Skip to main content

Full text of "La poesia astrologica nel quattrocento, ricerche e studi"

See other formats


Hi«" 


S(b£>^G»i? 


BENEDETTO  SOLDATI 


LA  POESIA  ASTROLOGICA 


NEL  QUATTROCENTO 


RICERCHE  E  STUDI 


IN  FIRENZE 
G.  C.  SANSONI,  EDITORE 

1901) 


PKOritlETA    I  ETTKKA1J1A 


Firenze,  Stali.  Q.  CT»m— chi  e  figli  -  Piazza  Mentii na 


A  MIA  MADRE 


INDICE 


Pkkkazione Yag.  vii 

Introduzione 1 

Capitolo     I.  —  Basinio  da  Parma 74 

»         II.   —  Lorenzo  Bonincontri  da  San  Miniato 105 

III.  —  I  due  poemi  del  Bonincontri lr>4 

IV.  —  Giovanni  Pontano  e  la  confutazione  del  Pico .     .         .199 
»           V.  —  I  poemetti  astrologici  del  Pontano 254 

Indici  dei  nomi  e  delle  cose  notevoli 315 


PREFAZIONE 


Parecchi  anni  fa,  mettendomi  a  studiare  la  figura 
poetica  del  Pontano,  alla  quale  mi  attirava  una  sin- 
golare ammirazione,  mi  proposi  tre  ordini  di  ricerche: 
la  ricostruzione  critica  del  testo  di  tutti  i  Carmi,  il 
commento  letterario  e  storico  delle  liriche,  l'illustra- 
zione estetica  e  scientifica  dei  poemetti  astrologici.  Al 
primo  proposito  diedi  già  compimento  con  l'edizione, 
condotta  sulle  stampe  originali  e  sugli  autografi,  ed 
uscita  per  i  tipi  del  Barbèra  nel  1902;  a  soddisfare  al 
secondo,  che  per  sua  natura  richiede  maggior  varietà 
e  difficoltà  pratica  d'indagini,  continuo  ad  attendere, 
quando  le  comodità  della  residenza  e  dei  libri  me  lo 
permettono,  senza  fretta  e  con  fiducia  di  vederne  forse 
presto  la  fine  ;  il  terzo,  in  origine  assai  più  modesto, 
mi  s'è  venuto  a  poco  a  poco  allargando,  approfondendo, 
si  che  n1  è  sorta  in  ultimo  la  presente  monografia. 

Alla  quale  sono  arrivato  quasi  senza  volerlo,  lascian- 
domi guidare  dalla  forza  oggettiva  dei  fatti  e  dei  do- 
cumenti, che  la  curiosità  critica  e  lo  scrupolo  di  veder 
chiaro  in  ogni  questione  nuova,  venivano  accumulando 
nelle  mie  carte.  Accadde  cosi  che  la  ricerca  degli  ante- 
cedenti di  quel  genere  poetico,  che  possiam  chiamare 
astrologico,  cioè  dei  primi  anelli  di  quella  catena,  della 
quale  il  Pontano  rappresenta  l'estremità  a  noi  più  vi- 


Vili  PREFAZIONE 

cina,  mi  rivelasse,  tratte  dalla  penombra,  le  figure 
del  Basini  e  del  Bonincontri  ;  onde  la  necessità  di  stu- 
diare, uno  per  uno,  questi  scrittori,  mettendoli  nel 
rilievo  corrispondente  al  merito  delle  loro  opere,  rites- 
sendone, ov'era  troppo  oscura,  la  biografia,  come  av- 
venne per  l'astrologo  miniatese,  e  ricercandone  i  reci- 
proci nessi  e  le  differenze.  Né  questo  soltanto;  ma  l'in- 
terpretazione dottrinale  dei  due  poemetti  pontaniani. 
e  degli  altri  ad  essi  contemporanei,  mi  rese  indispen- 
sabile la  conoscenza  diretta  ed  estesa  del  problema 
astrologico,  non  solo  ne'  suoi  rapporti  con  la  lettera- 
tura, ma  in  sé,  cioè  dal  punto  di  vista  filosofico  e  re- 
ligioso; onde  anche  qui  il  bisogno  di  addentrarmi  nello 
studio  di  apologie,  confutazioni  e  controversie,  prima 
per  importanza  quella  suscitata  da  Giovanni  Pico  della 
Mirandola.  Inoltre  la  rigogliosa  fioritura  dell'astrologia 
e  della  poesia  didascalica  nel  secolo  dei  miei  autori, 
voleva  pure,  in  una  introduzione  un  pò1  larga,  la  sua 
giustificazione  storica  ed  ideale:  storica,  con  Tesarne 
dell'ambiente;  ideale,  con  la  rievocazione  della  scienza 
e  della  poesia  del  cielo  classica  e  del  Medio  evo,  delle 
quali  queste  dei  nostri  umanisti  furono,  ad  ora  ad  ora, 
continuazione,  copia  o  svolgimento.  Orbene,  da  tutte 
codeste  necessità  mi  fu,  senza  sforzo,  suggerito  il  nuovo 
assetto  del  libro,  dove  ciascuna  questione,  ciascuna 
faccia  del  tema,  ciascun  gruppo  di  notizie  trovasse  lo 
spazio  a  sé  conveniente,  e  conferisse,  senza  aduggiarla. 
all'economia  generale  dell'opera,  di  cui  Y  Urania  e  le 
Meteore  non  fosser  più  il  centro,  ma  una  parte  soltanto. 
La  concezione,  come  si  vede,  fu  dunque  spontanea, 
e  per  questo  ho  voluto  ricordarla,  intendendo  cosi  di 
esporre  anche  il  metodo  che  ne  diresse  l'esecuzione:  me- 
todo analitico  solo  in  alcuni  particolari,  ma  nel  coordi- 
namento e  nel  fine  essenzialmente  sintetico.  Il  quale 


PREFAZIONE  IX 

perciò  presupporrà  un'analisi  esauriente  ed  una  com- 
piutezza di  ricerche,  a  cui  nessuna  deficienza  possa  rim- 
proverarsi? Presumer  tanto,  soprattutto  in  un  campo, 
come  il  nostro,  prima  in  gran  parte  inesplorato,  sa- 
rebbe superbia  e  forse  stoltezza,  né  io  pretendo  chiuder 
l'adito  a  nuovi  studi  sul  medesimo  tema.  Anzi  voglio 
io  stesso  additare  una  omissione,  doverosa  e  volontaria, 
e  richiamar  su  di  essa  l'attenzione  dei  competenti,  cioè 
degli  scienziati.  Giacché  si  tratta  appunto  del  valore 
matematico  ed  astronomico  dei  poemi  da  me  veduti, 
che  io  non  seppi,  e  perciò  non  volli,  toccare,  ma  che 
con  tutta  probabilità  darebbe  materia  d'un  bel  saggio 
a  chi,  servendosi  delle  mie  fatiche  bibliografiche,  con 
piccolo  incomodo  volesse  tentarne  la  prova.  Raccogliendo 
l'invito,  egli  porterebbe  un  contributo  notevole  alla  sto- 
ria del  nostro  Rinascimento,  illustrandone  la  coltura 
scientifica,  non  ancor  tutta  nota  o  bene  apprezzata. 

Un  contributo  intanto  a  codesta  storia,  sotto  altro 
punto  di  vista,  è  pur  questo  mio  scritto,  il  quale  perciò 
ebbe  cortese  accoglienza  nella  Biblioteca  che  il  prof.  F. 
P.  Luiso  dirige  con  tanto  amore,  e  la  Casa  Sansoni  pub- 
blica con  tanto  vantaggio  degli  studi.  All'  una  e  all'  al- 
tro vadano  i  miei  ringraziamenti  sinceri. 

Messina,  luglio  1905. 

B.  S. 


INTRODUZIONE 


I.  Importanza  del  tema  e  limiti  del  presente  lavoro.  —  II.  In  grazia  di  quali 
elementi  suoi  costitutivi  il  genere  didascalico-astrologico  possa  avere  un  valore 
estetico.  —  III.  Breve  storia  della  poesia  del  cielo  nell'  antichità  classica  e  nel 
Medio  evo:  il  primo  periodo  o  periodo  astronomico  arateo.  —  IV.-I1  secondo  pe- 
riodo astrologico  maniliano.  —  V.  Il  terzo  periodo  cristiano  medioevale. 


Leggansi  il  Burckhardt,  il  Voigt,  il  Rossi,  il  Monnier,  o 
qualsiasi  altro  libro  che  abbracci  in  un  solo  sguardo,  con  le 
molteplici  espressioni  della  civiltà  della  Rinascita,  i  prodotti 
letterari  del  Quattrocento,  e  si  vedrà  di  leggieri  quanto  nume- 
rosi siano  in  quel  secolo,  e  specialmente  verso  la  fine  di  esso,  i 
poemi  didattici,  e  soprattutto  quelli  che  sogliamo  chiamare  di- 
dattico-scientifici  ;  poemi,  dei  quali  si  ebbe  una  bella  fioritura, 
in  continuazione  diretta  di  questa  accennata,  anche  nella  prima 
metà  del  Cinquecento.  Si  vedrà  pure  che  ad  essi  non  fa  difetto 
la  varietà  del  contenuto,  ora  assai  comprensivo,  ora  ristretto  a 
questa  o  a  quella  scienza,  a  questa  o  a  quell'arte.  Apparten- 
gono quasi  tutti  a  poeti  umanisti  e  sono  scritti  in  latino:  circo- 
stanza essenziale,  vincolo  che  li  unisce  meglio  in  un  sol  genere 
e  ne  rende  la  presenza  storicamente  notevole.  Questa  infatti  ci 
prova  che  al  grande  rinnovamento  del  secolo  decimoquinto  prese 
parte  diretta  quella  poesia  umanistica,  che  a  torto  riteniamo 
superficiale,  per  quanto  sovraccarica  d' ornamenti  rettorici,  fa- 
cendosi divulgatrice  del  sapere,  fosse  questo  realmente  scien- 
tifico, oppur  tale  allora  venisse  créduto.  Il  gran  numero  e  il 
valore  dei  poemi  didattici,  a  scrivere  i  quali  l'umanista  fon- 
deva insieme,  non  sempre,  è  vero,  ma  piò  di  una  volta  fe- 
licemente, la  sua  doppia  qualità  di. filosofo  e  di  artista  della 

Soldati  1 


2  INTRODUZIONE 

parola,  ci  rivelano  vie  meglio  la  reale  natura  degli  studi  e 
degli  sforzi  di  quella  età,  che  fu  nello  stesso  tempo  di  tran- 
sizione e  di  fiore.  Attraverso  a  quegli  esametri  lucreziani  scor- 
giamo spesso  due  tendenze  dello  spirito,  proprie  l'ima  e  l'ul- 
tra del  Rinascimento:  la  ricerca  del  vero  e  quella  del  bello. 
del  vero  nel  contenuto  dottrinale,  del  bello  nella  forma  poe- 
tica. Allo  stesso  modo,  nel  campo  dell'arte,  Leonardo  da  Vinci 
non  sapeva  concepire  la  pittura  e  la  scultura  se  non  come 
l'espressione  bella  e  sensibile  d'un  vero,  ch'egli  andava  stu- 
diosamente ricercando  per  via  d'esperienze  e  di  meditazioni.  ' 
Ora  è  strano  in  verità  il  constatare  che  la  critica  sembra 
essersi  dimenticata  di  studiare  con  quell'adeguata  larghezza, 
che  l'importanza  del  tema  richiede,  codesta  poesia  didattica 
del  Rinascimento.  Pare  che  quest'  angolo  del  grande  campo 
umanistico  sia  rimasto  inavvertitamente  incolto,  onde  pre- 
senta a  chi  lo  osservi  passando  un  aspetto  non  molto  dissimile 
dal  manzoniano  orticello  di  Renzo.  Perciò  io  mi  son  provato, 
con  queste  indagini,  a  trarne  quei  frutti,  che  da  molti  indizi, 
anche  ad  un  primo  assaggio,  prometteva:  non  affrontando  tut- 
tavia il  lavoro  intero,  mi  sono  assunto  di  esso  la  parte  princi- 
pale. Nel  genere  didascalico  ho  segnato  dei  limiti  interni,  sce- 
verando dal  rimanente  una  porzione,  che  ho  intitolata  della 
poesia  astrologica  ;  ed  in  questa  porzione  ho  approfondito,  per 
quanto  le  forze  ed  il  tempo  me  l'hanno  concesso,  le  ricerche 
e  gli  studi  comparativi.  Sotto  il  nome  unico  di  poesia  astro- 
logica ho  compreso  tutta  la  poesia,  in  parte  edita,  in  molta 
parte  inedita  che  nacque  dall'astrologia  giudiziaria  non  solo, 
ma  anche  dall'astronomia  e  dalla  meteorologia,  e  ciò  non  per 
un  arbitrio,  ma  perché  effettivamente,  al  tempo  cui  mi  riferi- 
sco, anche  l' astronomia  e  la  meteorologia  orano  considerate  e 
trattate  come  immediatamente  dipendenti  dal  principio  astro- 
logico, e  la  poesia  che  di  esse  si  nutriva  ben  meritava  quindi 


1  B.  Croce,  Estetica,  Milano,  Palermo,  Napoli,  1902,  p.  1-7,   riportando 
un  giudizio  del  Bohinski,  Poet.  d.  Renaiss.,  p,  86,  intorno  ali»'  teoriche 
tiche  e  letterarie  del  Rinascimento,  che  può  giovare  alle  nostre  atìVrmazioni. 
«lice  che  e  il  Hi  nascimento  a  ragione  non  distingueva  tra  i  generi  «li  p 
la  poesia  didascalica,  giacche,  per  esso,  ogni  poesia  era  sempre  didascalici  ft. 


INTRODUZIONE  3 

questo  nome.  Perché  poi  io  abbia  scelto  questa  porzione  della 
poesia  didattica  a  preferenza  di  qualunque  altra,  ecco  ciò  che 
dimostrerà  il  mio  lavoro,  e  che  in  poche  parole  si  può  fin  d'ora 
preannunziare. 

La  storia  delle  scienze  e'  insegna  che  prima  della  chimica 
e  della  fisica,  prima  delle  altre  discipline  naturali,  si  è  ma- 
turata la  scienza  del  cielo  ;  e  non  a  caso,  cioè  per  una  fortuita 
grande  scoperta,  ma  per  l'intensità,  con  la  quale  il  problema 
astronomico  venne  indagato  in  tutti  i  suoi  punti  dagli  studiosi. 
Il  lavorio  delle  menti  intorno  ai  misteri  dell'  universo  e  della 
sfera  celeste,  a  non  tener  conto  dell'età  classica,  data  dal  pe- 
riodo arabico,  e  va  crescendo  di  estensione  e  di  alacrità  nel- 
l'Occidente durante  il  secolo  decimoterzo  e  il  decimoquarto; 
nel  decimoquinto  e  decimosesto  raggiunge  la  sua  massima  po- 
tenza e  nello  stesso  tempo  conquista,  perseverando,  quella  ipo- 
tesi fondamentale,  che  da  sola  crea  la  scienza  del  periodo  mo- 
derno. La  scoperta  copernicana  costituisce  il  frutto  del  Rina- 
scimento nel  campo  astronomico;  fatto  che  non  bisogna  dimen- 
ticare, perché  è  per  noi  una  riprova  del  favore  che  gli  studi 
astronomici  ebbero  in  quel  tempo,  quando  il  dedicarsi  ad  essi 
rappresentava  al  cospetto  delle  persone  colte  un  titolo  emi- 
nente di  gloria:  e  per  il  concetto  elevato  che  delle  difficoltà 
della  scienza,  allora,  al  pari  di  oggi,  si  aveva;  e  per  effetto 
della  tradizione  classica,  consacrata  in  un  celebre  giudizio 
virgiliano,  che  ricantava  felice  lo  scrutatore  degli  arcani  della 
Natura;  infine  per  il  mistero  che  circondava  ogni  astronomo, 
in  cui  si  riconoscessero  la  dottrina  e  la  pratica  dell'  astrologia 
giudiziaria.  L'importanza  morale  dell'astrologia  non  credo  in- 
fatti sia  mai  stata  cosi  grande,  neanche  in  pieno  Medio  evo, 
come  nel  secolo  decimoquinto,  specialmente  in  Italia,  dove  il 
risveglio  degli  studi  sopra  accennati  fu  pure  più  intenso.  Niuna 
meraviglia  quindi  che  una  poesia,  la  quale  facesse  tema  della 
propria  ispirazione  una  dottrina  cosi  universalmente  coltivata 
estimata,  assumesse  capitale  importanza;  importanza  che  gli 
stessi  fatti  letterari,  che  ne  derivarono,  valgono,  come  la  più 
bella  prova,  a  dimostrare.  Invero  il  numero  dei  poemi  astro- 
logici, messo  in  confronto  con  quello  delle  opere  poetiche  dida- 


4  INTRODUZIONE 

scaliche  d'altra  contenenza,  si  mostra  non  di  poco  sui>eriore: 
son  cinque  poemetti,  due  dei  quali,  come  esporrò  a  suo  luogo, 
di  non  piccola  mole.  Ma  di  tutto  ciò  dirò  con  la  dovuta  lar- 
ghezza nel  corso  del  lavoro,  pago  perora  d'aver  indicato,  in 
due  parole,  il  grado  d'opportunità  ed  il  valore  dell'argomento, 
a  cui  mi  sono  rivolto. 

Però  avanti  di  entrare,  come  si  suol  dire,  nel  cuore  della 
trattazione,  mi  conviene  insistere  ancora  per  poche  pagine  sopra 
due  questioni  d'ordine  generale,  onde  rendere  più  spedito  il 
nostro  cammino.  E  prima  la  questione  estetica:  quali  rapporti, 
nei  poemi  scientifici  in  genere,  negli  astrologici  in  ispecie,  in- 
tercedono fra  la  scienza  e  l' arte,  fra  il  contenuto  scientifico  e 
la  forma  poetica?  In  secondo  luogo  sarà  indispensabile  uno 
sguardo  rapido  alla  storia  della  poesia  del  cielo  nei  secoli  che 
precedettero  il  decimoquinto,  sia  nell'intento  di  giovare  alla 
compiutezza  del  quadro,  che  mi  accingo  a  tratteggiare,  sia  per 
evitare  la  noia  di  troppo  estese  citazioni  quando  mi  toccherà 
di  stabilire  le  fonti  dei  poemi  o  dei  brani  di  poemi  studiati. 


II. 


Il  poema  astrologico,  cioè  quel  componimento  letterario  che 
l'antichità  e  il  Rinascimento  ci  tramandarono  con  questo  nome, 
nella  sua  più  semplice  espressione,  a  parte  i  versi,  somiglia 
assai  ad  un  trattato  d'astrologia.  Un  trattato  d* astrologia,  il 
quale  naturalmente  presuppone  nell'autore  la  cognizione,  per 
una  parte,  della  sua  scienza,  sia  che  di  essa  egli  taccia  pro- 
fessione, come  accadde  a  parecchi  degli  scrittori  di  cui  ter 
remo  discorso,  sia  che  ne  abbia  preso  notizia  in  una  data  oc- 
casione; per  l'altra  parte  poi  presuppone  l'intento  di  non 
arrestarsi  all'esposizione  nudamente  scientifica,  la  quale,  del 
resto,  se  condotta  in  forma  «  perfetta,  ordinata,  perspicua,  so- 
bria »,  *  già  a  rigor  di  termini  si  potrebbe  dire  artistica,  ma 

1  B.  Crock,  Antiestetica  e  antifiìosofia,  in  La  Critica,  Napoli.    190:1,  I, 
i\,  j>.  318.  Vedi  pure  dello  stesso  autore  Estetica,  cit.,  i».  88,  <•  K.  Bruta** 


INTRODUZIONE  5 

di  spingersi  ad  una  esposizione  ampliata,  a  cui  s'aggiunga 
alcunché  di  estraneo  al  puro  necessario.  In  questo  alcunché 
sta  appunto,  in  vario  grado,  la  poesia. 

Giacché  la  poesia  è  nell'  anima  umana,  ed  in  nessun  luogo 
all' infuori  di  essa  ;  la  poesia  è  la  vita  artistica  che  assume, 
attraverso  al  sentimento  nostro  che  le  cede  una  parte  di  sé, 
la  natura  interiore  ed  esteriore,  la  quale  nella  sua  realtà  og- 
gettiva ha  assoluta  mancanza  di  quel  calore,  di  quella  umanità, 
che  per  l'appunto  noi  siamo  abituati  a  chiamare  elemento  poe- 
tico. La  poesia  insomma  è  un'  aggiunta  nostra,  è  un  colorito 
che  noi  diamo  alla  natura,  ed  è  quindi  di  un  grado  più  avan- 
zata della  semplice  espressione  artistica.  Nel  caso  speciale 
del  poema  astrologico,  mentre  la  nuda  sobrietà  di  un  trattato 
può  esser  bella,  e  soddisfare  perciò  al  nostro  gusto  estetico, 
avremo  vera  poesia  solo  quando  l'autore-poeta  avrà  aggiunto 
alla  trattazione  oggettiva  qualche  elemento  soggettivo  forte- 
mente sentito.  Quell' alcunché,  quel  di  più  che  costituisce 
l'aggiunta  poetica,  nascerà  dunque  dal  contatto  dell'anima 
umana  col  fenomeno  fisico  osservato  o  pensato, 1  il  quale 
verrà  cosi  sottoposto  ad  un  processo,  che  potremo  chiamar 
umanizzatore. 

Ora  un  primo  modo  di  umanizzare  un  fenomeno  naturale 
è  quello  di  personificarlo:  cioè,  descrivendo  o  narrando,  sosti- 
tuire in  esso  all'azione  fisica  inconscia  un'azione  conscia  e 
morale.  È  questo  un  procedimento  assai  frequente,  che  possiamo 
notare  e  di  cui  è  facile  distinguere  diversi  gradi  di  sviluppo. 
Non  sempre  infatti  la  trasformazione  è  completa,  ma  a  volte 
è  appena  accennata  e  quasi  un  principio  di  essa;  come  si  può 
osservare,  per  via  d'esempio,  nei  seguenti  versi  di  Dante: 

Di  una  nuova  estetica,  Nota  dell'  Accademia  reale  delle  scienze  di  Torino, 
Torino,  1903,  p.  14. 

1  Non  credo  sia  necessario  insistere  sul  fatto  che  il  fenomeno  naturale 
può  diventar  poesia  anche  se  non  è  percepito  direttamente  dal  poeta,  ma 
a  lui  perviene  attraverso  l'ammaestramento  della  scienza.  Perciò  ho  detto 
che  il  contatto  può  avvenire  sia  con  l'osservazione,  sia  con  la  meditazione. 
Di  certi  fenomeni  astronomici  infatti  noi  non  possiamo  aver  conoscenza 
se  non  per  mezzo  dei  calcoli;  né  essi  sono  per  questo  meno  adatti  ad  ispirar 
poesia. 


6  INTRODUZIONE 

Quando  colui  che  tutto  il  mondo  alluma 
Dell'  emisperio  nostro  si  discende, 
Che  il  giorno  d'ogni  parte  si  consuma, 

Lo  ciel  che  sol  di  lui  prima  s'accende, 
Subitamente  si  rifa  parvente 
Per  molte  luci,  in  che  una  risplende.  l 

In  questa  descrizione  la  figura  umana  del  Sole,  del  cielo,  delle 
stelle  la  s'intravede  singolarmente  nell'uso  dei  verbi  riflessivi, 
i  quali  sembrano  presupporre  una  certa  coscienza  dell* agire 
proprio;  ma  ancora  è  senza  contorni  e  sbiadita.  Non  è  più  tale, 
bensì  piena,  esuberante  di  vita,  nell'altra  mirabile  similitudine  : 

Quale  nei  plenilunii  sereni 
Trivia  ride  tra  le  ninfe  eterne, 
Che  dipingono  il  ciel  per  tutti  i  seni. 8 

Oh,  qui  la  poesia  trionfa!  qui  un  corpo  celeste,  per  effetto 
della  sua  apparenza  suggestiva  nelle  notti  sgombre  di  nubi, 
è  concepito  e  descritto  dal  poeta  come  persona,  come  dea,  nel- 
l'atto  essenzialmente  umano  del  riso,  e  gli  astri  come  ninfe 
nell'atto  di  dipingere,  di  adornare  dei  loro  fuochi  in  ogni  seno, 
in  ogni  plaga  il  firmamento. 

Però  si  può  andare  più  avanti,  e  scoprire  un  processo  di 
umanizzazione  più  profondo  ancora,  per  la  prevalenza  esclu- 
siva dell'elemento  morale.  Si  può,  ad  esempio,  osservare  in  clic 
modo  un  poeta  abbia  saputo  dar  aspetto  sentimentale  alla  le 
fisica  dell'attrazione  e  repulsione  magnetica,  legge  che  scien- 
tificamente si  suol  rappresentare  per  mezzo  di  formule  nume- 
riche. Questo  poeta  —  ci  sia  permesso  un  salto  alquanto  ardito 
dopo  le  citazioni  dantesche  —  è  lo  Chénier,  al  quale  appar- 
tiene il  verso  : 

Les  èlèments  divers,  leur  haine,  leur  amour.  3 

Non  dunque  rapporti  fisici  fra  i  corpi,  ma  odio  e  amore,  sen- 
timenti dell' anima  nostra. 

1  Paradiso,  xx,  1. 
*  Paradiso,  xxm,  26. 

1  Nei  frammenti  ih'.W Hermes,  in  Oiuvres  poétiqiies  rf'A.  Ch.,  Paris,  18T8, 
tome  2». 


INTRODUZIONE  7 

Giunti  a  questo  grado,  non  è  più  arduo  il  passo  dalla  uma- 
nizzazione parziale  e  frammentaria  alla  umanizzazione  com- 
pleta, dalla  mistura  d'umano  e  di  fisico  alla  metamorfosi  del 
fisico  in  umano,  allo  svolgersi  insomma  del  mito  su  dal  feno- 
meno naturale. 

I  miti  si  formano  presso  i  popoli  primitivi,  e  segnano 
nella  coscienza  di  essi  l'abbandono  della  vita  selvaggia  per 
un  principio  di  civiltà:  ciò  avviene  quando  l'uomo  sorpassa 
lo  stato  di  adorazione  delle  forze  brute  della  natura  per  una 
religione  naturalistica  bensì,  ma  più  gentile  e  più  evoluta,  nella 
quale  gli  dèi  si  individuano  e  fissano  nelle  creazioni  antropo- 
morfe. I  miti  nascono  dal  contatto  della  natura  con  l'anima 
vergine  dei  popoli  giovani,  sono  il  prodotto  d'un  inconscio  pro- 
cesso poetico,  cioè  creatore,  e  ritraggono  perciò  fin  dall'ori- 
gine un  profondo  significato  morale. 

Ho  detto  che  i  miti  germogliano  dai  fenomeni  fisici  :  pa- 
recchi di  essi  hanno  il  loro  fondamento  nei  fenomeni  del  cielo, 
e  questi  cadono  perciò  nel  dominio  della  poesia  astronomica. 
Tali,  molti  degli  dèi  della  mitologia  greca  e  romana,  se  non 
nella  loro  forma  più  svolta  e  corrotta,  certo  nelle  linee  primi- 
tive :  lo  Zeus  greco,  Apolline,  Artemide,  e  tra  i  romani  l' antico 
Marte  Lucerio. l  Appartengono  ancora  alla  mitologia  celeste 
alcune  favole,  che  si  mantennero  nella  poesia  classica  fino  a 
tempi  assai  tardi,  riprodotte  anche  quando  il  loro  vero  signi- 
ficato non  era  più  compreso  a  dovere:  ricordo,  per  citare  un 
esempio,  quello  che  comunemente  si  chiama  il  mito  della  Ver- 
gine, nella  sua  fase  più  antica,  che  troviamo  in  Esiodo,  e  che 
più  avanti  io  avrò  occasione  di  citare  per  disteso,  traducendolo 
dal  greco  di  Arato.  Alla  vergine  Giustizia  gli  uomini  dell'età 
dell'oro  prestavano  un  culto  devoto,  in  ringraziamento  dei  be- 
nefizi che  da  lei  continuamente  riceveano.  Ma  quando  soprag- 
giunse l'età  dell'argento,  e  l'umanità  cominciò  a  scordarsi 
della  semplice  legge  di  natura  per  correr  dietro  ai  primi  vizi, 
forieri  della  civiltà  e  del  dolore,  la  Diche  severa  si  andò  da 


1  Importanti  osservazioni  intorno  a  quest'  argomento,  con  richiami  agli 
studi  più  recenti,  v.  in  Cablo  Pascal,  Dèi  e  Diavoli,  Firenze,  1904,  p.  61  sgg. 


8  INTRODUZIONE 

essi  allontanando;  finché  con  gli  nomini  dell'età  bronzea  la 
semplice  Dea  non  ebbe  più  contatto  e  rimase  dove  la  corru- 
zione non  era  creduta  possibile,  in  cielo,  fatta  una  sola  cosa 
con  la  costellazione  della  Vergine.  È  questa  —  chi  non  la 
riconosce  ?  —  la  concezione  idealistica  della  felicità  ottenuta 
per  mezzo  della  vita  di  natura,  l'idea  che  in  tempi  molto  più 
recenti  fece  tanto  rumore  nei  libri  del  Rousseau:  mito  comune 
a  tutte  le  genti  primitive,  che  nasconde  una  verità,  o  almeno 
una  radicata  credenza  del  popolo;  i  cui  legami  con  la  scienza 
del  cielo,  per  quanto  lenti  o  anche  mascherati,  non  son  meno 
visibili,  specialmente  nella  chiusa  del  racconto.1 

Appartiene  finalmente  alla  mitologia  del  cielo,  sia  nella 
forma  teologica,  sia  in  quella  propriamente  astrologica,  buona 
parte  della  demonologia  ebraico-cristiana,  le  cui  cica/ioni  tro- 
viamo nel  Genesi  da  prima,  poscia  nei  Padri,  ed  essenzialmente 
nella  fantasia  popolare  dei  secoli  di  mezzo.  Nella  Bibbia,  al 
creatore,  per  usare  una  frase  dantesca,  vengono  attribuiti  «  e 
piedi  e  mani  »:  a  lui  si  affida  «  il  sesto  »  ch'egli  «  volge  al- 
l'estremo del  mondo  »;  nei  Padri  la  sfera  tolemaica  è  popolata 
di  gerarchie  di  spiriti  motori,  di  creature  celesti,  la  cui  natura 
sovrumana  arieggia  assai  le  divinità  planetarie  del  pagane- 
simo. 2 

Ecco  dunque  come  avviene  il  massimo  e  più  perfetto  grado 
di  umanizzazione  del  fenomeno  fisico  reale,  o  come  tale  per- 
cepito dagli  uomini  ;  ecco  come  lo  scienziato-poeta  —  in  que- 
sto caso  scienziato  è  anche  il  popolo,  come  altre  volte  è  sto- 
rico, senza  saperlo  —  può  esprimere  poeticamente  la  scienza. 
Ed  ecco  come  si  venne  formando  quello,  che  io  oso  chiama  ri- 
ciclo epico  del  cielo,  il  ciclo  cioè  delle  favole  ricollegantisi 
con  le  diverse  parti  della  sfera,  cioè  coi  pianeti,  con  le  costel- 
lazioni e  coi  segni  dello  Zodiaco. 

A  questo  proposito  tuttavia  non  mi  è  lecito  omettere  un'  os- 
servazione di  capitale  importanza.  Me  ne  porge  il  destro  un 
giudizio,  al  solito,  acuto,  del  Fraccaroli,  il  quale  in  un  suo  re* 

1  L.  Preller,  Qriechischc  My  litologie,  Berlin,  1872,  I,  p.  67-68. 
*  L.  F.  Alfred  Maurt,  La  magie  et  l'astrologie  Hans  V  antiqui  tr  et  au 
moyen  àge,  Paris,  1877,  hitroduction,  j». 


INTRODUZIONE  9 

cente  volume  scrive,  fra  le  altre,  queste  giuste  parole:  «  I 
miti  delle  antiche  religioni  non  sono  già  favole  assurde 
combinate  insieme  da  fantasie  pazze  e  sbrigliate,  ma  hanno 
spesso  significato  profondo  ;  comecché  per  altro  molte  sotti- 
gliezze che  la  critica  vi  volle  scoprire  sieno  invece  esse  dei 
parti  di 'menti  inferme.  Né  certo  cotesti  miti  sono  invenzioni 
di  filosofi  e  di  pensatori,  i  quali  anzi,  quando  vi  posero  mano 
per  emendarli,  li  guastarono;  ne  del  significato  loro  fu  consa- 
pevole il  popolo  che  li  creò  e  li  tramandò  ;  né  senza  di  questo 
contenuto,  ignoto  alla  coscienza,  ma  consentaneo  alla  natura, 
avrebbero  ottenuto  credibilità  o  diffusione».1  Inconscia  dun- 
que e  perciò  appunto  naturale  e  profondamente  umana  è  l'ori- 
gine della  mitologia  primitiva,  da  cui  vanno  distinte  le  ag- 
giunte dei  mitografi  di  età  progredite,  ai  quali  la  riflessione 
bendò  gli  occhi  per  modo,  che  dal  soverchio  ragionare  furono 
condotti  all'assurdo.  E  purtroppo  la  maggior  parte  delle  nar- 
razioni che  infiorano  o  sovraccaricano  i  poemi  astrologici, 
opera  di  scrittori  eruditi,  si  ribellano  a  qualsiasi  spiegazione 
naturale,  né  sono  altro  se  non  dei  racconti  romanzeschi  più  o 
men  dilettevoli  ;  nulla  in  esse  che  ci  riveli  un  substrato  fisico, 
nulla  che  ci  riconduca  a  una  fonte  veramente  astrologica. 
Ricordo,  come  saggio,  la  redazione  meno  antica  del  mito  della 
Vergine,  quale  si  legge  negli  scrittori  della  decadenza  greca 
e  dell'età  romana,  in  Igino  per  esempio.  —  Icario,  errando  per 
la  Grecia  a  fine  di  ammaestrare  gli  uomini  nell'agricoltura, 
fu  dall'  ingratitudine  loro  ucciso  barbaramente.  Allora  la  figlia 
sua,  la  vergine  Erigone,  guidata  dal  cane  fedele,  si  mise  alla 
ricerca  del  padre,  ne  scoperse  il  cadavere  e,  sopraffatta  dal 
dolore,  si  appiccò  ai  rami  d'  un  albero,  sulla  sepoltura  paterna  : 
Giove  impietosito  la  trasportò  nel  firmamento  e  fece  di  lei  il 
sesto  segno  dello  Zodiaco.  —  Quando  la  mitologia  del  cielo  è 
ridotta  a  questo,  diventa  una  superfetazione  dannosa,  i  cui 
pregi  artistici,  che  pur  molte  volte  non  mancano  nei  poemi 
astronomici,  sono  affatto  estranei  a  quella,  che  potremo  dire 
natura  intima  dell'opera. 

1  G.  Fkaccaeoli,  L'irrazionale  nella  letteratura,  Torino,  1903,  p.  62. 


10  INTRODUZIONE 

Ma  busti  del  primo  modo  di  mutare  in  poesia  l'oggetto  della 
scienza.  Accanto  ad  esso,  che  ho  chiamato  forma  epica,  un  altro 
ne  esiste  a  cui  conviene  il  nome  di  lirica,  ed  ha  carattere  assai 
diverso  dal  primo.  Giacché  mentre  per  questo  il  fenomeno  fisico 
si  umanizza  e  campeggia,  per  il  secondo  il  fenomeno  non  ha 
importanza  diretta,  e  l'attenzione  tutta  converge  sulla  descri- 
zione dei  moti  psicologici,  che  dal  fenomeno  furono  suscitati 
nel  nostro  interno.  In  questo  secondo  caso,  che  è  assai  meno 
primitivo  e  presuppone  una  coscienza  filosofica,  il  poeta  eser- 
cita sullo  spirito  proprio,  o  su  quello  collettivo  del  popolo  io 
mezzo  a  cui  vive,  un'  analisi,  che  poi  espone  nella  concitazione 
della  sua  poesia.  Del  qual  processo  abbiamo  un'aperta  con- 
fessione dello  Zanella,  autore,  come  tutti  sappiamo,  di  belle 
liriche  scientifiche,  nei  termini  seguenti:  «  ....  non  è  già  1 
getto  della  scienza,  che  mi  paresse  capace  di  poesia;  bensi  i 
sentimenti,  che  dalle  scoperte  della  scienza  nascono  in  noi.  Per 
questo  io  non  ho  mai  posto  mano  ad  uno  di  questi  sog^ 
che  prima  non  avessi  trovato  modo  di  farvi  campeggiare  V  nonni 
e  le  sue  passioni,  senza  cui  la  poesia,  per  ricca  che  sia  d'im- 
magini, e  senza  vita  ».• 

Abbondare  in  citazioni  allo  scopo  di  provar  con  esempì  una 
simile  verità,  mi  sembra  inutile;  basterà  solo  ricordare  che  a 
seconda  della  concezione  filosofica,  che  il  poeta  s'  è  fatta  del 
mondo  e  dell'  uomo,  varia  non  già  il  grado,  ma  la  qualità  dei 
sentimenti  espressi.  Cosi  a  Manilio  il  pensiero  stoico,  nel  quale 
il  fato,  e  quindi  l' immutabilità  delle  cose  eterne  e  degli  dèi, 
han  tanta  parte,  suggerisce  l'amara  riflessione  della  fugacità  e 
pochezza  delle  cose  terrene  : 

Iam  tam,  cam  Graiae  verterunt  Pergama  gentes, 
Arctos  et  Orion  adversis  froutibus  ibant; 
Haec  contenta  suos  in  vertice  flectere  gyros, 
Ille  ex  diverso  vertentem  surgere  coutra 
Obvius,  et  toto  semper  decurrere  mando; 
Temporaque  obscurae  noctis  deprendere  signis 

1  Nell.i  prefazione  dei  Versi,  Firenze,  1868.  Il  pauso  ò  citato  e  co  min  «mi  - 
tato  da  K.  Stampini,  a  p.  l'i  del  suo  studio   su    Isti  lirica  scientifica  <!■ 
licgaldi,   Torino,  1880. 


INTRODUZIONE  11 

Iam  poteraut,  caelumque  suas  distinxerat  horas. 
Quot  post  excidium  Troiae  sunt  eruta  regna? 
Quot  capti  populi  ?  quotiens  Fortuna  per  orbem 
Servìtium  imperiumque  tulit  varieque  revertit  ?  l 

A  Dante  un  pensiero  non  molto  dissimile  2  deriva  da  quella 
vena  di  pessimismo  che,  in  rapporto  alle  cose  terrene,  serpeg- 
gia anche  nel  cristianesimo;  al  Leopardi  la  sconsolata  filoso- 
fia detta  le  terribili  conclusioni  della  Ginestra.  3  Mentre  in 
altri  poeti  una  corrente  di  pensiero  diversa  suscita  sentimenti 
opposti;  come,  ad  esempio,  nello  Chénier,  già  ricordato,  l'età 
entusiastica  degli  Enciclopedisti,  il  secolo  dei  lumi,  desta  una 
strana  esaltazione  dello  spirito  umano,  vincitore  dei  misteri  del- 
l'universo: 

Feconde  immensité,  les  esprits  magnanimes 
Aiment  à  se  plonger  dans  tes  vivants  abìmes, 
Abìmes  de  clartés,  où,  libre  de  ses  fers, 
L'nomme  siége  au  conseil  qui  créa  l' univers  ; 
Où  l'àme  remontant  à  sa  grande  origine, 
Sent  qu'elle  est  une  part  de  l'essence  divine.  * 

Un  pensiero  simile  è  nella  chiusa  dell'  ode  del  Monti  al  Mont- 
golfier. 

Bimane  da  esaminare  un  ultimo  punto  inesplorato:  quale 
parte  nella  creazione  degli  elementi  poetici  abbia  avuto  l'astro- 
logia giudiziaria  in  quanto  essa  era  scienza  dei  giudizi  e  delle 
predizioni.  Darò  meglio  in  seguito  un'  idea  particolareggiata 
intorno  alla  dottrina  e  alla  pratica  astrologica,  spiegando  il 
significato  di  alcuni  vocaboli,  che  furono  d' uso  comune,  come 
pronostico,  genitura,  oroscopo  e  simili  ;  qui  basti  ricordare  una 
delle  capitali  teorie,  la  quale  insegnava  come  all'atto  della 
nascita  —  secondo  alcuni,  anzi,  della  concezione  —  di  ogni 
uomo,  la  figurazione  del  cielo,  cioè  i  rapporti  delle  posizioni 
dei  pianeti  rispetto  alle  grandi  linee  del  quadrante  ed  alle 
costellazioni,  segnatamente  a  quelle  dello  Zodiaco  —  figurazione 
che  prendeva  appunto  il  nome  di  genitura  —  imprimesse  nella 

1  M.  Minili  Astronotnicon  recensuit  F.  Jacob.  Berolini,  1846,  I,  601  sgg. 

4  Paradiso,  xxn,  133  sgg. 

3  Nota  della  Ginestra  specialmente  i  yv.  157-202. 

*  In  un  frammento  del  poema  VAtnerique,  in  op.  cit.,  tome  2°,  p.  128. 


12  INTRODUZIONE 

costituzione  fisica  del  nascituro  o  del  nascente  un  detenni  nato 
temperamento  dei  famosi  quattro  umori  ippocratei.  Ora  è  noto 
come  col  variare  dei  temperamenti  si  ritenessero  variabili,  e 
non  a  torto,  gli  stati  morali  —  ora  si  direbbero  i  quadri  pai 
chici  —  delle  persone;  ma  tutti  sappiamo  che  dall'accosta- 
mento o  dall'urto  di  quelli,  che  comunemente  si  chiamano  ca- 
ratteri individuali,  nasce  la  vita  collettiva  della  società,  e  quindi 
la  storia.  Aggiungasi  l'osservazione  che  a  modificare  le  geni- 
ture venivano  spesso  i  pronostici,  cioè  le  interpretazioni  di 
fenomeni  celesti  sopraggiunti  contro  le  previsioni  iniziali:  onde 
nuovo  arruffio  di  vicende,  di  correnti,  di  ambienti  morali.  Af- 
fidiamo al  poeta  questa  enorme  quantità  di  materia  umana, 
con  la  piena  libertà  di  percorrerla  in  lungo  e  in  largo,  sol  che  di 
tanto  in  tanto  ci  richiami  alla  fonte  celeste,  ed  avremo  un  nuovo 
estesissimo  campo  di  poesia  ;  il  tono  della  quale  più  che  al- 
l'epica,  più  che  alla  lirica,  si  avvicina  e  confonde  colla  dram- 
matica. Ci  rappresenterà  egli  scene  lugubri,  vite  protratte  nel 
delitto  e  nel  dolore  sotto  la  mano  ferrea  del  fato?  avremo  la 
tragedia.  Amerà  di  preferenza  trascorrere  in  mezzo  alla  infi- 
nita varietà  dei  gusti,  delle  arti,  degli  umori  degli  uomini  I 
avremo  la  commedia.  Chi  ha  letto  Manilio  non  ha  bisogno  d'es- 
sere avvertito  ch'io  penso  in  questo  momento  al  delizioso  libro 
quinto  degli  Astronomici,  e  ricordo  con  insistenza  quei  \ 
io  cui  il  poeta,  conscio  della  felicità  dell'arte  propria,  inneg- 
gia alla  grandezza  del  suo  modello,  a  Menandro,  per  entro 
alle  opere  del  quale  s' intrecciano,  di  rado  dolenti,  spesso  col 
riso  sulle  labbra,  giovani  e  fanciulle,  vecchi  padroni  e  schiavi 
ingannatori  : 

Ardentis  iuvenes,  raptasque  in  amore  puellas, 
Elusosque  senes,  agilesqae  per  omnia  servos, 
Quis  in  cancta  suam  produxit  saecula  vitam 
Doctior  urbe  sua  linguae  sub  flore  Menander, 
Qui  vitae  ostendit  vitam  chartisque  sacravit.  ' 


1  M.  Manili  Astron.,  V.  473  sgg.  Non  capisco  per  «piali    ragioni    I 
Bona  in  certi  suoi  appunti  su  La  poesia  del  cielo  da  Guittone  al  Petrarca, 
Messina,  1904,  pp.   3  e  6,  neghi    quasi  assolutamente  all'astrologia  giudi- 
ziaria la  capacita  di  generar  poesia. 


INTRODUZIONE  13 

La  questione  estetica  è  cosi  esaurita;  gli  elementi  scientifici 
e  poetici,  dalla  combinazione  dei  quali  risulta  il  poema  astro- 
logico, sono  determinati  e  studiati  nelle  loro  forme  principali 
In  qual  misura,  in  qual  ordine  essi  si  raggruppino,  non  è 
qui  possibile  registrare,  variando  assai  da  un'opera  all'altra 
il  loro  rapporto,  nel  quale  appunto  consiste  il  diverso  grado 
di  valore  di  ciascun  poema.  Passiamo  dunque  alla  questione 
storica. 


III. 


Nella  storia  della  nostra  poesia  abbiamo  tre  periodi  di- 
stinti :  il  periodo  greco  puramente  astronomico,  nel  quale  tut- 
tavia si  gettano  le  basi  di  tutto  lo  svolgimento  posteriore;  il 
periodo  classico  astrologico,  il  quale  raggiunge  il  suo  massimo 
sviluppo  nella  letteratura  romana  dell'età  imperiale;  il  periodo 
medioevale,  che  ha  come  suo  carattere  precipuo  il  contatto,  ora 
in  forma  di  fusione  ora  di  contrasto,  fra  l'elemento  scientifico 
d'origine  arabo-classica  e  l'elemento  morale  cristiano.  Mo- 
viamo dal  primo. 

Qualche  traccia  di  poesia  astronomica  si  trova  già  in  Omero  : 
nel  libro  deciniottavo  dell'  Iliade,  la  cosidetta  Oplopoia,  son 
ricordati  abbastanza  esattamente  il  Sole  e  la  Luna,  le  Iadi  e  le 
Pleiadi,  l'Orsa  maggiore  e  il  Cane  d'Orione.  Nel  primo  libro, 
Teti  si  riferisce  ad  un  principio,  incerto  ancora,  d'influsso  ce- 
leste, quando  rivolge  al  figlio  sconsolato  queste  parole  : 

Ora  i  tuoi  giorni 
Brevi  sono  ad  un  tempo  ed  infelici, 
Che  iniqua  stella  il  di  eh'  io  ti  produssi 
I  talami  paterni  illuminava. l 

In  più  luoghi  dell'Odissea  è  detto  che  Ulisse  conosceva  le 
principali  posizioni  degli  astri,  secondo  le  quali  e'  governava  la 
fortunosa  navigazione. 

1  Iliade,  i,  v.  548-551  della  trad.  del  Monti. 


14  INTRODUZIONE 

Ma  una  poesia  astronomica  davvero  cosciente  s'inizia  ora 
Esiodo.  L'intento  del  quale,  com'è  noto,  è  rivolto  alla  pratica 
misurazione  del  tempo,  in  servizio  dei  lavori  campestri  ;  onde 
da  lui  troviamo  descritte  poche  costellazioni,  <|ii»'lle  che  c«>l 
loro  apparire  sull'orizzonte  segnano  i  limiti  delle  stagioni.  Le 
sue  descrizioni  sono  semplici,  ed  hanno,  appunto  perché  pri- 
mitive e  di  sapor  popolare,  una  fresca  vena  di  poesia:  la  mi- 
tologia celeste  vi  è  naturale  e  come  congenita,  gli  dèi  plane- 
tari son  rappresentati  privi  di  faccia  umana,  ma  non  (rumano 
sentire,  ora  soccorrevoli  agli  uomini,  come  il  buon  Giove  pos- 
sente, 

quando  al  primo  autunno 

gran  piova  riversa, 

E  si  rifa  più  celere  e  più  snello 
Il  mortai  corpo; 

ora  invece  funesti,  come  Sirio  ardente,  che 

Degli  umani  che  crescono  alla  morte 
Sovra  il  capo  cammina.  l 

Dopo  Esiodo,  nella  poesia  astronomica  e'  è  un  lungo  silen- 
zio, che  non  valgono  a  rompere  i  poemi  di  Empedocle  e  di  Par- 
menide, nel  cui  ambito  assai  più  largo  le  fantasie  filosofiche 
predominavano,  ed  alla  scienza  del  cielo,  forse  per  lo  scarso 
progresso  in  essa  avvenuto,  o  per  il  carattere  suo  ancor  troppo 
empirico  e  degno  d'essere  lasciato  ai  contadini  cai  marinai, 
era  assegnato  un  posto  non  principale. 8  Invece  al  termine  di 
questo  intervallo  nasce  l'indagine  scientifica,  e  si  prolangl 
nella  tradizione  di  certe  scuole  filosofiche  greche  e  greco-ita- 
liche fino  ai  più  bei  tempi  della  civiltà  ellenica. 

Si  pone  da  principio  nella  scuola  pitagorica  il  problema 
delle  cosidette    retrogradazioni   dei   pianeti   inferiori,   il  pro- 

1  Dalla  traduzione  clic  (J.  Canna  diede  Bel  no  Saggio  di  studi  sopra  il 
carine  Esiodeo  ecc.,  la  Bh,  fiìot  cianica,  Torino,  is7i.  p.  4M  »xg.  cfr. 
puro  S.  (ìunthkr,  GeschichU  der  antiken  Naturi  i .'.'.  Ndrdlii 

1880,  p.  92  sgg. 

'  A.  Cocat,  La  poesie  alexandrine  som  Ics  troia  premure  Ptoìéme'es,  Pa- 
ri.s,  188t|  p<  li...-  <•    \.  Bracai  L'AttroìogH  gnequt,  rari»,  1899, 

p.  il  e  76. 


INTRODUZIONE  15 

blema  cioè  che  tendeva  ad  una  spiegazione  razionale  delle 
anomalie,  che  si  osservavano  nel  corso  zodiacale  di  Mercurio 
e  di  Venere,  dato  che  il  centro  delle  loro  orbite  si  avesse  a 
trovare,  come  credevasi  comunemente,  nella  Terra.  Non  oc- 
corre ricordare  che  la  soluzione  pitagorica  di  tal  problema 
venne  a  rimutare  profondamente  le  idee  predominanti,  ed  ebbe 
un  potente  influsso  anche  sul  pensiero  di  Platone.  Giacché  Pla- 
tone nei  primi  scritti  conservava  l'opinione  antica,  assai  più 
religiosa  e  poetica  che  filosofica,  d'un  sistema  geocentrico,  nel 
quale  la  Terra  immobile  era  creduta  trapassata  da  una  spola 
di  diamante,  intorno  alla  quale,  col  fuso  della  Necessità,  si 
avvolgevano  le  otto  spole  deferenti,  che  conducevano  in  giro  i 
corpi  celesti.  Da  questo  concetto,  che  si  legge  nel  Fedone,  il 
grande  filosofo  era  però  già  passato  a  concetti  meno  fantastici 
e  mitologici,  esposti  specialmente  nel  decimo  libro  della  Re- 
pubblica e  nel  Timeo,  quantunque  sempre  rimanesse  nell'er- 
rore di  credere  il  nostro  pianeta  centro  dell'  universo. l  «  Ma 
dopo  eh'  ebbe  presa  cognizione  delle  dottrine  pitagoriche,  si 
senti  attratto  da  quelle,  e  nelle  sue  idee  cominciò  a  predomi- 
nare il  moto  diurno  della  Terra,  sia  rotatorio,  come  vuole  Ari- 
stotele, sia  rivolutivo,  come  appare  da  Teofrasto.  E  tanto  giunse 
a  convincersi  della  verità  di  questo  movimento,  che  dichiarò 
T  opinione  contraria  essere  ingrata  agi'  Iddii,  e  appena  perdo- 
nabile alla  debolezza  di  quegli  uomini,  che  non  partecipano 
alquanto  dell'intelligenza  divina  ».2  Il  nuovo  indirizzo  trion- 
fava cosi  nella  scuola  del  maestro,  dove  anzi  un  discepolo  lo 
raccoglieva  e  perfezionava:  era  questi  Eraclide  Pontico,  al 
quale  si  deve  l'aver  concepito  l'ipotesi  che  il  centro  delle  or- 
bite di  Venere  e  Mercurio  sia  il  Sole,  che  il  Sole  sia  pure  il 
centro  delle  orbite  di  Marte,  Giove  e  Saturno,  che  la  Terra 
abbia  un  movimento  di  rotazione  intorno  al  proprio  asse,  e 
finalmente  che  la  Terra  abbia  pure  un  movimento  annuo  di 
rivoluzione  intorno  al  Sole.  Non  mancava  che  la  dimostrazione, 

1  E.  Zk.i.ler,   Die  Philosophie  der  Griechen  in  ihrer   geschichtlichen 
Enttoicklung,  Leipzig,  1880,  II,  p.  664  sgg. 

2  0.  V.  Schiapareu.1,  I  precursori  di  Copernico  neW antichità,  in  Pub- 
bli ras.  del  R.  Osservatorio  di  Brera,  Milano,  1873,  p.  22. 


16  INTRODUZIONE 

o  l' affermazione  recisa  della  verità  di  questa  ipotesi  ;  e  que- 
sta s'  ebbe  nei  libri  di  Aristarco  di  Suino,  discepolo  di  Era- 
clide,  vissuto  sul  principio  del  terzo  secolo  a.  C,  il  cui  sistema. 
chi  l'osservi  nelle  sue  linee  fondamentali,  non  è  altro  che  il 
sistema  planetario  eliocentrico  o  copernicano. ì 

Disgraziatamente  però  la  teoria  eraclidoa  rimase  in  una 
stretta  cerchia  di  eruditi,  mentre  si  diffondeva  largamente,  so- 
prattutto per  il  favore  onde  più  tardi  Aristotele  l'accolse  e  la 
rese  nota  in  tutto  il  mondo  ellenizzato,  per  mezzo  dell'  autorità 
dei  suoi  trattati,  una  teoria  assai  diversa,  detta  delle  sfere  omo- 
centriche,  opera  di  Eudosso  da  Cnido.  Discepolo  anch'  egli  di 
Platone,  visse  nella  prima  metà  del  quarto  secolo  a.  0.,  apprese 
dai  sacerdoti  di  Eliopoli  in  Egitto  i  rudimenti  della  scienza 
astronomica,  quindi  si  diede  agli  studi  matematici,  fondando 
a  Cizieo  una  celebre  scuola,  ove  ebbe  a  scolaro  Polema 
E  scolaro  di  Polemarco  fu  Callippo,  pur  egli  seguace  e  pro- 
pagatore delle  dottrine  del  maestro.  Le  quali  dottrine,  esp 
nei  due  principali  trattati  di  Eudosso,  intitolati  uno  YEnopiro 
e  l'altro  i  Fenomeni,  movevano  dallo  stesso  problema  delle 
retrogradazioni  dei  pianeti  inferiori,  intorno  a  cui  s"  era  ado- 
perato, come  abbiam  visto,  già  Eraclide,  ma  lo  risolvevano  im- 
maginando per  il  Sole  e  per  la  Luna  tre  sfere,  per  gli  altri 
pianeti  quattri)  ciascuno,  concentriche,  con  vario  moto  intorno 
alla  immobile  Terra.2  La  spiegazione,  a  cui  mancava  la  base 
d'una  ipotesi  sufficientemente  larga,  piacque  tuttavia  perché 
ingegnosa  dal  punto  di  vista  matematico,  e  i  due  trattati  an- 
darono per  le  mani  dei  dotti  anche  in  grazia  della  parte  de 
scrittiva  che  contenevano.  Infatti,  se  nella  questione  dei  pia- 
neti c'erano  delle  vere  difficoltà,  nell'esposizione  della  si 
annessa  a  quella,  le  cose  si  presentavano  facilmente  ao 
bili,  soprattutto  nell'enumerazione  dei  catasterismi.  cioè  delle 
ligure  immaginarie,  animali  o  mitologiche,  tracciate  nel  cielo 
allo  scopo  di  raggruppare  in  modo  convenzionale  le  stelle  t. 

1  O.  ScHiAPARKLi.i,  Origin"  del  sistema  planetario  eliocentrico  presso  i 
Greci,  in  Memorie  del  K.  Istituto  lombardo,  XVIII,  p.  (il  spjr. 

v.  BoHUttutu,  Le  sfere  omocentriche  di  Eudosso,  di  Callip)>o  e 
di  Aristotele,  in  Pubblicai,  del  K.  Osservatorio  di  Brera,  Milano,  1876,  p.  8. 


INTRODUZIONE  17 

secondo  l'uso  già  da  lungo  tempo  invalso  presso  i  Greci,  e  per 
la  prima  volta  creato  dai  Caldei,  inventori  del  più  antico  Zo- 
diaco conosciuto.  *  Si  dice  poi  che  ad  agevolare  l'apprendi- 
mento e  la  diffusione  dei  principi  eudossiani,  fin  da  quel  tempo 
si  costruissero  sfere  artificiali  simili,  anzi  del  tutto  eguali  a 
quelle,  che  gli  scrittori  attribuiscono  ad  Archimede.2 

Tali  erano  le  condizioni  della  scienza,  quando  la  poesia 
riprese  di  proposito  il  tema  celeste  e  produsse  il  più  notevole 
poema  astronomico  della  letteratura  greca,  per  opera  di  Arato 
da  Soli. 

Arato,  come  poeta,  è  un  alessandrino,  il  che  significa  un 
virtuoso  della  forma.  Cominciò  infatti  la  sua  carriera  artistica 
con  epigrammi  ed  elegie  erotiche,  gareggiando  in  eleganza 
con  Teocrito,  che  gli  fu  amico,  e  con  Callimaco,  che  pure  co- 
nobbe; fu  anche  erudito,  e  legò  il  suo  nome  a  un'edizione 
dell'  Odissea.  Ospite  di  re  Antigono  Gonata,  visse  lungamente 
a  Pella,  in  Macedonia,  poeta  di  corte,  in  mezzo  agli  onori,  e 
quivi  scrisse  la  sua  opera  principale.  La  quale,  a  quanto  ci 
racconta  l'antica  Vita  di  lui,  gli  fu  suggerita  dallo  stesso  re, 
mosso  a  ciò  dal  grande  favore  che  ancora  circondava  le  dot- 
trine di  Eudosso,  sebbene  già  un  secolo  fosse  trascorso  dalla 
loro  pubblicazione.  3  Del  resto  non  mai  suggerimento  trovò 
accoglienza  più  sincera,  giacché  in  tal  guisa  venivano  ad  es- 
sere soddisfatte  due  delle  maggiori  aspirazioni  del  poeta  e  in 
generale  dell'età  sua:  la  ricerca  dell'arcaico,  a  cui  in  questo 
modo  si  offriva  il  vecchio  e  sacro  modello  esiodeo,  e  la  ricerca 
del  nuovo,  non  certo  scarso  in  un  tema  arduo  e  divenuto  ormai 
insolito.  Che  poi  Arato  fosse  uomo  di  lettere  e  non  di  scienza, 
ch'egli  non  fosse  in  grado  d'informarsi  delle  più  autorevoli 
teorie  astronomiche  conosciute  e  discuterle  ed  attenersi  alla 
migliore,  ciò  non  faceva  ostacolo  in  pieno  alessandrinismo  :  non 


1  A.  Bouché-Leclercq,  op.  cit.,  p.  60. 

*  G.  V.  Schiaparelm,  Le  sfere  ecc.,  p.  51,  e  Couat,  op.  cit.,  p.  4.r»9.  Intorno 
alle  ligure  zodiacali  ed  in  generale  alla  tradizione  artistica  delle  immagini 
Mlestl  v.  il  libro  di  lì.  Tuiele,  Antike  Himmelsbilder,  Berlin,  1898,  corredato 
di  sette  tavole  e  molte  illustrazioni   intercalate  nel  testo. 

3  W.  Christ,  Geschichte  der  griechischen  Litteratur,  Miinchen,  1890,  p.4">"». 

Soldati  2 


18  INTRODUZIONE 

v'erano  forse  li  pronti  ad  esser  tradotti  in  versi  i  due  trattati 
eudossiani,  la  perfezione  ed  autorità  dei  quali  nessuno  si  pen- 
sava di  mettere  in  dubbio  ? l 

Il  poema  d'Arato  consta  di  poco  più  che  un  migliaio  di 
esametri;  come  la  sua  fonte  principale.8  s'intitola  i  Feno- 
meni, con  un  nome  che,  a  rigore,  conviene  solamente  alla 
prima  delle  tre  parti,  in  cui  si  divide,  cioè  alla  descrizione 
degli  asterismi;  alla  seconda  parte,  come  si  vedrà  nell'ana- 
lisi, non  è  assegnato  alcun  titolo;  all'ultima  si  dà  comune 
mente  quello  di  Pronostici  per  il  suo  contenuto.  A  capo  di 
tutta  l'opera  sta  una  invocazione  a  Zeus,  in  tono  di  antica 
preghiera  rusticale,  in  questi  termini  :  «  Sia  il  principio  da 
Zeus,  che  a  noi  uomini  non  è  lecito  passare  sotto  silenzio: 
giacché  piene  di  Zeus  sono  le  campagne  e  tutte  le  società 
umane,  pieni  il  mare  ed  i  porti;  noi  abbiamo  in  ogni  luogo 
bisogno  di  Zeus.  Di  lui  noi  siamo  la  schiatta;  ed  egli  nella  sua 
bontà  dà  segni  fausti  agli  uomini,  invita  le  genti  al  lavoro  am- 
monendo della  necessità  di  trarre  il  vitto  da  esso;  egli  inse- 
gna quand' è  pronta  la  terra  all'opera  de' buoi  e  degli  aratri, 
quando  è  propizia  la  stagione  a  dispor  le  piante  nei  solchi  od 
a  nascondervi  i  semi.  Perché  egli  stesso  fissò  in  cielo  i  segnali, 
raggruppando  le  stelle.  Dispose  le  costellazioni  nell'anno.  le 
quali  agli  uomini  esattamente  insegnassero  il  succedersi  delle 
stagioni,  affinché  ogni  germe  si  svolgesse  a  suo  tempo.  Per- 
ciò lui  sempre  in  principio  e  in  fine  dei  lavori  placano  gli  no- 
mini. Salve,  o  padre,  gran  meraviglia,  gran  bene  delle  genti, 
antico  generatore  degli  dèi  E  voi  salvete,  o  Muse,  ca  rissi  me 
a  tutti;  a  me,  per  trattar  delle  stelle,  concedete,  vi  prego,  ogni 
grazia  nel  canto  ».3  In  questa  invocazione  Zeus  rappresenta  il 
cielo,  ed  è  quindi  un  mito  eminentemente  poetico;  egli  ha  l'ini- 


1  A.  Coimt,  op.  cit..  p.  LM  :  ••  8.  SoBUPAftiui,  Le  sfere  ecc.,  p.  l-\  n.  61. 
*  Chiamo  gli  scritti  di  Eu dosso  fonte  principale,  e  non  nniea,  del  poema 

aratro  riferendomi   alla  prefazione  dell'opera:   Arati    Phaenometin    i 
suit  etc.   H.  Maass,  Berolini,  1893,  dove   si  addita    come    seconda   fonte  un 
testo  ionico,  smarrito  e  quasi  ignoto,  detto  per  Donreniiom 

aneli1  esso  scientificamente  ili  scuola  ci/.icma. 
3  Phaenom.,  v.  1-1-. 


INTRODUZIONE  19 

pero  su  tutte  le  opere  degli  uomini,  e  l'esercita  con  un  influsso 
che  però  non  è  astrologico,1  ma  georgico,  onde  sorge  subito 
l'idea  della  sua  derivazione  da  Esiodo.  Seguono  poi  circa  quat- 
trocento versi,  nei  quali  vengono  descritte  le  costellazioni,  per 
ordine,  a  cominciare  dal  polo  e  scendendo  in  giro  verso  l'equa- 
tore, con  indicazioni  precise,  di  solito  aride,  e  tali  che  ci  provano 
come  il  poeta  non  si  sia  scostato  mai  dalla  sua  fonte:  il  suo  cielo, 
come  fu  già  osservato  per  Eudosso,  è  una  calotta  sferica  artifi- 
ciale coi  circoli  e  le  figure  scolpite.  Anche  la  forma,  cioè  il  fra- 
seggiare, specialmente  nei  nessi  fra  un  capoverso  e  l'altro,  ha 
una  parsimonia  tutta  scientifica,  e  solo  per  eccezione  s' atteggia 
a  maggior  libertà  ed  eleganza.  Vogliamo  leggere  un  esempio 
tipico,  per  farci  un'  idea  concreta  dell'opera?  Eccone  uno  :  «  Il 
non  grande  Delfino  vien  dappresso,  oscuro  nel  mezzo  :  ma  a  lui 
stanno  intorno  quattro  lucide  stelle,  e  due  ancora  presso  le  due 
pinne  ». 2  A  volte  tuttavia  nell'  arido  campo  spunta  qualche 
fiore,  qualcuna  delle  invenzioni  dei  mitografi,  come  nella  chiusa 
di  Cassiopea  :  «  Ella  dai  brevi  omeri  tende  le  braccia  ;  diresti 
eh'  ella  piange  la  sorte  della  figlia  ». 3  Però,  meglio  che  altrove, 
la  poesia  fiorisce  nell'unico  brano  esteticamente  notevole,  intorno 
al  quale  già  ebbi  occasione  d'indugiarmi  alquanto,  quando  par- 
lai della  natura  dei  miti  celesti:  dico  nella  descrizione  della 
Vergine,  il  segno  che  segue  Boote,  a  cui  —  dice  il  poeta  — 
da  certi  astronomi  vien  dato  il  nome  di  Astrea,  ma  vien  con- 
servato dal  popolo  l' antico  nome  di  Diche  : 

Diversa  fama  tuttavia  fra  gli  uomini 

Corre,  che  un  di  quaggiù  fosse  terrena 

E  discendesse  in  vista  de'  mortali, 

Né  ricusasse  i  lor  convegni,  o  quelli 

Delle  femmine  antiche  ;  anzi  sedesse, 

Benché  fosse  immortai,  tra  lor  confusa. 

Ed  essi  Diche  la  diceano;  ed  ella 

Radunando  i  vegliardi  in  sulle  piazze  * 

O  in  aperta  campagna,  i  giusti  riti 


1  A.  Rovi  hk-Leclebcq,  op.  cit,  p.  62. 

2  Phaenom.,  v.  816-819. 

3  Phaenom.,  v.  19Ó-196. 


20  INTRODUZIONE 

Cittadini  sollecita  cantava. 

Non  sapevano  ancor  la  rovinosa 

Lite,  né  1'  aspra  lotta  ed  il  tumulto, 

Ma  semplici  vivean  gli  uomini:  il  mare 

Giacea  lontan  co'  suoi  perigli,  e  il  vitto 

Ancor  da  lungi  non  traean  le  navi  ; 

Ma  i  buoi,  gli  aratri  copia  d'  ogni  frutto, 

Sotto  la  guida  della  Dispensiera 

D' ogni  diritto,  riforniano.  E  tanto 

Ella  stette  quaggiù,  per  quanto  tempo 

Aurea  progenie  alimentò  la  Terra. 

Con  l'argentea  di  rado  ed  a  quel  modo 

Di  pria  non  più  s'  accompagnò,  desire 

Sentendo  in  cor  de'  prischi  usi  mortali  ; 

Ma  tuttavia  presente  era  :  scendeva 

Dai  monti  nel  crepuscolo  sonanti 

Tutta  sola,  a  nessun  blande  parole 

Rivolgendo.  Ma  quando  i  grandi  colli 

Gremian  le  turbe,  le  rimproverava 

Allora,  e  combattea  l' iniquità, 

E  dicea  che  non  più  sarebbe  scesa 

Un*  altra  volta  a'  supplicanti  :  —  Ahi  !  come 

I  padri  aurei  lasciarono  la  schiatta 

Più  trista  !  Ma  peggior  la  tìglierete 

Voi.  Le  guerre  avran  gli  uomini,  e  versato 

Allor  sarà  nelle  discordie  il  sangue, 

E  penderà  sovra  gì'  iniqui  il  duolo.  — 

Detto  cosi,  tornava  ai  monti,  e  i  popoli, 

Che  tutti  ancor  si  rivolgeano  a  lei, 

Abbandonava.  Ma  quando  ancor  essi 

Sparvero,  e  questi  vennero,  progenie 

Di  bronzo,  de'  lor  padri  assai  peggiori, 

Che  pei  primi  temprar  lo  scellerato 

Pugnai  di  strada  e  degli  aranti  buoi 

Banchettarono  primi  ;  allor,  per  odio 

Di  queste  genti,  a  voi,  fatta  celeste, 

Diche  levossi,  ed  occupò  la  plaga 

Ove  di  notte  ancora  appare  agli  uomini 

La  Vergin  presso  al  rutilo  Boote.  ' 


1  Phaenom.,  v.  96-186.  A  voltare  in  poesia,  anziché  in  prosa  Iettante, 
quest'episodio  mi  spinse  il  valore  inoralo  del  medesimo;  anohe  altre  \ 
per  altri  autori,  mi  accadrà  lo  st ■•>--.«  latto,  onde   colgo  qui    l'oeeaefOM  «li 
affermare  il  mio  convincimento  che  alle  buone  traduzioni  prosastiche,  .-.•ni- 


INTRODUZIONE  21 

La  seconda  parte  comincia  con  la  descrizione  degli  aspetti  e 
dei  movimenti  dei  pianeti,  il  cosidetto  canone  eudossiano,  il 
punto  arduo  del  sistema,  nel  quale  il  poeta  si  trova  cosi  a  disa- 
gio, che  esce  in  questa  confessione  :  «  Per  nulla  sicuro  quando 
tratto  degli  erranti,  deh!  potessi  almeno  determinare  i  circoli 
della  sfera  e  le  costellazioni  del  cielo!  »J  Infatti  di  tutta  questa 
materia  egli  si  sbriga  in  poco  meno  che  trecento  versi,  senza  le- 
varsi mai  dal  solito  schematismo  astronomico;  finché  passa  alla 
terza  parte,  dove  le  promesse  della  protasi  di  ammaestrare  gli 
uomini  intorno  ai  segnali  celesti  vengono  mantenute.  Vi  si  di- 
scorre dei  principali  pronostici  —  e  dai  Pronostici,  come  ho 
detto,  prende  il  titolo  questa  sezione  del  poema  —  del  Sole  e 
della  Luna,  in  senso  puramente  meteorologico  ;  si  tocca  di 
certi  indizi  meno  conosciuti,  quali  le  comete  dal  triste  presa- 
gio;2 e  l'operasi  chiude  con  accento  lirico,  in  questo  modo: 
«  Cosi  miseri  ed  instabili  noi  mortali  viviamo  qua  e  là,  sem- 
pre attenti  ai  segnali,  che  in  nostro  vantaggio  appaiono  con 
tanta  evidenza  ». 3 

Per  quanto  pedestre  nella  maggior  parte,  per  quanto  scarso 
di  valore  scientifico,  il  poema  di  Arato  ebbe  nell'antichità  e 
nel  Rinascimento,  quando  venne  tratto  dal  lungo  oblio  medio- 
evale, una  fama  grandissima,  e  fu  considerato  come  il  primo 
e  miglior  modello  di  poesia  astronomica  ;  mentre  gli  altri  pro- 
dotti del  medesimo  tempo  caddero  presto  in  dimenticanza. 
Pochi  imitatori  nel  periodo  pili  splendido  della  poesia  latina 


pre  opportune  nei  casi  comuni,  sian  preferibili  le  poetiche  solo  quando  nel 
traduttore  si  rinnovi,  anche  parziale  o  secondaria,  l' ispirazione  estetica  ed 
etica  che  produsse  l'originale. 

1  Phaenom.,  v.  460-461.  Non  entro  nella  discussione  intorno  alle  divi- 
sioni del  poema  aratco,  e  rimando  ad  A.  Couat,  op.  cit.,  p.  457,  dove  si 
espongono  le  principali  opinioni  in  proposito  ;  solo  osservo  che  la  mancanza 
di  sviluppo  nella  sezione  centrale  non  può  essere  invocata  come  un  argo- 
mento valido  a  provare  un;i  lacuna,  quando  si  tengan  presenti  e  le  parole 
del  poeta  stesso,  punto  strane,  e  quanto  sappiamo  da  altre  fonti  —  per  es. 
da  Cicerone,  che  chiama  Arato  «  hominem  ignarum  astrologiae  »  (De  ora- 
tore, I,  16)  —  intorno  alla  sua  scarsa  preparazione  scientifica. 

*  Come  le  comete  rientrassero  per  Aristotele,  e  quindi  anche  per  Arato, 
nell'  ordine  dei  fenomeni  meteorologici,  v.  A.  Bouché-Leclercv,  op.  cit.  p.  74. 

3  Phaenom.,  v.  1101-1108. 


22  INTRODUZIONE 

ebbe  invero  l'opera  di  Eratostene  alessandrino,  intitolata  Er- 
mete, nella  quale,  ricollegandosi  il  mito  di  questo  dio  greco 
colla  corrispondente  favola  di  Thoth,  il  dio  inventore  dell'astro- 
nomia presso  gli  Egizi,  s' immaginava  un  viaggio  del  nome 
alato  attraverso  la  volta  del  cielo,  e  si  coglieva  cosi  l'occa- 
sione per  una  descrizione  della  sfera.  Del  poema  di  Bratostene 
non  si  conservano  che  pochi  frammenti,  fra  i  quali  uno  im- 
portante sulle  zone  terrestri  e  i  climi  corrispondenti  ;  '  ma  da 
esso  ed  insieme  dal  poema  di  Arato  ebbe  origine,  sotto  forma 
di  commento,  un  elenco  delle  costellazioni  e  dei  miti  ad  esse 
pertinenti,  detto  i  Catasterismi, 2  preziosa  fonte  di  notizie  per 
i  poeti  posteriori,  cioè  per  i  poeti  dell'età  romana;  alla  quale 
ci  convien  ora  di  passare. 

Infatti  nell'età  romana  dobbiamo  ricercare  i  continuatori 
della  poesia  astronomica  greca,  la  cui  conoscenza  cominciò  a 
destare  uno  straordinario  entusiasmo  presso  i  latini  reno  il 
principio  dell'ultimo  secolo  della  repubblica.  Allora  troviamo 
le  dottrine  celesti  accolte,  discusse,  messe  in  rapporto  colle 
proprie  teorie  epicuree  da  Lucrezio,  che  ad  esse  dedicò  nel 
suo  poema  parecchie  centinaia  di  versi.3  Poco  più  tardi  viene 
Virgilio,  autore  dei  noti  passi  astronomici  e  meteorologici  delle 
Georgiche,  il  quale  ci  dà  pure  un  prezioso  indizio  di  quanto 
il  tema  celeste  fosse  di  moda,  introducendo  nel  primo  del- 
l' Eneide,  alla  mensa  di  Didone,  Jopa  a  cantare 

errantem  Lunam  Solisque  labores, 
Unde  hominura  genus  et  pecudes,  unde  imber  et  ignes, 
Arcturum  pluviasque  Hyadas  geminosque  Triones, 
Quid  tantum  Oceano  properent  se  tinguere  soles 
Hiberni,  vel  quae  tardis  mora  noctibus  obstet.  * 

1  A.  Couat,  op.  cit.,  p.  465  igg.;  e  A.  BouohI  LwukOQ,  op.  Bit.,  p 
La  descrizione    (Ielle    zone    fu    imitata,  OOm'd  noto,  da  Ovidio  |  Metani.,  I, 
v.  46  61)  e  «la  Virgilio  (<ii;,r<i.,   I,  v.  888  J:t9). 

!  Sulla  falsa  estrlbuiOM  dei  Catasterismi  a<l  Bratostene  e  sui  medesimi 
considerati  quii  tonti  di  Igine  voli  A.  Olitimi,  /  dtt.  di  Brat.,  in  Studi 
it.  di  filol.  classica,   Roma.  l^'aT.  p.  1-86;   v.-di  pare  1'  t'd.  dei  Cai 
curata   dall'Olivieri,   presso  il  Teulmer  di   Upel 

s  C.  GiussAiu,  T.  lAicreti  Cari  de  rerum  natura  libri  sex,  Torino,  1898, 
IV,  p.  45  Btut. 

*  Aen.,  I,  v.  742-746. 


INTRODUZIONE  23 

Quasi  nello  stesso  tempo  Ovidio  attinge  più  d'  uno  degli  epi- 
sodi delle  Metamorfosi  al  ciclo  epico  del  cielo  greco,  concede 
nei  Fasti  parte  notevole  al  calendario,  ed  inoltre  volta  in 
versi  latini,  ora  perduti,  i  Fenomeni. l 

Ma  il  documento  che  ancor  ci  rimane  della  scuola  aratea 
in  Roma  noi  l'abbiamo  nelle  traduzioni  di  Cicerone,  di  Germa- 
nico e  di  Avieno.  La  versione  ciceroniana  fu  un  esercizio  ret- 
torico  della  giovinezza  del  grande  oratore,  e  come  tale,  se  da 
una  parte  ci  dimostra  il  favore  che  presso  i  Romani  ebbe  il 
poemetto  greco,  dall'  altra  ci  spiega  la  grande  fedeltà  del 
traduttore  verso  l'originale  e  lo  scarso  valore  poetico  del- 
l'opera sua.8  La  versione  di  Cesare  Germanico,  l'infelice  figlio 
di  Druso,  è  assai  meno  pedissequa,  anzi  appare  in  certi  punti 
quasi  un  vero  rifacimento,  come  nella  protasi,  che  è  nello 
stesso  tempo  una  dedica  all'imperatore  Tiberio: 

Ab  Jove  principium  magno  deduxit  Aratus, 
Carminis  at  nobis,  genitor,  tu  maximus  auctor  ; 
Te  veneror,  tibi  sacra  fero  doctique  laboris 
Primitias  :  probat  ipse  deùm  rectorque  satorque.  3 

Similmente  nelle  descrizioni,  dove  reminiscenze  mitologiche  od 
esperienza  geografica  personale  potevano  fornire  materia,  si  no- 
tano delle  aggiunte  al  testo  cosi  parco,  cosi  arido  quasi,  e  degli 
ampliamenti  sempre  abilmente  eseguiti;  come  quando,  per  citare 
un  esempio,  trattando  del  segno  del  Capricorno  annunziatore 
di  burrasche,  al  semplice  contorno  arateo  il  poeta  romano  so- 
stituisce un  quadro  pieno  di  vita  e  di  passione,  ricordo  forse 
delle  scene  osservate  durante  la  sua  fortunosa  spedizione  in 
Oriente. 4  E  necessario  tuttavia  non  tacere  che  tali  aggiunte 
lasciano  intatta  la  sostanza  scientifica  dell'  opera,  che  resta 
eguale  a  quella  eudossiana  di  Arato,  anche  nelle  sue  deficienze.5 

1  0.  Ribbeck,  Geschichte  der  ròmischen  Dichtung,  Stuttgart,  1892,  III,  p.  8. 

*  W.  S.  Teuffel,  Geschiehte  der  ròmischen  Litteratur,  Leipzig,  1890, 
n.  177,  p.  315. 

3  Germanici  Phaenomena,  in  Poètae  bucolici  et  didactici,  Paris,  1860, 
v.  1-4. 

*  Germanici  Phaenom.,  v.  288-305. 

5  II  lettore  ricorda  senza  dubbio  l'assenza,  in  Arato,  di  adeguata  trat- 
tazione del  canone  planetario  o  teoria  delle  sfere  omocentriche,  e  la  rela- 


24  INTRODUZIONE 

Per  giungere  da  Germanico  ad  Avieno,  vissuto  nel  quarto  se- 
colo dopo  Cristo,1  il  tratto  da  percorrere  è  lungo;  però  non  biso- 
gna in  questo  caso  badare  alla  distanza  cronologica,  essendoci 
un  nesso  ininterrotto  quanto  al  contenuto  scientifico  e  poetico. 
Infatti,  sebbene  la  traduzione  di  Rufo  Festo  Avieno  venga  dopo 
lo  svolgimento  della  poesia  astrologica  di  Manilio,  della  quale 
avremo  presto  ad  occuparci  trattando  del  secondo  periodo  della 
nostra  storia,  tuttavia  essa  non  dimostra  alcuna  contaminazione 
colle  dottrine  divinatorie,  ma  riproduce  il  testo  di  Arato  so- 
stanzialmente eguale,  2  se  non  forse  ampliato  nella  sola  parte 
mitologica  e  rettorica.  Per  la  quale  veniva  in  aiuto  al  nuovo 
traduttore  un  manuale  in  prosa,  che  è  bene  ricordar  qui  come 
strettamente  collegato  con  lo  sviluppo  della  corrente  aratta  : 
accenno  ai  quattro  libri  De  sideribus,  detti  più  comunemente 
Poetica  astronomica,  attribuiti  ad  un  Igino  del  primo  secolo 
di  Cr.,3  compilati  su  fonti  greche,  più  o  meno  direttamente  im- 
parentate con  i  poemi  stessi  di  Arato  e  di  Eratostene. 4  L'opera 
dunque  di  Avieno  ha  valore  essenzialmente  storico-letterario. 
rispecchiando  i  principali  caratteri  d'una  poesia  ormai  esau- 
sta, che  in  mancanza  d'ispirazione  si  compiace  del  losco  della 
forma  e  dell' immagine  :  al  qual  proposito  basti  notare  che  il 
migliaio  di  esametri  del  testo  greco  nella  nuova  veste  latina 
è  quasi  raddoppiato.  Vogliamo  stabilire  qualche  raffronto  ?  Era 
cosi  poetica  la  Vergine,  che  nell'episodio  arateo  «  veniva 


tiva  scusa  del  poeta  rta  me  riportata;  la  stana  maneaoaa  è  in  Oermaaioo, 
con  questa  sola  differenza  elio  alla  scusa  è  sostituita  una  promessa  (v. 

444): 

Hoc  opus,  arcanis  si  credam  postmodo  Mtisis, 
Tempus  et  ipse  labor,  patiautur  Tata,  docebit. 

1  W.  S.  Teufpel,  op.  cit.,  n.  420,  p.  1019. 

*  Mi  riferisco,  per  una  riprova,  anche  qui  al  noto  passo  del  canone  pla- 
netario, il  quale  in  Avieno  non  ha  maggior  svolgimento  ohe  in  Arato  e  in 
Germanico  : 

non  ìiias  aaioiia  audaoibcu  ergo 
Carmine  non  caeco  temptabimus  ! 

R.  F.  Avieni  Avalea,  ed.  a.  Brayalg,  Upataa,  1882,  r.   • 

3  C.  (ìiussawi,  Letteratura  romana,  Milano,  1899,  p.  818. 
<  W.  S.  Trutpil,  op.  cit.,  p.  614  e  616  ;  S.  GuiantR,  op.  cit.,  p.  78  ;  A.  Oli- 
vieri, op.  eit.  p.  26. 


INTRODUZIONE  25 

litarìa  dai  monti  risonanti  sotto  il  crepuscolo  »,  mentre  nel  tra- 
duttore essa  scende, 

Cum  cedente  die  Phoebus  sub  nocte  propinqua 
Occiduus  pronos  urgeret  in  aequora  currus.  ' 

Ed  ecco,  sul  bel  principio,  come  Avieno  sforza  la  voce  per  co- 
lorire la  semplice  invocazione  di  Arato  alle  Muse  «  carissime  a 

tutti  »  : 

O  mihi  nota  adyti  iain  numina  Parnasei  ! 
0  per  multa  operura  mea  semper  cura  Camenae  ! 
Iam  placet  in  superum  visus  sustollere  caelum 
Adque  oculis  reserare  vias  per  sidera.  Maior, 
Maior  agit  mentem  solito  deus,  ampia  patescit 
Cirra  mihi  et  totis  se  Helicon  inspirat  ab  antris.  2 

Con  queste  osservazioni  si  compie  la  nostra  rapida  rasse- 
gna, per  quanto  riguarda  l'antichità  classica,  del  periodo  ara- 
teo, al  quale  ci  potremo  dunque  richiamare  come  a  cosa  ben 
nota  quando  discorreremo  del  poema  umanistico  di  Basinio  Ba- 
sini, che  in  pieno  Kinascimento  ne  rappresenta  un'  ultima  re- 
surrezione. Riepilogandone  pertanto  i  principali  momenti,  ri- 
cordiamo com'  esso  cominci  con  un  poemetto  greco  originale, 
seguito  da  quattro  traduzioni  latine  diverse  per  età,  estensione, 
valore  ;  quindi  come  il  suo  contenuto  sia  di  natura  esclusiva- 
mente astronomica,  desunto  dalle  dottrine  della  scuola  eudos- 
siana  di  Cizico,  con  adornamenti  poetici  alquanto  scarsi,  at- 
tinti in  gran  parte  alla  mitologia  alessandrina.  Assai  diverso 
è  il  secondo  periodo  antico  della  poesia  astrologica,  astrologico 
davvero,  cioè  profondamente  informato  alle  teorie  della  divina- 
zione celeste. 


IV. 


L'astrologia  giudiziaria  finora  non  ha  trovato  chi  l'abbia 
studiata  con  giusto  criterio  storico  nelle  sue  manifestazioni  uma- 
nistiche, specialmente  in  Italia,  dimodoché  ancora  dobbiamo 

1  Avieri  Aratea,  v.  321-322. 
1  Aviini  Aratea,  v.  71-76. 


26  INTRODUZIONE 

vederla,  nella  maggior  parte  degli  accenni  sparsi  qua  e  là  nei 
libri  di  letteratura,  confusa  con  altri  generi  di  divinazione  e 
special  mente  con  la  magia.  Invece  per  l'età  antica  greco-ro- 
mana essa  ha  avuto  coscienziosi  ricercatori  e  studiosi  fra  gli 
storici  della  scienza  e  della  filosofia.  Benemerito  sopra  tutti  è 
per  questo  riguardo  il  Bouché-Leclercq,  il  quale,  pubblicata 
fin  dal  1879  una  lodata  Storia  della  divinazione  nelV antichità. 
non  si  accontentò  delle  indagini  fatte  allora  nel  campo  più 
vasto,  e  volle  di  proposito  esaurire  gli  studi  sull'astrologia 
greca,  mettendo  insieme  un  grosso  volume,  uscito  recente- 
mente, in  cui  il  problema  è  largamente  trattato  sia  dal  punto 
di  vista  interno  o  teorico,  che  da  quello  esterno  o  storico.  A 
questo  volume,  che  ha  il  solo  difetto,  di  cui  tuttavia  non  è  re- 
sponsabile l'autore,  di  essere  stato  scritto  avanti  la  pubblica- 
zione sistematica  appena  da  qualche  anno  iniziata  di  tutti  i 
principali  testi  astronomici  greco-romani,  deve  ricorrere  chiun- 
que affronti  una  parte  del  tema  nostro  ;  ed  io,  che  vi  ho  ri- 
corso più  d'una  volta  in  questo  quadro  introduttivo,  singolar- 
mente per  informazioni  tecniche  sull'argomento,  volentieri 
riconosco  i  miei  debiti  verso  l'illustre  scrittore.1 

L'astrologia  da  principio  fu  una  religione  orientale,  e  più 
esattamente  caldea,  la  quale  insegnava  per  mezzo  dei  suoi 
dogmi  e  dell'autorità  d'una  esperienza  di  più  centinaia  di  mi- 
gliaia d'anni,  come  il  destino  degli  uomini,  e  quindi  la  storia 
dei  popoli  del  nostro  globo,  dipendessero  dalla  posizione,  dal 
movimento,  dai  rapporti  reciproci  dei  pianeti  e  delle  costella- 
zioni. In  che  modo  un  tale  influsso  procedesse,  appunto  perché 
religione  e  non  scienza,  non  rivelava;  non  rifuggiva  tuttavia 
dallo  studio  descrittivo  del  cielo,  nel  quale  anzi  avea  fatto  dei 
notevoli  progressi,  che  poi  aveva,  fin  da  tempo  assai  remoto, 
comunicato  ai  sacerdoti  dell'  Egitto,  famosi  indovini  ancor  essi. 

1  L'opera  del  Bouché-I^elercq  fu  già  citata  parecchie  volte  e  lo  sarà 
anche  <li  pia  nel  seguito  del  presente  lavoro;  tralascio  Invece  <ii  rip 
•ini  quel  pio  larghi  ceni  bibliografici  sia  intorno  ai  t«sti  antichi  Ira  i 
anali  notevole  il  Catalogus  astrol.  graecorum  in  corso  di  pabhileaaionc  I 
Bruxelles,  il  cui  primo  fascicolo  sui  codici  fiorentini  e  dovuto  .il  nostro  A. 
Olivieri  sia  intorno  ;ii  lavori  critici,  clic  il  suddetto  autore  ricorda  nella 
sua    BibliograpkU,  a  p.   xviu  del   citato  volume. 


INTRODUZIONE  27 

I  ira  quando,  in  seguito  alla  conquista  di  Alessandro  Magno,  i 
Greci,  giunti  ad  elevatissimo  grado  di  coltura,  vennero  a  con- 
tatto immediato  colle  popolazioni  dell'Asia  e  dell'Africa,  al- 
lora tutto  il  cumulo  superstizioso  della  divinazione  celeste,  ma- 
scherato abilmente  dall'apparenza  sperimentale,  si  trasmise 
dai  vinti  ai  vincitori;  ma  l'astrologia,  benché  forse  più  con 
l'attrattiva  del  meraviglioso  che  colla  persuasione  avesse  gua- 
dagnato i  nuovi  cultori,  stanchi  dal  lungo  lavorio  intellettuale 
e  bisognosi  di  fede,  cessò  di  essere  religione  per  assumere  de- 
finitivamente l'aspetto  e  l'ufficio  di  scienza.  Questo  accadde 
sul  principio  del  terzo  secolo  a.  C,  quando  nell'Egitto  il  sa- 
cerdote Manetone  feee  la  sua  propaganda  ad  Alessandria;  e 
nella  Grecia  stessa,  a  Coo,  il  prete  caldeo  Beroso  fondò  una 
scuola,  la  quale  in  poco  tempo  raggiunse  il  primato  e  divenne, 
nel  suo  genere,  l'assoluta  dominatrice. * 

Ora  si  chiede  :  ad  accogliere  le  dottrine  della  scuola  di  Coo 
si  mostrarono  pronti  gli  astronomi  della  scuola  d'Aristarco  o 
quelli  della  scuola  cizicena,  questi,  come  abbiamo  veduto,  cosi 
rigorosi  nella  esattezza  dei  loro  calcoli,  quelli  tanto  fedeli  alle 
ipotesi  suggerite  dall'osservazione?  No  certo;  ma  il  terreno 
adatto  allo  sviluppo  dell'astrologia  si  trovò  nelle  scuole  dei 
filosofi,  dove  la  speculazione,  assuefatta  alle  astrazioni  e  non 
di  rado  alle  fantasie  della  metafisica,  di  buon  grado  si  rivolse 
al  nuovo  vasto  territorio  inesplorato.  Della  filosofia  infatti  fu 
per  lungo  tempo  amica  l'astrologia,  e  fu  in  grado  strettis- 
simo, come  vedremo,  anche  nel  nostro  ftinascimento  ;  mentre 
ebbe  in  ogni  tempo  un  certo  timore  dell'astronomia  propria 
mente  detta,  la  quale,  per  verità,  lavorando  tacitamente,  un 
bel  giorno,  senza  il  chiasso  di  alcuna  polemica,  le  diede  il 
colpo  mortale.  Ma  non  corriamo  troppo  avanti,  e  fermiamoci 
un  momento  sulle  principali  correnti  filosofiche  greche,  in  quanto 
esse  ci  rivelano  una  predisposizione  a  mescolarsi  col  nuovo 
contributo  orientale;  su  quelle  grandi  correnti,  che  attraverso 
i  secoli  resistettero  per  rinascere  più  fiorenti  agi'  inizi  del- 
l'età moderna,  specialmente  in  Italia,  nelle  accademie  di  Na- 
poli e  di  Firenze. 

1  A..  Bouciié  LECLKKcq,  op.  cit.,  cap.  II. 


28  INTRODUZIONE 

Non  tocco  delle  concezioni  dei  filosofi  presocratici,  ohe  DÌ 
porterebbero  troppo  fuor  di  strada,  e  vengo  subito  alla  cosmo- 
gonia platonica,  come  a  quella  che  senza  dubbio  è  la  pia  carat- 
teristica ed  ha  maggiore  importanza  per  la  >ua  storia  poste- 
riore; ma  non  mi  rivolgo,  come  quando  ho  discorso  dei  sistemi 
planetari,  all'ultima  e  meno  nota  maniera  di  Platone,  dalla 
quale  si  svolse  l'ipotesi  di  Eraclide  Pontico,  bensì  mi  arresto 
allo  stadio  rappresentato  dal  Timeo,  che  costituisce  l'opinione 
più  genuina  e  meglio  connessa  colle  rimanenti  teorie  del  tìlo- 
sofo,  e  fu  nell'età  romana  e  nel  Einascimento,  quasi  sola,  co- 
nosciuta. 11  Timeo  adunque,  come  sanno  tutti,  ci  parla  d'un 
sistema  geocentrico,  nel  quale  la  sfera  estrema  o  peri  ter; 
mossa  da  sinistra  a  destra  da  una  forza  spirituale  che  è  anima 
del  mondo,  e  le  altre  sfere  hanno  movimento  inverso,  a  spirale, 
causato  da  una  forza  fisica:  il  primo  ù  il  moto  diurno  del  cielo, 
il  secondo  il  planetario.  Però  —  e  qui  è  il  punto  essenziale 
—  tanto  la  Terra,  quanto  i  pianeti,  sono  divinità  viventi,  che 
hanno  ricevuta  dal  Demiurgo  un'anima  intellettiva,  ed  hanno 
l'ufficio  di  plasmare  le  creature  inferiori.  Dimodoché  quando 
l'anima  nostra  è  liberata  dalle  mani  del  Creatore,  prima  di 
scendere  nella  dimora  terrena,  passa  nelle  diverse  sfere,  e  ri 
ceve  da  ciascuna  di  esse  il  sigillo  d'una  proprietà  eorpoi 
finché  giunta  al  termine  del  viaggio,  quando  nasce,  è  rive- 
stita di  forma  umana  perfetta.  Cosi  il  sistema  dell' uni\ 
viene  ad  essere  intimamente  collegato  colla  costituzione  fisica 
e  morale  degli  uomini  ;  tra  il  cielo  e  la  Terra,  tra  Dio  e  le  e 
ture,  anche  a  non  tener  conto  della  teoria  delle  idee,  è  un  rap- 
porto continuo,  che  fa  le  cose  inferiori  necessariamente  simili 
alle  superiori,  anzi  materiate  di  esse.1  Non  ci  voleva  un  grande 
sforzo  per  conciliare  una  concezione  come  questa  e  la  credenza 
che  la  vita  nostra  fosse  improntata  e  regolata  dagli  astri:  il 
platonismo  era  perciò  meravigliosamente  adatto  a  fare  da  I 
filosofica  ai  dogmi  dell'astrologia  di  Beroso. 

Per  contro  l'aristotelismo,  cioè  la  seconda  grande   conce- 
zione greca  che  abbia  avuto  una  importanza  straordinaria  nei 

1  A.   Boucai-LECtERC*,  op.  cit.,  p.  20-26;  E.  Zeller,  op.  cit.,  II,  p.  664-689. 


INTRODUZIONE  29 

secoli  <li  mezzo  e  nell'Umanesimo,  nel  suo  complesso  fu  poco 
adatto  ad  una  interpretazione  astrologica:  quel  carattere  spe- 
rimentale che  indusse  Aristotele  ad  abbandonare  l'idea  di 
una  vera  e  propria  cosmogonia,  e  accogliere  invece  i  risultati 
matematici  di  Eudosso  e  di  Callippo,  mal  si  conciliava  con  la 
fantastica  indeterminatezza  della  divinazione  celeste.  Però, 
come  ci  è  provato  dalla  larga  applicazione  fattane  pili  tardi 
da  Tolomeo,  un  punto  utile  per  gli  astrologi  c'era  anche  nella 
filosofia  peripatetica.  *  L'unità  della  materia  e  la  miscela  dei 
quattro  elementi  costitutivi,  cioè  del  caldo,  del  freddo,  del- 
l'umido e  del  secco,  favorendo  la  spiegazione  dei  rapporti 
fisici  fra  corpo  e  corpo,  si  prestavano  a  una  interpretazione 
scientifica  degl'  influssi  :  quanto  alla  teoria  della  quinta  es- 
senza che  avrebbe  creato  un  grave  intoppo,  segregando,  come 
insociabile,  la  materia  astrale  dalla  sublunare,  si  trovarono 
dei  mezzi  o,  meglio,  dei  pretesti  per  liberarsene,  ora  col  non 
tenerne  conto,  ed  ora  coll'affermare  che  la  maggior  nobiltà  e 
forza  dei  corpi  celesti  bene  si  addice  all'  ufficio  che  questi 
hanno  di  dominatori  dei  corpi  terreni. 

Paragonando  adunque  il  modo  di  comportarsi  dei  due  lu- 
minari della  filosofia  greca  di  fronte  al  problema  astrologico, 
dobbiamo  riconoscere  che,  se  differenze  sostanziali  fra  di  essi 
non  mancano,  queste  nei  libri  degli  astrologi  si  trovano  cosi 
attenuate,  che  ci  permettono  di  parlare,  senza  cadere  in  errore, 
di  astrologia  platonica  e  di  astrologia  aristotelica  :  valga  per- 
tanto questa  conclusione  ad  illuminare  le  controversie  che  stu- 
dieremo  nell'età  della  Rinascenza. 

Parlare  di  astrologia  epicurea  invece  non  è  possibile.  Basti 
a  questo  riguardo  richiamare  l'attenzione  sopra  l'assenza  di 
necessità  nei  rapporti  degli  esseri  fisici  e  la  dottrina  del  li- 
bero arbitrio  nel  campo  morale,  insegnate  da  Epicuro,  per  ac- 
cennare a  quanto  vi  possa  essere  di  più  contrario  agi'  influssi 
ed  al  fatalismo  astrologico.  i 


1  A.  Bouchk-Leclercq,  op.  cit.,  p.  27. 

*-  A.  Boi'cnK-I.Ect.KRCQ,  op.  cit.,  p.  28  ;  e  T.  Lucreti  Cari    De  rerum   na- 
tura, ed.  uius.s:uii,  Torino,  1898,  IV,  p.  91,  note. 


30  INTRODUZIONE 

Ma  di  astrologia  stoica  è  lecito,  anzi  opportuno  discorrere, 
poiché  essa  è  fondamento  della  concezione  morale,  e  quindi 
dell'ispirazione  poetica,  dell'opera  di  Manilio.  Nell'universo, 
secondo  s' insegnava  nello  Stoa,  non  ci  sono  lacinie,  tutto  è  le- 
gato, ed  i  legami  sono  di  natura  risica;  una  simpatia  generale 
fa  in  modo  che  qualsiasi  moto  si  propaga  da  una  nelle  altre 
parti.  Sull'uomo  quindi  tutto  ha  un'azione,  e  reciprocamente 
l'uomo  può  aver  conoscenza  d'ogni  cosa,  avendo  in  sé,  come 
microcosmo,  radunate  tutte  le  qualità  dell'universo,  (ili  dèi, 
per  questo  cerchio  di  ferro  che  serra  il  mondo  dei  corpi  e  de- 
gli spiriti,  esercitano  fatalmente  il  loro  impero  sulla  morale, 
e  gli  uomini,  per  mezzo  della  loro  facoltà  intellettiva  precor- 
rendo il  destino,  uniformano  il  proprio  volere  al  giusto  volere 
celeste,  onde  raggiungono  la  pietà  religiosa  e  la  tranquilla 
coscienza  del  saggio.  La  dottrina  stoica,  che  è  fatalismo  nobile 
e  attivo,  conduce  perciò  direttamente  all'astrologia,  come  al 
mezzo  migliore  per  il  conseguimento  della  saggezza;  e  poiché 
ha  carattere  religioso,  favorisce  il  culto,  onde  nacquero  i  primi 
tentativi  di  interpretazione  astronomica  dei  miti. l 

Ecco  pertanto  in  che  modo  le  credenze  dei  Caldei,  penetrate 
nel  mondo  classico,  invasero  dapprima  le  scuole  dei  filosofi 
platonici,  aristotelici  e  stoici  e  vi  si  mutarono  in  scienza, 
trovandovi  le  opportune  spiegazioni  razionali  ;  ed  essenzial- 
mente vi  guadagnarono  degli  apostoli,  soprattutto  fra  gli  Stoici. 
per  la  tradizione  e  la  propaganda.  In  seguito,  sostenute  dalla 
speculazione  filosofica  e  ad  un  tempo  sostenitrici  della  mede- 
sima, presero  a  diffondersi  nelle  coscienze,  diventando  patri 
monio  degli  spiriti  colti,  e  finirono  per  dar  materia  anche  al- 
l'arte. Abbiamo  accennato  or  ora  all'opera  di  Manilio,  il  mi- 
gliore dei  prodotti  poetici  astrologici  dell'antichità,  al  quale  è 
tempo,  dopo  queste  notizie  preparatorie,  che  ci  accostiamo;  non 
senza  tuttavia  aver  prima  fermate  le  nostre  idee  sopra  un  ul- 
timo punto  bisognevole  di  schiarimenti,  specialmente  in  un  li- 
bro, come  questo,  scritto  in  servizio  della  letteratura  e  rivolto 
a  letterati:  dico  la  questione  teorica,  che  cercherò  di  esporre 

1  A.  BoucHé-LECLERcq,  op.  cit,  p.  28-84;  e  E.  Zellkr,  op.  <it..  IV,  pa- 
gina 340-41. 


INTRODUZIONE  31 

succintamente,  enumerando  i  più  notevoli  concetti   e  precetti 
dell'antica  astrologia. 

Il  principio  fondamentale,  che  per  gli  astrologi  assumeva 
l'evidenza  d'un  assioma,  era  il  seguente:  dagli  astri,  siano 
essi  considerati  quali  dèi  animati,  come  voleva  Platone,  o  quali 
corpi  celesti,  come  sosteneva  Aristotele,  partono  degli  effluvi 
rettilinei  di  natura  fisica,  esercitanti  un'azione,  detta  influsso, 
sul  centro  d'ogni  movimento,  cioè  sulla  Terra  e  le  sue  crea- 
ture, e  singolarmente  sugli  uomini.  La  qualità  di  tale  influsso, 
naturalmente,  è  variabile,  come  la  quantità,  ed  in  rapporto 
diretto  colla  qualità  e  posizione  degli  agenti.  Cosi,  per  la  qua- 
lità, i  più  forti  dominatori  celesti,  detti  perciò  luminari,  sono 
il  Sole  e  la  Luna  ;  quindi  vengono  gli  altri  pianeti,  con  tutte 
le  loro  gradazioni,  e  per  ultimo  i  segni  dello  Zodiaco,  essi 
pure  distinti  in  parecchie  categorie,  a  seconda  della  loro  forma 
umana  o  ferina,  della  loro  natura  sterile  o  feconda,  ecc.  Per 
la  posizione,  varia  l' influsso  col  variare,  in  primo  luogo,  dei 
rapporti  dei  pianeti  fra  di  loro  :  onde  gli  aspetti  planetari 
di  opposizione,  quando  due  di  quelli  si  trovino  ai  due  estremi 
di  un  diametro  del  circolo  zodiacale,  di  triangolo,  di  qua- 
drato, di  esagono,  quando  il  segmento  che  li  unisce  sia  un  lato 
di  poligono  inscritto  nel  medesimo  circolo.  Varia,  in  secondo 
luogo,  l' influsso  col  variare  degli  aspetti  zodiacali,  simili  ai 
planetari;  varia  infine  a  seconda  dei  rapporti  dei  pianeti  coi 
segni.  Nel  qual  caso  gli  astrologi  immaginarono  delle  curiose 
teorie.  Alcuni  infatti  sostennero  che  ogni  pianeta,  meno  due 
che  ne  hanno  una  sola,  possiede  due  case  o  domicili  in  due 
rispettivi  segni,  nei  quali  quando  viene  a  trovarsi  ha  il  mas- 
simo di  forza  influente  ;  altri  parlarono  di  esaltazioni  e  de- 
pressioni dei  pianeti  nei  diversi  segni,  cioè  di  segni  atti  ad 
accrescere  o  a  scemare  la  potenza  di  ciascun  pianeta;  altri 
di  confini  o  porzioni  del  circolo  zodiacale  indipendenti  dalle 
figure,  ora  mantenendoli  in  numero  di  dodici,  ed  ora  accre- 
scendoli a  trentasei,  di  dieci  gradi  ciascuno,  detti  perciò  de- 
cani. Aggiungasi  che  in  uno  stesso  segno  potevano  venire  a 
trovarsi  due  pianeti  in  congiunzione,  onde  producevasi  una 
somma  od  una  sottrazione  d'influsso,  a  seconda  dell'amicizia 


32  INTRODUZIONE 

o  nimicizia  dei  pianeti  stessi;  poteva  un    pianeta  colla  < 
zione  dei  raggi  suoi  modificare  l'azione  di  un  altro  anche  fuori 
d'uno  dei  tipici  aspetti  ;  potevano  in  terzo  luogo  i  pianeti,  con 
relative  variazioni  di  forza  influente,  restar  bloccati  in  un  se- 
gno,  avere  altri  pianeti  a  corteo,  ecc. 

Ma  non  si  accontentarono  i  nostri  scienziati  di  dividere  e 
suddividere  lo  Zodiaco  e  moltiplicare  le  combinazioni  plane- 
tarie; tracciarono  pure  nel  cielo  dei  circoli  immaginari,  con 
limiti  ed  archi  non  meno  fantastici.  Il  più  noto  —  che  qual- 
che volta  venne  identificato  collo  Zodiaco  —  è  un  circolo  mas- 
simo detto  della  genitura,  da  est  ad  ovest,  con  quattro  punti 
fissi,  detti  centri,  uno  sull'orizzonte  orientale  (oroscopo),  un 
altro  allo  zenit  (culmi nazione  superiore),  un  terzo  sull'oriz- 
zonte occidentale  (occaso),  e  finalmente  un  quarto  opposto  al 
secondo  (culmina: ione  inferiore)  Corde  tracciate  a  partire  dai 
centri  spartivano  poi  la  volta  celeste  in  dodici  luoghi,  a  cia- 
scuno dei  quali,  nella  vita  umana,  corrispondeva  un  influsso  de- 
terminato, detto  sorte.  Fra  le  sorti  notevolissime  erano  quelle 
generate  dal  passaggio  dei  luminari,  dette  l'ima,  quella  ilei 
Sole,  la  sorte  del   Genio,  e  l'altra  la  sorte  della    Fortumi. 

V'è  in  ultimo  una  teoria,  secondo  la  qnale  ciascuna  por 
zione  del  tempo,  ciascuna  regione  della  Terra,  ciascun  genere 
di  animali  e  di  piante,  e  specialmente  ciascun  membro  del 
corpo  amano  ha  in  cielo  per  rispettivo  patrono  un  pianeta  <> 
una  costellazione  zodiacale;  teoria,  che  fu  soprattutto  il  fon- 
damento della  medicina  astrologica,  la  cui  diffusione  nel  mondo 
antico,  medioevale  e  moderno,  fino  a  pochi  secoli  addietro,  e 
stata  straordinaria.  ì 

Questo  basti  a  spiegare  le  posizioni  degli  agenti',  accen- 
niamo ora  ai  metodi  adoperati  dagli  astrologi  nel  dare  i  loro 
responsi.  I  metodi  erano  tre:  il  primo  detto  apoti  .il 

secondo  delle  elezioni,  il  terzo  delle  interrogazioni.  Il  primo 
consisteva  nell'osservare  l'oroscopo,  o  aspetto  del  cielo  orien- 

1  Diremo  più  avanti  come  nel  BlnMclmentO,  «  Uno  al   M  ti,  non 

si  ritenne  buon  medico  clii  non  fosse  nello  stono  tempo  buon  astrologo. 
Sulle  varie  teorie  iatromatematiche,  e  specialmente  sui  famosi  anni,  fiorai, 
ecc.  climaterici,  v.  A.  Boi  kkcv,  op.  cit.,  cap.  \\. 


introduzione  33 

tale,  .il  momento  della  nascita  —  secondo  altri,  della  conce- 
zione —  del  bambino,  e  nel  dedurne  le  previsioni  in  riguardo 
al  sesso  di  lui  ed  alla  sua  costituzione  fisica  non  solo,  ma  alla 
durata  della  vita,  al  gmere  di  morte,  alle  qualità  psichiche, 
alla  professione,  al  matrimonio,  alle  amicizie,  ai  viaggi,  ecc.  ; 
tale  determinazione  prendeva  il  nome  di  tema  di  genitura.  ■ 
II  secondo,  detto  anche  delle  iniziatile  o  delle  opportunità, 
era  l'osservazione  della  volta  celeste  e  la  relativa  interpreta- 
zione dell'influsso  in  singole  occasioni,  specialmente  se  fossero 
occorsi  fenomeni  straordinari,  come  ecclissi,  comete,  fulmini, 
terremoti,  o  se  una  persona  si  fosse  trovata  in  circostanze  spe- 
ciali, come  guerre,  amori  e  soprattutto  malattie.  L'ultimo  si 
fondava  sulla  teoria  degli  astri  patroni  delle  suddivisioni  del 
tempo,  cioè  degli  anni,  dei  mesi,  delle  settimane,  ecc.  ed  era 
la  base  dei  calendari  astrologici. 

Come  è  facile  notare,  di  questi  tre  sistemi  i  due  ultimi  ve- 
nivano di  necessità  ad  infirmare  le  conclusioni  del  primo;  onde 
si  pervenne  ad  una  conciliazione  in  questo  senso,  che  il  tema 
di  genitura  dovesse  sempre  lasciare  un  margine  per  le  varia- 
zioni accidentali,  ed  i  responsi  delle  elezioni  e  delle  interro- 
gaeioni  fossero  considerati  come  modificazioni,  correzioni,  ag- 
giunte all'oroscopo  genetliaco.2 

Torniamo  a  Manilio,  agli  Stoici  ed  all'età  romana. 

Dopoché  Posidonio,  il  commentatore  astrologo  del  Timeo. 
venne  in  Italia  a  diffondervi  la  divinazione  in  sul  principio 
dell'ultimo  secolo  della  repubblica,  Roma  in  tutte  le  sue  classi 
sociali,  ma  specialmente  nella  classe  colta,  s' infiammò  delle 
pratiche  e  degli  studi  astrologici;  sorsero  gli  oppositori,  rari, 
come  Lucrezio  e  Cicerone,  ma  più  furono  i  fautori,  come  Var- 
rone  e  Nigidio  Figlilo.  Contribuirono  meravigliosamente  al- 
l'incremento di  tali  studi  gli  anni  torbidi  delle  guerre  civili; 


1  Kra  detto  volgarmente  anche  oroscopo  ;   veniva  composto  in   base  al 
circolo  della  genitura,  e  poteva  riferini  non  solo  alla  vita  I  adir  ideale,  ma 

anche  alla  collettiva  delle  città  e  dei  popoli.  Singolari  erano  poi  i  temi  dei 
re  <•  degli  imperatoli,  nella  compilazione  del  quali    vigevano    delle    regole 
a  parte:  v.  A.  Bouché-Leci.ekco,  op.  cit.,  p.  4:51). 
*  A.  Bouché-Leclkrcq,,  op.  cit.,  cap.   III-X1V. 


34  INTRODUZIONE 

spettacolo  di  ambizioni,  di  fortune  e  di  caduto  incredibili.  31 
costituì  con  l'impero  un  nuovo  genere  di  vita  splendida  in  ap- 
parenza, corrotta,  molle  e  superstiziosa  in  sostanza,  nella  qnale 
le  interrogazioni  celesti  si  moltiplicarono;  lo  stoicismo,  elio  aveva 
con  Catone  combattuto  le  ultime  battaglie  della  libertà,  rese 
ancora  dei  grandi  servigi  alla  morale  dei  primi  secoli  del* 
l'èra  cristiana,  ma  li  rese  d'accordo  con  l'astrologia.  In  am- 
biente acconcio  adunque,  fra  il  declinare  del  regno  di  Cesare 
Augusto  e  i  primi  anni  di  quello  di  Tiberio,  negli  stessi  anni 
in  cui  Germanico  attendeva  alla  traduzione  di  Arato,  il  poeta 
Manilio  compose  i  cinque  libri  degli  Astronomici. l 

I  quali,  perché  risultano  necessariamente  di  due  elementi 
costitutivi,  lo  scientifico  e  il  poetico,  sarà  opportuno  studiare 
da  due  punti  di  vista,  esaminandone  in  primo  luogo  il  conte- 
nuto dottrinale  per  mezzo  di  un  riassunto  fedele,  fatto  diret- 
tamente sul  testo,2  ed  in  secondo  luogo  rilevandone  i  pi 
e  i  caratteri  artistici  per  mezzo  di  adatte  citazioni.  Cominciamo 
dal  sunto. 

Libro  primo.  —  Tutto  il  primo  libro,  se  ne  togli  quattro 
digressioni  liriche,  intorno  alle  quali  avremo  occasione  di  in- 
trattenerci, ed  alcuni  tratti  della  chiusa,  è  riservato  alla  de- 
scrizione puramente  astronomica  della  sfera;  esso  adunque  si 
può  ritenere  come  plasmato  sul  modello  arateo,  quantunque 
si  avvantaggi  sul  greco  per  una  maggiore   padronanza   della 


1  Siccome  alla  società  e  alla  letteratura  classica  io  ricorro  soltanto  por 
trarne  luce  alla  evoluzione  interna  della  scienza  e  della  poesia  .istmi 
greco-romana,  cosi  non  mi  curo  di  riferire  notizie  ed  aneddoti  sulla  diffusione 
dell'astrologia  in  Roma,  che  il  lettore  può   vedere  in    A.    Boocai 
op.  cit.,  cap.  XVI,    in   Q.    Libri,   Histoire  des  sciences   wtathéma&iqtm  en 
Italie,  Paris  1838-41,  I,  p.  64,  ed  in  L.  F.  Ai.kkkd  Maiky,  op.  cit..  p.  70  - 
né  mi  è  lecito  formarmi  sulle  questioni  cronologiche  roani  liane,  per  le  quali 
rimando  a  F.  Ramorino,  tyw  annorum   spatio  Mcmilius   Aslronomicon    li- 
bro8  composurrit,  in  Stiaii  H.  di  filai,  class.,  vi.  1898,  p 

*  Un  buon  sunto  degli  Astronomici  non  si  trova  nelle  storio  letterarie, 
neppure  in  o.  Ribbeck,  op.  cit.,  in,  p,  io  sgg.,  ove  del  poema  pur  si  dianone 
con  discreta  ampiezza;  in  A.  Bouché-Leclkrcv,  op.  cit..  si  trovano 
teorie  peculiari  a  Manilio,  sparse  qua  e  là  dove  V economia  dell'opera  lo 
richiede.  L'edizione  di  cui  mi  servo  è  la  seguente  :  M.  Manili  Astronomi- 
con  libri  quinque,  recensuit  I.  Jacob,  lìerolini,  1846. 


INTRODUZIONE  35 

materia  trattata.  Infatti,  dopo  un  non  breve  proemio,  nel  quale 
l'intento  astrologico  dell'intera  opera  è  delineato  con  certa 
ostentazione  di  mistero,  esposte  rapidamente  le  principali  co- 
smogonie antiche,  il  poeta  getta  le  basi  del  suo  sistema  geo- 
centrico, ove,  secondo  l'opinione  degli  Stoici,  l'anima  divina 
è  causa  motrice  di  ogni  cosa.  Enumerate  poi  le  dodici  costel- 
lazioni zodiacali,  egli  determina  l'asse  dell'universo,  intorno 
al  quale  si  muovono  in  largo  giro  le  costellazioni  indipendenti 
dalla  via  del  Sole,  divise  in  tre  categorie,  le  settentrionali, 
le  australi  e  le  invisibili  al  nostro  orizzonte.  Toccate  al- 
cune proporzioni  numeriche  del  mondo,  viene  a  parlare  dei 
circoli  celesti,  cioè,  fra  i  paralleli,  dei  polari,  dei  tropici  e 
dell'equatore,  fra  i  massimi,  dei  coluri,  del  meridiano  e  del- 
l'orizzonte, dello  Zodiaco  considerato  come  circolo,  e  della 
Via  lattea;  nella  quale,  con  poetica  digressione  e  attenendosi 
ad  un  noto  mito  platonico,  colloca  la  sede  delle  anime  degli 
eroi.  Tratta  infine,  quasi  di  sfuggita,  dei  corpi  erranti,  cioè  dei 
pianeti,  e,  terminando  il  libro,  delle  comete. 

Libro  secondo.  —  La  nuova  materia,  cioè  l'astrologia,  è 
annunziata  nel  secondo  libro  fin  dal  proemio  :  anche  questo 
esteso,  con  parole  chiare  ed  inspirate  da  una  certa  superbia. 
I  poemi  di  Arato  e  degli  altri  astronomi  greci,  nella  loro  parte 
artistica,  dice  Manilio  con  trasparente  allusione,  non  conten- 
gono se  non  favole,  cioè  vane  aggiunte  mitologiche  alla  dot- 
trina dei  cieli  : 

Quorum  carminibus  nihil  est  nisi  fabula  caelura, 
Terrave  composuit  caelum,  quae  pendet  ab  ilio  ; l 

io  invece,  facendo  seguire  alla  descrizione  della  sfera  la  trat- 
tazione dell'influsso,  comporrò  un'opera  profondamente  vera 
e  poetica,  e  nuova  nel  mondo  letterario  : 

Nostra  loquar;  nulli  vatum  debebimus  ora, 
Nec  furtum,  sed  opus  veuiet,  soloque  volamus 
In  caelum  curru,  propria  rate  pellimus  undas.  2 


1  Manili  Aslron.,  II,  v.  37-88. 
8  Astron.,  II,  v.  67-69. 


:'.i;  tNTROi)r/.m\i 

Comincia  pertanto  col  principi"»  della  trasmissione  del  de- 
stino, che  cerca  di  dimostrare  sperimentalmente  con  l'analogia 
degl'influssi  meteorici,  generalmente  ammessi: 

Quis  dubitet  post  haec  hominem  coniuugere  caelo?1 

Veramente  il  passo  dall'uno  all'altro  termine  del  paragone  è 
un  po'  troppo  lungo,  ma  di  ciò  non  ha  colpa  il  solo  nos 
poeta.  11  quale,  una  volta  in  carreggiata,  viene  subito  ad 
raparsi  della  classificazione  delle  costellazioni  zodiacali,  che 
possono  essere  maschili  o  femminili,  umane  o  ferine,  doppie, 
biformi,  diurne  o  notturne,  acquatiche  o  terrestri,  feconde  <> 
sterili,  ecc.  ecc.;  tutte  qualità  che  determinano  una  varia- 
zione d'influsso.  Le  combinazioni  dei  segni,  dette  aspetti^ 
per  lui  si  riducono  a  tre  principali,  cioè  al  trigono,  al  tetra- 
gono ed  all'  esagono,  a  cui  si  possono  aggiungere  le  posizioni 
di  solitudine^  di  impossibilità  a  congiungersi,  come  avviene 
nei  segni  immediatamente  successivi,  e  di  opposizione.  Alenili 
segni  fra  di  loro  si  vedono,  altri  si  ascoltano,  alcuni  si  amano, 
altri  si  odiano;2  e  come  dei  segni,  cosi  accade  degli  aspetti. 
Qui  siamo  oramai  in  piena  astrologia:  ma  c'inoltriamo  ancor 
pili  addentro  quando  il  poeta  passa  alla  complicata  teoria  del 
dodecatemorio,  la  quale  consiste  nel  dividere  ciascun  segno  del 
circolo  zodiacale  in  trenta  parti,  collocando  poi  in  esse  tutti  i 
dodici  segni  in  modo  che  ogni  segno  occupi  due  parti  e  mi 
del  segno  contenente.  Questo  procedimento  si  può  applicare  an- 
che alle  orbite  dei  pianeti,  per  es.  della  Luna,  onde  si  ottiene 
\l  dodecatemorio  della  Luna\  di  più,  è  lecito  applicare  il  pro- 
cesso a  ciascun  arco  zodiacale  già  frazionato  nel  suddette 
modo,  e  si  ha  il   dodecatemorio  nel  dodecatemorio.  3  Curiose 


i  Astron.,  II,  v.  105. 

i  in  clic  lesto  si  abbiano  da  prendere  qaeetl  verbi  dice  a.  Bouchb-Le- 

CL1  l<  v-   0©.   cit.,   p.    1' 

1  Intorno  agli  strani  odi  flit  costrutti  0  copiati  da  .Manilio,    ed   ali 
imn  tempre  sicura  e  eoerente  competente  Metrologica,  r.  a.  Bouori 
ep,  cit..  j».  Jiti.  n.  :{,  dove  >i  espone  il  dodecatemorio  zodiacale,  ed  ■  i 
dove  si  tratta  di  <|iicllo  planetario:  v.  pure  a  p.  \  ii,  dove  tono  gindieate 
potè  .sicure  le  tavole  annesse  alla  cit.  edizione  inaniliana  del  Jacob.  Poiché 
mi   si   presenta   l'OOOttlone,  aggiungerò  elle  anclie    |n  r  il   testo    BOB    sempre 


INTRODUZIONE  37 

costruzioni,  alle  quali  gli  astrologi,  non  a  torto,  annettevano 
grande  importanza,  giacché  per  esse  era  dimostrato  che  cia- 
scuna costellazione  dello  Zodiaco  non  agisce  mai  da  sola  sul 
destino  umano,  ma  riceve  sempre  in  varia  misura  la  coopera- 
zione delle  sue  sorelle;  onde  l'indovino  poteva  in  ogni  giorno 
o  parte  di  giorno  dare  un  responso  diverso. l  Non  occorre  in- 
fatti far  osservare  che  ogni  porzione  zodiacale  cosf  ottenuta 
possiede  un  influsso  peculiare  ad  essa;  come  un  influsso  suo 
speciale  ha  un'altra  figura,  di  cui  Manilio  si  occupa  subito 
dopo:  l' octotopo.  Questo  appartiene  alla  teoria  genetliaca  ed 
è  indipendente  dallo  Zodiaco.  Per  ottenerlo  si  costruisce  il  cir- 
colo della  genitura,  coi  suoi  quattro  centri,  che  il  poeta  chiama 
cardini  o  punti:  fra  un  punto  e  l'altro  l'intervallo  si  divide 
in  due  parti,  onde  risultano  otto  archi  o  luoghi;  su  ciascuno 
dei  punti,  perché  si  abbia  influsso  efficace,  viene  a  collocarsi 
un  pianeta.  Il  primo  degli  intervalli,  composto  di  due  archi, 
che  va  dall'oroscopo  alla  culminazione  superiore,  rappresenta, 
per  mezzo  degli  astri  che  vengono  a  passare  sopra  di  lui,  nel 
tema  della  genitura,  l'età  infantile;  il  secondo,  la  giovanile; 
il  terzo,  la  matura;  l'ultimo,  fra  la  culminazione  inferiore  e 
di  nuovo  Yoroscopo,  la  declinante.  2 

Libro  terzo.  —  Dopo  un  breve  proemio  di  scarsa  importanza, 
si  riprende  la  trattazione  del  circolo  dt-lla  genitura,  non  più 
secondo  la  divisione  in  otto  parti,  ma  secondo  quella  più  co- 
mune in  dodici  sorti;  esponendo  la  quale  Manilio  corre  il  ri- 
schio di  mostrarsi  poco  coerente  con  se  stesso,  o  almeno  molto, 
forse  troppo,  eclettico  rispetto  ai  sistemi  astrologici.  Traccia 

l'i  il.  beroliniana  è  citabile,  come  ho  dimostrato  per  un  passo  speciale  in 
certi  mici  Appunti  di  critica  umanistica,  in  Riv.  di  filol.  e  d'istr.  clas- 
sica, XVIII,  2. 

1  Manilio  stesso  non  manca  a  questo  punto  di  richiamare  l'attenzione 
del  lettore  sull'importanza  del  tema  (li,  v.  608): 

Perspice  nunc  tenuem  visu  rem,  pondera  magnami 

*  A.  Bouché-Leclebcq,  op.  cit.,  p.  276,  dove  si  trova,  oltre  alla  nomen- 
clatura mitologica  dei  punti,  degl'  intervalli  e  degli  archi,  anche  la  rap- 
presentazione grafica  dell' octotopo.  Quanto  all'  octotopo  stesso,  è  superfluo 
osservare  che  esso  non  è  se  non  una  variazione  del  tipo,  da  noi  già  ricor 
dato  e  più  universale,  del  circolo  della  genitura  coi  dodici  luoghi. 


38  INTRODUZIONE 

egli  adunque  nuovamente  il  suo  circolo  e  lo  divide  nei  quattro 
intervalli  per  mezzo  dei  punti,  con  questa  sola  novità  ohe  al 
posto  dell'  oroscopo,  o  punto  orientale,  segna  la  aorte  della  For- 
tuna; conduce  quindi  le  sue  corde  per  tutto  il  cielo  in  modo 
da  ottenere  i  dodici  luoghi,  a  ciascuno  dei  quali  assegna  una 
sorte,  cioè  l'influsso  —  giacché  si  tratta  del  tema  genetliaco 
—  sopra  uno  dei  casi  normali  della  vita  umana.  Le  dodici 
sorti,  a  partire  dall'  oroscopo,  sono  le  seguenti  :  l*  fortuna,  nel 
senso  materiale  di  patrimonio;  2a  milizia,  cioè  armi  <■  viaggi  : 
3a  milizia  togata,  cioè  opere  civili,  clientele,  amicizie,  cariche 
pubbliche;  4a  milizia  forense,  cioè  tribunali  ed  ogni  genere  di 
oratoria  giudiziale;  5a  vincoli,  cioè  nozze,  alleanze,  ospitalità 
e  parentele;  6a  ricchezze,  nel  senso  di  guadagni  commerciali  e 
industriali;  7a  pericoli;  8a  nobiltà,  sia  essa  di  nascita,  sia  ac- 
quisita per  merito;  9a  famiglia,  cioè  allevamento  ed  educa- 
zione dei  figli  ;  10a  autorità,  cioè  i  doveri  di  capo  e  padrone 
di  casa;  lla  salute  e  mancanza  della  medesima,  cioè  infer- 
mità; 12a  voti,  in  quanto  si  sono  felicemente  avverati,  o  ven- 
nero a  mancare  di  esito  buono.  L'osservazione  pratica  di  qm 
sorti  non  offre  che  una  sola  difficoltà  :  la  determinazione  esatta 
dell'oroscopo  o  sorte  della  Fortuna;  onde  su  questo  punto  e  sui 
vari  metodi  di  ricerca  il  poeta  si  ferma  alquanto,  tacendo  an- 
che notare  la  possibilità,  per  mezzo  dei  calcoli,  di  riconos 
l' oroscopo  tanto  di  notte,  quand' è  sereno,  quanto  sui  libri  e 
di  giorno.  Passa  quindi  ad  un  tema  affine,  cioè  alla  dottrina 
degli  astri  patroni  del  tempo,  donde  ricava  una  teoria  riguar- 
dante la  longevità  e  la  morte  prematura.  Per  ultimo  >i  occupa 
dell'influsso  dei  segni  tropici  ed  equinoMiali. 

Libro  quarto.  —  Il  quarto  libro  a  buon  diritto  s'apn 
un  notevolissimo  proemio  lirico  intorno  alla  fatalità,  giacché 
in  esso  si  discorre  di  proposito  non  più  della  figurazione  del 
cielo,  ma  degl'influssi  delle  costellazioni  zodiacali.  Ciascuna 
delle  quali  anzitutto  ha  un  influsso  suo  proprio,  che  spesso,  per 
non  dir  sempre,  è  analogo  alla  figura  convenzionale  di  lei; 
onde  all'Ariete,  simbolo  di  ricchezza  per  lo  lane  abbondanti, 
son  dati  in  tutela  i  ricchi,  al  Toro  gli  aratori  «•  i  contadini, 
ai   l'esci   i  pescatori  e  i  marinai    In  secondo  luogo  gl'influssi 


INTRODUZIONE  39 

si  possono  intrecciare  per  l'azione  reciproca  d'una  costella- 
zione sulle  altre,  onde  nascono  quei  raggruppamenti,  che  io 
già  ebbi  occasione  di  ricordare  come  di  uso  comune  fra  gli 
astrologi,  detti  i  decani.  In  terzo  luogo,  in  ogni  segno  zodia- 
cale si  contano  più  stelle,  cioè  più  parti,  le  quali  possono 
avere  fra  di  loro  diversità  d'influenza;  onde,  anche  per  questo 
riguardo,  c'è  da  distinguere  e  da  sottilizzare  non  poco.  Fi- 
nalmente ogni  costellazione  nel  suo  corso  ora  sale  verso  lo 
zenit,  cioè  si  trova  in  posizione  ascendente,  ed  ora  è  discen- 
dente :  si  capisce  che  per  ciascuna  di  queste  due  tappe  celesti 
c'è  differenza  d'influsso.  Ma  come  negli  agenti  la  varietà  di 
condizioni  produce  varietà  di  azioni,  cosi  disuguaglianze  na- 
scono pure  dalla  diversa  natura  dei  pazienti,  dimodoché  al- 
tro sarà  l'influsso  che  da  uno  stesso  aspetto  cade  sopra  gli  uo- 
mini, ed  altro  quello  che  agisce  sulle  regioni  della  Terra.  L'oc- 
casione d'una  corsa  geografico-astrologica  attraverso  al  mondo 
conosciuto  qui  si  presenta  opportuna,  ed  il  poeta  ne  approfitta 
per  risollevare  alquanto  l'interesse  poetico,  che  davvero  in 
certe  astruserie  precedenti  s' era  affievolito,  anzi  spento.  Il 
libro  termina  con  un  accenno  all'influsso  delle  costellazioni 
dette  ecclitiche. 

Libro  quinto.  —  Dice  bene  Manilio,  aprendo  il  quinto  libro: 
«  hic  alius  finisset  iter  >,  giacché,  dal  punto  di  vista  della  sua 
scienza,  il  tema  sarebbe  svolto,  se  ne  togli  forse  la  necessità  d'un 
più  largo  sviluppo  intorno  ai  pianeti,  i  quali  sembrano,  nella 
poesia  antica,  fatalmente  destinati  a  rimanere  nella  penna  de- 
gli autori  !  Ma  non  già  sui  pianeti  egli  intende  scrivere  le  nuove 
pagine,  bensi  intorno  ad  un  altro  tema  scarsamente  trattato  da- 
gli astrologi;  dico,  delle  costellazioni  extra-zodiacali.  Infatti 
nella  pratica  astrologica  era  raro  il  caso  che  si  tenesse  conto 
di  altre  costellazioni,  che  non  fossero  quelle  zodiacali,  anche  per 
non  accrescer  confusione.  Invece  il  nostro  poeta  vuol  fare  opera 
nuova,  ed  in  tutto  il  presente  libro  discorre  dell'influsso  combi- 
nato di  quegli  asterismi  che,  collocati  fuori  dello  Zodiaco,  hanno 
con  qualcuno  dei  segni  di  esso  comune  il  levare.  Gli  accenni 
astronomici  sono  in  tale  esposizione  naturalmente  sobri  e  fa- 
cili, cosicché  lasciano  vasto  campo  all'interpretazione  morale; 


40  INTRODUZIONE 

onde  per  più  centinaia  di  versi  si  descrivono  temperamenti, 
accidenti,  usi  e  costumi  umani,  dove  la  vena  poetica  dello  scrit- 
tore sgorga  viva  e  brillante.  Aggiungasi  che  le  figure  della 
sfera  troppo  bene  venivano  a  richiamare  alla  memoria  del  poeta 
le  favole  del  cielo  greco,  ed  a  suggerirgli  degli  episodi  mito- 
logici ora  appena  sbozzati,  ed  ora  meravigliosamente  dipinti, 
come  la  celebre  storia  di  Andromeda  liberata.  Il  libro  e  l'opera 
termina  con  un  frammento  intorno  alla  grandezza  ed  allo  splen- 
dore delle  stelle. 

Al  poema  di  Manilio  —  si  licei  parva  componere  n> 
—  si  può  dire  che  «  han  posto  mano  e  cielo  e  terra»,  come  a 
quello  di  Dante;  in  esso  troviamo  disegnata  la  compagine  ma- 
teriale e  morale  dell' universo  intero,  a  cominciare  dalla  mente 
divina,  la  quale,  come  abbiamo  veduto,  regge  e  pervade  ogni 
cosa,  fino  alle  più  modeste  abitudini  e  passioni  degli  uomini. 
Di  questa  vastità  di  comprensione  è  cosciente  il  poeta,  e  se  ne 
vanta  in  quei  brani  di  indole  lirica,  che  abbiamo  solo  sfiorati 
nell'analisi,  e  specialmente  nei  proemi  e  nelle  digressioni,  a  cui 
bisogna  adesso  rivolgere  l'attenzione. 

Kicordiamo  che  la  concezione  morale,  dal  poeta  lanciata  col 
suo  canto  nella  società  romana  del  primo  secolo,  è  la   conce 
zione  stoica,  che  noi  conosciamo.1  La  forza  creatrice  d'ogni 
cosa  è  Dio,  il  cui  regno  è  nella  parte  incorruttibile  dell'universo, 
nel  cielo: 

Idem  scraper  erit,  quoniam  semper  fuit  idem , 
Non  alium  videro  patres  aliumve  nepotes 
Aspicient  :  Deus  est,  qui  non  mutatur  in  aevo.  ■ 


1  Lo  stoicismo  di  Manilio,  ehe  io  dò  per  certo,  secondo  che  ;i  ine  pare 
evidente  dopo  maturo  esame  dei  passi  più  notevoli  del  poema,  fu  oggetto 
di  discussione  fra  i  critici.  Acute  osservazioni,  ma  che  non  credo  tutte  gin- 
stc,  si  trovano  a  questo  proposito  nel  Saggio  di  0.  Lakson,  I  >r  Mnnilin 
poeta  eittsque  infjenio,  Paris,  1887,  cap.  1°,  dove  si  sega  lo  itoi<  i>m<>  ma- 
ttinano pel  solo  fatto  che  certe  frasi  del  poeta  sembrano  non  aoeordaittl  per- 
fettamente eoa  alcuni  punti  seeondan  delle  dottrine  di  Zenone,  [/autore,  a 
mio  modo  di  giudicare,  ha  il  torto  di  non  tener  conto  dei  compromessi  av- 
venuti in  età  meno  antica  Ira  lo  stoicismo  e  l'astrologia,  specialmente  per 

quanto  riguarda  la  teoria  fatalistica. 
*  Astron.,  I,  v.     -i 


INTRODUZIONE  41 

Mosse  dal  Creatore  girano  le  sfere  celesti,  e  sotto  le  sfere,  sulla 
crosta  della  Terra  immobile  al  centro,  si  agitano  per  impulso 
di  quelle  le  creature  mortali;  l'influsso,  che  muove  da  Dio, passa 
negli  astri  e  discende  quaggiù.  E  l'uomo,  che  è  la  più  perfetta 
delle  creature,  che  leva  in  alto  la  fronte  a  cercare  in  ciò  che 
gli  sta  intorno  e  sul  capo  la  ragione  della  propria  esistenza, 
è  non  meno  degli  animali,  delle  piante  e  degli  elementi  insen- 
sibili compreso  nel  cerchio  della  simpatia  universale,  sotto  il 
governo  del  fato.  Dal  fato  son  largite  a  noi  le  fortune,  la  gloria, 
i  piaceri;  dal  fato,  ahimé!  discendono  in  terra  con  tanta  fre- 
quenza il  dolore  e  il  peccato.  Certo,  anche  il  peccato  e  il  de- 
litto, lo  spergiuro  e  il  pugnale  son  nei  decreti  divini,  e  non  è 
colpa  dell'uomo  se 

In  populo  scelus  est,  et  abundant  cuncta  furoris, 
Et  fas  atque  nefas  mixtum.  legesque  per  ipsas 
Saevit  nequities,  poenas  iam  noxia  vincit. l 

Tuttavia  un  terribile  destino  aggiunge  all'impulsola  non  de- 
bita espiazione,  condannando  il  reo  non  responsabile  all'odio 
e  alla  vendetta  dei  suoi  simili  : 

nocentis 
Oderimus  niagis  in  culpam  poenasque  creatos; 
Nec  refert  scelus  linde  cadit,  scelus  esse  fatendum.2 

Convien  riconoscere  che  in  codesta  Nemesi  e'  è  un  profondo 
senso  di  verità  e  di  poesia,  al  quale  non  possiamo  rimanere 
indifferenti  noi  moderni  soprattutto,  avvezzi  a  considerare  ben 
altrimenti  che  come  vendetta  l'esecuzione  della  legge  penale, 
ed  a  scorgere  in  molti  deplorevoli  errori  e  reati  una  necessità 
patologica.  Portate  a  si  estreme  conseguenze  le  premesse,  nello 
sgomento  che  esse  naturalmente  suscitano  nelle  coscienze,  un 
mezzo  solo  resta,  per  un  pagano,  di  redenzione  :  la  sommissione 
del  saggio  alle  leggi  del  fato. 

Solvite,  mortales,  animos,  curasque  levate 
Totque  supervacuis  vitam  denere  querelis  : 


1  Astron.,  II,  v.  600  603. 
*  Astrun.,  IV,  v.  116-117. 


42  INTRODUZIONE 

Fata  regunt  orbem,  certa  stant  omnia  lege, 
Longaque  per  certos  signantur  tempora  casus  : 
Nascentes  roorimur,  finisque  ab  origine  pendet.  ' 

Sommissione  adunque,  ma  non  supina,  non,  diremmo  noi,  mu- 
sulmana. Non  è  forse  detto  che,  come  agiscono,  cosi  gli  astri 
rivelano,  per  quanto  oscuramente,  i  decreti  divini?  Il  saggio 
sarà  dunque  l'astrologo,  il  quale  prevede  il  volere  dogli  dèi  e 
vi  si  acconcia  senza  ribellione,  ma  anche  senza  viltà. 

Né  meno  interessante  è  l'esemplificazione  di  questi  principi 
la  quale  forma,  accanto  alle  costruzioni  astrologiche,  il  più 
ampio  contenuto  del  poema,  specialmente  nei  due  ultimi  libri. 
Com'essa  sia  distribuita  già  abbiamo  veduto,  e  come  in  essa 
risieda  un  motivo  vero  e  drammatico  di  poesia  pure  abbiamo 
a  suo  luogo  messo  in  evidenza.  È  la  grande  commedia  umana 
dei  popoli  e  degli  individui  ohe  ci  passa  davanti,  come  sopra 
una  scena.  Dapprima  è,  con  tragica  dignità  di  trionfo,  l'avvi- 
cendarsi delle  civiltà  orientali,  fino  al  dominio  della  Persia  sui 
popoli  asiatici;  quindi  la  storia  degli  Elleni  dalla  guerra  di 
Troia  alla  peste  d'Atene,  alla  caduta  della  libertà;  infine 
l'epopea  di  Roma  dalla  fatale  venuta  d'Enea  alla  conquista 
d'Italia,  alle  guerre  esterne  e  civili,  nelle  quali  campeggiano 
le  grandi  ed  infelici  figure  di  Mario  e  di  Pompeo.  Ancora  re- 
cente, per  l'età  del  poeta,  è  il  ricordo  degl'  Idi  di  Marzo,  quando 
Cesare,  per  quanto  potente, 

totiens  praedicta  cavere 
Vulnera  non  potuit  toto  spoetante  senatu, 
Indicium  dextra  retinens,  nomenque  cruore 
Delevit  proprio,  possent  ut  vincere  fata  ;  * 

son  storia  ancor  viva  le  battaglie  di  Filippi  e  di  Alio, 

Femineum  sortita  iugum  cum  Roma  pependit 
Atque  ipsa  Isiaco  certarunt  fulmina  sistro  ;  3 


»  Astron.,  IV,  v.  12  1">.   In  quest'ultimo    reno,    untisi,    è    formulati    l.i 
legge  dell' oroeeojM  <>  del  tema  di  genitura. 
*  Astron.,  IV,  v.  69-62. 
»  Astron.,  I,  v.  917-918. 


INTRODUZIONE  43 

e  fra  il  popolo  della  città  si  piange  tuttora  la  fatale  giornata, 

Cuni  fera  ductorem  rapuit  Germania  Varum 
Infecitque  trium  legionum  sanguine  carapos.  ' 

Accanto  ai  grandi  fatti  pubblici  e  collettivi  non  meno  at- 
traenti si  disegnano  i  tipi  individuali,  nei  quali,  io  credo,  ana- 
logamente a  quanto  accade  talvolta  anche  a  noi  quando  leg- 
giamo libri  di  psicologia,  i  lettori  antichi  dovevano  spiare  con 
curiosità  ciascuno  un  riflesso  del  proprio  temperamento  e  l'av- 
venire che  l'oroscopo  loro  prometteva.  Tutta  infatti  la  scala  so- 
ciale di  quella  turba  che  affollava,  sotto  il  regno  di  Tiberio, 
la  capitale  del  mondo,  da  Manilio  è  ritratta  con  felicissime 
pennellate,  dalle  quali  io  ricevo  quella  stessa  piacevole  e  viva 
impressione  che  mi  accade  di  provare  quando  rileggo,  nel 
Meriggio,  i  bei  tipi  dei  convitati  pariniani.  Qua  si  fanno  in- 
nanzi, della  classe  colta,  i  gravi  filosofi,  i  quali 

Pascentur  curis,  veterum  exempla  revolvent, 
Semper  et  antiqui  laudabunt  verba  Catonis  ; 2 

della  classe  media  i  commercianti,  i  navigatori,  i  meccanici 
abili  a  costrurre  laghi  e  canali, 

Et  peregriuantes  domibus  suspendere  rivos. J 

Fra  i  piccoli  negozianti  e  fra  il  volgo,  ecco  i  fabbri,  gli  ore- 
fici, gl'intagliatori  di  cammei,  i  pittori  d'affreschi,  i  fornai  e  i 
beccai,  i  quali 

pecudum  membris  media  grassentur  in  urbe, 
Et  laceros  artus  suspendant  fronte  tabernae.  4 

Ma  la  categoria  sociale  meglio  colta  dal  vero  è  quella  che  si 
aggirava  intorno  ai  luoghi  di  ritrovo  e  di  divertimento,  cosi 
cari  alla  plebe  dell'era  imperiale,  nei  teatri  e  nel  circo.  Ecco, 
per  primi,  i  poeti  tragici,  a  cui  e  una  gioia  estetica  il  guaz- 
zare negl'incesti  e  nei  delitti  e  il  descrivere,  per  esempio,  la 
cena  d'Atreo, 

*  Axtron.,  1,  v.  899-900. 

*  Astron.,  V,  v.  4M  464. 
3  Aatron.,  IV,  v.  B66. 

*  Astron.,  IV,  v.  184    18  . 


44  INTRODUZIONE 

Kuctanteraque  patrem  natos,  Solemque  reversum, 
Et  caecum  sine  Sole  diera  ;  ' 

quindi  i  poeti  comici,  gii  attori  scenici  e  gli  attrezzisti,  per  la 
cui  opera  meraviglipstl  pare  al  popolo  radunato  nella  cavea  di 
vedere 

praesentera  Troiam  Priamumque  ante  ora  cadentem,  ' 

e,  sempre  fra  la  gente  di  teatro,  i  gentili  flautisti,  per  i  quali 
«  labor  est  etiam  ipsa  voloptas  ». s  Poi,  scendendo  più  in 
basso,  l'auriga  del  circo,  nato  per 

subiungere  currus, 
Ardentis  et  equos  ad  mollia  ducere  frena;  ' 

i  gladiatori  dell'anfiteatro,  i  quali 

caput  in  mortem  vendunt  et  funus  arenae 
Atque  hostem  sibi  quisque  parat,  cum  bella  quiescunt  ;r> 

il  domatore  di  belve,  cbe  sa 

Exorare  tigris,  rabiemque  auferre  leoni, 

Cumque  elephante  loqui,  tantamque  aptare  loqueudo 

Artibus  humanis  varia  ad  spectacula  molem  ; 6 

e  ancora  l'equilibrista,  il  cavallerizzo,  il  ballerino.  Vediamo 
inoltre  aggirarsi  fra  gli  spettatori  il  venditore  di  fiori  e  di  pro- 
fumi, e  nelle  piazze  la  gente  adunarsi  davanti  al  palco  im- 
provvisato del  saltimbanco  o  dell'incantatore  di  serpi.7 

Mi  si  passino,  in  grazia  del  loro  valore  dimostrativo,  que- 
ste citazioni,  le  quali  servano  pure  di  saggio  al  lettore  per  un 
giudizio  sulla  forma  di  Manilio:  giudizio  che  quanto  all'efficacia 
della  frase,  alla  purezza  della  lingua,  alla  perfezione  metrica 
del  verso  deve  essere  evidentemente  favorevole.  E  concludo  : 
l'opera  di  Manilio  è  un  poema  di  forte  concezione,  per  quanto  non 
del  tutto  originale,  di  sufficiente  arte  nell'orditura,  arido  e  pr<> 

»  Astron.,  V,  v.  468-464. 

*  Astron.,  V,  v.  486. 
3  Astron.,  IV,  v.  Itt. 

*  Astron.,  iv.  v.  ì>31  232. 
»  Astro».,  IV,  v.  22n-226. 

*  Astron.,  IV,  v.  236-237. 

7   0.    KlBBECK,    (»)>.    lit.,    U.    18    Sgtf. 


INTRODUZIONE  45 

saico  nella  prima  metà,  ma  ricco  di  motivi  e  di  colori  poetici 
nella  seconda;  per  ogni  riguardo  storicamente  notevole,  e  degno 
del  favore,  specialmente  letterario,  che  più  tardi,  nell'età  del 
Rinascimento,  ebbe  la  fortuna  d'incontrare.1 

Torniamo  alla  storia  dell'astrologia.  Tralascio,  come  sopra, 
di  accumulare  aneddoti  curiosi  intorno  all'espandersi  della 
superstizione  sotto  gl'imperatori  posteriori  a  Tiberio;8  ac- 
cenno di  volo  alle  molte  polemiche,  confutazioni  e  difese  dei 
principi  astrologici,  segnatamente  del  fatalismo  e  della  ne- 
cessità del  volere,  alle  quali  presero  parte  le  scuole  filoso- 
fiche pagane  non  solo,  ma,  alquanto  più  tarli,  i  Padri  della 
Chiesa  cristiana. 3  E  vengo  all'  età  di  Marc'  Aurelio,  quando 
Tolomeo  ingegnosamente  forzò  l'aristotelismo,  come  abbiamo 
già  detto,  a  conciliarsi  colla  teoria  degl'  influssi,  e  cosi  con- 
taminato lo  trasmise,  con  meravigliosa  fortuna,  per  mezzo 
del  suo  sistema  geocentrico,  a  tredici  secoli  dopo  di  lui. 4  Sorge 
più  tardi  Plotino,  restauratore  della  filosofia  accademica,  il 
quale  pur  togliendo  importanza  all'astrologia  col  dare  alle  stelle 
il  solo  valore  di  segni  del  volere  divino,  non  la  negò  del  tutto, 

1  Con  questo  giudizio  benevolo  si  accorda  0.  Ribbeck,  op.  cit.,  p.  21  ;  ma 
da  esso  si  scosta,  forse  perché  troppo  familiare  con  le  altezze  lucreziane, 
«(1  a  mio  modo  di  veliere  non  del  tutto  giustiricatamente,  C.  Giussam,  Let- 
teratura romana,  Milano,  1899,  p.  326-327;  vi  si  oppone  pure  G.  Lanson,  op. 
cit.,  p.  82,  dove  è  curioso  il  leggere  come  tutta  la  parte  umana  dell'ispi- 
razione poetica,  cioè  circa  metà  del  poema,  sia  da  ritenersi  opera  retto- 
rica,  vuota  di  concetto,  puro  esercizio  letterario.  Temo  assai  che  su  questo 
genere  di  apprezzamenti  prema  alquanto  il  disprezzo,  poco  critico,  in  che 
è  tenuta  comunemente  l'astrologia.  La  quale  —  il  lettore  già  se  n'  è  ac- 
corto —  deve  essere  da  ogni  serio  studioso  considerata  come  un  fenomeno 
importante  nella  storia  delle  religioni  e  della  filosofia,  e  guardata  quindi 
con  occhio  sereno  e  con  animo  spassionato. 

*  A.    BoUCHÉ-LECLERCq,    Op.    CÌt. ,    p.    .ri").">    Sgg. 

3  A.  Hovché-Leclekcq,  op.  cit.,  p.  f>70  sgg. 

*  È  noto  come  l'opera  maggiore  di  Tolomeo,  la  Meyàfa]  Ovi>Ta£ig  rf)g 
àOTQOvo/Liiag,  che,  tradotta  in  arabo,  tornò  in  Occidente  col  nome  di  Al- 
mar/ento,  come  è  un  perfezionamento  delle  teorie  planetarie  eudossiantj  e 
aristoteliche,  cosi  non  è  estranea  all'astrologia;  ma  più  astrologico  è  il 
TeTQàf}ifìXo£,  detto  alla  latina  Quadripartito,  piccolo  manuale  composto 
di  Inani  tolemaici  da  un  compilatore  più  recente.  Non  occorre  avvertire  che 
una  terza  operetta,  il  Centiloquio,  creduta  del  grande  astronomo  per  molto 
tempo,  e  contentata  diffusamente  nel  Quattrocento  dal  l'ontano,  è  ora  rico- 
nosciuta apocrifa.  Vedi  S.  (ìììnther,  op.  cit.,  p.  80;  W.  Christ,  op.  cit.,  p.  571. 


46  INTRODUZIONE 

anzi  fini  col  darle  incremento  indirettamente  per  mezzo  del 
misticismo  delle  sue  concezioni.1  Porfirio,  un  altro  neo-piato- 
nico,  pensò  di  conciliare  l'influsso  col  libero  arbitrio,  conce- 
dendo all'anima  non  ancora  incarnata  la  libera  scelta  del  pro- 
prio tema  di  genitura,  e  favori  cosi,  assai  più  che  non  supponesse, 
l'astrologia;2  Iamblico  e  Proclo  popolarono  lo  spazio  sublunare 
di  un'infinità  di  demoni,  ottimi  trasmissori  delle  azioni  stel- 
lari.3 Da  tutte  codeste  fantastiche  costruzioni,  con  qualche  ele- 
mento tolto  altresì  al  giudaismo  e  al  cristianesimo  orientali', 
sorsero,  intorno  all'età  di  Costantino,  quei  curiosi  zibaldoni  che 
una  tradizione  artificiale  attribuì  per  lungo  tempo  alla  remota 
sapienza  egiziana,  e  vanno  sotto  il  nome  di  Ermete  Trismegi- 
sto,  nei  quali  l'astrologia  più  superstiziosa  ed  inverosimile  ha 
larghissima  parte. A  Della  medesima  epoca,  nati  dallo  stesso 
miscuglio,  sono  gli  otto  libri  di  Giulio  Finnico  Materno,  la  mag- 
giore e  più  sfacciata  e  arruffata  trattazione  astrologica  in  prosa 
dell'antichità,5  ad  interpretar  la  quale —  come  volle  un  biz- 
zarro destino  —  si  affaticarono  con  tanto  zelo  gli  umanisti  del 
nostro  Quattrocento,  scambiandola  per  non  so  qual  preziosis- 
simo testo. 

Attingendo  la  sua  materia  alle  idee  ora  ricordate,  ed  ispi- 
randosi evidentemente  all'esempio  mauiliano,  un  versificatore 
greco  dell'età  di  Alessandro  Severo  aveva  intanto  prodotto  uno 
degli  ultimi  saggi  antichi  di  poesia  celeste.  Il  suo  nome  ci  è 
ignoto,  celandosi  egli  sotto  il  ieratico  appellativo  di  Manetone 
egiziano;  il  suo  poema  si  compone  di  tre  libri,  intitolati  degli 
Apotelesmati,  nei  quali  l'esposizione  è  quanto  inai  arida  e  pe- 
destre, la  trama  regolare,  ma  senza  novità,  e  l'elemento  poetico 
manca  del  tutto.  Rinuncerò  pertanto  a  darne  un  sunto  metodico, 
pago  di  accennare  ad  alcuni  punti  in  esso  degni  di  nota.  E  in 

1  E.  Zei.ler,  op.  cit.,  V.  p.  665  Bgff*  !  A.  Boocbè-Lk  Bit  p.  600. 

-  K.  StUtt,  op.  cit.,  V,  |».  C.74  ;  A.  Bovno   LtCLUO),  op.  cit.,  p.  I 
3  A.  Bouché-Lec LKRcq,  op.  cit.,  p.  602. 

*  Hermes  Trisme'giste,  trad.  complète  préeédée  d'una  òtnde,  eto.  par  L 
Mknard,  Paris,  1866,  p.  e  e  ex.  Si  vedrà  a  suo  luogo  V importanza  del  liliri 
ermetici  nel  Rinascimento,  quando,  specialmente  dal  Filino,  faro*  erodati 
veri  monumenti  di  un'antichissima  filosofia  religiosa  orientali'. 

•  VY.  S.  TEUFrKL,  op.  cit.,  p.   102"-. 


INTRODUZIONE  47 

primo  luogo  osserverò  che  questo  poemetto  viene  —  se  per  corn- 
ili unzione  o  di  proposito,  non  saprei  determinare  —  a  compiere 
l'opera  di  Manilio  nella  sua  parte  deficiente,  cioè  per  ciò  che  ri- 
guarda l'influsso  dei  pianeti.  Nel  primo  libro  infatti,  date  varie 
notizie  astronomiche  generali,  si  espone  la  teoria  delle  case  zo 
diacali,  e  subito  dopo  la  dottrina  degli  aspetti  planetari,  special- 
mente dei  luminari,  detti  in  quest'opera  stelle  regie;  nel  secondo 
si  tratta  del  passaggio  dei  pianeti,  compresi  il  Sole  e  la  Luna, 
nei  cardini  del  circolo  della  genitura;  nel  terzo  ed  ultimo  viene 
una  specie  di  repertorio  di  parecchi  temi  genetliaci  planetari. 
Caratteristico  storicamente  vi  è  l'ostentato  silenzio  intorno  al- 
l'oroscopo imperiale,  e  notevole  poeticamente  il  breve  accenno 
dell'autore  alla  propria  genitura. l 

Vano  sforzo  sarebbe  il  tener  dietro,  nella  nostra  rapida  ras- 
segna, ad  altri  nomi  di  plagiari  e  compendiatori  degli  scritti 
fin  qui  enumerati,  i  quali  trova nsi  nell'età  costantiniana  tanto 
numerosi,  quanto  destituiti  di  qualsiasi  importanza:  2  affrettia- 
moci piuttosto  a  chiudere  il  periodo  astrologico  maniliano,  cosi 
diverso  dal  precedente  o  arateo,  tanto  diverso  altresì  dal  se- 
guente o  medioevale. 


1  Intorno  allo  Pseudo  Manetone  ed  ai  tre  libri  autentici  degli  Apotele- 
smati  seguo,  senza  aver  agio  di  seriamente  discuterle,  le  conclusioni  di 
A.  Koechly,  Portele  bucolici  et  didactici,  Paris,  1850,  p.  vi  della  prefazione 
all'opera  di  cui  discorriamo. 

2  Qualche  notizia  di  scarso  interesse  intorno  a  Doroteo  ed  a  Massimo,  scrit- 
tori greci  di  brevi  precetti  astrologici,  ed  agl'ignoti  autori  dei  tre  libri  apo- 
crifi degli  Apotelesmati,  v.  in  A.  Koechly,  op.  cit.  Assai  pili  importante  per 
contro  è  la  voce  die  questa  poesia  mandò  a  distanza  nel  tempo,  ridestando 
l'eco  di  certi  poeti  bizantini  dei  secoli  xn  e  xm.  Tu  questa  età,  come  ve- 
dremo a  suo  luogo,  in  Occidente  mancava  affatto  il  ricordo  dei  modelli 
classici,  mentre  alla  corte  degli  imperatori  d'Oriente  Andronico  e  Manuele 
Comneno  si  scrissero  i  due  poemetti  astrologici  cristianeggianti  di  Teodoro 
Prodromo  e  di  Giovanni  Camatero,  sul  valore  e  sui  caratteri  dei  quali  v. 
M.  K.  Killer,  Ponnes  Astronomiques  de  T.  Prodrome  et  de  I.  Camatère, 
etc,  in  Notices  et  extraits  dea  manuscrits  de  la  bibl.  nationale  etc,  voi. 
XXIII,  par.  2e,  p.  49. 


48  INTRODUZIONE 


Tutto  ciò  che  fino  a  questo  punto  ho  ricordato  della  storia 
della  poesia  astrologica,  mentre  serve  a  illaminare  il  teina 
principale  del  presente  lavoro  dal  punto  di  vista  scientifico 
ed  estetico,  ha  il  valore  di  studio  sulle  fonti  classiche  sia 
deila  sostanza  sia  della  forma  dei  poemi  astrologici  del 
Quattrocento:  importanza  affatto  secondaria  ha  come  introdu- 
zione storica  o  preparazione  di  ambiente  letterarie  Invece 
quanto  sto  per  dire  della  poesia  astrologica  medioevale  tende 
ad  uno  scopo  interamente  inverso,  giacché  uell'età  di  mezzo 
veniamo  ad  avere  la  lenta  formazione  del  contenuto  e  dell'  as- 
setto esteriore  della  poesia  didattica  del  secolo  xiv.  di  quel 
colo  cioè  che,  trovandosi  proprio  sullo  scorcio  del  Medio  evo, 
costituisce  la  linea  di  passaggio,  anzi  di  confine,  fra  quesl 
il  Rinascimento,  del  quale  e  perciò  il  precedente  storico;  pie- 
cedente  di  pura  cronologia  e  non  di  colleganza  intrinseca  se 
non  in  parte  minima,  secondaria  ed  esterna,  in  quanto  serve 
a  dimostrare  che  l'ardore  per  la  divulgazione  artistica  della 
scienza  già  prima  dell'Umanesimo  in  Italia  era  vivo  ed  operoso, 
sebbene  si  servisse  di  mezzi  molto  diversi  esteticamente.  Per- 
ciò in  questo  sunto  toccherò  di  volo  le  precipue  questioni  me- 
diocvali  intorno  all'astrologia,  e  nella  esposizione  «lei  mate- 
riale letterario  mi  limiterò  ai  più  noti  prodotti  della  poesia 
enciclopedica  trecentistica. 

Si  legge  in  Sfent'  Isidoro  una  partizione  della  dottrina  06- 
leste,  utilissima  a  noi  per  due  rispetti  :  e  per  conoscere  fin  da 
principio  quali  fossero  le  correnti  del  pensiero  mcdioevale  nel 
campo  astronomico,  e  per  raggruppare  i  poemi  da  studiarsi, 
a  seconda  del  loro  carattere  interno.  Comincerò  pertanto  col 
riferire  alla  lettera  il  passo  dell' Ispalense  : 

De  differenti  a  astronomiae  et  astrologiae.  Inter  astronomi;»  m 
autem  et  astrologiam  aliquid  diflert.  Nani  astronomia  converaionem 

coeli,  ortus,  obitus  motusque  siderum  continet,  vel  qua  •»  ita 

voceDtur.  Astrologia  vero  partim  naturalis,  partim  superstitiosa  est. 


INTRODUZIONE  49 

Naturalis,  dum  exequitur  Solis  et  Luuae  cursus,  vel  stellarum,  cer- 
tasque  temporuin  stationes.  Superstitiosa  vero  est  illa,  quam  mathe- 
matici  sequuntur,  qui  in  stellis  augurantur,  quique  etiam  duodecim 
signa  per  singula  animae  vel  corporis  membra  disponuut,  siderum- 
que  cursu  nativitates  hominum  et  mores  praedicere  conantur.  ' 

In  queste  parole  vediamo  accennata  in  primo  luogo  l'astro- 
nomia propriamente  detta,  cioè  quella  scienza  delle  posizioni 
e  dei  movimenti  celesti  che,  sopravvissuta  al  decadimento  di 
ogni  arte  e  di  ogni  sapere  durante  i  secoli  delle  più  gravi  in- 
vasioni barbariche,  ancora  all'inizio  del  Medio  evo  veniva  in- 
segnata nelle  scuole  :  essa  era  dunque  un  pallido  ricordo  delle 
teorie  greche  aristoteliche,  secondo  il  caratteristico  cielo  tole- 
maico, che  si  studiava  sopra  certi  magri  testi,  quali  erano,  per 
esempio,  il  noto  libro  di  Marziano  Capella  e  l'opera  sopra  ricor- 
data del  vescovo  di  Siviglia.  2  Una  debole  tradizione  mitolo- 
gica, soprattutto  ad  illustrazione  dello  Zodiaco,  accompagnava 
pure  codesto  insegnamento,  resistendo  alle  ingiurie  del  tempo 
ed  alla  guerra  mossa  loro  dal  cristianesimo  taluni  rifacimenti 
o  sunti  dell'opera  iginiana. 3  Venne  poi,  fra  il  nono  e  il  de- 


1  S.  Isidori  Hispalensis  episcopi  Opera  omnia,  Romae,  a.  MDCCXCVIII,t.  Ili, 
p.  144.  Non  occorre  spiegare  che  mathematici  vengono  in  questo  passo  chia- 
mati, con  espressione  classica,  gli  astrologi  ;  piuttosto  gioverà  avvertire  che 
la  classificazione  di  Isidoro  ebbe  davvero  un  consenso  quasi  universale  nel- 
l'età di  mezzo,  quando  la  si  trova  ripetuta  dai  più  reputati  scrittori,  come 
Giovanni  di  Sassonia,  Rabano  Mauro,  ecc.,  per  i  quali  v.  A.  Ebert,  Allge- 
meine  Geschichte  der  Literatur  des  Mittelalters  im  Abendlande,  Leipzig, 
1874-87,  t.  II,  p.  133,  n.  4.  Giova  inoltre  osservare  che  nel  Medio  evo,  anzi  fin 
dall'antichità,  alla  distinzione  dei  concetti  non  sempre  corrispose  presso 
gli  autori  la  distinzione  dei  vocaboli,  fra  i  quali  si  riscontra  una  specie  di 
sinonimia.  Ad  ovviare  alla  quale,  come  osserva  A.  Bouchk-Leclekc^,  op.  cit., 
p.  3,  n.  3,  8'  introdusse,  per  indicare  quella  che  esattamente  dovrebbe  chia- 
marsi astromanzia,  il  nome  di  astrologia  giudiziaria  ;  mentre  il  termine 
astronomia,  a  dispetto  del  significato  etimologico,  rimase  alla  scienza  ce- 
leste intesa  in  senso  moderno. 

2  A.  Ebekt,  op.  cit.,  t.  I,  p.  459  e  662. 

3  Esempi  di  frammenti  mitologici  ne  vedremo  parecchi  nei  poemi,  che 
stiamo  per  esaminare;  qui  è  piuttosto  il  luogo  di  richiamare  certe  figura- 
zioni pittoriche  medioevali,  nelle  quali  il  motivo  astronomico  ancora  si  può 
scoprire,  e  che  costituiscono  un  utile  raffronto  colle  descrizioni  poetiche. 
Importanti,  p.  es.,  sono  a  questo  riguardo  le  notizie  date  da  P.  Toesca,  Gli 
affreschi  della  cattedrale  di  Anagni,  Roma,  1902,  p.  9-10,  e,  per  la  tradi- 

SOLPATI  4 


60  introduzione 

cimo  secolo,  il  risveglio  scientifico  arabo,  dapprima  in  Oriente 
quindi  nella  Spagna;  Albategni  ed  Alfagrano  tradussero  e  co- 
mentarono  il  vero  Tolomeo,  il  quale  per  il  loro  tramite  ricon- 
dusse il  sapere  classico  nel  territorio  dell'antico  dominio  ro- 
mano. l  A  diffondere  questo  sapere  in  modo  facile  ed  elementare 
il  monaco  inglese  Giovanni  Alifax,  detto  il  Sacrobosco,  scrisse 
poco  appresso,  cioè  sul  principio  del  secolo  xiii,  una  sua  Sfera, 
che  divenne,  quantunque  fosse  un  mediocre  ed  imperfetto  com- 
pendio dell'  A Imagesto,  famosa  e  ricercata  in  tutto  l'Occidente, 
e  trovò  opportune  aggiunte  nelle  annotazioni  di  astronomi  po- 
steriori. 2  È  dessa,  almeno  per  la  parte  scientifica,  la  nota  co- 
struzione geocentrica  degli  Scolastici,  che  tanta  importanza  ebbe 
nel  pensiero  e  nell'arte  degli  ultimi  due  secoli  del  Medio  evo. 
Alla  seconda  categoria  d'Isidoro  appartiene  quella  cono- 
scenza dei  movimenti  del  Sole  e  della  Luna  in  rapporto  alle 
altre  parti  del  cielo  stellato,  che  serve  a  contraddistinguere  le 
suddivisioni  del  tempo  :  in  altri  termini,  la  scienza  del  calen- 
dario. Essa  che,  pochi  anni  prima  dell'era  volgare,  aveva  pro- 
dotto la  celebre  riforma  di  Giulio  Cesare  ed  ispirato  il  poe- 
metto ovidiano  dei  Fasti,  durante  l'impero  e  per  tutto  il  .Medio 
evo  rimase  pressoché  stazionaria,  e  solo  nel  Rinasci  monto  ebbe 
un  nuovo  periodo  di  risveglio,  quando  attese  alla  seconda  ri- 


zìone  grafica  dei  manoscritti,  da  (i.  Thielb,  Antike  Himmeìsbilder,  Berlin, 
1898,  già  citato.  Una  curiosa  tradizione  letteraria  e  plastica  à  pure  quella, 
che  ci  dà  la  personificazione  dell'astronomia,  in  figura  di  donna  coronata 
di  stelle,  press'a  poco  quale  si  legge  in  questi  due  distici  d'ignoto: 

Mira  mini  facies  animusque  volubili*  instai, 
Tot  gero  quippe  oculos,  quot  capit  astra  polus, 

Mammas  quinque  teueus,  unam  tamen  igne  perustam. 
Et  Ihikis  placidas,  atque  duas  gelidas; 

distici  editi  in  Monum.  Germ.  historica,  Poetano)  latinorum  nodi)  ieri, 
t.  I,  pars  posterior,  p.  629;  su  quest'argomento  v.  altresì  A.  Ebert,  op.  cit., 
t.  II,  p.  78;  e,  per  la  parte  pittorica,  P.  D'Ancora,  Le  rapprcsr>itu:io>i)  alle- 
goriche delle  arti  liberali  nel  Medio  evo  e  nel  Rinascimento,  Roma,  1903. 

1  M.  Delambre,  Histoire  de  l'astronomie  du  Moyen  dge,  Paris,  1819,  p.  LO 
e  68. 

*  Ioakhis  de  Sacro  Bosco  Sphaera,  Lugduni,  1578.    Si   divide    in   quattro 
piccoli  libri  o  capitoli,  nei  quali  manca  qualsiasi  mistione  di  dottrina  astro- 
logiche; v.  anche  M.  Delambre,  op.  cit,  p.   241,   dove   si  parla  della    5 
e  dei  suoi  commentatori. 


INTRODUZIONE  51 

forma  dell'anno,  più  volte  tentata,  detta  dal  pontefice  che  la 
consecrò,  gregoriana. 1  Ma  non  esercitandosi  attivamente  in 
osservazioni  od  in  calcoli,  diede  pur  materia  nel  Medio  evo 
a  certi  trattatelli,  detti  Computi,  ora  in  prosa  ed  ora  in  poesia: 
compilazioni  generalmente  di  monaci,  ai  qnali  era  caro  tener 
nota  dei  mesi,  delle  settimane,  dei  giorni,  in  servigio  delle 
pratiche  del  culto,  segnando  le  cerimonie  sacre,  i  periodi  di 
festa  o  di  penitenza.  Uno  di  tali  libri  porta  il  nome  del  Sacro- 
bosco  ; 2  un  altro,  anteriore,  cioè  del  secolo  xn,  è  opera  di  Fi- 
lippo di  Thaon,  ed  è  in  versi  francesi.  Ricordo  questo  a  pre- 
ferenza d'ogni  altro,  giacché  ha  per  noi  un  qualche  interesse 
non  solo  per  il  saggio,  che  ci  offre,  di  descrizione  dei  pianeti, 
delle  costellazioni,  dei  circoli  della  sfera;  ma  singolarmente 
perché  alla  parte  espositiva  scientifica  viene  sovrapponendo  la 
sua  brava  allegoria,  di  carattere,  ben  s' intende,  religioso.  3 

La  terza  categoria  comprende  l'astrologia  giudiziaria,  la 
quale  nell'età  di  mezzo  non  fu  meno  fiorente  che  nell'antica, 
sebbene  in  essa  presenti  dei  caratteri  alquanto  diversi.  Du- 
rante questo  periodo  infatti,  come  abbiamo  già  accennato 
in  principio  della  nostra  esposizione  storica,  l' astrologia  fu 
in  parte  trasformata  dalla  lotta  assai  viva  sostenuta  contro 
il  cristianesimo,  che  vedeva  nelle  dottrine  di  quella  una  con- 
tinua minaccia  alle  proprie  credenze  fondamentali  ;  lotta  che, 


1  D.  Marzi,  La  questione  della  riforma  del  calendario  nel  quinto  con- 
cilio lateranense,  Firenze,  1896  ;  dove,  a  p.  7-8,  si  dà  qualche  notizia  in- 
torno agli  studi  del  computo  nel  Medio  evo,  specialmente  coltivati  dagli 
Àrabi,  e  si  accenna  all'opinione  seguita  da  Dante  sull'errore  annuo  del 
calendario  giuliano. 

*  M.  Delambre,  op.  cit.,  p.  242. 

3  Li  Cutnpoz  Philipe  de  Thaiin,  ed.  E.  Mail,  Strassburg,  1873;  v.  pure 
ciò  che  ne  dice  G.  Paris,  La  littérature  francaise  au  Moyendge,  Paris,  1890, 
p.  144.  Alcune  delle  allegorie  ricordate  consistono  in  un  semplice  accenno, 
come  queste  : 

Li  multuns  signefie 
Le  fil  sainte  Marie.... 
E  li  tors  siguelie 
Le  fll  sainte  Marie....; 

ma  altre,  per  l'influsso  di  leggende  animali,  sono  ben  più  stiracchiate,  come 
quella  del  Leone,  che  nasce  morto  e  soltanto  dopo  tre  giorni  è  richiamato 
in  vita  dal  pianto  dei  genitori,  onde  è  immagine  della  risurrezione  di  Cristo. 


52  INTRODUZIONE 

a  dire  il  vero,  non  terminò  con  la  vittoria  della  Chiesa.  Giac- 
ché i  sacri  Dottori,  fin  dal  tempo  di  sant'  Agostino,  cioè  fin 
dagli  ultimi  secoli  dell'impero  romano,  s'erano  messi,  nella 
battaglia,  in  una  posizione  sbagliata,  di  guisa  che  con  la 
loro  inadeguata  confutazione  finirono  per  cader  nella  rete  de- 
gli astrologi  e  preparare  quel  curioso  miscuglio  di  supcrsti 
zione  e  di  ortodossia,  che  per  tutto  il  Rinascimento,  fino  al 
processo  di  Galileo,  non  venne  mai  mono. 

Sant'Agostino  adunque,  preoccupato  del  colpo  che  il  fata- 
lismo astrologico  avrebbe  portato  alla  dottrina  della  provvi- 
denza e  della  grazia  divina,  combatté  quella  scienza,  che  aveva 
coltivata  in  gioventù,  e  cominciò  con  attaccarla  in  alcuni  punti 
interni,  cercando  di  cogliere  in  contraddizione  i  suoi  opposi- 
tori; visto  però  che  le  sue  armi  in  questo  campo  si  potevano 
ritorcere  contro  di  lui,  venne  ad  un  argomento  capitale,  ma 
pericoloso,  e  sentenziò  che  gli  astri  sono  bensi  segni  del  fu- 
turo, cioè  del  libero  volere  di  Dio,  ma  riescono  indecifrabili 
per  i  più  e  chiari  soltanto  per  coloro  che  ricorrono  all'in- 
terpretazione dei  demoni.1  Era  questo  un  riconoscere  la  teoria, 
condannando,  dal  punto  di  vista  religioso  e  morale,  la  pratica; 
era  un  sancire  l'esattezza  delle  predizioni  pronunciate  dai  pa- 
gani, le  cui  anime  eran  credute  in  potere  del  diavolo.  E  ben 
se  ne  accorsero  gli  stessi  fedeli,  tra  i  quali  sorsero  alcuni,  i 
quali  sinceramente  s'argomentarono,  giacché  l'astrologia  esi- 
steva, di  cristianizzarla,  o,  meglio,  di  esorcizzarla,  immaginando, 
al  posto  degli  spiriti  del  male,  degli  spiriti  celesti,  degli  an- 
geli. La  setta  dei  Priscillianisti,  per  esempio,  sostituì  ai  demoni 
planetari  gli  arcangeli,  e  nei  dodici   segni  zodiacali   pose  le 


1  A.  Bouché-Leclercq,  op.  cit.,  p.  619.  L'idea  di  attribuire  all'azione  de- 
moniaca l'interpretazione  dei  segni  celesti  venne  probabilmente  a  s.  po- 
stino dal  grande  abuso  che  di  tali  spiriti  sublunari  si  taci  va  nelle  scuole 
astrologiche  neo-platoniclie,  allora  in  fiore.  Anche  nel  Medio  evo  tale  giu- 
dizio si  perpetuò,  come  ci  attesta  una  leggenda,  secondo  la  quale  l'astro- 
logia avrebbe  avuto  a  padre  Cam  figlio  di  Noè.  ammaestrato  in  essa  dagli 
angeli  ribelli  ;  v.  Il  libro  di  Sidrach,  ed.  A.  Bartoli,  liologna,  1868,  p.  xi  ;  A. 
Graf,  Miti,  leggende  e  superstizioni  elei  Medio  evo,  Torino.  1  »'>_•.  vol.i,  p.  j74, 
e  II  diavolo,  Milano,  1890,  p.  249;  e,  per  la  parte  più  antica,  C.  Pascal, 
Dèi  e  Diavoli,  Firenze,  1904,  p.  87. 


INTRODUZIONE  53 

case  delle  anime  dei  dodici  patriarchi  d'Israele.1  L'interpre- 
tazione era  logica,  onde  non  rimase  senza  seguito  nelle  nienti 
medioevali,  avide  di  costruzioni  fantastiche  ;  una  corrente  in 
questo  senso  si  produsse,  rinascente  qua  e  là  nelle  leggende, 
come  in  quello  strano  questionario  d'origine  provenzale,  del 
secolo  xin,  che  s' intitola  il  Libro  di  Sidrac.  2 

Considerata  l'astrologia  come  dottrina  diabolica,  è  da  os- 
servare che  un  importante  rincalzo  essa  ebbe  al  tempo  del 
risveglio  scientifico  arabico,  in  doppio  senso  :  crebbe  il  timore 
presso  i  cristiani,  e  quindi  la  riprovazione,  d'un  sapere  colti- 
vato con  tanto  successo  dai  nemici  della  Fede  ;  il  carattere 
d'altra  parte  che  l'astrologia  assunse  in  taluni  dei  libri  ara- 
bici, imbevuti  di  neo-platonismo,  parve  davvero  dovesse  farla 
confondere  con  la  magia,  nella  quale  l'intervento  demoniaco 
era  normale.  Passando  infatti  rapidamente  sopra  Albumasar 
ed  Alfagrano,  i  due  restauratori  orientali  della  divinazione 
greca  secondo  Tolomeo, 3  e  venendo  ad  Averroé,  cioè  al  più 
notevole  dei  pensatori  saraceni  d'Occidente  o  spagnuoli,  di  età 

1  A.  Bouché  Leclerco,  op.  cit.,  p.  623  e  320,  n.  1. 

8  11  libro  di  Sidrach,  ed.  Bartoli,  dove  il  testo  è  presentato  in  una 
redazione  italiana  del  sec.  xiv.  Dalla  quale  non  è  qui  fuor  di  luogo, 
come  saggio  delle  prime  modificazioni  subite  dalla  superstizione  celeste, 
stralciare  il  racconto  della  rivelazione  di  Giafet  (ed.  cit.,  p.  418  sgg.). 
Dice  adunque  Sidrac  al  re  Botozo  come  Giafet,  figlio  di  Noè,  essendosi 
con  la  famiglia  stabilito  in  un  paese,  che  chiamò  «  Persia  la  grande  »,  re- 
candosi a  pascolare  il  gregge  in  montagna,  smarri  nel  cammino  il  suo  ul- 
timo e  prediletto  figlio  Alinemos.  Disperato  egli  piangeva,  quando  a  lui 
scese  un  angelo  del  paradiso.  —  «  L'angelo  disse  a  Giafet:  non  piangere  lo 
tuo  figliuolo,  ma  fa  com' io  t'insegnerò,  e  tu  saprai  del  tuo  figliuolo  s'egli 
è  morto  o  vivo  ;  e  ti  sia  ricordo,  per  te  e  per  tutti  gli  altri  che  dopo  te 
deono  venire  ;  e  per  tutti  i  tempi  sapere  ti  conviene  l'opere  delle  pianete  e 
de1  segni,  com' elle  governano  la  terra,  e  tutte  le  criature,  e  tutte  l'altre 
cose  che  sono  avenire,  e  quelle  che  sono  istate  e  sono  di  presente.  Sia  lo 
cominciamento  dell'arte  del  fermamento,  e  sarà  chiamata  questa,  istrolo- 
mia.  Quando  l'angelo  ebbe  detto  questo,  e  insegnato,  e  egli  si  parti.  Giafet 
fece  quello  che  l'angelo  gli  avea  insegnato,  e  si  trovóe  che  il  figliuolo  era 
sano  e  salvo,  che  alla  fine  de'  VII  giorni  e  XII  ore  egli  lo  dovea  trovare. 
Gli  sette  giorni  significano  le  VII  pianete,  e  le  XII  ore  significano  gli  XII 
segni  ;  che  le  sette  pianete  e  gli  XII  segni  anno  vertude  di  governare  tutte 
le  cose  passate  e  le  presenti  e  quelle  che  deono  venire  ». 

3  Per  notizie  sulle  opere  loro  v.  P.  Toynbee,  Ricerche  e  note  dantesche, 
Bologna,  1899,  IH  e  IV. 


54  INTRODUZIONE 

meno  antica,  vediamo  farsi  strada  una  concezione  dell'uni- 
verso, che  è  fortemente  in  antitesi  col  cristianesimo,  come  si 
può  osservare  da  un  semplice  cenno  espositivo.  L'averroismo 
pone  a  fondamento  del  proprio  sistema  due  principi:  quello 
della  materia  eterna  ed  incorruttibile,  che  costituisce  i  cieli 
e  la  Terra,  dotata  di  una  intelligenza  congenita  in  lei,  che  le 
serve  di  forma  necessaria  e  le  dà  il  moto;1  quello  dell'intel- 
letto unico,  ossia  della  perfetta  «  universalità  dei  principi 
della  ragion  pura  e  dell'unità  della  costituzione  psicologica 
in  tutto  il  genere  umano  ». 2  Ma  siccome  riconosce  ancora  in 
ciascun  essere  la  dipendenza  quanto  al  moto,  e  quindi  alla 
vita,  dall'  essere  gerarchicamente  superiore  ad  esso,  e  perciò 
il  collegamento  del  tutto,  l'umanità  compresa,  col  cielo  più 
alto,  detto  perciò  primo  mobile,  ne  consegne  che  in  quest'  ul- 
timo risiede  ogni  iniziativa. 3  Se  adunque  esiste  un  libero 
arbitrio  nella  divinità  o  nell'uomo,  lo  si  troverà  nel  primo  mo- 
bile; ma  questo  riceve  il  moto  dalla  propria  intelligenza  ne- 
cessaria, onde  cade  in  rovina  ogni  concetto  di  libertà  e  di 
provvidenza.4  Si  aggiunga  poi,  come  corollario,  che  le  intel- 
ligenze naturali  averroistiche,  che  non  sono  gli  angeli,  si  pre- 
stano ad  essere  ascritte  alla  categoria  dei  diavoli;  onde  veniva 
a  stabilirsi  una  catena  di  spiriti  collegati,  necessari  gli  uni 
agli  altri,  pervadenti,  anzi  informanti,  tutto  l'universo. 

Sopra  una  simile  base  non  è  dunque  meraviglia  se  l'astro- 
logia fece  dei  progressi  e  giunse  a  delle  illazioni  assai  com- 
promettenti per  l'integrità  della  fede  cristiana,  come,  per  citare 
un  esempio,  alla  costruzione  d'un  tema  di  genitura  anche  per 
Gesù  Cristo:  Yoroscopo  infatti  lo  si  vedeva  chiaramente  nella 
famosa  stella  dei  Magi,  e  la  predicazione  e  la  morte  in  altri 
segni  prossimi  e  remoti,  secondo  i  (piali  gli  antichi  patriarchi. 
da  veri  astrologi,  avrebbero  formulate  le  loro  profezie  sul 
Messia. 5  Portate  a  questo  punto  le  cose,  l'eresia  appariva  evi- 

1  E.  Renan,  Averroes  et  Vaverroisme,  Paris,  1862,  p.  86-86. 

*  E.  Renan,  op.  cit.,  p.  106. 
3  E.  Renan,  op.  cit.,  p.  93. 

*  E.  Renan,  op.  cit,  p.  87. 

■"'  Questa  interpretazione  della  stella  dei  Mairi  Ria  s>  trova  al  tempo  del 
basso  impero  (A.  Buucue-Lf.ci.ekcv,  op.  cit.,  p.   611),    naturalmente   combat- 


INTRODUZIONE  55 

dente,  e  come  tale,  dopo  sant'Agostino,  la  bollava  anche  san 
Tommaso,  la  cui  autorità  restò  norma  alla  Chiesa  nelle  sue 
cruente  battaglie  contro  gli  astrologi. l 

Non  dunque  nelle  dottrine  arabiche  era  possibile  trovare 
un  punto  di  comune  accordo  fra  l' astrologia  e  l' ortodossia, 
e  nemmeno  nei  tentativi  grossolani  dei  Priscillianisti,  i  quali 
per  ricondurre  gl'influssi  ad  una  causa  divina,  seguivano  un 
metodo  affatto  esteriore  ed  arbitrario.  L'accordo  parve  invece 
raggiunto  in  un  terzo  modo  di  concepire  i  massimi  rapporti 
dell'universo,  che  sta  in  mezzo  e  partecipa  degli  altri  due, 
mantenendo  salve  nello  stesso  tempo  le  ragioni  del  dogma, 
cioè  nel  sistema  tolemaico-scolastico  ;  secondo  il  quale  a  partir 
dall'Empireo,  sede  di  Dio  libero  e  provvidente,  si  propagali 
moto  attraverso  le  sfere  celesti,  dotate  ciascuna  d'una  intel- 
ligenza angelica,  per  gradi,  e  scende  fino  alla  Terra,  portan- 
dovi le  varie  impressioni  delle  differenti  nature  planetarie. 
Ora,  siccome  queste  impressioni  non  sono  di  semplice  moto 
fisico,  ma  invadono  altresì  l'elemento  morale,  cosi  il  loro  ca- 
rattere risulta  innegabilmente  astrologico,  od  astroteologico, 
come  fu  da  qualcuno  felicemente  battezzato  per  il  Paradiso 
dantesco.  2  In  un  modo  o  nell'  altro,  cioè  per  vie  alquanto  co- 
perte, l'astrologia  era  cosi  riuscita  vittoriosa  della  Chiesa;  la 
quale  però  si  sarebbe  trovata  in  serio  imbarazzo  quando  avesse 
voluto  scendere  a  determinazioni  più  concrete  in  questo  campo, 
proponendosi,  per  esempio,  di  conciliare  la  libera  volontà  di  Dio, 
sia  pure  essa  prestabilita  ab  eterno,  con  i  moti  periodici,  regolati 
da  leggi  immutabili,  degli  astri.  Probabilmente  la  Chiesa  in 
questo  caso  avrebbe  fatto  uso  della  teoria  dei  miracoli,  tron- 
cando, ma  non  sciogliendo,  il  nodo,  cioè   il  contrasto   vero, 

tuta  dai  sacri  Dottori,  e  ricompare,  insieme  con  l'intero  tema  di  genitura 
di  Gesù,  non  solo  in  Averroé,  ma  nei  più  noti  averroisti  ed  astrologi  me- 
dioevali, come  Pietro  d'Abano  e  Cecco  d'Ascoli,  accusati  perciò  di  eresia.  Cfr. 
Sante  Ferrari,  I  tempi,  la  vita,  le  dottrine  di  Pietro  d'Abano,  Genova,  1900, 
p.  377  ;  G.  Bornio,  Perete  fu  condannato  al  fuoco  l'astrologo  Cecco  d'Ascoli? 
Roma,  1900,  p.  26. 

1  G.  Bofkito,  op.  cit.,  p.  17,  n.  2. 

8  P.  P.  T.uiso,  Struttura  morale  e  poetica  del  Paradiso  dantesco,  estr. 
dalla  Rassegna  Nazionale,  102,  p.  18. 


56  INTRODUZIONE 

larvato,  e  non  perciò  distrutto,  dall'ingegnoso  sistema   del- 
l'Aquinate. 

Mentre  adunque  i  Dottori,  per  le  loro  stesse  imprudenti  con- 
cessioni, spiegabili  soltanto  con  l'azione  dell'ambiente  scienti- 
fico del  tempo,  cadevano  senza  ragione  nella  rete  degli  astro- 
logi, costoro  solo  per  eccezione  si  occupavano  dei  problemi 
fondamentali;  e  se  per  un  caso,  che  accadeva  di  frequente, 
avevano  l'intenzione  di  varcare  i  limiti  dell'ortodossia,  cor- 
revano al  riparo  con  una  dichiarazione  pregiudiziale  di  osse- 
quio alla  Fede  ed  alla  dottrina  del  libero  arbitrio. !  Però  la 
loro  occupazione  prediletta  era  la  pratica,  che  essi  esercitavano 
soprattutto  nelle  corti,  dove  certi  scrupoli  religiosi  non  arriva- 
vano :  celebri  per  averne  ospitati  in  gran  numero  sono  quella 
di  Federico  II,  dove  visse  Michele  Scotto,  famoso  traduttore 
d'Averroé,  2  e  quella  di  Ezzelino  da  Komano,  presso  la  quale. 
—  curioso  ravvicinamento  —  si  trovarono  nello  stesso  ufficio  un 
arabo  ed  un  canonico  ! 3  Conoscendo  pertanto  quasi  unicamente 
la  pratica  loro,  nella  quale  frequenti  erano  le  intrusioni  della 
magia  e  dell'alchimia,  il  popolo,  che  non  va  tanto  pel  sottile, 
nella  sua  fantasia  li  trasformò  presto  in  stregoni,  creando  in- 
torno ad  essi  le  più  strane  leggende.  *  D'altro  canto,  per  le 
stesse  ragioni,  essi  ebbero  il  disprezzo  degli  uomini  di  più  alto 
intelletto  e  sapere.  Dante,  che  pure  credette,  come  s'  è  detto 
or  ora,  nei  principi  dell'astrologia,  dannò  Michele  Scotto,  Guido 
Bonatti,  Asdente,  come  volgari  indovini,  insieme  con  le  ma- 
liarde e  le  streghe  ; 5  il  Petrarca,  che  pur  non  osò  mettere  in 
dubbio  la  verità  del  sistema  planetario  scolastico,  scrisse  la 
nota  lettera  in  biasimo  dei  medici  e  dei  divinatori;6  Giovanni 

1  A.  Bouché-Leclercq,  op.  cit.,  p.  624,  n.  2. 

*  E.  Renan,  op.  cit.,  p.  162;  A.  Graf,  Miti,  leggende,  ecc.,  II,  p.  248. 
3  0.  Libri,  op.  cit.,  II,  p.  52. 

*  Tali  leggende,  molto  note  del  resto,  son  ricordate  da  A.  Graf,  op.  cit.. 
specialmente  nei  capitoli  :  La  leggenda  di  un  pontefice  (Silvestro  IH  e  La 
leggenda  d'un  filosofo  (Michele  Scotto).  Celebre  fra  tutte  è  poi  quella  §»!■■ 
affli  «lei  dottor  Fausto,  nella  quale  l'intervento  diabolico  è  parte  essenziale. 

•'<  Inferno,  xx,  v.  116  sgg. 

6  G.  Frac-assetti,  Lettere  senili  di  F.  Petrarca,  Firenze,  1869,  III,  ep.  l» 
a  Q.  Boccaccio,  leggendo  la  quale  con  un  po'  di  attenzione  ci  flflflOlftffl 
che  lo  scrittore  non  si  propose  già  di  confutare  i  principi   astrologici,  ma 


INTRODUZIONE  57 

Boccaccio,  che  andò  anche  più  oltre  de'  suoi  due  maestri  man- 
tenendo relazioni  d'amicizia  e  riverenza  con  Andalone  di 
Negro  e  Paolo  de'  Dagomari,  confessò  in  più  d'un  luogo  la  sua 
fede  astrologica,  ma  fece  nello  stesso  tempo  le  più  ampie  ri- 
serve intorno  a  tutto  ciò  che  potesse  offendere  la  sua  fede  re- 
ligiosa. ' 

Basti  intanto  dell'astrologia,  anzi  bastino  questi  rapidi  cenni 
sui  caratteri  interni  delle  tre  categorie  della  scienza  celeste  che 
il  Medio  evo  riconobbe  e  trattò,  giacché  ora  ci  conviene  pas- 
sare a  quei  prodotti  letterari  italiani,  che  di  tale  scienza  del 
tutto  o  in  parte  si  compongono  :  prodotti  letterari  poetici,  che 
ebbero  per  iscopo  la  divulgazione  del  sapere,  e  gareggiarono 
con  quelle  altre  grandi  opere,  da  loro  dissimili  solo  nella  mole 
e  nella  forma  esteriore,  il  cui  complesso  è  noto  sotto  il  nome 
di  enciclopedismo  medioevale.2  Accenniamo  dunque  solo  di  sfug- 
gita, costretti  dall'opportunità  a  ridurre  al  puro  necessario  i 
limiti  di  questa  introduzione,  a  quanto  riguarda  i  capitoli  astro- 
nomici delle  maggiori  raccolte  prosastiche,  quali  il  monumen- 
tale Speculum  del  Bellovacense,  il  De  naturis  rerum  di  Ales- 
sandro Neckam, 3  il  De  rerum  proprietatibus  di  Bartolomeo 
Anglico, 4  la  Summa  de  exemplis  et  rerum  similitudinibus  di 
fra  Giovanni  Goro  da  San  Gemignano;5  ricordiamo  di  volo 
perché  scritti  in  volgare,  e  perciò  importanti,  il  Trc'sor  di  Bru- 


di  confondere  tutti  i  negromanti  nelle  loro  pratiche  grossolane,  come  riusci, 
egli  dice,  a  smascherarne  un  giorno  uno  dei  più  reputati:  «  Imperocché  tor- 
nando io  soventi  volte,  per  l'amore  che  veramente  ho  di  lui  e  della  sua 
fama,  a  fargli  gli  stessi  rimproveri,  sebbene  e  per  età  e  dottrina  io  mi  ri* 
conosca  assai  da  meno  di  lui,  mi  ricordo  che  un  giorno,  come  se  all'  im- 
provviso si  destasse,  mandò  fuori  dal  petto  un  profondo  sospiro  e  :  —  amico, 
disse,  quel  che  tu  pensi  lo  penso  anch'  io,  ina  è  pur  mestieri  che  io  viva  —  ; 
e  intesi  allora  come  la  dorata  catena  del  bisogno  lo  costringesse;  perché, 
mosso  a  compassione  di  lui,  non  dissi  più  verbo  >. 

1  A.  Graf,  op.  cit.,  II,  p.  173  ;  e  A.  Hortis,  Accenni  alle  scienze  natu- 
rali nelle  opere  di  G.  Boccacci,  Trieste,  1877,  p.  7,  8,  14.  , 

2  V.  Cun,   Vivaldo  BelcaUer  e  l'enciclopedismo  italiano  delle  origini, 
in  (ìior.  storico  d.  lett.  italiana,  Supplemento  n.°  5,  Torino,  1902,  p.  34  sgg. 

3  Alexandhi  Neckam,  De  naturis  rerum  libri  duo,  età,  ed.  T.   Wright, 
London,  1863,  p.  37  sgg. 

*  V.  Cian,  op.  cit.,  p.  44. 
&  V.  Cui»,  op.  cit.,  p.  65. 


58  INTRODUZIONE 

netto  Latini, l  la  Composizione  del  mondo  di  Ristoro  d'Arezzo,  2 
la  riduzione  in  dialetto  mantovano  dell' opera  citata  di  Barto- 
lomeo Anglico  dovuta  alla  penna  di  Vivaldo  Belcalzer; 8  pas- 
siam  sotto  silenzio  molti  altri  scritti  dello  stesso  genere,  tutte 
notevolissime  trattazioni,  che,  insieme  con  quei  libri  speciali 
di  astronomia  e  di  computo  che  già  abbiamo  avuto  occasione 
di  rammentare,  formano  la  grande  biblioteca  astronomica  del 
Medio  evo.  Tralasciamo  altresì,  per  non  indugiarci  troppo, 
certi  prodotti  poetici  non  italiani  e  non  volgari,  come  il  poe- 
metto di  Alcuino  sull'astronomia4  e  il  De  Laudibus  divinae 
sapientiae,  d'argomento  assai  vasto  e  parzialmente  dedicato 
alla  scienza  degli  astri  e  del  loro  influsso,  opera  del  Neckam 
citato.  5  Questi  volumi  sarà  sufficiente  additarli  come  fonti,  in 
varia  misura,  dei  nostri  poemetti  volgari  del .  Trecento,  nei 
quali  ci  preme  osservare  direttamente  in  che  modo  la  scienza 
del  cielo  sia  diventata  poesia  didascalica,  prima  che  l'influenza 
della  ridestata  antichità  si  facesse  sentire  in  Italia. 

Direi  da  principio  delle  parti  astronomiche  del  Tesurrfto 
del  già  ricordato  notaio  fiorentino,  come  della  più  antica  fra 
le  enciclopedie  e  di  poco  anteriore  al  sec.  xiv,  se  in  esso,  in- 
terrotto al  cap.  23°,  non  mancasse  per  l'appunto  la  trattazione 
della  sfera;  la  quale,  secondo  certi  accenni  d'un  passo  pre- 
cedente, 6  avrebbe  dovuto  essere  esposta  allo  smarrito  poeta 
in  prosa,  e  dalla   bocca  dello  stesso  Tolomeo.  Dirò  invece, 


1  T.  Sundbt,  Della  vita  e  delle  opere  di  Brunetto  Latini,  trad.  Renier, 
Firenze,  1884,  p.  96  99. 

2  Della  composizione  del  mondo  di  Ristoro  d' Arezzo,  Milano,  1864.  Per 
ciò  che  in  esso  v'e  di  astronomico  e  di  astrologico  vedi  pure  A.  Bjlrtuli, 
Storia  della  letteratura  italiana,  Firenze,  1880,  voi.  Ili,  p.  163  sgg.,  e  825  sgg. 

3  V.  Cian,  op.  cit.,  p.  70  sgg. 

4  A.  Ebert,  op.  cit.,  II,  p.  29;  e  Monum.  Germ.  historica,  t.  I,  pars  prior, 
lxxiv,  p.  295. 

5  A.  Neckam,  op.  cit.,  p.  357  sgg. 

6  L'accenno  e  in  fine  al  capo  X,  dove  e  detto  : 

Ma  non  sarà  per  rima, 
Come  scritt1  ho  di  prima, 
Ma  per  piano  volgare. 

Nel  medesimo  capitolo  troviamo  tuttavia  qualche  notizia  generale,  in  anti- 
cipazione di  quanto  si  promette  per  dopo,  e  fra  l'altro  questa  notevole  ed 


INTRODUZIONE  69 

molto  sommariamente,  qualche  cosa  intorno  alla  Divina  Com- 
media, considerata  quale  opera  didascalica,  cioè  guardata  con 
occhio  non  molto  diverso  da  quello  dei  suoi  primi  più  antichi 
lettori,  che  appunto  alla  dottrina  in  essa  contenuta  affissavano, 
meravigliando,  gli  sguardi.  E  prima  richiamerò  l' attenzione 
sulle  notizie  di  scienza  astronomica  ed  astrologica  del  Convi- 
vio, l'opera  che  nel  pensiero  di  Dante  doveva,  più  direttamente 
che  il  poema,  indicare  la  profondità  e  la  sicurezza  del  suo  sa- 
pere; l'opera,  per  mezzo  della  quale  veniamo  a  scoprire  le  due 
fonti  principali  dell'Alighieri  nel  campo  delle  discipline  ce- 
lesti :  san  Tommaso  ed  Alfagrano. 1  Da  questi  due  scrittori 
Dante  apprese  la  parte  matematica  o  propriamente  astronomica 
dei  moti  dei  cieli  e  quella  concezione  speciale  dell'influsso,  a 
cui  abbiamo  già  di  sfuggita  accennato  ;  e  ciò  apprese  con 
mirabile  sicurezza,  di  ciò  si  rese  siffattamente  padrone,  da 
sorprendere,  fra  i  moderni,  quegli  scienziati,  che  col  rigore 
dei  nostri  metodi  recenti  indagarono  i  cosi  detti  passi  astro- 
nomici  e   gli   accenni  al  tempo  nel  viaggio  ultra-terreno.  2 

esplicita  dichiarazione,  che  in  seguito  a  quanto  s'  è  detto  non  abbisogna  di 
commento,  a  proposito  degl'influssi  morali  dei  pianeti: 

E  s'  altra  provvedenza  Che  tu  dei  pur  pensare 

Fu  messa  in  lor  potenza,  Che  le  cose  future 

Non  ne  farò  menzione,  E  V  aperte  e  le  scure 

Che  picciola  cagione  La  somma  maestate 

Ti  poria  far  errare;  Ritenne  in  potestate. 

Il  Tesoretto  e  il  Favoletto  di  ser  Brunetto  Latini,  Firenze,  1824  ;  e  T.  Sdndby, 
op.  cit.,  p.  32. 

1  F.  Anqelitti,  in  una  recensione  ad  un  articolo  (del  Moore)  su  The 
Astronomi/  of  Dante,  in  Bullett.  della  S.  D.,  N.  S.,  VII,  p.  180. 

2  Son  noti  agli  studiosi  i  risultati  a  cui  giunsero  intorno  a  questo  teina 
il  Boffito,  il  Marzi  e  specialmente  l'Angelitti.  Mi  piace  tuttavia  ricordare 
espressamente  la  bella  difesa  della  perfezione  dell'astronomia  dantesca  fatta 
dal  dotto  direttore  dell'Osservatorio  palermitano  contro  l' afférmazione  del 
Moore,  che  gli  accenni  astronomici  di  Dante  siano  approssimativi  e  rivolti 
alle  persone  di  mezzana  coltura  scientifica  (Bullett,  N.  S.,  Vili,  pp.  209- 
224);  e  riportar  le  parole,  con  le  quali  il  citato  scrittore  riepiloga  il  suo 
giudizio  sulla  preparazione  scientifica  dell'  Alighieri  :  «  La  coltura  di  Dante, 
comunque  sondata,  trovasi  tanto  profonda,  quanto  varia  ed  estesa;  in  teo- 
logia, in  filosofia  scolastica,  in  metafisica,  in  morale,  nelle  scienze  fisiche 
e  nella  letteratura  classica  egli  non  la  cede  neanche  al  più  provetto  spe- 
cialista contemporaneo  in  nessuna  materia.  Dante  è  spesso  difficile  a  ca- 
pirsi, perché  la  difficoltà  risiede  nel  soggetto,  ma  non  è  quasi  mai  oscuro; 


r 


60  INTRODUZIONE 

Cosi  preparato  intorno  alla  costituzione  della  sfera,  si  capisce 
come  il  divino  poeta  sia  riuscito  a  disegnare,  quale  scena  della 
sua  grande  visione,  l'universo  con  assoluta  perfezione  di  toc- 
chi, con  acuta  esattezza  di  riflessioni,  e  non  abbia  in  più  luoghi 
nascosto  il  suo  proposito  di  voler,  anche  nei  principi  scienti- 
fici non  pertinenti  alla  massima  concezione  morale,  ammae- 
strare i  lettori.  Lo  scopo  didattico,  l'insegnamento,  è  innega- 
bile nella  Commedia,  ed  è  provato  non  solo  dall'esistenza  in 
essa  di  lunghi  passi  espositivi,  ma,  come  ben  ricorda  ogni 
studioso  di  Dante,  dalla  diretta  confessione  del  poeta.  l 

Nei  passi  espositivi,  che  durante  tutta  la  peregrinazione 
dantesca  nei  regni  dell'oltretomba,  ma  specialmente  nel  Pa- 
radiso, accompagnano,  commentano,  spiegano  i  fatti  fisici  e 
morali  immaginati,  sta  dunque,  come  in  un  trattato  sminuzzato 
in  molti  capitoletti  che  a  vicenda  si  compiono,  la  doppia  dot- 
trina dei  moti  e  degl'influssi  degli  astri.2  I  moti,  come  i  rap- 
porti e  la  natura  materiale  delle  stelle,  risalgono  alla  conce- 
zione tolemaico-scolastica;  gl'influssi  hanno  carattere  essen- 
zialmente teologico.3  Dall'Empireo,  cioè  da  Dio  —  ripeto  idee 
e  cose  note  e  già  prima,  in  questa  stessa  introduzione,  toccate 
—  scende  una  immensa  scala  di  creature  perfette,  i  cieli  con 
le  intelligenze  motrici,  ciascuna  delle  quali  ha  una  sua  propria 


clit''  anzi  nessuno  scrittore  ebbe  idee  più  chiare  sulle  cose  da  trattare  :  le 
idee  dantesche,  precise  nei  contorni,-  come  se  fossero  scolpito  su  di  una 
pietra  col  bulino,  sono  esposte  in  una  forma  luminosa,  poco  meno  che  ec- 
cezionale >  (Bullett.,  N.  8.,  VII,  p.  140). 

1  Volentieri  anche  in  questo  caso  mi  richiamo  all'autorità  dell' Angelini 
(Hullett.,  N.  S.,  VII,  p.  129,  in  nota),  che  scrive  testualmente  :  «  Io  ho  notati 
non  meno  di  nove  luoghi,  che  sono,  nella  sostanza  e  nella  forma,  vere  le 
■ioni  di  astronomia.  Tra  questi  segnalo  il  passo  del  Purg.,  ìv,  58-120,  che 
si  chiude  con  la  graziosa  celia  di  Belacqua, 

Hai  ben  veduto  come  il  sole 
Dall'omero  sinistro  il  carro  mena? 

e  quello  del  Par.,  x,  7-27,  che  termina  col  severo  avvertimento, 

Or  ti  rimali,  lettor,  sopra  il  tuo  banco 
Dietro  pensando  a  ciò  che  si  preliba  ». 

'  (i.  Antonelli,  Accenni  alle  dottrine  astronomiche  nella  Divina  Com- 
media, nel  volume  Dante  e  il  suo  secolo,  Firenze,  1866,  p.  611. 
3  F.  I\  Luiso,  op.  loc.  cit. 


INTRODUZIONE  61 

virtù,  della  quale  informa  la  natura  mortale  dei  bruti.  '  E  que- 
sta scala  si  abbassa  fino  alla  Terra,  sulla  quale,  con  bellissimo 
mito,  immagina  Dante  una  intelligenza,  simile  alle  sue  sorelle 
celesti,  che  regola  l'affluire  dei  beni  fra  gli  uomini,  la  Fortuna. 2 
Però  l'anima  umana,  creata  e  informata  direttamente  da  Dio, 3 
dovrebbe  teoricamente,  con  l'aiuto  del  libero  arbitrio,  sottrarsi 
alla  virtù  informatrice  stellare  od  influsso; 

Ma  cosi  salda  voglia  è  troppo  rada,4 

soggiunge,  nel  cielo  di  Venere,  lo  stesso  poeta.  Per  una  strada 
obliqua  e  nascosta,  cioè  per  mezzo  dell'ambiente,  in  cui  l'uomo 
si  trova  a  vivere,  la  potenza  celeste  devia  molti,  molti  legger- 
mente sospinge  verso  un  suo  proprio  ordine  di  pensieri  e  di 
azioni,  cosicché  in  Terra,  anche  nella  società  umana,  l'influsso, 
per  quanto  non  necessario,  si  manifesta  buono  e  cattivo.  Onde 
le  anime  dei  beati,  quasi  a  conferma  d'uno  stato  reale  di  cose 
esistente  nella  vita  mortale,  sono  nel  paradiso  disposte  secondo 
le  stelle  dal  cui  «  lume  »  ciascuna  fu  «  vinta  ».  L'astrologia, 
in  quanto  è  scienza  diabolica  e  pagana  condannata  in  persona 
degl'indovini  nella  quarta  bolgia  infernale,  in   questo  modo 

diventa,  perché 

forse 
In  alcun  vero  suo  arco  percuote,  5 

come  la  dottrina  platonica  delle  anime,  una  delle  basi  teolo- 
giche, uno  dei  temi  d'insegnamento  più  frequenti  nel  divino 
poema. 

Già  si  è  detto  che  queste  teorie,  le  quali  costituiscono  il 
contenuto  scientifìco-astronomico  della  Commedia,  vengono 
esposte  in  lunghi  brani,  secondo  le  norme  della  dialettica  me- 
dioevale ;  brani  che  rappresentano  perciò  la  forma  speciale  ret- 

1  Paradiso,  vii,  121-148. 

'  N.  Zinoarelm,  Dante,  nella  Storia  letteraria  d' Italia,  Milano,  Val- 
lardi,  p.  549.  Contro  la  Fortuna  dantesca  si  scagliò,  com'è  noto,  Cecco 
d'Ascoli,  intorno  al  quale  v.  qui  appresso  ciò  che  si  dice  a  proposito  del- 
l'Acerba. 

3  Paradiso,  vii,  70-78. 

*  Paradiso,  iv,  87. 

6  Paradiso,  iv,  69-60. 


62  INTRODUZIONE 

torica  della  didascalica  dantesca  Ma  è  necessario  soggiungere 
che  in  aiuto  ad  essi  viene  la  ricca  e  bella  schiera  delle  simi- 
litudini, le  quali  indirettamente  ci  porgono  mirabili  esempi  di 
descrizioni  celesti.  Le  similitudini  sono  infatti  i  mezzi,  de'  quali 
Dante,  con  arte  altissima,  si  vale  a  rappresentare,  accanto  al 
mondo  morale  delle  anime,  il  mondo  fisico,  intorno  alla  tra- 
gedia e  alla  commedia  umana,  lo  sfondo,  il  paesaggio  della 
natura.  Ora  esse,  a  cominciare  dal  Purgatorio,  vanno  attin- 
gendo ai  fenomeni  dell'aria  e  del  firmamento  il  loro  contenuto, 
sempre  più  frequentemente  diventano  meteorologiche  ed  astro- 
nomiche nei  primi  canti  del  Paradiso,  finché,  con  un  crescendo 
meraviglioso,  si  moltiplicano  e  raggiungono  perfetta  evidenza 
di  visioni  dirette  nei  canti  23°  e  24°,  dove  miracolosa  è  la  scena 
non  meno  che  l'espressione.  Ivi  gli  astri  chiamati  a  rettorico 
paragone  sfolgorano  di  luce  e  si  animano  di  miti,  nello  sforzo 
supremo  e  vittorioso  dell'arte  del  più  grande  dei  poeti  del 
cielo. 

Dopo  la  Divina  Commedia,  allo  stesso  secolo  xiv  appar- 
tengono il  Dottrinale  e  il  Dittamondo,  che  con  quella  hanno 
stretti  legami  di  dipendenza;  appartiene  pure  Y  Acerba,  che 
vorrebbe  a  quella  contrapporsi,  e  più  direttamente  si  compiace 
della  discussione  scientifica  ed  astrologica. 

Nel  poema  del  figlio  di  Dante  la  descrizione  del  cielo  oc- 
cupa un  posto  notevole,  dal  libro  XII  al  XXVII,  dove  inco- 
mincia la  meteorologia,  che  si  estende  fino  al  XXXVII.  Grande 
vi  è  l'insufficienza  dell'esposizione,  si  che  vien  naturale  di 
dar  ragione  davvero  al  poeta,  quando  confessa  di  procedere 

come  i  ciechi  fauno 
Che  lor  casa  non  sanno, 
Et  la  sua  magione 
Kitruovano  a  tentone, 
Dando  spesso  di  cozo 
Per  lo  veder  eh'  è  mozo. l 

Però,  osservata  più  attentamente,  quest'operetta  appara  non 
solo  abbastanza  ordinata  e  compiuta,   ma   dimostra  ancora 

1  G.  Crocioni,  II  Dottrinale  di  Iacopo  Alighieri,  Città  di  Castello,  1895, 
I,  49. 


INTRODUZIONE  63 

la  solidità  della  coltura  astronomica  del  suo  autore.  Il  quale 
attinse  largamente  alla  scienza  medioevale,  aiutato  da  quel 
Paolo  de'  Dagomari,  che  abbiamo  visto  pure  in  relazione  ami- 
chevole col  Boccaccio.  In  un  punto  tuttavia  per  noi  interes- 
sante Iacopo  tentenna:  dico  nell' enunciare  il  suo  giudizio  in- 
torno ai  problema  astrologico.  Mentre  infatti  s' è  dato  attorno 
ad  enumerare  gli  aspetti  e  gì'  influssi  dei  pianeti,  accennando 
alle  teorie  delle  case  e  dei  confini,  alle  esaltazioni  e  depres- 
sioni, egli  esce  poi  sul  conto  degl'indovini  in  queste  frasi: 

Con  buffa  e  con  froda 
Uno  et  altro  l'annoda, 
Componendo  malie 
Con  nuove  fantasie 
Sotto  producimenti 
Di  stelle  e  d'ascendenti; 
E  talvolta  vien  fatto 
Come  il  parlar  del  matto. i 

Probabilmente,  come  molti  altri  suoi  contemporanei,  anche 
Iacopo  Alighieri  ammetteva  come  veri  i  principi  ed  escludeva 
la  pratica;  cosi  almeno  lasciano  credere  i  passi  ricordati,  i 
quali  vorrei  che  servissero  pure  a  dare  un  saggio  della  po- 
vertà artistica  di  questo  poema,  estremamente  monotono. 

Ben  migliore  è  per  contro  l' opera  di  Fazio  degli  Uberti, 
nella  quale  finge  il  poeta,  dopo  lungo  errare,  di  trovarsi  sopra 
una  nave  salpata  dalla  Provenza  e  diretta  a  Tripoli,  avendo 
a  compagno,  con  Solino,  anche  Plinio,  e  udendo  da  costui 
la  descrizione  dei  fenomeni  celesti.  Tale  esposizione  occupa 
i  primi  quattro  capitoli  del  libro  V:  piccola  mole  invero,  se 
considerata  come  parte  della  vasta  enciclopedia,  ma  di  note- 
vole ampiezza  se  osservata  in  sé  e  nel  suo  contenuto.  Il  quale 
comprende  in  primo  luogo  i  pianeti,  studiati  nei  loro  movi- 
menti ;  quindi  i  segni  dello  Zodiaco,  descritti  nelle  loro  figure 
e  classificati  secondo  certe  loro  proprietà  astrologiche,   cioè 

1  G.  Cbocioni,  op.  cit.,  p.  39,  dove  si  parla  della  severità  di  Iacopo  verso 
gli  astrologi  con  ammirazione  esagerata  e  forse  inopportuna.  V.  pure,  dello 
stesso,  La  materia  del  Dottrinale,  estr.  dalla  Rivista  di  fìsica,  ecc.,  del 
Mirri,  Pavia,  Novembre  1902,  p.  28-65. 


64  INTRODUZIONE 

divisi  in  maschili  e  femminili,  mobili  e  stabili,  ecc.;  in  terzo 
luogo  i  rapporti  fra  i  pianeti  e  i  segni,  e  specialmente  la  teo- 
ria delle  case  o  domicili',  infine  le  costellazioni  non  zodiacali 
del  nostro  emisfero  e  le  zone  celesti.  Come  si  vede,  Fazio  ha 
il  proposito  di  presentare  un  perfetto  compendio  di  scienza 
astronomica,  anzi  astrologica,  giacché  non  esita  a  dichiarare 
la  sua  fede  negl'influssi;1  ma  dal  modo  onde  si  comporta  dà 
facilmente  a  scorgere  la  sua  poco  profonda  preparazione.  Fano 
nel  suo  poema  si  rivela  soprattutto  poeta  e  letterato:  egli  si 
compiace  di  mettere  in  mostra  la  propria  erudizione  mitolo- 
gica e  le  conoscenze  ch'egli  ha.  sian  pure  di  seconda  mano, 
degli  antichi  scrittori,  come  nelle  seguenti  non  brutte  terzine 
sulla  Vergine: 

Di  questa  Virgo  Esiodo  fa  fede 
Che  figlia  fu  di  Giove  e  di  Diana, 
Ma  in  altro  modo  Aratus  poi  procede  : 

Ogni  vergine  cosa,  santa  e  sana, 
Pura  e  netta  significa  costei; 
In  vista,  mostra  angelica  ed  umana.2 

Altrove,  per  meglio  avvicinarsi  al  suo  grande  modello,  tenta, 
e  non  infelicemente,  la  difficile  arte  delle  similitudini,  spesso 
tratte  da  fatti  ed  oggetti  della  vita  reale,  e  più  spesso  attinte 
alle  stesse  sue  fonti  erudite.  Si  leggano,  per  esempio,  questi 
versi  sul  mosaicista  : 


1  Anche  nella  teoria  degl'influssi  Fazio  è  dantesco,  come  si  può  giudi- 
care dal  seguente  passo  (l)ittamondo,  Milano,  1S26,  V,  1°,  v.  4:1  45): 

Or  ciascun  cielo  ha  la  sua  intelligenza. 
Diversi  moti  e  diversa  natura, 
B  sopra  noi  «pia  giù  nuova  influenza; 

però,  come  s'è  visto  dalla  rapida  analisi  del  suo  poema,  egli  concede  assai 
pili,  che  l'Alighieri  non  faccia,  a  certe  figure  astrologiche  nella  descrizione 
della  sfera,  forse  seguendo  troppo  alla  lettera  la  sua  fonte  principale,  che 
non  è  precisamente  Alfagrano,  come  mostrò  di  credere  R.  Rknier,  Liriche 
edite  ed  ined.  di  Fazio  degli  liberti,  Firenze,  1883,  p.  ccli  sgg..  ma  Ri- 
storo d'Arezzo. 

ttam.,  V,  1°,  v.  109-114;  a  cui  corrispondono,  in  Ristoro,  seoml.. 
la  lezione  del  codice  Riccardiami  n.°  2164,  parzialmente  edito  da  A.  Hartoi.i, 
op.  cit.,  voi.  IH,]).  IS1,  quest'altre  espressioni:  t  La  virgine  sifilitica  la  vir- 
ginità et  le  cose  necte  et  pure  curi  tutte  le  sue  similitudini  ». 


INTRODUZIONE  65 

E  pensa,  s'hai  veduto  e  posto  cura, 
Quando  il  mosaico  con  vetri  dipinti 
Adorna  e  compon  ben  la  sua  pittura, 

Che  quei  che  son  più  riccamente  tinti 
Nelle  più  nobil  parti  li  pon  sempre, 
Ed  e  converso  nel  men  li  più  estinti. 

Cosi  quel  Sommo,  che  lassù  contempre, 
Conoscer  puoi,  che  d'una  e  d'altra  stella 
Figurò  il  cielo  con  diverse  tempre, 

E  ch'egli  pose  ciascuna  più  bella 
Proprio  in  quel  loco  che  vide  più  degno, 
Con  l'ordine  seguendo  questa  e  quella.  ' 

Nel  Bittamondo  quel  che  c'è  di  notevole  è  dunque  dovuto 
all'arte  dello  scrittore,  arte  discreta,  che  si  sente  lontanamente 
formata  sulla  Divina  Commedia. 

Ma  il  poema,  che  più  d'ogni  altro  merita  il  nome  di  astro- 
logico in  questo  tempo,  è  V Acerba.  La  fama  della  quale  sia 
nello  stesso  secolo  xiv,  sia  nel  xv,  ed  anche  ai  nostri  giorni 
in  grazia  di  certa  simpatia,  che  attira  i  critici  verso  l'opera 
della  misera  vittima  della  intransigenza  sacerdotale,  suona  tut- 
t' altro  che  debole,  e  vince  il  biasimo,  che  presso  alcuni  sto- 
rici della  letteratura  e  della  scienza  pareva  riassumere  tutto 
il  giudizio  sull'Ascolano,  inflittogli  in  causa  della  nota  invet- 
tiva contro  il  poema  dantesco.2 


1  Dittam.,  V,  3°,  v.  4-15;  ed  il  relativo  originale  in  Ristoro:  «  Pare  ke 
le  figure  del  cielo  fossaro  desegnate  et  composte  destelle  almodo  deli  savi 
artifici  ke  fano  lanobilissima  operatione  musaica  adadornare  et  astoriare 
lepareti  et  lipavimenti  deli  palagi  deligrandi  enperadori  et  deli  ree  et  de 
li  grandi  tenpli.  Et  averanno  pezzoli  devetro  endeorati  et  bianki  et  neri  et 
ogne  altro  colore  et  conponono  deqnesti  vetri  lafigura  dclaquale  laminale 
kelli  vole  fare  et  selli  vole  fare  lafigura  delomo  lipezzoli  delvetro  ke  se 
confanno  ali  capelli  et  quelli  del  viso  ponono  alviso....  Adoinqua  pare  ke 
ogne  pezzolo  devetro  sia  alogato  alsuo  luoco  la  o  olii  sa  fere  et  se  stesse 
altro  sarea  inconveniente.  Et  lo  cielo  pare  ke  sia  ordinato  et  storiato  defi- 
gure danimali  conposte  destelle  quasi  elio  modo  musaico  et  empercio  e 
molto  delectevole  avedere  >.  A.  Bartoli,  op.  loc.  cit.,  p.  836. 

*  Il  miglior  studio  generale  sullo  Stabili,  per  quanto  non  recentissimo, 
è  quello  di  F.  Bariola,  Cecco  d'Ascoli  e  l'Acerba,  Firenze,  1879;  meno  vec- 
chia, e  nello  stesso  tempo  meno  serena,  è  l'opera  di  (ì.  Castelli,  La  vita 
e  le  opere  di  C.  d'A.,  Bologna,  1892;  a  mio  giudizio,  di  scarso  valore  cri- 
tico è  il  recente  saggio  di  C.  Lozzi,  Cecco  d'A.,  in  La  Bibliofilia,  IV,  9-10, 


66  INTRODUZIONE 

Neil'  Acerba  adunque,  che,  come  è  noto,  è  composta  di 
quattro  libri  interi  e  di  un  quinto  incompiuto,  la  trattazione 
astrologica  dell'universo  occupa  tutto  il  primo,  parte  del  se- 
condo, parte  del  quarto  e  quel  poco  che  possediamo  dell'ul- 
timo libro:  in  complesso,  una  metà  circa  dell'opera;  se  pure 
i  capitoli,  che  abbiamo  cosi  esclusi  dal  computo,  non  meritano 
di  esservi  inclusi  per  la  loro  natura  speciale.  '  Giacché,  men- 
tre nel  primo  libro  si  espongono  distesamente  il  sistema  pla- 
netario e  la  sfera  delle  stelle  fisse,  i  fenomeni  atmosferici  e 
meteorici,  cioè  la  scienza  del  cielo  intesa  in  senso  largo,  nel 
secondo,  dopo  discussa  e  risolta  favorevolmente  la  questione 
degl'influssi,  si  discorre  dell'uomo  fisico  e  morale,  come  d'una 
creatura  degli  astri  informatori  ;  nel  terzo  si  trattano  certi 
problemi  di  psicologia  e  di  scienza  naturale,  e  nel  quarto  si 
parla  nuovamente  di  fenomeni  meteorologici  e  tellurici,  ma 
non  in  sé,  bensi  in  quanto  dipendono  tutti  dal  pili  vasto  do- 
minio del  cielo  astrologico. 

L'astrologia  di  Cecco  non  lascia  dubbiezze  in  chi  spassio- 
natamente la  studii,  e  spiega  perfettamente  la  condanna  per 
eresia  dal  punto  di  vista,  ben  s'intende,  dottrinale.  Infatti, 
quantunque  il  suo  sistema  generale  sia  quello  deirAquinate 
e  di  Dante,  tuttavia  le  influenze  celesti  sono  per  l'Ascolano 
più  forti  della  stessa  grazia  divina  :  il  che  non  pensarono,  anzi 
combatterono  quei  due  grandi  sostenitori  dell'ortodossia.  Per 
lui  le  sfere  del  cielo  sono  dotate  d'influsso  necessario,  quan- 
tunque in  apparenza  egli  in  qualche  punto  si  esprima  in  modo 
diverso.  Che  vale  infatti  ch'egli  si  induca  a  dichiarare  che 
dei  cieli  «  non  fa  necessità  ciascun  movendo  >, 2  se  poi  sog- 
giunge, in  tono  di  assoluta  verità: 

Firenze,  1903.  Soverchia  ini  portanza  alla  polemica  dantesca  dà  (J.  Votn,  // 
Trecento,  Milano,  Vallardi,  p.  178-179.  Ottimi  studi  parziali,  dove  l'eoa** 
nimità  <>  sempre  osservata,  sono  i  tre  articoli  del  padre  <;.  Borrito,  La  me- 
teorologia dell'Acerba,  in  Annuario  stor.  meteor.  it.,  anno  1",  Torino. 
Perché  fu  condannato  al  fuoco  l'astrologo  Cecco  d'A.?  già  citato  ;  o  I7«  De 
principiis  astrologiae*  di  C.  d'A.  nuovamente  scoperto  e  illustrato,  in 
Giornale  storico  della  lett.  it.,  tappi.  6°,  Torino,  1903,  p.  1.  Per  la  Ubilo- 
grafia  ultimissima  di  Cecco  cfr.  il  cit.  Giornale,  XM.  p.  149. 

1  F.  Bariola,  op.  cit.,  parte  2". 

*  L'Acerba,  llb.  II,  e.  1,  in  F.  Bariou,  op.  loc  cit. 


INTRODUZIONE  67 

Contro  fortuna  onn'om  pò  valere 
Seguendo  la  raxon  nel  so  vedere,1 

dove  la  invocata  ragione  non  è  altro  che  il  ragionamento  astro- 
logico, la  scienza  che  prevede,  e  quindi,  in  certa  misura  e  con 
inadeguata  resistenza,  corre  al  riparo  contro  l'influsso  male- 
fico ? 2  Quando  Cecco,  con  immagine  comune  nel  linguaggio 
divinatorio,3  paragona  l'azione  stellare  all'attrazione  del  ferro 
per  opera  del  magnete,  ed  avverte  che,  come  il  magnete  unto 
d'olio  diminuisce  d'intensità,  cosi  l'influsso  preveduto  scende 
men  dannoso  sull'uomo,  viene  a  trovarsi  nella  stessa  opinione 
degli  antichi  Stoici,  la  cui  dottrina  della  virtù  e  della  saggezza 
abbiamo  a  suo  luogo  studiata.  Orbene,  una  tal  posizione  nella 
battaglia,  un  tal  prender  partito  insistentemente  contro  il  cri- 
stianesimo dominante4  —  le  condanne  religiose  subite  da  Cecco 
furono  due  —  ci  è  prova  d'una  tenace  persuasione,  e  quindi 
d'una  concezione  potente.  Onde  credo  sia  saggio  giudizio  il 
ritenere  che  non  le  pretese  nuove  scoperte  scientifiche,  povera 
cosa  invero  e  non  provata, 5  ma  il  libero  tono  e  il  fiero  at- 
teggiamento faccian  del  Nostro  uno  scrittore  notevole.  Per 
tutta  l' Acerba,  attraverso  alle  aride  e  spesso  oscure,  strane 
e  puerili  notizie  che  vi  si  leggono,  corre  uno  spirito  di  ribel- 
lione che  aspira  ad  un  ideale  di  verità,  uno  spirito  di  inda- 
gine e  di  discussione,  che  rivela  la  forte  individualità  del 
poeta.  Il  quale,  se  più  arte  avesse  avuta,  forse  avrebbe  meri- 
tato un  tal  nome  in  senso  alto,  e  verrebbe  ora  additato  come 
il  Lucrezio  o  il  Manilio  del  Medio  evo.  Ma,  ahimè  !  troppo  arida 

1  L'Acerba,  lib.  II,  e.  1,  ultimi  due  versi. 

2  G.  Boffito,  Perché  fu  condannato,  ecc.,  p.  22  sgg. 

3  L'immagine  del  magnete  si  trova  in  molti  scritti  astrologici  di  assai 
dubbia  ortodossia,  come  nel  De  ratione  circuii  dell'arabo  Maschallah,  nelle 
opere  del  famoso  medico  Arnaldo  da  Villanova  (v.  (ì.  Boffito,  Intorno  alla 
e  Quaestio  de  aqua  et  terra  »  attribuita  a  Dante,  Mem.  I,  in  Memorie  del- 
l'Accad.  d.  scienze  di  Torino,  Torino,  1902,  p.  18  e  38)  e  nei  libri  dell'aver-, 
roista  Pietro  d'Abano  (v.  S.  Fbrrari,  op.  cit.,  p.  376). 

4  Si  avverta  che  lo  Stabili  sostenne  l'esistenza  e  l'attendibilità  del  tema 
di  genitura  di  Gesù  Cristo,  espressamente  riprovato  dalla  Chiesa  ;  v.  G.  Bof- 
fito, Perché  fu  condannato,  ecc.,  p.  26. 

•'•  •;.  Boffito,  La  meteorologia,  ecc.,  in  fine;  e  del  medesimo,  Il  «  De 
principi is  astrologiae  »  cit.,  p.  M>  sgg.,  in  nota. 


68  INTRODUZIONE 

è  la  sua  forma,  aspro  il  verso,  bandita  affatto  la  poesia  degli 
affetti  umani,  sbiadite  le  immagini  soffocate  nella  farraggine 
delle  argomentazioni  filosofiche. l 

Termina  cosi  con  V Acerba,  che  ne  è  senza  dubbio  il  mi- 
glior saggio,  la  breve  serie  delle  enciclopedie  del  secolo  xiv. 
non  termina  però  il  nostro  esame  dei  prodotti  poetico-astrolo- 
gici  del  Medio  evo,  giacché  un  piccolo  e  popolarissimo  scritto 
degli  ultimi  anni  di  quel  secolo,  o  dei  primissimi  del  seguente, 
merita  e  per  il  contenuto  e  per  la  forma  un'attenta  disamina. 
La  sua  data  —  che,  come  ho  detto,  oscilla  tra  la  fine  del  Tre- 
cento e  il  principio  del  Quattrocento  —  non  è  intanto  un  mo- 
tivo di  esclusione,  conservando  esso  nei  suoi  caratteri  essen- 
ziali legami  evidenti  colla  tradizione  enciclopedica  anteriore, 
dalla  quale  si  stacca  soltanto  per  qualche  elemento  secondario, 
per  quanto  notevole,  come  la  minore  ampiezza  dei  limiti,  onde 
meglio  si  afferma  il  tema  astronomico,  e  la  maggior  popolarità 
dell'intento.  Tale  scritto  è  la  notissima  Sfera  di  Goro  di  Stagio 
Dati. 

La  Sfera  —  si  badi  a  questo  vocabolo,  non  nuovo  nella  no- 
stra storia  —  è  un  poemetto  in  quattro  libri,  ciascuno  dei 
quali  consta  di  36  ottave,  e  tratta  dell'universo  fisico  in  senso 
generale,  cioè  dei  cieli  non  solo  e  degli  elementi,  ma  anche 
delle  principali  regioni  del  globo  terrestre,  esclusa  l'Europa. 
In  capo  a  tutta  l'opera  sta  un' invocazione  religiosa  di  sapore 
dantesco  : 

Al  Padre,  al  Figlio,  allo  Spirito  Santo 
Per  ogni  secol  sia  gloria  ed  onore;  * 

invocazione,  che  serve  pure  ad  entrare  in  argomento,  discor- 
rendosi in  primo  luogo  del  cielo  più  ampio,  cioè  dell'Empireo, 
dove  Iddio  ha  la  sua  sede.  Detto  del  primo  mobile,  si    parla 

1  Sull'impressione  che  riceviamo  dalle  pagine  ili  Cecco  mi  piace  ripor- 
tare testini»'  il  seguente  t'elice   giudizio   di   F.    Bariola,   op.    cit.,    capo  \  : 
«  l'Acerba  è,  piuttosto  che  un  paesaggio,  DO  museo,  nel  quale  tutto  è  im- 
mobile, ischeletrito,  mummificato,  e  solo  di  vivo  vi    passeggia    Frani 
Stabili  ». 

*  La  <S/iwa,  libri  quattro  in  ottava  rima  scritti  nel  sec.  xn   da  : 
nardo  Dati,  ecc.,  ora  con  due  libri  prima  aggiustivi  da  f.  Sto,  M.  Toi.osani 
da  CoLUt,- ecc.,  dati  nuovamente  in  luce  dall' aw.  <;.  Balletti,  Bona,  I 


INTRODUZIONE  69 

del  cielo  stellato,  nel  quale  si  raggruppano  le  costellazioni, 
tanto  quelle  comprese  nello  Zodiaco,  quanto  quelle  esterne  ad 
esso;  quindi  partitamente  si  dice  di  tutti  e  sette  i  pianeti  e 
del  loro  influsso.  Come  si  vede,  il  sistema  dell'universo,  sene 
togli  certe  conclusioni  astrologiche,  di  cui  avremo  ad  occu- 
parci, è  fondamentalmente  quello  scolastico;  come  scolastiche 
sono  la  descrizione  degli  elementi  e  le  notizie  intorno  al  ca- 
lendario, che  compongono,  nella  sua  parte  essenziale,  il  libro 
secondo.  I  due  libri  rimanenti,  d'argomento  geografico,  per 
quanto  intimamente  legati  col  resto  dell'opera,  non  hanno  in- 
teresse per  noi. 

Importante  è  invece  il  ricercare  come  l'autore,  —  che  fu 
dedito  alla  religione  e  fratello  di  Leonardo,  generale  dei  Pre- 
dicatori, '  ma  non  per  questo  rifuggi,  come  pare,  dal  servirsi 
di  fonti  arabiche, 2  —  si  sia  comportato  nella  questione  astro- 
logica, la  più  delicata  di  tutte  anche  presso  gli  scrittori  enci- 
clopedici da  noi  finora  esaminati.  L'influsso,  adunque,  per  il 
Dati,  se  gli  diamo  ascolto  quando  discorre  dell'ottavo  cielo,  è 
una  proprietà  indiscutibile  delle  stelle  fisse  e  dei  pianeti,  per 
quanto  sia  difficile  agli  uomini  il  saperlo  in  molti  casi  inter- 
pretare : 

Dentro  a  si  grande  e  tal  circumferenza 

Di  stelle  sono  un  numero  infinito, 

E  ciascuna  produce  sua  influenza 

Ne'  corpi  umani  e  nel  terrestre  sito, 

Benché  di  poche  se  n'abbia  scienza, 

Perché  sovente  rimane  smarrito 

Chi  dà  giudicio  di  cose  future, 

Perchè  di  tutte  non  sa  lor  nature.3 

Però  questa  incertezza,  dovuta  unicamente  all'ignoranza  umana, 
non  impedisce  logicamente  allo  scrittore  di  determinare  l'azione 


1  V.  Rossi,  Il  Quattrocento,  cit.,  p.  167;  e,  dello  stesso,  Iacopo  d'Albiz- 
zotto  Guidi  e  il  suo  inedito  poema  su  Venezia,  in  N.  Archivio  veneto, 
V,  1898,  p.  444. 

2  K.  Nordenskiòld,  Dei  disegni  marginali  negli  antichi  manoscritti 
della  «  Sfera»  del  Dati,  in  La  Bibliofilia,  III,  2-3,  Firenze,  1901,  p.  49, 
in  nota. 

*  La  Sfera,  lib.  I,  st.  9. 


70  INTRODUZIONE 

fisica  e,  in  certo  senso,  morale  di  ciascun  pianeta  sulle  cose 
terrene;  onde  leggiamo  di  Saturno: 

Questo  pianeta  ci  fa  contemplanti 
E  pensativi  e  casti  e  bene  astuti; 
Sottigliezza  d'ingegno  han  tutti  quanti, 
Sono  al  ben  far,  siccome  al  male,  acuti  ; 
Chi  è  de' suoi  si  vede  per  sembianti, 
Che  sopra  gli  altri  son  molto  avveduti; 
Il  nome  fu  di  uom  che  nacque  in  Creta 
Ed  ebbe  la  natura  del  pianeta. l 

Fin  qui  le  cose  procederebbero  dunque  assai  chiare,  se  non 
si  sollevasse  un  intoppo  improvviso,  dove  il  pio  scrittore,  forse 
pentito  d'essersi  lasciato  traviare  dai  suoi  maestri  saraceni, 
esce  in  questa  dichiarazione,  che  tende  a  salvare  il  libero 
arbitrio  : 

Di  tutte  queste  pass'ion  sicura 

È  l'anima,  che  segue  sua  natura;2 

con  i  quali  versi  si  cerca  di  scindere  il  principio  intellettivo 
dell'uomo  dal 'principio  corporeo,  in  cui  si  comprendono  an- 
che i  sensi  e  le  attitudini,  diremmo  noi,  naturali  del  suo  spi- 
rito, 8  in  modo  che  quello  sia  ritenuto  libero  dall'  influsso,  e 
questo  ad  esso  soggetto.  In  altri  termini,  mentre  il  tein peri- 
mento nostro,  dal  quale  ripetiamo  soltanto  l'impulso  a  questa 
o  a  quella  azione  buona  o  cattiva,  sarebbe,  per  il  Dati,  opera 
di  stelle,  cioè  di  natura  planetaria,  la  nostra  ragione,  di  na- 
tura divina,  sarebbe  libera  ne'  suoi  giudizi,  dominatrice  delle 
passioni,  come  Dio  è  dominatore  delle  sfere,  e  quindi  respon- 
sabile dei  propri  atti  davanti  a  lui.  La  soluzione  è  senza  dub- 
bio ortodossa,  per  quanto   sottile,  e  ci  richiama   assai  da  vi 

1  La  Sfera,  lib.  I,  st.  Il 

«  La  Sfera,  lib.  I,  st. 

3  Non  a  caso,  dunque,  fin  da  principio  il  Dati  aveva  tritio  che  pli  astri 
influiscono  €  ne'  corpi  umani  e  nel  terrestre  sito  ».  Quanto  poi  alle  tendenze 
naturali  dello  spirito  considerate  come  intimamente  connesse  col  corpo 
umano,  giova  ricordare  che  il  poeta  espressamente  .si  richiama  alla  dottrina 
ippucratea  dei  quattro  principali  temperamenti,  un  riflesso  dei  <juali  e 
visiliile  negli  stati  psichici  nostri:  v.   La  Sfera,  lil>.  II. 


INTRODUZIONE  71 

ci  no,  gettando  anzi  luce  sn  di  esso,  il  concetto  astrologico 
di  Dante. 

Keligiosa  del  pari,  se  non  nuova,  come  abbiamo  veduto,  e 
un'altra  teoria,  secondo  la  quale  il  poeta  viene  interpretando 
allegoricamente  i  principali  corpi  celesti  come  significazioni 
degli  attributi  di  Dio,  in  modo  che,  per  esempio,  nella  unione 
di  tre  elementi  distinti,  corpo,  calore  e  luce,  generati  nel  me- 
desimo istante,  ma  procedenti  il  secondo  dal  primo,  ed  il  terzo 
dal  primo  e  dal  secondo,  cioè  nel  Sole,  che  è  la  più  bella 
delle  creature  e  la  più  degna,  vede  significato  il  mistero  della 
divina  Trinità: 

Chiaro  splendore  e  fiamma  rilucente, 
Sopra  tutt'  altra  creatura  bella, 
Di  te  considerar  manca  ogni  mente, 
Di  te  a  parlar  vien  meno  ogni  favella  ; 
O  luce,  che  allumini  la  gente, 
Nobile  pili  che  alcun' altra  stella, 
Tu  rendi  al  mondo  figura  di  Dio 
Più  eh'  alcun'  altra  cosa,  al  parer  mio. l 

Parrebbe  pertanto,  dato  il  carattere  teologico  di  queste  dot- 
trine, che  la  Sfera  non  sia  stata  un'opera  di  divulgazione  se- 
mi-popolare, indirizzata  soprattutto,  come  fu  osservato  da  un 
illustre  geografo  moderno,2  agli  uomini  di  mare.  Bisogna  però 
avvertire  che  la  parte  teorico-religiosa,  importante  per  noi  in 
grazia  del  punto  di  vista  da  cui  ci  siam  messi  ad  osservarla , 
nell'economia  dell'opera  occupa  un  posto  non  grande:  quanto  al- 
l'astrologia, per  esempio,  ciò  che  più  è  messo  in  mostra  è  l'elenco 
degl'influssi,  non  la  natura  dei  medesimi.  L'assetto  generale 
espositivo  è  inoltre  semplice,  senza  alcuna  di  quelle  visioni, 
di  cui  si  compiacquero  i  primi  imitatori  di  Dante,  e  la  forma 
è  veramente  popolare,  nel  metro  più  dolce  e  nello  stesso  tempo 
più  adatto  a  spezzare  come  in  tanti  capitoletti  simmetrici  l'or- 
dinata materia.  Non  mancano  poi,  accortamente  disseminate 
nella  fluidità  tutta  toscana  delle  ottave,  immagini  esteticamente 

»  La  Sfera,  lib.  I,  st.  16. 

1    E.    NOKDENSKIULD,    Op.    lOC.    CÌt. 


72  INTRODUZIONE 

pregevoli,  frasi  incisive,  miste  a  certi  ricordi  di  versi  dante- 
schi, che  rivelano  il  culto  del  grande  fiorentino  mantenuto  vivo 
in  mezzo  ai  suoi  concittadini.  Si  direbbe,  tenuto  conto  della 
diversità  del  tempo,  della  preparazione  e  dell'arte,  ohe  009 
quest'operetta  si  ritorni  all'antichissimo  spirito  didascalico 
esiodeo,  nel  quale,  accanto  ai  dettami  della  scienza,  la  poesia, 
qua  e  là  intercalata,  andava  nutrendosi  del  vivo  sentimento 
della  natura.  Si  sente  nei  versi  del  Dati,  senza  poter  ben  pre- 
cisare i  punti  onde  emana,  un  alito  di  freschezza  e  di  disin- 
voltura, ignoto  al  Medio  evo,  che  preannunzia  il  fare  agile, 
largo,  cosciente  dell'Umanesimo. 

Del  resto  la  più  bella  prova  del  favore  incontrato  fra  il 
popolo  colto  dal  nostro  poemetto  è  il  numero  stragrande  dei 
codici,  alcuni  dei  quali  accuratamente  illustrati,  che  se  ne  fe- 
cero per  tutto  il  secolo  xv,  onde  è  raro  il  catalogo  di  antica 
biblioteca  che  non  ne  elenchi  più  d'uno;1  ed  il  numero  pure 
notevole  di  edizioni,  a  cominciare  da  quella  principe,  che  ri- 
sale al  1482. 2  Altra  prova  che  anche  a  distanza  di  più  d'un 
secolo  esso  ancora  correva  per  le  mani  della  gente,  sono  i 
libri  quinto  e  sesto,  0  complemento  della  trattazione  geo- 
grafica, che  abbiam  visto  manchevole,  dovuti,  sul  principio 
del  secolo  xvi,  alla  penna  di  frate  Gio.  Maria  Tolosani  do- 
menicano. 3 

Ma  già  mi  accorgo  che  col  nostro  discorso  ci  troviamo  sulla 
soglia  del  Rinascimento,  oltrepassando  la  quale  condurrei  il 
lettore  fuori  dei  confini  di  questa  mia,  ormai  troppo  lunga, 
introduzione.  Nella  quale,  concludendo,  vorrei  esser  riuscito, 
senza  pretesa  d'originalità  di  ricerche  e  di  giudizi,  a  rappre- 
sentare come  in  un  quadro  i  principali  periodi  della  poesia 
del  cielo  antica  e  medioevale,  a  determinare  le  diverse  cor- 


1  E.  N0RDBN8K1ÒLD,  op.  loc.  cit.  Tre  manoscritti  son  registrati  solo  nel- 
l' inventario  dejrli  Asliburnham  posseduti  dalla  l.aurenziana  «li  Firenze;  cioè 
i  n.i  487,  .r).').r),  sr»4,  nuova  sepn.;  e  nella  Vaticana  «e  ne  trovami,  nei  diversi 
fondi,  anche  in  maggior  copia,  e  fra  gli  altri  uno  ce  n"  è  di  notevole  valore 
in  quello  Capponiano,  segnato  col  n.°  fi6,  sotto  il  titolo  Biro— 0  di  Atlante 
in  ottava  rima,  attribuito  falsamente  a  Lorenzo  Bonincontri. 

*  G.  Libri,  op.  cit.,  II,  p.  JJ1. 

'  La  Sfera,  ed.  cit.,  nella  seconda  parte;  e  D.  Marxi,  op.  cit,  p.  134  sgg. 


INTRODUZIONE  73 

renti  del  pensiero  scientifico  ed  astrologico,  che  a  quella  forni 
la  materia,  a  mettere  infine  in  rilievo  quei  pregi  d'arte,  che 
anche  in  un  genere  cosi  astruso  non  vennero  molte  volte  a 
mancare.  E  vorrei  aver  raggiunto  il  mio  scopo,  eh'  era  di  pre- 
parare quei  lettori,  che  non  fossero  versati  espressamente  nella 
filologia  classica,  nella  letteratura  medioevale  e  nella  storia 
della  filosofia  e  della  scienza,  alla  lettura  dei  poeti  astrologici 
del  Quattrocento,  dimostrando  loro  per  sommi  capi  a  quali 
tradizioni  codesti  nuovi  scrittori  si  debban  ricollegare. 


CAPITOLO  PRIMO 


Basinio  da  Parma. 


I.  La  scoperta  dei  classici  dell'astronomia  nel  Rinascimento.  Per  quali   ra- 
gioni Arato  ebbe  per  il  primo  un  imitatore  nel  poeta  Basidio  Basini  da    Parma. 

—  II.  Analisi  dei  due  libri  Astronomici  di  Basinio.  —  III.   Fonti  dei  medesimi. 

—  IV.  Loro  valore  scieutitico,  letterario  e  storico.  —  V.  Loro  fortuna. 


I. 

Quando  si  rafforzò  in  Italia  la  Rinascenza,  in  fatto  di  poesia 
astrologica  perdurava  fra  il  popolo  colto  la  tradizione  medioe- 
vale, rappresentata  specialmente,  come  abbiamo  veduto,  dalla 
Sfera  del  Dati  ;  ma  già  nella  classe  erudita,  presso  la  quale 
s'erano  iniziati  lo  studio  e  la  ricerca  delle  opere  antiche,  ac- 
quistavano favore  i  risorti  monumenti  dell'epoca  classica,  o 
almeno  taluni  dei  principali  fra  di  essi.  La  corrente  volgare 
era,  naturalmente,  meglio  intesa  e  più  larga;  ma  quella  dotta 
aveva  il  sapore  del  nuovo  e  il  pregio  d'essere  antica,  onde, 
comeché  non  sempre  intesa  a  dovere,  ebbe  per  tempo  non  solo 
studiosi,  ma  imitatori,  e  forse  prima  imitatori  che  seri  stu 
dio8Ì.  Né  si  ritenga  quest'  ultima  osservazione  come  sfuggitami 
a  caso.  È  un  fatto  che  i  poemi  astrologici  greci  e  romani  prima 
ispirarono,  nel  Quattrocento,  i  poeti,  e  poi  ebbero  commenta- 
toli :  vicenda  che  non  ò,  del  resto,  contraria  al  logico  svolgi- 
mento di  codesto  genere  di  fatti  estetici,  e  che  si  riscontra 
analoga  nella  storia,  per  esempio,  dell'epica  e  della  linea, 
le  quali,  prima  di  raggiungere  la  perfetta  fusione  degli  de- 
menti classici  coi  medioevali,  passarono,  in  questo  periodo, 
per  uno  stadio  di  servile  imitazione.  Quanto  all'astronomia, 
non  era  invero  un'impresa  agevole,  singolarmente  nella  prima 


BA8INI0  DA  PARMA  75 

metà  del  secolo  dell'  Umanesimo,  che  ebbe  un'  impronta  tntta 
artistica  e  letteraria,  penetrare  con  l'analisi  scientifica  nelle 
teorie  matematiche  eudossiane  su  cui  poggiano  i  poemi  di 
Arato  e  di  Manilio  :  per  arrivare  a  indagini  tanto  profonde 
occorrevano  più  anni  e  maggior  maturità,  non  la  fretta,  non 
la  febbre  di  quei  primi  ricercatori  e  banditori  della  bellezza 
pagana.  Quanto  poi  all'astrologia,  che  usciva  appena  dalla 
lotta  medioevale  contro  la  Chiesa,  non  bene  affermata  e  meno 
purificata  dalle  volgari  misture  di  magia  e  d'altre  pratiche 
occulte,  essa  contava  una  schiera  infinita  di  cultori,  o  meglio 
di  gente  che  ne  facea  professione  ed  esercitava  il  mestiere  ;  ma 
non  ancora  aveva  raggiunto  il  grado  di  elevazione  necessario 
per  comprendere  a  fondo  le  dottrine  maniliane,  nelle  quali, 
come  abbiamo  dichiarato  a  suo  luogo,  ha  non  piccola  parte  la 
filosofia  greca,  specialmente  la  stoica.  Verrà  tempo  che  gli 
astrologi  nuovi  s'atteggeranno  a  filosofi,  intrecciando  i  loro 
problemi  con  quelli  delle  risorte  concezioni  del  platonismo  e 
dell'aristotelismo  non  scolastico;  allora  essi  ci  daranno  i  com- 
menti e  le  polemiche  sugli  Astronomici  ;  ma  già  avremo  var- 
cata la  metà  del  secolo  xv. 

Ho  detto  adunque  che  alcuni  dei  pili  notevoli  monumenti 
dell'antica  poesia  del  cielo,  finito  il  Medio  evo,  rividero  la  luce: 
vediamo  quali,  in  che  ordine  e  in  che  misura.  E  prima  di  tutto 
ricordiamo  che  qualcuno  dei  libri  astronomici  classici  s' era 
conservato  anche  durante  il  periodo  di  mezzo;  come  l'opera, 
in  prosa,  è  vero,  ma  d'argomento  e  d'origine  poetica,  di  Igino, 
la  materia  della  quale  anche  dalle  enciclopedie,  qua  e  là,  in- 
negabilmente trapela.  Però  le  imitazioni  di  essa  sono  in  co- 
desta età  spesso  secondarie,  sempre  timide  e  scolorite,  onde 
non  si  può  a  tale  riguardo  parlare  di  vera  azione  efficace  ;  ed 
è  lecito  perciò,  quando  la  vediamo  usufruita  largamente  come 
fonte  mitologica  di  prim' ordine  all'inizio  del  Rinascimento, 
proclamare  la  sua  risurrezione  letteraria,  se  non  proprio  dal 
sonno,  dal  torpore  in  cui  era  sepolta.  '   In  secondo   luogo,  il 

1  Un  indizio  di  notevole  diffusione  è,  per  l'opera  iginiana,  il  buon  nu- 
mi io  di  manoscritti  umanistici  nei  quali  è  ricopiata,  spesso  con  numerose 
illustrazioni  a  penna  ed  a  colori  ;  anche  le  edizioni  più  antiche  son  fornite 


76  CAPITOLO  PRIMO 

poema  di  Manilio,  di  cui  nel  Medio  evo  8' era  perduta  ogni 
notizia,  venne  ritrovato  per  la  prima  volta  da  Poggio  Braccio- 
lini in  un  vecchio  codice  del  monastero  di  San  Gallo,  fin  dal- 
l'anno 1416. ]  È  doveroso  tuttavia  subito  soggiungere,  secondo 
le  osservazioni  testé  fatte  sullo  studio  dei  testi  antichi,  che 
codesta  scoperta  fu  pressoché  infruttuosa  fin  verso  la  metà  del 
secolo,  né  ebbe  influenza  vera  e  profonda  sul  pensiero  e  sul- 
l'arte umanistica  che  al  tempo  del  ritrovamento  del  secondo 
codice,  avvenuto  a  Monte  Cassino  per  opera  del  Panormita, 
come  più  innanzi  si  vedrà. 

In  terzo  luogo  viene  Arato,  la  cui  conoscenza  in  Italia  ri- 
monta almeno  al  1438,  quando  il  più  notevole  codice  del  poema 
di  lui  ci  venne  dall'Oriente  colla  libreria  del  Bessarione;  men- 
tre con  grande  probabilità  già  dovevano  essere  noti  i  suoi  tra- 
duttori. 2  Ora  ad  Arato,  a  differenza  di  quanto  accadde  a  Ma- 
nilio, toccò  in  sorte  d'ispirare  la  prima  opera  astronomica  del 
Rinascimento;  d'ispirare,  dico,  non  il  primo  scritto  scientifico, 
ma  il  primo  poemetto.  Sorte,  per  chi  ben  l'osservi,  non  strana 
né  immeritata.  Infatti  i  Fenomeni,  più  che  ogni  altro  poema 
antico  d' astronomia,  si  presentavano  semplici,  facili  ad  essere 
imitati  anche  dal  solo  punto  di  vista  letterario;  inoltre  cran 
brevi,  e  per  la  loro  origine  greca  forniti  d'una  più  rara  attrat- 
tiva agli  occhi  d'un  umanista.   Ma  non  precorriamo,  con  in- 


di disegni  astronomici,  ora  stampati,  ed  ora  tracciati  a  mano  sii  mezze  pa- 
gine lasciate  appositamente  in  bianco  dai  compositori. 

1  e.  Voiot,  Il  risorgimento  dell'antichità  classica,  traci.    valbasa,   f\ 
rcn/.e,  1888,  I,  p.  241  :  la  scoperta  del  Manilio   è   ricordata    da    Yi.m-asuno 
da  Bisticci,    Vite,  Firenze.  1860,  p.  421:  «  Trovò  Marco  Manilio  astronomie*», 
in  versi,  opera  degnissima  ». 

2  Dalla  prefazione  di  E.  Maass,  Arati  Phaenom.  cit.,  si  apprende  che 
il  codice,  già  del  Bessarione,  è  ora  il  Marciano  476;  quanti»  ai  traduttori. 
cioè  a  quel  gruppo  che,  come  abbiamo  veduto  a  suo  luogo,  va  sotto  il  nome 
di  Aratea,  se  notizie  esatte  Boa  abbiamo  della  loro  prima  diffusione  - 
o  a  me  non  tu  dato  trovarne  .  «erto  è  che  (in  dagli  inizi  dall'arto  tipo- 
grafia! essi  vennero  pubblicati.  Germanico  infatti  compare  in  on'edlaldae 
del  1474  «  Uononiae  impressimi  per  me  Dgonen   Kugeriuin  et  dominimi  Ker- 

tiinriiiiiii  anno  domini  mooolzziui,  die  vigeeima  marti]  ►;  a  eoa  CloatoM  ed 
Avieno  è  due  volte  ristampato  nel  Quattrocento:  l*  €  Venetiis  arte  <t  Ioga* 
nìo  Antonii  de  Strata  Creinonensis,  anno  saluti*  ■ooooLZZZVni,  oetave  ealendas 
uoveinbres»;  2B  «  Venetiis,  cura  et  diligentia  Aldi  Ho.  mense  octobr.  mio». 


BASINIO  DA  PARMA  77 

tempestive  osservazioni,  l'ordine  della  presente  storia  critica, 
e  rifacciamoci  un  poco  da  certe  sommarie  ed  utili  notizie  in- 
torno all'  autore  di  cotesta  imitazione,  ai  suoi  studi,  all'  am- 
biente in  cui  visse  e  per  cui  scrisse  il  suo  lavoro  astronomico. 

Il  poeta  è  Basinio  Basini,  nato  presso  Parma  nel  1425.  Co- 
m'egli dapprima  abbia  frequentata  la  scuola  di  Vittorino  a 
Mantova,  come  più  tardi  sia  passato  a  Ferrara  a  seguirvi  le 
lezioni  del  Guarino  e  ad  apprendervi  il  greco  dal  Gaza  ;  come, 
protetto  da  Leonello  d'Este  e  servendo  il  suo  signore  non  solo 
colla  penna,  ma  anche  in  faccende  politiche  ed  amministrative, 
a  dir  vero,  con  poca  fortuna,  sia  stato  nel  1449.  dopo  la  scon- 
fitta toccata  a  Guardasone  contro  le  armi  di  Alessandro  Sforza, 
costretto  a  lasciare  il  ducato  e  la  cattedra  d'eloquenza;  come 
infine  si  sia  rifugiato,  fra  gli  onori  tributati  al  suo  merito  let- 
terario, presso  Sigismondo  Pandolfo  Malatesta  signore  di  Ri- 
mini, e  come  in  questa  città,  immaturamente,  quando  le  agia- 
tezze della  vita  più  lo  favorivano,  sia  morto  nel  1457:  come 
insomma  Basinio  sia  vissuto,  e  dove,  e  in  che  tempo,  son  no- 
tizie risapute  e  sulle  quali  non  importa  fermarci. 1  Ma  come 
il  carattere  speciale  degli  studi  di  lui  e  l'opportunità  di  com- 
piacere all'ultimo  suo  protettore  l'abbiano  condotto,  direi  quasi, 
in  modo  tutto  naturale  a  comporre  un  poemetto  intorno  alla 
scienza  del  cielo,  ecco  ciò  che,  noto  soltanto  in  parte,  è  op- 
portuno ripetere  ed  indagare. 

A  chi  dunque  osservi  con  uno  sguardo  comprensivo  la  pre- 
parazione erudita  ed  artistica  del  nostro  poeta,  subito  parrà 
evidente  la  distinzione  dell'operosità  di  lui  in  due  periodi, 
uno,  il  primo,  di  minore  estensione  ed  importanza,  l'altro  più 

1  Basti  citare,  come  principal  fonte  di  notizie,  Basini  Parmensis  poetar 
Opera  praestantiora  nunc  primum  edita,  ere.,  Ariinini,  1794,  ed  i  due  im- 
portanti saggi  storici  uniti  a  questa  pubblicazione  :  Notizie  intorno  ìa  vita 
e  le  opere  di  B.  lì.  del  P.  Ikeneo  Affò,  e  Della  corte  letteraria  di  Sigi- 
smondo Pandolfo  Malatesta  signor  di  Rimino,  commentario  del  co.  A.  Bat- 
taglimi. Per  il  soggiorno  del  B.  a  Ferrara  v.  pure  (1.  Bertoni,  La  biblioteca 
estense  e  la  coltura  ferrarese  ai  tempi  del  duca  Ercole  I,  Torino,  1903, 
p.  109  e  236;  per  il  soggiorno  a  Rimini,  6.  Voiot,  Il  risorgimento  cit.,  I, 

^  sgg'i  C.  Tonini,  La  coltura  letteraria  e  scientifica  in  liimini,  ecc., 
Rimini,  1884,  I,  p.  73  sgg.  ;  Cu.  Yriartb,  Un  «  condottiere  >  au  XV  siede, 
etc,  Paris,  1882,  p.  302  sgg. 


78  CAPITOLO  PRIMO 

durevole,  profondo  e  produttivo.  Il  primo  periodo,  che  diremo 
dell'imitazione  latina,  è  costituito  dagli  studi  giovanili  con- 
dotti sui  poeti  romani  a  Mantova  ed  a  Ferrara,  prima  del  14 1!»  : 
periodo  poco  caratteristico,  come  quello  che  rappresenta  l'av- 
viamento letterario  d'ogni  umanista  in  quegli  anni.  Ad  esso 
rimontano  parecchi  componimenti  poetici,  come  ecloghe  e  sa- 
tire, e  specialmente  elegie,  in  cui  l'ingegno  del  giovane  cor- 
tigiano versò  le  prime  espansioni  d'amore,  facendo  ad  un  tempo 
esercizio  di  lingua  e  di  versificazione:1  ad  esso,  quasi  propag- 
gine di  più  maturo  valore  artistico,  appartiene  anche  Ylsotteo, 
o  tutto,  se  tutto  è  da  credersi  del  Nostro,  o  certo  in  massima 
parte  ;  opera  di  derivazione  ovidiana,  composta,  com'  è  noto, 
dopo  il  1450,  cioè  durante  il  soggiorno  del  Basini  alla  corte 
dei  Malatesta. 2  Neil' Isotteo  soprattutto,  e  nei  precedenti  la- 
vori, nulla  adunque  che  direttamente  ci  faccia  presagire  il 
futuro  imitatore  di  Arato  ;  bensì,  unico  elemento  notevole  per 
il  nostro  scopo,  una  larga  e  sicura  pratica  nel  maneggiare  il 
verso  latino,  onde  giustamente  il  Parmense  è  dalla  critica 
moderna  ritenuto  uno  dei  più  felici  ed  eleganti  verseggiatori 
dell'età  sua. 

Ma  il  secondo  periodo  è  di  gran  lunga  più  importante,  conio 
quello  che  occupa  la  parte  migliore  della  vita  del  poeta,  e 
ne  determina  perciò  il  carattere  peculiare.  Esso  comprende 
quanto  di  più  duraturo  scrisse  il  Basini,  dal  tempo  dell'appren- 
dimento dalla  lingua  ellenica  fino  alla  morte,  e  ripete  la  sua 
formazione  dalla  scuola  del  Gaza  :  si  può  quindi  intitolare  della 
imitazione  greca. 

La  scuola  di  Teodoro  tessalonicese,  come  spesso  il  Gaia 
veniva  chiamato,  oltre  ad  essere  una  delle  più  serie  ed  eru- 
dite, era  anche  delle  più  feconde  e  capaci  d'ispirare  nell'animo 
dei  giovani  la  poesia.  Il  vecchio  ellenista,  esule,  travagliato, 
coltissimo,  professore  non  pur  sapiente,  ma  simpatico  in  mas- 
simo grado,  sapeva  rendere  suggestiva  la  divina  letteratura 
della  Grecia  e  rivelarla  agli  avidi  spiriti  italiani  eome  un 
paese  nuovo  di  straordinaria  bellezza.  Più  d'un  nostro  urna- 

1  I.  Affò,  op.  cit.,  p.  H. 

*  V.  Rossi.   //  Quattrocento  cit.,  p.  161 


BASINIO  DA  PARMA  79 

nista  deve  perciò  a  Ini  il  proprio  indirizzo  poetico  ;  a  lui  lo 
deve,  per  esplicita  confessione,  anche  il  maggiore  dei  poeti 
latini  del  Rinascimento,  il  Pontano,  il  quale  gli  dedicò  come 
ad  amico  e  maestro,  alcuni  affettuosissimi  distici  giovanili.1 
Ma  a  che  prò  ricordare  altri,  quando  Basinio  stesso  nei  versi 
e  meglio  ancora  coi  fatti  ci  dimostra  di  quanto  vada  debi- 
tore alla  scuola  di  Ferrara  ?  Entrato  in  essa  con  ottima  pre- 
parazione filologica,  acquistata  già,  come  abbiam  detto,  sotto 
la  disciplina  di  Vittorino,  con  grande  entusiasmo  egli  si  diede 
ai  nuovi  studi,  donde  ricavò  quel  culto  per  l'ellenismo,  e  spe- 
cialmente per  Omero,  che  non  abbandonò  più  per  tutta  la 
vita.  Con  quale  ammirazione  ricorda  egli  più  tardi  il  «  soave 
Teodoro  », 

Quem  Latium  ac  lati  miratili'  regia  mundi 
Orantem  et  celsae  stupefacta  pallatia  Romae  ; 

e  con  quanta  riconoscenza  soggiunge,  parlando  di  lui  : 

Qui  mihi  prae  cunctis  divùm  immortalia  dona, 
Pieridum  quondam  caelestia  dona  dedisti  ; 
Sub  quo  tot  Graios  vates  doctore  revolvi, 
Iliada  atque  vias  multum  durantis  Ulixis 
Atque  alios,  quorum  longum  meminisse,  poetas  !  2 

Intanto  essendo  ancora  a  quella  scuola,  dava  un  saggio,  per 
l'età  appena  ventenne,  meraviglioso,  di  imitazione  omerica  nel 
breve  poemetto  la  Meleagride;  in  fondo  al  quale,  alcuni  anni 
.dopo,  ebbe  a  scrivere: 

Haec  super  Oenida  cecini,  quum  prima  iuventae 
Tempora  tollebat  studiis  Ferrarla  nostris: 
Ilio  nam  iuvenis  primoque  Basinius  aevo 
Tempore,  dutn  dederat  magni  mihi  Carmen  Homeri 
Ocia,  purpureo  referebam  digna  cothurno.  3 


•  I.  1.  Pontini  Carmina,  Firenze,  1902,  II,  p.  98. 

*  In  una  epistola,  che  è  essa  stessa  un  documento  della  devozione  dello 
scolaro  verso  il  maestro,  indirizzata  al  Gaza,  v.  8-4  e  5-9,  dal  titolo  :  Ba- 
sinius Parmensis  clarissimo  philosopho  Tfieodoro  Tfiessalonicemi  8.  p.  d., 
contenuta  nel  codice  Ambrosiano  I,  66,  Sup.  a  e.  11»;  ricordata  pure  dal- 
l'Ago, op.  cit.,  p.  8. 

3  Meìeagridos  III,  v.  928-982,  in  Opera  cit.,  I,  p.  447. 


80  CAPITOLO  PRIMO 

E  da  parte  del  papa,  in  quegli  anni  Niccolò  V,  riceveva,  come 
uno  dei  migliori  poeti  latini  e  conoscitori  del  greco,  l'invito 
a  tradurre  l' Iliade;  invito  assai  lusinghiero,  che  però  non  ac- 
colse, sia  che  trepidasse  davanti  ad  un'impresa  tanto  difficile, 
sia  che  aspirasse  a  più  originali  composizioni,  cosicché  il  vanto 
del  tentativo  fu  riserbato  all'omerico  giovinetto  di  Montepul- 
ciano. 

Nò  quando,  per  le  ragioni  accennate,  il  Basini  lasciò  con 
Ferrara  la  disciplina  e  l'amicizia  del  Gaza,  smise  la  lettura 
dei  greci,  dei  quali  anzi  si  mantenne  zelante  imitatore,  spe- 
cialmente nella  maggiore  opera  sua,  il  lungo  poema  l*  Espè- 
ride, nel  quale  in  tredici  libri  egli  narra  le  vicende  della  guerra 
fra  il  Malatesta,  suo  nuovo  protettore,  ed  Alfonso  d'Aragona, 
trasformando  le  scaramuccie  in  battaglie  degne  dell'  assedio 
di  Troia,  e  i  condottieri  di  ventura  in  tanti  Ettori  ed  Achilli. 
Ma  soprattutto,  in  quest'  ultimo  periodo  della  breve  sua  vita 
alla  corte  di  Rimini,  si  fece  non  solo  con  l'esempio,  ma  col 
discorso,  difensore  ad  oltranza  degli  studi  ellenici,  allorché 
gli  accadde  di  sostenerne  l'efficacia,  anzi  la  necessità,  contro 
le  accuse  del  Porcellio  e  del  Seneca.  La  loro  polemica  è  nota. 
né  io  tornerò  sn  di  essa;  soltanto  non  tralascierò  di  citare 
dalla  satira  di  Basinio  contro  gli  avversari,  alcuni  versi,  nei 
quali  il  poeta  si  mostra  cosciente  del  proprio  indirizzo  e  rivela 
cosi  la  serietà  de'  suoi  propositi  : 

Ipse  ego,  Maeonii  vatis  qui  carmina  nuper 
Inspexi,  atque  libens  iterumque  iterumque  relegi, 
Invenio  nostrum  quantum  iuvat  ille  Maronem. 
Quod  si  laudis  habeut  aliquid  mea  carmina,  ab  ilio 
Fonte  mihi  et  fluviis  magni  defluxit  Homeri.  ' 

1  II  passo  è  attinto  ad  un  fascicolo  cartaceo,  del  »ec.  xt,  eontrmito  a 
e.  105a  sgg.  del  codice  miscellaneo  Marciano  XIV,  252;  fascicolo  che  com- 
prende, in  primo  luogo:  Basititi  Parmensis  poè'tae  satira  in  qua  castinut 
eos  qui  Uttera8  graecas  non  discenda.*  censent;  quindi  le  risposte  del  Por- 
cellio, a  e.  107a,  e  del  Smetti  a  «'.  Illa.  Lt  satira  di  Battalo,  col  titolo 
di  Basinii  epistola  ad  magnanimum  invictumque  regem  Sigismundum 
Pandulphum  Malateslam,  in  qua  ostendit  poiitas  latinos  sine  litteris  grae- 
cis  nihil  omnino  posse,  fu  stoni pata  in  Anecdota  litteraria  ex  tnss.  cod. 
eruta,  Roma,  1773.  Vedi,  sulla  polemica,  A.  Bernardi,  Pro  e  contro  il  </> 
nel  sec.  XV,  in  Atene  e  Poma,  V,  43  44. 


BASINIO  DA  PARMA  81 

Sennonché  l'imitazione  prolungata  d'un  medesimo  autore 
presto  sarebbe  divenuta  maniera,  alla  quale  il  nostro  poeta 
cercò  di  sottrarsi,  pur  non  uscendo  dal  cerchio  solito  dei  suoi 
modelli  greci.  Terminata  infatti,  nel  suo  assetto  sostanziale, 
l'Esperide,  e  chetato  il  tumulto  della  polemica,  mentre  più 
tranquilla  egli  conduceva  la  vita,  mise  mano  ad  un  tempo  a 
due  nuovi  poemetti  :  uno,  gli  Astronomici,  l'altro,  intitolato 
gli  Argonautici,  derivazione  diretta  dall'opera  omonima  di 
Apollonio  da  Rodi.1  In  questo  modo  l'indirizzo,  fino  allora 
seguito,  non  veniva  ad  interrompersi,  solo  faceva  un  passo 
innanzi,  forse  con  qualche  vantaggio.  Giacché,  come  ci  atte- 
stano col  loro  esempio  le  non  poche  grandi  imitazioni  ome- 
riche, l'Esperide  compresa,  quasi  tutte  esteticamente  fallite 
nel  secolo  xv,  la  Musa  epica  di  lunga  lena  mal  si  adattava 
all'arte  riflessa,  formale  degli  umanisti;  il  ricalcare  invece  le 
orme  degli  eleganti,  ristretti  alessandrini,  quali  per  l'appunto 
erano  i  nuovi  ispiratori  di  Basinio,  riusciva  ad  essa  impresa  più 
agevole  e  fortunata.  Da  Omero,  il  gran  padre,  era  bene  passare 
ai  minori,  e  fra  i  minori  a  coloro  che  mostravano  di  meglio 
concordare  negl'ideali  e  nei  mezzi  con  gl'imitatori. 

Questo  dell'imitazione  alessandrina  è  dunque  l'estremo  li- 
mite —  gli  Argonautici  infatti  non  ebbero,  per  la  morte  del- 
l'autore,  il  loro  compimento  —  a  cui  giunse  il  Basini  nella 
sua  via,  e  rappresenta  perciò  il  grado  di  maggior  perfezione 
nella  produzione  di  lui  ;  rappresenta  cioè,  notiamolo  bene,  non 
un  fiore  sporadico,  ma  il  frutto  maturo   d'una  pianta  giunta 


1  Quantunque  qualche  raffronto  riveli  indubbiamente  una  parziale  de- 
rivazione di  questo  poemetto  da  quello  di  Valerio  Fiacco,  tuttavia  la  fonte 
principale  resta  l'operetta  greca,  che  Basinio  certamente  conobbe.  A  provar 
ciò  sta  infatti  il  testamento  di  lui,  edito  in  Opera  cit,  I,  p.  xiv,  dove  si 
legge:  «  Item  reliquit  prefato  D.no  D.no  Sigismundo  pandulfo  librum  Ho- 
merij  et  Appolonij  in  litteris  grecis  ».  Un  Apollonio  in  greco  si  ritrova  pure 
fra  i  libri  lasciati  dal  Basini  alla  moglie  col  resto  dell'eredità  e  catalogati 
dalla  vedova  stessa  in  un  Inventario,  redatto  dal  notaio  riminese  Fagnani, 
con  la  data  del  80  Maggio  1457,  dove  si  trova  «uno  libro  greco  chiamato 
appollonio  coverto  di  negro  pontegrado  ».  Debbo  la  trascrizione  di  que- 
st'ultimo documento  alla  cortesia  del  dott.  G.  Savioli,  notaio  archivista  di 
Rimini. 

Soldati  « 


82  CAPITOLO  PRIMO 

al  suo  naturale  sviluppo,  per  quanto  stata  soggetta  a  coltura 
artificiale. l 

Bastino  pertanto  questi  cenni  sui  caratteri  generali  della 
poesia  basiniana,  i  quali  ci  spiegano  più  che  a  sufficienza,  nel- 
l'ordine puramente  letterario,  come  l'occhio  del  poeta  siasi  ri- 
volto ad  Arato.  Rimane,  nell'ordine  scientifico,  la  ricerca  meno 
agevole  e  meno  feconda,  dei  motivi  che  spinsero  il  nostro 
umanista  sulla  traccia  d'un  tema  astronomico. 

A  questo  proposito  convien  subito  scartare  un'  opinione 
messa  innanzi  dall'Affò,  pur  tanto  cauto,  di  solito,  ne'  suoi 
giudizi,  che  cioè  il  Basini,  fin  dal  tempo  del  soggiorno  a  Fer- 
rara, siasi  dato  «a  ornar  l'animo  delle  cognizioni  filosofiche, 
avanzandosi  ancora  nelle  speculazioni  matematiche  ed  astro- 
nomiche, delle  quali  diede  poi  saggio  nel  suo  poema  sopra 
l'astronomia  ». 2  Nessuna  notizia  positiva,  per  quanto  io  sap- 
pia, viene  infatti  a  suffragare  l'affermazione  del  benemerito 
erudito,  il  quale  questa  volta  fonda  evidentemente  il  suo  as- 
serto su  d'un  presupposto  gratuito.  Pare  a  lui  che  il  poemetto 
non  si  spieghi,  senza  ammettere  nell'autore  un'antecedente 
preparazione  scientifica.  Ora  se  noi  dimostreremo,  e  sarà  facile 
impresa,  che  il  poemetto  stesso  non  richiese  cognizioni  tecni- 
che speciali,  ecco  che  la  preparazione  non  avrà  più  ragion 
d'essere;  o  si  ridurrà  all'apprendimento  di  scarse  nozioni  eie 
mentari,  messe  insieme  non  già  molto  prima,  ma  per  l'oc- 
casione, e  dopo  avvenuta  la  scelta  del  tema. 

La  causa  scientifica  determinante  s'  ha  da  trovare  invece, 
a  mio  avviso,  in  un  ordine  di  fatti  tutto  esterno  allo  spirito 
di  Basinio,  cioè  nell'ambiente  nel  quale  visse  il  poeta  alla 

1  Sull'ellenismo  del  Basini  qualche  altra  notizia  si  può  vedere  in  Voiqt, 
op.  cit.,  I,  p.  580,  dove  si  accenna  a  certi  epigrammi  in  greco  scambiati 
fra  il  nostro  poeta  e  il  Pilelfo;  in  B\ttaoi.ini,  op.  cit.,  p.  168,  dcw  si  m* 
serva  che  le  lettere  del  Basini,  e  specialmente  quella  diretta  al  Guarino. 
che  fa  da  prefazione  ali* esperide  nel  codice  autografo  della  (Umhalunghiaiia 
di  Kimini,  sono  seminate  di  grecismi  e  di  parole  greche.  Cosi  su  di  un'altra 
opera  di  lui,  il  Dioaimposcos,  l'influsso  greco  e  evidente.  Su  quest'ultimo 
scritto,  che  si  conserva  manoscritto  in  parecchi  codici,  e.  fra  trli  altri,  nel 
Kiccardiano  904,  e  sulla  sua  data,  vedi  Voiqt,  op.  cit.,  I,  p.  682,  n.  1,  e 
Affò,  op.  cit.,  p.   14. 

*  I.  Affò,  op.  cit.,  p.  9. 


BASINIO  DA  PARMA  83 

corte  del  Malatesta,  Sigismondo  Pandolfo,  come  tatti  i  suoi 
emuli  nella  milizia  di  ventura,  credeva  nell'astrologia  ;  la  fa- 
miglia di  lui  tutta  vi  prestava  fede;  né  certo  in  Rimini  s'era 
perduto  il  ricordo  di  quell'Iacopo  degli  Allegretti,  famoso  astro- 
logo e  matematico,  ch'era  stato  maestro  di  Carlo,  zio  di  Pan- 
dolfo e  del  Novello. l  Non  sarebbe  quindi  fuor  di  luogo  il 
supporre  che  allo  stesso  signore  sia  venuto  in  mente  di  sug- 
gerire al  poeta  un  argomento  che  rispondesse  alle  proprie 
convinzioni.2  Oppure,  ove  ciò  non  si  ammetta,  sarebbe  poi  tanto 
strano  il  credere  che  il  Basini,  incerto  nella  scelta  d'un  mo- 
dello greco  da  imitare,  siasi  rivolto  proprio  là,  dove  sapeva  di 
poter  fare  opera  adulatoria,  soddisfacendo  alla  curiosità  super- 
stiziosa del  principe?  Il  motivo,  in  quest' ultimo  caso,  sarebbe 
veramente  assai  tenue,  ma  non  perciò  da  respingersi  da  chi 
consideri  che  il  reale  incitamento,  la  più  forte,  per  non  dire 
l' unica  seduzione  dev'  essere  stata  senza  dubbio  quella  estetica 
e  letteraria.  Né  a  questa  supposizione  contrasterebbe  il  fatto, 
che  non  astrologico,  ma  puramente  astronomico  risultò  il  lavoro 
compiuto.  Una  spinta  invero  di  natura  cosi  esteriore,  dove 
agire  come  leggerissimo  impulso,  senza  determinare  quei  ca- 
ratteri interni  dell'opera,  che  invece  trassero  origine  esclusiva- 
mente dal  modello  che  il  poeta  ebbe  sott' occhio,  cioè  da  Arato. 
Non  dimentichiamo,  del  resto,  ciò  che  abbiam  ricordato  in 
principio  di  questo  capitolo:  che  il  tempo  degli  studi  astro- 
nomici ed  astrologici,  nel  movimento  umanistico,  non  era  pe- 
ranco  maturo,  e  che  pretendere  di  ravvisare  in  questo  primo 
tentativo  un  intento  seriamente  scientifico,  varrebbe  discono- 
scere la  prevalenza  dell'elemento  formale,  artistico  e  letterario, 
cosi  evidente  nella  corrente  dotta  a  mezzo  il  secolo  xv. 


1  A.  Battaglimi,  op.  cit.,  p.  46. 

1  Si  leggano  i  seguenti  versi  della  dedica,  o  protasi,  del  poemetto,  nei 
quali  evidentemente  lo  scrittore  afferma  —  sia  poi  egli  veritiero,  od  esa- 
geri, ciò  non  e'  interessa,  cioè  non  infirma  la  nostra  supposizione  —  la  comr 
petenza  scientifica  del  signore  di  Kimini  : 

Nec  cuiquam  potui  Ubi  quam  felicius  astra 
Dicere,  qui  rerum  causas,  qui  sidera  primus 
Cunctorum  et  vasti  scrutaris  semina  mundi. 

Basini  Astron.,  I,  v.  11-18. 


84  CAPITOLO  PRIMO 


IL 


Or  prima  di  esaminare  criticamente  come  il  Basini  abbia 
raggiunta  la  meta,  diamo  qui  una  breve  analisi  'dell'opera 
sua;  analisi  tanto  più  opportuna,  in  quanto  che  l'unica  edi- 
zione che  se  ne  possiede,  non  essendo  recentissima,  è  per  con- 
seguenza anche  poco  accessibile.1  È  bene  inoltre  che  un'oc- 
chiata alla  materia  del  poemetto  la  si  dia  insieme,  fra  me  e 
il  lettore,  affinché  certi  brani  più  importanti,  nei  quali  trove- 
remo gì'  indizi  delle  fonti  e  gli  elementi  per  il  giudizio  este- 
tico e  scientifico,  non  isfuggano  alla  nostra  attenzione. 

S'apre  il  primo  dei  due  libri  Astronomici  con  la  proposi- 
zione, dalla  quale,  come  dall'enunciato  di  tutto  il  poema,  appare 
essere  argomento  dell'opera  la  sfera  celeste,  senza  preoccupa- 
zione georgica  o  marineresca,  senza  superstizione  astrologica, 
infine  senza  meteorologia  : 

Aetherios  orbes,  subiectaque  tempia  deorum, 
Musa,  cane,  atque  vias  semper  volveutis  Olympi; 
Curribus  aurati*  quae  signa  secutus  iniquos 
Sol  vebat  ipse  dies,  quae  tempora  noctibus  addat, 
Quae  rapiat  rursum  tardis  adiuncta  diebus.  8 

Segue  alla  protasi,  che,  come  si  vede,  ò  rapida  e  poco  estesa, 
una  dedica,  alquanto  più  lunga,  in  cui  il  poeta  ricorda  al  be- 

1  II  testo  degli  Astronomici  è  stato  pubblicato  in  Opera  eit.,  I.  | 
sgg.,  dal  riminese  Lorenzo  Drudi,  il  quale  si  servi  d'un  manoscritto  car- 
taceo, di  cui  non  diede  la  descrizione,  e  ricorretto  sopra  il  codice  Maru- 
celliano  C.  CCLI,  membranaceo  con  figure.  Secondo  l'Affò,  due  altri  coiliei 
di  esso,  uno  con  disegni,  e  l'altro  meno  elegante,  ma  entrambi  del  sec.  xv, 
si  trovano  nella  biblioteca  Palatina  di  Parma;  uno  se  ne  conserva  mila 
Classense  di  Ravenna,  ed  uno  infine  nell'Oratoriana  di  Napoli,  pervenutovi 
con  l'acquisto  della  libreria  Valotta.  Ora  sono  in  grado  di  assicurare  die 
nel  detto  fondo  Valetta,  che  tuttora  appartiene  alla  bili],  del  padri  liirola- 
mini,  il  codice  basiniano  non  esiste.  Per  contro  d'un  settimo  manoscritto. 
del  sec.  xv,  ci  dà  notizia  K.  Carducci,  Catalogo  dei  mss.  ora  posseduti  da 
l>.  lìaldassarre  Boncompagni,  Roma,  1SD2,  al  n.°  808.  Finalmente  un  ot- 
tavo è  il  codice  Marciano  XII.  194,  cartaceo,  del  see.  \> ,  mutilo  verso  la 
fine,  dimodoché  viene  in  esso  a  mancare  parte  del  libro  2",  adorno  di  sem- 
plici, ma  assai  ben  fatte  figure  a  penna  con  leggera  colorazione. 

*  A8tron.  I,  v.  1     . 


BASINIO  DA  PARMA  86 

nefattore  i  carmi  già  composti  in  sua  lode,  specialmente  l' Espe- 
ride, ed  esprime  il  proposito  di  accingersi  ad  opera  più  vasta, 
narrando  quella  Crociata  che  allora  pareva  imminente  e  di 
cui  credevasi  sarebbe  stato  il  Malatesta  uno  dei  capi: 

Mox  quoque  Troianas  cupiara  qui  dicere  clades, 
Magnanimosque  duces  Graiorum,  actamque  sub  arma 
Europam,  atque  Asiae  Sigaeo  in  littore  gentem. l 

La  dedica  termina  con  una  curiosa  apoteosi  del  Signore  di 
Kimini,  che  a  noi,  se  non  fossimo  abituati  alle  rettoriche  esa- 
gerazioni adulatorie  dei  poeti  romani,  non  escluso  Orazio,  po- 
trebbe parere  per  lo  meno  inopportuna.  Dice  infatti  il  poeta 
a  Sigismondo:  —  mentre  io  canto  e  descrivo  il  cielo,  seguimi 
con  attenzione,  affinché  tu  possa,  il  giorno  della  tua  morte  (che 
sia  ben  lontano!)  sceglierti  fra  le  stelle  un  posto,  degno  di  te  : 

Interea,  tardus  quamvis,  ad  sidera  coeli 
Accedes  quondam  serisque  vocabere  votis; 
Cum  tamen  in  numerum  divorum  veneris,  opta 
Qua  tibi  parte  poli,  qua  sit  regione  manendum  !  z 

Dopo  la  protasi  abbiamo  il  principio  vero  dell'opera,  o,  me- 
glio, i  principi  generali,  che  abbracciano  tutto  il  contenuto  del 
poema.  Dapprima  si  definisce  l' universo  come  il  complesso 
dei  corpi  celesti,  dotati  di  vario  moto  intorno  alla  immobile 
Terra,  e  confinanti  col  vuoto.  Dei  movimenti  siderali  si  accenna 
la  causa,  cioè  si  discorre  d'un* anima  del  mondo,  d'un  prin- 
cipio di  vita  universale,  il  quale,  sebbene  venga  collegato  col 
nome  di  Dio  creatore,  ci  fa  sovvenire,  più  che  dell'universo 
scolastico,  di  certi  sistemi  astronomici  greci,  da  noi  già  veduti  ; 
e  si  enumerano  le  diverse  direzioni  dei  moti.  Si  tratta  pure 
fuggevolmente  delle  sfere  degli  elementi  sublunari  ;  e  poi  del- 


1  Astron.  I,  v.  21-23;  cfr.  F.  Fiorentino,  Di  un  poema  ms.  attribuito 
al  Fontano,  in  Giorn.  nap.  di  fìlos.  e  lettere,  II,  1875,  p.  299. 

*  Astron.  I,  v.  24-27.  Vedasi  intorno  a  questo  genere  d'apoteosi  A.  Bou- 
ohé-Lecxbbcq,  op.  cit.,  p.  661,  n.  1,  dove  è  ricordato  il  passo  in  cui  Lucano 
offre  a  Nerone  nientemeno  che  un  posto  nel  Sole,  e  sono  citati  i  versi  delle 
Georgiche,  nei  quali  Virgilio  indica  ad  Augusto  una  sede  celeste  nello  Zo- 
diaco, fra  la  Vergine  e  la  Libra. 


86  CAPITOLO  PRIMO 

l'asse  della  Terra,  e  dei  poli  :  tutte  notizie  rapide,  in  poche 
decine  di  versi.  Né  molto  spazio  richiedono  le  descrizioni  dei 
grandi  circoli,  quali  la  Via  lattea,  lo  Zodiaco  in  quanto  co- 
stituisce la  via  annuale  del  Sole,  i  paralleli,  cioè  l'equatore, 
i  tropici  e  i  circoli  polari,  i  Coluri  e  le  zone.  Non  occorrono 
per  tutto  ciò  al  poeta  più  di  centocinquanta  esametri,  com- 
presa la  parte  iniziale;  come  allo  scienziato  non  occorse  molta 
acutezza  a  riprodurre  il  noto  schema  di  Tolomeo. 

Ma  venuto  il  Basini  a  trattare  prima  dei  segni  dello  Zo- 
diaco, quindi  delle  costellazioni  extra-zodiacali,  sente  il  bisogno 
di  allargare  le  proporzioni  del  suo  discorso,  compiacendosi  di 
quegli  elementi  plastici  e  favolosi,  che  la  mitologia  della  sfera 
gli  suggeriva.  Onde  in  pili  di  cinquecento  e  cinquanta  versi, 
che  vengono  a  costituire  la  sostanza  fondamentale  del  primo 
libro,  ritrae  le  figure  degli  asterismi,  secondo  l'ordine  arateo, 
come  vedremo  a  suo  luogo. 

11  secondo  libro  incomincia  con  la  promessa  di  trattare  dei 
cinque  pianeti  e  dei  due  massimi  luminari,  il  Sole  e  la  Luna  : 

Quinque  vagas  etiam,  necnon  pulcherrima  mundi 
Lumina  bina  canam,  rapido  contraria  coelo 
Quae  faciunt  cursus,  variasque  feruntur  in  oras, 
Sed  non  tam  celeri,  quam  caetera  sidera,  motu  ; l 

e  subito  dopo  qnesta  proposizione,  quasi  la  materia  gli  si  pre- 
senti con  insolita  abbondanza,  il  poeta  si  chiede  da  qual  parte 
gli  convenga  prender  le  mosse: 

Ordiar  unde  igitur?  mirer  quae  sidera  prima? 
Quae  postrema  sequar  ?  Tene,  o  pulcherrima  rerum 
Phoebe,  prius,  te,  Luna,  prius,  Latonia,  monstrem  ? 
Incurvimmo  Senem  curva  cum  falce  minantem? 
An  superflua  regem,  coeli  cui  magna  potestas  ? 
Mercuriumne  dolis  insignem  atque  arte  loquendi  ? 
Tene  etiam,  Cyterea,  tuo  cum  Marte  silebo?8 

Ora  tutta  codesta  incertezza  non  è  se  non  finzione,  artifizio  ret- 
torico,  per  conchiudere  subito  dopo: 

i  A8tron.  II,  v.  1-4. 
•  Aatron.  Il,  v.  6-11. 


BASINIO  DA  PARMA  87 

Pauca  equidem  cunctis  super  ignibus  orsa  movebo 
Ipse  aliis;  de  te,  Sol  auree,  multa  canenda, 
Multa  mihi  referenda  modis  insignia  miris.  ' 

Perché  dunque  questa  povertà  di  trattazione  e  questa  prefe- 
renza per  i  fenomeni  solari  ?  Ecco  ciò  che  vedremo,  quando 
parlerem  delle  fonti  ;  per  ora  andiamo  avanti.  Accennate  fug- 
gevolmente le  differenze  di  durata  nel  corso  di  ciascun  pianeta, 
lo  scrittore  tratta  delle  fasi  della  Luna;  dice  come  i  pianeti, 
altri  più  veloci  ed  altri  più  tardi,  vadano  errando  nei  segni 
dello  Zodiaco,  mobili  anche  questi  ultimi,  ma  dotati  di  moto 
uniforme,  in  guisa  che  non  cambiano  mai  la  loro  figura  ed 
i  rapporti  di  distanza  e  di  posizione  l'un  verso  l'altro.  Fra 
questi  segni  ciascun  pianeta  ne  ha  certi,  in  cui  si  dice,  secondo 
una  teoria  che  in  origine  appartenne  alla  scienza  astrologica, 
abbia  la  sua  casa.  In  questa  circostanza,  cioè  quando  il  pia- 
neta è  in  casa  propria,  avviene,  secondo  alcuni,  l' influsso  ; 
il  quale  pure  si  manifesta  quando  il  Sole  e  la  Luna  offrono 
il  fenomeno  dell'eclissi.  Se  il  poeta  sia  del  parere  di  coloro 
che  credono  in  codesta  azione,  oppure  se  ne  discosti,  è  questione 
che  discuteremo  a  parte;  basti  anche  qui,  come  sopra,  l'averne 
fatto  cenno,  tanto  più  che  neanche  il  Basini  vi  s' indugia. 
Come  pure  appena  si  sofferma  sui  segnali  atmosferici  dipen- 
denti dai  due  pianeti  maggiori,  dai  quali  gli  agricoltori  e  i 
naviganti  prendono  norma  alle  loro  operazioni  :  segnali  atmo- 
sferici di  cui  non  si  fa  cenno  nella  protasi. 

Per  qual  motivo,  dopo  i  segni  del  tempo,  Basinio  venga 
al  problema  dell'  abitabilità  della  Terra,  non  è  ben  chiaro  :  forse 
il  legame  interno  fra  i  due  argomenti  non  esiste.  Certo  è  che 
egli  espone  la  teoria  cosidetta  degli  Antipodi,  con  sfoggio  di 
dottrina  geografica,  e  ne  tenta  anche  la  dimostrazione.  Dalla 
quale,  sempre  senza  apparente  nesso  scientifico,  trascorre  ai 
diversi  movimenti  del  Sole  rispetto  alla  Terra,  cioè  ad  una 
specie  di  trattazione  delle  leggi  fondamentali  del  calendario; 
e  finisce,  con  evidente  compiacenza  letteraria,  con  l'elogio  del 
maggior  pianeta.   Di  quest'elogio  che  ha  tanta  importanza 

»  A8tron.  II,  v.  12-14. 


88  CAPITOLO  PRIMO 

nell'  economia  del  poema,  mi  si  conceda  di  riferire  qualche 
brano  in  cui  il  lettore  possa  scorgere,  come  in  un  saggio,  il  ca- 
rattere dell'opera  intera.  Comincia  : 

O  decus  aethereum,  lux  o  clarissima  coeli, 
Sol  hominum  divumque  parons,  quo  carmino  laudos, 
Quae  mihi  Musa  tuas  memoret?  Tu  causa  creandi 
Omnia,  cura  magna  rerum  tu  semina  Luna 
Accipis,  et  valido  nutriris  cuncta  vigore. 
Aetherei  princeps  tu  luminis  almus,  et  auctor 
Lucis,  et  immensi  moderator  magnus  Olympi, 
Salve,  hominum  sator,  ac  miseris  accommoda  terris 
Lux  aeterna  deùm  :  tua  vis,  tua,  Phoebe,  potestas 
Abducit  morbos,  coelumque  salubre  serenat.  ' 

Vien  poi  la  glorificazione  mitologica  del  nume,  con  sfoggio 
di  nomi  antichi  di  origine  greca  ed  egizia,  quali  Titauo  ed 
Osiri;  e  cosi,  passando  dagli  attributi  fisici  ai  divini,  ecco 
Febo  considerato  come  un  dio  protettore,  anzi  come  il  dio 
pacificator  dell'  Italia.  Non  è  forse  il  Sole  che  regola  il  tempo, 
ed  apporta  i  buoni  ed  i  tristi  periodi  agli  uomini  ?  Ora  esso 
rischiara  un'  èra  di  tranquillità,  nella  quale  la  nostra  patria 
riposa  dalle  diuturne  guerre  di  parte  :  tutto  merito,  ben  s' in- 
tende, di  Sigismondo  Pandolfo  Malatesta  ! 

Laeta  Sigismundi  nunc  tempora  ducis,  honorem 
Cui  summum  Omnipotens  patriis  coucessit  in  armis, 
Qui  nunc  Italiani  pacis  sub  legibus  omnem 
Iusticia  atque  fide  magna  ditione  tuetur. 
Ut  qui  caeca  legit  rapidis  contrarius  undis 
Marmora  ventisoni  revoluta  per  aequora  ponti 
Nauta  mari  in  magno,  voces  atque  irrita  surdis 
Littoribus  dat  verba,  sonosque  effundit  inanes  ; 
Verum  ubi  ad  optatos  subduxit  carbasa  portus, 
Rupe  ligat  vasta  munitam  forte  carinam.  * 

In  questo  modo,  dall'elogio  del  Sole,  con  accorto  trapano 
il  poeta  s'è  messo  sulla  china  dell'adulazione,  per  la  quale 
giungerà  agevolmente  al  termine  del  suo  poemetto.  Dopo  il 
signore  di  Rimini,  ecco  il  signor  di  Cesena: 

'  Astron.  II,  v.  406-415. 
*  Astron.  II,  v.  486-446. 


BASINIO  DA  PARMA  89 

Nec  minus  insigni  sese  germanus  honore 
Extulit  ante  alios  Malatesta  Novellus,  et  armis 
Hic  quoque  depositis,  tua  numera,  pulcher  Apollo, 
Castaliis  Musas  primus  deduxit  ab  antrìs. 
Ille  fide,  ille  animo  constanti  ac  denique  saDcta 
Iusticia  invictura  potis  est  superare  Catonem. • 

Poi  tutti  e  due  i  fratelli,  congiunti  in  una  sola  esaltazione  di 
gloria  e  di  potenza,  suggeriscono  allo  scrittore  un  pensiero  che 
pare  nasca,  oltre  che  dal  proposito  elogiativo,  anche  da  una 

feale  condizione  degli  animi  negli  anni  in  cui  egli  dettava  i 
noi  versi  eleganti.  Quanti  non  guardavano  allora  con  sincera 
vergogna  il  contrasto  fra  lo  splendore  e  l'ostentate  armi  del- 
l'Occidente, e  l'abbandono,  l'obbrobrio  di  Costantinopoli,  ca- 
duta in  mano  di  Maometto  II  ! 

Hos  saltem  Italiae  custodes,  maxime  divùm 
Phoebe,  love,  longosque  piis  da  fratribus  annos. 
Ille  inter  Musas  longum  se  oblectet;  avitum 
Dum  regit  imperium  bello  fremat  ille  superbo. 
Nuper  et  Ausoniam  saevis  ut  vindicat  armis 
Alphonsi,  Hetrusca  cogit  queni  cedere  terra, 
Ac  libertatem  populis  dat  habere  Latinis, 
Mox  quoque  in  audaces  vertat  sua  praelia  Turcos, 
Infidasque  manus  inimicaque  pectora  Graiis, 
Heu  miseris  !  quos  clade  nova  tot  millia  campis' 
Perdita  Threiciis,  Byzantia  moenia  iuxta, 
Abstulit  una  dies,  saevit  dum  barbarus  hostis 
In  Graios  omnes,  Troiam  dum  iactat  avitam 
Dardaniosque  patres,  Ida  quod  natus  aquosa  est.  8 

E  si  ascolti  con  qual  felice  mossa  virgiliana  il  Basini  ci  sa  rap- 
presentare l'antica,  opulenta  capitale  dell'impero  bizantino, 
quale  fu  nei  secoli  migliori,  quale  è  ridotta,  qual  dovrebbe 
risorgere  rivendicata  : 

Urbs  augusta,  potens,  regum  domus  alta  potentum, 
Romanis  opibus,  Romanis  civibus  aucta, 
Imperio  quae  sola  suo  Garamantas  et  Afros, 
Auroram  et  Zephyrum,  uecnon  Boreamque  Notumque 

»  Aatron.  II,  v.  451-466. 
*  Astron.  II,  v.  467-470. 


90  CAPITOLO  PRIMO 

Subdiderat  pedibus,  domitumque  subegerat  orbem, 
Capta  dolis  pueri  ;  quin  et  Phryx  seinivir  illa 
Nane  potitur  Victor,  Romanaque  despicit  arma 
Discordesque  animos  Italum  sine  fine  furentum. 
Nec  satis  indignum  fuerat  quod  tempia,  quod  aedes 
Diruit:  antiqua  sub  relligione,  nefandum  ! 
Stare  vetat  populos.  At  nos  toleramus  iniquas 
Gentibus  imponi  leges  ?  Ne,  Christe,  furorem 
Ne  patiare,  precor,  per  saecula  surgere  talem  : 
Da,  pater,  Ausoniis  mentem  da  gentibus  unam 
Ire  Asiam  contra;  cupiant  illum  omnibus  unum, 
Illum  ipsum  studiis,  qui  barbara  saepe  fugavit 
Agmina  et  Italia  duros  eiecit  Iberos.  ' 

Negli  ultimi  versi  dell'opera  il  Basini  ritorna  sul  proposito 
di  cantar  le  future  vittorie  che  il  Malatesta,  accogliendo  l'in- 
vito generoso  del  papa,  avrebbe  riportate  sugl'infedeli;  e  s'au- 
gura d'aver  come  gradito  rivale  in  questa  gara  di  lodi  l'amico 
Pier  Parlione,  cui  la  conoscenza  dei  luoghi,  acquistata  durante 
il  soggiorno  in  Oriente,  dovea  certo  mettere  in  condizioni  arti- 
stiche singolarmente  favorevoli.  Peccato  che  Sigismondo  abbia 
presa  la  croce  troppo  tardi,  in  quel  modo  e  con  quell'esito 
che  sappiamo!2 


III. 


Al  lettore,  nel  rapido  sunto  dell'opera  basiniana,  non  de- 
v'essere sfuggito  un  fatto  caratteristico,  la  mancanza  cioè  d'un 
intimo  legame,  che  allacci  tutte  le  parti  in  un  ordine  logico. 
Al  contrario  si  sarà  egli  avveduto  di  parecchie  giunture  arti- 
ficiose fra  gruppo  e  gruppo  di  notizie,  la  spiegazione  delle 
quali  non  può  essere  dubbia  :  solo  una  genesi  irregolare,  un 
accostamento  di  elementi  diversi,  non  ben  digesti,  può  aver 
prodotto  quegli  accozzi,  dove  per  giunta  la  fretta  e  la  scarsa 
preparazione  scientifica  si  palesano  innegabilmente.  Se  adun- 
que vogliamo  pronunciare  un  giudizio  sugli  Astronomici,  non 
potremo  dichiararci  ancora  interamente  sicuri  di  non  errare, 

»  Afttron.  Il,  v.  471-487. 

*  C.  Cipoll»,  Storia  delle  Signorie,  Milano,  par.  1»,  p.  684. 


BASINIO  DA  PARMA  91 

gè  prima  non  ne  avremo  additate,  almeno  per  sommi  capi,  le 
fonti. 

La  somiglianza  del  titolo  può  trarre  facilmente  in  inganno 
e  suggerir  l'opinione  che  gli  Astronomici  di  Basinio  siano  imi- 
tazione degli  Astronomici  di  Manilio.  Ma  il  confronto  della 
sostanza  delle  due  opere  esclude  assolutamente  tale  afferma- 
zione ;  la  esclude  luminosamente,  per  non  accennare  ad  altro, 
la  differenza  di  contegno  dei  due  poeti  di  fronte  al  problema 
astrologico.  Mentre  infatti  presso  il  romano  la  divinazione,  e 
la  relativa  concezione  morale  dell'universo  e  dell'umanità,  co- 
stituiscono il  maggior  pregio  e  la  più  viva  preoccupazione,  nel 
poeta  parmense  si  nota  l'assenza  di  qualsiasi  dottrina  ben  chiara 
intorno  al  fato,  anzi  l'assenza  di  qualsiasi  profondo  concetto  in- 
torno alla  provvidenza  divina.  I  rispettivi  sunti  dei  due  poemi 
bastano  a  provar  quanto  dico:  tuttavia  e  perché  la  derivazione 
maniliana  è  stata  asserita  da  un  critico  molto  autorevole  *  e 
perché  non  è  inutile  indugiarci  un  poco  sopra  un  argomento, 
che  deve  contribuire  a  darci  la  misura  del  merito  dell'opera 

1  II  giudizio  è  di  V.  Rossi,  II  Quattrocento  cit.,  p.  348;  ed  è  ripetuto 
da  G.  Bertoni,  La  bibl.  estense  cit.,  p.  109.  Alle  ragioni  interne,  secondo 
il  mio  modo  di  vedere,  tali  da  non  lasciar  dubbio  sull'  assoluta  indipen- 
denza dei  due  poemi,  se  ne  può  aggiunger  una  esterna,  meno  forte,  la  quale 
prova  a  silentio,  come  dicono  i  logici,  che  il  Basini  non  ebbe  fra  mano 
l'opera  maniliana.  Neil'  Invent ario  cit.  non  si  parla  infatti  di  alcun  codice 
degli  Astronomici  del  poeta  romano;  ed  il  manoscritto  della  Malatestiana 
di  Cesena,  copiato  per  ordine  del  Novello,  ha  una  nota  importantissima  per 
noi,  che  io  trascrivo,  insieme  con  la  descrizione  del  codice  stesso,  dal  ca- 
talogo di  R.  Zazzeri,  Sui  codici  e  libri  a  stampa  della  bibl.  Malatestiana 
di  Cesena,  Cesena,  1887  :  «  Cod.  5,  pluteo  25  sinistro  —  Manilius  Marcus 
et  Sammonicus  Q.  Serenus,  Opera,  seu:  1°  Astronomicon  libri  V  ad  Octa- 
vianum  Augustum  ;  2°  De  morbis  e  capite  usque  ad  pedes.  Cod.  membra- 
naceo del  sec.  xv,  ecc.  Nel  margine  inferiore  della  la  carta  v'  è  l'emblema 
della  famiglia  Malatesta,  con  le  sigle  M.  N.  Vi  sono  nei  cinque  libri  di  Ma- 
nilio moltissime  varianti  importanti  in  confronto  specialmente  con  la  edi- 
zione di  Strasburgo  del  1767.  In  fine  al  5°  libro  si  legge  :  Finit  liber  quin- 
tus  et  ultimus,  Pro  illmo  ac  magnifico  Principe  Domino  Malatesta  Novello 
de  Malatestis  scriptus  per  manus  religiosi  viri  fratris  Francisci  de  Fi- 
ghino  anno  gratiae  MCCCCLVII ».  Come  si  vede,  questo  codice  è  una 
copia  del  Manilio  del  Poggio,  differente  in  molti  punti  dalle  edizioni  con- 
dotte -ui  cod.  di  Monte  Cassino  scoperto  dopo,  e  fu  trascritto  per  uso  dei 
Malatesta  l'anno  stesso  della  morte  del  Basini,  cioè  alcuni  anni  dopo  la 
composizioni-  degli  Astronomici  di  quest'ultimo. 


92  CAPITOLO  PRIMO 

basiniana,  mi  giova  ricordare  come  il  solo  passo,  che  in  essa 
sembra  accennare  a  credenza  astrologica,  e  il  seguente  : 

Haec  sunt  illa  eadem,  quae  corpora  nostra  tuentur, 
Lumina  magna;  venit  sensusque  vigorque,  ministris 
His,  hominum  vitis.  Agimus  tamen  emine,  quod  ipsi 
Non  minus  errantes  ad  quinque  referre  soleinus.  ' 

In  questi  versi,  che  si  ricollegano  —  notiamolo  bene  —  ad 
una  precedente  esposi/Jone  della  teoria  delle  case  zodiacali  dei 
pianeti  (teoria  che,  sebbene  d' origine  astrologica,  era  stata 
ammessa  anche  nella  scienza  puramente  astronomica),  che  cosa 
si  afferma?  Che  dalla  fonte  d'ogni  moviineutu.  per  messo  dei 
moti  sottoposti  delle  sfere  planetarie,  scende  la  causa  vitale 
nei  corpi  umani,  e  dai  corpi,  naturalmente,  si  ritiette  nelle  varie 
funzioni  della  vita;  nello  stesso  modo  che  gli  elementi  sublu- 
nari, come  si  soggiungerà  poco  dopo,  sono  informati  dai  cel 
nel  mondo  fisico: 

Haec  quoque  mutantur  superis  et  semina  formis.  * 

Però  si  prosegue,  non  senza  una  punta  di  satira,  avvertendo 
che  nel  campo  morale  non  c'è  influsso  stellare,  e  che  quelle 
azioni,  alle  quali  si  vuol  dagli  uomini  addurre  un  movente  ce- 
leste, quasi  a  scarico  di  coscienza  e  di  responsabilità,  son  ben 
nostre  e  dipendenti  dal  libero  arbitrio. 

In  altri  due  luoghi  del  poema  e'  era  l'occasione  d'introdurre 
il  concetto  astrologico:  nel  principio,  quando  l'autore  accenna 
alla  mente  divina  ordinatrice  del  cosmo;  nella  fine,  quando 
dall'elogio  del  Sole  egli  passa  a  quelle  considerazioni  politiche, 
che  abbiamo  vedute.  Ora  in  codesti  due  luoghi  di  astrologia 
non  v'è  segno. 

Se  non  da  Manilio,  il  titolo  sarà  dunque  suggerito  da  qual- 
che altro  autore  antico,  che  non  è  difficile  rintracciare:  da 
Igino,  i  cui  Astronomici  poetici  abbiam  ricordati  a  suo  tempo; 
«la  Igino,  che  serve  al  Basini  di  fonte  diretta  anche  in  molta 
altra  parte  del  suo  lavoro,  il  quale  per  questa  via  viene  a  ool- 
legarsi  intimamente  colla  tradizione  aratea.  Ed  eccomi  là  onde 

i  Axtron.  II,  v.  107-110. 
s  .islron.  II,  v.  312. 


BASINIO  DA  PARMA  93 

ho  preso  le  mosse  in  principio  di  questo  capitolo,  eccomi  ri- 
tornato alla  tradizione  aratea,  per  discorrerne  con  la  debita 
larghezza. 

Il  fatto  che  più  ci  si  presenta,  anche  a  prima  vista,  evi- 
dente, è  la  conformità  dello  schema  del  poemetto  di  Arato 
e  degli  Astronomici  di  Basinio.  L'operetta  greca  è  divisa  in 
due  grandi  sezioni,  i  Fenomeni  e  i  Pronostici;  ed  il  lavoro 
dell'  umanista  comprende  due  libri.  Nei  Fenomeni  si  tratta  delle 
nozioni  fondamentali  dell'universo,  e  subito  dopo  si  passa  ad 
un'ampia  rassegna  delle  costellazioni;  nel  primo  libro  basi- 
niano,  salva  la  dedica  che  è  elemento  estraneo  ed  indifferente, 
si  discorre  delle  medesime  cose,  nel  medesimo  ordine.  Nei 
Pronostici,  dopo  d'avere,  come  il  lettore  rammenta,  fatto  grandi 
promesse  intorno  alla  teoria  planetaria  eudossiana,  il  poeta 
sì  accontenta  di  esporre  alcuni  precetti  sui  segni  meteorolo- 
gici della  Luna  e  specialmente  del  Sole:  alla  stessa  guisa 
Basinio,  nel  secondo  libro,  dopo  le  rettoriche  vanterie,  che  ab- 
biamo notate  nel  sunto,  si  limita  in  conclusione  a  pochi  cenni 
sui  pianeti  e  poi  divaga  nell'elogio,  in  gran  parte  letterario, 
del  Sole.  E  appunto  a  proposito  di  codesti  segni  meteorolo- 
gici è  bene  osservare  che  la  fonte  aratea  appar  chiara,  direi 
quasi,  trapela  di  sotto  la  più  ricca  espressione  del  poeta  di 
Parma.  Infatti  mentre  questi  nella  protasi,  che  ha  carattere 
severamente  dottrinale,  aveva  taciuto  dei  pronostici  agricoli  e 
nautici,  che  veramente  appaiono  alquanto  fuor  di  luogo,  ecco 
che  a  metà  del  secondo  libro,  lasciandosi  guidar  dalla  fonte, 
senza  apparente  motivo  logico,  li  introduce.  Arato,  riferendosi 
al  Sole,  aveva  scritto  :  «  Ma  se  interamente  limpido  lo  acco- 
glie l'ora  della  sera,  e  scevro  di  nubi  esso  si  corica  nel  mite 
lume  del  crepuscolo,  certo  sarà  pure  sereno  l'indomani  all'au- 
rora ».  '  E  Basinio,  ampliando,  ripete: 

Signa  iuvat  varii  si  te  quoque  discere  Solis, 
Scire  licet,  facileraque  viam  praeberaus.  Ibero 
Cum  cadit  oceano,  si  lucidus  extat,  Eois 
Clarus  et  exit  aquis,  Borea  tardante,  videbis 

1  Arati  Prognostica,  v.  825-827. 


94  CAPITOLO  PRIMO 

Tranquillosque  dies  et  motas  vertice  sylvas; 
Nec  metus  insano  tibi  tum  te  credere  ponto. l 

Ecco  spiegata  la  mancanza   di    intimo  legame,    notata   Del- 
l' anali  si  ! 

Nelle  linee  generali,  e  in  qualche  particolare,  la  fonte  ba- 
siniana  è  dunque  Arato.  2  Ma,  come  abbiamo  affermato  poc'  anzi, 
non  il  solo  Arato  ha  servito  al  Parmense,  il  quale  si  valse  anche 
di  altre  fonti,  scegliendole  tuttavia  sempre  nel  ciclo  arateo. 
Queste  altre  fonti  gli  vengono  in  aiuto  nella  trattazione  spe- 
ciale dei  diversi  argomenti,  e  variano  quindi  a  seconda  della 
materia,  di  guisa  che  il  sustrato  del  poema  viene  a  presentare 
una  disposizione,  che  potremo  chiamare  a  mosaico.  Una  fonte, 
per  esempio,  che  già  abbiamo  avuto  occasione  di  ricordare  a 
proposito  del  titolo,  e  che  abbiamo  additata  come  principalis- 
sima,  è  Igino.  3  Ad  essa  ricorre  il  poeta  con  tale  larghezza  e 
con  una  cosi  pedissequa  servilità,  che  ben  si  potrebbero  chia- 
mare iginiani,  più  che  basiniani,  i  due  terzi  del  primo  libro 
degli  Astronomici.  Né  ciò  che  io  affermo  sembri  esagerato  al 
lettore,  al  quale  sottopongo,  prima  di  passare  a  qualche  os- 
servazione critica,  un  paio  di  esempi,  messi  a  confronto. 

Costellazione  del  Cigno. 

Hvgini  Astronomicon  III:  *  Olor  —  Huius  una  ala  est  ad  circum- 
ductionem  huius  circuii,  qui  arcticus  vocatur,  contingens  extremum 
pedem  sinistrum  eius,  qui  Engonasin  vocatur.  Sinistram  autem  habet 
alatn  paululum  extra  circulum   aestivum  pene   coniungens   pedibus 

: 

1  A8tron.  II,  v.  148-148. 

2  Sperai  di  trovare  alle  ragioni  interne,  per  le  quali  credo  alla  cono- 
M6an  diretta  di  Arato  da  parte  del  Basini,  una  riconferma  nv\V  Inventa- 
rio cit.  ;  ina  in  esso  non  è  registrato  palesemente  alcun  manoscritto  del 
poemetto  greco.  Non  se  ne  può  tuttavia  escludere  la  presenza  quando  leg- 
giamo delle  indicazioni  generiche,  sotto  le  quali  esso  si  può  nascondere, 
come  le  seguenti  :  «  Uno  libro  greco  coverto  di  raso  brettino;  uno  Mino 
greco  coverto  di  raso  con  broche  grosse;  uno  libro  di -astronomia  ctim  una 
opera  greca  coperta  di  raso  rosso  ». 

3  II  primo  a  parlar  d'Igino  a  questo  proposito  è  stato  il  Prudi,  editare 
degli  Astronomici,  in  Basini  Opera  cit.,  I,  p.  291,  Introd.  IV;  lo  segui  <>. 
Voiot,  op.  cit.,  I,  p.  682. 

*  Cito  dall' ed.  del  1486:  Clarissimi  viri  Htoirii  poéticon  astronomicon    I 
opus  utilissitnum  etc.  impressimi  per  Erhardum  Kadtolt  de  Angusta,  Venerila. 


BASINIO  DA  PARMA  95 

Pegasi  ;  aestivus  autem  circulus  rostrum  eius  a  reliquo  corpore  di- 
viditi. Cauda  iungitur  extrema  cum  capite  Cephei.  Hic  cum  Virgine 
et  Chaelis  occidens,  prius  capite  quam  reliquis  membris  devenit  ad 
Terram  ;  exoritur  autera  cum  Capricorno.  Hic  habet  in  capite  stellanti 
dare  lucentein  unam,  in  collo  alterata  pari  fulgore,  in  utrisque  pen- 
nis  quinas,  supra  caudam  unam:  omnino  babet  stellas  xm. 

Basinii  Astronomicon  I,  v.  246-252  : 

Qualis  olorisoni  viridantia  ad  arva  Caystri 
Accolit  berbosas  piscoso  flumine  ripas, 
Talis  in  aethereis  Olor  est  pulcherrimus  oris. 
Ala  tenet  cuius  magnam  sublimiter  Arcton, 
Tenditur  aestiferum  sed  et  altera  pene  sub  orbem, 
Flexigeni  tangit  pede  sed  vestigia  summo  ; 
Aestifer  ipse  secat  reliquo  de  corpore  rostrum, 
Cauda  caput  regis  contingit  denique  Cepbei. 
Virgine  cum  pulsa  Chelisque  cadentibus,  ipse 
Labitur  atque  caput  terris  immergit  opacis  ; 
Exoritur  magni  surgunt  cum  bracbia  Cancri. 
Colla  tenent  unam,  longae  unam  tenuia  caudae, 
Quinque  sinistra  tenet  spatiis  ingentibus  ala, 
Altera  quinque,  caput  solam  tenet. 

Costellazione  del  Leone 

Hygini  Astron.  Ili:  Leo  —  Hic  habet  in  capite  stellas  tres,  in 
cervicibus  duas,  in  pectore  unam,  inter  capillos  tres,  in  media  cauda 
unam,  in  extrema  alteram  magnam,  sub  pectore  duas,  in  pede  priore 
unam  claram,  in  ventre  claram  unam,  et  infra  alteram  magnam  unam, 
in  lumbis  unam,  in  posteriore  genu  unam,  in  pede  posteriore  claram 
unam;  et  ita  est  omnino  numerus  stellarum  decem  et  novem. 

Basinii  Astron.  I,  v.  602-609: 

Ternae  stant  vertice  stellae, 
At  cervice  duae,  sola  est  in  pectore,  cauda 
Una  ima,  mediaque  alia  est,  in  ventre  sed  una  est. 
Ventre  sub  una  iacet,  geminae  snb  pectore  stellae, 
Una  priore  pede  est  laevo,  stat  poplite  laevo 
Una,  duaeque  humero,  nate  stella  infigitur  una  ; 
Una  pede  extremo  in  dextro,  stat  et  una  sinistro, 
Una  genu  extremo.  Magnique  haec  forma  Leonis. 

Le  due  costellazioni  prese  ad  esempio  non  sono  eccezioni, 
in  cui  il  raffronto  appaia  mirabilmente  dimostrativo,  ma  saggi 


96  CAPITOLO  PRIMO 

scelti  a  caso  in  mezzo  alla  serie  completa  degli  asterismi.  Esse 
oltre  a  provarci  la  derivazione  iginiana,  ci  avvertono  pure 
d'un  altro  fatto,  che  cioè  lo  schema  arateo,  per  il  sovrapporsi 
di  questi  nuovi  elementi,  non  viene,  nel  primo  libro,  a  subir»* 
modificazioni  essenziali.  Si  direbbe  che  il  poeta,  a  sfuggire  la 
taccia  di  semplice  traduttore,  e  per  non  rifar  l'opera  ìrià 
tentata  da  Cicerone,  Germanico  ed  Avieno,  ma  volendo  con- 
servare i  contorni  del  modello,  abbia  attinto  ad  un  materiale 
simile,  anzi,  mutata  veste,  identico  nella  sostanza;  ad  un  ma- 
teriale che  certo  non  poteva  presentarglisi,  dal  punto  di  vista 
scientifico,  più  arduo  e  più  astruso  di  quello  dell'antico  poe- 
metto alessandrino. 

Sennonché  ci  sarebbe  da  dubitare  che  nella  parte  più  pro- 
priamente poetica  annessa  a  ciascuna  costellazione,  cioè  nei 
miti,  Basinio  abbandoni  Igino  per  far  ritorno  ad  Arato.  Ma 
cosi  non  è.  Anche  nel  famoso  episodio  della  Vergine  —  il  let- 
tore se  ne  ricorderà  —  l'umanista  si  attiene  alla  favola  di 
Erigone,  trascurando  quella  di  Astrea;  come  si  può  vedere 
dal  confronto,  che  volentieri  qui  aggiungo  a  riprova  delle  mie 
affermazioni  precedenti. 

Costellazione  e  mito  della  Vergine. 

Hygini  Astron.  Ili  :  Virgo  —  Virgo  infra  pedes  Bootis  collocata, 
capite  posteriorem  partem  Leonis,  dextra  marni  circulum  aestivalem 
tangit,  ac  inferioretn  partem  corporis  supra  Corvura  et  Hydrae  cau- 
dam  habere  perspicitur,  occidens  capite  priusquam  reliquia  membris. 
lluius  in  capite  est  stella  una  obscura,  in  utrisque  humeris  singu- 
lti-, in  utrisque  pennis  binae,  quarum  una  stella  quae  est  in  dextra 
penna  ad  humerum  dofixa  Protrigot  vocatur.  Praeterea  habet  in  utris- 
que manibus  singulas  stellas,  quarum  una  quae  est  in  dextra  manu 
iunior  et  clarior  conspicitur.  In  veste  autem  habet  passim  dispositas 
stellas  septem,  in  utrisque  pedibus  singulas.  Omnino  stellarum  nu- 
li ii-rus  XVI. 

Hygini  Astron.  Ili:  Arctophilax  —  At  canis  vestem  eius  tenens 
dentibus  perducit  ad  cadaver.  Quod  filia  simul  ac  vidit,  desperata  spe, 
solitudine  ac  pauperie  oppressa,  multis  miserata  lachrymis,  in  eodem 
arbore,  sub  qua  parens  sepultus  videbatur,  suspendio  mortem  sibì 
conscivit ....  Alii  hos  a  Libero  patre  figuratos  inter  sidera  dicunt. 
Interim  cimi  in   finibus    Atbeniensium   multae   virgines   sine  causa 


BASINIO  DA  PARMA  97 

suspendio  sibi  mortem  consiscerent,  quod  Erigone  moriens  erat  pre- 
cata  ut  eodera  leto  fìliae  Atheniensiuin  afficerentur,  quo  ipsa  foret 
obitura,  nisi  Icari  mortem  persecuti  et  eum  forent  ulti  ;  itaque  cum 
id  evenisset,  ut  ante  diximus,  petentibus  eis  Apollo  dedit  responsum  : 
si  vellent  eventu  liberari,  Erigonae  satisfacerent.  Qui  qua  ea  se  sus- 
penderat  instituerunt  uti  tabula  interposta  pendentem  funibus  se 
iactarent,  ut  qui  pendens  vento  moveretur ....  Deus  iubet  multis  ho- 
stiis  expiari  Icari  mortem  et  ab  love  potere  ut,  quo  tempore  Cani- 
cula  exoriretur,  dies  quadraginta  ventum  daret,  qui  aestum  Cani- 
culae  mederetur.  Quod  iustum  Aristeus  confecit  et  a  love  impetravit 
ut  Ethesiae  flarent. 

Basinii  Astron.  I,  v.  610-632: 

Protimis  Erigone  sequitur  pulcherrima  "Virgo. 

Ipsa,  pedes  infra  magni  portenta  Bootae, 

Vertice  postremam  partem  ferit  alta  Leonis, 

Aestiferum  dextra  contingit  denique  circum. 

Corporis  inferior  pars  imae  desuper  Hydrae 

Imminet,  atque  caput  terris  immergit  opacis, 

Caetera  membra  cadunt  quam  funditus.  Huic  caput  ingens 

Stella  tegit  parva,  atque  humero  super  altera  laevo, 

Una  alio,  geminis  binae  stant  Virginis  alis, 

Singula  utraque  manu,  sex  veste  micantia,  plantis 

Sidera  bina  cavis.  Talis  est  Astrea  figura. 

Hanc  canis  ad  patrium  perduxit  fida  cadaver, 

Quod  Rhyphaea  manus  terra  occultarat  opaca  ; 

TJnde  Canem  Icarium  quidam  dixere,  putantes, 

Hunc  ipsum  caelo  patrem  statuisse  Lyaeum. 

Quae  simul  ac  dira  conspexit  caede  parentem 

Confectum,  fuerat  quae  desuper  arbore  ab  alta, 

Multa  precata  Deos,  curas  testatur  inanes 

Illorum,  ac  turpi  defregit  guttura  nodo. 

Virginibus  magni  dehinc  Cecropis  urbe  creatus 

Mos  erat  aetherias  corpus  librare  sub  auras, 

Virginis  ut  magnum  tenuarent  sacra  dolorem, 

Annuaque  aestivi  portarent  frigora  venti. 

La  fonte  principale  del  secondo  libro  è  la  seconda  parte 
del  poema  di  Arato,  cioè  i  Pronostici.  Tuttavia,  come  abbiamo 
avvertito  nel  sunto,  in  quel  libro  c'è,  a  un  certo  punto,  una 
digressione,  inserita  a  forza  nello  schema  arateo,  della  quale 
difficilmente  ci  potremmo  render  conto,  se  non  sapessimo  donde 
venne  allo  scrittore  l'impulso  ad  introdurla.  Parlo  della  trat- 

Sol.DATI  7 


98  CAPITOLO  PRIMO 

tazione  dell'abitabilità  della  Terra  o  della  teoria  degli  Anti- 
podi, cacciata  nel  bel  mezzo  del  sistema  planetario,  quasi  a 
colmar  la  lacuna  fra  i  pochi  cenni  sui  cinque  pianeti  e  l'esteso 
elogio  del  Sole.  Orbene  l'occasione  a  tale  aggiunta  venne  al 
Basini  da  un  passo  del  libro,  cosi  noto  nel  Medio  evo  e  Del 
KinasGimento,  di  Marziano  Capella,  Venuptiià  l'hiìologiae  et 
Mercurii,  il  cui  capitolo  sesto,  intitolato  De  geometria,  cioè 
delle  proporzioni  e  della  forma  della  Terra,  contiene  fra  l'altre 
cose  anche  la  descrizione  delle  cinque  zone  terrestri.  A  propo- 
sito delle  quali  è  ricordata  la  figura  sferica  del  nostro  globo, 
abitabile  in  tutti  i  punti  della  sua  superficie,  e  viene  esposta 
la  nomenclatura  dei  diversi  abitatori  in  rapporto  alla  posizione 
loro  reciproca.  Cosi,  dopo  d'aver  parlato  della  zona  temperata, 
nella  quale  noi  abbiamo  dimora,  si  passa  a  quelle  che  si  tro- 
vano nell'emisfero  australe: 

«  Altera,  quae  e  contrario  ad  meridioni  atque  austram  fert,  quain 
habitare  illi  aestimantur,  qui  vocantur  àvvoÌKOi.  Similiter  ex  infer- 
natibus  duae.  Sed  hi,  qui  nobis  obversi,  antipodes  memorantur;  qui 
contra  illos,  quos  àvroÌKOvs  dicimus,  anticthones  appellantur.  Sed  nos 
cuna  illis  diversitas  temporum  velut  quadam  contrarietate  discrirai- 
nat  ;  nam  cum  aestate  torremur,  illi  frigore  contrahuntur  ». l 

Ed  ora  si  stia  a  sentire  Basinio: 

Aequipedes  alios  patrio  sermone  vocamus, 

Antoecos  Grai,  nostro  qui  Sole  fruuntur 

Parte  sub  adversa,  superi  sub  corpore  coeli, 

Verticis  austrini  prope  sidera  condita  nobis. 

At  qui  circum  habitant  Graio  sermone  Peroeci 

Dicuntur  populi  ;  sua  qui  vestigia  contra 

Nostra  tenent,  Graia  Antipodes  quoque  voce  feruntur. 

1  Martiani  Minei  Capellae  ctc.  De  nuptiis  Philologiae  et  Mcrcuru,  Llf- 
■liini,  1619,  p.  226.  (Jiova  avvertire  che  per  quelle  parti,  nel  le  quii  il  ri- 
scontro fra  la  fonte  indicata  e  i  versi  di  Basinio  non  è  perfetto,  occorre 
pensare  ad  uno  di  quei  numerosi  manoscritti  di  Marziano,  che  correvano  a 
quei  tempi  forniti  di  commento  e  di  aggiunte,  sui  quali  v.  la  memoria  di 
E.  Narducci,  Intorno  a  vari  commenti  fin  qui  inediti  o  sconosciuti  al  «  Sa- 
tyricon  »  di  Marziano  Capella,  seguiti  dal  Commento  di  Remigio  d'Au- 
xerre  al  libro  VII  de  Arithmetica,  della  stessa  opera;  estr.  dal  Jiullcttino 
di  bibliografia  e  di  storia  delle  scienze  matematiche  e  fisiche,  tomo  \  v 
(1882). 


BASINIO  DA  PARMA  99 

Nana  cuna  nox  exit  ad  illos, 

Incipit  ipse  dies  nostris  se  reddere  terris, 

Atque  ubi  venit  hyems  nobis,  bis  vertitur  aestas. l 

Perché  poi  Basinio  abbia  voluto  introdurre  il  problema  degli 
Antipodi,  non  è  ben  chiaro.  Probabilmente  l'incitamento  gli 
venne  da  ciò,  che  verso  la  metà  del  secolo  quella  era  que- 
stione viva  e  discussa, 2  ed  era  quindi  pervenuta  con  una  certa 
insistenza  al  suo  orecchio  di  astronomo  e  geografo  improvvi- 
sato. Fatto  sta  —  ed  è  questo  l'importante  —  che  egli,  intro- 
ducendola nell'opera  sua,  non  v'  aggiunse  nulla  che  non  avesse 
appreso  da  Marziano  Capella. 

Ancora  qualche  altra  fonte  minore,  sempre  a  proposito  del 
secondo  libro,  potrei  indicare,  come  certi  versi  di  Lucrezio,  a 
cui  fanno  riscontro  altri  del  Basini,  come  certe  espressioni 
delle  Georgiche  di  Virgilio,  a  cui,  specialmente  verso  la  fine 
del  poema,  il  nostro  autore  si  accosta.  Sarebbero  tuttavia  pic- 
coli raffronti,  non  necessari  dopo  che  tutti  i  principali  ele- 
menti degli  Astronomici  trovarono,  nell'  analisi  nostra,  il  loro 
antico  modello.  E  tempo  piuttosto  che  ci  affrettiamo  verso  la 
conclusione. 


IV. 


Il  giudizio  più  equo  sul  poema  di  Basinio  Basini  va  indotto 
in  gran  parte  dalla  natura  delle  fonti  usate  dall'autore,  e  dal 
modo  ond*  egli  combinò  fra  di  loro  le  fonti  medesime.  Esso 
dipende  inoltre  dal  valore  letterario  e  morale  di  quel  poco  di 
nuovo  e  di  suo,  che,  come  abbiamo  veduto,  il  poeta  introdusse 
nell'  opera  propria. 

Dalla  natura  delle  fonti,  in  prevalenza  prosastiche,  nasce 
nel  nostro  poemetto  l'aridità,  la  pesantezza,  che  grava  sopra 
le  descrizioni  del  primo  libro,  sopra  le  esposizioni  teoriche  del 
secondo.  Come  mai  avrebbe  potuto  il  Basini,  con  quel  suo 
tradurre  in  versi  il  terzo  libro  di  Igino  o  il  capitoletto  De  geo- 

»  Astron.  II,  v.  195-201  e  210-212. 

*  S.  Bornio,  La  leggenda  degli  Antipodi,  in  Miscellanea  di  studi  cri- 
tici, ed.  in  onore  di  A.  Graf,  Bergamo,  1908,  p.  601. 


100  CAPITOLO  PRIMO 

metria  di  Marziano  Capella,  quasi  parola  per  parola,  elevarsi 
ad  espressioni,  se  non  poetiche  nel  senso  alto,  almeno  ele- 
ganti ?  Con  quel  suo  penoso  lavorio  di  riduzione  metrica,  nel 
quale  segni  troppo  bene  il  metodo  antico  di  Arato,  che  abbiano 
veduto  affaticarsi  stilla  prosa  eudossiana,  egli  si  predale  la 
via  all'arte,  abbassandosi  fino  a  stendere  quegli  elenchi  di 
stelle  che  ho  trascritti  nei  saggi  citati,  e  ad  accozzar  cataloghi 
del  genere  del  seguente,  che  pare  un'  ingegnosa  trovata  mne- 
monica da  servire  in  iscuola  ai  ragazzi: 

Primum  Aries  signum,  sequitur  quem  Taurus  acutis 
Cornibus;  hinc  Gemini  Laedeia  sidera  fratres  : 
At  Cancrum  Herculei  sequitur  quoque  forma  Leonia; 
Hunc  Virgo,  hanc  iustae  pendentia  pondera  Librae. 
Scorpi us  hanc  sequitur,  post  quem  sua  spicula  Chiron 
Tendit;  at  Aegoceros  premit  hunc  quoque  cornibus  alte 
Auratis,  curva  cui  surgit  Aquarius  urna; 
Ultima  quem  Pisces  caelestia  signa  secuti.  ' 

Se  dunque  la  natura  delle  fonti,  e  il  metodo  troppo  pedis- 
sequo nel  valersi  delle  medesime,  furono  causa  d'uno  dei  mag- 
giori difetti  degli  Astronomici,  non  minor  danno  venne  ad  essi 
dal  modo  onde  le  fonti  stesse  furon  poste  a  contatto.  I  le- 
gami —  come  non  ho  trascurato  di  mettere  in  rilievo  nei  luoghi 
opportuni  —  o  non  esistono  fra  le  diverse  parti,  o  sono  del 
tutto  artificiali  :  l'opera  intera  non  un  organismo,  ma  un  muc- 
chio di  materiali,  non  è  un  quadro,  ma  un  cattivo  mosaico. 
Dove,  per  di  più,  e'  è  il  grave  inconveniente  della  sproporzione, 
sia  nella  misura,  sia  nella  qualità.  Nella  misura,  in  quanto 
che  certi  argomenti  anche  notevoli,  sono  appena  accennati,  per 
non  dir  taciuti,  mancando  per  essi  una  fonte  copiosa  di  noti- 
zie; mentre  ad  altri  o  meno  importanti,  o  degni  bensi  di  svi- 
luppo, non  però  esagerato,  presentandosi  la  materia  con  abbon- 
danza, si  dà  un'estensione  soverchia.  Nella  qualità,  in  quanto 
che  per  l'uso  promiscuo  di  modelli  ora  prosastici  ora  poetici, 
si  passa  dal  tono  rettorico  e  solenne  al  pedestre  ed  amile,  Bensa 
la  giustificazione  di  ragioni  estetiche  o  morali.  Solo  una  forte 
concezione  di  tutto  l'argomento,  un  punto  di  vista  soggettivo. 

•  Astron.  I,  v.  168-165. 


BASINIO  DA  PARMA  101 

nuovo  e  ben  chiaro  avrebbe  potuto  fondere  tanti  frammenti 
distinti  e  divisi  :  ma  è  ciò  appunto  che  più  manca  al  Basini. 

Manca  invero  al  nostro  scrittore  un  concetto  etico,  il  quale, 
quasi  senza  farsi  scorgere,  pervada  in  tutte  le  sue  parti  l'opera 
didattica,  e  faccia  scaturire,  anche  là  dove  la  materia  scien- 
tifica meno  parrebbe  favorirla,  la  scintilla  della  poesia.  Que- 
sto difetto,  per  esempio,  non  abbiam  visto  in  Arato,  nei  cui 
Fenomeni  vive  e  qua  e  là  si  fa  sentir  con  violenza  la  forza 
del  fato,  sia  che  il  poeta  invochi  Zeus  regolatore  dei  lavori 
degli  uomini  e  quindi  della  loro  felicità,  sia  ch'egli  attinga 
la  sostanza  delle  sue  narrazioni  alla  mitologia  celeste,  come 
nel  noto  episodio  di  Diche,  sia  infine  che  nella  viva  descrizione 
d'una  burrasca,  d'una  meteora,  d'  un  presagio,  faccia  risaltare 
con  amara  riflessione  la  piccolezza  del  genere  umano.  Questo 
difetto  non  abbiam  scorto  in  Manilio,  a  cui  la  convinzione 
astrologica  fu  potente  mezzo  di  rappresentazione  estetica.  Ma 
in  Basinio  non  agisce  né  il  fato  né  l'influsso;  e  nemmeno  agi- 
sce il  concetto  cristiano  della  provvidenza  divina,  che  sarebbe 
pur  riuscito,  ove  fosse  stato  fortemente  compreso,  a  reggere  e 
vivificare  V  inerte  poema.  Forse  una  profonda  concezione  scien- 
tifica ne  avrebbe  salvato  le  sorti  ;  ma  neanche  la  competenza 
dottrinale  o  tecnica,  per  dirla  alla  moderna,  può  essere  in- 
vocata. 1 

Nulla  adunque  dovremo  scoprir  di  notevole,  di  bello  nel 
poemetto,  che  abbiam  preso  a  studiare  ì  Qualcosa,  certo.  Bella 
e  notevole  è  gran  parte  di  tutto  ciò  che  è  esteriore  alla  so- 
stanza dell'opera,  vale  a  dire  la  dedica  e  la  chiusa,  ed  in  ge- 
nerale la  forma  letteraria.  "I  brani  numerosi  e  della  protasi  e 
dell'elogio  del  Sole,  che  ho  riportati  a  suo  luogo,  mi  esimono 
dallo  spendere  molte  parole  per  dimostrare  che  l'ispirazione 

1  Non  distrugge  il  mio  giudizio  il  passo  seguente,  nel  quale  Basinio 
parla  con  una  certa   superbia  del  proprio   valore  (Astron.  II,  v.  881-333)  : 

Cleomedeas  romani  s  versibus  artes 
Exsequar,  ingenti  patriae  perculsus  amore. 

Che  cosa  ci  stia  a  fare  il  nome  di  Cleomede  —  uno  dei  fautori  del  sistema 
eliocentrico,  vissuto  nel  secondo  secolo  d.  C.  —  veramente  non  si  sa  :  o, 
meglio,  lo  si  indovina  benissimo,  ove  il  vanto  del  Parmense  sia  inteso  nel 
suo  vero  significato,  cioè  come  una  frase  puramente  rettorica. 


102  CAPITOLO  PRIMO 

sincera  del  Basini  si  restringe  e  condensa  nelle  lodi  dei  due 
signori  di  Rimini  e  di  Cesena;  lodi  meritate  per  ciò  che  ri- 
guarda le  opere  della  pace,  cioè  lo  splendore  delle  loro  corti, 
degli  edifizì  da  essi  innalzati,  della  coltura  intorno  ad  essi  fio- 
rente. Lo  spirito  raffinato  dell'autore,  al  toccar  di  certi  argo- 
menti, sembra  che  si  risvegli  e  si  riscaldi;  si  leva  allora  sulla 
sua  dotta,  fredda  fatica  di  umanista  ed  innalza  un  inno  alla 
bellezza  e  alla  gloria  dell'  ambiente  in  cui  vive.  Pare  quest'inno 
una  digressione,  e  tale  è  senza  dubbio  rispetto  alla  materia;  ma 
vibra  in  esso  un  certo  che  di  cosi  vivo  e  vero,  ma  spira  da 
esso  con  tanta  evidenza  l'anima  del  Quattrocento,  che  natural- 
mente ci  sentiamo  portati  all'ammirazione.  L'autore  si  avanza 
col  suo  modo  di  vivere  e  di  sentire,  coprendo  della  sua  om- 
bra il  proprio  scritto  :  non  importa  ;  finché  egli  ci  è  presente, 
noi  ammiriamo  lui  e  il  suo  secolo.  In  questo  modo  soltanto  si 
spiega  quel  senso  di  soddisfazione  serena,  per  quanto  tenue  ed 
indeterminata,  che  rimane  inconsciamente  nell'animo  di  olii. 
senza  preconcetti  buoni  o  cattivi,  sia  giunto  alla  fine  della  let- 
tura degli  Astronomici. 

Al  qual  sentimento  contribuisce  senza  dubbio,  ed  efficace- 
mente, la  classica  rappresentazione,  da  noi  pure  citata,  dei 
mali  di  Costantinopoli  disertata  dai  Turchi.  Per  quanto  un 
po'  oziosa  rispetto  al  tema  principale,  per  quanto  un  poco  ret- 
torica,  la  descrizione  dell'antica,  gloriosa  città  caduta  non  può 
non  commuovere  il  lettore,  non  dimentico  che  la  catastrofe  la- 
mentata era  per  il  poeta  un'impressione  reale  e  recente.  Dopo. 
per  molto  tempo,  le  querimonie  letterarie  sulla  profanazione 
del  sepolcro  di  Cristo  diventeranno  il  tema  obbligato  della  li- 
rica e  dell'epica  d'Occidente,  e  specialmente  d'Italia:  nel 
Basini  è  ancora  ispirazione  sentita. 

Bella,  abbiamo  detto,  è  la  forma.  La  lingua  è  pura;  pregio 
non  mediocre,  chi  pensi  che  il  Basini  scriveva  quando  appena 
appena  si  era  toccata  la  metà  del  secolo  decimoquinto,  ed  i 
criteri  intorno  all'imitazione  dei  migliori  classici  ancora  oscil- 
lavano. La  frase,  propria  ed  efficace;  il  verso,  corretto,  non 
di  rado  sonoro  e  scorrevole.  Non  mancano  inoltre  delle  ri- 
cercatezze  specialmente    nell'abuso  di  eleganze  sintattiche  e 


BASINIO  DA  PARMA  103 

metriche,  e  nell'insistenza  sopra  certe  frasi  peregrine.  Non 
a  caso,  per  esempio,  il  secondo  verso  della  protasi  è,  con  leg- 
geri ritocchi,  ripetuto  nelle  chiuse  rispettive  dei  due  libri  : 

Musa,  cane,  atque  vias  semper  volventis  Olympi.  — 
Nexa  tenet  cursu  semper  volventis  Olympi.  — 
Tempia  cano  atque  vias  semper  volventis  Olympi. 

Conchiudendo,  qual  sarà  il  giudizio  complessivo  intorno  al- 
l' opera  del  Basini  ?  Questo  :  —  che  essa,  scritta  con  l' intento 
d'imitare  i  Fenomeni  aratei,  non  riusci  un  libro  scientifica- 
mente notevole,  per  mancanza  di  preparazione;  non  riusci  un 
poemetto  esteticamente  armonico,  per  mancanza  di  proporzioni 
e  di  vivacità  nelle  rappresentazioni  mitologiche;  non  riusci 
un'opera  di  pensiero  filosofico  o  morale,  per  assenza  d'un  con- 
cetto animatore  ;  ma  riusci  un  grazioso  tentativo  dal  punto  di 
vista  storico  e  letterario,  sia  per  l'eleganza  umanistica  del  det- 
tato, sia  per  gli  accenni  sinceri  e  vivi  all'ambiente  ove  nacque. 


A  guisa  di  appendice,  posso  aggiungere  per  ultimo  qual- 
cosa intorno  alla  fortuna  degli  Astronomici  basiniani  ;  fortuna 
purtroppo . .  .  sfortunata,  giacché  si  protende  nel  tempo  per 
pochi  anni,  e  per  estensione  non  esce  da  una  stretta  cerchia 
di  ammiratori  eruditi. 

Appena  composto  il  poemetto,  l'autore  lo  mandò  agli  amici, 
e  riscosse  lodi  e  congratulazioni. l  Ma,  come  per  tutte  le  altre 
opere  sue,  anche  per  questa  non  acquistò  gloria  che  nell' am- 
bito della  corte  malatestiana,  o  poco  più  in  là.  Poi  egli,  po- 

1  II  poema  fu  mandato  a  un  Paolo  da  Sassoferrato  e  quindi  al  riminese 
Roberto  Orsi  amicissimo  del  Basini,  come  si  ricava  dalla  lettera  che  il  no- 
stro poeta  scrisse  all'Orsi  medesimo,  il  27  ottobre  1456 (?),  intorno  alla  que- 
stione della  lingua  greca  ed  alle  sue  polemiche  col  Seneca  e  col  Porcellio; 
lettera,  che  finisce  cosi  :  <  Vale  et  Astronomica  mea  a  me  nuper  edita,  quae 
noster  l'aulus  Saxoferratensis  habet,  perlege;  a  te  enim  quid  de  eo  opere 
videatur  scire  percupio  »;  in  Anecdota  litteraria,  Roinae,   1778,  II,  p.  800. 


104  CAPITOLO  PRIMO 

chi  anni  dopo,  mori;  ed  il  suo  nome  e  la  fama  del  poemetto 
astronomico  rimasero,  si  può  dire,  soltanto  nell'epitaffio  in 
San  Francesco  di  Rimini  : 

Parma  mihi  patria  est,  sunt  sidera  Carmen  et  arma. l 

Il  Bonincontri  e  il  Pontano,  che  dopo  il  Basini  tennero  il 
campo  nella  poesia  astronomica,  o  non  conobbero  o  finsero 
d'ignorare  il  loro  predecessore;  e  tanto  meno  badarono  a  lui 
i  profani  dell'  astronomia.  Solo  nel  1507  Luca  Gaurico,  salendo 
la  cattedra  di  astrologia  in  Ferrara  e  pronunciando  un  discorso 
introduttivo  sugl'inventori  dell'arte  di  cui  egli  era  maestro 
famoso,  fece  menzione,  fra  coloro  «  qui  de  rebus  coelestibus 
heroico  Carmine  plerosque  edidere  libellos  >,  di  Basinio  da 
Parma.2  Ma  l'accenno  del  Gaurico  è  troppo  erudito  e  troppo 
singolarmente  studiato  per  lasciarci  credere  che  a  quei  tempi 
la  fama  del  Nostro  non  si  fosse  già  spenta  da  un  pezzo  e 
per  sempre. 

1  I.  Affò,  op.  cit.,  p.  22. 

2  De  astronomiae  seu  astrologiae  inventoribus,  utilitate,  fructu  et  lau- 
dibus  oratio  etc.  in  L.  (Jaurici  Opera,  Baaileae,  1">75,  I,  1.  Vedi  pure  F.  Ga- 
botto,  Alcuni  appunti  per  la  cronologia  della  vita  dell'astrologo  L.  Gau- 
rico, in  Archivio  stor.  napoletano,  XVII,  2;  e  E.  Pékcopo,  L'umanista  Pon- 
ponio  Gaurico  e  L.   Gaurico  ultimo  degli  astrologi,  Napoli,  !S9r»,  p.  Iti. 


CAPITOLO  SECONDO 


Lorenzo  lionincontri  da  San  Miniato. 


I.  Manilio  presso  gli  astrologi  della  seconda  metà  del  Quattrocento  :  condizioni 
dell'  astrologia  nella  società  di  questo  tempo.  —  II.  Notizie  intorno  alla  vita  del- 
l'astrologo Lorenzo  Bonincontri.  —  III.  Le  opere  minori  del  Boniucoutri.  —  IV.  Il 
suo  commento  al  poema  maniliano. 


I. 


L'opera  del  Basini,  non  astrologica,  poco  scientifica,  ret- 
torica  imitazione  aratea,  rimase  a  mezzo  il  Quattrocento  un 
esempio  isolato:  nessun  legame  la  univa  alle  enciclopedie 
dell'ultimo  Medio  evo,  che  immediatamente  la  precedettero, 
nessun  seguito  essa  potè  avere  nella  poesia  celeste  successiva. 
Kestò  come  una  voce  inascoltata,  fuori  della  vita  varia  ed  in- 
tensa, per  quanto  tumultuaria  e  senza  indirizzo  preciso,  che  le 
ferveva  dintorno  per  opera  dei  cultori  della  scienza  astrologica 
e  del  popolo  basso  ed  alto,  che  a  costoro  dava  favore  e  da  co- 
storo chiedeva  responsi.  La  vita  e  lo  svolgimento  di  cotesta 
scienza  non  poteva  infatti  soffrire  una  interruzione  repentina, 
quale  sarebbe  stata  ove  il  poema  di  Basinio  avesse  avuto  imi- 
tatori, determinando  un  nuovo  indirizzo.  L'età  media,  anche 
quando  i  primi  frutti  dell'Umanesimo  cominciavano  a  matu- 
rare  nel  campo  dell'arte,  sopravviveva  nell'insegnamento  dot- 
trinale, e  solo  lentamente  e  per  gradi  si  veniva  rinnovando. 
I  residui  della  scienza  enciclopedica  avevano  forte  vitalità, 
anche  perché  erano,  iu  fondo,  d'origine  anteriore  all'enciclo- 
pedismo, cioè  di  fonte  classica;  ed  il  tipo  del  dotto  medio- 
evale, con  quella  cert'  aria  di  mistero  che  lo  avvolgeva,  con- 


106  CAPITOLO  SECONDO 

tinuava  a  sussistere,  pur  imparando  nuovi  fatti  e  nuove  idee 
sui  libri  antichi  ridati  alla  luce. 

Ora  presso  codesto  ceto  di  eruditi,  presso  codesti  continua- 
tori delle  scuole  di  Pietro  d'Abano  e  di  Cecco  d'Ascoli,  entra- 
tovi da  principio  come  un  vecchio  testo  degno  di  studio,  il 
poema  di  Manilio  diventò  in  breve  volger  di  tempo  il  libro 
per  eccellenza,  il  manuale  insuperato  d'astrologia.  Scoperto, 
come  ho  detto  altrove,  sul  principio  del  secolo  decimoquinto, 
Manilio  stentò  dapprima  ad  essere  compreso  a  dovere:  i  nostri 
astrologi,  si  vede,  ancor  scarsamente  sapevano  approfittare 
delle  indagini  degli  umanisti;  e  gli  umanisti  non  riuscivano, 
per  certe  opere,  ad  entrare  abbastanza  profondamente  nello 
spirito  e  nella  dottrina  degli  autori  dissepolti.  Ma  una  cin- 
quantina d'anni  dopo,  quando  già  avea  trovato  editori  ed  un 
degno  studioso,  mostrandosi  in  una  nuova  redazione  più  com- 
pleta e  corretta,  ebbe  l'onore  d'essere  letto  da  una  cattedra 
universitaria,  e  d'uscire  nuovamente  per  le  stampe  con  un 
largo  commento  :  di  più,  ispirò  due  poemi,  le  due  migliori 
produzioni  umanistiche  della  poesia  del  cielo.  Quando  questo 
fatto  avveniva,  gli  astrologi,  gli  eredi  della  scienza  medio- 
evale, ecco,  si  erano  trasformati,  a  grado  a  grado,  in  umanisti, 
ed  il  Rinascimento  aveva  trionfato  non  con  la  sostituzione 
violenta  di  criteri,  di  dottrine,  ma  con  la  fusione,  con  l'infil- 
trazione progressiva.  0,  per  meglio  esprimerci,  fra  gli  astro- 
logi, perché  un  rinnovamento  potesse  effettuarsi,  s'  era  pre- 
parata una  scelta,  s'era  operata  un'elevazione:  alcuni,  i 
migliori,  eran  riusciti  —  come  ricordo  d'aver  già  lasciato  in- 
tendere in  altro  luogo —ad  intrecciare  i  problemi  della  loro 
dottrina  con  le  questioni  più  larghe  del  pensiero  filosofico 
dominante.  Alla  pratica  grossolana  dell'arte,  al  fanatismo  ere- 
ticale di  certe  teorie,  secondo  lo  spirito  dei  nuovi  tempi,  era 
sottentrata  la  speculazione  serena,  alquanto  paganeggiante, 
intorno  all'universo  ed  alla  morale. 

Chi  erano  adunque  codesti  astrologi,  che  davano  in  tal  modo 
una  mano  al  vecchio  mondo  dell'età  di  mezzo,  e  l'altra  pro- 
tendevano verso  i  tempi  moderni l  In  quale  ambiente  scienti 


LORENZO  BONINCONTRI  107 

fico  crebbe  e  si  temprò  il  lettore,  commentatore  ed  imitator  di 
Manilio,  Lorenzo  Bonincontri  da  San  Miniato  ? 

L'infinita  varietà  che  il  tipo  dell'astrologo  ci  presenta  in 
questo  tempo,  cioè  nella  seconda  metà  del  secolo,  comprende 
figure  tanto  diverse,  da  richiedere,  per  offrirne  una  immagine 
chiara,  una  mano  assai  delicata.  Ed  il  Bonincontri,  per  quanto 
nel  periodo  maturo  abbia  cercato  di  sollevarsi  al  disopra  de' 
suoi  colleghi  nel  gruppo  più  eletto  per  profondità  di  studi  e 
di  pensiero,  durante  il  periodo  preparatorio  appartenne  anche 
a  categorie  meno  nobili  ed  alte.  Sarà  quindi  opportuno,  per 
abbozzare  un  quadro  dell'ambiente  astrologico  del  Rinasci- 
mento, tracciare  diversi  ritratti,  in  ordine  ascendente,  dalla 
più  bassa  figura  intellettuale  e  morale  fino  alla  più  elevata, 
dal  volgare  astrologo  gabbatore  al  filosofo  dell'  astrologia. 
Quanto  e'  è  di  vecchio  e  di  medioevale,  solo  in  questo  modo 
più  evidente  risalterà  paragonato  con  gli  elementi  nuovi  uma- 
nistici, e  la  verità  storica,  che  sempre  ha  più  facce  da  rive- 
lare, ci  guadagnerà  in  evidenza. 

Cominciando,  come  ho  detto,  dal  basso,  ecco  in  prima  linea 
il  tipo  del  negromante,  riconoscibile  a  certi  suoi  caratteri  e  a 
certa  sua  abitudine  d'intromettersi  nelle  faccende  del  prossimo, 
per  ritrarne  guadagno.  Di  esso  è  bellissimo  esempio,  anzi  mo- 
dello, mastro  Jachelino,  l'imbroglione  che  dà  il  nome  ad  una 
delle  migliori  commedie  dell'Ariosto;  né  importa  che  i  versi, 
in  cui  viene  dipinto,  siano  del  principio  del  Cinquecento;  il 
tipo  non  8'  era  mutato  in  cosi  breve  tempo. 

Per  certo,  questa  è  pur  gran  confidenzia 

Che  mastro  Jachelino  ha  in  se  medesimo, 

Che  mal  sapendo  leggere  e  mal  scrivere, 

Faccia  professione  di  filosofo, 

D' alchimista,  di  medico,  di  astrologo, 

Di  mago  e  di  scongiurator  di  spiriti  : 

E  sa  di  queste  e  dell'altre  scienzie, 

Che  sa  l'asino  e  '1  bue  di  sonar  gli  organi  ; 

Benché  si  faccia  nominar  lo  Astrologo 

Per  eccellenza,  si  come  Virgilio 

Il  Poeta  e  Aristotile  il  Filosofo. 


108  CAPITOLO  SECONDO 

Ma  con  uà  viso  più  che  marmo  immobile, 
Ciance,  menzogne,  e  non  con  altra  industria, 
Aggira  ed  avviluppa  il  capo  agli  uomini. l 

Quanto  a  condizione  sociale,  mastro  Jachelino,  che  con  tanta 
disinvoltura  si  appropria  tutti  i  mestieri  e  tutte  le  divise, 

Ed  è,  per  dire  il  ver,  giudeo  d' origine, 
Di  quei  che  fur  cacciati  di  Castilia,  "-' 

è  pure  il  tipo  più  adatto.  Il  negromante  può  presentarsi  infatti 
con  un'  infarinatura  di  scienza  matematica,  ed  anche  avere 
qualche  buona  conoscenza  di  meccanica,  come  avvenne  a  Bar- 
tolomeo Manfredi,  l'astrologo  favorito  del  marchese  Lodovico 
Gonzaga,  che  costrusse  l'orologio  della  torre  nella  piazza  prin- 
cipale di  Mantova.3  Il  numero  degli  astrologi  medici  è  pure 
infinito,  si  da  potersi  affermare  che  la  professione  di  medico  por- 
tava con  sé  di  necessità  quella  di  astrologo  ;  e  vediamo  che 
in  loro  favore  la  Chiesa,  nelle  sue  condanne  contro  la  scienza 
divinatoria,  fece  fino  a  tempi  abbastanza  recenti  una  speciale 
eccezione.4  Alcuni  negromanti  si  compiacevano  di  dare  alla 
propria  vita  ed  alle  proprie  parole  una  vernice  di  pietà  reli- 
giosa, quasi  ad  accrescere  la  meraviglia  ed  il  mistero  delle 
loro  soperchierie  ;  come  quel  Giovanni  di  Catany  da  Mantova, 
il  quale  ne' suoi  responsi  al  Gonzaga  tirava  in  ballo  le  alle- 
gorie cristiane  di  Virgilio  e  si  sforzava  di  confondere  le  opere 
di  Enoch  da  Ascoli  con  dei  presunti  libri  di  Enoch,  il  patriarca 

1  L.  Akiosto,  Il  Negromante,  atto  2°,  scena  1»,  ed.  Polidori,  Firenze, 
1857,  II,  p.  370.  Cfr.  pure  le  osservazioni  ili  <».  Marfillero,  II  €  Negromante» 
di  L.  Ariosto,  in  Giorn.  stor.  della  lett.  it.,  xxxm,  p.  307. 

2  L.  Ariosto,  op.  loc.  cit. 

3  F.  Oabotto,  Bartolomeo  Manfredi  e  l'astrologia  alla  corte  di  Man- 
tova, in  La  letteratura,  Torino,  1891,  p.  4  dell'estratto. 

4  Scriveva  Vittore  Pisano  in  calce  ad  un'  edizione  di  Arato  e  Sereno, 
usciti  a  Venezia  nel  1488.  come  giustificazione  dell'avvicinamento  dei  due 
autori,  l'uno  astronomo  e  l'altro  medico,  queste  parole:  «quantum  un  ili 
cinac  opituletur  astrologia  non  Imperita!  quilibet  astrologus  evidentissimi*, 
sine  controversia  ostendciit  rationibus  >.  Assai  più  tardi,  in  una  India  del 
1686  contro  i  cultori  dell'astrologia,  Sisto  V  escludeva  dalla  penoeutOM 
i  medici  elie  usassero  pratiche  astrologiche;  v.  P.  Kajna,  Intorno  al  cosi- 
detto  «  Dialogus  Creaturarum  »,  in  Giornale  storico,  II,  p.  1)6,  nota.  Vedi 
pure  notevoli  osservazioni  su  questo  punto  in  <;.  Bornio,  Il  «  De  principiis 
astrologiae  »  di  Cecco  d'Ascoli  ecc.,  in  Giornale  storico,  Suppl.  6°,  p.  40. 


LORENZO  BONINCONTRI  109 

dell'antico  Testamento. x  Altri  poi,  spingendosi  anche  più  avanti, 
non  si  vergognavano  di  accoppiare  la  professione  dell'indo- 
vino con  l'abito  religioso;  onde  vediamo  fra  i  giudizi  astrolo- 
gici, che  nel  1470  furono  raccolti  da  Galeazzo  Maria  Sforza  a 
Milano,  una  predizione  d' un  Marco  Paolo  veneto  servita,  e  nel 
1473  un  pronostico  di  Giovanni  Nanni  da  Viterbo  domenicano. 
Nella  stessa  collezione  e  dello  stesso  anno,  e'  è  pure  un  giu- 
dizio di  Orio  da  Villanova  di  Modena,  giureconsulto,  dal  quale 
si  apprende  come  anche  Papiniano  potesse  non  sdegnare  la 
compagnia  di  Firmico  Materno.2 

Senza  una  condizione  civile,  il  negromante,  quando  era  tale 
nel  senso  basso  della  parola,  era  anche  privo  di  qualsiasi  seria 
coltura.  Onde  non  dobbiamo  stupirci  se  non  lo  vediamo  mu- 
tarsi attraverso  i  secoli  :  quale  egli  si  mostrava  ai  tempi  del- 
l'impero romano,  tale  fu  nel  Medio  evo,  e  continuò  ad  essere 
nel  Rinascimento,  per  un'  assoluta  mancanza  di  perfettibilità. 
Perfettibile  infatti  è  solo  colui,  che  è  cosciente  delle  proprie 
deficienze  ed  ha  fede  operosa  nel  proprio  ideale  e  nei  mezzi 
prescelti  :  il  che  sarebbe  assurdo  attribuire  al  negromante.  Al 
quale  la  sua  stessa  ignoranza  bene  spesso  non  concedeva 
della  scienza  astronomica,  cioè  di  quel  sapere  che  più  gli 
sarebbe  stato  necessario,  un  use  sufficientemente  sicuro.  Al- 
l' osservazione  diretta  egli  preferisce  le  tavole  e  i  manuali, 
generalmente  tradotti  dall'arabo,  composti  appositamente  in 
antico,  oppur  di  recente,  da  astrologi  ben  più  sapienti  di  lui. 
E  ad  altri  repertori  e  formulari  ricorre  financo  per  la  parte 
astrologica,  ricavandone  le  ricette  beli'  e  pronte,  quando  non 
si  permetta  di  rimutarle  o  deformarle  a  capriccio.  Figuria- 
moci poi  se  egli  si  cura  di  mettere  la  sua  pratica  in  rela- 
zione con  un  principio  morale  !  Della  provvidenza  divina,  del 
fato,  della  natura  degl'influssi,  discorre  a  sproposito  e  con- 


1  F.  Gabotto,  Bart.  Manfredi  cit,  p.  21  e  28.  Intorno  a  quell'altra  rac- 
colta astrologica,  de'  primi  tempi  dell'era  cristiana,  che  s'intitola  II  libro 
di  Enoch,  e  che  potrebbe  aver  suggerita  al  Catany  l'attribuzione  voluta- 
limate  erronea,  v.  A.  Bouchk  Leclercq,  L'astrologie  grecque  cit.,  p.  606,  n.  1. 

*  F.  Gabotto,  Nuove  ricerche  e  documenti  siili'  astrologia  alla  corte  de- 
gli Estensi  e  degli  Sforza,  in  La  letteratura,  Torino,  1891,  p.  19  dell'estratto. 


HO  CAPITOLO  SECONDO 

traddicendo8Ì. ,  L' arte  sua  è  un  mestiere  :  egli  ne  possiede, 
come  si  suol  dire,  i  ferri,  e  s'ingegna  d'usarli  senza  darsene 
ragione. 

Ecco  perché  il  negromante  contamina  l'astrologia  con  pra- 
tiche magiche  e  con  esperienze  da  alchimista,  superando  in- 
consciamente quei  limiti,  che  secondo  gli  astrologi  colti  e 
teorici  dovevano  separare  la  scienza  dalla  superstizione.  L'abi- 
lità, attribuita  già  a  Pietro  d'Abano,  di  riuscire  sotto  oppor- 
tune congiunzioni  planetarie  a  chiudere  in  un'  ampolla  uno  o 
più  diavoli,  ad  evocare  anime  di  morti  o  spiriti  folletti,  è  una 
delle  più  comuni  prerogative  di  lui.2  Cosi  è  suo  costume,  nei 
casi  specialmente  di  malattie,  d'aspettare  il  punto  astrologi- 
camente  adatto  alla  preparazione  di  certi  intrugli  farmaceu- 
tici necessari  alla  cura.  Bartolomeo  Manfredi,  l'astrologo  già 
ricordato  della  corte  di  Mantova,  indicava,  secondo  il  giudizio 
delle  stelle,  l'ora  acconcia  al  marchese  Ludovico  per  indossare 
un  certo  amuleto  in  forma  di  «  lionzino  e  grana  d'oro  »,  e  in- 
dicava alla  moglie  del  Gonzaga,  Barbara  di  Brandeburgo,  il 
punto  buono  da  preparare  l'olio  di  scorpione  «  contra  venni 
et  contra  dolore  de  membri  ». 3 


1  Difficilmente  un  astrologo  coerente  e  conoscitore  della  sua  scienza 
avrebbe  scritto  le  parole  seguenti,  nelle  quali  la  volontà  eterna  di  Pio,  tra- 
smessa e  manifestata  dalla  figura  celeste,  e  ritenuta  passibili  di  mutazioni' 
per  un  ulteriore  ed  arbitrario  cenno  della  divinità  :  «  EI  juditio  è,  assai  ter- 
ribile, come  vedrà  V.  S.  ;  atamen  sununus  rex,  cuius  hahcnis  tota  mundi 
machina  <ruhcrnatur,  haec  omnia  mutare,  variare  et  ut  suae  volntitati  pla- 
cet disponere  potest,  qui  in  omnibus  laudatus  sit  et  henedictus  ».  Lettera 
di  Pietro  Bono  Avogario  al  duca  di  Ferrara,  febbr.  1479,  presso  F.  Gabotto, 
Nuove  ricerche,  p.  25. 

2  A.  Grak,  Il  Diavolo  cit.,  p.  259. 

3  F.  Gabotto,  Bart.  Manfredi  cit.,  p.  4  e  16.  Un  pò1  di  commento  ■  que- 
sti  accenni  forse  non  ò  inutile.  Astrologie-unente  il  segno  zodiacali  del  | 
presiede,  fra  le  membra  del  corpo  umano,  ai  lianelii  e  al  dorso,  onde  dico 
Manilio,  II,  460:  «  laterum  regnimi  scapulacque  Leonis  ».  Si  vede  dunque 
che  il  marchese  Lodovico  Gonzaga,  a  cui  si  faceva  indossare  un'  immagine 
d'oro  in  t'orina  di  leoncino,  soffriva  di  dolori  alla  vita;  come  la  moglie  di 
lui  avea  bisogno,  per  il  mal  di  ventre,  d'olio  di  scorpione,  perché  la  co- 
stellazione dello  Scorpione,  secondo  che  dice  Manilio,  II,  4G2,  <  inguine  j:aii- 
det  ».  Tanto  l'amuleto,  quanto  il  medicamento,  avean  poi  bisogno  d'essere 
adulterati  in  buon  punto  astrologi  co,  perché  l'azione  loro  benefica  non 
venisse  frustrata  da  interferenze  maligne  di  pianeti  o  d'altre  costellazioni  ! 


LORENZO  BONINCONTRI  111 

Se  tali  adunque  erano  le  basi,  sulle  quali  edificava  l'astro- 
logo, non  ci  sarebbe  da  far  le  meraviglie  che  il  primo  a  du- 
bitare della  verità  dei  responsi  fosse  l' autore  stesso.  Egli  do- 
veva infatti  esser  più  d'ogni  altro  persuaso  della  distanza 
enorme,  che  separava  la  sua  manchevole  e  volgare  dottrina 
da  quella  scienza,  in  cui  egli  fermamente  credeva.  Tuttavia 
i  fatti  ci  inducono  a  ritenere,  da  un  altro  punto  di  vista,  che 
pur  fra  gli  astrologi  ve  ne  fossero,  e  non  pochi,  di  convinti  e 
fiduciosi.  È  cosa  nota  invero,  che  col  ripetere  abitualmente 
una  bugia  si  finisce  per  credervi  come  a  una  verità.  Cosi  e 
per  l'abitudine  e  per  la  tradizione,  cioè  per  l'autorità  dei  fa- 
mosi astrologi  dei  tempi  anteriori,  il  povero  e  indotto  negro- 
mante credeva  d'  essere,  se  non  per  sapienza,  certo  per  ispi- 
razione diretta  del  cielo,  veridico  indovino.  0  non  si  ripeteva 
allora  che  la  facoltà  di  leggere  nei  decreti  celesti  era  essa 
pure  dovuta  a  un  influsso  speciale  ?  Aveva  detto  Manilio  : 

Hoc  quoque  fatorum  est,  legem  perdiscere  fati  ; ' 

e  ben  pochi  doveano  essere  logicamente  gli  astrologi,  che  non 
si  ritenessero  nati  per  l'appunto  con  un  simile  oroscopo.2  Onde 
figuriamoci  quanta  era  la  loro  superbia  !  A  smorzare  la  quale 
il  popolo,  sempre  dotato  di  arguto  buon  senso,  aveva  inven- 
tato, forse  da  secoli,  e  andava  ripetendo,  una  sua  novellina, 
d'  un  astrologo  che  volea  suggerire  a  un  villano  il  pronostico 
atmosferico  per  il  giorno  seguente.  L' astrologo  aveva  annun- 
ziato non  so  se  pioggia  o  sereno,  quand'  ecco  il  villano  rivol- 
gersi attentamente  all'  asino  suo,  il  quale,  con  certi  segni  al 
padrone  ben  noti,  annunziava  tutto  l'opposto.  L'esito,  dice  la 
novella,  dimostrò  che  l'astrologo,  per  quanto  ispirato  e  veg- 
gente, era  stato  vinto  dal  paziente  rivale  ! 3 

1  Astron.  n,  v.  149. 

2  Scriveva  Filippo  Beroaldo  in  una  sua  orazione  tenuta  a  Milano,  e  pub- 
blicata a  Bologna  nel  1491,  a  proposito  della  scienza  astrologica:  «  haec 
efficit  ut  homines  parum  a  diis  distare  videantur  ». 

3  Benvenuto  da  Imola,  Comentum,  II,  p.  90,  attribuisce  lo  smacco  a  Guido 
Bonatti;  ma  la  novella,  e  prima  e  dopo  questo  tempo,  fu  raccontata  da  molti 
altri  indovini.  A  proposito  della  satira  dell'astrologo  da  strapazzo,  richia- 
merò alla  memoria  del  lettore  il  passo,  già  citato  neìVlntrod.,  d'una  lettera 
del  Petrarca  al  Boccaccio;  ed  aggiungerò  che  presso  i  dotti  dell'astrologia, 


112  CAPITOLO  SECONDO 

Illuso  o  gabbatore  il  negromante,  una  volta  datosi  al  me- 
stiere mirava,  a  trarne  i  guadagni  più  lauti  possibili,1  e  accor- 
reva perciò  là  dove  maggiore  era  la  probabilità  di  ottenerli. 
Le  corti  furono  il  suo  campo  preferito  :  meno  i  governi  repub- 
blicani, presso  i  quali  l'ufficio  suo,  benché  retribuito  con  rego- 
lare stipendio,  era  tuttavia  ristretto  agli  usi  più  esterni  del 
cerimoniale  —  come,  per  ricordarne  uno,  presso  la  Repubblica 
fiorentina,  la  consegna  del  bastone  al  capitano  assoldato  in 
tempo  di  guerra.2  Ma  presso  i  principi  la  sua  importanza  di- 
ventava grandissima,  prima  di  tutto  perché  l'autorità  della 
persona  del  principe  era  maggiore,  e  più  duraturo  il  governo; 
in  secondo  luogo  perebé  tutta  una  schiera  di  parenti,  di  corti- 
giani, di  parassiti,  forniva  mille  occasioni  a  un  più  largo  eser- 
cizio dell'  arte. 

Vincere  le  diffidenze  del  capo,  rendergli  necessari  i  propri 
servigi:  ecco  il  primo  intento  dell'astrologo.  Al  raggiungi- 
mento del  quale  si  capisce  come  la  sola  scienza  divinatoria 
non  bastasse,  ma  occorressero  cento  altri  mezzi  ;  primo  fra  tutti 
la  facoltà  naturale  in  certi  temperamenti  di  soggiogare  colla 
potenza  della  volontà  le  volontà  più  deboli,  una  specie  di  fasci 
nazione,  d'ipnotismo,  non  raro  anche  in  altri  tempi  e  sotto  altre 
forme.  Ora  presso  alcuni  signori  il  guadagnarne  la  fiducia,  il 
farsi  desiderare,  pregare  a  volte  con  insistenza,  non  era  cosa 
molto  ardua:  i  documenti  ci  mostrano  quanto  superstiziosi  siano 

come  vedremo  bene  a  suo  tempo,  il  volpare  sfruttatore  godeva  ti' un'assai 
cattiva  fama,  come  quegli  che  grandemente  screditava,  con  l'abuso  dell'aro •. 
la  scienza. 

1  I  guadagni  erano  molto  variabili,  talora  meschini,  talora  molto  co- 
spicui, come  si  apprende  da  una  lettera  dell'astrologo  Antonio  da  Tamara, 
diretta,  nel  1452,  al  duca  Francesco  Sforza,  ove  si  legge:  e  et  de  qui 
el  mio  dovere  acquistare  lionorata  possessione,  eh'  io  me  possa  riposare  », 
in  F.  Gauotto,  Nuore  ri  cerctie  ci  t.,  §  :i.  Men  lauto  premio  invece  prometti  -va 
al  Manfredi  Lodovico  Gonzaga:  «  nude  nu.i  te  advisiamo  che  se  tu  te  dimen- 
tichi di  astrologia,  nuj  se  diinenticliaremo  el  mandarle  de  le  quaglie  ».  b  '- 
tera  del  5  ottobre  1462,  in  F.  Qabotto,  Bartolomeo  Manfredi  cit.,  p.  9.  Al- 
tri documenti  su  queste  ricompense  v.  in  <;.  Bertoni,  La  bibl.  estense  cit., 
p.  192. 

'  K.  Casanova,  L'Astrologia  e  la  consegna  del  bastone  al  capitano 
generale  della  repubbl.  fiorentina,  in  Arch.  storico  italiano,  S.  V,  ni, 
p.  Ili 


LORENZO  BONINOONTRI  113 

stati  Filippo  Maria  Visconti,  Ludovico  Gonzaga,  e  più  d'ogni 
altro  Ludovico  il  Moro.1  Altri  invece,  pure  nutrendo  nell'animo 
la  fede  nella  dottrina  astrologica,  difficilmente  ^8i  inducevano  a 
credere  alle  singolari  predizioni  di  questo  o  quell'indovino.  Ga- 
leazzo Maria  Sforza  non  s' accontentava  dei  giudizi  de'  suoi  due 
astrologi  Francesco  da  Buti  e  Raffaele  da  Vimercato,  ma  sullo 
stesso  avvenimento  faceva  interrogare  Pietro  Bono  Àvogario 
ed  altri,  fuor  di  Milano;2  egli  stabiliva  dei  confronti,  per  mezzo 
dei  quali  credeva  di  potersi  assicurare  della  maggiore  o  mi- 
nor valentia  di  ciascuno  di  essi!  Nasceva  cosi  una  gara  per 
la  conquista  della  fiducia  principesca  ;  gara,  nella  quale  en- 
travano in  azione  tutti  gì'  intrighi  e  tutti  gli  accorgimenti  di 
cui  eran  capaci  i  cortigiani  di  quel  tempo.  L'  apparizione  d'una 
cometa,  il  terrore  destato  da  un  terremoto,  erano  occasioni  da 
non  lasciarsi  sfuggire,  nelle  quali  gli  astrologi  più  reputati  po- 
tevan  cadere  in  disgrazia,  i  più  oscuri  trovare  la  loro  fortuna. 
Ed  una  malattia  che  gettasse  il  signore  nell'abbattimento  e  su- 
scitasse intorno  al  suo  letto  l'inquietudine  della  famiglia  e  della 
corte,  era  un  caso  di  tanto  più  propizio,  di  quanto  delle  minacce 
politiche  son  più  forti  il  dolore  fisico  e  la  paura  della  morte. 
Ma  l'impresa  più  ardua  di  tutte,  nella  quale  si  spuntava 
ogni  più  sottile  astuzia,  era  per  il  negromante  il  mantener  re- 
lazioni amichevoli  con  quei  principi,  rari  a  dir  vero,  che  poco 
credevano  all'arte  degl'indizi,  e  meno  ancora  all'abilità  di 
chi  la  esercitava;3  oppure,  caso  assai  più  frequente,  con  quei 
signori  stessi,  che,  pur  credendo  nei  momenti  di  pericolo  o  di 
paura,  si  mostravano  indifferenti  e  sprezzatori  nella  prospera 
fortuna.  Con  questi  principi  non  e'  era  altro  scampo,  se  non 
quello  di  scendere  a  patti,  mettendo  timidamente  da  parte  ogni 
pretesa  d' infallibilità  e  di  mistero. 4  E  siccome  la  preoccupa- 

1  F.  Gai*otto,  L'astrologia  nel  Quattrocento  in  rapporto  colla  civiltà, 
in  Jiivista  di  filosofìa  scientifica,  Vili,  p.  377  sgg. 

*  F.  Gabotto,  Nuove  ricerche  cit.,  p.  18. 

i  u  Gio.  Maria  de  Albinis  scriveva  il  23  nov.  1496  ad  Ercole  d' Este  : 
€  et  so  che  la  Ex.1'"  Vostra  non  mi  crede  ;  voglio  dare  alla  Signoria  Vostra 
experientia  vera  et  comparatione,  ecc.  >  in  F.  Gabotto,  Nuove  ricerche,  §  2. 

*  In  una  lettera  di  Antonio  da  Cainara,  del  15  marzo  1452,  indirizzata 
a  Francesco  Sforza,  si  legge  il   passo  seguente  :  <  molti  astrologhi   descri- 

SoLDATl  8 


114  CAPITOLO  SECONDO 

zione  principale  del  signore  era  d'essere  creduto  potente  dai 
suoi  rivali  e  nemici,  cosi  il  primo  patto  imposto  all'astrologo 
nel  compilare  Yoroscopo  o  giudizio,  che  annualmente  veniva 
pubblicato,  era  di  ripetere  ad  alta  voce  l'affermazione  della 
potenza  del  principe.  Scriveva  Ludovico  Gonzaga  ad  Antonio 
da  Camara  :  «  Heri  sera  ricevessimo  la  littera  vostra  insieme 
cum  el  judicio  vostro  di  questo  anno,  el  quale  e'  è  stato  gra- 
tissimo,  et  dicono  cussi  che  vui  seti  uno  valentissimo  homo, 
perché  vui  diceti  bene  di  facti  nostri.  E  se  per  lo  havenire 
direti  bene  de  nuj,  similiter  nuj  diremo  bene  di  facti  vostri  ». l 
E  1'  obbediente  astrologo  stendeva  il  suo  giudizio  quanto  me- 
glio sapeva  favorevole,  e  lo  sottoponeva,  prima  di  mandarlo 
intorno,  all'  approvazione  dell'  interessato  padrone  :  «  Io  al  pre- 
sente ho  compito  el  juditio  de  lo  anno  proximo  che  vene,  et 
perché  tempo  è  de  publicarlo,  corno  è  usanza,  prima  lo  mando 
a  V.  S.ia  azò  che  quella  prima  el  veda  che  niuno  altro,  ut  ino- 
ris  est».2  Alcune  volte  anzi  l'indovino  rinnegava  l'arte  pro- 
pria a  tal  punto,  da  accettare  e  far  suo  un  giudizio,  scritto 
dal  principe  stesso  con  intendimenti  politici.3  Il  difficile  però 
in  questo  genere  di  contratti  fra  signore  e  servitore  era,  che 
mentre  quest'  ultimo  accontentava  un  principe,  ne  offendeva 
un  altro:  onde  minacce  e  persecuzioni,  quando  l'oro  non  ba- 
stava a  comprare  la  lode  o  almeno  il  silenzio.  '  Giunte  le  cose 


veno  in  publico  li  fati  di  Signori,  et  chi  per  amore  et  chi  per  pagura  de'  suoi 
superiori  taseno  o  dicono  cose  assay  diverse,  ecc.  »  in  P.  Gabotto,  Nuove 
ricerche,  §  8. 

1  F.  Gabotto,  Bari.  Manfredi,  §  1. 

2  Pietro  Bono  Avogario  al  duca  di  Ferrara,  nel  febbraio  del  1479,  in 
F.  Gabotto,  Nuove  ricerclie,  p.  26. 

3  F.  Gabotto,  Bart.  Manfredi,  p.  12. 

*  Ecco  in  qual  modo  Pietro  Bono  Avogario  veniva  avvertito  dello  insi- 
die mortali  che  la  vendetta  del  duca  di  Milano  gli  tendeva,  con  l'opera  di 
alcuni  sicari  o  bravi,  il  16  luglio  1474:  «  Voy  astrologati  et  fati  tadtalo 
d'altri  e  non  sapeti  astrologare  né  fare  iudicio  de  portovi!  vostri  immi- 
nente, perché  il  Duca  di  Milano  ha  mandato  li  per  farve  tagliare  a  pezi  e 
tutta  via  ne  manda  de  li  altri  per  fare  questo,  che,  non  potendolo  uno, 
venghi  facto  all'altro;  e  azò  credati  ve  dicha  el  vero,  se  fate  ponere  mente 
ad  le  Bollete  et  ad  le  Porte,  troveresti  che  tra  li  altri  ve  capi  tara  uno  Zorzo 
Albanese  di  piccola  statura  et  homo  scuro  in  faza,  et  l'altro  Iohanno  da 
Lucoli,  grande,  rubicondo,  cum  li  capelli   longhi  di  colore  castano,  et  va 


LORENZO  BONINCONTRI  116 

;i  tal  punto,  ognun  vede  quanto  c'entrasse  l'arte  astrologica: 
ne  potevano  ben  ridere  principi  e  negromanti  insieme,  come 
gli  aruspici  di  ciceroniana  memoria.1 

Questo  dunque  era  il  tipo  dell'astrologo  volgare.  Di  gran 
lunga  più  nobile  era  l'astrologo  nutrito  di  scienza,  che  avva- 
lorava le  sue  dottrine  fallaci  di  una  solida  coltura  matema- 
tica :  in  altri  termini,  eran  pure  astrologi,  a  que'  tempi,  quasi 
tutti  gli  astronomi.  Tali,  Giorgio  Purbach  e  il  suo  discepolo 
Giovanni  Muller  detto  da  Monteregio,  il  Toscanelli,  che  servi 
anche  per  alcuni  anni  ufficialmente  la  Repubblica  fiorentina, 
e  Domenico  Novara,  professore  a  Bologna  e  maestro  di  Coper- 
nico ;2  astrologi  Luca  Gaurico  e  Paolo  di  Middelburg,  ai  quali 
Leon  X  affidò  il  compito  della  riforma  del  calendario  giuliano.3 
Da  qual  punto  di  vista  essi  considerassero  il  loro  doppio  carat- 
tere, e  quale  stima  facessero  rispettivamente  dell'una  e  dell'al- 


uno  poco  zoppo.  State  advertente,  che  non  ve  parlo  senza  casone  »,  in  F.  Ga- 
botto,  L'astrologia  ecc.,  p.  407. 

1  A  questi  servizi  che  l'astrologo  di  corte  prestava  al  suo  signore  nel 
campo  della  politica,  è  forse  bene  aggiungere  il  ricordo  di  altri,  più  gen- 
tili, nel  campo  dell'  arte.  Nella  decorazione  dei  palazzi,  ad  esempio,  non 
di  rado  i  temi  pittorici  venivano  suggeriti  dal  negromante,  o  per  semplice 
sfoggio  di  scienza,  o  per  buon  augurio  rispetto  al  nuovo  edifizio.  Son  note 
le  pareti  d'  una  sala  del  castello  di  Schifanoia  dipinte  nel  1469  da  Francesco 
del  Cossa,  in  onore  del  duca  Borso  d'  Este.  Ivi,  come  può  osservare  ogni 
visitatore,  son  le  figure  dei  mesi  col  passaggio  del  Sole  nei  rispettivi  segni 
zodiacali,  fiancheggiati  da  figure  allegoriche  rappresentanti  l'influsso  di  cia- 
scun passaggio  (v.  G.  Agnelli,  Ferrara  e  Pomposa,  Bergamo,  1902,  p.  42). 
Notissima  pure  è  la  decorazione  della  volta  del  Cambio  nel  palazzo  comu- 
nale di  Perugia,  dove,  nell'anno  1500,  Pietro  Perugino  disegnava  i  sette 
pianeti  nelle  personificazioni  mitologiche,  sui  loro  carri  celesti  portanti  nelle 
ruote  i  segni  dello  Zodiaco  domicili  di  ciascun  pianeta.  Né  meno  celebre 
è  un  soffitto  della  Farnesina  in  Roma,  opera  di  Baldassarre  Peruzzi,  del  1510, 
costellato  di  segni  zodiacali.  Ma  non  voglio  abusare  di  questa  facile  erudi- 
zione, e  lascio  ai  lettori  il  ricordare  infiniti  altri  esempì  di  affreschi,  bas- 
sorilievi, miniature  di  codici  (una,  assai  bella,  e  a  p.  418  del  Laurenziano 
XI,  58,  contenente  il  poema  di  Matteo  Palmieri),  incisioni  di  stampe,  ecc.; 
e  ricordo  qui  nuovamente  l'opera  di  (>.  Thiele,  Antike  Ilimmelsbilder,  Ber- 
lin, 1898,  dove  a  p.  97  sono  segnate  le  linee  principali  della  tradizione  clas- 
sica delle  figure  planetarie  e  zodiacali,  per  molto  tempo,  fino  ai  tempi  mo- 
derni, perpetuata. 

*  M.  Dblambre,  Histoire  de  l'astronomie  du  moyen  dge,  Paris,  1819, 
p.  289  ;  e  G.  Libri,  op.  cit,  III,  p.  98. 

3  D.  Marzi,  La  questione  della  riforma  del  calendario,  cit.,  p.  38. 


116  CAPITOLO  SECONDO 

tra  parte  della  loro  scienza,  la  matematica  e  la  giudiziaria,  si 
apprende  da  un  passo  assai  esplicito  del  ricordato  vescovo  di 
Fossombrone  :  «  Est  ergo  scientia  coelestium  corporum  ceteris, 
post  theologiam,  praeferenda  scientiis;  quod  tamen  de  parte  thco- 
ricali  et  speculativa  intelligi  volo,  quae  geometriae  subalterna- 
tur,  quia  ipsa  habet  demonstrationes  certissimas.  Iudiciaria  raro 
potius  divina  quam  humana  dici  debet  ;  nam  qui  illam  habent 
divini  vocantur,  licet  multis  labyrinthis,  ambagibus  et  anfracti- 
bus  sit  involuta  et  intricata  ;  quia  non  babet  demonstrationes  et 
opiniones  dumtaxat.  Difficile  namque  est  de  singulis  iudicare,  et 
humanum  superat  intellectum  ».  '  In  che  termini  stia  la  que- 
stione delle  predizioni  singolari,  vedremo  a  suo  luogo:  notiamo 
intanto,  in  generale,  che  codesti  astrologi  rigidi  cultori  della 
scienza  astronomica,  non  ricusavano  di  ammettere  la  verità 
degl'influssi,  ma  restringevano  la  possibilità  di  interpretarli 
ad  un  numero  cosi  esiguo  di  eletti,  da  rendere  quasi  assurda 
la  pretesa  di  saperli  scoprire.  Né  dal  canto  loro  si  stancavano 
di  sconsigliare  i  temerari  dallo  scriver  pronostici  ;  come  ci  fa 
sapere,  in  una  lettera  indirizzata  al  duca  di  Borgogna,  l'astro- 
logo Koberto  Regiomontano,  il  quale  dichiarava  di  acconsentire 
di  mala  voglia  a  comporre  un  giudizio  politico  :  «  però  che 
da  questo  me  retraeva  il  cianzamento  de  li  nomini  vulgari  e 
la  riverenzia  che  io  porto  al  mio  morto  ciano  Joanne  de  Mon- 
teregio,  il  quale  spesse  fiate  me  admoniva  che  io  me  abstc- 
nesse  da  questo  iudicare  come  da  cosa  falace  e  che  facilmente 
inganasse  il  indicante  ».2  Ben  si  comprende  come  uomini  cosi 
fatti  volgessero  tutto  il  loro  animo  allo  studio  della  prima 
parte  della  loro  scienza,  vale  a  dire  alla  parte  matematica  ; 
onde  risultarono  i  progressi  dell'osservazione,  la  novità  delle 
ipotesi  che  condussero  al  sistema  eliocentrico,  e  l'ardire  dello 
applicazioni  pratiche,  che  portarono  alla  scoperta  del  Nuovo 
Mondo.  Quanto  alla  seconda  parte,  essi  dapprima  la  trascu- 
rarono, e  dopo  un  po' di  tempo  finirono  col  dimenticarla  af- 
fatto, senza  sforzo  di  confutazioni  inutili,  lasciandola  ai  me- 
tafisici. Né  di  proposito  deliberato,  cioè  per  odio  contro  di  essa, 

1  Presso  D.  Marzi,  op.  cit.,  p.  60. 
-  F.  Uahotto,  Nuore  ricerche,  §  'j. 


LORENZO  BONINCONTRI  117 

a  cui  teoricamente  non  negavano  fede,  le  diedero  il  colpo  mor- 
tale colla  scoperta  copernicana  :  questo  fu  un  fatto  indipen- 
dente dalle  polemiche  prò  e  contro  1'  astrologia. 

Non  sempre  però  gli  scienziati  di  cotesto  tempo  si  tennero, 
come  si  suol  dire,  in  carattere  :  molti  derogando  alla  fede 
puramente  astratta  negl'influssi,  scesero,  talvolta  anche  vo- 
lentieri, alla  pratica.  Lo  stesso  Paolo  di  Middelburg,  astronomo 
e  sacerdote,  dettò  un  infinito  numero  di  giudizi, l  e  Luca  Gau- 
rico  meritò  il  nome  di  ultimo  degli  astrologi.2  Nel  conflitto  tra 
la  ragione  e  la  tradizione,  quest'  ultima  trionfava,  come  pur- 
troppo accade,  spesso,  e  non  di  rado  dietro  alle  spalle  del  ma- 
tematico, per  invito  dei  grandi  o  del  popolo,  sporgeva  il  capo 
il  negromante. 

Terzo  tipo  di  astrologo,  il  solo  forse  degno  di  questo  nome 
nel  suo  senso  più  nobile,  è  quello  che  noi  potremo  chiamare 
il  filosofo  dell'astrologia.  Per  lui  la  pratica  divinatoria  è  una 
semplice  applicazione  della  scienza,  alla  quale  dedica  tutto  se 
stesso,  e  l'astronomia  non  è  che  il  sussidio  de' calcoli  neces- 
sari allo  scoprimento  delle  eterne  leggi  dell'influsso.  Primo 
suo  ufficio  è  di  conservare  e  tramandare  la  dottrina,  di  cui 
è  sacro  depositario  ;  ond'  egli  non  solo  studia  il  cielo  e  tien 
conto  delle  osservazioni,  ma  coordina,  corregge,  interpreta  i 
testi  antichi,  e  scrive  quei  manuali,  che  poi  distribuisce  fra 
coloro  che  professano  l'arte.  Di  più,  nel  campo  metafisico  e 
teologico,  medita  sul  problema  morale  dell'  astrologia,  e  sente 
il  dovere  di  rispondere  pubblicamente  a  quegli  attacchi,  che 
contro  di  lui  muovono  il  dogma  religioso,  o  la  logica  delle 
scuole  filosofiche,  o  lo  scetticismo  popolare.  Egli  è  il  vero  rap- 

1  D.  Marzi,  op.  cit.,  p.  45. 

2  K.  Pércopo,  L'umanista  Pomponio  Gaurico  ecc.,  cit.,  p.  127  sgg.  Non 
è  da  confondersi  con  questi  esempi  l'ufficio  di  astrologo  tenuto  a  Firenze 
dal  To8canelli  ;  come,  molti  anni  dopo,  non  possiamo  tacciare  di  fede  astro - 
logica  Galileo,  perché  scriveva  gli  oroscopi  d'obbligo  per  la  corte  medicea; 
ci'r.  A.  Favaro,  Galileo  astrologo,  nel  periodico  Mente  e  Cuore,  Trieste,  ISSI. 
Esempi  celebri  di  erudizione  e  talento  matematico  da  una  parte,  e  di  fol- 
lia astrologica  dall'altra,  sono  i  famosi  Fazio  e  Girolamo  Cardano,  padre  e 
figlio,  intorno  ai  quali  tante  storielle,  in  gran  parte  vere,  si  contano  :  v. 
per  Fazio  E.  Solmi,  I^eonardo,  Firenze,  1900,  p.  82;  per  Girolamo  G.  Libri, 
op.  cit.,  Ili,  p.  167. 


118  CAPITOLO  SECONDO 

presentante  dell'  astrologia,  sinceramente  convinto  della  verità 
del  proprio  sapere  e  della  sua  scienza,  a  coi  per  illusione  fa- 
tale, ma  non  volgare,  dette  la  maggior  somma  d' ingegno,  di 
dottrina  e  di  tempo;  egli  è  l'unico  che  dall'ardore  della  sua 
fede  potè  trarre  un'ispirazione  artistica,  ed  essere  cosi  non 
solo  il  filosofo,  ma  anche  il  poeta  dell'astrologia. 


IL 


Lorenzo  di  Giovanni  Bonincontri  è  rimasto  finora  nella  sto- 
ria della  scienza  e  della  letteratura  un  personaggio  di  sec<»n- 
d'ordine,  non  tanto  per  colpa  della  propria  mediocrità,  quanto 
per  l'incuria  della  critica.  Ricordato  per  incidenza  or  a  pro- 
posito dell'Accademia  ficiniana,  a  cui  appartenne,  ora  ilei 
Pontano,  di  cui  fu  amico,  o  messo  in  relazione  con  la  corte  di 
Sisto  IV,  al  quale  dedicò  un  libretto  di  poesie  religiose,  nes- 
suno fino  ad  oggi  s'è  data  la  briga  di  trarlo  dalla  penombra  e 
metterlo  nella  sua  giusta  luce.  Eppure  io  non  credo  questa 
un'opera  oziosa,  ma  compito  preciso  di  chi  voglia  comprendere 
a  fondo  la  vita  e  il  pensiero  italiano  del  Quattrocento.  Che  il 
Bonincontri,  benché  molto  non  si  levi  al  disopra  del  comune, 
è  una  figura  interessante  e  complessa  che  bisogna  guardar  di 
fronte,  per  ben  riconoscerla,  e  non  per  isoorcio.  Di  scorcio  in- 
vero non  solo  si  deformerebbe,  ma  perderebbe  in  gran  parte 
quella  vigoria  dei  tratti,  specie  nell'espressione  morale,  ohe  è 
intimamente  connessa  con  l'armonia  generale  di  tutte  le  lince 

Nacque  il  Bonincontri  a  San  Miniato  in  Toscana,  da  antica 
famiglia,  il  23  febbraio  dell'  anno  1410.  '   Impugnò  giovanis- 


1  Questa  data  proposta  dal  Mazzuchblli,  Scrittori  d'Italia,  II.  p,  r, 
I».  BMt,  oltre  che  dalle  ragioni  addotte  da  A.  Dell*  Torbe,  Storia  dell'Ac- 
cademia platonica  di  Firenze,  Firenze,  1902,  p.  681,  n.  B,  è  riconfermata 
da  una  esplicita  dichiarazione  del  Bonincontri  stesso,  il  (piale,  md  suoi  An- 
naics  (presso  Muratori,  Scriptores,  xxi,  103  A),  trattando  dei  fatti  avvenuti 
nel  1410,  soggiunge:  «  Ko  anno  natus  suin  in  Miniate  oppido,  patre  Boiiin- 
contrio  et  inatre  Jacoba,  die  xxm  februarii,  sole  occidente  >.  guanto  poi  alla 
nobiltà  della  famiglia  ed  alla  tradizione  militare  di  essa,  notevole  è  ciò  che 


LORENZO  BONINCONTRI  119 

simo  le  armi  in  una  fazione  intesa  a  rovesciare  nella  sua  pa- 
tria il  dominio  dei  Fiorentini.  S'era  infatti  raccolta  nel  1432 
una  lega  di  cittadini  sanminiatesi,  sotto  il  comando  d'  un  tal 
Lorenzo  di  Francesco,  e  stabilito  di  togliere  colla  forza  la  pic- 
cola terra  alla  signoria  di  Firenze,  per  darla  al  duca  di  Mi- 
lano: la  congiura  doveva  scoppiare  nel  settembre  di  detto 
anno.  Ma  scoperta  la  trama,  il  18  d'ottobre  il  Vicario  della  valle 
inferiore  dell'Arno,  Giovanni  di  Lorenzo  di  Stufa,  in  nome 
del  Comune  fiorentino,  pronunciava  la  condanna  dei  ribelli.  *  Il 
Bonincontri,  poiché  trovavasi  in  quei  giorni  nel  territorio  to- 
scano l'imperatore  Sigismondo,  a  cui  tanti  aiuti  accorrevano 
da  tutte  le  parti  d' Italia,  ove  passava,  fuggi  anch'  egli  al 
campo  imperiale,  cominciando  in  questo  modo  la  vita  erra- 
bonda dell'  esule. 2  Presto  però  dovette  lasciar  l' imperatore, 
che  senza  frutto,  giunto  sino  a  Roma  nell'  anno  seguente,  fece 
tosto  ritorno  in  Germania;  e  passò  al  servizio,  come  soldato 
di  ventura,  di  Francesco  Sforza.  Con  lo  Sforza  percorse  guer- 
reggiando buona  parte  d' Italia  :  assistè  alla  morte  di  Tom- 
maso Ellica,  signore  di  Fabriano,  perito  in  una  congiura  ;  com- 
batto e  fu  ferito  gravemente  al  capo  sotto  Montefiascone, 3  e 

l' autore  stesso  dice  in  altro  luogo  di  suo  padre  ( Annales,  in  Scriptores 
cit.,  xxi,  49  E):  «  Fuit  in  his  Bonincontrius  pater  meus,  praefectus  unius 
Pisanae  triremis  ». 

1  G.  Uzielli,  Assoluzione  di  Lorenzo  Bonincontri  dalla  condanna  di 
ribellione  e  sua  abitazione  in  Firenze,  in  Archivio  stor.  italiano,  1899, 
disp.  3»,  p.  92. 

'  Varie  sono  le  attestazioni  di  questo  primo  rifugio  dell'  esule  ;  ma  le 
più  certe  ci  sono  fornite  dal  Bonincontri  stesso,  il  quale  in  un  suo  notevo- 
lissimo Commento  ai  propri  poemi  didattici,  del  quale  discorrerò  di  pro- 
posito fra  breve,  a  e.  41  a,  cosi  si  esprime:  «domo  et  patria  L  ferme 
annis  propulsus  et  in  exilium  datus,  Sigismundi  Caesaris  temporibus,  eo 
quod  patriae  raeae  libertatem  quaesieram,  quae   ea  tempestate  gravi   Flo- 

rentiuorum  imperio  regebatur »;  ed  a  carte  182  b:  «   docet  sui  na- 

talis  exemplo  qui  patria  libertatis  amore,  Sigismundi  Caesaris  temporibus, 
extorris  factus  annis  LV  exulavit,  omnibus  bonis  amissis  ».  Dice  egli  inoltre 
nei  suoi  Annales  (Muratori,  loc.  cit.,  139  E):  <  Et  ego  in  exilium  datu  sad 
Sigisinundum  confugi  ;  a  quo  adiutus,  apud  eurn  fui  ». 

3  Sulle  imprese  militari  del  Nostro,  al  tempo  del  suo  servizio  nella  banda 
dello  Sforza,  ci  danno  notizie  specialmente  il  Mazzuchelli,  op.  loc.  cit.,  ed 
A.  Blessich,  La  geografia  alla  Corte  aragonese  di  Napoli,  in  Napoli  nobi- 
lissima, a.  1897,  p.  74,  nota  1  '.  Ne  parla  poi  lo  stesso  Bonincontri  nel  cit. 


120  CAPITOLO  SECONDO 

curato  a  Viterbo.  Dopo,  pare  siasi  condotto  a  Pisa,  con  inten- 
zione di  perfezionarsi  negli  studi  ;  credesi  pure  che  verso  il  1 150 
accorresse  a  Roma,  in  occasione  del  Giubileo. 1  Certamente  in 
queir  anno  egli  riparò,  quasi  in  porto  sicuro  dopo  tanto  peregri- 
nare, a  Napoli,  presso  Alfonso  d'  Aragona,  non  spogliandosi 
ancora,  almeno  nei  primi  tempi,  dell'assisa  militare.  A  Napoli 
rimase  fino  al  1475. 

In  questo  lungo  periodo,  che  abbraccia  buona  parte  del 
regno  del  Magnanimo  ed  il  principio  di  quello  di  Ferdinando, 
e  che  nella  vita  del  Bonincontri  costituisce  1'  epoca  della  mag- 
giore importanza,  pochi  avvenimenti  esterni  riguardo  al  No- 
stro si  possono  ricordare;  che  l'operosità  sua  parve  restringerti 
tutta  agli  studi  ed  all'arte.  L'ambiente,  assai  men  turbato 
dalle  guerre,  cominciò  a  raddolcire  le  abitudini  militaresche 
del  Miniatese,  e  la  compagnia  di  umanisti  coltissimi  ed  edu- 
cati alle  squisitezze  della  poesia,  come  il  Panormita  e  il  Pon- 
tano,  fini  col  modificarne  profondamente  lo  spirito.  Una  tra- 
sformazione si  operò  in  lui,  che  rimase  soldato,  diremo  cosi, 
ufficialmente,  forse  con  la  carica  di  comandante  d'  una  parte 
delle  milizie  aragonesi,2  ma  intimamente,  soprattutto  nei  in<> 

Commento,  a  e.  132  b,  in  questi  termini  :  «  alio  in  loco,  in  descriptione  MM 
vitae,  in  elegia  ad  Laurentium  Medicem,  dicit  (sic)  : 

Vulnera  saeva  tuli,  didici  quae  frigora  possint 
Extorrem  patria  sollicitare  virimi. 

Tria  filini  in  capite  vulnera  accepi  diversi»  temporibus,  dum  militivi  sub 
Francisco  Sforcia  et  Alphonso  rege  ». 

1  Notizie  date  dal  Mazzcchelm,  op.   loc.  cit. ,  e  ripetute  da   9.  Dinui, 
Paolo  del  Pozzo  Toscanelli  iniziatore  della  scoperta  d' America,  Finn/c. 
1892,  p.  148  sgg.,  e  La  vita  e  i  tempi  di  Paolo  del  Pozzo  Toscanelli.  Som, 
1894,  p.  530,  nonché  dal  Blkssich,  op.  loc.  cit.;  ma  che  io  non  ebbi    r> 
sìone  di  riscontrare  in  attestazioni  dirette. 

*  La  notizia  che  fra  il  '50  e  il  '58,  cioè  sotto  Alfonso  I,  il  Bonineotitri 
abbia  prestato  servizio  nelle  armi,  l'abbiamo  veduta  in  una  citazione  prece- 
dente. Che  egli  abbia  continuato  a  combattere  a  fianco  di  Ferdinando,  eloè  dopo 
il  1458,  pure  apprendiamo  dal  seguente  passo  del  Commento  cit.,  e. 
«  Captat  bciievolentiatn  et  actentionem  ab  in  vietissimo  omnium  rege  Fer- 
dinando àragoaio  Naapolitaaoram  rejre,  qnem  tot  beli is  rrxatmn  uuiHjuain 
animo  concidis.se  vidit  ,  quod  Ideati 01  id  facit,  quia  apud  min  in i I ita \ «-ri t 
et  vera  esse  vidit,  quae  scribit,  uti  in  sua  (ustoria  intexuit».  Non  abitiamo 
tuttavia,  eli*  io  sappia,  attestazione  precisa  intorno  alla  vera  eariea  militare 
da  lui  sostenuta;  come  ci  mancano,  e  lo  vedremo,  i  dati   certi   per  after- 


LORENZO  BONINCONTRI  121 

menti  di  pace,  divenne  scienziato  e  filosofo,  e  si  senti  poeta, 
non  degli  ultimi  dell'  età  sua. 

Il  mutamento  non  poteva  però  avvenire  senza  che  attitu 
(lini,  antecedentemente  contrastate,  non  lo  favorissero.  Bisogna 
infatti  sapere  che  anche  nel  tempo  delle  imprese  guerresche, 
anzi  fin  dagli  anni  della  gioventù,  nel  Bonincontri  vivevano 
due  persone  :  il  soldato  e  lo  studioso.  Il  primo,  per  necessità 
di  avvenimenti  politici,  aveva  il  sopravvento;  ma  il  secondo 
andava  maturandosi  lentamente  e  prendendo  sempre  maggiore 
importanza.  Uscendo  di  metafora,  da  molti  anni  il  Bonincontri 
si  occupava,  nei  momenti  di  tregua,  d'astrologia,  dapprima 
forse  spinto  da  curiosità  superstiziosa,  naturale  al  suo  tem- 
peramento irrequieto,  ma  ben  presto  guidato  da  serie  inten- 
zioni scientifiche.  Onde,  avanti  il  1450,  allargato  il  campo 
de'  suoi  studi,  s' era  dato  a  speculazioni  filosofiche,  e  s' era 
prefisso  di  scrivere  un  poema  didattico,  sulla  traccia  del  lu- 
creziano,  che  racchiudesse  la  concezione  dell'  universo  fisico 
e  morale,  quale  a  lui,  credente  negl'influssi,  s'era  affacciata. 
E  pare  che  si  fosse  ad  un  tempo  proposto,  per  certe  parti  della 
medesima  opera,  un  secondo  modello  antico  da  seguire:  gli 
Astronomici  di  Manilio,  ch'egli  recava  con  sé  in  un  esemplare 
tratto  dal  codice  scoperto,  come  abbiamo  veduto,  dal  Poggio 
nel  1416.  Con  questi  precedenti,  non  fa  dunque  meraviglia  se 
il  Nostro  si  trasformò  in  grazia  del  benefico  commercio  lette- 
rario con  gli  accademici  napoletani  ;  né  riesce  strana  la  gioia 
che  lo  invase,  quando  Antonio  Beccadelli  gli  porse  una  copia 
del  poema  maniliano  secondo  la  lezione  pili  completa  e  più 
corretta  del  codice  di  Monte  Cassino.  Da  quel  momento  l'oc- 
cupazione sua  principale  diventò  il  commento  dell'antico  poeta 
dell'astrologia;  commento  che  egli  compilò  accuratamente, 
aiutato  dall'astrologo  catanese  Tolomeo  Gallina,1  e  che  pub- 
mare  eh'  egli  sia  stato  ufficialmente  astrologo  della  corte,  o  professore  nello 
Studio  napoletano. 

1  II  Gallina  dimorò  lungamente  a  Napoli,  e  scrisse,  come  ci  è  attestato, 
un  De  rebus  astrologicis  :  cfr.  6.  Uzielli,  Paolo  del  Pozzo  Toscanelli  cit., 
p.  _'17,  e  R.  Sabhadini,  Storia  documentata  della  R.  Università  di  Catania, 
Catania,  1898,  parte  1\  p.  i'.i.  guaudo  inori  ebbe  dal  l'ontano  l'epigramma 
sepolcrale:  v.  J.  J.  Pohtani  Carmina,  Firenze,  1902,  li,  p.  182. 


122  CAPITOLO  SECONDO 

blicò  più  tardi  a  Roma,  dopo  averlo  esposto  pubblicamente  a 
Firenze. l  Attese  pure,  sempre  nello  stesso  ordine  d' idee,  a 
condurre  a  termine  la  propria  opera  poetica,  distribuita  in 
tre  libri,  e  concepi  il  piano  d'un  nuovo  lavoro,  in  continua- 
zione di  essa,  pure  in  tre  libri,  di  carattere,  come  vedremo 
ampiamente,  del  tutto  astrologico. 

Queste  occupazioni  scientifico-letterarie  ci  provano  intento 
che  il  Bonincontri,  sempre  prima  del  1450,  s'era  dato  altresi 
agli  studi  della  poesia  latina,  per  la  quale  aveva  una  discreta 
attitudine  naturale  ;  e  questi  studi  poetici  ci  spiegano  a  loro 
volta  le  relazioni  amichevoli  che  ben  presto  lo  legarono  al  Pon- 


1  Disse  il  Mazzuchelli,  op.  loc.  cit.,  che  il  Bonincontri  commentò  pub- 
blicamente Manilio  anche  a  Napoli,  nello  Studio,  sostenendo  cosi  che  1'  uf- 
ficio da  lui  tenuto  in  quella  città  fu  di  professore,  diremmo  noi,  universi- 
tario. Parve  avvalorare  quest'  asserzione  una  postilla  autografa  del  Nostro, 
scoperta  dal  Bandini,  Cat.  cod.  Lat.  Bibl.  Med.-Lau.,  II,  p.  76,  sol  mar- 
gine d'un  esemplare  dell'edizione  maniliana  di  Bologna  1474,  che  dice: 
«Ego  tamen  Lau.  Bonincontrius  dico  in  esemplari  meo,  quod  transtuli 
Neapoli,  etc.  »,  quando  essa  potesse  significare,  come  parve  al  Bandini  : 
—  ch'io  tradussi,  e  quindi  esposi,  a  Napoli!  —  G.  Uzielli,  op.  loc.  cit,  s'ac- 
corse dell'errore  strano,  in  cui  era  incorso  il  Bandini,  e  propose  questo  emen- 
damento, peggiore  del  male  :  «  quod  transtuli  Neapolim  »,  cioè:  —  che  por- 
tai meco  a  Napoli.  Ben3  quindi  il  Dell*  Torre,  Storia  dell' Acc.  platonica 
cit.,  p.  685,  n.  5,  intese,  correggendo,  cosi:  —  ch'io  trasportai  da  Napoli 
a  Firenze.  Sennonché  1' Uzielli,  anche  senza  l'attestazione  della  postilla,  e 
quindi  senza  mantenere  l'affermazione  del  pubblico  commento  manilianu, 
mantiene  la  notizia  del  pubblico  insegnamento  d'astrologia,  impartiti)  dal 
Bonincontri  nello  Studio  di  Napoli.  Ora,  a  mio  parere,  neanche  quest'  ultima 
affermazione  è  possibile.  Infatti  il  Bonincontri,  il  quale  parla  con  compia- 
cenza più  volte  dei  suoi  corsi  allo  Studio  di  Firenze  e  di  Roma  nel  Com- 
mento ai  sani  poemi  già  ripetutamente  citato,  non  accenna  mai  ad  una  cat 
Mia  napoletana;  in  secondo  luogo,  nella  lettera  proemiale  al  Manilio 
illustrato,  di  cui  vedremo  in  seguito  l'importanza,  dice  d'avere  a  Napoli 
collazionato  il  suo  testo  corrotto  con  quello  migliore  del  Panormita.  in  com- 
pagnia del  Gallina,  né  accenna  a  lezioni  pubbliche;  infine  il  suo  nome  non 
compare  affatto  fra  i  lettori  dello  Studio  di  Napoli  negli  anni  1460-75,  né 
fra  gli  ordinari,  né  fra  gli  straordinari  e  neppure  fra  I  concorrenti. 
fra  coloro,  che  per  dottrina  nota  universalmente  erano  invitati  dal  Cappel- 
lano a  tenere  un  pubblico  corso  senza  compenso  pecuniario  :  vedi  K.  Car- 
nevale, Lo  Studio  di  Napoli  nel  Rinascimento,  Napoli,  1895,  p.  26  e  86; 
iì.  li.  Origlia,  Istoria  dello  Studio  di  Napoli,  Napoli,  1753,  I,  p.  247  e 
i.anoelo,  Storia  dei  filosofi  e  dei  matematici  napolitani,  Napoli. 
Ili,  epoca  4a.  Del  resto,  conchiudendo,  la  condizione  ufficiale  del  Noti 
Napoli  aveva,  come  abbiamo  veduto,  molto  probabilmente  carattere  mi] 


LORENZO  BONINCONTRI  123 

tano,  sebbene  quest'  ultimo  fosse  assai  più  giovane  d' anni. 
L' amicizia  dei  due  poeti  dovette  stringersi  molto  rapidamente, 
se  già  nel  1451,  forse  un  anno  dopo  il  loro  incontro,  si  po- 
tea  dire  vera  intimità.  E  che  fosse  tale  si  vede  chiaro  dalle 
poesie  giovanili  del  Pontano,  specialmente  da  quelle  che  ri- 
montano all'anno  suddetto,  o  agli  anni  immediatamente  se- 
guenti, tutte  piene  di  accenni  alla  vita  intima  dell'autore  e 
del  crocchio  degli  amici  e  delle  amiche  di  lui.  Ecco,  per  esem- 
pio, due  brevi  elegie  scritte  da  Venezia,  dove  il  giovane  erasi 
recato  al  seguito  del  Panormita  in  missione  diplomatica, l  dalle 
quali  si  apprende  che  il  nostro  Lorenzo,  rimasto  a  Napoli  con 
l' incarico  di  mandar  notizie  confidenziali  sul  conto  della  fan- 
ciulla amata  dall'amico,  aveva  fatto  il  brutto  scherzo  di  man- 
darle cattive:  onde  una  tempesta  di  rimproveri  da  parte  del 
povero  innamorato,  che  non  gli  vuol  prestar  fede: 

Non  ita,  Laurenti,  credebain  te  mihi  amicano, 
Perditum  ut  ires  me  deliciasque  meas  !  2 

Ed  ecco  altre  poesiole,  delicatissime,  le  quali  ci  permettono  di 
entrare  per  un  momento  nella  casa  dell'astrologo,  ove  il  Bo- 
niucontri  si  godeva  1'  affetto  della  giovane  moglie,  una  Ceci- 
lia di  Sorrento,  conosciuta  forse  a  Napoli  e  sposata  da  poco, 
ed  il  sorriso  di  tre  figlioletti.  3  Era  un  idillio  famigliare,  in 

1  J.  J.  Pontini  Carmina  cit.,  I,  p.  xliv. 

*  Pontani  Carmina  cit.,  II,  Appendice  in,  v.  7-8. 

3  Lo  stato  di  famiglia  del  Bonincontri  mi  pare  si  possa  ricostruire  nel 
modo  seguente.  Quanto  alla  moglie  Cecilia,  detta  dal  Pontano  poeticamente, 
o  forse  con  vezzeggiativo  <1"  uso  famigliare,  Cicella,  abbiamo  attestazioni 
molteplici  nelle  opere  del  marito  ;  che  ella  fosse  di  Sorrento,  Io  desumo  dal- 
l'epigramma  funerario  composto  per  lei  dal  Pontano  (De  tumulis  II,  7), 
che  vedremo  in  seguito.  Quanto  ai  figli,  abbiamo  in  primo  luogo  la  notizia 
che  la  Cecilia  partorì  almeno  quattro  volte,  e  la  quarta  si  sgravò  di  due  ge- 
melli :  dice  infatti  il  Bonincontri  nel  secondo  libro  del  suo  primo  poema 
—  per  il  quale  rimando  al  capitolo  seguente  —  : 

Viscera  non  dubium  geminos  quoque  reddere  natos; 
En  ego  cui  geminos  peperit  Cecilia  quar turai 
Exemplo  potui  uaturae  mimerà  nosse. 

Però  siccome  in  altri  luoghi  il  padre  parla  della  morte  dei  due  gemelli,  ma 
non  accenua  mai  a  quella  di  altri  suoi  figli,  e  poi  nella  supplica,  che  ve- 
dremo, a  Lorenzo  de'  Medici,  non  discorre  che  d'un  unico  figliuolo,  cosi  si  può 
supporre  —  s' inteude,  come  semplice  ipotesi  probabile  —  che  i  due  fau- 


124  CAPITOLO  SECONDO 

mezzo  al  quale,  come  in  ambiente  adatto  a  gustarle,  il  Pon- 
tano  amava  leggere  le  primizie  della  sua  Musa,  che  poi,  rac- 
colte in  libretto  — •  il  più  antico  libro  del  poeta  umbro  —  de- 
dicava ai  due  sposi  : 

libello  felix, 
I  felix,  pete  nobilem  sodalem 
Inter  nequitias  amoris  omnes 
Ludentem  in  gremio  snae  Cicellae, 
Cuius  lacteolo  sinu  tumenti 
Surgnnt  aureolae  duae  papillae, 
Quas  fecit  manibus  suis  Cupido 
Maternas  iinitatus  ipse  mammas. 
O  quid  coniuge  dulcius  venusta, 
Aut  quid  carius  optimo  marito, 
Quales  suut  Miniatus  et  Cicella  V 
Sed  ne  te  nimium  morer,  libello, 
Festina  Miniatuin  adire  nostrum, 
Qui  te  tam  facili  videbit  ore, 
Ut  post  millia  basiationum 
Dignum  te  faciat  sinu  Cicellae. 
Hanc  tu  malueris,  libello,  sedem, 
Quam  si  scrinia  regis  ampia  dentur  !  ' 

Ahimè!  a  turbare  questa  pace  perfetta  sorse  infausto  l'anno 
1458,  l'anno  della  morte  di  re  Alfonso.  Una  pestilenza,  che  il  Bo« 
nincontri  volle  poi  attribuire  al  terribile  influsso  di  due  comete 
rapi  ad  un  tempo  la  Cecilia  e  due  de'  suoi  figli,  due  gemelli  : 
rimase  il  padre  solo,  con  un  unico  fanciullo.  *  La  sventura,  che 

ciulli,  dei  quali  non  si  hanno  altre  notizie,  fuorché  quella  dulia  nascita, 
sin ii  mancati  in  età  affatto  infantile,  e  quindi  i  viventi  prima  del  1458  fos- 
sero tre  soltanto. 

1  Pontaxi  Parthenopei  I,  1,  v.  16-88. 

2  Ricorda  questi  fatti  il  Bonincontri  in  fine  al  libro  primo  del  suo  primo 
poema,  dove  dice,  discorrendo  dell'anno  della  morte  di  re  Alfonso: 

Nulla  domus  luctu  caruit  :  mihi,  proli  dolor,  ipsi 
Quos  gerainos  dederat  partu  Cecilia  natos, 
lleu,  moriens  secum  condii  miseranda  sepulcro. 

Che  egli  sia  rimasto  con  un  figlio  solo  è  indicato  chiaramente  da  un  passo 
del  Commento  ai  propri  poemi,  die  riporto  piti  avanti,  dove  il  BoaiBOOatrl 
rammenta  la  sua  .supplica  a  Lorenzo  il  Magnifico.  K  giacché  con  queste  M« 
tizie  torno  a  parlare  dello  stato  di  famiglia  del  mio  astrologo,  affi» 
la  citazione  d'una  postilla,  che  si  trova  in  margine  del   codice    Maglialie 
eliiano  strozziano  VII,  109(J,  contenente   il    poema,  e   proprio  di    fianco    ai 


LORENZO  BONINCONTRI  125 

cosi  avea  percosso  il  povero  esule  quando  i  dauni  del  lungo 
peregrinare  parevano  rimarginati,  ebbe  un'  eco  nei  versi  del- 
l'amico, versi  di  compianto,  che  si  chiudono  con  uno  sconso- 
lato addio  alla  giovane  morta  : 

Fleta  diu  nuribus,  flenda  Cicella  viro.  l 

E  davvero  parve  che  Lorenzo  si  chiudesse  da  quel  giorno  nella 
mestizia,  e  che  la  mestizia  gli  ridestasse  cocente  in  cuore  la 
nostalgia  della  Toscana,  non  riveduta  più  da  ventisei  anni.  Non 
gli  studi,  ai  quali  pur  manteneva  intento  l'ingegno,  nò  i  fa- 
vori del  nuovo  re  Ferdinando,  verso  di  lui  ospite  non  meno 
cortese  del  padre,  riuscirono  a  calmare  il  suo  ardente  deside- 
rio della  patria.  Di  tutto  egli  fece  in  quegli  anni  per  ottenere 
il  condono  del  bando.  Aveva  terminato  il  suo  primo  poema,  e 
lo  dedicava  al  Magnifico,  di  cui  ben  conosceva  il  potere  nelle 
deliberazioni  del  Comune  fiorentino  ;  anzi,  al  poema  aggiun- 
geva un'  elegia  De  descriptione  meae  vitae,  con  la  dolente 
istoria  dei  propri  disagi;  e  all'elegia  accompagnava  una  let- 
tera implorante  la  grazia,  se  non  per  sé,  almeno  per  il  figliuolo. 
Intanto  la  condizione  dell'  animo  suo  diveniva,  per  i  continui 
rifiuti,  sempre  pili  dolorosa  ;  finché  tardi,  è  vero,  ma  pur  sem- 
pre in  tempo  per  riempirlo  d'esultanza,  ad  intercessione  del 
re  aragonese  i  Fiorentini  gli  perdonarono  l'antica  ribellione.2 
Questo  avveniva  nell'aprile  del  1475,  e  già  nell'ottobre  del- 
l'anno stesso  il  Bonincontri  lasciava  Napoli   e   l'Accademia 

versi  sulla  peste  ora  trascritti,  la  quale  dice:  «  mortem  deplorat  fìlioruni 
et  Ceciliae  uxoris  primae  ».  Non  so  chi  sia  stato  a  scrivere  queste  parole  ; 
certo,  a  giudicar  dalla  mano,  un  contemporaneo,  il  quale  potrebbe  averci 
cosi  avvertiti  d'  un  secondo  matrimonio  contratto  piti  tardi,  forse  a  Firenze, 
dal  P-onincontri.  Bisogna  però  tener  conto  di  questo,  che  il  Nostro,  abba- 
stanza largo  di  notizie  sulle  proprie  vicende,  d'una  seconda  moglie  non 
<•'  informa  mai  in  nessun  luogo  delle  sue  opere. 
1  Pontahi  De  tumulis  II,  7,  v.  10. 

!  Vedi  il  Commento  cit.,  alla  e.  132  b  già  ricordata,  ove  si  parla  dell'ele- 
il  Magnifico,  ed  a  e.  41  a,  dove  si  leggono   le  seguenti    parole,    che  io 

trascrivo,  senza  tentar  di  emendarle  dei  guasti  introdotti  dal  copista:  « ad 

Laurentium  Medicem  scribitis  ut  filium  smini  patriae  restitueret  hoc  opus 
(cioè  il  primo  poema)  dicavit,  is  ea  fui t  animi  gratitudine  ut  non  solum 
lilium  sed  etiam  me  ipsum  patriae  restituì  fecisset,  magno  omnium  civimn 
aascii.su,  quod  nulli  unquam  exulum  contigit  ». 


126  CAPITOLO  SECONDO 

pontaniana,  per  stabilirsi  a  Firenze,  in  un  quartiere  oltr'Arno, 
nel  Chiasso  de'  Velluti. l 

Ma  l'uomo  che  dopo  tanto  tempo  ritornava  in  patria,  quanto 
era  diverso  dal  giovane  che  n'era  fuggito!  Colui  che  s'era 
allontanato  colle  armi  in  pugno,  ora  rientrava  con  la  dignità 
d'un  dotto  e  d'un  poeta,  e  veniva  accolto  come  compagno 
dal  fiore  dei  letterati  e  degli  scienziati  toscani.  Non  era  il  Lo- 
renzo da  San  Miniato,  ma  il  «  Laurentius  poèta  astronomicus 
astronomusque  poeticus  »,  come  usò  chiamarlo  il  Ficino,2  il 
Lorenzo  trasformato  dal  soggiorno  napoletano.  E  subito  ot- 
teneva, a  grandissimo  onore,  il  pubblico  insegnamento  del- 
l'astrologia nello  Studio,  dove  per  tre  anni  consecutivi,  dal  1 175 
al  1478,  esponeva  dinanzi  a  numerosa  scolaresca  composta  di 
giovani  e  d'uomini  maturi  e  famosi,  il  proprio  Commento  a  Ma- 
nilio. 3  Vide  forse  alla  sua  scuola,  attratti  dalla  novità  delle  le- 
zioni, dotti  come  il  Toscanelli,  poeti  e  artisti  come  il  Poliziano,  ' 
il  Pulci,5  il  Della  Fonte,6  filosofi  come  il  Ficino,  che  poi  Io  volle 

1  G.  Uzieli.i,  Assoluzione  cit.,  dove  si  trova  anche  la  data  prerisa  d< 
28  aprile  per  l'assoluzione,  e  del  14  ottobre  per  la  dimoia  I  Firenze.  Do- 
vettero forse  scottare  al  nostro  antico  ribelle  queste  dure  ed  umilianti  frasi 
della  Provvigione:  «  Et  quod  dictus  Ser  Laurentius  Bonincontri  erat  iuve- 
nis  et  inductus  a  sociis,  nescius  quid  ageret,  ob  ignorantiam  inventutis,  con- 
sensit  tali  delieto  et  non  revelavit  prout  debebat,  et  ob  id  fuit  sic  condem- 
natus,  et  ultra  40  annos  in  alienis  terris  exul  fuit  ». 

?  L'appellativo  è  in  una  lettera  del  Ficino  al  Honincontri,  in    Marsii.ii 
Ficini  Florentini  etc.   Opera,  Basileae,  lf>76,  I,  p.  760.   Intorno  a  qveai 
ad  altre  lettere  del  filosofo  mediceo  al  Nostro  v.  A.  Dell*  Torre,   op.   <it.. 
p.  68&  sgg. 

a  Una  nota  al  v.  114  del  libro  I  degli  Astronomici  nel  Commento  stesso, 
ed.  di  Roma,  1484,  che  vedremo,  ci  dice:  «  (Manilium)  ego  prima  Floren- 
tiae  legi  anno  salutis  Millesimo  quadringentesimo  septuagesimo  quinto  et 
duobus  insequentibus  annis».  E  dice  Paolo  Cortese,  citato  da  G.  Uzn 
del  Pozzo  Toscanelli,  p.  166:  «....  lume  sublimius  astronomia  satis  «u- 
stulit;  in  quo  genere  ita  laboravit  et  praestitit,  ut  esset  ex  tota  Italia  ad 
eum  concursus.  Atque  is  primtis  ex  omnibus  Manilium  poètam  ex  adjtll  edi- 
tami in  lucem  revocavit  ». 

*  I.  Del  Lusoo,  Florentia,  Firenze,  1897,  p.  816, 

5  G.  Uzielli,  Paolo  del  P.  Toscanelli,  p.  90,  mostra  di  credere  che  di- 
pendano dalle  lezioni  del  Nostro  le  notizie  sugli  Antipodi  del  famoso  canto 
xxt  del  Morgante. 

6  A.  Della  Torre,  op.  cit.,  p.  686,  n.  8. 


LORENZO  BONINCONTRI  127 

nella  propria  Accademia  platonica  qual  consigliere  ed  amico. ! 
Il  suo  era  dunque  un  trionfo  scientifico  e  letterario  raggiunto 
in  quella  terra  a  lui  cara,  dove  più  aveva  ambito  d'essere 
amato  e  stimato. 

Però  un  destino  malvagio  pareva  perseguitarlo  e  sorpren- 
derlo ogni  qualvolta  egli  si  sentiva  felice.  Vent'  anni  prima, 
dal  colmo  della  fortuna  domestica,  per  la  morte  della  moglie 
era  caduto  nell'afflizione  più  penosa;  ed  ora,  dopo  la  funesta 
congiura  de'  Pazzi,  sia  che  si  credesse  malsicuro  in  Firenze, 
sia  che  temesse  la  rovina  dei  Medici,  riprese  daccapo  la  via 
dell'esilio.  Ed  accolse  l'invito  che  Costanzo  Sforza,  il  giovane 
signore  di  Pesaro,  in  quel  tempo,  cioè  verso  il  1479,  capitano 
dei  Fiorentini  nella  guerra  di  Ferrara,  gli  faceva  dal  campo, 
allogandosi  presso  di  lui,  insieme  con  maestro  Camillo  Lunardi, 
in  qualità  di  astrologo.  Lasciava  adunque  la  cattedra  dello 
Studio  e  le  occupazioni  scientifiche  e  letterarie  —  glorioso  epi- 
sodio nella  travagliata  sua  vita  —  per  un  mestiere,  che  negli 
anni  precedenti  non  sappiamo  ufficialmente  avesse  mai  eserci- 
tato, ma  che  forse  era  stato  il  primo  passo  della  sua  carriera 
in  gioventù,  quando  aveva  servito  nelle  bande  sforzesche.  Anzi, 
curioso  ritorno  alle  prime  abitudini,  riprendeva  ora  settuage- 
nario, e  sia  pure  senza  indossar  l' armatura,  la  vita  militare, 
al  séguito  del  nuovo  suo  principe. 2  Per  il  quale  si  pose  a  scri- 
vere dei  presagì  celesti  non  solo,  ma  un'  operetta  storica  in- 
torno alla  vita  di  Muzio  Attendolo,  contemperando  cosi  la  pra- 
tica dell'arte  con  un  piacevole  ed  utile  esercizio  letterario. 

Sennonché  anche  il  periodo  pesarese  ebbe  nella  sua  vita 
breve  durata.  Moriva  nel  luglio  1483,  ancor  giovane,  Costanzo, 
e  gli  succedeva  Giovanni,  presso  il  quale  forse  pochi  mesi  si 

1  L'attestazione  sicura  trovasi  nella  famosa  lettera  di  Marsilio  a  Mar- 
tino Uranio,  in  Ficini  Opera  cit.,  p.  936,  ove  si  legge  :  «  In  aetate  vero  niea 
iam  matnra  familiare»,  non  aaditores. . . .  Laurentius  Bonincontrus  etc ». 

*  Il  Tiraboschi,  Storia  della  lett.,  Milano,  1824,  tomo  VI,  parte  la,  p.  601, 
riporta  l' explicit  d'  un  codice  di  Tabulae  astronomicae  della  Estense,  dove 
i  nomi  del  Nostro  e  del  Lunardi  compaiono  insieme,  a  Pesaro,  nel  1480.  Il 
Della  Torre,  op.  cit.  p.  682,  ci  informa  dei  saluti  dal  Bonincontri  mandati 
al  Ficino,  nello  stesso  anno,  dal  campo. 


128  CAPITOLO  SECONDO 

tratteneva  Lorenzo,1  che  ben  presto  volse  i  passi,  come  ad  ul- 
timo rifugio  della  sua  vecchiaia,  verso  Roma. 

La  grande  città  pontificia,  negli  anni  di  cui  discorriamo, 
era  un  porto  sicuro  a  cui  traevano  volentieri  artisti,  letterati, 
scienziati  d'  ogni  sorta,  italiani  e  stranieri  ; 2  ma  per  questo 
appunto  di  difficile  approdo  a  chi  non  avesse,  fra  le  gare  de- 
gli aspiranti  ai  benefici  papali  e  cardinalizi,  integre  le  forze 
dell'  ingegno  e  la  vigoria  dello  studio.  Qualità  queste  che  non 
facevano  difetto,  anche  in  età  cosi  avanzata  ed  in  mezzo  alle  d<> 
lorose  strettezze  del  disagio  materiale,  al  nostro  poeta,  il  quale 
risolutamente  entrò  nella  folla  dei  ricercatori  di  protezioni, 
pronto  a  ricompensare  co'  suoi  lavori  il  cardinale  che  per 
primo  l'avesse  soccorso. 3  Fu  questi  Raffaele  Riario,  che,  sovve- 
nendolo con  aiuti  pecuniari  e  morali,  lo  mise  in  grado  di  pre- 
parar per  le  stampe  il  Commento  su  Manilio,  il  quale  usci  ap- 
punto in  Roma,  come  vedremo,  nell'ottobre  dell'anno  seguente. 
Intanto  Lorenzo  era  riuscito  ad  avvicinare  lo  stesso  pontefice, 
in  quel  tempo  Sisto  IV,  tutt' altro  che  nemico  degli  umanisti, 
come  una  volta  si  credeva;  e  ne  aveva  ottenuto  un  beneficio 
assai  grande,  cioè  la  cattedra  di  astrologia  nello  Studio  ro- 
mano. 4  Ond' eccolo  ancora  tra  gli  onori  già  goduti  a  Firenze,  e 

1  A  Oiovanni  Sforza  il  Bonincontri  dedicava  più  tardi  certe  sue  scrit- 
ture astrologiche,  che  ora  ci  son  conservate  nel  Marciano  Vili,  7C>,  come 
dirò  nel  seguente  paragrafo. 

"  Intorno  al  periodo  romano  della  vita  del  Nostro,  v.  specialmente  il  mio 
studio,  giàcit.,  su  GV  Inni  sacri  d'un  astrologo  del  Rinasci m.,  p 

3  Leggasi,  a  conferma  ridir  notizie  qui  riferite,  la  lettera  proemiale 
alla  Vita  di  Muzio  Attendoìo,  che  più  avanti  pubblico  per  <li>t 

4  Due  attestazioni  certissime  della  cattedra  universitaria  romana  si 
hanno  nel  cod.  lat.  7417  della  N'azionale  di  Parigi,  contenente  un'  Op 
astrologica  senile  del  Bonincontri.  Dice  infatti  il  titolo  di  essa  :  «  .  .  . .  I.au. 
Boniaoontrio  professore  astrologie  Romae  celeberrimo  authore  »;  e  Vex- 
plieit  :  «  .  .  .  .  ego  Laurentina  Bonincontrius. . . .  collegi.  .  . .  riunì  BOMM  ari 
lectionem  astrologiae  conductus  eram  ».  Vedami,  per  V  operetta  qui  citata. 
le  notizie  opportune  nel  seg.  paragrafo.  Per  la  cattedra  universitaria  si  ! 
anche  la  cit.  lettera  proemiale  alla  Vita  di  Muzio  Attendoìo.  Che  di  essa 
poi  non  parli  A.  Bertoi.otti,  Professori  allo  Studio  di  Roma  nel  secolo  xr, 
in  Bibliofilo,  IV,  89  8gg.,  non  è  meraviglia,  L'iaerhé  quivi,  per  esplicita  di- 
chiarazione dell'autore,  la  serie  dei  docenti,  desunta  ria  cinque  registri  rii 
stipendi,  non  ò  completa,  anzi  di  essi  non  si  riporta  un  elenco,  ma  una  sem- 
plice scelta. 


LORENZO  BONINCONTRI  129 

qui  a  Roma  accolto,  come  laggiù  tra  i  platonici,  fra  gli  acca- 
demici di  Pomponio  Leto.  *  Anzi,  il  21  d'Aprile  del  1484,  ce- 
lebrandosi nell'Accademia  la  festa  del  Natale  di  Roma,  a  lui 
era  concessa  solennemente  la  laurea  o  corona  poetica  «  impo- 
si t a  a  collegio  poetarum,  cui  Gaspar  Blundus  praesidebat, 
Pomponio  Sulpitio  et  Petro  Marso  censoribus  ».* 

Disgraziatamente  in  quell'anno  medesimo  moriva  il  papa, 
a  onore  del  quale  il  Bonincontri  avea  cominciato  un  libretto 
d' inni  sacri  :  e  per  il  poeta,  cessate  le  sovvenzioni,  ricomincia- 
rono le  angustie.  La  cattedra  pare  rendesse  poco,  e  la  laurea 
non  fruttava  ebe  gloria;  d'altra  parte  crescevano  i  bisogni 
dell'esistenza  con  l'aggravarsi  della  vecchiaia.  Di  modo  che 
vediamo  il  nostro  astrologo  ritornare,  con  rinnovato  slancio,  alla 
compilazione  della  vita  di  Muzio  Attendolo,  e  dedicar  l'opera 
compiuta  al  cardinale  Ascanio  Sforza,  chiedendone  tacitamente 
un  compenso  (1485).  Finalmente,  non  essendo  lontano  l'ottante- 
simo anno  di  età,  tribolato  forse  da  acciacchi,  egli  ricorse  al 
cardinale  di  San  Pietro  in  Vincoli,  Giuliano  della  Rovere.  Il 
superbo  nij>otc  di  Sisto,  il  futuro  papa  Giulio,  e  per  la  stima 
che  del  Bonincontri  aveva,  e  forse  per  simpatia  verso  di  lui, 
già  vigoroso  uomo  d'armi  e  di  studi,  ora  cadente  ma  sempre 
operoso,  gli  accordò  la  sua  diretta  protezione,  rendendogli  tran- 
quilli almeno  gli  ultimi  anni  di  vita.  Presso  il  roveresco  ri- 
mase infatti   il  Nostro  fino  alla  morte,  avvenuta  nel  1491. 3 

1  A.  Della  Torre,  op.  cit.,  p.  682. 

2  Dice  nel  cit.  Commento  ai  propri  poemi,  a  e.  127  b,  il  Bonincontri  : 
«  at  postea  anno  1484  factum  est,  cnm  Palilibns  mihi  laurea  imposita  est 
Romae  a  collegio  poetarum,  cui  Gaspar  Blondin  praesidebat,  Pomponio  Sul- 
pitìo  et  Petro  Marso  censoribus».  Per  altre  attestazioni,  v.  il  cit.  mio  stu- 
dio, Gl'inni  sacri,  p.  426,  ed  A.  Della  Torre,  Paolo  Marsi  da  Pescina,  con- 
tributo  aliti  storia  dell'  Accademia  Pomponiana,  Rocca  San  Casciano,  190:5, 
p.  269;  dove,  a  p.  261,  è  pubblicata  anche  nna  bratta  elegia  dell'  umanista 
Uomini  Palladio  Sorano,  in  onore  dei  nuovi  poeti  laureati,  nella  quale  al 
Bonincontri  son  (bulicati  i  seguenti  due  distici  (vv.  7:$-7:">)  : 

Inter  quos  vates  fllfjllMliWM  Astronomorum 

86  quoque  diga*  'inni. 'in  laurea  serta  capii. 
t'unì  tamen  a  lauro  nomen  Laurentius  esset, 
Congrua  Phoel>ea  nomina  digna  coma. 

3  Sulla  protezione  ottenuta  dal  cardinal  Giuliano,  e  sui  lavori  per  lui 
compiuti,  v.  il  mio  studio,  GV  inni  sacri,  p.  409.  Quanto   alla  data   della 

Soldati  9 


130  CAPITOLO  SECONDO 

Teneva  tuttavia  le  sue  lezioni  allo  Studio  ;  spesso  si  ritirava 
nella  sede  vescovile  del  suo  protettore,  ad  Ostia,  a  studiarvi 
gli  effetti  dei  movimenti  della  Luna  sulle  maree  della  foce 
tiberina; J  attendeva  ad  un  largo  commento  esplicativo  ed  au- 
tobiografico intorno  ai  propri  due  poemi  filosofici,  e  dava  l'ul- 
tima mano  a  quel  libretto  d'inni  sacri  che  vedemmo  iniziato 
per  Sisto,  destinato  ora  a  Giuliano. 

Cosi  affaccendato,  certo  con  un  senso  di  profonda  simpatia, 
dovette  rivederlo  un  amico  degli  anni  migliori,  il  Pontano,  * 
il  quale  poco  dopo,  all'annunzio  della  morte  di  lui,  scriveva 
un  epigramma  funerario  —  quanto  diverso  dalle  lusinghe  poe- 
tiche del  1450  !  —  pieno  del  desiderio  di  quella  pace  completa, 
che  solo  si  immagina  al  di  là  della  tomba: 

Quid  numeras,  Miniate'?  Nihil  numerare  necesse  est, 

Sidera  sub  podibus  qui  modo  cuncta  vides, 
Cuncta  suos  agere  anfractus,  seque  ordine  summo 

Cogero  et  errores  rite  subire  suos. 
Ne  numera,  Miniate  :  quies  tibi  parta  ;  quiete 

TJtere,  et  bumanis  uxue  te  studiis. 
Ipsa  quies  Deus  est,  Deus  est  et  vita,  bonumque, 

Vita  bonumque  simul  :  utere  utroque  simul.  3 

Non  credo  che  l'amore,  onde  ho  compiute  le  ricerche  in- 
torno alla  vita  del  mio  astrologo,  e  la  consuetudine  della  let- 
tura delle  opere  sue,  mi  facciano  velo  e  nv  impediscano  di 
scorgere  intera  la  verità,  quando  dalle  notizie  ora  esposta 
deduco  un  giudizio  sintetico.  Io  ritengo  che  dai  l'atti  narrati 

morte,  unico  indizio  certo  è  questo,  che  le  ultime  notizie  sul  Bonincontri 
le  abbiamo  nel  luglio  del  1491  :  poi,  più  nulla. 

1  Nel  Commento  cit.  ai  suoi  poemi,  ;i  e.  10!»  It.  paria  Lorenzo  delle  maree, 
e  BORginnfje  :  *  ego  sum  experfns  in  liostio  Tiberis.  euni  Luna  est  in  Orienti" 
aquae  incipiiint  anneri,  similifer  in  occidente;  nini  vero  est  Luna  inter  Me- 
ridiein  et  Libyctim  ventilili  oinnino  sunt  in  summo  deereseentiae,  similiter 
lit  cimi  est  inter  (.'raeeuni  et  Septentrionem  ». 

*  Questo  la  supporre  una  lettera,  riferentesi  al  soggiorno  del  I'ontaii<>  il 
Roma  nel  1491,  ed  alle  sue  relazioni  col  cardinal  della  Koverc  :  Ardi,  di 
Stato  di  Firenze,  Medie,  avanti  il  princip.,  filza  LII,  lettera  di  Pietro  Ala- 
manni a  Lorenzo  de' Medici,  Roma,  9  febbraio  1491  :  «  . .  .  .  il  l'olitami  ile- 
sino stamani  col   N'incula  ». 

NTAim  Carmina  cit.,  II,  De  tumuli.*  I,  2.r>,  v.  1 


LORENZO  feONINCONTRt  131 

emerga  l' importanza  di  quest'  uomo,  che  visse  la  vita  intel- 
lettuale dei  tre  più  notevoli  centri  di  cultura  nel  Quattro- 
cento, Napoli,  Firenze  e  Koma;  che  mantenne  attraverso  a 
mille  ostacoli,  a  mille  vicende  gloriose  e  crudeli,  costante- 
mente vivo  il  culto  del  sapere  e  della  poesia;  che  mise,  Ulisse 
novello,  a  servigio  dell'arte  propria  una  larga  esperienza 
degli  uomini  e  delle  cose.  Egli  è  davvero,  come  ho  prean- 
nunziato, la  migliore  incarnazione  dell'idea  astrologica,  quale 
abbiamo  disegnata  nell'Umanesimo,  sia  nel  grado  più  nobile 
di  filosofo  dell'astrologia,  sia  come  matematico,  sia  infine, 
men  lodevolmente,  come  scrittor  di  pronostici  e  di  giudizi. 
Ma  ciò  che  sopra  tutto  a  noi  importa  ora  che  stiamo  per 
accostarci  al  suo  maggior  lavoro,  si  è  il  riconoscere  che  gli 
atti  della  vita  di  Lorenzo  ci  confermano  l'intera  e  feconda 
fede  eh'  egli  ebbe  nella  realtà  dell'  influsso.  Nei  casi  del  viver 
suo  vedeva  il  Nostro  l'adempimento  d'un  destino  prestabi- 
lito, come  nelle  vicende  della  storia  antica  e  recente  ;  e  da 
codesta  visione  attingeva  l'ispirazione  ai  propri  poemi.  Con 
un  passo  dei  quali  voglio  chiudere  queste  note,  con  un  passo 
autobiografico,  che  il  poeta  indirizzava  giunto  a  maturità  a 
Ferdinando  d'Aragona,  ma  che  noi,  senza  offesa  al  vero,  ben 
possiamo  estendere  a  tutta  la  vita  di  lui  : 

Sin  nascens  <Mars>  ortu  primo  vicina  diei 
Palpita,  lustrarit,  faciem  tum  vulnero  foedat  ; l 
Nec  dubium,  coeli  calcet  si  regna  secunda, 
Exilium  natis  portendere,  perdere  censum 
Et  quicquid  longo  fuerit  iam  tempore  parctum. 
Non  et  opes  quaerent,  non  illis  cura  peculi, 
Publica  sed  tractant  rebus  causisque  gerendis, 
Praefectique  ducum  tali  sub  sidere  fiunt. 
Expertusque  meo  natali  quanta  minetur 
Il  le  loco,  quam  multa  tuli,  quantosque  labores, 
Et  quam  multiplices  dederint  mea  tempora  casus. 
Quos  memorare  vetat  res  ;  et  te,  maxime  regum, 
Non  fallunt  nostri  casus  et  vulnera  saeva, 
Quos  terra  et  pelago  prò  libertate  tuenda 

»  La  74»  Sentenza  del  Centiloquio  attribuito  a  Tolomeo   dice   Infatti  : 
«  Quicumque  Martini  asccndentem  habet,  omnino  cicatricem  in  facie  habebit  ». 


132  CAPITOLO  SECONDO 

Pertulerim,  castrisqne  tuis  nutrì tus  et  aula. 
Quam  varie  vitam  duxi  quantisque  periclis 
Expositns,  Marti  toturn  reddamus  et  astris.  ' 


III. 


I  pregi  di  forza  e  versatilità  intellettuale,  che  rendono  Lo- 
renzo Bonincontri  singolarmente  degno  di  osservazione  fra  i 
poeti  dell'astrologia,  come  dalle  note  biografiche,  cosi  si  pa- 
lesano dalla  rassegna  delle  opere  sue:  rassegna  non  meno  ne- 
cessaria della  biografia  per  riconoscere  la  somma  operosità  «• 
le  attitudini  molteplici  di  lui,  per  quanto  non  tutte  egualmente 
potenti;  ma  non  meno  della  biografia  lacunosa  e  in  qualche 
parte  errata. 

Si  è  ricorso  finora  al  Mazzucbelli,  2  il  cui  elenco  comprende 
tredici  scritti  non  tutti  autentici  e  ne  tralascia  parecchi  altri 
di  non  piccola  importanza:  malsicuro  fondamento  adunque,  al 
quale   troppo  s'affidarono  i   critici   più    recenti.3    Non    saia 


1  Laurcnziann  XXXIV,  {SS,  e.  10.r>  a. 

8  Mazzik-hem.i,  Scrittori,  II,  parte  IV",  p.  S^O:'.. 

3  L'errore  più  eurioso  in  cui  cadde  il  Mazzuchelli  è  certamente  «piello 
d'aver  scambiata  la  notissima  Sfera  di  Goro  Dati  per  un  poema  Intitolata  : 
Atlante  in  ottava  rima,  del  Bonincontri!  Kgli  probabilmente  —  e  in  ciò  sta 
la  sua  scusa —  non  aveva  avuto  fra  le  mani  il  cod.  Vaticano  Capponi  M,  un 
discreto  manoscritto  membranaceo,  di  ce.  24,  del  sec.  xv,  contenente  appunto 
l'opera  del  I>ati,  sul  foglio  anteriore  di  guardia  del  «piale  si  legge  la  fal- 
lace indicazione:  di  JjOrenza  Bonincontri;  indicazione  che  forse,  Intervie 
tata  secondo  il  vero  significato,  ci  avverte  che  il  fascicolo  o  at la» te  fu  pie 
prietà  di  Lorenzo.  Ben  più  strano  e  il   fatto  che  quest'errore  non  sia  stato 

corretto  dal  Ba&yo  Cono  nel  suo  catalogo  del  Capponi/mi,  Roma,  vaticana. 

1897,  p.  47.  Scusabile   in   parte  è  il   IHu.a  Tonai,  op.  cit.,  p.  I 

il  quale,  dichiarando  di  Odami  del  dati  altrui  e  delle  indicazioni  di 

logo,  rimanda  al  Corsiniano  7o<;,  una  miscellanea  recente,  ove  a  e.    I.1 
legge  una  copia  senza  valore  del  Cajiponiano  citato;   ma  troppo  imprudente- 
mente poi  se  ne  vale  BOOM  «lì   cosa   provata  per  spiegare  un  accenno  d'una 
lettera  del  Ficino  al  l'.onincontri.  Dfl  secondo  errori-  «lei  Mazzuchelli  è  q nello 

di  elencare  fra  le  opere  «lei  Nostro  un  De  aagwcMoettii,  icritterello  «>  so- 
glio postilla  di  circa  Ululici  righe,  Che  si  legge  N  C.  'a  del  COd.  l.ieeanliano 
miscellanei"  ^:'.7.  stabilendone  l'attribuzione  sulla  semplici    Imi   /  au    astro- 


LORENZO  BONINCONTltl  133 

quindi  il  Mazzuchelli  —  e  sia  detto  con  tutta  riverenza  verso 
il  benemerito  erudito  —  che  noi  prenderemo  per  guida. 

Cominciando  pertanto  ad  esporre  le  nostre  indagini  per  or- 
dine di  tempo,  l'opera  che  prima  non  possediamo,  ma  cono- 
sciamo da  attestazioni  dirette  dell'autore  stesso,  è  una  raccolta 
di  elegie  amorose,  alle  quali  daremo  per  data  gli  anni  che 
precedettero  il  1450. l  Essa  infatti  era,  secondo  il  Bonincoutri, 
un'  operetta  giovanile,  di  non  grande  valore,  una  serie  di  eser- 
cizi metrici  e  letterari  probabilmente  di  alquanto  libera  mo- 
ralità, imitazioni  forse  dell'  Ermafrodito  del  Beccadelli,  che  a 
quei  tempi  aveva  formata,  si  può  dire,  una  piccola  scuola  poe- 
tica. E  ad  essa,  quasi  a  costituire  un  primo  gruppo  di  scritti 
tutti  della  stessa  natura,  faremo  seguire  quelle  altre  elegie 
sparse,  delle  quali  non  conserviamo  che  qualche  distico  su- 
perstite nelle  citazioni  o  del  poeta  stesso,  o  di  qualche  ignoto 
trascrittore  :  l' elegia  già  ricordata,  composta  per  accompagnare 
la  dedica  del  primo  poema  a  Lorenzo  il  Magnifico,  in  cui  il 
Bouincontri  tesseva  la  storia  dei  miseri  casi  della  sua  vita  ; 
ed  un'  altra  elegia  semplicemente  elogiativa  indirizzata,  forse 
duraute  il  suo  soggiorno  a  Pesaro,  ad  un  verseggiatore  a  noi 

logus.  Ora  è  bene  notare  che  codesta  firma  non  già  al  Bonincoutri,  che  sem- 
pre si  designò  Laurentius  Miniatus,  quando  pur  non  si  firmava  per  disteso 
con  tutto  il  cognome,  ma  corrisponde  all'uso  abituale  di  Lorenzo  Lorenzi, 
astrologo  fiorentino,  il  quale  viveva  intorno  al  1485  ed  era  amico  intimo  di 
Ugolino  e  Michele  Verino.  Di  Michele  a  lui  abbiamo  infatti,  di  quell'anno, 
parecchie  lettere  nei  Kiccardiani  915  e  2621,  rispettivamente  originali  e  tra- 
dotte da  Pietro  Crinito,  a  e.  626,  646,  706  del  secondo  coti.,  indirizzate  ap- 
punto con  la  designazione  sopra  ricordata  (vedi  A.  Lazzari,  Ugolino  e  Mi- 
cìiele  Verino,  Torino,  1897,  p.  25,  n.  6  e  tutto  il  cap.  VI).  Un  terzo  errore, 
e  questo  non  del  Mazzuchelli  ma  del  Bandini,  e  ripetuto  dal  Della  Torke, 
op.  cit.,  p.  682,  n.  4,  riguarda  il  cod.  Laurenziauo  XXIX,  5,  contenente  a 
e.  62 a  alcune  tavole  o  Stellae  fixae  verificatile  in  annis  14SG  primue  et 
xecundae  magnitudini»  per  me  Laurentium,  ed  a  e.  54 a  una  Tabula  ho- 
mi nm  ad  latittidinem  Florentiae,  attribuite  al  Bouincontri  senz'  altro,  per 
il  solo  indizio  di  quel  nome  Laurentium.  Ora  io  vorrei  die  si  badasse  al 
luogo,  cioè  Firenze,  e  alla  data,  cioè  il  1486,  anno  in  cui  il  Nostro  era  a 
Koma  occupato  in  ben  altro,  mentre  a  Firenze  e'  era  il  Lorenzi,  e  si  vedesse 
se  non  sia  il  caso  di  propendere  per  l'attribuzione  a  quest'  ultimo. 

1  L'attestazione  è  chiara  uel  Commento  ai  poemi,  a  e.  63b,  ove  Lorenzo 
dice  di  sé  :  «  iuventutis  tempore  lèccrit.  . .  .  amorum  elegias  etc.  ». 


134  CAPITOLO  SECONDO 

sconosciuto. !  L'unica  importanza  di  questo  gruppo,  che  senza 
grande  rincrescimento  per  1'  arte  dobbiam  lamentare  perduto 
quasi  del  tutto,  è  di  essere  la  preparazione  letteraria  al  libretto 
senile  d' inni  sacri,  nel  quale  il  distico  elegiaco  è  trattato  con 
piena  sicurezza,  secondoché  vedremo  a  suo  luogo. 

Ma  di  gran  lunga  più  importante  è  l'opera,  che  in  ordine 
di  tempo  ci  si  presenta  subito  dopo,  ed  occupa  il  periodo  na- 
poletano della  vita  di  Lorenzo  ;  voglio  dire  la  composizione 
dei  due  poemi  sulla  Natura  ed  il  Commento  a  Manilio.  Di 
queste  opere  si  parlerà  con  la  debita  ampiezza  nel  paragrafo 
e  nel  capitolo  seguenti  ;  giacché  esse  costituiscono  quanto  di 
meglio  scientificamente  e  poeticamente  usci  dalla  penna  i  <-l 
Bonincontri,  ed  in  esse  si  trovano  in  modo  diretto  quei  pen- 
sieri e  quei  saggi  di  poesia  astrologica,  che  noi  per  l'appunto 
andiamo  ricercando  nella  letteratura  del  Quattrocento. 

Sopra  un  terzo  gruppetto  di  scritti  desidero  invece  tratte- 
nermi un  poco,  cioè  sopra  alcune  operette  in  prosa,  nelle  quali 
l'astrologia  tiene  il  campo  in  modo  assoluto.  Ricorderò  per- 
tanto che  mentre  a  Napoli,  per  una  certa  avversione  dei  re 
aragonesi  verso  gl'indovini  di  corte,2  il  Nostro  alla  vera  e 
propria  arte  pare  non  si  fosse  che  molto  scarsamente  dedicato, 3 

1  Questa  seconda  elegia,  che  lui  per  titolo  :  Lau.  Bonincuntrii  M 
tensis  ad  Ca.  Castellanum,  e  comincia  col  seguente  distico  : 

Castellane,  decus  cytarae  resonautis  aiuenae, 
Orpnea  te  dico  vincere  posse  lyra, 

è  conservata  nel  cod.  miscellaneo  Barberiniano  XXX,  104,  degli  ultimi  anni 
del  sec.  xv,  a  e.  ttft,  dove  pure  si  legge  una  notizia  del  trascrittore,  che 
mi  fa  pensare  al  soggiorno  pesarese  del  Nostro.  Kssa  accenna  infatti  al- 
l'anno 1479,  cosi:  «qui  quidem  Laurcntius  temporibus  nostris,  vidclicet 
■cccoucxvmi,  quo  tempore  vivebat,  erat  astrologus,  pliilosophus,  theologus 
et  porta  maximus;  plura  In  praedictis  composuitet  Komae  diem  suum  obiit  >. 

2  K.  Mandarini,  I  codici  manoscritti  della  bibl.  oratoriana  di  Napoli, 
Napoli -Roma,  1897,  p.  87. 

3  gualche  oroscopo  anche  a  Napoli  dovè  pur  scrivere,  se  ivi  non  rifuggi 
dal  praticare  la  medicina  astrologica.  Scrive  infatti  di  lui  il  l'ontano,  nel 
suo  Commento  alle  cento  sentenze  di  Tolomeo,  I,  sent.  9:  «  Laurentius  Mi- 
niatila familiaris  inetis  amico  suo  doloribus  capitis  pene  c|iiotitlie  lavoranti 
impressa  Arietis  ima^ine  reincdiuni  attulit.  quam  Melari  in  auro  l'ecit,  primo 
affetta  gradii  ascendente,  Jove  ibi  constituto,  nullisque  infelicium  stellarmi! 
radiis  percusso,  iiniuo  Luna  Venereque  amice  intuentibus  >. 


LORENZO  BONINCONTRI  135 

passato  a  Firenze  ed  a  Pesaro  egli  volentieri  si  applicò  alla 
compilazione  di  manualetti  pratici.  La  preparazione  se  l'era 
fatta  colla  lettura  dei  numerosi  testi  classici  ed  arabici,  che 
gli  avevan  fornita  la  materia  per  le  lezioni  maniliane;  l'am- 
biente nuovo,  lungi  dall' ostacolarne  l'impresa,  era  fatto  in- 
vece per  favorirla.  Ond'  ecco  il  Bonincontri  non  più  sotto  le 
spoglie  del  poeta  amoroso  o  filosofico,  o  dell'erudito,  ma  in 
quelle  più  umili  dell'astrologo  di  professione,  che  mette  in- 
sieme anch'  egli  la  sua  brava  esplicazione  del  Centiloquio  di 
Tolomeo.  E  dico  anch'  egli,  perché  l' opuscolo  pseudo-tolemaico 
delle  cento  sentenze  divinatorie  era  stato  già  assai  prima  il 
favorito  di  molti  studiosi,  di  Cecco  d'Ascoli  per  esempio, J  ed 
avea  in  quegli  anni  stessi  attirata  l'attenzione  di  Giovanni 
Pontano.  Il  Bonincontri  adunque  ne  mise  insieme  un  commento, 
intessuto  in  gran  parte  di  citazioni  maniliane  ed  informato 
alle  idee  del  poeta  latino,  mentre  si  trovava  a  Firenze  intento 
alla  esposizione  di  questo,  cioè  poco  prima  del  maggio  1477, 
anno  in  cui  l'operetta  appare  copiata  nel  codice,  che  ancora 
ce  la  conserva. 2  Neil'  anno  stesso,  od  in  quello  precedente, 
egli  aveva  pure  incominciato  un  altro  lavoro  di  maggiore  im- 
portanza: s'era  proposto  lo  studio  del  Quadripartito,  vale  a 
dire  d'una  delle  più  caratteristiche  raccolte  classiche  d'astro- 
logia, per  buona  parte  veramente  tolemaica,  ed  aveva  impreso 
a  trascegliere  in  essa  i  passi  più  rilevanti  e  meglio  rispondenti 
al  concetto,  eh'  egli  s'  era  fatto  del  pensiero  del  grande  astro- 
logo antico.  Vedremo,  discorrendo  delle  opere  senili,  quale 
partito  traesse  più  tainli  da  questi  Excerpta  raccolti  in  Firenze. 3 

1  F.  Bariola,  Cecco  d'Ascoli  e  l'Acerba,  Firenze,  1879,  p.  55. 

■'  Il  codice  che  contiene  questa  e  1'  operetta  seguente  è  il  Laurenziano 
XXIX,  8,  miscellaneo,  cartaceo,  del  sec.  xv.  Lo  scritto,  del  quale  discorro, 
vi  si  trova  al  n°  4,  ed  ha  per  titolo  :  Laurentij  Bonincontri  Miniatensis 
super  Centiloquio  Ptolomei.  Dopo  Vexplicit  vi  si  legge:  Transcriptum  per 
me  Laurentium  Silvestri  canonicum  ecclesiae  sancti  Laurentii  florentiae 
die  X  maij  1477  hora  22  et  '/j.  È  da  notare,  a  conforto  dell'  opiuione  mia 
intorno  al  breve  intervallo  fra  le  due  date  di  composizione  e  di  trascri- 
zione, die  a  proposito  della  Sentenza  88*  l'autore  rimanda  al  proprio  Com- 
mento maniliano,  compiuto,  come  vedremo,  non  prima  del  1475. 

3  Si  leggono  al  uu  G  del  cit.  Laurenziano  XXIX,  3,  ed  hanno  per  titolo  : 
Excerpta  per  me  Laurentium  bonincontrum  Miniatensem  ex  quatripartito 


136  CAPITOLO  SECONDO 

Intanto,  come  abbiam  raccontato,  alcuni  anni  dopo  la  data 
teste  riferita  Lorenzo  si  trovava  alla  corte  sforzesca  di  Pesaro 
con  un  ufficio,  che  naturalmente  lo  portava  agli  studi  pratici 
dell'astrologia,  ed  aveva  a  compagno  il  Lnnardi,  il  quale  lieo 
presto  gli  divenne  collaboratore.  Non  è  dunque  Btraao  M  di 
chiesto  tempo  dobbiamo  registrare  la  parte  clic  il  Nostro  ebbe 
nella  compilazione  di  certe  Tabulae  astronomicae,  compiute 
propriamente  nell'anno  1480. l 

Come  si  vede,  non  esigua  certamente  è  la  serie  dei  manna- 
letti  bonincontriani,  alla  quale  son  da  aggiungere  alcuni  altri 
scritterelli,  non  datati,  di  dimensioni  minori.  Intendo  riferirmi 
a  due  trattatelli  contenuti  nello  stesso  codice  miscellaneo  della 
Estense  di  Modena  2  che  ci  conserva  le  Tabulae  or  ricordate, 
il  primo  dei  quali,  intitolato  Expositio  super  textum  Alcahici, 
deve  probabilmente,  per  analogia  sostanziale  coi  libretti  dei 
quali  abbiamo  ora  discorso,  ascriversi  al  periodo  fiorentino  q 
al  pesarese;  ed  è  molto  notevole  per  l'argomento  suo.  L'Alca* 
hizzo  era  infatti  reputato,  accanto  al  Quadripartito  e  al  Cen- 
loquio.iuìa,  delle  opere  fondamentali  per  la  coltura  astrologica 
fin  dal  Trecento,  e  come  tale  veniva  esposto  pubblicamente 
nelle  Università:  l'espose,  per  esempio,  lo  Stabili  a  Bologn 

ptholomei  et  expositione  Itali  commentatoris  sivc  porphirij  ex  cap.  I  com- 
menti. 

1  Del  codice  che  le  contiene,  per  il  quale  v.  la  nota  seguente,  il  Tira- 
boschi,  Stor.  della  lett.,  Milano.  1824,  VI,  parte  1\  p.  COI,  riporta  l'ai'li 
cit  seguente  •  Anno  Domini  1480  ;  prò  toto  anno  per  nos  Laurent  ium 
Buonincontrum  Miniatensem  et  Magistrum  Camillum  Lunardum  I' 
renscm  anno  Domini  suprascripto,  nobis  existentibus  ad  servitia  III.  Dom. 
Constantii  Sfortia.  In  queste  «  importantissime  >  tavole,  scrivi    \.  Bua 
La  geogr.  alla  corte  arag.,  in  Najwli  nobilissima,  [991,  p.  75  —  «sono  con 
tenute    minute    osservazioni  da  lui  (il  Hon.)  fatte  prima  in  varii   laogM,  e 
fra  le  altre  quelle  relative  alla  latitudine  e-  alla  longitudine  della  città  di 
Napoli  ». 

*  È  il  codice  Kstense  lat.  n."  40S,  segnato  «.  K.  G,  18,  miscellaneo,  nel 
quale   il   primo  dei  nostri  sentii,  cine  l'A  iip.i  le  86. 

e  il  secondo,  cioè  il    l><    1)i  ac  potestate  de.   le  OC   Sii  B6b;   mentre  I. 
bulae  sopra  ricordate  tengono  le  OC.   IOSa-116b.  licitilo  la  notizia  di  questo 
codice  ad  un  ottimo  conoscitore  dell' Kstense,  al  dottor  QIlHo  l'.crtnni,  eh. 
vivamente  ringrazio  dell'aiuto  cortese. 

»  S.  Borrir»,  11  «  De  principiis  astrologiae  »  di  Cecco  d'Ascoli,  in  Giorn. 
storico,  Sappi  <!*',  p.  7. 


LOKKNZO  BON1NCONTUI  137 

e  non  è  impossibile  che  l' esponesse  appunto  a  Firenze  allo 
Studio,  o  a  Pesaro,  il  Bonipcontri  ;  di  guisa  che  il  testo  estense 
può  ben  ritenersi  la  bozza  di  codeste  pubbliche  lezioni.  11  se- 
condo trattatello  s' intitola  :  De  vi  ac  potestate  mentis  Imma- 
nità animaeque  motibus  et  eius  substantia,  e  potrebbe,  in  chi 
non  lo  conosca,  far  nascere  il  sospetto  eh'  esso  sia  un  vero 
trattato  di  psicologia,  probabilmente  astrologica.  In  realtà  è 
una  breve  raccolta  di  definizioni  dell' anima  e  de' suoi  attri- 
buti, distribuita  secondo  le  principali  scuole  filosofiche,  uno 
zibaldone  di  undici  facciate  di  scarsissimo  valore,  da  riferirsi, 
essendo  ancor  esso  senza  data,  per  ragioni  interne  agli  anni 
1475-80. 

Astrologici  e  pratici  sono  in  ultimo  due  pronostici,  due  soli 
rimasti  dei  molti  che  senza  dubbio  scrisse  Lorenzo  nella  sua 
lunga  carriera,  e  che  io  qui,  non  per  ragioni  di  cronologia,  che 
di  essi  ignoro  la  data,  ma  per  opportunità  di  trattazione  e  per 
analogia  d'argomento,  non  voglio  tralasciar  di  segnalare.1  E 
passo  ad  un'altra  categoria  di  lavori  boniucontriani,  di  carat- 
tere non  astrologico,  che  fruttarono  a  chi  li  scrisse  il  postumo 
onore  d'esser  compreso  fra  gli  Scriptores  muratoriani. 

Di  tali  scritti  il  primo  per  ordine  di  tempo  è  quello  inti- 
tolato Annales,  composto  da  Lorenzo  durante  il  soggiorno  na- 
poletano, e  ultimato  poco  dopo  la  morte  di  re  Alfonso.  In  esso 
l'autore  espone  la  storia  d'Italia  dal  903  al  1458,  a  larghi 
tratti  e  servendosi  di  fonti  molto  note  per  la  parte  piti  antica, 
mostrando  invece  maggior  sicurezza  in  ciò  ohe  riguarda  il  se- 
colo pili  vicino.2  La  materia  ò  distribuita  in  dieci  libri,  i  quali 
per  il  Bonincontri  formarono  in  seguito  la  base  e  quasi  il  ma- 
gazzino della  sua  erudizione  storica;  infatti  ad  essi  egli  at- 
tinse poi  senza  esitanza,  quando  dalle  esigenze  cortigianesche 
era  indotto  a  nuovi  lavori.  Tale  una  storia  dei  re  di   Napoli 

1  Tabulae  codiami  inumiseli /dormii  etc.  m  Jiibliotheca  palatina  Vin- 
dobonensi   asservatorum,  Vindobonae,  1864-78,  IV,  cod.  5002,  7,  e  VI,  cod.  ' 
10650,  6. 

-  eli  Annales  si  trovano  per  intero  in  una  copia  tarda,  cioè  nel  codice 
Magliabechiano  Strozziano  XXV,  669.  II  Muiutori,  Scriptores,  voi.  XXI,  p.  l 
sì_'lt.,  ritenendo  la  prima  parte  una  derivazione  dal  Villani,  ne  pubblicò,  da 
un  codice  di  San  Miniato,  solo  i  libri  che  trattauo  degli  auni  1340-1468. 


138  CAPITOLO  SECONDO 

e  di  Sicilia  dai  Normanni  agli  Aragonesi,  composta  durante  il 
regno  di  Ferdinando,  dedicata  ad  Antonello  Petrucci.  Essa  si 
componeva  di  nove  libri  ;  ai  quali  iu  appresso,  sia  per  i  ma- 
teriali in  parte  raccolti,  sia  per  i  nuovi  fatti  accaduti  nel  Re- 
gno durante  gli  anni  che  tennero  dietro  alla  prima  composi- 
zione, lo  scrittore  ne  aggiunse  un  decimo,  a  mo'  d' appendice.  ' 
Cosi  il  soggiorno  alla  corte  sforzesca  di  Pesaro  spinse  il  Bo- 
nincontri  a  ricorrere  agli  Annali,  per  ripescarvi  la  vita  di 
Muzio  Attendolo,  sparsa  in  più  capitoli.  Volle  tuttavia  il  de- 
stino che  il  lavoro  di  compilazione  venisse  violentemente  in- 
terrotto nel  1483,  per  le  ragioni  più  sopra  ricordate  ;  dimodo- 
ché solo  dopo  il  1484,  essendosi  il  Nostro  imbattuto  a  lioma 
nel  cugino  di  Costanzo,  cioè  nel  cardinale  Ascanio,  legato  pon- 
tificio a  Bologna,  rinacque  in  lui  l'idea  dell'operetta.  E  la 
compi,  dedicandola  al  suddetto  cardinale,  nell'anno  seguente, 
col  titolo  di  Sforciae  vita.  2 

1  II  Muratori,  Scriptores,  XXI,  p.  5,  dà  i  titoli  di  ciascuno  dei  nove  libri. 
I  libri  V,  VI  e  VII  furono  pubblicati  dal  Lami,  Deliciae  eruditorum,  Floren- 
tiae,  mdccxxxix,  tomi  VI  e  VIII,  sotto  il  titolo  di  Historturum  utriusquc  Si- 
dìiae  libri.  Quanto  al  libro  X,  che  dovrebbe  contenere  i  fatti  posteriori  al 
1486,  non  fu  pubblicato  mai,  né  rintracciato  manoscritto.  Che  esso  si  do- 
vesse comporre,  si  desumo  da  una  promessa  esplicita  dell'autore,  il  quale 
scriveva  in  fine  del  libro  IX:  «  Ce  te  rum  Àlphonsi  acta  alio  volumiue  inf- 
ronda cimi  ceterorum  principum  gestis  decrevimus  »;  e  che  sia  stato  i 
ti  va. in  ii  te  composto  si  appreude  da  un  passo  già  cit.  del  Comtncnto  ai  due 
poemi,  a  e.  63a,  dove  a  proposito  di  re  Ferdinando  (del  quale  non  possono 
parlare  gli  Annales,  che  s'arrestino  al  1458)  dice  di  sé  l'autore:  «vera 
esse  vidit,  quae  scribit,  uti  in  sua  historia  intexuit>. 

8  La  Vita  si  conserva  nel  codice  latino  11088  della  Nazionale  di  Parigi, 
dal  quale  trascrivo  volentieri  la  lettera  proemiale,  perché  ad  essa  si  attin- 
gono i  criteri  per  la  datazione  di  quest'  operetta  non  solo,  ma  anche  del 
passaggio  del  Nostro  da  Pesaro  a  Roma  e  del  suo  insegnamento  romano.  — 
Laurentij  Bonincontrij  Miniatcnsis  poiitae  Sforciae  vita  ad  Hl.m  et  It- 
iti Christo  patrem  et  <i.„.„„  Ascanium  Mariani  sanctorum  Viti  et  Modesti 
in  macello  Martirum  Diacono  Cardinali  Sforciae  Vicecomitj  lìononiae- 
que  Legttto  IKgnissimo.  —  Statucram  paucis  autea  annis,  111.""  et  R.»c  Ascani, 
Sforciae  avi  tui  fortissimi  et  plagiarissimi  virj  rcs  gesta»,  Annalibus  noti 
inserta-,  in  unum  volumeu  redigere  et  ad  ipsius  et  silurimi  perpetuai»  ui<- 
moriain  lieteris  demandare  ;  seil  verebar  ne,  rerum  ab  se  gestarum  pondero 
oppressus,  ingeuij  mei  tenni tatem  magis  detegerem,  quam  solereiam  (lemmi - 
strarein.  Nec  me  latebat,  ut  de  rebus  magnis  loqui  cuique  liberimi  est,  ita 
et  temerarium,  fore  complurcs  qui  mihi  arroganciae  vicinili  Inponorent, 
qui  tam  e.\ili  atque  conciso  oracionis  stilo,  tam  pracclarissimi  viri  res  gè- 


LORENZO  BONINCONTRI  139 

Però  la  breve  monografia  storica  sullo  Sforza  non  ha  grande 
importanza,  e  costituisce  quasi  un  intermezzo  cronologico  fra  le 
opere  della  maturità  del  Bonincontri  e  quelle  della  vecchiaia  ; 
ò  frutto  dell'  opportunità  del  momento,  né  dovette  distrarre  se- 
riamente l'autore  dalla  composizione  dei  più  notevoli  lavori 
senili.  I  quali,  in  numero  di  tre,  vanno  ascritti  ai  sette  anni 
del  soggiorno  romano,  cioè  al  termine  estremo  della  vita  del 
Nostro  ;  dalla  qual  condizione  ritraggono  naturalmente  un'  im- 
pronta particolare.  Hanno  essi  infatti  un  carattere  comune,  in 
quanto  ciascuno  di  essi  rappresenta  l'epilogo  non  inglorioso 
d'una  delle  tre  principali  classi  di  opere  anteriori  ;  quasi  che 
da  vecchio  il  poeta,  l'erudito  e  l'astrologo  abbiano  atteso,  cia- 
scuno per  parte  sua,  a  raccogliere  le  fila  della  lunga  e  ricca 
trama  dell'operosità  giovanile  e  virile. 

Della  prima  di  codeste  opere  basta  che  qui  io  ricordi  il 
titolo  e  qualche  notizia  generale,  avendone  parlato  già  di  pro- 
posito e  con  larghezza  in  altra  occasione.1  È  una  raccolta  di 
poesie  religiose,  parte  in  distici  elegiaci  e  parte  in  metri  li- 
rici, con  prevalenza  del  sistema  saffico  minore,  distribuita  in 

stas  parvo  libello  deniaudarem  ;  quanquara  ab  hac  re  III.  C.  Sforciae  sobrinj 
tuj  virj  omnium  laude  dignissimi  iussio  liberavit.  Nani  qui  iussus  aliquid 
agit,  non  tara  sua  sponte  id  facere  videtur,  quam  praecipientis  parere  man- 
dato. Quare  cum  id  agere  coepissem,  eius  immatura  mors  et  vix  degustata 
iuventa  omnes  ineas  cogitationes  consiliaque  omnia  perturbavit.  Nam  tam 
et  tanto  Ill.mo  viro  orbatus,  rei  etiam  familiari»  necessitate  compulsus,  non 
solimi  destiti  ab  incepto,  sed  Romani  petere  sum  coactus.  dunque,  duobus 
iam  annis  elapsis,  lectioni  Astrologiae  mihi  publice  demandatae  vacacio  da- 
retur,  pestilencia  etiam  increbrescente,  non  fuit  consilium  secordia  tempus 
terere.  Senio  insuper  gravatus,  statui  sarcinulas  meas  colligere.  Quod  cum 
ad  decus  laureae  meae,  timi  ad  immortalitatem  nominis  propagandam,  quod 
deseruoram  peragendum  suscepi.  Cumque  cogitarem  cuinain  hoc  opus  de- 
8tinarem,  tu  in  primis  mihi  occurris,  quem  bonis  artibus  plurimum  delectari 
intelligebam,  et  omnium  bonarum  arcium  studiosos  stimma  cantate  et  libe- 
ralitate  maiori  ab  te  fuisse  susceptos  atque  adiutos.  Accipe  igitur,  IUme  et 
R.mo  pater  et  domine,  Sforciae  avj  tuj  vitam  ex  Annali  bus  mela  pene  totani 
excerptam  ;  parvum  profecto  uiunus  et  vix  mea  aetate  dignum.  Quod  qua- 
lt'cumque  sit  tuo  nomini  dedicamus  et  censurae  tuae  castigaudum  vindican- 
domque  relinquimus.  Quod  si  videbitur  Laurencio  et  amplitudini  tuae  di- 
gnum, cum  ceteris  tuae  bibliothucau  libri»  poteris  collocare.  Lege  feliciter 
et  bene  vale. 

1  Nello  studio,  Gl'inni  sacri  d'un  astrologo  del  Rinascimento,  cit.,  dove 
ho  raccolto  tutte  le  notizie  critiche  riguardanti  i  Fasti  e  il  loro  valore. 


140  CAPITOLO  SECONDO 

quattro  libri.  Il  titolo,  che  ne  designa  ad  un  tempo  anche  il 
contenuto,  suona:  Dierum  solennium  Christianae  Religionis 
l.  un.  Fu  suggerita  da  Sisto  IV;  e  poi  ripresa  e  compiuta 
alcun  tempo  dopo  la  morte  del  papa,  per  rendere  omaggio 
alla  benevolenza  del  cardinale  Giuliano  della  Rovere.  La  data 
—  di  essa  già  abbiamo  toccato  nella  biografia  —  ne  e  triplice, 
secondo  che  si  badi  al  concepimento,  che  è  del  1484,  o  alla 
ripresa,  dopo  breve  interruzione,  che  va  portata  fin  verso  il 
termine  di  quel  decennio,  o  al  compimento  e  alla  pubblica- 
zione che  sono  del  1491.  Degno  di  nota  è  questo  libretto, 
chiamato  anche  dei  Fasti,  per  più  ragioni  :  e  per  l'arte  onde 
son  tratteggiati  poeticamente  i  racconti  sacri  della  sua  fonte, 
Iacopo  da  Varazze,  e  per  la  disinvolta  sicurezza  del  distico  ele- 
giaco e  della  strofa  saffica,  e  di  qualche  metro  lirico  meno 
comune  ;  in  secondo  luogo  per  il  sentimento  religioso,  che  si 
afferma  in  tutto  il  libro  con  la  più  sincera  spontaneità  ;  final- 
mente —  ciò  che  a  noi  più  convien  di  rilevare  —  per  T  ele- 
mento astrologico,  il  quale  in  più  maniere  riesce  a  mani  Te- 
starsi anche  iu  quest'operetta.  Esso  si  manifesta  in  quelle 
parti  astronomiche  che,  quasi  trama  di  tutto  il  quadro,  sud- 
dividono l'anno  religioso  in  periodi  minori,  determinando  con 
le  stagioni  le  feste  del  culto,  e  stabiliscono  perciò  tra  le  solen- 
nità della  Chiesa  e  le  varie  figurazioni  astrali  degli  stretti 
rapporti.  Si  manifesta  ancora  in  una  proposizione  pregiudi- 
ziale, che  l'autore,  coerente  alla  tradizione  astrologica  da  più 
secoli  cristianizzata,  non  esita  a  formulare  fin  dalla  prima 
poesia,  eh' è  un  inno  a  Dio  Padre,  libero  signore  del  mondo, 
e  quindi  anche  degli  astri  e  degl' influssi  : 

Te  duce,  uilulgeut  Jovis  astra  coelo, 
Reddis  et  claruin  Veneri  nitorein, 
Atque  Fortunaui  variare  cogis 

luiìllKl    SUIIIIUÌS.    ' 

Né  bisogna  tacere  che  della  pregiudiziale  teologica  il  vecchio 
poeta  si  serve  assai  largamente  e  forse,  per  un  astrologo,  ino 
prudentemente,  quando  scema  agi' indussi  il  loro  carattere  «li 

1   Fusti,  I,   I,  v.  41-44,  riportato  amlie  nel  mio  «imito  ni.,   p.    i 


LORENZO  BONINCONTRI  141 

fatalità  assoluta,  e  li  riduce  all'ufficio  di  flabelli  divini  sopra 
le  colpe  del  mondo,  espiabili  colla  penitenza  e  domabili  coi 
miracoli  dei  santi.  Curiosa  è  in  ultimo  una  singolare  colora- 
zione sacra  assunta  qui  dalla  mitologia  celeste,  onde,  per 
esempio,  l'Angue  die  s'avvolge  intorno  alle  due  Orse,  non  è 
più  l'idra  di  Lerna,  bensi 

ille  malus  serpens,  qui  compulit  Evam 
In  laqueos  vitae  perfragilesquo  vices  ; l 

e  l'Aquila  non  è  più  l'uccello  che  rapi  Ganimede  ai  piaceri 
di  Giove,  ma  il  sacro  simbolo  dell'  evangelista  Giovanni. 

11  secondo  scritto  senile  non  ci  riesce  nuovo.  Abbiamo, 
nel  mettere  insieme  la  biografia  del  Bonincontri,  citato  più 
volte  un  Commento  conservatoci  da  un  codice  vaticano,  il 
quale  esattamente  porta  il  duplice  titolo:  Lau.  Bonincontri 
commentarla  in  suos  libros  rerum  divinarum  et  naturalium 
ad  Laurentium  Medicem  ;  e  Commentaria  in  tres  libros  de 
rebus  celestibu*  Laur.  Bonincontri  ad  Ferdinandum  regcm.  2 
Esso  è  dunque,  come  indicano  queste  parole,  una  compiuta, 
estesa  illustrazione  dei  due  poemi,  ricca  di  notizie  storiche  e 
specialmente  copiosa  nel  riferimento  delle  fonti  ;  è  una  esegesi 
simile  a  quella  composta  dal  Nostro  intorno  all'opera  di  Ma- 
nilio. Non  ha  pregi  di  forma,  né  ostenta  minimamente  qualità 
artistiche,  dimodoché  ben  lo  si  può  definire  uno  zibaldone, 
scritto  alla  lesta,  con  semplice  intento  scientifico  :  intento  che 
si  può  dire  raggiunto,  con  grande  vantaggio  delle  nostre  ricer- 
che critiche.  La  sua  composizione,  come  si  ricava  da  più  luoghi 
del  testo,  è  da  porsi  fra  il  1484  ed  il  1487  circa.3 

i  Fasti,  i,  io,  v.  u-12. 

*  Codice  Vaticinio  latino  3846,  cartaceo,  in-folio,  di  ce.  142.  Non  è  auto- 
grafo, ma  di  mano  d'  un  amanuense  evidentemente  poco  esperto,  con  fre- 
quenti errori  di  trascrizione.  Non  riporta  il  testo  poetico,  ma  i  soli  richiami 
alle  parole  iniziali  di  ciascun  verso  commentato.  Dei  due  titoli,  il  primo 
la,  ed  il  secondo  a  e.  68a. 

3  I  dati  storici,  clic  abbiamo  ricordati  nella  biografia  come  attinti  al 
Commento,  stanno  a  provare  che  il  principio  della  compilazione  di  questo 
non  può  essere  riportato  oltre  la  venuta  del  Bonincontri  a  Rom.i.  Per  il  ter- 
mine ad  quetn  piova  citare  il  passo  seguente,  che  si  trova  a  e.  lllh.  cioè 
verso  la  fine  dell'opera,  ed  è  presumibilmente  dell' ultimo  anno  di  compo- 


142  CAPITOLO  SECONDO 

Viene  in  ultimo  un'  opera  propriamente  scientifica,  di- 
cendo della  quale  potrem  chiudere  la  serie  degli  scritti  mi- 
nori. Essa  è,  nella  sua  composizione  definitiva  (31  luglio  1491), 
lo  scritto  più  recente  di  Lorenzo,  di  proporzioni  discrete  e 
molto  importante  perché  rappresenta  quasi  l'epilogo  del  pen- 
siero astrologico  di  lui.  Ebbe  una  preparazione  laboriosa,  della 
quale  fortunatamente  siamo  riusciti  a  ricostruire  la  storia.  Ci 
sono  infatti  nella  compilazione  di  essa  tre  periodi,  il  primo 
dei  quali  risale  fino  all'anno  1477,  ed  è  rappresentato  da  que- 
gli Excerpta  ex  quatripartito  ptholomei,  di  cui  abbiamo  fatta 
espressa  menzione  a  suo  luogo.  In  questo  periodo  non  tro- 
viamo, come  s'è  notato,  se  non  i  materiali  dell'opera,  accu- 
mulati, ordinati,  ma  nudi.  Il  secondo  periodo  ò  di  molto  p 
riore,  ed  è  rappresentato  da  un  Tractatus  electionum  terminato 
«  duodecima  Maij,  anno  incarnationis  1489  »,  cioè  nel  tempo 
del  soggiorno  del  Nostro  a  Koma  e  del  suo  ultimo  insegna- 
mento universitario. ì  È  preceduto  da  una  lettera  di  dedica  ad 


sizione  :  «  Maia,  Mercuri i  mater,  cuius  stella  est  in  constellatioae  Brada», 
qnae  constellatio  nostro  tempore  1487  est  prope  xx  tauri  pattern  et  non  in 
fronte  ut  oliin  erat  ».  Un  altro  passo,  a  e.  106a,  riporta  una  strofa  della 
prima  saffica  dei  Fasti,  ma  la  cita  come  appartenente  ad  un  unico  fatto- 
rum  libro,  cioè  secondo  la  redazione  primitiva  che  è,  come  abbiamo  ve- 
duto, del  1484,  e  non  già  secondo  la  definitiva  del  1491  ;  non  si  oppone 
ninnili  alla  datazione  da  noi  stabilita,  anzi  la  riconferma. 

1  11  manoscritto,  che  per  intero  ce  lo  conserva,  è  il  Vaticano  Regina  1 1 1">. 
cartaceo,  del  sec.  xvi,  miscellaneo.  Il  Tractatus  occupa  le  ce.  886a 
ed  ha  come  explicit  la  data  da  noi  riferita.  Subito  dopo  il  titolo  in  questo 
codice  viene,  come  da  noi  è  avvertito,  Dna  €  Epistola  anetoris  ad  Cardina- 
lem  quendam  »,  che  comincia  :  «  Solent  plerumque  liomines  etc.  ».  Una  parte 
dell'operetta  si  trova  pure  nel  Marciano  Vili,  76,  della  Nazionale  di  Vene- 
zia, a  ce.  lOOb-lllb.  Il  marciano  è  membranaceo,  della  fine  del 
dei  primissimi  del  xvi,  non  autografo,  e  contiene,  oltre  la  presente,  altre 
tre  opere,  o  frammenti  d'opere,  del  Honincontri.  Importante  per  l'età  a  cui 
risale,  esso  ci  offre  nell'  incipit  del  nostro  Tractatit*  l'indicazione  :  «  ail  ili. 
e.  s.  »,  che.  pai  analogia  eoa  I1  incipit  dello  scritto  immediatamente  pro- 
cedente, ebe  è  dedicato*  ad  ili.  e.  Slortiam  »,  è  di  agevole  interpreta/ione. 
Una  raccolta  preparatoria  di  materiali  per  la  composisione  del  Truck 
con  derivazioni  singolarmente  da  uno  scritto  di  Qnido  l'.onatti,  trovasi  pure 
nidi'  Kstense  hit.  n.°  408,  già  citato,  nel  quale  a  e.  la  si  legge:  «  Saldi  l'o- 
liati adliresiacio  t|iiaedam  utilis  de  rerolnoioaibu  annorum  mundi  et  nati- 
vi tatù  m  ae  etiain  alioruin  sapientuin  dieta  per  me  Laa.  Ronineontruni  Mi- 
uiatensem  eolecta  ». 


LORENZO  BONINCONTRI  143 

on  cardinale,  che,  se  dobbiam  credere  all'  affermazione  d' un 
codice  Marciano  autorevole,  è  lo  stesso  Ascanio  Sforza,  a  cui 
Lorenzo  avea  prima  dedicata  la  Vita  di  Muzio  Attendolo. 
È  suddiviso  in  dodici  parti,  secondo  le  dodici  case  zodiacali 
del  cielo,  per  ciascuna  delle  quali  si  riporta  il  brano  corrispon- 
dente del  Quadripartito,  qui  giudicato  non  interamente  tole- 
maico, quindi  i  passi  analoghi  del  Centiloquio,  e  finalmente  la 
trattazione  originale  del  Bonincontri.  Tutto  il  manualetto,  che 
cosi  ben  può  intitolarsi  il  Tractatus,  fa  capo  ad  un  quesito, 
del  quale  si  tenta,  ma  non  si  raggiunge,  una  soluzione  netta 
e  precisa:  il  quesito  delle  predizioni  singolari.  In  altri 
termini,  il  vario  e  scelto  materiale  antico,  le  acute  osserva- 
zioni nuove  dell'autore,  tendono  a  provare  che  per  ogni  sin- 
gola posizione  del  cielo  determinabile  colla  teoria  delle  case, 
è  possibile  l'interpretazione  dell'influsso;  ciò  che  da  molti 
era  negato.  Ma  la  risposta  incerta,  come  ho  detto,  lasciò  insod- 
disfatto anche  Lorenzo,  il  quale  presto  pensò  a  rimaneggiare 
l'opera  imperfetta,  e  compose  il  Tractatus  revolutionum  anno- 
rum,  nativitatum  et  interrogationum,  detto  pure,  per  distin- 
guerlo dai  due  precedenti,  Integer  tractatus  de  revolutionibus 
nativitatum.  È  questa  la  terza  redazione,  quella  del  1491, 
compiuta  l'ultimo  giorno  di  luglio,  e,  se  anche  in  questo  caso 
vogliam  credere  all'autorevole  codice  Marciano  già  visto,  de- 
dicata a  Giovanni  Sforza  signore  di  Pesaro. l 

1  Secondo  il  Mazzuchelli,  Scrittori,  II,  parte  IVa,  p.  2393,  questo  scritto 
bonincontriano  fu  anche  impresso,  senz'  alcuna  nota  di  stampa,  in-8°  e  de- 
dicato —  dall'editore?  —  «  ad  F.  Colotium  Regium  Consiliarium  ».  A  me 
venne  fatto  di  leggerlo  nel  codice  latino  7417  della  Nazionale  di  Parigi,  una 
miscellanea  del  sec.  xvi,  dove  lo  si  trova  a  ce.  176a-221a.  In  un  altro  ma- 
noscritto lo  si  conserva  a  Vienna,  come  si  apprende  dalle  Tabulae  codicum 
etc,  cit.,  IV,  cod.  5503,  14.  Finalmente  lo  si  incontra  a  ce.  la-62a  del  ri- 
cordato Marciano  Vili,  76.  La  designazione  di  Integer  tractatus  appartiene 
al  Parigino,  il  quale  nell'  explicit  ci  conserva  pure  la  data  del  1491,  però 
senza  indicazione  del  mese.  Invece  il  Marciano  meglio  ci  informa  del- 
l'epoca e  del  luogo,  non  solo  avvertendo  che  Lorenzo  compi  l'opera  «  Ro- 
mae,  ultima  iulii  1491,  annum  agens  secundum  et  octogesimuin  »,  ma  in  una 
nota  insegnandoci  che  in  un  codice  migliore,  cioè  in  quello,  nientemeno, 
di  dedica,  si  leggeva  1'  incipit  in  questi  termini  :  «  Opus  eximiuin  celeber- 
rimi astronomi  domini  Laurent ii  Bonincontri  miniatensis,  ad  inciytum  Joan- 
nein  Sfortiam,  l'isauri  principein,  de  revolutionibus  etc.  »  K  poiché  son  die- 


144  CAPITOLO  SECONDO 

La  trattazione  vi  si  svolge  in  due  parti  distinte,  che  for- 
mano appunto  due  libri.  La  prima,  o  parte  espositiva,  discnte 
il  quesito,  rimasto  insoluto  o  quasi  nei  periodi  precedenti,  e 
viene  ad  una  conclusione  intermedia  fra  la  recisa  negazione  e 
l'affermazione  assoluta.  Vi  si  legge  infatti  il  brano  seguente, 
ispirato  alla  massima  prudenza  :  «  Ego  autem  dico  hanc  rem, 
quoniam  nimis  ad  particularia  descendit,  esse  cuiiosiuribus  re- 
liquenda.  Iuxta  Ptholomei  doetrinam  non  debcmus  ad  partieu- 
laria  condescendere,  sed  ad  ea  qnae  commode  sciri  possunt. 
neque  esse  ad  omnia  descendendum  ». l  Però  dopo  rione  il 
temperamento,  molto  abilmente  desunto  dalle  stesse  restrizioni 
tolemaiche,  le  quali,  chi  ben  le  osservi,  non  negano  la  |> 
bilità,  ma  solo  la  facilità  delle  predizioni  singolari.  Posto  adun- 
que che  queste  sian  possibili,  per  quanto  ardue,  è  compito  del- 
l'astrologo il  tentarle;  e  la  via  migliore  per  il  tentativo  è  l'etti 
tozza  dei  calcoli  matematici  applicati  all'astronomia  ed  alla 
scienza  del  calendario,  onde  si  elimini  qualsiasi  causa  d'er- 
rore. Si  passa  in  questo  modo  alla  seconda  parte  dell'opera, 
cioè  alla  questione  astronomica  pura,  la  quale  forma  il  piano 
d'una  serie  di  tavole  e  di  numeri,  del  cui  valore  scientifico 
non  sono  in  grado  di  sentenziare. 


IV. 


Chi  mi  ha  seguito  in  questa  lunga,  per  quanto  sommaria, 
enumerazione  di  opere,  deve  essersi  fatta  oramai  un'idea  ade- 
guata dell'importanza  del   Honincontri  nella   vita  filosofica  e 


tro  a  parlar  di  lineato  OOdiee,  aggiungerò  che  in  esso,  oltre  ai  lini*  trattiti 

del  (piali  discorriamo,  si  trovano  dne  altre  raccolte  di  scateni I  aforismi 

riferiti  a  LOTSAM,  a  oc.  Ma  7'.>:i,  ed  a  ce.  79b  l<x>l>.  La  prima  'li  esse,  de 
dieata  a  Otovaanl  Sforna,  è  un  estratti»,  che  potrebbe  anche  attribuirsi  al* 

l'autore,  da  altro  opere  note  e  specialmente  dall'  Intnirr  trartatns;  la  «e- 
c.nnla,  dedicata  al  cardinale  kscanlo,  un  estratto  specialmente  dal  Traci 
eieetionum. 

1  Cod.   latino  7417  della  \az.  di   Pari-i.  e.  208a. 


LORENZO  BONINCONTRI  145 

letteraria  del  Quattrocento,  e  converrà  certo  meco  nel  giudi- 
zio che  del  nostro  astrologo  ho  dato  fin  dal  principio,  cioè  fin 
da  quando  ho  fatto  per  la  prima  volta  il  nome  di  lui.  Invero 
fu  duplice  lo  scopo  per  cui  non  ho  risparmiato  a  me  la  fatica, 
al  lettore  il  tedio  della  diligente  rassegna:  ho  voluto,  come 
avevo  promesso,  lumeggiar  la  figura  del  mio  autore  da  ogni 
lato,  integralmente;  poi  ho  desiderato  che  tutto  ciò  che  nella 
vita  e  nel  pensiero  di  lui  ebbe  dei  rapporti  col  problema  astro- 
logico, e  per  conseguenza  coi  poemi  scientifici,  venisse  toccato 
in  ordine  cronologico,  il  più  evidente  degli  ordini  di  studio 
quando  si  tratti  di  documenti  prima  ignoti,  numerosi  e  d'un 
genere  poco  comune.  Ho  preparato  in  questo  modo  il  terreno 
e  classificato  i  materiali  per  la  costruzione,  cioè  per  l'analisi 
critica  di  quelle  opere,  in  grazia  delle  quali  il  Miniatese  tiene 
un  posto  glorioso  fra  i  poeti  dell'  astrologia.  Ed  a  codesta 
analisi  critica  vengo  senz'altro,  e  pongo  come  primo  punto 
d'osservazione  il  seguente  problema  :  —  conoscendo  che  pre- 
cipua occupazione  del  Bonincontri  fu  lo  studio  del  poema  di 
Manilio,  come  e  fino  a  qual  punto  il  poema  dello  stoico  è 
stato  dal  Nostro  indagato  e  compreso  ?  In  altri  termini, 
prendo  in  esame  uno  scritto  di  Lorenzo,  che  di  proposito  ho 
soltanto  nominato  nell'  elenco  suddetto,  il  Manilio  riveduto  e 
commentato. 

L'edizione  curata  dal  Bonincontri  non  è,  come  ognun  sa, 
l'edizione  principe  degli  Astronomici.  Un  celebre  astronomo 
tedesco,  del  quale  è  occorso  anche  a  noi  di  fare  il  nome  po- 
che pagine  addietro,  fin  dagli  anni  1472-73  aveva  pensato  di 
pubblicarli  ;  dico  del  Regiomontano  e  della  sua  stampa,  uscita 
in  piccolo,  nitido,  elegante  formato  a  Norimberga,  e  condotta 
sopra  una  copia  di  quel  codice  di  San  Gallo,  che,  come  ab- 
biamo più  volte  ripetuto,  era  stato  scoperto  nel  1416.  Natu- 
ralmente 1'  esemplare  manoscritto,  che  pare  fosse  stato  fornito 
all'editore  dal  Toscanelli,  determinò  la  prima  redazione  a 
stampa,  secondo  il  testo  guasto  e  lacunoso  del  Poggio  ;  l  testo 

1  L' ipotesi  del  dono  fatto  al  Regiomontano  dal  Toscanelli  è  di  G.  Uziilli, 
Paolo  del  Pozzo  Toscanelli  iniziatore  della  scoperta  d'America,  Firenze, 

Soldati  10 


146  CAPITOLO  SECONDO 

che  venne  integralmente  riprodotto  a  Bologna  nel  1474  l  ed  a 
Napoli,  credesi,  nel  1475. 2  Un'edizione  e  due  ristampe  esiste- 
vano adunque  del  poema  maniliano,  quando  il  Bonincontri  si 
propose  di  farlo  uscire  nuovamente  alla  luce  non  solo  fornito 
d'un  commento  scientifico  e  letterario,  ma  anche  più  corretto 
nella  lezione.  La  redazione  di  lui  differisce  pertanto  dalle  prece- 
denti in  primo  luogo  per  il  testo,  in  cui  vennero  colmate  le  la- 
cune e  riveduti  i  passi  dubbi  od  errati  per  mezzo  d'una  diligente 
collazione  del  codice,  a  noi  già  noto,  di  Monte  Cassino,  e  con 


1892.  L'  edizioncina,  che  non  ò  diffìcile  trovare  nelle  nostre  biblioteche,  non 
ha  note,  e  porta,  unito  all'  explicit,  il  seguente  epigramma: 

«  Ridetur  merito  sciolorum  insana  caterva 

Vulgo  qui  vatum  nomina  surripiunt. 
Heus,  quicumque  velis  Latia  perdiscere  musa 

Sydereos  nutus  fallere  difflciles, 
Manilium  sedare  gravem,  qui  tempore  divi 

Floruit  Augusti.  Lector  amice,  vale. 

Ex  officina  Joannis  de  Regiomonte  habitantis  in  Nuremberga  oppido  Germa- 
niae  celebratissimo  ». 

1  II  Manilio  non  è  solo  in  questa  stampa,  ma  a  lui  si  accompagna  la 
traduzione  aratea  di  Cesare  Germanico.  L'  explicit  comune  è  il  seguente  : 
€  Bononia  inipressum  per  me  Ugonem  Rogerium  et  Dominum  Berthochum 
anno  domini  1474  die  vigesima  Martii.  Laus  Deo.  Amen  ».  Sopra  un  esem- 
plala di  questa  stampa  scrisse  il  Bonincontri  le  prime  postille,  che  poi,  ac- 
cresciute, diventarono  il  Commento.  Questo  esemplare  dicesi  esistesse  una 
volta  in  Laurenziana  (v.  Uziki.i.i,  op.  cit.).  Un  secondo  esemplare,  non  meno 
importante,  è  conservato  in  Riccardiana,  fra  i  libri  rari,  al  n.°  4:51.  Sull'  in- 
terno della  tavoletta  anteriore  della  legatura  porta  scritto  :  «  Bartholom.uj 
Fontij  et  amicorum  »,  onde  nasce  spontanea  l' ipotesi  eh'  esso  sia  appunto 
il  testo,  sul  quale  il  dotto  fiorentino  segui  allo  Studio  le  lezioni  del  Mi- 
niatese.  Ipotesi  avvalorata  dal  fatto,  che  nei  margini  di  detto  libro  - 
servano  numerose  annotazioni  manoscritte,  che  trovati  riscontro  nel  I 
mento  bonincontriano,  ed  alcune  anzi  portano  il  nome  del  maestro  :  serva 
d'esempio  per  tutte  questa  sola  citazione  della  postilla  al  lib.  II,  v. 
«  Quae  nunc  auctor  prosequitur  de  signis  dnplicibus  nullibi  repperiri  dici! 
Laurentina]  ».  Intorno  a  questo  curioso  documento  v.  alcuni  miei  appasti 
critici  in   divista  di  filoì.  ed  istr.  classica,  XXVIII,  2. 

'  Tanto  questa  edizione,   che   usci    dall'officina  di   .latine.    Hoei 
senza  data  d'impressione,  quanto  la  precedente,  sono  evidenti  di 
di  quella  di  Norimberga,  di  cui  riproducono  anche  l'epigramma  finali 
giungo,  a  titolo  di  curiositi   bibliografica,  che  altre  due  stampe  maatliaM 
uscirono,  dopo  quella  del  Bonincontri,  nel  sec.  xv  :  I'  una  senza  india 
di  luogo  e  d'anno,  e  l'altra  a  Milano,  in-folio,  nel    1489,  <  per    Antonium 
/unitimi  Parmensem  ». 


LORENZO  BONINCONTRI  147 

l'uso  prudente  della  critica  congetturale;1  in  secondo  luogo 
per  l'esegesi  astrologica,  filosofica  e  filologica,  fissata  per  la 
prima  volta  con  larghezza  e  di  proposito  da  Lorenzo  negli  anni 
del  suo  insegnamento  fiorentino,  ed  abbondantemente  ripro- 
dotta a  pie  di  pagina  e  nei  margini  della  stampa. 2  La  quale 
usci,  come  abbiam  detto  già,  in  Koma,  il  26  d'ottobre  del  1484, 
dedicata  al  cardinale  Raffaele  Riario. 

Quanto  alla  contenenza  critica,  la  prima  osservazione  che 
ci  cade  sott'  occhio  riguarda  le  notizie  storiche,  che  il  com- 
mentatore raccolse  intorno  al  poeta  latino  ed  espose  nella  Pre- 
fazione del  libro  suo  :  notizie  tutt'  altro  che  trascurabili,  giac- 
ché sono  desunte  da  quegli  stessi  accenni  cronologici  interni, 
intorno  ai  quali  si  affaticano  ancora  le  interpretazioni  degli 
studiosi  più  recenti.  È  infatti  merito  del  Bonincontri  l' aver 
sostituito  alla  forma  Mallio  delle  edizioni  anteriori  il  nome 
Manilio,  che  anche  oggi  è  ritenuto  più  sicuro,  e  d'aver  per- 
ciò esclusa  l'attestazione  di  Plinio,  secondo  la  quale  l'antico 
poeta  sarebbe  stato  uno  schiavo  orientale  ;  è  merito  suo  l'avere 
additato  come  utile  indizio  cronologico,  i  noti  versi  del  libro 
quarto,  nei  quali  si  accenna  al  soggiorno  di  Tiberio  nell'isola 
di  Rodi,  durante  gli  ultimi  anni  dell'  impero  di  Cesare  Augu- 
sto. Va  però  alquanto  lontano  dal  vero  il  nostro  astrologo, 
quando  vuole  che  quei  versi  provino  che  la  morte  di  Manilio 


1  Ecco  come  l'autore  stesso  nella  Prefazione  c'informa  della  fatica  com- 
piuta da  lui  e  dall'  amico  suo  Tolomeo  Gallina  intorno  ai  libri  maniliani  : 
«  Accepi  ab  Antonio  Panormita  viro  doctissimo  atque  poèta,  cum  Alphonsi 
temporibus  Neapoli  essem,  quosdam  quinterniones  valde  perturbatos  vetu- 
stissimosque,  quos  ex  bibliotheca  Cassinensi  se  accepisse  dicebat,  qnosque 
ni i li i  tradidit  dirigendos  ....  quos  ego  quinterniones  transcripsi  una  cum 
Ballina  Siculo,  in  quibus  etiam  quosdam  versus  pluribus  locis  inveni,  quos 
in  cxemplaribus  Poggii  aut  impressorum  deesse  cognovi. . .  .  Quos. . . .  cum 
Florentiae  conductus  legerem,  ut  potui,  emendavi  »,  Lau.  Bonino,  eto.  in  L. 
Monili  uni  Comentum,  e.  3b. 

2  Si  noti  bene  che,  quantunque  fissata  nella  forma  definitiva  dopo  il  1476, 
cioè  durante  l' insegnamento  fiorentino,  la  materia  del  Commento  venne  ra- 
dunata a  poco  a  poco  negli  anni  anteriori,  a  partire  probabilmente  dalla 
collazione  del  codice  cassinese,  che  risale,  come  dicono  le  parole  riportate 
nella  nota  precedente,  ai  tempi  di  re  Alfonso,  cioè  prima  del  1458:  tanta 
mole  di  notizie  e  di  citazioni  dovette  infatti  essere  il  risultato  di  letture 
lunghe  e  pazienti. 


148  CAPITOLO  SECONDO 

sia  da  porsi  prima  di  quella  d'Angusto:  quei  versi,  come  ognun 
sa,  ammettono  benissimo  che  il  poeta  sia  vissuto  e  sotto  il 
primo  e  sotto  il  secondo  imperatore  romano.  '  Egli  è  invece 
interamente  nel  giusto  quando  mette  in  rilievo  la  vasta  eru- 
dizione e  la  perizia  letteraria  del  suo  autore,  contrapponendosi 
all'opinion  di  certuni,  che  ne  volevano  fare  un  fanatico  ed  un 
mediocre  verseggiatore.  2 

Il  commento  che,  a  mo'  di  cornice  al  testo,  occupa  gli  ampi 
margini  del  libro,  è  condotto  in  forma  strettamente  esegetica, 
fìtto  di  citazioni  erudite,  abbondante  si  da  restringere  lo  spazio 
riservato  all'opera  maniliana  a  pochi  versi  per  pagina.  Non  è, 
per  verità,  tutto  e  sempre  d'un  medesimo  valore,  spesso  incon- 
trandovisi  osservazioni  di  scarsa  importanza  accanto  ad  altre 
acute  e  di  evidente  necessità.  Anche  i  nomi  degli  autori,  ai 
quali  il  Bonincontri  ricorre  sia  come  a  fonti  utili  per  l' intel- 
ligenza del  testo,  sia  per  cavarne  de'  raffronti  interessanti  con 
dottrine  posteriori,  appartengono  a  periodi  ed  a  campi  «iiffe- 
rentissimi.  Molto  egli  si  vale,  per  esempio,  delle  opere  fisiche 
d'Aristotele,  e  non  di  rado  si  richiama  a  Platone,  forse  per 
l'azione  esercitata  su  di  lui  dall'amicizia  del  Ficino,  come 
avrò  fra  breve  da  mostrare;  né  con  quel  di  Platone  dimen- 
tica i  nomi  di  Porfirio  e  di  Jamblico.  D'altra  parte  con  gran 
frequenza  cita  i  testi  sacri,  de' quali  mostra  una  pratica  non 
comune;  ed  i  Dottori  della  Chiesa,  primo  fra  tutti  aant* Ago- 
stino, la  sua  tavola  di  salvezza,  che  vorrebbe  sempre  lo  soste- 
nesse là  dove  il  rischio  d'una  affermazione  poco  ortodossa  lo 
fa  pili  circospetto  :  ricorda  in  molti  luoghi  anche  san  Girolamo. 
Sono  autori  suoi  nelle  questioni  scientifiche  Tolomeo  ed  Albu- 
masar;  per  la  storia  naturale  fa  largo  uso  di   Plinio,  per  la 


1  Astronomicon  IV,  v.  763-766.  Intorno  allo  stato  presenta  della  Mi- 
stione cronologica  maniliana  v.  il  già  cit.  atndio  di  F.  Ramorino.  Quo  ""- 
norum  spatio  M.  Astronomicon  libros  composuerit,  in  Studi  it.  di  filai, 
class.,  VI,  p.  828-362. 

*  K  interessante  notare  con  quanto  minor  entusiasmo  del  Boalaooatrl 
discorresse  di  Manilio,  specialmente  dal  punto  di  vista  letterario,  il  Borea- 
tino  Pietro  Crinito,  memore  forse  del  giudizio  del  sno  grande  maestro,  il 
Poliziano:  P.  Criniti,  DepoHis  latini*,  cap.  XLI,  in  Opera,  flenevae,  mdx(  \  m, 
p.  718. 


(LORENZO  BONINCONTBI  149 

mitologia  di  Igino,  di  Ovidio  e  a  volte  anche  d'Esiodo,  per 
tacer  di  Arato  co'  suoi  traduttori  latini  ;  riporta,  per  combat- 
terlo, come  vedremo,  Lucrezio,  e  si  compiace  quasi  ad  ogni  pie' 
sospinto  di  rammentare  i  fantastici  scritti  di  Ermete  Trisme- 
gisto  e  le  non  meno  meravigliose  elucubrazioni  di  Firmico  Ma- 
terno l'astrologo.  Naturale  è  infatti  che  in  quest'ultimo  il  Bo- 
niucontri  trovasse  larga  materia  per  utili  postille,  dal  momento 
che,  come  noi  sappiamo,  passarono  in  esso  tali  e  quali  molte 
delle  idee  di  Manilio,  salvi  i  commenti  e  le  aggiunte;  ma 
degna  d'esser  notata  è  la  circostanza  che  dei  plagi  non  de- 
nunciati il  Nostro  qua  e  là  s' accorge  e  non  tace,  come  in 
principio  del  quarto  libro  degli  Astronomici,  dove  esclama  : 
«  Julius  Firmicus  per  totum  primum  librum  sui  operis  ab  isto 
<  Manilii  >  omnia  excerpsit  et  tamen  nullam  huius  pogtae 
mentionem  fecit!  » 

Dalle  dissertazioni,  in  cui  si  manifesti  chiaramente  1'  opi- 
nione sua  personale  o  si  sviluppino  importanti  teorie  astrolo- 
giche, il  Bonincontri  generalmente  si  astiene;  il  suo  metodo 
esegetico  lo  induce  ad  esplicare  semplicemente  le  frasi,  i  vo- 
caboli alquanto  oscuri  del  suo  autore,  qualche  volta  nel  puro 
senso  filologico  letterale.  Ed  il  cumulo  delle  citazioni  erudite 
non  sempre  corrisponde  a  grande  profondità  di  vedute.  Onde 
se  ci  proponessimo  di  indagare  quale  atteggiamento  egli  prenda 
di  fronte  all'opinione  etica  e  fisica  di  Manilio,  temo  che  non  ci 
raccapezzeremmo  cosi  facilmente,  non  trovandosi  in  alcun  luogo 
un'  affermazione  tanto  recisa,  da  separare  il  pensiero  del  com- 

»mentatore  da  quello  dello  scrittore  antico.  Lorenzo  ama,  o, 
meglio,  ammira  il  suo  poeta,  cerca  di  lumeggiarne  le  teorie, 
spesso  pare  che  ne  prenda  le  difese  contro  i  reali  o  possibili 
assalti  degli  oppositori;  ma  ne  condivide  davvero  la  respon- 
sabilità morale  e  filosofica  ?  Ecco  ciò  che  non  appare  abba- 
stanza chiaramente  e  che  potrebbe,  con  opportuni  riscontri, 
venire  a  volta  a  volta  sostenuto  e  negato. 

^Un  punto  fondamentale,  sul  quale  il  Bonincontri  non  tra- 
scura d' insistere  ripetutamente,  è  questo  :  che  egli,  per  quanto 
studioso  appassionato  d' un  autore  pagano,  intende  di  non  var- 
care mai  i  limiti  della  pili  ossequente  ortodossia.  Onde  ver- 


150  CAPITOLO  SECONDO 

rebbe  la  conseguenza  logica  che  in  parecchi  casi,  anzi  nei 
brani  di  maggior  rilievo,  il  commento  suo  debba  atteggiarsi 
o  ad  esegesi  puramente  storica  ed  obbiettiva,  o  ad  opposizione 
aperta.  Il  guaio  si  è  che  la  famosa  dichiarazione,  come  ben 
fu  notato  per  altri  astrologi  di  non  dubbia  opinione  ereticale,  ' 
non  ha  valore  assoluto,  né  rispecchia  sinceramente  1" intima  co- 
scienza di  colui  che  la  scrisse;2  essa  è  un'insegna  menzognera, 
un  riparo  dalle  accuse  della  censura  ecclesiastica,  la  quale, 
come  sembra,  non  si  compiacque  sempre  di  smascherare,  a  ri- 
schio di  destar  degli  scandali,  tutti  gli  errori.  Bisognerà  per- 
ciò che,  lasciando  le  parole,  rivolgiamo  lo  sguardo  alle  idee, 
dove  queste  si  possono  cogliere  con  sufficiente  precisione,  e 
prendiamo  in  esame  i  passi  maniliani  più  caratteristici  dal 
punto  di  vista  teorico-astrologico. 

È  ovvio  in  primo  luogo  che  a  metà  del  primo  libro  (v.  483 
sgg.),  dove  il  poeta  stoico  vigorosamente  attacca  la  concezione 
atomistica  dell'universo,  il  commentatore  stia  per  l'assalitore 
Invero  lo  Stoicismo  è  assai  men  lontano  dalle  idee  cristiane 
almeno  per  ciò  che  si  riferisce  alla  concezione  d'un  Dio  crea 
tore  e  governatore  del  mondo,  che  non  l'Epicureismo;  ed  in 
tenzionalmente,  come  pur  ora  si  è  detto,  il  Bonincontri  è  cri 
stiano.  Ma  nel  famoso  proemio  del  libro  quarto,  dove  Manilio 
con  splendide  parole,  con  intonazione  quasi  sacerdotale,  svi- 
luppa e  porta  alle  ultime  conseguenze  la  teoria  fatalistica,  so- 
stenendola con  una  serie  di  esempì,  per  mezzo  dei  quali  trova 


1  Anche  Cecco  d'  Ascoli,  quando  si  trovava  a  mal  partito,  usciva  in  frasi 
piene  di  devozione  verso  la  provvidenza  divina,  in  aperto  contrasto  con  al- 
tre sue  affermazioni  condannate  dalla  Chiesa.  Vedi  0.  Bormo,  Il  «  J)e  prin- 
cipii8  astrologiae  »  di  C.  d'A.,  in  Giornale  storico,  Sappi.  6°,  p.  86-36. 

*  Anche  nella  chiusa  del  commento  honincontriano  al  Centiloquio  di 
Tolomeo,  contenuto  nel  cod.  Laurenziano  XXIX,  ft,  da  noi  ricordato  a  suo 
luogo,  si  legge,  a  proposito  delle  comete,  una  dichiarazione,  che  è  b«M 
trascrivere  testualmente,  come  saggio:  e  Isti  cometes  .  ...an  impediant  ar- 
bitrii libertatem  magna  quaestio  est.  Unde  cnm  fide  Catholica  .senti' 
diramila  cometas  magis  signa  esse  futurorum  accidentium  quatu  illorum  eau- 
sas.  Unde  bene,  pie,  iuste,  sancteque  viventes  non  timent  stellarmi!  aut  e<>- 
metarum  influxus,  quoniam  in  anima  rationali  non  possunt  qiiirquam  ope- 
ra ri.  Unde  ergo  dictum  et  scriptum  est  :  A  signis  caeli  nolite  metuere.  Deo 
igitur  laus,  honor  et  gloria  per  infinita  saecula  saeculorum.  Amen  ». 


LORENZO  BONINCONTRI  151 

modo  di  rievocare  i  più  grandi  avvenimenti  della  storia  ro- 
mana dalla  venuta  d'Enea  alla  disfatta  di  Varo;  ma  in  quel 
famoso  proemio,  ove  davvero  è  il  nodo  della  questione  morale 
dtir astrologia,  c'era  per  il  pensiero  del  Miniatese  la  pietra  di 
paragone.  Ebbene,  in  codesta  occasione  il  suo  modo  di  pensare 
non  può  essere  dubbio:  egli  sta  coi  filosofi  del  Cristianesimo. 
Egli  non  si  nasconde  infatti  il  rischio  a  cui  si  espone  trat- 
tando di  quella  necessità  dell'  influsso,  «  de  qua  tam  multa 
nostri  theologi  disputant  »  ; l  pare  anzi,  da  certi  indizi  anche 
esteriori,  2  eh'  egli  si  circondi  d' ogni  cautela  per  non  cadere 
nei  due  estremi,  o  di  venir  meno  all'  ammirazione  per  Mani- 
lio, o  di  scivolare  neir  eresia.  Esordisce  perciò  con  una  dichiara- 
zione, che  è  bene  riportare  testualmente:  «  Haec  litera  est 
tota  aurea  et  bene  camminenda  memoriae  et  non  indiget 
multa  expositione ,  sed  videamus  literam».3  Non  si  pro- 
nuncia dunque  intorno  al  merito  della  questione,  ma  si  limita 
a  spiegare  oggettivamente  il  significato  letterale  del  testo, 
resistendo  ad  ogni  altra  seduzione.  Più  sotto,  annotando  con 
esempì  di  parti  mostruosi  desunti  dalla  storia  o  dall'esperienza 
sua  propria,  il  verso  105  dello  stesso  libro  : 

Astra  novant  formas,  caelumque  inteserit  oras, 

dopo  essersi  indugiato  tanto  da  far  dubitare  ch'egli  accon- 
senta all'  opinion  del  poeta,  conchiude  freddamente  :  «  denique 
conclusio  literae  est  plana  ».  Ed  in  fine  al  passo  dove  la 
fatalità  della  espiazione  è  da  Manilio  posta  in  rapporto  con 

1  Commento  al  v.  1°  del  libro  IV. 

*  Neil'  esemplare  da  me  us;ito,  che  appartiene  alla  Nazionale  di  Firenze 
e  porta  la  segnatura  B.  3.  n.°  11,  si  leggono  nei  margini  qua  e  là  delle 
postille  manoscritte,  che  hanno  tutta  l'apparenza  d'  essere  autografe.  Una, 
per  esempio,  in  calce  ai  vv.  243  sgg.  del  lib.  IV,  cosi  comincia:  «  Versus 
ni'-i  Lau.  Bonincontri  »  e  riporta  i  primi  dieci  versi  dell'ultimo  libro  del 
secondo  poema  bonincontriano  intorno  ai  pianeti.  Ora  proprio  nel  margine 
inferiore  della  pagina,  dove  principia  il  libro  IV,  e  su  quello  superiore  della 
tegnente,  si  trovano  una  definizione  del  «  fato  »  di  Apuleio  ed  alcune  osser- 
vazioni di  Piatone  riguardo  alla  Fortuna:  segno  che  anche  dopo  edito  il  Com- 
mento l'autore  continuava  a  raccogliere  materiali  intorno  a  codesto  punto 
essenziale  e  controverso. 

3  Commento  al  v.  88  del  libro  IV. 


162  CAPITOLO  SECONDO 

la  fatalità  della  colpa,  ristrettosi  alla  pura  parafrasi  del  testo, 
rimanda  il  lettore  ad  un  certo  brano  del  primo  libro,  che  per 
l'importanza  sua  voglio  trascrivere  per  intero: 

«  Fatum  esse....  divinarci  legem  per  quod  inevitabiles,  ut  Plato 
asserit,  Dei  cogitationes  et  previsa  complentur;  et  in  Gorgia  dicit 
effeminati  esse  animi  dicere  se  cogi  a  Fato,  permultaque  ab  nomine 
fieri  posse,  quae  fatali  non  insunt  necessitati  subiecta.  Unde  quic- 
quid  Providentia  Dei  agitur,  Fato  etiam  agitur,  et  quod  Fato  ter- 
minatur,  Providentia  debet  susceptum  videri  ;  nec  sane  ad  vim  Fati 
omnia  esse  referenda.  Quod  sacris  literis  etiam  continetur.  Boetius 
autem  dicit:  Fatum  est  inbaerens  rebus  mobilibus  dispositio,  per 
quod  Dei  Providentia  suis  quaeque  nectit  ordinibus.  Caldei  aatom 
asserunt  astrorum  disciplinam  esse  fatalem.  Jamblicus  vero  ille  pia- 
tonicus  dicit  esse  in  hoinine  duas  animas,  quarum  una  a  primo  de- 
scendit  intelligibili  creatorisque  sui  virtutem  representat,  quam  in- 
tellectivam  nominat  ;  alteram  quae  a  diurna  coeli  revolutione  cor- 
poribus  impartitur  accomodata  ad  membrorum  usum,  quae  sensitiva 
est  et  Fato  subiacet;  altera  vero  vim  fatalem  necessitatis  exsupe- 
rat.  Ea  autem  appellat  fatalia,  quae  praeter  hominum  voluntatem 
necessitate  quadam  divini  ordinis  contingunt,  ea  fortuita,  quae  vel 
nullas  habent  causas,  vel  non  aliquo  rationabili   proveniunt  >. l 

Qui  è  chiaro,  o  io  mi  sbaglio,  che  l'opinione  dello  scrittore 
non  discorda  da  quella  attribuita  in  principio  a  Platone,  con 
più  cura  delle  altre  commentata,  e  sostenuta  col  richiamo  as- 
sai significativo  ai  testi  della  sacra  scrittura.  Ed  è  chiaro  del 
pari  che  —  in  opposizione  alle  teorie  maniliane  —  il  fato 
viene  dal  Bonincontri  identificato  colla  provvidenza  divina,  o 
ad  essa  sottoposto,  lasciandosi  pure  una  via  aperta  all'eserci- 
zio del  libero  arbitrio. 

Del  resto  che  le  idee  di  Lorenzo  fossero  proprio  di  questo 
genere  ci  è  confermato  da  un  documento  di  primissima  impor- 
tanza, vale  a  dire  da  una  lettera  del  Ficino,  la  quale,  poiché 
appartiene  al  libro  terzo  AeW  Epistolario,  anche  essendo  priva 
di  data,  va  ascritta  al  1476  o  77,  *  cioè  al  tempo  del  sog- 
giorno del  Nostro  a  Firenze  (il  Ficino  scriveva  forse  da  Ca- 
reggi)  e  delle  lezioni  di  lui  su  Manilio.  Adunque  il  Ficino  ri- 

1  Commento  al  v.  1°  del  libro  I. 

1  A.  Della  Torri,  Storia  dell'Accademia  platonica,  Firenze,  1902,  p.  77. 


LORENZO  BONINCONTBI  153 

sponde  ad  un  quesito  del  Bonincontri  e,  dopo  il  solito  esordio 
rettorico,  nel  suo  latino  enfatico,  dice  :  «  Defers  ad  nos  iudi- 
cium  inter  numina  tria  gravissimum,  inter  Providentiara  vide- 
licet  et  Fatum  et  Libertatem.  Audisti  ad  Paridern  quondam 
iudicium  inter  tres  deas  fuisse  delatura.  Ego  autein  discrimine 
tanto  offendere  numina  nolim  ; 

manet  alta  mente  repostum 
Iudicium  Paridis  spretaeque  iniuria  formae. 

Forte  vero  nihil  amplius  superest  perieli.  Videris  ipse  cau- 
tissimam  de  iis  tulisse  sententiam.  Non  enim  inepte, 
ut  nonnulli  consueverunt,  seiunxisti  numina,  sed  in- 
vicem  aptissime  coniunxisti  ».]  Le  quali  ultime  parole, 
che  non  richiedono,  mi  pare,  spiegazione,  ci  danno  pure  una 
preziosa  informazione  sulla  prudenza  usata  dal  Miniatese  e  sui 
rapporti  ideali  di  lui  con  l'Accademia  platonica  fiorentina. 

Differenti  dunque  sono  le  conclusioni  a  cui  giungono  Ma- 
nilio e  il  suo  commentatore  intorno  al  più  grave  dei  problemi 
dell'astrologia;  ma  non  perciò  resta  escluso  che  questi  sia  pe- 
netrato nell'esame  oggettivo  del  pensiero  del  suo  poeta,  e  vi 
abbia  acquistata  una  larga  dottrina.  Della  quale  è  valida  te- 
stimonianza il  commento  al  libro  terzo,  dove  l'oggetto  del- 
l'esplicazione è  il  delicato  problema  delle  predizioni  singolari. 
Ammessa  infatti,  come  vediamo  che  fa  il  Bonincontri,  negli 
astri  la  facoltà  di  indicare,  se  non  di  produrre,  gli  eventi 
umani,  fino  a  qual  punto  di  determinatezza  si  possono  spin- 
gere le  indagini  dell'  astrologia  ?  Manilio  crede  che  si  riesca 
a  scoprire  anche  le  cose  minute,  quando  i  calcoli  siano  mate- 
maticamente esatti  e  non  si  sia  trascurato  nessun  fattore  essen- 
ziale :  della  stessa  opinione  è  Lorenzo,  il  quale  spiega  in  que- 
sta interpretazione  grande  perizia  dialettica.  Né  riguardo  ad 
essa  s'accontenterà  più  tardi  delle  cose  qui  esposte,  ma  dal 
passo  maniliano  ricaverà  l'argomento  di  quel  Tractatus  de 
revolutionibus  che  noi  conosciamo. 

1  Marsilii  Ficini  Opera,  Basileae,  1576,  II,  p.  750,  ZJpistol.  III. 


CAPITOLO  TKRZO 


I  due  poemi  del  llonincontri. 


I.  Bibliografia  e  cronologia.  —  II.  La  materia,  le  fonti  e  il  valore  del  primo 
poema.  —  III.  Il  primo  libro  del  secondo  poema.  —  IV.  I  due  ultimi  libri.  — 
V.  Pregi  e  fortuna  di  tutta  l'opera. 


I. 

C  è  in  Laurenziana  un  bel  manoscritto  pergamenaceo,  Pluteo 
XXXIV,  codice  52,  di  ff.  115,  di  mm.  210X125,  che  contiene 
sei  libri  di  esametri  latini,  di  bellissima  calligrafia  quattro- 
centina, in  inchiostro  nero,  tolti  i  primi  due  versi  d'ogni  libro 
che  sono  in  rosso  e  lascian  lo  spazio  libero  per  l'iniziale  mi- 
niata. Questa  manca,  salvo  nel  primo  libro,  ove  si  ammira  un 
bel  C  d'oro  con  arabeschi  d'oro  in  campo  turchino,  e,  chiusa 
nella  curva  della  lettera,  una  figura  d'  umanista,  forse  1'  au- 
tore, con  un  libro  in  mano.  Mancano  pure  tutte  le  testate  e 
Yexpliciti  onde  si  vede  che  l'opera  dell'amanuense  non  fu 
compiuta;  solo  si  osserva,  al  piede  della  prima  facciata,  a  co- 
lori, l'impresa  medicea.  Quantunque  non  si  legga  alcun  titolo, 
anzi  ci  inganni  una  erronea  indicazione  sulla  copertina,  noi 
qui  siamo  in  presenza  del  miglior  esemplare  dei  due  poemi 
scientifici  di  Lorenzo  Bonincontri,  disposti  in  ordine  naturale, 
cioè  in  modo  che  quello,  che  è  dedicato  a  Lorenzo  il  Magni* 
fico,  precede  quello  dedicato  a  Ferdinando  aragonese.  Dico 
del  miglior  esemplare  non  solo  dal  punto  di  vista  esteriore  o 
calligrafico,  ma  anche  per  la  correttezza  del  testo,  il  quale  do- 
vette, senza  dubbio,  essere  esemplato  sopra  un  autografo  e  sotto 
la  sorveglianza  diretta  dell'autore,  e  forse  da  quest'  ultimo  de- 
stinalo in  dono  al  suo  protettor  fiorentino. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  155 

L'  opera  bonincontriana  ci  è  però  conservata,  o  tutta  o  in 
parte,  anche  da  altri  manoscritti,  alcuni  dei  quali  sono,  per 
certe  loro  caratteristiche,  di  somma  importanza.  È  notevole, 
per  esempio,  il  Vaticano  latino  2844,  cartaceo,  scritto  con  mano 
corrente,  senza  fregi,  il  quale  comprende  per  intero  i  due  poemi 
nell'ordine  naturale,  possiede  i  titoli  dei  rispettivi  libri,  meno  il 
primo  del  secondo  poema,  e  presenta  di  fronte  al  Laurenziano 
qualche  minima  variante  nel  testo.  E  poiché  nella  segnatura 
vaticana  è  seguito  immediatamente  dal  Commento,  che  l'autore 
fece  da  vecchio  all'opera  sua  poetica,  scritto  di  pugno  dello 
stesso  amanuense,  cosi  va  riportato  agli  anni  1484-87,  ai 
quali,  come  abbiamo  veduto,  è  da  riferirsi  il  Commento.  Si- 
mile, anzi  uguale  in  tutto  ad  esso,  è  la  copia  contenuta  a  ce. 
I02a-172a  dell'Ambrosiano  E.  12.  Sup.,  miscellaneo,  cartaceo, 
di  scrittura  umanistica  corrente.  Quarto  ed  ultimo  dei  com- 
pleti viene  il  Vaticano-Urbinate  703,  che  è  un  elegantissimo 
codice  membranaceo,  ricco  di  iniziali  dorate,  ornato  da  una 
bella  arme  gentilizia  feltresca,  listata  da  una  fascia  rossa  col 
triregno  e  le  chiavi,  che  ci  fa  pensare  a  Sisto  IV,  legato  di 
parentela  con  l'ultima  erede  dei  Montefeltro,  per  mezzo  di  suo 
nipote  Giovanni  della  Rovere.  Non  ha  grande  valore.  I  due 
poemi  vi  son  disposti  in  ordine  inverso  e  tenuti  del  tutto  divisi. 

Fra  i  non  completi  ricorderò  primo  il  Magliabechiano- 
Strozziano  classe  VII,  cod.  1099,  cartaceo,  di  scrittura  non 
elegante,  certamente  non  autografo,  il  quale  contiene  solo  il 
primo  poema.  Di  questo  manoscritto  ho  già  avuto  occasione 
di  discorrere  quando,  nella  biografia  del  Bonincontri,  mi  son 
riferito  a  certe  postille  marginali,  le  quali  formano  appunto 
ciò  che  in  esso  c'è  di  più  notevole.  Tali  postille,  scritte  in 
inchiostro  rosso  sui  margini,  non  sono  molte  ed  illustrano  il 
testo  negli  accenni  cronologici,  il  più  recente  dei  quali,  a 
e.  12a,  si  riferisce  all'  anno  1472.  Il  che  mi  farebbe  supporre, 
tenuto  conto  altresì  del  fatto  che  qui  troviamo  solo  il  primo 
poema,  che  il  codice  sia  da  assegnare  agli  anni  1475-76, 
e  che  la  mano  del  testo  e  delle  illustrazioni  sia  di  qualche 
fiorentino  amico  o  uditore  di  Lorenzo  allo  Studio.  Altri  due 
manoscritti,  gli  ultimi  che  io  mi  conosca,  contengono  solo  il 


156  CAPITOLO  TERZO 

secondo  poema.  Il  loro  valore  è  scarsissimo,  essendo  l'uno, 
cioè  il  codice  latino  8342  della  Nazionale  di  Parigi,  una 
semplice  copia,  con  qualche  postilla  marginale  dichiarativa 
di  alcuni  difficili  passi  astronomici  ;  e  l' altro,  cioè  il  Vati- 
cano latino  2833,  un  esemplare  scorretto,  inserito  in  una  mi- 
scellanea del  sec.  xvi  appartenuta  al  Colocci. 

Ma  oltre  a  queste  copie  manoscritte  complete  o  parziali, 
dell' opera  poetica  di  Lorenzo  Bonincontri  possediamo  un'edi- 
zione, non  intera,  cioè  contenente  il  solo  secondo  poema. 
Essa  è  dovuta  alla  cura  del  noto  astrologo  Luca  Gaurieo,  il 
quale,  «  prò  communi  utilitate  >,  s'era  proposto  di  stampare  i 
tre  libri  «  de  rebus  coelestibus  »  del  Nostro  presso  la  tipografia 
aldina,  nel  1526;  poi,  mutando  parere,  condusse  a  termine 
l'edizione  presso  l'officina  veneziana  dei  «  de  Sabio  »  e  la  de- 
dicò, con  una  pomposa  epistola  parte  in  prosa  e  parte  in  versi, 
nella  quale  lo  scritto  bonincontriano  è  detto  nientemeno  che 
«  opusculum  poene  divinum  »,  a  Federigo  Gonzaga  marchese  di 
Mantova.1  Ne  usci  pertanto  un  libretto  elegante,  ornato  nel 
frontespizio  d'un  bel  fregio  bianco  su  fondo  nero,,  di  44  pa- 
gine circa,  in  caratteri  chiari,  umanistici,  con  titoletti  e  ru- 
briche marginali.  Da  quale  manoscritto  esso  sia  ricavato  non 
saprei  dire,  né  importa  sapere;  basti  notare  che  la  lezione  sua  è 
identica  a  quella  del  codice  Laurenziano  da  noi  esaminato  per 
primo.  Pochi  anni  appresso,  forse  nel  1540,  questa  edizione  fu 
riprodotta,  con  leggiera  variante  nel  titolo,  ma  restando  immu- 
tati il  testo  e  la  dedica,  a  Basilea,  presso  Roberto  Winter;  e 
più  tardi  ancora,  nel  1575,  usci  per  la  terza  volta,  come  sem- 
plice ristampa,  nell'edizione  basileese  delle  Opere  del  Gaurieo, 
al  volume  secondo.8 

Tale  è  la  bibliografia,  abbastanza  chiara  e  precisa,  dei  due 
poemi,  sulla  scorta  della  quale  ci  è  lecito,  in  primo  luogo,  de- 

1  LiURKNTii  Bonincontri  Minutensis    De  Rebus  coelestibus  aureum  opu- 
sculum, ab  L  Gaurieo  Neapolitano  Prothonotario  recognitum  super,   Fi 
tiis  impressimi,  M.D.XXVI  — ;  ed  in  fine:  Venetiis,  per  Ioannemantonium  et 
fratres  de  Sabio,  M.D.XXVI.  Un  esemplare  ben  conservato  esiste  nell'  Univer- 
sitaria di  Pisa,  Misceli.  421,  n.°  2. 

'  Per  le  due  ristampe,  meno  rare  dell'ediz.  principe,  v.  P.  Riccardi, 
Biblioteca  matematica  italiana,  Modena,  1870,  I,  col.  208. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI 


157 


terminare  il  testo  che  meglio  potrà  servire  al  nostro  studio. 
Parecchi  dei  manoscritti  esaminati,  a  mio  parere,  potrebbero 
riuscirci  sufficienti,  ed  ottima,  per  il  secondo  poema,  si  può 
dir  l'edizione;  però  di  tutti  il  migliore,  perché  non  ha  scor- 
rettezze od  oscurità  di  senso  e  di  scrittura,  e  verisimilmente 
rappresenta  la  forma  quasi  definitiva  dell'  opera,  è,  come 
abbiamo  affermato  in  principio,  il  codice  Laurenziano.  Il  quale 
ha  un  solo  difetto,  d' essere  cioè  privo  dei  titoli  dei  singoli 
libri.  Ma  è  difetto  che  non  menoma  l' importanza  del  codice, 
come  la  presenza  degli  incipit  non  innalza  quella  del  rima- 
nente materiale  bibliografico. 

Infatti  dal  complesso  della  bibliografia  la  questione  dei  ti- 
toli non  è  abbastanza  chiarita  e,  per  essere  convenientemente 
risolta,  ha  bisogno  del  sussidio  di  ragioni  interne.  Nella  maggior 
parte  dei  codici  e  nelle  due  ristampe  noi  leggiamo  un  titolo 
unico  per  tutti  i  sei  libri,  i  quali  sono  detti  Rerum  naturalium 
et  divinarum;  in  alcuni  invece  questa  soprascritta  è  riserbata 
ai  tre  primi  libri  ;  nell'  edizione  principe  infine,  come  ho  già 
riferito,  ai  tre  ultimi  libri  si  dà  quest'  altra  intitolazione  :  De 
rebus  coelestibus.  Ora  in  realtà  il  titolo  Rerum  naturalium, 
per  ragioni  di  convenienza  interna,  appartiene  soltanto  ai  primi 
tre  libri,  cioè  al  primo  poema.  Il  primo  libro  del  secondo  poema 
merita  da  solo  d'esser  detto  Rerum  divinarum  come  quello  che 
tratta  esclusivamente  di  Dio,  degli  angeli  e  della  creazione.  Ai 
due  ultimi  libri,  e  non  agli  altri,  ben  si  addice  finalmente 
l'appellativo  De  rebus  coelestibus.  Sarà  quindi  meglio  aste- 
nerci dalla  scelta,  o  almeno  da  una  determinazione  assoluta 
dei  titoli,  e  ricorrere,  per  le  citazioni  e  per  i  riferimenti,  alle 
dediche,  sulle  quali  non  cade  alcun  dubbio.  I  primi  tre  libri 
infatti  sono  indirizzati,  per  concorde  testimonianza  dei  codici, 
ad praestantissimum  virum  Laurentium  Medicen  florentinum\ 
i  rimanenti  ad  Ferdinandum  Aragonium  inclytum  Siciliae 
regem.  Due  poemi  adunque,  secondo  l'evidente  intenzion  del- 
l'autore, distinti,  uno  scientifico  e  l'altro  religioso-astrologico, 
dedicato  il  primo  a  Lorenzo  il  Magnifico,  il  secondo  a  Ferdi- 
nando d'Aragona. 


158  CAPITOLO  TERZO 

Ora,  quando  furon  composti  ?  Ecco  un'  altra  domanda,  a  cui 
non  è  diflicile  rispondere  col  sussidio  specialmente  dei  dati 
interni,  che  fortunatamente  non  mancano,  e  con  l'aiuto  di 
qualche  notizia  fornita  dall'autore  stesso,  in  altri  suoi  scritti. 

Cominciamo  dal  primo  poema.  Esso  nella  forma  definitiva, 
come  s'è  veduto,  è  dedicato  a  Lorenzo  il  Magnifico,  e  la  dedica 
è  di  tal  maniera  che  c'induce  a  porre  il  principio  della  stesura 
dell'opera  non  prima  della  morte  di  Piero  di  Cosimo,  cioè 
non  prima  del  1469.  Infatti  le  parole,  con  le  quali  l'altere  -i 
rivolge  al  mecenate  toscano,  ci  mostrano  quest'ultimo  bob 
già  come  figlio  del  maggior  cittadino  di  Firenze,  ma  come  il 
primo  dei  cittadini  esso  stesso: 

Et  tu,  qui  patria  cives  piotate  tueris, 
Laurenti  Medicea,  vir  prestantissime...1 

Ma  se  questo  termine  non  può  risalire  oltre  il  1469,  potrebbe 
invece  avanzare  anche  ad  una  data  più  recente,  e  venir  tra- 
sportato sino  al  1472,  quando  ci  inducessimo  a  prestar  fede 
ad  una  postilla,  già  rammentata,  del  codice  Mgl.-Strozziano 
VII,  1099,  che  attribuisce  a  tale  anno  l'apparizione  della 
duplice  cometa  descritta  negli  ultimi  versi  del  libro  primo;8 
dico,  se  e'  inducessimo  a  creder  veritiero  quel  codice,  che  a 
molti  indizi  esteriori  è  lecito  ritenere  scritto  a  Firenze  da  per- 
sona bene  informata,  intorno  al  1475-76.  Però  c'è  da  obbiet- 
tare che,  pur  essendo  giusta  la  notizia  della  postilla,  il  passo 
della  cometa  potrebb'  essere  un'  aggiunta  a  poema  compiuto, 
tanto  più  che  in  quel  punto  gli  esempi  storici  recati  dall'au- 
tore a  proposito  dell'influsso  delle  stelle  cornate  son  due,  indi- 
pendenti l'uno  dall'altro:  si  potrebbe  ritenere  come  solo  primi- 

1  Laurenziano  XXXIV.  52,6.  la.  Per  non  lasciare  alcun  dubbio  sulla  in- 
terpretazione di  questi  versi  del  primo  libro,  eiterò  questi  altri  del  terso, 
nei  quali  il  poeta,  dopo  d'aver  discorso  della  gloria  di  Cosini',  detto  11 
«padre  della  patria  >,  si  rivolge  a  Lorenzo  (ibid.  e.  52b): 

Nuuc  le  fata  vocant,  Laurenti,  ad  talia,  nosque 
Laude  parem  eanimus,  quoniam  tu  iura  senaius 
Kt  popoli  sacrata  regi»,  plebemque  tueris 
onmimoda  virtute  potens  :  modo  vita  supersit 
Haec  tua  maiorum  non  cedei  gloria  faclis. 

*  Mgl.-Strozziano  VII,  1099,  e.  12a. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  159 

tivo  l'altro  esempio,  quello  della  cometa  del  1456,  la  quale 
precedette  di  poco  la  morte  di  Alfonso  il  Magnanimo. ]  In  tal 
caso,  la  data  iniziale  della  composizione  del  poema  sulla  Na- 
tura sarebbe  da  mantenere,  come  dicevamo,  al  1469,  con  una 
ipotesi  moralmente  assai  probabile.  Giacché  è  verisimile  il  pen- 
sare che  alla  morte  dell'inetto  Piero  de'  Medici,  al  sorgere  sulla 
scena  politica  del  colto  e  potente  Lorenzo,  proprio  in  quel- 
l'anno, quando  tante  speranze  si  ridestavano  intorno  al  gio- 
vane dominatore  del  Comune  fiorentino,  anche  l'astrologo  esule 
attendesse  al  poema  da  offrire  in  pegno  del  ritorno,  e  ne  af- 
frettasse, stimolato  dal  desiderio  della  patria,  il  compimento. 
Fissato  cosi  il  termine  a  quo,  passiamo  alla  ricerca  del 
termine  ad  quem,  ancor  essa  non  difficile.  In  molti  luoghi  in- 

1  Per  dimostrare  quanta  attendibilità  abbiano  le  notizie  cronologiche 
fornite  dal  cod.  Mgl.-Strozziano,  è  utile  riportare  un  passo  del  Pontano, 
Centum  Ptolomaei  sententiae  etc,  ed.  Aldina  del  1519,  p.  91  b,  scritto  nel 
1477,  nel  quale  si  parla  delle  due  comete,  con  riferimenti  storici  tali  da 
rendere  sicure  le  due  date  del  1456  e  1472  :  «  Nobis  adolescentibus  insignis 
etiam  cometes  ad  orientem  in  Cancri  Leonisque  regionibus  multis  diebus 
fulsit,  tantae  longitudinis  ut  amplius  quam  duo  coeli  signa  comae  suae  tractu 
occuparet.  Eum  secuta  est  Alphonsi  regis  mors  (1458),  quae  Aemiliam,  Sa- 
binain,  Campaniam,  universumque  regnum  Neapolitanum  et  longo  et  gravi 
bello  implicavit  (1459-1464).  Secuta  est  et  pestilentia  aliquanto  diuturnior. 
—  Annis  bis  superioribus,  cometes  alius  tenui  primo  capite  comaque  admo- 
dnm  brevi  conspectus  est;  mox  mirae  magnitudinis  factus  ab  ortu  deflectere 
in  septentrionem  coepit,  nunc  citato  motu,  nunc  remisso,  et,  quod  Mais 
Saturnusque  uterque  repedabat,  aversus  ipse  praegrediente  coma  ferebatur, 
donec  ad  ipsam  Arctos  pervenit.  Inde  cum  primum  Satnrnus  ac  Mars  recto 
cursu  pergere  coeperunt,  in  occasum  iter  flexit  tanta  celeritate,  nt  die  uno 
ad  triginta  gradus  emensus  sit,  atque  ubi  ad  Arietem  ac  Taurum  pervenit, 
videri  desiit.  Hic  et  dies  plurimos  fulsit  et  qui  initio  brevior  visus  est,  adeo 
crevit,  ut  quinquaginta  gradus  atque  etiam  amplius  occuparet.  Non  multo 
post  Ussonus  Cassanus  Parthiae  atque  Armeniae  rex,  ad  Euphratem  profectus 
eo  Consilio  ut  Asiani  invaderet,  collatis  signis  cum  Mahometo  Turcarum  rege 
(Maometto  II  f  1481)  ita  diinicavit,  ut  qui  ingentem  inferret  et  acciperet 
cladem.  Duo  enim  potentissimi  exercitus,  duo  maximi  duces  in  paucis  diebus 
bis  conflixere.  Eodem  tempore  Alphonsns  Portugalliae  rex  (Alfonso  V,  f  1481) 
satin  magna  classe  in  Africani  traiiciens,  duas  nobilissimas  urbes  Tingin 
et  Argillam  cepit,  oramque  Tingitanam  armis  subactam  imperio  suo  adiecit. 
Sensimus  iisdem  temporibus  universam  Hispaniam  quassari  bello,  et  Erricum 
regem  diem  obiisse  (Enrico  IV,  re  di  Leon  e  di  Castiglia,  t  1474);  Carolimi 
quoque  Burgundiorum  ducem  (Carlo  il  Temerario,  f  1477)  adversus  flnitiinos 
quosdam  populos  regulosque  eo  impetu  movisse  arma,  ut  mu  Ito  rum  etiam 
annorum  bellum  excitaverit,  quod  nuper  eius  morte  vix  tini  timi  est  >. 


160  CAPITOLO  TERZO 

fatti  del  poema  l'autore  si  lagna  dell'esilio,  in  nessuno  si 
rallegra  del  condono  del  bando  o  ringrazia  il  protettore  me- 
diceo d'un  favore  largito:  onde,  conoscendo  noi  la  data  del 
proscioglimento  dalla  condanna,  cioè  l'aprile  del  1475,  questa 
potrebb'  essere  pure  il  termine  estremo  della  composizione 
dell'opera.  Tuttavia  perché,  come  vedremo  fra  poco,  tra  il 
fine  del  poema  sulla  Natura  e  il  1475  deve  collocarsi  certa- 
mente il  secondo  poema,  a  fare  il  quale  non  può  essere  oc- 
corso meno  d'un  paio  d'anni,  cosi  la  data  estrema  deve  es- 
sere trattenuta  al  1473  circa,  se  non  forse  proprio  a  quell'anno 
1472  poc'anzi  ricordato.  Sarebbe  infatti  facile  ipotesi  il  collo- 
care nell'  anno  della  cometa  il  fine  e  la  revisione,  con  le  re- 
lative aggiunte,  del  poema  dedicato  a  Lorenzo.  Concludendo 
adunque,  i  due  termini  estremi  della  prima  opera  sono,  con 
grandissima  probabilità,  gli  anni  1469-1472. 

Veniamo  al  secondo  poema.  La  datazione  del  quale  è  assi- 
curata da  due  passi  del  noto  Commento  vaticano.  L'un  d'essi, 
che  serve  d'illustrazione  all'esordio  del  poema,  dice  invero 
che  a  trattar  della  nuova  materia  religiosa  —  sappiamo  che 
la  seconda  opera  in  principio  s'intitola  Rerum  divinarum  — 
occorrono  versi  più  solenni:  «  meliores  scilicet  quam  iuven- 
tutis  tempore  fecerit,  cum  amorum  elegias  et  de  rebus  nata- 
ralibni  prius  tres  libros  fecerit,  et  hunc  quartum  ab  hoc  Car- 
mine inceperat,  sed  a  rege  ipso  rogatus  quale  videtis  exordinm 
sumpsit  ». l  Dice  dunque  qui  il  Bonincontri,  s'io  non  m'in- 
ganno, che  con  dignità  minore  egli  aveva  in  gioventù  scritte 
delle  elegie  amorose  e  messo  mano  ad  un  poema  didascalico, 
del  quale  anzi  già  eran  composti  quattro  libri.  L'ultimo  ap- 
pena cominciato;  e  che  in  seguito,  venuta  l' opportunità  di 
fare  omaggio  d'un' opera  letteraria  a  re  Ferdinando,  rip 
codesto  quarto  libro,  il  quale  diventò  primo  d'  un  nuovo  poema, 
ed  ebbe  un  esordio  diverso,  cioè  più  conveniente  all'occasione 
ed  all'età  dello  scrittore.  Orbene,  quando  avvenne  questa  ri- 
presa ?  Prima  di  rispondere,  bisogna  risolvere  un'  apparente 
difficoltà,  la  quale  nasce  dalla  contraddizione  fra  la  datazione 

1  Vaticano  lat.  2845,  e.  68 b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  161 

nostra  del  primo  poema  e  ciò  che  qui  si  dice,  eh'  esso  sarebbe 
stato  opera  giovanile.  Giacché  giovanile  per  certo  non  può 
dirsi  quella  stesura,  che  io  reputai  assegnabile  al  periodo 
1469-72.  Io  credo  che  con  quelle  parole  Lorenzo  si  riferisca 
al  materiale  raccolto  e  solo  in  parte  elaborato  sin  dal  1450, 
quando  nella  sua  mente  nacque  il  desiderio  di  divenire  il  Lu- 
crezio dei  tempi  nuovi:  tanto  è  vero  che  allude  ad  un  quarto 
libro,  che  nella  trama  definitiva  non  avrebbe  più  ragion  d'es- 
sere. Credo  insomma  eh'  egli  ripensi  alla  lenta  preparazione 
dell'opera  e  non  alla  stesura  vera  e  propria,  che  non  può 
aver  altra  data  da  quella  proposta;  che  egli  si  riferisca  al 
lavoro  imperfetto  dell'età  sua  meno  grave,  esagerando  for- 
s'  anche  un  poco,  per  amore  di  antitesi,  e  per  far  risaltare  il 
carattere  sacro  del  cominciamento  del  secondo  poema.  Nessuna 
seria  opposizione  dunque  a  quanto  abbiamo  stabilito,  e  facile 
perciò  la  ricerca  dell'  anno  della  ripresa,  il  quale  dev'  essere 
posteriore  non  solo  al  periodo  preparatorio,  ma  anche  a  quello 
dell'assetto  definitivo  dei  primi  tre  libri:  l'anno  1472,  termine 
finale  del  primo  ed  iniziale  del  secondo  poema. 

Né  meno  certa  è  l'altra  data  estrema,  suggerita  dal  se- 
condo passo  del  Commento,  al  terzo  libro  dell'opera,  dove  si 
legge  questa  dichiarazione:  «  Cum  poeta  hoc  opus  perficeret, 
nondum  Caium  (sic)  Manilium  viderat,  quem  post  e  a  publice 
Florentiae  conductus  legit  atque  exposuit...  ».*  Lasciamo  per 
ora  la  questione  se  davvero,  quando  terminava  il  poema,  l'au- 
tore non  conoscesse  Manilio  :  di  questa  vanteria  io  dubito 
molto,  anzi  non  ci  credo  affatto,  come  dimostrerò  a  suo  luogo  ; 
ma  fermiamoci  sull'affermazione  precisa  che  la  lettura  fioren- 
tina degli  Astronomici  fu  posteriore  al  termine  del  poema. 
Il  poema  è  quindi  tutto  anteriore  al  1475.  Né  ciò  è  contrad- 
detto da  alcun  elemento  interiore.  Infatti  per  ben  tre  volte 
l'autore  fa  un  quadro  politico  del  tempo  suo  e  specialmente 
del  Reame  di  Napoli,  traendo  argomento  da  ragioni  astrolo- 
giche; quadro  che  mal  si  concilierebbe  con  gli  avvenimenti 
che  si  prepararono  e  si  compierono  dopo  l'anno  su  accennato. 

1  Vaticano  lat.  2845,  e.  117  a. 
Soldati  n 


162  CAPITOLO  TERZO 

Secondo  il  poeta,  la  sola  guerra  importante  sostenuta  da  Fer- 
dinando era  stata  quella  contro  Giovanni  d'Angiò  (1459-1464); 
per  alcun  tempo  i  baroni,  che  durante  l'invasione  eran  pas- 
sati al  nemico,  avean  sostenuta  la  ribellione,  ma  poi  per  la 
potenza  e  la  generosità  del  re  già  eran  tornati  all'obbedienza; 
la  pace  regnava  nell'Italia  meridionale: 

Jnclyte  rex  victorque  potens,  linque  arma  cruenta, 

Cuna  non  ulla  tuo  peragantur  proelia  regno. 

Italia  Gallos  iecisti;  tempore  ab  ilio 

Regna  tenes  tranquilla  patris,  nec  cernitur  hostis 

Advena  nec  quisquam  qui  bella  nefanda  moveret: 

Vicisti  indomitos,  sat  sit  vicisse  rebelles. 

Parta  quies,  culpaque  vacas,  tibi  palma  paratur; 

Nec  duces  fecero  tui,  nec  sidera  coeli, 

Sed  labor  et  studium  pacis  virtusque  suprema 

Ut,  bello  extincto,  peragantur  et  ocia  pacis. l 

Questi  versi  sono  lontani,  come  ben  si  vede,  dalle  lotte  esterne 
ed  interne,  che,  cominciate  con  l'impresa  d'Otranto  (1480),  in- 
funeranno con  la  guerra  di  Ferrara  (1484)  e  con  la  congiura 
dei  baroni  (1486),  giù  fino  alla  rovina  della  casa  aragonese! 
Concludendo  e  riepilogando,  ad  una  larga  preparazione 
scientifica,  a  parecchi  abbozzi,  dove  alcuni,  forse  molti,  brani 
poetici  già  s'erano  concretati  in  una  forma  non  lontana  dalla 
definitiva,  nell'  opera  del  Bonincontri  segui  un  periodo  deci- 
sivo, nel  quale  essa  ebbe  compimento.  Allora  —  siamo  al  1469 
—  il  materiale  raccolto  si  dispose  in  un  primo  nucleo  di  tre 
libri,  formando  il  primo  poema  sulla  Natura;  a  questo  primo, 
quasi  in  continuazione  sostanziale  e  formale,  tennero  dietro 
altri  tre  libri,  cioè  il  secondo  poema,  nel  quale,  come  meglio 
vedremo  nell'analisi,  il  pensiero  astrologico  e  l' ispirazione 
maniliana  ebbero  una  parte  preponderante.  Questo  perioda 
che  abbiam  detto  decisivo,  fu  naturalmente  assai  rapido,  e  ter- 
minò avanti  l'aprile  del  1475. 

1  Laurcnziano  XXX1Y,  •'■-.  <'.  99 b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  163 

IL 

Il  primo  poema,  o  poema  della  Natura,  solo  indirettamente 
tratta  di  astronomia  e  d'astrologia,  avendo  per  tema  una  ma- 
teria pili  vasta.  Perciò,  discorrendo  di  esso,  sarà  bene  che  non 
m'indugi  in  discussioni,  né  che  mi  proponga  di  darne  un 
sunto  minuto;  e  nell'indagine  delle  fonti  basterà  che  accenni 
alle  teorie  classiche  e  medioevali  più  notevoli,  a  cui  il  Bonin- 
contri  ricorse,  senza  documentar  le  mie  asserzioni  con  raffronti 
speciali.  Sarà  infatti  per  noi  sufficiente  conoscer  questa  trama, 
che  ci  metterà  in  grado  di  valutare  meglio,  in  seguito,  il  se- 
condo poema.  Del  resto  chi  volesse,  per  suoi  studi  particolari, 
avere  maggiori  informazioni  su  quest'opera,  troverà  qui  la 
via  spianata  che  gli  agevolerà  la  lettura  dei  codici,  e  soprat- 
tutto sarà  messo  sulle  tracce  di  quel  prezioso  Commento  va- 
ticano, a  cui  già  ebbi  ad  attingere,  e  più  spesso  attingerò, 
importanti  notizie. 

Il  poema  si  compone  di  tre  libri,  i  quali  corrispondono 
quasi  esattamente  ad  una  triplice  partizione  della  materia 
trattata:  nel  primo  infatti,  dopo  la  protasi  generale  ed  una 
introduzione,  di  cui  vedremo  il  tenore,  si  discorre  dell'  ori- 
gine, o  creazione  delle  cose;  nel  secondo  si  parla  della  crea- 
zione e  natura  dell'uomo;  nell'ultimo  si  fa  la  storia  delle 
opinioni  dei  più  celebri  filosofi  intorno  al  problema  della  Na- 
tura, del  quale  si  riassumono  alcuni  punti  notevoli.  Cominciamo 
l'esame  del 

Libro  primo.  —  Tutta  l'opera  è  bene  riassunta  in  quest'enun- 
ciato : 

Carmine  prima  fero  nmudi  simulacra  iacentis, 

Ordior  et  causas  rerum  formasque  vigentes 

Et  quibus  immenso  concrescant  margine  mundi  ;  l 

ai  quali  versi  segue  la  dedica  a  Lorenzo  il  Magnifico,  a  noi 
già  nota  in  parte.  Dopo,  si  riprende  l' esposizione  analitica  del 
tema,  in  questo  modo: 

1  Laurenziano  XXXIV,  62,  e.  la. 


164  CAPITOLO  TERZO 

Nam  iuvat  et  rerum  causas  depromere  certas: 
"Ut  pater  Oceanus  spnmantia  littora  signet 
Telluri  mediae,  circumque  rotetur  ad  orbem, 
Semen  et  uude  suos  nascentum  surapserit  ortus; 
Aequora  tum,  magni  montes  vallesque  profundae 
Quo  duxere  suam  sedem,  quibus  imbribus  aucta 
Fluinina,  ut  in  viridi  luctentur  margine  ripae, 
Quo  sua  deducant  tauri  primordia,  et  unde 
Natus  homo,  mentesque  virùm  quo  semine  constent: 
Omnia:  num  pereant  animae  cum  corpora  linquunt, 
Vel  sua  suspenso  referant  primordia  coelo, 
An  fictumque  bonos  regnum  penetrare  Tonantis. 
Sed  secreta  Dei  primum  describere  tempia 
Expediam  ;  post  haec  fuerit  si  condita  mundi 
Congeries,  paribus  quondam  distincta  coluris.  ' 

Infatti  —  alludo  all'osservazione  degli  ultimi  tre  versi  —  prima 
di  venire  a  narrare  la  creazione,  il  poeta  s'indugia  alquanto 
a  descrivere  l'universo  cosi  come  la  scienza  astronomica  l'ha 
studiato:  parla  in  primo  luogo  delle  sfere  planetarie  e  del 
cielo  delle  stelle  fisse,  sopra  cui,  con  un  immenso  ambito, 
s'incurva  l'Empireo,  il  vero  e  proprio  Empireo  scolastico,  dove 
insieme  con  la  divinità  risiedono  le  anime  degli  eletti: 

Illic  sublimes  animus  consistere  certum  est, 
Quas  non  atra  dies,  nec  nox  obscura  malorum 
Compulit  infernas  sceleratas  labier  oras  : 
Hunc  Pater  omnipotens  divina  mente  creatum 
Concelebrat  fulgore  suo.* 

Della  Terra,  eh' è  al  centro  di  tutte  le  cose  celesti,  l'autore 
descrive  la  forma  e  le  zone,  quali  emersero,  secondo  l'opinione 
dei  filosofi  antichi,  dalla  separazione  degli  elementi  e  dalla 
risoluzione  del  Caos;  anzi,  quali  ora  noi  le  possiamo  conoscere 
dopo  quell'altro  sconvolgimento  dell'orbe  nostro,  che  nella 
Bibbia  è  rappresentato  come  un  diluvio  universale,  od  in  Pla- 
tone, per  mezzo  dell'interpretazione  del  mito  di  Fetonte.  MHM 
una  combustione  della  superficie  del  globo.3  Tocca  quindi  di 

1  Laurenziano  XXXIV,  52,  e.  la.  b. 
*  Laurenziano  XXXIY,  M,  o.  111. 

3  Naturalmente  il  Bonincontri  delle  due  teorie  intomo  al  diluvio  sepne 
quella  biblica,  come  risulta  anebe  dalle  parole  del  Commento  a  questi  v. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  166 

sfuggita  l'aspetto  del  firmamento,  nel  quale  è  possibile  leg- 
gere gli  avvenimenti  futuri,1  non  però  tutta  la  scienza  del- 
l'universo, che  noi  dobbiamo  imparare  dalla  tradizione  dei 
libri  sacri.  Dai  quali  il  Bonincontri  prende  le  mosse  ad  esporre 
finalmente  la  creazione,  secondo  un'opinione  che,  pur  mante- 
nendosi cristiana,  accoglie  e  sviluppa  alcuni  elementi  platonici 
ed  aristotelici: 

quae  fama  feret  nos  certa  canemus 
Principia,  et  sacro  mundum  de  pectore  promptum 
Dicimus  esse  Dei,  coelum  terrasque  patentis 
Ipsius  inclusos  dextra,  deque  omnibus  ipsis 
Haud  sumpsisse  aliquid,  quo  nascier  omnia  possent.2 

Iddio  dunque,  prima  che  sorgessero  le  cose,  teneva  nella  sua 
mente  Videa  delle  cose  stesse,  ed  in  quella  si  specchiava  quasi 
come  in  un  modello,  che  convenisse  imitare.   Sotto  di  lui,  il 

€  Plato  in  Timeo...  dixit  Phaethontis  diluvium  fuisae  per  ignem,  unde  Ovi- 
dius  in  primo  dixit  : 

Esse  quoque  in  fatis  reminiscitur  affo  re  tempus, 
Quo  mare,  quo  tellus  correptaque  regia  coeli 
Ardeat,  et  mundi  moles  operosa  laboret; 

quod  diluvium  nostri  Christiani  dicunt  futurum  esse,  ut  poèta  asserit  »  (Vat. 
lat.  2845,  e.  5a).  II  diluvio  del  fuoco  dunque,  per  i  cristiani,  è  di  là  da 
venire,  forse  alla  fine  del  mondo,  e  quello  avvenuto  fu  il  diluvio  delle 
acque. 

1  Interessante  è  per  noi  1'  enunciazione  di  questa  teoria  astrologica,  ed 
è  perciò  utile  riportare  testualmente  i  versi  che  la  contengono  : 

Quae  discreta  globis  quoniara  ratione  fugaci 
Sunt  numeris  comprehensa  suis,  et  pondero  quanto 
Concurrant  portentque  mali,  quid  deinde  ferat  sors 
Scire  licet,  si  cuucta  bono  sint  ordine  lecta. 

(Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  7 a). 

Quanto  poi  al  metodo  di  lettura  degli  astri,  ecco  quali  schiarimenti  ci  dà 
in  proposito  l'autore  nel  Commento:  €  Aliam  vim  habent  influxus  planetae 
superiores  a  Sole  et  aliam  vim  inferiores.  Per  istos  cognoscimus  aèris  alte- 
rationes  pluviasque,  frigora  et  his  similia.  Per  planetas  vero  superiores  co- 
gnoscimus quando  ad  invicem  coniunguntur,  maximas  huius  mundi  infe- 
rioris  mutationes,  diluvia,  terraemotus,  pestilentias,  bella,  regnum  et  regno- 
rum  mutationes,  sectas,  fidem,  et  prophetarum  adventus,  de  quibus  omnibus 
Albumasar  copiosissime  disseruit  »  (Vat.  lat.  2845,  e.  8a). 

1  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  7a.  Servon  bene  di  esplicazione  a  questi  versi 
le  parole  dell'autore  stesso  nel  Commento:  «  Deus  prius  materiam  de  qua 
faceret  preparavit  ex  eo  quod  non  erat,  quia  nefas...  Deum  aliunde  aliquid 
mutuari,  cum  in  ipso,  non  ex  ipso,  sint  omnia»  (Vat.  lat.  2845,  e.  13a). 


166  CAPITOLO  TERZO 

Caos  tenebroso,  prima  ed  informe  creatura,  dilagava  in  mo- 
struosi avvolgimenti  attraverso  lo  spazio.  Allora  Dio,  con  un 
primo  atto  della  sua  volontà,  distinse  i  corpi  celesti,  a  cui 
diede  per  sede  la  parte  più  alta  dell'universo;  quindi  sceverò 
gli  elementi,  a  ciascuno  dei  quali  assegnò  un  luogo  nel  mondo 
sublunare.  Il  mondo  sublunare  rimase  perciò  la  sede  delle 
cose  caduche,  materiali,  quando  se  ne  eccettuino  le  anime 
umane,  le  quali  per  loro  natura  son  divine  e  quindi  immortali  : 

Ex  ilio  tamen  orbe  loci  quod  fertur  ad  imum, 
Mortale  est  quodcumque  vides,  fragile  atque  caducum, 
Et  longe  superis  adversum  sedibus  extat. 
At  non  aethereo  delapsae  semine  mente», 
Corporibus  quanquam  gravibus  pressisque  subintrant, 
Intereunt,  solae  semper  post  corpora  vivunt.  ' 

Affermato  cosi  un  principio  che,  come  quello  iniziale  dell'idea, 
è  nello  stesso  tempo  cristiano  e  platonico,  1'  autore  riprende 
il  discorso  sulla  sede  assegnata  da  Dio  ai  corpi  celesti,  ed 
allora  scivola,  quasi  senza  accorgersene,  nell'aristotelismo  ;  in 
un  aristotelismo  alquanto  astrologico,  nel  quale  la  teoria  della 
forma  e  del  fine  assumono  volentieri  il  carattere  d'influsso  e 
di  fatalità.  Seguiamolo  adunque.  Il  Creatore,  che  è  la  mente 
universale  e  generatrice,  nell' etere,  cioè  nella  parte  più  pura 
e  men  corruttibile  della  materia,  pone  il  suo  regno,  donde 
beato  attende  al  compimento  della  creazione: 

Hic  primum  e  cunctis  flatum  Deus  esse  coigit, 
Seu  mentein  cunctis  praestautem,  tempore  et  ipso 
Quae  prior,  aeterna  consistens  lege  creata, 
Omnibus  ut  rebus  formas  prò  tempore  fundat.  * 

Egli,  come  dice  il  poeta,  infonde  in  ciascuna  creatura  una 
virtù  informativa,  che  la  regga,  anzi  la  costituisca,  per  quanto 
dura  nel  mondo  la  sua  missione;  dà  ad  ogni  essere  la  pro- 
prietà di  generare  altri  esseri  simili,  si  che  le  specie  si  per- 
petuino senza  deformazioni: 

1  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  8a. 
*  Laurenz.  XXXIV,  62,  o.  8b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  167 

Ne  cuncta  incassimi  ruerent,  finiquo  propinquent, 
Immortale  dedit  cunctis  generantibus  aptum, 
Et  propriam  cunctis  formam  spetiemque  creatis... 
Esse  dedit  semen  genitis  formasque  modumque 
Fortunamque  suam  cunctis  et  temporis  usuin.1 

Questa  virtù  però  alle  creature  non  vien  trasmessa  diretta- 
mente dalla  mano  divina,  che  gode  eterna  tranquillità  su  ne' 
cieli,  ma  per  mezzo  delle  sfere  planetarie,  delle  costellazioni 
e  specialmente  dello  Zodiaco, 

Quo  cuncta  in  coelo,  tetris  pontoque  creantur, 
Et  quo  desistunt  vitai  lumen  habere.2 

La  grande  legge  che  unisce  in  Dio,  cioè  in  un'origine  comune, 
tutti  gli  esseri  e  li  indirizza  per  una  via  prestabilita  e  fatale, 
esercitandosi  in  questo  modo  per  mezzo  del  necessario  inter- 
vento celeste,  diventa  una  giustificazione  solenne  dell'astro- 
logia. Onde  il  poeta  proclama  la  volta  del  firmamento  e  l'or- 
dine mirabile  del  movimento  delle  sfere  il  congegno  regolatore 
del  mondo  fisico  degli  elementi,  guastato  il  quale  o  comunque 
turbato  da  fenomeni  improvvisi  od  inesplicabili,  vengono  a 
turbarsi  pure  le  vicende  di  quaggiù: 

Quis  neget  haec  coelo  tantum  faciente  referri 
Non  noscit  rationis  opus  mentisque  supernae. 
Quod  si  lege  data  labuntur  mensibus  anni, 
Nec  variata  suis  alternant  tempora  formis, 
Servabit  natura  modum  propriumque  recursum  ; 
Sin  secus  alternis  variaverit  omnia  signis 
Et  permutatis  assurgat  mensibus  annus, 
Omnia  seminibus  corruptis  nata  resurgent 
Et  mortale  genus  morbis  vexabitur  aegris, 
Quos  non  ulla  magis  generat  violentia  coeli. 3 

Da  simili  disordini  astronomici  dipendono,  secondo  il  poeta, 
insieme  con  le  perturbazioni  delle  cose  insensibili,  anche  le 
calamità  nei  corpi  animali  ed  umani,  anche  le  pestilenze,  che 

1  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  10  a.  b. 

•  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  8b. 

»  Laurenz.  XXXIV,  62,  e  llb-12a. 


168  CAPITOLO  TERZO 

cosi  gravi  danni  sogliono  arrecare  fra  noi.  Cosi  da  segni  ce- 
lesti fu  prodotta  e  preannunziata  la  famosa  peste  d'Atene,  che 
il  Bonincontri  non  si  perita  di  descrivere  sulle  orme  —  ahi  ! 
troppo  ingenuamente  calcate  —  di  Lucrezio.1  E  fra  i  segni  che 
dal  cielo  più  comunemente  minacciano  alla  Terra  morbi  e 
guerre  e  pubbliche  sciagure,  il  primo  posto  tengono  le  comete, 

Qui,  quanquam  raro  apparent,  quot  uoxia  portant 
Tempora  et  immutali t  placidissima  saccaia  pacis!* 

11  tema  popolare  delle  comete,  con  i  relativi  esempi  storici 
da  noi  ricordati  in  altra  occasione,3  suggerisce  pertanto  al 
poeta  l'episodio  di  chiusa  del  primo  libro  e  gli  porge  nello 
stesso  tempo  il  destro  di  adulare  alquanto  il  suo  patrono 
mediceo. 

Libro  secondo.  —  Il  libro  secondo,  come  ho  detto,  parla 
dell'uomo,  parla  cioè  espressamente  di  quello  che  per  gli  an- 
tichi era  l'essere  più  notevole  della  creazione;  e  contiene,  con 
qualche  digressione,  un  vero  trattatello  sulla  generazione  e 
funzione  dei  corpi,  o  fisiologia,  ed  una  teoria  delle  anime,  o 
psicologia;  astrologiche  l'ima  e  l'altra.  Tanto  astrologiche,  che 
il  poeta,  dopo  un  rapido  riassunto  delle  cose  dette  nel  lil>r<» 
antecedente,  riattacca  il  discorso  interrotto  là  dove  si  trattava 
dell'influsso  informativo  degli  astri.  Come  dal  disordine  dei 
cieli,  egli  dice,  provengono  le  sciagure,  cosi  la  vita  regolare 
degli  esseri  di  quaggiù  prende  norma  dal  mirabile  ordine  di 
quelli,  e  dalle  differenti  loro  nature  si  genera  la  varietà  dei 

1  Di  questo  rifacimento  del  noto  episodio  lucreziano  (De  rerum  natura, 
VI,  v.  1139  sgg.),  cosi  poco  felice  che  in  certi  punti  si  potrebbe  chiamare 
nn  plagio,  il  Bonincontri  non  fa  mistero  nel  Commento,  dove  il  nome  del 
grande  poeta  romano  ricorre  spessissimo,  anche  per  altre  ragioni.  Né  qui  >ta 
derivazione  dal  De  rerum  natura  è  la  sola  che  si  noti  nel  nostro  scrittore: 
parecchie  altre,  stranamente  innestate  nello  svolgimento  fondamentalmente 
aristotelico  del  tema,  sono  visibilissime  e  servono  di  riprova  a  quanto  ebbi 

a  dire  nella  biografia,  che  il  Bonincontri  scrisse  il  suo  primo  i ma  tnnll 

fisso  l'occhio  a  Lucrezio,  cui  voleva  emulare,  pur  restando  nel  rampo  della 
fede  cristiana  e  dell'astrologia.  Si  osservi  infatti,  anche  in  questo  caso  spe- 
ciale, la  discrepanza  delle  opinioni:  giacché  la  descrizione  della  peste  è 
lucreziana,  ma  non  lucreziana  la  causa  celeste  della  medesima. 

*  Laurcnziano  XXXIV,  52,  e.  12a. 

3  Cfr.  p.  159,  n.  1. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  169 

caratteri  del  mondo  inferiore.  Onde  gli  antichi  Greci,  per 
quanto  non  illuminati  da  ispirazione  divina,  in  omaggio  a 
quel  principio  che  nella  scolastica  ebbe  poi  tanto  favore:  no- 
mina sunt  consequentia  rerum,  diedero  ai  sette  pianeti  ed 
agli  asterismi  nomi  mitologici,  umani,  ferini,  corrispondenti 
agli  effetti  terreni  di  ciascuno  di  essi: 

Graecia  nam  mendax,  post  tot  miracula  rerum, 
Haec  sibi  constituit  coelo  et  fulgentibus  astris 
Idaeurn  commenta  Jovem,  Martemque  rapacem, 
Saturnumque  gravem,  Phoebum  Lunamque  minorem 
Et  Veneris  stellam  celebrem  coeloque  nitentem. 
Tarn  varias  coeli  partes  propriasque  figuras 
Nominibus  fecero  feris  conformia  quaedam 

Et  quaedam  fluviis,  homini  volucrique  volanti 

Quae  cum  multa  suis  generent  animalia  formis, 
Arboris  omne  genus,  flores  herbasque  virentes, 
Et  varios  ponto  pisces,  coeloque  volantes, 
Hoc  ideo  statuere  patres  baec  nomina....1 

Ora  anche  per  la  generazione  dell'uomo  fisico  e  morale  val- 
gono queste  osservazioni;  a  formar  l'uomo  concorrono  invero 
per  una  parte,  oltre  a  tutto  il  cielo  in  generale,  i  segni  dello 
Zodiaco  in  particolare,  che  cooperano  insieme  coi  genitori  alla 
formazione  del  corpo;  per  l'altra,  in  modo  speciale,  i  pianeti, 
che  dotano  in  varia  misura  l'anima,  mentre  scende  dai  cieli 
superiori  dove  Dio  l'ha  creata,  delle  attitudini  a  loro  peculiari: 

diversa  figurant 
Ornamenta  viris  :  mores  et  pectora  fingunt 
Errantes  coelo  stellàe  ;  sed  corpora  signis 
Reddimus,  effectu  vario  signata  parentum. s 

liacché  1'  uomo  è  composto  di  due  parti:  una  terrena,  onde, 
lice  il  poeta,  il  suo  nome  dall'humus-,  l'altra  divina: 

hinc  et  homo  vero  est  de  nomine  dictus 
Quod  sit  hurao  genitus,  mortali  e  semine  primus, 
Quem  postquam  finxit  rerum  Pabricator  et  orbis, 
Vitalem  illi  concreto  in  corpore  mentem 

«  Laurenz.  XXXIV,  52,  e  18b-19a. 
«  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  19b. 


170  CAPITOLO  TERZO 

Intulit,  oppositis  perfectus  rebus  ut  esset, 
Instituit  superis  descendere  sedibus  illam, 
Ut  levitate  sua  nexus  dissolvere  camis 
Et  tegere  hos  artus  et  sensus  vertere  posset. l 

Cominciando  pertanto  a  discorrere  di  proposito  della  parte 
terrena  dell'  nomo,  il  Bonincontri  tratta  della  funzione  dei 
sessi,  della  durata  della  gestazione,  degli  effetti  delle  fasi  lu- 
nari sull'epoca  dei  parti,  e  di  altre  questioni  dello  stesso  ge- 
nere, sulle  quali  è  inutile  che  ci  tratteniamo.  Non  inutile  in- 
vece sarà  riportare  la  descrizione,  non  estesa,  della  vita  ute- 
rina del  feto  nei  rapporti  col  cielo  influente,  secondo  idee  co- 
muni all'astrologia  classica  e  medioevale,  ed  alla  medicina, 
anche  in  età  men  remote: 

Namque  liquor  guttae  geuitalis  seminis  expers 
Alterius  ruit  in  loca  turgida  matris,  et  alvo 
Distillat  cohitu  amborum  rnatrisque  virique 
Sanguinis  e  puro  tractu,  qui  denique  mixtus 
Ardoris  parili  nexu  densatur,  et  inde 
Concipitur  primo  in  mense,  et  concretus  in  alvo 
Saturno  faciente  manet  ;  Jovis  inde  sequenti 
Putrescit,  factusque  viget  non  cognitus  infans. 
Tertius  at  postquam  mensis  pervenit  et  inde 
Siccatur  Martis  vi  flammea  matris  in  imo, 
Solque  illi  vires  vitales  porrigit,  et  post 
Distillat  Veneris  divae  clementia  viscus 
Quod  fluidum  Cyllenius  item  restringit  et  arctat, 
Donec  ad  extremum  Lunae  sub  lumina  crescat 
Quae  totum  deducit  opus  per  tempora  partus. 
Sic  tandem  facta  est  hominis  generatio,  postquam 
Errantes  tribuere  suas  in  corpore  vires 
Omnis  et  ad  numerum  confluxit  turba  supremum.' 

Dopo  il  corpo,  il  poeta  prende  ad  esaminare  l'anima  e  l'ori- 
gine, la  natura,  la  sorte  di  essa,  illustrando  più   largamente 
quei  principi  di  psicologia,  a  cui  ha  accennato  qua  e  là  mi 
versi  precedenti.  Afferma  con  sicurezza  il  carattere  astrolo. 
della  creazione  delle  anime: 


•  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  20b-21a. 

*  Laurenz.  XXXIV,  62.  e.  28  a.  b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  171 

Ut  mores  hominum  diverso  sydere  fiunt, 
Utque  etiam  corpus  vario  fit  lamine  et  astro, 
Sic  mens  sublimis  non  uno  sydere  fulget.  ' 

Tuttavia  siccome  un  postulato  di  questo  genere,  preso  in  senso 
assoluto,  potrebbe  far  nascere  dei  dubbi  intorno  all'  orto- 
dossia dell'autore,  cosi  questi  subito  corre  alla  parata  soste- 
nendo, con  egual  sicurezza,  le  ragioni  del  libero  arbitrio. 
L'anima,  creata  pura  da  Dio  nell'Empireo,  discendendo  giù 
per  le  sfere,  riceve  da  esse  una  speciale  e  varia  colorazione, 
s'arriccbisce  di  particolari  attitudini,  gusti,  inclinazioni,  se- 
condo la  differente  natura  degli  astri  ;  ma  tutte  queste  predi- 
sposizioni, dato  lo  stato  di  purezza  dell'anima,  non  rappre- 
sentano che  la  naturale  attività  di  essa,  secondo  il  volere  di 
Dio.  Nulla  di  colpevole  adunque  nel  suo  operare,  e  nulla  che, 
per  ragioni  astrologiche,  venga  ad  infirmare  il  dogma  della 
infinita  giustizia  divina.  Però,  quando  1'  anima  s' incarna,  in 
quel  momento  riceve  l'eredità  funesta  del  peccato  d'Adamo; 
si  macchia  ed  entra  nella  lotta  del  bene  e  del  male,  dove 
certamente  sarebbe  ereticale  rappresentarla  fornita  di  incli- 
nazioni necessarie,  volute  da  Dio.  I  cattivi  astrologi,  coloro 
che  affermano  anche  le  colpe  e  i  delitti  non  esser  soggetti 
alla  legge  provvidenziale  del  libero  arbitrio,  ma  derivare  dagli 
astri  e  perciò  da  Dio,  errano  e  peccano  :  il  Bonincontri  invece 
si  ferma  in  tempo,  sull'orlo  del  precipizio!  Ed  a  chi  gli  ob- 
bietta che  l'influsso  sulle  vicende  della  vita  mortale,  anche 
quando  è  funesto  e  colpevole,  è  pur  sempre  opera  di  stelle, 
creature  perfette  di  Dio,  e  quindi  opera  divina,  che  grava  sugli 
uomini,  egli  risponde  che  tale  influenza  non  è  azione  malvagia, 
ma  punitrice,  della  Provvidenza,  la  quale  assoggetta  i  nepoti 
del  pili  antico  peccatore  non  ad  un  male  certo,  ma  al  pericolo 
di  far  del  male,  dando  loro  perciò  appunto  la  possibilità  di 
redimersi  col  buon  uso  della  ragione  e,  per  mezzo  del  batte- 
simo, della  Fede.2 

i  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  24b;  v.  pure,  per  l'interpretazione  di  tutta  la 
teoria  del  libero  arbitrio,  il  Vaticano  lat.  2845,  e.  26a,  dove  si  leggono,  ra- 
dunate non  a  caso  dall'  autore,  molte  sentenze  di  S.  Agostino. 

*  La  discesa  dell'  anima  e  la  varia  dote  degl'  influssi  planetari  eh'  essa 
riceve  è  una  reminiscenza  platonica,  che  avremo  occasione  di  richiamare 


172  CAPITOLO  TERZO 

Si  chiede  ora:  delle  tre  anime  aristoteliche,  la  vegetativa, 
la  sensitiva  e  l'intellettiva,  quale  è  quella  che  subisce  queste 
vicende  ?  La  terza  soltanto,  propria  esclusivamente  dell'uomo, 
è  in  possesso  del  libero  arbitrio;  essa  è  immortale,  e  passa 
d'uno  in  un  altro  corpo,  d'una  in  un'altra  incarnazione,  fin- 
ché la  purificazione  del  peccato  ereditario  e  delle  colpe  nuo- 
vamente commesse  non  sia  avvenuta: 

post  corpora  prima 
Hic  modus  est  illis  infunai  in  corpora  semper, 
Deque  novo  genitis  vita  adveniente  creari, 
Donec  longa  dies  senio  confecerit  orbem. l 

E  solo  quando  questo  basso  mondo  cesserà  di  esistere  nelle 
condizioni  attuali  di  abitabilità, 

Et,  velut  aegrotum  corpus  non  suscipit  in  se 
Altricis  gustum  farris  perditque  calorem, 
Sic  tellus  lapsata  malis  ardoribus  aegra 
Labetur,  nullumque  dabit  collapsa  vigorem;8 

solo  allora  tutte  le  anime  sagge,  come  racconta  Platone,  ter- 
minato il  lungo  esercizio  della  ragione  purificatrice,  torneranno 
beate  a  Dio. 

Dato  adunque  un  mondo  cosi  fatto,  sarà  possibile  agli  astro- 
logi predire  il  destino  individuale  degli  uomini?  Certo,  ri- 
sponde il  Bonincontri,  sarà  possibile,  per  quanto  difficilissimo, 
leggere  nelle  stelle  i  pericoli  a  cui  Dio,  per  mezzo  delle  stelle 
medesime,  manda  incontro  i  miseri  mortali,  ed  anche  le  morti, 
onde  le  anime  mutano  residenza  nei  corpi:  non  sarà  possibile 
invece  predire  l'esito  delle  lotte  morali  impegnate  dalle  anime 
contro  gli  ostacoli  al  bene  ed  alla  felicità. 

Neil'  episodio  di  chiusa  —  siamo  alla  fine  del  libro  —  il 
poeta  insiste  sulle  morti  prevedibili,  e,  trovato  il  terreno  fa- 
cile, digredisce  intorno  alle  cause  di  morte  più  comuni,  sulla 

di  proposito  discorrendo  della  Città  di  vita  di  Matteo  Palmieri,  in  principio 
del  seguente  capitolo.  Non  si  confonda  però  questa  del  Bonincontri  < 
teoria  del  filosofo  fiorentino,  dalla  quale  differisce  profondamente  per  qi 
riguarda  il  concetto,  die  nel  Palmieri  è  ereticale,  dell'origine  delle  annue. 

1    Laurea/..   \X\IY. 

*  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  28b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  173 

gravità  delle  ferite  e  le  cure  migliori,  sulle  norme  igieniche 
per  conservare  a  lungo  una  florida  salute,  ecc.  «  Totus  hic 
locus  —  dice  l'autore  nel  Commento  vaticano  —  excerptus  est 
ex  Aphorismis  Hippocratis  et  a  Cornelio  Celso,  qui  haec  signa 
in  ordinem  reduxit  et  latine  conscripsit  ».J 

Libro  terzo.  —  Il  terzo  libro,  come  ho  già  avvertito,  è  es- 
senzialmente storico  e  polemico,  in  quanto,  affermato  un  pro- 
prio concetto  dell'universo  e  dell'anima,  il  poeta  ricorda  e 
combatte  le  più  notevoli  opinioni  antiche  contrarie  alla  sua. 
Egli  prende  per  guida  la  Fisica  di  Aristotele,  dove  trova, 
come  in  un  compendio,  i  principali  sistemi  cosmogonici  greci, 
con  le  critiche  rispettive.  Dice  prima  dei  tre  jonici  e  dei  loro 
principi  fondamentali  dell'acqua,  del  fuoco  e  dell'aria;  quindi 
li  combatte  enunciando  la  dottrina  aristotelica  della  unione 
dei  quattro  elementi.  In  secondo  luogo  discorre  dell'atomismo 
specialmente  epicureo,  ch'egli  desume  in  parte  da  Lucrezio, 
in  parte  da  Cicerone,  e  naturalmente,  da  buon  astrologo,  lo 
avversa;  lo  avversa  soprattutto  in  quella  dottrina  dell'anima 
nativa  e  mortale,  che  è  diametralmente  opposta  all'  opinione 
platonica  a  lui  tanto  cara.2  Finalmente,  lasciando  i  classici, 
parla  della  concezione  averroistica  dell'anima  o  intelletto  uni- 
versale, ed  anche  a  questa  si  dichiara  contrario. 

L' opera  cosi,  secondo  il  disegno  fondamentale,  è  terminata  ; 
ma  perché  non  paia  troppo  rapida  e  disadorna  la  fine,  seguono 
alcuni  altri  versi,  i  quali  riassumono  la  parte  più  efficace  e 
positiva  delle  idee  dell'  autore,  e  costituiscono  nello  stesso 
tempo  il  tradizionale  episodio  di  chiusa.  Il  riepilogo  verte  sin- 
golarmente sulla  questione  dell'anima,  la  quale,  creatura  pre- 
diletta di  Dio,  è  pellegrina  in  terra,  come  in  un  carcere,  sof- 
frendo delle  continue  limitazioni,  a  cui  l'angustia  e  l' imper- 
fezione del  corpo  la  costringono.  Povera  anima  che,  come  la 
Psiche  della  favola,  persegue  un  suo  grande  amore,  il  sapere, 
*e  non  lo  può  raggiungere  per  l'estrema  brevità  della  vita! 

1  Vaticano  lat.  2846,  e.  36 b. 

*  Queste  stesse  cose,  cioè  1'  esposizione  dei  sistemi  fisici  antichi  e  spe- 
cialmente di  quello  di  Epicuro,  con  le  relative  confutazioni,  vide  l'autore 
anche  in  Manilio,  Astron.,  I,  118-140  e  483  sgg. 


174  CAPITOLO  TERZO 

Die  nrihi,  quid  prodest  homines  ratione  potentes 
Non  longos  vixisse  dies,  nec  laeta  videre 
Tempora,  nec  tuto  duxisse  in  saccaia  vitam?1 

L'episodio  finale  è  un  inno  alla  ragione  umana  e  allo  studio, 
ispirato  dal  notissimo  proemio  del  secondo  libro  di  Lucrezio, 
bello  a  sentirsi  dalle  labbra  d'un  umanista,  d'uno  cioè  di 
quegli  ardenti,  infaticati  lavoratori  del  Quattrocento,  che  dav- 
vero parvero  sentir  dolore  della  brevità  della  vita,  insufficiente 
al  raggiungimento  di  cosi  alto  ideale. 

L' inno  chiude  il  poema,  il  quale,  come  abbiamo  veduto, 
nelle  tre  parti  in  cui  e  diviso  contiene  l'esposizione  organica 
e  compiuta  del  problema  della  Natura  nelle  sue  linee  gene- 
rali. Le  idee  dominanti  al  tempo  dell'autore,  composte  di 
aristotelismo  nel  fondo,  e  di  platonismo  in  quelle  parti,  ove 
il  Cristianesimo,  sempre  dominatore  delle  menti  dei  pili,  non 
avrebbe  accolto  le  dottrine  aristoteliche,  vi  son  sostenute  con 
ordine  e  chiarezza  ;  V  ortodossia  vi  è  costantemente  affermata. 
Però  a  chi  bene  abbia  seguito  il  mio  rapido  sunto  non  sarà. 
sfuggita  la  caratteristica  predilezione  dell'autore  per  le  que- 
stioni astrologiche  generali  e  particolari.  In  ogni  occasione, 
nella  quale  l'astrologia  possa  far  capolino,  ecco  che  il  Bonin- 
contri  si  mostra  sollecito  di  chiarire,  provare,  ripetere  le  pro- 
prie opinioni.  Ora  queste  piccole,  ma  numerose  digressioni, 
che  nell'opera  rimangono  necessariamente  in  ombra,  tolta  t 
quella  pregiudiziale  del  libero  arbitrio,  costituiscono  il  germe 
fecondo,  dal  quale  si  svolgerà  la  trama  del  secondo  poema, 
specialmente  ne'  suoi  due  ultimi  libri. 


III. 


Quando  il  Bonincontri  ebbe  finito  quello,  che  nella  formi 
definitiva  da  noi  esaminata  è  il  suo  primo  poema,  non  si  ar- 
restò, ma  volle  dare  ad  esso,  come  abbiamo  già  detto,  una 
continuazione.  E  siccome  il  mondo  delle  creature  sublunari 

1  Laurenz.  XXX IV,  f,2,  e.  08 b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  175 

era  stato  da  lui  interamente  descritto,  cosi  rivolse  il  pensiero 
al  Creatore,  e  cominciò  un  quarto  libro  d'argomento  teologico; 
pensò  pure  al  mondo  degli  astri,  e  concepì  l'idea,  in  lui,  come 
ftbbiam  visto,  spontanea,  di  descrivere  partitamente  la  sfera. 
Venne  in  quel*frattempo  l'invito  di  re  Ferrante,  e  per  oppor- 
tunità cortigianesca  il  poeta  immaginò  una  nuova  opera,  in- 
dipendente dall'altra  solo  in  apparenza,  ove  la  materia,  ch'egli 
teneva  già  pronta,  trovasse  il  suo  campo.  Conseguenza  del 
primo  poema  è  adunque  il  secondo,  e  complemento  del  tema 
di  quello  il  doppio  svolgimento  di  questo.  Doppio  invero  è  lo 
svolgimento  dell'opera  dedicata  a  Ferdinando  d'Aragona,  cioè 
due  sono  le  parti  ond'essa  risulta,  legate  fra  di  loro  da  un 
tenue  filo  interno,  il  quale  però  basta  a  giustificarne  1*  acco- 
stamento poetico.  E  il  filo  è  questo:  che  le  sfere  planetarie,  il 
cielo  delle  stelle  fisse  e  l'Empireo,  di  cui  si  discorre  nei  libri 
secondo  e  terzo,  son  la  sede  naturale  di  Dio  e  degli  angeli, 
di  cui  si  tratta  nel  primo.  All' infuori  di  questa  unione,  nel 
carattere  delle  due  parti  c'è  divergenza:  la  prima  è  essenzial- 
mente narrativa,  direi  quasi  epica;  la  seconda  didattica.  Ecco 
la  ragione  che  ci  induce  a  farne  separatamente  l'esame. 

Nella  protasi  della  prima  parte  molto  superbamente  l'au- 
tore afferma  d'intraprendere  un  canto  nuovo,  ignoto  ai  poeti 
a  lui  anteriori,  e  chiede  a  tanto  lavoro  l'assistenza  allegorica 
della  Musa  e  quella  più  prosaica,  ma  non  meno  necessaria, 
del  protettore  regale: 

In  nova  tentante m  deducere  carmina  Musas 

Atque  aperire  viam  verae  rationis  et  artis, 

Te,  regimi  Ferrando,  precor,  iustissime  princeps, 

Qui  quondam  tanto  bellorum  turbine  pressus 

Invicta  Fortunae  ictus  virtute  tulisti, 

Flecte  animum,  vatemque  tuum  ne  desere.  Tuque 

Nunc  meliore  lyra,  maiori  carmino,  Virgo, 

Surge,  precor.  ' 

Ea  il  Bonincontri  questa  volta  non  dice  tutta  la  verità,  per- 
le l'argomento  sacro  di  questo  libro  aveva,  anche  a  quel 

1  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  56a.  Questa  protasi  ricorda  molto  da  vicino 
àHiuo,  Astron.,  Ili,  1  :  «  In  nova  surgeliteli!.  ...  ». 


176  Capitolo  terzo 

tempo,  una  lunga  e  non  oscura  tradizione.  I  poeti  della 
Chiesa,  fin  dal  secolo  quarto,  avean  preso  di  mira  nelle  loro 
versificazioni  il  racconto  biblico,  le  sette  giornate  della  crea- 
zione, i  primi  fatti  della  storia  ebraica,  i  Vangeli  e  le  leg- 
gende intorno  alla  celeste  battaglia  fra  gli  angeli  buoni  e 
i  cattivi:  né  io  qui  ho  il  tempo  di  citarne  i  nomi.  Ricorderò 
soltanto,  perché  il  lettore  sia  messo  sulla  strada  e  rammenti 
da  sé,  la  serie  dei  poemetti  di  S.  Avito  vescovo  di  Vienila, 
del  sesto  secolo,  nella  poesia  del  quale  vogliono  i  critici,  non 
a  torto,  scorgere  alcuni  de'  pregi  di  fantasia,  onde  sarà  lodato 
più  tardi  il  Milton;1  ricorderò  pure  quell'esteso  poema  De 
hominum  deificatale,  scritto  nel  secolo  decimoterzo  in  Italia 
dal  benedettino  abate  Gregorio  da  Monte  Sacro  al  Gargano, 
sul  quale  fu  pubblicato  uno  studio  recente.2  Conobbe  il  Nostro, 
nonostante  la  sua  dichiarazione  in  contrario,  questa  tradizione 
a  lui  anteriore?  Dalle  frasi  del  Commento,  ove  si  dice,  in  tono 
meno  reciso,  che  il  poeta  vuol  cantare  i  misteri  della  divinità 
«  magnifice  plus  quam  ab  aliis  fuerit  antea  factum  et  magis 
religioni  nostrae  conveniens  »,3  parrebbe  che  egli  di  quella 
letteratura  non  fosse  interamente  al  buio;  d'altra  parte  Don 
si  riescono  a  scoprire  in  lui  le  tracce  materiali  e  determinate 
dell'imitazione.  Forse  la  verità  è  questa,  che  il  Bonincontri 
conobbe  bensì  qualcuno  dei  poemi  sacri  sulla  creazione,  ma 
non  li  volle  a  modello,  almeno  direttamente.  Egli  nella  vasta 
loro  trama  scelse,  per  svolgerlo  con  speciale  amore,  un  piccolo 
germe,  cioè  la  guerra  degli  angeli,4  intorno  al  quale  poi  la- 
vorò con  quell'arte  veramente  ignota  agli  antecessori,  ch'egli 
derivava  dallo  studio  assiduo  dell'  Eneide.  Concludendo  adnn- 


1  Oeuvres  complète.*  de  Saint  Amt  évéque  de  Vienne,  nonvelle  Mitica 
par.  U.  Chevalirr,  Lyon,  1890,  p.  x. 

*  A.  Silvaoni,  Un  ignoto  poema  latino  del  seeolo  XIII  sulla  er—fioWj 
in  Scritti  di  filologia,  a  Ernesto  Monaci  per  Vanno  XXV  del  suo  U 
gnamento,  Roma,  1901,  p.  413  sgg. 

s  Vaticano  lat  2845,  e.  6:Ja. 

*  Nella  più  vast.-i  trama  dei  poemi  medioevali  la  jrmrra  fra  Mi  ■  Lu- 
cifero non  ha  che  scarse  proporzioni.  Nel  secondo  libro  del  poema  di  B. 
Avito,  per  es.,  è  appena  accennata  (Oeuvre»  cit.,  p.  19),  e  nell'opera  del- 
l' abate  Gregorio  è  ristretta  a  pochissimi  versi. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  177 

que  su  questo  punto,  l' afférmazione  della  protasi  è  esagerata, 
però  non  falsa  del  tutto  :  è  errore  che  il  presente  libro  sia  in- 
dipendente dalla  tradizione,  ma  è  vero  che  si  differenzia,  per 
le  ragioni  che  meglio  osserveremo,  dai  caratteri  medioevali 
di  essa. 

Intanto  procediamo  nell'esame.  Il  primo  mistero,  di  cui 
l'autore  viene  a  parlare,  è  quello  della  divina  Trinità;  quindi 
egli  tocca  dell'immacolata  concezione,  donde  trae  argomento 
ad  un  sublime  elogio  di  Maria,  madre  di  Dio.  Seguendo  i 
Vangeli,  con  vigoria  d'immagini  che,  se  non  mi  allontanassero 
troppo  dal  mio  proposito  di  mettere  in  rilievo  specialmente  le 
parti  astronomiche  di  quest'  opera,  vorrei  far  conoscere  al  let- 
tore, narra. poi  i  principali  fatti  della  vita  di  Cristo,  dalla  na- 
scita alla  passione,  sino  alla  Pentecoste,  ond'  ebbe  origine  la 
Chiesa,  che  è  uno  dei  segni  dell'infinita  bontà  della  Provvi- 
denza. Per  mezzo  della  predicazione  degli  apostoli  il  mondo 
guadagnò  il  regno  de'  cieli  ;  il  mondo  tutto,  tolti  quegli  uomini 
eh'  ebbero  sordo  l'orecchio  alla  buona  parola  e  preferirono  ri- 
maner nel  peccato.  Per  costoro  che,  mal  servendosi  del  libero 
arbitrio  e  della  ragione,  non  seppero  trarre  ammaestramento 
dalla  caduta  di  Lucifero,  ma  come  questo  perseverarono  nella 
loro  superbia,  Iddio 

vindex 
Improvisus  adest,  precibus  nec  flectitur  ullis.  ' 

Il  poeta  ha  nominato  Lucifero:  or  ecco  sembra  arrestarsi  ed 
assumere  una  gravità  tutta  epica,  e,  quasi  cominciando  un'opera 
nuova,  esordire: 


Divinum  aggredior  bellum,  quod  Lucifer  alta 
Mente  tulit  partesque  suae  fecero  rebelles; 
Nam  memoranda  fuit  quondam  super  aethera  pugna 
Principio,  cum  cuncta  Deus  digessit  in  orbem.8 


Lucifero  adunque,  la  più  bella  di  tutte  le  creature,  quella  che 
il  poeta  chiama  species  per  antonomasia,  osò  contrapporsi  a 


1  Lanrenz.  XXXIV,  52,  e.  61  b. 
*  Lanrenz.  XXXIV,  62,  e.  68b. 

Soldati  11 


178  CAPITOLO  TERZO 

Dio;  e  migliaia  di  spiriti  angelici,  affascinati  dal  suo  splen- 
dore, s'unirono  a  lui, 

Tantum  forma  decens  potuit  suadere  malorum  ! l 

L'esercito  dei  ribelli  si  aduna  —  onde  all'autore  viene  in 
mente  il  classico  ricordo  dei  giganti  congiurati  contro  Giove, 
quasi  forze  elementari  della  Terra  vibranti  fiamme  e  sassi 
contro  il  firmamento.  Ma  ciascuno  dei  belligeranti  non  ha  la 
goffa  persona  degli  angeli  alati,  dal  volto  femmineo,  della  tra- 
dizione pittorica,  bensi,  pur  conservando  nell'aspetto  e  nelle 
armi  alcunché  di  simile  all'uomo,  ritrae  la  natura  siderea 
della  stella,  onde  si  mosse,  di  guisa  che  1'  etere  sembra  per- 
corso da  una  pioggia  incandescente  di  meteore: 

Namque  alii  flamrais  similes,  aliique  coruscis 
Chrysolithis,  candent  alii  volitantque  per  auras 
Et  levibus  pennis  possunt  transcendere  montes, 
Astraeumque  genus  cunctis.  * 

L'esercito  terribile  si  avanza:  e  già  nelle  sedi  dell'Empireo 
se  n'ode  il  tumulto,  e  gli  angeli  buoni,  colti  di  sorpresa,  si 
levano,  non  altrimenti 

Quam  si  pacificam  turbasset  luctibus  urbem 
Hostis  in  adventu,  fuerint  per  rura  bovesque 
Agricolae  et  laeti,  carpentes  bordea  campis  ; 
Exoritur  clangor,  perculsa  et  pectore  vox  est 
Reddita,  vicinos  bostes  percurrere  campos.  s 

Or  ecco  i  due  eserciti,  negli  spazi  eterni  del  cielo,  si  trovan 
di  fronte.  Dall'un  campo,  in  mezzo  a  Satana,  Belial  e  Marte, 
condottieri  delle  sue  schiere,  Lucifero  alza  la  voce  piena  d'ira 
e  di  livore;  dice  che  i  suoi  scendono  armati 

Non  regni  cupidos,  sed  libertatis  amore;4 

avverte  che  in  suo  soccorsosi  leveranno  i  mostri  che  abitano 
gli  spazi  infiniti  dell'etere,  cioè  le  costellazioni,  e  che  rocche 
e  ripari  al  suo  esercito  saranno  i  pianeti: 

*  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  64 b. 

*  Laure»/..   \\\I\.  52,  e.  64b-66a. 
'  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  65 a. 

*  Laiireiiz.  XXXIV,  52,  e.  67 b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  179 

Nana  coelum  quodcumque  micat  fulgentibus  astris 
Auxilio  nobis  aderit. x 

Dall'altra  parte  sta  Iddio,  cui  circondano  gli  arcangeli  Mi- 
chele e  Gabriele:  anch' egli  parla  a'  suoi  fedeli,  ma  con  voce 
tranquilla,  e  manifesta  il  suo  profondo  dolore  per  il  peccato 
della  creatura  prediletta,  che  non  vorrebbe  ed  è  costretto  a 
punire.  Si  gettino  dunque  gli  angeli  contro  gli  spiriti  superbi, 
li  sconfiggano,  né  dian  lor  tregua,  inseguendoli  nei  pili  lontani 
nascondigli  del  cielo: 

Vos,  ubi  diffugient  per  aperta  palatia  coeli, 
Ite,  boni,  lustrate  cboro9  saltusque  repostos  ; 
Sive  hos  Arctophilax,  vel  fluminis  orbita  magni, 
Sive  Draco  squamosus  habet,  vel  candidus  ales, 
Seu  lateant  saevi  Marti  s  sub  sydere  tecti, 
Gorgonis  ora  super,  vel  plaustra  Bootidos  alti, 
Quaerite:  coelesti  longe  pellantur  ab  aula.8 

La  battaglia  incomincia,  si  fa  aspra,  accanita  ;  la  turba  dei 
cattivi  cede,  fugge  attraverso  lo  spazio  precipitando,  finché 
l'abisso  iufernale  l'accoglie.  Laggiù  ogni  maggior  bellezza  si 
deforma,  ogni  più  pura  letizia  si  muta  in  acuto  tormento,  ogni 
angelo  diventa  demonio.  Laghi  di  zolfo,  fiumi  gelati,  tenebre 
eterne  contristano  gli  spiriti,  il  cui  pianto  è  cosi  disperato, 
che  noi  dalle  gole  dei  vulcani  ancora  ne  udiamo  come  un'  eco 
lontana  : 

Vidi  ego,  cum  navi  Liparas  tum  forte  petebam, 
Flammarum  volitare  globos  et  labier  alto 
In  pelagus,  timidosque  metu  pallescere  nautas, 
Et  gemitus  stridorque  virùm  (mirabile  dictu) 
Saepius  audiri  solitus  clamorque  gementum.  3 

Terminata  la  lotta,  splendido  è  il  trionfo  dei  cori  angelici 
vincitori.  Ma  resta  una  schiera  d'angeli,  che  rimasero  in  at- 
tesa, incerti  fra  Dio  e  Lucifero:  a  costoro  non  l'inferno  né  il 
cielo,  ma  viene  assegnato  il   regno  dell'  aria,  ed  è  lor  pena 

1  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  66a. 
*  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  67  b. 
»  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  71  a. 


180  CAPITOLO  TERZO 

l'essere   soggetti   ugualmente   alla   divinità,  all'uomo  ed   al 
diavolo  : 

Sed  quisquis  sceleri  largas  non  movit  habenas 
Et  tacitus  voluit  suspense-  incedere  passu, 
Donec  longa  Dei  patientia  sustulit  arma, 
Errantes  fluitare  polo,  nec  sistere  in  alto 
Aspicias,  imas  Terrae  nec  ferre  tenebras, 
Nubiferos  gravioris  aquae  demittere  nimbos 
Ad  Terram  et  rigido  coelum  convolvere  fumo, 
Saepius  ad  magicos  solitos  conscendere  cantus.  ' 

Cosi  finisce,  con  un  accenno  esplicito  alla  magia,  il  libro  teo- 
logico, sul  quale  mi  si  concedano  ora  alcune  osservazioni. 

Nel  Commento  vaticano  il  Bonincontri,  discorrendo  della 
guerra  celeste,  dopo  d'aver  ripetuto  il  raffronto  fra  la  tradi- 
zione sacra  e  la  gigantomachia  greca,  riporta  un'opinione,  che 
ha  per  noi  uno  speciale  interesse.  Egli  scrive:  «  Sunt  qui  hoc 
Luciferi  bellum  contra  omnium  conditorem  Deum  adnegent,  et 
dicant  hoc  nihil  aliud  esse  quam  diversitas  naturarnm  signo- 
rum  stellarumque  et  reliquarum  imaginum  coeli,  et  male  in- 
sertantur  et  merentur  maximam  reprehensionem  ».*  Conosceva 
adunque  Lorenzo  una  interpretazione  fisico -astrologica  del 
fatto,  ma  da  buon  cristiano  la  condannava  come  ereticai»'  ; 
pur  tuttavia,  anche  senza  sottilizzare,  si  scopre  benissimo  che 
di  essa,  in  modo  da  non  compromettersi,  egli  si  è  valso.  Che 
cos'era  mai  quel  sostituire,  che  abbiam  veduto,  l'aspetto  amano 
degli  angeli  cattivi  con  una  figura  quasi  meteorica?  Che  cos'era 
quel  chiamare  a  raccolta,  nell'esercito  di  Lucifero,  i  mostri. 
cioè  le  costellazioni  del  cielo;  e  non  tutte,  ma  solo  quelle  ili 
natura  malefica?  Che  cos'era  quel  dare  il  comando  d'una  parte 
delle  schiere  de'  superbi  a  Marte,  non  il  dio  del  mito,  ma  il 
dio  del  pianeta  dall'influsso  funesto  e  violento?  Tutto  ciò,  a 
parer  mio,  rappresenta  una  traccia  dell'interpretazione  natu- 
ralistica della  leggenda,  ed  e  elemento  prettamente  astrologico, 
che  la  critica  e  in  dovere  di  segnalare;  tatto  ciò  conferma  il 
vecchio  giudizio  nostro  che  sotto  la  penna  del   Bonincontri 

'  taira»,  \xxiv,  Bt,  e, 

«  Vaticano  lat  ^2b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  181 

ogni  tema  poetico  si  colora  d' una  tinta  astrologica,  perché  di 
cotali  dottrine  è  satura  la  mente  dell'autore.  Il  che  non  vuol 
dire,  evidentemente,  che  si  possa  qui  od  altrove  parlar  d'eresia. 
Sempre  nel  Commento,  in  fine  di  questo  primo  libro,  tro- 
viamo intorno  agli  angeli  neutrali  queste  parole  :  «  Hi  sunt, 
quos  Apuleius  in  libro  De  deo  Socratis  dicit,  quaedam  mediae 
divinae  potestates  inter  summum  aethera  et  infimas  terras  »; l 
e,  poco  più  oltre,  quest'  altre  :  «  Demones  sagacissimi  sunt  in 
responsis  dandis,  quia  habent  coelum  prò  speculo  ;  nam  coelum 
est  ut  pellis  extensa,  in  qua  tam  praesentia  quam  futura  sculpta 
sunt,  quae  siquis  mortalis  bene  cognosceret,  ad  divinitatem  ac- 
cederet  in  vaticiniis  proferendis  ».2  E  seguono  altre  annotazioni, 
con  citazioni  dalle  opere  di  Porfirio  e  di  Ermete  Trismegisto, 
le  quali  aggiungono  strane  notizie  intorno  alle  abitudini  degli 
spiriti  dell'aria  ed  al  loro  magico  intervento  nelle  cose  degli 
uomini.  Orbene  in  tutti  questi  passi,  i  quali  non  fanno  che  il- 
lustrare la  sentenza  del  testo,  troviamo  esposta,  con  varianti  di 
minima  importanza,  la  teoria  astrologico-demoniaca  dei  Padri 
della  Chiesa,  quale,  per  esempio,  leggiamo  in  Lattanzio 3  ed  in 


I1  Vaticano  lat.  2845,  e.  81  b. 
'  Vaticano  lat.  2845,  e.  95 a. 
3  II  Bonincontri  in  alcuni  versi,  che  sarebbe  troppo  lungo  riferire,  ag- 
unge  che  gli  angeli  neutrali  s'accostano  inavvertiti  agli  uomini,  cui  ac- 
compagnano come  custodi,  ma  con  intento  perverso;  ed  a  volte  s'insinuano 
nei  corpi  umani,  che  perciò  vengon  detti  dal  popolo  indemoniati.  Ora  si 
confrontino  queste  notizie,  e  quella  della  scienza  astrologica  dei  demoni, 
con  ciò  che  Lattanzio  dice  —  ed  in  ciò  sta  la  differenza  accennata  —  dei 
tìgli  nati  dagli  angeli  che  peccaron  d' amore  con  le  figlie  degli  uomini  : 
«Daemonas  autem  grammatici  dictos  aiunt,  quasi  òarjjuovag,  id  est  peritos 
ac  rerum  scios  ;  hos  enim  putant  deos  esse.  Sciunt  illi  quidem  futura 
multa,  sed  non  omnia,  quippe  quibus  penitus  consilium  Dei  scire  non  liceat... 
Hi,  ut  dico,  spiritus  contaminati  ac  perditi  per  omnem  terram  vagantur, 
et  solatimi)  perditionis  suae  perdendis  hominibus  operantur.  Itaque  omnia 
insiiliis,  fraudibus,  dolis,  erroribus  complent;  adhaerent  enim  singulis  homi- 
nibus, et  omnes  ostiatim  domos  occupant,  ac  sibi  geniorum  nomen  assu- 
mine :  sic  enim  latino  sermone  daemonas  interpretantur....  Qui  quoniam  sunt 
spiritu-  tenues  et  incomprehensibiles,  insinuant  se  corporibus  hominum,  et 
occulte  in  visceribus  operati,  valetudinem  vitiant,  morbos  citant,  somniis 
animos  terrent,  nientes  furoribus  quatiunt,  ut  homines  bis  malis  cogant  ad 
eorum  auxilia  decurrere  >.  Fikm.  La  ct  a  imi  Divin.  instit.  II,  cap.  XV,  col.  881- 
882,  presso  Mionk,  Patrol.  lat.,  VI. 


182  CAPITOLO  TERZO 

S.  Agostino. 1  Astrologica  adunque  è  anche  la  chiosa  del  libro 
e  tale,  che  ancora  una  volta  dà  ragione  ai  nostri  giudizi  e  giu- 
stifica la  cura,  che  abbiamo  impiegata  in  questo  riassunto.  - 


IV. 


L'intonazione  dei  due  ultimi  libri  è  del  tutto  diversa  da 
quella  del  libro,  che  abbiam  finito  ora  di  esaminare,  e  s'  ac- 
costa assai  di  più  al  carattere  didascalico  del  poema  sulla 
Natura.  Mentre  infatti  la  gravità  epica,  derivata  dall'  imita- 
zione virgiliana,  predomina  nel  libro  teologico,  in  questi  nuovi 
libri  astrologici  la  frase,  la  lingua  e  lo  stesso  ritmo  si  atteg- 
giano a  semplicità,  quasi  a  schematismo  scolastico.  La  dispo- 
sizione generale  della  materia  vi  è  poi  ordinalissima  e  la  pili 
elementare  possibile:  una  brevissima  introduzione  intorno  alla 
struttura  de'  cieli,  quindi  la  trattazione  di  tutti  e  sette  i  pia- 
neti, cominciando  dal  più  basso,  cioè  dalla  Luna.  Manca  però 
una  parte  essenzialissima:  il  discorso  siili' ottavo  cielo  o  ci«lo 
delle  stelle  fìsse;  e  manca  per  una  ragione,  che  non  è  possibile 
esporre,  se  prima  non  abbiamo  preso  in  esame  un  problema 
più  grave,  di  cui  per  necessità  di  studio  abbiamo  in  principio 
di  questo  capitolo  anticipati  i  risultati,  ma  che  ora  richiede 
tutta  la  nostra  attenzione. 

1  S.  Agostino  ha  uno  scritto  dedicato  interamente  a  queste  cose,  i 
De  divinatione  daemonum,  ben  noto  al  Bonincontri  ;  il  quale  nelle  opere 
del  santo  lesse  pure  il  paragone  davidico  del  cielo  ad  una  pergamena  si 
a  caratteri  di  stelle  :  S.  Aco.  Enarratio  in  Psalmum  XCIII,  presso  51 
WXVII,  1194. 

*  Leggendo  questo  capitolo  molti  avran  pensato  certo  al  sesto  canto  del 
Milton  e  forse  si  saranno  chiesto  se  il  grande  inglese  possa  aver  conosciuti) 
il  libretto,  in  questa  parte  edito,  dell'  oscuro  umanista.  Chi  Io  sa?  Certo  | 
che  le  somiglianze,  in  certi  punti,  e  specialmente  in  certi  atteggiamenti, 
sono  fra  le  due  opere  tali  da  far  riflettere  i  critici.  Quanto  al  valore 
rario,  io  che  son  grande  ammiratore,  nel  Paradiso  perduto,  dei  pregi  idil- 
lici e  psicologici,  ma  che  non  son  mai  riuscito  a  trattenere  un  irriverente 
sorriso  davanti  alla  caricatura  omerica  della  battaglia  celeste,  non  saprei 
certo  —  in  questo  punto  speciale  —  posporre  il  nostro  umile  astrologo.  Al- 
meno in  quest'ultimo,  nell' inverisimile  scena,  è  conservata  una  certi  mi- 
sura, né  s' incontrano  valli  fiorite  ed  angeli  artiglieri  ! 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  183 

Il  problema  è  subito  posto:  —  Tutto  il  secondo  poema  del 
Bonincontri,  e  specialmente  questi  due  ultimi  libri,  furono  ispi- 
rati dagli  Astronomici  di  Manilio,  e  composti  sotto  1*  azione 
esercitata  dalla  lettura  di  essi? 

Se  crediamo  alle  dichiarazioni,  molto  esplicite,  del  poeta, 
l'imitazione  maniliana  è  da  escludersi.  Leggiamo  la  protasi 
del  libro  secondo: 

Inclite  rex,  vatem  maiora  ad  dieta  vacantem 
Et  per  inaccessas  audentem  carmina  ad  artes, 
Dirige,  si  coeli  formas,  si  consitus  ordo 
Stellarum  iuvat  et  varios  comprehendere  cursus 
Errantesque  polo  divos,  si  fata  diesque 
Extremos  vitae  causasque  videro  latentes. 
Huc  mentem  converte  tuam:  non  bella  gigantuin, 
Hectora  non  canimus,  Xersis  non  castra  ducesque, 
Hannibaleraque  ferura,  nec  praelia  Caesaris  ulla, 
Tritum  iter;  insoli tos  iuvat  exercere  Camoenas 
Ad  numeros,  nulli  vatum  debebimus  ora.1 

Non  è  qui  chiaramente  affermata  l'originalità  della  materia 
e  del  genere  poetico?  Ma  c'è  di  più.  Non  esclama  l'autore 
nella  protasi  del  terzo  libro: 

Nulli  illos  tetigere  globos,  loca  pervia  genti 
Quàerimus,  erranti  needum  bene  cognita  turbae?2 

E  non  commenta  egli  questi  versi  nel  modo,  che  noi  già  co- 
nosciamo: «  Cum  poèta  hoc  opus  perficeret,  nondum  Caium 
Manilium  viderat,  quem  postea  publice  Florentiae  conductus 
legit  atque  exposuit,  reverendissimoque  cardinali  sancti  Georgii 
donavit  ;  nec  C.  Manilius  de  planetis  scripsit,  credo  morte 
iunetns,  vel  latuisse»?3  Queste  dichiarazioni  invero  paiono 
gravi,  e  gravissima  pare  quest'ultima  dell'assenza  nell'opera 
maniliana  del  canone  planetario,  il  quale  forma  invece  il 
tema  unico  dell'opera  bonincontriana.  Tuttavia  la  confuta- 
zione di  ciascuna  di  queste  asserzioni,  se  ben  si  considera, 
non  è  difficile. 


1  Laurenz.  XXXIV,  58,  e.  72a. 
*  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  90a. 
3  Vaticano  lat.  2845,  e.  117a;  v.  pure  ciò  che  abbiamo  detto  noi  a  p.  161. 


184  CAPITOLO  TERZO 

Per  rispondere  al  primo  passo,  cioè  alla  protasi  del  libro 
secondo,  basta  che  trascriviamo  qui  tre  versi  di  Manilio,  la 
cui  efficacia  dimostrativa  non  ha  bisogno  di  commento: 

Omne  genus  rerum  doctae  cecinore  sorores, 
Omnis  ad  accessus  Heliconis  semita  trita  est... 
Nostra  loquar;  nulli  vatum  debebimus  ora.1 

Rilegga  il  lettore  i  versi  di  Lorenzo,  e  poi  dica  se  si  può  affer- 
mare d'esser  originali  con  parole  che  meglio  provino  il  plagio! 
E  se  ciò  non  bastasse,  ricordi  il  riscontro,  da  noi  additato,  nella 
protasi  del  libro  primo;2  e  poi,  ecco  qui  un  altro  raffronto: 

Ne  mirere  novis  fingentem  carmina  verbis 
Si  fruor,  externa  et  si  nomina  singula  coelo: 
Sic  opus  est,  res  ipsa  monet,  ne  quaere  decorem, 
Ornari  Musis  vetitum.3 

Impendas  animimi,  nec  dulcia  carmina  quaeras: 
Ornari  res  ipsa  negat,  contenta  doceri. 
Et  si  qua  externa  referentur  nomina  lingua, 
Hoc  operis,  non  vatis  erit  ;  non  omnia  flecti 
Possunt,  et  propria  melius  sub  voce  notantur.  * 

Non  vale  continuar  nelle  citazioni  :  vengo  alle  parole  del  Com- 
mento. Nelle  quali  il  poeta,  non  indotto  da  altro  che  da  vanità, 
cade  in  una  strana  contraddizione,  sostenendo  di  non  aver 
conosciuto  Manilio  intorno  al  1472-75,  quel  Manilio  che  già 
commentava  a  Firenze  nel  1476,  quel  Manilio  infine  che  —  son 
parole  del  Bonincontri  —  datogli  «  ab  Antonio  Panhormita 

viro  doctissimo Alphonsi  temporibus»,5  cioè  prima  del 

1458,  egli  aveva  studiato  a  Napoli  con  l'astrologo  catanese 
Tolomeo  Gallina  !  Resta  ancora  un  punto  di  resistenza  in 
quella  giusta  osservazione  del  Bonincontri,  che  la  materia  del 
poema  antico  non  è  la  stessa  di  quello  nuovo;  ma  anche  questo 
punto  cede  quando  si  metta  il  problema  nei  suoi  giusti  ter- 

1  H.  Minili  Astron.  II,  49-60  e  67. 

8  Vedi  a  p.  176,  in  nota. 

»  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  74  a. 

I  M.  Manili  Astron.  Ili,  :ts  u. 

5  hkv.  BoNiNcoimm  etc.  in  L.  Manilium  commentum,  ed.  cit.,  e.  8b. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  185 

mini.  Non  ho  inteso  infatti  di  sostenere  la  derivazione  so- 
stanziale di  un'opera  dall'altra,  giacché  gl'indici  stessi  con- 
frontati mi  darebbero  torto,  ma  mia  ispirazione  da  una  parte, 
una  imitazione  in  senso  largo  e  nobile  dall'  altra.  Ho  inteso 
di  dire,  in  altre  parole,  che  il  nostro  astrologo,  visto  che  Ma- 
nilio, cui  si  proponeva  d' imitare,  avea  da  par  suo  discorsi  i 
problemi  generali  dell'  arte  divinatoria  e  dato  un  sufficiente 
sviluppo  alla  trattazione  dello  Zodiaco  e  dell'altre  costella- 
zioni, questa  materia  non  osò  ritentare,  ma  scelse  ciò  che  ri- 
maneva libero  ancora.  Cosi  si  distrugge  ogni  fede  alla  strana 
ed  erronea  asserzione  del  Commento  e  si  spiega  ad  un  tempo 
la  curiosa  limitazione  imposta  dall'autore  alla  sostanza  del 
suo  secondo  poema. 

Il  quale  comincia,  come  abbiamo  accennato,  con  un  riepi- 
logo, in  termini  molto  generali,  della  creazione;  indi  prosegue 
con  la  descrizione  del  sistema  dell'  universo  tolemaico,  per  ve- 
nire finalmente  a  trattar  della  Luna: 

Prima  deùm  terras  alieno  lumine  Luna 
Circuit,  et  varias  patitur  prò  tempore  formas. 1 

Ma  io  non  ho  intenzione  di  tener  dietro  all'  astrologo  in  tutte 
le  minuzie,  ch'egli  espone  accuratamente  intorno  al  pianeta  più 
vicino  alla  Terra;  non  è  necessario  ch'io  ripeta  come,  dopo  le 
fasi,  vengano,  nei  facili  versi  bonincontriani,  i  rapporti  della 
Luna  con  lo  Zodiaco  e  le  relative  esaltazioni  nel  Toro  e 
nel  Cancro,  e  poi  le  posizioni  di  congiunzione  e  d'opposi- 
zione, e  quella  trigona,  quadrata,  sestile  del  nostro  con 
gli  altri  pianeti,  seguite  da  variazioni  d'influsso  sulle  cose 
mortali  di  quaggiù.  Dirò  soltanto  che  l'influsso  lunare  è  dal 
poeta  studiato  specialmente  in  tre  manifestazioni  :  quella  cioè 
che,  prodotta  dalle  congiunzioni  con  Marte  e  con  Saturno,  ge- 
nera le  pestilenze  e  la  pazzia;  quella  di  carattere  fisico,  umida 
per  natura,  che  agisce  sull'  elemento  acqueo,  e  si  manifesta 
singolarmente  nelle  maree;2  finalmente  il  dominio  fisiologico 
sul  cervello  umano  e  le  sue  funzioni,  onde  la  Luna  è  arbitra 

1  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  78a. 

*  Vedi  ciò  che  s'  è  detto  a  p.  180,  n.  1  ;  e  cfr.  M.  Manili  Astron.,  V,  781. 


186  CAPITOLO  TERZO 

di  gran  parte  delle  azioni  degli  uomini.  Mi  piace  per  contro 
esser  meno  avaro  di  notizie  intorno  alla  parte  mitologica  di 
questo  pianeta,  cioè  intorno  alla  favola  di  Endimione,  prege- 
volissima per  alta  ed  originale  poesia. 

Il  mito  greco  del  pastore  di  Caria,  che,  innamorato  della 
dea  delle  notti,  spesso  la  supplicava  di  scendere  dal  suo  carro 
celeste;  ed  ella  non  scese  finché  il  giovinetto  non  ebbe,  per 
molti  mesi,  pascolate  le  candide  gregge  di  lei  su  pel  dorso  e 
le  balze  del  Latmo;  questo  mito,  dico,  ben  presto  nelle  scuole 
alessandrine  era  stato  sottoposto  ad  una  interpretazione  eve- 
meristica.  Il  pastore  allegorico  era  apparso  un  astrologo,  com- 
pagno degli  antichissimi  Atlante,  Ermete,  Prometeo;1  ed  il  mo 
amore  per  la  Luna  non  altro  che  l'oggetto  speciale  de' fortu- 
nati suoi  studi,  ond'era  giunto  allo  scoprimento  delle  1< 
delle  fasi  e  degli  ecclissi.  Già  Plinio  conosceva  questa  inter- 
pretazione,2 che,  estesa  durante  l'età  romana  imperiai-',  potè, 
per  il  prevalere  delle  dottrine  neoplatoniche,  sostituire  la  favola 
primitiva.  E  tale  la  raccolse,  ne' suoi  libri  sulla  religione  pagana, 
nel  secolo  quinto,  il  vescovo  Fulgenzio,3  dall' opera  del  quale 
passò  in  quel  copioso  repertorio  mitologico,  cosi  saccheggiato 
in  tutto  il  secolo  decimoquinto,  che  sono  le  Genealogie  del 
Boccaccio.  Scrive  adunque  messer  Giovanni  :  «  Ait  idem  Ful- 
gentius,  quod  is  Endymion  primus  rationem  cursus  Lunae  in 
venerit,  et  obdormuisse  XXX  annis  dicitur,  quia  stultorum 
iudicio  meditationi  vacantes  dormiunt,  idest  tempus  perdunt, 
seu  qui  meditationibus  deditus  est  profecto  non  aliter  quani 
si  dormiret  immiscetur  activis  operibus.  Quod  de  Endymione 
dictum  est,  quia  nil  aliud  eo  vivente,  nisi   buie   meditationi 

operam  dare  peregit quod  ego  veruni  puto;  nec  sit   qai 

longum  temporis  miretur  spacium,  cuna  circa  Lunae  cursum 
plurima  veniant  consideranda,  ut  ostendit  venerabilis  Andato 
in  sua   Theorica  planetarum.*  Sed   quia  albos  ante   gi< 


1  A.  Bouché  Leci.krcv,  op.  cit.,  p.  676,  n.  1. 

2  Punii  Nat.  hist.  II,  9. 

3  F.  P.  Fulokntii  etc.  Mythologiarum  II,  cap.  ultimo,  Basilea,  16SS,  p.  148. 
*  Intorno  a  quest'opera  del  Di  Negro,  inedita  nel  cod.  Barberiniano  IX, 

26,  t.  G.  Crociohi,  La  materia  del  *  Dottrinale  »  etc.  cit.,  p.  46,  n.  4. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  187 

paverit,  ideo  appositum  credo  ut  loci  snae  meditationis  qua- 
litas  ostendatur,  qni  in  culmine  montis  illius  fuit  quod  sibi 
elegit,  ut  posset  libere  elevationes  assumere  tanquam  expedito 
loco,  et  montium  culmina'  et  potissime  celsa  utplurimum  con- 
sueverunt  esse  nivosa,  quas  nives  quia  diu  observavit,  pastor 
nivei  pecoris  dictus  est.  Quod  autem  a  Luna  deosculatus  sit, 
ideo  fictum  reor,  quia  sicut  amantes  puellam  amoris  munus 
osculnm  arbitrantur,  sic  et  longae  meditationis  fuisse  Lunae 
comperisse  cursum,  et  sic  sui  amoris  videtur  osculum  susce- 
pisse  ». l  La  favola,  già  bella  in  sé  come  racconto  amoroso, 
per  la  sovrapposizione  di  quest'allegoria  era  matura  per  uno 
svolgimento  poetico,  sol  che  un  vero  artista  se  ne  imposses- 
sasse. Ora  c'era  stato  bensì  un  poeta,  o  un  facitor  di  versi, 
cbe  se  l'era  fatta  sua  intorno  al  1460,  a  Firenze;  dico  di 
Matteo  Palmieri,  che  percorrendo  in  fantastico  viaggio  teolo- 
gico l'universo,  guidato  dalla  Sibilla  Curaana,  narra  del  suo 
incontro  nella  Luna  con  l' astrologo-pastore.  Ma  come  poveri 
e  scipiti  i  versi  della  Città  di  vita,  dove  l'allegoria  è  ram- 
mentata ! 

Et  quando  questo  già  non  si  sapiva 
Et  poco  altro  del  corso  della  Luna, 
Nanta  anni  Endimion  co  Ile  dormiva: 

Innamorato  tancto  di  quest'  una 

Sopra  ad  tucte  altre  a  Uu  più  bella  stella, 

Non  pensa  in  altro  aver  miglior  fortuna, 

Et  tanto  si  contenta  sol  vedella 

Che,  sendo  al  suo  peculio  buon  pastore, 

Lascia  la  mandria  et  segue  retro  a  ella, 

Et  stando  nel  dilecto  dell'amore 

Ogni  suo  moto  et  ogni  corso  intese 

Et  sua  grandezza  et  sua  t'orma  et  colore.2 


1  Genealogica  Ioawnis  Boccatii  etc.,  Venetiis,  MCCCCCI1II,  1.  IV,  cap.  16. 

2  Codice  Magliab.-Strozziano  II,  li,  41,  libro  I,  cap.  27°,  v.  186  ggg.  Del- 
l'opera del  Palmieri  e  de' Buoi  clementi  astrologici  avrò  occasione  di  occu- 
parmi più  avanti  :  qui  basti  citare  1'  ultimo  buon  lavoro  sull'  argomento, 
di  G.  Bofkito,  L'  eresia  di  M.  P.  cittadin  fiorentino,  in  Giorn.  storico  d. 
leti,  it.,  XXXVII,  p.  1  sgg. 


188  CAPITOLO  TERZO 

Toccava  invece  al  Bonincontri  che,  se  assai  probabilmente  co- 
nobbe il  racconto  del  Certaldese,  certo  non  conobbe  il  poema 
del  Fiorentino,  divulgato  sol  tardi  e  presto  nascosto,  dopo  la 
morte  dell'autore;  toccava,  dico,  a  Lorenzo  la  fortuna  di  ri- 
vestire artisticamente  il  mito  greco,  infondendovi  un  potente 
soffio  di  vita  soggettiva: 

Haec  inter  cupidos  Endymiona  lusit  amantes, 
Cam  dod  aequali  lustraret  lampade  terras. 
Dum  sequiturque  deam,  per  devia  rura  vagando, 
Per  loca  piena  metus,  per  et  ipsa  devia  montis, 
Fervidns  insomnis  non  cepit  nocte  quietem. 
Non  illi  studium  gemmae,  non  divitis  auri 
Cura  fuit,  sed  sancta  deùm  perquirere  tempia 
Et  superùm  flammas  et  fervida  sydera  coeli; 
Multiplices  Lunae  facies  miratus  ab  imo, 
Terdenos  coluit  revolutis  solibus  annos. 
Ergo  non  studium  tam  longo  tempore  crines 
Pectore,  cura  fuit  dulces  non  carperò  soninosi 
Sed  pluvialis  aquae  patiens,  Aquilonibus  orrens, 
Saepius  herboso  potuit  requiescere  lecto. 
Viderat  lume  ignis  iuxta  confìnia  ferri 
Inter  convexum  flammae  levioris  et  orbem 
Stilbontis,  varioque  globo  circumdare  terras, 
Imparibus  spatiis  lustrantem  et  concava  coeli, 
Interdum  minimis  segnalitela  cornua  flammis 
Et  velut  amissam  moestum  perquirere  Olirapum. 
Incertumque  viae,  quo  cornua  flexerat  orbis, 
Nunc  oculos  mentemque  simul  super  astra  ferebat. 
Omnia  sed  postquam  vicit  sollertior  usus 
Et  labor  et  studium,  quod  perficit  omnia,  velie  et 
Vim  dedit  ut  motus  posset  comprehendere  certos, 
Atque  aperire  vias  omnis,  quis  diva  feratur  — 
Tantum  illi  studium  longaevi  temporis  acre 
Attulit  !  —  humano  liquit  comprehendere  sensu 
Quo  ferat  orbe  rotas.  Hic  mundi  moenia  primus 
Transiluit,  magnumque  deae  penetravit  ad  orbem, 
Et  varias  vidit  vires  variosque  meatus 
Multiplicesque  illi  sub  eodem  sydere  formas. 
Haec  via  sublimes  animos  ad  sydera  vexit, 
Nec  non  et  doctas  qui  quaesivere  per  artes 
Naturae  causas,  et  frontoni  cingere  lauro, 
Castalii  latices  ausos  contingere  fontis  ; 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  189 

Et  plures,  quos  nulla  quies  deduxit,  ab  alto 
Miratos  coeli  speciem,  fragilemque  videntes 
Terreuae  faecis  tabem,  vitamque  fiuentem.1 


1  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  75b-76b.  Le  osservazioni,  che  si  leggono  a 
p.  20,  valgano  anche  per  la  versione  seguente  : 

Fra'  suoi  cupidi  amanti  Endimi'one 

Ella  derise,  con  la  lampa  or  viva 

Or  spenta  per  le  terre  errando.  Ond'  egli 

Che  lei  su  da'  sentieri  aspri  de'  campi, 

E  dalle  selve,  nido  di  paure, 

E  dalle  balze  impervie  de'  monti 

Seguiva  con  intento  occhio  bramoso, 

Vigile,  mai  non  die  le  notti  al  sonno. 

Vaghezza  d'oro  o  cura  di  monili 

Non  ebbe  in  cuor,  ma  gli  aurei  pianeti, 

Gli  astri  di  fiamma  e  i  palpitanti  fuochi 

Spiò  dell'  etra,  pazientemente  ; 

E  dall'infima  Terra  i  molti  errori 

Dell'  ardua  Luna  speculando,  vide 

Chiudere  il  giro  trenta  volte  il  Sole. 

Né  per  tanta  stagione  ebbe  giammai 

Desio  d'  unger  la  chioma  o  dare  al  dolce 

Sonno  le  membra  :  tollerò  le  gravi 

Piogge  e  le  buffe  d'  Aquilone,  e  spesso 

In  letto  di  selvagge  erbe  posò. 

Ma  vide  egli  la  Diva,  oltre  la  sfera 

Del  fuoco,  che  la  fiamma  esile  incurva, 

Di  qua  dal  corso  di  Stilbonte,  tutta 

Cinger  con  variante  orbe  la  Terra: 

Or  con  mezza  la  faccia  errar  pe'  cieli, 

Or  con  piccole  fiamme  appena  un  segno 

Lasciar  delle  sue  corna,  ed  or  perduta 

Pel  mesto  Olimpo  taciturna  audare. 

Incerto  della  via,  dove  sul  mondo 

Ella  sveli  il  suo  raggio,  egli  levava 

Sulle  sfere,  con  l'occhio,  anche  il  pensiero. 

E  vinse  finalmente  il  lungo  studio, 

La  fatica,  V  amor  che  tutto  compie, 

E  il  costante  voler,  si  che  palese. 

Senza  dubbiezze,  gli  si  fé'  ogni  moto, 

E  tutte  chiare  apparvero  le  vie 

Dove  scorre  la  Dea.  Tanto  a  lui  valse 

La  diuturna  indagine  profonda! 

Onde  a  senso  mortai  Cinzia  diede 

Scoprir  sue  fasi  e  primamente  il  breve 

Confili  del  mondo  superare  e,  a  lei 

Giunto,  mirare  nuove  vie,  parvenze 

E  forze  nuove,  in  lei,  che  pur  non  muta. 

Molte  per  tale  amor  menti  sublimi 

Si  levarono  al  ciel,  molte  a'  principi 

Della  Natura  attesero,  ne'  lunghi 

studi,  e  molte  di  lauro  ornar  la  chioma. 

Mentre  al  castalio  umor  porgeano  il  labbro: 

Ma  più  la  veglia  faticosa  addusse 

Dall'  altezza  de'  cieli  a  meditare 

La  superna  beltà,  della  terrena 

Feccia  la  tempra  fragile  ed  impura, 

E  il  rapido  fluir  di  nostre  vite. 


190  CAPITOLO  TERZO 

L'originalità  di  quest'episodio  sta  in  ciò,  che  mentre  nel  rac- 
conto del  Boccaccio  e  degli  altri  mitografi  la  favola,  secondo 
il  senso  letterale,  rimane  sempre  quella  del  pastore  innamo- 
rato, a  cui  solo  a  guisa  di  commento  segue  l'interpretazione 
evemerÌ8tica;  nel  Bonincontri  coscientemente  scompare  ogni 
traccia  di  narrazione  mitica  e  sole  rimangono  la  storia  e  la 
figura  dell'antichissimo  astronomo,  la  cui  trasformazione  rag- 
giunge cosi  il  compimento.  Né  questo  solo  avviene  ed  ha  va- 
lore di  novità,  ma  una  elevazione  l'accompagna,  ben  più  no- 
tevole, onde  il  fantastico  scrutatore  dei  cieli  si  spoglia  «li 
quella  grossolana  indeterminatezza,  che  toglie  serietà  e  con- 
sistenza ed  altre  figure  consimili,  al  Trismegisto,  a  Manetone, 
a  Pet08Ìri,  a  Necepso.  Endimione  diventa  lo  scienziato  mo- 
derno, che  non  solo  s'immerge,  come  già  osservava  il  Boc- 
caccio, negli  studi  al  punto  da  vivere  estraneo  alle  faccende 
quotidiane  del  prossimo,  come  un  uomo  che  dorma,  ma  ope- 
rosamente si  dà  all'osservazione  ed  alla  comparazione.  Non 
dimentichiamo  ciò  che  dice  il  poeta,  con  mirabile  osservazione 
autopsicologica,  dell'aiuto  che  all'occhio  porge  il  pensiero;  e 
non  trascuriamo  il  movimento  lirico  della  chiusa,  dove  ricor- 
rono certe  idee  umanistiche  intorno  alla  brevità  della  vita  ed 
all'alta  funzione  della  scienza  e  dell'arte,  da  noi  già  trovate 
altrove  nell'opera  del  nostro  autore.  '  Non  parlo  poi  dei  preirì 
esteriori  di  questi  versi,  e  specialmente  dell'efficacia  pittorica 
di  certe  frasi  veramente  felici.  Solo  conchiudo  —  né  paia  esa- 
gerazione —  che  basterebbe  la  profonda  poesia  di  quest'epi- 
sodio a  sollevare  il  Bonincontri  e  il  suo  poema  al  disopra  di 
quella  indifferenza  nella  quale  sono  giaciuti  finora. 

Ma  andiamo  oltre  e  veniamo  a  Mercurio,  che  è  il  secondo 
de'  pianeti  esaminati  dal  poeta.  Caratteristica  fondamentale 
di  Mercurio  è  la  meravigliosa  mutabilità,  la  quale  nel  campo 
astronomico  si  manifesta  con  le  rapide  retrogradazioni  rispetto 
al  Sole,  nel  campo  mitologico  è  rispecchiata  nelle  infinite  me- 
tamorfosi volontarie  del  dio,  e  nel  campo  astrologico  appare 
dalla  varietà,  veramente  straordinaria,  degl'influssi,  or  buoni 

1  Cfr.  ciò  che  abbiamo  detto  a  p.  174. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  191 

or  cattivi.  Io  non  trascriverò  i  particolari,  che  nel  poema  a 
questo  riguardo  sovrabbondano;  soltanto  toccherò  qualcuna 
delle  cose  più  notevoli.  E  prima  dirò  dell'accenno  all'origine 
egizia  del  dio  ed  alla  sua  interpretazione  evemeristica,  onde, 
al  par  di  Endimione,  egli  vien  ritenuto  l'inventore  dell'astro- 
nomia: 

esse  deum  mendax  patefecerat  olim 

Aegyptus.  Mores  illis  ritusque  sacrorum 
Exhibuit,  docuitque  viros  al  tari  a  circum, 
Ignibus  accensis,  sacroque  piamine  thuris, 
Posse  horaines  penetrare  globos  sedesque  supemas. 
Hunc  natum  Nilo  dicunt  Memphique  parente, 
Et  celebrant  mensem  Stilbontis  nomine  dictam.1 

A  rigore,  le  notizie  contenute  in  questi  versi,  ed  attinte  dal- 
l'autore liberamente  a  un  noto  passo  di  S.  Agostino,2  peccano 
d'inesattezza;  giacché  con  la  parola  ZxiXfìcùv,  lo  scintillante, 
i  Greci  intendevano  tradurre  non  il  nome  egizio  del  pianeta, 
ma  il  caldeo.3  Giusta  è  però  nella  sostanza  l'origine  religiosa 
della  leggenda,  diffusissima  ne'  libri  antichi  d'astrologia.  Un 
altro  passo  notevole  a  proposito  di  Mercurio  è  l'enumerazione 
dei  vari  influssi  del  dio  in  congiunzione  con  gli  altri  pianeti, 
e  specialmente  l'influsso  di  lui  con  Giove,  donde  nascono  i 
re,  e  donde  il  Bonincontri  coglie  un'  occasione  propizia  per 
glorificare  la  dinastia  aragonese. 

Il  terzo  pianeta,  di  cui  l'autore  discorre,  è   Venere. 

Tertia  snbsequitur  sedes  et  tertius  orbis 
Hic,  Cytherea,  tuus  ;  vires  lumenque  globosque 
Eloquar,  et  sparsas  fulgenti  lampade  flammas. 
Vos  animae  quaecumque  poluin  sedesque  beatas 
Incolitis,  Venerisque  deae  loca  summa  tenetìs, 
Este  duces,  nam  vostra  iuvat  praesentia  vatem. 
Et  tu  sancta  Dei  genitrix,  quam  sydere  in  isto, 
Diva,  colo,  summique  sedes  super  ardua  coeli, 
Quamque  ego  non  nunquam  Veneris  sub  nomine  fleto 
Compellare  raeis  ausus  sum,  diva  dearum, 

1  Laarenz.  XXXIV,  52,  e.  81  a. 

'  S.  Acr.  AuausTim  De  civitate   Dei,  XVIII,  8,  presso  Mians,  Patroì. 
lat.,  41. 

3  A.  Bocche- Leclbrcq,  op.  cit.,  p.  100,  n.  6. 


192  CAPITOLO  TERZO 

Da,  precor,  his  animum  rebus  mentemque  quietarci, 
Ut  valeam  tantae  describere  lumina  flammae.1 

In  questi  versi  è  il  riassunto  di  ciò  che  segue.  Venere,  dice 
il  poeta,  è  la  sede  delle  anime  grandi,2  e  specialmente  delle 
anime  della  stirpe  di  Enea  e  de'  principi  italiani  buoni  di 
tutti  i  tempi;  onde  avviene  che  la  dea,  ansiosa  di  rivedere, 
insieme  col  suo  eroico  corteo,  i  luoghi  del  suo  dominio  in  terra, 
ora  scorre  ad  occidente  ed  ora  a  levante,  fra  Koma  e  Troia, 
formando  la  disperazione  degli  astronomi  (retrogradazioni!. 
Ma  essa  è  pure  l'allegoria  celeste  di  Maria  Vergine  in  grazia 
del  suo  influsso  benigno,  il  quale  ha  tanta  forza  di  bontà  e 
di  gioia,  da  compensare,  nella  congiunzione,  la  funesta  azione 
dei  pianeti  cattivi.  Desiderabile  è  adunque  la  sua  presenza 
in  cielo  nelle  nascite  e  nella  formazione  dei  regni,  special- 
mente in  tempi,  com'eran  quelli  del  poeta,  cosi  pieni  di  guerre: 

Ergo  omnes  superùm  postquam  dea  maxima  fiamma» 
Accipit,  et  diri  frenat  Mavortis  acerbam 
Saturnique  senis  rabiem  luxusque  nefandos, 
Optandum  nobis  foelici  ut  lampade  terras 
Circuat,  et  longi  perducat  tempora  amoris, 
Optatamque  deùm  pacem  mundique  quietem 
Afferat,  et  rabiem  crudelis  comprimat  auri. 3 

Con  Venere  termina  il  libro  secondo,  ma  non  s'interrompe 
che  apparentemente  il  filo  della  trattazione  ;  la  quale  prosegue 
nel  terzo  libro,  secondo  l'ordine  tolemaico,  e  passa  al  quarto 
pianeta,  cioè  al  Sole.  Badiamo  però  che  una  breve  invocazione 
sta  a  capo  anche  di  questo  libro,  ed  è,  a  differenza  delle  pre- 
cedenti, di  carattere  interamente  religioso;4  e  religioso,  in  ge- 
nerale, è  il  libro  stesso,  specialmente  verso  la  fine,  per  ragioni 
che  indagheremo  a  suo  luogo. 

1  Lanrenz.  XXXIV,  52,  e.  85  b. 

*  Abbiamo  visto  il  ritorno  delle  anime  ai  cieli  «secondo  la  sentenza  di 
Platone  »  esposta  dall'  autore  nel  secondo  libro  del  primo  poema  (v.  p.  172)  ; 
quanto  alla  descrizione  del  corteo  di  Venere,  essa  arieggia  la  rappresenta- 
zione maniliana  del  trionfo  delle  anime  degli  eroi  nella  Via  lattea  (Astrati. 
I,  768-804). 

3  Laurenz.  XXXIV,  r>2,  e.  89b-90a. 

4  Laurenz.  XXXIV,  f>2,  e.  90a. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  193 

Dicevo  adunque  del  Sole,  a  proposito  del  quale  il  Bonin- 
contri  espone  la  teoria  delle  stagioni  dell'anno,  toccando  molte 
questioni  astronomiche,  descrivendo  l' origine  e  l' importanza 
dello  Zodiaco,  e  discorrendo  d'altre  cose  che  possono  inte- 
ressare, meglio  che  noi,  gli  storici  della  scienza.  Dopo,  viene 
l'influsso,  il  più  potente  di  tutti  gl'influssi,  proporzionato  alla 
massa,  al  calore  ed  alla  luce  del  grande  astro  diurno:  influsso 
funesto,  quando  il  Sole  venga  a  trovarsi  in  un  segno  zodia- 
cale di  natura  violenta  o  comunque  cattiva;  felice,  in  caso 
contrario.  Ma  la  peggiore  delle  azioni  si  manifesta  quando  il 
pianeta,  nell'  ecclissi,  si  oscura  ;  allora  accadono  le  grandi 
sciagure  dell'  umanità  : 

Nam  si  forte,  suos  Terrae  cum  porrigit  ignes, 
Se  Luna  opponat  media  inter  sydera  fratri, 
Orrendos  tunc  ille  dies  mortalibus  offert.  * 

Mentre,  quando  libero  da  perturbazioni  maligne,  trovandosi 
in  costellazioni  di  natura  mite  e  gioconda,  può  esplicare  tutta 
la  sua  forza  fecondatrice,  oh  !  allora  è  l'astro  più  caro  agli 
uomini;  onde  il  poeta  a  lui  si  rivolge,  esclamando: 

Et  tu,  surame  deùm,  pestem  depelle  futuram 
Humano  generi,  meliora  et  tempora  praesta, 
Dum  pendent  miseri  labentia  sydei-a  fati  !  2 

Con  Marte  i  bei  presagi  improvvisamente  si  oscurano:  per 
lui  ribollono  i  campi  colpiti  dalla  siccità,  i  corpi  animali  dalla 
febbre,  i  popoli  dalle  guerre  e  dalle  rivoluzioni.  Il  colore  stesso 
di  Marte,  rosso-sangue,  denota  violenza: 

Est  rubicunda  deo  facies  similisque  pyropo, 
Qua  mortale  genus  raortis  discrimina  sentit; 
Hoc  irae  faciles,  rixae,  subitique  furores  ; 
Infoelixque  deo  sydus,  mortalibus  arma 
Suggerii,  et  placidae  deturbat  tempora  pacis.3 


1  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  98a. 
1  Laurenz.  XXXIV,  68,  e.  99 b. 
»  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  100  b. 

Soldati 


194  CAPITOLO  TERZO 

Se  è  vero,  dice  l'autore,  che  questo  dio  è  un  eroe  antichissimo, 

Qui,  prius  excelsas  superùm  quam  scanderet  oras, 
Ut  fama  est,  priscae  gentis  certamina  sanxit, 
Bellaque  conflictu  docuit  peragenda  cruento,  ' 

perché  meravigliarci  del  suo  influsso?  Del  resto  la  più  bella 
riprova  della  verità  di  tutto  ciò  è  data  da  due  esempi  storici  : 
il  principio  burrascoso  del  regno  di  Ferrante  d'Aragona,  e  la 
travagliatissima  vita  militare  del  poeta.  Il  passo,  importante 
anche  per  ragioni  artistiche  e  morali,  che  di  quest'ultima  de- 
scrive le  vicende,  ho  già  riportato  in  altro  luogo;*  qui  farò 
notare  soltanto  che  l'uso  d'inserire  il  proprio  tema  di  genitura 
non  era  nuovo,  bensi  comune  ai  poeti  dell'  astrologia  fin  dai 
tempi  romani,  come  abbiamo  rilevato  anche  noi.3  In  un  solo 
caso,  soggiunge  il  Bonincontri,  l'azione  di  Marte,  per  quanto 
cruenta,  può  giovare  ai  popoli  ad  esso  soggetti  :  quando  Marte 
è  in  congiunzione  col  Sole,  onde  produce  guerre  giuste  e  for- 
tunate. Produca  adunque  un  risveglio  nelle  coscienze  dei  prin- 
cipi cristiani,  e  li  spinga  sul  serio  alla  spedizione  contro  le 
schiere,  purtroppo  assai  «valide»,4  del  Turco! 

Giove  ha  influsso  benigno  e  regale.  Al  pari  degli  altri  dèi 
planetari,  era  antichissimamente  un  eroe  dotato  in  grado  emi- 
nente della  virtù  della  giustizia,  tanto  da  divenire  il  simbolo 
del  buon  governo.  Egli  diede  agli  uomini  selvaggi  e  primitivi 
del  regno  di  Saturno  le  prime  leggi  civili  e  i  riti  religiosi: 

Hic  postquam  terras  vidit  sine  lege  iacentes, 
Ut  permixta  virìs  essent  ammalia  quaeque, 
Orrida  discussit  Saturni  saecula  primum. 
Inde  hoininum  sobolem  perfectas  duxit  ad  artes  : 
Et  postquam  patrios  ritus  moresque  refregit, 
Et  simul  omne  forum  toto  disiecit  ab  orbe, 
Aurea  saecla  deus  multos  spoetata  per  annos 
Instituit,  sanctumque  dedit  iustumqne  colondum, 
Imposuitque  pias  sacratis  aedibus  aras.  ■ 

1  [MIMI.  XXXIV.  :,_'.  e.  101  a. 

1  Vedi  p.  131,  ed  ivi  la  n.  1. 

3  Vedi  p.  47  ;  e  A.  Bouch*-Lkclkrcxj,  op.  cit.,  p.  444. 

*  Laurenz.  XXXIV,  62,  e  105b.  Cfr.  pure,  benché  non  c'entrino  ragioni 
astrologiche,  una  consimile  invocazione  del  Basini,  a  p.  88. 

*  Laurenz.  XXXIV,  62,  e.  107a. 


I  POEMI  DEL  BONINCONTRI  195 

Non  altro  il  poeta  soggiunge  intorno  al  sesto  pianeta;  però, 
avanti  di  staccarsene  per  passare  a  Saturno,  forse  preso  dal 
rimorso  d'  aver  abusato  alquanto  nella  esposizione  di  cosi 
vari  influssi  astrologici,  inserisce  un  lungo  brano  teorico  in- 
torno alla  dottrina  del  fato.  Ma  non  dice  cose,  che  noi  già 
non  conosciamo  da  altri  passi  delle  sue  opere.  Basti  rilevare 
i  versi,  nei  quali,  come  conclusione,  egli  afferma  dipendere 
dalla  volontà  libera  di  Dio  le  vicende  morali  dell'umanità: 

Quas  tamen  et  rerum  species  non  esse  reclusas 

A  ratione  Dei  vera,  manifestius  ipsa 

Doctiloqui  potuit  perpendere  musa  Platonis, 

Qui  docuit  mentes  hominum  dominarier  astris, 

Et  posse  interdum  convertere  fata  futuri 

Temporis,  et  nullis  subiectas  motibus  esse.1 

Se  il  lettore  ricorda,  pure  ad  un  passo  di  Platone  il  Bonin- 
contri  s'era  appoggiato  per  sostenere  la  libertà  dell'arbitrio, 
nel  suo  Commento  a  Manilio.2 

L'ultimo  è  Saturno,  stella  fredda  per  eccellenza  e  simbolo 
della  vecchiaia.  Il  suo  corso,  lungo  ben  trenta  anni  solari,  è 
irregolarmente  riscaldato  dal  Sole,  onde  vari  ne  sono  gì'  in- 
flussi. Fra  i  quali  tuttavia,  nella  storia  dell'umanità,  ha  im- 
portanza capitale  quello,  che  il  rigido  pianeta  produce  in  con- 
giunzione con  Giove:  congiunzione  rarissima,  che  fino  al  tempo 
del  poeta  s'era  verificata  tre  volte  soltanto.  La  prima  volta 
aveva  arrecata  la  fine  della  prima  grande  età  del  mondo,  cioè 
il  diluvio  universale;  la  seconda  avea  chiuso  l'antico  Testa- 
mento con  la  nascita  di  Cristo;3  la  terza  avea  fatto  correre 

•  Laurenz.  XXXIV,  52,  e.  I09b-110a. 

*  Vedasi  ciò  che  ne  abbiamo  scritto  a  p.  162;  e  si  consulti  pure,  per 
maggior  sicurezza,  il  Commento  vaticano,  cod.  2846.  e.  136b-140a;  anzi  di 
codesto  Commento  si  badi,  con  le  necessarie  riserve,  alla  chiusa,  a  e.  142a: 
«  Sed  nos  liane  quaestionem  (de  fato)  relinqnamus  nostris  theologis  termi- 
nandam,  quorum  detertninationi  scinper  acquiescemus  et  sanctorum  docto- 
rum  sacrosanctac  romanae  Ecclesiac,  quibus  sit  honor  et  gloria  per  inimici 
saecula  saeculorum.  Amen  ». 

3  Questa  proposizione,  che  ha  odore  ereticale,  è  cosi  spiegata  e  corretta 
nel  Commento  vaticano,  e.  141  a:  «  Loquitnr  (poeta)  quantum  pertinet  ad 
astrologos  de  initio  sectae  Christiauorum,  nec  intelligerc  vult  de  natali 
Christi  Jesu,  nam  omnia  in  eo  fuere  miraculosa,  nec  eius  natale  est  subdi- 
tuin  astris,  cum  ipse  sit  dominus  omnium  quae  in  universo  mundo  sunt  ». 


196  CAPITOLO  TERZO 

alla  Cristianità  un  tremendo  pericolo,  con  1'  avvento  di  Mao- 
metto, prodotto  specialmente  dall'influsso  combinato  del  Cancro, 
nel  (|uale  i  due  pianeti  s'eran  congiunti  nel  primo  anno  dd 
l'Egira  (622).  Ma  già  una  quarta  s'avvicinava,  era  anzi  prof 
sima  ed  invocata  : 

Ast  quoque  quae  nostrìs  iam  iam  ventura  sub  annis 
Et  melior,  nostrae  legis  vix  pauca  refringet, 
Aspera  quae  nimium  sacris  et  dura  ferendis  ; 
Et  genus  orane  mali  tollet  pompasque  sacroruin. 
Ac  regem  dabit  innocuum,  qui  terminet  orbem, 
Et  regat  imperio  populos,  gentemque  rebellem 
Imperio  subdet,  toti  et  dominabitur  orbi.  ' 

Un  riformatore  era  adunque  atteso,  anzi  un  riformatore  reli- 
gioso, come  meglio  appare  dalle  parole  del  Commento  :  «  Haec 
(coniunctio),  meo  iuditio,  erit  anno  salutis  1504,  quae  indicat 
prophetae  adventum  vel  alicuius  sanctissimi  viri,  qui  in  me- 
limi reformabit  religiosorum  mores  et  vitam,  quae  est  nostro 
tempore  omnibus  bonis  viris  contemptui,  ne  dicam  odiosa, 
propter  ipsorum  fastus  et  turpitudinem  ».2  Donde  precisamente 
il  Bonincontri  abbia  presi  questi  presagi,  non  saprei  indicare: 
forse  da  qualche  pronostico  corrente  ai  tempi  suoi,  o  forse  da 
accenni  imperfetti  de'  trattati  d'astrologia,  accomodandoli  alle 
vicende  storiche  contemporanee.  Non  c'è  infatti  scarsità,  nella 
tradizione  classica  e  medioevale,  da  Virgilio  a  Gioachino  da 
Fiore,  di  fantasie  intorno  ai  grandi  periodi  dell'umanità;3  e 

1  Lanrenz.  XXXIV,  52,  e.  114b. 
Vaticano  bit.  2845,  e  141  b. 

3  A.  Bouché-Lkci.erc<j,  op.  cit.,  p.  499,  D.  1.  Albumasar  sostiene  uni 
di  dieci  grandi  rivoluzioni  saturnine,  chiusa  ciascuna  da  un  grande  avveni- 
mento storico  (v.  J.  Pici  et.  Dièpttt  in  (utroìogiam,  Baaileae,  l'.oi,  v.  eaji 
ed  il  Landino,  nel  suo  commento  dantesco,  assegna,  per  ragioni  astrologielie, 
alla  renata  del   Veltro  la  data  del  25  Novembre  1484  (P.  Vili. ahi.  La  storia 
ili  (1.  Savonarola,  Firenze.  [887-88,   I,  p.  04).   Quanto  poi  all' iuiluss.. 
stata  della  ooagiusiOM  di  saturno  eoa  Giove,  ecco  ooaae  al  esprime,  nei 
barbaro  latino  del  suo  traduttore,  lo  stesso  Albumasar.  BOtO    il   Boaloeoutrl  : 
«  Dieainus  ergo  quomodo  eoniunetio  duorum  siiperiorum,  scilicet  Saturni  et 
Jovis,  planetaruni  fccit  aliquid  ex  rebus  necessari. .  in  pcrmutationibus 
tarum  et  vitium  et  permutatinuibus  Icguni  et  in  adveutu  ingcntium  rerum 
et  in  permutatone  imperii  et  iu   morte  rcgum  et   in   adventu   proplic- 
t  a  in  in  et  proplietizandi  et  miraeulorum  in  scctis  et  vicibus  regnorum  »  (Al- 
bumasar, De  maffnis  coniunctionibus  etc.,  Venetiis.  1616,  Tract.  Ili,  din".  1). 


I  POEMI  DEL  BONINCONTR1  197 

proprio  lo  scorcio  del  secolo  decimoqninto  si  mostra  singolar- 
mente fecondo  di  profezie  religiose  e  politiche.  Si  noti  poi 
che  nel  testo  poetico  la  predizione  è  molto  indeterminata,  tanto 
che  difficilmente  vi  si  può  indovinare  chi  debba  essere  l'eroe 
preveduto;  mentre  nel  Commento,  scritto  circa  vent' anni  più 
tardi,  il  Veltro  atteso  si  mostra  un  religioso,  quasi  certamente 
un  pontefice.  Il  Bonincontri  quando  cosi  postillava  l'opera  sua 
era  infatti  a  Roma,  e  vedeva  da  vicino  l'ambiente  della  corte 
papale,  dove  già  comparivano  i  segni  forieri  d'una  riforma;1 
la  quale  invero  segui,  ma  non  quale  il  nostro  astrologo  l'avrebbe 
desiderata,  né  sulle  rive  del  Tevere,  bensì  in  territorio  germa- 
nico, a  piccola  distanza  dal  tempo  predetto. 

Dopo  codesto  grande  influsso  saturnino,  che  fa  le  parti  del 
rettorico  episodio  di  chiusa,  poche  altre  cose  si  leggono  in- 
torno al  pianeta,  col  quale  hanno  termine  il  libro  insieme  e 
il  poema. 

V. 

L'esposizione  della  materia  dei  due  poemi,  fatta  con  di- 
screta larghezza  e  seminata  di  citazioni  dal  testo  originale, 
mi  dispensa  in  gran  parte  dalle  riflessioni  intorno  all'arte  del 
Bonincontri.  Basterà  infatti  eh'  io  accenni  ai  principali  carat- 
teri della  forma  poetica  del  nostro  scrittore,  e  lasci  al  lettore 
di  ritrovar  da  sé,  nelle  pagine  precedenti,  la  riprova  de'  miei 
giudizi.  Dirò  pertanto,  in  primo  luogo,  che  la  perizia  stilistica 
e  metrica  di  Lorenzo,  se  non  è  somma,  non  è  neppur  deficiente. 
Lungi  da  me  l'innalzarla  fino  alla  perfezione  polizianesca  o 
pontaniana!  Ma  mi  si  conceda  di  proclamarla,  per  molti  ri- 
guardi, non  indegna  del  secolo  in  cui  si  maturò.  Ricordiamo 

Da  queste  affermazioni  partirà,  circa  un  secolo  dopo  il  Bonincontri,  Keplero, 
per  sostenere  che  la  famosa  congiunzione  dei  due  pianeti  altro  non  è  che 
la  biblica  stella  dei  Magi.  Intorno  alla  quale  v.  0.  Zanotti  Bianco,  Astro- 
logia e  astronomia,  Torino,  1905,  p.  67  sgg. 

1  Nei  Fasti,  che  sono,  come  sappiamo,  dello  stesso  tempo  del  Com- 
inento,  si  esprimono  intorno  alla  corruttela  dei  religiosi,  e  specialmente  dei 
cardinali,  idee  consimili  con  frasi  non  meno  roventi  :  v.  il  mìo  studio  su 
Gì'  inni  sacri  d'  un  astrologo  ecc.,  cit.,  p.  422. 


198  CAPITOLO  TERZO 

certi  episodi,  certi  brani  anche  brevi,  nei  quali  il  pensiero 
forte,  l'immagine  evidente  e  viva  trovano  nei  vocaboli  e  nel 
ritmo  il  colorito  e  il  rilievo  piò  conveniente:  rileggiamo  l'Kn- 
dimione  o  l'influsso  di  Marte  e  certe  parti  della  battaglia  di- 
vina contro  Lucifero,  e  concediamo  all'astrologo  il  nome,  me- 
ritato, di  poeta.  Per  contro  non  dissimuliamoci  i  molti  difetti, 
primo  fra  tutti  l'ineguaglianza,  la  quale  provoca  in  chi  legge 
attentamente  il  lungo  testo  bonincontriano  un  senso,  ad  ora 
ad  ora,  di  stanchezza  e  di  dispetto.  Troppo  spesso  ai  brani 
migliori  seguono  passi  sciatti,  ripetizioni  oziose,  con  danno 
della  compattezza  e  singolarmente  della  continuità  artistica 
dell'opera.  A  volte  poi,  accanto  a  versi  sonanti  ed  a  costrutti 
ben  sostenuti  e  congegnati,  s'adagiano  senza  vita  lunghe  file 
di  sillabe  e  di  parole,  il  cui  unico  merito  è  una  elementare 
correttezza  metrica  e  grammaticale.  Cosi  povere  e  tediose  sono 
specialmente  le  digressioni  dottrinali,  che  tanta  parte  inva- 
dono del  primo  poema  e  tutta  la  fine  del  secondo. 

Non  entusiasmo  esagerato  adunque  per  l'arte  del  Bonin- 
contri,  ma  giusta  considerazione,  ma  quella  temperata  ammi- 
razione, che  i  contemporanei  e  i  posteri  meno  lontani  non 
esitarono  a  tributargli.  Infatti  come  poeta  astrologico,  oltre  a 
quelli  che  già  conosciamo,  Lorenzo  ebbe  il  postumo  elogio  di 
Luca  Gamico,  pubblicamente  pronunciato  dalla  cattedra  dello 
studio  ferrarese;1  e  come  artista  in  genere  ebbe  le  lodi  di 
Lilio  Gregorio  Giraldi,  che  nel  primo  de'  celebri  dialoghi  gli 
concesse  un  posto  onorevole  fra  i  poeti  del  tempo  suo.* 


1  E.  Pèrcopo,  U  umanista  Pomponio  Gaurico  e  Luca  Gaurico  ultimo 
degli  astrologi,  Napoli,  1895,  p.  136. 

'  L.  G.  Gyealdus,  De  poétt8  nostrorum  temporum,  ed.  K.  Wotke,  1894, 
p.  24.  Una  voce  discorde,  levatasi  che  forse  il  Bonincontri  ancora  viveva, 
non  ha  valore  critico  di  sorta:  è  la  voce  di  Giovanni  Pico,  il  quale,  con 
l'accanimento  suo  proprio  contro  i  cultori  dell'astrologia,  dopo  d'aver  deriso 
un  passo  di  Manilio  (II,  221-23),  alludendo  al  Miniatese,  soggiunge  :  €  Quo 
in  loco  in  ini  in  quantum  deli  rat  triviali*  quidam  istius  poi'tae  intcr- 
prcsl  >  J.  Pici  Disputationes  cit.,  VI,  cap.  16. 


CAPITOLO  QUARTO 


Giovanni  Pontano  e  la  confutazione  del  Pico. 


I.  Come  era  giudicata  l'astrologia  a  Firenze  dagli  uomini  più  colti,  quali  il 
Palmieri,  il  Ficiuo,  il  Toscanelli,  il  Poliziano.  —  II.  Cause  che  indussero  Giovanni 
Pico  della  Mirandola  a  scrivere  le  Disputationes,  e  materia  delle  medesime- 
—  III.  Sostenitori  ed  oppositori  dell'  opera  del  Pico.  —  IV.  Giovanni  Pontano  e  le 
sue  idee  intorno  al  problema  astrologico. 


I. 

Dopo  Basinio  Basini  e  Lorenzo  Bonincontri,  terzo  in  ordine 
cronologico,  ma  primo  in  ordine  di  merito,  fra  i  poeti  del- 
l'astrologia viene  Giovanni  Pontano,  e  con  l'opera  sua,  assai 
più  celebre  di  quelle  de'  suoi  antecessori,  chiude  il  ciclo  della 
poesia  astrologica.  Chiude  pure,  sotto  un  certo  punto  di  vista, 
la  vicenda  delle  dispute  intorno  alla  scienza  divinatrice,  in 
quanto  egli  è  l'ultimo  di  coloro,  che  alla  soluzione  di  codesto 
problema  abbiano  atteso  con  serietà  filosofica.  Egli  infatti,  per 
una  felice  combinazione  di  casi,  venne  a  trovarsi  involto  nel- 
l'ultima fase  della  grande  controversia  fra  i  sostenitori  e  gli 
oppositori  dell'astrologia;  in  quella,  dico,  che  si  svolse  in  Fi- 
renze quasi  parallelamente  al  rinnovamento  del  platonismo,  e 
fini,  appunto,  a  Napoli  nel  seno  del  rinnovato  aristotelismo. 
Il  suo  nome  appartiene  ad  una  serie  notevolissima  e  vien  dopo 
a  quelli  del  Palmieri,  del  Ficino,  del  Bonincontri  stesso  per 
certi  riguardi,  del  Toscanelli,  del  Pico,  autore  della  celebre  e 
ponderosa  confutazione,  del  Bellanti  e  d'altri  ancora;  il  suo 
pensiero,  forse  più  delle  dottrine  di  costoro,  si  allontana  dalle 
concezioni  medioevali  e  teologiche  dell'universo  e  della  mo- 
rale, assumendo  apparenza  scientifica  e  carattere  profonda- 
mente pagano.  Pagana  pure,  cioè  serena,  ricca,  fiorente,  veste 


200  CAPITOLO  QUARTO 

meravigliosa  di  questo  pensiero,  è  l'arte  sua,  alla  quale  perciò 
non  ci  accosteremo,  se  prima  non  ne  avremo  esaminata  degna- 
mente la  preparazione  e  la  materia. 

La  controversia  astrologica,  di  cui  ho  fatto  cenno,  si  ac- 
cese vivamente  verso  la  fine  del  secolo,  e  più  propriamente 
intorno  al  1494,  quando  Giovanni  Pico  della  Mirandola  s'il- 
luse d'aver,  con  un  gran  colpo,  atterrata  la  secolare  avver 
saria  della  vera  fede  cristiana.  Però  le  radici  di  essa  s' hanno 
da  ricercare  un  poco  più  in  alto,  in  mezzo  ai  ragionamenti 
dei  ficiniani  ;  anzi,  se  le  scarse  testimonianze  pervenuteci  parran 
sufficienti,  nelle  dispute  cortesi  di  scienza  e  di  filosofia  che 
per  alcun  tempo,  verso  il  1430,  si  tennero  nel  convento  degli 
Angeli,  intorno  ad  Ambrogio  Traversali. l  Quivi,  come  sap- 
piamo, convenivano  assidui  anche  Paolo  del  Pozzo  Toscanelli, 
il  celebre  astronomo,  e  Matteo  Palmieri,  lo  speziale  dotto  ed 
ardito  in  materia  teologica,  che  dopo  morto  ebbe  più  fama 
dall'eresia  che  in  grazia  del  valore  filosofico  e  letterario  delle 
opere  sue.  Il  primo,  cioè  il  Toscanelli,  attendeva  quasi  esclu- 
sivamente a  studi  di  matematica  celeste,  onde  intomo  all'astro- 
logia s'era  fatta  un'opinione  piuttosto  scettica,  come  avremo 
fra  breve  occasione  di  dimostrare.  Ma  il  Palmieri,  assai  più 
proclive  alle  astrazioni  ed  agitato  dal  problema  religioso,  s';ul 
dentro  invece  nei  misteri  dell'influsso,  dei  quali  s'accese  vìt 
maggiormente  nelle  letture  dei  Padri  greci,  che  allora  il  Tra- 
versar! andava  compiendo  fra  l'attenzione  del  piccolo  cenacolo. 
Concepì  egli  allora  l'idea  della  Città  di  vita,  che  più  tardi 
portò  a  maturazione,  fra  il  1455  ed  il  1464,  ma  che  non  volle 
pubblicar  mai,  per  ragioni  delicate  di  fede.2 

Nella  Città  di  vita  la  vasta,  arida  trama  si  rannoda  tutta 
ad  un  unico  capo:  la  conciliazione  dell'influsso  astrale  con  la 
libertà  dell'arbitrio;  proprio  la  questione  fondamentale  del- 
l'astrologia, secondo  i  teologi.  La  divisione  dei  libri  e  dei  <•.»- 
pitoli,  le  molteplici  discussioni  fisiche,  metafisiche  e  psicolo- 
giche, tutte   convergono  a  questo  scopo:  e  su   tutto   domina. 

1  A.  Dell*  Tokkk,  Stima  dell'  Acculi  in  in  platonica,  Kirenzr.  i 
«  Vittorio  Rossi,  //  Quattrocento,  cit.,  p.  177;  (i.   Borito,    / 
M.  P.  cittadin  fiorentino,  in  Giornale  stor.  della  lett.  it..  wwii.  p,  i  agg. 


G.  PUNTANO  E  G.  PICO  201 

elemento  nuovo  e  veramente  umanistico,  un  mito  platonico,  il 
quale  segna  il  distacco  del  poema  nostro  dalle  enciclopedie  del 
Due  e  Treceuto,  che  pure  per  altre  affinità  gli  son  collegate. l 
Per  il  Palmieri,  come  già  per  San  Tommaso  e  per  Dante, 

Lo  maggior  don  che  Dio  per  sua  larghezza 
Fesse  creando,  ed  alla  sua  hontate 
Più  conformato,  e  quel  ch'ei  più  apprezza, 

Fu  della  volontà  la  libertate, 
Di  che  le  creature  intelligenti 
E  tutte  e  sole  furo  e  son  dotate.2 

Ma  di  questa  preziosissima  dote  pochi  spiriti,  fin  dall'inizio 
del  mondo,  seppero  valersi  degnamente.  Ciò  si  vide  quando 
Lucifero  si  ribellò  all'Eterno,  che  molte  creature  angeliche 
non  si  schierarono  da  nessuna  delle  parti  belligeranti  ;  onde 
Iddio,  che  non  volle  punire  eternamente  gl'incerti,  pensò  il 
modo  di  forzarli  a  ritentar  la  prova  della  libera  scelta  fra  il 
male  ed  il  bene.3  Stabili  allora  che  questi  esseri  uscissero  dalle 
sedi  dell'Empireo  per  una  grande  porta  fatale,  la  porta  del 
Cancro,  e  attraverso  alle  sette  sfere  planetarie  ed  alle  quattro 
elementari  scendessero  sulla  Terra  a  diventar  uomini  :  da  ogni 
sfera  ritraessero  particolari  attitudini  morali  e  fisiche,  dalle 
quali  fossero  istintivamente  spinti  alle  buone  od  alle  cattive 
azioui,  cioè  indirizzati  verso  le  diciotto  mansioni  del  vizio 
oppure  su  per  il  colle  della  virtù  :  la  libertà  del  giudizio  si 
manifestasse  nella  scelta  della  strada  migliore,  di  quella  che 
deve  condurre  la  creatura  un'  altra  volta  beata  all'  Empireo 
per  la  porta  del  Capricorno.4  Che  è  dunque,  quaggiù,  la  vita? 
Una  lotta  fra  la  ragione  e  l'istinto,  fra  la  libertà  e  l'influsso. 

1  Un'  osservazione  simile,  non  però  fatta  a  proposito  del  mito  platonico, 
già  si  trova  in  E.  Frizzi,  La  *  Città  di  vita  »,  poema  inedito  di  M.  P.,  in 
Propugnatore,  1878,  parte  I,  p.  166. 

*  Paradiso,  V,  22. 

3  Notisi  quanto  differisca  questa  sorte  degli  angeli  neutrali  da  quella 
tremendamente  bassa  assegnata  loro  da  Dante,  in  Inferno,  III,  37. 

4  In  queste  due  porte,  che  altro  non  sono  se  non  i  due  supposti  cardini 
celesti  della  Via  lattea,  e  nella  via  planetaria  delle  anime,  consiste  il  mito 
pur  or  ricordato,  da  Platone  narrato,  o  meglio  abbozzato  nel  X°  della  Re- 
pubblica. Come  di  esso  si  siano  giovati  gli  astrologi  dell'antichità,  v.  in 
A.  Bouché-Leclerc^,  L'  astrologie  grecque,  cit,  p.  23. 


202  CAPITOLO  QUARTO 

Che  sono,  lassù,  i  cieli  ?  Essi  son  sedi  curiosamente  immagi- 
nate per  suggerimento  di  miti  cristiani  e  pagani,  dove  le  anime 
attendono  l'ora  della  incarnazione,  ed  intanto,  nell'ozio  or 
breve  or  lungo,  si  colorano  di  speciali  temperamenti  spiri- 
tuali e  corporei.  Prendiamo  un  esempio,  Saturno.  La  sua  è  la 
più  ampia  delle  sedi,  ed  ha  forma  di  grande  valle  circolare, 
qua  più  colma,  là  più  depressa,  fino  ad  accostarsi  a  quella 
immediatamente  più  bassa,  di  Giove.  In  detta  valle  vagano 
gli  spiriti  in  attesa: 

Convien  ciascun  per  ongni  cerchio  freghi 
El  giro  ad  tondo  di  ciascuna  rota, 
Et  dove  inclina  quivi  più  si  pieghi. 

Nella  prima  mansion  si  scorge  tota 
Vicina  al  seno  del  magior  girante 
La  legion  con  soctiglieza  nota  : 

Loro  intellecto  mostra  che  ragione 
S'  aguzi  et  pensi,  et  sian  di  grande  ingegno, 
Ma  varin  molto  per  varia  cagione. 

Secreti  calli  initian  questo  rengno, 
Et  vanno  e'  più  di  lor  per  un  boschecto 
Ascosi  in  mirto  o  tecti  d'  altro  lengno  : 

Per  dua  valli  gli  mena  lor  dilecto l 

Per  diverse  strade  infatti  si  procede  al  vizio  od  alla  virtù. 
onde  nella  prima  valle  saturnina  s'apprende  all'anime  il  buon 
influsso  del  pensiero  e  della  meditazione,  si  che  in  Terra  esse 
producano,  ove  la  retta  volontà  le  sorregga,  filosofi  e  sapienti. 
Ma  quell'altre  che  si  cacciano  nel  secondo  vallone,  più  nume- 
rose ed  incaute,  ricevono  la  malvagia  impronta  della  frigidità, 
della  frode,  della  pazzia.2  E  come  in  Saturno,  cosi  avviene  nelle 
altre  sfere,  essendo  ciascuna,  secondo  i  dettami  tradizionali  del- 
l'astrologia, fornita  d'azione  felice  e  d'azione  funesta.  Sennonché 
può  nascere  un  dubbio:  di  tanti  e  si  vari  influssi,  quale  sarà  il  pre- 
dominante in  ciascun' anima  incarnata?  Risponde  l'autore  che 
fin  da  questo  grado  della  sua  nuova  esistenza  l'anima  libera- 
mente sceglie  il  pianeta,  che  meglio  le  garba,  per  suo  fonda- 

1  Città  di  vita,  lib.  I,  cap.  12°,  v.  37  sgg.,  secondo  il  codice  Mgl.  Stroa- 
ziano  II,  II,  41. 

*  Città  di  vita,  lib.  I,  cap.  12°,  v.  60  sgg. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  203 

mentale  informatore,  attingendo  da  tutti  gli  altri  i  mezzi  onde 
raggiungere  la  pienezza  della  sorte  preferita.  Un'  anima,  ad 
esempio,  s'invaghisce  di  Giove,  cioè  della  potenza,  ma  va  pur 
fornendosi  del  valor  militare  (Marte),  dell'astuzia  (Mercurio), 
della  prudenza  (Saturno),  della  bellezza  e  cortesia  (Venere), 
tutti  ottimi  coefficienti  di  riuscita  nell'acquisto  di  quel  primo 
ideale. 1  Inoltre  in  ciascuna  sede  può  trovarsi  un  eccesso  d'in- 
flusso tale  che  il  bene  degeneri  in  errore,  o  una  deficienza 
che  richieda  un  aiuto;  onde  gl'influssi  dei  pianeti  limitrofi 
vengono  in  buon  punto  a  temperar  la  violenza  o  a  rafforzar 
la  fiacchezza.  Si  pensi,  ad  esempio,  alla  bellicosa  influenza  di 
Marte,  cui  posson  recare  grandi  vantaggi  il  sentimento  della 
giustizia  (Giove)  e  la  serenità  (Sole);  e  per  contro  si  consideri 
la  retta  amministrazione  (Giove)  e  la  pace  lieta  (Sole)  de'  regni, 
che  senza  il  puntello  delle  armi  (Marte)  non  potrebber  durare.2 

Altre  sottigliezze  prettamente  astrologiche,  che  si  leggono 
ancora  nel  nostro  poema,  son  per  noi  trascurabili.  Giacché 
questo  soprattutto  ci  premeva  di  mettere  in  evidenza,  che  la 
questione  dell'astrologia,  non  importa  se  risolta  in  senso  cri- 
stiano, quale  noi  la  vediamo  rispecchiata  nell'opera  di  Matteo 
Palmieri,  si  affacciò  a  Firenze,  con  carattere  nuovo,  nelle  adu- 
nanze del  1430;  e  che  la  novità  del  carattere  da  essa  assunto 
consiste  in  certi  elementi  platonici,  sian  pur  derivati  di  se- 
conda mano  ed  interpretati  troppo  letteralmente.  Tra  poco, 
cioè  ancor  vivo  il  Palmieri,  ripiglierà  lo  stesso  problema  un 
amico  suo,3  che  del  platonismo  si  farà  banditore;  e  nell'anno 
stesso  della  morte  di  lui  verrà  a  Firenze,  a  ridestare  lo  studio 
dell'astrologia,  come  abbiamo  veduto,  Lorenzo  da  San  Miniato. 

Come  la  pensasse  il  Ficino  intorno  a  queste  cose,  già  avemmo 
occasione  di  lasciar  capire  quando  parlammo  di  certa  corri- 
spondenza filosofica,  eh'  egli  ebbe  col  Bonincontri.  Dicevamo 
allora  che  l'astrologo,  assai  perplesso  sulla  soluzione  del  più 

1  Città  di  vita,  lib.  I,  cap.  15°.  La  scelta  della  sorte  non  è  teoria  imma- 
ginata dal  Palmieri,  ma  fu  già  una  trovata  di  Porfirio,  il  noto  neoplatonico 
conciliatore  del  libero  arbitrio  e  dell'  influsso,  tanto  ammirato  dai  filosofi 
del  Rinascimento:  v.  A.  Bouchk-Leclercq,  op.  cit.,  p.  601. 

2  Città  di  vita,  lib.  I,  cap.  17°. 

8  A.  Dilli  Tosse,  op.  cit.,  p.  492. 


204  CAPITOLO  QUARTO 

grave  dei  problemi  della  sua  scienza,  cioè  sulla  conciliazione 
voluta  fra  l'influsso,  la  Provvidenza  divina  e  il  libero  arbitrio, 
aveva  sottoposti  al  giudizio  del  filosofo  i  propri  risultati;  ed 
il  filosofo  aveva  risposto  approvando  con  entusiasmo  quella 
conciliazione  forzata,  non  già  perché  egli  sentisse  di  trovarsi 
d'accordo  con  l'interrogante  sulla  realtà  dell'influsso  o  sui 
segnali  celesti,  ma  perché  le  conclusioni  del  Bonincontri,  ap- 
parentemente conciliative,  non  turbavano  la  sua  cosoiensa  re- 
ligiosa. Abbiamo  riprodotta  a  suo  luogo  la  lettera  ficiniana,  e 
ad  essa  rimandiamo  il  lettore  affinché  vi  osservi  la  prudenza  ili 
chi  la  scrisse:1  cosi  lo  invitiamo  a  scorrere  un'altra  epistola 
del  dotto  platonico  al  Miniatese,  nella  quale  il  riserbo  non  è 
meno  evidente.  Pare  infatti  che  Lorenzo  avesse  per  abitudine  di 
ricordare  uno  dei  dogmi  essenziali  dell'astrologia,  cioè  quello 
che  diceva  non  poter  essere  buon  astrologo  chi  non  a\. 
onestà  e  pietà  religiosa,  essendo  condizione  indispensabile  del 
retto  astrologare  una  vocazione  specialissima,  dipendente  dalla 
grazia  divina.  Questo  affermava  Lorenzo,  attenendosi  a  To- 
lomeo ed  in  generale  alla  tradizione;  ma  il  Ficino,  amiche- 
volmente approvando,  astutamente  se  la  cavò  equivocando  sul 
vocabolo  «  astrologo  »,  che,  come  ben  sappiamo,  aveva  a  quei 
tempi  ancora  il  doppio  significato  d'indovino  e  di  matema- 
tico, Ecco  il  passo  della  lettera,  abbastanza  chiaro  di  per 
«  Soles  saepenumero  dicere,  Laurenti,  non  posse  homines  im- 
pios  unquam  astrologos  veros  evadere.  Quod  quidem  mitri 
quoque  videtur  esse  verissimuin.  .Nam  si  coelum  Dei  ipsius  est 
templum,  consentaneum  est  prophanos  homines  procul  a  cubi 
coelestibusque  arcanis  expelli.  Praeterea  non  solum  astrouu- 
miam,  veruni  etiam  sapientiam  omnem  a  barbaris  descendisse, 
Plato  noster  ceterique  Graecorum  sapientes  procul  dubio  con- 
fitentur.  Compertum  vero  habemus  solos  apud  barbaros  sacer- 
dotes  physicas,  mathematicas  metaphysicasque  scientias  t 
tavisse,  utpote  qui  sciebant  sapientiam  praecipuum  Dei  domini 
non  nisi  mentibus  maxime  sacris  divinisque  vel  debere,  vrl 
posse  concedi.  Hac  potissimum,  ut  arbitror,  ratione  Constai 

1  Vedi  qui  innanzi  a  p.  153. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  206 

ritae  magister  ait  sacra  misteria  (lari  quidem  vulgo  velata, 
electis  autem  discipulis  revelari  ». 1  Or  quale  conclusione  trar- 
remo da  queste  citazioni?  Che  Marsilio  fosse  nemico  dell'astro- 
logia? p]ppure  non  narrano  di  lui  i  biografi  più  autorevoli  al- 
cuni fatti,  che  ce  lo  mostrano,  per  questo  riguardo,  del  tutto 
diverso  ?  Non  si  racconta,  per  esempio,  della  fiducia  ch'ei  nu- 
triva nell'oroscopo  formulato  a  lui  bambino  da  due  astrologi 
di  Firenze,  nel  quale  si  diceva  ch'egli  avrebbe  risuscitato  il 
sapere  filosofico  degli  antichi?2  Non  si  descrive  la  sua  continua 
preoccupazione  della  salute  malferma,  ch'egli  affermava  di- 
pendere dal  proprio  tema  di  genitura,  funestato  dalla  presenza 
di  Saturno  ascendente  in  Aquario?3  Non  è  nota  finalmente  la 
sua  credenza,  espressa  in  una  lettera  ad  Amerigo  Corsini,  che 
la  vera  amicizia  si  generi,  almeno  in  parte,  da  identità  d'in- 
flusso astrale  ne'  due  amici?4  Di  più,  non  si  fa  menzione  d'un 
pronostico  da  lui  composto  per  Giovanni  de'  Medici,  designato 
papa  molti  anni  avanti  il  pontificato;5  o  dell'uso  ch'egli  fa- 
ceva, negli  anni  in  cui  esercitò  la  professione  di  medico,  del 
punto  astrologico  nelle  cure  degl'infermi?6  Ma  soprattutto,© 
non  era  egli  platonico?  E  noi  sappiamo  come  il  platonismo 
avesse  una  teoria  fisica  del  cielo,  che  si  sarebbe  detta  creata 
appositamente  per  giustificare  l'astrologia. 


1  M.  Ficini  Opera,  Basileae,  1576,  p.  787. 
'  A.  Dell*  Torre,  op.  cit.,  p.  588. 

8  P.  Villari,  La  storia  di  Ger.  Savonarola  e  de'  suoi  tempi,  Firenze, 
1887,  I,  p.  64. 

4  «  Una  somiglianza  di  tal  natura  gli  astrologi  dicono  che  consista  nel- 
l' identità  dell'astro  che  presiede  alla  nascita,  i  platonici  nell'identità  del 
demone,  che  ispira  in  vita,  i  fisici  nell'identità  del  temperamento.  Ora 
quando  qualcuna  di  tali  identità  interviene,  la  benevolenza  fra  gli  amici 
è  di  già  grande,  ma  diventa  grandissima,  quando  quelle  identità  interven- 
gano tutte  insieme:  in  questo  ultimo  caso  sorgono  Pizia  e  Damone,  Oreste 
e  Pilade  »,  in  A.  Della  Torre,  op.  cit.,  p.  663-64.  Questa  teoria  dell'amicizia 
e  dell'amore,  come  ben  si  comprende,  era  comunissima  fra  gli  astrologi; 
e  chi  volesse  conoscerla  a  fondo  non  ha  che  da  vedere  G.  Boffito,  II  «  De 
pi-incipiis  astrologiae  »  di  Cecco  d'Ascoli  nuovamente  scoperto  e  illustrato, 
in  Giornale  storico,  Supplemento  n.°  6,  p.  21. 

5  O.  Massktani,  La  filosofia  cabbalistica  di  G.  Pico  della  Mirandola, 
Empoli,  1897,  p.  174. 

6  G.  Massbtani,  op.  cit.,  p.  177. 


206  CAPITOLO  QUARTO 

Per  cogliere  il  pensiero  del  Ficino,  il  quale,  in  verità,  è 
in  questo,  come  in  altri  ponti,  oscillante  e  mal  definito,  biso- 
gna prima  d'ogni  altra  cosa  tener  conto  della  cronologia;  biso- 
gna cioè  riconoscere  che  quasi  tutti  i  fatti  citati  in  favore  della 
sua  fede  nell'influsso,  sono  anteriori  al  triennio  1467-69,  triennio 
di  singolare  importanza  nella  vita  morale  e  spirituale  di  Mar- 
silio, perché  in  esso  si  compi  la  crisi  religiosa  nell'animo  di 
lui  e  la  sua  cosidetta  conversione  al  cristianesimo,  anzi  al  sa- 
cerdozio (1473).  *  La  qual  cosa  significa  che  quei  tali  fatti  an- 
teriori, di  carattere  astrologico,  se  corrispondevano  al  pensiero 
del  filosofo  nella  età,  per  dir  cosi,  giovanile,  non  corrisposero 
più  al  suo  pensiero  maturo,  al  quale  furon  conformi  invece 
le  lettere  indirizzate  al  Bonincontri,  e  sul  quale  la  pregiudi- 
ziale religiosa  ortodossa  prese  a  dominare.  Ma  una  difficolta 
rimane  e  risiede  in  alcuni  di  quei  fatti,  i  quali  persistono 
anche  dopo  la  data  del  rinnovamento:  la  malinconia  saturnina, 
per  esempio,  e  l'uso  della  medicina  astrologica.  E  più  che 
mai  resiste,  o  par  resistere,  ai  nostri  sforzi  esplicativi  di  com- 
mentatori imparziali,  la  professione  di  platonismo,  per  mezzo 
della  quale  inutilmente,  a  filo  di  logica,  si  tenterebbe  d'abbat- 
tere l'astrologia.  11  nodo  adunque,  anche  tenuto  il  debito  conto 
delle  ragioni  cronologiche,  non  si  può  sciogliere,  senza  risalire 
a  quelle  opere  maggiori,  nelle  quali,  al  disopra  degli  errori 
possibili  e  delle  dimenticanze  della  vita  pratica  e  professionali*. 
la  mente  del  Ficino  si  rivela,  o  dovrebbe  rivelarsi,  senza  oscu- 
rità ed  incoerenze.  E  l'opera  più  importante,  a  cui  il  filosofo 
attese  fra  il  1484  e  il  1490,  e  che  per  il  problema  nostro  è 
direttamente  utile,  anzi  necessaria,  è  la  Traduzione  delle  En- 
neadi di  Plotino,  con  il  relativo  Commento  e  con  il  breve 
libro,  desunto  da  Plotino  anch'esso,  De  vita  coelitus  compa 
randa,  cui  tien  dietro,  quale  nota  dichiarativa  e  difensiva, 
V  Apologia. 

Bisogna  anzitutto  sapere  che  il  platonismo  del  Ficino, 
uscendo  dal  periodo  della  crisi  religiosa,  si  trovò  non  legge*1 
mente  mutato  negl'  intenti  e  nelle  dottrine,  per  opera  di  duo 

1  A.  Della  Torri,  op.  cit.,  p.  690-594. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  207 

agenti  modificatori  ;  di  modo  che  mal  giudicherebbe  delle  idee 
ficiniane  chi  si  ostinasse  a  cercare  in  esse  una  derivazione 
pura  dalle  concezioni  del  filosofo  ateniese.  Il  primo  degli 
agenti  modificatori  fu  l' azione  efficacissima  delle  opere  di 
sant'  Agostino,  la  quale  ebbe  invero  un  duplice  effetto  assai 
duraturo  sull'animo  del  traduttor  di  Platone:1  eresse  nella 
mente  di  lui  quasi  un  continuo  controllo,  una  continua  sorve- 
glianza ortodossa  sulle  opinioni  del  filosofo  greco,  intesa  ad 
una  conciliazione  forzata  fra  la  teologia  cristiana  e  quella  che 
allora  fu  battezzata  teologia  platonica,  dove  quest'ultima  ve- 
niva sempre  in  parte  sacrificata  ;  ed  assegnò  per  iscopo  al 
platonismo  cosi  santificato  la  propaganda  religiosa  fra  le  menti 
più  dotte  ed  elette,  cioè  fra  coloro  in  cui  la  semplice  fede  in 
Cristo  avea  bisogno  del  sussidio  della  ragione.  Si  capisce  per- 
tanto come  tutte  quelle  parti  del  sistema  platonico,  le  quali 
favorivano  la  giustificazione  dell'astrologia  —  quelle  parti  ap- 
punto che,  accolte  e  sviluppate  dagli  Stoici,  portarono  al  fa- 
talismo di  Manilio,  —  perché  in  aperta  opposizione  al  prin- 
cipio cristiano  del  libero  arbitrio,  venissero  ad  attenuarsi,  a 
scomparire  nel  sistema  del  filosofo  e  sacerdote  fiorentino.  Onde 
l' irragionevolezza  pregiudiziale  d' un  platonico  nemico  del- 
l'astrologia è  non  risolta,  bensi  evitata  molto  accortamente,  e 
secondo  i  desideri  della  Chiesa.2  Ma  non  basta.  Accanto  al- 
l'influenza della  religione  un'altra  influenza,  singolarmente 
dopo  il  1484,  si  fece  sentire  sull'indirizzo  intellettuale  del  Fi- 
cino:  il  neo-platonismo  di  Plotino  e  di  Porfirio,  quello  del 
primo  specialmente.  E  fu  influenza  dominatrice,  quale  era  na- 
turale subisse  uno  spirito  indagatore  ed  acuto  si,  ma  troppo 
entusiasta  ed  ammiratore,  ma  troppo  poco  diffidente  ed  origi- 
nale.3 Da  essa,  nel  modo  che  ora  vedremo,  provengono  gli 
scritti  che  ho  citati  testé. 

1  A.  Della  Torre,  op.  cit.,  p.  592. 

5  Sulle  idee  anti-astrologiche  dell'  Ipponense,  che  servirono  di  scuola 
al  Ficino,  v.  questo  nostro  lavoro,  a  p.  52. 

8  A  provare  il  culto  esageratamente  devoto  professato  da  Marsilio  verso 
Plotino,  ricorderò,  di  volo,  la  credenza  che  egli  ebbe  nelle  visioni  ultrater- 
rene del  filosofo  antico  (v.  P.  Villaki,  La  storia  di  Ger.  Savonarola,  cit.,  p. 
64),  e  l'opinione  che  questi  potesse  giovare  immensamente  alla  conversione 


208  CAPITOLO  QUARTO 

Il  Ficino  adnnque,  nel  1484,  aveva  finito  di  tradurre  Pla- 
tone; ed  allora  Giovanni  Pico,  venuto  in  quell'anno  stesso  a 
Firenze,  gli  consigliò  di  rivolgere  la  sua  attenzione  a  Plotino, 
come  allo  scrittore  che  mirabilmente  avrebbe  cooperato  col 
grande  ateniese  alla  missione  religiosa  del  platonismo.  Annui 
di  buon  grado  il  Ficino,  a  cui  le  parole  del  Pico  parvero 
un'eco  della  voce  di  Cosimo  il  vecchio,  già  morto,  ma  sempre, 
con  l'anima,  vigile  sopra  l'infaticabile  opera  del  suo  protetti»; 
ed  incominciò  subito  la  traduzione,  che  nel  1486  era  terminata. 
Ma  la  Traduzione  da  sola  riusciva  ostica  ed  inefficace,  onde 
Marsilio  ideò  un  largo  Commento,  composto  a  intervalli,  fra 
1"86  e  il  '90;  e  negl'intervalli  immaginò  alcune  operette  mi- 
nori, ispirate  al  testo  plotiniano,  sopra  argomenti  di  più  viva 
importanza.1  Or  una  delle  questioni  più  scottanti  era  appunto 
quella  astrologica,  intorno  alla  quale  l'antico  filosofo  s'era  in- 
trattenuto non  poco,  ed  in  modo  tale  che  poteva  grandemente 
invogliare  il  suo  commentatore  a  seguirlo.  Onde  uno  degl'in- 
tervalli, nel  1489,  fu  ad  essa  consacrato,  e  ne  usci  1' operetta 
in  tre  libri,  che  ha  per  titolo  De  vita  coditi**  com paranoia, 
cioè  sulla  necessità  di  tener  conto  del  cielo  nel  rego- 
lare le  nostre  funzioni  vitali.  La  teoria  astrologa  di 
Plotino  è  nota.  —  Nel  mirabile  ordine  dell'universo  tutte  . 
strettameute  collegato;  un  moto,  una  mutazione,  un  benché 
minimo  atto  d'una  delle  parti  si  ripercuote  in  tutte  le  altre, 
senza  però  essere  da  alcuna  di  queste  prodotto:  giacché  il 
motore  comune  e  solo  è  il  Creatore,  il  quale  governa  il  mondo 
fisico  e  morale,  concedendo  a  quest'ultimo,  cioè  alle  anime 
umane,  la  tanto  cara  ai  teologi  libertà  dell'arbitrio.  Però  la 
ripercussione  simpatica  dei  moti  è  tanto  più  sensibile,  e  por- 
ciò  anche  visibile  ad  occhio  esperto,  quanto  maggiore  è  l'atìi- 
nità  sostanziale  fra  il  soggetto  operante  e  quello  riflettente 
l'azione;  ed  è  pure  tanto  più  chiara  e  perfetta,  (pianto  mene 


degl'increduli  alla  vera  fede:  opinione  che  il  ricino  tanto  laidamente  nu- 
triva, che  non  si  peritò  di  spiegare  a^rli  amici  alcuni  passi  pia  oscuri  delle 
Enneadi,  in  luogo  sacro,  nella  Chiesa  degli  Angeli  (v.  A.  Della  Torrf,  op. 
cit,  p.  618,  627). 

1  A.  Uei.la  Torre,  op.  cit.,  p.  r.-jl. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  209 

corruttibile  è  il  corpo  che  la  riflette.  Per  la  qual  cosa  i  cieli, 
tra  gli  esseri  creati  i  più  puri  ed  armonici,  sono  come  un 
limpidissimo  specchio,  nel  quale  i  fatti  fisici  di  quaggiù,  qual 
più  qual  meno,  nell'atto  o  nella  preparazione,  proiettano  la 
propria  immagine;  i  cieli  quindi  sono  segni  degli  avvenimenti 
terreni,  non  cause,  e  l'astrologo  solo  allora  è  nel  giusto,  quando 
si  limita  a  leggere  nelle  misteriose  cifre  stellari  l'annunzio 
del  destino,  secondo  un  metodo,  che  ben  fu  denominato  della 
cabbala  celeste.*  —  Ed  il  medico  —  dice  nel  suo  libro  il  Fi- 
cino  —  potrà  esercitar  bene  la  sua  professione  quando  nel- 
l'esame dei  morbi  terrà  conto  del  cielo  significante.  Ma  per 
saper  ben  leggere  la  scrittura  del  firmamento  e  non  cadere 
in  errori  grossolani,  o  sprecare  inutilmente  un  tempo  prezioso 
al  capezzale  degl'infermi,  egli  dovrà  pur  sapere  a  quali  og- 
getti di  quaggiù,  e  singolarmente  a  quali  parti  del  corpo  umano 
corrispondono,  per  affinità  di  natura,  le  più  note  parti  del 
cielo,  cioè  le  costellazioni  e  i  pianeti.2  Ora  tale  determina- 
zione, per  quanto  si  cerchi  d'ingarbugliar  le  cose,  era  compito 
dell'astrologia,  la  quale  cosi,  cacciata  dalla  porta,  ritornava 
per  la  finestra!  Né  Marsilio,  mentre  scriveva,  n'era  spiacente: 
provava  anzi  un  certo  gusto  a  giustificare  credenze  già  care  al 
suo  cuore,  sempre  avido  di  mistero.  E  benché  non  si  lasciasse 
trascinare  a  quelle  estreme  conseguenze,  a  cui  le  premesse 
l'avrebbero  logicamente  condotto,  pure  nella  stessa  prefazione 
dell'opera  si  lasciava  sfuggire  una  confessione  pericolosa;3 

1  A.  Bouchk-Leclercq,  op.  cit.,  p.  600-601. 

2  Queste  affinità  il  Ficino  non  solo  sa  per  averle  apprese  da'  trattati 
di  medicina  astrologica,  ma  conosce  per  esperienza  propria.  Legga,  chi  se 
ne  vuol  persuadere,  questo  passo  significantissimo  :  «Vidi  equidem  lapillum 
Florentiam  advcctum  ex  India,  ibi  e  capite  draconis  erutum,  rotundum,  ad 
nummi  (ìguram,  punctis  ordine  quamplurimis  quasi  strili*  naturaliter  insi- 
gnitimi, qui  aceto  pcrfusus  inovebatur  parumper  in  rectum,  imo  obliquimi, 
mox  ferebatur  in  gyrum,  douec  exhalaret  vapor  aceti.  Rxistimavi  equidem 
lapillum  eiusmodi  coelestis  Draconis  habere  naturam  atque 
quasi  flguram,  mutimi  quoque  illius  accipere  quatenus  per  aceti  seu  vini 
valentioris  spiritimi  Draconi  illi  sive  firmamento  familiarior  redderetur  > 
in  M.  Ficiki  Opera,  ed.  cit.,  p.  551. 

3  Ecco  la  confessione  pericolosa,  nella  quale  è  da  notarsi  il  contrasto 
fra  la  prudenza  e  V  ardire  dello  scrittore  :  «  Denique  si  non  probas  imagi- 
nes  astronomicas  alioquin  prò  valetudine  mortalium  adinventas,  quas  et 

Soldati  U 


210  CAPITOLO  QUARTO 

confessione  che  dovea  apportare  gravi  noie  a  chi  l'avea  pub- 
blicata. 

Non  tardarono  infatti  a  sorgere  le  accuse  di  magia  e  d'astro- 
logia, e  da  Koma  vennero  minacce,  contro  le  quali  il  filosofo 
sacerdote  s'affrettò  a  scrivere  una  lettera,  V Apologia,  ed  a 
contrapporre  i  potenti  appoggi  de'  suoi  amici  e  dello  stesso 
Lorenzo  de'  Medici. ,  Il  pericolo,  nel  1490,  era  scomparso  e  i 
nemici  sconfitti,  poiché  Marsilio  era  riuscito  a  provare  la  sua 
fede  nella  provvidenza  divina  e  nella  non  mai  abbastanza 
proclamata  libertà  del  volere.  La  medicina  astrologici.  soma. 
cosa  attinente  ai  corpi  soltanto,  gli  era  stata  concessa  ! 

In  tutto  questo  svolgimento  d'opinioni  e  di  fatti  c'è,  come 
abbiamo  notato,  dell'incoerenza,  imputabile  prima  di  tutto  a 
Plotino,  e  non  saputa  evitare  dal  traduttore  fedele.  Il  quale, 
forte  dell'autorità  del  suo  autore,  non  si  peritava,  nello  stesso 
tempo  che  scriveva  il  De  vita,  di  stendere  il  commento  alla 
seconda  Enneade,  che  è  tutta  una  battaglia  contro  gli  astro- 
logi di  mestiere.  Nella  seconda  Enneade  infatti  il  filosofo 
alessandrino,  in  una  serie  d'argomenti  non  nuovi,  svolgo  la 
teoria  da  noi  esposta,  che  gli  astri  non  operano,  ma  Mgnifi- 
cano,  e  si  sforza  perciò  di  distruggere  le  teorie  contrarie,  pun- 
tando più  che  contro  la  scienza,  contro  la  pratica  degli  av- 
versari.2 Ora  nel  ripetere,  nel  confortare  d'esempi  nuovi   le 

ego  non  tam  probo  quam  narro,  has  ntique  me  concedente,  ac  etiam, 
si  vis,  consulente,  dimittito.  Medicinas  saltem  coelesti  quodam  adminictilo 
confirmatas,  nisi  forte  vitam  neglexeris,  haud  negligito.  Ego  enini  frequenti 
iain  din  experientia  compertum  habeo  tantum  interesse  medicinas 
h  ni  usui  mi  i  atipie  alias  absque  delieto  astrologo  factas,  quan- 
tum inter  mcriim  et  aquain»  in  M.  Pienti  Opera,  ed.  cit.,  p.  530. 

1  A.  Della  Torre,  op.  cit.,  p.  623.  Per  misurare  I'  Impressiona  provata 
dal  Ficino  di  fronte  alle  minacce  della  Curia,  bisogna  ricordare  la  condanna 
allora  recente  e  notissima,  riportata  per  motivi  non  dissimili  dal  Pico,  e  le 
persecuzioni  che  questi  aveva  subite  e  continuava  in  parte  a  suture. 

1  Come  sostanzialmente  vana  era  l'astrologia,  cosi  risibili  erano  «_r  1  ì 
argomenti  contrari  ad  essa,  che  non  miravano  alla  sostanza;  i  principali 
dei  quali  datavano  dal  tempo  di  Cameade,  e  vissero,  come  appunto  veniam 
dicendo,  per  tanti  secoli,  quasi  senza  alterazione.  Fra  gli  argomenti  di  Ilo- 
tino,  e  perciò  di  Marsilio,  questi  erano  i  precipui:  1°  L'astrologo  non  co- 
nosce tntte  le  stelle;  ora,  come  può  tener  conto  di  tntte  le  o 
efficienti  nel  l'astrologare?  —  2°  L'aspetto  del  cielo,  sempre  nuovo,  noa 
permette  l'uso  dell'esperienza  ripetuta;  —3°  Sono  cause  perturbatrici 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  211 

accuse  antiche,  godeva  il  Ficino,  scorgendo  forse  in  queste 
sue  pubbliche  dichiarazioni  un  prudente  temperamento  della 
dubbia  ortodossia  dell'  altro  suo  scritto.  Pare  anzi  —  se  l'ipo- 
tesi ch'io  fondo  sur  una  notizia  dataci  dal  Pico  è  ammissi- 
bile —  che  di  questo  capitolo  del  Commento  egli  volesse  fare 
un  libretto  a  parte,  intitolandolo  Contro  gli  astrologi,  e  pre- 
sentandolo ai  lettori  col  seguente  altisonante  proemio:1  «  Sur- 
gite  igitur,  philosophi,  precor,  surgite  omnes  libertatis  tran- 
quillitatisque  praetiosissimae  cupidi,  eia  agite,  iam  accingite 
vos  clypeo  Palladis  atque  basta,  bellum  in  praesentia  nobis 
imminet  contra  nefarios  gigantulos  illos,  qui  et  futurorum 
praescientiam  Deo  prorsus  immenso  se  aequare  conantur,  et 
fati  caelestis  defensione  supercaelestis  Deo,  qui  est  summa 
libertas,  liberum  imperium  auferre.  Sed  qui  tam  superbe  ad 
superos  ascendere  moliuntur,  miserabiliter  praecipitabuntur  ad 
infcros.  Porrige  manum  nobis  ex  alto,  Deus  omnipotens,  vires 
tuis  militibas  subministra  :  tuum  istud  defendere  imperium 
nunc  aggredimur.  Succurrite,  numina,  quae  circulos  rotatis 
aethereos,  succurrite  iustitiam  vestram  excusaturis  adversus 
impios  hostes,  qui  extremae  cuiusdam  iniustitiae  nos  accusant. 
Fave  tu  quoque  nobis,  o  genus  hominum,  sine  invidia,  nempe 
tuam  istam  omnium  praetiosissimam  libertatem  tranquillita- 
temque  tuemur  ».  Non  meravigliamoci  di  tanta  gonfiezza  d'e- 
spressione, e  badiamo  piuttosto  alla  sostanza,  cioè  alla  ripro- 
vazione dell'arte  astrologica,  e  leggiamo  ancora  un  passo,  in 
fine  dell'opera,  più  semplice  e  non  meno  significativo:  «  Quam 

l' influsso  la  posizione  geografica,  1'  eredità  famigliare,  1'  educazione,  ecc. 
dell'  oggetto  influenzato  ;  —  4°  L'  estrema  rapidità  del  moto  circolare  dei 
cicli  rende  difficile,  per  non  dire  impossibile,  la  determinazione  del  punto 
per  I'  oroscopo;  —  6°  Non  è  possibile  stabilire  l'attimo  del  principio  della 
vita  nel  bambino.  Come  a  ciascuna  di  queste  proposizioni,  le  quali  intac- 
cavano non  la  scienza,  ma  la  pratica,  rispondessero  trionfalmente  i  soste- 
nitori dell'astrologia,  vedasi  in  A.  Bouché-Leclkrcq,  op.  cit.,  p.  670  sgg. ; 
come  di  esse  si  sia  servito  anche  il  Pico,  vedremo  a  suo  tempo. 

1  La  mia  ipotesi,  fondata  su  d'  un  passo  del  Pico  che  citerò  poche  righe 
più  sotto,  riguarda  l' identificazione  del  Commento  alla  seconda  Enneade 
con  l'opera  Contro  gli  astrologi,  la  quale  altrimenti  si  dovrebbe  ritenere 
perduta.  11  proemio  è  riportato  dal  Ficino  stesso  in  una  lettera  a  Francesco 
Gazolti,  in  Opera,  ed.  cit,  p.  781. 


212  CAPITOLO  QUARTO 

fallaciam  (astrologorum)  doctissiini  quinque  astronomi  depre- 
hendeDtes,  iudicia  neglexerunt.  Mitto  ceteros  mihi  etiam  notos. 
Paulus  Florentinus  astronomus  singularis  haec  ridere  solebat, 
qui  et  annos  vitae  quinque  super  octoginta  implevit,  suani 
tamen  genesim  diligentissime  contemplatus,  nihil  ad  aetatem 
conferens  longani  potuit  invenire  ». L  Una  nuova  autorità,  il 
Toscanelli,  avea  dato  ragione  a  Plotino,  le  cui  conclusioni 
sotto  la  penna  di  Marsilio,  dimentica  ormai  del  De  vita,  si 
allargavano,  diventavano  una  confutazione  generale  dell'astro- 
logia; lo  scrupolo  religioso  aiutava  il  compimento  della  con- 
versione, e  del  Ficino,  intorno  al  1492,  poteva  con  ragione 
scrivere  il  Mirandolano:  «  Porro  noster  Marsilius  scripsit  ad- 
versus  eos  (astrologos),  aperte  Plotini  vestigia  sequutus.  In 
quo  interpretando  et  enarrando  magnopere  rem  platonica  in 
iuvit,  auxit  et  illustravit.  Quod  si  valetudini  consulens  honii- 
num  aliquando  corrogat  sibi  de  coelo  quaedam  etiam  anxilia. 
optat  ille  potius  ita  fieri  posse  quam  credat.  Testa  ri  hominii 
mentem  fidelissime  possum,  quo  familiariter  utor.  nec  babai 
ad  detegendam  istam  fallaciam  qui  me  saepius  et  eflfica<  ius 
adhortaretur  ».2  Infatti  non  solo  Marsilio  esortò  il  Pico  a  com- 
batter gli  astrologi,  ma  ne  lodò  pure  il  lavoro,  quando,  nel 
1494,  lo  potè  leggere  terminato  da  poco.3  Concludendo  adun- 
que, per  noi  il  Ficino,  nell'ambiente  erudito  in  cui  viveva 
Giovanni  Pico  a  Firenze,  rappresenta,  in  rapporto  al  problema 
dell'astrologia,  la  negazione  filosofica  e  teologica,  poco  coe- 
rente, è  vero,  ma  certo  molto  recisa. 

Ho  nominato  il  Toscanelli:  ecco  un  altro  fiorentino,  l'in- 
fluenza del  quale  sul  pensiero  del  Mirandolano  non  va  tra- 
scurata. Egli,  in  verità,  o  non  ebbe  alcun  contatto  personale 
col  giovane  conte,  o  l'ebbe  brevissimo  e  di  sfuggita  dorante 
la  prima  venuta  di  costui  alla  città  medicea;'  ma  rapporti 
ideali  fra  i  due  ci  furono,  e  ciò  a  noi  deve  bastare.  Ora,  ri- 


1  M.  Ficini,  Opera,  od.  cit,,  p.  1628. 

*  Jo.  Pici  etc.  Opera,  Basileae,  1601,  p.  281. 

3  In  una  lettera  al  Poliziano,  del  20  agosto  1494,  ricordata  da  A.  n» 
Torre,  op.  cit.,  p.  766. 

4  A.  Della  Torre,  op.  cit.,  p.  750. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  213 

guardo  al  problema  astrologico,  che  rappresenta  il  Toscanelli  ? 
La  negazione  in  nome  di  quello,  che  noi  moderni  diremmo 
seuso  scientifico.  Paolo  infatti  non  confutò  l'astrologia,  perché 
in  certe  quisquilie  metafisiche  la  sua  mente  severa  non  voleva 
cacciarsi;  egli  semplicemente  negava  fede  ad  una  dottrina, 
che  nei  lunghi  anni  dell'esercizio  pubblico,  non  gli  aveva  mai 
data  una  prova  reale  della  propria  verità.  Tutto  assorto  in 
quegli  studi  veramente  seri  e  proficui,  che  tanto  giovarono 
alla  sua  fama  e  alla  scienza,  rispondeva  ai  curiosi,  che  vole- 
van  conoscere  il  suo  parere  sulle  predizioni  dei  negromanti, 
argutamente,  con  un  esempio,  quello  della  propria  genitura, 
fallita  interamente,  come  abbiam  letto  nel  passo  del  Picino, 
e  come  ripeterà  anche  il  Pico.1 

Il  quale,  discorrendo  de'  suoi  amici  e  compagni  noli'  odio 
contro  gli  astrologi,  non  tralascierà  di  nominare  anche  il  Po- 
liziano, «  omnium  superstitionum  mirus  exsibilator  ».2  Il  Poli- 
ziano invero,  spirito  scettico  e  caustico  per  eccellenza,  poco 
incline  alla  filosofia,  e  meno  quindi  a  tutto  ciò  che  avesse  del 
tenebroso  o  del  mistico,  rideva  senza  pietà,  in  nome  del  buon 
senso,  delle  fallaci  predizioni.  E  quando  il  Pico  dette  fuori  il 
suo  lavorone  contro  gli  astrologi,  sapete  che  cosa,  in  un  epi- 
gramma greco,  ne  disse?  Con  sapiente  convenienza,  che  da 
qualche  critico  non  fu  capita  e  perciò  battezzata  per  legge- 
rezza, 3  non  si  curò  neanche  di  dar  lode,  ma  si  rammaricò  del 
tempo  perduto  dall'amico  in  quell'inutile  pugna! 


IL 

Filosofia  e  teologia  adunque,  senso  scientifico  e  senso  co- 
mune nell'  Accademia  fiorentina  formavano  un  ambiente  av- 
verso all'astrologia;  e  ciò  proprio  quando  il  Mirandolano,  piò 
che  mai  infervorato  ne'  suoi  studi  religiosi,  abitava  Firenze  e 

1  Jo.  Pici  Opera,  ed.  cit,  p.  281. 
*  Jo.  Pici,  op.  loc.  cit. 

3  A.  Ambhooiri  Poliziano,  Prose  volgari  e  poesie  latine  e  greche,  ed.  Del 
Lohoo,  Firenze,  1867,  p.  214,  in  nota. 


214  CAPITOLO  QUARTO 

veniva  preparando  l'ultima  sua  opera,  che  rimase  poi  incom- 
pleta: dico  la  confutazione  di  tutte  le  superstizioni  nemiche 
della  vera  Fede. 

Giovanni  Pico  della  Mirandola,  intorno  al  1490,  si  trovava 
in  condizioni  morali  assai  difficili.  Per  aver  osato  internarsi 
in  problemi  teologici  pericolosi  era  incorso,  quattro  anni  prima, 
nella  condanna  della  Curia  romana,  alle  cui  persecuzioni  solo 
allora  era  riuscito,  in  parte,  a  sfuggire.  La  sua  mente,  avida 
di  sapere,  intemperante  nell'azione,  s'era  affaticata  intorno 
ai  principali  sistemi  filosofici,  traendone  materia  per  un  ciclo 
di  lavori,  che  rappresentano  come  le  tappe  del  suo  pensiero, 
continuamente  in  cammino;  ma  ora,  un  po'  per  lo  sgomento 
del  suo  stesso  ardire,  e  pili  forse  per  impulso  della  sua  natura 
incline  al  misticismo,  s'era  acquetata  in  un  desiderio  di  pietà 
religiosa.  Di  pietà  attiva  però,  la  sola  pietà  ch'ei  potesse  con- 
cepire, a  cui  lo  spingevano  inoltre  e  l'esempio  del  Ficino,  col 
suo  apostolato  platonico-cristiano,  e  specialmente  il  Savona- 
rola, col  prestigio  della  sua  predicazione.  L'influenza  savona- 
roliana  fu  invero  decisiva  sull'animo  del  Pico,  e  forse,  se  la 
morte  del  conte  non  sopravveniva  cosi  immatura,  l'avrebbe 
spinto  «  munito  di  un  crocifisso,  coi  piedi  nudi,  ad  andar  pie 
dicando  Cristo  per  le  città,  le  campagne  ed  i  borghi  ».'  Certi  i 
fin  dall'anno  di  cui  discorriamo,  aveva  tale  attrattiva  su  di 
lui,  da  renderlo  uno  dei  più  assidui  frequentatori  della  biblio- 
teca del  convento  di  San  Marco,  dove  una  piccola  accademia 
di  devoti  discuteva  di  questioni  riguardanti  la  Fede.  E  discu- 
teva perciò  anche  di  astrologia,  essendo,  come  abbiam  ripe- 
tuto ormai  a  sazietà,  l'astrologia  nemica  dichiarata  della  veri 
fede  cristiana.  Quanto  calore,  quali  argomenti  portasse  il 
vonarola  per  confonder  gli  astrologi  è  facile  immaginare,  ohi 
pensi  anche  solo  a  questo,  che  la  potenza  del  frate  presso  il 
popolo  consisteva  tutta  nella  teoria  dei  miracoli.  Per  lui  la 
previsione  del  futuro  era  possibile,  era  anzi  reale  —  n'  avea 
dati  egli  stesso  tanti  esempì  dal  pergamo!  —  ma  era  subor- 
dinata alla  grazia  divina,  indipendente  da  qualsiasi   mezzo 

1  8on   parole  di  uiovan  Francesco  Fico,  il  nipote,  citate  da  A.   Della 
Torbe,  op.  cit.,  p.  766. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  215 

naturale.1  L'astrologia  invece,  che  avea  la  pretesa  di  spiegare 
i  miracoli,  e  specialmente  le  profezie,  con  la  teoria  degl'in- 
flussi, era  dunque  negazione  dell'onnipotenza  di  Dio! 

Mosso  pertanto  da  ragioni  di  coscienza  e  spinto  dall'  irre- 
quieto domenicano,  il  Pico  aveva,  come  abbiamo  detto,  ideata 
una  vasta  opera  negativa,  la  confutazione  di  tutte  le  false 
opinioni  che  nuocessero,  direttamente  o  indirettamente,  al  Cri- 
stianesimo. Ora  egli  volle,  forse  per  consiglio  dello  stesso  Sa- 
vonarola, cominciarla  battaglia  attaccando  l'astrologia,  quasi 
questa  fosse  per  lui,  come  per  il  predicatore,  la  principale  e 
più  insidiosa  delle  sette  grandi  eresie.  Né  da  questo  proposito 
lo  distolsero,  come  abbiam  pure  veduto,  i  suoi  amici  eruditi, 
per  ragioni  in  parte  simili,  in  parte  diverse.  Che  cosa  dunque 
l'avrebbe  dovuto  trattenere?  Delle  ragioni  interne  assai  gravi, 
dicono  alcuni,  avrebbero  dovuto  impedire  al  Pico  la  Confuta- 
zione: certe  opinioni  cioè  da  lui  manifestate  negli  altri  suoi 
scritti,  e  specialmente  la  nota  sua  fede  nella  Cabbala  cristia- 
nizzata. Si  formulò  anzi,  con  questi  elementi  critici,  un  vero 
e  proprio  problema,  dibattuto  più  volte  con  acume  e  dottrina. 
Ma  fu  questo  un  problema  mal  formulato,  come  ebbe  a  dimo- 
strare un  egregio  scrittore  francese,  perché  non  alle  idee  pi- 
chiane  anteriori  al  1490,  non  alle  idee  del  Pico  cabbalista  o 
neoplatonico  bisogna  risalire  per  renderci  ragione  delle  idee 
del  Pico  religioso  e  savonaroliano. 2  Fra  l'uno  e  l'altro  pe- 

1  P.  Villaki,  La  storia  di  Ger.  Savonarola,  cit.,  I,  p.  341. 

*  Il  dott.  G.  Massetani,  La  filosofia  cabbalistica  di  Gio.  Pico  della  Mi- 
randola, Empoli,  1897,  p.  174  sgg.,  formulò  per  primo  il  problema,  e  venne 
nella  conclusione  (che  però  non  diede  come  definitiva),  che  realmente  la 
contraddizione  esiste;  ma  la  volle  scusare  con  ragioni,  per  vero,  insuffi- 
cienti. Esse  sono  cinque  principali  :  la  l' incoerenza  pichiana  è  scusabile 
con  l' esempio  di  altre  incoerenze  di  autori  contemporanei,  del  Ficino  so- 
prattutto; 2.a,  3.a  e  4.a  a  venir  meno  alle  sue  idee  fondamentali  indussero 
il  Pico  il  desiderio  di  mostrarsi  ortodosso  agli  occhi  della  S.  Sede,  il  bi- 
sogno di  sfogare  lo  spirito  polemico,  l'ambizione  di  far  sfoggio  d'erudi- 
zione astronomica;  5.a  l'astrologia  combattuta  nelle  Disputationes  è  sol- 
tanto la  falsa  astrologia,  non- la  vera.  Di  tutte  queste  proposizioni  la 
sola,  che  potrebbe  parer  consistente,  è  1'  ultima,  s.-  anche  ad  essa  non  si 
potesse  rispondere  che,  secondo  la  nomenclatura  del  tempo,  per  vera 
astrologia  s'intendeva  quella  che  ora  noi  chiamiamo  astronomia;  ed 
è  chiaro  che  il  Pico,  questa,  non  l' avversava  !  —  Le  basi  della  questione 


216  CAPITOLO  QUARTO 

riodo  varia  profondamente  il  pensiero  del  conte,  e  la  Gabbala, 
prima  ancora  del  1490,  già  n'era  esclusa  qnasi  del  tutto,  come 
cosa  vana.  Né  il  Pico  ha  un  sistema  filosofico  e  teologico  unici», 
coerente,  alla  stregua  del  quale  si  possano  giudicare  le  sue 
singole  concezioni;  le  quali  mutano  con  le  letture  e  con  l'in- 
dirizzo degli  studi  e  della  coscienza  religiosa.  Onde  anche 
ammettendo  teorie,  che  diano  adito  a  conclusioni  astrologiche 
—  che  di  vere  e  proprie  professioni  d'  astrologia  sarehbe  in- 
giusto parlare  —  nei  primi  scritti,  più  tardi  tacitamente  ri- 
pudiati, non  per  questo  s'  ha  da  mettere  in  evidenza  e  tentar 
di  spiegare  una  contraddizione  che  la  cronologia,  se  non  pro- 
prio la  logica,  esclude.  Piuttosto,  secondo  me,  un  altro  è  il  que- 
sito da  porre:  —  se  e  fino  a  qual  punto  sia  lecito  ripetere 
ciò  che  fu  detto  più  volte,  che  la  Confutazione  fu  il  colpo 
maestro  dato  all'astrologia,1  e  che  il  Pico  in  questa  batta 
glia  s'appressò  ai  limiti  della  scienza  moderna.2  C'è,  in  al- 
tre parole,  da  tentare  l'esame  interno  dell'opera,  finora  stata 
più  citata  che  letta. 

L'opera  del  Mirandolano  fu  detta  monumentale,  e  non  a 
torto,  ove  si  badi  solo  alla  mole,  grave  di  ben  dodici  tanghi 
libri,  suddivisi  in  numerosi  capitoletti  ;  ma  ove  la  si  scruti 
un  po'  addentro  e  si  classifichino,  secondo  il  loro  valore  naie. 
gli  argomenti,  che  a  caterve  addirittura  si  schierano  contro 
i  dogmi  astrologici,  essa  appare  uno  sforzo  d' erudizione,  per 
due  terzi  superfluo.  Non  tutte  infatti  le  categorie  d'argomenti 
sono  o  essenziali  o  sostenibili,  anzi  alcune  poche  soltanto;  le 
più  avrebbero  meglio  giovato  alla  riuscita  dell'impresa  rima- 
nendo da  parte. 

Assai  opportuna  per  la  serietà  scientifica  sarebbe  stata,  in 
primo  luogo,  la  soppressione  di  tutte  le  ragioni  che,  in  una 
parola,  si  posson  chiamar  religiose.  Le  quali,  dettate  da 
un'ardentissima  fede,  che  era  pure  stata  la  causa  prima  di 


furono  spostate  da  Leon  Dobrz,  nella  recensione  al  libro  del  Ma.ssetani.  in 
Giorn.  storico  delia  lett.  it..  xwiii,  p.  U98. 

1  K.  Pkrcopo,  L'umanista  Pomponio  (Jaurico  e  Luca  Gaurico  ultimo 
degli  astrologi,  Napoli,  1896,  p.  127. 

8  L.  Dorkz,  Recensione  al  Ma.ssetani,  cit.,  p.  898. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  217 

tutta  l'opera,  prestavano  troppo  facilmente  il  lato  alle  offese 
del  nemico.  Se  qualche  astrologo,  leggendo  proposizioni  come 
questa  :  «  Non  eget  his  fabulis  somniisque  veritas  Christiana, 
ti  putì  quam  etiam  seria  philosophorum  pene  fabulae  sunt  »,  ' 
o  come  quest'  altra:  «  Coelum  et  Terra  praeteribunt,  verba 
autem  Domini  non  praeteribunt»,2  nelle  quali  la  rivelazione 
è  proclamata  nel  senso  più  assoluto  e  più  largo,  avesse  risposto 
al  Pico  che  secondo  l'antichissima  tradizione  caldea  ed  egizia 
anche  l'astrologia  era  una  dottrina  rivelata,  ed  avesse  quindi 
a  Cristo  contrapposto  Beroso  o  il  Trismegisto,  a  queste  affer- 
mazioni come  avrebbe  potuto  replicare  il  Pico? 

Né  meno  infide  sono  le  ragioni  storiche.  Infatti  alla  storia 
dell'  astrologia  fatta  dall'  autore  a  suo  modo,  sostenendo  che 
questa  nacque  per  cause  speciali  geografiche  e  politiche  in 
Oriente  e  in  Egitto,3  ma  poi,  come  barbara  invenzione,  fu  re- 
spinta dai  profeti  d'Israele  e  di  Giuda,  dai  dottori  del  Cri- 
stianesimo, dai  giureconsulti  del  popolo  romano,4  trionfalmente 
avrebbero  potuto  risponder  gli  astrologi  tessendo  la  storia  di 
tutte  le  conquiste  dell'arte  loro  presso  i  principi  e  i  volghi 
di  quasi  tutte  le  nazioni  antiche  e  medioevali.  Ed  al  Pico  che 
poco  scrupolosamente  affermava  essere  state  avverse  all'astro- 
logia le  più  grandi  scuole  filosofiche  dell'antichità,  compreso 
il  platonismo  —  proprio  la  cosmologia  del  Timeo\b  —  e  solo 
aver  ceduto  ad  essa  le  scuole  men  pure,  come  quella  d'Epi- 
curo,6 una  smentita,  dal  punto  di  vista  scientifico,  non  sarebbe 
stata  difficile. 

Che  dire  poi  degli  argomenti,  i  quali  assalgono  non  la 
scienza,  ma  coloro  che  la  professano?  Ha  un  bel  sostenere  il 
Pico  che  Tolomeo,  come  astrologo,  scrisse  più  corbellerie  che 


1  Pico,  Disput.  V,  14. 

*  Pico,  Disput.  V,  1.  Altri  argomenti  religiosi  v.  in  II,  5;  IV,  14-16;  V, 
12-13,  15-17;  XII,  1. 

3  Pico,  Disput.  XII,  2-8. 

*  Pico,  Disput.  I,  1. 

5  Pico,  Disput.  I,  1;  XII,  7;  intorno  ai   rapporti   fra   l'astrologia  e   il 
platonismo  v.  questo  lavoro  a  p.  28. 

*  Pico,  Disput.  XII,  7  ;  v.  per  l'esclusione  dell'astrologia  dall'atomismo 
e  dalla  morale  d'  Epicuro,  questo  lavoro,  a  p.  29. 


218  CAPITOLO  QUARTO 

parole,  che  Manilio  è  scusabile  delle  assurdità  pronunciate 
solo  perché  è  poeta,  ed  ai  poeti  tutto  si  può  perdonare,  che 
Finnico  Materno  cadde  in  errori  grossolani  tutte  le  volte  che 
volle  parlar  d'astronomia,1  che  Pietro  d'Abano  non  è  che  un 
compilatore  arruffone,2  che  Guido  Bonatti  fu  degno  dell'elle- 
boro,3 e  che  il  Bonincontri  era  un  cervello  volgare;1  ha  un 
bel  farsi  forte  d'una  lunga  statistica  di  predizioni  fallite,  di 
contraddizioni  fra  gli  autori  greci  ed  arabi,  di  ciurmerie  sma- 
scherate:5 la  risposta  a  tutto  ciò  è  beli' e  pronta,  ed  è  questa, 
che  l'insufficienza  dei  cultori  non  dimostra  affatto  la  fallacia 
teorica  d'una  dottrina.  Avea  detto,  fin  dai  tempi  antichi,  Fir- 
mico  stesso:  quando  si  scopre,  in  astrologia,  un  errore,  «  non 
mathesim,  sed  hominis  fallax  ac  temeraria  notetur  inscientia  ».6 

Sfrondata  pertanto  di  questi  superflui,  per  non  dir  dannosi 
argomenti  esteriori,  V  opera  del  Pico  lascia  scoprire  alquanto 
più  chiaramente  la  sua  trama  interna,  la  quale  s'impernia 
tutta  sulla  proposizione  seguente:  —  non  esistono  influssi  o 
segni  celesti  fisici  e  morali;  ma  se  anche  esistessero,  trascen- 
derebbero la  scienza  degli  uomini;  inoltre,  se  fossero  a  noi 
accessibili,  ci  riuscirebbero  inutili.  Son  perciò  tre  i  gradi  della 
confutazione,  dei  quali  il  primo,  il  più  diretto,  si  appoggia  a 
sua  volta  sopra  due  serie  di  ragioni,  le  ragioni  fondamentali 
e  le  ragioni  tradizionali.  Vediamo  adunque  tutte  codeste  forze 
e  il  loro  valore,  procedendo  dalle  ultime  alle  prime,  affinché 
queste,  che  son  le  più  solide,  isolate  dalle  altre  e  scrutate  a 
fondo,  ci  dian  modo  di  concludere  intorno  al  merito  vero  del 
Mirandolano. 

Per  difendere  l'ultimo  punto  e  dimostrare  l'inutilità  pra- 
tica della  divinazione  stellare,  il  Pico  si  vale  di  tre  ragioni  : 
la  prima,  che  l'astrologia,  al  dire  di  Tolomeo,  riferendosi  solo 
ai  fatti  generali,  non  può  servire  a  ciò  che  per  l' uomo  sa- 
rebbe di  maggior  importanza,  cioè  alla  vita  quotidiana,   ai 

«  Pie»,  DbptU.  I,  1. 

*  Pico,  Disput.  Ili,  17. 
3  Pico,  Disput.  1,1. 

*  Pro,   Disput.  M,   1... 

,   Disput.  II,  6,  9,  10;  III,   19;  IV,   13;   V,  1,  4;   VI,  3. 
6  A.  Bocche- Liclero),  op.  cit.,  p.  591,  n.  1. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  219 

casi  singolari;1  la  seconda,  che  la  predizione  degli  avveni- 
menti, supposti  fatali  ed  inevitabili,  è  piuttosto  di  danno  che 
di  vantaggio  all'umanità;2  la  terza,  che  ottenendosi,  per  mezzo 
dell'esperienza  e  della  prudenza,  in  politica,  in  medicina,  in 
morale,  in  tutte  insomma  le  forme  dell'attività  umana,  gli 
stessi  risultati  che  per  mezzo  della  consultazione  degli  astri, 
questa  diventa  per  lo  meno  superflua.3  Il  male  si  è  che  a  tutte 
queste  belle  ragioni  gli  astrologi  rispondevano:  in  primo  luogo, 
che  F  opinione  tolemaica  dell'  impossibilità  delle  predizioni 
singolari  non  era  accettata  dagli  altri  trattatisti;4  in  secondo 
luogo,  che  un  male  inevitabile,  se  preveduto,  coglie  l'uomo 
preparato,  il  che  non  è  piccola  fortuna  quaggiù;5  finalmente, 
che  l' esperienza  e  la  prudenza  umana  non  possono  arrivare, 
come  l'astrologia,  alla  previsione  del  fortuito.  Il  terzo  grado 
della  proposizione  pichiana  non  era  dunque  molto  sicuro. 

Ed  il  secondo?  Il  secondo,  che  contemplava  le  difficoltà  in- 
sormontabili che  s'oppongono  all'applicazione  pratica  dei  prin- 
cipi teorici,  8' appoggiava  a  numerose  ragioni,  fra  le  quali 
ecco  le  principali:  —  non  è  possibile  determinare  V  oroscopo 
individuale,  cioè  il  punto  preciso  della  discesa  dell'anima  del 
soggetto  nel  corpo  destinatole;6  non  è  possibile  stabilire  F  at- 
timo della  fondazione  d'un  regno,  d'una  città,  della  forma- 
zione d'un  popolo,  ecc.,  e  perciò  formularne  F oroscopo;1  non 
è  possibile  tener  conto  di  tutte  le  stelle  influenti,  anche  di 
quelle  lontanissime,  invisibili;8  non  sempre  il  cielo  è  sgombro 
di  nubi,  né  sempre  è  notte,  che  si  possan  fare  le  osservazioni;9 

1  Pico,  Disput.  II,  1  ;  questo  e  i  due  argomenti,  che  seguono,  son  tolti 
dalle  opere  di  Sesto  Empirico,  per  il  quale  v.  A.  Bouché-Leclercq,  op.  cit., 
p.  596. 

*  Pico,  Disput.  II,  2. 

»  Pico,  Disput.  II,  8-4  ;  III,  27. 

4  Cfr.,  su  questo  punto,  le  opinioni  del  Bonincontri,  a  p.  143  sgg.  di 
questo  lavoro. 

5  È  questa  la  dottrina  morale  di  Manilio,  espressa  nel  proemio  del  libro 
quarto,  per  la  quale  vedi  le  nostre  osservazioni,  a  p.  41. 

6  Pico,  Disput.  VII,  2-8. 

7  Pico,  Disput.  VII,  4-6;  IX,  6. 

8  Pico,  Disput.  VII,  8-9  ;  Vili,  1-2. 

9  Pico,  Disput.  IX,  2. 


220  CAPITOLO  QUARTO 

non  son  tanto  perfetti  gl'istrumenti  astronomici  da  permettere, 
con  i  dati  da  loro  forniti,  dei  calcoli  matematicamente  esatti.1 
Ora  anche  per  questi  argomenti,  non  certo  nuovi  nella  storia 
dell'astrologia,2  avevano  i  sostenitori  di  questa  le  buone  ri- 
sposte. Essi  intanto,  invocando  il  progresso  della  meccanica  e 
dei  manuali  d'astronomia,  scartavano  i  due  ultimi,  alquanto  in- 
genui davvero;  quanto  al  terz' ultimo,  notato  già  nel  commento 
ficiniano  a  Plotino,  rispondevano  che  le  stelle  troppo  lontane 
eran  perciò  pure  di  troppo  debole  influsso  per  essere  neces- 
sarie all'  oroscopo-,  ai  due  primi  s'accontentavano  —  da  per- 
sone di  buon  senso  !  —  di  opporre  delle  determinazioni  ap- 
prossimative, non  garantendo  la  riuscita  d'ogni  genitura.  Cosi 
anche  concedendo  un  poco  agli  avversari,  non  potevan  tut- 
tavia gli  astrologi  esser  ritenuti  dalla  parte  del  torto  ;  la  scon- 
fitta questa  volta  era  nuovamente  del  Pico! 

Il  quale  in  vero,  disperdendo  le  sue  forze  in  infiniti  pic- 
coli attacchi,  era  caduto  in  una  grande  illusione  :  quella  di 
abbattere  il  colosso  dell'astrologia  proprio  in  quel  campo  delle 
discussioni  minute,  dove  esso  era  solito  riportare  le  sue  vitto- 
rie. L'idra  era  vulnerabile  solo  nelle  sue  teste,  cioè  ne'  prin- 
cipi fondamentali;  ogni  altra  ferita  non  l'avrebbe  molestata. 
Sennonché  il  Pico  tentò  pure  il  colpo  decisivo,  e  lo  tentò,  coni.- 
abbiam  detto,  in  due  modi:  con  l'uso  degli  argomenti  tradi- 
zionali più  gravi,  e  con  l'esposizione  del  proprio  concetto  fisico 
e  morale  dell'universo. 

Codesti  argomenti  tradizionali,  i  più  forti  di  tutti,  secondo 
il  Mirandolano,  eran  due.  Il  primo  era  la  contraddizione  tra 
i  due  sistemi  in  voga  simultaneamente  presso  gli  astrologi, 
detto  l'uno  genetliaco  e  l'altro  delle  interrogazioni.  Il  Pico  ra- 
gionava cosi  :  —  o  Yoroscopo  dice  il  vero,  ed  allora  nessun 
nuovo  influsso  può  modificarne  lo  svolgimento;  o  dicono  il  vero 
le  cosidette  elezioni,  cioè  le  predizioni  dei  nuovi  fatti  acci- 
dentali, non  previsti  alla  nascita,  ed  allora  è  infirmato  Yoro- 
scopo. E  concludeva  dichiarando  fallace  una  scienza,  i  cui  me- 


»  Pico,  Disput.  IX,  2. 

1  Si  possono  veder  tutti  quanti  in  A.  BoucHB-Lscutacq,  op.  cit.,  p.  670  agg. 


G.  PONT  ANO  E  G.  PICO  221 

tudi  erano  inconciliabili.  '  Ma  anche  questa  volta  si  levava  la 
vecchia  protesta  degli  astrologi,  al  dir  dei  quali  si  sarebbe 
potuto,  con  un  po'  di  sforzo,  metter  d'accordo  i  due  sistemi, 
considerando  l'uno  come  complemento  dell'altro.2  —  Il  se- 
condo argomento  tradizionale  era  formulato,  a  un  dipresso, 
cosi  :  —  le  costellazioni  in  genere,  e  specialmente  lo  Zodiaco, 
non  sono  realtà,  ma  raggruppamenti  arbitrari,  immaginati  dal- 
l'uomo per  comodità  di  studio,  non  possono  quindi  influire 
nella  forma  loro  attribuita,  ma  solo  per  mezzo  di  ciascuna 
stella,  separatamente;  immaginari  del  pari  sono  i  circoli  celesti 
e  le  orbite  stesse  dei  pianeti,  sui  punti  dei  quali  gli  astrologi 
pazzamente  costruirono  le  loro  figure:  assurde  perciò  le  teorie 
degli  aspetti,  delle  esaltazioni  e  depressioni,  delle  case,  delle 
facce,  dei  gaudi,  ecc.  ecc.3  —  Ora  chi  crederebbe  che  anche 
a  queste  osservazioni  i  sostenitori  della  divinazione  avevano 
la  loro  risposta?  La  pratica,  essi  dicevano,  ci  ha  dimostrato 
che  le  figure  astrali,  create  dall'uomo,  non  sono  irreali:  l'uomo, 
nel  battezzare  i  gruppi  stellari  ed  i  circoli,  si  attenne  all'espe- 
rienza, 

Terrave  composuit  coelum,  quae  pendet  ab  ilio.4 

Ma  il  Pico  replicava,  con  Plotino:  —  o  come  è  stata  possibile 
l'esperienza,  cioè  l'osservazione  più  volte  ripetuta,  se  la  faccia 
del  firmamento  non  riappare  identica  se  non  ad  intervalli  di 
centinaia  di  secoli?5  E  gli  astrologi,  impertnrbati :  —  l'anti- 
chità dell'arte  nostra  è  tanta,  che  in  questo  tempo  più  volte 
il  cielo,  rinnovandosi,  è  ritornato  nelle  sue  vecchie  combina- 
zioni di  stelle.6  —  Decisamente  neanche  le  obiezioni  più  gravi 
potevano  ridurre  al  silenzio  quei  formidabili  sofisti  !  Bisognava 
adunque  che  il  conte  venisse  alla  negazione  recisa  e  sostenesse 

1  Pico,  Disput.  Ili,  20. 

*  Intorno  a  questa  risposta  che  gli  astrologi  del  quinto  secolo  davano 
a  S.  Agostino,  il  quale  aveva  formulata  l'accusa  (Civ.  Dei,  V,  7),  che  qui 
vediamo  ripetuta  dal  Pico,  cfr.  A.  Bouché-Leclerc^,  op.  cit.,  p.  622. 

3  Pico,  Disput.  VI,  2-19  ;  X,  8-12. 

4  M.  Manili  Astron.,  II,  38. 

5  Pico,  Disput.  VI,  1. 

8  A.  Bouché-Lsclercq,  op.  cit.,  p.  674  ggg. 


222  CAPITOLO  QUARTO 

che,  nell'ordine  naturale,  l'influsso  astrologico  non  esiste.  A 
questo  venne  infatti,  e  ne  fece  materia  dell'intero  libro  terzo 
dell'opera  sua. 

Il  sistema  dell'universo,  su  cui  si  fonda  il  ragionamento 
di  questo  libro,  è  quasi  interamente  aristotelico.  Il  cielo,  co- 
stituito di  sostanza  differente  da  quella  del  mondo  sublunare, 
o  quinta  essenza,  agisce  bensi  sui  corpi  terreni,  ma  solo  in 
modo  conveniente  alle  qualità  della  propria  natura.  La  quale 
essendo  incorruttibile,  è  dotata  della  più  squisita  sensibilità, 
che  è  la  luce,  e  delle  più  perfette  azioni,  che  sono  il  moto  cir- 
colare ed  il  calore,  inteso  quest'ultimo  in  senso  scientifico,  cioè 
riferito  tanto  al  caldo  che  al  freddo.  Ora  il  moto  celeste  ge- 
nera i  moti  di  quaggiù,  il  che  non  vuol  dire  che  si  trasformi 
in  ogni  singolo  moto,  rettilineo  e  perciò  finito:  genera  il  com- 
plesso dei  moti,  rimanendo  cosi  causa  universale  delle  cause 
speciali.  E  le  cause  speciali,  o  seconde  cause,  le  quali  in  tanto 
esistono  in  quanto  hanno  un  proprio  fine  che  ne  regge  l'azione, 
son  esse  i  motivi  degli  avvenimenti  fisici  della  Terra.  Chi  per- 
tanto volesse  scoprire  nel  cielo  la  ragione  d'un  fatto  qualun- 
que di  questo  mondo,  non  lo  potrebbe,  perché  il  cielo,  causa 
universale,  gli  risponderebbe  questo  solo:  moto.  —  Nello  st 
modo  si  discorre  per  il  calore.  Il  calore  celeste,  riversandosi 
sulla  faccia  del  nostro  globo,  viene  a  contatto  con  le  qualità 
fondamentali  del  secco  e  dell'umido,  onde  nascono  i  quattro 
clementi  del  mondo  fisico.  Ma  in  questa  generazione  i  cieli 
operano  come  cause  generali  :  gli  elementi  a  loro  volta  diven- 
tano seconde  cause,  o  sostanze  costitutive  dei  corpi  terreni,  se- 
condo un  fine  loro  assegnato.  Perciò  in  cielo  non  esistono  le 
ragioni  singole  dei  nostri  temperamenti.  «  Ita  patet  in  corporeo 
mando  nihil  quidem  fieri  sine  coelo;  veruntamen  quod  hoc  aut 
illud  fiat,  id  a  coelo  non  esse,  sed  secundis  causis,  oum  qui- 
bus  omnibus  coelum  talia  facit,  qualia  ipsae  facere  oatae  sunt, 
sive  illae  ad  speciem,  sive  ad  individuum  causac  pertineant  ».1 

1  Pico,  Disput.  Ili,  4.  Fra  i  molti  corollari  dedotti  dal  Pico  da  questo 
suo  sistema  universale,  tre  soli,  che  hanno  una  qualche  importanza,  voglio 
ricordare.  Il  primo,  inteso  a  distruggere  la  teoria  di  Plotino  intorno  affli 
astri  significanti,  è  formulato  cosi:  —  le  stelle  non  sono  cause  dell'azione . 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  223 

L'astrologia  nel  mondo  fisico  pare  al  Pico  da  queste  ra- 
gioni metafisiche  abbattuta.  Ma  e  quella  da  alcuni  astrologi 
immaginata  nel  mondo  morale?  Anche  questa  deve  cedere  al 
seguente  argomento:  —  nel  mondo  delle  anime,  concepito  dal- 
l'autore come  interamente  distinto  dall'altro  mondo,  quello  dei 
corpi,  Iddio  governa  direttamente,  creando  le  anime  stesse  ; 
oppure  governa  per  mezzo  della  rivelazione  e  degli  spiriti  an- 
gelici. Il  tramite  stellare  cosi  rimane  del  tutto  escluso.1 

Ora  eccoci  finalmente  ad  aver  terminate  le  Disputationes. 
Glie  dovremo  dunque  rispondere  al  quesito,  che  in  principio 
ci  siamo  proposti?  È  questo,  che  abbiamo  veduto,  il  colpo  mae- 
stro dato  all'astrologia?  Il  linguaggio,  che  abbiam  sentito, 
arieggia  proprio  la  serietà  della  scienza  moderna?  —  Affinché 
il  sistema  dell'universo  pichiano,  dal  quale  senza  dubbio  le 
vanità  astrologiche  sono  bandite,  potesse  gridar  vittoria  per 
davvero,  sarebbe  necessaria  una  condizione:  bisognerebbe  cioè 
che  l'evidenza  sua  fosse  tale,  che  ogni  altro  sistema  davanti 
ad  esso  rovinasse.  Ma  se  accanto  e  contro  gli  sussistono,  senza 
confutazione  esauriente,  e  il  platonismo,  e  l'aristotelismo  sco- 
lastico, e  altre  concezioni  ancora,  ahimè!  le  sue  conclusioni 
non  avranno  sufficiente  estensione,  e  l'astrologia  ecco  sfuggirà 
fatalmente,  più  viva  che  mai.  Il  Pico  rimarrà  con  l'illusione 
del  trionfo,  ma  l'avversaria  sua  cadrà  solo  più  tardi,  quando 
una  mente  più  lucida  e  temprata  a  metodi  più  rigorosi  avrà 
data  al  mondo  una  ipotesi  nuova,  davanti  alla  quale  tutti, 
senza  eccezione,  i  vecchi  sistemi  dell'universo  dovranno  ca- 
dere. Ed  allora  soltanto  si  potrà  udire  an  linguaggio  vera- 
mente scientifico,  sgombro  di  metafisica  e  di  teologia.2 


non  sono  perciò  neppur  cause  dell'  immagine  «l'essa  (IV,  12).  —  Il  secondo  : 
—  i  cieli  sono  incorruttibili,  non  possono  quindi  generar  corruzione,  dun- 
que le  azioni  terrene,  sempre  in  tutto  o  in  parte  miste  di  corruzione,  non 
provengon  dal  cielo  (III,  21).  —  Il  terzo:  —  i  cieli  hanno  moto  regolare, 
le  azioni  terrene  hanno  moti  irregolari,  non  son  dunque  generate  diretta- 
mente dai  cieli  (III,  9). 

•  Pico,  Disput.  IV,  4. 

2  Questa  risposta  negativa,  estesa  anche  alla  seconda  parte  del  quesito, 
non  mira  a  combattere  tutta  intera  l'affermazione  di  L.  Dorez,  in  Giornale 
storico  d.  Itti.  il.  XXXIII,  p.  398,  ma  solo  a  ridurne  nei  veri  termini  la  por- 


224  CAPITOLO  QUARTO 


III. 


La  critica,  che  io  ho  mossa  alle  fiisputationes,  e  special- 
mente le  considerazioni  che  ho  svolte  intorno  al  terzo  libro  di 
esse,  non  bisogna  credere  che  balzassero,  con  egual  facilità, 
alle  menti  dei  lettori  contemporanei  al  Pico,  avvezzi,  come  lui, 
alle  pastoie  dei  vecchi  sistemi  fisici  e  filosofici.  Di  modo  ohe, 
se  agli  occhi  nostri  l'opera  monumentale  scema  di  peso  e  perde 
quasi  interamente  di  valore,  agli  occhi  degli  uomini  del  Quat- 
trocento essa,  non  appena  fu  conosciuta  —  la  notizia,  special- 
mente fuor  di  Firenze,  la  si  ebbe  insieme  con  quella  della  in- 
felice morte  dell'autore  —  parve  un  prodigio  di  sapienza  e 
d'erudizione.  In  folla  i  nemici  dell'astrologia,  i  più  persone 
religiose  o  persone  di  buon  senso,  credettero  sul  serio  di  pos- 
seder finalmente,  nei  dodici  libri  del  Mirandolano,  quella  con- 
futazione scientifica,  logica,  inoppugnabile,  alla  quale  le  loro 
menti,  indotte  o  quasi,  si  sentivano  incapaci  di  giungere  ;  onde 
levarono  un  plauso  tanto  più  alto,  quanto  più  inacerbite  sa- 
pevano la  rabbia  degli  avversari.  I  quali,  i  migliori  singolar- 
mente, intravidero  subito  il  pericolo  che  l'arte  loro  correrà 
presso  il  pubblico  credulo  ed  ignorante,  e  si  gettarono  eoa 
ardore  al  contrattacco,  per  la  rivincita.  Fra  questi  ultimi  > 
pure  Giovanni  Pontano,  sul  pensiero  del  quale  è  tempo  che 
finalmente  e'  intratteniamo;  però  non  senza  aver  detto  qual 
rapidamente,  per  amor  di  chiarezza,  dei  più  noti  fra  i  cam- 
pioni minori  dell'una  parte  e  dell'altra. 

Cominciando  dai  sostenitori  del  Pico,  diremo  in  primo  luogo 
del  Savonarola,  il  quale  va  considerato  sotto  due  aspetti;  come 
collaboratore,  cioè,  ed  ispiratore  del  conte,  e  come  suo  conti- 
nuatore e  divulgatore.  Del  primo  aspetto,  ed  insieme  delle  ra- 
gioni generali  che  indussero  l'ardente  domenicano  a  farsi  pilo- 
tata; mira,  insomma,  a  dimostrare  che  la  sostanza  dell'  opera  jiichiana  non 
è  né  concludente  né  moderna,  per  quanto  abbian  sapore  di  modernità  al- 
cune singole  felici  intuizioni  sparse  in  essa  qua  e  là,  le  quali  qui  non  è  il 
luogo  di  rilevare. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  226 

blico  accusatore  degli  astrologi,  s'è  già  parlato.  Quanto  al  se- 
condo si  deve  dire  che  l'opera  di  lui  consiste  in  un  trattatello 
volgare  in  tre  libri,  brevissimi,  cominciato  subito  dopo  la  morte 
del  Pico,  cioè  nel  1494,  e  terminato  nel  1497.1  Il  metodo  e  i 
limiti  dell'operetta  sono  tracciati,  con  grande  semplicità,  dal- 
l'autore stesso,  cosi:  «  Mi  sono  acceso  di  far  quello  io  per  gli 
huomini  volgari,  che  lui  (il  Pico)  ha  fatto  per  i  dotti.  Et  per- 
ché altrimenti  bisogna  parlare  a  gli  huomini  dotti,  et  altri- 
menti a  gl'indotti,  non  intendo  di  tradurre  il  libro  suo  in  vol- 
gare, né  di  scrivere  tutto  quello  che  lui  ha  scritto,  né  di  servar 
l'ordine  suo;  perché  questo  non  saria  forsi  utile  a  gli  huomini 
indotti.  Ma  mi  sforzerò  di  abbassare  quello  eh' è  alto:  . . .  prima 
dichiarando  questa  vanità  astrologica  esser  dannata  da  la  dot- 
trina Christiana;  secondo  che  anchora  è  reprobata  da  la  filo- 
sofia naturale  ;  tertio  dimostrando  quanto  lei  è  vana  et  fallace 
in  se  medesima  ».2  Si  comprende,  senza  ch'io  mi  trattenga  a 
recarne  le  prove,  che  delle  tre  parti,  data  la  coscienza  e  lo 
scopo  dello  scrittore,  quella  che  ebbe  maggiore  e  più  origi- 
nale sviluppo  è  la  prima,  d'indole  religiosa.  A  proposito  della 
quale  rileverò,  richiamando  un  concetto  già  espresso,  che  fu 
cura  singolare  del  frate  la  dimostrazione  della  fallacia  ed  em- 
pietà di  qualsiasi  profezia,  che  non  fosse  riannodata  alla  di- 
retta ispirazione  divina:  «In  molti  luoghi  de  la  sacra  scrit- 
tura sono  detestati  quelli  che  vogliono  predire  le  cose  future 
senza  la  illuminazione  divina,  i  quali  sono  dimandati  falsi  pro- 
feti e  divinatori,  perché  si  usurpano  quello  che  è  di  Dio  pro- 
prio ».3  E  soggiungerò  che  tanto  si  insiste,  in  questo  primo 
libro,  nel  convincere  d'eresia  gli  astrologi,  che  si  finisce  per 
invocare  contro  di  essi  —  ahi,  frate  imprudente  !  —  una  pena 
tremenda  e  purtroppo,  a  quei  tempi,  ancora  in  uso:  «Certo 
contra  de  quelli  che  dicono  simili  cose  non  è  da  disputare  al- 

1  Opera  singolare  del  rev.  padre  Jeronimo  Savonarola  contra  l'astrologia 
divinatrice,  in  corroboratione  de  le  refutationi  astrologiche  del  s.  conte 
Giovanni  Pico  db  la  Mirandola,  Venezia,  1556.  La  data  iniziale  è  fornita  dal 
titolo  stesso,  dove  si  parla  dello  scritto  pichiano  ;  quella  finale  da  un  ac- 
cenno esplicito  nel  cap.  4°  del  terzo  libro  o  trattato. 

1  Savonarola,  op.  cit.,  proemio. 

3  Savonarola,  op.  cit.,  tratt.  I,  cap.  1. 

Soldati  15 


226  CAPITOLO  QUARTO 

trimenti  che  col  fuoco».1  Non  è  perciò  da  stupire  se  alcuni 
maligni  avversari,  un  anno  dopo  la  pubblicazione  dell'Opera 
singolare,  cioè  morto  il  Savonarola,  inventarono  una  leggenda 
che  diceva  aver  egli  scritto  contro  l'astrologia  per  vendicarsi 
d'un  pronostico,  in  cui  gli  era  stato  predetto  il  rogo,  come  a 
falso  profeta;  «  nam  multis  ante  temporibus  falsi  prophetae 
adventnm  astrologia  denunciavit  ».2  I  libri  secondo  e  terzo 
sono  un  riassunto,  per  sommi  capi,  della  trattazione  pichiana. 
escluse  tutte  le  parti  di  difficile  intelligenza,  ed  aggiunti,  se- 
condo l'uso  dei  predicatori,  alcuni  di  quei  racconti  della  pro- 
pria esperienza,  che  tanta  efficacia  persuasiva  sogliono  avi  re 
sulle  menti  grosse  dei  fedeli.3 

Un  altro  sostenitore  del  Pico,  il  quale,  a  dire  il  vero,  non 
scrisse  intorno  a  lui  se  non  un  breve  periodo,  è  il  leccese  An 
tonio  De  Ferrariis,  medico  della  corte  di  Napoli  al  tempo  di 
Ferrante  I,  detto  fra  i  pontaniani  il  Galateo.4  Ma  la  sua  atte- 
stazione, per  quanto  fuggevole,  acquista  un  significato  di  ec- 
cezionale importanza  quando  si  pensi  ch'essa  discorda  profon- 
damente dall'opinione  del  Pontano,  e  perciò  dimostra  che  in 
seno  all'Accademia  napoletana  non  tutti,  alla  lettura  delle  Di- 
sputationes,  furono  del  parere  del  maestro.5  Essa  ha  poi  un 
valore  speciale  in  quanto  ci  rivela  nel  De  Ferrariis,  aristote- 
lico peritissimo,  uno  spirito  scientifico  insolito  al  tempo  suo, 
tanto  che  lo  si   potrebbe  paragonare  al  Toscanelli,   in  fatto 


1  Savonarola,  op.  cit.,  tratt.  I,  cap.  4. 

2  Lucn  Beixantii  Senensis  mathematica  ac  phisici,  Astrologiae  defensio  con- 
tra  Jo.  Picum  Mirandulanum,  Basileae,  a.  1564,  Iib.  I. 

a  Ne  cito  uno,  per  saggio,  dal  cap.  5  del  lib.  Ili,  anche  per  l'analogia 
ch'esso  ha  con  la  novellina,  da  noi  ricordata  a  p.  Ili,  dell'asino  astro- 
logo: «Il  nostro  ortolano,  quando  sentiva  il  mormorio  de  l'acqua  d'Arno, 
diceva  che  pioveria,  et  questo  è  perché  il  vento  che  snscita  le  pioggie  |i<>rt:i 
quel  mormorio  verso  l'orto  nostro;  dunque  questo  loro  (degli  astrologi  iu- 
dicio  non  è  da  le  stelle,  ma  da  certe  cause  particulari  ». 

4  In  una  lettera  a  Pietro  Summonte,  ed.  in  Spicilegium  romanum,  Ro- 
ìii.ic,  1842,  voi.  Vili,  p.  607:  «Ficus  plura  volumina  contra  apotelesmata 
scripsit,  et  meo  iudicio  non  minus  vere,  quam  docte  et  copiose.  Huiu- 
tentiae  et  sancti  viri,  et  ipsa  veritas,  et  si  qui  sunt  qui  vere  philoso- 
1 1  li  i ■  ii  t  ii  r .  consentiunt  ». 

5  Opinioni  antiastrologiche  troviamo  pure  in  Giaro  Ahisio,  Satire,  lih.  I, 
sat.  !•,  ed.  a  Napoli,  1582,  p.  17. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  227 

d'astrologia  parco  di  parole,  istintivamente  moderno  di  giu- 
dizio. Per  inerito  suo  la  corrente  del  buon  senso  si  manifesta 
ancora  una  volta  e  fa  suo  prò  dei  risultati  della  complessa,  e 
non  tutta  ammirevole,  opera  del  Mirandolano.  ' 

Contro  alla  quale,  intanto,  avevan  levato,  come  abbiamo 
avvertito,  vivissime  proteste  i  convinti  delle  verità  astrolo- 
giche, e  specialmente  gli  astrologi  officiali,  minacciati  per  gli 
effetti  suoi  nei  loro  interessi  materiali.  E  fra  questi  ultimi  era 
sorto,  quasi  campione,  il  senese  Lucio  Bellanti,  per  autorità 
di  dottrina  e  dignità  di  nascita  non  indegno  avversario  del 
conte  Pico. 2  Egli  aveva  presa  la  penna,  trovandosi  nella  stessa 
Firenze,  non  appena  s'eran  conosciute  le  Disputationes,  ed 
aveva  abbozzate  due  operette:  l'una  men  personale,  cioè  una 
serie  di  venti  capitoli,  col  titolo:  De  astrologica  veritate  lìber 
quaestionum-,  l'altra  direttamente  polemica,  intitolata:  Astro- 
logiae  defensio  contra  Jo.  Picum  Mirandulanum.3  Questa  se- 
conda fu  condotta  a  termine  nel  1498,  data  della  sua  prima  edi- 
zione, e  dovette  subito  avere  grande  divulgazione  e  favore,  se 
qualche  anno  dopo  veniva  ristampata,  e  il  Pontano  poteva  en- 
tusiasticamente scrivere  che  al  Bellanti  «  aetas  nostra  multum 
profecto  debet,  debituri  autem  longe  amplius  posteri,  ne  ad 
eos  tanta  haec  indignitas  (la  confutazione  pichiana)  penetra- 
rci».4 In  che  consisteva  dunque  quest'opera,  cosi  meritoria? 


1  Intorno  al  Galateo  scienziato  v.  C.  M.  Tallarigo,  Gio.  Pontano  e  i  suoi 
tempi,  voi.  I,  p.  153  ;  e  Vittorio  Rossi,  Il  Quattrocento,  Milano,  p.  355.  Per 
altri  sostenitori  dell'opera  pichiana,  v.  Q.  Tiraboschi,  Storia  dellalett.it., 
Milano,  Classici,  1824,  voi.  VI,  p.  560. 

2  G.  Tiraboschi,  Storia  della  lett.  it.,  cit-,  voi.  VI,  p.  594  sgg. 

3  Le  due  operette  ebbero  una  prima  edizione  nel  1498,  una  seconda  nel 
1502,  ed  una  terza,  in  unione  con  un  dialogo  di  Gabriele  Pirovano,  medico 
milanese,  nel  1654,  col  titolo:  Lucn  Beli.antii  Senensis  mathematici  ac  phisici 
de  astrologica  veritate  liber  quaestionum  —  astrologiae  defensio  contra  Jo. 
Picum  Mirandulanum  —  Gabriellis  Pirovani  philosophi  de  astronomiae  ve- 
ritate dialogus  absolutissimus,  Basileae,  anno  .M DUI  II.  —  G.  Uzielli,  Za1 
vita  e  i  tempi  di  Paolo  del  Posso  Toscanelli,  Roma,  1894,  p.  920,  pare 
faccia  dei  due  scritti,  erroneamente,  uno  solo. 

*  Queste  parole  scriveva  il  Pontano  prima  del  1501  (De  fortuna,  lib.  I, 
ed.  aldina  del  1518,  voi.  I,  p.  271  a);  e  forse  non  appena  ebbe  letto,  anzi 
acquistato  (G.  Filangeri,  Documenti  per  la  storia,  le  arti  e  le  industrie 
nelle  pror.  napol.,  Napoli,  1885,  voi.  Ili,  p.  50)  il  libro  del  Bellanti. 


228  CAPITOLO  QUARTO 

L'opera  a  cui  noi  dovremmo,  secondo  il  poeta  d'Urania,  tanta 
riconoecenza,  si  compone  d'un  proemio  e  di  dodici  libri,  né 
più  né  meno  di  quella  del  Pico;  ma  ne  differisce  assai  nella 
mole,  essendosi  l'autore  e  nella  sostanza  e  nella  forma  im- 
posta la  massima  sobrietà:  «  magna  quidem  volumina  paini* 
complecti  soliti  sumus,  unde  multiloquium  abhorremus  ».  '  Ad 
ogni  proposizione  avversaria  l'astrologo  contrappone,  per  or- 
dine e  brevissimamente,  la  propria  risposta;  di  qual  tenore, 
chi  conosca  un  poco  la  storia  dell'astrologia  o  ci  abbia  seguiti 
sin  qui  con  attenzione,  può  facilmente  immaginare.  Solo  in- 
torno alle  gravi  ragioni  del  libro  terzo  egli  si  trattiene  più  a 
lungo,  cercando  di  allontanare  l'assurdo,  sostenuto  dal  Miran- 
dolano,  d'un  cielo  causa  universale  generatore  di  avvenimenti 
particolari:  «  Sed  non  est  contradictio;  nam  si  coelum  causa 
universalis  est,  concurrit  igitur  ad  productionem  effectuum 
particularium;  stant  igitur  ista  simul  ».2  Si  sofferma  pure,  con 
un  certo  compiacimento,  a  rilevare  i  rapporti  esistiti  fra  il 
Pico  ed  il  Savonarola,  quasi  che  sul  primo  cadesse  minore  la 
vergogna  per  aver  scritto  «  non  bene  consulti  viri  suaso,  opus 
impium  ac  delendum  quidem  ».3  Col  nobile  avversario  inlatti 
il  Bellanti  voleva  mostrarsi  generoso,  mentre  contro  il  frate, 
forse  perché  sapeva  ancor  vivi  e  potenti  nel  popolo  gli  effetti 
della  predicazione  di  lui,  non  risparmiava  gli  attacchi  più  \<- 
lenosi.4  Concludendo  adunque,  la  Difesa  dell'astrologo  senese, 
circoscritta  negli  stessi  limiti  dell'accusa  del  dotto  mirando- 
lano,  è,  come  questa,  un  bello  sforzo  di  dialettica  e  d'erudi- 
zione; ma  non  offre  nulla  che  importi  veramente  alla  storia 
del  pensiero  filosofico,  nulla  che  faccia  dimenticare  in  parte 
la  vanità  del  suo  fondamento  e  si  guadagni  la  nostra  ammi- 
razione. La  quale,  nel  presente  conflitto,  ì*  riservata  all'op 
pontaniana. 


1  L.  BrLLANTii,  astroì.  defensio,  cit.,  proemio. 

*  L.  Bellantii,  op.  cit.,  lib.  III. 
3  L.  Beluntii,  op.  cit.,  Ad  lectorem. 

*  L  Bei.lantii,  op.  cit..  lib.  I;  e  <ì.  Tir  a  boschi,  op.  cit.,  voi.   VI,  p.  59"». 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  229 


IV. 


II  testo  delle  Disputationes  dovette  giungere  a  Napoli  assai 
più  rapidamente  che  non  in  altri  luoghi,  se  il  Pontano  potè 
averlo  prima  che  a  lui  pervenisse  la  notizia,  pur  tanto  vicina, 
della  morte  del  Pico.  Or  come  l'ebbe  fra  mano,  il  vecchio 
ministro,  dimenticando  per  poco  i  gravi  pensieri  della  minac- 
ciata discesa  dei  francesi  nel  Bearne,  provò  uno  sdegno  cosi 
vivo,  che  non  seppe  trattenere  delle  amare  parole  contro  colui, 
che  prima  s'era  gloriato  di  considerar  quale  amico.  E  poiché 
teneva  quasi  pronta  per  la  pubblicazione,  come  meglio  ve- 
dremo, certa  sua  grande  opera  in  prosa  sull'astrologia,  colse 
questa  occasione  per  riprendere  il  lavoro  ed  inserirvi  nello 
stesso  tempo  quelle  parole,  che  formarono  appunto  l'esordio 
del  dodicesimo  libro  di  detta  opera.  Le  parole  erano  d' una 
gravità  davvero  eccezionale.  In  esse  il  Pico  veniva  dipinto 
come  pazzo  assalitore  d'ogni  dottrina,  baldanzoso  non  per  si- 
curezza di  speculazioni,  ma  per  copia  di  ricchezze  e  nobiltà  di 
casato  ;  e  di  lui  si  ricordavano,  con  maligno  richiamo,  le  tesi 
ereticali  e  la  condanna  avuta  da  Innocenzo  Vili.  Tutto  ciò 
si  diceva  per  gettare  il  discredito,  la  diffidenza,  anche  dal 
punto  di  vista  dell'  ortodossia  religiosa,  sul  conte,  con  V  arte 
obliqua  della  denuncia.  Sennonché  non  tardò  a  giungere  la 
notizia  che  il  Pico  era  morto,  immaturamente.  Molti  ne  ebbero 
sincero  cordoglio,  e  fra  gli  altri  il  Pontano,  in  cui  forse,  con 
la  riflessione,  già  era  sbollita  V  ira  improvvisa.  Le  parole  che 
contenevano  l'infamia  non  solo  di  colui,  contro  il  quale  eran 
state  scritte,  ma  anche  di  chi  se  l'era  lasciate  sfuggire,  ven- 
nero allora  cancellate  e  sostituite  con  altre  assai  più  riverenti 
verso  l' illustre  ed  infelice  estinto.  Però  la  cancellatura,  che 
dalle  edizioni,  naturalmente,  non  appare,  nel  quaderno  auto- 
grafo non  coperse  il  testo  primitivo  tanto  da  renderlo  illeg- 
gibile; questo  noi  possiamo  conoscere  e  per  esso  ci  è  dato 
valutare  quanto  profondamente  doveva  essere  in  Qioviano  ra- 


230  CAPITOLO  QUARTO 

dicata  la  fede  astrologica,  se  per  difenderla  egli  era  trasceso 
ad  espressioni  si  biasimevoli!1 

Il  libro  dodicesimo  De  rebus  coelestibus,  che  ha  un  cosi 
notevole  esordio,  contiene  adunque  la  risposta  alla  Confuta- 
zione pichiana,  o,  meglio,  per  essere  schietti,  parrebbe  dovesse 
contenerla.  Ma  una  vera  e  propria  demolizione  dell'opera  del 
Mirandolano  qui  non  troviamo:  qui  troviamo  semplicemente  ri- 
battuti alcuni  degli  argomenti  in  quella  messi  innanzi  ;  e 
neanche  i  più  importanti.  Il  Pontano  in  questo  libro,  che  è 

1  C.  Tallarioo,  Giovanni  Pontano  e  i  suoi  tempi,  Napoli,  1874,  voi.  II, 
p.  504,  ed  E.  Gothbin,  Die  Culturentwicklung  sùd-italiens  in  eimeì  ! 
stelìungen,  Bresslau,  1886,  p.  447,  che  più  diffusamente  discorsero  della  ri- 
sposta del  Pontano  al  Pico,  cioè  del  dodicesimo  libro  De  rebus  coelestibus, 
ignorando  affatto  la  bozza  originale,  mostrarono  di  ammirare  la  temperanza 
usata  dal  primo  nel  ribattere  le  affermazioni  del  secondo.  Ma  non  co 
sarebbero  espressi,  se  avessero  lette  le  due  diverse  redazioni,  delle  quali 
perciò  credo  utile  riportare,  mettendoli  a  riscontro,  almeno  alcuni  periodi. 
La  prima  redazione,  che  occupa  mezza  la  p.  348 a  del  cod.  Vat.  lat.  2889, 
autografo,  scritto  alla  lesta  e  quasi  in  abbozzo,  è  cancellata,  ma  in  gru 
parte  leggibile,  e  dice  :  «  Joannes  Picus  vir  sumraa  nobilitate,  ìnaximo  etiam 
ingenio,  dum  et  nobilitati  plurimum  et  ingenio  suo  non  iniuria  trihuit. 
praeter  imam  theologiam,  omnes  simul  sive  disciplinas  sive  scientias  ad- 
versando,  illis  ne  dieam  perverse  sentiendo,  est  persecutus  ;  ipsam  qaoqac 
theologiam  tandem  aliquando  persecutus.  Cum  quibus  singulis  in  diseiplinis 
publice  esset  disputatus,  ea  in  theologiam  proposuit,  de  quibus  re  dicent, 
quae  erronea  Christiana  in  religione  haberentur.  Ab  Innocentio  octavo  post. 
max.  edicto  fuit  coèrcitus.  Itaque  dum  divitiae  illum,  dum  ingenii  intem- 
peratior  vis  insolentiorem  faci  un t,  etc.  >.  La  seconda  redazione,  stampata 
per  la  prima  volta  per  cura  del  Summonte  a  Napoli  dal  Mayr,  nel  1512,  col 
testo  definitivo,  suona  cosi:  «Joannes  Picus  vir  stimma  nobilitate,  Mudato 
etiam  ingenio,  Paule  Cortesi,  dum  et  nobilitati  plurimum  et  ingenio  suo 
non  iniuria  trihuit.  in  astrologiam  est  invectus.  Veruni  euim  qui  vneutem 
illuni  ego  laudandis  extollendisque  ingenii  eius  viribus  honestaverim,  in- 
secter  ne  increpando  mortuum  ?  Absit  ab  ingenio  institutisque  meis  et  ab 
stimma  benevolentia  in  illum,  dum  vixit,  mea.  Qnin  magis  magisqm-  in 
dies  et  laudabo  inorimi  eius  suavitatem,  et  admirabor  ingommi.  Nec  minns 
etiam  honesto  ob  id  aflìciar  desiderio  industriae  eius  indagationisque  tem- 
perandae  >.  Alquanto  più  tardi,  cioè  intorno  al  1601,  tornando  sullo  stesso 
argomento,  nell'  operetta  De  fortuna,  lib.  III  (nelP  ed.  aldina  del  1618, 
p.  300a),  il  Pontano  scrisse  alcune  altre  parole,  che  è  bene  il  lettore  conosca: 
«  Nec  nos  deterrebit  Joannes  Picus  magna  timi  nobilitate  tum  etiam  ingenio 
ac  doetrina  vir,  qui  nuper  diruere  prorsus  sideralon  conatus  est  discipli- 
nain....  Videlicet  Picus  noster  (voco  eum  nostrum,  quia  magna  mecum  be- 
nevolentia coniunctus  fuit,  quodque  doctissimum  quenque  maxime  milii  fa- 
miliarem  atque  amicum  statuo)  etc.  >. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  231 

piuttosto  da  definirsi  un  discorso,  tanto  è  scorrevole,  vario  e 
nella  sua  brevità  abbondante,  rivolgendosi  a  Paolo  Cortese, 
spiega  come  il  Pico  sia  stato  spinto  all'  assalto  contro  l'astro- 
logia dallo  spettacolo  volgare  dei  negromanti  da  strapazzo, 
che  con  nausea  avea  uditi  a  Roma,  a  Bologna,  a  Firenze;  onde 
s'affretta  a  distinguer  bene,  come  noi  diremmo  oggi,  le  respon- 
sabilità dei  fatti  incriminati.  La  sua  preoccupazione  evidente 
è  di  sollevare  al  disopra  della  folla  dei  guastamestieri  il  vero 
astrologo,  favorito  dalla  natura  e  dal  fato,  reso  pili  nobile 
dalla  scienza  e  dalla  filosofia.1  Questo  egli  esalta,  di  questo 
egli  espone  la  coscienza  nelle  osservazioni  e  nei  calcoli,  la 
prudenza  nelle  predizioni.  Ma  in  discussioni  teoriche  di  fisica 
e  metafisica  qui  il  Pontano  non  entra;  tutto  il  libro  terzo  del 
Pico  pare  che  per  lui  non  esista.  Doveva  infatti  il  Pontano 
ripetere  ancora  una  volta,  con  isforzo  e  in  tono  polemico, 
quella  verità  che  per  lui  era  cosi  evidente,  ch'egli  andava  so- 
stenendo, commentando,  insegnando  da  tanti  anni,  ch'egli  avea 
rivestita  di  elegantissime  forme  poetiche?  La  vita,  le  opere 
erudite,  l'arte  del  Pontano  eran  esse  una  risposta  al  Pico: 
non  occorrevano  perciò  degli  inutili  discorsi.  Ma  che  cos'era 
questa  vita,  che  cos'erano  queste  opere  erudite  e  poetiche,  le 
quali  da  sole,  col  loro  carattere  astrologico  non  mai  tradito, 
potevan  contrapporsi  vittoriosamente  agli  argomenti  pichiani  ? 
Ecco  ciò  che  ai  contemporanei  del  poeta  era  abbastanza  noto, 
e  la  cui  indagine  è  per  noi  interessante,  sotto  diversi  punti 
di  vista.  Cominciamo  adunque  dalla  vita. 

La  vita  del  Pontano,  com' ebbi  occasione  un' altra  volta  di 
affermare, 2  nelle  sue  linee  generali  è  stata  studiata  assai  bene 
dal  Tallarigo  ;  sarebbe  strano  pertanto  che  io  qui  mi  rifacessi, 
anche  per  sommi  capi,  a  narrarla.  Io  toccherò  solo  alcuni 
punti  di  essa,  dove  l'elemento  astrologico  ha  d'uopo  di  rice- 
ver luce  e  rilievo.  Non  già  che  in  mezzo  agli  altri  meriti  in- 
discutibili del  biografo  napoletano  non  ci  sia  pur  questo,  d'aver 
compresa  V  importanza  della  fede  nell'  astrologia  come  parte 


1  J.  J.  Fontani  De  rebus  coeìeatibus,  lib.  XII,  ed.  aldina  del  1619,  p.  177  b. 
*  J.  J.  Pontani  Carmina,  Firenze,  1902,  voi.  I.  p.  V. 


232  CAPITOLO  QUARTO 

integrante  dell'  opera  e  del  pensiero  del  Pontano  :  *  ma  nella 
monografia  di  lui  la  trattazione  di  tale  parte  rimase  necessa- 
riamente un  po'  in  ombra,  per  i  limiti  molto  vasti  del  suo  la- 
voro. Per  noi  invece  ò  diverso  il  punto  di  vista,  e  quindi 
l'esame  dev'essere  più  accurato  e  profondo. 

Nel  1447,  giovanissimo,  il  Pontano  venne  a  Napoli,  ove 
ebbe  protezione  e  un  impiego  nelle  pubbliche  amministrazioni  ; 
vi  cercò  pure,  quasi  subito,  mezzi  di  studio,  che  l' amor  del 
sapere  allora  più  che  mai  lo  stimolava.  Ora  accadde  che  il 
suo  primo  insegnante  fosse  Gregorio  Tifernate,  che  noi  sap- 
piamo credeva  nell'astrologia.2  Gregorio  veramente  insegnava 
il  greco;  ma  basta  conoscere  un  poco  gli  usi  delle  scuole  uma- 
nistiche ed  i  limiti  che  allora  si  assegnavano  alla  filologia,3  per 
ammettere  che  rapporti  di  idee  anche  filosofiche  e  scientifiche, 
fra  maestro  e  discepolo,  non  mancarono  certamente.  Passarono 
circa  tre  anni,  ed  ecco  a  Napoli  Lorenzo  Bonincontri.  In  altro 
luogo  abbiamo  illustrata  l'amicizia  che  legò  costui  al  giovane 
umbro:  l'intimità  famigliare  fra  i  due  divenne  strettissima, 
ben  presto  seguita  da  comunanza  di  studi.  E  gli  studi  loro 
furono  di  astrologia,  e  si  protrassero  per  molti  anni,  coope- 
rando ad  essi  Tolomeo  Gallina,  l'astrologo  catanese  che  avemmo 
già  occasione  di  ricordare.  L'uno  e  l'altro  dei  collaboratori 
eran  più  avanti  del  Pontano  negli  anni,  e  gli  fecero  un  po' 
da  maestri;  o,  se  vero  e  proprio  insegnamento  da  parte  di 
costoro  non  si  vuol  ammettere,  gli  furono  consiglieri  auto- 
revoli ed  entusiasti,  a  un  dipresso  come  è  da  considerarsi 
ser  Brunetto  per  Dante.  Ed  in  quel  modo  che  Dante  ebbe  i 
buoni  suggerimenti  del  notaio  tanto  a  grado,  che  più  non  li 


1  C.  M.  Tallabioo,   G.   Pontano  e  i  suoi  tempi,  Napoli,   1874,  voi.   II, 
p.  482  sgg. 

*  L.  Dei.akuellk,  Une  vie  d'  humaniste  au  xw  siede  :  Gregorius  Tif ■■>■- 
nas;  extrait  des  Mélanges  d'archeologie  et  d'  histoire  publiés  par  l»l 
francarne  de  Rome,  Rome,  1899,  cita  un'  elegia  che  Gregorio  scriveva,  a  mo' 
d'  epitaffio,  a  se  stesso,  dove  si  legge  : 

logeniiim  mihi  non  deerat,  si  sidera  rebus 
Favissent  radio  prosperiore  mei 8. 

s  P.  Fiorbktiho,  FI  rittascimento  filosofico  nel  Quattrocento,  Napoli,  1885, 
p.  189. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  233 

dimenticò  mentre  visse,  cosi  dovette  il  Pontano  per  tutte  il 
corso  splendido  della  sna  carriera  politica  e  letteraria  conser- 
vare il  suggello  delle  prime  meditazioni  e  del  primo  indirizzo. 
Egli  insomma,  nella  consuetudine  dei  due  astrologi  si  affermò 
astrologo  e  cominciò  a  guardare  da  questo  speciale  punto  di 
vista  i  casi  dell'esistenza  propria  e  de' suoi  cari  e  gli  avve- 
nimenti della  società  e  della  storia.  Abbiamo  infatti  di  lui 
una  confessione,  quasi  un  proprio  tema  di  genitura,  composto 
in  età  giovanile,  quando  cioè  tutti  i  suoi  pensieri  si  affissa- 
vano esclusivamente  negl'ideali  dell'arte  e  della  filosofia,  il 
quale  ci  rivela  come  fermamente  egli  ripetesse  dal  cielo  pla- 
netario influente  la  propria  natura:  «  Nullus  evasit  bonus  poèta, 
cuius  in  genitura  Venus  Mercuriusque  in  signis  accomodatis, 
in  locis  idoneis,  in  appositis  configurationibus  inventi  non  fue- 

rint Nos  qui  haec  scribimus,  nullo  a  praeceptore  aut  ad 

Carmen  componendum,  aut  ad  philosophiam  ediscendam,  aut 
ad  coeli  significationes  intelligendas  instituti  sumus.  Sola  enim 
natura  insitaque  animi  vis  ac  veterum  scriptorum  lectio  as- 
sidua ad  haec  ipsa  nos  traxit,  quorum  et  pater  avusque  igno- 
rantissimi fuere,  et  mater  satis  habuit  lanificio  ac  telae  in- 
tenta esse.  Ad  coelum  igitur  stellasque,  quando  ab  illis  quidem 
manant,  iure  baec  videntur  referenda  ». l  Alquanto  più  tardi, 
quando  gì'  ideali  suoi  si  allargarono  ed  i  negoziati  diploma- 
tici gli  procacciarono  giusta  rinomanza  e  non  poche  delusioni, 
abbiamo  di  lui  un  altro  tema  genetliaco,  di  carattere  zodia- 
cale, conseguenza  e  complemento  del  primo,  cosi  espresso  nei 
seguenti  versi  dell'  Urania: 

At  mihi  nascenti  sub  eodem  sidere  (l'Ariete)  mater 
Non  fratres  foecunda  dedit,  nec  germino  ab  uno 
Passa  est  germanos  Natura  adolescere  ramos; 
Sed  fandi  libertatem  arbitriumque  loquendi 
Addidit  et  dictis  vires  et  pondera  rebus. 
O  quotiens  sterilemque  h'dem  ingratosque  labores 


1  Pontahi  De  rebus  coelestibus,  lib.  II,  p.  131  a  dell'ed.  aldina  più  volto, 
cit.  Servano  queste  dichiarazioni  anche  a  determinare  i  rapporti  fra  il  Pon- 
tano •  •  il  Tifernate,  il  Bonincontri,  il  Gallina,  nel  senso  da  me  più  sopra 
additato. 


234  CAPITOLO  QUARTO 

Conqueror,  et  quod  nulla  meis  bene  gratia  factis 
Respondet,  sine  fruge  operam  ac  sine  munere  finem.1 

Chi  non  ricorda  poi  il  culto  del  Pontano  per  la  famiglia?  Eb- 
bene, anche  nelle  gioie  e  nei  dolori  famigliari  egli  vedeva  in 
certo  modo  V  effetto  di  combinazioni  stellari.  Valga  a  questo 
proposito  un  solo  esempio,  la  genitura  del  figlio,  di  quel  Lucio 
che  il  padre  salutò  alla  nascita  con  una  delle  sue  pili  belle 
elegie.  Or  quando  egli  se  lo  vedeva  crescere  giovinetto  fra  la 
dissipazione  e  l'ozio,  pieno  d'amarezza  interrogava  il  cielo,  e 
vi  leggeva  un  triste  influsso  ed  un  più  lieto  presagio:  la  costel- 
lazione della  Vergine,  che  si  era  trovata  al  suo  oroscopo,  era  la 
causa  dei  vizi  giovanili,  ma  prometteva  gloria  nella  maturità  : 

Tu  vero,  mihi  care  puer  (per  sidera  testor, 
Quae  tibi  vel  magnos  non  inficiantur  honores), 
Ulecebris  ne  dede  aniinum,  neu  deside  somno 
Ocia  corrumpant  mentem,  procul  effuge  et  artis, 
Quos  Virgo  teneris  molles  meditatur  ab  annis  : 
Post  eternai  in  duros  convertet  pectora  mores, 
Et  praecepta  dabit  vitae,  et  bene  consulet  annis.* 

1  Uraniae  lib.  II,  v.  210-217,  in  Pontam  Carmina,  voi.  1°,  p.  48.  Possono 
illustrare  questi  versi  le  seguenti  parole  del  De  rebus  coeì.,  lib.  V,  p.  17.  ti: 
«  Igitur  cui  Aries  ascenderit,  is  erit  ore  libero,  forti  Consilio,  menta  «luta,  prò* 
posito  inconstanti,  fortuna  varia,  iuventute  inulta;  erit  imperiosa*,  popmta 
carus,  reruraque  publicarum  studiosus,  flagitiorum  insectator;  fratres  auteni 
aut  vix  sortietur,  aut  si  sortitus  fuerit,  fere  oinnis  efferet,  propter  Martis  per- 
niciosam  vim  ;  idem  prò  susccptis  laboribus,  prò  collatis  beneflciis,  vix  jrra- 
tiam  ullam,  quin  potius  ingratitudinem  prò  collata  inveniet  opera».  Ma  il 
miglior  commento  ci  è  fornito  da  molti  passi  di  quelle  lettere  politiche  del 
Pontano  a  Ferrante  I,  cosi  nobili,  libere,  assennate,  causa  forse  non  ultima 
dei  dispiaceri  del  ministro  e  dell'  ingratitudine  regia.  Una  citazione  pai 
bastare,  assiti  calzante:  ciò  non  potria  mutar  natura  de  reconiare  alli 
signori  mei  quello  mi  pare  sia  loro  bene,  cosi  come  etiam  non  so  mutare 
me  medesimo  da  astinerme  di  dar  a  quelli  impaccio  o  spese  in  li  miei  Iti- 
sogni,  etiam  che  sia  nel  grado  mio  ben  povero:  l'uno  e  l'altro  è  in  me 
vitio;  ma  come  io  ho  patientia  in  non  aflfannarve  in  le  mie  necessitate, 
cosi  voi  abbiate  patientia,  etiam  che  sia  cosa  dispare  da  signore  ad  mini- 
stro, in  intendere  quel  che  mi  occorre  in  li  fatti  vostri,  e  che  è  con  a 
e  con  fede»;  Lettera  del  P.  al  re,  Napoli.  26  aprile  1492,  ed.  da  K. 
zuntb,  Alcune  lettere  di  G.  P.,  in  Archivio  storico  napol.,  voi.  XI.  i> 
Per  altre  citazioni,  v.  Tallariqo,  op.  cit.,  voi.  I,  p.  199  sgg.;  e  F.  Trihchera, 
Codice  aragonese,  Napoli,  1866-70. 

*  Uraniae  lib.  II,  v.  918-919.  Il  Tallarioo,  op.  cit.,  voi.  I,  p.  93,  ae 
oscurameute  ai  vizi  del  tiglio  del  Pontano  ;  più  esplicito  è  Gioviano  stesso, 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  235 

È  noto  pur  troppo  che  la  seconda  parte  del  tema,  quella  che 
annunziava  felicità,  non  ebbe  compimento,  o  l'ebbe  ben  di- 
verso da  quello  previsto  ! 

Anche  per  gli  amici  il  Pontano  non  rifuggi  qualche  volta 
dall'  iuterpretare  il  celeste  giudizio,  come  quando  a  Ferdinando 
Uavalos  in  fasce  predisse  le  future  glorie  militari.1  Però  di 
oroscopi  con  tutte  le  regole,  quali  si  addicevano  ad  astrologi 
di  mestiere,  egli  ne  compose  pochissimi,  e  forse  quei  pochi 
senza  pretesa  che  fossero  cose  seriissime.  Questo  anzi  del  Pe- 
scara è  l'unico  documento  che  se  ne  conosca:  la  sua  fede, 
profonda  e  sicura,  rifuggiva  dalle  imperfette  applicazioni  della 
pratica.  Ma  non  veniva  meno  per  questo  nei  più  ardui  cimenti 
della  politica,  cosi  come  s'era  rivelata  nelle  più  delicate  con- 
tingenze della  famiglia.  Citerò  a  questo  proposito,  e  sarà  l'ul- 
tima citazione,  un  brano  di  una  lettera  indirizzata  dal  vecchio 
ministro  al  giovane  re  Ferrandino,  il  9  febbraio  1495,  quando 
cioè  Carlo  Vili  era  alle  porte  di  Napoli  e  massimo  il  comune 
pericolo:  «Le  invasioni  longinque  et  senza  precedenti  iniurie, 
quale  incurre,  soleno  intervenire  per  la  vicinità  quando  uno 
prenci pe  confina  con  l'altro,  proveneno  da  movimenti  celesti, 
come  designano  per  le  Comete  e  per  grande  coninnctione  de 
stelle,  quale  è  questa  invasione  al  vostro  Padre  et  ad  voi  facta, 
per  ben  che  vostro  Avo  prima,  e  poi  vostro  Padre,  se  l'hab- 
biano  procurate  per  li  avari  et  violenti  loro  portamenti  ;  et 
cosi  el  cielo  adopera  secondo  la  materia  disposta,  et  quando 

nel  De  rebus  coel.,  lib.  V,  p.  186a:  «  Eorum  miteni  adolescenza  futura  est 
ìncillis  ac  delirio..,-!,  qnippe  qui  a  lascivia  vieti  totos  se  amori  dedent,  et 
(ut  inquit  Julius  Maternus)  omnium  mulierum  concubitus  concupiscent  ; 
post  vero  superata  signi  anaphora  atque  ascensionibus,  sedata  cupiditate, 
modestiam  induent,  ac  intra  verecundiae  gyrum  redibunt  ». 

1  Pauli  Jovii  J)e  vita  et  de  rebus  gestis  F.  Dovali  cognomento  Pi- 
8carii,  Florentiae,  1549,  p.  287:  «  Habuit  in  genesi  circa  coeli  verticem  sydus 
Martis  directo  cursu  sua  in  sede  constitutum,  et  quo  felicius  victoriae  pa- 
rarentur,  salutaribus  Jovis  radiis  (lelinituin  ;  unde  Pontanus,  supra  eloquen- 
tiac  laudem  etiam  syderalis  scientiae  peritissimus,  inspecto  themate,  victo- 
ria8  et  laetissimos  triumphos  puero  sit  pollicitus;  itidem  etiam  monens  ut 
faciein  adversus  vulnera  diligentissime  praemuniret,  quasi  ex  ferro  Mars 
alioqui  benignus,  honesto  ori  deformitatem,  uti  postea  evenit,  manifeste 
minaretur  >.  Cfr.  E.  Gothkin,  op.  cit.,  p.  446,  e  questo  nostro  lavoro,  a  p.  131, 
n.  1. 


236  CAPITOLO  QUARTO 

il  cielo  non  trova  resistenza  inferiore,  tira  le  cose  al  curso 
suo,  come  fa  di  un  fiume  repentinamente  ingrossato  di  piovia 
e  d'acqua  adventitie,  quando  non  sia  provisto  alle  ripe  et  ad  le 
argini.  La  piovia  vi  è  venuta  addosso,  et  tale,  che  havete  il 
maior  Ee  del  mondo  addosso,  l'impero  è  grandissimo,  e  tucta 
Italia  le  ha  data  via  et  habilità  ». l 

Com'è  naturale,  e  come  abbiamo  lasciato  capire  fin  da 
principio,  questo  modo  di  giudicare  i  casi  della  vita,  e  il 
conseguente  contegno  morale  e  politico,  erano  applicazioni 
d'una  teoria  astrologica  ben  salda  e  ragionata,  alla  cui  pre- 
parazione il  Pontano  dedicò  molti  e  molti  anni  ed  il  fiore  dei 
propri  studi  e  del  proprio  ingegno.  Tale  teoria  costituisce  il 
nucleo  del  pensiero  filosofico  pontaniano,  al  quale  dobbiamo 
ora  rivolgere  l'attenzione.  Questa  teoria  non  è,  almeno  in  ge- 
nerale, ignota  agli  studiosi:  ne  parlò  da  par  suo  il  Fiorentino, 
e  poi  ne  discorse  con  qualche  determinazione  maggiore  il  Go- 
thein.2  Essa  è  del  resto  chiarissimamente  esposta  dal  Pontano 
medesimo  per  mezzo  di  una  serie  di  opere,  sulla  scorta  delle 
quali  cercherò  anch'io  di  riassumerla  in  modo  genuino.  Cer- 
cherò pure  di  avvantaggiarmi  sopra  i  due  egregi  critici,  che 
mi  hanno  preceduto,  studiando  pili  esattamente  1'  ordine  cro- 
nologico delle  opere,  e  addentrandomi  perciò  con  maggior  si- 
curezza nello  svolgimento  progressivo  delle  idee  dell'autore. 

Non  tutte  infatti  le  opere  astrologiche  del  Pontano  ci  pre- 
sentano una  perfetta  identità  di  opinioni,  ma,  come  fu  notaio 

1  Fr.  Colakoelo,  Vita  di  Giacomo  Sannazaro,  Napoli,  1819,  p.  185.  Balli 
vicende  politiche  del  febbraio  1495,  mese  fatale  per  gli  Aragonesi  e  per 
viano,  v.  Abturo  Negri:,  Lodovico  Sforza  detto  il  Moro  e  la  Repubblica 
di  Venezia,  in  Archiv.  stor.  Lombardo,  a.  XXX,  1903,  fase.  XI-,  j».  116,  in 
nota,  dove  Analmente  è,  si  può  dire,  risolta,  con  un  documento  veneto,  la 
famosa  questione  dell'orazione  a  Carlo  Vili,  in  questo  senso  ohe  il  PoatSM 
avrebbe  parlato  e  lusingato  il  nemico  trionfatore  per  un  accordo  air 
dentemente  stabilito  col  fuggitivo  Ferrandino,  fiducioso  di  ritornar  presto 
sul  trono  paterno. 

*  F.  Fioremtino,  H  rinasci  mento  filosofico  del  Quattrocento,  Napoli,  1885, 
p.  189  sgg.,  e  Egidio  da  Viterbo  e  i  Pontaniani  di  Napoli,  in  Archivio 
stor.  nap.,  voi.  IX,  p.  480  sgg.  ;  K.  Gothkm,  op.  cit.,  p.  422  agg.  Il  Talla- 
riqo,  op.  cit.,  voi.  II,  p.  442  sgg.,  quantunque  abbia  intravisto  il  problema, 
si  limita  quasi  rotativamente  a  riepilogare  le  opere  astrologiche  del  Pon- 
tano, >rii/..i  chiarirne  adeguatamente  il  pensiero. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  237 

di  sfuggita  dall' erudito  tedesco  ora  citato,1  nelle  une  la  con- 
cezione è  meno  svolta  e  si  restringe  quasi  interamente  al  campo 
fisico;  nelle  altre,  cioè  nelle  più  mature,  l'orizzonte  si  allarga 
ed  abbraccia  anche  la  metafisica  e  la  teologia.  Le  prime,  che 
perciò  costituiscono  un  gruppo  inscindibile,  sono  due:  la  tra- 
duzione e  il  commento  del  Centiloquio  pseudo- tolemaico,  e  i 
quattordici  libri  De  rebus  coelestibus;  le  altre,  cioè  il  secondo 
gruppo,  sono  l'operetta  in  tre  libri,  De  fortuna,  ed  il  dialogo 
Aegidius.  Partecipano  all'un  gruppo  e  all'altro,  si  per  la  ma- 
teria che  per  la  cronologia,  i  due  poemetti,  V  Urania  e  le 
Meteore. 

La  traduzione  delle  Cento  sentenze  di  Tolomeo2  io  credo 
sia  cominciata  prestissimo;  non  sarei  anzi  lontano  dal  supporre 
ch'essa  sia  stata  pensata  dal  Pontano  al  tempo  della  sua  con- 
suetudine col  Bonincontri,  e  cioè  qualche  anno  prima  del  1475. 
Noto  infatti  la  coincidenza,  che  può  non  essere  fortuita,  che  in 
quegli  anni  Lorenzo  raccolse  i  materiali  per  il  suo  commento 
alla  stessa  opera:  commento  che,  come  abbiamo  veduto,  egli 
terminò  a  Firenze  nel  1477. 3  E  del  1477  è  pure  il  termine 
dello  scritto  pontaniano,  come  risulta  da  sicurissimi  dati  cro- 
nologici interni  e  à&W  cxplicit  del  codice  posseduto  già  da 
Ermolao  Barbaro,  ora  conservato  nella  Marciana.4  Secondo  la 
mia  ipotesi,  col  materiale  cominciato  a  radunare  insieme,  i 
due  amici,  divisi,  composero  ciascuno  il  proprio  trattatello, 

1  E.    GoTHEIN,    Op.    CÌt.,    p.    439. 

2  Centum  Ptolemaei  sententiae  ad  Syrum  fratrem  a  Pontano  e  graeco 
in  latinum  tralatae.  atque  expositae,  in  due  libri,  il  primo  dedicato  a  Fe- 
derico d'  Urbino,  il  secondo  al  Compatre,  stampate  per  la  prima  volta  a 
Napoli,  per  cura  del  Summonte,  nel  1512,  insieme  col  De  rebus  coel.  e  col 
proemio  d'  un  libro  perduto  De  Luna  ;  ristampate  poi  dalla  tipografia  al- 
dina nel  1519. 

3  Vedi  questo  nostro  lavoro,  a  p.  176,  n.  2. 

4  È  il  codice  Marciano  lat.  Vili,  66,  il  quale  contiene  il  solo  primo  libro 
delle  Sentenze,  ed  ha  nell'explicit  la  data:  M.CCCC.LXXVII.  Che  sia  appar- 
tenuto ad  un  Barbaro  è  certo  per  il  fatto  che  a  e.  1  a  si  vede  lo  stemma  di 
questa  nobile  famiglia  veneziana;  che  poi  il  possessore  fosse  proprio  Er- 
molao, è  facile  ipotesi,  date  le  relazioni  fra  costui  e  1"  Accademia  napole- 
tana (E.  Gothein,  op.  cit.,  p.  507).  Gli  argomenti  interni  o  storici  che  con- 
fermano la  data  fornita  dal  codice,  si  trovano  in  un  passo  dell'ultima  Sen- 
tenza del  2°  libro,  da  noi  riportato  a  p.  159,  n.  1. 


238  CAPITOLO  QUARTO 

più  esteso  quello  del  Pontauo,  meno  ampio  quello  del  Bonin- 
contri,  allora  occupato  in  più  importante  lavoro. 

Il  De  rebus  coelestibus,  opera  fondamentale  e  di  gran  mole, 
dovè  essere  impostata  o  quando  il  commento  al  Centiloquio 
era  a  buon  punto,  cioè  intorno  al  1475,  o  più  probabilmente 
non  appena  quello  fu  terminato,  cioè  nel  1477.  Da  questo 
tempo  fu  condotta  alacremente  per  qualche  anno,  forse  fino 
al  libro  undicesimo,  e  poi  lasciata  in  sospeso,  essendo  l'autore 
distratto  e  dai  doveri  politici  e  da  altri  lavori  letterari.  Giacevi 
come  dimenticata,  quando  si  conobbe  a  Napoli,  come  abbiamo 
veduto,  nel  fortunoso  anno  1494,  la  Confutazione  pichiana.  Il 
lavoro  fu  perciò  ripreso,  alla  distanza  di  circa  vent'anni  dal 
suo  cominciamento,  ed  accresciuto  d'un  libro,  il  dodicesimo, 
o  fors' anche  di  tre.  Certo  si  è  che,  passato  il  turbine  dell'in 
vasione  francese  e  ridotto  il  Pontano  a  tranquilla  vita  privala. 
nel  1495  tutta  l'opera  fu  sottoposta  ad  un  paziente  lavoro  di 
rifacimento  ; l  lavoro  a  cui  ancora  possiamo  assistere  svolgendo 
le  pagine  del  prezioso  codice  vaticano,  che  ce  ne  conserva 
l'autografo.2  Nel  rifacimento  scomparve,  come  abbiamo  ve- 
duto, l'invettiva  contro  il  Pico,  ma  nella  sostanza  il  pensiero 
informatore  dell'opera  non  mutò,  anzi  rimase  tale  e  quale  era 
in  principio.  A  buon  diritto  dunque,  quanto  alle  opinioni  in 
esso  manifestate,  il  De  rebus  coelestibus  può  andar  d'accordo 
con  la  traduzione  del  Centiloquio. 

Quali  sono  queste  opinioni?  Ho  già  detto  che  esse  consi- 
stono nella  dimostrazione  fisica  dell'astrologia;  aggiungo  ora 
che  derivano  dalla  fisica  aristotelica,  interpretata  alquanto  li- 

1  Nella  chiusa  del  proemio  del  libro  primo  (ed.  aldina,  p.  97 a),  scritta 
evidentemente  dopo  il  1495,  il  Pontano,  rivolgendosi  all'amico  duca  d'Atri, 
(a  questa  dichiarazione,  che  noi  ponemmo  a  base  della  nostra  cronologia: 
«  Hortatu  antan  tuo  effectum  est,  Andrea  Matthaee,  ut  rem  supra  vigiliti 
annos  intermissam  regias  ob  administrationes  rerumque,  ut  scis,  maximaram 
curam,  senex  iam  et  annis  confectus  ac  curis,  prodigata  (ìallorum  incorsa 
bellicisque  impressionibus  magna  e  parte  re  familiari,  exutusque  ipse 
honoribus,  quos  maximo  labore,  stimma  integritate,  ingentibus  periculis, 
meo  tantum  unius  ingenio  propriisque  animi  vi  ri  bus  compara  verain.  «ani 
nunc  ex  integro  susceperim,  potius  quam  resumpserim  ». 

*  Questo  codice,  che  ho  già  ricordato  qui,  e  di  cui  altrove  ho  data  la 
descrizione  (Pohtani  Carmina,  p.  XXIII,  n.  1),  è  il  Vat.  lat.  2889. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  239 

beramente  ed  in  modo  affatto  diverso  da  quello  adottato  dal 
Pico.  Mi  spiego.  Ripetutamente  ho  esposto,  per  sommi  capi, 
il  sistema  dell'universo,  quale  Aristotele  lo  concepiva,  ed  ho 
anche  fatto  osservare  come  l'astrologia  potesse  venire  in  quel 
sistema  compresa  o  da  esso  esclusa,  a  seconda  dell'  interpre- 
tazione data  al  rapporto,  non  ben  definito,  fra  i  cieli,  sostanza 
perfetta,  e  gli  elementi,  sostanza  corruttibile.  Ora  il  Pontano, 
nell'interpretazione,  non  esita  a  schierarsi  fra  coloro  che  af- 
fermavano la  perfezione  dei  corpi  celesti  stare  appunto  in 
ciò  ch'essi  hanno  l'ufficio  d'informatori  della  materia  di 
quaggiù.  Stabilita  questa  base,  sempre  mantenendosi  nel  campo 
della  scienza  naturale,  egli  viene  a  dimostrare  che  anche  l'uomo, 
in  quanto  è  corpo,  è  il  prodotto  della  materia  sublunare,  in- 
formato dagli  astri  ;  di  più,  egli  ancora  sostiene  che  nel  vario 
modo  onde  il  corpo  è  informato,  cioè  nel  temperamento  fisico, 
risiedono  le  cause  del  temperamento  morale,  di  quella  cioè 
che  usiamo  chiamar  indole  delle  persone.  Le  quali  perciò,  in 
grazia  dell'origine,  vengono  ad  esser  soggette  all'influsso  ce- 
leste. Il  Pontano  evidentemente  trascura  quell'elemento  spiri- 
tuale che  gli  scolastici  avevano  introdotto  nel  sistema  aristo- 
telico, cioè  l' anima  immortale,  creata  direttamente  da  Dio  : 
trascura  quella  parte  del  problema,  che  più  stava  a  cuore  agli 
avversari  suoi  ed  in  generale  ai  filosofi  del  tempo  suo,  conti- 
nuatori assai  più  fedeli  di  quanto  non  si  pensi  del  pensiero 
teologico  medioevale. l  La  trascura,  non  la  nega  ;  ed  in  questa 
sua  voluta  dimenticanza  risiede  appunto  la  novità  del  suo 
concetto.  Onde  il  Gothein,  che  forse  più  profondamente  d'ogni 
altro  si  addentrò  nel  pensiero  pontaniano,  ne  fa  grandi  lodi, 
ed  acutamente  osserva  essere  l'astrologia  di  Gioviano  piuttosto 
uno  studio  psicologico  dell'uomo,  che  non  una  ricerca  del  fu- 
turo o  dell'  ignoto. 2   È  interessante   infatti   l' osservare   con 


1  Questo  riconosce  anche  G.  Boffito,  Un  poeta  della  meteorologia,  Me- 
moria dell'  Accad.  pontaniana,  Napoli,  1899,  p.  4. 

8  E.  Gothein,  op.  cit.  p.  446.  Intorno  a  questa  specie  di  limitazione  del 
campo  astrologico,  professata  già  in  antico  da  Diogene  stoico  e  nota  al  Fon- 
tano per  mezzo  di  Cicerone  (ZH'ttt'n.,  II,  48),  v.  A.  Bouché-Ljeclercq,  op.  cit., 
p.  544,  n.  2,  e  694. 


! 


240  CAPITOLO  QUARTO 

quanta  cura  s'adoperi  l'autore  a  spiegare  in  che  modo  e  per 
quali  processi  il  Sole  e  la  Luna,  e  con  loro  anche  gii  altri 
astri  maggiori,  agiscano  nella  formazione  dell'organismo  ter- 
restre ed  umano;  è  interessante,  e  direi  anzi  essenziale  per 
il  nostro  studio,  tanto  che  non  esito  a  trascrivere  qui  la  parte 
migliore  del  proemio  del  primo  libro  De  rebus  coelestibus, 
dove  il  nodo  vitale  della  questione  ò  come  riassunto: 

Aristoteles  rerum  naturae  indagator  solertissimus  manare  coe- 
litus  tradit  generationis  nostrae  primordia,  indeque  tanquam 
potiore  e  natura  proficisci.  Coelestia  enim  ac  superiora  illa 
sempiterna  esse  censet,  immortai isque  couditionis  forte  praedita;  at 
inferiora  haec  nasci,  augescere,  nunquam  prorsus  consistere,  nume- 
ratimque  interire,  tametsi  sua  quaeque  a  specie  conservantur.  Qua 
ratione  et  ipsa  quoque  aeternitatem  sint  adepta,  conditione  autem 
longe  inferiore,  quando  illa  ipsa  agendi,  ut  superiora,  haec  autem, 
ut  inferiora,  patiendi  sint  naturam  consecuta;  et  altera  quidem  in- 
ducendae  formae  praerogativa  auctoritateque  ornentur,  altera  vero 
subministrandae  tantum  materiae  serviant,  peculiariter  ministerio 
huic  apposita.  Ut  tantum  prope  quidem,  ne  examinatius  loquamur, 
interesse  videatur,  si  comparatone  hac  in  parte  uti  liceat,  quantum 
mares  interest  ac  foeminas,  in  ipso  hominum  genere,  quos  natura  ipsa 
sexu  quoque  suo  discreverit,  quippe  quae  perfecti  imperfectique  ra- 
tionem  discriminatim  esset  habitura.  Rursus  eos  ita  simul  in  genera- 
tione  ad  procreandum  conciliat,  ut  ex  illorum  conciliatione  et  copula 
generatio  sustituatur.  Qua  in  conciliatione  et  coitu  mas  eo  apparet 
agnosciturque  praestantior  auctoritatisque  magis  perspectae,  quod  ei 
ut  moventi  ratio  inest.  et  cum  ratione  simul  forma.  Secus  autem  usu 
venit  in  foemina,  cui  materiae  unius  indita  est  tantum  suppeditatio. 
Siquidem  motus  ipsius  principium  omnisque  auctoritas  penes  ma- 
rem  existit,  cui  ut  auctori,  quod  dictum  est,  ratio  inest  ac  forma, 
cuius  ipse  moveatur  gratia  ;  quam  etiam  utramque  inesse  fabro  in 
aedificandis  navigiis  et  fìgulo  in  fingondis  anphoris  certum  est,  motu 
ipso  hoc  praestante.  Quod  igitur  inest  artificii  in  effigiandis  statuis, 
in  consuendis  vestibus,  in  generanda  prole  maribus,  an  non  ii 
et  coelo,  a  quo,  ut  certum  est,  generationis  rerum  ducan tur  pri- 
mordia? Siquidem  coelum  per  se  ipsum  movetur,  ceteraque  movet 
omnia.  Inde  nanque  defluit  sempiterna  illa  quidem  agendi  ac 
creaijdi  facultas,  inde  calor  ipse  animalibus  insitus  ac  seminibus, 
a  quo  rerum  foecunditas  et  ea,  quam  prolificationem  appellare  pla- 
cet, proveniunt,  inde  suscitatio  spirituum,  omnisque  auimalis  com- 
motionis  existit  causa  atque  origo.  Hic  enim  ipse  calor  aliment 
usum  corporis  ac  vitae  sumpta  ita  concoquit,  ut  in  saoguinem 


G.  PONTANO  K  G.  PICO  241 

tat,  per  quem  decoctum  defecatumque,  ac  per  venas  raoatusque  di- 
gestum  et  tanquam  instillatum,  generatio  existit  ac  vita.  E  cuius 
etiam  sanguinis  modificatione  et  habitu,  corporum  sta- 
tus, animorumque  applicationes  et  studia,  mores  item 
ipsi  li  <»  ni  ì  m  u  in  proficiscuntur.  Peiùnde  videlicet  ut  sanguis  ipse 
teuuis  aut  crassus  fuerit,  liquidas  aut  turboleutus,  sincerus  aut  cor- 
ruptus,  fluidus  seu  lentus,  rufus  aut  forte  albidus,  ferventior  aut 
remissior,  proque  aliis  affectionibus  variaverit.  Haec  autem  ipsa  va- 
rietas  e  motus  teraperatione  atque  excrementorum  qualitate  manat, 
deque  Solis  cum  primis  evectione  stellarumque  erraticarum  per  coeli 
partes  ac  signa.  Siquidem  uti  domiciliura  sanguinis  est  cor  in  corpore 
animalium,  quae  sanguine  quidera  Constant,  suusque  idem  ipsum  exi- 
stit vitalium  spirituum  fomes,  sic  Sol  ipse  quidam  quasi  fomes  ac 
fons  est  calori  s,  ut  vitae  quidem  ipsi  et  auctor  et  consti  tutor.  Atqui 
fabrile  aes  et  excuditur  et  informatur  terrario  a  fabro,  prò  mensura 
tum  caloris,  utque  ignitum  illud  et  candens  fuerit,  tum  prò  magnitu- 
dine ac  modo  ictuum  fabrilisque  versatioais,  hoc  est  prò  quantitate 
inotus  motorisque  temperamento.  Coelestes  igitur  agitationes  (si  de 
coelo  coelestibusque  actionibus  in  hunc  loqui  modum  fas  est)  pro- 
creando in  homine,  marium  quidem  partes  obeunt,  inferiora  vero 
haec  corpora  foeminarum.  Ac  quemadmodum  cor,  quod  primum  est 
in  animali  constituendo,  partes  corporis  reliquas  procreat  ac  dispo- 
nit,  prò  afi'ectione  quidem  sua  proque  insita  vi  ac  potestate,  sic  Sol 
ipse  coeli  cor  mundique  totius,  perinde  atque  affectus  fuerit,  infe- 
riora haec  servitioque  apta  corpora  movet  ac  disponit,  quae  quidem 
materiam  illi  subministrant,  perindeque  ut  mulier  viro  subserviat. 
Ne  autem  ab  hominis  ipsius  generatione  recedamus,  qua  ratione, 
quaque  via  virile  semen  in  menstruum  foeminae  sanguinem  sese 
insinuat,  insinuatumque  atque  immixtum  sensim  eum  afficit,  affec- 
tumque  paulatim  informat,  eadem  utique  ratione  Sol  horum,  ut  sic 
loquar,  excrementis  corporum  insinuatus,  suisque  ia  illa  illapsus 
radiis,  motu  caloreque  ea  suo  afficit,  affecta  tempei-at,  temperata 
fovet,  animamque,  per  quam  quidem  ipsam  animata  haec  vocantur 
et  quorum  ipsa  substantia  est,  illis  prò  natura  excrementorum  pro- 
que obiecta  sibi  materia  indit.  Ut  mihi  quidem  iure  maximo  dixisse 
videor,  si  dixero  Terram  hanc  aquis  obsitam  mundi  totius  uterum 
esse,  in  quam  voluti  in  mulieris  uterum  excrementa  generationi  ac- 
comodata conveniant,  quae  de  Solis  calore  fota,  post  concipiant,  ac 
si  genitali  a  semine  calefacta  et  pene  dixerim  fermentata,  suosque 
tandem  conceptus,  tempore  etiam  suo,  proferant.  Atque  ut  minutulae 
illae,  et  quidem  non  paucae  corporum  ipsorum  venae  passim  duabus 
a  venis,  quae  maiores  dicuntur,  derivantes,  ad  uterum  pertendunt, 
foetuique  sufficiunt  alimenta,  sic  a  Sole  Lunaquo  (nam  et  Luna  tan- 
quam foemella  materiam  ot  ipsa  huinectando  comparat  ac  sufficit) 

Soldati  16 


242  CAPITOLO  QUARTO 

errantium  maxime  stellarum  radii  digredientes,  mixtimque  ab  ntro- 
que  temperati  atque,  ut  ita  dixerim,  imbuti,  alimentum  quasi  quod- 
dam  de  utriusque  aspectu  copulatioueve  mutuati,  foetui  illud  exhi- 
bent.  E  cuius  ipsius  affectione  et  qualitate  corpus  qtioque  afficitur. 
Nam  et  capellae  et  oves  et  buculae,  quem  salem  haerbarum  ante 
pastum  delinxerint,  eius  salis,  ut  Virgilius  inquit,  occultum  post  in 
lacte  saporem  referunt;  et  niella  delibati  ab  apibus  roris  gustum 
prò  florum  natura  haerbarumque  repraesentant.  Ad  haec  in  ipso 
corde,  ut  in  principe  atque  auctore  constituendi  corporis  membra  in- 
sunt  etiam  omnia,  partesque  informandae,  quae  in  initio  quidem 
nullae  apparent,  sensim  tamen  et  disponuntur  distributim  cunctae, 
et  in  universum  suo  et  loco  constituuntur  et  ordine,  pedetentimque 
coalescendo  perficiuntur.  Idem  quoque  contingit  in  Solis  calefactione 
ac  radiis,  quod  in  rerum  seminibus,  e  quibus  post  erumpunt 
ventia,  atque  eo  quidem  magis  quod  Sol  ipse  seminum  est  omnium 
altor  et  disseminator,  atque,  ut  Virgilius  eidem  assurgens  canit, 
«  terrarum  flammis  opera  omnia  lustrat  ».1  Quod  quidem  ipsum  non 
tam  mihi  pertinere  videtur  ad  lucem  per  orbem  terrarum  a  Sole 
diffusam,  etsi  pulcherrimum  hoc  quidem  est,  quam  ad  opera  ipsa 
terrarum,  idest  ad  res  e  Terra  provenientes  atque  in  lucem  editas, 
quas  irradiatione  Sol  sua  invisens  excitat,  fovet,  animat,  animataque 
tuetur  et  conservat,  nec  patitur  aut  pereuntes  prorsus  interire.  aut 
intercidentes  nusquam  quidem  resurgere.  Quin  etiam  Terra  ipsa  ut 
parens  animantium  utque  illorum  altrix,  cum  ea  ex  anima  consti- 
tuantur  et  corpore,  corpora  quidem  sponte  sua  suaque  ex  alimonia 
illis  tribuit.  Etenim  piena  est  materiae  atque  excrementorum,  quae 
usui  sint  tum  fingendis,  tum  augendis  conservandisque  corporibus, 
quippe  cum  uterus  ea  sit  mundi,  ut  dictum  est,  totius,  id  quod  tbe- 
minae  quoque  ipsius  quocunque  in  genere  proprium  est  gignendis 
atque  alendis  foetibus.  Corpus  enim  foetus  ipsius  maternum  quidem 
munus  est.  At  vero  maris  officium  ac  suum  eius  omnino  munus  est, 
foetui  sensum  indere,  a  quo  indito  exsistit  ac  nominatur  animai. 
Quocirca  coeli  quoque  suum  ac  peculiare  opus  est,  animam  vege- 
tabili adiungere,  eam  scilicet  quae  sensu  suo  praedita  moveatur, 
seque  etiam  gerendis  rebus  peculiari  ingenio  et  instituat  et  acco- 
modet.  Quam  ad  rem  servitio  aèris  ac  ministerio  vehementer  utitur, 
quando  necesse  est  animai  ipsum,  quod  sensu  diversis  quoque  uta- 
tur  modis,  etiam  spirare.  Spiritus  autem  ipse  calidus  et  humens  est. 
Ut  igitur  natura  haec  inferior  coelesti  ab  illa  tantopere  degener 
cuius  ipsius  proprium  est  generare  et  corrumpere,  magisterio  utitur 
ac  principati!  cordis  unius  ad  animalem  procreationem,  sic  natura 
illa  superior  inferioribus  bis  fovendis  Sole  utitur,  in  cuius  quidem 
motu   atque   calore   insunt   baec    ipsa  omnia,  quanquam   alio   m 

•  Atn.  IV,  607. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  243 

perinde  ut  in  corde  membra  insunt  partesque  omnes  corporis  duna 
formatur.  Quin  etiam  ut  cor  ipsum  postmodum  officio  utitur  opera- 
que  praecordiorum  ab  se  ipso  auctore  ac  magistro  constitutorura, 
simili  Sol  modo  utitur  errantium  stellarutn  ministerio  afficiendis  ac 
variandis  rerum  inferiorum  qualitatibus,  eisdem  diversa  etiam  ra- 
tione  ac  via  temperandis.  Quarum  e  temperationibus  inferiora  haec 
Constant  sibi,  ac  ne  intereant  earundem  stellar um  praesidiis,  est  pro- 
spectum.  Quocirca  sapientissime  quoque  atque  e  re  ipsa 
dictum  est,  generationis  nostrae  primordia  e  coelo  duci, 
et  tanquam  fundaraenta  ab  eo  iaci.  Quid?  quod  ut  e  san- 
guine atque  a  corde  ortus  noster,  idest  hominis  ducitur 
procreatio,  et  quo  etiam  modo  sanguis  ipse  in  initio  af. 
fectus  fuerit,  futuri  etiam  sunt  hominis  cuiusque  affec- 
tus,  animorumque  propensiones  ac  studia.  Itidem  sanguis 
ipse  futurus  est,  quo  modo,  quoque  habitu,  qua  etiam 
mixtura  ac  fermentatione  a  Sole  affectus  fuerit  aliisque 
item  a  stellis  temperatus.1 

Nelle  ultime  parole  di  questo  importantissimo  brano  la  di- 
pendenza del  temperamento  morale  dal  temperamento  fisico  è 
affermata  quale  naturai  conseguenza  di  tutto  il  ragionamento 
precedente  :  V  uomo,  adunque,  nella  sua  indole,  è  il  prodotto 
di  determinati  influssi  stellari.  Nella  sua  indole,  ho  detto;  ma 
sarà  pur  tale  nella  vita  e  nella  società  ?  In  altri  termini,  la 
natura  intima  umana  può  sempre  e  dovunque  esplicarsi,  man- 
tenendo tutte  le  proprie  caratteristiche?  E  per  conseguenza, 
conosciuto  V oroscopo,  è  possibile  determinare  la  psiche  indi- 
viduale e  le  vicende  a  cui  essa  andrà  necessariamente  sog- 
getta nel  corso  della  sua  esistenza  ?  Secondo  il  Pontano,  è 
possibile  conoscere  con  l'astrologia  la  psiche;  è  necessario 
l'aiuto  di  alcune  altre  scienze  e  della  pratica  del  viver  so- 
ciale per  congetturare  (onde  questa  seconda  parte  della  dot- 
trina non  è  sicurissima)  le  vicende  reali  di  essa,  cioè  le  mo- 
dificazioni che  avverranno  negli  atti  suoi  per  la  concorrenza 
di  cause  diverse,  come  l'educazione,  l'ambiente  morale  e  poli- 
tico, gli  agenti  fisici  esteriori,  e,  timidamente  ammesso,  anche 
il  libero  arbitrio.2 

1  Pontini  De  rebus  coel.,  lib.  I,  p.  95a  sgg.  Come  la  teoria  svolta  in 
questo  brano  fondamentale  sia  poeticamente  esposta  in  forma  allegorica 
nel  1°  libro  dell'  Urania,  vedremo  a  suo  luogo. 

*  Pontini  De  rebus  coel.,  lib.  XII,  p.  178 a. 


244  CAPITOLO  QUARTO 

Alla  prima  parte  adunque,  come  alla  sola  impeccabile,  alla 
sola  veramente  scientifica,  l'autore  rivolge  tutte  le  sue  cure 
nelle  due  opere  or  ricordate;  nel  compilar  le  quali,  natural- 
mente, si  vien  servendo,  oltreché  del  suo  Aristotele  e  di  To- 
lomeo, dei  numerosi  libri  astrologici  allora  di  moda,  che  noi 
abbiamo  già  ricordati  parlando  del  Bonincontri.1  Fra  tutti 
però,  con  predilezione  che  gli  fa  poco  onore,  egli  preferisce 
Finnico  Materno,  intorno  al  quale  non  si  perita  di  scrivere 
il  seguente  giudizio:  «  E  veteribus  autem  qui  latine  de  bis 
scripserint,  qui  quidem  fuere  permulti  et  (lari  adinodum  viri, 
hodie  nullius  scripta  extant,  praeter  paucos  e  multis  libros, 
eosque  non  integros,  quos  Julius  Maternus  ad  Mavortium  scrip- 
tos  reliquit;  qui  si  omnes  simul  extarent,  dicere  hoc  ausim, 
haud  multimi  disciplinae  huic  defore  ad  perfectam  cognitio- 
nem  significationum  ipsarum  ».2  Non  è  il  caso  qui  di  dare 
uno  schema  dei  molti  capitoli  del  De  rebus  coelestibus  e  di 
enumerar  le  pagine  ivi  dedicate  allo  studio  dell'  anatomia  e 
fisiologia  e  psicologia  astrologiche,  o  all'esposizione  della  co- 
rografia planetaria  e  zodiacale:  questo  riassunto  altri  l'ha 
latto,  e  con  nessuna  utilità.3  Sarà  invece  bene  osservare  che 
nelle  Sentenze,  scritte  prima,  la  fede  nell'influsso  è  pia  cieca 
e  direi  quasi  volgaruccia,  mentre  nell'altro  scritto,  per  (manto 
esso  a  noi  possa  parere  un  tessuto  di  ridicolaggini,  c'è  in  ge- 
nerale più  compostezza,  più  temperanza.  Vedremo  in  seguito 
come  la  materia  del  De  rebus,  con  l'aggiunta  di  allegorie 
mitologiche,  sia  la  stessa  dell'  Urania  e,  parzialmente,  delle 
Meteore. 

La  seconda  parte,  abbiam  detto,  è  congettura;  ma  una 
buona  teoria  astrologica  non  può  trascurare  neanche  quella, 
trattandola,  ben  s'intende,  secondo  la  natura  sua.  L'astrologia 


1  9.  frusoni,  Documenti  per  la  storia  ecc.,  Napoli  I.  Ili,  p.  M), 
riporta  V  interessantissimo  elenco  «lei  libri  ilei  l'ontano,  i  quali  la  Bglil  ili 
lui  Kupenia  donò  Del  1606  alla  Chiesa  di  San  Domenico.  Ora  fra  le  opere 
Mtrologiohe  ivi  troviamo  e  Alfrajjano  e  Maly  commentatore  ilei  Ci  ìililoquio, 
e  1' Alcabizio,  e  naturalmente  Finnico  Materno,  e  Manilio,  e  linalment. 
cerone,  De  divinatione,  scritto  ili  (lagno  di  SÌotìsm  stesso. 

2  Fontani    De  Nòtti  00*1,   liti.    I.   p.   !>7  :\. 
:t  C.   M.  TAi.i.Mtiun,   op.   eit..   p.    186 


0.  FONTANO  E  G.  PICO  246 

congetturale  uon  fu  esposta  dal  l'ontano  in  un'opera  a  parte, 
ni;i  al  pensiero  di  lui  essa  suggerì  certe  dottrine  fondamentali, 
che  compaiono  in  altri  suoi  scritti;  suggerì  specialmente  due 
teorie,  le  quali,  studiate  dai  critici  indipendentemente  dal  pro- 
blema astrologico,  parvero  forse  più  nuove  e  curiose,  di  quello 
che  siano  in  realtà.  Dico  della  teoria  della  virtù  e  della  teoria 
della  fortuna,  entrambe  intese  a  spiegare,  nei  diversi  suoi 
gradi,  il  rapporto  fra  l' indole  infusa  da\V  oroscopo  e  le  molte- 
plici cause  alteratrici  di  essa,  che  la  vita  ad  ogni  passo  suol 
suscitare. 

La  teoria  della  virtù,  formulata  dal  Nostro  nell'opera  De 
prutìcntia,  intorno  al  1496,  ha  la  sua  base  nella  morale  ari- 
stotelica. ì  E  virtuoso  colui,  dice  Gioviano,  che  per  mezzo  della 
coscienza  della  propria  natura  e  della  esatta  conoscenza  del- 
l'ambiente in  cui  vive,  sa  trovare  quella  giusta  mediocrità  di 
pensiero  e  d'azione,  che  può  dare  a  lui  e  al  prossimo  suo  la 
felicità.  È  virtuoso  per  conseguenza  colui,  che  trova  il  razionale 
contemperamento  fra  l' indole,  prodotta  dagli  astri,  e  le  cause 
modificatrici  di  essa;  colui,  insomma,  che  si  rende  padrone  e 
correttore  delle  vicende  della  propria  esistenza,  seguendo  quella 
norma,  non  assoluta,  che  la  convivenza  sociale  gli  suggerisce 
come  migliore.8  La  vita  del  virtuoso  non  è  perciò  immagine 
o  copia  d'alcun  ideale  metafisico  o  d'alcun  modello  religioso: 
l'imitazione  di  Cristo,  per  quanto  il  Pontano  si  compiaccia  di 
proclamarsi  a  parole* cristiano,3  qui  non  ha  che  vedere.  In- 

1  Per  la  data  e  per  le  fonti  v.  F.  Fiorentino,  Il  rinascimento  filosofico 
cit,  p.  217  sgg. 

*  Pontasi  De  prudentia,  lib.  II,  p.  178  b:  «  Itaque  et  propter  naturales 
affectus,  in  quibus  moderandis  virtutes  versantur,  et  propter  actioncs,  quae 
ip.sas  constitiiunt,  in  quibus  utrisque  defectus  atque  cxcessus  usu  veniunt, 
necessario  virtus  in  medio  con.st itili  tur,  sectaturque  et  duin  aOicimur  et  dum 
agimus  omni  e  parte  niediocritatem,  quae,  ut  saepius  dictum  est,  inter  pa- 
nini constituitur  ac  ninnimi.  Assequemur  igitur  niediocritatem  liane  in 
agendo,  si  nos  ipsos  et  consideraverimus  et  metiemur,  si  illos  quibuscum 
agimus,  si  rem,  facultatem,  personas,  tempus,  locum,  patriam,  urbiuiu  gen- 
tiuuiqne  instituta,  mores,  leges,  civium  artes  disciplinasque,  hominum  item 
opinione»  ac  iudicia,  si  modi  quoque  ac  mensurae  pensimi  habucrimus  ». 

3  Quale  conto  dobbiamo  fare  di  queste  professioni  di  fede,  dettate  dalla 
tradizione  e  dalla  necessità,  non  da  serio  convincimento,  già  abbiamo  detto 
trattando  di  certe  dichiarazioni  simili  del  Bouiiicontri  (p.  150,  n.  2).  Il  passo 


246  CAPITOLO  QUARTO 

fatti  il  principio  scolastico  dell'anima  eterna,  prigioniera  nel 
corpo,  come  già  nel  proemio  del  De  rebus  coelestibus,  qui  ì' 
taciuto  e,  direi  quasi,  nascosto.  Qui  il  solo  principio  è  l'espe- 
rienza data  dal  convivere  umano,  cioè  dal  concorrere  delle 
infinite  manifestazioni  dell'influsso  stellare  negl'infiniti  indi- 
vidui viventi,  cioè  negli  infiniti  corpi  dei  viventi.  Qual  mera- 
viglia adunque  se  nel  bellissimo  dialogo  l'ombra  del  santo 
abate  Ferrando  Gennaro,  apparsa  in  sogno  ad  Azio  Sincero 
e  da  costui  interrogata  intorno  alla  immortalità  dell'  anima, 
risponde,  come  già  Achille  ad  Ulisse  :  «  Dicam  vere,  fatebor 
ingenue,  asseverabo  constanter.  nos  qui  e  vita  iam  migravi- 
mus  eo  desiderio  teneri  in  vitam  illam  remigrandi,  quae  ani- 
mae  cum  corpore  est  communis»?1  Non  c'è  da  stupirsi  che 
il  Pontano  arditamente  la  pensi  e  si  esprima  in  questo  modo, 
e  poi  insista  esortando  :  «  Pungamur  igitur  eo  libentius  in 
hac  ipsa  animae  corporisque  societate  viventes,  vitae  ipsius 
muneribus;  quodque  medii  quasi  quidam  ex  anima  consisti- 
mus  ac  corpore,  mediocritatem  sequamur  eam,  quae  digna  sit 
nomine».2  Sarebbe  anzi  strano  che  il  filosofo  dell'astrologia, 
il  sostenitore  convinto  della  teoria  dei  temperamenti,  usasse 
un  altro  linguaggio.3 

Intimamente  collegata  con  questa  ora  esposta  è  la  teoria 
della  fortuna,  formulata,  intorno  al  1500,  nei  primi  due  libri 
dell'opera  che  per  l'appunto  s'intitola  De  fortuna.  Il  fortu- 
nato,  o,   come   altri   volle  chiamarlo,4  l'uomo   della   for- 


pontaniano,  a  cui  alludo,  è  nello  stesso  De  prudentia,  lib.  I,  p.  167  b,  dov'è 
detto  che  la  felicità  va  congiunta  colla  virtù,  e  et  quoniam  Cbrist  i.i  n  i 
ipsi  mi  in  iis.  <'iiin  spe  etiain  coelestis  vitae,  qua  ipsis  quoque  cura  coeliti- 
bus  aevo  sit  fruendura  sempiterno  ». 

1  Pontini  Actius,  p.  106  b. 

2  Pontini  Actius,  p.  107  a. 

8  Molto  ardita,  per  i  tempi,  è  questa  scena  ;  si  comprende  perciò  come 
F.  Fiorentino,  op.  cit.,  p,  181,  abbia  esitato  alquanto  a  trarre  da  essa  le 
conseguenze  Intorno  al  pensiero  del  Pontano,  che  noi  abbiamo  tratte.  Non 
dobbiamo  dimenticare  però  che  l'illustre  critico  non  penso  di  ravvicinare 
le  parole  della  visione  alla  teoria  astrologica  dei  temperamenti,  che  forse 
in  questo  ravvicinamento  avrebbe  trovato  un  forte  appoggio  per  il  suo 
giudizio. 

4  E.  Gothein,  op.  cit,  p.  442  sgg. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  247 

tuna,  è  colui  che,  sortita  un'indole  da  natura,  non  ha  biso- 
gno nella  vita  di  foggiar  se  stesso  secondo  le  nonne  di  quella 
mediocrità,  nella  quale  abbialo  visto  consistere  la  virtù.  Il 
fortunato  segue  l'impulso  naturale  ciecamente,  senza  resistenza 
e  senza  stanchezza,  e  si  lascia  da  esso  trasportare  alla  imman- 
cabile riuscita.  Egli  non  sa  per  quali  ragioni  o  da  quali  forze 
sospinto,  tenda  alla  sua  meta;  egli  ò  come  l'artista  sotto 
l'afflato  del  nume  o  come  il  profeta  sotto  l' ispirazione  del  de- 
mone.1 E  come  il  poeta  o  il  pittore  mirano  a  un  ideale  di 
bellezza,  e  il  profeta  si  slancia  nell'avvenire,  cosi  il  fortunato 
si  avanza  fatalmente  verso  gli  onori  della  vita,  verso  i  trionfi 
delle  armi  o  della  ricchezza;  egli  è  il  grande  statista,  l'eroe 
e,  se  ci  è  permesso  un  vocabolo  modernissimo,  il  miliardario.2 
Ma  se  egli,  tutto  assorto  nell'azione,  è  incapace  di  conoscer 
se  stesso,3  tali  non  siamo  noi  che  di  lui  facciamo  oggetto  di 
studio  :  per  noi  egli  è  il  prodotto  d'  un  influsso  stellare  stra- 
potente e  tale  che  supera  ogni  ostacolo,  resiste  ad  ogni  agente 
modificatore.  Il  fortunato,  il  cui  oroscopo  ha  intero  il  compi- 
mento nella  realtà,  non  ha  bisogno,  come  abbiam  detto,  d'esser 

1  Pontani  De  fortuna,  lib.  I,  p.  280b-281ab.  Non  a  caso  il  Pontauo 
prende  come  termine  di  paragone  il  poeta,  il  cui  estro,  come  abbiam  visto 
a  p.  233,  per  lui  è  di  natura  celeste;  ed  il  profeta,  e  quindi  anche  l'astro- 
logo, a  cui  la  scienza  non  basta,  secondo  Tolomeo,  Centiloquio,  1»  sentenza, 
quando  non  sia  congiunta  a  naturale,  e  perciò  astrale,  predisposizione. 

*  Non  parrà  troppo  americano  questo  vocabolo  a  chi  ricordi  le  ricchezze 
di  Francesco  Coppola,  conte  di  Sarno,  che  ancora  pochi  anni  avanti  che  il 
Pontano  scrivesse  queste  cose  avea  fatto  stupir  Napoli  offrendo  al  re  un'ar- 
mata per  vincere  i  Turchi  assalitori  d'Otranto,  e  un'altra  di  cinquantasei 
navi  da  guerra  per  combatter  Venezia  (Gothein,  op.  cit. ,  p.  306).  A  chi  com- 
piva atti  simili  ben  si  conviene,  credo,  l'anacronistico  nome. 

3  Pontini  De  fortuna,  lib.  I,  p.  280ab.  :  e  Quocirca,  ut  dictum  est, 
cum  sine  ratione,  sine  Consilio  consultationeque  aliqua  repente  ad  aliquid 
excitanterque  moventur,  quod  illis  postea  bene  vertit,  eos  tunc  si  percuncta- 
bere:  —  Quaenam  vos  commovet  causa,  quae  ratio  ad  haec  ipsa  sequenda? 
—  atqui  respondebunt  :  —  Nobis  ita  quidem  dictat  animus,  sic  nobis  pla- 
citum  est,  hocque  nostrum  nobis  cor  iunuit.  —  Quod  ulterius  si  perstiteris 
quaerere,  cum  non  habeant  quid  cum  ratione  respondeant:  —  Deus,  inquient, 
hoc  vult,  sic  nobis  imperat,  illuni  sequimur,  eius  nos  paremus  imperio.  — 
Itaque  inesse  animis  eorum  videtur  a  natura,  ut,  instinctu  quidem  atque 
impulsu  tantum  ilio,  ratione  vero  ac  consultatone  nulla  adhibita,  ad  ea 
ferantur  raptim  atque  ex  incogitato,  ad  quae  natura  ipsa  illos  trahit, 
vel  raptare  potius  cernitura 


248  CAPITOLO  QUAltTO 

virtuoso,  perché  la  conciliazione  fra  indole  ed  ambiente  non 
gli  è  necessaria;  ma  è  morale  anche  senza  virtù,  d'una  mo- 
rale superiore,  incosciente.  Egli,  concludendo,  è  il  fiore  del- 
l'umanità,  o,  per  servirmi  anche  qui  d'un  vocabolo  recentis- 
simo, è  il  superuomo.1  Vedi  fortuna  delle  teorie  filosofiche! 
I  trattati  sulla  saggezza  e  sulla  fortuna,  in  grazia  dell'ap- 
parente novità  del  loro  contenuto,  ebbero  naturalmente  rapida 
diffusione:  il  secondo  soprattutto  fu  letto  avidamente  a  Na- 
poli e  fuori  di  Napoli,  e  suscitò  applausi  e  disapprovazioni.  - 
Si  capisce  invero  come  non  solo  i  cosidetti  peripatetici,  eioè 
gli  aristotelici  rimasti  ancora  in  gran  parte  fedeli  alla  scola- 
stica, non  potessero  approvare  una  simile  teoria  della  vita  ; 
ma  è  pur  chiaro  che  anche  gli  spiriti  più  aperti  alle  novità 
della  filosofia  trovassero  dei  seri  contrasti  fra  la  prò]  tri  a  fede 
e  gli  enunciati  del  Pontano.  Fra  questi  ultimi  dobbiamo  ri- 
cordare 1 '«agosti  ni  ano  Egidio  da  Viterbo,  intorno  alla  cui  cul- 
tura profana  scrisse  delle  bellissime  pagine  il  Fiorentino.3  Il 
buon  Egidio,  alla  lettura  dei  due  libri  De  fortuna,  fu  pi 
da  un  vero  sgomento  e  temette,  dice  l'illustre  critico  ora  ci- 
tato, per  la  salute  eterna  dell'anima  di  Gioviano.  E  subito 
gliene  scrisse  da  Roma,  ove  allora  si  trovava,  in  tono  di  ami- 
chevole rimprovero:  essere  bugiarda  la  professione  di  cri.stia- 

1  Mi  sia  lecito,  uel  nonio  di  Dante,  una  parentesi  per  osservale  che  non 
ini  par  fiuto  il  ravvicinamento  fatto  dal  Senna,  op.  cit.,  p.  442,  <li  qu<  sta 
teoria  a  quella  dantesca  della  Fortuna  (Inferno,  VII,  73  sgg.).  Per  l'Ali- 
ghieri infatti  la  Dea  non  è  un' allegoria  dell'influsso  celesti,  ma  una  intel- 
ligenza essa  stessa,  ministra  della  Provvidenza,  né  ha  ohfl  vedere  coi  tem- 
peramenti degli  uomini. 

*  Una  prova,  fra  le  altre,  del  favore  conservato  anche  più  tardi  dal  he 
fortuna  è  la  copia  che  Pietro  Bembo  ne  fece  nel  1610,  di  proprio  pugno, 
ora  codice  Marciano  lat.  VII,  US, 

3  Importantissime  per  la  storia  del  pensiero  del  Pontano  le  rei 
sue  con  Egidio  da  Viterbo  e  il  maestro  di  costui  Mariano  da  'ieiinazzaiio  ; 
e  vera  fortuna  che  l'uno  e  l'altro  di  codesti  religiosi  al>l>iano  trovato  nel 
Fiorentino,  Egidio  da  Viterbo  e  i  Pontuniani  di  Napoli,  cit.,  e  nel 
thbin,  op.  cit.,  i».  4Ò8,  due  degni  indagatori  !  Non  e  dunque  nenssario  da 
parte  mia  un  più  lungo  discorso,  dal  momento  elie  aderisco  pienamente  alle 
conclusioni  che  essi  trassero  dalle  carte  da  loro  illustrate,  e  specialmente 
dall'epistolario  del  Pontano  e  di  Kgidio.  gualche  riserva,  che  dovrei  fare 
intorno  all'  attendibilità  della  collezione  Arditi,  usufruita  dal  (iotlicin,  non 
riguarda  i  documenti  di  questo  periodo,  onde  qui  sarebbe  superflua. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  249 

nesimo  inserita  nel  primo  libro  dell'operetta,  essere  indegno 
degli  studi  e  del  pensiero  d'un  filosofo  cristiano  il  non  far 
menzione,  trattando  dei  beni  della  fortuna,  della  provvidenza 
divina.1  11  Pontano  aveva  per  Egidio  una  profonda  venera- 
zione, onde  alle  parole  di  lui  meditò  seriamente  e  dopo  poco 
tempo  —  questi  scambi  di  lettere  sono  del  1501  —  concepì  il 
piano  d*  un  terzo  libro  De  fortuna  e  d'  un  dialogo,  che  inti- 
tolò appunto  al  nome  dell'amico:2  libro  e  dialogo,  natural- 
mente, furono  d'argomento  morale  e  teologico. 

Eccoci  dunque  al  gruppo  estremo  delle  opere  del  Pontano 
ed  al  suo  ultimo  modo  di  pensare  intorno  all'astrologia;  o 
meglio,  all'ultima  fase  del  suo  non  mai  abbandonato  concetto 
dell'influenza  celeste.  Giacché  sarebbe  errore  il  credere  che 
le  parole  dell'agostiniano,  pur  tanto  autorevoli  ed  efficaci  sul- 
l'animo del  vecchio  poeta,  siano  riuscite  a  smuoverlo  dalle 
sue  idee:  esse  servirono  invece  a  dare  sviluppo  a  certi  ele- 
menti mal  chiariti,  e  non  a  caso,  nei  libri  precedenti. 

Nel  libro  terzo  della  fortuna  adunque,  con  la  solita  fran- 
chezza, che  è  pregio  innegabile  di  tutti  gli  scritti  pontaniani, 
l'autore  si  propone  due  scopi:  il  primo,  di  dimostrare  come 
la  sua  teoria  del  fato  non  escluda  la  provvidenza  divina  ;  il 
secondo,  di  aggiungere  alla,  sua  dottrina  queir  elemento  più 
schiettamente  religioso,  che  ad  essa  davvero  mancava.  Il  primo 
scopo  facilmente  lo  raggiunge  richiamandosi  al  proprio  con- 
cetto della  creazione,  che  in  fondo  è  il  concetto  aristotelico 
scolastico:  Dio  crea  gli  astri,  dando  loro  la  potenza  d'infor- 
mare le  cose  di  quaggiù,  le  quali  per  tale  mezzo  dipendono 
da  Dio:  «  quocirca  si  fatum  lex  est  ac  regula  naturae  a  Deo 


1  Pontani  De  fortuna,  lib.  Ili,  p.  299a:  €  Is  cum  in  nostratia  haec  in- 
cidissct  de  fortuna,  non  potuit  non  commendare  studium  nostrum  rarita- 
temque  laboris  ;  praeoptasset  tamen  uti  cogitationes  has  nostras  in  potiora 
convertis8emu8  cognituquc  magia  digna,  quaeque  vel  in  Christianani  rem- 
publicam  vcl  in  vitae  civili*  institutionem  morumque  probitatem  utilitatis 
plus  conferrent.  Esse  enim  quodammodo  Christiano  indignimi  nomine  de  for- 
tuna rationem  habere  aliquam,  cum  res  mortalium  divinae  magis  curae 
permittendae  essent,  quam  de  fortuna  inquirendum  aut  casibus  ». 

*  Per  la  data,  non  per  la  critica,  di  questi  due  scritti,  v.  Tallarigo,  op. 
cit.,  voi.  II,  p.  478  e  689. 


250  CAPITOLO  QUARTO 

praescripta,  si  naturae  eiusdem  et  materia  et  instrumenta  sunt 
ea,  quae  rerum  dicuntur  dementa,  si  stellae  deniqoe  sua  in  iis 
et  iura  exercent  et  imperia,  an  temerarium  tibi  aut  panini  forte 
rationale  videatur,  quod  stellas  fati  ipsius  ministras  diximu 
executricesque  naturae  munerum  divinaeque  constitutionis?  »' 
A  raggiungere  il  secondo  scopo,  lo  scopo  religioso,  fu  ne 
saria  una  concessione  alla  teologia,  alla  quale  forse  il  Pon- 
tano  si  indusse  a  malincuore.  Bisognava  pure  affrontarla  la 
questione  dell'immortalità  dell'anima  e  della  dipendenza  di 
questa  da  Dio  o  direttamente  o  per  il  tramite  degli  spiriti 
angelici!  Ciò  che  volentieri  era  stato  taciuto  non  tanto  per  il 
timor  materiale  dell'accusa  d'empietà,  quanto  per  il  terrore 
di  confessare  a  se  stesso  il  vero  e  nudo  concetto  proprio  in 
fatto  di  dogma,  ora  conveniva  palesarlo.  Orbene,  quell'anima 
che  tanto  anelava,  come  diceva  1'  ombra  di  Ferrando  Gen- 
naro, al  ricongiungimento  col  corpo,  sede  vera  della  vita  del 
senso,  non  negata  mai,  ma  neppure  esaltata,  doveva  finalmente 
essere  appieno  riconosciuta.2 

Sennonché  immediata  conseguenza  del  riconoscimento  del 
l'anima  immortale  era  il  riconoscimento  pure  delle  sue  qua- 
lità, fra  le  quali  prima  la  libertà  dell'arbitrio.  Ed  il  Pontanu. 

1  Pontani  De  fortuna,  lib.  Ili,  p.  301  b. 

*  Pomtani  De  fortuna,  lib.  Ili,  p.  309  ab;  ma  forse  più  chiaro  ancora 
è  il  brano  seguente  d'  una  lettera  che  il  l'ontano  scriveva  nel  dicembre  1601 
ad  Egidio,  edita  dal  Fiorentino,  op.  cit.,  e  riportata  anche  dal  Gothein,  p. 
n.  1:  «Quod  autem  ingravescentis  me  actatis  admoncs,  dicam    libere  quid 
sentio.  Primam  quidem  hominis  aetatem  mortalem  eam  esse  nomiuandam, 
quo  tempore  id,  quod  a  coelo,  vel  a  Deo,  divinimi  in  nos  influxit,  assu. 
ret  mortalitate  ab  ipsa  infici  suaque  ab  excellentia  declinare:   postrcmam 
vero  immortalem,  quo  rursuni  tempore  illa  pars,  completo  iam  itinere,  re- 
gredì in  coelum  incipiat.  Itaque  facile  patior  ab  Aegidio  meo,  a  me 
scilieet  ipso,  in  urtati'  immortali  immortalitatis  ipsius  admo- 
ii  e  ri  :  id  quodvolens  et  sponte  ipsa  me  a  iam  ago,  acturus  e  ti. un 
libentius,  tali  praescrtiin   a  timoni  tore  ac  consiliario  ».  Non  inu- 
tilmente il  Gothein,  p.  466,  richiama  a  questo  punto  gV  inni  saeri  elie  rin- 
viano allora  scrisse,  e  specialmente  quello,  dedicato  all'amico  e  consigliere, 
in  lode  di  8.  Agostino  (Pontani  Carmina,  Firenze,  1902,  voi.  II,  | 
qual  proposito  aggiungerò  che  in  quello  stesso  anno  1601  il  l'ontano  ristu- 
diò, per  consiglio  di  Egidio,  le   opere  dell'  Ipponense,  postillandone  anzi  il 
libro  De  immortalitate  aniinae  in  un  manoscritto  della  propria  bibliol 
ora  cod.  VI,  C,  23  della  Nazionale  di  Napoli. 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  251 

in  una  delle  più  belle  scene  del  dialogo  Aegidins,  tratta  ap- 
punto del  libero  volere  dell'anima,  esaminando  i  rapporti  che 
questo  può  avere  con  la  sua  precedente  teoria  astrologica.  ' 
L'astrologia  congetturale,  egli  dice,  si  occupa  delle  modifica- 
zioni cui  l'indole  sortita  da  natura  va  incontro  durante  il 
corso  della  vita;  tali  modificazioni,  egli  soggiunge,  noi  altrove 
le  attribuimmo  a  cause  molteplici,  specialmente  esteriori.  Ora, 
tra  quelle  cause  una  certo  è  importante,  forse  più  importante 
di  quanto  noi  non  ci  eravamo  accorti,  ed  è  la  libera  volontà 
del  nostro  spirito.  Non  trascuri  dunque  di  tener  conto  del- 
l'azione sua  queir  astrologo,  che  vuole  avvicinarsi  al  vero 
nelle  sue  congetture.  Male  infatti  avrebbe  preveduto  l'adem- 
pimento dell'  oroscopo  mio,  dice  il  Fontano,  colui  che  nel  segno 
dell'  Ariete  ascendente  leggeva,  con  la  valentia  nei  politici  af- 
fari, la  bramosia  degli  onori  e  degli  averi;  che  all'una  la- 
sciando libero  svolgimento,  all'  altra  volontariamente  ho  con- 
trapposta la  mia  rettitudine,  si  che  quella  rimase  come  schiac- 
ciata.2 Quale  azione  pertanto  sia  assegnata  alla  libertà  del 
volere  nel  temperamento  dell'indole  naturale,  questo  stesso 
esempio  ci  mostra  :  essa  funge  da  forza  ordinatrice  delle  varie 
altre  forze  di  natura  astrologica,  ed  è  perciò  la  condizione 

1  Pontani  Aegidius,  p.  168a.  L' interlocutore  principale  di  questa  scena, 
per  bocca  del  quale  si  enuncia  la  teoria  del  libero  arbitrio,  è  Giovanni 
Pardo,  uno  spaglinolo,  ecclesiastico,  amicissimo  del  Fontano  (E.  Pércofo, 
Nuovi  documenti  sugli  scrittori  e  gli  artisti  de'  tempi  aragonesi,  in  Ar- 
chivio stor.  nap.,  XVIII,  p.  626  sgg.).  Il  tono  generale  del  discorso,  e  più 
la  perfetta  concordanza  con  le  idee  espresse  nel  lib.  Ili  De  fortuna,  di- 
mostrano però  che  1'  opinione  sostenuta  è  dello  scrittore,  cioè  del  Pontano. 

*  Pohtani  Aegidius,  p.  169b-170a:  «Tempestate  hac  nostra  qui  apud 
reges  regulosque  magistri  fuere  epistolarum,  utque  hodie  dicuntur,  secre- 
tarii,  8ummum  in  modum  locupletati  sunt  omnes,  praeter  Jovianum  li  une, 
qui  hic  ad  est,  quam  ad  rem  ab  amicis  familiaribusque  assidue  cohortatus 
cum  esset,  nunquam  a  proposito  dimoveri  potuit,  il  lini  in  ore  semper  ha- 
bens  :  —  Egere  nolo,  opulentus  esse  recuso.  Qua  ratione  non  modo  cupidi- 
tati  imperavit  pecuniarumque  appetitioni,  verum  ipsis  etiam  regibus  in  re 
publica  moderanda.  Quam  animi  firinitatem  his  ipsis  etiam  diebus  ostendit. 
Cum  euim,  capto  regno  Neapolitano,  Ludovici  Oalliarum  regis  praefectus 
magistratum  ei  offerret,  quo  e  reditu  eius  senectutem  opulentiorem  duceret: 
—  At,  inquit,  non  opulentiorem  eam  feceris,  verum  occupatiorcm,  quando 
diis  iuvantibus  nullius  honestae  rei  indigeo.  Voluntas  certe  haec  fuit  ra- 
tione temperata,  eaque  cupiditatum  victrix  ac  seusuum  titillantium  >. 


252  CAPITOLO  QUARTO 

necessaria,  al  raggiungimento  della  mediocrità,  cioè  della  virtù. 
Non  bisogna  tuttavia  dimenticare,  osserva  argutamente  Rin- 
viano, che  1'  esercizio  assoluto  del  libero  arbitrio  a  quanto 
mondo  è  molto  raro,  e  privilegio  di  poche  anime  sante  :  ld 
ignorano  per  contro  interamente  i  fortunati,  presso  i  quali 
volontà  ed  impulso  stellare  sono  la  stessa  cosa;  lo  ignorano 
in  parte,  ahimè!  in  molta  parte,  gli  uomini  comuni,  sull'animo 
dei  quali  l'appetito  sensuale  e  la  superstizione  hanno  troppo 
potere.1  Di  modo  che,  tirate  le  somme,  anche  con  l'accrescere 
l'importanza  di  questo  fattore,  il  campo  dell'astrologia  con- 
getturale poco  si  restringe  in  teoria,  pochissimo  in  pratica  : 
quello  dell'astrologia  scientifica  rimane  intatto  in  tutta  la  sua 
estensione. 

Tale  è  l'ultima  parola  che  il  Pontano  pronunciò,  più  che 
settantenne,  intorno  all'astrologia,  l'ultima  sua  parola  anzi 
intorno  a  questioni  filosofiche.  Possiamo  quindi  conchindere 
intorno  al  pensiero  di  lui,  o  meglio  ritornare  per  un  momento, 
forti  delle  nuove  cognizioni  ora  apprese,  sopra  l'attitudine  sua 
nella  controversia  pichiana.  Che  cosa  contrappone  dunque  il 
Pontano  alla  Confutazione  di  Giovanni  Pico,  cioè  a  quell'opera 
demolitrice,  nella  quale,  come  abbiamo  veduto,  la  parte  ne- 
gativa è  cosi  scarsa  di  valore,  e  la  parte  positiva  consiste  in 
un  sistema  dell'universo  derivato  da  Aristotele,  di  natura  quasi 
assolutamente  metafisica?  Il  Pontano  alla  Confutazione,  ciò 
al  sistema  pichiano,  contrappone  non  sofismi  od  attacchi  (se  si 
dimentichi  lo  scatto  iroso  del  dodicesimo  libro  De  rebus  coele- 
stibus,  presto  domato),  ma  un  proprio  sistema,  pur  esso  d'ori- 
gine aristotelica,  nel  quale  i  migliori  elementi  dell'aristoteli- 
smo, cioè  l' indagine  sperimentale  sia  fisica  che  psicologica, 
predominano  e  costituiscono  la  teoria  astrologica  scientifica; 
integrata  da  una  teoria  morale  e  sociale,  cioè  dall'astrologia 

1  Pontani  Aegidius,  p.  171  a:  «  Qaomobrcm  finem  bis  faciam,  si  prius 
tamen  hoc  subdiderim,  bominum  illorum  numerimi  oppido  quaiu  exipuiiiii 
esse,  animimi  qui  colant,  animique  arbitratu  utantur  atque  imperio,  l'uni 
ni  li  1  ti  t  ii  d  o  fere  universa  corpori  si  t  omnino  dedita  corporeis- 
que  illecebris,  ut  fortasse  matbematicis  ipsis  permittenduin 
sit  laxissimis  etiam  habenis  currere  ad  apotelesniata  pronti  li- 
tui mia  ». 


G.  PONTANO  E  G.  PICO  263 

congetturale,  in  cui  soltanto  nell'ultimo  stadio  senile  si  ri- 
scontrano elementi  metafìsici  e  teologici  ben  definiti.  Non  è 
mia  intenzione  giudicare  a  quale  dei  due  sistemi  dobbiamo  dar 
maggior  lode:  poggiano  infatti  entrambi  sopra  basi  per  noi  in- 
teramente false,  si  che  un  giudizio  assoluto  non  può  non  con- 
dannarli. Ma  se  ci  è  permesso  stimarne  il  diverso  valore  dalla 
maggiore  o  minore  profondità  e  modernità  di  certi  elementi,  se, 
latta  astrazione  dal  comune  principio  erroneo,  badiamo  soltanto 
al  diverso  metodo  loro,  non  e'  è  dubbio  che  il  concetto  del  Pon- 
tano  ineriti  la  nostra  preferenza.  Che  se  poi  teniam  presente  e 
la  larghezza  delle  vedute  di  Gioviano,  per  il  quale  la  verità 
astrologica  forma  il  centro  di  un  completo  organismo  filosofico, 
e  1'  ardore  col  quale  egli  si  tenne  fedele,  in  tutte  le  manife- 
stazioni della  propria  vita  e  dell'  arte,  a'  suoi  principi,  non 
possiamo  non  aggiungere  alla  preferenza  anche  l'ammirazione. 
Curiosa  scienza  la  critica  storica,  che  ci  permette  d'ammirare 
anche....  l'astrologia! 


CAPITOLO  QUINTO 


I  poemetti  astrologici  del  Pontano. 


I.  Cronologia.  —  II.  L'  Urania  :  il  primo  libro,  o  dei  pianeti.  —  III.  Il  circolo 
dello  Zodiaco.  —  IV.  Le  costellazioni  extra-zodiacali.  —  V.  Corografia  astrologica 
e  la  chiusa  del  poema.  —  VI.  Le  Meteore.  —  VII.  Arte  e  fortuna. 


I. 


Ci  racconta  l'umanista  Bartolomeo  Fazio,  morto  nel  lf">7, 
che  il  Pontano  «  astrologiam,  opus  multi  laboris  atque  ingeni i, 
hexametris  versibus  exorsus  erat  »,*  cioè  che  un  poema  astro- 
logico il  Pontano  avea  cominciato  intorno  al  1456,  al  più  tardi. 
E  siccome  non  ci  par  possibile,  e  per  le  relazioni  che  lo  scrittore 
ebbe  con  Gioviano,  e  per  la  natura  della  notizia  da  lui  fornita, 
mettere  in  dubbio  l'esattezza  delle  sue  parole,  cosi  dobbiamo 
credere  che  in  quell'anno  il  Pontano,  trentenne,  s'occupi 
d'astrologia  anche  poeticamente.  Ma  possiamo  chiederci:  1 
multi  laboris  atque  ingenti  era  V Urania?  L'Urania  che  noi 
conosciamo,  no  di  certo,  per  molte  ragioni:  non  Y Urania  nella 
redazione  definitiva,  la  quale  è  data  dagli  stessi  autografi  come 
posteriore  al   1490, 2  e  neanche  1'  Urania  nella  prima  reda- 

1  B.  Facii  De  viris  illustribus  liber,  Florentiae,  1745,  p.  6,  citato  da  V. 
Rossi,  Il  Quattrocento,  Milano,  p.  4!JS.  Notisi,  fra  parentesi,  che  p»vr  la  bi- 
bliografìa, sia  dei  manoscritti  sia  delle  edizioni,  dei  poemetti  pontanlant, 
rimando  a  quanto  ebbi  ad  esporre  molto  minutamente  in  J.  J.  Portami  Car- 
mina, testo  fondato  sulle  stampe  originali  e  riveduto  sogli  autografi,  in- 
troduzione bibliografica  ed  appendice  di  poesie  inedite.  Firenze.  1902, 
I,  p.  x-lxxxiii  e  1-226;  ed  avverto  die  a  codesta  mia  edizione  vanno  rife- 
riti, senza  che  più  la  si  ricordi  espressamente,  tutti  i  richiami  del  presento 
capitolo. 

*  Pomtani  ('armino,  I.  p.  xxv. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  255 

zione,  la  qnale  presto  vedremo  non  risalire  oltre  il  1475.  Quel- 
l' opus  adunque  sarà  stato  il  primo  abbozzo  d' un'  Urania,  i 
cui  lineamenti  andarono  poi  interamente  perduti  nel  getto 
posteriore;  o  meglio,  un  altro  poemetto,  al  quale  accennò 
l'autore,  da  vecchio,  nel  1503,  mandando  ad  Aldo  Manuzio  il 
manoscritto  delle  Meteore:  «  liber  hic  Meteororum  fuerat  ante 
Uraniae  libros  scriptus,  verum  prius  quam  ederetur,  furto  fuit 
ob  livorem  subreptus.  Itaque,  absoluta  Urania,  auctor  illum 
refecit  et  tanquam  instauravi^  addiditque  Uraniae  libris».1 
E  che  possa  essersi  trattato  di  questo  scritto  smarrito,  par  pre- 
sumibile per  una  ragione,  che  potrem  dire  ex  absurdo.  Infatti 
in  caso  negativo,  cioè  posto  il  principio  dell'  Urania  nel  '56, 
queste  più  antiche  Meteore,  quasi  pronte  per  la  pubblicazione, 
come  lascia  intendere  il  poeta,  innanzi  a  quella  data,  dovreb- 
bero rimandarsi  ad  età  più  giovanile  ancora,  troppo  giovanile 
per  chi  conosca  l'opera  poetica  dei  primi  anni  che  il  Pontano 
trascorse  a  Napoli.  Io  credo  adunque,  secondo  questa  ipotesi 
assai  probabile,  che  la  concezione  d'un  poema  astrologico  nella 
mente  del  giovane  umbro  siasi  formata  intorno  al  1456,  o  poco 
prima,  al  tempo  della  consuetudine  di  lui  col  Bouincontri  e 
col  Gallina,  e  quando  negli  studi  scientifici  egli  s' era  suffi- 
cientemente addentrato.  E  siccome  la  scelta  primitiva  del  tema 
meteorologico  è  un  fatto  certo,  credo  che  si  possa  arrischiare 
un'altra  ipotesi,  che  a  tutto  ciò  non  sia  rimasto  estraneo  il  Mi- 
niatese,  il  quale,  come  abbiamo  veduto,  veniva  in  quegli  anni 
meditando  la  sua  duplice  opera,  solo  più  tardi  composta,  di 
cui  la  descrizione  del  cielo,  o  astrologia  propriamente  detta, 
doveva  esser  parte  importante.  Non  era  conveniente  invero  che 
i  due  amici  s'incontrassero,  come  invece  avvenne  in  seguito, 
sullo  stesso  terreno.  Aggiungasi  che  il  titolo  generico  di  astro- 
logia, che  ci  ò  dato  dal  Fazio,  era,  a  quei  tempi,  non  ripu- 
gnante anche  ad  un  lavoro  meteorologico  ;  né  d' altra  parte  è 
da  credere  che  la  dottrina  astrologica  nelle  prime  Meteore 
fosse  ristretta  entro  limiti  simili  a  quelli  delle  Meteore  de- 
finitive, che  ben  possiamo  considerare  non  come  una  tarda  e 

1  Pohtahi  Carmina,  I,  p.  xi,  e  V.   Rossi,   recensione  alla  cit.  mia  edi- 
zione, in  Rassegna  bibliografica  d.  leti,  it,  X  (1902),  p.  180. 


256  CAPITOLO  QUINTO 

semplice  ricostruzione,  ma  come  un  vero  e  proprio  rimaneg- 
giamento ;  quale  era  naturale  uscisse  dalla  penna  di  chi  ri- 
componeva un  poema  da  parecchi  anni  dimenticato  e  per  di 
più  con  l'obbligo  di  rispettare,  nella  distribuzione  della  ma- 
teria, certi  determinati  rapporti  verso  un  altro  poema,  che 
prima  non  esisteva.1 

Dato  pertanto  che  la  prima  opera  astrologica  del  Pontano, 
cioè  le  Meteore  primitive,  fosse  sul  telaio  intorno  al  1456,  e 
che  qualche  anno  dopo  venisse  a  compimento,  da  quest'ultima 

1  Nel  libro  I  del  Partenopeo,  che  data  appunto  dal  tempo  dell'amicizia 
più  intima  del  Pontano  col  Bonincontri,  c'è  un'elegia,  la  6»,  che  può  gettar 
luce  su  questa  ipotetica  cronologia.  In  essa  il  poeta  dichiara  di  essere  an- 
cora tutto  intento  a  scrivere  versi  d'amore,  ma  di  aspirar  già  a  qualche 
composizione  più  nobile,  per  esempio  ad  un  carme  o  ad  un  poema  di  tipo 
lucreziano.  L'argomento  del  quale  dovea  essere  per  l'appunto  misto  di  me- 
teorologia, d'astronomia  e  di  geografia,  con  prevalenza  della  prima.  Cito 
per  disteso  i  distici  che  lo  enunciano,  perché  l'importanza  loro  in  Aurora 
della  nostra  supposizione  è  assai  grande  : 

Tunc  ego  Castalias  (vivam  modo)  pronus  ad  undas 

Perfuudam  sancto  labra  liquore  senex, 
Quatuor  et  referam  digesta  elementa  figuri*. 

Primum  iguis,  post  hunc  aeris  esse  locum. 
Terra  sit  ut  media  mundi  regione  locata 

Nixa  suis  opibus,  pondere  tuta  suo, 
Intervalla  tenens  distantia  partihus  aeque. 

Bruta  quidem  et  solido  sorte  recepia  loco, 
i.Miatn  pater  Oceanus  spumantibus  abluil  undis 

Amplectens,  medio  dissociatque  freto  ; 
sint  duo  praeterea,  quorum  sullimis  ab  Arcto, 

Imus  al)  opposito  dicitur  axe  polus; 
Hos  circum  immensi  volvatur  machina  mundi, 

Nec  tameu  imposi! uni  seutiat  axis  ouus; 
Denique  gigneudis  quaenam  sint  semina  rebus, 

l'udì-  suos  iirtus  edita  quaeque  trahant, 
Unde  pavor  cervis,  rabies  atque  ira  leonum, 

Kaucaque  cur  cornix,  et  bene  cantei  olor  ; 
Quid  calidi  foutes  Dimori,  quid  noctibus  Ammou 

Kerveat  et  medio  frigeat  usque  die; 
Quem  dederit  rebus  liut-ni  Natura  creandis, 

Centauri  nunquid,  Scylla  vel  esse  queaut, 
Cur  non  Luna  suo,  sed  fratris  luceat  igni, 

Quid  vehat  et  Procyon,  quid  vehat  ortus  Bqoi. 

Nei  versi  che  seguono  (ìioviano  mostra  d'invidiare  coloro,  che.  meglio  con- 
sigliati di  lui,  già  si  sono  accinti  a  qualche  lavoro  simile,  lasciando  per 
le  frivolezze  della  vita  gioconda.  Su  costoro  scrive,  fra  l'altro,  un  distico: 

Non  illis  studium  gemmae,  non  dira  cupido, 
Diritta  aut  auri  perniciosa  sitis, 

del  quale  si  ricordò,  alquanto  più  tardi,  1'  amico  Lorenzo  quando  se  ne  v bJm 
per  il  suo  Kndimione  (v.  p.  188). 


I  POEMKTTI  DEL  PONTANO  257 

data,  che  per  sua  natura  non  è  determinabile  con  precisione, 
dobbiamo  prender  le  mosse  per  ricercare  l'inizio  dell'  Urania. 
Avvenuto  il  furto,  il  Pontano  dovette,  secondo  che  mi  par  na- 
turale, pensar  subito  al  ricupero  per  mezzo  della  memoria  e 
degli  appunti  superstiti.  Sennonché  la  maggior  padronanza 
del  tema  e  forse  il  desiderio  di  novità,  dovettero  invogliarlo 
a  rompere  i  confini  della  propria  concezione  e  spingerlo  a 
nuove  indagini  nel  campo  dell'astrologia  universale.  Di  qui, 
necessariamente,  un  non  breve  periodo  di  preparazione,  il 
quale  giunge  fino  al  momento  in  cui  il  poeta,  dominando  tutto 
il  materiale  pazientemente  raccolto,  si  mise  al  lavoro  della 
stesura.  Questo  lavoro  —  e  si  prenda  il  mio  asserto  colla  de- 
bita discrezione  —  si  svolse  rapidamente  fra  il  1476  e  il  1479. 
A  suggerirmi  la  prima  di  queste  date  concorre  essenzial- 
mente la  dedica,  che  dell'  Urania  il  Pontano  fece  al  figlio 
Lucio,  nato  certissimamente  non  prima  del  1475. 1  II  nome  di 
Lucio  è  posto  in  fronte  all'  opera,  e  ricorre  infinite  volte  du- 
rante lo  svolgimento,2  al  quale  poi  è  cosi  intimamente  legato, 
che  il  discorso  stesso  assume  il  tono  d'un  continuo  ammaestra- 
mento non  già  a  molti  lettori,  ma  ad  un  solo,  e  quasi  fami- 
gliare. Lucio,  il  puer  che,  cresciuto  negli  anni,  riuscirà  a  ca- 
pire la  dottrina  paterna,  è  il  muto  discepolo,  necessario  a 
questa  forma  di  poemetto  scientifico  ;  il  quale  può  ben  con- 
stare anche  di  brani  anteriori,  ma  non  più  che  brani  od  ap- 
punti provvisori  o  staccati.  —  La  seconda  data,  cioè  il  ter- 

1  Le  date  rispettive  delle  nascite  dei  figli  del  Pontano,  quantunque  il 
Tai.i.arioo,  op.  cit.,  I,  p.  94,  non  ce  le  dia,  possono  con  una  certa  appros- 
simazione determinarsi  cosi  :  data  certa  del  matrimonio,  1461  ;  nascite  delle 
due  figlie  maggiori  Eugenia  e  Aurelia,  1462,  1463;  nascita  di  Lucia,  terzo- 
genita,  al  più  presto,  1464.  Costei,  come  ci  è  espressamente  attestato  dal 
monumento  funebre,  muore  in  età  di  tredici  anni,  cioè  non  prima  del  1477  ; 
e  quando  la  famiglia,  e  più  di  tutti  il  padre,  ne  piangono  la  fine  immatura, 
il  fratello,  quartogenito,  manifesta  il  suo  dolore  coi  vagiti  (Carmina,  I, 

p.  173): 

Fesso  tibi  vagii  ab  ore 
Frater,  et  in  cunis  questus  exercet  amaros. 

Doveva  Lucio  pertanto  esser  nato  o  l1  anno  stesso  della  morte  della  sorella, 
o  un  anno  avanti,  o,  al  più  presto,  due,  cioè  intorno  al  1475. 

2  Cito  solo  i  passi  più  notevoli,  che  sono  :  Carmina,  I,  p.  3,  4,  37,  62, 
77,  90,  110,  117,  173. 

SOLDATI  17 


258  CAPITOLO  QUINTO 

mine  ad  quem,  la  desumo  dall'episodio  di  chiusa,  vale  a  dire 
dal  compianto  del  poeta  per  la  morte  immatura  della  figlia 
Lucia;  episodio,  notisi,  col  quale  nella  redazione  anteriore 
al  1490  terminava  il  poema.1  Lucia  muore  non  prima  del  1177  : 
il  padre,  in  fine  all'  Urania,  non  s'è  consolato  ancora  di  co- 
desta sventura,  anzi  tanto  s'affligge  per  la  cura  recente,2 
che  non  esita  a  sfogare  l' animo  suo  in  un  centinaio  di  versi, 
appassionati,  affettuosissimi.  Evidentemente  uno,  due  anni  al 
massimo,  dopo  il  doloroso  avvenimento,  l' Urania  era  all'ultimo 
paragrafo,  e  l'accenno  famigliare  assai  opportunamente  tro- 
vava modo  d' esservi  inserito.  Scegliendo  la  data  del  1479 
circa,  non  credo  adunque  di  proporre  un'ipotesi  inverisimile. 

Del  resto,  a  conferma  di  tale  datazione  si  possono  citare 
delle  riprove.  In  una  delle  elegie  dell'operetta  De  laudibus 
divinis,  redazione  del  1458, 3  il  Pontano  espone  una  teoria 
della  creazione  del  mondo,  secondo  la  credenza  cristiana,  dio 
è  inferiore  per  pensiero  e  per  copia  e  atteggiamento  di  notizie 
alla  cosmogonia  del  primo  dell'  Urania  ;  il  quale  dunque  de- 
v' essere  di  parecchio  tempo  posteriore.  Questo  per  la  prima 
data.  Per  la  seconda  si  osservi  che  nell'opera  De  rebus  cori 'e- 
stibus,  redazione  più  antica,  sono  trascritti  dei  brani  anche 
della  fine  dell'  Urania,  ed  è  palesemente  enunciato  il  titolo 
del  poema;  il  quale  dunque  era  finito  poco  dopo  l'origine  e 
durante  la  composizione  dei  primi  libri  del  De  rebus,  cioè 
negli  anni  1477-80. 4 

Composta  in  questo  modo  V  Urania,  il  Pontano,  secondo  la 
notizia  che  egli  stesso  ci  diede,  pensò  a  rifar  le  Meteore,  le 
quali   non  aveano  trovato  nel   nuovo  e  più  ampio  poema  un 

1  Poktani  Carmina,  I,  p.  172-176. 
*  Tontani  Carmina,  l,  p.  172,  v.  798. 

3  Tontani  Carmina,  I,  p.  xxx,  II,  p.  2'27. 

4  Questa  cronologia  dell'  Urania  trova  una  conferma  indiretta  nella 
cronologia  dei  poemetti  astrologici  del  Bonincontri,  i  quali,  secondo  clic 
abbiamo  congetturato  a  suo  luogo,  sarebbero  stati  scritti  fra  il  1469  e  il  1476. 
E  la  conferma  sta  in  ciò,  che  in  questo  modo  si  riesce  ad  una  piti  semplice 
spiegazione  delle  tracce  innegabili  d'imitazione,  sia  formale  sia  sostan- 
ziale, specialmente  del  secondo  poema  del  Miniatesi-,  da  parte  del  Pont 

Il  quale  avrebbe  scritto  i  suoi  versi  dopo  quelli  di  Lorenzo,  e  quando  < 
già  s'  era  allontanato  da  Napoli. 


I  Poemetti  del  pontanò         259 

posto  lor  conveniente.  E  il  rifacimento  cominciò,  a  mio  cre- 
dere, subito,  protraendosi  per  alcuni  anni;  non  per  molti, 
però,  se  consideriamo  la  non  grande  mole  dell'operetta  nella 
sua  seconda  redazione.  Dopo,  corse  un  periodo  assai  burra- 
scoso nella  vita  politica  di  Gioviano,  onde  non  è  a  stupire  cbe 
le  occupazioni  artisticbe  procedessero  a  rilento:  e  i  due  poe- 
metti, quantunque  nel  complesso  finiti,  subirono  ancora  delle 
modificazioni,  delle  piccole  aggiunte,  non  difficili  a  ricono- 
scersi da  un  occhio  un  po'  attento.  È  evidente,  per  esempio, 
cbe  debbano  riferirsi  al  1484,  o  ad  epoca  di  poco  posteriore, 
i  due  passi  dell'  Urania1  dove  si  descrivono  scene  e  paesaggi 
della  valle  inferiore  del  Po  e  di  Ferrara,  e  si  fa  un  quadro 
assai  vivace  delle  seduzioni  di  Stella,  la  donna  che  probabil- 
mente il  poeta  conobbe  per  la  prima  volta  appunto  lungi  da 
Napoli,  durante  la  guerra  ferrarese,  vivendo  ancora  Adriana: 
e  forse  nelle  Meteore  la  bella  descrizione  delle  cascate  di  Ti- 
voli2 ci  riporta  alle  visite  del  Pontano  a  Roma  nel  1484  ed  86. 
Ma  finalmente  entrambi  i  poemi  vennero  ricopiati  e  fatti  co- 
noscere manoscritti:  e  questo  nel  1490.  Due  codici  vaticani,  di 
singolare  importanza  perché  autografi,  portano  infatti  questa 
data,  e  ci  conservano  il  testo  in  una  redazione,  secondo  la 
quale  1'  Urania  conteneva  per  intero  la  materia,  che  poi  co- 
stituì il  testo  definitivo  a  noi  noto  per  le  stampe,  ma  era  men 
ricca  di  particolari,  men  corretta  nella  forma,  ed  essenzial- 
mente non  era  distinta  in  cinque,  ma  in  soli  quattro  libri  ;  e 
le  Meteore,  ancor  esse  sostanzialmente  compiute,  erano  assai 
brevi,  aride,  prive  quasi  del  tutto  di  digressioni  poetiche.  3 

11  lavoro  della  lima  non  fu  però  intermesso,  che  anzi  pro- 
segui lento  e  proficuo  per  molti  anni  ancora,  cioè  fino  alla 
morte  dell'autore,  il  quale  può  ben  dirsi  che  abbia  dedicato 
ai  poemi  prediletti  la  maggiore  e  miglior  parte  della  vita. 

1  Pontini  Carmina,  I,  p.  122  e  161. 

2  Pontani  Carmina,  I,  p.  213. 

s  Dei  due  codici  autografi,  Vat.  lat.  2837  e  2838,  ho  discorso  in  Carmina, 
I,  p.  xxr-vi  e  lxxxv-vi,  e  la  lezione  loro  ho  riprodotta  a  pie  di  pagina 
nella  cit.  mia  edizione,  p.  1-226.  Intorno  al  valore  formale  di  questa  prima 
redazione,  v.  R.  Sabbadini,  recensione  all'  ed.  suddetta,  in  Giornale  storico, 
XXXIX,  p.  392. 


260  CAPITOLO  QUINTO 

Presto  V  Urania,  arricchita  di  nuovi  brani,  crebbe  d'un  libro, 
o,  meglio,  ebbe  sdoppiato  il  libro  quarto;  onde  intorno  al  1496, 
a  Firenze,  Pietro  Crinito  poteva  trascrivere,  come  primizie, 
alcune  centinaia  di  versi  del  quinto,  ricevute  non  so  da  chi.1 
Altre  aggiunte  seguirono,  finché  nel  1500  tutto  era  compiuto 
e  veniva  ricopiato  di  sull'autografo,  irto  di  emendamenti  in- 
terlineari e  marginali,  in  elegante  volume  da  un  giovane  e 
nobile  discepolo  dell'autore,  Gerolamo  Borgia:  la  trascrizione, 
dell'  Urania  e  delle  Meteore,  era  compiuta  il  25  luglio  del 
detto  anno.  Sennonché  nel  1501  le  Meteore  subivano  un  ultimo 
lieve  accrescimento;  ma  già  il  poeta  considerava  l'opera  come 
definitiva,  tanto  che  ne  cominciava,  il  primo  di  febbraio,  la 
lettura  e  il  commento  fra  gli  amici  dell'Accademia.2  E  il  testo 
veniva  spedito  ad  Aldo  Manuzio,  che  sfortunatamente  non 
potè,  causa  certi  contrattempi,  pubblicarlo  per  le  stami» 
non  due  anni  dopo  la  morte  del  Pontano. 3 


II. 


Il  poema  di  Manilio,  nel  trattare  del  vasto  problema  a>t io- 
logico,  procede  faticoso,  con  metodo  lucreziano,  di  questione 
in  questione,  di  teoria  in  teoria,  concedendo  alla  descrizione 
del  cielo,  come  abbiamo  a  suo  luogo  mostrato,  solo  una  pic- 
cola, per  quanto  bella,  parte  del  libro  primo  e  quasi  per  in- 
tero il  libro  quinto  ;  né  le  osservazioni  in  cosi  breve  spazio  si 
estendono  a  tutto  il  cielo,  con  egual  larghezza,  ma  si  restrin- 
gono allo  studio  delle  stelle  fisse,  e  non  si  tocca  che  per  in- 
cidenza del  canone  planetario.  Lorenzo  Bonincontri,  troppo 
occupato  in  dottrine  filosofiche  e  teologiche,  riesce  a  mala  pena 
a  dedicare  i  due  ultimi  libri  della  complessa  sua  opera  alla 
trattazione  della  sfera,  della  quale  poi  discorre  incompiuta* 
mente,  escludendo,  forse  per  non  ricalcare  orme  pericolose, 
proprio  ciò  di  cui  Manilio  avea  più   largamente  parlato.   Il 

1  Pontani  Carmina,  I,  p.  xxxit-v. 

2  Fontani  Carmina,  I,  p.  xxxy-ymi. 

3  Fontani  Carmina,  I,  p.  lx  ngg. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  261 

Fontano  invece,  con  disegno  chiaro  e  perfetto,  abbraccia  il 
larghissimo  teina  in  ogni  sua  parte,  congegnando  armonica- 
mente la  descrizione  e  la  teoria,  la  scienza  e  l'arte;  né  si 
ferma  agli  spazi  superiori  del  cielo,  ma  discende  anche  più 
in  basso,  nelle  regioni  delle  meteore.  Nulla  di  più  ordinato 
infatti  della  ripartizione  della  materia  nei  suoi  poemetti.  L' Ura- 
nia si  divide  in  tre  grandi  porzioni,  la  prima  dei  pianeti,  la 
seconda  delle  stelle  fisse,  la  terza  degli  astri  considerati  come 
patroni  delle  diverse  regioni  e  dei  diversi  popoli  della  Terra, 
o  corografia  astrologica.  La  prima  di  queste  parti,  la  quale 
occupa  tutto  il  primo  libro,  si  suddivide  a  sua  volta  in  due 
sezioni,  una  dedicata  alla  descrizione  della  posizione,  dei  moti, 
degl'influssi  di  ciascun  pianeta,  e  l'altra  intesa  a  rappresen- 
tare i  pianeti  stessi,  nell'atto  della  creazione  dei  corpi  infe- 
riori, una  vera  cosmogonia  astrologica.  La  seconda  porzione, 
o  delle  stelle  fisse,  è  duplice  anch'essa,  contenendo  nella  prima 
sezione  la  forma,  le  caratteristiche,  le  favole  delle  dodici  co- 
stellazioni zodiacali,  e  nella  seconda  l'elenco  degli  asterismi 
extra-zodiacali.  La  seconda  porzione  occupa  da  sola  i  tre  quinti 
del  poema,  cioè  i  libri  secondo,  terzo  e  quarto.  Nel  quinto  ed 
ultimo  libro  si  tratta  della  terza  porzione,  o  della  corografia. 
Del  mondo  inferiore,  cioè  degli  elementi  e  dei  fenomeni  loro,  si 
parla,  come  abbiamo  già  detto,  nel  libro  unico  delle  Meteore. 

Pare  adunque  che  tutto  1'  universo  abbia  trovato  nei  due 
poemi  un  adeguato  svolgimento.  Però  il  poeta  stesso,  ter- 
minando T  Urania,  prima  dell'episodio  di  chiusa,  ci  fa  du- 
bitare della  compiutezza  dell'  opera  sua,  dal  punto  di  vista 
dottrinale,  con  una  dichiarazione  importante.1  In  breve,  ci 
avverte  che  manca  in  essa  un  capitolo  espressamente  dedicato 
alla  melotesia  planetaria,  cioè  all'esposizione  dei  tempera- 
menti fisici  dell'  uomo,  sia  dal  punto  di  vista  medico,  sia  nelle 
conseguenze  morali  e  intellettuali;  e  che  dovrebbero  pure  es- 
servi indicate  le  teorie  dei  circoli  della  genitura,  delle  sorti, 
dei  luoghi,  degli  aspetti  planetari  e  zodiacali,  ecc.  Inoltre  se 
poniamo  1*  Urania  a  confronto  col  De  rebus  coelestibus,  mentre 
vediamo  le  due  opere  andar  quasi  di  pari  passo  per  un  buon 

1  Urania,  V,  v.  781-793,  in  Carmina,  I,  p.  171. 


262  CAPITOLO  QUINTO 

tratto,  cioè  fino  al  libro  ottavo  di  quest'ultima,  improvvisa 
niente  poi  1' una,  il  poema,  s'arresta,  e  l'altra  prosegue  an- 
cora per  sei  libri,  ben  nutriti;  quei  libri,  se  il  lettore  se  ne 
rammenta,  che  probabilmente  vanno  assegnati  alla  nuova  re- 
dazione, posteriore  al  1494,  e  che  trattano  quasi  per  intero  di 
medicina  astrologica.  Dovremo  dunque  considerare  1*  Urania 
come  incompiuta?  Per  un  certo  senso,  si,  perché  vi  manca  di 
fatto  una  parte  della  dottrina  degli  astri  ;  per  un  altro,  no.  E 
mi  spiego.  Nei  quattro  primi  libri  si  contiene  tutta  la  parte, 
che  il  Pontano  chiamava  astrologia  scientifica,  ed  è  naturale 
che  questa  abbia  uno  svolgimento  adeguato:  ma  nel  quinto 
comincia  quell'  altra,  che  il  Nostro  chiamava  congetturale,  e 
credeva  poco  sicura,  poco  seria,  ed  è  spiegabile  perciò  che 
ne  abbia  volentieri  solo  riassunta  o  accennata  una  buona  metà. 
Ma  di  ciò,  in  seguito. 

Piuttosto,  giacché  si  tratta  di  lacune,  debbo  confessare  che 
nel  riferire  la  trama  generale  della  duplice  opera  ho  segnato 
bensì  i  contorni  più  evidenti  di  essa,  ma  ho  dimenticato  di 
porre  nel  debito  rilievo  un  elemento,  che  merita  invece  d'essere 
conosciuto  sopra  gli  altri.]  Accenno  alla  mitologia  allegorica, 
Vene  l'autore  non  trascura  di  creare  a  proposito  di  ciascun 
vlcorpo  o  fenomeno  celeste  e  di  ciascun  influsso;  mitologia  per 
mezzo  della  quale  nascono  o  si  rinnovano  le  favole,  che  sono 
il  pregio  migliore  di  questa  vecchia  poesia.  L'autore,  con  pro- 
cesso veramente  artistico,  pare  ritorni  alla  fresca  ispirazione 
degli  antichi,  quando  i  miti  astrali  si  costituivano  nella  fan- 
tasia popolare;  ed  è  in  questo,  in  parte,  anche  erede  del  pen- 
siero medioevale,  che  nelle  cose  e  nella  storia  e  soprattutto 
nella  poesia  non  si  fermava  al  significato  piò  semplice  o  let- 
terale. Ma  l'addentrarci  in  tutto  ciò  senza  portare  esempì  riu- 
scirebbe poco  chiaro,  e  quindi  vano;  e  portar  esempi  equivale 
a  scorrere,  l'un  dopo  l'altro,  i  molti  paragrafetti  dei  due  poemi, 
scoprendo  in  essi  il  senso  a  volte  palese,  a  volte  velato,  a  volte 
anche  recondito:  una  specie,  insomma,  di  rapida  e  ordinata 
interpretazione,  che  qui  si  rende  più  che  mai  necessaria. 

La  protasi  dell'Urania  e  breve,  e  richiama  molto  da   vi- 
cino il   principio  delle  Georgiche  di  Virgilio,  il  poeta   cui   il 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  263 

Nostro  tributò  sempre  un  culto  speciale  e  che  nou  trascura  di 
lodare  anche  in  questi  primi  versi  dell'  opera  sua.  Ma  l' ac- 
cento pili  caldo  è  riservato  alla  Musa  della  poesia  astrono- 
mica, ad  Urania,  dalla  quale  con  bella  novità  viene  il  nome 
al  poema.  Urania,  più  che  un  ricordo  classico,  è  un'  allegoria, 
la  prima  delle  allegorie  pontaniane,  che  acquista  sempre  mag- 
gior consistenza  poetica,  quanto  più  la  mente  dello  scrittore, 
nel  progresso  del  suo  lavoro,  diventa  a  lei  famigliare.  La 
scienza  del  cielo,  che  penetra  con  sicurezza  nei  misteri  del- 
l' influsso,  è  dapprima  la  guida  sapiente  attraverso  le  vie  del- 
l'etere,  dove  l'accompagna  lo  sposo,  il  Trismegisto.1  Ma  poi, 
anche  indipendentemente  da  ragioni  astrologiche,  discesa  più 
presso  alla  Terra,  essa  non  vorrà  lasciare  il  cantore  che  a  lei 
dedicò  quasi  intera  la  vita,  e,  fatta  ninfa  campestre  e  dome- 
stica, prenderà  stanza  negli  orti  di  Antiniana,  insiem  con  Pa- 
tulci  e  Planuri.8  Quivi  ella  assisterà  alla  cultura  dei  cedri  e 
degli  aranci,  e  darà  una  mano  qual  sorella  maggiore  a  pre- 
parare il  corteo  nuziale  di  Lepidina, 3  e  piangerà  con  le  com- 
pagne e  col  poeta  sulle  tombe. 4  Tanto  questa  curiosa  creatura 
dell'ingegno  del  Pontano,  questo  simbolo,  diventa  figura  reale 
e  vivente! 

Secondo  i  dettami  adunque  di  costei,  senza  che  perciò  il 
poema  abbia  forma  di  visione,  l'autore  discorre  in  primo  luogo 
della  Luna.  Ne  discorre  rapidamente,  seguendo  le  tracce  vir- 
giliane, per  ciò  che  riguarda  le  fasi  e  i  pronostici  ; 5  quindi  ac- 
cenna appena  alle  principali  favole  greche,  evitando  d'incon- 
trarsi col  Bonincontri,  che  certo  non  doveva  essergli  ignoto.6 

1  Urania,  I  v.  8-10  e  30-31,  II,  v.  50  sgg.  e  432. 

'  De  HortÌ8  Hesperidum,  I,  v.  25  sgg. 

3  Lepidinae  Pompa  quinta,  v.  38-40,  e  Pompa  sexta,  v.  74-78. 

*  De  Tumulia,  I,  I,  v.  5. 

5  Cfr.  Georgiche,  I,  v.  427-437. 

6  All'  Eudimione  bonincontriano  nessun  accenno.  Però  nei  primi  verdi' 
(  Urania,  I,  v.  32-33)  : 

Prima  deùm  terras  glaciali  sidere  circuin 
Luna  nieat,  coelumque  suo  terit  ultima  curru, 

e'  è  il  ricordo  di  questi  altri  del  Miniatene  (Laurenziano  XXXIV,  52,  e.  73  a): 

Prima  deùm  terras  alieno  lumina  Luna 
Circuit,  et  varias  patitur  prò  tempore  formas. 


264  CAPITOLO  QUINTO 

Bonincontriana  è  invece  la  trattazione  del  secondo  pianeta,  che 
segue  immediatamente.  Abbiamo  visto  infatti  come  per  il  Mi- 
ni atese  la  caratteristica  di  Mercurio  fosse  la  rapidità  dei 
movimenti,  onde  il  mito  lo  rappresentava  come  il  nunzio  ce- 
leste: allo  stesso  modo,  per  il  Pontano,  il  dio  della  seconda 
sfera  vaga  qua  e  là  per  il  cielo,  dall'  uno  all'  altro  degli  dèi 
consorti  (retrogradazioni),  e  muta  d'influsso  come  muta  di  vi- 
cinanza. Benigno  è  con  Giove,  ma  crudele  con  Marte,  e  maestro 
sommo  di  seduzione  con  Venere.  Con  la  quale  quando  si  trova 
in  congiunzione,  infonde  nei  nascenti  la  mesta  dolcezza  del 
canto,1  onde  i  cuori  femminili  sogliono  essere  lusingati:  non 
sempre,  però,  che  qualche  volta  la  poesia  troppo  tenera  e  triste 
—  quella  de' petrarchisti?  —  può  muovere  al  riso: 

Uritur,  et  placidum  cautando  nutrit  amorem: 
Ipse  canit,  tenerae  cantus  risere  Napaeae  ! ? 

Con  le  ninfe  invero  celesti  e  terrene  altro  tono  sapeva  usare 
il  Pontano,  quando  negli  Amori  e  nelle  Baie  ne  svelava  le 
grazie  e  ne  stuzzicava  i  desideri  !  Ed  altro  tono  egli  assume 
quando,  trattando  del  terzo  pianeta,  si  trova  a  ragionare  del- 
l'influsso  amoroso.  In  questo  si  stacca  dal  Bonincontri,  il  quale 
aveva  cercato  di  purificare  in  certo  modo  il  lubrico  argomento 
per  mezzo  di  strane  allegorie  religiose.  Il  Pontano  no,  non 
attenua  i  colori,  che  anzi,  dato  un  piccolo  spazio  alla  teoria 
astronomica,  svolge  l'influenza  di  Venere  in  forma  mitologie*, 
con  la  descrizione  d'un  ideale  trionfo  della  dea  per  i  viali 
d'un  meraviglioso  giardino,  e  la  persouificazione  simbolica  di 
tutte  le  passioni,  le  arti,  e,  diciam  pure,  le  lascivie  dell'amore 
sensuale.  Giacché,  si  badi,  il  trionfo  di  Venere,  tema  abusato 
da  poeti  e  da  pittori,  ha  qui  il  valore  d'un  semplice  si  mi  min, 
attraverso  ai  ricami  del  quale  agevolmente  si  scorge  il  tessuto 
astrologico.  E  la  corrispondenza  fra  questo  e  quelli,  cioè  fra 
il  concetto  dottrinale  e  V  immagine  poetica,  non  è  soltanto 
generica,  ma  precisa  sin  nei  minuti  particolari:  come  là  dove, 
occorrendo  rappresentare  plasticamente  gli  effetti  dell'ttmicfo, 

»  Cfr.  quanto  s'è  detto  a  p.  I 
*  Urania,  I,  v.  176-76. 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  265 

elfo  iu  Veuere,  sopra  l'azione  generativa,  s'immagina  la  scena 
del  lago  e  del  nuoto: 

Hiuc  passim  liquidi  ambrosiao  rorantur  honores, 
Stillat  Acidalius  late  liquor.  At  vaga  nantum 
Ludit  aquis,  mistim  pueri  nudaeque  puellae, 
Grata  cohors  Veneri,  chorus  et  genialis  Amorurn. 
Tuoi  videas  arane  in  medio  rutilare  favillas, 
Materna  face  quas  Jocus  hinc,  ast  inde  Cupido 
Excussit:  caluere  undae,  caluere  natantes 
Aillatu.  Media  vehitur  Lascivia  cymba, 
Hortaturque  monetque  habiles  agitare  lacertos. 
Hinc  aliquis  puer,  enando  dum  brachia  iactat, 
Iniecitque  manum  sociae  furtimque  papillis 
Inseruit  ;  tener  ora  rubor  per  grata  cucurrit. 
Hinc  aliqua,  adnanti  puero  dum  brachia  miscet, 
Miscuit  et  foemori  foemur,  et  simul  oscula  iunxit. 
Interdum  se  tota  cohors  in  llumine  mersat; 
Non  obstat  pudor  audaci,  aut  lux  ipsa  pudenti  ; 
Luditur,  et  placidis  imraurmurat  unda  susurris....1 

11  Sole,  che,  secondo  l'ordine  tolemaico,  occupa  la  sfera 
successiva  a  quella  di  Venere,  ferma  a  lungo  l'attenzione  del 
poeta,  assai  più  a  lungo  degli  altri  pianeti.  Né  il  privilegio 
è  casuale,  ma,  per  ragioni  astrologiche,  del  tutto  giustificato, 
quando  si  pensi  che  al  maggior  luminare  del  cielo  si  attri- 
buiva un  influsso  specialissimo  sui  temperamenti  degli  umori 

1  Urania,  I,  v.  190-206.  La  storia  di  questo  brano  —  il  cui  significato 
sfuggi  al  Tallakigo,  op.  cit.,  II,  585,  che  pur  lo  trascrive  e  lo  giudica  dei  mi- 
gliori —  inerita  un  breve  cenno.  L'  esistenza  dell'  umido  in  Venere  è  cosi 
affermata  nel  De  rebvs  coelestibus,  Ho.  IV,  p.  165a  dell'  ed.  aldina  :  «  Ab 
hac  autem  ipsa  Veueris  stella  propter  insitam  vini  tempera tamq uè  hume- 
ctationem  (cum  materiae  sit  formam  appetere,  siquidem  Immillimi  in  ge- 
neratione  materiae  locum  ac  vim  optinet)  manant  cupiditates  atque  oblec- 
tamenta  ».  Ora  a  questo  particolare  carattere  il  Pontano  pare  che  nella 
prima  redazione  del  poema  non  avesse  trovato  la  corrispondenza  poetica  : 
infatti  i  vv.  190-210  son  posteriori  al  1490.  Ma  quando  assai  più  tardi,  per 
altri  suoi  studi,  gli  venne  sott' occhio  la  descrizione  fatta  da  Svktonio,  De 
vita  Caesarum,  ed.  C.  L.  Roth,  Lipsiae,  1886,  UH,  p.  104,  delle  lascivie  che 
Tiberio  aveva  immaginate,  con  fantastica  oscenità,  nei  boschetti  e  nelle 
vasche  della  sua  villa  di  Capri,  allora  si  ricordò  della  lacuna  e,  trasfor- 
mando la  ributtante  orgia  romana  iu  elegante  scena  mitologica,  scrisse  e 
aggiunse  il  brano  citato.  Cfr.  De  Immanitate,  p.  822 b  dell'ed.  aldiua,  scritto 
nel  1501,  come  risulta  dall'autografo  cod.  Vat.  lat.  2840,  e.  25 a. 


266  CAPITOLO  QUINTO 

e  sulla  circolazione  del  sangue.  Nel  Sole  si  scorgeva  la  fonte 
più  copiosa  di  quella  fatalità,  intorno  alla  quale,  se  il  lettore 
non  ha  dimenticato,  il  Fontano  ebbe  a  discorrere  con  tanto 
calore  nella  introduzione  al  primo  libro  delle  Cose  celesti.1  Né 
per  codesta  sola  ragione  cosi  gran  parte  viene  assegnata  al 
quarto  pianeta,  ma  ancora  per  la  quantità  delle  notizie  scien- 
tifiche e  mitologiche  che  ad  esso  si  riferiscono.  Tratta  infatti 
l'autore,  in  quella  forma  perspicua  che  ben  si  addice  a  chi  si 
propone  di  ammaestrare,  in  primo  luogo  del  calendario  ;  tocca 
poi,  virgilianamente,  dei  pronostici,  con  qualche  reminiscenza 
anche  dell' Aratea  di  Germanico;2  s'indugia  in  ultimo  —  non 
sine  physica  ratione,  come  avrà  ad  osservare,  a  proposito  d'un 
altro  luogo  dell'  Urania,  Gerolamo  Borgia3  —  su  i  suoi  pre- 
diletti miti  allegorici.  I  quali  questa  volta,  se  hanno  altri  pregi, 
non  hanno  però  quello  della  novità.  Non  era  infatti  ignota, 
neanche  ai  tempi  del  Pontano,  la  leggenda  solare  di  Apollo, 
con  tutti  gli  episodi  che  ad  essa  si  riferiscono,  e  la  relativa 
interpretazione  meteorologica.  Già  gli  antichi  eran  coscienti 
del  senso  naturalistico  di  tali  storie,  e  raccontavano,  come  qui 
fa  il  Pontano,  della  madre  del  dio,  Latona,  cioè  la  Terra,  la 
quale  avrebbe  generato  i  suoi  due  figli  nell'isola  di  Delo,  ove 
da  principio  i  due  luminari  del  cielo  si  sarebber  manifestati 
agli  uomini.  Poi,  sempre  secondo  gli  antichi  e  il  Pontano, 
Apollo,  fonte  di  luce,  avrebbe  vinto  il  serpente  Pitone,  sim- 
bolo delle  nebbie  e  delle  tenebre;  con  altre  gesta  nrebbed 
meritati  i  poetici  nomi  di  Licio,  di  Pastore,  di  Giano,  di  Febo, 
di  Adone,  ed  avrebbe  perciò  ricevuto  il  culto  religioso  di  quasi 
tutti  i  popoli  primitivi.4  Ma  se  l'invenzione  di  codesti  miti  e 

1  V.  a  p.  240  di  questo  lavoro. 

2  Per  chi  voglia  prendersi  la  briga  di  far  confronti,  additerò  le  Geor- 
giche, I,  v.  438-468,  da  porsi  a  riscontro  ad  Urania,  I,  v.  322-354  ;  quanto 
poi  a  Germanico  —  dal  Pontano  ricordato  anche  in  Actius,  ed.  aldina, 
voi.  II,  p.  109a  —  avvertirò  che,  mutate  le  parole,  è  qui  riportata  sostan- 
zialmente la  famosa  sua  descrizione  del  naufragio  dorante  il  mese  del  Ca- 
pricorno (Urania,  I,  v.  354  864). 

3  Fontani  Carmina,  I,  p.  xxxtn. 

*  Quali  fossero  le  conoscenze  degli  antichi  intorno  ai  miti  solari  r.  in 
Pbkllek  Robert,  Griechische  Mytìwlogie,  I,  p.  230  sgg.  Ma  quale  autore  pre- 
cisamente il  Pontano  ebbe  sott'  occhio,  quando  scriveva  i  tv.  :ì79  519  di!  1 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  267 

le  loro  allegorie  non  son  pontaaiane,  ben  di  Gioviano  è  la 
perizia  della  rappresentazione  estetica!  Basterebbe  a  questo 
proposito  mettere  a  fronte  i  versi  dell'  Urania  e  i  capitoli  dei 
Saturnali  di  Macrobio,  loro  fonte;  basterebbe,  per  esempio, 
legger  prima  il  paragrafo  nel  quale  il  retore  romano  si  Bforza 
di  spiegare  come  la  morte  di  Adone  ed  il  lutto  di  Venere  sian 
l'immagine  dell'impallidir  del  Sole  nel  tardo  autunno  e  della 
tristezza  invernale  delle  nostre  campagne;1  e  poi  vedere  con 
qual  potenza  descrittiva  Gioviano  abbia  saputo  rappresentarci 
le  stesse  cose.  Il  freddo  racconto  sotto  la  penna  del  poeta  si 


dell'  Urania?  Io  credo  Macrobio,  il  quale  nei  Saturnalia,  lib.  I,  cap.  XVII- 
XXIV,  fa  una  enumerazione  lunga,  più  lunga  che  la  pontaniana,  ma  sempre 
con  essa  in  pieno  accordo,  delle  favole  apollinee  e  delle  loro  allegorie  fisi- 
che. Anche  il  Boccaccio,  Genealogie,  lib.  IV,  cap.  Ili  e  XX,  che  vedemmo 
aver  ispirato  al  Bonincontri  l'episodio  di  Endimione,  potrebbe  essere  addi- 
tato qui  come  fonte,  non  però  come  fonte  unica.  In  esso  mancano  infatti  i 
due  miti  di  Argo  e  Mercurio  e  di  Ebone  (sotto  questo  nome  il  Sole  era  ado- 
rato nella  Campania,  come  ci  fa  sapere  anche  Pietro  Summonte  in  una  nota 
in  fine  ai  Carmina  del  Pontano,  ed.  Napoletana  del  1505),  che  si  trovano 
invece  in  Macrobio,  al  luogo  indicato  ;  di  più,  in  quest'  ultimo,  lib.  I, 
cap.  XII-XVI,  si  legge  una  copiosa  notizia  sul  calendario  romano,  che  cor- 
risponde in  parte  a  ciò  che  vediamo  in  Urania,  I,  v.  259-321.  Del  resto 
nulla  di  strano  che  di  Macrobio,  allora  notissimo,  si  facesse  uso  diretto, 
magari  per  suggerimento  della  stessa  opera  boccaccesca,  dov'è  cosi  spesso 
citato. 

1  Macrobii  Saturn.  lib.  I,  cap.  XXI,  Lugduni,  1638,  p.  276  (riportato  quasi 
testualmente  dal  Boccaccio,  Geneal.,  lib.  II,  cap.  XXIII)  :  <  Nam  physici 
Terrae  superius  hemisphaerium,  cuius  partem  incolimus,  Veneris  appella- 
tione  coluerunt,  inferius  vero  hemisphaerium  Terrae  Proserpinam  vocaverunt. 
Ergo  apud  Assyrios,  sive  Phoenices,  lugens  inducitur  dea,  quod  Sol  annuo 
gressu  per  duodecim  signorum  ordinem  pergens,  partem  quoque  hemisphaerii 
inferioris  ingreditur  ;  quia  de  duodecim  signis  Zodiaci  sex  superiora  sex  in- 
feriora  censentur.  Et  cum  est  in  inferioribus,  et  ideo  dies  breviores  facit, 
lugere  creditur  dea,  tauqnam  Sole  raptu  mortis  temporalis  ani  isso,  et  a 
Proserpina  retento,  quam  numen  Terrae  inferioris  circuii  et  antipodum  di- 
ximus.  Rursumque  Adonin  redditum  Veneri  credi  voluut,  cum  Sol,  evectis 
sex  signis  annuis  inferioris  ordinis,  incipit  nostri  circuii  lustrare  hemisphae- 
rium, cum  incremento  luminis  et  dierum.  Ab  apro  autem  tradunt  interemp- 
t uni  Adonin,  hyemis  imaginem  in  hoc  animali  fingentes,  quod  aper  ispidus 
et  asper  gaudet  locis  humidis  et  lutosis  pruinaque  contectis,  proprieque 
hyemali  fructu  pascitur,  glande....  Sed  cum  Sol  emerserit  ab  inferioribus 
partibus  Terrae,  vernalisque  aequinoctii  transgreditur  fines,  augendo  diem, 
tunc  est  Venus  laeta,  et  pulchra  virent  arva  segetibus,  prata  herbis,  arbores 
foliis  ». 


268  CAPITOLO  QUINTO 

anima.  Adone  è  morto,  e  Venere  e  i  numi  del  bosco  tendono 
verso  il  luogo  della  sua  tomba  le  braccia,  che  s' allungano 
come  steli  di  fiori  verso  la  fuggente  luce  solare: 

Ter  myrtus  conata  sequi  miserabile  funus, 
Ter  radice  retenta  sua  est,  ter  brachia  flexit, 
Ter  frustra  lentos  conata  est  flectere  ramos  ; l 

il  Sole,  con  raggio  obliquo,  appena  illumina  i  campi  deserti. 
sui  quali,  come  il  cinghiale  uccisore,  imperversa  l' inverno, 

Diglomeratque  nives  et  grandine  verberat  auras.  8 

Ma  già  è  passato  il  tempo  del  lutto,  già  Venere  ritrova  il  suo 
amante,  già  la  Terra  si  sveglia  al  soffio  della  primavera, 

Ac  voluti  virgo,  absenti  cum  sola  marito 
Suspirat  sterilem  lecto  traducere  vitam 
Illius  expectans  complexus  anxia  caros, 
Ergo,  ubi  Sol  imo  victor  convertit  ab  Austro, 
Tarn  gravidos  aperitque  sinus  et  caeca  relaxat 
Spiramenta,  novas  veniat  qua  succus  in  haerbas, 
Et  tandem  complexa  suum  laetatur  Adonim.3 

L'influsso  del  Sole,  dice  il  poeta  prima  di  parlare  d'altra 
sfera,  si  confonde  con  la  fecondazione  di  quanto  vive  quaggiù, 
ed  ò  perciò  troppo  universale  per  essere  determinato.  Non  coti 
avviene  di  quello  di  Marte,  il  pianeta  delle  febbri,  del  furore, 
e  perciò  della  milizia.  Il  quale  nella  religione  dei  Greci  e  <l<i 
Romani  ebbe  culto  sotto  forma  divina;  culto  spiegato  dal  l'on- 
tano con  una  delle  solite  sue  allegorie.  Marte  infatti  per  gli 
antichi  era  nato  dalla  sola  Giunone  :  ora  Giunone  rappre- 
senta uno  degli  elementi  sublunari,  l'aria,  onde  il  figliuol  suo 
è  costituito  di  materia  imperfetta,  ed  è  immagine  del  corpo  ; 
a  differenza  di  Minerva,  la  mente,  eh' è  figlia  del  solo  Giove, 
cioè  del  cielo.4  Bene  adunque  il  rosso  iddio  ha  un   poetico 

1  Urania,  I,  v.  485-487. 
!  Urania,  I,  v.  496. 

3  Urania,  I,  v.  500-r>06. 

4  Più  evidente  che  altrove  si  noti  qui  la  differenza  tra  il  Puntano  e  il 
Bonincontri  ;  dei  quali  l'uno,  cioè  il  primo,  nella  interpretazione  ilei  miti 
segue  sempre  la  teoria  naturalistica,  mentre  l'altro  si  attiene  ■  ■.Mila  eve- 
meristica.    Per  il   Miniatesi'  infatti,  se  il  lettore  se  ne  ricorda,   il  culto   di 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  269 

corteo  di  simboli  della  violenza,  e  può  vantarsi  d'aver  gui- 
dato colla  sua  azione  informatrice  Ercole,  l' eroe  della  forza 
brutale. 

La  ragione  e  l'amore  costituiscono  per  contro  l'influsso 
peculiare  a  Giove,  il  pianeta  d'oro,  dalla  luce  tranquilla: 

Hinc  ego,  si  qua  fides  astris,  aut  si  quid  ab  alto 
Aethera  cognatum  nostris  in  mentibus  haeret, 
Crediderim  fas  ac  leges  et  iura  piurnque 
Et  rectum  manare  et  amicae  foedera  pacis.  ' 

Vero  e  però  che  Giove  nell'antichità  aveva  pure  un  signifi- 
cato più  largo,  cioè  raffigurava  il  cielo  in  generale,  or  sereno 
e  soccorrevole  ai  lavori  degli  uomini,  ed  ora  ingombro  di  tur- 
bini e  di  folgori  sterminatori.  Onde  se  da  una  parte  s'ebbe 
la  bella  preghiera  di  Arato,  cosi  piena  di  gratitudine,  qui  dal 
Pontano  abilmente  ripetuta: 

Ab  Jove  principium  generis,  Jovis  omnia  piena; 
Ille  colit  terras,  illi  sunt  omnia  curae  ; 2 

dall'altra  ispirò,  col  terrore  delle  sue  minacce,  nelle  plebi  su- 
perstiziose i  voti  e  i  sacrifizi  e  gli  scongiuri,  quasi  che  davvero 
l'insensibile  pianeta  o  la  volta  del  firmamento  si  potesser  pla- 
care. Cosi  nacque,  dice  il  poeta,  il  culto  di  Giove  folgoratore, 
e  sorsero  i  templi  e  si  costituirono  speciali  collegi  sacerdotali  : 
vane  illusioni  !  Non  gli  strumenti  infatti  della  Provvidenza,  ma 
questa  stessa  dobbiamo  invocare,  questa  che  si  vale  delle  se- 
conde cause  qualche  volta  per  punire  l'iniquità,  più  spesso 
per  agevolare  le  fatiche  umane,  né  costruì  il  mondo  per  odio, 
si  per  quell'amore  delle  creature,  che  è  uno  dei  suoi  princi- 
pali attributi: 

Quid  vexare  deos  frustra  iuvat?  Ordine  certo 
Fert  Natura  vices,  labuntur  et  ordine  certo 
Sidera,  tam  varios  rerum  parientia  casus. 
Illa  suos  peragunt  cursus  servantque  tenorem 


Marte,  dio  italico  per  eccellenza,  era  l' apoteosi  il"  un  antichissimo  eroe,  in- 
ventore delle  anni  e  dell'arte  della  guerra. 

>  Urania,  I,  v.  618-621. 

*  Urania,  I,  v.  6:tt-634. 


270  CAPITOLO  QUINTO 

Sorte  datum  ;  parent  illis  elementa,  fidemque 
Impera  mutare  timent.  Sic  omnis  ab  alto 
Natura  est;  sequitur  leges  quas  scripserit  aether. 
Ipse  Deus  laeto  spectat  mortalia  vultu.  ' 

• 

Come  di  Giove  poco  in  realtà  si  discorre,  prendendo  il 
maggior  spazio  la  digressione  intorno  alla  vera  religione,  cosi 
di  Saturno,  la  fredda  stella,  il  dio  che  gli  evemeristi  riten- 
nero un  antichissimo  principe  latino,  non  si  fa  che  un  rapido 
cenno,  seguito  da  analoghe  considerazioni  morali.  Ed  a  Sa- 
turno tengon  dietro,  per  debito  scientifico,  alcune  questioni 
sulle  macchie  lunari,  sulla  luce  e  la  costituzione  fisica  dei  corpi 
erranti,  sulle  quali  il  Pontano  scorre  via  affrettato,  quasi  gli 
rincresca  l'indugio.  A  lui  preme  infatti,  or  che  il  lettore  co- 
nosce  la  natura  di  ciascun  pianeta  e  conserva  ancor  viva 
nella  mente  l'impressione  di  quelle  avvertenze  intorno  alla 
onnipotenza  e  bontà  divina,  messe  li  in  ultimo  quasi  a  prepa- 
rafe il  tono  del  discorso  che  deve  seguire;  al  Pontano  preme, 
ripeto,  venir  presto  alla  grande  scena  della  creazione,  dove 
la  sua  cosmogonia  avrà  pieno  sviluppo. 

La  scena  della  creazione,  nota  anche  sotto  il  titolo. di  Con- 
cilio degli  dei,  è  il  brano  più  importante  dell'  Urania,  perché 
contiene  il  fondamento  scientifico  dell'universo,  secondo  il  pen- 
siero del  poeta.  E  che  in  essa  ci  fosse  qualcosa  di  insolita- 
mente notevole  tutti  i  critici  del  Pontano  hanno  sempre  intuito, 
se  non  altro  dalla  intonazione  del  discorso,  dalla  maestà  del 
verso,  divenuto  a  un  tratto  più  composto  e  solenne  e  qoaal 
epico.  Ma  pochi  seppero  penetrare  addentro  al  vero  significato 
del  simbolo,  e  molti,  giudicando  dall'  apparenza  esteriore,  si 
diffusero  in  considerazioni  vane  ed  erronee  intorno  al  paga- 
nesimo di  Gioviano,  che  qui  avrebbe,  con  inaudito  anacroni- 
smo, messi  in  un  fascio  gli  dèi  della  mitologia  classica  e  il 


1  Urania,  I,  v.  697-704.  Forse  non  è  inutile  avvertire  che  nel  primo  di 
questi  versi  quel  deos  significa  i  pianeti,  e  che  Dell'ultimo  bob  si  Menu 
pia  ad  una  letizia  egoistica,  quasi  epicurea,  di  Dio,  ma  si  vuol  lignificali 
la  gioia,  la  compiacenza  della  divina  carità  per  la  creazione.  Un  coni 
simile  il  Pontano  manifesta  anche  in  Charon,  scena  prima,  ed.  aldina,  II, 
p.  49 a.  Cfr.  pure  V.  Rossi,  Il  Quattrocento,  p.  348  e  365. 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  271 

Dio  dei  cristiani  ! !  In  realtà,  non  mai  cosi  bene,  come  in  que- 
st' episodio,  dalla  dottrina  astrologica  scaturisce  il  fantasma 
poetico,  il  quale  solo  a  noi,  che  abbiamo  perduta  la  cono- 
scenza degli  elementi  della  divinazione,  può  riuscire  incom- 
prensibile; mentre  agli  uomini- del  Rinascimento,  per  i  quali 
fu  scritto,  doveva  sembrar  molto  chiaro.  Dovrebbe  anzi  sem- 
brare evidente  anche  a  noi,  a  dire  il  vero,  se  coi  miti  plato- 
nici avessimo  maggior  dimestichezza;  giacché  proprio  in  Pla- 
tone, come  ora  dirò,  s' ha  da  cercare  la  prima  origine  di  questa 
allegoria.  Ecco  l'episodio.  Compiuta  la  creazione  dei  corpi 
immortali,  Iddio  vuol  creare  i  corpi  inferiori  e  mortali.  A 
questo  scopo,  nella  sede  più  remota  dal  basso  mondo,  cioè 
ncir  Empireo,  aduna  gli  esseri  più  nobili,  che  saranno  suoi 
collaboratori.  Egli  siede  in  mezzo;  alla  destra  la  Sapienza  (il 
Piglio),  alla  sinistra  l'Amore  (lo  Spirito  Santo);  gli  fanno  co- 
rona le  allegorie  della  Natura,  del  Tempo,  dello  Spazio,  della 
Fortuna  e  dell'Ordine.  Ed  ecco  vengono  a  lui,  cominciando 
da  quella  di  maggior  periferia,  le  intelligenze  motrici  delle 
sette  sfere,  naturalmente  rappresentate  con  la  figura  dei  sette 
dèi  planetari  che  noi  conosciamo.  E  poiché  tali  intelligenze 
furon  dotate,  fin  dalla  creazione,  di  potenza  informativa  astro- 
logica più  o  meno  efficace  secondo  la  posizione  che  il  loro  pia- 
neta prende  rispetto  al  cielo  delle  stelle  fisse,  e  specialmente 
rispetto  allo  Zodiaco,  cosi  ciascuna  di  esse  si  presenta  con 
qualche  distintivo,  che  ci  richiami  al  segno  zodiacale  ov'  ha 
la  sua  casa.  Onde  vediamo  sfilare  dinanzi  al  trono  supremo 
Saturno,  con  la  pelle  del  Capro  sulle  spalle  e  l' Anfora  in 
mano;  Giove  con  le  saette  di  Chirone  e  la  corazza,  ove  in 
bel  fregio  spiccano  i  Pesci  ;  Marte  con  lo  Scorpione,  a  guisa 
di  cresta,  sull'  elmo,  e  l' Ariete  nello  scudo  ;  Febo  in  atto  di 
cantare,  coperto  dal  vello  del  Leone;  Venere,  ancor  pudica 
perché  non  ancora  il  mondo  è  fecondato,  avvolta  in  un  candido 


1  Troppo  vago  è  l'accenno  al  simbolo  in  C.  M.  Tallarioo,  Gio.  Fontano, 
li,  p.  587  ;  e  non  mi  pare  nel  giusto  B.  Zumbini,  L'astrologia  e  la  mitologia 
nel  Fontano  e  nel  Folengo,  nella  Rassegna  critica  d.  lett.  it.,  Napoli,  a.  II, 
p.  6.  La  buona  strada  fu  additata  la  prima  volta  da  K.  Uothkin,  op.  cit. , 
p.  448. 


272  CAPITOLO  QUINTO 

peplo  a  ricami,  dove  si  scorgono  il  Toro  e  le  Bilance  ;  Mer- 
curio cosi  bello,  che  lo  si  direbbe  nna  Vergine,  e  cosi  vispo 
da  esser  scambiato  per  uno  dei  Gemelli  di  Leda;  finalmente 
Diana,  la  pallida  dea,  adorna  d'una  bella  collana  di  rossi 
Granchietti.  Nulla  più  che  personificazioni  adunque,  questi 
numi,  nel  cui  consesso  allegorico,  come  nel  noto  dialogo  di 
Platone,  Iddio  prende  a  parlare. 

Infatti  nel  Timeo  —  che  il  Pontano  di  certo  tenne  sot- 
t' occhio,  leggendone  forse  la  traduzione  di  Calcidio1  — il  De- 
miurgo, dopo  che  ebbe  creato  il  mondo  celeste  ad  imitazione 
dell' eterna  idea,  raduna  un  concilio  di  demoni,  che  non  è 
meno  simbolico  di  quello  descritto  nell'  Urania.  Basti  a  per* 
suadercene  il  tono  scherzoso,  per  non  dire  irriverente,  col  quale 
il  filosofo  discorre  di  codesti  dèi  figli  di  tiri,  a  eui  non  rico- 
nosce altro  valore  se  non  quello  di  rappresentazioni  poetiche 
e  religiose  delle  anime  delle  sfere.2  —  Iddio  dunque  parla  nel 

1  Che  il  Pontano  abbia  conosciuto  il  Timeo,  è  messo  fuor  di  dubbio  da 
un  passo  della  introduzione  al  3°  libro  del  De  fortuna,  che  proprio  si  rife- 
risce al  nostro  caso  (ed.  aldina,  I,  p.  299b):  «  Post  haec  ornala  reali  in 
mcntem  Platonis  inducentis  concionantein  Deuin  in  creandis  relais  apud  opti* 
matto  suos,  stella»  scilicet,  quibus  singulis  pares  delegisset  animus,  pariaqat 
tribuisset  curricula,  statuentemque  ex  praefinito  illis,  rebus  uti  prospicereat 
inferìoribus,  ac  dantem  iis  leges,  iuraque  inevitabili»».  Che  poi  lo  cono- 
scesse fin  dal  tempo  della  composizione  dell1  Urania,  mi  pare  lo  provino 
i  raffronti  che  io  faccio.  Quanto  al  testo,  di  cui  egli  si  è  servito,  è  da  esclu- 
dere la  versione  fìciuiana,  troppo  tarda;  forse  è  da  escludere  anche  l'ori- 
ginale greco;  più  probabile,  data  la  grande  diffusione  che  allora  aveva,  la 
traduzione  di  Calcidio;  e  forse,  in  ultimo,  da  non  dimenticarsi  il  parziale 
rifacimento  di  Cicerone,  o  le  citazioni  speciali  che  dei  passi  per  noi  impor- 
tanti (81C-82D,  41A-R)  eran  disseminate  nelle  opere  dei  Padri  e  déffll 
astrologi. 

•  Intorno  alla  realtà  degli  dèi,  secondo  l'opinione  dei  sacerdoti,  sin 
note  queste  frasi  pungenti  di  Platone  (Timeo,  40P-41A,  nella  trad.  di  Cal- 
cidio, in  Frng menta  philos.  graecorum.,  Paris,  Didot,  II,  p.  1C9):  e  At  rara 
invisihilium  divinarutnque  potestatum,  quae  daemones  nuucupantur,  prae- 
stare  rationem,  majus  est  opus,  quam  ferre  valeat  liominis  inganiam.  Imitar 
compendimi!  ex  creduli  tate  Miniatili-.  Credamus  igitur  iis,  qui  apnd  seculum 
prius,  cum  ipsi  cognationem  propinqnitatemque  divini  generis  praeferreat, 
de  natura  Deorum  maiorum,  atque  avorum,  deque  gcnituris  singtilorum, 
aeterna  monimcnta  in  libris  posteritati  reliqnerunt.  t'erte  deorum  tlliis.  aut 
nepotibus,  non  credi,  satis  irreli^iosum;  ([uamvis  incongrui»,  DOC  necessariis, 
probationibus  dicant:  tamen,  quia  de  domesticis  rebus  pronuntiant.  eredea- 
dnm  esse  merito  puto  ». 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  273 

consesso  dei  numi  e  tocca  nel  suo  discorso  tre  concetti  essen- 
ziali. Il  primo,  che  già  vedemmo  nella  digressione  a  proposito 
di  Giove,  consiste  nella  compiacenza  ch'egli  ha  d'aver  get- 
tate le  basi  della  creazione: 

«  Cuncta  equidem,  o  superi,  placuit  quaecumque  creavi, 
Sic  volui,  nec  nos  unquam  fecisse  pigebit. l 

Il  secondo  riassume  la  legge,  che  nel  Timeo  è  detta  dell'ana- 
logia,  per  la  quale  la  terra  o  elemento  solido,  che  rende  il 
mondo  tangibile,  e  il  fuoco  o  elemento  mobile  che  fa  le  cose 
visibili,  stanno  fra  loro  uniti  dall'  aria  e  dall'  acqua,  che  sono 
i  termini  medi  della  proporzione  universale: 

« Ignem 
Et  terras  ieci  primordia;  quae  tamen  inter 
Aèris  immensos  campos  Neptunniaque  arva, 
Quod  sibi  perpetui  constaret  machina  mundi, 
Congessi,  mundumque  aequa  compage  ligavi 
Nexibus  alternis  et  amico  singula  vinclo.  * 

Il  terzo  finalmente  riguarda  l'ufficio,  che  Dio  assegna  agli 
dèi,  di  cooperare  alla  grande  opera  della  creazione,  plasmando 
la  materia  terrestre  analogamente  a  ciò  che  Dio  stesso  avea 
fatto  per  la  celeste,  ciascuno  secondo  la  propria  attitudine  in- 
formativa : 

«  Quare  agite,  et  celeres  quam  primum  ascondite  currus 
Aggressi  mortale  opus  et  genus  omue  animantum; 
Aèrias  celebrate  plagas,  serite  aequoris  undas 
Tellurisque  sinus  gravidos,  ut  ne  qua  peracto 
Pars  operi  aut  rebus  desit  Pater  ipse  creandis.3 


1  Urania,  I,  v.  925-926.  Cfr.  Timeo,  29  E. 

*  Urania,  I,  v.  929-934.  Cfr.  Timeo,  32  B  0  (nella  versione  di  Calcidio, 
ed.  cit.,  p.  160-161):  «  Idcirco  mundi  opifex  inter  ignem  et  terram  ai-ra  et 
aqnam  inseruit,  libratis  iisdem  elementis  salubri  modo  :  ut  quae  cognatio 
est  inter  ignem  et  aera,  eadem  foret  inter  aera  et  aquam  :  rursum  quae 
inter  aera  et  aquam,  haec  eadem  in  aquae  terraeque  societate  consisterei. 
Atqne  ita  ex  quatuor  supradictis  materiis  praeclaram  istain  machinam  vi 
sibilem  contiguamque  fabricatus  est,  amica  partium  aequilibritatis  ratione 
sociatam,  quo  immortalis  indissolubilisque  esset  adversum  omnein  casum, 
excepta  sui  fabricatoris  voluntate  ». 

s  Urania,  I,  v.  946-950.  Cfr.  Timeo,  41  AI). 

Soldati  18 


274  CAPITOLO  QUINTO 

Finita  la  concione,  l'eterno  Padre  col  ano  cenno  fa  tremar 
l'universo,  e  il  concilio  si  scioglie,  perché  gli  dèi  sui  loro 
cocchi  celesti  si  precipitano  all'  opera.  Ed  ecco  sulla  faccia 
del  nostro  globo  spuntare  dapprima  le  piante,  formando  selve, 
cespugli,  praterie;  quindi  nascere  selvaggi  gli  animali;  final- 
mente comparir  l'uomo,  ferino  nelle  membra,  ma  recando  in 
fronte,  fin  da  quella  remota  alba  della  sua  storia,  il  raggio 
del  pensiero  e  la  speranza: 

Ultimus  erupit  gravida  tellure  creatns 
Spe  puer  ingenti,  sed  corpore  debilis  ipso, 
Nudus,  inops,  quem  darà  solo  suscepit  Egestas, 
Eductum  foliis  haerbarum  et  cortice  crudo, 
Aut  corno,  aut  sì  quam  dederat  Dodonia  glandem. 
Mox  umbras  neraorura  captare,  aut  sicubi  montis 
Exesi  specus,  hic  aestus  et  frigora  primum 
Vitare,  et  subita  se  a  tempestate  tueri 
Monstravit,  tectum  stipulis  cannaque  palustri  ; 
Semina  quin  etiam  siccis  haerentia  culmi  s 
Haerbarum  passim  lecta,  et  servata  per  annum 
Condere  poma,  nucesque  hiemi  signare  repostas, 
Formica  monstrante,  cavis  dum  condit  in  antris  ; 
Ipsa  dies,  multusque  labor  docuere  colendo 
Naturam  in  melius  formare,  et  pervigil  usus.  ' 

La  citazione  di  questo  brano,  cui  seguono  come  appendice 
pochi  versi  sull'invenzione  del  fuoco  o  primo  passo  nell' inci- 
vilimento dell'uomo,  serva  come  saggio  di  tutto  il  bell'epi- 
sodio della  creazione.  Intorno  al  quale  è  necessaria  un'ultima 
avvertenza.  Citando  il  Timeo  ho  voluto  additare  una  fonte  del 
Concilio  degli  dèi  puramente  poetica,  affinché,  oltre  all'appa- 
gamento della  nostra  curiosità  erudita,  ciascuno  dal  confronto 


1  Urania,  I,  v.  1126-1U0.  Il  tema  poetico  della  creazione  fu,  eoaat 
ognun  sa,  comunissimo  nelle  letterature  classiche  e  in  quelle  medioevali. 
Più  d'un  modello  dunque  da  cui  togliere  utili  elementi  e  particolari,  ebbe 
il  Pontano.  Tuttavia  l'autore,  al  quale  pare  s' accosti  di  più  in  questi  \ 
è  Lucrezio  (De  rerum  natura,  V,  v.  769  sgg.).  Notisi  però  che  l'imitazione, 
non  servile,  è  soltanto  formale,  essendoci  fra  i  due  poeti  quanto  al  peu 
sostanziale  differenza.  Certo  poi  il  Pontano  conobbe  il  1°  libro  ld  peni.» 
del  Bonineontri  ;  ma  più  che  imitarlo,  lo  superò  di  gran  lunga. 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  275 

si  persuadesse  meglio  che  qui  ed  altrove  l' Urania  dev'essere 
interpretata  allegoricamente.  Non  mi  son  però  sognato  di  so- 
stenere che  la  cosmogonia  del  Pontano  sia  in  tutto  platonica. 
Per  esser  tale  dovrebbe  contenere  il  principio,  che  nel  citato 
dialogo  spicca  fra  gli  altri,  della  creazione  e  migrazione 
delle  anime  di  corpo  in  corpo  e  di  grado  in  grado  nella  scala 
degli  esseri,  una  specie  di  metempsicosi,  al  Nostro  assoluta- 
mente ignota  per  più  ragioni,  prima  fra  tutte,  perché  con- 
traria al  cristianesimo.  Dal  quale  Gioviano,  come  noi  bene 
apprendemmo  dall'esame  precedente  delle  opere  sue,  non  si 
allontana  se  non  per  isvolgere  nella  loro  interezza  i  principi 
dell'  astrologia. l 


1  Non  voglio  lasciare  il  discorso  intorno  a  queste  allegorie  pontaniane 
senza  far  cenno  d'  un'  opera,  che  ad  esse  s' ispirò,  ma  clie  non  lia  tale  valore 
artistico  o  filosofico  da  richiedere  più  che  una  nota  (v.  G.  L.  Gyraldus,  De 
poi'tis  nostrorum  temporum,  ed.  Wotke,  Berlin,  1894,  p.  17,  ove  di  essa  ci  son 
lodi  del  tutto  esagerate).  Dico  degli  Inni  naturali  di  Michele  Marnilo,  il  si- 
gnificato dei  quali,  assai  interessante,  è  stato  finora  piuttosto  accennato  che 
messo  nella  debita  evidenza  (V.  Rossi,  II  Quattrocento,  p.  275  e  351).  Vedia- 
mone la  materia.  Si  comincia  da  Dio  padre  creatore  delle  cose  (Inno  1°, 
v.  45-47),  a  cui  seguono  Pallade,  allegoria  del  Figlio  (2°,  v.43-46  e  60), 
ed  Amore,  allegoria  dello  Spirito  Santo  (3°):  si  ha  cosi,  da  principio,  la 
Divina  Trinità.  Intorno  alla  quale  stanno  i  nove  Cori  angelici  (4°),  e 
le  personificazioni  dei  principali  attributi  di  Dio,  cioè  l'Eternità  (5°)  e 
la  Provvidenza,  che  qui  è  rappresentata  —  chi  lo  crederebbe?. —  da 
Bacco,  con  la  Giustizia  o  Temide  (6°,  v.  50-65  e  60).  Vengono  poi  le 
creature  nel  loro  complesso,  o  Pane  (7°);  quindi  specificate  nei  diversi 
loro  gradi,  in  quest'ordine:  l'Empireo  (8°),  il  cielo  delle  Stelle  fisse 
(9°),  Saturno  (10°),  Giove  (11°),  Marte  (12°),  Venere  (13°),  Mercurio 
(14°),  Sole  (15°)  e  Luna  (16°).  Come  si  vede,  i  due  luminari  son  tenuti  vi- 
cini. Di  più,  a  proposito  di  ciascuna  sfera  si  mette  bene  in  mostra  l' influsso 
astrologico  (v.  specialmente  9",  v.  41-48,  11°,  v.  33-36,  15°,  v.  219-236),  onde 
par  molto  curiosa  la  voce,  raccolta  dal  Giraldi  con  riserva  (op.  loc.  cit.),  che 
in  queste  cose  abbia  messo  lo  zampino  Giovanni  Pico.  Se  ciò  avvenne,  certo 
fu  in  un  tempo  che  il  Mirandolano  non  meditava  ancora  le  Disputationes. 
Procediamo.  Dopo  il  mondo  superiore,  si  inneggia  alle  allegorie  degli  ele- 
menti, prima  in  generale  al  Firmamento  (17°),  e  poi  patitamente  a  Giove 
folgoratore  o  Fuoco  (18°),  a  Giunone  o  Aria  (19°),  all'Oceano  o  Acqua 
(20°)  e  finalmente  alla  Terra  (21°).  Di  questi  Inni,  v.  1' ed.  fiorentina  del 
1497,  assai  migliore  di  quella  più  recente  di  C.  N.  Sathas,  in  Documento  iné- 
dits  relatifs  à  V  histoire  de  la  Grece  au  muyen  dge,  Paris,  1888,  voi.  VII, 
p.  178  sgg. 


276  CAPITOLO  QUINTO 


Ili. 


La  seconda  parte  dell'  Urania  comprende  il  libro  secondo 
ed  il  principio  del  terzo,  fino  al  v.  507,  e  contiene  la  tratta- 
zione di  tutto  lo  Zodiaco,  sia  in  generale,  cioè  scientificamente 
in  quanto  è  uno  dei  circoli  della  sfera  celeste,  sia  in  partico- 
lare, cioè  esaminando  astrologicamentc  una  per  una  le  costel- 
lazioni che  lo  compongono.  Tale  la  materia.  Ma  l'importanza 
maggiore  è,  al  solito,  nel  modo  onde  questa  è  svolta,  cioè  Della 
poesia. 

Abbiamo  visto,  in  fine  al  libro  primo,  come  la  creazione 
degli  esseri  destinati  a  rivestire  e  popolare  la  Terra  t 
l'effetto  dell'influsso  planetario,  indirizzato  dal  volere  di  I>i<>. 
Essa  però  s'era  arrestata  alla  nascita  dell'uomo  ferino,  giac- 
ché ai  pianeti,  oltre  quell'ufficio  di  primi  informatori  della 
sostanza  corporea,  non  era  stato  ordinato  altro  compito  supc- 
riore o  più  duraturo.  Il  limite  estremo  a  cui  essi  erano  giunti 
era  questo,  d'avere  infuso,  insieme  con  l'anima  discesa  diret- 
tamente da  Dio,  in  quella  belva  umana  1'  attitudine  al  perfe- 
zionamento di  se  stessa,  si  che  ben  presto  queir  essere  avea 
imparato  a  difendersi  dalle  intemperie  e  dalla  fame  e  s'era 
impadronito  del  primo  grande  mezzo  di  civiltà,  cioè  del  fuoco. 
Ma  l'uomo,  che  dipende  dagli  astri,  doveva  da  essi  ricevere 
ben  altri  benefici  e  ben  altri  aiuti  nella  sua  corsa  verso  i  tempi 
migliori:  ai  pianeti  dovean  sottentrare  i  segni  dello  Zodiaco, 
ciascuno  con  la  propria  influenza,  ciascuno  col  suo  particola! 
modo  di  spingere  d'un  passo  avanti  l'umanità  sulla  via  del 
progresso.  Alla  creazione,  o  epoca  planetaria,  segue  per- 
tanto nella  storia  del  mondo  l'incivilimento,  o  epoca  zodia- 
cale, distribuita  in  dodici  periodi  corrispondenti  al  numero 
dei  segni  stessi.  E  come  il  corso  del  Sole  attraverso  a  questi 
chiamasi  anno,  cosi  quella  età  viene  considerata  come  un  nm- 
gnus  annus,  nel  quale  i  mesi  son  secoli,  i  giorni  generazioni. 
Questa  età,  che  non  è  certo  una  concezione  esclusiva  del  Pon- 
tano,  ma  con  infinite  modificazioni  non  essenziali  fu  unta   ni 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  277 

filosofi  e  ai  poeti  greci  e  romani,  ed  ebbe  in  ogni  tempo  grande 
roga  presso  gli  astrologi,1  passerà  ancor  essa,  più  o  nien  ra- 
pidamente, sui  diversi  popoli  della  Terra.  Verrà  allora,  quando 
l'uomo  sarà  cosi  civile  e  colto  da  non  abbisognare  più  di  ri- 
volgimenti collettivi  e  di  scoperte  fondamentali,  l'età  perfetta 
in  cui  tutto  il  cielo,  e  quindi  anche  le  costellazioni  extra- 
zodiacali, eserciteranno  il  loro  influsso  non  più  sui  popoli  e 
sui  grandi  fatti,  bensì  sugl'individui  e  sul  commercio  sociale. 
Con  questa  concezione  essenzialmente  umana  e  poetica  il 
Pontano  ci  espone  adunque  lo  Zodiaco,  riassumendo  dapprima 
quanto  si  sapeva  allora  sul  movimento  e  sulla  inclinazione  di 
questo  circolo,  onde  si  generano  le  stagioni,  ed  altre  simili 
notizie  generali.  Né  si  dimentica  anche  qui  di  immaginare 
una  favola  allegorica,  cioè  il  mito  del  cinto  donato  da  Giove 
ad  Urania,  onde  costei  potesse  incatenare  e  reggere  a  suo  ta- 
lento la  Fortuna  ed  i  Pati,  prima  liberi  e  pazzi  sconvolgitori 
del  mondo.  Poi,  come  ho  detto,  egli  intraprende  l' elenco  dei 
dodici  segni,  con  notevole  ampiezza  di  trattazione,  svolgendo 
a  proposito  di  ciascuno  di  essi,  in  vario  ordine,  quattro  punti 
fondamentali.  Il  primo,  il  più  semplice,  è  la  descrizione  side- 
rale del  segno  stesso,  tratteggiata  molto  abilmente,  cioè  senza 
cadere  nella  povertà  schematica  e  noiosa  da  noi  criticata  nel 
Basini  e,  prima  di  lui,  nella  tradizione  aratea.  Un  altro  è  l'in- 
flusso astrologico  in  senso  assoluto,  vale  a  dire  indipendente- 
mente dalla  concezione  storica  sopra  ricordata,  distribuito  a 
sua  volta  secondo  le  due  posizioni  cardinali  del  segno  nel 
firmamento,  quando  sorge  sull'orizzonte  orientale  (oroscopo)  e 
quando  discende  dalla  parte  opposta  (occaso),  e  secondo  le  in- 
termedie, quando  culmina  sul  nostro  emisfero  (summum  me- 
dium caelum)  e  quando  sull'  emisfero  a  noi  contrario  (imum 
medium  caelum).  Le  differenti  posizioni  determinano  infatti 
variazioni  d' influenza,  specialmente  le  due  prime,  secondo  la 
legge  seguente: 

Vita  tibi  motusque  animi  quaerendus  ab  or  tu, 
Unde  etiam  toto  lux  ipsa  eifunditor  orbe; 

1  A.  Bouché-Leclbbc<j,  Astrologie  grecque,  p.  498. 


278  CAPITOLO  QUINTO 

Surgit  ab  occasu  mors  importuna  maligno, 
Qua  tenebrae,  qua  nox  nigrantibus  advolat  alis.1 

Il  terzo  punto  è  il  particolare  influsso  astrologico  di  ciascun 
segno  relativamente  alla  concezione  generale  del  magnus  annus 
zodiacale.  Finalmente  il  quarto,  che  a  quest'ultimo  è  stretta- 
mente legato,  consiste  nella  favola  mitologica  o  allegoria,  a 
volte  tradizionale,  più  spesso,  come  vedremo,  inventata  di  sana 
pianta  dalla  vivace  fantasia  del  poeta. 

L'elenco  comincia  col  segno  dell'Ariete,  il  primo  nell'or 
dine  comune  seguito  anche  da  Manilio,  che  Gioviano  però  non 
rifa,  come  potrebbe  parere,  se  non  in  piccolissima  parte.2  Tra- 
dizionale ò  di  questa  costellazione  la  figura,  tradizionale  la  ta- 
vola, cioè  il  mito  del  Vello  d'oro,  trasportato  in  cielo  da  Marte, 
il  pianeta  che  ha  qui  la  sua  casa;  tradizionale  pure  l'influsso 
assoluto.  Secondo  il  quale  i  nascenti  —  tra  cui  il  poeta  in  un 
bell'episodio  ricorda  anche  se  stesso  3 —  ora  salgono  a  grande 
potenza  e  soprattutto  accumulano  grandi  ricchezze,  come  il 
montone  che  nell'inverno  si  veste  di  abbondantissima  lana  ;  ed 
ora  perdono  ogni  cosa,  come  la  povera  bestiuola  che  lascia  il 
suo  tesoro  sotto  le  forbici  avare  del  padrone.  Ma  più  interes- 
sante è  la  descrizione  dell'influsso  storico,  o  epoca  dell'Ariete, 
quando  gli  uomini,  fatti  men  rozzi  dalla  pastorizia,  erravano 
per  i  monti  coi  loro  greggi,  guardando  con  terrore  V  imbru- 
nire e  risalutando  con  inni  di  gioia  il  rinascer  del  Sole: 

Qua  se  oceano  nox  acta  ferebat, 
Carpebant  fessi  somnos  et  membra  locabant, 
Aut  antro  tecti,  aut  nemorum  frondentibus  umbri  a 
At  postquam  Sol  nigrantis  di  scasserà  t  umbras, 
Mirati  lucem  borriferam  et  vaga  lumina  Phoebi, 
Illum  oculis,  illum  ore  obeunt.  Laetum  inde  canebant 
Paeana,  auricomumque  deum  clamore  ferebant. 4 


1  Urania,  III,  v.  568-661.  Cfr.  De  rebus  coel,  ed.  aldina  delle  Opere, 
III,  p.  129b. 

*  Manili  Astron.,  IV,  v.  122  sgg. 

1  II  passo,  se  il  lettore  se  ne  rammenti,  fu  già  citato  a  pag.  233. 

•  Urania,  li,  v 


1  POEMETTI  DEL  PONTANO  279 

Fu  questa,  dice  il  poeta,  l'età  pili  felice,  durante  la  quale 
l' umanità  per  l'innocente  licenza, 

—  Per  saltus  et  opaca  loca  umbrososque  recessus 

Ludebant  mistae  pueris  impane  puellae  ; 

Ocia  mulcebant  venerem  atqae  ignavia  deses1  — 

si  moltiplicò,  creandosi  inconsapevolmente  col  crescer  del  nu- 
mero nuovi  bisogni,  e  perciò  i  primi  dolori.  Onde  bisognò  ben 
presto  lasciare  le  sedi  montuose  dove  il  vitto  cominciava  a 
scarseggiare,  e  scendere  al  piano  dove  l'influsso  della  seconda 
costellazione  zodiacale,  cioè  del  Toro,  avrebbe  insegnato  i  ru- 
dimenti dell'agricoltura.  Sennonché  auche  laggiù  la  fatica  si 
andava  facendo  sempre  più  penosa,  esercitata  dalle  sole  braccia 
umane,  e  già  i  poveri  coltivatori  sentivano  i  funesti  effetti 
della  miseria,  quando  venne  in  loro  soccorso  una  benefica  dea, 
l' Industria. 2  Era  costei  1'  allegorica  figlia  del  Lavoro  e  della 
Povertà,  e  viveva  raminga  di  capanna  in  capanna,  cercando 
in  tutti  i  modi  un  rimedio  ai  mali  che  scorgeva  in  ogni  luogo. 
E  tanto  s' ingegnò  che  un  giorno  raggiunse  l' intento.  Ella  avea 
veduto  saltellare  pei  prati  un  bel  giovenco  dalla  fronte  stel- 
lata, libero  ed  inoperoso,  se  gli  era  avvicinata  e  con  lusinghe 
avea  tentato  domarlo.  N'era  seguita  una  graziosissima  scena 
di  seduzione: 

Huic  dea  nunc  viridis  ramos  et  gramina  lecta 
Porrigit  invitatque  manu,  nnnc  tempora  blandis 
Pertrectat  digitis  atque  ora  rigentia  mulcet, 
Nunc  frontem  variis  redimitam  floribus  ornat, 
Ac  picturatis  intexens  cornua  sertis 
Mollibus  hirsutas  verbis  blanditur  ad  aures. 
llle  autem  tenerae  correptus  amore  puellae 
Nunc  decumbit  humi  vertitque  ad  munera  frontem 
Demissa  cervice,  alte  et  suspiria  ducens 
Mugit,  et  ipse  suas  solatur  murmure  curas  ; 
Nunc  haeret  pendetque  oculis  ludentis,  et  ipso 
Lascivit  gressu  exsiliens  gestitque  per  haerbas. 
Insequitur  simul  et  niveis  per  gramina  plantis 

i  Urania,  II,  v.  264-266. 

*  Questa  bella  allegoria  ritornerà  nei  versi  del  Pontano  a  proposito  della 
cultura  dei  giardini  e  del  cedri,  in  De  hortis  Hesperidum  II,  v.  407-431. 


280  CAPITOLO  QUINTO 

Iusultat  virgo  et  gressum  inox  sistit:  at  ille 

Insilit.  et  pedibas  cervicem  inuectere  tenta  t. 

Nympba  procum  aspernata  fugitque  et  lenta  morata! 

Et  nudata  genu  risuque  invitat  amantem  ; 

llle  autem,  blando  componens  niurmura  questu, 

Affingit  teneros  motus  et  fronte  coruscat.  ' 

Ma  già  dai  vezzi  provocatori  e  dall'inganno  è  Tinto  il  torello, 
la  sua  fronte  è  stretta  in  un  laccio  e  la  stalla  buia  lo  attende, 
donde  uscirà  solo  per  curvarsi  sotto  il  giogo  e  trarre  il  plau- 
stro o  l'aratro: 

Nympha  trahit,  sequiturque  volens  et  laetus  amator, 
Ac  nigrum  sponte  adrairans  defertur  in  antrum.  * 

Questa  la  favola  piena  di  plastica  evidenza,  che  il  Pontam» 
immaginò  per  lumeggiare  l'influsso  storico  della  seconda  co- 
stellazione dello  Zodiaco,  scostandosi  dalla  tradizione  che  gli 
avrebbe  suggerito  i  miti  di  Europa,  di  Io  o  di  Pasifae.3  Miti 
cui  egli  accenna  appena  quando  passa  agli  altri  punti  della 
trattazione,  cioè  alla  figura  astrale  del  segno  ed  all'  influsso 
assoluto.  Il  quale  non  si  allontana  dagl'insegnamenti  di  Ma- 
nilio e  di  Firmico,  e  si  fonda  essenzialmente,  oltre  che  sulla 
natura  bovina  e  perciò  rurale  dell'asterismo,  anche  sull'azione 
del  pianeta  Venere  che  nel  Toro  ha  il  proprio  domicilio.* 

Nella  costellazione  dei  Gemelli  ha  invece  la  sua  casa  Mer- 
curio, onde  l' influsso  di  essa  induce  alla  cultura,  alla  musica, 
ai  traffici  ed  all'astuzia.  E  la  favola,  che  in  sé  racchiude  an- 
che l'influenza  storica,  ed  è,  come  quella  del  Toro,  intera- 
mente nuova,5  è  mercuriale.  Immagina  intatti  il  poeta  che  il 
dio,  veduti  in  Terra  i  mortali  affaccendati  nella  costruzione 
delle  capanne,  nella  ripartizione  dei  campi,  in  mille  tentativi 
insomma  di  viver  civile  sotto  la  buona  direzione  dell'Industria, 
siasi  mosso  dal  cielo  in  loro  soccorso.   E  per  meglio  istruirli 

1  Urania,  II,  v.  30<; 

1  Urania,  II,  v.  827-828. 

3  A.  Bouchk-Lecurc*},  op.  cit.,  p.   Itt, 

*  Cfr.  Manili  Astron.,  IV,  v.  140-151. 

5  La  tradizione,  che  non  è  ignota  al  Fontano  (  Urania,  II,  v.  424),  i<l<n- 
tiflca  invece  i  (tornelli  ora  con  Castore  e  Polluce  ed  ora  con  Rrcole  e  Apollo 
(A.  Boucbé-Leclbrcv,  op.  cit.,  p.  186). 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  281 

nelle  diverse  arti,  abbia  sdoppiata  la  sua  persoua  e  sia  andato 
intorno  sotto  la  curiosa  apparenza  di  due  giovinetti,  uno  più 
maturo  e  dotto,  V  altro  inesperto, 

Discat  ut  hic,  doceat  facundo  pectore  ut  alter.1 

L' ingegnosa  trovata,  conchiude  il  Pontano,  ebbe  fortuna,  e  gli 
uomini  ben  presto  appresero  a  far  di  conto  e  a  scambiarsi  i 
prodotti,  a  perfezionare  gli  utensili  agricoli  e  foggiarne  de' 
nuovi  d'  uso  domestico  e  industriale,  a  servirsi  ne'  commerci 
dei  pesi  e  delle  misure,  nei  convegni  dell'eloquenza,  nei  rap- 
porti lontani  della  scrittura.  S'ebbe  cioè  la  terza  età  zodiacale 
nella  storia  del  mondo. 

La  quarta  età  succede  per  contro  con  la  costellazione  del 
Cancro,  ed  è  l'età  della  navigazione,  al  cominciar  della  quale 
fu  inventata  la  prima  piroga,  cui  seguirono  poi  le  navi  a  remi 
e  i  grossi  vascelli  a  vela: 

Hoc  astro  post  Tyndaridas  subeunte,  per  aequor 
Mortales  fecero  viam,  primique  reperta 
Vix  ausi  tentare  cava  vada  fluminis  alno. 
Mox  usus,  post  et  praeceps  audacia  textis 
In  mare  navigiis  remo  descendit  adacto, 
Paulatim  et  pelago  se  credidit,  inde  per  altum 
Ignotos  portus  peregrinaque  regna  petivit. 2 

Qui  Gioviano  è  d'accordo  con  Manilio,  il  quale  ricollegava 
l'influsso  mercantile  e  marineresco  del  quarto  segno  con  la 
natura  marittima  dell'  animale  onde  questo  prende  il  nome. 3 
Nuova  invece  è  la  favola,  che  non  si  riferisce  al  granchietto 
che  punse  Ercole  nella  palude  di  Lerna,4  ma  sorge  da  una 
complessa  combinazione  di  dati  astronomici.  Essa  è  la  se- 
guente. Proteo,  gran  seduttore  di  ninfe,  ha  messo  in  opera  un 
nuovo  tranello:  s'è  cangiato  in  granchio  e  cosi  è  penetrato 
nei  cori  delle  Naiadi  senza  che  queste  sospettasser  di  lui,  e 
già  ne  ha  posseduta  più  d'una.  Ma  un  giorno,  sulle  rive  del- 
l' Eurota,  tenta  Diana  discesa   ai  lavacri  dopo  la  caccia.  La 

1  Urania,  II,  v.  441. 
«   Urania,  II,  v.  563-569. 

3  Manili  Astron.,  IV,  v.  162-175. 

4  À.  Bouché-Leclekc<),  op.  CJt.,  p.  136. 


282  CAPITOLO  QUINTO 

dea  è  pronta  a  difendersi,  mutandosi  in  pianeta,  e  rapisce  in 
cielo  con  sé  l'assalitore  (nel  Cancro  è  il  domicilio  della  Luna). 
Sdegnato  Apollo  per  l'offesa  recata  alla  sorella,  ogni  anno 
col  suo  carro  passa  sul  corpo  del  nemico  e  l'arde  con  le  sue 
fiamme  (i  calori  del  mese  di  Giugno).  Giove,  per  non  esser 
da  meno  degli  altri  dèi,  aggrava  la  pena  incidendo  sul  dorso 
del  celeste  animale  un  marchio  disonorevole  (i  due  Asini  e  la 
nebulosa  del  Presepe),1  e  permettendo  agli  uomini  di  squarciar 
colle  prore,  coi  remi,  con  l'ancore  il  regno  di  Proteo  (la  sta- 
gione estiva,  propizia  alla  navigazione). 

Nuova  e  congegnata  di  dati  astronomici  è  pure  la  favola  della 
costellazione  del  Leone,  che  è  la  sede  di  Febo.  Mettendo  da 
parte  la  tradizione  e  Manilio,  il  poeta  c'informa  che  la  belva 
sollevata  agli  onori  del  cielo  non  è  già  quella  che  Ercole  uc- 
cise nella  valle  Nemea,  si  bene  uno  di  quei  leoni  che  i  Libii 
usavano  sacrificare  al  Sole  per  impetrar  meno  ardente  la  Ca- 
nicola. A  quei  leoni  il  re-sacerdote  cacciava  un  coltello  in 
mezzo  al  petto,  onde  la  figura  celeste  porta  là  dove  s'apriva 
la  ferita,  un  astro  fulgente,  Regolo.  L'influsso  suo  è  perciò 
sacro  per  il  sacrificio,  regale  per  la  stella  del  cuore,  guerriero 
per  la  natura  del  terribile  felino.  E  gli  uomini  nella  quinta 
età  zodiacale  appresero  ad  osservare  i  riti  religiosi,  a  vene- 
rare la  maestà  dei  principi,  a  condurre  in  dura  schiavitù  il 
nemico  caduto  prigioniero  di  guerra. 

Nella  sesta  età  successe  il  regno  della  Vergine,  casa 
autunnale  di  Mercurio,  e  quindi  si  svolse  dal  cielo  un'azione 
ove  le  caratteristiche  di  questo  dio,  come  nei  Gemelli,  ebbero 
la  preponderanza.  Infatti  gli  antichi  miti  tradizionali  di  Diche 
e  di  Erigone  sono  taciuti,2  per  dar  luogo  ad  una  favola  tutta 
nuova  e  d'invenzion  pontaniana,  secondo  la  quale  la  Vergine 

1  Si  noti  l'interpretazione  nuova  di  questo  gruppo  stellare,  che  per  gli 
astrologi  cristiani,  pur  essendo  funesto,  rappresentava  la  capanna  di  Betlem- 
me. Cfr.  0.  Zanotti  Bunco,    Astrologia  e  Astronomia,  Torino,  1905,  p.  04. 

»  Del  mito  di  Erigone,  svolto  da  Igino  e  dal  Basini  e  non  ignoto  a  Ma- 
nilio (Astron.  IV,  v.  189),  qui  nessun  cenno;  di  quello  di  Diche,  cosi  bello 
in  Arato,  e  riferito  dal  Pontano  in  una  elegia  dell'amor  coniugale  (Car- 
mina, li,  p.  137),  qu.ilcli.'  riflesso  appena  là  dove  è  detto  che  la  figlia  di 
Mercurio  errava  fra  le  genti  diffondendovi  le  sue  dottrine. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  283 

sarebbe  nata  dall'adulterio  di  Isea  e  del  messaggero  degli 
dèi.  Il  quale  avrebbe  avuto  gran  cura  della  figlia,  ammaestran- 
dola in  ogni  sorta  di  arti  e  di  scienze  e  soprattutto  nella  mu- 
sica e  nell'  astronomia  :  dottrine  che  ella  diffuse  poi  fra  gli 
uomini.  Onde  sotto  il  dominio  di  lei  sorsero  nella  società  ci- 
vile i  teatri  e  le  orchestre, 

Intonuitque  foro  eloquiura,  laetumque  theatris 

Aurea  peusilibus  dift'udit  tybia  carmen, 

Et  Musat)  insolitos  sonuere  ad  pulpita  cantus  ;  l 

e  i  primi  astrologi  determinarono  le  leggi  della  sfera, 

Sìdera  et  ipsa  novo  paulatim  cognita  sensu 
In  numerosque  redacta  suos,  omnisque  locorum 
Fortuna  et  certi  signata  potentia  fati.2 

Assalita  dalla  brutalità  d'un  cacciatore,  la  Vergine  sarebbe 
poi  stata  dal  padre  trasportata  nel  cielo.  Dal  quale  continua 
a  piovere  il  suo  influsso  buono  per  gentilezza  e  leggiadria, 
cattivo  per  mollezza  e  soverchia  eleganza.  Da  questi  mali, 
ahimè!  è  minacciato  Lucio,  il  figlio  del  poeta,  che  proprio  il 
sesto  segno  ebbe  nel  suo  oroscopo. 

Segue  alla  Vergine  la  Libra,  la  quale  non  avea  favola 
presso  gli  antichi,  per  colpa  dell'origine  sua.  Essa  infatti  era 
nata  tardi,  per  lo  sdoppiamento  dello  Scorpione,  le  cui  chele 
distaccate  dal  capo  s'eran  mutate  nei  piatti  d'una  bilancia.3 
Aveva  bensì  un  influsso,  che  già  Manilio  sapeva  determi- 
nare desumendolo  da  certi  dati  astronomici  ed  astrologici, 
come  la  forma  della  costellazione,  1*  equinozio  d' autunno,  il 
domicilio  settembrino  di  Venere,  la  vicinanza  di  Astrea-Giu- 
stizia.4  Anche  il  Pontano  s'attiene  all'opinione  del  poeta  an- 
tico, onde  ci  parla  qui  di  rettitudine  nei  giudizi,  di  equa 
ripartizione  dei  beni,  e  dei  loro  contrari.  Ma  all'influsso  egli 
aggiunge  una  favola,  che  costruisce  con  gli  elementi  stessi 
di  quello.  Narra  in  essa  di  Venere,  la  quale  volle  che  i  fiori 
della  sua  prima  casa  (Toro)  maturassero  in  frutti   nella  se- 

1  Urania,  II,  v.  807-809. 

»  Urania,  li,  v.  815-817. 

3  A.  Bouché-Leclrbcq,  op.  cit.,  p.  142. 

*  Minili  Astron.,  IV,  v.  203-216. 


284  CAPITOLO  QUINTO 

conda,  onde  si  recò  dal  vecchio  Autunno,  padrone  dei  più 
begli  orti  e  giardini,  ed  ottenne  da  lui  ricchissimi  <l<»ui  ipe- 
cialinentc  di  uva.  Dei  qoali  fece  quindi  parte  agli  dèi,  accorsi 
a  comprare  i  preziosi  grappoli,  che  Pomezia  pesava  su  aurei 
bilancia.  Questa,  si  capisce,  fu  poi  da  Giove  tramutata  in  aste- 
rismo. E  di  lassù  infuse  negli  uomini  della  settima  età  zodia- 
cale, insieme  con  un  più  severo  sentimento  della  giustizia  e 
l' istituzione  dei  tribunali,  anche  la  gioia  bacchica,  e  spesso 
afrodisiaca,  della  vendemmia,  co'  suoi  canti,  con  le  sue  feste, 
con  le  sue  danze. 

Ben  diverso  da  questo  si  può  dir  l'influsso  dello  Scor- 
pione, il  quale,  per  esser  casa  di  Marte,  genera  violenza,  e 
per  sua  propria  natura  —  onde  deriva  una  favola,  di  poca 
importanza  —  è  instigator  di  frodi  e  di  venefici.  '  Con  esso 
gli  uomini  entrano  in  una  età  che  potrebbe  dirsi  del  ferro,  e 
s'insidiano  a  vicenda  e  adoperano  a  scopi  iniqui  l'ingegno. 
Onde  provvidenziale  sorse  nel  periodo  seguente  la  costellazione 
del  Sagittario,  cioè  di  Chirone,  domicilio  di  Giove,  colla 
sua  azione  serenatrice.2  La  quale  si  manifestò  in  modo  cu- 
rioso: nacquero  cioè,  per  opera  sua,  in  mezzo  alla  malvagità 
universale,  alcuni  saggi  dotati  della  doppia  facoltà  di  medici 
e  di  poeti  —  le  due  qualità  che  la  favola  attribuisce  appunto 
al  divino  centauro  —  e  predicarono  il  bene  e  guarirono  ad 
un  tempo  i  mali  fisici  e  morali  del  prossimo  loro.  Né  tale  in- 
flusso benefico  cessò  da  quel  tempo,  come  non  sparve  del  tutti» 
l'ingiustizia  nel  mondo,  ma  di  tali  sapienti  se  n'ebbero  in 
ogni  secolo:  ebbe  Omero  la  Grecia,  e  l'Italia  Virgilio.  Il  cui 
elogio  molto  opportunamente  serve  al  Pontano  come  di  chiusa 
al  secondo  libro  del  poema. 

In  capo  al  terzo,  dopo  qualche  nuovo  cenno  generale  in- 
torno alla  distribuzione  delle  stagioni  nel  circolo  zodiacale, 
la  rassegna  è  ripresa  col  Capricorno,  anzi  col  Capricorno  e 

1  Questo  secondi»  aspetto  dell'  influsso  dello  scorpione,  e  la  rispettiva 

età  zodiacale,  qui  appena  accennata,  non  derivano  da  Manilio,  ma  da  autori 
medioevali  :  v.  la  mia  nota  su  La  coda  di  Oerione,  in  Gior.  stor.,  XLI,  p.  87. 
*  Notisi  che  dell'  influsso  equino  del  Sagittario  secondo  Manilio  (Astron., 
IV,  v.  230-242),  il  l'ontano  non  si  vale  qui,  ma  altrove,  a  proposito  della 
costellazione  extra-zodiacale  del  Centauro  (Urania,  III,  v.  1211-1 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  285 

con  l'Aquario,  le  due  costellazioni  che  ospitano  il  freddo 
Saturno,  nel  mezzo  dei  rigori  invernali.  La  loro  favola,  doppia 
solo  in  apparenza,  narra  della  lotta  del  cielo  coi  Giganti,  nella 
quale  il  vecchio  iddio  avrebbe  avuto  come  ministri  di  guerra 
un  mostro  in  forma  di  capra,  ed  un  giovane  eroe,  che  muni  la 
rocca  celeste  di  canali  e  fossati.  Per  opera  del  primo  sarebbe 
perito  Ceo,  che  colla  sua  caduta  in  mare  avrebbe  dato  origine 
alle  tremende  burrasche,  che  ogni  anno  si  ripetono  nel  mese 
di  dicembre;1  per  il  valor  del  secondo  sarebber  precipitati 
dall'alto  Alfeste  e  Minante,  trasformati  in  quel  frangente  da 
Giove  l'uno  nella  catena  nevosa  delle  Alpi,  e  l'altro  nel  corso 
del  Nilo,  dalla  famosa  inondazione  periodica.  L'allegoria  di 
questa  favola  non  può  esser  che  fisica,  quantunque  questa 
volta  il  poeta,  anche  riguardo  all'influsso  storico  dei  due  aste- 
rismi, non  sia  molto  chiaro.  Si  direbbe  che  la  cura  letteraria 
da  lui  messa  nel  racconto  mitologico,  gli  abbia  fatto  perder 
di  vista  un  poco  il  disegno  primitivo,  a  cui  non  saprà  riacco- 
starsi neppure  trattando  dei  Pesci. 

I  Pesci  son  casa  di  Giove,  ma  con  essi  ha  pur  relazione 
strettissima  la  favola  greca  di  Venere  anadiomene,  o  caldea 
della  nascita  della  diva  nell'Eufrate,  onde  il  Pontano  potè 
fondere  i  due  elementi  in  un  unico  mito,  alquanto  complesso. 
Nel  quale  si  finge  che  i  due  animali  marini  parlino  l'un  dopo 
l'altro:  prima  quello  boreale,  per  esporre  gli  effetti  della  dea 
nata  dalle  spume  del  mare  sui  popoli  dell'Oriente;  quindi 
l'occidentale,  per  descrivere  le  feste  che  a  lei  ed  a  Giove  fe- 
cero gli  abitanti  dell'Esperia.  Il  racconto  è  lungo  e  smagliante, 
e  termina  con  una  speciale  considerazione  intorno  al  Nodo, 
cioè  a  quella  striscia  che  lega  per  le  code  fra  loro  i  due  Pesci, 
e  per  un  certo  tratto  fronteggia  il  capo  dell'Ariete  cosi  da 
vicino  che  quasi  lo  sfiora.  Il  Nodo  non  ha  influsso,  ma  sol- 
tanto un  brevissimo  mito  o  allegoria  astronomica  del  legame 
d'unione  fra  l'ultimo  ed  il  primo  dei  segni,  che  tratta  perciò 
di  Giove  e  di  Marte,  rispettivamente  signori  delle  due  estreme 
costellazioni  dello  Zodiaco. 

1  Per  la  fonte  non  del  mito,  ma  della  notizia  fisica,  v.  ciò  che  s'è  detto 
di  Arato  e  di  Oermanico,  a  p.  28. 


286  CAPITOLO  QUINTO 


IV. 


Manilio  nell'ultimo  libro  del  suo  poema  espone  l'influsso 
di  33  costellazioni  non  zodiacali,  disposte  in  un  certo  ordine, 
qua  procedendo  rapidamente,  là  indugiandosi  di  più,  secondo 
la  materia  or  dilettevole  e  poetica  ed  ora  nudamente  dottri- 
nale.1 Il  Pontano,  dal  v.  508  del  libro  secondo  al  v.  629  del 
quarto,  cioè  per  buona  parte  dell'  Urania,  discorre  delle  stesse 
cose,  nello  stesso  ordine,  col  medesimo  metodo,  or  trattenen- 
dosi in  larghe  e  belle  descrizioni,  or  seguendo  la  guida  con 
passo  più  frettoloso.  Di  ciascuno  degli  asterismi  egli  ha  cura 
di  narrarci  la  favola,  spesso  allegorica;  ma  il  complesso  dei 
miti  non  costituisce  un  ciclo  omogeneo.  E  di  ciascun  influsso, 
con  alquanta  monotonia,  ci  espone  i  due  estremi,  considerando 
l' oriente  e  V occaso  della  costellazione  onde  emana;   ma  la 
serie  degl'influssi  non  è  collegata  né  distribuita  secondo  un 
criterio  generale,  sociale  o  storico,  come  accadde  per  lo  Zo- 
diaco. II  che  non  dipende  però  da  insufficienza  dello  scrittore, 
ma  dallo  stesso  principio  astrologico  da  lui  enunciato,  secondo 
il  quale  il  mondo,  creato  nell'età  planetaria,  perfezionato  per 
gradi  nell'età  zodiacale,  continua  ad  essere  governato  e  dai 
pianeti  e  dai  segni  e  dalle  altre  costellazioni,  promiscuamente. 
Né  possiamo  negare  che  da  questa  selva  d'influenze,  infinita 
mente  mutevoli  e  curiose,  il  poeta  abbia  saputo  trarre,  con 
buono  effetto  d'insieme,  il  quadro  della  vita  molteplice  della 
umanità  a  lui  contemporanea.  E  l'abbia  variato  qua  e  là  di 
episodi,  quasi   scene  singolari  nella  più   vasta  scena  univer- 
sale, con  arte  squisita,  valendosi  di  fonti  diverse  e  spesso  — 
metodo  degno  di  nota  —  attingendo  l'ispirazione  dalla   pre- 
sente realtà.  Onde  nella  lettura  di  questa  parte  del  poema, 
se  noi  sapessimo  prescindere  dalla  vacuità  fondamentale  del 
principio  astrologico,  potremmo  anche  ai  nostri  tempi  provare 
non  piccolo  diletto;  allo  stesso  modo  che  noi  continuiamo  con 

1  Cfr.  p.  89. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  287 

leggero  sforzo  di  astrazione  ad  ammirare,  per  la  sola  eterna 
virtù  della  poesia,  V Orlando  furioso. 

Ho  detto  dunque  che  Manilio  è  la  fonte  principale  di  questa 
parte  dell'  Urania:  aggiungo  che  molte  delle  più  belle  pagine 
di  essa  hanno  il  loro  motivo  in  qualche  verso  del  poeta  latino, 
e  ne  son  come  lo  sviluppo,  ove  il  pensiero  o  il  racconto  o  l'im- 
magine ricevon  dall'arte  più  perfetta  di  Gioviano  vita  e  co- 
lori più  intensi.  E  cito  a  riprova  alcuni  esempì,  non  eccezio- 
nali né  rari  :  la  descrizione  del  saltatore  del  circo,1  quella  del 
corridore,2  quella  più  estesa  della  pesca  dei  tonni,3  e  cento 
altre.  Ma  ancora  migliori  sono  i  racconti  nuovi,  nei  quali  l'in- 
dole del  poeta,  per  la  libertà  della  scelta,  si  manifesta  spon- 
tanea e  lascia  impronta  più  tenace,  come  in  quel  tremendo 
quadro  dell'uomo  colpito  dal  sinistro  influsso  di  Procione, 
che  muor  di  rabbia,  assetato,  vicino  alla  fontana  donde  lo 
scaccia  una  implacabile  Furia  : 

Forsitan  e  morsu  rabidi  canis  actaque  venis 
Dira  lues  aget  in  furias  illuni  ora  liquenti 
Admotantem  arani,  sitientem,  nndasque  petentera. 
Excutiens  torrem  ambustum  atque  e  gm-gite  Erinnys 
Jam  medio  caput  attollens  fugat  horrida,  crinemque 
Anguineum  intendit.  Revocat  sitientia  ab  undis 
Ora  miser  faciem  avertens,  similisque  latranti 
Dat  sese  retro  et  spumas  ciet  ater  ad  auras. 
Hinc  rursum,  stimulante  siti,  convertit  ad  amnem 
Approperans,  dubiusque  gradu  atque  enectus  ab  aestu. 
infestans  rursum  admota  face  turbat  Erinnys 
Attonitum,  ac  nigras  vocat  ex  Acheronte  sorores  ; 
Donec  eum  rabie  absumptum  vis  tetra  veneni 
Vicerit,  et  miseros  solvat  cum  corpore  sensus, 
Quos  Procyon  Martisque  furens  incenderit  aestus. 4 

Io  non  credo  che  alcun  altro  poeta  del  Quattrocento  possa 
vantare  un  brano  più  efficace  di  questo,  nel  quale  la  verità 
della  descrizione  è  superata  soltanto  dalla  purezza  ed  agilità 

1  Urania,  III,  v.  609-616,  e  Manili  Astron.,  IV,  v.  232. 

2  Urania,  III,  v.  866-857,  e  Manili  Astron.,  V,  v.  160. 

3  Urania,  IV,  v.  420-468,  e  Manili  Astron.,  V,  v.  664-676. 
*  Urania,  III,  v.  992-1012. 


288  CAPITOLO  QUINTO 

della  lingua  e  del  verso,  che  nessuno  direbbe  usciti  da  penna 
moderna.  Eppure  non  mai  come  in  questo  ed  in  altri  passi 
consimili,  il  Pontano  si  affranca  dal  solito  modello  antico,  e  li- 
bero ed  ispirato  raggiunge,  con  le  proprie  forze,  V  eccellenza 
dell'arte.  Si  leggano  ancora  questi  altri  versi,  a  proposito  del- 
l'influsso delle  Pleiadi: 

Sin  felix  simili  infelixque  aspexerit  astrum, 
Ille  inter  cyathos  positus  pateramque  coronans 
Decumbet  leni  somno  vinoqne  sepultus, 
Purpureove  toro  recubans  et  virginis  arcto 
Fusus  in  amplexu,  dum  mollia  gaudia  carpit, 
Et  venus  ex  irais  stillat  resoluta  medullis, 
Illius  in  roseis  linquet  sua  fata  labellis, 
Et  mors  ipsa  quidem  placidae  cognata  quieti.  ' 

Chi,  al  cospetto  di  questa  scena,  non  corre  col  pensiero  al  vo- 
lume delle  liriche  pontaniane,  nelle  quali  più  direttamente  si 
esplica  il  temperamento  dell'autore?  Chi  non  pensa  alle  Baie 
dove  ogni  cosa  risente  di  quel  calore  sensuale,  ond'era  ac- 
ceso il  poeta?  Chi  non  ricorda  le  elegie  dell'amor  coi 
gale,  dove  i  sentimenti  famigliari  più  gentili  si  mescolano, 
senza  contrasto,  ai  piaceri  del  senso?  E  soprattutto  chi  non 
rammenta  i  Tumuli,  nei  quali,  per  quel  concetto  caratteristico 
che  Gioviano  avea  dell'oltretomba  —  non  dimentichiamo  ciò 
che  s'è  detto  intorno  all'anima,  nel  capitolo  precedente  —  la 
morte  stessa  si  veste  dei  colori  dell'amore,  in  quanto  è  un 
rimpianto  di  ciò  che  in  vita  s'è  bramato  e  goduto? 

Dopo  tali  considerazioni  non  ci  meraviglieremo  se  in  pa- 
recchi dei  più  squisiti  episodi  di  questa  parte  dell'  Urania 
compaiono  i  nomi  delle  persone  e  delle  cose  amate  dallo  scrit- 
tore. Qui  vediamo  infatti  la  buona  Adriana,2  qui  le  figliuole,3 
qui  persino  il  fido  cane  Asterione;4  qui  — chi  ne  poteva  du- 
bitare? —  ci  si  fa  innanzi  anche  Stella. 


»  Urania,  III,  v.  813-820. 
2  Urania,  III,  v.  1170-1174. 
s  Urania,  III,  v.  1206-1210. 

*  Urania,  III,  v.  964-987.  Cfr.  puro  De  Amore  conia;}.,  II,  1,  v.  27-48; 
e  De  immanitate,  ed.  aldina,  I,  p.  322. 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  289 

Siamo  nella  costellazione  di  Cassiopea,  la  favolosa  re- 
gina che  vantò  la  propria  bellezza  come  superiore  alla  grazia 
delle  stesse  Nereidi:  l'influsso  suo  perciò  largisce  ai  nascenti 
il  gusto  dell'eleganza,  specialmente  negli  ornamenti  della  per- 
sona. Onde  la  giovane  sposa,  che  l' ebbe  in  oroscopo,  attenderà 
con  molta  cura  alla  toeletta,  alla  quale  il  poeta,  con  la  solita 
maestria,  c'invita  ad  assistere: 

Tmpriinis  matura  viro  fiorente  inventa 
Nupta  tnos  laeta  expectans  deposcit  honores, 
Illusam  baccis  chlamydem  illustremque  coronam 
Coeruleo  fulgore  et  purpureis  hyacinthis, 
Ardet  et  in  mediis  quae  pendula  gemma  papillis. 
Ipsa  manu  ligat  ad  frontem  studiosa  capillos, 
Et  suspendit  acu  tenui  velamine  vittam; 
Illa  volat,  volitansque  leves  exsuscitat  auras; 
Ora  nitent,  ebur  extersis  in  dentibus  albet, 
Pnrpuraque  in  roseis  effulget  grata  labellis, 
Perque  genas  lascivit  Amor,  qui  spicula  torquens 
Incensum  ferus  ex  oculis  iaculatus  et  ignem, 
Vulnerat  incautum  insidians  uritque  maritum: 
Gaudia  tum  tacito  volvit  sub  pectore  virgo.  ' 

Stella  nacque  appunto  quando  Cassiopea  splendeva  in  oriente, 
Stella  dunque  ha  il  dono  divino  della  seduzione.  Del  quale 
ben  s'accorse  il  poeta  quando,  durante  la  guerra  di  Ferrara, 
cioè  intorno  al  1483,  inseguendo  con  Alfonso  di  Calabria  i  Ve- 
neziani, capitò  ad  Argenta,  e  fu  vinto  dai  vezzi  della  bella 
fanciulla.  Egli,  già  maturo,  era  uomo  senza  scrupoli  e  senza 
riguardi  verso  la  moglie  lontana:  essa,  a  quanto  pare,  era  poco 
gelosa  del  suo  onore  :  certo  è  che  ben  presto  strinsero  una  rela- 
zione intima,  con  grande  invidia  degli  altri  cortigiani  del  duca  : 

uruntur  iuvenesque  senesque, 
Deficiunt  Satyri  exanimes,  ipso  aestuat  amne 
Eridanus,  tremulae  ludunt  per  coerula  flammae. 
At  vates  nymphae  carus  sua  pectore  versat  > 

Gaudia  sub  tacito,  atque  immoto  lumino  perstat, 
Deliciasque  animo  repentens  memor  ipse  futuras, 
Invideat  nec  semideis  et  temnat  amantes.  * 

»  Urania,  IV,  v.  148-166. 

*  Urania,  IV,  v.  167-178.  Che  in  quel  semideis  dell'ultimo  verso  ci  sia 
una  scherzosa  allusione  al  duca  Alfonso  ? 

Soldati  vj 


290  CAPITOLO  QUINTO 

Ahimè!  che  le  gioie  del  primo  incontro,  dopo  una  serie  di  pia- 
ceri e  di  dolori  non  belli,  narrati  in  bellissimi  versi,  finirono 
con  un  distacco  ben  triste  !  ' 

Il  nome  di  Cassiopea  mi  fa  intanto  pensare  ad  un  altro 
nome  e  ad  un  altro  episodio,  il  quale  per  parecchi  riguardi. 
ma  specialmente  per  ragioni  artistiche,  è  degno  di  nota  :  al- 
ludo alla  favola  di  Andromeda,  la  quale  è  una  nuova  ma- 
nifestazione del  carattere  erotico  della  poesia  pontaniana.  Qui 
l'autore  avea  davanti  a  sé  due  modelli  diretti.  Manilio  e  Ovidio; 
ed  uno  indiretto,  Valerio  Fiacco,  il  quale  nella  sua  Esione 
liberata  da  Ercole  rappresentò  sostanzialmente  il  medesimo 
fatto.  Dal  primo  Gioviano  prese  l'influsso,  che  è  foriero  di  pri- 
gionia e  di  dolore;  ma  non  attinse  quasi  nulla  per  la  narra- 
zione.8 Infatti  mal  si  sarebbe  adattata  al  suo  poema  quella 
spiritualità,  che  indusse  Manilio  a  vestire  d'un  candido  velo 
la  bella  incatenata  e  a  coprirla  quasi  dell'ombra,  che  su  di 
lei  gettan  le  ali  delle  alcioni  piangenti  e  volteggianti  intorno 
allo  scoglio.  A  disagio  si  sarebbe  trovata  nell'Urania  un'An- 
dromeda tutta  sentimento,  la  quale  nel  supremo  pericolo  non 
tanto  teme  per  sé,  quanto  per  il  salvatore  che  l'ha  innamo- 


1  Intorno  agli  amori  del  Pontano  con  Stella  sono  erronee  le  notizie  date 
da  C.  M.  Tallarioo,  op.  cit.,  I,  p.  97  e  100,  II,  p.  677,  e  debbono  nuore  pre- 
cisate e  in  parte  corrette  quelle  di  V.  Rossi,  Il  Quattrocento,  p.  340.  Keeo 
quel  ch'io  ho  ricavato  dalle  opere  stesse  del  poeta,  senza  estendere  oltre  le 
indagini  non  necessarie  al  mio  scopo.  Che  il  Pontano  abbia  conosciuta  Stella 
(nome  poetico?)  nel  ferrarese,  risulta  da  due  passi  dell'  Urania,  IV,  v.  157-1 7::, 
e  V,  v.  284-334,  e  da  parecchie  poesie  de\V  Eridano.  Che  l'incontro  sia  avve- 
nuto vivente  Adriana,  prima  del  1490,.  è  provato  dal  fatto  che  i  «lue  ; 
citati  appartengono  alla  prima  redazione  del  poema:  che  poi  la  data  più 
esatta  sia  da  ritenersi  il  1483,  è  una  mia  ipotesi  fondata  sulla  presenza  di 
ciò viano  alla  battaglia  di  Argenta,  avvenuta  in  quell'anno  (v.  C.  R<» 
dbl  Turco,  Gio.  Fontano,  in  Rivista  universale,  Firenze,  Nov.  1877,  p.  484). 
Forse  le  prime  elegie  dell'  lùiduno  furon  composte  dal  poeta  innamorato 
durante  la  guerra  e  le  trattative  che  precedettero  la  pace  ili  Bagnolo  I 
0  subito,  o  più  probabilmente  dopo  la  morte  della  moglie,  il  l'ontano  ]h>rtó 
la  concubina  a  Napoli:  cosi  almeno  ci  fan  credere  alcune  altre  elegie,  dova 
si  parla  di  vera  e  propria  convivenza.  Quando  nacque,  per  morir  quasi  su- 
bito, il  figlio?  Certo  è  che  un  bel  giorno  Stella,  ancor  piovane,  piantò  il 
vecchio  amante  e  se  ne  tornò  al  suo  paese,  seguita  dalle  imprecazioni  puro 
decorose  di  lui  (Iridano,  II,  26,  v.  17-34). 

«  Minili  Astron.,  V,  v.  538-681. 


I  POEMETTI  DEL  PONT  ANO  291 

rata,  «  animoque  magia  quam  corpore  pendet  ».  No,  questo 
non  era  l'amore  del  Pontano,  il  quale  invece  si  rivolse  qui 
alle  Metamorfosi,  dove  trovò  nella  donzella  e  nell'  eroe  una 
coppia  sensuale. 1  Grida,  in  Ovidio,  Perseo,  non  appena  scorge 
le  nude  forme  della  fanciulla,  bianche,  marmoree,  sullo  sfondo 
della  rupe:  «  non  istis  digna  catenis,  Sed  quibus  inter  se  cu- 
pidi iunguntur  amantes  !  »  E  nell'  Urania,  terminato  il  com- 
battimento, egli  8' avvicina  cupidamente  alla  ragazza,  in  cui 
alla  gioia  della  liberazione  subito  sottentra  un  turbamento 
leggero  dello  spirito  ed  il  risveglio  dell'amore  nelle  vene: 

Illa  din  cunctata  silet  ;  sed,  nomine  Persei 
Audito,  paulatim  oculos  ad  verba  loquentis 
Sustulit,  et  tacitus  vigor  ad  praecordia  serpit; 
Quale  sub  aestivum  Solem,  sitientibus  haerbis, 
Languescit  moriens  florum  decus,  acta  repente 
It  coelo  pluvia  et  largì  de  nubìbus  himbres 
Irrorant,  redit  ille  vigor,  redit  ille  colorum 
Mollis  honos,  spirant  revocatis  floribus  arva, 
Et  laetae  cultis  violae  renovantur  in  hortis.2 

L' istante  e  favorevole  alle  audacie,  né  l' eroe  se  lo  lascia 
sfuggire: 

Iniecitque  manum  collo  ac  sua  gaudia  pandit!3 

Derivano  dalla  Esione  di  Valerio  alcune  delle  fasi  della  bat- 
taglia e  specialmente  l'armi  scelte  per  uccidere  il  mostro.4 
Il  leggero  volatore  si  serve  infatti,  presso  il  Pontano,  d'un 
gran  masso,  che  però  assai  meglio  si  adattava  alle  robuste 
braccia  di  Ercole:  si  serve  pure  —  per  facile  innovazione  del 
poeta,  o  per  il  concorso  di  altre  fonti  secondarie  ?  —  del  capo 
di  Medusa,  oude  la  belva  è  impietrata.8 


1  Metam.,  IV,  v.  663-752. 

2  Urania,  IV,  v.  293-301.  La  stessa  similitudine  ricompare  in  una  delle 
più  appassionate  elegie  per  Stella,  in  Eridano,  I,  13. 

3  Urania,  IV,  v.  322. 

*  Valbrii  Flacci  Argon.,  II,  v.  496-649. 

5  L' idea  di  quest'  ultimo  particolare  della  Gorgone  può  essere  stata  sug- 
gerita al  Nostro  da  due  passi  di  Luciano,  ricordati  da  Pio  Rajna,  Le  fonti 
dell'  Orlando,  2»  ed.,  p.  203  ;  ma  può  anche  essergli  venuta  in  seguito  alla 
lettura  della  seconda  parte  del  racconto  ovidiano,  proprio  come  lascia  so- 


292  CAPITOLO  QUINTO 

Degli  altri  episodi  della  terza  parte  dell'  Franta,  uno  an- 
cora, fra  tutti  notevolissimo,  richiede  un  breve  commento.  Si 
tratta  dell'asterismo  del  Pesce  australe,  che,  mancando 
della  cooperazione  astrologica  dei  pianeti,  infonde,  a  d ine- 
renza dei  suoi  fratelli  dello  Zodiaco,  un  poro  e  semplice  in- 
flusso marino.  Dice  infatti  Manilio  che  chi  nasce  con  quello 
in  oroscopo  «  litoribus  ripisve  suos  circumferet  annos»;1  né 
sentenzia  altrimenti  il  Pontano.  Il  quale  però  invece  di  indù 
giarsi  nella  esposizione  teorica,  raggruppa  e  riassume  tutto  il 
suo  pensiero  in  una  favola,  non  attinta  —  e  qui  sta  la  sua 
importanza  —  a  nessuno  degli  autori  classici,  ma  alla  tradi- 
zione popolare:  la  favola  di  Cola  Pesce. 

È  noto,  dopo  il  bello  studio  del  Pitré,  come  questa  leg- 
genda d'origine  antica  —  pare  si  tratti  nientemeno  che  del 
culto  di  Nettuno,  cristianizzato  nel  patrocinio  di  San  Nicola 
di  Bari2  —  era  viva  ai  tempi  di  Gioviano  non  in  Sicilia  sol- 
tanto, dove  anche  oggi  è  diffusa,  ma  nel  continente  e  special- 
mente a  Napoli.  E  raccontava,  secondo  una  delle  versioni  più 
accreditate,  d'un  giovane  catanese,  chiamato  Cola,  il  quale 
fin  dalla  prima  gioventù  ebbe  una  predilezione  cosi  curiosa 
per  il  mare,  che  fini  per  spogliarsi  quasi  del  tutto  dell'aspetto 
umano  e  vivere  nelle  onde.  Egli  abitava  per  solito  nello  Stretto, 
ed  era  spettacolo  meraviglioso  agli  abitanti  delle  coste.  Ora 
avvenne  che  a  Messina  capitasse  Federico  di  Svevia,  al  (inalo 
naturalmente  fu  presentato  lo  strano  nuotatore.  Il  monarca  lo 
ricevette  durante  una  festa,  bandita  al  Faro,  sulla  riva  <lol 
mare,  e  volle  aver  da  lui  un  saggio  della  sua  valentia.  Gotto 
pertanto  nelle  acque  una  coppa  d'oro,  che  s'immerse  proprio 


spettar  por  l'Ariosto  l'illustre  critico  di  Firenze.  Quanto  poi  all'Ariosto,  mi 
par  probàbile  ohe  ftbbbl  attinto  all'  Uremia,  clic  certo  gli  era  nota  e  i 
più  famigliare  che  non  i  passi  lucianeschi  sopra  citati. 

1  Maniu  Astron.,  V,  v.  398. 

1  o.  Pitré,  La  leggenda  di  Cola  Pesce,  in  Bibì.  delle  tradizioni  popo- 
lari siciliane,  voi.  XXII,  Torino,  1904,  p.  89  sgg.  ;  dove  però  son  da  tare 
due  correzioni  :  la  prima,  clic  anche  per  il  Pontano  Cola  è  catane.se  e  non 
messinese,  come  ivi  si  afferma  a  p.  13  e  30;  la  seconda  che  la  forma  ('ohm 
non  e  già  una  variazione  del  nome  dell'eroe  (Colano),  ma  semplicemente 
l'accusativo  della  forma  tradizionale. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  293 

nel  gorgo,  (love  Cariddi  riposa  in  agguato:  dietro  la  coppa, 
si  lanciò  Cola.  Ma,  ahimè!  l'incauto  non  potè  più  risalire  a 
galla,  che  l'orribile  mostro  lo  fece  sua  preda.  —  Questa  la 
leggenda,  la  quale,  come  ben  fu  osservato,  è  il  prodotto  di  due 
elementi,  uno  fondamentale  ed  originario,  cioè  la  credenza 
nell'uomo  marino;  l'altro  accessorio,  cioè  la  tragica  storia 
del  ricupero  della  coppa.  Ad  essi  il  Pontano  nel  suo  racconto, 
che  non  si  scosta  dalla  tradizione,  dà  diversa  importanza, 
e  non  a  caso.  Accetta  e  svolge  il  secondo,  per  dare  al  suo 
episodio  un  interesse  come  di  novella  o  di  dramma,  ma  non 
se  ne  compiace;  si  indugia  per  contro  sul  primo,  nel  quale 
trova  ad  un  tempo  le  ragioni  e  gli  effetti  dell'influsso  della 
costellazione  del  Pesce:  le  ragioni,  perché  del  favoloso  eroe 
egli  fa,  con  classica  metamorfosi,  l'origine  e  la  figura,  per  cosi 
dire,  dell'  asterismo  ;  gli  effetti,  perché  narrando  di  Cola  in- 
tende mostrare  il  più  perfetto  degli  esempi  che  provino  le  sue 
asserzioni.  Giacché  il  Pontano  non  negava  fede  alla  parte 
essenziale  della  leggenda,  cioè  alla  esistenza  storica  del  mostro 
catanese,  che  anzi  l'avrebbe  creduta  possibile,  per  ragioni 
astrologiche,  quand'anche  l'autorità  della  voce  popolare  non 
l' avesse  a  ciò  indotto. 1  Non  ci  stupiremo  adunque  se  i  mi- 
gliori e  più  meditati  versi  di  questo  brano  dell'  Urania  son 
quelli,  nei  quali  si  descrivono  le  singolari  abitudini  di  Cola, 
e  come  egli  si  mostrasse  ai  naviganti  in  alto  mare  e  li  sal- 
vaguardasse co' suoi  consigli  dalle  tempeste: 

Saepe  etiam  raediis  sub  fluctibus  alta  secantem 
Obstupuere  virum  nautae,  quibus  ipse,  reposto 
Mox  scopulo  madidum  oxsiccans  sub  sole  capillum, 
Horrentem  caeco  signat  sub  marmore  cautem, 
Declinent  qua  arte  et  cumulos  variantis  arenae  ; 
Quin  etiam  maris  occultos  instare  tumultus, 
Incumbant  quibus  aut  coeli  de  partibus  Euri, 
Quaque  die  cogant  atro  se  turbine  nubes, 
Immineantque  bieines  pelago,  et  nox  horreat  umbra, 
Neptunnique  minas  inceptaque  tristia  monstrat. 
Hinc  illi  vela  in  portum  expediuntque  rudentes, 
Ac  iuveni  ingentem  Baccho  cratera  coronant. 

1  i'u.\ii\i  1)>   immanitate,  ed.  aldina,  1,  p.  818b. 


294  CAPITOLO  QUINTO 

llle  autem,  gratam  ut  cepit  per  membra  quieterà 
Stratus  hurai,  pelagoque  atrox  desaevit  et  Auster, 
Non  mora,  spumantem  in  laticem  se  deiicit  alto 
E  saxo  relegens  pontum,  vadaque  invia  tentat  * 

Ma  basti  anche  di  Cola  e  si  concluda  intorno  a  questa 
parte  del  poema,  a  commentare  la  quale,  toccandone  tutti  i 
luoghi  interessanti  per  l'una  o  per  l'altra  ragione,  non  si 
finirebbe  più;  e  si  rivolga  uno  sguardo  comprensivo  a  tutto 
il  quadro  delle  influenze  onde  la  Terra  è  fatalmente  governata 
dal  cielo,  e  da  cui  nasce  quaggiù  la  vita  sociale.  Si  concluda 
seguendo  l'autore,  che  a  questo  punto  si  sofferma  anch' egli 
a  meditare  sulle  gravi  cose  che  ha  dette,  e  si  domanda,  fra 
l'altro,  come  mai  si  possa  presumere  d'indovinare  il  futuro, 
quando  cosi  fitte  e  varie  e  improvvise  son  le  miscele  delle 
azioni  stellari.  Qui  il  Pontano  è  preso  dallo  stesso  pensiero, 
che  gli  suggerì  quella  teoria  astrologica  prudente,  di  cui  ab- 
biam  fatto  menzione  a  suo  luogo:2  egli  afferma  cioè  la  realtà 
dell'influsso,  e  perciò  la  sicurezza  dell'astrologia  iu  quanto 
sa  e  vuole  determinare  i  temperamenti  fisici  e  morali  degl'in- 
dividui; ma  pone  sull'avviso  coloro  che  troppo  ciecamente 
trascurano  di  tener  conto  degli  agenti  modificatori,  e  vorreb- 
bero che  si  proclamasse  scientifica  anche  quella  parte  dell'astro- 
logia, che  è  semplicemente  congetturale: 

Saepe  tamen  vis  firma  animi,  resque  extera,  lexve 
Alternant  fata,  aut  genio  adversatur  egestas  : 
Stat  fatum  tamen,  et  tato  vis  insita  perstat. 3 

L'osservazione  giustissima  del  Gothein,  che  il  Pontano  tra- 
sformi 1'  astrologia  giudiziaria  in  psicologia  astrologica,  ha 
dunque  anche  nell'  Urania  piena  conferma. 


»  Urania,  IV,  v.  628-688. 

2  Cfr.  p.  248. 

3  Urania,  IV,  v.  636-688. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  295 


V. 


In  origine,  come  abbiamo  veduto,  il  poema  pontaniano  con- 
stava di  soli  quattro  libri,  l'ultimo  dei  quali  conteneva,  oltre 
la  materia  che  siam  venuti  esponendo,  poche  centinaia  di 
versi,  dove  era  riassunta  quella  corografia,  che  Manilio  svolge 
ampiamente  dal  v.  585  al  710  del  quarto  libro  dell'opera  sua; 
e  terminava  col  lamento  per  la  morte  di  Lucia,  in  una  reda- 
zione molto  più  breve  della  definitiva.  Ma  venne,  come  sap- 
piamo, il  rifacimento  posteriore  al  1490,  quando  nella  mente 
del  poeta  sorse  l'idea  di  alleggerire  un  poco  la  esuberanza 
delle  ultime  parti,  dando  nello  stesso  tempo  un  maggiore  svi- 
luppo alla  corografìa  sacrificata.  Nacque  in  questo  modo  il 
quinto  libro,  il  quale  però  risenti  un  poco  gli  effetti  della  for- 
mazione più  recente;  come  si  può  vedere  fin  dal  proemio,  gra- 
zioso e  tutto  nuovo,  ma  privo  in  apparenza  di  legami  col  ri- 
manente dell'opera,  si  che  leggendolo  ci  par  di  cominciare 
un  altro  poema. 

S'apre  questo  libro  con  una  triplice  invocazione  ad  Omero, 
a  Virgilio  ed  a  certe  divinità  naturali,  figlie  di  Febo  e  di  Tetide, 
che  il  poeta  chiama  le  Brezze.  Né  la  ragione  di  tal  principio  è 
diffìcile  a  scoprirsi.  Infatti  il  libro,  trattando  della  corografia 
astrologica,  è  in  realtà  un  viaggio  attraverso  le  varie  regioni 
del  mondo  :  ora  Omero  non  cantò  forse  gli  errori  di  Ulisse,  Vir- 
gilio quelli  di  Enea?  E  quanto  alle  Brezze,  cioè  a  quei  venterelli 
regolari  che  soffiano  sulle  spiagge  alternamente  fra  il  monte 
ed  il  mare,  non  sono  esse  il  refrigerio  dei  pellegrini  ?  '  In  si 
buona  compagnia  adunque  il  Nostro  si  mette  in  cammino  ;  e 

1  Urania,  V,  v.  21-26.  Pare  che  a  questa  sua  allegoria  mitologica  il 
Pontano  annettesse  un  certo  valore,  se  nella  lettura  del  poema  richiamava 
su  di  essa  l' attenzione  dei  discepoli.  Uno  dei  quali,  il  Borgia,  a  questo 
punto  annotava  sul  suo  esemplare:  €  Poeta  per  totum  orbem  terrarum  pe- 
regrinaturus,  et  quae  regio  cui  signo  ac  planetae  subiecta  si  t  docturus, 
\ ii ras  viatoriun  suavissitmini  lenimen  invocat,  quas  non  sine  physica  ra- 
tiime  Solfa  et  Tethyos  Alias  eflinxit  ».  Cfr.  Pontini  Carmina,  I,  p.  xxxvu;  e 
Meteore,  v.  b66-S'J^. 


296  CAPITOLO  QUINTO 

noi  lo  lascieremo  affaticarsi  per  conto  suo,  giacché  le  e 
ch'egli  vede  non  hanno  importanza  per  la  scienza,  e  ben  poco 
valore  per  l'arte.  Solo  una  osservazione  sarà  bene  non  dimen- 
ticare. Ed  è  questa:  che  mentre  Manilio  nella  rassegna  dei 
popoli  della  Terra  si  attiene  ad  un  criterio,  che  potremo  chiamar 
zodiacale,  Gioviano  adotta  invece  un  sistema  doppio,  planetario 
e  zodiacale  nel  medesimo  tempo.  Mi  spiego.  Egli  fa  delle  na- 
zioni dodici  gruppi,  a  ciascuno  dei  quali  assegna  come  patrono 
un  segno  ed  il  pianeta  che  vi  ha  il  proprio  domicilio,  dimo- 
doché l' influsso  riesce  alquanto  più  complesso.  Egli  è  dunque, 
rispetto  alle  sue  fonti,  almeno  in  parte,  originale?  Ahimè,  no! 
perché  non  fa  che  ricopiare  la  tavola  corografica  che  Tolomeo 
lasciò  disegnata  nel  Quadripartito,  e  che  possiamo,  se  ci  piace, 
consultare  anche  noi.1  E  la  ricopia,  purtroppo,  fedelmente, 
senza  integrarla  neppur  là  dove  essa  non  corrispondeva  più 
al  vero.  Come  mai  abbia  fatto,  per  esempio,  a  non  accorgersi 
che  la  distribuzione  dei  popoli  era,  specialmente  in  Europa, 
dopo  quattordici  secoli,  del  tutto  mutata,  io  non  riesco  a  oa> 
pire:  né  mi  so  spiegare  come  non  abbia  tenuto  il  minimo 
conto  delle  scoperte,  che  allora  mettevano  tanto  a  rumore  il 
campo  della  geografia  e  dei  commerci.2  Probabilmente  egli 
si  trovò  a  questo  rischio,  di  dovere,  cangiando  la  disposizione 
dei  pazienti  di  quaggiù,  cangiare  anche  la  teoria  degli  agenti 
di  lassù,  con  quale  pregiudizio  dell'infallibilità  astrologici 
facile  immaginare!  Perciò,  come  ho  detto,  lasciamo  qu 
inutile  trattazione,  e  passiamo  ad  altro,  o,  meglio,  ritorniamo 


1  La  tavola,  por  chi  volesse  divertirsi  a  conoscerla,  è  riprodotti 
meritata  da  A.  Botmat-LloutOQ,  op.  cit.,  p.  M-'< 

8  li'  ignoranza  strana  di  Bioviano  Delle  OOM  geografiche  si  rivela  pure, 
quantunque  in  gradò  meno  assoluto,  nelle  sue  opere  prosastiche.  Rilevate 
certe  notizie,  davvero  insudicienti,  contenute  nel  libro  XIV  De  rebus  coe- 
kstibus,  giustamente  esclama  0.  Duelli,  La  viia  e  i  tempi  di  Paolo  del 
Pozzo  Toscanelli,  Iona,  18M,  p.  688:  «Sono  questi  i  soli  e  pochi  accenni 
vaghi  e  confusi  intorno  alle  nuove  scoperte  oceaniche  tatti  dal  personaggio, 
che  tu  per  lungo  tempo  ministro  del  governo  di  Kuropa.  ohe  ebhe  allora, 
più  che  altri,  stretti  rapporti  politici  e  dinastici  colla  penisola  Iberica,  di 
un  erudito  dottissimo  che  ebbe  uu  momento  in  animo  di  scrivere  un  — 
libcllum  ile  mundi  spliaera.cx  quo  tauquam  graduili  ad  univeniam  astro- 
uoiuiam  tacturus  erat!  » 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  297 

sopra  una  questione,  toccata  in  principio  di  questo  capitolo  : 
se,  cioè,  la  materia  dell' Trama  sia  veramente  incompiuta,  se- 
condo l' affermazione  dell'autore,  e  perché  sia  rimasta  tale. 

La  soluzione,  senza  parere,  già  l'abbiam  data.  Non  ab- 
biamo forse  osservato,  discorrendo  della  chiusa  del  quarto  li- 
bro, che  giustamente  l'autore  si  preoccupava  della  leggerezza 
di  certi  astrologi,  i  quali  nel  giudicare  non  tenevano  nel  de- 
bito conto  gli  agenti  modifìcatori  dell'oroscopo?  Non  abbiam 
mostrato  che  per  il  Pontano  la  carriera  d'ogni  individuo  è  la 
resultante  di  due  forze,  una  delle  quali  è  la  spinta  data  dal 
cielo  al  momento  della  nascita,  e  l'altra  il  complesso  delle 
opposizioni  mosse  in  vario  senso  dai  mille  altri  influssi  agi- 
tatori del  mondo  e  della  società  umana?  Ora  i  primi  quattro 
libri  dell'  Urania  contengono  appunto  l'esposizione  della  prima 
forza,  quella  più  certa,  che  può  essere  conosciuta  scientifica- 
mente. Rimarrebbe  adunque,  «  ut  rerum  series  et  coepti  car- 
minis  ordo  Postulat  », l  da  svolgere  l'intricata  matassa  della 
seconda,  enumerando  una  dopo  l'altra  le  cause  che  vengono 
a  turbare  l'adempimento  del  tema  di  genitura.  Ma  una  simile 
impresa  sarebbe,  in  primo  luogo,  impossibile,  data  l' infinita 
varietà  di  tali  cause;  e  poi  inutile,  dovendo  essa  servire  ad 
alimentar  congetture  ed  incoraggiare  quelle  predizioni  singo- 
lari, nelle  quali  il  Pontano  ebbe  sempre  poca  fiducia.  Nessuna 
meraviglia  pertanto  che  a  lui  sia  bastato  d'averne  discorsa  una 
come  saggio,  cioè  la  corografia. 

Se  adunque  scarsa  è  l'importanza  dottrinale  del  quinto  libro, 
non  però  da  trascurarsi  è  l'episodio  di  chiusa,  meraviglioso 
fra  quanti  ne  abbiam  veduti  finora  per  ispirazione  e  per  arte. 
Esso  è  divisibile  in  tre  porzioni,  e  fu  scritto  a  due  riprese. 
La  prima  porzione,  come  ora  vedremo,  svolge  la  favola  classica 
del  rapimento  di  Ila  ed  appartiene  alla  redazione  primitiva  ; 
a  cui  risale  pure  la  seconda,  che  in  tono  lirico  esprime  il  do- 
lore del  Pontano  per  la  morte  della  figlia  Lucia:  la  terza, 
che  è  posteriore  al  1490,  compie  il  lamento  e  termina  con 
l'apoteosi  del  poeta. 

1  Urania,  V,  v.  786. 


298  CAPITOLO  QUINTO 

Le  Georgiche  di  Virgilio,  per  le  quali  Gioviano  avea  tanta 
ammirazione,  finiscono  con  un  (loppio  racconto  mitologico,  legato 
alla  trama  dell'opera  per  mezzo  d'nn  filo  ben  tenue:  le  api  ri- 
chiamano l'avventura  di  Aristeo,  Aristeo  quella  di  Orfeo.  Lo 
stesso  avvien  per  l' Urania  :  il  patronato  della  Luna  e  del  Cancro, 
l'ultimo  della  serie,  agisce  astrologicamente  sopra  la  Troade  e 
la  Bitinia,  cioè  sui  luoghi  ove  Ercole,  secondo  la  narrazione  di 
Valerio  Fiacco,  perdette  nel  fonte  il  suo  giovane  amico.  Ercole, 
canta  Valerio,  per  le  insidie  di  Giunone,  è  stato  abbandonato 
dagli  Argonauti,  e  con  l'impeto  proprio  alla  sua  violenta  natura, 
seguito  dal  compagno,  batte  i  boschi  in  traccia  di  selvaggina. 
Ed  ecco  sbuca  di  fra  i  tronchi  un  bellissimo  cervo,  mandato  ad 
arte  dalla  dea  nemica  ;  dietro  gli  si  mette  Ila,  giovenilmente 
incauto,  e  l'incalza,  né  mai  lo  raggiunge,  che  l'animale  è  cosi 
accorto  da  lasciarsi  accostare,  non  prendere.  Ma  Ha  non  de- 
siste finché  la  fiera,  giunta  alla  famosa  fontana  delle  Naiadi, 
non  spicca  un  salto,  lasciando  l'inseguitore  deluso  sulla  sponda. 
Il  fonte  è  meraviglioso,  e  pur  nell'ombra  delle  fronde  splende 
come  vi  si  specchiassero  il  Sole  e  la  Luna;  l'acqua  eeorre 
senza  fruscio,  ed  è  trasparentissima.  Ila  beve,  e  non  s'accorge 
che  ad  ogni  sorso  sale  a  baciarlo  Driope,  la  ninfa  del  luogo; 
non  se  n'accorge  se  non  quando,  avvinto  dalle  braccia  di  lei, 
è  tratto  al  fondo,  in  un  amplesso  immortale.  Intanto  Ercole 
sente  nel  cuore  che  una  sventura  l'ha  colpito:  l'amico  suo 
non  ritorna,  per  quanto  ei  lo  chiami  gridando  di  bosco  in 
bosco,  come  forsennato.  Vinto  più  dal  dolore  che  dalla  fatica, 
s'addormenta  finalmente,  e  Giove  gli  manda  un  sogno:  egli 
vede  il  fanciullo  coronato  di  fiori  di  zafferano,  venire  a  lui  a 
consolarlo  e  a  predirgli  la  futura  immortalità.1  —  Il  racconto 
del  Pontano  ò  leggermente  diverso.  Non  l'ira  di  Giunone,  ma 
la  vendetta  di  Venere  colpisce  Ercole,  che  avea  disdegnata 
la  corona  di  mirto  al  banchetto  di  Meleagro.  Ed  Ila  non  si 
smarrisce  dietro  al  cervo  fuggente,  ma  è  tratto  nelle  acque 
del  fonte  dai  sette  cerbiatti  che,  addomesticati,  recava  ad  ab- 
beverarsi. Ila,  presso  il  Pontano,  è  quasi  fanciullo,  e  si   di- 

1  Valimi  Flacci  Argon.,  Ili,  v.  481-740  e  IV,  1-57. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  299 

verte  ingenuamente  col  suo  piccolo  gregge  silvestre,  mentre 
vicino  a  lui,  non  lontano  dalla  corrente,  dorme  l'eroe.  L'eroe 
dorme,  e  con  l'anelito  roco  attira  le  ninfe,  che  fan  capolino 
da  tutte  le  rive,  e  ridono  dell' ispido  cacciatore  :  ma  non  ride 
Eari,  ferita  d'amore  per  Ila,  e  s'adopera,  col  concorso  delle 
fiere  improvvisamente  insanite,  finché  non  l' ha  tratto  seco  nel- 
l' antro  subacqueo.  Dove,  perché  il  carattere  voluttuoso  della 
poesia  pontaniana  non  si  smentisca, 

Septem malesana  dies,  septem  anxia  noctis 

Cum  puero  insomnes  agit,  ut  neque  parcat  amanti, 
Nec  parcat  rursum  ipsa  sibi,  sed  perdita  et  amena 
Deperit  illuni  oculis,  amenti  et  deperit  ore 
Perdita....1 

Il  sonno  di  Ercole,  il  riso  delle  ninfe,  l'infuriar  dei  cerbiatti 
sono  d'una  sorprendente  evidenza;  la  scena  della  fontana  poi, 
diversa  da  quella  di  Valerio,  è  d'una  tale  bellezza,  che  anche 
il  Borgia  —  o  il  poeta  stesso?  —  senti  il  bisogno  di  additarla 
alla  nostra  ammirazione.2  Rileggiamola  dunque: 

Ipse  autem  fons  perspicuis  argenteus  undis. 
Albescunt  imo  sparsi  rutilantque  lapilli, 
Quos  Ime  illue  subsiliens  vomit  unda;  quiescunt 
Mox  illi,  pictaque  solum  variatur  arena. 
Laetantur  vitreis  errantia  lumina  in  undis  ; 
In  su  mino  natat  umbra,  natant  ramique  comaeque 
Frondentes,  Sol  per  tenuis  vaga  lumina  rimas 
Irradiat,  variant  umbrae  variantibus  auris; 
Pendula  per  nitidum  currunt  umbracula  fontem, 
Murmuraque  in  solis  strepitant  resonantia  silvis, 
Quae  lenis  movet  aura,  movet  recinentia  ramis 
Ora  avium,  et  vario  resonant  cava  guttura  canta. 
At  circum  atque  ipso  crepitantis  margine  rivi 

i  Urania,  V,  v.  727-731. 

*  Poktani  Carmina,  I,  p.  xxxvm  ;  dove  pure  ho  pubblicate  altre  due  po- 
stille, utili  alla  interpretazione  di  questo  brano  :  la  prima  al  v.  679  <  Violae 
quae  et  albae  dicuntur,  vulgo  hiesuminum  dicuut»;  la  seconda  al  v.  681 
«  In  effingendo  flore  Homerum,  qui  moly  tiuxit,  imitatili-.  Sub  hoc  autem 
flore  voluptatem  inteliigi  vult,  quae  ut  pauperibus  abest,  sic  divitibus  et 
diis  fruenda  datur  ».  Notevole  è  quesP  ultima,  perché  mette  in  evidenza, 
oltre  al  predominare  dell'allegoria,  l'imitazione  omerica,  e  spiega  sempre 
meglio  P  invocazione  del  principio  del  quinto  libro. 


300  CAPITOLO  QUINTO 

Ver  halat,  roseusque  decor  se  fundit  ad  auras, 
Liliaque  in  viridi  spirant  canentia  thyrso, 
Et  memor  iugratam  moeret  Narcissus  ad  undam  ; 
Tuoi  violae  e  patulis  redolentia  munera  ramis 
Praetendunt  laetos  flores  implexaque  serta 
Spirautis  rarum  voris  decus.  Enitet  inter 
Illastris  passim  ilores  inonumentaque  divina 
Flos  rarus,  flos  ipse  horainum  vix  cognitus  ulli; 
Heroes  norunt  et  semideique  deique, 
Jupiter  hoc  thalaiuos  iubet,  hoc  iubet  aurea  coniux 
Rorari  genialem  aulam,  cura  laetus  uterque 
Laeta  agitat  sociosque  parant  coniungere  somnos.1 

Il  dolore  di  Ercole,  terribile  da  principio,  si  direbbe  quello 
d'un  padre  che  ha  perduto  il  tenero  figlio,  in  cui  singolar- 
mente si  compiaceva:  un  istintivo  pudore  allontana  qualsiasi 
allusione  ai  rapporti  carnali.  Ma  in  seguito  vien  la  rassegna- 
zione, quando  attorno  al  rogo,  ove  ardono  in  sacrificio  le  armi 
dell'eroe,  il  fanciullo  appare,  quasi  promessa  di  non  lontano 
ricongiungimento. 

A  questo  punto  si  annoda  la  seconda  parte  dell'  episodio. 
Anche  il  Pontano  aveva  una  figlia  fiorente  di  giovinezza,  ch'egli 
prediligeva  sopra  tutti,  e  per  la  quale  sognava  le  maggiori 
felicità  della  vita.  Egli  se  l'immaginava  già  sposa  beata  e  |><>i 
madre,  si  rallegrava  al  pensiero  che  presso  di  lei  avrebbe  tra- 
scorsa la  sua  vecchiaia  serena.  Ma,  ahimè  !  la  morte  distili  ne 
il  bel  presagio.  Come  al  misero  Alcide,  nessun  conforto  nel 
primo  impeto  del  dolore  gli  è  sufficiente:  non  la  presenza 
della  moglie,  immersa  in  un  pianto  non  meno  dolente  del  suo, 
né  le  altre  figlie,  né  il  bimbo.  E  neanche  lo  può  sostenere  la 
speranza  di  rivedere  un  giorno  la  cara  anima,  se  non  in  sogno, 
giacché 

ÌS'il  heu,  nil  reliquum  iam  Lucia:  cessit  in  auras 
Vel  sonino  sirnilis,  voi  inani  corporis  umbrae, 
Aut  iacet  in  parva  tantum  cinis  abditus  urna.2 

'  Uremia,  v,  v.  668-687. 

*  Urania,  V,  v.  878-876.  Il  compianto  di  Lucia  consta  di  dm-  pirli  e ■ 
aenziali  ;  di  cui  la  prima,  ohfl  può  intitolarsi  €  dello  memorie»,  èia  rievo- 
cazione della  vita  pura  e  lieta  per  gioventù  e  per  rara  bellezza  della  fan 
(■mila,  idolo  della  madre,  delle  sorelle,  del  piccolo  fratello,  del  padre.    11 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  301 

Cosi  finiva  il  poema,  nella  prima  redazione:  e  la  chiusa,  per 
nn  cristiano,  non  era  troppo  ortodossa.  Era  sincera  però,  per 
il  tempo  in  cui  fu  scritta,  cioè  per  il  1479  circa,  quando  Gio- 
viano  inclinava,  come  abbiamo  veduto,  verso  una  filosofia  pa- 
ganeggiante. Ma  venne  poi  il  riavvicinamento  alla  religione, 
negli  ultimi  anni  della  sua  vita,  ai  tempi  de'  suoi  rapporti  col 
monaco  viterbese  e  della  composizione  dell'  Aegidius.  Allora 
l'orizzonte  morale  gli  si  rischiarò,  e  la  fine  dell'  Urania  do- 
vette subire  un'  aggiunta  necessaria.  Dove  il  dolore,  prima 
acerbo,  s'  acqueta  nella  contemplazione  d'  una  eternità  felice, 
nella  quale  il  padre  e  la  figlia  vivranno  insieme,  beati.  E  di 
tanta  letizia  —  giacché  per  il  Pontano  non  era  possibile  senza 
canti  e  sorrisi  di  gioia  neanche  la  visione  di  Dio  —  è  annun- 
ziatrice  un'apparizione  gioconda: 

Sed  iam,  o  sed  desiste,  dolor.  Milli  roscida  flavo 
Exsurgens  Aurora  novum  iubar  aequore  tollit  ; 
Praeradiat  caput  auricomum,  roseusque  per  auras 
It  decor,  eque  genis  stillat  ros  fusus  eburnis. 
Nunc  axem,  dea,  nunc  currus,  age,  pelle  volantis, 
Funde  diem,  sparge  heoam  dux  praevia  lucem, 
Pande  sinus  :  natain  aspicio.  Tecum  aurea  curru 
Lucifero  et  sociis  tecum  secat  aethera  bigis, 
Blanditurque  oculis,  lacrimas  quoque  laeta  parenti s 
Aspectu  ciet,  et  blando  mea  Lucia  ab  ore 
Appellatque  patrem,  summo  et  sua  brachia  curru 
Exerit  invitatque  senem.  Iam,  filia,  fulges 
Insuetum  iubar,  ardescunt  iam  tempora,  iam  iam 
In  radios  abeunt  crines  ;  en  fulgidus  ora 
Accendit  splendor,  micat  en  lux  ignea  circum 
Perque  genas,  totoque  nitor  se  fundit  olympo. 
Exoritur  iam  Sol.  Radiis  en  Lucia  Solis 
Excipitur,  roseoque  sinu  complexa  nitentem 
Illustratque  diem,  et  super  aethera  fulget  apertum, 


quadro  della  famiglia  vi  è  perfetto,  e  trova  un  riscontro  fedele  in  De  iu- 
mulis,  II,  3,  scritto  nel  medesimo  tempo.  La  seconda  invece  consiste  nella 
disperazione  del  padre,  che  vede  nella  morte  la  distruzione  assoluta  di  tutto 
P  oggetto  amato,  e  corrisponde  bene  a  De  tumulis,  II,  2.  Senza  che  si  possa 
parlar  di  fonti  nel  vero  senso  della  parola,  si  trovano  poi  delle  somiglianze 
fra  questo  e  i  due  celebri  lamenti  di  Virgilio,  quello  della  madre  di  Kurialo 
(Aen.,  IX,  v.  480)  e  quello  di  Evandro  (Aen.,  XI,  v.  ini). 


302  CAPITOLO  QUINTO 

Atque  novum  coelo  decus  et  nova  lumina  tenia 
Diffundit:  lucem  inde  aurao  sensere  recentem, 
Clarior  et  solito  diffulxit  ab  aethere  Titan.1 

In  questo  modo  siam  passati  alla  terza  parte  dell'episodio,  ed 
alla  chiusa  definitiva  del  poema.  Nella  quale  il  Pontano,  con 
un  crescendo  d'entusiasmo,  dall'amore  paterno  si  solleva  alla 
compiacenza  della  propria  gloria  di  artista  e  di  uomo  di  stato. 
Verrà,  dice  egli,  dopo  le  esequie,  la  turba  degli  ammiratori 
al  mio  tumulo,  e  lo  vedrà  rischiarato  di  luce  misteriosa  :  sa- 
ranno i  Mani  miei  e  della  mia  Lucia,  tratti  dal  desiderio  a 
quei  luoghi  che  più  amarono  in  vita,  rallegrati  dalle  memorie 
che  la  Fama  canterà  nei  secoli,  senza  posa: 

Vivet  et  extento  celeber  Jovianus  in  aevo.  * 


VI. 


Il  libro  unico  delle  Meteore  ò,  come  abbiamo  osservato  a 
suo  tempo,  la  naturale  continuazione  dell'  Urania,  in  quanto 
vi  si  discorre  della  parte  sublunare  dell'universo,  mentre  in 


1  Urania,  V,  v.  890-911.  In  questa  visione  o  sogno  dobbiamo  vedete 
l'immagine  di  quel  paradiso,  nel  quale  il  poeta  collocò  anche  —  con  qual- 
che scandalo  da  parte  dei  suoi  amici  credenti  e  specialmente  «lì  Kgidio  da 
Viterbo  —  l'anima  di  fra  Mariano  da  Genazzano:  v.  Aegidius,  in  Opera, 
II,  p.  158 b,  e  questo  nostro  lavoro,  a  p.  248. 

4  Urania,  V,  v.  928.  Non  occorre,  dopo  quanto  ho  detto  a  p.  246,  elie 
io  mi  indugi  ad  illustrare  il  concetto,  che  Oioviano  aveva  dell' anima  im- 
mortale, e  com'egli  le  attribuisse  il  ricordo  tenace  della  felicita  goduta 
quaggiù  e  quindi  il  ritorno  ai  luoghi  amati  e  la  compiacenza  della  propria 
gloria  terrena.  Dirò  invece  che  lo  stesso  pensiero  degli  ultimi  versi  del- 
l' Urania  si  riscontra  in  una  poesia  del  1508,  cioè  in  De  tutnulis,  li,  62 
(v.  Fontani  Carmina,  Firenze,  1902,  I,  p.  xxvn).  Dove  però  manca  quel- 
I'  elogio  del  poeta,  che  nell'  Urania  è.  cosi  esteso  ed  importante  per  la  cro- 
nologia delle  opere.  Le  quali,  secondo  che  a  me  pare,  sono  enumerate  in 
quest'ordine:  v.  938,  Amores;  941,  De  ìaudibiis  divinis;  948,  prose  morali; 
952,  Lyra;  958,  De  amore  coniugali;  955,  Kcìogae;  957,  De  tumulis;  959, 
il  tentativo  epico  sulla  guerra  sertoriana,  che  sta  in  fine  al  dialogo  Anto- 
nius;  963,  le  Meteore;  968,  V Urania  e  le  prose  astrologiche.  Nei  v.  978  sgg., 
si  accenna  alla  carriera  politica,  ed  espressamente  alle  due  paci  del  1484 
e  1486. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  303 

quella  s'era  trattato  della  celeste.  Ne  è  pur  la  conseguenza, 
giacché  il  complesso  di  ciò  che  esiste  sotto  la  volta  del  cielo 
dipende,  per  ragioni  astrologiche,  dal  gran  mondo  stellare. 
Cosi  almeno  credeva,  d'accordo  con  gli  scienziati  del  secol 
suo,  il  Pontano,  il  quale,  dopo  pochi  versi  d'introduzione,  si 
affretta  a  dichiarare,  alludendo  agli  elementi: 

Ipsa  autem  coeli  motus  ac  signa  tuentur, 
Imperiisque  assunt  stellarum,  et  iussa  capessunt.  ' 

Guida  al  poeta  in  questo  nuovo  viaggio  è  sempre  Urania,  la 
Musa  del  maggior  poema;  ma  non  è  più  sola,  che  le  vien  da 
canto  un  personaggio  allegorico,  la  Ragione.  Quella,  accompa- 
gnata da  un  lieto  corteo  di  ninfe,  lo  condurrà  ancora  qualche 
volta  in  traccia  di  miti  giocondi;  mentre  questa,  più  austera, 
direi  quasi  più  arcigna,  cercherà  di  tenerlo  stretto  al  suo  tema, 
rimproverandogli  le  brevi  digressioni,  consigliandogli  gli  aridi 
brani  espositivi.  A  lei  infatti,  che  si  affisa  nel  vero,  non  piace 
la  ricchezza  dell'eloquio:  ella  è  esatta,  come  dev'esser  la 
scienza, 

Et  lento  incedit  gressu,  nec  lumina  torquet, 
Fixa  tuens,  nec  multa  loqui,  nec  garrula  curat.2 

Onde  avviene  che  questo  poemetto  sia,  in  confronto  col  pre- 
cedente, non  dirò  più  scientifico,  perché,  come  vedremo,  è  ben 
lontano  dalle  conoscenze  meteorologiche  dei  tempi  nostri,  ma 


1  Meteor.,  v.  72-73.  A  chi  studia  questo  poemetto  vengono  in  aiuto  dae 
buoni  scritti.  Il  primo  gli  serve  specialmente  per  conoscere  le  fonti  del- 
l' opera  e  le  spiegazioni  di  certe  dottrine,  che,  da  noi  sorpassate,  potreb- 
bero riuscirgli  poco  chiare  :  è  un  commento  composto  in  Germania  un  tren- 
tennio circa  dopo  la  morte  del  Pontano,  con  gran  diligenza  e  non  senza  gusto, 
e  81  intitola  :  J.  J.  Pontani  ìiber  de  Meteoris,  cum  interpretatione  Viti  Amer- 
bachii,  Argentorati,  apud  Cratonem  Mylium,  mense  sept.  anno  M.D.XXXIX. 
—  Il  secondo  è  una  pregevole  nota  del  P.  Gius.  Boffito,  intitolata:  Un  poeta 
della  meteorologia  (Gioviano Pontano),  in  Mem.  dell'Acc.  Pontaniana,  Napoli, 
1899;  nella  quale  principalmente  si  stabilisce  un  confronto  fra  lo  stato  della 
scienza  ai  tempi  del  poeta,  e  quello  attuale,  correggendo  parecchi  errori  in 
cui,  per  troppa  ammirazione  del  suo  autore,  era  caduto  il  Tallarigo. 

*  Meteor.,  v.  44-46.  Non  si  dia  soverchia  importanza  scientifica  a  que- 
st'  allegoria  della  Ragione,  che  forse  il  Pontano  derivò  da  Makilio,  Astron., 
IV,  v.  981. 


304  CAPITOLO  QUINTO 

improntato  a  maggior  serietà,  e  più  povero  di  poesia,  eioè  «li 
descrizioni  efficaci  e  specialmente  di  episodi.  Del  resto  tutta 
questa  nuova  sobrietà  di  linguaggio  è  spiegata  dall'azione, 
che  esercitò  sull'opera  pontaniana  la  sua  grande  e  quasi  unica 
fonte,  il  libro  omonimo  di  Aristotele.  Pensando  al  quale  com- 
prenderemo altresì  come,  salve  poche  eccezioni,  le  principali 
teorie  fisiche  qui  esposte  da  Gioviano  rimontino  alla  tradizione 
scolastica  e  si  trovino  in  molti  trattatisti  a  lui  anteriori  ;  e 
ci  spiegheremo  il  fatto  che  i  confini  della  sua  meteorologia 
siano,  come  quelli  degli  antichi,  ma  non  come  i  nostri,  tanto 
estesi  da  comprendere  in  so  certi  fenomeni  piuttosto  appar- 
tenenti all'astronomia,  quali  le  comete,  la  Via  lattea,  le  stelle 
cadenti. 

Entro  i  limiti  della  sua  scienza  il  poeta  racchiude  adunque 
una  larga  trattazione,  la  quale  noi  possiamo  esattamente  di- 
videre in  quattro  parti  principali.  La  prima  è  generica  ed  è 
costituita  da  alcuni  cenni  introduttivi  intorno  agli  elementi. 
alla  loro  distribuzione  nel  mondo,  alla  loro  soggezione  pili  <» 
men  diretta  agli  astri.  Fra  cui  innanzi  a  tutti,  perdio  dotati 
di  più  forte  dominio,  stanno  il  Sole  e  la  Luna,  che  regolano 
col  corso  o  con  le  fasi  il  succedersi  quaggiù  delle  nascite  e 
delle  morti,  dello  sviluppo  e  del  disgregamento  degli  esseri.1 
Non  hanno  tuttavia  potere  di  accrescimento  o  di  distruzione 
sulla  gran  massa  della  materia,  la  quale,  attraverso  alla  vi- 
cenda delle  forme,  permane  immutata: 

Principio  genus  omne  hominum,  genus  orane  ferarum, 
Prognatae  et  silvis  volucres,  quaeque  aequora  ponti 
Monstra  colunt,  quaeque  haerba  solo  fiorente  virescit, 
Et  quae  sullimis  crescens  subit  arbor  ad  auras 
Quatuor  e  primis  ducunt  exordia  causis. 
Hinc  etenim  proprias  sumunt  animantia  vitas, 
Huc  redeunt,  quotiens  fragìles  mors  solverit  art 
Ipsa  aeterna  manent  elementa,  vicesque  ministrant, 
Dum  sua  iura  simul  cedunt,  aut  cessa  reposcunt, 
Alternosque  agitant  constanti  foedere  motus, 
Vertunturque,  eademque  aut  mox  diversa  resurgunt. 
Hinc  rerum  satus  aeternus  aeternaque  origo, 

>  Cfr.  p.  240. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  305 

Aeternam  quoniain  sortem  et  data  fata  repensant. 
His  parent  nascentum  animae,  legesque  seqauntur 
Quas  dederint  elementa  suos  retinentia  nexus.1 

Nella  seconda  parte  si  tratta  delle  due  esalazioni,  quella 
umida  e  quella  secca  o  ignea,  che  il  Sole  attira  a  sé  dalla 
Terra  e  solleva  nell'una  o  nell'altra  delle  tre  regioni  dell'aria, 
ove  si  compiono  i  fenomeni  detti  atmosferici.  I  quali  vengono 
esaminati  e  descritti  in  quest'ordine:  prima  quelli  generati 
dal  vapore  umido,  che  sono  la  pioggia,  la  neve,  la  brina,  la 
rugiada,  la  manna,  la  grandine;  poi  quelli  prodotti  dal  vapor 
secco,  cioè  il  fulmine,  le  stelle  cadenti  e  altre  simili  appari- 
zioni, fra  cui  la  luce  zodiacale.  Questa  parte  è  la  più  impor- 
tante e  la  più  estesa,  e  porge  a  noi,  sotto  il  duplice  punto 
di  vista  scientifico  e  poetico,  opportunità  di  parecchie  osser- 
vazioni. 

Degna  di  nota,  nel  primo  gruppo,  per  il  curioso  errore  che 
racchiude,  è  l'origine  della  manna,  la  quale  dagli  antichi  non 
veniva  già  considerata  quale  un  prodotto  animale  e  vegetale, 
ma,  come  scrive  il  commentatore  tedesco  delle  Meteore,  quasi 
«  singularis  quaedam  species  roris  nascens  in  foliis  arborum 
ex  denso  et  lento  vapore,  habens  saporem  mellis  aut  sacchari, 
ex  calido,  quod  est  ei  admixtum,  coquente  et  maturante  >.* 
Pregevole  per  modernità  d' ipotesi  è  invece  la  formazione  della 
grandine,  dovuta  al  concorso  d'improvvise  correnti  d'aria  ascen- 
sionali. 3  E  per  il  pregio  poetico  graziosa  assai  è  la  favola  di 
Borea,  che  con  le  brine  intempestive  guasta  i  bei  giardini, 
onde  i  giovani  amanti  più  non  possono  raccogliere  i  fiori  per 
le  soglie  delle  belle: 

Tu.  vero,  iuvenis  tenerorum  assertor  ainorum, 
Mane  tuae  qui  serta  paras  intexere  nymphae, 
Aut  Veneri  ante  aram  lectos  inspergere  flores 

1  Meteor.,  v.  57-71.  L'  opinione  dell'  indistruttibilità  della  materia  de- 
riva al  Pontano  forse  da  Lucrezio,  De  rerum  nat.,  II,  v.  294-307  e  991  »gg., 
senza  che  perciò  ci  venga  ad  essere  contrasto  con  le  dottrine  aristoteliche. 
Cfr.  BoFriro,  op.  cit.,  p.  4. 

*  Amirbach,  op.  cit.,  p.  105. 

3  Bopfito,  op.  cit.,  p.  6. 

Soldati  SO 


306  CAPITOLO  QUINTO 

Pratorum  decus,  hoc  precibusque,  hoc  suscipe  votis, 
Threicio  ut  Boreas  tacitus  requiescat  in  antro  ! l 

Né  da  tacersi,  se  non  altro  per  la  novità,  è  tra  i  fenomeni 
della  neve  la  descrizione  della  caduta  d' una  valanga  nella 
valle  del  Kodano.  Sarà  essa  un  ricordo  personale  del  poeta? 
Non  credo.   Forse  è  un  racconto  udito  da  altri.  Leggiamola  : 

An  non  Allobrogum  gentes,  Rhodaneia  pubes, 
Excidium  attonita  extirauit  coelique  ruinam, 
Tempore  quo  Sol  ipse  humeros  ac  terga  Laconum 
Torrebat  sitiens  summo  et  radiabat  olympo  ? 
Hic  e  praeruptis  movet  Alpibus  atra  procella 
Involvens  hiemesque  simul  tenebrasque  poluraque; 
Horrescunt  nimbis  aurae,  nubesque  dehiscunt 
Cum  tonitru,  micat  igniferis  fulgoribus  aether, 
Intremit  insolito  sub  verbere  concita  tellus, 
Ac  coelum  mere  et  terras  subsidere  certuni  est. 
Ecce  autem  per  inane  ruens  cum  turbine  vasto 
Volvitur,  horrendamque  cadens  trahit  icta  ruinam 
Ingentis  moles  saxi  glacieque  geluque 
Concreta,  ac  bis  quinque  pedes  porrecta,  et  in  altum 
Quatuor,  at  septem  protento  margine  lata, 
Terribilis  visu  ac.  dirum  mortalibus  omen.2 

Al  gruppo  delle  meteore  ignee  appartengono  in  primo  luogo 
i  fulmini  prodotti  dall'erompere  del  vapor  secco  che  venne  a 
trovarsi  forzato  entro  una  fredda  nube  ;  interessanti  dal  punto 
di  vista  artistico  soltanto  per  qualche  bella  descrizione  e  per 
qualche  similitudine.  V'appartengono  pure  le  stelle  cadenti, 
le  travi  di  fuoco,  le  lampade  ed  altre  simili  parvenze  celesti, 
generate  da  una  quantità  minore  di  esalazione,  in  una  re- 
gione aerea  più  elevata,  descritte  dal  poeta  senza  novità  di 
vedute,3  ma  con  molta  perizia.  Si  noti  l'evidenza  della  scena 
seguente,  dove  lo  spettacolo  del  firmamento  e  l'ora  dell'osser- 
vazione non  potrebbero  esser  meglio  dipinti: 


i  Meteor.,  v.  247-251. 

1  Meteor.,  v.  844-869.  Puoi  vedere  qualcosa  di  simile  in  Silio  Italico, 
Puniche,  III,  v.  520  sgg. 

3  Vedasi  come  11  Boffito,  op.  cit.,  p.  9,  riduca  ai  giusti  limiti  le  esagera- 
zioni del  Tallarigo,  op.  cit.,  II,  p.  598,  specialmente  a  proposito  delle  cause 
della  luce  zodiacale. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  307 

Saope  per  aestatem  coelo  si  forte  silenti 
Aut  carpes  iter,  aut  Mavortia  signa  secutus 
Traduces  vigilerà  per  iussa  silentia  noctem, 
Collucere  faces  coeloque  cadentia  cernes 
Sidera  et  incensos  per  sudum  albescere  tractus.... l 

La  terza  parte  dell'opera  non  ha  coesione,  cioè  racchiude 
argomenti  fra  loro  diversi,  come  i  venti,  il  terremoto,  l'iride, 
le  comete  e  la  Via  lattea.  I  venti  son  trattati  senza  alcun  ri- 
lievo, con  l'abbozzo  di  qualche  favola  di  nessuna  importanza: 
non  hanno  neanche  valore  scientifico.  Del  terremoto  invece  si 
espongono  con  molta  maestria  le  cause,  cioè  la  reazione  vio- 
lenta dei  vapori  chiusi  nell'interno  del  globo  terrestre;  e  si 
fa  cenno  speciale  d'  un  grave  disastro  toccato  all'  Italia  infe- 
riore, forse  quello  del  1457. 8  Ad  esso,  con  ricordo  virgiliano, 
si  aggiunge  a  mo'  d'appendice  il  fenomeno  tellurico  della  mo- 
fetta  d'Ansanto  nel  Principato  Ulteriore.3  Curiosa  è  la  favola 
immaginata  per  l' Iride,  figlia  del  Sole  e  dell'Aria,  ancella  di 
Giunone;  ed  assai  bella  artisticamente,  per  quanto  erronea 
nella  sostanza,  è  la  comparazione  che  tenta  spiegarne  la  causa  : 

Nate,  igitur  siquando  sedens  aestate  sub  altis 
Porticibus,  forte  aut  nemorum  viridante  sub  umbra, 
Auratum  admoris  labris  sitientibus  amnem, 
Ne  pigeat,  simul  ac  gelidum  cratera  liquorem 
Hauseris,  ardentem  ad  Solerà  atque  ad  lampada  Pboebi 
Sistere,  post  altam  tua  lumina  ferre  sub  umbram; 
Illicet  aspicies  Solem  laquearibus  ipsis 
Fornicibus  sive  in  mediis  aitavo  columna 
Fulgore,  oppositam  radius  dum  flectit  in  oram 
Lubricus  effusoque  super  loca  lumino  lambit: 
Haud  aliter,  levi  in  nube  coeloque  quieto 
Obliquus  cum  se  radiorum  impegerit  ardor 
Nubila  per,  conversa  acies  in  fronte  resultat, 
Flectuntur  retro  radii,  fit  protinus  arcus 
Ille  quidem  varios  ducens  e  nube  colores.* 


'  Meteor.,  v.  507-511. 

*  E.  Gothein,  op.  cit.,  p.  427. 
3  Boemo,  op.  cit,  p.  12. 

*  Meteor.,  v.  1124-1188. 


308  CAPITOLO  QUINTO 

A  proposito  delle  comete,  il  passo  migliore  è  il  ricordo  storico 
dei  funesti  presagi  avveratisi  per  due  volte,  dopo  le  appari- 
zioni del  1456  e  del  1472,  che  il  poeta  illustra  ampiamente 
anche  nel  suo  commento  al  Centiloquio,  da  noi  altrove  citato.1 
Viene  in  fine  la  Via  lattea,  prodotta,  come  le  comete,  da  un 
vapore  cosmico,  che  il  Pontano  impara  a  conoscere  dalla  sua 
solita  fonte,  per  attenersi  alla  quale  logicamente  rifiuta  la 
spiegazione  e  la  favola  che  gli  forniva  Manilio. 

Ed  eccoci  alla  quarta  ed  ultima  parte,  la  quale  è  meno 
estesa  delle  altre  e  va,  a  rigore,  considerata  come  una  di- 
gressione dal  tema  principale,  giacché  tratta  dell'origine  dei 
fiumi,  cioè  d' una  materia  un  po'  lontana  dalla  meteorologia. 
Questa  origine,  a  dir  vero,  è  molto  curiosa:  le  fontane  ed  i 
corsi  d'acqua  in  genere  nascerebbero,  secondo  il  poeta,  dal 
raffreddamento  e  relativa  condensazione  dell'aria  penetrata 
nelle  viscere  della  Terra  o  aderente  alle  rupi  montane!  Non 
varrebbe  dunque  la  pena  di  discorrerne,  se,  al  solito,  i  pregi 
d'arte  non  rifulgessero,  qui  forse  più  vivi  che  in  altri  luoghi.2 
Qui  specialmente  ci  richiama  alle  migliori  pagine  dell'  Urania 
una  favola,  intitolata  dalle  Naiadi,  che  è  ad  un  tempo  una  de- 
scrizione meravigliosa  ed  una  trasparente  allegoria.  Le  Naiadi 
sono  le  acque,  capaci  delle  più  strane  e  repentine  trasforma- 
zioni: esse  cantano  sommesse  nelle  fonti,  balzan  superbe  nelle 
cascate,  corrono,  precipitano  per  le  forre,  e  si  stendono  quete 
e  quasi  dormenti  sotto  i  salici  della  pianura;  esse  han  nelle 

1  Cfr.  p.  159,  in  nota. 

8  Interessante  è  il  sentire  le  lodi  che  al  Pontano,  poeta  dei  fiumi  e  dei 
monti,  tributa  P.  Lioy,  Alpinismo,  Milano,  1890,  p.  284:  €  Dopo  Dante  e  Pe- 
trarca le  solitarie  rupi  sembrano  ricadere  nell'oblio.  Solo  nel  poema  latino 
di  Pontano  apparisce  il  magnifico  quadro  d'una  caduta  d'acque...  quadro 
che  si  lascia  addietro  tutti  gì' immaginarli  bozzetti  melensi  degli  arcadi,  e 
che  credesi  descriva  1'  impressione  provata  veramente  dinanzi  al  lìxscello 
delia  Morte  discendente  impetuoso  nel  Marone  dalle  nevi  del  (irmi  Sasso 
<1"  Italia  >.  Pur  convenendo  anch'  io  in  questo  giudizio,  mi  dispiace  tuttavia 
di  dover  correggere  in  un  punto  l'ex-presidente  del  C.  A.  I.:  (ìioviano  non 
ci  descrive  in  Meteor.,  v.  1400-1412,  un  torrente  precipitoso,  ma  il  ritmico 
stillare,  goccia  a  goccia,  d'un  di  quei  fonti  che  bene  1'  Ameriuch,  op.  cit., 
p.  222,  indicava  col  vocabolo  tedesco  Tropf'hrunnen.  L'errore  del  Lioy  sta 
nell'aver  letto,  in  una  cattiva  edizione,  «  perpetuus  terror  est  stillantibus 
undis  »  invece  di  <tenor>. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  309 

membra  il  caodor  delle  spume,  e  nell'occhio  e  nelle  trecce 
l'azzurra  ombra  delle  insenature  e  dei  laghi: 

Nunc  fessae  laetas  ducunt  per  prata  choreas 
Arboribus  tectae  ac  circumvariantibus  umbris, 
Nunc  tenues  mulcent  gratis  concentibus  auras, 
Aut  amne  in  medio  ludunt,  vitreisque  sub  undis 
Lascivae  alternant  agiles  per  brachia  motus, 
Lubricaque  intorquent  niveis  vestigia  plantis. 
Enatat  haec  levesque  manus  et  brachia  monstrat, 
Aut  teneram  latus,  aut  molles  cum  poplite  suras; 
Desilit  illa  petens  imum,  splendetque  sub  undis 
Marmoreum  foemur  et  cervix  argentea  et  illae 
Deducunt  coelo  divos  quae  ad  furta  papillae  ; 
Mox  resilit  flavumque  caput  nigrantiaque  effert 
Lumina,  tum  niveo  quae  purpura  fulget  in  ore.1 

Non  manca  qui,  come  si  vede,  quell'elemento  afrodisiaco  ch'è 
tanto  caro  al  Pontano,  quando  può  dar  libero  sfogo  ai  fanta- 
smi che  gli  brillano  nella  mente. 

Ma  il  pregio  migliore  di  quest'  ultima  parte  sta  nella  chiusa, 
che  molto  abilmente  dall'argomento  speciale  dei  fiumi  assurge 
ad  una  sintesi  di  tutti  quei  fenomeni  meteorici  e  tellurici,  che 
assiduamente  s' affaticano  alla  trasformazione  della  crosta  del 
nostro  globo.  Mutano  le  valli  e  i  piani  per  il  lavorio  delle 
acque,  come  mutano  i  continenti  per  l'azione  sommata  di  tutte 
le  forze  rinnovatrici.  Non  vedemmo  dall'antichità  ai  nostri 
giorni  cangiata  quasi  la  faccia  della  Terra  ?  Attendiamoci 
adunque  di  veder  sparire  anche  i  monumenti  e  le  memorie 
della  civiltà  nostra,  che  i  posteri  verranno  a  scavare  negli 
strati  del  suolo,  come  noi  facciamo  per  quelli  dei  nostri  re- 
moti progenitori: 


1  Meteor.,  v.  U23-1435.  Mi  piace  dichiarare  d'aver  fatto  mio,  a  propo- 
sito di  questi  versi,  il  commento  dell'AMERiucii,  p.  228:  «  Id  genus  descrip- 
tionum,  quod  est  in  hoc  capite  et  plerisque  aliis  praecedentibus,  non  solimi 
condiunt  severitatem  harum  rerum,  ac  tedium  lectionis  levant,  sed  arguunt 
etiam  ingenium  auctoris.  Fabulas  enim  escogitare,  et  apte  rebus  institutis 
accomodare,  ut  Pontanus  facit,  non  minorem  in  poeta  commendationem  ha- 
bet,  quam  res  ipsas  recte  exponere.  Et  hoc  unum  esse  de  precipuis  ezistimo, 
quae  hunc  poétam  veteribus  aequare  videantur  ». 


310  CAPITOLO  QUINTO 

Adveniet  lustris  properantibus  aetas, 
Cuna  pelago  emerget  tellus  nova,  cuna  mare  terris 
Incunabens  mole  ingenti  sinaul  oppida  et  arces 
Cultaque  sub  rapido  secum  feret  hausta  profundo. 
Nullus  honos  reguna  tunaulis,  impune  deoruua 
Tempia  ruent,  idem  fluctus  pecudemque  Jovemque 
Auratum  amiget  scopulo,  exitium  omnibus  unum, 
Et  clades  una  absumet  iuvenesque  senesque, 
Matres  atque  viros  et  corpora  cara  nepotum, 
Nec  natum  complexa  parens  miserabilis  hudis 
Proficiet  lacrinais,  clamantem  et  acerba  gementem 
Coeruleus  cano  vortex  absorbet  hiatu, 
Et  vota  et  pictos  secum  feret  unda  penates. 
Non  ullae  ultra  relliquiae  aut  monumenta  manebunt, 
Non  rerum  labor,  aut  operum  vis  edita  coelo  ; 
Maiestas  ipsa  ingeniis,  decora  illa  sororum 
Aonidum,  confecta  situ  atque  in  nube  iacebunt, 
Cunctaque  sub  tenebris  et  opaca  nocte  tegentur. 
Parte  alia  exsui'gent  immani  corpore  montes, 
Et  nigra  primo  coelum  caligine  tingent 
Fumosis  iuga  verticibus,  nondum  aere  aperto, 
Nec  sicca  tellure  satis.  Post  tempore  certo 
Terra  recens,  coelumque  novum,  nova  litora,  et  budi 
Labentes  passim  lynaphis  crepi  tanti  bus  amnes 
Incipient  praebere  novis  alimenta  colonis, 
Paulatimque  novus  fato  instaurabitur  orbis.1 

Questa  palingenesi  poetica,  come  giustamente  la  chiamò  il 
Tallarigo,2  ispirata  da  alcune  parole  di  Aristotele,  ha,  secondo 
il  Bonito,  un  alto  valore  nella  storia  della  scienza  paleontolo- 
gica;3  ed  ha  per  noi,  oltre  al  pregio  dell'arte,  anche  un  inte- 
resse astrologico  non  trascurabile.  Pareva  invero  che,  dopo  i 
primi  capitoli  di  questo  libro  delle  Meteore,  il  Pontano  si  fosse 
scostato  dalla  teoria  astrale,  e  quasi  ci  rimordeva  di  seguirlo 
colla  nostra  critica.  Ma  né  egli,  né  noi  eravamo  fuor  di  strada. 
I  fenomeni  che  avvengono  nel  regno  degli  elementi  non  di- 
pendono forse  dalle  influenze  delle  stelle?  non  sono  forse  i 
mezzi  onde  i  pianeti  e  le  costellazioni  agiscono  sulla  faccia 
fisica  del  mondo,  sul  teatro  delle  vicende  storiche  e  morali 


1  Meteor.,  v.  1574-1599. 

*  Tallarigo,  op.  cit.,  II,  p.  603. 

8  Boffito,  op.  cit.,  p.  14. 


I  POEMETTI  DEL  PONTANO  311 

dell' umanità?  E  questa  chiusa  non  ei  prova  che  il  poema,  che 
ne  canta  il  nascere  e  lo  svolgersi,  è  il  necessario  complemento 
dell'  Urania?  A  ragione  dunque  lo  scrittore,  nel  levarla  mano 
dall'opera,  invoca  per  l'ultima  volta  la  sua  bella  amica  ce- 
leste, la  Musa  dell'astrologia. 


VII. 


Ho  detto,  discorrendo  del  Basini,  che  l'arte  sua  di  poeta, 
di  gran  lunga  superiore  alla  perizia  di  lui  scienziato,  prean- 
nunziava una  perfezione  formale,  che  solo  più  tardi,  verso  la 
fine  del  secolo,  si  sarebbe  maturata.  Tal  perfezione,  che  non 
trovammo  nel  Bonincontri,  troviam  nel  Pontano,  uno  dei  pili 
squisiti  verseggiatori  latini  che  l'età  moderna  abbia  avuti. 
Questo  giudizio,  che  non  è  nuovo  alla  critica,  ha  per  me  piena 
riconferma  dallo  studio  dei  due  poemi,  nei  quali  la  purezza 
della  lingua,  l'eleganza  delle  frasi,  la  correttezza  agile  del  verso 
son  davvero  insuperabili.  Qui  non  si  scorge  —  parlo  della  reda- 
zione definitiva  —  quella  indulgenza  nell'  accoglier  vocaboli  e 
costrutti  propri  ai  poeti  della  decadenza  romana  (si  pensi  alla 
pericolosa  famigliarità  con  Manilio),  che  macchiano  invece  leg- 
germente altri  scritti.  Il  modello  virgiliano,  tante  volte  esaltato 
nell'Urania,  lascia  sempre  ed  ovunque  ammirare  la  sua  benefica 
influenza,  che  tempera  e  rafforza  il  libero  volo  della  fantasia, 
e  fu  una  delle  cause  più  sicure  della  fortuna  e  della  fama  del 
Nostro  presso  i  contemporanei  ed  i  posteri. 

La  citazione,  con  la  quale  comincia  questo  capitolo,  prova 
infatti  che  assai  presto,  vale  a  dire  sin  da  quando  il  poeta 
aveva  annunziato  d'essersi  messo  a  scrivere  d'astrologia  in 
versi,  l'attesa  intorno  a  lui  era  grande.  E  crebbe  naturalmente 
quando  la  pubblicazione  di  altri  scritti  minori,  e  specialmente 
delle  liriche,  gli  procurava  nome  sempre  più  chiaro.1  Nessuna 

1  Una  prova  di  questa  riputazione  è  la  laurea  poetica  conferita  a-Gio- 
viano  da  Innocenzo  Vili,  il  28  genn.  1486;  cfr.  E.  Pébcopo,  Pontaniatia, 
estr.  dagli  Studi  d.  lett.  ital.,  Ili,  1902,  p.  8.  Un'  altra  prova  di  stima  può 
essere  il  busto  in  bronzo  del  Museo  di  Genova  (riprodotto  nella  cit.  mia 


312  CAPITOLO  QUINTO 

meraviglia  pertanto  che  poco  dopo  il  1490  i  dne  poemetti,  ap- 
pena copiati  in  pulito,  abbiano  avuto  divulgazione  anche  fuori 
di  Napoli,  a  Firenze,  per  esempio,  dove  Pietro  Crinito  traeva 
copia  dei  migliori  episodi. 1  Neil'  Accademia  poi  il  lento  la- 
vorio di  perfezionamento,  onde  usci  la  seconda  redazione, 
doveva  essere  spiato,  soprattutto  dai  giovani,  con  immenso 
amore;  ed  allorché  il  testo  definitivo  fu  costituito,  intorno 
al  vecchio  maestro  con  quale  slancio  i  quindici  discepoli  si 
strinsero  ad  ascoltarne  la  lettura  e  il  commento!2  Non  ho 
mai  saputo  rappresentarmi  questa  scena,  senza  provare  un 
senso  di  commozione  e  di  rispetto;  e  spesso,  pensando  alla 
qualità  degli  ascoltatori,  molti  dei  quali  furono  in  seguito  o 
già  eran  poeti  di  grido,  m'  è  venuto  spontaneo  di  parago- 
narla ad  un  altro  quadro  a  quei  tempi  frequente.  L'ho  av- 
vicinata cioè  ad  una  di  quelle  botteghe  o  studi  di  pittori  o 
scultori,  nei  quali  l'artefice  vecchio  non  soleva  tanto  impar- 
tire l'insegnamento  teorico,  quanto  lavorare  ed  illustrare  le 
proprie  opere  in  mezzo  ai  giovani,  che  apprendevan  cosi 
l'ispirazione  e  la  tecnica,  l'anima  e  la  maniera  del  maestro, 
ritenendo  poi  sempre,  anche  dopo  nuove  vicende  e  trasfor- 
mazioni, in  sé  l'impronta  della  scuola.  Questo  avvenne  infatti 
nel  nostro  caso:  il  Sannazaro,  il  Cotta,  il  Cariteo,  l'Anisio 
mostrano  chiaramente  i  segni  dell'  educazion  pontaniana;  ina 
più  di  tutti  n'  è  imbevuto  Scipione  Capece,  1'  autore  del  De 
principiis  rerum. 3 

ediz.),  che  io  propendo  a  credere  non  molto  posteriore  a  questa  data,  pt'r 
due  ragioni.  Sotto  il  busto,  nell'iscrizione,  il  Pontano  e  detto  precettore  di 
Alfonso  duca  di  Calabria,  che  non  era  dunque  ancora  re  :  ma  sulla  fronte  di 
quel  pregevole  ritratto  si  notano  due  tacche,  destinate  senza  dubbio  ad  as- 
sicurare la  corona  d'  alloro  della  laurea,  che  era  dunque  già  conseguita. 

1  Pontini  Carmina,  Firenze,  1902,  I,  p.  xxxiv. 

*  Trascrivo  qui  la  postilla  che  il  Borgia  premetteva  all'  Urania  nel  cod. 
Vat.  lat.  5175,  da  me  pubblicata  in  Pontani  Carmina,  I,  p.  xxxv  :  «  Cai.  fe- 
bruarii  1501  Pontanus  legere  coeplt  suarn  Uraniani  in  sua  achademia,  cui 
lectioni  fere  semper  qnindecim  generosi  et  eruditissimi  viri  affuere  ;  nec 
vero  ipse  ego  Hieronymus  ullum  unquam  praeteril  diem,  quin  adcsscm,  et 
quae  potui  in  margine  anotanda  curaverim,  quae  quidem  sunt  ab  eiusdem 
auctoris  oraculo  exprompta  ».  Nello  stesso  cod.  si  leggono  altre  lodi  al  poeta, 
in  versi,  che  pure  pubblicai  nel  luogo  citato. 

3  C.  Tallarioo,  op.  cit.,  I,  p.  185. 


I  POEMETTI  DEL  FONTANO  313 

Morto  il  Pontano,  i  poemi  dalla  stamperia  di  Aldo  nel  1505 
si  diffondevano  per  tutta  Italia,  e  fuori.  Seguirne  il  cammino 
sarebbe  una  ricerca  interessante,  ma  che  sorpasserebbe  i  limiti 
dello  studio  presente.  Da  noi  ne  parlò  con  grandi  lodi  l'Ariosto, 
che  in  qualche  cosa  ne  trasse  anche  profitto: l  ma  altri  ne  giu- 
dicarono forse  con  una  punta  d'invidia,  si  che  dovette  ripren- 
derli garbatamente  Lilio  Gregorio  Giraldi.2  Dalla  Germania 
ci  venne  il  commento  dell'Amerbach  alle  Meteore,  che  noi  co- 
nosciamo. Nel  medesimo  tempo,  accanto  ai  critici,  sorsero  i 
continuatori,  cioè  i  poeti  didascalici,  di  cui  sovrabbonda  il  Cin- 
quecento —  il  Capece  stesso,  già  citato,  è  di  questa  schiera  — 
i  quali  tennero  il  Pontano  per  loro  modello.  Non  starò  ad  ad- 
ditar le  prove  di  quest'  affermazione  nell*  Augurelli,  nel  Pa- 
leario,  nel  Palingenio  ;  soltanto  rammenterò  l'opera,  che  ar- 
tisticamente di  tutte  è  la  più  bella,  del  Fracastoro,  dove  è 
bene  in  mostra  non  solo  l' influenza,  ma  il  nome  del  Nostro. 3 
E  ricorderò,  a  titolo  di  curiosità,  limitazione  dell'  Urania  fatta 
dal  Folengo  nel  suo  bizzarro  poema.4 

Nel  secolo  successivo  l'astrologia  era  viva  ancora,  e  forse 
manifestava  un  leggero  risveglio,  quel  risveglio  di  energie 
che  preannunzia  spesso  la  fine.5  Inoltre  la  poesia  degenerava  in 

«  Cfr.  p.  292. 

2  Gyraldus,  De  Poètis,  ed.  Wotke,  p.  U  :  «  Urania  vero,  Meteora,  He- 
speridum  horti,  Eclogae,  Epigrammata,  Elegiae,  et  cetera  Joviani  Pontani 
Umbri  carmina  et  quae  plurima  pedestri  oratione  scripsit,  faciunt,  ut  in 
his  tabularum  imaginibus  illum  inter  proceres  commemorem,  quin  et  cum 
omni  fere  antiquitate  conferam,  tametsi  non  idem,  ut  quibnsdam  videtur, 
in  omnibus  praestat  (nonnunquam  enim  nimis  lascivire  et  vagari  videtur) 
nec  piane  ubique  se  legibus  astringit.  Quod  iis  minus  mirum  videri  poterit, 
qui  illum  sciverint  in  magnis  regum  et  principum  negotiis  diu  versatum  et 
modo  bellorum  modo  pacis  condiciones  et  foedera  tractasse  non  minus  quam 
Phoebum  et  Musas  coluisse.  Quis  tamen  eo  plura  ?  quis  doctius,  quis  elegan- 
tius?quis  denique  absolutius  composuit?  enucleatius?  exquisitius?  Et  licet 
eius  quidam  hoc  tempore  gloriae  parum  aeqni  sint  extimatores,  non  illis 
tamen  ipse  concedam,  ni  meliora  vel  ipsi  fecerint  vel  ab  aliis  facta  attù- 
lerint,  id  quod  ad  hanc  ipse  diem  non  vidisse  fateor,  nisi  si  quis  fratrem 

tuum,  Juli,  Jacobum  Sadoletum  attulerit, vel  cum  fratre  tuo  Petrum 

Bembnm,  etc.  ». 

3  Tallaeioo,  op.  cit.,  II,  p.  696. 

4  B.  Zumbini,  L' astrologia  e  la  mitologia  nel  Pontano  e  nel  Folengo, 
in  Rassegna  critica  della  lett.  it.,  II,  p.  7. 

5  A.  Belloni,  Il  Seicento,  Milano,  p.  8  e  468. 


314  CAPITOLO  QUINTO 

quel  gusto  caratteristico,  che  dal  secolo  prese  appunto  la  de- 
nominazione, ma  che  ebbe  radici  molto  più  lontane,  nel  Quat- 
trocento stesso,  in  quel  genere  d'arte  nutrita  di  mitologia,  nel 
quale  Gioviano  fu  sommo.  Nulla  di  più  naturale  dunque 
che  nel  Seicento  l'opera  sua  fosse  in  pregio  ;  ed  io  mi  figuro 
l' Urania  e  le  Meteore  nella  libreria  d'un  ipotetico  don  Fer- 
rante, al  luogo  d' onore,  fra  il  De  vita  propria  di  Gerolamo 
Cardano  e  gì'  Idilli  di  Giambattista  Marino.1 

Dopo,  dal  Settecento  ai  nostri  giorni,  per  quel  eh'  io  son 
riuscito  a  scoprire,  il  nome  del  Pontano  fu  ricordato  special- 
mente per  le  liriche  e  per  i  Dialoghi;  i  quali  destarono,  an- 
che in  tempi  recentissimi,  l'ammirazion  della  critica,  alquanto 
mal  disposta  verso  quegli  scritti  ove  c'entrava  l'astrologia.  Io 
non  nego  l'eccellenza  di  quelle  opere;  solo  mi  lusingo  d'esser 
riuscito  a  stabilire  un  po'  d' equilibrio  nel  giudizio  comples- 
sivo, sollevando  ai  dovuti  riguardi  le  parti  migliori,  e  non 
son  poche,  dei  due  poemi. 


1  Quel  eh'  io  immagino  può  aver  delle  prove.  In  Casanatense  ci  son  tre 
manoscritti,  contrassegnati  dai  n.>  770,  879,  1485,  che  io  ritengo  tutti  del 
sec.  xvii  (il  primo  porta  la  data  del  1666),  contenenti  regole,  aforismi,  ta- 
vole astrologiche,  e  sono  forse  quadernetti  di  scuola.  Orbene  nel  primo,  a 
pag.  269,  è  riportato,  accanto  a  citazioni  di  Manilio,  di  Firmico,  del  Car- 
dano, un  passo  del  De  rebus  coelestibus  ;  e  nel  terzo,  che  è  quasi  inte- 
ramente un  centone  poetico,  a  p.  7,  senza  nome  d'  autore,  si  leggono  al- 
cuni versi  dell'  Urania. 


INDICI  DEI  NOMI  E  DELLE  COSE  NOTEVOLI 


^4)  Indice  storico. 


Abano  (d')  Pietro  pag.  55,  110,  218. 

Accademia  Platonica  127,  152,  213  ; 
Pontaniana  125,  226,  260,  312;  Ro- 
mana 129. 

Agostino  (Sanf)  e  l'astrologia  52,  55, 
221;  e  la  magia  181,  182;  studiato 
dal  Ficino  207;  dal  Pontano  250. 

Albategni  50. 

Albumasar  53. 

Alcabizio  studiato  dal  Bonincontri 
136;  dal  Pontano  244;  dallo  Sta- 
bili 136. 

Alenino  58. 

Alfagrano  50,  53;  noto  a  Dante  59;  e 
al  Pontano  244. 

Alighieri  Dante  e  l'astrologia  55,  56, 
59;  sua  teoria  della  Fortuna  61, 
248;  e  la  poesia  del  cielo  5,  11. 

Alighieri  Jacopo  62,  63. 

Allegretti  (degli)  Jacopo  83. 

Ambrogini  Angiolo  Poliziano  126, 148, 
213. 

Amerbach  Yito  203,  313. 

Anisio  Giano  226,  312. 

Apollonio  da  Rodi  81. 

Apuleio  181. 

Aquaviva  Andrea  Matteo  238. 

Aragona  (d')  Alfonso  I  120,  124. 

Aragona  (d')  Alfonso  II  duca  di  Ca- 
labria 289. 

Aragona  (d')  Ferrante  I  125. 

Aragona  (d')  Ferrante  II  235. 

Arato  da  Soli  17,  18,  21;  e  Manilio 
35;  divulgato  dal  Bessarione  76  ; 
imitato  dal  Basini  93;  dal  Pontano 
269. 

Archimede  17. 

Arezzo  (d')  Ristoro  58,  64,  65. 


Ariosto  Ludovico  107,  292,  313. 

Aristarco  da  Samo  16,  27. 

Aristotele  16,  29;  e  il  Bonincontri  166, 
173;  e  il  Pontano  239  sgg.,  304. 

Augurelli  Gio.  Aurelio  313. 

Averroé  53-56;  e  il  Bonincontri  173. 

Avieno  Rufo  Festo  24,  76. 

Avito  (Sanf)  176. 

Avogario  Pietro  Bono  110,  113,  111. 

Barbaro  Ermolao  237. 

Basini  Basinio  da  Parma,  suoi  studi 
77-80;  sue  opere:  V  Isotteo  78;  la 
Meleagride  79;  V  Esperide  80;  gli 
Argonautici  81;  gli  Astronomici 
84  sgg.;  e  l'astrologia  91. 

Beccadelli  Antonio  Panormita  121, 
133. 

Bellanti  Lucio  227,  228. 

Bembo  Pietro  248,  313. 

Beroaldo  Filippo  111. 

Beroso  27. 

Biondo  Gaspare  129. 

Boccaccio  Giovanni  56,  57,  186,  267. 

Bonatti  Guido  111,  218. 

Bonincontri  Lorenzo  da  San  Miniato, 
biografia  118  sgg.,  131  ;  opere  :  i 
Poemi  141,  15-4  sgg.,  158,  163  sgg., 
174  sgg.,  260;  il  Commento  a  Ma- 
nilio 145  sgg.;  storiche  137,  138; 
minori  poetiche  125,  133,  139,  140, 
197;  minori  astrologiche  135-137, 
142,  143,  153,  237;  e  il  Ficino  204, 
206;  e  il  Pico  198,  218;  e  il  Pon- 
tano 232,  256,  258,  263,  264,  274. 

Borgia  Girolamo  260,  295,  299,  812. 

Callippo  da  Cizico  16. 

Camara  (da)  Antonio  114. 

Camatero  Giovanni  47. 


316 


INDICI 


Canisio  Egidio  da  Viterbo  248,  302. 

Capece  Scipione  312,  313. 
-  Capella  .Marziano  49,  98. 

Cardano  Fazio  117. 

Cardano  Girolamo  117,  314. 

Canteo  (Gareth)  Benedetto  312. 

Cameade  210. 

Catany  (di)  Giovanni  108. 

Catasterismi  dello  Pseudo-Eratoste- 
ne  22. 

Chénier  Andrea  6,  11. 

Cicerone  traduttore  di  Arato  23,  76; 
e  l'astrologia  239,  244,  272. 

Codice  Ambrosiano  R.  12  Sup.  155; 
Barberiniano  XXX.  104  134;  Casa- 
natense  770,  Cas.  879,  Cas.  1485 
314;  Corsiniano  706  132;  Estense 
lat.  n.°  408  136,  142;  Laurenziano 
mediceo  XXIX.  3  135,  150,  Lan. 
med.  XXIX.  5 133,  Lau.  med. XXXIV. 
52  154,  157;  Magliabechiano  stroz- 
ziano  VII.  1099  124,  155,  158,  Mgl. 
stroz.  XXV,  559  137,  Mgl.  stroz.  II. 
II.  41  187,  202;  Marciano  latino  VII. 
232  248,  Mar.  lat.  VIII.  66  237,  Mar. 
lat.  Vili.  76  142,  143;  Napoletano 
(Naz.)  VI.  C.  23  250;  Parigino  (Naz.) 
latino  7417  128,  143,  Par.  lat.  8342 
156,  Par.  lat.  11088  138;  Riccar- 
diano  837  132  ;  Vaticano  latino 
2833  156,  Vat.  lat.  2837  259,  Vat. 
lat.  2838  259,  Vat.  lat.  2839  230, 
238,  Vat.  lat.  2840  265,  Vat.  lat. 
2844  155,  Vat.  lat.  2845  141,  Vat. 
lat.  5175  812;  Vaticano  Capponi 
56  132;  Vaticano  Regina  1 1 15  142; 
Vaticano  urbinate  703  155. 

Copernico  223. 

Coppola  Francesco  conte  di  Sarno  247. 

Corsini  Amerigo  205. 

Cortese  Paolo  231. 

Cossa  (del)  Francesco  115. 

Cotta  Giovanni  312. 

Crinito  (de'  Ricci)  Pietro  148, 260, 312. 

Dagomari  (de'.)  Paolo  57,  63. 

Dati  Goro  di  Stagio  68  sgg.,  74,  182. 

Davalos  Ferdinando  march,  di  Pesca- 
ra 235. 

De  Ferrariis  Antonio  (il  Galateo)  226. 

Della  Fonte  Bartolomeo  126,  146. 

De  Petruciis  Antonello  188. 

Diogene  stoico  239. 

Empedocle  agrigentino  14. 

Epicuro  e  V  astrologia  29,  178,  217. 

Eraclide  Pontico  15. 


Eratostene  alessandrino  22. 

Esiodo  7,  14,  19. 

Eudosso  di  Cnido  16,  17,  27. 

Fazio  Bartolomeo  254. 

Ficino  Marsilio  e  l'astrologia  203,  206, 
211  ;  e  il  Bonincontri  126,  127,  152, 
153. 

Finnico  (Giulio)  Materno  l'astrologo 
46;  e  il  Bonincontri  149;  e  il  l'ico 
218;  e  il  Pontano  244. 

Folengo  Teofilo  313. 

Fracastoro  Girolamo  313. 

Fulgenzio  186. 

Galilei  Galileo  117. 

Gallina  Tolomeo  121,  147,  232. 

Gaurico  Luca  115,  117,  156,  198. 

Gaza  Teodoro  78. 

Gazolti  Francesco  211. 

Genazzano  (da)  fra  Mariano  248,  302. 

Germanico  (Cesare)  23,  76;  e  il  Pon- 
tano 266,  285. 

Giraldi  Lilio  Gregorio  198,  275,  313. 

Gregorio  (abate)  da  Monte  Sacro  al 
Gargano  176. 

Jamblico  46. 

Igino  9,  24,  49,  75;  e  il  Basini  92, 
94  sgg. 

Innocenzo  Vili  311. 

Isidoro  di  Siviglia  48,  49. 

Keplero  196. 

Latini  Brunetto  57,  58,  282. 

Lattanzio  181. 

Leopardi  Giacomo  11. 

Lorenzi  Lorenzo  133. 

Lucrezio  (T.)  Caro  22;  e  il  Bonincon- 
tri 168;  e  il  Pontano  274,  805. 

Lunardi  Camillo  127,  186. 

Macrobio  267. 

Malatesta  Novello  signore  di  Cesena 89. 

Malatesta  Sigismondo  Pandolfo  si- 
gnore di  Rimini  83,  88. 

Manetone  27;  Pseudo-M.  46. 

Manfredi  Bartolomeo  108,  110. 

Manilio  Marco,  suo  poema  84  sgg., 
47,  206;  suo  valore  artisti 00  12 
suo  pensiero  morale  10,  30,  40  sgg., 
219;  edizioni  76,  106, 145,  146;  e  il 
nasini  91;  e  il  Bonincontri  121,  145, 
175, 183;  e  il  Crinito  148;  e  il  Pico 
218;  e  il  Pontano  203,  244,  281,  283, 
287,  290,  292. 

Manuzio  Aldo  255,  260,  818. 

Marino  Giambattista  814. 

Marsi  Paolo  129. 

Marsi  Pietro  129. 


INDICI 


317 


Manilio  Michele  275. 

Medici  (de')  Cosimo  il  Vecchio  208. 

Medici  (de')  Giovanni  (Leon  X)  205. 

Medici  (de')  Lorenzo  il  Magnifico  125, 
133,  210. 

Menandro  12. 

Middelburg  (di)  Paolo  115-117. 

Milton  Giovanni  182. 

Monti  Vincenzo  11. 

Miiller  Giovanni  Regiomontano  115, 
116,  145. 

Neckam  Alessandro  58. 

Negro  (di)  Andalò  57,  186. 

Nigidio  Figulo  33. 

Novara  Domenico  115. 

Omero  13;  e  il  Pontano  284,  295,  299. 

Ovidio  23,  291. 

Paleario  Aonio  313. 

Palingenio  Marcello  313. 

Palmieri  Matteo  187,  200  sgg. 

Pardo  Giovanni  251. 

Parlione  Pietro  90. 

Parmenide  14. 

Peruzzi  Baldassarre  115. 

Petrarca  Francesco  56. 

Pico  della  Mirandola  Giovanni  214, 
215,  229;  sua  confutazione  dell'  a- 
strologia  198,  215,  216  sgg.,  224;  e 
il  Bonincontri  198;  e  il  Ficino  208, 
212;  e  il  Manilio  275;  e  il  Ponta- 
no 229. 

Pico  Giovan  Francesco  214. 

Pirovano  Gabriele  227. 

Pitagora  14,  15. 

Platone  15,  28,  272;  e  il  Bonincontri 
152,  166,  171,  172,  195;  e  il  Ficino 
205  sgg.;  e  il  Palmieri  201;  e  il  Pon- 
tano 271,  272,  275. 

Plinio  186. 

Plotino  45,  208,  221;  e  il  Ficino  206, 
207. 

Polemarco  16. 

Pontano  Adriana  259,  288,  290. 

Pontano  Aurelia  257,  288. 

Pontano  Eugenia  244,  257,  288. 

Pontano  Giovanni  Gioviano  79,  231, 
233,  236,  251,  311;  e  l'astrologia 
199,227,229,252;  e  il  Bonincontri 
123-125,  130;  opere:  1'  Urania  200, 
237,  254,  261  sgg.,  295,  311;  le  Me- 
teore 237,  255,  261,  302  sgg.,  311  ; 
gli  Orti  delie  Esperidi  263,  313; 
le  Egloghe  263,  302, 313;  gli  Amori 
256,  802;  l' Amor  coniugale  282, 
288,  302;  i  Tumuli  263,  288,  301, 


802;  le  Laudi  divine  250,  258,  302; 
le  liriche  288,  302,  818;  VEridano 
290,  291;  filosofiche  237,  245,  246, 
249,  272;  astrologiche  in  prosa  230, 
237,  238,  244,  258,  261,  296,  814; 
i  dialoghi  237,  246,  249,  270,  301, 
302. 

Pontano  Lucia  257,  258,  288,  300. 

Pontano  Lucio  Francesco  234,257, 288. 

Porfirio  46,  181,  203,  207. 

Posidonio  33. 

Proclo  46. 

Prodromo  Teodoro  47. 

Pulci  Luigi  126. 

Purbach  Giorgio  115. 

Rabano  Mauro  49. 

Regiomontano  Giovanni,  v.  Miiller. 

Regiomontano  Roberto  116. 

Riario  Raffaele  cardinale  128,  147. 

Romano  (da)  Ezelino  56. 

Rovere  (della)  Giuliano  (Giulio  II) 
129,  140. 

Sacrobosco  (Alifax)  Giovanni  50,  51. 

Sadoleto  Jacopo  cardinale  313. 

Sannazzaro  Jacopo  312. 

Sassonia  (di)  Giovanni  49. 

Savonarola  Girolamo  214,  224,  225  ; 
e  il  Pico  214. 

Sesto  Empirico  219. 

Sforza  Ascanio  cardinale  129, 138, 143. 

Sforza  Costanzo  127. 

Sforza  Francesco  119,  138. 

Sforza  Giovanni  127,  143. 

Sidrac  (il  libro  di)  53. 

Silio  Italico  306. 

Sisto  IV  128,  140. 

Stabili  Francesco  (Cecco  d'Ascoli)  55, 
65  sgg.,  136. 

Stella  ferrarese  259,  288,  290;  v.  Pon- 
tano Gio. 

Sulpizio  Pomponio  129. 

Summonte  Pietro  226. 

Svevia  (di)  Federico  11  56,  292. 

Thaon  (di)  Filippo  51. 

Tifernate  Gregorio  232. 

Tolomeo  Claudio  29,  45;  sue  opere 
45,  50,  296;  e  il  Bonincontri  135, 
143;  e  il  Pico  217;  e  il  Pontano  135, 
237;  e  lo  Stabili  135. 

Tommaso  (San)  d'  Aquino  55,  56,  59. 

Toscanelli  (Del  Pozzo)  Paolo  115, 117, 
145,  200,  212;  e  il  Bonincontri  126; 
e  il  Pico  212. 

Traversari  Ambrogio  200. 

L'berti  (degli)  Fazio  63-65. 


318 


INDICI 


Valerio  Fiacco  81,  291,  208. 
Vannucci  Pietro  Perugino  115. 
Varazze  (da)  Jacopo  140. 
Varrone  33. 


Virgilio  e  l'astrologia  22,  298;  e 
Pontano  262,  2G6,  284,  295,  301. 
Zanella  Giacomo  10. 


li)  Indice  astrologico. 


Adone  266;  v.  Sole. 

Allegorie  astrologiche  medioevali  51, 
71;  nel  Pontano  262  sgg.;  v.  Miti 
allegorici. 

Andromeda  (mito  di)  19,  40,  290. 

Angeli  neutrali  180,  181,  201;  ribelli 
178,  180. 

Antipodi  87. 

Apollo,  v.  Sole. 

Apotelesmatico  (metodo  divinatorio) 
33,  220,  245,  294. 

Aquario  100,  271,  285;  nell'oroscopo 
del  Ficino  205. 

Ariete  100,  271,  278;  nell1  oroscopo 
del  Pontano  233,  251. 

Asini  (costellazione  degli)  282. 

Asterione  288;  v.  Procione. 

Astrologia  presso  gli  antichi  13,  26, 
27,  28,  33,  42,  56;  nel  Medio  evo 
48  sgg.;  nel  Rinascimento  26,  106, 
108  sgg.,  112,  115,  200;  religione 
e  scienza  52,  55,  57,  117;  fonte  di 
poesia  12, 115;  nomenclatura  e  par- 
tizioni 81,  36,  243. 

Calendario  (scienza  del)  50,  266. 

Cancro  100,  272,  281,  293. 

Capricorno  23,  100,  266,  271,  284. 

Cassiopea  19,  289. 

Centauro  284. 

Cigno  94. 

Cola  Pesce  (leggenda  di)  292. 

Comete  21,  159,  168,  308. 

Corografia  astrologica  261,  295,  296. 

Delfino  19. 

Demoni  conoscitori  dell'astrologia  52. 

Dragone  209. 

Ebone  267;  v.  Sole. 

Elezioni  (metodo  divinatorio  delle) 
38,  220,  245,  294. 

Endimione  (mito  di)  186-188.  256. 

Ermete  Trisinegisto  46,  181,  268. 

Ercole  (mito  di)  269,  298 

Fetonte  (mito  di)  164. 

Gemelli  100,  272,  280,  806. 

Gesù  Cristo  (oroscopo  di)  54,  55,  67, 
195. 


Giano  266;  v.  Sole. 

Giove  (il  cielo)  14,  18,  268,  269;  (pia- 
neta) 169,  170,  194,  269,  271.  275; 
suo  influsso  203,  235;  domiciliato 
in  Sagittario  284,  in  Pesci  285; 
in  congiunzione  con  Mercurio  264, 
con  Saturno  195,  196. 

Giunone  (l'aria)  268,  275,  307. 

Interrogazioni  (metodo  divinatorio 
delle)  33. 

Iride  307. 

Latona  (la  terra)  266. 

Leone  95,  100,  271,  282. 

Libra  100,  272,  283. 

Licio  266;  v.  Sole. 

Lucifero,  v.  angeli  ribelli. 

Luna  169,  170, 18'.,  210.  268,  279 
304;  suo  domicilio  nel  Cancro  272, 
282;  patrona  della  Troade  e  della 
Bitinia  298. 

Magia  180-182. 

Marte  169,  170, 178,  180,  193,  208,  268, 
271,  275,  278;  in  congiunzione  con 
Mercurio  264;  domiciliato  in  Ariete 
278,  285,  in  Scorpione  284;  nell'oro- 
scopo del  Bonincontri  131,  del  Pe- 
scara 235. 

Medicina  astrologica  82,  108,  209. 

Melotesia  astrologica  169,  209,  261. 

Mercurio  (dio)  22, 191;  uccisore  di  Argo 
267,  v.  Sole;  (pianeta)  15,  170,  190, 
203,  261,  272,  275;  In  congiunzione 
con  Giove  264,  con  Marte  264,  con 
Venere  264;  suo  domicilio  in  Ge- 
melli 280,  in  Vergine  282;  nell'oro- 
scopo del  Pontano  233. 

Meteorologia  astrol.  802  sgg. 

Minerva  (la  mente)  268. 

Miti  astrologici  7,  8,  9,  262  sgg.,  268. 

Nodo  (costellaz.  del)  285. 

Pastore  -'tifi:  v.  Sole. 

Pesce  australe  292. 

Pesci  100,  271,  285. 

Plriadi  288. 

Presepe  (nebulosa  del)  282. 

Procione  287. 


INDICI  319 

Profezie  astrol.  politiche  196.  Toro  100,  272,  279. 

Regolo  282.  Urania  (favola  di)  203,  263,  277,  311. 

Sagittario  100,  271,  284.  Venere  15, 169, 170, 191, 192,  203,  264, 

Saturno  169, 170,105,  208,270,271,275;  268,271,  275;  in  congiunzione  con 

in  congiunz.  con  Giove  195, 196;  do-  Mercurio  264;    domiciliata  in  Toro 

miciliato  in  Capricorno  e  in  Aquario  280,  in   Libra  283;    nell'oroscopo 

285;  nell'oroscopo  del  Ficino  205.  del  Pontano  233. 

Scorpione  100,  271,  283,  284.  Vergine  64,  100,  272,  282;  (Diche)  7, 

Sole  169,  170,  193,  203,  240,  265,  266,  19,  24;  (Erigone)  9,  96;    nell'  oro- 

271,275,  804;  dom.  in  Leone  282.  scopo  di  Lucio  Pontano  234. 

Stella  dei  Magi  196.  Via  lattea  35,  808. 

Stoici  (astrologia  presso  gli)  30,  34.  Zodiaco  100,  193,  276. 


• 

w 

Pi 

• 

CO 

M 

<^ 

v-l 

CO 

co 

CO 

to 

» 

^ 

IO 

fH 

• 

o 

ai 

-p 

o 

-p 

•H 

(9 

t) 

O 

© 

rH 

C 

O 

CD 

II 

PQ 

-P 
(0 

«< 

ai  : 

•H 

-P 

tì 

OS 

•H  i 

tj 

«1 

iH 

O 

O 

CO 

Oh  ; 

h 

0 

— 

2 

University  of  Toronto 
Library 


DO  NOT 

REMOVE 

THE 

CARD 

FROM 

THIS 

POCKET 


Acme  Library  Card  Pocket 

Under  Pat.  "Ref.  Index  Ffle" 

Made  by  LIBRARY  BUREAU