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Full text of "La Nuova fioritura; racconti, novelle, monologhi e versi, di Pastonchi [et al.] Con ritratto e biografia di tutti i su citati autori"

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AZ04 


150  Cent.  50. 


LA 

NUOVA  FIORITURA 

RACCONTI  NOVELLE,  MONOLOGHI 
e  VERSI  di 

PASTONCHI  X  GAN'DOLIN  -  PIRANDELLO  .  CENA  -  DADONE  - 
PALMARINI  ^  THOVEZ  ^  VILLA  .  CORRADINI  .  CLARVY  - 
FERRIANI  ^  LAMBERTINI  -  LAURÌA  -  BELTRAMELLl  -  DE 
LUCA  PINCHIA  -  TUMIATI  .  DAUDET  -  DE  AMICIS  .  DI  SAN 
GIUSTO  '  FOÀ  .  FAVA  /  LESSONA  .  ZOCCOLI  .  ROCCATA- 
GLIATA-CECCARDI  -  DIOTALLEVI  .  PUCK .  BONTEMPELLI  . 
GIGLIO^TOS  '  MANTEA  .  RINIERI  ^  STURA. 

Con  ritratto  e  biografia  di  tutti  i  su  citati  Autori 


RENZO  STREGLIO  Sf  C.  Editori 

Torino  -•  Galleria  Subalpina 

Genova  «^azza  Fontane  Marose  (Vico  Stella.   24 


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€^'?i;rycFio^V' 


LA  NUOVA  FIORITURA. 


Proprietà  Letteraria 

Vielata,  a  lendine  di  lcgge,^ogni  e*qualsiasi  riproditzione 
0  traduzione 


AI  LETTORI, 

Lo  scopo  di  questa  nostra  NUOVA  FIORITURA  e  quello  di  provare  al 
gran  pubblico  dei  lettori  l'erroneità  dell'affermazione  che  la  nostra  letteratura 
moderna  italiana,  o  almeno  la  parte  migliore  di  essa  —  romanzi,  novelle  o 
versi  —  non  sia  divertente,  come  con  singolare  accordo,  e  con  ben  poco 
amore  per  le  cose  nostre,  molti  critici  osannanti  agli  scrittori  goti  ed  ostrogoti 
mostran    di   credere  e  di  voler  far  credere. 

*  E  la  prova  nasce  limpida  e  si  afferma  in  queste  pagine  che  oggi  prescD' 
tiamo  al  pubblico  italian'".  ed  in  cui  abbiamo  raccolto  saggi  letterari  pregevoli 
sotto  ogni  riguardo.  V'atti  da  opere  di  ifiolti  nostri  scrittori  e  poeti  giovani,  i 
quali  tutti,  in  fatfo  di  interessare,  commuovere  ed  avvincere  l'animo  dei  lettori 
possono  vittor.'osamente  gareggiare  coi  più  celebrati  scrittori  stranieri. 

Se  nn  si  sia  riusciti,  con  questi  saggi  scelti  a  caso,  a  smentire  una  fola 
a  cui  /a  troppo  tempo  si  presta  cicca  fede,  lo  dicano  i  lettori  cortesi  dopo  aver 
lc«  questa  NUOVA  FIORITURA  ad  essi  dedicata. 

GLI  EDITORI. 


SONETTI 


Il  fiorire  del  pesco. 


L'offerta. 


L'esile  pesco  al  marzo  che  lo  allaccia 
Fiorirebbe,  ma  vede  ancora  i  monli 
Troppo  nevosi  e  tenie  che  lo  aD'ronli 
D'aspri  venti  ima  sùbita  minaccia. 

Anche  teme  che  il  suo  fiorir  dispiaccia 
Al  f^rande  pioppo,  il  re  degli  orizzonti, 
I''  al  vecchio  lieo  che,  a  vernarne  i  pronti 
Spiriti,  allarga  le  paterne  braccia. 

Ma  una  ti-|)i<la  notte,  ecco,  lo  invaile 
l'ii  languore,  un  tremore,  un  desio  l'dlle. 
Pili  come  un  lungo  anelitcì...   K  l'aiuora  ; 

E  vede  sé,  fulgente  di  rugiade. 
Chiuso  in  un  roseo  nembo  di  corolle 
Che  ai   venti  mattutini  esita  e  odora. 


O  leggiadria  d'un  vnlii)  feniniinili- 
Che  d'ingenue  fiamme  s'invermiglia 
Amoroso  :  e  più  dolce  meraviglia. 
Se  ancor  Io  avvolga  d'un  suo  raggio  ; 

Cosi  vidi  un  mattin  iniesla  gentile. 
Andando  in  mezzo  ai  fior,  chinar  le  n 
Con  volto  che  all'auror.i  s'assomiglia, 
K  balenarvi  un  riso  puerile. 

Ma  poi  subitamente,  fitta  certa 
Che  nessun  la  scorgtn  d'oltre  i  cin. 
Alzò  gli  nciliì  sti-llanti  nel  rossore.  . 

F.  una  ro^a  m'oDri,  duplice  oITcrln, 
l'oi  chi-  dirmi  p.irenn  ipiegli  occhi  Ik-11 
—  Prendi  anche  me;  sim  tua;  portami,  ; 


Il  giogo. 


X.  . 


V'eccliio  era  il  gioito,  e  poi  che  il  buon  villani 
D'elette  forme  non  .^enlìa  dispregio, 
Un  'nitro  ne  aciiuistò,  nuii   tozzo,  egregio 
Per  scolpilura  e  del   più   lieve  onlano. 

K  disje,   innanzi  ai   bovi,  nella  mano 
Protesa  bilanciaiulolo  :   «   In  ,:;rau  pre:.;io 
Abbiatelo.   Guardate  che  bel  fregio, 
1'"  ipianlo  è  snello,  senza  nocchi  e  sano  "._ 

Ma  cauto  un  bove,  con  sollìanti  naii. 
S'accostò,  lutto  l'annusò  d'intorno; 
Poi  deluso,   tornando  verso  il   Iruogo, 

Agli  altri  che  attendean   mnggi  :  —  Comp.iri. 
Poco  è  da  rallegrarci  ;  umile  o  adorno. 
Rude  o  leggiadro,  esso  è  pur  sempre  un  i^io;  ' 


Alla  tua  salda  fronte  non  si  altari!  i 
Il  verso  vaporoso  di  fintasmi. 
Essa  è  degna  del  bronzo  clic  la  pl.i  :'■ 
Nitida  e  ferma  in  cerchio  di  medni;' 

Ah  !  ipiante  ansie  di  atles,!  e  di  b.m  i. 
Slremeran  l'uomo  e  punte  di  sArc.iMiii 
Crude,  prima  che  amor  toro.t  di  si^ismi 
(Juesta  fredda  Iwllc/Jta  che  nii  nhlM^lia. 

M.»  Ili  vivi  di  1  ' 

Per  cento  speivln. 
Di  carnali  clcsii,  |>ut  seinpic  int.kll.i  .. 

Infm  che  un.  caliM-stato  da' tuoi  pud" 
Fra  lo  sliipor  di  lutti  rIì  iillri  imlxlli 


Intermezzo  Primaverile 


La  primavera  è  giunta. 
E  se  fiore,  dai  peschi 
Abbri videi!  ti  ai  freschi 
Venti,  non  anche  spunta 
E  se  pioppo  non  svaria: 
Primavera  è  nell'aria. 

Per  la  recente  pioggia, 
Nitida  è  la  montagna  ; 
Non  un  vel  pigro  stagna 
.Sui  campi,  donde  poggia 
L'  allodola  nell'alto 
In  un  canoro  assalto. 

Lieto  è  il  fragor  dell'onda 
(  jonfia  contro  le  prode  ; 
Tutta  la  terra  gode 
Nell'attesa  feconda, 
Tutta  la  terra  brilla 
Nell'attesa  tran(|uilla. 

Primavera  è  nei  cuori, 

Ogni  sperar  s'aH'ranca  : 
La  massaia  spalanca 
Le  finestre,  che  odori 
Di  buone  aure  la  casa 
Dal  primo  sole  invasa. 


Quasi  un  fruscio  di  spole. 
Quasi  un  ritmo  di  danze. 
Empie  le  aperte  stanze  : 
Canti  di  fresche  gole 
Palpitan,  d'improvviso 
Interrotti  da  im  riso. 

E,  come  in  liete  feste, 

.Suonan  le  vie  tra  un  gaio 
.Salutarsi  e  un  abbaio 
Di  sui  carri.  L'agreste 
Opera  ai  solchi  nuovi 
Sospinge  uomini  e  bovi. 

Balzano  da  una  .soglia 

Fanciulle  in  vesti  chiare, 
Che  il  dolce  tempo  a  errare 
Per  le  campagne  invoglia, 
E  in  desio  con  le  braccia 
L'una  all'altra  s'allaccia. 

O  Giovinezza,  o  Aprile, 
Datemi  voi  leggeri 
Sogni,  non  già  [lensieri, 
Svegliandomi  un  gentile 
.Spirito:  ch'oggi  al  ramo 
Fiori,  non  fruiti,  io  bramo! 


IL 


FRANCESCO  PASTONCHI 


LA  MACCHINA  PER  VOLARE. 


(Monologo). 


(All'alzarsi  del  sipario  Pompeo  Palamidoni,  con 
le  mani  incrociale  sul  dorso,  la  lesla  china, 
passeggia  su  e  giit:  poi  si  ferina  e  guarda  l'oro- 
logio) . 

Ha  detto  alle  6  precise  e  ora  sono  le  6.20 

anzi  le  6  e  23 gli  do  ancora  dieci  minuti  di 

tempo  e  poi  lo  mando  all'inferno   lui  e  i   suoi 

milioni se   ha  venti   milioni,    io   ne   ho   cin- 

(]uanta.  .  cento...  e  dove?...  (baltendosi  la  frònle^ 


Qui.  Con  che  cosa  si  fanno  i  milioni?  coi  quat- 
trini ?  mi  fate  compassione  !  I  milioni  si  fanno 
con  le  idee:  e  io  sono  \in  uomo  pieno  d'idee. 
Ma  non  basta  avere  delle  idee;  è  anche  neces- 
sario sapere  come  metterle  fuori.  E  come  si  fa 
a  metterle  fuori  ?  Si  fa  cosi  :  {caz>a  dalla  tnanica 
UH  lungo  rotolo  di  caria)  Ecco  un'idea  che  vale 
tanti  milioni  che  al  solo  pensarci  fa  spavento. 
Stamane  sono  andato  dal  banchiere  Miranda 
e  gli  ho  detto  : 


—  Sa  chi  sono  io?  Io  sono  l'ingegnere  Pala- 
midoni ;  lei  metta  centomila  lire  a  mia  disposi- 
zione e  io  dentro  l'anno  le  faccio  guadagnare 
tanti  milioni,  che  Rothscild  a  suo  confronto  di- 
venta un  mendicante,  uno  straccione,  un  nuHa- 
tenente. 

Il  banchiere  Miranda  deve  essere  un  uomo 
furbo  assai,  un  uomo  che  ha  il  colpo  d'occhio 
negli  atìari,  perchè  mi  ha  risposto  subito  : 

—  Metto  a  sua  disposizione  tutto  quello  die 
vuole,  ma  non  in  questo  momento  perché  ho 
molto  da  fare:  ripassi  tra  un  paio  di  mesi. 

—  ì\Ia  si  figuri,  questo  è  un  aft'are  che  non 
ammette  ritardi  ;  ogni  settimana  che  passa  sono 
dieci  milioni  buttati  via. 


—  Quando  è  così  —  mi  ha  detto  —  k-i 
m'aspetti  alle  6  precise  in  piazza  Grande  ;  se 
non  mi  \ede,  sarà  per  un  altro  giorno. 

Ora  io  lo  aspetto  ancora  dieci  minuti  e  poi 
vado  a  Londra,  e  se  non  vado  a  Londra  vado 
a  Pietroburgo,  e  se  non  vado  a  Pietroburgo  vado 
in  America  ;  anzi  prima  di  partire,  mando  tanti 
dispacci  per  sentire  le  offerte  che  mi  fanno  ;  e 
se  c'è  un  paese  che  mi  offre  di  più,  ebbene  io... 
vado  a  quel  paese.  Perchè  in  Italia,  per  l'amor 
di  Dio!  Tempo  fa,  avevo  inventato  un  mecca- 
nismo per  impedire  Io  scontro  del  treni.  Vado 
a  Roma,  lo  propongo  al  ministro  dei  lavori  pub- 
blici e  sapete  che  cosa  mi  risponde  ?  Che  bisogna 
rispettare  le  abitudini,  e  che  i  viaggiatori,  ormai, 
sì  erano  abituati  ai  disastri. 

Ah,  ma  orala  farò  finita  io!  Non  più  ferrovie, 
non  più  locomotive,  non  più  mancanza  di  vagoni 
nel  porto  di  Genova  !  Ecco  qua  !  (svolge  il  rotolo^ 
di  carta)  Che  cos'è  questa  ?  Questa  è  la  mia  ul- 


tima invenzione.  La  macchina  per  volare.  Qui 
si  capisce  poco  dai  profani  ;  ma  la  macchina  è 
di  una  semplicità  tale  che  la  capirebbe  anche 
un  ragazzino.  Come  è  nata  l'idea  di  una  mac- 
china a  vapore  ?  Guardando  una  caffettiera.  E 
a  me  come  è  venuta  l'idea  di  una  macchina  per 
volare?...  Guardando  un  caffettiere.  O  piuttosto 
era  il  caffettiere  che  guardava  me,  perchè  gli 
dovevo  una  cinquantina  di  lire;  ed  io  pen.savo: 
A  momenti  uscirò,  ina  egli  è  capace  di  venirmi 
appresso  e  farmi  anche  una  scena  sulla  strada  ; 
ma  se  io  avessi  una  macchina  per  volare!... 

Pensa  e  ripensa,  egli  non  ebbe  le  cin(]uanta 
lire,  ma  io  scopersi  questa  macchina  portentos.i. 
che  è  tutto  il  contrario  di  quello  che  disse  ."Krchi- 
mede  :  Toglietemi  un  punto  d'appoggio  e  io  mi 
sollevo  dal  mondo. 

E  un  meccanismo  cesi  semplice  che  pare  quasi 
una  burletta.  Ecco  di  che  si  compone  :  d'una 
navicella,  d'un  motore  a  gaz,  di  due  ingranaggi 
a  scambio  simultaneo,  di  una  trasmissione,  di 
una  puleggia  e  di  due  grandi  eliche  di  tela,  con 
un  movimento  centrifugo,  e  infine  di  un  ma- 
nubrio   con    lo    stantuffo  ad  aria    compressa.  E 

funziona  così:  il  motore  naturalmente igesli) 

allora  per  via  degli  ingranaggi (e.  j.)  le  ruote 

della    trasmissione   subito  si (r.  i.)  in  modo 

che  la  puleggia  naturalmente...  si...  (<•.  s.\  così 
che  l'elica  di  destra...  (gira  a  (ondo  il  braccio) 
e  l'elica  di  sinistra...  (e.  s.)  in  modo  che  basta 
afferrare  il  manubrio  {gesti  verticali  cernie  se  gi- 
rasse rapidatiicnté\  e  allora...  immediatamente  lo 
stantuffo...  (gesti  come  se gitlasse  tutte  in  aria)  e 
questa  è  la  macchina  per  volare. 

Ora  mi  direte  :  —  va  bene  ;  abbiamo  capito 
perfettamente:  ma  a  che  cosa  serve  una  macchina 
per  volare  ? 

—  A  che  serve  ?  Ma  serve  a  lutto  ;  dalle  più 
grandi  alle  più  piccole  necessità  della  vita. 

Non  parlo,  prima  di  tutto,  dei  viaggi  ;  con 
una  spesa  che  è  una  miseria  e  in  sole  venticjuat- 
tr'ore,  voi  potete  andare  in  America.  Mettiamo 
il  caso,  voglio  andare  a  Monte  video  e  come  fo? 
Metto  in  moto  la  mia  macchina  e  mi  innalzo  a 
cinque  o  sei  mila  metri,  poi  mi  fermo  a  vedere. 
Il  mondo  gira  sotto  di  me:  io  vedo  passare  sotto 
i  miei  occhi  la  Francia,  la  Spagna,  il  Portogallo, 
l'Oceano  Atlantico  ;  poi  vedo  un  mucchio  di 
ca.se  e  dico:  se  non  ìsbaglio,  quello  è  Montevideo! 
E  allora  discendo  fresco  come  una  rosa,  entro 
in  mio  dei  primi  alberghi,  vivo  come  un  prin- 
cipe e  poi  dico:  Mi  si  prepari  il  conto  che  quest.» 
si^a  si  va  via  !  E  mentre  il  conio  mi  aspetta  sul 
portone  io  vado  via  dalla  finestra. 

I  .servigi  che  può  rendere  poi  la  mia  macchina 
nei  casi  minuti  della  vita  sono  incalcolabili.  Vn 
giro  di  manubrio' e  siete  salvi  da  qualunt^ue  sec- 
catore. \'oi  mi  direte  :  —    ma  anche  i  seccatori 


saranno  provvisti  della  niaccliina  e  ci  potranno 
inseguire  e  raggiungere?  —  Ho  pensato  anclie 
a  questo. 

Come  c'è  una  legge  clic  regola  il  porto  del- 
l'armi, cosi  il  Governo  dovrebbe  regolare  l'uso 
della  macchina _  per  volare  e  questa  macchina 
sarebbe  severamente  proibita  ai  creditori,  ai  con- 
certisti, agli  agenti  di  assicura;4Jone  sulla  vita,  alle 
suocere,  ai  giovani  autori  drammatici,  a  quelli 
che  scrivono  dei  monologhi,  a  quelli  che  li  reci- 
tano e  altre  simili  categorie. 

Proibita,  s'intende,  anche  alle  mogli,  non 
perchè  siano  una  categoria  seccante,  anzi,  tut- 
t'altro...  ma  perchè  potrebbero  abusarne. 

Il  marito  rientra  in  casa  e  non  trova  la  consorte. 

—  Dov'è  mia  moglie  ? 

—  Oh,  signor  padrone...  la  signora...  è...  è 
salita  in  cielo  '.... 

Uno  riceve  una  consolazione  di  i|uesto  genere 
e  poi  capisce  che  è  un  equivoco. 

Proibire  anche  la  macchina  ai  giovani  scapoli, 
ai  vili  seduttori  che  minaccerebbero  sempre  la 
pace  domestica  .sotto  quella  forma  di  volatile. 

yuando  avevo  moglie,  ero  geloso  come  Otello... 
ossi;i  il  marito  di  Desdemona...  ovvero  il  moro 
di  Venczig.  Per  mia  tranquillità  avevo  inventato 
il  contatore  coniugale.  Un  alt/o  meccanismo  che 
mi  avrebbe  reso  Dio  sa  quanti  milioni,  ma  che 
avrebbe  fatto  Dio  sa  cpianli  infelici.  Era  un  mec- 
canismo semplicissimo  che  avevo  applicato  — 
senza  clvs  mia  moglie  ne  sapesse  niente  —  sotto 
il  sofJi  del  salotto. 

Mia  moglie  pesava  quarantasei  chili:  era  una 
donna  leggerissima.  Tutte  le  sere,  rientrando  in 
casa,  davo  un'occhiata  al  contatore:  o  non  segnava 
nulla,  o  segnava  quarantasei  chilogrammi.  Un 
giorno  dovetti  partire  per  un  viaggio  brevis.simo. 


Tornai  dopo  veiitiquattr'ore,  abbracciai  mia 
moglie,  deposi  la  valigia  e  andai  a  guardare  il 
contatore  ;  segnava  sempre  c|uarantasei  chilo- 
grammi. 

jDavanti  a  questo  esperimento  decisivo,  la  mia 
gelosia  sfom  parve. 

La  sera,  andai  a  una  riunione  di  speculatori 
che  dovevano  mettere  a  mia  disposizione  venti 
milioni,  per  una  mia  macchina  che,  se  non  ai 
fosse  fermata,  avrebbe  realizzato  il  modo  perpetuo. 
Rientrai  in  casa,  per  abitudine,  diedi  un'occhiata 
al  contatore.  Corpo  di  Giuda  !  segnava  cento  e. 
ventitre  chilogrammi  I  Io  era  dunque  tradito  da 
bep  settantasette  chilogrammi  di  persona  scono- 
sciuta !  Mia  moglie  tentò  giustificarsi,  dicendo 
che  anche  la  serva  si  era  seduta  sul  sofTi.  Vile 
menzogna  ! 

Procedetti  subito  ad  una  verifica.  La  mia  serva 
non  pesava  che  sessantatre  chilogrammi  ;  man- 
cavano dunque  quattordici  chilogrammi  alla  fe- 
deltà di  mia  moglie  ! 

Vedete,  sono  passati  dieci  anni,  ho  perdonato 

a   quella  disgraziata  che  non  è  più eppure, 

se  Dio  fa  che  io  ritrovi  un  uomo  dal  peso  netto 

di  77  chilogrammi Sapete  che  cosa  (o?  Lo 

Jego  come  un  salame  :  lo  metto  sulla  mia  mac- 
china per  volare,  salgo  a  tremila  metri  e  poi... 
iQes/odi  laitciaiio  con  ira\. 

{Guarda  rora\  Le  6  e  .15  minuti.  Che  il  ban- 
chiere Miranda  creda  di  burlarsi  di  me?  ma  sarà 
lui  il  burlato:  perchè  io  di  capitali  ne  trovo 
(juanti  ne  voglio.  F.  di  che  si  tratta  poi  ?...  Di 
centomila  lire  !... 

{^Al  pubblico)  Domando  scusa  :  nessuno  di  loro 
avrebbe  per  caso  centomila  lire  in  saccoccia?.. 
Nessu'io?...  Me  ne  rincresce  tanto:  mica  per 
me per  loro  \  (viat. 


AGENORE  SMARRITO. 


.Sono  le  nove  e  tre  quarti  di  sera.  Casa  De- 
Tiippetti  è  immersa  nella  più  profonda  coster- 
nazione. 

La  serva,  seduta  nel  cantone  più  oscuro  della 
sala  da  pranzo,  appoggia  la  fronte  sopra  la  spal- 
liera della  propria  sedia  e  dorme  in  preda  alle 
più  strazianti  inquietudini. 

La  signora  Eufemia  —  dimentica  di  ogni  deli- 
cato senso  di  pudore  —  è  mezzo  vestita  e  mezzo 
no,  e  il  suo  seno  potrebbe  presentare  ancora 
qualche  attrattiva  agli  occhi  autorevoli  di  Poli- 
carpo, s'egli  non  si  ostinasse  a  fissarli  sui  propri 
stivali tron  una  costanza  degna tii  migliore  scarpa. 

La  signora  Eufemia,  ogni  tanto,  fa  un  salto  alla 


finestra,  e  guarda,  con  rapido  movimento  di  testa, 
ai  due  lati  della  via. 

Indi,  ritorna  mestamente  accanto  a  Policarpo, 
che  continua  a  considerare  le  proprie  scarpe  sotto 
un  altro  punto  di  vista,  più  patriottico,  ma  non 
meno  doloroso  del  precedente. 

Policarpo,  con  voce  cavernosa  : 

—  Hai  visto  niente? 

—  Niente;  povera  creatura. 
Policarpo,  reprimendo  i  singulti  : 

—  Era  il  yostro  amore  !  Era  il  nostro  sangue, 
Eufemia!  Era  il  mio  ritratto!  Il  niio  animo  di 
padre  è  straziato  nelle  sue  viscere  immediate  ! 
Dio,  abbiate  pietà  di  noi  ;  io  non  domando  al  cielo 


che  una  grazia  sola;  ricuperare  mio  figlio,  per 
abbracciarlo  teneramente,  e  metterlo,  dieci  giorni, 
a  pane  e  acqua. 

Indi,  volgendo  gli  occhi  sopra  la  serva: 

—  Oh  femmina  religiosamente  devota  ai  tuoi 
doveri  di  cittadina  e  di  domestica  !  la  tua  vita  è 
un  sacerdozio,  che  mantiene  acceso  il  sacro  foco- 
lare della  famiglia,  e  comprende  nel  salario  gli 
affetti  d'un  vergine  cuore,  mensilmente  retrilniito 
con  pari  tenerezza.  Guarda,  moglie  mia,  la  po- 
vera Rosa.  Ella  non  ha  più  il  coraggio  di  fare 
un  gesto,  di  pronunciare  una  (inalsiasi  parola*. 
La  commozione  la  opprime. 

—  Perdona,  amico  mio,  a  me  pare  che  russi. 

—  T'inganni!  non  è  che  il  rantolo  d'un  cuore 
esulcerato. 


La  signora  Eufemia,  sospirando  a  mantice,  ri- 
torna, quasi  barcollando,  alla  lineslra. 

Policarpo  fa  due  o  tre  passi,  poi  s'arretra  e 
dice  con  accento  severo  e  fatale  : 

—  Eufemia,  non  è  più  tempo  d'esitare,  lo  devo 
perlustrare  tutti  i  sette  colli,  anche  a  costo  ili 
fiaccare  il  mio.  O  ritroverò  il  nostro  caro  -Age- 
nore, o  tu  sarai  vedova  anzi  tempo. 

—  Io  ne  morirò. 

—  E  io  verrò  a  piangere  continuamente  sulla 
tua  fossa. 

Così  dicendo,  cadono  uno  nelle  braccia  del- 
l'altra. 


Per  essere  storicamente  esatto,  devo  dire  anzi 
che  Policarpo,  avendo  sbagliato  la  misura,  cade 
invece  sopra  il  lavamani,  e  manda  in  pezzi  !,i 
catinella. 

Rosa  si  sveglia  di  schianto,  e  grida: 

—  Madonna  iiiia,  gli  spiriti! 

E  Policarpo,  uscendo,  con  accento   (ilo.sotìco: 

—  Gli  spirili  sono  eccessivamente  depressi. 
E,    ricalcaifdo    la    bomba    ^^ìk    ■-h    li    .,r.„,|,j 

scende  nella  via. 

Ah  !  voi  non  sapete... 

È  una  storia,  questa,  lugubre  e  nazionale.  Age- 
nore è  fuggito  di  casa.  Il  figlio  dell'orzarolo  gli 
ha  detto  che  tutte  le  sere  c'è  una  tlimostrazione, 
con  .squilli  di  tromba,  e  Agenore  s'è  lascialo  incau- 
tamente .sedurre  da  quella  prospettiva  rivoluzio- 
naria. Agenore  è  fuggito  di  casa  alle  otto,  scu- 
sandosi col  dire  che  andava  a  comprare  un  solilo 
di  cialdoni.- 

Come  mai  l'oculata  signora  Eufemia  ha  pre- 
stato orecchio  a  cosi  sfrontata  bugia  ? 

Come  mai  ella  ha  potuto,  anche  per  un  luu- 
mento,  supporre  che  nella  vita  tli  .Agenore  potes.se 
intercalarsi  un  episodio,  rappresentato  da  un 
soldo  di  cialdoni? 

Non  calunniate  questa  eccellente  madre  di  fa- 
miglia. Il  sospetto  aveva  subito  attraversato  l'a- 
nimo suo. 

—  Agenore  ha  un  soldo?  Dio  mio!  si  sarebbe 
egli  macchiato  di  qualche  crimine?  Ma  non  può 
essere.  L'avrà  trovato  per  la  strada.  Ma  (juan- 
d'anche  ciò  fosse,  come  mai  e.gli  si  getta  subito 
in  braccio  ai  bagordi,  alla  disperazione,  al  liber- 
tinaggio? 

—  Agenore,  .Agenore  ! 

Hai  tempo  a  strillare!  -Agenore  è  già  lonl.nm, 
Agenore  è  già  a  piazza  Navona,  insieme  col  figlio 
dell'orzarolo  suo  compagno  di  traviamenti  e  di 
perdizione. 

Policarpo  fernui  un  agente  numicip.ile,  davanti 
a  .San  Luigi  de'  Francesi,  e  gli  domanda: 

—  -Avete  visto  mio  figlio? 

—  E  chi  siete  voi  ? 

—  lo?  io  sono  un  padre  infelice. 

I^  guardia  si  spazientisce  e  risponde  : 

—  Che  vuole  che  sappia  io  ? 

—  Ma  come!  scusate  —  esclama  De-Tappctli  — 
non  è  fi>rse  atfidala  a  voi  la  Uitela.  la  salvaguardia 
dei  cittadini?  Sono  o  non  sono  mi  regnicolo?  Voi 
stesso  siete  o  non  siete  un  regnicolo? 

—  Badi  come  parla!  misuri  le  parole? 
Policarpo,    spaventalo    dalla   propria   audacia, 

teme  ili  aver  otìeso  la  maestà  della  Ugge,  e  fugge 
mezzo  tonto,  verso  piazza  Navona,  pigliando  di 
petto  tutte  le  persone. 

-Appena  giunto  in  faccia  alla  fontana,  sente  uno 
squillo  di  tromba,  e  vede  un  maresciallo  che 
porta  via  di  pesoquaich'-  ■■'-  ■  ■  '"■  i>>r.-  un  ,  piin,. 


mentre  invece  è  il  giovane  Agenore,  figlio  unico 
di   Policarpo  De-Tappettì. 

Quale  vista  per  un  padre!  quale  vista  per  un 
Policarpo  ! 

È  questo  il  punto  culminante  del- 
l'azione drammatica. 

Policarpo  —  Figlio  mio  ! 

Agenore  —  {con  voce  strozzala)  Papà, 
mi  portano  carcerato. 

Maresciallo  —  Ah,  è  vostro  figlio 
questo  pezzo  di  birbaccione?  perchè 
non  l'avete  messo  a  letto?  perchè  non 
gli  date  un  po'  più  di  educazione? 

Policarpo  [dignitoso)  —  Maresciallo, 

ve   ne   prego non  diminuite  il    mio 

prestigio  davanti  a  un'indocile  prole, 
che  versa  a  piene  mani  il  disonore  sulla 
mia  testa,  che  un   giorno  .sarà   canuta. 

Maresciallo  —  Meno  chiacchere! 

Policarpo  —  Rendetemi  mio  figlio. 

Maresciallo  —  Ma  siete  matto! 

Policarpo  —  L'  avete  forse  colto  in  tla- 
grante  ? 

Maresciallo  —  Gridava  Plinio.'....  l'ho 
udito  io. 

Policarpo  (rivolgendosi  al  figlio  con  tutta 
l'amarezza  d'un  genitore  offeso  e  deluso)  — 
Agenore!  come  mai,  dopo  tanti  anni  del  mio  fe- 
condo apostolato,  hai  potuto  emettere  gridi  .sov- 
versivi ?  come  mai  ti  vedo  in  mezzo  a  gruppi  di 
facinorosi?  ahi,  tu  che  dovevi  essere  il  bastone 
della  mia  vecchiaia! 

Agenore  (piangendo)  —  Lo  sarò,  lo  sarò. 

Policarpo  {inesorabile)  —  Ah,  troppo  tartli  I 
il  bastone  della  mia  vecchiaia  piomberà  sulle  tue 
spalle. 

Momento  di  pausa  e  di  raccoglimento. 

Policarpo  (con  gesto  autorevole)—  Maresciallo: 
io  sono  un  funzionario  del  Governo;  uno  zio  di 
mia  moglie  è  amico  d'un  ministro,  del  mi- 
nistro Mezzanotte,  buon'  anima  sua  ;  si  davan 
del  tu... 


Maresciallo  —  Vedo  bene  che  lei  è  un  galan- 
tuomo   si  prenda  pure  questo    birichino  e  lo 

mandi  a  letto. 

Agenore,  mezzo  sconquassato,  passa  nelle  mani 


del  genitore,  che  lo  afferra  per  l'avambr.iccio,  e 
Io  trascina  verso  casa  ruggendo: 

—  Disgraziato,  che  ci  sei  andato  a  fare  in  piazza 
Navona  ? 

—  A  sentire  la  musica. 

—  E  chi  ha  destato,  nel  tuo  petto,  questi  pravi 
istinti  musicali? 

—  È  il  figlio  dell'orzarolo  che  m'ha  detto,  che 
bisognava  gridare:    Vogliamo  l'inno. 

—  Ma  non  hai  tu  riflettuto  che  il  tuo  grido 
ofiendeva  i  grandi  corpi  dello  Stato?  Ma  dimmi: 
hai  tu  mai  visto  che  tuo  padre  anche  nelle  grandi 
circostanze  della  vita  abbia  mai  chiesto  un  inno? 
Perchè  hai  emesso,  dunque,  grida  sediziose  ? 

Silenzio  prudente  da  parte  di  Agenore. 

—  .'\h  !  tu  non  rispondi?  tu  ti  avvolgi  in  di- 
gnitoso silenzio?  Ma  in  non  mi  farò  illudere  da 
questo  tardivo  mutismo.  Una  correzione  è  neces- 
saria. \'edi  tu  questa  mano? 

Gli  dà  uno  schiaffo  e  conchiude  con  voce  solenne: 

—  Questa  mano  impedisce  al  tuo  piede  di  ri- 
manere, ulteriormente,  sull'orlo  dell'abisso. 


^nvj^^Un. 


LA  BERRETTA  DI  PADOVA. 

(Novelletta). 


Berrette  di  Padova  :  belle  berrette  fine,  di  panno 
e  lunghe,  quasi  quanto  quelle  che  usano  anche 
al  presente  i  Sardi,  e  che  usavano  allora,  —  cioè 
ne'  primi  cinquant'anni  del  secolo  scorso,  — 
anche  in  Sicilia.  Perchè  fossero  dette  di  Padova, 
ignoro.  Certo  così  si  chiamavano. 


Le  vendeva,  fra  gli  altri,  un  berrettaio  che  de' 
molti  anni  passati  in  quel  commercio  non  aveva 
saputo  cogliere  altro  frutto  che  la  fama  di  gran 
galantuomo,  che  vuol  dir  minchione,  come  ognun 
sa.  Lo  sapeva  anche  lui,  e  se  ne  stizziva  molto; 
ma   per  quanto    poi    si    sforzasse    di    mostrarsi 


arcigno,  corrivo  a  riavere  il  suo,  non  solo  non 
gli  veniva  mai  fatto,  ma  ogni  volta,  alla  fine, 
era  una  giunta  al  danno,  impietosendosi  egli 
alle  finte  lagrime  de'  suoi  debitori. 

Si  era  ormai  radicata  in  tutti  la  convinzione 
che  egli  non  avesse  in  fondo  ragione  di  lagnarsi 
e  tanto  meno  d'adirarsi;  perchè,  se  era  vero  da 
un  canto  clie  gli  uomini  lo  avevano  sempre 
ingannato,  era  innegabile  dall'altro  che  Dio,  in 
compenso,  lo  aveva  sempre  aiutato.  Che  voleva 
dunque  di  più  ?  Aveva  una  cattiva  moglie,  indo- 
lente, malaticcia,  sciupona,  e  se  n'era  presto 
liberato;  aveva  un  esercito  di  figliuoli,  maschi 
e  femmine,  ed  era  riuscito  in  breve  a  far  di 
tutti  buon  parentado.  Ora  provvedeva  si  gra- 
tuitamente di  berrette  tutto  questo  parentado, 
ma  poteva  esser  certo  che  esso,  all'occorrenza, 
non  lo  avrebbero  lasciato  morir  di  fame.  Che 
voleva  di  più  ? 

Le  berrette  intanto  volavano  da  quella  bottega, 
come  se  avessero  le  ali.  Gliene  portavano  via 
figli,  generi,  nipoti,  amici  e  conoscenti.  Per 
alcuni  giorni  egli  si  ostinava  a  correre  or  dietro 
a  questo,  or  dietro  a  quello,  per  riavere  almeno, 
fra  tante,  il  costo  di  una  sola.  Niente  !  Giurava  e 
spergiurava  di  non  voler  dare  più  a  credenza: 

—  Neanche  a  Gesù,  se  n'avesse  bisogno  1 

Ma  ci  ricascava  sempre. 

Ora,  alla  fine,  aveva  deliberato  di  chiuder 
bottega,  ma  appena  esaurita  la  poca  mercanzia 
che  gli  restava,  della  quale  non  avrebbe  dato 
via  neppure  un  filo  avanti. 

BERRETTE     DI     PADOVA 

E    111    QUALSIASI   ALTRO   OENF.RF. 


AL    MASSIMO    BUON    MERCATO 


MARCO   LA    VELA 

Cosi  l'insegna.  Marco  La  Vela,  dunque.  Perla 
de'  berrett.nj  !  —  Ma  tutti,  davanti,  lo  chiamavano 
Don  Marcuccio,  e  dietro  Cirlinciò  :  che  è  il  nome 
d'un  uccello  sciocco,  per  chi  vuol  saperlo. 

Venne  un  giorno  alla  bottega  di  Cirlinciò 
Lizio  Gallo,  ch'era  suo  compare.  Per  le  sue 
berrette  il  La  Vela  non  temeva  del  compare. 
Ben  altro  il  Gallo,  in  grazia  del  comparàtico, 
pretendeva  da  lui.  Uomo  sodo,  denari  voleva. 
E  già  gli  doveva  una  buona  sommetta.  Ora 
dunque  basta,  eh? 

—  Che  abbiamo,  compare  ? 

Lizio  Gallo  aveva  in  vezzo  passarsi  e  ripassarsi 
continuamente  una  mano  su  i  radi  e  lunghi 
baflì  spioventi,  e  sotto  quella  mano,  serio  serio, 
con  gli  occhi  bassi,  sballarne  di  ogni  colore. 
Caro  a  tutti  per  la  sua  piacevolezza,  egli  non 
pure  da  Cirlinciò,  ch'era  molto  facile,  ma  dai 
più  scaltri  mercanti    del    paese    riusciva  sempre 


ad  ottenere  quanto  voleva,  ed  era  indebitato 
fino  agli  occhi,  e  sempre  abbruciato  di  denari. 
Ma  quel  giorno  si  presentò  con    un'altr'aria. 

—  Male,  compare  !  —  sbuflò,  lasciandosi  cadere 
su  una  seggiola.  —  Mi  sento  male.  Stanchissimo! 

E  disse,  seguitando,  col  volto  atteggiato  di 
tedio  penoso,  che  non  gli  reggeva  più  l'animi) 
a  viver  cosi,  d'espedienti,  alla  giornata,  ch'era 
troppo  il  supplizio  che  gli  davano  i  raflacci  aperti 
o  i  muti  sguardi  de'  suoi  creditori. 

Cirlinciò  abbassò  subito  gli  occhi  e  mise  un 
sospiro. 

—  E  pure  voi  sospirate,  compare!  —  soggiunse 
il  Gallo,  tentennando  il  capo.  —  Ma  avete  ra- 
gione! Io  non  posso  più  acco.starmi  a  un  amico; 
sono  sfuggito  da  tutti;  e  intanto,  più  che  per 
me,  credetemi,  soffro  per  gli  altri,  a  cui  ilebbo 
cagionare  la  pena  della  mia  vista.  .Ah,  vi  giuro 
che  .se  non  fosse  per  Giacomina  mia  moglie,  a 
quest'ora.... 

—  Che  dite!  ^  gli  diede  su  la  voce  il  La  Vela. 

—  E  sapete  che  altro  mi  tiene?  —  riprese 
Lizio  Gallo.  —  Quella  campagna  che  mi  recò  in 
dote  mia  moglie,  pur  così  gravala  ora  da  ipo- 
teche. Ho  speranza,  compare,  che  debba  essere 
la  mia  fortuna,  per  via  di  non  so  che  scavi  che 
ci  vuol  fare  il  Governo.  Dicono  che  là  sotto  ci 
sono  le  antichità  di  Gamico.  Uhm!  Rottami.... 
Che  saranno?  Ma,  se  è  vero  questo,  sono  a  ca- 
vallo. E  non  dubitate,  compare:  prima  di  tutti, 
penserei  a  voi.  Già  il  Governatore  mi  ha  fatto 
sapere  che  vuol  parlare  con  me.  Dovrei  andarci 
domattina.  .Ma  come  ci  vado? 

—  Perchè?  —  domandò,  stordito,  Cirlinciò. 

—  Con  questi  str.ìcci  ?  Non  mi  vedete?  Per 
l'abito,  forse,  potrei  rimediare.  .Mio  cognato, 
che  ha  la  mia  stessa  corporatura,  se  n'd  fallo 
uno  nuovo  da  pochi  giorni.  Me  lo  prestercblie. 
Ma  la  berretta?  Ha  un  testone  cosi! 

—  Anche  voi,  dunque!  —  esclamò  .Marcuccio 
La  Vela,  spalancando  gli  occhi. 

—  Come,  anch'io?  —  disse,  simulando  inge- 
nuità, il  Gallo.  —  Che  son  forse  solito  di  andar 
per  via  a  capo  scoperto  !  Ora  questa  IwrrelU, 
vedete?  non  ne  vuol  più  sapere. 

—  E  venite  da  me?  —  riprese  Cirlinciò,  col 
volto  avvampato  di  stizza.  —  Scusatemi,  compare: 
gnornò!  non  ve  la  do!  non   ve    la   posso  dare! 

—  Ma  io  non  dico  dare.  Ve  la  p:«gherò. 

—  Avete  i  denari  ? 

—  Li  avrò. 

—  Niente,  allora!  Qu.inil>>  ii  avrete. 

—  È  la  prima  volla,  gli  fece  notarv,  dolente 
e  con  calma,  il  G.illo,  è  la  prima  volt.i  die 
vengo  da  voi  i>er  una  padovana... 

—  Ma  io  ho  giurato,  lo  sapete!  —  gridò  il 
La  Vela,  infuriandosi. 

—  Lo  so...  Ma  vedete  di  che  si  traila' 


—  Non  sento  ragione  !  Piuttosto,  guardate, 
piuttosto  vi  dò  tre  lari  e  vi  dico  di  andarvela 
a  comprare  in  un'altra  bottega. 

Lizio  Gallo  sorrise  mestamente,  e  disse  : 

—  Caro  compare,  se  voi  mi  date  tre  tari,  lo 
sapete,  io  me  li  mangio,  e  berretta  non  me  ne 
compro.   Dunque  datemi  la  berretta. 

—  Dunque,  né  questa  né  quelli!  —  concluse 
Cirlinciò,  duro,  ostinato. 

Lizio  Gallo  si  levò  pian  piano  da  sedere, 
sospirando: 

—  E  va  bene!  Avete  ragione.  Cerco  la  via 
per  uscir  da  questo  ginepraio:  ma  l'unica  per 
me  sarebbe  di  morire,  lo  so. 

—  Mmire...  —  masticò  Cirlinciò.  —  C'è  bi- 
sogno di  morire?  Tanto,  la  berretta  dovete  ca- 
varvela  in  presenza  del  Governatore. 

—  Eh  già!  —  esclamò,  ironico,  il  Gallo.  — 
Bella  figura  ci  farei  per  la  strada  con  l'abito 
nuovo  e  la  berretta  vecchia!  Jla  dite  i)iultosto 
che  non  volete  trarmela. 

E  si  mosse  per  uscire.  Cirlinciò  allor.i,  pentito, 
lo  trattenne  per  tm  braccio  e  gli  disse  all'orec- 
chio: 

—  Vi  do  tre  giorni  di  tempo  per  il  p.iganiento. 
E  non  Io  dite  a  nessuno!  Fra  tre  giorni.... 
badate  !  son  rapace  di  levarvela  dal  capo,  per 
istrada!  .Sono  porco  io.  quando  mi  ci  inetto! 

Apri  lo  scadale  e  ne  trasse  ima  bellissima 
berretta  di  l'adova.  Lizio  Gallo  se  la  provò.  Gli 
andava  bene. 

—Quanto  mi  pe.sa!  —  disse,  scotendo  il  capo. 
—  Mi  sentivo  male,  venendo  qua;  voi  mi  avete 
dato  il  colpo  di  grazia,  compare? 

E  se  ne  atidò. 

Tutto  piteva  aspettarsi  il  povero  Cirlinciò, 
tranne  che  Lizio  Gallo,  ivi  a  pochi  giorni,  do- 
vesse morir  davvero! 

—  .\h!  ah!  —  si  n)ist  a  piangere,  come  un 
bambino,  d,il  rimorso,  ripensando  —  ah!  — alle 
ultime  parole  del  compare  presago;  ah!  gli  pa- 
reva di  vederselo  ancora  li,  nella  bottega,  nel- 
l'atto di  tcutemiare  amaramenle  il  capo.  —  Ah! 
ah!   ah! 

E  corse  alla  casa  del  morto  per  condolersi 
con  la  vedova  donna  Giacomina. 

l'er  via,  tanta  gente  jjareva  si  divertisse  a 
fermarlo  : 

—  E  morto  Lizio  Gallo,  sapete  ? 

—  E  non  vedete  che  piango  ? 

Tutti  in  paese,  commendavano  la  piacevolezza 
del  Gallo,  ne  commiseravano  la  morte,  pur  sor- 
ridendo mestamente  al  ricordo  delle  tante  beffe 
di  lui.  I  molti  creditori  chiudevano  gli  occhi, 
sospirando,  e  alzavano  la  mano  per  rimettergli 
il  debito. 

Marcuccio  La  Vela  trovò  donna  Giacomina 
inconsolabile.    Quattro    torcetti    ardevano    a    gli 


angoli  del  letto,  su  cui  il  compare  .giaceva,  co- 
perto da  un  lenzuolo.  Piangendo,  la  vedova 
narrò  al  La  Vela  com'era  avvenuta  la  morte. 

—  K  tradimento,  —  diceva.  —  Ma  già,  vo- 
lendola dire,  da  parecchio  tempo.  Lizio  mio 
non  pareva  più  lui  ! 

Il  La  Vela  confermò,  narrandole  a  sua  volta 
l'ultima  visita  del  compare  alla  bottega. 

—  Lo  so  !  lo  so  !  —  gli  disse  donna  Giaco- 
mina.  —  Ah,  quanto  se  ne  afflisse,  povero  Lizio! 
Le  vostre  parole,  compare,  gli  rima.sero  nel  cuore 
come  tante  spine! 

Cirlinciò  pareva  una  fontana. 

—  E  più  mi  piange  il  cuore.  —  seguitò  la 
vedova,  —  che  ora  me  lo  vedrò  portar  via  sul 
cataletto  dei  poveri,  si!  sì!  sotto  uno  straccio 
nero,  povero  IJzio  mio! 

Il  I^  Vela  allora,  con  impeto  di  conuiiozioue, 
si  proflerse  per  le  spese  d'una  pompa  funebre. 
Ma  donna  Giacomina  Io  ringraziò  ;  gli  disse 
esser  quella  l'espressa  volontà  del  marito,  e  che 
lei  voleva  rispettarla,  e  che  anzi  il  marito  non 
avrebbe  neppur  voluto  l'accompagnamento  fu- 
nebre, e  che  inline  aveva  indicato  la  chie-sa  ove 
da  morto,  voleva  passare  la  notte,  secondo  l'uso: 
la  chiesetta  cioè  di  .Santa  Lucia,  come  la  più 
umile  e  la  più  prossima  al  camposanto,  laggiii 
fuori  del  paese. 

Cirlinciò  insistette  ;  ma  dovette  cedere,  alla  line. 

—  Quanto  all'acconipagnaniento  però,  —  le 
disse  licenziandosi,  —  siale  pur  certa:  tutto  il 
pae.se,  dietro  al  povero  compare! 

E  non  s'ingannò. 

Ora,  andando  il  mortorio  per  la  stradii  die 
conduce  alla  chiesetta  di  Santa  Lucia,  avvenne 
a  Cirlinciò,  il  quale  si  trovava  proprio  alla  testa, 
dietro  al  cataletto,  che  quattro  portantini,  due 
di  (|u.i,  line  di  là,  sorreggevano  i)er  le  stanghe, 
di  fi.ssar  gli  occhi  lagrimosi  su  quella  sua  fiam- 
mante berretta  di  Padova,  che  il  morto  teneva  in 
capo  e  che  spenzolava  e  dondolava  fuor  della 
testata  del  cataletto,  poiché  la  misera  coltrice 
arrivava  appena  a  coprire  il  cadavere,  e  niente  ne 
avanzava  da  capo  e  da  piedi.  La  berretta  che  il 
compare  non  .gli  aveva  pagata!  Tentazione! 

Cercò  più  volle  il  povero  Cirlinciò  di  distrarre 
lo  sguardo  ;  ma  poco  dopo  gli  occhi  tornavano 
a  guardar  li,  attirali  da  cpiel  dondolio,  che  .se- 
guiva ritmicamenteil  passo  dei  portantini.  Avrebbe 
voluto  consigliare  a  uno  di  questi  di  ripiegar 
sul  capo  al  morto  la  berretta  e  porvi  sopra  la 
coltrice. 

—  Ma  si  !  Non  ci  mancherebbe  altro,  —  pen- 
sava poi,  —  che  io,  io  slesso,  vi  richiamassi 
raltenzìone  della  gente.  Già  forse,  vedendomi 
qua  e  guardando  la  berretta,  ridono  di  me, 
sotto  i  balli. 

Morso  da  questo  sospetto,  lanciò   due  occhia- 


tacce  oblique  ai  vicini,  sicuro  di  legger  loro 
negli  occhi  il  temuto  dileggio  ;  poi  si  rivolse  con 
rabbioso  rammarico  alla  berretta  dondolante.  — 
Com'era  bella!  com'era  fina!  E  ora,  —  pec- 
cato! —  o  sarebbe  andata  a  finire  sul  capo  di 
un  becchino,  o  sotterra,  inutilmente  col  compare... 
Questi  due  casi,  e  maggiormente  il  primo, 
ch'era  il  più  probabile,  cominciarono  a  esagitarlo 
così,  che  egli,  senza  quasi  volerlo,  si  diede  a 
pensale  se  ci  fosse  modo  di  riavere  quella  ber- 
retta. Lanciò  di  nuovo  qualche  occhiata  intorno 
e  s'accorse  che  molti,  procedendo,  seguivano 
tjuel  dondolar  continuo,  che  a  lui  cagionava 
tante  smanie,  anzi  un  vero  supplizio.  Gli  parve 
perfino  che  quel  movimento  ritmico,  prendendo 
(|uasi  a  materia  il  romor  dei  passi  dei  portantini' 
ripetesse  forte,  senza  posa 

È  siato  —  f^abbato, 
li  stato  —  gabbato... 

No,  perdio,  no!  Anche  a  costo  di  passar 
l'intera  notte  nascosto  nella  chiesa  di  Santa  Lucia, 
egli  doveva,  doveva  riaver  quella  berretta,  ch'era 
sua!  Tanto,  che  .se  ne  faceva  più  il  compare, 
morto?  Era  nuova  fiammante!  ed  egli  avrebbe 
potuto  rimetterla,  senz'altro,  dentro  lo  scaffale. 
Ed  avrebbe  adempiuto  al  giuramento  fatto  ! 

Fermato  l'animo  a  questa  deliberazione,  ([uantlo 
il  mortorio  giunse  (ch'era  già  sera  chiusa)  alla 
chiesetta  fuorimano ,  dove  lo  scaccino  aveva 
preparato  i  due  cavalietti,  su  cui  il  misero  fe- 
retro doveve  esser  deposto,  mentre  la  gente 
assisteva  a  cjuesta  deposizione,  egli  andò  a  na- 
scondersi quatto  quatto  dietro  un  confessionale. 
Come  la  chiesa  fu  sgombra,  lo  scaccino  con 
la  lanterna  in  mano  si  recò  a  chiudere  il  portone, 
jioi  entrò  in  sacrestia  a  prender  l'olio  per  rifor- 
nire un  lampadino  votivo  innanzi  a  un  altare. 

Nel  silenzio  della  chiesa,  quei  passi  strascicati 
risonarono  cupamente. 

Della  solenne  vacuità  dell'interno  sacro,  nel 
buio,  Cirlinciò  ebbe  in  prima  tale  sgomento,  che 
fu  lì  li  per  farsi  avanti  a  pregare  il  sagrestano, 
che  lo  facesse  andar  via.  Ma  seppe  trattenersi. 
Rifornito  d'olio  il  lampadino,  quegli  si  accostò 
pian  piano  al  feretro;  si  chinò;  poi,  senza  vo- 
lerlo, volse  in  giro  uno  sguardo  e,  prima  di 
ritirarsi  nella  sua  cameruccia  sopra  la  sacrestia, 
a  dormire,  tolse  pulitamente,  con  due  dita,  la 
lierretta  al  morto,  e  se  la  filò  zitto  zitto. 

Cirlinciò  non  se  ne  accorse.  Ouando  sentì 
chiudere  e  sprangar  la  porta  della  sacrestia,  gli 
parve  che  la  chiesa  sprofondasse  nel  vuoto.  Poi, 
nella  tenebra,  si  avvivò  a  mala  pena  quel  lumi- 
cino innanzi  all'altare   lontano;    a  poco   a   poco 


quel  barlume  si  allargò,  si  diffuse  tenuissimo, 
intorno.  Gli  occhi  di  Cirlinciò  cominciarono  a 
intravedere  a  stento,  in  confuso  (pialche  cosa. 

Allora  egH,  cauto,  rattenendo  il  tìalo,  si  provo 
a  u.scire  dal  nascondiglio. 

Ma,  contemporaneamente,  altri  due,  che  si 
erano  nascosti  in  chiesa  per  lo  stesso  intento,  si 
avanzavano  cheti  e  chinali  come  Ini,  e  con  le 
mani  protese,  verso  il  feretro,  cì.i.scuno  senza 
accorgersi  dell'altro. 

\  un  tratto  però  tre  gridi  di  terrore  echeg- 
giarono nella  chiesa  buia. 

Lizio  Gallo,  credendosi  solo  ormai,  s'era  levato 
a  sedere  sul  cataletto,  imprecando  al  sagrestano 
e  tastandosi  la  testa  nuda,  A  quei  .gridi,  urlò 
anche  lui,  spaventato: 

—  Chi  è  là? 

E,  istintivamente,  si  ridistese  sul  cataletto. 

—  Compare....  —  gemè  una  voce  soffocata 
dall'angoscia. 

—  Chi  è? 

—  Cirlinciò? 

—  Quanti  siamo? 

—  Porco  paese!  —  sbulfò  Li/io  (iallo,  but- 
tando per  aria  la  coltrice  e  levandosi  in  pie<li. 
—  Per  una  berrettaccia  di  Padova!  Quanti  siete? 
Tre?  Quattro?  E  voi,  compare? 

—  ^^a  come!  —  balbettò  Cirlinciò,  appressan- 
dosi tutto  tremante.  —  Non  siete  mono? 

—  Vorrei  esserlo,  per  non  vedere  la  vostra 
pidoccheria  !  —  gli  gridò  il  Gallo,  indignato,  sul 
muso.  —  Come!  non  vi  vergognate?  Venire  a 
spogliare  un  luorto,  come  quel  mascalzone  del 
sagrestano!  Ebbene,  non  la  ho  più,  vedete?  se 
l'è  presa  !  E  dire  che  l'avevo  promessa  ad 
uno  dei  portantini...  Non  si  può  più  neanche 
morire  in  pace,  al  giorno  d'oggi  !  Speravo  di 
farmi  rimettere  i  debiti,..  Ma  si!  Quanti  siete? 
In  tre?  Avreste  la  forza  di  tenere  il  segreto?  No! 
E  dumiue  facciamola   finita! 

Li  piantò  li,  allocchiti,  intontiti  come  tre  ceppi 
d'incudine,  e  andò  a  tempestar  di  calci  e  di 
pvigni  la  porta  della  sacrestia. 

—  Ohe!  ohe!   Miiscalzone!  Saj, restano  ' 
Questi  accorse,  poco   dopo,  in    mulande  e  in 

camicia,  con  la  lanterna  in  mano,  tutto  sconvolto. 
Lizio  Gallo  lo  agguantò  per  il   |x-tto. 

—  Va  a  ripigliarmi  subito  la  berretta,  pezio 
di  ladro! 

—  Don  Lizio!  —  gridò  quello,  e  fu  per  cadere 
in   deliquio. 

Il  Gallo  lo  sostenne  per  la  camicia  che  teneva 
all'errata. 

—  La  berretta,  ti  dico,  sporcaccione!  E  vieni 
ad  aprirmi    la  porta.  Non    faccio   più  il   morto. 


IL  VENTAGLINO. 


Il  giardinetto  pubblico,  meschino,  polveroso,  in 
mezzo  alla  vasta  piazza,  tutt' intorno  cinta  da  alte 
case  giallicce,  assopite  nell'afa,  avvampate  nell'ab- 
bagliamento della  luce,  in  quel  torrido  pomeriggio 
d'agosto,  era  cjuasi  deserto,  quando  Tuta  vi  entrò, 
col  bambino  in  braccio. 

Su  un  sedile  in  ombra,  un  vecchietto  magro, 
perduto  in  un  abito  grigio,  lustro,  d'alpagà,  forse 
comprato  di  combinazione,  teneva  steso  sul  capo 
un  fazzoletto  bianco;  sul  fazzoletto,  la  paglia  in- 
giallita; aveva  le  maniche  rimboccate  su  i  polsi 
e  leggeva  un  giornale.  Accanto  a  lui,  su  lo  stesso 
sedile,  un  operajo  disoccupato  dormiva  con  la 
testa  fra  le  braccia,  appoggiato  di  traverso.  Di 
tanto  in  tanto  il  vecchietto  sospendeva  la  lettura 
e  si  voltava  a  osservare  con  una  certa  inquietu- 
dine il  suo  vicino,  a  cui  stava  per  cadere  dal  capo 
il  cappelluccio  unto,  roccioso.  Evidentemente  quel 
povero  vecchio  cominciava  ad  essere  stufo  di  quel 
cappelluccio  così  in  bilico  chi  sa  da  quanto  tempo  : 
avrebbe  voluto  ras.settarglielo  sul  capo  o  farglierlo 
cadere,  alla  fine.  Sbuflava,  e  poi  volgeva  un'oc- 
chiata ai  sedili  intorno,  chi  sa  gli  avvenisse  di 
scoprirne  qualche  altro  in  ombra.  Ce  n'era  uno 
solo,  poco  discosto,  ma  vi  stava  seduta  una  vec- 
chia grassa,  cenciosa,  la  quale,  ogni  qualvolta  egli 
si  volgeva  a  guardare,  apriva  la  bocca  sdentata  a 
un  formidabile  sbadiglio.  Tuta  si  appressò  sorri- 
dente, pian  piano  ;  si  pose  un  dito  su  le  labbra, 
poi  prese  adagio  adagio  il  cappelluccio  e  lo  ri- 
mise a  posto,  sul  capo  del  dormente.  Il  vecchio 
la  guardò,  prima  sorpreso,  poi  aggrondato. 

—  Co'  la  bona  grazia,  signo',  —  gli  disse  Tuta, 
ancor  sorridente,  —  da'  'n  sordo  a  sta  pòra  crea- 
tura. 

—  No  !  —  borbottò  il  vecchietto,  aspro,  con 
stizza,  e  abbassò  gli  occhi  sul  giornale. 

—  Tiramo  a  campii!  —  .sospirò  Tuta.  —  Dio 
pruvede. 

E  andò  a  sedere  di  là,  su  l'altro  sedile,  accanto 
alla  vecchia  cenciosa,  con  la  quale  attaccò  subilo 
discorso. 

Aveva  appena  vent'anni  ;  era  ba.ssotta,  formosa, 
bianchissima  di  carnagione,  coi  capelli  lucidi,  neri, 
spartiti  sul  cajìo,  stirati  su  la  fronte  e  annodati 
in  fitte  treccioline  dietro  la  nuca;  aveva  gli  occhi 
astuti,  brillanti,  quasi  aggressivi;  il  naso  un  po' 
storto,  ma  birichino,  le  labbra  tumide,  rosse 
come  due  ciliege.  Narrava  alla  vecchia  la  sua 
sventura.  Il  marito... 

Fin  da  principio  la  vecchia  le  rivolse  uno 
sguardo,  che  poneva  i  patti  della  conversazione  ; 
cioè:  uno  sfogo,  si,  era  disposta  a  offrirglielo; 
ma  ingannata,  no,  non  voleva  essere,  ecco. 

—  Marito  vero? 


—  Semo  sposati  co'  la  chiesa. 

—  Ah,  bè,  co'  la  chiesa. 

—  E  ched'è?  nun  è  marito? 

—  No,  fija  :  nun  serve. 

—  Come  sarebbe  a  di'? 

—  Lo  sai,  nun  serve. 

E  si,  difatti  la  vecchia  aveva  ragione.  Non  ser- 
viva. Da  un  pezzo,  egli  voleva  liberarsene,  e  per 
questo  ora  la  aveva  mandata  per  forza  a  Roma, 
perchè  cercasse  di  allogarsi  come  bàlia.  Ella  non 
voleva  venire;  capiva  ch'era  troppo  tardi,  poiché 
il  bambino  aveva  già  circa  sette  mesi.  Era  stata 
quindici  giorni  in  casa  d'un  sensale,  la  cui  moglie, 
vecchia  strega,  per  rifarsi  delle  spese  e  per  aver 
pagato  l'alloggio,  aveva  osato  alla  fine  di  pro- 
porle... 

—  Capischi  ?  A  me  ! 

Dalla  «  collera  »,  le  era  andato  addietro  il  latte. 
E  ora  non  ne  aveva  più,  neanche  per  la  sua  crea- 
tura. La  moglie  del  sensale  le  aveva  preso  gli 
orecchini  e  s'era  tenuto  anche  il  fagottino,  con 
cui  ella  era  venuta  dal  paese.  Da  quella  mattina 
era  in  mezzo  alla  strada. 

—  Pe'  davero,  sa'  ! 

Tornare  al  paese  non  poteva  e  non  voleva  :  il 
marito  non  se  la  sarebbe  ripresa.  Che  fare,  in- 
tanto, con  quel  bambino  che  le  legava  le  braccia  ? 
Certo,  non  avrebbe  trovato  neppure  da  impiegarsi 
per  serva. 

La  vecchia  la  ascoltava  con  diffidenza,  perchè 
ella  diceva  quelle  cose,  come  .se  non  ne  fosse 
affatto  disperata;  anzi,  ripetendo  spesso  quel  suo: 
—  Pe'  davero  sa' !  —  sorrideva. 

—  Di  dove  sei  ?  —  le  domandò  la  vecchia. 

—  De  Core. 

!•'  restò  un  pezzo  cogli  occhi  invagati,  come 
se  rivedesse  col  pensiero  il  suo  paese  lontano; 
poi  si  scosse,  guardò  il  suo  piccino  e  disse: 

—  Dove  lo  lascio?  Qua  pe'  tera?  Pòro  cocco 
mio  .saporito  ! 

Lo  sollevò  su  le  braccia  e  lo  baciò  forte  forte 
più  volle. 

La  vecchia  di.sse  : 

—  L'hai  fatto?  Te  lo  piagni. 

—  Io  l'ho  fatto?  —  si  rivoltò  la  giovane.  — 
Be',  l'ho  fatto  e  Dio  m'ha  castigato.  Ma  patisce 
puro,  lui,  povero  innocente!  E  c'ha  fatto  lui?  Va', 
Dio  nun  fa  le  cose  giuste.  E  si  nun  le  fa  lui, 
figùrete  noi.  Tiramo  a  campa! 

—  Mondo,  mondo!  —  sospirò  la  vecchia,  le- 
vandosi in  piedi  a  stento. 

—  E  'n  gran  pena!  —  aggiunse,  scrollando  il 
capo  filosoficamente,  un'altra  vecchia  asmatica, 
corpulenta,  che  passava  di  li,  appoggiandosi  a  un 
bastoncino. 


L'altra  cavò  fuori  di  tra  i  cenci  un  sacchetto 
che  le  pendeva  dalla  cintola,  nascosto,  e  ne  trasse 
un  tozzo  di  pane. 

—  Tiè,  lo  vuoi? 

—  Si,  Dio  te  lo  paghi,  —  s'aftVettò  a  rispon- 
derle Tuta.  —  Me  Io  magno.  Ce  credi  che  so' 
digiuna  da  stamattina? 

Ne  fece  due  pezzi:  uno,  più  grosso,  per  sé; 
cacciò  l'altro  fra  gli  esili  ditini  rosei  del  bimbo. 

—  Pappa,  Nino.  Bono,  sa'!  'Na  sciccheria! 
Pappa,  pappa... 

La  vecchia  se  ne  andò,  strascicando  i  i)iedi, 
insieme  con  l'altra  dal  bastoncino. 

Il  giardinetto  s'era  già  un  po'  rianimato.  Il 
custode  annaffiava  le  piante.  Ma  neppure  alle 
trombate  d'acqua,  ond'erano  investiti,  si  vole- 
vano destare  dal  sogno  in  cui  parevano  assorti 
—  sogno  d'una  tristezza  infinita  ^  quei  poveri 
alberi  sorgenti  dalle  ajuole  rade,  fiorile  di  bucce, 
di  gusci,  di  pezzetti  di  carta  e  riparate  da  stecchi 
e  spuntoni  qua  e  là  sconnessi  o  da  un  giro  di 
roccia  artificiale,  in  cui  s'incavavano  i  sedili.  Tuta 
si  mise  a  guardare  la  vasca  bassa,  rotonda,  che 
sorgeva  in  mezzo,  la  cui  acqua  verdastra  dor- 
miva sotto  un  velo  di  polvere  che  si  rompeva  a 
quando  a  quando,  al  tonfo  di  qualche  buccia  lan- 
ciata dalla  gente  che  sedeva  attorno. 

Già  il  sole  stava  per  tramontare,  e  quasi  tutti 
i  sedili  erano  ormai  in  ombra.  In  uno  li  accanto 
venne  a  sedere  una  signora  su  i  trent'anni,  ve- 
stita di  bianco;  dai  capelli  rossi,  come  di  rame, 
arruffati  ;  dal  volto  lentigginoso.  Aveva  con  sé  un 
ragazzo  macilento,  giallo  come  la  cera,  e  guar- 
dava di  qua  e  di  là,  impaziente,  strizzando  gli 
occhi  miopi,  come  se  aspettasse  qualcuno  ;  intanto 
.spingeva  il  ragazzo  a  trovarsi  più  là  qualche  com- 
pagno di  giuoco.  Ma  il  ragazzo  non  si  moveva  : 
teneva  gli  occhi  fissi  su  Tuta  che  mangiava  il 
pane.  Anche  Tuta  guardava  e  osservava  intenta 
la  signora  e  quel  ragazzo;  a  un  tratto  disse: 

—  Lei,  signo',  co'  la  bona  grazia,  si  tante  vorte 
vi  .servisse  'na  donna  pe'  fa'  er  bucato,  o  a  mezzo 
servizio...  No?  Embè! 

Poi  vedendo  che  il  ragazzo  malaticcio  non 
staccava  gli  occhi  da  lei  e  non  voleva  cedere  ai 
ripetuti  inviti  della  madre,  lo  chiamò  a  .sé  : 

—  \'uoi  vede  er  pupetto  ?  X'iello  a  vede, 
carino,  vie'. 

II  ragazzo,  spinto  dalla  madre,  si  accostò  ; 
guardò  un  pezzo  il  bambino,  con  gli  occhi  inve- 
trati come  quelli  di  un  gatto  fustigato  ;  poi  gli 
strappò  dalla  manina  il  tozzo  di  pane.  Il  bam- 
bino sì  mise  a  strillare. 

—  No  !  pòro  pupo  !  —  esclamò  Tuta.  —  J'ai 

levato  er  pane?  Piagne  mo,  vedi?   Ha  fame 

D.àjene  armeno  un  pezzetto 

Alzò  gli  occhi  per  chiamare  la  madre  del  ra- 
gazzo, ma  non    la  vide    più   sul  sedile:   parlava 


'5 

là  in  fondo  a.H'rettatamente,  con  un  omaccione 
barbuto  che  la  ascoltava  con  un  curioso  sorriso 
su  le  labbra,  le  mani  dietro  la  schiena  e  il  cap- 
pellaccio bianco  buttato  su  la  nuca.  Il  bambino 
intanto  seguitava  a  strillare. 

-  Be',  —  fece  Tuta,  --  te  Io  levo  io  un 
pezzetto. 

Allora  anche  il  ragazzo  si  mise  a  strillare. 
Accorse  la  madre,  a  cui  Tuta,  co'  la  bona  grazia, 
spiegò  ciò  che  era  accaduto.  Il  ragazzo  stringeva 
con  le  due  mani  al  petto  il  tozzo  di  pane,  senza 
volerlo  cedere,  neppure  alle  esortazioni  della 
madre. 

—  Lo  vuoi  davvero?  V.  te  Io   mangi,    Ninni? 

—  disse  la  signora  rossa.  —  Non  mangia  niente, 
sapete,  niente  :  sono  disperala  I  Magari  lo  voles.se 
davvero...  Sarà  un  capriccio....  La.sciateglielo, 
per  piacere. 

—  Be',  sì,  volontieri  —  fece  Tuta.  —  Tiello. 
cocco,  magnalo  tu... 

Ma  il  ragazzo  corse  alla  vasca  e  vi  buttò  il 
tozzo  di  pane. 

—  Ai  pescetti,  eh  Ninni  ?...  —  esclamò  Tuta, 
ridendo.  —  E  sta  pòra  creatura  mia  ch'è  digiuna... 
Nun  ciò  latte,  nun  ciò  casa,  nun  ciò  gnente... 
Pe'  davero,  sape,  signo'...  Gnente! 

La  signora  aveva  fretta  di  ritornare  a  quel- 
l'uomo che  l'aspettava:  trasse  d.illa  borsetta  due 
soldi  e  li  diede  a  Tuta. 

—  Dio  te  lo  paghi,  —  le  disse  dietro  questa. 

—  Su,  su,  sta'  bono,  cocco  mio  :  le  compro  la 
bobona,  sa'  !  Ciavemo  fatto  du"  b.ijocchì  cor 
pane  de  la  vecchia.  Zitto.  Nino  mìo  !  Mo  senio 
ricchi... 

Il  bimbo  si  quietò.  Ella  rimase,  coi  due  soldi 
strettì  in  una  mano,  a  guardar  la  gente  che  gi.^ 
popolava  il  giardinetto  :  ragazzi,  bàlie,  bambi- 
naie, .soldati,  poveri  vecchi,  operai  disoccupati. 
Era  un  gridìo  continuo.  Tra  le  ragazze  che 
saltavano  la  corda,  e  i  ragazzi  che  si  rincorre- 
vano, e  i  bambini  strillanti  in  br.iccio  .ille  b.Mie 
che  chiaccheravano  placidamente  fra  loro,  e  le 
bambinaie  che  facevano  all'amore  coi  soldati  o 
con  gli  operai,  si  aggiravano  i  venditori  di  lu- 
pini, di  ciambelle  o  d'altre  golene.  Gli  occhi  di 
Tuta  si  accendevano  talvolta  odiosamente,  tar.iltra 
le  labbra  le  si  aprivano  a  uno  strano  sorriso. 
Proprio  nessuno  voleva  credere  che  ella  non 
sapeva  più  come  fare,  dove  andare  ?  Stentava  .i 
crederlo  lei  stessa.  Ma  era  proprio  così.  Era 
entrata  là,  in  quel  giardinetto,  per  cercarvi  un 
po'  d'ombra  :  vi  si  tratteneva  da  circa  un'ora  ; 
poteva  rimanervi  lino  a  sera;  e  poi  ?  dove  passar 
la  notte,  con  quella  creatura  in  braccio?  e  il 
giorno  dopo?  e  l'altro  appresso?  Non  aveva 
nessuno,  nemmeno  là  al  paese,  tranne  quell'uomo 
che  non  voleva  più  saperne  di  lei  ;  e,  del  resto, 
come  tornarci  ?  Ma  allora  ?  Nessuna  via  di  scampo? 


i6 


Pensò  a  quella  vecchia  strega  che  le  aveva  tolto 
gli  orecchini  e  il  fagotto.  Tornare  da  lei  ?  Il 
sangue  le  montò  alla  testa.  Guardò  il  suo  piccino 
che  s'era    addormentato. 

—  Eh,  Nino,  ar  fiume  tult'e  dua  ?  Così... 
Alzò  appena  le  braccia,  come  per  buttarlo.  E 

lei,  appresso...  Ma  che,  no  !  Rialzò  il  capo  e 
sorrise,  guardando  la  gente  che  le  passava  innanzi. 
II  sole  era  tramontato  ;  ma  il  caldo  persisteva, 
so'locante.  Tuta  si  sbottonò  il  busto  sotto  il 
niejito,  rimboccò  in  dentro  le  due  punte  ;  sco- 
prendo tutta  la  .^ola  e  un  po'  del  petto  bian- 
chissimo. 

—  Caldo? 

—  Se  more  ! 

Le  stava  davanti  un  vecchio  con  due  Aenta- 
glini  aperti  in  una  mano  e  una  cesta  al  braccio, 
piene  d'altri  ventaglini. 


—  Du'  bajocchi  ! 

—  Vattene  !  —  disse  Tuta,  dando  una  spallata. 
—  Che  so'  .'  de  carta  ? 

—  E  di  che  lo  vuoi  ?    de  seta  ? 

—  Mbè,  perchè  no?  —  fece  ella,  guardandolo 
con  un  sorriso  di  sfida  ;  poi  schiuse  la  mano  in 
cui  teneva  i  due  soldi,  e  aggiunse  :  —  Ciò  questi 
du'  bajocchi  soli.   Pe'   'n  sordo  me  lo  dai? 

Il  vecchio  scosse  il  capo,  dignitosamente. 

—  Du'  bajocchi.  Manco  pe'  fallo! 

—  Be'  mannaggia  a  tene  !  Dammelo.  Moro 
de  callo.  Er  pupo  dorme...  Tiramo  a  campa. 
Dio  pruvede. 

Gli  diede  i  due  soldi,  prese  il  ventaglino  e 
cominciò  a  farsi  vento,  vento,  vento,  ridendo  e 
guardando,  spavalda,  con  gli  occhi  lucenti,  la 
gente  che  passava. 

LUIGI   PIRANDELLO 


LA    MORTA 


EU'era  calma,  gli  aliti  si  leni 
che  pareva  il  suo  .seno  inunoto  stare  : 
e  due  lucide  stille  nei  sereni 
occhi  tremavan  pur  senza  calare. 
Io  sedeva  al  suo  pie.  Iva  il  pensiero 
perduto  a  riandar  la  scura  traccia, 
dov'ella  stava  a  capo  del  sentiero, 
dove  la  morte  sola  ora  s'afTaccia. 
E  dissi:  «  Forse  anch'ella  riaccende 
la  vision  de'  giorni  suoi  remoti  ?  » 
Le  memorie  destavano  vicende 
di  risi  e  pianti  ne'  suoi  occhi  immoti. 
Stemmo  a  lungo  cosi,  muti,  sognando. 
Da  la  chiusa  finestra,  nella  notte 
fredda,  mettea  la  luna  un  lume  blando 
e  da  lunge  salìan  voci  interrotte. 
Copersi  la  lucerna  :  una  fragranza 
di  pesco  s'eflbndea  dal  caminetto: 
eran  penembre  nella  bianca  stanza 
e  una  luce  di  sogno  era  sul  lelto. 
«  Mi  consiuno  cosi,  come  un  sarmento 
verde...  Nessuno  ammorza  questo  fuoco 
che  mi  divora...  Lo  sento,  lo  sento: 
non  sarò  più...  non  sarò  più  fra  poco... 
Com'è  triste  dover  sola  morire  !  » 
Disse  e  le  sorridea  la  faccia  smunta. 


«  Ma  tu  non  parli,  Nino...  »  Volli  dire; 

ma  nel  petto  sentii  come  una  punta 

sorda  che  preme  e  non  può  penetrare... 

Gemendo  la  baciai,  si  follemente, 

che  vidi  la  sua  gola  palpitare 

e  un  singulto  agitar  le  labbra  spente. 

Ella  anelava  a  brevi  aliti  :  «  Sono 

come  in  fornace...  »   Mi  guardò  con  lieve 

ansia,  tremando:  «  Tu  sei  tanto  buono... 

io  voglio  un  po'  di  neve,  un  po'  di  neve... 

Ed  uscii  barcollando.  Pareva  ogni 

cosa  .sonunersa  in  un  sopore  lento. 

Tutto  inniiobil  parca  come  nei  sogni  : 

nube  non  era,  né  suono,  né  vento. 

La  neve  su  la  terra  avea  candori 

come  di  lini  su  letti  infantili, 

e  gli  alberi  eran  carichi  di  fiori, 

e  i  cieli  erano  lucidi,  .sottili, 

fragili  quasi.  Ma  dal  bianco  intenso 

ove  ogni  cosa  parca  d'ombre  priva 

e  d'ogni  moto  e  d'ogni  vita,  un  senso 

d'oppressione  in  me,  grave,  saliva, 

e  come  sacro.  Certo  nella  pura 

notte  s'apriva  al  mondo  un  qualche  austero 

dramma...  Mi  assalse  quasi  una  paura 

di  violare  il  pallido  mistero... 


Ella  infranse  coi  tfenti  il  bianco  frutto 
avidamente.  Le  labbra  nel  breve 
refrigerio  tremavano  :  per  tutto 
il  viso  si  diffuse  un  roseo  lieve... 
Poi  stette,  con  le  ciglia  chiuse,  come 
sopita.  Io  rimasi  a  contemplare. 
La  faccia  magra  tra  le  nere  chiome 
al  baglior  che  venia  dal  focolare, 
per  le  fiamme  inquiete  e  serpentine, 
sorgea  nef  lume  e  s'incavava  d'ombra... 
Uscian  da  l'ombra  forme  repentine, 
o  le  creava  la  mia  mente  ingombra  ? 
Tacito  riaccesi  la  lucerna. 
Ella,  chiuse  le  ciglia,  non  dormiva, 
ma  pareva  seguire  alcuna  interna 
\ision  che  sorgeva  in  lei  sì  viva, 
che  le  sue  ciglia  percettibilmente 
tremolavano.  Poveri  occhi  belli  ! 
Negli  angoli  oscillarono  due  lente 
l.igrime  e  cadder,  gemme  sui  capelli. 
E  mi  guardò:  «  Di  tutti  i  sogni  miei, 
quali  furono,  disse,  altro  che  sogni  ? 
Cosi  l'antico  sogno  che  tessei 
su  la  tua  culla  vagheggiato  in  ogni 
giorno  di  tua  pensosa  puerizia... 
Bel  sogno,  schiuso-  presso  il  focolare 
nostro  !  Né  Dio  mi  die'  tanta  letizia 
ch'io  ti  vedessi  ascendere  a  l'altare...! 
O  mio  figlio  maggior,  più  dolce  figlio, 
in  cui  sentii  l'anima  mia  trasfusa 
tutta,  il  Signor  ti  dia  miglior  consiglio 
di  quelli  audaci  ond'hai  la  mente  illusa  ! 
E  ti  sfrondi  l'orgoglio  e  ti  riduca 
bambino  come  in  quell'età  fiorita 
ch'io  ti  fui  buona  guida;  e  ti  condùca 
come  un  cieco  a  la  cima  della  vita...  » 
Tacque  prostrata  nell'abbattimento: 
poi  soggiunse:  «  Ma  tu  non  credi,  tìglio! 
Lo  so.  Ancor  mi  dai  questo  tormento...  >^ 
Io  tacqui  tuttavia  né  mossi  ciglio. 
Senti  forse  l'orribile  tempesta 
che  mosse  in  me  la  sua  parola  dura  ? 
.Io  volli  urlare  in  folle  impeto  :  «  Questa 
fu  de'  miei  giorni  l'iniqua  tortura: 
e  invano  consumai  nella  feroce' 
ricerca  tutto  il  mio  sangue  vitale 
in  traccia  d'una  luce,  d'una  voce 
che  mi  svelasse  l'enigma  mortale  .. 
E  il  silenzio  fu  grave.  Certo  mai 
non  nti  darà  la  vita  egual  martire. 
Dissi  a  me  stesso  :  «  Meglio,  meglio  assai 
finir  gli  strazi,  morire,  morire  !  » 
Ella  attendeva.  Mi  guardò  e  pianse. 


Io  sentii  come  un  soflio  d'uragano. 

Tutto  quel  ch'era  saldo  in  me  si  franse... 

E  mi  percosse  il  suono  sovrumano 

della  voce  di  lei  :  a.  Tu  crederai 

a  me  ?  Tu  crederai  se  qui  verrò  ?  • 

Io  come  invaso  da  follia  gridai  : 

«  Vieni,  mannna  !...  »  Rispose  ella:  <  Verrò.  » 


Ululali,  singhiozzi  e  gemitìi, 
tali  onde  ancora  è  la  mia  testa  ingombra, 
propaga vansi  lugubri  nell'ombra, 
quando  mi  cinser  due  tremule  braccia 
e  baciarmi  con  lagrime  sentii 
calde,  che  mi  correan  tutta  la  faccia. 
Poi  fummo  tratti  a  le  vicine  case 
coi  bambini.  Guardavan.essi  intenti: 
gli  occhi  sbarrati  ed  i  visi  sgomenti 
erano  sotto  il  tenebroso  impero. 
Noi  lasciammo  la  rasa  che-  rimase 
custode  taciturna  del  mistero. 
Tornai,  più  tardi,  solo.  Nella  notte 
il  ciel  rosato  sopra  la  montagna 
s'inteneriva;  tutla  la  campagna 
sopita,  chiusa  nelle  molli  piume 
era  tepida  quasi.   Lungi,  frotte 
brune  si  dilungavano  tra  '1  lume. 
Suoni  si  dilungavano  ondulando 
e  cantilene  ievissimamente. 
Esitando,  s.ilii  nella  dolenti- 
casa,  temendo  rompere  gli  arcani 
silenzi.  Stava  il  padre  solo  orando 
a  pie  del  letto,  il  volto  fra  le  mani. 
Non  udì.  M'appres.saì,  calmo  così 
che  mi  parea  non  esser  più  vivo. 
Ero  come  in  un  sogno:  tion  sentivo 
più  le  mie  membra...  Piano  sollevai, 
piano,  il  leilzuolo  ed  ella  con»paii. 
bella  com'io  non  l'ho  yeduta  mai. 
Così  bella...!  Teneva  fra  le  dita 
una  corona,  iii  capo  la  pezzuola 
di  chiesa,  bianca  e  (juasi  di  viola 
fra  «juel  bianco  parevano  i  cai>clli  ; 
e  gli  occhi  onde  la  luce  era  fuggita, 
-per  sempre  chiusi...  Poveri  occhi  b.  !1:  ' 
Emanava  da  lei  non  so  che  molle 
fascino  pieno  di  dolcezze  ignote 
e  di  vaghe  tristezze.  Su  le  gote 
le  ciglia  ferme  dentro  la  penombra 
allungavano  come  due  corolle 
d'alcun  misterioso  fior  dell'ombra. 


i8 

E  mai  non  ero  di  guardarla  stanco... 
Poi  mi  chinai  e  le  baciai  la  mano, 
gli  occhi,  la  bocca  ed  i  capelli,  piano, 
quasi  aspettando,  e  senza  meraviglia, 
che  si  destasse  e  quel  suo  viso  bianco 
si  tingesse  e  tremassero  le  ciglia. 


Lungamente  così  la  contemplai. 

Invano  i  miei  pensier  tenui  quali 

in  ciel  d'agosto  nubi  mattinali... 

Stava  in  ginocchio  il  padre  ancora.  Quando 

ei  mi  guardò:   «  silenzio...  >•  gli  accennai: 

e  ci  sedemmo  taciti,  aspettando. 


La  Chioccia. 


Sansone. 


La  cliioccia  empiea  di  gridi  la  radura, 
che  aveva  scorto  la  vivanda  ghiotta, 
e  i  pulcini  correan  avidi  in  frotta, 
quaud'ella  vide  in  ciel  la  macchia  scura. 

Grifagno  roteò  su  la  pastura 
il  falco  e  scese,  l'ali  chiuse,  a  rotta: 
ella  aspettò,  stridendo,  irta,  la  lotta, 
sovra  i  pulcini  muti  di  paura, 

O  ire  generose!  Ma  ghermita 
rapidamente  dentro  l'ugne  ladre 
ascende  nel  tranquillo  azzurro  e  spare. 

Guardano  in  alto  le  pupille  ignare. 
Ed  io  che  vidi  ho  l'anima  smarrita: 
e  ricordando  gemo:  «  Madre,  madre!  » 


Quando,  tratto  da  l'opera  tapina 
fu  nell'oscena  festa  e  nel  tumulto, 
le  occhiaie  sanguinarono  a  l'insulto, 
fosche  sotto  la  chioma  leonina, 

e  sentendo  le  membra  in  repentina 
onda  gonfiarsi  d'un  vigore  occulto, 
le  colonne  abbracciò.  Come  un  virgulto 
le  infranse  e  tutto  fu  morte  e  ruina. 

Anch'io,  sospinto  da  un  oscuro  fondo 
a  cjuesto  folgorio  d'orge  nefande 
m'erigo  su  le  mie  membra  calpeste, 

ed  uno  smisurato  impeto  investe 
l'anima  immensa  che  ha  sognato  un  grande 
sogno.   Morendo  far  crollare  un  mondo. 


L'Edificio. 


A  KusioNuo  De  Amili: 


L'opra  da  l'uom  nei  secoli  costrutta 
sta  dell'eccelso  monte  su  la  cima  : 
vaste  radici  ha  nella  Terra  e  tutta 
la  Terra  a'  piedi  suoi  vinta  s'adima. 

Nel  ciel  protese  in  atto  di  minaccia 
levansi  torri  tinte  di  sanguigno. 
Tutto  è  grande  ed  iniquo,  e  serba  traccia 
d'uu'umana  agonia  ciascun  macigno. 

Sono,  le  bolge  sotterranee  piene 
d'antichi  ossami  :  vittime  recenti 
sognano,  morte  dentro  le  catene, 
i  sogni  che  ne  pur  la  morte  ha  spenti. 


ed  intacca  il  macigno  a  scaglia  a  scaglia, 
curve  le  schiene,  attorti  avidi,  come 
Here  su  prede.  Intricasi  la  maglia 
serpentina  e  s'avvinghia  in  colossali 

contorcimenti  come  di  pareti 
vulcaniche,  cui  l'ignea  possanza 
urga,  sommova,  agiti  d'inquieti 
palpiti.  Su  dai  fianchi  irti  s'avanza 

un'orda  nuova  e  guadagna  la  cresta. 
Salgono  corpi  giovani  con  nòve 
ire  a  l'assalto  sorridenti,  dove 
li  spinga  morte,  come  ad  una  festa  : 


Ma,  lenta,  lungo  le  ferrigne  mura 
come  una  pianta  di  tenaci  braccia 
s'aggroviglia  una  folla  ignuda,  oscura 
che  tutto'  disperatamente  allaccia, 


e  .scalano  gli  spalti  mentre  goccia  • 
su  le  lor  fronti  sangue  da  le  sante 
membra  paterne,  c'or  vedranno  infrante 
ruinar  balenando  su  la  roccia. 


Fumano  i  corpi  ignudi.  Il  vasto  incenso 
e  l'angoscia  che  l'anime  travaglia 
sorge  dai  corpi  quale  da  un  immenso 
rogo.  Chi  mai  terribili,  vi  scaglia, 


L'ultimo  sol  che  annega  dentro  un  cielo 
vermiglio,  come  in  un  sanguigno  mare, 
sembra  di  lung«i  tutto  lo  sfacelo 
come  un  enorme  rog'i  incendiare. 


operai  della  morte,  a  la  ruina  ? 
Non  san  ;  vennero,  ignari  a  quali  pugne, 
nel  fòco  interior  che  li  trascina. 
Dolorosi  combattono,  con  l'ubile 


E  mentre  su  la  terra  già  le  tarde 
ombre  scendono  dense  di  paura, 
nel  silenzio  universo  la  natura 
guarda  muta  il  miracolo  che  arde. 


coi  denti  e  con  l'inmiane  odio.  Li  incita 
l'oscura  possa,  c'apre  i  monti  e  sferra 
i  mari  e  muta  e  sconvolge  la  vita. 
È  suddita  di  lei  tutta  la  Terra. 


E  succedono  atleti,  prorom(>enli 
da  la  Terra,  l'uo  spirito  inesausto 
li  crea,  li  scaglia  perchè  s'alimenti 
di  vittime  l'eroico  olocausto. 


Geme  l'umana  carne  sotto  il  vano 
sforzo.  Ma  la  gran  mole  a  tratti  invade 
un  brivido  :  a  tratti  qualche  brano 
della  gran  mole  si  scoscende  e  cade. 


Demolitori  delle  forme,  vuole 
per  voi  l'eternitii  mutar  vicenda. 
Questa  è  l'opra  del  tempo,  in  fin  che  il  sole 
grande  sul  capo  all'uomo  ultimo  splenda. 


Cade  con  esso  nell'abisso  un  denso 
sciame  di  corpi.  Fuor  da  le  profonde 
caverne  il  rombo  sale,  ed  un  intenso 
da  infranti  petti  rantolo  risponde. 


Che  importa  il  poi.'  La  vostra  opra  compila 
un  tempio  sorge  su  la  vetta  sgombra. 
Non  voi,  non  altri  ucciderà  la  V'ita. 
L'Ombra  la  cova  e  la  ringoi.!  r<)mt>ra. 


GIOVANNI  CENA 


F.  O.  L. 

Fermo  in  Posta  -  TORINO. 

(Novella  comica). 


Mi  è  permesso  dire  che  in  quella  dolce  età 
dai  poeti  chiamata  primavera  della  vita,  noi  tutti, 
maschi  e  femmine,  più  quelli  forse  che  non  queste, 
sì  è  generalmente  alquanto  sciocchini?  Non  credo 
dir  cosa  nuova,  no,  come  pure  non  mi  è  neces- 
sario sprecar  parole  a  persu.^dere  i  buoni  amici 
ch'io  non  facevo  eccezione  alla  regola,  anzi! 
Tanto  è  vero,  che  in  vedere  a  me  d'intorno  fer- 
vere una  vita  gaia  di  peccatucci  d'amore  e  di 
peccatacci  contro  ogni  regola  più  elementare  del 
viver  sano  o  almeno  almeno  sensato;  vita  beata- 
mente animalesca  vissuta  dai  miei  compagni,  al 
par  di  me  poveri  d'anni  e  ricchi  d'illusioni,  di 
speranze  e  di  pruriti,  mi  dissi  un  giorno:  «  Amico 
mìo,  vuoi  far  lume?  Ti  piacela  bella  parte  dello 
spettatore    pubblicamente   passivo    e  viceversa  ? 


Fatti  l'aniorosa,  grullone  ;  ce  Ih-iMmi  tutu,  non 
.  vedi  J  E  dev'essere  un  gusto,  sai,  accompagnarsi 
con  un  bel  fior  di  ragazza  briosa  e  om  tanto  di 
cuore  del  quale  tu  saresti  l'unico  proprict.irio; 
o  pure,  in  mancanza  di  meglio,  iniziare  in  vi.i 
epistolaria  un  lamentoso  scambio  di  sospiri  con 
una  signorina  couie  si dffe...  Spicciati,  aniic-omio: 
non  ricordi  che  l'altro  ieri  le  due  sartine  di  n»«- 
dama  Protasi  ti  domandarono,  scherzando,  se 
avevi  l'amorosa,  e  che  alla  tua  risposta  negativa 
risero  tanto  da  lasciarti  scemo  e  canzonato  ?  Non 
ricordi  .'  » 

Questo  ragionamento,  che  io  stessii  avevo  fatto 
al  mio  io  cosciente  e  consenziantc.  non  faceva 
una  grinza,  è  certo  ;  ed  in  quanto  a  ricordare  la 
famosa  domanda  delle  due  spietate  sartine,  ahi. 


la  ricordavo  fili  troppo!  Ed  ^nclie  ricordavo  be- 
nissimo come  in  quel  momento  negli  occhi  della 
più  giovane  si  era  manifesto,,insieme  con  il  riso, 
uno  strano  brillar  di  desiderii  inconsci!,  provo- 
catori, che  mi  aveva  turbato  e  quasi  fatto  perdere 
il  lume  della  ragione. 

Scegliere  una  di  quelle  due  per  amorosa  ?  Avrei 
ben  voluto  avere  il  coraggio  di  tentar  la  prova  ; 
ma  che  sgomento  mi  prendeva  al  solo  pensiero 
di  rivederle,  cosi  belle  e  frizzanti  di  brio  e  cru- 
delmente motteggiatrici !  E  poi,  non  so,  ma  in 
fondo  all'anima  sentivo  una  pena  ansiosa  fatta 
di  timidezza  e  di  malinconia,  onde  le  ragazze  di 
madama  Protasi  io  le  vedevo  troppo  lontane  da 
me,  e  le  intuivo  nemiche  beffarde  di  quei  senti- 
menti delicati  che  in  certi  istanti  mi  facevano, 
come  un  gufo,  odiare  la  luce  e  i  rumori. 

Bisognava  cercare  altrove. 

Per  esempio  :  c'era  lo/a  Eufemia,  la  figlia  del- 
l'accordatore di  pianoforti  ;  una  brunottìna  smilza, 
pallida,  con  due  occhioni  da  madonna  addolorata, 
un  nasino  a  gancio  ed  un  par  di  labbra  esangui 
create  apposta  per  i  sospiri;  È  ben  vero  che  da 
(]uando  ella  aveva  smesso  le  gonne  corte  io  non 
le  frullavo  più  in  casa  a  sonare  la  donna  è  mo- 
bile sui  pianoforti  disoccupati,  ma  avevo  tuttavia 
la  buona  ventura  d'incontrarla  sovente  per  le 
scale;  quindi  non  mi  sarebbe  mancata  la  neces- 
saria occasione  propizia. . . 

Ma...  c'era  un  ma  !  La  signorina  Eufemia  allie- 
tava de'  suoi  favori  un  grosso  merlo,  disperazione 
del  vicinato;  e  siccome  questo  suo  commovente 
affetto  per  l'alato  Alfredo  —  cosi  lei  lo  chiamava 
—  la  rendeva  alquanto  ridicola,  pensai  bene  di 
non  lasciarmi  tentare  a  dividere,  con  il  troppo 
canoro  uccello,  il  buon  cuore  della  sua  padroncina. 

Nel  casone  alveare  dove  abitavo  ronzava  uno 
sciame  di  servette  allegre,  giovani  creature  ignare 
del  domani,  che  venivano,  restavano  e  scompa- 
rivano a  capriccio  dei  padroni  ;  e  ben  avrei  pò-  • 
tulo  scegliere  p£r  amorosa  una  di  queste,  o  la 
bionda  cameriera  di  casa  Frejus  o  la  brunacuoca 
giunonica  del-  dottor  berretta...  Ma  farmi  vedere 
in  giro  con  una  serva,  mentre  i  miei  amici  si 
pavoneggiavano  con  signorine  di  casato,  con 
brave  lolr  di  famiglia,  o  almeno  almeno  con  sar- 
tine graziosarnente  eleganti,  ohibò!  Più  tosto... 
più  tosto  che  cosa,  eh?  Comunque,  giunto  il  mo- 
mento propizio  avrei  forse  osato  dichiararmi  anche 
soltanto  con  un  sorriso  ?  . 

Un  anno  prima,  che  in  pieno  inverno  m'em 
scottato  il  cuore  per  la  figlia  del  portinaio,  non 
avevo  forse  avuto  il  coraggio  di  recarmi  ad  aspet- 
tarla, per  chi  sa  quante  sere  di  seguito,  sotto  il 
portone  di  casa  con  un  freddo  cane  che  le  ore 
mi  parevan  secoli,  per  vederihela  passare  sui  piedi 
dopo  aver  salutato  colui  che  sempre  l'accompa- 
gnava   a  casa,  e   nient' altro?  Mentre  ogni   sera 


avevo  pronto  in  tasca  il  mazzolino  di  mammole 
che  avrei  dovuto  offrirle... 

No,  no:  di  consigli  avevo  bisogno;  degli  am- 
maestramenti di  qualcuno  cui  non  facesse  difetto 
l'esperienza...  e  pensai  all'amico  Cirillo  Irsuti, 
soprannominato  Seneca. 

Era  questi  un  bravo  pittore  di  miniature,  un 
diavolaccio  nero  barbuto,  alto  che  non  finiva  mai, 
con  un  par  di  braccia  inverosimilmente  lunghe, 
alla  estremità  delle  quali  due  mani  poderose  si 
agitavano  senza  tregua  a  rotolar  sigarette  ed  a 
trinciare  gesti  energici  che  parevano  maledetti 
.scapaccioni  ad  invisibili  suoi  nemici. 

Questo  bel  mobile  mi  voleva  bene,  mi  trattava 
meglio  e  mi  cercava  sovente  perchè  —  allora 
però  non  me  ne  accorgevo  —  perchè  con  la  scusa 
di  essermi  amico  poteva  far  l'asino  a  mia  sorella, 
una  santacchiona  maliziosa  che  se  la  rideva  poi 
con  le  compagne  ;  tanto  per  la  cronaca  ;  e  per 
ritornare  a.  noi,  non  è  a  dirsi  come  il  pensiero 
di  confidarmi  con  l'amico  Seneca  tutto  mi  avesse 
consolato. 

Lui  si  che  se  ne  intendeva  di  donne!  Di  av- 
venture amorose  toccategli  me  ne  aveva  narrate, 
e  di  quelle  verainente  deliziose.  Non  faceva  per 
dire,  lui,  che  le  eran  confidenze  fatte  a  me  solo, 
ma  aveva  avuto  intrighi  con  signore  alto  locate, 
marchese,  contesse...  e  zitti  veh  !  ch^  neanche- 
l'aria  doveva  saperlo. 

Sceltomi  un  tal  consigliere,  impaziente  di  cer- 
care, di  fare  e  di  provare,  non  mi  fermai  a  gin- 
gilli, e  quel  giorno  stes.so,  uno  splendido  pome- 
riggio d'aprile  gaio  d'un  sole  cht^  doveva  non 
dovere  né  illanguidire  né  tramontare  mai,  salii 
le  scale  del  casone-alveare  per  recarmi  fin  .sotto 
ai  tetti  nell'ampio  studio  dell'amico  Seneca. 

Lo  sorpresi  che  si  esercitava  a  fare  il  facchino 
alzando  a  braccia  tese  un  paio  di 'enormi  nia- 
nubrii,  quattro  spaventose  palle  da  cannone,  e 
perplesso  mi  fermai  sulla  soglia  ad  aspettare  che 
dolcemente  avesse  posato  sul  pavimento  que'  suoi 
igienici  strumenti  di  forza  e  di  salute  dei  (juali 
avevo  im  sacro  orrore. 

—  Sei  tu,  Gigi  ?  —  mi  disse  facendomi  entrare 
é  cliiudendo  la  porta.  —  Come  hai  visto  facevo 
le  forze;  aver  buoni  muscoli  è  precauzione  indi- 
spensabile quando  da  un  momento  all'altro  si 
può  incontrar  cattive  sorprese  da  parte  di  certi 
mariti  gelosi  e  brutali...  va  là,  so  io  tjuel  che 
mi  dico! 

—  Ma  perchè  ti  ostini  a  fare  all'amore  con 
quelle  maritate? 

L'amico  Seneca  mi  guardò  con  molta  commi- 
serazione, tacendo,  come  quegli  che  a  certe  do- 
mande puerili  sdegna  rispoinlere  ;  poi,  dopo  un 
istante  mi  fece  un  lungo  discorso  narrandomi  del 
mao  e  del  babao  per  chiedermi  se  mia  sorella  non 
parlava  mai  di  lui  ;  in  fine  mi  mostrò  certe  de- 


licate  miniature  le  quali,  non  so  per  ciie  miracolo, 
eran  proprio  uscite  da  quelle  sue  manaccie  scabre 
e  pulose. 

Mi  urgeva  indurlo  a  riparlar  di  di>nne,  ma  non 
sapevo  come  principiare...  Egli  intanto  zufolava 
parodiando  il  merlo  di  tota  Eufemia,  andando  e 
\-enendo  nello  studio  il  cui  tavolato  gemeva  e 
scricchiolava  sotto  le  zampate  dell'artista-atleta. 

—  Che  il  diavolo  mi  porti  se  ricordo  ancora 
dove  ho  messo  quell'abbozzo!  —  gridò  ad  un 
tratto  con  un  vivo  gesto  di  contrarietà,  ferman- 
dosi. —  E  pure  lo  avevo  lasciato  qui,  sopra  questa 
mensola..  Un  bel  nudino  fresco  e  morbido,  sai  ? 
Ieri  è  venuta  la  Gina,  a  posare. 

Il  pensiero  di  quella  ragazza  che  veniva  a  .spo- 
gliarsi lì,  in  quello  studio,  davanti  al  mio  amico, 
mi  diede  nn  piccolo  tuflo  nel  sangue  e  mi  colori 
le  gote. 

—  Com'è  bella  quella  tua  Gina!  —  esclamai 
con  fervore. 

—  Bah!  una  modella  qualunque,  come  ve  n'ha 
tante.  C'è  ben  altro,  qui,  e  che  grazia  del  buon 
Dio!  Guarda...  —  e  rimosso  un  cartone  mi  fé' 
vedere  una  sua  miniatura,  un  ritrattino  di  donna 
bellissima  scollata  a  metà  seno,  con  le  braccia 
nude  ;  un  giunonico  tipo  di  bionda  procace.  — 
Cosa  ne  dici?  Ti  piacerebbe,  eh,  mariuolo,  veder 
da  vicino  una  così  bella  creatura  ! 

—  Ed  è  venuta  qui? 

—  Certamente:  e  si  è  seduta  lì,  proprio  su 
quella  sedia,  dopo  aver  spogliata  la  camicetta  da 
passeggio  per  vestire  quella  specie  di  copribusto 
di  velluto  paonazzo,  che  le  vedi  nel  ritratto. 

—  E... 

Avrei  votuto  domandargli  se  aveva  provato  pia- 
cere a  starle  vicino,  a  guardarla,  ma  non  osai. 
L'amico  Seneca  parve  leggermi  la  domanda  negli 
occhi,  poiché  riprese: 

—  Però,  Gigi  mio,  quando  lavoro  non  c'è  moina 
o  vezzo  di  donna  che  mi  tenti  ;  purtuttavia  dinanzi 
a  quei  tesori  li,  vedi...  ma  non  ho  mica  fatto  lo 
scemo,  ohibò  !  Le  donne  le  conosco,  io  !  E 
sempre,  quando  le  ho  come  le  ho  sotto  gli  occhi, 
fingo  di  non  vedere  le  loro  bellezze,  di  non  accor- 
germi dei  loro  vezzi  ;  anzi,  se  mi  si  mostrano  pro- 
vocanti io  sorrido  con  estrema  noncuranza  o  con 
ironia,  anche  se  il  sangue  mi  frulla  più  lesto  nelle 
vene...  Così  le  conquisto. 

—  Con  questa,  adunque... 

Sorrise  con  molta  degnazione,  e  con  fare  an- 
noiato mi  rispose  : 

—  Con  questa  ?  Come  con  le  altre. 

Lo  invidiai  un  istante,  ammirandolo,  e  ripresi  : 

—  Io,  invece... 

—  O  lo  so  ;  tu  sei  un  buono  a  niente;  te  l'ho 
già  detto  altre  volte,  mi  pare  ;  e  sì  che  a  diciotto 
anni,  con  ([uel  tanto  di  barba  che  ti  cresce  pre- 
coce  e  che  tu  ti  ostini  a   farti   radere,  dovresti 


pure  avere  la  tua  brava  amorosa!  Ma  già,  quando 
si  nasce  timidi... 

—  È  vero,  sono  sempre  stato  alquanto  timido, 
con  le  donne  specialmente...  Ma  di'  tu:  cosa 
dovrei  fare  per  non  esserlo?  Per  farmi,  insomma... 
un'amante?  Mi  consigli? 

Seneca  si  piantò  sodo  sulle  gambe  aperte,  si 
lisciò  la  barba  e  sorridendo  paternamente  mi 
rispose  : 

—  Vediamo,  vediamo  :  che  cosa  hai  fatto  finora? 
Non  ti  sei  mai  dichiarato  con  nessuna?  E  lettere 
incendiarie  ne  hai  scritte?  A  chi?  Ti  risposero  ? 

—  Niente  di  tutto  questo...  cioè  scrissi  una 
volta  alla  figlia  del  portinaio,  ma  non  mi  rispose... 
Poi  volevo  scrivere  a  Iota  Eufemia... 

—  Lasciala  con  il  suo  merlo  ! 

—  E  appunto  l'ho  lasciata.  Vi  sarebbero  le  altre 
della  casa,  le  serve,  le  sartine  di  madama  Protasi, 
ma... 

—  Uhm  !  Roba  scadente,  tinte  sbiadite... 

—  O  allora  dove  devo  cercarla  ? 

—  Sta  sano  ch'io  te  la  metto  in  tasca!  Donne, 
caro  mio,  se  ne  trova  da  per  tutto,  e  non  dico 
di  quelle  tali,  sai  ?  Ma  di  veramente  oneste,  che 
l'onestà  vera  in  una  donna  consiste  nel  la.sciarci 
tranquillo  il  borsellino.  .Ma  senti  :  tu  vai  per  via, 
non  è  vero?  E  davanti  a  te,  sul  marciapiedi,  cam- 
mina una  ragazza,  una  signorina,  o  magari  una 
signorona,  se  vuoi.  Ebbene  :  tu  cominci  con  un 
leggerissimo /i'J.r/ ^.fi/,  e  questa  subito  finge  d'in- 
teressarsi alle  chiazze  di  un  muro  qualunque  pur 
di  volgere  un  tantino  il  capo  a  posteriori...  Buon 
segno,  questo.  Tu  acceleri  il  passo,  e  più  vicino: 
«  Bella  figurina,  quanto  ben  fatta!  Come  sarei 
felice  di  fare  la  sua  conoscenza  !»  e  se  a  queste 
baggianate  la  più  o  meno  bella  creatura  si  volta 
e  sorride,  il  colpo  è  fatto. 

—  Che  colpo?  .Ma  dopo  quel  sorriso,  che  cosa 
faccio,  io? 

—  Te  le  metti  ai  panni,  al  fianco,  e  le  offri  la 
tua  compagnia,  con  bei  modi  garbati,  e  le  parli 
della  immensa  felicità  che  provi  per  avere  tu.  final- 
mente, trovato  il  tuo  ideale... 

—  ...  in  mezzo  alla  strada... 

—  E  perchè  no?  L'ideale  è  un  illusi  re  ignoto 
senza  patria  e  senza  tetto:  lo  si  trova  in  ogni 
luogo  e  non  lo  si  afferra  mai  ;  ma  ciò  non  conta  : 
le  donne  non  .solo  bisogna  adularle  senza  misura, 
ma  con  esse  •  necessario,  iiulispensabile,  usar 
bugie  senza  misericordia. 

—  Ho  capito  ;  e  poi  ? 

—  E  poi  ?  !  Fatta  la  conoscenza  ci  si  rivede,  ci 
si  scrive  fermo  in  posta,  e  quindi  .il  tunio  dei  con- 
vegni, e  avanti  :  l'amoros;»  ce  l'hai  e  diventi  final- 
mente un  uomo. 

—  Sarebbe  una  gran  bella  cosa...  E  di',  se 
l'ideale,  ai  miei  primi  A"'  /"'  ■"''  ^''''**  '^  ""  ^ 
dello  stupido? 


—  Tu  sorrìdi  beato. 

—  Non  sarebbe  difficile...  ma  io,  scusami,  sento 
che  non  oserò  mai  fare  alcun  /«//w/ a  nessuna 
donna... 

—  Oh  Dio  !  E  allora  perchè  sei  venuto  a  farmi 
sprecare  il  ranno  ed  il  sapone? 

—  Ma  non  vi  sono  proprio  altre  vie  di  uscita, 
caro  Seneca?  Per  esempio:  scelta  una  tale  che  mi 
piaccia  non  potrei  prima  scriverle  una  lettera  con 
fiori  secchi,  e  mandarle  poi  cartoline  illustrate? 
E...  tanto  per  cominciare...  non  mi  spiacerebbe 
la  tua  Gina,  sai?  la  modella... 

—  Stai  fresco;  quella  ti  mangia  fin  la  camicia. 
Eh,  mio  caro  Gigi,  se,  per  caso...  —  s'interruppe 
di  botto  lisciandosi  freneticamente  la  barba,  quindi 
come  inspirato  e  strizzando  gli  occhi  riprese:  — 
Zitto  :  ecco  che  m'arriva  calda  calda  una  gran 
bella  idea:  l'amorosa  te  la  cercheremo  per  gior- 
nale. "" 

—  Per  giornale? 

—  Sicuro  :  un  richiamo  in  settima  pagina  nel 
giornale  mondano  «  //  Bidet  della  Marchesa  »,  e 
vedrai. 

Mentre  io,  nella  beatitudine  melensa  de'  miei 
diciotto  anni  non  ne  capiva  un  jota  e  con  tanto 
d'occhi  guardavo  l'amico  Seneca,  questi,  sedutosi 
ad  un  tavolino,  scritte  tre  o  quattro  righe  su  d'un 
foglietto,  me  le  porse  ed  io  lessi  : 

«  Giovine  signore  elegante,  colto,  affettuoso,  de- 
«  sidera  far  conoscenza  epistolare  prima,  personale 
«  poi,  con  bella  signora  o  signorina.  Scrìvere  alle 
«  iniziali  F.  O.  L.,  21,  fermo  in  posta  ;  Torino  ». 

—  Eh?  Cosa  ne  dici? 

—  Ma  c'è  chi  risponde  a  simili  richiami? 

—  E  come  !  Un  monte  di  lettere,  e  tu  non  avrai 
altro  fastidio  se  non  quello  della  scelta.  La  gri- 
dina  non  è  che  di  ventotto  parole:  con  due  lire 
e  ottanta  centesimi  metterai  in  subbuglio  lo  scrit- 
toio di  almeno  venti  signore  e  signorine. 

Io  palpitavo  in  un'ansietà  ingenua  che  —  pro- 
fanazione! —  aveva  un  fondo  di  cara  tenerezza, 
e  già  vedevo  giungere  le  lettere  profumate,  e  già 
immaginavo,  nella  suggestiva  intimità  dei  loro 
salotti,  le  venti  signore  e  signorine,  tutte  belle, 
che  dopo  avermi  scritto,  ansiose  esse  pure,  aspet- 
tavano la  mia  prosa  ;  se  osassi,  quasi  direi  che 
già  le  amavo  tutte... 

Riscritto  il  richiamo,  mandatolo  al  giornale,  sa- 
lutato e  ringraziato  l'amico  Seneca,  scesi  a  casa 
mia  che  mi  pareva,  non  so  come,  di  essere  di- 
ventato qualche  cosa  tra  l'uomo  celebre  ed  il  fur- 
fante ;  e  non  mai  prima  mi  ero  trovato  in  impaccio 
dinanzi  ai  miei  simili  come  tosto  mi  sorpresi, 
quasi  ognuno  avesse  potuto  leggermi  negli  occhi 
le  erotiche  speranze  che  nascondevo  in  cuore. 

Fantasticai  più  in  quella  eterna  settimana  di 
aspettazione,  ch'io  non  abbia  fantasticato  poi, 
dopo  il  mio  legale   accoppiamento,    in   continui 


piani  strategici  per  trovare  i  mezzi  ed  i  bezzi  atti 
al  decoroso  sbarcamento  del  feroce  lunario. 

Giunto  il  giorno  della  pubblicazione  ebbi  ancora 
la  pazienza  di  aspettarne  altre  cinque,  come  già 
mi  aveva  consigliato  Seneca,  e  finalmente  mi 
recai  alla  posta. 

Il  cuore  mi  sonava  a  stormo  quando  dinanzi  ad 
uno  sportello,  dopo  avere  pestato  i  calli  ad  una 
ragazza  allegra  che  mi  disse:  «  Guarda  'ndòa 
ch'it  bute  le  piote,  gamel  !  »,  con  voce  flebile  bal- 
bettai le  iniziali  F.  O.  L.,  ed  il  numero  21. 

Dal  buco  della  lettera  F  uscì  un  grosso  mazzo 
di  lettere,  ed  olimpicamente  l'impiegato  me  ne 
snocciolò  trenta,  né  una  più  né  una  meno,  di  tutte 
le  forme,  di  tutti  i  colori,  per  due  delle  quali 
pagai  i  segnatasse;  poi,  rosso  che  mi  sentivo  le 
gote  ardenti,  presi  le  lettere  con  tanto  impaccio 
e  con  mani  cosi  malferme,  che  certo  gli  altri  spor- 
tellantì  mi  avran  creduto  un  ladro;  quindi  me  ne 
andai  che  nemmanco  più  toccavo  terra,  con  il  mio 
tesoro  in  una  tasca  buia  della  giubba,  proprio  sul 
cuore,  giungendo  poco  dopo,  trafelato,  ansante, 
nello  studio  di  Seneca,  non  senza  essermi  più 
volte  volto  nella  tema  di  essere  codiato. 

—  Benissimo  !  —  gridò  Seneca,  buttando  via 
un  ignobile  mezzo  toscano  e  pigliandomi  tutta 
quella  corrispondenza  che  senz'altro  gli  offersi 
intatta.  —  Che  bella  messe,  eh,  mio  caro  Gigi? 
Non  è  stata  una  bella  idea  la  mia?  Ce  n'é  per 
tutt'e  due,  qui,  e  fin  troppe.  Vediamo,  vediamo. 
—  E  tosto,  sedutici  a  tavolino,  ne  cominciammo 
la  originale  e  stupefaciente  lettura. 

A  me,  ignaro,  timido,  con  un  cuore  tanto  fatto 
e  la  mente  esaltata  dai  più  fervidi  sogni  amorosi, 
quella  strana  prosa  così  varia  e  diversa  di  donne 
sconosciute,  quei  profumi  sottili,  peccaminosi,  che 
venivano  dai  foglietti  bianchi  o  rosei,  quelle  zam- 
pette di  mosca,  quei  ghirigori,  quei  nomi  dolci, 
poetici,  quei  misteriosi  pseudonimi  e  quegl'indi- 
rizzi  promettenti,  a  me  diedero  le  vertigini;  e  via 
via  che  leggevo  mi  sembrava  di  entrare  finalmente 
in  un  eden  non  mai  sognato,  in  un  mondo  di 
sogni,  di  promesse  e  di  speranze;  e  neanche  più 
ascoltavo  il  vocione  di  Seneca  il  quale,  pronto  ai 
motteggi,  ai  commenti  ed  alle  considerazioni  sar- 
casticamente puerili,  faceva,  come  diceva  lui,  due 
parti  giuste  delle  lettere  :  la  migliore  per  sé, 
l'altra  per  me. 

Con  quanto  entusiasmo  risposi  a  tutt'e  quindici 
quelle  creature  che  certamente  dovevano  essere 
tutte  belle  e  buone  ;  con  quanta  foga,  appagando 
la  mia  incipiente  mania  di  grafomane,  distillai  in 
quindici  lettere  tutte  le  corbellerie  erotico-senti- 
mentali  che  mi  sgocciolavano  ardenti  dal  cerebro 
in  combustione  !  Con  quanta  tenerezza  versai  la- 
crime, mugolai  sospiri,  scrissi  narrando  la  infe- 
licità della  mia  povera  vita  senza  ideali  e  senza 
amore!  Ma  finalmente  —  prorompevo   —  ginn- 


gevano  a  me  i  raggi  di  luce,  le  promesse  di  beati- 
tudine, ed  io,  fidando  nel  mio  destino,  aspettavo 
una  parola  di  vita  o  di  morte  :  la  felicità  o  la  dan- 
nazione eterna  ! 

Non  so  per  quante  ore  quel  giorno  io  e  Seneca 
abbiamo  scritto;  infine,  suggellate  le  trenta  mis- 
sive, sulle  cui  soprascritte,  ohimè,  dovetti  appic- 
cicare altrettanti  fi-ancobolli  pagandoli  io,  corsi 
ad  impostarle,  e  quindi  in  fretta  a  casa,  che  già 
due  ore  erano  sonate  da  quella  del  pranzo. 

Che  giorni,  quelli  !  Non  avevo  più  testa  a  niente; 
i  miei  libri  dormivano  meglio  di  prima,  ed  ero 
diventato  pensieroso,  taciturno,  come  se  mi  fos- 
sero minacciate  le  più  orrende  sciagure  di  questa 
allegra  lacrymarum  valle. 

Mio  babbo,  vedendo  che  l'appetito  non  mi 
serviva  più  un  fico  secco,  a  tavola  esclamava  : 

—  Che  cosa  ha  quel  macaco  lì  che  non  mangia 
più  le  sue  dieci  pagnotte  al  giorno? 

E  mia  sorella,  ridendo,  con  la  forchetta  per 
aria  e  la  bocca  piena  : 

—  Eh,  sarà  innamorato!  —  rispondeva  guar- 
dandomi con  occhi  interrogatori  e  curiosi,  nei 
quali  a  me  pareva  leggere  un  principio  d'in- 
vidia. 

Io  ficcavo  il  naso  nel  tondo,  mi  facevo  rosso 
fin  sulle  orecchie,  e  mi  consolavo  al  pensiero 
che  presto  sarebbero  giunte  altre  lettere. 

E  giunsero...  ma  soltanto  quattro  risposero 
ancora;  infine  anche  tre  di  queste  più  non  si  fe- 
cero vive,  ed  una  sola  mi  restò  fedele,  alla  quale 
mi  attaccai  con  pertinacia  disperata,  scrivendole 
perfino  due  o  tre  lettere  al  giorno,  con  un  cre- 
scendo di  passione  inverosimile,  eccitato  anche 
dalle  risposte  ardenti  che  mi  venivano;  squarci 
di  prosa  sgrammaticata,  sì,  ma  eloquente  e  nimu- 
ziosamente  descrittiva  più  di  quanto  non  avrei 
avuto  bisogno  io  per  abbandonarmi  ad  un'ado- 
razione solitaria  che  via  via  mi  faceva  diventar 
sottilino,  magrolino,  cretino... 

Perchè,  già,  lei  non  voleva  ancora  farsi  cono- 
scere... Eh,  se  si  era  risoluta  a  scrivermi,  a  spe- 
rare in  me,  a  credere  di  potere  infine  incontrarsi 
nel  suo  ideale,  e  se  per  conseguire  questo  nobile 
scopo  si  era  servita  del  mezzo  volgare  di  rispon- 
dere ad  un  richiamo  di  giornale  ciò  non  voleva 
dire  ch'ella  fosse  una  qualunque,  no...  Conside- 
razioni di  natura  intima,  riguardi  delicati  di 
famiglia  la  obbligavano  a  prudenza...  e  giù  let- 
terone  che  pesavano  un  accidente  e  per  le  quali, 
beato,  pagavo  sovente  la  sopratassa... 

Me  n'aveva  scritte,  di  lei,  per  tutti  i  gusti: 
eli 'era  così  e  cosi,  né  magra  né  grassa,  né  bella 
né  brutta,  non  più  bambina  ma  tanto  simpaticona, 
veh!  E  conosceva  tutti  i  modi  e  stramodi  per 
farsi  amare  :  e  quando  lei  amava,  Dio  guardi  era 
una  caldaia  ad  alta  pressione,  un  motore  a  cor- 
rente continua...  Mandarmi  la  sua  fotografia.'  .\h 


23 
no  !  Al  momento  propizio,  quando  ol  saremmo 
visti  per  la  prima  volta,  la  sorpresa  sarebbe  stata 
molto  più  bella,  più  cara...  Ero  io,  invece,  che 
dovevo  mandarle  il  ritratto! 

E  glie  lo  mandai,  e  la  cortesia  mi  valse  in 
premio  una  entusiastica  letterona  di  sedici  pa- 
gine formato  protocollo,  per  la  quale  pagai  doppia 
sopratassa. 

Nel  pensiero  m'ero  creata  la  imagine  di  lei  : 
una  bruna  ardente,  alta,  rotondetta,  con  occhi 
neri  vivacissimi  ;  e  la  vedevo  ne'  miei  sogni,  nei 
quadri,  nelle  incisioni  dei  giornali,  sulle  scatole 
dei  cerini,  di  notte  e  di  giorno;  su  tutti  i  pezzi 
di  carta  bianca  che  mi  capitavano  sottomano 
scrivendo  il  nome  suo  dolcissimo  di  Eliodora,  e 
perfino  a  mia  sorella  avevo  domandato  se  g^iudi- 
cava  musicale  e  poetico  un  tal  nome. 

Un  bel  giorno,  finalmente,  mi  feci  coraggio  ed 
alla  mia  Eliodora  scrissi  che  era  omai  tempo  che 
ella  si  facesse  conoscere  personalmente  ;  ch'io  non 
ne  potevo  proprio  più  dal  desiderio  di  vederla, 
di  porgerle  de  visti  i  miei  omaggi  e  di  baciarle 
le  mani...  Non  era  questo  il  mio,  il  nostro  sogno? 
E  lei  mi  rispose  dandomi  finalmente  convegno. 

Si,  ella  sarebbe  venuta  il  giorno  dopo,  lunedi 
della  Pentecoste,  nel  tal  punto  preciso,  cosi  e 
cosi,  al  Valentino,  e,  come  segno  convenuto  per 
riconoscerla  io  —  lei  mi  avrebbe  subito  ricono- 
sciuto, che  già  aveva  il  mio  ritratto  —  ella  avrebbe 
tenuto,  nella  mano  sinistra,  insieme  con  l'om- 
brellino chiuso  un  giornale  spiegato,  e  nella  destra 
un  mazzetto  di  fiori  bianchi. 

Per  una  volta  tanto  non  dissi  nulla  a  Seneca; 
ad  ogni  modo  credo  che  anche  lui  fosse  occu- 
patissimo a  scrivere  ogni  giorno  chi  sa  quante 
missive,  poiché  da  forse  un  mese  quasi  più  non 
lo  vedevo. 

E  giunse  il  giorno  lacrimando,  quel  giorno  fa- 
tale che  conta  fra  gli  indimenticabili  di  mia  vita: 
una  giornata  calda  di  sole,  un'allegria  di  vita 
sana,  gioconda;  un  fiorire  delizioso  di  primavera, 
e  nel  sangue  mi  correvano  tutte  le  gioie  e  tutti 
i  pruriti  dell'universo. 

Con  l'impaccio  di  mia  sorella  che  sempre  mi 
scrutava  di  soppiatto  canzonandomi  quando  po- 
teva ;  con  la  tema  che  mio  babbo  da  un  momeuto 
all'altro,  me  assente,  andasse  in  camera  mia  a 
perquisirla  ed  a  trovare  tutto  quel  fenomenale 
epistolario  amoroso,  io  non  potevo  agir  libero, 
così  che  in  quel  giorno,  per  azziniarmi  e  lisciarmi 
a  festa  dovetti  inventare  tutta  una  storia  d'inviti 
e  di  ricevimenti  dati  da  un  profes-sore. 

Attillato  e  profumato,  con  una  cravatta  verde 
nuova  di  vetrina,  con  i  polsini  che  m'uscivano 
d'un  palmo  dalle  maniche  ed  un  solino  che  mi 
tagliava  le  orecchie;  con  la  paglietta  alla  sgherra, 
un  giunco  in  mano  ed  un  garofano  all'occhiello, 
impettito  e  sp;u'aIdo  uscii    da   casa  che    ancora 


24 

non  erano  sonate  le  quattordici...  ed  il  convegno 
era  per  le  diciotto. 

Ma  dovevo  ancora  passare  dal  barbiere  :  la  mia 
barba  precoce,  molto  fitta,  non  aveva  più  visto 
il  rasoio  da  un  par  di  settimane,  e  mi  nereggiava 
sul  mento  e  sulle  gote,  né  per  tutto  l'oro  del 
mondo  mi  sarei  presentato  così  alla  mia  diletta 
Eliodora  ;  arrzi,  per  farmi  radere  la  barba  avevo 
appunto  aspettato  quel  giorno,  quelle  ultime  ore, 
per  uscire  fresco  e  finito  e  degno,  dalle  mani 
del  barbiere. 

Ma  che  diavolo  era  quella  striscietta  di  carta 
rossa  appiccicata  sulle  imposte  del  mio  barbiere? 
Ah  !  «  Chiuso  per  festa  professional  »  proprio 
cosi  !  Ed  in  quel  giorno  in  quel  giorno!  Ma  avrei 
ben  potuto  trovarne  un  altro  aperto,  non  è  vero? 
E  avanti  di  corsa,  per  vie,  per  piazze,  come  un  di- 
sperato... e  niente  barbierie  ;  tutte  chiuse  ed  i  car- 
tellini «  Chiuso  per  festa  professionale  »  tutti 
eguali,  tutti  stampati  su  carta  rossa,  come  una 
barbara  congiura. 

Cosa  fare  adesso  che  mi  capitava  una  cosi 
tremenda  disgrazia?  Andare  egualmente  al  con- 
vegno e  presentarmi  .con  quei  miei  peli  ispidi 
alla  dolce  Eliodora?  Mai,  mai...  più  tosto  sarei 
corso  da  Seneca,  a  pregarlo  di  sbarbarmi... 

Ma  non  ebbi  il  coraggio,  no  ;  il  rasoio  in  quelle 
manaccie  pelose  mi  faceva  paura...  e  correvo, 
correvo  sempre  come  un  dannato,  già  madido 
di  sudore,  che  la  giornata  era  caldissima,  cer- 
cando un  figaro  qualunque,  guardando  a  tratti 
le  ore,  e  già  mi  disperavo  sul  serio  quando  una 
idea  luminosa  mi  balenò  ad  un  tratto  nel  pen- 
siero. 

Entrai  sotto  il  portone  di  una  casa  che  fra  le 
sue  botteghe  aveva  la  felicità  di  possederne  una 
da  barbiere,  naturalmente  chiusa;  diedi  un  par 
di  pugni  in  un  usciuolo  a  vetri,  ed  alla  porti- 
naia balzata  sulla  soglia  a  chiedermi  chi  cercavo 
domandai  se  il  barbitonsore  abitava  in  quella 
casa. 

—  Sì;  scala  nella  corte,  (juinto  piano,  terzo 
uscio  a  destra. 

Ringraziai,  e  via  lesto  su  per  le  scale  giunsi 
a  quel  terzo  uscio  benedetto  sul  quale  era  scritto  : 
«.Innocenza  Raviolo,  Pettinatrice  »;  picchiai, 
m'impazientii,  stavo  per  iscaraventare  una  doz- 
zina di  moccoli  quando  l'uscio  fu  aperto  e  sulla 
soglia  comparve  una  biondona  in  sottanino  bianco, 
in  camiciola  scollata,  le  braccia  nude,  due  occhi 
vivi,  una  bocca  ridente,  rossa,  un  sorriso  inter- 
rogatore ed  incantatore  che  mi  avrebbe  fatto 
balbettare  come  imo  scemo  se  in  quel  momento 
stesso  un  rabbioso  cucciolo  danese,  grosso  e 
sgarbato,  non  mi  fosse  balzato  fra  le  gambe, 
ululando,  a  provare  i  suoi  primi  denti  in  fondo  ai 
miei  calzoni. 
~     —  Alla  cuccia,  Doro,  via!...  —  e  la  biondona 


sferrò  un  benedetto  calcio   al   botolo,   che  guai, 
rotolò,  e  riscappò  in  casa;  poi,  voltasi  a  me: 

—  Il  signore    desidera  ? 

—  Cercavo  un  barbiere...  vorrei  farmi  radere 
la  barba...  tutte  le  barbierìe  sono  chiuse,  e  la 
portinaia  mi  ha  mandato  qui...  capirà,  ho  un  in- 
vito, ho  fretta... 

—  Mio  fratello  non  c'è:  mi   rincresce  tanto... 

—  Che  disdetta!  Potrebbe  lei,  almeno,  darmi 
l'indirizzo  di  un  qualche  altro  barbiere? 

Nel  mio  volto  rimminchionito  quella  cara  crea- 
tura dovette  leggere  un  ben  vivo  dolore,  se  n'ebbe 
compassione  e  mi  rispose  : 

—  Senta:  qualche  volta,  quando  al  .sabato 
sera  c'è  furia  d'avventori,  scendo  in  bottega  ad 
aiutare  mio  fratello...  Se  lei  vuole,  finisco  di 
pettinare  una  signora  e  la  servo. 

Sentii  un  gran  rimescolio  nel  sangue,  entrai, 
la  giovane  richiuse  l'uscio,  mi  invitò  a  sedere, 
mi  sorrise  ancora  una  volta  pregandomi  di  aspet- 
tare, ed  entrò  in  una  seconda  stanzetta  lasciando 
l'uscio  di  questa  socchiuso. 

Dopo  un  istante,  fatto  l'inventario  dei  mobili 
e  dei  quadri,  guardate  le  ore  tre  o  quattro  volte, 
cominciai  ad  impazientirmi,  mentre  quasi  .senza 
volere  ascoltavo  il  vocione  della  signora  che  nel- 
l'altra camera  si  faceva  pettinare. 

—  Si  —  diceva  —  sento  che  questa  è  una 
delle  mie  giornate.  Eh,  eh,  non  perdo  tempo,  io, 
e  con  gli  uomini  vado  subito  a  fondo.  E  non 
per  vantarmi,  sa;  che  se  volessi  narrare  di  certe 
conquiste  amorose,  lei  ne  rimarrebbe  stupita! 

E  l'altra,  la  pettinatrice,  con  la  sua  vocetta 
cristallina  che  mi  pareva  sottilmente  ironica: 

—  Fortunata  madama  !  Io,  invece,  non  trovo 
un  cane  che  mi  guardi  ;  forse  sono  troppo 
timida... 

--  O  certo  che  la  timidezza  guasta  molte 
cose...  io,  già,  non  mi  fermo  ai  sospiri,  ma  vado 
subito  a  fondo,  a  fondo. 

Curioso,  lasciai  la  mia  scranna,  e  quatto  quatto, 
avvicinatomi  all'uscio  .socchiuso,  guardai  nell'altra 
stanzetta. 

Seduto  dinanzi  ad  un  tavolino,  tutto  chiuso 
in  un  lungo  accappatoio  bianco,  stava  un  donnone 
di  cui  vidi  subito,  riflesso  nello  specchio,  il  volto 
grasso,  piatto,  rubicondo;  un  nasone  cremisino, 
due  occliietti  semichiusi  e  tre  menti  cicciosi  dei 
quali  non  si  capiva  quale  fosse  il  vero. 

Ed  era  costei,  buon  Dio,  che  parlava  di  an- 
dare a  fondo  con  gli  uomini...  .\lla  larga!  E 
mentre  il  donnone  continuava  la  propria  apo- 
logia spiegando  in  qual  modo  essa  amava  i  si- 
gnori uomini  e  quali,  in  proposito,  erano  le  sue 
attitudini  speciali  e  le  sue  tendenze  irresistibili, 
io  gioivo  guardando  la  bella  pettinatrice,  quelle 
sue  braccia  rosee,  quella  sua  nuca  bianca  sotto 
l'ombra  dei  riccioli   biondi,    e    palpitando    està- 


siato  pensavo  che  fra  brevi  istanti  quella  crea- 
tura mi  avrebbe  sbarbato! 

La  ragazza  ora  pareva  affrettarsi;  già  aveva 
riacconciate,  sul  cranio  qua  e  là  pelato  della 
sua  cliente,  alcune  treccie  morte  pigliandole  da 
sopra  il  tavolino,  e  poi  si  era  pronta  ad  arric- 
ciarle i  capelli  sulla  fronte  e  sulla  nuca,  quando 
io  prudentemente  lasciai  quell'uscio  ritraendomi 
ad  una  finestra  dalla  quale  si  contei.iplava  un 'ampia 
distesa  di  tetti  e  di  comignoli. 

Dopo  alcuni  minuti  capii  che  la  cuticagna  della 
cliente  era  all'ordine;  poscia  la  udii,  accompa- 
gnata dalla  giovane,  passare  dietro  a  me  che 
continuavo  ad  animi-rare  il  panorama  dei  tetti, 
e  quindi  ad  uscire  dopo  aver  bofonchiato  altre 
corbellerie  e  gridato  cinque  o  sei  cerea. 

—  Se  Dio  vuole  se  n'è  andata  —  mi  disse  la 
bella  pettinatrice,  ridendo,  nientr'io  mi  voltavo 
a'  suoi  comandi...  cioè  per  farmi  servire.  Ed 
anch'io  passai  in  quella  stanzetta,  sedetti  al  ta- 
volino, di  fronte  a  quello  specchio  nel  quale  mi 
pareva  ancora  di  veder  riflesso  il  frontispizio  di 
quella  signora  rotondissima  che  con  gli  uomini 
voleva  sempre  e  subito  andare  a  fondo. 

La  ragazza,  svelta,  aggraziata,  preparò  il  ra- 
soio, mi  pregò  di  togliermi  il  solino  e  la  cravatta, 
che  cosi  mi  avrebbe  lavorato  senza  impacci,  e 
poi.  dopo  avermi  incravattato  entro  un  candido 
tovagliolo,  preso  un  ciotolino  d'acqua  ed  il  pen- 
nello cominciò  ad  insaponarmi  il  mento  e  le  gote, 
dolcemente,  carezzosamente,  chinandosi  sopra  di 
me  che  dalla  scollatura  della  camiciola...  Ma 
bocca  chiusa,  ehi!...  Certe  cose  è  meglio  dimen- 
ticarle... Dirò  invece  che  in  quei  momenti  per 
me  la  vaga  Eliodora  era  bell'e  morta  e  sepolta, 
le  sue  lettere  memorie  lontane,  ed  al  suo  con- 
vegno non  pensavo  più...  e  adesso,  mentre  la 
bella  barbitonsora  mi  radeva,  stirando  con  le  sue 
morbide  dita  la  pelle  fatta  liscia  delle  mie  gote, 
sfiorandomi  il  volto  con  il  suo  alito  sano,  guar- 
dandomi con  quei  suoi  occhioni  maliziosamente 
birichini,  io,  in  paradiso,  con  il  cuore  che  pareva 
lavorare  a  cottimo  e  gli  occhi  semichiusi,  medi- 
tavo una  folle  dichiarazione  amorosa,  e  già  pen- 
savo, non  appena  sb.Trbato,  di  buttarmi  ai  ginocchi 
della  ragazza  svelando  la  fiamma  che  d'improv- 
viso era  divampata  nella  mia  anima;  e  già,  a 
non  perder  tempo,  ero  per  incoraggiarmi  a  metter 
fuori  qualche  prima  parola,  quando  quel  male- 
detto cucciolo  ilanese,  risortito  da  chi  sa  dove 
s'era  ingusciato  poco  prima,  mi  diede  un  tale 
urto  nelle  gambe  con  relativo  strappo  ai  calzoni 
che  per  poco,  toltomi  l'equilibrio,  non  mi  mandò 
ruzzoloni  sotto  al  tavolino. 

—  Maledetto  Doro  !  —  gridò  la  ragazza  ricac- 
ciandolo. —  Mio  fratello,  già,. non  ne  azzecca 
una  giusta  :  se  non  ha  qualche  bestia  in  casa 
non  è  lui.  Adesso  gli  hanno  regalato  questo  ca- 


gnaccio che  è  uno  spavento  vederlo  cregcere  e 
mangiare  I  —  e  si  chinò  a  lavarmi  il  mento  met- 
tendomi il  catino  sotto  il  muso  ed  il  resto  sotto 
gli  occhi,  mentre  io  gorgogliavo: 

—  Eh  già...  le  bestie...  già,  già...  sono  sempr   * 
bestie... 

—  K  sa  chi  fu  a  regalarci  quel  bestione.^ 
Proprio  quella  signora  che  se  n'è  andau  un 
momento  fa  :  una  certa  madagia  Spingarda  che 
abita  qua  sotto  al  terzo  piano.  Un  bel  tipo,  eTi, 
l'ha  vista?  .Non  saprei  dove  prendere  la  eguale 
per  farne  il  paio.  (Juanto  ridere  ne  facciamo  io 
e  mio  fratello!  A  sentirla,  tutti  i  giovinotti  le 
corron  dietro,  e  lei  tutti  li  strega,  nientemeno. 
Invece,  che  Iddio  glie  la  mandi  buona,  si  fa 
mangiare  fin  l'anima  da  quanti  scalzacani  sanno 
farle  vedere  la  luna  nel  pozzo...  Ma  ecco  che 
abbiamo  finito...  Ancora  un  colpo  di  ferri?  Alla 
Guglielmo,  non  è  vero? 

—  Sì,  con  la  scriminatura  che  si  veda  bene, 
a  sinistra. 

Le  mani  della  ragazza  mi  palparono  e  liscia- 
rono ancora  dolcemente  la  zucca,  mentre  passando 
e  ripassandomi  intorno,  le  sue  girrocchie  sfiora- 
vano le  mie,  od  il  suo  seno  premeva  contro  le 
mie  spalle...  e  così  ancora  per  qualche  minuto 
fin  che,  fermato  in  istabile  voluta  il  ricciolo  alla 
Guglielmo,  datomi  un  ultimo  colpettino  ai  quattro 
peli  sotto  il  naso,  passatomi  il  tovagliolo  sul 
volto  a  togliermi  la  cipria,  la  mia  bella  barbiton- 
sora mi  disse  : 

—  Il  signore  è  servito. 

Allora  io  avrei  dovuto  prenderle  una  mano, 
alzare  gli  occhi  al  soflìtto,  gemere  la  mia  dichia- 
razione, e,  se  non  bastava,  inginocchiarmele  di- 
nanzi a  chiederle  mercè,  non  è  vero?  Invece,  di 
primo  impulso,  neanche  osai  dirle  un  grazie... 
mi  sentii  preso  alla  gola  da  una  commozione 
assassina,  mi  rimisi,  in  silenzio,  il  solino  e  la 
cravatta,  e  mentre  lei  mi  spazzolava,  raccoman- 
datomi disperatamente  a  tutto  il  mio  coraggio, 
mormorai  alfine  : 

—  .Senta...  io  vorrei...  Sicuro,  .sicuro!  Oggi 
abbiamo  una  giornata  molto  calda... 

—  Ma  bella!  E  mio  fratello,  che  con  gli  altri 
•  colleghi   si   è   recato   a   Superga,    dove   si  U  il 

pranzo  sociale,  sarà  contento.  Ora  lui  è  padrone 
di  bottega,  ma  ricorda  i  tempi  in  cui,  garzone, 
lavorava  per  gli  altri,  e  sìa  con  la  Lega  e  per 
la  Lega  :  i  socialisti  hanno  proprio  ragione. 

—  Certo,  certo...  —  e  mentre  le  davo  un  bel 
due  lire  nuovo  di  zecca  avrei  voluto  farle  cre- 
dere che  anch'io  ero  socialista,  e  che  quindi  un 
po'  di  collettivismo  pratico  fra  noi  due  sarebbe 
stato  cosa  tanto  naturale...  ma  que' suoi  occhidhi 
troppo  aperti  che  mi  fissavano,  coadiuvati  d.i  nn 
sorriso  troppo  malizioso,  finirono  per  darmi  il 
colpo  di  grazia  e  non  seppi  dir  .litro  che  grazie 


26 

e  grajie,  mentre  di  botto  mi  veniva  in  mente 
Eliodora,  la  ignota,  l'aspettata,  la  tanto  deside- 
rata... prima. 

Per  me,  in  quell'istante,  Eliodora  fu  come 
un'ancora  di  salvezza.  Mostrandomi  impaziente 
trassi  l'orologio  —  le  diciassette  e  mezzo!  — 
salutai,  diedi  un  calcio  ad  una  sedia,  un  urto 
contro  l'uscio,  e  con  negli  occhi  l'immagine  di 
«  Innocenza  Ravioli,  Pettinatrice  »  scesi  le  scale 
c^e  neanche  più  vedevo  gli  scalini. 

Non  ero  ancora  fuori  del  portone  che  già  avrei 
voluto  ritornare  indietro,  subito  :  mi  pareva  im- 
possibile dovermene  andar  via  cosi,  a  becco 
asciutto,  come  uno  guaìimgiie  ;  e  la  bella  petti- 
natrice, intanto,  era  sempre  in  quelle  sue  came- 
rette, là  su,  in  sottanino  e  camiciola,  gaia,  solis- 
sima... 

Ohi!  ohi!  Ero  un  uomo  sì  o  no?  E  poi,  non 
c'era  l'altra,  la  Eliodora,  che  mi  aspettava?  Ed 
io  cosi  presto  l'avevo  dimenticata...  avevo  dimen- 
ticato quella  nobile  creatura  che  mi  aveva  scritto 
tante  lettere,  fatto  pagare  tanti  segnatasse,  e  che 
in  quel  momento,  fiduciosa,  palpitava  all'avvici- 
narsi dell'istante  sospirato  in  cui,  insieme  con  la 
stretta  delle  nostre  mani,  si  sarebbero  fuse  le 
nostre  anime,  i  nostri  cuori... 

Ah,  vile,  vile  che  ero  stato!  E  correvo,  correvo 
sui  marciapiedi  senza  nulla  vedere,  (li  nuovo  ri- 
•  preso    da    un'ansia    timorosa    così    viva  che   mi 
pareva  tormento  insopportabile. 

Perchè  ora,  finalmente,  mi  sarei  incontrato  con 
l'ignota,  le  avrei  parlato  camminandole  al  fianco, 
avrei  udito  la  sua  voce  .soave...;  e  che  cosa  le 
avrei  detto  ?  Quali  sarebbero  state  le  mie  primis- 
sime parole?  Intuivo  che  la  paura  stessa  ch'io 
provavo  per  la  mia  timidezza  mi  avrebbe  fatto 
diventar  più  timido  ancora. 

Perfino  mi  venne  in  pensiero  —  pare  impossi- 
bile !  —  che  a  quel  primo  convegno  avrei  dovuto 
farmi  accompagnare  dall'amico  Seneca,  il  quale 
m'avrebbe  aiutato,  consigliato... 

Come  Dio  volle  giunsi  al  Valentino. 
Il  grandioso.  Parco  in  riva  al  Po  era  ancora  lu- 
minosissimo di  sole,  e  dall'altra  parte  del  fiume 
la  collina,  nitidamente  frastagliata  nell'azzurro 
del  cielo,  seminata  di  ville  e  di  paeselli,  ver- 
deggiava pomposa  nel  lecondo  morire  della  pri- 
mavera. 

Il  luogo  del  convegno  era  inteso  sotto  gli  annosi 
platani  del  gran  viale  dietro  al  Castello  del  Valen- 
tino; e  come  ivi  giunsi,  che  ancor  non  erano  scoc- 
cate le  diciotto,  fremente  d'impazienza  e  nume- 
rando i  minuti  che  mi  parevano  ore,  cominciai 
a  camminare  su  e  giù,  guatando  qua  e  là,  sus- 
sultando ad  ogni  figura  di  donna  che  compariva. 


Vi  fu  un  momento  in  cui,  sentendomi  quasi 
venir  meno  perla  commozione  improvvisa,  credei 
indovinare  la  Eliodora  in  una  graziosa  donnina 
scesa  dal  tranvai  poco  lungi  da  me;  ma  il  cre- 
duto mio  ideale  mi  passò  vicino  senza  nemmeno 
guardarmi. 

Sonarono  le  diciotto,  passarono  altri  carrozzoni 
del  tram,  risalii  e  ridiscesi  il  viale  una  dozzina 
di  volte,  rimuginai  la  tenera  conclone  con  la  quale 
avrei  dovuto  salutare  la  bella  ignota,  la  poetica 
e  tanto  sognata  Eliodora;  mi  impazientii,  mi  adirai 
meco  stesso,  ripensai  con  infinito  rimpianto  alla 
bella  pettinatrice,  e  già  cominciavo  a  disperare, 
a  dubitare  di  non  so  chi  e  di  non  so  che  cosa, 
quando... 

Ah,  per  Iddio  misericordioso!  Perchè  in  quel- 
l'istante non  mi  si  aperse  la  terra  sotto  ai  piedi, 
o  per  lo  meno  non  mi  cadde  un  platano  sulla 
schiena  ? 

Da  dietro  gli  alberi,  rosso  vestita,  col  largo  fac- 
cione sorridente  sotto  un  enorme  cappello  piumato 
ed  infiorato,  con  gli  occhietti  socchiusi  ed  il  trip- 
pone tremolante  e  la  triplice  pappagorgia  più  fio- 
rente che  mai,  comparve  madama  Spingarda,  la 
cliente  della  gaia  pettinatrice,  con  il  mazzolino  di 
fiori  bianchi  nella  destra  ed  un  giornale  e  l'om- 
brellino nella  sinistra...  lei,  lei,  madama  Spin- 
garda ! 

E  quel  largo  sorriso  di  gra.ssa  beatitudine  mi 
venne  proprio  incontro,  con  una  raccapricciante 
sicurezza  di  vittoria;  ed  io,  che  non  potei  fare  in 
tempo  a  scappare  e  che  m'ero  sentito  salire  le 
fiamme  al  volto  ed  entrare  in  cuore  un'ira  sorda 
che  poteva.  Dio  guardi,  farmi  diventare  ipso  facto 
delinquente  feroce,  io  dovetti  balbettare  non  so 
che  cosa,  stringere  una  grossa  mano  sudata,  udire 
un  vocione  che  intonava  non  so  quali  saluti...  e 
poi...  giunse  improvvisa  la  mia  salvezza,  un  tranvai 
adorato!  Oh  sì,  il  Cielo  ebbe  pietà  di  me,  ed  io 
gridai  lesto  : 

—  Signora  mia,  scusi  tanto,  sa?  Ma  lei  è  giunta 
troppo  tardi:  ho  affari  urgentissimi...  tanti  saluti! 
—  e  saltai  nel  tram,  ed  al  fattorino  che  mi  diede 
il  biglietto  glie  lo  avrei  pagato  uno  scudo;  e  tutti 
quanti  erano  nel  carrozzone  liberatore  tutti  mi 
parvero  mìei  amici  cari,  carissimi...  e  mi  sentii, 
di  botto,  rivivere  non  so  come:  una  luce  nuova 
che  ad  un  tratto  m'illuminava  l'avvenire,  il  mio, 
troncandolo  nettamente  da  tante  mie  sciocchezze 
del  passato;  ero  vinto,  si,  ma  nur  anche  vitto- 
rioso perchè,  non  paia  esagerazione,  in  pochi 
giorni  fortunatamente  avevo  acquistato  un  mare 
d'esperienza  da  sprecarne  per  cent'anni... 

Maledette  e  benedette  le  tue  lezioni,  o  amico 
Seneca  ! 


CARLO  DADONE 


NON    SI    PUÒ. 

(Novelletta   comica). 


Questioni  storico-critielie  -  Un  temperamento  erotico  e  il  culto 
della  donna  -  La  Partita  a  Scacchi  ■  Volata  al  settimo  cielo 
-  Elletti  turbolenti  dell'emozione  •  La  poiUcina  -  «  Xon  si 
può  »  -  Situazione  angosciosa  -  Accidenti  ai  pappa'j:alli  !  - 
ruga  -  L'onore  è  salvo  ! 

Se  il  papiro  egiziano  scoperto  recentemente 
nella  baia  d'Hudson  (non  potrei  garantire  l'au- 
tenticità di  questa  notizia  sbalorditoria)  appar- 
tenga al  regno  di  Ramsete  II,  è  argomento  degno 
di  affaticare  le  menti  più  dotte  del  secolo.  Se  si 
stabilisse  ciò  —  al  solo  pensarci  mi  sento  ve- 
nire la  pelle  d'oca  —  resterebbe  dimostrato  che 
i  figli  d'Israele  erano  sotto  il  dominio  egiziano 
sin  da  quel  tempo.  Ciò  vorrebbe  dire  che  Mosè..., 
e  ciò  secondo  le  ultime  ricerche,  era  venuto  in 
Egitto  prima  del  passaggio  del  Mar  Rosso,  cosa 
che,  se  veramente  si  determinasse,  basterebbe 
•da  sola  a  sovvertire  dalle  fondamenta  il  presente 
ordinamento  sociale. 

Il  benevolo  lettore  mi  perdonerà  questa  digres- 
sione, necessaria  digressione,  che  ho  dovuto  fare 
per  lasciar  vedere  come  io  non  mi  tenga  estraneo 
alle  più  alte  questioni  storiche,  e  come  la  severità 
scientifica  sia  la  mia  più  brillante  qualità.  Senza 
essa  non  avrei  potuto  stabilire  con  documenti 
inconfutabili  che  la  balia  del  Petrarca  si  chiamava 
Teresa  e  non  Veronica,  e  su  ciò  sto  per  pubbli- 
care due  grossi  volumi  in  quarto,  che  mi  assi- 
cureranno una  cattedra  universitaria. 

Intanto  a  proposito  di  papiri  narrerò  la  storia 
di  un  pappagallo,  che,  forse  senza  saperlo,  salvò 
l'onore  di  una  famiglia. 


Il  signor  Rolando  Càpperi,  dottore  in  utroque, 
aspirante  referendario  al  Consiglio  di  Stato,  è  un 
giovinotto  maturo  —  non  si  può  dire  altrimenti 
—  la  cui  faccia  presenta  una  di  quelle  fisonomie 
inalterabili  che  non  subiscono,  come  la  vernice 
a  smalto,  i  deleterii  effetti  degli  agenti  atmosferici 
e  chimici.  Da  circa  quindici  anni  è  sempre  lo 
stesso  ;  solo  la  dose  del  sale  aumenta  sul  pepe 
della  barbetta  e  dei  capelli  ;  ma  l'aumento  è  cosi 
graduale  che  nessuno  se  ne  accorge,  e  meno  di 
tutti,  lui. 

—  Io  sono  un  temperamento  erotico  —  ripete 
sempre  lui.  —  Io  ho  bisogno  di  amare,  di  espan- 


dere la  mia  esuberanza,  di  cuocere  a  fuoco  bianco 
i  miei  nervi. 

«  Io  a  tutto  preferisco  il  culto  della  donna!  » 

E  la  sua  vita  in  vero  è  nn^  Jìirtalion  continua 
e  universale.  Per  la  strada,  in  trattoria,  in  ufficio, 
in  chiesa,  in  teatro,  dovunque,  egli  lancia  i  suoi 
dardi  d'amore.  Ma,  per  fortuna  dei  mariti  e  dei 
padri  di  questa  terra,  i  suoi  dardi  sono  ideali, 
si  perchè  nessun  uomo  è  più  platonico  di  lui. 
Egli  non  aspira  —  sono  sue  parole  —  che  ad 
impossessarsi  dell'anima  della  donna,  il  resto  gli 
è  indifferente. 

—  Passare  accanto  a  una  donna,  fissarla,  strap- 
parle l'anima  in  uno  sguardo  e  mettermela  all'oc- 
chiello come  un  fiore!  ecco  il  mio  ideale! 

Rolando  si  serve  spesso  di  uno  stile  asiatico... 


Ma  spingendo  il  suo  cuore  qua  e  là,  Rolando 
fu  preso  da  una  impetuosissima  passione  per  la 
moglie  di  un  suo  amico  ;  una  donna  sublitne. 
Donna  Eulalia  Carloni.  Però  la  sua  passione  era 
cosi  platonica  e  filodrammatica  che  rimaneva  an- 
cora allo  stato  latente. 

Il  suo  amico  Carloni  era  un  buontempone, 
amante  dei  divertimenti,  ricco  fannullone,  che 
provava  più  gusto  a  far  divertire  gli  altri  che  se 
stesso.  A  casa  sua  ogni  settimana,  il  giovedì, 
v'era  riunione,  si  giuocava,  si  ballava,  si  cenava, 
si  organizzò  financo  un  teatrino,  e  Rolando  fu 
uno  dei  primi  attori. 

—  Signora  —  disse  questi  un  giorno  alla  pa- 
drona di  casa  con  uno  sguardo  languido  —  vo- 
gliamo recitare  io  e  lei  la  Par/i/a  a  scaicMìT 

—  Sì  !  —  mormorò  la  signora  stendendogli  la 
sinistra  con  un  gesto  lungo  e  intenso. 

Fu  stabilito  che  si  sarebbe  rappresentata  in 
campagua  ;  la  villeggiatura  doveva  riuscire  una 
delizia,  e  si  facevano  grandi  preparativi  ;  ogni 
tanto  il  signor  Carloni  partiva  per  la  sua  villa  a 
Castel  Gjndolfo,  di  cui  facesa  riattare  il  tea- 
trino. 

Finalmente  la  famiglia  Carloni  parti  il  primo 
di  luglio  ;  verso  il  quindici  Rotando  ed  altri  amici 
dovevano  raggiungerla  iH;r  passare  una  decina  di 
giorni  nella  gaia  villa,  ove  si  sarebbero  date  delle 
feste  strepitose. 


28 


Rolando  si  sarebbe  voluto  addormentare  sino 
al  giorno  della  sua  partenza. 

—  Fatemi  distrarre,  divagatemi,  voglio  dimen- 
ticare !  —  implorava  il  misero  agli  amici. 

E  il  giorno  della  partenza  giunse,  giunse  anche 
il  momento  dell'arrivo;  oli,  momento  soave, 
quando  lei,  donna  Eulalia,  gli  porse  la  mano 
senza  parlare,  senza  guardare,  senza  stringere, 
senza  niente...  Eppure!.... 

Il  signor  Antonio  Carloni  condusse  gli  ospiti 
nelle  rispettive  camere,  li  accompagnò  in  una 
visita  generale  alla  palazzina  ;  in  fondo  al  corri- 
doio del  secondo  piano,  si  fermò  dinanzi  una 
porticina. 

—  Amici  miei  —  disse  il  padrone  di  casa  ac- 
cennando alla  porticina  —  è  inutile  ch'io  vi  spieghi 
dove  conduce  questa  porta  ;  ognuno  di  voi  alla 
spicciolata  se  ne  caverà  la  curiosità  quando  ne 
sentirà  l'urgenza. 

—  La  vile  prosa  della  vita!  —  esclamò  Rolando 
con  un  gesto  largo. 

Si  andò  a  pranzo  allégramente  e  da  mezzo- 
giorno si  sedè  a  tavola  sino  alle  tre,  e  Rolando 
ebbe  la  fortuna  di  sedere  accanto  a  donna  Eulalia 
di  cui  platonicamente  premeva  i  piedini  adorati. 
Verso  le  frutta  il  signor  Càpperi  si  chinò  un  mo- 
mento verso  l'amata  donna  e  le  mormorò: 

—  Amarti  e...  morire! 

Ella  aveva  arros- 
sito. 

Egli  aveva  detto 
a  se  stesso  orgoglio- 
samente: Che  scapo- 
strato  che  sono  ! 

Quando,  alle'tre, 
tutti  si  alzarono  da 
tavola  per  andar- 
sene a  riposare,  Ro- 
lando senti  nei  piii 
intimi  precordi  che 
qualche  cosa  di  im- 
pellente avveniva  in 
luì.  Dice  il  Kranip- 
feld  che  le  emozioni 
violenti  hanno  una 
azione  drastica  in- 
fallibile, e  il  signor 
Càpperi  univa  con 
l'emozione  violenta  un  lauto  desinare  jnaflìato 
da  vini   eccellenti.    Figuriamoci. 

Ma  egli  sorrise  carezzando  il  fantasma  di  quella 

porticina  misteriosa e  si  ritirò  nella  ^jia  stanza. 

•Quando  senti  tutto  in  silenzio,  si  avviò  al  noto 

corridoio  con  passo  insolitamente  veloce  ;  e  con 

un  senso   di   benessere  toccò   la   maniglia   della 

porticina;  ma,  ahimè,  una  voce  si  fece  udire  : 

—  Non  si  può... 

Il  buon  Rolando  impallidi  ;  ma...  noli  c'era  che 


c;^^^^ 


dire.  Toenò  indietro  a  passo  interrotto,  saltuario; 
e  cercò  una  distrazione  nella  recitazione;  ma  alla 
voce  sua  altre  voci  tumultuose  rispondevano,  che 
non  erano  né  quella  della  co.'^cienza,  né  quella 
del  popolo. 

Incalzato  dagli  avvenimenti  minacciosi,  Ro- 
lando rifece  il  corridoio,  posò  di  nuovo  la  mano 
sulla  maniglia,  ma  la  voce  ripetè  : 

—  Non  si  può  ! 
Ma  quel  signore  si  è  stabilito  là...  pen.sò  con 

un  lampo  geniale  di  fantasia  il  trambasciato 
signor  Càpperi;  e  facendosi  coraggio,  si  mise  a 
passeggiare  sul  largo  pianerottolo  temendo  che 
mentre  l'altro  usciva,  qualcuno  avesse  approfit- 
tato prima  di  lui  del  solitario  asilo. 

Pensò  alle  cose  più  gravi,  ai  problemi  più 
astrusi  per  divagarsi,  cercò  di  spiegare  se  la 
storia  fosse  arte  o  scienza,  se  l'anima  fosse  im- 
mortale, se  fosse  possibile  scoprire  una  macchina 
per  volare  ;  si  domandò  persino  —  e  su!  serio  — 
se  l'Iliade  era  di  Omero.  Un  uomo  giunto  a  questo 
è  capace  di  tutto,  e  Rolando  si  diresse  a  passo  ri- 
soluto verso  la  porticina  decìso  a  intavolare  un 
dialogo  con  l'indiscreto  che,  con  patologico  pia- 
cere, scambiava  quel  luogo  fugace  con  un  salotto. 

Impugnò  la  manigìia  e  la  voce  per  la  terza  volta 
ripetè  : 

—  Non  sì  può  ! 

—  Scusi,  la  prego  di  sollecitare...  —  azzardò 
Rolando,  in  uno  di  quei  momenti  in  cui  si  di- 
venta eroi. 

—  Non  si  può!  —  rispose  seccamente  la  voce. 
Rolando  deciso  a  tutto  si  avviò  frettolgsamentv 

verso  il  giardino  con  la  tragica  intenzione  di 
affidare  ai  verdi  silenzi  di  qualche  solitario  re- 
cesso quelle  confidenze  che  \m  fato  avverso.grìni- 
pediva  di  abbandonare  alla  loro  sede  naturale. 
Per  le  scale  incontra  il  padrone  di  casa.  • 

—  Ohe,  Càpperi,  che  hai? 

—  Perdio  c'è  un  signore  che  da  un'ora  si  è 
stabilito  in  fondo  al  corridoio. 

Il  signor  Carloni  scoppiò  in  una  omerica  risata. 

—  Ah,  ho  capito,  va  pure,  va  pure,  il  servitore 
ci  tiene  il  pappagallo  che  ha  imparato,  a  dire  non 
si  pud. 

—  Come,  il  pappagallo?!...  dice... 

—  Ma  si,  va  pure  liberamente. 
Rolando  con  un  agilità  e  un  impeto  nuovo  si 

precipitò  pel  corridoio,  e  prima  che  la  voce  avesse 
rfpetuto  flou  si  può  egli  aveva  quasi  atterrata  la 
porta  brontolando  : 

—  Accidente  ai  pappagalli  !  i 
Ma...  orrore,    Rolando   testò   sul   limitare  ag- 
ghiacciato. 

Questa  volta  c'era  projjrio  qualcuno,  e  questo 
qualcuno  era  donna  Eulalia!... 

Rolando  Càpperi  sparì  e  l'onore  dei  Carloni 
fu  salvo  ! 


29 


LA  STATUA  DI  SAN  SEBASTIANO. 


(Novelletta  comica). 


Espedienti  erotici  della  Provvidenza.  Presentazione  dei  prota- 
gonisti. Ambiente  suino.  Gli  amori  di  Clorindo  e  biella. 
S.  Sebastiano  galeotto.  La  vendita  clandestina.  Notte 
tempestosa.  Fuori  S.  Sebastiano!  Terribile  situazióne. 
S.  Sebastiano  tira  le  tende.  Salvi  tutti  ! 

Dallo  scudo  messo  in  mano  alla  compiacente 
cameriera  (spesso  è  nn  nickelino  in  mano  alla 
serva),  sino  al  telegrafo  senza  fili  ;  dal  bigliettino" 
inserito  nel  calice  di  un  innocente  garofano,  sino 
ai  dieci  centesimi  per  parola  della  quarta  pagina, 
è  tutta  una  complicata  sequela  di  espedienti  che 
la  celeste  Provvidenza  impiega  generosamente 
nello  spingere  l'uomo  verso  la  donna  in  ossequio 
al  Codice  Civile  per  diinostrare  poi  la  necessità 
del  divorzio. 

Il  racconto  ch'io  sto  per  confidare  alla  vostra 
.discrezione,  presenta  appunto  uno  dei  casi  pia- 
tipici,  in  cui  la  sopraddetta  Provvidenza  non  esitò 
a  servirsi  della  statua  stessa  di  uno  de' suoi^più 
influenti  taumaturghi  :  S.  Sebastiano. 

Premetto  ch'io  non  posseggo  alcun  documento 
sull'autenticità  dell'imminente  racconto.  Io  odio 
i  documenti  e  niente  mi  sembra  più  interessante, 
quanto  un  avvenimento  di  cui  si -capisce  subito, 
che  non  c'è  una  parola  di  vero. 

E  veniamo  al  fatto. 

¥       * 

Permettetemi  di  presentarvi  Don  Procopio  Spi- 
naci, Arciprete  di  Cervereto,  uomo  sulla  cinquan- 
•  tina  :  visto  di  dietro  potrebbe  esser  confuso  con 
l'animale  che  predilesse  S.  Antonio,  e  questa 
strana  somiglianza  proviene  dalla  circostanza  che 
intorno  all'anima  ingenua  di  Don  Procopio  si 
sono  accumulati  centoquattro  chilogrammi  di 
.carne  con  osso.  Visto  invece  di  faccia...  la  so- 
miglianza continua:  basta  osservare  la  fronte 
sfuggente,  il  muso  prominente,  il  collo  corto,  le 
lunghe  orecchie,  gli  occhietti  grassi... 

Amelia  Spinaci,  sua  nipote,,  è  invece  ciò  che 
si  dice  un  bel  tocco  di  ragazza:  vent'anni,  occhi 
a  pietra  focaia,  capelli  ala  di  cornacchia,  bocca 
di  ciliege,  denti  candidi  da  far  crepare  d'in- 
vidia un  elefante:  e  poi  un  insieme  di  curve^ 
seni,  coseni  da  comporre  un  trattato  di  geome- 
tria solida. 

Titolare  di  tale  trattato  è  Clorindo  Sugheri, 
giovane  della  farmacia  del  paese;  alto,  snello, 
simpatico;  ricco  di  speranze  quanto  povero  di 
realtà.  Egli  vive  d'amore  e  di  olio  di  fegato  di 
merluzzo,  con  cui  fa  colazione  quando  il  princi- 
pale, salito  a  desinare,  lo  lascia  padrone  dei  ba- 
rattoli. Egli  ne  ingolla  quattro  cucchiai,  poi  divora 
due  soldi  di  pane  e  gli  pare  di  essere  un   prin- 


cipe. E  la  sua  faccia  rubiconda  non  lo  contrad- 
dice. 

Cervereto  è  un  paesello  di  montagna  perduto 
fra  le  querce  e  i  castagni.  Nulla  di  .singolare; 
un  campanile  in  mezzo;  sotto  il  campanile  la 
chiesa  e  la  canonica:  intórno  slraduzze,  case  e 
abituri  ribelli  al  più  lunganime  regolamento  .sa- 
nitario. Da  per  tutto  maiali  e  galline,  cumoli 
d'immondizie  sparsi  sapientemente  qua  e  là,  e 
una  fontana  in  mezzo  alla  piazza. 

I  Cerveretani  vivono  facendo  i  porci.  Piano  un 
momento  : /i7;r  il  porco  in  lingua  indigena  vuol 
dire  aHevare,  ingrassare,  uccidere  e  preparare  i 
maiali.  Se  in  un  giorno  d'inverno  arrivate  a  Cer- 
vereto, vi  sentirete  drizzare  i  capelli!  Il  paese 
risuona  di  urla  strazianti  ;  pare  di  entrare  in  un 
villaggio  armeno  sotto  i  turchi.  Niente  paura,  i 
maiali  seguono  il  loro  destino  culinario. 

In  questo  ambiente  saturo  di  salciccie  e  di  sa- 
lami, da  vario  tempo  si  svolgeva  il  più  saporito 
idillio  fra  Clorindo,  o  meglio  Rindo,  come  lo 
chiamavano  in  paese,  e  Mella,  vezzeggiativo  di 
Amelia,  la  nipote  dell'arciprete.  Ma  il  testardo 
Doli  Procopio,  ignorando  le  più  moderne  idee 
collettiviste,  aveva  apposto  il  suo  aprioristico 
rifiuto  :'non  voleva  dare  la  Mella,  con  vetiticinque- 
mila  lire  di  dote,  a  un  povero  diavolo  che  pranzava 
sì  e  no  una  volta  al  giorno. 

Ma  i  due  giovani  se  ne  infischiavano  delle  ire 
di  Don  Procopio  ;  essi  alimentavano  la  incande- 
scente passione  con  lettere  vulcaniche.  Le  sue, 
Rindo  le  scriveva  fra  una  pillola  e  l'altra,  al- 
lorché Besciva  a  mettere  da  parte  il  mestolo. 

Siccome  però  al  fervido  loro  amore  la  corri- 
spondenza epistolare  ^o"  bastava,  i  due  giovani 
avevano  anche  trovato  il  modo-  di  vedersi  a 
quando  a  quando. 

Facevano  cosi. 

Bisogna  sapere  che  nella  chiesa,  fra  l'altare  niag- 
,giore  e  la  porta  che  metteva  alla  canonica  si 
elevava  il  tabernacolo  di  S.  Sebastiano,  il  protet- 
tore del  paese.  In  esso,  bel  lavoro  architettonico 
del  Rinascimento,  si  custodiva  gelosamente,  co- 
perta da  tende,  la 'statua  in  legno  del  santo,  al 
naturale,  opera  pregevolissima  del  quattrocento 
fiorentino,  visibile  al  popolo  solamente,  e  con 
grandi  feste,  per  tre  giorni  dell'anno. 

Questo  tabernacolo," ad  archi,  difeso  da  cancel- 
lata e  vetri  nel  prospetto  e  da  un  lato,  aveva  una 
porticina  di  dietro  e  un'altra  sull'altro  lato  ad- 
dossato alla  parete,  che  rispondeva  sul  primo 
pianerottolo  delle  scale  conducenti  alla  canonica. 

X'èrso  sera  Rindo  si  ficcava  in  un  angolo  della 


30 

chiesa  facendovìsi  chiuder  dentro  dal  sagrestano 
che  era  miope  e  vecchio,  e  aspettava  che  a  notte 
fatta  la  sua  Mella,  aperte  le  due  porticine  del 
tabernacolo  di  S.  Sebastiano,  gli  desse  adito  di 
salir  su  a  far  quattro  chiacchiere. 

La  cosa  andava,  dirò  così,  a  gonfie  vele,  quando 
accadde  un  fatto  inopinato  che  portò  con  sé  ciò 
che  i  matematici  chiamano  una  soluzione  di  con- 
tinuità. 

Don  Procopio  aveva  ricevuto  una  certa  pro- 
posta da  un  antiquario  :  proposta  che,  sfrondata 
da  ogni  cornice  rettorica,  si  sintetizzava  in  questo: 
vendere  la  statua  antica  di  S.  Sebastiano  per 
diecimila  lire,  farne  eseguir  subito  un'altra  iden- 
tica da  un  falsificatore  abilissimo  durante  il  tempo 
in  che  la  vista  del  santo  era  proibita  al  pubblico, 
e  sostituire  l'imitazione  all'opera  antica.  Al  prete, 
che  non  soffriva  di  tenerezze  artistiche,  non  parve 
vero  di  lasciarsi  corrompere,  e  una  certa  notte  la 
statua  sali  in  canonica,  da  cui, la  mattina  all'alba, 
partiva  per  destinazione  ignota  entro  un  carico 
di  grano. 

Don  Procopio,  molto  lieto  del  buon  affare, 
aveva  detto  alla  nipote  : 

—  Bada:  ho  mandato  la  statua  di  S.  Sebastiano 

ad  accomodare;  ma ricordati,   nessuno  deve 

saperlo.  La  chiave  del  tabernacolo  non  deve  es- 
sere consegnata  a  chicchessia. 

—  Va  bene  ;  stia  tranquillo,  —  rispose  la  ni- 
pote, pensando  a  quel  che  lei  sapeva. 

Cosi  si  era  arrivati  al  maggio,  al  mese  dei  fiori 
e  delle  escandenze  erotiche,  e  i  due  giovani,  favo- 
riti dal  successo  del  loro  espediente,  si  vedevano 
molto  più  spesso. 

Una  notte,  era  il  14  maggio,  mentre  i  due  in- 
namorati filavano  il  più  tenero  idillio,  si  scatena 
una  tempesta  formidabile.  Lampi,  tuoni,  fulmini, 
grandine  grossa  come  noci,  pioggia  torrenziale; 
insomma  la  notte  del  finimondo. 

Don  Procopio,  per  quanto  avesse  il  sonno  pe- 
sante, fu  desto  finalmente,  e  scese  dal  letto.  Mella, 
che  s'intralteneva  con  il  baldo  farmacopula  nella 
camera  sottostante  : 

—  Per  carità,  Rindo,  siamo  perduti;  ecco  lo 
zio!  Scendi,  presto,  vieni  con  me  che  t'apro  la 
prima  porticina;  quando  sarà  tornato  a  letto,  ci 
rivedremo. 

L'onesto  speziale,  che  aveva  una  paura  birbona 
del  prete,  non  se  lo  fece  diredue  volte,  e  all'oscuro, 
a  tastoni,  seguì  la  innamorata,  che  aprì  la  porti- 
cina del  pianerottolo,  ficcò  l'amante  nel  taberna- 
colo, richiuse  a  doppia  mandata  e  intascò  la  chiave. 
Poi  risali  le  scale  a  precipizio,  e  giunse  nella  sua 
camera  proprio  mentre  Don  Procopio  metteva  il 
piede  nel  corridoio. 

—  Mella,  Mella!  —  gridava  il  prete. 

—  Dica,  zio!  —  rispose  la  ragazza  a  faccia 
fresca,  presentandosi  sull'uscio. 


—  Senti  che  ira  di  Dio  ?  Questa  è  la  notte  del 
diluvio! 

Intanto  la  tempesta  incalzava,  la  grandine  scro- 
sciava con  il  frastuono  di  una  fabbrica  di  confetti; 
i  lampi  e  i  tuoni  si  susseguivano  a  brevissimi 
intervalli  ;  il  vento  impetuoso  strappava  le  tegole 
dai  tetti  ;  si  udiva  benché  confuso,  il  rumore  di 
finestre  sbattute,  di  vetri  infranti. 

Cominciarono  a  risuonare  alte  grida  di  spavento; 
la  gente  usciva,  malgrado  l' infuriare  della  pro- 
cella, sulla  via,  invocando  l'aiuto  del  Cielo.  Ben 
•presto  fu  un  accorrere  generale  verso  la  chiesa; 
la  folla  si  diede  a  gridare  : 

—  Aprite  la  chiesa,  aprite,  Don  Procopio!  vo- 
gliamo pregare,  vogliamo  raccomandarci  a  Dio  I 

Don  Procopio,  che  sapeva  quel  che  bolliva  in 
pentola-  per  l'affare  della  statua,  si  senti  venire 
la  febbre.  Ma  non  c'era  da  esitare! 

Chiamò  il  sagrestano,  che  gli  faceva  da  servi- 
tore e  gli  ordinò  di  aprire  la  chiesa  e  di  accen- 
dere solamente  due  candele.  Poi,  seguito  dalla 
nipote,  tremante  come  una  foglia,  scese  anche  lui 
in  chiesa. 

La  tempesta  infuriava  sempre. 

La  folla  dei  villici  si  precipitò  nel  sacro  luogo 
mandando  alte  grida,  piangendo,  e  si  andò  a  pro- 
strare davanti  al  tabernacolo  di  S.  Sebastiano. 

Don  Procopio  a  quella  vista  si  senti  un  sudor 
freddo  per  la  pelle,  molto  più  che  già  qualche 
voce  cominciava  a  gridare  : 

•  -  Scoprite  S.  Sebastiano  !  Fuori  S.  Seba- 
stiano !  — 

Il  farmacista  sventurato,  che  stava  dentro,  si 
senti  venire  lo  stesso  sudor  freddo  di  Don  Pro- 
copio, e  lo  stesso  sudore  ricopriva  la  candida 
pelle  vellutata  di  Amelia. 

Fu  un  momento  angoscioso  per  i  tre  protago- 
nisti di  questa  lacrimosa  storia. 
.   Intanto  le  grida  aumentavano.    Don  Procopio 
volle  fare  un  ultimo  tentativo.  Sali  sul  pulpito  e 
cominciò  a  parlare  : 

—  Fedeli  miei,  è  inutile  disubbidire  ai  voleri 
del  nostro  patrono,  il  quale  ama  apparire  ai 
vostri  occhi  solamente  una  volta  l'anno.  Voi,  vo- 
lendolo scoprire  anche  adesso,  non  fate... 

Ma  non  potè  continuare.  Urla  selvagge,  accom- 
pagnate da  minacce,  risposero  al  suo  sermone. 
Don  Procopio  scese  a  precipizio,  si  fece  largo 
tra  la  folla  indemoniata  e  appressatosi  al  taber- 
nacolo, tirò  furiosamente  i  cordoni  delle  tende. 
E  attese...  Attese  nascosto  nell'ombra,  di  essere 
massacrato. 

Ma  nessuno  'si  mosse  !  Anzi  le  invocazioni,  le 
preghiere,  le  litanie  risuonarono  più  che  mai  alte. 
Don  Procopio  dalla  paura  passò  allo  sbalordi- 
mento. Usci  quatto  quatto  da  dietro  la  nicchia  per 
vedere  anche  lui.  Oh,  miracolo,  strabiliante  mira- 
colo !  S.  Sebastiano  era  al  suo  posto,  o  almeno 


qualche  cosa  che  gli  somigliava,  a  .giudicare  dalla 
fioca  luce  dell'ambiente. 

Però  fu  un  attimo.  S.  Sebastiano,  dopo  essersi 
fatto  contemplare  qualche  secondo  —  fra  il  ter- 
rore e  lo  sbigottimento  generale  —  chiuse  lui 
stesso  le  tende! 

Quel  che  accadde  a  questa  uscita  di  S.  Seba- 
stiano è  impossibile  descrivere. 

Gran  parte  dei  fedeli  se  la  diede  a  gambe  ur- 
lando di  paura  ;  molte  donne  svennero  ;  altri  si 
picchiavano  il  petto  prostrati  per  terra. 

Don  Procopio  non  volle  altro,  corse  sul  pul- 
pito e  cominciò  a  fulminare  d'invettive  oratorie 
gli  scomunicati  che  avevano  disubbidito  al  santo; 
e  fu  tale  la  violenza  del  suo  sermone,  che  la  folla, 
atterrita,  mortificata,  se  ne  andò  a  casa,  molto 
più  che  S.  Sebastiano,  oltre  al  disturbo  di  chiu- 
dere le  tende,  aveva  anche  provveduto  a  far  ces- 
sare la  tempesta. 

Don  Procopio  non  vedeva  l'ora  di  essere  solo 


31 

nella  chiesa.  Appena  potè  mettere  il  catenaccio, 
mandò  su  in  canonica  il  sagrestano  e  la  nipote, 
poi,  con  una  candela  in  mano,  si  presentò  sulla 
porta  del  tabernacolo.  Voleva  fare  la  personale 
conoscenza  del  ff.  di  S.  Sebastiano. 

E  trovò  il  santo  nelle  spoglie  mortali  del  far- 
macopula,  inginocchiato  avanti  a  lui,  in  atto  sup- 
plice. 

Allora  Don  Procopio,  che  la  sapeva  lunga,  capi 
con  un  lampo  di  genio  il  retroscena  del  miracolo, 
e  fatto  ragionevole  dalla  paura  presa,  afferrò  per 
un  braccio  il  tremante  Clorindo,  dicendogli  : 

—  Caro  S.  Sebastiano,  ti  ringrazio  del  mira- 
colo, ma  fra  quindici  giorni  dovrai  aver  sposata 
mia  nipote. 

—  Ma  io  non  chiedo  di  meglio  ! 

■   Va  bene;  alzati,  vestiti  ed  appendi  un  voto 
a  S.  Sebastiano. 

—  E  anche  voi  appendetene  uno,  e  grosso,  a 
S.  Clorindo  ! 

I.   M.   PALMARINI 


■^^'i^rzm^r^znrrzmmrz^mr^Èi^^mxi^mx^^^K^ir^ms'^B^S'^l^^  \ 


VII. 


ULTIMO  GRIDO. 


Anima  che  m'amerai  !   Non  ho  più  altro  nel  mondo 
che  te,  te  sola,  che  questo  presentimento  d'amore  ! 
Le  donne  <iella  mia  vita  mi  inaridirono  il  cuore  : 
parenti,  amici,  oh  non  videro  com'era  grande  il  mio  spirito, 
com'era  ardente  il  mio  palpito  !  Dileguo,  e  non  conosciuto. 
Non  ho  che  te,  che  te  sola.  Potessi  stringerti  in  sogno  ! 
Non  sei  tu  bionda?  Sei  bella,  sei  tu  più  cara  di  lei? 
Oh,  non  lo  so;  ma  ti  sento,  non  sei  un  sogno:  ti  sento. 
Tu  mi  amerai,  bramerai  dar  la  tua  vita,  il  tuo  bene 
per  farmi  un'ora  rivivere,  per  dirmi  tutto  il  tuo  amore  : 
mi  chiamerai,  mi  vorrai,  ed  io  non  tornerò  più. 
Sarà  una  voce  il  mio  spirito,  un  suono  vano  il  mio  cuore, 
questa  cuore  or  così  vivo  che  si  dibatte  e  si  strugge 
inutilmente  di  rompersi  sopra  di  un  seno  fedele  : 
ah  !  non  m'è  dato  di  vivere  che  per  sognare  e  sparire  ! 
Rivivrò  voce  incorporea.  Ed  era  pur  cosi  dolce 
quando  le  siepi  fiorivano...  c'erano  coppie  damanti... 
Ah  !  ninna  gloria  ti  vale,  perduta  mia  gioventù  I 
Anima,  spasimo,  amore  !  amaro  viso  mort-ile, 
fragile  corpo  consunto  dal  cupo  ardore,  tu  m'odi  ? 
m'amerai  tu?  per  te  scrivo  qui  le  parole  più  dolci, 
quanto  di  più  carezzevole  mi  negò  il  mondo  di  espandere, 
mi  esalto  in  te,"  ti  rapisco,  rabbrividisco  e  mi  struggo  : 
son  le  mie  nozze  che  celebro  con  questo  grido,  io  con  te  ! 


vili. 


RIBELLIONE. 


Eli  tu  sola  l'estrema  dolcezza  della  mia  vita. 
Ti  diedi  tutto  :  l'ardore,  la  tenerezza,  l'ingegno. 
Non  fu  che  un  lungo  tormento.  E  parve  un  sogno.  Le  lagrime 
erano  dolci,  sembrava  un  bene  immenso  il  dolore... 
Ah  !  ch'era  sangue  quel  pianto  !  era  la  vita,  e  la  diedi  ! 
Giovine,  sento  nel  petto  il  cuore  rotto  arrestarsi. 
Non  n'eri  degna.  Se  ancora  la  tua  bellezza  mi  acceca, 
se  d'un  supremo  fulgore  m'inebria  gli  occhi  morenti, 
oh  non  per  te  !  non  per  te  !   non  per  un  cuore  insensibile, 
crudele,  mobile,  indegno,  doveva  rompersi  questo 
che  conteneva  in  sé  un  mondo,  e  non  chiedeva  che  amore  ! 


PACE. 


Vacuità  grigie  e  informi  di  un  piano  avvolto  in  vapori 
sotto  l'accidia  di  un  cielo  confuso  e  grave.  Distese 
di  solitudini  morte,  infinità  desolate, 
miraggi  vaghi  di  un  mondo  inafferrabile  e  informe  ! 
L'asilo  è  questo  di  un'anima  che  si  smarrì  nel  dolore. 
Da  questo  monte  mi  spenzolo  su  questo  mare  di  nebbie 
come  ad  un  seno  di  pace.  Mi  lascio  a  dietro  la  terra, 
queste  colline  sfumanti  tra  veli  grigi  di  brume 
in  una  vaga  visione  di  boschi  rossi  di  ruggine... 
Parlano  ancora  d'amori,  di  intimità  dolci  e  gravi 
negli  antri  secchi  dei  boschi...  È  solo  più  un'eco  fievole, 
vana,  e  non  l'ode  più  il  cuore.   Son  calmo.   Sento  la  pace. 


ENRICO  THOVEZ 


Un  brano  di  un  romanzo  audace. 


Io  non  entrerò  più  nella  sua  camera! 

La  sera,  dopo  cheto  l'ho  coricata  e  ho  rim- 
boccato con  cura  le  copèrte  del  suo  lettuccio 
bianco,  e  le  ho  posato  tanti  baci  sulla  fronte. 
Bea  mi  getta  le  braccia  nude  attorno  al  collo, 
mi  attira  a  sé,  mi  costringe  il  capo  contro  il  suo 
petto  —  il  suo  cuore  batte  forte  nello  sforzo  di 
quella  stretta  !  —  e  mi  dice  le  parole  che  tutta 
la  notte  recano  l'esca  al  mio  turbamento. 

—  Lo  sai.  Marco,  come  ti  amo? 

— ^  Si  :  lo  so,  cara. 


.  —  No  ;    non    lo    sai.    Dimmelo    adunque,    se 
lo  sai. 

—  Ecco  :  tu  mi  vuoi  bene  come  si  addice  ad 
una  fanciulla  che  non  ha  più  madre  e  che  con- 
centra perciò  nel  padre  suo  tutta  l'affezione  di 
cui  è  capace  il  suo  cuore. 

—  No  ;  no  ;  io  ti  amo  ! 

Essa  mi  parla  all'orecchio  e  ripete  la  santa 
parola  con  un'accento  intraducibile,  come  so- 
spirando : 

—  Io  ti  amo! 


—  No;  tu  mi  vuoi  bene  così  come  è  naturale 
che  una  figlia  voglia  bene  a  suo  padre. 

È  falso  quello  che  io  dico,  epperciò  sebbene 
io  mi  provi  a  dirlo  con  molta  convinzione,  essa 
agita  la  testina  sui  cuscini  negando  : 

—  No  ;  no  ;  le  altre  figlie  vogliono  bene  al 
loro  padre:  io  ti  amo,  ti  amo!  Le  altre  hanno 
della  venerazione  pel  loro  padre:  io  ti  adoro! 
ti  adoro!  Le  altre  figlie  baciano  le  mani  paterne; 
io  voglio  la  tua  bocca!... 

E  queste  sue  braccia  nude  mi  si  avvinghiano  più 
strettamente  al  collo  e  mi  costringono  su  di  lei  ! 
Ah  !  Miseria  nostra!  Che  sarà,  che  sarà  di  noi!... 
Io  non  entrerò  mai  più  nella  sua  camera!... 

...  Ma  io  ti  sentivo  venire  inesorabilmente  o 
momento  terribile  ! 

Nulla,  più  nulla  poteva  opporsi  a  che  il  giorno 
avesse  a  giungere,  che  l'ora  fatale  avesse  a 
scoccare  !  Tutto  era  preparato  e  voluto  dal  de- 
stino !  Io  lo  discernevo  dapprima  indistinto  nella 
lontananza,  l'avvenimento;  poi,  a  misura  che  il 
tempo  avanzava,  lo  vedevo  delinearsi,  avvicinarsi, 
precisarsi  —  e  noi  vi  andavamo  incontro  senza  pos- 
sibilità di  scampo,  essa  serena  e  inconscia,  povera 
innocente!  io  presago  e  rabbrividendo  invano! 
Senza  possibilità  di  scampo  ! 
No,  no:  non  varcherò  più  la  soglia  della  sua 
camera,  ed  essa  ha  sentito  il  mio  proposito, 
giacché  questa  sera  assai  tardi  si  decide  a  riti- 
tarsi.  Ed  io  l'accompagno  e  la  reggo  come  se 
fosse  addormentata;  gli  occhi  le  si  son  chiusi, 
la  sua  testina  arrovesciata  grava  sulla  mia  spalla, 
ma  sotto  la  sottil  vestaglia  bianca  come  vibra 
tutto  il  suo  corpo  !  Ci  separiamo  :  sul  limitare 
della  mia  camera:  sciolgo  il  nostro  abbraccio: 
essa  appare  un  momento  esitante  e  preoccupata 
da  qualche  pensiero,  poi  si  avvia  frettolosa  pel 
corridoio  verso  la  sua  porta  e  scompare. 

Spogliato  e  coricato  mi  sento  assalito  dai  bri- 
vidi ;  io  tremo  e  pure  la  febbre  mi  incendia  il 
sangue  nelle  vene.  Perchè,  perchè?... 

Ah  come  è  vano  che  io  tenti  cacciarti,  pen- 
siero opprimente,  incalzante  ! 

No,  no;  io  non  varcherò  più  la  soglia  della 
sua  camera,  ma  so  bene  che  Bea,  si  Bea,  verrà 
a  me.  Ah!  so  bene  che,  stassera  stessa,  fra  poco, 
nel  silenzio  e  nell'oscurità  della  mia  stanza,  la 
portiera  si  solleverà  con  un  lievissimo  fruscio  — 
so  bene  che  i  miei  occhi  romperanno  le  tenebre 
e  che  La  vedrò,  ombra  bianca  e  aureolata,  avan- 
zarsi lenta  lenta,  come  sfiorando  il  suolo  —  so 
bene  che  mi  parrà  un'eternità  il  tempo  che  essa 
impiegherà  ad  arrivare  sin  qui,  da  quella  porta 
al  mio  letto  —  che  non  dirà  una  parola,  che 
cercherà  la  mia  bocca  e  vi  inchioderà  sopra  la 
sua  —  che  troverà  le  mie  braccia  aperte  e  vi 
cadrà  anelante  —  che  allora  nessuna  forza,  nes- 
suna forza  ci  potrà  strappare  al  Destino  ! 


33 

Io  tremo  cosi  forte  che  tutte  le  mie  membra 
ne  dolorano  e  una  grande  spossatezza  mi  invade. 
Poi  nell'attesa  lunga  e  febbrile  un  improvviso 
spavento  mi  fa  balzare  a  sedere  sul  letto.  Ah! 
se  nel  momento  in  cui  L'udrò  varcare  la  soglia 
il  parossismo  dell'emozione  immensa  avesse  a 
fulminarmi!  Insorgo  contro  questo  spavento  ;  mi 
precipito  dal  letto,  raggiungo  tentoni  la  finestra, 
la  spalanco  e  mi  affaccio  a  bere  avidamente  l'aria 
fresca  del  viale.  Nell'ombra  della  notte  stellata 
molte  cose  indefinite  e  confuse  paiono  muoversi 
e  agitarsi...  Pochi  sorsi  vivificanti  mi  ridonano 
la  calma  e  l'impero  di  me  stesso,  e  ritorno  al 
mio  letto. 

Ora  Le  parlo  :  tante  volte  a  distanza,  Essa  ha 
raccolto  le  mie  frasi  mentali.  Udrà  anche  questa 
volta  la  supplicazione? 

—  No,  non  venire,  amore,  non  venire  I  Resta 
nel  tuo  tettuccio  bianco  e  possa  tu  riposar\i  per 
tutta  la  tua  vita  come  se  fossi  sempre  una  bam- 
bina e  possa  tu  addormentarvi  e  calmarvi  l'im- 
peto dei  tuoi  sensi  anelanti.  E  lascia  che  duri  il 
mio  tormento  e  che  prosegua  la  mia  lotta  interna. 
Io  ho  voluto  farti  indipendente,  lìbera,  sprezzante 
di  ogni  regola,  di  ogni  vingolo,  ma  non  per  la 
mia,  per  la  tua  felicità.  Lascia  che  le  nostre  mani 
si  tendano  in  eterno  fra  di  loro  :  tu  sai  che  qual- 
cosa di  invincibile,  che  è  nella  potenza  del  lungo 
passato,  ci  avvince  alla  miseria  dei  pregiudizi! 
umani  e  che  liberarci  sarebbe  al  di  sopra  di  ogni 
audacia...  No,  non  venire,  amore!  Che  sarebbe 
di  noi,  dopo  ?... 

Ahimè!  Inconsciamente,  implacabilmente,  sopra 
la  stessa  frase  un'altra  si  inquadra  e  si  plasma 
e  su  queste  parole  altre  si  adagiano  e  si  sovrap- 
pongono e  dicono  con  pari  fervore  la  preghiera 
contraria: 

—  Vieni,  vieni  !  Perchè  t'ho  fatta  libera,  grande, 
unica,  supera  quest'ultima,  questa  suprema  prova  I 
Apri  con  impeto  le  ali  alla  conquista  di  più 
elevate  zone,  dove  la  miseria  umana  non  ci  rag- 
giunga! Vieni,  vieni!  Troppo  aspettammo, troppo 
indugiammo  mentre  le  ore  incalzano  e  nessuno, 
nessuno,  ci  ridarà  il  passato  perduto.  Vieni, 
io  ti  spalancherò  le  porte  radiose  dell'estasi!  Che 
importa  a  noi  dì  ciò  che  vedrà  il  sole  di  domani? 
Vieni,  riempì  l'anima  mia,  bevi  le  labbra,  spcsni 
la  sete  dolorosa  di  tutto  l'esser  mio  !...  e  avvenga 
di  noi  ciò  che  è  scritto! 

Ah!...  il  fruscio  della  portiera!  Sul  chiaro 
qu.idrato  della  finestra  spalancata  l'ombra  biam  a 
e  aureolata  che  passa  sì  profila...  avanza  come 
sfiorando  il  suolo...  ah!  che  l'enioiione  non  mi 
fulmini!...  avanza...  avanza...  e  —  finalmente!  — 
in  un  sussulto  ineffabile  di  tutto  il  mìo  essere 
le  mie  braccia  L'accolgono.  I^  stringono,  L'av- 
vincono inesorabilmente,  inesorabilmente.... 

FAUSTO  VILLA 


DK3I3KZ?CKXSK:36K3I3I 


IX. 


Lultima  notte  di  Sardanapalo. 


Un  individuo  aveva  detto  al  re  Sardanapalo  : 

—  Quando  un  dardo  si  conficcherà  nel  tuo  scudo, 
pensa  alla  tua  ora. 

Dopo  due  anni  di  combattimenti  giornalieri, 
nei  quali  il  re  era  rimasto  sempre  illeso,  una 
sera  un  dardo  si  conficcò  nel  suo  scudo. 

Sardanapalo  trattolo  via  e  provatane  la  punta 
sul  braccio  nudo  che  sanguinò  :  —  Non  è  grave  I 

—  disse  e  rideva,  vedendo  intorno  a  sé  il  fiore 
de'  guerrieri  e  le  mura  munite. 

Poi  dimandò  a  coloro  che  gli  stavano  accanto  : 

—  Non  credete  che  la  mia  fiartuna  sia  più 
forte  de'  vaticinii  ? 

—  Rispetta  i  vaticinii,  signore  !  —  gli  fu  ri- 
sposto. Ma  già  il  re  aveva  gettato  via  lo  scudo 
rilucente  d'oro  e  di  gemme,  s'era  precipitato 
verso  la  porta.  Lo  circondarono  i  suoi  guerrieri, 
ma  egli  disse  loro  :  —  Seguitemi  !  —  e  corse  a 
combattere  avanti  a  tutti.  E  anche  quella  sera 
molti  nemici  caddero  sotto  i  suoi  colpi,  mentre 
egli  non  fu  neppur  tocco  da  un'arma. 

All'  apparire  delle  prime  stelle  Sardanapalo. 
messi  in  fuga  i  nemici  rientrò  in  città  e  giunto 
alla  reggia  vide  a  sedere  sulla  porta  un  uomo, 
nel  quale  subito  riconoscendo  l' indovino,  gli 
disse  : 

—  Un  dardo  si  conficcò  nel  mio  scudo.  Ma 
io  gettai  via  lo  scudo,  corsi  contro  i  nemici  e 
li  misi  in  rotta.  Non  ti  pare  che  la  mia  fortuna 
sia  più  forte  de'  tuoi  vaticinii  ? 

—  Non  mi  pare,  signore  !  —  rispose  l'indovino. 
11  re  sdegnatosi  allora  : 

—  E  che,  esclamò,  potrebbe  esser  più   forte  ? 

—  Il  futuro,  s'io  dicessi  il  falso  !  —  rispose 
l'indovino. 

—  E  più  del  futuro  ? 
L'indovino  alzò  il  capo  e  rispose  : 

—  Il  fato. 

—  E  più  forte  del  fato  ? 

L'indovino  alzò  ancora  il  capo  e  rispose  : 

—  II  tuo  volere  ! 

A  queste  parole  Sardanapalo  si  rallegrò  molto 
e  disse  all'indovino: 

—  Hai  saputo  parlare  a  un  re.  Entra.  Ban- 
chetteremo insieme  questa  notte. 

La  reggia  era  deserta  e  piena  d'ombre,  perchè, 
fin  dal  principio  dell'assedio,  il  re  vi  passava 
soltanto  qualche  rara  notte  per  riposarsi  ed  aveva 
proibite  le  feste  e  le  riunioni.  Solo   pochi    servi 


vagavano  per  gli  atiii.  Ma  quella  sera  la  voce 
gioconda  di  Sardanapalo  risonò  in  mezzo  al  fra- 
gore suscitato  dalle  armi  e  dai  passi  dei  guerrieri. 

—  Olà,  olà!  Si  prepari  un  banchetto  per  me, 
per  questo  indovino,  per  i  miei  guerrieri  e  per 
le  mìe  donne!  E  sia  sontuoso  come  non  fu  mai 
ai  tempi  felici  !  Vengano  le  mie  donne  e  i  miei 
fanciulli  dagli  occhi  innocenti  !  Sia  giorno  per 
tutta  la  notte,  si  colgano  tutti  i  fiori  de'  nostri 
giardini  e  s'incoroni  ogni  fronte,  s'incoronino  le 
colonne  degli  atrii  e  delle  sale,  le  coppe  del 
banchetto  e  i  fastigi  della  reggia!  Si  versino  tutti 
gli  aromi  e  si  risveglino  tutti  gli  strumenti  della 
danza!  Giacché  questo  indovino  mi  ordina  di 
celebrare  la  mia  vittoria  con  le  mie  care  donne 
della  pace  e  con  i  miei  cari  compagni  di  guerra  ! 

Udirono  le  mille  donne  per  le  alte  stanze  la 
voce  del  re  e  balzarono  sui  letti  odorosi. 

—  Sardanapalo  ha  fugati  i  nemici!  —  si  ripe- 
tevano e  stavano  in  ascolto. 

Ma  quando  la  voce  del  re,  che  esse  non  ave- 
vano udita  da  lungo  tempo,  risonò  ancora  per 
la  reggia,  si  adornarono  di  monili  e  accorsero, 
perchè  ciascuna  desiderava  di  esser  prescelta 
per  quella  notte. 

E  già  miriadi  di  faci  illuminavano  la  reggia 
vasta  come  una  città.  Nei  cieli  delle  sale  scin- 
tillavano smisurate  ghirlande  di  pietre  preziose 
entro  le  quali  l'oro  massiccio  splendeva  come 
il  sole  di  mezzogiorno.  Le  colonne  d'oro  erano 
infocate  e  miriadi  di  raggi  d'ogni  vivezza  e  co- 
lore uscivano  dalle  pareti  adorne  d'oro  e  d'ar- 
gento, di  marmi  rari  e  di  gemme.  Sui  tripodi 
ardevano  gli  incensi,  e  tutte  le  fontane  dei  pro- 
fumi erano  aperte. 

Il  re  s'aggirava  con  i  guerrieri  fra  le  donne 
e  gli  stuoli  dei  fanciulli  vivaci  nelle  loro  tuniche 
rosse.  Il  re  accarezzava  le  lunghe  chiome  ondu- 
late dei  suoi  cari  fanciulli,  che  aveva  scelti  fra 
i  più  leggiadri  dell'impero  a  diletto  dei  suoi 
occhi  innamorati  delle  belle  contemplazioni.  E 
chiamava  a  nome  le  donne,  poiché  le  conosceva 
a  una  a  una,  e  ricordava  a  questa  qualche  grazia 
segreta  a  lui  nota,  lodava  a  quella  qualche  nuova 
grazia  nàtale  sul  volto  durante  )a  guerra.  E  le 
donne  raccolte  intorno  alle  colonne  d'oro  freme- 
vano al  passaggio  del  re  e  i  loro  occhi  erano 
luminosi  più  d'ogni  altro  lume.  Qualcuna  affon- 
dava le  dita  nelle  chiome  dei  fanciulli  sulle  quali 


era  trascorsa  la  mano  reale;  mentre  i  fanciulli 
ebbri  di  luce  tripudiavano  e  danzavano  in  corone 
sanguigne  in  mezzo  a  loro,  al  suono  delle  cetre 
e  delle  arpe  che  si  risvegliavano  per  la  reggia. 

Intanto  migliaia  di  servi  preparavano  il  ban- 
chetto. Altri  correvano  per  i  giardini  con  le 
faci  e  li  spogliavano  di  tutti  i  fiori  ;  altri  traevano 
dalle  lontane  stalle  i  bovi  mugghianti  e  li  scan- 
navano. 

E  quando  il  banchetto  fu  pronto  e  furon  pronte 
le  corone  per  tutti  i  convitati  e  furono  incoronate 
tutte  le  tazze  e  le  colonne  e  gli  architravi  e  i 
fastigi  della  reggia,  il  re  si  pose  a  giacere  sui 
tappeti  di  porpora  per  banchettare.  Egli  si  era 
fatto  giacere  accanto  l'indovino,  il  quale  era 
molto  vecchio  e  gli  tremavano  il  capo  e  le  mani. 

Vedendolo  il  re  così  vecchio  e  tremante  e  mal 
vestito,  ordinò  che  gli  fosse  gettato  addosso  un 
manto  contesto  d'oro  e  di  gemme,  sotto  il  quale 
l'indovino  mangiava  silenziosamente  con  grande 
allegrezza  di  Sardanapalo.  E  quella  notte  ban- 
chettarono col  re  ventimila  persone,  guerrieri, 
cortigiani,  ministri,  donne  e  fanciulli;  e  al  cenno 
di  lui  ventimila  tazze  d'oro  si  levavano  scintil- 
lanti di  pietre  preziose  nel  fulgore  delle  faci. 
Tutti  banchettavano  giacendo  a  terra  per  la  sala 
immensa,  fra  le  colonne  d'oro,  mentre  molte 
centurie,  di  danzatrici  eseguivano  molli  danze 
al  suono  delle  cetre,  delle  arpe  e  dei  salterii. 
Sui  tripodi  ardevano  gli  incensi,  e  le  fontane 
versavano  acque  profumate.  Qua  e  là  s'aggira- 
vano pavoni  e  altri  piacevoli  animali  ;  e  i  fan- 
ciulli stendevano  loro  le  palme  con  qualcosa  da 
mangiare.  Ma  le  donne  quasi  non  toccando  cibo 
fissavano  il  re,  con  le  fronti  corrugate. 

Così  si  banchettò  lungamente  e  la  reggia  odo- 
rava e  risonava  nella  notte.  Tale  era  il  suo 
splendore  che  i  nemici  ne  .stupivano  sulle  alture 
lontane  vegliando  in  armi.  Stavano  gli  arcieri 
col  ginocchio  a  terra  e  gli  archi  tesi  verso  quello 
splendore. 

Quando  poi  il  banchetto  fu  al  termine,  il  re 
si  levò  in  piedi  gigantesco  e  radioso  di  divina 
bellezza  e  rivolgendosi  prima  ai  ministri  e  ai 
cortigiani,  dimandò  loro  se  in  quel  momento 
non   lo   credevano  l'uomo  più  felice  della  terra. 

I  ministri  e  i  cortigiani  si  prosternarono  e 
celebrarono  la  sapienza  e  la  potenza  del  re. 

II  quale  si  rivolse  ai  guerrieri  e  fece  loro  la 
stessa  dimanda. 

E  i  guerrieri,  che  lo  amavano  per  la  sua  forza 
e  il  suo  coraggio,  si  alzarono  in  piedi  brandendo 
le  armi  e  celebrarono  la  fortezza  delle  mura,  il 
numero  dei  combattenti  e  la  fedeltà  dei  loro 
petti.  E  il  più  forte  tra  loro  celebrò  le  gesta 
del  re  ed  enumerò  i  nemici  caduti  quella  sera 
sotto  il  suo  braccio. 

Dopo,  Sardanapalo  ridendo  si  rivolse   ai   fan- 


35 

ciulli  che,  senza  comprendere,  levarono  un  tri- 
pudio clamoroso  e  risposero  di  sì,  rammentandosi 
di  quando  prima  della  guerra  il  re  soleva  prender 
parte  ai  loro  giuochi. 

Finalmente  Sardanapalo  si  rivolse  alle  sue 
care  donne  e  dimandò  se  in  quel  momento  non 
lo  credevano  l'uomo  più  felice  della  terra. 

Le  donne  che  lo  amavano  per  la  sua  bellezza 
e  la  sua  lascivia  risposero  di  si,  sòrte  da  giacere, 
e  i  loro  petti  ansavano  verso  il  re. 

Ciò  udito  Sardanapalo  alzò  la  sua  tazza  rilu- 
cente e  tutti  avendo  fatto  lo  stesso,  prese  a 
ricordare  la  sua  vita  d'un  tempo,  al  bel  tempo 
della  pace,  quand'egli  reclinava  il  capo  sul  grembo 
delle  sue  care  donne  e  componeva  le  danze  per 
le  sue  danzatrici,  la  musica  per  i  suoi  sonatori 
di  cetra  e  d'arpa,  i  suoi  profumi  e  le  sue  ghir- 
lande. Quand'egli  si  creava  le  delizie  della  sua 
pace  da  sé  medesimo  e  mandava  i  suoi  guerrieri 
a  combattere  nei  paesi  più  lontani  perchè  gli 
riportassero  oro  e  incensi,  belle  creature  e  ogni 
sorta  di  ricchezza.  Queste  cnse  Sardanapalo 
avendo  ricordate,  volse  in  giro  le  pupille  e  di- 
mandò se  non  fosse  stato  sempre  l'uomo  più 
felice  della  terra. 

Tutti  risposero  di  sì  con  grande  clamore  e 
protesero  le  loro  tazze  incoronate  verso  Sarda- 
napalo. 

Il  quale  già  s'era  curvato  per  interrogare  l'in- 
dovino. 

Ma  il  vecchio,  mettendo  fuori  il  capo  treme- 
bondo dal  manto  reale,  rispose  : 

—  Certo,  o  re,  tu  sei  fortunato,  avendoti  gli 
Dei  concesso  l'amore  delle  donne  e  dei  guerrieri. 
Ma  io  penso  che  la  tua  felicità  stia  sulla  punta 
d'un  dardo  pronto  a  scoccare. 

1  convitati  ammutirono  sentendo  il  sibilo  d'un 
dardo  che  colpiva  il  re. 

E  anche  il  re  impallidì  lievemente,  perchè  era 
di  cuore  superstizioso  e  aveva  visto  che  tutti 
credevano  nelle  parole  dell'indovino.  Ma  poi 
subito  sorridendo  e  scherzando,  disse  che  il  vec- 
chio aveva  senza  dubbio  voluto  significare  che 
la  felicità  gli  sarebbe  giunta  col  primo  raggio 
del  nuovo  sole.  Perciò  egli  insieme  con  i  suoi 
fedeli  si  sarebbe  portato  a  salutare  la  vicina 
aurora  sull'alto  della  reggia. 

E  dette  alcune  parole  nell'orecchio  al  capo 
dei  ministri,  ordinò  che  si  ricominciassero  la 
musica  e  la  danza. 

Intanto  i  servi  presero  a  costruire  un  rogo  di 
legni  preziosi  dal  basso  al  sonmio  della  reggia 
a  guisa  di  smisurata  pimmide.  E  quando  le 
ultime  stelle  cominciarono  a  impallidire  e  il  rogo 
fu  compiuto,  il  re  vi  sali  con  i  suoi  guerrieri, 
le  donne,  i  fanciulli,  i  sonatori  e  le  dai:-  " 
Tutti  erano  consapevoli  di  morire;  ma  l.i  \ 
del  re  stava  su  lutti.  Egli,  tr,)en.l.>M  die;: 


36 

devino  curvo  e  anelante,  salì  sino  alla  cima  del 
rogo,  si  volse  verso  l'oriente  e  a  un  cenno  di 
lui  le  arpe  e  le  cetre  ruppero  il  silenzio  della 
notte.  Il  rogo  odorava  e  risonava  come  una 
orchestra  delicata. 

Ma  quando  il  primo  chiarore  dell'alba  apparve 
in  oriente,  mille  servi  appiccarono  il  fuoco  alla 
reggia  e  incontanente  le  fiamme  ne  lambirono 
i  fastigi. 

-Sardanapalo  allora,  avendo  gettato  nelle  fiamme 
il  suo  scettro  e  la  sua  corona,  e  vedendo  tutti 
i  suoi  fedeli  frenetici  di  devozione  e  di  morte 
far  lo  stesso,  e  tutti  gettar  nelle  fiamme  la  loro 
corona  del  banchetto,  e  i  guerrieri  le  loro  armi, 
e  le  donne  i  loro  monili  e  i  loro  veli,  dimandò 
all'indovino  : 


—  Non  ti  sembra  questa  morte  degna  d'un  re' 

—  Certamente  d'un  re  !  —  rispose  l'indovino 
—  Perchè  sei  andato  incontro  alla  tua  ora  nel 
rigoglio  delle  tue  forze  e  perchè  puoi  gettare  nel 
grembo  della  morte  tante  cose  belle  e  preziose. 

—  E  non  anche  di  un  uomo  libero  da  ogni 
dominio  ?  —  dimandò  il  re. 

—  Vuoi  dire  d'un  uomo  che  sta  per  essere 
liberato  !  —  rispose  l'indovino  che  perseguitava 
il  re  con  la  sua  sapienza. 

.'V  queste  parole  Sardanapalo  sorrise  e  senza 
più  attendere  discese  verso  le  fiamme  e  fu  con- 
sumato. 

In  quel  mentre  gli  arcieri  nemici  che  avevano 
vegliato  tutta  la  notte  con  l'arco  teso,  scaglia- 
vano le  loro  frecce  contro  il  rogo  ardente. 


ENRICO  CORRADINI 


nda 


A  DEUX  JOLIES  FEMMES. 

11  faut  qu'avant  tout  je  vous  dise 
Que  je  suis  un  esprit  chagrin, 
Qui  sent  et  qui  pense  à  sa  guise 
Et  rumine  soir  et  matin. 


Que  de  fois  vos  éclats  de  rire 
Là,  dans  mon  coin,  m'ont  fait  rèver  ! 
Oui,  la  jeunesse  est  un  sourire. 
Et  tant  pis  pour  qui  veut  pleurer  ! 


Ecoutez  donc  :  c'est  l'alouette  ! 
Son  chant  est  gai  comma  un  rayon  ; 
Mais  de  la  nuit  sombre  et  muette 
Naissent  l'aurore  et  la  chanson. 


Pourtant...  Regardez  une  rose; 
Quels  parfums  et  quelles  couleurs  I 
C'est  qu'au  matin,  à  peine  éclose. 
Elle  était  huniide  de  pleurs. 


Ah  !  rèvez  parfois,  belles  dames, 
Parfois  de  vos  pleurs  parez-vous  ; 
Sur  vos  traits  —  comme  dans  vos  anies 
Vous  aurez  un  éclat  plus  dou.x. 


I  CUORI  IGNOTI. 


È  tozzo  il  Pìpelè,  non  senza  gobba 
-  Una  gobbina  velata,  discreta  - 
Col  torvo  sguardo  l'inquilin  che  snobba 
La  mondana,  il  travetto  ed  il  poeta 


Tutti  fruga  nell'anima  secreta 
Pronto  a  scoprir  se  zoppica  od  ingobba. 
Ad  ore  perse,  nella  loggia  cheta, 
-  Ci.ibattin  -  dilettante  che  non  sgobba  - 


Batte  magari  una  mezza  suoletta. 
Ma  arcigno,  veglia  dalla  sua  celletta. 
Un  dì,  più  smorto  e  più  triste  passai  ; 


Al  donian  disse:  -  "  Ella  è  solo Origliai 

Stanotte  all'uscio  suo  mi  par  malato...   ,, 
Qual  cor  nella  sua  voce  avea  tremato  1 


MARIO  CLARVY 


X[. 


La  donna  nella  famiglia  giudiziaria. 


Ogni  classe  di  persone  non  può  sottrarsi  alle 
leggi  dell'eccezione.  Abbiamo  quindi  una  mino- 
ranza, sia  pur  esigua,  di  donne  della  famiglia  giu- 
diziaria, che  hanno  caratteri  assai  diversi  da  quelle 
di  cui  si  argomentò  prima. 

Non  sarà  inutile  in  questo  «  intermezzo  » 
occuparci  delle  donne-eccezione,  tanto  più  che 
esse  presentano  caratteri,  che  credo  speciali, 
alle  donne,  che  appartengono  alla  famiglia  giudi- 
ziaria. 

Nella  mia  qualità  di  usciere  mi  sono  ficcato  un 
po'  ovunque;  in  tuguri,  case  signorili,  apparta- 
menti borghesi  :  donne  d'ogni  condizione  ho  av- 
vicinato, e  siccome  non  mi  manca  il  bernoccolo 
dell'osservazione  («  modestia  a  parte  »  —  come 
dicono  quelli  che  non  ne  hanno,  e  vorrebbero  far 
credere  di  averne), cosi  riuscii  a  stabilire  confronti, 
a  registrare  nel  mio  cervello  note  speciali,  per  cui 
mi  convinsi,  che  certe  caratteristiche,  certe  nia- 
niXestazioiiì  tipiche,  certe  anomalie  psichiche  sono 
patrimonio  «[nasi  esclusivo  delle  donne,  che  for- 
mano la  minoranza  intorno  cui  ragiono. 

E  studiandole,  parvenu  poterle  classificare  nelle 
seguenti  sette  categorie,  delle  quali  dirò  separa- 
tamente, e  che  abbracciano  le  varie  forme  di  ano- 
malie, da  me  rilevate. 

I.  —  La  sapiente. 
II.  —  La  gazzetta. 

III.  —   La  protettrice. 

IV.  —  La  superba. 

V.  —  La  nemica  della  magistratura. 
VI.  —  L'indifterente. 
VII.  —  L'aiuto-carriera. 
Sette  tipi  degni   d'esame,   che  non  privi  d'un 
lato  artistico  saturo  di  umorismo. 


La  nemica  della  magistratura. 

Tipetto  curioso,  e  ameno  a  un  tempo.  .Si  uni 
in  matrimonio  con  un  magistrato,  e  detesta  l.i 
professione  di  suo  marito  e  tutto  quanto  con- 
cerne il  mondo  giudiziario. 

<>  perchè  sposò  un  niagistato? 

Misteri  del  cuore  umano.  -Ma  forse  lo  sposò 
perchè  non  trovò  altri  che  volesse  sposar  lei. 
Anche  questo  può  darsi.  In  fatto  di  matrimoni 
tutto  è  possibile.  O  non  vi  sono  donne  <rhe  spo- 
sano un  uomo  iHT  ;imaregsiarlo  tutta  la  vita,  o 


(juert'uomo  non  ha  che  un  torto,  «lueiio  di  sop- 
portarle .' 

Lasciamo  le  digressioni  filosofico-coniugali,  e 
diamo  un'occhiata  al  nostro  tipo. 

Questa  magistrata  odia  dunque  la  toga  mariule. 
Il  fenomeno  può  talora  essere  affetto  d'isterìsmo 
morale,  d'una  qualche  delusione  amara,  ma  altre 
volte  nulla  di  tutto  ciò,  e  cosi  appare  più  strana 
l'anomalia  psichica.  Del  resto  non  pretendo  spie- 
garla :  rilevo  il  fatto.  Ma  poi,  se  un  marito  di 
un  tale  fenomeno  non  riusci  dopo  venti  anni  di 
matrimonio  a  spiegarlo,  figurarsi  se  Io  potrò  io, 
e  per  quanto  i  fenomeni  eccitino  la  m'ia  curiosità 
scientifica.  Non  ridete,  sono  un  usciere  che  à  stu- 
diato e  studia. 

•  In  generale  queste  donne  appartengono  alla 
classe  delle  malcontente.  Si  annoiano  di  lutto  ; 
nulla  le  soddisfa  :  hanno  rari  intervalli  d'allegria: 
predomina  in  loro  la  noia:  .ittraversano  la  vita 
sbadigliando,  e  siccome  lo  sbadiglio  è  contagioso, 
fanno  anche  sbadigliare  per  benino  l'infelice  che 
vive  con  loro. 

Queste  nemiche  della  toga  —  ecco  il  fenomeno 
—  non  sono  così.  Lontane  dall'ambiente  giudi- 
ziario, in  ferie,  in  campagna,  al  mare,  sono  gaie, 
graziose,  soddisfatte...  purché  niuno  ,  né  cosa  al- 
cuna ricordi  loro,  che,  anche  in  ferie,  al  ^^  del 
mese  pigliano  lo  stipendio...  giudiziario.    * 

Un  marito  d'una  di  queste  signore,  un  egregio 
sostituto  .procuratori-  del  Re,  una  volta  in  viaggio 
fu  domandato  da  una  signora  che  profes-sione  eser- 
citasse.  La  moglie  comincia  a  dimenarsi,  e   lui  : 
.avvocalo,  per  servirla. 
moglie,  con  due  occhi  furibondi)  Come  ? 

—  Cioè,  ero  avvocato,  ma  ora... 

—  Mio  marito  %  professore  di  medicina. 

—  (signorai  Ah  !  due  lauree,  mi  rallegro. 

—  Prego. 

—  Scusi,  se  non  abuso  della  sua  bontà,  vorrei 
approfittare  dell'occasione  per  domandare  un  con- 
siglio. 

Ini  sudando  freddo)  Dici  pure.licti^irao... 
-  Quando  viaggio  soffro  di  un.i  puntura  qui 
vicino  alla  milza,  che  sart  mai? 

—  Forse  la  scos.sa  del  treno... 

—  Non  credo:  mi  vi^-"'    '■  '  "'■'••-■>    ed 

escluse  questa  causale.  :  '"'"' 

una  spiegazione  convinix  '■ 

—  yamgosciaio   Eccii...  bisognerebi^- 


—  Oh  !  combinazione  bellissima  :  non  mi  hanno 
forse  detto  che  loro  vanno  ai  bagni   di    Rimini? 

—  {la  moglie  ridendo)  Precisamente. 

—  Pur  io  mi  reco  là,  allora  il  signor  Profes- 
sore vorrà  certo  usarmi  la  cortesia   di  visitarmi. 

—  Non  chiedo  di  meglio!... 

Quel  disgraziato  per  non  compromettere  la 
sua  dignità  dovette  cambiar  piano  e  spiaggia.  Si 
recò  a  Venezia.  Poco  economiche  sono  queste 
mogli,  eh? 

Ma  sentiamo  i  suoi  sfoghi  anti-giudiziari. 

Il  marito  torna  dall'ufficio,  tardi. 

—  Cosi  tardi,  sono  ormai  le  sette! 

—  Cara  mia,  l'udienza  fini  ora...  otto  processi. 

—  L'udienza,  i  processi!...  ma  date  tutto  alle 
fiamme,  meglio  fare  il  lustrascarpe  che  il  magi- 
strato. Ma  come  mai  ti  venne  l'idea  infelice  di 
entrare  in  magistratura? 

—  Eppure,  mia  cara,  debbo  a  questa  la  gioia 
d'averti  sposata.   Non  ero   forse   pretore  allora? 

—  Già...  la  colpa  è  mia...  perchè,  vedi,  io  mi 
sentii  sempre  nel  sangue  una  forte  avversione  per 
la  magistratura,  ma  tu  eri  cosi  carino,  elegante, 
cosi  poco  magistrato  che  mi  innamorai  di  te.  Di 
quante  sciocchezze  è  padre  l'amore. 

—  Grazie  ! 

Lei  e  un'amica. 

—  Sono  contenta,  presto  tuo  marito  sarà  pro- 
mosso Procuratore  del  Re. 

—  Una  vera  delizia! 

—  O  perchè  lo  dici  con  quel  tono? 

—  Perchè  sarebbe  meglio  andasse  a  veiukrc- 
fiammiferi. 

—  Ma  —  dico  —  vaneggi  ? 

—  No,  mia  cara,  parlo  del  miglior  mio  senno. 
Detesto  tutto  ciò  che  pule  di  toga.  M'auguro  di  di- 
ventar vecchia,  allora  almeno  sarò  felice  in  pen- 
sione. 

'  —  Aveste  forse  dolori  per  la  carriera? 

—  No,  mai,  ci  mancherebbe  altro!  Oh!  non 
basta  forse  il  dolore  d'essere  magistrato? 

—  Scusami,  sei  molto  strana. 

—  Sarà,  ma  è  così  :  questa  professione  mi  nausea 
orribilmente.  Vorrei  vedere  in  fiamme  tutti  i  tri- 
bunali di  questo  mondo.  Vi  soffierei  dentro  a  due 
polmoni. 

Grazioso  il  «  tipo  »  eh? 


L'indifferente. 

Quali  e  quanti  diversi  caratteri  psichici  tra 
quelli  che  governano  l'organismo  della  sapiente, 
della  ìiemica  della  toga,  e  di  questo  nuovo  cam- 
pione della  minoranza.  Un  vero  abisso  tra  loro. 

Chi  pensa  alla  donna  moderna,  così  come  la  va 
formando  la  evoluzione  sociale;  chi  à  del  femmi- 
nismo un  chiaro  concetto,  e  però  non  accetta  in 


tutto  le  teoriche  spencieriane,  e  comprende  come 
tutto  debba  facilitare  lo  sviluppo  delle  sane  energie 
femminili  nel  campo  fisio-psico-intellettuale,  onde 
essa  non  solamente  sia  una  madre  amorosa,  colta; 
ma  eziando  una  forza  nel  consorzio  civile,  in  cui 
tante  miserie  sociali  esigono  la  mano  altruistica 
della  donna,  potrà  facilmente  comprendere  quale 
compagna  sia  dell'uomo  intellettuale,  e  specie  del 
magistrato,  la  donna,  che  vive  a  sé,  fredda,  in- 
differente alla  vita  laboriosa  del  marito. 

O  che  è  mai  una  famiglia  dove  la  donna  non 
partecipa  alla  vita  intellettuale  del  marito?  Una 
casa  senza  sole,  senza  fiori.  Se  l'uomo  è  uno 
studioso,  un  lavoratore,  dovrà  intanarsi  nel  suo 
gabinetto,  e  di  qui  nell'ufficio  senza  che  mai  lo 
confortino  un  sorriso,  un  consiglio,  un  eccita- 
mento della  propria  moglie.  Se  ultimato  lo  stretto 
dover  suo  d'ufficio,  non  ama  dedicarsi  allo  studio 
o  perchè  dovrà  recarsi  a  casa,  se  codesta  è  muta 
d'ogni  luce  intellettuale?  È  la  moglie  inerte,  apata, 
che  lo  spinge  al  club,  ai  caffè,  ai  teatri,  ovunque 
insomma  dove  essa  non  sia:  tanto,  oche  si  può 
parlare  con  le  statue? 

Anche  queste  donne  apate  esistono  nella  famiglia 
giudiziaria. 

Sono  rare  pure  nella  minoranza,  ma  vi  sono, 
e  gettano  una  luce  squallida  sulla  vita  de'  loro 
rispettivi  mariti,  che  finisce  per  avere  in  ugpa 
il  tetto  domestico,  se  l'amor  paterno  non  vince 
la  legittima  avversione. 

Facciamone  parlare  una,  e  avrete  il  ritratto  di 
tutte  le  sue  sorelle  in  apatia. 

—  Ma  sa  che  sono  molti  anni  che  loro  sono  qui  ! 

—  Sì,  ormai  dieci. 

—  Eh?  chi  sta  bene  non  si  muove. 

—  Oh,  per  me  qui  o  là  è  tutto  uguale. 

—  Capisco,  ma  significa  che  suo  marito  si  trova 
bene  nel  suo  ufficio. 

Non  saprei. 

—  che  i  superiori  lo  stimano. 

—  Non  saprei. 

—  (imbaiassata)  Ma  forse  sarà  vicina  la  sua 
promozione... 

—  Proprio  non  so. 

—  Eh  !  lo  so  io,  suo  marito  è  in  graduatoria  dieci 
numeri  avanti  del  mio,  dunque... 

—  Sarà  benissimo. 

—  Poi,  so  che  fu  classificato  molto  bene... 

—  Io...  nulla  so. 

—  Ma  come?  suo  marito  non  le  parla  di  ciò? 
eppure  sono  cose  interessanti. 

—  Interessanti?  O  che  me  ne  viene? 

—  (sorridendo)  Scusi...  l'aumento  di  stipendio, 
l'amor  proprio. 

—  Si,  sì  belle  cose,  ma  non  mi  fanno  né  caldo, 
ne  freddo. 

—  Perdoni  la  mia  curiosità,  ma  gli  interessi 
di  suo  marito  non  sono  forse  i  suoi? 


—  Già,  ma  io  non  me  ne  occupo:  lascio  che  il 
mondo  vada  come  vuole.  Mio  marito  ed  io  par- 
liamo poco. 

—  (timidamente)  Forse   non  vanno   d'accordo? 
—'Oh!  no:  è  un  ottimo  marito,  ma  io  voglio 

vivere  estranea  alla  sua  carriera. 

Si  congedano,  e  la  signora  indifferente  stende 
una  mano  gelida,  stanca,  come  è  fredda  l'anima 
sua. 


L'aluto-carrlera. 

Anche  qui  dt-bbo  invertire  un  proverbio,  ed 
esclamare  :  «  V amaro  in  ultimo  ».  Già,  dirò  avanti 
tutto,  che  in  queste  categorie  di  donne  d'eccezione 
è  quasi  impossibile  trovarne  una  dolce,  poi  — 
almeno  così  m'insegnò  un  mio  vecchio  professore 
ginnasiale  —  le  cose  più  impressionanti  vanno 
tei\ute  per  ultime,  onde  meno  facilmente  se  ne 
cancelli  il  ricordo  in  chi  le  ode  o  legge. 

L'ho  detto.  Ne  ho  visto  di  tutti  colori,  di  belle 
e  di  brutte,  ma  tra  le  brutte  primeggia  la  donna 
che  chiamai  Yaiiiio-iarricra,  e  quantunque,  per 
solito,  sia  una  donnina  bella,  attraente,  carez- 
zevole. 

È  un  malanno,  clieatiHigge  un  po'  tutto  il  mondo 
degli  impiegati,  in  proporzioni  più  o  meno  gravi: 
è  un  malanno  che  si  presenta,  per  solito,  con  forme 
miti  nella  vita  giudiziaria  :  ma  il  guaio  esiste,  e 
mi  sembrerebbe  venir  meno  al  mio  dovere,  se  per 
un  falso  pudore  di  corporazione,  non  ne  tenessi 
parola  in  questo  libro,  che,  pur  scherzando,  ha  di 
mira  solo  la  verità  ed  il  bene  della  magistratura. 


nullità,  cui  suppli.sce  solo  l'ambizione  di  andare 
avanti  senza  fatica,  e  con  una  rapidità  ,  spesso 
ignota,  al  vero  merito.  Non  hanno  ingegno,  sono 
digiuni  di  scienza,  di  carattere,  e  ricorrono  agli 
scaltrimenti  obbrobriosi,  che  loro  suggerisce  l'av- 
venenza delle  loro  mogli. 

.Sarebbe  onesto  tirare  un  velo  su  igueste  brut- 
ture ?  Non  è,  per  contro,  doveroso  parlarne,  de- 
nudarle arditamente,  onde  quanti  hanno  seav)  di 
rettitudine  combattano  il  morbo  insidiatore? 

La  risposta  non  è  dubbia. 


«  L'aiuto-carriera  »,  è,  come  dissi,  per  solito, 
una  donnina  spesso  bella,  avvenente,  leggiadra, 
aggraziata  sempre.  Dalla  sua  jiersona  spira  una 
languidezza  sensuale,  che  l'arte  ratìina  con  l'abito 
della  commedia,  che  recita.  È  di  forme  delicate, 
gentili,  dai  modi  insinuanti.  Le  donne  forti,  vi- 
rili, dalle  maniere  un  po'  vivaci  non  s'incontrano 
in  questa  categoria,  che  inidonee  all'uflicio  della 
seduzione.  Occorre  per  questo  una  pieghevole/.za, 
un'arte  speciale  nel  linguaggio,  nel  sorriso,  nello 
.sguardo,  nelle  movenze,  cui  si  ribella  la  donna 
forte. 

E  l'arte  sopratutto  consiste  nel  far  sperar  molto 
e  conceder  poco,  o  magari  niente,  che,  talora,  in 
fondo  ^molto  in  fondo  sono  oneste,  e  appunto 
l'abilità  loro  s'annida  nell'accendcre  speranze 
nell'animo  della  persona  cui  si  rivolgono  |>cr  ot- 
tenere un  favore,  che  torni  a  vantaggio  del  marito: 
che  senza  il  suo  aiuto  jion  può  far  carriera. 


V aiuto-carriera,  anche  se  agisce  soltanto  per 
suo  impulso  vanitoso,  per  il  desiderio  —  in  parte 
giusto  —  di  migliorare  le  condizioni  economiche 
della  casa,  è  per  lo  meno  incoraggiata  dal  tacito 
consenso  maritale. 

E'  un  male. 

Ma  il  male  si  accentua,  e  prende  forma  disonesta, 
quando  la  donna  si  muove  (forse  lottò  prima  di 
accettare  la  parie  ingrata,  compromettente,  inde- 
corosa, però  maggiore  la  colpa  di  chi  la  spinge) 
per  consiglio,  suggestione,   online  del  marito. 

Costui  —  occorre  dirlo?  —  è  un'anima  debole, 
una  coscienza  fiacca  sempre  quando  è  passivo,  un 
corrotto  quando  sospinge  al  male:  indegno,  se  ma- 
gistrato, d'indossare  una  toga.  O  come  può  egli 
giudicare  gli  altri  se  mette  sotto  i  piedi  la  di- 
gnità umana,  se  schiaffeggia  il  decoro  maritale,  se 
privo  d'ingegno,  di  studio,  di  amore  al  lavoro, 
vuol  fare  carriera  con  l'aiuto  forzato  o  compia- 
cente della  gonnella  seduttrice? 

Perchè,  vedete,  in  generale  questi  uomini, 
eticamente    poveri,    sono    pure   intellettualmente 


Un  dialogo  sintomatico  collo  al  volo. 

—  K  vpro  che  stanno  per  nominare  cava- 
liere K**  ? 

—  Sicuro:  l'ho  imparato  ora   in  tribunale. 

—  Oev  'essere  un  gran  valore,  perchè  altri  meno 
anziani  di  lui  non  lo  furono  ancora... 

—  rhni! 

—  È  si  o  no  un  giudice  di  nu-rito? 

—  Ohi  si,  à  una  moglie  bellis-.in»a. 

—  Che  c'entra?  Forse  à  pubblic.A/ioni  ? 

—  Lo  ignoro:  se  tu  vedessi,  è  una  biondina 
deliziosa,  due  occhi  cerulei,  cerchiati.  lanKu;di, 
che  innamorano. 

—  E  le  sue  sentenze? 

—  Ti  dico,  insomma  uno  spi'  •  mn.i, 
la  grazia  in  persona.  Vedi,  se  Mit- 
solino  —  parla  cosi  bene  —  i  >;n.  ... 

assolto! 

tjuant'arte  \ 

Sorride  di  conipiacenM  se  intui-^ce  che  il  imvxm 
sarà  accord.ito.  .\  tempo  opp<>rtuno  s»  arrossire. 
Oh!,  |K)vcrina,  le  è  occorso  tanto  coraggio  per 
vincere  la  sua  timidità  e  os;ire  di  rivolgersi  «  su- 


40 


periore  tanto  illustre.  Perchè  per  lei  i  superiori 
sono  tutti  illustri.  Sa  confondersi  graziosamente, 
chiamando  commendatore  chi  è  cavaliere,  Pro- 
curatore Generale  chi  è  magari  solo  incaricato 
di  reggere  una  Procura  del  Re  (quanta  roba.  eh. 
crea  l'economia?!  Conosce  a  perfezione  tutto  il 
linguaggio  adulatorio.  Al  momento  decisivo,  cosi 
senza  averne  l'aria,  fa  comprendere  che  la  do- 
manda sarà  appoggiata  (vero  o  non  vero  poco 
cale^  dall'illustre  on.  X,  che  è  amico  intimo  del 
Ministro.  «  Che  vuole?  L'on.  X**  è  nostro  ami- 
cissimo: un  uomo  influente;  agisce  di  rado,  ma 
per  noi  non  so  cosa  farebbe...  e  farà  quando  la 
proposta  parta  da  Vostra  Signoria,  che  l'on.  X** 
ben  conósce,  perchè  noi  gli  abbiamo  parlato  della 
Signoria  Vostra  con  vero  entusiasmo  ». 

Se  trova  il  terreno  ingrato,  trova  sempre  ne 
suoi  occhi  affascinanti  una  lacrimuccia,  che  lascia 
scorrere  per  le  gote  vellutate,  onde  sia  ben  visi- 
bile la  manovra  dell'asciugamento,  accompagnato 
da  un  sospirone  lungo,  profondo. 

—  Creda,  signor  commendatore... 

—  Ma,  no,  le   ho  già  detto  che   non  lo  sono. 

—  .Scusi,  signor  cavaliere... 

—  Neppure,  glie  l'ho  già  detto. 

—  {CON  uno  sguardo  carezzevole^  Oh!,  un 
uomo  come  Lei,  lo  è  sempre,  anche  se  il  Governo 
l'ha  dimenticato...  ma  dirò  io  all'on.  X... 

—  Prego,  prego. 

—  Dunque,  creda,  Ella  farà  un'opera  davvero 
meritoria. 

—  Capisco,  ma  pensi  vi  sono  altri  i)iii  anziani 
di  suo  marito,  che  potreh*)ero,  e  giustamente  la- 
gnarsene. 

—  È  vero,  ma  il  merito... 

—  Ah!  il  merito...  (e  non  ha  il  coraggio  di 
affliggere  quella  bella  donnina  per  dirle  che  suo 
marito  è  un  asino). 

—  Dunque  via,  sia  buono... 

—  Vedremo,  vedremo... 

—  Sa,  mi  raccomando,  non  lo  dica  a  mio  ma- 
rito ;  è  un  passo  codesto  fatto  di  mia  testa.  Po- 
ver'uomo,  lui  è  così  modesto,  così  nemico  delle 
raccomandazioni  !  Chi  sa  come  s'adirerebbe  se  sa- 
pesse che  io  osai  venire  da  Lei. 

—  Non  dubiti. 

—  Dunque  posso  sperare? 

—  Cara  signora,  le  ho  detto,  «  vedremo  »,  mi 
lasci  pensare,  riflettere,  sentire  il  Presidente. 


—  Vi  fu  già. 

—  Cosa  jdisse  ? 

—  Mi  parve  ben  disposto.  Ma  tutto  dipende  da 
Lei,  che  è  il  superiore  diretto:  poi,  sa,  la,  pro- 
posta di  un  uomo  illustre  come  Lei  è  sicura  di 
riuscita.  Si  lasci  commuovere,  mi  mandi  via  con- 
tenta... {colpo  finale]...  creda,  non  avrà  a  pen- 
tirsene. Ella  può  essere  sicura  della  mia  eterna 
gratitudine  {sospira  languidamente). 

—  Farò  quanto  posso. 

—  Si,  ma  mi  dica  un  bel  sì.  Ahi  che  grata 
sorpresa  sarà  per  mio  marito...  E  —  dolce  sogno! 
—  ma  io  oso  troppo...  festeggeremo  l'avvenimento 
con  un  pranzetto,  lieti  se  vorrà  onorarci  della  sua 
presenza.  Oh  !  cose  modeste...  in  famiglia. 

—  Troppo  buona,  ma... 

—  Non  insisto  altro.  Ella  ha  capito  il  mio  de- 
siderio, e  sono  sicura  vi  metterà  tutto  il  suo  buon 
volere  per  accontentarmi. 

Si  ^alza,  rossa  in  viso,  palpitante,  prende  la 
mano  del  superiore,  che  stringe  nella  sua,  dopo 
averla  con  disinvoltura,'  sprigionata  dal  niveo 
guanto,  e  mormora  dolcemente,  con  le  rosee 
labbra  un  «  mi  raccomando  >•  che  pare  una  ca- 
rezza, una  promessa,  e  sparisce  lasciando  nel  Ga- 
binetto un  profumo  di  violetta,  che  per  moltu 
ore  ricorda  al  Superiore  la  bella  donnina,  l'aiuto- 
carriera. 

Cha  farà  questo  superiore? 

.So  che  molti,  in  casi  simili,  fecero  il  loro  dovere, 
sottraendosi  alle  seduzioni  femminili,  ma  di  un 
fatto  sopratutto  mi  occupo,  dell'onta  che  accom- 
pagna questa  donna,  dell'onta  che  copre  tutta  la 
figura  del  magistrato,  che  ricorre  a  codeste  arti 
disoneste  per  riuscire  dove  mai  potrebbe  arrivare 
co'  suoi  meriti. 

È  codesta  una  pagina  brutta  —  per  quanto 
piccina  —  della  vita  giudiziaria. 

Gli  onesti  si  diano  fraternamente  la  mano  per 
lacerarla-,  e  si  uniscano  onde,  per  quanto  è  uma- 
namente possibile  —  niuno  possa  più  scriverne 
un'altra. 

Quel  profumo  di  violetta,  è  velenoso:  le  donne 
aiuto-carriera,  che  sono  il  prodotto  della  vigliac- 
cheria maritale  attiva  o  passiva  debbono  sparire 
là  dove  debbono  imperare  l'onestà,  e  il  trionfo 
del  vero  merito. 

LINO  FERRIANI 


XII. 


IN    FERI^OVIA. 


(Bozzetto  allegro). 


I'm  i'oiii]i;irt.iii;i'iitii  di  [nitir.i  l'iiissf.  Tua  ln'lla  i- 
U'ioN  :nic  I-  liioiula  signora, la  CoiìtessaKhc  (VE.schict.i, 
si  aniKiia  iu  mi  ariigolo.  Sale  il  sottotenente  l'irò 
\'alluanra.  " 

l'ii'iiciliiala  insistenti',  nn  lieve  saluto,  ed  un  sor- 
riso clii'  vonvlilie  essere  l'urlio,  ma  che  riesce  sola- 
mente niali/.insii. 


'ifo  —  (a/ Ji"t.'s/n'uo)  Dammi  un  siornale.  Ma 
che  Messaggero  !  dammi  tutti  t|iiclli  di  stamane  ! 
Non  hai  V Italie: ì  Tieni  (e  siede  aprendone  uno, 
lìienOe  il  convoglio  si  mei  le  in  violo). 

Ebe  —  [tosse). 

Ugo  —  {alza  gli  occhi  e  sorride), 

Ebe  —  (si  volge  verso  il  finestrino). 

Ugo  —  {a.  fior  di  labbra)  Superba,  ma  bellis- 
sima! (guarda  V effetto  al -disopra  del  giornale; 
ma  l'effetlo  è  nullo). 

Ebe  —  {non  si  muove).  {Passa  un  lungo  silenzio). 

Ugo  —  {non  può  leggere)  Badi,  signorina,  l'aria 
del  finestrino  le  farà  male.  La  ho  udita  tossire. 

Ebe  —  Grazie,  signore  {e  continua  a  guardare 
la  campagna). 

Ugo  — {ainnci?ia7idosi)  A.nà\2in\o,  bella  superba, 
perchè  non  degnate  volgervi?  Pure  noi...  ci  co- 
nosciamo. 

Ebe  —  {volgendosi  rapidamente  e  con  istupore\ 
Sì!? 

Ugo  —  {con  sorriso  malizioso)  Non  devo  rico- 
noscervi? 

Ebe  —  Come  crede. 

Ugo  —  Ho  l'abitudine  di  essere  gentile  con  le 
signore...  e  se  la  mia  presenza  qui  vi  pone  im- 
barazzo, saprò  sacrificare  la  felicità  di  esservi  com- 
pagno di  viaggio. 

Ebe  —  {animandosi)  Siete  veramente  gentile. 

UgO" —  Dunque  dovrò  andarmene? 

Ebe  —  No...  se  non  temete  di  annoiarvi. 

Ugo  —  Ho  sufficiente  spirito  por  credere  che 
non  ci  annoieremo  nessuno  dei  due. 

Ebe  —  Non  siete  modesto. 

Ugo  —  Sotro  ufficiale  di  cavalleria. 

Ebe  —  Pardon...  non  ci  avevo  pensato...  e... 
dove  mi  avete  conosciuta? 

Ugo  —  Come?...  non  ricordate. 

Ebe  —  Non  ricordo...  bene. 

Ugo  —  Non  eravate  da  Doney  otto  giorni  fanno' 

Ebe  —  Ah!... 


( go  —  Kiruiiiii.  r  In  pranzavo  al  l.ivolo  op- 
posto con  Juliettc. 

Ebe  —  Quella  bionda  ? 

Ugo  —  Hionda?...  quella  bruna;  la  chanlcnte 
spagnuola  delle   l'arielées. 

Ebe  —  Sicuro...  avete  ragione. 

Ugo  —  Speravo  ve  ne  foste  ricordata.  Non 
avevo  più  occhi  per  guardarvi,  non  osUnti  le 
gelosie  di  Julielte,  e  le  occhiate  torve  di  quel 
vecchio  che  vi  offriva  la  cena. 

Ebe  —  Ah  !  dunque  ci  conoscevamo  appena  di 
veduta. 

Ugo  -  Per  forza!  non  vi  ho  incontrala  più... 
Comprenderete  facilmente  che  non  mi  sareste 
sfuggita...  almeno  per  un.i  cena. 

Ebe  —  I.o  credete? 

Ugo  —  Imtnagino  che  con  quel  vecchio  le  vostre 
digestioni  siano  dithcìli,  e,  che  per  aiutarle...  a 
qualche  vigoroso  eccitante...  di  tanto  in  tanto... 
ricorriate. 

Ebe  —  Eh  già!  la  vita  odierna  è  tutta  a  base 
di  eccitanti.  Anche  la  vostra  Juliette  la  penserà 
come  me,  immagino. 

lìg'o  —  No,  no;  essa  anzi  cerca  i  deprìmenti. 

Eie  —  E  non  li  trova? 

Ugo  —  Che  volete!  i  tempi  sono  niuLiti. 

Eòe  —  Ma  essa  è  tanto  bella!... 

Ugo  —  Per  carità!  è  una  pittrice  insigne;  oh! 
quanto  a  questo,  non  ha  nulla  da  invidiare  a 
Tiziano.  Del  resto  a  me  non  piaciono  le  bninc. 
Fu  un  capriccio  il  quale  arrivò  naturalmente 
all'epilogo.  E  poi,  roba  estera,  costosa,  e.  pt-r 
qualità,  sempre  inferiore  .-illa  nazionale. 

Ebe  —  Grazie  per  il  genero...  nazionale. 

Ugo  —  Capirete...  ma  ditemi  almeno  il  vomirò 
nome. 

Efie  —  {/mbarazzata)  Jole  ! 

Ugo        Jole?  splendida  scelt.ir' 

Ebe  —  Scelta  ? 

Ugo  —  Ah!  non  è  il  nome  di  guerra?  fc  [vr.i 
bello  egualmente.  Dicovo,  dunque,  sono  caprio  i 
che  non  durano  una  stagione.  Sono  quAsi  doveri 
ai  quali  dobbiamo  sottomottcrci. 

Ebe  —  Xoblesse  obb/ige. 

l  go  —  Certo.  L'n  poco  |H:r  questo,  fe  questione 
di  arma.  Noi  di  cav.illeria  .ibbiamo  tradizioni  d.i 


42 


mantenere  alte.  Ma  parliamo  di  voi.  Io  sono  felice 
di  questo  viaggio  dove  temevo  di  annoiarmi.  E 
che  strano  caso!   Dove  andate? 

Ebe  —  In  Isvizzera...  a  Lugano. 

Ugo  —  Dal  vecchio? 

Ebe  —  Già  da  lui. 

Ugo  —  Egli  vi  aspetta  là? 

Ebe  —  Si. 

Ugo  —  Vi  tratta  bene  il  vecchietto...  eh!! 

Ebe  —  Si,  non  c'è  male...  e  voi? 

Ugo  —  Vado  a  Milano  a  passare  tre  o  quattro 
giorni  :  di  poi  andrò  sul  lago  di  Como. 

Ebe  —  In  famiglia  ? 

Ugo  —  No;  un  piccolo  nido  da  contessere. 

Ebe  —  Bravo  ;  non  perdete  il  vostro   tempo. 

Ugo  —  Si  fa  quello  che  si  può.  Ho  passato 
l'inverno  a  Roma,  per  le  caccie,  col  corso  di  ca- 
valleria a  Torre  di  Quinto.  Mi  sono  fermato  ieri 
a  Bologna  ove  ho  molti  amici. 

Ebe  —  Ed  a  Roma  vi  siete  divertito? 

Ugo  —  Immensamente.  Oh  !  a  Roma  non  ho 
bisogno  di  dirvi  quello  che  si  fa.  E  poi  noi  di 
cavalleria,  comprenderete,  non  guardiamo  ad  un 
migliaio  di  franchi  di  più  o  di  meno,  per  queste 
occasioni.  C'è  tutto  l'anno  per  fare  economia; 
se  si  vuole  ;  per  me  specialmente,  che  sto  in  una 
guarnigione  orribile. 

Ebe  —  Ma  ditemi  almeno  il  vostro  nome,  anche 
voi. 

Ugo  —  Avete  ragione  (estrae  una  carta  dal 
portabigUeiti  e  la  porge). 

Ebe  —  [legge)  Ugo  di  Valbianca...  Marchese? 

Ugo  —  Debolmente  (sorridendo). 

Ebe  —  Dite  pure  degnissimamente.  Sono  feli- 
cissima di  questa  preziosa  conoscenza. 

Ugo  —  Avete  un  braccialetto  magnifico. 

Ebe  —  State  fermo...  da  bravo. 

Ugo  —  Fatemene  vedere  un  pochino...  guar- 
date cosi... 

Ebe  —  No. 

Ugo  —  Vi  domando  tanto  poco!  il  braccio... 
chi  sa  quante  volte  avrete  mostrato  la   gamba  ! 

Ebe  —  Qui  non  voglio;  no...  no!... 

Ugo  —  Lasciatemi  tirare  giù  il  guanto  ;  di  poi 
starò  fermo. 

Ebe  —  A  voi. 

Ugo  —  Che  splendore  ! 

Ebe  —  Adesso  basta...  che  sciocchezze! 

Ugo  —  E  pensare  che  quel  vecchio  imbe- 
cille... 

Ebe  —  Oh  ! 

Ugo  —  Andiamo  !  avete  troppo  spirito,  e  non 
vorrete  farmi  credere  che  questi  tesori  non  li  goda 
che  lui...  Chi  è  il  fortunato? 

Ebe  —  Nessuno. 

Ugo  —  Proprio  ? 

Ebe  —  Parola  d'onore  ! 

Ugo  —  D'onore?...  Allora  non  ne  dubito 


E...,  dite  un  poco...  che  cosa  è  necessario,  per 
arrivare  ai  gradini  del  vostro  trono  ? 

Ebe  —  Poco  e  molto.  Bisogna  sapere...  arrivare. 

Ugo  —  Audacia? 

Ebe  —  Forse...  ma...  molta;  altrimenti... 

Ugo  —  Altrimenti  ? 

Ebe  —  Si  rimane  al  primo  gradino. 

Ugo  —  Posso  iscrivermi  ?. 

Ebe  —  Provate. 

Ugo  —  Credete  che  abbia  chance  ? 

Ebe  —  Vi  rimarrà  sempre  il  tempo  di  dichia- 
rare forfait. 

Ugo  —  Apprezzate  almeno  la  gioventù  e  lo 
slancio  di  un  ufficiale  di  cavalleria. 

Ebe  —  Ma  c'è  l'avanscoperta  prima;  ed  occorre 
avvedutezza. 

Ugo  —  Opero  in  terreno  cognito. 

Ebe  —  Ogni  terreno  ha  le  sue  sorprese. 

Ugo  —  Ah  !  Jole  Jole  !  sei  un  portento  !  Dove 
hai  imparato  tutto  questo  ? 

Ebe  —  Nel  lungo  servizio  fra  i  vostri  colleghi. 

Ugo  —  Ne  hai  conosciuti  molti  ?  ' 

Ebe  —  Pochi  anzi,  ma...  buoni. 

Ugo  —  Ed  hai  lasciato  le  armi  per  quell'im- 
becille ? 

Ebe  —  L'ho  trovalo  più  pratico. 

Ugo  —  Però,  conti  di  tornare  in  servizio? 

Ebe  —  Forse...,  ma  di  complemento. 

Ugo  —  Sia  pure.  Ma  promettimi  di  riprenderlo 
con  me. 

Ebe  —  Proprio  con  voi  ? 

Ugo  —  Si,  perchè  io  so  apprezzare  il  tuo  va- 
lore, perchè  ti  amo  di  già. 

Ebe  —  Cosi  presto  ! 

Ugo  —  Si,  si,  tu  superi  tutte  le  donnine  che 
ho  conosciute. 

Ebe  —  Poverette  noi  !...  ma  ne  avete  proprio 
conosciute  molte  ? 

Ugo  —  A  Roma  credo  tutte.  Parlo  della  haiiìe; 
della  vostra  haute. 

Ebe  —  Ah!...  s'intende. 

Ugo  —  Ma  nessuno  ti  arriva.  Dio  !  quanto  sei 
bella  ! 

Ebe  —  No,  no  ;  non  vi  voglio  qui:  sedete  là, 
al  vostro  posto,  altrimenti  m'inquieto. 

Ugo  —  Perchè  vuoi  farmi  penare  cosi  ? 

Ebe  —  Perchè  non  voglio.  Amo  chiacchierare; 
mi  divertite,  non  ve  lo  nascondo,  siate  dunque 
compiacente.  Non  bisogna  essere  cosi  entusiasti... 
non  siete  un...  raffinato. 

Ugo  —  Non  mi  tengo  per  nulla  di  esserlo. 
Dammi  un  bacio. 

Ebe  —  Ecco,  vedete,  non  badate  alla  progres- 
sione. Per  un  bacio  è  troppo  presto. 

Ugo  —  Si  è  vero.  Allora  un  piedino,  quello 
me  lo  mostri  ? 

Ebe  —  State  fermo.  » 

Ugo  —  Ah  !  devono  essere  bellissimi. 


Ebe  —  Spero  non  ne  dul)iterete. 

Ugo  —  Non  ne  dubito. 

Ebe  —  Allora  è  inutile  che  ve  lo  mostri. 

Ugo  —  Ti  prego. 

Ebe  —  Non  insistete.  Pensate  che  se   fossero 

grandi  mettereste  me  in  confusione  e  voi in 

imbarazzo.  Sono  cose  superflue  per  un  giovane  ! 
E  proprio  nece.ssario  cominciare  dai  piedi  ?  .Sono 
metodi  già  passati  !  Tutto  questo  entusiasmo  per 
vedere  un  stivalino  !  Bisogna  sapere  frenare  il 
proprio  fuoco,  e  non  perdere  lo  steccato,  se  no 
vi  esaurirete  pri.na  di  arrivare al  traguardo. 

Ugo  —  Hai  ragione  farò  la  corsa  à'tìllenlf. 

Ebe  —  Hravo  !  cosi  mi  piacete., 

Ugo  —  Dunque,  dimmi,  vai  direttamente  a 
Lugano  ? 

Ebe  —  Può  darsi  che  mio... 

Ugo  —   Marito. 

Ebe  —  ...  marito,  benis.iimo,  venga  a  Milano, 
in  tal  caso  mi  fermerò  per  il  déjeuner. 

Ugo  —  E  se  non  venisse  ? 

Ebe  —  Farò  colezione  al  Restaurant. 

('go  —  E  mi  i^ermetterai  che  io  te  l'ofì'ra. 

Ebe  —  Grazie;  accetterò  volentieri. 

Ugo  —  Allora  speriamo  che  non  venga. 

Ebe  —  Perchè  ?  poveretto!... 

Ugo  —  Andiamo  ;  se  lo  dici  per  compassione, 
passi.  Ma  io  non  ho  la  modestia  di  credere  che 
non  preferisci  la  mia  compagnia  alla  sua. 

Ebe  —  Non  lo  nego  ;  e  poi  si  tratta  di  un'ora. 

Ugo  —  Perchè  non  resti  fino  a  sera  ?  C'è  un 
treno  alle  nove. 

Ebe  —  E  lui  ? 

Ugo  —  Ci  si  telegrafa. 

Ebe   —  È  impossibile. 

l^ìgo  —  Jole,  psnsa  al  mio  supplizio,  sarebbe 
una  crudeltà. 

Ebe  —  Non  è  possibile,  credetelo. 

ITgo  —  Mezza  giornata  per  la  felicità poi. 

Ebe  —  Il  di  poi  mi  spaventa. 

Ugo  —  Perchè? 

Ebe  —  Dopo  mi  disprezzerete  ;  non  mi  ame- 
rete più. 

Ugo  —  No,  Jole.  \'uoi  che  sacrifichi  tutto?  11 
mio  piccolo  nido  sul  lago  di  Como  ?  Vuoi  essere 
tu,  la  vita,  la  luce,  l'anima  di  questi  venti  giorni 
di  licenza  ? 

Ebe  —  No,  Ugo,  non  posso 

ergo  —  Sei  crudele  (passa  un /ungo  silenzio^. 
pure  anche  tu  sei  commossa. 

Ebe  —  Sono  giovane  anch'io  1  So  anch'io  .so- 
gnare la  felicità  in  un  luogo  ove  tutto  è  incanto 
e  sorriso,  fra  due  cuori  giovani  e  amanti  ! 

i  'go  —  Allora  resta  ;  non  ti  mancherà  il  mezzo 
di  trovare  un   pretesto   per   quel  vecchio  asino. 

£l)e  —  Ugo  I  non  toglietemi  l'illusione  di  poter 
essere  amata  come  io  vorrei. 

Cgo  —  No  mai,  mai  !   Il  tuo  cuore  non  è  stalo 


43 
sordo  all'esplosione  del  mio  affetto  e  lu  invano 
ti  opponi   all'impulso   del  tuo  cuore.  Ah!   io    ti 
amo! 

Ebe  —  No,  Ugo,  no  ;  non  mi  toccate. 

Ugo  —    Baciami  !  baciami  ! 

Ebe  —  {dhnncolandosi  corre  al  finestrino)  Non 
vi  avvicinate...  se...  no...  (passa  un  lungo  inler- 
l'alio.  Di  poi  si  trovano  seduti  entrambi  ai  lati 
opposti  del  compartimento).  E  cosi  ?  che  fate  lii 
giù  ?  Non  vi  ho  detto  di  ricantucciarvi  là.  Perchè 
quel  broncio  ? 

Ugo  —  Non  c'è  più  che  un  quarto  d'or.-i.  Pro- 
mettetemi almeno  che  re.sterete  con  me  fino  a  sera. 

Ebe  —  Perchè  volete  pensare  a  questa  sera  ? 
Pensate  ad  ora.  Non  avete  fatto  nulla  |)er  entrare 
nel  mio  cuore. 

Ugo  —  Che  cosa  vuoi  che  faccia  qui  ?  Resta  ! 

Ebe  —  Per  farmi  perdere  il  treno  ? 

Ugo  —  Non  ho  io  già  perduto  la  testa  ? 

Ebe  —  Pur  troppo  !  ed  inutilmente.  Non  vi  ri- 
mane più  il   tempo  di  trovarla...  bambinone  ! 

L  go  —  Perchè  ? 

Ebe  —  Perchè  a  parte  i  vostri  entusiasmi,  siete 
il  miglior  compagno  di  viaggio  che  m'abbia  mai 
trovato. 

Ugo  —  E  per  l'efietto  dell'acqua  gelata  che  hai 
gettato  sul  mio  fuoco. 

Ebe  —  Non  è  stata  poi  tanta  I  Poteva  evapo- 
rare se  il  fuoco  non  fosse  stato  forte. 

Ugo  —  Tu  ti  fai  gioco  di  me. 

Ebe  —  No,  vi  prometto  di  far  colazione  ■  un  mh. 

Ugo  —  Da  soli  ? 

Eòe  —  Da  soli. 

Ugo  —  In  un  salottino  ? 

EJ>e  —  Riservato. 

Ugo  —  Oh  !  grazie  !  Potrò  dunque  dimostrarti 
il  mio  valore  sul  terreno. 

Ebe  —  Però  lasciatemi  dir\i  che  un  ufliciale  <Ii 
cavalleria  deve  sapere  combattere  in  lutti  i  ter- 
reni. 

Ugo  —  Sì  ;  ma  occorre  il  tempo.  Da  questo 
lato  sono  un  Cwutalor. 

Ebe  —  Dite  pure  un...  Kabio. 

IJgo  —  Non  mi  m.incherà  per  questo  la  tua 
stima.  Oh  !  la  rivendicherò. 

£l,e  _  Non  ne  avete  bisogno.  Rispetto  le  opi- 
nioni, ma  vi  ricordo  il  proverbio  :  *  Chi  ha  tempo 
non  aspetti  tempo  »  i.ti  ode  il  nschùi  dstJj  T^po- 
riera). 

Ebe  —  Di  già  arrivati  ?  Dio  mio?...  Ugo, quale 
ansia  ! 

i'go  —  Jole!  un  bacio  almeno. 

^  —  No,  Ugo. 

Ugo  —  Potrebbe  essere  l'unico. 

Eòe  —  Ah  !  è  vero  I...  povero  amico...  ma  spe- 
riamo di  no. 

Ugo  —  (mentre  H  treni)  va  n/Um/jm/o  prcf 
le  faligie  di  '  •    •   '-■  *•  ''■•■!■■  >"••  ii<^->>n.i  ' 


44 


Ebe  —  {salutando  qualcuno  al  di  fuori i  Non 
vedo  alcuno. 

Ugo  —  Dunque,  presto,  scendiamo. 

Ebe  —  Presto  ?  adesso  ?  adagio  anzi  ;  bisogna 
guardare  bene.  Volete  prendermi  quella  valigia  ? 

Ugo  —  Volentieri,  certamente.  (//  treno  si  è 
arrestato.  Un  vigile  apre  lo  sportello  d'innanzi 
al  quale  si  presenta  un  Colonnello  di  stato  mag- 
giore). 

Colonnello  —  Ben  tornata,  Ebe  ;  hai  fatto  buon 
viaggio  {abbracciandola.) 


Ebe  —  (sorridente)  Un  ottimo  viaggio,  amico 
mio  :    e    lo    devo  al  tenente   di    Valbianca    che 

ti    presento Mio  marito    il  colonnello    d'  Es- 

chieto. 

Colonnello  —  Fortunato  di  conoscerlo  e  di  rin- 
graziarlo. 

Ebe  —  Ringrazialo  di  cuore,  perchè  mi  ha  te- 
nuta allegra  per  tre  ore  ;  ed  io  ho  avuto  la  crudeltà 
d'invitarlo  a  colazione. 

Ugo  —  {con  le  valigie  in  mano)  !  ?  ! 


VICEVERSA 


Bozzetto  allegro). 


—  In  vettura  chi  parte  ! 

—  Comincia  un  quarto  d'ora  prima  quell'ani- 
male! —  pensali  tenente  Bonetto.  Ed  intanto  pas- 
seggia pensando  malinconicamente  ai  sette  giorni 
di  permesso  domandati  per  mandare  a  compi- 
mento un'avventura,  e  compiuti  col  mandarla  a 
vuoto. 

La  stazione  è  quasi  deserta;  e  Bonetto  continua 
a  passeggiare  pensando  amaramente  alla  caducità 
feroce  delle  umane  illusioni  ! 

—  In  vettura  chi  parte  —  insiste  da  lontano 
il  vigile. 

L'entrata  di  una  signora  elegantissima  distoglie 
il  tenente  dalle  tristi  meditazioni:  —  Come!... 
Nora?  qui?...  è  proprio  lei...  ah!  no;  ma  si... 
certo;  —  e  affretta  verso  lei  per  salutarla. 

Ella  con  una  rapida  occhiata  dalla  testa  ai  piedi 
lo  ferma,  cagionandogli  l'impressione  di  una  porta 
sbattuta  sul  volto. 

Bonetto  con  passo  sicuro  devia  lentamente, 
china  il  capo,  si  guarda  il  povero  abito  civile  (il 
perfetto  figurino  di  Londra,  sei  anni  innanzi),  e 
dice  tristamente  a  sé  stesso  :  —  Non  deve  essere 
sola  ;  peccato  ! 

Poi  pensa  :  —  Peccato  !  perchè  ?  Ella  viaggerà 
in  prima  classe  ;  il  treno  è  diretto  ;  il  biglietto  di 
prima  classe  da  qui  a  Roma  costa  ventisei  lire... 
fossi  matto  !  E  poi  non  sarà  sola  certamente. 

—  Ventisei  lire  per  quattro  chiacchiere!...  e 
poi,  è  inutile  pensarci.  Non  le  ho  ! 

—  'In  vettura  chi  parte  ! 

Il  convoglio  è  pronto  :  la  vaporiera  sbuffa  fre- 
mendo :  due  o  tre  viaggiatori  rurali  sono  di  già 
saliti  :  un  fattorino  erltra  con  due  valigie  e  le  ri- 
pone in  un  compartimento  di  prima  classe:  indi 
si  presenta  alla  signora,  dalla  quale   riceve  una 


mancia,   che   a   giudicarla   dalle   riverenze   deve 
averlo  sbalordito. 

Il  colpo  dello  sportello  al  chiudersi,  dopoché 
la  signora  è  salita,  si  ripete  con  triste  eco  di  do- 
lore nell'anima  di  Bonetto. 

—  Il  signore  parte? 

—  Si. 

—  Favorisca  il  biglietto. 

Bonetto  estraendo  la  tes.scra  dal  libretto  ferro- 
viario, intravede  un  biglietto  da  cinque  lire;  l'ul- 
timo avanzo  della  disgraziata  gita.  Una  vicenda 
rapida  di  speranza  e  di  rimpianto  gli  attraversa 
il  cranio.  Il  capo  stazione  è  là  in  fondo  e  parla 
col  macchinista.  Aflìsrra  il  biglietto  lo  stringe  con 
mossa  da  giocoliere  e  dice  al  conduttore  con  ària 
energica  ed  intelligente  :  —  Si  potrebbe  montare 
in  prima  classe? 


—  Temo  di  non  fare  in  tempo  a  staccare  un 
altro  scontrino...  e  di  non  avere  moneta  spicciola. 

Il  vigile  ha  percorso  in  un  attimo  con  un'oc- 
chiata tutto  l'orizzonte  ferroviario;  afferra  la  pal- 
lottolina di  carta  : 

—  Si  accomodi  —  e  corre  ad  aprire  lo  spor- 
tello dove  è  entrata  Nora. 

—  Pronti? 

—  Pronti  !  partenza  ? 

L'ansia  del  conduttore,  la  sorpresa  di  Nora,  la 
gioia  di  Bonetto  sono  assorbite  dal  fischio,  dagli 
aneliti,  dagli  sbattimenti  del  convoglio  movente. 


Bonetto  sprofondato  nella  mollezza  del  divano 
di  velluto  rosso,  e  nella  lettura  di  un  giornale 
già  letto,  ostenta  un'attenzione  profonda,  mentre 


Iiensa:  —  Per  quale  ragione,  essendo  sola  non 
ha  voluto  riconoscermi?  Per  l'onesta  umiltà  del 
mio  vestito?  Non  l'ammetto.  Nella  stascion'e  non 
c'era  nessuno  per  cui  il  salutarmi  dovesse  parerle 
umiliante.  Non  le  dirò  nulla...  se  non  si  scuserà. 

Nora  —  {tosse). 

Bonetto  —  {con  gioia,  fra  sé)  Ah  I  Ah  !  siamo 
già  alla  tosse!  occorre  qualche  cosa  di  i)iù  ptr 
farsi  perdonare  !  (la  guarda  rapidamente  e  la 
trova  rivolta  al  finestrino)  Vi  punirò  con  la  stessa 
noncuranza  (e  continua  la  lettura). 

Passano  parecchi  minuti.  Egli  ode  la  compagna 
di  viaggio  tossire  altre  volte,  mentre  il  divano 
gli  trasìnette  fedelmente  gualche  movimento  ner- 
voso di  lei  che.  tradisce  o  la  noia  o  il  dispetto. 
Sente  già  la  stanchezza  di  quella  lettura  vana  e 
vorrebbe  parlare,  ma  il  ricordo  dell'affronto  su- 
bito, di  quel  disprezzo  che  io' aveva  frustato  in 
pieno  volto,  e  la  visione  di  quel  povero  vestito  in- 
sultato neir onorala  vecchiezza,  ed  implorante  ven- 
detta e  riposo,  lo  tengono  ancora  mulo.  Chiude  il 
giornale  e  lancia  un' occhiata  a  lei. 

Lei  —  {sbadiglia). 

Lui  —  (fra  sé)  Dunque  si  annoia;  {la  gioia  lo 
invita  a  prolungare  la  vendetta)  No;  non"le  dirò 
nulla;  non  la  saluterò  mai  più;  nemmeno  quando 
sarò  in  uniforme  {chiude  il  giornale  e  lo  pone  in 
tasca). 

Lki  —  {Lo  guarda  a  traverso  la  lorgnette). 

Lui  —  {resiste  e  volge  lo  sguardo  con  garbata 
noncuranza  :  però  estrae  un  altro  giornale  e  si 
pone  ancora  a  leggere). 

Lei  —  {si  alza  disturbata  dal  sole  che  le  incendia 
i  bei  capelli  dorati,  e  tenta  abbassare  le  tendine: 
ma  o  non  riesce  o  finge  non  riuscire). 

Lui  —  {fi"ge  non  vedere). 

Lei  —  {cambia  posto  e  si  getta  irritata  sul- 
l'altro divano.  Pare  che  il  sole  alleato  a  lui  l'in- 
segna per  tormentarla  ;  è  costretta  a  spostarsi 
alquanto  verso  di  lui). 

Lui  —  {gode  profondamente  :  ed  intanto  senza 
nascondere  la  sua  allegrezza  estrae  una  sigaretta 
e  la  pone  alla  bocca). 

Lei  —  {pensa):  Appena  l'avrà  accesa  gli  dirò 
che  il  fumo  mi  fa  male. 

Lli   —  {legge,  ma  non  l'accende). 

Lei  — {passano  altri  minuti,  lo  guarda  e pensav. 
E  dire  che  quando  è  in  uniforme  ha  dello  spi- 
rito !  L'abito  non  fa  il  monaco,  ma  fa  l'imbecille! 

Pare  che  l'idea  si  comunichi  a  lui,  perché  i'i 
quel  momento  Bonetto  scorge  che  l'abito  riflette 
al  ginocchio  per  l'uso,  qualche  raggio  luminoso, 
e  lo  costringe  a  cambiare  la  posizione  delle  gainhc. 

Lei  —  {sente  il  dispetto  di  quell'  indifferenza 
convertirsi  in  un  acuto  prurito  all'estremità  delle 
dita,  in  un  ardente  bisogno  di  graffiare  qualche 
cosa  e  rompe  il  silenzio):  Se  vuole  fumare,  fumi 
pure,  non  mi  dà  fastitTio. 


Lui  -  Grazie,  signora,  {inchina  prof ondanumte 
e  si  rimette  a  leggere). 

I-Ei  —  (fra  sé)  Finge  di  non  riconoscermi.  K' 
uno  stupido  permaloso.  Che  non  abbi.!  fiamini- 
feri  ?  Sarebbe  carina  I  (  Trae  da  una  valigetta  uu 
elegantissimo  porta-sigarette  d'oro  unito  con  ca 
tenella  ad  una  scatoletta  dello  ile s so  metallo.  JCstrar 
una  grossa  sigaretta  e  l'accende. 

Lui  —  {sorride  al  u  per  finire  •  del  giornale 
che  ha  letto  già  ben  tre  volte), 

Lei  —  {fra  sé)  .Morirai  dalla  voglia  di  fumare 
se  aspetterai  che  io  ti  offra  il  fuoco. 

Lti  —  {getta  la  sigaretta  dal  finestrino). 

Lei  —  (fuma  con  grande  lena  ;  ma  ad  un  tratto 
la  tosse  fTissale.  I  belli  occhi  si  velano  di  lagrime. 
La  pe:zuolina  di  trine  si  stringe  nulla  bocca,  lilla 
si  agita  per  discacciare  il  fumo  che  offende  il 
volto  ;  qualche  favilla  cade  accesa  sulf  abito.  f-T 
un  disastro  !  Indispettita  getta  la  sigaretta  dal 
finestrino). 

Li'i  —  {non  s'è  mosso,  avendola  pur  guardata 
sempre). 

Lei  —  {fra  sé)  Neanche  una.parola  quell'asino! 
Dio  mio  !  che  pena  ? 

Lui  —  (torna  alla  lettura). 

Lei  —  {precipitandosi  sul  giornale  lo  strappa 
di  mano  a  lui)  Non  sentite  che  ho  la  tosse  ! 

Lui  —  {senza  scomporsi')  Senio,  signora,  ma 
non  credevo  che  la  mìa  lettura  irritasse  la  vostra 
gola. 

Lei  —  La  lettura  irrita  i  miei  nervi.  È  stato 
il  fumo. 

Lui  —  ...  che  per  fortuna  non  era  il  mio. 

Lei  —  Sarebbe  stato  minor  male  se  vostro. 

Lui  —  Forse  non  vi  avrebbe  provocato  ìa 
tosse. 

Lei  —  Le  vostre  sigarette  hanno  il  fumo  che 
non  irrita?  Sono  migliori  delle  wiiie   Tokos  f  Al 

lora  perchè  non  me  ne  avete  offèrto almeno 

per  sdebitarvi  della  cortesia  che  io,  per   prima. 
vi  ho  usato  ? 

Lui  —  Che"  avete  creduto  usarmi.  Io  godo  te- 
nere la  sigaretta  alla  bocca  ;  accesa  o  non,  mi  fa 
lo  stesso.. 

Lei  —  E  la  gettate  quando  la  ritenete...  fumat.>  ' 

\x\  —  No;  quando  mi  annoia. 

Lei  —    È  originale fumate  come \i.>K- 

giate. 

Lui  —  No,  no.  Tutt'altro.  Vwmo  mkrognilos, 
ma  viaggio  in  pTinia  classe. 

liEi  —  Io  sono  sopratutto  gentile.  Non  Volovo 
alludere  a  ciò.  Intendevo  dire  che  come  trattate 
la  sigaretta,  trattate  le  signore. 

Lui  —  Ah  !...  non  le  accendo! 

Lei  —  Le  si>egnete  !  Ma  via,  scuotetevi  su.  .u 
oendetemi,  fumatemi  1 

Lui  —  {Calmo\  Non  ho  fiammiferi. 

Lei    —  V.  allora  perchè  siete  montalo  qui  ?  Non 


46 


mi  pare  cortese  lasciare  che  una  signora  si  annoi, 
specialmente... 

Lui  —  {iìtterrompendold)  .Specialmente  pe,r  me 
che  non  ho  l'onore...  di  esserle  conosciuto. 

Lei  —  {pronta)  In  viaggio  non  c'è  bisogno  di 
presentazione.  È  l'uso. 

Lui  —  L'uso  non  è  buona  legge  quando  non 
si  sa  se  si  abbia  a  rispettare  un  incognito. 

Lei  —  Una  parola  non  disturba  nulla  ;  e  lascia 
sempre  alla  signora  il  modo  di  far  comprendere 
ciò  che  desidera. 

Lui  —  Amo  non  mettermi  in  circostanze  im- 
barazzanti. 

Lei  —  Questo  vuol  dire  che  un  piccolo  imba- 
razzo non  vale  il  piacere  di  conversare  con  me. 

Lfi  —  No,  no,  sono  più  gentile  di  quanto  mi 
crediate. 

Lei  —  Gentile  lo  so  da  tempo.  Ma  divenite 
superbo  quando  indossate  l'abito  civile. 

Lui  -  (punto,  fra  se)  Non  mi  perdona  questo 
abito  !  (a  &/)  Non  mi  conoscete  !  Sarei  assai  pic- 
colo se  un  vestito,  che  uso  appena  viaggiando, 
mi  rendesse  differente  da  quando  indosso  pec 
esempio  la  marsina  {fra  sé),  Dio  dei  Marsi,  per- 
donami la  sfrontata  menzogna  ! 

Lei  —  Alludevo  all'uniforme,  la  quale  vi  dà 
un  aspetto  superbo. 

Lui  —  Ah!  l'v^niforme?... 

Lei  —  Si,  perchè  debbo  ammettere  che  il  co- 
raggio di  guardarmi  con  tanta  insistenza  alla 
passeggiata,  e  di  farvi  presentare  a  me  quella 
sera  al  Colonna,  e  di...  salutarmi  dì  poi  sempre... 
sorridendo  sorrisetti...  intelligenti, se  non  maligni, 
e  di...  perchè  non  dirlo?...  di  tentare  !a  corte: 
il  coraggio,  dicevo,  vi  venga  dall'uniforme. 

Lui  —  No,  signora;  v'ingannate.  Gli  è  che  le 
signore  accettano  più  volentieri,  credo,  il  saluto 
di  una  mano  ad  un  berretto  risplendente  d'oro, 
che  quello  della  stessa  mano  ad  un  cappello,  anche 
se  di  fabbrica  inglese  —  {/ra  sé)  Cappellerie  d'In- 
ghilterra non  arrossite  !  {Guarda  il  cappello  sulla 
reticella  e  vede  la  targa  dell'  Unione  militare,  ma 
si  rasserena  pensando  che  ella  non  riescirà  a  de- 
cifrarla). Quando  mi  feci  presentare  a  voi  com- 
misi un  errore.  Voi  siete  troppo  in  alto  per  me, 
o  troppo  in  basso  sono  io  da  voi.  Questo  pen- 
saste voi  ;  lo  lessi  nel  sorriso  che  mi  rivolgeste, 
e  non  vi  avvicinai  più.  Ritenni  quella  presenta- 
zione come  un  omaggio  reso  alla  vostra  bellezza 
ed  alla. mia  uniforme;  e  non  ci  pensai  più. 

Lei  —  Neppure  quando  mi  guardavate  al  corso  ? 

Lui  —  Allora  vi  guardava  come  il  poeta  guarda 
la  bellezza  e  la  grazia  allorché  gli  passano  d'in- 
nanzi. Il  corso?  Non  andate  voi  là  per  farvi  guar- 
dare ?  E  non  andiamo  noi  per  raccogliervi,  con 
poca  spesa,  soddisfazione  e  vanità  ?  L'una  e  l'altra 
con  quella  briciola  di  cortese  amabilità  con  la 
quale  rispondete  al  nostro   saluto  ?  Del  quale  <y 


siete  grate  solamente  al  corso.  Fuori  da  quella 
passeggiata  non  vi  importa  più  nulla  di  noi,  ed 
è  naturale;  ma  è  naturale  anche  che  noi  ci  difen- 
diamo dalla  pietà  che  sentite  per  noi  e  che  non 
ci  nascondete. 

Lei  —  E  perchè  dovremmo  sentire  pietà  di  chi 
ci  è  cortese  di  un  saluto  che  altri  ci  nega  ? 

"Lui  —  E  perchè  il  cuore  vostro  è  fatto  cosi  :  Voi 
non  potete  ripromettervi  nulla  da  noi,  altro  che 
un  omaggio  che  vi  è  gradito  perchè  consacra  in 
pubblico  la  vostra  vanità.  Ma  vi  rammenta  anche 
una  grave  umiliazione.  Coloro  che  più  doverosa- 
mente dovrebbero  rendervi  questo  omaggio  ve  lo 
negano,  ricordandovi  che  se  non  coltivano  il  vostro 
orgoglio,  coltivano  il  vostro  facile  lusso!.... 

Lei  —  Che  cosa  dite  mai  ? 

Lui  —  ...  lusso,  che  per  noi  socialisti  dell'amore 
è  semplicemente  insultante! 

Lei  —  (spaventata  comicamente)  Questa  frase 
è  anarchica,  e  non  mi  avete  davvero  l'aria  incen- 
diaria !  Meglio  così  se  sono  aristocratica. 

Lui  —  Quindi  non  c'intenderemo  mai  I 

Lei  —  Perchè  !  anzi  dovremmo  intenderci.  Di- 
cono che  gli  estremi  si  toccano...  ma  voi  volete 
smentire  anche  il  proverbio.  Debbo  riconoscere 
che  non  mi  avete  toccato  neppure  la  punta  di  un 
dito. 

Lui  —  Né  vela  toccherò  mai  !  L'amore,  come 
voi  l'intendete  e  professate,  è  privilegio  di  una 
classe:  l'amore  come  io  l'intendo  è  un  aposto- 
lato. Perchè  sono  montato  in  prima  classe  io  oggi  ? 

Lei  —  Per  la  briciola  ? 

Lui  —  No. 

Lei  —  Per  la  propaganda  dell'apostolato  ? 

Lui  —  Forse.  Certo  per  dimostrarvi  che  se  il 
vostro  vestito  non  fosse  inglese  puro,  e  i  vostri 
orecchini  non  fossero  purissimi  brillanti,  e  i  vostri 
guanti  non  arrivassero  al  cubito,  e  il  piedino  che 
ijji  mostrate  da  mezz'ora  non  fosse  racchiuso  in 
quella  calza  dì  seta,  ed  in  quello  stivalino  di  bul- 
garo voi  non  sareste  una  prima  classe,  ma  una 
seconda,  ed  io  non  vi  avrei  mai  neppure  osservata, 
perchè  ognuno  potrebbe  montarvi  per  viaggiare... 
male.  Dunque  vedete  bene  che  in  amore,  a  p.-^rte 
la  differenza  della  stoffa  che  copre  il  divano,  la 
classe  dovrebbe  essere,  come  è  unica. 

Lei  —  Già,  come  un  treno  di  piacere. 

Lui  —  E  l'amore  non  è  un  treno  di  piacere? 
Nessuno  commetterebbe  per  la  moglie  le  corbel- 
lerie che  si  commettono  per  un'  amante,  come 
nessuno  affronterebbe  in  un  treno  ordinario  cosi 
stoicamente  il  disagio  che  si  soffre  sotto  la  qua- 
lificazione di  treno  ^i  piacere. 

Lei  —  Hanno  però  il  vantaggio  dei  ribassi. 

Lui  —  L'ultima  cosa  a  cui  si  bada. 

Lei  —  Dalle  vostre  pretese  di  modestia  non 
si  direbbe. 

Lui  —  Le  mie  parole  non  vogliono  esprimere 


che  la  ribellione.  So  anch'io  del  resto  {si guarda 
il  brillante  al  dito  con  ai-ia  distratta\  sacrilicare 
qualche  biglietto  di  banca  ad  un  capriccio. 

Lei —  {avvertendo   la  distrazione) ma  voi 

nelle  dita  preferite  la  prima  classe? 

Lui  —  Questo  brillante  ? 

Lei  —  Certamente,  il  quale  è  molto  bello. 

Lui  —  Peuh  !  un  regalo. 

Lei  —  Se  non  regale,  principesco. 

Lui  —  E'  infatti  il  ricordo  di  una  principessa 
russa. 

Lei  —  Della  quale  voi  foste  un  capriccio  ? 

Lui  —  Un  capriccio  ?!  Eravamo  ben  più  in  alto 
dalla  volgarità  di  un  capriccio!  Figuratevi,  una 
esiliata  per  nichilismo. 

Lei  —  E...  principessa? 

Lui  —  Principessa. 

Lei  —  Nichil... 

Lui  —  ...ista. 

Lei  —  Di  molto  tempo? 

Lui  —  Quattro  o  cinque  anni  al  più. 

Lei  —  E'  interessantissimo;  raccontate. 

Lui  —  [fra  sé  :  Coraggio!  i  Una  donna  in  tutta 
l'estensione  dell'idea.  Bellezza,  grazia,  forza!  Mi 
amò  perchè  intravide,  o  credette  intravedere  in 
me  l'uomo  che  avrebbe  portato  sul  freddo  cospi- 
rare del  suo  sangue,  della  sua  vita,  tutto  il  sole 
di  un'anim.T  meridionale! 

Lei  —  Siete  napoletano  ? 

Lui  —  No,  siciliano. 

Lei  —  Raccontate,  raccontate  ! 

Lui  —  Eh!  mi  comprenderete  ?  Mi  amò  fino  al 
delirio,  fino  alla  ferocia  !  Il  nostro  amore  attra- 
versava contingenze  dolorose,  vicende  strane! 
Nelle  nostre  anime  passavano  talvolta  le  gelide 
ventate  delle  sue  steppe,  di  quelle  steppe  ove  ella 
possiede  migliaia  e  migliaia  di  verste  in  quel 
tempo  confiscate,  o  tal'altra  le  fiamme  ardenti  del 
mio  Etna  !  Nei  nostri  abbracciamenti,  nei  nostri 
deliri  balenava  talvolta  il  sinistro  bagliore  di  un 
pugnale,  o  l'occhio  truce  di  un  poliziotto  russo. 
Negli  abbattimenti  del  sonno  ove  cadevano  lan- 
guenti le  nostre  teste,  un  piccolo  rumore  ci  terro- 
rizzava. Una  zanzara  talvolta  ha  preso  l'aspetto 
di  una  spia  russa. 

Lei  —  [commossa  sinceramente)  Ah  !  è  bello,  è 
grande  ! 

Lui  —  {fra  sé:  Forza!)  Due  anni  di  spaventi 
e  d'incanti;  di  gioie  e  di  terrori.  Due  anime 
che  se  non,  fossero  state  le  nostre,  avrebbero  da 
quelle  altezze  ove  l' amore  ci  traeva,  cercato 
un  solo  rifugio  :  Slanciarsi  così  abbracciate  nella 
morte. 

Lei  —  E  invece  ? 

Lui  —  Ed  invece  la  vicenda  politica  mutevole 
come  il  cuore  della  donna,  restituì  a  lei  beni, 
nome  ed...  anche  il  marito. 

Lei  —  {vivissima)  E  voi  ? 


47 

I.ui  —  ...ed  io  penso  a  lei,  guardando  triste- 
mente all'arido  deserto  che  mi  circonda. 

Lei  —  {esaltala)  Ah  !  deve  essere  bello  sentirsi 
amare  così  ! 

Lui  —  ...da  chi  sa  amare  cosi. 

Lei  —  ...  ah!  vorrei  anch'io  e.ssere  amala  ni- 
chilisticamente. 

Lui  —  Con  l'esercizio  potremmo  anche  arri- 
varci. 

Lei  —  (raffreddandosi)  Eh  no,  purtropjK)  !  Il 
nichilismo  è  finito  !  Voi  non  siete  che  un  anar- 
chico, e  l'anarchia  manca  di  fascino!  Non  ha  la 
poesia  della  persecuzione,  del  martirio  !  Il  domi- 
cilio coattosurrogato  all'esilio,  alla  confisca,  puah! 
.Ma  la  Siberia  !  (esaltandosi.  Ah  !  la  immensa,  la 
gelida,  la  tenebrosa  Siberia!  dov'è? 

Lui  —  Se  voleste  fare  con  me  là  un  viaggetto 
di  piacere,  vi  accompagnerei  volentieri. 

Lei  —  Tornerei  nichilista,  lo  sento! 

Lui  —  E  perchè  non  vorreste  meco  tentare 
sino  da  ora  un  corso  di  dilettante  nichilista. 

Lei  —  Odio  le  teorie,  \e  parole,  amo..-,  la 

Lui  —  Niente  niente  teoria,  tutta  pratica. 

Lei  —  (tornando  in  terra)  Ah  !  sempre  la  vol- 
gare realità!  Potevate  lasciarmi  nel  sogno. 

Lui  —  {avvicinandosi ,  le  prende  una  mano  e 
l'accarezza)  Continuate  a  sognare. 

Lei  —  No,  no  {rilira  la  mano)  Io  amo  sola- 
mente colui  che  sa  gettare  per  un  mio  capriccio 
un  biglietto  da  hiille,  con  la  stessa  facilità  con  la 
quale  voi  gettate  dal  finestrino  una  sigaretta  non 
anche  accesa. 

Lui  —  E  chi  vi  ha  detto  che  io  non  la  sappia 
accendere  con  un  biglietto  da  mille  ? 

Lei  —  {con  aria  poco  situerà)  Non  ne  dubito,  • 
e  tanto  meno  sapendo  che  non  avete  fiammiferi, 
ma  altra  cosa  è  accendere  una  donna. 

Lui  —  Voi  avete  confessato  che  posso  accen- 
der\'i  con  lo  stesso  biglietto  vile.  Ed  io  non  voglio 
invece  farvi  quest'offesa.  Ah  !  accendervi  come 
una  sigaretta  !  mi  parrebbe  di  spegners-i. 

Lei  —  No,  voi  siete*  montato  qui  per  conqui- 
starmi dicendomi  spiritose  scortesie.  E  bene  og^i 
sistema  è  buono...  quando  riesce.  Io  sono  gene- 
rosa e  vi  confesso  che  siete  riuscito  '  ìtii.t,  <. 
sarmi. 

Lui  —  Col  biglietto  da  mille  ! 

Lei  —  Con  la  facilità  con  la  quale  lo  gettate. 

Lui  —  {plinto^  Dopo  avere  esaurito  i  mille  la- 
sciatemi da  papà,  ora  attacco  adagio  adagio  quelli 
di  mammà. 

Lei  —  E  dopo? 

Lui  —  AV  aprés...  le  deluge. 

Lei  —  E  bene,  vedete,  quando  si  tnitta  di  sim- 
patia, perchè,  a  parte  U  nuovo  milione  che  state 
per  cominciare,  voi  mi  siete  sempre  stato  sim- 
patico... no,  non  vi  movete  cosi  presto... 

Lui  —  Via,  Nora,  sentite,  lasciamo  questo  voi- 


gare  argomento  del  denaro.  Io  accarezzo  questo 
soglio  da  1111  anno!  Ora  l'irresistibilità  s'impone 
ed  io  l'affronto!  Voi  lo  sapete  che  da  un  anno 
vi  adoro  ! 

Lei  —  ?  ! 

Lui    —  Non  mi  dite  una  parola  ? 

Lei  — Io  adoro  (jual  brillante...  nichilista  ri- 
dendo). 

Lri  — Ah  !  siete  di  una  brutalità  meravigliosa! 
Ma  del  brillante  non  ne  parliamo^  E'  il  raggio 
di  un  ricordo  che  vale  più  della  mia  vita...  do- 
mandatemi tutto!  un  cavallo  piuttosto  !  '  fya  sé: 
Sant'Antonio,  perdonami,  e  fa  che  quel  povero 
brocco  guarisca  dalla  cronica  zoppial) 

Lei  —  Avete  bei  cavalli  ? 

Li;i  —  Sì,  non  c'è  male  (fra  sé:  Forza  !  per 
l'ultimo  colpo).  Ho  uno  splendido  hunler,  che 
serbo  esclusivamente  per  le  caccie  alla  volpe:  ho 
Black,  che  tengo  solo  per  le  corse  ;  ho  il  poney 
che  attacco,  ed  ho  un  brutto  ma  robusto  cavallo 
d'un  migliaio  di  lire  per  il  servizio  (fra  sé:  Amici 
perdonatemi  se  in  questo  supremo  cimento  mi 
approprio  i  vostri  cavalli!) 

Lei  —  Sapete  che  da  un  mese  ho  una  passione 
sfrenata  per  i  cavalli;  da  una  settimana  prendo 
lezioni  di  equitazione. 

Lui  —  Sono  felice  di  offrirvi  il  mio  hunler  per 
la  passeggiata,  o  se  volete  per  la  caccia. 

Lei  —  Davvero  ? 

Lfi  —  Ve  lo  prometto.  I3a  questo  momento 
è  a  vostra  disposizione,  [fra  sé  :  Cuore,  non  tre- 
mare;. 

Lei  —  Siete  molto  gentile,  ve  ne  ringrazio. 

Li'i  —  Dunque?... 

Lei  —  Dunque? 

Lui  —  A  quando?... 

Lei  —  Che  cosa  ? 

Lui   —  La...  stipulazione. 

Lei  —  ...  della  conquista? 

Lui  —  Questa  sera  ? 

Lei  —  No,  domani.  Questa  sera  m'è  impos- 
sibile. • 

Lui  —  Allora  a  domani.  Grazie  ile  bacia  la 
mano). 

Lei  —  Aspettatemi  all'  una  al  Colonna:  Verrò 
a  colazione. 

Lui  —  {/renando  un'  acuta  puntura  All'  una 
sarò  al  Colonna,  non  dubito  della  vostra  parola. 

Lei  —  Non  ve  lo  prometterei. ..ma  ad  un  patto... 

Lui  —  Quale  ? 

Lei  —  A  Monterotondo  cambierete  comparti- 
mento. Mi  lascierete  sola.  Non  devo  destare  so- 
spetti. 

Lui  —  Tutto  quello  che  vorrete.  .\ndrò  a  so- 
gnare in  seconda  {il treno  rallenta:  Monterotondo! 
Monterotondo!) 

Lui   —  [alzandosi]  A  domani. 

Lei —  (sincera)  All'una...  conquistatore! 


Lui  —  ...  seduttrice... 

—  Monterotondo  !   Il  signore  scende  ? 

Lui  —  Sì,  cambio  compartimento.  Il  fumo  in- 
fastidisce la  signora. 

(//  conduttore  gli  largisce  un  sorriso  intelli- 
gente]. 

Lui  —  Grazie. 

(//  conduttore  F  introduce  in  una  seconda  classe 
e  mette  P animo  iti  pace). 

—  Pronti? 

—  PartenzaT 


«  Otto  giorni  dopo  » 

Sabato,  i...   19... 

Sabato  scorso  in  casa  vostra  dicevate  che  avreste 
voluto  essere  un  re  delle  antiche  favole  per  farmi 
un  trono  dai  gradi  d'oro...  e  tar.te  cose  vera- 
mente belle,  veramente  ben  dette,  trovaste  in 
omaggio  se  non  alla  mia  bellezza,  alla  mia  va- 
nità. 

Vi  dissi  che  dovevo  recarmi  dalla  sarta,  e  che 
avendo  dimenticato  il  portabiglictti  m'era  neces- 
sario tornare  a  casa...  e  voi  gentilmente...  man- 
daste a  chiamare  una  vettura...  perchè  non  mi 
stancassi  a  piedi. 

Anche  dissi  che  avrei  profittato  della  vettura 
per  una  quantità  di  spesucce  che  avrei  fatto  vo- 
lentieri in  vostra  compagnia...  e  \t)i  mi  offriste 
un'altra  sigaretta  squisita,  ma  mi  diceste,  accom- 
pagnandomi che  il  giorno  dopo  vi  sareste  recato 
a  fare  una  visita  al  vostro  banchiere,  e  poi  sareste 
venuto...  dirò  così...  a  restituirla  a  me. 

Ora  io  tremo  pensando  che  do^u  la  visita  al 
banchiere,  abbiate  per  distrazione  acceso  col  bi- 
glietto da  mille  un'altra  di  quelle  squisite  sigarette. 

La  sarta  incalza  ripetendo  che  la  toiUtle  è 
pronta,  ma  non  la  consegnerà  se  io  non  le  man- 
derò almeno  trecento  lire,  che  voi  potrete  con- 
segnare al  latore  di  questa  lettera. 

Vi  dò  la  mano  da  baciare  ;  la  piccola  mano 
che  sabato,  solcandovi  i  capelli,  vi  cagionava 
vertigini. 

NoR.\. 

Sabato  a  sera. 
Bellissima  e  adorabile  Nora,' 

Vivevo  da  otto  giorni  nell'azzurro  continuando 
ed  eternando  con  la  fantasia  addormentata  in  un 
molle  languore,  quel  portentoso  sogno  di  tre  ore; 
dimentico,  ignaro,  inconsapevole  di  ciò  che  mi 
circondava. 

La  vostra  letterina  giunge  e  mi  desta,  e  mi 
richiama  alla  realtà. 


Ah  !  il  nauseante  denaro  !  Io  provo  in  questo 
momento,  insieme  con  voi,  il  disprezzo  più  pro- 
fondo su  quell'ignobile  sarta  che  vi  tormenta  per 
trecento  misere  lire! 

Scrivetele,  e  domandatele  come  mai  non  s'ac- 
corge che  ribassando  i  suoi  prezzi  ad  un  terzo 
essa  mette  in  liquidazione  il  suo  commercio. 


49 

E  punitela  non  ricorrendo  mai  più  a  leil... 

Ed  ora  prendo  la  manina  che  mi  porgete  ;  la 
porto  alle  labbra,  e  mi  addormento  nella  réverie, 
da  cui  la  vostra  lettera  m'ha  per  un  istante,  pur 
anche  dolce,  distolto! 

eternamente  deiolo 

BOXKTTO. 


ARNALDO  LAMBERTINI 


^^ 


XIII. 


UN  RAGAZZO  DEI  "MILLE 


iDal  racconto  d'una  Signora. 


Allora  andavamo  all'Ospedale  dei  SS.  Apo- 
stoli in  due  o  più  signore,  per  visitare  ed  assi- 
stere i  feriti  garibaldini. 

Oh!  v'assicuro  che  non  lo  facevamo  per  va- 
nità di  metterci  in  evidenza,  dopo  l'opprimente 
regime  familiare  de'  tempi  borbonici,  tutt'altro  ! 
ci  soffrivamo  assai  in  mezzo  a  quegli  agonizzanti, 
laceri  in  più  parti  del  corpo  ;  soffrivamo  tanto 
che,  tornate  a  casji,  addio  voglia  di  pranzare, 
addio  riposo,  addio  sonno!  Gli  è  che  noi  non 
avevamo  la  fibra  virile  delle  donne  lombarde  o 
piemontesi. 

« —  Bell'eroismo!  —  »  dicevamo  fra  noi,  sra- 
gionando —  «  quelle  si  lanciano  coraggiosamente 
nelle  corsie  degli  ospedali,  noi,  invece,  senza 
coraggio,  vi  andiamo  lo  stesso.  » 

Il  primo  ribrezzo  da  sormontare  ci  faceva  dire 
qualche  corbelleria:  le  nostre  sorelle  d'Alta  Italia 
potevano  far  meglio  e  più  di  noi.  perchè  con- 
servavano la  calma  là  ove  noi  tremavamo. 

Quando  la  prima  volta  mi  risolsi  d'andare  al- 
l'Ospedale, fui  spinta  a  farlo  da  una  vera 
loina,  Madama  O.  M.,  di  Francoforte  sul  Meno, 
che,  di  poi,  a  Napoli,  s'è  messa  sempre  davanti 
a  tutte  in  qualunque  pubblica  calamità. 

Veggo  ancora  quella  sua  bionda  figura  tedesca  : 
lunga,  ossuta,  andare  intrepida  per  le  corsìe,  se- 
guita da'  suoi  due  lacchè,  carichi  d'ogni  sorta 
di  roba,  d'ogni  specie  di  soccorsi. 

Campassi  cento  anni  ancora,  non  mi  potrebbe 
mai  uscir  di  memoria  il  primo  giorno  nel  quale 
entrai  nell'ospedale  de'   «  SS.  Apostoli  ». 

Era  il  principio  d'ottobre  dell'anno  iS6o,  qualche 
giorno  dopo  la  battaglia  del  N'olturno.  I  feriti 
venivano  a   carri  da  Maddaloni,  da  Capua.   La 


città  era  come  in  fermento,  ad  aspellar,  trepida, 
finché  le  prime  notizie  di  vittoria  non  arrivarono. 
Allora  scoppiò  dappertullo  il  più  frenetico  entu- 
siasmo. Ricordo,  come  in  sogno,  le  principali 
vie  gremite,  assordate  da  gente  enfatica,  ardent'  . 
commossa,  che  urlava,  che  abbracciava  le  prlnn 
camice  rosse  giungenti  dal  campo,  e  le  bandiere 
a  sventolar  gaie  dai  balconi,  dalle  finestre,  da 
ogni  buco.  In  via  Toledo,  era  uno  spettacolo 
che  non  si  vedrà  mai  più!...  In  quella  p.^zza 
agitazione,  i  canti  patriottici  parevan  la  sola  voce 
umana  che  erompesse  da  migliaia  e  migliaia  di 
petti;  un  sol  nome,  allora,  faceva  battere  ogni 
cuore,  inumidire  ogni  ciglio,  accendere  di  esal- 
tamento tutte  le  fantasie:  il  nome  del  «  Generale  ■  ' 

Quando  misi  il  piede  nella  prima  corsìa  di 
SS.  Apostoli,  un  senso  più  forte  della  paura, 
un'impressione  di  raccapriccio  sta>a  per  respin- 
germi fuori.  Lì  dentro,  era  un'inconcepìbile  con- 
fusione. .Attraverso  alla  semioscurità  che  veniva 
dai  finestroni,  rispondenti  nelle  sudice  viuzM 
del  basso  Napoli,  si  discerneva  il  rosso  delle  ca- 
mice che  giravano  fra  i  letti,  che  andavano  ptr 
ogni  dove;  ed  era  un  gran  vociare  stentoreo, 
che  accompagnava  l'incedere  pesante  di  quei  co- 
lossi sul  piancito  di  marmo  della  corsia. 

Poi,  mentre  la  mano  dell'amica  mi  manteneva 
ferma  sotto  l'uscio,  dovetti  distinguere  i  letti 
che  s'allineavano  lungo  le  pareti,  iK>p<^i"'  ■' > 
facce  che  parevan  fossero  allora  uscite  .! 
taglia,  emergenti  tragiche  sulla  bianch- 
guanciali.  Erano  occhi  lucenti  di  febbre,  erano 
ciere  esaltate  dalle  memorie  della  battaglia.  >.■ 
dai  patimenti  cW  eroicamente  sop|X)rtavano  : 
barbe    lunghissime,  bafii  folti,  ciglie  aggrottate. 


50 

contrastanti  con  la  lividezza  delle  guance  di 
quei  prodi,  che  comprimevano  i  dolori,  o  col 
tristo  color  cereo  degli  altri  a  cui  restava  poco 
da  vivere. 

—  Caraccio,  qui  è  il  posto  iella  lonna! 

Era  la  voce  di  Madama  O.  M.  ;  ed  io,  cercando 
di  guardare  il  meno  possibile  intorno,  posi  il 
mio  sotto  il  suo  braccio,  e  si  principiò  la  visita 
d'ogni  letto. 

Un    titano    barbuto,    ccn    la    fronte    fasciata, 
sclamò,  nel  vederci  : 
.     —  Gridate  prima  :   «  Viva  Garibaldi  »  ! 

—  Vifa  Caripalli!  —  strillò  la  voce  esile  del- 
l'amica. 

—  Ammazzatela!  è  una  tedesca!  —  urlò  quel- 
l'arrabbiato, figgendo,  come  due  carbonchi  rossi 
di  fuoco,  i  suoi  occhi  in  faccia  all'amica,  che  di- 
venne pallidissima;  eppure,  seppe  subito  rispon- 
dere serenamente,  mentre  da  tutti  i  letti  veni- 
vano sridà  minacciose  : 

. —  Sì,  amico  ìiiio,  una  tetesca,  che  at(f)a  il 
/ostro  Cenrale  1  che  fi  /noi  pene,  e  che  fieiie  a 
soccorrerfi  ! 

—  Niente  da  lei  !  —  insistè  l'altro,  voltandole 
le  spalle. 

—  Allora  lalla  mia  antica,  che  è  napoletana. 
Incominciai  a  tremare,  ma  colui,  rivolgendosi, 

mi  guardò  urlando  : 

—  Si,  si,  da  quella  si!...  Viva  Napoli! 
E  tutti  in  coro  : 

—  Viva  Napoli  ! 

—  Viva  Garibaldi  !  gridai  io  stessa,  senza  po- 
termi spiegare  Oi'e  la  sùbita  esaltazione  me  ne 
avesse  fatto  trovare  il  coraggio. 

iMa,  presto,  tutti  superarono  la  repulsione  per 
la  Tedesca,  che  divenne  il  buon  genio  dell'Ospe- 
dale. 


Il  giorno  appresso,  entrai  in  S.S.  Apostoli  con 
minor  ribrezzo,  pareva  che  tutte  quelle  figure 
di  gigante.schi  combattenti  mi  avessero  rifatto 
l'animo. 

Giungevano  gli  ultimi  feriti,  i  più  gravi. 

—  Dobbiamo  assisterli  tutti  insieme,  ma  poi 
dovremo  sceglierne  uno  più  bisognoso  di  cure, 
e  menarcelo  a  casa  —  diceva  Madama  O.  M., 
e  già  designava  al  capo  dei  chirurgi  l'erculea  fi- 
gura d'un  veneziano,  che  fu  disceso  nella  carrozza, 
e  portato  a  casa  M. 

-^Anch'io  dovevo  sceglierne  uno;  né  mi  sapevo 
ancora  risolvere;  allorché  portarono  nella  corsia 
l'ultima  spedizione  che  giungeva  dal  campo. 

Guardai  i  nuovi  feriti,  ed  uno  stupore  grande 
mi  prese,  nel  fissarne  uno. 

—  E  una  donna  ?  domandai  al  chirurgo  che  li 
accompagnava. 


—  No,  é  un  ragazzo  di  diciassette  anni. 
Disteso  nella  barella,  col   capo   abbandonato. 

,  inerte,  pareva  un  cadavere.  Bianchissima  la  pelle; 
cerea  nel  viso,  quella  figura  di  madonnina  aveva 
risalto  dai  fiotti  di  capelli  rossi  che  gli  si  spar- 
pagliavano per  la  testa  e  lungo  il  collo.  Anche 
le  ciglie  eran  rosse,  e  nessuna  peluria  gli  si  ve- 
deva sul  labbro  e  sul  mento. 

Mentre  il  dottcfre  mi  parlava  dello  stato  gra- 
vissimo di  quel  ragazzo  e  dell'impossibilità  di 
amputargli  la  gamba  destra,  da  cui  la  palla  non 
s'era  potuta  estrarre,  sia  perchè  penetrata  nel- 
l'inguine, sia  pel  suo  temperamento  linfatico, 
il  ferito  aprì  gli  occhi  azzurri  come  quelli  d'una 
bambina. 

Io  mostrai  il  desiderio  di  portarmelo  a  casa, 
ma  il  chirurgo  me  lo  sconsigliò  energicamente, 
assicurandomi  che  il  resto  della  vita  di  quel  di- 
sgraziato, sarebbe  stata  una  agonia  lunghi.ssima. 

—  Ella  sarà  ugualmente  pietosa  avendone 
cura  qui. 

Dovetti  cedere,  e,  presto  incominciai  a  vigilare 
il  ragazzo,  aiutata  dalle  suore  di  carità,  alcune 
delle  quali  erano  già  state  mie  maestre,  quando 
ero  nell'educatorio. 

Non  appena  lo  potette,  il  ferito  principiò  .\ 
parlare,  con  una  voce  esile,  di  bambina. 

Era  di  Parma,  figlio  d'un  negoziante  ricco  e 
si  chiamava  Vincenzo  Ferretti.  .'Xveva  voluto 
arrolarsi  per  vedere  il  Generale,  e  moriva  senza 
averlo  visto;  ne  era  inconsolabile.  11  padre  si 
era  riammogliato,  ed  egli  ave«a  dovuto  lasciarlo, 
perchè  soffriva  troppo  a  vedere  un'altra  al  posto 
della  mamma  morta.  Dacché  era  partito  coi  Ga- 
ribaldini, il  padre  gli  aveva  scritto  una  sola  volta, 
per  maledirlo. 

—  E  adesso  sarà  contento  della  fine  che  faccio!... 
Sa,  signora?  ho  fatto  anch'io  il  mio  dovere  come 
gli  altri.  Ero  trai  primi,  avanti,  avanti  a  tutti... 
e  il  Generale  non  l'ho  visto.  A  casa,  ho  le  so- 
relline piccole...  oh.  se  babbo  me  ne  volesse 
mandare  almeno  una!...  Ma  già!  egli  non  mi 
perdonerà  neppure  adesso!... 

E  piangeva,  piangeva  in  uno  stato  d'indebo- 
limento che  faceva  male  a  vedersi  mentre  gli 
altri  lo  guardavano  con  un  senso  di  antipatìa, 
che  egli  non  sapeva  trovar  coraggio  nelle  ultime 
sofferenze;  ne  aveva  avuto  quanto  gli  altri  un 
momento  solo,  è  vero,  ma  il  più  utile.  ' 

Il  giorno  seguente,  gli  portai  certe  camicie  di 
tela  finissima,  perché  quella  sua  pelle  bianca  t- 
levigata  mal  sopportava  la  tela  da  strofinacci 
dell'ospedale,  e  misi  nel  mio  sacchetto  tanti- 
altre  cosucce  che  egli  mi  aveva  chieste. 

Ferretti  se  ne  mostrò  contento  come  un  fan- 
ciullo, e,  con  la  mia  mano  fra  le  sue,  riprese  a 
raccontarmi  di  Parma  e  della  famiglia. 

Scrissi  al  padre,  narrandogli  a  lungo  del  tìglio. 


ed  il  padre  mi  rispose  addolorato  per  le  notizie, 
mandando  del  denaro  ed  il  perdono  per  Vincenzo. 
Il  povero    ferito  fu  cosi    contento    quando  gli 
portai  la  lettera! 


Nel  di  appresso,  lo  trovai  in  una  ben  triste 
condizione.  Tutti  i  feriti  intorno  al  suo  letto, 
brontolavano  perchè  Ferretti  non  sapeva  star 
tranquillo  ed  incomodava  i  vicini. 

—  È  un  guaio  'sto  ragazzo!  si  lamenta  di 
giorno  e  di  notte  come  un  pulcino  bagnato,  né 
si  risolve  a  morire  ! 

E  qui  un  diluvio  di  parolacce.  Io  gridai  perchè 
non  lo  maltrattassero,  feci  il  possibile  per  im- 
pietosirli, ma  vi  riuscii  poco. 

—  Van  via  tutti!  —  mi  diceva  lui,  con  voce 
più  fievole  del  consueto.  —  Tutti  se  ne  vanno,  o 
guariti,  o  morti.  Quanti  ne  muoiono!...  Quanti  !... 
All'alba,  viene  il  carrettone,  e  ve  li  gettano 
dentro  alla  rinfusa  come  bestie!...  senza  cissel... 
senz'altro!...  Ma  io,  li  dentro,  non  ci  voglio  an- 
dare, a  quel  modo!...  Me  lo  promette?  Mi 
promette  che  mi  farà  costruire... 

Avevo  un  bel  ripetergli  che  guarirebbe! 


Pochi  giorni  dopo,  fra  gli  inservienti  e  le 
suore,  era  un  grande  affaccendarsi,  per  render 
pulite  le  corsie,  per  metter  ordine  ai  letti,  af- 
finchè nell'ospedale  tutto  avesse  un  aspetto  meno 
squallido. 

Ai  pochissimi  feriti  rimasti,  s'eran  mutate  le 
lenzuola,  le  camice;  pareva  li  avessero  apparec- 
chiati per  una  festa.  Avevano  lustrato  financo 
il  pianato  di  marmo. 

Due  chirurghi  andavano  su  e  giù,  impartendo 
ordini. 

Che  cosa  avveniva? 

Avrei  dovuto  comprenderlo  dalle  fisonoinie 
raggianti  dei  feriti,  da  quella  vita  nuova  che  li 
aveva  animati  subitamente. 

Ferretti  medesimo  pareva  rinato,  gli  brilla- 
vano straordinariamente  gli  occhi  ed  un  po'  di 
roseo  gli  era  comparso  sulle  guance  smagrite. 

—  Signora!...  signora,  lo  vedrò  finalmente! 
era  da  tanto  che  non  lo  speravo  più...  —  sclamò, 
con  una  strana  animazione  nella  voce. 

—  Ma  chi...  chi  vedrete? 

—  Il  Generale! 

Garibaldi  aveva  voluto  visitare  S.S.    .Apostoli. 

Da  lì  a  poco,  fuori,  risonarono  rumori  _di  scia- 
bole e  voci  concitate,  rispettose,  mentre,  nella 
via,  si  sentiva  l'eterno  grido  della  folla  entu- 
siasta, che  sempre  accoriipagnava  il  Generale. 

Una  suora  mi  fece  entrare  in  un  camerino 
posto  di  fronte  al  letto  del  mio  ferito,  d'onde, 
inosservata,  avrei  vista  tutta  la  scena. 


Difatti,  Garibaldi,  accompagnato  dal  suo  stato 
maggiore,  incominciò  la  visita  degli  ultimi  letti 
che  erano  rimasti  abitati.  Ma  finché  non  giunse 
a  Ferretti,  io  non  potei  discernerlo  bene;  vedevo 
un  grande  scintillio  d'armi  sul  rosso  vivo  delle 
camicie  e  sul  bianco  dei  mantelli  :   nient'altro. 

Finalmente,  dopo  che  si  fu  trattenuto  a  par- 
lare a  lungo  con  ciascun  ferito,  arrivò  al  capez- 
zale (ti  Ferretti.  Allora  potei  vedere  Garibaldi, 
per  non  dimenticarlo  mai  più. 

Quella  sua  stupenda  .figura  m'è  rimasu  im- 
pressa nell'anima,  e  di  là  l'evoca  la  mia  memoria. 
Adesso  è  come  l'apparizione  in  un  sogno:  i 
tratti  del  viso  di  quell'eroe  (|uasi  leggendario, 
mi  tornano  alla  mente  per  commuovermi.  Per 
me, -la  splendida  aureola  circondante  quella  testa 
bellissima  di  belva  generosa,  è  inseparabile  dal- 
l'immagine dell'eroico  condottiero. 

Egli  s'avvicina,  pietosamente  benevolo,  parla  ; 
io  fendo  l'orecchio,  guardo,  e...  Miracolo!  è  un 
miracolo:  Ferretti  si  leva  a  sedere  (d'onde  ne 
ha  trovata  la  forza?)  e  si  preme  sulle  labbra  la 
mano  di  Giuseppe  Garibaldi,  che  la  rilira  presto. 

—  Son  giovane,  son  tanto  giovane,  e  debbo 
morire!  —  gli  dice.  —  Ieri  me  ne  addoloravo, 
oggi  non  più,  perchè  l'ho  vista!  Ero  fra  i  primi, 
sa.  Generale?  fra  i  primi,  e  son  caduto  innanzi 
a  tutti,  gridando  il  suo  nome!...  Mi  vuol  bene. 
Generale?... 

—  Sì,  si,  figlio  mio!...  —  E  la  voce  armoniosa 
di  Garibaldi  tremava,  nel  domandargli  poi  :  — 
Come  ti  chiami  ? 

—  Vincenzo  Ferretti,  e  son  nato  a  Panna. 

—  Dimmi,  Ferretti  mio,  che  cosa  potrei  fare 
per  te?  Chiedimi  qualche  cosa,  figlio  —  riiietè. 
sedendoglisi  al  capezzale. 

—  Vo'  morire  con  la  sua  sciabola  accanto. 

-  Sì,    figlio   mio,   eccotela.  —  E  .-^e  la  tolse 
per  mettergliela  allato,  sulla  coltre. 

Ferretti  pareva  trasfigurato,  e  volgeva  gli  occhi 
intorno,  per  convincersi  che  non  sognava. 

—  Oh,  veli?  chi  t'ha  data  la  bella  camicia  che 
indossi?  e  questo  fazzoletto  coi  ricami?  —  gli 
domandò,  sorridendo,  Garibaldi. 

—  La  mia  liiamma,.  quella  che  qui  è  la  mia 
mamma,  una  signora...  se  vedesse!... 

—  1^  vo'  vedere  per  ringraziarla. 

—  Non  c'è  più,  è  andata  via.  Credo  che  avesse 
paura  di  lei. 

—  Orsù,  coraggio.  Ferretti  mio,  coraggio  che 
guarirai  ! 

—  Eh,  no  che  non  guarirò! 

—  Sì,  figlio  mio,  ti  leverai...  Ma  • 
qualche  altra  cosa...  chiedili»  al  tuo  genei. 
gli  farai  piacere. 

—  Ebbene...  voglio  un  bacio  da  lei. 

11    Generale   si    curvò,    e   strinse   lunp  r 
Ferretti  fra  le  braccia,  baciandolo,   chi.ir 


52 

«  figlio  suo  ».  e  quando  si  rizzò  -  lo  attesterei 
davanti  a  Dio,  perchè  lo  vidi  coi  miei  proprii 
occhi  -  Garibaldi  aveva  pianto. 

Egli  nell'allbntanarsi,  si  volse  pep  additare  ad 
uno  del  suo  seguito  il  letto  del  mio  ferito,  e  gli 
disse  : 

—  Coloro  che  succederanno  a  noi,  potran  mai 
immaginare  guanto  ne  costasse-  la  redenzione  del 
nostro  paese? 

E  si  rivolse  per  guardare  ancora  una  volta  Fer- 
retti, che  giaceva  supino,  privo  di  sensi,  con  la 
sciabola  del  suo  Generale  fra  le  braccia. 

«   * 

Quando  Ferretti  rinvenne,  mi  tru\ó  .-.edula  al 
suo  capezzale. 

Un  resto  di  quella  galvanizzazione,  che  gli 
aveva  dato  l'esaltamento,  gli  tornò  nel  parlarmi 
di  Garibaldi.,  di  ciò  che  gli  aveva  detto;  mentre 
io  gli  assicuravo  df  aver  tutto  veduto  ed  inteso. 

—  E  perchè  non  s'è  mostrata!'  perchè  mai 
non  è  venuta?  Oh,  signora,  quanto  rimpiangerà 
di  non  avere  stretta  la  mano  del  mio  Generale!... 

Ed  aveva  ragione,  difattil 

—  Senta  —  continuò  egli,  pel  ritorno  di  im 
pensiero  che  lo  tormentava  dal,  'li  innanzi.  — ' 
Ora  io  posso  morire:  un'ultima  grazia  soltanto 
debbo  chiederle,  ma  prima  ella  deve  promettermi 
di  accontentarmi. 

Glielo  promisi. 

—  Io  non  voglio  andare,  come  gli  altri,  nel 
«  carrettone  »,  nudo,  senza  un  cencio...  ella  n\\ 
deve  far  costruire  la  bara,  ove,  morto,  m'inchio- 
deranno con  la  sciabola  del  mio  Generale...  no,  no, 
faccia  a  mio  modo,  senta,  noi  metteremo  la  cassa 
.sotto  al  letto,  ed  io  le  giuro  che  morirò  in  pace. 

Fu  inutile,  mi  ni/n  .-.,niMi.,^v  <  m.>lto,  ed  an- 
dai via. 

E  non  ero  sola  a  soffrire  quella  forte  commo- 
zione da  circa  un  me.se.  Accanto  a  me  vi  era 
una  buona  creatura,  meridionalmente  entusiasta, 
pietosa,  nell'ingenuità  dell'anima,  per  quel  pic- 
colo eroe,  che  agonizzava  all'ospedale  cosi  mi- 
seramente. Era  la  mia  cameriera,  Angelica:  una 
ragazza  di  sedici  anni,  clie  menavo  ogni  giorno 
con  me  a  SS.  Apostoli. 

Ella,  una  sera,  s'indugiò  fuori  oltre  il  consueto. 

—  Dove  sei  stata?  —  Capii  guardandola  meglio; 
aveva  gli  occhi  rossi.  —  Che  t'ha  detto? 

Non  potette  parlare,  scoppiò  a  piangere. 

La  sera  seguente,  dopo  la  stessa  scena,  riuscii 
a  strapparle  di  bocca  che  il  chirurgo  le  aveva 
permesso  di  portare'  il  gelato  a  Ferretti,  e  che 
quell'infelice  ne  era  cosi  contento!... 


—  Bene  —  le  dissi  una  terza  sera,  mettendole 
in  mano  dei  soldi  —  Angelica,  eccoti  la  moneta 
pei  tre  gelati,  ed  anche  per  l'altro  di  domani. 
—  Ed  ella  arrossendo,  posò  il  danaro  sul  mio 
tavolino. 

—  Che  significa  !  quello  è  il  dono  che  fa  una 
poverella  come  me  al  povero  ragazzo.  Voi  signo- 

■*ina,  non  ci  dovete  entrare! 
Me  l'abbracciai. 

Fui  per  un  paio  di  settimane  in  campagna.  I 
medici  mi  Vi  costrinsero,  perchè  le  scene  dell'o- 
spedale m'avevano  rovinata  la  salute.  Ma  anche 
li  lo  spettacolo  del  morente  m'era  sempre  dinanzi 
agli  occhi. 

Il  giorno  seguente  al  mio  ritorno  a  Napoli, 
vennero  a  dirmi  che  in  sala  aspettava  un  infer- 
miere de'  SS.  Apostoli.  Credetti  venisse  ad  an- 
nuilzìarmi  che  il  mio  ferito  era  morto;  ma  m'in- 
gannai. l'"erretti  era  ancora'vivo,  e  si  lamentava 
perchè  non  mi  aveva  più  veduta.  Mi  voleva  ve- 
dere assolutamente  per  l'ultima  volta. 

—  È  sempre  inquieto  perchè  dice  che,  morto. 
noi  lo  getteremo  nel  «  carrettone  »  ;  s'è  fis- 
sato in  t|uesta  idea,  e  ii^ssimo  può  rimuovernelo. 
Chiede  un'ultima  grazia  da  lei:  una  grazia  ch'ella 
gli  ha  sempre  rifiutata  :  la  sua  bara,  vuol  veder- 
sela sotto  al  letto,  per  morir  tranquillo.  Lo  faccia 
contento,  venga  per  l'ultima  volta  e  sarà  proprio 
u'na  carità  la  sua  ! 

Diedi  ordine  per  la  bara,  ed  .indai,  il  giorno 
dopo,  nonostante  le  preghiere  dei  miei. 

Rammentandomene,  sento  ancora  l'impressione 
di  raccapriccio  che  mi  colse  in  rivedere  Ferretti. 

Egli  era  ridotto  come  un  mucchio  d'ossicine 
ingiallite,  e,  del  capo,  che  gli  avevano  coperto 
con  un  grosso  fazzoletto  a  colori,  per  l'umido 
dell'Ospedale,  si  scorgevano  solo  gli  occhi  grandi, 
velati,  senza  più  luce. 

Con  uri  fil  di  voce,  che  pareva  un  belato  atlio- 
chito,  egli  diceva  all'infermiere  : 

—  É  la  mia  signora  bella?...  Nettatemi  gli 
occhi,  che  non  la  vedo! 

Poi  si  persuase  di  non  poteftiii  veder  più,  e, 
dopo  che  m'ebbe  ringraziata  afiettuosamente  per 
la  bara,  volle  un  bacio.  Io  feci  forza  a  me 
stessa...  vinsi  il  ribrezzo,  e...  l'impressione  di 
quella  frónte  sulla  mia  bocca,  mi  ilà  ancora  un 
freddo  nel  cuore. 

La  notte  appresso,    mori  rultin\o  ragazzo  dei 

«  MlM.E  ». 

Lo  feci  chiudere  nella  cassa,  con  la  sciabola 
del  suo  Generale  stretta  sul  cuore. 


Xapoli,  I  Ottobre  iSH- 


AMILCARE   LAURIA. 


XIV. 


GLI  UOMINI  ROSSI. 


CAPITOLO  XII. 

Nel  quale  si  vede  come  Madonna  Luna  si  diciiiarasse 

.nemica  di  Monsignor  Rutilante. 

<'«:"a    bocca    rossa  e  dei   piccoli    denti    perlacei, 

chiese  piegando  leggermente  il  capo  ad   invito  : 

Poi   una   chiara   mattina,   tanto   chiara   che   il  Vogliono  venire? 

lontano  mare  tutto  si  rivelava  a  l'orizzonte,  pieno  _    Eccoci    -   rispose   Manso   Liturgico,   e   si 

di  scintillìi  come  una  immensa  corazza  di  metallo  avviarono. 

brunito  che  ripercotesse  il  sole,  il  cane  da  guardia  Dalla  casupola  di  Èrla  alla  porta  del  castello. 

abbaiò  con  tale   insistenza  che  Èrla   e   Giasmin  chiusa  ora  da  enormi  battenti  che  avevano  so- 

uscironoe  si  trovarono  di  fronte- Europa  e  Di-  stituito  le  antiche  saracinesche,  correva  una  viot- 

dino-  tola    mal    selciata,  fra  due  basse  siepi  di    canne 

Sono  loro  gli  sposi?  —  chiese  sorridendo  Erla.  e  lunga  forse  duecento  metri,  in  salita.  Innanzi 

I  fuggitivi  si  guatdarono  negli  occhi  e  Didino  a  l'entrata  del  castello  era  una  spianata  alla  quale 

rispose:.    *  faceva  corona  una  duplice   (ila  di   cipressi   e   di 

—  Sì.  abeli. 

—  Allora  si  accomodino.  Li  aspettavamo.  Ho  Giasmin  corse  innanzi.  Scalza  com'era,  pareva 
preparato  quattro  stanze  vicino  alla  torre  di  uno  scoiattolo  per  quelle  balze  :  si  affrettò  ad 
destra  :  vede?  quella  là.-  Sono  le  migliori  e  ci  si  aprire  la  gran  porta  grigia,  tempestata  di  borchie 
troveranno  bene.  rugginose  come  l'armatura  di  un  gigante. 

Veclendo  poi  che  gli  sposi  novelli  non  rispon-  Introdusse  la  chiave,    fece   forza   pieg.indo   la 

devano,    pensò    che    l'oscura    mole  del    castello  persona,  girò  gli  ordigni  ch'ebbero  stridori  acuti, 

incutesse  loro  timore  sicché  soggiunse  :  .sostò  guardando  se  gli  sposini  giungevano,   poi 

Oh!  non  ci  sono  gli  spiriti,   è  vero  Giasmin?  appoggiando  le  braccia  e  il  torso,  spinse  la  porta 

Xon  ci  sono  gli  spiriti  glielo  assicuro,  lo  ho  dor-  che  cigolò  e  si  dischiuse. 

mito  sola,  al  tempo  de  la  povera  marchesa  lerò  Ritta  ora  nel  gran  vano  luminoso,  con  la  sua 

ancora  ragazza  e  ne  sono  trascorsi  degli    anni!^  bella  corona  di  capelli  rossi,  attese  gli  adolescenti 

ho  dormito  sola  nella  stanza  dei  quadri.  Dicono,  che  salivano  l'erta. 

è  vero,  che  nella  notte  si  sente  urlare  e  si  vedono  Entrarono  in   un   vasto  cortile  chiu.so   da   un 

fantasmi  su  tutte  le  torri,  ma  non  diano  ascolto.  lato  da  una  torre;  negli  altri  tre  lati  correva  un 

Noi  non  abbiamo  veduto  niente,  ed  è  un  pezzo  portico    oscuro.    Le    mura    si    levavan   diritte   e 

che  si  vive  quassù.  grigie;  rosse  in  alcuni  punti,  dove  l'opera   inu- 

Del   resto    —   soggiunse    —   se   hanno    paura  raria   era    in    mattoni.    Percorsero   un   andr^Mn-, 

\"uriòl  dormirà  nel  castello.  chiuso  da  saracinesche  :  sbucarono  in  un  conila  ito 

—  Oh!   non   importa!  —  fece    Didino   punto  meno  grande  del  primo;  volsero  a  destra  ;  s.v 
sul  vivo.  una  scala  a  chiocciola  e  furono  in  un.i  tt  r 

—  'Non  importa  —  sussurrò  Europa.  —  Dalla  parte  del  mastio  non  si  p,-issa  - 

—  Allora,  Giasmin,  va  a  prendere  le  chiavi  Giasmin  rivolgendosi  —  |>erchè  la  scala  è  peri- 
ed  accompagna  i  signori  nelle  loro  camere.  colosa. 

Giasmin,  ch'era  rimasta  tutta  compresa  di  am-  Traversarono  una  grande  stanza  pien.i    ■ 

mirazione  e  di  gioia  e  s'era   ferma   a   guardare  ritoie  e  di  spiombatoi,  ridiscesero,  videro  i 

senza  batter  ciglio,  alla  chiamata  della  madre  si  cortile. 

riscosse  e  andò  e  tornò  in  un  battibaleno  recando  —  Ma  questo  è  un  labcrinto  !   —  esclamò  Di- 

un  gran  mazzo  di  chiavi  rugginose  e  dismisurate.  dino. 

Si  fermò  innanzi  a  Didino  e,  con  un  bel  sorriso  —  Siamo  giunti  !  —  rispose  Giasmin.  - 


indicando  con  la  mano  :  —  Ecco  la  scala  — 
riprese. 

Sotto  un  arco  a  sesto  acuto,  adorno  di  quattro 
colonnette  appaiate,  si  intravide  la  bella  scala  in 
marmo,  ricca  di  eleganti  balaustrate,  della  quale 
saliron  due  rami  e  furono  innanzi  ad  una  porta 
dorata  che  Giasmin  dischiuse  facilmente. 

—  Aspettino  ;  apro  le  finestre  —  disse  Giasmin 
entrando.  Udiron  nel  buio  lo  stopiccio  dei  pic- 
coli piedi  nudi,  sul  pavimento;  giunse  loro  un 
senso  di  umidiccio  e  un  tanfo  di  aria  viziata,  poi 
un  impeto  di  luce  invase  la  sala,  rivestita  di 
damasco  verde  e  decorata  da  begli  affreschi  nel 
soffitto. 

—  Questa  è  la  sala   verde   —  disse   Giasmin. 

—  Le  loro  stanze  son  per  di  qua. 
E  volse  a  destra. 

Didino  ed  Europa  guardavano  maravigliati  e 
intimoriti  la  maestà  severa  del  luogo  e  pareva 
loro  li  seguissero  sguardi  scrutatori  e  minacciosi. 

Poi,  come  eran  rimasti  immobili,  quasi  vinti 
da  particolar  fascino  suggestivo,  Giasmin  li  chiamò 
con  allegra  voce: 

—  Si  accomodino.  Questa  è  la  stanza  da  pranzo. 

—  Guardarono.  Era  un  enorme  vano  con  zoccoH 
di  legno  alle  pareti  e  decorazioni  murali  figuranti 
scene  di  caccia.  In  mezzo  era  posta  una  inter- 
minabile tavola  di  noce  alla  ciuale  avrebbero 
potuto  banchettare,  senza  trovarsi  a  disagio,  i 
diecimila  di  Senofonte:  tutt'intorno  numerose 
poltrone  dagli  ampi  bracciali,  ricoperte  di  cuoio 
nerastro,  pareva  attendessero  gli  eroi  della  gì- 
gantomachia.  Su  la  parete  di  fondo  era  un  trofeo 
d'armi. 

Due  ampie  finestre  a  sesto  acuto,  fiancheggiate 
da  graziose  colonnette,  davano  luce  alla  sala  che 
aveva  in  sé  una  cupa  severità  e  non  predisponeva 
certo  al  buon  umore. 

—  Mio  Dio!  —  esclamò  Europa  stringendosi 
al  braccio  del  compagn»^  :  —  Questa  è  una  ca- 
serma !  Io  non  avrò  mai  appetito  iiua  dentro. 

—  Veramente  —  rispose  Didino  —  è  un  po' 
troppo  grande  per  due  ;  ma  ci  adatteremo. 

—  La  nonna  racconta  —  soggiunse  Giasmin 
—  e  dice  cose  di  verità,  ch'ella  ha  risaputo  da' 
suoi  vecchi  antichi,  che  in  questa  sala  mangiava 
il  conte  Leone  co'  suoi  signori  ed  erano  più  di 
cento;  e  dice  che  i  cuochi  servivano  vitelli  interi 
e  pecore  e  agnelli  arrostiti  e  che  si  consumava 
in  un  giorno  il  vino  bastante  a  tutto  il  paese  di 
San  Benedetto  per  un  mese. 

Entrarono  poi  nella  camera  nuziale  parata  di 
stofte  color  rosa,  sbiadite  dal  tempo,  biancheg- 
gianti qua  e  là  in  contorni  indefiniti.  Aveva  il 
soffitto  a  volta.  Le  voci  vi  risuonavano  sonore, 
come  fra  gli  intercolunnii  di  una  cattedrale. 

—  E  qui  dormiranno  loro   —   disse   Giasmin. 
Europa   chinò   il   mento   al   seno   e   impallidi, 


come  amor  che  langue  ;  Didino  volse  gli  occhi 
in  giro. 

Un  immenso  letto  di  noce  si  distendeva  sotto 
il  trionfo  del  baldacchino,  sorretto  da  quattro 
colonnine  nere,  a  fregi  d'oro;  un  angiolo,  a 
sommo  degli  archi,  reggeva  le  cortine  che  con- 
discendevano in  lievi  ondeggiamenti  a  velare  i 
guanciali  e  le  grandi  coperte  di  damasco,  ramez- 
zate  d'oro. 

Vi  fu  un  breve  silenzio,  poi  Giasmin  si  avvicinò 
al  letto,  alzò  le  cortine  e  disse:  —  Guardino, 
come  è  bello  ! 

E  siccome  i  coniugi  non  fiatavano,  continuò  : 

—  Ci  si  deve  star  bene  come  su  le  pcime  erbe  ; 
come  sul  fieno  fiorito.  —  Aflfondò  una  mano  fra 
le  coltri.  —  È  soffice  che  più  non  potrebbe  es- 
serlo. Su  la  lana  ci  si  imparadisa,  come  dicono 
su,  a  San  Benedetto,  ed  ogni  sposa  da  noi  — 
fece  volgendosi  —  vede?  ogni  sposa  da  noi  porta 
il  suo  sacco  di  lana  perchè  i  primi  sonni   siano 

•belli. 

La  paglia  è  dura;  stride.  La  notte  par  d'avere 
sotto  il  capo  un  mondo  di  grilli.  .A.  volte  ci  si 
sveglia  di  soprassalto  che,  sa  Dio  come,  pare 
qualcuno  salga  sul  Ietto  e  lo  scuota.  L'altra  notte 
ebbi  paura  veramente.  —  E  scoppiò  in  una  ri- 
satella  breve  che  le  passò  rtella  gola  tremando, 
le  illuminò  gli  occhi  e  il  viso,  riempi  l'aria  di  ini 
brivido. 

Le  finestre  della  stanza  nuziale  si  aprivano  su 
la  breve  spianata  alla  quale  facevan  doppia  cofona 
gli  abeti  e  i  cipressi  ;  oltre  i  primi  colli  e  le  lunghe 
vallate,  si.stendeva  nella  lontananza  l'azzurrg  cupn 
della  pianura  e  la  bianca  chiarezza  del    mare. 

—  Se  odono  rumori  la  notte  —  riprese  Giasmin 
—  non  vi  [)ongano  niente.  .Su  la  torre  maestr.i. 
in  una  vecchia  stanza  abbandonata,  hanno  il. 
nido  i  barbagianni  e  le  civette.  I  barbagianni 
russano  come  uomini  e  soffiano.  Dicono  i  vecchi 
chesoffian  per  ispegner  la  luna  che  li  infastidisce. 
Li  odo  anch'io  dal  mio  letto,  ma  ormai  ci  sono 
abituata. 

Europa  aveva  ascoltato  poco  rassicurandosi  nel 
cuore.  Manso  Liturgico  osservava  con  soverchia 
attenzione  il  disegno  degli  arazzi  sfioriti  dal 
tempo. 

Visitarono  un'altra  stanza  più  modesta  e  la 
cucina:  un'ampia  cucina  annerita  dal  fumo,  con 
una  cappa  di  camino  che  poteva  ricordare  l'en- 
trata di  qualche  remoto  inferno. 

Passaron  quel  giorno  parlucchiando,  guardan- 
dosi di  rado,  turbati  sì  dal  luogo  pauroso  come 
dalla  tensione  nervosa  causata  loro  dagli  avve- 
nimenti improvvisi. 

Manso  Liturgico  di  fronte  a  l'amor  suo  era 
impacciato  e  goffo  quasi  dovesse  risolvere  un 
oscuro  problema  impostogli  dal  Divìn  Creatore 
allo  scopo  di  martirizzarlo. 


Come  scese  la  sera  assaggiarono  appena  la 
Genetta  che  Giasniin  aveva  allestito.  Europa, 
perduta  quasi  in  una  poltrona  da  l'ampia  spal- 
liera, di  fronte  alle  finestre  dalle  quali  luceva 
il  pallido  cielo,  verdognolo  a  l'occaso,  come 
un'acqua  chiara  e  profonda,  guardava  pensosa- 
mente lo  svettar  lento,  ritmico  degli  abeti  nel 
loro  breve  semicerchio.  Didino,  con  gli  occhi 
bassi,  come  immerso  in  una  grave  meditazione 
su  l'eternità,  tamburinò  con  le  dita,  su  la  tavola, 
un  tempo  di  marcia.* 

Si  accendevano  i  primi  sorrisi  dì  stelle.  Ve- 
s{)ero  già  era  alto  a  l'orizzonte,  bianco  «  iuceìite 
nella  dorata  diafanità  de  l'ultimo  crepuscolo. 

Le  lontananze  si  perdevano  sottq  l'iniMii^iente 
dominio  della  notte.  Ancora  qualche  punto  bianco, 
qualche  gemmea  cosa  ne  l'infmito;  un  bagliore  di 
sogno  lontano. 

Disse  Europa  non  volgendo  il  capo,  quasi 
parlasse  agli  abeti  : 

—  Io  non  ho  sonno  !  ' 
^Mormorò  .Manso  Liturgico  di  rimando  : 

—  Neanch'io. 

Poi  si  lacqilero  di  nuovo.  Così  si  sarebbero 
taciuti  chi  sa  per  quant'altro  tempo  ancora  se 
una  porticina  nel  fondo  non  avesse  cigolato  d'im- 
provviso e  Giasmin  non  fosse  apparsa. 

Gli  adolescenti  si  volsero  di  scatto. 

—  Ah  !  sei  tu  !  —  esclamò  Europa  traendo 
un  sospiro. 

—  Son  io  —  rispose  Giasmin.  —  .Ma  chi  po- 
teva essere?  Nel  castello  siamo  sbli. 

—  Non  so. 

Giasniin  si  avanzò  lentamente.  Giunta  vicino 
a  Europa  le  chiese  : 

—  Ha  paura? 

La  giovinetta  si  alzò  un  poco  su  la  poltrona 
e  rispose: 

—  No. 

Passò  un'altra  pausa. 

—  Io  ho  sbrigato  le   faccende  della   cucina  — 

—  Bene  —  rispose  Europa. 

—  Posso  andare? 

—  Fa  come  credi. 

—  Come  desidera  lei,  signorina.  Vuole  dorma 
nel  castello? 

—  Ma...  tua  madre  rimane  sola. 

—  Oh!  è  abituata  e  non  ha  paura. 
L'ultima   parola   scosse   Manso   Liturgico   che 

fino  allora  era  rimasto  assorto.  Ecco,  mostrarsi 
pauroso  di  fronte  ad  una  giovanetta  non  gli 
conveniva,  sicché  disse  : 

—  No  no,  possiamo  rimaner  soli.  Vai,  vai  nel 
tuo  letto  e  dormi  bene. 

—  Allora...  —  fece  Giasniin  sorridendo. 
--  Buona  sera  —  mormorarono  i  fuggitivi. 

—  Buona  sera  —  rispose  la  giovanetta  da'  bei 
capelli   ardenti.    E    si    allontanò    guardando   gli 


ospiti  ch'eran  rimasti  muli  r. 
bandono. 
Quando  fu  su  l'uscio  Europa  ^rnJ.. ; 

—  Giasmiiv,  Giasmin? 

—  Eccomi. 

Breve  pausa  in  cui  il  pensiero  par 

—  Chiudi  bene  la  porta. 

—  Non  dubiti.  Poi  chi  vuole  venga  quassù  ' 

—  Le  precauzioni  non  sono  mai  troppe. 

—  Ha  ragione.  Chiuderò  a  doppia  mandala. 

—  .Ma  come?  Ci  chiudi  nel  castello?  —  chiese 
Manso  Liturgico  scattando.  « 

—  Eh!  —  rispose  la  giovinetu  alzando  leg- 
germente le  spalle. 

■ —  E  se  vogliamo  uscire?    • 
Giasntin  pensò  un  poco,  poi  disse: 

—  Senta,  la  chiave  la  passerò  sotto  la  soglia 
e  potranno,  riprenderla. 

—  Va  bene,  non  te  ne  dimenticare. 

—  No  signore.  • 

—  .Allora...  buona  sera. 

—  Buona  sera. 

E  Giasmin  si  avviò  per  la  ><.-luiiii,j  v.puii;  m.T 
non  ebbe  fatto  quattro  passi  che  Europa  la  ri- 
chiamò. 

—  Senti,  Giasmin,  non  ci  dai  un  lume? 

—  ,Oh  perdoni  la  sbadataggine!  —  soggiunse 
.  sorridendo  :  —  Glie  lo  porto  s^lbito...  che  il  lume 

è  mezza  com'pagnììl. 

Poco  dopo  ricomparve  recando  una  vecchia 
lucerna  della  quale  aveva  acceso  i  tre  lacchi.  I.a 
giovanetta  aveva  sprazzi  di  luce  sul  mento,  ^u 
gli  zigomi,  alla  sommità  delle  ciglia  e  la  dol-  ■  .-.-i 
forte  del  suo  viso,  per  i  contrasti,  ri' .)t  . 
mente  quasi  che  un'interna  lumin'os;: 

Dietro  Giasmin  si  rìdestaron   gi.:; 
ombre  enormi  che  si   abbinavano,   si   3uvr<ippu- 
nevano,  disparivano  animate  da  una  vita  inaffer- 
rabile. 

Manso  Liturgico  guardò  con  le  sopracciglia 
inarcate,  alzando  a  pena  gli  occhi. 

—  Non  avevi  un  lume  a  petrolio?  —  chiese 
a  Giasmin  poiché  gli  lu  vicin.i. 

—  No  signore.  Il  CTStello  ■  molti 
anni.  Tutto  ciò  che  v'è  rini.i- 

—  Va  bene. 

Giasmin  posò  la  lucerna  su  la  gran  tavola  di 
noce,  indugiò  un  poco  per  alzarci  lucignoli,  poi 
disse  rivolgendosi  ad  Europa  : 

—  Le  occorre  altro? 

—  No,  grane. 

—  Buona  sera. 

—  Buonji  sera. 

Udirono  chiudersi  la  porM  .'cll.i  Kiìi  t  '.'.  Irevc 
scalpiccio  della  giovati' 
cora  il  cigolar  delle  v 
devanp  la  porta  d'ingre-^o  i!i!  vm-I'  "o 

Altro  silei;zio  più  grave,  più  lungo  del  primo  ; 


56 

poi,  giù  per  la  costa,  la  voce  squillante  di  Gìasmin 
cantò  l'endecasillabo  dei  pastori,  la  semplice  in- 
vocazione : 

«  Amante!  Amante!  Ajnore  amore  amore!  ». 

Si  perse.  Gli  alberi  neri  attesero  immobilmente 
la  sorella  che  sorge  dai  mari,  per  il  suo  viaggio 
remoto. 

Europa  e  Didino  si  guardarono  negli  occhi  un 
attimo.  Madre  Solitudine  li  aveva  avvertiti  ch'essi 
erano  liberi  come  il  vento;  che,  nel  grande  ca- 
stello dei  Lecci,  erano  arbitri  e  padroni  poiché  , 
due  sofi  cuori,  ne  l'ampio  giro  delle  mura  turrite, 
battevano..  Madre  Solitudine  li  incitò,  senonchè  i 
il  fuggevole  sguardo  non  ebbe  risultato  positivo. 

Europa  si  volse  un  poco  su  l'ampia  poltrona; 
Didino  sentì  un  fremito  trascorrergli  le  reni  sot- 
tilmente. 

Il  sonno  pertanto  esulava  dai  loro  Sensi  turbati. 

Dalla  finestra  aperta  giunse  il  trillare  dei  grilli 
mariani,  de!  grilli  che  vanno  fra  stelo  e  stelo, 
sotto  i  fiori  della  menta,  col  loro  timpano  d'ar- 
'  gento  a  far  la  serenata  alle  stelle  ;  giunse  l'aroma 
dei  fieni  maggenghi  e  delle  resine  dense.  Sciami 
di  falene  entrarono  attratte  dalla  luce  e  fecero 
ghirlanda  alle  tre  fiammelle,  come  iin  nimbo 
primaverile. 

.  Europa  fissò  l'ardente  luminosità  di  Sirio  che 
era  apparso  sopra  gli  abeti.  ,  ' 

E  Didino  pensò:  —  Che  cosa  aspettiamo? 
Perchè  non  dice  ella  una  pajola?  Il  suo  silenzio 
è  causato  forse  dal  pentimento.  Certo,  ella  è 
pentita  d'aver  abbandonata  la  famiglia,  d'esser 
venuta  con  me  ed 'ora  se  ne  duole  e  non  mi 
guarda  e  non  mi  parla.  Ma  io  non  l'ho  ingannata; 
iiuando  vorrà  ci  sposeremo.  Io  anche  ho  avuto  • 
per  lei  il  rispetto  che  si  ha  per  una  santa  e,  da 
quando  siamo  soli,  non  le  ho  chiesto  pure  l'ombra 
di  un  bacio.  Dovrebbe  amarmi  di  più;  dovreblje 
apprezzare  il  mio  sacritì,zio  e  la  mia  onestà  ! 

Cosi  si  doleva  in  cuor  suo  il  giovinetto  ama- 
tore, mentre  Europa  fissava  con  gli  occhi  larghi 
ed  oscuri  l'ardente  luminosità  di  Sirio. 

E  pensava  a  sua  volta  :  —  Che  cosa  aspettiamo? 
Perchè  non  nji  parla?   Non   vorrà,   spero,    ch'io 
sia  la  prima  a  rivorgergli  la  parola,  e  non  potremo 
passare  tutta  la  notte  cosi  !  Almeno  sapesse  dirmi 
le  cose  che  mi  ha  scritto  1.  Mi  piacerebbe  sentir-  ■ 
mele    ripetere    all'  orecchio  ,  sussurrate  dalla  sua    • 
voce.  Ma  perchè  tace  e  rimane  tanto  lontano  da 
me?  Mi  farebbe  compagnia...  ma  così!... 
,     ,E  il  silertzio  continuò  ancora  finché  Europa  lo 
ruppe  con  una  donianda  sussurrata  a  pena: 

—  Che  ore  sono? 

Manso  Liturgico  alzò  gli  occhi,  sorrise,  estrasse 
l'orologio  e  lo  mostrò  senza  dir  parola  alla  com- 
jiagna  : 

—  Le  dieci?  —  chiese  Europa  débolmente. 

—  Si,  sono  le  .dieci  —  rispose  Didino. 


—  Com'è  tardi!  —  rispose  Europa. 

—  Infatti...  é  tardi  ! 

—  Quand'ero  a  casa,  dormivo  già  a  quest'ora. 

—  Anch'io  '. 

—  Non  hai  sonno?  Io  sono  un   poco   stanca! 

—  disse  Europa  chinando  il  capo  con  gli  occhi 
molli  di  dolcezza. 

.  —  Lo  credo,  povera  piccola!  —  rispose  Didino. 

—  Il  viaggio  è  stato  lungo  e  faticoso,  non  si 
arrivava  mai  !  Anche  la  .notte  scorsa  non  hai 
riposato  !  Vai  a  dormire,  io  rimarrò  qui,  su  la 
poltrona  e  ti  aspetterò.  ^ 

Europa  lo  guardò  con  un  senso  di  maraviglia 
nuo^a  : 

—  Su  la' poltrona? 

—  Si.  Ci  si  sta  bene.  —  E  aggiunse  dopo  una 
sosta.  —  Non  preoccuparti  per  me;  io  dormo 
ovunque. 

La  giovanotta  ebbe  timore  che  il  compagno 
suo  fosfe  per  davvero  più  santo  di  padre  Ori- 
gene. Chinò  il  capo  sul  palmo  della  mano  e  si 
tacque. 

Il  sentimento  della  sua  femmin^ità  oflfesa,  forse 
inconsciamente,  da  l'inverosimile  amante,  si  ri- 
bellava ora  dandole  un  senso  lieve  di  amarezz.i 
e  di  scoramento.  Ma  come  non  intendere  certe 
cose?  Era  egli  forse  più  semplice  e  più  ingenuo 
di  un  poppante?  E  pure  pareva  fosse  chiara 
l'anima  sua  e  aperta  come  un  sillabario!  E  puri-, 
per  certi  sottintesi  giocondamente  piacevoli,  pa 
•  reva...  Ecco,,  non  le  era  dato  tacere  perchè  !■ 
si  imponeva  un  dilemma:  o  Didino  voleva  pren 
dersi  giuoco  di  lei,  e  in  tal  caso  sarebbe  stato 
imperdonabilmente  cattivo;  o...  —  Non  compi 
il  pensiero  che  il  jjudore  e  lo  sdegno  le  fecer  le 
guance  vermiglie. 

Manso  Liturgico  frattanto,  pensava  che  Europa 
gli  avrebbe  serbato  senz'altro  gratitudine  im- 
mensa per  quella  sua  onesta  condotta  da  buon 
figliuolo. 

Ma  la  giovanetta  si  levò  ad  un  tratto,  quasi 
scattando,  e  allun.gò  la  mano  verso  il  lume,  poi 
si  trattenne  e,  rivolta  a  Didino,  chiese  dolce- 
mente : 

—  Rimani  al  buio  ? 

Didino  parve  non  avesse  inteso  : 

—  Perché? 

—  lo  vado  a  riposare.  Ciasmin  non  ci  ha 
lasciato  che  un  lume. 

—  È  vero  ! 

E  Didino  non  pensò  alla  convinzione  di  Giasmio, 
che  una  lucerna  fosse  sufficiente  cioè  a  illuminare 
un  amore,  si. che  esclamò  indispettito: 

—  Che  asina! 

—  Ma  la  piccola  non  supponeva...  —  ribattè 
calorqsamente  Europa;  poi  si  arrestò.  Voleva 
dire:  Non  supponeva  che  tu  fossi  timido  e  pa- 
uroso! 


Manso  Liturgico  si  tacque  per  qualche  secondo, 
combattuto  fra  vari  pensieri,  poi  prese  una  riso- 
luzione eroica  e  disse  alla  compagna  che  aspettava: 
—  Prendi  il  lume  con  te. 
Europa  indugiò  un  poco  come  incerta  sul  da 
farsi,  poi  su  ogni  sentimento  la  vinse  il  dispetto 
e  si  avviò  verso  la  porta  a  sagome  dorate  che 
immetteva  nella  stanza  nuziale.  Lasciò  l'uscio 
socchiuso  e  disparve. 

Manso  Liturgico  rimase  ne  l'oscurità;  vide 
però,  da  uno  spiraglio,  un  lieve  chiarore  gial- 
lastro verso  il  quale  gli  occhi  suoi  stettero  im- 
mobilmente fìssi.  Gli  accadde  allora  di  pensare 
alle  squisite  particolarità  de  l'abbigliamento  not- 
turno, alle  dolcezze  intravviste,  alle  cose  immi- 
nenti che  danno  un  senso  di  penosa  aspettazione. 
Avrebbe  voluto  avvicinarsi  alla  porta,  furtiva- 
mente, senza  ch'ella  nulla  intuisse  del  suo  spiare, 
ma  non  si  attentò.  Non  era  impresa  facile  e  piana 
quella  di  avventurarsi  al  buio  nella  grande  sala. 
Chiuse  gli  occhi,  volle  dormire  e  il  sonno  gli  fu 
nemico.  , 

Passò  così  forse  mezz'ora  e  di  tanto  in  tanto 
sentì  un  brivido  aggricciargli  i  capelli,  alla  som- 
mità della  nuca,  per  qualche  fruscio  lungo,  in- 
determinato che  passava  ne  l'oscurità,  che  si 
perdeva  nella  notte,  lontano. 
«  Ciò  che  gli  avevan  raccontato  Èrla  e  Giasmin, 
le  stèrie  degli  spiriti  e  dei  fantasmj,  ritornavamo 
ora  al  suo  pensiero  con  impensate  particolarità 
e  siccome  egli,  pur  essendo  religiosissimo,  aveva 
sempre  creduto  che  qualcosa  di  vero  ci  fosse, 
nei  racconti  delle  vfeioni  di  spavento,  non  'si 
tro^'ava  perfettamemte  sicuro,  temendo  in  cuor 
suo  di  vedersi  apparire  innanzi  l'ombra  di  qualche 
anten.itdl  del  marchese  Barbigi. 

Avrebbe  dovuto  per  davvero  passare  tutta  la 
notte  così  senza  poter  sperare  in  un  attimo  di 
sosta  ? 

Qualche  tempo  trascorse  in  cui  parve  stabilirsi 
una  relativa  calma;  ma  poi,  d'improvviso,  i  battiti 
del  suo  cuore  si  accrebbero  intensamente  poiché 
udì  ne  l'ombra,  non  seppe  bene  da  qual  punto 
giungesse,  un  soffio  umano,  uguale  e  ritmico 
come  nella  gravità  del  sonno. 

Si  rizzò  un  poco  sul  torso,  cercò  acuire  l'udito 
e  si  persuase  che  non  si  era  ingannato;  la  sua 
non  era  illusione,  il  soffio  ignoto  e  pauroso  con- 
tinuava chiarissimo  e  parevr.  si  avvicinasse. 

Avrebbe  voluto  fuggire,  ma  dove?  E  se  Euroi^a 
udiva?  Come  avrebbe  risposto  alle  sue  domande 
di  curiosità?  Però  la  softerenza  morale  si  acuì 
d'attimo  in  attimo  si  che  il  barlume  di  ragione 
che  ancora  lo  reggeva  dileguò  ad  un   tratto   al- 


57 

lorchè  il  soffio  si  converti  in  mugolio  roco.  Più 
non  ci  vide,  si  rizzò  sotto  il  poderoso  scatto  di 
un  impulso  violento,  aveva  gli  occhi  sbarrati,  i 
capelli  irti  e  gridò  per  tre  volte  consecutive,  gridò 
con  voce  forte  e  innaturale  : 

—  Chi  è?  Chi  è?  Chi  è? 

Il  mugolio  si  tacque  come  d'incanto,  ma  dalla 
contigua  stanza  nuziale  giun.se  la  voce  di  Europa, 
voce  alta  e  turbata  : 

—  Didino?  Oidino? 

Egli  si  ricompose  subitamente  : 

—  Che  vuoi?   —  rispose. 

—  Perchè  urli? 

—  Sognavo! 

Vi  fu  una  pausa;  poi  Europa  riprese: 

—  Non  sognar  più  cosi,  perchè  mi  fai  paura. 
Il  silenzio  ritornò;  ritornò  la  calma  apparente. 

—  Potessi  addormentarmi  almeno!  —  |>ens<'j 
Manso  Liturgico;  ma  in  tale  benefico  rinjedio 
non  v'era  da  porre  speranza.  • 

Vide  svettare  le  cime  degli  abeti,  nere  sul  cupo 
cielo  e  giunse  ad  avvolgerlo  la  brezza  dei  mw 
che  precorre  l'alba  e  l'annuncia.  • 

Poi  "l'inenarrabile   martirio   ricominciò.    Riudl 
il  soflìo  ritmico  passar  nella  notte  con    reiterata 
ed  inesausta  lena;  poi  al  primo  se  ne  a_'- ■—    • 
un    secondo;    un    terzo,     ^n    quarto    c] 
fosse  su  la  .spianata  del  castello  un  esen   : 
miente.       • 

Più  non  sapeva  ormai  a»  qual  santo  votarsi  : 
tentò  la  preghiera,  e  gli 'mori  su  le  labbra;  si 
appellò  alle  sue  energie,  ma  non  posero  argine 
sufficiente  al  terrore. 

.A.d  un  tratto  gli  p!in-e  scorgere  fra  le  rame 
protese  di  un  abete,  qualcosa  di  orribilmente 
rosso,  come  uno  spaventoso  fantasma  sbucato 
da  l'ombra  e  àrridiante  d'improvviso  tutte  le 
cose.  I  mugolìi  crebbero  d'intensità,  «i  moltipli- 
carono, quasi  a  festeggiar   l'ignota  apparizione. 

Egli  più  non  vide,  più  non  resse..  Spinse   in 
dietro  la  pesante» poltrona  che  ruzzolò  al   suolo 
con  subito  fracassio;  girò  un  lato  della   tavol  i 
corse  verso  la  stanza  nuziale  e,  allorché  fu   P' 
entrare,  la  porta  si  apri.   Europa   appai  ve,   dol- 
cissima nel  suo  costume  notturno. 

Poi    la   coppia    paurosamente    felice    <lil'i;u.  . 
Frattantc^  Madonna  Luna,  salutata  dai    - 
barbagianni,  saliva  sorridendo  nei  cieli.  ' 
'    che  la  solitudine  non  .i\'eva  allaccialo, 
costrinse.  E  l'amote  piacevolmente  fu  a. 
le  vecchie   mura,   come   si   . 
dabbeife. 


ANTONIO   BELTRAMELLI 


¥- 


"-^ 


58 


GLI    SPOSI 


La  madre  della  sposa,  donna  Luisa,  s'era  pur 
essa  agghindata,  facendo  stavolta  riveder  la  luce 
al  suo  abito  marrone  di  seta,  ritinto  per  l'oc- 
casione, che  ricordava  alla  vedova  un'  epoca 
mai  più  obliata  della   sua    travagliosa    esi-^tt-n^a 

Così  la  zia  Spaccamonti,  e 
le   due  operaiette  aggraziate. 

Senfinchè,  la  zia  appariva 
come  una  nota  abbastanza 
triste  in  mezzo  a  tutte  le  altre 
di  qufella  sinfonia  multicolore. 
Donna  Clementina  non  aveva 
voluto  lasciare,  nemmeno  in 
una  simile  ricorrenza,  la  sua 
veste  nera,  cucita  suljìgurino 
del  Quarantotto,  quasi  avesse 
fatto  un  voto  all'Addolorata. 

Ella  pur  nel  viso  era'  triste, 
quantunque  sulle  labbra  sot- 
tili, che  non  avevano  mai  sa- 
puto la  dolcezza  d'un  bacio 
d'amore,  apparisse  un  lieve 
sorriso  stereotipato.  Nei  suoi  occhi  c'era  tutto 
un  poema 'd'affetto,  e  splendevano  d'una  luce 
ultrainondana  quand'ella  li  fissava  sul  nipote, 
di  cui  intuiva  tutta  la  gioia. 

—  Ahfniè  !   Durerebbe  quella  gioia  ? 

Aveva  un  triste  presentimento.  La  notte  pre- 
cedente lo  aveva  pdito  a  tossire  :  la  mattina 
quel  suo  pallore  l' aveva  gettata  in  un  vero 
orgasmo. 

—  Dio  mio  !  Dio  mio  !  —  pregava  col  cuore 
che  le  tremava  di  paura  e  col  sorriso  sulle  labbra. 

Donna  Fortunata  fella  aveva  indossato  invece 
un  abito  di  raso  color  nocciuola,  la»  cui  vita 
mostrava  le  subite  scuciture  a  cagione  del  suo 
stato  eccezionale. 

—  Uno  stato  assai  poco  iìitefessaiite  !  —  aveva 
sorriso  Ciccillo,  mirando  quel  tombolo. 

E  aveva  messo  un  dolce  in  mano  ai  due  mar- 
mocchi di  lei,  che  si  sentivano  più  che  mai 
inceppati  entro  i  vestitini  nuovi.  Al  più  piccolo 
era  la  prima  volta  che  infilavano  le  brache  e  la 
giacchetta:  una  vera  delizia,  per  il  poverino! 

—  Dove  vogliamo  andare,  per  il  pranzo?  — 
aveva  chiesto  lo  sposo  alla  Mariella,  due  giorni 


avanti,  in  presenza  del  «  compagno  »  Ribolla, 
che  veniva  spesso  a  intrattenersi  presso  la  stira- 
tora,  assai  più  spesso  dell'avvocato,  che  più 
positivo,  s'era  fatta  un'amante. 

—  Ancora  lì,  ai  Pirozzoli  —  aveva  risposto 
lei,  con  la  mente  ancora  inebriata  dal  ricordo 
dell'altr.T  vita.   —  E'  tanto  bello,  lassù  !... 

Al  Ribolla  il  sangue  die'  un 
tu  fio  al  capo. 

—  Sicuro,  sicuro  —  ap- 
provò subito,  credendo  che 
lei  scegliesse-di  nuovo  quel 
posto  per  fargli  piacere. 

E  cosi  s'era  stabilito.  Giusta 
il  consueto  —  ormai  ne  ave- 
vano acquisito  il  diritto  — 
l'avvocato  e  il  prossimo  dot- 
tore avevano  pensato  all'oc- 
corrente per  il  banchetto  non 
più  semi,  ma  nuziale.  Sfido 
io,  chi  avrebbe  osato  a  sosti- 
tuirli .' 

—  A\'rei  preferito  di  an- 
dare   a  PoJìUipo  —  chiocdiò 

la  moglie  del  Fella,  Aicendo  gli  occhi  di  triglia  al 
marito.  —  Ricordi  come  ci  divertimmo,  il  giorno 
del  nostro  sposalizio  ? 

—  Oh,  allora  erano  altri  tempi  !...  Adesso,  a 
Posillipo,  si  mangia  male  e  ti  spogliano,  come 
ladri  di  cantonate. 

—  No,  no  !  —  protestò  anche  Luigino  Russo, 
uno  dei  due  giovani  del  prossimo  «  .Salone  Spac- 
camonti ».  —  Da  Noviello  si  sta  bene.  C'è  quel 
vinetto  bianco:  che  ne  fate  del  Marsala  ?  A 
Santo  Rocco  anche  si  sta  be^1issinlo... 

—  E  alle  Pagliarelle,  sopra  il  Campo  ?  Ci 
scherzale  I... 

—  Ora  è  fatto  —  s'afiVeltò  a  troncare  Ciccillp 
—  e  non  bisogna  pensarci  più.  Siete  miei  invi- 
tati ?  Dunque,  venite  dove  vi  conduco  io... 

—  È  troppo  giusto  —  approvò  inimantinenti 
il  principale,  che  divideva  sempre  le  idee  di 
coloro  i  quali  lo  invitavano  a  una   scorpacciata. 

Non  aveva  costui  le  fisime  della  sua  metà, 
che  lo  annoiava  coi  suoi  squasilli,  dopo  tanti  anni 
di  matrimonio;  ed  era  del  parere  di  dar  sempre 
|jn  po'  di  gusto  a  cjii  gli  regalava  magari  un 
solo  bicchier  di  vino. 


—  Quanti  saremo,  stavolta?  —  domandò  l'altro 
giovine,  Eduardo  Esposito,  mentre  la  piincipala 
mal  celava  la  propria  contrarietà  e  guardava  di 
sbieco  quel  crapulone  del  suo  omo. 

—  Quanti  fummo  l'altra  volta:  no?  —  e  Cic- 
cillo  si  rivolse  a  donna  Luisa. 

—  Aspetta  —  fece  costei,  numerando  sulle 
dita  —  Mariella,  tu,  donna  Fortunata,  Concet- 
cella,  tua  zia,  Nannina,  la  madre  e  il  padre  di 
queste  due,  e  son  dieci...  io,  i  due  giovani,  il 
principale  e  donna  Rosa,  e  son  quindici... 

Saremo  quindici,  come  l'altra  volta. 
Il  meglio  l'avete  scordato  —  fece  lo  sposo. 
Concettella    e    la    sposa    avevano    capito,    ma 
nessuna  delle  due  parlò. 

—  Chi? 

Com'erano  accanto  alla  finestra,  egli  accennò 
in  istrada  : 

—  Guardate. 

Una  carrozzella  si  fermava  in  quel  momento, 
e  le  tube  lucide  dell'avvocato  e  del  Ribolla  sbu- 
carono di  sotto  il  soffietto  alzato. 

I  due  amici  erano  in  gran  tenuta,  con  stiffelius 
e  panciotto  bianco,  e  in  mano  avevano  due  enormi 
mazzi  di  fiori  col  merletto  di  carta  e  il  gambo 
inargentato,  che    andarono  a  offrire    alla    sposa. 

Col  mazzo,  il  Ribolla  offrì  un  orioletto   d'oro. 

—  Oh  !...  —  arrossì  la  Mariella,  confusa. 

—  In  qualità  di  compare  —  s'inchinò  lui.  — 
Se  no,  non  avrei  ardito... 

—  Per  carità,  don  Costanti  !...  Sempre  onore 
e  piacere  !  —  lo  imitò,  inchinandosi,  lo  Spacca- 
monti,  veramente  commosso. 

—  Dovere,  dovere. 

—  Leviamo  queste  espressioni  —  aggiunse  lo 
Spaccamonti,  fedele  alla  sua  origine,  in  cui  lo 
spagnuolo  non  era  affatto  estraneo. 

La  sposa  era  diventata  come  la  cravatta  del 
suo  prossimo  marito.  Guardava  e  riguardava  quel 
gingillo,  sul  cui  tergo  era  inciso  «  Ricordo  »,  e 
sorrideva,  con  gli  occhi  in  fiamme  anch'essi. 

—  \'i  piace  ? 

—  Tanto!...  grazie  mille...  \'i  siete  voluto 
incomodare  !...  In  che  modo  potremo  disobbli- 
garci?... dopo  tanto  onore!... 

Gli  altri  restavano  mortificati  di  non  aver  unito 
dei  fiori  a'  meschini  doni  offerti.  Chi  l'avrebbe 
supposto?  La  moda  del  tempo  d'oggi  è  tanto 
curiosa  ! 

Donna  Fortunata  cominciò  ad  accusare  la  sta- 
gione cattiva,  gli  affari  che  non  venivano,  le 
spese  per  il  prossimo  parto... 

—  Oh,  lo  sappiamo  !  —  rispondeva  donna 
Luisa,  commossa  sul  serio.  —  Basta  il  cuore. 

Frattanto  il  «  cittadino  >•  Borgotti  s'era  avvici- 
nato-alla  Concettella  e  l'anelava  complimentando, 
insieme  con  la  Nannina,  del  grazioro  vestito 
nuovo,  delle  belle  rose  che  avevano  fra  le  mani. 


59 

—  Potrei  averne  una  ?  —  sorrise. 

—  Con  piacere  ! 

E  una  rosa,  la  migliore,  passò  nel  suo  ocxhielto, 
donde  la  gardenia  fece  un'ascensione:  quella  <lel 
seno  di  Concettella,  —  il  monte  bianco,  —  pen- 
sava lui. 

—  E  a  me  mi  fate  star  senza  fiore  ?  —  disse 
Eduardo  Esposito,  a  Nannina. 

—  Sì.  perchè  queste  tre  rose  sono  unite  e  non 
voglio  staccarle  —  rispose  costei  con  indifferenza. 

Evidentemente,  invidiava  la  sorte  della  rom- 
pagna,  ma  l'altro  non  si  arrese  e  continuò  a 
fare  il  cascante. 

—  A  proposito  —  si  ricordò  il  Borgotti  — 
l'avevo  dimenticato...  Come  farete  a  usar  quel 
grazioso  gingillo  ? 

S' era  rivolto  alla  .Mariella,  mentre  Ciccillo 
ammiccava  Luigino  Rus.so. 

—  Lo  legherò  ad  uno  di  questi  lacci  —  disse 
la  sposa,  con  semplicità,  facendo  scorrere  fra  le 
dita  un  filo  d'oro. 

—  No,  non  va  bene,  non  è  «eie.  Se  vi  conten- 
tate, invece,  di  questa  catenella  I... 

E  la  trasse  da  un  astuccio  foderato  di  raso 
azzurro.  Tutti  si  avvicinarono.  Oh,  oh,  questi 
poi  non  l'avrebbero  supposta  !  Pareva  quasi  mor- 
tificato, sulle  prime,  all'offerta  dell'amico! 

La  catenella  d'oro  fu  lungamente  ammirala, 
fra  l'entusiasmo  generale,  come  un  minuto  prima 
l'orologetto. 

—  Oh  com'è  distinta  !  Com'è  distinta  ! 

E  nella  confusione,  il  Borgotti  fece  scivolare 
nell'orecchio  di  Concettella  : 

—  L' avevo  comperata  per  te,  con  un  .litro 
orologio  scicco  :  se  fossi  venuta  a  prenderti 
l'abito... 

La  ragazza  sgranò  gli  occhi,  meravigliata.  Non 
la  canzonava  ? 

Mentre  si  chiacchierava  allegramente  di  tante 
cose  diverse,  i  complimenti  continuavano  ad  in- 
fiorare il  bruno  capo  della  sposa.  Ciccillo  s'im- 
pazientiva, guarilando  ogni  secondo  l'orologio. 

—  E  quando  arrivano  queste  benedette  car- 
rozze ?  Sono  le  undici  suonate  I 

Aveva  ragione  di  essere  sulle  spine,  poveretto; 
aveva  ragione  di  misurare  la  stanza  in  lungo  e 
in  largo  e  di  spingere  continuamente  lo  sguardo 
fuori  della  finestra. 

Erano  già  andate  ad  abitar  nella  nuova  casa, 
le  due  Percoco  :  una  casetta  piccola,  a*l  un  primo 
piano,  ma  ariosa  e  signorile.  Per  loro  che  veni- 
vano, una  da  un  ammezzato  e  l'altro  da  una 
softitu  ! 

La  st.mza  nuziale,  però,  era  rimasta  chiusa. 
Non  doveva  aprirsi  che  quella  sera,  per  ricever>-i 
gli  sposi. 

Talché,  in  quei  pochi  gionti  corei  dal  quattro 
maggio,  giorno  det  trasloco,  ad  allora,  la  ragaua 


6o 


e  la  madre  avevano  dormito  nella  prima  stanza 
—  erano  due  in  tutto  —  in  quella  stessa  prima 
stanza  da  cui  era  scomparso  provvisoriamente  il 
letto  vedovile,  per  il  ricevimento  degl'invitati. 

Quel  letto  sarebbe  rimasto  per  la  madre.  Ed 
ecco  che  tornava  dormirvi  sola,  come  dopo  la 
disgrazia  del  marito. 

Adesso,  la  finestra  era  spalancata,  e  da  quelle 
di  faccia  la  gente  curiosava. 

Giù,  avanti  al  portoncino,  i  soliti  capannelli 
gestivano,  aspettando  che  calassero  gli  sposi, 
parlottando  vivacemente,  ridendo  forte,  con  la 
ilarità  chiassosa  del  popolo  napoletano. 

La  carrozzella  die  aveva  condotti  i  due  giovani 
era  ferma  all'imboccatura  del  vicolo,  col  soffietto 
per  metà  alzato,  per  indicare  d'essere  già  fissata, 
e  il  vetturino  dava  al  cavallo  baio,  tutto  lustro 
nei  finimenti  nuovi,  un  pugno  di  gramigna,  che 
la  bestia  masticava  lentamente. 

—  E  come?  —  domandò  una  donnetta  —  vanno 
a  sposare  in  carrozzella  d'affitto.' 

—  Ma  che  !  —  le  risposero  le  altre.  —  Quella 
è  dei  due  signorini  amici  dello  sposo... 

—  Il  più  alto,  farà  il  compare  —  aggiunse  la 
cambiavalute,  che  girondolava  in  fretta,  tergen- 
dosi il  sudore. 

—  E'  un  medico;  un  professore /ro/£'.j/a///f... 
Che  vergogna  !  Eppoi... 

IMa  apparvero  le  due  carrozze  di  rimessa,  coi 
conduttori  in  tuba  e  in  livrea;  e  dalla  casetta 
cominciarono  a  scendere  gli  sposi,  i  parenti,  gli 
invitati. 

—  Vedete  :  la  vecchia  colla  papalina,  quella 
scimmia,  è  la  zia  del  barbiere. 

—  E'  una  signora  decaduta  .' 

—  Ecco  la  sposa,  Mariella  la  stiratora  ! 

I  commenti  e  le  esclamazioni  ammirative  o 
derisorie  scoppiettavano  nei  gruppi  diversi  dei 
curiosi  come  altrettanti  saltarelli.  Ogni  vicino 
aveva  messo  il  capo  fuor  del  proprio  buco,  e  un 
brusìo  alto  si  levava  dai  bassi,  un  cinguettamento 
confuso  dai  balconcelli  e  dalle  finestre. 

In  una  delle  carrozze  prese  posto  la  sposa, 
fra  la  principala  e  la  zia,  e,  dirimpetto,  con  le 
spalle  ai  cavalli,  si  assise  donna  Luisa,  fra  le 
due  apprendiste. 

Nell'altra,  Ciccillo,  fra  il  principale  e  il  padre 
di  Nannina,  e  dirimpetto,  Luigino,  Eduardo  e 
i  due  piccini. 

II  resto  della  compagnia  li  avrebbero  raggiunti 
all'osteria;  mentre  l'avvocato  e  l'amico  Ribolla 
sarebbero  andati,  come  erano  venuti,  in  car- 
rozzella. • 

Quando  le  tre  vetture  si  mossero,  un  codazzo 
di  monelli  le  seguì,  vociando  :  , 

—  La  sposa  !  la  sposa  ! 

E  servì  questo  per  dar  l'allarme  al  resto  del 
rione,  che  usci  sulla  strada,  nell'epitlemica  alle- 


gria curiosa,  ciie  si  diffondeva  a  grado  a  grado. 

Quando  passarono  sotto  le  finestre  di  don 
Nicolino  Scoppa  e  dell'Amendola,  lo  sposò  levò 
il  capo  a  guardare. 

Era  tutto  sbarrato. 

—  Se  l'ho  detto  che  schiatteranno  !  —  gridò 
egli  alla  sposa,  la  cui  carrozzella  li  precedeva 
di  qualche  passo. 

E  i  due  amici  sghignazzarono  con  lui. 


W: 


Dalla  Sezione  municipale  passarono  nel  palazzo 
di  Donnaregina,  ov'è  la  Curia  arcivescovile. 

Le  carrozze  si  fermarono  nel  larghetto  ;  mentre 
la  carrozzella  dei  sijrnorini  saettava  di  già  verso 
il  Museo.  I  due  amici  avevano  da  sl)rigar  prima 
certe  loro  faccende  :  al  solito,  si  sarebbero  rivisti 
all'osteria.  • 

—  La  verità  vera  —  Ciccillo  aveva  rosicchiata 
la  foglia  —  era  che  non  volevano  guastarsi  lo 
stomaco  in  presenza  di  quegli  ipocriti  della  curia. 

."avevano  forse  torto?  Anche  lui  ne  avrebbe 
fatto  a  meno,  perdio!...  .Ma,  dato  il  primo  passo... 
Entrando  nella  sala  indicata  dal  principale,  che 
era  pratico  di  quei  luoghi,  la  trovarono  affollata 
come  di  sabato  un  botteghino  del  lotto. 

Erano  parecchie  coppie,  col  relativo  contorno 
dei  parenti  ed  amici,  andate  lì  per  lo  stesso 
scopo;  mentre  quei  pretacchioni,  intorno  intorno, 
a  due  e  a  tre  dietro  i  loro  banchi  di  noca,  se 
la  discorrevano  placidamente,  tabaccando  e  tra- 
scrivendo le  unioni. 

—  Tutti  oggi  si  son  ricordati  di  sposare  !  — 
osservò  Ciccillo,  arricciando  il  naso,  quasi  fosse 
entrato  in  un  porcile. 

—  Altro  che  porcile  ! 

Poi  fé'  osservare  ai  due  colleghi  gli  occhi  che 
allargava  un  di  coloro  nel  domandare  a  una 
seducente  sposina  il  nome,  la  paternità  e  il 
resto... 

—  Si  lecca  le  labbra  ^—  rise  Eduardo. 

—  Poveretto  I  Chissà  che  sogni  farà,  la  notte... 

—  Va  là!  vft  là!  —  interruppe  Luigino  Russo. 
—  Non  fanno  la  quaresima,  no  !  I  migliori  boc- 
concini sono  i  loro  ! 

—  Sst!...  —  corresse  donna  Luisa,  scanda- 
lizzata. 

—  E  che,  anche  questa  è  chiesa?... 

Un  chierico,  vedendo  il  giovine  con  le  carte 
in  mano,  gli  si  avvicinò: 

—  Adesso  vi  faccio  spicciare  io...  Date  qua... 

—  Ecco  un  altro  camorrista  —  soffiò  lui  nel- 
l'orecchio diMariella,  dopo  aver  pòrte  le  carte 
all'uomo.  t 

Aggiunse  forte  :  • 

—  Senti,  amico...  Non  lì...  —  e  accennò  il 
prete  di  cui  parlavano. 


—  Perchè  ?  —  sorrise  invec»  lei,  che  in  quel 
giorno  si  sentiva  più  buona. 

Il  chierico  li  chiamò,  col  gesto,  presso  uno  dei 
banchi,  che  parevano  quelli  delle  Assise.  Vi  tro- 
neggiava un  obeso  vicario  del  Signore,  dai  modi 
bruschi  e  dagli  occhi  scerpellini. 

In  quel  momento  egli  e  il  suo  collega  —  l'unico 
spilungone,  questo,  fra  i  tanti  —  registravano 
il  matrimonio  di  una  coppia  di  mori,  brutti  en- 
trambi come  il  debito,  entrambi  infagottati  nei 
vestiti  nuovi.  Lo  sposo  aveva  quattro  dita  di 
polsini  sulla  mano  callosa  e  un  fazzoletto  di  seta 
per  cravatta;  l'altra  girava  il  capo  a  stento, 
strozzata  in  una  gala  di  merletti  più  duri  del- 
l'avorio, che  la  sarta  aveva  messi  senza  risparmio 
sulla  vita  di  lanetta  bleu  gendarme. 

Rispondevano,  alle  interrogazioni  rivolte  loro, 
in  un  modo  esilarante  più  delle  loro  figure,  in- 
ceppati, balbettando. 

—  Il  Signore  li  ha  creati  e  il  diavolo  li  ha 
appaiati. 

Quindi  Ciccillo  Spaccamonti,  di  condizione  bar- 
bitonsore,  rispose   anche  lui  seccamente  e  altez- 


zosamente alie  domand..-  dti  preti;  Unto  che 
coloro  gli  levarono  per  un  momento  gli  occhiali 
in  viso,  pensando  di  mortificare  r.irroganie. 

.Altro  che  !  Il  citladino  Spaccamonti  fiRlio  e 
nipote  di  eroi,  non  ristette  dal  sorriso  s|.rczzantc 
che  gli  copriva  tutto  il  volto. 

Di  11,  sempre  dietro  il  chierico'  passarono  a 
un  altro  banco  di  fronte  al  primo,  ove  Ciccillo 
pagò  quei  pochi  soldi  dovuti,  regalò  qualche 
cosa  all'accompagnatore  e  via,  di  corsa,  come 
se  li  dentro  vi  fosse  la  peste. 

Donna  Luisa  ringraziava  in  cuor  suo  la  Ma- 
donna che  aveva  allontanata  una  disgrazia  :  aveva 
la  testa  cosi  montata  quel  ragazzo  benedetto  ! 

—  Screanzati  !  —  masticò  i!  prete  obeso,  abbas- 
sando il  labbro  floscio,  e  arricciando  il  mento 
con  la  barba  di  una  settimana. 

E  continuò  con  sprezzo:       *  , 

—  E  lo  chiamano  progresso,  questi  orbi  di 
casa  del  demonio!... 


PASQUALE   DE   LUCA 


3B^aE!K3CK30C3BC9EK?CK?DK?Cl 


XVI. 


SONETTI 


Estasi  sante. 


L  auiomooile. 


Se  tu  reclini,  pallida  colomba 
contrita  e  smunta,  in  umiltà  la  testa 
si  com^  un  fior  di  giglio  alla  tempesta, 
se  tu  reclini,  pallida  colomj^a 

e,  pia,  congiunte  le  diafane  mani, 
volo  sottile  di  angiolellì  snelli, 
ti  prostri  assorta  nei  gusrdi  so^Tani 
d'una  madonna,  —  mite  dei  capelli 

il  lume  irradia  la  divina  santa  — 
qua!  prece  esali  dalle  labbra  smorte  ? 
Tremante  implori.  Ne  l'aspetto,  quanta 

compunzione!  Ansiosa  di  tua  sorte, 
entro  la  gemebonda  anima  è  tanta 
l'angoscia  del  peccato  e  della  morte  ' 


Dalle  vivide  siepi  e  dai  verzieri  • 

.salgono  effluvii,  che  la  brezxa  espande  : 
intrecciano  le  nuvole  ghitlande, 
s'allietano  i  fioriti  ermi  sentieri. 

Tu  non  vedi  e  non  senti.  Nella  grande 
tempesta  della  corsi  i  bei  mi'trr 
l'automobile  ignora.  Son. 
visioni...  sogni  diafani  e  I   . 

Tu  li  sdegni,  li  turbi  e  \-ai  lonuno. 

Vertigine.  Non  corsa  ;  né  mai  sazio 

del  mobile  mirasgio  grigio  e  \Tino. 
• 

Meteora  lugubre,  auriga  strano 

e  irsuto,  ing'anni.  in  iii.\.sclit>p ,  1"  «pari'i 

fantasma  errante  dvlTorgi' 


Primavera. 


I. 

È  tempo  degli  augelli  e  di  verdura, 
di  quel  che  luse  ed  è  bello  vedere, 
del  prodigo  scialar  della  natura 
aperta  alla  letizia  ed  al  piacere. 

Sembri  risorta,  umana  creatura, 
profumi  e  fiori  anela  di  godere  ! 
Per  la  nova  stagione,  ogni  figura 
si  dipinge  di  gaio  compiacere. 

Le  stillanti  fontane,  in  lor  favella 
si  cambiano  cogli  alberi  i  saluti. 
Di  gentilezze  il  prato  si  constella. 

Sul  chiaro  verde  spicca  arzilla  e  snella 
il  gregge  a  lato,  e  co'  li  occhi  perduti 
nel  mite  azzurreggiar,  la  pastorella. 


II. 


Poi  che  le  rondinelle,  d'oltremare 
vanno  giubili  incontro  a  primavera  ; 
poi  che  bianco  e  cilestro  ride  il  mare 
e  l'alpe  s'invermiglia  nella  sera, 
sul  cielo,  lieto  delle  gemme  rare 
onde  si  adorna  l'Eterna  Chimera, 
perchè  con  vano  orgoglio,  vuoi  tentare 
il  chiuso  enigma  che  sui  tempi  impera  ? 
Lascia  i  silenzi  delle  cose  morte. 
La  gaia  scienza  ascolta.  Esci  ed  ammira 
i  fecondi  miracoli. 

Risorte 
le  cernie  letizie,  nella  spira 
vertiginosa,  vìnce  la  tua  sorte 
l'innamorata  allodola  delira, 

EMILIO   RINGHIA 


skk:?» 


XVII. 


SCIOPERO  IN  SALOTTO. 


—  E,  seriamente,  a  che  punto  siamo  con  ((uesto 
sciopero? 

—  A  che  punto  ? 

—  Perchè,  ho  letto  in  treno  le  ultime  notizie  : 
ma  non  sono  riuscito  a  capire  che  cosa  preten- 
dano... 

—  Oh,  delle  pretese!  Figurati:  si  tratta  non 
solo  di  un  aumento  di  salario... 

Già,  già,  so  benissimo;  vogliono  tornare  ai 
patti...  Le  .solite  pretese;  ma... 

—  Ma,  quello  che  è  più  ingiusto,  vogliono, 
capisci,  una  rappresentanza  per  sindacare  tutti  i 
nostri  atti... 

—  Già,  già,  so  benissimo;  ma  a  che  punto 
siamo? 

Chi  insisteva  per  sapere  a  che  punto  fosse  la 
situazione  era  un  vecchio  milionario ,  .soprag- 
giunto da  un  viaggio  in  Inghilterra,  nel  momento 
in  cui  ferveva  lo  scfopero.  Per  dare  un'occhiata 
—  cosi  diceva  —  aveva  fatto  una  cor.sa  a  Gaviole: 
e  nel  frattempo  si  proponeva  di  salutare  i  pro- 
prietari che  villeggiavano  nei  dintorni. 

L'altro  era  un  vecchio  poss'idente  che   non  si 
«jera,  da  molti  anni,  mosso  da  Gaviole,  e  che  nu- 
triva un  gran  rispetto  pel  suo   interlocutore   co- 
smopolita. 


Si  orano  incontrati  andando  entrambi  verso 
la  villa  del  marchese  Màrgora. 

Un  gruppo  d'uomini  e  dì  donna' sedevano  in 
terra  lungo  la  strada;  gettarono  un'occhiata  sde- 
gnosa sui  due  vecchi,  senza  muoversi. 

Dietro  a  loro  veniva,  con  due  manovali,  Andrea 
il  ferraio,  canterellando  a  mezza  gola,  e  ascol- 
tando ì  discorsi  dei  due  personaggi. 

A  metà  strada,  dalla  villa  Torriani,  usciva  una 
signora. 

—  Senatore,  che  improvvisata!  Viene  anche 
lei  dai  Màrgora?  È  arrivato  il  colonnello,  sanno? 

L'ottuagenario  scopri  il  capo  roseo,  e  salutò, 
con  la  paterna  bontà  degli  uomini  vissuti  e  nu- 
triti. 

—  Si,  cara,  vengo  anch'io. 

—  Ma  che  aspetto  florido,  giovanile!  escla- 
mava la  signora. 

Il  senatore  colse  l'occasione  per  cambiare  il 
discorso,  perchè  aveva  notato  il  fabbro  che  li 
seguiva;  e  con  la  voce  lenta  e  le  parole  filate 
cominciò  a  parlare  della  sua  salute. 

—  Sì  ;  io  spero  che  questo  insegni  la  mia  vita, 
e  non  solo  le  mie  idee,  ma  anche  la  pratica  che 
ne  ho  fatta.  Perchè  io  credo  d'essere  arrivato 
proprio  alla  perfezione  del  genere,  e  che  la  gente 


possa  persuadersi  che  io  pensava  bene.  Tu  vedi, 
io  ho  quasi  settantotto  anni,  e  son  robusto  tanto 
che  mi  sembra  di  essere  un  giovine.  Non  credo 
vi  sia  nessuno  che  si  senta  giovine  come  me. 
\'edi,  quando  io  cammino,  sento  tutti  i  miei  mu- 
scoli in  azione.  E  il  mio  corpo,  non  è  soltanto 
robusto,  ma  è  statuario. 

—  Nientemeno!  —  disse  la  signora,  ridendo 
e  appoggiandosi  all'ombrellino. 

—  Statuario,  statuario,  capisci;  e  bisogna  ve- 
derlo sotto  panni.  Vedi,  la  gente  si  convincerà 
che  il  regime  che  io  ho  adottato  è  l'unico  vero. 
Perchè,  bisogna  pensare  al  corpo... 

—  Eh  mi  ricordo  —  interruppe  l'altro  vecchio, 
con  una  voce  che  metteva  a  stento  le  parole 
l'una  accanto  all'altra,  tremolando  come  un 'acqua 
intermittente  di  polla;  —  eh,  mi  ricordo  quando 
io  ero  a  Napoli  e  venne  il  povero  generale  I.ivet, 
e  tu  facevi  il  bagno...  ti  ricordi?  quando  mi  co- 
minciò quel  versamento  al  ginocchio... 

—  Sicuro.  Bisogna  pensare  al  corpo  —  seguitò 
la  florida  incarnazione  del  tempo  ;  —  perchè  è 
tutt'altro  che  lo  spregievole  involucro  che  dice 
la  gente;  ma  è  anzi  il  sacrario  dell'anima.  Capisci  ; 
quando  io  sono  arrivato  qui  da  Londra,  davanti 
a  queste  rivolte  io  mi  sono  sentito  fremere  come 
un  giovine.  Tutto  è  in  armonia  dentro  di  me. 
Capisci  :  tutti  i  miei  muscoli  sono  in  esercizio. 
Pensa  che  abbiamo  cinquecento  muscoli,  che  tutti 
richiedono  ogni  giorno  di  essere  esercitati... 

—  Tutti  cinquecento  !  —  interruppe  col  suo 
riso  cordiale  la  signora. 

—  Sicuro,  tutti  cinquecento:  si  sa,  n6n  uno 
per  uno;  ma  oggi  contenta  l'uno,  domani  l'altro, 
si  finisce  per  tenerli  in  azione  tutti  quanti... 

—  E  me,  come  mi  trovi?  —  chiese  la  voce 
intermittente  dell'altro  vecchio. 

—  Ti  trovo  abbastanza  bene  ;  ma  capirai  che 
fra  me  e  te  ci  corrono  cinque  anni  ;  e  poi  il  mio 
aspetto... 

—  Ah,  tu  sei  la  floridezza  in  persona,  come 
quando  eri  gio^-ane,  e  venne  il  generale... 

hi  quel  momento,  il  ferraio  li  .sorpassò  rapida- 
mentre,  e  si  fermò  coi  due  manovali  davanti  ai 
cristalli  d'ingresso  della  villa  Mài-gora  ;  e  veden- 
dovi riflessa  la  sua  persona  curva  e  sparuta,  non 
potè  trattenersi  dal  dare  uno  strappo  rabbioso  al 
campanello. 

I  tre  personaggi  si  fermarono  anche  loro,  e  il 
servo  si  affrettò  a  farli  precedere. 


Nella  villa  della  marchesa  Màrgora  vi  era  un 
the,  in  onore  del  colonnello  Piatti,  comandante 
del  reggimento  destinato  alla  mietitura. 

Si  doveva  a  lui.  la  sollecitudine  nell'invio  dei 
soldati,  perche  egli  si  era  recato  in  persona   dal 


63 

prefetto,  dopo  un  telegramma  ricevuto  dal  mar- 
che.se  Màrgora.  Il  telegramma  era  cosi  formulato  ; 
Insieme  Irene,  pregoi'i  insistenza  prefetto,  ur- 
genza. 

Il  colonnello  era  stato  amante  della  marchesa 
Irene  durante  alcuni  mesi  che  era  di  guarnigione 
a  Roma  :  quindi  si  affrettò  a  telegrafare  alla  villa 
Màrgora:  Ottenuto  prefetto  invio  truppe.  Spero 
venire  persona. 

Il  telegramma  aveva  prodotto  un  vero  furore 
d'entusiasmo,  tanto  da  parte  del  marchese,  quanto 
della  signora,  che  vedeva  spuntar  sull'orizzonte 
i  giorni  d'amore  della  capitale. 

Essa  aveva  subito  fatto  attaccare  i  cavalli,  ed 
era  andata  a  comunicare  la  notizia  a  tutte  le  si- 
gnore; le  quali  ne  furono,  non  solo  entusiaste, 
ma  perfino  commosse.  La  prontezza  dell'esercito 
nel  tutelare  i  loro  diritti  le  commoveva  :  e  la 
probabilità  dell'arrivo  di  un  gruppo  di  unìciali, 
che  avrebbero  rallegrata  la  loro  vita  di  campagna, 
le  riempiva  di  gioia.  Sopra  tutte,  Fify  mostrò  la 
sua  allegria,  esclamando: 

—  Cosi  verranno  gli  ufficiali!  —  e  siccome 
stava  prendendo  il  vermouth  in  ghiaccio  con  la 
contessa  Itta,  si  alzò,  e  toccando  il  bicchierino, 
gridò  con  voce  argentina  : 

—  'Evviva  gli  ufficiali  ! 

La  contessa  Itta  non  si  scosse  troppo,  perchè 
avendo  il  marito  ufficiale,  conosceva  ormai  la  mu- 
sica delle  sciabole,  fra  gli  speroni  e  il  polpaccio,  e 
ne  era  seccata;  tuttavia,  siccome  vagheggiava  al- 
cune rappresentazioni  nella  sua  villa,  non  poteva 
,    esser  dolente  di  un  aumento  di  pubblico. 

A  questo  scopo,  si  era  recata,  appunto  quella 
sera,  da  Fify,  per  persuaderla  a  prendere  la  parte 
brillante  in  una  commedia  francese,  flella  (juale 
lei  si  riservava  la  parte  amorosa. 

—  Come  vedi,  —  disse  —  avremo  anche  del 
pubblico.  Dunqueaccetti?  * 

—  Si,  si,  accetto.  È  in  costume  o  in  borghese 
la  commedia? 

—  Ma  in  borghese,  si  capisce!  Puoi  metterti 
i  vestiti  che  vuoi. 

Fify  bevve  il  terzo  bicchierino  di  vermouth 
dando  dello  scioccd  a  suo  marito  che  glielo  \o 

leva  impedire;  e.  eccitata  dalla  gioia  imp' 

e  dal  liquore  bevuto,  gettò  le  braccia  al 
Tony,  un  grosso  cane   grigio  che   la   gu   ■ 
col  muso  ritto,  sopra  un  seggiolino  di  ferro. 

—  Che  guardia  mi  ha  fatto  !  —  disse,  baciando 
i4  cane  sul  muso.  —  Ieri,  passavo  vicino  a  un 
gruppo  di  quei  contadini  che  non  vogliono  lavo- 

"rare,  e  Tony  cominciò  a  ringhiare  e  a  n  ■        . 
i  denti.  È  vero   che  vuoi   beni*  a  Fify  : 
Tony?  —  diceva,  mettendo  le  n^ninc  fra  1  -iv;.; 
del  cane.  ,       ^ 

Tony  sternutò  due  volte:  «  scese  dalla  seggio'  1 
sbadigliando. 


64 


Dopo  aver  portato  loro  l'annunzio,  la  marchesa 
Irene  era  andata  a  casa  Torriani,  poi  dal  conte 
Fadda  e  da!  signor  Castellari,  che  erano  parti- 
colarmente interessati  all'avvenimento  ;  e  percorse 
in  rassegna  le  persone  incontrate  presso  di  loro, 
si  accorse  che  ormai  la  notizia  era  divulgata. 
Quando  scese  dal  legno  a  casa,  stanca  e  soddi- 
sfatta, sali  la  scala  con  maggior  fretta  del  solito, 
e  giunta  nella  sua  camera,  sciolse  un  pacchetto 
di  lettere  che  datavano  da  due  anni,  e  che  por- 
tavano la  firma  voluminosa  del  colonnello. 

—  Bisognerà  fargli  un  ricevirrlento  d'onore  !  — 
pensava,  nello  scendere  a  pranzo. 

Dopo  lunghe  discussioni,  aveva  deciso  col  ma- 
rito di  dare  un  the,  invitando  tutti  i  villeggianti. 


11  colonnello  Piatti  arrivava  il  giorno  dopo  col 
diretto,  insieme  ad  alcuni  ufficiali. 

Alla  stazione  trovò  il,  legno  di  casa  Màrgora 
con  due  servitori  in  grigio,  che  si  affrettarono  a 
farlo  salire.  Egli  si  separò  cordialmente  dagli 
ufficiali,  che  erano  alloggiati  a  casa  Torriani  ;  e 
gettando  l'ampio  mantello  azzurro  a  lato,  si  assise, 
secondando  con  leggiero  moto  del  corpo,  la  stratta 
che  i  cavalli  impazienti  dettero  al  calesse.  • 

—  Due  buoni  storni  —  osservò,  mettendo  il 
monocolo,  e  sporgendosi  sulla  strada. 

Poi  riprese  la  sua  aria  più  marziale,  vedendosi 
osservato  da  alcuni  gruppi  di  paesani,  e  ristabili 
l'ordine  delle  sue  idee. 

Bisognava,  prima  di  tutto,  riprendere  le  rela- 
zioni con  la  marchesa.  Sarebbe  stato  assurdo  non 
approfittare  di  una  situazione  così  favorevole,  di 
cui  egli  erfe  il  vero  protagonista,  e  anzi  il  sal- 
vatore. 

—  Dunque,  per  prima  cosa  —  disse  fra  sé,  — 
un  Sgomento  intere.«sante,  che  la  occupi  della 
mia  persona  in  un  modo  alquanto  drammatico. 
Ah!  il  duello  con  Castelfranco...  Va  bene.  Poi 
bisognerà  mandare  gli  ordini  agli  ufiiciali  per  la 
collocazione  delle  truppe.  Sarà  un  po'  difficile 
che  quella  carne  da  cannone  si  avvezzi  a  mietere 
e  a  lavorare;  ma  un  po'  di  tempo,  e  tutto  si  farà. 
Ma  quanta  strada  c'è  ancora?  —  si  chiese,  guar- 

,  dando  le  siepi.  • 

Appunto  in  quel  momento,  dopo  avere  oltrepas- 
sate le  ville  Torriani  e  Fadda,  i.cavalli  entravano 
pel  cancello  di  villa  Màrgora,  smorzando  il  trotto 
.sullo  sterrato  dei  viali,  cosa  che  recò  un  certi) 
piacere  al  colonnello. 

—  Mi  riceverà  subito  Irene?  —  pensò  fra  sé.  ' 
Ma  la  marchesa  aveva  creduto  più  conveniente 
di  lasciargli  fare  prirna  la  toilette  e  attenderlo 
nel.  salotto.  Infatti  un  servitore  col  grembiule 
azzurro,  lo  /ece  passare  nella  camera  a  lui  desti- 
nata, e  si  mise  ai  suoi  ordini. 


Piatti  era  abituato  a  una  toilette  piuttosto  ac- 
curata. 

Svesti  l'uniforme:  si  rinfrescò:  si  asperse  con 
l'acqua  di  Colonia  che  trovò  sul  lavamani,  e  dopo 
essersi  squadrato  rapidamente  allo  specchio,  restò 
incerto  se  tenere  o  non  tenere  gli  speroni. 

—  Sarà  meglio,  dopo  tutto,  un  po'  di  rumore 
militare....  —  E  si  avviò,  battendo  i  tacchi,  ver.so 
lo  scalone. 

La  marchesa  Irene  lo  attendeva,  in  preda  a 
una  certa  commozione,  giustificata  dalla  viva 
amicizia,  cosi  la  chiamavano,  che  li  stringeva. 
Però,  quando  lo  vide  entrare,  gli  andò  incontro 
con  un'amabile  indifferenza,  e  tendendogli  la 
mano,  gli  disse  in  francese,  che  egli  veniva  a 
salvare  la  patria. 

Il  colonnello  baciò  la  mano  della  marchesa, 
osservando,  con  un  leggiero  imbarazzo,  dissimu- 
lato da  un  colpo  di  tosse  artificiale,  che  era  un 
onore  ed  un  piacere  per  l'esercito  il  prestare  un 
servizio  alle  dame. 

—  Sempre  cavalleresco  —  esclamò  la  marchesa 
con  un  sorrìso,  inghiottendo  la  saliva  con  una 
leggiera  fatica,  e  sedendo  sul  sofà. 

—  Grandi  novità,  dunque  —  riprese  il  colon- 
nello, riconquistando  la  situazione. 

—  .^h,  certo;  mio  marito  è  in  gran  pensiero 
per  questo  sciopero.  Capirete,  si  tratta  di  un  rac- 
colto colossale  che  andrebbe  in  fumo.  È  in  fondo 
una  ricchezza  dello  Stato...  lo  dice  sempre  Ric- 
cardo. 

Il  colonnello   non    era    profondo    in   questioni 
,       sociali. »Gli  parve  li  per  li,  che  ♦erament^  la  ric- 
chezza non  fosse  dello  Stato,  ma   del   marchese 
Màrgora  ;  tuttavia,  pensò  che  molto  probabilmente 
aveva  torto  e  si  affrettò  ad  aggiungere  : 

—  Oh  lasciate  fare  a  noi  !  I  soldati  sono  in- 
telligenti e  mieteranno  con  facilità.  In  caso  di 
disordine,  faccio  suonare  un  mezzo  appello,  e 
vedrete  questi  contadini  diventare  come  le  pe- 
core, cara  marchesa... 

La  marchesa  Irene,  sentendosi  prendere  la 
mano,  la  abbandonò,  quasi  convinta  di  obbedire 
a  un  obbligo  di  riconoscenza. 

In  quel  momento  entrò  il  marchese,  che  si 
precipitò  verso  il  colonnello.  ' 

Dopo  tutto  —  pensò  Piatti  —  sono  vicino  a 
una  signora,  e  posso  restare  seduto. 

—  Oh,  caro  marchese,  siamo  in  un  casus  belli! 
Il  marchese  gli  tese  la  mano  con  una  effusione 

di  viva  gratitudine  ;  ma  internamente  pensò  : 

—  Poteva  almeno  ^ilzarsi  sulle  due  gambe 
questo  animale  ! 

L'animosità  verso  il  colonnello  non  gli  sarebbe 
nata  certamente  per  quel  fatto  insignificante  ;  ma 
proveniva  dall'avere  scoperto  in  camera  di  sua 
moglie  dei  biglietti  di  lui,  che  erano  sfuggiti  al 
plico  la   sera   avanti.  Quei    bigliett>   lo    avevano 


messo  al  chiaro  di  una  relazione  che  egli  aveva 
appena  sospettata  a  Roma. 

II  primo  impulso  era  stato  quello  di  fare  una 
scenata  ;  poi,  da  uomo  pratico,  aveva  pensato  che 
il  raccolto  valeva  molto  più  dei  capricci  di  sua 
moglie,  e  aveva  concluso  che  era  meglio  lasciar 
andare. 

—  Però  -  riflettè  —  non  mi  conviene  restar 
qui  sapendo  queste  cose.  V.  una  parte  troppo 
noiosa.  Bisognerebbe  potere  allontanarsi. 

Allora  si  ricordq  che  appunto  con  alcuni  altri 
proprietarii,  i  più  grossi  della  regione,  doveva 
afidare  a  Roma  per  parlare  col  ministro. 

—  Ah,  sta  bene  cosi.  Noi  andiamo  a  Roma  a 
parlare  col  ministro.  Questi  qui  sbrigano  le  loro 
faccende  :  e  il  raccolto  si  salva.  Benissimo. 

Perciò  aveva  deliberato  di  mostrarsi  estre- 
mamente afl^abile,  come  1'  uomo  che  ignora 
tutto. 

Strinse  vigorosamente  una  mano  e  una  spalla 
del  colonnello,  esclamando  : 

—  Me  li  mettete  a  posto  voi  questi  ribelli,  è 
vero,  caro  Piatti  ?  Vi  ricordate  le  belle  .serate  di 
Roma? 

La  marchesa  volle  interlocjuire;  ma  Riccardo 
la  soverchiò  con  la  voce,  non  facendo  nessun 
calcolo  di  lei,  che  in  quella  circostanza  era  uni- 
camente una  merce  di  scambio. 

—  Sapete,  Piatti,  io  vado  a  Roma  per  persua- 
dere il  ministro,  che  è  assurdo  scendere  a  trat- 
tative. Parleremo  con  alcuni  deputati,  e  il  mi- 
nistro non  potrà  che  cedere.  Intanto  l'ordine  del 
prefetto  è  sufficiente  per  darvi  l'autorità  di  far 
lavorare  su  larga  scala.  I  nostrf  agenti  sono  a 
vostra  disposizione  per  istruire  i  soldati  nella 
mietitura.  Pensate  che  si  tratta  di  una  ricchezza 
dello  .Stato... 

Il  colonnello,  felicissimo  di  quella  immediata 
partenza,  non  pensò  neppure,  come  aveva  fatto 
primj,  che  quelfa  ricchezza  'era  veramente  del 
marchese  Màrgora. 

—  Oh,  che  peccato!  —  esclamò.  —  Partire! 
Caro  marchese,  mi  fate  un  torto... 

Il  marchese  Riccardo  accese  una  sigaretta, 
strinse  di  nuovo  una  'mano  e  una  spalla  di 
Piatti,  e  annunziò  la  sua  partenza  per  la  sera 
stessa. 

La  marchesa  Irene  non  ebbe  neppur  la  forza 
di  fare  le  Sue  meraviglie. 

Quella  libertà  improvvisa  le  apriva  talmente 
il  cuore  alla  gioia,  _  che,  per  celarla,  prese  il 
pretesto  di  dover  dare  degli  ordini,  e  si  allon- 
tanò. 

—  Potete  leggere  le  riviste  —  disse  gettando 
uno  sguardo  obliquo  e  ridente  a!  colonnello. 

Piatti  ringraziò  con  un'occhiata  che  vole%a  dire: 
—  Ho  già  scelta  la  mia  rivista;  e  finse  d'jni- 
mersrersi  nella  lettura. 


Cosi  dunque  aveva  luogo  il  the  d'onore  pel 
colonnello  Piatti. 

Quando  i  due  vecchi  signori  entrarono  nella 
sala,  la  conversazione  era  già  animau  e  da  varii 
gruppi  saliva  il  fumo  delle  sigarette. 

La  sala  era  di  forma  rettangolare,  molto  vasta, 
con  due  finestre  lunghe  che  davano  sopra  una 
terrazza,  e  una  che  guardava  il  viale. 

La  conversazione  più  calorosa  si  era  impegnata 
'  i^el  gruppo  degli  ufficiali.  Si  trattava  della  caccia 
in  Sardegna,  e  di  alcuni  (Cavalli,  recente  acquisto 
del  conte  Fadda. 

Ma  il  conte  Fadda  non  prendeva  parte  a  quel 
gruppo  clamoroso.  Era  seduto  con  Torriani  e  duf 
altri  signori  di  mezza  età,  che  calzavano  ghette 
grigie  e  adagiavano  sulle  poltrona  un  ventre  con- 
siderevole; parlando,  con  quella  voce  sommessa, 
propria  degli  uomini  abituati  ai  commerci  e  all.i 
politica,  alla  vita  seria  e  pratica,  ossia  ai  proprii 
comodi  su  larga  scala. 

Parlavano  con  equilibrato  entusiasmo  del  prote- 
zionismo accordato  dal  Governo  alle  nuove  indu- 
strie, lodando  la  liberalità  del  Governo,  senza 
dirsene  reciprocamente  la  ragione,  ossia  i  lauti 
guadagni  che  loro  ne  dovevano  derivare. 

I  due  nuovi  arrivati  si  unirono  a  loro  grave- 
mente, accolti  con  cordialità  seria  e  convmta. 
Lrano  infatti  due  fra  i  più  grossi  proprietarìi.  Il 
vecchio  ottuagenario,  che  faceva  le*  lodi  del  pro- 
prio corpo  all'ijigressc^  della  villa,  risparmiava 
ogni  anilo,  delle  sue.  rendite,  trecento  mila  lire, 
comprando  sempre  terra;  e  il  suo  compagno, 
dalla  voce  tremaftte,  aveva  il  sistema  di  vendere 

•  il  grano   in  erba  a  distanza  di   i^-e  anni,  perchè 
non  subisse  diminuzioni  sul  mercato. 

—  Che  còsa  c'è  di  nuovo  da  Amburgo?  —  chiese 
al  conte  Fadda.  .  t  • 

—  .'\h  senatore  —  rispose  Fadda,  paJssando  la 
mano  iVa  i  ciondoli...  —  collocato. 

.\lludeva  a  dei  forti  capitali  che  egli  aveva  col- 
locati presso  la  Banca  d'.Amburgo,  per  timore  di 
una  rivoluzione  in  Italia. 

• —  Bene,  bene  —  riprese  l'ottuagenario,  strin- 
gendo la  majio  ai  due  signori  dalle  ghette  grigie, 
e  chiedendo  a  uno  di  loro:  —  Cqme  mai  or»: 
serio?  Siete. di  mal  umore?j       , 

L'altro  ebbe  uno  sguardo  d'intesa  ct>n  lu\,  «he 
voleva  dire  :  —  Non  toccate  questo  tasto. 

II  suo  comiwgno  dalle  ghette  grigie  ave\.\  i 
latti  perduto  a -Montecarlo  qu.-i.si  luticele  rt 

.dell'annata;  ed  era  |ier  giunta  irritato  con' 
Comune,  che  non  voleva  riparargli  certe  ^t       e 
situate<nei  suoi  fondi. 

L'ottuagenario  fìnse  di  comprendere,  e  : 
salutò  con  la  mano  il  figlio  del  >:.->n;v  F- 
era,  insieme  ad  alcune  signo- 


66 


mente  presso  la  finestra  che  dava  sulla  terrazza 
degli  oleandri.  Egli  parlava  a  voce  bassa,  quasi 
isolandosi,  con  Miss  Everett  e  una  signorina 
Torriani. 

Era  un  gigvane  non  molto  alto,  pallido,  che 
portava  i  baffetti  ritti  e  una  invariabile  impronta 
di  vita  vissuta  nel  mezzo  delle  sopracciglia. 

Egli  si  atteggiava  sempre  a  uomo  che  ha  molto 
goduto  e  molto  sotì'erto,  e  che,  per  conseguenza, 
è  affetto  da  una  speciale  infelicità  psicologica. 
Egli  aveva  l'abitudine  di  dire  che  qualunque  in- 
felicità fisica  è  un  nulla  di  fronte  .a  un  dolore 
dello  spirito;  e  con  ci^  voleva  alludere  costante- 
mente a  una  sua  passione,  ormai  celebre  fra  i  co- 
noscenti, verso  una  giovane  cantante  che  l'aveva 
.abbandonato.  Per  riavvicinarsi  al  marito,  la  gio- 
vine aveva  deciso  di  abbandonare  gli  amanti  :  e 
di  ciò  il  gioviqe  Padda  era  rimasto  così  addolo- 
rato che  aveva  pensato  di  suicidarsi.  Ma  poi  de- 
cise di  rimettere  il  suicidio  ad  altra  occasione  ; 
e  frattanto  andava  trascinando  per  le  conversa- 
zioni il  suo  dolore  misterioso,  che  Io  circondava 
di  un  silenzioso  rispetto.  Tutti  ammiravano  in 
lui  quell'impronta  di  sofferenza  ijiterna  e  quel  ri- 
serbo nel  non  accennare  neppur  di  volo  ai  danni 
finanziarli  subiti  durante  la  sua  passione.  Egli 
aveva  consumato  le  rendite  di  due  anni  nel  col- 
mare di  doni  la  cantante,  che  l'aveva  ricambiato 
con  ingratitudine. 

Ma  questo  egli  non  lo  diceva;  lo  lasciava  con- 
cludere agli  altri;  pago  soltanto  di  avvolgersi 
in  un  dolore  misteriose^  , 

—  Bisogna  vivere,  vivere  —  ripeteva  lenta- 
mente a  Miss  Everett  —  per  convincersi  che 
l'infelicità  psicologica  è  molto  superiore  a  quella 
fisica.  .  • 

—  Oh,  certamente  —  rispondeva  la*  Miss  ;  — 
vi  è  anche  un  libro...  Vado  a  prenderlo. 

' —  No,  Miss  —  disse  il  giovine  Padda,  con 
un  sorriso  calmo  e  ra.ssegnato.  —  Non  serve. 

—  Dicevo  —  aggiunse,  rivolgendosi  sull'avam- 
braccio anche  verso  la  signorina  Torriani  —  che 
le  sofferenze  dello  spirito  sono  molto  più  crudeli 
di  ([uelle  del  corpo.  Uno  di  questi  contadini  che 
non  abbia  che  un  pugno  di  farina,  è  molto  meno 
infelice,  di  me,  ve  lo  assicuro. 

Miss  Everett  aggiunsi-  : 

—  Naturalnvsnte,!... 

•  Essa  era  una  delle  ammiratrici  più  calde  del 
giovine  Padda  e  della  sua  eleganza  inglese  nel 
vestire. 

—  Petchè  non  cambiate  stato?  —  chiese  con 
una  punta  d'ironia  Panny  Torriani.  —  Mi  piace- 
rebbe di  vedervi  mietere... 

11  giovine  Padda  si  accorse  che  Panay  voleva 
ferirlo;  ma  con  un  sorriso  "'indulgenza  si  alzò 
sulla  vita,  girò  gli  anelli  nella  mano,  e  fissò  gli 
occhi  fuori  della  terrazza  fra  gli  oleandri. 


Intanto  una  gran  risata  scattò  su  dal  gruppo 
delle  signore  e  degli  ufficiali.  Fify,  che  aveva 
stretta  grande  amicizia  col  tenente  Verri,  gli  aveva 
soffiata  la  polvere  della  sigaretta  negli  occhi,  e 
il  tenente  le  aveva  afferrate  le  mani,  dimenando 
la  testa. 

—  Sputate,  sputate  —  gli  dicevano. 

—  Ma  che  sputare!  non  ci  vedo  più.  Mi  avete 
acciecato,  signora  Fify. 

Pify  rideva,  e  cercava  un'altra  sigaretta. 

Il  giovine  Padda  si  accosjò  ;  si  accostarono  i 
vecchi  milionari.  Miss  Everett,  Panny  Torriani, 
i  due  signori  dalle  ghette  grigie.  , 

—  .Sputi,  sputi,  lenente... 

Il  tenente  sbarrò  gli  occhi  infiammati,  e  vedendo 
tutti  intorno  a  se,  esclamò  ridendo: 

—  Signori  miei,  mi  auguro  di  avere  tanti  as- 
sistenti sul  campo  ! 

L'uscita  fu  accolta  con  molto  plauso,  perchè 
quasi  tutti  erano  fervidi  partigiani  dell'espan- 
sione coloniale;  specialmente  i  due  signori  dalle 
ghette  grige  che  mandavano  in  Africa  le  loro 
derrate. 

In  quel  punto  entrò  il  cameriere,  e  chiamò  in 
disparte  il  marchese  Màrgora,  parlandogli  al- 
l'orecchio. 

—  E  una  bestia  —  esclamò  il  marchese,  facendo 
atto  di  uscire. 

—  Che  cosa  è  successo.'  —  chiese  la»marchesa 
Irene. 

—  Il  fabbro  non  è  capace  di  aggiustare  l'auto- 
mobile. Ora  vado  io. 

—  Che  pazienza  !  —  osservò  la  marchesa  Irene. 

Il  colonnello  Piatti  pensò  che  quello  era  il  mo- 
mento opportuno  per  ritirarsi,  e  pi-endendo  fra 
le  sue  la  mano  della  marchesa  Irene,  disse 
sorridendo  : 

—  Ci  rivediamo  a  pranzo,  cara  marchesa:  ora 
dobbiamo  andare  sui  luoghi  per  verifiche. 

Il  suo  aiutante  3i  campo  s'irtchinò  con  forza  ;  e 
il  colonnello  prese  commiato  dagli  astanti. 

Prima  ad  uscire  fu  la  contessa  Itta,  che  ripetè 
a  tutte  le  àrniche  le  esortazioni  e  le  notizie  intorno 
alla  commedia,  che  stava  organizzando  nella  sua 
villa. 


La  contessa  Itta  aveva  fatto  rizzare  un  piccolo 
palcoscenico  nel  suo  giardino  ;  in  un  lato  com- 
preso fra  la  fiancata  orientale  della  villa  e  il  muro 
di  cinta. 

\'i  era  un  largo  spazio  capace  di  un  centinaio 
di  sedili,  più  che  sufficiente  quindi  per  gli  spet- 
tatori. 

Per  varie  settimane  non  seppe  concepire  altro. 
_  Non  solo  durante  la  giornata,  ma  anche  nella 
notte,  la  sua  mente  era  occupata  da  quinte,  scene, 


costumi,  lumi,  ribalte.  Era  un'impresa  colossale: 
bisognava  scrivere  da  tutte  le  parti  :  alle  amiche 
delle  città  vicine,  per  i  costumi  ;  perchè  quei  pochi 
che  possedevano,  non  erano  adatti.  .Si  era  proposta 
di  rendere  lo  spettacolo  un  vero  modello  di 
eleganza  :  e  aveva  incaricato  il  giovane  Padda, 
profondo  conoscitore  dei  repertori  da  demi-thcàtre, 
di  scegliere  le  produzioni  più  ricche  di  parti 
femminili. 

—  Pensate,  caro  tenente  —  lo  chiamava  cosi 
per  abitudine  —  che  vi  saranno  anche  gli  ufficiali 
del  22°  fra  gli  spettatori.  Non  dobbiamo  fare  cat- 
tiva figura. 

Il  giovane  Padda  prendeva  sempre  queste  cose 
sul  serio  ;  e  aveva  fatta  una  gita  apposta  a  Milano 
presso  alcuni  suoi  amici  per  consultarli  riguardo 
alla  scelta.  Tornò,  carico  di  fascicoli  e  di  libretti, 
dopo  una  settimana,  e  prese  stanza  in^  una  sala 
terrena  della  villa  Torriani,  che  deminava  alcune 
aiuole  di  fuxie,  fiore  che  egli  preferiva  sopra 
tutti. 

-Spesso  Fify,  che  veniva  a  vedere  il  progresso 
dei  lavori  nel  giardino,  si  introduceva  nella  sala, 
e  vedendolo  rivolto  verso  le  fuxie,  intendo  a  leg- 
gere gli  spartiti,  gli  tirava  il  ventaglio  o  il  faz- 
zoletto, obbligandolo  a  voltarsi  verso  di  lei. 

Il  giovane  Padda  la  .salutava  in  francese,  con 
un  sorriso  molto  pallido,  pjerchè  egli  odiava  tutta 
le  espressioni  eccessive  del  sentimento. 

Pify  che  era  sempre  libera,  stante  l'assenza  di 
suo  marito  che  girava  in  campagna  più  in  traccia 
_di  sassate  che  di  aftari,  gli  si  metteva  accanto  e 
pretendeva  disturbarlo,  facendogli  vento  o  chiu- 
dendogli improvvisamente  le  persiane. 

Ma  il  giovane  Padda  compativa  quei  picpoli 
scherzi  e  obbligava  Pify  a  mettersi  a  sedere. 

—  Ascoltate,  petite-amie  —  le  diceva  —  questa 
scena.  —  E  leggeva  una  scena,  mólto  sostenuta, 
che  egli  si  proponeva  di  recitare  con  Pify  e  la 
più  giovane  delle  Torriani. 

Fify  stava  ad  ascoltare  per  qualche  minuto: 
poi  gli  batteva  il  ventaglio  sulla  nuca,  e  i  guanti 
sui  baffi:  e  scappava  via  ridendo... 

—  Méchante,  petite-amie!  —  esclamava  il  gio- 
vane Padda,  rialzandosi  i  baffi,  che  egli  non 
avrebbe  mai  sofferto  abbassati  di  mezzo  centi- 
metro. 

Fify  infatti  non  poteva  perdere  il  tempo. 

Doveva  trovarsi  in  casa  Padda  per  una  que- 
stione estremamente  interessante. 

La  contessa  Virginia  Padda  aveva  indetta  una 
adunanza  fra  le  sigilore  villeggianti,  per  stabilire 
definitivamente  il  genere  di  toilette  da  adottarsi 
in  tale  circostanza. 

La  cosa  non  era  semplice;  si  trattava  infatti, 
non  solo  dello  spettacolo  nel  giardino,  ma  anche 
di  un  the  nelle  sale  terrene  di  vill^  Torriani,  se- 
guito da  quattro  salti,  come  diceva  la   contessa 


Itta  :  quattro  salti  che  poi  si  sarebbero  trasformati 
in  una  vera  e  propria  serata. 

Pify  trovò  le  signore  già  radunate.  La  contessa 
Virginia  Padda  distribuiva  le  lazze;  e  accolse 
Pify  con  un  amabile  rimprovero. 

—  Ma  guardate!  si  tratta  di  un'adunanza  so- 
lenne, e  tu  vieni  in  ritardo;  e  Fanny  Torriani 
non  _fa  che  parlare,  da  un'ora,  di  scioperi  e 
d'altre  .sottises.  •  , 

Fanny  Torriani  proruppe  in  un  piccolo  ris-j 
nervoso,  e  si  tenne  fra  le  labbra  una  frase  che 
avrebbe  prodotto  un  disastro.  . 

Miss  Everett  sbirciò  Fanny  con  aria  di  rim- 
provero, pensando  che  quel  contegno  sarebbe 
stato  certamente  biasimato   dal   giovane   Padda. 

In  quel  momento,  entrò  la  contessa  Itta:  e  il 
giovane  Della  Staffa  si  affrettò  subito  a  mettersi 
in  posa  di  complimenti. 

—  Ecco  chi  risolverà  il  problema... 
Sorse  un  vociferio  confuso. 

—  Tu  che  sei  a  capo  dell'impresa  teatrale  ri- 
solverai... —  esclamò  la  contessa  Virginia.  — 
Si  tratta  di  sapere  quale  toilette  si  deve  adottar'.- 
per  le  tue  serate. 

La  contessa  Itta  si  mise  a  sedere  con  un  certo 
sussiego. 

In  fin  dei  conti,  si  sentiva  la  protagonista  di 
tutti  (luesti  avvenimenti   e   poteva   dettar  legge. 

—  Non  sta  a  me,  vl-ramente,  M  dirlo... 

—  Decolleté  —  interruppe  .Miss  E\'erett  ;  acuì 
il  giovane  Della  .Staffa  rivolse  uno  sguardo  ridente 
di  stupore. 

Su  questa  parola,  le  discussioni  si  impegnarono. 
Chi  sosteneva  il  decolleté;  chi  la  mezza  toilette 
chi  la  toilette  da  passeggio. 

Fra  i  disputanti,  la -contessa  Virgìnia  andava  v 
veniva  con  aria  trionfale,  lietissima  che  la  con- 
versazione avesse  presa  un.ì  piega  cosi  vivace. 
Per  conto  suo  era  tranquilla,  perchè  sapeva  che 
era  venuto  a  Gaviole  uti  conimes.so  di  Milano 
con  abbigliamenti  all'ultima  moda,  che  vendeva 
a  prezzi  abbastanza  moderati.  .A.veva  già  convinto 
suo  marito  di  acquistarle  una  toilette  bolero  bianca 
pailleté,  una  rarità  del  genere,  che  costava  cin- 
quecento lire. 

Il  commesso  si  chiamava  il  Fischio,  percii' 
aveva  l'abitudine  di  carezzare  con  uno  zufolio 
ogni  su6  articolo  di  genere. 

—  Peccato  che  non  vi  sia  ilVronte  Padda,  che 
conosce  gli  usi  di  Parigi  !  —  os-servò  Miss  Evenni. 

Il  giovane  Della  Staffa,  che  era  vice-presidente 
di  un'associazione  monarchica,  interloquì  : 

—  Credo  che  possiamo  benissimo  risolver,- 
questa  quistìone  in  Italia;  .Anzi  «propongo  al!  i 
contessa  Itta  di  abolire  il  vino  francese... 

—  Ma  io  volevo ^qlo  dare  il  the...  —  osservo 
la  contessa  Itta,  agitando  il  veiUaglio.  l-i  testa 
le  cominciava  a  girare,  nerclu-  .iveva  dovuto  sur 


68 


ferma  in  giardino  al  caldo  per  un'ora  intera,  in- 
sieme all'ingegnere  Ercolani,  attorno  al  palco- 
scenico. 

—  Insomma,  l'argomento  da  esaurire  è  quello 
della  toilette  —  osservò  di  nuovo  la  contessa 
Virginia.  —  Mi  pare  che... 

— •  Peccato  —  disse  Fanny  Torriani  —  che 
quell'agente  di  Milano...  Come  si  chiama? 

—  'Il  Fischio  —  disse  Miss  E\;erett. 

—  Già,  che  il  Fischio  sia  partito. 

La  contessa  Virginia  aveva  in  mano  una  sfera 

'di  cristallo  piena  di  biscotti  Huntley-Palmers;  a 

quell'annunzio,  la  sfera  le  scivolò  di  mano  sulla 

tavola  da    the  ;  e  con   la   faccia   inebetita,    fissò 

Fanny  dentro  gli  occhi. 

—  Che  cosa  è  successo?  —  chiese  Fanny  ri- 
dendo. 

—  Partito...  partito...  il  Fiscl^io? 

—  Si,  ha  fatto  sciopero  anche  lui...  —  riprese 
Fanny,  ridendo  disperatamente. 

—  Ma  che  sciopero!  la  contessa.  Virginia  non 
scherza,  —  interruppe  il  giovane  Della  .Stafla, 
che  era  fidanzalo  di  Fanny  e  poteva  spiegare  una 
certa  autorità:  —  Ti  chiede  se  quell'agente  di 
Milano  è  davvero  partito. 

Un  silenzio  glaciale  si  diffuse  nella  sala. 

L'origine  di  questo  silenzio  non  proveniva  dal 
tofio  severo»  dfl  giovane. vice-presi3ente,  né  da 
un  po'  di  rossore  di  Fanny,  ma  dal  terrore  che  • 
aveva  invaso  tutte  le  signore  presenti,  a  quel- 
l'annunzio. Tutte  avevano  accese  le  loro  speranze 
intorno  al  Fischio. 

La  contessa  Virginia  sedè  sul  sofà  ;  si  soffiò  il 
naso  e  chiamò  Ernestina,  la  sua  bonne;  e  le 
bisbigliò  una  parola  nell'orecchio. 
'  Ernestina  si  allontanò  :  ma  vedendo  che  non 
tornava,  la  contessa  Virginia  si  alzò,  e  scomparve 
dietro  la  portiera.  Tornò  poco  dopo  col  volto  più 
rischiarato:  aveva  aspirato  l'aceto  balsamico. 

Il  giovane  Della  Staffa  non  poteva  permettere 
che  si  prolungasse  un  simile  equivoco. 

Uscì  rapidamente,  dicendo: 

—  \'ado  a  informarmi. 

La  contessa  Virgìnia  ebb?  un  nuovo  accesso 
nervoso:  questa  volta  di  tenerezza.  Si  coprì  gli" 
occhi  col  fazzoletto  e  cercò  di  essére  disinvolta. 
.  La  conversazione  riprese  a  poco  a  poco,  ma  la 
contessa  Virginia  era  lontana  ton  la  mente.  Se- 
guiva passo  passo  Della  Staffa;  lo  vedeva  in 
traccia  del  Fischio,  salire,  scendere...'  —  Pove- 
retto, come  è  gentile  !  ^  mórmòraxa  fra  sé  — 
quella  sciocca  di  Fanny  è  proprio  indegna  dì  lui. 
Che  prontezza!  Ma  tornerà?  Sarà  partito?  Dio, 
che  pena  ! 

Mentre  si  isolava  in  quelle  ritìes:?ioni,  il  came- 
riere alzò  la  portiera  é  annunziò  che  il  viaggia- 
tore era  agli  órdini  di  Sua  Eccellenza. 

Il  giovane  Della  Staffa,  per  far  meglio  assapo- 


rare la  sua  cavalleria,  aveva  creduto  bene  di  non 
tornare. 

—  Passi  pure. 

—  Passare?  —  chiese  il  cameriere. 

—  Si,  che  passi,  che  passi  !  —  insistè  la  contessa 
Virginia,  coprendo  con  un  tono  d'impazienza  la 
sua  gioia  smisurata. 

—  Passi!  —  gridò  il  domestico  nell'anticamera. 
Un  uomo   seguito   da  due   ragazzi   carichi    di 

scatole  di  tutte  le  dimensioni,  si  affacciò  alla 
porta.  Tutte  le  signore  si  .alzarono  in  piedi.  Il 
Fischio  s'inchinò,  e  fece  cenno  ai  ragazzi  di  de- 
porre le  scatole. 

—  Non  è  finito...  —  disse,  rivolgendosi  seria- 
mente alla  contessa.     > 

I  ragazzi  uscirono,  e  introdussero  un  altro 
carico  di  scatole... 

—  Presto,  le  altre... 

I  rao;azzi  uscirono,  e  deposero  sopra  le  prece- 
denti, altre  scatole. 

La  pila  era  imponente  ;  e  il  Fischio  cominciò 
ad  aprire  la  prima,  con  un  leggiero  zufolfo 

Tutte  le  signore  sorridevano. 


Fanny  Torriani,  nell'uscire  con  Miss  Everett, 
era  cwpa.  Tutta  la  'giornata  non  s'era  potuta 
liberare  da  due  occhi  che  la  fis'savano  con  una 
pertinacia  irosa,  superba  :  gli  occhi  di  una  con- 
tadina in  cui  si  era  imbattuta  al  mattino.  Stava 
innanzi  a  una  casupola,  attingendo  acqua  da  un 
pozzo,  e  Fanny  passando,  le  aveva  chiesto  se  era 
passato  il  fattore. 

• —  Non  lo  so  —  le  aveva  risposto  la  giovine,', 
ferendola  con  Io  sguardo,  e  voltandole  le  spalle. 

Fanny  era  rimasta  di  sasso.  Doveva  dunque 
essere  molto  adirata  con  lei,  se  le  rispondeva  posi. 
Che  cosa  le  aveva  fatto  di  male? 

La  contadina  s'era  allontanata:  e  allora  Fanny 
aveva  voluto  entrare  nella  casa. 

Era  la  prima  casa  di  una  viuzza  del  paese, 
.sudicia,  in  mezzo  alla  quale  correva  sempre  un 
rigagnolo  d'acqua  di  fogna. 

Vinse  un  certo  sgomento,  e  posò  il  piedino 
calzato  di  bulgaro,  sul^  scaletta  di  legno. 

Nessuno  comparve. 

Siti  pianerottolo,  vi  era  una  cesta  rotta  e  delle 
zappe  senza  fusto.  Entrònella  stanza  che  serviva 
di  aicina,  e  vide  un  mucchio  dì  stràcci  in  un 
angolo,  da  cui  usci  un  lamento.  Era  un  bamJ)ino 
di  due  anni  con  la  febbre.  Fanny  si  curvò  sugli 
stracci,  e  senti  dietro  a  sé  dei  passini  rapidi  <}\ 
piedi  scalzi.  Si  voltò;  era  una  bambina  di  sei 
anni,  che  la  guardò  con  gli  occhi  smarriti  ;  e 
vergognosa  si  puntellò  alla  tavola,  inarcando  un 
piedino,  e  abbassando  gli  occhi. 

Sulla  tavola  si  vedevano  i  resti  del    desinare. 


delle  mele  cotte  guaste,  e  dell'acqua,  gialla  come 
l'orina.  . 

—  Hai  mangiato  quelle  cose  li  ?  —  chiese 
Fanny  arrossendo. 

La  bambina  non  rispose. 
Fanny  le  passò  una  mano  sui  capelli. 
La    bambina    guardò    il    suo   braccialetto   con 
stupore;  poi  inghiottendo  a  fatica  la  saliva,  disse: 

—  Mi  fa  male  la  gola. 

Fanny  le  osser\-ò  la  gola,  e  le  disse  che  era 
una  glandola  gonfia. 

La  bambina  diventò  seria  e  triste  : 

—  Ma  non  m'importa  di  morire  —  disse  — 
perchè  si  starà  meglio. 

Fanny  l 'accarezzò  ancora. 

—  Non  è  nulla,  sai,  —  disse  per  confortarla; 
e  le  versò  nella  manina  quanto  aveva. 

Intanto  si  udì  di  sotto  un  vocio.  Venivano  al 
pozzo  ad  attingere  acqua. 

Fanny  s'affrettò  a  discendere.  Credette  di  dover 
essere  ingiuriata,  maltrattata;  si  dispose  a  una 
specie  di  difesa.  Avrebbe  lasciato  braccialetto, 
anelli,  tutto... 

Vide  invece  molti  occhi  che  la  fissavano,  con 
meraviglia  quasi  altera. 

Alcune  donne  bevevano.  Ella  si  avvicinò  per 
esaminare  quell'acqua,  che  era  gialla  e  putrida. 

Altre  donne  si  affollarono  intorno  al  pozzo  : 
faccie  gialle  consumate  dalla  febbre,  dove  i  linea- 
menti andavano  perdendo  ogni  bellezza;  e  resta- 
vano gli  occhi  soli,  luminosi  e  soavi,  perfino  nel 
raccontare  la  loro  miseria. 

Una  di  loro  aveva  la  bocca  rovinata  dalle 
febbri  ;  e  alcune  altre,  col  petto.coperto  di  stracci, 
raccontavano  di  non  aver  più  latte  da  dare  ai 
bambini. 


—  Abbiamo  tutte  quante  avuU  la  febi<r-,  >t 
qualcuna  di  <ioi  l'ha  ancora. 

—  Perché  non  fate  bollire  l'acqua? 

—  Eh,  bisognerebbe  aver  la  legna!  Non  l'ab- 
biamo neppure  all'inverno  per  scaldarci... 

Eppure,  da  tutte  non  potè  sentire  una  sola 
parola  di  odio  e  di  violenza.  Una  specie  di  fatalità 
disperata  e  ridente  pesava  su  di  loro. 

Fanny  si  era  allontanata,  trasognando. 

Era  quella  dunque  la  gente  per  cui  venivano 
i  soldati,  quella  la  gente  che  il  colonnello  Piatti 
diceva  di  voler  domare,  che  il  marchese  Màrgora 
andava  a  denunciare  a  Roma  presso  i  Ministri, 
che  suo  padre  ti^tte  le  sere  bollava  col  peggiori 
epiteti,  spergiurando  di  non  voler  cedere  di  un 
palmo  solo  ?         ,  . 

Le  pareva  di  sognare,  e  un  mondo  di  perchè 
le  sorgevano  in  mente. 

La  risposta  più  naturale  era  per  lei  questa: 
bisognava  concedere  a  loro  tutto  ;  dare  quanto 
volevano,  e  più  ancora,  per  vederli  sani,  forti, 
senza  febbre.  Come  si  poteva  far  questo? 
•  Rientrando  in  casa,  trovò  sua  madre  che  leg- 
geva un  romanzo  francese. 

—  Dove  sei  stata  finora  ?  —  le  chiese. 

—  Se  sapessi  —  disse  Fanny  —  non  mi  guar- 
deresti con  quell'indifferenza. 

—  -Me  l'immagino  ;  sarai  stala  in  paese.  VA 
giorno  o  l'altro  te  ne  capiteranno  delle  belle. 
Oggi  intanto  lo  dirò  a  tuo  padre. 

Fanny  le  voltò  le  spalle. 

—  Guardate  che  tipo!  —  borbottò  fra  sé  la 
signora,  —  vuole  fare  e  giudicare  come  gli  uo- 
mini. 

E  sicurissima  di  essere  nella  verit.i,  riprese  la 
sua  lettura. 

DOMENICO  TUMIATI 


3SS^saESS^^i^a^sas:snK:yaK:^t!Kyr::x^r^Kir3nr:g:r^KFZx^^f^^mw^;g^ 


XVIIL 


LE  BAMBOLE 


Ricordo  ancora  la  prima  mia  bambola,  una 
stupenda  bambola  troppo  grande  che  mi  faceva 
paura.  Eppure  essa  aveva  i  capelli  ricciuti,  gli 
pcchi  scintillanti,  una  gonna  di  seta  che  lasciava 
scoverti  due  piedini  dalle  calze  traforate  e  dalle 
scarpe  a  fiocchetti.  Dopo  averla  ben.  bene  am- 
mirata, l'avevo  riposta  in  fondo  ad  un  armadio, 
nel  disordine  dei  vecchi  giocattoli,  con  le  due 
braccia  distese  e  coi'  suoi  occhi    così  pieni   di 


•viftì  rivolti  contro  il  muro.  P-  "  "•  -  ■"  •-»••-  '• 
guardavo  e  subito  la  rimate  \ 
diglio,  senza  mai  potermi  a!'i; 
a  trastullarmi  con  essa.  , 

In  seguito  ne  ebbi   molte  «aitnr,   Kimbolc  m.Tl 
dipinte,  che  ,illa  mìnima  goccia  d'.\    . 
vano  le  loro  guancie  rosee.   Quali  ■ 
La    bambola ■  lavata,  stinta  e  le  mio   iiit.»  t   --•■ 
dei  loro   freschi   colori  !  .\llora  mi  si  consol.iv.» 


assicurandomi  :  «  Con  l'asciugarsi  il  colore  ritor- 
nerà ».  E,  dieci  volte  nella  giornata^  io  andavo, 
con  un  gran  rimorso,  a  contemplare  la  piccola 
vittima,  appoggiata  con  ogni  cura  ad  una  seg- 
giola con  lo  sguardo  rassegnato  fisso  nel  vuoto, 
lina  macchietta  bianca  che  assomigliava  ad  una 
lacrima  mal  tersa,  la  sfigurava  da  un  lato  ed  io 
ne  serbavo  per  lunga  pezza  una  pena  nel  cuore. 
A  venir  trascinata  sur  i  tappeti,  a  cadere  giù 
dalla  tavola,  a  dormire,  sotto  gli  sgabelli,  la  bam- 
bola finiva  di  rovinarsi  :  gli  occhi  azzurri  si  fen- 
devano, la  bocca  perdeva  il  grazioso  suo  sorriso, 
le  brpccia  il  loro  gesto  ritondo;  ma,  se  qualche 
giorno  di  festa  mi  procurava  una'nuova  bambol?, 
l'altra,'  con  la  sua  testa  incollata,  con  le  sue 
braccia  ricucite  da  un  po'  di  réfe,  rimaneva  la 
favorita.  Tale  preferenza  rassomigliava  ad  un  in- 
tenerimento, quasi  che  tutte  le  sue  ammacca- 
ture mi  rammentassero  le  buone  giornate  di  tra- 
stullo e  le  facili  mie  disperazioni  ad  ogni  nuovo 
accidente.  D'altronde  io  non  avevo  ancora  al- 
cuna civetteria,  ma  avevo  una  tenerezza  inesperta, 
un  vago  sentimento  di  fifugio,  giacche  la  mag- 
giore mia  felicità  era  di  coricare  la  mia  bambola 
nella  sua  minuscola  cuna  di  vimini  a  rischio  di 
sciuparne  la  cuffiettina  di  merletto  con  tutti  i 
suoi  nastri. 

Una  sera  le  vivaci  figurette  allineate  nella  ve- 
trina di  una  bottega  di  giocattoli  mi  tentarono. 
Bisognò  entrare'  e  scegliere,  all'incerta  luce  del 
gas  che  allora  accendevasi,  una  di  quelle  leg- 
giadre bambole  sorridenti  fragilmente  nel  lucci- 
core della  porcellana.  Quella  che  io  presi  aveva 
i  capelli  fini,  che  arricciavansi  appena  bagnati, 
i  vestitini  tutti  d'un  pezzo,  tagliati  nell'istessa 
foggia  dei  miei,  un  grembiule  di.  battista.  Ri- 
flettendovi su,  mi  sembra  ch'essa  fosse  assai 
semplice  e  ragionevole.  Né  mantiglia  di  casi- 
piirra,  né  gioielli,  né  occhialetto  di  tartaruga, 
punto  armadio   a   specchio,   punto   trine,    punto 


strascico.  Essa  aveva  proprio  l'aspetto  di  una 
ragazzina,  di  una  ragazzina  più  piccola  di  me, 
e  m'ispirava  cure  materne.  Fu  poi  costei  ch'io 
incominciai  a  lavorare,  raccogliendo  ritagli  di 
garza  e  pezzetti  di  nastri,  nel  vano  della  finestra, 
intorno  a  quel  cantuccio  delle  lavoratrici  su  cui 
la  luce  del  giorno  cade  appiombo  come  in  una 
alcova  drapppeggiata  di  larghe  cortine.  Mi  pro- 
vavo a  tagliare  :  dalla  bella  stoffa  dalle  vivaci 
sfumature,  sufficiente  per  un  intero  vestito,  io 
riuscivo,  a  forza  d'inettitudine,  a  non  ricavare 
che  un  piccolo  cercio  da  ricoprire  un  cappel- 
lino tondo.  Senza  scoraggiarmi,  mi  provavo  a 
cucire.  A  poco  a  poco,  appresi  a  rimanere  quieta 
al  mio  posto,  a  provare  il  fascino  delle  giornate 
di  pioggia  senza  passeggiate  e  del  lavoro  pa- 
ziente che  rende  breve  l'ora,  rinserrando  tra  i 
forellini  dei  punti  il  minuto  che  passa.  Le  mani 
cosi  piccoline  facevano  l'orlo  troppo  grosso,  il 
mio  filo  annodavasi,  rompevasi,  io  diventavo 
rossa,  perdevo  il  mio  ditale,  le  mie  forbici;  il 
gomitolo  rotolava  a  terra,  intricato,  quasi  che 
con  esso  si  fossero  trastullate  le  zampe  di  un 
micino. 

Allora  bisognava  aprire  il  tavol  inetto  di  lavoro 
e  penetrare  delicamente  in  quel  labirinto  di 
tiratoi,  di  cassettini  colmi  di  minuti  oggetti,  pre- 
ziosi per  ciò  appunto  che  non  si  maneggiano 
che  diventando  destra,,  in  cui  apprende  a  cer- 
nere un  centinaio  di  spilli  senza  pungersi  ed  a 
disticare  da  sola  una  matassa  intorno  alla  spal- 
liera di  una  seggiola. 

1  rocchetti  da  far  girare,  g<i  aghi  da  infilzare, 
questo  aguzzamen{o  dello  sguardo  e  delle  dita, 
lo  acquistai  mercé  la  mia  bambola.  Ed  è  perciò 
che  io  la  veggo  all'inizio  della  mia  esistenza  di 
donna,  siccome  nella  stretta  cornice  di  un  viale 
che  s'allontani,  grande  proprio  abbastanza  da 
riempire  con  la  sua  sagonna  di  bimba  felice 
tutto  il  mio  orizzonte  d'allora. 


Giò  ebe  si  vede  attraverso  un  velo  di  mussola  bianca. 


Fu  ih  un  pomeriggio  di  domenica,  all'ora  dei 
vespri  e  della  processione,  che  compresi,  per  la 
prima  volta,  la  solennità  delle  feste  religiose, 
l'attrattiva  dell'organo  invisibile  e  dei  ceri  impal- 
liditi dalla  luce  del  giorno.  Non  mi  dite  che  la 
chiesa  era  piccola,  il  tappeto  del  coro  sciupato, 
il  velluto  degli  inginocchiatoi  gualcito  dalle  me- 
ditazioni un  po'  lunghe,  e  che  gli  innumerevoU 
fiori  delle  cappelle  non  erano  che  di  carta  velina 


di  tutti  i  colori  :  non  crederò  giammai  a  tutto 
ciò.  Il  velo  bianco  teso  sopra  i  miei  occhi  ha 
tutto  trasformato,  per  me  in  quel  giorno. 

Ho  z'ìsio  la  preghiera.  I  misteri  mi  sono  apparsi  ' 
comprensibili  e  gli  emblemi  viventi.  Le  spighe 
di  grano,  i  grappoli  d'uva  ricamati  sulla  tovaglia 
dell'altare,  con  l'agnello  nel  mezzo,  portante  una 
croce  attraverso  il  vello,  mi  colpirono  come  la- 
parola  stessa  del  Vangelo.  Ai  due  lati  del  coro. 


lunghe  file  regolari  di  bianche  vesti  piegavansi 
mollemente.  Come  i  ceri  che  attraverso  il  mio 
velo  non  erano  più  che  punti  luminosi  privi  di 
raggi,  tutti  gli  occhi  aperti  intorno  a  me  avevano 
qualcosa  di  fisso,  e  di  dolce,  un  unico  pensiero 
in  mille  sguardi  sperduti. 

Giulietta,  tu  che  parlavi  sempre  in  clas.se. 
Marta,  così  proclive  al  riso  nell'ora  delle  lezioni, 
Amelia,  traditrice,  burlona  e  malvagia,  come  mai 
in  quel  momento  eravate  tutte  tanto  tranquille, 
calme  e  raccolte?  Giovinette  di  poi,  donne  adesso 
e  madri,  nei  vostri  migliori  giorni  di  virtù,  di  ras- 
segnazione, di  pazienza  a  tutte  le  lacrime,  voi  non 
avete  forse  giammai  più  ritrovato  l'istante  di  fer- 
vore che  passava  allora  al  di.sopra  delle  nostre 
teste  inclinate,  come  una  stella  unica  sorgente  al- 
l'orizzonte delle  nostre  vite,  visibile  per  noi  sole. 

La  mussolina  aveva  riflessi  di  lampade  celesti, 
una  vaporosità  d'incenso.  I  rosari  ravvolti  in- 
torno al  braccio,  le  croci  luccicanti  sui  soggoli 
erano  veri  gioielli  da  chiesa,  adorni  di  argento, 
di  madreperla  e  di  perle,  benedetti,  confusi  nel 
vago  degli  abbigliamenti,  .\vevamo  nascosto  i 
nostri  capelli  sotto  piccole  cuffie  a  pieghe  mo- 
nacali, regolari,  e  rammento  di  avere,  quella 
mattina,  pianto  un  po'  perchè  la  mia  mamma 
voleva  farmi  i  ricci  e  ciò  era  contrario  all'uni- 
forme, che  richiedeva  i  capelli  divisi,  ben  pettinati 
e  lisci,  con  la  linea  pura  che  scorre  la  fronte, 
come  per  mettere  in  evidenza  l'indifferenza  mon- 
dana ed  il  pensiero  completamente  santo. 

Oh!  il  dolce  stordimento  dell'intera  cerimonia, 
il  velluto  su  cui  si  camminava,  i  veli  che  sfiora- 
vano appena,  il  gesto  lento  delle  mani  inguantate, 
la  voce  tenera  d'un  fanciullo  che  recitava  i  salmi 
nel  mezzo  della  chiesa  troppo  aftoUata,  come  un 
uccello  che  volesse  cantare  in  un  cofanetto  di 
raso,  ovattato  di  piume  di  cigno  e  ricoverto  di 
merletti.  Non  si  udiva  nulla  nelle  nostre  file,  salvo 
che  sull'impalcatura,  in  fondo  alla  navata,  dove 
quella  vocetta,  soffocata,  giunta  nell'aria  leggiera 
della  volta,  dipinta  in  colore  azzurro  cielo,  ritro- 
vava la  sua  sonorità  di  cristallo  puro. 


Il  coro  si  sfolla,  sfiliamo  allineate  per  la  pro- 
cessione. I  ceri  tremano  un  poco  nelle  mani 
piccine,  sporte  fuori  dai  veli  dinanzi  a  noi.  Ecco, 
l'alto  stendardo  di  seta  rigida  che  ci  precede  di  un 
bel  tratto.  Colui  che  lo  porta  è  invisibile,  confuso 
nella  folla,  ed  esso  sembra  procedere  da  solo, 
innalzato  e  sostenuto  dagli  accordi  dell'organo, 
da  «lucile  onde  di  atmosfera  vibrante,  che  si 
prolungano  affievolendosi.  Dinanzi  al  (tortone 
semiaperto,  un  raggio  di  luce  sfiora  le  dorature, 
le  sete  ondeggianti,  leggero,  azzurrognolo,  so- 
prannaturale, nella  gloria  dorata,  splendente  degli 
altari.  In  coda  alla  processione,  tutta  in  nero  con 
noi  tutte  in  bianco,  unp  stuolo  di  vecchiette  le 
cui  voci  esitano  alquanto  e  poi  rispondono  alle 
litanie  biascicando... 

Come  la  cappella  mi  è  apparsa  grande  in  quel 
giorno,  vista  lentamente  all'intorno  a  piccoli  pa.ssi 
e  come  tutto  mi  è  apparso  vero,  della  verità 
delle  imagini,  delle  convenzioni,  visto  come  si 
debbono  vedere  i  sogni,  le  religioni  e  Dio,  at- 
traverso un  velo  trasparente,  un'  apparenza  di 
realtà  in  cui  si  mitiga  la  luce  troppo  viva!  .\\ 
muoversi  delle  pieghe  della  mussolina,  i  quadri 
si  animavano,  le  statue  sorridevano,  il  riflesso 
complicato  delle  vetrate  non  era  altro  che  il 
chiarore  mistico  piovente  da  quelle  ali  d'angeli 
di  cui  si  parla  nei  libri  santi,  iridate  come  piume 
d'uccello. 

Bisogna  avere  una  nuvola  bianca  sugli  occhi 
per  guardare  tutto  ciò  e  giammai  dimenticherò 
la  soave  intimità  dei  pensieri  che  si  credono 
invisibili,  confusi  sotto  il  velo  abbas.sato,  con  le 
impressioni  pie  del  difuori.  Ciò  è  durato  tutta 
la  giornata  ;  e  la  strada  al  ritorno,  i  viandanti,  il 
cielo  grigio,  ne  sono  rimasti  trasfigurati,  mentre 
che,  alla  nostra  porta,  io  scendevo  di  carroii-i 
con  precauzione,  profondamente  commossa  per 
quel  vestito  tutto  bianco,  osavo  appena  mettere 
i  piedi  a  terra  e  camminando  come  in  una  nube, 
abbagliata  dalle  impressioni  ondeggianti,  inde- 
cise, d'un  intero  pomeriggio  di  vespri  e  di  bene- 
dizioni. 


GIULIA  DAUDET 
(Tiaduzione  di  Vittorio  Pic.v 


^^(^u^mif 


XIX. 


L'amant  cache, 

Partout  de  ton  charme  sur  terre 
Te  vois  le  reflet  enchanteur  ; 
C'est  ton  pur  rayon  qui  m'éclaire, 
C'est  ton  parfum  qu'a  tonte  fleur. 

Ta  voix,  ta  caresse  attendrie 
Berce  e  rève  mon  coeur  tremblant... 
Tu  m'aimes  en  réve  -  et  la  vie 
N'est  plus  pour  mei  qu'ombre  et  néant. 

L'essor  de  l'ànie  frémissante, 
Le  peu  de  bien  que  fait  ma  main, 
L'espoir,  la  fièvre  qui  me  haute, 
C'est  tei,  c'est  tei  -  triste  amour  vain! 

Je  vois  pàlir  ton  front  qui  souft're 
Et  je  ne  puis  me  dévouer  ! 
Ton  coeur  défaille  au  bord  d'un  gouftre  : 
Sur  quel  coeur  vas-tu  t'appuyer  ? 

D'un  nimbe  d'amour  entource 
Tu  passes  suivant  ton  destin  : 
Tu  l'emportes,  tout  éploróe, 
Ma  pauvre  àme  -  et  tu  n'en  sais  rien. 


Tronco  solingo, 

Si  cheta  il  mar  nell'ultimo  riflesso, 
Scolora  in  un  vapor  la  costa  bruna, 
Due  trepide  barchette  van  lunghesso 
La  sponda  e  un  soffio  reclina  su  l'una 

L'altra  vela  fraterna  ch'è  dappresso  ; 
L'orizzonte  lontan  degrada  e  imbruna 
Le  fiamme  ancor,  mentre  ai  clivi  sommesso 
Un  fiotto  d'ombra  sale  che  s'aduna. 

Ch'è  mai  lassù?...  Nell'aria  tersa  e  muta 
Da  uno  spalto  solingo,  denudato 
Di  frondi  e  fior  —  poi  che  veglia  e  minaccia  - 

Un  esil  tronco  stende  l'irte  braccia 
.Supplice,  immoto,  e  il  cielo  arde  squarciato 
Dal  muto  grido  nell'ampiezza  nmta. 

MARIO  CLARVY 


AMORE 


Olia  Giginctla, 

Tu  vuoi  proprio  conoscere,  dopo  sei  mesi  che 
ci  amiamo,  i!  perchè  di  tutto  il  mio  amore?  Ti 
potrei  rispondere  :  perchè  ti  amo.  Invece,  poiché 
le  cause  del  mio  affetto  ci  sono  e  sono  parecchie 
(tu  stessa  avresti  dovuto  intuirle),  ti  inflìggo  una 
pagina  psicologica  e  te  la  infliggo  senza  pietà, 
perchè  sei  tu  che  l'ai  voluta. 

Tu  chiedi  se  in  me  coi  sentimenti  individua- 
listici si  possa  conciliare  una  vera  passione.  Ma 
se  questa  è  nell'  essenza  stessa  del  mio  io  ! 
Quando  si  à  come  me  una  natura  esuberante  e 
prepotente,  fatta  ancor  più  sana  e  bramosa  dal- 


l'esercizio fisico;  quando  la  montagna,  con  la 
quale  vo  lottando,  mentre  m'indurisce  il  corpo, 
rende  tanto  più  gentile  e  aflfettuoso  l'animo  mio, 
e  mi  fa  desiderare  con  tanto  ardore  un  essere 
amico  ;  quando  il  mio  spirito  egotista  mi  separa 
come  un  solitario  dal  mondo,  e  fa  si  che  al- 
l'amore di  una  donna  sia  spinto  a  forza  e  a  forza 
rimanga  fedele;  quando  quest'amore,  invece  di 
contrastare  con  quello  spirito,  s'aftratella,  perc*tiè 
un  affetto  intenso  e  naturalmente  egoista  ci  al- 
lontana più  che  mai' dai  nostri  simili,  e  ci  rende 
più  che  mai  indifferenti  alle  vicende  umane  ; 
quando  infine  l'amare  una  per.sona  che  ci  ama 
non  è  che  amare  noi  stessi,  tu  ti  stupisci  che  io 


t'adori?  I^  mi  domandi  perchè  il  mio  riioru  si 
sia  rivolto  proprio  a  te  ?  Le  nostre  anime  anno 
percorso  la  stessa  via,  anno  vagato  nella  prima 
gioventù  in  un  cielo  doralo  di  sogni,  si  sono  ri- 
svegliate, nelle  crudezze  della  realtà,  e  anno  tro- 
vato la  redenzione  nel  raccoglimento  solitario 
nella  ridente  quiete  dell' indifferenza,  nel  bisogno 
d'amore.  E  l'una  all'altra  questo  bisogno  non 
poteva  davvero  soddisfare  con  più  larga  dolcezza: 
perchè,  come  in  un  giovane  di  venticinciue  anni, 
per  la  simijatia  dei  contrasti,  l'ideale  della  donna 
amica  è  una  Gigina  di  trenta,  una  vera  donna 
che  conosce  il  mondo  e  ama  con  più  tranquilla 
intensità,  cosi  per  Gigina  l'amore  semplice,  che 
vibra  con  la  mia  gioventù,  sembra  più  gradito 
alla  natura  e  accarezza  di  più  1'  istinto  materno. 
Tutti  e  due,  per  ragioni  diverse,  consideriamo 
come  una  fortuna  inestimabile  il  legame  che  ci 
unisce.  Questa  è  la  nostra  forza;  si  ama  perchè 
si  è  amati.  Io  sento  che,  se  il  tuo  cuore  non 
fosse  più  mio,  mi  separerei  da  te  senza  dolore. 
Ci  vogliamo  bene  perchè  siamo  liberi  e  non 
schiavi  come  due  sposi,  animaletti  accoppiati  per 
far  dei  tigliuoli.  Quel  buon  Spencer,  che  fonda 
la  sua  teoria  sul  postulato  della  necessità  della 
conservazione  della  specie!  Ecco  due  cittadini, 
che  s'adorano  e  non  vedono  proprio  questa  ne- 
cessità. E  s'adorano  e  sono  fedeli  anche  <|uando 
sono  divisi.  Perchè  sono  oramai  due  mesi,  (".igi 
mia,  che  noi  non  ci  vediamo! 

Tua  madre  non  poteva  avere  un'idea  migliore 
che  quella  di  condurti  in  riviera,  lontana  da  me 
più  di  duecento  chilometri  in  linea  retta  ?  Meno 
male  che  sei  nel  paese  di  Albi,  dove  mi  pare  di 
vivere  in  ispirilo  e  di  proteggerti.  Quanti  ricordi 
di  passioni  remote  mi  risveglia  1'  immagine  di 
quel  piccolo  paese  dalle  casipole  variopinte  e 
dalla  spiaggia  deserta  I  Quel  piccolo  paese,  che 
per  me  rappresenta  1'  immensità  ! 

V'è  però  qualche  cosa  di  novaniente  dolce 
nella  melanconia  di  un  amore  lontano.  Mentre 
'negli  inizi  ci  si  adatta  a  tutto  pur  di  vedere  In 
persona  amata,  e  ci  pare  che  la  sua  presenza 
sia  indispensabile  al  viver  nostro,  e  appena  si 
rientra  nella  solitudine  si  cade  in  una  tristezza 
infinita;  quando  si  è  conquistato  l'amore  della 
donna,  la  lontananza  ci  è  meno  dolorosa,  perchè 
riconduce  la  nostra  fantasia  ai  sogni,  alle  tene- 
rezze vaghe  dei  primi  giorni. 

Cosi  mi  ritorna  alla  mente  l'allegra  scappai.!, 
elle  facemmo  il  primo  lunedi  di  aprile.  Erravamo 
per  le  praterie  solitarie,  stretti  come  due  sposi 
novelli,  col  cuore  palpitante  di  gioia,  mentre  ci 
salivano  al  viso  vampate  impetuose  di  felicità 
giovanile,  e  risplendevano  in  noi  tanta  sempli- 
cità, tanta  .idorazione,  tanta  primavera,  che  un 
vecchio  contadino,  l'unico  abitatore  di  quell'ampia 
distesa,  lasciando  per    un  momento    di    z.ipp.ire 


la  lerra.  salutava  con  uno  «guardo  di  paterna  e 
serena  compiacenza  il  nostro  amore,  il  quale  a 
lui,  con  un  sorriso  amico,  rendeva  il  «aiuto.  K 
soli,  muti,  in  mezzo  alla  immenna  canipa|;n.i, 
piangevamo  d'allegrezza. 

<J  dolce   Ginetta,    ijuanto    r:i"'"-    ■' -  • 

rude   montanaro   è   piena  di    ■. 

porla  di  qualche  rifugio,  peni   • 

tiginose  sulle  roccie  nere  e  sui  ghiacciai,  guardo 

le  cime  infinite  che  paiono  infinite  guglie  di  cit- 

tedrali  magiche  dorate  dal  tramonto,  e  la  quiete 

solenne    della  natura   fa    che    l'anima   chiami    a 

raccolta  i    suoi  errori  e  le  sue  sp«-rai 

o  Gigi  mia,  sovrapporsi  a  ogni  punì 

la  tua  cara  immagine;  cosi  mi  pare  ...         ...,. 

una  Gigi  colossale  sul  Monte  Bianco,  una  Gi- 
gina  più  slanciata  sul  Cervino,  una  Cina  can- 
didi.ssima  su  tulle  le  punte  del  Monte  Rosa,  una 
Giginetta  in  costume  svizzero  sulla  Dent  Bianche, 
una  Ginetta  vaporosa  sul  W'eisshom,  un'Elta 
lontanissima,  evanescente  sul  .Monte  Viso;  e  mi 
rammarico  che  la  visione  amica  non  appaia  .inche 
sul  mio  monte  e,  come  una  f.iln  dell.»  ■u.mmiti, 
non  scenda  dalla  vetta  alla  capann.t  niiicra  e 
buia  per  portare  al  compagno  fedele  u^  raggio 
di  luce.  Come  mi  accorgo,  contemplando  in 
queste  ore  sublimi  la  natura,  che  la  conifMgnia 
desiderata  dall'uomo  nelle  commozioni  intenw, 
nelle  vaghe  tristezze,  nei  sogni  infiniti  che  ci 
vengono  ilall'universo,  non  è  la  compagnia  d'un 

amico,  di  una    moltitudine,    nn    '-     '•    una 

donna!  E  il  desiderio  di  te  è  C'  ■  osi 

forte   che    talvolta.  |>er    l'eccil .  fan- 

tasia, mi  pare  d'averti  insieme.  L'altro    giorno, 
sulla   mia  punta  preferita,    da  cui    in  un   giorno 
perfettamente  sereno,  non  velato  dai  più  leggieri 
vapori  all'orizzonte,  si  può  vedere    la  linea    az- 
zurra del    mare,    non  ó  forse  avuto    '  i 
guardando  fissamente  a  destra  nella 
.Mbi.  di  scorgere  Gigina.   che    legg'' 
sulla  rena,  o.   peggio,  che  scopriva 
curioso  le  belle  gambette  (atte   al  l<>;: 
dendo  nell'iicqua.»  Oh!  va  ìk,  Mnta   che    tu   te 
ne  accorga,  io  ti  sorveglio.  . 

Nel  mondo  io  non  vedo  più  che  noi  due  :  i 
piccoli  villaggi  alpestri,  le  metropoli,  l'umanità 
intera  scompaiono;  su  tutta  qii'     '  ■  '    '      ■ 

della  patria  non  sono  piii  che 
rina  avvolta  in  in    ■■■  ">i-i^  '  -.    , 

si    disegna    sull'i:;  I    mare,   e 

una   piccola  mac.  :  ■    »<il    >"<:i 

dido  di   un  grande  Khiactmio;    Uur-   ' 
tari,  lontani  l'un   dall'altro  renlinwì» 
l'uno,    che  par  gettato  i-  '■'■  ' 

rapito   da  un  turbine  si:  mi 

lutti  e  due  uniti    ' 
polente  ;  mentre 


74 


regge    l'universo,    porta  il  bacio    del    mare    alla 
montagna. 

L'altro  giorno  la  padrona  dell'albergo  mi  con- 
segnò la  tua  letterina,  e,  riconoscendo  il  solito  pro- 
fumo e  la  solita  busta,  mormorò  furbescamente: 
«  Com'è  squisito  il  profumo  d'Eliotropio!  » 

«  Stupida!  »  dissi  fra  me  «  profumo  di  Gi- 
netta,  non  d'Eliotropio  ».  Quel  profumo  che  mi 
ricorda  tante  divine  dolcezze  !  Questi  ricordi  sono 
cosi  fortemente  vivi  nei  miei  sensi  che,  ritornando 
da  ascensioni  faticosissime  di  diciotto  o  venti  ere, 
quando  si  va  innanzi  col  cervello  vuoto,  per  forza 
d'inerzia,  ubbriachi  di  stanchezza,  io  frusto, 
schiaffeggio'  con  essi  la  carne  e  lo  spirito  e  con- 
tinuo il  cammino  con  una  nuova  e  strana  energia, 
che  stupisce  le  guide.  E  mi  puoi  credere  tu,  che, 
vedi  tremare,  dinanzi  ai  tuoi  calzoncini  ni%'ei  e 
al  tuo  copribusto  color  di  rosa,  questo  impeni- 
tente montanaro,  come  un  ragazzo  che  conosca 
per  la  prima  volta  l'amore. 

Quante  volte  nelle  notti  brevi  e  nervose,  che 
precedono  salite  lunghe  e  difficili,  tento  invano 
di  cacciare  di  fra  le  immagini,  che  si  rincor- 
rono nella  mia  mente,  il  biondo  della  tua  te- 
stina e  il  bianco  paradisiaco  delle  tue  graziose 
gambette,  perchè  mi  sia  concessa  un'ora  di  ri- 
poso! Quel  tuo  collo  sottile  e  candido  di  bam- 
bina, che  pare  debba  rompersi  quando  con  tutta 
la  forza  del  mio  amore  ti  suggello  con  un  bacio 
la  nuca,  è  il  più  ostinato  a  ripassarmi  dinanzi 
per  negarmi  spietatamente  il  sonno.  E,  come 
orde  nemiche,  m'accerchiano  per  affocarmi  le 
carni  i  ricordi  di  tutti  i  baci  ardenti  di  gioventù 
e  d'amore,  di  cui  ci  coprivamo  per  lunghe  ore 
e  che  ci  lasciavano  languidi,  sfiniti,  innamorati 
più  di  prima.  Allora,  vedendo  che  è  vana  ogni 
resistenza,  mi  getto  anch'io  nella  mischia  dispe- 
ratamente, e  riaccendo  nella  mia  memoria  tutti 
i  divini  deliri  dell'amore  non  mai  sazio,  che  tu 
m'ài  concessi;  e  t'amo  di  più  e  fremo.  Ah!  più 
dolce,  più  seducente,  più  ammirabile  del  giuoco 
di  colori,  che  offre  la  montagna  più  bella  col 
verde  delle  praterie,  il  bianco  dei  ghiacciai,  il 
nero  delle  roccie,  gli  azzurri,  i  violetti  superbì 
del  cielo,  è  il  contrasto  della  calza  nera,  della 
giarrettiera  rosa,  della  carne  bianca. 

O  Gigi  mia,  stringimi  forte,  lega    alla    tua    la 


mia  gagliarda  gioventù,  la  quale  à  per  sempre 
abbandonata  la  società,  che  la  voleva  uccidere  ; 
rasserena  con  la  tua  dolcezza  gli  affetti  sublimi, 
che  l'universo  m'inspira,  e  che  l'immenso  for- 
micaio del  mondo  deride;  fa  chel'idea  dell'ignoto, 
dell'infinito  non  cozzi  colla  realtà  della  mia  vita, 
ma  si  unisca  in  me  al  tuo  amore  :  tu  stringi  al 
petto  un  uomo,  non  una  pecora  imbrancata  fra 
le  pecore  vili.  Tu  e  la  montagna  siete  ormai  la 
sola  mia  gioia,  la  mia  sola  ragione  di  vivere.  Io 
non  soffoco  gl'impeti  della  natura  con  le  me- 
schine finzioni  sociali  ;  io  non  esalto  la  potenza 
della  natura  e  dell'amore  dopo  aver  predicato 
tutto  il  giorno  che  bisogna  ad  ogni  cosa  ante- 
porre il  dovere,  il  quale  l'uno  e  l'altra  opprime. 
Io  preferisco  la  tua  vita  a  quella  di  cento  dei 
miei  simili,  alla  fortuna  della  patria.  L'abbraccio 
di  una  donna,  che  vi  ama  con  l'anima  e  col 
sangue,  vai  bene  l'affetto  dell'umanità  intera! 
I  prosaici,  gli  scettici,  i  cinici,  sono  i  buoni  cit- 
tadini, che  non  comprendono  nulla  a  queste  cose. 
Mentre  ti  scrivo  l'anima  mia  si  espande  in  vio- 
lente ondate  di  così  forte,  generosa,  alta  pas- 
sione da  travolgere  e  stritolare  le  infinite  teste 
pidocchine,  che  van  gonfiando  bolle  di  sapone. 
Ah  !  poter  passare  tutti  e  due  in  mezzo  alla  mol- 
titudine, radianti  del  nostro  amore,  schiaffeg- 
giando con  la  nostra  felicità  i  mille  farisei,  che 
vanno  cercando  con  ogni  mezzo  la  loro,  e  pre- 
dicando il  sacrificio,  vogliono  rubare  agli  altri 
la  poca  gioia  strappata  al  dolore  con  tanta  di- 
sperata fatica! 

Mia  cara,  mia  dolcissima,  mia  divina  Giginetta, 
che  abbraccione  robusto  ti  darò  rivedendoti  dopo 
due  mesi  di  separazione,  che  baci  violenti,  che 
strette  da  lottatore,  per  cui  maledirai  tutto  l'eser- 
cizio montanino,  che  mi  fa  i  muscoli  di  ferro. 

Salutami  il  tuo  gattino,  che  professa  con  tanta 
lodevole  franchezza  la  mia  stessa  filosofia. 

Addio  :  stendiamoci  la  mano  al  di  sopra  delle 
pianure  e  delle  montagne,  non  curandoci  di  cosa 
pensino  quei  puntini  neri,  che  formicolano  in* 
fondo  alle   valli. 

Ma  questa  è  l'ora  in  cui  tu  scendi  alla  spiaggia 
e  immergi  il  tuo  piedino  nell'acqua:  io,  con  gli 
occhi  all'orizzonte,  t'accompagno... 

Alberto. 


UGO   DE  AMICIS 


^g^ 


^P^ 


LA   MORTE   DI.  MAURANTONIO 


Perchè  Maurantonio  era  proprii)  morto.  Non 
poteva  rimanere  nessun  dubbio  dacché  don  Ni- 
cola l'aveva  dichiarato,  e  l'aveva  anche  messo  per 
iscritto,  perchè  anche  il  sindaco  doveva  saperlo, 
diceva  lui,  che  il  pover  Maurantonio  era  morto. 

E  quando  Anna  Maria  lo  vide  cosi  rigido,  di- 
steso su  quel  letto,  dove  ella  lo  aveva  vegliato 
otto  giorni  e  otto  notti,  e  quando  capi  che  egli 
non  avrebbe  mai  più  aperto  gli  occhi,  perchè 
una  vicina  avea  messo  su  cia.scuna  palpebra  un 
pezzo  da  due  soldi,  e  che  non  avrebbe  mai  più 
parlato,  chiamandola  con  quella  sua  voce  amo- 
rosa, un  po' rauca:  Oè,  Anna  Mari!  e  che  non 
avrebbe  mai  più  disteso  quel  braccio,  attaccato 
dalla  corona  del  rosario,  a  prendere  la  giara 
dell'acqua,  per  dissetarsi.  Anna  Maria  si  gettò 
in  ginocchioni  presso  il  corpo  del  marito,  si 
stracciò  i  bei  capelli  neri,  che  ella  portava  ser- 
rati in  due  lucide  treccie,  e  si  diede  a  piangere 
e  a  dire  ad  alta  voce  le  virtù  del  defunto,  che 
per  cinque  anni  non  le  aveva  mai  dato  il  più 
piccolo  dispiacere. 

«  Un  uomo  d'oro,  un  uomo  santo,  che  la  Ma- 
donna mi  aveva  regalato  !  E  adesso  Dio  me  Io 
toglie  per  i  miei  peccati...  No,  in  tutto  il  mondo, 
e  nemmeno  in  America  non  c'era  un  uomo  si- 
mile! Lui  timorato  di  Dio  e  di  San  Nicola,  che 
per  tutto  l'oro  del  mondo  non  avrebbe  man- 
cato alla  novena,  e  che  tutti  i  santi  venerdì  di 
quaresima  digiunava  !  Lui  paziente  come  un 
agnellino!  Mai  una  parola  cattiva,  che  guardi 
Iddio,  mai  nemmeno  una  volta  in  collera...  Cosi 
buono,  così  innocente,  come  la  farina  da  far 
l'ostia  consacrata!  Che  sia  benedetta,  là  dove 
sta  la  madre  che  lo  ha  portato  !  »  Oh.  lei.  povera 
Anna  Maria,  restava  adesso  come  una  pecorella 
smarrita  sulla  terra!  Proprio  come  un  uccello  in 
mezzo  al  verno;  era  finita  la  sua  gioia,  era  finita  \.\ 
sua  gioventù.  Andrebbe  a  seppellirsi  tra  quattro 
mura  ;  non  voleva  più  vedere  la  faccia  della  gente, 
adesso  che  Maurantonio  era  morto! 

Le  comari  piangevano  tutte  con  lei,  ascolta- 
vano i  suoi  lamenti  e  le  davano  ragione.  No, 
un  uomo  come  Maurantonio  non  si  poteva  tro- 
vare. Come  l'aveva  fatta  felice  quella  Anna  Mari.il 
Come  si  erano  voluti  bene!  Signore,  tienlo  nell.i 
tua  misericordia  ! 


Gli  uomini,   i   viCini  i-  i   lonMrii.   m-.    ■. 
entravano   e  uscivano.  Ascoltavano  un  i> 
lenzio  le  gridadella  vedova, e  il  brusii  ■!,  i 
delle  preghiere,  dei  pianti  delle  cor: 
andavano,  scuotendo  il  capo,  so-^j 
quel  povero  Maurantonio...  Dio  con  lui! 

Raffaele,  il  figlio  del  massaro  Pasquale,  che 
da  un  paio  d'ore  faceva  la  ronda  davanti  alla 
porta  aperta,  si  era  deciso  di  entrare  anche  lui; 
era   diventato   un   po' smorto,   a    — ■•  -  -< 

viso   giallo,   con   quei   due  soldi   ■ 
di  occhi,  e  aveva  voltato  via  la  ;■ 
messo  vicino  al  cassettone,  con  le  spali- 
giate,  e  con  lo  sguardo  fissQ  in  Anna  Mi- 
per   terra,   piangeva,    urlando.    Ma  ella   iioa   lo 
guardò  neppure,  e  Raffaele,  dopo  un  poco,  je  ne 
andò,  con  un  certo  fare  impacciato,  non  sapendo 
che  cosa  si   dovesse  dire  in  quella  circostanza. 

E  cosi  passò  tutto  il  iKimcriggi'-     \.,..,  \i,.,. 
non  si  .ilzò  mai  da  terra,  non  vollt- 
la    camomilla   che    una   comare  1-    . 
calda.    Diceva  che  voleva  morire  anche  iei.  e  pre- 
gava San  Nicola  e  la  Madonna  di  farle  la  grmtU. 

Cosi  calò  la  sera.  L'andare  e  il  venire  dei  vi- 
cini aumentava.  Gli  uomini  venivano  fin  »ol- 
l'uscio,  con  le  zapi>e  sulle  spalle,  si  sejrna\-ano 
pianamente,  poi  andavano  a  cas.i  a  nj-ingiarc  un 
boccone  d'insalata  e  tornavano  ^  ii.r.',-.  i| 
morto,    dopo    essersi    infilata    la  ' 

nessuna  casa  quella  sera  si  mang:  '. 

perchè  nessuna  delle  comari  ebbe  tempo  a  p»e- 
pararla:  solo  verso  tardi  venne  la  serva  del 
parroco,  con  una  tazza  di  bn-»do  e  due  ao\-a 
fresche  per  la  povera  .■Xnna  Maria.  Ma  la  po- 
vera Anna  Maria  non  volli 

I-a  notte  era  sce»a.  Avi 
presso  il  letto  del  morto,  • 
vano  messo  una   grossa   Ir 
Maria  era  ricca,  e  si  p»>t. 
Lei,  del  resto,  non  vide  niente.  «.t>aiiiii.' 
gere  e  a  lamentarsi,  rhf  U  \'«h-*>  Ir  e-  . 
tata    rauca;    aveva    . 

notte  11  per  terra.  .>  '  • 

ma  d.-il  gran  pi.ing''-  ^ 

cosi    due   comari   ru 
a  condurla   vis,   nei:.i 
un  lettino,  le  lexnrono  le  scarpe 


76 

poi  Ja  lasciarono  coricata  con  gli  occhi  chiusi, 
stanca  morta  ;  solo  il  petto  le  si  sollevava  ogni 
tanto  in  brevi  singhiozzi. 

Anna  Maria  rimase  lì,  dove  la  avevano  distesa. 
Anche  più  tardi,  quando  le  donne  ebbero  chiusa 
la  porta  di  comunicazione  e  un  gran  silenzio 
discese  nella  stanzetta  buia.  Anna  Maria  non  si 
mosse  e  continuò  solo  a  lamentarsi'  pianamente 
con  gli  occhi  chiusi.  Per  molto  tempo  ebbe  una 
perfetta  cognizione  di  ciò  che  era  avvenuto  ; 
suo  marito  che  giaceva  morto,  di  là,  con  i  suoi 
soldi  di  rame  sugli  occhi  ;  le  comari  che  si 
erano  disposte  a  vegliare  il  povero  morto,  e 
avevano  finito  con  l'addormentarsi  ;  quei  due 
ceri  ardenti  presso  il  letto,  che  gocciolavano, 
gocciolavano,  l'odore  afoso  del  cadavere,  della 
gente,  della  cera...  La  porta,  chiusa,  che  le  im- 
pediva di  guardare  nella  camera  di  là...  poi  non 
seppe  più  niente  per  molto  tempo. 

Quanto?  Un'ora,  due  ore?  Dopo  quel  tempo 
Anna  Maria  si  trovò  ancora  distesa  nel  mede- 
simo modo,  ma  aveva  aperto  gli  occhi  nel  buio, 
e  li  fissava  sulla  porta,  che  lasciava  da  una  fes- 
sura filtrare  una  luce  giallognola.  Anna  Maria 
aveva  aperto  gli  occhi,  perchè  aveva  udito  un 
rumore  a  quella  porta.  Come  se  uno,  piano 
piano,  la  urtasse...  E  poi  la  porta  si  aprì,  entrò 
una  gran  luce,  che  abbagliò  Anna  Maria  ;  quella 
luce  era  un  cero  acceso,  quel  cero  era  portato 
da  una  mano,  una  mano  tutta  cinta  dalla  corona 
del  rosario...  Ella  guardò  la  persona  in  viso,  la 
persona  che  entrava...  e,  oh,  San  Nicola  aiuta- 
temi! quella  persona  era  Maurantonio,  il  suo 
morto  marito  ! 

Anna  Maria  fece  per  dare  un  grido,  fece  per 
alzarsi;  ma  l'urlo  le  morì  in  gola,  e  quella  per- 
sona si  recò  in  fretta  l'indice  sinistro  alla  bocca, 
come  per  raccomandarle  silenzio,  poi  chiuse 
dietro  a  sé  la  porta,  e  si  avanzò  verso  il  letto 
dove  giaceva  Anna  Maria. 

Anna  Maria  non  aveva  mai  avuto  paura  di 
suo  marito,  no,  certo,  perchè  egli  era  stato  un 
gran  brav'nomo  in  vita,  ma  adesso  che  era 
morto,  che  era  stato  proprio  morto...  Un  sudor 
freddo  le  copri  tutto  il  corpo,  le  gocciolò  dalla 
radice  dei  capelli... 

Maurantonio  aveva  messo  il  cero  acceso  sopra 
una  scranna  li  vicino,  e  aveva  tirato  presso 
il  letto  la  sedia  di  paglia,  dove  giacevano  le 
calze  di  Anna  Maria  ;  non  le  tolse  di  là,  si  se- 
dette modestamente  sopra  l'orlo  della  sedia,  con 
un  fare  discreto,  proprio  come  quando  era  vivo, 
e  chiamò  la  moglie  per  nome;  con  quella  stessa 
voce  rauca,  solita:  Oè,  Anna  Mari! 

^ra  proprio  comft  prima,  solo  che  aveva  sugli 
9cchi  ancora  quei  due  soldi  di  rame  ;  ma  gli 
occhi  guardavano  attraverso  ;  pareva  che  il 
morto  avesse  un  singolare  paio  di  occhiali. 


—  Che  vuoi,  Maurantonio?  disse  Anna  Maria. 

—  .Son  tornato,  Anna  Mari.  Son  tornato.  Ero 
ancora  li,  sulla  soglia  della  camera;  e  non  mi 
sentiva  il  coraggio  di  andarmene  ;  guardavo 
quella  nostra  roba  così  bella,  quasi  nuova  an- 
cora. Quei  due  letti  di  ferro,  quel  cassettone 
di  noce,  quell'armadio  pieno  di  vestiti...  Pen- 
savo che  non  erano  ancor  due  anni  che  mi  ero 
fatto  il  mantello  nuovo.  E  poi  ti  sentivo  pian- 
gere tanto...  No,  non  avevo  coraggio.  Allora 
San  Nicola  mi  ha  fatto  la  grazia  di  tornare 
a  vederti,  a  dirti  qualche  parola,  perchè  prima 
di  morire  non  ho  potuto... 

—  Ah,  Maurantonio! 

—  Si,  disse  Maurantonio  con  voce  commossa, 
ti  voglio  bene,  sei  sempre  stata  una  buona 
moglie,  Anna  Mari... 

—  Vi  ho  voluto  sempre  bene,  disse  Anna 
Maria  rinfrancandosi,  e  mi  fa  piacere  di  vedervi. 
Mi  direte  se  avete  bisogno  di  me,  e  quante 
messe  volete  che  vi  faccia  dire...  Voglio  che 
stiate  bene,  anche  di  là,  come  io  già  qui  non 
ho  mai  mancato...  Sentite,  marito,  giacche  siete 
venuto,  io  vi  pregherò  di  dirmi  qualche  cosa 
che  mi  pesa...  Quella  cambiale  dell'oste  Man- 
giacane  dove  l'avete  messa?  Son  duecento  lire, 
e  non  vorrei  andassero  perdute... 

—  In  fondo  alla  cassapanca,  nella  tasca  del 
mio  vestito  di  fustagno,  mormorò  il  morto.  E 
puoi  farmi  dire  trenta  messe  dal  parroco  a  una 
lira  l'una. 

Anna  Maria  sospirò. 

—  Son  trenta  lire...  Ma  per  voi,  per  la  pace 
vostra...  Arderò  anche  un  lumino  tutti  i  sabati 
a  vostra  intenzione... 

—  Tu  non  hai  bisogno  di  far  tanta  economia, 
eh,  Anna  Mari?  Ne  hai  delle  belle  lirette  adesso? 

Anna  Maria  lo  guardò  spaventata.  Il  morto 
rideva,  con  una  certa  malizia  bonaria:  si  fregava 
le  mani,  e  i  granelli  del  rosario  picchiavano 
insieme;  strizzava  gli  occhi,  e  quelle  orribili 
occhiaie  di  rame  parevano  girare... 

—  Che  cosa  vuoi  dire,  Maurantonio  mio?  Sì, 
per  grazia  di  Dio,  ho  tutta  la  roba  di  casa,  il 
campo,  e  l'uliveto...  É  tutto  mio  adesso,  perchè 
tu  l'hai  messo  nel  testamento...  Ma  denari  in 
contanti,  lo  sai  bene;  non  hai  lasciato  che  quelle 
trecento  lire  che  son  dentro  alla  scatola  di 
legno... 

Qui  Maurantonio  rise  più  forte.  Rise  così  di 
gusto  che  scricchiolò  tutto.  Gli  occhi  si  stringe- 
vano... tin  tin!...  il  rosario  saltellava,  e  le  tibie 
battevano  contro  le  gambe  della  sedia,  dando 
un  suono  strano  che  fece  venire  la  pelle  d'oca 
a  Anna  Maria. 

—  Perchè  ridete,  Maurantonio  mio? 

—  Rido  perchè...  ehm,  ehm!  (La  tosse  non 
mi   è    ancora  passata...)    rido    perchè    non    vuoi 


dirmi  la  verità,  adesso...  Ai  morti  si  dice  tutto, 
Quanto  hai  messo  da  parte  tu,  senza  che  io  lo* 
sapessi,  (luando  vendevi  i  polli  e  le  uova  e  le 
fave  di  nascosto?  Rido  per  questo,  e^co... 

—  Signore  Iddio  !  disse  Anna  Maria  spaventan- 
dosi di  più,  sì,  mi  confesso  come  in  punto  di 
morte,  in  cinque  anni  non  ho  messo  via  che 
duecento  lire...  Sono  qui,  in  fondo  a  questo 
materasso... 

—  E  hai  fatto  bene,  disse  bonariamente  il 
morto,  è  un  piccolo  peccato,  e  ti  perdono,  perchè 
Io  confessi.  I  morti  tosto  o  tardi  sanno  tutto. 
Senti,  Anna  Maria,  ho  ancora  una  cosa  sul  cuore: 
Bisogna  che  tu  mi  dica  la   verità,    per  avere   la 

•pace...  tu  e  io...  Sei  sempre  stata  una  moglie  fe- 
dele? Proprio  come  lo  raccomandava  il  signor  Par- 
roco? Rispondi  il  giusto!  San  Nicola  ci  ascolta... 

Il  morto  non  rideva  più,  ma  aveva  preso  un 
fare  severo,  come  non  aveva  mai  avuto  da  vivo, 
poveretto  ! 

Anna  Maria  era  fredda  di  paura... 

—  Ah,  marito  mio,  —  balbettò. 

—  Su,  coraggio,  se  vuoi  che  ti  perdoni.  ,'\i 
morti  si  dice  tutto... 

—  Ah,  marito  mio  !  una  volta,  senza  colpa  mia, 
Raffaele  del  massaro  Pasquale  mi  ha  baciato, 
mentre  si  coglievano  le  ulive,  dietro  la  fontana. 

Il  morto  fece  scricchiolare  i  granelli  del  ro- 
sario fra  le  dita,  poi  disse: 

—  E  dopo? 

—  Dopo...  qualche  altra  volta  ancora;  ma  di- 
ceva che  mi  sposerebbe  quando,  quando... 

—  Disgraziata  !  Non  sai  che  quel  Raffaele  è  un 
vagabondo,  un  giocatore,  un  vizioso,  che  ti  basto- 
nerebbe mattina  e  sera?  Vuole  i  tuoi  denari,  il 
birbante  !  Povera  te  se  gli  capiti  nelle  mani  ! 

—  Ah,  marito  mio...  Sci  certo? 

—  Non  sai  che  i  morti  leggono  nel  futuro  ? 
Anna  Mari,  Anna  Mari  !  credevo  che  tu  avessi 
più  giudizio!  Tutti  i  soldi  che  tieni  nel  mate- 
rasso, e  che  hai  portato  via  a  me,  e  tutti  quelli  che 
sono  nella  scatola  di  legno,  e  il  credito  dell'oste,  e 
i  campi  e  l'uliveto  e  la  casa  :  anche  tutta  la  bella 
roba  che  ti  ho  fatta  io,  tutto  se  ne  andrebbe,  se 
capitasse  in  mano  di  Raffaele...  Ascolta,  Anna 
Mari!  Non  sono  stato  io  un  buon  marito? 

—  Ah  si!   Maurantonio!   gemette  la  vedova. 

—  Ti  ho  mai  fatto  mancar  di  niente?  Ti  ho 
vestita  bene,  ti  ho  lasciato  vendere  i  polli  e  le 
fave  e  la  lana  ;  non  ti  ho  fatta  lavorare,  non  ti 
ho  mai  strapazzata.  È  vero  ? 

—  Come  è  vero  San  Nicola,  disse  Anna  .Maria. 

—  Eppure,   tu  qualche  volta  mi  avresti  fatto 


perdere  la  pazienza.    Ricordati.  Quando<andavi 
in  collera  per  niente...   Quan<lo  mi  ■: 
le  tue   scarpe,..   Ijuaiido   mi   di'c\i 

Quando  mi  toglievi   i  soldi   fuori  d^ ,. , 

la  ijera...  Quando  eri  ostinata...  Ricordali!... 

—  Mi  pento,  .Maui-antonio!... 

—  Ti  perdono.  Ti  voglio  bene,  Anna  Mari,  e 
a.scolta  quello  che  ti  dico:  Se  io  me  ne  vado, 
tu  sei  capace  di  sposare  quel  vacabondu  di 
Raffaele.  Non  voglio  che  la  ri^ba  vada  io*i  d 
male,  e  anche  mi  dispiace  per  te...  .Senti:  San 
Nicola  mi  ha  falla  la  grazia.  Intera  me  l'ha 
fatta,  lo  ritorno  vivo  ;  ritorno  con  te.  E  perchè 
tu  possa  volermi  ancora  più  bene,  sarò  piii 
buono  di  prima.  Ti  regalo  i  denari  che  hai  nel 
materasso  ;  lascerò  ancora  fare  a  te  la  vendita 
de'  polli  e  delle  lane,  e  di  tutto...  Ti  comprerò 
anche  un  vestilo  nuovo,  per  andare  al  batleNÌmo 
del  tiglio  di  comare  .Antonia...  Starem»  ailctcri,  ci 
vorremo  bene  come  prima,  ohe,  .\nna  .Mari' 

Il  morto  si  era  rizzato  in  piedi,  e  m'»trava  una 
faccia  cosi  allegra,  e  ri(A'a  cosi  di  gusto  che  si 
scoteva  tutto.  Poi,  d'un  tratto  levò  la  mano  dove 
teneva  il  rosario,  e  paf  !  diede  un  graii  colpo  sulU 
spalla  di  Anna  Maria,  senza  però  farle  male,  all'a- 
michevole, come  soleva  fare  in  vita.  Poi  *i  voltò, 
prese  il  cero  e  se  ne  andò  come  era  venuto. 
aprendo  quella  porla  scura  che  metteva  nella 
camera  di  là;  e  Anna  .Maria  rimase  come  mona 
tanto  era  slato  lo  stupore  e  la  paura. 

Quanto  tempo  rimase  ancora  cosi?  Un'or*? 
Due  ore? 

Quando  tornò  in  sé  e  aprì  gli  occhi  era  giomo. 
Dalla  finestra  bass.i  un  ramo  d'ulivo  picchiava 
contro  i  vetri.  .Anna  Maria  si  gu.irdò  inionio 
sbalordita,  poi  tese  l'orecchio;  un  sordo  rumore 
di  colpi  veniva  dalla  camera  di  lA. 

Che  cosa  succedeva?  Ricordò  d'un  tratto... 
La  morte,  la  risurrezione,  il  discorso  del  ma- 
rito... 1  colpi  continuavano.  .Allora  ella  si  t:«tt''' 
dal  letto,  infilò  i  pie<li  nudi  nelle  scarpe,  corte 
alla  porta,  l'apri.  Una  cassa  da  morto  era  flcv» 
sulle  sedie:  già  tutta  chiusa,  nera,  un  uomo 
andava  picchiando  sull'orlo  col  martello.  Molta 
gente  era  nella  stanza. 

M.-i  .Anna  Maria  non  vide  nessuno.  Pallida,  con 
le  treccie  disfatte  ella  si  slanciò  verso  il  IcUo. 
Era  vuoto.  Cercò  intorno  iV  iikorto.  Non  v'era 
più.  .Allora  si  precipitò  v<"r»"  In  ra«a;  «*«t6  in 
giro  con  mani  febbrili  !■ 

—  Qui,  dis,se  ad  un  :  '•  '" 
una  fessura  tra  il  cx)|>etcm..  •  i.i  .n».  —  <i«i 
non  è  inchiodato  bene... 

LUIGI   DI  SAN  GIUSTO 


■^^:^-^4^=r 


78 


■^^^^^^^i^T:yi»^r.^-^4»^^i«r^3«^<^'^^:y.i>^a>arìt^ 


XXII. 


Tempo  sarà  die  giungami  novella. 


Tempo  sarà  che  giungami  novella 
Delle  tue  nozze  con  un  uomo  ignoto 
Cui  tu,  sommessa  figlia,  ti  conceda. 
Udrò  con  occhi  aperti  e  fissi,  immoto, 
Come  colui  che  al  suon  d'una  favella 
Rivelatrice  cosa  orribil  veda. 
Che,  sapendoti  preda 
Di  cieche  mani,  indarno  renitente. 
Amor  subitamente 
Divamperà  da  l'animo  sepolto. 
Come  un  lampo  cingendo 
II  bellissimo  volto.    V 
Poi  andrò  per  contrade 
Deserte,  i  nostri  cor,  folle!  sentendo 
Non  più  come  due  spade 
Sibilare  in  contese 

Ma  come  fiamme,  belle  fiamme  accese, 
Divelle  con  un  grido  a  l'avvenire, 
Congiungersi  confondersi  morire, 
Per  sempre,  in  un  delirio  ebro  e  supremo. 
O  nostre  nozze!  a  voi  pensando  io  tremo. 

Ma  placata  la  prima  febbre  umana,' 
Ricondurrò  gli  spiriti  in  lor  pace 
Che  si  farà  d'allor  più  e  più  serena. 
Fosti  un  giorno  la  sacra  ardente  face 
Che  l'altre  caccia,  naturai  sovrana, 
Raggiando  solitaria  in  ogni  vena; 
Poi,  prorotta  una  piena 
Di  venture  malefiche  sui  cuori, 
Paurosi  bagliori 

Gittasti  tu  ne'  giorni  miei  cimriieri 
In  fiammea  idra  conversa, 
Ed  io  pe'  cimiteri' 
Errai,  fisso  su  Morte. 

Passò  il  turbo  e  fu  l'idra  in  lui  sommersa; 
Spalancaronsi  porte, 
Ai  miei  occhi,  d'aurora: 
Ricolsi  il  fior  che  flora  e  il  fior  che  odora, 
E  tu,  velata  della  grazia  antica. 
Risorridesti  spiritale  amica. 
Sposa,  mi  splenderai  fraterna  e  bella 
Come  un  alta  su  me  perenne  stella. 

Meglio  di  quanto  un  di  pensai  or  penso. 
Non  muore  Amor  che  fu  si  grande  e  casto 
Ma  si  muta  in  virtù  benefattrici. 


Ei  forza  ti  darà  per  l'olocausto 

Del  corpo  immacolato  a  l'altrui  senso 

Ond'abbia  il  dolce  padre  ore  felici. 

Nelle  simulatrici 

Tue  pupille  una  pia  gioia  leggendo. 

Ed  egli  convertendo 

Il  mio  travaglio  in  laborioso  ardore 

Farà  ch'io  un  dì  me  vanti 

Di  più  spirti  signore. 

Noi  divisi  saremo. 

Ma  non  avvincerà  si  stretto  amanti 

Il  gioire  supremo, 

Come  noi  questa  forza 

Di  bene- che  non  brucia  e  non  s'ammorza; 

Questa,  che  ti  farà  serena  sposa 

E  di  figli  non  miei  madre  amorosa 

Questa,  che  mi  terrà  fra  i  nembi  ritto 

Con  gli  occhi  fissi  nel  tuo  fronte  invitto. 

■Se  vere  nozze  n'avesser  congiunti 
Corporalmente  per  tutta  la  vita 
Sarebbe  forse  l'amor  nostro  morto; 
Che  Amor  dinanzi  vuol  strada  fiorita 
E  non  prunaje  dove  il  pie  s'impuntì, 
O  vuole  un  mar  di  sogno  senza  porto. 
Per  questo  mar  di  pòrto, 
Idea  raggiante,  sin  quando  n'aflferri 
Morte  e  i  corpi  rinterri. 
L'anime  sciolte  a  più  gran  mar  varcando. 
Con  un  voi  di  baleno 
Pronti  allor  c'accoppiando 
Trasfonderem  l'essenza 
Interna,  contro  al  divino  sereno. 
In  una  coscienza      •  , 

Perfetta  ed  immanente 
In  sé  qual  fiamma  suo  gaudio  volvente. 
Tal  dopo  l'ideale  accordo  umano 
Ne  darà  Morte  connubio  sovrano. 
Questa  ferma  credenza  il  cor  m'india 
Sovente  come  piena  melodia. 

E  s'io  non  piango  tu  forte  sopporta 
Il  peso  onde  la  vita  oggi  ne  aggrava 
E  assolvi  chi  ti  volle  e  non  si  mosse. 
Memoria  gli  tien  l'anima  si  schiava 
Ch'egli  non  batterebbe  alla  tua  porta 
Se  pur  tutta  l'ebrezza,  oltr'essa,  tosse. 


Va  con  membra  percosse 

Da  fiero  colpo,  ma  dovunque  ha  il  piede 

Sei  tu  sua  guardia  e  fede. 

Assolvi,  s'ei  la  tua  bocca  fragrante 

Non  godrà,  né  le  cliiome 

Ti  sciorrà,  né  raggiante 

Balzerà  dal  divino 

Letto  a  gittare  nel  sole  il  tuo  nome 

In  nuziale  mattino. 

Ei  iwn  piange,  ma  spesso 

Freme,  e  ti  sente  si  calda  dappresso, 

Che  allora  per  memoria  soll'ocart- 


K  te  con  senso  umano  ardenti:  .mi..,  ■ 

Kinnegherebbe  l'alto  paradisi 

Godendo  lui  nel  tuo  terreno  vìmj. 

Canzon  non  le  dar  pena,     . 

Ch'ella  m'é  sacra  più  d'ogni  persona; 

E  se  mai  ti  perdona 

Ritorna  a  farmi  l'anima  serena. 

Però  pria  dille:  egli  ha  sicura  fede 

Che  a  darti  de'  tuoi  lutti  gran  mi-rcedr 

Un  di  ti  cingerà  d'alta  coroi.  i. 

Torino,  ntlìa  primixxm' ^ 


ARTURO   FOA 


GIOCATTOLI 


Il  bimbo  del  mio  ricco  vicino  aveva  avuto  negli 
ultimi  giorni  dell'anno  un  grazioso  dono:  un 
fantoccio  di  Norimberga  che  faceva  delle  grot- 
tesche capriole. 

11  bimbo,  stringendolo  al  cuore,  correva  per 
tutte  le  stanze,  riemi)iendole  delle  più  gioiose 
grida.  Chi  più  felice  di  lui  ? 

Mostrò  alla  mamma  il  suo  tesoro  e  poi,  non 
contento  ancora,  lo  mostrò  alla  fantesca,  accom- 
pagnando i  movimenti  del  fantoccio  con  la  voce  : 
—    Ino,  due,  tre...  op  là! 

Chiamò  i  due  piccini  del  portinaio  e  li,  sul 
pianerottolo,  diede  un'altra  rappresentazione.  Ed 
i  piccini  sbarrarono  gli  occhioni  per  lo  stupore. 
Ma,  dopo  ch'ebbe  ripetuto  il  giuoco  quindici  o 
venti  volte,  se  ne  stancò. 

Egli  era  un  ragazzo  intelligente  ed  immaginoso. 
Perchè  —  pensava  —  il  fantoccio  non  faceva 
qualche  nuovo  esercizio  ? 

Ed  il  bimbo  andò  a  staccare  le  rotelline  del 
suo  vaporetto  e  le  legò  sotto  i  piedi  del  fantoccio 
per  farlo  pattinare.  I.a  prova  riusci  benissimo;  se 
ne  stancò. 

Poi  volle  fare  altre  innovazioni.  Ma,  per  chie- 
dere troppo,  il  ragazzo  immaginoso  tini  per  rom- 
pere il  giocattolo  e  andò  a  letto  con  le  lagrime 
agli  occhi. 

I  due  piccini  del  portinaio  non  avevano  né 
istruzione,   ni'  inini:igin.\.-ione,  ma  pur  pensarono 


anch'essi  a  divertirsi  negli  ultimi  giorni  dfl!'.in!i-. 
Non  possedevano  che  un  soldatino  e  una  pe<'>r<  ll.i 
bianca  con  tre  gambe.  Si  poteva  f.irc  un  maln- 
monio. 

Il  fratellino  assicurava  che  i  soldati  non  ^ 
le  pecorelle,  ma  la  bimba  diceva  che  li  a\  :  ■ 
fatti  sposare  loro. 

Att.iccarono   due   fili   alle  gambe  degU  Vfo», 
sparsero  di  fiori  la  via  per  cui  dovevi""  ••  ■—  >•'•  i  • 
pecorella    venne    coperta  d'un  p- 
bianco  e   furono  condotti   a   spo^i- 
gatto  Bibì.  Poi  fecero  la  casetta  d, 
le  forbici  e  la  carta  fabbricarono  1> 
le  cortecce  d'albero  fecero  i  tavolini  e  . 

Al  tramonto  vedevo  i  due  bimbi  che  gì»- 
ancor.»,  mentre  il  pianto  del  fanciullo imntAKi::<>^< 
mi  colpiv.»  tuttavia  l'ore»  chio.  ' 

Non  so  perchè,  paragonav.»  ■  >  •■i  '■•.-.-■•:.'  ni.  .■>•! 
tentabile  all'uomo  inciviliti • 
rotella  sotto  i  piedi  del  suo  • 
di    convenzionalismi  sociali  \*    sua    »ii.>. 
giunge  a  turbare  l'incanto  iVIU  iv«f»n«   ■ 
e  ad  andare  a  letto  con  le  lai:  : 
so  v>erchò,  paragonavo  i  dii' 
agli  spiriti  puri  •   '       '     ' 
là  del  loro  sol.l 
rella:  che.  traci 
cose  della  vita, 
può  dare  e  son 


IDILLIO    ALATO 


Una  bella  mattina  di  Settembre  giunsero  sulla 
vecchia  quercia  i  due  sposini,  riempiendo  l'aria 
dei  loro  trilli  appassionati,  e  quei  trilli  chiama- 
rono altre  creature  vaganti  pei  cieli,  le  quali  fis- 
sarono la  loro  stanza  nelle  inforcature  dei  rami, 
all'ombra  delle  foglie,  in  certi  cavi  misteriosi 
della  vecchia  quercia. 

Pareva,  in  alcuni  momenti,  che  l'albero  fre- 
messe tutto  al  contatto  lieve  di  quei  tepidi  cor- 
picini  rigogliosi  di  vita,  pareva  che  un  nuovo 
torrente  di  giovinezza  affluisse  nei  rami  cascanti 
e  rinverdisse  le  foglie. 

I  due  sposini,  che  erano  andati  pei  primi  ad 
abitare  l'albero,  erano  divenute  le  persone  più 
importanti  del  luogo.  Lui,  il  maschio,  se  non  lo 
era  ufficialmente,  poteva  ben  dirsi  il  sindaco  del 
paese  e  godeva  di  una  incontrastata  autorità  ; 
lei,  la  vecchia  signora,  era  sempre  quella  che 
diceva  la  parola  giusta  nelle  questioni  dubbie 
e  si  compiaceva  di  addestrare  i  novizi. 

In  quella  moltitudine  di  creaturine  alate  c'era 
un'usignuola  la  quale  da  parecchio  tempo  faceva 
il  suo  nido  in  un  cavo  dell'albero  che  pareva 
una  piazza.  Ella  ne  era  l'assoluta  padrona:  an- 
dava, veniva,  lanciando  all'aria  certe  canzoni 
che  duravano  ore  ed  ore,  felice  quando  giungeva 
il  momento  che  il  sole  riempiva  della  sua  luce 
bionda  tutto  quell'angolo  tranquillo. 

Un  giorno  un  uccello  spaurito,  piombò  dal- 
l'alto sulla  terrazza  della  nostra  usignuola.  Ri- 
mase qualche  minuto  con  le  zampine  per  aria 
come  morto.  Era  stato  preso  in  un'ala  da  un 
colpo  di  fucile,  mentre  fendeva  l'aria  e  avea 
provato  un  dolore  intenso  come  se  gli  avessero 
spezzato  la  vita.  S'era  sentito  venir  meno  ed  era 
caduto  giù,  giù,  giù,  finché  era  rimasto  là  disteso 
su  quel  cavo  d'albero,  col  beccuccio  in  aria. 

Quante  ore  erano  trascorse  ? 

Finalmente  sentì  il  contatto  di  una  zampina 
morbida  come  una  carezza.  L'usignuola,  uscita 
fuori  dal  suo  nido  per  mandare  il  solito  saluto 
al  sole,  si  era  spaventata  dapprima  vedendo 
l'insolita  cosa  —  poi  si  era  avvicinata  premuro- 
samente. Si  trattava  di  un  compagno,  di  un  po- 
vero compagno  ferito... 

Quante  ore,  quanti  giorni  durarono  le  cure 
affettuose  dell'usignuola  pél  suo  piccolo  amico 
caduto  dal  cielo?  Chi  lo  sa!  l'amore,  l'amore, 
che  non  è  solo  degli  uomini  sulla  terra,  ma  che 


sale  su  tra  i  cavi  delle  querce,  che  sale  fin  nelle 
plaghe  del  cielo,  seppe  suggerire  alla  minuscola 
infermiera  i  rimedi  opportuni. 

E  l'usignuola  guari. 

E  tra  gli  occhietti  tondi  di  lui  e  gli  occhietti 
tondi  di  lei,  passò  una  dolce  corrispondenza 
amorosa,  per  cui  non  trascorsero  che  poche  set- 
timane e  le  due  creature  s'intesero. 

Non  doni  preziosi  di  parenti  e  di  amici,  non 
funzioni  religiose  e  civili,  non  discorsi  e  brindisi 
agli  sposi,  non  gàteau,  non  sacheis  de  noces  — 
ma  tutta  la  popolazione  della  vecchia  quercia 
cinguettò  di  quelle  nozze  felici. 

Lei  era  vestita  del  suo  solito  abituccio  di 
piume  tenere;  lui,  senza  tuba  e  senza  guanti 
bianchi,  s'era  soltanto  lavato  le  ali  nel  ruscel- 
letto, ed  era  bello,  ed  era  felice,  e,  andando  a 
nozze,  lasciava  all'aria  certe  note  acute,  che 
riempivano  l'anima  di  allegria. 

Tutto  il  bosco  dintorno  cantava  e  la  vecchia 
quercia  pareva  ringiovanita. 

Lei  aveva  invitate  parecchie  amiche  dei  rami 
vicini  e  faceva  loro  vedere  il  nido  preparato  da 
lungo  tempo.  E  lui,  volgendo  il  dorso,  lasciava 
credere  che  gl'importava  poco  di  quel  nido,  al 
quale  doveva  più  tardi  rivolgere  tutte  le  sue  cure. 

I  vecchi  coniugi  furono  i  padrini  e  fecero  alle 
giovani  bestiole  molte  raccomandazioni  ispirate 
dalla  loro  esperienza  del  mondo. 

Ma  lui  non  se  ne  die  per  inteso.  Non  possedeva 
nulla,  ma  l'ala  era  guarita  ed  egli  si  sentiva  forte, 
e  l'azzurro  immenso  gli  si  stendeva  dinanzi. 

Così  poco  tempo  dopo,  nel  nido  dell'usignuola, 
lassù  nel  grosso  cavo  che  pareva  una  piazza,  il 
sole  rischiarò  con  la  sua  luce  bionda  quattro 
testine  minuscole  di  piccini  pigolanti. 

E,  mentre  lei  ripeteva  a  quei  piccini  le  parole 
che  la  vecchia  sindachessa  le  aveva  susurrate  al- 
l'orecchio nel  giorno  degli  sponsali,  lui  solcava 
l'azzurro  in  cerca  di  pietanze  squisite  per  la 
nuova  famigliuola. 

E,  più  giù,  tutta  una  folla  di  creature  umane, 
che  passeggiava,  portando  in  giro  i  suoi  pette- 
golezzi, le  sue  ambizioni,  i  suoi  desiderii  mal 
soddisfatti,  non  sospettava  neppure  il  tenero 
idillio  alato,  che  si  svolgeva  in  alto,  nel  cavo 
della  vecchia  quercia. 

ONORATO  FAVA 


XXIV. 


POESIE 


In  quest'ora 

Dimmi,  in  quest'ora  mesta,  che  tu  sei  sola  e  il  silenzio 

E  l'ombra  calano  sul  desolato  piano. 
Mentre  il  tuo  sguardo  vaga  d'intorno,  non  staiti 

Scenderti  in  cuore  come  una  tenerezza 
Profonda,  come  il  bisogno  di'  qualche  afìetto  piii  forte 

In  cui  posar  la  stanca  anima  a  lungo  errante? 
In  quest'ora,  ó  gentile,  è  l'amor  mio  che  ti  parla. 

L'amor  mio  che  non  sai.  ma  che  tutta  circonda 
La  tua  persona:  o  gentile,  è  l'anima  mia. 

Che  a  te  viene  traverso  a  colli  e  monti  e  piani, 
E  che,  in  un  tenue  abbraccio  tutta  ravvolgendoti    ;  ,1,,'. 

Occhi  socchiusi  lieve,  lieve  ti  sfiora. 

Fede  e  scienza 

Quando  s'addensano  in  cielo  le  nere  nubi  e  minaccia. 

Rombando,  l'uragano  alla  fiorente  vigna,     • 
Suona  la  sacra  squilla  e  il  pio  colono  in  ginocchio 

Prega  il  Signor  che  storni  l'imminente  ruina. 
Inutilmente.  Iddio  nell'alto  dei  suoi 

Cieli  non  bada  alla  fervida  prece. 
Ma  il  saggio,  che  ai  severi  studi  rivolse  la  mente 

E  di  Natura  tutti  i  segreti  seppe, 
«  Io  vinco  »  dice  «  la  furia  del  turbine  »  e  tuona 

Contro  le  nubi  con  gli  incruenti  bronzi. 
Così  contro  la  bruta  forza  di  Natura  comb.itte 

Il  saggio  e  sulle  vigne...  grandina  come  prima. 

Ruscello  alpino 

Sulle  mie  rive  non  fu  liattaglia,  ihe  il  mondo 

Ricordi:  non  mulini,  non  officine  io  muovo. 
Con  sottil  vena  scendo  giù  per  la  balza  petrosa 

E  dopo  un  correr  breve  mi  perdo  in  un  torrente 
Anch'esso  ignoto  al  mondo.  Ma  nel  silenzio  dell'Alpe 

Chiara  è  la  voce  mia,  ma  nelle  pure  conche 
Dell'acque  mie  si  dis.seta  il  gaio  fringuello  e  mi  dice 

Quasi  a  compenso  la  sua  nota  giuliva. 
Soche  dall'altre  valli*  calano  rivi,  che  poi 

Illustri  fiumi  corrono  i  vasti  piani. 
Ma  non  li  invidio,  pago  di  ricantar  qucsU  mi« 

Canzone  ai  t-osi-hi,  Me  nuvole.  .<1  sole. 

MARCO  LESSONA 

.,,  .r-r-!^f, 7-*" 


^^^^^^s^^^^^^t^^t^^^y^^^^^^^^^^^^^^'^'^^^^ 


La  terza  volta 


—  Io  non  so  perchè  tu  mi  faccia  questi  rac- 
conti !  —  osservava  Marco  Pittàra,  accarezzando 
distrattamente  ii  boccale. 

Gaspare  Vigo  rideva  ;  a  una  cert'ora  di  notte, 
nell'osteria  deserta  di  Stefano  Turlo,  sulla  strada 
che  da  Anticoli  Corrado  mena  attraverso  la  mon- 
tagna a  Saracinesco,  Gaspare  si  sentiva  invaso 
dall'estro  narrativo  e  s'abbandonava  al  galoppo 
della  fantasia.  Raccontava  cose  strampalate,  ga- 
bellandole a  Marco  quali  storie  autentiche  di 
paesi  lontani;  i  quali,  lontani  o  vicini,  non  sem- 
bravan  popolati  se  non  da  figuri  paurosi  e  da 
larve  tremanti. 

Marco  sbuffava,  spiacendogli  di  lasciarsi  pren- 
dere in  trappola  ogni  sera,  e  desiderando  nello 
stesso  tempo  di  provare  a  sé  e  agli  altri  il  proprio 
coraggio. 

Marco  Pittàra,  vinaio  arricchito,  uomo  robusto 
sulla  cinquantina,  forte  bevitore,  era  nervoso 
quanto  una  femmina;  e  usciva  dall'osteria  per 
tornare  a  cosa,  ogni  notte  inquieto- e  sospettoso, 
come  avesse  dovuto  batter  del  naso  in  qualche 
apparizione  soprannaturale.  Egli  abitava  a  circa 
un  chilometro  da  Anticoli,  verso  Saracinesco; 
mentre  Gaspare,  il  romanziere  notturno,  non 
aveva  che  un  passo  da  fare  per  trovarsi  a  casa 
sua. 

—  Bel  coraggio!  —  pensava  Marco  qualche 
vplta.  —  Se  Gaspà  dovesse  camminar  come  me, 
vorrei  vederlo! 

Ma  Gasi)are  Vigo  non  aveva  paura.  Spirito 
naturalmente  ingegnoso,  animo  d'avventuriero, 
sdegnando  di  calare  a  Roma  come  tutti  i  suoi 
conterranei  a  far  da  modello  negli  studi  di  pit- 
tura, aveva  corso  mezza  Europa,  tentando  mille 
mestieri,  ed  era  tornato  con  un  certo  peculio  ad 
Anticoli,  ove  s'era  dato  all'ozio  più  rigoroso. 
Passava  giorno  e  notte  nelle  osterie,  pellegrinando 
db  Anticoli  a  Mandela,  da  Saracinesco  a  Cervara, 
da  Agosta  a  Canterano.  Bellissimo  giovane,  com- 
pagno allegro  fin  che  non  raccontava  storie  bal- 
zane, pronto  a  pagare  da  bere  e  anche  a  farsi 
rispettare,  era  conosciutissimo  ed  amato. 

Del  resto,  ad  ogni   poco,  egli  veniva  innanzi 


con  qualche  trovata  bizzarra,  che  dava  a  pensare. 
Egli  afìermava,  per  esempio,  che  ogni  uomo, 
prima  di  morire,  arrischia  due  volte  la  vita;  alla 
terza,  la  morte  lo  afferra. 

Scasami,  —  osservò  Marco',  quella  sera  in  cui 
accarezzava  distrattamente  il  boccale;  —  io  ho 
cinquant''anni  fe  non  ho  mai  rischiato  la  vita  per 
niente,  e  sono  sempre  vissuto  pacifico. 

—  Stammi  a  udire,  —  ribattè  Gaspare.  —  In- 
nanzi tutto,  tu  non  puoi  dire  se  hai  rischiato  la 
pelle  o  no.  Qualche  volta  si  risica  di  morire  e 
non  si  sa;  la  morte  vola  e  non  la  vediamo; 
casca  addosso  a  un  altro  e  ci  pare  che  non  sia 
passata  vicino  a  noi. 

—  A  questo  modo,  hai  ragione  tu!  —  disse 
Marco,  versandogli  da  bere. 

—  Si  sa,  che  ho  ragione  io!  Ma  qualche  volta 
avviene  che  te  la  trovi  a  faccia  a  faccia. 

—  Chi?  —  domandò  Stefano  "Turlo,  l'oste, 
svegliandosi  di  là  dal  banco. 

—  La  morte!  —  esclamarono  Gaspare  e  Marco 
insieme. 

—  Eh,  mannaggia  li  cani!  —  disse  Stefano, 
chiudendo  gli  occhi  di  nuovo. 

—  Dunque,  te  la  trovi  a  faccia  a  faccia,  e  te 
là  vedi  li,  dritta  e  tranquilla,  —  seguitò  Gaspare. 
—  E  per  due  volte  ti  rispetta  ;  e  alla  terza  ti 
piglia,  vero  com'è  vero  Dio! 

Levò  il  bicchiere  e  lo  bevve  d'un  fiato. 

—  E  tu?  —  chiese  Marco,  interessato  a  quella 
rivelazione  cabalistica.  —  T'è  avvenuto  di  ve- 
derla mai  ? 

Gaspare  Vigo  si  rabbuiò  in  volto,  si  lisciò  la 
barba  nerissima,  e   pronunziò   quasi   sottovoce  : 

—  Due  volte  ! 

All'anima! —  esclamò  Marco.  —  E  dove!... 

—  A  Londra,  la  prima  volta;  caddi  dal  carro 
che  guidavo,  tra  le  gambe  del  cavallo.  Il  carr» 
era  carico  di  sabbia  ;  e  una  ruota  mi  passò  9  due 
centimetri  dalla  testa  ;  per  un  dito,  non  mi  ff  ce 
del  cranio  una  pifza. 

—  E  la  seconda  volta  ?  —  incalzò  Marco. 

—  La  seconda,  a  Roma!  —  disse  Gaspare, 
ma  non  aggiunse  motto. 

—  A  Roma?  E  perchè?  —  chiese  Marco,  dopo 
avere    invano    aspettato  il  seguito  del  racconto. 


Gaspare  si  lisciò  di  nuovo  Ja  barba,  e  strin- 
gendo le  labbra  con  aria  sdegnosa,   dichiarò: 

—  Quistioni  di  donne!... 

Vi  fu  un  silenzio,  durante  il  «luale  i  due  amici 
st'ettero  ad  ascoltare  i  canti  dei  giovanotti  nella 
montagna.  Il»  giovedì  e  il  sabato  era  costume  di* 
recarsi  sotto  le  finestre  delle  tidanzate  a  cantare 
con  l'accompagnamento  flebile  della  cornamusa; 
e  i  canti  echeggiavano  di  valle  in  valle,  arditi  e 
violenti,  qualche  volta  misti  allp  strido  degli  uc- 
celli notturni. 

Udendo  che  una  fra  quelle  brigate  di  cantatori 
s'avvicinava.  Marco  Pittara  s'alzò  per  accompa- 
gnarlesi.  Gaspare  gettò_.i  denari  del  vino  presso 
il  boccale.  • 

—  Sicché,  —  disse  Marco  avviandosi,  —  l'hai 
vista  due  volte? 

—  Due  volte,  —    ripetè  Gaspare    cupamente. 

—  E  alla  terza  ci  caschi  ? 

Gaspare  non  rispose.  Ambedue  si  diressero 
verso  la  porta,  e  quando  furono  sulla  soglia  del- 
l'osteria. Marco  stese  la  mano  all'amico,  dicendo 
a  mo'  di  scongiuro: 

—  Speriamo  di  non  incontrarla  ! 

—  Chi?  —  domandò  Stefano  Turlo,  alzandosi 
per  chiudere. 

—  La  morte  !  —  risposero  Gaspare  e  Marco 
insieme. 


II. 


Gaspare  Vigo  aveva  per  amante  la  moglie  di 
Marco  Pittàra. 

La  colpa,  diceva  Gaspare,  non  era  sua  ;  la 
colpa  era  di  Marco,  il  quale,  già  sul  valico  della 
maturità,  s'era  avvisato  di  sposare  una  fanciulla 
di  sedici  anni,  uno  di  quei  meravigliosi  tipi  della 
Sabina,  dalle  forme  snelle  e  perfette,  dai  grandi 
occhi  cilestri,  dai  capelli  biondi,  dal  profilo  seve- 
ramente classico.    , 

Queste  fanciulle  bellissime  passano  l.'inverno  e 
la  primavera  a  Roma,  posando  negli  studii  dì 
pittura;  e  l'estate  rimangono  in  montagna.  Pre- 
coci nello  sviluppo,  sfioriscono  presto  per  le  gravi 
fatiche  alle  quali  devono  piegarsi  allorché  tornano 
a  casa.  Esse  attingono  l'acqua  nella  Valle  e  riem- 
pita la  «  conca  »  di  rame,  che  contiene  quindici 
litri,  la  recan  sulla  testa  fino  in  alto  della  mon- 
tagna ;  sulla  testa  portan  fasci  di  legna  e  gravi 
pesi;  e  incrociate  le  bracci,.,  camminan  cosi, 
lente  e  solpnni.  , 

Mariantonia  Pittàra,  sposatasi  a  Marco,  non 
temeva  di  sciupar  tanto  presto  la  sua  bellezza, 
perchè  aveva  due  serve  ni  suoi  ordini  ed  era  te- 
nuta cohie  una  signora. 

Ella  aveva  visto  Gaspare  Vigo  andando  un 
giorno  alla  fiera  di  Àrsoli.  La  gióvane  sedeva  a 
ridosso  del  suo  muletto  grigio  ;  Gaspare  andava 


a  piedi  ;  e  ambedue  scesero  la  bella  stratta,  che 
da  Anticuli  va  nella  valle  .dcll'Anienc,  e  rimali- 
rono.  per  l'altro  versante  sulla  strada  liscia,  la 
quale  condijce  ad  Arsoli.  ,  '  ' 

Nel  tramestio  della  fiera,  fra  gli  uomini  e  le 
bestie,  tra  i  banchi  cl,i  mt-fce  e  i  tiiriaK>;i.  Ir»  le 
ondate  repentine  dt.-lla  lurba,*Gaspare  fu  wnipre 
accosto  a  .Mariantonia  ;  allogò  il  mulo  presso  una 
stalla,  accompagnò  la  giovinetta  qua  e  14  per  le 
sue  compere,  e  verso  l'imbrunire;  .Mariantonia, 
rimessa  sulla  cavalcatura  da  fjasparc.  tornò  con 
lui  in  paese. 

Cosi  s'innamorarono  i  due  giovani,  perciiè  in 
quel  giorno  parlarono  di  molte  cose,  diventa- 
rono amici,  puf  si  sentirono  turbali  V  tacquero. 
Poi  si  videro  altre  Volte,  e  per  trovarsi  inven- 
taron  dei  pretesti  ciascune*  dal  proprio  canto: 
in  ultimo,  i  pretesti  li  inventarono  insieme,  con- 
fessandosi schiettamente  il  loro  amore. 

Gaspare  scendeva  all'.Aniene  a  pescare!  granchi, 
tra  il  foltissimo  canneto;  e  presso  1.»  correntia 
azz6rrastrae  tun\ultuosa,  .Mariantonia  lo  ra>;guin- 
geva  di  frei|uente.  Il  giovane  non  si  di.sMmu- 
lavache  la  'cosa  si  sarebbe  presto  risaputa  in 
paese;  ma  non  temeva  .Marco  Pittàra,  e  alle 
prime  avvisaglie,  per  la  pace  di  Mariantoniii,  sa- 
rebbe tornato  a  Roma,  o  più  su  o  più  giù, 
poiché  I9  vita  in  paese,' la  vita  senza  l'amore  gli 
sarebbe  venuta  a  noia. 

A  poco  a  poco,  gli  amanti  si  fecero  temerarii, 
e  quando  .Marco,  assentatosi  per  atfarl,  dormiva 
fuori  dije  o  tre  notti,  Gaspare  entrava  nella  casa 
di  lui.    • 

L'n  sabato,  passò  dalla  casa  un  gruppo  di  gio- 
vani che  andavano  a  serenare  sotto  le  finestre 
delle  fidanzate,  e  allorché  fu'ron  presso  la  porU 
di  Mariantonia,  tacque  la  cornamusa  ctarci.iir- 
i  canti;  indi  s'udi  un  bisbiglio,  fu'  proni;;-..-  .;  • 
il  nome  della  giovinetta,  e  qualcuno  aggiua.M. 
una  parola  oscena. 

Gaspare  si  morse  le  mani,  a  sangue;  ma  do- 
vette rimanersene  presso  Mariantonia.  che  pian- 
geva; e  a  crescere  lo  scherno,  un  uccello  not- 
turno singhiozzò  nella  montagna,  poi  diede  in 
un  urlo,  che  pareva  upa  sghignazzata. 

—  Potessi  uccidere«hlmen<'  -lami» 

Gaspare,  col  pugno  teso  ver 

E  disse  le  parole  con  ira  i.  .  .  ■  ,  ..;.')nata. 
che  la  .iiiovinetta  sorrise  tra  le  lagrime. 

Ma  l'avviso  non  giovò  se  non  per  qualche  ael- 
•  timana;  la  passione  li  lìpresc,  e  i  convegni 
notturni  furono  continuali.  •  • 

Fra  tutti,  il  più  inquieto   era    Si- 
l'oste;  il  quale  poteva  giudicare,  il.i 
udiva,  la  graviti»  del  fatto   e    '  ' 
voleva  bene  a  Gaspafc    e  a 

vevano,  pagavano  ed  erano  ..- -. 

fano  avrebbe  voluto  evitare  una  tngvdia,  e  <tu- 


84 


diava  la  maniera  di  rimproverare  Gaspare,  cau- 
tamente, con  rispetto. 

Una  sera,  trovò  la  frase.  Erano  appunto  soli, 
Stefano  e  Gaspare,  perchè  Marco  era  partito  per 
Subiaco. 

—  Gaspà  —  disse  Stefano ,  battendo  sulla 
spalla  del  giovane,  che*  sonnecchiava  in  un  an- 
golo dell'osteria,  aspettando  l'ora  di  scivolare 
in  casa  di  Mariantonia,  —  Gaspà,  attenti  al 
gioco  !  Che  tu  non  dovessi  vederla  la  terza  volta!... 

Gaspare  lo  guardò  trasognato  senza  com-' 
prendere. 

—  Chi .''  —  chiese  poi,  sbadigliando. 

—  La  morte  !  —  esclamò  Stefano  Turlo. 


III. 


Soffiava  il  vento,  dà  sradicare  una  quercia,  e 
l'oscurità  era  così  fitta,  che  chiunque  non  fosse 
stato  padrone  della  .strada,  non  si  sarebbe  av- 
venturato quella  notte  per  la  montagna.  La 
strada  era  malagevole,  ora  larga  e  sassosa,  ora 
affondata  tra  due  siepi  alte,  ora  aperta  alla  raf- 
fica e  scoscesa  lungo  il  versante;  saliva,  scen- 
deva, risaliva  poi  per  lunghissimo  tratto,  fino  a 
Saracinesco. 

Gaspare  Vigo,  senza  lume,  procedeva  cauto, 
ma  sicuro,  ravvisandosi  a  un  nonnulla,  a  una 
scabrosità  della  .roccia,  alla  forma  d'un  albero 
appena  intravisto.  E  pensava  alle  parole  di  Ste- 
fano Turlo,  tranquillamente. 

Fosse  quella,  la  terza  volta,  l'ultima?...  Ga- 
spare aspettava  la  morte  per  un  giorno  più  lon- 
tano; ma  anche  in  quella  notte  un  masso  stac- 
catosi dall'alto,  un  albero  che  piombasse  d'un 
tratto  abbattuto  dal  vento,  un  passo  falso  e  un 
tracollo  giù  per  la  montagna  potevano  spacciarlo. 
Per  ogni  dove  il  pericolo  aveva  agio  a  celarsi, 
e  da  qualunque  parte  Gaspare  lo  aspettava,  fuor 
che  dalla  più  facile  e  dalla  più  terribile. 

Marco  Pittàra  non  era  a  Subiaco.  Tornato  su, 
un'ora  prima  che  Gaspare  passasse,  si  era  appiat- 
tato presso  la  casa  e  stringeva  il  fucile  tra  le 
mani...  Non  era  possibile  vedere  a  un  palmo 
dall'albero  appiedi  del  quale  Marco  stava  rannic- 
chiato, ma  l'uomo  contava  che  la  luce  venisse 
dalla  casa  medesima.  Doveva  pure,  Mariantonia, 
scendere  ad  aprire  e  illuminare  i  passi  dell'amante; 
in  quell'atto,  in  quel  lampo,  IMarco  avrebbe  fatto 
fuoco. 

Gaspare  Vigo  saliva,,  tranquillo  e  sicuro.'  Il  suo 
pensiero  aveva  abbandonato  la  morte  e  presen- 
tiva l'amore.  Gaspare  vedeva  già  Mariantonia, 
tutta  bionda,  aprire  silenziosamente  la  porta, 
fargli  cenno,  coll'indice  ritto  innanzi  alle  labbra, 
prendergli  la  mano  e  condurlo  nella  sua  camera, 
e  serrar  l'uscio,  e  poi  volgersi  a  sorridere,  mo- 
strando la  magnifica  bocca  dai  piccoli  denti  bianchi. 


Ella  portava  sempre  alle  orecchie  due  grandi 
cerchi  d'oro.  * 

Marco  Pittàra,  nervoso,  contava  i  minuti.  Da 
quanto  stava  egli  presso  quell'albero?  'Come, 
nell'attesa  egli  s'era  mutato!  Prima,  feroce  e 
implacabile  avrebbe  ucciso  e  Gaspare  e  Marian- 
tonia e  le  due  serve;  poi  si  era  messo  a  ragio- 
nare. Vi  fosse  qualche  altra  maniera  di  trar 
vendetta  ?  Che  cosa  avrebbe  fatto  suo  padre,  in 
simile  frangente!...  Non  sarebbe  stato  meglio 
discorrere  con  Mariantonia,  ch'era  una  bambina, 
poveretta,  e  farle  comprendere  il  male,  e  perdo- 
narle, e  finirla  cosi?...  Ma  la  memoria  di  suo 
padre,  uomo  risoluto  e  senza  pietà,  tolse  dal- 
•  l'animo  di  Marco  ogni  tentazione  di  debolezza. 
Bisognava  uccidere. 

Gaspare  Vigo  seguitava  la  sua  strada.  Era 
riuscito,  tra  il  fischiar  del  vento,  ad  accendere 
la  pipa,  e  si  godeva  la  visione  di  Mariantonia; 
ormai  all'ultimo  tratto,  sostò  un  istante  dentro 
un  gomito  della  strada,  ascoltò  la  musica  del 
vento  fra  le  chiome  degli  alberi  e  il  grido  di 
quel  maledetto  uccello  notturno,  che  sghignaz- 
zava ora  da  presso,  ora  lontano.  Poi  riprese  il 
cammino. 

Marco  Pittàra  dubitava  in  quell'istante  non 
più  di  sé  stesso,  ma  del  fucile  che  teneva  fra  le 
mani.  Tutto  dedito  agli  affari  suoi.  Marco  non 
faceva  un  colpo  da  parecchi  anni  e  le  quaglie 
parevano  sfidarlo,  venendo  a  borbottare  presso 
la  sua  casa.  La  carica  era  buona  e  di  buona 
polvere,  ma  la  canna  poteva  scoppiare  o  il  gril- 
letto far  cilecca...  Questo  pensiero  s'impadronì 
di  Marco,  il  quale  temeva  di  rimanere  vittima 
della  propria  arma  e  di  far  ridere  tutta  la  Sa- 
bina... e  a  turbarlo  maggiormente,  venne  il  ri- 
cordo di  certe  storie  macabre,  che  Gaspare 
raccontava  con  voce  profonda.  «  La  morte  vola 
e  non  la  vediamo:  casca  addosso  a  un  altro,  e 
ci  pare  che  non  sia  passata  vicino  a  noi  ».  Vo- 
lasse anche  in  quell'ora  notturna?  Fosse  vicina 
a  Marco,  mentr'egli  credeva  di  lanciarla  addosso 
a  Gaspare?...  Alino,  due  volte  già  aveva  rasen- 
tato Gaspare;  e  quella  era  la  buona...  Il  fucile 
non  avrebbe  fatto  cilecca. 

Ma  lo  strepito  di  alcune  pietre  che  rotolavan 
giù  pel  versante,  mozzò  il  respiro  di  Marco.  Egli 
si  drizzò  in  piedi,  e  con  l'udito  acutissimo  del 
montagnaro, .  distinse  tra  l'ululo  del  vento  il 
passo  d'un  uomo  che  si  avvicinava...  Sentì  in 
quell'attimo  una  vertigine,  una  confusione  turbi- 
nosa'nel  cervello,  e  cominciò  a  tremar  d'ira  e 
di  spavento,  di  sdegno  e  d'orrore...  L'uomo 
ch'egli  doveva  uccidere  .era  a  qualche  metro  da 
lui.  Con  un  sol  balzo  sarebbe  potuto  piombargli 
addosso  e  rovesciarlo  giù  per  la  montagna. 

—  Mariantò  !  —  bisbigliava  una  voce  presso  la 
porta. 


Nessuno  rispose. 

—  Mariantò  !  —  disse  la  voce  più  forte,  mentre 
una  mano  batteva  discretamente. 

Allora  una  luce  apparve  dentro  la  casa,  e  si 
mosse. 

Marco,  a  ridosso  dell'albero  col  fucile  tra  le 
mani,  tremava  come  una  foglia.  Di  tutto  quanto 
aveva  pensato,  di  tutto  quanto  aveva  proposto 
a  sé  medesimo,  nulla  più  ricordava  ;  la  certezza 
che  la  moglie  lo  ingannava  con  Gaspare  gli  riem- 
piva l'anima  d'una  maraviglia  cosi  grande,  così 
inattesa,  cosi  nuova,  come  s'egli  avesse  appreso 
il  tradimento  solo  in  quell'ora  e  in   quell'attimo. 

La  porta  si  schiuse.  Sul  limitare,  una  candela 
in  mano,  apparve  Mariantonia  tutta  bionda,  coi 
grandi  cerchi  d'oro  alle  orecchie.  Ella  fece  un 
gesto  a  Gaspare,  l'indice  ritto  innanzi  alle  labbra, 
e  Gaspare  l'aflerrò  tra  le  braccia  e  la  portò  dentro, 
violentemente,  d'un  colpo. 

Mentre  la  porta  si  richiudeva,  il  fucile  scivolò 
dalle  mani  di  Marco  Pittàra,  che  jjuardava  la 
sua  casa,  tornata  buia,  con  gli  occhi  spalancati. 

Poi  d'un  tratto  si  mosse,  s'allontanò  per  un  viot- 
tolo, e 'l'intera  notte,  fino  al  comparir  del  sole. 
Marco  Pittara  vagolò  disperato  per  la  montagna. 


l\'. 


Nell'osteria  di  Stefano  Tarlo  v'era  folla:  si 
rideva  e  si  giocava  alle  carte.  Gaspare  Vigo  gio- 
cava a  scopone  con  tre  altri  giovani,  ed  era  pieno 
d'orgoglio  per  i  bei  ricordi  della  notte.  Nel 
mentre  si  mischiavano  le  carte,  egli  lanciava  le 
sue  frasi  bizzarre  e  raccontava  una  barzelletta, 
suddividendola  come  in  capitoli,  ad  ogni  inter- 
vallo tra  l'una  e  l'altro  giro  di  carte;  i  boccali 
giungevano  colmi  ed  eran  vuotati  in  breve. 

Si  sarebbe  detto  che  anche  la  fortuna  volesse 
accarezzare  il  giovine  audace,  poiché  egli  e  ri 
compagno  vincevano  una  partita  dietro  l'altra, 
e  il  loro  schiamazzo  soverchiava  lo  schiamazzo 
di  tutti  ;  Gaspare  non  era  mai  stato  né  più  al- 
legro, né  più  arguto,  e  i  bevitori  delle  tavole 
vicine  s'univano  al  coro  delle  risale  ch'egli  susci- 
tava con  i  suoi  motti. 

Ma  levando  il  capo  per  lanciar  dalla  bocca  il 
fumo  della  pipa,  vide  Marco  Pittàra  v'arcar  la 
soglia  dell'osteria,  e  fu  stupito.  O  non  era  dunque 
a  Subiaco  ?  E  dove  aveva  passato  quella  notte, 
poiché  Mariantonia  era  rimasta  libera  e  sola  in 
casa  ?  Istintivamente  Gaspare  finse  di  non  veder 
Marco,  e  chinò  il  capo. 

—  Qua  le  carte!  —  disse  al  compagno.  — 
-Va'  ve /accio  vede! 


Anche  Marco  entrando  finse  di  non  vedere 
Gaspare  Vigo. 

S'attardò  a  parlar  con  l'uno  e  con  l'altro,  a 
(juesta  e  a  quella  tavola,  e  saJutò  con  la  mano 
Stefano  Turlo. 

—  Addio,  Stefò!... 

Egli  pareva  rabbuiato  e  triste;  di  certo,  era 
men  rubicondo  in  faccia,  e  il  suo  sguardo  si  po- 
sava sui  circostanti  con  una  in<|uietudinc  nuova, 
come  avesse  temuto  di  leggere  in  vivj  agli  amici 
l'espressione  d'uno  scherno  o  di  una  rampogna. 

D'un  tratto  si  decise. 

Alla  tavola  di  Gaspare,  il  giro  delle  cnr'-  •-•  ■ 
finito,  e   uno  dei  giocatori  mischiava  il 
Gaspare,  il  gomito  destro  appoggiato  sulla  ; 
una  gamba  accavallata  sull'altra,  Vigilava  di  sot- 
tecchi l'amico,  del  quale  non  si  sentiva  più  si- 
curo. 

Marco  andò  a  lui,  dritto,  gli  battè  con  la  mano 
sulla  spalla: 

—  Gaspà!  —  disse,  —  tu  sei  una  bestiai... 
Come  per  incanto,  si  fere  un  silenzio  pnv—' 

e  a  tutte  le  tavole  il  giuoco  cessò  d'ui, 

Gaspare  toccò  l'insulto  e  stette  immolli: 
ridendo,    (]uasi    a    far   credere    che   si    trattas--'' 
tl'uno  scherzo.  • 

—  Gaspà!  —  sei  una  be?>tia'  —  continua 
Marco.  —  Tu  m'hai  detto  che  prima  di  morire, 
l'uomo  vede  la  morte  tre  volte,  e  alla  tefi*  la 
morte  se  lo  piglia!...  Te  ne  ricordi? 

—  Embèt  —  chiese  G.Tspare.  togliendosi  la 
pipa  dalla  bocca. 

—  fCmbè,  non  è  vero  !  —  dichiarò  .Marco.  — 
Stanotte,  tu  hai  visto  la  morte  per  la  tena  volta. 
e  non  ti  ha  piglialo  ! 

Gaspare  crollò  le  spalle. 

—  Chi  ti  ha  detto  che  io  ho  veduto  la  mortr 
per  la  terza  volta?  domandò  con  un  .sorriso,  li- 
sciandosi la  bella  barba. 

—  Guardami  in  faccia,  Gaspà! 

Gaspare  si  alzò  in  piedi,  e  guardò  Marco  ncsli 
occhi. 

—  Te  lo  dice  il  figlio  di  mio  padre,  te  ' 
Marco  Pittàra,  che  tu  hai  visto  la  morte  >!  . 

—  dichiarò  Marco  a  voce  alta.  —  E  non  w  hi 
iSigliato  ancorai... 

S'allontanò,  e  andò  al  banco  di  Stefano  Tiirk», 
che  era  pallido  di  spavento. 

Gaspare  tornò  a  sedersi;  poi  prese  Je  carte 
dal  compagno,  rispose  con  ciJma: 

—  Sai  come  fu?...  avrò  sbagliato  0  conio'... 
Ma  quel  giorno  medesimo  Gaspare  Vii:  ■  ->' 

bandonava  Anticoli  e  si  recava  a  Roma,  in  . .  r  .1 
d'altre  avventure. 

LUCIANO  ZÒCCOLI 


XXVI. 


SONETT 


Luna  estiva. 


•Estate  fuggitiva. 


Or  che  la-  luna  estiva  in  su  le  soglie 
chiama  f'abitator  de  la  campagna, 
Kuom  loda  11  chiaro  tempo  e  la  compagna 
da  la  conocchia  il  suo  fpso  discioglie. 

E  un  indistinto  mormorio  di  foglie 
a  quell'uman  susurro  s'accompagna, 
come  sospiro  d'acqua  che  si  lagna 
nel  cavo  de  la  man  che  la  raccoglie. 

Ouindi  jje'  campi  cadono  giganti 
oilibre  di  nubi  e  d'arbori  tra  '1  lume, 
e  il  timor  preme  i  pie'  dei  viandanti  ; 

e  pel  seren  la  luna  alta  governa 
la  bianca  vela,  e  specchiata  sul  fiume 
gli  conta  una  sottil  favola  eterna. 


Quando  l'Agosto  in  vel  cerulo  arriva  ' 
a'  deserti  de'  pascoli  mietuti, 
Pestate  con  balen  d'aurei  saluti 
avalla,  d'Appeonin  già  fuggitiva  : 

lei  seguono  i  pastor,  di  riva  in  riva, 
con  richiami  di  campani  sperduti 
in  mattutine  tiebbie,  e  al  sol  arguti 
variando  un  umil  gemer  di  piva.  , 

Quella  non  danza  o  trilla:  orecchia  lieve 
il  calpestìo  onde  il  cavai  ventoso 
d'Autunno  piomba  dal  Cimòn  piorno; 

e  piega,  ne  la  fretta,  il  luminoso 
òmero  in  un  vanir  d'algido  gioAo 
che  presente  i  silenzi  de  la  neve. 


Il  pioppo. 


Corrispondenze. 


Malanconia  che  da'  cipressi  apprese 
orror  d'ombre  solenni  e  antico  oblìo, 
siede,  o  pioppo,  talor  al  mormorio 
de  le  tue  fronde  a  la  luna  alta  iirotese. 

Ma  sempre  un  ori'ol  de  l'aria  il  mio 
cuore,  te  imtuaginò  allor  che  intese 
per-  i  silenzi" del  natio  paese 
tuo  irrequieto  tremolìo. 

E  nel  fusto  ei  mi  fingea  rinchiuso 
un  vivcf  spirto  che  di  fuor  da  un  velo 
di  argentee  fogliette  sospirando,, 

si  sforzasse  ne  l'aria,  e  ognor  deluso 
lungi  origliasse,,  il  vento  misurando 
onde  le  nubi  sciamano  pel  cielp. 


Chiara  felicità  de  la  riviera 
quando  il  melo  si  fa  magro  d'argenti, 
e  scorre  con  la  verde  anima  ai  venti 
pe'  gréppi  solatìi  la  Primavera 

Sol  la  rovere  par,  umida,  ostenti 
la  spoglia  al  serenar  tepido:  fiera 
che  Maggio  sol  le  violi  la  nera 
ombra  co  i  radiosi  abbracciamenti. 

.\nche  la  speme  in  cor  esita;  come 
fanciulla  che  le  imposte  apra  e  stillanti 
da'  lavacri  al  mattin  terga  le  chiome; 

e  canti,  e  segua  al  pian  nel  chiaro  lume 
uscir  da  l'apuane  Alpi  fumanti 
con.  un  lento  stupor,  cerulo,  un  fiume. 


CECCARDO  ROCCATAGLIATA  CECCARDI 


xxvir. 


^s:^ 


SENZA    SCARPE 


Visitavo  le  lene  intorno  Firenze:  giorno  per 
giorno,  a  piedi  o  in  calesse  di  posta,  come  mi 
capitava..  Non  c'era  inica  i  tramvai  a  que'  tempi  ! 

Una  volta  montai  in  una  vettura  che  andava 
dalla  parte  di  Trespiano  (eravamo  tutti  vivi  nel 
legno,  ve'!)  e  scesi  a  Pratolino  per  recarmi  a 
piedi  nelle  abetine  di  monte  Senario. 

Passata  l'ombria  delle  macchie  piene  di  frulli 
d'ali  e  di  chiò  chiò  di  merli,  m'avviai  per  il 
pianoro  ventoso  che  finisce  sotto  al  monte.  Non 
si  scopriva  una  persona  a  portata  d'occhio  su 
quei  prati  pingui  che  adesso  son  bandita  dei  Lori. 

Ad  un  punto  però,  sotto  un  gruppo  di  alberi 
cresciuti  quasi  su  la  via  malagevole,  mi  trovai 
davanti,  all'improvviso,  un  uomo  che  mi  guar- 
dava, fermo  su  i  piedi.  E  lo  guardai  a  mia  volta. 
Chi  era?!  E  pure  quell'uomo  c'era  già  ne"  miei 
occhi!  Ma  più  accorto  di  me  egli  mi  riconobbe: 
—  Giovanni  ! 

Mi  fermai,  lo  guardai  ancora  perplesso,  un 
istante.  Egli  sorrideva.  —  Non  mi  riconosci 
dunque?!  —  E  lo  riconobbi! 

Oh,  che  impressione  meravigliosa  quando  le 
nostre  memorie  calate  e  spente  si  riaprono  al- 
l'impensata, come  si  potrebbe  aprire  fortuita- 
mente un  forziere  chiuso  da  cent'anni! 

Eravamo  stati  compagni  di  adolescenza.  Poi, 
alla  morte  di  suo  padre,  mi  sembra,  egli  era  tor- 
nato in  Toscana  detìnilivaniente.  E  ci  eravamo 
dimenticati. 

Ed  ecco  che  dopo  tant'anni  un  caso  mi  faceva 
ritrovare  il  giovinetto  querulo  e  stravagante  in 
quell'uomo  alto  e  fatticcio  con  una  lunga  barba 
bronzina  e  una  gran  voce  ! 

Manco  a  dirlo  :  ci  abbracciammo  ;  mi  sequestrò  : 
e  dimenticai  i  frati  di  monte  Senario  e  il  liquore 
di  gemma  d'abete. 

Egli  possedeva  una  parte  di  quel  pianoro  e 
delle  sottostanti  foreste  :  e  viveva  colà.  Rimasto 
solo,  aveva  preso  moglie  in  una  vicina  borgata. 
Ma  non  molto  dopo  la  donna  era  morta  lascian- 
dogli un  figlioletto. 

Stravagante,  incline  alla  solitudine,  si  era  osti- 
nato a  starsene,  col  piccino,  segregato  tuttavia 
nelle  sue  terre  :  convinto  che  al  mon^o  un  uomo 
non   si   può    acconciar    meglio    che    vivendo    in 


buoni  rapporti  con  le  lodole,  con  gli  alberi  e  col 
sole.  E  vi  sfido  a  dire  che  egli  avesse  torto! 

Ci  incamminammo  verso  la  piccola  casa  che 
occhieggiava  poco  lontano  fra  i  lecci.  Egli  aveva 
tolto  il  mio  schioppo.  E  il  nostro  passato  lontano 
rifiniva  su  le  nostre  labbra:  trent'anni  di  vita 
riassunta  all'improvviso  nel  breve  specchio  di 
quattr'occhi  che  si  guardano! 

Stavamo  per  giungere  quando  ci  venne  in- 
contro, sorridente,  un  ragazzetto  scalzo,  a  capo 
scoperto,  appena  vestito.  Ci  fermammo.  —  Ti 
piace?  -  Un  bel  ragazzo!  —  Mio  tìglio!  —  E 
gli  die  un  bufTetto  su  la  guancia  soda  e  ver- 
miglia. 

Dico  la  verità,  non  seppi  che  rispondere.  I^ 
mia  curiosità  era  tutta  nei  miei  occhi.  Egli  fece 
al  fanciullone  :  —  Di  dunque,  vuoi  bene  a  tuo 
padre?  —  E  tuo  padre  ti  vuol  bene?  —  aggiunse 
tosto  ridendo.  Il  ragazzo  si  alzò  su  la  punta  de'piedi 
e  baciò  suo  padre  con  tenerezza  infantile.  —  Or 
non  ti  meravigliare  per  ciò  che  vedi,  uomo  di 
poca  fede,  —  conchiuse  la  bella  barba.  E  mi 
spiegò  quello  che  non  avrei  potuto  capire. 

—  Questo  ragazzo,  che  sembra  trascurato,  è 
l'unica  mia  passione.  Sono  un  uomo  bislacco? 
Può  essere!  Ma  io  ò  pensato:  Che  patrimonio 
posso  dare  a  mio  figlio,  che  nessuno  abbia  mai 
saputo  dare  ai  figli  proprii?  Scienza,  onori,  ric- 
chezze? Cose  vecchie,  inventate,  pericolose,  lo 
invece  ò  voluto  dargli  un  tesoro  autentico  che 
gli  altri  uomini  anno  perduto  irreparabilmente: 
la  salute  e  la  verità  come  la  natura  le  à  tr.isfuse 
nella  vita.  Ò  avuto  l'idea  di  rifare  il  primo  uomo, 
un'altra  volta:  semplice  e  fragrante  come  i  frutti 
della  terra  ;  tramiuillo  e  forte  come  i  giovenchi 
che  conduce  all'aratura. 

Non  potevo  riavermi  dallo  sbalordimento.  Il 
caso  era  troppo  singolare!  —  E  non  gli  ài  im- 
parato nulla?  —  chiesi.  —  Gli  ò  insegnato  le 
leggi  elementari  del  cielo  e  della  terra.  —  E  leg- 
gere e  scrivere  ?  —  Anche,  da  me  :  ma  quanto 
basta.  .Ammonendolo  che  devon  servire  solo  in 
sussidio  della  memori.i  e  della  parola;  dove  non 
possono  giungere  l'una  e  l'altra. 

Azzardai  una  domanda...  Voi  l'immaginate! 
—  Puro  —  mi  rispose,  come  il  giorno  the  nacque! 


Quel  ragazzo  fortunato  non  conosceva  né  meno 
le  facezie  del  pievano  Arlotto  ! 

Entrammo  in  casa.  Ci  mettemmo  a  pranzo. 
Noi  bevevamo  il  nostro  vino.  Ed  il  ragazzo  bevve 
la  sua  acqua.  Poi  noi  fumammo  su  l'aia.  Ed  il 
ragazzo  prese  un'ascia  e  provvide  pel  focolare. 
La  sera  noi  ci  coricammo  su  i  materassi.  Ed  egli 
se  ne  andò  lietamente  sul  suo  pagliericcio. 

Stetti  due  giorni  colà,  incantato.  Quando  partii, 
di  buon  mattino,  trovai  nei  campi  il  fanciullo 
primitivo  che  guidava  i  suoi  buoi.  Mi  avvicinai. 
Sorrideva:  d'un  sorriso  ingenuo  da  ragazzetta. 
Tutta  la  sua  pelle  d'oro  viveva  di  gioia  sotto 
una  peluria  di  germoglio  che  butta.  Fermò  i 
buoi  col  braccio  robusto  e  con  la  voce  :  e  mi 
tese  la  mano. 

Io  me  ne  andai  pensoso,   quasi   preoccupato. 

Una  diecina  di  anni  dopo  forse,  quando  avevo 
dimenticato  completamente  il  caso  singolare,  un 
bel  giorno  la  fante  mi  annunciò:  Il  tal  dei  tali! 

—  Restai  col   naso  in  aria.   Il  tal  dei  tali ?! 

Gua'!  Ma  fallo  entrare  subito!  —  E  gli  andai 
incontro  io  stesso. 

Si  era  fermato  su  la  soglia  di  casa,  fra  sorri- 
dente ed  impacciato.  Era  un  bel  giovanottone 
adesso,  tant'alto!  e  vestito  signorilmente. 

Gli  tesi  ambedue  le  mani,  per  fargli  festa;  ma 
un  po'  stordito.  Senza  volerlo  gli  guardavo  le 
scarpe.  —  Ho  capito  !  —  fece  lui.  -  Sempre 
curioso  voi!  ma  avete  ragione:  evi  contenterò. 

Era  in  viaggio.  Rimase  mio  commensale.  E 
mentre  s'imbandiva,  mi  narrò  com'era  avvenuto 
quell'inesplicabile  mutamento. 

Suo  padre  era  morto  un  anno  prima.  Ed  il 
figliuolo,  che  era  rimasto  erede  di  una  discreta 
fortuna,  aveva  mantenuto  le  sue  abitudini  patriar- 
cali. Il  mondo...!  Uhm!  Il  pane,  il  latte,  il  gia- 
ciglio e  la  semplicità,  tra  i  suoi  fieni  e  le  sue 
giumente  ed  i  suoi  buoi  :  senza  un  minuto  di 
noia  :  senza  una  idea  di  perplessità. 

Ma  se  tutto  à  da  finire  in  questo  malanno 
della  vita,  è  naturale  che  l'innocenza,  più  presto 
o  più  tardi,  sia  la  prima  a  lasciarci  in  asso.  E 
per  quel  ragazzo  aveva  già  tardato  abbastanza  ! 

Un  giorno  dunque  (era  l'estate  di  due  anni 
avanti),  mentre  egli  se  ne  tornava  a  casa  di  fretta, 
essendosi  levata  all'improvviso  una  buriana  nera 
come  fuliggine,  che  gli  veniva  incontro  minaccio- 
samente, fu  sequestrato  dalla  rapidità  del  tempo- 
rale sotto  un  gruppo  di  alberi.  Urli  di  vento, 
turbini  di  polvere  rivoltuosa,  e  tuoni  e  lampi  e 
poi  acqua  a  rovescio  :  un  finimondo  ! 

Una  vettura  di  Firenze  col  mantice  alzato 
venne  a  fermarsi  accanto  a  lui.  Investito  dalle 
raffiche  che  gli  sbattevano  sul  petto  torrenti 
d'acqua,  il  ronzino  a  testa  bassa  grondava  a 
ruscelli.  Il  vetturino  snocciolava  le  più  compunte 


litanie  fiorentine.  Dentro  due  donne  raggomito- 
late tremavano  dai  gricciori  e  dalla  paura. 

E  poiché  l'acqua  strosciava  sempre  con  inter- 
minabile violenza,  una  d'esse,  che  aveva  veduto 
il  contadino,  sporse  il  capo  e  chiese  se  c'era 
un  luogo  da  ripararsi.  ^  In  casa  mia  -  disse  il 
gocciolone  cordialmente.  E  il  fiaccheraio,  che, 
praticando  quei  luoghi,  lo  conosceva,  soggiunse 
in  aria  rassicurante  :  —  Possono  andare  !  Gli  è 
un  galantuomo!  —  Si  deve  andar  lontano?  — 
Ve'  la  su'  casa  !  -  insegnò  il  poveraccio  che  co- 
lava come  una  fontana. 

Allora  le  due  donne  scesero  prestamente  e  in- 
sieme al  giovinetto,  correndo  a  rompicollo  sul 
prato  che  pareva  convertito  in  uno  stagno,  an- 
darono a  rifugiarsi  al  coperto. 

Ma  nel  breve  tragitto  si  erano  tutte  immollate, 
i  capelli,  le  belle  vesti,  gli  stivalini. 

Incurante  di  sé,  il  giovinotto  non  scrollò  né 
anche  la  casacca  che  gli  si  incollava  su  le  reni, 
offri  alle  donne  da  sedere  e  ordinò  ad  una  con- 
tadina di  buttare  una  buona  stipa  sul  focolare. 
Poi  chiuse  la  porta  da  cui  frizzava  il  vento  e 
l'umidità. 

Le  ragazze  (perchè  erano  due  splendide  fi- 
gliuole su  i  vent'annij  si  desolavano  rimpian- 
gendo le  loro  acconciature  affloscite.  Pareva  che 
né  meno  si  accorgessero  del  beneficio  del  fuoco 
e  delle  cortesie  del  padron  di  casa.  E  quando 
cominciarono  a  sentir  freddo  nei  piedi  bagnati, 
senza  preoccuparsi  punto  di  quei  due  o  tre  vil- 
lani che  stavano  loro  a  torno,  si  interrogarono  : 

—  Ci  caviamo  gli  stivalini?  —  Sì!  E  le  calze. 
Sono  fradicia  sino  ai  ginocchi.  —  E  i  cappelli. 
—  Il  mio  é  gocciolante.  —  Non  vedi  la  pedana 
della  mia  veste?!  —  Fra  giubbetto  e  camicia  io 
ò  un  appiccicaticcio  su  le  spalle.  —  Una  si  volse, 
e  stava  per  dire:  —  Avreste  un  tappetino?  - 
quando  vide  sopraggiungere  il  giovanotto  che 
allungò  una  stola  ai  loro  piedi.  —  Bravo!  - 
esclamarono  insieme.  E  lo  guardarono  con  curio- 
sità :  per  la  prima  volta. 

In  un  attimo  si  tolsero  i  cappellini,  che  il  gio- 
vine passò  ad  una  contadina,  la  quale  andò  a  de- 
perii sopra  un  letto  in  un'altra  camera,  e  si 
cavarono  gli  stivalini  e  le  calze.  Poi  si  sfilarono 
la  veste,  la  sottana  ed  il  giubbetto,  restando  col 
busto  e  con  le  mutandine  crespe  di  seta.  E 
mentre  si  staccavano  dal  petto  e  dalle  spalle  i 
merletti  umidi  della  batista,  cominciarono  a  ri- 
dere, tutte  liete  ormai,  come  due  bambinone 
maliziose. 

Le  contadine,  in  imbarazzo,  ostentavano  di 
tirarsi  da  parte;  mentre  i  piedini  d'avorio  sal- 
tellavano su  la  stola,  e  al  riverbero  del  fuoco  le 
gambe  tornite  parevano  fusi  d'oro.  —  Io  -  mi 
raccontava  l'uomo  primitivo,  infiammandosi  an- 
cora -  non  potevo  raccapezzarmi.   Mi  pareva  di 


vedere  due  panieri  colmi  di  pésche...  con  delle 
fragole!... 

Intanto  la  tempesta  era  passata.  Ma  era  quasi 
notte  -  seguitò  a  raccontarmi  il  giovine.  -  Una 
delle  due  ragazze  mi  domandò  :  Ci  sarebbe  da 
dormire  qui?  —  Si,  c'è.  —  E  il  padrone  dov'è? 

—  Son   io.   —  Voi?!    E   quegli   altri   chi   sono? 

—  Contadini  della  mia  azienda.  —  Ma  se  portano 
le  scarpe  :  e  voi  non  avete  né  meno  un  cappello  ! 

—  Perchè  io  sono  stato  abituato  così.  —  Sempre?! 

—  Sempre.  —  Anche  d'inverno?!  Anche. 

Si  erano  alzate  ambedue:  e  mi  stavano  sopra, 
osservandomi  adesso  con  una  curiosità  che  mi 
turbava. 

Poi  si  consultarono  fra  loro.  —  Possiamo  re- 
stare, che  ne  dici?  Si  sta  così  bene  qui  !  —  Dite 
su,  giovanotto,  ci  darete  da  dormire?  —  Volen- 
tieri. —  E  da  mangiare?  —  Certamente.  —  Tanto 
non  si  va  in  iscena  che  domani  !  —  conchiuse 
una.  Supposi  che  dicesse  a  me.  —  Dove  si  va  ? 

—  In  scena.  Ma  come!  non  sapete...?!  —  No, 
non  me  ne  intendo  io!  —  E  non  siete  mai  stato 
al  teatro?  —  No.  —  Né  meno  ai  teatri  di  Fi- 
renze? —  Non  sono  mai  stato  a  Firenze.  —  È  cu- 
riosa !  E  pure  è  un  giovane  di  civiltà  !  —  È  un 
caso  straordinario  —  ribattè  l'altra" —  Ma  non 
avete  moglie  ?  —  mi  chiese  quindi.  —  No.  — 
Né  anche  un  amante?  —  No.  —  Né  anche  una 
fidanzata?  —  No,  no.  —  E...  —  Poi  s'interruppe. 
E  non  udii  quello  che  bisbigliarono  fra  loro. 

La  carrozza  era  stata  rinviata.  I  lumi  accesi.  I 
contadini  se  n'erano  iti  pian  piano,  ammiccando. 
Erano  rimasti  la  fante  ed  un  vecchio  guardiano 
che  dormiva  in  casa  mia. 

Fu  ammanita  la  cena.  C'era  della  carne  allo 
spiedo  in  un  angolo  del  focolare.  Feci  aggiun- 
gere delle  uova.  Al  vino  non  ci  pensavo  punto. 

—  E  del  vino  non  ce  n'è?!  —  Ah,  è  vero!  — 
E  poiché  erano  ancóra  in  cantina  alcune  vecchie 
bottighe  rimaste  dopo  la  morte  di  mio  padre, 
corsi  a  prenderne  un  paio  io  stesso.  Le  recai  su 
la  tavola.  E  mi  posi  a  sedere.  —  Tu  dove  ti 
metti?  -  domandò  una  delle  ragazze  all'altra.  — 
Accanto  a  lui.  —  Ed  io  pure. 

Ci  sedemmo  dunque  tutti  da  un  lato,  su  la  stessa 
panca,  in  filai  E  mi  stavano  così  addosso  quei  due 
fiori  di  tentazione  che  i  nostri  visi  si  incontra- 
vano quando  ci  voltavamo  uno  verso  l'altro. 

—  Mesci,  padrone!  —  Empii  i  loro  bicchieri. 

—  E  tu?!   —  Io  bevo   acqua.   —  Sei  astemio? 

—  Non  lo  so.  Non  ò  mai  bevuto  altro. 


«9 

Stavo  con  le  maniche  rimboccate.  E  sentivo 
passarmi  su  le  braccia  un  fresco  vellicamento  di 
seta.  Erano  quei  panieri  riboccanti  di  ptechel... 

Mentre  esse  mi  riempivano  la  casa  della  più 
vivace  letìzia  femminile,  io  provavo  invece  come 
un  sordo  furore  ed  una  malinconia  che  fino  a 
quel  punto  non  avevo  mai  conosciuto. 

Cosi,  insoddisfatto,  umiliato,  dovetti  prestarmi 
ad  assaggiare  il  vino  per  la  prima  volu.  E  come 
avrei  potuto  rifiutarmi  ?  Un  po'  crucciate,  un  po' 
ridenti,  esse  lo  pretesero.  Di  qua  e  di  là  le  loro 
mani  scorrevano  supplicando  per  la  mia  persona. 
E  mi  calcavano  sempre  :  mi  si  buttavano  ad- 
dos.so:  mi  parlavano  su  le  orecchie  e  su  la  bocca, 
tutte  vermiglie  in  viso,  infervorate  dal  vino  ge- 
neroso. 

Dopo  cena  s'infilarono  le  calze,  gli  stivalini, 
le  sottane,  e  vollero  uscire  su  lo  sterrato.  La  notte 
era  calda  e  serena.  Non  passava  un  fiato  d'aria 
nella  oscurità.  L'odore  dei  fieni,  pesante  e  pen«> 
trante  come  una  nebbia,  pareva  che  fasciasse  la 
terra.  E  una  inquietudine  nuova,  come  un  senso 
di  angoscia,  si  impadroniva  di  me. 

Sigari  poi  non  ne  tenevo  !  Ma  esse  avevan  re- 
cato delle  sigarette.  E  per  la  prima  volta  dovetti 
anche  fumare,  mentre  le  ragazze  mi  raccontarono 
di  essere  piemontesi  (le  ragazze  -  me  ne  sono 
avveduto  più  tardi  -  che  parlano  peggio,  ma  sanno 
farsi  intendere  meglio  di  tutte  le  altre  d'Italia) 
ed  artiste  in  una  compagnia  di  ojjcrette  che  do- 
veva debuttare  a  Firenze  il  giorno  appresso. 

Ma,  dopo  avermi  narrato  i  fatti  loro,  vollero 
che  dicessi  i  miei.  Vollero  sapere  tante  cose: 
sopra  tutto  quelle  che  io  non  sapevo.  E  mi  in- 
terrompevano continuamente,  con  esclamazioni 
di  stupore,  con  dei  fremiti,  con  piccoli  nitriti  che 
si  sniorzav,ino  nel  buio  come  campanellini  d'ar- 
gento lanciati  sopra  di  noi. 

Si  erano  strette  a  me  per  interrogarmi  e  per 
udirmi  meglio.  Tenevano  nelle  loro  piccole  mani 
ciascuna  una  mia  mano.  Il  loro  respiro  pareva 
che  attizzasse  il  fuoco  su  le  mie  guance.  Avrei 
detto  di  intravedere  nell'oscurità  i  loro  occhi  lu- 
minosi che  si  riflettevano  sul  mio  viso. 

Poi  vennero  a  sedersi,  ambedue  contemj>ora- 
neanienie,  sopra  le  mie  ginocchia. 

La  fante  e  il  vecchio  dormivano  ormai.  E  le 
stelle  del  cielo  si  erano  rifugiate  dietro  gli  abeti 
di  monte  Senario... 

Cosi  l'indomani  partimmo  tutti  tre  per  Fircnxe. 

E  per  la  prim.i  volta  mi  misi  le  scarpe. 


GIOVANNI   DIOTALLEVI 


■^=^^-^^'ì^:r- 


XXVIII. 


)Nel  nido  della  quaglia 


Leonilda  esitò  un  pochettino  ma  fini  per  ce- 
dere alla  curiosità  e  quella  sera  stessa  verso  le 
nove,  attillata  da  scoppiare  nel  suo  finto  Chan- 
tilly un  po'  verdastro  un  po'  rossiccio,  faceva 
il  solenne  ingresso  in  casa  Quaglia.  In  antica- 
mera la  accolsero  Aminta  tutta  luccicante  e  fru- 
sciante  di  sete  verdoline  e  di  oreficerie  anti- 
quate e  Pallade  rosea  nel  volto  e  nell'abito  con 
uno  strascichetto  coperto  di  trina  e  una  piu- 
metta  rosa  nel  ciuffo  dei  capelli  color  di  mela- 
rancia. Sorrisi,  inchini,   complimenti. 

—  Brava Brava favorisca  in  salotto 

Prima  lei prego 

Al  fulgore  accecante  del  gas  il  salotto  por- 
pureo  nei  mobili  nei  parati  nei  tappeti  folgo- 
rava come  una  macelleria.  E  le  donnette  e  gli 
ometti  che  vi  si  trovavano  a  quei  riflessi  appa- 
rivano verdognoli  giallastri  e  turchinicci. 

—  Si  accomodi  qui  sul  sofà...  signora...  Vi- 
cino alla  signora  Taccorini...  Permetta,  signora 
Coppa,  che  le  presenti  la  signora  Piota...  mia  cara 
amica...  Signora,  il  dentista  Piota...  il  geometra 
Fioretta. 

Leonilda  stordita  stringeva  le  mani  che  le  si 
protendevano  inchinandosi  impacciata  perchè 
le  stecche  del  busto  la  premevano  fieramente. 
Sedette  sul  sofà  presso  a  Fanny  Taccorini,  una 
gran  bruna  con  degli  occhioni  appassionati  entro 
borse  di  pelle  floscia  scoppiante  anche  lei  da  un 
abito  di  velo.  La  signora  Ernesta  Piota  era  in- 
vece magrissima  con  un  naso  adunco  e  un  nodo 
bianco  sul  seno.  Suo  marito  Evasio  Piota,  chi- 
rurgo e  dentista,  aveva  una  fronte  interminabile 
su  cui  calava  nel  mezzo  un  promontorio  di  ca- 
pelli verdicci  leggeri  come  una  muffa,  e  degli 
occhi  color  d'acqua  saponata  orlati  di  rosso.  Il 
geometra  Nino  Fioretta  invece  era  un  bellissimo 
giovinottone  di  quarantatre  anni,  roseo  e  lucente 
come  una  mela  d'inverno,  con  dei  baffi  sottili  e 
lunghi  come  pennelli  bagnati.  Ma  quel  che  ve- 
ramente splendeva  e  trionfava  era  l'uniforme 
d'un  militare  di  fanteria  intento  presso  il  piano  ' 
alle  ciarle  di  Pallade  Quaglia. 

—  Cara  signora  !  —  esclamò  Aminta  Quaglia 
—  Come  le  sono  grata  della  sua  venuta  !  Pino, 


vieni  a  salutare  la  signora  Coppa...  SignoraCoppa, 
le  presento  mio  nipote  il  tenente  Pino  Pini... 

Leonilda  s'alzò  per  rispondere  all'inchino  del 
sopraggiunto  tenente  ma  la  stecca  del  busto  la 
ripunse  in  territori  vaghi.  Non  riuscì  a  balbet- 
tare che  sconnesse  parole.  Nella  gran  luce,  nel 
gran  calore,  su  tutta  quella  porpora  di  beccheria 
l'uniforme  del  fante  abbagliava  veramente.  E 
colui  che  essa  vestiva  era  un  giovine  roseo  e  im- 
berbe e  infantile  nel  volto,  ma  nella  persona 
gonfio  e  sconcio  come  una  donna  pregna. 

—  Un  cattivo  soggetto!  —  aggiunse  Aminta 
contenta. 

—  Mi  metta  alla  prova!  —  declamò  audace 
il  paffutello  guerriero. 

Ma  tornò  al  suo  angolo  presso  Pallade  Quaglia 
a  cui  s'era  unita  Ernesta  Piota. 

Il  discorso  riprese  variamente  nei  vari  gruppi. 
Ma  chi  lo  dirigeva  soddisfatta  era  Aminta  Quaglia 
troneggiante  nella  sua  sedia  sanguigna,  e  gialla 
come  un  biscottino  e  ostentante  sul  seno  un 
pezzo  di  Colosseo  in  una  rotonda  spilla  di  mo- 
saico larga  come  il  coperchio  d'una  tabacchiera. 
Parlava  con  gran  dignità,  ma  ogni  tanto  vol- 
geva un'occhiata  furibonda  alla  figlia  col  nipote. 

—  Verrà  anche  il  sindaco  —  annunziava  la 
donnetta  gonfiandosi.  È  mio  parente...  Mio  cu- 
gino per  parte  di  madre...  Un  uomo!  Un  uomo! 
Il  commendatore  Carlo  Carelli...  Ha  un  gran  da 
fare  perchè  i  socialisti  non  lo  lasciano  in  pace. 
Verrà  più  tardi...  ma  verrà...  me  lo  ha  pro- 
messo. . . 

—  É  vero  che  sposa  Clotilde?  —  chiese  som- 
messamente Fanny  Taccorini  compunta. 

—  Ma  che  dice  mai...  mia  cara  signora...  Ma 

è  un'infame  calunnia  dei   suoi  nemici...  Sa? 

Un  uomo  solo...  Lo  fanno  subito  sposo  con  la 
sua  serva...  Ma  un  uomo  come  quello?...  Ma 
nemmeno  la  contessa  della  Frola  sarebbe  degna 
di  lui...  È  un  uomo  superiore...  creda... 

—  Ah  !  un  uomo  simpatico  !  —  sospirò  Fanny 
Taccorini.  Aveva  le  gote  molli  e  rugate  e  una 
bocca  che  sotto  la  fodera  troppo  larga  della 
pelle  morta  rivelava  la  sua  cerniera  ossea  di  va- 
ligia guasta.  —  Un  uomo  d'oro  !  Era  grand'amico 


del  mio  povero  Pio...  Quando  rimasi  vedova  fu 
più  clie  un  fratello  per  me...  '  Alibiamo  pa.ssato 
delle  sere  d'incanto  vicino  al  fuoco  parlando  dei 
npstri  poveri  morti... 

Si  soffiò  l'enrme  naso  in  un  fazzolettino 
minu-scolo,  che  incartocciò  e  insinuò  nei  misteri 
del  seno.  i 

—  È  bello...    vedesse!    Delle    gambe   bianche 

come  un  pollastro —  confessò  Aminta  Quaglia 

beata...  ' 

—  E  i  bambini?  —  richiese  più  piano  laTacco- 
rini.  —  Sono  sempre  a  Vignale  ? 

—  Ah!  Si Quella  è  stata  una  vera  di- 
sgrazia!... —  Mostrò  alle  amiche  solo  il  bianco 
dell'occhio,  il  Colosseo  tremolò  su  le  sue  colline 
e  le  mani  si  protesero  pietose.  —  Si  figuri  si- 
gnora Leonilda  un  uomo  con  tanto  mondo...  Ma 
è  stata  quella  grama  pelle  di  Clotilde  che  lo  ha 
stregato Due  bambini...  Si  imagini;  due  ge- 
melli... Non  è  una  vergogna? 

Leonilda  Coppa  ascoltava  aftettahdo  grande 
attenzione  ma  imbarazzata  nel  rispondere,  non 
potendo  staccar  gli  occhi  dal  tenente  che  tra  la  , 
donna  rosea  e  quella  verdognola  declamava  e 
gestiva.  Che  bel  giovine!  Non  rassomigliava 
forse  iin  poco  a  quel  militare  che  l'aveva  se- 
guita in  treno  quatido  era  stata  col  povero  Coppa 
a  visitare  l'esposizione  di  Milano?  Più  bello 
ancora!  L'idealo;  proprio  come  A't>(i'o//y  nel  Figlio 
della  l'ergine!  K  quelle  due  pettegole  che  lo  se- 
questravano !  Perchè  ìion  se  ne  liberava  e  non 
veniva  a  presentare  alla  forestiera  il  dovuto 
omaggio  ?  Ma  già  !  Doveva  essere  brutta  quella 
sera!  Perchè  non  s'era  messo  il  vestito  bianco, 
quello  a  righe  rosse  che  piaceva  tanto  al  farma- 
cista del  paese  !  Che  sciocca  !  Che  sciocca  ! 

Veramente  anche  Aminta  non  perdeva  d'occhio 
il  terzetto,  ma  anzi  ogni  tanto  lo  fulminava  con 
occhiatacele.  Soltanto  i  due  uomini  solitari  ciar- 
lavano presso  \\  focolare  in  pace.  Il  dentista 
Evasio  Piota  a  tratti  'infilava  il  mignolo  nel- 
l'orecchio agitando  la  mano  spiegata  come  l'ala 
d'un  ventaglio  elettrico,  e  l'Adone  quarantenne 
sputacchiava  nel  fazzoletto.  Ma  Aminta  più  non 
resse.  La 'cosa  cominciava  ad  essere  indecente... 
La  madre  oftesa  s'alzò.  Disse  : 

—  "Pallade....  Intanto  che  s'aspetta  il  sindaco 
potresti  sonar  qualcosa... 

—  La  Bohème!  —   fece  il   tenente  entusiasta. 

—  Oh!  La  Bohème!  -—  sospirò  languida  Fanny 
Taccorini. 

—  Obbedisco  !  —  esclamò  Pallade  facendo  un 
inchino  —  E  tu  Pino  voltami  le  pagine... 

—  Tutto  quello  che  vuoi...        • 

Cominciò  la  piagnucolante  hiusica.  Pallade 
sedeva  di  sbieco  sporgendo  la  groppa  indietro  e 
il  seno  avanti  alzando  esageratamente  te  mani  e 
lasciandole    ricadere   di    peso  come    gli  sportelli 


(1  uii.i  i..ir,>.i.  I-,  sui  ifjiuzz'iji)  M  piunieu  I  i'ys.i 
tremolava  sul  ritmo  dei  sospiri  di  Mimi  e  di  Ro- 
dolfo. 

—  Come    suona  b«ne!    —   susurrù   fa   madre 

commossa.    —    Lezioni    di    Paolini Tre   lire 

Torà... 

E  pili  piano  : 

-*■  Pardon...  Un  momento...  Mi  chiamano  di 
là...  Torno  subito... 

E  se  ne  andò  frettolosa. 

—  Sono  proprio  contenta  d'averla  conosciuta 
—  disse  Fanny  Taccoiyni  prendendo  le  mani  dì 
Leonilda.  —  Diventeremo  amiche,  non  è  vero? 

Sorriderfdo  si  guardarono  le  due  faccione  di 
vecchia  carne  incipriata.  ' 

—  Io  ricevo  il  venerdì  —  seguitò  la  Taccorini 
È  di  moda  ora...  E  lei?... 

—  Io  ricevo  il  sabato...  Ma  qui  non  ho  ancora 
incominciato.  1  tappezzieri  non  mi  hanno  ancora 
arredata  la  casa.  Ho  rinnovato  tutto...  Laggiù 
davo  un  gran  pranzo  tutte  le   settimane  e  d'in- 

•  verno  anclit  dei  balli...  Facevo  arrivare  i'baHe- 
rini  da  Milano...  Dico  la  verità:  un  gran  pensiero 
e  una  gran  spesa...  • 

—  Io  non  dò  soiréos  perchè  sono  vedova...  Ho 
dovuto  dire  al  sindaco  di  non  venire  più  alla 
sera  tante  erano  le  critiche.  Oh!  Seccature  cer- 
tamente. Per  far  come  la  signora  Quaglia...  tra 
noi...  sarebbe  me};lio  non  far  niente...  Sa  dove  è 
andata?  In  cucina  a  far  lo  zabaglione...  Uova  e 
vino  della  campagna...  E  intanto  Pallade  con  la 

sua  musica  ci  fa  portare  un  famoso  lume E 

tutti  i  mercoledì  è  la  stessa  storia... 

—  .Simpatico  però  quel  tenente...  , 

--  Poh!  Corteggia  la  cugina  perchè  crede  sia 
ricca...  Del  resto  è  l'amante  della  signora  Bian- 
chetti... Sa?  La  Josephine  Bianchetti...  la  moglie 
dell'ingegnere  Bianchetti  prasiderfte  del  Casfno 
dei  nobili...  Cose  note...  Gli  paga  lin  le  calze  e 
le  mutande...  Me  lo  ha  detto  la  mia  serva  che  è 
fidanzata  dell'ordinanza  del  tenente...  Oh!  delle 
scene  stupende...  Glie  le  racconterò  poi...  Ecco 
il  sindaco... 

Allo  strimpellio  della  commovente  musica  entrò 
un  ometto  rossastro  e  calvo  con  una  barbeltina  co- 
lor di  carota  e  degli  occhi  dietro  gli  occhiali  spor- 
genti e  vitrei  come  bottoni  in  una  vetrina.  Lo 
accompagnava  l'avvocato  Apolline  Quaglia  serio 
ed  elegante  coi  suoi  bei  batti  lunghi  e  nn  gran 
ciulTo  luccicante  di  pomata.  La  musica  cessò. 
Tutti  si  posero  a  complimestare  la  prima  auto- 
rità cittadina... 

—  Commendatore!  —  Ben  fortunato!  —  Sempre 
al  lavoro...  —  Cugina,  tante  cose!  —  Signora 
Piota  sempre  atVascinantel  Non  si  disturbi  !...  — 
Prego,  prego!....  —  La  signora  Coppa!...  — 
Onoratissimol   —  Che  belfa  festa!... 

.\minta  ritornò  scortando  un  v.issoio   di  uzze 


92 

fumanti  portato  da  una   servettina   in  grembiale 
e  cuffietta  bianchi. 

—  Viva  la  signora  Quaglia  !  —  esclamò  il  den- 
tista. 

—  Pallade  !  Pino!  Aiutatemi... 

La  distribuzione  dei  viveri  cominciò.  Pino 
Pini  portò  una  tazza  a  Leonilda  Coppa.  E  sor- 
ridendo le  disse  : 

—  Signora,  l'avverto  che  vi  ho  messo  dentro 
una  magia... 

—  Ah!  Si? 

—  Sicuro...  Una  magij  per  sedurla...  Stia  at- 
tenta... Ora  che  è  avvisata... 

Bellissimo  !  Una  vera  donna  grassbttella  tra- 
vestita da  militaf-e...  Che  fianchi  nella  uniforme 
attillata!  E  che  bella  bocca  rosea  con  dei  den- 
tini radi  nella  spuma  della  saliva...  E  che  grazia 
nel  porger  la  tazza...  una  tazza  larga  e  gonfia 
come  una  maiolica  da  teletta... 

—  Non  ho  paura...  Lei  non  mi  fa  proprio 
paura  I 

—  Per  Bacco!  Le  sono  cosi  indifferente?  Non 
sono  mica  innocuo,  sa? 

.  —  Burlone  !  Lei  è  un  vero  gentiluomo...  E  sarò 
felicissima  d'averla  ai  miei  ricevimenti...  Tutti  i 
venerdì... 

—  Volentieri...  E  vedrà  che  sono  un  buon  ra- 
gazzo. 

Sedettero  vicini  su  certe  poltrone  piatte  ed 
ampie  come  semicupi  e  si  misero  a  ciarlare. 
Aminta  aveva  spinto  la  figliuola  verso  il  cugino 
sindaco  e  lo  stava  circuendo  con  gesti  e  parole. 


—  Guardi  Pallade  che  occhiate  mi  lancia! 

—  Poverina...  Ma  non  è  la  sua  fidanzata? 

—  Non  ancora...  Aminta  non  vuole...  Ha 
delle  altre  idee...  È  il  sindaco  che  le  piacerebbe... 
Ma  ci  vuole  altro...  Con  due  gemelli...  E  per 
di  più...  ce  ne  è  un  terzo  per  strada... 

•     —  Come  fa  a  saperlo? 

—  Ho  dato  una  sbirciatina... 

—  Spiritoso  !  mi  fa  ricordare  il  conte  Farina 
di  Milano...  Un  vero  gran  signore... 

—  Si  fa  quel  che  si  può...  Ha  bevuto  il  filtro? 
Dia  a  me  la  tazza  che  se  la  rompiamo...  poveri 
noi...  La  metteremo  qui  sul  tavolino...  Oh!  Ecco 
l'albo  delle  cartoline  di  Pallade...  Bellissimo... 

Presero  l'albo  rilegato  in  pèlle  di  finto  co- 
codrillo  e  ne  voltarono  qualche  pagina  ammi- 
rando. 

—  Le  piace  ?... 

—  Moltissimo... 

—  Io  ne  ho  cinque...  Cinquemila  cartoline... 
Come  vorrei  che  le  vedesse...  Sono  la  nota  ar- 
tistica delle  mie  due  stanzette...  Li  sfoglio,  li 
sfoglio  e  mi  oblio  tra  tante  belle  imagini  di 
donne  e  paesi... 

—  Diventa  poeta? 

—  Vicino  a  lei... 

Sorrideva  e  il  sorriso  gli  accendeva  gli  occhi 
di  una  fiamma  lasciva,  gli  poneva  su  le  labbra 
voluttuose  un  anelito  di  baci. 

Anche  Leonilda  sorrise. 

—  Non  vuol  dunque  vederle? 

—  Eh  !  Chi  sa? 


PUCK 


^^^1^^ 


XXIX. 


INVERNALE 


A  Giannino  Antona  -  Traversi. 


Ricordi,  amico,  l'albeggiante  strada 
Che  giù  via  correvam  tra  le  pruine 
Lucide  al  congelar  xlella  rugiada? 

Chiara  era  l'aria  e  bianche  le  colline; 
Decembre  s'annunziava  acre  e  possente 
Tra  quel  brivido  d'ore  mattutine. 

Parlavam  d'arte,  e  assai  soavemente 
Mi  pervadeva  il  gaudio  sommesso 
Di  quella  nostra  intimità  recente. 


O  amico,  e  al  vespro  di  quel  giorno  istesso 

10  la  rincorsi,  ma  rompea  dal  core 

11  suon  d'un  pianto  inutilmente  oppresso, 

E  nebuloso  m'apparla  l'albore 
De'  miei  colli  :  ogni  forza  era  legata. 
Percossa  in  me  d'un  sùbito  sopore. 

Su,  nel  paese  ch'io  fuggìa,  lasciata 
Avea  mia  Madre,  e  sì  smarrita  e  grama  ! 
Bianca  come  giammai  l'avrei  pensata. 


Ora  al  bel  colle  volgo  ogni  mia  brama, 
Il  qual  m'è  dolce  di  chiamar  per  mio, 
Che  nostra  patria  è  dov'è  alcun  che  s'ama; 

Ma  quel  chiaro  ricordo,  esca  al  desio, 
Più  mi  ti  lega,  e  il  mio  dolor  fecondo 
Ama  coniporsi  in  un  canoro  invio, 

E  a  te  venir,  che  tu  ben  sai,  giocondo 
Signor  del  riso  in  su  l'accese  scene. 
Come  pianga  ogni  cor  nel  suo  proforjdo.  — 

NoVi  però  rinnegai  quelle  serene 
Idee,  che  indotte  per  filosofia 
3i  tornar  quindi  in  sangue  di  mie  vene. 

Né  dell'attender  la  virtij  natia,  • 
Che  sempre  intesi  in  un  doman  più  gaio 
Ne  scorti  insin  all'ultima  agonia.  , 

Buona  è  la  vita  al  provvido  massaio 
Che  è  parco  in  ripartir  le  sue  speranze  ; 
Fresche  per  Luglio,  tepide  a  Gennaio  : 

Buona  è  la  vita  a  chi  di  risonanze 
Sa  ricomporla,  e  se  il  bicchiere  è  rude 
Ricco  ha  il  pensier  di  fregi  e  d'eleganze: 

L'occhio  più  fine  è  quel  che  si  socchiude 
Per  suscitare  il  più  vivace  arazzo 
Sovra  il  giallor  delle  pareti  ignude. 

Ma  cui  la  vita  neghi  ogni  sollazzo 
E  pur  le  fonti  del  sognar  sien  strane. 
Se  tutto  in  cor  non  sia  macero  e  lazzo. 

Una  perenne  limpida  rimane 
Fonte  per  lui,  che  in  giovial  freschezza 
Agguaglia  e  passa  tutte  le  fontane  ! 


O  Natura  ;  e  d'amor  tu  sai  l'ebbrfzza 
Senza  i  cordogli  :  in  te  non  segue  il  morso 
Vipereo  la  tenera  carezza. 

Madre  ch'è  pronta  al  più  virii  soccorso,  . 
Sposa  che  nulla  chiede  e  tutto  dona, 
Amor  che  già  non  lascia  esca  al  rimorso; 

Tutta^sei  bella  e  onnipossente  e  buona; 
Fosca  o  serena  o  squallida,  divina 
Tu  sempre;  e  quando  raggia  e  quando  tuona. 

Tu  signora,  e  al  mio  cor  vera  regina; 
Oh  dovunque  tu  regni  entro  e  t'adoro. 
Al  piano  al  fiume  e  al  monte  e  alla  marina. 

Cosi  rimpiango  i  miei  tramonti  d'oro, 
E  la  Stura  gemente,  e  il  bel  Monviso, 
E  i  pioppi  scarni  ad  orlo  del  pianoro: 

Ma  qui,  dove  si  nega  ogni  sorriso 
Del  sole,  e  il  piano  inesorato  e  smorto 
Perennemente  sta  di  pozze  intriso, 

Pur  qui  so  dove  parli,  e  con  che  assorto 
Delirio  e  con  quale  ansia  avida  io  t'oda. 
Quando  vengo  a  cercar  te  per  conforto. 

Là  ove  il  Po  dilaga  e  si  disnoda, 
E  tra  l'ombra  e  la  nebbia  ed  il  mistero 
Grigio  si  perde  nell'opposta  proda, 

'Ve  pochi  alberi  radi  e  un  vel  leggiero 
Sembran  segnar  quella  region  lontana, 
Dove  si  sperde  o  si  rifa  men  fiero 

L'errar  della  sognante  anima  umana. 

MASSIMO  BONTEMPELLI 


^9(C^^^)Sf 


Avvertenza  ai  Lettori. 

Tutte  le  opere,  di  cui  è  detto  nelle  seguenti  biografie,  sono  edite  daùa  nostra  Casa 
Editrice  RENZO  STREGLIO  &  C.  —  Torino.  Galleria  Subalpina  -  Genova.  Piazza 
Fontane  Marose  -  (Vico  Stella). 


RITRATTI  E  BIOGRAFIE 


simpatie,  e  sa  vedere  in  lui  non  un  cantastorie 
piacevole,  non  un  trastullo  sentimentale,  ma  un 
uomo  le  cui  sventure  incutono  rispetto  e  il  cui 
ingegno  suscita  spontaneo  l'applauso.  Non  è  poi 
vero  che  tutti  siano  ingrati  o  ciechi.  E  gli  uo- 
mini si  possono  disprezzare;  ma  la  lode  e  la 
fama  che  vien  da  loro  non  si  disprezzan  mai  ». 
E  recentemente  un  critico  francese  :  «  Estimé 
«  pour  la  probité  de  son  talent  et  la  droiture  de 
«  son  caractère,  arrivé  jeune  encore  à  une  en- 
«  viable  notoriété,  il  semblait  que  M.  Cena  eùt 
«  cent  raisons  pour  une  de  .se  réconcilier  avec 
«  l'existence  ».  Il  Cena  è  rimasto  serio  e  grave 
a  considerare  i  mali  della  società  e  a  cercar 
degli  ideali  nuovi  d'esistenza.  Perchè?  L'editore 
(fi  questi  fogli  ricorda.  Un  giorno,  all'autore  fe- 
steggiato di  Madre  che  tornava  da  una  gita  al 
paese,  egli  domandò:  «  Ebbene?  Tuo  papà  de- 
v'esser contento  di  te  !...  » 


Il  Cena  lo  guardò  con  un  sorriso  melanconico  : 
«  Sì.  Mio  padre  ha  preso  il  mio  libro,  l'ha  ri- 
girato fra  le  mani  tremanti,  ha  riconosciuto  il 
mio  nome,  che  è  il  suo,  sulla  copertina...  poi 
me  l'ha  restituito  asciugandosi  una  lagrima  col 
dosso  della  mano  ».  E  il  poeta  pensoso  aggiunse 
dgpo  un  niomento:  «  Bisogna  incominciare  dalla 
base...  siamo  ancora  in  principio!...  »  Pensava 
certo  ad  un'opera'  di  rivoluzione  int^|ettualc 
della  società,  per  cui  non  sarebbe  bastata  la  sua 
vita.  Ecco  la  ragione  degli  Amiiionilori,  il  ro- 
manzo sociale  testé  pubblicato  dalla  Nuova  An- 
tologia, e  del  volume  di  versi  Hoìno  che  verrà 
pubblicato  l'anno  prossimo,  come  pure  d'un  ciclo 
di  romanzi  di  cui  è  già  annunziato  il  primo.  La 
Ghiacciaia. 

Giovanni  Cena  ha  ora  trentaquattro  anni:  è 
nel  pieno  delle  sue  forze,  ed  egli  è  di  quelli  che 
non  si  fermano  mai. 


(■)/" 

Umbra 

—  Versi  -  L. 

, 

0.  (Da 

a  paff. 

i8  1 

ripnr- 

(I)  Madri 

Poema 

—  L. 

tammo  i 

duo  son 

etti  «  La  chioi 

:c; 

la 

»  e  « 

Sa.i 

isone  » 

e  i 

versi 

intitolato  « 

La 

morta  i 

..). 

«  L'edifi. 

ciò  »). 

(Di 


V. 


CARLO  DADONE. 


È  nato  a  Torino  il  giorno  undici  di  maggio 
(lei  milleottocentosessantaquattro,  da  poveri,  si... 
ma  onesti  genitori,  e  fin  dalla  prima  infanzia 
non  diede  affatto  prove  di  quella  gaja,  o  dolente, 
o  fantastica  grafomania  da  cui  è  ora  travaglia- 
tissinia  la  sua  età  virile.  Chiuse  i  suoi  studi  a 
nove  anni,  con  la  terza  elementare,  solennemente 
bocciato  in  buona  condotta,  in  aritmetica  ed  in 
composizione  italiana.  A  dieci  anni  entrò  inta- 
gliatore nella  fabbrica  dei  Leverà,  in  Vanchiglia  ; 
ed  era  cosi  ardente  in  lui  l'amore  per  l'arte  che, 
dopo  tre  anni  di  artistico  tirocinio,  ne  sapeva 
meno  di  quando  aveva  principiato.  Suo  padre 
buonanima  pensò  allora  se  non  sarebbe  stato 
meglio  farne  uno  scatolaio,  ed  ecco  il  Dadone, 
a  tredici  anni,  occupatissimo  a  marinare  la  fab- 
brica di  bomboniere,  dove,  come  primo  stipendio, 
—  in  grazia  delle  consuete  protezioni,  gran  piaga 
della  nostra  vita  pubblica  e  privata  —  percepiva 
una  lira  alla  settimana. 


Dopo  qualche  mese  la  fabbricazione  delle  sca- 
tole cominciò  a  rompere  le  medesime  non  a  lui, 
che  non  se  ne  occupava  niente,  ma  a  suo  padre 
che  ne  capiva  meno  ancora;  ed  il  futuro  conta- 
storie, con  l 'approvazione  e  sotto  il  patrocinio 
di  un  imbianchino  amico  di  casa,  passò  .pittore 
d'insegne  in  un'umile,  sì,  ma  parecchio  squallida 
e  sudicia  bottega  di  piazza  Carlina.  Dove  qual- 
mente, essendogli  stato  proibito  di  fumar  la  pipa, 
piantò  in  asso  le  insegne  per  ridursi  novell.i 
mente  alla  disoccupazione  sotto  i  vigili  scapac- 
cioni del  povero  babbo  che  non  sapeva  più  a 
qual  santo  votarsi.    Ma  se    il    Dadone    lavorava 

poco,  leggeva  molto,  e  scriveva  moltissimo a 

tutte  le  serve  del  vicinato  ;  esercizio  questo  che 
gli  valse  quel  tanto  di  praticacela  calligralìca  per 
passare  segretario  privato  con  relativa  privazione 
di  stipendio  causa  la  bella  invenzione  del  tiro- 
cinio gratuito;  tutto. un  insieme  di  falsi  scambii 
che  gli  lasciarono  insanabile  il  rimorso   di  aver 


mangiato  ad  ufo,  per  tanto  tempo,  il   pane    dei 
sempre  troppo  buoni  genitori.  È  ben    vero    chie 
a  quattordici  anni,  causa   una    poco    allegra    of- 
talmia,   fimase    cieco    un 
anno  intiero,  per  poi  gua- 
rire sì  e  no...  —  un  occhio  * 
si   e   l'altro    no;  —  ed  è 
anche    vefo    che  dopo  lo 
incolse  un  ancor  meno  al- 
legro   mal    d'orecchi,   per 
cui  ora  non  ci'  sente    più 
nulla,    o   quasi;    disgrazia 
questa  che,  come  egli  dice, 
se  non   gli    permette  d'u- 
(fire  le   troppe   corbellerie 
altrui,    gli' permette   però 
sempre  di  scrivere  le  pro- 
prie; e  tutto  ciò  sia  detto 
come    attenuante   alla  sua 
itisapabile  poltroneria. 

Le    sue    prime     armi,  A 

adunque,    furono    le  innu-  ^j 

meri  sue  lettere  amorose; 
e  fu  una  di  queste,  scritta 
di  commissione  per  un 
suo  amico  che  si  era  cotto 
d'una  sartina,  che,  letta 
da  una  cara  persona,  gli 
valse  un  mondo  di  lodi, 
in  seguito  alle  quali,  da- 
tosi con  passione  a  consu- 
mar carta  ed  inchiostro,  ed 
essendo  per  soprammer- 
cato caduto  nelle  unghie  dei 
componenti  un  cenacolo 
di  futuri  pubblici  seccatori,  cominciò  a  pubbli- 
care le  sue  prime  novelle...  E  bisogna  dire  che 
cominciò  subito  bene  nella  indimenticata  .  KzVa 
Moderna  diretta  dal  Macchi,  e  per  giunta,  pagato. 
Pubblicò  poi  in  seguito  un  po'  da  per  tutto,  dan- 
dosi, per  desiderio  di  varietà,  cosi  al  fantastico, 
tjuanto  al  comico,  al  serio,  o  al  patetico;  non 
mai  al  noioso. 

Sua    specialità    commerciale,   nota  soltanto    a 


pochi  suoi  intimi,  èia  pubblicazione  d'un'infinita 
serie  di  opuscoli  politici  innocui  quanto  anonimi, 
pei  quali  sembra  avere  il  brevetto   d'invenzione; 
non   che  un'altra  serie  di 
•                      giornaletti    chiassosi,    po- 
litici   od    umoristici   poco 
importa,    purché    si    ven- 
dano e    spillino    quattrini 
a  quella  parte  di  pubblico 
facilona   che  noi  tutti  be- 
nissimo  conosciamo 

ed  amiamo.  Scrisse  anche 
parecchi  romanzi  d 'appen- 
dice, camufiato  da  Ugo 
di  San  Lery  ;  e  ora  s'è  dato 
con  passione  a  certi  feroci 
racconti  sociali  che  pub- 
blica assiduamente  sull'^- 
vanti  della  Domenica  (e 
che  forse  son  le  migliori 
cose  sue)  ;  ha  pubblicato 
due  libri  fortunatissimi  : 
«  Come  presi  moglie  - 
Autobiografìa  di  un  e.\ 
ghiottone  »  (i)  e  «  La  For- 
bice di  legno  »  {2);  Ma  i 
due  suoi  capolavori,  creati 
in  collaborazione,  sono  e 
rimarranno  sempre  i  suoi 
due  belli  e  forti  maschiotti 
Àttico  e  Virgilio,  che  gli 
ricordano  troppo  sovente 
i  sacrosanti  doveri  della 
paternità.  Egli  si  dichiara 
socialista,  ma  è  invece  un 
arrabbiato  sentimentale,  che  si  irrita  fino  alla 
ferocia  contro  tutte  le  volgarità  dei  curialeschi 
bottegai  che,  a  suo  giudizio,  sgovernano  noi  e 
le  cose  nostre;  è  un  ottimista  impenitente  che 
sa  ridere  di  tutto  e  di  tutti,  perchè  sa  anche 
piangere,  e  perchè  rose  ne  ha  visto  poche  e 
spine  molte... 

Perdonatelo  se  scrive;  non  è  colpa  sua  se  non  è 
nato,  ricco:  da  poveri,  sì ma  onesti  genitori... 


(l)    Come  presi  moglie  -  Aiilobiograjia    di  un   ex  ghioìtone 

—  Illustrato  —  lire  2,50  (I  voi.  della  «  Biblioteca  Gaja  »).  Cou- 
tiene:  I.  Cuoco  scienziato.  —  II.  L'idillio  —  III.  In  viaggio  — 
IV.  Giroldo  suo  malgrajio  e  pazzo  per  forza —  V.  La  catastrofe.. 
Ed  i  racconti  :  Come  nacque,  visse  e  morì  «.La  mosca  bianca  » 

—  Giovannino  sposo  —  La  trahison  du   petit  turquet...  —  e  Le 


lezioni  di  Seneca,  (quesfultimo  pubblicato  qui,  a  pag.  19,  sotto 
il    «  titolo   F.p,  L,  12  fermo  in  posta,  Torino»). 

(2)  La  forbice  di  legno  —  Lire  1,50.  Contiene  :  Il  segreto  del 
Cimbro  —  LMnvincibile  —  La  grande  scoperta  di  Von  Giibler 

—  Il  divino  tesoro  —  Un  ladro  di  genio  —  Il  sepolto  dì  Vodena 

—  La  forbice  di  legno. 


-^^4^H^^ 


da  retta  imparzialità,  scrisse  molle  riviste  d'Espo- 
sizioni d'Arte  ;  e  sopratutto  si  distinsero  per  chia- 
rezza e  profondità  di  vedute  e  d'osservazione 
quelle  veneziane. 

Nel  1901  pubblicò  quell'originalissimo  Poema 
dell'adolescenza  (i)  che  fece  arricciare  il  naso  a 
più  d'un  critico  assonnato  e  che  diede  modo  a 
parecchi,  dei  toccati  prima  dal  Thovez,  di  ven- 
dicarsi con  critiche  aspre  quanto  vuote;  poema 
che  l'autore  aveva  scritto  dieci  anni  innanzi. 

In  seguito,  per  incarico  del  Corriere  della  Sera, 
tradusse  un  volume  di  Racconti  americani  del- 
l'umorista americano  Mark  Twain. 

Volle  anche  provarsi  a  dipingere,  e  tutti  ricor- 
dano, all'Esposizione  di  Torino  del  1900,  un  suo 


105 

ritratto  di  esecuzione  bizzarra  che  fu  assai  discusso, 
ed  un  suo  paesaggio  a  Venezia,  nel  1901. 

Nel  1902  fu  tra  i  fortunati  e  geniali  iniziatori 
della  1"  Esposizione  Inlernazionaled'Arte  Decora- 
tiva Moderna,  e  membro  segretario,  sagace  e 
attivissimo,  del  Comitato  Artistico. 

.Sappiamo  che  pubblicherà  prossimamente  un 
nuovo  volume  di  liriche  «  Il  vortice  della  vita  » 
un  volume  di  Saggi  di  estetica  pratica,  uno  di 
Dialoghi  morali,  ed  uno  di  schizzi  di  viaggio: 
«  L'oro  del  Reno  ». 

Così  la  sua  attività  sempre  geniale,  vivace  e 
varia  à  campo  vasto  per  estrinsecarsi,  con  non  poco 
guadagno  della  nostra  giovane  letteratura  ita- 
liana. 


(1)  Il  Poema  dell'  Adolescenza  di  Enrico  Tuo 
-  s.'Lggi  dal  Poema  dell'  Adolescenza). 


z.  Lire  3.00.  (Vedere  a  pag.   31-3J    -    Ultimo    grido  —    Ribellione  -  e 


mmùmms^mi^^^mmmmm. 


vili. 

FAUSTO  VILLA. 


Fausto  Villa  è  figlio  di  Tommaso  Villa  e  mai 
forse  come  per  lui  ebbe  ragione  l'antico  adagio 
«  buon  sangue  non  mente  ». 

Modestissimo,  quasi  timido, 
per  inclinazione  di  carattere,  egli 
possiede  un  ingegno  vivace  ed 
una  tempra  aristocratica  per  ec- 
cellenza. 

Ha  quarantadue  anni  ed  è  av- 
vocato ;  ma  ai  codici  ha  preferito 
sempre  le...  Muse,  ed  in  arte  è  un 
decadente. 

All'età  di  diciott'anui  il  suo 
nome  ha  fatto,  assieme  con 
lineilo  del  maestro  Oastaldon, 
il  giro...  del  mondo,  compo- 
nendo le  famose  parole  della  • 
«  Musica  Proibita  »,  romanza 
diventata  popolare  dovunque. 

Ha  pubblicato  sopra  parecchie 
riviste  letterarie  e  mondane  no- 
velle, versi,    articoli    scintillanti 


^Xt^( 


di  verve,  caitseries  sentinniitali  avvolte  nel  mi- 
stero di  una  sigla  femminile;  .idora  la  musica  e 
ne  è  cultore  egregio. 

Ultimamente  ha  lanciato  il  suo 
primo  romanzo  «  La  sconfitta  di 
Marco  Diana»  (i  1,  libro  .audace, 
ma  forte  e  profondo,  che  ha  su- 
scitato un  vespaio  tra  la  sinagoga 
ilelle  piccole  coscienze,  racco- 
gliendo invece  larga  onda  di 
encomio  fra  i  critici  di  tutta  la 
Penisola.  Fausto  Villa  oramai 
può  dire  d'avere  trovata  la  sua 
strada,  e  vi  camminer.'»  sicuro, 
stampandovi  chiare  orme. 

L'Itimo  €  segno  p.irticolare  » 
non  è  bello,  ma  piace  alle  donne. 
E,  per  questo,  è  refrattario 
al matrimonio.  Ha  giurato  fe- 
deltà alle  Muse  ed  in  fatto  di 
produzioni  egli  si  dedica  unica- 
mente a  quelle...  letterarie. 


(1)  La  Sconjilla  di  Marco  Diana,  roiuanio  -  lire  J.oo  • 
Questo  rouianio,  nel  campo  della  critica,  sollevò  proprio  dav- 
vero un  furioso  vespaio  :  polemiche  prò  e  contro,  denigr.izioni 


ed  osanna.  6ichi  mbbioii  ed  appUu.i  .inceri.  Per  conto  nctro 
crediamo  soltanto  bene  avvertire  che   non   e   un   romao.o  per 


IX. 


ENRICO  CORRADINI.  (■) 


É   il   deraciné   per   eccellenza.    Civis   romaiius 
di  sentimento  e  d'elezione,  appartiene  alla  terza 
Italia  ed  è  costretto  a  vivere  nella  Firenze  con- 
temporanea :  immerso  nel- 
le  lettere  per    professione         /' 
quotidiana,    disprezza     in 
cuor    suo     la     letteratura 
ed    il  giornalismo  e  crede 
che   l'uomo   sia   nato   per 
combattere    battaglie   ben 
più  cruente  di  quelle  nelle 
quali    scorra  soltanto  del- 
l'inchiostro.   Il    suo    eroe 
è     Cesare,    la    sua    mèta 
l'impero    e    non    dispone 
che     di    un     Regno    sim- 
bolico    quanto    il    potere 
temporale  di  Pio  X. 

Ma  tutto  ciò  non  turba 
la  sua  serenità  d'animo, 
perchè  Enrico  Corradini 
sa  colmare  gli  abissi  che 
dividono  1'  ideale  dalla 
realtà  delle  cose  col  pla- 
cido buon  senso  e  con 
una  punta  di  sottile  scet- 
ticismo. In  fondo  è  la 
persona  più  contentabile 
della  terra;  a  lui  basta 
di  proiettare  nell'  avve- 
nire sotto  forma  di  aspi- 
razione tutta  la  grandezza 
del  passato  e  di  arrab- 
biarsi coi  piccoli  uomini 
moderni  che  non  hanno 
neppure     la     sola    virtù 


consentila  dalla  miseria  dei  tempi  :  la  virtù    del 
rimpianto.    Romanziere,     drammaturgo,     novel- 
liere   (2:   critico  e  giornalista,  cyli  spiega  un'at- 
ti vita  operosa  che  contrasta 
con    la    sua    andatura    al- 
quanto dinoccolata. 

Perchèquesto  militaristi 
ML-U'anima  ,  alle  esercita- 
zioni atletiche,  preferisce 
le  stilistiche  e  non  ha 
alfatto  il  passo  militaresco. 
La  sua  vera  indole  si  ri- 
vela però  quando  siede 
a  tavolino  :  allora^  egli 
brandisce  la  penna  come 
una  spada  che  guizzi  e 
strida  in  un  supremo  cer- 
l.ime. 

Giustamente  apprezzato 
rome  uno  dei  più  acuti 
critici  e  dei  più  forti  e 
(-.istigati  scrittori  italiani, 
autore  di  un  Giulio  Ce- 
sare che  ha  conquistato 
p;r  la  seconda  volta  la 
Gallia,  il  Corradini  ha  tro- 
vato di  solito  minor  for- 
tuna ^ulle  tavole  del  pal- 
coscenico. 

Né  egli  ha  avuto  mai 
il  cattivo  gusto  di  lamen- 
tarsene: anzi  così  i  suoi 
voti  più  ardenti  erano 
esauditi  :  il  teatro  diven- 
tava   un  campo  di  bat- 
taglia! 


(i)  Istantanea   di   Kodak    (dal    «  M 
.  21.  —  S3  maggio  1904. 
(2)  Le  sette  lampade  d'oro  —  ricchis 


del  Corredini.  Uo  volume  di  quasi  400  pag 
Costctti,  lire  2,00. 


1  copertina  del 


i  raccolta  di  novelle 


■^ 


-^r^ 


ISr 


X. 

MARIO  CLARVY. 


Di  Mario  Clar\  y,  creduto  per  buona  pezza  un 
uomo  e  truccato  come  un  Orsini  pel  suo  stesso 
editore,  ben  poco  si  riesce  a  scoprire.  Sollecitato 
e  intervistato  ad  hoc  rispose  : 

—  «  Assomiglio  ai  popoli  fe- 
lici :  non  ho  storia  e  a  diffe- 
renza di  essi  non  ho  patria.  Un 
giorno,  passando  per  Venezia, 
mi  venne,  non  so  perchè,  il  tic- 
chio di    vedervi   la    luce    l'anno 

di   grazia Non  mi    ricordo 

più  !  Il  mio  povero  padre  era 
metà  slavo,  metà  francese  con 
qualche  po'  di  sangue  greco; 
mia  madre  italianB,  io  nacqui 
per  caso  a  Venezia  ;  a  quale 
razza  appartengo  ?  Mi  chiedete 
della  mia  vita,  de'  miei  propo- 
nimenti, de'  miei  studii,  ecc., 
ecc.  Mi  propongo,  battendomi 
il  petto,  di  non  annoiar  piCj 
nessifno  né  in  versi,  né  in  prosa 
—  e  saranno  promesse  di   mari- 


^^ 


w 


nafo.  Non  ho  studiato,  ho  leggicchiato,  non  ho 
vissuto,  ho  sofferto  e  fantasticato  —  vedi  pia- 
gnucolanti sonetti  !  Nulla  feci  che  meriti  d'es- 
sere noto,  (i)  Adottai  tre  anni 
or  sono  una  rivista  letteraria 
—  //  P'eiitesiino  —  di  cui  è 
injelligente  direttore  Alessan- 
dro Sacheri,  —  e  me  ne  occupo 
con  tenace  entusiasmo.  Ecco 
tutto  «. 

Nuli"  altro  si  potè  cavar  di 
bocca  a  Mario  Clarvy  ;  aggiun- 
geremo che  il  Ventesimo,  edito 
a  Genova,  e  che  è  dato  in  dono 
agli  abbonati  di  tre  grandi^ior- 
nali  quotidiani,  è  giornale  lette- 
rario di  graditissima  lettura, 
serio  e  moderno  senza  osten- 
tazione, nemico  giurato  della 
noia  ed  amico  fedele  di  valenti 
collaboratori,  i  quali  vanno  a 
gara  nel  prosperarlo  dei  loro 
frutti  più  belli. 


(r)  E'  troppa  modestia.    Di  Mario  Clarvy  abbiamo    un    buo- 

suoi   sconforti  accoranti,  e 

ne'    suoi  slanci  verso    la    verità  e 

nissimo  libro  di  versi  -  «   Ckimaeva  »    (lire  1,50    -    cbe    ^no 

l'amore.  (Di   «  Ckintaera  » 

diamo    parecchi    saggi    a  pag.  36 

la  fine  anatomia  di  un'anima  che  si  mostra  intera  ed  ingenua 

e  a  pag.  72I. 

nei  ricordi  delle  prime  dolci  illusioni,   nelle  sue    speranze,  nei 

f 

1I2 1I2  tlì  sii  ili  it:  ^  ^  ^  tt£  ^  ^  iti  ^  ^  ^  1I2  ^  iti  ^  :l2  ^  li:  ili  :t^  :l2 112  :l2  ^  ili  Ili  il^  ^  ili  ^  Ili  ili  ili  iti  ili  :l!  it!  il!  ^  ^  ^t:  1I2  ^  ili  1^  1I2  sÈ  ^  !&  ili  ;t!  ;!:  ik  Iti  ^  ^  ^  ^  ^ 


XI. 


LINO  FERRIANI. 


Su  la  vita,  meravigliosamente  operosa,  di 
questo  insigne  scrittore,  altamente  stimato  pur 
all'estero  —  dove  conta  amicizie  illustri  nume- 
rosissime — •  si  potrebbe  ormai  dettare  un  ge- 
niale e  prezioso  volume  :  una  vita  tutta  consa- 
crata a  un  ideale  grandioso,  «  la  rigenerazione 
dell'infanzia  infelice  ».  Si  spiega  cosi  come  egli 
venga  designato  quale  il  «  Magnaad  d'Italia  ». 


E  il  volume  sarebbe  utile,  che,  ancora  una  volta, 
proverebbe  cosa  possano  in  un  uomo  la  volontà 
ferrea,  lo  studio  assiduo  (lavora  ogni  santo  di 
dell'anno  non  meno  *di  undici  ore  per  l'ufficio 
—  ch^  copre  con  tanto  onore  —  e  per  le  cose 
sue)  rivolti  a  una  grande  idealità  umanitaria, 
per  la  quale  combatte  con  ardore  di  apostolo, 
dicendo  sempre  alto  il  vero,  ribelle  a  ogni  roti- 


lOS 

line  burocratica,  pur  conscio  di   pregiudicare  la 
propria  carriera,  perchè  si  sa  in  Italia,  purtroppo, 
quali  altri  requisiti  occorrano  —  diciamo  in  ge- 
nerale —  per  conseguire   promozioni.    Ne'  libri, 
negli    articoli,   nelle   eloquentissime   conferenze, 
nelle  dotte  requisitorie,  sempre  si  rivela  l'uomo 
dal  cuor  d'oro  —  come  disse   il   nostro   illustre 
De-Amicis  —  lo  scienziato  forte,  battagliero  (tale, 
tra  gli  altri,  il  giudizio  di 
Lombroso,   Nordau,  Mor- 
selli),  che    onora    il   pen- 
siero  italiano    vibrante  di 
dolce    umanità.    Noi    non 
possiamo  qui  che  fugace- 
mente parlare  di  lui  e  del- 
l'opera  sua,    davvero  ric- 
chissima e  poderosa. 

Nacque  a  Ferrara  il  6 
Dicembre  1852.  Bambino 
andò  all'estero.  Fu  edu- 
cato nella  Svizzera  ita- 
liana, tedesca,  e  a  Londra, 
dove  il  padre  suo  eserci- 
tava, reputatissimo,  la  me- 
dicina. Tornò  in  patria  nel 
i8;f2.  Si  laureò  in  legge^ 
Insegnando  nell'un  tempo 
l'inglese,  e  dedicandosi 
pure  alle  belle  lettere. 
Scrisse  alcune  commedie 
popolari,  che  ebbero  lieto 
successo.  —  Esercitò  poi 
V  avvocatura,  specie  nel 
ramo  penale,  spiegando 
doti  d'  oratore  squisite. 
Fondò  intanto'  a  Ferrara,- 
col  prof.  Scarabelli,  un 
giornale  democratico  «  La 
Rivista  »    —    che    tuttora 

vive  —  e  col  professore  Agnelli  loggi  esimio 
bibliotecario  comunale)  un  vivace  Gazzettino  let- 
terario, nel  quale  collaborarono  Panzacchi,  Yorick 
e  l'àllora  giovanetto  D'Annunzio. 

Nel  1881,  superati  splendidamente  gli  esami 
di  pretore,  fu  nominato  sostituto  Procuratore 
del  Re  a  Palermo,  e  nel  1SS9  promosso  Pro- 
curatore del  Re.  Per  i  suoi  meriti  quale  magi- 
strato, fu  nominato  cavaliere  mauriziano  e  uffi- 
ciale della  Corona  d'Italia;  onorificenze  che  gli 
riuscirono  gradite,  ma  giammai  diminuirono  la 
modestia,  la  mitezza  del  suo  carattere,  che  sol- 
tanto divien  fiero,  ardito  quando  le  energie  feno- 
menali dell'uomo  si  concentrano  nella  lotta  per 
il  bene,  nel  salvataggio»  del  fanciullo.  Inutile 
dire  che  è  padre  e  marito   modello,  £   la   sorte 


gli  arrise  dandogli  per  compagna  un'  angelica  e 
intelligentissima  signora,  che,  nel  lavoro  arduo 
e  nelle  amarezze  della  vita  (a  tali  uomini  non 
può  mancare  il  morso  feroce  dell'invidiai,  lo  sor- 
regge con  intenso  affetto. 

Le  sue  opere,  —  di  cui  parecchie  tradotte  in  varie 
lingue,  e  specie  in  tedesco  dal  dott.  Ruhemann  — 
sono  innumerevoli.  Nel  1886  stampò  « /.'/«/aw/i- 
cirfa  »,  che,  per  quanto  pal- 
piti di  modernità,  risente 
della  scuola  classica  :  ne' 
libri  che  vengono  dopo  si  ri- 
vela un  nuovo,  profondo  e 
meditato  indirizzo  di  studi 
positivi,  fortificati  da  una 
benedettina  scienza  stati- 
stica ;  e  così  Io  vediamo 
tra  i  campioni  più  valorosi 
della  scuola  ferro'lombro- 
siana,  e,  dacché  Garofalo 
tace,  forse  l'unico  magi- 
strato, che  continui  a  lot- 
tare strenuamente  per  essa. 
Dal  1S87  al  1903  (e  si  noti, 
molte  sono  le  opere  volu- 
minose e  frutto  di  lunghe 
indagini  mondiali)  scrisse: 
••  L' Amore  in  Tribunale  » 

—  Madri  snaturate  »  — 
«  A/inorenni  de/intuenti  » 

—  «  Delinquenti  scaltri  e 
/ortunati  »  —  Delinquettti 
che  scrivono  »  —  Delin- 
quenza precoce  e  senile  »  — 
/  drammi  dei  fanciulli  »  — 
«  Fanciulli  abbandonati  » 
(tutji  studi  di  psicologia 
criminale).  «  Nel  mondo 
Jtl l'infanzia  »  —  Studi  di 

psicologia  infantile  » —  v.  Conferenze» —  *L^ umo- 
rismo di  un  usciere  giudiziario  »  (i)  —  Tredici 
disccnsi  inaugurali  »  :  opere  tutte,  che  ebbero  la 
lode  unanime  della  stampa  più  autorevole  italiana 
e  straniera.  —  Ferriani  scrive  inoltre  nelle  più  re- 
putate riviste  europee  ed  americane,  in  parecchi 
giornali, specialmente  ricercato  per  i  suoi  studi  sul- 
l'infanzia. —  Ora  attende  da  un  anno  a  un  volume 
poderoso  di  sociologia  dal  titolo  «  Donne  e  fan- 
ciulli ».  Concludendo,  un  gran  lavoratore,  una 
mente  geniale,  eruditissima,  un  uomo  modesto,  de- 
mocratico, affabile  con  tutti,  vero  padre  dei  bimbi 
infelici,  e  ben  lo  sa  Como,  dove  da  13  anni  esercita 
con  intelletto  d'amore,  amato  da  tutti,  le  sue  deli- 
cate funzioni  di  Procuratore  del  Re,  in  attesa  di 
esser  promosso   alla  Cassazione  di  Roma. 


(I)  uu, 
pag.  350. 


orismo  di   un    Usciere  gindtztan'o  • — Un  volume 
opertina  illustrata,  lire    3.00.    —   (A   pagina   37 


eguenti  riporti 
te  :  «<  La  doDD; 


mo  un  gustoso  brano  di  questo  fortunato  1 
nella  famiglia  giudiziaria  ».) 


109 


XII. 


ARNALDO  LAMBERTINI. 


È  un  innamorato  dell'arte  e  della 
in    ispecie,  alla  quale   ha   portato    1' 
febbrile,  la  viv-acità  sincera,  franca  e 
del    suo    carattere    t-oma- 
gnolo. 

Chi  non  ricorda  a  Roma 
lo  sportman  appassionato, 
il  gagliardo  corridore,  alle 
caccie  e  sul  turf,  reci- 
tare alla  sera  versi  e  mo- 
nologhi negli  aristocra- 
tici saloni  romani,  din- 
nanzi a  tutto  il  mondo... 
rappresentato,  con  la  effi- 
cacia e  la  comicità  dei- 
dicitore  elegante  ed  in- 
contentabile? 

É  capitano  d'artiglieria, 
e  pensa  che  Napoleone 
in  fine  dei  conti  non  fu 
che  un  gran  capitano. 

Con  i  suoi  Racconti 
della  Mensa  (i)  volle  mo- 
strare che  nella  calun- 
niata vita  della  caserma 
fervono  momenti  di  ven- 
tenne genialità  serena,  al- 
legra e  spensierata,  i  quali 
possono  indurre  agli  estra- 


nei quella  simpatia  e   quell'affetto    a    cui  la  ca- 
serma ha  diritto. 

E  vi  è  riescito  a  meraviglia.  Quei  Racconti, 
informati  a  verità  ed  a 
sincerità,  ebbero  un  _  suc- 
cesso di  schietta  anuiiìra- 
zione. 
^*V  Ma  non  ha  trattato  solo 

■  il    genere  militare.  I  gior- 

9  nali     letterari     lo    ebbero 

collaboratore  instancabile. 
Esordi  nel  campo  let- 
terario con  commedie  e 
con  drammi  —  poi  che 
il  teatro  fu,  ed  è,  la  pas- 
sione sua  tenace  inguari- 
bile. 

Ora,  mentre  prepara  un 
al^ro  volume  di  novelle, 
torna  serenamente  e  co- 
raggiosamente al  teatro  — 
nel  quale  non  si  sente  ne 
abbastanza,  né .  definitiva- 
mente,   applaudito o 

fischiato. 

Per  ciò  ha    per    motto: 

Il  teatro  sol  mi   darà 

fama  e  riposo!       , 


(l)  /  Racconti  della  Mensa  di  Arnaldo  Lambertiui  -  III  volume 
della  «Bibliot,  Gaial>,  L.  2,50.  -Coiitiene;  La  sveglia  -  A  mali 
estremi...  ecc.  -  La  teoria  al  sottotenente  -  La  Pasqua  -  Pjerrot  - 
La^olvere  senza  scoppio  -  In  ferrovia  -  Viceversa  -  Il  convegno 
di  caccia  -  Bijou  -  Armi  e  tiri  -  11  difensore  -  Andata  e  ritorno... 


e  andata  -  Cinque  ore  dopo  :  alla  sLuioi 
rovia, andata;  Susa  :  alla  stazione;  Torii 
Caforio  -  Il  silenzio. 

(Di  questi  racconti  diamo  un  saggiti 
rovìa  »  e  *•  Viceversa  »1. 


a  :  in  restaurant  ;  in  fer- 
j  :  alla  stAzionc  -  Monssii 


^««^^^"^««l^^M^iiiMlMiliSSiMll^^ 


XIII. 

AMILCARE  LAURÌA. 


Nasce  a  Napoli  (3  aprile  1854)  da  illustre  fa- 
migli^ di  magistrati  —  (suo  avo,  Francesco  Lauria,, 
fu  il  primo  oratore  de'  suoi  tempi  ;  suo  padre 
fu  vice-presidente  del  Consiglio  di  Stato  e  sena- 
tore del  Regno). 

Dopo  le  malattie  che  afflissero  il  I.aurìa  fino  al- 
l'adolescenza (onde  dovette  star- 
sene tre  anni  a  Ginevra  e  due 
a  San  Gallo),  principiò  gli  studi 
giuridici  e  letterarii  insieme,  dopo 
i  diciotto  anni.  Ebbe  a  maestri 
il  famoso  latinista  napoletano 
monsignor  Antonio  Mirabelli, 
l'altro,  principe  della  filologia, 
Emanuele  Rocco  —  suocero  di 
Alfonso  Balzico  — .  il  venerato 
prof,  d'estetica  Antonio  Tari  e 
l'immortale  Francesco  De  San- 
ctis. 

Dopo  due  anni  d'esercizio  di 
avvocatura  (che  il  Lauria  odiava 
cordialmente)  incominciò  a  get- 
tar giù  bozzettini  e  caricature 
della  piccola  borghesia  napole- 
tana (della  tipica  contrada  di 
Foria),  i  quali,  pubblicati  ano- 
nimamente nei  giornali  umori- 
stici del  tempo,  destarono  un 
senso  di  curiosità  grande*  per 
l'originalitìi. 

L'anno  appresso  Angelo  Som- 
maruga  pubblicava  il  primo  volume  del  Lauria, 
Sebeha,  bozzetti  umoristici  napoletani,  con  pre- 
fazione del  francese  più  amante  dell'Iella,  Marc- 
Monnier. 

I>Jella  prefazione  egli  diceva  che  i  bozzetti  del 
Lauria  potevano  piacere  a  tutti  e  italiani  e  fore- 
stieri, perchè  educato  all'estero.  Quando  il  Lauria 
era  tornato  in  patria  aveva  t'isio  i  suoi  compae- 
sani con  quella  sorpresa  con  cui  li  vedano  i  fore- 
■stìeri. 

Difatti  il  successo  della  Sebeiiaiu  straordinario: 
ieri  il  Lauria  era  sconbsciuto  a  tutti,  oggi  ecco 
che  Angelo  Somniaruga,  costretto  a  fare  otto 
edizioni  al  primo  libro  di  lui,  lo  dà  in  premio  a» 
lettori  delle  Forche  Caudine  (dello  Sbarbaro)  in- 
sieme con  j  libri  del  Carducci,  del  D'Annunzio 
e  del  Rapisardi. 


■ <^-t^z-t-^>fc  ■ 


L'anno  appresso  Edoardo  Ferino  pubblica  una 
seconda  Sebetia  del  Lauria,  e  ne  van  via  sei  edi- 
zioni, mentre,  in  Germania,  Arnous  le  traduce  en- 
trambe pei  giornali  tede.schi,  e  le  raccoglie  poi 
in  un  sol  volume  della  Universapl  Bibliqtek  di 
Philipp  Réclam  di  Lipsia. 

■  Amilcare  Lauria,  allora,  pensò 
al  romanzo,  ad  un  romanzo  na- 
poletano con  lo  stesso  sistema 
che  s'era  formato  per  la  Sebetia: 
tutto  suo,  personalissimo,  umo- 
ristico nel  pretto  sen.so  della 
parola,  e  scrisse  Donna  Candida, 
pubblicato  dal  Galli  di  Milano 
nel  1890.  Lo  dissero  zoliano  (ed 
ebbero  proprio  torto)  sol  perchè 
la  protagonista  del  romanzo  era 
una  ruffiana  in  ritiro,  come  se 
Zi)la  (che  amò  tanto  il  Lauria) 
fosse  stato  mai  umorista! 

Il  romanzo  ebbe  tale  successo 
che  tutti  i  critici  italiani  ed  esteri 
se  ne  occuparono  in  lunghi  arti- 
coli. 

Allora  il  Lauria  pensò  di  stu- 
diar la  questione  sociale  napole- 
tana in  un  romanzo,  che  avesse 
per  eroe  il  tipo  del  povero  ga- 
lantuomo partenopeo,ischiacciato 
dagli  arruffoni  di  laggiù,  e,  dopo 
parecchi  anni  di  studio,  scrisse 
il  Povero  don  Camillo  !  c\\e,  pubblicato  dal  Gian- 
notta  di  Catania,  ebbe  successo  letterario  anche 
superiore  a  quello  ottenuto  da  Donna  Candida. 
Infaticabile  com'è,  il  Lauria,  odiatore  della 
scuola  psicologica,  voUe^  mostrare  quanto  psico- 
logia senza  fisiologia,  pensiero  senza  azione,  in 
un'opera  d'arte  sia  assurda  cosa,  e  scrisse  il 
romanzo  antropologico  JSIicia,  che  ebbe  cosi  Jieto 
successo  e  che  Cesare  Lombroso  chiamò  splendido 
lavoro. 

Da  questo  il  Lauria  passò  al  romanzo  pura- 
mente fisiologico,  tracciando  le  linee  della  donna- 
sfinge,  che  riesce  fatale  a  chiunque  l'avvicini,  di 
qualsiasi  temperamento,  e  il  romanzo",  pubblicato 
dalla  Poligrafica  di  Milano,  fu  «  Sulla  Lyona  ». 
Ma  non  soltanto  pei  grandi  Amilcare,  Lauria 
scrive,  sibbene  andie  pel  mondo  dei  piccini.  Chi 


non  ricorda  i  suoi  Ragazzi  napoletani,  edito  dal 
Tre\  isini,  e  quei  Quattro  del  Molo,  che  rallegra- 
rono e  commossero  insieme  e  grandi  e  piccini, 
edito  dal  Voghera? 

Dopo  codesto  romanzetto  napoletano,  il  Lauria 
pensò  ad  un  vero  romanzo  educativo  per  ragazzi, 
nel  quale  svolgere  in  azione  il  socialismo  moderno 
e  dette  ai  ragazzi  1'  esempio  dì  quel  che  dovrà 
essere  il  piccolo  signore  di  domani,  o  sparire: 
ecco  //  Signorino,  edito  dal  Sandron  di  Palermo. 

Ma  non  meno  interessante  labbenchè,  ingiu- 
stamente, non  abbia  avuto  la  fortuna  degli  altri) 
è  la  raccolta  di  novelle  napoletane  per  signorine: 
Figurine  ingenue  di  Amilcare  Lauria,  edito  dal 
Cappelli  di  Rocca  San  Casciano. 


{0  Le  Garibaldine  -  Memorie  del  iSòo  a  Napoli,  di  Ami[ 
CARE  Lai'RÌA  -  Elegante  volume  con  copertina  del  Martoglio 
I-ire  2.  -  Contiene  :  .<  Virginio  -.  -  Un  ragazzo  dei  Mill 
Teatro  Sebeto  -  Una  liber.izione  -  «  Masto  Fetrico  »  -   Boldrìn 


Al 


L'ultimo  libro  del  Lauria  è  La  mala  gente, 
novelle  socialiste,  che  egli  chiama  Scene,  quadri 
e  storie  della  vita  comtemporanea,  edito  dal  Ner- 
bini  di  Firenze,  di  cui  la  critica  disse  il  mi- 
glior bene. 

Ed  ora  ecco  Le  Garibaldine  iii. 

Il  Lauria  vive  a  Roma,  circondato  dai  suoi  sei 
piccini,  dalla  sua  migliore  amica,  in  casa,  e  fuori, 
alla  scuola,  da  un  centinaio  di  giovanissimi  romani 
che  adorano  il  loro  professore.  , 

Che  più?  ogni  Pasqua  egli  fa  la  sua  sacca  da 
viaggio,  e  sen  viene  in  Alta  Italia,  a  concedersi 
Io  svago  di  tener  conferenze,  alle  quali  corrono 
gran  parte  dei  lettori  dei  suoi  libri. 


-  L'incontro.  (A  pag.  49  riportiamo  il  commoventissii 
ramente  splendido  racconto  *<  Un  rag.i2zo  dei  Mille 
da  «  Le  Garibaldine)  ». 


XIV 


ANTONIO  BELTRAMELLT. 


Antonio  Beltramelli  n,acque  l'undici  gennaio 
del  1875  in  una  lieta  e  bella  città  della  Verde  Ro- 
magna: Forlì;  nacque  da  gente  di  modesta  con- 
dizione e  trascorse  la  sua 
barbara  giovinezza  silen- 
zio.samente  fra  la  tristezza 
di  una  piccola  casa  e  la 
libera  vastità  dei  monti, 
del  piano  e  del  mare. 
Dal  padre  tolsalo  spirito 
nomade,  l'incessante  de- 
siderio di  raggiungere 
ogni  confine  apparente  ; 
dalla  madre  la  dolce 
pensosità  serena. 

Le  scuole  furono  per 
lui  un  martirio  continuo, 
che  non  sapeva  piegare  il 
suo  spirito  al  burocratico 
sistema  d'insegnamento 
per  il  quale  le  giovani 
nienti  imparano  ad  odiare 
le  cose  belle;  ebbe  neces- 
sità continua  d'amore  e 
ciò  che  imparò  e  seppe 
fu  per  le  vie  dell'amicizia 
e  della  simpatia. 

Spirito' incolto  fino  alla  sua  prima  giovinezza, 
amò  il  suo  popolo  e  tentò  di  signitìcarne  l'anima 
bella  e  gagliarda. 


La  sua  voce  si  compose  a  quella  dei  novella- 
tori raminghi  che  vanno  di  paese  in  paese  favo- 
leggiando di  cose  grandi  e  lontane  ;  egli  senti 
in  ogni  fatto  umano  vi- 
vere la  leggenda  ed  il 
mistero,  a'  suoi  occhi 
attoniti  ogni  cosa  leg- 
germente si  trasfigurava. 
Amò  la  musica  sopra 
ogni  cosa  e  molte  volte 
nella  sua  giovinezza  tentò 
dedicarvisi  ;  le  contra- 
rietà incontrate  non  glielo 
permisero  mai..  Compiti 
gli  studi  superiori  a  Fi- 
'  renze  (aveva  bisogno  del 
suo  marchio  per  es*re 
accettato  fra  gli  altri  nella 
vita  grande\  Roma,  l'e- 
terna ammaliatrice,  lo  at- 
trasse e,  come  lo  inna- 
morò per  la  sua  divina 
grandezza,  vi  rimase. 

Si  unì  al  gregge:  tra- 
scinò il  suo  carro  pesante 
per  cinque  anni;  fu  gior- 
nalista alla  Tribuna  ed 
alla  Patria,  poi  l'arida  vita  che  rapidamente 
consuma  lo  stancò.  Egli  era  l'adoratore  dei 
silenzi  e  delle  solitudini.  Ritornò  nei  suoi   paesi 


selvaggi,  nei  quali  vive  tuttora  unicamente  in- 
tento a  racchiudere  nel  breve  ritmo  delle  parole 
le  visioni  di  uomini  e  di  cose  dalle  quali  l'anima 
molteplice  di  tutta  una  gente  si  appalesa. 

La  sua  prima  raccolta  di  novelle  —  L'antica 
madre  —  pubblicata  dall'editore  Licinio  Cappelli 
di  Rocca  S.  Casciano,  rivela,  nella  sua  rude 
compagine,  la  via  che  il  Beltramelli  aveva  già 
fin  d'allora  delineata  innanzi  a  sé.  L'antica  madre 
è  la  prima-  parte  di  un  ciclo  di  novelle  dal  titolo 
generale  —  /  vittoriosi,  —  coloro  cioè  che  sopra 
ogni  effimero  mutamento  di  cose  mantengono  in- 
tatta nella  loro  integrità  l'anima  di  una  stirpe. 

/  vittoriosi  sono  gli  uomini  semplici  e  rudi 
che  vivono  in  solitudine  sotto  la  vastità  e 
l'eterno  mistero,  coloro  che  natura  predilige  e 
che  possono  dirsi  i  sacerdoti  ai  quali  essa  affida 
le  sue  immutabili  leggi.  Vittoriosi  sulle  piccole 
vanità,  sul  piccolo  scalpitare  degli  uomini  che  si 
racchiudono  in  un  breve  giro  di  mura  e,  camuf- 
fati da  Grandi,  dimenticano  la  piccola  miseria 
che  li  guida.  La  casa  editrice  dei  fratelli  Treves 
ha  dato  alla  luce,  qualche  mese  fa,  la  seconda 
parte  di  questo  ciclo  —  Anna  Perenna.  —  Aima 
Perenna  è  un'antica  divinità  del  Lazio;  è  la 
primavera.  La  dea  che  sorrise  all'anima  primi- 
tiva della  nostra  gente,  guida  l'autore  attraverso 
alle  terre  della  sua  Romagna  e  gli  appalesa  e  le 


passioni  e  le  tragedie  che  agitano  la  vita  degli 
uomini  fra  i  monti  ed  il  mare,  nelle  pianure 
sterminate.  L'ultima  parte  di  questo  ciclo  s'inti- 
tola —  /  primogenili  —  e  vedrà  la  luce  quanto 
prima. 

Gli  Uomini  rossi  (i)  —  romanzo  satirico  che 
apre  una  trilogia  intitolata  :  —  //  carnevale  delle 
democrazie  —  ha  visto  la  luce  quest'anno,  ed 
è  stato  un  vero  trionfo,  perchè  esso,  con  invi- 
diabile sagacia  d'osservazione  e  con  indiavolata 
vena  satirica  dipinge  magistralmente  l'ambiente 
del  repubblicanesimo  romagnolo.  È  poi  un  ro- 
manzo pieno  di  verve,  di  umorismo,  e  di  casi 
comici  divertentissimi,  per  cui  lo  si  legge  con 
diletto  vivissimo,  e  lo  si  rilegge  più  volentieri 
ancora.  Ne  diamo  un  gustosissimo  saggio  a 
pag.  53,  con  il  capitolo  XII  intitolato:  «  Nel  quale 
si  vede  come  Madonna  Luna  si  dichiarasse  ne- 
mica di  Monsignor  Rutilante  ». 

Dello  stesso  autore  si  annunciano  d'imminente 
pubblicazione,:  un  volume  d'azioni  sceniche  iira- 
presentabili,  dal  titolo  —  /  drammi  delle  solitu- 
dini; —  in  essi  è  un  riverbero  della  tragica  ed 
eterna  lotta  degli  uomini  con  la  natura  cieca  — 
è  un  romanzo  nel  quale  pulsa  la  tragica  rapidità 
della  vita  moderna  alla  quale  fa  contrasto  l'im- 
mobile dominio  di  due  città  eterne:  Roma  e 
Ravenna. 


(I)  Gli  Uoi 


di  Antonio  Beltramelli,  VII  voi.  dell.t  Biblioteca  Gaja 


copertina  di  Filiberto  Scarpelli  -  L.  3.0 


XV. 

PASQUALE  DE  LUCA. 


È  fra  i  più  fecondi  e  versatili  ingegni  nostri. 
In  Francia  o  in.  Inghilterra  la  sua  attività  lo 
avrebbe  reso  celebre  e  ricco:  presso  di  noi,  per 
vivere,  deve  moltiplicarsi.  Ed  egli  lo  fa  con  ar- 
dore sempre  giovanile  e  con  fede  da  apostolo. 
Dirige  da  sette  anni  la  più  elegante  e  diffusa 
rivista  artistico-letteraria,  Natura  ed  Arte,  che  fu 
la  prima  e  rimane  la  più  interessante  del  genere: 
ma  precedentemente  fu  giornalista,  a  Napoli,  e 
di  questa  metropoli  studiò  la  vita  complessa  e 
multiforme,  che  fa  rivivere  nei  suoi  romanzi  e 
nelle  sue  numerose  novelle,  e  in  ispecial  modo 
nella  trilogia:  Alle  porte  della  felicità  (i),  (am- 
biente, popolare);  Le  ambiziose  (borghesia)  e  // 
cavaliere  di  Malta  (aristocrazia;  di  futura  pub- 
blicazione. Nato  a  Sessa  Aurunca  (Terra  di  Lavoro) 
nel  1865,  esordì  con  un  volumetto  di  Racconti 
Silvani  che  iurono  lodati  e  s'ebbero  larghi  inco- 


raggiamenti dai  migliori  letterati  nostri,  fra  i 
quali  Verga,  Rovetta,  la  Serao,  D.  Milelli, 
Colautti,  ecc. 

Seguirono  L'onorevole  Zucchini,  Senza  sole.... 
Mamme,  /denari,  Myosotis,  ecc.,  che  conferma- 
rono le  sue  «  memorabili  doti  di  novellatore  forte 
ed  originale  » .  E  intanto  collaborava  al  Corriere 
di  Napoli,  al  Piccolo,  al  Don  Marzio,  al  Pungolo, 
di  Napoli  ;  scriveva  romanzi  per  le  appendici  del 
Caffaro,  del  Resto  del  Carlino,  del  Capitati  Fra- 
cassa, ecc.;  pubblicava  versi  e  prose  nei  prin- 
cipali periodici  ebdomadari  e  quindicinali,  fra  i 
quali  la  Gazzetta  Letteraria,  del  Depanis,  il  Fan- 
fulla  della  Domenica,  la  Gazzetta  del  Popolo,  e 
la  Commedia  umana,  e  faceva  rappresentare,  da 
primarie  compagnie,  i  suoi  drammi,  e  le  sue 
commedie.  Fu  uno  dei  tre  prescelti  al  gran  Con- 
corso di  Torino,  per  il  Teatro  d'Arte,  e  col  Nani 


ha    tradotto    in    versi    V  Eterno  femminino    del 
iMisch,  ripetuto  sette  volte  a  Torino.  Ha  in  pronto 
un  altro  romanzo  :  La  novella  l'ila,  che  si  svolge 
a    Milano    e    sul    lago  di 
Como  —  comincia  con  un 
colpo  di  pistola,  e  finisce... 
con  un  sorriso,  nel  trionfo 
della    vita.    Uscirà    prima 
del  Cavaliere  di  Afalla. 

Appassionato  per  le 
belle  arti,  ne  scrive  con 
giusto  criterio  e  con  forma 
attraente  ;  e  con  sapore 
italiano  traduce  e  popola- 
rizza fra  noi  quello  spirito 
bizzarro  che  si  chiama 
H.  G.  Welles,  il  fantasioso 
romanziere  inglese.  In  A^a- 
tiira  ed  Arte  ottiene  con- 
tinui successi  con  le  sue 
caitseries  firmate  «  il  Conte 
Azzurro  »;  nella  cerchia 
dei  giovani  musicisti  è  ap- 
prezzatissimo  per  i  suoi  li- 
bretti d'opera.  Ha  ridotto 
per  il   teatro  lirico  il  Quo 


"3 

vadisT  per  il  maestro  italo-argentino  A.  Fracas<ii  ; 
Criugoire  per  il  milanese  maestro  A.  Cantii;  A<r 
hourgeois  genlilhommc  di  Molière  per  il  maestro 
E.  Elsposito,  residente  in 
Russia  ;  Luisa  San/elice 
per  un  giovane  musicista 
che  vive  a  Parigi,  e  Una 
notte  di  Cleopatra  per  il 
maestro  Bellini  Hi  Lugano, 
oltre  a  una  Foglia  d'al- 
loro- interamente  origi- 
nale, in  tre  atti,  giudi- 
cati fra  i  più  poetici  del 
teatro  contemporaneo.  €  Il 
libretto  —  egli  dice  —  rias- 
sume due  forti  ed  antiche 
passioni  mie:'  la  poesia 
e  il  teatro,  e  potrà  essere 
remunerativo  più  di  qual- 
siasi altra  forma  d'arte». 
Afferma,  inoltre,  nelle  sue 
piacevoli  conversazioni, 
che  per  il  '910  dovrà  esser 
ricco  :  chi  scrive  glie  lo 
augura  sinceramente,  e  di 
tutto  cuore  ! 


(l)  AIU  porU  dtlla  /eticità,    r 
•iportiamo  un  saggia  a  pag.  58). 


.-ipoletano  di   Pas<3UAI.k  Db  Li'ca  -  z.a  cdÌ2 


XVI. 

EMILIO  PINCHIA. 


Emilio  riuchia  k  nato  in  Torino  il  25  febbraio 
1S52,  di  nobile  e  antica  famiglia  canavesana. 
Addottoratosi  in  legge  nell'lljiiversità  di  fisa  non 
esercitò  l'avvocatura,  ma  entrò,  per  quanto  gio- 
vanissimo, nella  vita  pubblica  avviandosi  per  la 
strada  che  gli  era  additata  dalla  tradizione  fami- 
gliare, poiché  il  bisavo  ed  il  padre  furono  Sin- 
daci di  Torino  e  questi  negli  anni  memorabili 
'4S  e  '49,  salendo  poscia  agli  alti  gradi  della  ma- 
gistratura. Emilio  Pinchia  non  trascurò  le  lettere 
e  alle  lettere  anzi  dovette  la  prima  fama  e  i 
primi  onori.  Esordi  infatti  nel  giornalismo  come 
collaboratore  della  Rivista,  che  ebbe  a'  suoi  dì 
i  suoi  momenti  di  celebrità,  e  come  romanziere 
con  Oriente  e  Occidente  e  con   Valdiana. 


Non  sarebbe  facile  seguire  il  Pinchia  ne' .suoi 
passi  successivi,  poiché  ringegno  vivace,  l'in- 
cessante bisogno  di  commentare,  di  proporre  U 
inim'agini  e  le  idee  quali  presentavansi  allo  si\i- 
rito  alacre  e  pronto,  cominciarono  ben  presto  a 
esplicarsi  in  una  serie  di  scritti  di  vario  argo- 
mento, rivelanti  lutti  una  visione  personale  delle 
cose.  Epperò  citiamo,  come  soccorre  la  memoria, 
i  Ricordi  di  Tunisia,  contenenti  pagine  notevo- 
lissime, i  saggi  /tatti  e  Casa  Savoia,  omaggio  di 
devozione  a  quella  Casa  che  inquartò  sullo  scudo 
la  croce  d'Ivrea,  da  cui  il  Pinchia  deriva  i  natali, 
gli  Opuscoli  politici  ed  A-onomici,  rivolti  ai  pro- 
blemi più  gravi  della  vita  prc-^ente,  programma 
vero  e  proprio  d'un   amico  della   s<-ii'>'>      ..1.1... 


114 


non  dell'ultima   ora,    poiché   studiando   la    Vita 
/iella  campagna  ne  conobbe  l'importanza. 

In  questi  opuscoli,  come  in  quel  suo  Politica 
nuova  che  suscitò  molte  polemiche,  quando  ap- 
parve —  e  apparve  come 
segno  e  come  ammoni- 
mento dei  nuovi  doveri 
della  democrazia  liberale 
—  è  un  fondo  di  sano 
ottimismo,  una  speranza 
confidente  nei  destini  della 
Patria  ;  ma  il  desiderio 
inestinguibile  del  bene  e 
la  lentezza  dei  governanti 
gli  suggeriscono  a  volte  la 
parola  disdegnosa.  Questa 
sua  politica  fiiiova  non  pare 
opera  del  signorile  illu- 
stratore dei  Castelli  e  dei 
poeti  canavesani,  dell'ele- 
gante dicitore,  del  chiosa- 
tore scaltrito,  ma  sì  di  un 
altro  uomo.  Di  un  uomo 
che  abbia  passato  i  suoi 
begli  anni  negli  studi  se- 
veri dell'economia,  nella 
ricerca  di  quanto  può  dare 
allo  Stato  un  assetto  più 
giusto  e  più  sincero  e  al 
Principato  nuova  giovi- 
nezza, pel  quale  hanno 
pochi  segreti  le  gravi  qui- 
stioni  dei  tributi,  della  ri- 
l'orma  della  'scuoia.  Con- 
trasti singolari  che  ha'nno 
rispondenza  con  la  terra, 
onde  egli  proviene,  dove 
le  praterie  lucenti  e  le  ombre  discrete  sotto  i  noci 
e  i  castagni  si  avvicendano  con  la  natura  sel- 
vaggia   e    claustrale,    terra   piena    di    memorie. 


dalla  legione    Tebea   a   Calvino,   da  Annibale   a 
Napoleone. 

In  politica  è  un  liberale:  impaziente  di  freni 
è  piuttosto  un  solitario  che  uomo  di  parte  o  di 
partito.  Siede  alla  Camera 
dei  Deputati  fin  dal  1890 
ed  ora  intende  per  la  se- 
conda volta  alle  cose  della 
pubblica  istruzione_in  qua- 
lità di  -Sottosegretario  di 
Stato,  impiegando  nella 
carica  insieme  con  l'espe- 
rienza d'un  lungo,  volon- 
tario e  disinteressato  tiro- 
cinio, la  forza  che  gli 
deriva  dai  fervori  dell'a- 
nimo e  dall'integrità  della 
vita. 

E  oratore  apprezzatis- 
simo,  perchè  anche  nelle 
questioni  più  gravi  porta 
la  nota  della  poesia  (i)  e 
(iella  gentilezza,  ma  si 
trova  più  a  suo  agio  ogni 
qualvolta  l'argomento  lo 
porti  in  alto  e  lontano  dai 
luoghi  comuni  della  poli- 
tica. 

Cosi  la  sua  parola  evo- 
catrice fu  sempre  un  de- 
gno conmiento  alle  feste 
dell'arte  e  del  pensiero  e, 
in  recentissima  occasione, 
in  Arezzo,  dove  inaugu- 
rava le  feste  del  cente- 
nario petrarchesco,  ebbe 
il  valore  di  nobile  affer- 
mazione della  rinnovata  fratellanza  tra  le  due 
gloriose  nazioni  latine  nel  nome  del  poeta  di 
Valchiusa  e  di  Arquà. 


(i)  Ultimi  versi  "pubblicati  il;i 
8V  piccolo,  catta  a,»mauo.  L 


Emilio  Pinchia,   dei  quali  di; 


»  Epiloghi 


XVII. 

DOMENICO   TUMIATI. 


Domenico  Tumiati  è  nato  a  Ferrara  il  2  di- 
cembre 1874,  nell'anno  in  cui  sì  celebrava  il  cen- 
tenario della  nascita  del  poeta  di  Orlando.  Fer- 
rara è  generosa  madre  di  poeti,  e  il  più  giovane 
e  ardente  dei  suoi  figli  non  smentisce  la  tra- 
dizione. La  poesia,  lo  stile  del  Tumiati  ha  la 
chiarezza,  la  musicalità  dei 
grandi  poeti  ferraresi  :  anche 
nella  sua  prosa,  il  periodo 
n«?rvoso  e  rapido  obbedisce 
a  una  musica  interna.  In  un 
tempo  in  cui  il  verso  cani 
mina  a  piccoli  passi  con  qual- 
che asma,  egli  canta,  nel 
senso  più  sereno  della  parola. 
I, 'innovazione  da  lui  portata 
nella  lirica  coi  celebri  melo 
loghi,  è  un'espressione  natu 
rale  del  suo  temperamento, 
che  ebbe  la  fortuna  d'incon- 
trarsi in  due  anime  fraterne, 
quella  di '«Gualtiero  Tumiati 
e  del  M.  Vittore  Veneziani. 
Da  quattro  anni  i  tre  valen- 
tissimi artisti  battono  in  corsa 
tutte  le  città  della  penisola, 
seguiti  dalle  loro  orchestre  e 
quintetti,  portando  il  verbo 
nielologico,  e  destando  ovun- 
que tanto  interesse,  discus- 
sione e  entusiasmo.  Le  ultime 
esecuzioni  di  Napoli  e, di  Roma,  con  la  Morie 
di  lìajardo,  nello  scorso  inverno,  segnarono  il 
trionfo  di  questo  nuovo  genere  d'arte,  che  già 
aveva  ottenuto  a  Corte  il  ^ilauso  augusto  di  S.  M. 
la  Regina  Madre.  Dalle  Alpi  alle  Piramidi  ormai 
non  vi  è  città  che  non  conosca  i  rnelologhi,  i 
quali  sono  del  Tumiati  l'opera  più  nota. 

Noi  ci  siamo  proposti  di  rivelare  un  nuovo  lato 
di  questo  poeta  così  singolare",  il  lato  analitico, 
l'osservazione  della  vita,  col  volume  di  novelle 
Fumo  e  Fiamma,  {\\  che  forma  una  gemma  della 
nostra  collana.  Fumo  e  Fiamma  è  il  sesto  volume 
pubblicato  dall'Autore.  Egli  esordi  nel  1S95  con 
un  poema  di  ballate  ^  Iris  Floreniina  —  in  cui 
spira  tutto  il  profumo  di  Firenze,  dove  il  Tu- 
miati visse  per  molti  anni:    seguirono   nel  1S97 


due  altri  libri  —  Musica  antica  per  chitarra  —  e 
—  Frale  Angelico:  —  il  primo  delicatissimo  tes- 
suto di  liriche  intime,  il  secondo,  storia  di  un'a- 
nima, quella  dell'antico  pittore  mistico.  Il  Tu- 
miati tacque  per  alcuni  anni,  finche  nel  1902 
lanciò  tre  nuovi  libri  :  —  Dal  Maloja  a  Xatre- 
Dame  —  (Beltrami  -  Bologna  1 
ove  raccolse  molti  suoi  scritti 
d'arte  e  di  viaggio  —  Poemi 
Lirici  —  (Zanichelli'  che  com- 
prendono nove  poemi,  tra  i 
(|uali  i  rnelologhi  ;  e  Funw  e 
Fiamma,  originalissima  serie 
di  novelle,  di  cui  una  spiritua- 
lità acuta  e  ironica  si  sprigiona 
da  persone  e  da  cose.  Lo  stile 
del  Tumiati  in  questo  libro, 
come  negli  ultimi  poemi  Morte 
di  lìajardo.  Flmigranti,  Pari- 
Sina,  viene  atteggiandosi  al 
dramma,  e  ci  prepara  a  un 
nuovo  periodo  che  egli  ha 
iniziato  "or  ora  col  poema 
drammatico  Ramon  Escydc, 
rappresentato  la  prima*  volta 
al  teatro  Duse  a  Ttologna  nel 
maggio,  scorso.  L'  elemento 
drammatico  è  già  visibile  in 
Fumo  e  Fiamma,  in  ispecie 
nelle  novelle  Contro  corrente 
e  Krajova,  veramente  uniche 
nella  nostra  letteratura. 

"Di  Fumo  e  Fiamma  si  è  largamente  occupata 
tutta  la  stampa  italiana,  e  sèmpre  fu  notata  l'e- 
strema personalità  di  queste  novelle,»  che  non 
possono  ricondursi  a  -ne.ssun  altro  tipo  preesi- 
stente, ma  sono  uno  sguardo  nuovo  gettato  sullj 
vita.  Le  figure  che  ne  emergono,  nella  loro  va- 
rietà bizzarra,  riuniscono  in  sé  la  lontananza  del 
sogno  e  la  precisione  della  vita  :  ognuna  di  esse 
è  un  tipo  tracciato  in  poche  linee,  per  un  mi- 
racolo dello  stile.  L'edizione  di  Fumo  e  Fiamma 
è  stata  da  noi  particolarmente  curata,  e  il  volumO 
rispecchia  l'eleganza  rartìnata  del  contenuto.  Di 
esso  diamo  un  saggio  a  p.ig.  17,  con  la  novella 
«  Sciopero  in  salotto  ». 


ali  ;  Un  volume  di  p-igs.  4"" 


XVIII. 


GIULIA  DAUDET. 


Raccontasi  che  Alfonso  Daudet,  la  cui  salute 
cagionevole  era  stata  messa  a  troppo  dura  prova 
nelle  lunghe  veglie,  vere  orgie  di  lavoro  richieste 
dalla  composizione  dei  Rois  cn  exit,  fosse  co- 
stretto a  lasciare  a  mezzo  il  suo  romanzo  ed  a 
mettersi  a  letto  e  che, 
aggravandosi  sempre 
più  il  suo  malessere  fino 
a  far  temere  prossima 
una  catastrofe,  egli, 
torturato  da  inesprimi- 
bili softerenze  fìsiche  e 
morali,  gridasse  alla 
moglie:  «  Finis  litoti 
bouquin!  » 

T  «^  1  e  commovente 
aneddoto,  che  dimostra 
ad  un  tempo  la  fiducia 
del  grande  romanziere 
nella  rara  intelligenza 
della  sua  fida  compagna 
e  la  paterna  tenerezza 
per  i  suoi  libri,  (juesti 
dolci  figli  dell'anima, 
rivelò  agli  amici  di  casa 
Daudet,  i  qualidel  resto 
già  da  parecchio  tempo 
r  avevano  indovinata, 
la  misteriosa  collabo- 
razione della  moglie 
all'  opera  del  marito, 
collaborazione  da  costui 
esplicitamente  confes- 
sata nella  dedica  del 
Nabab,  che  rimpiazza- 
va, in  un  ristretto  nu- 
mero di  copie  per  gli 
intimi,  quellasemplicis- 
sima  —  A  ina  chère 
fcmnie  —  apposta  sulla  prima  pagina  delle  copie 
destinate  al  pubblicb. 

Giulia  Daudet  però  non  si  è  accontentata  di 
ascosamente  collaborare  all'opera  del  marito,  ma 
ha  anche  pubblicato  col  suo  solo  nome,  articoli. 


versi,  impressioni,  bozzetti,  raccolti  poi  in  varii 
volumi  dagli  editori  Charavay,  Charpentier  e 
Lemerre,  che'tutti  rivelano  una  delicata  ed  ori- 
ginale tempra  d'artista,  che  tutti  hanno  uno  squi- 
sito ed  infalsificabile  accento  di  femminilità  soave. 
Ma  il  libro  di  Giulia 
Daudet,  che  si  può  dire 
sia  un  piccolo  capolavo- 
ro, è  «  L'infanzia  di  una 
parigina  »  (i)  seguito 
da  «  Bimbi  e  niarhme  » 
cosi  egregiamente  e  fi- 
nemente tradotto  da 
Vittorio  Pica;  nel  cui 
libro  ella  ha  evocato  i 
suoi  ricordi  d'infanzia 
ed  ha  saputo  serbarne, 
non  ostante  l'intensità, 
l'adorabile  ingenuità  e 
quella  particolare  fre- 
schezza che  posseggono 
le  prime  impressioni  di 
una  creatura  da  poco 
venuta  al  mondo,  la 
quale  ignora  tutto  e 
di  tutto  vuole  rendersi 
Conto,  ma  ha  dato  loro 
un  artistico  accento  di 
sincerità,  presentandole 
avvolte  di  nebbia,  pre- 
sentandole nella  natu- 
rale ed  abbastanza  di- 
sordinata alternativa  di 
luce  e  di  ombra,  giac- 
ché, siccome  ella  mede- 
sima giustamente  osser- 
va «  les  toutes  jeunes 
mémoires,  dans  leurs 
confus,  ont  des  grands 
éclairs  entourés  denuit,  des  apparitions  de  sou- 
venirs   bien  plus  que  des  souvenirsréels  ». 

Le  feste,  le  passeggiate,  le  bambole,  la  scar- 
lattina, le  prime  letture,  la  villeggiatura,  un  ballo 
di    fanciulli,    i    granai,  la    prima    comunione,  o 


meglio,  per  serbare  il  poetico  titolo  della  gentile 
scrittrice,  «  ciò  che  si  vede  attraverso  un  velo  di 
mussolina  bianca  »  :  questi  ed  alcuni  altri  sono  i 
tenui    argomenti    dei    se- 
dici capitoli  del    libro;  ma 
come    si   può  ridire  l'efli- 
cacia   di     evocazione,     la 
delicatezza  di    tocco,  l'o- 
riginalità    psicologica,    la 
eccezionale  malìa    d'arte, 
che    posseggono    tali    pa- 
gine? 

In  «  Bimbi  e  mamme  » 
poi,  che  nello  stesso  vo- 
lume fa  seguito  a  «  L'in- 
fanzia di  una  parigina  »* 
è  una  geniale  serie  di 
capìtoli  che  ogni  madre 
dovrebbe  leggere  e  ri- 
leggere; ne»  quali  sono 
analizzate,  con  impareg- 
giabile delicatezza  e  con 
minuziosa  chiaroveggente 
penetrazione  d'  indagini, 
le  successive  e  deliziose 
emozioni  della  maternità, 
dalla  prima  presentazione 
del  neonato  colle  carni  ro- 
see e  tenerelle  immerse 
in  un  bagno  di  tiepida 
e  limpida,  acqua,  a  quelle 
che  sono  le  altre  tappe 
•dell'infanzia;  i  primi  passi 
incerti  e  le  prime  cadute» 


"7 

i  giochi,  i  primi  scarabocchi,  i  primi  disegni,  le 
prime  lezioni  di  scrittura  e  di  lettura  e  cosi  via 
via. 

Bel  libro,  eg^ande anima 
Giulia  Uaudet  !  ' 

E  di  modestia  rara  ! 
Che,  ispirata  forse  da 
quello  stesso  spiritual  pu- 
dore che  le  ha  fatto  sem- 
pre nascondere  la  sua 
parte  di  collaborazione 
all'opera  gloriosa  del  ma- 
rito, fa  di  tutto  per  te- 
nersi in  disparte,  per  far 
dimenticare  la  scrittrice  ; 
ed  ella,  che  è  piuttosto 
sobria  discorritrice,  si  en- 
tusiasma e  diventa  elo- 
quente soltanto  quando 
parla  dei  suoi  figli,  che 
idolatra. 

E  in  tal  modo  che  può 
affermarsi  che  la  spiccata 
e  davvero  preziosa  dote 
'di  Giulia  Daudet,  come 
persona  e  come  scrit- 
trice, sia  di  saper  ser- 
bare intatto  quel  sottile, 
profondo,  adorabile  pro- 
fumo di  muliebrità  intel- 
lettuale, che  è  cosi  raro 
ad  incontrarsi,  e  che  pos- 
siede un  cosi  invincibile 
fascino.  • 


(l)  L'Infattzia  d' una  parigina  -  Bimbi  e  Mamme  -  di  Giulia 
Daudet  -  Traduzione  dal  francese  di  Vittorio  Pica,  preceduta 
da  un  saggio  critico.  Un  volume  di  pagine  200,  in  16O  piccolo 


oblungo,  L.  2.00.  (Vedere  i*saggi  «  Le  bambolo»  e  ,(CiÒ4 
si  vede  attraverso  un  velo  di  mussolina   bianca    »   a    pag. 


XX. 

UGO  DE  AMICIS. 


Ugo  De  Amìcis,  figlio  def  grande  Edmondo, 
è  giovanissimo,  ardente  e  battagliero.  Indivi- 
dualista convinto,  impenitente  esaltatore  e  ado- 
ratore dell'io,  anzi,  egotista,  come  scrive  lui, 
mal  soffre  l'avanzarsi  ìncomposto  ed  incosciente 
dì  tutta  una  turba  equivoca  che,  in  nome  d'un 
forse  ipotetico  avvenire  economico,  .sembra  im- 
porsi, insofferente    di   qualsiasi  giogo,    con    una 


novella  tirannia,  tanto  più  crudele  «n  quanto 
che  si  presenta  anonimamente  collettiva. 

Strano  contrasto  questo,  delle  sue  opinioni  poli- 
tico-sociali, con  quelle  ben  note  del  suo  grande 
Genitore!  Tanto  più  notevole,  in  quanto  che  è 
regela  pecorile  che  sian  sempre  i  figli  a  professar 
principi!  politici  cosidetti  avanzati! 

E  non  è  da  dirsi  che  in  Ugo  De  Amicis  non 


iiS 


sia  animo  generoso  ;  a  disingannarci  basterebbe  la 
lettura  del  suo  «  Infischiat^dosi  del  mondo  »  (iT, 
duro  e  superbo  libro  che  è  tutto  un  inno  a\ 
forte  e  battagliero  individualismo. 

Questo  suo  volume  esce 
dopo  altri  due  suoi  fervidi 
lavori  «  Amori  e  birichi- 
nate »  (2)  ^  «  L'anormalità 
dell'altruismo  ».  Incomincia 
bisbigliando  appena  per  scan-, 
sare  gli  anatemi  del  gran 
pubblico^  e  della  gente  per 
bene,  continua  esitando  la 
bellezza  e  la  forza  in  ogni 
loro  manifestazione  —  non 
ultima  la  ben  temprata  fibra 
dell'audace  escursionista  —  e 
finisce  inneggiando  all'amore 
«  sola  ragione  di  vivere  »  per 
un  uomo  «  non  pecora  im- 
brancata fra  le  pecore  »  e  beve 
a  piena  anima  la  poesia  della 
natura,  e  sferza  del  suo  trion-* 
fante  e  squillante  amore  i 
mille  farisei  e  le  infinite  «  teste 
pidocchine  che  van  gonfiando 
bolle  di  sapone  ». 

E  l'essenza  del  libro  è  in 
queste  ultime  righe  che  lo 
suggellano  :' 

«  Mi  sentivo  forte  contro  ogni  evento,  contro 
ogni  dolore.  Alcuna  preoccupazione  del  mondo 


meschino,  da  me  tanto  lontano,  più  non  mi  toc- 
cava. Ero  per  sempre  divisto  da  lui...  Ero  forte, 
ero  amato,  ero  giusto.  Ero  felice  quanto  lo  può 
essere  un  uomo . . . 

«  Una  vampata  più  calda  di 
felicità  m'avvolse,  e  dissi  in 
francese  alla  brava  guida  val- 
dostana quello  che  io  pensavo. 
«Ange  ascoltò  compiacendo- 
si dellamiagioia,e,  dopo  esser 
rimasto  un  momento  in  silenzio 
per  meditare  il  mio  discorso, 
sorrise  :  —  Mais  voyoTis,  mon- 
siciir,  est-ce  que  lout  le  reste  ne 
compte  plus  rien  poiir  vous? 
«  Io  gli  risposi: — Je  lu'eii 
fiche  ...» 

Ugo  De  Amicis  ha  comin- 
ciato benone.  Forse  gli  nuoce, 
in  principio,  l'esser  figlio  di 
tanto  padre, onde  il  lettore,  ab- 
barbagliato dai  ricordi  e  da  una 
antica  invincibiletenerezza,  di- 
scerne a  stento  e  male,  ed  una 
pacata  imparzialità  gli  si  affac- 
cia quasi  come  un'infedeltà; 
ma  egli  saprà  vincere  l'osta- 
colo, il  quale,  d'altronde,  può 
anche  avere  il  suo  lato  buono  ; 
e  faràegualnientelasuastrada: 
è  forte,  sagace,  peiseverante,  ed  orj  è  soltanto 
alle  sue  primissime  armi  ! 


\ÀJkjQ^  JU-^  ,^, 


(ij  Infischiandosi  cUl  mondo  di  Ugo  De  Auicis.  Un  volume  in  16*^  piccolo  oblungo,  lire  1,50.  f\^cdere  saggio  squisito  dal  titolo 
U  Amore  »  a«pag.  72). 

(2)  Amori  e  birichinate  di  ^^go  De  Amicis  —  lire  2,00. 


XXI. 

LUIGI  DI  SAN  GIUSTO. 


La  forte  scrittrice,  colta  e  valorosa,  è  nata  a 
Trieste,  ma  giovanissima,  bimba  quasi,  si  è  sta- 
bilita a  «Torino,  dove  in  breve  tempo  il  suo  in- 
gegno e  i  suoi  romanzi,  vere  opere  d'arte,  taluni, 
le  hanno  creato  la  possente  aureola,  in  cui  oggi, 
la  soave,  mite  bellezza,  splende  nel  doppio  fa- 
scino del  talento  e  della  grazia. 

I  romanzi  di  Luigi  di  San  Giusto,  che  tutto  il 
mondo  intellettuale  conosce,  sono  certo  fra  le  più 
alte  opere  femminili  che  vanti  l'Italia. 


Nennella,  La  l'ita  nuova,  L'Errore,  La  Maestra 
bella,  I  bimbi.  Il  Reduce,  La  conquista  di  Man- 
temerlo  (i),  sono  *i  fiori  smagliaflti  sbocciati  da 
questo  meraviglioso  cervello  di  donna,  che  sotto 
il  mite  splendore  dei  capelli  biondi,  ha  forze  e 
virilità  poderose. 

La  vita  di  Luigi  di  San  Giusto  è  tutta  una  vita 
di   lavoro,  di  pensiero,  di  famiglia  e    di  bontà. 

Creatura  perfetta  nel  cuore  come  nella  mente, 
essa  illumina  come   un    raggio  benedetto  la  .sua 


casa,  i  suoi  tìgli,  che  sono  tutta  la  sua  tenerezza 
e  tutta  la  gioia  e  la  forza  dell'anima  sua. 

E  per  chi  ha  il  bene  dolcissimo  di  conoscere  nel- 
l'intimità questa  scrittrice  e  questa  mamma,  più 
soave  e  più  grande  appare  la  sua  figura,  e  il  cuore 
si  inchina  entusiasta  e  devoto  a  questo  valore,  a 
questa  forz'a,  a  questa  b9ntà  ;  mentre  la  dolce 
signora  percorre  quieta  la 
sua  via,  quasi  inconscia  . 
della  lucQ  che  spgna  il  suo 
passaggio. 


L'opera  letteraria  di 
Luigi  di  San  Giusto  è  varia 
e  complessa.  Ella  è  autrice 
di  molti  romanzi  :  Una 
vecchia  storia,  fu  pubbli- 
cata in  appendice  della 
«  Gazzetta  Piemontese  ». 
—  Due  donne  e  //  segreto 
di  Donna  Graziella  furono 
stampate  sulla  «  Gazzetta 
del  Popolo  »,  entrambi  '  jfc- 
questi  romanzi  avendo 
vinto  il  1°  e  il  2°  premio 
in  un  Concorso  bandito  da 
quel  giornale. 

Ma  allora  la  San  Giusto 
non  aveva  vent'anni  !  E  la 
sua  arte  era  ancora  piut- 
tosto d'impressione,  di  sen- 
timento, d'intuizione  e  di 
ricordo,  che  non  di  verità. 

Dopo  fece  assai  meglio. 

Xennella  fece  piangere 
molte  anime  femminee  : 
àfiVC Errore  disse  la  Serao 

che  un  simile  libro,  in  tempi  meno anemici. 

avrebbe  fatto  chiasso. 

Nei  Bimbi  l'autrice  spese  un  ricco  tesoro  di 
osservazioni  e  di  affetti  perchè  ella  ama  tanto  i 
bimbi.  Ah,  che  peccato,  pensa  ella,  che  non 
restino  sempre  bimbi  !  Quello  che  vien  poi  è  così 
triste  e  così  brutto! 

La  Maestra  bella,  la  Vita  nuova,  sono  altri  due 
romanzi  lodati  dai  critici,  ma  che  non  contenta- 
rono abbastanza  l'autrice  «  Non  è  ancora  questo  » . 
diceva  ella. 

Ma  dove  lasciamo  l  h  z-iiifo .'  Un  libro  cosi  dolo- 
roso e  cosi  vero  !  La  prima  parte  di  esso  è  spe- 


119 

cialmente  un  quadro  di  dolore,  di  miseria,  di  verità 
vista  e  vissuta  ! 

Fede  è  un  dolce  e  melanconico  idìllio,  scritto 
quasi  per  le  giovanette;  e  questa  Conquista  di  Mon- 
teiitcrbo  (uè  un  intermezzo  giocoso  in  un'opera 
dolorosa  e  faticosa. 

Anche  dei  versi  scrive  questa  donna,  che  sente 
l'anima  vibrare  così  mol- 
teplicemente. E  anche,  in- 
namorata com'è  delle  let- 
terature straniere,  molto 
ha  tradotto  in  prosa  ed 
in  versi,  specialmente  dal 
tedesco,  chea  lei  triestina, 
è  lingua  quasi  materna. 
Cosi  il  Goethe,  il  Pfungst, 
il  Mominsen  ebbero  tra- 
duzioni vive  e  lodate  ; 
così  questa  scrittrice  ar- 
guta, fine  e  dotta  effonde 
la  sua  anima  ardente,  ap- 
passionata e  inquieta  in 
cento  fonti  di  lavoro,  in 
-•/■■  diverse  forme  di  vita. 

Ma  il  Reduce,  V  ultimo 
libro  della  San  Giusto, 
libro  materiato  di  lagrime 
di  angoscia,  palpitante  di 
un  tormento  senza  fine 
^J  _  è  quello  che  meglio  rispec 

=^f     '*•"  chia    la    dolorosa    anima 

che   si    cela  sotto  un  sor- 
riso ! 

Anche  il  teatro  fu  ten- 
tato felicemente  da  questa 
nostra  così  cara,  così  affa- 
scinante scrittrice.  Ella 
vinse  un  concorso  dram- 
matico, con  una  commedia 
//  Bimbo,  che  fu  rappre- 
sentata a  Torino  dalla  compagnia  De  Sanctis. 

L'anno  scorso  nelle  appendici  della  magna 
«  Tribuna  »  compar\"e  un  romanzo  storico  dal 
suggestivo  titolo  Prima-vera  italica,  e  suscitò  una 
grande  ammirazione. 

Ora  sappiamo,  noi  colleghi  e  amici  suoi,  che 
la  San  Giusto  prepara  per  lo  stesso  giornale  un 
altro  grande  romanzo,  d'  argomento  interessan- 
tissimo ;  e  poi,  per  suo  conto,  lavora  intorno  a 
un  volume  nel  quale  vuol  mettere,  dice  ella, 
tutta  la  sua  anima  di  artista  e  di  pensatrice. 
Bella,  dolce  e  grande  anima! 
Questa    fiera    e    tenera    natura,  che  vede  nel- 


^•^^/ 


# 


l'arte  qualcosa  di  più  alto  che  un  diletto  dello 
spirito,  o  un  mezzo  per  arrivare  alla  gloria  e 
alla  fortuna  (gloria  e  fortuna  che  già  ampie 
avrebbe  mietuto  altrove  che  in  Italialj,  certo  ci  pre- 
para un'opera  poderosa,  densa  di  pensiero  sociale, 
pregna  dell'umano  dolore.  Ella  che  freme  al  con- 
spetto di  tutte  le  miserie,  di  tutte  le  ingiustizie, 


di  tutti  i  mali  !  Ella  che  disprezza  ogni  ipocrisia, 
ogni  menzogna,  e  che  anela  a  strappare  a  questa 
società  borghese  il  mansueto  manto  di  cui  copre 
i  suoi  vizi,  ella,  debole  donna  e  pure  forte  come 
un  arcangelo  di  verità,  ci  dirà  una  parola,  una 
parola  di  fuoco,  di  bellezza,  di  vita  ! 


(1/  La  Conguihta  di  Montemerlo  -  Storia  Giocosa  di 
Luigi  di  S.  Giusta  -  L.  3.  -  {Siccome  ci  è  stato  impossibile 
riportar  qui  un  brano  qualunque  di  questo  nuovo  romanzo  - 
6.  voi.  della  Biblioteca  Gaja  -  che  avrebbe  soltanto  dato  una 


pallida  idea  della  recentissima  nuova  opera,  pubblichiamo  in- 
vece, a  pag.  25,  un  originalissimo  racconto:  «  La  morte  di 
Maurantonio  »  cortesemente  favoritoci  dalla  esimia  Autrice). 


XXII. 


ARTURO  FOA. 


È  nato  a  Cuneo  nel  1877  e  s'è  laureato  a  Torino 
in  filosofia  e  lettere  nfel  1898.  Il  suo  primo  libro 
«  L'amore  in  Ugo  Foscolo  »  rilevò  un'intelli- 
genza profonda  ed  ardita,  desti- 
nata a  crearsi,  per  il  suo  merito 
intrinseco,  un  nucleo  compatto 
d'ammiratori  e  di  seguaci. 

I  maestri  della  critica  italiana 
e  forestiera  affermarono  che  quel- 
l'opera segnava  l'inizio  della  nuo- 
va critica,  dotta  nell'analisi,  elo- 
quente e  splendida  nella  sintesi, 
e  il  successo  letterario  fu  pari  a 
quello  commerciale.  L'eco  dell'u- 
nanime lode  non  era  cessato  che 
il  Foà  uscì  con  un  altro  volume, 
non  più  di  critica  ma  di  novelle  : 
«  I  nostri  cuori  »  (1).  Fra  tutti  i 
libri  dei  giovani  scrittori  quel 
libro  balzò  su  robusto  e  finissimo 
insieme,  tutto  vibrante  di  pas- 
sione, sfavillante  di  luce,  multi- 
fragrante  dei  mille  profumi  della 
natura.  Innumerevoli  lettori  bev- 
vero a  quelle  pagine,  come  a  una 
ricca  fonte,  pensieri  ed  emozioni 
intense  e  delicate;  e  Arturo  Graf 
si  rese  interprete  della  lode  universale  in  questo 
giudizio:  «  Visione  quando  acuta  quando  gagliarda 
delle  cose,  sentimento  multiforme,  trasformabile, 
caldo,  sottile,  generoso.  Sorrisi  e  lagrime.  Un 
pensar  vario,  agile,   fremebondo,   dietro  la  luce 


del  vero  e  il  fantasma  della  felicità.  Si  afferma 
sempre  più  il  poeta  e  lo  scrittore.  In  alcune 
pagine  appare  l'artista  poderoso.  »  Poeta  e  scrit- 
tore. Come  ben  disse  il  Graf;  e, 
quasi  a  confermare  questo  giu- 
dizio, il  Foà  sorse  a  cantare  in  un 
altro  volume  «  Per  un  amore  »  (2) 
una  passione  fatale  per  una  bel- 
lissima ignota.  Tre  canzoni  di 
rìgido  schema  petrarchesco,  ma 
fatte  piene  di  sangue  dalle  febbri 
d'un  cuore  moderno  che  s'abban- 
dona con  voluttà  al  dolore,  ma 
sa  ritrarsi  per  mutarlo  in  una 
forza  della  sua  vita.  Ardori,  spa- 
simi, pianti,  memorie  dolci  e 
propositi  virili;  voci  violenti  e 
voci  intensamente  umane;  e  tutto 
questo  chiuso  in  una  forma  lo- 
gica e  serrata,  che  evita  le  sca- 
pigliate scompostezze,  e  anche 
nella  sobrietà  fa  rendere  la  con- 
vulsa concitazione  interiore,  il 
battagliar  degli  spiriti  discordi 
in  uno  scabro  rilievo.  Dissero  i 
critici  giustamente  che  questi 
versi  fanno  di  Arturo  Foà  un  per- 
fetto artista;  anzi,  uno  dei  più  perfetti  che  abbia 
oggi  la  poesia  italiana.  Ma  l'operosità  del  Foà  non 
s'è  arrestata  a  queste  forme  d'arte.  Anche  il  teatro 
ha  affascinato  il  suo  ingegno.  Ed  egli  ha  risposto 
all'invito  con  la  «  Figlia  »  commedia  in  tre  atti. 


in  cui  studia  con  tesi  ardita  gli  odierni  rapporti 
fra  i  cristiani  e  i  semiti  e  le  molteplici  necessità 
che  spingono  questi  a  fondersi  con  quelli.  Rap- 
presentata al  teatro  Nazionale  di  Roma  nel  Marzo 
di  quest'anno,  segnò  un  grande  successo.  11  pub- 


blico gli  decretò  il  trionfo,  e  la  critica  lo  con- 
fermò giudicando  la  «  Figlia  »  uno  splendido 
lavoro.  Particolare  caratteristico  di  Arturo  Foà  : 
odia  le  conferenze,  ma  fu  ed  è  applaudìtìssimo 
conferenziere. 


(i)  i  nostri  e 
(3)  Ptr  un  : 


-  Novelle  e  bozzetti  dì  Arturo  Foà,  lire  2,00. 

—  Canzoni   —  lire    1,00.    —  (Di   queste 


splendide 


saggio   a   pag,    78, 


[  Tempo  sarà  che  giungami  novella)  >*. 


XXIII. 

ONORATO  FAVA. 


'  Napoli,  la  gaia,  l'incantevole  città  dei  canti  e 
dei  sogni,  ha  avuto  in  Onorato  Fava  il  suo  pit- 
tore più  sincero  e  appassionato.  Dipinse  con  la 
penna,  è  vero,  ma  non  gli  mancarono  j  colori 
più  caldi,  l'intonazione  più  sicura,  che  rivelano 
l'artista.  E  a  giudizio  degli  stessi  napoletani  più 
colti  e  insieme  più  gelosi  di 
quanto  è  seducente  e  carat- 
teristico nella  loro  Napoli, 
Onorato  Fava  nella  sua  K/fe 
Napoletana,  più  vivacemente 
che  altri  non  abbia  mai  fatto, 
riproduce  costumi,  abitu- 
dini, sentimenti  e  perfino  i 
pregiudizii  del  popolo  napo- 
letano. Non  c'è  però  da 
meravigliarsi  che  le  gustose 
e  genialissime  novelle  ab- 
biano avuto  tosto  l'onore  di 
una  traduzione  inglese  per 
cura  di  miss  Craig,  e  ab- 
biano contribuito  a  far  cre- 
dere l'autore  figlio  autentico 
di  Napoli.  È  una  credenza 
che  al  Fava  rende  il  mas- 
simo onore,  a  cui  egli  po- 
tesse ambire  come  scrittore  ; 
egli  nacque  invece  a  Collobiano  in  l'icmonte,  il 
7  luglio  1S59.  Napoli  fu  la  città  da  lui  prediletta, 
che  Io  affascinò  ;  ed  egli  l'ama  studiandola,  stu- 


diando soprattutto  l'indole,  lo  spirito  del  suo 
popolo,  di  cui  ne'  suoi  scritti  ci  porta  l'eco  vibrata 
di  quanto  l'agita,  lo  commuove,  Io  esalta.  É  una 
delle  peculiari  e  più  spiccate  qualità  del  tempe- 
ramento artistico  del  Fava  l'osservazione  dili- 
gente, acuta  dell'ambiente  e  dei  caratteri.  V'ita 
Napoletana  ne  è  un  saggio 
delicato,  al  quale  fa  riscon- 
tro Vita  nostra,  che  la  Se- 
rao  giudica  una  delle  più 
importanti  raccolte  di  no- 
velle degli  ultimi  tempi,  in 
cui  una  pagina  sola  —  scrive 
il  Rovetta  —  basta  a  creare, 
e  scolpire  un  carattere  indi- 
menticabile. .\nche  \'ita  no- 
stra ebbe  una  traduzione  in 
olandese  del  prof.  Warren  di 
Pordrecht. 

11  Fava  non  aspira  che  ad 
essere  buon  novelliere;  ed  è 
tra  i  migliori  ;  ma  l'acco- 
glienza ch'ebbe  i!  suo  Rina- 
scitm'nto  prova  eh'  egli  è 
anche  romanziere  coscien- 
zioso, essenzialmente  mo- 
derno nella  sceneggiatura  e 
nello  studio  psicologico.  Esula  da  lui  ogni  studio 
di  seguire  alcuna  scuola  ;  ogni  suo  lavoro  reca 
l'impronta  originale  del  suo  carattere,  e  da  esso 


spira  una  gentilezza  di  pensiero  e  di  sentimento 
da  giustificare  in  tutto  le  simpatie  che  il  Fava 
meritò  anche  oltr'alpe. 

Non  è  nostro  compito  di  seguire  il  Fava  in 
tutti  i  suoi  lavori,  che  segnano  un  crescente 
successo,  come  quello  ottenuto  dalla  Discesa 
cC Annibale,  Contro  i  più,  e  da  altri;  a  noi  im- 
porta rilevare  più  particolarmente  un  altro  aspetto 
del  suo  talento  d'artista,  quello  che  si  rivela  ne' 
suoi  lavori  dedicati  alla  letteratura  infantile.  La 
stessa  attitudine  spiccata  del  Fava  a  studiare 
i  fenomeni  della  vita  famigliare,  e  rilevarne  con 
finezza  i  contorni  netti,  precisi,  nonché  quella 
di  addentrarsi  nell'esame  psicologico  e  rendere 
i  momenti  più  interessanti  e  decisivi.  Io  portava 
inevitabilmente  a  studiare  anche  il  piccolo  mondo 
dei  fanciulli,  la  loro  vita  interessante  e  curiosa. 
E  nel  nuovo  arringo  il  Fava  si  presentò  con 
Graneìlin  di  pepe,  che  fu  presto  tradotto  in  varie 
lingue,  e  lo  indusse  a  scrivere  altri  volumi  che 
inglesi,  tedeschi,  spagnuoli  e  francesi  gustarono 
tradotti,  e  procurarono  all'autore,  il  nome  di 
«  Andersen  del  Mezzogiorno  »,  parecchie  medaglie 
alle  Esposizioni  di  Edimburgo,  Parigi,  Milano,  e 
quella  di  benemerito  della  P.  I.,  nonché  il  plauso 
àAV Educational  Congress  di  Chicago. 

Dopo  il  Paese  delle  Stelle,  Serate  invernagli, 
Treszadoro,  Bliz  e  Friz,  Al  paese  dei  giocattoli. 
Francolino,  del  quale  riproduciamo  qui  poche 
pagine,  ci  presenta  un  modello  dei  pochi  romanzi 
fortunati  pei  fanciulli.  La  critica  non  ha  esitato 
a  porlo  accanto  al  Cuore,  del  De  Amicis  e  a 
riputarlo  più  pratico  negli  intenti  educativi  quanto 
gli  aurei  libri  dello  Smiles. 


Scorrendo  la  schiera  ormai  numerosa  e  varia 
dei  libri  pubblicati  dal  Fava,  si  potrebbe  credere 
ch'egli  sia  interamente  dedicato  alla  letteratura, 
e  che  faccia  il  letterato  di  professione.  Non  po- 
trebbe darsi  un  giudizio  più  fallace  di  questo.  Il 
letterato  lo  fa  per  passione  e  la  letteratura  ge- 
niale é  un  gradito  intermezzo  all'insegnamento  è 
all'ufficio  di  segretario  che  tiene  presse  la  Dire- 
zione generale  del  Banco  di  Napoli.  I  suoi  lavori 
letterarii  sono  pensati  e  scritti  nei  giorni  festivi, 
nei  quali  egli  ha  la  mente  più  tranquilla  e  serena, 
non  distratta  da  alcuna  altra  cura.  Si  può  dire 
che  i  libri  sono  i  suoi  figliuoli,  poiché  non  n'ebbe 
dalla  sua  colta  e  gentile  signora  Giulia  Masucci, 
figlia  del  Procuratore  generale  alla  Suprema  Corte 
di  Cassazione  di  Napoli.  A  quei  figliuoli  egli  pensa 
col  cuore  e  col  cuore  li  scrive:  vi  mette  una  tene- 
rezza tutta  paterna,  e  non  v'è  pagina  che  non  in- 
tuisca e  renda  con  isquisita  verità  lo  studio  interiore 
dei  nostri  fanciulli  e  non  ne  tradisca  le  segrete  ten- 
denze, le  voglie,  i  capricci,  le  tenerezze,  i  dolori. 

Egli  trova  ancora  tempo  (}i  collaborare  a  taluni^ 
delle  prindpaliiriviste  d'Italia,  come  la  Nuova  An- 
tologia, f  Illustrazione  italiana,  ecc.  V Enciclopedia 
ted-^sca  del  Kùrschner,  di  Berlino  e  il  Magyar  Sza- 
lon  di  Budapest,' la  Revue  encyclopcdique  di  Parigi 
il  Dictionnaire  des  ccrivains,  del  De  Gubernatis, 
V Enciclopedia  Hoepli,  hanno  già  dato  rilievo  a  que- 
sta simpatica  figura  di  romanziere  e  di  educatore. 

Or  ora  é  anche  uscito  un  suo  splendido  volume 
di  racconti  che  sono,  si  può  dire,  veri  romanzi. 
E'  intitolato  «  La  Rinunzia  »  1 1). 


(il    /.a  Riiiuiizia    (L'Attesa 
La    Cal.lndrai.  Splendido  volu 


La    Sorgente    ■    La  Villa 
di  oltre  350  pagine-  lire  3,» 


(Di  Onorato  Fava  di: 


pag.  79). 


XXVI. 

CECCARDO  ROCCATAGLIATA-CECCARDI. 


Nato  nel  1872  in  Genova,  crebbe  i  suoi  primi 
anni  in  Ortonovo,  borgo  ligure  sul  confine  del 
Carrarese.  Compì  liceo  a  Massa,  e  studiò  legge 
all'Università  di  Genova.  Già  la  famiglia  materna 
avea  annoverato  nei  secoli  xvii  e  xvjii  poeti 
e  umanisti  :  (di  cui  si  trovano  memorie  negli 
archivi  ducali  di  Massa)  primo  tra  essi  un  Pier 
Angelo  che  s'ebbe  amicizia  col  Fantoni. 

E  da  sua  madre,  gentildonna 
della  più  antica  nobiltà  luni-  . 
giana,  e  quel  che  più  importa, 
chiara  conoscitrice  e  ammira- 
trice del  Leopardi,  di  Vittor 
Hugo,  e  dello  Shelley,  il  gio- 
vinetto Ceccardo  apprese 
amore   e   dettami    di  poesia. 

Nel  1S92  la  ruina  si  abbatte 
sulla  sua  vecchia  casa  ;  gli 
mori  di  schianto  Ja  madre  e 
gli  altri  suoi  furon  dispersi 
nel  mondo.  Gli  fu  forza,  allora, 
abbandonar  l' Università,  e  ap- 
prestarsi a  mangiare  il  gramo 
pane  delle  lettere;  come  Bau- 
delaire e  Maupassant  fu  recen- 
sionista  giudiziario;  poi  re- 
dattore di  giornali  politici, 
collaboratore  di  riviste  lette- 
rarie, tra  cui  la  «  Vita  mo- 
derna »  diretta  da  Gustavo 
Macchi,  e  la  «  Tavola  ro- 
tonda »  ;  collaboratore  poe- 
tico di  4-iviste  politiche  come 
Videa  liherate...  e  viandante, 
secondo  la  fortuna.  , 

A  quel  tempo  risale  la  sua  amicizia  fraterna  con 
Plinio  Nomellini,  il  giovine  e  glorioso  pittore  delle 
«  Notti  di  luna  »  e  degli  «  Autunni  »  ;  e  più  di 
una  battaglia  essi  combatterono  insieme  —  in  Ge- 
nova —  per  la  libertà  e  l'idealità  dell'Arte.  E 
forse  allora  il  Ceccardi  cominciò  a  procacciarsi  la 
leggenda  di  Gorki  italico,  alla  quale  accennava, 
or  son  due  anni,  Luciano  Zùccoli,  trattando  della 
di  lui  opera  poetica  nel  Merciirc  de  France,  ove 
conchiudeva  con  un  breve  commento  signitica- 
tivo«  il  est  ...  un  poète  de  premier  ordre  ». 

Nel  1895  pubblicò  un  piccolo  libro  di  versi  — 
il  libro  dei  Eranimenti  (Milano,  Aliprandi),  che 
gli  meritò  le  lodi  del  Marzocco  e  del  Fanfulla 
delia  Dotiìcnica,  e  gli  incoraggiamenti  del  Mar- 


^lV//7j    /^//A^    ''^/Uli../.-  lc(C/^  ì'k. 


radi  e  deh  Pascoli.  Intanto  continuò  a  scrivere  in 
giornali  e  riviste:  diresse  egli  stesso  un  periodico 
settimanale  (1896-97)  di  provincia,  lo  Svegliarino 
di  Carrara,  al  quale  aggiunse  per  Undici  numeri 
un  supplemento  letterario,  —  oggi   curiosità  let- 
teraria assai  rara;  —  supplemento  in  cui  collabo- 
rarono il  Pascoli,  Io  Zùccoli,  il  Contri,  l'Orvieto, 
il  Novaro  e  il  Garoglio,  ecc.;  e  per  cui    il  Cec- 
cardi   contribuì    validamente 
all'inchiesta  aperta  dal  Mar- 
zocco «  sulle  condizioni  lette- 
rarie delle  città  italiane  ». 

Nel  189S  ritorna  a  Genova. 
D'animo  ardente,  irrequieto, 
ricercatore  di  libertà  e  di  ve- 
rità, non  ha  pace. 

Varie  passioni  tragiche  lo 
avvinghiano:  Ija  tre  duelli  e 
attenta  a  sé  medesimo  con  un 
colpo  di,pistola  che  gli  squar- 
cia un  braccio. 

Nel  99  va  a  Roma,  ma  la 
miseria  lo  caccia  dalla  Città 
eterna.  È  a  Milano,  ma  anche 
colà  per  poco  tempo.  Ritorna 
a  Roma,  ove  ammala  di  tifo; 
morente  è  portato  dalla  pietà 
di  alcuni  amici  a  SantoSpirito. 
L'opera  sua  di  <]uegli  anni, 
poesie,  novelle,  critiche  d'arte, 
son  dispersesu  giornali  politici 
e  in  oscuri  fogli  letterari... 

Nel  1901  la  tragica  ;norte 
di  due  bimbi  a  Parigi  gli  offre 
motivo   di  un  poema,  di  una 
dolcezza  e  di  una  ingenuità  meravigliosa,  pubbli- 
cato, poi,  a  Genova  in  edizione  oggi  esaurita. 

Intanto  l'amicizia  e. la  stima  dei  fratelli  Novaro 
a  Oneglia  gli  permettono  di  collaborare  assidua- 
mente nella  «  Riviera  Ligure  v,  un'imitazione 
geniale  dei  Magazincs  inglesi.  In  breve  le  prose 
e  i  frammenti  poetici  che  pubblica  su  quella 
Rivista  richiamano  l'attenzione  degli  intelligenti, 
mentre  lo  scandalo  artistico,  che  egli  con  nobi- 
lissimo gesto  solleva  a  Genova  Kebbraio  1903. 
contro  la  contaminazione  dei  quadri  di  Pal.izzo 
Rosso,  gli  procaccia  bensì  l'urlo  di  tutta  una 
greggia  di  piccoli,  e  la  maledizione  tonante  degli 
Accademici,  ma  piire  il  saluto  e  l'auspicio  dei 
mìi;liori    artisti    e    critici    d'  arte    d'  It.ilia    e    di 


126 


Francia:  così  il  Ceccardi  si  guada,a;na,  d'un  balzo, 
nella  critica  d'arte  se  non  l'ufficio  rimunerativo, 
certo  il  bel  nome  che  con  lungo  studio  ed  amore 
s'era  già  meritato. 

Ora  egli  ha  pubblicato  «  Il  viandante  »  (i), 
raccolta  di  pochi  sonetti,  una  dozzina,  dai  quali 
il  nostro  bravo  poeta  ligure  fa    precedere  il  vo- 


lume che  forse  vedrà  la  luce  fra  mesi.  È  un  saggio 
veramente  prezioso  di  detto  volume  «  Sonetti  e 
poemi  »  che  conterrà  l'opera  poetica  sua  daJ  1897 
al  1904,  con  illustrazioni  del  Nomellini  e  del  De 
Albertis.  Di  questo  Viandante  noi  riportiamo 
quattro  splendidi    sonetti  a  pag.  86. 


etti  di  Ceccardo  Rocc 


diata-Ceccardi.  Cn  volumetto  < 


opertiija  del  De  Albertis  -  L. 


XXVII. 

GIOVANNI  DIOTALLEVI. 


Nato   in    Roma   —   educato    in    un    ambiente 
claustrale  —  scacciatone,  giovinetto,  per  sospetto 
di  eccessivo  liberalismo;  passato  con  fervore  dagli 
studi    del    cristianesimo   al    classicismo    pagano, 
dalle  catacombe  al  foro  —  feqp  da  principio  una 
letteratura  speculativa  e  trascenden- 
tale,   finché,  riescito  a  liberarsi  com- 
pletamente deH'uomo  anteriore  so- 
vrapposto   all'indple    di  lui,  non  si 
gettò  con  foga  nella  vha,  spirito  mo- 
derno, mente   avanzata    §d  audace, 
uomo     soprattutto,     senza    pastoie, 
senza  le  diminuzioni  convenzionali 
che  impone  la  società. 

Massimo  poeta  e  più  adeguato  ai 
tempi  è  per  lui  Walt  Whitman. 

La  sua  caratteristica  più  spiccata 
è  dunque  un  senso  alacre  della  vita, 
una  cognizione  indefettibile  della 
forza  e  della  dolcezza  che  possono 
venirci  soltanto  dalle  realtà  mate- 
riali e  morali  le  più  avanzate. 

In  afrte  egli  segue  dunque  le  forine 
semplicissime  —  che  gli  sembrano 
il  classicismo  definitivo  —  delle  quali 
si  è  impadronito  con  lungo  e  continuo  sforzo, 
—  e  quanto  alla  sostanza,  ripudiato,  senza 
disprezzo,  quasi  tutto  il  passato,  non  ammette 
che  vi  sia  più  arte  possibile  all'infuori  della 
sincerità  assoluta,  della  espressione  immediata  e 
genuina  dei  sentimenti  e  delle  sensazioni,  non 
più  quali  giungono  all'espressione  verbale  a  tra- 
verso il  costume,  l'abitudine,  la  coazione,  ma 
quali  vibrano  elfettìvamente  o  divampano  nei 
sensi,  nei  cervelli,  nei  cuori. 

In  politica  oscilla  il  Diotallevi  fra'  la  tirannide 
e  l'anarchia,  le  due  forme  estreme  di  società  che 
si  toccano  e  che,  sole,  si  giustificano,  in  inverso 
modo,  nei  rapporti  della  nativra  umana. 

Egli  ha  già  pubblicato  un  grande  romanzo  «  Su 


le  rovine  del  mondo  »  del  genere  che,  secondo  la 
visione  dell' A.,  dovrà  trionfare  su  gli  altri,  com- 
ponendo le  forme  più  elette  dell'arte  con  la  verità 
della  vita  interiore:  romanzo  che  fu  largamente 
amn>irato. 

Prima  di  questo  egli  dette  alle 
stampe  un  altro  breve  romanzo  idea- 
lista intitolato  «  Senza  ideale  »,  che 
,  fu  pure  molto  godiito  da  coloro  che 
più  si  avvicinano  a  un  concetto  spi- 
rituale dell'esistenza.  E  da  poco  più 
di  un  anno  si  diffusero  le  sue  «  No- 
velle del  dolore  »,  un  volume  che 
venne  giudicato,  in  molte  recensioni, 
come  uno  fra  i  più  suggestivi  e  me- 
glio costruiti  della  novellistica  mo- 
derna. La  novella  del  Diotallevi  è 
la  concenti^zione  di  un  romanzo  a 
forti  chiaroscuri  e  scorci  potenti. 

È  inoltre  dell'A.  un  volume  di 
versi  «  La  spiritual  primavera»,  che 
fu  pubblicato  tre  anni  or  sono  in  edi- 
zione eleganti.ssima  :  liriche  in  parte 
giovanili,  di  una  gagliarda  aspira- 
•  zione  e  di  un  continuo  spunto  sug- 

gestivo; cosi  che  si  può  dire  che  risentano  di  due 
grandi,  per  quanto  diverse  influenze,  Shelley  e 
Mallarmé. 

Adesso  poi  il  Diotallevi  sta  componendo  cinque 
«  Laudi  »  della  vita,  della  forza,  del  dolore,  del- 
l'amore e  della  morte,  che  egli  viene  pubblicando 
separatamente  su  riviste  letterarie  e  che  riunirà 
poi  in  un  volume  de  «  Le  cinque  laudi  >•  :  poemetti 
di  grande  evidenza  ed  originalità,  che  hanno 
rilevato  veramente  una  individualità  di  poeta; 
la  parola  di  cui  forse  ormai  si  era  troppo  abu- 
sato ! 

Anche  pubblicherà  egli  nel  venturo  anno  un 
volume  di  filosofia  :  «  Saggio  critico  di  filosofia 
sociale    ».    Ed    infine  sta  per  dare  al  teatro    tre 


^Vh 


suoi  drammi  :   «  I  sopravvissuti  »,   «  L'equivoco 
della  virtù  »  e  «  La  necessità  di  vivere  ». 

Vorremmo  dar  un  saggio  di  un  romanzo- ori- 
ginale e  birichino  —  genere  che  il  Dìotallevi 
aveva  già  appena  accennato  ,  felicissimamente, 
in  qualche  sua  novella  —  ;  ma  preferiamo  invece 
pubblicare,  di  questo  giovane  scrittore,   una  no- 


li) Peccati    di    dnniia    di    Giov.TTmi    Diol.ille 


127 

velleità  graziosissima  intitolata  «  Senza  scarpe  » 
a  pag.  ,87.  Il  romanzo  che  avrà  per  titolo  «  Pec- 
cati di  donna;  11)  »,  il  poeta  lo  ha  scritto,  per 
espressa  commissione  della  nostra  Casa,  come 
inizio  di  una  serie  di 'lavori  identici  destinala 
ad  avere,  senza  dubbio,  il  più  grande  successo. 


voi.  dell;i  ••  Ii.l.li. 


mm^m^m^m^^^'^^^^'^^m^^^mmwm^^^ 


XXVI  li. 

P  U  e  K. 


È  il  vispo  spirito  che  erra 
di  flotte  e  tiene  allegro  Ghe- 
rone e  gioca  a  Titania  dei  tiri 
birboni?  Non  può  quindi  man- 
care di  spirito.  E  uno  spirito  . 
lirico  e  satirico,  benché  al- 
l'apparenza abbia  l'aspetto  di 
un  uomo  qualunque.  Giovane 
ancora  per  qualcheflnno.Fece 
i  soliti  studi  letterari  coi  solito 
buon  successo  e  cominciò  a 
collaborare  ai  soliti  giornaletti 
e  pubblicò  l'immancabile  vo- 
lumetto di  versi  sentimentali. 
Sazio  di  cercare  sé  stesso  nei 
libri  altrui,  pensò  di  scriverne 
esso  stesso  a  propria  imagine 
e  simiglianza.  II. mondo  Io  in- 
teressa come  una  tragedia 
comica,  tragica  nella  materia 
e  comica  nella  forma.  Ama 
pochissimo  sé  stesso  e  quindi 
evangelicamente  pochissimo  il 
jjrossimo.  Preferisce  la  donna 
all'  uomo,  il  fanciullo  alla 
donna,  un  gatto  a  un  fan- 
ciullo, una  rosa  ad  un  gatto, 
una  stella  a  una  rosa.  Si  com- 
piace dei  libri  che  nessuno 
legge  perchè  danno  essi  soli 
la  coltura  rara  e  raffinata.  Pre- 
dilige_  tra  i  romanzi  quelli  di 
Montepino  e  di  Ponsone  del 
Terraglio  perchè  al  loro  con- 
fronto si  sente  esaltato.  È  quasi 
convinto  coi  V'eda  che  il  mon- 
do é  un'apparenza  e  con  Ca- 
mille  Mellusand  die  la  realtà 
non   dift'erisce   dal   sogno.  S  : 


128 

credesse  al  libero  arbitrio  prenderebbe  per  diret- 
tore spirituale  V Imitazione.  Suo  sogno  :  essere  un 
principe  (delle  fiabe,  ben  inteso)  o  un  contadino 
(cioè  un  corpo  senz'  anima).  Ha  una  vivissima 
simpatia  per  Tristano-Norma,  lo  stile  Luigi  XVI, 
la  cioccolata,  l'estate,  il  libro  dei  salmi,  l'acqua 
e  la  novella  d'inverno.  È  occupatissimo  a  diven- 
tare un  letterato.  Per  questo  autunno  ha  pronto 
//  casto  Giuseppe,  ove  dolcemente  si  beffa  la  me- 
lanconia degli  amori  extra-coniugali  —  e  //  Ta- 


lamo ove  si  deride  il  medesimo.  Non  è  sprovve- 
duto di  novelle,  commedie  ed  altro  consimile 
materiale  letterario  indispensabile  per  creare  e 
dare  vita  a  una  persona  letteraria.  Intanto  come 
saggio  pubblica  Niente  (i).  È  il  sermone  d'un 
laico.  Invece  di  fulminare  la  corruzione  del  mondo, 
Puck  ne  tenta  la  caricatura.  Il  motto  della  pre- 
diletta Imitazione  ne  è  la  giustificazione  :  Omnie 
terrena...  ut  stercora.  —  Del  resto  toccherà  al  let- 
tore (se  ci  sarà)  definire  la  significanza  del  lavoro. 


(r)  Puck  -  Niente 
Gaja.  Di  questo 


Romanzo,  L.  S.  IX  voi.  della  Biblioteca 
Niente  »  del  misterioso  Puck, 


[lamo  un  saggio  a  pag. 
lido  della  Quaglia  ». 


t  il  frammento  intitolato  «   Nel 


XXIX. 


MASSIMO  BONTEMPELLI. 


Giovanissimo,  è  venuto  per  ultimo  ad  aggiun- 
gersi alla  schiera  dei  poeti  d'Jtalia,  ma  con  tanto 
sicura    forza   d'originalità   sjncera   e   d'eleganza, 
che  il  sup  libro    recentissimo 
delle     «    Egloghe    »    occupa 
senz'altro,  a  detta    di    critiai 
insigni    che    estesamente    ne 
scrissero,    un   posto  spiccata- 
mente significativo    nella  più 
nuova  produzione. 

Massimo  Bontempelli  è  nato 
a  Como  il  12  maggio  1S7S. 
Ingegno  sveglio,  osservatori* 
pronto  e  acuto,  ebbe  la  ven- 
tura di  conoscere  luoghi  e 
uomini  di  mezza  Italia,  poiché 
abitò  successivamente  in  Lom- 
bardia, in  Liguria,  ove  inco- 
minciò gli  studi  nel  ginnasiodi 
Chiavari,  nel  Lazio,  in  Lom- 
bardia ancora,  e  in  Piemonte, 
ove  compì  gli  studi  laurean- 
dosi in  lettere,  filosofia  e  legge 
nell'Ateneo^  di  Torino. 

Pubblicòassai,  versi  e  prose, 
sparsamente  su  per  molti  gior- 
nali e  riviste  ;  ma  troppo  mo- 
desto non  volle  mai  raccorre 
nulla  di  suo  in  volume,  prima 
di  risolversi  a  queste  sue 
«   Egloghe   »,    crediamo    più  ~~ 

spinto  dai  buoni  consigli  di  qualche  suo  amico, 
che  non  dal  desiderio  di  mettere  in  mostra  i  suoi 
pregi  singolari  di  poeta,  A  Torino  è  molto  ricor- 


Mci^'itho  ^i~tr7cJu/,jeùi 


(l)    E   V invernale     (Che    riportiamo    a  p; 
1    bellissima  ira  le  belle  ,<  Egloghe  »,  degn 


dato  fra  l'eletta  .schiera  dei  giovani  letterati  ora 
notissimi  che  gli  furono  compagni  di  studio  e  di 
sapere  ;  e  certe  sue  fconfenenze,  e  certe  lezioni  del 
Graf  non  sono  dimenticate. 
Così  che  molti  ebbero  a  ral- 
legrarsi di  queste  sue  fresche 
«  Egloghe'»,  sane,  limpide, 
vive  di  originalità  squisita,  che 
vennero  a  noi  come  una  rive- 
lazione. E  che  sian  tali,  valga 
questa  chiusa  all'articolo  di  un 
critico  fra  i  più  bravi,  che  ri- 
portiamo qui  integralmente. 
«...  Onde  non  sappiamo  non 
finir  questa  chiacchierata,  tra- 
lasciate molte  cose,  mostrando 
la  persuazione  che  quella  felice 
anima  mondana  (il  Bontem- 
pelli I  dovrebbe  pure  e  potreb- 
be ridarci  le  morte  belle  forme 
del  capitolo  e  della  satira, 
poscia  che  ebbe  in  sé  tanta  ita- 
lianità, e  tanta  saldezza  di  spi- 
rito italiano,  da  fare  con  le 
«  Egloghe  »  indubbiamente  il 
libro  più  classico  nostro,  di 
forma  e  di  spirito,  che  sia  in 
questo    tempo    uscito». 

Il  Bontempelli,  che  si  pre- 
para a   novelle   battaglie,  di- 
mora via  via  dove  richiede  la 
sua  professione  di  insegnante  nei  ginnasii  gover- 
nativi, e  quando  può  gode  ad  abitar   Cherasco, 
il  »  bel  colle  »   della  «  Invernale  »  (i). 

pubblicato  con  severa  eleganza,  carta  a    mano,  formato  in   ot- 
tavo piccolo.  Costa  lire  1,50. 


XXX. 

EFISIO  GIGLIO-TOS. 


Fece  i  suoi  primi  studi  nel  ginnasio  d'Ivrea, 
ma  dovette  interromperli  per  venire  a  Torino 
con  la  famiglia,  dove  da  questa  fu  consigliato  e 
persuaso  ad  entrare  nel  commercio.  Ma  il  nostro 
autore,  amantissimo'  degli  studi,  non  era  nato 
pel  commercio;  onde  i  cin- 
que anni  ch'egli  dovette 
per  forza  trascorrere  in 
qualità  di  commesso  in 
un  negozio  furono  per  lui 
una  continua  amarezza,  un 
continuo  dolore.  Ma  non 
si  perse  d'animo  ;  volontà 
ferma,  cuore  aperto,  ac- 
colse i  consigli  di  un  amico 
carissimo,  e  pur  lavorando 
non  meno  di  dieci  o  dodici 
ore  al  giorno,  trovò  modo 
di  studiare  da  sé  di  notte, 
nei  giorni  festivi,  sovente 
anche  di  nascosto  sul  la- 
voro ;  ed  ognuno  può  figu- 
rarsi quanta  dovette  essere 
la  soddisfazione  nel  nostro 
autore,  quando  il  professor 
Garizio  all'esame  di  licenza 
ginnasiale  gli  domandò  in 
qual  ginnasio  aveva  stu- 
diato, complimentandolo 
pel  modo  corretto  di  leg- 
gere il  greco  ! 

E  altrettanto  fu  per  l'al- 
gebra. L'autodidatta  si  as- 
segnava egli  stesso  i  com- 
ponimenti, li  eseguiva  e  li 
correggeva;  e  così  per  altre 
materie. 

Superata  felicemente  la 
licenza  ginnasiale,  tre 
giorni  dopo  il  medico  di 
casa  chiedeva  un  consulto 
per  una  terribile  tiflite  che  tenne  tre  mesi  a 
letto  il  Giglio-Tos.  Guarito,  da  commesso  di 
negozio  passò  applicato  di  segreteria  al  Club 
Alpino,  ed  ottenuta  cosi  maggiore  libertà,  entrò 
finalmente  uditore  all'Ateneo  torinese,  giurando 
a  se  stesso  (e  mantenne  il  giuramento  !)  che 
avrebbe  conseguito  tre  lauree. 


Nel  fervido  periodo  della  sua  vita  gaia  di  stu- 
dente fu  ispiratore  geniale  e  organizzatore  d'una 
infinita  serie  di  feste  studentesche,  e  creatore  di 
novelle    istituzioni    che    furono    e    sono    l'onore 
dell'Università    torinese.    Non    sappiamo    tratte- 
,•    nerci    dal    darne    qui    pn 
sommario  'cenno  cronolo- 
gico. 

1891-92  —  Organizza  le 
prime  regate  universita- 
rie  e  debutta  da  prima 

ballerina  di  rango  italiano 
nello  Scholasticon. 

1S93  —  Organizza  il  Fri- 
gidum  Museum,  diventa 
pittore,  espone  23  capola- 
vori, e  finisce  odalisca,  con 
relativa  danza  del  ventre... 
e  poi  segretario  dell'Asso- 
ciazione Universitaria  To- 
rinese. 

1894  —  Membro  della 
Commissione  esecutiva  del 
III  Congresso  Universita- 
rio, prende  parte...  in  qua- 
lità di  giullare,  alla  Giostra 
universitaria. 

I S94-95  —  Nominato  pre- 
sidente dell'  Associazione 
universitaria,  organizza  il 
Caflfe  Chantant  Bath'  Ack- 
lan. 

1S96 —  Inizia  la  petizione 
internazionale  degli  stu- 
denti allo  Czar. 

1S97  —  Propone  a  Pisa 
la  fondazione  della  Fede- 
razione Internazionale  de- 
gli studenti. 

1S9S  —  Organizza  il 
primo  Congresso  interna- 
zionale degli  studenti  per  fondare  la  Corda 
Fratres,  che  proclama  a  Roma.  E  nello  stesso 
anno,  per  aiutare  finanziariamente  il  Congresso, 
con  l'aiuto  dei  bravi  amici,  organizza  il  Carne- 
vale d'Ivrea  che  riusci  magnifico,  e  che  fu  la 
più  gran  giornata  dell'Esposizione  Italiana  di 
Torino. 


I30 

1S99  —  Fs  viemmeglio  fiorire  la  Corda  Fratrcs, 
compilandone  lo  statuto  ed  i  regolamenti,  modelli 
di  chiarezza  e  di  oculatissima  organizzazione. 

1900  —  Più  che  mai  instancabile,  organizza 
una  festa  a  Roma  eJ  un'altra  a  Parigi,  a  totale 
benefizio  della  Corda  Fralres. 

1900-901-902  —  Organizza  altri  Congressi, 
stampa  un  infinito  numero  di  opuscoli,  pronunzia 
discorsi,  conferenze  di  propaganda  in  favore 
dell'Università  Italiana'a  Trieste,  e  viaggia  a 
Bes^n(;on,  Venezia,  Bucarest,  a« Trieste,  a  Capo- 
distria,  ecc.,  ecc.' 

1904  —  Fra  altri  lavori,  pubblica:  «  La  genesi 

jJella  Corda  Fratrts  »,  «  La  Corda  Fratres  dans 

■  les   rapports  franco-italiens  »,    «   La  Morale   nel 

teatro  d'Ibsen  »  ii'.  «Albori  di  libertà»    21  ed 


(i)  La    Morale    nel  teatro    d' IHcit    di    Knsl^ 
Jn  volume  dì  pag.  140,  lire  2. 


Giono-Tos 


altro  ancora...  E  con  tutto  questo  lavoro,  e  con  la 
missione  di  professore  ginnasiale,  ch'egli  compie 
con  sagace  solerzia,  non  trascura  un  giorno  solo 
la  corrispondenza  epistolare  della  Corda  Fratres, 
quella  della  Società  Jleteorologica,  eia  personaje! 

Inf.iticabile  lavoratore,  è  amatissimo  da  quanti 
lo  conoscono;  e  si  può  dire  che,  eterno  studente 
egli  ste'sso  benché  già  triplicemente  laureato,  sia 
conosciuto  dagli  studenti  di  tutta  Italia  ,e  di 
mezza  Europa.  ,  '  , 

Preparerà  prestò  altri  lavori  di  genere  storico... 
e  irqvcrà  cefto  ancora  altre  idee  geniali  per  su- 
scitar qualche  nuova  gaia  festa  studentesca,  od 
iniziare  qualche  nuovissima  istituzione,  per  la  cui 
invenzione  sembra  abbia  l^t  privativa  in  Italia  ed 
all'estero... 


(Il  Albori  di  libertà  di  Efisio  Giiìlio-Tos 
pag.  264,  lire  2. 


Un   volume  di 


,      XXXI. 

MANTEA. 


Sotto  questo  gentile  pseudonimo  si   nasconde 
la   brava  scrittrice  donna  Gina  Sobrero,   la  più 
letta,*  la  più  interrogata  e  la  più  ascoltata  scrit- 
trice d'Italia.   Basti  dire  che  essa        • 
è  l'Autrice  .rfi   quel' libro    d'oro 
oramai    notissimo  e  difiìisissimo 
che  è  «Le  buone  Usanze»  (i). 

Principiò  a  scrivere  nella  Gaz- 
zetta Piemontese  di  Torino,  ora 
La  Stampa,  ed  i  suoi  articoli 
squisitamente  eleganti,  in  cui 
trattava  di    mode  femminili  con  "s^ 

raro  acume  di  donna  e  di  artista, 
erano   avidamente  letti,   e  le  ot-  '«- 

tennero  così,  di  punto  in  bianco, 
una  fama  veramente  invidiabile. 

Attualmente  è  a  Roma,  ma  a 
Torino,  specialmente  nell'alta  so- 
cietà e  nel  mondo  giornalìstico 
non  è  dimenticata  la  sua  leg- 
giadra figura  dal  portamento  ari- 
stocratico, ed  i  suoi  modi  cosi 
affabili  ed  accaparranti,  onde  si 
era  creata  come  un'aureola  di 
vivissime  simpatie. 

Giovinetta,  fu  educata  nell'Isti- 
tuto delle  figlie  dei  militari,  ed 
il  ricordo  di   quei   giorni  sereni  le  fece  scrivere 
più  tardi  quel  pn-ezioso  libriccino  che  sono  «  Le 
JMemorie  di    Collegio  »   (2),    nel  quale  trabocca 


#• 


a^^^^ 


tutta  la  sua  anima  d'ingenua  e  schietta  osserva- 
trice, per  cui  ne  nacquero  pagine  oltreniodo 
commoventi  ed  originali. 

Ma  il  suo  capolavoro  è  e  re- 
sterà sempre  l'aureo  libro  «  Le 
Buone  Usanze  »,  il  vero  galateo 
moderno  per  eccellenza;  e  niun 
lettore  certo,  a  leggerlo,  cosi  ben 
redatto  e  nitidamente  distribuito 
nella  materia,  potrà  immaginare 
quale  somma  di  ricerche  sia  esso 
costato  all'egregia  Autrice. 

Dopo  questa  vittoria  si  direbbe 
che  Mantea  non  abbia  più  cercato 
novelli  trionfi,  e  più  non  voglia 
cercarne  ;  però  noi  la  conosciamo 
troppo  bene,  e  pensiamo  che  forse 
nel  suo  silenzio  ostinato  mediti 
qualche  nuova  opera  singolare  che 
noi  le  auguriamo  fortunata  come 
il  fortunatissimo  galateo  moderno 
«  Le  buone  usanze  ». 


.♦»> 


Le  Buone  Usanze. 

Questo  celebre  galateo  moderno 
di  Mantea  è  oramai  diventato  il 
bro  indispensabile  di  ogni  persona  civile  ed 
educata,  di  ogni  famiglia,  e  si  può  ben  dire  di 
tutta  la  società  elegante    italiana.   Però,   per  un 


caso  qualunque,  taluno  potrebbe  fin  qui  av(.'r_ 
ignorato  l'esistenza  di  questo  aureo  libro  giunto 
ora  felicemente  alla  4^  edizione,  XXX"  migliaio  : 
d'altra  parte  poi,  anche  a  chi  già  lo  conosce, 
tornerà  utile  sapere  che  questa  4'''  edizione,  oltre 
delle  nuove  aggiunte  e  correzioni,  fu  arricchita 
del  «  Galateo  del  Marinaio  »  e  di  quello  del- 
l' «  Autemobilista  »,  onde  oramai  le  nostre 
«  Bl'ONE  Usanze  »  si  possono  proclamare  il  ga- 
lateo più  perfetto  e  più  moderno  che  fin 'ora  sia 
stato  pubblicato. 

Esso  è  tutto  quanto  si  può  immaginare  di  ac- 
curato, di  scrupoloso  e  di  gentile  in  materia  di 
garbate  consuetudini  e  di  perfetta  educazione  ;  è 
un  consigliere  efficace  onde  chiunque,  appar- 
tenente a  qualsiasi  ceto  o  classe  di  persone,  troverà 
in  esso  una  guida  sicura  in  tutti  i  casi  anche  nuo- 
vissimi che  la  moda  e  la  civiltà  progredita  hanno 
creato  nella  buona  società.  Le  signore  specialmente 
troveranno  in  «  Buone  Usanze  »  un  vero  tesoro, 
poiché  si  tratta  d'una  completa  enciclopedia  di 
cognizioni  che  abitualmente  ben  pochi  posseg- 
gono. • 

Possiamo  dire  che  ce  n'è  per  tutti  ;  fanciulla, 
sposa,  madre,  vedova,  istitutrice,  impiegata,  zi- 
tella ;  bambino,  fanciullo,  giovanotto,  marito, 
sposo,  vedovo,  fidanzato,  militare,  sacerdote, 
ciclista,  marinaio,  automobilista;  potremmo  fare 
un'affrettata  nomenclatura  di  tutte  le  materie  di 
cui  si  tratta  nell'aureo  libro,  ma  amiamo  meglio 
avvertire  le  nostre  gentili  (lettrici  ed  i  lettori  che 


la  iio.stra  Casa,  a  semplice  richiesta,  spedisce  a 
chiunque  ed  in  qualsiasi  paese  un  grazioso 
opuscolino  spiegativó  intitolato  «  Le  Bl'o.n'e 
Usanze,  ». 

Avremmo  anche  potuto,  come  si  usa,  riportar 
numerosissimi  giudizii  della  stampa  italiana,  tutti 
favorevolissimi  e  senza  restrizioni  laudativi  in 
onore  della  solerte  Autrice  Maxtea;  ma  in  ve- 
rità le  lodi  sono  tante  che  non  avremmo  saputo 
né  dove  principiare  né  dove  finire. 

Cosi,  dopo  tutto,  non  abbiamo  bisogno  di  rac- 
comandar troppo  un  libro  che  si  raccomanda  da 
sé;  finiamo  solo  dicendo  che  l'edizione,  riuscita 
elegantissima,  nitida,  accurata,  costa  soltanto  lire 
2,00  (aggiungere  cent.  20  ger  l'invio  franco  di 
porto)  e  qu'ella  legata  in  piena  tela  a  bordo  do- 
rato, lire  3  (indicatissima  pA  regali).  • 

Oltre  alle  Buone  Usanze  abbiamo  anche,  di 
Mantea,  l'utilissimo  libriccino 

■   Consigli  pratici  alle  persone  ili  servizio. 

*Si   raccomanda  specialmente  alle  signore   che, 
squisitamente  educate,  lamentano,  nelle  loro  per- 
•    sone  di  servizio,, modi  poco  urbani  od  incapacità 
'    relativa  nel  disbrigo  dei  lavori  domestici. 

È'  un  manuale-galateo  curioso,  praticissimo; 
ricco  di  consigli,  divertente;  un  grazioso  regalo 
da  farsi,  con  molta  utilità,  alle  persone  di  ser- 
vizio. 

L'elegante  libriccino  costa  soltanto  una   lira. 


(ti  M  'Le  Buone  Usanze  ».  Il  più  ricco,  il  più  ricercato,  il  più 
completo  galateo  moderno.  Ha  superato  il  XXX'5  migliaio.  Un 
volarne  in  i60  oblungo  elegante,  di  pag.  270,  con  indice  anali- 


tico per  facilitale  qualunque  ricerca:  costa  lire  2.( 
speciale  riccamente  rilegata  (per  regali)  lire  3,00. 
«  Memorie  di  coUegio  »  una  lira. 


XXXII. 

PADRE  ILARIO  RINIERI. 


Il  Padre  Ilario  Rinieri,  sagacissimo  raccoglitore 
ed  illustratore  di  documenti  storici,  è  nato  in 
Aleria  di  Corsica,  dalla  famiglia  nobile  fiorentina 
dei  Rinieri,  di  cui  un  qualche  ramo  emigrò  in 
quell'isola  verso  gli  ultimi  anni  del  secolo  deci- 
mottavo.  All'età  di  diciasette  anni  entrò  nella 
Compagnia  di  Gesù,  dove  rifece  gli  studi  classici, 
ed  attese  a  quelli  delle  scienze,  in  Francia  ed  in 
Ispagna.  Poscia  fu  occupato  nell'insegnamento, 
e  da  maestro  di  ginnasio,  e  poi  di  liceo  e  quindi 
di  teologia,  percorse  ad  una  ad  una  tutte  le 
scuole  dalla  prima  ginnasiale  all'ultima  della 
scienza  teologica. 


Nell'anno  1S97  fu  destinato  a  scrittore  della 
«  Civiltà  Cattolica  »,  periodico  che  si  pubblica 
a  Roma;  ed  in  questo  il  nostro  illustre  Autore 
tiene  alta  la  bandiera  della  sua  fede  e  della 
scienza. 

Le  sue  opere,  accuratissime,  scritte  con  molta 
arte  ed  originalità,  sono  oramai  note  all'intiera 
Europa  letteraria.  Troppo  lungo  sarebbe  ripor- 
tarne qui  l'intiero  elenco,  onde  ci  limitiamo  a 
quelle  di  più  alto  valore,  e  fra  queste  in  prima  linea 
a  quel  vero  monumento  alla  memoria  di  Silvio 
Pellico  che  è  l'interessantissima  opera  «  Della  vita 
e  delle  opere  di  Silvio  Pellico  »  ij).^  ' 


132 


Con  questi  tre  nuovi  volumi  storici  è  esaurito 
tutto  il  corredo  di  notizie  che  ancora  si  poteva 
desiderare  sulla  vita,  sulle  opere,  sulle  vicende 
private  e  politiche  del  grande  Silvio  Pellico.  Nel 
primo  volume,  ric- 
chissimo di  docu- 
menti pellichiani, 
son  completate  le 
notizie  dell'infanzia 
del  Pellico,  giovi- 
nezza, primo  fervore 
del  suo  dolce  inge- 
gno di  letterato,  di 
poeta  e  di  dramma- 
turgo. ' 

Nel  secondo  volu- 
me sono  illuminati 
i  punti  più  oscuri  e 
riportati  aneddoti 
nuovi  illustranti  l'o- 
dissea tragica  e  do- 
lorosa del  suo  ar- 
resto, le  sue  infinite 
sofferenze  a  Milano, 
a  Venezia,  allo 
.Spielberg,  e  gli  ul- 
timi anni  di  sua  vita 
a  Torino,  nell'  inti- 
mità di  Casa  Barolo. 

Nel  terzo  volume, 
'che  fu  atteso  con 
tant'ansia  dal  pub- 
blico, è  pubblicato 
quanto  ancora  rima- 
neva d'inedito  del 
Pellico:  Ricordanze, 
cantica.  Quattro  tra- 
gedie inedite  :  Lao-  ^ 
damia,  Adella,  Boezio  e  Turno.  Cinque  lavori  che 
sono  cinque  gioielli.  Dopo  questf  tre  volumi  sul 
Pellico,  ecco  comparire  un'altr'opera  documen- 
taria di  altissimo  valore:  «I  Costituti  del  Conte 
Gonfalonieri  ed  il  Principe  di  Carignano  »  (2). 

Dei  settantanove  Costituti  del  Confalonieri ,  nei 


quali  per  quasi  due  anni  il  celebre  patrizio  mi- 
lanese combattè  coi  giudici  austriaci  il  più  tre- 
mendo duello  giudiziario  di  cui  si  abbia  memoria 
nei  fasti  dei  processi  di  Stato,  se  quei  Costituti 
disgraziatamente 
sono  quasi  tutti  per- 
duti; una  tale  per- 
dita accfesce  natu- 
ralmente il  valore 
di  quei  pochissimi 
che  si  poterono  ri- 
trovare; e  siccome 
l'argomento  di  que- 
sti concerne  le  re- 
lazioni del  capo  dei 
Federali  lombardi 
con  il  Principe  di 
."  Carignano,  il  valore 
di  essi  si  fa  più 
grande  #  ancora,  e 
C  -^  storicamente  altissi- 
'  mo,  perchè  illumina 
di  luce  vivissima  le 
cose  e  le  persone  che 
si  agitarono  intorno 
al  Confalonieri  svol- 
gendo ampiamente 
l'argomento  delle 
sètte  straniere,  mas- 
simaniemente  quella 
del  Tugendbund,  in 
(juanto  si  collega- 
rono con  «juelle  che 
iniziarono  il  Risor- 
gimento Italiano; 
argomento  questo, 
si  può  dire,  del  tutto 
nuovo  in  Italia. 
Cosi  ben  possiamo  considerare  questo  nuovo 
volume  come  il  quarto  dell*  stessa  opera  intorno 
al  Pellico  (ne  sono  evidentissimi  i  legami  di 
questa  con  quello);  nuova  opera  di  sommo  inte- 
resse che,  come  appendice  chiude  e  corona  no- 
bilmente la  intiera  opera  del  padre  Ilario  Rinieri. 


(i)  Ilario  Rinieri.  «  Della  vita  e  delle  opere  di  Silvio  Pel- 
lico >»•  (Da  lettere  e  documenti  inediti).  Ire  Tolumi  in  ottavo 
^ande,  di  circa  400  pagine  ciascuno,  con  ritratti  e  autografi, 
lire  cinque  ogni  volume.  L'opera  completa  lire  dodici. 


(2)  Ilario  Rinieri  «  I  Costituti  del  Conte  Confalonieri  ed  il 
Vincipe  di  Carignano  ».  Un  volume  in  S^  grande  dì  pag.  160, 


XXXIII. 

FRANCESCO  STURA. 


Il  dott.  cav.  Francesco  Stura,  egregio  pubbli- 
cista di  scienza  in  tutta  l'estensione  del  termine, 
è  medico  condotto  a  Castello  d'Annone,  amato 
ed  ascoltato  si  può  dire  da  tutta  una  popolazione. 

Cominciò  a  dar  buona  prova 
del  suo  talento  di  scrittore  di 
scienza  popolare,  e  di  medico 
volgarizzatore,  in  brevi  e  suc- 
cosi articoli  nella  Gazzetta  del 
Popolo  della  Domenica,  con- 
tinuando in  seguito  con  studii 
più  serii  in  molti  giornali  ed 
in  riviste  di  medicina,  am- 
pliando sempre  più  la  fama 
che  ora  gli  si 'concede  tutta 
senza  esitazione. 

Oltre  a  parecchi  opuscoli  e 
libriccini,  scrisse  un  volume 
«  Miserie  nostre  »  e  poi  il 
celebre  «  Medico  Moderno 
nelle  Famiglie  »  (i),  che  fu 
veramente  il  libro  nuovo,  ori- 
ginale, di  cui  era  sentitissimo 
il  bisogno,  e  che  lo  fece  ad 
un  tratto  celebre. 

In   fatti,  un  libro  di  medi- 
cina popolare  cosi  denso,  così 
completo,   cosi  sincerò  ed  in- 
sieme tanto  facile  ad  essere  inteso,  non  era  mai 
uscito. 

Era  la  vera  guida  della  salute  che  ad  un  tratto 
si  svelava;  ed  il  pubblico  tosto  dimostrò  la  sua 
viva  approvazione  esaurendo  in  pochi  giorni  la 
prima  edizione. 

Affermato  così  il  successo  di  questo  libro, 
l'Autore  pensò  ad  un'opera  audace,  e  non  meno 
utile;  e  scrisse  «  Le  Miserie  di  Venere  »  (2).  11 
titolo  dice  tutto.  Il  libro,  vera  battaglia  contro 
le  immoralità  di  Venere  Afrodite,  destò  le  ire  ed 
.  i  rabbuffi  delle  menti  piccine  e  dei  tartufi  di  me- 
stiere e  di  convinzione  ;  ma  fu  lodatissimo  da 
ogni  ceto  di  persone  oneste  e  di  buon  cuore  ed 
amanti  davvero  della  sana  morale  che  non  vuol 
conoscer   veli  per  conoscere  i    mali  ed   evitarli. 

Naturalmente  anche  «  Le  Miserie  di  Venere  » 
ebbero  lietissimo  esito,  e  riaffermarono  la  fama 
del  bravo  dottore  cav.  Francesco  Stura. 


^^/ 


Ora  egli,  nella  tranquillità  della  sua  Castello 
d'Annone  sta  meditando  nuovi  lavori;  ai  quali 
auguriamo  di  cuore,  fin  d'ora,  la  fortuna  toccata 
ai  due  suoi  ultimi  libri. 

Il  Medico  Moderno 

nelle  Famiglie. 

È  un  libro  oramai  popola- 
rissimo, che  fu  giustamente 
qualificato  un  vero  tesoro  in 
casa.  In  pochi  mesi  fu  esau- 
rita la  prima  edizione  di  cin- 
quemila esemplari,  ed  0x2.  le 
edizioni  si  susseguono  senza 
interruzione.  Questo  gran  suc- 
cesso è  dovuto  al  fatto  che 
non  fu  mai  pubblicato,  in 
Italia,  un  libro  di  medicina 
popolare  cosi  completo  e  mo- 
derno, così  istruttivo  e  diver- 
tente insieme,  ed  al  prezzo 
addirittura  stupefacentemente 
mite,  data  la  sua  mole  di  400, 
pagine,  di  una  lira!  11,20 
franco  di  porto  nel  Regno). 
Nel  «  IMedico  moderno  nelle  Famiglie  » 
tutte  le  malattie  sono  studiate  e  descritte  con 
invidiabile  chiarezza,  e  di  ognuna  son  rilevati  i 
sintomi,  analizzato  il  corso  e  proposta  la  cura 
più  efficace  da  seguirsi;  il  tutto  esposto  confortne 
le  più  moderne  teori^  medico-scientifiche,  cosi 
che  a  ciascun  lettore  parrà  di  avere  il  medico  in 
casa,  a  propria  disposizione,  pronto  ad  essere 
interrogato  e  pronto  sempre  a  rispondere  esaH-« 
rientemente  a  qualsiasi  domanda  intoiino  a  qua- 
lunque malattia^ 

Autore  dell'opera,  come  più  sopra  è  detto 
nella  biografia,  è  il  doti.  Francesco  Stura,  oramai 
notissimo  collaboratore  di  principali  riviste  e 
giornali;  ed  il  suo  libro  —  come  scrisse  un  illustre 
critico  —  non  è  soltanto  ben  fatto,  utile  e  dilette- 
vole, ma  è  anche  sopratutto  ed  innegabilmente 
una  buona  azione. 
Dello  stesso  Autore  è  pure  il  libro  i  per  gli  adulti' 


Le  Miserie  di  Venere. 

Quest'opera  è  tutta  una  rivelazione.  Ma  chi  im- 
maginasse il  libro  un'arida  dissertazione  medica  si 
ingannerebbe  a  partito,  perchè  noi  crediamo  vera- 
mente che  mai  opera  del  genere  fu  scritta  in  forma 
più  popolare  e  curiosissima  di  fatti,  d'esempi, 
e  di  nuovi  ed  incredibili  documenti  umani. 

Come   potremmo   noi   parlarne,    scriverne  ?    Il 

tema   è'  troppo    scabroso Stralciamo    invece 

quanto  segue  dalla  prefazione  del  bravo  Autore: 

......  Purtroppo,  è  giuocoforza  ammetterlo, 

l'universale  convenzionalismo  in  materia  di  mo- 
rale nasconde,  ma  non  corregge,  la  generale  de- 
pravazione, e  la  civiltà,  questa  grande  fabbrica- 
trice d'orpello,  di  apparenze  e  di  transazioni  di 
coscienze,  non  fa  altro  che  tenere  il  sacco,  rico- 
prendo d'una  più  fitta  vernice  il  numero  infinito 
di  sepolcri  imbiancati  insozzanti  la  terra. 

«  Aggiungasi  ancora,  per  colmo  di  sventura, 
che  il  lezzo  nauseabondo,  che  esala  dal  putridume 
di  tanta  gente  corrotta,  non  trova  negli  articoli 
del  codice  il  più  valido  e  potente  antisettico  delle 
alcove. 

«  Così  stando  le  cose,  e  dal  momento  che  noi 
non  possiamo  e  non  dobbiamo  isolarci,  come 
altrettanti  fachiri,  ma  in  questa  civiltà,  comunque 
essa  sia,  dobbiamo  lottare  ed  evolvere  le  nostre 
energie,  sarà  sempre  miglior  partito  assuefarci 
le  nari  alle  esalazioni  mefitiche  della  corruzione 
dilagante  ed  apprendere,  conoscendo  i  mali,  l'arte 
saggia  e  provvida  degli  energici  rimedi.  Non 
si  farà  così  da  noi  opera  puerile  di  bimbo,  che 
chiude  gli  occhi  per  non  veder  l'orco,  ma  azione 
virile  di  uomo  forte,  il  quale  rifugge  con  orrore 
dalla  taccia  d'infingardo  tartufo. 

«  Ecco  perchè  io  ho  voluto,  o  lettore,  in  questo 
volume   che   ti   presento,    parlare   liberamente  e 


senza  reticenze  delle  innumeri  degenerazioni  ses- 
suali che  deturpano  il  mondo  cosi  detto  civile. 
Scoprendo  e  mettendo  a  nudo  certe  piaghe  io 
ho  fede  vivissima  di  compiere  una  buona  azione; 
e  se  dalla  vista  e  dal  fetore  di  queste  piaghe  un 
solo  vizioso  pigliasse  coraggio  e  lena  a  viver 
savio  ed  umano,  io  null'altro  chiederei,  pago  del- 
l'umile —  e  pur  grande  —  vittoria  ottenuta  ». 

E  noi  non  potremo  aggiungere  nulla  di  meglio 
se  non  che  il  libro,  naturalmente,  si  legge  tutto 
d'un  fiato,  e  lo  si  rilegge  senza  stanchezza  e 
senza  noia. 

Chi ,  poi,  voglia  maggiori  spiegazioni ,  può 
scrivere  direttamente  alla  nostra  Casa,  e  riceverà 
gratis  un  curioso  opuscolo  analitico   spiegativo. 

Ricordiamo  che  il  libro  «  Le  Miserie  di  Venere  », 
di  pagine  250,  formato  in  16°,  costa  lire  DUE 
(Lire  2,20  franco  di  porto). 

Oltre  ai  due  suaccennati  libri,  dello  Stura  ab- 
biamo anche 

Pregiudizi  ed  errori  nella  tradizione  popolare. 

É  un  libro  così  sano,  cosi  bello  e  altamente 
morale,  che  vorremmo  vedere  in. tutte  indistin- 
tamente le  famiglie  italiane.  (Così  scriveva  un 
critico  insigne).  Perchè  è  un  libro  che  con  rara 
semplicità  sfata  tutti  i  vecchi  pregiudizii  ed  errori, 
nel  campo  della  medicina  popolare  e  dell'empi- 
rismo; Jjregjudizii  perniciosi  che  durarono  pur 
troppo  molto  tempo,  e  che  in  molti  luoghi  e 
presso  molte  persone  durano  tutt'ora. 

Il  libro  è  inoltre  curiosissimo  e  divertente, 
perchè  riesce  come  una  raccolta  dal  vero  di  un 
numero  infinito  di  sciocchezze  consacrate  dalla 
cieca  tradizione  dei  popoli.'. 

Il  volume,  di  circa  200  pag.,  costa  UNA  lira. 


(i)  «  Il  Medico  Moderilo  nelle  Famiglie  ».  Volume  in  16O 
di  oltre  400  pagine,  una  lira  (1.20  franco  di  porto).  Non  una 
sola  famiglia  dovrebbe  essere  priva  di  questo  libro  che  è  un 
vero  tesoro  in  casa  1 


(2)  «  Le  Miserie  di  Venere  »  (libr 
lume  in  16O  di  pagine  250,  lire  2,00 


per   gli   adulti), 


^^^•►4^r 


NB.  —  I    ritratti   di    FRANCESCO    PASTONCHI    e   di    GIOVANNI   CENA   sono  dello   Studio 
Artistico  di  Platinotipia  del  cav.  Oreste  BERTIERI,  via  Po,  21  —  TORINO. 


135 


Le  celebri  opere  del  poliglotta  Prof.  A.  de  R.  LYSLE 


Un  tesoro  per  tutti  —  Le  praticissime  Guide  dialogate  di  conversazione 
—  Il  Segretaria  internazionale. 


Indistintamente  a  tutti,  professionisti,  viaggia- 
tori, commercianti,  touristes,  letterati,  artisti, 
operai,  insegnanti,  a  tutti  indistintamente  noi 
diamo  un  consiglio  pratico,  facile  a  seguirsi,  e 
che  vai  tant'oro  per  far  fortuna:  studiate  te 
lingue  ! 

Non  crediate  che  sia  difficile,  che  ci  voglia 
una  speciale  intelligenza,  che  sia  assolutamente 
indispensabile  un  buon  maestro  e  molte  lezioni  ; 
basta  invece  un  poco  di  buon  volere,  e  di  appli- 
cazione perchè  ognuno,  senza  professore,  senza 
speciali  lezioni,  ma  soltanto  guidato  da  un  me- 
todo sicuro  e  veramente  razionale  possa  impa- 
rare, in  soli  tre  mesi,  una  lingua:  l'inglese  o  il 
tedesco,  il  francese  o  lo  spagnuolo. 

Imparare unalingua,  o,  meglio,  due  o  tre  lingue, 
vuol  dire  crearsi,  con  tutta  certezza,  una  posi- 
zione, una  fonte  di  sicuro  guadagno. 

A  noi,  italiani,  sarebbe  possibile,  in  nn  pros- 
simo avvenire,  esser  più  fortunati  ancora  che 
non  siamo  adesso.  L'innata  nostra  intelligenza 
ci  sospinge  a  sempre  nuove  industrie,  a  sèmpre 
nuovi  commerci,  ed  è  innegabile  che  la  nostra 
ricchezza  produttrice  cresce  ogni  giorno.  Eppure 
tante  volte  ci  siamo  domandati:  perchè  mai  qui, 
in  Italia,  alla  direzione  di  gran  parte  delle 
nostre  industrie  vi  son  tanti  stranieri?  E  mai 
ci  siamo  sinceramente  risposto:  «  perchè  questi 
stranieri  sono  assai  colti,  e  non  v'è  nessuno  di 
essi  che'  non  sappia  leggere,  parlare  e  scrivere 
almeno  tre  lingue  ». 

Ecco  il  segreto  ! 

Invece  noi,  che  pur  diamo  in  tutti  i  paesi  il 
più  forte  contingente  all'emigrazione,  che  ab- 
biamo sviluppntissime  reti  commerciali  in  tutto 
il  mondo,  clie  continuamente  ricoviamo  in  casa 
nostra  gran  numero  di  forestitri.  noi  ci  curiamo 
ben  poco  d'imparare  le  principali  lingue  viventi. 

Perchè? 


Si  dice:  è  tanto  difficile  e  costoso!  Ci  vuol 
tempo,  buoni  professori,  denaro,  e  poi,  alle  volte, 
s'impara  poco  o  niente.  E  cosi  si  emigra  o  si 
viaggia  nelle  Americhe,  nel  Transvaal,  in  Au- 
stralia od  in  Inghilterra  senza  capire  una  sola 
parola  d'inglese  o  di  spagnuolo;  si  va  in  Francia 
od  in  Germania  senza  conoscere  una  parola  di 
francese  o  di  tedesco,  impossibilitati  cosi  a  far 
fortuna;  impossibilitati  egualmente  nella  ricerca 
d'un  impiego:  e,  se  siamo  commercianti,  impos- 
sibilitati a  trattar  con  le  Case  estere.  .Mentre, 
come  dicem»no,  è  tanto  facile  imparare  il  fran- 
cese, l'inglese,  il  tedesco  o  Io  spagnuolo  senza 
maestro  ed  in  soli  tre  mesi  col  celebre  Metodo 
Razionate  Americano  del  poliglotta  prof.  Lvsle, 
l'unico  veramente  perfetto,  razionale,  affatto 
nuovo,  che  lascia  le  noiose  regole  grammaticali 
alla  fine,  soltanto  come  complemento. 

Questo  celebre  Metodo  è  basato  sul  principio 
che,  come  in  natura,  con  estrema  facilità  un 
bambino  impara  a  parlare  senza  maestri  e  senza 
regole  speciali  di  grammatica,  cosi  un  adulto, 
se  guidato  razionalmente  e  praticamente:  come 
praticamente  e  razionalmente  insegna  il  metodo 
Lysie,  può,  da  sé,  in  pochissimo  tempo,  impa- 
rare a  leggere,  scrivere  ed  a  parlare  l'inglese, 
il  francese,  il  tedesco  e  lo  spagnuolo. 

L'Autore  di  questo  Metodo,  il  celebre  poli- 
glotta prof.  A.  de  R.  Lvslk.  che  ha  dato  lezioni 
di  lingue  nelle  principali  Capitali  d'Europa  e  di 
America,  ha  creato  un'opera  veramente  nuova, 
e  che  si  può  dir  geniale,  perchè  ha  aperto  nuovi 
orizzonti  e  nuovi  campi  dì  attività  nell'insegna- 
mento moderno  delle  lingue. 

Centinaia  e  centinaia  di  attestati,  giunti  al- 
l'Autore da  ogni  parte  del  mondo,  provano  in- 
contrastatamente la  superiorit;\  assoluta  del  ce- 
lebre Metodo  americano  Lysle  su  tutti  quanti 
finora    videro    la    luce,    i    quali,    o    son    vecchi, 


136 

inutili  trattati,  o  sono  vane  e  ancor  più   inutili 
imitazioni. 

Abbiamo  detto  la  semplice  verità,  non  esage- 
rando in  nulla;  e  aggiungiamo  ancora  che  i 
metodi  Lysle  sono  stampati  con  somma  cura  e 
precisione,  e  che  i  volumi  sono  legati  elegante- 
mente in  tela,  alla  bodoniana.  Ecco  i  prezzi  : 
L'inglese  pagg.  400  costa  lire  5, — 

Il  francese  »       350       »        »     4,50 

Il  tedesco  »       386      »       »     5, — 

Lo  spagnuolo      »       396       »        »     5,- 

Dello  stesso  Autore  abbiamo  anche  le 
Praticissime 
«GUIDE  DIALOGATE  di  CONVERSAZIONE» 

Queste  Guide,  come  già  avviene  pel  Metodo 
Razionale  Americano  dello  stesso  Autore,  sono 
una  vera  geniale  creazione,  per  cui  non  hanno 
niente  a  che  fare  con  le  consuete  Guide  che  ser- 
vono a  poco  o  nulla,  insegnando  esse  una  lingua 
da  letterali,  e  quindi  affatto  arbitraria,  che  cioè  non 
è  quella  parlata,  quella  di  cui  veramente  si  ha 
bisogno  di  conoscere  per  conversare  con  gli 
stranieri  e  per  farsi  prontamente  capire  ;  mentre 
le  guide  dialogate  di  conversazione  Lysle  inse- 
gnano con  la  massima  facilità  la  vera  lingua 
parlala;  cosi  che  al  bisogno  si  troverà  sempre 
in  esse  la  frase  fatta  e  pronunziata,  scritta,  cioè, 
come  la  si  pronunzia  ;  e  di  frasi  e  di  domande 
e  risposte  ptr  tutti  i  casi,  sono  veramente  ricche 
queste  inimitabili  Guide  dialogate  di  conversa- 
zione Lysle. 

Indispensabili  ai  viaggiatori,  ai  turisti,  ed  agli 
emigranti,  godono  oramai  un'invidiabile  fama, 
e  si  meritarono  le  lodi  ed  il  plauso  d'insigni 
filoioghi  e  letterati. 

Sono,  diremmo,  quasi  l'indispensabile  com- 
plemento al  celebre  Metodo  Razionale  Lysle. 

Le  Guide  dialogate  di  conversazione  sono  tre: 

Tedesca-Italiana  -  Mw  volume  in-i6  piccolo, 
tascabile,  elegante,  legato  in  tela.  Lire  4,  — 

Francese-Italiana  -  Un  volume  in-i6  piccolo, 
tascabile,  elegante,  legato  in  tela.  Lire  3,  — 

Inglese-Italiana  -  Un  volume  in-i6  piccolo, 
tascabile,  elegantemente  legato  in  tela.  Lire  5,  — 

La  nuova  Corrispondenza  commerciale  e 
famigliare  Francese-Italiana,  Tedesca-Italiana 
e  Inglese-Italiana. 

È  un  vero  aiuto  a  tutti,  professionisti,  viag- 
giatori, commercianti,  letterati,  artisti,  insegnanti, 
operai,  quello  che  porge  la  nuova  opera  vera- 
mente geniale  del  poliglotta  prof.  A.  de  R.  Lysle, 
«  La  nuova  Corrispondenza  commerciale  e  fami- 
gliare   francese  -  italiana,    tedesca  -  italiana,     ed 


inglese-italiana  »,  che  si  potrebbe  anche  intito- 
lare «  Il  Segretario  internazionale  ». 
'  Quest'opera,  dal  chiaro  Autore  creata  con  saga- 
cissima coscienza  d'osservatore  e  di  scienziato, 
è  una  completa  Guida  pratica  per  chi  voglia 
scrivere  lettere  in  francese,  od  in  inglese,  od  in 
tedesco,  di  qualunque  genere  esse  siano,  non 
soltanto  senza  sbagliare,  ma  con  eleganza  di 
stile  e  di  lingua,  e  con  assoluta  proprietà. 

Capita  ogni  giorno,  anche  a  chi  conosce  abba- 
stanza bene  il  francese,  o  il  tedesco,  o  l'inglese, 
di  non  saper  scrivere  degnamente  una  lettera 
in  queste  lingue,  così  che  chi  sa  a  quanti  sarà 
capitato  di  esclamare: 

Ah  !  se  avessi  a  mia  disposizione  un  buon  libro 
completo,  pieno  di  lettere  francesi-italiane,  o  te- 
desche-italiane,  o  inglesi-italiane  d'ogni  genere 
e  per  tutti  i  casi,  onde  più  non  mi  rimanesse 
che  da  copiare,  quanto  sarei  felice! 

Ebbene,  questo  libro  d'oro,  che  finora  non 
esisteva,  è  stato  creato;  opera  geniale,  ricchis- 
sima, che  sarà  benedetta  da  tutti  quanti  deside- 
rano sbrigar  presto,  e  purè  con  somma  cura, 
alla  propria  corrispondenza  francese,  o  inglese, 
o  tedesca.  • 

L'n  amico,  una  casa  commerciale,  un'azienda 
industriale  vi  ha  scritto  una  tal  lettera  in  francese, 
od  in  inglese,  od  in  tedesco  alla  quale  vi  è  noia 
rispondere  pel  dover  redigere  in  queste  lingue 
una  buoiia  lettera? 

Voi  ricorrete  all'indice  dell'aureo  libro,  trovate 
il  caso  appropriato  alla  lettera  ricevuta,  cercate 
nella  tal  pagina,  ed  eccovi  la  lettera  pronta, 
come  voi  la  desiderate,  e  precisissima,  onde  non 
vi  resta  più  altro  che  da  copiarla. 

Quanto  tempo  guadagnato! 

E  qual  sicurezza  di  aver  scritto  veramente  una 
buona  lettera  che  vi  farà  onore! 

L'na  tale  opera  è  costata  un  difficilissimo  lavoro 
di  scelta  e  di  selezione,  e  l'Autore  vi  ha  lavorato 
intorno  per  anni  ed  anni. 

Ora  noi  la  presentiamo  finalmente  al  pubblico, 
in  veste  elegante,  nitidamente  stampata,  rilegata 
in  tela  alla  bodoniana,  in  circa  trecento  pagine 
ciascun  volume  formato  in  ottavo  piccolo,  con 
ampia  appendice  di  frasi  fatte  di  risposta  e  do- 
manda. 

Per  che  ognuno  poi  possa  farsi  un'idea  esatta 
della  indiscutibile  bontà  dell'opera,  diatno  qui 
per  disteso  l'indice  di  un  volume,  di  quello  fran- 
cese, il  quale  può  dare  una  giusta  idea  anche 
di  quelli  tedesco  ed  inglese. 


Prefazione  -  Como  incominciano  e  finisoouo  Ir 
lettore  Iraucesi  -  Circolari  -  Oli'crto  «li  servizi  e 
risposte  -  Inizio  di  relazioni  -  Domande  d'infor- 
mazioni o  risposte  -  Commissioni  di  merci  e  lettere 
di  risposta   ad    ordinazioni  -  Avvisi  di    spedizioni 


merci  e  avvisi  di  ricevuta  merce  -  'trasporti  marit- 
timi -  Contrordini  di  conunissioni  date  -  Reclami 
-  Lagnanze  -  Avviso  di  avarie  subite  dalla  merce 
e  risposta  -  Consegna  di  merci  a  spedizionieri  e 
a\TÌsi  ai  destinatari.  Ordini  a  eseguirsi  da  spedi- 
zionieri -  Sollecitazioni  di  pagamenti  a  commer- 
cianti ed  a  privati  -  Eimesse  di  fondi  «  Avvisi  di 
disposizione  -  Avvisi  di  tratte  spiccate  -  Rimessa 
di  tratte  e  regolamenti  -  Eice^^lte  di  effetti  a  saldo 
di  conti  j  Preghiera  di  presentare  una  tratta  al- 
l'accettazione. Ritorno  di  tratta  accettata.  Conferma 
d'una  accettazione.  Tratte  accettate  -  Spedizione 
di  alcune  «  prime  lettere  di  cambio  »  agli  accet- 
tanti -  Domande  di  prolungamento  di  tratte  e  ri- 
spost»  -  Ritorno  di  tratta  per  mancanza  di  girata 
e  risposta  -  Ritorno  di  tratte  non  pagate  con  o 
senza  spese  -  Ordine  di  trarre  una  cambiale  -  Av- 
viso d'una  Banca  ad  un  accettante  -  Ordini  alle 
Banche  e  risposte  delle  medesime  -  Modulo  di  as- 
segno bancario.  In^no  di  assegno  -  Invio  di  conto- 
corrente  -  V^endita  sulla  piazza,  fattura.  A\'viso 
di  tratta  e  risposta  -  liomanda  di  dilazione  per 
l'esecuzione  di   una   commissione  -  Risposta  di  un 


13? 

fabbricante  ad  un'ordinazione.  Impossibilità  di 
eseguire  la  commissione  -  Accusa  di  ricevuta  d'una 
lettera  di  cambio  da  portare  a  credito  d'un  terzo. 
Ordine  di  pagamento  al  cambio  in  debito  -  Domande 
di  credito.  Risposte  favorevoli  e  sfavorevoli  -  Xota 
di  credito  -  Ordini  di  borsa.  Compera  e  vendita  di 
titoli  a  data  fissa  e  senza  indicazione  di  termine  - 
Domande  d'impiego  e  risposte  -  Lettere  di  racco- 
mandazione-Fatture -  Ricevute  di  denaro  -  Cambiali 

-  Lettere  e  docujuenti  diversi  -  Corrispondenza  varia 

-  Corrispondenza  famigliare. 


E  certo  che  da  questo  indice,  più  che  dalle 
nostre  parole,  ogni  persona  colta  si  sarà  fatto 
una  chiara  idea  dell'indiscutibile  valore  della  vera 
Corrispondenza  commerciale  e  famigliare  francese- 
italiana,  tedesca-italiana,  e  inglese-italiana,  e  a 
noi  non  resta  altro  che  ripetere  che  i  volumi, 
elegantissimi,  formato  in  ottavo  piccolo,  legato  alla 
bodoniana,  di  300  pagine  circa,  costano  soltanto 
quattro  lire  ciascuno,  franco  di  porto  nel  Regno. 


TEODORO  GATTI 


SALUTE  E  BELLEZZA. 


Non  "v'ha  chi  non  sappia  quanto  sia  veramente 
proficua  e  salutare  la  nuova  —  nuova  per  modo  di 
dire  —  forma  di  ginnastica  armonica  senza,  stru- 
menti ora  così  in  auge,  e  con  ragione,  fra  le  miss  e 
gli  sportmans  inglesi  ed  americani,  cosi  che  si  di- 
'  rebbe  essere,  il  nuovo  metodo,  di  importazioìie 
straniera,  mentre,  come  accade  dell'esotico  /oo/- 
éa//,  che  è  l'antico  nostro  giuoco  del  calcio,  così 
pure  succede  della  ginnastica  armonica  senza 
strumenti  che  ha  origine  prettamente  italiana.' 

Ed  appunto  sotto  questo  titolo  di  ginnastica 
armonica,  preceduto  da  quello  sintetico  di  «  Sa- 
lute e  bellezza  »  (n,'  il  dottore  Teodoro  Gatti 
della  R.  Marina  italiana  pubblica  un  elegante 
volumetto  clie  vivamente  raccomandiamo  a  tutti 
i  cultori  dell'educazione  fisica  e  ad  ognuno  che 
nell'  intimità  della  sua  casa  e  della  sua  famiglia 
voglia  applicare  questo  sovrano  mezzo  igienico 
e  terapeutico  che  è  l'esercizio  metodico. 


La  prima  parte  del  libro  è  costituita  dalla  de- 
scrizione delle  esercitazioni,  illustrata  da  44  fi- 
gure di  gran  precisione  e  bellezza,  e  da  una  ta- 
vola murale. 

La  seconda  parte,  di  indole  elevata,  svolge 
brevemente  e  con  molta  chiarezza  ed  efficacia 
il  concetto  di  educazione  fisica  che  è  fondamento 
al  libro  stesso,  ed  una  teoria  estetica  della  salute 
e  della  malattia. 

L'Autoi'e,  che  fin  dalla  prima  sua  giovinezza 
si  è  dedicato  con  passione  agli  esercizii  fisici 
che  descrive,  può  dire,  in  certo  modo,  di  aver 
vissuto  coi  muscoli  il  suo  libro,  prima  ancora 
di  averlo  pensato  e  scritto.  È  questa  una  buona 
garanzia  di  sincerità  e  di  utilità  pratica,  onde 
noi  raccomandiamo  volentieri  ai  nostri  lettori  la 
bella  operetta  «  Salute  e  bellezza  »  che  costa 
soltanto  due  lire. 


(il  Salale  e  belhz^fl 
tavola  murale,  L.  2, 


del    dottor    Teodoro    Gatti    della  R.  Marina.  —  Un  volume  di    pagg,  200    con    44    lltustr.lzioni  ed  una 


138 


ANGELO  BROFFERIO 


I  MIEI  TEMPI. 


Rileggendo  ora  questa  sempre  giovane  e  fre- 
schissima cronistoria  del  grande  Angelo  BrofFerio, 
«  I  Miei  Tempi  »  dopo  tanti  anni  che  la  si  aveva, 
se  non  dimenticata,  almeno  negletta,  poiché  era 
impossibile  trovarne  una  copia,  si  prova  una 
commozione  cosi  profonda  ed  un  piacere  tanto 
vivo  come  si  fosse  stati  sorpresi  da  una  vera  rive- 
lazione. 

Angelo  Brofferio  !  Oh  come  questo  bel  nome 
di  cavaliere  della  libertà,  senza  macchia  e  senza 
paura,  suona  ancora  adesso  come  fanfara  belli- 
cosa, ispiratore  di  alte  virtù  civili,  così  ai  vecchi 
che  ricordano,  come  ai  giovani  che  dai  padri 
impararono  a  venerare  il  nome  del  Grande  Ita- 
liano! 

Tempi  felici,  quelli,  di  epiche  lotte  per  la  patria 
e  per  la  libertà  !  E  Angelo  Brofterio,  poeta,  let- 
terato, commediografo,  giornalista,  storico,  av- 
vocato, politico,  ma,  sopratutto,  patriota  fervente, 
fu  astro  glorioso  di  quei  tempi,  luce  ai  giovani, 
sprone  ai  paurosi,  sferza  ai  vili.  Poeta,  per  il 
popolo  che  lo  capiva  e  idolatrava,  scrisse  can- 
zoni così  vive  e  schiette  e  belle  in  sé,  che  vie- 
tate o  mutilate  dalla  polizia  diventavano  bellis- 
sime, e  ricercatissime  dal  popolo  che  se  ne  faceva 
editore  stampandosele  nella  memoria  e  cantan- 
dole musicate  originalmente  dallo  stesso  Autore. 

Commediografo,  scrisse  un'  infinità  di  com- 
medie e  tragedie  ;  giornalista  combatté  strenua- 
mente per  la  libertà  e  per  il  progresso,  contro 
ogni  sorta  di  soprusi  ;  avvocato  librò  la  sua  af- 
fascinante eloquenza  non  inchinandosi  alle  opi- 
nioni dei  partiti,  ma  alla  santità  della  giustizia, 
e  fu  sublime  in  molte  arringhe,  delle  quali  corse 
fama  da  un  capo  Gl'altro  d'Italia.  Politico,  a  lui 
bastava  modestamente    essere    considerato  sen- 


tinella avanzata  della  libertà  contro  i  reazio- 
narii  del  tempo,  amato  dai  liberali,  adorato  dal 
popolo. 

Ma  il  grande  ingegno  del  Brofterio  rifulse  sin- 
golarmente nel  suo  capolavoro  «  I Miei  Tempi  », 
autobiografia  brillante  ed  umoristica,  in  cui  v'ha 
pagine  cosi  splendide  ed  affascinanti  che  sol- 
tanto possono  avere  riscontro  in  altre  di  un  altro 
capolavoro  :  David  Copperfield  dell'  immortale 
Carlo  Dickens.  E  questo  classico  capolavoro,  cosi 
fresco,  vivo  e  leggiadro  come  fosse  stato  scritto 
ieri  ;  questa  cronistoria  interessantissima,  friz- 
zante di  umor  gaio,  di  satire,  aneddoti  e  di 
osservazioni  profonde;  che  ancora  adesso  è  ri- 
cercatissimo, ma  non  più  trovato,  perchè  l'unica 
edizione  fattane  andò  completamente  esaurita, 
quest'opera  geniale  è  uscita  or  ora  in  veste  ele- 
gantissima, come  una  risurrezione  che  riempie 
di  maraviglia  i  giovani,  che  nel  fervore  della  vita 
odierna,  non  seppero  dell'opera  insigne,  e  fa  fre- 
mere di  commozione  i  vecchi  che,  ringiovaniti, 
rivivono  quei  tempi... 

Pochi,  crediamo,  vorranno  privarsi  del  godi- 
mento spirituale  di  leggere  per  la  prima  volta 
o  rileggere  il  capolavoro  brofferiano  ;  e  non  vi 
sarà  certo  Biblioteca  pubblica  o  privata  che  voglia 
star  priva  del  classico  lavoro,  così  alto  di  ideali 
e  di  ammaestramenti,  e  così  fedelmente  storico. 

L'opera  consta  di  dieci  volumi  di  500  pagine 
ciascuno,  a  tre  lire  ogni  volume.  Chi  acquista 
l'opera  intiefa  —  lire  30,  franco  —  riceverà  gratis 
il  ricco  volume  delle  Canzoni  Biofferiane,  per  la 
prima  volta  pubblicate  con  la  musica  dell'Autore, 
finora  rimasta  inedita. 

Riepilogando:  questa  ristampa  é  certo  il  più 
bel  ricordo  del  Centenario  di  Angelo  Brofiferio. 


^**i^ 


139 


'T^^^mt^^.m^:^,^rr-^m',jinrrjgìr--iirtrjttr^^^ 


ALTRE  OPERE  SCELTE 


LA  TRIENNALE.  —  Rivista-ricordo  illustralo 
dell'  Esposizione  Triennale  di  Belle  Arti  in  To- 
rino > Maggio-Setteìiìbre  i8g6).  —  Gran  volume 
in-folio,  di  pagg.  115  a  due  colonne,  con  60 
incisioni  in  fotozincotipia  nel  testo  e  iS  tavole 
^\' acquaforte  fuori  testo  f ultime  copie)    L.  5.  — 

DOMINGO  MOBAC.  —  Genio,  Scienza  ed 
Arte,  ed  il  positivismo  di  Max  Nordau  —  Un 
voi.  in-8»  grande L.  2  — 

TESTA  prof.  ALFREDO.  —  Nuova  Antologia 

ad  uso  dei  Ginnasi  inferiori  e  delle  Scuole  Tec- 
niche. —  Fremitila  con  medaglia  all' Esposiziofìe 
Nazionale  di  Torino  iSgS.  —  Un  voi.  in-8°  di 
pagg.   XIII-43S L.  3- 

GIUSEPPE  GAVUZZI.  -  Vocabolario  pie- 
montese-italiano, ed  italiano-piemontese.  — 
Due  voi.  di  circa  700  pag.  ciasc.  Ogni  voi.  L.  4  — 
Opera  completa 1-.  7  — 

•  E.  GIUSIANA.  —  La  Tintura  del  Cotone. 
—  (Analisi  chimica  delle  materie  prime i.  Vc^. 
in-S°  di  325  pagg.,  con  numerose  illustr.  L.  5  — 

K  il  titolo  di  un  libro  compilato  dal  sig.  Et- 
tore Giusiana,  direttore  d'industria,  perito  nelle 
industrie  chimiche,  meccaniche  e  tessili.  Passati 
in  rassegna  i  caratteri  fisici  e  cliimici  dell'acqua, 
i  processi  di  verifica  e  di  correzione  in  rapporto 
cogli  impieghi  industriali,  i  depuratori  più  in 
uso  ;  fatto  uno  studio  accurato  dei  caratteri  della 
cellulosa  vegetale  (cotone),  dei  metodi  di  analisi 
chimica  e  microscopica,  del  modo  con  cui  si 
comporta  all'azione  dei  reagenti  chimici,  l'A. 
espone  la  teoria  della  Mordenzatura  con  partico- 
lari considerazioni  sull'applicazione  dei  mordenti 
minerali  ed  organici  di  più  comune  impiego. 

La  teoria  della  tintura  è  ampiamente  svilup- 
pata in  altra  parte  del  libro,  con  riguardo  alle 
materie  coloranti  di  maggiore  importanza  sia 
naturali  che  artificiali. 


I  procedimenti  di  tintura  sono  pure  descritti 
con  illustrazioni  sui  meccanismi  ed  apparecchi 
inerenti  ai  varii  processi  ;  seguono  opportuni 
cenni  sulla  Stampa  dei  filati  e  sulla  Mercerizza- 
zione del  cotone. 

I  coloranti  artificiali  vi  hanno  ampia  trattazione 
in  apposito  capitolo,  nel  quale  trovansi  distinti 
in  dodici  speciali  gruppi.  Chiudono  l'opera  al- 
cuni cenni  smW analisi  dei  tessuti  misti. 

II  libro  è  così  compilato  da  riuscire  di  giova- 
mento a  coloro  che  attendono  giornalmente  a 
quell'importante  ramo  dell'industria  tessile  che 
è  la  tintura  del  cotone  e  viene  ad  accrescere  la 
troppo  scarsa  letteratura  industriale  italiana. 

SCHILLER    E^  —    La    Divina    Commedia. 

Trascritto  micro-calligrafico  —  Un  foglio  proto- 
collo (riproduzione  litografica)     .     .     .     L.   i  — 

Una  curiosa  produzione  'dantesca  è  questa 
pubblicata  dal  signor  Schiller  :  si  tratta  d'un 
foglio  protocollo,  nel  quale,  riprodotta  in  foto- 
zincotipia addirittura  irriducibile  per  piccolezza 
di  lettere,  è  contenuta  nientementp  che  tutta 
la  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri,  vale  a 
dire  14,233  versi,  96,000  parole,  400,000  lettere  ! 

È  un  vero  tour  de  force,  dal  quale  appare  la 
paziente  e  mirabile  abilità  dello  scrivente,  il 
quale,  vittima  del  proprio  lavoro,  ha  perso  com-  ' 
pletamente  la  vista  nella  compilazione  dell'ori- 
ginale ;  ma  quel  che  più  monta  è  il  fatto  che 
taluni,  dotati  certo  di  vista  perfetta,  riescono  a 
leggere  questi  versi:  i  quali  hanno  tutto  l'aspetto 
di  atomi  allineati,  tanta  pure  è  la  limpidezza, 
della  grafia. 

11  curioso  trascritto  micro-calligrafo,  fatto  a 
mano  libera,  senza  uso  di  lente,  forma  la  mera- 
viglia non  solo  del  pubblico,  ma  di  tutti  i 
calligrafi,  onde  il  successo  è  stato  veramente 
straordinario. 

A.  JOURDAN.  —  A  Parigi  in  bicicletta.  — 
Un  elegante  volumetto L.  i  — 


Il  Console  del  T.  C.  C.  I.  sig.  A.  Jourdan  ha 
compilato,  e  la  nostra  Casa  ha  pubblicato,  un'ot- 
tima Guida  Ciclistica  da  Torino  a  Parigi.  — 
L'elegante  volumetto  contiene  delle  norme  uti- 
lissime pel  viaggiatore  concernenti  l'igiene,  la 
bicicletta,  gli  alberghi  e  le  strade.  Per  ogni 
paese  toccato  dall'itinerario  —  sia  che  questo  lo 
fei  percorra  in  8,  come  in  12  giorni  —  sono  dAe 
le  distanze  parziali  e  pi;ogressive,*  l'altimetria,. 
gli  alberghi  raccomandati  e  brevi  cenni  sulle 
cose  più  notevoli  e  degne  di  essere  vedute, 
nonché  i  nomi  dei  delegati  e  dei  meccanici. 

La  Guida  è  corredata  anche  di  un'accuratis- 
sima Carta-profilo  dell'itinerario. 

Naturalmente  serve  anche  benissimo  per  gli 
Automobilisti. 

Raccornandiamo  ai  nostri  lettori  l'elegante  vo- 
lumetto, degno  di  essere  in  tutte  le  biblioteche 
dei  Ciclisti  e  degli  Automobilisti. 

FRANCESCHINA  BARGJS- ROGGERO  — 
Sai  uzzo  —  Guida  Storica  —  Un  elegante  volu- 
metto in-i5o L.  0,50 

Questo  elegante  volumetto  è  proprio  una  vera 
Guida  Storica,  succinta,  non  pedante,  ma  diver-* 
tente.  La  storia  di  Saluzzo,  fin  dai  tempi  più 
lontani,  vi  è  narrata  con  vivacità,  con  finezza  ; 
l'autrice  non  si  smarrisce  in  ^jarticolari  inutili, 
ma  va  diritta  allo  scopo  e  riesce  ad  interessare 
sommarnente  ed  a  ftr  amare  la  sua  Saluzzo,  che 
sa  farci  conoscere  con  tanta  maestria.  L'antica 
città  piemontese  non  avrebbe  potuta  trovare, 
per  un  sunto  fedéle  della  sua  storia,  una  scrit- 
trice più  pura  e  più  elegante.  Il  libro  è  adorno 
di  bellissime  fotoincisioni  che  rappresentano  i 
principali  monumenti  saluzzesi.  Possiamo  ancora 
aggiungere  che  il  più  gran  merito  di  questa 
Guida  è  quello  di  interessare,' anche  da  lontano, 
tutti  quanti  non  videro  e  noi)  vedranno  mai  la 
.forte  città  piemontese. 

*  A  CASELLINI,  ROSETTANl  e  VENEZIA» 
tre  martiri  fermani  decapitati  per  ire  settarie 
dopo  il  1848,  è  un  fascicolo  importantissimo. 
Con  documenti,  attestazioni,  illustrazioni  che  lo 
adornano,  il  quale,  oltre  il  valore  della  rivendi- 
cazione basata  per  documenti,  ha  anche  un  ca- 
rattere storico  che  dà  al  prezioso  scritto  sommo 
valore. 

I  raccoglitori  di  memorie  patrie  troveranno 
pagine  di  sommo  interesse. 

II  numero  unico  in  elegante  edizione  di  28 
pagine  non  costa  che L.  0,50 


F.  AUGUSTO  DEBENEDETTI 

(Rime).  —   L^n  voi.  in-16".     .     . 


Al  Vento! 

.     L.   1  — 


F.  AUGUSTO    DEBENEDETTI.   —  Per  la 

via  del   Dolore.  —  'Sensazioni  e  Figure)  L.  3  — 

CIRO  D'ARBIA  —  Luce  Nera  {Romanzo)  — 
2  voi.  in-ió" L.  5  — 

G.  CHIGGIATO.  —  La  Dolce  Stagione  (  K<?;-ìj). 
Un  voi.   in-16'^  oblungo,  elegantissimo      L.   1,50 

CIRO  ALVI.  ~  L'Invincibile  Ideale  [Il  Culto ^ 
■dell' Avvenire)  —  Un  voi.  in-16"      .     .     L.   2  — 

LINA    CASTINO.    —    Sensualità    maschile 

(Romanzo).  —  Un  voi.  in-ió»     .     .     .     L.  2  — 

BARONE  DI  YORK,  —  Montecarlo...  oc- 
culto, Montecarlo...  palese!  —  Un  volume  in 
16" L.  3  — 

Non  mai  fu  scritto  un  librg  più.  interessante, 
più  curioso,  e,  sopratutto,  più...  rivelatore  di 
questo,  su  la  terribile  bisca  di  Montecarlo. 
L'Autore,  che  per  molte  ragioni  ha  creduto  bene 
di  conservar  l'incognito,  ci  presenta  francamente 
e  coraggiosamente  il  vero  Montecarlo,  la  sfinge 
maledetta  che  dal  suo  paradiso'  terrestre  trae  a 
sé  ricchezze  favolose  accumulando  rovine  su  ro- 
vine, sempre  bella,  giovine,  fascinatrice  e  pos- 
sente. Per  dare  un'idea  al  lettore  di  che  cosa 
sia  fatto  questo  libro  che  ha  in  sé,  diremmo 
quasi,  il  marchio  del  mistero,  noi,  semplicemente, 
riporteren)0  qui  l'indice,  la  lettura  del  quale  ci 
dispensa  largamente  da  altre  spiegazioni. 

INDICE: 
,  Per  la  buona  intesa, 

PARTE  PRIMA. 

//  soggiorno  alla   Conca  Azzurra. 

I.  L'arrivo.-  Primi  passi,  giardini. 

II.  La  Piazza  del  Casino  -  Impressioni  e  contrasti. 

III.  Montecarlo  -  Condamine  -  Monaco  e  viceversa. 

IV.  La  Posto  -  Sale  di  lettura  e  di  scrittura. 

V.  Santa  Devota  e  la  sua  leggenda  -  11  Ponte  consolatore  - 
Le  Terme  di  Valentia. 

VI.  Cundamine  -  Stazione  -  Teatro  -  Mercato. 

VII.  Monaco  nelLi  sua  storia  -  Principi  e  governo. 

VIII.  Monaco  nei  suoi  monumenti. 

1        PARTE  SECONDA. 

Le  CercU  des  Élrangers. 

I.  Un'occhiata  a  ritroso. 

IT.  Entrando  nella  Casa  da  giuoco. 

III.  La  gran  sala  dei  Pas  perdus  -  Pennellate. 

IV.  Entrando  nelle  sale  da  giuoco  -  Norme  e  precauzioni. 

V.  Le  grandi  tentatrici  -  Roulette  -  Trenta  quaranta. 
■**^  Sguardi  retrospettivi  -  Consigli  da  amico. 

11  viatico. 

...Ultime  piaghe  -  11  silenzio  e  lo  spionaggio.  •  Aned. 
doti...  in  salsa  piccante. 
Riepiloghiamo  l 


VII. 
VIII 


141 


.GIUSEPPE  STICCA.  —  Gli  Alpini  (ristampa 
dell'opera  «  Non  si  passa!)  »  Un  voi.  in-i6° 
illustrato. 

Questo  volume,  che  già  ottenne  insperata  for- 
tuna, sotto  il  titolo  popolare  di  «  Non  si  passa!  » 
e  riscosse  unanime  lode  per  l'elevato  scopo  ed  i 
nobili  Sensi  che  l'informano,  rivede  oggi  la  luce 
sott'altro  titolo  che  meglio  ne  determina  il  sog- 
getto e  la  comprensione:  essendo  esso,  infatti, 
una   propria   compendiosa   istoria   degli    Alpini. 

E  perchè  possa  andar. per  le  mani  di  tutti ^  e 
segnatamente  dei  graduati  e  soldati  Alpini,  ad 
accendervi  l'emulazione  e  lo  spirito  di  corpo,  lo 
si  riduce  al  prezzo  minimo  di  UNA  LIRA,  pas- 
sandolo alla  nostra  Biblioteca  Scelta. 

LA  QUADRIENNALE.  —  È  un'opera  vera- 
mente splendida  e  riuscita  l'intiera  raccolta 
della  "  Quadriennale  „  rivista  in  gran  formato 
illustrante  riccamente  l'indimenticabile  Esposi- 
zione Torinese  di  Belle  Arti,  del  1902. 

Oltre  al  testo  vario  ed  interessantissimo,  do- 
vuto ai  più  noti  scrittori  italiani,  trattante  serie 
questioni  d'arte  o  illustrante  le  singole  opere  di 
eminenti  artisti,  il  prezioso  volume  contiene 
una  serie  di  ben  venti  tavole  fuori  testo,  che 
sono  veri  quadri  degni  di  cornice,  ed  una  infi- 
nità di  fotoincisioni  nel  testo,  illustranti  le  mi- 
gliori opere  della  Mostra,  comprese  le  Esposi- 
zioni Collettive  del  Fontanesi,  del  Cavalieri,  del 
Grosso,  del  Ricci,  ecc.  ;  onde  l'opera  coscienziosa 
merita  ,  davvero  di  esèere  raccomandata  viva- 
mente a  tutti  gli  artisti  e  ad  ogni  persona  colta; 
che  ognuno  dovrà  essere  lieto  di  ornare  d'un 
simile  tesoro  d'arte  il  proprio  studio  o  la  propria 
biblioteca. 


Noi  siamo  certi  che  ognuno  apprezzerà  le  fa- 
tiche ed  i  sacrifizii  che  ci  costò  la  compilazione 
e  la  stampa  d'una  tale  opera  d'arte,  e  vorrà  ac- 
quistare una  copia  delle  non  molte  che  ci  riman- 
gono, le  quali,  stante  il  relativamente  mitissimo 
loro  prezzo,  saranno  fra  breve  completamente 
esaurite. 

La  raccolta  completa  della  !'  Quadriennale  ,, 
venti  fascicoli  in  tutto,  legata  in  rustico,  lire  otto 
franco  nel  Regno.  Chi  desidera  una  ricca  ed  ele- 
gante copertina  in  tela  ed  oro,  appositamente 
lavorata,  mandi  lire  2,50  in  più. 


Vili  CENTENARIO   DELLA    CONSOLATA. 

—  È  uscito,  edito  dalla  nostra  Casa  Editrice,  un 
elegante  fascicolo  NUipero  ùplco,  formato 
in-So  grande,  in  onore  ed  in  ricordo  delle  gran- 
diose Feste  per  l'Ottavo  Centenario  della  Con- 
solata di  Torino.'  In  esso,  con  numerosissime 
fotoincisioni  tratte  de  fotografie  istantanee,  sono 
riprodotte  vedute  del  Santuario  e  del  quadro 
miracoloso;  gruppi  di  pellegrini,  illuminazione, 
processione,  visite  principesche,  ritratti  di  Arci- 
vescovi e  d'Eminentissimi  Cardinali,  ecc.,  ecc. 
Inoltre  questo  I^Urpet-o  Ulrico  è  ricco  di  testo 
vario  ed  originale.  Non  crediamo  di  esagerare 
affermando  che  esso  è  il  più  bello  ed  elegante 
ricordo  delle  solenni  feste  che  in  occasione  del- 
l'Ottavo Centenario  della  Consolata  i  Torinesi 
decretarono  alla  loro  Madonna. 

Il  Numero  unico,  elegante  fascicolo  in  ot- 
tano grande,  con  numerosissime  illustrazioni, 
costa  soltanto  lire  0,50,  ed  è  spedito  franco  di 
porto  a  chi  ce  ne  invia  l'importo,  anche  in  fran- 
cobolli. 


*mBm:im 


142 


CRMDE  BIBLIOTECA  ROMANTICI  CIRCOLANTE 


10,000  Yolatr)i  italiai)i  m  fi^ai^cesi  h  ipotesi 


Il  sempre  crescente  successo,  che  è  premio  iperitato  alla  nostra  Grande 
Biblioteca  Circolante,  oltre  all'averci  dato  modo  di  accrescerla  di  molte  nuove 
opero  tutte  di  pi-ima  scolta,  portandola  cosi  alla  veramente  considerevole  cifra 
di  10.000  volumi,  ci  permise  pure  di  creare  un  nuovo  tipo  di  abbonamento,  con- 
venientissimo,  sempre  conservando  ogni  altra  condizione  indicata  nel  catalogo. 
Abbonamento  anmfalo   .     .     L.  22 

Semestrale »   12 

Trimosti-ale    , »     7  '     • 

Bimestrale ».  5 

Mensile »     2,50 

I  libri  che  compongono  la  nostra  Gran  Biblioteca  Circolante  sono  romanzi, 
racconti,  novelle,  memorie,  viaggi,  libri  di  scienza,  educativi,  ecc.,  così  italiani 
come  stranieri,  comprese  tutte  le  novità  che  tosto  vengono  messe  in  circolazione 
non  appena  pubblicate. 

Ogni  abbonato  ha  diritto  a  sei  volumi  per  volta,  e  può  cambiarli  a  volontà, 
anche  ogni  due  o  tre  giorni.  Il  catalogo  generale  di  tutte  lo  opere  costa  L.  0,80, 
e  lo  si  dà  in  dono  a  quanti  prendono  un  abbonamento  di  almeno  due  mesi. 

Per  gli  abbonati  fuori  Torino  sono  a  loro  carico  le  spese  di  andata  e 
ritorno  dei  libri.  Il  solito  deposito  è  di  lire  IO,  che*  verrà  restituito  al  termine 
dell'abbonamento.  Pagamento  anticipato. 


Per  le  borse  modeste  i  libri  costano  troppo.  Per  molti  lettori  un  libro  letto 
diventa  im  oggetto  inutile.  Dar  modo  ad  ognuno  di  leggere  molto  e  con  minima 
spesa  è  lo  scopo  della  suddetta  Grande  Biblioteca  Romantica  Circolante. 


INDICE 


Francesco  Pastonchi  — 
Sonetti 

Il  fiorire  del  pesco Pag-    5 

Il  giogo »  5 

L'offerta »  5 

X »  5 

Intervento  primaverile »  6 

Gandolin   — 

\j&.  macchina  per  volare  imonologol      .  »  6 

Agenore  smarrito »  S 

Luigi  Pirandello  — 

La  berretta  di  Padova     ..,....»  io 

Il  ventaglino »  14 

Giovanni  Cena  — 

La  morta »  16 

La  chioccia >■  iS 

Sansone »  18 

L'edificio »  18 

Carlo  Dadone  — 
F.  O.  L.   —  Fermo  in  posta  —  Torino 
Novella  comica »       19 

I.  M.  Palmarini  — 
Non  si  può  (Novelletta  comical    ...»       27 
La  stàtua    di  S.    Sebastiano      ....     »       29 

E.NRico  Thovez  — 

Ultimo  grido »  31 

Ribellione  .  " »  32 

Pace »  32 

Fausto  Villa  — 
Un  brano  di  un  romanzo  audace  .     .     .     ».  32 

Enrico  Corradini  — 
L'ultima  notte  di  Sardanapalo      ...»       34 

Mario  Clarvv  — 

A  deu.x  jolies  femmes »       36 

I  cuori  ignoti »       36 

Lino  Ferriani  — 
La  donna  nella  famiglia  giudiziaria  .     .     »       37 

Arnaldo  Laiibertini  — 

In  ferrovia »       41 

Viceversa »       44 

Amilcare  Laurìa  — 
Un  ragazzo  dei  «  Mille  » »       49 

Antonio  Beltramelli  — 
Gli  uomini  rossi »      53 


Pasquale  De  Luca  — 
Gli  sposi PO'g-  58 

Emilio  Pinchia  — 
Sonetti  : 

Estasi  sante »       61 

L'automobile »       6t 

Primavera »       62 

Domenico  Tumiati  — 
Sciopero  in  salotto »       62 

Giulia  Daudet  — 

Le  bambole >       69 

Ciò    che  si  vede    attraverso    un  velo  di 

mussolina  bianca »       70 

Mario  Clarvy  — 

L'amant  cache »       72 

Troncp  soHngo »       72 

Ugo  De  Amicis  — 
Amore »       72 

Luigi  di  San  Gusto  — 
La  morte  di  Maurantonio «       75 

Arturo  Fo.\  — 
Tempo  sarà  che  giungami  novella    .     .     »       78 

Onorato  Fava  — 

Giocattoli ''  »       79 

Idillio  alato ~-  .  »       So 

Marco  Lessona  — 
Poesie  : 

In  quest'ora »       Si 

Fede  e  .scienza   . »       Si 

Ruscello  alpino »       Si 

Luciano  Zì-ccoli  — 
La  terza  volta »       82 

Ceccardo  Roccatagliata-Ceccardi  — 
Sonetti  : 

Luna  estiva »       86 

Il  pioppo »       86 

Estate  fuggitiva       »       86 

Corrispondenze »      86 

Giovanni  Diotallevi  — 
Senza  scarpe  (Novella) >^       87 

PrcK  — 
Nel  nido  della  quaglia »       90 

Massimo  Bontempelli  — 
Invernale »      92 


146 


INDICE  DELLE  BIOGRAFIE. 


Francesco  Pastonchi Pag-  97 

Gandolin »  9^ 

Luigi  Pirandello »  99 

Giovanni  Cena »  loo 

Carlo  Dadone »  loi 

I.  M.  Palmarini »  103 

Enrico  Thovez »  104 

Fausto  Villa »  105 

Enrico  Corradini »  106 

Mario  Clarvy »  107 

Lino  Ferriani »  107 

Arnaldo  Lambertini »  109 

Amilcare  Làuria »  no 

Antonio  Beltramelli »  iii 

Pasquale  De  Luca »  iia 

Emilio  Pinchia »  113 

Domenico' Tumiati »"  115 

Giulia  Daudet »  116 

Ugo  De  Amicis »  117 

Luigi  di  San  Giusto »  118 


Arturo  Foà Pag.  rao 

Onorato  Fava »  121 

Marco  Lessona »  123 

Luciano  Zùccoli »  124 

Ceccardo  Roccatagliata-Ceccardi       .     .  »  125 

Giovanni  Diotallevi »  126 

Puck    .     .       .     , »  127 

Massimo  Bontempelli «128 

Efisio  Giglio-Tos »  129 

Mantea »  130 

Padre  Ilario  Rinieri »  131 

Francesco  Stura      ....          ...»  133 

R.  de  Lysle »"  135 

Teodoro  Gatti »  137 

Angelo  Brofferio »  13S 

Altre  opere  scelte        »  139 


Grande  Biblioteca  romantica  circolante  . 


4.204 

A9N8 


La  Nuova  fioritura 


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