    N    T     O 

XXX. 
Raggio  rifratto  quella  pag-Iia  indora* 
Del  Sole ,  a  cui  la  Maga  à  il  voi  rivolto  , 
Del  Sol  ^  che  il  Mondo  avviya,  i.  fior  colora  5, 
Ed  in  se  tien  tutto  1*  Inferno  accolto. 
Arde  colà  da.  l' una  a  P  altra  Aurora 
Spirto,  dannato  in  pene. eterne  involto, 
E  fra.  suppliz)  di  novella  sorte 
In  vano  spera,  attende  in  van  la  Morte,. 
XXXI. 
Fé  la  Maga  si  presto  il  sno  viaggio  4 
Come  la  luce  fa,  quando. si  parte 
Dal  biondo  Nume.,  che  il  lucente  raggio 
Scaglia  in  questadel  Globo,  o, in  quella  parte, 
S'  appresta  allora  a  fare  a  Pluto  omaggio 
La  gran  Maestra  de  la  magic'  arte  ;  . 
Ed  entra  già  ne  P  infiammate  porte 
Co  la  seguace  numerosa  Corte  . 
XXXII. 
Un  Mostro  allora  smisurato  ,  e  nero, 
Primo  Ministro  dei  tremendo  Pluto, 
A  lei.  s'accosta  per  veder  s'è  vero 
Che  dessa  fosse,  e  immobil  resta,  e  muto ; 
§i  scuote  alfine,  ed  a  Plutone  altero, 
Celere,  quasi  Pale,  avesse  avuto., 
De  la  venuta  di  costei  P avviso 
&eca,  il  Ciel.  bestemmiando,  e.  il  Paradiso  * 
XXXIII. 
Siede  Plutoa,  sovra  eminente  soglio^ 
E  il  volto  atroce  Palma  rea  discopre; 
La  fronte  innalza  co.n  insano  orgoglio,. 
La  fronte  ,  che  uno  stuol^  d'angui  ricopre  ;\- 
Maligno  esulta  de  l'altrui  cordoglio, 
Perfido  punitor  di  perfid'  opre  ; 
Stringe  uno  scettro,  che  di  ferro  sembra  ? 
E  foco  sparge  da  le  acre  membra  . 


Q  U  I  N  T'O,  ro$; 

XXXIV. 

Due  corna  grosse  alpar  che  un_  brace  io  umano 
Cadongli  al  suolo  con  obbliqui  giri; 
E'  tremendo  l'aspetto,  il  ceffo  strano,    <  < 
Fra  sangue,  e  fiamme  par  l'occhio  s'aggin. 
Il  braccio  enorme,  la  rapace  mano,  >  < 
Dir  non  si  può  quanto  spavento  inspiri  ; 
Rotante  coda  angui  tremendi  slancia  , 
Ed  angui  fischia»  su  la  vasta  pancia. 
XXXV. 
Un. abisso  profondo,  una  vorago 
Di  foco ,  e  fumo,  seppellito  il  tiene  ; 
Quel  foco  mai  di  straziarlo  è  pago, 
E  in  mille  forme-,  e  mille  ,  or  vanne  ,or  viene  : 
Il  procelloso  Mar  debole  immago 
Otfrir  potria  di  queste  orrende  scene  ; 
Or  scende,  or  sai  più  che  agitato  flutto, 
Stridente  fiamma,  e  lo  circonda  tutta. 
XXXVI. 
La  notizia  il  Tiranno  ode  giojoso,- 
Ti  in  un  sorriso  vomita  per  gioco, 
Quant' esser  puote  entro  a  fornace  ascoso^ 
Da  la  fetida  bocca  il  nero  foco. 
In  pie"  sii  rizza  ,  e  di  veder  bramoso' 
La  Maga,  e  trarla  de  le  pene  al  loco  r 
Disse  a'  Demon  :  Corriamo  a  farle  festa , 
Eterna  compagnia  ci  sarà  questa. 
XXXVII. 
Tu  vanne,  o  Messaggiero,  e  la  gran  porta 
Apri,  da  cui  qualor  cresce  il  tormento, 
Che  l'infernal  crudo  bollor  m'apporta, 
A  le  Sfere  io  rivolgo  il  guardo  intento 
Nel  vasto  Spazio,  che  il  mio  cfuol  conforta, 
Poiché  riman  l'orgoglio  mìo  contento. 
Pnrmi  del  Mondo  esser  sul  Trono  assiso, 
Mentre  i  Pianeti  intorno  al  Sol  ravviso. 


no:         C    A    N     T    O 

XXXVIII. 

Tacque  Plutone,  e  il  Messaggier  si  mosse  r 
Servendo  a' cenni  del  Tiranno  altero. 
Il  segue  Morte  per  veder  chi  fosse 
Costei,  ch'ella  non  trasse  al  cimitero. 
Morte ,  che  sol  brama  colmar  le  fosse  , 
£  la  falce  rotar  con  guardo  austero  ; 
Che  ognor  persegue  fin  dal  di,  ch'ei  nasce,» 
Ogni  Vivente,  e  di  terror  si  pasce. 
XXXIX. 

Di  questo  Mostro  il  folle  ardir  lo  sdegno* 
Destò  di  Pluto,  e  la  feroce  rabbia. 
Disse  r  Non  fia  che  nel  mio  vasto  Regno 
Tu  mal  la  vita  de  laMaga  t'abbia. 
Scendi  in  Terra  ;  colà  senza  ritegno 
Potrai  di  sangue  dissetar  le  labbia  ; 
Ma  in  questi  Campi  Eternità  s'asside, 
Messi  la  falce  tua  qui  non  recide  . 
XL. 

Stende  Pluton  la  sua  robusta  coda,# 
Che  a  Morte  intorno  gira,  e  s'avviticchia* 
Così  Serpe  talora  avvince ,  annoda 
Qualche  animai,  che  in  van  si  duole,  e  nicchia, 
E  con  sue  spire  gambe,  e  piègl'  inchioda, 
Come  inchiodato  fosse  da  cavicchia  . 
A  questi  ceppi  in  van  col  braccio  forte 
Tenta  sottrarsi  la  spietata  Morte. 
XLI. 

Siccome  esperto  lariciator  di  tromba 
Su  la  ben  tesa  fune  il  sasso  gira  , 
Poi  la  fune  abbandona ,  e  il  sasso  piomba 
Coi  celer  moto ,  che  il  girar  gì'  inspira  ; 
Slanciala  Pluto  :  al  cader  suo  rimbomba  > 
Quell'antro,  e  trema  del  gran  Nume  a  l'ira. 
Ma,   perchè  Morte  unqua  morir  non  debbe  , 
Danno  pel  fiero  colpo  ella  non  ebbe.  ' 


QUINTO,  in 

XLII. 

Ed  in  un  angoJ  muta  si  ritragge, 
A  gl'infernali  abitatori  in  mezzo. 
Ciascun  l' invoca  ,  ma  da  lei  non  tragge 
Conforto  a  tante  pene,  a  tanto  lezzo. 
Quell'alme  fatte  troppo  tardi  sagge, 
Di  scemar  tanto  duol  cercano  il  mezzo. 
Morte  prestar  loro  non  puote  ajuto. 
Ma  ritorniamo  a  favellar  di  Pluto  . 
XLIIL 

Pluto  a  la  Maga,  che  in  sembianza  scorge, 
Di  Vecchia  nò,  ma  di  gentil  Donzella, 
La  nera  mano  affumicata  porge 
Per  farla  scender  da  la  Navicella . 
A  seder  seco  ove  suo  Trono  sorge, 
L'invita,  ed  a  l'orecchio  le  favella, 
Parla  d'amor,  ma  questo  amor  le  incresce 
Per  lo  fetor,  che,  aprendo  i  labbri ,  gli  esce. 
XLIV. 

Cara  ,  le  dice,  e  in  cosi^  dir  le  manda 
Sulfuree  fiamme  vorticose  in  volto  ; 
La  bacia  quindi,  e  ie  sì  raccomanda, 
Ma  un  puzzo  orrendo  è  ne' suoi  baci  accolto. 
Di  quelle  fiamme  a  lei  scusa  demanda, 
Dicendole  d'Amor  foco  raccolto; 
Ed  il  fumo,  e  il  fetor,  l'alma  fuggita 
Sul  volto  bello ,  che  glie!'  à  rapita  . 
XLV. 

In  suo  soccorso  la  Donzella  invoca 
Le  quintessenze,  e  l'odorifer'  acque , 
E  tutto  arrabbia  il  Nume  ,  a  cui  sì  poca , 
Cortesia  de  la  Ninfa  assai  dispiacque  . 
Ma  il  core  Amor  tanto  gli  accende,  e  infoca, 
Che  di  piacerle  speme  in  lui  rinacque- 
Scesi  frattanto  qur '  Demon  dal  Cocchio , 
Co  gli  altri  arrtici  lor  sedeano  a  crocchio. 


***         C    A     N     T    Gf 

XLVI. 

E  qu«sti,  e  quelli  in  rivedersi,  festa 
Molta  sì  fero,  e  più  ragionamenti 
Tenner  fra  loro  ;  strana  cosa  è  questa  T 
Favellarsi  così  fra  que'  tormenti , 
Come  lontano  da  cura  molesta 
Ne' graditi  parlar  trattenimenti 
Lieta  adunanza  di  persone  amiche 
Suol  di  cose  recenti ,  o  ver  d'antiche  . 
XLVIL 

Plutone,  onde  Amor  fea  barbaro  gioco, 
Sì  cheavea  gli  occhi  a  doppia  fiamma  accesi , 
Disse:  O  Donzella  ,  pria  che  in  questo  loca 
Qual  cagion  ti  guidò  tu  mi  palesi , 
Che  ti  si  cuocan  voglio  in  questo  foco 
Cibi  date  non  visti-  e  non  intesi  •. 
Olà,  miei  fidi  ,s'  imbandisca  tosto 
Mensa  di  più  vivande  alesso,  arrosto  » 
XLVIII. 

Per  la  Reggiani  pianto  errando  a  volo 
Molti  Uccellarci  van ,  deformi  ,  e  strani. 
Son  neri  tutti,  e  spirara  lutto,  e  duolo 
Con  fischj  orrendi  ,  ne  gli  orecchi  umani. 
A'n  negre  l'ali  ,  né  gli  artigli  soio 
Destan  terror,  ma  ancora  i  denti  immani. 
Di  Vecchia  è  il  volto, cui  d'intorno  striscia 
Con  sue  lubriche  anella  orrida  Biscia-, 
XLIX. 

FieroMastin  ,  che  il  ladrogiunger  veggia  , 
Con  occhi  torvi  minaccioso  il  guata , 
Ringhia  ,  digrignai  denti, e  il  ladro  ondeggia  , 
Se  avanzar  debba,  o  far  la  ritirata. 
Sembra  che  a  quello  assomigliar  si  deggia, 
Come  in  Terra  si  può,  la  turba  alata» 
Questi  gli  Uccelli* son,  questa  è  la  mensa, 
Che  a  la  Maga  apprestar  Plutone  or  pensa,. 


QUINTO.  ri* 

L. 

Del  Tiranno  al  comando  ognun  s'affretta,. 
E  senza  indugio  1'  archibuso  prende  ; 
Cava  il  cartoccio  da  la  sua  taschetta  * 
E  la  veloce  palla  in  mano  prende  ; 
Il  polverino  sul  focone  getta  , 
Attento  mira,  e  l'acciarino  tende  ; 
La  scossa  pietra  il  foco  suo  dissolve, 
E  vola  il  foco  ad  abbruciar  la  polve  . 
LI. 

L'accesa  polve  allor  la  palla  caccia-, 
Che  1  aer  fende,  com'  avesse  l'ale, 
Ed  una  incontra  orribile  bestiaccia, 
Che  non  aspetta  quel  destin  fatale. 
Fere  il  piombo  letal  la  brutta  faccia,, 
E  cade  estinto  1*  orrido  animale  . 
Lungi  portiamo  alfin  gli  sguardi  nostri 
Da  questi  sozzi  spaventosi  Mostri. 
LII. 

Fra  Stige ,  e  Lete  una  gran  valle  siede ,: 
Oscura  ,  e  tetra  ,  di  fetor  ripiena  . 
Di  Cerbero  trifauce  ivi  è  la  sede , 
Di  Cerbero,  il  cui  sol  guardo  avvelena. 
A'  sei  orecchie,  e  con  sei  occhi  vede, 
La  tripla  bocca  d'atra  bava  à  piena  ; 
E  sempre  veglia  ad  una  quercia  a  canto,. 
Colà  piantata  per  possente  incanto. 
LUI. 

Tutti  i  rami  di  quella ,  e  il  tronco  tutto 
Son  duri  come  duro  diamante. 
Il  tronco,  ed  ogni  ramo  è  lordo,  e  brutto. 
Di  nero  sangue,  vivido,  fumante.. 
Ricca  e  di  foglia  ,  e  non  produce  frutto,. 
Bronzala  foglia  par,  tantoè  pesante! 
Superba  innalza  il  frondeggiante  capo, 
eterno  ouor  de  l' infernal  Priapo. 


ii4         C    ANTO 

LIV. 

S'apre  nel  grosso  tronco  un  ampia  bocca  r 
Un  ,  dieci  braccia ,  e  più ,  foro  profondo  ; 
Ed  anco  quindi ,  qual  torrente ,  sbocca 
Gorgogliante,  e  spumoso,  il  sangue  immondo. 
Tutta  del  caldo  umor  s'empie,  e  trabocca 
Immensa  vasca,  ja'  non  si  scopre  il  fondo  ; 
Per  occulti  sentier  s'  aggira  ,  e  passa 
In  un  gran  Piume  la  cruenta  massa  . 

Più  miglia  è  lungo  ,  ed  altrettante  largo 
L' obbliquo  letto  de  Porribil  Fiume. 
S'aggiran  là  sovra  il  fetente  margo 
Mostri,  chej  sparger  sangue  anno  costume,- 

V  è  Gelosia ,  che  con  pupille  d'  Argo 
Veglia,  e  d' tmen  turba  talor  le  piume  ; 

V  è  Superstizion ,  che  il  Cielo  insulta 
Con  falso  zelo,  e  fra  le  stragi  esulta, 

LVL 

Scorre  il  gran  Fiume  rapido,  e  bollente 
Per  lo  calore  del  Tartareo  foco, 
Com*  acqua  bolle  presso  a  fiamma  ardente,. 
Che  il  chiuso  aer  sospinge  in  altro  loco. 
Di  quel  liquor  con#  mano  diligente 
Va  le  pentole  empiendo  esperto  Cuoco  ; 
Molte  vivande  entro  vi  cuoce  alesso , 
Esca  por  non  occorre  al  foco  appresso. 
LVII.V 

Di  questo  sangue  con  mirabil  arte 
Molti  formati  son  manicaretti  ;# 
Gli  estratti  suchi  il  Cucinier  riparte, 
Che  una  smania  infernal  destan  ne' petti  <* 
D' un.  libro  volge  le^  fumose  carte  , 
Che  contien  di  Cucina  i  gran  precetti . 
Composto  fu  dal  pallido  Digiuno  , 
Che  sa  i  cibi  condir  meglio  d'ognuno . 


QUINTO,  iti 

LVIII. 

Mentre  si  fan  gli  splendidi  apparecchi  y 
E  la  Reggia  si  pon  tutta  sossopra  , 
Plutone,  Re  de' più  cornuti  Becchi, # 
Prima  che  i  cibi,  il  vin  por  brama  in  opra» 
Vuol  che  si  rechin  vini  forti ,  e  vecchi  , 
Dal  cui  spirto  il  cervel  s' inebbri,  e  copra. 
Tanto  parlò  d'amor  senz' alcun  frutto, 
Che  avea  debole  il  fiato  ,  il  labbra  asciutto ?. 
LIX, 

Colei,  che  prima  nei  Castello,  ov'era 
Del  Turco  Otone  dispregiata  amaste. 
Di  libidine  ardea ,  beltàde  altera 
Divenne  a  un  tratto,  e  in  rifiutar  costante,. 
A  P  ardente  Pluton  volge  severa 
Il  vagheggiato  magico  sembiante. 
La  Donna  sempre  il  suo  costume  segue  , 
Pregar  chi  fugge,   e  non  curar  chi  insegue.. 
LX„ 

Ma  sovra  un  Carro  una  gran  botte  viene , 
Ed  ampio  teschio  vien  sovra  di  quella, 
Teschio,  che  sei  di  vin  libbre  contiene, 
Che  di  Platon  capi  già  le  cervella. 
Qual  suo  bicchier,  in  man  quel  vaso  tiene 
Il  Re  cornuto  de  I3  Gente  iella .  # 
Ma  in  quell'istante  alto  romor  s'intende; 
Da  gli  Elisi  un  Demon  laggiù  discende. 
LXL 

Scende  laggiù  da  la  beata  Porta  , 
Cui  sempre  aspira  il  Peccatore,  e  '1  Giusto; 
Ma  il  Peccator,  che  troppo  incarco  porta  , 
Salir  non  puote ,  e  '1  Buon  vi  sai  robusto . 
Al  Cielo  ergendo  il  voi,  fuggia  da  morta 
Spoglia  uno  Spirto  di  gran  mcrti  onusto  .    . 
Questo  Demon  ,  che  ognor  P  assalse  in  Terra  ^ 
la  Cielo  ancor  volcagli  far  la  guerra* 


ir<r       C   A    N    T    O 

EXII. 

Qual  se  dopo  crudcl  lungo  conflitto4 
Ver  la  trincea  precipitoso  corre  , 
Cercando  asilo,  Esercito  sconfitto, 
Là  il  vincitor  per  incalzarlo ,  accorre  ;* 
Osa  il  perfido  autor  d' ogni  delitto 
Quello  Spirto  inseguir,  che  lo  precorre. 
Ma  il  celeste  Custode ,  il  vigil  Pietro , 
Ritorna  ,  esclama  ,  o  temerario  ,  addietro  . 
LXIII. 

Mirate,  o  voi,  cui  l'almo  Pietro- è  guida ,. 
Voi ,  cui  triplice  serto  il  erin  circonda , 
L'illustre  esempio  ;  a  voi  le  chiavi  affida 
Pietro  del  Cielo,  e  '1  vostro  zel  seconda. 
Il  Lupo  da  l'Agnel  dehl'si  divida, 
Né  fra  Colombe  lo  Sparvicr  s'asconda, 
Né  si  faccia  Pastor  mitrato  Mostro , 
O  Pontefici  «ommi,  al  gregge  vostro* 
LXIV. 

Ma  dove  mi  portai  senza  consiglio- 
.Oltre  al  confin  de  la  premuta-  via  ? 
Orail  fil  de'pensier  tosto  ripiglio  , 
E  ritorno  al  cammin  segnato  pria  .# 
Parlò  di  Pietro,  e  volse  quindi  il  ciglio 
A'  successori  suoi  la  Musa  mia. 
Di  Pietre- a  favellar  trassela  il  folle 
Deiuon,  che  al  Cicl  vietato  alzar  si  volle, 
LXV. 

Aperta  fu  la  smisurata  bette  ,- 
E  il  vìit  scese  nel  teschio  in  larga  vena. 
Quelle  turbe  infernali  ivi  ridotte 
Cercan  tutte  addolcir  1'  eterna  pena  . 
Odonsi  poi  voci  confuse,  e  rotte  , 
De  l'ebbro-  stuol  ,  che  in  pie  si  regge  appena  v 
Strano  color  tinge  quel  vin  gagliardo  , 
Che.  non  piacer,  ma  terror  desta  al  guardo*.. 


•quinto.      %m 

LXVI. 

Misto  e  il  colorai  rosso  unito  stì  nero, 
X  ogni  rosso  ,  ogni  ner  vince,  oltrepassa  „ 
Pluro  ,  benché  -d'  Amore  al  crudo  impero 
.Servo  si  veggia ,  pur  di  ber  nou  lassa . 
Ad  un  sol  fiato  ei  vuota  il  teschio  intero, 
E  a  la  botte  vicin  passa ,  e  ripassa . 
S'empie  il  gran  teschio,  e  in  gorgogliante  spuma 
'Trabocca  il  vin,  che  sa  di  zolfo  ,  e  fuma. 
LXVII. 

Cosi  Pluton  ricolma  il  teschio,  e  '1  vuota 
Fin  che  l' incarco  del  liquor  lo  preme; 
La  Maga  ancor  quella  bevanda  ignota 
A  lunghi  sorsi  tracannar  non  teme. 
Quando  la  botte  alfin  rimasevota, 
In  rotti  accenti  favcllaro  insieme, 
E  sojean  ,  come  l' ubbriaco  suole , 
Vomitar  vino,  e  borbottar  parole. 
LXVIII. 

Di  vin  così,  d'amore  acceso,  e  cMo9 
fi  fier  Pluton  l'ora  dei  pranso  aspetta  , 
Quasi  del  suo  penar  altero,  e  baldo, 
La  celeste  sfidando  alta  vendetta. 
Non  poche  pelli  il  Popol  suo  ribaldo 
(Ornamento  ben  degno!  )  appresta  in  fretta; 
Con  queste  pelli  ,  in  cui  fumar  si  scopre 
Umano  sangue,  molte  Mense  copre. 
LXJX. 

Queste  le  pelli  son  di  Negri  ,  a  cui 
Ne  la  torrida  Zona  il  Sol  sovrasta  , 
il  Sol  ,  che  col  poter  de' raggi  sui 
Tanto  in  Terra  abbruciolli ,  e  ancor  non  bast3 . 
Come  pria  di  lui  fuor,  dentro  or  di  lui 
Quel  Pianeta  li  strugge,  e  li  devasta. 
Vivi  costoro  immersi  fur  là  deatro, 
Dx  tanto  duolo  in  queir  orribil  centro  , 


US         C    A     N    T    O 

.    .        LXX- 

DI  questi ,  in  pena  a  molti  lor  misfatti  , 
"Trasser  la  pell«  que' Ministri  atroci, 
Che  puniscon  rei  detti ,  iniqui  fatti, 
Ed  a  l'ira  ècì  Ciel  servon  feroci. 
Son  questi  i  lini  a  loco  tal  ben  atti  > 
Che  scelti  furo  da  concordi  voci  ; 
Queste  fur  le  tovaglie,  e  le  salviette, 
E-  nudi  cranj  furon  le  boccette. 
LXXI. 

De  la  stessa  ^materia  rcran  compòrti 
Gli  arredi  tutti  de  le  mense  ad  uso  , 
E  in  bell'ordin  su  quelle  eran  disposti 
Piatti,  eucchiaj,  non  il  coltello  escluso, 
Non  le  forchette,  e  i  vasi  intorno  posti; 
Ma  il  guardo  umano  ivi  riman  confuso, 
Che  niuna  cosa  il  cupo  Averno  serra, 
A  cui  cosa  simil  si  trovi  in  Terra. 
LXXIL 

E  se  il  pie  si  rivolge  a  la  cucina  , 
Altre  pentole  v'inno,  altre  padelle, 
Altri  schidioni  di  materia  fina, 
Altre  caldaje,  grattugie,  e  gratelle; 
Altre  palette  per  la  nuova  Alcina 
Fur  poste  in  opra,  ed  altre  catenelle, 
Altri  treppiedi  ;  il  mantice  sol  manca, 
Perchè  il  foco  giammai  d'arder  si  stanca. 
LXXIII. 

11  tempo  alfin  di  quel  banchetto  giunse; 
Non  putea  l'ebbro  Re  dal  Trono  alzarsi, 
Ma  ,  perchè  di  mangiar  desio  io  punse  , 
A  la  mensa  rcgal  volle  accostarsi  . 
I  robusti  chinar  on^eri   ingiunse 
Aduo  Famigli,  e  fé  colà  portarsi. 
Gittando  un  urlo,  che  spavento  mise, 
La  barcollante  Maestà  s' assise. 


QUINTO.  119 

LXXIV. 

Ferve  a  la  Maga  il  vin  ne  le  midolle, 
La  regge  un  Servo  ,  perchè  incerto  à  il  piede . 
A  lei  s'appresta  un  seggiolinornolle , 
Ma  il  calor  troppo  nuoce  a  chi  -vi  siede. 
L'avide  genti  a  farsi  van  satolle, 
E  l'inquieta  turba,  or  vanne,  or  riede, 
Tutti  aspettando  il  venerato  cenno, 
Per  cui  sedersi  a  quelle  mense  denno. 
LXXV. 

Al  comando  real  siede  ciascuno 
A  l'imbandite  laute  mense  intorno. 
«Solo  a  quella  del  Re  non  siede  alcuno, 
Seco  è%  la  Maga  in  compagnia  quel  giorno  « 
Riempion  tutti  il  ventre  ior  digiuno, 
E  s'odon  fischi  risonar  d'intorno, 
Fischi  di  gioja  ,  che  maggior  divenne 
Allor  che  il  fin  di  quel  convito  venne . 
LXXVI. 

Pluto  s'alzò  ,  quindi  la  Donna  vaga, 
"E  poscia  quei,  che  avean  maggior  le  corna; 
Ma  mentre  spesso  al  Re ,  spesso  a  la  Maga 
A  coronar  le  tazze  si  ritorna , 
L'  orecchio  di  costei  poco  s'appaga 
D|  improvviso  romor ,  chela  frastorna; 
Di  cavi  bronzi  ode  armonia  molesta  , 
Sparati  a  polve  a  fin  di  farle  festa. 
LXXVIL 

Al  subito  fracasso  ella  rimase 
Come  Passer  riman  ,  che  il  Falco  vede, 
O  qual  Pacfron ,  che  dal  veder  sue  Case 
foglie,  del  rubator  tardi  «'avvede. 
Alto  timor  tutta  così  l'invase,  j. 

Che  da  folgor  colpita  ella  si  crede; 
Par  «he  fuggir  non  sappia,  e  fuggir  voglia, 
Scossa;,  e  tremante,  come  al  Vento  foglia. 


zio         CANTO 

LXXVIII. 

Fuor  P  occhio  sbalza,  il  pie  si  tragge  indietro, 
E  in  tanto  foco  ella  si  fa  di  gelo  , 
La  bocca  s'  apre ,  e  con  istrano  metro 
Fa  che  1'  Averno  ne  risu»ni  ,  e  '1  Cielo  . 
Qual  se  aperto  ai  suo  pie  fosse  il  feretro,* 
Ella  fa  di  sua  rna.no  al  ciglio  un  velo , 
E  quel  bracco,  che  preme   il  petto  ignudo  , 
A  palpitante  cor  diventa  scudo-. 
LXXIX. 

Stupefatto  Pluton  rimansi ,  e  mesto 
Per  lo  spavento  de  l'amata  Donna. 
Qualmai,  dicea  ,  folle  timore  è  questo  , 
Che  il  tuo  vigor,  il  tuo  coraggio  assonna? 
Ov'è  l'Ingegno  attivo  sempre,  e  desto-. 
L'alma  viril  sotto  femminea  gonna? 
Scoppio  Al  nera  polve  è  questo  suono, 
Per  cui  di  Giove  io  non  invidio  il  tuono. 
LXXX. 

Bronzi  ministri  de  l'umano  orgoglio, 
Lanciovvi  Pluto  da  le  ripe  iaferne, 
De' Re  gemmati  ove  s'  innalza  il  soglio  , 
Che  può  in  Terra  emular  V  ire  superne. 
P»r  voi  d'ogni  valor  iangue  il  germoglio, 
Per  voi  dal  forte  il  vii  non  si  discerné; 
Tutto  per  voi  si  vince,  e  si  dissolve  , 
ìson.  con  arte,  o  valor,  ma  co  la  polve* 
LXXXI. 

Archibusi,  Cannoni,  Colubrine, 
Per  cui  tanti  scntier  Morte  s'aperse, 
Figli  di  rabbia,  Padri  di  rapine, 
Quante,  oh!  quante  per  voi  palme  son  perse! 
A  quante  destre  in  guerreggiar  divine, 
Vostre  bocche  omicide  or  sono  avverse,' 
E  come  una  Città  fatta  sicura 
Da  ripari  esser  puote  ,  o  da  le  Mura  ? 


QUINTO.  m 


LXXXII. 
O  de  le  Genti  universal  contagio. 
Se  insorti  foste  ad  infettar  il  Mondo, 
Quando  pochi  Spartani  alor  bell'agi® 
(Esempio,  cui  non  videsi  il  secondo  ) 
Seppero  a  Serse  dar  tanto  disagio, 
E  regger  forti  di  tal  massa  il  pondo , 
Fuggito  ei  non  saria  meschino,  e  solo, 
Ma  fatto  ai  prodi  avria  mordere  il  suolo  . 

LXXXIII. 
Se  i  grandi  Eroi ,  che  già  pugnaro  in  Terra, 
Pugnato  avesser  con  terrestre  lampo,    - 
Fama  loquace  non  avria  di  guerra 
Cantato  mai  le  varie  Imprese  in  Campo. 
Volante  fralla ,  che  ferisce,  atterra,  > 
Valor  nvn  chiede,  e  non  ritrova  inciampo; 
Può  la  morte  mandar  per  suo  trastullo 
Da  gl'ignivomi  bronzi  anco  un  fanciullo, 

LXXXIV. 
O  Musa  mia ,  se  udir  volesse  alcuno 
Da  le  tue  labbra  que^  che  poscia  avvenne , 
Molti  eventi  prometti  ad  uno  ad  uno 
Tutti  narrar,  che  il  tuo  Pensier  rinvenne. 
Ma  troppo  rauco  suon,  troppo  importuno 
Manda  or  tua  voce,  che  debol  divenne. 
Riposo  chiedi  ,  e  tempra  a  la  discorde 
Cetra  allentata  le  stridenti  corde. 


Fimt  dtl  Cam»  Quitti* 


izz 

LA     MORTE 

D'ORLANDO 


CANTO    SESTO. 


ARGOMENTO. 

La  Maga  poi  d*  Angelica  la  pena 

Chiede  a  Plutcn  ,  perchè  spregi»  Magia  ; 
E  di  que"*  duo^  che  la  campagna  piena 
TP  istinti  fìr  :  Plutone  un  Mastro  invia  . 
San  ambì  in  ceppi  ;  a  vel  attui  li  mena , 
Or  chi  pub  dir  l'  affanna  far  qual  sia} 
Co  la  Donzella  entro  a  Cometa  poscia 
Veggion  gran  sose  3  e  soffrcn  cruda   angoscia , 

Ri. 
ichiama  ,  o  Musa,  l'uditor  cortese, 
E'  tempo  di  cantar  quel  ch'ai  promesso. 
Già  l'Aurora  gentil  si  fa  palese  , 
Già  il  Dio  de' Vati  a  l'Orizzonte  è  presso. 
Di  novello  vital#  foco  s'accese 
Ogni  vivente  pria  dal  sonno  oppresso  ; 
Cantan  tra  fronda,  e  fronda  i  pinti  Augelli, 
imita,  o  Muia,  il  scheggiar  di  quelli. 


CANTO    SESTO.       *z$ 

IL 

Pastcr,  che  guida  il  caro  gregge  al  prato, 
1E  i  pingui  armenti  a  lo  scorrente  fiume, 
Mentre  s'asside  a  la  sua  Ninfa  a  lato 
Per  diletto  tra  fiori ,  e  per  costume  , 
Cantar  t'oda  il  poter  d'Amore  irato, 
Sempre  ne  l'ire  sue  tcrribil  Nume, 
E  riva  intanto  a  la  sua  Donna  in  grembo , 
Oual  chi  sul  lido  surger  vede  il  nembo  . 
III. 

La  Maga  alfin  ,  che  a  gran  vendetta  aspira,, 
Certa  già  del  favor  di  Pluto  amante., 
Ora  che  si  divide  ,  e  si  ritira 
La  clamorosa  turba  festeggiale  , 
Torbido  mastra  pei  bollor  de  l' ira 
L'occhio  vivace,  il  magico  sembiante; 
Cede  al  furor,  che  l'agita,  e  la  sprona 5 
Ed  al  Nume  crudel  Cosi  ragiona. 
IV. 

Alto  Signore,  e  Principe  sovrano 
Di  me,  de  la  mia  Reggia,  e  de'  miei  Servi  * 
Io  qui  non  venni  a  molestarti  in  vano  , 
Ma  la  pena  a  cercar  d'uomin  protervi  ; 
E  il  mio  desir  punto  indiscreto,  o  strano 
Non  ti  parrà  ,  se  i  lor  delitti  osservi . 
Giustizia  sola  ad  implorar  m'invita 
Contro  i  ribaldi  tua  possente  aita. 
V. 

Colei  s  che  vedi  ne' miei  lacci  stretta 
Starsi  col  ciglio  accortamente  basso, 
Angelica  Visconti  in  Terra  è  detta  ; 
Mover  sapria  con  sue  lusinghe  un  sas^o* 
D|Amor  ne  V  arte  ella  si  fé  provetta  , 
Di  lascivi  piacer  si  prese  spasso  ; 
Giovin  non  è  ,  bella  non  è  ,  ma  destra , 
Ne  la  scienza  d'invaghir  maestra  . 

I  % 


i24         CANTO 

VI. 

Se  de  gli  amanti  suoi  desio  ti  preme 
Il  nome  udir,  tosto  saperlo  puoi; 
Io  dirtel  posso,  e  dirlo  tutti  insieme, 
Signor,  ponno  i  miei  fidici  Servi  tuoi. 
Ma  di  costei,  che  né  miei  ferri  or  geme, 
Parliam,  di  quelli  parlcrem  dappoi. 
De  l'empia  il  folle  ardir  per  meraviglia 
Ben  dee  farti  inarcar  1'  auguste  ciglia  . 
VII. 

Al  mio  Palagio  ella  per  mio  comando 
Venne,  su  Tale  d'un  Demon  portata. 
Troppo  lungo^ saria  ,  se  il  come,  il  quando 
Dir  ti  dovessi,  e  la  cagione  ingrata. 
Sappi  che  fin  co  lo  snudato  brando 
Io  stessa  da  costei  fui  minacciata  ; 
Ciò  sol  dico  ,  o  Signor  ,  e  non  ti  dico 
Quanto  il  suo  m'insultò  labbro  nemico. 
Vili. 

Né  il  sublime  poter  de  la  Magia 
Dirò  quant'ella  posto  abbia  in  iscLerno , 
Profano  ardir  ,  cui  sol  ci  ed' io  che  sia 
Pena  bastante  il  più  bollente  Inferno. 
Tutta  in  tue  man  l'aspra  vendetta  mia 
Ripongo,  o  Nume  ,  ed  il  supplizio  eterno. 
Di  te  degna,  e  di  me  la  pena  aspetto, 
Se  pur  ti  sono  ancor  gradito  oggetto  . 
IX. 

Al  mio  Palagio  duo  Guerrieri  amanti 
Vennero  armati  per  rapir  costei  ; 
Tu  s*i  ,  Signor,  quanti  feritile  quanti 
Caddero  estinti  de' Soldati  miei. 
Ah!  se  impuniti  vanno  oltraggi  fanti, 
Chi  più  dirà  che  Re  tremendo  sei  ? 
Trova,  trova  la  via,  Nume  sovrano, 
D'averli  entrambi  ne  l' ultricc  rnaao  # 


SESTO.  125 

X. 

Frcmea  Fiuto  a  quc'  detti  ,  e  lo  stupore 
Vedcasi  espresso  nel  feroce  volto. 
O  Donna,  disse,  non  aver  timore, 
Fien  puniti  costor ,  non  andrà  molto. 
Un  Diavol  ,  detto  Capitan  Terrore  ,  # 
Chiamò  ,  che  il  viso  avea  fra  corna  involto; 
Vanne,  gli  disse,  i  duoGucrrier  m'apporta», 
Che  la  mia  Squadra  anno  ferita,  e  morta. 
XI. 
Basta,  non  più  per  or,  non  più  si  canti 
D'  Inferno  ,  di  Demon  ,  d'orror,  di#  pene  j 
Fummo  abbastanza  fra  sospiri  ,  e  pianti, 
Entro  a  spelonche  di  dolor  ripiene. 
Tornerem  già  di  sangue  i  pie  stillanti 
A  riportar  fra  spaventose  scene. 
Più  il  pensier  non  ci  turbi,  almen  per  poco, 
Di  quel  fcral,  di  quel  terribil  loco  . 
XII. 
Seguasi  tosto  il  rio  Demon  veloce, 
Che  de'  Guerrieri  aver  contezza  io  bramo  • 
Voi ,  che  nel  Sol  degnaste  udir  mia  voce , 
Meco  or  scendete  ,  e  in  Terra  assiem  torniamo. 
Meco  a  mirar  venite  il  caso  atroce 
Di  quei,  che  vincitor  lasciato  abbiamo  . 
Ma  mi  trovo  così  salito  in  alto  , 
Che  non  saprei  come  spiccare  il  salto. 
XIII. 
Pur  cangiar  dee  Scrittor  di  varj  eventi 
Le  fila  spesso  per  ordir  sue  tele , 
Come  al  vario  soffiar  d'opposti  Venti 
Volge  saggio  Nocchier  le  gonfie  vele, 
Come  dotto  Scultor  cangia  strumenti, 
Sol  di  Natura  imitator  fedele , 
Ed  or  con  lima,  or  con  vital  scalpello 
Tocca,  e  ritocca  questo  membro,   o  quello. 


F3 


**<£         €    A     N     T     O, 

XIV. 

Convitn  perciò  che  seni*  indugio  io  dica v 
Ad  Orlando ,  ed  Orfeo  quello  che  avvenne, 
E  l'uno  ,  e  l'altro  con  somma  fatica 
Presso  al  Palagio  magico  pervenne, 
Questo  Palagio,  di.Piuton  l'amica 
A  duo  Dcmon,  che  corna  aveano ,  e  penne. 
Al  lor  cauta  fidò  che  a  voi  partissi 
Co' Servi  suoi  ver  gl'infernali  abissi. 
XV. 

Intorno  sempre  i  vigili  Custodi 
Errando  vanno  a  la  solinga  Reggia. 
Quando  giunger  colà  veggon  que' Prodi , 
Che  Io  spietato  Amore  arde,  e  dileggia. 
Fan  sì  che  vinta  da  inudite  frodi 
Quella  coppia  vittrice  esser  s'  avveggia  ; 
Ajnbi  di  vetro  lanciano  due  palle, 
D'Orlando,  e  Orfeo  su  le  robuste  spaile. 
XVI. 

Si  ruppero  le  palle  in  un  sci.  tratto  , 
Ed. usci  da  ogni  palla  una  catena, 
Che  strinse  lor  (  fulmin  non.  è  sì  ratto  ) 
E  mani ,  e  gambe ,  e  braccia  ,  e  collo  ,  e  schiena. 
Sì  che  di  moto  le  lor  membra  affatto. 
Rimangon  prive,  e  de  l'usata  lena. 
In  tale  stato  ritrovoUi  appunto 
L'  aUro  Dcmon,  quando  al  Castel  fu  giunta 
XVII. 

Chi  creder  mai,  chi  immaginar  potria 
Che  dopo  tante  imprese  ,  e  tai  prodigi, 
In  ceppi  stretta.!  e  a  voi  portata  sia 
Per  lo  poter  di  magici  prestigi , 
La  forte  coppia ,  che  arrossir  faria 
Ogni  Eroe  de  la  Senna  ,  e  del  Tamigi;, 
Degaa  che  al  nome  suo  Fama  risuoni , 
E  1&  profonda  Clio  tutti  i  suoi  dosai  ? 


S     E    S     T     Q..  i*r 

XVIIL 

Ah  [  gì'  inimici  de  l'umana  schiatta; 
Sol  deluder  potean  valor  cotanto  ; 
Que' Spirti  sol,  ch'eterna  colpa  imbratta 5 
Di  tal  delitto  potean  darsi  vanto, 
Spirti  ,  onde  guerra  sempre  a' Buoni  è  fatta  Y 
Che  sol  s' allegraci  di  Virtude  al  pianto, 
Come  Gufo  al  mirar  da  Notte  negra 
Oppressi  i  fiori  ,  in  rauco  suon  s'allegra» 
XIX. 

Sciogliete  ,  o  traditor,  que'  duri  ferri  , 
E  poi  reggete  a  quel  feroce  assalto. 
Sol  che  disciolto  il  braccio  l'or  v'afferri* 
Ne  gli  abissi  piombar  vi  fa  d'un  salto  ^ 
Ma  non  fi  a  che  timor  vinca  ,  od  atterri 
Queir  alme  salde  coaic  duro  smalto  ; 
Leon  feroce,  che  mancar  si  senta  , 
Mal  vivo  ancora,  il  Cacciator  spaventa» 
XX. 

Per  debellar  tutti  i  nemici  vostri 
Fulminate  uno  sguardo,  o  grandi  Eroi. 
Desia  sempre  tcrror  Guerrier,  che^  mostri 
Kon  estinto  valor  co  gli  occhi  suoi . 
L'illustre  Pirro,  onde  a  gli  orecchi  nostra 
Fama  ancor  suona  ,  illustre  al  par  di  voi  j, 
Fé  morendo  tremar  sol  con  un  guardo 
Il  braccio  vii  d'un  feritor  codardo.. 
XXI, 

Ma  in  van  favello  a  chi  già  più  non  m'ode' 
Ambi  quell'empia  li  solleva  al  Ciclo. 
D'Orfep,  d'Orlando  la  feroce  ,  e  prode 
Alma  si  cruccia  in  suo  terreno  velo. 
Ilrapitor,  che  tutto  esulta  ,  e  gode, 
Giunge  veloce  come  lampo ,  o  telo , 
Ricco  di  tanta  preda  ,  a  Pluto  innanzi  y  t 
Là.,  donde  il  piò  ritratto  abbiane  poc'anzi. 

?  4. 


izS         CANTO 

XXIL 

Musa ,  per  qual  destili  fra   pianti  ,  e  mali 
Tratti  Ja  cetra,  e  squillar  fai  la  tromba , 
Ove  d'atroci  gemiti  ferali 
Il  vasto  Regno  «li  Pluton  rimbomba? 
Ma  seguir  ti  convien  le  perfidiali 
Del  rio  Demon  >  che  ne  P  Inferno  piomba- 
Torniam  donde  partir,  donde  sperai 
Lungi  restar  più  lungo  tempo  assai . 
XXIII. 

Vennero  dunque  incatenati  insieme 

I  duo  Guerrieri  a  l'implacabil  Donno, 
Che  tutti  i  rei  con  ferreo  giogo  preme  , 
Quando  avvolge  Icr  salme  eterno  sonno  . 
L'ingegno  mio  dal  peso  oppresso  or  geme 
Di  tanta  mole,  e  i  versi  miei  non  ponno 

II  quadro  pinger  de'  possenti  affetti  , 
Che  a' rivali  amator  colmaro  i  petti. 

XXIV. 

Quadro  vivace,  che  pennel  richiede 
Tinto  a*  colori,  che  Amor  mesce,  e  tempra» 
Calde  proteste  di  giurata  fede  ,# 
Sospiri  ardenti,  in  cui  Palma  si  stempra  , 
Dolci  speranze  d'ottener  mercede, 
Per  cui  si  molce  il  duolo  ,  e  si  rattempra, 
Ecco  qual  v' attendea  misera  sorte, 
Per  quegli  amanti  assai  peggior  di  morte . 
XXV. 

Or  ne  dirò  quel  che  ne  posso  dire, 
Né  di  tai  pene  ignaro  io  son  del  tutto  ; 
Anch'  io  soffro  d'  Amor  crudo  martire  , 
E  sono  alquanto  in  quella  Scuola  istrutto  ; 
Avvampo  anch'io  di  fervido  desire, 
Che  in  me  germoglia,  e  non  produce  fruCto. 
Serbi  ciascun  quel  saggio  detto  in  mente  : 
„  Deh!  non  parli  d'Amor  chi  Amor  aon  sente". 


SESTO.  no 

XXVI. 
Que\  che  vidcrsi  a*  pie  cader  trafitti 
(Cosa  stupenda  !  )  tanti  Mostri  in  Campo, 
Ed  atterriti  fcr  pria  che  sconfitti  ,  ♦. 

Molti  fuggir  de  1'  armi  loro  al  lampo,    # 
(Oh!  come  anco  gli  Eroi  famosi,  invitti , 
Ne  le  pugne  d'Amor  trovano  inciampo!) 
Sentono  allora  per  l'amato  oggetto 
Di  tema  ignota  il  cor  balzarsi  in  petto. 
XXVII. 
Chi  li  vedesse  pallidi  ,  e  tremanti 
Star  presso  a  lei ,  che  tanto  amaro  in  Terra , 
Quelli  non  già  li  crederia,  che  innanti 
Celebrati  così  furono  in  guerra  ; 
M3  i  più  codardi ,  e  timidi  fra  quanti 
Da  l'uno  a  l'altro  Polo  il  Globo  ferra. 
Come  fdttciul,  bagnan  di  pianto  il  ciglio 
Ambi  al  mirar  d'Angelica  il  periglio. 
XXVIII. 
I  singhiozzi,  isospir,  gli  sguardi  incerti, 
Or  volti  al  suolo,  ed  ora  a  la  Donzella  ; 
Spesso  a  querule  voci  i  labbri  aperti  , 
Accusando  il  rigor  d'avversa  stella  ; 
E  de  le  braccia  ,  che  son  fatte  inerti, 
I  vani  sforzi  ,  onde  abbracciar  la  Bella  ; 
E  il  cangiante  lor  volto,  u'  si  discerne 
li  fier  contrasto  d'aspre  lotte  interne: 
XXIX. 
Indizj  son  di  quel  tormento  estreme  , 
Con  che  strazia  quel!'  alme  Amor  tiranno. 
Ma  fin  che  i  pianti  di  costoro  udremo, 
Non  mirerem  d'Angelica  l'affanno. 
Con  quali  actenti  il  suo  dolor  potremo, 
E  le  angoscie  mostrar,  chela  sen  le  stanno  t 
Or  che  fra  ceppi  Orlando  ,  e  Orfeo  rimira, 
Vittima  fatti  di  Plutone  a  l'ira? 

F  < 


irjo  C   A,    R    X     Q 

XXX. 

QuegU  occhi  neri,  e  lucidi,  che  il  piaatoj 
Adombra  ,  e  copre  ,  come  nube  il  Sole  , 
Ben  san  con  girar  lento  esprimer  tanto 
Quanto  esprimer  potrian  molte  parole. 
Ma  come  far  di  nube  il  raro  ammanto 
Più  caldo  il  raggio  del  grand'  Astro  suole  ; . 
Fiamma  così  ,  che  da'  begli  occhi  scoppia  , 
Si  ravviva  in  quel  pianto  ,  e  si  raddoppia, 
XXXI. 

Ove  son  l'ore,  che  su  verde  sponda. 
Pascea  lo  sguardo  in  que'  vivaci  lumi  , 
Diceva  Orlando,  presso  a  limpid' onda  ,. 
E  meco  stava  il  più  crudel  fra' Numi  ? 
Sussurrarmi  pietosa  udia  la  fronda ,  ^ 
livellarmi  d'  Amor  ruscelli  ,  e  fiumi. 
Ah  !-chi  pensato- avria  che  tasta  poscia 
Provar  dovessi ,  e  si  crudele  angoscia  ? 
XXXII. 

Spietato,  Amor ,  la  ricompensa  è  questa  .,_ 
Qa  te  serbata  a  chi  tcdel  ti  serve? 
Dunque  a' puri  amator  pena  s'appresta, 
Che  degna  è  sol    d'immonde  alme,  proterve  ? 
Dunque  ne' Regni  tuoi  contento  resta 
Sol  chi  leggier  di  vario  foco  ferve? 
Ah  hsc  ia  vita  di  colei  disprezzi, 
ì  migliori  tuoi  dardi  ,  Amor ,  tu  spezzi  . 
XXXIII. 

Le  dolenti  sue  voci  in  simil  forma t 
Orfeo  spargeva  ,  e  a'  lor  vani  lamenti  3. 
Come  d? 'alto  dolor  seguace  torma, 
I  sospiri,  i  singhiozzi  eran  presenti. 
Quel  tristo  suon  dolce  concento  forma 
Pel  fero  Pluto ,  e  moke  i  suoi  tormenti; 
Son  le  gioje  ,  i  piacer ,  pena  per  lui  , 
Sao  fletto  gli  atfanni3  i  pia .uri  ajtriù». 


S     E     S*    T     0\  ftp 

XXXIV. 

Se  alcun,  disse  ,  colmar  di  gioja  il  petto, 
Ninfa  vezzosa,  ed  allearsi  dcbbe 
A'ilor  che  giunto  in  suo  poter  l'oggetto 
Ravvisa  alfin,  che  tanto  pria  gl?  inerebbe  ; 
Or  che  son  tratti  al  mio  real  cospetto 
Gostor,  su  cui  sfogo  ih  furor  non  ebbe, 
Esserne  debbe  la  tua  gioja  immensa  ; 
Gioisci  dunque,  e. a  la  vendetta  or  pensa. 
XXXV. 
Siccome  i  rei ,  tutta  è  in  tua  man  del  pari 
De' rei  la  pena-,  e  di  Jor  folle  orgoglio. 
Se  i  detti  miei  non  ti  saran  discari, 
Opportuna  vendetta  offrir  ti  voglio. 
Ma  pria  che  a  favellarti  io  mi  prepari, 
T'accerto,  oDoana,  e  mai  mentir  non  soglio^ 
Ghe  legge  aver  le  brame  tue  non  denno  j 
Libera  scegli,  e  sarà  legge  uà  cenno  - 
XXXVI. 
Un  vecchio  Professor  d'Astronomia,- 
Ghe  assai  nel  Mondo  celebre  divenne  >-. 
Molto  parlottimi- di  Geometria  v 
Fin  eh' a  ie  sezion  del  Cono  venne. 
Su  quelle  Curve  in  lunga  diceria 
I  problemi  narrò,  ch'egli  rinvenne.,- 
E  varie  cose  su' duo  fochi  disse  , 
E  l'asse  doppio  de  l5  incerta  Ellisse,.. 
XXXVII. 
Di  che  parlando,  favellommi  ancora 
De'  Globi  immensi ,  che  aggirarsi  intorno 
A  questo  Sol,  che  il  Mondo  avviva,  infiora., 
E  de  le  pene  in  sé  chiu^  il  soggiorno, 
Di  vaste  Ellissi  entro  al  confine  ognora 
Vcggiarn,  seguaci  di  brillante  giorno  ; 
Al  Sol  ,  cui  d'Herschel  dotto  il  vetro  acuto 
Con. novello.  Pianeta  offre  un  tributo. 

Fó 


i$2  CANTO 

XXXVIII. 

Questi  armonici  ,  immensi  ,  obbliqui  giri 
Sol  d'Ellisse  àn  la  curva,  e  la  figura  i 
Curva,  che  io  tutti  variata  miri 
Dal  possente  Motor  de  la  Natura  . 
Par  che^  ogni  Globo  ad  accostarsi  aspiri , 
Che  d'intrecciar  le  Curve  ebbe  ilCiel  cura; 
Ned:  chiamati  son  gli  opposti  punti, 
Da  cui  questi  sentier  sembran  congiunti. 
XXXIX. 

D'  altri  Pianeti  favellarmi  pure  , 
Che  detti  son  Comete,  il  Mastro  \oììc\ 
Crcdeansi  un  tempo  presagir  sventure 
A'  purpurei  Tiranni,  e  al  Vulgo  folle. 
Segnan  pur queste  ellittiche  figure, 
Ma  Spazio^  immenso  al  guardo  uman  le  colle  , 
E  sì  lungi  dal  Sole  errando  vanno  , 
Che  per  Secoli  interi  ascose  stanno, 
XL. 

Pur,  benché  molto  si  dilunghili,  sono 
Tutte  congiunte  al  gran  Sistema  stesso, 
Ed  in  un  foco  lor  ,  siccome  in  Trono, 
Soltanto  al  Sol  fu  di  seder  concesso. 
L' irradiante  Re  lor  presta  in  dono 
La  coda,  il  crin,  quando  gli  stanno  appresso  ; 
Densi  vapori,  che  l'ardente  luce 
Spinge  ,  e  rischiara,  e  coda ,  e  crin  produce. 
XLI. 

Se  piace  a  te  che  gli  empj  tuoi  nemici 
Una  Cometa  ad  abitar  sien  tratti  , 
Splender  sempre  vedran  giorni  infelici, 
E  nel  Verno  di  g.-i  saranno  fatti; 
Ne  1'  Estate  dovran  le  fiamme  ultrici 
Provar  del  Sole,  e  quasi  ficn  disfatti  ; 
E  vivi  sempre  in  «juell'orribil  loco, 
Mtortc  nel  gel  vedran  3  Morte  nel  foco. 


&.    E    S     T     O.         133 

XLII. 

Qwesta  fu  di  Pluton  l'alta  sentenza, 
Che  da  Ja  Maga  fu  con  gioja  accolta; 
£  con  Orfeo  da  la  real  presenza, 
E  con  Orlando,  Angelica  fu  tolta  > 
E  si  trovar  per  magica  potenza 
Tutti  a  voi  trasportati  un  altra  volta  % 
Jeguiamli  ornai;  punto  indugiar  non  lice, 
E  con  Piuto  lasciam  la  Meretrice  . 
XLIII. 

Si  ritrovàro  in  una  gran  Campagna 
Piena  d'oscurità  ,  d'  orror  ripiena  . 
In  copia  scende  a  queli'  orror  compagna 
Gelida  neve,  onde  la  terra  è  piena  . 
Quella  neve  s' addensa  ,  e  si  ristagna 
Sì  che  dal  ghiaccio  si  discerne  a  pena. 
Esce  fischiando  dal  pietroso  ciaustro 
Minaccioso  a  lottar  Borea  con  Austro  . 
XLIV. 

Chi  fia,che  l'aspre  accenni  a  ciglio  asciutto* 
Di  quel,  cadente  gel  crude^  percosse  , 
Che  il  gentil  corpo  fean  livido ,  e  brutto , 
E  le  candide  membra  ,  o  negre  ,  o  rosse  , 
D'Angelica  sepolta  in  tanto  lutto, 
Senza  che  Morte  almen  ristoro  fosse  ? 
Tutti  dannati  sono  al  rio  martire 
Di  soffrir  sempre,  e  non  poter  morire. 
XLV. 

Ah!  non  fumin  più,  nò,  de' nostri  incensi 
L'are  d'Amor  abbominate,  immonde, 
Se  offrir  le  fiamme  sue  tali  compensi 
Sogliono  a  l'alme  da  ogni  vizio  monde. 
Qual  Donna  fia,  qual  Uom,  che  stenti  immensi 
Voglia  soffrir,  come  Nocchier  fra  l'onde  , 
Se  perir  dee  da  la  procella  assorto  , 
Se  ognor  dispera  de  l'amico  porto? 


c$4         &   ^    N    T     O 

XLVI. 

Prodigio  è  beri)  se  Angelica,  e- gli  amanti? 
Su  quel  gelo  arrestar  possono  il  piede. 
Volgono  i  passi  incerti  ,t  e  vacillanti  , 
Ma  il  guardo -attento  asilo  alcun  non  vede  . 
Orma  non  v' à  di  belve,  o  dubitanti , 
Che  a  tanto  affanno  ,  e  duol  prestin  mercede  J„ 
E  quei  Verno  crudel  tanto  gli  preme, 
Che  d'innoltrarsi  ancor  perdon  la  speme.. 
(  XLVII. 

Fra  tanto  spazio  ajfine  alto  Palagio- 
Vider  da  lungi  torreggiar  superbo. 
Ivi  sLtrasser,  ma  con  gran  disagio, 
Che  già  perduto  a vean  l'usato  nerbo. 
Speravan  là,  se  non  ristoro,  ed  agio  , 
Soggiorno  almen  trovar  non  crudo,  e  acerbo v. 
Un  uscio,  poi  scopersero  in  un  lato, 
Tutto  di  punte  stranamente  armato  . 
XLVIII. 

Orlando  allor  (  poiché  le  membra  sciolte 
A  tutti  furo  in  quel  soggiorno  ignoto) 
La  spada  strinse,  ed  assalir  più^  volte 
Le  punte  osò,  ma  vanno  i  coJpi  a  voto. 
Anzi  quel  brando,  che  per  molte,  e  molte 
Opre  famose,  in  Terra  tanto  è  noto, 
Non  regge  a  l'urto,  ma  il  Destin  funesto 
Fa  che  si  spezzi  al  quinto  colpo,  o  al  sesta. 
XLIX. 

Da  quel  Palagio,  che  somiglia  a  Tórre, 
La  cui  base,  fra  il  -gel  tutta  s'ascoisde, 
Voce  s'  udìo  sonori  accenti  sciorre 
Da  q-ueile  cieche  làtèbre,  profonde. 
Un  ,  che  più  vecchio  d'  Ecuba ,  o  Nestorre , 
Sembra  al  sembiante,  alto  rispetto  infonde. 
Molte ,  e  molte  costui  porte  solleva 
Qin  una  Iwnga,  e  resistente  leva,. 


S    E    S    T    O,  p  ? 

L. 

Del  labbro  suo  da  loco  oscuro.,  e  basso, 
Qual  di  mugghiente  Bore,  ìlsuon  rimbombar 
Infelice,  chi  sei,  che  poni  il  passo 
In  questo  orror ,  in  questa  più  che  tomba? 
Che  cosa  è  mai  P  insolito  fracasso  , 
Che  sovra  orecchie  intorpidite  piomba  > 
Perchè  vieni  a  turbar  quell'alto  sonno, 
Quel  silenzio  total,  eh' è  nostro  Donno?' 
LI. 
Tace,  sì  detto >  quell'incognito  Ente, 
E  per  Paltò  sopor  ricade  in  terra  ; 
I  detti  più ,  più  non  ascolta,©  sente- 
Lor  calde  preci':  ogn' uscio  si  riserra., 
Suolecosi  ne  la  stagione  algente 
Neghittosa  giacer  Talpa  sotterra. 
Angelica,  ci  Guerrier  con  nuovo  assalto 
Vorrian  destarlo,  e  spiccar- dentro  un  .salto».. 
LII. 
Con  quei,  che.  al  suolo  sparsi  eran,  frammenti 
Di  quel  suo  ferro,  ancor  le  punte  invade 
Orlando,  e  vibra  i  colpi  suoi  possenti, 
Quello  che  accade  pria,  di  miovo  accade., 
Aprono  lunghe  leve,  e  resistenti 
Le  varie  porte,  e  da  profonde  strade 
S'ode  una  voce  uscir  tremenda,  e  strana^. 
Molto  diversa  da  la  voce  umana. 
LUI. 
Non^  aspetta  no  Angelica,  e  gli  amanti 
Che  più  s'  abbjssin  P  innalzate  porte, 
E. fra  gì'  inerti  incogniti  Abitanti 
Pensano  un  salto  far  con  alma  forte  . 
Come  scende  Sparvier  sovra  i  tremanti 
PiCcion  presaghi  di  funesta  sorte, 
Scendon-  veloci  ne  l'aperto  Abisso, 
dicendo  :  Abbiàm  già  di  morir  prefisso v 


13*         CANTO 

LIV. 
E  se  vivi  restiam ,  d'avverso  Fato 
Fuggiamo  i  colpi ,  e  la  procella  orrenda  . 
Saltano,  e  Morte  loro  stassi  a  lato, 
Ma  non  cosi  ch'essa  gli  tocchi,  o  prenda. 
Benché  di  ferro  il  corpo  abbiano  armato, 
Sembra  che  lieve  sol  piuma  discenda  . 

I  corpi  quivi  non  sospinge ,  o  regge  , 
Come  fra  noi ,  di  Gravità  la  legge . 

LV. 

Le  porte  al  venir  lor  si  riserràro  ; 
Oscuro  è  il  loco, e  stretto,  e  basso,  e  chiuso, 
Lungo  quant' occhio  vede,  e  poco  chiaro, 
Perchè  raggio  di  Sol  mai  vi  s'è  intruso  . 
Soltanto  splende  fioco  lume ,  e  raro  , 
Che  indistinto  ogni  oggetto  offre,  e  confuso. 
Quel ,  che  tutto  rischiara ,  è  un  Arbor  grande , 
Che  i  lunghi  rami  in  ogni  parte  spande  . 
LVL 

Di  languido  chiaror  tutto  è  vestito 

II  grosso  tronco,  e  i  frondeggianti  rami, 
Chiaror,  che  al  sonno^  con  tacente  invito 
Par  che  tutti  i#  viventi  alletti,  e  chiami. 
Così,  d'esca  vital  lume  sfornito, 
S'altro  umor  non  l'avvivi,  e  noi  richiami, 
Al  dubbio  passeggier  pallido  splende , 
Mentre  l'ombroso  vel  Notte  distende. 

LVII. 
Mira  Angelica  iltutto  a  bocca  aperta, 
Son  di  stupor  colmi  i  Guerrier  gagliardi  ; 
Ogni  cosa  in  quel  loco  è  una  scoperta 
Prodigiosa ,  ed  ignota  a'  loro  sguardi  . 
De  gli  Abitanti  il  corpo  è  tal,  che  merta 
Chead  osservarlo  più  non  si  ritardi. 
Patitamente  mei  dipingi ,  o  Musa . 
Ma  sento  alcun,  che  di  mentir  t'accusa  . 


SESTO.  137 

LVIII. 

Ad  alta  voce  rinfacciarti  ascolto 
Che  de  l'altrui  credenza  abaso  fai, 
Ch'  esser  non  puote  il  pie  libero,  e  sciolto* 
De'Guerrier,  si  che  non  assonnin  mai  ; 
Mentre  quivi  in  sopor  ciascuno  avvolto 
Giace,  del  Sol  quasi  obbliando  i  rai  . 
Ma  risponder  tu  dei  che  effetto  è  questo 
Del  tiranno  di  Pluto  ordin  funesto  . 
LIX. 

Fero  a  ciascun  le  rime  tue  palese 
Del  rio  Pluton  la  volontà  feroce; 
Ei  vendicò  le  ricevute  offese, 
Di  quel  soggiorno  co  la  pena  atroce. 
Perciò  sopore  i  membri  lor  non  prese , 
Perciò  sorda  fu  Morte  a  la  lor  voce , 
Acciò  geman  colà  senza  ristoro 
De  l'aspro  Verno  nel  crudel  martoro  . 
LX. 

Di  quegli  abitator  dura  è  la  pelle 
Siccome  quella  del  famoso  Orlando  , 
O  d'Achille,  il  cui  nome  infra  le  stelle 
Il  cieco  Vate  sollevò  cantando. 
E  pelle  tal  ben  si  conviene  a  quelle 
Genti ,  che  tanto  erran  dal  Sole  in  bando  ; 
Onde  lor  fluidi  interni  abbian  soccorso, 
Cui  gelid'aura  arresterebbe  il  corso. 
LXI. 

Veste  non  àn  ,  che  a  la  station  severa 
Offra  riparo,  ed  alti  son  due  braccia. 
>An  nere  chiome,  e  corte,  e  barba  nera , 
Tristo  ornamento  di  più  trista  faccia . 
Non  vede  alcun  di  lor  mattina  o  sera  , 
Sol  densa  Notte  al  lor  pensier  s'affaccia. 
Pietoso  il  Ciel,  che  li  fé  nascer  ciechi, 
L«ro  ascose  l'orror  di  quegli  spechi. 


rj8  C     A     N    T     Q 

LXIL 
Poco  s' innalza  su  la  faccia  il  naso -, 
E  no»  isporge  più  che  un  mezzo  dito, 
Molto  sotto:  a  la  fronte  è  largo  ,  e  spaso  , 
Scende  a  la  bocca  ,  e  in  punta  iti  è  finito  .• 
In  ambo  i  sessi  è  tutto,  e  non  a  caso  , 
Di  folto  pelo  il  ventre,  e  51  sen  fornito  , 
E  sparso  ovunque  denso  pcl^  si  scopre  , 
Che  bracciale  gambe, e  pie  circonda,  e  copre. 
LXIII. 
Di  bocca  in  vece  à  il  maschio  un  foro,  cinto 
Da  pelle  tal,  che  si  prolunga,  e  striage , 
Qua  1  Cono  appunto  ,  e  il  Cono  entro  al  recinto 
Di  questo  foro  la  sua  base  spinge. 
L'umor,  che  désta  jl  lusinghiero  istinto, 
Con  cui  Natura  a  riprodur  sospinge, 
Quivi  è  riposto,  e  vescichetta  il  chiude, 
Che  eoa  valvula  s'apre,  e  si  richiude. 
LXIV. 
A'  la  Eemmina.  un  membro-,  che  si  stende,, 
E  in  quel  Cono  maschil  penetra  audace  ; 
L' umor  Tn*  assorbe  ,  e  questo  umor  discende 
De  V  inerte  a  turbar  Germe  la  pace  . 
Chi  di  Falloppio  ricercar  pretende 
Le  tube,  e  l'alvo,  dove  il  Feto  giace, 
Nel  ventre  nò,  ma  vedrà,  questo ,  e  quelle: 
Ove  stanno  fra  noi  denti,  e  mascelle. 
LXV. 
Oh!  sempre  grande,  e  ne' segreti  tuoi 
Profonda  sempre,  immensa,  alma  Naturai 
Quel  che  fai,  quel  che  pensi,  e  quei  che  puoi*. 
Mortai  superbo  in  van^ saper  procura. 
Madre  sei  di  portenti  ignoti  a  noi, 
Proteo  sei  tu,  che  ognor  cangia  figura.. 
Chi  mai  formarsinel  pensi€r  potea. 
E>i  tali  sessi  la  bizzarra  idea?: 


S     E     S     T     O.  139 

LXVI. 

Trcggi ,  traggi  quel  vcl ,  che  a  vista  umana 
Mille,  e  mille  opre  tue  ricopre,  e  cela  ; 
Tua  possanza  dimostra,  e  l'arte  arcana 
De'  tuoi  lavar  sublimi  alfin  ci.  svela  . 
Ciò  che  a  scoprir  la  mente  nostra  è  vana  , , 
A  P occhio  scrutator  offri,  e  rivela, 
Come  ad  alto  Sipario,  appar  ripiena 
Di  sparse  faci  la  dipinta  scena  . 
LXVII. 

Tanti  ingegnosi  Pensatori  illustri, 
Ghe  ricolmaron  d'olocausti  dotti 
L'are  tue  sacre,  e  a  te  di  studj  industri 
Tributo  fero ,  e  di  vegliate  notti  , 
Mertan  che  alfin  tu  le  tenèbre  illustri , 
Che  alfin  sieno  i  Mortali  al  Ver  condotti  , 
Ne  più  celi  Ignoranza  aspra,  e  proterva 
I  miglior  tuoi  tesori  a  chi  t'osserva. 
LXVIII. 

Mille  inviluppi ,  labirinti  ,  abissi 
Togli,  fra  cui  PUom  si  smarrisce,  ed  erra, 
E  non  sa  dove  il  pie  mal  fermo  ei  fissi , 
E  in  tanto  Mar  non  sa  qual"  sia  la  terra. 
Ma  gl^  sguardi  profani  al  suolo  arfissi 
Non  mirin ,  nò  ,  ciò  che  ij  tuo  Tempio  serra , 
Ne  si  veggian  strisciar  sozzi  Colubri 
Né  penetrali  de' tuoi  gran  Delubri. 
LXIX. 

I  dotti  sol  ....  ma  basta,  or  io  ritorno 
À  la  Cometa,  in  cui  vedemmo  il  sesso, 
De  gli  Abitanti:  dove  fa  soggiorno 
Lingua,  e  palato  in  quelli ,  avrem  l'accesso. 
Lingua,  e  palato  a  Pumbilico  intorno 
Si  stanno,  e  i  denti  al  basso  ventre  appresso,. 
Sì  che  qualor  non  li  fa  muti  il  sonno, 
Ventriloqui  nomar  tutti  si  potino . 


i4o         CANTO 

LXX. 

Dal  corpo  informe  lor,  che  sembra  imi  tronco» 
Escon  le  braccia  ad  un  girar  di  ciglia  , 
Quando  lor  piace  ,  e  il  braccio  corto,  e  monco, 
Or  s'arresta,  or  si  mueve  a  meraviglia. 
S'asconde  spesso,  e  par  reciso,  e  tronco, 
Nel  crudo  Verno,  e  il  moto  poi  ripiglia, 
Come,  qualora  urto,  o  periglio  fugge, 
Nel  duro  guscio  Chiocciola  rifugge. 
LXXI. 
Signor,  diceva  un  misero  abitante, 
Che  al  novello  romor  erasi  desto; 
.Sempre  ascose  serbiamo,  e  braccia,  e  piante 
In  questo  Verno  rigido,  e  funesto. 
Fin  che  il  benefic' Astro ,  or  sì  distante  , 
S'appressi,  e  scacci  il  rio  sopor  molesto  ;  ^ 
Che  ci  scaldi,  e  sviluppi,  e  mova,  e  irraggi  » 
L'  alta  virtù  de'  suoi  cocenti  raggi . 
LXXII. 
Mentre  di  gelid'aura  il  soffio  avverso 
Domina  ,  regna ,impervertiscc,  infuria, 
Vittimesiamo  di  Destin  perverso, 
Copia  di  male  abbiam,  di^  ben  penuria  • 
Certo  di  Pluto  contro  noi  converso 
IMI  braccio,  o  «quelto  di  spietata  Furia. 
Miseri  noi ,  se  a' nostri  membri  il  Cielo 
Non  prestasse  un  rifugio  in  tanto  gelo! 
LXXIII. 
La  vita  nostra  è  da  letargo  oppressa  , 
E  tutta  quasi  d'  ogni  senso  è  priva  ; 
La  gioja  è  sol  ne' volti  nostri  espressa 
Qualor  comincia  la  stagione  estiva  . 
D'agire  alior  ciascun  di  noi  non  eessa, 
Par  che  s'animi  allora,  e  che  riviva  , 
E.  le  membra  ciascun  valide,  e  pronte 
Serba  al  piacer,  che  de  la  vita  è  fonte. 


SESTO.  141 

Lxxiy. 

Aìlor  che  in  somma  vicinanza  al  Sole 
Questo  Pianeta  in  su©  girar  ci  porta, 
Tanto  è  l'ardor,  che  il  maggior  Astro  suole 
?ra  noi  destar,  che  morte  a  tutti  apporta. 
Giacciono  allor  Tossa  spolpate,  e  sole, 
E  le  ceneri  poi  l'aura  trasporta. 
Denso  vapor,  cherare  fassi  ,  ed  esce  , 
Col  ccner  nostro  in  coda,  e  crin  si  mesce  . 
LXXV. 

Tutti  periam,  ma  i  figli  nostri  avvolti 
Fra  le  pareti  stan  di  dura  scorza  , 
Che  dei  sommo  bollor  di  molti,  e  molti 
Anni  resiste  a  la  terribil  forza  . 
Vanno  da  quella  poi  liberi  ,  e  sciolti  , 
Il  vampo  struggitor  quando  s'ammorza; 
Rompe  la^ prole  il  guscio,  e  vita  serba 
Fin  che  ritorna  la  stagione  acerba. 
LXXVI. 

Favella  ognuno  allora,  e  s'alimenta, 
Ma  in  quella  prima  età  voce  gradita 
Mai  non  avvicnchc  in  sé  conosca  ,  o  senta, 
Con  cui  Natura  a  riprodur  c'invita. 
Lo  stimolante  umor,  che  ci  fomenta, 
T\  ministro  il  Piacer   fa  de  la  vita  , 
Giammai  Natura  in  noi  produce,  e  ferma  , 
Se  assopito  ciascun  prima  non  dorma  . 
LXXV1L 

Sempre  al  nostro  morir,  al  nascer  nostro 
Vario  stuolo  compagno,  e  muore,  e  nasce 
D'  altri  Viventi  ,  che  or  io  sguardo  vostro 
Non  vede  ,  e  quello  stuol  tutti  ci  pasce. 
Avvi  talor  qualche  feroct  Mostro  , 
Quando,  stemprato  il  gel,  tutto  rinasce. 
Forse  turba  minor  non  si  rinserra 
D'esseri  qui,  che  su  la  vostra  Terra. 


i4*      CANTO    SESTO, 

LXXVIII. 
Dopo  questo  parlar  colui  s' immerse 
Ke  1'  usato  sopor  alto  ,  e  profondo  , 
E  cogli  amasti  Angelica  a  diverse 
Parti  si  volse  de  P  ignoto  Mondo. 
Tutti  al  fuggir  le  menti  avean  converse , 
E  il  Ciel  mostrossi  a'  voti  lor  secondo  . 
Taccia  per  or  di  più  saper  la  brama  , 
Che  J' obbliato  Ulisse  a  sé  mi  chiama. 


Win*  4*1  CaftU  Stste  i 


*4ì 
LÀ     MORTE 

Df  ORLANDO. 


CANTO    SETTIMO. 


ARGOMENTO. 

isabella  gentil ,  che  quasi  uccisa 

"Da  Ulisse  fu  ì  l' abbraccia  ,  e  lo  conforta  $ 

Il  nodo  stringer  nuotai  divisa 

Nel  Franco  suolo  ,  ed  a  partir  /'  esorta . 

Salpano  in'  agii  legno  y  Amor  s*  avvisa 

Turbar  gli  amanti ,  e  gran  procella  ì  insorta , 

$*;  />W/  ;7  /*c**  ;  resta  Ulisse  vivo 

Ccn  Fior diligi ,  /  d*  Isabella  i  priv*  . 

c  i. 

Odegni,  risse,  vendette,  e  gelosie, 
iospecti  ,  otte  se,  sconoscenze,  ed  onte, 
Crudeltà  ,  infedeltà  ,  trame  empie  ,  e  rie, 
Sempre  ,  quai  mine  ascose,  a  scoppiar  pronte  > 
E  di  bell'alme,  al  mal  oprar  restie, 
Vane  querele  al  piano  sparse,  e  al  Monte; 
E  solo,  ingiusto  Amor,  per  tuo  comando 
Il  Vizi©  in  Trono,  e  la  Virtudc  in  bando: 


i44         CANTO 

IL 

De  la  possanza  tua  gli  effetti  questi , 

0  Nume,$on,  meravigliosi,  e  strani; 
Son  de  gli  strali  tuoi  colpi  funesti , 
Con  cui  godi  squarciar  gli  animi  umani. 
Impudici  talor  fansi  i  modesti, 

Falsi  i  veraci  ,  ed  i  prudenti  insani, 

1  pietosi  crudei ,  feroci  i  miti  ; 
Ciascun  per  te  cangia  costumi,  e  riti. 

III. 
Ben  di  tua  crudeltà  narrare  or  voglio 
Pruova  "tremenda ,  che  tacer  non  posso  . 
Voglio  narrar  l'asprissimo  cordoglio, 
Che  del  più  fido  amante  à  il  cor  commosso, 
Fido  amator,  che  dal  tuo  ferreo  Soglio 
Mai,  per  volger  di  tempo,  à  il  pie  rimosso. 
Che  premendo  il  sentier  da  te  prescritto, 
Sol  da  te  fu  condotto  a  gran  delitto . 

IV. 
D*  Ulisse  parlo  ,  e  de  la  giostra ,  in  cui 
Venne  col  Duca  a  sjngolar  battaglia . 
Colei,  che  adora,  ti  riconobbe  in  lui, 
Sotto  spoglie  mentite  ,  «  ferrea  maglia  ♦ 
Veder  vinta,  atterrata  a' piedi  sui 
Beltà  ,  cui  niuna  al  guardo  suo  s'agguaglia  , 
Vedersi  in  atto  di  ferirla  ei  stesso, 
Da  1'  aspro  duol  fa  eh' ci  rimanga  oppresso. 

V. 
Qual  da  fulmin  percosso,  ei  cade  al  suolo,. 
Indi  sparge  lamenti  ,  e  prieghi ,  e  pianto, 
E  in  mille  forme  il  lacerante  duolo 
Fa  palese  a  colei,  ck'egli  ama  tanto. 
Ella  ,  qual  favo,  che  P  assiduo  stuolo 
D'  Api  stillante  fé  di  mei  cotanto, 
Versa  dal  labbro  suo  favella  dolce  , 
Che  il  vinto  YÌncitor  rinfranca  ,  e  folce. 


SETTIMO.         14, 

VI. 

Sorgi,  mio  ben  ,  disella,  e  ti  conforta  ; 
Di  pianger  no  ,  ben  d' allegrarti  è  tempo  , 
La  Donna,  che  ciascun  credea  già  morta  , 
E  viva,  e  salva,  e  tua  pur  vedi  a  un  temp© . 
Oh!  felice  battaglia,  che  m'apporta 
Cosa,  che  tanto  ò  sospirato  un  tempo, 
E  di  che  non  ardìa  serbar  più  speme! 
Or  lieti  ailìn  ritorneremo  insieme  . 
VII. 

Ambo  innocenti  siamo,  o  pari  è  il  fallo. 
Se  fallo  v*  à#,  che  involontario  sia; 
Ambo  1*  armi  stringemmo  in  questo  vallo, 
Men  che  tua  destra ,  non  è  rea  la  mia  . 
Cercando  al  mio  dolor  qualche  intervallo, 
Co  P elmetto,  e  l'usbergo  errando  io  già  ; 
Fra  perìgli  lasciar  volea  la  vita, 
Che  senza  te  non  m'era  più  gradita  . 
Vili. 

Or  che  la  sorte  con  si  strano  mezzo 
A  te  mi  guida,  per  cui  solo  io  vivo, 
Mentre  il  mio  core  a  tanti  affanni  in  mezzo 
Sempre  languia  ,  d'ogni  conforto  privo; 
Qual  chi  di  career  toltoal  lutto,  al  lezz», 
L'ampio,  sereno  Ciel  mira  giulivo, 
Sì  lieto  istante  appieno  io  goder  voglio; 
Deh  !  non  turbarlo  tu  col  tuo  cordoglio  .  - 
IX. 

Con  tai  querele  un  fido  amante  accoglie 
La  Donna  amata,  che  al  suo  sen  ritorna, 
Poi  che  molt'anni  rinverdir  le  foglie 
Vide,  e  di  spiche  andar  Cerere  adorna  > 
Da  lei  diviso,  che  pudica  Moglie 
Farsi  sospira  or  che  con  lui  soggiornai 
Forse  vorrai  con  bgrimoso  volto 
Sveller  quei  iior,  che  a  te  serbai  non  colto? 


G 


i*6         C     A     N-T"  O 

t  X. 

Al  suon  gradito  de'  soavi  detti 
Calmossi  alfin  1'  amante  d' Isabella 
(  E' questo  il  nome  suo)  taccion  gli  affetti, 
Che  tal  d'  Ulisse  in  cor  mosser  procella. 
Corri'  un,  che  morte  da' fucili  aspetti, 
Riman  ,  se  de  la  grazia  ode  novella, 
Penetrato  così  da  meraviglia  , 
Inarca  Ulisse  a  quel  parlar  le  ciglia. 
XI. 

Ma  poscia  ii  pianto  a  lo  stupor  successe, 
Pianto  ,  non  più  di  duol ,  ma  di  contento. 
Sul  vago  labbro  ei  caldi  baci  impresse, 
Che  a  render  mai  non  fu  quel  labbro  lento  . 
Tosto  al  suo  core  ardente  strai  diresse 
Lo  scaltro  Amor  nel  lusinghier  momento,  i 
Son  le  fiamme  d'Amor  sempre  vivaci, 
Miste  a  teneri  amplessi,  a  caldi  baci. 
XII. 

Com*  olio,  carta,  pece,  o  suco  estratto 
Da  distillato  fior,  o  pianta  ,  od  erba, 
Cade  un  liquor  la  Chimic'arte  à  fatto, 
Che  per  delizia ,  e  per  odor  si  serba  ; 
Arde  in  un  punto  ,  e  si  consuma  allatto 
lotto  il  poter  di  fiaccola  superba, 
O  come ,  se  del  Sole  i  rai  riceve  , 
Tinta  si  stempra ,  e  liquefa  la  neve  : 
XIII. 

Così  l'ardor  de  l'infocato  dardo, 
Del  fido  Ulisse  il  core  accende  ,  infiamma  ; 
Le  parole,  i  sospiri,  il  volto,  il  guardo, 
Tutto  palesa  l'amorosa  fiamma. 
Non  sì  veloce  di  Leone  ,  o  Pardo, 
Fugfe  il  noto  ruggito,  o  Cerva,  o  Damma, 
Come  serve  ad  Amor  le  due  bell'alme 
Fuggon  di  Marte  le  cruente  palme . 


SÉTT  I  M  O,         i4? 

XIV. 

Non  più  dì  pugne  al  dubbio  evento  a spiY-a , 
Me  di  giostre  favella  il  buono  Ulisse, 
Ma  dei  sommo  piacer ,  che  Amore  inspira 
JNel  sacro  nodo,  che  Onestà^  prescrisse . 
Perch'  egli  ,  ed  Isabella  avriano  in  ira 
Di  trarre  il  giglio,  onde  Natura  il  fisse, 
3E  che  di  Donna  è  il  più  pregiato  fregio, 
Con  man,  che  apporti  onta  a  l'onore,  e  sfregi© , 

Ulisse  Turco  fu  ;  di  Maometto 
poscia  il  culto  lasciò  pel  culto  vero; 
Seguì  la  Croce  ,  ed  ogni  suo  precetto 
Con  piena  fede ,  ed  animo  sincero  . 
De  l'amata  Isabella  ij  vago  aspetto, 
Il  pianto,  i  detti  suoi  tant'opra  fero. 
Chi  detto  avria  che  fatto  avesse  acquisto 
Beltà  terrena  d'un  seguace  a  Cristo > 
XVI. 

Quelle  giostre  durar  parecchi  giorni 
Fra  liete  danze  ,  e  dilettosi  giochi  . 
Cavalier  v'  accorrean ,  di  lauri  adorni , 
E  da  lontani  ,  e  da  vicini  iochi . 
Ma  nel  vegnente  dì,  prima  che  aggiorni, 
Di  festevoli  al  suon  plausi  non  pochi, 
Parte  V  amante  coppia,  e  in  agii  Legno 
Da  P  Egitto  si  volge  al  franco  Regno  . 
XVII. 

Sta  d'Isabella  in  Francia  il  patrio  suolo, 
Ove  Imene  agitar  dovea  sue  faci. 
II  vasto  Nilo  pria  varcan  di  volo, 
Che  le  terre  far  suol  tanto  feraci. 
Entran  poscia  nel  Mar,  che  fu  di  duolo 
Spesso  cagion  pe'  scogli  suoi  fallaci, 
Da  varie  Terre  circondato  ,  e  stretto, 
E  fu  perciò  Med:UrrA?te*  detto. 


Qx 


148         C    A     ti     T     O 

XVIII. 

Ma  il  crudo  Amor,  che  sol  s'allegra  ,  e  gode 
L'alme  in  veder  da  Sorte  avversa  oppresse, 
Come  se  gloria  a  sua  possanza ,  e  lode 
Solo  apportar  la  pena  altrui  dovesse  ; 
Va  meditando»  o  per  forza,  o  per  frode, 
O  per  destro  parlar,  se  mai  potesse 
Al  periglio  esultar  di  questi  due. 
Che  scodo  son  de  le  ferite  sue. 
XIX. 

Nudo,  se  non  ch'avea  l'arco,  e  gli  strali^ 
E  di  ricciuto  crin  gli  omeri  sparsi , 
Ei  scese  allor  di  Zeffiro  su  V  ali , 
5  parve  l'aura  più  serena  farsi. 
Il  feritor  de' Numi  ,  e  de'  Mortali ,  # 
Vide  sotto  al  suo  pie  l'onda  squarciarsi. 
Per  riverenza  si  diviser  l'acque, 
Memori  ancor  dsi  dì  ,  che  Cipria  nacq»€. 
XX. 

Scese  veloce  a  la  sonante  Reggia 
Dei  glauco  Nume,  che  il   Tridente  scuote. 
Gli  sorride  ciascuno,  e  io  festeggia, 
Che  a  tutti  son  le  sue  sembianze  note. 
Stringe  allor  la  Nereide,  e  la  vezzeggia, 
Vecchio  Triton,  che  più  tentar  non  puote, 
E  il  muto  abitator  ,  che  Amore  attizza  , 
Per  desio  del  piacer  festoso  guizza . 
XXL 

Fu  da  Nettuno  il  picciol  Nume  accolto  ; 
Ei  fra  le  braccia  il  prese ,  e  carezzolio  ; 
Ed  Anfirrite  accoglimento  molto 
Fègli  ,  e  corona  de  le  braccia  al  collo  e 
Delusa  poi  dal  fanciullesco  volto  , 
Di  dolci  frutta  il  volea  far  satollo. 
Nò  ,  nò,  rispose  Amor,  vivosoltanto 
Di  baci  ardenti ,  di  sospir3  di  pianto  . 


SETTIMO.         149 

XXII. 

I   O  de  l'onde  Signor  ,  disse  a  Nettuno  , 
>a  te  spero  ottener  quel  eh'  io  domando; 
ntervailo  fra  noi  non  avvi  alcuno , 
4ume  sei,  Nume  sono  ,  anch'io  comando. 
jlura  ,  onde ,  e  suolo  io  ne'rniei  Regni  aduno  , 
/olan  gli  augei,  nuotano  i  pesci  amando; 
\mano  l'erbe,  i  fior,  le  fronde,  i tronchi... 
ivla  intempestivo  favellar  si  tronchi. 
XXIII. 
Quel  Legno  vedi ,  che  1*  azzurro  dorso 
Preme  del  Mar;  gli  spira  il  vento  in  poppa: 
Ai  Franchi  lidi  esso  rivolge  il  corso 
Veloce,  qual  Destrier,  quando  galoppa. 
Prestar  mi  dei  tuo  valido  soccorso, 
Tanta  a  turbar  felicità,  eh' è  troppa. 
Felicità,  per  la  cui  dolce  calma 
Lsngue  ,  e  si  spegne  il  foco  mio  ne  l'alma. 
XXIV. 
Signor,  qual  sempre  il  miocostwme  èstato  > 
Per  pruova  appieno  tu  sapesti ,  e  sai  , 
E  ti  dei  rammentar  quanto  à  costato 
Anfitrite  al  tu©  cor  ,  quel  che  fatto  ài . 
Un  Delfino  da  te  fu  collocato 
Fra  gli  Astri  ,  e  cinto  di  vivaci  rai  , 
Perchè  di  quello  il  mostruoso  dorso 
Seppe  a'  desiri  tuoi  prestar  soccorso. 
XXV. 
Or  che  a  que'  duo  Fortuna  amica  arride  3 
Vo'si  lieta  domar  coppia  superba, 
Vo'che  sua  sicurtà  fra  1'  onde  infide 
Smarrisca  alfin  ,  che  follemente  serba  . 
Sappia  eh'  Ilio  costò  meno  ad  Atride  , 
A  Cesar  di  Pompeo  la  morte  acerba  , 
Men  tante  palme  ad  Alessandro,  e  tante, 
Ch1"  io  fò  costar  Tesser  felice  amante. 

G  3 


ifo         C     A     NT    0 

XXVI. 

Per  tuo  cenno,  oSignor,  dunque  s' innalz* 
De' Venti  al  soffio  un  improvviso  nembo; 
Massa  d'  oscure  nubi  il  Sole  incalzi , 
E  i  1  celi  poi  col  procelloso  grembo . 
Nunzia  del  tuono ,  la  saetta  sbalzi 
Da  quelle  nubi,  e  ne  serpeggi  il  lembo; 
E  il  Mar  sommosso  l'agitate  spalle, 
Ora  in  Monte  sollevi ,  or  apra  in  Valle. 
XXVII. 

Non  più,  disse  Nettuno  (e il  gran  Tridente 
Scosse  ,  e  tutto  tremar  fé  l' Oceano .  ) 
Va,  che#  su'  Venti  ancor- tu  sci  possente; 
Schiudi  il  carcere  lor  con  la  tua  mano . 
Fer  mio  comando  a  quello  stuol  fremente 
Frenar  lo.  sdegno  imponi  ,  e  *1  soffio  insano  , 
Fa  che  seguace  a  te,  giunto  al  mio  soglio, 
Tranquillo- accolti,  ciò  che  dirgli  io  vogHo» 
XXV/IL 

&€lo  parte  ,  e  co*'  vanni  Amor  veloce 
Remeggia  appresta,  e  solca  il  Mar  profondo.,, 
Dopo  breve  sentier  romore  atroce 
Sente  ,  onde  suona  de  gli  Abissi  il  fondo 
Ivi  s' asconde  il  Popolo  feroce  , 
Che  scuote*  spesso  i  cardini  del  Mondo. 
Non  teme  il  Nume  Arcier^  tanto  fracasso , 
3E  là  rivolge  audacemente  il  passo. 
XXIX. 

Vieta  P  ingresso,  di  queli'  antro  oscuro  > 
Che  i  Venti  chiude ,  ferrea  porta  antica . 
Ma  vuole  Amor,  del  suo  poter  sicuro, 
Quella  porta  atterrar  senza  fatica . 
Un  dardo  vibra,  e  qual  si  stempra  il  duro 
Ghiaccio  a' raggi  del  Sole  in  piaggia  aprica , 
La  porta  ceàc  :  Amore  in  brevi  accenti  # 
Pi  Nettuno  il  comaado  espone  ai  Venti, 


SETTIMO..        *$.* 


XXX. 

V  usata  benda  non  copria  Ja  faccia 
Del  Nume  allora,  e  il  cavernoso  loco*    " 
Ei  desia  di  veder,  ma  non  s'affaccia 
Lume  di  Sole  a  lui,  d'  Astri  y  o  difoco. 
Notte  feral  quelle  caverne  abbraccia, 
Notte  mista  a  quel  suon  tremendo,    e  roeo 
Nulla  discopre  Amor  ;  di  ferri  H  suono 
Ode  soltanto,  e  un  muggir  pari  al  tuono, 
XXXI. 

Ma  rlDio,che  i  tronchi, i  sassi  anima  e  muove 
Più  che  far  non  potrian  magiche  voci; 
Che  spegner  puote  il  folgore  di  Giove» 
Svolgere  i  Fiumi  da  le  usate  foci  ; 
Quelle  importune  tenebre  rimuove 
Con  un  de  gli  aurei  suoi  dardi  veloce 
Egli  accende  lo  strai  su  la  faretra, 
Oual  zolfanello  su  focaja  pietra» 
XXXII. 

Fio  che  ?hcque  té  Autor ,  fame  vh^c-t 
Sparse  quel  dardo,  e  tutta  estinte  a  un  tratta 
Freccia  di  piombo  la  destata  face  , 
Freccia,  che  a  l'aureo  strale  avversa  è  affatto. 
Con  essa  Amer  calma  ridona  ,  e  pace  , 
Per  essa  un  amator  nemico  è  fatto. 
Fece  colà,  come  in  umano  petto, 
Quella  plumbea  ministra,  opposto  effetto. 
XXXIII. 

Ma  di  ciò  favellar  più  non  occorre  . 
Volgiam  lo  sguardo  a  1'  orrido  soggiorno» 
A  quell'antro  cioè,  prigione,  o  torre, 
Ove  Amor  trasse  dal  suo  dardo  il  giorno; 
Ed  a  que'  ferri ,  onde  non  s*  anno  a  sciorre 
I  Venti  mai ,  con  lor  dispetto  ,  e  scorno  ; 
Che  l'aure  ,  e  l'onde  perturbar  non  denr.  >  , 
Se  di  Ncttun  pria  noi  comanda  un  cenno  , 

G    4 


i5*         C    A     N    T    O 

XXXIV. 

Quel?  immensa  prigion ,  quell'antro  orrendo 
In  Terra  par  che  paragon  non  abbia. 
Meglio  si  puotc  immaginar  tacendo, 
Cotanto  orror  ,  eh*  esprimerlo  con  labbia  . 
Career  simil  non  ideò  fremendo 
Tiranno  mai  per  saziar  sua  rabbia, 
Rabbia,  che  spesso  con  mentita  veste 
Di  fallace  Giustizia  si  riveste. 
XXXV. 

Rabbia  ministra  ieì  celeste  sdegno , 
Che  a  tanti  un  tempo  dispietati  Mostri 
Volle  affidar  di  tante  Genti  il  regno , 
Perchè  fossero  autor  de* mali  nostri. 
Talora  a  V  Uom  d'  alto  supplizio  degno 
Convien  che  il  braccio  punitor  si  mostri , 
Del  Cielo  il  braccio,  che  sul  Trono  innalza 
Belve  fuggite  da  pietrosa  balza . 
XXXVI. 

Belve >  uomin  nò;  troppo  de  PUom  nemici 
Fran  costor  ,  troppo  a  Clemenza  sordi , 
Troppa  nutrian  di  far  tutti  infelici 
Brama ,  e  vedersi  ognor  di  sangue  lordi . 
Oh  !  questi ,  in  cuip  viviam ,  tempi  felici  ; 
Or  Giustizia  ,  e  Pietà  regnan  concordi. 
Filosofia,  che  alfin  sua  face  scosse, 
Poggiò  su* Troni,  e  Tirannia  rimosse. 
XXXVII. 

Mai  de'  Viventi  si  funesta  tomba 
Non  apprestò  Tirannide  proterva  y 
Per  cui  tanto  squillar  fa  Clio  la  tromba  , 
E  lugubre  memoria  a  noi  conserva  ; 
Come  P  atra  prigion ,  che  al  suon  rimbomba 
Dì  quella  gente  irrequieta  ,  e  serva , 
Gente  crudel  ,  per  lo  cui  soffio  avverso 
Spesso  è  *1  Nocchier  ne  l'Ocean  sommerso  * 


SETTI  M  O.         in 

XXXVIII. 

Chiuso  è  quel  career  da  ben  grosse  mura  , 
Ove  il  ferro  s'innesta  a  salda  pietra  . 
Là  spiraglio  non  v'  à,  non  v'à-  fessura. 
Alcun  raggio  di  Sol  non  vi  penetra  ; 
E  ricoperte  son  da  tinta  oscura , 
Che  più  fa  la  prigione  orrida,  e  tetra, 
E  par  fuligin  ,  che  in  eammin  s'innalza, 
Quando  mantice  assiduo  il  foco  incalza  » 
XXXIX. 

A  molti  ancin  nel  muro  fitti  ,  molte 
Veggionsi  appese  star  grosse  catene  , 
Che  sonde' Venti  al  piede,  ai  braccio  avvolte  > 
Hd  a  Je  vaste  mostruose  schiene  » 
Ferreo  ceppo  cosi  veggiam  più  volte, 
Che  il  rabido  Mastin  frena  ,  e  trattiene  , 
In  van  que'  ferri  cìwi  romor  tremendo 

I  Venti  prigionier  scuoton  fremendo . 

XL. 
Chi  fra  le  Mura  d'Ospitai  s'abbatte 
In  alcun  matto,  che  su  pretta  paglia 
S'agita  nudo  nudo,  e  si  dibatte  , 
E  al  chiuso  per  fuggir  uscio  si  scaglia  ; . 

II  crin  si  svelle,  il  scn  lacera  ,  e  batte  ,  # 
E  par  che  al  Mondo, e  alCiel  muova  battaglia; 
A' gemiti  dolenti,  a  gli  urli  atroci, 
Mesce  confuse,  e  mal  formate  voci: 

XLI. 
Pensi  veder  gì* inferociti  Venti  , 
Orrendo  stuolo  in  Terra,  in  Mar,  possente , 
Che  tanti  spinse  fra  l'estinte  genti, 
E  per  tomba  lor  die  l'onda  inclemente; 
Che  merci,  ed  oro,  e  gemme  rilucenti, 
Ricco  tributo  del  molle  Oriente, 
Nel  Mar  gittò,  nel  vasto  Mar,  che  quanta 
l'uosa  Terra  vantar,  ricchezza  vanu  . 


a.$4         C    A    N    T    O 

XLIL. 

Qual  chiuso  Pardo ,  o Tigre,  allor  che  rmisij 
Farsi  al  ferreo  cancello  alcuno  appresso  , 
Freme  >  si  cruccia  ,  $'  agita  ,  s*  adira  , 
E  il  suo'  furor  tutto  è  nel  guardo  espresse; 
Or  s'avanza,  or  si  ferma,  or  si.  ritira, 
Par  che  ceda  a' suoi  sforzi  il  ferio  stesso  ; 
Cotal  furor,  cotanta  smania  punse 
Ne  r  antro  i  Venti ,  quaudo  Amor  vi  giunse  ,] 

XLin. 

Eolo,  il  Principe,  il  Re,  che  ferreo  presie- 
Seggio,  che  a'  seggi  altrui  molto  sovrasta, 
Cae  à  ferreo  scettro,  e  ferreo  serto  insieme^ 
Eolo ,  che  tutti  a  raffrenar  sol  basta  », 
Poiehè  ciascun  io  riverisce,  e  teme, 
Niuno  i  suoi  detti,  i  cenni  suoi  contrasta  ; 
Eolo  il  piede  à  di  rame,  e  il  braccio,  e  snello 
li  corpo,,  e  lieve, e  vola  al  par  che  Augello, 
XLIV. 
Per  dimostrar  cautela  ,  indi  prontezza 
Ne  l'eseguir  le  divisate  Imprese. 
Tutta  la  turba  ad  ubbidirlo  avvezza, 
Chetossi  tosto  che  sua  voce  intese  . 
Al  Figliuol  de  là  Dea  de  la  bellezza 
&i  la  cagion  dt.l  venir  suo  richiese  .  t 
"È  qua! ,  possente  Amor,»  cura,  o  desio,. 
Or  ti  spinge  ad  entrar  nel  Rcgoo  mio? 
XLV. 
Seguimi,  disse  Amor,  quai  sien.  mie  voglie; 
Qua!  mi  sospinga  pensamento  ,  e  cura, 
Udrai  da  Quel  ,  per  cui  volerle,  soglie 
Mi  vedi  aprir  di  questa  Reggia  «scura. 
Se  tu ,  di  Giove  per  servir  la  Moglie  , 
Che  temea  di  veder  Remane  mura  , 
Al  mio  Frigio  Germano  osasti  immensa 
Desur  procella  >  ora  a  placarmi  pensa  * 


SETTI  M  O.         155 

XLVI. 
Tosto  a' Venti  soggetti  Eolo  si  volse, 
F  con  uà  soffio  di  gonfiate  g«te# 
( Mirabil  cosala  i  ferri  ior  disciolse, 
Che  forza  alcuna  unqua  discior  non  puotc  . 
Fera  ,  che  molto  pel  natio  s' avvolse 
Bosco  ,  da  tane  uscita  al  Soie  ignote , 
Su  1   incauto  animai  ,  che  si  presenta, 
Non  si  veloce  slacciasi ,  e  s'  avventa  : 
XLVII. 
Siccome  tatti  insicm  precipitare 
In  folla  allor  gli  scatenati  Venti, 
E  a  la  porta  Vuair,  si  conglobaro, t 
Spingendo,  urtando,  ad  uscir  primi  intenti. 
Tratte  così  da  uno  spettacol  raro, 
S'  urtano  insicm  le  radunate  genti , 
Così  la  messe  in  su  feconde  zolle 
Ondeggia;  e  i  moti  alterna  umor,  che  bolle* 
XLVIII. 
Ma  lasciarti  quello  stuoì  ,  che  s'affatica 
D'Amor  su  l'orme  al  rapido  viaggio. 
Di  lui  parliam  ,  cui  per  usanza  antica 
Prestano  i  flutti  irrequieti  omaggio. 
Egli  il  pensier  di  dolci  idee   nutrica 
Or  che  fa  pel  suo  Regno  Amor  passaggio  £ 
Ed  Annerite  con  novella  fiamma, 
Ouasi  Sposa  novella,  il  cor  gì'  insamma  . 
XLIX. 
Ceruleo  crin  su  V  ampio  dorso  ondeggia  j 
Coperto  è  il  dorso  da  un  azzurro  manto  ; 
Vasta  conchiglia  è  la  real  sua  seggia, 
Tridente  ei  stringe  formidabil  tanto  . 
Ciascun  Cupido  attende,  e  ne  la  Reggia 
Mille  voci     festose  odonsi  intanto. 
La  gentil  Galatea  di  nera  treccia 
Co  le  Ntrcidi  liete  danze  intreccia . 

G  6 


i*6         CANTO 

L. 

S'appressa  alfin  la  numerosa  truppa; 
"Polo  la  segue,  e  la,  precede  Amore. 
La  lingua  favellando  Eolo  sviluppa 
AL  piede  augusto  del  comun  Signore  . 
O^ni  astante  s'accosta,  ognun  s'attnippa-., 
Che  di  q«e'  detti  udir  vuole  il  tenore. 
Ma  ciò  che  più  brama  ascoltar  ciascuno  , 
£'  il  supremo  voler  de)  gran  Nettuno  . 
LI. 

Sir,  che  de  l'Oceano  ondoso  tieni 
Il  governo,  il  comando,   il  sommo  impero; 
Cui  gli  atri  nembi  ,  i  tuoni ,  ed  i  baleni 
Servo n  ,  ministri  al  tuo  furor  severo  ; 
Ecco  al  tao  Soglio  i  Servi  miei  ripieni 
Per  te  d'arder,  di  zelo  intatto,  e  vero. 
Un  servigio  fedel  mi  fra  discolpa  , 
Aito  Signor  ,  d3  ogni  Passata  colpa . 
LIL 

Piacemi  ,  disse  il  Dio,  che  alfin  tu    sappi 
Non  aver  di  compagno  a  tener  metro  ; 
Che,  sebben  regni,  al  mio  poter  non  scappi; 
Che  chi  fé  il  don  può  ripigliarlo  indietro; 
Che,  se  a  norello  crror  torni,  e  v'incappi, 
Di  mia  clemenza  «1  suon  più  non  m'arretro  i 
Che  sol  fra  sassi  in  una  grotta  sono, 
Il  tuo  scettro ,  il  tuo  serto  ,  il  manto,  il  trono  . 

lui. 

Ove  il  suol  circostante  un  Mar  rinserra , 
Un  Legno  giunse  da  l'Egizio  lido, 
Che  a  Francia  volto,  la  Trinacria  Terra 
Costeggia  in  seno  a  l'elemento  infido. 
Vo'  che  tu  mova  a  questo  Legno  guerra  , 
D'  opposti  Venti  col  fischiante  strido  , 
Acciò  scommesso,  anzi  sdruscito  sia 
Prima  che  giunga  a  terminar  la  via  . 


SETTIMO.         157 

LIV. 
Copra  il  sereno  Cicl  nube  funesta  >. 
Sollevi  il  iiutto  lo  spumoso  dorso. 
Va,  m'intendesti,  ad  ubbidir  t'  appresta  3 
Abbiano  i  Servi  tuoi  libero  il  corso. 
Calmar  non  dei  quelP  orrida  tempesta 
Fin  ch'io  non  presti  a' naufraghi    soccorso, 
Quando  il  Tridente  mio  vedrai  su    1'  acque  , 
.Richiama  i  Venti;  i!Dio  sì  disse ,  e  tacque,. 
LV. 
Non  fé  motto  colui  ,  ma  dipartissi V 
Velocemente  dibattendo  Tale. 
Tosto  per  1'  aure  un  fremito  sentissi , 
Che  a'  Nocchieri  annunziò  nembo  fatale  » 
Eolo  dal  fonefo  de' marini  abissi 
Co' maggior  quattro  Venti  al  Cielo  sale  , 
Seco  fuggiti  dal  pietroso  claustro  , 
Euro,  Ponente,  Tramontano  ,  ed  Austro. 
LVL 
Son  questi  i  quattro  cardinali  Venti , 
Che  a' quattro  punti  de  la  Sfera  stanno; 
I  principali ,  i  Capi  ,  e  gli  eccellenti 
Eroi  famosi  per  recato  danno. 
Eolo  conduce  que'  campioni  ardenti 
Ove  opposti  pugnar  fra  lor  dovranno  , 
Ove  del  soffio  lor  la  valid'  opra 
L'onde  sommosse  volgerà  sossopra. 
LV1I. 
Come,  qualor  la  pellegrina  Grue 
In  cerca  vola  di  più  mite  Clima, 
Ed  agii  varca  il  Mar  co>  1'  ali  sue  , 
Al  gran  cimento  la  Regina  è  prima  ; 
Seguon  poi  quella  tutte  a  due  a  due, 
Senza  il  posto  cangiar,  che  scelser  prima; 
Così  d'  Eolo  temuto  àn  per  costume 
Quattro  Venti  di  seguir  le  piume  • 


*#S         CANTO 

LVIIL 

I  quattro  Venti  àa  due  lunghissim'  ali  , 
Ben  più  d'un  miglio  l'una, e  l' altra  abbraccia  > 
E  sono  a  quelle  per  lunghezza  eguali , 

I  flutti  acconcie  ad  agitarle  braccia. 
Qual  esser  suol  turgido  cuojo  ,  tali 
Le  gote  son  de  la  gonfiata  faccia , 
Ed  in  tal.  forma ,  che  mirabil  sembra , 
Tese,  e  gofifie  dei  par  son  l'akre  membra» 
LIX. 

II  braccio ,  e  *l  corpo  come  piuma  è  Kevte  r 
Par  vuotosacco  il  ventre,  ii  dorso,  e  il  petto* 
Che  sempr®  acre  versa ,  &t  riceve , 
Sempre  votato  >  e  voto  mai,  ricetto. 
Acqua  cotanta  non  accoglie  ,  e  beve  , 

De  i'£r(idàno,  ovver  de  l'Istro,  il  letto  ; 
Ed  or  che  molto  sornar  de.fi no  .,  e  molto  2 
Massa  d'aria  maggiore  ànao  raccolto. 

LX. 
Vedrem  fra  poco  quanto  fluido  asconde1 
11  vasto  ventre  ,  il  dorso,  ii  seri  capace. 
Divide  intanto  de  la  mob.il  onda 
$ui  vasto  campo  Eolo  sua  gente  audace, 
Ad  Austro  impon  che  dense,  atre  diffonda 
Nubi ,  che  il  sen  di  pioggia  abbian  ferace ,. 
lì  procelloso- sen ,  che  mille,  e  mille 
Sparge  tuonando  elettriche  scintille. 

LXL 
Borea  l'Artico  Polo  ebbe,  e  Ponente 
Ebbe  l'Occaso  ,  Euro  l'opposta  plaga, 
Poi  che  il  tutto  ordinò,  velocemente 
Eolo  s'invola,  e  per  lo  Mar  divaga. 
Or  prende  ,  or  cangia  con  diversa  mente 

euesto  sentiero,  e    quello  ,  e  incerto  vaga; 
ome  incerto  s'aggira,  e  taciturno, 
Di  preda  in  traccia,  il  PjpistreJ  alture*. 


SETTIMO, 

LXIL 

Sa  quel!*  alfin,  ch'ei  rintracciò  ,  s'a.vver«ee3 .■ 
In  quel  Vento  cioè  ,  che  in  poppa  spira. 
A  la  Nave  ,  che  sembra  aver  le  penne  , 
Il  Vento  aliar  le  vaste  ali  ritira. 
Il  soffio  suo  propizio  Eolo  ritenne  ; 
Perfida  calma  allor  sui  Mar  s'aggira; 
S'arresta  il  Legno.,  e.  fugge  aura  infedele 
Dal  cavo  grembo  di  gonfiate  Vele  * 
LXIIL 
Come  nel  mezzo  de  ìz  £ona  ardente  y 
Ove  in  due  parti  il  Sol  POrbe^  divide , 
Surger  nemica  al  Nauta  impaziente 
La  calma  suol ,  che  i  voti  suoi  deride  \ 
Appianarsi  cosi  l'onda  surgente  , 
Che  la  poppa  spingeva. ,  Ulisie  vide  . 
Ferma  l'acqua  era  sì  che  parca  terra  > 
Nò  al.  lido  più  movea  V  usata  guerra  . 
LXIV. 
DJss'  Eolo  al  Vento.  Or  m'uhbidisci  ,  come 
Servo  ubbidisce  il  Prence  suo,  che  impera» 
Io  ti  comando  di  Nettuno  in  nome 
Che  lasci  tosto  quella  Nave  altera* 
Fortuna  amica  a  lei  fin  or  le  chiome 
Propizia  offerse  ,  or  fugga  alfin  severa  ; 
Provi  quel  Legno  le  vicende  ,  i  rischi , 
Mugga  il  cuon,  scoppi  il  nembo,  ilfolgor  fischi. 
LXV, 
Tu  ,  per  cui  apra  a  quello  in  suo  viaggio 
Serena  il  Ciel  mostrossi  ,  il  Mar  secondo  A 
Non  aver  più  di  suscitar  coraggio 
L'  acque,  o  paventa  del  mio  sdegno  il  pon'dv  , 
Fato  immortai,  che  avvinta  al  tuo  servaggio 
La  Terra  tien,  gli  Astri,  i  Pianeti,  il  Mondo, 
Questa  procella  nel  gran  Libro  à  scritto  , 
\ì  ,  ti  ritira 3  non  fiatar  ,  sta  zitto, 


i<fo  CANTO 

LXVI. 

S'iachirca  il  Vento  ,  e  parta  chetamente 
Fra  gli  Spazj  de  l'aria  umile  il  volo  ; 
Poi  si  ritragge  ,  spettator  dolente, 
In  un  angol  del  Mar  ,  mutole  ,  e  solo. 
Così  Fanciur  ,  che  il  Padre  vede,  o  sente  ». 
S'asconde,  colmo  d'i  timor,  di  duolo. 
Mentre  giura  la  Madre  a  e  lo  minaccia 
Che  al  Genitor  dirà  sue  colpe  in  faccia» 
LXVII. 
11  terbid'  Austro  intanto  avea  girato 
Per  l'ampio^  Cielo  ,  e  nubi  accolto  avea, 
Era  Meriggio  alior,  ma  il  Sol  celato 
Gli  addensati  vapor  più  "non  fendea  . 
Misero  Ulisse  !  ei  per  1'  oggetto  amato 
Più  che  per  sé  ,  dolevasi,  e  temea . 
Scende  in  i  strana,  e  spaventosa  foggia 
Il  lampo,  il  tuono,  e  h  dirotta  pioggia  . 
LXVIII. 
Poi  che  tutta  compiè  la  trista  impresa 
Àustro,  cui  per  voler  d'Eolo  s' accinse  9 
I  lenti  vanni,  su  cui  sparsa  pesa 
La  grave  nebbia,  al  suo  Signor  sospinse. 
Ecco,  disse  ,  fra  Jor  mosse  a  contesa 
Le  dense  nubi  ;  il  fiato  mio  le  spinse  . 
Vanne  ,  rispose  il  Re,  ciò  non  ti  basti , 
Opra  sul  Mar  J  come  ne  Paria  oprasti  .. 
LXIX 
Il  Meridional  Vento  si  pose 
OV  è  suo  loco,  al  freddo  Borea  in  faccia. 
Di  cominciar  le  risse  a  tutti  impose 
Eolo;  ciascuno  allor  gonfiò  la  faccia  ; 
E  tutti  ad  agitar  Tonde  spumose 
Diersi  co  l'ali*  e  co  le  lunghe  braccia, 
Softìaron  tutti  da  contraria  parte  , 
%  non'  valse  favor  di  nawtic1  ajte  . 


SETTI  Ivi  O  .         iói 

LXX. 

Chi  dir  potria  cime  agitossi  1'  onda  , 
Da  quattro  Venti  insiem  spinta*  e  commossa  ? 
E  poppale  prora,  e  l'una^  e  l'altra  sponda 
Di  quel  Legno  infelice  era  percossa  . 
Ognor  crescea  l'oscurità  profonda  , 
Che  togliea  tutta  del  veder  la  possa , 
Folgori  solo  minacciose,  e  crebre, 
Splendeano  in  seno  a  l'orride  tenèbre. 
LXXL 

Palpita  il  buono  Ulisse  ,  e  il  cor  ripieno 
A'  di  timor  H  amabile  Isabella  , 
E  Fiordiligi  non  paventa  meno  , 
Fiordiligi  nomata  è  sua  Sorella  « 
Costei  sovra  il  leardo  Palafreno 
Molti  Guerrieri  fé  cader  di  sella  ; 
E  ne  la  giostra ,  ove  a  pugnar  mostrossi  y 
il  Duca  di  Tolosa  ella  nomossi  . 
LXXII. 

Teme  il  Pilota,  e  sta  mirando  incerto- 
In  ogni  parte  il  Cielo,  e  i  Venti  osserva  . 
Il  dubbio  scampo,  ed  il  periglio  certo, 
Sua  mente  abbatte  ,  e  suo  coraggio  snerva 
Benché  sia  molto  in  nautic*arte  esperto, 
Tenta  in  vano  domar  1'  onda  proterva . 
Troppa  è  de' Venti  la  pugnante  forza, 
E  non  giova  alternar  poggia  con  orza. 
LXXIII. 

Come  per  gioco  ,  per  uso  ,  per  ira 
Soglion  cozzar  su  verde  prato  i  Tori  ; 
O  come  un  lottator,  che  al  plauso  aspira, 
E  su  polve  agonal  versa  sudori , 
(1  rivai  preme ,  e  ad  atterrarlo  mira  , 
0  d'  intrepida  morte  a'  sommi  onori  ; 
Gli  avversi  Venti  con  ferocia  tale 
Braccia  ìntreccian  con  braccia ,  ale  con  ale, 


i6z        CANTO 

LXXIV. 

E  soffiandosi  contro,  e  Monti  alzante 
D'  acqua  ammassata  ,  gittansela  in  volto; 
Sempre  opposti  fra  lor  vanno  girando 
Velocemente  molto  spazio  ,  e  molto. 
Li  poppa  ad  ambe  man  quello  afferrando 
Del  vinto  Legno  ,  e  quasi  franto  ,  e  sciolto, 
A  questo  il  vibra  ;  e  la  possanza  sua 
Rivolge  questo  a  P  agitata  prua. 

LXXV. 
Quel  che  duo  giocator  fanno  a  vicenda 
Su  volante  pennuto  ,  o  lieve  palla, 
I  Venti  fanno ,  e  par  che  il  Legno  scendau 
Ne  1'  Abisso  infernal  ;  tanto  s'avvalla  ! 
0  par  che  a  Giove  il  nettare  contenda 
Del  gonfio  Mar  su  la  surgente  spalla  , 
Talor  la  poppa  innalzasi,  e  talora, 
Esce  da  1*  aceua  la  depressa  prua- 

LXXVL 
A  1|ki  rimase  qacJ  Naviglio  oppxéHQ 
Da  si  crudel  ,  da  sì  feroce  assalto  . 
Nemico  flutto  entrò  ne  lo  scommesso 
Fianco,  e  il  varco  si  schiuse  a  basso,  in  alto  * 
Così  di  breccia  per  l'aperto  ingresso 
Spicca  il  Gucrricr  ne  la  Cittade  un  salto. 
Vie  più  s'apre  1'  Abete  ,  e  si  sconnette  , 
È  dove  un  onda  entrò ,  1'  altra  si  mette  , 

Lxxyn. 

L' irato  Mar  moltiplica  le  porte  , 
E  sotto,  e  sopra,  e  quasi  spacca  il   Legno, 
S'  ode  il  Nocchicr,  alto  gridando,  e  forte,, 
Di  ciascuno  invocar  l'opra,  e  l'ingegno  . 
Tentano  tutti  l' imminente  Morte 
Fuggii*,  che  sorge  da  P ondoso  Rcgao . 
Chi  questo  serra,  e  chi  quel  passo  a  Ponete >, 
Chi  il  Mar  nel  Mar  sollecito  rifonde.  . 


SETTIMO.         16$ 

LXXV1II. 

Altri ,  per  far  che  la  pesante  Nave , 
Che  il  flutto  assalitor  carica ,  e  preme  , 
Meno  riesca  perigliosa  ,  e  grave, 
Tutte  nel  Mar  gittan  le  merci  insieme. 
Ma  quelle  genti  coraggiose  ,  e  brave  , 
Sudano  in  van  .  che  il  Legno  oppressa  geme  > 
E  ad  ogni  istante  quel  crescente  pondo 
Par  che  io  spezzi  ,  e  lo  sospinga  al  fondo  .. 
LXXIX. 

Non  si  vede  turar  fessura  alcuna, 
Se  non  perchè  ne  sorga»  cento,  e  mille* 
jEntran  mìll'onde  ove  n'  cstraggon  una  , 
£d  un  onda  succede  a  poche  stille. 
11  vento ,  il  Mar ,  la  notte  fosca ,  e   bruna  t 
U orror  del  tuon  ,  de* lampi  le  scintille, 
Gittano  tal  confusione  orrenda  , 
Che  alcun  acn  Va»  che  più  il  Pilota  intesusVi* 
LXXX. 

Altro  ch'urli  non  s'ode  ,  e  pianto  ,  e-  gne, , 
-E  lamenti  >  e  sospiri ,  e  preci ,  e  voti  > 
Voti  da  sciorsi ,  ove  Fortuna  arrida,  ^ 
Pellegr  naggi  in  lochi  ermi  ,  e  remoti. 
Molti,  se  in  porto  amie©  il  Ciel  li  guida, 
Penitenze  ,  digiuni  offron  devoti  ; 
E  ciascun  poi  battcsi  il  petto,  e  chiede 
D'ogni  passato  suo  fallir,  mercede. 
LXXXI. 

Chi  gkocchion  co  gli  occhi  fissi  al  Cielo* 
A  braccia  aperte,  e  chi  prostrato  al  suolo» 
Urlando  esprime  con  fervor ,  con  zelo , 
D'alma  contrita  il  vivo  intenso  duolo; 
Implorando  Colui ,  che  umano  velo 
Vestendo,  sé  per  tutti  offerse  solo, 
Verbo,  e  Pensier  d*  altissimo  Intelletto, 
S^iaCQ  quaggiù  da  V  increato  Affetto.* 


i*4  CANTO 

LXXXIL 
Così,  sdruscita  ,  ed  a  perir  vicina  , 
Moito  la  Nave  errò,  scherno  de  l'onde. 
Già  per  la  terza  volta  il  Sol  declina 
Al  Cerchio  visual ,  che  lo  nasconde  . 
Par  che  sdegni  veder  tanta  ruina 
L'Astro,  che  a  noi  luce  vital  diffonde. 
Non  regge  il  Legno  in  tante  parti  retto  % 
E  a  Monte  d'acque  al  fin  rimane  sotto  . 

LXXXIII. 
Sotto  rimane,  e  sotto  pur  con  esso 
Resta  Isabella  ,  e  '1  fido  Ulisse  amante, 
Fiordiligi  ,  e  il  Nocchiero,  e  piomba  oppressa 
Da  tanti  flutti  ogn'altroNavigantc . 
Nel  più  cupo  de  l'onde  imo  recesso 
Tutti  precipitar©  in  un  istante  ; 
Precipitar©,  e  tosto  apparve  poi 
Quel  Legno  rotto,  ed  i  frammenti  suoi. 

LXXXIV.  (me, 

Qual,se  inMar  piombi  ungrave  sasso;o  inFiu- 
Con  quella  forza,  che  il  suo  peso  inspira  , 
Pronta  seguendo  il  naturai  costume  , 
Suquel  loco,  ov'  entro,  1'  acqua  s'aggira; 
Chiuser  cosi  quelle  sonore  spume  , 
Che  de  l'onde  agitate  esprimon  Pira, 
La  voragin  profonda,  in  cui  disperso 
Rimase  il  Legno;  e  fu  ciascun  sommerso. 
LXXXV. 
Ma  come  esperto  nuotator  talora 
Slanciasi  a  l'acqua  ,  e  al  fondo  vi  si_  mette , 
Poìi  lungi,  onde  slanciossi ,  il  capo  fu  ora 
Traggc  ,  che  a  l'altrui  guardo  ascoso  stette , 
Spinti  così  da  nuovi  flutti  allora  , 
Rivider  quelli  »  nembi ,  e  le  saette . 
Prodigio  fu,  ben  fu  celeste  aita, 
Che  fra  tanto  penar  serbolli   in  vita. 


SETTIMO.         165 

LXXXVI. 

Chi  qua,  chi  là,  chi  il  capo,  e  chi  le  braccia  > 
E  chi  le  inani,  e  chi  una  gamba  mostra. 
Onda  talora  i   nuotator  di; caccia. 
Mossa  da  Borea,  che  eoo  Euro  giostra.  # 
Par  l'uno  in  Ciel,  l'altro  a  1*  Interno  giaccia, 
E  di  sé   tutti   fan  diversa  mostra  ; 
Quelli,  che  pria  caddero  al    fondo,  or  sono 
Di  Giove  quasi  sollevati  al   Trono. 
LXXXVII. 

Va  chi  tavola  errante  avido  prende, 
Ed  afferra  un  secondo  il  legno  stesso  ; 
Ma  giugne  un  terzo,  audace  il  braccio  stende, 
Ed  a  que'  duo  contrastane  il    possesso. 
Mentre  ciascun   resiste,  e  si  difende, 
E  addietro  spinge  chi  vuol   farsi    appresso, 
La   tavola  di  mano  a   tutti    scappa  , 
Gran  massa  d'acque  la  divelle,   e  strappa. 
LXXVIII. 

Molte,  e   molt'ore  s'aggiraro  intorno, 
Al  crudo  affittino   in  preda,  a  Jo  spavento, 
Di  non  veder  già   certi   il  nuovo  giorno, 
Ludibrio  fatti  già   dei  Mar,  del  Vento. 
Molt'aime,  e  molte  dal  mortai  soggiorno 
Fuggirò  allor  nel  liquido  elemento  . 
Chi    per  anco    non  è   di  vita  privo  , 
A   pena  a  pena  si   può   dir  eh'  è   vivo  • 
LXXXIX. 

Crudelissimo  Amor,  ti  basta,  ©  sazia 
Quel  Teitro  feral  di  tante  morti  ? 
Costa  a  bastanza  ancor  cara  tua  grazia, 
E  il  gradito  piacer  d'esser  consorti? 
Dunque  color,  che  la  tua  fiamma  strazia, 
Anco  esser  denno  da  procelle  assorti? 
Oc!  quanto  errò  chi  con  profano  esempio 
Primo  incensi  t'offri,  t'  eresse  un  Tempio! 


róó    CANTO   SETTIMO- 

xc. 

Ove  il  folgor  più  stride,  il  vento  incalza  , 
E  contra  l'onda  più  l'onda  combatte  , 
In  sua  conchiglia  assiso  ,  il  capo  innalza 
Nettuno,  e  guata  le  ruine  fatte. 
Vede  la  Nave  ,  che  in  rottami  balza 
Su  l'ampio  Mar,  che  la  circonda,   e  Batte; 
E  quegli  amanti  sventurati  osserva, 
Che  un  Genio  tutelar  regge,  e  preserva. 
XCI. 

Sferza  i  Destrier, stringe  il  Tridente,  egira 
Velocemente  su  lo  spazio  vasto. 
Chetansi  i  Venti,  il  rlutCo  si  ritira, 
Che  far  non  puete  al  suo  Signor  contrasto . 
Sovra  un  frammento,  che  nei  Mar  s'aggira, 
Del  suo  Naviglio,  Ulisse  era  rimasto  ; 
Fiordiligi  era  seco,  ma  la  bella 
Più  non  videro  allor  cara  Isabella  . 
XCII. 

Scorrea  placida  l'onda,  il  Ciel  sereno 
Tutto  de  gli  Astri  scintillava  al  lume, 
E  non  sua  luce  da  l'argenteo  seno 
Spargea  la  Suora  del  raggiante  Nume. 
Ma  veloce  degg'  io  come  un  baleno 
Quindi  partir  secondo  il  mio  costume. 
Che  Ulisse  alfin  fu  salvo ,  e  pianse  afflitto 
La  persa  amante,  in  altro  loco  è  scritto. 


Fra*  dtl  Gantt  Settimt, 


io.; 
LA     MORTE 

D'ORLANDO. 

CANTO    OTTAVO. 

ARGOMENTO. 

Guida  Pìutcn   dopo   il   cernito  orrendo 
La   Maga    imcrno    pel  suo    tasto   I^egno . 
Fra  tanti  stolti   in  quelP  orror    tremendo. 
Uno  a  Ui    sembra    di    piota  pia  degno . 
Chiedo  a  costui  sue   colpe  y   //  reo,  fremendo, 
Sua    Storia   espon  ,   suo   tradimento  indegno  . 
Ella  ,  rivolto  ad  altra   parte  il  piede , , 
Platone    innanzi,  e   Tolomeo   poi   vede. 

<s  !  L  • 

Oempre  creduto  fu  pessima  cosa 
L*  oprar  malvagio,  e  fu  d'  obbrobrio  degno; 
E  benché  siavi  alcun  ,  che  tenta,  ed  osa 
Laude  a  la  colpa  dar  con  pravo  ingegno,    . 

i  cultor  di  Soha  ,  che  non  riposa 
De'vnrj  affetti  setto  al  giogo  indegno, 
Ed  ai  lume  del  Ver  le  cose  osserva , 
tempre  abbarre ,  e  dispregia  alma  proterva. 


i6S  CANTO 

II. 

Suonar  di  Clio^  s' ode  la  tromba  spesso , 
Opre  narrando  di  perversa  gente  , 
Che  ogni  colpa  commise,  ed  ogni  eccesso, 
E  nel  tempo  vetusto-,  e  nel  recente; 
Che  a  la  fede,  a  Ponor  non  diede  accesso , 
Né  di  Pietà  ia  voce  udì  possente; 
Ed  un  intero  stuol  leggesi  scritto 
D'esempi  ancor  d'ogni  carnai  delitto. 

Gente  vi  fu  sì  snaturata ,  e  rea, 
Che  l'innocente  prole  pargoletta 
Su  le  pubbliche  strade  espor  solea, 
Onde  farla  perir  sola,  e  negletta, 
Se  robusta  non  era,  e  se  parea 
Che  per  la  guerra  esser  dovesse    inetta; 
E  un  Popol  v'  à,  fra  cui  con  lieto  ciglio 
Al  vecchio  Padre  il  scn  trafìgge  un  Figlio . 

IV. 

Mirra  col  Genitor  di  furto  giacque, 
E  del  Nipote  suo  Fedra  s'  accese  , 
A  P  Assiria  Regina  il  Figlio  piacque, 
11  Figlio  suo,  che  morta  al  suol  la  stese. 
Ne  del  nefando  amor  la  Storia  tacque,    (se, 
Che  inGrecia,  e  inRoma,e  altrove  ancor  s'este- 
Nefando  amor,  che  un  solo  sesso  infiamma, 
Per  cui  scese  dai  Ciel  vindice  fiamma. 
V. 

Politeismo  il  guasto  ,  e  rio  costume 
Protesse  un  tempo  con  infami  riti  , 
Quando  ignaro  il  Mortai  d'un  solo  Nume, 
Numi  adorava  da  sua  mente  usciti. 
E  del  verace  Culto  allor  che  ai  lume 
I   sognati  Fantasmi  cran  fuggiti  , 
Error,  che  mai  dal  nuocer  si  ristette, 
Varj  Dogmi  produsse,  e  varie  Sette. 


OTTAVO.         x69 

VI. 

/Ma  in  tanto  volger  d'anni ,  e  cangiar  $ui: 
Su  base  incerta  di  mutabil  legge, 
Ancorché  il  Vizio  s'abbia  usato,  e  s^usi, 
Virtùde  sempre  il  Mondo  resse ,  e  regge  ^ 
Sebben  ciò  che  un  divi-eta  ,  un  altro  scusi  , 
Ciascun  biasma  il  delieto,  e  i  rei  corrègge, 
E  se  può  de  gli  rfffetti  i  lacci  sciorre , 
Segue  ciascun  Virtùte,  e'1  Vizio  abborre. 
VII. 

Anco  perciò  la  favolosa  Istoria 
Narrò  le  pene  de  1 '-A verno  orrende 
Contro  i  malvagi  ,  ed  il  piacer  ,  la  gloria , 
Che  i  buoni  sempre  ne  gli  Elisi  attende  . 
Di  quelle  pene  io  vo' qui  far  memoria  -, 
E  tremi  ognuno  ,  che  mie  rime  intende  . 
La  cortina  s'innalza,  e  scopre  questa 
In  Teatro  d'orror  scena  funesta. 
Vili. 

Poi  che  il  ventre  con,  vino  ^  e  con  vivande 
Di  zolfo  lorde,  e  d'atro  sangue  asperse ^ 
Empiè  la  Maga  con  diletto  grande 
Nel  lauto  pranso,  che  Pluton  le  offerse  ; 
£)uel  Dio  sue  luci,  donde  fiamme  spande, 
E  d'Inferno  ,  e  d'Amor  ,  in  lei  converse, 
E  disse  :  O  Donna  ,  a  te  mostrar  desio 
Alcuni  abitator  del  Regno  mio. 
IX. 

L'irsuto  braccio,  qua!  tizzon  fumante  , 
Le  porse  jl  Nutrie,  e  l'ampie  strade  insieme 
Scorser  di  pianto,  ove  tant'alme,  e  tante 
S^aggiran  ,  prive  di  conforto  ,  e  speme. 
S'offerse  al  guardo  ior  più  d'  un  Gigante  , 
Che  tardi,  e  in^van  1'  ira  di  Giove  or  teme» 
Di  Giove  ,  a  cui  tentò  con  folle  orgoglio 
Il  folgore  strappar,  rapire  il  soglio. 

H 


io         CANTO 

X. 

QuestoèrimmensoTizio,eFlegiaè  quello. 
Di  Giove  l'un,  l'altro  di  Marte  figlio; 
Lacera  a  quello  il  cor  feroce  Augello, 
Questo  timido  sta  come  coniglio . 
Sempre  a  Tizio  rinasce  un  cor  novello, 
Acciò  lo  strappi  il  dispietato  artiglio. 
Flegia  paventa  ,  e  sta  col  capo  basso 
Sotto  imminente  ruinoso  sasso. 
XI. 

Sente  la  Ma?a  un  gemito  ,  un  lamento, 
"E  colà  volge  curiosa  i  passi  . 
Vede  uno  strano  gener  di  tormento  , 
Che  ogni  strazio  crudef  par  che   oltrepassi 
Vede  un  meschin  ,  che  steso  al  suol,  dacentc 
Furie  tremende  lacerato :  stassi  . 
Stringon  tenaglie  ardenti  esse,  e  con  quelli 
Sue  carni  ognuna  afferra  ,  e  squarcia ,  e  svelle 
Azi. 

Così  lo  fanno  lentamente  a  brani, 
£d  innalza  costui  lugubri  strida. 
Offresi  ognor  novella  a  gì'  inumani 
Carne  rifatta,  perchè  poi  s' ancida  ; 
siccome  sotto  a  le  nemiche  mani, 
$e  avvien  che  un  ferro  i  capi  suoi  recida, 
Rinasce  l'Idra  ,  e  le  vittrici  braccia 
Con  settemplice  ancor  capo  minaccia . 
XIII. 

Molto  a  colei  de  l'infelice  increbbe  , 
E  pietosa  in  tal  forma  interrogollo . 
O  misero  Mortai ,  la  cui  vita  ebbe 
Sì  tristo  fin,  qual  festi  mai  satollo 
Illecito  desìo,  che  in  cor  ti  crebbe, 
Per- cui  sen  ti -si  strazia,  e  ventre,  e  collo.: 
DehTnon  ti  spiaccia  a  me  narrar  cortese 
Il  ft?o  fallir,  che  tanto  Giove  offese. 


OTTAVO.  W 

XIV. 

Fiso  l'Ombra  mirolla,  e  trasse  poi 
Dal  profondo  del  petto  alto  sospiro. # 
Quai  funesti  desir  son  ,  disse  ,  i  tuoi  , 
Per  cui  tanto  s' inaspra  il  mio  martiro? 
Ma  ,  se  da  queste  labbra  intender  vuoi 
L' error,  onde  mi  doglio,  onde  sospiro,  ' 
Odimi,  e  possa  quest'amaro  pianto 
Tanta  macchia  lavar,  tergere  alquanto. 
XV. 

lo  Marcolfo  era  dettole  fui  Britanno; 
Da  progenie  non  nacqui  illustre,  antica. 
Tutti  di  Londra  i  Cittadin  ben  sanno 
Che  non  temei  la  militar  fatica  . 
Siccome  volle  il  mio  Destin  tiranno 
(Che  tiranno  destin  convien  ch'io  il  dica. 
Perchè  del  mio  fallir  causa  primiera) 
Molto  addestrato  ne  le  pugne  io  m'era. 
XVI. 

Crebbi  in  valor ,  crebbi  in  prudenza,  e  crebbi, 
Il  posso  dir,  ne!  generale  affetto  . 
Sempre  gli  onori,  che  richiesi,  io  m'ebbi, 
Né  alcun  rinvenne  in  me  colpa,  o  difetto. 
Spesso  i  miei  lauri ,  i  miei  trionfi  accrebbi , 
Né  d'  odio  mai  ,  né  fui  d'invidia  oggetto; 
E,  benché  non  foss'io  d'alto  lignaggio, 
Fui  Duce  eletto,  e  ognun  mi  rese  omaegio. 
XVII, 

Tal  Bertolagi  (  ahi!  crudo  orrido  nome  , 
Che  tutto  il  sangue  intorno  al  cor  m'agghiaccia) 
Di  bellissimo  aspetto,  e  bionde  chiome, 
Di  nobil  core ,  e  generosa  faccia  ; 
E  parimente  per  natali  ,  come 
Per  sua  virtùde  chiaro,  uom  senza  taccia, 
Saggio  nel  consigliar,  ne  l'opre  un   lampo, 
il  secondo  tenea  posto  nel  Campo. 

H  % 


W         C     A     N    T    O 

m  XVIII. 

Costui  fra  tutti  ognor  fummi  propizio, 
E  più  che  gli  altri  amommi ,  e  m'ebbe  in  pregio. 
Ben  sovvienimi  che  più  d'  un  benefizio 
Debbo  al  favor  del  Cavaliere  egregio; 
E  per  suo  mezzo  1'  onorato  uffizio 
Dì  primo  Duce  ottenni ,  e  ogn'  altro  fregio  . 
Tutto  a  lui  debbo,  oh!  rimembranza  atroce, 
Che  più  d'  ogni  dolor  m'affanna,  e  cuoce  . 
XIX. 

Creduto  alcuno  avrìa  ch'egli  dovesse 
Molto  sdegnarsi  alior  ,  molto  dolersi 
Che  il  primo  posto  ad  occupar  giugnesse- 
Un,  che  natali  area  tanto  diversi. 
Giammai  sua  destra  Ambizion  diresse, 
Che  tanti  induce  a  divenir  perversi  ;     . 
J3asso  pensier  l'inviolata  calma 
Mai  non  turbò  di  quella  nobii  alma. 
XX. 

E  poi  che  P  alta  dignità  novella 
D'onor  colmommi,  di  poter,  di  gloria» 
Spesso  la  destra  sua ,  la  sua  favella 
In  Campo  fèmmi  riportar  vittoria. 
Vivea  la  Fama  al  suo  gran  nome  ancella  , 
Ne  l'altrui  bocche  ,  e  ne   l'altrui  memoria. 
Di  me  Duce  ei  servìa  sempre  al  comando, 
La  disciplina  militar  servando. 
XXL 

Visto  per  me  pronto  a  versar  l'avresti 
Il  sangue  suo  fino  a  i*  estreme  stille  , 
Intrepido  affrontar  colpi  funesti , 
A  pugnar  pronto,  a  contrastar  con  mille. 
£4on  sono  i  tuoni  a  seguitar  sì  presti 
Le  minacciose  elettriche  scintille  , 
Com'egli  a' cenni  miei,  di  £ede  in  segno, 
Or  servia  co  la  destra,  or  co  i*  ingegno, 


OTTAVO.         ih 

XXIL 

Ah!  chi  pensato  avrìa  che  un  core  umano 
Cotanto  fosse  di  Virtù  nemico  , 
Fosse  tanto  crudel ,  malvagio  ,  insano  , 
Che  non  amasse  così  fido  Amico  ? 
Non  si  vide,  o  s*adì  caso  sì  strana  ^ 
Mai  nel  Tempo  recente  ,  o  ne  1*  antico  ; 
Non  Euterpe  ,  o  Melpomen,  che  sospinse 
Oltre  al  Vero  il  Pensicr,  tal  colpa  finse. 
XXIII. 

E  s'è  pur  ver  che  l'inaudito  casa 
Il  diffidi  coturno  abbia  vestito, 
Qual  favola  di  Pindo  ,  o  del  Parnaso, 
Lo  spettator  l'avrà  veduto,  e  udito. 
Ah!  che  in  me  sol,  da  orribil  Mostro  invaso  , 
Mostro  crude!  da  questi  Abissi  uscito, 
Veramente  si  sta  l'atroce  esempio 
D'  un  cor  spietato  ,  sconoscente,  ed  empio. 
#  XXIV. 

Mira  P  Invidia  in  me ,  com'  entro  & specchi* 
Miri  talora  le  sembianze  tue. 
Infelice  colui ,  che  presta  orecchio 
A  la  perfida  Invidia,  e  a  l'arti  sue  ! 
La  Storia,  che  a  narrarti  or  m'apparecchio-, 
Attenta  ascolta  ,  e  quest'  orrenda  lue 
Fug^i ,  che  il  Mondo  infetta,  e ascosa  serpe  y 
Come  tra' fiori  la  strisciante  Serpe. 
XXV. 

Alcun  quasi  non  vTà,  che  non  ne  senta  ? 
PJcco,  ed  agiato,  o  meschinello  sia. 
Il  possente  velen  ;  giammai  contenta 
Rimatisi  un  alma,  e  più  d'aver  desia. 
Ogni  felicità  si  rappresenta 
Il  povero  ne  l'oro  ,  elo  vorrìa  *, 
E  invìdia  il  Re,  che  in  molli  piume  giace,. 
V aratro  al  Villanello,  e  la  sua  pace. 

Ili 


i74         C     A     N     T     O 

XXVI. 

Crudo  Destini  Del  proprio  ben  non  lice 
Mai  tranquillo  gustar  dolce  diletto. 
Che  1'  Uomo  in  Terra  esser  non  può  felice 
E'  sentenza  comune,  è  comun  detto. 
Ma  farsi  ognun  dovria  meno  infelice, 
Frenando  aifin  «i  periglioso  affetto . 
Saggio  Mortai ,  per  iscemarsi  i  guai , 
Sempre  addietro  si  guardi ,  innanzi  mai . 
XXVIL 

Ma  quest'è  de  V Invidia  il  minor  danno, 
E  fosse  pur,  non  il  minor  ,  ma  il  solo! 
Oh  !  quante  colpe  mai  fersi ,  e  si  fanno  ! 
Oh!  qual  di  risse,  e  dì  delitti  stuolo! 
Da  quel  Mostro  le  guerre  origin  anno, 
Esso  di  caldo  sangue  innonda  il  suolo , 
L'Uom  per  esso  talora  avido,  ingordo, 
Anco  a  la  voce  d'Amisràde  è  sordo  . 
XX  Vili. 

Ahi!  che  nel  ricordar  le  piaghe  altrui  , 
Più  Ja  mia  stessa,  ed  esacerbo,  e  cresco! 
Piaga  mortai,  che  in  questi  Regni  bui 
Getterà  sangue  eternamente  fresco  *t 
Ma  forse  stanchi  son  gli  orecchi  tui , 
Donna  ,  e  col  lungo  ragionar  tr  incresco. 
A  quella  Storia  ,  che  mi  son  proposto 
Narrarti,  meglio  è  ch'io  ritorni  tosto. 
XXIX. 

Gran  pezzo  fummo  il  Cavaliere  ,  ed  io, 
Capo,  e  suddito  nò,  ma  amico ,  e  amico  ; 
Né  a  me  suo  cor,  né  a  lui  sì  chiuse  il  mio, 
Come  conviensi  a  vero  affetto  antico. 
Ed  in  lui  sol  ,  dopo  il  supremo  Iddio  , 
Ponea  mia  speme,  né  temea  nemico,^ 
S'  anco  abil  fosse,  ed  agguerrite,  e  forte, 
E  correa  seco  a  disfidar  la  morte." 


OTTAVO.         in 

XXX. 

Se  il  suo  valor  dipingerti  volessi  , 
soio  potrei  delinearne  parte  . 
i'oco  saria  ,  se  simile  il  dicessi 
\  Minerva  in  consiglio  ,  in  guerra  a  Marte, 
Sempre  tra  i  ferri  lampeggianti  ,  e  spessi , 
Ei  penetrava  con  audacia  ,  ed  arte. 
Difendersi,  assalir,  in  ogni  loco 
D'allori  ornarsi,  era  per  esso  un  giocò» 
XXXI. 

Così  Leon  famelico ,  che  arriva 
In  vasto  ovil  di  pecore,  e  d'agnello , 
Qual  morta  al  suol,  qual  gitta  semiviva» 
E  queste  afferra  ,  e  mette  in  brani  quelle  ; 
Non  una  pur  lasciarne  vuol ,  che  viva 
Fra  tante  spente  compagne  ,  e  sorelle  ; 
Guata  bieco,  e  feroce,  e  par  che  mentre 
Sfoga  il  furor,  empier  non  curi  il  ventre* 
XXXII. 

Se  d'assalto  si  tratta,  il  primo  sotto 
Le  mura  ii  vedile  le  nemiche  freccici 
In  macchine,  e  ripari  abile,  e  dotto, 
Il  più  franco,  il  più  caldo  in  far  le  breccie. 
Benché  l'usbergo  avesse,  e  l'elmo  rotto 
Si  che  fuori  n'uscian  del  crin  le  treccie  , 
Non  temea  colpi  di  tagliente  spada, 
Ed  intrepido  a  gli  altri  apria  la  strada, 
XXXIII. 

Se  penetrar  ne  l'inimico  Campo, 
T.d  esplorarne  il  men  difeso  sito 
Si  dovea  per  l'attacco,  o  per  lo  scampo, 
Onde  far  scelta  del  miglior  partito  ; 
O  s'altro  v'era  ostacolo,  ed  inciampo, 
Egli  ognor  v'accorrea  pronto,  e  spedito. 
Meglio  tu  immaginar  potresti  al  certo, 
Ch'io  narrar  ti  potessi,  ogni  suo  merto. 

ti  4 


i:6      e  a   n  t   a 
xxxiv. 

Con  molti  fili  U  diffidi  trama 
De  le  sue  iaudi  uopo  saria  che  ordissi  . 
Il  grido  ancor  de  l' echeggiante  Fama 
A  r  orecchio  mi  suona  in  questi  Abissi. 
Giammai  Guerriero,  che  d'onor  la  brama 
Spinge  a  pugnar  >  più;  celebrato  udissi; 
Poiché  più  sempre  a  quelli  il  Mondo  applaude  * 
Che  desiosi  men  scorge  di  laude . 

xxxv.  t 

Benché  pugne ,  e  perigli  io  non  temessi ,. 
Come  far  debbe.  un  Condottier^  valente  ; 
E  col  senno,  e  co  l'opra  assai  facessi, 
Eran>le  genti  a  darmi  plauso  lente. 
Per  lui  s-'  udiano  lieti  viva ,  e  spessi 
Del  clamoroso  Popolo  frequente  ; 
Per  me  sempre  appassite  eran  le  Palme  y. 
E  fioco  il  suono  di  battenti  palme  . 
XXX  VI. 

Duro  m'era  a  soffrir  eh' ei  sol  dovesss 
De*  comuni  sudòr  cogliere  il  frutto  ; 
E  si  l' invida  rabbia  il  cor  m'oppresse,. 
Che  l'affetto  scemò,  vinse  poi  tutto. 
Ah  !  troncato  miei  dì  la  Parca  avesse 
Prima  ch'io  fossi  di  tal  macchia  brutto! 
La  freddezza  in  livor  mutossi ,  e  crebbe 
Il  livor  si  ch'odiò  nomar  si  debbe. 
XXXVII. 

Avvenne  allor  fra  noi  siccome  suole 
Qualor  de  l'amistà  s' allenti  il  nodo, 
Ch' un  diffida  de  l'altro,  e  le  parole 
Pesa,  e  studia  de  lvopre  il  tempo,  il  modo . 
Fur  l'alme  nostre  allor  disgiunte,  e  sole, 
Come  duo  legni ,  onde  si  svelse  il  chiodo, 
E  l'amicizia  vacillante,  incerta,. 
Presto  cangiossi  in  nimistàde  aperta^ 


O  T  T  A  v  o.       m 

XXXVIII. 
E  nel  profóndo  del  cor  mio  giurai , 
Qual  se  offeso  foss'  io-,  farne  vendetta-. 
Come  avvenir  spessente  sai-, 
Quando  d'alcun  ei  sia  la  fé  sospetta  , 
Che  di  prestar  non  lasciasi  giammai  > 
Sia  vero  ,  o  falso  ,  ad  ogni  dubbio  retta  ; 
Credea  ch'ei  tornii  il  posto^  mio  cercasse,- 
E  contra  me  l'esercito  eccitasse. 

xxxix.  t 

Quinci  l'antico  amor  ,  quindi  mi  preme 
Non  giusto  sdegno,  che  m'assal ,  m'accende^ 
Gli  obblighi,  icfubbj  miei  ne  vanno  insieme, 
Fra  questi,  e  quelli  il  core  ondeggia,  e  pende. 
Dal  grave  pondo  oppresso  il  Pensier  geme* 
Né  qual  sceglier  dovrà  partito  ,  intende . 
D'alma  grata  paventa  il  dover  sacro, 
Oual  di  temuto  Nume  un  Simulacro. 
XL. 
Mentre  ii'  mio  cor  tanto  sf  cruccia,  e  duole,. 
Quel  virtuoso  Cavalicr  s'attrista, 
Che  ben  diversa  da  quel  eh'  esser  suole  ,, 
Mira  la  faccia  mia  turbata  ,  e  trista  ^ 
E  in  molte  scopre  equivoche  parole 
A  finto'  amor  la  diffidenza  mista  . 
Serbo  scolpiti  ancor  suoi  detti  in  mente", 
E  lui  tuttor  mi  par  veder  presente  . 
XLI. 
Deh  .'Signor  mio,  qual  maf  delitto,  o  fallo-, 
Così  dolce  amistà  perder  m'  à  fatto  , 
Che  tant' anni  fra  noi  senza  intervallo 
Durò  stabil  cotanto,  e  or  fugge  a  un  tratto? 
Gli  onori  abborro  ,  ben  tu  il  vedi  ,  e  spilo 
Ciascun;  ciò  ch'altri  brama,  io  spregio  affatto  . 
Solo  amistà,  mio  Duce,  è  a  me  gradita, 
E  $'  io  perdo  amistà  ,  perdo  la  vita-. 

HJ 


17^  CANTO 

XLII. 

Non  mi  tener  celato  in  che  peccai  , 
E  se  la  colpa  mia  scontar  si  puote  , 
Quel  sangue, che  in  battaglia  io  non  versai, 
Lavar  saprà  l'obbrobriose  noce. 
Prima  lieto  morrò,  contento  assai. 
Che  farti  offese  anco  a  me  stesso  ignote  *, 
Orribil  troppo  mi  saria  la  Juce, 
Se  in  te  tradito  avessi  Amico,  e  Duce  . 
XLIII. 

Ma  pria  che  tutto  io  versi  a' piedi  tuoi 
Quanto  di^  sangue  ne  le  vene^  io  serbo, 
Mira  il  mio  braccio  ,  ed  i  trionfi  suoi  , 
Di  cui,  non  d'altri  onori,  io  vò  superbo» 
Di  taì  servigi  in  prezzo  il  cor  mi  vuoi 
Affligger,  lacerar  con  duolo  acerbo? 
Deh!  quanto  oprai  col  senno,  e  con  !a  mano  t 
>3el  mio  morir  ver  me  ti  renda  umano» 
XLIV. 

Queir  ingenuo  parlar  mi  vinse  alfine, 
E  dissipò  la  nube  del  sospetto  . 
Ma  come  allor  che  il  Dio  di  biondo  crine 
De  i'aer  fosco  serenò  l'aspetto  , 
Se  a  le  placide  aurette  mattutine 
Vento  succede ,  che  atri  nembi  à  in  petto  , 
Risurge  il  vapor  denso,  e  l'aere  annebbia  , 
Così  l' Invidia  ridestò  la  nebbia  . 
XLV. 

E  si  densa  fu  quella  ,  e  si  possente 
Che  tutto  giunse  a  circondarmi  il  core, 
Né  lasciò  loco  a  raggio  de  la  mente  , 
Che  ditìonder  tentava  il  suo  splendore  . 
.Come  Fabbro  talor  dei  foco  ardente 
Suole  attizzar  con  mantice  il  furore  , 
Maligna  Invidia  di  soffiar  non  lascia , 
E  in  me  fomenta  la  crudele  ambascia. 


OTTAVO.  i-y 

XLVI. 
O  foss1  io  solo,  o  in  compagnia  mi  stessi, 
O'  fra'  Ministri ,  o  fra'  Soldati  miei , 
O  vedessi  l'Amico  ,  o  noi  vedessi, 
O  porgessi  umii  prece  a'  sonimi  Dei  ; 
M'assaiian  sempre  que'  timori  stessi  , 
Que'  fieri  dubbi  ,  e  que' sospetti  rei, 
Che  de  l'odio  *omun  rendermi  oggetto 
Colui  tentasse,  ond'  esser  Duce  eletto  . 
XLVIL 
E  con  arte  giurai  ,  con  vile  inganno 
Morte  apprestar  al  Cavalier  gagliardo. 
Da  que'  dover  ,  che  a  chiare  cifre  stanno 
Scolpiti  in  cor,  empio  ritorsi  il  guardo  . 
Ove  maggior,  più  certo  ov'era  il  danno, 
11  fèi  marciar  con  iieve  ajuto  ,  o  tardo, 
Ma  in  van ,  che  sempre  vincitor  io  rese 
Il  suo  raro  valor  ne  V  ardue  Imprese. 
XLVIII. 
Dove  agguerrite  più ,  dove  più  folte 
Eran  le  schiere,  e  lampeggbvan  l'armi; 
Dove  le  genti  su  le  Mura  accolte 
Spargeano  il  suon  de' clamorosi  allarmi; 
Ove  tutte  a'  suoi  giorni  insiem  raccolte 
Io  poteva  ie  insidie  immaginarmi  ; 
Ov'era  impenetrabile,  «  munito 
Da  la  Natura,  e  da'  Nemici  ,  il  sito  ; 
XLIX. 
Con  pochi  io  sempre  il  Cavalier  fea  gire* 
Promettendo  amistà  de  l'opre  in  prezzo. 
Egli  ,  che  quando  mi  potea  servire  , 
Di  rischi,  e  morte  non  avea  ribrezzo, 
Sentendosi  tal  premio  profferire , 
Che  sovra  ogn'altro  era  a  pregiare  avvezzo, 
Vi  s'accignea,  ne  mai  rimase  estinto, 
Ma  sempre  fu  di  nuovi  lauri  cinto. 

H  6 


iSo  C     A     N     T       & 

II 

Vedermi TI  gran  Guerrier  dinanzi  agli  occKT^, 
Vivo  non  pur  ?<  ma  di  trionfi  onusto  , 
E  de' miei  voti  ad  onta  iniqui  ,  e  sciocchi  , 
Udir  quel  plauso  meritato  ,  e  giusto^ 
Chi  la  mano,.  ch<i  il  piede,  echi  i  ginocchi 
Veder  baciar,  chi  fronte,  e  capo,  e  busto;. 
E  lui  sovra  gli  Scudi   erger  dal  piano, 
Qual  fé  d'Orazio  iì  Popolo  Romano  >:- 
LI, 
Tutto-  m'era  a  soffrir  ben  aspro-,  e  -duro-, 
Qual  nuovo  strale  in  mezzo  al  cor  confitto  b 
Tante  Vittorie,  che  ottenute  furo, 
Tutti  lieti  re-ndean,  me  solo  afflitto. 
A  gran  pena  io  potea  nel  cere  impuro 
Celare  il  duolo,  ond'era  ognor  trafitto, 
E  celarlo  <lovea  ,  doveva  io.,  come 
Gli  altri  fean  tuCti  3  celebrar  suo  risme **- 
LII. 
E  sotto  il  velo  di  bugiarda  fronte 
Coprir  ha  rabbia  ,  e  sotto  amico  amplesso, 
E  d' amarezza  <jued  perenne  fonte 
Con  un  tosco  letal  crescere  io  stesso* 
Siccome  fu  dà  sovrapposto  Monte 
Encelado  superbo  un  tempo  oppresso. 
Grave  del  simular  m'  era  la  salma 
Si  che  tutta  schiacciar  sentiami  Palma . . 
LUI. 
Poi  che  vid' io  che  a  mie  malvagie  trame 
Era  da  Fato  avverso  il  fil  reciso  , 
Mentre  dà  le  ferventi  invide  brame 
Era  più  sempre  il  cor  vinto ,  e- conquiso; 
Con  ogni  insidia  la  più  turpe,  e  infame., 
O*  di  tentar  sua  morte  alfin  deciso. 
Che  de  la  Colpa  chi  le  vie  passeggia  ^ 
$'  innoltta,  og nor  y  s'  anco  L' abisso  ei  veglia 


O  T  T  A  V  O.  bT» 

LIV. 

Fra  me  pensando  al  più  segreto  ,.fr  certo- 
Mezzo  opportuna,  il  miglior  tempo  attesi  > 
Come  dispone  il  Cacciatore  esperto 
Contro  l'incauto  Augello  i  lacci  tesi. 
Per  ben  tener  1'  inganno  mio  coperto, 
De  l'antica  amistàde  il  velo  io  stesi  3 
E  di  mia  rabbia  1'  odioso  oggetto 
Seppi  ingannar  con  simulato  affetto. 

Ohi?  vile  eccesso  di  perfidia  umana» 
Oh!  di  nostra  ragione  iniquo  abuso» 
Sotto  apparenza,  eh' è  dal  ver  lontana, 
L'  Uomo  i  sensi  del  cor  cela  per  uso. 
Giammai  Leon ,  che  irato  uscì  di  tana , 
Al  feroce  ruggito  il  varco  à  chiuso  , 
Né,  per  meglio-  assalir  greggia  innocente,  » 
L'ugna  giammai  ,  giammai  nascose  il  dente.. 
LVI. 

E TUom,.che  l'arce  d'  occultar  gJ'  inganni 
A  l'empie  mire-  sue  spera  che  giovi  ,■ 
Cela-,  come  sue  membra  in  va rj  panai  , 
Così  suo  cor  in  modi  varj  ,  e  nuovi  . 
Del  suo  simil  tutto  ritorce  ai  danni, 
Nel  farmaco  il  velen  parch'ei  ritrovi  ; 
N'in.più  nunzj  de  l'alma  il  volto,  e  gli  atti  , 
Ministri  son  de  la  Menzogna  fatti, 

EVII. 

Da  umane  labbra  un  bacio  parte  allora? 
Che  in  cor  s'asconde  il  più  mortai  veleni  3 
Osa  il  Pensiero  macchinar  talora 
Morte  a  colui ,  che  il  braccio  stringe- al  seno. 
Mentre  amistà  giura  la  lingua  ognora  , 
Ev  d'odio  il  petto,  e  di  livor  ripieno, 
E  tali  son  quelle  apparenze  esterne  , 
Che  i'  infinto  dal  ysx  non  si  disccrjic~ 


iti        CANTO 

LVÌIL 

Siccome  ilCacciator,  che  al  varco  attende* 
La  Cerva,  od  altra  insidiata  Fera; 
O  in  macchia,  o  in  siepe  sottil  rete  stende, 
tn  cui  raccor  turba  pennuta  ei  spera , 
Né  mover  pie  ,  ne  favellar  s' intende , 
Fin  che  non  giunge  la  bramata  sera, 
E  ricco  allor  va  di  predate  belve 
Cittadine  de  l' aure  ,  e  de  le  Scl\e  ; 
LIX, 

Così,  tacendo,  il  mio  perverso,  e  fello 
Disegno  ascosi  fin  che  il  tempo  venne. 
Un,  che  al  governo  di  vicin  Castello 
Stava,  ribello  al  nostro  Rè  divenne. 
Segreto  accordo  io  maneggiai  con  quello 
In  uno  scritto,  che  in  sue  man  pervenne» 
Udite  accordo  scellerato,  ed  empio, 
.Nequizia  udite,  onde  non  avvi  esempio. 
LX. 

Diceva  il  foglio  al  traditor,  ch'eletto 
Avean  lor  Prence  i  Cittadin  ribelli; 
Ch'ei  di  me  non  avesse  alcun  sospetto  > 
E  che  i  suoi  fidi  mi  saran  fratèlli; 
Che  a  lui  pruove  darò  di  vero  affetto, 
Ed  a'  suoi  prodi  sudditi  novelli , 
Sol  che  un  favor  non  mi  ricusi,  un  lieve 
Favor ,  che  ad  ambi  esser  proficuo  deve  : 
LXI. 

Che  a*  Deputati  allor  darò  commiato, 
La  mia  risposta  differir  mostrando  ; 
E  dopo  aver  co'  Duci  consigliato , 
Quasi  d'insidia,  e  fraude  dubitando, 
Manderò  ne  la  Piazza  un  Inviato, 
E  recherà  costui  per  mio  comando 
Che  segnar  questa  pace  non  vogPio 
In  altro  loco  che  nei  Campo  mio  : 


OTTAVO.  i% 

LXII. 

Che  l'Inviata,  e  chi  verrà  con  esso, 
Tutti  dentro  al  Castello  abbìan  la  morte  ; 
E  tal  favor  se  mi  sarò  concesso  , 
A  lui  propizia  arriderà  la  SGrte  ; 
Poiché  lo  stuolo  a*  cenni  miei  commessa 
Saprò  in  guisa  dispor  sotto  a  le  porte, 
Che  concerta,  e  felice  riuscita 
Ei  farà  dal  Castello  una  sortita  . 
LXIII. 

DI  tal  tenore  era  quel  foglio  ,  e  molto      < 
Al  traditor  la  mia  promessa  piacque. 
Accolse  il  messo  mio  con  lieto  volto, 
E  del  futuro  evento  ei  si  compiacque.  « 

L'  Esercito  veder  in  fuga  volto  ^ 
Pareagli  ,  e  l'ardir  primo  in  lui  rinacque, 
L'ardir,  che  quasi  dat  timor  fu  vinto 
Quando  il  Castel  fu  da  mie  truppe  cinto . 
LXIV. 

E  cosi  fé  coiti'  io  gii  scrissi  ,  appunto  : 
Io  ne  la  Piazza  Bertolagi  inviai  . 
Tosto  osservar,  quando  vi  fosse  giunto  * 
Le  difese ,  e  la  forza  io  lo  pregai  \ 
Se  molti  i  difensor,  se  tutti  in  punto 
Fossero,  e  d'armi  provveduti  assai, 
Cose,  che  molto  saper  giova,  dissi  , 
Se  avvien  che  pace  non  si  segni ,  o  fìssi  . 
LXV. 

Con  tai  colori  destramente  io  pimi 
La  nera  tela  de  1'  errendo  inganno, 
E  tosto  a  morte  l'innocente  spinsi, 
Che  lieto  corse  a  non  saputo  danno. 
Ed  altri  a  morte  seco  lui  sospinsi , 
Che  ne  1?  empio  Castel  seguito  1' anno  . 
Ciascuno  invan  l'attende  ,  ei  più  non  riede  ; 
Palpita  a  tutti  il  cor,,  vacilla  il  piede. 


M%         C     A     K    T     O 

LXVI. 

Non  ti  so  dir  quanto  m'oppresse  allora 
D&lor,  rimorso,  e  pentimento  a  un  tratto. 

I  benefizj  suoi  talor,  talora 

Suo  naerto  innanzi  al  mio  pensier  s'  è  fatta. 
Ahi  !  che  il  crudo  rimorso  ange  ,  e  divora 
in  vano  i  nastri  cor  dopo  il  misfatto; 
E  tardi  alior  perfido ,  e  vii  nemico 

10  mi  chiamai  del  più  leale  amico. 

LXVJI. 

Meglio,  dissi',  è  morir,  che  viver  lotéto* 
Di  tanti  ,  e  tali  ,  e  sì  nefandi  eccessi , 
A  cui  ,sebben  cieco  ciascuno,  e  sordo,. 
Per  celarne  1*  orror,  render  potessi, 
O  di  me  torre  al  Mondo  ogni  ricordo  , 
Dei  grand0  Astrò  fuggendo  i  raggi  stessi 
Fra  belve  atroci  ,  e  sibilanti  Serpi  , 
Fra  le  pendenti  rupi,  i  duri  sterpi  ; 
LXVIII. 

Non  Ma  che  quelli  celar  tanto  io  possrf 
Che  a  me  del  mio  fallir  conscio,  li  celi, 
Ed  a  lui  mcn ,  del  cui  veder  la  possa; 

II  seno  squarcia  de'  più  densi  veli  . 
La  stessa  rupe ,  e  la  profonda  fossa 
Conyien  che  al  Mondo  il  mio  delitto  sveli  $ 
E  di  mie  strida  il  suon  rotto  fra  i  sassi, 
Alto  cccheggiando ,  fra  i  Viventi  passi . 

LXIX. 
"Stolto  v  io  dicea  ,  chi  d'occultar   pretende 
Sua  colpa  sì  che  noti  appaja ,  e  sbocchi  1 

11  rimorso ,  il  rimor  pubblico  rende ^ 

Ciò  che  tentan  coprir  suoi  studj  sciocchi . 
Spesso  Tempio,  il  fcllon  se  stesso  offende, 
Eii  delitto  gli  pon  la  benda  a  gli  occhi. 
Cieco  al  supplizio  ei  s'offre,  e  si  presenta- 
Appunta  a  llor  che  di  fuggirlo  tenta. 


OTTAVO.  vl'f 

LXX. 

Da  cotesti  pensier,  che  in  folla  unitr 
Correano  a  darmi  uno  spietato  assalto, 
I  miei  tormenti  asprissimi ,  inauditi, 
Che  m'empiean  di  terror ,  prendem  risalto  ; 
E  questo  cor,  che  tanti  ayea  traditi 
Sacri  doveri,  questo  cor  di  smalta, 
Pensai  strapparmi  ;  era  nel  Cielo  scritte 
Ch'io  medesmo  punissi  il  mio  delitto. 
LXXI. 

Pien  di  rabbia,  e  rossor,  colmo  di  doglia  ,. 
Da  mille  affetti  lacerato,  acceso, 
Tremante  più  che  un  agitata  foglia  ,. 
Impugno ,  e  snudo  il  ferro  al  fianco  appeso  .. 
Par  che  vibrarlo  in  sen  voglia  ,  e  non  voglia  >., 
Col  braccio  resto  nel  vibrar  sospeso  'r 
Alto  il  braccio  rimane,  il  ciglio  basso,. 
E  il  corpo  mio  par  divenuto  un  sasso. 
LXXII. 

Come  colui ,  che  da  letargo  è  scosso- 
Di  febbre  ardente,  e  da  sopor  profondo,. 
Mi  desto  io  quindi,,  dal  dolor  commosso,. 
E  forsennato  esclamo ,  e  furibondo  . 
Non  in  modo  miglior  placarti  io  posso, 
Che  immolandoti  io  stesso  un  core  immondo, 
O  dei  mio  fido  Amico  Ombra  tradita  , 
E  per  la  morte  tua  dando  mia  vita. 
LXXIII. 

Ahi!  che  mia  vita,  e  tutto  il  sangue  mio, 
Non  di  quel ,  che  versai,  vogliono  stilla. 
Tu  fosti  uom  grande,  un  tradito*  son  io, 
Ne  di  Virtùde  in.  me  raggio  sfavilla . 
Per  la  tua  morte  a  lutto,  si  vestìo , 
E  per  la  mia  gioisce  il  Mondo  ,  e-  brilla  ;., 
In  te  il  Guerricr  più  valoroso,  e  destro, 
in  me  perde  un  feiion  tolto  al  canestro ,.  ' 


ite        CANTO 

LXXIV. 

E  se  il  Mondo  si  cìuol,  duolsich'  io  mola  T 
Qual  Seneca  ,  e  Caton  »  per  mano  mia, 
E  non  da  birro  vii ,  da  infame  boja  , 
Avvinto  in  piazzale  a  laccio  appeso  io  sia; 
O  divorato  a  maggior  pena,  e  noja, 
Dal  piò  sozzo  Animai  ,  che  in  Terra  stia,. 
Al  cui  dente  rapace,  al  ventre  ingordo 
Sia  pasto,  e  sterco  questo  corpo  lordo, 
.  LXXV. 

Ma  se  tanto  è  minor  di  quel  ch'ai  perso, 
Di  quei  che  ti  furai,  quei  eh'  io  ti  dono, 
E  queste  membra  ,  e  il  sangue  reo,  eh'  io  verso, 
Non  degni  oggetti  de' tuoi  sguardi  sono; 
Ah  !  possa  il  duolo  ,  in  cui  mi  trovo  immerso, 
Possa  de'miei  lamenti  il  mesto  suono 
Qualche  vendetta  di  te  degna  offrirti^ 
Se  pur  cura  mortai  serban  gli  Spirti , 
LXXVL 

Fuggi,  e  t'invola,  alma  perversa,  ornai 
A  la  caduca  tua  spoglia  infelice.  # 
Su  te,  del  Sole  ove  non  fulgon  rai , 
Fischi  il  flagcl  de  la  Giustizia  ultrice  ; 
Né  del  tuo  corpo  su  la  tomba  mai 
li  piangente  Cipresso  abbia  radice; 
Anzi  tomba  noi  chiuda  ,  e  non  gli  presti 
Un  urna  asilo,  e  sparso  il  ccner  restì. 
LXXVII. 

Resti  il  cenere  sparso  in  preda  al  vento, 
Ma  pria  discese  da  un  alpestre  Monte  , 
A  lacerar  P  infame  corpo  spento 
Le  fameliche  belve  accorran  pronte  ; 
E  di  lor  sete  calmino  il  tormento 
Nel  sangue  mio,  come  in  ruscello,  e  fonte., 
Se  pur  POrso,  il  Leon,  la  Tigre,  e  PAiJgue* 
Non  àn  ribrezzo  di  succhiar  tal  sangue  . 


OTTAVO.  m 

LXXVIII. 

Dissi,  e  la  punta  nel  ferir  maestra 
Posi  tre  volte  su  le  vie  del  core  , 
E  ben  tre  volte  rifuggi  la  destra, 
Che  quel  barbaro  uffizio  ebbe  in  orrore. 
Aperse  in  petto  alfin  larga  finestra, 
Spinto  dal  duolo  il  ferro,  e  dal  furore; 
Trasse  Palma  fuggente  un  grido  seco  , 
E  gemendo  s'  udi  risponder  Eco. 
LXXIX. 

L'Ombra  si  tacque,  e  ilsuo  parlar  fin  ebbe 
Con  uno  stuolo  di  dolenti  omei. 
Lunga  la  Storia  ixx^  ma  non  increbbe 
Al  curiosa  orecchio  di  colei. 
Vo' dir  ia  Maga,  in  cui  desìo  s'accrebbe 
Di  favellar  con  altri  Spirti  rei, 
Benché  il  ciglio  sbattuto,  ed  il  cinabro 
Livido  fosse  di  quel  vago  labro. 
LXXX.. 

Densi  vapori,  ch'esalando  vanno 
Dal  cupo  seri  di  quelle  grotte  ombrose, 
Gli  occhi  vivaci  illanguidir  le  fanno  , 
E  del  volto  appassir  fanno  le  rose  ; 
E  quelle  pur,  che  su  le  labbra  stanno, 
Sotto  pallido  vcl  giacciono  ascose . 
L'erba  così  langue  sul  prato,  e  perde 
Ne  l'estivo  bollor  tutto  il  suo  verde. 
LXXXI. 

E  Fiuto  ancor,  mentre  sospiri  ardenti 
Per  lei  traea  da  l'infiammato  petto, 
E  foco  ,  e  fumo  in  vortici  fetenti 
Versava  al  suon  d'ogni  amoroso  detto, 
A  l'autrice  di  magici  portenti 
Certo  recar  dovea  nocivo  effetto  . 
Ma  ciò  che  vider  poi,  narrar  degg'  io* 
La  mentita  Cipigna,  il  nero  Dio, 


iS*         CANTO 

LXXXII. 

Vider  sola,  e  pensosa  Ombra  pallente. 
Che  $1  tea  de  là  man  sostegno  ai  volto, 
Qual  chi  rivolga  alti  pensieri  in  mente  T 
Od  abbia  i  1  cor  fra  tristi  'afferri  involto. 
Se  non  diverso  è  il  ver  da  l'apparente  , 
Alcun  Saggio  è  colui  celebre  molto. 
Sembra  a  l'aspetto  venerando,  e  strano,. 
Un  Filosofo  Greco,  o  pur  Romano. 
LXXXIII. 

In  desiderio  allora  entrò  colei 
Di  favellargli,  e  disse  a  dirittura. 
Ombra  onorata  ,  or  tu  scusar  mi  dei  ,, 
S'  io  ti  distolgo  da  tua  grave  cura . 
La  sóla  brama  di  saper  chi  sei 
Ne  incolpa,  e  la  tua  nobile  figura, 
Che  d' alma  grande  indizio  par  che  sia. 
Ed  è  cagion  di  questa  voglia  mia  . 
LXXXIV. 

Alzò  l'Ombra  onorata  il  capo  chino- y 
E  maestoso  in  ki^  lo  sguardo  fisse. 
E  t.u ,  Donna,  chi  sei,  che  pellegrino 
Osi  il  piede  innojtrar  fra  l'Ombre  ,  disse > 
Fra  cui  Mortai  giammai  non  scese  fino 
Che  nel  terreno  vel  suo  spirto  visse, 
E  fur  ministri  i  sensi  a  la  Ragione? 
Ma ,  poiché  tu-  mei  chiedi  ,  io  son  Platone, 
LXXXV. 

AhT  disse  allor  con  riverenza  ,  e  gioja  r 
E  meraviglia  la  Negromantessa  ; 
Lieta  ventura  innanzi  ch'io  mi  muoj<a  , 
Dal  Giel  mi  venne  ,  e  singoiar  ,  concessa . 
Se  mia  presenza  non  t' incresce ,  a  annoja  , 
Deh  !  fammi  udir  co  la  tua  voce  stessa 
L'  alte  Dottrine,  per  cui  tanto  illustre 
Si  fé' tuo  nome,  e  la  tua  penna-  industre;. 


O  T  T  A  V  O  .  i$9 

LXXXVI. 

Ne  mai  Fama  cosi  battè  le  piume, 
Ne  fé' squillar  tanto  sonoro  il  corno 
Per  vetusto  Scritcor,  né  tanto  lume 
Di  Gloria  ad  altri  sfavillò  d'intorno, 
Lume,  per  cui  tu  brilli  al  par  che  un  Nume, 
Fra  lo  splendor  d' inestinguibil  giorno, 
Per  cui  del  Tempo  struggitor  tuoi  scritti 
Il  terribil  poter  spregiano  invitti. 
LXXXVII. 

Ne  le  tarde,  e  rimote  età  future, 
Al  Figlio  il  Genitor  ,  l'Avo  al  Nipote, 
Come  guide  infallibili  ,  e  sicure, 
Additerà  1'  altissime  tue  note . 
A  chi  far  vuol  con  savie  Leggi  ,  e  pure, 
Felice  in  Terra  PUom  quant'  esser  puotc , 
La  Repubblica  tua  fia  scopo  solo, 
Siccome  è  scopo  a  calamita  il  Polo. 
LXXXVIII. 

"Fd  il  Mortai  ,  che  pel  diverso  sesso 
Verace  nutre,  e  non  terreno  amore, 
Ben  differente  da  V  amor  ,  che  spesso 
Un  fomite  brutal  ci  desta  in  core; 
Poiché  Virtùde  à  sol  possanza  in  esso, 
Non  colmo  seno,  e  non  gentil  colore, 
Non  mobil  ciglio,  che  velcn  diffonde  , 
Ed  un  perfido  cor  sovente  asconde  : 
LXXXIX. 

Del  vero  amor  la  norma  ,  ed^  il  modello, 
Questo  Mortai  ne' tuoi  precetti  scopre  . 
Amar  tu  insegni  un  volto,  un  corpo  bello, 
Sol  perchè  beila,  e  pura  alma  ricopre. 
kS;n  che  spregiando  la  beltà  di  quello, 
Di  questa  la  beltà  più  si  discopre  , 
Beltà  su  cui  non  à  possanza  alcuna 
l'alce  di  Tempo,  o  ruota  di  Fortuna. 


i9o  CANTO 

xC. 

Seguir  la  Maga  il  ragionar  volea, 
Ma  disdegnosa  l'interruppe  l'Ombra  . 
Mai  non  ébb'io  sì  strana,  e  folle  idea, 
Disse,  e  stoltezza  a  te  la^  mente  adombra. 
Quei  che  tu  pensi  ,  dirlo  io  non  potea 
Senz'  aver  da  pazzia  ià  mente  ingombra  . 
Uom,  che  seguendo  i  sensi  suoi,  non  opra, 
Contro  la  Legge  di  Natura  adopra. 
XGL 

Natura  mise  i  varj  sessi  al  Mondo  , 
Non  già  per  vano,  semplice  ornamento, 
Non  per  offrir  spettacolo  giocondo, 
Che  possa  il  guardo  sohrender  contento; 
Ma  perchè  il  suol  d'  abitatof  fecondo  , 
E  ricco  sia  di  cento  Spezie,  e  cento» 
Segreto  impulso  ,  che  di  noi  s'indonna, 
Spinge  la  Donna  al' Uom  ,  l'Uomo  a  la  Donna. 
XCII. 

Sempre  in  altri  veggi-amo,  in  noiperpruova 
Meglio  scopriam  qua!  naturale  istinto 
Femmina  ,  e  Maschio  agiti ,  inviti ,  e  muova  , 
E  come  ognuno  a  riprodur  sia  spinto  . 
Perciò  sarebbe  assurda  cosa ,  e  nuova 
Questo  sì  strano  Amor  da  te  dipinto, 
Che  ,  mentre  al  corpo  il  destinò  Natura  . 
Sol  de  lo  spirto  si  pigliasse  cura. 

xeni. 

S'è  ver  che  alcun  sì  stolto  in  Terra  sia 
(  Poiché  stoici  così  pochi  saranno  ) 
Che  amar  beltà  non  creda,  o  leggiadrìa, 
Ma  le  virtùdi  ,  che  ne  l'alma  stanno, 
Questo  è  un  error  d'accesa  fantasìa, 
Con  cui  1'  invesca  ,  e  illude  Amor  tiranno, 
Amor,  che  asconde  sua  possente  face, 
Come  s'asconde  sotto  cener,  brace. 


OTTAVO.         191 

XCIV. 

Vedrk  costui ,  se  il  guardo  suo  portasse 
Entro  a*  recessi  de  l'amante  core, 
Che  ,  se  in  deforme  vecchia  si  cangiasse 
La  Donna  amata,  fuggirebbe  Amore; 

0  converrìa  che  1'  ordin  suo  mutasse 
Saggia  Natura,  con  massiccio  errore? 

In  lui  spegnendo  il  vivo  ardor  giocondo, 
Senza  di  cui  si  voterebbe  il  Mondo. 

xcv. 

Se  con  occhio  sagace,  e  maggior  senno, 
Sviluppi  ciò  che  ascoso  io  serbo  in  parte  , 
E  sotto  ij  vel  di  dotti  emblemi  accenno 
Ne  le  assai  lette,  e  poco  intese  carte 
(  Perchè  i  gravi  Scrittori  i  sensi  denno 
Celar  d'Amor  con  Filosofie' arte , 
E  '1  Filosofo  sempre  esprimer  dee 
In  non  comune*  sul  comuni  idee  :) 
XCVI. 

Se  dunque  1'  alto  ragionar,  che  involge 

1  miei  concetti ,  u'  Verità  lampeggia  , 
Penetri,  e  traggi  il  velo,  in  cui  s'avvolge 
Amore  ,  e  fai  che  nudo  alfìn  si  veggia, 
Vedrai  che  a' sensi  il  mio  pensier  si  volge  , 
E  in  chimeriche  vie  mai  non  passeggia  , 
Ma  ben  conosce  che  un  leggiadro  aspetto 
Destar  ci  dee  fiamma  amorosa  in  petto. 

XCVII. 
Perciò  al  verace  ,  al  fecondante  Amore 
Il  Vulgo  sol  crede  Platone  avverso, 
Ma  sol  ne  l'apparenza  ,  e  nel  colore 
Di  mistica  favella  io  son  diverso. 
E  se  talun  si  sente  acceso  il  core 
Per  lino  indegno,  o  per  costume  terso  , 
Tanto  non  creda  amar  lo  Spirto  egregio, 
Se  non  perchè  di  giovin  corpo  è  fregio. 


i5>2         C    A    M    T    O 

XCVIIL 

Non  altro  quel  Filosofo  soggiunge* 
E  fu  colei  per  riverenza,  muta. 
,Se  g-1' inchina  ella,  e  gran  desìo  la  punge 
Man  di  baciar  cotanto  in  pregio  avuta; 
Ma  quella  mano  ad  afferrar  non  giunge ,, 
E  non  la  sente  ove  Tavea  veduta  . 
S'affanna  in  van  ,  che  non  risponde  a  gli  occhi 
IJ  tatto,  qua!  chi  fumo,  o  nebbia  tocchi. 
XCIX. 

-Il  maestoso  venerabU  Saggio 
Disse:  Ti  scosta,  a  voi  toccar  non  lice. 
Che  ancor  vivete  nel  carnai  servaggio  > 
Alma  di  questi  Regni  abitatrice. 
3SIon  a  Mortai  ,  che  l' A  polline©  raggi© 
Risplender  vede,  Ombra  toccar  s'addice, 
Che  dal  career  terreno  erra  discioita. 
Deh!  lascia,  o Donna  ,  Ja  tua  brama  stolta. 
O 

Più  colei  non  ardì  profferir  motto # 
Per  meraviglia  ,  e  in  altra  via  si  mise  . 
TJ-n  Ombra  vide  d'  un  antico  Dotto  , 
Che  sovra  Sfera  avea  le  luci  fise  . 
Le  varie  Zone  in  quella ,  e  sopra ,  e  sotto  , 
Da  paralleli  Cerchi  eran  divise; 
E  d'Urania  il  cultor  si  stava  incerto 
Con  un  quadrante  ,  ed  un  compasso  aperto  . 

Vjl. 

Sedea  nel  centro  il  Globo  nostro .,  e  intorno 
Aggirarsi  ia  fascia  si  vedea, 
Zodìaco  detta  ,  che  al  Dator  àt\  giorno 
Segnare  il  corso  un  tempo  si  credea . 
Eranvi  i  Cerchi ,  dove  far  soggiorno 
Il  grand' Astro  retrogrado  parca , 
E  '1  gran  Meridian ,  che  uguale  impero 
<Oifr«  a  la  Notte,  e  al  Di  su  V Emisfero» 


OTTAVO.         19  i 

€11. 
'Questo  il  Sistema  fu  di  Tolomeo  , 
Che  girar  fece  intorno  a' Poli  il  Cielo, 
Né  miglior  modo  ei  discoprir  potèo 
Di  spiegar  notte,  e  giorno,  e  caldo*  e -gelo. 
Il  rotar  de  la  Terra  a  lui  non  fèo 
Urania  noto,  e  si  coprì  d'un  velo. 
Era  di  Tolomeo  quell'Ombra  appunto, 
E  il  core  avea  da  grave  cura  punto. 

cui. 

Ei  dicendo  fra  sé  giva  :  Ahi!  me  lasso! 
Gloria  minor  mio  nome  avrà  nei  Mondo  . 
Del  mio  Sistema  lo  sfiancato  ammasso 
Crolla  ,  e  non  regge  di  tant'  anni  al  pondo, 
Lup.gi  alcuno  da  quel  non  movea  passo, 
(  Oh  !  spettacol  per  me  troppo  giocondo  !  ) 
vSeguendo  il  moto  de  ta  Sfera  immensa  ; 
Alcuno  or  più  quel  eh'  io  pensai ,  non  pensa, 
CIV. 

Ben  più  felice  osserva tor,  che  ardito 
Spiò  Natura,  né  spiolla  in  vano, 
Gli  allori  ottenne,  e  il  suo  Sistema  ò  udito 
Col  suo  nome  chiamar  Gepernìcane. 
Costui,  s'anco  nel  Ver  non  à  colpito, 
Meno  è  almcn  ch'io  nol^  fui,  dal  Ver  lontano; 
Ma  del  Tempio  d'Urania  io  primo  apersi 
Le  ferree  soglie,  e  di  sudor  le  aspersi. 
CV. 

I  rai  del  Sole  egli  nel  Centro  à  fissi, 
Delgran  Sistema  Planetario  in  Trono, 
Ed  i  varj  Pianeti  in  varie  Ellissi 
Da  quell'Astro  regnante  attratti  sono. 
Indi  nascon  le  fasi ,  indi  1'  eclissi  , 
Queste  furto  di  luce,  e  quelle  dono, 
E  de  la  Terra  il  corso  a  l'Asse  intorno 
A  vicenda  produce,  e  notte,  e  giorno. 

I 


j<H         C     A     NT     O 

CVI. 
Veggio  che  a  l'apparenza  assai  m'attenni , 
Né  ricercai  ne' suoi  recessi  il  Vero; 
E  j  benché  di  Sofia  seguace  ,  io  tenni 
Facile  ,  falso ,  popolar  sentiero  ; 
Onde  a  cader  fra  molti  scogli  venni, 
Nel  celeste  Oceàn  debil  Nocchiero  > 
H'I  Ciel  credei  con  prodigioso  volo 
Ciascun  di  s'aggirasse  intorno  ai  Polo* 
CVII. 
Or  di  più  belle,  e  più  feliciidee 
Ricco  s'innalza  quel  Sistema  industre, 
Cui  Tolomeo  ceder  (a  palma  or  dee , 
L'antica  palma,  che  lo  rese  illustre. 
Ma  il  Cigno  pria,  che  nel  Meandro  bee, 
Sarà  cangiato  in  rauco  Augel  palustre  , 
l'ria  volgerassi ,  e  Terra,  e  Ciel  sossopra, 
Che  Obbiìo  vorace  il  nome  mio  ricopra, 
CVIII. 
Su  molti ,  è  ver,  de  lo  stellato  Regno 
Pria  fenomeni  occulti  ,  e  leggi  ignote , 
Su  i  varj  moti  quel  sublime  ingegno 
De  l'austera  Sofia  la  face  scuote. 
Ma  il  primo  io  fui,  né  d'alta  fama  indegno 
Chi  tentò  sì  grand' opra  esser  mai  puote.. 
Il  volger  sol  de' Secoli  rivela 
Quel  labirinto  ,  u'  Verità  si  cela. 
CIX. 
Cosi  dicea  quel  Saggio;  ogni  suo  detto 
La  Maga  udì,  né  favellargli  ardio, 
Che  quelle  Teorienon  avea  letto, 
E  poche  volte  ragionarne  udio. 
Ella  girò  de  l' infernal  ricetto 
In  altre  parti  co  l'amante  Dio  ; 
Indi  Pluto  con  lei  fece  ritorno 
Ai  Trono  suo  ,  d'  angui  fischianti  adorno  . 


O  T  T  A  V  O.  195 

CX. 

E  tu  vanne  a  posar ,  Musa ,  che  ornai 
Rese  lungo  cantar  debil  tua  voce  . 
Di  quel  loco  d'  orror  dicesti  assai , 
E  de  la  Maga,  e  di  Pluton  feroce. 
D'altri  portenti  favellar  dovrai 
Quando  l'Aurora  sorgerà  veloce, 
E  il  pennuto  Gantor  l'Astro  felice 
Saluterà  su  la  natia  pendice  . 


V\n$  dtì  Centi  Ottdvt , 


ìù 


i$6 

LA     MORTE 

D'  ORLANDO. 


CANTO    NONO, 

ARGOMENTO, 

Qicn ,  the  nel  Castel  languire  or  deve 
Prìgion  ,  perche*  a  la  Maga  insulto  à  fatte  , 
Segnanti* ,  un  Vecchie  vede ,  /  in  den  ri  et  ve 
Magica  verga  ,  end*  è  il  Castel  disfatto . 
Sue  armi  trova  ,  e  su  deslrier  piò  lieve 
Del  vento  et  sai  y  giunge  in  un  bosco  a  un  tratto  , 
Ivi  quel  Vecchio  ,  che  dal  gran  disastro 
Salvilo  ,  ei  scorge  ,•  V  errali ,  suo  Mastro  , 

X-^onna,  tu,  che  traesti  a' tesi  lacci 
Fra  l'erbe,  e  i  fior,  questo^  mal  cauto  piede  s 
E  m'invescasti  in  amorosi  impacci, 
Senza  pietà,  senz'accordar  mercede; 
£3è  vuoi  che  da  quel  nodo  unqua  io  mi  slacci , 
Poiché  veder  mi  vuoi  fra  le  tue  prede, 
Mira  come  pascendo  il  duol ,  che  soffro  , 
Vò  in-  questo  Cauto ,  che  a  te  volgo ,  ed  offro . 


CANTO   NO-NO,       % 

IL 

Canto,  che  adombra  ne  l'alérui  destino 
L'ardente  fiamma  del  mio  cor  nemica,  # 
Perchè  a  te  sempre  è  '1  mio  Pensier  vicino  f 
S' anco  avvien  ch'altra  cosa  il  labbro  dica  r 
E  mentre  soffia  1'  aura  del  mattino  , 
Che  l'onda  increspa,  ed  agita  la  spica, 
Non  desto  ancor  ,  l'immagin  tua  ravviso  , 
O  sognando  contemplo  il  tuo  bel  viso. 
III. 

Deggio  perciò  ne  le  vicende  altrui 
A  varie  tinte  colorir  me  stesso, 
E  celebrar  quella  beltà,  di  cui 
Vittima  io  sono  ,  e  da  cui  giaccio  oppresso. 
Del  Turco  Otone  favellando  ,  in  lui 
Il  rigor  di  mia  sorte  ò  in  parte  espresso  ;# 
E  in  suo  servaggio,  onde  a  parlar  rn' accinsi, 
Le  mie  catene,  il  mio  servir  dipinsi. 
IV. 

Egli  fu  posto  in  servitù  penosa , 
Ma  più  crudo,  ed  acerbo  è  il  caso  mio, 
Che  prigionìa  di  corpo  è  lieve  cosa, 
Ben  più  dolente  prigionier  son  io  . 
Egli  ama,  è  vero,  Angelica  vezzosa, 
Ma  fé' sazio  con  quella  il  suo  desìo, 
Ne  colei  fu  cagion  del  suo  martoro  ; 
Spregiato  io  sono  ,  e  chi  mi  spregia  adoro. 

y. 

O  la  perduta  libertà  mi  rendi, 
Donna  ,  o  fa  che  ad  amor  risponda  amore  . 
Se  mie  preci  non  curi,  e  non  intendi, 
Io  di  prigion  trar  saprò  forse  il  core. 
Odi  tu,  che  tiranna  esser  pretendi  , 
Di  Tiranna  qual  pena  ebbe  il  rigore, 
De  la  Maga  vo'dir,  che  il  Turco  Otone 
Nel  magico  Castel  lasciò  prigione. 

I  l 


ip8  C    A     N    T    O 

VI. 

Chiuso  colui  fra  le  incantate  porte, 
Fremendo  stassi ,  come  Augello  in  gabbia/ 
E  ducisi  in  vano  di  sua  dura  sorte, 
A  cui  sollievo  alcun  par  che  non  v'  abbia  . 
Egli  darsi  vorrìa  subita  morte, 
Se  un  ferro  avesse,  onde  sfogar  sua  rabbia*. 
Molto  vegliò  ,  ma  il  sonno  aifin  pietoso 
A  sue  membra  accordò  qualche  riposo . 
VIL 

Riposo  tal  che  da  la  grave  salma 
Di  sue  cure  il  Pcnsier  scevro  non  rese- 
Corsero  i  Sogni  ad  agitar  quei!5  alma , 
E  del  Ver  la  sembianza  il  Sogno  prese. 
Offre  dei  Sonno  a  noi  la  dolce  calma 
Cose  viste  nel  dì,  pensate,  o  intese. 
Quanto  più  ne  la  veglia  il  duol  ci  turba  r 
Più  s'affolla  de* Sogni  in  noi  la  turba. 
Vili. 

Di  quel  suo  career  l'abborrlta  immago 
Tosto  a  raccesa  Fantasìa  s'affaccia, 
E  di  veder  gli  sembra  un  vecchio  Mago  y 
Che  avea  di  Mago  almcn  gli  atti,  e  la  faccia  » 
Canuto  è  il  crin,  disperso  ondeggia ,  e  vago  , 
E  folta  barba  il  mento,  e'1  collo  abbraccia  ; 
Grinza  è  la  fronte  ,  il  sopracciglio  folto, 
E  maestoso,  e  venerando  il  volto. 
IX. 

Mesto  pallor  le  gote  sue  ricopre, 
Il  corpo  è  lungo,  e  stranamente ^munto. 
S' innoltra  a  lenti  passi,  e  ben  si  scopre 
Ch* egli  da  triste,  ed  alte  cure  è  punto. 
Il  nero  manto,  e  gambe,  e  piedi  copre 
Sì  che  il  suo  lembo  al  suol  sembra  congiunto» 
Piccioi  legno  con  lui  divide  il  peso 
Di  lunga  età  ,  che  curvo  il  dorso  a  reso . 


NONO.  199 

X. 

Sembra  ad  Oton  che  quel  Fantasma  strana 
Se  gii  avvicini,  indi  cosi  gli  dica. 
Figlio ,  non  ti  doler  ;  sempre  inumano^ 
Non  è  il  Destin  ,  né  sorte  ognor  nemica. 
Non  più  Fortuna  è  avversa  ,  e  a  te  la  mano 
Porge  pietosa  ,  e  ti  ritorna  amica  . 
Fortuna,  il  sai,  fu  sempre  instabil  Nume, 
Sempre  di  cangiar  faccia  ebbe  costume. 
XI. 

Questa  verga,  che  a  me  sembra  sostegno, 
De  la  salute  tua  ssià  strumento , 
Questa  spezzando  ,  de  la  Maga  il  Regno, 
Il  Palagiocipè ,  fia  sparso  al  vento. 
Più  non  ti  dico;  a  farti  salvo  io  vegno, 
Sarai  salvo,  e  felice  a  un  sol  momento, 
Così  parve  adOton  che  gli  parlasse 
Il  buon  Vecchio,  e  la  verga  a  lui  prestasse, 
#  XII. 

Da  si  gioconda  idea  l'alma  commossa 
A  l'opre  usate  richiamò  le  membra. 
Destossi  Otonc,  e  del  piacer  la  scossa 
Fa  che  libero  ,  e  salvo  esser  gli  sembra  ; 
Poiché  spesso  al  destarsi  ,  in  noi  la  possa 
Tanta  è  del  Sogno  ancor ,  che  al  Ver  rassembra  , 
E  può  sognata  allor  strana  avventura 
Produr  diletto,  o  duol  ,  gioja ,  o  paura. 
XIII, 

Ma,  desto  appieno,  l'avveduto,   e  saggio 
Oton  ,  che  a'  sogni  mai  crede,  o  s'affida; 
Qual  mai  splende  ,  dicea  ,  fallace  raggio 
Fra  le  tenebre  mie,  di  luce  infida? 
Sogno  crudel,  tu  questo  mio  servaggio 
Inaspri,  e  fai  che  il  mio  dolor  m'ancida  . 
Ma,  mentre  si  dolea  del  sogno  vano  , 
£1  vide  ,  «  si  senti  la  verga  in  mano. 

I  4 


zoa         C    A     N    T    O 

XIV. 
Restò  sorpreso,  istupidito  allora-, 
Com'uom,  che  vede  inaspettato  evento,, 
Se  sia  desto  non  sa  ,  se  dorma  ancora  , 
E  fiso  guarda  il  magico  portento  . 
Inganno  il  crede,  che  ingannar  talora 
Il  desir  puote  allor  eh' è  violento. 
Pur  di  spezzar  la  verga  egli  risolve,. 
Ed  il  real  Palagio  si  dissolve . 

Ove  fuggirglieli'  incantate  porte, 
Ove  gli  archi  robusti ,  e  gli  aurei  tetti  ;.; 
E  quei,  che  il  gran  Palagio,  al  parche  forte  y 
Vago ,  e  leggiadro  fcan  ,#  lavori  eletti  ? 
Tante  ricchezze  ove  mai  fu™  assorte  > 
Forse  del  Mar  ne  gl'intimi  ricetti? 
Ov'è  il  Castel ,  che^  con  profano  orgoglio 
Quasi  di  Giove  s'innalzava  al  Soglio? 
XVI. 

Tutto  spari,  ne  vi  restò  vestigi»  , 
Come  gittata  non  s'avesse  pietra. 
Sublime  è  questo  in  ver,  strano  prodigio , 
Che  merta  il  suon  di  ben  temprata  cetra*. 
Ove  la  Patria  fu,  del  Popol  Frigio , 
Ove  Carta  go,.  il  passeggier  s?  arretra  , 
E  mira  almen  quelle  ruine  auguste,. 
Illustri  avanzi  de  1'  Età  vetuste ... 
XVII. 

Ma  in  van  fra  questo  Pelago  rn'  aggiro^ 
Sopra  l'errante  Nave  de  l'ingegno.; 
Con  troppo  arduo  viaggio  in  vano  aspiro 
A  penetrar  de  la  Magia  nel  Regno. 
Il  portento  perciò  narro,  ed  ammiro  , 
Né  come  oprato  fu  spiegar  m*  ingegno;, 
Bastami  dir  che  sbalordito  Otone 
Quasi  il  senso  a  perduto  y  e  la  ragione  ^ 


N    O     N     O,  2ot 

XVIII. 

De  la  Terra  ei  non  sa  qual  Emi  sfera 
Calchi  il  suo  piede,  od  in  qual  Zona  ei  viva" , 
Non  sa  se  in  altro  Globo  altro  sentiero 
Prema  d' intorno  al  Sol ,  che  il  Mondo  avviva  * 
Così  ,  se  illeso  dal  furor  guerriero 
Rivede  il  Figlio  suo  Madre  giuliva, 
Il  pianto  Figlio,  da  stupor,  da  gioja 
Sembra  che  oppressa  illanguidisca,  cmuoja, 
XIX. 

Né  forse  quegli ,  sul  cui  capo  scese 
Colpo  di  piatto  in  sanguinosa  pugna, 
Colpo  crudel  ,  che  stupido  lo  rese 
Sì  che  in  pie  mal  si  regge ,  e  più  non  pugna  ; 
Né  forse  Pollo,  che  di  Falco  intese 
Il  noto  volo,  e  ne  paventa  Pugna, 
Sì  stordito  riman  ,  confuso  tanto , 
Siccome  Oton  pel  non  atteso  incanto. 
XX. 

Ma  tosto  che  da  P  alto  ei  si  riebbe 
Stupor,  che  immobil  fatto  avcalo,  e  muto, 
Di  non  veder  vegliando  assai  gì'  incretbe , 
Quel  Vecchio  ,  che  dormendo  avea   veduto. 
Dal  nascer  suo  molta  credenza  egli  ebbe 
Ne  1*  Impostor  da' Musulman  temuto;      (sa 
Perciò  quel  Vecchio  un  Servo  ei  crede ,  un  Mes- 
Di  Maometto,  o  Maometto  stesso; 
XXI. 

Che  sua  possanza,  e  sua  bontà  dimostra 
Col  farlo  salvo  in  si  mirabjl  foggia; 
Onde  boccone  sul  terren  si  prostra  , 
E  riverente  il  labbro  al  snolo  appoggia. 
Il  contento  del  cor  col  pianto  ei  mostra. 
Che  da  le  ciglia  sue  scende  qua!  pioggia  v 
(Anco  il  contento  fa  che'l  pianto  sbocchi) 
Le  braccia  ci  volge  al  Cielo  j  a  terra  gli  occhi . 

u 


20*         CANTO 

XXII. 

E  «5  dice  in  quell'  atto  :  O  veneranda ? 
O  sapiente,  o  divino  Maometto, 
Grandissimo  Profeta  ,  al  cui  comando 
Suol  di  Natura  il  corso  esser  soggetto  ; 
Che  fino  al  Ciclo  col  pensier  poggiando, 
Nuove  cose  ,  inspirato»  al  Mondo  ài  detto 
E  col  dotto  Alcoran ,  sublime ,  e  puro 
Cutto  insegnasti  al  Popolo  futuro  : 
XXIII. 

Poiché  tanta  degnasti  ,  o  gran  Profeta  , 
Pietàde  aver  del  mio  destino  acerbo, 
Degna  i  trasporti  udir  d'un  alma  lieta  , 
D'un  cor,  che  il  favor  tuo  rese  superbo. 
Se  fìa  che  palme  questo  braccio  mieta , 
Se  perduto  non  à  I'  antico  nerbo  , 
Tutto  è  tuo  dono,  ed  a  te  sol  degg'  io- 
La  libertà,  la  vita,  e  l'onor  mio. 
XXIV. 

Ben  mille  a  te  co;n  animo  sincero 
Grazie  ne  rendo,  e  pel  tuo  nome  santo 
L'armi  del  primo  vinto  Cavaliero 
Appender  giuro#  al  tuo  sepolcro»  a  canto  . 
Né  quell'armi  inviar  per  iscudiera, 
Ma  offrirle  io  stesso  a  te  darommi  vanto* 
Ode,  ciò  derto,  Otone  ,  o  udir  gli  pare 
Una  voce  sonora  alto  gridare. 
XXV. 

Tosto  Padoratordi  Maometto 
A  l'improvviso  suon  l'orecchio  tende; 
E  come  Cervo  ,  che  i»  natio  boschetto 
Voci  di  cani,  e  suon  d'acciari  intende  , 
Dal  Fiumicello,  a  cui  bevea  soletto, 
Alza  il  ramoso  capo,  e  il  guardo  stende, 
Né  più  si  cai  di  quella  Jimpid'onda, 
Che  in  s£  riflette  l' ombreggia nte  fronda  ; 


NON     O.  203 

XXVI. 

Cosi  ,  qualor  V  ignota  voce  intese, 
Picn  di  spavento  il  Musulman  fuggia  ; 
Ma  poi  là  lena  ,  e  1'  animo  riprese 
Quando  la  voce  alto  gridò  che  stia. 
Ferma ,  gli  disse  ,  e  qual  timor  ti  prese  * 
Par  che  fanciullo ,  o  femmina  tu  sia . 
Nunzio  non  son  di  duol  ,  ma  di  contento, 
T'offro  un  destrier veloce  più  che  il  vento. 
XXVII. 

Confuso  è  Otone  ,  ed  interrotta  gli  esce 
Dal  labbro,  e  mal  formata  la  parola  ; 
Poscia  la  gioja  a  lo  stupor  si  mesce 
Si  che  i  sensi,  qual  pria  ,  quasi  gì' invola  . 
Vede  allora  unDestrier,  che  nasce,  e  cresce  , 
E  la  sua  spada  ,  e  non  la  spada  sola  , 
Ma  1'  usbergo,  e  l'elmetto  era  con  quella, 
Dei  guernito  Destrier  sopra  la  sella. 
XXVIII. 

Tal  meraviglia  non  sentissi  in  petto 
L'incauta  Europa  sul  fallace  Toro, 
Che  sotto  incorno,  e  il  bestiale  aspetto 
Celava  insidie  al  verginal  tesoro; 
Né  lei,  che  a  nuovo  Anfitrion  ricetto 
Ignara  diede  entro  al  pudico  toro , 
Quando  ,  di  Notte  il  corso  alfin  compito., 
Moglie  si  vide  a  gemino  Marito. 
XXIX. 

Ei ,  mirando  il  Destrier  dai  suol  venuto, 
Di  ciò  che  udito  avea ,  si  risovvenne; 
E  con  fiducia  nel  celeste  ajuto , 
Al  Corridor,  che  il  fren  mordeva,  ei  venne. 
Con  giojoso  annitrir  fègli  un  saluto 
Il  buon  Cavallo,  e  l'agii  pie  rattenne. 
Sovra  gli  arredi  suoi  P  oro,  le  gemme, 
Le  perle  stan  de  l'Eritree  maremme. 

I  6 


*o4         C    A     N     T    C* 

XXX,. 

Le  chiome  Oton  co  la  sinistra  afferrar^ 
E  ne  Ja  staffa  caccia  il  manco  piede  , 
E  spicca  un  salto,  e  le  ginocchia  serra, 
Poco  premer  la  staffa  utile  ei  crede  , 
Onde  balzar  più  facilmente  a  terra, 
Se  mai  sotto  il  destrier  vacilla,  e  cede . .. 
Come  composto  di  persona  ei  sia 
Dicanio  i  Mastri  di  Cavalleria. 
XXXI. 

Ma  tutto  il  sangue  entrerà  le  rene  serue 
Rallentarsi ,  arrestarsi  il  Cavaliere,, 
Quando   vede  spiegar  velocemente, 
E  batter  Palejl  magico  Destriere, 
Che  pei  campi  de  Paria  involo  ardente 
Par  che  rivolga  a  le  celesti^  sfere . 
Oltre  al  con  fin  de  l'Atmosfera  ei  s'alza, 
E  cento  miglia,  e  forse  più,  s'innalza. - 
XXXII. 

Pria  che  in  sella  montasse,  ei  non  s'accorse 
Che   fosse  quel  ,  come  Cavallo  ,  Augello  ; 
Forse  perchè  poco   osservollo ,  o  forse  , 
Perchè  l'ali  il  colore^  àn   del  mantello.. 
Che  questo  fosse  nel  pensier  gli  corse 
QuelP  Ippogrrfo,  o  successor  di  quello, 
Che  nel  Globo  Limar  portò  Ruggiero, 
Siccome   narra  il   Ferrarese  Omero, 
XXXIII. 

Esperto  egli  era,  e  in  cavalcar  valente* 
Perciò  si  strinse,  equilibrossi  in  sella  ; 
A  le  chiome  s'  attenne,  e  a  briglie  lente 
Percorse  in  sul  Destrier  strada  novella. 
Mentre  ei  s*  alza  così  dirittamente, 
E  addietro  lassa  questa  nube  ,  e  quella  > 
Già  dal  Mondo  egli  pensa  esser  diviso, 
E  rapito  si  crede  in  Paradiso* 


w  o  n  a.        #& 
xxxiv.  t 

Come  En«c  Patriarca  ,  Elia  Profeta, 
Fur  sollevati  in  un  istante  al  Cielo  ; 
Di  Giovanni  non  so  ,  che  ad  altra  meta 
Fu  volto,  io  credo*  il  suo  terrestre  velo-. 
Eran  vasi  costor  d'impura  creta ,  > 
Siccome  ogjrun,  cui   Morte  vibra  il  telo  ; 
Ma  li  sottrasse  il  Facitor  divino 
A  la  forza  del  Tempo  >  e  M  Destino . 
XXXV. 

Ghi  vide  il  Corvo  alto  poggiar  talora  r 
Che  d'ingordo  desir  vittima  sia  , 
Perchè  non  puote  il  curvo  rostro  fuora 
Trar  dal  cartoccio ,  ove  cacciollo  pria  ; 
"E  densa  gomma  l'inviluppa  allora, 
Che  fuggir  quell'insidia  egli  vorria  , 
Gomma  ,  che  l' orlo  del  cartoccio  cinge  ; 
Diritto  il  voi  quasi  a  le  nubi  ei  spinge  : 
XXXVI. 

Chi  quello  vide,  immaginar  ben  puots 
Il  viaggio  d'Oton,  senza  fatica. 
De'  Pianeti  ei  pa^sò  le  vie  remote, 
E  Marte  vide^  co  la  Diva  amica  . 
Coloro  ,  a  cui  non  soa  le  cifre  ignote 
D1  Urania  ,  al  Vulgo  stolto  ognor  nemica >. 

euesta ,  che  detta  amor  fu  da'  Poeti , 
hiaman  Congiunxìon  di  due  Pianeti, 

xxxvir. 

Cangiai  cammin  ,  per  molte  miglia,  e  molte 
Ver  l'Oriente  il  volo  il  Destrier  volge; 
E  in  loco  scende,  ove  d'antiche,  e  folce 
Piante  la  squnllid'ombra  il  suolo  involge* 
Tante  son  quivi  annose  Quercie  accolte, 
Che  fra  le  fronde  in  van  raggio  s'  avvolge; 
Ne  l'estiva  stagion  sol  vi  traiuce 
Dcbil  talor  meridiana  luce- 


zoo         CANTO 

XXXVIII. 

Questo  solingo,  tenebroso,  e  cupo 
Loco  ,  che  al  guardo  sol  desta  spavento^ 
A  paragon  di  cui  balza  ,  o  dirupo 
E*  soggiorno  di  gioja,  e  di  contento; 
Ove  affamato  urla  l'ingordo  Lupo; 
Ov*  Uom  di  fame  dee  morir,  di  stento, 
O  se  di  stento  nò,  convien  ch'ei  pera 
Fra  zanne,  od  ugne  di  vorace  Fera: 
XXXIX. 

Questo  sceglie  per  meta  al  suo  viaggio 
Il  volator  ,  e  in  mezzo  scende  ai  bosco  , 
Ove  neppur  meridiano  raggio 
Mai  penetrò ,  dov'  è  più  l' aer  fosco  . 
Colà  s'aggiran ,  come  in  lor  retaggio , 
Angui  in  lubriche  anella,  e  spargon  tosco; 
E  quinci,  e  quindi  quella  nera,  e  lunga 
Selva  parecchie  miglia  si  prolunga. 
XL. 

Il  pennuto  Corsier  trattenne  il  corso 
Innanzi  appunto  ad  un  angusta  cella; 
E  il  Cavalier,  lasso  d'aver  sì  corso, 
Senza  punto  indugiar,  scese  di  sella. 
Non  sa  se  tana  sia  di  Tigre,  o  d'  Orso  , 
O  di  romito  alcun  sede  sia  quella. 
Spera  asilo  trovar^  perigli  teme, 
E  incerto  ondeggia  fra  timore ,  e  speme . 
XLI. 

Né  villereccia  rozza  capannuccia 
Quel  chiuso  loco  si  può  dir  che  sia  , 
Voichè,  se  fosse  povera  casuccia , 
Ciò  che  abbisogna  almeno  ivi  saria. 
Uom  mendico  non  avvi ,  o  femminuccia  , 
Che  sovra  scanno  assisa  non  istia^ 
Che  un  tavolin  non  abbia,  un  picciol  letto, 
Un  rozzo  armadio  ne  l'angusto  tetto. 


NONO.  ^o/ 

XLII. 

Traccia  d'abitator  qui  non  sì  vede  , 
E  de  gli  usati  arredi  il  loco  è  vuoto 
Sì  che  alfin  perde  Oton  la  speme,  e  crede 
Quello  il  soggiorno  d'animale  ignoto  . 
Ciò  punto  il  ^erisimi!  non  ecceae, 
E  1'  artifizio  del  Castore  è  noto, 
Che  mura  innalza,  e  vi  pon  calce  sopra, 
Indi  le  stanze  a  ripartir  s'adopra. 
XLIII. 

Ma  che  un  Mago  ivi  sia  crede,  e  non  erra  y 
Quando  molte  bollir  pentole  scerne  , 
E  vede^  starsi  l'Alcorano  in  terra  , 
E  molti  cerchi  sul  terre»  discerne  ; 
Ed  una  verga  scopre,  che  disserra 
Del  Tartaro  le  porte  a  l'Ombre  infcrne  . 
In  quel  Castello  ,  in  cai  prigion  vivea  , 
Tutte  veduto  ci  queste  cose  avea  . 
XLIV. 

Or  l'ascoso  Avvenir  molto  ei  s'invoglia, 
Sia  tristo,  o  lieto  ,  saper  tutto,  o  in  parte  ; 
E  perchè  in  queìla  selva,  a  quella  soglia 
Scese  il  Destrier  fino  dal  Ciel  di  Marte  , 
Spera  a  ragion  di  soddisfar  sua  voglia 
Col  propizio  poter  di  magic'  arte  ; 
E  con  mistiche  voci,  e  cenni  strani  ^ 
Gli  Spirti  invita  a  disvelar  gli  arcani . 
XLV. 

Già  da  molt'anni  ei  di  Magia  s'intende,. 
Che  n'era  stato  lungamente  a  scuola. 
Tre  pentole,  ed  un  altra  in  mano  prende, 
E  presso  al  foco  ad  apportarle  vola  . 
La  quasi  spenta  fiamma  riaccende 
Col  noto  jsuon  ò\  magica  parola  ; 
Da  le  vicine  piante  in  copia  accoglie  , 
Esca  al  foco  novella  ,  e  legna  ,  e  fog"lie . 


idff         CANTO 

XLVÌ. 

Poscia  la  verga  impugna  ,  e  calcia  prece? 
ÀI  crudo  Re  del  cupo  Averne  ei  volge  , 
Prece,  che  sempre  uscir  gli  Spirti  fece 
Dal  nero  Abisso,  che  tant'alme  involge. 
Tutta  ridirla  al  labbro  mio  non  lece -, 
Dironne  quei  che  in  mente  ormi  s'avvolge, 
Portar  non  ama  il  pie  la  Musa  mia1 
Nel  diffidi  sentier  de  la  Magia. 
XLVH. 

O  forte,  o  venerabile  ,,o  tremendo 
Imperator  de  le  cornute  genti, 
Gran  Re  efe  l'Ombre , e  de  TAverno  orrendo,. 
Dispensator  di  straz/ ,  e  d'i  tormenti  ; 
Tu  ,  che  puoi ,  la  real  fronte^  scuotendo ,. 
Capovolger  dal  fondo  i  Regni  ardenti  ; 
Per  cui  le  colpe  de'  Mortali  sono  , 
£  colonne  a  la  Reggia  ,  e  basi  al  Trono  : 
XLVIIL 

Quel  braccio  punìtor,  che^  il  Mondo  intero* 
Venera,  ossequia,  ed  a  ragion  paventa, 
Deh!  stendi  in  atto  di  supremo  impero-, 
E  i  tuoi  Demon  fa  si  eh'  io  veggia  ,  e  senta. 
Ciò  che  impone  il  Destin,  fausto,  o  severe. 
Cui  stolto  è  1'  Uom ,  che  di  sottrarsi  tenta  > 
Fa  sì  eh' io  sappia,  e  di  qual  Globo  è  il  suolo  > 
Ove  fui  tratto  con  sublime  volo. 
XLIX. 

Scese  a  Pluton  la  valida  preghiera, 
E  tosto  da  ogni  pentola  bollente 
Gli  Ambasciator  delDio,  che  al 'Ombre  impera,- 
Fisciando  ,  urlando  uscir  ferocemente. 
Tutti  addosso  gli  fur  ne  la  maniera 
Che  le  sdegnate  fanno  Api  sovente, 
Se  alcun  le  turba,  o  trae  dal  fayu  fuori 
Il  distillato  nettare  de' fiori  » 


n   o   re  o\       2c9- 

L. 

Quegli  empj  Mostri  abitator  del  cupo 
jRcgno  d' Averno,  offron  miscuglio-  atroce  X 
A%a  d'Orso  il  pelo,  il  dente  anno  di  Lupo, 
Di  Tigre  il  ceffo,  e  di  Leon  la  voce. 
Estiva  Serpe  in  sul  natio  dirupo 
Men  venefico  à  il  guardo,  e  men  feroce. 
Son  de  l' Augeì ,  che  i  folgori  fatali 
Ministra  a  Giove,  i  piedi ,  e  Pugne  ,  e-  l'ali « 
LI. 

Il  Musulmano,  che  assalir  si  vede. 
Fa  tosto  uscir  dal  fòdero  la  spada, 
E  fra  que'  Mostri ,  che  ferir  ei  crede , 
Col  ferro  struggitor  s'apre  la  strada- 
Tanta  è  l'ira,  e  il  furor  ,  ch'ei  non  s'avvede 
Coree  inutil  fra  l'Ombre  il  brando  cada. 
Ombre  son  quelle  ,  ma  in  vederle  sembra 
Che  di  feroci  Belve  abbian  le  membra.. 
LII. 

Son  Ombre,  è  ver,  ma  cento  colpi,  e  mi  ile 
Vibrano,  tai  che  spaccherieno  un  Monte» 
Cerca  pararli  Otone ,  e  sembra  Achille, 
Quando  al  Frigio  furor  faceva  fronte  . 
Ma  di  sangue  non  può  versar  due  stille  , 
Né  ferir  l'ali  a'  Mostri ,  né  la  fronte. 
Teme  perir  ne  la  diffidi  pugna. 
Sotto  il  braccio  nemico,  il  dente,  e  l'ugna  , 

lui. 

Molto  fé  ,  molto  ardi  ,  molti  rimosse 
Colpi  ,  ma  tutti  non  li  venne  fatto  ; 
E  benché  tante  orribili  percosse  , 
Che  l'adamante  avrian  rotto  ,  e  disfatto, 
Tutte  in  rispinger  sempre  abile  ei  fosse, 
Una  lo  colse  ,  ed  atterrollo  a  un  tratto  ; 
E  la  percossa  fu  sì  violenta 
Che  risorger  v.orrìa ,  ma  in  vano  il  tenta... 


2X0         CANTO 

LIV. 

Circondato  ei  si  sente,  avvinto,  oppressa 
Da  denso  stuol  sovra  di  lui  congiunto  . 
Sbalordito  rimali  ,  fuor  di  sé  stesso 
Per  sì  strane  vicende  in  un  sol  punto. 
Alfin  lo  scuote  del  dolor  1'  eccesso, 
Poiché  da  dente  viperino  è  punto  . 
Misero  Ocon  !  su  le  sue  membra  oh!  come 
Crollan  que5  Mostri  le  funeste  chiome  ! 
LV. 

Si  divincola ,  e  slancia  ad  ogni  crollo, 
Vomitando  veleno ,  un  perfid'  angue , 
Ed  al  petto  si  scaglia,  alt  ventre,  al   colla. 
Che  far  può  l'infelice?  Ei  resta  esangue. 
Giunge  il  fluido  letai  fino  al  midollo', 
E  gli  umor  tutti  ,  e  tutto  infetta  il  sangue. 
Ministra  già  di  troppo  avversa  Sorte, 
Rota  sua  falce  Pimpiacabil  Morte, 
INI. 

Ma  quando  par  che  la  e evera  Parca 
Poco  il  filo  fatai  ravvolga  ancora  , 
Filo,  che  annaspa  avara  mano,  e  parca, 
E  sul  primo  annaspar  tronco  è  talora  ; 
Quando  Caronte  de  la  nera  barca 
Par  che  a   Palma  d'Oton  volga  la  prora  , 
Ecco,  s'innoitra  un  Vecchio  a  passio  lento, 
Di  maestoso  ,  e  grave  portamento. 
LVII. 

Cotanto  un  cenno  di  quel  Vecchio  puote 
Che  tosto  ogn' Angue,  ed  ogni  Furia  sparve. 
Ei  sul  petto  incrociò  le  man  divote, 
E  in  estasirapito  un  Santo  parve. 
Volte  al  Ciel  tenne  le  pupille  immote  ; 
Nuovo  prodigio  allor  subito  apparve. 
Oton  sano  divenne,  e  snello  ,  e  forte, 
Oton  ,  che  quasi  era  condotto  a  morte. 


N  O  N  O.  ||| 

lviil 

Fra  cotante  mirabili  vicende 
Ei  non  ardisce  profferir  parola; 
A  lui  quel  Vecchio  ambe  le  braccia  stende  y 
Ed  al  seno  lo  stringe,  e  lo  consola. 
Quel  Genio  tutelar  cosi  risplendc 
Che  de  la  Selva  ii  tetro  orror  s'invola. 
Allor  che  in  Lui  fissar  potè  le  ciglia , 
Fu  preso  Oton  da  nuova  meraviglia  . 
LIX. 

Poiché  quel  Vecchio  sì  gli  apparve-  come 
Eragli  pria  l'altro  nel  sogno  apparso, 
Simii  di  volto  ,  d' aspetto ,  di  chiome  , 
Sì  che  il  medesmo  appunto  esser  gli  è  parso. 
Il  Negromcnte  lo  chiamò  per  nome , 
Poi  eh'  un  torrente  ebbe  di  pianto  sparso. 
Pianto  che  innaffia  la  rugosa  fronte  , 
Siccome  innaffia  i  pingui  solchi  il  fonte. 
LX. 

Deh  !  se  a  te  sia   propizio ,  alma  gentile , 
L'irrevocabil  Fato,  e  Maometto  , 
Segui,  ti  prego  ,  tuo  cortese  stile, 
E  fa  ch'io  sappia  da  chi  son  protetto. 
Sì  disse  Otone  ,  ed  inchinossi  umile 
A  pie  del  Vecchio,  in  segno  di  rispetto. 
Sorgi,  il  Mago  rispose  ,  ad  istruirti 
Qui  venni  ,  o  Figlio ,  ed  alte  cose  a  dirti . 
LXI. 

Sappi  che  in  Terra  non  susurra  fronda  , 
Né  Spirto  può  di  regioni  infernea 
Prodigio  oprar,  che  a  l'occhio  mai  s'asconda» 
Del  gran  Profeta;  il  tutto  egli  discerne. 
Ei  sveller  può  le  rupi,  arrestar  1'  ondi, 
E  trar  gli  estinti  a  le  tenèbre  eterne. 
Rendi  grazie  a  Lui  sol ,  che  die  tal  possa 
A  me  suo  servo,  onde  salvarti  io  possa. 


ti*         CANTO 

LXI1. 

Tn  Terra  sei  :  da  irrevocabil  legge 
Di  sempre^  oscuro  inevitabil  Fato/ 
Che  pria  t'oppresse,  or  ti  conforta,  e  regge, 
In  questo  loco  a  voi  fosti  guidato. 
Macon ,  che  del  Destirr  le  cifre  legge  , 
A*  la  magica  verga  a  me  prestato  ; 
Ei  per  mio  mezzo  il  volator  Destriero  ; 
Egli  usbergo  ti  die,  brando,  e  cimiero. 
LXIII. 

Da  me  sarar  di  molte  cose  istrutto  f 
Amato  Figlio  ,  che  avvenir  ti  denno  . 
Con  somma  intendi  riverenza  il  tutto, 
Cono'  ode  Eunuco  del  Sultano  il  cenno. 

10  son  quel  Ferraù  ,  che  il  dolce  frutto 
Coglier  ti  fece  del  valor  ,  dei  senno  , 
Ferraù,  che  ti  rese  in  guerra  ,  in  pacey 
E  di  Bellona  ,  e  di  Sofia  ,  seguace . 

LXIV. 
Fin  da'  prim'  anni  in  fanciullesca  guerra 
Assodai  le  tue  fibre  ,  il  tuo  coraggio;: 
Poi  de  Pihstabil  Dea,  che  manda  in  Terra 
Riflesso  il  lume  del  fraterno  raggio , 
L'arte  apprendesti,  per  cui  belve  atterra 

11  Cacciatore  ardito  ai  par  che  saggio. 
Pria. col  Cervo  leggiero,  e  col  Capretto, 
Poi  co  gii  Orsi  pugnar  fu  tuo  diletto. 

LXV. 
Farmi  veder  la  pargoletta  mano 
Regger  tremando  il  grave  arco,  e  Io  strale  , 
E  più  bramando  che  potendo,  in  vano 
A  le  Fiere  drizzar  colpo  mortale. 
Ma  ciò  che  tanto  ora  è  da  noi  lontano 
Per  anni,  e  lustri,  memorar  che  vale  ? 
Basti  il  mio  nome,  e  che  son  io  queldcs<o, 
Che  tu  y  sognando  ,  ti  mirasti  appressa  „ 


r  NONO.  215 

LXVI. 

"E  perchè  in  parte  dir,  celarti  in  parte 
Non  voglio  il  ver,  ma  narrar  tutto  io  voglio; 
Quando  nel  suo  Castel  per  magic' arte 
Vidi  altera  Colei  sedersi  in  Soglio; 
Col  libro  in  man,  le  chiome  al  vento  sparte, 
Diedi  sfogo  al  mio  sdegno,  al miocordoglio  , 
E  con  voce  dicea  da  Pluto  intesa  , 
Ch'io  non  vo'  sopportar  sì  grave  offesa. 

LXVII. 
Gran  Re  de  l'Ombre  ,  che  tremendo ,  e  giusto 
Punisci  l'alme  ree,  che  il  Ciel  condannai 
Perchè  a  la  Maga  ergi   un  Palagio  augusto , 
f,  me  qui  lasci  in  povera  capanna  ? 
Dunque  al  mio  merto,  al  mio  servir  vetusto 
Serbavi  tu  questa  mercè  tiranna? 
Sia  di  tanto  favor  degna  costei  , 
Ma  Ferraù  non  obbliar  per  lei  . 

LXVIII. 
Più  non  aggiunsi,  ed  un  Fantasma  apparve 
Da  Mostri  cinto,  orridi,  e  strani  oggetti . 
(  Fra  Macon  fra  le  tartaree  larve  ) 
Dièmmi  una  verga  ,  e  profferì  tai  detti  . 
Tu  quel  Castel,  che  raro  don  tiparve^ 
Di  Pluto,  e  i  marmi,  ed  i  lavori  eletti, 
Tutto  sfumar  vedrai  ,  questa  spezzando. 
Del  Fato,  e  di  PJuton  tale  è '1  comando. 
LX1X. 
La  .gran  verga  serbai  con  molta  cura  , 
Finché  far  l'alta  pruova  a  me  piacesse. 
Volle  il  Destino  che  la  lunga ,  e  dura 
Tua  prigionìa  termine  alfine  avesse  . 
Tu  la  spezzasti  nllor:  l'eccelse  Mura 
Svaniron  tosto;  e  quelle  moli  stesse, 
Che  non  visibil  man  prima  costrusse , 
Che  Magìa  sollevò,  Magìa  distrusse. 


*i4         CANTO 

LXX. 

Poscia  il  buon  Vecchio  molte  cose  disse 
.Ad  Oton,  che  implorava  il  suo  soccorso  . 
Molte  strane  vicende  a  lui  predisse 
Con  lungo  ,  e  saggio,  ed  utile  discorso  . 
Sapea  quel  Vecchio  ne  le  stelle  fisse , 
De  l'incerto  Avvenir  leggere  il  corso. 
Felice  Oton,  cui  si  disvela,  e  scopre 
Ciò  che  a  guardo  mortai  s'  asconde ,  e  copre  ! 
LXXI. 

Quel  che  ai  propizio  Mago  egli  rispose  , 
Come  a  baciarlo,  ad  abbracciarlo» ei  corse, 
X  quante  grazie  per  le  dette  cose 
Rese  al  buon  Preccttor  ,  che  lo  soccorse; 
Dopo  tante  venture  aspre,  e  dogliose, 
Quanta  gioja  ad  Otone  in  petto  sorse  ; 
Quanto  piacer  colmò  del  Vecchio  Palma, 
D'Otcn  mirando  il  giubbilo,  e  la  calma  : 
LXXII. 

Tai  cose  son  che  converrìa  ia  cetra  , 
Per  cantarne,  trattar^  d'Apollo  stesso, 
O  il  cieco  Vate  ravvivar,  che  a  P  Etra 
L' ira  innalza  d'Achille ,  agli  Astri  appresso  ; 
O  quel  Cantor,  che  vive  in  tela,  in  pietra > 
E  che  in  Sionne -celebrò  P ingresso; 
O  quel  ,  che  mesce  in  variati  carmi 
Amori,  Donne,  Cavalieri,  ed  armi. 
LXXIIL 

Né  più  dirne  dovrei ,  s'  anco  il  potessi  a 
Però  che  il  Vecchio  di  tacer  fé' segno, 
Ed  una  lauta  mensa  da' recessi 
Uscir  fé'  tosto  del  tartareo  Regno . 
Copron  la  mensa  molti  arrosti ,  e  alessi , 
Molte  vivande  ,  che  laggiù  l'ingegno 
Seppe  inventar  del  cuoco  di  Lucullo, 
Che  fea  co' cibi  il  suo  maggior  trastullo. 


NONO.  215 

LXXIV. 

Oh  !  mirabil  poter  de  la  Magìa, < 
Che  in  uno  istante  ,  in  un  balen  ci  mostra 
Cose  non  viste  ,  e  non  intese  pria, 
Meravigliose  a  la  veduta  nostra. 
Soffici  seggi  ad  uso  di  Turchia  , 
Cingon  la  mensa  con  piacevol  mostra. 
Sovra  i  sottili  trapuntati  lini 
Stanno  in  terso  cristal  spumanti  vini . 
LXXV. 

Disse  ad  Otoneil  venerabil  Vecchio, 
Seco  sedendo  a  Pimmbandita  mensa  ; 
Mira  P  esca ,  o  Figliuol ,  eh'  io  t' apparecchio  , 
E  che  tuo  lungo  digiunar  compensa  *m 
Il  divino  Alcoran,  ch'è  puro  specchio 
Di  virtù,  dal  divieto  or  te  dispensa. 
Dal  divieto,  che  il  vino  a  noi  difende; 
Vietarlo  a  tutii,  e  sempre  ci  non  intende  . 
LXXVI. 

Quel  gran  Lcgislator  l'uso  divieta. 
Severo  al  Volgo  dei  liquor  di  Bacco  , 
Perchè  non  possa  unqua  obbliar  la  meta 
Chi  nel  sentier  di  temperanza  è  fiacco  ; 
E  in  quel  vizio  cader,  che  Ragion  vieta, 
Che  P  Uom  rende  brutal  ,  empio  ,  e  vigliacco . 
Legge  è  cotesta  per  lo  Vulgo  incauto  , 
Pel  Saggio  nò,  sempre  avveduto,  e  cauto. 
LXXVII, 

^arrischi  pur  quel  valoroso  in  Campo, 
Che  difender  ben  sa  la  propria  vita  > 
Se  Virtù  nel  Piacer  non  trova  inciampo, 
Cosa  non  avvi  illecita,  o  proibita. 
Giusto  è  de  Pira,    util  d'Amore  il  vampo, 
Desio  di  Gloria  ad  alte  Imprese  invita; 
Ma  se  il  confin  de  la  Ragione  eccedi , 
L'antidoto  in  velen  cangiarsi  vedi» 


&itf     CANTO    NONO. 

LXXVIIL 

Sì  dice  il  Mago  ,  e  di  Macon  possente 
11  -venerato  nome  umile  invoca. 
Ambi  con  alma  pura  >  ed  innocente 
Tracannan  di  liquor  copia  non  poca  . 
L'accorto  Vecchio  ripetea  sovente 
Che  non  v' à  cosa  mai,  che  al  Saggio  nuoca  ; 
E  di  spumante  vin  tazze  colmando, 
De  l'Alcoran  mandan  la  legge  in  bando. 
LXXIX. 

Ma  le  palpebre  sollevar  non  ponno, 
Tanto  dal  cibo  son ,  dal  vino  oppressi  ! 
Il  Dio  Cimerio  di  lor  fassi  donno, 
E  i  papaveri  suoi  versa  sovr'  essi . 
Lasciam  coloro  in  braccio  al  pigro  Sonno, 
E  mentre  dormon  ,  riposiam  noi  stessi  , 
La  voce  poscia  più  sonora  a  1*  Etra 
Sospingerem  su  la  temprata  cetra  . 


Fittt  iti  C *ttto  Kong 


**7 

LA     MORTE 

D^  ORLANDO. 


CANTO    DECIMO 


ARGOMENTO. 

Olone ,  e  Ferràà,  che  stesi  al  sua/e 

Dormisti,  destatisi  *lfint  cose  stupende 
'Detta  il  Mago  nd  Otony  che  poi  di  voi* 
Su  P Ippigrifo  in  une  sceglie  scende. 
liti  è  Isabella   immersa  in  aspre  duolo  > 
Oton  la  invela,  e  in  Vener  seco  ascende 
Ulisse  lascia   Fierdiligi  ,  /  molti 
Frati  ritrova  in  antro  escure  accolti. 


C  L 

Oempre  verace  quest'assioma  ,  e  chiaro 
Parve  a  color  ,  eh' àn  di  Ragione  il  Jurae> 
Essere  il  mezzo  ne  le  cose  raro  , 
E  che  più  d'un  serbarlo  in  van  presume  •' 
Sti.  nel  mezzo  Virtù  ;  farmaco  amaro 
Virtù  severa  offrir  suol  per  costume. 
Guida  un  sol  calle  al  Ver ,  mille  al'  Inganno  , 
Al  multiforme  Error  sentieri  vanno . 


4x8  CANTO 

IL 

li  i'Uom,ehe  spesso  à  densa  benda  a  ginocchi, 
Cernie  il  medio  sentier  discerner  spera? 
Più  diffidi  non  è  che  un  cicco  tocchi 
Fra  cento  bianche  pecore  la  nera. 
Molti  perciò  son  gl'ignoranti,  i  sciocchi, 
Che  ad  ogni  cosa  dan  credenza  intera  ; 
Molti ,  che  a*  sensi  lor  credono  a  pena  , 
E  in  Terra  stan  come  in  fallace  Scena  . 
Ili, 

Ma,  siccome  nel  resto,  anco  In  dar  fede 
Il  mezzo  v*  à  ,  negligerlo  è  stoltezza. 
Quel  che  intender  non  sì  ,  y'  è  chi  noi  crede, 
Quel  eh'  è  recente  ,  avvi  chi  il  nega  ,  e  sprezza, 
Strana  pazzìa,  ch'ogni  confine  eccede, 
Che  sol  vetuste  cose  ama,  ed  apprezza! 
Con  insensato  ardir  gioco  si  piglia 
Talun  di  ciò  che  apporta  meraviglia. 

Pria  che  negare  ,  od  accordar  credenza  , 
Veggiam  se  assurdo,  o  se  possibii  sia 
Quel  che  udito  ci  venne,  e  l'apparenza 
Non  seguiam  sola,  u*  copresi  Bugia  . 
Acciò  che  poi ,  scoprendo  ad  evidenza 
La  Verità  non  conosciuta  ppia  , 
Di  non  maturo  esame  a  noi  la  taccia 
Non  giunga  quindi,  che  arrossir  ci  faccia. 
V. 

Ciò  dico  a  voi,  che  di  mie  rime  al  suona 
Udiste  pria  molti  prodigi  in  Terra  ; 
Poi  mi  vedeste  a  l'avvampante  Trono 
Scender  di  Pluto,  che  i  malvagi  afferra; 
D'onde  fuggito  arditamente  io  sono 
(Che  a  suo  piacer  s'aggira  il  Vate ,  ed  erra, 
È  a  testa  equina  umane  membra  spesso 
Può  sottopor  chi  valica  il  Permesso  :  ) 


DECIMO.  zio 

VI. 

Fuggito  sono,  e  con  audace  salto 
Entro  a  Cometa  penetrai  di  volo, 
E  fui  sì  lungi  rapito,  e  sì  alto 
Che  inorridisco,  immaginando!  solo. 
Ivi  mostrai  gliabitator  ,  che  in  alto 
Sonno  giaceansi  in  quei  gelato  suolo, 
Ove  fur  tratti  con  perversi  incanti 
Angelica  vezzosa ,  e  i  fidi  amanti . 
VII. 

Voi  mi  vedrete,  qual  vedeste  allora, 
Per  certo  umor,  per  certa  bizzarrìa 
Poggiar  veloce,  e  far  che  suoni  ancora 
In  altro  Globo  questa  cetra  mia. 
Di  quegli  Eroi  ,  eh*  io  canto,  i  passi  ognora 
Brama  seguir  mia  calda  Fantasìa  ; 
Ma  quel  che  ò  detto,  e  quel  che  a  dir  m'accingo, 
Creda  chi  vuol  :  niuno  a  dar  fede  astringo , 
Vili. 

Perch' ionon  son  ,  né  Luca  ,  né  Giovanni, 
Né  metto  in  fronte  a  mie  parole  un  Credi. 
Mi  basta^  che  un  censor  non  mi  condanni , 
Se  il  verisimil  sempre  egli  non  vede; 
E  che  non  creda  tutto  fole ,  e  inganni  , 
Perchè  non  rnerta  una,  o  due  cose,  fede, 
Ma  pensi  ancor  che  si  conobbe  vera 
Cosa  talor  ,  che  inverisimil  era. 
IX. 

E  s'avvien  che  menzogna  anco  si  scopra, 
L'estro  vivace  a  me  ne  fia  discolpa. 
Stojto  chi  il  Vero  a  ricercar  s'  adopra 
Né  carmi,  e  un  Vate  di  fallacia  incolpa! 
Ne  lo  Scrittor  di  Filosofie' opra  , 
Nel  seguace  di  Clio  menzogna  è  colpa. 
Ma  il  soffio  agi tator  ,   che  un  Vate  spinge, 
Fra  i  confini  del  Ver  non  si  ristringe  , 

K  % 


zzo         CANTO 

X. 

Mentre  in  vane  parole  io  fò  ritardo, 
Mi  sfugge  quasi  il  mio  pensier  di  mente» 
Ch'  è  di  volger  sollecito  lo  sguardo 
A)  Turco.  Qtone,  che  lasciai  dormente. 
Bi  si  destò  ,  ma  per  lo  vin  gagliardo 
Grave  il  capo,  e  confuso  ancor  si  sente* 
Destossi  ,  ed  arrossi  quel  Mago,  astuto 
Pei  soverchio  liquor,  che  avea  bevuto. 
XI. 
E  tosto  disse  quello  scaltro  Vecchio  : 
O  clemente ,  o  grandissimo  Profeta , 
Or  ch'io  fra  queste  oscure  Selve  invecchio  % 
Co'  tuoi  favor  fa^  mia  canizie  lieta  . 
Figlio,  a  spiegarti  il  sonno  io  m  'apparecchio % 
Che  spiegarlo  Macone  a  me  non  vieta  ; 
Sonno  quello  non  fu,  come  tu  pensi, 
listasi  fu  ,  che  ci  à  rapito  i  sensi . 
XII. 
Noi  conoscesti?  Un  rapimento  santo 
Fu  quel,  che  un  pezzo  noi  da  noi  divise» 
Qflde  quaggiù  lasciando  i  corpi  acanto, 
Lassù  nel  Ciel  l'anime  nostre  mise. 
Perchè  quest'alme  in  lor  terreno  ammanto 
Il  nemico  Destin  tosto  rimise? 
O  perchè  aimen  serbar  Spirto  non  dee 
Quaggù  memoria  di  celesti  idee  ? 
*    *  XIII. 

Si  disse  il  Mago,  che  sapea  di  frode, 
E  molta  gioja  gii  lampeggia  in  viso. 
A  braccia  tese  ti  tuttavia  dà  lode  g 
A  Maometto,  e  il  guardo  al  Ciel  tien  fiso. 
Per  quell'estasi  Oton  s'allegra,  e  gode, 
E  che  il  Vecchio  il  deluda  non  gli  è  avviso, 
$è  del  Maestro  l'inspirato  labbro 
Bi  creder  puote  di  menzogne  fabbro. 


DECIMO.  ai 

XIV. 

Oh!  stolti  noi  ,  come  ci  avvien  sovente, 
A  cui  molto  crediam,  di  creder  troppo  1 
Destro  impostor  *  che  de  1'  incauta  gente 
La  fé  s'usurpa,  non  ritrova  intoppo; 
Poiché  il  giudizio  de  1'  umana  mente 
Immaturo  è  talor,  debole,  e  zoppo  ; 
!E  per  l'opposto  un  labbro  menzognero 
Crediam  che  menta,  s'anco  dice  il  vero. 
XV. 

Frattanto  Oton  sollecito  si  veste 
D'armi  cosi  come  pugnar  dovesse; 
5' allaccia  iy  elmo  ,  e  il  petto  si  riveste  , 
Lieto  di  riaver  sue  spoglie  stesse. 
A*  per  cimiero  un  Aquila  a  due  teste  , 
Son  sue  vittorie  su  l'usbergo  espresse  ; 
E'  lo  scudo  un  acciar  di  tempra  egregia  , 
Luna  d'argento  io  distingue,  e  fresia. 
XVI. 

Ricco  pugnai  di  gemme  adorno,  e  d'oro  , 
Diègli  quel  Mago  in  dono,  opra  divina  ! 
E  una  gualdrappa (di  sottil  lavoro, 
Tutta  di  maglia  rilucente  ,  e  fina. 
Offre  questa  al  Destrier  lustro,  e  decoro  , 
La  groppa  copre ,  e  scende  al  suol  vicina . 
Il  volante  Destrier  pieno  di  nerbo  , 
Pel  novello  ornamento  è  più  superbo . 
XVII. 

Il  Vecchio  poscia  un  incantata  ampolla  , 
Ove  ignoto  liquor  stava  rinchiuso, 
Trasse  dal  seno,  e  al  caro  Oton  donolla  ; 
Oton  richiese  qual  ne  fosse  l'uso. 
Figlio,  il  Vecchio  rispose,  al  par  di  colla 
E    tenace  il  liquor  qui  dentro  chiuso; 
Suole  al  ferro  prestar  tanta  virtùde  , 
Che  resistere  il  fa  più  d'un  ineude  . 

K  3 


m         CANTO 

XVIII. 

Cotesto  umor  non  saprei  dirti  come 
Chiamar  si  deggia  ,  esso  a' mortali  è  ignoto  f 
Ma  poco  giova  di  saperne  il  nome  , 
U  suo  poter  basta  che  a  te  sia  noto . 
L'usbergo  tuo  saldo  starà ,  siccome 
Scoglio  star  suol  fra  Tonde  avverse  immoto,. 
Ne  il  brando  mai,  ne  ria  l'elmetto  infranto,. 
Se  dei  liquor  l'aspergerai  soltanto. 
XIX.. 

Lungo  troppo  saria  narrarti  appieno 
Come  sì  gran  tesoro  avuto  io  m'abbia. 
Or  ti  basti  saper  che  verrà  meno 
Pria  de' nemici  tuoi  l'ira,  e  la  rabbia, 
E  di  spezzati  ferri  il  Campo  pieno, 
E  ria  di  sangue  ostil  molle  la  sabbia, 
E  i  più  feroci  volgeranno  il  tergo, 
Che  si  spunti  Tacciar,  ceda  l'usbergo. 
XX. 

Sì  disse  ;  io  la  cagion  saper  non  tento 
(  Vana  cura  sarla  )  di  tal  prodigio, 
Né  so  se  figlio  sia  T  alto  portento 
D'IIlusion,  di  magico  prestigio. 
Per  tanti  doni  Oton  lieto,  e  contento, 
Più  non  teme  esser  tratto  al   Regno  Stigio  s 
Poiché  tai  son  de  Tarmi  sue  le  tempre, 
Ch'egli  esser  debbe  invulnefrabil  sempre^ 
XXI. 

Con  riverenza  allor  dal  Mago  prese, 
Come  volle  il  Destino,  alfin  commiato; 
Molte  ,  prostrato  al  suol,  grazie  gli  rese  r 
Siccom'  era  dover  d'  animo  grato . 
Prima  che  il  tuo  favor,  Mastro  cortese, 
Disse,  e  'I  tuo  nome  sia  da  me  obbliato, 
Mi  sia  la  terra  sotto  à' piedi  aperta, 
E  freddo  il  foco  in  gel  pria  si  converta. 


DECIMO.  zz$ 

XXII. 

Tal  fur  suoi  detti ,  ed  altri  ancor  parecchi  , 
Hhe  il  replicar  penso  che  inutil  sia. 
ìe  con  ciancie  assordassi  altrui  gli  orecchi , 
yOton  ,  che  parce,  smarrirei  la  via  ,t 
Meglio  sarà  che  tosto  io  m'apparecchi 
V  tenerli  per  Paria  compagnia, 
E  se  non  giungo  a  seguitarlo  appieno, 
/o'  seguirlo  cosi  ch'io  il  veggia  almeno. 
XXIII. 

Già  de'folgor,  qual  folgore  novello ^ 
E  de  le  nubi  a  l'alta  regione 
Poggia  veloce  quel  Cavall'-Augello  > 
E  seco  tragge  l'animoso  Otone. 
Spettacolo  a  veder  sì  raro,  e  bello, 
jiove  s'affretta^  Paliacle  ,  e  Giunone  ; 
Ed  ir  frequente  stuol  de'  Numi  assiso 
ita  su  le  soglie  del  beato  Eliso. 
XXIV. 

Chi  vide  allor  che  per  sollazzo  ,  e  festa 
[ncontro  al  Toro  il  fier  Mastin  s'attizza, 
La  clamorosa  folla  accorrer  presta, 
Facendo  cerchio  a  1'  apprestata  lizza  ; 
Chi,  mentre  il  Tauro  al  Can  ,  che  lo  molesta, 
Onde  in  aria  slanciarlo  ,  il  corno  drizza  , 
I  plausi  intese,  il  popolar  tumulto, 
Che  il  Tauro  invita  a  vendicar  1'  insulto  : 
XXV. 

Pensi  che  tanto  stuol,  tanto  fracasso 
Sia  di  Giove  lassù  ne  l'alta  Reggia. 
Amor  Jfanciul  ,  de  gli  altri  Dei  più  b3iso  , 
Deve  il  collo  allungarpria  chcOton  veggia. 
Ma  visto,  e  conosciutolo  ,  il  turcasso 
Piglia  ,  e  la  gioja  in  volto  gli  lampeggia  ; 
E  de  la  Madre,  che  di  Cipro  è  Donna  , 
Festoso  trae  la  trasparente  gonna  . 

K  4 


^24  CANTO 

XXVI. 

Madre ,  di  quel  Mortai  tran  cose  o  letto 
Ne*  libri  irrevocabili  del  Fato  . 
De'  miei  dardi  colui  sarà  l'oggetto; 
Oh  !  me  fra  tutti  gi'  Immortai  beato  ! 
Ficn  risse,  e  guerre  de' miei  colpi  effetto,. 
Cosi  nel  €iel  sta  scritto,  e  destinato. 
Due  celesti  beltà  ....  ma  il.  tempo  vola , 
E  mentre  io  tardo,  il  volator  s'invola. 
XXVII. 

Tacque,  e  dalCiel  precipitando  in  Terra- 
Venne  a  uno  scoglio  ,  o  picciola  Isoletta, 
Che  d' un  soj  pescatore  in  sé  rinserra 
Uno  abituro ,  od  una  capannetta . 
V'eran  le  reti  stese  su  la  terra, 
3B  vicino  a  la  spiaggia  una  barchetta . 
Poco  più  che  vi  fosse  y  il  picciol  sito 
Certo  sarebbe  In  ogni  parte  empito. 
XXVIII. 

Altro  non  è  lo  spazio  che  un  pratello  3 
Dico  pratel ,  perchè  poch'erba  il  copre. 
Amor,  che  in  dito  avea  magico  anello, 
Tosto  ad  umana  vista  si  ricopre  . 
Tra  i  fior  giacendo  innanzi  a  quell'ostello, 
Non  discoperto  mai ,  tutto  ei  discopre  ; 
E  mentre  al  varco  ivi  la  preda  aspetta, 
Sceglie  fra  tutte  un  agile  saetta. 
XXIX. 

Non  ben  anco  la  scelta  ci  fatto  avea, 
Che  giunge  Oton  sovra  il  Cavali'-AugcHOc 
Tutto  ignorava  Oton ,  tutto  sapea 
Il  volante  destrier  pien  di  cervello. 
Immaginar  non  puote  umana  Idea, 
Di  quel  Destrier  mescuglio  alcun  più  bello  ; 
Augel  ,  Cavallo,  e  a  brutal  forma  sotto 
Più  saggio  assai  del  Cavalier ,  più  dotto . 


DECIMO.  *lf 

XXX. 

Sorpreso  sempre  il  Musulmano  resta 
Per  sì  bizzarro  inesplicabil  Ente. 
Come?  dicea ,  qual  meraviglia  è  questa, 
Che  tutta  fammi  instupidir  la  mente  ? 
Forse  Spirto  del  Ciel  scese  in  cotesti 
Spoglia  di  volator  Destriero  ardente? 
Mentre  Oton  tutto  ammira  ,  e  nulla  intende. 
Veloce  al  suolo  il  Palafrcn  discende. 
XXXI. 

Quasi  del  Cielo  avea  fornito  il  corso 
Il  gran  Cocchio  del  Dio, che  tutto  abbraccia  , 
Eto  ,  e  Piroo  copnan  di  spuma  il  morso 
Sotto  la  sferza ,  che  nel  Mar  li  caccia  ; 
E  Notte  ombrosa,  che  prestar  soccorso 
A  l'alme  suoi,  che  Amor  furtivo  allaccia, 
Seco  traea  Sogni  fallaci  in  Terra  , 
Al  credulo  Mortai  movendo  guerra. 
XXXII. 

Allora  il  Musulman  smonta  d'arcione, 
E  in  quell]  angusto  rustica!  soggiorno, 
Se  il  Destin  io  concede,  ci  si  dispone 
Ad  albergar  fino  al  novellò  giorno  . 
Entra  né  la  capanna ,  e  sei  persone 
Vede  a  mensa  frugai  sedute  intorno. 
Di  tre  Fratelli  un,  ch'esser  mostra  il  Padre  > 
Siede  fra  lor  co  la  canuta  Madre  . 
XXXIII. 

Stassi  in  disparte  una  gentil  Donzella,' 
Che  non  par  quattro  lustri  aver  fornito. 
D'Amatunta  la  Dea  non  è  più  bella; 
Un  sasso  ancor  se  ne  saria  invaghito  . 
Al  guardo  lusinghier  grazia  novella 
Il  pianto  aggiunge  a  calde  stille  uscito, 
Come  col  pianto  la  vermiglia  Aurora 
11  rifratt©  del  Sol  raggio  colora, 

K  5 


zz6         CANTO 

XXXIV. 

Le  lagrime  cadean.  sul  bianco  viso, 
Qual  sovra  i  gigli  suol  cader  la  brina  « 
Più  non  apria  quel  vago  labbro  al  riso , 
Pel  duolo  al  suol  tcnea  la  fronte  chinai 
E  fame  fior  dal  vomero  reciso 
In  sul  primo  apparir  de  la  mattina  , 
Perde  sue  tinte,  ed  appassito  langue  , 
Fuggìa  cosi  da  quelle  gote  il  sangue. 
XXXV. 

Non  mangiava  ella,  che  mangiar  nonpuote 
Chi  langue  oppresso  da  dolor  cotanto  . 
Allor  che  vide  le  sembianze  ignote 
Del  Musalmano,  ed  il  guerriero  ammaato, 
Il  pianto  scese  ad  innondar  le  gote, 
Balza  in  piedi,  e'1  sedU  gitta  in  un   canto, 
Poscia ,  stracciando  ,  e  chiome  ,  e  volto, e  seno, 
Corre,  e  meno  di  lei  corre  il  baleno* 
XXXVI. 

Furibonda  così  tre  volte  gira 
La  capanna  con  uili,  e  con  sospiri  ; 
Gli  occhi  stravolge,  e  s'  agita  ,  e  delira  , 
Ma  ignota  è  la  cagion  de*  suoi  martiri. 
Spinto  dal  cor,  che  palpita  ,  s'aggira 
li  sangue  fra  i  difficili  respiri , 
E  la  battente  arteria  al  tatto  esperto 
Nunzia  esser  puote  di  quel  corso  incerto, 
XXXVII. 

Tenta  ,  ma  in  van ,  la  semplice  famiglia 
Tn  cotanta  procella  apportar  calma  ; 
In  vano  il  saggio  Padre  la  consiglia 
I  ferventi  a  sedar  moti  de  Palma  . 
Ragione  alfin  l'impero  suo  ripiglia  , 
Ed  allevia  del  duol  la  grave  salma. 
Schiudesì  il  labbro  allora,  e  a' suoi    lamenti 
Eco  risponde,  e  Paleggiar  de' Venti. 


DECI  M  O.        zz7 

XXXVIII. 

Ahi  giusto  Cielo,  e  qual  delitto  è'imio, 
Onde  nebbia  a  portar  sì  strana  pepa  ? 
Perchè  vivere  ancor  ,  lassa  !  degg'  io? 
Qual  forza  al  corpo  ['  anima  incatena? 
NcmicoNume  avverso  al  mio  desio  > 
Viva  mi  serba  in  sì  feroce  pena. 
Dunque  per  mio  martir  ,  per  mia  tortura 
Leggi,  ed  ordin  cangiar  veggio  Natura? 
XXXIX. 
La  stessa  taglia  avea,  le  forme  stesse 
L'amante  mio  ;  così  soleva  armarsi  . 
Brando  simile  a  questo  sen  diresse, 
Quando  a  pugnar,  come<kierrier ,  comparsi. 
Ah!  trafitto  quel  ferro  il  cor  m'avesse! 
Fosser  miei  membri  or  fra  la  polve  sparsi! 
O  la  procella  a' danni  nostri  insorta 
M'avesse  almen  fra  quelle  spume  assorta! 
XL. 
Cosi  diss' ella;  or  chi  pensato,  o  detto 
Avrìa  che  in  questa  rustical  capanaa 
Celato  fosse  quel  leggiadro  aspetto  , 
Cui  Sorte  fu  sì  rigida ,  e  tiranna  ? 
Isabella  vo' dir ,  che  il  caro  oggetto, 
Ulisse,  estinto  crede,  e  pur  s'inganna; 
E  l'inganno  d'Ulisse  al  suo  risponde, 
Poiché  smarrita  egli  l'avea  fra  l'onde. 
XLL 
Amor  frattanto,  com'è  suo  costume, 
Tende  1'  arco  temuto  ,  e  un  dardo  vibra  » 
Qual  Augelletto  ,  che  su  lievi  piurft 
Ne  gli  spazj  de  l'aria  s'equilibra  ,* 
Scende  la  freccia  del  possente  Nume, 
Che  ogni  alma  accende,  ed  agita  ogni  fibra, 
Stride  la  corda,  ed  il  fischiante  dardo 
11  cor  trafìgge  al  Cavalier  gagliardo. 

K  6 


azS         CANTO 

XLII. 

A  la  freccia  d'  un  Nume  il  tuo  non  LrKta 
Usbergo,  Otone ,  o  il  ben  temprato  scudo. 
Lo  strai  s'aperse  un  ampia  breccia  ,  e  vasta  , 
Che  per  que' dardi  è  il  petto  inerme,  e  nudo. 
Contro  Amore  un  Guerriero  in  van  contrasta, 
Achille  stesso  è  divenuto  un  Drudo, 
E  di  Bellona  anco  il  German  feroce 
Palpitar  si  senti,  queir  alma  atroce  . 
XLIIL 

Oton  ,  che  nuovo,  e  strano  ardor  sentla  : 
Mandò  dai  core  un  fervido  sospiro  . 
Crede  pietà  de  lr  infelice  sia 
Ciò  che  d'Amor  soltanto  era  martiro  . 
Lraspre  vicende  sue  saper  desia  , 
E  nasconder  non  puote  il  swo  desiro. 
Avidamente  al  Pescator  novella 
Chiede,  e  parlando  a  lui,  guarda  Isabella-,. 
XLTV. 

Guarda  Isabella,  e  non- ne  sa  distrarre 
L'occhio  un  momento  ,  o  se  nel  trae  per  poco,, 
Destino,  istinto,  Amor  vel#  torna  a    trarre,. 
Come  al  più  degno  ,  a  I'  unico  suo  loco  . 
Signor,  da  quel  ch'io  ne  potei  ritrarre. 
Disse  il  buon  Pescator,  d'ardente  foco 
Avvampa  il  cor  de  la  gentil  Donzella 
Per  un,  che  a  lei  rapì  cruda  procella. 
XLV. 

E  voi  dovete  anco  saper  che  questa 
Mia  figliuola  non  è,  ma  viva  a  pena 
Ella  giacca  dopo  una  gran  tempesta  , 
VomitatPdal  Mar,  quàsu  l'arena  , 
Avea  di  gel  man  ,  braccia,  «  gambe ,  e  testa  , 
Tutta  il  polso  perduta  avea  sua  lena  ; 
Morte  apprestava  la  spietata  falce, 
Che  ci  ricopre  di  funerea  calce. 


D  E  C  I  M  O.  *t$ 

XLVI. 

Né  le  ftnrici  più  feria  la  fiamma  , 
Me  ìì  braccio  alzato  si  reggea  più  solov 
Corsi  veloce ,  come  Cervo ,  o  Damma  , 
In  ogni  lato  de  l'angusto  suolo  ; 
E  tutto  quel  che  accendesr,  e  s'infiamma, 
Stoppie,  erbe,  e  paglia  ,  radunai  di  volo  . 
Su  T  arid'  esca  la  scintilla  corse  , 
Che  da  battuta  pietra  a  un  punto  sorse. 
XLVII. 

Allora  i  Figli  miei  scelsero  I  Uni 
Men  rozzi,  insicm  co  la  pietosa  Madre,- 
Ed  avvolser  fra  caldi  panni  lini 
Le  sbattute  dal  Mar  membra  leggiadre. 
Schiuscrsi  gli  occhi  ,  e  fersi  porporini 
I  labbri  ,  che  il  calor  di  vita  è  Padre;: 
Poscia  il  ventre  digiun  si  fé' satollo 
Con  succo  estratto  da  bollito  pollo „ 
XLVIII. 

Come  talor  la  Serpe  intirizzita 
Nel  Verno  giace ,  e  d'  ogni  senso  priva  ;? 
Se  t'accingi  a  scaldarla,  invigorita 
Scuote  il  letargo,  e  par  ch'ella  riviva; 
Cosi  la  Donna  ritornammo  a  vita  , 
Cui  molto  increbber  esser  rimasta  viva, 
E  che  fin  da  quel  punto  aprì  soltanto 
A' lamenti  le  labbra,  e  gli  occhi  air   pianto* 
XLIX. 

Vigili  fummo  per  timor  che  il  fiero 
Duol  la  portasse  ad  incontrar  la  morte* 
Ella  chiamò  sul  lido  un  giorno  intero 
Colui,  che  preda  fu  d'avversa  Sorte. 
Fin  che  sul  curvo  mobile  Emisfero 
Non  vide  l'Ombre  de  la  Notte  insorte, 
Fu  copioso  il  suo  pianto  ,  e  fu  perenne; 
Alfin,  son  pochi  istanti*  ella  qui  venne* 


%$p         CANTO 

L. 

Ma  pria  funesto  al  sospirato  amante 
Fé  giuramento  che  tre  giorni  al  lido 
Vorria  di  pianto  tributargli  avante  , 
In  testimon  d'amor  costante,  e  fido; 
E  poi  >  dove  Nettun  siede  regnante , 
Precipitarsi,  e  ov'ànno  i  pesci  il  nido. 
Ma  tu,  dimmi,  oGuerrier , che  l'aure  fendi , 
Se  un  Nume  sci  3  se  da  le  Stelle  scendi . 
LL 

Qui  tacque  il  Vecchio,  ed  il  tiranno  Amore» 
Mentre  que' detti  con  aperta  bocca 
Otone  udia  ,  novella  entro  al  suo  core 
Da  l'arco  teso  una  saetta  scocca  . 
Reca  mestizia,  ardor,  strazio,  e  dolore 
Ad  Oton  quello  strai,  che  il  cor  gli  tocca  ♦ 
Ora  immoto  ei  rimane,  or  freme,  e  smania  , 
Or  gela ,  or  arde  d'  amorosa  insania . 
LIL 

Talor  si  ferma  a  contemplar  le  ciglia, 
£  gli  occhi ,  e  '1  seno ,  come  tronco ,  o  sasso  ; 
E  ad  attento  Geometra  somiglia  , 
Che  l'orme  segua  di  fedel  compasso. 
Poscia  ,  allor  cHe  il  vita!  senso  ripiglia, 
A  lei  s'  appressa  con  veloce  passo  , 
Ma  si  smarrisce,  e  timido  s'arretra, 
Ch'ella  una  Dea  gli  par  scesa  da  l'Ètra  * 
b  LIIL 

Splendono  già  dì  scintillante  luce 
Ne*  Campi  azzurri  le  ceiesti  faci , 
E  il  tardo  Sonno,  che  de'  So^ni  è  duce  > 
Le  multiformi  segue  Ombre  fallaci  ; 
E  Fiumi  varca,  e  Mari  ,  e  *1  ciglio  truce 
Chiude  a'  fervidi  ancor  Guerrieri  audaci  ; 
Guida  il  gregge  a  l'ovile,  e  a' pingui  solchi 
Toglie,  d' util  sudor  molli ,  i  bifolchi. 


DECIMÒ.  'zpl 

LIV. 

Ma  dove  giace  in  minacciata  Reggia 
Su  molli  piume  un  Regnator  possente , 
lì  cui  serto  regal  brilla,  e  lampeggia 
Fra  mille  cure  di  turbata  mente; 
Che  i  papaveri  in  tan  scuoter  si  veggia 
Quel  pacifico  Nume  $  avviensovente  , 
Poiché  mordaci  idee  giammai  non  ponnó 
Esser  compagne  di  tranquillo  sonno . 
LV. 

Mentre  colà  nel  più  felice  obblìo , 
'Stanco  del  lungo  oprar,  ciascun  riposa, 
Di  nuovo  pianto  la  Donzella  un  rio 
Versa  ,  né  dorme  un  solo  istante,  o  posa» 
Ella  furente  da  la  stanza  uscio  , 
Onde  compier  nel  Mar  vita  nojosa  ; 
Ma  del  suo  giuramento  le  sovvenne  , 
E  su  la  spiaggia  il  picciol  pie  ritenne  * 
LVL 

Preme  1* amante  Otone  il  duro  letto, 
E  nel  sinistro  lato,  e  nei  diritto; 
Gli  balza  il  core  oltre  a  i' usato  in  petto  s 
Il  cor  da  doppio  strai  punto,  e^  trafitto. 
Tanto  lo  strugge  ardor ,  ch'egli  a  sospetto 
Esser  da  febbre  repentina  afflitto  ; 
Arde  di  sete,  e  non  sa  stilla  corre 
D'amico  fiume,  che  vicin  gli  scorre. 
LV1I. 

Ma  scusarlo  dobbiam ,  ch'ei  vive  amante 
Senza  saperlo,  perchè  Amor  non  vide. 
S'asconde  Amor  fra  le  vicine  piante, 
E  de  la  smania  sua  si  beffa,  e  ride. 
Vorrebbe  Oton  su  quel  Destrier  volante 
Quindi  fuggirsi  ,  o  solcar  l'onde  infide; 
Ma  sue  brame  il  Destrier  par  eh'  abbia  a  sdegno* 
E  per  fendere  il  Mar  non  avvi  un  Legno  , 


*32         CANTO 

LVIII. 

Vedeasi  a  pena  la  vermiglia  Aurora 
Versar  dal  grembo  le  stillanti  rose  , 
AUor  che  Otone  uscì  dal  letto  fuera  , 
E  P  usbergo  ,  e  l'elmetto  si  ripose  . 
Non  bene  avea  1'  armi  vestito  ancora  , 
Le  invincibili  sempre  armi  famose, 
Quando  gli  apparve  il  ieritor  Fanciullo  , 
Che  pigliato  di  lui  s'&vea  trastullo. 
LIX. 

E  se  gli  fé  leggiadramente  innanzi 
Con  quella  veste,  che  dar  suol  Natura* 
Mai  si  vedrà,  né  un  tempo  fu,  né  dianzi 
Visto  fanciul  di  si  gentil  figura. 
Pel  Greco  ardir  par  che  i  modelli  avanzi 
Fra  noi  serbati  con  gelosa  cura; 
Niuno  colà  del  suo  venir  s'  avvide, 
Oton  soltanto  udillo  ,  ci  solo  il  vide. 
LX. 

Mirami ,  Otone  ,  e  m'odi  ;  il  tempo  or  giunse 
Che  del  tuo  mal  tu  la  cagion  conosca. 
Là  dolente  Isabella  il  cor  ti  punse. 
Amore  io  sono  ;  il  mio  velen  t'  attosca. 
Ma  il  farmaco  al  veien  mia  man  congiunse, 
Fia  lieto  dì  seguace  a  notte  fosca. 
Ai  lido  corri  j  ivi  Isabella  meco 
Verri,  su  l'aure  poggierà  poi  ceco. 
LXI. 

A  questi  accenti  il  Musulman  Guerriero 
Corse  ove  il  Mar  nel  lido  urta,  e  si  frange  . 
Amor  s'  accosta  corrucciato  ,  e  fiero. 
Ad  Isabella  ,  che  nel  ietto  piange. 
Il  Ciel ,  le  dice,  è  punitor  severo 
Di  quel  Mortai,  che  i  giuramenti  infrange. 
Surge  il  grand' Astro,  e  indugi  tu  cotanto 
Sovra  il  lido  a  versar  giurato  pianto? 


DECIMO,  233 

LXII. 

L'Ombra  d'Ulisse,  o  Femmina  crudele, 
Vedi ,  che  a  te  volge  feroce  il  guarde , 
Òdi  il  suo  lagrimar  ,  le  sue  querele  , 
Ferch'  ài  1'  alma  sì  fredda ,  il  pie  sì  tardo  v 
Ah  !  d'  un  tenero  cor,  d'un  cor  fedele 
Troppo  e  indegno ,  Isabella ,  il  tuo   ritardo  ; 
Al  caro  amante  tributar  sol  debbe 
Tuo  ciglio  il  pianto  ove  la  tomba  egli  ebbe. 
LXIII.  m 

Non  veloce  così  balzare  ignudo 
Dal  violato  talamo  si  vede,. 
Mentre  il  frutto  cogliea,  smarrito^  il  Drudo  > 
Se  giunge  quel  ,  che  l'arbore  possiede; 
Come  Isabella  al  favellar  dcl#  crudo 
Nume  fallace,  al  lido  volge  il  piede , 
Amor,  mentr' ella  a  lagrimar  s'accinge, 
li  Musulmano  presso  a  lei  sospinge. 
LXIV. 

Qual  su  Colomba  ,  che  varcar  sicura 
L'aure  si  crede,  lo  Sparvier  si  scaglia, 
Oton  l'afferra;  ella  fuggir  procura, 
Ma  su  l'agii  Destrier  convicn  che  sagli»  . 
De*  1|  aereo  viaggio  Amor  la  cura     (guaglia  , 
Lascia  al  Destrier ,  che  in  senno  a  un  Dio  s' ag- 
li d'Amore  i  comandi  a  orecchie  tese 
Ode  ,  e  col  capo  fa  cenno  che  intese . 
LXV. 

Come  divorator  Lupo  ,  ch'entrato 
In  un  ovii  di  pecorelle  sia, 
Se  il  nodoso  baston  vede  impugnato 
Dal  buon  Pastor ,  che  ucciderlo  vorrìa  ; 
Lo  sventurato  Agnel  prima  addentato 
Sul  dorso  gitta,  e  se  ne  fugge  via, 
Così  per  l'aria  con  veloce  corso 
Reca  il  Destrier  la  Donna,  e  Oton  sul  dorso*  « 


234         CANTO 

LXVI. 

Àlzansi  a  volo,  e  tanto  è '1  voi  sublime, 
Che  Cittadi,  «Villaggi,  e  Mari,  e  Fiumi  , 
E  d'alti  Monti  le  scoscese  cime 
Mal  scerner  ponno  co  gl'incerti  lumi. 
Alto  spavento  la  Daniella  opprime  K 
Gli  Uomini  in  vano,  in  vano  invocai  Numi  * 
AJ  Globo  giungo»,  che  Venere  è  detto. 
Ma  d'altro  or  sono  a  favellar  costretto. 
LXVII. 

B  parmi  ancor  ,  se  canterò  d'Ulisse^ 
Cosa  far  più  gradita  a  chi  m'ascolta, 
Poiché  il  troppo  tener  le  luci  fisse 
In  un  oggetto  ,  apporta  noja  molta  . 
Forse  in  udir  ciò  che  mia  Musa  disse, 
D'  alcun  l'orecchio  si  stancò  talvolta. 
Dunque  scena  cangiam ,  ma  d' Isabella 
Si  parli  in  questa  ancor  scena  novella. 
LXVIIL 

Mentre  vivea  fra  l'onde  Ulisse  ancora 
Sovra  un  frammento  di  quel  suo  Naviglio 
Con  FiordJligi,  d'  Isabella  suora  , 
Un  Nocchier  li  scampò  da  quel  perìglio  * 
Ma  di  morte  peggior  per  essi  allora 
Vita  divenne  ,  e  doloroso  esiglio, 
Che  d'Isabella  già  credean  distrutto 
L'amato  corpo  da  l'ingordo  flutto. 
LXIX; 

Chiese  Ulisse  al  Nocchier,  se  per  ventura 
fra  l'onde  vide  Femmina  gentile, 
La  più  bell'opra  ,  che  mai  fé'  Natura, 
E  che  avea  d'una  Diva  aspetto  ,  e  stile  . 
Ei  ritrasse  così  volto,  e  figura, 
Che  il  descritto  sembiante  è  al  ver  simile  . 
A  quella  inchiesta  il  buon  Nocchier  risponde 
Che  Donna  tal  non  ritrovò  fra  l'onde, 


DECIMO.  235 

LXX. 

Torna  Ulisse  a  descriverla  affannoso  , 
£  quel  che  a  detto,  non  gli  par  bastante, 
V'aggiunge  sempre,  e  nulla  serba  ascoso 
Di  ciò  che  veder  puotc  occhio  d'amante  . 
La  bocca,  il  ciglio,  il  morbido,    e  vezzoso 
Fianco  dipinge,  il  colmo  senile  piante  ; 
Del  vermiglio  color  soltanto  ei' tacque, 
Che  il  volto  ornar  più  non  potea  ne  l'acque . 
LXXI. 

Poi  che  tanto  il  Nocchier  disse,  e  ridisse, 
Che  conforto  non  ebbe  il  suo  martire; 
A  Fiordiligi  lagrimando  ei  disse 
Ghe  in  un  Eremo  i  dì  volea  finire  , 
Né  in  donna  più  tener  le  luci  fisse  , 
Ed  il  foco  d'Amor  sempre  fuggire, 
Puro  serbando  a  la  perduta  amante 
Inviolato  ardor ,  Me  costante  . 
LXXII. 

Passò  poi  Fiordiligi  al  patrio  suolo  , 
Cui  la  Senna  tributa  onda  perenne . 
Ulisse  immerso  ne  l'acerbo  duolo, 
Su  la  deserta  spiaggia  ilpiè  ritenne. 
Come  viver  poss'  io  ramingo,  e  solo, 
Dicea,  se  vita  a  me  pena  divenne? 
Come  fatto  non  son  stupido  ,  immoto  , 
Perduta  l'almaj  e  chi  mi  dava  il  moto? 
LXXIII. 

Spirto,  che  sciolto  dal  corporeo  velo, 
Del  Pensier  non  ristretto  agiti  l'ali, 
E  ne*  riposi ,  a  cui  ti  trasse  il  Cielo  , 
Compiangi  forse  i  miseri  Mortali  ; 
Quest'alma  ardente  ,  che  d'Amore  il  telo 
Per  te  trafisse,  e  ricolmò  di  mali, 
Non  obbliar  ",  né  la  costante ,  e  pura  ( 
Fede  ,  che  il  labbro  ti  promette,  e  giura  . 


*ì6         CANTO 

LXXIV. 

Giura  che  mai  potrà  novello  foco 
Sorger  seguace  a  questa  fiamma  eterna  ; 
Che  mai  Donna. mirar,  nemmen  per  gioco* 
Saprò  ,  se  fosse  anco  beltà  superna  ; 
Che  vivrò  santa  vita  in  ermo  loco, 
Acciò  l' Ente  ,  che  il  Mondo  ,  e  '1  Ciel  governa, 
L'alma  tua  mi  conceda  in  Paradiso 
Vagheggiar,  co*ne  in  Terra  il  tuo  bel  viso. 

lxxv. 

Cotali  cose  fra  sospiri,  e  pianti 
Su  quella  spiaggia  Ulisse  ripetea. 
Misero!  che  i  sospir  de' caldi  amanti 
Esser  preda  de  l'aure  non  sapea . 
Per  breve  spazio  i  tardi  ,  e  vacillanti 
Pie  sul  deserto  lido  ei  spinto  avea, 
Quando  molte  osservò  miglia  lontano 
^Ergersi  un  Monte  su  V  immenso  piano  . 
LXXVI. 

Veder  gli  parve  folta  Selva  altera 
Su  .l'ardua  vetta  guerreggiar  col  Sole. 
Verso  quel  Monte  il  passo  ei  volge,  e  spera 
Opportuno^  quel  loco  a  ciò  ch'ei  vuole. 
Già  nel  viaggio  suo  giunge  la  sera  , 
I  molto  il  corpo,  e  molto  il  pie  gli  duole  , 
Ma  il  duol  de  1'  alma  ogni  dolore  avanza  , 
E  prestando  gli  va  lena  ,  e  costanza. 
LXXVII. 

Come  quel  pellegrin ,  che  un  giorno  intero 
Errato  abbia^  per  balze,  e  per  foreste  , 
Quando  suoi  raggi  il  Sol  vibra  severo  , 
E  co  la  spoglia  dclè  Leon  si  veste  ; 
Sì  che  il  caldo ,  e  il  lunghissimo  sentiero 
Fa  che  rabida  sete  il  preme ,  e  investe  ; 
Se  gli  addita  il  cultor  lontana  fonte, 
Di  novello  sudor  bagna  la  fronde. 


DECIMO.  *}7 

LXXVIII. 

E  alcune  miglia  di  penoso  calle, 
Benché  su'  piedi  egli  si  regga  a  stento , 
Ardito  imprende,  e  passa  Monte,   e  Valle, 
Così  s'avanza  Ulisse  a  passo  lento. 
A  la  Terra  parcan  volger  le  spalle 
Gli  Astri,   e  la  Diva  dai  cornuto  argento, 
Oltre  al   mezzo  suo  corso  era  la  Notte, 
Quando  Ulisse  posò  fra  rupi,  e  grotte. 

LXXIX. 
Ei  fatto  avea  di  ripida   salita 
Sei  miglia  quasi,    e  giunse  alfine  al   bosco. 
Ivi  s'assisc,  che  a   seder  io  invita 
Il  taciturno  loco,  e  l'aer  fosco. 
Quella  a  gli  Angui   esser  dee  sede  gradita, 
Ivi  denno  versar  col  fiato  il  tosco, 
v^ol  Filomela  con   soave  metro 
Tempra  l'orror  dei  bosco  denso,  e  tetro; 

LXXX. 
In  sì  diffidi  sospirata  meta 
Qualche  riposo  ebber  sue  stanche  membra, 
L'alma  non  già,  ch'esser  non  può  mai  lieta  , 
Anzi  più  mesta,  ed   agitata   sembra. 
Lungo  pensar  più  sempre  l'inquieta, 
E  il  pensier  cupo  a  nero  umor  rassembra , 
Che  in   onda  pura  distillando  scende, 
E  più  torbida,  e  lorda  ognor  la  rende. 

LXXXI. 
Ma  perchè  molto  il  sonno  mai  non   dura, 
fé  da  lugubri  idee  commossa  è  l'alma, 
E  la  spoglia  mortai  non  ben  sicura 
Posa  del  duol  sotto  a  la   grave  salma; 
Dcstossi   Ulisse,  e  de  la  Selva  oscura 
Ne  la  profonda  spaventosa  calma 
JL' orecchie  sue  strano  romor  percosse, 
Che  d'uom  parta  voce  indistinta  fosse. 


238  CANTO 

LXXXII. 

Dietro  al   novello  suono  egli  s'avvh 
Fra  i  tronchi  annosi   de  le  negre   piante, 
."E  un   ramo  vede,  che  giovar   potrìa , 
Sostegno  offrendo  al#  corpo  suo  tremante  ; 
«Poiché  la  lunga^  faticosa  via 
L'usata  lena  gli   avea  tolto  arante, 
Né  col  debil   poter  di  breve  sonno 
Smarrite  forze  ricovrar  si  ponno  . 
LXXX1II. 

L'amico  ramo  egli  sollevale  stringe, 
E  sovra  quel ,  di   curvo  vecchio  a  foggia , 
Mentre  a  P arduo  sentiero  egli   s'accinge, 
Le  man ,  le  braccia ,  e  la  persona  appoggia , 
Curioso  desìo  P invita,  e  spinge 
A  cercar  se  la  Selva  uomini  alloggia, 
E    giunge  alfin  dopo  non  lungo  calle, 
Ove  più  fitto  è'1  bosco,  ad  una   valle, 
LXXXIV. 

Anzi    ad  una  caverna  seppellita 
De   la  Foresta   nel  profondo   seno, 
pa  sovrastanti  Quercie  essa  è  munita 
Più  che  Città  da  muro,  p  terrapieno. 
A  la  discesa  acconcio,  a  Ja  salita 
Avvi  un  sol  loco,  ma  di  sterpi   é   pieno; 
Ogn' altro   lato  é  sì  scosceso,  ed  erto, 
Che  il  passo  è  solo  a  gli  Augeiletti  aperto, 
LXXXV. 

Sembra  che  nel   formar    P  orribil  loco 
Voluto  s'abbia  trastullar  Natura, 
E  impenetrabil   con  bizzarro  gioco 
Farlo  ad   ogni  animai  d'  ogni  figura  , 
Acciò  d'Amore  il  fecondante  foco 
Mai  non  s'accenda  in  quella  sqóg  oscura." 
Pur  da  quell'antro  uscir  tremendo  ,  atroce, 
Sonora  Ulisse  intese  umana  voce. 


DECIMO.  *$| 

LXXXVI.     ' 

Come  Pastor,  che  le  sue  Capre  guida 
Dai  colie  al  piano  ,  e  il  ben  pasciuto  armento  , 
A  quel  baston  ,  che  il  minaccioso  sfida 
Lupo  vorace  a  singoiar  cimento, 
Lasso  dei  lungo  errar,  tutto  s'  affida, 
E  scendendo  ne  viene  a  passo  lento , 
Mentre  al  cadente  Sol  fulgida,  e  beila, 
Surge  rivai  la  vespestìna  stella  : 
LXXXVII. 

Così  Io  stanco  Ulisse  allor  scendea 
Js!c  la  spelonca  col  Mei  suo  leg.no. 
Ercole,  o  Teseo  d'esser  gli  parca-, 
Che  sceser  vivi  di  Plutone  al  Regno  . 
Vide  ciò  che  pensar  mai  non  potea , 
E  comprender  non  puotc  umano  Ingegno  ? 
Di  Frati  un  bigio  stuol  ,  che  ergea  con  zelo 
in  questo  Abisso  Inni  devoti  ai  Cielo. 
LXXXVIII. 

Di  molte  faci  egii  li  vide  al  lume  , 
Che  presso  al  brevi»!  pesante,  e  negro, 
Accese  aveano,  e  che  spargean  barlume, 
De  la  Spelonca  ne  lo  spazio  integro  . 
Grazie  ,  prostrato  al  suolo,  al  sommo  Nume 
Rese  a  tal  vista  Ulisse  afflitto,  ed  egro. 
Ciascun  di  lor  tanto  a  le  preci  attende 
Che  alcun  noi  vede,  né  sua  voce  intende. 
LXXX1X, 

Si  stette  Ulisse  ad  ascoltar  quel  canto  , 
Che  non  canto  p&rea  ,  ma  suon  discorde, 
K  su  i  seguaci  di  Francesco  il  vanto 
Aver  potria  nel  far  le  orecchie  sorde  . 
Compiuto  al$n  V  Inno  devoto  ,  il  santo 
fctuol  con  un  soffio  general  ,  concorde, 
Tutte  spense  le  faci,  e  dense,  e  crebre 
Coprir  queir  antro  orribili  tenèbre. 


24o     CANTO   DECIMO. 

XC. 

Tosto  a  la  grossa  voce  di  colui , 
Che  il  Padre#  esser  parea  Supcriore  , 
In  qut' recessi  spaventosi,  e  bui, 
Un  confuso  levossi  alto  romorc . 
Sorpreso  è  Ulisse  ,  e  quelle  grida  in  lui 
Fra  il  tenebroso  orror  destati  terrore . 
Ma  il  pie  volger  convienmi  ad  altro  loco  ; 
Ulisse  già  noi  rivedrem  fra  poco. 
XCI. 

Se  di  lui  troppo  a  favellar  m'arresto  , 
-Cantar  non  posso  più  sublimi  eventi, 
Ne  quel  Destriero  seguitar  ,  che  presto 
Agita  i  vanni  oltre  a  le  vie  de' Venti, 
E" d'Isabella  al  cor  dolente,  e  mesto, 
Per  dar  conforto ,  e  tregua  a'  suoi  lamenti , 
La  reca  in  parte  dilettosa ,  e  lieta  , 
Di  Venere  vo'dir  entro  al  Pianeta. 
XCII. 

Ma  pria  eh'  io  tenti  di  salir  sì  alto 
Convien  ch'io  posi  ,  e  pigli  fiato,  e  lena. 
Posa  il  Guerrier  dopo  cruento  assalto, 
Posa  l'Attor  dopo  diffidi  scena  , 
Posa  il  cultor  sovra  l'erboso  smalto 
Col  tardo  bove,  che  respira  a  pena; 
Degno  perciò  d'alcun  riposo  parmi 
li  Vate  ancora  dopo  lunghi  carmi . 


Fittt  dd  Canto  "Decimi „ 


24I 

LA     M  0  H  E 

D'  ORLANDO. 


CANTO     WDECIMO 


«*x^> 


ARGOMENTO. 

Teste  t   Janxey  e  delizie  il  bel  Pianeta 
Di  Venere  a  isabella  ,  a  Oton  presenta . 
Peseta  un  lìquor  fa  che  Isabella  e*  lieta  , 
E  Ulisse  obblìa  ,  solo  a  piaceri  intenta  : 
XJlhse ,  che  laggiù  ne  la  segreta 
Grotta  il  Tratesco  stuol  turba  ,  /  spaventa  ,• 
Ma  pei  li  calmai  e  un  F rate  al  suelo  getta  > 
E  dal  Pricr  le  bigie  lane  accetta* 


Ti- 
acete,  o  lingue  de' pia  chiari  Vati, 

Voi  ,  che  l'antica  Età  fate  superba, < 
Fuggite,  Ombre  d'Eroi  quaggiù  pregiati, 
Perchè  di  sangue  ostil  tingeste  l'erba. 
Que'gran  trionfi,  e  que'  trofei  vantati, 
Onde  memoria  ancor  Ja  Terra  serba, 
Ne  la  polve  d'Obblìo  saranno  involti  » 
Se  fia  che  alcun  ciò  ch'iodir  voglio  3  ascolti. 


Mi         C     A     N     T     O 

IL 

Cose  vo' dir,  che  mai  narrato  avete, 

0  voi  ,  vetuste,  o  voi,  moderne  Storie, 
Voi,  che  di  Fama  al  suono  aver  credete 
Grandi  Imprese  descritto,  alte  Vittorie, 
Fama,  che  v'inspirò  ,  Tali  inquiete 
Chiuda ,  e  non  canti  or  più  sì  fatte  glorie  ; 
Di  sua  tuba  seguace  al  mio  vessillo 

Io  solo  ,  io  solo  udir  farò  lo  squillo, 
III, 

Che  se  il  più  forte,  illustre  Semidèo, 
Se  Piritoo,  se  i' avveduto  Ulisse, 
S'  Enea ,  prole  celeste ,  e  se  Teseo 
Scese  a  V  A  verno,  mentre  in  Terra  visse  ; 
Per  ascoso  sentiero  ir  vi  potèo, 
E  credo  a  quelli  un  Nume  il  varco  aprisse, 
Astolfo  jn  cocchio  un  dì  salse  a  la  Luna, 
lo  vò  più  lungi  ,  e  senz'  aita  alcuna* 
IV. 

Tu  prima  a  V  acque  del  Castalio  fonte 
IVI'  inebbria ,  o  Musa,  e  il  Pcnsier  ùeddo  scalda, 
Tu  su  gli  omeri  adatta  ale  più  pronte  , 
Famnù  la  lingua  più  faconda  ,  e  calda  ; 
Dammi  eh'  io  nel  salir  sul  doppio  Monte 

1  terreni  pènsicr  lasci  a  la  faida. 
Fervido  Immaginar  pingermi  or  dee 
Quadro  vivace  di  novelle  idee. 

V. 
Lento  Timor  sua  grave  salma  appoggia 
Sovra  i  tuoi  vanni  ,  ardente  Fantasìa  . 
Tu  à?  Paure  più  lieve,  al  Cielo  poggia  , 
E  mostra  cose  non  vedute  pria. 
Mostra  la  Sfera ,  ove  il  Piacere  alloggia, 
Ove  regnan  Bcitàdc,  e  Leggiadria. 
Ma  d'Isabella,  che  non  fìa  più  trista  , 
L?  orme  giammai  perder  tu  dei  di  vista , 


UNDECIMO,        *4j 

VI. 

Scese  il  saggio  Destriero  in  un  giardino, 
Che  giardin  si  può  dir  del  Paradiso. 
Soave  olezza  il  bianco  gelsomino  , 
Ed  il  vario  giacinto,  e  il  bel  narciso. 
Sorge  altera  la  rosa  ,  e  al  suol  tien  chino 
[Jmil  viola  il  paliidetto  viso  ; 
Di  ridenti  color  fregiano  il  piano 
Il  ranuncol  dipinto,  e '1  tulipano. 
VII. 

Dico  di  questi  per  tacer  di  mille 
Voluttuosi,  e  dilicati  fiori, 
Che  de' Mortali  ignoti  a  le  pupille 
7ur  sempre  ,  e  strano  ardor  destan  ne' cori» 
[1  labbro  bee  come  nettaree  stille 
[  dispersi  per  l'aer  graditi  odori. 
Che  intorno  sparge  co  le  molli  piume 
Z-effir  ministro  de  l'fdaiio  Nume. 
Vili, 

Zeffir  ,  che  svolazzando  si  trastulla 
furtivo,  audace,  a  vaghe  Ninfe  intorno. 
y  Austro  nemboso  la  possanza  è  nulla, 
£  del  rigido  Borea  ,  in  quel  soggiorno. 
Ivi  Zeffir  soltanto  ebbe  la  culla, 
(vi  spira  tranquillo,  e  notte,  e  giorno. 
Quii  Farfalla  ,  che  tutti  i  fiori  sugge, 
[  tesori  di  Flora  ei  succhia ,  e  fugge. 
IX. 

Il  dolce  fiato  di  Ciprigna  bella, 
Gentil  sua  Madre  ,  lo  nutrica ,  e  pasce  . 
Ei  la  fegue  ledei,  quando  vien  ella 
h  Terra  ,  e  al  soffio  cuo  tutto  rinasce  . 
Veste  Natura  allor  spaglia  novella, 
L'  Augel  canta  ,  il  fior  sboccia ,  \ì  germe  nasce 
E  ne' recessi  ancor  d'oscure  selW 
Sono  i  tronchi  fecondi,  aman  le  Belv», 

L  » 


2,44  CANTO 

X, 

Nei  mezzo  appunto  del  giardin  s!  vede 
Un  Palagio  innalzarsi,  anzi  un  prodigio, 
Che  di  terso  cristallo  esser  si  crede 
JDa  T  ima  base  sua  fino  ai  fastigio  , 
Amor  l'eresse  ,  il  cui  poter  non  cede 
Unqua  al  poter  di  magico  prestigio  . 
Benché  diafano  sia,  pur  non  si  cela 
Al  guardo  quivi,  poiché  Amor  lo  svela. 
Al. 
Son  di  puro  cristallo,  e  mura,  e  tetto, 
E  le  colonne  ,  e  la  dorata  porta. 
Il  leggiadro  iavor,  fino,  e  perfetto, 
Piacer,  letizia,  e  meraviglia  apporta, 
Gioja  ,  e  stupor  tutto  ricolma  il  petto 
D' Qtone  ,  ed  Isabella  si  conforta, 
Opra  d'  Amor,  per  cui  la  prima  fiamma 
Lansue,  e  dì  nuovo  ardor  ella  s'infiamma. 

XIJ, 

Quella  porta  real ,  cui  nobil  arco 
Sovrasta  intorno,  di  lavori  egregi 
Da  T  Artefice  industre  ,  e  insieme  parco, 
Fregiato  sì  che  non  son  troppi  i  fregi  ; 
E  il  capitel ,  che  sostener  1'  incarco 
De  le  volute  sue  par  che  si  pregi  ; 
E  i'ordin  lungo  ,  per  cui  l'occhio  esulta, 
Di  gran  colonne  sovra  base  sculta  : 
XIII. 

E  l'ampie  loggie  ,  che  su  tal  colonne 
Stanno  d'intorno,  ove  uno  stuol  s'accoglie 
{  Dir  non  saprei  se  Dive  sieno  ,   o  Donne) 
Coronato  di  fior  ,  cinto  di  foglie  , 
Foglie  ,  che  unite  *  sventolanti  gonne  , 
\i  frutto  acce^an ,  che  fra  lor  si  coglie  ; 
Tutto  al  r£*ccr  sospinge  ii  cor  più  tardo. 
A  q«e><e  foggia  rivolgiam  lo  sguardo. 


UN  DECIMO.        245 

Liete,  vezzose,  e  mdrbicte  Donzelle* 
:he  il  mobil  ciglia  àn  di  lusinghe  pieno* 
urpureo  il  labbro,  e  le  fattezzet belle, 
lero,  e  lucido  il  crin,  ricolmo  il  seno  , 
evolte  in  brevi  ,  t  candide  gonnelle, 
ine  il  mal  coperto  scoprir  fanno  appieno* 
)i  cetra,  e  d'arpa  con  soave  incanto 
'anno  il  suono  alternsndo  a  dolce  canto* 
XV. 

E  molte  insiem  pigliatesi  per  mano, 
il  suon  gradito  intrecciano  carole. 
mso  le  guarda  ,  e  muto  il  Musulmano, 
:omc  amante  guardar  l'amata  suole. 
1  suon  celeste,  il  canto  sovrumano, 
Js,  amorose  dolcissime  parole,^ 

molli  gesti  ,  le  ritonde  braccia, 
.ono  reti  d*  Amos ,  che  lT  alme  allaccia  # 
XVI. 

E  che  non  opra  il  faretrato  Amore 
Ne  Tagil  piede,  e  ne  la  gamba  snella? 
Più  vago  pie  non  pinse  mai  Pittore , 
Né  Tersicore  avrìa  gamba  più  bella. 
Corsero  tutte  a  far  dovuto  onore 
Ad  Oton  ,  qual  conviensi,  e  ad  Isabella  , 
E  gì'  invitaro  a  ber  con  esso  loro 
In  una  taxza  di  finissim'oro. 
XVII. 

Oh  !  miracol  d'Amor ,  che  ogn*  altro  avanxa  \ 
Non  anco  Oton  di  ber  finito  avea , 
Cho  di  tutto  perde  la  rimembranza  , 
E  dissi  possi  ogni  terrena  idea, 
Né  la  giurata  fé  ,  né  la  costanza 
Or  più  rimembra ,  che  serbar  volea , 
Isabella  gentil  ,  né  più  nel  petto 
Dopo  il  liquor  sente  il  primiero  affetto  . 


*46         CANTO 

XVIII. 

Come ,  se  passeggier  L*  arida  arena 
Preme  col  piede  in  quel  medesmo  loco  s 
Ove  di  molte  lettere  è  ripiena ,. 
Che  col  dito  il  fanciul  segnò  per  gioco; 
Offrono  T  orme  sue  novella  scena , 
E  si  vede  lo  scritto,  ©  nulla  ,  o  poco, 
Così  il  liquor,  d'immagini  colmando 
Nuove  ilPensier,  mandò  le  antiche,  in  bando. 
XIX, 

Tosto  Isabella  con  leggiadra  veste 
Sue  membra  adorna,  e'1  Musulman Guerriero  3 
Più  le  belliche  qui  spoglie  non  veste. 
Che  Marte  cede  a  Venere  l'impero. 
Cangiansi^  in  lieti  nastri  armi  funeste,  m 
E  in  lievi  piume  il  gravoeìroo,  e'icimiero, 
La  chioma ,  di  sudar  pria  tutta  aspersa  , 
Misto  odor  dì  profumi  or  spande,  e  versa  * 
XX; 

In  mezzo  a  la  dolcissima  armonìa 
Del  suon  festoso  ,  e  del  soave  canto  , 
In  quel  Palagio  Otone  errando  già. 
Ed  Isabella  gli  veniva  a  canto» 
Favellar  d5  ogni  stanza  opra  sarìa 
Ardua,  né  mi  saprei  prometter  tanto  . 
Meglio  è  eh' io  taccia,  e  sojo  accenni,  e  mostri 
Cose  più  degne  de  gii  sguardi  nostri  . 
XXI. 

Dì  vezzose  Donzelle  ai  pie  si  stanno 
Giovani  ardenti,  belli,  e  delicati, 
Che  sospirando  d'amoroso  affanno^ 
Fissano  in  quelle  i  lumi  innamorati  . 
Non  à n  quelle  Beltà  di  un  cor  tiranno  ,. 
Ma  i  richiesti  piacer  sono  più  grati  , 
E  dn  pari  desir  ciascuna  spinta, 
Mai  non  resiste  che  per  esser  vinta* 


UNDECIMO,        M7 

XX11. 

Que' giovanetti  una  catena  d'oro 
Portano  al  collo,  che  siU  petto  scende, 
Indizio  certo  del  servaggio  loro, 
E  di  fior  la  catena  adorna  pende. 
Una  collana,  anzi  un  gentil  tesoro, 
De  le  Ninfe  nel  sen  brilla  ,  e  risplende  . 
Uomini,  e  Donne  anno  sul  capo  un  serto, 
Ove  fra  scelti  fiori  è  '1  Mirto  inserto. 
XXIII. 
Ampie  ,  marmoree,  diramate  scale» 
Di  Statue  adorne,  sono  facil  guida 
A  vasta  Sala,  chedi  luce  tale 
Splende  ,  che  quasi  il  maggior  Astro  sfida. 
Una  Reità,  ch'esser  non  può  mortale, 
Sparge  tanto  splendor,  che  in  lei  s'annida. 
Chi  sia  quella  Beltàde  Oton  richiede , 
Di  cui  splender  cosi  1'  occhio  si  vede. 
XXIV. 
Ben  ài  ragion,  poiché  Stranier  tu  sci  , 
Disse  Donzella  di  gentil  sembianza, 
Sè^d^sii  di  saper  chi  sia  colei , 
Che  ìftx  grazia  tutte,  ed  in  bellezza  avanza. 
Non  è  cosa  mortai,  ma  de  gli  Dei , 
Lo  splendor,  che  irraggiar  vedi  la  stanza, 
Splendor^  celeste  in  sue  pupille  accolto, 
Onde  brilla  cotanto  il  vago  volto  . 
XXV. 
Ciprigna  è  quella  ;  or  mira  con  qual  arte 
S'incurva  il  braccio  ,  il  breve  pie  s'aggira. 
Mira  ondeggiar  le  bionde  chiome  sparte, 
Fra  cui  lascivo  Zcffiretto  spira  ; 
Vedi  il  sorriso,  che  far  puote  a  Marte 
Deporre  il  brando  nel  bollar  de  l'ira; 
Vedi_  in  quel  labbro  svolazzar  gii  Amori.  , 
Lieti  succhiando  i  liquidi  tesori  . 


248  CANTO 

XXVI. 

Così  ne  fa  stagìon  di  Primavera 
Posar  sa  fresco  ,  ed  olezzante  fiore 
Suol  l'Ape  industre,  che  mutar  poi  spera 
In  mei  soave  quel!'  estratto  umore  ; 
Cosi  fende  Farfalla  aura  leggiera 
Di  face  intorno  al  tremulo  splendóre  ;; 
E  a  dolce  latte  volgonsi  le  fosche 
Ali  sovente  de  l'ingorde  Mosche» 
XXVII. 

Vedi  in  quel  bianco  sen  quanto  dilètto 
Pigliansi^  tatti  quegli  Dei  bambini  ; 
Ve' colui ,  che  s'asconde  a  quel  poggettov 
E  guarà  se  il1  suo  loco  altri  indovini  ; 
Vedi  quell'altro  ■•,  che  scoprì  furbetto 
1a  fra  vola  gentil  fra  i  gelsomini  » 
E  mentre  aitero  di  quel  furto  esulta, 
Coa  fanciullesco  ardir  gì' invidi  insuftav 
XXVUL 

Casnoe  ai  soffia  crii  del  di  Borea  algente  , 
Quando  il  gelido  umore  in  copia  scende  3l 
Fra  due  colline ,  su  di  cui  frequente 
Vapor  rappreso  si  diffonde  j  e  stende  , 
Appar  valletta,  in  cui  l'Autunn-o  à  spente 
1*  erbette,  e  i  fiori,  e  il  gel  bianca  la  rende,, 
Così  la  valle. appar,  né  bianca  è  mcno3; 
Colei  diesa  ,  del  montuoso  seno. 
XXIX. 

Mira ,  o  Stranier  :  ceruleo  intorno  al  petto 
Ondeggia  un  manto  ,  ed  a-  le  spalle  ignude. 
Non  copre  quello  il  braccio  ri  tonde  tto  , 
E  poco  sempre  a  1'  occhio  il  varco   chiude. 
Il  ricco  cinto  ,  onde  quel  manto  è  stretto  a. 
Cinto  ,  che  tanti  in  se  pregi  rinchiude ,, 
E  che  più  vale  assai  d?  ogni  tesoro  , 
Fu  de  le  amiche  Grazie  opra, ,  e  lavoro  *. 


UNDECIMO,         249 

XXX. 

Esso  risplende  sì  che  sparso  pare, 
Siccome  il  Ciel  ,  di  scintillanti  stelle. 
Un  Diadema  rcal  vedi  brillare  * 

Su  la  Regina  de  le  Donne  belle. 
Il  frcgian  perle,  e  scelte  gemme,  e  rare, 
Né  puossi  il  prezzo  valutar  di  quelle. 
La  prima     volta  che  ne  vide  H  foco  , 
Invido  il  Sol  fermò  suo  corso  un  poco. 
XXXI. 

Cosi  disse  la  Ninfa,  e  Oton  mirava 
La  Cipria  Diva  ;  ad  Isabella  molto 
Piacque  colui ,  che  co  la  Dea  danzava  , 
Che  gamba  snella  avea,  leggiadro  volto; 
Alta  avea  la  statura ,  e  sparso  errava 
SuMarghi  omeri  ad  arte  il  crin  disciolto. 
Al  quinto  lustro  l'età  sua  non  giugne, 
E  acconcio  sembra  a  1'  amorose  pugne . 
XXXII. 

Poi  che  fé' sazia  di  danzar  la  brama  , 
E  mute  fur  V  armoniose  corde , 
Quella  vezzosa  Dea  Cupido  chiama  , 
A*  materni  voler  Figlio  concorde  , 
Perchè  non  può,  se  fida  coppia  s'ama, 
Da  Venere  Cupido  esser  discorde  . 
Fra  giovani  amator  ,  Ninfe  leggiadre  , 
Ei  venne  tosto  a  la  vezzosa  Madre, 
XXXIII. 

D' Isabella  ,  e  d*  Oton  Ciprigna  voile 
Tosto  il  nome  saper,  V aspre  vicende, 
Fra  cui  lor  brame  unqua  non  fé' satolle 
Quel  piacer,  che  in  amar  felici  rende, 
Qual  non  mietuta  messe  in  su  le  zolle 
àorge ,  0  intatto  da  ramo  il  frutto  pende  j 
Suo  giglio  verginal  serbato  avea, 
Sempre  ignota  Isabella  a  Citerea  . 


25o         C    A    N    T    O 

XXXIV. 

A  Citerea,  che  il  Musulman  Guerriero  r 
E  la  Donzella  lietamente  accolse  . 
Oton  senti  di  Venere  l'impero, 
Che  la  mente,  il  cor  suo  tutto  sconvolse  » 
Aver  li  parve  un  Mongibello  intero 
Quando  il  guardo  la  Diva  a  lui  rivolse, 
Un  Mongibel ,  che  nel  suo  seno  ardesse , 
Ed  in  cenere,  e  polve  il  riducesse. 
XXXV. 

Come  distempra  il  Sol  la  molle  cera 
Quando  il  Leon  ferocemente  rugge 
Ne' vasti  campi  de  1' immensa  Sfera, 
Un  ignoto  Isabella  ardor  distrugge  . 
Volge  amorosa  la  pupilla  nera 
Ad  Òcon ,  che  d'amor  tuttofi  strugge. 
Giunger  fa  Citerea  fino  a  l'insania 
L'accesa  in  ior  libidinosa  smania. 
XXXVI. 

Non  si  cupido,  e  ingordo  il  cibo  aspetta 
Un,  che  di  fame  venir  men  si  senta  , 
Come  Oton  de  la  nera  pupilletta 
Un  guardo  attende  ,  che  il  desìo  fomenta  « 
Ambo  Vener  guidolli  a  una  loggetta  , 
Che  delizie  novelle  offre,  e  presenta. 
Ivi  Donzelle  co  la  man  veloce 
Trattali  cetra  compagna  a  grata  voce  ; 
XXXVII. 

E  i  cari  nomi  ripetendo  vanno 
De' Giovinetti  ,  onde  invaghite  sono  / 
Que'  Giovinetti  in  un  giardin  si  stanno, 
Sotto  a  la  loggia  ,  il  canto  udendo  ,  e  '1  suono 
D'  erbe  ,  e  di  fiori  varj  serti  fanno  , 
Per  darli  poscia  a  le  lor  Belle  in  dono. 
In  quel  giardino  ad  amorosa  notte, 
Are  di  Voluttà,  s'apron  le  grotte  . 


UNDECIMO.         zyi 

XXXVIII. 

Tacquer  le  Giovinette  riverenti 
Quando  vidcr  la  Diva,  che  venia. 
Elia  sorride ,  e  i  teneri  concenti 
Tutte  le  invita  a  rinnovar  qual  pria  ; 
Ma  ,  come  il  Sol  co'  vivi  raggi  ardenti 
Lo  splendo^  vince,  che  da  gli   Astri  uscla  , 
Così,  bella  assai  più  che  l'altre  Belle, 
Vincea  Ciprigna  ogni  beltà  di  quelle  . 
XXXIX. 

Tutta  chiusa  d'intorno  era  la  loggia 
Da  limpido^  cristallo^  e  Citerea 
Quivi  incisi  gii  amori  in  varia  foggia  - 
Veder  di  Giove  al  Musulman  facca  . 
Mira  quant'  alto  il  mio  Figliuolo  poggia 
Co' robusti  suoi  vanni,  ella  dicea. 
Gli  acuti  dardi  ,  per  cui  tanto  impera , 
San  penetrar  ne  Ja  celeste  Sfera  . 
XL. 

Mira  sculto  colà  ,  servo  d'Amore, 
Il  Signor  de  la  Terra ,  il  Re  del  Cielo , 
Che  imitò  nel  sembiante,  e  nel  candore 
La  cacciatrice  Dea,  che  vibra  il  telo; 
Ed  a  seguace  de  la  Diva  ,  il  fiore 
Svelse  furtivo  da  l'intatto  stelo. 
Cinzia  in  Orsa  cangiolla,  e  quelle  nuove 
Forme  fra  gli  Astri  scintillar  fé' Giove. 
XLL 

Miralo  in  forma  di  Satir  maligno 
Render  cornuto  il  Re  Teban  Lieo  ; 
Sotto  aspetto  gentil  di  bianco  Cigno 
Vedilo  allor  che  Leda  egli  godèo  . 
Qui  ,  mansueto  Bue  ,  dolce,  e  benigno, 
Delude  Europa  ,  che  troppo  credèo  ; 
Là   in  sembianza  d'Augel  rapir  si  vede 
L'  ingrata  Asteria  ,  e  '1  Frigio  Ganimede, 

L   6 


éf*         C    A     K    T    Q 

XLn; 

Mira  come  disceso  in  pioggia  d'oro* 
Danae  sorprese  1'  amoroso  Dio  , 
E  il  frutto  ascoso  in  onta  di -coloro  , 
Che  guardavan  la  pianta  ,  ei  si  carpio; 
Sempre  l'alto  poter  d'aureo  tesoro 
R&ppe  ogni  torre,  ed  ogni  porta  aprlo. 
Celata  aveala  in  chiusa  torre  il  Padre, 
Che  assai  temea  le  forme  sue- leggiadre  o. 
XLIII. 

Gli  sculti  fatti  Oton  poco  discerné'. 
Benché  gli  ascolti  con  aperta  bocca  ; 
Che  de:  la  Diva  a  -la ^  beltà  superne 
Rivolti  à  ginocchi,  onde  il  piacertraboccn  >. 
L'  immenso  ardor  de  le  sue    fiamme  interne 
Fa  che  dal  petto  il  cor  quasi  gli  sbocca;.. 
E  per.  troppo  sentir,  di  senso  casso 
li  corpo  sembra,  ©  fermo  sta  qual  sasso . - 
XLIV. 

Come   talor  quel!'  Augellin  >  eh'  entrato  » 
In  uaa  stanza  per  ventura  sia  , 
Benché  il  passo ,  qv' entrò,  veggia  sermo^. 
Sempre  a. quello  si  volge  tuttavia; 
Cosi  d'Otone  il  core  innamorato 
Tenta  pegli  occhi  di  fuggir  ia  via  3 
E  lo»  spirto  vita!  tutto  in  quel  loco 
S'aggira,  e  scaglia  vortici  di  foco. 
XLV. 

Non  lì  Pardo  altrimenti ,  ailor  che  presso 
Al  suo  carcere  il  Cervo  avvien  ch'ei  vegga, 
Di  ferocia  natia  sente  l'eccessi, 
Né  ostacol  v'  i ,  che  il  suo  furor  corregga  ; 
Sotto  ai  dente  aggressor  trema  lo  stesso" 
Ferreo  cancello,  e  par  che  a  pena  regga. 
Sdegno  ,  ed  Amor  destan  sovente   in  petto-,. 
Benché  opposti  fra  lor*  noa  vario  effetto v 


UKOECfHÓ»        Sfai 

XLVI. 

Tu  ,  Diva,  apristi  il  labbricciuoT  vermiglio' y 
£  ne  traesti  d'un  sorriso  il  mele. 
Ma  il  mei  tutto  rapì  l'avido  Figlio 
Con  un  sol  bacio,  il  Figlio  tuo  crudele. 
Soffiar  l'aure  propizie  ai  suo  Naviglio 
il' Nauta  udì  ne  le  gonfiate  vele, 
Fuggirò  i  nembi  procellosi  ,  e  mesti 
In  quei  momento  ,  o  Dea,  che  tu  ridesti,. 
XLVII. 

Giove1,  che  udir  de'  suoi^  passati  amork 
Si  compiace  la  storia  ,  e  si  diletta  ,r 
Perchè  d'Oton  si  calmino  gli  ardori  y 
Venere  asconde  in  bianca  nuvoletta. 
Tutti  allor  vide  Oton  qwe'bei  lavori  , 
K  al  parlar  de  Dea  meglio  die  retta  . 
AI  suo  narrar  l'orecchio  attento  ei  voiss  ^ 
Ma-  dì  pia  non  vederla  a^sai  gli  dolsCr 
XLVIJI. 

Ascolti  pur  chi  d*  ascoltar  desia  , 
Tornar  degg' io  velocemente  in  Terra  3« 
Che  nel  Mar  del  Piacer  la  Fantasìa 
Naufraga ,  assorta  ,  il  porto  non  afferra  . 
Ad  Ulisse- tener  vo'  compagnia  , 
Che  morta  crede  la  sua  Donna,  ed  errav 
Frror  ,  per  cui  s'affligge,  e  si  costerna 
Ne  i'  oscura  de* Frati  ampia  Caverna. 
XLIX. 

Ahi!  sventurato  Ulisse,  or  che  diresti  ,- 
Se,  mentre  tu  spargi  sospiri  ,  e  pianto  f 
Sapessi-  eh'  ella  f  easi  tuoi  funesti 
Tutti  obbliò  ,  serva  al  Piacer  soltanto? 
E  che  ciò  che  giammai  far  tu  sapesti, 
Or  fa  più  d'uno  ,  e  le  si  giace  a  canto > 
Poiché  Modestia  fugge,  e  la  severa 
Yergimcà  dove  Ciprigna  impera  , 


fS4         CANTO 
L. 

Ulisse  allor  ne  la  spelonca  oscura 
Alto  romor ,  siccom'io  dissi,  intese  , 
E  di  stupor  fu  colmo,  e  di  paura  , 
Che  spente  eran  le  faci  innanzi  accese . 
Come  far  suol  chi  d'ascoltar  procura, 
Cheto  innoltrossi,  e  ben  gli   orecchi  tese 
E  i  Frati  udì  con  penitenti  voci 
Pianger  lor  colpe,  ed  urli  alzar  feroci. 
LL 

Tacquer  poi  tutti  gli  Eremiti,  e  forse 
Breve  riposo  allor  diéro  a  le  membra  . 
Ma  il  dolce  sonno  Ulisse  non  soccorse. 
Che  d'  Isabella  sempre  gli  rimembra  . 
Un  Frate  alfiu  fuor  da  una  cella  corse  , 
Tenendo  un  lume ,  che  a  fanal  rasscmbra 
Come  a  Nocchiero  il  desiato  porto, 
Die  quel  lume  ad  Ulisse  alcun  conforto , 
LIL 

Egli  si  mise  allora  à  riguardare  . 
Quel  profondo  Vallon  dei  Sol  nemico. 
Vide  molte  cellette  intorno  stare , 
Tutte  incavate  in  seno  ai  Monte  antico  - 
Vide  in  ciascuna  un  Monaco  abitare 
A  la  spl«ndor  di  lumicino  amico  ; 
E  mentre  ei  stava  riguardando  attento, 
Una  voce  l'empì  d'alto  spavento. 
LIIL 
Chi  sei,  chi  sei?  Sentì  gridarsi  dietro  i 
E  in  una  cella  vide  un  alto  Frate  . 
Ben  lo  conobbe  a  quel  sonoro  metro , 
Con  che  le  preci  avea  prima  intonate. 
Tosto  si  kce  alcuni  passi  indietro  , 
E  diede  a  l'altre  celle  alcune  occhiate. 
Vide  questa  fra  tutte  esser  maggiore , 
Perciò  quel  Frate  egli  chiamò  Priore . 


UNDECIMO.        gii 

LIV. 

Il  Frate  ,  allor  che  nominar  si  sente 
Priore,  e  Tarmi  non  mai  viste  vede  , 
Una,  e  due  voice  con  divota  mente 
Si  fa  la  Croce,  che  un  Demon  lo  crede „ 
Tu  sei  Stregone,  o  Diavol  certamente, 
Volgi  altrove,  per  Dio ,  l'infame  piede. 
Disse  il  buon  Frate,  e  P  aria  benedisse 3 
E  si  meravigliò  che  non  fuggisse  . 
LV. 

Al  suono  intanto  de  la  nota  voce 
Tutti  i  Monaci  in  folla  erano  accorsi  ; 
Ed  il  grave  Prior  volse  feroce 
A  tutti  il  guardo,  e  tal  lor  fé  discorsi. 
Ah  !  di  qual  fallo  vi  macchiaste  atroce'  , 
In  qual  mai  siete  alto  delitto  incorsi? 
Venne  al  certo  quell'Ombra  in  questo  loco 
Per  seppellirvi  nel  Tartareo  foco. 
LVL 

Volete  udir  la  più  sicura  pruova 
Che  de  l'Inferno  è  Clittadin  costui? 
Taccio  «lei  suo  vestir,  che  è  cosa  nuova, 
E  appartener  non  può  che  a' Regni  bui. 
In  questa  Valle,  ove  giammai  si  trova 
Straniero  alcuno,  ei  spinse  i  passi  sui  * 
E  senza  prima  udito  avermi,  o  visto  , 
Come  Prior  mi  salutò  quel  tristo. 
LVII. 

Qual  v' a  pruova  maggior  ch'egli  è  perito 
Ne  l'arte  empia,  infernal  de  la  Magìa  ? 
Come,  senza  vedermi,  o  avermi  udito 
Da  voi  chiamar  ,  ciò  penetrato  avrìa? 
Certo  l'avremmo  noi  visto  ,  e  sentito, 
Se  in  questo  loco  ei  secso  fosse  pria. 
Ah!  miei  Fratelli,  fate  penitenza, 
E  mondate  la  yonra  coscienza  . 


Z0  CANTO 

LV1ÌI. 

Io^,  cai  Paka  Bontà  grazia  concede 
Di  serbar  pura,  ed  innocente  Palma 
Fin  daquel  di,  ch'onda  lustrai  le  impresse? 
Macchia  lavò  su  la  corporea  salma; 
Volgerò  preci  a  Lei ,  che  il  Cielo  elesse 
Per  dar  col  ventre  intatto  al  Mondo  caima,- 
Tasto  a  la  Verghi  Madre  ginocchioni 
Fé  l'ipocrita  Frate  orazione. 
LIX. 
Ciascun  disciolse  alior  i'a  sua  elnturay 
Grosso  cordorr  ;  di  moki  nodi  carco, 
E  il  nudo  omer  colpi  senza  misura , 
E '1  dorso,  fin  che  il  sangue  aprissi  il  varcov 
Ma  lo  scaltro  Prior,  che  Palma  pura 
Aver  dicea ,  iù  ne' suoi  colpi  parco  . 
Grida  Ulisse  :  Calmate  il  furor  vostro  , 
Mago  non  son ,  né  de  PAverno  un  Mostro •  »- 
LX. 
Degno  d'odio  non  son,  ma  di  pietàde, 
Se  voi  temete,  e  venerate  il  Cielo. 
Dal  Mar  sottratto ,  per  ignote  strade 
Ramingo  errai  ,  solo  in  pensarlo  io  gelo\ 
Avessi  almen  fra  le  nemiche  spade, 
0  a  l'onde  in  sen,  lasciato  il  mortai  velo! 
Cosi  dice  il  meschino,  e  il  suo  martiro 
Dal  cor  gli  strappa  un  gemito,  eunsospirov 
LXI. 
A  sue  parole,  ài  pianto  suo  credette 
la  veneranda  turba  penitente  , 
E  volcntier  dai  flagellar  ristette' 
Il  dorso  nudo  col  cordòn  possente . 
In  don  gli  diede  alcune  frutta  elette  3 
(  Poicli'  altro  il  duol  mangiar  non  li  consente) 
Scarso  alimento  sì,  ma  che  opportuno 
Ristoro  offerse  al  ventre  suo  digiuno v 


UlNfDÉClMO.         IfJ 

LXfl. 

Poi  h  miser  nel  letto  ,  ove  solea 
Giacersi  il  Padre  lor  Superiore. 
Ivi  ei  posò,  come  posar  potè*, 
Da  1*  amor  lacerato,  e  dal  dolore. 
Mentre  chiuse  le  luci  a  pena  avea  , 
Si  ridestava  colmo  d'i  terrore  , 
Terror ,  che  in  sógno  là  feral  gli  apporta 
Ombra  di  quella,  ch'egli  crede  mora. 
LXIII. 
Gli  par  vedèrfa  con  turbato  voltcr 
Scapigliata  aggirarsi  a  lui  d'  intorno  , 
Dicendo:  Or  dunque  è  l'amor  tuodisciolto  y 
Qual  vapor  denso  a  l'apparir  del  giorno? 
Quel  fido  ardor,  che  ogni  piacer  ni' à  tolto»,  s 
Che-  incontrar  fèmmi  og^ni  periglio ,  e  scorno.» 
Che  fin  per  te  fa  vita  giunse  a  forai  , 
Tu  cosi  ricompensi  ?  e  vivi ,  e  dormi  ? 
LXIV. 
Più  resister  non  puote  Ulisse,  e  s'alza 
Dal  duro  ,  molto  a  Jui  più  duro ,  letto  . 
Oh  !  quante  volte  ambe  le  mani  innalza  y 
E  il  collo  tien  per  solcarsi  stretto! 
Ma  pon  freno  al  dolor ,  che  il  preme ,  e  incalza" 9 
Religio»,  che  pura  ei  serba  in  petto  ; 
E  prega  in  vece  la  Bontà  infinita  ,  m 
Perchè  gli  presti  in  tanto  affanno  alta» 
LXV. 
Il  severo  Prior  frattanto  venne 
In  sua  celletta ,  e  ritrovollo  desto. 
Ulisse  al'lor  le  lagrime  ractenne , 
Acciò  men  lamor  suo  sia  manifesto. 
Le  braccia  al  petto  incrocicchiate  ci  tenne» 
E  ai  suol  fisso  il  devoto  occhio  modesto;, 
Poscia  umìl  palesò  sua  santa  voglia 
Di  vestir  quivi  la  Fratesca  spoglia.. 


*5*  CANTO 

LXVI. 

Ode  il  Prior  la  non  attesa  inchiesta 
In  maestoso,  e  venerabil  atto  , 
Il  curvo  dorso  rìxza ,  erge  la  testa , 
E  tutta  cangia  la  persona  a  un  tratto  . 
Sacro<  Orator ,  che  a  perorar  s'appresta  f 
Cangia  cosi  voce,  e  sembiante  affatto, 
Se  al  pallido  Uditor  le  ferree   porte 
Apre  d'Eternità,  nunzio  di  Morte. 
LXVIL 

Gravemente  il  Prior  gli  accenti  mancfa 
Lungi  cosi  che  1"  antro  ne  risuona  . 
Servo  dei  Ciel ,  sublime ,  ed  ammiranda 
Tua  brama  è  al  certo,  nonché  santa,  e  buona  t 
Vestirà  questa  spoglia  veneranda. 
Che  tanto  è  cara  al  Ciel  ,  la  tua  persona  ; 
Non  profanarla ,  o  Figlio ,  e  ti  ricorda 
Ch*  essa  asconder  non  debbe  anima  lorda  , 
LXVIIL 

Ciascun  di  noi  ,  che  di  tal  veste  è  carco, 
Dispregia  il  Mondo,  e  ad  altra  sede  aspira  \ 
Da  terreni  appetiti  il  core  à  scarco  , 
Com'  uom  non  fosse  ,  e  Dio  sol  cerca  ,  e  mira  * 
Ne  d'Invidia  lo  preme  il  grave  incarco  , 
Né  di  Superbia ,  Odio  ,  Discordia  ,  oè  Ira  , 
In  queste  membra  fragili,  e  mortali 
Son  l'alme  nostre  a' puri  Spirti  eguali, 
LXIX. 

Se  tal  non  sci,  deh!  non  voler,  Fratello, 
Contaminar  questa  felice  pianta , 
Ai  cui  tronco  s'appoggia  il  Mondo  fello, 
Che  a  l'ombra  sua  sfidar  il  Ciel  si  vanta  . 
Pianta,  i  cui  frutti  aspetto  anno  sì  bello, 
E  sì  dolce  sapor,  fragranzia  tanta, 
Che  sol  per  essi  il  Reggitor  òc[  Mondo 
Non  distrusse,  e  spianò  l'orto  infecondo, 


UN  DECIMO.  259 

LXX. 

Poi  che  die  fine  il  Frate  al   suo  sermone* 
Che  stordito  ad  Uiisse  avea  l'orecchio, 
S'ode  un  alto  romor  ,  che  ben  s'oppone 
A  ciò  che  detto  avea  lo*  scaltro  Vecchio  . 
Fra  que'  Frati  era  insorta  aspra  tenzone  , 
V'era  di  pugna  ancor  grande  apparecchio  „ 
E  questi,  e  quegli  avea  prestato  Tale 
Al  venerabil,  sacro  bre  viale. 
LXXI. 

Molti  Santi  nemici  de  le  risse, 
Che  segnavano  il  Vespro,  e  la  Compieta, 
Sparsi  al  suolo  attcndean  che  si  finisse 
La  zuffa ,  onde  tornarsi  a  la  lor  meta . 
Muto  si  fé  per  meraviglia  Ulisse 
Quella  gente  in  veder  sì  mansueta; 
E  rivolto  al  Prior  ,  disse  :  Mi  piace 
Che  sì  ben  fra  di  voi  regni  la  pace. 
LXXII. 

Come?  disse  il  Priore  ,  Ah!  inique   menti 
Di  voi  profani  ,  che  tentate  il  male 
Ne  l'opre  rinvenir  pure,  innocenti, 
E  al  supremo  gradite  Ente  immortale! 

Sue*,  che  si  batton  ,  sono  penitenti  , 
è  perversa  gli  accende  ira  brutale, 
(  Tolgalo  il  Ciel  !  )  ma  l'uno  l'altro  incolpa  , 
L'  un  de  l'altro  espiar  tenta  la  colpa  . 
LXXIII. 
Oh!  quanti  furo  i  penitenti,  oh!  quanti 
Contro  sé  stessi  anno  il  flagel  rivolto! 
Quel,  che  spiegò  ne' boschi  i  libri  santi  , 
Avea  sempre  al  suo  petto  un  sasso  volto. 
Merto  maggior  che  un  solo,àn  molti  oranti, 
Così  il  battersi  insiem  proficuo  è  molto; 
E  ciò  che  un  pusillanime  in  sé  stesso 
Far  non  saprìa ,  fa  l'altrui  mano  in  esso. 


*6é         C    A    H    T    O 

LXXIV. 

Ulisse  riverente  il  capo  abbassa» 
Come  a  Dottore  di  Teologìa  . 
Ei  con  sua  man,  benché  snervata,  e  lassa  T 
Molte  crede  espiar  colpe  potria  , 
E  far  di  penitenti  una  gran  massa  > 
Che  gradevole  al  Cicl  molto  sarìa  ;. 
Perciò ,  bramoso  di  laudabil  opre  , 
Al  vecchio  Frate  il  suo  pensier  discopre  i' 
LXXV. 

E  gli  dice  :  O  Prior,  deh  f  non  ti  spiacela 
Alcun-  chiamar,  che  un  tempo  abbia  peccato* 
Affiti  ch'io  seco  penicenza  faccia', 
35  innocente  divenga  ,  e  al  Ciel  più  grate  ^ 
Volse  il  Frate  sospeso  al  suol  la  faccia , 
Che  a  tal  richiesta  ei  non  avea  pensato; 
Ma  sua  menzogna  accorto  egli  sostenne,. 
Ed  a5 suoi  Frati  inferociti  venne. 
LXXVI. 

Vide  chi  giunger  sente  infili  su  fossa 
Del  noioso  cordon  V  opra  molesta  , 
Co  gli  occhi  bassi,  e  co  la  guancia  rossa5* 
Graffiarsi  irato  ad  ambe  man  la  testa . 
Un  altro  vide  ,  uomo  di  molta  possa  , 
Che  la  battaglia  a  rinnovar  s'appresta; 
Kerbuto  à  il  braccio  ,  e  muscoloso,  e  piene 
Ar  di  fervido  sangue  arterie ,  e  vene. 
LXXVII. 

La  man  sinistra  in  pugno  ei  ticn  raccolta  , 
E  con  la  destra  il  cordon  sciolto  mena  . 
Suo  nome  è  Fra-Cappon  ;  la  barba  à  folta  , 
Bassa  la  taglia,  ,  e  largo  omero,  e  schiena. 
Ei  del  divoto  Ulisse  i  prieghi  ascolta, 
Che  al  vecchio  Frate  apportan  dubbio ,  e  penar, 
Poiché  5  se  alcuno  in  campo  non  venia  v 
Scoperta  Ulisse  la  menzogna  avrìa* 


UN  DEC  IMO,  2ói 

LXXVIII. 

Fra-Cappon  con  aspetta  ,  e  in  traccia  corre 
Dei  forte  Ulisse  assai  perito  in  guerra  . 
lì  trova  ,  e  dice:  Or  ti  dei  tu  disporre 
A  far  solenne  penitenza  in  Terra  ; 
/<cciò  tu  possa  ogn*  obbligo  disciorre, 
Che  la  portadel  Ciel  ti  vieta  ,  e  serra; 
V,  «una  guanciata  menando  Fratesca  , 
Questa  accettar  j  gli  disse,  or  non  t'jncresca* 

LXX1X. 
Crii  vide  infuriar  giovili  Leone, 
Quando  in  ascoso  laccio  è  avvinto  ,  e  stretto, 
Che  fra  le  piante  il  Cacciator  dispone 
Dal  Vitel  poco  ìungt ,  o  dal  Capretto  ; 
Leon,  che  in  quelle  insidieil  collo  pone, 
E  fa  tremar,  benché  a  morir  costretto  ; 
O  chi  da  tana  uscir  Pantera  ,  od  Orsa 
Vide  ,  che  dietro  a1  cari  tìgli  è  corsa  : 

LXXX. 
Pensi  che  tale  il  furor  sia,  che  accende 
Il  generoso  cor  del  Cavaliere. 
Hi  tutto  allora  a  la  vendetta  attende, 
Né  ad  Isabella  pur  volge  il  pensiero. 
Senza  accento  formar ,  la  gamba  stende  , 
(  Veloce  sì  lo  strai  non  vibra  Arciero  ) 
li  con  un  calcio  quell'insulto  acerbo 
Vendica,  e  atterra  Fra-Cappon  superbo. 

LXXXI. 
Or  va /la  vita  a  mo  non  cai  di  torti) 
Ma  quindi  innanzi  rispettar  tu  dei 
f  Cavalieri  valorosi,  e  forti, 
Se  pur  bramoso  di  morir  non  sei . 
Far  non  si  denno  tali  oltraggi,  e  torti 
A  chi  di  lauri  è  cinto,  e  di  trofei  . 
T.i  sonsuoi  detti,  e  non  gli  torna  in  mente 
la  brenna  sua  di  farsi  penitente. 


262         CANTO 

LXXXIL 

Zitto  sta  Fra-Cappone,  c  non  s'  avvisa 
Poter  lo  sdegno  provocar  cT  Ulisse  . 
Corre  a  celarsi  ,  e  in  avvenir  divisa 
Tutte  fuggir  le  perigliose  risse  . 
Ei  teme  oggetto  divenir  di  risa  , 
Ei,  che  temuto ,  e  rispettato  visse. 
Giunge  intanto  un  buon  Frate,  e  seco  lento, 
Carco  di  cibi,  e  vin,  giugne  un  Giumento. 
LXXXIIL 

Empie  ciascuno  il  ventre  ampio,  e  capace. 
Fra-Cappon  nò,  perchè  a  mangiar  non  pensa, 
Ulisse,  a  cui  calma  non  lascia,  o  pace, 
Il  crudo  Amor,  seder  non  cura  a  mensa- 
Nel  silenzio  soltanto  ei  si  compiace, 
E  ad  Isabella  sol  pensa,  e  ripensa; 
Dolente  idea  !  ma  tanto  a  lui  gradita 
Che  tutta  in  quella  ei  vuol  passar  sua   vita. 
LXXXIV. 

Costume  è  questo  d'ogni  afflitto  amante, 
Che  persa  avendo  la  sua  Donna  amata  , 
Lungi  da  nuovo  amor  volge  le  piante, 
E  sdegna  ,  e  fugge  ogni  Bcltà>  pregiata  ; 
Poiché  di  vivo  femminil  sembiante 
Quell'estinta  Donzella  è  a  lui  più  grata, 
E  il  suo  Pensiero  avidamente  bee 
Me' vastissimi  Fiumi  de  l'Idee. 
LXXXV. 
In  qu*'  recessi  tenebrosi  ,  e  mesti  , 
Ulisse  ascoso  rimaner  desia  , 
Coprirsi  brama  di  Fratesche  vesti, 
E  le  chiederai  Prior,  siccome  pria. 
Nera  veste  il  Prior  fa  che  s'appresti, 
Ma  yuoI  che  al  suolo  egli  prostrato  stia, 
Chiedendo  a  l'Ente,  che  fra  gli  Astri  à  il  Trono, 
Con  alma  umil  de'  falli  suoi  perdono  . 


UN  DECIMO.         z6i 

LXXXVI. 

\\  vecchio  Frate  gli  tagliò  le  chiome. 
Mentre  supplice  ei  stava  ,  e  ginocchioni  , 
E  gli  fé  moke  recitar,  siccome 
E1    lor  costume,  e  lunghe  orazioni. 
La  lingua  ei  frena,  benché  Amore  il  nome, 
L'amato  nome  a  profferir  lo  sproni. 
Via  i  fervidi  sospìr,  eh' escon  dal  core, 
Sembran  di  penitenza,  e  son  d'amore. 
LXXXVII. 

Ei,  di  tristi  pensier  più  che  divoti, 
Colmo,  s'offerse  aiCiel  men  chea  Isabella. 
Formato  ancora  non  avea  que'  voti  , 
Vquai  spesso  l' Uom  fragil  si  ribella. 
~onvien  che  i  riti  nostri  a  te  sien  noti, 
Disse  il  Prior,  guidandolo  in  sua  cella; 
Perciò,  come  Pastor  di  questo  gregge, 
De  P  Ordin  nostro  io  t'esporrò  Ja  Legge. 
LXXXVIII. 

Oh!  prodigio  d'Amor!  Guerricr  famoso 
Avvezzo  sempre  a  gloriose  Imprese  , 
Che  con  invitto  braccio  bellicoso 
Tanti,  e  tanti  nemici  al  suolo  stese, 
I  asciò  l'usbergo,  e'1  brando  minaccioso  , 
K  nere  lane  entro  a  spelonca  prese  , 
Ed  un  cappuccio  su  quel  capo  venne  , 
Che  de  l'elmo  fregiar  solean  le  penne. 
LXXXIX. 

Gran  Teatro  e  la  Terra,  ivi  è  dipinta 
D^  supremo  pennel  capanna 3  e  Reggia. 
Chi  di  serto  reni  la  fronte  à  cinta, 
Chi  fra  Pire  di  Marte  arde  ,  e  lampeggia. 
Chi  de  l'estro  motor  segue  la  spinta, 
Chi,  seguace  d'Urania,  il  Ciel  passeggia; 
Ma  ninno  è  lieto,  e  con  volubil  mente 
Jm'3  SQrce  cangia  con  l'altrui  sovente,  1 


tU     CANTO  UNDECIMO. 

xc. 

Ciascuno  Invidia  il  Rè,  ma  il  Rè  sì  crede 
Infelice  talor  più  che  vii  servo, 
Ed  a  novelli  onor  tendersi  vede 
Sempre  inquieto  il  cortigian  protervo. 
Lo  stanco  cacciator  ,  che  volge  il  piede 
Su  1'  orme  in  van  di  fuggitivo  Cervo , 
Invidia  il  Cittadino  ,  ed  il  Guerriero 
•Col  cappuccio  talor  cangia  il  cimiero  . 
XCI. 

Ulisse  così  fé;  ma  lungi  ornai 
Risuoni  il  canto  da  Fratesche  Jane, 
Splendano  alfin  del  maggior  Astro  i  rais 
3E  meste  cure  sien  da  noi  lontane. 
Tornisi  al  bel  Pianeta,  ove  lasciai 
Leggiadre  Ninfe  ,  lusinghiere,  umane- 
Ma  goder  non  potrem  questo  diletto , 
Se  il  mio  v.i£0j  non  mi  rinasce  in  petto. 


Wint  dd  Canta  Uniec'imo „ 


LA     MORTE 

D'ORLANDO. 


i  I 


£ANTO   DUODECIMO. 


ARGOMENTO. 

Morirà  Ciprigna  ad  isabella  ,  a  Otone  , 

//  bagno  ,  e  la  prigion  y  che  i  cor  rinterra. 
Un  ampio  scritto  ciascun  n$me  espone  \ 
Anco  de*  Numi  il  cor  quel  career  serra . 
Ma  Ferr/ià  gli  Spirti  aduna  ,  /  impone 
Con  un  foglio  al  Destrier  che  torni  in  Terra* 
Beve  un   "Demon  mirah'il  onda  ascosto  J 
A  Vener  punge  ,  o  si  trasforma  tosto, 

P  * 

V^osa  non  avvi  ,  che  la  vista  allctti 

Pm  che  un  turgido  seno,  un  vago  ciglio, 

E  se  de' suoi   favor,  de' suoi  diletti 

Ver  noi  cortese  è   di  Ciprigna  il    Figlio, 

Se  a#  reciproca    fiamma  ardono  i   petti  , 

A  niun  altro  contento  io  l'assomiglio. 

Ricchezze,   onori  il  Saggio  mai  non  brama  , 

Amor  soltanto  da  colei,  ch'egli  ama  . 

M 


1.66         CANTO 

v  IL 

Dir  felice  si  dee  chi  una  Donzella 
Da>  molti  amata  può  vedersi  a  canto, 
Chi   sul   bearsi  in  una  faccia  beila , 
Glie  esultisi  suo  piacer,  pianga  al  suo  pianto; 
Chi  sul  ciglio  del  cor  può  la  favella 
Leggere  espressa   con  celeste   incanto, 
Sul  nero  ciglio.,  che  in  soavi  giri 
5' avvolge,  e  pasce   i  fervidi  desiri. 
III. 

Questi  i  contenti  di  Ciprigna  sono, 
Figlia  de  l'onde,  e  Madre  di  Cupido, 
Che  die  suo  nome  a  quel  Pianeta  in  dono, 
In  cui  scherzan  le  Grazie,  Amor  fa  njdo. 
Possente  Diva  ,  che  ove  scoppia  il  tuono  , 
Ove  freme  spumante  il  Mare  infido  , 
Ove  fra  i  pinti  fior  l'erba  verdeggia, 
A*  suo  Regno,  suo  scettro,  e  Trono,  e  Reggia, 

Poi  che  del  Padre  de' possenti  Numi 
F.bbe  la  Dea  narrate  i  varj  amori , 
Otone  instupidi  quando  a'  suoi  lumi 
lilla  s'offerse  de  la  nube  fuori. 
Cosi,  seavvien  che  ilgran  Pianeta  allumi 
Al  Polo  intorno  i  densi  alti  vapori, 
Che  Aurora  Boreal  soglion  chiamarsi , 
Veggiam  Bifolco  attonito  restarsi , 
V. 

E  come  allor  che  l'Austro  procelloso 
L'aer  tutto  offuscò,  coperse  il  Sole, 
Se  il  freddo  Borea  surge  furioso, 
Che, nubi  innanzi  ai  chiaro  Dio  non  vuole; 
Il  vivace  splendor,  che  prima  ascoso, 
Scopresi  a  un  tratto,  abbagliar  l'occhio  suole, 
Quella  apparve  cosi  Beltà  divina  , 
D*  ogni  rara  beltà  Donna  j  e  Regina  * 


DUODECIMO.      z6j 

VL 

Gode  Isabella  dei  celeste  aspetto, 
IVIa  tanto  nò,  siccome  Oton  ne  gode. 
Ella  a"  amor  pel-visto  Giovinetto 
E'  tutta  accesa,  e  si  tormenta  ,  e  rode. 
<>uel  Palagio  bellissimo,  perfetto, 
A  cui  bastante  non  può  darsi  lode  , 
Occulta  chiude  sotterranea  stanza  ; 
Ivi  Isabella  con  Oton  s'  avanza  . 
VIL 

Vener  precede  ,  e  a  quella  stanza  è  guida  , 
Che  di  soavi  odori  olezza  intorno .  < 
Tar  che  qui  Voluttà  scherzi  ,  e  sorrida, 
E  più  che  altrove,  ami  di  far  soggiorno. 
Roseo  serico  velo  a  pugna  sfida 
1!  Nume  scopritor,  Nume  dei  giorno; 
Vince  il  raggio  la  pugna,  è  ver  ,  ma  privo 
De  l'usata  sua  luce,  entra  furtivo. 
Vili. 

Ampio  marmoreo  Lagno  acqua  riceve 
Da  più  zampilli,  che  tributan  Tonde, 
Ove  le  membra  sue  d'intatta  neve 
Bagna  la  Dea  ,  che  suoi  favor  profonde . 
Bagno  felice!  In  te  Ciprigna  il  breve 
Agile  pie,  ia  molle  coscia  asconde. 
Vanne  superbo  di  tue  limpid'acque, 
In  cui  lavarsi  a  Vener  bella  piacque. 
IX. 

A  quella  vista  inebbriar  la  mente 
Sentissi  Otone  ,  e  tutta  accender  l'alma. 
Suo]  così  palpitar  Giovane  ardente  , 
Cui  P  odiato  indugio  è  grave  salma, 
Quando  a  l'ora  assegnata,  o  vede,   o  sente 
La  Bella,  che  al  suo  cor  tolse  la  calma, 
E  P  idea  del  Piacer  tanto  in  lui  puote 
Che  il  sangue  affretta ,  ed  ogni  fibra  scuote, 

M  i 


z6S  CANTO 

X. 

Mentre  quivi  pasceana  I  cupid' occhi» 
Tutto  osservando,  Otone,  ed  Isabella, 
Vider  lucide  perle  in  varj  fiocchi 
Pender  da  un  baldacchìn,  che  un  Trono  abbella  * 
pur  da  piacer,  da  meraviglia  tocchi, 
Mirando  il  Trono  di  Ciprigna  bella; 
Ed  in  quei  loco  ben  dovea  compagno 
Essere  ii  Trono,  di  tal  Diva,  al  bagno. 
XI. 

Isabella  stupisce,  e  riverente 
Così  favella:  O  Diva,  o  de' Mortali , 
E  del  Mondo,  e  del  Cielo  alta,   e  possente 
Donna,  e  Reina,  che  d'Amor  gli  strali 
Mesci  al  riso,  e  a' piaceri,  ecoaqualmcnte, 
Celasti  tu  l'insegne  imperiali 
fn  sotterraneo  loco ,  ove  la  luce 
Del  S<sle  animator  poco  riluce? 
XII. 

D*  Isabella  a  gii  accenti  ella  sorrise» 
E  più  ridente  allor  si  fé  Natura. 
Le  purpuree  schiudean  labbra  divise 
Il  varco  a1  denti  di  gentil  figura. 
Il  Soglio  mio  per  mio  comando  mise 
Amor,  diss'  ella,  in  questa  sede  oscura. 
Amo  il  riso,  e'1  Piacer,  ma  il  Sol  non  amo» 
E*l  furto  sempre  ,  e  le  tenèbre  io  bramo. 
XIII. 

Tace  Isabella,  e  tosto  china  il  collo, 
Rispettando  il  parlar  di  quella  Dea  . 
Il  Musulman ,  che  il  guardo  mai  satollo? 
A  la  Diva,  e  a  la  stanza  rivolgea, 
Con  Isabella  scese  ove  guidollo 
Venere  stessa,  eh*  ei  seguir  voica  ; 
E  in  career  giunse  ,  che  spavento  apporta  * 
£  sta  rinchiuso  da  ferrata  porta . 


DUODECIMO.        269 

XIV. 

Ouel  cupo  career  giace  là  sotterra , 
fidato  in  guardia  ad  un  drappel  d'Amori , 
Che  co  lo  strai  minacciati  aspra  guerra 
A  le  Donzelle,  a' Giovani  amatori  . 
Oton  ,  mentre  quell'uscio  si  disserra, # 
Questo  motto  osservò  :  Frìgi**  de*  ceri  , 
Che  in  auree  cifre  inciso  era  ne  P  arco 
De  la  porta,  che  chiude,  ed  apre  il  varco. 
XV. 

Il  caldo  Musulmano,  a  quella  vista 
Da  trasporto  d'  amor  mosso,  e  infiammato, 
Oh!  beata,  gridò  ,  career,  che  trista 
Career  non  sei,  ma  dolce  asilo,  e  grato. 
In  te  cor  prigionier  mai  non  s'attrista,- 
Né  si  pente  giammai  d1  svere  amato. 
Non  t'atterri  poter  di  destra  audace , 
Né  foco  «truggitor,  né  Tempo  edace-. 
XVI. 

In  tali  voci  Oton  sua  gioja  espresse 
D'  aver  quivi  il  suo  core  anch' ei  perduto. 
Ma  i  se  Venere  ,  Amor  cieco  noi  fesse  , 
Si  dorrebbe  in  tai  lacci  esser  caduto  . 
Duolsi  così  mosca  ,  che  il  voi  diresse 
Ad  ampio  va?o  ,  di  buon  latte  empiuto  , 
Se  fatta  in  dolce  Mar  naufrago  nauta  , 
Da  P  orlo  infido  sdrucciolò  mai  cauta  . 
XVII. 

E'  ver  che  Oton  di  sventurato  amante 
Fin  or  le  angoscie  non  provò,  le  pene  , 
Ma  Fortuna  giammai  non  è  costante, 
E  il  Teatro  d'Amore  a  varie  scene. 
Cangia  in  Terra  quel  Nume  il  suo  sembiante, 
E  son  sue  freccie  di  velen  ripiene  . 
Sol  nel  Pianeta  a  Vener  sacro  lice 
tempre  ad  amante  cor  esser  felice. 

M  i 


2?o         CANTO 

XVIII. 

Oh!  quante  volte  io  maledii  quell'ora, 
Quell*  istante  fatai,  che  Amor  mi  colse. 
Perchè  pace  non  ebbi  infin  d'allora 
Che  a  un  solo  oggetto  il  mio  Pensier  si  voice, 
Ma  l'incendio  ,  che  mrarde,  e  mi  divora, 
Ed  il  senso  vital  quasi  mi  tolse, 
Le  inaridite  labbra  avide  rende 
Di  velenoso  umor,  che  più  m'accende. 
XIX. 

Ah  !  ben  m'cvveggio  che  il  mie  morbo  è  grave 
Tanto  che  a  vaneggiar  la  mente  è  tratta  > 
Come  talor  staggirà  incerta  Nave, 
Se  avvien  che  irato  Mar  I'  agiti  *  e  batta  ► 
Non  di  funesto  amor»  ma  di  soave „ 
Di  gradito  piaiccr  soli©  or  si"  tratta  » 
Potette  h.  Dea»  co*  &uo£  dìkfctS  moke 
il  cateti-  iì  clic  ikgo  ài  rende ,  e  -dolce * 
XX.  ( 

Cintar  degg' io  de  h  priglon  de'  cori  r 
Ch'  à  di  bronzo  le  salde  ,  e  grosse  mura , 
Veder  alcun  de'  celebri  amatori , 
Che  il  cor  iasciaro  in  questa  sede  oscura  . 
Oscura  sì  ,  ma  i  diligenti  Amori 
D' apportarvi  le  faci  ebber  la  cura  . 
Di  quelle  faci  io  seguirò  la  scorta 
Su  l'ali  dei  Pensier,  che  mi  trasporta  * 
XXI. 

Oh!  quanti  cor  veggio  di  chiari  Eroi, 
Illustri  Duci  di  temute  Squadre, 
Che  1'  onorate  Età  vetuste  a  noi 
Mostran,  de'quai  fu  Roma,  e  Grecia  Madre 
Oh!  quanti,  oh!  quanti,  che  suecesser  poi 
Onde  l'Italo  suolo,  e '1  Franco  è  Padre  ; 
Oratori,  Ministri  ,  il  cui  consiglio 
Salvò  ia  Patria  nel  maggior  periglio  . 


DUODECIMO.      tjt 

XXII. 

Molti  possenti  tmperadori ,  e  Regi 
Quivi  lasciaroinsiem  col  senno  il  core, 
Kìolti ,  superbi  de' lor  fatti  egregi, 
Languirò  alfine  in  servitù  d'Amore*  t 
Par  che  quel  Nume  d'avvilir  si  pregi 
La  virtù,  la  fermezza,  ed  il  valore, 
E  far  per  opra  di  fattezze  belle( 
Tenti  gli  Eroi  servi  di  Donna  imbelle* 
XXIII. 

Alcun  vi  fu  ,  cui  l'offerir  non  valse 
Olocausto  a  Sofia  de' suoi  verd'anni, 
Poiché  Fisica  in  lui  tanto  prevalse 
Chea  io  studio,  al  saper  fc' oltraggi ,  e  danni , 
Platon,  di  cui  sì  alto  il  nome  salse, 
Che  i  fisici  piacer  chiamava  inganni, 
Il  severo  Platone  amò  non  poco 
Venere.  Amore,  e  ferisse  sol  per  gioco* 
XXIV. 

Talun ,  che  sembra  di  snudar  la  spada 
Avido  sol,  di  fama,  e  di  vittoria, 
E  par  cosa  non  faccia,  o  calchi  strada, 
Ove  non  creda  esser  condotto  a  Gloria  ; 
Cangia  pensicr,  lascia  che  il  ferro  cada, 
E  ben  d'altro  pugnar  si  gode,  e  gloria  . 
Per  Daiila  Sanson  perde  la  chioma, 
E  Capua  tolse- ad  Anniballe  Roma. 
XXV. 

Stan  gl'intelletti  ai  cori  ivi  congiunti, 
Poiché  Amor  l'alma,  e  l'intelletto  opprime 
Di  quei,  che  fur  da  lesue  freccie  punti, 
Quel  Dio  su  le  pareti  i  nomi  imprime. 
Gl'infelici  amator  stanno  disgiunti 
Dal  caro  nome ,  e  ciò  lor  duolo  esprime. 
Congiunti  sono  Angelica  ,  e  Medoro  , 
Altri  ,  che  ben  conosco,  altri,  che   ignoro 


M 


*7*         CANTO     - 

XXVL 

Veggo  io  un  lato  un  cor  cosi  trafitto 
Che  prodigio  mi  par ,  se  non  si  spezza  . 
Suoi  dardi  à  in  quello  Amor  fitto,  e  rifitto1 
Con  quella  man,  che  a  ferir  sempre  è  avvezza  . 
Solo  è  quel  core,  e  un  nome  sol  v'  è  scritto  , 
Perchè  l'amato  oggetto  il  fugge,  e  sprezza. 
Tosto  mi  punge  di  saper  desìo*  (mio. 

Qual  nome  è  quello....  Ahi!  srenturato,  è  i 
XXVII. 

Voi ,  che  ritrarre  col  penne!  volete 
Di  Crudeltà.  la  spaventosa  immago , 
Darle  corpo  di  Tigre  non  dovete, 
Chioma  di  Serpi ,  o  pur  coda  di  Drago  , 
Né  pi n ter  Furie,  che  di  sangue  in  sete  ,- 
Né  il  Can  ,  che  latra  su  lo  Stigio  Iago  ; 
Ma  di  colei,  che  in  brani  il  cor  m'à   fatto, 
E  iwn  sente  pietà,  fate  il  ritratto. 
XXVIII. 

Ahf  veggo  ben  che  l' impossibil  chieggìo  3 
Poiché  tal  non  la  crede  uom,  che  la  miri  ; 
Ed  io,  che  avvolto  in  tantor  mal  mi  veggio  > 
Pur  corro- al  foste  ognor  de'miei  sospiri, 
A  quel (  fonte  letal ,  che  fuggir  deggio , 
E  a  cui  bever  m' è  forza  infin  ch'io  spiri  , 
Siccome  l'ebbro  ,  che  a  la  botte  corre, 
Dà  sete  spinto,  e  in  maggior  set»  incorre. 
XXIX. 

I  Numi  tutti,  fuorché  Palla  ,  e  Diana  , 
Anno  lor  core  in  questo^  career  chiuso  , 
E  Giove  ancor,  poiché  in  bizzarra,  e  strana 
Spoglia  Padri,  e  Mariti  egli  à  deluso. 
Entro  un  ampolla  non  dal  cor  lontana 
Sta  P  Intelletto  del  gran  Dio  rinchiuso  , 
Che  tutte  avanza  de'  possibi-1  Enti , 
E  de' passati,,  accolte  insieme  Le  meati* 


DUODECIMO.       *7s 

XXX. 

Altro  Intelletto  ,  ed  altro  Spirto  è  quello 
Che  de  gli  Uomin  lo  spirto  ,    o  de  gli  Dei  ; 
So/o  una  stilla  il  Mondo  di  cervello 
Riempie }  e  forma  a  mille  i  Semidei  . 
Stan  sotto  inscritti  in  aureo  ampio  cartello 
Ben  più  di  cinque  amori,  e  più  di  sei; 
Tanto  senno  però  chiuso  in  quei  loco, 
Per  la  mente  di  Giove  è  nulla,  o  poco. 
XXXI. 

A* vvi  chi  perse  il  core,  e  non  il  senno. 
Vuol  dir  che  Amor  non  gèi  passò  la  pelle, 
O  ver  ch'ogni  sua  brama,  ogni  suo  cenno 
Voller  propizie  favorir  le  stelle  . 
Perchè  gli  amanti,  che  aggirarsi  denno 
Fra  nembi  sempre,  e  folgori  ,  e  procelle  > 
Qual  di  Nettuno  sul  turbato  Regno  , 
Veggion  perir  la  Nave  de  V  ingegno  . 
XXXII. 

Mhaculum  sta  scritto  a  chiare  note 
Su' pochi  nomi  de' felici  amanti, 
Poiché  raro  in  amor  trovar  si  puote 
Felicità  fra  tanti  mali,  e  tanti. 
Ma  tutte  or  sono  ad  Isabella  ignote 
Le  pene  acerbe  ,  che  sofferse  avanti . 
Sotto  ad  un a cor  scritto  ella  vede  Vlìsse . 
Chi  è  costui?  Volta  a  Ciprigna  ,  disse, 
XXXIII. 

Ahi  !  Donzella  e rude I,  quel  caro  nóme 
Dunque  più  non  conosci  ?  li  dolce  oggetto 
Del  pianto  tuo,  di  mille  voti,  e  come 
Potesti  mai  sbandir  cosi  dal  petto? 
Quel,  che  già  ti  facea  sveller  le  chiome, 
Vegliar  le  notti  in  isconvolto  letto, 
Solo  in  pensar  che  a  lui  potrìa  la  vita 
JNc' cimenti  di  Marte  esser  rapita  : 

M  5 


274         C    A    N     r    0 

XXXIV. 

Ulisse,  a  cui  serbasti  intatta  tede,    < 
Qual  Peneìope  a  l^altro  Ulisse  Argivo, 
Quello,  in  traccia  di  cui  movesti  il  piede 
Per  balze,  e  selve,  o  morto  fosse,  o  vivo; 
Quel,  che  giurasti  ove  Nettuno  siede 
Seguir,  credendol  già  di  vita  privo, 
Obblìasti  cosi?  Dunque  può  tanto 
Del  liquor,  che  bevesti  ,  il  forte  incanto? 
XXXV. 

Oh!  quanto  saggio  fu  chi  Amor  dipinse 
Sotto  l'aspetto  di  fanciul  co  l'#ale,  t     ' 
Che  non  distingue  mai ,  né  mai  distinse 
La  ragion  dal  capriccio  ,  il  ben  dal  male? 
Che  scioglie  a  un  tratto  quei,che  prima  avvinse, 
Ed  avvince  chi  sciolse,  in  modo  eguale; 
Che  mentre  lieve  in  ogni  parte  vola, 
Dove  a  questo  si  mostra ,  a  quei  s'invola  . 
XXXVI. 

Fu  d'Isabella  il  nome,  e  il  cor  vicino- 
Ai  cor  dr  Ulisse  per  molf  anni,  e  moki, 
Né  fu  disgiunto  un  solo  istante,  infino  _ 
Che  a  quei  Pianeta  ebb'ella  i  piè^  rivolti  . 
Ma  quando  bevve  quel  possente  vino  , 
Onde  i  lacci  primier  sono  discioiti, 
Cangiò  loco  il  suo  core,  e  nuovo  affetto 
Lo  strinse  al  cor  d'ignoto  Giovinetto. 
XXXVII. 

Oton  qui  ritrovar  non  si  credea 
Entro  un  ampolla  il  gran  cervel  d'Orlando, 
Poiché  nel  Giobo  de  la  casta  Dea 
Eran  queste  cervella  ite,  volando  , 
Come  un  Italo  Omero  aver  sapea 
iu  1' Eridàn  narratoci)  di,  cantando. 
Ma  il  cervello  fuggi,  seguendo  il  core, 
Nel  Pianeta  di  Venere,  e  d'Amore. 


DUODECIMO.        275 

XXXVIII. 

Da  la  prìgion  de*  Numi  ,*  e  de'  Mortali 
Uscite,  o  voi ,  che  il  mio  Pcnsier  seguite, 
E  rivediam  dì  Zeffiro  su  l'ali 
Quelle  sacre  al  Piacer  terre  fiorite, 
Ove  ministri  a  Voluttà  gli  strali 
D'Amor  ne  l'alme  fan  dolci  ferite, 
ti'  fredda  Felosia ,  cui  tutto  incresce., 
A  tai  dolcezze  il  tosco  suo  non  mesce  . 
XXXIX. 

Qual  penna,  o  lingua  è  di  ritrar  capace 
Tutto  al  Pensiero,  ese  non   tutto,  in  parte, 
Quell'ignoto  a' Mortai  quadro  vivace 
Di  celesti  delizie  ovunque  sparte? 
In  questo  d'ogni  ben  suolo"  ferace 
Par  che  rivali  sien  Natura,  ed  Arte  ; 
E  ben  si  convenia  che  fosse  adorno 
Più  ch'altro  mai,  di  Venere  il  soggiorno, 
XL. 

La  ridente  stagione  ,  in  cui  frondeggia 
L'arbore,  e '1  suol  di  mille  fiori  è  pinto, 
In  cui  con  dolce  susurrar  serpeggia 
Il  ruscelletto  da  profumi  cinto, 
Mentre  sul  margin  l'Usignuol  gorgheggia, 
E  H  raggio  mattutin  da  r  onde  è  spinto  ; 
Ogni  piacer,  che  in  Terra  P  Uom  trastulla, 
A  paragon  di  que' diletti  è  nulla  . 
XLI. 

Ad  altro  loco  io  mi  rivolgo  intanto, 
In  Vener  poscia  converrà  ch'io  torni. 
Se  con  Otonc  ò  soggiornato  alquanto, * 
Col  vecchio  Mago  é  forza  or  che  soggiorni. 
Col  vecchio  Mago,  il  cui  possente  incanto 
Ad  Oton  fé'  passar  sì  lieti  giorni, 
Poiché  a  dura  prigion  prima  il  sottrasse, 
Poi  sul  Destriero  a  que  contenti  il  trasse. 

M  6 


*i*  CANTO 

XLir. 

Quel  VeccMo  adorator  di  Maometto , 
E  di  Plutone,  €  de  le  Furie  amico, 
Serve  a  Macoa ,  ma  per  lo  vino  schietto 
Talor  divien  de  i*Alcoraa  nemico  . 
Ei  di  Magìa  conoscitcr  perfetto, 
Prodigi  oprar  suol  per  costume  antico. 
Al  dubbio  lume  de  Pargentea  Luna 
La  Furie  iì  Mago  al  suon  de'  carmi  aduna  >• 
XLIIL 
Ove  il  tacente  orror  di  forte  piante 
Offre  ricetto  a  l'Ombre,  ed  a  la  Notte  r 
Al  noto- mormorar  del  Negromante 
Corsero  in  folla  di  Demon  le  frotte . 
V'era  Maligno,  ed  Uomini-tentante, 
Misteov  Fallace,  Iniquo,  e  Scaglia-botte^ 
Seduttor  ,  Malaguida  ,  e  Maladett» 
Con*  Megera  ,  Tcsifone,  ed  Aletta, 
XLIV. 
Son  questi  i  sommi  Capitani,  i  Duci  2 
I  potenti  d'  Averno ,  e  gli  Ottimati, 
Che  in  Terra  fur  di  scellerate  ,  e  truci' 
Opre  gli  autori  da  Pluton  pregiati. 
Quaf  bragia  ardenti  anno  costor  le  luci  r 
h  spargon-  sempre  acuti  fischi  ingrati. 
Eza  lor  s'avanza  il  Dio  de  l'Ombre  stesso: 
Invidia,  ed  Ira  al  Soglio  suo.  stan  presso. 
XLV. 
Al  Soglio  ,  in  cui  superbamente  assiso» 
Da  la  Reggia  infernal  Piuto  comparve 
Sa  l'omer  de  le  Furie  ,  e  tutto  intriso 
Di  nero  sangue  ,  e  d'Angui  cinto  apparve  ► 
Cinzia  fra  nubi  ascose  il  bianco  vis© 
A  1'  apparir  de  le  Tartaree  larve,. 
E  il  fiero  Fiuto  ,  vomitando  foco, 
AUo  gridò  da  1'  eminente  loco . 


DUODECIMO,      iff 

XLVI. 

Potentissimo  Mago,  e  che  comandi 
Al-  Signor  de  gli  Abissi  ?  Alcun  Mortale      n 
Vuoi  che  piombi  a  P  Inferno  ?  O  ver  domane^ 
Altro-  del  braccia  mio  colpo  fatale  > 
Brami  che  in  Terra  miei  seguaci  io  mandi 
Contro  di  Cristo,  che  i  miei  Regni  assale  ? 
Libero  parla;  invido  sdegno  m'arse 
Fin  da  queldj,  cheil  Verbo  il  sangue  sparse* 
XLVII. 
Dunque  i  figli  d'Adamo,  impupa  creta:  y 
Colpevol  prole  di  colpevol  Padre, 
Ponno  aspirare  a  la  beante  meta 
Dopo  le  offese  più  perverse ,  e  ladre  > 
]E  la  carne  mart3l  superba  ,  e  lieta 
Vn  Dìo  racchiuse,  e  di  qael  £>io  la  Madre  t 
Mentre  Spirto  immortai,  Spirto  celeste 
Mei  pianto  geme,  e  fra  le  fiamme  infeste? 
XLVIII. 
Ak  !  che  fin  da  quel  di ,  iin  da^  quelP  ora  * 
CÌi'io,  lasso!  mai  di  maledir  non  cesso,    - 
In  cui  y  alta  Giustizia  (  avessi  allora 
Nel  mio-  Nulla  primiero  avuto  ingresso  !  ) 
Accese  il  fulmin  ,  che  dal  Cielo  fuora 
Per   sutta ,  oimè  !   l'Eternità   m\à   messo  y 
L'  alm«  trarre  a   penar  fu  il   piacer  mio  , 
Odiar  me  st^esso>  e  bestemmiar  Iddio. 
XLIX. 
•Sì  disse  l'empio  ,  che  l'umana  razza 
Ne  la  prisca  macchiò  sede  gradita . 
Non  mugge  si  feroce  Tauro  in  piazza  , 
Né  Lupo  urla,  che  fame  a  prede  invitai 
Né  sì  rugge   Leon ,  né  si  schiamazza 
Per  risse,  od  altro,  molta  gente  unita  , 
Qual  mugge    il   Mostro,  urla,  schiamazza-* 
£  foco  >  e  fumo  da  la  bocca  fugge  .   U  ru^gc  * 


a78         C    A    N    T   O 

L. 
Tace  Plutone  alfin ,  mentre  la  voce 
Con  magica  possanza^  il  Vecchio  innalza  , 
Così  tace  talor  Mastin  feroce, 
Se  col  flagello  il  suo  Signor  P  incalza , 
Mastin  ,  che  ancor  tacendo,  il  guardo  atroce 
Volge.,  e  alcun  grido  mal  represso  balza  , 
Digrigna  i  denti,  si  dibatte,  e  freme 
Sotto  quel  braccio  punitor,  che  teme, 
LL 
Calma,  il  Mago. gridò,  Spirto  infelice* 
Il  rio  livor,  che  più  ti  fa  perverso. 
Opra  non  chieggo  di  tua  destra  ultrice, 
Centra  Pluton  Plutone  io  vo'  converso. 
Al  mal  tu  inclini  ;  il  mal  ben  ti  s'addice, 
E  perchè  il  mal  ti  piace,  il  ben  t' è  avverso < 
Ma  buona  or  da  te  voglio,  ed  util  opra; 
Tu  senza  indugio  ad  eseguir  t'adopra  * 
LIL 
Come,  se  awien  che  dal  nemico  a  terra 
Un  forte  Cavalier  gittato  sia, 
Rabbia,  e  rossor  fanno  ai  suo  cor  tal  guerra 
Che  spento  a  un  tratto  ei  di  cader  desia  ; 
Pluton  cosi  tant'ira  in  sé  rinserra 
Che  doppio    Inferno  egli  soffrir  vorrla . 
Scaglian  tutti  i  Demon  bestemmie  felle 
Al  Rettor  de'  Pianeti ,  e  de  le  Stelle. 
LUI, 
Rizzossi  il  Mago  ,  indi  con  bieco  ciglio 
Che  Q^fnun  tacesse  fé' col  dito  cenno. 
Molto, . disse  ,  di  voi  mi  meraviglio  ; 
Questo  è  l'ossequio ,  che  i  Demon  mi  denno? 
Non  per  udir  vostro  infernal  bisbiglio 
Magiche  voci  qui  venir  vi  fenno. 
Ma  perchè  ognun  si  taccia,  ognun  riservi 
Questi  al  Regno  d'orror  detti  protervi  . 


DUODECIMO,       179 

LIV. 

Pluto,  de' tuoi  seguaci  alcun  si  chiami  ; 
Poggi  costui  fino  a  Ja  terza  sfera. 
E  Isabella,  ed  Oton  quaggiù  richiami 
Da  quel  Pianeta,  ove  Ciprigna  impera. 
Mal  si  convien  che  Ulisse  più  non  ami 
Costei,  che  a  lui  serbava  alma  sincera, 
E  ne  l'onda  d'Obblio  sua  fiamma  à  spenta, 
Né  di  si  fido  amante  or  si  rammenta. 
LV. 

Sì  disse  il  Mago;  ei  damok'  anni  Ulisse, 
E  per  veduta ,  e  conoscea  per  fama  . 
Sapea  che  al  suo  naufragio  sopravvisse  , 
Perciò  Isabella  in  Terra  egli  richiama  . 
Come  già  dissi,  a  lui  le  Stelle  fisse 
Tutto  discopron  ciò  ch'ei  saper  brama  ; 
Vuol  perciò  che  ad  Ulisse  ella  ritorni, 
E  insieme  alfin  passin  felici  i  giorni, 
LVL 

Allor  Plutone  co  la  nera  mano, 
Oorn'  uom  ,  che^  pensi  ,  U  volto  si  coperse  , 
E  in  atto  poscia  minaccioso  ,  e  strano 
Le  ciglia  spalancò  di  sangue  asperse* 
Uno  Spirto  chiamò,  che  in  volto  umano 
Sovente^  al  guardo  de' Mortai  s'offerse, 
Destro  in  mentir  sembiante  ,  e  voce  ,  e  chiome 
Di  tutti  quelli,  ond'egli  prende  il  nome. 
\  LVII. 

E)i  Pluto  i  cenni  rispettoso ,  e  zitto 
Udì  lo  Spirto,  e  dar  promise  effetto. 
Poscia  in  Arabe  cifre  un  foglio  scritto 
Ebbe  dal  Mago,  al  gran  Destrier  diretto. 
Più  veloce  che  folgore ,  tragitto 
Coluifà  dove  l'Ombre  anno  ricetto. 
Ivi  di  Pluto  la  celata  prende, 
Che  posta  in  capo,  non  visibil  rende. 


ito        CANTO 
LVilI. 

A  la  Corte  infcrnal  commiato  diede* 
lì  Mago  aliar,  così  dicendo  a  Pluto  : 
Altro  or  non  vo*,  ritorna  a  la  tua  sede 
Senza  romor  col  Popol  tuo  cornuto . 
Quello  stuolo  infernal  tacito  riede 
Al.  soggiorno  di  duolo,  onde  è  venuto;. 
-Così  de'Calabron  le  turbe  spesse 
Volan  seguaci  a  biondeggiaste  messe  . 
LIX. 
Lasciamo  star  ne  le  sue  grotte  PiutO, 
Lasciamo  star  ne  la  sua  celia  il  Mago, 
Perch'io  son  di  seguir  lo  Spirto  astuto , 
Chea  Vener  dee  sai  ir,  bramoso,  e  vago; 
E  di  saper  come  a  colui  potuto 
Fare  il  desh  del  'Negromante  pago  ; 
Vo'sue  traccie  spiar  fin  eh' io  discopra 
Com'ei  compiè  questa  dilScil  apra. 
LX. 
Surge  là  ne  1*  Arabia ,  che  Telici 
Per  voée  popolar  nomata  venne  * 
Un  Monte  ;  di  salirvi-a  pochi  lice, 
Ma  a  chi  vi  salse,  pria  sudar  convenne , 
Certo  a  quella  sublime  ardua  pendice 
Il  Gigante  Tifèo  mai  non  pervenne  , 
Che  meno  aspersa  di  sudor  la  fronte 
Accumulando  avria  Monte  su  Mente  * 
LXI. 
Avvi  sorgente  cristallina,  e  pura 
Sovra  l'eccelsa  vetta,  e  tal  virtùde 
(  Sia  lavoro  de  l'arte,  o  di  Natura  ) 
Quell'umor  prodigioso  in  sé  rinchiude  ^ 
Che  lungo  volger  mai  <?  Età  futura 
Le  antiche  idee  da  1]  intelletto  esclude j 
E  al  Pensier  di  colui,  che  un  dì  v' attinse > 
V  avido  Obblio  giammai  la  destra  spinse. 


DUODÈCIMO,       afri 

LX1I. 
poggiar  sì  alto  è  ben  diffidi  cosa, 
jC  il  difficile  sempre  a  pochi. piacque  .-. 
Una  Torre  superba,  e  minacciosa 
5* innalza,  e  sembra  custodir  quell'acque'. 
Fatica  è  quivi,  che  giammai  riposa, 
E  Sciini*  ,  che  spesso  al  Vulgo  spiacque. 
Non  beve  alcun  ,  se  queste  non  invoca  , 
E  de  gl'invocator  la  torma  è  poca* 
LXIII. 
Altri  non  è,  benché  le  invochi  ,  udita , 
Sì  che  mentre  ottener  si  crede  aita , 
Talora  ,  avendo  ogni  vìfor  smarrito* 
Trabocca  nel  più  bel  de  la  salita  ; 
E  chi  non  le  invocò,  sempre  punita 
Dal  braccio  lor  fu  ne  1'  Impresa  ardita* 
Dive  son  queste  dispietate,  e  sorde  , 
•E  di  no  velie  ognor  vittime,  Ingorde. 
LXIV. 
Ma  quello  Spirto  messaggier  non  sufa , 
Perch'esso  à  Tale,  e  son  sì  forti  quelle 
Che  fra  nubi  il  sentier  fan  eh'  ei  si  schiuda  , 
E  saprebbe  arrivar  fino  a  le  Stelle. 
Ei  non  vi  giunge  co  la  fronte  ignuda , 
E  a  l'austere  s'asconde  aspre  Sorelle, 
Si  ricopre  ro  l'elmo,  e  1'  ali  pronte 
Rivolge  tosto  al  desiato  fonte. 
LXV. 
Sempre  invisibil  fu  perfrn  ch'ei  cinse* 
La  possente  celata  di  Plutone. 
Quella  mirabil  onda  a  ber  s'  accinse, 
Quanta  ber  ne  potrìan-  dieci  persone. 
Di  Pluto  il  cenno,  or  che  a  quel  fonte  attinse, 
Nel  suo  Pensier  salde  radici  pone . 
Poscia  l'elmo  ei  depose,  e  di  Guerriero 
L'aspetto  prese,  e'i  portamento  alcero. 


ì8z         CANTO 

LXVI. 

Chi  fia  ,  che  l'alta  meraviglia  esprima 
Di  quella  coppia  ,  che  vegliar  custode 
Sempre  solca  Su  fa  scoscesa  cima  , 
Ai  mirar  quel  Guerriero  ignoto,  e  prode? 
Sc'ten\a  in  van  l'ingegno  aguzza  ,  e  lima  ? 
Suda  Faticò ,  onde  scoprir  la  frode . 
Costei  s'avan2a,  e  a  lui  chiede  inquieta 
Com'  ei  pervenne  a  sì  diffidi  meta . 
LXVII, 
Uomo  al  Mondo  non  v'à,  eficea  Fatici  * 
O  in  vecchia  Etàde,  o  ne  l'Età  novella, 
Che  a  questa  fonte  de  1'  Obblìo  nemica  , 
De  l'Obblìo  ,che  il  Marcai  cruccia,  e  martella  ? 
Sia  giunto  mai  senza  mia  mano  amica , 
E  il  favor  di  costei ,  che  m' è  Sorella  ; 
Cotanto  è  [l  Monte  dirupato,  ed  erto, 
Che  non  vi  sai  chi  non  à  penne,  al  certo, 
LXVHI. 
Perciò,  Signor,  non  sei  tu  qui  salito, 
Senza  di  noi  non  vi  sarrebbe  Giove  ; 
Ma  da  Spirto  inferna]  fosti  servito  , 
Aeree  vie  premendo  ignote,  e  nuove. 
Molto  dunque  sei  tu  ciotto,  e  perito 
Di#  magic'arte  in  istupende  pruove  , 
Poiché  nascoso  non  saresti  sceso  , 
S' anco  invisibil  non  ti  fossi  reso. 
LXIX. 
Tu  t'apponesti,  disse  il  Cavaliere  ,. 
Cioè  lo  Spirto,  e  a  mio  piacer  quest'onde 
Co  l'elmo  volli  inosservato  bere, 
L'elmo, che  al  guardo  altrui  le  membra  asconde. 
E  tal  prodigio  io  vi  farò  vedere  , 
Poiché  sempre  a' miei  detti  H  ver   risponde. 
L'elmo  in  capoei  rimise,  e  in  un  sol  punto 
Ciò  che  detto  egli  avea ,  successe  appunto. 


DUODECIMO.       **j 

LXX. 

Perchè  in  un  tratto  aT  guardo  Iordisparre",, 
E  ricomparve  poi,  discinto  I'  elmo  . 
Grave  l'oltraggio  a  le  Custodi  parve  . 
Come?(  diceano  ,  e  noi  soffrir  dovrelmo? 
Senza  invocarci  quest'audace  apparve 
A  noi  dinanzi  ,  né  punir  potrefmo  ? 
E  si  dirà  ch'egli  è  quassù  venuto 
Impunemente  senza  il  nostro  a juto  ? 
LXXI. 

Ma  poi,  volte  alGuerrier,  Mortai  non  seìr 
Disser  ,  benché  tu  vesta  il  mortai  velo. 
O  sei  Spirto  d' A verno  ,  o  fra  gli  Del 
Alberghi  tu  ne  Io  stellato  Cielo  r- 
Pentite  slam  de'' folti  accenti,  e  rei, 
GEe  ci  svelse  «fel  ItaEl&ro  ma  falso  zelov 
Lo  Spirto  esulta ,  e  si  trastolla  ,  e  pasce 
Del  loro  orgoglio,  onde  la  rabbia  nasce  » 
LXXIL 

Co' detti  suoi  di  fomentar  Io  sdegno 
Gode  Io  Spirto,  e  in  avvilirle  esulta. 

10  qui  non  venni  dal  celeste  Regno  , 
Disse,  né  donde  Pjuto  il  Cielo  insulta. 
Orlando  io  son  ;  di  tanta  gloria  degno 
Magia  mi  fé,  da  me  onorata  ,  e  eulta  . 
Benché  mortai ,  qui  salsi  ,  e  senza  piume  ; 
A  che  qui  ne  verrei  ,  s'  io  fossi  un  Nume? 

LXXIII. 
De  T  Inferno  ,  o  del  Ciel  Nume  non  dee 
Quest'  onda  ricercar,  d' obblio  nemica, 
Poiché  di  salde,  ognor  vivaci  idee 

11  Pensiero  de' Numi  si  nutrica. 

E  s'una  io  fossi  di  quell'Ombre  ree  ,# 
Che  a  Pluto  servon  per  condanna  antica, 
Non  avrei  di  Gucrricr  l'aspetto  preso. 
Senza  il  vostro  soccorso  io  sono  asceso. 


a84         CANTO 

LXXIV. 

Ambe  Je  mani  si  mordean  di  rabbia  * 
£  Scienza  ,  e  Fatica  ;  il  tergo  ci  volge , 
Le  penne  spiega,  e  le  cruente  labbia 
Piglia  d'Erinni,  e'1  crin  di  Serpi  avvoige  * 
Come  Leon  ne  1'  Affrieaaa  sabbia, 
Feroce  à  il  guardo,  e  a  Vener  si  rivolge. 
Di  Pluto  il  copre  la  celata  forte  , 
E  giunge  ascoso  a  le  Veneree  porte. 
LXXV. 

Non  visto  vide ,  e  non  sentito  udio  , 
Vide  ,  e  sentì  le  più  leggiadre  cose. 
Ai  Dio  de  gli  orti»  e  del  gran  Tirso  al  Dk> 
Molte  innalzarsi  udì  voci  festose. 
Vide  sul  margin  di  scorrente  rio 
Isabella  seder  cinta  di  roie  , 
Che  fra  gli  amanti  Giovani  gagliardi 
Spargea  carezze y  e  lusinghieri  sguardi. 
LXXVI. 

Come  a  comune  amica  errano  intorno 
Da  libidine  mossi  i  Cani  ardenti, 
Che  vorrebb®n  cozzar,  ma  il  loro  corno 
Par  che  l'amata  d' incontrar^ paventi  ; 
Nel  piaeevol  così  dolce  soggiorno 
De  le  Grazie,  del  Riso,  e  de' contenti  , 
I  Giovinotti  fean  co  la  vezzosa 
Isabella ,  «he  ad  arte  era  ritrosa  . 
LXXVII. 

V'è  chi  si  prostra  a'  pie  de  la  Donzella  , 
V*  è  chi  più  destro,  in  implorar  pietàde 
Bacia  di  furto  quella  faccia  bella  , 
Che  sdegnosctta  simula  oncstàde  . 
Chi  mira  il  sen ,  chi  innalza  la  gonnella, 
Esplorando  d'Amor  1'  occulte  strade  . 
Con  finto  sdegno  ella  talor  s'adira, 
Perchè  il  piacer  condito  sia  da  l'ira* 


DUODECIMO.        ì$f 

LXXVIII. 

Il  messaggiero  Spirto  iti  un  giardino 
Oton  giacersi  mollemente,  vide. 
D'ostro  il  ricopre  un  manto  pellegrino, 
E  l'auro  intesto  l'ostro  orna,  e  divide. 
Fra  la  rosa  vivace  ,  e  il  gelsomino 
In  cespuglio  odoroso  egli  s'asside, 
E  a  l'ombra  fresca  di  palme,  e  mortelle, 
Langue  fra  vaghe  Ninfe  in  ozio  imbelle. 
LXXIX. 

A  tal  vista  lo  Spirto  si  rallegra, 
E  questa  gente  ,  che  non  mai  tralascia 
A  Voluttà  d'offrir  sua  vita  integra, 
Spera  ci  veder  ne  l'infernale  ambascia. 
Qual  pesce  incauto,  c'ebil  turba,  ed  egra, 
A  1'  amo  del  Piacer  prender  si  lascia , 
E  mentre  spera  esser  felice  appieno, 
È  '1  farmaco  trovar  ,  trova  il  veleno. 
LXXX. 

Colui  s'accinge  in  quel# giocondo  suolo 
Ad  eseguir  Ja  comandata  impresa. 
Lungi  scn  va  dal  folleggiarne  stuolo, 
Da  1   ebbra  turba  ,  a  feste  ,  a  danze  intesa  * 
Di  Piuto  allora  ,  inosservato ,  e  solo, 
La  celata  depon,  che  assai  gli  pesa; 
E  tutto  de  l'umor,  che  avea  bevuto, 
Come  non  so,  da  lui  fu  l'elmo  empiuto ,' 
LXXXI. 

Né  quel  liquor  sua  naturai  virtùde 
Funto  perduto  avea,  né  sua  purezza  . 
bì  mjrabil  possanza  esso  rinchiude 
Che  di  Ciprigna  le  catene  spezza. 
Ma  dove  son  quelle  feroci,  e  crude 
Luci,  e  la  chioma  a  vibrar  serpi    avvezza? 
Oh!  prodigio  novello  al  guardo  nostro! 
Un  leggiadro  Ganson  si  fé  quel  Mostro. 


zU         C     ANTO 

LXXXIL 

Oh  !  bel  veder  Furia  deforme  ,  atroce  , 
fn  gentil  Giovanetto  allor  cangiarsi, 
Soave  divenir  volto  feroce  ,# 
Membra  sì  nere  pria ,  candide  farsi  ! 
Mutansiin  grata,  dilettosa  voce 
Gli  acuti  fischi  pria  dal  Mostro  sparsi; 
Spariscon  l'ale  ,  ed  in  mirabii  forma 
Vipereo  stuolo  in  chioma  si  trasforma  • 
LXXXIII. 

Quella  boccaccia  d'atri  denti  onusta  ; 
Che  di  neri  carbon  sede  parea  , 
Or  bocca  è  fatta  sonidente,  angusta  , 
Sembra  il  dente  emular  perla  Eritrèa, 
Quella  guancia  spolpata  ,  e  scarna  ,  e  adusta, 
Or  di  gigli,  e  di  rose  offre  1'  idea; 
Odor  gradito,  che  esalar  si  sente, 
Succede  al  puzzo,  a  l'alito  fetente  * 
LXXXIV, 

Così  la  bella  Figlia  diPenèo, 
Che  serbar  seppe  il  verginei  decoro  , 
Quando  fuggir  1'  insidie  non  potco  , 
Cangiata  venne  in  sempre  verde  alloro  ; 
Il  dorso,  il  capo,  il  scn  tronco  si  £èo , 
Si  fé  rigido  ramo  il  bei  crin  d'oro, 
Sotto  ruvida  scorza  (  oh!  strano  insulto!  ) 
Fu  il  breve  piede  ,  il  liscio  braccio  occulto* 
LXXXV. 
Ma  stupir  non  degg' io  di  tal  prodigio, 
Che  non  diverso  in  te  prodigio  avvenne , ^ 
Donna  cruda  ,  e  vezzosa  ;  un  Mostro  stigio 
Al  tuo  volto  gentil  drizzò  le  penne, 
E  con  fallace  lusinghier  prestigio 
Oggetto  sol  de' voti  mici  divenne  , 
Ei  da'  begli  occhi  tuoi  non  si  diparte  , 
jEi  t'insegnò  di  tormentarmi  l'arte» 


DUODECIMO  .       *?} 

LXXXVI. 

Qual  Pastorel ,  che  Ja  vivace  rosa 
Dei  suo  color  superba  ,  incauto  svelle, 
£  mentre  il  dito  fra  le  spine  egli  osa 
Frettoloso  innoltrar,  punto  è  da  quelle  ; 
Di  tanta  ignaro  feritàde  ascosa 
Sotto  sembianze  lusinghiere  ,  e  belle  , 
Dal  vago  arbusto,  che  spinoso  è  tutto, 
J'erito  io  fui,  ne  colsi  ancora  il  frutto, 

lxxxvii. 

La  Musa  mia,  che  mi  richiama    indietro, 
Dice  che  sparse  son  mie  rime  al  vento. 
Saper  se  il  Cielo  è  a  me  sereno  ,  o  tetro  , 
Non  apporta  ad  alcun  gioja ,  o  tormento. 
Già  questi ,  e  quegli  del  mio  lungo  metro  , 
Che  a  lui  noja  recò,  non  è  contento; 
¥.d  a  Cicala  emulo  io  son ,  che  mentre 
Vuol  loquace  cantar,  si  fende  il  ventre. 


JPi/ìf  del  Canto  HuocUeimo, 


*S3 

LA     MORTE 

D'  ORLANDO 


CAUTO  DECIMO  TERZO  , 


ARGOMENTO, 

Ferra  in  ta%\a  il  liquor ,  non  saprei  come % 
Il  Messo  ,  ed  Isabella  a  bere  invita  , 
"Di  bel  Garden  fingendo  aspetto  ,  e  nome  > 
"Desta  il  liquor  la  fiamma  in  lei  sopita . 
I{eca   il  foglio  al  Destrier  ;  sembiante, e  chiome 
Di  Ferraà  4  sgridando  Otoney   imita  . 
Ambo  in  Terra  il  Destrier  co  P  ali  pronte 
Porta  y  in  un  Bosco  /' un s    P  altra  su  Monte* 

X^Ion  avvi  nebbia  tanto  opaca,  e  densa »* 
Ne  cosi  tenebrosa ,  e  fosca  notte  , 
Né  fumo  ,  aiior  che  sì  solleva  ,  e  addensa 
Su  mojte  pietre  entro  a  fornace  cotte, 
Che  vinca  mai  d'  Amor  Ja  forza  immensa 
Pici  render  cieche  anco  le  genti  dotte, 
Sì  che  il  Mortai  non  veggia  più  lontano 
D'un  volto  bello,  e  d'una  bella  mano. 


CANTO  DEC.  TERZO.    z29 

IL 

Talor  si  vede  un  Cittadino  illustre, 
I  cui  saggi  consigli  ognuno  apprezza, 
Che  incorrotto,  facondo  ,  e  cauto,  eindustre,, 
Sempre  sudò  per  la  comun  salvezza  , 
Sotto  il  poter  d'una  Beltà  trilustre 
Cieco  languir  ,  che  lo  deride,  e  sprezza  , 
E  ridicol  seguace  a  Citerea, 
Fuggire  il  culto  de  la  grave  Astrèa  . 
III. 

Talora  onusto  di  trionfi ,  e  palme, 
Andar  si  vede  un  Guerrier  prode,  invitto; 
Par  che  tutte  in  lui  sol  risurgan  l'alme 
De' sommi  Duci,  onde  Clio  tanto  a  scrittoi 
Al  suon  de'  viva,  al  batter  de  le  palme 
'Quante  volte  ei  tornò  dopo  il  conflitto! 
Se  d'Amor  punge  sue  pupille  un  dardo, 
A  pugne,  a  palme  ei  più  non  volge  il  guardo» 
IV. 

Duo,  che  d'incensi  fin  da'  lor  prim'anni 
Fatto  avean  d' Amistà  fumare  il  Terfrpio, 
Che  divider  solean  piaceri,  affanni, 
Eran  d'affetto,  eran  di  fede  esempio; 
Se  Gelosia  co'  suoi  funesti  inganni , 
Figlia  d'Amor,  la  di  lor  alme  scempio, 
Più  non  curan  la  pace,  e  la  concordia, 
E  implacabil  li  rode  ira,  e  discordia. 
V. 

Quante  vi  furo  virtuose  Donne, 
Cheil  core  aveanodi^  macigno  ,  o  smalto, 
Forti  ,  invitte,  saldissime  colonne, 
Torri,  che  rispingean  qualunque  assalto; 
E  giunser  poscia  a  sollevar  le  gonne  , 
Dal  CieJ  facendo  ne  1'  Abisso  un  salto  , 
Perchè  il  Dio  feritor  ,  che  alfin  le  accese 
Di  fervido  amator,  cieche  le  rese! 

N 


*9°         CANTO 

VI. 

Con  molto  senno  fu  dipinto  Amore 
Da  gli  antichi  Pittor  di  vista  casso, 
Acciò  chi  diede  a  questo  Nume  il  core  % 
Sappia  che  ai  mal  volgerà  cieco  il  passo, 
Più  di  gloria  non  cai ,  né  di  valore  , 
Al  Turco  Oton,sol  pensa  a  darsi  spasso; 
F.d  Isabella  ne' piaceri  immersa, 
Quanto  sé  stessa  obblìa  ,  quanto  e  diversa! 
VII. 

Ma  poco  andrà  che  dà  l'indegno  sonno 
Ella  fia  destare  scoprirà  1'  inganno  • 
Qualar  di  «è  fia  l'Intelletto  donno, 
Dopo  il  diletto  sentirà  1'  affanno. 
L'acque,  che  contra  Obblio  cotanto  ponno'» 
Di  terso  vetro  ora  in  bicchier  si  stanno. 
Versolle  quivi  il  messaggiero  astuto 
Da  la  celata  del  tremendo  Pìuto. 
Vili. 

Del^ Giovinetto,  ondMsabella  arefea» 
Costui  le  vesti,  e  la  sembianza  assume  , 
Di  quello,  che  danzar  conCiterea 
Vid'ella,  e  punta  fu  dal  picciol  Nume. 
Ma  il  Giovin  per  Ciprigna  arde,  e  la  Dea, 
Siccome  il  Sol  vince  de  gli  Astri  il  lume, 
Vince,  ed  oscura  ogni  Beltade  egregia, 
Sì  che  l'amante  suo  tutte  dispregia  . 
IX, 

Supplice  innanzi  a  quel  Garzon  più  d'ima 
Ninfa  prostrossi  ad  implorar  mercede, 
Ed  *  quel!'  alma  di  pietà  digiuna 
Pictade  in  vano  anco  Isabella  chiede  . 
£i,  che  non  puote  amar  Femmina  alcuna, 
Fugge,  Qual  Cervo  allor  che  i  Cani  vede. 
Di"  questo  Giovin  la  beltà  gradita 
li  Mcssafgier,  non  la  ferocia,  imita. 


DECIMO   TERZO.     201 

X. 

O  voi,  rivali  sventurati  amatiti, 
Che  di  Ninfa  tiranna  al  pie  languite, ■ 
Quei ,  che  spargete  in  yan  ,  sospiri ,  e  pianti , 
Qi^elle  fervide  ,  e  mai  preghiere  udite  , 
Qual  lieto  fine  avrian ,  se  a  voi  davanti 
La  Ninfa,  oggetto  di  contrasto,  e  lite. 
Pietosa  ,  in  dolci  ,  e  lusinghieri  accenti  , 
D'Amor  v'offrisse  i  teneri  contenti! 

XI. 
Voi  quel  Giovin  felice  invidiate  , 
Ed  il  suo  rifiutar  vi  move  ad  ira  ; 
Opra  degna  vi  par  de  P  alme  ingrate 
Negar  pietàde  a  Donna  ,  che  sospira, 
Poiché  fra  i  bruti  ancor  femmine  amate 
Il  maschio  fuggon ,  che  d'amor  delira  , 
Ma  non  fu  il  maschio  mai  tardo,  «ritroso, 
il  dover  sacri  a  soddisfar  di  Sposo  . 

XII. 
Venne  il  Messo  infcrnal  sotto  sì  bella 
Sembianza,  e  col  bicchier  d'acqua  ricolmo  , 
L'abbraccia  a-Hor  la  cupida  Isabella, 
Come  flessibile  vite  abbraccia  l'olmo. 
£l!a  in  tal  guisa  al  Giovane  favella, 
Poiché  d'ardente  amore  il  petto  à  colmo  ; 
Ah!  sa  vedessi  il  mio  cocente  foco, 
Non  più  di  me  ti  piglieresti  gioco. 

XIII. 
Lassa!  nè'l  tuo  morir,  nè'I  tuo  periglio, 
(  Che  ciò  delitto  mi  parrebbe  ,  e  fora  ) 
Chieggio,  Signor  ^  né  che  quel  nero  ciglio 
Ver  me  propizio  sìa  rivolto  ognora  . 
Per  sembiante  mortai  di  Cipria  il  Figlio 
QuelP  alma  ,  il  so  ,  punger  non  seppe  ancora  ; 
Ma  sol  chieggio  ,  e  desio  cosa  gradita  , 
Che  a  te  non  costa  ,  e  me  ritorna  in  vita. 

N  a 


z*  CANTO 

XIV. 

Me  sì  brutta  io  mi  son  ,  né  tu  sì  fero 
Che  negar  vogli  un  amoroso  dono. 
Dono  per  te  sì  facile  ,  e  leggero , 
Ben  più  gradito  a  me  di  scettro  ,   o  Trono» 
Mirolla  il  finto  Giovinetto  altero  , 
E  le  disse  amoroso  :  Io  mi  ti  dono  , 
Né  avrai  tu  solo  il  minor  don  d'Amore, 
Ma  me  stesso  in  un  punto,  ed  il  mio  core» 
XV. 

Acciò  tu  sappi  £he  leggiadra  spoglia 
Unqua  celar  non  può  spirto  maligno  . 
Ken  egli  è  ver  che  3  l'amorosa  voglia 
Di  più  Ninfe  il  mio  cor  fu  di  macigno» 
Sola  fra  tutte  Citerea  m'  invoglia, 
E  mi  par  fra  Cornacchie  un  bianco  Cigno. 
Ma  chi  potrebbe  a  sì  verace  affetto , 
A  sì  dolce  pregar  chiudere  il  petto  ? 
XVI. 

Di  pietàde  I'  impulso  a  tanto  è  giunto 
Che  a  que-sto  cor  seppe  trovar  la  via. 
Per  Donna  Amor  col  primo  strai  m'à  punto* 
Amor  gioisce  de  la  fiamma  mia  ; 
Ed  il  piacer  di  Citerea  disgiunto 
Dal  filial  voler,  credo  ,  non  fia. 
I  materni  diletti  ,  i  dolci  ardori 
Colmeranno  del  Figlio  i  nostri  cori. 
XVIL 

Ma- se  a  te  place  con  eterno  laccio 
Anco  veder  l'anime  nostre  unite, 
Fin  che  disciolta  da  mortale  impaccio, 
L'una,  o  l'altra  discenda  in  grembo  a  Dite, 
Se  vuoi  che  il  nostro  ardor  non  tema  il  ghiaccio, 
Che  il  Tempo  sparger  suol  su  lunghe  vite, 
Aver  di  ciò  potrai  non  dubbia  speme  , 
Ss  in  cotesto  bicchier  beremo  insieme. 


DECIMO  TERZO,    293 

XVIII. 

Laggiuso  in  Terra  su  Montagna  aprica 
Scorre  quest'onda  prodigiosa,  e  pura. 
Il  caldo  affetto  chi  ne  bee  nutrica  , 
Né  cangia  fin  che  M»rte  al  Mondo  il  tura. 
Poco  de  le  Donzelle  è  l'onda  amica, 
Piace  ad  gssq  V  amor  ,  che  assai  non  dura, 
E'.lor  sembra  Cupido  un  Nume  stolto  , 
Se  non  cangia  talor  favella ,  e  volto. 
XIX. 

Dee  chi  quest'acqua  al  fonte  attigner  tenta, 
Nemici  superar  molti ,  e  diversi  . 
Pria  l' immonda  Lussuria  si  presenta  , 
E  mille  son  gli  assalti  suoi  perversi  ; 
Poi  1'  Incostanza  a  cangiar  sempre  intenta, 
La  Noja  poscia  ,  orribile  a  vedersi , 
li  Piacer  folle,  l'insensato  Obblìo, 
La  Gelosia,  Mostro  funesto, e  rio. 
.XX. 

Talvolta  Amore  i  suoi  dorati  strali 
V  intigne  allor  che  su  la  Terra  ei  scende, 
E  con  questo  liquor  piaghe  mortali 
Apre  ne  V  alme,  e  misere  le  rende  ; 
Poiché ,  vibrando  i  colpi  suoi  fatali , 
Raro  duo  cor  di  mutuo  foco  accende  ; 
Ne  l'Uom  soltanto  questa  fiamma  ardente, 
Che  mai  spegner  sì  può ,  sorge  sovente . 
XXL 

Prodigio  è  ben,  se  del  liquor  si  vede 
Asperso  strai ,  che  in  Femmine  discenda, 
Sì  che  vinca  non  sia  giurata  fede 
Da  nuovi  affetti  con  crudel  vicenda  . 
Pur  nel  volger  talor  d'  anni,  succede 
Che  illibata  d' Imen  la  face  splenda. 
L*  Itaco  suol  Penelope  ci  addita, 
Roma  Lucrezia  ,  che  sdegnò  ì*.  vita. 

N-  j 


*$4         C    ANTO 

xxir. 

Disse;  e  Isabella,  che  già  tutta- arde*. 
Di  fervido  desir  fin  nel  midollo, 
Più  d'ogn' altra  felice  esser  credea, 
Se  di( quell'onda  il  ventre  fea- satollo  ■. 
Al  Giovinetto,  che  il  bicchier  porgea -, 
Le  braccia  stese  ,  e  co  le  braccia  il  collo- ^ 
Acciò  tosto-- la-. bocca  avida,  e  ghiotta, 
Il  bramalo  liquor  tracanni  ,  inghiotta  ... 
XXIII. 

La  metà  ne  ingojò  ,  come  far  suole 
Un,  che  di  sete  abbia  la  gola  ardente. 
Non  d' Abramo  così  l'erra  rate  prole 
La  manna  divorò  dal  Giel  cadente. 
O.  tu»  che  a  guisa  di  ragg4ante  Sole, 
Che  d'atre  nubi  è  vincitor  possente , 
Diss'ella,  in  me  con  un  tuo  sguardo  sole 
Sapesti  il  nembo  dissipar  del  duolo; 
XXIV. 

Se  alf*n  render  mi  vuoi^  fede  per  fede , 
E  nodo  stringer,  che  a  discior  non- s'abbia  , 
Né  ceda  al  Tempo  mai ,  cui  tutto  cede  , 
Poni  ,  com'  io  ,  su  quel  bicchier  le  labbia  - 
Oh!  sventura!  V  amante  ella  non  vede  -,  . 
E  freme  in  vano  di  dolor,  di  rabbia  , 
Ne-  s'accorge  costei ,  che  un  Mostro  stigio 
Oprato  avea  quel  magico  prestigio, 
XXV. 

Fumo  così  ,  se  da  tizzone  ardente, 
O  da  materia  corabustibil  ,  sorge, 
Da  l'aria  spinto  con  soffiar  frequente  ,- 
Graditi  oggetti  ne  1' ascender  porge. 
Monti ,.  pianure  ,  ed  arbori  sovente 
Fra  que'  vortici  illuso  il  guardo  scorge; 
Ma  il  surgente  vapor,  che  si  dirada. 
Fa  che  la,  Scena  a,  dissiparsi  vada  u 


DECIMO  TERZO.     z9% 

XXVL 

Oh!  in  qua!  proruppe  flebili  querele 
La  sconsolata,  misera  Isabella! 
Per  la  smarrita  amica  sua  fedele 
Tanto  non  piagne  bianca  Tortorella  ; 
Né  ,  mentre  vede  il  cacciator  crudele 
Dal  nido  trar  la  proje  tenerella, 
Con  suo  dolente  variato  canto 
Filomela  gentil  g«eme  cotanto. 
XXVII. 
Ah!  spietato  Garzon  ,  così  deludi 
Chi  tutta  avvampa  d'amoroso  foco? 
Senti  ;  ove  fuggi  ?  ài  come  dure  incudì 
Duro  il  cor #,  se  di  me  ù^  prendi  gioco. 
A  che  mentir  con  labbri  iniqui,  e  crudi 
Verace  amor,  se  nulla  m'ami,  o  poco? 
Non  era  dunque  per  sincera  amante 
li  vederti  fuggir  pena  bastante  l 
XXVIII. 
Perchè  fosti  cortese ,  or  più  feroce 
Ti  mostri,  e  voti  qual  pennuto  strale, 
Scoprir  dov'  ài  rivolto  il  pie  veloce 
Potessi  almena  ,  anzi  le  rapid*  ale  ! 
Io  ti  farei  la  mia  dolente  voce 
Seguace,  e  fora  allor  men  aspro  il  male. 
Forse  a  |?  orecchio  tuo  pietosi  i  Venti 
Recherian  susurrando  i  miei  lamenti  . 
XXIX. 
La  meschinella  in  tai  dolenti  note. 
Ebbra  d'amor,  l'interno  affanno  esprime 
Ella  fin  ora  immaginar  non  puote 
De  P  onda  amica  la  virtù  sublime , 
Sdegna  così  salubri  polvi  ignote 
L'egro,  che  febbre  violenta  opprime  ; 
Tolta  Isabella  con  sì  strano  mezzo 
Sarà  di  sozz:\  Voluttàde  al  lezzo  „. 

»    4r 


z9$         CANTO 

XXX. 

Ma  si  lasci  per  or  la  Giovinetta , 
Che  in  van  si  strugge  in  lagrime,  in  sospiri. 
In  altra  parte  1'  internai  m'  aspetta 
Messo  ,  e  del  mio  tacer  par  che  s'  adiri. 
La  grande  Impresa  egli  a  compir   s'affretta , 
Altre  fraudi  apprestando,  altri  raggiri. 
A  un  punto  sol  con  magico  apparecchio 
Ei  si  trasforma  in  vencrabil  Vecchio. 
XXXI. 

E  ne  gli  atti  rassembra,e  nel  sembiante 
Quel  Musulmano  bevitor  di  vino  , 
Quel  sì  perito  veccnio  Negromante 
Gonoscitor  dì  tutto,  ed  indovino  ; 
Mastro  d'  Otoa,  siccome  dissi  ovante. 
Che  dà  legge  a  Platon,  serve  al  Destino, 
Al  Desti»  >  per  e«ì  Pluto  a  suo  dispetto 
Fu  quello  Spirto  ad  inviar  costretto. 
XXXII. 

Il  Messaggero  ,  acciò  di  ver  sembianza  y 
E  color  più  vivace  abbia  l'inganno  , 
Su  nodoso  baston  lento  s'avanza 
A  passi  incèrti ,  come  i  vecchi  fanno. 
Oton  ritrova  in  profumata  stanza 
Fra  molli  Ninfe,  che  giacendo  stanno. 
A  lui  s' appressa,  sul  baston  s'appoggia, 
E  severo  favella  in  Questa  foggia  . 
XXXIII. 

Dov'è,  Signor,  dow\è  l'illustre  ingegno >, 
L'almi?  feroce,  il  bellicoso  ardire  ? 
Ov'è  il  valor,  che  non  avea  ritegno  , 
Che  fea  tuo  nome  fino  al  Ciel  salire? 
Ove  di  lauri ,  di  corona  ,  e  regno  , 
li  prisco  andò  magnanimo  desire? 
Ove  son  del  mio  labbro  i  gravi  detti  , 
Che  venerar  solevi ,  i  gran  precetti 


DECIMO  TERZO.     2.97 

XXXIV. 

Altre  diemmi  lusinghe  ,  altro  promise 
Il  Fato,  il  Cielo  ,  e  la  mia  magic' arte, 
Quando  per  la  tua  man  Città  conquise 
Mostrommi,  e  Genti  debellate,  e  sparte. 
Ecco  l'Eroe 3  cui  tanto  Amor  sorrise, 
E  in  mirti ,  e  in  fior  l'arbor  cangiò  di  Marte  « 
Oh!  dolci  pugne,  u' senza  rischi  estinto 
Muore  ,  e  rinasce  il  vincitore  ,  c'1  vinto. 
XXXV. 

Certo,  Signor,  queste  de  gii  Avi  tuoi 
Non  furo  un  tempo  le  vestigie  ,  e  l5  opre  . 
Ben  d'  altre  cose  essi,  lasciaro  a  noi 
Altre  memorie,  che  l'Obblìo  non  copre. 
Nò,  Tacciar  non  pendea  di  quegli  Eroi  , 
Qual  pende  il  tuo,  che  ruggine  ricopre. 
Va  ,  che  di  tanta  luce  al  vivo  lampo 
]1  tuo  rossor  esce  più  chiaro  in  campo. 
XXXVI. 

Fuggi  ,  fuggi  ,  per  Dio,  da  questo  albergo 
Di  mollezza,  d'amor,  di  codardia; 
Il  lucid'elmo,  il  resistente  usbergo 
Cerca  ,  e  lieve  il  trovarlo  impresa  iìa  » 
Più  degne  vesti  l'onorato  tergo 
Fregino  ornai  ,  come  ihfregiavan  pria; 
E  de  lo  scudo,  e  de  la  spada  armato, 
Sciogli,  poi  sprona  il  tuo  Cavallo  alato  . 
XXXVIL 

Si  disse  il  Vecchio  ,  e  subito  disparve, 
Siccome  l'Ombre  a  l'apparir  del  Sole. 
Ma  innanzi  poscia  a  V  Ippogrifo  apparve, 
the  di  sua  prigionia  molto  si  duole  ; 
A  l' Ippogrifo,  che  lassù  comparve, 
Ove  alcun  volator  giunger  non  suole, 
Che  l'esca  abborre, e  mai  nonbee  ne  l'onde 
D'  aer  si  pasce  ,  e  molto  senno  asconde. 

N    5 


*V%'-        C    ANTO; 

XXXVIIL 

Entroi  il  Pelagio  di  Ciprigna  bella , 
Tutta  di  terso,  limpido  cristallo, 
Come  già  dissi  ;  avvi  una  stalla  ,  e  in  quel 
Stasai  rinchiuso  il  volator- Cavallo  , 
Molti  da  cocchio  pur,  molti  da  sèlla 
Destrieri  quivi  anno  indiviso  stallo; 
Alati  nò,  ma  celere,  e  leggiero 
E'  nel  corso,  e  vivace  ogni  Destriero.. 
XXXIX. 

E  tenerli  colà  per  lor  diletto- 
Soleano  i  Giovanetti  ,  e- le  Donzelle, 
Che  spesso  in  riva  a  .qualche  ruscelletto^ 
Su  le  pianure  più*  fiorite ,  e  beile  , 
Cacciar  godean  la  Lepre,  c*l  timidetto 
Cervo  fra  l'ombre  di  palme,  e- mortelle,. 
Ed  altre  spezie  d' animai  diversi  , 
Che  in  quel  Pianeta  sci  posson-  vedersi»- 
XL. 
Ti  volante  Destrier,  tosto  che  scorse 
De  l'amato  Signor  le  vestii  il-  volto,., 
Con  amigo  annitrir  molti  gli  porse 
Saluti ,  e- seco  rallegrossi  molto. 
A  queìi' Arabo  scritto  il  muso  torse, 
Scritto^,  dai  vecchio  Mago  a  lui  rivolto  ;  ; 
Chinò  tre  volte  il  capo ,  e  fé  palese 
Che  •  tutto  quel  che  fa r  dovt  a  -, .  comprese  ; 
XLI. 
Otone  intanto,  eh5 è  spronato,  e  punto. 
Dal  favellar  del  Precettore  antico, 
più  tfi  Donzella  non  si  cura  punto  -, 
Uè  dì  ridente  Colle  ,  o  Campo  aprico  . 
Qual  forsennato,  che-  a  spezzar  sia  giunto, 
•Ferreo ,  che  il  ritenea ,  ceppo  nemico, 
La  Reggia  tutta  di  Ciprigna  ei  scorre, 
£  rjfiar«*ora»ido  3  e  minacciando,  corre,. 


DECIMO   TER.ZO,     &$ 

XLIL 

Corre  ovunque  a  cercar  dove  riposta' 
£ù  l'armatura  lucida,  e  famosa. 
Trovala  alfine  in  alta  stanza  ascosta, 
Giacente  al  suol,  negletta ,  e  polverosa. 
Noti  feroce  cosi  Tigre  s' accosta 
A  greggia  imbelle,  che  fiatar  non  osa  , 
Gom'ei  l'usbergo ,  e  Telmo  ,  e'1  brando  afferra  , 
Gitta  piume,,  e  smaniglie,  e  bende  a  terra., 
XLIII. 

Lungi  ,  ©spoglie  profane,  indegni  fregi;, 
Chs  ammolliscono  il  cor,  lungi, *o  lascivi 
Seducenti  piacer,  che  i  forti ,  egregi 
Campion  rendete  de  la  Gloria  schivi  . 
Su' rovesciati  ornai  Troni  de' Regi 
S  alzi  il  mio  nome,  ed  a  le  stelle  arrivi  « 
Di  dubbio  Marte  ognor  quest'alma  forte 
Fra  i  vessilli  a  sfidar  vada  la.  Morte, 

xuv. 

Non  di  soavi  distillati  spirti' 
Fia  che  la  chioma  olezzi ,  il  braccio  ,  il  petto  L 
Rabbuffati  capelli,  incolti,  ed  irti, 
Di  polve  lordi  ,  avran  più  deg.no  aspetto. 
Vale  il  Lauro  immorcal  ben  più  che  i  Mirti  ^ 
Ben  più  che  i  nastri  il  folgorante  elmetto,. 
Jù  il  brando,  che  d'ostil  sangue  rosseggia, 
Più  che  di  Citerca  tutta  la-  Reggia-. 
XLV. 

Qual ,  se  nkro  cangiato  in  nera  polve", 
Che  il  tuon  di  Giove  in  cavi  bronzi  imita  v 
Una  scintilla  non  veduta  involve  , 
Che  da#  un'  accesa  fiaccola  è  fuggita  ; 
Tutta  in  immenso  foco  si  dissolve 
Ad  un  sol  tratto  quella  polve  unita  , 
E  palpitando  su  l'arato  solco, 
W.  fragor  de  lo  scoppio  odo  il  Bifolco:; 

M  6 


Beo  C  A  N  T  O 

XLVI. 

Fur  d*  Otone  a  l'ardor  ben  valid'  esca 

I  pochi  detti  de'  1'  infinto" Mago. 
Lieto  brilla  così  fra  l'erba  fresca 
Innanzi  al  Sol ,  ringiovanito  il  Drago, 
Siccome  Oton  ,  che  amor  di  gloria  invesca  $. 
E'  del  nuovo  splendor  contento,  e  pago. 
Lampeggia  il  capo ,  il  dorso ,  il  fianco ,  il  petto,, 
Per  Tacciar, per  Pusbergo,  e  per  l'elmetto,. 

XLVIL 
AUor  che  tanto  nel  suo  stesso  Regno 
Splender  1'  armi  non  sue  vide  Cupido  , 
Di  rabbia  pianse,  di  dolor,  di  sdegno  , 
Chiamò  la  Madre  con  acuto  grido. 
Mirollo  a4  suol,  di  scelti  dardi  pregno 

II  turcasso  gittar,  la  Dea  di  Gnido  , 
E  il  vide  far  ,  irato  più  che  saggio  , 
Al  biondo  crine  i  mirameli  a  to  •  oltraggio. 

;    'XLVIII. 

Così  Fanciullo,  cui  l'acerbo  frutto 
Con  prudente  rigor  neghi  la  Mamma , 
Si  morde  il  labbro  ,  si  contorce  tutto  , 
E  d'ira  pueril  le  guancie  infiamma  j 
Turgido  à  il  ciglio  ,  e  non  di  pianto  asciutto,, 
Fugge  veloce  come  Cervo,  o  Damma, 
Gli  usati  giochi  a  terra  manda  ,  e  straccia  , 
E  si  grama  a  due  man  la  china  faccia  . 
XLIX. 

D'un  ruscelletto  su  l'amene  sponde 
Presso  al  caro  Garzon  Vener  sedea  , 
E  quel  ruscel  col  mormorar  de  V  onde 
Tanta  ventura  invidiar  parea . 
Zeffir  lascivo  le  ombreggianti  fronde 
Con  furtivo  talor  soffio  movea  , 
Talor  spiava  il  duplice  tesoro 
Di  quel  seno,  agitando  il  bel  crin  d'oro. 


DECIMO    TERZO,     3or 

L. 

Ver  lei  rivolse  sdegnosetto  il  vaio 
Quel  pargoletto  Nume ,  e  si  le  disse  . 
Diva,  cui  sacro  è '1  Cielo,  il  mare,  il  suolo* 
Per  cui  tutto  nei  Mondo  ,  e  nacque  ,«  visse  , 
Madre  illustre  ,  e  temuta  ,  il  cui  Figliuolo 
Fin  or  co*  dardi  uomini,  e  Dei  sconfisse, 
Or  che  vai  tua  possanza  ?  a  me  che  vaie 
Tender  più  i'arco  ornai  ,  vibrar  io  strale  ? 
LI. 

Che  giova  a  me  I'  averti  fatto  un  giorno 
Di  guerra  atroce  il  fiero  Dio  cruento 
Languir,  qual  molle  Ganimede,  intorno, 
Per  te  obbiiando  iì  marzial  cimento? 
Aver  sul  Trono  suo  di  stelle  adorno, 
Ferito  Giove  cento  volte  ,  e  cento, 
Giove  ,  che  il  punitor  fulmine  afferra  , 
E  '1  Mondo  scuote ,  e  fa  tremar  la  Terra  > 
LII. 

Madre  gentil ,  che  mai  giovar  ci  ponno 
Sì  gloriosi,  e  celebri  trofei  , 
Se  desto  Oton  da  1  amoroso  sonno  , 
Tutti  giunse  a  spregiar  gì'  incanti  miei  ? 
Io  vigil  sempre ,  ora  in  tal  rischio  assonno? 
Tu  1*  invitta  Ciprigna  or  più  non  sei? 
E  vi  sarà  chi  ci  dispregi  altero 
Entro  al  Pianeta,  ov,  ài  tu  sola  Impero  ? 

lui. 

Mira  con  quanto  ardir,  con  qua!    dispetto 
[1  Cavalier  la  Reggia  tua  trascorre. 
Ve' le  piume  ondeggiar  sovra  l'elmetto, 
Siccome  Insegna  su  difesa  Torre. 
Ah  !  eh'  io  non  possa  un  Numeesser  più  detto , 
Se  può  costui  le  mie  catene  sciorre . 
Prega  ,  piangi  ,  vezzeggia  ,  accorri  presta, 
Alto  trionfo  a  tua  beltà  s  appresta. 


&»         €    A    N;    T    G1 
LIV. 

Tosto-  Hiflanzi  ad  Oton  la  Diva  cors®- 
Tn  compagnia  di  molte  Ninfe  beile  . 
R-isplcnde- men  l'argentea  Cinzia  forse 
Fra  il  lume-  incerto-  di.  lontane  stelle. 
Vener  quel  giorno,  che  da  l'onde  sorse 5, 
E  la  recaro  in  Ciel  l'Ore  Sorelle, 
Tutta-  de'  Numi  ad  invaghir  la  Squadra  ,. 
Più;  vezzosa  non  fu  ,  ne  più  leggiadra  . 
LV. 
Non  offre  il  Mar  nel  vorticoso  seno^ 
A  tanti  muti  abitatori  albergo, 
Di  sante  frondi  non  solleva  pieno 
Il  selvoso  A  pennino  al  Cielo  il  tergo  ; 
Quanti  darxH  ricolmi  di  veleno- 
Scagliò  Ciprigna,  a'quai  non  regge  usbergo**. 
Dolce  sorriso,  lusinghieri  sguardi , 
Seducenti*  carenze  erano  i  dardi  .. 
LVI. 
Ma  come  aJlor  che  su  le  sponde  unFiume; 
Gonfio  per  sciolte  nevi,  il  dorso  attolle  , 
E  Je  superbe  risonanti  spume 
Minaccian  danno  a  le  feconde  zolle, 
IlCultor  palpitante  in.  van  presume, 
Di  non  util  sudor  asperso ,  e  molle  , 
Argine  opporre  a  la  tremenda  pieaa  ». 
A  sul  resiste  annosa  Quercia  a  pena ■:. 
LVII. 
Così  la  speme  tua,  Venere  bella, t 
Pù  vana  allor  ;  tuoi  vezzi  Oton  rispinse',. 
Come  scoglio  rispinge  la  procella  , 
E  ìì  suo  Cavallo  a  rimontar  s'accinse. 
Oh'!'  da  te  non  attesa  onta;  novella, 
Che  lo  splendor  de' tuoi  trionfi  estinse  ! 
Ma  non  opra  d' Oton  fu  quell'insulto, 
Fu  d'avverso  Pestio .P impulso  occulto ■  o- 


DECIMO'  TER&O.      £o$ 

LVIIT. 

Servendo  accenni  de  Io  Spirto,  ei  slaccia 
U  pennuto  Destri er ,  che  al  volo  aspira. 
Anelante  isabella   a  lui-  s?  affaccia  , 
Golma  di  rabbia  ,  di  vergogna,  e  d'ira  . 
Dal  Regno  del  Piacer,  che  l'alme  allaccia,- 
Su  quel  Destriero  ella  fuggir  sospira,: 
Siccome  innanzi  la  rapi  su  quello. 
Lo  stesse  Oton  presso  al  romito  ostello  „ 
LIX. 

E  fu  quel  dì ,  che  il  Palafreno  alato- 
Ambo  porto]  li  ne  la  terza  Sfera. 
Piangea  la  morte  allor  d'Ulisse  amato 
Isabella  gentil  ,  morte  non  vera- 
Ma  per  l'alta  virtù  de  l'apprestata 
Liquor  di  mente  il  tutto  uscito  l'era; 
Pòscia  l'altro  liquor,. che  in  finto  aspetto.^ 
Le  die  io  Spirto,  fé  cenerario,  elfeua.,, 
LX. 

Ah  P  chi  la  pura  ,  salutar  m'addita 
Di  questo  umor  benefica  sorgente?^ 
Non  temerò  presso  al  selvaggio  Scita 
Le  tue  nevi  sfidar,  Caucaso  algente. 
Recar  quell'onda  a  gli  amator  gradita* 
Bramo  a  Donzslle  di  volubil  mente, 
Acciò  mai  non  rintuzzi  avido  Obblìo 
li  primo  strai  del  faretrato  Dio. 
LXL 

Strazio- fan'- d'Isabella  aspri,  e  mordaci' 
Rimorsi,  affanni,  ed  il  perenne  pianto 
Spense  l'ardor  de' neri  occhi  vivaci, 
Scapigliato  è '1  suo  crin-,  lacero  il  manto  ». 
Freme  in  pensar  che  que' piacer  fallaci 
La  fèr  d#'  Ulisse  immemore  cotanto, 
E  che  di  turpe  Amor  seguace,  amica, 
Scacciar  ftotè.  Verginità  pudica  . 


3o4         CANTO 

LXII. 

Ben  fu  lo  stesso  Oton  ,  che  primo  stese 
La  mano  audace  a  quell'intatta  rosai 
Ma  di  fuggir  tanto  desìo  la  prese 
Pa  quell'infame^ Reggia  obbrobriosa  , 
Che  quando  ii  vide,  e '1  suo  pensiero  intese , 
A  partir  seco  ella  non  fu  ritrosa  , 
Sol  desiando  per  ignoto  calle 
A  l'ignominia-  sua  volger  le  spalle. 
LXIII. 
Anzi  veloce  a  lui  s'accosta  ,  e  il  prega 
Che  lei  compagna  a  la  sua  fuga  ei  voglia  , 
Né  tal  favore  il  Musulman  le  nega, 
Onde  s'allevia  dei  suo  cor  la  doglia. 
Senza  indugio  il  Cavallo  egli  ^ dislega  , 
S'  innalza  quello  più  legger  di  foglia, 
Ed  Augello,  e  Destrier,  vola  ,  e  galoppa. 
In  sella  è  Otohc,  ed  Isabella  in  grcpoa  . 
LXIV. 
Ah  f  perchè  in  simil  guisa  a  me  non  lice 
Uscir  dal  Regno  tuo,  barbaro  Amore, 
E  ,  come"  Oton  ,  fuggir  1'  incantatrice 
Vener  terrena,  che  mi  squarcia  il  core? 
Qual  fenditor  de  l'aure,  che  infelice 
Ne  la  rete  inciampò  del  Cacciatore, 
E  in  van  si  scuote,  in  vano  agita  i  vanni, 
Vittima  io  son  de' tuoi  funesti  inganni . 
LXV. 
Mentre  io  mi  dolgo  de  la  sorte  mia  , 
Al  guardo  nostro  quel  Destrier  s'invola; 
Per  ampia  ,  immensa,  sconosciuta  via  , 
Per  vasto  Mar  di  pura  luce  ei  vola  . 
Quando  a  1'  altrp  Emisfero  ii  Sol  s'avvia, 
E  i  sonnacchiosi  Antipodi  consoia  , 
Sul  nostro  Globo  il  Palafren  discende  , 
Ove  un  bosco  frondoso  i  rami  scende» 


DECIMO   TERZO.     305 

LXVI. 

Cupo  e  quel  Bosco,  tenebroso,  e  folto, 
Mesti  stirgon  Cipressi ,  e  Querele  antiche  . 
Offre  riposo  quei  terreno  incolto 
Al  passeggicr  fra  l'aure  ,  e  l'erbe  amidi;. 
Balzò  di  sella  eOton,  ma  a  .lui  fur  molto 
Di  quel  Destrier  le  piume  allor  nemiche. 
Volse  il  Destrier  con  Isabella  il  volo 
Altrove 3  e  il  Musulman  rimase  solo. 
LXVII. 

Ma  poco  ivi  restò ,  poiché  ritorno 
L'  Ippogrifo  a  lui  fé' co  l'ali  pronte, 
E  a  facil  pugna ,  ed  a  miglior  soggiorno 
tiuidoìlo  poi  ,  di  due  rivali  a  fronte . 
Tratta  Isabella  in  quel  medesm©  giorno 
Fu  sa  la  cima  dì  scosceso  Morite, 
Ove,  sfidando  il  Sol,  fra  balza  ,  e  balza  » 
Densa  foresta  il  mobil  capo  innalza. 
LXVIIL  ' 

Vorrei  fra  quelle  annose,  eccelse  piante 
Molto  innoltrar  con  Isabella  il  piede  , 
Ma  seguir  deggio  il  Corridor  volante, 
Che  ne  l'aere  .ancor  veloce  riede . 
Sotto  la  salma  di  vicende  tante 
Il  mio  Pensiero  illanguidisce,  e  cede, 
E  de  i' estro  la  fiaccola  s'  ammorza  > 
Ove  il  posar  non  le  ridoni  forza  • 


JBine  del  Cam*  Tiecim»  Ttr\e, 


30Ó  . 

LA     MORTE 

Df  ORLANDO. 


CAtfTO  DECIMO  QUARTO 


ARGOMENTO. 

A  la  Cometa  P  lppcgrìfo  ascendi  , 

E   Angelica ,  e  i  rivali  in  Terra  adduce  v 
Sparisce  quindi  y  essi  per  lei  ,   che  accende 
Ad  ambi  il  cor,  fan  lotta  acerba  ,  e  truce  ... 
Ma  un  Guerrier  poi  ,    che  Angelica   pretende*^. 
Gli  sfidai  a  liri  quelì*  ìppogrifo  è  duce. 
Scopre  intanto  isabella  un  Monastero , 
La  Storia  n1  ode  ,  e  veste  at/mtamo  nere  . 

D.     L 
al  cor  sospinto  ,  ne  le  vene  scorre., 

E  ne  le  arterie,  circolando,  il  sangue, 

E  questo  umor  ,  se  men  veloce  corre  , 

Ogni  spirto  vita!  s' aljenta ,  e  ianguc, 

E  in  funesto  letargo  il  corpo  incorre; 

Perde  il  furor  la  Tigre  ,  il  tosco  l'Angue. 

Susta  possente  è  il  cor  ,  che  sola  puote 

JQi  macchina  animai  muover  le  ruote .■„ 


DECIMO  QUARTO.     joj 

li. 

Questo  impulso  eie  1  cor,  fonte  di  vita-. 
Da  l'aer  nasce,  che  i  Mortai^  circonda , 
JE  al  frequente  respir  tutti  gl'invita, 
Ed  eatra,  ed  esce  ,  qual  scorrevol  onda.- 
Desta  ,  premendo  il  cor,  quell'aria  unita 
L'elastica  virtù,  che  in  esso  abbonda; 
Mentre  il  perduto  a  racquistar  s'accinge 
Suo  stato  il  cor,  ne' vasi  il  sangue  spinge-* 
III. 

Spesso  però,  se  l'aer  troppo  lieve 
Co  l'usata  possanza  il  cor  non  preme,. 
Che  non  atto  a  cacciar  stimol  riceve,. 
L'umor  vital  fino  a  le  parti  estreme  , 
Comi  avvenir  su  gli  alti  Monti  deve  r 
Per  poco  impulso  allor  Natura  geme , 
Allora  a  stento  l'Animai  respira, 
E  lento  il  sangue  ne  le  vene  gira. 
IV. 

Non  in'  ciascuno,  è  ver  ,  lo   stesso  effetto- 
Suole  accader  su  la  medesma  altezza  ; 
Chi  più  robusti  à  gli  organi  del  petto  , 
Men  paventa  de  l'aer  la  sottigliezza. 
Ma  se  spregiando  il  naturai   precetto, 
Fia  che  troppo  innalzarsi  abbian  vaghezza  t 
E  violar  tcntin  de'  nembi  il  Regno  , 
Tutti  di  Giove  proveran  lo  sdegno*. 
V. 

Di  me  so  ben  che  mormorando  vanno 
Con  Cinico  livor  molti  saccenti  , 
E  a  me  di  stolto  Vate  il  nome  danno, 
Che  di  Fisica  ignora  gli  elementi  , 
E  ancor  non  sa  quello  che  tutti  sanno, 
Che  senz'aria  perir  denno  i-  Viventi  , 
E  che  non  puote  anco  1'  Augel  leggiero* 
Molto  lungi  vjolar  da  l'Emisfero.. 


3o8         CANTO 

VI. 

Perciò  si  bclfan  de  la  Musa  mia , 
Che  fra'  Pianeti  i  volator  trasporta  ; 
Ma  costor  non  conoscon  Poesia , 
li  cui  fervente  ardor  fren  non  sopporta  ; 
Quel  felice  Scrittor  ,  che  la  pazzìa 
Cantò  d'Orlando ,  a  l'arduo  voi  m'esorta  , 
Astolfo  ei  spinse  a  ricercar  di  quello 
Nel  cangiante  Satellite,  il  cervello. 
VII. 

Il  pennuto  Destrier  seguiam ,  che  sole 
L'azzurro  Spazio  fra  i   Pianeti  or  fende, 
E  ad  altra  Impresa  con  sublime  volo, 
Ad  altro  Clima  ,  ad  altro  Globo  tende  . 
Verso  quel  tristo,  ed  infecondo  suolo, 
Cui  tanto  è  'iSoi  nemico,  i  vanni  ei  stende, 
Quella  Cometa,  ove  Pluton  già  fèo 
Orlando  trarre.  Angelica,  ed  Orfeo. 
Vili. 

Questa  coppia  rivai  quivi  ritrova  , 
Quivi  ritrova  Angelica  vezzosa. 
Essi  in  tal  s^de  sì  bizzarra  ,  e  nuova , 
Indivisi  traean  vita  penosa  ; 
E  regger  niuno  a  sì  diffidi  pruova , 
Che  immaginar  anco  il   Pensier  non  osa, 
Un  giorno  solo  al  certo  avria  potuto, 
Se  a  pena  tal  non  li  dannava  Pluto. 
IX. 

S'  accostò  la  Cometa  a  l'Astro  alfine  , 
Che  un  foco  irraggia  di  sua  vasta  Ellisse  ;. 
Si  cangiaro  in  rugiade  ,  e  geli,  e  brine  ,  . 
Ogni  assopito  abitator  rivisse  . 
Talpa  cosi,  che  fra  le  nevi  Alpine, 
Qual  morta,  in  tana  intirizzita  visse, 
Le  raggrinzate  membra  allunga,  e  scioglie 
Quando  stagion  propizia  il  gel  discio? uè» 


DECIMO  QUARTO.    309     . 

X.       , 
Di  vista  privi  gli  Abitanti  sono  , 
Ma  in  Jor  supplisce  al  naturai  difetto 
Un  odorato  cosi  fino  ,  e  buono 
Che  ben  discerné  ogni  lontano  oggetto. 
Di  quelli  al  par,  cui  d'occhi  ilCiel  fé  dono, 
Ove  il  cibo  opportuno  abbia  ricetto, 
E  dove  l'acqua  si  ritrovi,  sanno, 
E  sol  fiutando,  ad  accpppiarsi  vanno. 

Come  volar  sul  Mirto,  e  su  l'Alloro 
So.glion  fra  noi  mille  Augelleiti  ,  e  mille, 
Il  nero  Merlo,  1'  Usignuoi  canoro, 
Il  Cardeliin  gradito  a  le  pupille  , 
Qualor  cessa  del  Verno  il  rio  martoro, 
E  versa  Aurora  sue  feconde    stille  , 
E  di  tepida  al  soffio  aura  lasciva 
fci  ridesta  Natura,  e  si  ravviva  : 
XII. 

Era  cosi  piacevole  a  vedersi , 
Presaghi  allordela  stagion  novella, 
Tanti  Animali  pria  nel  sonno  immersi, 
Errar  "festosi  in  questa  pan?  ,  e  in  quella  , 
Piante,  Augei  ,  fruita,  e  fior,  colà  diversi 
Da  quelli  son  ,  pe'  quai  la  Terra  è  bella  , 
E  de' Viventi  anno  le  varie  torme 
Altro  istinto,  altro  aspetto,  ed  altre  forme. 
XIII. 

Orfeo  sagace,  visto  il  buon  Destriero, 
Al#  prode  Orlando  questi  accenti  volse. 
Tv. ira  prodigio!  il  Ciel  pietoso,  io  spero, 
le  che  a  noi  quel  Cavallo  il  voi  disciolse. 

jir  tentiam  sul  Corridor  leggiero 
Cotanti  mali,  in  cui  Pluton  ci  avvolse. 
Angelica  ci,  segua  ,  e  non  alletti 
Primavera  fugace  i  nostri  petti. 


3  io         C    ANTO 

XIV. 

Piacque  l'avviso  al  valoroso  Orlando, 
Corse  Angelica  lieta  a  l'alta  Impresa. 
Già  s'innalza  il  Destriero,  a  voi  portando 
Triplice  salma  ,  che  a  lui  poco  pesa  . 
S'innalza,  come  il  Falco  avvezzo,  quando 
Del  Falconier  la  nota  voce  à  intesa  . 
La  Cometa  abbandono,  e  gli  abitanti, 
E  ratto  seguo  i  Cavalier  volanti . 
XV. 

Ne  l'ardua  seguo,  non  calcata  via, 
^ue'  Nauti  audaci  de  l'Etereo  flutto. 
Essi  il  Sistema  ,  che  tentò  Sofia 
Con  Urania  spiegar,  videro  tutto. 
Lungi  dal  Sole^  discoperse*  pria 
Cupo  Saturno  in  tenebroso  lutto; 
Mesto  Vassallo,  in  larghe  ruote  intorn-o 
JEi  s'  aggira  pensoso  al  Dio  del  giorno, 
XVI. 

E  vider  Giove,  che  fregiar  si  gode 
Di  maritali  piume  il  capo  a  Giuno  , 
E  '1  ferreo  Marte  ,  bellicoso ,  e  prode  , 
Ma  non  di  carne  iemminil  digiuno, 
La  vezzosa  Ciprigna ,  «  de  la  frode 
Lo  scaltro  Dio  ,  Nipote  di  Nettuno  , 
Vider  da  lungi,  perchè  f  ali  serra 
Il  volator,  precipitando  in  Terra, 
XVII. 

Avea  l'ignoto,  rapido  viaggio 
Angelica  ,  e  i  Guerrier  turbato  alquanto  , 
Ma  scesi  in  Terra  poi  ,  premer  coraggio  , 
E  rescr  grazie  al  Ciel  propizio  tanto. 
Sparve  il  Cavallo  ,  che   ingegnoso  ,  e  saggio 
Sotto  brutal  sembianza  era  cotanto. 
Orlando  allor,  che  non  temea  le  risse  , 
li  ardea  d'  amor  ,  al  suo  rivai  si  disse* 


DECIMO   QUARTO.    3*1 

XVHL 

Or  dì  pugnar  faccende  in  me  desìo  ; 
ficco  opportuno  a  la  gran  lite  il  loco; 
£e  il  brando  tuo  cadde  spezzato,  e  il  mio'', 
Potran  le  braccia  contrastar  non  poco . 
Tvla  ^ria  giuriam  che  il  vinto,  o  tu  ,  od  io, 
Premerà  nel  suo  cor  d'  Amore  il  foco  . 
Non  ricusò  quella  disfida  Orfeo, 
E  P  uno  ,  e  P  altro  il  giuramento  fèo  . 
XIX. 

L'uno,  e  Paltro  a  pugnar ,  lottando,  vanno, 
Come  talor  ne  le  natie  foreste 
Per  la  Giovenca  i  Tauri  oltraggio,  e  danno 
Fra  lor  si  fan  co^  le  feroci  teste. 
Bello  è  il  vederli  usar  forza  ,  ed  inganno  , 
Gambe,  e  braccia  incrociando  agili ,  e  preste  , 
lì  con  mano  ,  e  con  pie  continuo  inciampo 
Farsi  a  vicenda,  e  disputarsi  il  campo. 
XX. 

Santa  Onestà,  che  vesti  in  bianco  velo 
Le  intatte  membra  ,  e  la  cui  faccia  beila 
I  puri  Spirti  àn  lavorato  in  Cielo, 
ASeì  P ornamento,  è  ver,  d'ogni  Donzella. 
jVla  se  a  te  con  si  puro  ,  ardente  zelo 
angelica  gentil  non  era  ancella, 
Amor,  che  prende  nei  contrasto  aumento, 
£2on  gli  avria  tratti  a  quei  crudel  cimento. 
XXI. 

Mentre  in  dubbio  certame,  in  lotta  atroce 
la  ri vaP coppia  d'atterrarsi   tenta, 
Da  lungi  s'  ode  una  sonora  voce , 
E  un  calpestio,  che  quella  zuffa  allenta. 
Sul  dorsosnello  di  Dcstrier  veloce 
Un  Cavaliere  ignoto  si  presenta  . 
Oh!  meraviglia,  P  Ippogrifo  stesso 
E*quel  Descrier,  ma  chiuse  à  l'ali  adesso. 


5p         CANTO 

XXII. 

Come  di  Febo  a  la  possente  face 
Splende  talora  l'adamante  incontro, 
O  ne' campi  del  Ciel  lieta,  e  vivace 
Vener  scintilla  a  Diana  argentea  contro  ; 
Brilian  cosi  del  Gavaliero  audace 
L'armi  vittrici  cPogni  avverso  scontro. 
Corno  Lunar  fregia  io  scudo,  e  dove 
Stassi  il  cimier,  surge  PAugel  di  Giove. 
XXIII. 

Costui  feroce  ,  e  minaccioso  scende 
Da  quel  Destriero,  e'1  brando  a  cerchio  mena, 
Altro  dal  fianco  al  suol  brando  gli  pende 
Entro  a  guaina,  che  d'intagli  è  piena. 
Ma  il  nudo  brando,  che  in  sua  man  risplende, 
Al  primo  assalto  regger   puote  a  pena  ; 
(  Quello  cosi  fu  lavorato  ad  arte  ) 
L'altro  resiste,  e '1  ferro  par  di  Marte  . 
XXIV. 

Cori  cupid'  occhio  rimirò  costui 
Audacemente  Angelica  ,  dicendo  :  > 
Non  saggia  cosa  è  disputar  fra  vui 
Quel  ch'io  del  pari  ad  ambidue  contendo. 
S'io  degnassi  rapir  le  cose  altrui, 
La  Donzella  involar  potrei,  fuggendo; 
Ma  un  generoso  cor  sprezza  le  prede, 
Che  di  suo  braccio  il  frutto  esser  non  vede. 
XXV. 

Chi  possanza  non  à  tenti  ja  frode , 
Ma  questo  cor  mai  non  vacilla,  o  teme, 
oe  alcun  di  voi  tanto  è  gagliardo  ,  e  prode  , 
Ch'osi  pugnar,  noi  pugneremo  insieme. 
Ma  se  cruenta,   e  perigliosa  lode 
Voi  non  bramate,  e  se  timor  vi#  preme, 
La  bella  Donna  con  serena  faccia 
i  Fia  consiglio  miglior  )   ceder  vi'piaccia.'. 


DECIMO  QUARTO.    313 

XXVI. 

Né  te  so  paventar  ,  né  mille  curo 
De' pari  tuoi,  disse  Tirato  Orlando  ; 
I  più  possenti  (  al  Dio  de  1'  armi  il  giuro  ) 
A  rispettar  t'insegnerò  pugnando  , 
Se  pur  di   Pluto  nei  soggiorno  oscuro.  ..  . 
Ma  senza  brando  io  son  ;  dammi  quei  brando. 
L' ignudo  ferro  il  traditor  gli  porse; 
Misero  Orlando  !  a  certa  morte  ci  corse. 
XXV  IL 

Ei  corse  a  morte  ;  io  senza  indugio  il  corso 
D'Isabella  su  l'orme  or  volger  penso. 
De  l'Ippogrifosul  volante  dorso 
Ella  fu  tratta  in  bosco  opaco ,  e  denso  . 
Di  ciò  che  in  Vener  fatto  avea,  rimorso 
L'alma  sempre  le  strazia,  e  duolo  immenso  j 
E  in  quella  Selva  si  querela,  e  duole 
Con  queste,  ed  altre  flebili  parole. 
XXVIII. 

Ah!  tiranno  Destin ,  perché  rispinta 
M'ài  tu  da  l'onde,  viva  ancor,  sul  lidqt 
Quando  la  Nave  a  naufragar  sospinta 
Ulisse,  e  me  gittò  nel  Mare  infido? 
O  ver,  se  allora  non  rimasi  estinta  , 
Perché  non  corsi  ov'  anno  i  pesci  il  nido? 
Or  non  sarei  di  tante  colpe  intrisa  , 
E  con  Ulisse  avrei  tomba  indivisa  . 
XXIX. 

Forse,  pietoso  allor  del  mio  dolore  , 
Placido  venticel  ,  che  increspa  l'onda, 
Deplorerebbe  un  infelice  amore 
Con  mesto  susurrar  lungo  la  sponda; 
E  de  T  intatto  mio  vergineo  fiore 
Snrìa  fresco  lo  stcl ,  verde  la  fronda  , 
Oh!  felice  morir,  che  tutta  avrja 
Ricolmata  d*onor  la  vita  mia  . 


3H         C    A     N    T    O 

XXX. 

A  che  il  filo  troncar  vii  non  osar 
De' giorni  miei  fra  tai  vicende,  e  tante? 
Non  il  suolo  a  bagnar  con  questi  rai , 
Qual  conveniasi  a  fido  amor  costante  , 
JVTa  Ulisse  ad  obblìar,  che  tanto  amai  , 
Ed  amo  ancor,  per  un  novello  amante  3 
È  del  santo  Pudor  con  man  perversa 
Spezzar  il  giogo,  in  rei  piaceri  immersa  * 
XXXI. 

Ben  t'odo,  Ulisse,  fra  i  beati  Cori» 
Puro  Spirto  racchiuso  in^  pallid^ Ombra  , 
Rammentarmi  sdegnoso^  i  nostri  amori 
{Oh!  fera  vista,  che  di  duol  m'ingombra  *  ) 
Dirmi,  ahi  !  crucici,  son  questi  i  pianti,  i  fiori* 
Onde  giurasti  far  la  spiaggia  ingombra  ? 
Così  dunque  serbasti  il  più  bel  fregio, 
Che  può  Donzella  ornar?  Va,  ti  dispregio «, 
XXXII. 

Tai  detti  risuonar  fra  s^sso  ,  e  sasso» 
Udia  Isabella,  o  udir  credea  ,  d'Ulisse* 
E  il  tardo  piede  con  mal  fermo  passo 
Jvlovea  ,  ma  credo  poco  innanzi  gisse. 
Volea  cespuglio  ritrovar,  che  al  lassa 
Fianco  abbattuto  alcun  riposo  offrisse. 
Trovoilo  alfine;  ivi  a  seder  si  pose  , 
E  gli  omeri  appoggiò  su  Quercìe  annose. 
XXXIII. 

Potea  molto  il  dolor,  ma  il  cupo  loco  > 
TI  tacente  squallor  d'oscura  Notte, 
De" solitari  Gufi  il  canto  fioco. 
Le  frondi  spinte  a  susurranti  lotte , 
E  la  frese'  aura  }<  che  temprava  il  foco 
Di  quelle  ardenti  lagrime  dirotte, 
Per  pochi  istanti  con  pietosa  cura 
Fcr  de  l'ambascia  trionfar  Natura. 


DECIMO  QUARTO.    31$ 

XXXIV. 

Ottenne  alfin  su  gli  egri  spirti  impero 
Breve  sopor,ma  non  là  dolce  ealma, 
Che  di  fallaci  Idèe  stuol  menzognero 
In  mille  forme  spaventò  quell'alma. 
Giacque  oppresso,  e  smarrito  il  suo  Pensiero 
Di  tanto  duol  sotto  la  grave  salma  ; 
Lurid' Ombra  talor  veder  le  sembra, 
Talor  dal  flutto  le  disperse  membra . 
XXXV. 

Cosi  ,  se  avvicn  che  a  l'improvviso  tolto 
Da  vicin  foco  umor  bollente  sia  , 
L' aer  sommosso,  e  rarefatto  molto, 
Segue  a  fuggir  come  fuggiva  pria  ; 
Cosi  da  Borea ,  e  d'  Austro  il  mar  sconvolto 
Cli  oltraggi  suoi  non  facilmente  obblia , 
E  benché  il  vento  alfin  si  calmi  ,  e  taccia, 
jVIuggc  tremendo,  *e  i  Nauti  ancor  minaccia . 
XXXVI. 

Poiché  surto  dal  Mar  sul  cocchio  d'oro 
yù  il  biondo  Dio  co' fervidi  Cavalli, 
Più  non  ebbe  Isabella  alcun  ristoro, 
Straziolla  il  dolor  senza  intervalli. 
Come  torrente  rapido,  e  sonoro 
Dai  Monti  scende  ad  innondar  le  Valli, 
Scendea  cosi,  di  tanta  ambascia  figlio  , 
U  caldo  pianto  dal  leggiadro  ciglio. 
XXXVII. 

Il  picciol  labbro  era  a  tacer  costretto, 
Da  tanta  folla  di  querele  invaso. 
Arrestarsi  l'umor  sul  buco  stretto 
Veggiam  così  di  capovolto  raso. 
Col  nome  alfine  de  l'amaro  oggetto 
Ruppe  il  silenzio,  e  per  bizzarro  caso, 
Fra  sé  dicendo;  ah!  fosse  Ulisse  vivo  J 
Eco  udì,  che  rispose  :  UJiflt  è  vìvo . 

O  % 


3«         CANTO 

XXXVIII. 

Mentre  s'  avvolge  l'infelice,  e  gira 

Pel  cupo  orror  di  quella  Selva  oscura, 

Le  folte  piante  diradarsi  mira, 

Ed  amena  apparir  vasta  pianura  . 

In  mezzo  a  questa  ella  un  sublime  ammira 

Edifìzio  di  vaga  architettura  ; 

Molto  s'innalza  l'Edifizio,  e  tutto 

Di  rilucenti  marmi  esso  è  costrutto ,. 
XXXIX. 
Quel  maestoso  ,a  adorno,  ampio  ricinto 

Di  solingo  Cenobio  offre  l' immago  . 

Chiostro  il  sorregge  ,  e  a  bei  color  dipinto , 

Spettacol  forma  dilettoso ,  e  vago  . 
Da  Corintie  colonne  il  Chiostro  è  cinto. 
La  di  cui  simetrìa  fa  l'occhio  pago,.. 
Di  simulacri  adorna  ivi  si  scorge ^ 
iMarmorea  scala,  che  in  duo  rami  s.org€ , 
XL. 
Su  quella  Scala,  curiosa  ascese 
Tosto  Isabella,  e  una  gran  porta  vide, 
Porta  real ,  che  più  gradita  rese 
Scalpel  ,  che  i  marmi  dottamente  incide. 
Scultevi  son  le  rinomate  Imprese 
Di  chi  pugnò  contro  le  Geriti  infide. 
Un  robusto  sovrasta  arco  superbo , 
Che  al  gran  Palagio  aggiunge  fregio,  e  nerbo* 
XLI. 
Con  perfetta  armonia  la  porta  adduce 
Ad  una  sala  di  piacevo!  forma, 
Ove  gemma  non  brilla,  oro  non  luce  , 
Ciò  a  stato  Claustral  non  si  conforma. 
Ma  lungo  di  colonne  ordin  riluce, 
E  specchio  il  marmo  a'  riguardanti  forma  < 
Questo  Isabella  il  refettorio  crede, 
Poiché  mense  apprestate  intorno  vede  . 


DECIMO  QUARTO.    317 

XLII. 

Poscia  che  in  tali  cose  il  guardo  fiso  > 
Colma  di  meraviglia,  un  pezzo  tenne  , 
Ulisse  mai  non  obbiiandoj  e '1  viso 
Bagnando  sempre  di  pianto  perenne; 
Lenta  avanzossi ,  e  in  Corridoi-  diviso 
Da  molte  celle  quinci  ,  e  quindi  ,  venne, 
Ivi  confuso  a  lei  preme  V orecchie 
Suono  di  voci  discordanti,  e  vecchie. 
XLIIL 

Quelli  ,  che  udirò  su  gli  obbliqui  tetti 
Ne  le  risse  d'Amor  gnaulare  i#  Gatti , 
Che  di  Vener  notturna  in  fra  i  diletti 
Ebbri  si  fanno,  furibondi,  e  matti, 
Sì  che  sembra  al  piacer  de'  loro  affetti 
Si  mischi  il  duolo, onde  a  gridar  sien  tratti  % 
Pensin  costor  che  somigliante  sia 
Cotesto  suono,  che  Isabella  udìa, 
XLIV. 

Tacitamente  ,  dal  desìo  sospinta 
Di  penetrar  questo  romor  che  fosse , 
Qual  chi  ad  udir  l' orecchia  tiene  accinta) 
Su  le  punte  de*  piedi  ella  si  mosse  . 
Voce  allor  più  sonora,  e  più  distinta 
Udì,  che  ogni  timor  da  lei  rimosse  , 
E  riconobbero  quelle  grida  ignote 
Sol  di  femmineo  stuol  preci  devote  . 
XLV. 

Prima  gP  Inni  intuonar  con  santo  zelo 
Ellauna  voce  intese  ,  e  molte  acute 
Voci  compagne  implorar  poi  dal  Cielo 
Con  istridulo  suon  venia,  e  salute. 
Ma  qualche  Vecchia,  cui  de  gli  anni  il  gelo 
Le  tronche  chiome  fé  rare  ,  e  canute  , 
Nel  sentier  Musical  rimasa  indietro, 
Canta  soletta  in  tremolante  metro. 

-O  1 


3*3  CANTO 

XLVI. 

Rider  ben  sì  potea ,  ma  non  ne  rise , 
Perchè  troppo  dolente  era.  Isabella. 
Su  la  vicina  soglia  ella  il  pie  mise, 
E  altra  sala  scoperse  ornata,  e  bel  fa  , 
Molte  intorno  vi  son  sedie  divise, 
Né  questa  punto  è  disugual  da  quella. 
Ma  un  distinto  sedil ,  qual  Principessa,    . 
La  suprema  tenea  Madre  Abbadcssa  . 
XXVII. 

Chi  può  dir  qual  fracasso,  e  qual  bisbìglio 
Al  giunger  d'Isabella  ivi  s'innalza?  > 
Cadon  gli  ufficj  al  suol  per  lo  scompiglio  v 
Veloce  ognuna  da  la  sedia  sbalza. 
Ombra  fuggita  dal  perpetuo  csiglio 
Predono  quella,  e  gran  timor  le  incalza. 
Fanno,  e  rifanno  co  la  man,  che  trema,. 
De  V umana  salute  il  sacro  Emblema.- 
XLVÌÌL 

Ma  una  certa  Maria  ,  detta  Beata , 
Che#  pe'  suoi  mera  il  Vicariato  avea  ,, 
Ed  in  gravi  materie  consultata, 
Qual  Oracoi  temuto,  decidea  ; 
Molto  baciata  avendo,  e  ribaciata 
Lunga  corona,  che  al  fianco  tenea  ,. 
Quasi  dal  Ciel  tutta  inspirata  fosse  ,. 
Con  gravità  per  ragionar  levossc. 
XLIX. 

Di  statura  si  picciola  è  costei 
Che  a  cinque  palmi  giunger  puote  a  pena  ; 
E'  corto  il  collo  y  e  sol  risalta  in  lei 
L'  omer  surgente  ,  e  la  deforme  schiena . 
Bianche  le  ciglia  son,  bianchi  i  capei, 
E  di  rughe  ,  e  di  pel  la  guancia  è  piena  j 
Gli  occhi  guerci,  e  cisposi  àn  varia  sede* 
Alto  l'un  più  de  V altro  esser  si  vede  . 


DECIMO  QUARTO.   $1$ 
L. 

Neri,  ineguali,  e  mal  divisi  i  denti 
Ne  la  bavosa  stan  fetida  bocca  , 
Bocca  ,  da  cui  nel  profferir  gli  accenti, 
Qual  da  Stigia  palude,  il  puzzo  sbocca. 
Ricopron  l'altre  membra  i  vestimenti,. 
E  al  mio  peunel  dipingerle  non  tocca; 
Scarna  è  la  man  cosi  che  sembra  morta  , 
E'  lungo  il  pie  ,  gonfia  la  gamba,  e  torta* 
LI. 

Ecco  il  leggiadro,  dignitoso  aspetto 
Di  cotesta  gentil  Ciceronessa. 
Ella  a  parlar  comincia;  ogni  suo  detto 
Rassembra  al  suon  d'una  campana  fessa. 
Non  vi  sarà  di  meraviglia  oggetto 
L'udirmi^  favellar,  Donna  Abbadessa. 
Fu  mia  lingua ,  il  sapete  ,  i  miei  consigli 
Utili  sempre  fùr  ne' gran  perigli. 
LII. 

Maligno  Spirto  a* danni  nostri  al  certo, 
Compagne  mi« ,  donnesca  forma  prese , 
Però  che  in  questo  loco  ermo,  e  diserto, 
Mai  straniero  Mortai  giunger  s'intese. 
Chi  sa  ,  colui  ne  le  mal  opre  esperto 
Quali  a  noi  tutte  occulte  insidie  à  tese? 
11  sacro  umor,  1' aspergol  benedetto 
Fate  apportar,  Donna  Abbadessa  .  O'  detto 
LUI. 

Qual  ,  se  mentre  sediam  su  la  predella, 
Premendo  t'infettili,  l'aria  s'abbassa, 
Pria  eh1  elastica  forza^  indi  1'  espella, 
Densa^  ci  sembra  gravitante  massa  , 
Poiché  ristretta  ,  e  condensata  quella 
In  tortuosa  region  ,  s'ammassa; 
F,  dopo  alfiu  molto  sudore,  e  stento, 
Quella  gran  massa  si  dissolve  in  vento: 

0  4 


ito  CANTO 

LIV. 
L'Oratrice  cosi  ben  poco  disse, 
Che  dir  gran  cose,  e  molte  avea  promesso* 
Tenne  in  udirla  al  suol  le  luci  fisse 
Per  riverenza  il  femminil  Congresso  . 
Parte  tosse  cómun  tutte  assalisse 
Quando  ài  suo  favellar  fu  il  plauso  espresso  } 
Gome  nel  Tempio  con  tacente  laude 
Al  facondo  Orator  la  turba  applaude. 
LV. 
Poscia  ,  seguendo  il  salutar  consiglio, 
Il  sacrato  da  l'urna  umor  s'attinse  , 
£  la  Badessa  in  così  gran  periglio 
£Jera  cocolla  a  rivestir  s'accinse. 
A  Paspergolo  poi  diede  di  piglio, 
E  mormorando  preci ,  in  man  lo  strinse  * 
Lenta  de  le  Marie  divota  folla 
Venia  seguace  a  quella  gran  Cocolla  . 
LVL 
Oh!  puro  culto ,  che  il  gran  Verbo  onori* 
Sceso  il  Mondo  a  sanar  guasto,  e   corrotto t 
Quanto  sovente  da  gli  stolti  errori 
Profanato  sei  tu  del  Vulgo  indotto  !# 
Co  l'aspergol  gittando  i  sacri  umori, 
Fé  la  Badessa  sette  Croci,  od  otto, 
Ed  Isabella  ancora  a  labbra  mute 
il  segno  fé  de  la  comun  salute. 
LVII. 
Colma  d1  alto  stupor  Donna  Badessa 
Fu  ,  mirando  colei  farsi  la  Croce  , 
E  più  di  tutte  la  Ciceronessa , 
Che,  lode  al  Ciel ,  perduto  avea  la  voce. 
Ad  Isabella  una  di  lor  s*  appressa  , 
Come  aresse  a  sfidar  Mostro  feroce  , 
Tanto  il  pie  le  vacilla  ,  il  cor  le  trema; 
Ma  il  desio  di  parlar  vinse  la  tema  : 


DECIMO   QUARTO,    jai 

LVIII. 

E  le  disse  !  Poiché  del  cupo  A verno 
Spirto  non  sei  ,  qual  pria  sembrasti  a  noi  y 
E   il  gran  Vessillo,  che  domò  1'  Inferno, 
Di  terror  non  è  oggetto  a*  lumi  tuoi  ; 
Certo  qui  ti#  guidò  y  Ente  superno , 
Ove  alcun  giammai  spinse  i  passi  suoi. 
Svelaci  il  nome  tuo,  le  tue  vicende  ; 
Di  noi  ciascuna  a  te  giovar  pretende. 
LIX. 
Isabella  a  costei  con  un  sospiro, 
A  costei ,  che  fra  tutte  è  la  più  saggia  > 
Rispose  :  E  qual  d'  udir  muri  desiro 
Come  la  Sorte  un  infelice  oltraggia? 
Pietàde ,  o  Donna  ,  avrai  dei  mio  mattiro, 
Se  non  ascondi  in  seno  alma  selvaggia. 
Ma  il  sensibil  tuo  cor  si  fa  palese 
Nel  volto  tuo,  nel  favellar  cortese  . 
LX. 
Ciascuna  allor  s* avanza,  e  gli  aspri  tini 
De  la  Straniera  di  saper  s'  invoglia , 
Che  spesso  i  petti  femminili  invasi 
Son  per  istinto  da  sì  fatta  voglia. 
Se  poi,  d'Elezione  intati  vasi, 
Taglian  le  chiome  ,  e  veston  bruna  spoglia, 
Qual  pianta  in  buon  terren  ,,  fra  quelle  bende 
Curioso  desìo  cresce  ,  e  s'  estende. 
LXI. 
Volgiamo ,  o  Musa  ,  a  questa  istoria  il  tergo  ( 
A  questa  ,  che  narrar  deve  Isabella  . 
Meglio  è  frattanto  intorno  al  sacro  alberga 
Passeggiando  girar,  di  cella  in  cella. 
Musa,  non  ti  doler  ,  se  carte  io  vergo» 
Spiando  il  tetto  umìl  di  Monacella , 
Se  stanco  alfin  d'Imprese  illustri,  e  d'armi, 
In  oscure  cellette  io  porto  i  carmi. 

O  5      ' 


$*i         CANTO 

LX1L 

Marmoree  scale  diramate  fanno 
A  l'ampio,  e  lun^o  Dormitoria  scorta  - 
Ivi  in  distanza  egual  tutte  si  sanno 
Le  celle  intorno  con  angusta  porta , 
Su  cui  palesi  in  cifre  auree  si  vanno 
Scorgendo  i  nomi  ^  Penitente,  Assorta, 
Illuminata,  Angelica,  Celeste, 
Ed  altre  voci  somiglianti  a  queste. 
LXIIL 

Lungi  il  sacro  furor,  che  i  Vati  inspira;, 
Che  sa  le  sponde  celebrò  del  Xanto 
D' Ecuba  il  duolo  ,  e  di  Pelide  l' ira  , 
Lungi  la  tuba;  una  celletta  io  canto. 
Quadra  è  la  stanza  ,  ed  Isabella  ammira 
J  tersi  arredi  in  questo,  ed  in  quel  canto,. 
Poiché  swa  cella  con  gelosa  cura 
Monaca  sempre  ripulir  procura. 
LXIV. 

Duo  grandi  armadj  le  pareti  opposte 
Ricopron  quasi,  e  fanno  al  tetto  guerrav 
Ivi  di  lana  ,  ivi  di  lin  riposte 
Son  molte  vesti,  che  ogni  armadio  serra. 
Poco  dal  letto  celibe  discoste 
Quattro  sedie  la  stanza  in  se  riserra, 
Dai  piccioHetto  ,  che  gli  àrdenti  accoglie 
Vani  sospiri,  e  le  represse  vogMe. 
LXV. 

Qtial  serie  d'Agnusdei ,  di  Crocifissi 
Io  qui  ritrovo,  e  di  frammenti  sacri f 
De  la  Vergin  ,  de'Santi  intorno  affissi 
Veggio  Quadri  parecchi,  e  Simulacri  ; 
Di  quei ,  che  sepper  gl'infernali  abissi 
Fuggir,  pene  soffrendo  atroci <,  ed  acri. 
Misera  Umanità,  cui  sforzo  immenso 
Costa  gli  assalti  rintuzzar  del  senso! 


DECIMO   QUARTO.    3*3 

LXVI. 

Dì  devoti  libelli  un  vario  stuolo 
ìn  altra  parte  de  la  cella  giace  ; 
Inni  al  Padre  celeste,  ed  al  Figliuolo, 
E  preci  al  Santo,  che  di  sceglier  piace. 
Fin  che  pietosa  d'Isabella  il  duolo 
Quella  femminea  turba  ascolta,  e  tace, 
Passiamo  ad  altra  non  discosta  Cella, 
Che  dissimil  non  è  forse  da  quella. 
LXV1I. 

Ma  qual  confuso  suon  ,  qua!  suono  misto 
D' emule  voci  il  nostro  orecchio  assorda? 
Ecco  Isabella  con  dolente,  e  tristo 
Sembiante;  mai  d'Ulisse  ella  si  scorda. 
Maria  Beata  pel  novello  acquisto 
Ridente  avea  la  bocca  informe  ,  e  lorda  , 
E  volgea  fra  le  Monache  stridenti 
Ad  Isabella  non  intesi  accenti . 
LXVIII. 

Come  una  truppa  d'anitre  ciarliere, 
Che  lieta  in  fiume  ,  o  stagno  si  diguazza, 
Spifitada  l'urto  del  comun  piacere, 
Irrequieta  ognor  grida,  e  schiamazza; 
Così,  novella  Monaca  in  vedere  , 
La  sacra  turba  esulta  ,  e  si  sollazza. 
Poi  tutte  in  loco  entrar  bello  a  mirarsi  3 
©ye  libri  non  pochi  erano  sparsi . 
LXIX. 

Quivi  al  loquace  stuol  Donna  Àbbadcssa 
Sovranamente  di  tacer  fé' cenno. 
Al  gran  comando  de  la  Principessa 
Le  Verginelle  alto  silenzio  fènno. 
Sacro  libro  vetusto  apre  ella  stessa, 
Dicendo  :  Ignote  cose  or  io  t'accenno; 
Odi  Isabella,  e  da  profano  sciolta 
Grave  penóier,  sì  gran  Memorie  ascolta. 

O  6 


1*4         CANTO 

LXX. 

Chese,  come  dicesti,  in  ver  tu  brami 
Questi  vestir  misteriosi  veli, 
E^dei  Mondo  fuggir  le  reti,  e  gli  ami , 
L*  origin  nostra  a  te  convien  ch'io  sveli, 
Acciò  tu  questo  loco  onori ,  ed  ami , 
Che  i  Cittadini  fabbricar  dei  Cieli . 
Fra  le  tacite  allor  Suore  divise 
Sovra  un  seggio  eminente  ella  s'assise. 
LXXL 
Trasse,  molto  cercando  a  manca ,  a  destra, 
-Di  tasca  alfin  gemino  vetro  rotto  . 
Maria  Beata  accorta  sempre,  e  destra  , 
Le  man  provvida  mise  ai  libro  sotto . 
Donna  Badessa  nel  legger  maestra 
Non  era ,  e  a  stento  profferiva  un  motto , 
Che  di  legger  divezza  era  a  tal  segno 
Per  le  cure  moltiplici  del  Regno. 
LXXII. 
Pur  molte  preci ,  e  molte  in  varia  foggia 
A  questoSanto  susurrate ,  e  a  quello, 
Fan  che  il  prisco  saper  di  nuovo  alloggia 
Nel  voto  spazio  di  quel  gran  cervello. 
Una  su  P  altra  per  udir  s'  appoggia  , 
L' origin  $acra  dei  comune  ostello. 
Memorie  auguste  d"*  un  sante  ricette 
Di  Fergin  suste  ,  da  gli  Angeli  eretto  , 

LXXIII. 
Di  quei  Volume  il  frontispizio  è  questo, 
Quindici    legge  la  famosa  Istoria. 
Ma  scritta  sotto  avvi  una  nota  al  testo  , 
Che  di  quel  Monastero  è  fregio  ,  e  gloria. 
Dice  la  nota  che  in  un  giorno  festo 
Per  antica  veridica  memoria 
Esser  dai  Cel    sceso  quel  Libro  è  certo. 
Dì  vivace  splendor  tutto  coperto. 


DECIMO  QUARTO.  ^ 

LXXIV. 

Ma  zittì  udiam  ,  che  la  Badessa  or  legge 
La  Storia  illustre  in  questi  detti  espressa . 
„  Quando^  quel  Dio  ,  che  P  Universo  regge  5 
„  Con  noi  quaggiù  vestì  la  carne  stessa  > 
,,  E  de  Tempio  Demon  tolse  a  ia  legge 
j,  Col  suo  soffrir  l' Umanitàde  oppressa, 
„  Del  gran  Persico  Impero  ebbe  la  culla 
a  In  Hispaham  Capitale  >  una  Fanciulla* 
LXXV. 

„  Sedea  Soffi   su  luminoso  Trono 
„  Il  Genitor  de  la  gentil  Donzella. 
5,  Costui  fra  i  Prenci  era  il  più  saggio ,  e  buono., 
,,  Come  di  tutte  era  colei  più  bella  . 
,,  Sempre  tardo  a  punir  ,  pronto  al  perdono  } 
,,  Tirannide  abborrh  spietata  ,  e  fella  '. 
,,  In  grazia,  ed  in  beltà  sua  Figlia   crebbe  , 
,,  E  costume  di  chiuderla  ei  non  ebbe. 
LXXVI. 

,,  Se  alcun  Guerrier  quella  felice  Corte, 
,,  O  Prence  alcuno  a  visitar  venia  , 
„  La  Giovinetta  con  maniere  accorte 
,,  Sempre  de  lo  Straniero  il  cor  rapìa  . 
„  La  fama  di  costei  crebbe  sì  forte  , 
,,  Fu  sì  nota  a  ciascun  sua  leggiadrìa  , 
„  Che  voleva  de  l'Asia  ogni  Signore 
3,  Mirarne  il  volto,  e  disputarne  il  core  . 
LXXVIL 

,,  Compiuto  quasi  il  diciottesim'anno  , 
,,  Vergine  ancor,  questa  Donzella  avea, 
„  Aliar  che  vide  un  Cavalier  Britanno  , 
,,  Che  quella  Corte  frequentar  solca. 
„  Per  molti  fregi,  che  gran  lustro  danno  , 
,,  La  commi  laude  ei  meritar  sapea; 
,,  Beltà  ,  spirto,  valor  ,  famose  Imprese 
t1  11  fcano  illustre  ;  ella  di  lui  s'accese. 


s 


%z6         CANTO 

LXXVIII. 

i,  E  s'accese  così  che  a  poco  a  poco 
5,  Élla  divenne  sua  perduta  amante, 
,,  Come  s'  innalza  da  scintilla  il  foco 
,,  Talor  fra  i  rami  di  frondose  piante, 
j,  A'  pie  del  Padre  in  solitario  loco 
„  Lagrimosa  prostrossi,  e  palpitante , 
,,  Dicendo:  O  Genitor,  l'avversa  Sorte 
i,  L*  unica  Figlia  tua  condanna  a  morte  r 
LXXIX. 

„  E'  sì  flaro  il  mio  mal  che  medicina 
„  Noim'è  per  esso,  e  farmaco  non    giova; 
j,  Morir  degg'io,  sono  a  morir  vicina, 
,,  Smania  mi  strugge  dolorosa,  e  nuova. 
5,  Ma  come  rosa  a  l'aura  mattutina 
,,  Il  perduto  vigor  lieta  rinnova, 
,,  Dal  cupo  avello  ,  ove  mi  spinge   il  Fato  , 
3)  Sol  può  trarmi  un  tuo  detto ,  o  Padre  amato* 
LXXX. 
,,  Poi,  d'onesto  rossor  tinte  le  gote, 
5,  Com'  ella  ardea  di  caldo  amor  gli  aperse  ; 
,,  E  quel  buon  Padre ,  che  soffrir  non  puote 
„  Che  la  cara  Figliuola  abbia  a  doicrse, 
S)  Le  rispose  propizio  in  dolci  note, 
3,  Strinsela  al  seno,  e  le  sue  luci  terse  , 
,,  Poi  disse:  Figlia,  al  CavaHcr  tu  Sposa 
53  Oggi  sarai ,  su  la  mia  fé  riposa, 
LXXXL 
s,  Ei  si  fé' innanzi  lo  stranier  venire, 
,,  E  a  lui  la  destra  de  la  Figlia  offrio. 
,,  Meglio  si  puote  immaginar  che  dire 
,,  Quanto  quegli  esultò  ,  quanto  gioio.^ 
3i  Qual  più  ti  piace,  in,  dote  a  te  largire 
,,  Una  Provincia  io  vo'  del  Regno  mio. 
,.,  Sì  diceva  il  buon  Padre  ,  ed  avea  pieno 
3)  Il  Cavalier  di  meraviglia  il  seno  ♦ 


DECIMO  QUARTO.   j*7 

LXXXIT. 

„  Del  felice  Imeneo  Fama  veloce 
»  Corse  ovunque  a  recar  l'alta  novella  ? 
,,  Ma  la  cre-de  ciascun  bugiarda  voce  , 
5,  E  di  favola  a  guisa  ne  favella. 
j,  Curioso  desio  agita,  e  cuoce 
„  I  fervidi  amator  de  la  Donzella  . 
„  Di  gelosa  ciascuno  ira  s'  accende 
„  Allor  che  vera  esser  la  voce  intende. 
LXXXIII. 

„  Diceasi  ancor  che  suoni  ,  e  danze,  e  canti 
3,  Giansi  apprestando,  e  una  festiva  giostra , 
3,  Per  celebrar  di  sì  felici  amanti 
3>  Le  fauste  Nozze  con  solenne  mostra; 
3,  E  che  tai  Nozze  far  doveansi  avanti  (strati 
3,  L'ora,  in  cui  scende  il  Sole,  e  il  Mare  inno- 
,,  Ufl  Egizio  Signor  ,  che  in  petto  molta 
3)  Ferocia  asconde  ,  tai  novelle  ascolta  . 
XXXXIV. 

„  Venne  costui  da  gli  Affrica  ni  Mti'i 
,,  E  il  fervente  suo  cor  d'amore  è  calda. 
,,  Come  ?  esclama  costui  ,  tutti  scherniti 
„  Nói  rivali  sarem  da  quel  ribaldo? 
,,  Partir  dovrem  mal  noti,  o  mal  graditi  v 
j,  Fia  l'oscuro  Stfanier  contento  ,   e    baldo? 
,,  E  soffri  rem  che  a  tanta  nostra  rabbia 
„  Ei  lieto  insulti  ,  e  quella  preda  s'abbi;.*? 
LXXXV. 

„  Ah!  nò  ,  per  Dio,  tutti  dobtiamei  eppoire1 
)}  A  chi  tanta  beltàde  a  tutti  toglie  . 
„  Chi  può  veder  sì  dolce  frutto  corre  , 
,,  E  starsi  cheto  ad  odorar  le  foglie? 
,,  Per  forza  andiam  sì  vaga  Donna  a  torre, 
,,  Serberemla  rapita  a  nostre  voglie  ; 
,,  Dividendo  ciascun  sarà  felice 
»•  Quel  che  intero  ad  alcun  goder  non  lice. 


8*8         CANTO 

LXXXVI. 

3,  Sì  dìcea  quei  protervo,  e  di  costui 
3,  Molto  ad  ogni  rivai  piacque  1' avvisa*, 
„  Dunque  ,  ei  disse,  mi  segua  ognuna -vui* 
,,  Ch'io  vi  dirò  ciò  che  d*  oprar  diviso. 
„  Tutti  allora  si  fèr  seguaci  sui , 
,,  Che  avean  d'amor ,  da  sdegno  il  cor  conquiso, 
,,  Tutti  giuraron  pria  silenzio  ,  e  fede  , 
»  E  volser  quindi  a  varie  parti  il  piede  . 
LXXXVIL 
,,  Lungo  saria  narrar  :Ja  pompa ,  il  fasto  j 
j,  Il  general  contento,  i  lieti  viva, 
„  Di  deiisat turba  il  fremito,  il  contrasto, 
,,  Che  le  piazze  ,  e  le  vie  correa  festiva  ; 
,,  E  le  danze  intrecciate  in  campo  vasto, 
„  I  suoni ,  i  canti  di  voce  giuliva  ; 
,,  E  le  vezzose,  ornate  in  varie  foggie, 
sj  Spettatrici  Beltà  su  pinte  loggie  , 
LXXXVIII. 
,,  Col  pie  veloce  dal  premuto  suolo 
5,  Gli  spumanti  Destrief  traggon  faville, 
3,  E  intorno  va»  dorati  cocchi  a  volo  , 
3,  Giran  fervide  ruote  a  mille,  a  mille; 
„  Là  si  vede  apparir  bellico  stuolo , 
3,  Che  dal  forbito  acciar  manda  scintille, 
,,  Qua  ,  di  Persica  man  sottil  lavoro  , 
s,  Splende  in  seriche  fila  argento,  ed  orò  * 
LXXXlX. 
i,  Ne  l'ampio  Circo  in  lungo  ordine  assiso 
„  Il  Vulgo  stassi  impaziente,  e  folto  , 
,,  È  fra  le  grida  festeggianti ,  e  il  riso, 
,,  De  le  battenti  palme  il  suono  è  involto. 
,,  Da' popolari  seggi  ecco  divìso 
„  Palco  eminente ,  adorno ,  e  ricco  molto  ; 
„  Ivi  gli  Sposi ,  ed  a  gli  Sposi  a  canto 
„  Siede  il  buonGenitor  con  regio  ammanto. 


DECIMO  QUARTO,    329 

XC. 

„  I  traditor  fra  quelle  turbe  stanno  , 
*,  Compier  bramando  la  funesta  Impresa  . 
„  Calma,  e  gioja  mentir  sul  volto  sanno  , 
„  Mentre  d1  invida  rabbia  àn  V  alma  accesa  ,' 
„  E  disponendo  qua,  e  là  si  vanno  , 
„  Chi  per  l'assalto,  e  chi  per  la  difesa. 
„  Poscia  da  lungi  ;  Si  pugni,  s'uccida  : 
j,  Ignota  voce,  non  attesa  ,  grida. 
XCI. 

j,  t  nudi  ferri  minacciosi  in  alto 
j,  Scuoton  gli  audaci  al  concertato  segno  , 
,,  A  la  guardia  real  muovono  assalto 
s,  Per  torre  al  Genitor  si  caro  pegno  . 
„  Spiccano  al  suol  le  genti  inermi  un  salto 
,,  Per  Jo  terror  de  l' attentato  indegno; 
„  E  chi  non  fuggi  ,  e  chi  al  periglio  accorre  f 
„  Per  mano  ignota  in  certa  morte  incoae* 
XCII. 
„  Come  in  pallajo  imbelle  ,  ove  T  astuta 
„  Volpe  nemica  insidiosa  venne, 
„  Odesi  a  un  tratto  a  questa  sua  venuta 
„  Strano  romor  de  l'agitate  penne; 
3,  Così  la  turba  popolar,  che  muta 
„  Prima  per  lo  stupor  tutta  divenne, 
„  Mirando  poi  questo  delitto  orrendo, 
„  Bisbigliando  fuggìa  ,  fuggìa  fremendo. 
XCIIL 
,,  Dal  comune  terror,  che  le  trasporta  , 
Fuggonle  Guardie  spinte,  e  il  Re  con  quelle; 
Fugge  lo  Sposo  ,  e  fra  le  braccia  porta 
Quella  Regina  de  le  Donne  belle. 
Ahi  !  dura  Sorte  ,  che  sventure  apporta 
A' buoni  spesso,  ahi!  troppo  avverse  Stelle  I 
Quell'iniquo  Affrican  dietro  gli  è  corso, 
E  tutto  il  ferro  gli  cacciò  nel  dorso . 


S3&         CANTO 

XCIV. 

„  AI  fiero  colpo  il  Gioviti  cade  estinto  5 
s,  Su  ia  Donna  il  malvagio  avido  piomba  , 
5,  Come  Falcon  ,  che  ira  gli  artigli  avvinto 
>,  Stringe  1'  esangue  Pollo  ,  o  la  Colomba  . 
a,  Monta  a  cavallo,  e  sembra  un  sasso  spinto 
,,  Dal  forte  impulso  di  rotante  fromba  , 
33  Tanto  è  veloce!  e  seco  trae  mal  viva 
3j  L'infelice,  non  so  ,  se  Donna  ,  o  Diva. 
XCV. 

3,  Co'  suoi  compagni  ei  corse  alquante  miglia 
9,  Fino  che  giunse  in  una  gran  pianura. 
3)  Là  di  prender  riposo  si  consiglia, 
3,  Parve  quella  a  ciascun  stanza  sicura . 
3,  Ma  il  giusto  Ciel ,  che  la  difesa  piglia 
3,  De  V  Innocenza  con  paterna  cura , 
3,  Non  vuol  che  sia  la  Vergine  infelice 
sa  Hesa  a  tutti  cornun ,  qual  Meretrice. 
XCVL 

j,  Mentre  il  ribaldo  ala  sua  preda  attende  y 
3,  È  la  Donzella  si  dispera  ,  e  piange  , 
5,  Sferica  nube  ,  oh  !  gran  prodigio  ,  scende, 
3,  Colorita  dal  Sol,  che  si  rifrange  , 
5,  E  quella  nube  si  dirada,  e  stende, 
,,  E  in  duo  grandi  emisferi  indi  si  frange  . 
3,  La^  Giovinetta  allor  circonda  ,  e  serra, 
a.  L'innalza  ,  e  toglie  a  l'odiosa  terra. 
XCVII. 

,,  In  bianca  veste  entro  a  ia  nube  siede 
5,  Un  Vecchio  venerabil ,  maestoso. 
,,  Soffice  seggio  ella  apprestato  vede  , 
3)  Che  a  sue  membra  abbattute  offre  riposo. 
3,  L'accerta  il  Vecchio  poi  ,  degno  di  [eds , 
3,  Che  di  tanta  sventura  è  '1  Ciel  pietoso  ; 
„  Ma  cotal  meraviglia  allor  la  prende, 
*,  Mista  al  dolor,  che  paco,  o  nulla  intende* 


decimo  quarto.  33j 
xcviii. 

,,  Con  fragrante  liquor  l'alma  smarrita 
5)  Richiama  H  Vecchio  ,  e  riconforta  i  sensi, 
3,  Le  dice  quindi  :  La  celeste  aita 
3>  Ti  salva  j  o  Donna,  da  perigli  immensi . 
si  Ombra  io  non  son  dal  cupo  A  verno  use  Uà 
3,  Fra  sulfurei  vapor  di  foco  accendi  ; 
3,  Suo  ministro  mi  scelse,  e  messaggero 
3,  L'Onnipossente,  acciò  ti  sveli  il' vero. 
XCIX. 

a,  E  m'inviò  ,  celeste  Spirto  avvolto, 
jj  Qual  tu  mi  vedi,  fra  terrene  spoglie. 
3,  Fia  da  crude  il  tuo  cor  pene  disciolto  , 
3,  Fien  volte  in  gioja  le  passate  doglie. 
j)  Morbo  sovente  periglioso  molto 
3,  Co  gli  schifosi  farmaci  si  toglie  ; 
*,  Tutto  così  per  tua  salute  eterna 
3,  Fé' chi  tutto  dal  Ciel  muove  3   e  governa. 
C. 

„  Queste,  che  sembrar  denno  aspre  sventure 
5,  Al  tuo  sguardo  mortai ,  che  poco  scerne, 
3,  fon  le  veraci  vie,  le  vie  sicure, 
„  Che  menan  dritto  a  Veritàdi  eterne. 
3)  Di  Macon  lascia  Je  vestigie  impure  , 
3,  Se  a  le  sedi  poggiar  brami  superne . 
o,  Un  maligno  impostor,  fallace  ,  e  tristo  , 
„  E' il  reo  Macon,  la  nostraguida  è  Cristo. 
CI. 

,,  Spiegando  poscia  ad  un  ad  un  le  viene 
„  Di  nostra  Fede  il  Vecchio  i  santi  arcani. 
3,  Dal  celeste  Favor  commossa  ,  tiene 
3,  Colei  teso  1'  orecchio  a' detti  strani  . 
3,  Fende  con  maestà  l'aure  serene 
3)  La  nube,  e  par  che  molto  s'allontani  . 
,,  Di  luce  intanto  il  Sol  versa  un  tesoro, 
„  E  la  ricopre  di  colori  ,  e  d'oro. 


33*        CANTO 


cu. 

s,  Su  questa  Selva  solitaria,  e  densa  , 
3,  Giunge  la  nube,  e  quivi  al  suol  ritorna  } 
ì,  La  Vergirt  lascia ,  si  ristringe,  e  addensa  3 
,,  E  col  celeste  Messo  in  Cielo  torna  . 
,,  Mentre  a  prodigiosi  colei  ripensa, 
,,  E  a  quella  nube  di  colori  adorna, 
,>  (  Nuovo  prodigio  !)  in  quel  medesrnogiornc 
a.  Mira  sue  fide  ancelle  a  lei  d'intorno. 
CIIL 

,,  Con  gran  piacer,  con  meraviglia  estrema 
3j  A  lei  ciascuna  ,  ella  a  ciascuna  corse  ; 
„  Par  che  di  traveder  sospetti,  e  tema, 
a,  O  di  sognar,  o  d'  esser  pazza  forse. 
33  Mille  mi  son  per  volontà  suprema, 
3,  O  Dònne  mie,  cose  inudite  occorse  , 
„  Diss'  ella  alfìn  4  ma  pria  eh'  io  narri  questa  , 
j,  Bramo  saper  come  qui  voi  giungeste  . 

-'"),  Le  risposero  quelle  ad  una  voce  : 
3,  Quel  che  ci  chiedi  tu,  dir  non  sapremmo 
3>  Tutte  per  te  vinte  da  duol  feroce, 
a,  Fonti  di  pianto  nostre  ciglia  femmo, 
3,  Tnfin  che  oppresse  da  1'  ambascia^  atroce 
a,  Più  che  a  sonno  a  sopor  brevechiuden  ii.c 
a.  Gli  stanchi  lumi ,  e  allorché  ci  destammo 
a  In  questa  Selva  tutte  ci  trovammo  . 
CV, 
,,  Colei  per  lo  stupor  muta  si  stette, 
33  Ed  a  Cristo  il  suo  cor  fu  servo  ,   e  ligio 
3,  Ciò  che  dal  Vecchio  udito  avea ,  credette 
3,  Di  Macon  rigettando  ogni   prestigio. 
„  Colme  di  pura  Fé  queir  alme  elette  , 
>,  Grazie  resero  al  Ciel  di  tal  prodigio, 
a,  Ella  i  nomi  invocò  prostrata  al  suoio ,  ' 
3>  De  lo  Spirto  ,  dei  Padre,  e  del  Figliuolo 


DECIMO   QUARTO.   ÌH 

CVL 

,,  Sparver  nel  bosco  allora  in  uno  istante 
,  (  Oh  !  novello  miracolo  stupendo  )# 
,  Molte,  e  molte  frondose  antiche  piante, 
[  E  vi  sì  venne  una  pianura  aprendo. 
L  Là 've  sorgean  quercie,  ed  abeti  avante, 
„  Marmorea  base  si  venia  stendendo  . 
E  Su  quella  base  un  Edifizio  alzosse 
L  Prima  che  il  Sol  su  1'  Orizzonte  fosse  : 
CVII. 
,,  Tutto  questo  Edifizio,  e  dentro,  e  fuora, 
»,  Porta,  scale,  giardini  ,  e  sale,  e  tetto  > 
k,  Fu  «la  celeste  man  costrutto  allora 
„  Con  fino  gusto,  e  con  iavor  perfetto. 
?)  Ben  vana  Impresa ,  e  non  possibil  fora 
„  Narrar  come  in  veder  1'  albergo  eletto  , 
a,  Che  in  deserta  surgea  densa  Foresta , 
„  Ciascuna  allora  sbalordita  resta  , 
CVIII. 
„  Co  gli  occhi  al  Ciel ,  ccn  alma  penitente 
j,  Adoran  poscia  il  sommo  Ente  ,  che  quello 
,,  Fé' da  gli  Angeli  suoi,  mirabilmente 
,,  Lieto  albergo  innalzar,  sicuro  ostello J 
L  E  menaron  lor  vita  santamente 
^  In  cotesto  Palagio  adorno  ,  e  bello; 
3,  Ma  prima  attinser  dal  vicino  fonte 
5,  Onde  lustrali  ,  e  si  bagnar  la  fronte,  " 
CIX. 
Qui  di  legger  fini  Donna  Badessa  , 
E  il  Libro  chiuse  ;  ella  mai  tanto  lesse  , 
Tar  che  la  Storia  nfl  gran  Libro  espressa 
Isabella  gentil  falsa  credesse. 
Ma  pur  finse  d'a\cr  la  fede  stessa  , 
E,  poi  ch'Inno  di  grazie  al  Ciel  diresse, 
pi  Maria  Fortunata  assunse  il  nome, 
fc  il  veJ  coperse  le  accorciate  chiome. 


334  CANTO  DEC.  QUARTO. 

CX. 

Compiute  alfin  le  cerimonie,  i  riti, 
Disse  Isabella:  Deh  !  narrate  in  questi 
Deserti  lochi  ,  sterili,  e  romiti, 
Con  qual  mezzo  trovate  e  cibo  ,  e  vesti. 
Poco  lungi  vi  son  prati  fioriti, 
Ove  pecore ,  e  buoi  pascer  vedresti , 
Risposer  quelle,  e  il  vello  poi  s'assembra 
Che  lane  presta,  onde  coprir  le  membra. 
CXI. 

Le  disser  pei  che  in  quelle  sacre  lane 
Cangiar  solcano  il  rozzo  vello  accolto  , 
Volgendo  a  Ville,  od  a  Città  lontane, 
Con  grave  stento  il  piede,  e  sudor  molto. 
Ma  se  a  ciò  che  a  narrarvi  mi  rimane, 
Voi,  che  or  m'udite,  dar  volete  ascolto. 
Pria  concedete  ch'io  riposi  alquanto j 
Tutto  spero  a  voi  dir  ne  l'altro  Canto, 


Fìm  dtì  Canto  Decìm»  &uArf< 


ÌÌS 
LA     M  0  11  T  E 

D'  ORLANDO. 


CASTO  DECIMO  QUINTO 


ARGOMENTO. 

Per  lo   Bosco  Isabella  errando  ,  ascolta 

T>J  Ulisse  il  pianto,  e  in  braccio  a  lui  sì  getta  0 

.  Jj*  amante  coppia  è  da  un  Pastore  accolla  , 
E  il  nodo  a   stringer  di  Imeneo  s1  affretta  . 
Pugna  Orlando,  ma  in  van  :  da  timer  colta  y 
Fugge  Angelica  ,  Orfeo  la  segue  in  fetta  y 
Seguonla  Orlando  ,  e  Oton  ,•  poscia  (  eh  !  delitto  ) 
"Da  P  empio  Otone  è  questo  Eroe  trafitte , 

V .  .L 

▼    oi ,  che  rinchiuse  in  siero  career  siete , 
Ver  cui  fora  l'uscir  grave  delitto, 
Questo  Canto  giammai  deh!  non  leggete. 
Per  voi  non  è  questo  mio  Canto  scritto. 
Àrdente  allor  di  libertà  ia  sete 
Fariasi  ,  e  il  vostro  cor  sariane  afflitto  ; 
}orse  dal  Chiostro  iuggireste  in  folla 
Co  la  tonaca  nera,  e  la  cocolla. 


3$$         CANTO 

IL 

Liete,  sicure  ,  placide,  e  beate, 
Lungi  dal  Mondo  torbido,  e  fallace  , 
Allor  che  siete  in  quel  soggiorno  entrate, 
Viver  credeste ,  ed  in  gioconda  pace . 
Ma  in  van  colà  Felicità  cercate , 
Che  da  voi  sempre  involasi  fugace, 
"Scherno  è  de  l' onde ,  o  rompe  in  secca  ignota 
>Jave  senza  timon  >  .senza  Pilota  , 
III. 

Vi  sono  alcune,  è  ver,  ma  $on  ben  rare 
Che  viver  liete  anco  nel  Chiostro  sanno, 
Ad  Isabella  io  voglio  ritornare, 
Che  delusa  non  fu  da  questo  inganno, 
Ella  il  dolce  piacer  volle  gustare,  # 
Che  d'ogni  acerbo  duol  compensa  il  danno, 
Benché  recise  avesse  già  le  chiome, 
Accolto  il  nero  vel  ,  cangiato  il  nome. 
IV. 

Bieco  al  mio  favellar  io  sguardo  volse 
Uno  zelante  difensor  del  Culto  % 
Cosi  suoi  voti  ,  disse  ,  ella  disciolse  , 
Tanto  facendo  a  nostra  Legge  insulto  ? 
L'alto  prodigio,  che  suoi  ceppi  sciolse. 
Così  serbò  ne  la  sua  mente  sculto  ? 
Freni  costui  lo  zel,  che  il  preme,  e  spinge, 
Novizia  è  ancor,  né  voto  alcun  la  stringe, 
V. 

De  la  mensa  annunziò  l'ora  felice 
Cavo  metallo  con  acuto  suono . 
Contenta  l'una  a  l'altra  suora  il  dice> 
E  tutte  già  nel  refettorio  sono. 
Ma  la  novella  Monaca  infelice 
Chiede  piangendo  al  Ciel  ia  morte  in  dono; 
E  mentre  ognuna  al  pranso  avviasi  in  fretta, 
Va  per  lo  Basco  soletta  soletta . 


tOECPMO   QUINTO.    337 

VI. 

Nel  fitto  séno  de  la  vasta  Selva 
Molto  errò ,  molto  pianse ,  e  molto  disse-* 
Di  lei  pietosa  ogni  feroce  Belva 
Fatta  sarìa,  se  i  suoi  lamenti  udisse  . 
Più  si  rimbosca  ognor  ,  più  si  T'inselva» 
Sempre  tenendo  al  suol  le  luci  fisse. 
Solleva  alfin  le  molli  ciglia  ,  e  scorge 
Un  vicin  poggio,  che  sublime  sorge. 
VII. 

Alto  è  il  poggio,  e  scosceso,  e  folta  erbetta 
Di  fiori  adorna  gli  s'aggira  intorno. 
La  Quercia  annosa  su  l'eccelsa  vetta 
Chiude  il  varco  severa  ai  Dio  del  giorno. 
Su  1'  ima  falda  erboso  speco  alletta 
A  dolce  sonno,  a  placido  soggiorno; 
y  acconcio  loco  al  passeggiero  stanco 
Offre  a  posar  1'  affaticato  fian.co  . 
Vili. 

Presso  a  l'antro  Isabella  si  ristette, 
E  parea  che  seder  quivi  volesse, 
Ma  voce  udì,  che  voce  d'uom  credette  * 
E  d'uom,  che  sospirasse,  e  si  dolesse. 
Presa  da  meraviglia,  attenta  stette s 
Desiando  saper  ciò  ch'ei  dicesse; 
E  tenendo  così  l'orecchie  tese  , 
Del  suo  fido  amator  la  voce  intese, 
IX. 

Fgli  dicea  :  Dolcissima  Isabella, 
Qual  duro  avverso  Fato  a  me  ti  toglie? 
Perchè  Fortuna  a' voti  miei  rubella 
Da  queste  membra  ancor  l'alma  non  scioglie? 
Dunque  lieto,  e  felice  Uomo,  e  Donzella 
FU,  che  d'Amor  frutti  vietati  coglie? 
I7-  tu  neghi  soltanto  i  tuoi  favori  , 
Destino  ingiusto,  a  gl'innocenti  amexi?  J 


$&         CANTO 

X. 

Oh  !  qual  destàro  i  teneri  lamenti 
S>upor  ne  Palma  d'Isabella,  e  gioja  ! 
Ella  non  puote^  profferir  gli  accenti, 
Palpita,  impallidisce,  e  par  che  muoja. 
Poscia,  versando  lagrime  a  torrenti, 
Che  mai  di  lagrimar  si  stanca  ,  e  annoja  , 
Senza  moto,  e  vigor  ,  fredda  qual  ghiaccio, 
Ai  caro  Ulisse  s'abbandona  in  braccio. 
XI. 

Come  su  tronco  V  edere  tenaci , 
vStanno  gli  amanti  avviticchiati   insieme; 
Scoccan  dal  muto  labbro  ardenti  baci , 
E  l'anelante  cor  sospira,  e  geme. 
Col  vomero  soicar  terre  feraci 
Potrebbe  Ulisse,  ma  oltraggiarla  ei  teme, 
E  onesto  brama  in  quel  propizio  istante 
Esser  piuttosto  che  felice  amante  . 
XII. 

Pare*  quel  loco  solitario  ,  oscuro 
Fatto  sol  per  celar  furti  d'Amore. 
Fu  per  Ulisse  aspro  tormento,  e  duro, 
Co  le  vivande  in  man  ,  fiutar  l'odore. 
Poi  che  gli  amplessi  alfin  cessati  furo, 
E  fu  posto  in  obblio  tanto  dolore, 
Ebbro  di  gioja  ,  ad  Isabella  disse 
Cotali  cose  il  fortunato  Ulisse , 
XIII. 

Fiamma  di  questo  core,  Idolo  mio, 
Che  più  s'indugia  or  qui,  che  più  si  bada? 
Poiché  propizio  a'  voti  nostri  è  Dio  , 
Di  quinci  uscir  cercar  dobbiam  la  strada. 
T  passi   tuoi  sempre  seguir  vogP  io 
Ove  guidarmi,  Ulisse  mio  ,  t'aggrada,  d 
Disse  Isabella  5  e  inesorabil  Morte 
Òol  divider  potrà  la  nostra  sorte 


DECIMO  QUINTO.    359 

XIV. 

Il  buono  Ulisse  allor  con  lei  s*  avvia  > 
Il  Ciel  pregando  con  sommessa  voce 
Che  lor  di  quinciuscir  mostri  la  via  > 
Ed  abbia  fine  ogni  vicenda  atroce  . 
Il  giusto  Ciel,  che  le  sue  preci  udia , 
Che  sol  per  poco  in  Terra  a' buoni  nuoce, 
Fé  che  l'amante  coppia  allor  rinvenne 
Breve  sentiero,  e  fuor  dal  Bosco  venne, 
XV. 

Pastor  canuto,  cui  la  chioma  incolta 
L*  omer  copriva  ,  e  folta  barba  il  mento, 
Videro,  ed  Isabella  a  lui  rivolta, 
Disse,©  Pastor,  vi  renda  il  Ciel  contento, 
Se  fra  i  lacci  d'Amor  vostr'alma  involta 
Provò  mai  cruda  angoscia,  e  rio  tormento , 
Pietàde  avrete  d'un  amante  coppia, 
Che  divisa  fin  or,  alfin  s'accoppia. 
XVI. 

Soggiunse  Ulisse  ;  Questa  sacra  veste 
Mai  si  conviene  è  vero,  a  caldi  amanti; 
Ma  ,  se  nostte  vicende  aspre  ,  e  funeste 
Bramaste  udir,  e  i  mali  nostri  tanti, 
La  verace  engion  certo  vedreste 
Di  questi  bruni  Monacali  ammanti. 
Deh  !  vi  piaccia  frattanto  offrir  pietoso 
A  due  stanchi  Stranieri  alcun  riposo. 
XVII. 

Lieto  rispose  il  semplice  Pastore: 
Amici  rniei ,  meco  a  posar  venite. 
Duolo  mi  reca  ognor  l'altrui  dolore, 
E  bramo  a  tutti  far  cose  gradite. 
Per  essi  da  quel  dì  cangiò  tenore 
Fortuna,  e  tur  le  pene  lor  finite. 
Visse  Isabella  al  caro  Sposo  in  braccio, 
Libera  sempre  da  ogni  cura  ,  e  impaccia 


?40         C     A     N     T     G 

XVIII. 

"Dà  quella  Dònna  volgo  lungi  il  passo- 3- 
Da  quella  Selva ,  e  da  quei  fidi  cori  , 
Ed  a  mirar  velocemente  io  passo 
Altra  Donna  ,  altra  Selva  ,  ed  altri  amori  * 
Or  veggio  ben  che  di  memoria  casso, 
Spinto,  ed  acceso  da* Febei  furori, 
Si  dal  dritto  sentier  fuori  son  tratto 
Che  quasi  il'.fijo  ò  già  smarrito  affatto. 
XIX. 

Ma  risovviemmi  d'Angelica  bella, 
I  cui  gra»  pregi  io  non  saprò-  scordarmi  ; 
E  mi  rammento,  ripensando  a  quella  , 
D'Orfeo,  d'Orlando,  valorosi  in  armi . 
Orlando  ,  e  Orfeo  per  la  gentil  Donzella 
Gran  cose  oprar,  che  aver  narrato  parmi  ;  ; 
E  sccscr  poi  su  volator  Destriero 
Da  la  Cometa,  in.  Bosco  folto  >  e  n?ro. 
XX, 

Su  quel  D^stiier,  su  quel  CavaM'-augellò 
Sceser,  che  Gcoa  già  cavalcò  quel  giorno- s . 
In  cui  disparve  il  magico  Castello , 
Di  gran  Pitture,  e  Simulacri  adorno. 
Poggiò  quel  Palafren  veloce  j  e  snello 
Su  la  Cometa  ,  e  in  Terra  fé -ritorno, 
In  quella  Selva  Angelica  portando, 
Orfeo  sagace.,  e '1  valoroso  Orlando, 
XXI. 

E  a-venne- ciò  di  Ferrai*  per  opra» 
Cui  servir  P  Ippogrifo  ognor  solea , 
Di  Ferraù,  che,  come  dissi  sopra, 
Educato  fanciullo  Otone  avea. 
Ei  perciò  lama,  e  a  suo  favor  s' ad oprav 
E  Angelica  gentil  ,  che  a  lui  piacea  , 
Che  avea  perduta  nel  Castel  distrutto , 
Ecnder  gli ,  vuoi ,  di , faci!  pugna  fruste  «, 


DECIMO   QUINTO.     341 

XXII. 

Or  che  tai  cose  io  mi  ritorno  a  mente, 
Posso  il  Guerriero  discoprir  chi  sia, 
Che  ad  Orlando ,  e  ad  Orfeo  ferocemente 
Si  cara  preda  a  disputar  venia . 
Egli  scese  a  turbar^  la  lotta  ardente  , 
Ch'  era  fra  i  duo  rivali  insorta  pria, 
Su  quel  Destriero  di  volar  mai  stanco  ; 
Un  brando  à  in  man,  l'altro  gli  pende  ai  fianco. 
XXIIL 

Otone  egli  è ,  eh'  ebbe  dai  Mago  dotto  , 
D*  opposta  tempra  le  incantate  lame  ; 
Un  ferro  è  1'  una,  che  non  ria  mai  rotto, 
L'altra  non  regge  a  bellico  certame. 
Questa  ei  porge  ad  Orlando ,  ivi  ridotto 
Vittima,  oh  !  Ciel,  d'un  tradimento  infarne, 
Pien  di  furor,  la  destra  al  brando  stende 
Orlando,  e  Oton  da  quel  Cavallo  scende. 
XXIV. 

E  questo,  e  quel,  che  ben sapea  di  scherma, 
Il  corpo  tutto  a  fiera  pugna  adatta; 
Rimansi  ritta  la  persona ,  e  ferma , 
E  la  gamba  sinistra  addietro  è  tratta  ; 
Or  la  destra  s'  innoltra  ,  ed  or  si  ferma, 
E  offesa,  e  scudo  insiem  la  spada  è  fatta; 
Valido  l'elsa  al  sen  scudo  si  rende, 
E  dal  nemico  acciar  ben  io  -difende» 

XXV. 
'    Oh!  fatai  cecità  di  menti  umane \ 
Oh!  folle  Amor,  chei  grandi  ingegni  oscura* 
Orso  con  Orso,  e  Can  rivai  con  cane, 
Spinti  sempre  a  pugnar  son  da  Natura  ; 
Però  che  quelle  femmine  inumane 
De  l'altro  amante  non  si  pigliati  cura  ,# 
Quando  il  primier,  che  al  gran  lavor  s'accinsCr 
Lor  fomite  animai  del  tutto  estinsc» 

P  3 


.1*»-        e    A    N     T    G 

XXVI. 
Ma  per  Donna  pugnar,  chea  dicci,  a'vsnti 
Forti  Campioni  aprir  potrebbe  il  varco , 
E  di  sangue  versar  caldi  torrenti. 
Mostra  d'insania  un  intelletto  carco- 
A  che  guastar  si  dolci ,  e  bei  momenti 
Go  le  pugne,  co  l'ira,  e  col  rammarco , 
Se  quel  piacer  ,  se  quel  sollazzo  stesso , 
Che  un  pria  gustòj  gustar  puòl'altro  appresso^ 
XXVII. 

Ma  sento  ale  u-a^,  chemormora,  eborbotta  2 
Com'  io  facessi  al  gentil  Sesso  oltraggio. 
Io >P  onestà  d'  Angelica  ,  incorrotta 
Pregio ,  ed  ammiro  il  suo  costume  saggio  J, 
Ma  per  salvar  da  sanguinosa  lotta 
Uom  di  tanto  valor  ,  di  tal  cèraggip, 
Che  perir  dee  sol  per  amor,  trafitto 3 
Uà  offesa  al  Pudor  noti  è  delitto. 
XXVIII. 

Se. stata  fossi,  Angelica,  men -bella, 
Ò  men  co' fidi  amami  tuoi  tiranna, 
Scampato  avresti  da  l'avversa  stella 
Orlando  tuo,,  che^  a  morte  io  condanna  ;  : 
E  daresti  ad  Orfeo  vita  novella  > 
Cile,  lo  spietato  Amor  strugge,  ed  affanna  ,*.. 
Ma  tu,  sol  perrserbar  tua  pudicizia , 
Tai  danni  apporti;  e  non  è  ciò  nequizia  ? 
XXIX. 

Ad  ambe  man  la  spada  Orlando  afferrai 
Jàr. sovra  l'elmo  tal  sendente  mena 
Che  il  Bosco  rimbombò,  tremò  la  terra 3 
E  turbata  ne  fu  l'aria  serena. 
Il  non  atteso  colpo  Otone  atterra >, 
E  il  fino  elmetto  suo  resiste  a  pena. 
Ma  il  brando  infido,  come  vetro  fosse -s 
In  mille,  schegge,  subito,  spezsosse. 


LCIMO  QQfN;TO.    §■&:■ 

XXX. 

Orlandoallor,  che  al  mal  temprato  acciaro 
Troppo  addossi,  d'irà  ebbro,  ed  insanii 
Speziato  quello  ,  in  van  cercò  riparo, 
Ed  inerme  piombò  sul  Musulmano . 
Arse  tutto  di  rabbia  al  caso  amaro, 
E  si  mordea  la  disarmata  mano, 
Mentre  quel  traditor  caduto  al  suolo 
Freme*  3  ricolmo  ài  vergogna,  ■e^duo-lo*- 
XXXI. 

Come  qualor  la  collera  ,  la  rabbia  ' 
DuoTeroci  Mastini  a  guerra  spinse. 
Se  giace  l'uno- su  ia  mobil  sabbia 
■Sotto  il  nemico  dorriator ,  che 'L  vinse-; 
.Digrigna  i  denti  ,  si  dibatte,  arrabbia, 
E  morder  tenta  chi  a  cader  1'  astrinse  ; 
Con  tremendo  ringhiar,  con  bieco  guardo 
U  altro  sopra  gii  sta  fiero,  e  gagliardo^ 
XXXII. 

Ambi  così  -l' un  sovra  l'altro  stanne; 
I  duo  Guerrier,  famosa,  illustre  coppia  > 
Che  con  mano  ,  e  con  pie  recarsi  danno 
Tenta  ,  e  si  afferra ,  e-  il  suo  furore  addoppia  L 
La  tema  ,  e  V  ira  ,  lacerando  vanno 
Angelica^  e  divien  sua  tema  doppia  ;  - 
Non  teme  sol  che  pera  Orlando  vinto;  > 
Ma  che  sia  vineicor  chi  brama  eslinto. 
XXXIII. 

Ella  viver  volea  d'Orlando  priva  : 
Anzi  che  dal  ribaldo  esser  rapita, 
£■  pel  Bosco  a  Cavallo  errando  giva  , 
Perchè  ogni  traccia  sua  fosse  smarrita . 
Ma  dietro  Orfeo  da  lungi  le  veniva  , 
L'amante  Orfeo,  che  perder  vuol  la  vita* 
Pria  che  lasciarla  ne  l'oscura  Selva, 
Vittima. forse  d' aggressore  di  Belva. 


$44  CANTO 

XXXIV, 

Il  Mago  allor ',  che  non  sentito,  o  visto  ? 
Il  presente ,  il  futuro  ,  e  vede  ,  e  sente , 
Ai  fuggir  de  la  Donna  avea  provvisto  , 
Per  serbarla  ad  Oton  ,  mirabilmente  . 
Con  tale  ingegno  oprato  avea  quel  tristo  , 
D'alti  prodigi  ordinator  possente, 
Che^  al  suo  soggiorno  la  Donzello,  trasse  5 
E  fé  che  quivi  per  celarsi,  entrasse. 
XXXV. 
I  duo  Guerrier,.  che  nel  htil  cimento 
Volgeano  sempre  a  la  Donzella  il  guardo, 
Per  meraviglia  de  l'ingrato  evento 
Tregua  al  contrasto  dièro  aspro, e  gagliardo* 
Cede^  ad  Amor  io  sdegno  in    quel  momento, 
Ambi  saltano  in  pie  senza  ritardo  ; 
E  come  amico,  il  valoroso  Orlando 
Va  con  Otone  Angelica  cercando» 
XXXVI. 
Tigre  così ,  mentre  in  foresta  Ircana 
Tremenda  insegue  con  furor,  con  fretta 
Il  Cacciatoi*.  >  che  da  l'oscura  tana 
Rapi  la  cara  prole  pargoletta  ; 
Se  allor  che  poco  ella  è  da  lui  lontana  , 
Un  de*  suoi  figli  accorto  al  suolo  ei  getta  * 
Sol  da  materno  amor  sospinta,  corre, 
Lasciando  il  Cacciator  ,  quello  a  raccorre  * 
XXXVII. 
Ma  non  temeva  il  destro^ Musulmano, 
Che  il  gran  poter  di  Ferraù  sapea , 
Vo'dir  del  Mago,  e  Angelica  in  sua  mano 
Sa-peaf  che  al  certo  ricader  dovea . 
Pur  da  questo  pensier  mplto^  lontano 
In  presenza  d'Orlando  ei  s' infingea  , 
Con  perversa  bramando  alma  feroce 
Aspra  vendetta  di  quel  colpo  atroce* 


DECIMO  QUINTO.    M5 

XXXVIII. 

E  cosi  aT  prode  Orlando  ad  arte  ei   éisse.  : 
Or  che  smarrito  abbiamo  il  dolce  oggetto 
Di  nostre  lunghe  ,  sanguinose  risse  , 
Ed  il  pugnar  privo  saria  d'effetto  ; 
Acciò  che  Sorte  rea  non  ci  rapisse 
Dopo  tanto  sudor  tanto  diletto  » 
Colei  cercar  miglior  consiglio  fia 
Sul  mio  stesso  Destriero ,  in  compagnia  . 
XXXIX. 

Per  l'aure  il  mioDestrier  batte  le  piume  .,.. 
Ma  non  temer  che  a  volo  ardito  ei  saglia, 
Se  a  te  non  piaccia;  è  docil  per  costume, 
E  niun  Destriero  in  senno  a  lui  s'agguaglia. 
L'ire  non  teme  del  cruento  Nume  , 
li  giova  al  Cavalier  ne  la  battaglia. 
Gol  suo  favor  raggiugnerem  di  volo 
Angelica  gentil,  radendo  il  suolo. 
XL. 

Piacque  ad  Orlando  tal  pensier  ;   ben  noto' 
Gli  è  T  Ipprogrifbj  e  prova  ei  già  ne  i'èo 
Quel  dì,  che  scese  dal  Pianeta  ignoto 
Con  Angelica  stessa,  e  con  Orfeo. 
Dal  vecchio  Mago,  che  in  sua  cella  immoto  3 
Tanto  a  favor  d' Otene  oprar  potèo, 
Fu  pria  con  arte  magica  ,  di  tutto 
Ciò  che  far  dee,  quell'  Ippogrifo  istrutto^ 
XLI. 

In  sella  Otone,  ingroppa  Orlando  ascende 
Su  quel  robusto  volator  Destriere, 
Che  presso  al  suol  veloci  i  vanni  stende  > 
£  le  placide  solca  aure  leggiere. 
MolreggeOton  ,  né  il  freno  allenta ,  o  tende  s 
£d  il  Cavallo  guida  il  Cavaliere  . 
Ciunto  nel  mezzo  de  la  gran  Foresta  , 
Qve  il. Mago  soggiorna  ,  ivi  ei  s'  arrsfti*»; 


34*         CANTO 

XLI1. 

Quivi  si  stava  Angelica  dolente  ', 
Orfeo  non  già,  perchè  1'  avea  smarrita  , 
Ella  il^  timor  cangiarsi  in  gioja  sente 
A  la  vista  d'Orlando  a  lei  gradita. 
Ma  contra  Otone  è  1'  odio  in   lei  possente  j 
Amor  trattienla  ,  odio  a  fuggir  V  invita  ; 
Fuggir  vorria  ,  ma  un  invincibil  forza 
A  rimaner  ,  mal  grado  suo  *  la  sforza . 
XLIIL 

Orlando,  che  colei  quivi  ritrova. 
Colei,  che  tanto  gli  à  ferito  il  core  , 
Molto  stupor  ,  molto  diletto  prova, 
Scende  a  terra  d'un   salto,   ebbro  d'amore, 
Misero  Orlando ,  oimè  !  che  mai  ii  giova 
Di  Sorte  infida  il  passeggier  favore? 
DelMago  a  un  cenno  un  calcio  ilDestrier  vibra* 
Un  calcio  tal  che  lo  stordisce ,  e  sfibra  . 
,      XLIV. 

Esangue  ei  cade,  eOton,cui  brama  in  sena 
D'alta^  vendetta  ,  e  antica  rabbia  ferve  , 
Snuda  il  magico  ferro  in  un  baleno, 
Volge  bieche  al  rivai  luci  proterve  ; 
(  Su  la  preda  piombar  veloce  meno 
Suole  il  Falco,  o  l'Augel ,  che  a  Giove  serve  ) 
E  quel  perfido  acciar  nel  destro  fianco 
Tutto,  ahi!  vista,  s'asconde,  esce  pei  manco  r 
XLV. 

Ecco  qual  fu  la  deplorabil  morte 
Di  quel  Campion ,  di  quel  famoso  Orlando, 
Che  in  guerra  sempre  valoroso  ,  e  forte, 
Sempre  di  lauri  si  copri  pugnando. 
Amor  1*  accese ,  e  la  nemica  Sorte 
Morir  lo  fé  per  tradimento,  amando. 
Poiché  il  prode  Guerriero  or  più  non  rive. 
Io  mesto  fuggo  le  Castalie  rive . 
IL     FINE. 


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