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Via Cario Alberto, n. SS.
1865.
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Diritti di proprietà e di tradueicne riservati àWautore.
Ptesentato U 21 giugno 1865.'
INDICE
PASTE PKMA.
Compèiidia generale di siarie «iitioe.
Dedica pag. ix
Proemio • xi
€i|iUlf L Qbadro degli antichi popoli del M edilerraileo : loro diffi-
denze e rivalità « 3
— U. Esordii della potenza romana : guerre coi Galli e con
Pirro : prima guerra punica » 13
— in. Conquiste cartaginesi in Ispagna, e conquiste romane
natta GaUia cisalpina e neUlUirìa: disees» di AmlS)^e |n
Italia • 34
— IV. La aecoiida e la terza guerra punica .. * i» J^
— V. Riassunto della storia greca prima delilutasione romana: ..
Filippo ^ Macedonia .«•••.» 68
— TI. Alessandro il Grande: sue conquiste: sua morte: nuovi
Stati greco-macedonici •••... » 86
— TH. I Romani signori di Grecia e di tutto TOrìente : Filip*
pò n di Macedonia e Perseo: Antioco: Mitridate. . • » 110
— Tlll. Finali conquiste dei Romani: loro politica estema. • 128
— IX. Confini delITmpero» a loro dltaidibilità • 142
— X. Il dualismo politico dell'Impero romano • 161
— XI. Pericle e le teerariglie dell'arte ........ a 165
— XU. Confronto dei Greci e dei Romani : effetto deUe conquiste
macedoniche e delle romatte sulla civiltà mondiale . • • 169
VI INDICE
PARTE SECONDA.
L'antica forma del reggimenf o di Roma.
Ctpitolt I. n patriziato di Roma : basi di sua forza nelle istituzioni
politiche e civili pag. 181
— 11. Gli eserciti romani considerati in se stessi, ed in confor-
mità col sistema di governo ■ 199
— III. Cincinnato e Coriolano. I fuorusciti ed i Condottieri . » 217
— IV. n patriziato decimato di prerogative, e declinato di po-
tenza. Il Tribunato. Il diritto pretorio • 228
PARTE TERZA.
La guerre della riforma infama di Rama.
Capitelt 1. I Gracchi: Mario e Siila » 247
— II. Sertorìo : Mitridate : Spartaco : Viriate. La guerra sociale:
i pirati » 256
— 111. Catilina: Clodio: Cicerone » 275
— IV. Pompeo e Cesare ■ 286
— V. Cesare in Asia, in Africa, in Ispagna : signore in Roma:
sud vasti progetti : sua morte » 314
PARTE QUARTA.
II Principato diviso, combat f ato. ridotto ad imita.
Caf Itolt 1. Bruto e Cassio: Sesto Pompeo: 1 Triumviri: le proscrizioni • 341
— II. Antonio ed Ottaviano Augusto «359
— 111. Le confische: il tesoro: i pubblicani: le cognizioni econo-
miche degli antichi » 379
— IV. I Rodii, e le leggi marittime t 392
PARTE QUINTA.
Il Dispotismo.
Capitolt 1. Le sette filosofiche: loro traccio nella legislazione im-
periale . ...» 403
-^ li. La monarchia dei Cesari ed il patriziato dei Re . . . • 420
INDICE TU
PARTE SESTA.
L'indebolimenfa e la oadoU di Roma.
Gafitolt I. Decadenza economica delllmpero romano . . . pag. 4d9
— n. Decadenza politica deirimpero romano » 446
PABTE SETTIMA.
L'adosione del Cristianesimo.
Cafitolt I. 11 Cnstìaneaimo adottato da Costantino: la traslazione della
sede dell'Impero a Bisanzio: esempii analoghi: gli scismi
politico-religiosi • 461
— II. La Chiesa nel medio evo: il Jm circa sacra . . . . • 490
— 111. Necessità che si imiti dai Sultani la politica religiosa di
Costantino • 499
PABTE OTTAVA.
Oli siorioi novellatori.
Gapltolf snlet . . . • 515
CHIUSA,
n colto dei dassid, e gli stndii italiani i 531
AI MIEI ANTICHI STUDENTI
Quando io era nell Università di Padova con Voi,
Vi amava, ed era corrisposto d'affetto.
Per lungo corso di anni, o per vicende di vita, la
vostra memoria non si è spenta, né affievolita in
me, e certamente mi conservate Voi pure V antica
benevolenza.
A Voi presento adunque di gran cuore quest'opera.
Vi troverete non poche delle idee che nelle aule ac-
cademiche, e più spesso nella dolcezza dei privati
consorzii , ho discorso or sono vent'anni con Voi:
allora le ascoltavate con attenzione e favore: ora
potete giudicarle.
Torino, 20 giugno 1865.
NEGRI CRISTOFORO.
PROEMIO
Parve a perspicacissime menti che nei simboli
mitologfci l'infante società balbettasse la storia, e
con sottile ed orgoglioso intelletto interpretarono
le mistiche forme, e le tradussero a noi ; ma quelle
fosche immagini, e quelle precoci leggende man-
canti dell'appoggio d'ogni prova sensibile, bale-
nano indistinte, incerte e discusse, e sovente son
mute. Né forse può bene comprendersi come rag-
giasse per entro la rozzezza delle società primitive
tal forza ed acume di filosofiche astrazioni, e nella
sempUcità dei consorzii, e la coltura non sorta, gU
uomini tenessero si fina ragione, da rendere con
fogge mirabilmente ingegnose il pensiero. Quanto
a noi, non vediamo nella mitologia se non trave-
stimenti di fatti in forme vivaci e bizzarre: volendo
conoscerne significanze recondite, ed allusioni so-
XII PROEMIO
ciali, s'incalzano, si avvicendano e si confondono
in noi le idee accolte e cangiate e riprese e re-
spinte, di guisa che, disperanti dell'acquisto del
vero, ci togliamo dal seguirle, e rinunciamo a
squarciarne il misterioso velame.
Altra scienza meno ardita ed astrusa, ma so-
lerte e severa, spazia non già nell'alto del mare
tenebroso delle età consumate, ma ferma il piede
come prima arrivata sul margine suo, e dovun-
que le appare scintilla di lume propinquo, collega
gli ardimenti ipotetici al positivismo dei fatti, e
nei papiri, nei tumuli, nei cippi, nei delubri, nei
vasi, nei riti, nelle lingue, nelle monete scrutando,
compone le forme degli Stati crollati, e raffigura
le fattezze delle società che p'erirono. Essa si piace
della bendata Etruria, dimora contenta in riva al-
l'onda isiaca fecondatrice dei campi, accompagna
l'arte che dapprima scavava uno schifo al selvag-
gio, gli costruiva di tronchi la capanna, e gli ap-
parecchiava con pochi sassi la tomba, poi ergeva
i misteriosi ipogei, le terme ed i circhi, ed elevava
le piramidi ad emular le montagne: si asside sulle
infrante rovine dell'adusta Persepoh, e di Ninive
assira, ricerca e raffronta i caratteri che diedero
primitiva forma ai suoni, e favella costante al pen-
siero, e segue la recondita via di quei simboh di
civiltà da un paese nell'altro migranti. Quella
scienza invola bensì segreti alla sfinge, e guizza
lampi di luce che dirompono parzialmente le te-
nebre, ma non rischiara completamente la scena:
ci dà ricca congerie di fatti, ci guida ad argomen-
PEOEMIO ZIII
tame il legame, non ne espone la serie ordinata:
ci svela in alcuna parte lo stato sociale, non la
politica vita del popolo : ci presenta l'antichità ve-
nerabile, ma monca e spezzata, quale traggiamo
da sotterra dopo lunghissima notte di secoli un
prezioso mosaico. Noi rispettiamo questa scienza,
e gli ardimenti suoi, ma non la invochiamo per
guida.
Altra scienza è la nostra, che siamo a più sem-
plice, ma pur faticosa ed ardua meta intenti. Ab-
biamo anche noi latebre a cercare, ma non nel-
Fordine materiale dei fatti, bensì nel viluppo poli-
tico non mai consolante d'ogni età consumata,
neiràmbito d'orditi scaltrimenti ed insidie, nei re-
cessi in cui si comprendono facoltà, appetiti e vizii
e virtù di regnanti e di popoU : abbiamo a vedere
come non vada in dileguo all'esperienza delle vi-
cende sociaU, ma tetragona resti la dolorosa dot-
trina degli interessi teorizzata da Elvezio, e ^à
da Guicciardini confermata pel disordinato appe-
tito di maggioranza e d'acquisto, che in tutta la
sua storia nelle azioni e negli scopi predomina.
Benché vaghi infatti di giungere a conclusioni
diverse, e di lietezza e virtù, indagando per recon-
dite fila le reciprocanze e le influenze dei fatti,
ed il nesso clandestino fra le lusinghiere parole,
le voghe ambiziose e la tristizie dell'opere avare
e rapaci, dovremo noi pure riferire alla nequizie
sovente scoperta dei forti la malvagità ingegnosa e
frequente dei deboli : dovremo rivelare il bene che
quasi sempre procede inosservato e per gradi, ed
XIT PROEMIO
il male che in piena e manifesto trabocca. E far
lo potremo con fondamento di prove, perchè non
intraprendiamo all'incerto crepuscolo delle dot-
trine archeologiche il nostro cammino; ci po-
niamo ipvece in via quando già è rischiarato
lorizzonte, e si ha visione dei fatti; spazieremo
quindi colFocchio sicuro sovr essi, rintraccieremo
le cause, ed esamineremo attrazioni e ripulsioni
di popoli, facendo però con riflessioni sulF anda-
mento generale dell'umana coltura, scorrere il
livello della critica sui fatti e gli scritti, e mar-
ciare parallela la storia del diritto e quella dei
Governi.
Ma grave fatica sarà anche la nostra per es-
sere costanti propagatori del vero. Abbonda il
mendacio, e tutti lo sanno, sulle cose presenti per-
chè son molte le lingue che acquistano o perdono
lena per oro concesso o negato, siccome l'acqui-
stano 0 perdono i fiumi per pioggia od arsura;
abbonda anche il falsiloquio perchè interessi e
passioni i veggenti e gli ingenui traviano, o con
violenza trascinano; ma anche la storia antica è
tutta spinosa d'errori ed immonda d'opinioni in-
fondate- Dicesi che il passato insegna l'avvenire,
e la storia è maestra, benché l'umanità sempre
cada dov'era prima caduta, ed ogni età si creda
della precedente più saggia. Ma se anche l'uomo
potesse trarsi di dosso ambizione e passioni, a
fare profitto dell'istoria richiederebbesi che dessa
non fosse sovente una scena di sola fantasia di-
lettosa 0 terribile. E volendo che non sia tale la
paoEVio xr
nostra, saremo spesso costretti a penose ricerche
d'un vero rannuvolato e latente, e di conseguenza
avremo a produrre moltissime nuove opinioni non
per facile indulgenza a spirito novatore e censorio,
bensì per effetto dellavere seriamente assogget-
tato a calcolo di fredda ragione le asserzioni di
menti asservite da non considerate letture, o pro-
clivi a fantastici voli. Vi sono autori e maestri,
che sono cruciati dal bisogno di credere ciò che
hanno letto od udito: per essi non trascorre d al-
cuna moneta giammai la lega ed il peso; essi ca-
scano in ogni fossa, e mordono ad ogni amo : il
loro ingegno sembra animato da forza centrifuga
per uscire dal vero, e nellestimazione dei fatti più
semplici e piani è meravigliosa l'industria colla
quale sostituiscono alle spiegazioni più naturali e
più ovvie, cause e ragioni d'immaginazione bizzar-
ra. Costoro asservendo le menti, intorbidano alla
gioventù esordiente la parte di anima che riflette,
ond'è si malagevole il richiamarla dipoi a verità
e ragione, perchè meglio può trarsi, dice Machia-
velli, una bella statua d un marmo rozzo, che da
uno male abbozzato da altri. All'evidenza od alle
probabilità del vero abbiamo dunque consecrato
i lavori nostri, e speriamo di mostrare che il
mondo camminò sempre col medesimo ordine, e
che le cose recenti ed attuali hanno il proprio ri-
scontro colle lungamente trascorse. E se real-
mente chiariremo l'invariata esistenza nelle pas-
sate società degli stessi elementi delle moderne, e
negli uomini d'ogni tempo non diverse le passioni,
xn PKOjuuo
i difetti, le virtù, e che nello studio dell'antica iato-
ria si hanno ad abbandonare i capricciosi con-
cepimenti, le credenze contrarie a ragione, e le
strane comunque brillanti invenzioni, per s^uire
la sola sostanza e visione del vero, la nostra fatica
sarà feconda di frutto. Se non potremo tórre del
tutto il disordine, che gettò troppo profonde ra-
dici, e stese troppo larghe propagini, reprimeremo
almeno i maggiori vituperii dei racconti istorici,
si che non pullulino e peggiorino colla consueta
Ucenza nelle scuole e nelle opere incensurate
brutture.
Scrivendo a ricerca del vero, e non a suggello
d'opinioni a difendere, noi. non avremo nei rac-
conti , nelle interpretazioni e ^udizii alla mano
quei ceppi che furono posti a molti scrittori da
comando d'altrui, o che da se stessi cedendo a
preconcette opinioni si posero. GU studii delle
cose greche e romane già sarebbero progrediti di
più, e meglio sarebbesi già fatta la storia credit
bile e maestra a governo, se non prendeva predo-
minio nei dotti ora l'intento di tutto rivolgere a
lode dei sistemi popolari o patrizii, ora quello di
mostrare salutevoh e pure, o torbide e nocive le
origini della Chiesa cristiana. Dove era lo scopo,
ivi andava il discorso, perchè il proposito legava
l'intelletto, rendeva lo scandagUo parziale, e det-
tava le deduzioni forzate; cosi per ingannate guide
o guide ingannatrici, p^ seduzione, p^r errore,
per colpe « vennero in contrarie e false partì le
scuole; furono torti i racconti, ed idee ed opinioni
PAOUnO ITU
travolte e disviate dal vero. Ma quale che sia il
merito dei giudizii nostri, essi non saranno mu;
tuati giammai a partigiani interessi, né conformati
a scopo prefisso, od asserviti dal volere d'alcuno:
tutti saranno indipendenti d'un modo, e nelle
moltiplicate ricerche, e nelle conseguenti opinioni,
saremo dislegati da vincoli, e non avremo tre-
mante, ma libera la mano.
Cercando sicurezza nella logica, speriamo
di essere muro forte anche senz'intonaco e lu-
stro, e senza il heto candore del bello : avremo
adunque chi ci segua, perchè lo spirito dell'uo-
mo è pieno di idee confuse del vero, se anche
noi sente e noi vede che per metà in conse
guenza d'istruzione mal data, e di propria rifles-
sione mancata , ma è contento quando a lui si
presentano ben rischiarate le idee. Severa am-
monizione pei critici è quella di Dante, che chi
s'adocchia baldanzoso, e s argomenta di trovare
ecclissato il sole, per vedere non vedente diventa,
ma noi non ritrarremo dall'esame coscienzioso
la mano solerte e sicura, perchè nel combattere
contro credenze largamente diffuse saremo quasi
sempre suffulti ed avvalorati dai classici, così
che le nostre parole sovente non saranno che un
tessuto di frasi letteralmente mutuate agli anti-
chi, i quali, se bene interrogati, sogliono rispon-
dere pressoché costantemente e sènza velame il
vero. Discorderemo però le moltissime volte da
scrittori moderni, che sono idoleggiati dì troppo,
sebbene dimostrino ad ogni pagina di non avere
xTin paoBMio
bevuto alle prime sorgenti, ma scritto guidan-
dosi da soli impulsi fantastici, o dall'attento ori-
gliare da dove potesse, venire lapplauso. A noi .
poco dorrà d'averli nelle narrazioni dei fatti con-
cordi e numerosi in contrario, sapendo che essi
hanno costume d augeUi che benigni ed ingenui
vanno di schiera, e là tutti si posano dove il primo
calò.
Per li paragoni che andremo facendo delle cose
antiche a quelle dei tempi di mezzo e dell'era mo-
derna, le vetuste immagini diventeranno più chiare
siccome di oggetti che ottico stromento avvicini,
e sarà più fermo il giudizio su uomini e fatti del-
l'era lungamente trascorsa per le identità dimo-
strate con condizioni di governi, di fatti e di per-
sonaggi meglio conosciuti e recenti.
Nello scrivere saremo semplici e piani, perchè
non abbiamo lusinga di salire in eleganza, né
siamo intenti, o capaci di avvolgerci in delizie di
lingua. Invaghiti però del nostro idioma, e con-
vinti che è idoneo stromento ad esprimere qual-
sivoglia pensiero, non seguiremo il mal vezzo di
quelli che facendo della lingua nostra un intriso
di tutte le lingue, spalancano corrivi le porte ad
ogni Hcenza oltremarina ed oltremontana di voci,
ed alle parole bisbetiche, selvatiche, che l'alfabeto
non ha i segni per indicarne il suono. Non ci cre-
deremo in diritto di dare, com'essi, cittadinanza
ad ogni parola straniera facendola nostra coU'ap-
plicarle italiana desinenza, ma rifuggiremo ad un
tempo dalla divota e pusillanime scelta dei voca-
PBOKmO XIX
boli, e dagli ardimenti linguistici, perchè non pos-
sono pigliarseli altri che i sommi ingegni, i quali
allora ci apparecchiano di ghiotte bellezze, e danno
alle idee vigore ed impulso. Né ci porremo nello
scrivere ai ceppi idolatrando i granmiatici, perchè
il pensiero non sempre si può per retta gramma-
tica bene spiegare, e ci basterà di scrivere con
chiarezza e misura, sapendo che male si addice
negligenza in comporre, come nel camminare mo-
venza caschevole. Non saremo giammai pedis-
sequi e proni ad altri scrittori, benché ammiriamo
quelli che parlarono una lingua scolpita, ma non
potendone imitare la virilità nella nostra, avremo
almeno l'indipendenza della lingua pari a quella
delle idee.
Vorremo piuttosto pensare e scegUere che ac-
cumulare e copiare, ed avendo noi molto pensato
per scrivere, sarà pur necessario che altri pensi
per leggerci. Non saliamo quindi in speranza di
numerosi lettori ; ma non era perfino Orazio con-
tentus paucis lectoribus ? Non può esserci ascoso
che chi non ha l'abitudine della riflessione, e non
ci segua d'attenzione costante , non amerà l'o-
pera nostra, che è storia politica e non finzione
drammatica, che non mira a sedurre la imma-
ginazione, ma a guidare la ragione, che è se-
vera e melanconica, non ilare e bella. Ma chi
mediterà quest'opera scevra di correlazioni sfor-
zate, e vedrà nei fatti antichi e moderni essere dei-
Fumana natura che gh avvenimenti si riprodu-
cano analoghi, ne avrà, osiamo sperarlo, buon
XX PROEMIO
frutto, se non per le idee dettate da noi, almeno
per quelle che dalla novità delle nostre verranno
suscitate in lui, tanto più se le dizioni sapremo
talvolta illustrare per modo che il lettore si muti
da uditore in spettatore dei fatti.
Gonscii che meno efficace è in rivi superflui dif-
fusa parola, intenderemo a scrivere con breve
pienezza finché non ci trattenga il pericolo di
cadere in oscurità. Lo spirito umano non ritiene
se non ciò che è conciso, e si va solamente da
brevità a vigore, ed a quella chiara comprensione
generale delle cause e delle conseguenze, da cui
facile discende Tintelligenza spontanea nel colto
e giudizioso lettore delle azioni subordinate e
minori.
Noi conosciamo che incommensurabile spazio
separa dall'altezza di Tucidide la nostra umiltà,
ma abbiamo avuto di comune con esso il cercare
conforto di storici studii negli anni d'esilio, e gli
intendimenti conformi nel ridurli in iscritto. Que-
sti libri, egli dice (lib. I, e. 22), e vorremmo poter
dire noi pure, spogli del meravigUoso e poetico,
non saranno forse piacevoli a leggersi, perchè la
più parte degli uomini à indolènte a ricercare il
vero, ma saranno cari a quelli che vorranno co*
noscerlo od averne le maggiori probabilità, es-
sendo quest'opera composta per istruzione durer
vole, non già perchè sia di momentaneo diletto.
Su tutte le bandiere, ed anche su quella degli
studii deve star scritto il progresso: specialmente
deve scritto vedersi sulle scuole italiane, che un
* PROEMIO XXI
giorno insegnavano al mondo ogni scienza che
solleva e consola, arricchisce e migliora, che impe-
riali iiiscepoli avevano, che inviavano a tutte le
Corti i dotti del domestico consorzio dei principi
onorati, che illuminavano col sapere l'Europa, che
ora le ecclissa. Se le scuole di storia furono e
sono su falso sentiero, n esciamo fuori, ed avan-
ziamo.
E se consacrando la stanca penna a narrare le
molte e concordi esperienze dei tempi, a far si che
assurde leggende siano dispogliate di loro luce
mentita, e volte in giusto ludibrio scompaiano, ad
escludere dalla storia l'intervento dei favolosi prò-
digii per la sola presenza dei veri, abbiamo gui-
dato l'intelletto a più chiara ed esatta intuizione
del vero, altri divenendone accorto non si ri-
manga dall' invogliarsi dell'aperto sentiero , si
metta animoso per esso, e lo segua, lo dilati, lo
scopra egualmente indefesso e più perspicace di ,
noi, e meglio stenebri del falso , e renda dotti i
lettori.
PARTE PRIMA
COMPENDIO GENERALE DI STORIA ANTICA
CAPITOLO I.
Qoadro degli antichi popoli del Mediterraneo:
loro diffidenze e rivalità.
Ài cessare della storia eroica, ed all'esordio dell'appog-
giata a monumenti letterarii attendibili e regolari, tro-
viamo sulle sponde del Mediterraneo i Persiani nell'Asia
Minore, nella Siria e nell'Egitto, i Cartaginesi nell'Africa
e nel ponente, ed i Romani o Latini ed i Greci nel
mezzo. Ma i Greci non occupavano un territorio unito e
continuo, né essi erano raccolti in un solo sistema di
Stato: erano anzi distinti in tre masse o sistemi politici.
Il sistema orientale, quello cioè dei Greci dell'Asia
Minore, si era momentaneamente formato in un gran
regno da Creso, ma Ciro lo aveva tosto disfatto e sog-
giogato trionfando in Timbrea. Ciro aveva cosi portato
all'Egeo ed all'Ellesponto le frontiere di quella sua mo-
narchia medo-persiana, che Dario Islaspe rese ancora
più minacciante per tutti i Greci d'Europa col passare lo
Stretto, e coU'occupare contrade di Mesiae di Tracia.
Il sistema centrale, o quello dei Greci più comune-
mente noti, era florido, dovizioso, potente e diviso in un
gran numero di piccoli Stati indipendenti e gelosi fra
loro, ma tutti tementi di Persia.
Il sistema occidentale, ossia quello delle colonie gre-
che del mezzodì d'Italia (Taranto, p. es., Crotona, Sibari,
4 PIKTI PKniÀ
Turìo, Locri, Reggio, Cuma, Partenope], di Gallia, di
qualche tratto a levante delle coste spagnuole, e soprat-
tutto dì Sicilia, era del pari florido e potente, ma rotto
pur esso in cento spezzami.
Tale era l'aspetto del mondo d'allora. Le due masse
dei Greci orientale e centrale si trovavano dunque ri-
spetto alla P^sia in quelle condizioni stesse in cui si
trovano gli Italiani d'oggidì rispetto all'Austria, che una
parte ne domina e l'altra no, e nelle quali si trova la
slessa Atene dei giorni nostri, che è centro ad un regno
greco, e vede a sé vicine grandi masse d'altri Greci nella
sudditanza dei Turchi. Quale incentivo, e quale spinta a
discordie ed a guerre doveva adunque essere l'esistenza
e quasi contatto di Slati liberi greci, e d'altri Greci
nella sudditanza di Persia! Quale diffidenza per l'eccesso
di libertà da un lato, e l'eccesso di servitù dall'altro, e
per le forme democratiche prevalenti in Europa, e l'as-
solutismo, 0 le forme rigorosamente aristocratiche od
anche principesche, introdotte dai Persiani nelle colonie
greche dell'Asia, nonché pel sistema dei Persiani inva-
denti colle armi, e quello dei Greci invadenti coi com*
merci e colla civiltà! Greci e Persiani dovevano egual-
mente sentirsi a disagio, attraversarsi scambievolmente,
nutrire superlativi pensieri. I Greci d'Europa potevano
sperare facile acquisto di territorii doviziosi facendo in-
sorgere le popolazioni greche dell'Asia. I Persiani non
erano sicuri nel loro possesso se i Greci d'Europa con-
servavano l'indipendenza ; ne erano anzi minacciati se i
Greci d'Europa arricchivano, invigorivano. Ed ancor più
della nazione persiana ne era minacciato il dispotismo
de re nella Persia sconQnato ed estremo, per le popo-
lari forme di governo che gradatamente s'introdus-
sero in tutti gli Stati greci d'Europa, e non possono mi-
CAPITOLO PRIMO 5
surarsi, rallemperarsi, acquistarsi coU'esca deiroro e Tof-
ferta di speciali interessi, come facilmente Io possono da
grande sovrano le sempre deboli famiglie dei piccoli re
in opposizione frequente colle loro città. Doveva quindi
temere la Grecia; doveva temere la Persia: anche nella
pace non potevasi posar Tasta ; era inevitabile una guerra,
anzi una serie di guerre, che deBnisse la violenta con-
dizione di cose, mediante una divisione di territorio af-
fatto nuova. Ed ogni guerra aveva necessariamente a
riunire al carattere militare il polìtico ; anzi il politico
aveva sovente a prevalere nelle deliberazioni alle previ-
sioni e calcoli di natura militare esclusiva. I capi d'eser-
cito stando per cosi dire alla prora della nave, non pote-
vano vedere più innanzi dei piloti, ossia dei politici che
erano in poppa; essi pertanto dovevano volgere gli occhi
a questi, e spesso subordinare alle politiche considera-
zioni anche le deliberazioni di guerra.
Ma anche il terzo gruppo o sistema dei popoli greci,
quello cioè dei Greci d'occidente, era in continuo travaglio
ed in armi. Quei Greci d'Italia avevano certamente lot-
tato in tempi anteriori agli scritti documenti d'istoria coi
popoli etruschi stabiliti nel centro d'Italia ai due lati del-
l'Appennino, ed invadenti per civiltà e per forza le tribù
barbaredell'avvallamento del Po(1 ). Ma l'elemento etrusco
già era confinato, e cadeva: al nord lo respingevano le ir-
ruzioni dei Galli transalpini : al sud lo arrestavano le con-
(i) É probabile, e fu più volte scritto che la civiltà etnisca avesse invaso
anche ia Liguria , ed anzi che col mezzo dei Liguri fosse penetrata nella valle
superiore del Po prima che i Liguri venissero risospinti dai Galli, econGnati ai
monti ed al mare. Mancano però totalmente le prove : non abbiamo né costru-
zioni, né iscrizioni, né monete , né vasi , né nomi di città in Liguria anteriori
all'epoca romana: quanto di più antico trovossi e si trova in Liguria è romano,
ed i libri di Tito Litio riflettenti la prima guerra dei Liguri coi Romani anda-
rono perduti.
6 PARTE PRlMi
quiste crescenti di Roma; era già dunque politicamente
depresso» ed alla decadenza politica era conseguita la
morale, e la sospensione della sua azione a civilizzare il
mondo barbaro. Le conquiste di Roma però assorbivano
a poco a poco anche gli Stati greci delVItalia del sud. E
Cartagine, la Tiro africana, estendeva sempre più Tele-
mento fenìcio nell'ovest del Mediterraneo, ed anche a po-
nente dello Stretto, impediva lo spandersi dell'elemento
greco, anzi lo alterava, lo opprimeva, lo escludeva vit-
toriosamente in molte località, insidiandolo in altre, e
preparandone la caduta. Ma la lotta degli elementi e si-
stemi punico-greci era ancor più grave in Sicilia.
L'isola di Sicilia, d'oltrepotente feracità, in situazione
del pari felice rispetto a Cartagine ed alla Grecia, divìsa
dalla penisola italiana da un angusto canale, che essa do-
mina dagli ottimi porti di Àgosta, di Messina e dì Sira-
cusa (mentre l'Italia da quel lato manca quasi assoluta-
mente di porti per un lunghissimo tratto di coste), aveva
spinto il suo commercio, le sue arti, la sua coltura a sor-
prendente grandezza. Siracusa era popolata quanto un
regno intiero, era ricca d'ogni meraviglia delle arti, e te-
neva-la più splendida, la più dotta corte di tutti i popoli
greci : Eschilo, Pindaro, Platone accorrevano ad essa ;
grandeggiavano Agrigento, la seconda Siracusa, e Seli-
nunte marmorea: numerose città erano sparse sul suolo
ubertosissimo: la Sicilia in ìspazio angusto aveva forze
poderosissime. Cartagine, che prima aveva accresciuto la
sua potenza colle sue ricchezze, ora voleva accrescere le
sue ricchezze colla sua potenza ; faceva quindi ogni sforzo
per rapirsi la beata, la fiorente Sicilia. Già tenevala asse-
diata da Malta, dalla Sardegna, dalle ìsole Baleari, dalle
Lipari, da quelle del Mar Tirreno. Sperava di facilitarsi
la via al monopolio del commercio di tutto il Mediterra-
CAPITOLO PRIMO 7
neo, rìducendola in servitù. Pure Cartagine parlava solo
di volerla liberare dalla tìrannia'di Siracusa, di voler di-
fendere rindipendenza dei minori Stali di Sicilia. Ma per
quanto Cartagine fosse prodiga d'oro e di sangue, non
le venne mai fatto di conseguirne l'assoluto dominio.
Sempre che Cartagine fu per stringere la preda sangui-
nosa, si vide delusa dalle forze riunite di tutti i Siciliani.
Cartagine sovente vittoriosa, più spesso sconfitta ; Sira-
cusa percossa e ripercossa, ma sempre gigante; i Carta-
ginesi in Sicilia a porvi ribellione, anche i Siracusani in
Africa (1) a porvi ribellione; i Greci di Sparta, di Atene,
con Timoleone, con Nicia, a proleggere, a sconvolgere,
a ribellare; fiere, ma transitorie le invasioni dei Greci;
perpetua Faltra guerra ; le forze cartaginesi e siracusane
sempre di fronte e sempre minacciose. Le lotte di con-
correnza di popoli sono immense ; non cessano se non
colla rovina di uno dei rivah, o di entrambi per la forza
di un terzo; non si limitano a spazio, a cessioni di terre,
ma si riferiscono a tutti gli spazii, a tutte le terre; e ben-
ché sembri sovente che una sola sia la città per cui si
contende, dall'acquisto di questa dipende Tuniversalità
degli acquisti, la possibilità di ridurre la nazione nemica
a bassezza e quindi di conquistarla.
Intanto Dario persiano estendeva da ogni lato l'impero,
toccava al Ponto Eusino, al Bosforo Tracio, armava
grandi flotte di sudditi fenicii, egiziani e greci, circon-
dava, predava ad una ad una le isole greche: sbarcava
(i) Il nome d'Africa, che frequentemente si ripete nell'opera attuale, denota
il lerrilorio che gli antichi indicavano sotto il nome medesimo , e corrisponde
presso a poco a quello deirodierna Reggenza di Tunisi. Tutto il paese a ponente
fino sulPAtlanlico aveva il nome di Numidia e quindi di Mauritania. La Tingi-
tana e la Getulia erano neirinterno confinanti al deserto. A levante deirAfrica
cravi il deserto detto talvolta Syrika , poi la Cirenaica e Marmarica, di nuovo
il deserto chiamato di Libia, e quindi TEgitto.
8 PARTE PRIMA
perfino un esercito neir Attica, ma di doppia ferita era
ad un tempo percosso : egli era cioè rotto a Maratona
per terra, e battuto a Micale sul mare. Regnando su
quanti popoli stanno fra Tlndo, il deserto di Libia ed il
Bosforo, ben poteva Dario riparare al danno di Mara-
tona, ma quello sofferto a Micale troncava i nervi di sua
potenza. Anche all'esercito di Maratona era forza di su-
bito riparare alle navi per non aver preclusa la via al
ritorno, ed al correre a spegnere l'incendio della ribel-
lione degli Jonii, e di tutti i Greci dell'Asia Minore. La
battaglia navale di Micale, e non la terrestre di Maratona
fu la decisiva della guerra, e decisiva doveva essere per
la condizione politica dei combattenti (1).
Morto Dario, Serse successore sollevava contro i Greci
più grave tempesta. Disertando d'uomini, come dicono
gli storici e poeti di Grècia, il vastissimo impero, procla-
mava Serse la nuova spedizione di Grecia, e marciava
contr'essa colle sue torme favoleggiate a milioni da Ero-
doto. Sembrava impossibile la resistenza: i Cartagi-
nesi ed i Siracusani vedevano da lungi addensarsi l'ura-
gano contro i loro operosi competitori sui mari : poca
pietà lì stringeva dei Greci ; colla loro rovina sarebbero
(1) I classici greci (e qualche latino die da essi copiò, p. e. Giustino) scri-
vendo a proprio elogio le più strane esagerazioni sul fatto di Maratona, hanno
assai contribuito a falsifìcare il giudizio politico sui fatti, che pur ci sembrano
assiomi nella storia greco-persiana. È ben noto, fu misurato e descritto il ter-
reno su cui fu data la battaglia di Maratona , e nemmeno materialmente po-
trebbe contenere le tante centinaja di mille uomini, che gli storici vorrebbero
addensarvi, e forse Dario realmente aveva non a Maratona, ma sparsi in tutte
le isole, su tutte le coste. Il poeta ateniese (d'Eleusi) Eschilo combattè a Ma-
ratona, vi fu ferito, vi perdo il suo fratello Cinegiro (che mori da prode, come
narra Erodoto , ma non colle circostanze pazzamente inventate da Giustino):
egli è quindi il più credibile testimonio. Eppure egli medesimo nella tragedia
/ Persiani, che è un carme entusiastico sulle lotte dei Greci contro gli assalti
di Dario e di Serse, non attribuisce al fatto di Maratona importanza speciale,
ma glorifica i fasti di Salamina e Platea , evoca sulle scene Tombra di Dario ,
e parla perfino di esso come d'un grande conquistatore e sovrano.
CAPITOLO PRIMO 9
diventati monopolisti ; non temevano di seria concorrenza
persiana, ma alle antiche controversie fra Cartagine e
Siracusa si aggiungeva questa ancora, quale cioè delle
due città rivali dovesse succedere nella signoria e ric-
chezza dei Greci debellati.
Varcato TEllesponto, e calpestata la Tracia e la Mace-
donia, Serse si presentò alle Termopili: le trovò chiuse
non da trecento Spartani, comesempre si scrive, ma da
quasi quattro mila Spartani e non Spartani al comando
di Leonida. Quel numero bastava alla difesa locale d'un
varco angusto contro un esercito, non alla difesa di tutti
i varchi di una lunga catena montiva contro un nemico
si numeroso, che tutti poteva contemporaneamente ten-
tarli. Infatti non bastò : Serse valicò in luoghi superiori
e lontani, e scese a tergo di Leonida. Non è lode di
questi Tessere stato anche sorpreso, ma sua gloria
l'avere tenuto fermo cogli Spartani suoi (fors'anche cogli
Iloti, dai quali ogni Spartano era sempre accompagnato),
flnchò combattendo pori. GH esempii eroici sempre sono
utili perchè danno alterezza e confidenza ad un popolo,
e terrore al nemico, ed il sacrificio di Leonida e dei suoi
era atto di generosa, sublime intrepidezza. Le Termopili
però erano già girate anche per mare, giacché la flotta di
Serse, che per sussistenze ed appoggi gli era sempre
vicina radendo le coste, già attaccava le piazze d'Eubea,
ed entrava nell'Euripo.
In rischio si grave domandarono i Greci soccorso ai
Siracusani. Rammentarono la comune origine ; rappre-
sentarono i progetti del monarca persiano essere smisu-
rati, immensi; dissero doversi difendere Siracusa in
Atene, la Sicilia in Grecia. Ma i Siracusani godevano che
i Greci industriosi e potenti, loro rivali nel Mediterjaneo,
forti d'influenze per colonie in Sicilia» fossero rovinati da
10 PARTE PUMI
Serse : vedevano presente il vantaggio di Siracusa, lon-
tano il pericolo : sarebbesi a questo provveduto col non
permettere che i Greci perissero, ed i Persiani occupas-
sero ; ma col fare in modo che i Greci si rovinassero, i
Persiani s'indebolissero, i Siracusani occupassero. Vole-
vano però i Siracusani assicurarsi delFesito, guidare
rimpresa, entrar nella Grecia come amici, servirsi dei
Greci anche per rovina di Cartagine. Risposero quindi,
aver cara la comune origine; essere pronti a soccorrere;
un esercito siracusano verrebbe sbarcato in Grecia, una
flotta si spedirebbe ; la flotta greca si unirebbe alla sici-
liana, ma quella ubbidirebbe, questa comanderebbe;
rimperio di terra e di mare sarebbe dei Siracusani.
Ciò era uno scoprirsi manifestamente. Sostennero i
Greci che quelli dovevano avere il comando per la co-
mune difesa, pei quali il pericolo era presente, non
quelli pei quali il pericolo era rimoto ; i Siciliani non
essere che ausiliarii; pregare caldamente per un soc-
corso. Allora Siracusa ripigliò, dolersi vivamente della
loro sventura, ma essere sventurata essa medesima ; la
Sicilia già essere invasa dalle genti africane ; già soste-
nere inopia di soldati e d'oro ; temere di Cartagine, che si
allestiva a porle campo d'intorno. La saviezza di Temi-
stocle sottrasse i Greci all'estremo sterminio. Avventan-
dosi contro la flotta, e non contro l'esercito, distruggeva
ad un tempo la flotta e l'esercito, poiché le sole navi po-
tevano mantenere l'esercito in comunicazione colla Persia.
Battere la flotta, era un prendere l'Asia dentro l'Europa,
com'egli stesso diceva, ed il supei*are la flotta, composta
in parte di Greci asiatici che i Persiani avevano ridotto
in servitù, doveva essere molto più facile che non il su-
perare un esercito composto di Persiani, di Medi e di
altri Barbari. Appena era stata compressa una fierissima
CAPITOLO PRIMa 11
ribellione di questi Greci, bollivano feroci le ire, atten-
devasi l'ora del riscatto. Proclamava Temistocle awedu-
tissimo la liberazione di tutti i Greci: egli chiamava in
ispecie a rivolta gli Jonii, il popolo principe dei Greci
delVAsia, e lasciava dovunque iscrizioni d'invito per
e$$i (Plutarco in Temistocle), Ancor prima della battaglia
varie navi di Tenedo avevano abbandonato i Persiani:
nella battaglia defezionarono da Serse gli Jonìi ; la flotta
persiana fu sconcertata, catturata, distrutta, e furono
cosi aperte ai Greci d*£uropa le vie all'assalto delle isole»
dei porti dell'Asia, alla distruzione dei popoli persiani
suir£lIesponto, anzi alla stabile occupazione del passo.
Dal fatto militare di Salamina scaturivano adunque
enormi conseguenze politiche (1).
(1) Se tutlì i politici loderanno Temistocle delFaver combattuto in mare
piuttosto che in terra» molti fra i militari saranno tentali di accusarlo di so-
verchio ardimento per aver egli aspettato l'assalto dei Persiani a Salamina,
ossia precisamente nelPinterno del golfo di Eleusi. La flotta persiana ne occupò
le due stretto imboccature colKisola che le separa, e Tesercito persiano copriva
gran parte delle spiaggic. Se Temistocle veniva battuto, era impossibile ch'egli
salvasse una sola nave, ed era del pari impossibile che un uomo, gittandosi a
terra , trovasse scampo. Però Temistocle , che nel giorno della pugna tenne
tutte le sue navi raccolte ad una sola delle due imboccature, rese con ciò inutile
una parte della flotta persiana (regizia), la quale era corsa a chiudere Taltro
stretto (quello cioè verso Megara). Ed anche la flotta persiana , che realmente
combattè (nello stretto più vicino ad Atene), non poteva bastantemente spiegarsi,
girare e circondare Temistocle, per l'angustia dello spazio : essa poi combatteva
precisamente nelle acque rimpelto «il Pireo, ossia in luogo al nemico notissimo,
che seppe infatti avvantaggiarsi d'una corrente favorevole a sé e contraria ai
Persiani, per cui le navi' greche avevano nell'urto l'utilità dell'impulso cbe alle
persiane mancava. Tali vantaggi erano certamente considerabili per chi trova-
tasi inferiore di numero; nondimeno l'ardimento fu grande, perchè sempre
esiste, ad onta d'ogni previdenza , la possibilità d'un rovescio, e la prudenza*
richiede di conservarsi un modo di ripararvi , ritraendosi , onde nuovamente
tentare la sorte. Ora pei Greci a Salamina era impossibile ogni ritirata: erano
chiusi nei golfo, come lo furono i Francesi ad Abukir (1798), ed i Turco-
Egizii a Navarino (1827), ove tutti perirono: il Pireo stava avanti ad essi, ma
erano frammezzo i Persiani. Temistocle si governò per audacia e fortuna. 11
poeta Eschilo combattè anche nella giornata di Salamina, e nella tragedia
/ Persiani descrive minutamente la battaglia : nel suo racconto abbiamo argo*
menti a conferma delle nostre considerazioni.
12 PARTE PAIMi
I Siracusani dal canto loro, col soccorso di tutti i
Greci di Sicilia, batterono ad Imera Tesercito cartaginese,
che per essere numerosissimo, non parve alle minori
città di Sicilia un soccorso contro Siracusa, ma un eser-
cito venuto a generale conquista.
I popoli di stirpe fenicia non diedero migliore esempio
di fraterna assistenza, che dato avessero i Greci. Quando
Alessandro Macedone assediò Tiro superba, chiesero
i Tirii soccorso ai Cartaginesi ; ma i Cartaginesi limila-
ronsi a compiangere i Tirii : essere pur dura la sorte,
che Cartagine figlia non potesse soccorrere Tiro madre;
ma soccorrere Tiro essere un indebolire Cartagine ; do-
vere i Cartaginesi star in guardia contro la rapacità dei
Siracusani. Erano discorsi d'affetto, egoismo velato, ri-
pulse spietate: barbari effetti reca innanzi, e tetre verità
insegna la storia non cortigiana di tempi, di re o di po-
poli. I Cartaginesi commercianti videro volentieri la rovina
di Tiro : confermaronsi nella speranza di poter un giorno
divenire monopolisti. Solo spiac^valoro quell'enorme im-
pero d'Alessandro: l'Egitto e la Grecia, l'Ellesponto,
l'Eritreo, il golfo Persico, e tanta parte di Mediterraneo
sotto una sola sovranità: la repentina morte di Alessan-
dro, e la dissoluzione del suo impero, dissiparono i loro
timori.
Questi erano i possedimenti dei popoli dattorno al Me-
diterraneo; questi erano i rapporti loro, le ambizioni,
le gelosie, le necessità e le guerre, mentre sorgeva, dap-
prima inosservata, sul Tevere la potenza romana.
CAPITOLO IL
Esordii della potenza romana; guerra eoi Galli e eon Pirro;
prima guerra pnniea.
Breve doveva essere quella gioja di Cartagine ; era sorto
in Italia uno Stato, che aveva a prendere subita parte
alla gara del Mediterraneo, e tutti i popoli soverchiare
ed opprimere: era lo Stato di Roma. Già aveva debellato
Etruschi e Latini, s'era invigorito, allargato : aveva su-
perato una crisi gravissima, e se n'era tratto con gloria:
aveva cioè respinto quell'invasione dei Galli, che fu ri-
vestita di forme drammatiche, le quali si possono però
sulla scorta dei più antichi e giudiziosi fra i classici ri-
durre a segno e misura del vero.
La causa della guerra dei Romani coi Galli narrata
da Diodoro Siculo è si ridevole come Io è in altri clas-
sici greci la causa delle grandi guerre greco-persiane ac-
cennate nel precedente capitolo, riposta nella deliziosa sa-
porosità dei fichi dell'Attica dai Persiani bramati, e dei
servigi di donzelle ateniesi ambili da Atossa moglie di
Dario. Leggiamo infatti in Diodoro che i Galli abitavano
un'altura lontanissima dal mare, ed ivi essendo troppo
molestati dal caldo, cercarono altre sedi, ed invasero
VEtruria. I popoli non trasmigrano come gli uccelli ;
il sistema della proprietà non si crea, e non si lascia
come il nido. Ed anche gU uccelli, se soffrono il caldo
14 ' PAftTE PRIVi
al nord, non cercano il freddo al sud^ e se soffrono caldo
sulle alture, non cercano il freddo nel piano.
Tito Livio confessa egli stesso di poco saperne : Tror-
ditur fama (leggesi nel libro V, cap. 33), eam gentem^
dulcedine frugum, maximeque vini nova tum voluptale
captata, Alpes transisse, agrosque ab Etrmcis ante cui-
to8 possedissej et invexisse in Galliam vinum, illicien-
dm gentil causa,. Àjuntem Clminum, ira corruptce
uxoris ab Lucumone, cui tutor is fuerat ipse, prepo-
tente juvene, et a quo expeti pwnce, nisi externa vis
qucBsita esset, nequirent: hunc transeuntibus Alpes dur
cem, auctoremque Clusium oppugnandi fuisse.
Diodoro Siculo però non racconta quella favola tea-
trale dell'immaginato ingresso dì Camillo in Roma nel-
l'istante appunto in cui Brenno ponendo sulla bilancia la
sua spada pronunciava le parole: Vcb vtctis esse. Questa
scena si trova in Livio nel libro V, al capo 49. I Galli
non l'avevano neppure sentito bussare alle porte, e tro-
vano Camillo comparso sulla piazza con un esercito
piombato di repente come un bolide dalle nuvole. Ca-
millo rovescia la bilancia d'un calcio eroico, e nessuno
si muove; poi ordina ai Galli che se ne vadano, ma essi
allegano il conchìuso trattato, e si fa sulle aste poggiate
una bella dissertazione accademica se sia valido un trat*
tato non ratificato, anzi se avesse autorità a trattare alcun
magistrato che non aveva ricevuto i poteri dal dittatore già
eletto. Alfine Camillo tronca la disputa coll'intimareaisuoi
ed ai Galli di prepararsi a combattere, ecc. Nondum omni
auro appenso, dictator intervenit, auferrique aurum de
medio, et Gallos submoveri jubet. Cum UH renitentes
pactos dicerent se se, negat eam pactionem ratam esse^
qua^f postquam ipse dictator creatus esset, injussu suo ab
inferioris juris magistratu facta esset , denuntiatque
CAPITOLO U. 15
Gallù^ ut se adpreelium expediant: $uo8 in acervum
conjicere sarcinas et arma aptare, ferroque non avrò
recuperare patriam jubeU Imtruit deinde aciem
primo concurm haud majore momento fusi Galli sunt,
quam ad Alliam vicerant. Justiore deinde pr celio ad
octavum lapidem Gabina via, quo se ex fuga contule^
rantj vincuntur... ne nuntius quidem cladis reliclus.
Bossuet nel noto suo Discorso sulla storia universale
ha seguito a ragione piuttosto la narrazione di Diodoro,
che non quella di Livio. Ma l'antica istoria abbonda di
narrazioni in cui si desumono alla poesia e colori e
forme, colle quali la fantasia adorna, e le arti del bello
rendono oggettive le astratte idee, presentandole per ma*
gisterio dì tele dipinte e di marmi incisi. Cosi noi tutti
abbiamo letto in cento scritture, e veduto in opere di
pittura e scalpello i senatori assisi nelle sedie curuli, i
Galli ammiranti *la dignità di quei vecchi, il soldato che
strofina la barba di Papirio, e questi che il percuote, e
la strage che segue dell'intiero Senato. Tale si è il
dramma tragico-comico che fu scritto, ci duole il dirlo,
anche da Livio su Roma presa e liberata dai Galli : que*
sto è il dramma che copiarono i mille, ed esornarono
ancora colla sorpresa tentata dai Galli del Campidoglio
romano, colle scolte letargiche, coi cani sonnolenti, e
colla rócca salvata dal rauco gracidare delle oche vigi--
lauti. Quale si è dunque il vero? Come scoppiò la
guerra? Come Roma fu dapprima perdente, e vittoriosa
dipoi?
I Galli erano un popolo guerriero ed invasore. Dalle
regioni centrali della Francia attuale uscirono con due
masse prepotenti d'eserciti ; Tuna con Sigoveso passò il
Reno, combattè e stanziossi in Westfalia, Tal tra con Bel-
loveso passò le Alpi, trovò germogli d'etrusca cultura.
16 PARTE PRIMA
se ne appropriò alcuni, p. es. il carattere alfabetico, al-
terò alquanto il celtico tipo generale alla nazione da cui
s'era staccata, e conquistò tutto o quasi tutto il paese fra
le Alpi, l'Adige e l'Appennino. Era già assai per eccitare
diffidenza e reazione, e dare giusta causa di guerra ai
vicini se anche divenuti tali per fatti somiglianti d'in-
vasione e rapina. Ma ormai i Galli passavano anche
l'Appennino, 31 rinversavano sulI'Etruria, oppugnavano
Giusto, bevevano dunque alle scaturigini dell'Arno, anzi
a quelle del Tevere. Si allarmavano i Romani: man-
davano legati ai Galli perchè desistessero dall'assedio di
Clusio. La giusta causa era dal lato di Roma, ma i Galli
obbietlavano pur essi giustamente il fatto che anche pei
Romani era vasto il dominio quanto il tiro dell'arco, e
che per essi e pei Galli era titolo eguale e sanzione la
spada: non essere Clusio romana: fosse Roma dei suoi
acquisti contenta: non avere a frammettersi nelle opera-
zioni dei Galli. I legati romani entravano allora nell'as-
sediata città, e misti ai cittadini pugnavano. Più non era
' ufficio di legati il loro*: i Galli ne chiedono quindi la con-
segna, ed il popolo romano non li consegna, né conse-
gnare li doveva perchè cittadini suoi, ma nemmeno li
punisce, anzi li premia. Da ciò ruppe la guerra, che
giusta pei Romani nella causa remota, fu ingiusta nella
prossima.
Muovono i Galli contro Roma: si scontrano gli eser-
citi al fiume AUia, e narransi scene di distruzione, di
monti d'uccisi, che sempre pei retori sono a monti i ca-
daveri. Eppure abbastanza concordi e chiari sono i rac-
conti dei classici, che l'armata romana all' AUia, guidata
da inettissimi capi, non fu distrutta, ma prontamente
dispersa, che poscia si ricompose alla nota voce d'un
grand'uomo, Camillo, che varii popoli latini la ingros-
CAPITOLO II. 17
sarono perchè interessati al par dei Romani a respin-
gere rinvasione dei Galli, che essa si serrò a tergo di
questi precipitosamente avanzali su Roma, che guerri*
gliò più mesi loro precludendo i viveri e battendone so-
vente il retroguardo ed i corpi slaccati, e che da ultimo
ì Galli erano cosi assediati in Roma commessi assediavano
il Campidoglio.' Consta che Camillo comunicò cogli as*
sediati in Campidoglio, e quindi la chiusura non ne
era perfetta; consta che in Campidoglio si raccoglieva il
Senato, e quindi i senatori morti con Papirio vivevano
ancora (e crediamo vivesse anche Papirio con loro);
consta che elessero a dittatore Camillo; ma la guarni-
gione era agli estremi, quand'egli fu vincitore. A tutto
ciò che è narrato letteralmente dagli storici, aggiungiamo
anche una causa concomitante indicala da Polibio, che
deve aver scemato le masse eia pertinacia dei Galli nella
guerra romana, e si è che il loro slesso paese in quel
tempo era stato assalilo ed invaso dai Veneti. Nuove osti-
lità più tardi proruppero, e Camillo fu altre volte alla
testa deiresercito, e vinse. Nelle ultime sue campagne
era già ottuagenario, ma sempre lo si raffigura e descrive
come Alessandro, come Annibale, ecc., ed ogni capitano
e giovane e vecchio, in mezzo alla mischia sovra un monte
d'uccisi. Chi insegna e chi legge non pensa che chi tiene
un comando, ed ha da ogni lato ofdini a dare e notizie
a ricevere, può soltanto in rarissimi casi ed in estremo
frangente sospendere per brevi istanti l'azione morale
del comandare alle truppe, e tramutarsi in combattente
volgare, se anche ne ha il vigore e la brama.
Le vittorie sui Galli avevano raddoppiato nei Romani
la confidenza e la forza : Camillo non aveva alleralo la po-
tente organizzazione militare romana, ma miglioralo Tar-
mamento, che trovò troppo debole all'esperimento delle
18 PÀftTB PRtHA
battaglie contro quella bellicosa nazione. Presto però si
miglioravano atìche i sistemi di campo ; e ciò avvenne
nella guerra contro di Pirro. Anche la vera origine di
questa guerra non è chiaramente indicata, ma si disco-
pre pur essa. Roma aveva battuto i popoli etruschi ed i
gallici, e quasi totalmente prostrato i Latini, special-
mente i Sanniti, che nelle aspre montagne avevano op-
posto resistenza terribile. Già dominava in tutto il centro
d'Italia: doveva piombare la sua procella sui Greci dei
sud : forse costoro avevano provocato le oflese col som-
ministrare soccorsi ai Senoni o Sanniti nell'intento di
porre equilibrio nelle forze rivali. I Romani infatti
accusarono i Greci d'aver inviato ai loro nemici gli
ajuli: era verità o pretesto? certamente si rinversava so-
vr*essi il torrente romano che aveva superato la gallica
e la sannìtica diga. 1 Tarentini conoscendosi deboli,
chiamarono Pirro ad ajuto, e questi all'esca si mosse.
Salpate dall'Epiro, entrano nel doppio porto di Taranto
le navi di Pirro, ed ora un esercito di Epiroti, d'IUirii,
di Greci e Macedoni stretti in nodo militare saldissimo,
calca il suolo italiano. Il primo alto di forza si è per
Pirro quello di costringere gli stessi Tarentini e gli altri
Greci d'Italia a ripigliare le armi disusate : Date, dice loro,
soldati e denaro : combattete nelle mie file : volete l'indi-
pendenza? l'ubbidire ìidesso è difenderla. E Tarentini e
Greci vedono che hanno chiamato un padrone.
Anche in questa guerra troviamo alla storia mischialo
il romanzo, ma il romanzo ha già perduto la forma se-
vera, e si è reso gentile, anzi dilettevole e gajo. I Ro-
mani hanno in un subito svestito la scorza rubesta degli
eroi di Omero, e si mutarono nei paladini di Francia:
tutta l'epopea si 6 fatta cavalleresca. Ai Greci di Pirro
grandi per le arti e valenti per Toro, si contrappongono
aPITOLO II. i9
i Romani austeri di virtù e formidati per ferro. Un Curio
Dentato sacrifica agli Dei di legno e di creta ; chi è pago
del necessario ha del superfluo, ed il necessario per lui
glorioso di tanti trionfi, sono sette jugeri di terra, ed una
scodella ; Fabrizio rivela a Pirro le preparategli insidie
del medico. Pirro Io tenta invano coi doni, lo tenta col
terrore dell'elefante che il tocca, ma Fabrizio non si
scuote, né imbianca nel viso. Pirro inneggia ai Romani :
lincerebbe il mondo se li avesse a soldati ; è più facile
smuovere dall'orbita il sole che dalla virtù i Romani : di^
luviano gli epigrammi e le Iodi, che dei Romani hanno
scritto i Romani.
Cinea filosofo va a Roma legato di Pirro : v'era splen*
dida scienza ed- elegante loquela in lui : si gareggia di
maestà, di cortesia: è lodato e loda: vuol insegnare a
Fabrizio la stoica filosofia: avrà onori da Pirro, Io segua,
avrà dignità e potenza. Fabrizio risponde che resta* ed
aggiunge modesto che se fosse con Pirro, i popoli inva-
ghili di lui lo vorrebbero re. Ma già Cinea filosofo si è
troppo avanzato oltre l'ufficio di legato, ed il Senato gli
dà commiato, o lo sfratta. Eppure Cinea non è avvilito
od astioso : racconta a Pirro che non riuscì, ma Roma
templum sibi visam , Senatus antem'regnnm Deum
esse (1).
(1) Alla legazione di Cinea, se fu quale si espone , ci piace di contrapporre
per le cerimonie , per Finsuccesso , e per le reciproche burle , altra legazione
celebre nella storia italiana del medio evo, quella cioè del Petrarca inviato dal
duca di Milano a Venezia. Le forze alleate dei Catalani e dei Veneti avevano
ridotto Genova a lagrime vele estremità : essa domandò la protezione del duca.
Piaceva al signore di Milano Tavere il porto di Genova , e le ricche colonie
della superba città ; non voleva però rompere facilmente colla poderosa Ve-
nezia : servivasi del famoso Petrarca per le negoziazioni. Dura impresa era
la sua.
Nel veneto Areopago era proscritta ogni pompa del dire : in modo semplice
e pronto doveva ciascuno indicare Tintcrcsse , e proporre la parte. Il Petrarca
eloquentissimo ottenne gli onori di tutti , ed il voto dì nessuno. Largheggiossì
20 PARTE PRIMi
Le armi però terrìbilmente suonavano:. si combattè
in piena ordinanza ad Eraclea e ad Ascoli: a Bene-
vento Pirro fu poi di tal colpo di clava percosso, che
ogni speranza di far sua Tltalia se ne andò in dileguo,
onde egli sanguinoso e lacero là tornossi donde era
venuto.
Rimasero ai Romani le istruttive esperienze di .tanta
guerra combattuta con un gran condottiero di truppe
eredi delle glorie dei trionfi asiatici e dell'arte militare di
Macedonia e di Grecia. Ed ora anche Tltalia greca era
in loro mano: potevano vendicarsi di Taranto, vendicarsi
di tutti i Greci d'Italia, e si vendicheranno, ma ora sapien-
temente sospendono: a nuova ed a grandissima impresa
intendono. Non bisogna concitare a rivolta i Greci d'Italia
sì prossimi a quei di Sicilia tuttora potenti: meglio l'as-
sumere con essi forma protettrice, ed anzi proteggere
non i soli Greci d'Italia, ma quelli pur di Sicilia. Erano
• sullo Stretto: guardavano cupidamente quell'isola da si
piccola onda divisa. Peritissimi nell'approfittare della
discordia altrui, videro che dove ferveva una discordia
immensa fra Cartaginesi e Siracusani, poteva assicurarsi
il possesso dei paesi greci dltalia, ed inoltre trovereb-
besi facile strada all'acquisto di un bottino immenso.
Già diventava pìccola l'Italia pel loro vasto desiderio di
regno: volevano disserrarsi dalle angustie del carcere
suo. La Grecia straziata dalle guerre che sciolsero alOne
nei donativi e nelle feste. II Petrarca adulalissimo pur egli adulava : i preziosi
manoscritti da hii raccolti con tanta cura e tanta dottrina, avesse in perpetuo
deposito ritalica Atene. Aveva lodato a cielo Cola di Rienzo demagogo plebeo,
s'era comportato colla teocrazia pontificia e col feudalismo dei Colonna , viveva
in colleganza coi Visconti dispotici, fu coi patrizii di Venezia, e diede loro Fin-
censo. Ma Tamico dei Colonna era di necessità nemico degli Orsini : questi
dnnquc il Petrarca chiamava non so con qual vezzo di poesia Orsi, lupi, leoni,
aquile e serpi, che danno noja ad una Colonna di marmo.
GiPITOLO II. 21
rimpero di Alessandro ia varie monarchie combattenti
fra loro, non poteva frammettersi e rovinare l'impresa.
La Sicilia era il c^mpo controverso fra Siracusani e
Cartaginesi; i Romani, approfittando di tale discordia,
incominciarono quindi le guerre puniche nella Sicilia, e
le incominciarono appunto nell'epoca in cui lo consi-
gliava l'utilità, e lo comandava la prudenza, perchè Si-
racusa da sola più non bastava alla guerra. Grande, ma
breve soccorso le aveva dato Pirro. Vittorioso dei Romani
ad Eraclea e ad Ascoli, egli, senza cessare dalla guerra
latina, era accorso, sperando agevoli acquisti, a battersi
anche contro i Cartaginesi in Sicilia. Ciascuna delle sin-
gole guerre sarebbe stata ben grave per lui: era im-
possibile che le sostenesse entrambe, e fu in entrambe
disfatto.
Appena Pirro sgombrò la Sicilia, i Cartaginesi preval-
sero contro Siracusa, e la ridussero perfino a cooperare
per essi, quasi protetta città, a qualche loro spedizione
militare. E già tentavano d'aprirsi le vie d'Italia, d'occu-
pare il magnifico porto di Taranto, per quindi signoreg-
giare nella Magna Grecia, escluderne i soccorsi ai Greci
di Sicilia, assicurarsi il Mediterraneo occidentale, minac-
ciar forse il Levante. L'equilibrio politico era in Sicilia
perduto : ogni dilazione avrebbe esposto Roma a cimento
gravissimo. Saviamente presero dunque i Romani l'ini-
ziativa, e la presero in Sicilia. Ma importava d'avervi
subito una forte città, e la migliore di tutte è Messina per
chi tenga a base d'operazione l'Italia. Una banda di ladri
(i Mamertini) l'aveva sorpresa: anche con essi i Romani
si strinsero in lega, e v'entrarono (1) : era grande l'acqui-
(t) Divenne allora Messina la principale piazza d'armi dei Romani in Sicjlia;
pei Cartaginesi to era Liiibeo , e Siracusa per Gelone. Vuoisi por mente alle
32 VlìLlK PHlVi
sto come la vergogna del modo con cui si ottenne. Facili
furono gli accordi con Siracusa timorosa di Cartagine,
impossibili erano con questa anelante ad universalità
d*imper0i e non si tentarono.
Si legge negli storici, e tuttodì si racconta, che quando
gridossi la guerra contro Cartagine, ì Romani in sessanta
giorni allestirono cento, e v'ha chi dice cento e sessanta
galere. Come le navi d'Enea si cambiarono in ninfe (Vir-
gilio), eie foglie sparse da Astolfo sul mare crebbero al-
l'istante a navi con remi, con vele e con sarte (Ariosto),
le foreste dell'Appennino, al cenno di Roma, dovrebbero
essersi convertile in vascelli : non ut arte factWf sed quo-
dam tnunere Deorum conversm in naves et mutata; arbo-
rea viderentur (Flor., lib. 2, cap. 2). Questi sono poetici
vaneggiamenti. In sessanta giorni non solo una nazione
affatto nuova nelle cose marittime, ma anche la più esperla
e meglio provveduta negli arsenali, non fabbrica cento e
più galere. Or i Romani, giusta gli storici, vedendo un
vascello cartaginese gettato sulla spiaggia da una tempesta,
avrebbero appreso a costruirne di proprii ; in sessanta
giorni, vele, sartiame ed ancore, tutto fu pronto; fabbrica-
rono cento navi, e ne compirono l'armamento. Si sarebbe
addestrata la ciurma al mareggiare ; un Romano, che non
sapea di vascelli , sarebbe stato ammiraglio in sessanta
giorni, e si sarebbe vinta la prima battaglia contro i Carta-
ginesi da tanti secoli esperti nelle cose di mare. Questi non
sono poetici vaneggiamenti, ma grossolane assurdità. Ep-
pure non v'ha mistero. Noi abbiamo veduto quali odii
posizioni di queste tre piazze , per ben comprendere le operazioni strategiche
tcrreilri e navali della prima guerra punica. D'intorno a Lilibco p. e. si con-
centrò per anni intieri un immenso sforzo d'assalto e difesa con flotte ed eser-
citi , e quando la gran vittoria riportata da Lutazio Catulo tolse del tutto a
Cartagine la speranza di potere più oltre sostenersi nel possesso di quella piazza,
essa scese finalmente ad accordi, e cedette la Sicilia.
cimoLo n. 23
regnassero fra Carlaginesi e Siracusani : in quelle condi-
zioni politiche i Romani ben potevano accingersi ad una
guerra anche senza vascelli. I Siracusani avrebbero fatto in
modo che i Romani diventassero estemporanei navigatori»
le quercie diventassero navi estemporanee, ed un console
diventasse ammiraglio estemporaneo. I Romani avrebbero
trovato in Sicilia lutto Toccorrente : lo avrebbe fornito in
via segreta Siracusa se Cartagine lo comportava, od in via
pubblica se Cartagine esternava il suo corruccio. Sembra
che i Siracusani fornissero in realtà molto di ciò che oc-
correva alle flotte romane. Dicono infatti gli storici greci
e latini che Gelone di Siracusa era un ottimo re: gtretta-
mente neutrale, ma molto amico dei Roihani. Questa neu-
tralità di Gelone, cosi amico dei Romani, deve aver fatto
gran danno ai Cartaginesi. Voleva Gelone che i Romani
cacciassero i Cartaginesi dalla Sicilia ; voleva occupare
tutta risola ; voleva diventare conquistatore e monopo--
lista, e tutto questo a spese, altrui.
Era pei Romani Siracusa un'assai potente confederata ;
v'erano però altri neutrali, amicissimi dei Romani, è
pur essi esperti nelle cose di mare. A Marsiglia, ricca
colonia greca sulle coste della Gallia, la forza di Carta-
gine non era meno molesta che a Siracusa. Quell'uso
cartaginese, di cui parla Strabone, di far cioè annegare
tutti gli stranieri che navigassero nella Sardegna o verso
le colonne d'Ercole, non era costume grato a Marsiglia
commerciante. Marsiglia e Cartagine erano già venute in
guerra per controversie commerciali ; vediamo infatti in
* Giustino, che il diritto della libera pesca era già stato da
Cartagine conteso a Marsiglia colla forza delle armi. Que*
sto già si era l'apice del sistema proibitivo. Tale si«
stema è antico come sono antichi gl'interessi, e gl'iute*
ressi sono antichi come il mondo.
24 PARTE l'RiMi
Inoltre, senza esaminare se ì cittadini di Roma allo
scoppiare delle guerre puniche fossero affatto nuovi nelle
faccende di mare, è d'uopo rimarcare una distinzione di*
Romani in antichi e nuovi ; ìale distinzione, che viene
costantemente ommessa, potrebbe rendere evidente un
fatto* che d'ordinario si espone in modo assurdo.
Sia pure che i cittadini di Roma non esercitassero il
commercio di mare ; sia pure estendibile anche ai plebei
quella massima che proibiva ai patrizii di occuparsi del
traffico : i patrizii non dovevano esercitare il commercio ;
essi dovevano reggere la repubblica, sedere in Senato,
comandare alle legioni. Si ammetta Tautorità degli sto-
rici (Livio, lib. IVI; Polib., lib. I, cap. xix), che cioòi
Romani limitrofi ad un mare percorso da attivissimi na-
vigatori, e padroni della foce di un fiume, non conosces-
sero il commercio marittimo, non avessero vascelli. Ma
i Romani già si erano fatti grandi, avevano passato TAp-
pennino, e s'erano allargati su entrambi i mari ; avevano
soggiogato quasi tutti i popoli della Magna Grecia e del-
TEtruria, la civiltà dei quali fu grandissima, e la cui
perizia nella nautica non può esser rivocata in dubbio.
Prima delle guerre puniche essi erano padroni di un va-
stissimo liltoralc: erano padroni di Brindisi, e padroni
di Taranto, che hanno magnifici porti, ed erano ricche e
potenti città: agli antichi Romani, se essi ignoravano le
cose marittime, si erano aggiunti dei Romani nuovi, chn
le conoscevano e le apprezzavano.
I Romani, si dice, non avrebbero amato il commer-
cio, perchè sgombra le idee entusiastiche, e fa gli animi
propensi piuttosto al guadagno che non alla gloria.
Ma questa stessa massima pur condannata di falso
dalle storie tanto luttuose pcyttticamenle quanto militar-
mente gloriose delle guerre delle repubbliche italiane,
cAnTOLO II. 25
batave ed anseatiche del medio evo« avrebbe consigliato
che i Romani, escludendo il commercio da Uoma, lo
coltivassero invece presso i loro alleati, come più di
sovente si chiamavano questi sudditi di Roma. Dei gua-
dagni mercantili di essi i Romani avrebbero fruito col
decimarne una squisita parte, del loro amore di gloria
avrebbero provato ì frutti amari.
I Romani concessero a molti popoli italiani di vivere
secondo i loro costumi e le leggi loro ; come si può cre-
dere che, neiraccordarlo, abbiano escluso il commercio,
distrutto le navi, incendiato gli arsenali, e leso a gravis-
simo danno di Roma stessa infiniti interessi dei proprii
sudditi? I Romani infatti non estinscro il commercio dei
loro sudditi. Da Tito Livio e da Polibio sappiamo che
prima delle guerre puniche, ossia negli anni di Roma
245, 402, 416 e 473 i Romani avevano conchiuso coi
Cartaginesi varii trattati, ed il primo di essi esposto da
Polibio, era un trattato di navigazione (lib. 3). Leggiamo
inoltre che i Romani nell'anno 443, ossìa cinquantanni
avanti la prima guerra punica, crearono i Duumviri di
mare, e diciolt'anni prima di quella guerra, una flotta
romana di dieci navi annate, avvicinatasi a Taranto
onde rinfrescarsi (?) , fu colata a fondo. V'ha ancora di
pili. Prima dell'epoca, a cui precisamente si riferirebbe
questa creazione d'una romana flotta, i consoli Otlacilio e
Valerio avevano passato il mare con quattro legioni, con-
quistato una parte della Sicilia , battuto i Cartaginesi
sotto Agrigento, ed assediato e preso questa città.
Onde continuare i loro successi contro Cartagine ed
assicurarsi le comunicazioni coirisola, i Romani pote-
rono adunque allestire in breve tempo una flotta formi-
dabile; tanto più che le guerre non nascono, come le
risse, per fatto subitaneo e non preveduto, ma prepa-
26 PiHTE PfUlIA
ransi di lunga mano, e si dichiarano solo quando si sta
per combattore, e sovente dopo di aver combattuto. Ed
i Romani già da qualche anno combatteyano contro ì
Cartaginesi nella Sicilia , avevano un vasto littorale, ave-
vano vascelli, avevano marinai: i Romani, almeno i
nuovi, conoscevano il Mediterraneo quanto lo conosce-
vano i Cartaginesi. Dove poi mancava la perizia dei Ro-
mani antichi e dei Romani nuovi, non mancava Gelone
amico, non mancavano i porti, i vascelli e le genti dei
Siracusani e dei Marsigliesi.
Ecco la ragione facile perchè i Romani guerreggiarono
sul mare coi Cartaginesi, e furono vittoriosi nel primo
conflitto, non che in molti che vennero dappoi. Se i Ro-
mani non avessero avuto marinai esperti d'Italia, di Si-
cilia e di Gallia, i Cartaginesi li avrebbero vinti quasi
senza combattere. Bastava che i Cartaginesi assalissero i
Romani a mare grosso : gli scogli e le correnti avrebbero
per Cartagine compensato la perdita di qualche vascello
colla distruzione totale della flotta di Roma.
Vuoisi inferire che i vascelli romani fossero del tutto
informi dall'avere i Romani applicato ai medesimi un
uncino 0 corvo per stringersi addosso ai vascelli nemici,
e costringere in certo modo i Cartaginesi a combattere
di pie fermo. Questo era forse un eccellente provvedi-
mento pei legionarii romani del tutto mesperti nelle fac-
cende di mare ; ma il governo dei vascelli medesimi ri-
chiedeva ben altro che un uncino o corvo, é dei legionarii
anche coraggiosissimi. La direzione dei vascelli doveva es-
sere affidata ad una ciurma esperta : la pugna poteva
essere sostenuta, dopo cert'epoca di addestramento, an-
che dai legionarii. Ma nemmeno mancavano, anzi ab-
bondavano le genti di mare : i Romani avevano in copia
rematori, velieri e piloti pel governo delle navi e pel
cimoLO II. 27
molo. £ non hanno o Turchi e Barbareschi per due secoli
combattuto sul mare con gran parie di ciurme composte
di schiavi crisliani ? Le galere dei cavalieri di Rodi e di
Malia non furono per un tempo ancora più lungo montale
in gran parte di schiavi ottomani? Era necessario Tusare
con tali ciurme vigilanza e rigore, e si usò con sospetto,
e si inGeri con barbarie, ma v'erano gli elementi di
guerra, e spesso vi fu la vittoria.
Nessuno più dello storico ha da stare in guardia con-
tro le cose romanzesche ed incredibili, e nessuno più
dello storico si diletta di narrare cose romanzesche ed
incredibili. Cosi piacque anche agli storici moderni la
leggenda egualmente poetica d'altra flotta improvvisala
da Pietro il Grande dopo gli studii che avrebbe fatto in
otto giorni in Olanda nel cantiere di Saardam. Eppure
è ben noto che prima di quel viaggio in Olanda, Pietro
aveva già navigato con proprii vascelli il Mar Bianco ,
aveva fondato un arsenale a Woronesh , vi aveva tras-
ferto le ciurme da Arcangelo, vi aveva costruito ventitre
galere per l'attacco di Azow, ed intrapreso la costruzione
di trenta navi da quaranta a sessanta cannoni ciascuna.
Se ì Romani in allora combatterono e vinsero sul mare,
dovevano poter combattere e vincere. Come poi si ac-
cordi la probabilità di combattere e di vincere con quella
fola dei sessanta giorni di creazione, nessuno vi sarà che il
comprenda. Nondimeno lo slesso Montesquieu, nella sua
ammirazione per la romana sapienza, ha narralo questi
romani miracoli, e tante cose soprannaturali strette da
luì in un solo periodo, ha trovato naturali e facili pel sin-
golare amor romano di patria e di gloria. Ed anche Men-
gottì segue l'ordinaria corrente, narrando della ereazione
della flotta romana. È facile immaginarsi^ egli dice,
qwmto quelle navi fossero goffe, sciancate e deformi.
28 PABTE l*RIIIi
Ma che? a questo trislissitno stato delle navi' romane
Mengotli attribuisce appunto la vittoria, pe?rcA^ vascelli
sì tardi e sì rozzi dovevano essere disprezzati da tm
popolo sovrano del mare guai era il cartaginese : il dts-
prezzo del nemico adunque fece uscire vittoriosi i Ro-
mani, tanto più che combattevano con ferocia^ ed i Car-
taginesi erario molli per il clima e per ricchezza : cosi si
scrive, si ripetei e si spiega la storia!
Nella prima guerra punica i Romani fecero quanto
Siracusa bramava che si facesse da essi; scacciarono
cioè i Cartaginesi dalla Sicilia. Ma fecero assai più che
non fosse desideralo : tennero dopo i trionfi guarnigioni
in Sicilia, tolsero ai Cartaginesi anche la Sardegna, ben-
ché loro stala non fosse nel trattalo ceduta, e vi fioris-
sero le colonie cartaginesi doviziose e polenti, attestate
anche oggidì dalla quantità e preziosità degli oggetti fe-
nicio-punici che si scopersero e scoprono specialmente
nella necropoli di Thurium presso Oristano: stanzia-
ronsi altresì nella Corsica. Sostituendosi cosi i Romani
ai Cartaginesi nei possessi, ed estendendosi per ogni dove,
si sostituivano nelle diffidenze e nelle avversioni di Sira-
cusa, e se prima la politica di questa piegava verso Roma,
ora incomincia a piegare verso Cartagine. La quale epoca
di variata politica è forse quella in cui il siciliano Fileno
scrisse la sua storia della prima guerra punica favore-
vole ai Cartaginesi^ che non giunse a noi, ma è ram-
mentala più volte da Polibio.
Regnava allora in Siracusa il figlio di Gelone, cui Plu-
tarco chiama uno scostumato, forse perchè si diparti dal
costume paterno; ma Gelone decrepito avrebbe egli pure
cambiato costume se fosse vissuto quando Siracusa aveva
a temere piuttosto di Roma che di Cartagine. I Siracu-
sani anelano adesso a prendere le terre dalle quali i Ro-
CAPITOLO li* 29
mani hanno cacciato i Cartaginesi, e s'abbia pure Carta-
gine un compenso a danno di Roma. La seconda guerra
punica sarà ancor più feroce della prima. Nella prima
guerra punica doveva andare a ruba Cartagine, edovevano
dividere Roma e Siracusa ; nella seconda dovrebbe andar
a ruba Roma, e Cartagine e Siracusa devono rapire.
Cartagine e Roma possedevano un vasto territorio
acquistato colla frode e colla forza. Le nazioni conqui-
statrici sono di molto più deboli nel difendersi in casa
propria per le ribellioni che soffrono, che non nell'as-
salire pei numerosi eserciti disciplinali che muovono (1),.
Quando Pirro invase Tllalia, Roma perigUò nella lolla;
quando Attilio Regolo, durante la prima guerra punica,
vìnta la gran battaglia navale di Ennone (2), discese
con 40,000 uomini neirAfrica, seltantaquatlro città, per
odio contro di Cartagine , come dicono Eutropio ed Ap-
piano, si diedero a lui, ed egli comparve davanti a Car-
tagine. E se egli invece di offrire i patti, che fu uno sco-
prire manifestamente qual fede voleva serbare ai suoi al-
leali, subito assaliva, sembra potersi dire ragionevol-
mente che Cartagine sarebbe stata sua.
Ma l'aperta negativa di Dione Cassio ed il silenzio di
(1) Alle ribellioni dei paesi ridotti in servitù, e quindi al f:icilc crollo di
grandi Stati d'agglomerazione inrorme di popoli servi, alludeva anche Machia*
Telli in una sensata terzina:
Spesso lino ha pianto lo Stato ch'egli ebbe ,
E dopo il fallo poi s'accorge come
A sua rovina ed a suo daimo crebl^e.
1^) Non sappiamo credere che la flolla di Regolo ad Ennone fosse si grande
da portare , come dicono gli storici , niente meno che centoqmranta mila
rematori e soldati. Gli esperti nelle cose marittime parteciperanno alla no-
stra incredulità. Ma anche questi fatti si aggiungono ad escludere ogni verosi-
miglianza della sempre ripetuta inscienza dei Romani nelle cose marittime
quando proruppe la guerra. Dopo soli otto anni dal principio di essa, e non
.ostante naufragii, incendii e rovesci, Regolo comandava una flolla immensa, e
tale ne era rallestimento e perizia, che egli trionfava dei Cartaginesi, la cui
flotta era ancor più numerosa della sua.
30 PARTE t»BIMA
Polibio e di Diodoro Siculo ci fanno relegare fra le favole
quei racconti scenico4ragici che, non sostanzialmente
variati, si trovano in altri classici suirambasciata di Re-
golo a Roma , sugli abbracciari e le lagrime , sui guer-
rieri consigli dati al Senato paventoso ondeggiante, e sul
supplizio sofferto in Cartagine. £ chi poi ha suggerito a
Paulmier che Regolo morì male medicato ? E come mai
il Vesselingio ha adottata questa bizzarra opinione di
Paulmier? Riflettiamo d'altronde che tre soli anni dopo
il supposto martirio di questo Regolo, che amò Roma
e non se stesso (Petr.), lo scambio dei prigionieri fu
dai Romani consentito e realmente segui.
In generale quella prima discesa dei Romani nell'Africa
fu narrata in modo bizzarro e fantastico. Non è infalli
una favola il racconto di quello smisurato serpente tro-
valo da Regolo al fiume Bagrada, contro il quale dovette
far uso di macchine da guerra ? I più grandi serpenti
non sono nell'Africa, ma neirAmerica, ed anche quelli
d'America sarebbero ben piccoli in confronto all'imma-
ginario serpente incontrato da Regolo. Secondo Bossuef,
nel suo famoso Discorso, il cui merito abbiamo sempre
udito esser sommo, ma non trovato superlativo giammai,
quel serpente doveva essere ben altra cosa che tutti i ser-
penti dei poemi cavallereschi, perchè Regolo avrebbe do-
vuto impiegare contro il medesimo tutto il suo esercito.
CAPITOLO III.
Conquiste eartaginesi in Ispagna ,
e eonqniste romane nella Gallia cisalpina e neirilliria.
Discesa di Annibale in Italia,
Infelici Della prima lolla contro i Romani, avevano i
Cartaginesi perduto nella Sardegna e Sicilia possedimenti
preziosi: se ne erano però compensali dilargando il do-
minio in Ispagna, non altrimenti che gli Inglesi nella se-
conda metà dello scorso secolo, perduta tanta parie delle
colonie d'America, estesero gli acquisti, ed ebbero com-
penso nelle Indie.
Infatti i Cartaginesi avevano occupato quasi tutte le
coste della Spagna ulteriore, e gran parte di quelle del
pari magniQche della Spagna citeriore ; su queste ave*
vano formato ed eretto a principale loro piazza la Nuova
Cartagine (Cartagena), centrale alla linea marittima,
fronteggiante l'Africa, ed in ogni tempo pel vasto ed ot-
timo porto si prezioso possesso, ed ambila conquista.
Altra piazza principale avevano in Cadice, pressoché
isola adesso, ma forse insulare allora , giacché sembra
che il mare non avesse accumulato le sabbie, che ora per
lunghissima , bassa ed esile diga quasi riuniscono al
continente la roccia su cui la città è costrutta. In Cadice,
nelle altre colonie fenicie alla spiaggia, nelle Baleari pure
fenicie, i Cartaginesi d'eguale origine e riti parevano
naturali signori : erano stranieri e nemici per le poche
32 PARTE PRIMA
greche colonie nel ponente di Spagna, e lo erano pei
popoli deirinterno. Stabilivano però colla spada, sempre
invadendo, l'impero ; traevano argento dalle miniere, e
buone genti da guerra dalle bellicose tribù. Ormai do-
minavano non senza contrasto, ma con sicura fortuna.
Roma aveva seguito con occhio geloso il ritorno a
vigore della pericolosa rivale; aveva voluto conterminare
gli acquisti, anzi predisporvi alVuopo il conseguimenlo
di proprii. S'era quindi alleata, aveva cioè concesso
od imposto il proprio protettorato a molte città nell'av-
vallamento deiribero (Ebro). La linea di quelle citlA
doveva essere il dio Termine delle invasioni di Cartagine,
ed il toccarle riaprire in Roma il tempio di Giano. Così
abbiamo veduto nel secolo scorso in America i Francesi
padroni del Canada e della Luigiana, osteggiare gli In-
glesi, signori della costa orientale, volendo escluderli dal
progredire neirinterno con piccoli forti ed alleanze d'in-
digeni lungo l'Ohio ed il Mississippi, e similmente osteg-
giarsi le potenti compagnie francesi ed inglesi del Canada
e della Baja di Hudson, onde avere il monopolio delle
pelliccie e d'ogni minore commercio nelle polari regioni
d'America. Né in altro modo si contrastarono le stesse
compagnie inglesi dell'est e dell'ovest d'America alleati^
dosi agli indigeni, e Francesi ed Inglesi nelle Indie col-
Vallearsi coi principi indostani e maratti contro il con-
corrente europeo. E vediamo anche al presente nell'Asia
e Russi ed Inglesi, dov'hanno voglie ambiziose essi stessi.
0 gelosia delle altrui, stabilire questi avamposti d'alleati
0 protetti, che spariscono poi inghiottiti per l'ordinario
dal loro amico e signore, il quale procede più oltre, e
nuove linee d'amici o protetti disegna. Le politiche arti
si accomodano al bisogno: col tempo ne vengono in
uso di nuove, ma sono antiche le più. Tutti sono avidi
CAPITOLO ni. 33
di dissetarsi alla fonte copiosa: tutti sono gelosi che
altri derivi dal fiume un ruscello per sé: s'intrecciano
alle economiche le politiche idee, si fanno a vicenda più
forti , e sempre ad una meta cospirano , l'arricchirsi e
Finvadere.
Ora Annibale cartaginese, volendo rompere guerra, as-
saltò appunto sull'Ebro Sagunto a//^a/a di Roma. In quale
situazione politica trovavansi in quel momento i Roma-
ni? Che avevano operato i medesimi dopo d'avere con
Cartagine conchiuso la pace? Anch'essi non erano stati
oziosi: avevano invaso altri paesi, eccitato altre gelosie,
commosso altre popolazioni. Perseguitando con giusta
causa i Galli Senoni perchè invasori, s'erano fatti alla
loro volta invasori essi stessi: occupavano, dividevano a
voglia loro il territorio Piceno: poi, avessero o non aves-
sero titolo d'aggressione contro le altre popolazioni gal-
liche della valle padana, passavano all'est ed al nord
l'Appennino etrusco, che non fu mai in verun'epoca
della storia per gli eserciti, da qualunque versante mo-
vessero, Vinespugnabile cittadella che ai giorni nostri
si afferma. Calarono sul Po, battagliarono con alcune
tribù galliche, si confederarono ad altre, uccisero un re,
varcarono il gran fiume e poi l'Adda, ed entrarono in
Milano. Tradussero poscia colonie romane a Piacenza,
che è risso d'Italia, la gran chiave strategica d'ogni guerra
italiana, ed a Cremona per avere in ogni operazione si-
curo un doppio passaggio sul Po. Era impossibile di fare
scelte più giudiziose di località per porvi colonie: i Ro-
mani devono averle anche fortificale d'assai : infatti esse
rimasero intatte anche circumfuse da sollevate nazioni,
e la romana bandiera continuò a sventolarvi anche dopo
le battaglie del Trasimeno e di Canne, e quando ritornò
la fortuna di Roma quelle colonie devono aver contri-
34 PARTE PRWA
builo d'assai alla facile restituzione della romana potenza
nella Gallia cispadana.
Intanto i Romani scorrevano orgogliosi e forti il paese,
e guardavano alle Alpi come a baluardo donato dagli Dei
a sicurezza d'Italia, specialmente a precludere l'arrivo di
altre torme di Galli: Alpibus Italiam munierat natura
non sine aliquo divino numine, nam si ille aditus GaU
lorum immanitati multitudinique patui$set^ nunquam
Roma ecc. (Cic, De prov. cons.) (1).
Dal lato orientale d'Italia però i Romani non mostra-
vano volersi arrestare ai conQni naturali ; li avevano anzi
oltrepassali: erano tragittati neir Illirico, vi spaziavano
largamente: divenivano cosi per possidenze dirette od in-
fluenze politiche limitrofi per spiaggie e territorii di in-
certo confine coi re di Macedonia eredi della gloria di
Alessandro, e tuttora potenti. Gli stessi Illirii avevano
dato all'invasione il pretesto o la causa: dai labirinti
delle loro isole e dalle sinuose costiere lanciavano ardili
pirati sull'Adriatico e sul Ionio : erano gli antenati degli
Vscochi, che dovevano per un secolo far tanto danno a
Venezia cosi polente sul marel I Romani si collegarono
alle città greche dagli Uscochi insultate sovente ed offese
pei depredati navigli: inlimarono a Tenta, regina degli Il-
lirii, che la piraleria cessasse, ossia le ingiunsero ciò che
era ben giusto, ma che la regina, se pur lo voleva, molto
(1) Perchè le Alpi fossero anche ai nostri giorni per Fltalia quel potente
baluardo a difesa , che da molti si credono , sarebbe necessario che TUalia
possedesse ancora il territorio nizzardo. Da quel lato le Alpi sono adesso
oltrepassate dal territorio francese. Fatta anche astrazione dalle operazioni di
mare cosi potenti a' di nostri , le difese terrestri italiane dal lato del sud sono
adesso pericolanti e girate; e se la valle 'd'Aosta fosse riunita alla Francia,
che in due epoche della storia di Casa Savoja ne fece con grandissinìa istanza
ed offerta di compensi domanda, quelle difese sarebbero affatto perdute dal lato
del nord, e nel sistema militare ben potrebbe dirsi che la barriera delle Alpi ha
cessato d'esistere.
CAPITOLO ni. 35
probabilmente era impotente a coni^egaire dai sudditi
suoi. Presero poi sotto la loro protezione il gruppo delle
isole Lissa, che sono la Malta deirAdriatico, pretesero
che grillirii non navigassero a ponente del gruppo:
quindi occuparono essi medesimi quel magniQco punto
di sorveglianza e di blocco di tutte le coste illiriane. Gua-
dagnarono in appresso al loro partito un Demetrio, con-
fidente della regina, e questi la tradì, e consegnò le
piazze principali ai Romani. Essi divisero allora il paese
fra Teuta e Demetrio, confidando nei loro odii intensi e
negli opposti interessi : si tennero in fortissimi luoghi
a vigilanza di entrambi, reclutarono fra i montanari più
turbolenti truppe alleate per presidi! lontani, e presto
spari ogni traccia del regno di Demetrio e di quello di
Teuta.
Per le conquiste romane nella Gallia cisalpina e nel-
rniiria cadde in isolamento impotente, e fu ridotto a vita
temporanea e languida, Tantico popolo abitatore delle parti
orientali del Veneto, perchè trovossi ristretto da tre lati
dai possessi romani e dal quarto dai Barbari. Quale si
fosse questo popolo è vano il chiederlo perfino agli ar-
cheologi, che mancano pur essi di prove a sostegno delle
loro controversie se i Veneti fossero Eneti-asiatici, Tro-
jani, Pelasgi o Vendo-celtici. Appena conosciamo che non
erano Galli, il che rende più probabile la già riferita as-
serzione di Polibio, che assalissero i Galli quand'erano a
Roma, perchè Toltrepotenza di questi non soverchiasse
del tutto, e non si rovesciasse sui Veneti stessi. Ma quanto
noi sappiamo dei Veneti appartiene esclusivamente alla sto-
ria di Roma, che nelle potenti sue braccia ormai li strin-
geva. Lunghi secoli dopo doveva la Repubblica veneta ve-
dersi in condizione identica, quando cioè fu rinserrata da
tre parti da territorii della Casa d'Austria tedesco-spa-
36 PARTE PRIMA
gnuola, e quindi dai possessi della sola Gasa d'Austria
tedesca. Fatali furono per la Repubblica le conseguenze
di quella condizione infelice delle sue frontiere (1), ma
l'antica storia romana è quasi muta sul fatto lento, gra-
(1) Crediamo di poterlo dimostrare, e d'indicare una causa a nessuna se-
conda, ed anzi, ci sembra, prevaiente su tutte, di quella caduta delia Repubblica
veneta, circa la quale si scrissero tanti falsiloquii e non pocbi stultiloquii.
11 territorio della Repubblica era nell'est , nel nord e neirovest stretto dal
confine austriaco : se anche la Repubblica era avversa al turbolento e sangui-
nario governo di Francia, non poteva desiderare che l'Austria trionfasse com-
pletamente e si invigorisse di più : doveva anzi bramare che i casi di guerra
spezzassero quella catena austriaca col ridonare indipendenza, od altro signore
a Milano ed a Mantova. Era infatti Venezia rispetto all'Austria nella posizione
stessa in cui trovossi nel secolo XVII la Danimarca rispetto alla Svezia quando
Gustavo Adolfo trionfò sul Reno e sul Lecb, o Torstenson entrò vittorioso in
Moravia, e tempestò sul Danubio minacciando la stessa Vienna. E come i Da-
nesi erano in allora ostili itila Svezia, cos'i dovevano i Veneziani non essere pro-
pensi per l'Austria. Ma ciò era ben noto a Vienna: quindi i Veneti non avreb-
bero avuto facoltà d'armarsi , od armandosi dovevano dare guarentigie all'.Au-
stria, porre le piazze in sua mano, forse marciare al comando austriaco. Prefe-
rirono starsene inermi; ma clii non lo avrebbe preferito, anche senza tener conto
degli argomenti addotti nelle belle concioni da Botta? Le prime vittorie francesi
nelle Alpi .Marittime saranno state udite con segreta gioja a Venezia , perchè
erano d'umiliazione e d'indebolimento per l'Austria : nessuno poi poteva preve-
dere che quel torrente di Francia avrebbe allagato immediatamente luttaquanta
l'Italia. Ma vincitore a Montenotlc , Bonaparte fu a Lodi : allora gli Austriaci
si rinversano in fuga sul territorio veneziano indifeso : Venezia voleva armare,
ma i mezzi mancavano, e più dei mezzi, il tempo. Intima Bonaparte, e ragione
ne aveva, che Venezia chiuda agli Austriaci il suo territorio ; e certamente Ve-
nezia voleva chiuderlo, ma come lo poteva? Bonaparte dichiara che egli segue
il nemico ovunque lo trovi, che saranno sue le piazze da cui scaccia il nemico:
fìnge perOno di credere che la Repubblica sia connivente coH'Austria , ed insi-
diosa nemica di Francia ; ed essere avversa in quel momento poteva, ma era
avversione impotente contro Francia, com'era stata impotente avversione con-
tr'Austria. Forza, inganno, favore dato al popolo di terraferma contro il patri-
ziato, miracolose fortune francesi di guerra, occupazione delle private proprietà
dei nobili in terraferma, delìrii di tempi, tutto operò a rovinare Venezia, ma la
causa primaria fu questa della mancanza d'esercito, e dell'impossibilità di re-
pentinamente formarlo. Certamente la Repubblica avrebbe potuto chiamare gli
Inglesi nella città imprendibile , ed arrestare i Francesi al margine della fatale
laguna: ma quale ne sarebbe stata la conseguenza? Genova lo seppe nel 18 U.
Mostra la storia politica antica e moderna che nel di in cui uno Stato è av-
volto come Laocoonte nelle spire d'altro Stalo più forte, incomincia pel debole
una vita precaria, nella quale gli è tolta perfino la possibilità dei rimedii.
CAPITOLO III. 37
duato, pel quale i Veneti, prima ancora soffocali che vinti,
vennero poi aggiunti ai Galli, e confusi con essi nella to-
tale sudditanza di Roma.
Quando Annibale si mosse, non era*compita né la con-
quista romana della Gallia cisalpina, né quella deirilli-
ria; continuava la guerra o piuttosto il massacro dei
Galli ; combattevasi cogli Illirj, ed erano gelosi, allar-
mati i Macedoni; Annibale dunque confldavae sperava:
i Cartaginesi avevano esaurito iFloro compito in Ispa-
gna : non ancora lo avevano esaurito i Romani neirilli-
ria e sul Po.
Quindi all'udire il pericolo di Sagunto, l'orgoglioso
Senato di Roma appare tollerante e pacifico, consigliando
utilità che si guadagni del tempo. Egli chiede ad Anni-
bale che s'arresti, ragiona dei diritti dei protetti e dei
neutri, espone i diritti di Roma, precisa quelli di Carta-
gine, indica perfino quelli degli Spagnuoli, ai quali né
Roma né Cartagine avevano pensato giammai ; ma An-
nibale nulla ascolta, e percuote Sagunto. Rivolgesi allora
il Senato a Cartagine perché sconfessi Annibale, ed a
prova d'amicizia lo tenga impedito : finge di credere (e già
v'era da arrossire!) che Annibale assale di proprio odio
ed arbitrio, che contrasta, e non ubbidisce alla patria,
che dev'essere represso e punito. Speravano i Romani
d'uscirne non migliorati di fama, più sicuri però, e di
avere poi la vendetta più dolce dopo d'avere in segreto
temuto, e d'essersi in palese quasi mostrati manchevoli.
Ma anche Cartagine non ode : questa è dunque presente^
inevitabile guerra. Gli eserciti più numerosi e forti di
Cartagine sono in Ispagna : v'andrà a rintuzzarli il con-
sole Publio Cornelio Scipione ; ma la Sicilia prossima a
Cartagine, porta per l'Italia, e già gran campo di guerra,
può esser invasa ed insorgere : vi andrà il console Sem-
38 ' FAETE PEIHi
pronio : e Tuno o Faltro dei consoli passerà poi all'of-
fesa se bene sarà. Intanto Tltalia è lontana dai colpi : la
guerra si restringe in Illiria : spesseggia^invece il ferire,
il disperdere dei Gdli sul Po : imporla che le turbolenze
cessino affatto in quel paese vicino, e che il solo nome
di Roma, il solo terrore vi imperi : le legioni abbisognano
altrove, e lontano.
Tali disposizioni erano conformi alle previsioni possi-
bili d'arte militare e politica. Ma chi dà legge al genio?
chi conosce per antiveggenza d'indizii tutti i pensieri e
gli stratagemmi suoi ?
Non le sole condizioni politiche della Gallia cisalpina,
ma quelle altresì di tutta l'Italia romana mostravano ad
Annibale nella stessa Italia il vero punto ove portare la
guerra. Non vi era Roma conquistatrice ed odiata ? Non
si sarebbero sollevati gli oppressi ricevendo soccorso ?
L'esempio di Regolo sbarcato nell'Africa cartaginese sarà
imitato adesso a pernicie di Roma in Italia da un uomo
ben più grande di lui. Dalla Spagna Annibale poteva
trarre un esercito : voleva però premunirsi egli stesso
contro le insidie che intendeva di usare a danno di Roma.
Mandava truppe spagnuole nell'Africa : vi erano presidio
ed ostaggio : chiamava truppe africane in Ispagna a stan-
ziarvi sostegno a fedeltà : prendeva poi seco un esercito
misto africano e spagnuolo, e marciava verso l'Italia.
Era un esercito di mercenarii il suo, e doveva restar tale
tutta la guerra; ma Annibale marciava confidente di dare
il trabocco alla ponderosa bilancia di Roma. Non si era
sempre battuto suo padre ; non si era sempre battuto
egli stesso con mercenarii soldati? Per verità erano an-
cora recenti le memorie della terribile rivolta dei merce-
narii a Cartagine quando v'erano stati richiamati dopo la
prima punica guerra per essere pagati e disciolti ; ma quale
CAPITOLO in. 39
soldatesca lacera e sanguinosa per tante battaglie non si
sarebbe ammutinata allorché invece di paghe complete,
non le si offi*iyano se non monchi stipendii a conto ed
a spizzico? (1)
(1) Senza tener conto di questa considerazione , e ad onta delle prove date
dai mercenarii nelle battaglie d'Annibale, ed in cento occasioni e prima e dopo
di lui, ed anzi date in ogni tempo e paese semprecbc i mercenarii furono ridotti
a forma di giusto esercito, gli scrittori ed i politici richiamansi ad ogni istante
a quella guerra cartaginese, nella quale i mercenarii scapestrarono orribilmente
con ìncendii e rovine. Essi dicono die i mercenarii non combattono, ma fuggono,
perchè non cale ai medesimi dello Stato che servono ; che se fra i mercenarii
v'ha per eccezione un valoroso soldato, è sempre un Triulzio che vuol dare la pa-
tria italiana alla Francia, od un Pescara che la dà alla Spagna ; che tutti intendono
aiforo, che non li commovono dolorazioni e disastri di chi li guida a stipendio,
che vogliono premii e non paghe, che conservano il nemico per continuare nei
gaggi, che son vili nel campo e tumultuosi nel fóro, che non onore dì milizia,
ma hanno vitaperio di cruda ribaldaglia. E tutti i mercenarii sono dagli stessi
scrittori segnati d'un marchio, e colpiti d'un solo anatema, benché fra loro vi
siano notevoli anzi essenziali differenze , nò tutti egualmente si meritino la
stessa riprovazione.
Somma è p. e. la dilTerenza fra le comuni milizie mercenarie, quali erano
per l'appunto quelle di Annibale , e le Compagnie di ventura, si note nella
storia specialmente italiana del medio evo. Le milizie mercenarie sono truppe
che il governo raccoglie con ingaggio fra i sudditi suoi , od anche all'estero ,
specialmente se. manca di sistemi coscrizionali , non ha o non vuole usare
i sempre cattivi sistemi feudali, o vuol moltiplicare i soldati, ed averli di pre-
ferenza di tal provincia , paese , religione ed idee. Queste truppe dipendono
completamente dal governo , da lui ricevono i capi , i premii e le pene , e se
forroansi con certa avvedutezza , non hanno di comune che la bandiera , non
sono pericolose al governo che le iinpiega, possono essere eccellenti contro il
nemico, e pressoché in nulla distinguersi nei rapporti militari e d'esterna poli-
tica dalle truppe raccolte nei grandi Stati coi modi di leva.
Le Compagnie di ventura invece formavansi da un condottiero , giuravansi
non allo Stato ma a lui, erano stipendiate direttamente da esso, ricevevano i
capi dal medesimo, avevano leggi, ordinamenti suoi, nessun vincolo diretto col
governo del paese in cui erano, nessun territorio a fissa dimora. 11 condottiero
vendeva ad un governo che già combatteva, era in procinto di guerra, o non
s'assicurava in pace, Fimpiego della sua banda : per lo speciale contratto en-
trava nello Stato civile uno Stato militare , che in certe circostanze divideva
col governo le passioni e gli scopi, in altri seguiva la bandiera indifferente, e
muovevasi a suon di denaro senza entusiasmo ed onore almeno neiranime vol-
gari, che sono le più. Scarsa disciplina, ùcile migrazione del soldato dall'una
all'altra banda , diserzione frequente, impuniti delitti , taglieggiate città, molte
le bande, nessuna numerosa, carriere d'onore impossibili, facile mancanza
diapiego ecc., caratieriziavano queste truppe mercenarie d'un capo e non
40 PARTE PHIMA
Annibale coi suoi mercenarii marciava: quasi precor-
reva colla marcia la fama. Ma perchè non ha egli prefe-
rito la via di mare? Ha forse temuto di avventurare l'eser-
cito fra la Sicilia, la Sardegna e la Corsica romane ? Egli
aveva una flotta, e leggiamo che la lasciò al fratello in
Ispagna: era prudente, ma anche ardito: se forti ragioni
non prevalevano in lui per scegliere strada diversa, egli
era capace della stessa temerità colla quale Bonaparte,
non avendo altra via, si spiccò dai porti d'Italia e di
Francia con 500 vascelli cercando l'Egitto, mentre Nelson
cercava lui stesso sul mare.
Annibale però aveva a far insorgere o piuttosto a dar
cuore ai Galli cispadani già insorti : pronte e vigorose
braccia quei Galli gli promettevano : di loro non comperati,
non presi, ma accorrenti, si sarebbe formato un esercito.
Narrano i classici che aveva inviato messaggieri a tutti
i capi nelle Gallie, a tutti i regoli nelle Alpi, e non si
mosse finché ricevette i riscontri. Un re dei Galli
cisalpini, Magile, venne in persona ad incontrarlo, e gli
narrò che i popoli erano pronti a combattere per lui ;
gli disse delle già scoppiate ribellioni, delle ottenute
vittorie, dei sofferti sinistri, delle armi novellamente
impugnate ; aggiunse che i Galli già avevano distrutto
un esercito pretorio, ed assediavano varie colonie ro-
mane : entrasse però subitamente, perchè nuove legioni
romane marciavano. Ecco il perchè Annibale scelse la
via di terra (1).
<Vun governo. Ma di queste Compagnie di venttira noi ci riverviamo a dire
ampiamente nella parte li, cap. ni delPopera attuale.
(1) Che grave ragione avesse Annibale di prendere la via di terra, lo ab-
biamo, ci pare, mostrato. Ma fatta astrazione dalla causa speciale di questo suo
passaggio, ci ha sempre sorpreso, né sapremmo darne spiegazione appieno ap-
pagante, la tanta differenza fra la prima e la seconda guerra punica : in quella
lo sforzo fu segnatamente navale, e fu in questa terrestre ; eppure sembrerebbe
ciPiTOLO in. 41
Il paese da attraversare era neutrale, ma in quale
guerra antica o moderna un condottiero anelante ad un
successo grandissimo si arrestò nella marcia per neutra-
lità di paese frapposto, specialmente se lo Stato neutrale
era debole, od acche forte, ma in altre imprese impac-
cialo, 0 per interessi suoi proprii desideroso che si ten-
tasse con rischio altrui la rovina della parte contraria ?
I forti potrebbero star neutri e quietare nelle lotte dei
deboli, e non vogliono, ed i deboli e quelli che sono in
che il carattere, i mezzi, gli sc<)pi dovessero in cnlrambe le guerre rivolgere
le Tisle e gli sforzi principali alla prevalenza navale. Infatti cosi i Romani
come i Cartaginesi avevano di continuo a tradurre eserciti in Ispagna, in Si-
cilia, neiritalia, nelPAfrica : chi avesse ottenuto sul mare una superiorità as-
soluta sarebbe slato signore di valersi di tutte le comunicazioni per se , e di
tulte impedirle al nemico. Eppure nella seconda punica guerra la lotta marit-
tima non primeggia giammai: vi sduo i trasporti continui, rare e non decisive
le pugne navali.
E vero che in quelle età la propensione naturale dei combattenti non doveva
essere il mare. Senza la bussola, senza istromenli d'astronomia navale, senza
carie idrografiche , senza la luce dei fari , senza buoni mezzi di conservazione
dell'acqua e dei viveri, senza perfezionati sistemi di segnali ecc., la vita mari-
naresca era ben dura , i pericoli incomparabilmente maggiori che non oggidì ,
ed i disastri orribili, e pur troppo frequenti. Se anche ai nostri giorni, in cui
Tarte marinaresca fece in6niti progressi, sono si mimerosi i sinistri di mare ,
se p. e. nelle guerre della Rivoluzione e dell'Impero francese la flotta britan-
nica ha perduto per soli sinistri di mare 32 vascelli di linea, 86 fregate e 750
legni minori, quali danni dovevano in antico soffrire le flotte ! Noi infatti leg-
giamo sovente nella prima punica guerra d'intiere flotte sommerse con spa-
ventevoli sacrificii di vile : nondimeno quelle perdile non trattenevano i belli-
geranti dal costruire immantinente nuovi vascelli, e dal riprendere con essi i
pericolosi sentieri del mare. Confessiamo aduuque di non sapere rinvenire
spiegazione ben chiara del metodo si diverso del combattere nelle due puniche
guerre, ed osserviamo altresì che anche più tardi sembrarono alternarsi la
tendenza e la ripugnanza alle grandi imprese navali : cosi le guerre fra Mario
e Siila , fra Cesare e Pompeo si sono combattute in tutti quanti i paesi che
circondano il Mediterraneo : le legioni si trasportavano in Siria, in Grecia, in
Egitto, nella Spagna, ncirAfrica : pugnavasi anche in mare, ma erano pugne
accessorie, non quelle che decidessero delle sorti del mondo romano, come la
decisero in altre guerre, e p. e. ad Azio.
Altra cosa che ci sorprende nelle guerre puniche, e nelle navali pii^ recenti
di Roma, si è il poco conto che sembra essere stalo fallo di Malta , che per la
posizione e pel porto, segnatamente in quelle guerre doveva essere ad entrambi
i combattenti d'importanza grandissima.
42 PAITE Finii
altra causa occupati non possono : essi vedono fre-
menti, ma soffrono che il paese sia strada alle marcie, si
faccia mercato alle proprie città da condottieri stranieri
pel cammino variato, Talloggio risparmiato, il grano non
tolto, e seguano le orride battaglie sul proprio terreno.
Cosi Brasida nella guerra del Peloponneso attraversava
con Lacedemoni e Traci la Tessaglia neutrale marciando
contro gli Ateniesi, e parlava ai Tessali propensi ad Atene,
ma sorpresi ed inermi, della libertà di ciascuno di deam^
buldrsi e peregrinare (TucmiDE, IV, 78) ; cosi Carlo XII
marciando dalla Polonia in Sassonia attraversò la Slesia
neutrale, e l'Austria già in guerra con Luigi XIV si
tacque ; cosi Eugenio di Savoja discese dalla Germania
in Italia pel Veneto, e Venezia si tacque; cosi in questo
secolo abbiamo veduto gli eserciti belligeranti attra-
versare le Provincie neutrali di Venezia, neutrali di
Prussia, neutrali di Svizzera. Ed anche Annibale poteva
attraversare con confidenza la Gallia : egli reggeva armi
forti, non voleva che passaggio rapido, aveva probabil-
mente raccolto denaro per le necessità dei suoi fin oltre
l'Alpi onde risparmiare il paese da tolte forzale, mar-
ciava a soccorso di nazione gemella dei Galli, tendeva a
distruggere quei Romani che già avevano usurpato una
parte cospicua della stessa Gallia transalpina lungo il
mare Mediterraneo (1).
Vedevano anche i Romani la gravità del pericolo : voi-
(i) Noi siamo rimasti net limiti della stona: non abbiamo voluto entrare nel
campo delle ipotesi. Eppure non è improbabile , anzi sembra doversi ritenere
che fra i Galli ed i Cartaginesi esistesse una yera alleanza forse fondata su
norme regolari e giuridiche di convenzioni e trattati. Dopo la prima punica
guerra i Romani erano pei Cartaginesi e pei Galli un nemico comune : v'era
contro i medesimi concordia d'interessi e di scopi r può dunque presumersi che
si fossero stipulati anche accordi palesi o segreti, benché dei medesimi non sia
rimasta la prova.
CAPITOLO 111. 43
lero precludere la via ad Annibale : infatti un esercito ro-
mano era sbarcato a Marsiglia, e risaliva lungo il Ro«^
dano per attraversargli la marcia. Qui rifulse il genio di
Annibale. Destreggiò, finse gli aflfronti e schivoUi, curvò
la marcia, scomparve nelle valli, fu al limitare d'Italia
non armata che dei monti che la fasciano : non stette per-
plesso perdendo celerità, che il dubbiare in azione non
è d'alto intelletto : balenò sul vertice, e calò nel piano.
Le truppe romane non erano vinte, ma vinto era il con-
sole cosi superato dallo schermitore maestro. Scornati
ripresero i Romani la via di mare per afferrare in Ligu-
ria, varcare l'Appennino, e fare giornata.
Di quel passaggio delle Alpi le piò strane leggende si
scrissero ; ma quante non se ne dissero e scrissero per-
fino ai giorni nostri sul passaggio di Bonaparte pel Gran
San Bernardo ! Non abbiamo sempre sotto gli occhi mon-
tato su cavallo arabesco in cima alle rupi nevose quel
Bonaparte che realmente passò su modesto somiere ? E
pensiamo cosi passasse Annibale, non a dorso d'elefante
magnifico sulle vette eternamente ammantate di larghi
ghiacciai. Ma le favole sparse circa il passaggio d'Anni-
bale dovevano in quella età essere più strane che non
nella nostra, e le rammenta Polibio (lib. 3, cap. 9), e
rifiuta, conchiudendo cosi : Prima di intraprendere la
marcia^ Annibale si era informato esattamente della
natura e posizione dei luoghi pei quali si era proposto
di passare: sapeva che la via era difficile, ma pratica-
bile ; conosceva che i popoli lungo il cammino non at^
tendevano che un'occasione d'insorgere : si era provve-
duto di scorte d'uomini dei paesi che aveva da attra-
versare, e costoro lo servivano tanto piò, volontieri
perchè avevano gli stessi interessi e le stesse speranze.
Parlo con sicurezza di tutte queste cose, perchè le ho
44 PARTE PaiMi
apprese dai testimonii contemporanei, ed andai io stesw
nelle Alpi per averne esatta cognizione. Ma il racconto
del giudizioso Polibio, che tanto s*approssima nell'indi-
cazione delle cautele prese da Annibale a quelle che sap-
piamo avere poi usato Bonaparte nel suo passaggio delle
Alpi (anno 1800), toglie molto al dramma, ed è appunto
il dramma che più del vero nelle scuole e nella storia
circa Tantico ed il moderno passaggio si insegna. Noi
non cerchiamo che il vero: non abbiamo Tincompatibile
senso di immaginose stranezze. Studiamo la storia per
scandaglio dei fatti, non già per abbracciare come Issione
una splendida nube invece della Dea corporea. E colle-
ghiamo nello studio le idee politiche, le militari e le let-
terarie, perchè dall'armonia loro meglio riluce Tintelli-
genza dei fatti, e per le scoperte colleganze passa nel-
l'animo il vero delle esperienze sociali.
CAPITOLO IV.
La secoDda e la terza guerra puDiea.
Annibale ayeya passato le Alpi, e colla rapidità a pas-
sarle aveva ottenuto lo scopo che per lentezza di mosse
avrebbe potuto mancare al medesimo, come sarebbe in-
fallìbilmente a Bonaparle mancalo se egli pure non era
mirabilmente rapido nell'attraversare inatteso, e piom-
bare a tergo degli Austriaci aflferrando le loro linee di
comunicazione col Mincio (1800). Aveva vinto politica-
mente col dare mano ai Galli, e quindi provveduto a po-
ter vincere anche militarmente.
Rammentò il Cartaginese ai soldati estenuati e stanchi
le favorevoli disposizioni dei Galli, essere vicini al ne-
mico, ma già in mezzo ad amici; rammentò la ric-
chezza d'Italia, ed a tutti parlò costantemente di li-
bertà: Polibio lo dice più volte. Teneva prigionieri i Ro-
mani che cadevano in sua mano : rilasciava senza riscatto
i loro alleati: Italia libera, Cartagine lo vuole, era la
sua divisa : prendete le armi, e siate con me, era il suo
dire. Già i Galli cisalpini insorgevano, anzi un corpo di
essi, che era col console Scipione, massacrava i Romani,
e passando al nemico ne ingrossava l'esercito scemato
dalle marcie, da varii scontri, e forse da guarnigioni la-
sciate in addietro. Doppio pericolo adunque minacciava
46 PABTB PRIMA
Roma, il politico cioè, ed il militare, dovendo frenare i
popoli, e combattere un grand'uomo di Stato, ed un gran
capitano. Tale infatti era Annibale: la prima guerra pu-
nica non aveva oflferto un uomo veramente grande né ai
Cartaginesi, né ai Romani; la seconda guerra punica
doveva oflfrirne due, cioè Annibale e Scipione rAfricano,
ma Annibale era presente, e guidava un esercito ; Sci-
pione tuttora ignorato, e confuso nelle file inferiori dei
militi, partecipava a tutte le rotte, egli si capace di vin-
cere quando imperiasse !
Anche Tito Livio riconosce il genio d'Annibale, e per-
fino lo ammira. Nescio, egli dice nel libro 28, cap. 12,
an mirabilior Hannibal adversis, quam secundis rebus
fuerit, quippe qui cum in hostium terra per annoi tre^
decim, tara procul a domo^ varia fortuna bellum gere-
ret, exercitu non suo civili, $ed mixto ex colluvione
omnium gentium, quibus noti lex, non mo$j non lingìia
communio ; alim habitus, alia vestis, alia arma, alii
ritus, alia sacra, alii prope Dii essent, ita qnodam
uno vinculo copulaverit eos, ut nulla nec inter ipsos,
nec adversus ducem seditio extitisset, cum et pecunia
scepe in stipèndium et commeatus in hostium agro dees^
sent. Ma del carattere d'Annibale, Livio parla come d'un
mostro linhumana crudelitas, perfidia plusquam punica j
nihil veri, nihil sancti, nullum deorum vietus, nullum
jusjurandum, nulla religio. Qui l'ira romana lo ha reso
ingiusto: non ci rimasero, è vero, scrittori cartaginesi a
difesa, ma non s'accordano nelle accuse con Livio né
Polibio, né Diodoro Siculo, e nemmeno Cornelio Nipote
e Trogo Pompeo, e non le conferma la calma ed impar-
ziale meditazione dei fatti. Che anzi la riflessione solleva
la grande figura d'Annibale si alto, che da qualunque
lato si guardi, pochi personaggi in tutte le età della sto-
CAPITOLO IT. 47
ria troTansi degni di tanta ammirazione^ ed anzi d'affetto.
Entrò in Italia giovane come Alessandro al Cranico, Fe-
derico II a Mollwitz, 0 Bonaparte a Monlenotte (1), e
(1) Salva qualche ecceuone rarissima (io non saprei addurre che quelU di
Tamerhino), né Tantica, né la moderna storia di offrono esempii di capitani che
abbiano eseguito replicati e grandi fatti di guerra in matura età. Cromwell in-
cominciò tardi la carriera delFarmi, e fu vittorioso, ma il mondo ha piuttosto
stupito della tempra delFanimo suo, che non del suo genio ne' trionfi delFarroi.
Certamente si incontra qualche trionfo anche d'un generale ottuagenario, e
vinsero p. e. Agesilao, Focione, Camillo e Yillars anche ad ottanf anni bat-
taglie, perché se due vecchi comandanti combattono, o Tuno o Taltro di loro
deve pur vincere, ma una serie splendida di grandi vittorie non ha illustrato
giammai se non capitani neiretà di venti, trentanni, in rari casi di quaranta :
Ciro, Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, Gustavo Adolfo, Eugenio di Sa-
voja/.Napoleone, Wellington ecc., erano giovani. E perché mai la vittoria inco-
rona quasi esclusivamente le giovani fronti? Egli é perché la tattica é un'arte
che s'apprende solo coiresercizio e col tempo, e quindi nessuno nasce in
essa maestro, sebbene con molta attitudine e giornaliera esperienza si possa
rapidamente diventare ; ma la strategia, cui la stessa tattica si fa secondaria,
non s'impara per gradi, né mai perfettamente colla fatica e lo studio. La
scienza strategica é simile all'estro poetico, alla perfezione dei sensi : é insita
airuomo, é figlia del genio : é una facoltà potente, che piuttosto crea che ra-
gioni, piuttosto si slancia che non combini, non attinge la sua ispirazione se
non alla forza del genio : misura sulla vastità di un regno il tempo, lo spazio,
i mezzi, comprende coll'occhio della mente uno Stato intiero o molti, come col-
l'occhio del corpo si vede un campo od un colle per disporvi opportunamente le
truppe in battaglia. D'un'eseguita operazione strategica bene si comprendono
le ragioni e si ammirano, ma non si apprende per attenta lettera ad emularla
in altri tempi, in altro corso di fatti. E nemmeno manifesta la storia che un
genio perfezioni se stesso, perché é della natura del genio Tessere nel primo
istante perfetto. Quindi vediamo che i genii di -guerra hanno operato i predigli
cosi nel primo istante del loro apparire, come più tardi, affievolendosi poi coi-
rete, e perfino riducendosi ad una stregua volgare se la morte non li tolse
prontamente alla fama. Non si indebolisce egualmente cogli anni, e non si
spegne l'estro poetico? Non é languida VOdissea se si confronta hW Iliade? Ma
è ben più rapida la decadenza del capitano che non quella del poeta. Il poeta
non deve se non brillare di idee, perché chi non arde non incende, ma alla
fertilità delle idee non é necessaria né vigorosa salute, nò moto : il capitano
deve concepire l'idea, ed inoltre eseguirla, il che si fa con infinita serie di or-
dini, di ispezioni, di movimenti, coH'essere ovunque, coll'essere padroni della
veglia e del sonno, col pensare a tutto e veder tutto, infondere la propria attività
a tutti, perché il proprio genio non si può infondere in tutti : non si possono
trovare se non abili esecutori, e sono abili allora soltanto che sono sempre
sorvegliati. Chi dunque non é giovane, non ha corpo di ferro, può immaginare,
ma non operare predigli. E perché i grandi successi si ottennero piuttosto con
48 PABTE PRIMA
trionfando la corse: fu sempre sobrio come Bonaparte,
amò le lettere, e gli storici greci Sosilo e Filenio lo ac-
compagnarono in ogni spedizione come Polibio accom-
pagnò Scipione: non aveva Vodio dei Romani di cui
sempre si accusa, ma aveva la splendidissima fiamma del
patriottismo, virtù che fu tanto più nobile in lui, perchè
sempre somme^sso a Cartagine anche quando ne deplo-
rava gli errori: guidava mercenarii raunaticci d'ogni
paese e favella, ma nelle prospere e nelle avverse fortune
li tenne raccolti alla bandiera, e sempre ossequenti. Tale
si era il grande Africano. Con tanta superiorità sulle
masse sue proprie, col caldo favore dei popoli ila-
liani, con un'estrema perizia nei movimenti strategici,
che emerge all'evidenza dallo studio delle campagne
sue, Annibale trasse la romana potenza a precipitoso
crollo.
Il primo colpo fu dai Romani sofferto al Ticino. Visto
che il pericolo ingrossava sul Po, ove la guerra punica
stava per diventare punico-galla, mentre d'invasione for-
midabile non era peranco minacciata la Sicilia, Roma ne
aveva richiamato il console Sempronio. Un secondo eser-
cito si formava dunque in riserva pronto ad aggiungersi
al primo : Sempronio s'attergherà a Publio Cornelio :
la linea romana così raddoppiata sarà più forte di fronte
ad Annibale : sarà anche potente ad abbattere squadre
contrarie, e porte di città rivoltose.
Ma qui v'ha qualche circostanza che gli scrittori la-
ciono, e non possiamo indovinare. Le legioni di Sem-
pronio non furono lanciate per diritto cammino attraverso
piccoli die non con numerosi eserciti? Egli è perchè i piccoli, e non i grandi
eserciti sono effettivamente nella mano, ossia sotto l'impulsione diretta del
capo, che può tutto conoscere, tutto vedere, e la virtù del suo genio, se genio
egli ha, riluce in ogni suo fatto, in ogni suo movimento.
CAPITOLO IV. 49
la Liguria nei piani superiori del Po : noi le troviamo in-
vece a Rimini, colonia romana fondata presso il Rubi-
cone alla frontiera italiana colla Gallia transpadana;
quindi le vediamo di largo spazio da Cornelio divise.
Temevasi forse ancora dei Galli Senoni? avevano essi fatto
dimostrazioni ostili? Volevasi marciando attraverso Tin-
tiero paese ammonire a quiete per formidata presenza
tutti i popoli galli? Si ignora: certamente Cornelio Sci-
pione restò solo controia valanga scesa dall'Alpi, e contro
la bufera rumoreggiante d'attorno. Aspettare il collega e
temporeggiare Cornelio non può, perchè Annibale in-
calza e percuote : potrebbe però marciare egli stesso verso
Sempronio Gracco, e scemare cosi al doppio esercito di
una metà il cammino ed il tempo a riunione di forze, ma
questa ai Galli sembrerebbe una fuga, e darebbe segnale
alla ribellione di tutti : meglio dunque tener fermo, ac-
cettare giornata, od offrirla secondo i casi : non volevasi
gi& assaltare Annibale sul Rodano? Cosi non si vedranno
le aquile romane voltar indietro il rostro quasi tementi :
ogni Romano poi sa che di gran forza ferisce, ma chi
sia Annibale non ancora pienamente Io sa. Quindi Sci-
pione azzarda la zuffa, è sgominato, e la perde, e la ma-
gnifica contrada di Gallia sulla sinistra del Po è in mano
ad Annibale.
Ora accorre Sempronio : ha da raccogliere le reliquie
dell'esercito di Scipione: ha da sbarrare ad Annibale cosi
la via della Gallia cispadana, come quella d'Etruria : il
punto di chiuderle entrambe è Piacenza : ivi l'Appennino
scende quasi nel Po, poi se ne allontana e dal lato di
levante e da quello di ponente: è dunque la chiave delle
difese possibili. Sempronio potrà assodare la sinistra ai
colli, la destra al Po: avrà vicine Piacenza e Cremona,
che incoraggiate non caleranno bandiera ; se avrà vit-
4
50 - . PARTE pumi
torìa sarà con esse padrone dei varchi del Po, e libero
di dilargarsi nei piani.
Giunto però sul luogo, Sempronio cangia inopportu-
namente la difesa in assalto : è completamente battuto :
Annibale varca l'Appennino, scende in Etruria, per que-
sto movimento fa sua anche la Gallia cispadana ora ae-
cessariamente abbandonata dai Romani a se stessa:
quindi rompe e distmgge al Trasimeno anche il console
Flaminio. Cosi alla Trebbia, come al Trasimeno, i Ro-
mani avevano pugnato con prodezza di soldati, ma non
con scienza di capi. Alla Trebbia potevano aspettare die-
tro il fiume in preparata posizione l'assalto, ed anche in
caso infelice ritirarsi per combattere di nuovo in luoghi
di quasi egual forza sul Taro, sul Panaro, sul Crostolo.
La loro sola presenza nellEmilia avrebbe vietato ad An-
nibale la marcia d'Elruria, perchè l'Appennino poteva
chiudersi dietro di lui, ed essergli tolta ogni comunica-
zione coi Galli. Ma alla Trebbia i Romani vollero invece
assaltare: passarono il fiume, che è povero d'acque
fuorché in momenti di piene, ma d'ampio letto, e sem-
pre d'ostacolo alla libertà dei movimenti in caso di riti-
rata e di nemico inseguente. Essi combatterono dunque
col fiume a tergo, come pugnarono al Trasimeno addos-
sati ad un lago: fallita la vittoria, la sofferta ripulsa di-
venne un disastro. Quando mai Annibale ha offerto od
accettato battaglia in si svantaggioso terreno? Non fu lo
stesso Napoleone in estremo pericolo di totale sterminio
quando schierossi in battaglia fra Aspern ed Essling ad-
dossato al Danubio, e venne respinto? E quante precau-
zioni non prese quando forzò di nuovo il passaggio del
fiume, e con masse prepotenti combattè la gran giornata
di-Wagram! (1809).
Continuò Annibale fulminando la marcia pel sud, la-
CIPITOLO IT. 51
gciandosul fianco destro Timperterrita Roma. Bisogna le»
rare a rivolta tutte le greche colonie : avranno da Anni-
bale la spinta e l'ardire, mentre già ne hanno le voglie:
i più rovinati saranno i più presti a dare l'esempio, ma
a nessuno sarà vergogna il lasciare il campo romano, e
gloria per tutti il rizzare proprio stendardo: ora vedrà
ritaliaun esercito cartaginese alleato dei Greci I Pirro ha
già tentato coi Greci suoi di levare a rivolta tutti i Greci
d'Italia, ed in parte ottenne successo: ora lo tenta Anni-
bale col gran nome dei riportati trionfi, e colle semine-
gre tribù del deserto, cogli Spagnuoli ed i Galli. Quali
speranze, quali terrori, quanto agitarsi palese e recondito
in tutta la Magna Grecia I Accorrono i Romani con eser-
citi consolari riuniti, ma nella terribile giornata di Canne
sono di nuovo prodigati e distrutti.
Descrìvono gli storici militari quella grande battaglia,
e vi cercano insegnamenti di guerra. Annibale assai in-
feriore ai Romani nell'infanteria, li superava di molto
nella cavalleria, e vinse con questa. Da ciò Polibio troppo
facilmente conchiude che nelle battaglie meglio è l'avere
una cavallerìa superìore alla nemica, e la metà d'infan-
teria di meno, che non l'eguagliare il nemico nell'una e
nell'altra. Ma nell'antica storia non si è veduto in cento
conflitti che la superiorità nella cavalleria non è pegno
di vittoria? Non lo si è p. es. veduto a Farsaglia? Né la
storia moderna discorda dall'antica : vinse Napoleone la
giornata di Aspern (1809) colle grandi sue masse di ca-
valli? vinsero gli Alleati a Lùtzen ed a Bautzen (1813),
benché prevalessero fuor d'ogni misura di cavallerie ec-
cellenti? Annibale ha trionfato a Canne perché le infan-
terie romane vittoriose nel centro, nell'avanzare con
impeto si scomposero negli ordini loro, di guisa che si
battevano per coorti e per manipoli: aggresse di re-
52 PARTE PRIVi
pente da onde di cavalleria, fu un orribile viluppo di
fanti e cavalli, e giacquero i primi. Non è dunque la su-
periorità nella cavalleria che ha dato la vittoria ad Anni-
bale, maTavere lancialo in momento opportuno su fanti
disordinati i cavalli: perduti gli ordini, le fanterie son
nulla. Che altro pose a Bonaparte a Marengo la corona
sul capo se non una carica di poche centinaja di cavalli
su superbi reggimenti di fanteria, fatta nell'istante in cui
le profonde colonne di marcia sfasciandosi per formarsi
in linea, ed aprire i fuochi, erano del pan impotenti a re-
sistenza ed offesa?
Vittorioso a Canne, non mantenne Annibale ai prigio-
nieri romani i patti concessi da Maharbale : usò l'argo-
mento sempre prodotto in casi simili nel tempo antico e
nel moderno : disse cioè che Maharbale non aveva auto-
rità a conchiudere, ed avrebbe dovuto riferirsene a lui.
E che altro dissero gli Alleati a Cara-Saint-Cyr quando
lo presero nel 4813 con trenta mila Francesi a Dresda,
od i Borboni al maresciallo Ney quando lo moschetta-
rono (1815), infrangendola capitolazione di Parigi?
Ricercasi la causa per cui l'uomo smisurato che aveva
vinto a Canne non si lanciò subito contro di Roma prw-
cipiti cursu bellorum, et tenfpore rapto (Silio Ital.).
Tutti censurano Annibale che vincere sapeva, non va-
lersi della vittoria: molti scrivono, p. es. Vertol, che gli
bastava presentarsi a Roma per entrarvi, e Bossuet dice
che non si curò neppure d'andarvi, perchè Vimpadro-
nirsi di Roma era cosa ormai troppo facile per lui : non
pochi poi aggiungono che divenne in un subito dissoluto
e molle. Venti secoli corsero sopra i fatti, né più è pos-
sibile di recare nei medesimi chiarezza di luce ; ma ben
audace è colui che scaglia contro il gigante, con sì scarsi
elementi a giudizio, accusa e condanna. Non era assai nu-
CAPITOLO IV. 53
meroso Vesercìlo col quale Annibale giunse in Italia: egli
ayeva combattuto grandi, ed anche pei suoi micidiali
battaglie: in quella di Canne p. es. magna pars de exer-
citu Hannibalh muda fuit (Eutrop., lib. Ili] : consta
poi che dalla Spagna o dall* Africa non era stato rifornito
di genti giammai. Annibale si trovava adunque in Italia
presso a poco nella situazione in cui si vide nella guerra
dei Trent'anni Gustavo Adolfo in Germania ; egli aveva
poche truppe cartaginesi, e le molte dei popoli italiani
attorno a sé, come Gustavo aveva le poche scandinave,
e le molte della lega protestante: il tesoro poi era total-
mente italico per Annibale, com'era tedesco per Gustavo.
Ma dopo la battaglia di Canne gli Italici non dovevano
più avere la stessa devozione per Annibale, la stessa dis-
posizione a sacrificii di denaro e di sangue: prima di
Canne gli Italici temevano di Roma, ora temevano di
lui ; se avessero dovuto rassegnarsi a servitù, meno sem-
brava nociva la servitù consueta di Roma vicina, che non
la insolita della lontana Cartagine. Quanto Annibale a
Canne era militarmente salito in altezza, altrettanto, ò
poco meno, era politicamente disceso. Incominciava un
secondo periodo di politiche cose ; importava di stabilire
accordi cogli Italici, soprattutto di stipulare una Lega
fra e$$% e Cartagine, d'assicurare la fedeltà degli amici
attuali, di non dar loro sospetto, d'ammetterli anzi,
se non a partecipazione d'impero militare, almeno a
godimento esclusivo d'impero civile, e d'allettare altri
Italiani a defezione da Roma. Questa aveva ancor truppe
in Italia, ricevette da Marcello che era in Sicilia imme-
diato soccorso di genti (Plut., in Marc), ebbe da venti
colonie romane, di cui gli storici ci conservarono il nome,
e denaro e soldati, e presto fu tanto sicura da riprendere
attivamente la guerra in Italia, ed anche da lanciare
54 PARTB PEIMA
nuove legioni in Sicilia, nella Spagna e neirAfrica. Dopo
la battaglia della Trebbia, non si era arresa Piacenza, e
dopo quella del Trasimeno Annibale non aveva potuto
forzare a dedizione Spoleto: avrebbe dopo di Canne ab*
battuto le porte di Roma? Essa non era né si rimessa
di volontà, né si scema dì forze da distruggerla per re-
pentino spavento, o breve ora d'assalto : se fosse stata
tale, chi meglio se ne sarebbe avveduto, chi l'avrebbe
più vigorosamente assalita d'Annibale? Era la sua tal
anima che volesse saporare in Gapua volgari dolcezze,
piuttosto che inebbriarsi in Roma dei godimenti sublimi
di completa vittoria? Egli pensò infatti a detronizzare po-
liticamente Roma con una Lega italiana, con mvl emula
Roma, con città eguale a Cartagine, che tale era Capua,
e cosi è chiamata talora nei classici. Poche città nel
mondo furono si opulenti e magnifiche come Capua:
gli avanzi del suo anfiteatro, che esistono ancora oggidì
(a Santa Maria), sono più maestosi di quelli dello stesso
Colosseo di Roma. Capua non aveva ancora osato pre-
tendere di sostituirsi a Roma, ma ora che Roma si era
affievolita, Capua ardiva
summi partem deposcere juris,
Atque alternatos sodato consule fasces.
Siuo Italico, lib. XI.
A quest'effetto d'essere perfettamente pareggiata a Roma,
Capua, dando il primo esempio, e per cosi dire movi-
mento alla futura guerra sociale, mandava una lega-
zione che fu respìnta, ed anzi insultata dal Senato tuttora
fiero anche dopo di Canne. Allora Capua si pronunciò
per Annibale, e questi condusse l'esercito nell'agro ca-
puano fundum pulcherrimum populi romani, caput pe-
cunice, pam ornamentum, subsidium belli, fìj^ndamen*
amoLo ir. b&
tum veetigalium, horreum legionum, tolatium annonm
(Cic, De Lege agraria). lyi l'esercito poteva dunque es*
sere ben ristorato: di là sorregliavasi Roma, si minac-
ciava Napoli che cinta di forti baluardi ancor resisteva
agli attacchi di Annibale voglioso d'averla per facili co--
municazioni colla Sicilia, colla Spagna, colla Liguria,
coU'Àfrìca: ivi si sarebbero trovati anche soldati a col«
mare i vuoti nelle truppe cagionati dal ferro, dalle marce,
dal tempo, ed anche dalle diserzioni dal suo campo a
quello di Roma, che prima di Canne, dice Plutarco (in
Marc.]^ non erano avvenute giammai, ed ora seguivano,
secondo il suo racconto, non solo fra gli Italici, ma per-
fino fra gli Iberi e Numidi. Or bene, Capua poteva ri-
fornirlo di genti : Gapua infatti aveva dalle sue mura in-
viato più volte intieri eserciti in guerra. Egli chiamava
dunque a Capua i delegati di tutte le città, e teneva ai
Capuani discorsi riferiti da Livio, in cui loro promet-
teva il primato d'Italia. Capua doveva romuleis suIh
cedere miiris: i classici dicono apertamente quanto a
Capua prometteva Cartagine : tibi, perfida^ fasces dei
Carthago siios.
Raccogliendo adunque le sparse notizie, indagando
nei frammenti istorici, e soprattutto meditando sulla si**
tuazione militare e politica, ci sembra che non senza
causa Annibale rinunciò al cammino di Roma, e ben a
ragione si condusse a Capua, e vi fece lunga dimora, con-
tinuando però a combattere colle armi dei capitani suoi,
e sovente uscendo a combattere egli stesso. Ma la ferocia
dei Romani nel vendicarsi di Capua viene altresì ad ap-
poggio delle nostre induzioni. Appena Roma potè strin-.
gere i Capuani d'assedio, e superarne le forti, non molli
difese, uccise a mìgliaja o cacciò quanti avevano voluto
fare di Capua la nuova capitale d'Italia: fu anzi per di*
56 PARTE PfilHi
#
struggere tolalmente la gloriosa città, e gli storici ro-
mani partecipando alFesasperazione comune (ma come
mai ad essi si è aggiunto anche RoUin moderno e mo-
ralista?] lodano come atto di clemenza il non aver ab-
battuto e case e muraglie, che non avevano colpa del-
l'infedeltà dei loro abitatori. L'agro fu confiscalo, e vi
vennero poscia tradotte romane colonie.
Resistevano con ogni vigore i Romani, ma cercavano
anche appoggi nell'estero. Essi scandagliavano le opi-
nioni edi desiderii dei Greci, cui le vittorie cartaginesi in
Italia potevano far presentire non lontano pericolo, e la
Grecia colla voce degli Amfizioni in Delfo (1) rispondeva
a Quinto Fabio Pittore spedito a consultare l'oracolo ,
che non avessero i Romani a sgomentarsi, ma slessero
saldi alla procella, e la vittoria finalmente coronerebbe i
loro sforzi {T. Livio, lib. XXIII, cap. 6).
Poiché la Lega italica ingelosita d'Annibale non lo se-
conda abbastanza, ed è scemalo di genti sue proprie,
e lotta dubbioso, quasi perdente con Roma pertinace,
egli invoca rinforzi, volge l'occhio alla Spagna, da dove
trasse un esercito, e ne spera un secondo, ed Asdrubale
infatti marcia dalla Spagna alla volta d'Italia.
Che era avvenuto in Ispagna dopo la partenza d'Anni-
bale? Vi erano forse i Cartaginesi ancora vittoriosi e soli?
Se non lo erano, come mai Asdrubale potè levarne l'eser-
cito? Eccoci ad un passo di storia che negli autori mo-
derni non si comprende giammai, e senza accurata let-
tura di Livio e Polibio, e paragone diligente di date e
(1) Mengolti, che ripelè i leggieri racconti dèlia flotta di Ronda improvvisa-
mente creata, ha invece scritto una perspicace memoria sulForacoIo di Delfo,
e sulla formazione del Consiglio amfizionico, la quale in parte rivela perchè
l'oracolo potesse sovente essere veritiero, e godere quindi d'un credito di cui
avrebbe certamente mancato qualora la Pizia non avesse risposto giammai se
non voci ambigue o vuote di senso.
CAPITOLO IV. 67
studio di guerra, è realmente impossìbile ad essere inteso.
Riducendo però a tutta semplicità il racconto, e nulla
aggiungendo a quei classici, renderemo, ci sembra, chia-
rahnente il vero.
La Spagna era per Cartagine miniera d'argento e sol-
dati, maerainquiela, taglieggiala ed oppressa. Occuparvi,
scemarvi, distruggervi, se possibile era, l'autorità di Car-
tagine, era affievolire Annibale e la potente rivale. Erano
quindi accorsi per mare nelle Spagne i Romani: avevano
sollevato più popoli : Publio e Gneo Scipioni vi ebbero e
gloria ed acquisti ; Spagnuoli combattevano contro Spa-
gnuoli, come Romani contro Cartaginesi, ma i Romani
in nome della libertà, e quindi coll'amore del paese. Fatta
però dagli Scipioni una falsa operazione di guerra, se-
paratisi cioè per essere dappertutto e vincere tutto, fu-
rono disfatti ed uccisi dal nemico riunito. Nessun limite
allora alle violenze di Cartagine, nessun conBne a ven-
detta e rapina : fremono gli Spagnuoli, ma sono in catene.
In si grave frangente un Romano, Marzio, non dispera:
si mostra improvviso grand'uomo di guerra : raccoglie le
reliquie delle truppe battute, leva da tutte le piazze le
guernigioni romane (1), che hanno vedutole vittorie, non
le rotte dei Scipioni ; la fortuna di Roma sia tutta in un
campo! Si Gcca poi colle truppe in mezzo a due eserciti
(1) Se Napoleone quando sofferse la terribile catastrofe di Mosca (Ì8i2), e
fu costretto a retrocedere fin oltre TElba, avesse imitato Marzio, e non lasciato
settanta mila uomini nelle piazze della Vistola e deirOder ; se quando fu rotto
a Lipsia (1813) non ne avesse lasciati almeno altrettanti nelle piazze dell'Elba
e del Reno ; se dopo la gran rotta di Vittoria (1812) non avesse lasciato al*
meno venti mila uomini nelle piazze di Catalogna e Valenza, sarebbe egli stato
costretto a combattere fra la Senna e la Marna con trenta o quaranta mila fra
veterani e coscritti contro TEuropa per difendere Parigi e la sua corona? Olii
lo avrebbe forzato quando avesse avuto cento cinquanta mila veterani dat-
torno a Parigi? E quali discordie non sarebbero scoppiate fra gli Alleati pei
possesso dei paesi che egli avrebbe abbandonato ?
58 PiETB PBmi
cartaginesi, che un vallone separa: consdo del grave pe-
ricolo, non ha titubanza un momento, assalta di notte un
dopo l'altro i nemici incauti per sicurezza ed orgoglio, e
li prostra. Le sorti militari sono di nuovo in bilancio,
ma i popoli propendono a Roma. Arriva al comando in
Ispagna Publio Cornelio Scipione, progenie dei libera^
tori, e genio di guerra : accorrono gli Spagnuoli a lui :
anche i principi Mandonio ed Indibiie abbandonano
Asdrubale : rilascia Scipione senza riscatto i prigionieri
spagnuoli, combatte per loro! restituisce spose, fa doni
a tutti, anche ai Numidi ; è idolatrato, gli Spagnuoli lo
vorrebbero re! È presa Cartagine, in qua, dice Eutropio
nel lìb. Ili, omne aumm et argentum, et belli appara^
tum Afri habebant; nobilissimos quoque obsides quos
ab Hispanis acceperant, Magonem etiam fratrem Han-
nibalis ibidem capit, quem Romam cum aliis mittit.
Asdrubale è rotto, e cacciato lontano nel nord: non vi è
scampo per lui : da Cartagine lo separa l'esercito dì Sci-
pione ed il mare : è in paese nemico : tiene mesta con-
sulta coi generali suoi. Discendere di nuovo alla costa
può essere da generoso soldato, ma non da capitano che
prevede l'evento d'altra battaglia : fermarsi è sciogliersi
per diserzioni continue : ì mezzi mancano perchè il ricco
paese è in mano a Scipione. Tutti i generali convengono
che le truppe spagnuole non possono piò, usarsi in Ispa-
gna, che bisogna ad ogni modo cavarle di là. Una sola
strada è aperta, ed è quella di Gallia: si vada per essa,
si ricalchino le orme d'Annibale, si corra a congiunzione
con esso: trionfi Roma in Ispagna, e sia presa in Italia 1
Era nei destini che Asdrubale nel momento stesso di co-
gliere il frutto perdesse l'esercito e fosse mozzo del capo,
ma la sua grande risolutezza l'onora, manifestando che
era degno fratello d'Annibale.
CAPITOLO IT. 60
Si muove Asdrubale a prestissimi passi : gli pare d'aver
a tergo Scipione! Realmente non lo aveva, perchè Sci-*
pione si contenne in Ispagna ad ordinarla, ossia ad ìm-
perarvi: Vetà degli amori ispano-romani ormai finiva:
incominciava quella della dominazione, quella età cioè
che doveva crearvi nuove rivolle e guerre, e massacri di
Spagnuoli impotenti ed isolati, la defezione seconda di
Indibile e Mandonio, e la loro morte. Manda però Sci-
pione al Senato per la via di mare soccorso di truppe
romane e di truppe spagnuole per la guerra d'Italia e per
quella di Sicilia, ove parimenti si combatteva. Nondimeno
serio argomento d'esame e forse d'accusa per Scipione
può essere, e Io fu realmente in Senato, se egli non
avrebbe dovuto piuttosto seguire Asdrubale, che arre*-
starsi in Ispagna. Ah se nella battaglia del Hetauro
Asdrubale non perdeva esercito e vita, Scipione proba-
bilmente non avrebbe acquistato il glorioso nome d'Afri-
cano, ma subito triste destino !
Passa Asdrubale i Pirenei, e varca senza perdita le
Alpi : forse Annibale aveva stabilito .rapporti d'amicizia
coi regoli e colle tribù, e lasciato guarnigioni al varco,
la quale ipotesi meglio di ogni altra spiegherebbe anche
la diminuzione tanto notevole del suo esercito quando
giunse nel piano. Asdrubale viene ingrossato pur esso
da Ugurì e Galli, tenta invano di occupare la forte posi-
zione di Piacenza, e spinto dalla necessità studet celeri»
tati, gira d'intorno a Piacenza, e s'inoltra neirfimìlia.
I Romani allora inviano il console Nerone contro Anni-
bale nel sud, ed il console Livio contro Asdrubale nel
nord : bisognava ottenere una doppia vittoria : potevasi
temere una doppia sconfitta : era nelle sorti di riuscire
in un luogo vittoriosi, e nell'altro perdenti. Nerone osa
l'uno di quei fatti che il solo successo giustifica, assale
60 PIBTE PRIMA
Annibale, ed ha la fortuna di aspramente rintuzzarlo in
due conflitti. In allora Nerone sceglie la miglior parte del-
l'esercito, e lasciando ogni apparenza del campo quasi
fosse completo, sen va cinquanta leghe lontano a riu-
nirsi con Livio. Non si avvede Annibale del nemico sce-
mato, non Asdrubale del nemico cresciuto : non s'avanza
Annibale : non retrocede in tempo Asdrubale, e questi è
oppresso ed affatto distrutto (1). Che significa ciò se non
chei Cartaginesi erano ormai traditi da tutti? Per quante
precauzioni si prendano (e molte ne prese Nerone), non
si nascondono le marcie degli eserciti, e meno poi si oc-
cultano ad un Annibale, al quale, quando venne in Italia,
omnia et hoitium haud secus quam ma nota erant, nec
quidquam eorum qucB apud hostes agebantur eum falle-
hat (Liv., lib. Sl2). L'intiero paese era divenuto ostile ad
Annibale, e tutti erano caduti di speranza in lui : la sorte
stessa che poteva scoprirgli l'assenza di Nerone fu mula
per luì, od egli (e quésto ci sembra più probabile) già
era si debole da noia poter azzardare battaglia nem-
meno contro l'esercito consolare scemalo, ma ancora
forte, bene accampato e fiero di recenti vittorie.
Dal sanguinoso Metauro Nerone ritorna più che di
(1) Quando diverse armate campeggiano sopra vasto o ristretto territorio,
Teslremo dell*ahiii(à sta neirawentarsi raccolto e compatto sul nemico diviso
per scontiggere successivamente le varie membra di esso. Agevola il successo
la posizione centrale alle masse nemiche, ma guai al capitano che vi si trova
0 la sceglie, e non è estremamente rapido, energico ed anche Telice ! Fede-
rico II ha combattuto in tale posizione con successo Tìntiera guerra dei Sette
anni ; Macdonald fu rotto alla Trebbia non essendosi ancor legato a Moreau
quando già erano congiunti Suwarow e Melas (1799); Napoleone riunì Tarmata
del Reno e quella d'Italia a Wagram (1809). e vinse l'arciduca Carlo, che non
aveva ancora aggiunto al suo fianco sinistro Tarmata d'Ungheria, ma fu egli
stesso distrutto a Waterloo (1815) quando non gli riuscì dirompere subita-
mente gli Inglesi, e sul suo fianco diritto gli sopravvenne Tarmata prussiana
. non stata arrestata tra via. E noi vediamo la morte d'Asdrubale schiacciato dai
due eserciti romani al Metauro, come abbiamo veduto la morte dei due Sci-
pioni isolatamente oppressi da due eserciti cartaginesi.
CAPITOLO lY. 61
passo al suo esercito, ed Annibale si ritira nelle aspre
regioni all'estremità della penisola. Ma ora che Livio po-
trebbe con sicurezza ripetere ciò che Nerone ha fatto con
pericolo t perchè non marcia con tutto l'esercito a
congiungersi al collega, ed a schiacciare Annibale? Gli
storici noi dicono e noi chiedono, né il problema può
essere sciolto chiaramente da noi. Però le imprese sva-
nite, la fama menomata, gli ajuii diminuiti, la relega-
zione nel fondo dltalia necessaria, avevano distrutto mo-
ralmente anche Annibale : era ormai una fiamma non
spenta per forza, ma che si consumava lentamente da sé.
Non gli giovava la prossimità dì Sicilia : colà i Cartagi-
nesi avevano bensì tentato di ristorare le sorti, avevano
eseguito sbarchi, combattuto battaglie, istigato i Siracu-
sani, ma rìsola era già irremissibilmente perduta.
Le molte vicende di questa guerra fierìssima, e l'in-
certezza dell'esito, avevano reso Siracusa vacillante ed
infedele non meno a Roma che a Cartagine. I Romani
nella loro profonda politica alimentarono gli odii ed i
partiti, e ben lo potevano fare, giacché alle cause esterne
di politica divisione si aggiungevano ancora cause gra-
vissime di civile discordia. Siracusa aveva avuto la sven-
tura ch'ebbero molte altre città, quella cioè d'essere stata
il teatro di tanti uomini grandi, il che equivale a teatro
delle rivoluzioni, e bene spesso agli spaventi e rovesci,
onde sempre rimane l'addentellato a nuove turbolenze,
a scompiglio di cose e disunione di forze. La vita di Dio-
nigi il vecchio era stala insidiata; Dionigi il giovane due
volte montò sul trono, e due volte ne fu balzato ; Dione
liberatore fu ucciso, ed ucciso Agatocle usurpatore : si
avvicendavano ì governi popolari e regii : teorizzavano
con quelli i filosofi architettori di nuove forme di Stato,
come Filosseno, come Platone; ne erano poi cacciati con
69 rABTE Pimi
questi, sembrando ad ogni principe che basti a governo
la sua persona.
Tante rivoluzioili e partiti riproducendosi poi di con-
tinuo, ne indebolirono rapidamente la potenza. I Romani
favorendo ora i democratici ed orai realisti, concitarono
sempreppiù gli animi. E come i medesimi non assalirono
Siracusa dopo vinta Cartagine, perchè avrebbero riunito
contro di loro tutti i partiti, ma circondarono Siracusa,
mentre la fortuna di guerra non era ancora decìsa, par-
larono sempre ai Siracusani parole di pace, e promisero
libertà e quiete a quella città, dove aveva regnato Gelone,
a cui profeisavano tanta gratitudine, cosi trovarono
alla fine un partito che loro aperse VÀcradina (cittadella),
che non erano riusciti a sforzare. Vi periva Archimede,
il Briareo dei geometri di tutte le età (1). Egli aveva, dice
Plutarco, rivolto la sua arte dalla contemplazione della
mente alle pratiche cose, e per la via dei sensi fatto ap-
parire i pensamenti scientifici anche alle persone volgari.
Difese con meravigliose invenzioni la piazza, ma. non
conosciamo precisamente i meccanici ingegni usati da
lui : notiamo però che niun autore antico, ed in ispecie né
(1) Anche Tllalìa moderna ebbe il tuo Archimede, perchè certamente fu tale
Federico Gianibelli di Mantova allorché nel memorabile assedio d'Anversa
(158Ì-85) resisteva colle arti d'ingegno all'oppugnazione diretta in servizio
spagnuolo da altro italiano, il duca Alessandro di Parma. Più che da alcuno
dei nostri scrittori fu eretto a Gianibelli monumento d'onore da Schiller ale-
manno.
Nelle guerre di Fiandra di quella età, in quegli assedii che furono si nume*
rosi e terribili, non altrimenti che in quelli di Catalogna, Aragona e Valenza
del secolo attuale (1808-14), operarono gli Italiani prodigai di valore in ogni
grado di milizia, in ogni forma dì guerra, e caddero a migliaja non per la
causa d'Italia, né per quella (salvo Gianibelli) della libertà materiale e morale
del mondo. Ma le loro prodezze devono illustrarsi di pagine d'onore dagli sto-
rici italiani, e non coprirsi totalmente d'oblio : è una taccia che ci sembra
dover fare specialmente a Carlo Botta, che ha pur scritto diffusamente del-
l'epoca triste ed oscura del nostro servaggio alla Spagna, e delle incomplete
nostre glorie del moderno periodo francese.
CÀFiTOLO m 6S
Polibio, né Lifio, né Plutarco fanno menzione delle nari
combuste cogli specchi, né sappiamo chi pel primo in-
Tentasse il racconto di quelle navi pazienti a starsene ih
cine ed immote per essere bruciate da un immenso af>*
parato di specchi.
1 Romani conoscevano che quelle ricchezze di Siracusa
erano troppe, e che, se Siracusa fosse stata povera e Roma
ricca, la quiete sarebbe meglio durata • che se Roma
fosse stata povera e Siracusa ricca. Fu dato a Siracusa
un sacco spaventevole. Il bottino fu Anto» dice Livio,
quanto sarebbe stato in Cartagine, colla quale combatte*
vasi a forze pari: SyracuscB capto, in quibut pradw
tantum fuit^ quantum vix capta Carthagine tum futi'»
$ett cum qua viribui CBqun certabatur. Ma anche in que^
sta scena di ferro, di fuoco e di rapina v'erano le lagrime
(che nei classici son sempre abbondevoli), e v'era Gelane
amico. Marcellug, ut mcdnia ingreuus, ex superioribui
locit urbem, omnium ferme illa tempettate pulckerrimam^
tubjeciam oculit vidit, illacrima$se dicitur, partim gau^
dio tantce perpetrato rei^ partim vetusta gloria urbit.
Athenien$ium clasiei demence, et duo ingentes exerei^
tus cum duobus clarissimis ducibun deleti occurrebant :
et tot betta cum Carthaginien$ibus tanto cum discrimine
gesta ^ tot, ae tam opulenti tyranni, regesque; proter
eateros Biero , cum recentissima memoria rex , tum
ante omnia, qux virtus ejus, fortunaque sua dederat,
beneficiis in populum romanum insignis; ea cum uni--
versa occurrerent animo, subiretque cogitatio, jam illa
momento horce arsura omnia, et ad cineres reditura etc.
Saperano i Romani che città morta non fa guerra, ma sape-
vano altresì che Ulisse va spesso più lungi di un Achille,
e non precipitarano il colpo finale senz'essere sicuri di
darlo impuniti : quindi continuarono lunga pezza a fin-
64 PARTE PRIMA
gere coi Siracusani. Si dolevano della licenza dei soldati ;
ascoltavano benignamente in Senato i messaggi dei Sira-
cusani, che accusavano Marcello presente; mandavano
un pretore che provvedesse ; amavano Gelone defunto :
volevano ad ogni modo proteggere Siracusa, eredità dì
queiro//mo re. Cosi i Siracusani, molto sperando e molto
temendo, non proruppero in Serissima ribellione ; a poco
a poco le ricchezze scomparvero : fu vinta Cartagine ; al-
lora non si parlò più di Gelone e di Siracusa.
Rotto Àsdrubaìe, rotto più volte Annibale, conquistata
dai Romani la Spagna, conquistata la Sicilia, erano agli
estremi Annibale, ed agli estremi Cartagine. Scipione non
ha più donato, come prima faceva, in Ispagna, mei preso:
mantenne il suo esercito senza ricorrere a Roma: venne
anzi egli stesso portando denaro per la guerra d'Italia,
come Bonaparte Io mandava d'Italia a Parigi perla guerra
del Reno (1797). Fu accolto con doppia festività: lo si
mandava in Sicilia ove più non v'era seriamente a com-
battere, ma da dove era corto il tragitto a Cartagine ; es-
sendovi però Annibale in Italia, si esitava al grand'atto.
Da ciò scissure e contrasti, ed alfine il decreto poco ono-
revole invero pel Senato e pel popolo : passi Scipione in
Africa se conveniente lo crede. Egli tragitta, guadagna
in parte i Numidi, batte le truppe raunaticcie, e stringe
da vicino Cartagine. Annibale non lo prevenne, e non lo
segui, e fece a creder nostro gran fallo, perchè essendo im-
potente a muovere sopra Roma, lasciò indebolire e distrug-
gere i mezzi di resistenza, ai quali soltanto l'aggiunta dei
veterani suoi poteva dare saldezza. Ma anche Annibale te-
neva per orgoglio all'Italia, come per catena allo scoglio
Prometeo: terribile infatti è il tormento del genio, che
vede l'edificio con titanici sforzi eretto crollare, prepo-
tente l'indistinta speranza che possa risorgere, fatale la
CAPITOLO IV. 65
ripugnanza di confessarsi superato, di ritrarsi dal
campo già teslimonio di gloria! Dopo la catastrofe di
Russia (1812), ove andarono per non più ritornarne
gli eserciti, che altro fuorché l'ambizione, l'orgoglio
di sé e non l'onore di Francia, offuscò la chiaroveg-
genza militare e politica del grande Napoleone, e lo
tenne per rovina di Francia e di lui contro forze sover-
cbìanti suirOder e sull'Elba, laddove sarebbe stato invin-
cibile se si fosse tosto ritratto alla frontiera del Reno?
AlGne tragittò anche Annibale in Africa alle grida di
dolore della patria agonizzante : si batté da prode, e cer-
tamente balleronsi con furia disperata le povere truppe
italiane che erano con esso, ma fu battuto, ed il periodo
sanguinoso della seconda guerra punica si chiuse. Dove
erano però le flotte? Chi da entrambi i lati reggevale se
Romani e Cartaginesi tragittavano con sì grossi eserciti
il mare senza scontri navali? È un problema, come già
dissimo, insolubile a noi.
Più non poteva Cartagine essere xivale di Roma, ma
rodio di questa durava anche contro le afflitte reliquie
dell'emula antica : credevasi poi che piccolo impulso ba-
stasse a rovesciarla. Non v'era però giusto titolo d'attac-
carla, ma si cercò il pretesto, e cercandolo si trovò. Ba-
lenarono dapprima i Romani fra il restare e l'uscire alla
guerra, nia non guari dimorarono, che anche l'ingiusti-
zia diventa onestà alle voglie della passione. Intimarono
la guerra, ossia l'eccidio a Cartagine, che nemmeno era
del lutto innocente, perchè sappiamo da Plutarco d'intrighi
che vi manteneva Annibale riparatosi in Siria, e di messi
mandati dai Cartaginesi ad Antioco che affilava le armi
contro i Romani : populus maluit Carthaginem innoxiam
plectij qnatn se diutius esse inpodna. Quindi non si replicò
a Cartagine supplichevole se non la feroce sentenza : ma-
66 PAKTE PRIMA
jor est iniquitM tuaquam ut veniam mereas : tentò resi-
stere perchè tal fiata la disperazione è salvezza : per essa
non fu (1). La sua grande caduta scuoteva tutte le menti
romane: la poesia nazionale sorgeva con Ennio (2), e
nessuno in Roma pensava né ai ribaldi latrocinii com-
messi, né all'empietà dei perpetrati massacri.
Da questo momento i Numidi, già alleali de' Romani,
e favoriti da essi, divennero soggetti prima di fatto, poi
anche di nome a Roma preponderante. I Numidi infe-
stando Cartagine alle spalle, mentre Roma la assaliva di
fronte, contribuirono grandemente alla sciagura di Car-
tagine: ma quando Cartagine fu debellata, quei Numidi
già minacciati da Cartagine, che pure aveva nella Sicilia
e nell'Italia un freno così potente, più non poterono re-
sistere a Roma padrona d'Italia, di Sicilia, di Cartagine,
di tutto l'Occidente. Vi erano Numidi amicij ossia cosi
rassegnati all'impero, cosi fuor di speranza di potersene
trarre, che s'accosciavano ad ogni bassezza a' pie del
Senato, ed un discendente di Massinissa richiesto di
grani e cavalli, e pagato per essi, riportava il denaro al
Senato : esprimeva perfino lamento di non essere trattato
qual suddito: non doversi fare inviti, ma dar ordini a
lui : essere egli servo del popolo di Roma : tale per sem-
(i) Come in tante storie si legge ed in tante scaole si narra, che fu la squi-
sitezza dei fichi deir Attica, la quale indusse i Persiani ad invadere la Grecia,
cosi la distruzione di Cartagine, giusta gli stessi autori e retori, è da attri-
buirsi ai fichi : • Catojam senex in cuHatn intulit ficum pruDCocem, et excutsa
toga effuditf cujus quum piilchritudinem Patres admirarentur, interrogavit
eos Cato, quandonam ex arbore lectam putarent? Jllis ficum recentem videri
affirmantibus : atgui^ inquit, iertio abhinc die icitote decerptam esse Cartha-
gine : tam prope ab hoste absumus, Movit ea res Patrum animoSy et bellum
Carlhaginiensibus indictum est (Lhomond, De viris illustribus urbis Romm).
(2) Non incendia Carthaginis impim,
Ejus qui domita nomen ab Africa
Lucratus rediit, clarivs indicant
Laudes, quam calabrce Pierides,,,, (Horat.)
ciriTOLo IV. 67
pre ravessero. Voleva dire l'Africano : io governo per voi ;
non avreste governatore più ligio di me: non cercale
dunque di più. Ma in breve volgere d'anni non si fece
più distinzione in Roma di Numidi amici e di Numidi
nemici, di re fedeli e di re traditori : scordossi Massinissa :
scordaronsi i servigi prestati in tante battaglie dalle ca-
vallerie numidiche alle fiancheggiate legioni : i Romani
trattarono tutti i Numidi ad un modo, perchè di amici
non avevano bisogno, e di nemici non avevano paura ;
di servi e di tributi avevano sempre cupidità.
I Greci od i Macedoni, che dir si voglia, poiché tutti
i Greci dipendevano dai Macedoni più o meno diretta-
mente, avevano veduto con compiacenza le sciagure di
Cartagine e quelle di Siracusa. Ma avevano da ultimo
preso a molestare i Romani, perchè troppo potenti, e pel
rancore e sospetto delle loro occupazioni neiriUirio. Non-
dimeno la distruzione di vascelli cartaginesi e siracusani
era slata pei Greci uno spettacolo consolante. Speravano
che fosse giunto il momento del monopolio. Cartagine
non era ancora del tutto distrutta, ma era una città senza
forze e senza speranze; era omai giunto il giorno del
monopolio : era quello in cui i Romani entravano nella
Grecia.
CAPITOLO Y.
Riassnolo della storia greca prima dell'invasione romana;
Filippo di Macedonia.
Quale si era propriamente la condizione politica della
Grecia allorché vi entrarono i Romani? Una rapida espo-
sizione delle principali vicende percorse, nella quale
avremo a toccare di nuovo anche di alcuni fatti narrati
nell'esordio dell'opera attuale, la mostrerà chiaramente:
dovremo poi di necessità offrire meno condensato il rac-
conto quando diremo dell'era prodigiosa d'Alessandro il
Macedone.
Vigeva in Grecia piuttosto un diritto sociale interno,
che non vi fosse un diritto pubblico esterno, quale lo si
intende nelle scuole d'oggidì. Sedeva in Delfo un con-
gresso permanente dei legati dei maggiori Stati di Grecia,
ed ogni quattro anni un'assemblea nazionale radunavasi
in Olimpia. In Delfo parlavano i governi per la voce di
Apollo; in Olimpia consultavasi il voto potente delle
masse civili: Delfo ed Olimpia si erano, per così dire, la
Mecca e Medina, a cui d'ogni parte del mondo accorrono
i Musulmani. Queste istituzioni s^ìntessono col commer-
cio e colla politica ; le troviamo nei grandi sistemi bra-
minici e nei buddistici ; ed anche nell'Europa occiden-
tale sembrarono riprodursi nei secolari giubilei. Fra loro
adunque avevano i Greci un diritto delle genti nazionale
CAPITOLO r. 69
e federativo, nel senso almeno d'unite volontà contro il
perìcolo d'invasioni persiane, le sole che fossero in al-
lora temute dai Greci.
Cosi i Greci erano varii socii diffidenti reciprocamente,
interessati nella società, nemici di chiunque non appar-
teneva alla società. Ma quest'unità nazionale e politica
dei Greci era aQìevolila d'assai per la separazione dei
Greci medesimi in due famiglie, quella cioè dei Dorici, e
quella degli Àttico-Jonii, le cui differenze ci sono mal
note perchè colle successive fusioni macedoniche e ro-
mane in gran parte sparirono, ma dovevano essere in
antico profondamente scolpite, se durò lungo tempo l'op-
posizione fra le due famiglie d'un'unica gente, e tuttora
se ne rinvengono traccio dagli studiosi delle forme lin-
guistiche della greca nazione. Erano Dorici i Greci del
Peloponneso, deiritalia meridionale e della Sicilia; erano
Attico-Jonii quelli del nord, delle isole e dell'Asia. Ma le
colonizzazioni avevano in parte tramestato le sedi delle
famìglie: colonie doriche s'erano stanziate nel campo
geografico-politico degli Attico-Jonii, e colonie attico-
jonìe in quello dei Dorici: popolazioni adunque consan-
guinee o cognate in grado rimoto si intrecciavano diffi-
denti ed astiose, e la sola minaccia dei Barbari poteva
porre concordia d'azione, ma non affatto di spiriti fra
le greche famiglie. E v'era poi ampia materia ad insidie
politiche, a collisioni ed a guerre per essere l'albero colo-
niale propagato nei rami, ed indistinto nel nesso. Erano
indefiniti fra le metropoli e le colonie i diritti e doveri ;
confondevansi la signoria, il protettorato, gli ufficii pre-
tesi, imposti 0 rejetti, domandati ; i tributi erano concessi,
riservati o negati, ed ingiunta talvolta da forti metropoli
pienezza d'impero non solo sulle colonie direttamente
fondate, ma anche sulle secondarie figliate da queste. Da
70 PARTE FBIHi
ciò le dissensioni continue, ed il veleno posto in ciascuna ;
da ciò il volgersi d'ogni colonia lamentante gravezze ad
altra potente città della propria, e perfino della diversa
famiglia per togliersi a soggezione più dura ; da ciò le
perturbazioni moltiplicate per la vicenda delle forme oli-
garchiche e delle popolesche in ciascuna città inducenli
ad attrazioni e gravitazioni diverse anche n^li esterni
rapporti. Tale si era la Grecia.
Quando i Persiani invasero, come già vedemmo {cap. I) ,
la Grecia con Dario, e poscia con Serse, il pericolo co-
mune riunì tutti, 0 quasi tutti i Greci: Atene marittima
e centrale era già lo Stato più florido, più commerciante
e più dovizioso di tutti. Atene diresse la guerra greca,
e cacciò i Persiani dalla Grecia a vantaggio comune.
Questa guerra fu narrata dal greco Erodoto che era na-
tivo dell'Asia, e visse profugo dalla patria. Ostilissimo ai
Persiani, egli è quindi di soverchio propenso ad esage-
rare, e trovare nei falli dei Persiani il ridicolo e l'assur-
dità. Ma gli encomii profusi ai Greci dal sapientissimo
Erodoto loro piacevano, ed egli ne riceveva lodi e rimu-
nerazioni in Olimpia.
Battuti i Persiani, restarono sul mare i potenti Ate-
niesi, le isole ed il mare furono conquiste di Atene.
Cinse con un vasto sistema di baluardi la città ed i porli,
inviò colonie segnatamente airEllesponto , occupando
quelle Termopili marittime, che sono ad un tempo porle
necessarie d'un grande commercio, e moltiplicò istitu-
zioni e leggi promovenli lo sviluppo della marinerìa,
non concedendo onori ai magistrati uscenti d'ufBcio se
non avevano fabbricato un certo numero di galere (1). Le
{\) Demostene difeDde Tosservanza rigorosa di questa legge nella sua arringa
contro Androtione.
CAPITOLO y. 71
mandava d'attorno, e dichiarando che portavano sovra
esse dìie Dee, la Permatione e la Forza (Erodoto), chie-
devano denaro , e l'avevano. V'wa il pretesto : molli
isolani cedendo alla forza avevano servito ai Per-
siani: dovevano scontare l'involontario servire; erano
slati nelle file o nelle flotte persiane come i reggimenti
veneti lo sono nelKesercito austriaco od i polacchi nel
russo ; l'avidità faceva loro una colpa della stessa disgra-
zia : la liberazióne era multa. Volevansi ad Atene emu«
lare le grandezze delle coslruttùre egiziache ingentilite
dall'arte, ed era enorme il dispendio di cambiare in mar-
morea una laterizia città : pagasse adunque chiunque
avesse dell'oro; non compensava Atene d'indipendenza e
libertà? T^ ricca Rodi, la ricchissima Samos erano ta-
glieggiate, ed i Tasii, che resistevano, furono calpestati
dall'ateniese Cimone: Thatiot opulentia fretoz^ tuo
adventu fregit (Corn. Nip., in Cimone). Peggiore era la
sorte di Sciro: Scyrum vacue fecit (Cimone), sesiores t?f-
tere$ urbe insulaque ej ecity agros Àtheniensibus divisi t.
Anche gli Egineli erano cacciali : parve ad Atene che la
loro isola si ben situata nel mare deirAllica sarebbe di
utilità piò sicura te fosse abitata non da genti doriche,
ma da Ateniesi: ne cacciò dunque gli Egineti, e vi
mandò coloni tuoi (Tucid., II, SS?}. Certamente non re-
gnava in Alene Minosse, ma crediamo che nel mondo
politico non abbia regnalo, né sia per regnare giammai!
Tutti gli Europei nelle loro colonie non hanno sempre
trattato gli indigeni possessori del suolo come furono
trattati gli Egineli? Ed anche la nostra età li tratta così,
benché siamo venuti in usanza di placare talvolta il ri-
morso deHogliere col far segnare a bordo delle nostre
navi da guerra, od entro le mura delle nostre colonie,
ad avvinazzali selvaggi scritture loro ignote di lingua ed
72 PIKTE PfilMA
argomento d'ampia cessione de' terreni contro povere
consegne di vesti e di merci.
Cosi Alene soperchiava ixi violenze ed orgoglio: si go-
vernava colle voglie del popolo ingordo, e non col pre-
veggente consigliò dei savii ; misurava il diritto, dalla cu-
pidità sconfinata. E già la Grecia era piccola per essa:
dilatava Tavidìlà al móndo non greco, e poneva la falce
in ogni messe. Gli Egizii si erano sollevali contro i Pct-
siani; chiamavano ad alle grida soccorso, e tutto pro-
mettevano come colui che affoga. Accorrono gli Ateniesi,
mettono agli Egiziani coraggio di battaglia e vergogna di
fuga, combattono più anni, e signoreggiano in Memfi :
tramonta poi in Egitto la loro fortuna, non si tolgono a
tempo giù dairimpresa, e perdono truppe e vascelli :
mutasi allora in mesta rassegnazione là disperazione
egiziana. La spedizione d'Egitto era stala falla con più
impeto che saggezza.
- Più che agli altri Slati di Grecia, Atene era infesta a
Corinto, che dopo le proprie ha le più grandi colo-
nie, e la maggior flotta sul mare. Corinto è vicina ad
Atene; è posta sull'istmo , e per l'uno dei golfi con-
corre cogli Ateniesi nell'Egeo , e per l'altro s'allarga
nel Joiiio, s'addentra nell'Adriatico, veleggia nel mare
di Sicilia; è poi il forte avamposto di tulle le dori-
che popolazioni. Atene vede in Corinto una rivale; bi-
sogna umiliarla, armare per vincerla, poi si disarmerà
per godere in pace dei tesori raccolti nell'Egeo, e dei
nuovi acquistati nell'emula città; assicurerà il successo
un alleato, e gli Ateniesi lo trovano nei Corciresi. Era
Corcìra, antica colonia di Corinto, ed aveva essa stessa
colonizzato Epidamno (Durazzo) : voleva Corinto signo-
raggio in Corcira, ed anche in Epidamno : negava Cor-
eira di concedere se stessa e la figlia: l'occasione per
CAPITOLO V. 73
Alene è ótliina: si unisce a Corcìra, che ha già lina flótta,
e si rinforzerà da Alene: così sarà soffocala Corinto, im-
pedita nel golfo suirEgeo dalla flotta d'Alene, e nel golfo
sul Ionio da quella di Corcira: si stringono i patii, e le
flotte combaltono. Intanto Atene s'associa anche a Me-
gara, e vi pone presidio: in tal guisa si controvalla sul-
ristmo: i Dorici hanno precluso agli Atlico*Jonii con
Corinto il varco dalla Grecia nel Peloponneso, e gli Ate-
niesi chiudono con Megara ai Dorici il varco dal Pelo-
ponneso in Grecia: sperano che lutla la guerra si couibal-
lerà soltanto sul mare, ov'essi son forti.
Di queste alleanze di due concorrenti sul mare per
dare la stretta ad un terzo, e trarne le spoglie, abbonda
la storia di tutte le età. Ne vide nel medio evo Tilalia un
esempio impudente, che per un specolo tinse in sanguigno
le acque del Levante e le nostre. Avevano i Veneti cac-
cialo con armi crociate da Costantinopoli un imperatore
greco, e posto in trono un imperatore latino: da questi,
cui donavano Costantinopoli, vollero in dono una metà
dello Stato, e l'ebbero. Ingelosì Genova: operò una rivo-
luzione seconda, cacciò col favore dei Greci l'imperatore
Ialino, intronizzò un imperatore greco, e gli dettò i patti.
Genova, già forte in Ponente per acquisti sui Saraceni e
Pisani, lo divenne anche in Levante; allora i Veneti si
allearono ai Catalani: costoro cacceranno Genova dalle
isole e dagli scali di Ponente, ed i Veneziani li cacceranno
dalle isole e dagli scali di Levante. Genova era allora Co-
rinto, i Catalani ^rano i Corciresi , ed Ateniesi erano i
Veneziani.
La commozione si difluse in tutte le popolazioni do-
riche, in tutta la Grecia; si estese perfino alle città do-
riche della Sicilia: si grida a vendetta ed a guerra, e
scoppia appunto la terribile guerra, che ventisette anni
74 PARTE PRIMI
durò, e ci fu narrata da due dei più esperti e giudiziosi
scrillori di ogni tempo e paese, cioè da Tucidide e da Se-
nofonte. I popoli del Peloponneso pei primi si uniscono
in lega : abbondano d'armi, e non mancheranno di oro:
Atene impera e riscuote : se dunque si ha a pagare per
subire l'orgoglio d'Atene, meglio sarà pagare per umi-
liarla e vendicarsi in libertà. E se non basteranno allo
sforzo le sceme casse dei Greci, vi sarà Toro di Persia,
che Atene ha provocato ed offeso in Egitto ed altrove (1).
Da molte città mandansi infatti dei legati a chiedere
al re di Persia dell'oro: s'avviano per la Tracia, ma
Atene li discopre in cammino, ha buoni rapporti con
Sadoco di Tracia fatto cittadino di Atene, ne ottiene
la consegna, ed immantinente li uccide: sono indegni di
vita : vogliono collegarsi coi Barbari !
Aspettando di più , diventava impossibile il rimedio.
Sparla forte sulla terra, e non temente sul mare, pro-
clama altamente che si leva a difesa della libertà dei
Greci contro di Alene minacciante per navi, per co-
lonie, per oro, pel genio di Pericle. Ecco la guerra del
Peloponneso. Atene si difende con ogni sua forza, eccita
a sommosse i democratici in ogni città nemica, ed occu-
pata risola Sfacleria sulle coste del Peloponneso, trova
occasione frequente di muovere a ribellione gli Iloti,
schiavi di Sparla, ma gli Spartani frenano sempre gli
Iloti con quelle misure spaventose, dalle quali nessuna
età rifugge nel proprio interesse giammai, se anche le
nega talvolta per erubescenza del fallo. Vuol precludere
la via ai soccorsi che dalle potenti colonie doriche di Si-
(1) Scrive Demostene nella Filippica decima: // Ae ài Penta è ricchissimo
di tesori, e questi hanno tanta influenza nelle cose di Grecia, che anche per lo
passato, nel tempo delle nostre guerre coi Lacedemoni, il partito fiancheggialo
daWopnlen%a di Persia costantemente prevalse;
CAPITOLO T. 75
cilia, da Siracusa in ispecie, già gelosa di Atene, ven-
gono ai confederali del Peloponneso, e prima d'aver vinto
del tutto, le plebi d'Alene stultizzano, e contro il parere
dei savii mandano in Sicilia un esercito. La guerra si rende
cosi doppia, ossia siciliana e greca ; Atene non trova in
Sicilia alleati potenti, e come trovarli? I soli alleati possi- .
bili in questa sconsigliata intrapresa sarebbero stali i
Cartaginesi, ma Atene doveva evitare perfino l'apparenza
di accordi con essi, giacché avrebbero avuto agli occhi
di tutti i Greci di Sicilia sembianza e realtà di partizione
e servaggio. Langue l'esercito : non può allargarsi per
vivere : da principio non aveva che trenta cavalli
(TcciD., VI, 43), e non ne ebbe che seicento più tardi :
i Greci d'Italia gli sono ostili: anche nel passaggio l'ave-
vano male accolto, e da più porti respinto. Gli arrivano
da Atene i rinforzi, non ad fmpedire, bensì ad accrescere
il danno, e la stella d'Atene impallidita in Egitto, tra-
montava in Sicilia, ove molto e generoso sangue perde-
vasi. Intanto gli Spartani incalzano: si piantano nel
cuore dell'Attica fortificando Decelia : devastano tutto il
paese: le ricche miniere di Laurio pericolano: venti
mila schiavi disertano (Tucid., VII, 27). Diventano più
rari i difensori d'Atene nelle battaglie di Grecia, rari per-
fino quelli sulle slesse sue mura: appare al fine inevita-
bile la resa della superba e provocatrice città ; deve se-
gnarsi, e si segna, ma ì più timorosi, giunto il momento
della reddizione ben certa, avranno al consueto gridalo che
si doveva combattere ancora e morire. Del resto non si
parlò di portare in alcuna delle colonie residue il nome
e la vita d'Atene, perchè tali risoluzioni possono pren-
dersi in casi estremi da sovrani e da governi patrizii, non
mai da governi popolari qual era quello d'Atene. D'altronde
Rodi si era già sollevata e vendicata in libertà, ed ormai
76 PARTE rami
priva era Atene d*aUre potenti colonie ove rifugiarsi sicura :
non aveva Candia , ove i Veneti in un istante di quasi
disperata salvezza proposero di trasferire il governo ; non
aveva Batavia, ove gli Olandesi furono per rizzar la ban-
diera quando Luigi XIV invase tutto il paese; non aveva
il Messico, ove furono per andare al principio del secolo
nostro i Reali di Spagna, nò il Brasile, ove realmente ri-
covrossi fuggendo da Lisbona un re.
Da ateniesi esorbitanze ì Lacedemoni erano stati po-
sti nella necessità di prendere le armi a sicurezza e di^
fesa (TuciD., I, 23) : avevano vinto ; beati essi, e la Creda,
se i lunghi patimenti avessero temperato nella fortuna,
e preparato le cose future con la visione delle andate!
Noi fanno: entrano in Atene, ne abbattono le difese con-
giungenti in un solo sistema la città ed i porli, incen-r
diano le triremi, discutono ^perfino se tutti gli Ateniesi
debbano trattarsi come prigionieri di guerra e vendersi
all'incanto. Non osano farlo, ma fondano nuovo governo
oligarchico, e lo appoggiano ponendo presidio nella
rocca. Di là gli Spartani prendono a dettare ai Greci
quella legge, che prima dettavano gli Ateniesi. Tutto ò
spavento in Atene, ed in Grecia. Dalle conquistate città
gli uomini d'indole più arrisicata e manesca erano fug-
gili; altri rimanevano tentatori di novità perigliose: ro-
vinavano sé, e non erano agli altri principio di libertà,
ma le città vestivano a lutto per congiure sempre sco-
perte da jattanza, tradimento o torture, e con molto
sangue espiate.
Gli Spartani opprimono la Grecia. Tebe, il più polente
Sialo dopo Sparta, proclama la libertà dei Greci contro di
Sparta, come Sparla l'aveva proclamata contro Atene,
ed i Greci favoreggiano Tebe, come avevano favorito
Sparta.
GiPITOLO V. 77
La lolla di Tebe contro Sparta è lunga e sanguinosa,
ma meno lunga e meno sanguinosa che non quella di
Sparta contro di Atene, perchè Sparta fu sempre più de-
bole di Atene, ed aveva inoltre perduto di sangue nella
guerra precedente. In quella gli Spartani avevano invaso
tutta la Grecia, perchè dovunque giungevano, il paese si
univa volonteroso ad essi ; in questa Epaminonda, ap-
pena dopo Leuttra il potè, entrò nel Peloponneso, sol-
levò a ribellione l'Arcadia , vertice e chiave di tutte le
valli della possente penisola, scorse la Messenia, rico-
strusse la loro città demolita da Sparta, e ristabilì Tanta-
gonismo secolare fra Messenii e Laconii. Dei grandi suc-
cessi di Tebe ingelosisce Atene, già calma le ire contro di
Sparta, vuol essere la terza, forse ritornare al grado di
prima città. Muove anche le armi contio Stati minori, e
riacquista qualche fama di guerra con Ifìcrate e Gabria,
ma sono scarse prodezze ed incompleti acquisti, come lo
è la politica tentennante, ingloriosa. Anche Demostene
nelParringa per le cose di Megalopoli consiglia oscillando :
vuole cioè che s'appoggino gli insorti senza rinunciare,
alV amicizia di Sparta: dice e$$er utile che i Lacede-
moni siano deboli, e che né i Tetani, né essi abbiano
forze bastanti ad umiliare Atene; parla inoltre del-
V opportunità di frenare Fingordigia delle rivali città.
Ma non si segnano accuratamente i confini, né si dà mi-
sura precisa al genio, e genio v'era in Epaminonda, che
d'un terribile colpo prostra in Mantinea la potenza spar-
tana (1). I politici in pace comandano ai generali di
(i) Ecco con quale facilità di argomeDti spiega Montesquieu perchè i Tebani
furono vittoriosi a Leuttra ed a Mantinea : egli dice, t Tebani erano un popolo
cke $i esercitava nella lotta. Sarebbe però a chiedere a Montesquieu : perchè
i Tebani vinsero queste battaglie contro i Lacedemoni che da centinaja d'anni
si esercitavano nella ginnastica ?
Gli scrittori militari, p. e. Jomini, fanno invece osservare che nelle giornale
78 PARTE PBIHA
truppe, ma i generali in guerra comandano sovente ai
politici, e li traggono di forza con loro.
Lisandro lacedemone però era sopravvissuto alla vit-
toria, colla quale rovinò Atene, e quindi fu subito chia-
mato tiranno : Epaminonda più non stringeva la folgore,
perchè in M antinea perì : egli pertanto ebbe la fama di
guerriero liberatore di Grecia. Fors'anche della vittoria
non avrebbe fatto abuso egli stesso, che sempre fu po-
vero, sdegnoso delVoro, né avido di primeggiar in co-
mando ; anzi colla fronte già cinta del lauro di Leuttra
aveva servita in una campagna da semplice soldato senza
farne lagnanza. Ma avrebbe sempre dominato se stesso?
avrebbe dominato e contenuto i suoi, sui quali cadde
appunto la taccia d'oppressori di Grecia dopo il gran
fatto di M antinea? (4)
Così i Greci si erano lungamente combattuti in lotta
fratricida, ma delle loro dissensioni veniva adesso a farne
suo prò un popolo conquistatore dall'estero. Erano i Ma-
cedoni, guidati da un grande sovrano, Filippo. Il primo
di Leuttra e di Mantinea, Epaminonda diede prove di somma perizia tattica;
egli sì battè disponendo le sue forze in queìVordine obliquo, che imitato da
Federico il Grande a Leuthen, procurò anche al medesimo un completo trionfo.
Epaminonda ha cioè portato il grosso delle sue forze sopra un sol punto della
lìnea nemica: contenne Tala indebolita proteggendola di qualche vantaggio di
terreno: con essa sorvegliò la parte di linea che non voleva attaccare, e non-
dimeno poteva al bisogno valersi di questa sua ala corno di riserva per Tala
assalitrice.
(\) Come Epaminonda periva di freccia in Mantinea, Gustavo Adolfo cadeva
di moschetto in Lutzen, e Schiller onorava la memoria del re liberatore con
nobilissima epopea, chò tale rassembra quella sua brillante istoria della Guerra
dei Trentanni. Noi però pensando alle umane vicende, agli esempii antichi,
alla stessa fama illibata del re fìno alla vittoria di Lipsia, ed alla fama alquanto
controversa dipoi, ci siamo fatti più volte il quesito: se Gustavo Adolfo uscendo
vivo dalla mìschia dì Lulzen correva la Germania trionfando d'irresistibile spada,
avrebbe egli avuto le stesse lodi da Schiller? Certamente che Gustavo ha dato
minori prove di moderazione che non ne abbia dato Epaminonda, ed egli aveva,
almeno sugli Svedesi, autorità ben altrimenti sicura ed intensa che Epaminonda
non l'avesse sui Tebani.
CiPlTOLO ▼. 79
contatto, il primo urto dei Macedoni coi Greci sorgeva
da cause che vogliamo spiegare, perchè il bene compren-
derle giova a chiarezza d'idee non solo in questa storia,
ma in molle successive del medio evo e dell'era moderna,
e porta luce sui tanti effetti vantaggiosi o tristi delle co-
lonie fondate, sui modi d'espansione della civiltà, sugli
attriti, sui contrasti e sulla serie di guerre secolari e
feroci sorte da appena percettibili origini fra popoli di
diversa schiatta, e lingua e coltura.
I Greci avevano fondato piccole colonie in tutti i punti
più importanti delle spiagge marittime fra la Tessaglia e
l'Ellesponto, sui quattro golfi di Macedonia cioè, e lungo
lo sinuose costiere di Tracia, e specialmente quelle della
Calcìde e dell'Ellesponto divennero fiorenti pei commerci
colle popolazioni tuttora barbare o semi-barbare dell'in-
terno fino a distanze dal mare che ci sono ignote. Ave-
vano del pari fondato colonie nell'IUiria sui bordi del Io-
nio e dell'Adriatico, eia parte meridionale deirilliria, ove
più abbondavano, giàdenominavasi da esse Illiria greca.
Non era una sola la madre-patria delle colonie, ma tutle
le principali città di Grecia ne avevano fondato: frequenti
erano dunque per avidità d'esclusive influenze e commerci
le lotte fra le colonie : frequente il propagarsi di queste
lotte alle loro metropoli : frequente del pari il mescersi
dei regoli e delle tribù dell'interno alle sanguinose discor-
die; ma l'intiero sistema coloniale giovava ai traffichi
greci, alla civiltà propagata lentamente nell'interno, all'al-
leggerire di plebaglia le greche città, al dare a turbolenti
persone governi secondarli e lontani a coperta d'esilio, ad
arricchire avari, a spegnere in campo inglorioso la sfre-
nata concitazione di molti, al trarre di schiavi e di vigo-
rosi soldati. Cosi fu più tardi delle colonizzazioni geno-
vesi e veneziane in Levante e nel mar Nero, delle ansea-
so PARTE PRIMA
tìche sul mar di Germania e sul Baltico, delle portoghesi
neirAfrica, delle spagnuole in America, ecc. Tutte furono
scale di commercio aperte, tulle furono fari di civiltà ir-
radiala fra i Barbari. Quando però Vinterno si ordinò a
forma di Stato, quando la civiltà germinando dalle colo-
nie nelle schiatte indigene le raccolse a governo prima
che in esse penetrasse e si radicasse Timpero delle genti
straniere, quelle colonie parvero ai nuovi Stati blocco e
serrame, e lo erano. Incominciò lo sforzo degli indigeni
per riacquistare il mare, per la loro libertà commerciale,
per rindipendenza daziaria delle loro finanze, per aver
completa la patria. Da ciò proruppero battaglie e guerre,
essendovi da un lato la massa, dall'altro la civiltà preva-
lente ancora, e di più il soccorso, della madre-patria in-
teressata a sostegno della colonia, da cui aveva e tributi
e forza, e dove aveva investito i suoi proprii capitali. La
storia, quella in ispecie del medio evo, ne offre a cenli-
naja gli esempii, più facili a conoscersi nei loro dettagli
che non gli esempii antichi, che chiari però sono pur essi
per l'assoluta identità delle condizioni geografiche e delle
politiche degli antichi e dei moderni sistemi coloniali.
Or bene, in Macedonia si era appunto costituito uno
Stato : le greche sementi vi ebbero creato un governo,
ed il caso, che ha pur tanto di parte nelle politiche cose,
vi pose al trono un sovrano profondo conoscitore di Slato,
abile ad eccitare, a sgominare, a dividere o riunirei par-
liti, a dissimulare e mentire, perspicace a scoprire il
punto vitale, indifeso, ove sicuramente colpire, temibile
cosi nel segreto della reggia, come alla testa degli eser-
citi, inventore d'ordini militari in cui appena si discerne
il temente dal prode, ma tutti sono forti : immaginava le
cose più grandi, e senza ritegno, né fede, per forza od
insidia sapeva eseguirle : nulla apud eum erat turpn
CAPITOLO T. 81
ratio vincendi, fallere hostem, aut vi mperare wque
gloriosum (Giustino). Egli era stato per lunghi anni ostag-
gio in Grecia : aveva conosciuto uomini e cose: aveva ve*
duto da vicino come si adoperasse efficacia di prezzo,
dov*era mercato e tutti vendessero : si era fatto un carat-
tere conveniente allo scopo : sapeva che tocche dalVoro
meglio le porte s'aprivano delle greche città. I Barbari
schìeraronsi sotto di lui in esercito regolare, ed egli ebbe
per ogni arte militare o civile quei Greci a servizio, che
anche il re di Persia aveva per oro : cercò i confini del
regno nella vasta catena dei monti e del mare: domò i
Barbari ed ebbe i monti, ingrossò Tesercito, cercò il mare,
s'abbattè nelle greche colonie, le strinse, le forzò : ad una
ad una furono sue dalla Tessaglia all'Ellesponto. Poteva
posare ? altamente noi volle : ambi le sponde del Jonio
ed Adriatico, penetrò in quel serraglio forte e difficile di
m^nti e dì valli, che noi conosciamo adesso col nome
d'Albania , di Montenegro , d'Erzegovina e Bosnia : ogni
cupo recesso fu coll'arte e la forza invaso da lui, che
pose allo stesso servaggio le signorie selvatiche e le colo-
nie dei Greci.
Tutte le città greche commovevansi ad una tanta rovina,
tutte imprecavano, tutte gridavano contro l'invasore, ma
tutte battagliavano fra loro come sopra fu detto, e quindi
tremavano d'avere Filippo a nemico. Quelle il volevano
staccare da Atene, da Sparta, da Tebe, da Corinto ; queste
il volevano con Alene, con Sparta, con Tebe e Corinto.
I Greci avevano per lungo tempo conculcato, espilato
questa Macedonia, questa Tracia ed Illiria: avevano ar-
mato gli uni contro gli altri e Macedoni e Traci ed lllirii:
avevano goduto dì quelle mischie, di cui parla confusa-
mente la storia, nelle quali le larghe ferite dei Barbari
davano ai soli Greci vittoria; ma ora era sorto Tarchi-
6
82 PARTE PBIHA
tetto del grande edificio, e l'aveva costrutto: tutti i Bar-
bari marciavano ad una sola bandiera, a quella del re.
L'amore del dominare spinge più d'ogni affetto ; è poi più
intenso nelle menti quanto meno volgari, e quella di Fi-
lippo era vasta. Per lui la verità non era di sua natura
migliore della menzogna, ma il pregio dell'una e dell'al-
tra determinavasi dal vantaggio che si trae da esse : usava
il mendacio, usava la corruzione, adulava, falsava, sa-
peva esser rapido , ma anche aspettare , preparava in
silenzio , poi immantinente ghermiva : non voleva esser
lodato, ma esser grande, e lo fu.
Già signore di vasto regno, a più largo volo tendeva
Filippo. Egli ridonerà ai coloni greci la madre-patria :
onora la Grecia; è la patria d'Aristotele sì caro a lui^
maestro di suo figlio Alessandro, che scrive V opera di tutte
le costituzioni delle città greche, e probabilmente Filippo
vedeva per rilevarne la debolezza, e non la sodezza. Già
medita il conquisto della Grecia armigera ed opulenta :
ma come conquistare la Grecia, che è più forte della Ma-
cedonia ? L'entrarvi a modo dei Persiani, e con forze mi-
nori delle persiane, è un voler distruggersi da se mede-
simo. Si dichiara difensore della libertà dei Greci contro
i Tebani, e contro gli Ateniesi partecipi della potenza
tebana, non altrimenti che i Tebani si erano dichiarati
liberatori di Grecia contro di Sparta, e gli Spartani libe-
ratori di Grecia contro di Atene.
Appena Filippo si professa liberatore di Grecia, la Pizia
filippizza. Non solo la maggioranza del Consiglio amfi-
zionico era negli interessi di lui, ma aveva ottenuto di
partecipare al Consiglio egli stesso (1). Invano si leva contro
(1) Di questa strana partecipazione d'un estero a società d'altrui interesse, a
questo legale disordine di voto conseguito da chi ha scopo ed utilità nelPabuso
e nel rivolgere al peggio le deliberazioni sociali, offre multi esempii la storia
CAPITOLO ▼. 8
Filippo la voce di sommo oratore, Demostene; invano
egli lo assale con oltrepotente facondia ; invano espone
(p. e. nella filippica quarta) con istupenda chiarezza tutte
le doppiezze, artificii e simulazioni del re, e rimprovera
con mirabile coraggio agli Ateniesi le loro sale deserte
dai legali delle greche repubbliche, l'isolamento in cui
sono, la ricchezza volta in indigenza, e la gloria in ob-
brobrio. Egli li scongiura a prendere una risoluzione ar-
dita, a comporre l'esercito, ad allestire la flotta, e fa loro
sperare d'aver soccorsi d'argento anche dalla Persia, per-
chè Filippo colle conquiste di Tracia si è fatto vicino ai
possessi persiani, e la Persia è gelosa ed offesa dalla sua
crescente grandezza. Scopriva Demostene anche le occulte
conquiste che Filippo faceva negli oratori coU'oro, e que-
sti sentendosi da colpo crudele feriti, ritorcevano contro
Demostene l'accusa , dicendolo condotto agli sti pendii di
Persia. Infatti nel libro 17** di Diodoro Siculo è riferito
un passo di Eschine, competitore di Demostene, che con-
tiene appunto quest'incolpazione contro di lui. Ma nella
filippica decima così si era espresso Demostene : // re di
Macedonia ha sempre al suo soldo uno stuolo di soldati
mercenarii, e, quel che è piii^ fra i suoi mer cenar ii ha
sempre alcuni dei nostri oratori, che ricevono i suoi
doni, e vivono per luiy e per guadagno vendono la patria
e se stessi.
Tale era Demostene (1), e tale la trepidazione in Atene,
delibera feudale. RileTiamo poi dai dispacci di Paruta ambasciatore di Venezia
al Pontefice, che anche Filippo H di Spagna tentò di raccogliere in una lega
ritalia, ove pei vasti suoi possessi italiani avrebbe avuto voce preponderante
egli stesso, ma per la sagace e ferma opposizione di Venezia non riusci nel
progetto. Né ai nostri giorni mancò chi consigliasse il formarsi di una strana
Confederazione italiana in cui FAustria fosse accolta per la Venezia, il che ò
quanto dire che volevasi anche nella lega italiana introdurre im Filippo di Mace-
donia, che già una parte possedeva, ed ambiva alfacquisto del resto.
(1) Volentieri aggiungiamo qualche altro riflesso su uomo si grande. Quale
84 PAITB PUMA
in Grecia, in Persia ; ma i Persiani travagliati pur essi da
intestine discordie, godenti dell'umiliazione di Grecia, so-
spettosi bensì, ma non ancora tementi dei Macedoni,
esitano a gittarsi in quel pericoloso e confuso viluppo
macedonico-greco ; gli Spartani poi non si vedono pros-
simi ai colpi, e scorgono volontieri minacciali e depressi
Ateniesi e Tebani. Perfino tra questi vi è poca concor-
dia, perchè i Tebani vorrebbero del tutto rovinati gli Ate-
niesi, ai quali hanno dovuto qualche cosa concedere, e
gli Ateniesi vedrebbero volontieri rovinata Tebe succe-
8i era il vero carattere della sua facondia; quale differenza yì è nelle arringhe
politiche dei due sommi maestri deiParte oratoria greca e romana? Demostene
in tutte le sue concioni ha stretto parlare e raccolto, che subito viene a mezza
spada e conchiude : Cicerone nelle sue (eccettuando le sole antoniane) volteggia,
schermisce, s*introduce furtivo. L'eloquenza di Demostene non è bagliore d'e-
loquio, ma è nutrita dalla materia come la fiamma, levasi per agitare e cliia-
rìsce per ardere; sa muovere a qualunque affetto, ma sempre conciso e vee-
mente; egli mira per cosi dire alla clessidra che misurava nell'assemblea di Atene
il tempo concesso ai discorsi, come nel Congresso americano dopo una sola
mezz'ora misura ed arresta la eloquenza sovrabbondante in tribuna; ed oh ! per-
chè la pietosa clessidra non si pone nel Parlamento italiano, ove la parola per
ore e per giorni abusata suona indefessa come gualchiera
Mossa dall'acqua che per doccia corre?
(Gozzi).
Cicerone invece è magniloquente, veste e riveste sovente lo stesso concetto :
talora è verboso di troppo. Demostene nelle filippiche è concitato, fiero, ve-
lenoso, ma senza le invettive ed ingiurie frequenti nelle antoniane. Scrisse nei
Trianfi il Petrarca che Demostene è fuori di ìperama dei primi onori, ma non
tutti consentiranno in si recisa sentenza : noi lo vorremmo piuttosto considerare
sdegnoso del luogo secondo (Tasso) : entrambi furono grandi, e vorremmo ad
entrambi applicare l'adagio che non ha torti la gloria ! A Demostene però poteva
ribellarsi l'orgogliosa assemblea per non sembrar di cedere a violenza e pres-
sione, né avere apparenza di confessare le colpe; poteva talvolta a Cicerone
sfuggire per non mostrarsi ingannata e delusa, o per tedio e disgusto di vederlo
su tutti gli uomini di vana alterezza.
Demostene non solo rispetta, ma sembra amare le istituzioni affatto popolari;
Cicerone è sempre proclive per le patrizie, e lo palesa con velame e senza ogni
volta che può : ambedue sperimentarono che gli amori delle assemblee sono
malaurosi ed incerti : ambedue nati in patria libera, la videro serva, andarono
in esilio e tornarono : chiusero ambedue di morte violenta la loro vita : i loro
posteri da venti secoli ne sodo i discepoli.
CAPITOLO T. 85
duta al luogo di Sparta. Filippo promette a Tebe, pro-
mette ad Atene, promette a Sparta : intanto occupa le
Termopili, inyadela Focide, presiede agli Amfìzioni, pone
guarnigioni nelle città di Tessaglia, si estende nella Lo-
crìde, s'allarga in Eubea, ma più s'avanza e più finge, pro-
fonde l'oro a piene mani, oppone l'interesse privato e di-
retto all'interesse comune ed indiretto. Tardi, troppo tardi
Atene e Tebe per le cose fatte e patite orgogliose e fre-
menti, danno di piglio alle armi, ma né Atene ha un
Temistocle, né Tebe un Epaminonda : scontransi a Chero-
neale milizie cittadine generose, loquaci, per ordini e scopi
diverse d'Atene e di Tebe coi sodi soldati del re ridotti a
mero flagello di tormento e sconfitta, non chiedenti il
diritto di chi comandava il percuotere, né le ragioni po-
litiche di chi veniva percosso : incomincia in breve ora
la turpe, poi la necessaria fuga degli alleati : perseguita
danneggiando Filippo, ed é si^ore di Grecia.
CAPITOLO VI.
Alessandro il Grande: sae conquiste: saa morte:
nooYÌ Stati greeo-macedonici.
Quando gli Spartani soggiogarono gli Ateniesi, ed i
Tebani batterono i Lacedemoni, più oltre non videro,
parvero smarriti di scopo maggiore, onon ebbero corag-
giosa virtù di raggiungerlo : sciolsero il freno alle pas-
sioni volgari perchè circoscritte e sicure : incominciarono
a dispotizzare, e furono subito gridati tiranni di Grecia.
Ma Filippo aveva smisurata la cupidigia e smisurata
del pari la scaltrezza politica, l'ambizione e l'ingegno :
vedeva una gran preda lontana, era potente per armi e
consiglio, e volle ghermirla. Nobilissime città greche,
egli dice, sono ancora dolenti del giogo persiano: saranno
i Greci spettatori tranquilli dell'indegno martirio d'altri
popoli greci? Spezziamo le loro catene, facciamo le loro
e le nostre vendette : allontaniamo per sempre anche da
quelle sedi fraterne di Greci la persiana barbarie alle di-
vine ed alle umane leggi nemica : sia questa la guerra
redentrice di tutte le famiglie dei Greci: ciascuna città ha
avuto finora la sua storia, le sue prodezze, ma di lotte
intestine e contrasti : le sole glorie comuni furono l'as-
sedio di Troja e le guerre persiane: portiamo adesso sulle
nostre bandiere la vittoria comune, la civiltà generale: gli
CAPITOLO yi« 87
aflelti patrii sono i più santi : diventi universale la Grecia*
Cosi Filippo esì'glia tutte le trappe greche alla conquista
deirAsia : ivi la natura deiresercilo diventava passiva ; nella
Grecia poteva esser tumulluaria e deliberativa disordi-
nando le schiere e lo Stato, Le truppe greche assai peri-
colose allo stesso imperante se abbandonate in paese alle
proprie licenze ed agli eventi politici, mutavansi nelKAsia
in fulmine nelle mani del re. Ora tutta Grecia è inerme,
tutta Grecia è occupata da guarnigioni macedoniche.
Un colpo di pugnale non vibrato da fanatismo , ma
da vendetta privata» tolse di vita Filippo. Lasciò ad
Alessandro copiosi elementi di vittoria, e questi, raccolta
l'idea potente slanciata dal padre, liberò, come c'insegna
Curzio, dai tributi tutta la Macedonia, volendo però che
ogni Macedone fosse soldato. Egli doveva presidiare tutta
la Grecia, e doveva inoltre rinforzare in modo la sua guar-
dia reale, o falange come appellavasi, da esser temuto in
mezzo all'armata greca nell'Asia. Né importa che man-
chino i tributi della Macedonia povera, purché non man-
chino quelli della Grecia ricca ; né questi mancano, finché
le greche città non hanno presidio greco, ma hanno pre-
sidio macedonico. Alla reclutazione poi di tali presidii
era ampiamente provveduto, perchè con fortunate fazioni
di guerra Alessandro aveva posto miglior proporzione di
massa di popolo fra Macedoni e Greci. Egli infatti aveva
esleso le frontiere del regno oltre l'Emo, né s'era arre-
slato che al Danubio ed alla Sava : di là poteva trarre
gente orrida e bellicosa quanta mai volesse alle guarni-
gioni di Grecia, a reclutare la falange, a montare cavalli:
qualche milizia di Greci relegata sull'Emo, neirillirio,
suU'Istro vi era a vicenda frenatrice dei Barbari, e con-
tenuta da essi.
Già s'adunano , s'addensano , armeggiano sotto i ri<»
88 PAITE PllMA
nomati condottieri le truppe ansiose del re; già mar-
ciano con lui per la Tracia volendo pel varco dell'Elle-
sponlo introdurre la guerra neirAsia. Ha appena Tebe ha
veduto diradarsi nelle sue mura i Macedoni, insorge a
tergo dell'esercito che marcia, chiama a rivolta tutte le
città che vogliono cooperare a far liberi i Greci, e co-
strìnge il presidio macedonico a serrarsi a rifugio nella
rocca cadmea. Il fatto è grave: tentennare fra i Greci in-
quieti ed i Persiani oflfesi, esitare con un esercito non
ancora assimilato dalle vittorie e dal tempo, perdere le
comunicazioni, veder chiudere le Termopili dietro di so,
e gli assediati presidii calare la bandiera del re, sarebbe
lutto e rovina. Ben prende Alessandro subitaneo partito :
retrocede con Macedoni e Traci, e si getta come un leone
su Tebe male apprestata alla guerra. Ha fiera vendetta
a fare del grande disegno rotto o sospeso , e deve dare
un terribile esempio perchè nessuno più strepiti iu
Grecia, ed egli possa allontanarsi ed internarsi nelFÀsia.
Cada dunque la pena sui veri ribelli , e cada altresì
sugli inerti che furono strascinati dall'impeto altrui.
In ogni città dell'antico come del mondo moderno i
veri agitatori non sono mai molti , ma nel loro vor-
tice aggirano i mille passivi, s'ingrossano poi di inquieti,
di facinorosi e di tristi : apprenda dunque la maggio-
ranza a resistere , sapendo che dovunque si insorga,
tutti avranno d'egual rovina a soffrire, ed abbiano le
truppe esasperate un'arra del bottino che faranno nel-
l'Asia : il sacco di Tebe è per esse. L'infelice città è for-
zata: sei mila Tebani sono uccisi, e trenta mila al
mercato.
Ma anche trucidando Alessandro meditava, accoppiava
ai rigori qualche mansuetudine; perfino adulava la civiltà
della Grecia. Si rispettavano i sacerdoti degli Dei, e non
CAPITOLO VI. 89
si violava la casa di Pindaro : volevasi avere chi consa-
crasse il massacro, e chi lo cantasse, ed avuti si avranno,
perchè non mancano mai se facilmente s'accettano, o per
poco si cercano. Lodavansi gli aderenti dei Macedoni sia
che vi fossero, o perchè si credesse che vi erano, si spar-
gessero nelle masse le diffidenze e gli odii, e venisse tolta
Tunità ai contrarii. Le terre dei Tebani uccisi o proscritti
si davano in dono a Platea, a Tespia, ad Orcomeno, che
rientravano cosi nelle proprietà da cui Tebe le aveva con
precedente conGsca cacciate, ed aggiungevano all'antico
possesso dei brani sanguinosi di preda tebana. Alcuni
godevano, tutti temevano : correvano dunque da più lati
di Grecia gli ambasciatori a congratularsi col Macedone
dell'orribile fatto, e più correvano quelli d'Atene, che più
degli altri tremavano. Intanto spargevasi che i Tebani
s'erano alleati col ré di Persia per tradire la Grecia ; avere
meritato la proscrizione ; doversi estendere ad ogni pro-
fugo ; le ombre degli eroi di Maratona e di Salamina
perseguitare i Tebani ; il cielo avere mostrato con spa-
ventosi prodigii, durante l'assedio di Tebe, la sua ira con-
tro la città abbominevole ; continuare i prodigii in ogni
terra, ove i profughi si volgevano (Diod. Sic, 17). Le
scimitarre macedoniche vegliavano alle porte dei delubri ;
dai delubri adunque narravansi i prodigii e tuonavano
gli anatemi. Alessandro visita Delfo, e la Pizia gli ri-
sponde : Tu sei invincibile.
Era ormai tempo di muovere, ma dopo il gran fatto
della resistenza di Tebe, vuole Alessandro imporre alla
pubblica opinione con un altro gran fatto di servitù ge-
nerale, con un nuovo plebiscito che gli cresca autorità.
Raccoglie nell'istmo (Corinto) le deputazioni di Grecia, le
seduce, le invade della propria grandezza : le tiene in ogni
caso nella sua mano potente : è acclamalo di nuovo a
90 PIRTB PRIVA
guidare la guerra persiana : Timpero sulle truppe delle
greche repubbliche è suo di fatto, ed anche legale.
Si riprende la marcia: oro per le necessità dei suoi
aveva raccolto Alessandro, come accennano i classici,
fin oltre l'Ellesponto : poi si confidava nell'Asia. Ivi è
aperta per tutti i Greci una via di gloria innocente, ed
anzi vantaggiosa pei Macedoni. Vi è un libero deflusso per
ogni umore, che lungamente conservato potrebbe pro-
durre rivolta. Vi è guerra, vi è rapina, vi è alimento
d'idea entusiastica ; vi sono onori e gradi ; vi sono nemici,
ma non sicarii ; non v'hanno patiboli, nò veleni. Chi vuol
liberare i Greci, può liberarli ; non già togliere i Greci di
Europa alla sudditanza dei Macedoni, ma i Greci d'Asia
alla sudditanza dei Persiani, per renderli soggetti ai
Macedoni.
Così la Grecia, inondata da truppe macedoniche, non
aveva forza; l'armata greca aveva forze, ma si trovava
ricca e gloriosa nell'Asia. Siccome però l'armata greca
aveva fòrza, e questa era sempre pericolosa, il re mace-
done, in mezzo ad una falange macedonica temutissima,
tenne il comando diretto dell'armata. Quivi era il peri-
colo, quivi doveva trovarsi il re. Ad una massa sì ete-
rogenea di truppe assai bisognava dare unità, e la sola
unità possibile, la sola desiderabile era quella dello spi-
rito, dell'ardore, dell'emulazione militare, e questa facil-
mente la dà non spettatore, ma combattente sovrano qual
era Alessandro. Davanti al nemico è vergogna ad un prin-
cipe l'esser vinto di virtù, ed agli altri il non pareggiarlo :
nessuno vinceva Alessandro in virtù, e tutti erano trion-
fanti d'essere capitanati da. lui. In tante guerre si erano
formati i soldati, e la buona scelta dei capi non è solo
sicura, ma agevole a chi per qualità militari a tutti so-
vrasta, ed ha impero di libera scelta fra tutti, e ciascuno
GAmOIO TI. 91
ha Teduto in consiglio ed azione. Non è merayiglia adun-
que se Alessandro, Cesare e Napoleone ebbero grandi
generali : merayiglia sarebbe se non li avessero avuti
valenti, o piuttosto siali non sarebbero Cesare, Alessan-
dro e Napoleone.
Nella Grecia eravi sicurezza maggiore ; ivi poteva re-
gnare Antipatro ministro. Se i Persiani, invece di limi-
tarsi a dare ai Tebani qualche soccorso di denaro (Diod.
Sic, c. 17), e di spingerli cosi all'estrema rovina, si fos-
sero mossi prima dei Macedoni, il che forse durante la
guerra tebana avrebbero potuto fare, ed avessero tradotto
nella Grecia , siccome lo consigliavano Memnone rodio
e Caridemo ateniese, un forte corpo di truppe contro i
Macedoni oppressori, avrebbero per lo meno salvato se
medesimi. E meglio che operare nella Grecia con truppe
persiane, il che dava il carattere di assalto, dovevano i
Persiani operare con un esercito di Greci ausiliarii, ed il
re di Persia già ne contava ben cinquanta mila nelle sue
truppe (Curzio, V, 20): i più erano certamente Greci del-
l'Asia e delle isole greco-persiane, ma anche i Greci
d'Europa abbondavano, perchè rivoluzioni, congiure,
esigli, lauti stipendii, tutto concorreva ad attirare a mi-
gliaja i Greci al servizio di Persia. Erano inoltre i Greci
per l'Asia ciò che lungo tempo furono gli Svizzeri per
l'Europa ; apostoli di libertà in casa propria, erano mi-
nistri di servitù negli Stati altrui. In ogni storia dei re
di Persia noi troviamo menzione delle truppe greche al
loro soldo. Sembra che su questi mercenarii i re di Persia
fondassero anche le principali speranze di contenere la
nobiltà ed il sacerdozio de' loro Slati, e ne avevano in-
fatti gran bisogno ora che eransi arrogali l'assolutismo
distruggendo il potere dei magi (sacerdoti) . Fra i Greci
allo stipendio di Dario si contavano molti dei migliori
01 PAETEPEIIU
generali di Sparta, d'Alene ed anche di Macedonia, che
per cause pubbliche o private erano divenuti profughi e
nemici di Alessandro. Tale era Caridemo. Né per tradurre
un esercito in Europa i Persiani, padroni di Tiro e di
centinaja di leghe d'ottime coste, mancavano di navigli ;
anche dopo la battaglia del Cranico la flotta allestita da
Hemnone operò liberamente contro le isole.
Guidava Alessandro da quaranta a sessanta mila sol-
dati, ma sbarcava fra amici, ossia fra i Greci impazienti
di lui , e numerosi e potenti. Anche Gustavo Adolfo
nel 1630 non sbarcava con soli quindici mila Svedesi
in Germania contro l'imperatore che aveva cento mila
uomini di truppe eccellenti ? Non sbarcava in Inghilterra
nel 1688 con poche mighaja Guglielmo d'Orange contro
Giacomo II? E Napoleone nel 1815 non entrava con
soli mille e duecento uomini in Francia ? Tulli corsero
nel primo istante azzardo e ventura perchè impossibile
è di porre in esatta bilancia i fenomeni sottratti al senso,
le passioni cioè, le tendenze, l'impulso a scuotersi,
a determinarsi, ad osare; ma se un invasore ha scelto
bene il suo campo, se è da tutti desiderato il suo ar-
rivo, se è, liberatore creduto, ove non sia nel primo
istante oppresso, si fa forte e si ingrossa come si in-
grossa lavina.
L'Asia Minore popolala in gran parte di Greci, è lolla
da Alessandro ai Persiani in una sola battaglia. Si era
combattuto non lungi da Troja: là avrà detto Alessandro
ai suoi : dall'alto dell'Ida vi contemplano le grandi ombre
dei Greci, e l'allusione non era mero fantasma d'eloquente
immagine, come lo fu pei Francesi in Egitto (1798) l'evo-
cazione dei quaranta secoli che li contemplavano dalle
piramidi.
Disputano gli storici, perchè Alessandro dopo la vii-
CAPITOLO VI, 93
toria abbia sciolto l'esercito. Egli correva il paese come
un liberatore: nonv*era chi resistesse. I^sercito diviso in
piccoli corpi tulio occupava ; trovava, cosi diviso Ja mas-
sima comodità dì ricoveri e sussistenza. Permetteva Ales-
sandro, dice Diod^ Siculo, e. 47, alle città greche di reg-
gersi colle loro leggi; prometteva esentarle dai tributi,
dichiarava di avere intrapreso la guerra al solo scopo
di liberare i Greci dalla tirannide dei Persiani: resti-
tuiva ad Ada l* autorità di cui essa godeva nella Caria,
prima che i Persiani ne la cacciassero. Tutte le città
si commossero ; tutte spedirono deputati a presentarlo
di corone d'oro ; tutte furono pronte e devote ad ogni
uopo.
Ma la ricuperala liberlà (?) dei Greci asiatici non è si-
cura, Anche rimpero persiano sussiste. Prosiegue Ales-
sandro a' proclamare la liberazione di tulli i popoli di
quel mostruoso impero, frutto delle conquiste e della
violenza di Ciro e di Dario. Memnone anche morienle
ripete il consìglio di trasportare un esercito nella Grecia,
onde far cuore ai ribelli. Insiste pure Garidemo. Àgide
re di Sparta ha preso le armi contro i Macedoni, ha oc-
cupato Greta (Gandia] ; non ardisce però d'avventurarsi
nella Macedonia ; bisogna fargli cuore e rinforzarlo ; la
diversione obbligherà Alessandro a ritornare in Europa.
Un Aminta ateniese raccoglie varie migliaja di Greci stali
battuti e dispersi militando coi Persiani: scompigliala
Siria e TEgitto ; potrebbe di là gittarsi sulla Grecia. La
sana politica consiglierebbe a Dario un'ardita intrapresa,
ed Agide rinforzato, invece di perdersi in operazioni iso-
late ed estrinseche, invaderà l'Attica, la Beozia, l'Epiro
e tuttala Grecia. Le stesse città, che al cenno d'Antipatro
fornirono oro e truppe contro di Àgide, spontanee accor-
deranno doppii sussidii in uomini ed in denari contro di
94 pàkte paini
Anlipatro. Mail monarca coiranimo prima da felicità ed
adulazione corrotto, ed ora da danni e sventure precipi-
tato, non comprende, o non osa riverberare l'assalto col
mandar truppe airestero, mentre è minacciato rinterno.
J satrapi persiani, gelosi dei Greci, avranno poi mostrato
al debole re, che la greca incursione era momentaneo
disastro e pena per infedeli città, che svanirebbe come
solco di vascello che non lascia segno nel mare ; che nel
cuore dell'impero era la forza, e fioritissimi eserciti ac-
correvano a riurtare il temerario nemico, che avan-
zandosi sarebbe preso e distrutto : intanto non donasse
facile orecchio ai Greci : bramare i medesimi valersi delle
forze persiane e dei tesori del re a scopi proprii, e nulla
loro importare la difesa dello Stato dei Barbari. I ri-
belli di Grecia, destituiti d'appoggio, sono da Antipatro
passati a fil di spada. Sparta chiede pace e perdono. Lo
scaltro Antipatro però adula i Greci rispondendo che
Sparta coU'allearsi ai Barbari ha offeso tutta la Grecia, e
rimette il giudizio di Sparta, come dianzi quello di Tebe,
all'assemblea dei Greci. Essa dichiara solennemente, che
spetterà air arbitrio di Alessandro di pronunciare sulla
sorte de'contriti ribelli. Le ragioni battevano pari, ma
scellerata gara era questa, a chi competesse l'onore di
usare il capestro, e potendolo i Macedoni usare, ultimo
segno di servitù per i Greci doveva essere che i Greci
l'usassero contro quei Greci medesimi, che avevano per
essi levato contro i Macedoni un generoso stendardo.
Poteva nondimeno risorgere, se Alessandro subiva un
rovescio, quella greca rivoluzione ora affogata nel san-
gue, e forse i Persiani sarebbero in nuovo fatto più ope-
rosi ed accorti : importa di troncare del tutto ai Persiani
le comunicazioni colla Grecia. Agide aveva tentato con
forza d'esercito, e favore di popolo contro Alessandro
CAPITOLO VI. 95
nell'Asia, di fronte ai Persiani, di torgli la base d*ogni
sua forza, la Grecia, come nel 1812 tentò audacemente
3Iaìlet in Parigi di tórre la corona a Napoleone, quando
egli stava con mezzo milione di soldati fra il Niemen ed
il Dnieper in presenza dei Russi.
Persiani e Macedoni confliggono con piena ordinanza
ad Isso (Alessandretta). Ivi realmente, e non altrove, si
doveva combattere. Infatti se i Persiani non si arresta-
vano ad Isso, ma avessero più oltre continuato la loro
ritirata, una metà dell'impero cadeva in balia di Ales*
Sandro; giacché se la ritirata proseguivasi verso TEufrate,
rimaneva scoperta ai Macedoni la Siria e TEgitto, e se
la ritirata proseguiva verso la Siria, rimanevano scoperte
tutte le regioni dell'Eufrate ed il centro dell'impero. Che
se le truppe persiane si dividevano, Alessandro entrava
loro frammezzo, i Persiani più non potevano agire a
scopo concorde, e non mai più avrebbero potuto riunirsi
per l'interposizione dei mari e dei deserti. Ecco il mo-
tivo per cui Isso in questa guerra, ed in tante che av-
vennero fino ai nostri giorni, fu teatro di decisive bai- ,
taglie. La forma geografica di quelle regioni d'Asia occi-
dentale fa si che quel punto sia di estrema importanza
per l'assalto e la difesa degli Stati che comprendono la
Siria e l'Asia Minore sotto una sola dominazione. Vinse
Alessandro ad Isso : vinse pienamente : i Persiani erano
entrati per la porta amanica, i Greci per la porta siriaca ;
la battaglia segui sul fianco e sul rovescio dei Persiani,
e non sulla loro fronte: i Persiani non ebbero dunque
ritirata, e la vittoria di Alessandro fu completamente di-
struttiva del nemico sconfitto. L'esercito persiano non
potè ritirarsi, ma si disciolse in bande. Anche il campo,
anche la famiglia di Dario vennero in potere del vinci-
tore. L'angustia dello spazio rese inutile la moltitudine
96 PIETI PUMA
dei Persiani: la montuosità del terreno rese inutile la loro
cavalleria (Curzio, III, li).
Alessandro può adesso invadere a piacimento Tuna o
l'altra metà dello Stato. E perchè sceglie d'invadere la
Siria e TEgitto piuttosto che piombare immediatamente
sulla capitale dell'impero persiano? Perchè dare tempo a
Dario di prender animo, di coprire la capitale, d'unire
un nuovo esercito, di porre altra volta la guerra in
forse? Era avido non di sola vittoria, ma anche di ce-
lerità; eppure erano prevalenti in lui all'impeto di guerra
le meditazioni di politica, le alte ragioni di Stato, alle
quali è pur forza di subordinare la condotta e le generali
disposizioni di guerra. Preferì ad ogni altra intrapresa
l'occupazione di tutte le coste, dalle quali il nemico
avrebbe potuto insidiare, veleggiare, rinvigorire le agita-
zioni di Grecia, che in allora non erano del tutto com-
presse. E questa si è la causa della giusta pertinacia dei
Persiani a difendere Tiro, e della giusta ostinazione di
Alessandro a farne il terrìbile assedio. Quand'egli ebbe co-
strutta una diga ciclopica dal continente all'insulare città,
e potè dirle come nella Bibbia, non e$t maris cingulum
viltà tibif passò coi Macedoni sovr'essa, la espugnò e
distrusse. Né Tiro potè più rinascere magnifica e forte,
perchè né Tiro , né Sidone , né alcuna città della Siria ,
meno le sole collocate suirOronte, trovasi sulla lìnea
necessaria o più breve dei grandi commerci asiatico-eu-
ropei, e ne godono soltanto in allora che le più agevoli
vìe dell'Eritreo, dell'Eufrate e delf Oronte sono impedito.
Ond'è che poco nuoce ai commerci del mondo l'essere
la costa siriaca per un tratto lunghissimo priva di buoni,
e scarsamente provveduta di porti mediocri.
Sapeva inoltre Alessandro che entrando nella Siria gli
Ebrei avrebbero acclamato a lui; tutte le popolazioni son
CAPITOLO VI. 97
preste a credere , a rallegrarsi , e ad onorare con illu-
sione sincera ed anche con gara vigliacca i trionfanti coi
sacrìfizii e gli incensi a tutti gli altari I Gii Ebrei furono
infatti più memori dell'ingiuria della schiavitù babi-
lonica, che non del beneGzio della liberazione di Ciro,
ed Alessandro si mostrò loro benevolo, li adulò, adorò
il loro Dio, prevenne colle concessioni le domande, ed
essi alla lor volta adularono il guerriero, che gli altri
popoli domava ed esaltava il loro: la Bibbia ne decanta
la grandezza : $iluit terra in conspectu ejus, e san Ci-
priano anche dopo lungo corso di tempo non sa por
fine alle lodi.
Continuò Alessandro verso r£gitto, il superbo reame
aggiunto dalla violenza di Cambise al regno di Persia,
la sua marcia piuttosto di trionfo che dì guerra. Come
potrebbe Dario soccorrere dopo Isso, dopo la caduta di
Tiro, dopo la perdita delle isole, dopo la conchiusa ami-
cizia macedonico-ebrea, le guarnigioni persiane in Egitto?
Erano separate dal centro, erano isolale, e quindi irre-
missibilmente perdute, come nel medio evo lo furono le
già fiorenti colonie genovesi in Crimea, nella Colchide e
negli scali del Fasi quando i Turchi s'impadronirono dei
Dardanelli e del Bosforo, e preclusero ogni via ai soc-
corsi. Cosi derelitte tutte le guarnigioni persiane più non
potevano essere né scudo all'Egitto, né lancia alla Persia :
quindi s'arrendono, e Curzio nomina i loro capi, che ve-
nivano all'incontro d'Alessandro facendo atto di som-
missione : forse gli inviarono perfino i cammelli onde
agevolargli il passaggio del piccolo deserto della Siria al
Delta del Nilo: realmente si legge che lo attraversò senza
difficoltà in pochi giorni. Probabilmente non prese seco
che piccola parte di truppe , giacché inutile era il con-
7
M PiHTS HWi
durne di più, e meglio importava chela massa maggiore
restasse di presidio al Tauro, e lungo l'Eufrate.
La politica che Alessandro ba da seguire in Egitto è
chiaramente indicata da quanto prima del suo arrivo in
Egitto segui. I Persiani avevano fatto scontare aspra*
mente agli Egiziani la^ gloria delle vittoriose scorrerie del
grande Sesostri in tutte le contrade persiane dell* Asia,
Cambise feri gli Egiziani nelle loro più venerate cre-
denze, uccise il bue Api, e profanò i loro templi, non li
potendo per la prodigiosa mole e Tinconsu utile materia
distruggere; fece poi certamente di moltiplicati balzelli
e di ladre molestie impedimento ai transiti del commer-
cio indiano per l'Eritreo, onde rivolgere alla sola Meso-
potamia quei lucri ricchissimi. Conferma invece il Mace-
done le leggi e costumi egiziani (Curzio, IV, 20), rispetta
i riti e quelle stupende creazioni dell'arte, giusto orgoglio
del popolo, e fonda fuor delle melme e dei bassi fondi
del Nilo, ov'è una rada sicura protetta da un'isola che
frange le onde venenti dal largo, la famosa Alessandria,
destinata a raccogliere il commercio mondiale, non già
a dividerlo colle rivali città sull'Eufrate persiano (1).
Le colonie greche in Egitto erano già all'epoca di Ales-
sandro numerose e potenti : importava che divenissero,
e dovevano tosto divenire assai più floride, e primeggiare
assorbendo la ricchezza e vitalità del paese, e distrug-
gendo coll'invasione dell'elemento greco l'isolalo e strano
sistema egiziano. Alessandro adula quindi i Greci, per-
chè è buona politica il guadagnarli con ogni arte a sé.
Avido dello scopo politico, egli sa perfino domare le pas-
(i) Neir ///»erar/o d'ÀUtfondro a Coitalo Mg^Ho si park della fonda-
zione di questa città come si parlerebbe d'una villa o giardino fatto per ca-
priccio di prìncipe ; si dice cioè che Alessandro venne a Canopo, ed jvi loci
facie éelectatus, condendo urbis desiderium habuit.
CAPITOLO TI. 99
sìoni tumultuose e yìolentì, e corre per calcolo alla mi-
sericordia quanto per concitazione si sarebbe Totentierì
versato nell'ira: decreta dall'Egitto che rilascia dai ceppi
tutti i Greci fatti prigioni al Cranico nelle file persiane:
furono illusi : fu grave errore il loro, ma egli lo scorda,
e li ridona ai Greci. E così anche le migliaja dì Greci che
servono ancora sotto vessillo persiano non dispereranno
d'accostarsi pur essi ad Alessandro, e Dario diffiderà dei
medesimi sospettandoli disposti a conciliarsi con chi loro
stende le braccia, riapre la patria, forse li ammetto a
servigio. Dopo di Arbela, Alessandro non avrebbe sotto-
messo in tal guisa le passioni a ragione, ma ora era po-
tente, non però onnipotente; ogni cosa voltavasi a lui,
ma rimaneva la guerra; percorreva paesi già senza
amore di Persia, ed ora senza paura, ma dovrà presi-
diarli, e non esaurire le genti, onde porne in linea quante
più possa nelle imminenti battaglie. Ecco dunque tem-
perante l'Alessandro, che fu si intemperante dipoi I Delle
amnistie politiche antiche e moderne le cento, o vogliam
dire le mille, furono al pari di questa non consigliate
dal cuore, ma dettate ed imposte dall'accorgimento del-
l'utile.
Rispettando le credenze egiziane, tanto più doveva
Alessandro rispettare le greche. Visitò dunque il tempio
di Giove Ammone, e l'oracolo gli promise l'impero del
mondo: come non promelterlo, se già tanto ne aveva,
se lo stesso Giove Ammone bramava che il sole di Persia
non gli fosse né signore, né compagno, se d'altronde
Alessandro aveva già mostrato a Delfo collo strascinare
al tripode di viva forza la Pizia irresoluta a rispondere,
che egli non tollerava che alcuna lingua d'uomo o di
Dio fosse muta della sua grandezza?
Non appare da classico alcuno che Alessandro durante
100 PARTE PKIHA
il soggiorno ia Egitto, che già tante relazioni commerciali
aveva colle Indie, annodasse altresì relazioni politiche
con quella ricca contrada che egli poscia invase. È più
che probabile che egli allora non pensasse a quella spe-
dizione. Nessuna mente per vasta che sia, nessun ar-
dire guerriero, nessuna sete di regno e di gloria aspira
ad un tratto a dominare sul mondo ; ma s'allargano coi
trionfi e gli acquisti le idee, come l'orizzonte sempre più
si dilata agli oggetti lontani a chi più sale in altura, e
l'ambizione vittoriosa, non più consolata nò sazia dei
primi onori, è poco curante di essi, intende a maggiori,
butta la visiera, d'ogni temperanza dispogliasi, e pone
progetto sopra progetto come i Titani ponevano monte
su monte per farne scaglioni ed invadere il cielo. Ora
v'era a calpestare la Persia.
Ed ormai era tempo di precipitarsi su Dario : scorsero
dopo Isso due anni : si è forse già tardato di troppo : dis-
perdere ore in allegrezze, in consigli, in provvidenze
lontane, in speculare nell'ignoto, chiarirebbe fiacchezza
d'ingegno, proverebbe inscienza delle ragioni e successi
di guerra. L'esercito è rifatto completo cogli arrivi conti-
nui di rinforzi di Macedonia e di Grecia. Curzio parla si
esattamente di questa incessante fiumana di gioventù ac-
corrente dall'Europa ai punti diversi dell'itinerario di
guerra del re, che ci sembra di vedere in questa remotis-
sima scena quel moto perpetuo dei battaglioni di marcia
che nutriva ovunque fossero gli eserciti di Napoleone il
Grande, formandosi ai depositi nell'interno dell'impero,
seguendo le traccie dei combattenti, raggiungendoli per
sfasciarsi e trasfondersi in loro. Levasi Alessandro dal-
l'Egitto: precorrono alle truppe più riposate nella Siria
gli ordini di concentrazione e di marcia : succederanno
alle medesime a ristorarsi nelle guarnigioni di Siria le
(;apitolo ti. 101
truppe ritornanti d'Egitto: queste che erano alla fronte,
diventano retroguardo , e riserva d'esercito nell'immi-
nente campagna.
Steso a Tapsaco un letto di navi sull'Eufrate, ne fé*
ponte, e senza contrasto passò: i Barbari della Mesia gli
avevano reso meno agevole il passaggio dell'lstro! Senza
opposizione attraversa anche il Tigri : fu abilità di sor-
prendere e virtù d'Alessandro, o persiana imperizia di
non arrestarlo ai fiumi? Può scendere per la sinistra dei
fiumi, ed invadere Babilonia, e Susa, e Persepoli: può
risalire, entrare in Ecbatana e far sua la Media. I Per-
siani lo fronteggiano, ma non hanno pari speditezza di
esercito, risoluzione ed ingegno di principe: Alessandro
ha prèsto oltrepassato la sinistra persiana : ha afferrato
la linea di comunicazione fra le provincie del nord e
quelle del sud: le grandi, le ricche città già sono poten-
zialmente sua preda, perchè Dario combatte ad Arbela
non già coprendole coU'esercito suo, ma col tergo all'Ar-
menia, e colla fronte rivolta alle stesse. Una rotta per
Dario valeva la capitale perduta, come in analoghe cir-
costanze di movimenti strategici e di fronti di battaglia,
perdevano ì Prussiani a Jena Berlino (1806), e gli Au-
strìaci a Ratisbona Vienna (1809).
Rovinano ad Arbela le sorti -di Persia: l'impero si
sfascia: lo sventurato Dario fugge fino sull'Osso e sul
Jaxarte (Amur-Deria, Sir-Deria), ed i superstiti merce-
narii greci lo seguono fedeli fin là: non più amore di
paghe, ma odio da partigiani, disperazione da profughi,
sono per essi virtù, o ne hanno sembianza. E Curzio e
Giulio Valerio (1) pongono in bocca a Dario spirante as-
(1) Giulio Valerio è un autore latino del terzo o quarto secolo che tradusse
la vita d'Alessandro d'uno storico greco di nome Esopo. 11 testo di Giulio Va-
lerio fu scoperto nell'Ambrosiana di Milano, e pubblicato da Mai nel 1817.
103 riRTB PHIMi
surdi discorsi di rendimento di grazie ad Alessandro
pei benefizii suoi, e preghiere perchè sposi sua figlia.
Ed Alessandro gli fa magnifiche esequie, e lo piange;
non ha egli versalo lagriìne, a detta di tutti gli storici, an-
che per la morte della madre di Dario? Eppure Eusebio
Cesarense ne' suoi Canoni cronici di fresco pubblicati
nella scoperta versione armena scrive che Dario fu ne-
cito per ordine d'ÀlesscOidro. Qual è il vero? Sarà ignoto
per sempre: certo si è però che Dario morì non in mano
ai Persiani, ma in mano ai Macedoni, che dicono di
averlo raccolto ferito. Eppure i suoi non avevano van-
taggio a ferirlo, né argomento a vendetta, ed Alessan-
dro non era tale da rifuggire dal sangue , ma ambiva ad
apparenze di legittimo impero, voleva sembrare erede di
Dario, ne sposava la figlia, ed assumeva le forme ed i
modi di Persia. Il detto del giureconsulto Cassio, cui
bono 8it, se non prova il delitto, dona almeno dubbiezza
che Eusebio Cesarense abbia scritto il vero. Le corone
di Nino, di Creso, di Sesostri, di Ciro, con quella di Ma-
cedonia diventano sul capo di Alessandro una sola co-
rona. Ma per eternare il trionfo, torre il pericolo di vio-
lenti insorgenze, aver forza a corso ulteriore d'indefinite
conquiste, è necessario di riformare, d'unificare possi-
bilmente lo Stato, di confondere gl'interessi divisi, di
crearne di nuovi a concordia e legame. Ed Alessandro che
teme d'essere creduto vero uccisore di Dario, strazia con
orribili tormenti gli indiziati uccisori di esso, unisce la se-
conda figlia di Dario con nozze pompose al favorito Efe-
slione, promove matrimonii d'ottanta suoi primarii uffi-
ciali con figlie d'illustri famiglie di Persia, favorisce altresì
Cosi di Giulio Valerio, come àcìVIlinerario d'Alessandro a Costanzo Augusto
d'ignoto autore latino, edito nell'anno stesso da Mai, abbiamo fatto uso più
volle per confronti e riprove.
CAITfOLO VI. 103
ì corinubii di miglioja (gli storici dicono 7000) di soldati
greco-macedoni con donne persiane. Egli affida inoltre ad
un Persiano ramministrazione civile di Babilonia, onora
la memoria di Ciro, e ne ricostruisce la tomba, colonizza
in Persia veterflni macedoni o greci, leva miriadi di Per-
siani, li arma, li organizza alla greca, li esercita egli
stesso^ si forma una guardia persiana^ trasporta alla
gran Babilonia tuttora ricca di tante memorie assire la
capitale del nuovo Stato (1), vuole rialzare il tempio di
(1)1 tnonarcbì persiani avevano trasferito la sede dello Stato da Babilonia,
lanlica capitale assira, a Susa, e quindi a Persepoii. Grandi ragioni politiclie
devono aver consiglialo Tabbandono della magnifica Babilonia, la cui ubica-
zione pei commerci era d'altronde tanto migliore dì quella delle nuove resi-
denze. Contrarie cause politiche, e Timmutabile vantaggio della posizione geo-
grafica persuasero Alessandro a ritornare a Babilonia il primato facendola
capitale del nuovo impero: i grandi lavori cbe egli ordinò, ed anche intraprese
a Babilonia, Io rendono manifesto. Persepoii non poteva avere che un'artifi-
ciale, e per così dire forzata esistenza.
Narrasi che per caso fortuito Persepoii fosse da incendio consunta. Nelle eb-
brezze di un'orgia, che possa andarne un palazzo in fumo e faville è cosa pro-
babile, ma assai poco lo è che dalUncendio d'un palazzo escano fiamme divora-
trici di una intiera città. Ma quando pur arda una grande capitale, essa risorge
dalle ceneri come la fenice della favola, essa rialza i suoi palagi, i suol templi
come la selva che . incurva la testa alla violenza dei vento, e la sublima di
nuovo. Persepoii invece giacque per sempre. E noi vedendo che dcirarsione
completa e del sussessivo abbandono non vi ha causa che appaghi, che Ales-
sandro, li quale fondava città ovunque passava, non pose mano a rialzare Per-
sepoii, che anzi da quella meno opportuna contrada egli traduceva la residenza
a Babilonia gloriosa di tante memorie, superba dei monumenti' ài Semiramide,
e mirabilmente situata pei commerci del mondo, siamo indolii a sospetto che
Alessandro se non portò egli stesso face insidiosa o scoperta airiucendio di
Persepoii, né ha pasciuto dello spettacolo gli occhi insaziabili» almeno ha go-'
duto che quanto avrebbe a disegno intrapreso, sembrasse operato per la ne-
cessità d'un evento. Del resto un governo non mai confessa d'essere autore di
simili fatti 0 per erubescenza dei danno, o per la responsabilità dei compensi :
forse che il governo russo ha mai confessato d'avere ordinato l'incendio di
Mosca, che sicuramente non fu arsa dai Francesi, cui molto importava di con-
servarla ?
Nell'argomento però della scelta di Babilonia a capitale amiamo d'agginngere
un'altra osservazione, ed è il dubbio nostro che se Alessandro avesse conti-
nualo in vita, forse si sarebbe alquanto scemata la sua predilezione per la
città che aveva fondalo in EgìUo« Egli aveva costruito Alessandria quando non
104 PAKTE PRIUi
Belo, egli figlio di Giove Àmmonel Vuole essere oÀoi^ato,
non già cbe si creda diventalo Dio, ma perchè vuol es-
sere onorato come Dario, come lutti i re di Persia lo fu-
rono» prima di lui ; dispenserebbe volentieri dairadora-
zione i Greco-Macaoni, cui l'adorazione prelesa pare
frenesia e stranezza, ma come liberarli dal rito in mezzo
ai Persiani? L'unione personale d'immensi paesi erasi
fatta al Cranico, ad Isso, ad Arbela ; doveva farsi la fu-
sione politica. Era Alessandro nell'immensifà di contrade
e nazioni come nell'Inghilterra del nono secolo fu il
grande Alfredo, che fondava con Danesi e con Sassoni
l'unità dello Stato I Alessandro ha da costringere a fu-
sione repentina elementi disparatissimi, nazioni, religioni
ed eserciti: ignora che un fattore principale delle trasfor-
mazioni politiche è il tempo, o noi cura: incontra pii!i
resistenze nei suoi proprii soldati, che non ne abbia tro-
vato nelle battaglie persiane: non può infondere a tutte
le menti l'ampiezza e l'audacia della sua: ordina, prega,
premia, ma se incontra ostacolo, la sua anima esacer-
bala, che aspira alla riforma del mondo, ricorda a tutti
l'ubbidienza collo spietato castigo dei pochi e supremi.
Mentre Alessandro è intento a trarre per arte o vio-
lenza il nuovo Stalo dal caos, giungono da ogni parte
ad inchinarlo gli sbigottiti principi e re; i più timorosi,
dominava nella Mesopotamia ; quand'era conveniente per lui di tagliare i nervi
di ricchezza airerario persiano ed alle rivali città; quando giovava che si ab-
bandonasse il Golfo Persico, e si navigasse l'Eritreo. Ora le cose avevano total-
mente cambiato: egli era Dario, la Persia era con nuovo principe di pia vasta
ambizione e maggior vigore rinata, e ne era capitale la gran Babilonia suir£u-
frate, il fiume emulo, nemico del Nilo : TEgillo era una provincia come sotto
Cambise, come sotto Dario. L'Egitto era per verità una provincia di maggior
interesse per la Grecia e la Macedonia, che per condizioni geografiche non lo
potesse essere la stessa Mesopotamia ; ma non degradavano a mere provincie
la stessa Grecia e la Macedonia, che avevano fatto Timpero, e tuttora sommi-
nistravano le forze a possederlo, a completarlo, a solidificarlo?
CAPITOLO TI. 105
i procaccianti arrivano certamente i primi, poi altn, poi
tutti per non rimanersene soli, notati d'assenza, ed in
tante spogliazioni facilmente compresi. Non accorsero
nel 4812 a Dresda tutti i principi d'Europa per ono-
ranza a Napoleone quand'egli marciava con esercito im-
menso contro i Russi? Così dove traboccavano dal trono
i più grandi monarchi, dove il Macedone guidava con
stella sicura la guerra conquidendo e principi e popoli,
doveva ad ogni vicino sovrano venir meno Valterigia e
l'ardire, e tutti avevano a farsi dappresso, a cercar soc-
corso al pericolo, a recar doni, ad adulare, ad acqui-
stare il favore del prepotente signore. Con qual cuore
venissero noi lo sappiamo, perchè conosciamo con qual
cuore venivano anche a Napoleone, e come' quasi tutti
gli furono un anno dopo nemici. Accorse dunque ad os-
sequio, a devozione e proteste anche Talestri, la regina
delle Amazzoni ; ma come mai leggiamo in Strabone
(lib. XI, 6), ed in molti, che venne per desiderio d'aver
prole da uomo si grande? Avesse o non avesse Talestri
a sua difesa sul Terraodonte la milizia donnesca, che
ben averla poteva se anche oggidì vediamo il re negro di
Dahomey che la mantiene numerosa e privilegiata sulla
virile, il motivo del suo accorrere per riverenza e cor-
teggio è evidente ed era comune a tutti i re e regine va-
cillanti sul trono.
Ha né per ordinamenti di governo, né per ebbrezza di
venerazioni ed omaggi posa Alessandro dall'armi, o de-
pone l'ambizione più vasta. Mari e deserti davano alle
conquiste sicuri confini nel sud: li ebbero nel nord nella
immensa steppa del Caspio e dell'Arai : li ebbero anche
nell'est quando caddero in mano ai Macedoni le gole della
grande catena che fronteggia dal Paropamiso al mare il
fianco destro dell'Indo, e furono la strada perpetua e sola
lOG PARTE PBIMA
dei grandi conquistatori antichi e moderni deirindia.
Alessandro anela ad imitarli, e farà la conquista delFIn-
dia, 0 vi si renderà temuto come signore di Stato nuovo
e contiguo : saprà anche rettificare secondo giustizia le
sempre controverse frontiere: egli è l'erede dei monar-
chi persiani, ed il campione degli antichi diritti di
Persia : non soffrirà la Persia ingiurie o lesione di pos-
sessi con lurl Spinge ai regni dell'Aurora i suoi Mace-
doni e Greci, e con essi torme di Persiani, di Battriani,
di Sciti : erano truppe di Dario, e giova levarle di Persia ;
ma s'aumenta anche di truppe indiane, perchè nell'usare
la spada non dimentica artificii e politica, né disprezza
alleati, ma li cerca o riceve. Questa però è guerra del
tutto estranea alla liberazione di Grecia : nelFIndia non
vi sono da riavere trofei, e da restituirli alla Grecia, come
Alessandro trovolli nell'Asia Minore ed in Persia, ov'erano
stati portati dal primo Dario, da Artaserse, da Serse.
Non vi è ad eccitare nuovo entusiasmo politico nei Greco-
Macedoni, e l'antico è già appagato e spento: le ricchezze
si largamente acquisite hanno già attutito le guerresche
passioni, ed ingenerato la brama del loro godimento nella
pace e famiglia : è instancabile Alessandro, ma tutti non
sono instancabili al pari di lui, e migliaja di soldati per
slenti 0 ferite già sono invasi ed inerti da precoce vec-
chiezza 0 virilità defatigata. Insorgono quindi tumulti
neiresercito : Greci e Macedoni negano di marciare più
oltre: Alessandro non ancora può agire senz'essi nell'In-
dia coi Barbari soli, né lasciare i Greco-Macedoni tumul-
tuanti dietro di sé. Consente quindi al ritorno, ma come
colui che noi vuole, e cede costretto : aveva già gettalo
sul medio Indo un ponte nell'intento di invadere il cen-
tro dell'ampia penisola 1 Or vuole almeno assicurarsi la
Nesopolamia indiana : vi fonda l'una della dodici Ales-
CAPITOLO VI. 107
sandrie che Giulio Valerio enumera costruite da lui in
ogni parie dello Stalo, e segnatamente ai confini : poi
dona a principi amici i possessi che ad altri ritolse, onde
averli sempre interessati alla fede, e sostegno alla pro-
pria grandezza. Quindi scende lentamente per lindo ,
che sarà d'ora innanzi la frontiera, di Persia : toccando
l'Oceano, egli discepolo d'Aristotele vi ammira la violenza
del mare che ora fugge dal lido, ora torna su quello (1):
poscia rientra nella Persia perle provincie del sud, com-
pieodo cosi il giro d'intorno al gran deserto dell'interno:
adula però tuttora gli Indiani conducendo Bramini e Gin-
nosofistì con sé, trattandoli da amici, mostrando rispetto
ai loro riti, onore per essi. Che rivolgeva nella sua mente
irrequieta quest'uomo grandissimo ? Qual forma . voleva
dare all'impero ? Pensava che un giorno potrebbe ritor-
nare nell'Indie? Sperava in una fusione possibile di genti
e credenze, e nell'ordina mento del caos che aveva trovato
e cresciuto? Credeva che l'elastico politeismo dei Greci
(1) Anche su tale argomento molle assurde cose si scrissero. I Macedoni,
leggiamo, stupivano de) flusso e riflusso, che loro era ignoto, e ne stupirono
i Romani in Brettagna, e sulle coste germaniche. Dobbiamo ridurre lo stu-
pore, se pur vi fu, a proporzioni del vero. II flusso e riflusso, e la sua cor-
rispondenza colle posizioni lunari, era ben noto ai Macedoni e Greci, come lo
era ai Romani. In tutto il Mediterraneo vi ha flusso e riflusso, quantunque sia
debole : nell'Adria tico è anche forte : lo conoscevano dunque e Macedoni, e
Greci, e Romani. Prima che i Macedoni fossero alle foci delFIndo erano siali
ili Egitto, ed ò impossibile che ignorassero la forza del flusso e riflusso, che ò
enorme delFEritreo, come lo è alle foci deirindo. Questa forza non è massima,
ma grande alle coste lusitane, ed i Romani già erano stali con Sertorio in Lu-
sttania, e furono con Pompeo in Egitto. Cesare quando fu propretore in Ispa-
gna aveva navigato da Cadice a Briganzio (la Gorogna), e più lardi conquistò
tutte le coste oceaniche della Gallia, lungo le quali il flusso e riflusso è si grande
come lo è alle spiagge britanniche ed alle germaniche. Non parliamo dunque
deirignoranza macedonica o romana di un fenomeno che lutti avevano veduto
od udito, benché Taltezza delle maree, la rapidità del loro scorrere su terreni
leggermente inclinati, ecc., potessero destare in varii casi sorpresa, ed anche
recare danni e perìcoli. Non fa per affogare al principio del secolo nostro pel
rapido ritorno della marea anche alcuna divisione deiresercito francese alle
coste del Nord, che s^era alquanto ritardata armeggiando in hassi terreni?
108 PARTE PBIHA
potesse distruggere perfino Timmutabilità delle caste in-
diane? Ma appena reduce a Babilonia la sua gran vita si
spegne, edi vasti progetti hanno tomba con lui (1).
Chiuderemo toccando d^un'ipotesi che a proposito di
Alessandro e dei rivolgimenti dell'Asia viene presentata
da Tito Livio. Essa è vaga e bizzarra, ma fu ripetuta in
molte opere militari e letterarie: Che sarebbe avvenuto^
se Alessandro, invece di assalire l'impero di Persia^
avesse assalito Roma?
. Alessandro non per caso, ma per calcolo sì gettò sulla
Persia. La politica lo chiamava in Asia, e non in Italia:
ivi erano i Greci da liberare, o per lo meno i Persiani
da rimuovere dalla Grecia; ivi lo spingeva Toracolo
di 'Delfo, che già un secolo avanti aveva eccitato Creso
alle armi contro di Persia. Né le memorie di Tim-
brea sì fatale a Creso intimidivano Alessandro , per-
chè una più recente esperienza mostrava che l'esca
era ornai sicura e pronta per un grande incendio.
Infatti Agesilao l'aveva trovata ; la sua campagna nel-
l'Asia fu coronata da grandi successi. E forse Age-
silao distruggeva l'impero di Persia, siccome più tardi
lo distrusse Alessandro, ma in allora Artaserse si difese
con miglior artifizio di politica guerra, che poscia non
sìa stato usato da Dario. Artaserse profuse (an t'oro a
Tebe, che presto Epaminonda si trovò in grado di con-
(i) Fra questi progetti d'Alessandro sicuramente non v*era quello di donare
i diritti politici ai sudditi suoi. Alessandro non fu mai calunniato di liberali
tendenze, come non lo fu suo padre Filippo ; anzi le nature si intensamente
dispotiche quali furono le loro non sono frequenti, benché la specie ne sia
tanto abbondevole. Eppure uno scrittore d'Inghilterra, che nelle scuole colà è
generalmente in uso, censura Alessandro di non aver dato un parlamento
all'impero. Forse che a quella mostruosa Babele di religioni , di lingue e di
popoli Tuno all'altro ostilissirai, ma momentaneamente raccolti in un nodo, o
per dir meglio in un militare capestro, avrebbe potuto dare Alessandro rap-
presentanze e franchigie, se anche fosse stato un Washington 1
CAPITOLO VI. 109
durre un esercito tebano nel Peloponneso, il che obbligò
i Lacedemoni a richiamare Agesilao dairAsia. Come il
filibustiere volge la prora della nave dove scorge la
preda, cosi Alessandro volse le prore con molla politica
accortezza piuttosto airoriente che non alFoccidente.
Anzi si può dire con molto fondamento di sana politica,
che se Alessandro avesse cosi fallito la condizione dei
tempi e dei luoghi, da mirare piuttosto all'Italia che non
alla Persia, e nondimeno i Greci l'avessero, temendo,
eletto a comandante di tutte le forze, non altrimenti che,
temendo e sperando, lo elessero comandante contro i
Persiani, i monarchi della Persia avrebbero colto il destro,
ed alla loro volta avrebbero minacciato la Grecia. Tito
Livio adunque doveva prima d'ogni altra cosa oflfrirci
un utile quadro delle generali relazioni politiche di quella
età. La tesi militare è già secondaria alla tesi politica.
In Italia non vi era ancora la materia d'incendio che vi
trovò Pirro, e trovò Annibale, perchè le colonie greche
non erano in quel tempo minacciate o serve, come lo
furono poi: quindi le loro relazioni con Alessandro non
sarebbero mai-àtate così spontaneamente favorevoli come
quelle delle colonie greco-persiane. Inoltre nei Greci di
Sicilia si sarebbe destato il sospetto, e poteva sorgere
facilmente anche nei Cartaginesi. £ questa lega generale
delle forze di Occidente contro di lui sarebbe fuor di
ogni dubbio avvenuta, se Alessandro avesse intrapreso
la spedizione d'Italia non prima di muoversi contro la
Persia, ma dopo di avere conquistato quell'impero.
CAPITOLO VII.
I Romagi signori di Greeia e di lutto l'Oriente:
Filippo di Macedonia e Perseo:
Antioeo: Mitridate.
Appena morto Alessandro, precipita l'unità delVimpero.
Ciò che fece nel secolo XVII Bernardo di Weimar alla
morte di Gustavo Adolfo , i generali d'Alessandro con
meno ragione lo fecero tutti: sconoscendo la famiglia del-
l'eroe defunto, vollero essere re. Cosi rivivono nelle varie
membra dell'incommensurabile impero gli antichi regni
distrutti dalle invasioni persiane, ma alle indigene dina-
stie perite o neglette subentrano le nuove, che fondansiin
ciascuna contrada dai generali d'Alessandro colle greche
e macedoniche spade, coU'ajuto delle greche colonie,
con elementi locali abilmente impiegati.
Muovonsi a tumulto le città greche d'Europa. Ciascuna,
come abbiamo negli storici, gli aveva mandato indirizzi e
felicitazioni e giuramenti d'incrollabile fede a lui, alla
prole, alla Macedonia. Ciascuna città gli aveva detto in
Egitto ed in Persia per mezzo di legali suoi che durerebbe
perpètuo quel vincolo perchè d'imperio radicato nei cuori:
udirsi con stupore dal mondo intiero le estreme meravi-
glie di lui, ma ascoltarsi dai Greci anche con affetto ed
orgoglio : gli Dei avere creato per Alessandro nuove genti
e nuovi cieli scoperto, ma non animi più devoti dei Greci:
antivedere essi nelle passate vittorie i trionfi futuri, se-
^ Cif ITOLO TU. Ili
guirlo in ogni passo coirammirazione, coi Toli e Iti fede.
Cosi aveva parlato ogni città, e se ad alcuna toccava di
piangere i tristissimi effetti d^agitazioni inconsulte, più
aveva adulato e promesso. Eppure quanti fra i Greci erano
stati realmente rapiti e conquisi dallo straordinario spet-
tacolo, e trasformati da sovrumana potenza in cortigiani
sinceri ! Il genio di un grand'uomo fa serve le menti, ed
anche ì non volenti sovente incatena, soggioga e strascina
con sé. Abbagliati dal napoleonico sole molti sinceri re-
pubblicani non seguirono le sue bandiere più fedeli dei
condottieri pagati a gran prezzo? Allo sparire d'Alessan-
dro però tutte le protestazioni furono chiuse nella stessa
tomba con luì : ogni promessa dispersa. Ritorna ad agi-
tarsi Demostene, che era in esiglio, e regnando Alessan-
dro si era tenuto in silenzio e nell'ombra : ricompare in
Atene : ha un'apoteosi dal popolo, che, come scrisse con
cieca ubbidienza la pena d'esiglio, ora scrive con cieca
confidenza il richiamo e la lode: si inneggia a libertà : si
evocano le fredde ceneri degli antenati a difenderla. Ma
un'immensa variazione negli interessi è seguita : migliaja
di Greci meglio amano conservare i palazzi e l'impero
acquistato nell'Asia, che non ritornare alle capanne na*
tive ed alle ubbidienze e vendette delle assemblee della
Grecia. Mancanti d'altronde d'un nerbo di forza militare
loro propria, e sempre divisi e contendenti fra loro, i
Greci ribelli sono facilmente sconfitti dai presidii mace-
donici vigilanti e numerosi, e Demostene beve il veleno.
Certamente che Eschine ne aveva calunniato il carattere!
Se Demostene avesse amato più l'oro che Atene, qual mai
fra gli ambiziosi generali d'Alessandro lottanti fra loro
non avrebbe fatto salvo e comprato un uomo si grande?
Avuta la seconda vittoria, confermano i Macedoni le isti-
tuzioni oligarchiche nelle singole città, rovesciano i go-
112 PARTE PRIMA
verni popoleschi dove sono risorti, diradano le plebaglie
facile strumento agli agitatori, mandandone le migliaja a
colonizzare la Tracia ed i bordi del Ponto Eusino, TAu-
stralia di quelle età, e precorrono ai sistemi economico-
politici di colonizzazione, che ogni aristocrazia ha lar-
gamente praticato nell'età antica , nella media e nella
moderna.
Abbiamo delineato la storia di Grecia, eia riassumiamo
ancora: furono i Greci prima servi di Atene, poi servi di
Sparta, poi servi di Tebe, finalmente servi dei Mace-
doni (1). La fortuna aveva infatti versato la sua ruota
in giro : si erano variate le forme» non la sostanza delle
cose : nella lotta fra la ragione e la violenza^ il possesso
e la pretesa, il dardo era sempre stato scoccato al cuore
del debole. Ah se i Greci, invece di battersi senza posa fra
loro, avessero riunito le loro forze di terra, e le flotte delle
cinquanta loro isole e delle immense loro coste, chi li
avrebbe eguagliati di prosperità e di gloria? Prima che
dai Macedoni o dai Romani, il mondo sarebbe stato con-
quistato da essi !
Tale si era dunque lo slato di Grecia quando i Romani
v'entrarono. Vi era la servitù macedonica senza l'operosa
scaltrezza del primo Filippo ed il genio impetuoso d'Ales-
sandro : vi erano le lotte incessanti, confuse, dei succes-
sori suoi, pretendenti ciascuno a più vasto od a generale
impero. La sovranità d'ognuno era sorta dall'usurpa-
zione, ma ora chiamava.si legalità, ed in nome di questa
ciascuno rapiva le provincie vuote per morte di principe,
od esulato rivale. 1 Greci combattevano in tutti i campi,
in tutte le contrade sotto i fatali condottieri : talvolta le
(i) Vi ha certa proporzione anche nella varia durata deUa supremazia eser-
citata dalle diverse città della Grecia. Il primato di Atene durò 75 anni; quello
di Sparta 34 : quello di Tebe 25.
GIPITOLO Yll. 1t3
città acquistavano momentanea indipendenza; allora
scacciavano i patrizii od oligarchi insediati dai Macedoni,
si reggevano a popolo, si insanguinavano per vendette,
uccidevano Focione ed i suoi : poi gli esuli ingrossavano
le file dei Macedoni, e questi colVuno o colPaltro signore
tornavano, e rivolgevano di nuovo il governo.
Sulle spiaggie di questa Grecia lacera e convulsa sbar-
cavano i Romani le truppe vittoriose di Annibale. Le reg-
geva Tito Flamini no, bene scelto al servizio militare e po-
litico: giovane^ d'appetto benigno, favella e pronuncia
greca. Proponeva pace a Filippo re (il quinto di questo
nome in Macedonia) purché ritirasse le truppe dalla Gre-
cia-j e la$cia$8e i Greci in loro totale arbitrio, che è
quanto dire si desse per vinto avanti il combattere, e la
Macedonia retrocedesse • al confine che aveva prima del
trionfo in Cheronea. Ebbe la repulsa prevista, ma anche
Teffetto atteso : poiché era venuto non a guerreggiare
contro i Greci, ma contro i Macedoni a prò dei Greci,
questi lo acclamano liberatore, riscattano dai padroni
mille e duecento Romani superstiti di quelli che Annibale
aveva fatto vendere schiavi in Grecia, e li donano a lui.
/ Beozii e gli Etoli si schierano tosto con F laminino :
ed un terzo del suo esercito è composto di Greci : non vi
sono più dunque per lui nello scacchiere militare di
Grecia né chiusi passi, ne impervii paesi, né sussistenze
difficili: egli ha dovunque partigiani ed amici per giun-
gere a scopo : confortati dalVoste poderosa di Roma,
Eloli, Achei e città si accostano ad essa, negano la sog-
gezione ai Macedoni, e si congiurano a torli d'impero.
Da tutti gli storici appare infatti che i Romani ave-
vano le migliaja di Greci congiuntissimi a loro se non
di fede , almeno di momentaneo interesse e dì voglie , e
se ne giovavano a notizie, ad istigazioni, ad ajuti, a per-
8
114 PAIITE PlIIMi
correre. Erano genti spigliate ed ardite, atte a travagliarsi
in ogni conserta ed inestricabile via: v'era però fra esse
anche il grande Polibio amico dei Scipioni, ed i Romani
se ne valsero in Grecia per paciere e legato , ma non
gli affidarono un comando giammai. Dicevano di far
la guerra agli oppressori, e non ai Greci. Qui non vi
era inganno : infatti nessuno fa guerra al popolo, ma fa
guerra all'imperante, perchè il popolo vuole conser-
vare per se stesso, il signore vuol rimuovere per suc-
cedere a lui; il rapitore non fa la guerra al denaro,
ma a chi tiene il denaro, perchè il denaro vuol conser-
vare, e chi lo tiene vuol rimuovere. I Macedoni devono
tenere in freno tutta Grecia, e devono inoltre combat-
tere le legioni di Roma. Contro una potenza quale si
è la romana, è inutile di opporre una forza divisa : non-
dimeno i Macedoni sperano nella saldezza delia loro fa-
mosa falange, e credono che le legioni non ne sosterranno
il peso ; al peso però non è pari il moto, e quindi la
potenza dell'urto. La legione è soda, ma altresì snodala
e pieghevole, è utile in tutti i terreni piani od alpestri,
ha tutte le armi con sé, e come piccolo esercito, ha per
ogni bisogno potenza d'assalto e difesa : la falange invece
è pigra, indifesa sui fianchi; può ripiegarsi a coprirli,
ma è sempre debole agli angoli come lo sono i nostri bat-
taglioni quadrati, che hanno pur quel vantaggio di ferire
da lungi, di cui la falange mancava. Noi però non pos-
siamo indurci a credere che la falange si schierasse real-
mente con profondità di sedici ranghi: tale profondità
sarebbe soverchia ed assurda: dovendo la lancia del sol-
dato dell'ultimo rango oltrepassare la fronte del primo,
il soldato del rango estremo avrebbe avuto a sostenere
una lancia d'almeno trenta piedi, e senza equilibrio !
Probabilmente occorse errore di cifra nei manoscritti dei
CAPlfOLO TU. IIS
classici copiati per secoli, e l'errore fu creduto, e si crede :
forse la profondità era di soli sei ranghi, e già sufficiente
a sodezza. Certo si è che la falange resìsteva qual muro,
ma al solo attacco di fronte, e non s'avyentava con im-
peto : sgominata, non si riformava, abbisognava d'un
terreno speciale , non era sempre usabile in quello ove
il nemico la sorprendesse. La falange era una cittadella
vivente, ma la legione era cittadella ed esercito, ed abil-
mente condotta inopportuno terreno, doveva prevalere,
e prevalse, tanto più che il soldato romano era anche,
a quanto sembra, meglio armato del greco. Le quali due
cause di superiorità militare dei Romani sui Greci sono
cosi raccolte da Tito Livio , e presentate in complesso :
Macedonibus arma clypeuSj sarisgwqua; Ramanit tctir-
tum, majus corporis tegumentum, et pilum, haudpanlo,
quatn ha$ta , vehementiut ictu mmuque tetum. Sta-
tarius uterque miles^ ordiìies servam: ted illa phalanx
immobilis et uniw generis. Romana aeies dintinctior,
ex pluribus partibus constans, facilis partienti, qua^
cumqìie opus esset, facilis jungenti.
Rotto a Cinocefale, Filippo è lasciato pel momento sul
trono, ma avvilito e senza vascelli. Posto cosi piede più
fermo in Grecia, i Romani ripigliano la guerra, marciano
nella stessa Macedonia , vendicano i Greci della patita
servita dei Macedoni, tacciono della gloria luminosis-
sima che con essi, e per essi i Greci nell'Asia acquista-
rono, e sono. padroni di tutto.
Quando Sparta debellò Atene, non aveva debellato Tebe
sua alleata contro di Atene, finché Atene era più forte di
tutte, ma sua rivale dopoché Atene cadde, e Sparta
s'inalzò. I Macedoni, più previdenti, avevano distrutto
Tebe; i Romani, eccessivi, rovinano Perseo, rovinano
tutte le città del popoloso Epiro, rovinano Corinto poten-
116 PARTE Pimi
tissima : ne posset aliquando ad bellum faciendum locut
ipse adhortari, è Tunica causa che Cicerone nell'opera
(morale !) degli Officii adduce della distruzione di Corinto.
E Giustino : Qucerentibus Romanis causas belli, tempe-
stive fortuna querelai Spartanorum obtulit .... Spar-
tanis a Senatu responsum est, legatos se ad inspicien^
das res sociorum et ad injuriam demendam in Grwciam
missuros ; sed legatis occulta mandata sunt, ut corpus
AchcBorum dissolver ent, singulasque urbes proprii juris
facerent, quo facilius ad obsequia cogerentur, et si quoe
urbes contumaces essente frangerentur . ... Vrbs ipsa
Corinthus diruitur ; poputus omnis sub corona venditur^
ut hoc exemplo c(Bterìs civitatibus m(Btus novarum re-
rum irnponeretur.
, Ritornava però a brevi intervalli anche nei vinti la
virtù che ne aveva cacciato il timore, e la tardiva sag*
gezza, che ne era stala per inganno sbandita. Special-
mente nella Macedonia calpestata e mesta le gloriose me-
morie erano sprone ad ardimento e prodezza, che ancora
non era antico il tempo delle egregie imprese, ed il po-
polo trionfato, ma non avvilito e molle, addolciva il ran-
core colla speranza di vendetta. S'avvicinavano di nuovo
pel bisogno comune Macedoni e Greci ; cospiravano ,
speculavano i cuori dei popoli, saldo studio facevano di
non darsi perduti, usavano più irose le liYigue frenate.
Tutti consigliano il pericolo, e molti vi entrano: uniscono
genti poco stabili per se stesse, ma le sperano forti quando
saranno in necessità di difendersi : delle rotte patite danno
la colpa a discordia, ad errori di re: saranno emendati
dalla virtù d'altri principi. E non essendovi i principi
veri, ma giovando che principi siano per aver centro al
potere, e capi confortati dalla riverenza del popolo, che
non sa separarsi facilmente da loro, là disperazione o
cAmoLO rn. 117
scaltrezza ne creava dU falsi, e si piaceva di loro, ed in
essi credeva. La Macedonia infatti e la Grecia ebbero in
allora i loro pseudo-Filippi e pseudo-Persei, come v'eb-
bero nelVantica Persia i pseudo-Darii, ed in Russia in
tempi meno remoti, o vicini a noi, i falsi Demetrii ed i
Pietri redivivi. Quindi si videro popoli precipitosi correre
confusamente alle armi, fare ai falsi principi le consuete
adulazioni, schierarsi di nuovo in battaglia, affaticare in
numerosi conflitti la romana fortezza, sparire Qualmente
per orribili stragi.
Ora la Grecia è povera e languente ; le armi di Roma
tutta la signoreggiano. I Greci possono giuocare in Olim-
pia, ma davanti ad un proconsole romano, e realmente
giuocavano, che alla umiliazione dei Greci non mancava
se non il fare allegrezza, e facevanla; possono vivere
secondo le loro leggi, ma viene inviato da Roma il gius-
dicente pretore; possono interrogare Apollo in Delfo,
ma già sobillalo da Apollo romano. Disperati però i
possibili ajuti d*opera umana, cessò anche la frequenza
agli altari supplicati per soccorsi divini, e quindi l'Apollo
di Delfo, non pid interrogato che da qualche credente
volgare, preferisce di tacere: Delphis oracula cessant
(Giov., Sat. VI), Delphica $edes siluit (Lue, \].
Debellati i Greci d*£uropa, restavano a vincersi i Greci
d*Asia, l'Egitto, la Siria e la Gallia; poi tutto il Mediter-
raneo era nel cerchio delle provincie romane.
Finché i Romani non erano padroni di tutto il Me-
diterraneo, non erano sicuri delle loro conquiste : dove-
vano progredir oltre, o sempre temere di retrocedere.
La marineria non era in antico perfezionata come la ve-
diamo oggidì, celere, forte e sicura per modo che ogni
popolo prevalente sul mare può crearsi su qualunque
spiaggia straniera una base repentina, impreveduta di
118 rA&TfiriiiMA
operazioni guerresche, forzare arditamente con uayi
corazzate l'ingresso in ogni porto che non sia di varco
s) angusto com'è p. es. il Pireo, ed effettuare sbarchi
anche a fianco ed a tergo di quelle linee formidabili di
fiumi e di monti, coi quali gli Stati sogliono proteggere
la loro fronte contro gli sforzi degli eserciti avanzanti per
terra. Ma anche in antico la movibililà della marineria
ne costituiva un elemento potente d'aggressione o difesa
per Stati aventi grande sviluppo di spiaggia in non va-
stissimo mare, ed i popoli del Levante avevano flotte
considerabili, perchè la guerra lunghissima di Roma e
di Cartagine aveva loro dato tempo di costruirle, e di
addestrarle. Padroni di grandi flotte, i monarchi del Le-
vante potevano ad ogni momento prendere per base di
operazione il mare, per scala d'operazione le isole, per
ajuti le malcontente provincie, per obbietto l'Italia; essi
potevano sconvolgere l'impero romano, infestare tutte
le coste, muovere le ribellioni e dar forza alle medesime.
11 guardare una provincia disaffetta doveva essere facile
per Roma potentissima; non era però possibile il guar-
dare migliaja di leghe di littorale popolato da nazioni
disposte a ribellarsi appena ricevessero soccorso. Ma
gli eserciti minacciano un punto solo , e Roma poteva
guardarlo: le flotte minacciano tutti i punti, tutte le coste,
tutte le Provincie, e Roma non poteva guardarle ; doveva
possedere tutti i vascelli, possedere tutte le coste del He*
diterraneo, altrimenti non era sicura.
Da ciò proviene quell'odio intenso dei Romani contro
le flotte, che uomini d'altronde assenna tissimi, per esem-
pio Mengotli, spiegherebbero in modo poco meno che
assurdo. I Romani odiavano le flotte, abbruciavano i
vascelli, in ogni trattato di pace se li facevano conse-
gnare: ciascuno odia le armi del nemico, e più le odia
cmtoto VìU 110
quanto pia sono pericolose. Era profonda politica, non
era rozza barbarie la decimazione e l'incendio de' va-
scelli cartaginesi non meno ne' trattati di pace che nella
guerra (i). Ogni detrimento alle flotte di Cartagine era
per quello Stato una ferita profondissima. Roma sa-
piente non limitava nella pace il numero delle falangi
terrestri della sua rivale; bensì limitava quello delle
sue navi.
Quanto i Romani dovevano odiare la flotta d'Antioco
re di Siria ! Annibale rifugiato in sua corte , e bene ac-
colto da lui, aveva sobillato, istigato, ed Antioco aveva
inteso quanto un uomo ambizioso ma mediocre può inten-
dere da un grande. Portate^ diceva Annibale, la guerra
in Italia^ ivi conquisterete la Grecia, ivi troverete un
etercito, e tutto ciò che è d'uopo a mantenerlo : fuori
dell'Italia non vi è né un re, né nazione capace di re-
siitere ai Romani; datemi dieci mila ìwmini, e ba^
stano (Plutarco, in Annibale). Per verità il consiglio era
audacissimo, mentre erano ancora si recenti i fatti della
punica guerra : si esitò, si contraddisse : si volle essere
arditi, non temerarii : si preferì d'accorrere nella Grecia
malcontenta.
Mediante la flotta Antioco sì era infatti gettato sulla
Grecia, aveva potuto proclamarvi la libertà, aveva dato
soccorso al popolo, e posto le cose romane in pericolo.
Appena i Romani riportarono dei vantaggi contro An-
tioco, offersero la pace, purché stesse di là dal Tauro
a confine, mandasse a Roma un figlio (che fu poi
YEpifane, e quindi il nipote Demetrio Solerò) , e so-
prattutto consonasse loro la flotta. Antioco intimorito
consegnò i vascelli : da quel momento cessò di essere
(i) Scipione, p. e., nel trattato di pace che stipulò dopo la gran vittoria di
Zama, ai fece consegnare cinquecento vascelli cartaginesi, e lì abiNruciò.
120 FAIITE PRIMA
pericoloso per Roma quel re della Siria ! Alcune le-
gioni bastavano a tener in freno un re che più non pos-
sedeva le formidabili gole di Cilicia , né più aveva una
flotta per insidiare i lidi, oflendere da lungi, portare la
guerra in Provincie remote. Tórre la flotta ad un nemico
era un limitare la sua potenza, un circoscriverla entro la
sfera del proprio territorio, un ridurre ad una semplice
lotta militare e locale una pericolosissima lotta politica
ed universale. La vittoria era certa per Tesercilo pre-
ponderante : di quanto le legioni romane nou dovevano
prevalere all'esercito siriaco!
Noi siamo ben lungi dal voler indagare in ogni fatto
allusioni strane o misteriose immagini : rifuggiamo anzi
cosi da audacie fantastiche, come da facili credenze che
sottraggono a pena di indagini della nuda verità. Sem-
braci però, che quando Popilio Lena segnava sul ter-
reno un cerchio intorno ad Antioco Epifane, e gli do-
mandava superbamente immediata risposta agli ordini
del Senato, potesse dire a lui: e Roma ti ha isolato nel
tuo regno, siccome io l'isolo con questa linea : tu non
puoi sortire dal cerchio del tuo regno : la Siria non ha
più vascelli: il mare e le legioni di Roma sono la bar-
riera del tuo carcere: ubbidisci al Senato: tu sei nelle
forze di Roma i (Giustino, lib. XXXIV).
Non solo erano distrutte le forze di mare, ma anche
le terrestri de' re siriaci erano ormai paralizzate e vinte.
Il Senato di Roma non aveva scemato di prudenza,
sebbene i re della Siria avessero scemato di forza. I re
di Siria erano dai Romani insidiali alle spalle; Roma
stringevasi in lega con tutti i popoli che il regno siriaco
circondavano, e dal polso dei Romani speravano mu-
tuata potenza d'indipendenza e vendetta. Fra questi
erano principali gli Ebrei.
. CAPITOLO TU. 121
Nei frequenti e sempre dubbii conflitli fra le dinastie
d'Egitto e quella di Siria, gli Ebrei occupando il terreno
intermedio, erano stali da entrambe vagheggiati, insi-
diati, istigati: prevalendo poi di forza la dinastia siriaca,
gli Ebrei erano stati da questa aggressi e conculcati.
Come gli antichi monarchi degli Assiri li avevano una
volta calpestati e costretti all'adorazione di Belo, ora
Antioco Epifane li voleva costringere all'adorazione di
Giove Olimpico, e ne collocava la statua nello stesso
tempio di Gerusalemme; dovevano mutarsi in Siriaci, il
che in quel tempo voleva dire in Greci : così i successori
d'Alessandro rispettavano quel Dio degli Ebrei, che Ales-
sandro aveva adorato prima d'essere vincitore in Arbela!
Resistevano gli Ebrei, e per meglio raccolti resistere,
riunivano di nuovo il principato al sacerdozio già scisso
all'epoca di Sanile. Seguivano orribili massacri, e fughe
di torme d'Ebrei specialmente in Egitto: i Tolomei li
accoglievano, onoravano i loro Capi, facevano tradurre
la Bibbia dai Settanta : si narravano miracoli, si mormo-
ravano profezie. I re d'Egitto speravano negli Ebrei,
e gli Ebrei in loro, ma ora si vedevano spuntare da
lungi le aquile romane, e più speravano gli Ebrei in Roma
fortissima. Ed anche per Roma era ancor tempo di mo-
strar volto benigno, e di porgere liberali parole. Quindi i
Romani stipulavano cogli Israeliti quel patto federale che
troviamo nelle sacre pagine, al primo libro dei Mac-
cabei, unito a laudi amplissime della fortezza e della sa-
pienza dei Romani, ed all'orgoglioso, non vero, nemini
servivimus unquam (1). Quando i re di Siria furono quasi
(1) Questi non erano del resto i primi amorì politici degli Ebrei cogli stra-
nieri che siano ben noli alla stona. Ve n'erano slati altrì per cause identiche
cogli Spartani, ed in quelli, come nei primi amorì, le espressioni d'affetlo sono
più effuse e piik tenere. Alcuno aveva trovato (ciò vuol dire inventato, ed in
Hi nilTE PAìUk
esangui per le tante ferite ai fianchi ed alle spalle (e
Giuda Maccabeo nell'eroica sua vita loro ne aveva por*
lato di asprissime), i Romani si lanciarono loro al petto»
e non ristettero dal percuotere e dalFinvadere , finché
i loro nemici e gli alleati non furono ad ugual sorte
sudditi dì Roma. Allora avranno inteso i Giudei quale
sincerità vi fosse in quel romano monitorio mandato a
Demetrio re, perchè il suo giogo sopra Israele, amico dì
Roma, non aggravasse, né Roma obbligasse a combat-
tere per la giustizia e perla felicità del popolo giudaico 1
Allora intesero quale si fosse veramente quella tempe-
ranza dei Romani, qui acquiescunt ad omnia qum po^
stulantur ab eis I Giuseppe Ebreo aveva veduto le con-
seguenze; egli aveva cioè veduto i tremendi massacri del-
Tossidione romana, le carni dei figli per delirio di fame
dalle madri pasciute, i veri o creduti discendenti di Davide
crocifissi dai romani prefetti, ed il principio di quell'an-
dare ramingo del suo popolo per tutto il mondo noto
ed ignoto, che dopo venti secoli non ha cessato ancora,
e la cui amarezza, grave per ogni popolo, lo era di più
per Tebreo da tante memorie, da tante credenze infisso
alla terra prometta. E doveva ben conoscerlo Giuseppe
Ebreo , se lo sapeva Tacito che scrisse che era peggiore
di morte : ti trantferre tedet cogerentvr , major vita^
metut quam mortit (Storie, lib, V, cap, 13). Aveva egli
pure combattuto da forte i Romani, ma quando argo-
mentò nella forza di questi , e nei delirii furibondi dei
politica che mai non si inventa e si crede?) che gH Ebrei ed i Lacedemoni de-
rivavano egualmente da Abramo, ed erano quindi fratelli, e questa parola, di
cui si fa a' di nostri tanto uso ed abuso, biiila nelle tenerezze politiclie anche
venti secoli fa. Invtntum est, dice la Bibbia, in icripiura da Spartiati$ et
Judeeis quoniam $unt fratre$, et qw>d sunt de genere Abraham, e Gionala
Maccabeo scriveva ai Lacedemoni come a fratelli; Spartiatie finUrìbue M/ti/em.
antoto VII. 1S3
suoi la vanità del resistere , non rimase cosi della sua
patria dolente che non cercasse sicurezza nel campo ro-
mano* e favore e ricchezza con Vespasiano e con Tito.
Entrambi accolsero ed amarono questo Livio della na-
zione giudea, ed egli di mille scorni ed imprecazioni in-
giuriato dai suoi, ha bensì maculato la penna d'inchio-
stri servili a Vespasiano ed a Tito, ma narrando di quelle
antiche alleanze pensò nel suo cuore agli effetti, e quindi
fu muto d'ogni lode alla temperanza romana.
Mitridate aveva ridotto in suo potere gran parte delle
città greche dell'Asia, e minacciava di prendersi il rima-
nente. I Romani si mossero per liberarle, ed acquistare
cosi il pieno dominio dell'Arcipelago e del Ponto £usino.
Ma le fiere turbolenze scoppiate in Roma fra il popolo
ed il Senato ritardarono il corso degli eserciti romani, e
Mitridate ebbe il tempo di entrare nella Grecia. Da Ap-
piano alessandrino sappiamo che egli proclan^ò la libe-
razione dei Greci dal dominio dei Romani, ed inoltre la
liberazione degli schiavi e l'assoluzione degli obblighi dei
debitori verso i creditori loro. Cosi si fece subito forte
nella Grecia : proscrisse i cittadini romani, e ne segui una
strage orribile dal Ponto alF Adriatico. Fu un vespro
siciliano ; fu la strage dei Danesi eseguita in un di da
£telredo II d'Inghilterra; fu una notte di san Bartolomeo
in grandi proporzioni: caddero in un sol giorno ottanta
mila Romani secondo Valerio Massimo, e centocinquanta
mila secondo Plutarco, che il numero degli uccisi, pel
silenzio da un lato, l'esagerazione dall'altro, non lo si
conosce con precisione in simili casi giammai. Cer-
tamente i Romani erano numerosissimi in quelle ricche
e già acquistate provincie, giacché abbiamo non poche
prove nei classici , per esempio in Cesare e Tacito ,
che essi erano numerosi anche nelle provincia straniere
124 PIITB PEIIU
conOnanti colle romane, e perfino nelle barbare, nel Bel-
gio e Germania, ove si conducevano e stabilivano pel van-
taggio dei traffichi, ed ove pure perirono a migliaja in
diverse occasioni d*orribili stragi per le rivolle esasperate
dei popoli (1). I beni degli uccisi avrà Mitridate promesso
ai creditori per Tindennizzazione dei debiti, che il re con-
donava, ai padroni degli schiavi pel prezzo dei medesimi»
alle città per la rifusione delle taglie, il tutto da liqui-
darsi dopo la guerra (2). Ha quella fu lunga e terribile:
nell'odio contro i Romani Mitridate battuto da Siila, da
Murena, da Lucullo, sempre risorgeva, e l'esercito ro-
mano di Triario fu per modo distrutto da lui, che non
ex prceiio nuntiWy sed ex sermone rumor (Cic.) informò
Roma del disastro, appunto come segui ai giorni nostri
(1841) dell'esercito indo-britannico totalmente stermi-
nato dagli Afgani a Gabul. Riuscì nondimeno a Siila ,
terribile guerriero, col soccorso specialmente dei Rodii,
minacciati da Mitridate, di cacciarlo dalla Grecia e da
Atene, che Mitridate volle difendere fino agli estremi,
ben conoscendo l'importanza di tener fermo piede nella
Grecia. Siila massacrò ad Atene senza pietà, ma non ere-
(1) Un passo di Cicerone ci spiega chiaramente come una si orribile proscri-
zione mitridatica abbia potuto effettuarsi in paesi così vasti ed in gran parte
civili : « Difficile est dictu (parlava nel fóro allo stesso popolo romano) quarUo
in odio sinms apud exleras nationes propler eorum quos ad eas per hos annos
cum imperio misimus injurias ac libidines. Quod enim fanitm putalis in
illis ierris noslris magistralibiu religiosum, qMtn civitatem sanclam, quam
domum saiis clausam ac munitam fuisse? Urbesjam locupleles ac copiosm
requirunlur, quibiis causa belli propler diripiendi cupiditatem inferatur,
(2) Vedonsi nei musei monete d'oro e d'argento con greca leggenda di questo
Mitridate, che nella serie dei re di tal nome è Mitridate VI Eupatore Diouisio,
ma per essere il più famoso di tutti suolsi per Tordinario appellare semplice-
mente Mitridate. Non si sa dove quelle monete con greca leggenda furono bat-
tute : forse io furono in Panticapeo o Fanagoria, od in altra colonia greca del-
l'Asia sul Ponto Eusino compresa nel regno di Ponto. Potrebbero però essere
state battute nella stessa Grecia di Europa, dove Mitridate avrà assunto ogni
forma ed usato ogni arte di piacere* di seduzione e d^in^anno pei Greci.
CAPITOLO yn. 125
diamo a quei finmi di sangue, che scorrono si di fre-
quente nelle pagine degli storici, che talvolta descrivono
perGno il nuotare d'uomini e cavalli in essi : dopo il
massacro Siila perdonò, e come sempre si legge quando
' ktene èinYasei, pei meriti degli antenati. Mitridate tentò
rientrare, e realmente rientrò per la Propontide, ma Siila
si avventò contro di lui a Cheronea ed Orcomeno, e ne
sgombrò la Grecia in due battaglie, che non devono però
essere slate battaglie di giganti, come le descrive Plutarco,
né stragi di centomila Asiatici, come egli dice, ma fughe,
se Siila non perdeva che pochi soldati, anzi soli dieci a
Cheronea. Fino a quei trionfi Siila per mantenere le sue
genti aveva spogliato senza scrupolo i più ricchi templi
degli Dei : dopo i trionfi volle indennizzare gli Dei : or-
dinò ai Tebani ed altri Greci che avessero a pagare per lui.
Del resto Siila rapiva tutto anche senza lasciare ad altri
il carico di compensare : predava quanto si era con arte
incantevoledi pennello dipinto, sculto con ferro, o fuso con
fiamma, e tutto a Roma portava, all'Atene occidentale : il
gusto dell'arte si mesceva a quello della rapina: Siila ne
fu maestro a Fulvio Nobiliore che da Ambracia (Arta),
la capitale di Pirro, portò a Roma le cenlinaja di statue
greche di metallo e di marmo, ed anche quadri di Zeusi
(Plut.): ne fu maestro a Lucullo, a Pompeo, che preda-
vano i capolavori ovunque li trovavano: lo fu fino a coloro
che nel medioevo rapirono anche reliquie e corpi di santi
(cosicché vediamo a Colonia quelli che Barbarossa vi portò
da Milano), fino a Gustavo Adolfo che mandò da Germania
in Isvezia i protolavori tipografici, fino a Bonaparte che
volle fare di Parigi un museo universale, a lutti i principi
insomma, che in modo più silenzioso, graduato e spesso
artificioso spogliarono le provincie pel lustro della capi-
tale. Ma Siila aveva pur esso avuto l'esempio da Mum-
126 PABTB FElHi
mio di questo estetico latrocinio , di questo rapire cioè
per nobile entusiasmo e culto dell'arte. Mummio infatti
poco prima di Siila aveva rapito tutti i capolavori a Co-
rinto, ed il solo averli rapili palesa che barbaro non era,
e ne conosceva il pregio. Suona quindi come terribile mi-
naccia, e non già come stolta dichiarazione, quella inti-
mazione di Mummio ai nocchieri incaricati del trasporto
dei capolavori a Roma, sulla quale tanto si ride e si stul-
tizza ogni d) : se voi li perderete^ se li guasterete, do^
vrete restituirli con altrettanti d'eguale bontà. Erano
le opere incantevoli di Polignoto, di Zeusi e di Apelle !
(Vell. Paterc). Può dirsi idiota quel console che sce-
glieva si bene la preda? Se fosse stato un idiota, si sa-
rebbe curato di mandare fino a Roma delle tele e dei
marmi, e di raccomandare egli stesso il trasporto? Ma
anche Mummio aveva avuto i suoi precursori in Fabio,
che prese a Taranto e collocò in Roma l'Ercole di Li-
sippo , ed in Marcello che spogliò la miranda Siracusa
d'ogni capolavoro dell'arte greca. Chi mai potrebbe però
indicare il primo autore di tali rapine? Sempre si governò
col martello, e la civiltà d'un uomo o d'un popolo inse-
gnò piuttosto a dirigerne la tempesta dei colpi che non
a sospenderla, e paragonando le storie si vedono ripro-:
dotte le medesime sembianze di cose quaggiù, come si
vedono le medesime apparizioni nell'aspetto dei cieli.
Mitridate veniva così dalla Grecia profligato ed espulso.
Parve quasi che Roma non volesse fruire del suo trionfo:
parve che cercasse la quiete, la conquista disdegnasse.
Accordò la pace al re, purché desse denaro e desse i va-
scelli. Fosse necessità, fosse terrore, Mitridate acconsenti,
e coU'acconsenlire si pose in mano di Roma. I Romani,
sicuri de' loro regni e delle provincìe loro, si avanzarono
nell'Asia, ed usarono contro Mitridate quelle armi di
CAPITOLO TU. 187
suggestione e di guerra, ma più di suggestione che di
guerra, che Mitridate aveva usato contro di loro nella
Grecia. In allora tutta TAsia andò a ruba : arricchivano
i soldati, i duci d'esercito straricchivano. L'oro pre-
dato veniva poi a profondersi in Roma nel broglio
sfrenatissimo dei suffragi comiziali. Tutti gli storici ne
fanno fede. Ad ogni istante nuove leggi contro il broglio,
accuse nuove, leggi neglette, richiamate, invilite. Offerte
pubbliche di milioni di sesterzii per ottenere una provin-
eia, un comando, un mezzo d'arricchire; doni immensi
per conservarsi Tufficio oltre la durata legale. Cicerone
promotore di leggi contro la vendita dei voti, difendeva
perorando i compratori nelle arringhe prò Murena, prò
Piando e prò Fontejo, ed anche i rapitori in quella prò
Fiacco, che i presenti testimoni! greci ed asiatici accusa-
vano de repetundh. La sera poi, quasi per diporto, Ci-
cerone scriveva le sue quwstiunculcB stoicw de pregna
ntilis eum honesto.
Percosso e ripercosso Mitridate non piegò mai la
fronte superba: cacciato di paese in paese, mostrò la più
grande delle soldatesche, forse delle umane virtù, la.
perduranza; ma il torrente delle forze romane non
aveva più diga: all'asiatico Anteo fu tolta ogni terra:
Schiacciato fra braccia di ferro, Mitridate periva (1).
(1) Secondo TErodoto degli Armeni, Mosè di Gorene, la cui storia conosciamo
per la versione pubblicata dai Mechitaristi di Venezia nel 1841, Mitridate morì
di veleno propinatogli dal padre di Ponzio Pilato per ordine di Pompeo.
Mosè Corenense discorda quindi da tutti gli storici greci e latini, che narra-
rono cose sceniche e romanzesche circa la morte di Mitridate, il dolore di
Pompeo, e gli onori che questi fece rendere al defunto.
CAPITOLO Vili.
FiAali conquiste dei Romani. — Loro politica esterna.
La Gallia transalpina, vasta contrada che compren-
deva in allora quanto di paese giac^ a ponente delle ori-
gini, corso e foci del Reno fino ai Pirenei ed ai mari, era*
già stretta dai possessi dei Romani , che avevano anche
invaso il liltorale, movendosi a soccorrere i Marsigliesi
minacciali dai Barbari. Ne .conquistarono poi Tinterno
colle armi e col consiglio di Giulio Cesare, che forse fu
Tuomo più grande che sia vissuto giammai. Egli stesso
descrisse nei commentarii che ci lasciò, la guerra gallica
e la civile, ed è gran danno per gli studii che non ci la-
sciasse altresì la storia della sua prima guerra ispano-
lusitana, dell'alessandrina, delPafricana e della seconda
spagnuola. L'opera di Cesare è quasi esclusivamente
militare, e solo incidentalmente politica, ed i più nella
lettura si appagano della visione di quella scena ani-
mata di battaglie ed assedii, quasi le conquiste di Cesare
siano state un mero frutto di militare prodezza. Ma
Cesare ha dato nel libro VI una descrizione brevissima
delle Gallie da grande politico qual egli era. In essa dice
apertamente che nella Gallia vi sono fazioni non solo in
ogni contrada, in ogni città e borgata, ma eziandio in
quasi tutte le famiglie ; dice che la discordia fra le classi
vi è immensa ; che ogni fazione ha i suoi capi nell'in-
lerno e le sue relazioni all'esterno ; che le elezioni dei
CAPITOLO TIU. 129
capi-druidi di rado procedono senza sangue; che non è
permesso a veruno di parlare delle cose pubbliche,
eccetto (;he nel consiglio nobile, da cui la plebe è
esclusa (1).
Da ciò si fa manifesto quanto questa Gallia divisa in
cento sovranità, delle quali ciascuna in preda agli odii
ed ai partiti, fosse debole per chi sapesse approfittare
degli odii e dei partili. E quanto sapevano approfittarne
i Romani, e Cesare primo fra i Romani! Nomina Cesare
frequentemente i principi galli suoi confidenti: accenna
je missioni in cui li usava ; parla della religione gallica,
greca nella base mitologica, diversa nella disciplina
druidica perii disgiungimento della classe sacerdotale e
della nobile, onde nasceva nella Gallia la separazione del
popolo in plebe, in nobili ed in sacerdoti. Qual preda
per un guerriero terribile, e per un politico più terribile
ancora qual era Cesarei L'autorità de'giudizii trovavasi
nei Druidi, esenti da ogni pubblica gravezza (privilegio
sostenuto dal clero sino dai tempi più remoti), la cura
della guerra nei nobili, che muovevansi alla medesima
seguiti dai loro servi, quasi feudalmente.
Che questa pure fu guerra di seduzioni e di fraudi,
di promesse e d'inganni, lo rileviamo con bastante chia-
(1) Possiamo altresì desumere con bastevole sicurezza da qualche fatto indi-
calo da Cesare che la lingua (celtica) della Gallia transalpina si scriveva con
carattere greco, mentre già avvertimmo in una nota precedente che la lingua
(pure celtica) della Gallia cisalpina si scrìveva col carattere etrusco. Un princi-
pale elemento civile cosi irradiato dai Greci ed Etruschi in due masse d'una
stessa nazione, le scindeva nel rapporto tanto importante della scrittura in diversi
sistemi, il gallo-greco cioè ed il gallo-etrusco, come nel medio evo si sepa-
rarono gli Siavi sotto il rapporto medesimo nei sistemi slavo-latino e slavo-greco.
Ma gli Slavi, se non tutti, almeno alcuni, giunsero a civiltà avanzata e proprìa, e
gii Slavo-Greci probabilmente sono destinati a grandezza: i Gallo-Etruschi in-
vece, ed? Gallo-Greci, appena fatto quel prìmo passo di civiltà non latina, su-
birono la dominazione romana, che dai loro paesi allontanò il greco e Tetrusco
elemento, ed amendue sostituì col latino.
9
130 PARTE PRIMA
rezza anche da Cesare avvedulissimo, per quella politica
descrizione della Calila. Ad accertarcelo consegue il passo
di Svetonio, ove narrasi che Cesare nella Gallia com-
battè spesso per la giustizia, spesso ancora per l'ingiu-
stizia ; che ora mosse guerra ai nemici, ora la mosse ai
confederati; che in Senato levaronsi dei riclami, e si
proposero misure per torre di mezzo Cesare scompi-
gliatore delle Gallie ; ma che le molte vittorie e Vacqui-
slo grandissimo gli ottennero facilmente l'approva-
zione e le lodi.
Il fatto più rimarchevole della guerra gallica è l'asse-
dio di Alesia, la distruzione dell'esercito federale giunto
per soccorrerla, eia presa della città. Questo gran fatto,
che ha moltissime analogie nella storia militare, fu va-
riamente apprezzato. Certamente non si danno leggi al
genio, e molto gli si consente se osa, e tutto gli si per-
dona se vince. D'altronde nella scienza di guerra non si
possono, per la quantità, l'azione, il contrasto di circo-
stanze perpetuamente mutevoli, tutte influenti, e non
tutte note specialmente dopo lunga età, stabilire norme
costanti, e pronunciare invariate sentenze di lode o con-
danna d'operazioni di guerra; male astratte meditazioni,
e la prova più frequente dei fatti, indicano da qual lato
penda la probabilità del successo in determinate condi-
zioni , fra truppe egualmente agguerrite e bene con-
dotte. E noi siamo guidati a credenza che, salvi eccezio-
nalissimi casi, non mai convenga ad un generale d'eser-
cito d'accettare giornata nel campo ristretto fra una
piazza oppugnata ed un esercito che venga a soccorso,
ma piuttosto debba marciargli risolutamente all'incontro,
rallentare l'assedio, ed anche abbandonarlo del tutto se
non ha tale esuberanza di mezzi da eseguire sicuramente
le due operazioni ad un tempo. Ci sembra quindi che
CAPITOLO Vili. 131
Cesare cingendo Alesia, aspettandovi Varrivo dei confe-
derati, e circonvallando se stesso contro i medesimi,
chiudendosi cioè in una doppia linea di terrapieni e ba-
stioni contro l'interno e contro l'esterno nemico, abbia
troppo confldato nella sua fortuna, e corso soverchia-
mente gli azzardi di distruzione completa, senza avere
certezza di finire tutte le guerre in un sol punto con una
grande vittoria. Francesco I di Francia non volle desi-
stere dall'oppugnare Pavia (1525), ed assalito colla for-
tezza ed il Ticino a tergo dagli Imperiali sopraggiunti,
perdette l'esercito, e n'andò prigione: i Russi continua-
rono a stringere Narva all'arrivo di Carlo XII, e subirono
un disastro (1700). I marescialli francesi all'assedio di
Torino (1707) vollero pur essi aspettare nelle loro trin-
ciere il principe Eugenio che giungeva a soccorso della
piazza, e si controvallarono anche contro di lui : furono
aggressi, ed impacciati nel moto, e nella ritirata impediti,
vennero battuti con perdite enormi. Eppure lo stesso
Eugenio dieci anni dopo si fermò nelle sue linee da-
vanti l'oppugnala Belgrado: vi sostenne l'attacco d'un
grande esercito, e vinse come Cesare ad Alesia, ma
corse terribile rischio, e parve prodigio la sua vittoria.
Bonaparle non aspettò Wurmser od Alvinzi nelle linee
di Mantova, ma corse all'incontro di loro (1796), e Tor-
stenson, che fu pur esso grand'uomo di guerra, non at-
tese il nemico nelle trinciere di Lipsia assediata da
lui (1643): anche Federico II non ha imitato Cesare,
ma s'avventò contro Daun, che muoveva a liberare la
piazza (1757). In generale i sommi uomini di guerra di
tulle le eia hanno preferito i movimenti liberi, il cam-
peggiare aperto: hanno cercato la vittoria col debellare
Taccorrente a soccorso : se non avevano forze sufficienti
a combattere ed a continuare l'assedio, hanno prescelto
132 PARTE paiMi
il desistere dairassedio al marciare divisi : vollero pro-
rogare Tassedio, ma assicurare con una baltaglia la
resa.
Quando poi Cesare, passato il Reno, ebbe represso i
Germani; quando, costruita una flotta, dominò nella
Manica troncando con essa la via ai. soccorsi che erano
venuti ai Galli dalla Brettagna ; quando vi tragittò egli
stesso, e vi portò la forza delle armi e la grandezza del
nome (1), divenne si completa non solo la conquista,
ma la dominazione (dire non la vogliamo pacificazione)
della Gallia, che al prorompere della guerra civile la
Gallia non insorse a favor di Pompeo, ma eccettuan-
done un moto nella greca Marsiglia, di cui diremo mag-
giormente nella parte terza delPopera nostra , rimase
sempre con Cesare. Di si grande successo proviamo
meraviglia ogni volta che ai fatti del grand'uomo po-
niamo pensiero.
Fu poi invaso l'Egitto, e vi si vide la solita scena in
parte prodotta dagli stessi attori. Uomini destrissimi nel
parteggiare, Pompeo, Cesare, Antonio ed Augusto su*
scitarono le controversie di successione alla corona
d'Egitto, od almeno se ne prevalsero a loro proprio
vantaggio. I luoghi forti vennero successivamente in
potere delle legioni di Roma ; i principi caddero o per
morte volontaria o per assassinio altrui ; la sovranità
d'Egitto passò rapidamente in mano di Roma.
Ma comandava la sicurezza del littorale d'Africa, ra-
(1) Ogni spedizione in oltremare non è senza pericolo : soprattutto lo era in
qnei tempi una spedizione in Brettagna, paese vasto e malnoto, avente per base
la Gallia soggiogata di fresco, né disarmata del tutto. Ma quante cautele e mi-
litari e politiche non furono in allora prese da Cesare ! Quando passò coireser-
cito nell'isola aveva con sé, quasi ostaggi, membri di tutte le famiglie più influ-
enti nelle Gallio : fu anzi ben severo neircsigere d'essere accompagnato da essi:
incrudelì perfino contro chiunque non fu pronto all'invito.
CAPITOLO TIII. . 133
pina immensa involata a Cartagine, che le romane le-
gioni si spingessero nelVinterno di quel continente inGno
che rinvenissero una linea sicura di naturali baluardi.
Questi si trovano nel deserto che incominciando alVEri-
treo continua non interrotto e sempre di larghezza cre-
scente fino all'Atlantico, e separa cosi le due zone uber-
tose dell'Africa settentrionale e centrale. Tra l'Egitto e la
Tunisìa lo spaventevole deserto s'avanza fino al Medi-
terraneo avvolgendo la fertile Cirenaica, e dal lato d'oc-
cidente si solleva quasi al margine del deserto e si
estende e ramifica la catena deir Atlante, che nella Tin-
gitana raggiunge quasi la linea delle nevi perpetue. Ora
Svelonio Paolino, uno dei migliori guerrieri che la città
conquistatrice del mondo abbia prodotto, portò, re-
gnando Claudio, le aquile romane sulla sommità del-
l'Atlante, ed i Romani avanzarono su tutta la fronte
dall'Eritreo all'Atlantico fino al deserto. Piacque a molli
immaginosi retori di fare a Svetonio realmente altra-
versare l'incommensurabile Sahara, e le romane le-
gioni descrissero incolumi in mezzo al favoloso deserto,
marcianti senza rezzo alla rabbia d'un sole che versa
non raggi, ma dardi di fuoco sul capo. Essi cercarono
anche in Strabone ed in Dione Cassio indicazioni confuse
di queste marce d'eserciti, che in quel deserto africano non
sono seguite giammai se non fra l'Egitto e la Nubia in
qualche età della storia, ma che Gibbon troppo facilmente
ammise, scrivendo che i Romani avanzarono mille mi-
glia al di là del tropico. Plinio però nel libro V deW Isto-
ria Naturale, ove narra l'impresa di Svetonio accaduto al
suo tempo, dice espressamente che Svetonio non oltre-
passò l'Atlante se non di alcune miglia: Transgre$$u$
quoque Atlantem aliquot millium spatio.
Claudio riunì all'impero le provincie al di qua del-
134 PIRTE PRIMA
TAtlante, di cui guarnite le sommità ed accastellale le
gole, le vie furono chiuse alle orde barbare, e Tlmpero
ebbe un naturale trincieramento per la tranquilla sicu-
rezza deirinterno. Entro quelle barriere, ma non oltre
le medesime, furono infatti rinvenuti in tanti viaggi
e studii eseguiti dopo che i Francesi s'impadronirono
d'Algeri (1830) gli avanzi di magnifiche o comuni co-
struzioni romane, che s'ammirano od osservano nei
lerrilorii delle antiche provincie d'Africa, Mauritania e
Numidia. L'interno era visitato dai Romani od indigeni
soltanto per trarne poche merci, e le fiere, che in numero
sorprendente combattevano nel circo non solo di Roma,
ma anche d'altre città. Da quei viaggi però nessun lume
ha ricavato in allora od ereditato la scienza dipoi : essi
furono inutili alla geografia, come furono pressoché
inutili ad essa negli ultimi quattro secoli prima di noi
le migliaja dei viaggi nell'interno dell'Africa fatti dai com-
mercianti e cacciatori di schiavi.
Anche i possedimenti romani nella Brettagna non erano
sicuri finché i monti e le foreste della Caledonia erano ri-
covero di sempre prorompenti assalitori. Ad ogni vittoria
dei Romani tornavano i Caledonii al loro covo; ranno-
davansi, agglomeravansi, congiuravano, e di nuovo pro-
rompevano. Svetonio Paolino, il conquistatore della Mau-
ritania, invase non poca parte deirisola, battè piti volte i
Britanni, occupò Londra colonia opulenta e di gran traf-
fico mercantile [Tkcno.XlV, 33), pensando dipiantarvi,
se era bene, la sede del comando, ma poi la distrusse.
Sollevatasi nuovamente la Brettagna, i Romani la ricon-
quistarono con Agricola : questi penetrò pure e distrusse
le orride devozioni in Mona, che era probabilmente An-
gleseaenon Man, perchè leggiamo che Agricola vi passò
senza flotte, e l'ottenne a sorpresa. Veleggiarono d'intorno
CAPITOLO VUI. 135
alla Caledonia; ebbero cosi, al dire degli storici romani,
la prova materiale che la Brettagna era isola, presero le
Orcadi, seppero di Tile o Tuie, e pare anzi che l'abbiano
veduta, ma non bene risulta se fosse l'Islanda come sera--
pre si scrive, o fossero piuttosto le Shetland. Chiudevasi
così un mezzo secolo di guerre micidiali e continue : Tin-
liera Brettagna era soggiogata. Ma la gelosia dei Cesari
provata da Svelonio e da Agricola, Tamministrazione ci-
vile e militare divisa anzi tempo in un paese remotissimo,
riottosissimo, furono causa che i trionfi militari, appena
rimpero si affievolì, si volsero in vitupero. Dalle pendici
più inaccessibili, ripreso cuore, i Caledonii, siccome i
Cantabri nelle Spagne, scesero al riacquisto della vinta
loro patria. Senza la gelosia dei Cesari, il pieno trionfo
sarebbe stato seguito da occhio vigile estirpatore di ogni
materia alimentatrice di guerre future, e da una vasta
colonizzazione, che, a poco a poco trasformando il paese,
vi avrebbe, come altrove, diffuso le lettere e la lingua di
Roma, spegnendo gl'idiomi indigeni, che invece rivissero,
e si parlano ancora. Ma l'acquisto erasi fatto col metodo
comune ad ogni romana guerra, anzi quasi esclusivo per
ogni guerra ed ogni popolo antico e moderno. Vediamo
infatti in Tacito che Agricola faceva insegnare belle let-
tere ai figliuoli dei nobili britanni per invogliarli alla lin-
gua romana poco dianzi abborrita, che aveva incomin-
ciato ad introdurre le fogge romane di vestilo e le abitu-
dini di vita a confermazione di amato vassallaggio, che
aveva collocato le sue forze a ponente di Brettagna, e di
là mirava all'Ibernia, credendo che facilmente si potrebbe
pigliare e tenere, e meglio starebbero allora al giogo i Bri-
tanni quando non vedessero dappertutto che armi romane,
e lolla d'in su gli occhi la libertà. Già studiava Agricola, e
bene Tacito il mostra, i porti, la conOgurazione, l'am-
136 PARTE PRIIfl
piezza e la natura dell'Ibernia : accolse anche nei suoi
campi un regolo di quel paese, e gli offrì la protezione
romana per riporlo nel paese, da dove una fazione Taveva
cacciato: quel regolo sarebbe stato per Agricola ottimo
stromento per importare la guerra, e sperperare gVIberni.
Non era l'epoca dei manifesti ai popoli, ma anche in
allora le persone parlavano, e le illusioni abbondavano.
Uno spettacolo di conquiste si vaste e sì rapide come
furono le romane, non si era offerto giammai, né fu ve-
duto in appresso fino al tempo dei Mongoli (1200), o
quando creossi l'impero indo-britannico dopo la giornata
di Plassey (1757), e nel decennio del primo Impero fran-
cese. Anzi la generale ed esclusiva dominazione del Me-
diterraneo non si è verificata mai più, mentre per Roma
quel mare coi golfi e le isole diventò realmente un lago
interno, circondato interamente dai possessi suoi. Le sta-
zioni militari navali rimasero allora ridotte all'esercizio
della polizia dei porti, ed alla prestazione d'amministrativi
servigi : vennero quindi in decadenza d'addestramento e
di gloria quantunque numerose ad Ostia, a Miseno, a
Brindisi, a Ravenna od a Fola. Ciò che perfeziona un
corpo militare qualunque esso sia, è l'emulazione, l'esem-
pio, il timore dell'allrui superiorità: senza queste spinte
langue e si perde l'ardore d'innovazione, la tendenza
allo studio, la disposizione ai sacrifizii di somme. La
Cina fino ai nostri giórni fu più potente d'ogni suo vi-
cino; non ha quindi perfezionato i proprii mezzi di
guerra terrestri o navali : ora la Cina teme degli Euro-
pei, che si sono fatti vicini, e l'hanno perfino aggressa
nel cuore ; noi vedremo le sue armi ed i suoi mezzi di
difesa rapidamente mutarsi. Nei rapporti marittimi l'Im-
pero dei Cesari era ridotto in allora alle condizioni in
cui per lunghi secoli trovossi la Cina: precipitò dunque
CAPITOLO Vili. 437
lo spirito militare della marineria, ma troppi erano i
trionfi scritti sulle bandiere romane, troppo l'orgoglio di
loro potenza, perchè precipitasse egualmente il vigore delle
legioni, che d'altronde era ritemprato sovente nelle bat-
taglie coi Barbari alle frontiere nell'Europa e nell'Asia.
Così il mondo era caduto nel possesso di Roma. La
potente organizzazione militare di Roma e la sua avve-
dutezza politica avevano operato prodigi. I Romani ave-
vano riposto Tonestà nella gloria, e la gloria nell'allargare
l'imperio : avevano mostrato le virtù precipiti dell'urto,
le tranquille dell'ordinarsi, le politiche dell'opportunità,
le sagaci dell'arte: avevano grandeggiato sulle confuse
rovine, e minacciavano ancora.
Furono i Romani nei primi tempi circospetti quando
la prudenza imponeva di procedere a gradi, di invigo-
rirsi e di crescere,, e di non correre baldanzosi a peri-
gliosa ventura. Quindi occupata una città vicina a Roma,
non facevano servi i patrizii di essa, ma li facevano im-
peranti di una maggiore città, ascrivendoli al Senato. Cosi
raccoglievano, non distraevano le forze, l'interno assicu-
ravano, l'esterno invadevano. E Tacito nell'undecimo dei
suoi Annali meraviglia giustamente questa sapienza di
Stato. Il concepimento ne doveva esser facile ; ma l'ese-
cuzione di tale unificazione di Stati, che prima combat-
tevano per opposti interessi, deve aver presentato im-
mense difficoltà: Condilor no$ter Romulu$ tantum
sapientia valuit^ ut plero$que populns eodem die hostesy
dein cives habuerit.
11 Senato romano molto confidava nelle sue armi,
ma meno confidava nelle armi che nella saviezza : in-
finite battaglie ed infiniti sforzi costò a Roma il conqui-
stare i piccoli popoli suoi confinanti ; molto minor nu-
mero di battaglie e sforzi molto minori costò a Roma il
138 PARTE PUHi
conquisto di grandi nazioni. Non mancavano alle romane
guerre i colori di giustizia; i paesi conquistali perdevano
ogni accentramento, ogni comunanza d'interesse, l'ener-
gia e Tunità. Di un vasto Stalo, parte occupavasi con ro-
mane colonie inviate acentinaja nei luoghi più opportuni
ad aprire ed a chiudere i passi, parte donavasi ai re con-
federati, che ne avevano facilitato l'acquisto ; dislocavansi
genti, confondevansi popoli e cose ut non audiat, come
dicela Bìhhisit unusquisque vocemproximisui: combalie-
vano i Romani contro tutti, e ad un giogo ponevano» ma
ebbero sempre chi parteggiava per loro. Ciò che segue nel-
rAustria, in cui si dominano coi Ruteni i Polacchi, cogli
Slavi i Magiari, cogl'Italiani i Morlacchi, ed i Tedeschi con
tutti, segui per secoli nello Stato di Roma, che fu chiara
per armi ed istoria, per uomini ed arte. Ad una città con-
cedevasi giurisdizione libera, ed una parte del bottino e del
territorio della distrutta sua rivale ; un'altra città cadeva
in romana servitù, ed un pretore ne assumeva il regime ;
potevano i proconsoli espilare le provincie, non potevano
farsele amiche ed assicurarsene il dominio, perchè di
troppo breve durata si era Tufficio loro. Utica, fatta
grande e ricca pel donativo d'una parte del bottino
mobile ed immobile di Cartagine sua rivale, sua vi-
cina, collocala sullo stesso golfo di mare : Massinissa,
reso potente pel donativo di paesi tolti a Cartagine ed
agli alleati di essa, erano per Roma di primaria utilità.
Cosi vi erano nel mondo romano i varii romani centri
di forza, di interesse, di locale conoscenza. Il mondo
romano non era solo. tenuto in sudditanza dalla pre-
senza di romani campi nelle provincie, ma dall'esi-
stenza di romani sistemi civili in ogni provincia, che,
sussidiati da qualche forza militare, l'intiera provincia
facilmente sorvegliavano, signoreggiavano.
CAPITOLO TIU. 139
Divenuti potentissimi, i Romani divennero intemperan-
tissimi, ma non cessarono d'essere accorti, ed accoppia-
rono sempre Tasluzia e la forza, anzi non si fecero di
questa se non Testremo mezzo di mietere le messi cre-
sciute per le gittate sementi. Le loro conquiste furono
sempre una scena di libertà vaneggiata e promessa, e
di perfidie disumane pel sangue, ma ancora più inique
per arte e nequizia. Ora avevano girato a tondo in ogni
terra conosciuta la spada, e la tenevano su tutte levata,
ma confessando agli schiavi susurranti delle promesse,
dei tradimenti, dei finti liberatori, dei veri oppressori,
che era stata una scena di perfidia, ne accusavano i ne-
mici uccisi o servi : fides punica, fides grwca. Ed a que-
ste parole riduconsi appunto pressoché tutte le orazioni
dei senatori, dei consoli e dei duci d'esercito, quali le
abbiamo si frequenti nei latini classici. Il mondo squal-
lente rendeva testimonianza del vero, perchè i luoghi non
si mettono la maschera come gli uomini ; ma i Romani
prendevano scaltramente Toffensiva : non avevano fatto
che rintuzzare la violenza, vendicare le ingiurie : erge-
vano templi a Giove Ultore j a Marte Ultore : redargui-
vano i legati supplichevoli ed i principi e re vinti e pri-
gionieri di rotta fede, di violate alleanze, di tradimento
e di spergiuro : fidet punica, fides grcBca, fides gallica,
fides syriaca, fides (Bgyptiaca. Così nella nostra Italia
quando fu tutta sanguinosa e lacera in mani francesi»
spagnuole e tedesche , i conquistatori , che erano
di politiche enormezze maculati e sozzi non meno
di noi, ebbero la lingua presta alle ingiurie, ed in-
finite penne straniere scrissero, e scrivono dei Machia-
velli e dei Borgia, degli stiletti e pugnali, dei tradimenti
e veleni, quasi le loro istorie fossero fragranti di tutta dol-
cezza, e non tinte come lo sono di nerissima pece, e ci
t40 PIHTE PRIMA
avessero dalo in Italia l'esempio che con essi regnavano
umanità e Platone ! Noi non sappiamo se verrà in terra il
giorno della fratellanza universale : certamente nell'epoca
romana, e nell'italiana del medio evo la fratellanza non
v'era, né mai vi fu in veruna età della storia, in nessun
paese del mondo. Invece in allora, e mille volte dipoi si
verificò il detto del Salmista : Reges eos in virga ferrea^
et tanquam va$ figuli confringas eo$.
Meditando sulla storia romana, eliminando ogni pre-
venzione, spogliando d'ogni ornamento e d'ogni falsilo-
quio i fatti, non chiudendo ed occhi e cuore al vero ed
al giusto, ci domandiamo come mai ha potuto scrìvere
Montesquieu che i popoli si sottomettevano a Roma senza
precisamente sapere il perchè, e come Rotteck ha ripe-
tuto quel detto 7 E siamo attoniti di leggere anche nel
capo primo della Storia di Milano del Verri, che i Ro-
mani giammai insultarono ai vinti, né mai schernirono
i meno forti ; che essi arditi nei pericoli , fieri contro
la resistenza , estendevano la dominazione sui popoli
per liberarli dalla tirannia, per condurli alla coltura
ed allo stato civile ; ed i popoli si dirozzavano per imi-
tazione di esempii che erano a loro cari. Quelle parole
del Verri, e dei molti che scrissero come Verri e prima e
poi, non possiamo perdonarle che a Cicerone negli Oj^cit'i
lib. S, dove fa l'apologia del Senato di Roma : Regum, pò-
pulorum, nationum portus et refugium erat Senalus :
nostri autem magistratus, imperatoresque ex hac una
re maximam laudem capere studebant^ si provincias, si
socios (zquitate et fide defenderent : itaque illud patro-
cinium or bis terrw verius quam imperium poter at no-
minari.
Quali però fossero questi Romani, come sempre alle
genti parlassero educam vos de sepulcris vestris, come
CAPITOLO TIII. 141
fossero di promesse osservanti, ed imperassero alle na-
zioni prima da arte che da ferro vinte, noi lo abbiamo
veduto. Ma in ogni luogo e tempo ha insegnato la storia
che chi s'argomenta di avere da altri indipendenza e li-
bertà, è schernito di sua credenza, ed è di se stesso omi-
cida. Anzi contrasta sovente a necessario ardimento di
forse uscire per proprio sforzo di servitù la stessa fiducia
nelle armi straniere ; come mura vicine dando speranza
di rifugio, tolgono talora la pertinace virtù del combattere
e la palma del vincere. Per affievolire un prepotente ne-
mico col togliergli un paese levatosi in armi, gli viene
in qualche ^caso mutuato soccorso , e se l'insorto si
schiera gagliardo in battaglia, e fortunate circostanze
concorrono, egli può sottrarsi a servaggio, come si sot-
trassero coll'appoggio francese e spagnuolo le colonie
inglesi d'America. Ma se quegli che porge l'ajuto assoluta-
mente prepondera, in allora qualunque promessa poli-
tica ha suonato più dolce, riesce ad impero, perchè il
vittorioso d'una concessione od acquisto non s'appaga
giammai, ma di ciascuna si fa ponte ad avanzare di più.
Né giova che i savii ed onesti prevedano da lungi il
danno che approssima, perchè le masse illuse, adescate
0 corrotte sentono il presente, poco guardano al passato,
nulla al futuro , e genio, virtù e saggezza in un mo-
mento dì agitazione sconsiderano. Perpetua è la mas-
sima : colla spada si segnano i confini degli Stali ; colla
spada si deve vegliare sul confine segnalo.
CAPITOLO IX.
Confioi deiilmpero e loro difendibilità*
Appena Roma nascente potè vincere i pìccoli popoli
che la circondavano, più non ebbero sicurezza i vinti
se non nelle parli dltalia selvose, scoscesife, solcate,
vorremmo dire gagliardamente vertebrate dei monti Ap-
pennini : tutte le campagne all'occidente di quelle aspre
contrade che, degradando d'ambo i lati in fino al mare
con quasi uguale pendìo, formano le due ubertose linee
del paese italiano a levante ed a ponente dei monti
stessi, furono subito percorse dalle romane legioni. Un
si angusto paese non oppone alcuna linea militare di
fiume, che troppo scarso si è il regno di ogni fiume, e
non elevatissime le pendici, perchè possa un fiume es-
sere sempre grosso e di difficile passaggio.
Ma dal nodo principale e più elevato degli Appennini
(l'attuale Abbruzzo) gli indomiti Sanniti piombavano sui
vincitori con guerra perpetua. Durò cenlennale lo sforzo
di Roma per impadronirsi di quella schiena di monti :
fu insanguinata ogni rupe. I Romani soffersero nelle
gole dell'Appennino i più gravi rovesci, e forse avrebbe
potuto cadere la loro potenza alle Forche Caudine.
Superali gli Appennini, e fattisi forti alle gole, i Ro-
mani furono sicuri nel paese d'occidente, e subito con-
quistarono, divallandosi dall'Appennino ad opportune
occasioni, tutto il versante orientale d'Italia.
CAPITOLO IX. 143
Le linee romane si spinsero allora rapidamente infino
al Po. Non debole linea era questa a resistenza e ad offesa,
ma la medesima era già stata girata nell'ovest per la con-
quista che i Romani precedentemente avevano fatto della
Liguria. Quindi invasero la Gallia Cisalpina, od il set-
tentrione dell'Italia. Comparvero poi come sussidiarii
contro gli Elvezii invasori, e le Alpi, la più gran linea
militare dell'Europa, enorme ammasso di torri naturali,
inaccessibili, formanti una zona tante volte ripetuta di
linee fortissime a sicurezza e ad offesa della romana
Italia, furono specialmente da Cesare prese in possesso.
Vi fu allora sicurezza per l'Italia, pericolo per gli altri
Stati. L'estrema importanza militare del paese degli Al-
lobrogi, degli Edui e dei Sequani dominatore di tutti gli
avvallamenti dei fiumi francesi, fu causa che i Romani
donativi e privilegi a quei popoli largissero , e sempre
quali alleati ed amici di Roma li riguardassero. La ser-
vitù loro, ossia la loro fusione nell'università del sistema
romano, seguì soltanto allora che l'intera Elvezia, la
Gallia intera, e le adjacenti prime regioni di Germania
caddero nella sudditanza di Roma.
Dal lato di Germania, fra pugne micidialissime pro-
gredendo, recarono i Romani in poter loro dapprima la
valle meridionale della Sava e della Drava, dappoi le
controlinee della Mur, dell'Inn e della Salza, da ullimo
la linea od il versante settentrionale delle Alpi, che il
loro tributo d'acque convertono al Danubio, gran linea
militare anch'esso, perchè dall'enorme suo regno riceve
alimento di grandissime fiumane. Qui posaronsi le aquile
romane. La sede dell'Impero era ricoperta da numerosi
recinti di smisurati baluardi naturali, e da grossissime
fosse resi di più difficile accesso. Contro ogni pericolo
di sorpresa per parte delle potenti nazioni dell'interno,
144 PARTE PEIMl
che tanto estendesi verso settentrione, Roma lasciò sul-
rultima fossa sempre pronte a combattere intere legioni
accampate d*ogni intorno quasi perpetue vigilie. Non nel-
l'interno, ma neiresterno, l'esercito di Roma stava schie-
rato dalla Pannonia infìno ai Datavi, e scorreva giusta
l'opportunità in direzioni concentriche a grandi fazioni
inverso l'interno, appena giungesse sospetto di confede-
razione dei Barbari, e di guerra. Ma questa serie d'eser-
citi a duci diversi ubbidiva. Un solo duce avrebbe avuto
in mano l'Italia, sguarnita, senza eserciti, senza naturali
difese. I tumulti delle legioni germaniche, in preda agli
stenti di un perpetuo campo, furono sempre pei Cesari
pericolosissime. L'unanime insorgere di gente unita, im-
barberita nelle battaglie e negli strazii, il rapido presen-
tarsi a Roma proclamando Cesare il loro duce, che in-
finiti doni offriva, per essere omai costretto alla corona
od alla morte, la marcia sicura infino a Roma, quelle
vicende produssero, che si prodigiose appariscono. Ma
il retrocedere delle legioni dai loro posti di vigilia, ai
Barbari lasciava aperti i passi : il riacquistarli era san-
guinosissima intrapresa, e forzava ad una concentra-
zione d'eserciti; gli eserciti concentrati sotto un solo
duce, nuovamente tumultuavano ed insorgevano. L'im-
pero perdette gradatamente la prima linea militare, la
seconda, la terza, e l'Italia fu invasa.
Dappertutto presenta la combattuta Germania sulla
linea surriferita gli avanzi di questi romani valli, quan-
tunque gli archeologi ne abbiano probabilmente ritro-
vato più del vero. Le escavazioni che praticansi a Salis-
burgo danno sicuro indizio del lungo soggiorno che vi
fecero in campo perpetuo le legioni romane. Era Salis-
burgo punto principalissimo a dominare i fiumi che
immetlonsi nel Danubio , ed il Danubio stesso : assicu-
CAPITOLO IX. 145
ravasi il Nerico, primo fra i fortissimi castelli della na-
tura, e con pari celerità da quel punto centrale e sicuro
potevano prorompere le legioni da un lato verso Talto
Danubio ed il Meno di concerto colle truppe stanziate
sull'alto e sul medio Reno, o dall'altro entrare in con^
cordia d'azione colle legioni illiriche nel gran piano del
medio Danubio per involgere con rapidi movimenti stra-
legici Germani o Pannoni, impedirne le fughe, e co-
stringerli a definitiva battaglia. Sul basso Reno però,
ossia verso l'inferiore e più ampia Germania le legioni
renane e bataviche non avevano altra base d'operazione
che il Reno. Mancando infatti ogni punto sporgente
entro il campo nemico, non essendovi per così dire ve-
run bastione saliente che facilitasse l'assalto di fianco
0 da tergo, i Romani dovevano agire di fronte, e d'urto
parallelo al nemico senza speranza di risolutiva \ittoria.
Sette secoli dopo anche Carlo Magno trovossi nelle con-
dizioni medesime : varcava pur egli il Reno , correndo
suir£ms, sulWeser, sull'Elba e perfino suU'Oder: egli
ha quindi dovuto impiegare trent'anni in continue cam-
pagne, vincere cento battaglie, e stanziarsi in Aquisgrana
presso al confine, prima di riuscire allo scopo che più
dei Capitolari, e d'ogni sua gloria comunemente vantata,
lo fa realmente grande nella storia dei secoli, quello
cioè d'aver posto un termine alle emigrazioni dei popoli,
e d'avere con ciò reso possibile il graduato formarsi delle
odierne nazioni, e lo sviluppo progressivo della civiltà
europea.
Nella meridionale Germania e nell'occidentale Pan-
nonìa i Barbari potevano essere distrutti se mai incauta-
mente si inoltravano nei campi fiancheggiati, quantun-
que a grande distanza, dai campi romani ; ma nella set-
tentrionale Germania il loro moto era più libero, e la
10
146 PiRTB ntMi
ritirata sicura» perchè sommamente rari sono i genii che
anche nei terreni aperti sanno procurarsi elementi a com-
pleta vittoria, come se li procurò Napoleone alla giornata
di Jena (1806). Ed in ogni guerra dovevano i Romani
porre. grandmar te di calcolo per rapidità e simultaneità
di movimenti si vasti in paese nemico, ingombro di
boschi senza veruna grande città, senza centro unitario
di forza e d'impero contro cui dirigere colpi gravi, ma
certi : potevano corseggiare, incendere messi, rapire ar-
menti, far strage d'inermi più che di armati. Disaccordo
d'operazioni però, e lentezza, confldenza soverchia nelle
stagioni, negletta vigilanza sui fianchi, rotte comunica-
zioni ai rinforzi ed ai viveri, erano rovina. Varo fu di-
strutto, Druso e Germanico trionfarono con genti assot-
tigliate, ed i cinque eserciti consolari di Carbone, di
Cassio, di Scauro, di Gepione e di Manlio non ricon-
dussero dalle campagne germaniche se non poveri mani-
poli al Reno. Perfino dell'invasione di Giulio Cesare
scrive Tacito {De moribng Germ.) : lngente$ C. Cmsarii
miniB in ludibrium verste (1).
La linea del confine romano per l'esser cosi curva dal
Norico infino ai fiatavi, come lo è la curva delle Alpi e
del Reno, era estesissima, né poteva assicurarsi che da
catena continua di campi occupali da truppe numerose
e valenti : la vigilanza del confine germanico obbligava
dunque a gravissime spese ed ingente sacrificio di forze.
(1) Cesare aveva passato il Reno al di sotto di Colonia sopra un ponte a ca-
vaìletti, che in brevi giorni costnfsse, e nei Commentarii descrive. Quel ponle
è il primo esempio istorico dei gran ponti militari , e sq ne parla in tutte le
storie delle arti costruttive civili e militari. Anche al presente in cui lutti
gli eserciti hanno corpi speciali pel servizio dei ponti, l'opera cesariana è an-
cora ammirata, e negli attuali congegni si conserva d'alcuni di quelli memoria
ed uso. Almeno rimase questo grande esempio dcllardimento e dell'ingegno di
Cesare allorché guidò i Romani al primo passaggio del Reno.
CAPITOLO IX. 147
Eppure se procedendo dal Norico i Romani avessero
posto fermo piede in Boemia, cioè in quel castello di
monti che si avanza nel centro dei piani germanici fino
ad un punto meno di tutti lontano dal mare, cui rivolge
una larga fiumana (l'Elba), essi avrebbero di molto mi-
gliorato, accorciato e fortificato il loro confine, e quasi
isolato una metà di Germania dai soccorsi dell'altra.
Avrebbero infatti potuto ad ogni istante sboccare dalle
gole dei monti, operare sulla diritta o sulla sinistra del-
TElba, precipitare il nemico non sulle linee d'indefinita
ritirata e salvezza, ma sull'alto Danubio e sul Beno. Dalla
Boemia avrebbero sorvegliato tutto il paese d'intorno, ed
avuto linee di difesa perpetua, mentre non erano perpe-
tua difesa quelle linee renane nel tempo in cui il fiume
congela. Pel solo effetto poi della loro collocazione avreb-
bero assalilo i Germani da fianco o da tergo (i quali as-
salti SODO facilmente mortali a qualunque nemico), in-
vece di cercare con complicate operazioni di riuscire a
questa forma d'assaltò: si sarebbero trovati per Salis-
burgo in buone comunicazioni col Norico , e potevano,
volendolo, costituirsi una serie di campi o di punti for-
tificati sull'Elba bene vettovagliati pel fiume, essere cosi
meglio raccolti, ed avere in minor numero più vigorose
le forze. La natura dei territorii germanici, la posizione
di Boemia, la figura dei monti suoi, l'accessibilità del
paese non agevole che dal lato del sud, hanno dato in
ogni guerra germanica un vantaggio grandissimo al pos-
sessore di quel castello montivo. Nella guerra dei Tren-
t'anni quella fortificazione di natura salvò più volte
Vienna quando i vittoriosi Svedesi tentavano girare d'in-
torno, e procedere innanzi per la via di Moravia dando
mano a Transilvani ed Ungheri, o per la valle del Danu-
bio di concerto con eserciti giungenti da Francia. E
148 PARTE PRIMA
nel 1813 il possesso di Boemia in mano a neutrali o ne-
mici Austriaci diede dapprima inciampo, e quindi rovina
al più grande guerriero della moderna età. Ma le descri-
zioni dei geograQ antichi, e quella pure della Germania
di Tacito ci manifestano che erano d'assai inesatte ìe co-
gnizioni romane dei lerritorii germanici, e pressoché
nulle quelle dei paesi situati più oltre : forse per queste
incomplete cognizioni i Romani non invasero profonda-
mente, e con masse prepotenti la Boemia, né vi pianta-
rono il loro quartiere generale delle difese del Nord.
Rimasero invece sul Reno e nelle Alpi : ivi attivarono
rescavazione delle immense miniere di ferro: infatti la-
tine inscrizioni nelle cave di Eisenerz attestano che già
si utilizzavano dagli antichi Romani. Usarono poi le arti
politiche sperando in esse più che nei brandi : educarono
giovani principi di tribù germaniche in Roma : perGno
il grande Arminio, che poi li lasciò, e vibrò ai medesimi
ferita sì grave, era divenuto cittadino e cavaliere romano,
ma un fratello di lui rimase fedele ai Romani, prese nome
latino, e marciò contro gli stessi Germani : anche un Se-
geste tenne con Roma, e leggiamo della lega che Maro-
boduo strinse con essi. Era però incessante la guerra,
favoreggiandone la durata il paese sconfinato ed aperto.
Pare però che grado a grado colle cognizioni cresciute,
ma tuttora senza bene stabilito concetto e disegno fossero
i Romani per appoggiare la loro frontiera appunto alla
Boemia ed ai Carpati. Battagliando coi popoli di Panno-
nia, cercando di dominarli non potendo in altro modo
acchetarli, volendo coprire le provincie di Grecia, i Ro-
mani avevano costrutto un ponte stabile sull'Istro nelle
regioni di Dacia dove la fiumana è rapida ed immensa,
s'erano stanziati a Linz (Lincium), località di somma im-
portanza strategica, e che nondimeno l'Austria tanto ri-
antoLO IX. 149
tardò a munire di grandi difese, a Vienna (Vindobona),
a Gran [Ad Herculem Strigonium]. Erano cosi prolelli
dal fiume, e padroni dei varchi. Poi eressero immensi
valli fra il Danubio e la Theiss, volendo rettificare, abbre-
viare, afforzare la loro linea nella vasta contrada : quindi
tradussero a migliore difesa nei piani di Mesia e Panno-
nia numerose colonie.
La lingua romancia o romaniesca, la quale dopo in-
finite vicende si parla tuttora da più milioni d'uomini
in quella regione , ed i miràbili avanzi di romana ci-
viltà, e non solo di potenza militare, che ancora si ve-
dono nel Banato in vicinanza della salutare Mehadia, at-
testano che le stesse colonie erano fiorenti. Per ottenere
però un confine veramente forte sarebbe stato necessario
di non arrestare le bandiere nei piani, ma di piantarle
su tutta la catena degli Ercinio-Carpati, d'avere cioè nel
ponente il bastione di Boemia, e nel levante l'altro ba-
stione di Dacia collegati colla cortina continua della mon-
tuosa giogaja. La catena di Dacia s'approssima al Ponto
Eusino e giunge a brevissima distanza dalla foce del Se-
reth neiristro, ch^ più oltre è laguna, od è mare. Un
campo sul Sereth (a Galatz), ed un esercito in Transil-
vania pronto a sboccare dalle gole delle Alpi di Dacia,
avrebbero precluso del tutto una marcia dei Sarmati verso
le Provincie orientali , giacché i medesimi o dovevano
ricevere battaglia còl pericolo d'essere di breve tratto pre-
cipitali nel mare, o correre il rischio di rimanere rin-
chiusi fra ristro ed i monti. L'importanza della Dacia
nelle guerre dell'Europa orientale è grandissima : lo è
quanto l'importanza della Boemia nelle guerre germani-
che : lo è anzi ancor più se l'assalitore non ha ad appog-
gio delle operazioni di terra l'incontrastato dominio del
mare : ma come l'avrebbero avuto i Sarmati se i Romani
150 PAATE nilMl
erano vigilanti neirallestire navigli ed esercitare le
ciurme? (4)
L'occupazione di posizioni fortissime che coprissero
la Pannonia era necessaria non solo alla sicurezza delle
Provincie romane di là delle Alpi, ma perfino alla difesa
dltalia. Infatti dal lato d'oriente le Alpi sono di passag--
gio facile, e chi abbia trionfato in Pannonia, o trionfato
sull'Adige, non trova nella buona stagione ostacolo di
natura a marcie ulteriori. Invasero l'Italia da quel lato
i Barbari nelle loro emigrazioni, la invasero più volte
depredando gli Ungheri, e vi penetrarono i Turchi nelle
guerre coi Veneti. E nelle lotte più recenti vedemmo i
Francesi nel 1797, nel 1803 e nel 1809 passare senza
gravi contrasti dall'Adige al Danubio, e viceversa passare
agevolmente gli Austriaci nel 1813 dal Danubio sull'Adige.
Le Alpi rialzano più oltre verso mezzodì neirillirico un'al-
tra volta le cime, e vi formano raddoppiali serragli di na-
turali difese, ma le Alpi Pannoniche, quelle cioè che
stanno a cavaliere di Pannonia e d'Italia hanno dilatata
la base, e moltiplicate catene, non valli profonde, non
geli perpetui, non fiumi indomiti o formidabili gole (2).
(1) Le tante cose discorse circa i lerritorii deirEuropa centrale e la varia
loro importanza relativamente ai grandi sistemi militari d'assalto e di difesa, ci
inducono ad una osservazione sulle condizioni dell'Europa d'oggidì. Quando uno
Stato, che è l'Austria, ha mezzo milione di soldati, e possiede nel centro d'Eu-
ropa la Boemia, la Transilvania, il Nerico e la Rczia, ed ha inoltre in Italia
sull'Adige, sul Mincio e sul Po linee fortissime completanti il sistema di difese
germaniche, che altrimenti sarebbe da quel lato imperfetto, dovrà sempre ri-
guardarsi in tutte le guerre d'Europa come Stalo militare d'importanza pri-
maria, se anche le sue condizioni interne non gli consentono di far pesare la
sua spada terribilmente sull'estero, e d'abusare ad assalto deireminenle van-
taggio di poter vibrare in caso fehce dei colpi mortali, e di rientrare in caso
di rotta nel serraglio di difese fortissime d'arte e natura.
(2) Abbiamo anche in Tacito nel libro III delle sue Storie un esempio di
chiarissima prova di quanto abbiamo esposto finora, e gioverà l'indicarlo, es-
sendo perpetue e sempre applicabili le norme di strategia dipendenti dalle
slesse condizioni politiche e dall'immutabilità d'elementi locali. Vitellio ò prò*
CÀmoLO IX. 151
Verso la Germania adunque e verso la Pannonia e Sar-
mazia la linea del conGne romano non era completa e per-
fetta: quindi i Romani lungo tale confine non ebbero sicu-
rezza giammai, ma guerra e sovente sventure: gli eserciti
clamato imperatore: Roma, e tutte le forze deirOccidente 9on sue: Vespasiano
é invece acclamato dalle legioni d'Egitto e di Siria, e successivamente da quelle
deirAsia Minore, deiriUiria, di Mesia e Pannonia: le ultime sono le più dispo-
nibili, essendo le altre occupate nella guerra giudaica, od a sorveglianza dei
Parti. Vitellio ha già concentrato in Italia Tesército vittorioso di Ottone : sono
sparse invece le legioni deirilliria, di Mesia e Pannonia. Tengono consiglio i
generali di Vespasiano : cause politiche consigliano la guerra offensiva, ma
tutti vorrebbero arrestarsi alle Alpi Pannoniche, finché le legioni non siano
riunite : Vespasiano stesso manda ordini che non si oltrepassi Aquilea. Ma vi
era fra quei generali un grand'uomo di guerra, Antonio Primo, di cui Tacito
ha forse più censurato le colpe, che glorificato l'ingegno : Slrenuui manu, ser-
mone promplu$, serendce in alios invidicR arti fez» discordiis et sedUionihus
poUns, raptor, largitor, pace pessimus, bello non sptmendus. Questi non
trattiene la guerra né alle Alpi Pannoniche, né all'ingresso dei piani italiani :
Vespasiano, egli dice, se fosse sui luoghi correggerebbe gli ordini proprìi, non
frenerebbe la marcia : doversi il principe colla vittoria servire, e mezzo a vit-
toria essere l'avanzare a posizione atta a sostare sicuri : non essere poi sola
guerra del principe questa in cui tutti combattono per non essere da Vitellio
multati del capo. Procede sollecito, entra in Padova e Vicenza, s'avanza con
vessillarii spediti e cavalli, occupa Verona, si trìnciera d'ambo i lati sul fiume,
getta colle truppe gradatamente vegnenti presidii in Aitino sull'Adige per pre-
munirsi coatro le operazioni della flotta di Ravenna, chiude i varchi delle Alpi
ai rinforzi che giungono dalla Germania a Vitellio, sorprende un corpo di Vi-
teliiani, lo disperde, e si assicura a Ferrara un passo sul Po : allora aspetta
ansiosamente le sue genti che arrivano. Scoppiata poi la discordia nel campo
di Vitellio, Antonio balza da Verona sui disordinati e li batte, li sospinge sul
Po, entra con gran strage in Crenrona. Defeziona da Vitellio anche la flotta di
Ravenna : allora |utte le guarnigioni lasciate sul littorale e stil Po si possono
levare : esse riarmano, rinforzano la flotta di Ravenna, e prendono Rimini.
L'intiera Italia al nord dell'Appennino non é più di Vitellio, ed anche la cen-
trale è perduta, perché le truppe Vitelliane già vedono nell'Etruria e nell'Um-
bria minacciate le vie di Roma dai Flaviani sbarcati a Rimini, ed Antonio
Primo le spinge procedendo dal Po. Presto Vitellio cadrà, e le sue truppe
sconnesse, confuse d'altri soldati, e con capi diversi n'andranno ai lontani con-
fini dell' Istro e dell'Asia a respingere i Rarbari divenuti insolenti durante la
guerra civile.
In questa esposizione noi fummo guidati per mano da Tacito : sono forse più
esatti e più chiarì di lui gli scrittori d'oggidì nei racconti delle guerre recenti?
Non si pud trarre anche dai classici antichi soda istruzione per le moderne
operasìpni militari t
152 PifiTB PKìUk
loro in paese vastissimo, intersecato da grandi fiumi ,
senza comunicazioni costanti, tra orde ostilissime, in
foreste impenetrabili, dovevano incontrare nell'esecuzione
contemporanea ed unisona dei più sapienti piani stra-
tegici gravissime difficoltà. Quelle foreste mascheravano
i movimenti dei Barbari , servivano loro di sicuro ri-
covero, le difficoltà delle sussistenze ad ogni passo
dovevano accrescersi, i modi di involarsi e di sfuggire
al pericolo grandemente aumentavansi ; il precipitarsi
repentinamente sui fianchi ed alle spalle delle inoltratesi
legioni dovea per un Barbaro intraprendente essere
facil cosa. Il mantenere le comunicazioni coi campi
e coi magazzini dell'esercito doveva essere infinita pena.
Qual debba essere l'intensità delle pene da stabilirsi
vìen indicalo dalla necessità delle pene medesime. Tutte
le nazioni nei militari loro Godici puniscono senza para-
gone più gravemente i delitti commessi dai soldati in
tempo di guerra, che non i delitri commessi dai soldati
nella quiete delle guarnigioni. Le romane legioni, atten-
date ai confini, trovavansi in istato di perpetua guerra ;
era quindi estremamente severa la militare disciplina di
queste legioni. Suolsi dire che la molta paura accusa la
coscienza, ed anche la severità delie-pene accusa il grave
timore. Corbulone, scrive Tacito nell'undecimo delle 5<o-
rie, punì di morte due soldati perchè zappavano alla
trinciera, Tuno senz'armi, l'altro col solo pugnale : si
grande era il pericolo d'incursioni e sorprese ! E Giuseppe
Ebreo, che conosceva la disciplina delle legioni romane
nell'Oriente, le quali rendevano lo stesso servigio delle
legioni germaniche, loda questa estrema severità. Ottimo
ordine era questo, dice egli, che faceva i capitani ai sol-
dati più terribili delle leggi. Dal che sembra potersi infe-
rire che la giurisdizione militare romana fosse parimenti
CAPITOLO IX. 153
distinta in legale ed in arbitrar ia, siccome la si trova,
od almeno trovavasi or sono pochi anni distinta nella
legislazione militare deirAustria (1).
Nell'Asia i Romani si erano falli forti sino dall'epoca
di Pompeo, appoggiandosi al mar Nero, alle elevatissime
pendici dell'Armenia e del Caucaso, alle grosse fiumane
dell'Eufrate e del Tigri, ed ai deserti dell'Arabia. Migliori
linee militari di queste avere non potevansi, anche pro-
cedendo centinaja di leghe più oltre. Ma l'enorme va-
stità di quegli altipiani, e di quelle catene, che da 16,000
e fino da 20,000 piedi d'elevazione (l'Ararat p. es. ed
il Demavend) precipitano poco meno che verticalmente
sino al livello del Caspio e del mar Nero, quantunque
fosse dai Romani penetrata, non fu mai perfettamente
soggiogata. Nel Caucaso, siccome in Caledonia e nella
Cantabria, i Romani non mai poterono intieramente si-
gnoreggiare. Nei secoli che seguirono, gli Arabi, i Tartari,
i Persiani, i Turchi, tutti si appoggiarono al Caucaso, e
talvolta girando sul bordo dei due mari, lo oltrepas-
sarono : però i soli Russi dopo mezzo secolo di lotte,
lo sterminio quasi totale degli indigeni, la sostituzione
ai medesimi di colonie russe, e l'acquisto ben consoli-
dalo di Georgia e dell'Armenia del nord, giunsero vera-
mente a dominarlo. Egli è per questo che l'inaccessibile
Caucaso, non meno dei monti della Caledonia, della
Biscaglia e del Tibet, presenta agli studii archeologici la
(1) Tra i Godici penali civili o militari moderni nessuno ha titolo spaventoso
come quello di Maria Teresa, che ventanni fa era tuttora la base dei giudizii
penali per Tesercito d'Austria. Esso intitolavasi Hals- und Strangordnung, le
quali parole letteralmente tradotte suonano in lingua italiana Regolamento del
collo e della corda. Eppure anche in quel Codice, e nei successivi articoli di
guerra^ vi è qualche disposizione benevola, che vorrei trascritta in tutti i Go-
dici: tale è. p. e., quella che se un condannato a morte viene graziato sul
campo stesso dove si avrebbe ad eseguire la sentenza, non gli si abbia a mi-
tigar» la pena, ma ne sia esente del tutto.
154 PABTE PRIUA
maggiore dovìzia d'anliche lingue per le sapienti indagini
della storia.
Nelle loro guerre contro i Parti dominatori o vicini di
quelle contrade alpestri e selvagge i Rimani partivano
dalla Siria, che era buona, non ottima base d'operazioni
militari, s'avanzavano sull'Eufrate, e di là sforzavansi di
risalire le profonde valli d'Armenia, coprendosi pur sem-
pre verso la Siria del fiume guardato. Quand'erano felici,
entravano in Armenia, ma già spossali e pochi, e quelli
erano appunto i luoghi più difficili perle vettovaglie ed i
movimenti di truppe. Se anche le comunicazioni colla
Siria erano aperte e difese contro le escursioni delle ca-
vallerie fiorenti dei Parti, esse erano già soverchiamente
estese. Quindi i Romani cercavano di crearsi sul mar
Maggiore, ossia sul Ponto Eusino una base secondaria
per sussistenze e rinforzi, e talora la ebbero, come ri-
sulta da Tacito, in quelle colonie greco-latine. Anzi se la
marineria di quei tempi fosse stata più numerosa ed abile »
e più grandi i mezzi d'azione raccolti sul Rosforo,
meglio conveniva di scegliere a base principale le colonie
del Ponto, e d'avere a base secondaria la Siria ; allora i
Romani sarebbero entrati tuttora vigorosi e grossi nella
difficile Armenia, e quando v'avessero nella prima cam-
pagna posto piede sicuro, potevano lanciarsi di là sui
piani del medio Eufrate. Ma chi avrebbe osato nel primo
secolo dell'era nostra di concepire l'idea, ed effettuare il
disegno di imbarcare cento mila soldati per scendere a
Trebisonda ed entrare in Armenia?
La guerra contro i Parli era grave, feroce ed insidiosa.
Gli eserciti erano disciolti dalle fatiche, e talora distrutti
dal ferro. Abbondano gli esempii di eserciti ribellanti per
eccesso di strapazzi, di consunti da fame per convogli
perduti, di oppressi dopo lunga estenuazioae da nemico
CAPITOLO 11. 155
crudele. E crudeli erano pure i Romani : non hanno
anch'essi distrutto ì nemici nei modi spietatissimi che
treni anni sono TEuropa rimproverava al generale Pclis-
sier guerreggiante in Algeri? Narra infatti Tacito nel
libro XIV al cap. 23: Dux romanus immitis in qui late-
bras insederant, ora et exitu$ specnum, sarmeìitis vir^
(jultisque completos, igni exurit. Anche in queste guerre
però i Romani accoppiavano alla forza le destrezze poli-
tiche; giovavansi delle guerre di successiona dei principi
nativi» parteggiavano per alcuno di essi, restituivano
leggi ed ordini antichi a qualche città, dei quali l'avesse il
nr^mico privata; si collegavano cogli Ircani, ossia con po-
poli attergati ai Parti, e comunicavano con essi mediante
viaggi d'immenso circuito. Tutto ciò appare da Tacito.
Come i Romani giovavansi delle discordie degli indi-
geni e dei Parti per assodare la sovranità loro nei dirupi
deirArmenia, giovaronsi anche i Parti delle discordie
degli indigeni e dei Romani, onde scacciarne i Romani,
e porre se medesimi in possesso. Leggiamo, in via d'esem-
pio, che i Parti guerreggiando contro Cesare ed Augusto,
avevano dato ricovero ai Pompejani ed ai seguaci di
Bruto e Cassio, e colle armi e colle aderenze dei mede-
simi speravano di trovare una facile via nelle provincie
di Roma. Ad un Quinto f^abieno, ostilissimo ai Cesa-
riani, conferirono i Parti il comando supremo allorché
invasero la Cilicia. Cosi imitavano le insidie di Mitridate,
che per combattere il Senato ed i Siilani mostrava volto
amico al popolo ed ai Romani : in ogni tempo si usano
con pari perfìdia le armi stesse. Il furore di parte pre-
vale all'amore di patria, le voci insidiose degli stranieri
si odono, le armi venturiere si radunano, le fazioni coms
battono. Ha tali fatti avranno ulteriore sviluppo nel pro-
gresso dell'opera nostra.
156 fi&Tfi PÀttti
L'Egitto, circondato da vasti deserti senza acque, è
quasi invulnerabile da ogni lato, fuorché da quello di
mare. I Romani adunque, padroni del mare, presidia-
vano TEgitto , come vediamo in Strabone, con poche
coorti, e queste stanziavano neirAlto Egitto, perchè ap-
punto dalla Nubia le orde barbare potevano insinuarsi
nella romana provincia. Lo tentarono infatti, furono re-
spinte, e lo stesso paese loro fu invaso.
Verso TArabia il confine romano appoggiavasi al de-
serto. Ma gli Arabi infestando prorompevano. I Romani
concessero diritti ampiissimi alle colonie lungo l'Arabia
per mantenerle in fede, ma non sempre riuscirono. Gli
Arabi ed i Persiani contemporaneamente assaltavano;
nelle discordie intestine di Roma giunsero perfino a re-
spingere le romane legioni al Mediterraneo ed al monte
Tauro. Ma gli Arabi ed i Persiani si inimicarono nella
divisione del bottino. Stipularono allora i Romani pace
cogli Arabi, dando ai medesimi larghissimo compenso
di Provincie, ed uniti con essi cacciarono i Persiani al
di là dell'Eufrate, e li inseguirono fino a Glesifonte.
Zenobia, la Clorinda guerriera della storica età, Iro-
vossi signora di un immenso Stato che estendevasi dal
mar Rosso fino al mar Nero, e dal Nilo all'Eufrate. Non
scelse a sua residenza una nuova città : ritenne l'antica
e centrale, ma i traffici indiani devono essersi in allora
incomparabilmente moltiplicati in Palmira. Dai traffici i
lucri, e da questi, e dalla politica potenza il fasto: Pai-
mira eresse in quel tempo gli immensi monumenti, le
cui vestigia vengono ancora oggidì visitate con devota
ammirazione dal viaggiatore, che li vede inalzarsi da
un mare di sabbia, non altrimenti che sorgono i monu-
menti veneti dal seno delle onde (1). Il genio militare
(1) Considerando la natura del lerritorio ove si trova Palmira, crediamo che
Capitolo ix. 157
degli Àrabi dava saggio del volo che doveva spiccare
sotto i primi Califfi. Le iscrizioni che ricoprono i monu-
menti palmireni sono lo stemma di quell'arabo Stato.
Tutte le lingue e tutte le religioni erano comprese in .
questo regno arabo: l'utilità politica richiedeva la tolle-
ranza» e tolleranza vi era, perchè le leggi conformansi
all'utilità. Da ciò nasce perfino il dubbio a varii scrit-
tori, quale cioè si fosse la religione di Zenobia. Giusta
S. Atanasio era ebrea di religione, perchè eresse sinago-
ghe ; pure sappiamo che discendeva da un arabo re ; e
se favori il giudaismo, doveva aspirare a farsi un .par-
tito fra gli infiniti Ebrei raminghi dopo la distruzione di
Gerusalemme.
Narrasi che Zenobia compiacevasi di letteratura, per-
chè chiamò Longino dalla Grecia. Ma Zenobia fece di
Longino un ministro e non un maestro, ed aveva a co-
noscere i Greci, e ad adulare questi nuovi sudditi del suo
impero. Aureliano uccise Longino quando conquistò
Palmira: se Longino fosse stalo un semplice retore,
Aureliano non lo avrebbe ucciso ma disprezzato. £ ciò ci
richiama alla mente quel passo di Hume, ove si narra
che Edoardo re d'Inghilterra, dopo d'aver conquistato il
paese di Galles, per confermare il popolo nella servitù,
condannò a morte i poeti, e fece bruciare i loro scritti.
Quelli certamente non erano poeti arcadi, ma bardi
esaltatori delle glorie nazionali, e cantori di guerra non
siasi molto cambiata nel corso dei secoli. Non si fondano in un deserto i mo-
numenti magnifici, né vi sorge una grande città capitale d'impèro. Forse che
dal lato di Palmira ha progredito il deserto d'Arabia, come dal lato di Cire-
naica si è esteso quello di Libia, e noi vediamo adesso arsa e deserta la terra,
che era un giorno feconda e popolosa. Certo si è che se i transiti possono dare
temporanea o perpetua importanza anche ad un punto situato in deserto, riu-
nirvi le genti, stabilirvi capanne, farvi perfino sorgere sotto arido cielo alcuna
triste città , questa non può mai assumere le proporzioni e le forme della
grande Palmira.
Itt8 PAETE raiMA
senza influenza presso quel popolo di vigorosi montanari
e di vaganti pastori.
Compostosi il romano impero a tranquillità, il nuovo
regno arabo, che presentava moltissimi elementi di dis-
soluzione, fu subilo rovesciato. Gli Arabi intermedii ai
Romani ed ai Persiani furono da entrambi i popoli chia-
mati a rovina, e fino ai tempi di Maometto furono stra-
nieri alla storia fi): continuarono invece le guerre fra i
Romani ed i Persiani.
L'arma più potente con cui i Romani combattevano
il regno di Persia doveva certamente essere l'istigare alla
guerra contro gli stessi Persiani ipopoli orientali al regno
di Persia, onde cosi dividere le loro forze e sterminarli.
Gli scrittori moderni, colla mente piena di merci e di
speculazioni, credono che le numerose legazioni spedila
dagli imperatori romani ai popoli dell'Asia remotissima,
e le legazioni ricevute dai medesimi , concernessero il
commercio. iNoi crediamo che riguardassero la politica,
e che le infinite persecuzioni che avvenivano nella Persia
e nei paesi romani dei settarii di religioni diverse, del
pari si riferissero a questa. Quando i Romani perse-
guitavano i Cristiani, i Persiani facevano buon viso ai
medesimi, e viceversa agivano nel caso opposto a favore
dei Pagani. I Persiani sospettavano che i Cristiani. del
loro Stato parteggiassero per i Romani, ed i Romani alla
lor volta sospettavano chei Cristiani dell'impero favoris-
(I) Gli Arabi però non rimasero dopo Zenobia stranieri alle scienze, e meno
ancora alle lettere, siccome cosi di sovente si legge. La letteratura degli Arabi
non ebbe vero principio dairAlcorano. Colfislamìsmo le cento tribù d'Arabia si
centralizzarono, ed i mille loro poeti e scrittori d'ogni genere uniQcarono p^f
mezzo secolo le loro idee. Cosi quella lingua, che divagando in centinaja di
dialelli, si era la più vasta ed anzi indefinita fra quante si conoscono, sembrò
per qualche tempo assumere un tipo uniforme, inalterabile. Gli sludii delle
cose orientali hanno talmente progredito in Europa, e segnatamente nel nord
di Germania, da fornire ampia prova di ciò che asseriamo.
CAPITOLO IX. 159
sero i Persiani : ne abbiamo nei martirologi le prove più
manifeste. Che però le numerose ambascerie avranno
anche trattato affari di commercio, è cosa probabile, ma
prima si avrà avuto riguardo alla politica, che precede
ad ogni sorta di economia nei calcoli della sovranità. E
nell'argomento di simili legazioni, delle quali ci rima-
sero ignoti gli incarichi, riflettiamo all'analogia di tante
altre legazioni solenni o secrete inviate nei secoli di mezzo
in Oriente dai Veneti o dal Pontefice, perchè in antico
e nel medio evo, ogni guerra, non altrimenti chfe nel*
Tepoca nostra, era una guerra universale. La guerra dei
Veneti cogli Ungheresi attivava una guerra dei Polacchi
contro gli Ungheresi per pretensioni che non mancano
mai, e questa era seguita da una guerra russa contro i
Polacchi medesimi, perchè ogni nazione coglie il destro
appena si presenta (1). Le guerre degli Europei coi Tur-
chi richiamando le forze turche sulle rive del Danubio,
erano seguite da un'alleanza contrattuale o non contrat-
tuale fra gli Europei ed i Persiani che prorompevano dal-
l'Eufrate, e se ne ha continua prova nella storia delle
relazioni diplomatiche fra la Repubblica di Venezia e la
Persia durante le guerre turchesche, che ora ben si co-
noscono per la pubblicazione testé seguita (dicembre 1864)
d'autentici documenti. Ogni storia è necessariamente po-
litica ed universale. E come non è possibile nei colori
prismatici d'un raggio solare discernere la linea precisa
che l'uno dall'altro separa, cosi si confondono i confìni
d'ogni storia speciale con quelli delle altre, e tutti si per-
(1) A proposito di queste aggressioni veneziane e polacche, che per essere
simultanee rivelavano intelligenza fra i governi, il Corpus juris hungarici con-
tiene una disposizione nnolto singolare, e si è il divieto di concedere Tindigc-
nato, ossia la naturalità ai Veneziani o Polacchi, quia Veneti et Poloni semper
conati sunt et semper conantur ad terras et dominia ad sacram coronam per^
^tinentia pedem inferre.
160 PAftTE PRIMI
dono nella sfera della storia universale. Riesce quindi
sommamente difficile e quasi impossibile il riconoscere
i limiti d'una storia speciale, e l'apprenderla e scriverla
rimanendo fra essi. L'unica diiTerenza sotto questo rap-
porto fra la storia delle guerre antiche e delle moderne
si è che spesso nelle odierne tutti i popoli rappresentali
nei loro eserciti combattono su un campo solo, in un
momento solo, mentre in antico ciascuna nazione com-
batteva sulle proprie linee geograOche ed in momenti
successivi.
Un filologo eccellente, Giulio Klaproth, ha nelle do^
tissime sue Memorie relative all'Aiia (Parigi, 1824,
pag. 82) desunto dagli annali cinesi memoria di quattro
legazioni romane giunte alla Cina. Cosi resta incontra-
stabilmente provata l'antica relazione fra questi imperi,
che, giusta i classici latini, non si potrebbe con fonda-
mento stabilire, troppo vago essendo l'appellativo di
Seres perchè questo nome debba esclusivamente attri-
buirsi ai Cinesi. Klaproth narra infatti di un'ambasciata
che, nell'anno 166 dell'era nostra, Antonino imperatore
romano inviò a Houn-Ei della dinastia degli Han, ed
accenna di altra legazione che nel 284 fu spedita agli
Tsin. Egli fa cenno inoltre di ambasciate inviate negli
anni 637 e 719, ma queste appartengono alla storia
dell'impero romano-greco, che di lunghi secoh soprav-
visse alla caduta di Roma.
CAPITOLO X.
11 daalismo polìtico dell'Impero romano.
Quali si fossero i confini militari del romano imperio,
si è esposto superiormente. Entro questi confini il bilin-
gue impero romano-greco, quasi smisurato accampa-
mento nel mezzo delle sue scolte vigilanti e sempre pronte
alla pugna, era sicuro dagli insulti stranieri: il solo ro-
more di guerra, che i Romani sentissero, era l'eco delle
germaniche, delle pannoniche e delle partiche pugne alle
lontane frontiere. Ma nell'inlerao irrompevano frequenti
ribellioni militari per Tordinario dal popolo passiva-
mente osservate, perchè non importavano variazione di
cose, ma solo di Capo, e consentivano la pace a chiun-
que non faceva la guerra. Provava però l'Impero l'azione
lentamente dissolutiva del dualismo politico nato dal-
l'acquisto di tante greche contrade. Infatti colla morte
d'Alessandro era crollata l'unità politica dell'immenso
impero creato da lui, ma grandi conseguenze delle
sue conquiste erano rimaste. L'impero persiano ne andò
allora sepolto per sempre : nei tronchi dello spento co-
losso rivissero invece sotto greche dinastie gli antichi
Stati, che la Persia aveva riunito a se stessa. La risorta
indipendenza di quei paesi però poca parte vi aveva ri-
chiamalo delle loro forme vetuste. La lingua, la filosofia,
le arti dei Greci erano penetrate nell'interno dell'Asia, e
41
f62 PARTE PRIMA
la trasmigrazione delVelemento greco 'continuò sotto le
nuove dinastie, che lo riportarono con altre spedizioni
perflno nelle Indie, ove i viaggiatori e gli archeologi in-
glesi ne hanno in questo secolo appunto discoperto ve-
stigia nel Pengiab. La Sacra Scrittura è bensì esatta,
rimontando alle origini, allorché chiama Macedoni i
Greci, ma i Macedoni si erano essi medesimi tramutali in
Greci, e se non si tramutarono in Greci anche i Romani,
ne subirono pur essi la prepotente influenza. Cosi le
conquiste romane avevano esteso nell'Occidente l'elemento
latino, che vi assorbì il fenicio, l'etrusco, il druidico : le
conquiste greche avevano propagato neirOriente l'ele-
mento greco, che vi spense il fenicio, vi cancellò l'assiro,
e vi indebolì l'egìzio. Queste nozioni sono necessarie a ben
comprendere la storia delle arti, quella delle lingue, ed
in parte anche quella dei governi. Signoreggiarono nel
mondo i soli elementi latino e greco, l'uno dominante di
vita politica, potente di unità, e quindi prevalente di forza
materiale, l'altro vincente di forza morale per civiltà piti
avanzata. Perciò l'elemento greco non impedì il materiale
progresso dei Romani in Grecia e Levante, ma arrestò la
loro marcia d'invasione morale: i popoli greci furono ag-
gregati, non assimilati ai Romani, non fusi in una massa
con essi. La lingua latina sempre robusta, si era fatta
anche pomposa con Cicerone e con Livio, era divenuta
esatta coi giureconsulti, ed aveva acquistato da Virgilio
ineffabile grazia, ma la greca rimase la lingua primaria
del mondo d'allora, e più a ragione che la francese at-
tualmente in Europa noi sia. Solamente da principio i
Romani aspirarono ad introdurre anche nelle provincie
greche pel governo ed affari la lingua latina (Val. Mass.,
lib. II, e. SI), ma subito abbandonarono la stolta pretesa,
e non provocarono l'urto. Desistettero anzi dai progetti
GiPITOLO X. 163
d'assimilazione, e noi Tediamo infatti che anche la mo-
netazione romana, dapprima marcata con sole leggende
latine, a cert'epoca si forma in due serie, delle quali
runa si conserva latina e l'altra porta greche leggende,
continuando però la serie latina per le colonie romane
se anche situate nel Levante o neirAfrica ; il quale esem-
pio più tardi imitato saviamente dai Veneti, che ebbero
pur essi la speciale monetazione pei loro regni di Can-
dia, di Cipro, di Grecia e Dalmazia, divenne canone quasi
generale per le colonie indostaniche degli Europei. Le
idee religiose e filosofiche erano pei Romani e pei Greci le
stesse : non vi erano codici di immutabili leggi, né forme
sociali di immutabili caste : il contrasto adunque esi-
steva, ma grave non era. Atene, Rodi ed Alessandria,
che pur essa non era egiziana, ma greca, diventarono le
scuole dei Romani: chi aspirava a coltura studiava il greco
piuttosto che il latino, ma Plutarco eccede dicendo che
nessun Greco studiava il latino, giacché Ammiano Mar-
cellino, greco d'Antiochia, scrisse la sua storia in latino,
e pare fosse greco anche Eutropio che scrisse nell'idio-
ma di Roma. Che anzi nelle più illustri colonie greche
d'Occidente rianimavasi la vita nazionale, e quindi tro-
viamo che Cicerone parlava greco al Senato di Siracusa :
egli poi scriveva in greco la storia del suo consolato ;
Marco Aurelio scrisse in greco ciò che abbiamo di lui,
e Tito le tragedie ora perdute.
Ma v'ha nel mondo politico, come nel mondo fisico,
l'attrazione per così dire molecolare dei corpi omogenei,
e v'ha altresì la repulsione degli eterogenei. Questa legge,
che tende a formare gli Stati per lingue, ò antica quanto
il mondo, benché non si manifesti vigorosa se non quando
un popolo vive raccolto in sistema teocratico, o le varie
masse sociali sono in condizioni di civiltà progredita.
164 PARTE paraA
Anche nello Stalo di Roma, dopo conquistati i paesi dei
Greci, incominciò adunque a manifestarsi il dualismo
politico, ossia una tensione di forze divergenti e dissol-
venti la politica unità dello Stato. Se ne videro i sintomi
primi nelle parti diverse che nelle guerre civili solevano
prendere le provincie latine e le greche, poi nelle divisioni
temporanee di Stato sotto i Cesari, più tardi nella trasla-
zione della capitale nelle provincie greche, e da ultimo
nella vera e costante separazione delle masse politiche
male palliata da nome conservato d'unità dell'impero.
Di tale dualismo politico non abbiamo continue prove
anche sotto gli occhi nostri? La Russia, p. e., lo speri-
menta da un secolo, dall'epoca cioè in cui ha aggregato
a se stessa le regioni tedesche del Baltico, che sono più
colte delle russo-slave : eppure quelle regioni sono si pic-
cole in confronto delle altre, ed hanno religione non
greca ! Se alla Russia fosse riuscito anche l'acquisto di
Kónigsberg, che imprudentemente tentò di riunire a se
stessa nella guerra dei Sette anni (dal 1756 al 1763),
quel dualismo si sarebbe manifestato ognora più forte
con effetti se non dissolutivi dell'unità dello Stato, almeno
affievolenti il vigore di esso.
CAPITOLO XI.
Periele e le meraviglie dell'arte.
L'antica civillà fu glorificata dalle arti : segnatamente
lo fu nella Grecia al tempo di Pericle. Al genio di lui si
arde incenso ogni dì; tutte le età che furono grandi per
le arti presero ispirazione, ed ebbero e lode e nome da
quel grande Ateniese, e siamo in costumanza noi stessi
di chiamare Lorenzo il Magnifico il nuovo Pericle d'una
nuova Atene. Ma esaminando nelVistoria greca, nella ro-
mana e nella moderna il complesso dei fatti, confron-
tando le epoche dello splendore abbagliante delle arti
coirapogeo di potenza, e col tempo di decadenza poli-
tica delle nazioni, ci sembra che anche dalla storia delle
arti si possano dedurre insegnamenti per l'uomo di Stato.
La storia artistica e la politica soglionsi scrivere separate
del tutto, e quindi gli ammiratori del bello non s avve-
dono del politico danno che fra le artistiche pompe ser-
peggia latente, od anche spicca palese.
Le così dette età dell'oro glorificate dal volgo, per Tor-
dinario traboccano precipiti in era di ferro. Al lusso in-
clinano per alterezza i potenti, e per naturale imprevi-
denza tutte le plebi del mondo. Il bello non dovrebbe
essere che lo splendore del vero, la corona dell'utile, ma
sovente non è che improduttiva consumazione di mezzi,
la cui mancanza si deplora prossimamente dipoi. Quando
Pericle profondeva le ateuiesi ricchezze foggiando ad
166 PIBTE PRIMA
archi, a templi, a palagi le rupi del Penlelico e quelle
di Paro, già si addensava, anzi piombava la negra pro-
cella suirAllica, nella quale lo sparlano Lisandro, di-
strutto il navile d'Atene, doveva salire insultante all'Acro-
poli. Forse coi tesori profusi nella costruzione del Colos-
seo romano, e col tradurvi le tante migliaja di belve
feroci pel rinnovarsi continuo dei truci diletti del popolo,
sarebbero stati distrutti i Gatti, e spezzate sul nascere
quelle leghe dei Barbari, che trionfarono poi. Ergevano
i Mori TAlambra in Granata quando già appariva alFo-
rizzonte la sanguigna cometa di Gonzalvo di Cordova.
L'oro prodigato nella stolta mole dell'Escuriale accre-
sceva la difficoltà di riparare alla perdita deW invincibile
armada, e quello più stoltamente profuso in Mafra Lu-
sitana avrebbe potuto aprire nel regno e strade e canali,
onde ristorare coll'agraria i danni della perdita dell'esclu-
sivo commercio degli asiatici mari.
Anche il maggior numero dei più superbi edificii di Ve-
nezia non si alzò quand'essa non aveva campi, ma va-
scelli, quando mieteva in Egitto, premeva gli olii in
Provenza, sfrondava i gelsi in Brussa, vendemmiava in
Cipro, ma quando cadevano dilacerali dalle mine tur-
chesche i bastioni di Candia, e quando i Turchi, prese
Otranto e Brindisi, minacciavano di far di Venezia una
prigioniera nel golfo, e dell'Italia una seconda Grecia.
11 prodigioso Vaticano sorgeva quando più larghi soc-
corsi dati alla Lega cattolica forse potevano renderla vit-
toriosa contro i Protestanti in Germania, in Danimarca,
in Isvezia, e v'era ancora speranza di far cigolare in
Inghilterra e in Iscozia l'incerta bilancia a favore di
Roma. Già passavano altrove l'industrialismo bancario
e la ricchezza di Firenze quand'essa abbellivasi di pit-
ture e di marmi ; le manifatture già fuggivano dal Reno
GAPITOIX) XI. 167
e dall'Elba quando vi sì emulava Tltalia nella ricchezza
dei templi, e nelle incantevoli tele; la vittoria già era
infedele alle legioni di Francia quando Luigi XIV con
favoloso dispendio ediQcava Versailles.
Ammiriamo TOdeone, i Propilei ed il Partenone di Pe-
ricle: stupiamo dei monumenti, che sovente discopronsi
anche.adesso in Atene presso l'Acropoli nella turca città
sotto le macerie accumulate nei secoli. Anzi deploriamo
che ai giorni nostri costruendo la nuova Atene senza ne-
cessila su parte del terreno che l'antica occupò, ci to-
gliamo in perpetuo la visione di quanto giace nascosto,
e Tonore di guidare Tavido sguardo del sole a raggiare
per entro altre spoglie gloriose dell'età consumata. L'in-
forme palagio reale d'oggidì, gli adusti giardini di esso,
ed i tanti edifizii della nuova città soprastanno agli an*
tichi come la barbarie alla civiltà, né i vetusti potranno
scoperchiarsi onde il mondo ne prenda diletto e stupore,
e cresca nel gusto e nella sapienza dell'arte.
Noi rispettiamo il nobile e grande sentimento di Pe*
ride: noi ne proviamo quasi incanto e malia; ma co-*
noscenti delle grazie delle arti, nemmeno di queste pren-
diamo superbia , né amiamo l'estetica se dà onore con
danno. I falli dei governi non sono sempre espiabili,
sebbene talvolta derivino da impulso generoso di idee.
Chi regge un popolo deve tener freno di ragione anche
alle ispirazioni più nobili, e prima deve assicurarne la
polìtica vita che illustrarla , perchè è mesta vittoria e
lagrimata conquista l'orgoglio dell'arte ottenuto col
prezzo deirumiliazione di Stato. Nella sfera delle poli-
tiche idee vediamo che perfino la potenza di un vivo
ingegno, e la generosità di caldo e delicato sentire so-
vente fanno tristi illusioni e traviano. Chi trovando il
tesoro accumulato nell'arca, lo crede in perpetuo pò-
168 PARTE PRIMI
tenie, e sicura per sempre la serenila di fortuna, se
fiacca nelle pompe le pubbliche forze, ne volge al tra-
monto la gloria e grandezza.
Quindi stupefalli scorgiamo i monumenti di Tebe, ma
dalle moli adorale dal volgo ritraendo lo sguardo, lo ri-
posiamo appagato sui canali dei Faraoni e dei Tolomei :
lodiamo il Partenone d'Alene, ma più il triplice porlo;
il Colosseo di Roma, ma più le dighe di Ostia, di Anzio
e d'Ancona; i palagi di Venezia, ma più i murazzi suoi;
il gran tempio di Milano, ma più i canali lombardi e le
arginature del Po, che degradano per la prodigiosa loro
mole le piramidi egiziane. Queste opere non distruggono,
ma creano la ricchezza, non scemano ma donano vigore,
nobiltà ed orgoglio di menti, attestano pur esse la civillà,
ma rassicurano ed accrescono moltiplicando la forza, e
Toro in esse profuso non si lamenta in alcuna età vicina
0 lontana, ed anzi si raccoglie moltiplicato ogni di.
Tenga il politico sempre presente nell'amministrare le
finanze quel dello di Floro: Opulentia paritura max
egestatem, ossia la povertà essere il fine di male usata
ricchezza. Se antiveggente sapienza non presiede a giusto
impiego deiroro, se meglio si seguono le vanità del po-
polo, che non si odano i consigli dei savii, se adornando
le città, le campagne s*obbliano che sono il principale
stromento di forza e grandezza, germina dairinconsullo
scialacquo la pronta rovina, e
Frangitur ìpsa suis Roma superba bonis.
CAPITOLO XII.
Confronto dei Greci e dei Romani:
effetto delie conquiste macedoniche e delle romane
sulla civiltà mondiale.
Abbiamo ormai presentalo il quadro deWesterna po-
litica degli antichi popoli, segnatamente dei Greci e dei
Romani. Ma pochi scrittori si occuparono delle cose ro-
mane e greche, che non abbiano voluto un parallelo della
sapienza di quei due famosi popoli presentare. V'ha chi
confronta le greche e le romane pive, e gli idillii e le
georgiche, e le ninfe dei fiumi e quelle dei monti, e le
epiche trombe, e Veloquenza del fòro e la filosoQa del
portico, ed i quadri e le statue colla piacevole sequela
d'aneddoti e novelle di cui i Greci hanno dote sì ricca,
ed ognuno deriderebbe udite in piazza, ma tanti ammi-
rano udite in iscuola. Noi ameremmo distinti dapprima
gli scrittori latini dai greci, e fra i greci quelli dell'epoca
della loro indipendenza, e quelli dell'epoca romana, come
Diodoro Siculo, Dionigi d'Alicarnasso, Appiano alessan-
drino, Plutarco, ecc. ; ameremmo distinti quelli che vis-
sero in Grecia, e quelli che abitarono in Roma e nelle
Provincie d'Occidente, quelli che scrissero all'epoca per-
siana trovandosi liberi od essendo servi, e nel tempo del
cristianesimo quelli che gli furono devoli, e quelli che gli
rimasero ostili. Tali distinzioni, sempre trascurate, sono
necessarie per ben comprendere il carallere e calcolare il
t70 PARTE PEIUi
grado di credibilità degli scrittori greci, come è ben ne-
cessario allo scopo di conoscere la storia del medio
evo, di fare le distinzioni stesse quanto agli storici e geo-
grafi dell'islamismo. Ma nel caso attuale facile compito
è il nostro, perchè possiamo appoggiarci al giudizio di
un uomo, che nelle memorie dei secoli fu a nessuno se-
condo per genio ed imprese.
Nei tristi ozii di Sant'Elena cosi definiva Napoleone la
controversia sul merito comparativo dei Greci e dei Ro-
mani: ci Greci ed i Romani (diceva quest'uomo straor-
dinario, che a tutti superiore voleva essere, ed a tutti
superiore si fece) narrarono essi medesimi la loro storia:
devesi diffidare degli uni e degli altri, perchè parlarono
in causa propria. Ma i Greci non conquistarono un palmo
di terreno, ed in gran parte soggiacquero sempre ad estera
sovranità. 1 Romani invece conquistarono tutto il mondo,
ed anche la Grecia. Essi dunque furono più grandi dei
Greci ».
Certamente v*ha bizzarria in si strano giudizio ; ma non-
dimeno vi ha in esso un fondamento di verità. All'aprirsi
della storia vediamo i pochi abitanti di una sola città
lottare fra mille pericoli , gradatamente conquistare 11-
talia» l'Europa ed il mondo, i popoli barbari, ed i
popoli colti, e regnare su tutti. Vediamo invece i Greci
numerosissimi in Asia ed in Europa difendere penosa-
mente la loro indipendenza; troviamo i Greci di Sicilia
frequentemente in estera servitù, e quelli di Asia ridotti
in quasi perpetua servitù straniera. Le più grandi imprese
dei Greci furono operate durante la servitù macedonica,
e non appartengono rigorosamente ai Greci, che in quel-
l'epoca erano dominati dai Macedoni, non altrimenti che
i Macedoni furono poscia dominati dai Romani. .
Napoleone giudicava come voleva essere giudicalo egli
cApnoLO xn. 171
stesso, che tanta parte d'Europa soggiogò. Plutarco nei
paralleli suoi di personaggi greci e romani non offre
elementi a giudizio generale e sicuro. Per le dispara tis-
sime condizioni degli uomini e dei tempi, quelle compa-
razioni sono sovente forzate, troppo imperfette e quasi
fantastiche : tali sono, p. e., i raffronti dei Gracchi con
Agide e Cleomene, di Timbleonte con Paolo Emilio, di
Pirro con Mario, di Pericle con Fabio Massimo (!) : ad
ogni modo da questi sforzi d'ingegno a paragone dei
personaggi discorsi, non si avrebbero argomenti a gene-
rale giudizio sul primato dei Romani o dei Greci. Ma il
politico, in una controversia così vasta, cosi antica, e nei
minuti rapporti inestricabile, porta l'occhio sulle masse,
e per ultimo risultato non sa qual paragone di politica
sapienza vi possa essere fra una nazione che da grande
impiccolisce e serve, ed una nazione che da piccola in-
gigantisce ed impera.
I Romani meno dei Greci ebbero fervido il cuore, alata
la fantasia, entusiastica l'arte: essi, e non i Greci, fu-
rono i veri iconoclasti della storia dei popoli fenicii :
non posero pensiero a conservare l'egizia, l'assira o l'ar-
mena ; fecero anzi per trascuranza od orgoglio degli sto-
rici documenti delle vinte nazioni la stessa distruzione
che per rozzezza e fanatismo operarono nel medio evo
le religioni cristiana ed islamita, entrambe intente ad am-
mutolire ogni storica voce, a schiantare monumenti ed a
togliere prove, perchè ogni memoria avesse dalle sole
bibliche tradizioni nascimento e propagine. Quanto so*
pravvisse al romano diluvio non è dunque pregio latino,
ma greco : i Romani non vantarono la potente scuola
dei matematici greco-alessandrini , e non è onore per
essi, che presaghi non furono di quella inesausta fe-
condità di beni esteriori che è dono delle scienze natu-
172 PiETE PEIHl
rali ed esalte, prodigioso negli effetti oggidì, ma non
scarso nemmeno in antico. I Romani però furono veri uo-
mini di Slato ; ebbero sorprendente esperienza di carriere
nazionali, religione ubbidiente allo Stato, e parte del suo
meccanismo politico ; non una casta sacerdotale ad osta-
colo in Roma, non proselitismo insensato nelle conqui-
state contrade, non intolleranza barbara, non orride de-
vozioni, non fede precipitosa nelle istituzioni che sorgono
sul vuoto di istituzioni demolite, non greca licenza, ma
greca sapienza; ebbero scetticismo d'uomini come Lucre-
zio, come Cicerone; non femminili influenze a governo;
musica, quadri, statue, mosaici, cammei tenuti in pregio,
ma piuttosto greci che romani ; grandi strade, valli smi-
surate, acquedotti magnifici, opere immense di dighe, di
ponti, di acquedotti, di porti ; non ebbero ideologi, non
scuole fllosofiche d'origine latina ; nessuno di quei me-
tafìsici che s'affannano a cavare il sottile dal sottile, in-
segnando ad apprendere con grande fatica il poco od il
nulla. Ebbero invece oratori legali e politici maestri a
tulio il mondo ed a tutte le età, meravigliosa sapienza di
giuristi civili, ma non aforismi di diritto pubblico esterno,
perchè li avrebbero dovuto scrivere anche contro se slessi,
che si sentivano rigoglio di forza, e si facevano unico prin-
cipio ed unica dottrina di essa. Ebbero poca poesia leg-
giadra e quasi tulta d'imitazione, molta poesia satirica,
e questa nazionale, storici illustri, scrittori di agricoltura
nazionali valenti : cercarono con ogni cura e tradussero
anche gli esteri, quelli, p. e., di Magone cartaginese sal-
vati alla presa ed incendio della città. Tentarono con Pli-
nio (1) di scrivere l'enciclopedia delle cognizioni del-
(i) Lo scrittore latino ciie fu sempre meno studiato d^ugni altro, e quasi
mancò di traduttori in Italia, ove le versioni degli altri sommano certamente
a centìnaja, fu appunto Plinio il Vecchio. Eppure si è in questo scrittore che si
CAPITOLO xn. 173
Tepoca, ed uomini come Siila, Cesare, Augusto e Corbu-
Ione dettarono i loropropriicommentarii. I Romani tro-
yarono quasi tutte le fonti di finanza che si applicano
oggidì, verificarono il detto et facete et pati fortia ro-
manum est, ebbero modestia di abitazioni private, fasto
di moli smisurate nei monumenti pubblici anche in città
di terzo ordine come Pompei, come Verona, come Fola,
architetti come Vitruvio, come Cossuzio, che perfino ad
Atene dava al tempio di Giove Olimpico le proporzioni e
forme che lo resero il più magnifico tempio che proba-
bilmente sia slato inalzato giammai. Occuparonsi ad
estendere l'impero, non la mitologia, che le guerre della
Genesi, dell'Alcorano, del Vangelo non entrarono negli
intendimenti di alcun Romano giammai, e tulto ai vinti
trova l'onniscienza delPctà antica, e se uomini non già di coltura letteraria e
lederà, ma tecnica e profonda avessero sottoposto a serio esame i libri di
Plinio, noi probabilmente avremmo bene interpretato anche ciò che .vi è di
oscuro, ed acquistalo cognizioni utili alle arti ed alUndustria, che in alcuni
rami aveva raggiunto un grado di perfezione superiore a quello d'oggidh
Invece noi abbiamo una illuvie, ed anche una contaminazione e bruttura di
versioni e commenti d'altri classici e buoni e mediocri, e prosatori e poeti
d*assai indiretta e perfino di problematica utilità. Cosi abbondano le versioni ita-
liane di Properzio, di Tibullo, di Catullo, di Marziale, di Stazio, di Manilio ecc.
Non dico delle versioni di Virgilio che sono almeno cinquanta , e si molti-
plicano in ciascun anno. Eppure non possiamo astenerci da un riflesso. Il
pregio principale di Virgilio sta nella lingua deliziosa, sta neirarmonia d'un
gorgheggio incantevole ; ma questo pregio non fu reso, e non si può rendere
ton alcuna versione giammai nei grandi poeti, e meno forse in Virgilio che in
altri, perchè l'eccellenza virgiliana è piuttosto d'acustica perfezione che non
d'intellettuale. Noi quindi compassioniamo le lunghe fatiche dei traduttori a si
povero fine condotte. Ed in generale ci accostiamo alPopinione prodotta con si
grande squisitezza di gusto da Cervantes nel capitolo sesto del suo faceto rac-
conto, ove il parroco facendo lo scrutinio dei libri deWingenioso hidalgo, pone
con venerazione sol capo i grandi poeti d'ogni età e paese se li trova neirorigi-
naie loro lingua, e li getta per la finestra nel fuoco che ardeva in cortile se
erano in esemplare tradotto.
Sappiamo che i buoni estimatori ci chiameranno severi : dagli altri saremo
detti burberi. Ma chi non diventerebbe rannuvolato e sdegnoso vedendo TAriosto
si ladramente immascherato da Dacier, e TUgolino di Dante vestito da Truf-
faldino dal famoso Voltaire?
174 PIETE P&11U
lasciavano se ad essi materialmente non giovava rapirlo.
Non avevano sempre parola da rozzi e fieri soldati, ma
anche addolcimenti e lusinghe: assumevano somiglianze
di bontà e virtù: per rovesciare gli Stati gridavano libertà,
poi la estinguevano se rovesciati.
Anche i Romani hanno subito grandi sventure: hanno
sofferto grandi rovesci , hanno dato ostaggi agli Etru-
schi , hanno avuto Brenno in Roma , sono passati
sotto il giogo dei Sanniti, ma sapevano perdurare, aspet-
tare, che è si rara sapienza : erano grandi nella tattica,
grandi nella strategia, ma anche la strategia subordina-
vano alla politica; avevano disciplina d'eserciti severa io
pace, barbara in guerra, e la natura dell'ubbidire negli
eserciti quasi altrettanto generosa come quella del coman-
dare. Tali furono i Romani.
Ma la storia politica conservatrice delle esperienze di
tutte le scienze sociali, non solo ricorda le gesto dei po-
poli antichi , non solo richiede quale fra essi sia stato più
grande , e trova che la Repubblica Tomana ha prodotto
uomini, la cui potenza morale non fu sorpassata giam-
mai, ma cerca nella serie dei fatti polluli di sangue e ri-
lucenti d'incendii, se i medesimi siano stati per ultimo
effetto funesti all'umana coltura, che la sua vita misura
non colla gioja od il pianto d'un tempo o d'un popolo,
ma colla vita dei secoli e colla durata del mondo. Par-
lando della conquista che i Romani fecero della Grecia,
già abbiamo nel testo, e più ancora in una nota, esposto
in parte le nostre idee : vogliamo però aggiungere qual-
che altra considerazione d'ordine sempre più generale.
Noi vorremmo che tutti i paesi di questo pianeta fos-
sero colti e civili, e si traducesse nei fatti la bella mas-
sima di Cicerone negli Officii : Suscipienda bella ^^t
wlum ob eam causarti ut une injuria in pace riDaWr»
CAPITOLO XII. 175
Tutti però lodarono, e nessuno rispettò nell'era antica o
nella moderna ciò che sant'Agostino scriveva nella Città
di Dio : Infette bella finitimis, ac populoi sibi non mo^
lestos sola tegni cupiditate contetete, gtande lattoci-
nium est : il mondo fu dunque sempre bruttato di sangue,
ma vero si è che talvolta fu mezzo di civiltà e progresso
il terrìbile apostolato delle armi. Desolatrice è sempre la
spada se ruotata da ambizione o barbarie la mappa dei
confini politici alternamente disegna e dilacera; è desola-
trice se popolazioni crude ed indomite per natura, per
uso e per concitazione, perpetuano dopo la vittoria la
guerra; è desolatrice se per essa sulle tombe d'un popolo
illustre passeggia trionfante una turba barbarica. Deplo-
rata è la guerra quando le torme dei Barbari invadono
l'impero latino, quando in tante contrade dell'Asia il bra-
minismo immoto e rigido prevale fra orribili stragi al
buddismo politicamente più libero, quando la scimitarra
turchesca conquista la Grecia, quando la spada persiana
signoreggia l'Armenia, quando Venezia combatte per avere
l'esclusivo dominio deir Adriatico, la Turchia per chiudere
il mar Nero, la Danimarca per esigere le gabelle del Sund,
eFOlanda per serrare la Schelda. Ma non è deplorata la
guerra se- le crociate maturano i mezzi coi quali l'Europa
si toglie al tormento feudale, se gli Inglesi invadendo le
Indie insegnano alle vedove a non consumarsi nelle pire
infiammate coi corpi dei mariti, ed alla plebe fanatica a
non precipitarsi sotto le ruote dell'idolo di Giaggrenat,
se vi spengono la tirannide di centinaja di despoti, det-
tano un giusto sistema d'imposte, tolgono i ceppi delle
interne barriere daziarie, stabiliscono la monetazione uni-
forme, salgono i fiumi a ritroso con navi fumiganti di
caligine ondante, volano sulla terra listata di ferro con
anelito di carri fiammanti, e fanno per le elettriche fibre
176 pàbte peimà
una voce, una vita discorrere che distrugge ogni longin-
quità dello spazio, e per gli umani consorzii riduce ad
un sol punto la terra. I beneficii della civiltà sono tal-
volta diffusi col sangue, e sta scritto nel libro misterioso
del fato, che sia impura la fonte da cui la civiltà derivi,
e più largamente si estenda.
Sovveniamoci che senza le conquiste di Semiramide le
sponde delFEufrate e del Tigri non si sarebbero coperte
di quelle magniGche moli, i cui ruderi tuttora degradano
in maestà quanto Tarte ha eretto dipoi. Sovveniamoci
che senza le conquiste del Macedone l'Egitto non avrebbe
vantato la sua Alessandria, né la Mesopotamia la ricca
Seleucia, e le maggiori meraviglie dei monumenti d'Elio-
poli (Baalbec). Alessandro insegnò ai Sogdiani a non uc-
cidere i vecchi parenti, ai Persiani a non prendere in
mogli le madri, agli Sciti ad incendere ed a non divorare
i defunti. Egli sparse in gran parte deirAsia la greca
coltura: per lui si tradussero perfino sulVldaspe i lumi
desunti dall'Attica ; egli riattivò le vie del commercio in-
diano per l'Eritreo e per l'Eufrate ; egli sostituì all'ele-
mento assiro e fenicio ed alla schiavitù delle classi orien-
tali l'elemento greco, e colle lettere anche le idee della
greca libertà.
Allorché i Romani tuttora incolti e feroci opprimevano
nell'esordio dei loro trionfi l'elemento etrusco dell'Italia
centrale, e l'elemento greco di quella del sud , essi re-
trospingevano la civiltà: in appresso educati a mitezza,
e già invasi dagli stessi elementi ed etruschi e greci che
non avevano nei primi conflitti potuto del lutto soffocare
e spegnere, divennero maestri di costumanze migliori ai
popoli di sistema fenicio o di sistema druidico. Essi edu-
carono i Galli a non sacrificare tante vittime umane che
ardevano entro roghi composti a forma di simulacri cor
CAPITOLO xn. 177
lossali, 0 consegnavano a furibonde sacerdotesse. I ca-
nali aperti da Druso e Gorbulone in Germania, ed i loro
argini e dighe insegnarono ai Batavi a conquistare una
patria sulle onde dei fiumi e del mare. £ quando nella
grande unità deirimpero stabilita colle armi potè rapi-
damente diffondersi e consociarsi colla romana sag-
gezza ogni dottrina della greca filosofia, la strada fu
largamente aperta all'adozione del cristianesimo allora
sorgente.
Favoleggiarono i Greci che era armata Minerva, che
Ercole guidava le Muse, che Tasta d'Achille ferendo sa*
nava : essi resero cosi con forme pittoriche oggettivi gli
effetti delle conquiste guerriere sulla barbarie. SI : come
vediamo col volgere degli anni maturarsi la ricca ven-
demmia anche sulle lave che furiosamente tramestate ed
accese in sotterranea fornace traboccano devastando dal
fiammeggiante cratere, cosi ogni volta che la vittoria di-
serta i nocenti manipoli delle rozze tribù, ed incorona i
vessilli di colte ed industri nazioni, vediamo seguire alle
lotte spietate ed alle rapine cruente la prosperità gene-
rale. Né solo sono sciolte le menti, e snebbiati gli intel-
letti al lampo di quelle folgori, ed al tuono delle procelle,
ma la stessa natura tramutasi alFalito delVintelligenza
ispirato, perchè il travaglio assiduo dell'uomo spiana e
compone i suoi campi come edifica le sue città. Anche
la Flora si dilata, si spande ed utilmente si confonde e
moltiplica: distinta dapprima in separate contrade di ve-
getazioni speciali, la Flora distrugge i suoi termini,, di-
larga i suoi campi ed invade quanto lo consente la cli-
matologia del globo, si che il botanico leva sovente il
fortunato lamento ch'ei più non raffigura qual fosse la
vegetazione primitiva. A quest'opera salutare dì migliore
partecipazione delle genti ai tesori vegetali, alla loro
12
178 PiRTE PAIHi
Irasmigrazione ad ogni contrada similare per clima, ha
presieduto in ogni tempo la guerriera Minerva, e furono
indigenatori d'esotiche piante e Lucullo e Pompeo, ed i
Crociati ed i conquistatori d'America, che tutti hanno
distribuito nelle patrie o nelle stranie contrade ad inso-
lite terre i doni di Flora.
Cosi i popoli avanzano perfino cogli strazìi della
guerra nell'esecuzione di un benefico ordinamento che
sovente non hanno concepito. Essi sono gli artefici di
un'opera che non si prefissero a scopo, l'opera della ci-
vilizzazione. Il mondo non la riconosce tra via, e non la
comprende che tardi, quando cioè la medesima si ma-
nifesta negli effetti, e si è fatta gigante. A quest'opera
gloriosa presero una grandissima parte i Romani.
PARTE SECONDA
L'ANTICA FORMA DEL REGGIMENTO DI ROMA.
CAPITOLO L
Il patriziato dì Roma : basi di soa forza
nelle islìtozioni polìtiche e eìyìli.
Nella prima parte di questo nostro lavoro abbiamo
esposto TesterDa storia di Grecia e segnatamente quella
di Roma, in cui le greche famiglie e tutti i popoli più
noti del mondo antico si sono raccolti e confusi sic-
come fiumi nel mare. Ora ci apprestiamo invece a svol-
gere Finterria storia di Roma , l'organismo sociale cioè
dell'eterna città che fu regina di tutte. Vedremo qual era
in origine la natura del governo di essa, quali ne fossero
le basi e la forza : osserveremo poscia il sistema del reg-
gimento romano lentamente modificato per l'opera assi-
dua di riforme legali, e faremo poi grado ad esporre
nella parte terza le violenze sanguinose e ]e lotte civili
che sommersero affatto l'inferma repubblica , e la ri-
dussero a completa soggezione all'imperio d'un solo.
La sola quarta parte dei libri di Tito Livio arrivò sino
a noi, ma quelli che rimangono provano all'evidenza che
se possedessimo tutte le sue istorie, l'amministrazione di
Roma antica, le fasi e le rivoluzioni di essa ci sarebbero
pienamente note. Ma dobbiamo dolerci che la perdita di
una gran parte delle narrazioni di quel vero principe dei
buoni storici civilisti ci abbia sottratto un valido sussidio
agli studii legali e politici. Vi sono concioni in Livio che
182 PiBTE SECONDI
chiaramente presentano il contrasto dei parliti politici
negli argomenti addotti da ciascuno dei capi per soste-
nere od abbattere una riforma proposta, come vi sono
in Tucidide , che nell'uso delle concioni venne da Livio
preso a modello. Ma Tucidide che è pur austero e breve,
non Io fu sempre nelle sue concioni, ed in quella d'elogio
dei soldati uccisi in guerra, ch'egli pone in bocca a Pe-
ricle, fu diffuso di troppo: Livio invece, che è scrittore
più copioso e più largo, fu nelle riferite concioni meglio
assegnato e porco. L'esempio di Tucidide e Livio di ri-
schiarare con introdotte concioni Tinlelligenza di con-
troverse ragioni civili o politiche fu ben imitato da vani
scrittori italiani, p. es. dal Pallavicino e dal Sarpi, i
quali hanno pure offerto in tal modo tutti gli aspetti delle
controversie religioso-politiche, e le passioni della Chiesa
combattuta e difesa. Altri scrittori ne hanno invece deplo-
rabilmente abusato, destinando i discorsi a fasto d'elo-
quenza stucchevole. Ma di quali esempii in ogni tempo
ed in ogni sfera di studii non si è gravemente abusato?
Seguirono alla grandiloquenza di Cicerone le nojose lun-
gaggini di monsignor Della Gasa, e la prosa cortigiana,
arliQziata del Bembo; la concinnità delle Georgiche
ebbe la narcotica sequenza dei poemi didascalici ; tras-
sero dall'inarrivabile grazia del Canzoniere del Petrarca
ì melensi citaristi il loro nauseabondo melume, e dal
Furioso sfavillante d'ogni prestigio fantastico, d'ogni
gemma linguistica, si desunsero insulse leggende di ro-
manzi d'eroi.
Quando con artiGcio mirabile si cominciarono a svol-
gere, interpretare e leggere i carbonizzati papiri di Erco-
lano, si erano concepite grandi speranze di scoperte che
colmassero le lacune di Tito Livio, quelle di Tacito, di
cui una metà è parimenti perduta» quelle di Polibio, di
cimoLO I. 183
cui appena Tottava parie rimane, e di tanti altri scrittori
greci e latini, e fosse cosi più agevole e sicura la cogni-
zione deirinterna ed esterna storia segnatamente di
Roma. L'aspettativa però fu quasi del tutto tradita. Si
ottenne soltanto la conoscenza di frammenti di opere G-
losoGche, specialmente di Filodemo sugli effetti della
mn$ica, sulle virtà e jui vizii, sulla ret lorica e sui so-
fismi^ sul diritto di esternare la propria opinione, sugli
usi degli Dei e su' loro cibi favoriti, di Metrodoro sui
sentimenti, di Polistrato sull'ambizione, sull'onore e sui
riguardi verso le donne, e di Rabirio sulla guerra tra
Cesare ed Antonio, e sulla vittoria di Azio. Non fu-
rono adunque gli sludii da nuove scbperle promossi, ed
ancor devonsi ricercare in ciò che ci resta di Livio, di
Tacito, di Polibio, e così pure di Svetonio, di Appiano,
di Dione Cassio, di Plutarco, di Vellejo, di Floro ecc.,
le desiderate nozioni.
Di grande soccorso però per lo studio del governo di
Roma si è l'attenta lettura del diritto Giustinianeo, per-
chè da essa raccolgonsi nozioni autorevoli e talvolta cer-
tissime prove anche dell'antico diritto, e delle riforme
seguite. Jus civile est quod unaqucBque civitas sibi con-
stituit: le leggi sono il risultalo dei bisogni sentiti dalla
nazione, o piuttosto da chi la rappresenta, e ne esercita
la sovranità; il bisogno è la potenza motrice della legge,
e questa è Tespressione con cui il bisogno si soddisfa. Il
bisogno si identifica nella consuetudine, e la consuetu^
dine si identifica nella legge.
Le leggi organiche d*uno Stato non sono merci che si
vadano a prendere altrove, come i Romani favoleg-
giarono delle loro Dodici Tavole. Queste leggi informi,
queste leggi feroci, che sanzionano Taristocratica disu-
guaglianza delle classi dello Slato, e perfino la domo<
184 PARTE SECONDI
slica aristocrazia, di cui non Y*ha esempio altrove (1),
e che considerano siccome bruto e come cosa durante
la vita del padre il figlio, quando pur fosse imperante
nello Slato, come supporle derivate dalla Grecia, segna-
tamente da Atene democratica, ed a quell'epoca quasi
affatto plebea?
Ma le varie classi sociali, poste fra loro in condizioni
d'ineguaglianza di diritto e di fatto , sentono lo sforzo
all'equilibrio, ed i Romani ne provarono l'effetto per se-
coli intieri, in cui la potenza dei patrizii lottò senza posa
e con sempre decrescente successo contro la plebe, fin-
ché questa raggiunse l'eguaglianza giuridica, che l'opera
delle leggi e del tempo ridusse poscia all'eguaglianza
reale. È della natura delle umane cose che il bisogno
generi i modi con cui soddisfarlo : bastano le vicende
dell'istoria ad illuminarci sulle vicende delle massime
legislative ; basta la serie delle leggi a portar luce sulla
storia.
Fra le tribù, di cui constava originariamente il popolo
di Roma, dei Ramnes cioè, dei Taties e dei Lucerei,
l'una, quella dei Lucerei^ era etrusca. E taluno fra i re
di Roma proveniva da stirpe etrusca o greca. E se anche
non vuoisi convenire con Niebuhr nel riconoscere l'as-
soluta influenza della civilizzazione etrusca sullo sviluppo
dello slato sociale di Roma, devesi almeno ammettere
che la classe patrizia aveva cognizioni etrusche e greche.
La forma sagacissima dei romani comizii cenluriati, in
cui era volo potente in diritto quello soltanto che, ap-
poggiato alla prevalenza delle fortune, sarebbe stato mai
sempre influente o come voto, o come consiglio, o come
(1) Giustiniano nelle Istituzioni dice apertamente: Nulli alii iunt homineSf
qui talem in liberos habeani potestatem, qualem nos habemus. Eppure la pallia
podestà era, a queirepoca, già diminuita moltissimo.
CAPITOLO I. 185
mìoaccìa» dimostra che ancor prima delle Dodici Tavole
il sistema di Roma era molto sapientemente inteso.
Il difetto che Plinio il giovane avverte come inerente
ai pubblici giudicati: Numerantur sententiw^ non pon-
derantur, nec aliud in publico comilto fieri potest, in
quo nihil est tara incBqnale quam dequalitas ipsa, nam
ciétn $it impar prvdenlia par omnium jus est; questo
difetto che fino ai nostri giorni equiparò nei valori dei
voli dietali in modo così assurdo i minimi ed i massimi
cantoni di Svizzera, comitati d'Ungheria o borghi d'In-
ghilterra ; quella fallace dottrina insomma che concede
in ogni sfera di decisioni sociali autorità al numero sugli
argomenti di ragione, di politica e scienza che impon-
derabili sono, non esisteva nel sistema delle romane
centurie: il voto era virile in ciascuna, ma ogni centuria,
rispetto all'altra, aveva un voto ponderato (1). Siccome
pel diverso ammontare della cifra censuaria il cittadino
di Roma apparteneva piuttosto ad una centuria che al-
l'altra, cosi tutte le centurie constavano d'un numero
ben differente di cittadini ; e mentre ogni padre di fami-
glia era ammesso a votare, dieci ricchi avevano un voto
più potente che non mille proletarii {proletarii seu ca-
pite censi). Questo è il perpetuo destino dei poveri: ep-
pure in ogni Stato sono i poveri che rifondono le popo-
lazioni, che producono nei campi e nei telai le sussistenze
e le comodità, che formano i quadri degli eserciti, e che
vincono le battaglie!
Ma le leggi delle Dodici Tavole (benché emanate per
acchetare i clamori del popolo, che domandava qualche
garanzia contro lo sfrenato abuso del potere, e contro la
(1) Cicerone, cosi aderente al sistema patrizio, spiega quest'idea colla frase
più CiTorevole : h valebat in suffragio plurimum, cui plurimum intererat
esu in oplimo statu civilalem. (Uè Republica),
186 PiRTE SECOr^Dl
privata violenza) conservarono ai patrizii Vautorità che
godevano amplissima. Romanorum legislator, così Dio-
nigi d'Alicarnasso nel libro li delle Storie, omnempote-
statem patri dedit infiUum^ idque tota vitx tempore, sivc
in carcererà eum mittere, iive flagris cadere, sive ne-
care libeat: permisit etiam vendere filium. Quindi Va-
lerio Massimo (VII, 7, 5) non impropriamente denomina
la patria podestà patria inajesta$ , Seneca nel secondo
dette controversie chiama il padre judex domesticu$, e nel
terzo dei benefizii lo chiama domesticu$ magistratm ,
e Svetonio nella vita di Claudio lo dice censar filii. 1
figli rapporto agli altri uomini erano persone ; rapporto
a Roma erano cittadini; rapporto al padre erano schiavi
0 cose. L'età pubere o maggiorenne scioglieva dalla po-
destà tutoria e dalla curatorìa, ma rapporto alla patria
podestà, il figlio non era mai maggiorenne, e questa pò-
desta si esercitava indiminuila anche sui figli dei figli-
Foss'anche console, il figlio soggiaceva all'immane auto-
rità paterna, e fu solo assai tardi, nella Roma imperiale,
che il console, prefetto del Pretorio, vescovo, ecc. fu fi-
nalmente sottratto a quel potere dispotico.
Statuivano le Dodici Tavole con militare barbarie, che
i figli monstruosi vel prodigiosi fossero subito ammazzati,
statim necato: statuivano la perfetta schiavitù dei figli)
liberis jus vitce^ necis, venundandique potestas patri
esto; e se il figlio venduto veniva dal padrone dichiarato
liberto, egli ricadeva nella domestica schiavitù, e solo si
pater filium ter venundavit, filius a patre liber esto:
statuivano che connubii non vi fossero tra patrizii e pie-
bei, patribus cum plebe connubii jus nec esto. Questi*
erano le belle leggi derivate dalla Grecia, segnatamente
da Atene, al tempo di Pericle! Non senza bile di par-
tito Cicerone patrizio^ nel trattato De Oratore loda si
CÀPiTOU) I. 187
altamente le Dodici Tavole: Incredibile enim est^ quam
sit omne ju$ civile^ prmter hoc nostrum, inconditum et
pene ridiculum.
Mentre sancivasi nella famiglia quest'impero paterno
di cui gli scrittori sovente ci rammentano anche il deplo*
rabile esercizio (1), la condizione dei padri nel gius pub-
blico si assicurava contro la violenza. La diminuito car-
pitisi 0 la perdita dei diritti di famiglia, di città e di vita,
non poteva seguire se non dietro decreto della nazionale
assemblea o delle radunate centurie: De capile civis nisi
per maximum comitiatum ne ferunto. Al solo giurì
massimo della nazione era riservata la facoltà di torre
ad un cittadino la vita, di privarlo della patria podestà,
0 di pronunciare contro di lui l'ostracismo, ossia l'esilio,
della qual pena poteva nascere abuso gravissimo per
cause pubbliche, se una semplice misura esecutiva dei
magistrati l'avesse potuta infliggere.
Ma anche queste leggi non avevano tutela, perchè per
lungo tempo le forze patrizie soperchiarono. I patrizii
uccisero Siccio Dentato, l'Ajace romano, e Saturnino e
Melio, ed i Gracchi e Clodio, ed i Catilinarii col col-
tello, e non col decreto centuriale, che a quei tempi forse
non avrebbero più ottenuto. Tutti quei monarchi, che
mai non mancano alla plebe, furono uccisi per nuda
forza. Il Senato aveva ottenuto l'intento, quantunque Tas-
sassino alcune volte venisse condannato dalle adunate
centurie: il secondo fatto spiaceva, ma sostanzialmente
non ledeva il Senato ; il primo lo consolidava al potere :
esso uccideva quindi il demagogo, concedeva poi la per*
(i) Vediamo in Quintiliano (Declam. Ili) un Fabio Eburno condannare a
morte suo figlio, in Valerio Massimo (V, 8) Tuccisione del figlio Scauro, in
Sallustio (De bello CatiL, XXXI) quella del figlio Fulvio, ed in Seneca (De C/em.»
I) 15) Tesempio di Tito Azio, che esiliava suo figlio.
188 PA&TE SECONDI
dila delVesecutore. Ed i magistrati palrizii , finché nei
patrìzii vi fu forza più che non ve ne fosse nei tribuni,
seppero distinguere fra la perdita della città, che non
potevasi imporre se non per decreto centuriale, e Vin-
terdizione delV acqua e del fuoco, che poteva essere mi-
sura semplicemente esecutiva, e forzava ad esiliarsi
spontaneamente chi ne era colpito (1).
Quanto il diritto Soloniano varia dalle leggi delle Dodici
Tavole, che in esso si dissero attinte I A quello la schia-
vitù di famiglia è ignota (Dionigi d'Alic, lib. II, com.
de patria potestate), ed era tale l'eguaglianza giuridica
fra i cittadini in Atene, che la democrazia tosto si ridusse
per Tusurpazìone di Pisistrato all'assoluta monarchia,
passaggio che facilmente avviene ove l'eguaglianza delle
classi sociali siasi raggiunta. Noi lo vediamo nella romana
repubblica sotto Cesare, e nella francese sotto Napoleone.
La legislazione civile non soffre quasi alterazione allorché
la democrazia pura si muta in pura monarchia : la per-
fetta forma monarchica può racchiudere in se medesima
la civile eguaglianza, non altrimenti che la democratica.
11 passaggio fra queste forme di governo può quindi es-
sere calmo ; il passaggio dalla pura democrazia, o dalla
pura monarchia all'aristocrazia, è sempre sanguinoso e
fatale. Trapassando dalla forma democratica alla monar-
chica le masse non sono necessariamente lese nei loro
interessi, stato di famiglia, eguaglianza di diritto e pro-
prietà. Facile si è quindi nelle repubbliche ad un soldato
la monarchica usurpazione, specialmente se dopo lunghe
agitazioni e disastri egli promette ai popoli protezione e
tranquillità. I singoli, onde le masse risultano, non
(1) V ostracismo di Atene e di Siracusa, ed il discolalo della repubblica di
Lucca, si applicavano per legge, e non già per decreto del polere esecutivo.
CAPITOLO I. 189
hanno interessi si forti, che li muovano a porre sul campo
dell'opposizione la proprietà e la vita.
Le leggi delle Dodici Tavole presentate dai Decemviri,
magistrati che, pel testimonio di Tito Livio, sappiamo
essere stati tutti di itirpe patrizia, furono una semplice
dichiarazione dell'esistente patriziato.
Piuttosto che ricevere le leggi dei Greci, i Romani in
uno stato civile talmente diverso in allora da quello dei
Greci avrebbero tolto di vita siccome ribelle chi le propo-
neva. Questi non trovava nel popolo potenza politica a
sua difesa, e la trovava invece nella classe che egli chia-
mava alla caduta. Lo scita Ànacarsi propose alla sua pa-
tria, ritornando dalla Grecia, le leggi greche : gli aristo-
crati del suo paese immolarono quelFincauto, che mi-
nacciavali nel loro possesso. L'eguaglianza civile non può
precedere l'eguaglianza politica (1).
Da venti secoli la storia del diritto romano si identiQca
a quella della civiltà e dello stato sociale dei popoli. Può
però ridursi l'abisso delle leggi organiche, le quali sta-
tuironsi in questi secoli, a breve quadro secondo viste
sintetiche ed universali. All'incontro le vicende dei secoli
moderni sono molto più difficili a riassumersi, che non
quelle dei secoli antichi, perchè oggigiorno non uno
(1) Queste massime sulla genesi natarale della legislazione avrebbero dovuto
sconsigliare Mably dairinlraprendere nel 1771 Tinutile suo lavoro d'una costi-
tuzione per la Polonia, in cui raccolse una quantità di norme greche e romane
infinitamente remote dalle condizioni aristocratiche, e peggio che Tendali, che
in quel tempo la Polonia aveva. Anche Rousseau volle in allora proporre una
serie di leggi fondamentali per la Polonia, e meglio di Mably contemplandone
le circostanze, parti dalle basi di fatto, e studiò di ridurre a feudalismo tran-
quillo quel feudalismo turbolento : anche il suo lavoro a nulla giovò. Non vol-
lero i nobili né accordare un esercito permanente, né munire fortezze, temendo
che il re potesse abusare della potenza cresciutagli : vollero poi conservare il
principio della corona elettiva per rivedere, ed all'uopo distruggere neirinter-
regno la legislazione reale, ed ogni legge famigliare e civile vollero confer-
mativa e non già dissolutiva dell'aristocrazia esistente.
190 PIETB BECOIVDl
solo è il campo, siccome in Roma, ma sono tanti quanti
sono i regni e le provincie ; e perchè una classe, una
podestà, una forza nuova, Tecclesiastica cioè, altera ed
avviluppa il movimento politico, che era più semplice in
antico, giacché non constava se non dalPurto nobile e
popolare. L'essere molli i campi e non un solo, rende
più diffusa, e per le vicendevoli influenze riduce anche
più complicata la trattazione : l'accostarsi poi di questa
nuova férza, l'ecclesiastica, potente di gerarchia, di im-
munità, di possessi, che in ogni Stato si ramifica, e, senza
mai identificarsi pienamente al sistema civile, varia più
0 meno dal medesimo , ed ha forme e relazioni e leggi
proprie, rende la moderna trattazione, che pur è evidente
in ogni fatto singolo, nell'enorme serie dei fatti, un labi-
rinto quasi inestricabile. Perfino le opere storiche e po-
litiche di Machiavelli lasciano da questo lato moltissimo
a desiderare, perchè egli pure assai di rado ed appena
per incidenza contempla l'azione del potere sacerdotale
sulle politiche società de' suoi tempi in confronto all'or-
ganismo più semplice delle repubbliche antiche (4). --^M
I patrizii di Roma tendevano alla conservazione dei
diritti : la plebe, all'acquisto dei diritti medesimi. Questa
divisione del popolo è rappresentata anche dalla mitolo-
gia, cui Vico con acutissimo ingegno dimostrò non es-
sere se non una rappresentazione dello statò civile delle
prime società. Gli Dei sono in essa varii di potenza e pre-
sidi di varie classi umane ; Dii minorum gentium, Dii
majorum gentium. Il moto necessario delle varie classi
(1) In Roma non esistevano mani mùrte^ o corporazioni religiose, come negli
Stati moderni : gli Dei non potevano essere istituiti eredi (Ulpiano, framm. XXI):
però Teruditissimo Eineccio dimostra che i romani imperatori fecero qualche
eccezione a questa massima riguardo a Giove Tarpeo, a Diana Efesia, od Er-
Mò Gaditano, ecc. I tempii, le poche Vestali, ecc. erano a carico del pubblico
erario.
CAPITOLO I. 191
sociali, ciascuna tendente alla conservazione od acquisto
di facoltà 0 diritti, è determinato dal Fato. Questo ente
astratto è superiore ad ogni forza : gli Dei, simbolo dei
patrizii, presiedono alla società, ma non la reggono in
modo assoluto» perchè il bisogno animatore di legge, con
altro nome il Fato, è ancora più potente di loro, ed im-
prime vita e movimento a quella società, che altrimenti
dovrebbe reggersi perpetuamente ad un modo.
La legge impediente i matrimoni! fra le classi diverse
è legge fondamentale di queste società patrizie e plebee.
Cosi si impedisce raccomunarsi degli interessi fra classi,
la cui necessaria opposizione è nel sistema delle stesse
società. Questa legge ò di ordine pubblico : quando dovrà
abrogarsi, lo stato civile della nazione rapidamente si
altererà.
La legge è Fespressione dello stato civile : dove lo stato
civile è il medesimo, si ha la legge stessa. Il sistema in*
diano è basato sulla diversità delle classi : perchè una
classe non divenga assorbente dell'altra, tutte devono te-
nersi distinte. Infatti il codice religioso delle caste indiane
[Lois de Manou, ossia il ManavorOharmorSastra) con-
danna i matrimonii fra classi diverse. L'ordinaria san*
zione è la perdita dello stato civile, ossia la relegazione
del marito nella classe inferiore, a cui appartenesse la
sposa.
La romana aristocrazia fu aristocrazia politica e do-
mestica^ siccome vedemmo. Ma essa fu ancora censuaria
0 timocratica. Pei tanti elementi di forza questa romana
aristocrazia, quantunque per molti secoli senza armi
mercenarie e senza inquisitori, ebbe nondimeno grande
saldezza. Un determinato censo sollevava il cittadino al-
Tordine equestre, che insignito di privilegi grandissimi,
formava un corpo intermedio fra l'ordine senatorio e la
192 PARTE SECONDI
plebe, e certa misura di censo era richiesta perchè il pa-
trizio 0 cavaliere potesse venire annoverato alFordine
senatorio. La perdita del censo importava la perdita della
dignità politica.
E poiché il censo o la ricchezza valeva al cambiamento
dello stato politico, in nessun'altra nazione doveva es-
sere maggiore Tordine domestico e la frugalità. Quando
l'intero sistema si sciolse, allora proruppe il lusso il più
sfrenato.
Il censo romano era affidato ad una permanente ma-
gistratura, rinnovavasi a brevi intervalli, e serviva di base
non solo. al sistema economico, ma all'intero sistema po-
litico della repubblica : populut romanus relatus in ceri-
sum, digestus in classes, curiis atque coUegiis distribu-
tùSf ut omnia patrimonii, dignitatii, (Btatis, artium,
of^ciorumque discrimina in tabulas referrerentur, ac
$i maxima civitas minima domus diligentia contineretur
(Floro, I, e. 6). Non ci è noto con quale arte ammini-
strativa questo censo si reggesse. Le moderne nazioni, per
quanto i pubblicisti vi abbiano collocato di studio, ed i
governi abbiano offerto di mezzi, non inai pervennero a
stabilire un censo, che all'universalità dei beni si esten-
desse. Pure i Romani ebbero un tale censo, che intieri
secoli governò la repubblica, e quando pure si voglia
credere che non fosse imperfetto, sempre indurrebbe a
meraviglia.
La romana aristocrazia, oltre l'essere gentilizia, do-
mestica e censuaria, oltre l'essere estintiva od ammor-
tizzalrice dei demagoghi democratici, col lasciar l'adilo
ai migliori del popolo a più alta dignità (siccome più tardi
si vide in Genova l'ammessa ascrizione al libro d'oro di
famiglie plebee), era altresì aristocrazia elettiva. Non
tutti i palrizii erano senatori, ma quelli soli avenlj censo
CAPITOLO I. 193
senatorio potevano esserlo ; né lutti i patrizii aventi cerno
tenatorio erano senatori ex jure, ma potevano diven-
tare. Cosi il Divano di Moldavia e quello di Valacchia
non si componeva di tutti i bojari dei Principati, ma sol-
tanto di certo numero di bojari eletti ; e cosi pure non
tutti i pari d'Irlanda o di Scozia siedono nel Parlamento
inglese, ma quelli soltanto che a preferenza degli altri
si scelgono nell'Irlanda a vita, e nella Scozia a tempo.
In generale è vantaggiosa la scelta, perchè questa in
via ordinaria cade su chi ha speciali prerogative di in-
gegno, di opulenza o di operosità, e dà quindi al corpo
degli eletti forza morale di sapienza e d'energia, ed anche
forza fisica, perchè gli eletti rappresentano appunto il
numero degli elettori, ossia quello dei voli che riunironsi
per alcun titolo a favor loro.
La trattazione degli affari era pubblica (1) ; ma finché
i patrizii furono forti, davansi dai Romani a viva voce i
suffragi. Il secreto scrutinio non fu ammesso che tardi.
È meraviglia come taluno sappia intendere a rovescio
ogni civile istituzione. Fu scritto fra noi, che lo scrutinio
pubblico si era un'ottima legge di quella pura democra-
zia, perchè i cittadini savii potevano illuminare gli
ignoranti, e perchè il popolo romano fu nei primi secoli
di tale indole, che volentieri arrendevasi ai consigli
di uomini pregiati. Quale si fosse l'indole e la morale
del popolo romano, anche nei primi tempi della repub-
blica, si può desumere da cento passi della storia, e spe-
cialmente dal capitolo XXXVI del libro IH di Livio, che ha
(1) Wamk5DÌg (Hièioire du Droit fìomain) scrisse il seguente passo, che
è troppo futile e ridicolo: L'inverno di Roma era rare volle rigoroso. Questa
rireostanza ci spiega h grande pubblicilà di tutti gli affari politici : tutto
si trattava alFaria libera (in foro), o in templi aperti. Si soffrivano forse in
Venezia — 30» Réausiur quando vi era il segreto del Consiglio dei Dieci e
degli Inquisitori T
13
194 PARTE SECONDI
per titolo: Populus romanus judex sumtusinter Ardea-
te$ atque Aricinog de ambiguo agro cerlantes, Scaptio
quodam auctore, eundem agrum sibi [cede adjudicat(i).
A fronte d'esempio cosi pravo e pubblico siamo tentali a
credere anomalie in Roma quel Fabrizio indifferente ai
doni di Pirro, e quel Curio insensibile all'oro sannìtico,
od a veder anzi negli antichi Romani i degni antenati di
quelli, dei quali un giorno Tacito doveva scrivere: rap-
tores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terree,
et mare Hcrutantur: si locuples hostis e$t, avari; sipavr
per, ambitioii ; quo8 non Oriens, non Occidens mliave-^
rit: ioli omnium opes atque inopiam pari affeetu conr
cupiscunt:... ubi solittidinem faciunt^pacem appellante
Ma la legge dello scrutinio pubblico è legge eminente-
mente aristocratica. È cosa innocua pel signore che il
servo abbia il voto, se questi lo deve dare pubblicamente,
a fronte cioè del signore, che può arrecargli un danno
assai maggiore del bene che ridonderebbe al povero dal
voto emesso. Ren lo sanno tutte le nazioni odierne, al-
meno tutte le persone versate nelle cose pubbliche : le
Camere nobili o quasi feudali d'oggidì considerano sic-
come pericolosa la proposta del volo segreto. Gli alfiUa-
juoli dei fondi in Inghilterra ottennero il diritto attivo
d'elezione dei membri al Parlamento : essi però non rap-
presentano in massa se non l'interesse del proprietario
territoriale, che può cacciarli dal fondo. E su princi-
pii identici riposa la massima deirincompatibililÀ di un
ufficio dipendente dal potere esecutivo colla partecipa-
zione al corpo legislativo: nessuno dovrebbe ad un tempo
(i) Fu preparata in allora pel diritto romano quella massima che ia i^sso
venne inserita di poi , Stari debei gententioi arbitri qiiqm de re dixfrit sive
requa, sive iniqua ?
CAPITOLO I. 195
essere suddito ed imperante, agente e controllore delle
proprie azioni.
Reggevasi dunque Roma, come vedemmo, con sistema
patrìzio. Ma a Roma, come a Genova nella moderna età,
non era chiusa al plebeo ogni via ad uscire dalla sua con-
dizione inferiore, ed elevarsi alla classe imperante: quindi
ni!!lla romana aristocrazia e nella genovese era inces*
sante Tagitarsi delle plebi, perpetuo il moto d'ascensione
verso la classe imperante, la reazione legale od illegale
di questa, e l'urto d'entrambe. Né in Roma, né in Genova
era assolutamente chiuso il libro d'oro ; ma come indurre
i già privilegiati a fare altri partecipi del privilegio loro,
specialmente negli Stali in cui mancando su tale oggetto
le leggi organiche, l'ascrizione dipende dal voto della
nobile assemblea? L'attrito continuo fra i varii ceti sociali
si è per verità una potente palestra, in cui si formano gli
uomini di Stato, ma il disordine e la rivolta stanno sem-
pre sulla soglia. Nò mai una pura aristocrazia può reg-
gersi col principio della moderazione raccomandato da
Montesquieu, giacché l'idea di aristocrazia contrasta as-
solutamente coU'idea di moderazione. L'aristocrazia ha
per base necessaria alla sua esistenza la diseguaglianza
sociale, e per requisiti necessarii alla sua durata l'esclu-
sione dei non privilegiati dalle grandi cariche civili e mi-
litari, il possesso dei latifondi, l'istruzione massima nel
celo imperante e minima nel celo serviente, la giurisdi-
zione nobile, ed altre norme troppo discordi dalla gene-
rale utilità, e quindi perpetuo fomite di reazione. Negli
Stati che hanno una forma di governo monarchico pura,
appena può dirsi nel senso politico che esista la nobiltà;
perché il gius di conferirla, di riconoscerla e di toglierla
iN esercitato dal principe, e la nobiltà , se anche é in-
signita d'effettivi privilegi, ne fruisce in via precaria
196 PARTE SECONDA
e di grazia. E v' hanno Stati oionarcbìci, nei quali vera-
mente la nobiltà non si trova: alla Cina, per esera-
pio, non forma ceto, né è successoria, ma personale.
Essa consegue agli incarichi di pubblico funzionario : si
confonde quindi col pubblico servigio, ed è proporzio-
nale al grado della conseguita dignità militare o civile.
Anche nelle Russie il pubblico servigio è la fonte della
nobiltà: questa passa nei discendenti per qualche grado,
e cessa se con nuovi servigi non si rinnova. A diffe-
renza invece di Roma e di Genova, il libro d'oro a Vene-
nezia era chiuso, e l'azione perpetuamente repressiva
delle classi suddite era affidata ad una magistratura ec-
cezionale, che in Roma mancava, cioè agli Inquisitori di
Stalo, triumvirato terribile tenente il coltello. E v'era cer-
tamente in Venezia il coltello : ogni aristocrazia lo ha, e
l'adopera. Agli Efori poi di Sparta e di Venezia (Consiglio
dei Dieci ed Inquisitori di Stato) non competeva la sola
autorità vigilatrice, ma quella altresì di giudizio e con-
danna, laddove gli Efori di Genova (con mitezza di nome
chiamati Censori) non avevano se non la facoltà di invi-
gilare, e di proporre l'accusa. Ma non crederemo di leggieri
che il coltello degli Efori veneziani si sia insanguinato di
colpi si frequenti come molte volte fu scritto. Al ca-
dere dello scorso secolo l'innocente Repubblica veniva uc-
cisa; si doveva darle una tomba d'infamia; si dovevano
narrare al mondo le sue iniquità : l'averla spenta doveva
essere un trionfo del progresso mondiale. Apparvero le
più strane leggende, e ne furono popolatele scene: nar-
raronsi nefandità e misteri : nessuno chiedeva come gli
incriminati segreti fossero divenuti palesi. E forse il pa-
triziato di Venezia si involgeva a bello studio di tenebre,
nutriva il sospetto, la diffidenza, il terrore, spargeva la
credenza dell'onniveggenza dei triumviri e dell'implaca-
CAPITOLO I. 197
bile loro ferire. Cosi non cadeva neiranimo d'alcuno di
fare novità, ed i pensieri erano senza voce, o la voce senza
grido, e Venezia poteva essere più umana, avendo nella
tema di tutti una salvaguardia di più.
Mancava però alla veneta aristocrazia Tislituzione cen-
soria, che era inerente alla romana. Mediante questa
istituzione il patriziato di Venezia avrebbe avuto più
salde radici, perchè non si sarebbe solamente fondato
sul privilegio gentilizio, ma avrebbe avuto l'appoggio
costante della ricchezza, che è tanta base di forza. E
poiché il perdere la ricchezza sarebbe stato un perdere
il privilegio aristocratico, cosi si sarebbe introdotto nelle
famìglie patrizie buon ordine ed anche frugalità, né vi
sarebbe stata nel Maggior Consiglio quella riunione di
doviziosa e di povera nobiltà, ove si insinua si facilmente
il broglio, e fondasi l'oligarchia. Questo difetto, che fu
sempre grave in Venezia, si rese gravissimo allorché per
l'acquisto di tanti territorii nella terraferma italiana la
privilegiata aristocrazia di Venezia ebbe a sostenersi in
impero non solo rimpelto al popolo della propria città,
ma a tutte le masse popolari e nobili di vaste e dovi-
ziose Provincie. Cosi la stessa invariabilità del governo
di Venezia produceva una mutazione insensibile e sem-
pre crescente nella natura e nella forza di esso. Colla
serrata del Maggior Consiglio sorse essenzialmente
Taristocrazia, ossia la dominazione privilegiata ed ere-
ditaria: di fatto però, e pel primo momento il privilegio
di centinaja di famiglie potenti in una sola città dava al
governo la quasi equivalenza d'una forma popolare:
estinguendosi in progresso di tempo molte famiglie pri-
vilegiate, impoverendosi altre, acquistando ricchezza
varie fra le plebee, e soprattutto dilatandosi lo Stato su
vaste Provincie, quel governo assunse evidenza e carat-
193 PARTE SEGO.NOi
lere non solo di rigorosa aristocrazia» ma perfino d*oli-
garchia» che le poche ascrizioni di nuove famiglie al pa-
triziato di quando in quando seguite non valsero ad
escludere, e nemmeno a mitigare.
Vi è una materia di legislazione, quella deiracfo^ion^,
che in ogni governo aristocratico assume speciale impor-
tanza, disputandosi suirammelterla o no, ed in caso af-
fermativo se e quando abbia a concedersi che Tadottato
muti di stato non solamente civile, ma anche politico.
Questa materia presso i Romani ha quindi formalo uno
dei più complicati argomenti e delle parli più artificiose
della loro legislazione. I Romani la trattarono sotto i due
aspetti di semplice adozione o di arrogazione ; invece
lo statuto veneto tacque intieramente. E noi crediamo
che peivatti di adozione la persona in Venezia non va-
riasse giammai di stato politico ; in ogni caso la mula-
mm non avrebbe potuto effettuarsi che per legge spe-
ciale , e quindi colle restrizioni e cautele che fossero
state nei singoU casi trovate convenienti dairimperanle
aristocrazia.
Venezia aveva riunito nelle più importanti elezioni i
due sistemi dei voli pubblici e dei segreti, e vi aveva
ancora a^iunlo la sorte. Ouest'ultima istituzione, che
mancava alla romana repubblica, è una potente bar-
riera contro la corruzione e le cabale^ poiché i candidali,
OTe al sistema dello scrutinio pubblico sia aggiunto uno
sorutinio segreto^ e fra i proposti si esfaragga a sorte,
e fra i sortiti si faccia luogo a scrutinio nuovo, meno
corrivi son certo a profondere molt'oro per un esito as-
sai dubbioso. La sorte e gli Inquisitori furono per Vene-
zia, prima che tulio si sfasciasse lo Stato, una gran
barriera contro le cabale dei candidali. In Roma proruf)-
pero apertamente senza che verun freno si opponesse.
CAPITOLO n.
Gli esfrali ronani eoHsiderati in it stessi,
ed io conformila al sistema di governo.
Vedemmo qual era il sistema del governo di Roma, e
quali fossero nell'ordine civile e politico gli elementi di
sua forza. Ma se la vera essenza del governo, se la base
di sua saldezza deve appunto trovarsi negli elementi di
forza, e fra questi vi è principalmente l'esercito, comefor-
mavasi, come reggevasi la forza militare di Roma, e come
la medesima non rovesciò subitamente il sistema patrizio
per inalzare coi soldati e col popolo la democrazia d'un
giorno, e quindi uno stabile governo assoluto?
Negli Stali odierni vi ha un elemento di forza materiale
indipendente dal civile possesso, quella cioè degli ordinati
eserciti. Questa forza, che trovasi nelle mani del potere
esecutivo, dà un'immensa preponderanza a chi la regge,
tanto più se l'imperante militare si associa ad un par-
tito per dare la stretta ad un altro. Poco salde e quasi
precarie sono quindi ai di nostri le forme miste dì
governo, perchè il potere esecutivo, reggendo le armi,
regge lo Slato. E più deboli sono dove per- la lunga
durata del servizio militare molti fra i sudditi si spo-
gliano delle abitudini di cittadino e si affigliano all'e-
sercito, dove il sistema di centralizzazione è grande , e
numerosissimi sono i pubblici funzionarli, dove iì paese
è più facile a percorrersi cogli eserciti, dove alle truppe
300 riRTB SECONDA
indigene si aggiungono le forestiere, dove si hanno co-
lonie, stazioni militari o magistrature civili da coprirsi
opportunamente con individui , o con truppe allonta-
nate in tal modo dal centro. Né in generale gli Stali
continentali possono nell'attuale sistema d'equilibrio
europeo mancare d'un esercito valido a contrapporsi
agli esteri, e mentre la potenza esecutiva si è elemento
necessario d'ogni forma di governo, non si può forse
concepire nei casi reali e concreti l'esistenza di una forza
vincolata. In mano di chi trovavasi dunque la forza di
Roma? Chi era investilo del potere esecutivo?
La forza trovavasi appunto in mano dei patrizii, che
avevano il civile possesso, l'opulenza ed i servi. Roma
nei primi tempi non aveva un esercito permanente.
Nelle guerre i cittadini si armavano sotto la con-
dotta dei consoli, da essi medesimi eletti a quel grado,
cui era inerente Tautorità sull'esercito radunato alla
guerra. Ma il popolo era appunto l'esercito, ed era quasi
incessante la guerra; quindi l'elezione difficilmente po-
teva cadere su persona inetta, e che non avesse già
dato buone prove di sé. Ogni Romano infatti nel de-
porre il suo voto per la scelta del console, ossia pel fu-
turo suo generale in battaglia, poteva giustificare quel
voto pel suo candidalo cosi: me saucium recreavit, me
prxda donavit, hoc duce castra cepimus, signa conUé-
limus, nunquam iste plus militi laboris imposuit quam
sibi sumpsit; ipse quum fortiSy lum etiam fetix (Cic,
prò Murena). Cosi confidenti nel console, già loro com-
militone, i cittadini marciavano, ma non avevano inte-
ressi da soldato, bensì conservavano gli interessi da cit-
tadini. Durante la pace non vi era esercito: da principio
le legioni non erano stipendiate neppure in campo, anzi
non erano neppure approvvigionale dall'erario: passalo
CAPITOLO li. f 201
il bisogno erano disciolle, come si sciolgono gli equi-
paggi delle flolte inglesi quando scade il tempo della ferma
dei marinai, e cessa l'ammiraglio dal comando d'una
flotta per varii anni guidata. Nemmeno si conservavano
i gradi nelle legioni ottenuti: quando si raccoglieva
nuovamente un esercito, chi aveva servito in un grado,
p. es. come centurione o primi pilo , non aveva pre-
ciso diritto a ritornare a quel grado, ma ogni ufficio mi-
nore si dava dal console, che certamente aveva il mas-
simo interesse di ben conferirlo. Vediamo infatti in Tito
Livio, lib. XLII, cap. XLII, l'interessante discorso del
centurione Spurio Ligustino tenuto al rompersi della
guerra contro di Perseo per animare col proprio esempio
i commilitoni suoi delle passate campagne a desistere dalla
pretesa di non servire nella nuova guerra in grado infe-
riore a quello precedentemente coperto. E tutta la storia
della romana repubblica ci offre a dovizie i più nobili esem-
pii di cittadini che servivano nei gradi secondi dopo di
avere luminosamente comandato nei primi : cosi Servilio
console diventò l'anno dopo luogotenente di Valerio ,
Fabio dopo tanti trionfi servi sotto suo figlio, Flaminino
vincitore del re di Macedonia discese a tribuno militare,
e Scipione il Grande dopo d'aver vinto Annibale ubbidì
a suo fratello nella guerra contro Antioco. Tanto meno
adunque per le classi inferiori del popolo la milizia era
una professione ordinata di gradi e di lucri, mentre
negli eserciti odierni lo è: l'interesse del milite romano
si trovava in Roma, e non nel campo.
Nessun cittadino di Roma poteva essere eletto a
magistrato se non aveva servito almeno dieci anni in
guerra ; ai posti primarii nominava il popolo diviso per
uirie; la metà dei tribuni militari si sceglieva frai cit-
tadini che avessero servito per dieci anni nella cavai-
202 PARTE SECONDA
leria, o per sedici neìVinfanleria ; le armi d'esercitazione
erano il doppio pesanti che non le armi di guerra ; si
fortificava ogni sera il campo per evitare notturna sor-
presa; si destinavano due capitani ad ogni drappello,
onde mai non restasse senza guida: la disciplina, l'emu-
lazione e l'orgoglio non potevano allentarsi o decrescere
in un esercito composto di Romani e d'alleati, ossia di
truppe rivali e gelose. Erano eguali nelle legioni ro-
mane e nelle alleate la lingua, l'armamento, il sistema,
eguale l'ardore di gloria e la severità delle pene, ma,
come si raccoglie da più passi di Livio, ogni posto supe-
riore di comando anche nelle truppe alleate non era co-
perto che da cittadini romani (com'è coperto da soli In-
glesi nell'Indie ogni posto superióre anche negli eserciti
proprii dei principi mediaJizzati), onde per secoli le due
masse di truppe pugnarono concordi di fianco senza
esempio di rivolta e d'insubordinazione , fin quando si
propagò negli eserciti la guerra civile scoppiata con
Mario e con Siila nel fóro di Roma. Principale speranza
della vittoria si riponeva, come mai sempre fecero te na-
rioni civilizzate, non nell'impeto delle cavallerie, ma
nelle salde falangi dei fanti. Costituendo infatti nell'in*
fanteria la base della forza, Roma la collocò nella fer-
mezza degli ordini, nella massa e nella disciplina, coi
quali elementi soltanto le fanterie sono d'uso generale,
costante, di potenza calcolabile, ed atte a vittoria anche
sotta rimpero di capi non sommi, mentre la cavalleria
sempre costosa, inutile spesso, facilmente smontata in
lunga campagna, in povero paese, rende servigio troppo
dipendente dal terreno, dall'azzardo, dagli errori del ne-
mica, dall'incerta fortuna d'avere al comando chi pronto
qoal folgore sappia lanciarla, prodigaria nell'opportu-
nità d'un istante. Appena la decima od undecima parte
CAPITOLO 11. 203
della legione romana si componeva di cavalleria, onde
coprire i fianchi deirinfanteria» ed approfittare d'una
vittoria conseguita da questa. Ma era realmente ben com-
patta, ben ferma e bene armata quella triplice linea di
infanterìa romana di astati, di prìncipi e di trìarii, perchè
re^eva alle onde delle torme equestri senza l'ingombro
dei cavalli di frìsia, di cui nel medio evo si coprirono le
fanterìe meno disciplinate e valenti.
Sostanzialmente la forma degli eserciti romani, la loro
divisione in truppe di diversa armatura, il modo di schie*
rarsi in battaglia e d'affrontare il nemico, si conservano
tuttora negli eserciti, ed ogni nostra brìgata si compone
d*<%ni arma come la legione romana. L'elemento che ci
sembra nuovo fra noi è quello delle potenti rìserve gene-
rali d'esercito, che, bene formale e laudate in tempo op-
portuno, possono rìsolvere in grande vìttorìa un dub-
bioso e pericoloso conflitto; ed infatti nelle mani di
Napoleone, che le introdusse e sapeva usarle si bene, di-
vennero sovente la clava di Ercole, colla quale ha schiac-
dato tante volte i nemici. Ogni legione aveva nei triarii
la propria riserva a se stessa, ma non l'aveva, o ci sem-
bra che non l'avesse l'esercito.
Da Pirro, dai Cartaginesi e da Antioco ì Romani ap-
presero il serrigio degli elefanti in guerra, ed anche lo
sperimentarono in qualche battaglia» ma saviamente
abbandonarono l'uso di questi animali poco meno piv
ricolosi ai proprii soldati che non ai contrarn, e d'al-
tronde dìfliciU a ben conservarsi nei climi d'Europa^ e
ad operazioni in paesi aspri, intrarolti, montiri e dirisi
da frequenti fiumi e braccia di mare.
Gli eserciti romani per l'ordinario si dividevano in due
masse, ciascuna delle quali operava in luogo od anche
in guerra diversa sotto d'un console: vi doveva dunque
204 PIATE SECONDA
essere emulazione fra loro. Ai capilani degli eserciti da-
vano i Romani libere commissioni, e non già istruzioni
vincolative, che ne distruggessero, od almeno scemassero
la responsabilità, e Machiavelli nei Discorsi (lib. II,
cap. 33) di ciò giustamente li loda. La frequente varia-
zione dei capitani, ossia dei consoli, aveva danni e van-
taggi, maggiori i primi : quindi nel progresso dei tempi,
ed allo scopo di lontane, di lunghe o gravissime guerre,
si prorogò il consolato, o sotto altro nome il comando,
e Futilità d'interna politica fu posposta alle necessità del-
Testerna. Nell'insolito caso di riunione d'eserciti conso-
lari, alternava il comando giornalmente fra i consoli, ed
era gran danno, e non si imita fra noi, dove il comarMo
compete sempre al grado, all'anzianità del medesimo, e
dove tali elementi di prerogativa manchino, come fra
i consoli mancavano, compete all'età.
Non sembra che i romani eserciti fossero privi dei
corpi speciali, che tanto crebbero nell'era moderna, e
sono oggetto di somma predilezione e di molti studii og-
gidì. Lo stato-maggiore sotlo alcuna forma stabile o no
è indispensabile al movimento degli eserciti, né certa-
mente mancava nemmeno negli eserciti di Genserico
o di Attila : la soia creazione nello stato-maggiore che
sia moderna, e che non è essenziale al medesimo, è
quella degli ingegneri topograC : esservi quindi doveva
in ogni campagna romana, qualunque fosse la guisa con
cui si formasse. La questura militare era una vera In-
tendenza .Generale: coprivasi sovente da persone di
rango elevato, ed era regolarmente condotta, come ve-
diamo dagli esami frequenti delle relative gestioni, e dal
fatto di Tiberio Gracco che si espone a cimento per ria-
vere dai Numanlini i documenti della propria. Non leg-
giamo di un corpo pel Genio e pei ponti, ma Plutarco
CAPITOLO II. 205 *
fa cenno dei capitani degli artefici, e Cesare nomina
un Cornelio Balbo di Cadice , che li comandava nelle
sue campagne delle Gallie. Era infatti necessario che vi
fossero persone speciali ed esperte pel servigio compli-
cato e difficile delle macchine, d'uso grandissimo negli
assedii si frequenti in un'epoca nella quale ogni città
circondata di mura, chiudendo le porte, era mutata in
fortezza, e vi fossero altresì per la costruzione dei ponti
gettati più volle su grossissimi fiumi. Il Corpo sanitario
militare mancava, perchè in allora non esìsteva propria-
mente nemmeno un ceto sanitario civile, ma l'igiene
delle truppe essendo identificata alla forza materiale del-
l'esercito, che sempre vuoisi conservare ed accrescere, e
non solo alla causa spesso negletta dell'umanità, non
poteva essere posta deplorabilmente in non cale almeno
dai capi migliori del primo Stato guerriero del mondo.
Infatti nei commentarii di Cesare si trovano prove che
egli aveva a cuore la sanità dei soldati, e la guarigione
dei feriti. Non occorre però presso i Romani menzione
di quelle benefiche leggi a favore dei feriti, dei mutilati
in guerra e degli uccisi, che onorano l'antica legislazione
di Atene, eleggonsi in tutte o quasi tutte le odierne di
Europa.
I soldati romani erano numerosi quanto lo era il po-
polo, perchè le truppe non reclutavansi, ma coscriveansi.
In una lunga guerra contro una nazione, che si difen-
desse col sistema dispendiosissimo delle reclutazioni, i
Romani pel loro sistema di nazionale armamento o di
coscrizione non si esaurivano rapidamente come il ne-
mico, e dovevano quindi prevalere. Cosi fu nelle guerre
cartaginesi: cosi alla fine del passato secolo abbiamo
veduto la Francia trovare nella coscrizione il modo di
levare tanti eserciti, quanti ne metteva insieme l'intiera
* 2Ì06 PIETB SBCONDi
Europa reclutando. I Romani aprirono strade militari
con spese enormi: favorirono gli spettacoli pubblici,
barbari ma non frivoli, rendendo il popolo coraggioso
ed armigero. Il riscatto del soldato che si fosse arreso al
nemico era non sempre, ma quasi sempre negalo : i di-
sertori poi venivano atrocemente perseguitati, ed in ogni
trattato erano richiesti per consegna e supplizio.
Indicatemi, dice con fondamento di verità un applau-
dito storico dei nostri giorni , indicatemi il grado di di-
sciplina degli eserciti di un popolo, ed io vi indicherò il
• grado dì sua civiltà e di sua potenza. In quale esercito
la disciplina militare fu così severa come negli eserciti di
Roma? Eppure dove mai i comandanti furono più liberi
di operare in campo secondo le istantanee utilità che in
Roma, dove non eravi una suprema autorità militare che
ne vincolasse le disposizioni? Quanta doveva malessere
l'energia di un console che sentiva tutta la responsabilità
dell'esito gravitare esclusivamente sul suo capo, che co-
mandava contemporaneamente a falangi di concittadini,
che non trovava scuse nell'inopportunità di ordini rice-
vuti, che era investito di indefinita autorità per l'esecu-
zione degli ordini ch'egli medesimo impartiva a legioni
disciplinatissime !
Ma v'erano difetti anche nell'organismo militare di
Roma, e questi dipendevano dalla natura stessa del go-
verno. Tito Livio li rimarca. Egli dice che spesso in
Roma ah tribuno plebis delectus impediti mnt ; con^
sules post tempus ad bella ierunt : ante tempus comitio^
rum causa revocati sunt : in ipso conatu rerum ctVcwm-
egit se annus: collegw nunc temeritas, nunc pravitag
impedimento aut damno fuit : male gestis rebus alteriut
successum est tironem, aut mala disciplina institutum,
exercitum acceperunt. At Hercule, reges non liberi so--
cìntolo il S07
lum impedimenti^ omnibui, ned domini rerum tempo^
rumque, trahunt congiliii cuncta, non sequuntur.
Anche in allora che all'uopo di lunghe e lontane
guerre, alla cuslodia dei conOni, alla sicurezza delle con*
quiste, Roma mantenne numerose e permanenti legioni,
la città non aveva presidio, e quindi i consoli non potevano
abusarne. Le legioni stanziavano nelle provincie : erano
rette dai proconsoli scelti dal Senato : i proconsoli reci-
procamente per gelosia e diffidenza Tun l'altro frenavansi.
Queste truppe erano la vera forza militare del governo.
Roma reggeva le provincie colla forza delle medesime,
ed esse davano saldezza all'in terno regime romano, mi*
nacciando di prorompere se alcuno dei corpi politici
tentava di opprimere il rivale. Ma un cittadino che risie-
desse in Roma, non poteva reggere una provincia : egli
avrebbe avuto in tal caso una potenza alteratrice di li-
bertà. Quando Pompeo, proconsole della Spagna, stava-
sene in Roma, e vi formava le legioni per recarsi nella
provincia, ma sempre differiva la partenza, il Senato,
che a quell'epoca era già debole rispetto al popolo, scor-
geva in Pompeo il suo appoggio, gli procurava anche iJ
consolato, gli dava facoltà di scegliersi egli stesso il col*^
legale l'autorizzava a rimanersi in patria. Ma Cesare,
capo de} popolo e proconsole della Gallia, chiedeva giu-
stamente di poter egli pure risiedere in Roma, ritenere
la Gallia, ed aspirare al consolato.
L'Italia (non ne formavano parte né la Liguria, né la
Gallia cisalpina, ossia il vasto territorio deiravvallamento
del Po) non era governata da verun proconsole, né in
Italia vi erano permanenti legioni, L'Italia era retta dal
Senato : se in Italia vi fosse stato un proconsole, questi
sarebbe stato il dominatore di Roma.
Probabilmente gli annali della storia antica e moderna
208 PiETE SBCQKDA
non ci forniscono verun altro esempio d'un sistema d'eser-
cito permanente e numeroso, la cui forza fosse meno in-
fluente suirinterno regime dello Stalo. In Roma l'intero
esercito non formava un solo corpo compatto ; ma era
diviso in corpi distìnti, e governato da capi egualmente
grandi, egualmente anelanti alla gloria, forzati all'estrema
attività delle imprese per la stessa brevità della durata
della loro politica magistratura, bramosi d'ottenerne di
nuove 0 di prorogarsi il comando coi fasti di guerra, e
responsali alla romana repubblica. Egli eradei romani
proconsoli come fu sempre degli imperanti prò tempore
neirindia inglese: energia, sapienza e gloria ; ne furono
difetti l'ardore continuo d'arrischiate imprese, e la sete
di pronto arricchimento. Ed anche nell'India inglese gli
imperanti erano varii, e l'uno dall'altro indipendenti ; la
suprema dignità d'un governatore generale (che durò fino
al totale cambiamento di sistema or ora seguito) non fu
istituita che tardi, l proconsoli entravano poveri in una
provincia ricca, e sortivano ricchi da una provincia po-
vera ; la storia ne fornisce mille esempli. Ciascun procon-
sole mentre cercava la potenza, limitava quella dei con-
correnti rivali. La repubblica aveva eserciti da disporre ;
con essi poteva dunque sostenere con gloria gcandi
guerre; ma gli eserciti permanenti di Roma, quantunque
già avessero cessato di essere legioni collettizie di citta-
dini, ed il campo ne fosse ormai divenuto la patria in
conseguenza alla perpetuità dell'esercito, ed alla lunghis-
sima durata del servizio del soldato, erano però eserciti
possibilmente innocui al sistema interno della repub-
blica. Non v'era quindi la necessità di circondare i co-
mandanti delle truppe con quei comminarii della Si^
gnoria come in Venezia, o con quei rapprenentanii del
popolo come in Francia, che per sospetto d'abuso del
CAPITOLO II. 209
potere militare intimidivano, paralizzavano, ammortizza-
vano i capi, e tanti ne spinsero in Venezia e Parigi a
fine miseranda. II grave scoglio dei governi misti, che
rende ai di nostri cosi pronta e precipitosa la vittoria di
un partito sull'altro, è la concentrazione del potere mi-
litare, il quale, ove sia retto da un uomo ardito e savio,
dà una forza enorme al partito a cui si accosta. Questo
scoglio in Roma non v'era: ove stato vi fosse, la forma
di governo sarebbe stata rovesciata da qualche ambizioso
soldato. La corona ha tale fulgore che gli occhi abbaglia,
ed ammorza virtù: ov*è speranza d'averla, chi tiene la
forza si precipita ad essa, e v'ha sempre il potente che
invade la breccia, e sormonta il cadavere di chi primo
morì. Gli esempii di Diocleziano e di Carlo V, che senz'es-
sere costretti depongono la corona cercando riposo, sono
rari in tutte le storie : sovente chi ha esercitato la su-
prema autorità è da ambizioso travaglio disturbato nel
sonno di pace, ed anela al potere per ritornarvi come
Filippo Y di Spagna, o per fìnire tristamente i suoi di
come Vittorio Amedeo II di Savoja : nulli sono poi gli
esempii di privati che potendo facilmente afferrare uno
scettro, ritirino per temperanza e moderazione civile la
mano. Ben sappiamo che contro la nostra sentenza si al-
legano bene spesso dagli scrittori alcuni fatti desunti al-
l'antica ed alla moderna istoria che sembrano dimostrarla
men vera, e si estolle il merito di personaggi eminenti,
dando ai medesimi lode infinita di temperanza civile
perchè non abbiano saporato nelKabuso il trionfo, non
si siano letiziati di rovina di libertà, né indulgenti a se
stessi non abbiano creduto sempre scarsa la gloria ed
impedito il potere, se cose o persone attraversavano a
loro l'occupazione del trono. E noi volendo non solo
nella storia vedere, ma anche discernere , e delle poli-
14
ilo PARTE SECONDA
liche cose cercare origini, effetti e raffronti, digrediremo
un istante per ricercare qual fosse veramente il grado
di reale potenza dei personaggi laudati per non avere
voluto che la loro fortuna fosse dal diritto discorde.
Nell'esame se i medesimi altro freno non avessero all'a-
buso di forza che quello della cittadina virtù vien sem*
pre primario lo studio della qualità, del numero e
dell'organizzazione delle truppe che erano dipendenti
da essi.
La potenza allettaa prepotenza, genera l'intemperanza,
consiglia il rompere d'ogni freno: lo seppe l'Atene dei Pi-
sistratidi, la Roma di Siila e di Cesare, la Gallia di Carlo
Martello, la Firenze di Cosimo: lo conobbero l'Inghilterra
di Cromwell e l'Olanda degliOrange. Anche le stanze di
San Clodoaldo hanno veduto al principio del secolo at-
tuale quanto può far coi soldati un grande soldato. Ma
a questi conquistatori d'imperio, che si fabbricarono nella
repubblica un trono, gli storici contrappongono i nobili
esempii di Timoleone che ricusò la corona di Siracusa
vendicata per esso a libertà e dominio, dì Dandolo che
declina dal regnare nell'espugnala Costantinopoli, e so-
prattutto di Washington, che fermata l'indipendenza degli
Stali Uniti d'America, scioglie l'esercito, e ritorna privato.
Tutti costoro, ripetono concordi senza speciali osserva-
zioni gli storici, patriw parere legibus, quam imperare,
satius dìixerunt ; maluerunt se diligi, quammetui (Corn.
Nip.).
La mente di tutti e la nostra s'allegra e riposa sul raro
spettacolo della temperanza civile, e certamente quegli
uomini illustri ne erano egregiamente dotati, perchè nem-
meno fecero segno d'ambire al seggio sovrano, non so-
bornarono, non sobillarono, non mossero fazioni, non
mostrarono perplessità. Ma vero è altresì che nessuno di
GAPnOLO li. iti
loro per gli ordini dello Stalo, per la qualità degli eser-
citi, per le circostanze politiche aveva tal forza che egli
potesse d'ogni rispetto spogliarsi, passare il RubiconOt
ed afferrare lo scettro.
Infatti Tioìoleone accorso da Corinto in ajuto di Sira-
cusa, comein al tr'epoca v'accorsero per l'uno o l'altro par-
tito Epiroti, Spartani, Ateniesi e Romani, non aveva un
migliajo di Corinzii con sé. Potè colla fazione popolare
cacciare i tiranni dalle mura : potè colle forze siracusane
respingere i Cartaginesi dal territorio : chiamò nuovi co-
loni da Corinto, e ne ebbe ; ma se col favore momenta-
neo di essi e del popolo sì fosse fatto re, avrebbe avuto
la forza di mantenersi in quella reggia in cui Dione fu
ucciso ?
Dandolo, cieco e cadente per età, entrava in Costan-
tinopoli con soli quattro mila soldati di Venezia ; aveva
a fianco di questi un esercito francese, e non lungi le navi
di Genova. Lo circondava Fodio religioso-civile della massa
dei Greci, e lo osservava da Venezia un sospettoso go-
verno, che vegliava sui dogi non quasi vi fosse pericolo,
ma come già tradimento esistesse, né avrebbe sofferto un
imperatore per doge. Poteva dunque Dandolo occupare
la sovranità di Costantinopoli ? Dove era la sua forza ?
Altissima è la fama di Washington, e fra le sue virtù
crediamo noi pure che realmente anche la continenza
vi fosse ; ma se ne avesse mancalo, non opiniamo che
neppure Washington avrebbe ottenuto o conservato l'im-
pero. Egli fu il Fabio d'America, che non risolvendo bat-
taglie, nutrì la vittoria. Le genti nuove appresero da
lui a star ferme sotto la tempesta di ferro, ed il governo
britannico, che non volle per tempo accordare le conces-
sioni richiestegli, subì il vitupero ed il danno di dovere
più tardi sopportare il rifiuto delle offerte da lui. Leale
2Ì2 PABTE SECONDA
ed inconlamìnato, Washington esercitola guerra, non la
pirateria : era disinteresse, era probità, ma anche sag-
gezza, perchè guerreggiavasi nella propria contrada, e
non in quella d'altrui, come quasi sempre hanno fatto i
Romani. Non mancarono a lui né un'insigne causa da
difendere, n^ Toccasione di acquistar gloria, né l'ingegno
per meritarla, né la fama che l'esaltasse, né tutta una
generazione molto bene inclinata a celebrarlo. Furono
per lui la vastità del paese, i mari frapposti, la longin-
quità d'Inghilterra, gli ajuti di Francia : egli seppe man-
tenere congregato un esercito incomposto, disordinato e
bisognoso; sostenne la fortuna americana per lunghi
anni sul crollo della bilancia, dove un uomo meno pru-
dente le avrla fatto subire il trabocco. Ma Washington
non parlò mai coi miracoli di grandi vittorie agli intel-
letti incerti del popolo; non era duce d'eserciti, ma capo
di cittadine milizie ; non trascorse mai, come Siila, come
Cesare, con eserciti trionfanti di paese in paese, non li
arricchì di tesori, non li fece grandi d'orgoglio e d'acqui-
sti, né brillò mai di quel genio che degrada agli occhi
dei soldati la dignità dei legislativi Consigli, e li fa volon-
terosi stromenti all'ambizione del capo. Avrebbe potuto
Washington avere facilmente l'impero d'un paese sì vasto,
diviso in tante repubbliche, dove mai non fu patriziato,
dove le istituzioni erano radicalmente democratiche, dove
al ritirarsi degli Inglesi, e talora anche presenti i mede-
simi, si squagliava, anzi spariva l'esercito ?
Ma anche il sistema degli eserciti romani fu, come
vedemmo, per varii secoli tale che nessun condottiero
l'avrebbe potuto con immane licenza guidare contro la
patria ad un saturnale di sangue per stabilirvi un go-
verno in cui tutto si iniziasse e terminasse nel capo. Chi
avesse avuto il folle ardimento di invitare quelle truppe
CAPITOLO II. ^ 213
cittadine airempietà del certame, sarebbe tosto caduto a
prevedibile fine.
Se però neirAsia i confini della repubblica e le vaste
regioni tolte a Mitridate si fossero volute reggere con pro-
consoli militari, come governavansile altre pròvincie dello
Stalo, o si sarebbe dovuto affidare ai medesimi una forza
grandissima, onde porli in grado di difendere la repub-
blica contro le potenti nazioni dell'Asia in paesi cosi lon-
tani dal centro della romana potenza, o si sarebbero do-
vuti nominare mollf proconsoli con forze militari e con
Provincie anguste. Né da questi proconsoli si sarebbe
potuto sperare armonia, e meno ancora subordinazione
nel caso di una necessaria riunione d'eserciti. Fu quindi
assai provvida la misura politica, che distribuì i più lon-
tani lerritorii asiatici a molti re, come li distribuì più tardi
Carlo Magno ai suoi Conti lungo il confine orientale del
vasto suo impero, e tuttora lì distribuiscono o conservano
gli Inglesi lungo la frontiera occidentale dell'Indie. Quei
regoli erano piccoli pianeti necessariamente aggirati nel
vortice d'ogni vicenda di Roma : avevano poche truppe,
e le comandavano : non entravano però mai nelle truppe
roncane, né si vedeva cola l'abjezione di principi di
case sovrane, anzi di veri sovrani che servissero in eser-
cito straniero, come tanti abbiamo veduto e vediamo dei
sovrani germanici servire nell'esercito austriaco e russo.
Il proconsole, che, giusta gli ordini del Senato, riuniva
le proprie forze a quelle di tali tetrarchi, poteva combat-
tere e vincere ; ma l'autorità del proconsole non era pe- .
ricolosa. Se egli non avesse agito in ubbidienza agli or-
dini del Senato, quei piccoli re posti cautamente in soglio
dal Senato, che aveva detronizzato i parenti loro, distri-
buito con artificio i territorii fra essi, e sovente riteneva
in Roma quasi in ostaggio i figli loro, od i principi che
214 PUTE SEGOlfDA
per'/inaa o per grado, come saviamente osserva Mon-
tesquieu, dovevano precedere gli attuali nel possesso della
corona, lo avrebbero abbandonato.
Tutto il potere esecutivo era quindi in mano del Se-
nato e delle centurie, corpi politici elettori dei magistrati.
L'autorità consolare era grande, ma sulla plebe soltanto,
perchè sulla plebe i consoli, presidi del Senato, rappre-
sentavano la prepotenza senatoria. Terenzio Ansa tri-
bunOi chiamava atroce, immensa Tautorilà consolare, e
certo che tale si era perchè i consoli esercitavano sulla
plebe Tautorità atroce, immensa dei patrizii.
Nel sistema dello Stato però la consolare autorità era
quasi nulla. I consoli erano semplici presidi del Senato,
né comandavano a permanenti legioni. Quelle legioni che
reggevano nei primi tempi, e talvolta anche in seguito,
erano semplici legioni collettizie di cittadini armati in
un momento di crisi. I consoli non stipulavano la pace,
né intimavano la guerra : non ricevevano legati esteri,
non ne spedivano: tutto ciò operavasi direttamente dal
Senato. I consoli non nominavano alle cariche civili e po-
litiche: essi non avevano che pochi littori a testimonio di
dignità e non a fondamento di forza. I consoli presiede-
vano al Senato ; ma non godevano preminenza di esclu-
sivo diritto, di iniziativa o di veto. I due consoli paraliz-
zavansiTun l'altro, e quest'era migliore guarentigia contro
l'abuso del potere, che non l'invigilare sul doge, come fa-
cevasi specialmente in Venezia. Duravano in carica un
anno solo, ed uscendo di dignità ogni influenza loro (che
l'acquisto d'alcuna influenza era inevitabile) cessava, per-
chè i medesimi partivano subito da Roma investiti del co-
mando d'una provincia a tempo determinato. Quella pro-
vincia, molte volte già romana^ molte volte chiamata a di-
ventare romana, perchè se ne aveva decretatola conquista,
CAPITOLO II. 215
0 subito governavasi dai medesimi, o prìma conquistavasi
colle legioni le quali già stanziavano nella provincia,
od essi , con autorizzazione senatoria , formavano in
Roma, all'estero non mai. In tal modo anche sui beni
che i legionarii in Roma possedevano, sui congiunti e
sui figli, il Senato aveva sempre una cauzione della con-
dotta dell'esercito. Ed una miglior cauzione si aveva nella
libera scella di inviare il proconsole piuttosto al regime
di una provìncia che non di un'altra. I proconsoli pote-
vano, è vero, espilare le provincie, ed infatti se ne hanno
esempii deplorabili (1): non potevano farle proprie, per-
chè di troppo breve durala si era l'uOicio loro.
I proconsoli, reduci dalle provincie, non altrimenti
che tuUogiorno vediamo nell'alta Camera del Parlamento
inglese, sedevano in Senato. Quanta sapienza statìstica
doveva dunque trovarsi in quel romano Senato! Assurda
in vero si è l'asserzione degli scolastici, che i Romani
non sapevano di statistica. Qualunque Romano, fino
dalla giovinezza, aveva veduto agitarsi pubblicamente
l'intiero organismo dei pubblici poteri; ogni senatore
aveva corso tutte le carriere civili e militari, aveva ve-
duto gran parte delle provincie, aveva governato nel-
l'estero e nell'interno, aveva combattuto battaglie, ordi-
nato finanze, falla romane le provincie barbare. Quella
era una statistica viva, razionale e concreta: ciascun
senatore discuteva con intima cognizione ogni pro-
getto in qualsiasi ramo d'amministrazione. Anzi, fatta
ragione alla differenza delle cognizioni degli elementi so*
(1) Cicerone introduce la Sicilia a parlare in tal modo contro di Verre : Quod
aurit ^uod argenti, quod ornametUorum in meis urbibuSt sedibtu, ddubru
fuit, id mihi tu, C. VerreSy enpuisli, atqut abstulisli. Le espilazioni di Verre
tono le più note, perchè divulgate dagli scritti del sommo oratore, ma quanti
Verre si incontrano nella storia dei proconsoli romani aifestero !
216 PARTE SEC07IDA
ciali antichi e presenti, neppure nel Parlamento inglese,
in cui più che in ogni altro d'oggidì si aduna abbonde-
vole ricchezza d'esperienze personali e dirette, la viva
ntatislica si trova sì certa e copiosa com'era concentrata
nell'antico Senato di Roma.
Maraviglioso fu l'organismo del romano reggimento. Il
sistema spartano, che pur esso ebbe molta forza nell'in-
terno, assomigliossi in qualche parte al romano. Stret-
tamente patrizio si era il sistema di Sparta : i due re pa-
ralizzavansi fra loro: erano re a vita, erano ereditarti:
stava imbrandito su entrambi il coltello degli Efori : uno
solo di loro comandava l'esercito, che non fu mai nume-
roso. Non vi era disuguaglianza di proprietà: probabil-
mente non vi era l'istituzione testamentaria, perchè se
quella istituzione vi fosse stata, subito si sarebbe intro-
dottala disuguaglianza di fortune, e si sarebbe alterata
la divisione territoriale stabilita da Licurgo. E se pure
l'istituzione testamentaria esisteva, è a credersi che ope-
rasse sui soli beni mobili, e fosse quindi quasi innocua
al sistema pohtico in un paese senza industria manifat-
turiera 0 commerciale. Se una quota di beni era nella
disponibilità paterna, doveva sicuramente essere mi-
nima: ove ciò non accade, le private disposizioni rea-
giscono contro al sistema anche legale della maggior
possibile eguaglianza. A Sparta non vi era differenza fra
cittadino e soldato: passavano anche gli Spartani per
tutte le cariche della repubblica, ma la suprema era ere-
ditaria nei re.
CAPITOLO in.
CÌDeiDoalo e Coriolano — I fooroseilì ed i Condottieri.
Appartengono cosi alla storia delle lotte intestine,
come a quella delle esterne guerre di Roma, due perso-
naggi i cui fatti vennero rivestili e si vestono luttogiorno
di forme drammatiche e romanzesche. Essi sono Cincin-
nato e Coriolano. La storia però dei Romani è spesso
barbara ed orribile come lo sono le storie tutte e segna-
tamente quelle dei tempi commossi e degli Stali aristo-
cratici, che non possono ridurre a termini d'eguaglianza
le cose, né di temperanza gli affetti. Ma insana, ridicola
ed assurda la storia di Roma non è mai, né esserlo può
la storia di verun popolo, poiché reggono il mondo gli
interessi delle masse e del governo, non le chimere e le
vanità. V'hanno però scrittori che sempre si inflorano di
strane saporose favolelte. Le legioni romane sono chiuse
in mezzo da un esercito di Equi e Volsci: la repubblica è
sul limitare del precipizio. Radunansi i padri alla mesta
consulta: cade loro Tanimo e la speranza. Ma brilla re-
pente rilarità sui volli: andiamo dal bifolco^ é il grido
di tutti, e Roma é salva, e s'orni al trionfo il Campido-
glio. Si incontra il bifolco curvo sulParalro: gaudebat
terra vomere laureato, et triumphali aratore (Plinio,
lib. XVIIl) : egli stacca dal giogo i buoi, e tosto pone al
giugo e Volsci ed Equi, e sale la via sacra in trionfo,
poi subilo scappa via per riprendere il solco incomin-
218 pàate seconda
ciato, e tendere i tralci per la futura vendemmia. Queste
sono melense islorielle narrate in cento libri, e sempre
un retore diretto aggiunge , qual morale della favola,
ghiaje ribelli ad ogni digestione. Così na>ra Floro nel
libro 1, cap. XI, che Cincinnato dictator ab aratro, ne
quid a rustici operis imitatione cessaret, victos more
pecudum sub jugum misit : redit ab boves triumphalis
agricola: inter quindecim dies cosptum peractumque
bellum: prorsus ut festinasse dictator adrelictum opu^
videretur. Aurelio Vittore (cap. XVII), per rendere più
teatrale il fatto del conferimento a Cincinnalo della cla-
mide dittatoriale, dice che il bifolco fu trovato all'aratro
ignudo. Plinio il Vecchio si piace anch'egli di dirlo
(lib. XVIII), ed avverte che il nuncio gli disse di gettarsi
almeno un abito addosso prima di udire perchè il Senato
ed il popolo lo mandassero a lui: Eutropio poi (lib. I)
aggiunge che sudore deterso, togam prcBtextam accepiL
Ma il fatto di Cincinnato non è ridicolo in Tito Livio.
Cincinnato, di stirpe patrizia, era già stato console: un
figlio suo venne esiliato per fiere contese coi tribuni del
popolo- Nuovamente eletto console, s'era Cincinnato op-
posto alla licenza senatoria, e la plebe venerò quindi in
lui un idolo inaspettato. Nell'estremo pericolo Cincinnato
riuniva i voti del popolo, e le sue promesse trovavano
fede. Era povero Cincinnato, non perchè fosse bifolco,
che i bifolchi guidano i buoi e non gli Slati ; ma viveva
alla campagna esercendo la coltivazione di un fondo:
aveva prestato cauzione pel figlio, di cui i tribuni ordi-
navano l'arresto, e dovuto pagarla colla sua scarsa for-
tuna per essersi il figlio reso contumace quando fu chia-
mato a giudizio (1).
(1) Nei travestire GiaciDnato da bifolco le fantasie romane non fecero che
imitare le greche. Narrano infatti gli storici greci che Alessandro Magno scelse
CAPITOLO lU. 219
In Cincinnalo, in Camillo, esaltano gli scrittori la
virtù sceneggiando in racconti: biasimano in Coriolano
il vizio di livore e vendetta,, ma sempre sceneggiano.
Anch'egli era forte soldato : Shakspeare però nel suo Co-
riolano ha grandeggiato di troppo quando fa dire al suo
amico Menennio che Coriolano aveva sparso tonnellate
di sangue di Volsci, e che per essere Dio non gli man-
cava che l'eternità, ed il cielo per trono: Nelle intestine
discordie Coriolano, lancia spezzata del partito patrizio,
resisteva ai tribuni nel fóro: sortiva anche alla guerra
coi partigiani suoi quando i tribuni impedivano le leve:
fu per esser gettato dalla rupe Tbrpea. ÀlGne spinto in
esiglio, riparò ai Volsci, e nelle storie e nelle tele dipinte
lo vediamo assiso al focolare di AmQdio Tulio, come Te-
mistocle a quello del re dei Molossi, o di Sersepersiano.
Piombò su Roma, incendiò e distrusse: arrivò a cinque
miglia da Roma, perchè quanti s'avanzarono contro
Roma vengono dagli storici arrestati precisamente ad
quintum lapiderà. Ma non si legge che Coriolano avesse
già battuto l'esercito, che s'era ripiegato sulla città, e
a re di Sidone un Abdolonimo , che cavava delV aequa per Virrigatione dei
eampi: questa indicazione potrebbe bene applicarsi anche ad abile agricoltore
che fertilizzasse i suoi fondi coirirrigazione artificiale : gli storici però fecero
d'Abdolonimo un semplice bracciante, un precursore di Cincinnato, un uomo
volgare cbiamato da Alessandro ad imperare a Sidone. Ma era Alessandro tal
prìncipe che conoscesse si male i doveri di governatore e di re da afiìdarne
l'esercizio ad un ordinario bracciante ? Alessandro poteva ben togliere Tautorità
ad 00 ceto, ed investirne un altro, poteva bramare che Sidone attendesse piut-
tosto alFagricoltura che al mare, poteva volere che governasse a Sidone persona
affitto nuova e totalmente dipendente da lui ; ma è egli credibile che Alessandro
volesse chiamare al potere persona assolutamente inesperta, che amasse di
sollevare un idiota incapace di comprendere gli ordini e scopi del grande con*
quistatore, inetto a giovare a Sidone, a vigilare su Tiro, a favorire i Macedoni»
die donasse uno Stato ad un bracciante comune per avere il dileggio dei Greci»
e dovere con perpetua presenza di forze mantenerlo in impero? Eppure si scrive,
e si ripete ogni dì con irriOessione costante che Abdolonimo era un bracciante,
e Gioeionato on bifolco I
220 PIATE SECONDA
gravissima impresa doveva essere per lui l'assalto di
Roma intera di forze, e ben unita contro di esso per an-
tico odio di popolo, e pei patrizii alienali da defezione
sì grave. Stipulò accordi, retrocesse: fu poi ucciso dai
Volsci credendosi traditi? si uccise da sé? mori placida-
mente in vecchiaja? Tutto leggiamo, tutto adunque è
incerto, e Shakspeare credette di poterlo ammazzare
a suo modo facendolo vittima della gelosia d'Amfidio
Tulio. Ma agli storici novellieri più piace dipingerci
non Roma madre che cerca ed ottiene la pace, ma quella
che l'ebbe in grembo, Volumnia, accorrente, col piccolo *
Coriolano in braccio a Virgilia, che dice d'essere egli
pure romano, e voler essere cogli altri scannalo: ci mo-
strano poi le lacrime Ogliali, maritali , paterne per gli
occhi al guerriero rompenti , la rinfacciata vergogna dei
veri trionfi, il ritirarsi che per la sua salvezza più a
tempo non era, ed il sangue del traditore di Roma ver-
sato dai Volsci traditi da lui.
Cercaronsi nelle storie recenti analogie di personaggi
più noti col Coriolano di Roma: sono abhondevoli, ma
fra le molte sembrò che il contedi Carmagnola più d'ogni
altro fosse il Coriolano della moderna età. E scrittori
meno avvezzi a pensar grave ed aggiustalo, ed a sobrio e
retto ponderare, ammanirono sul Carmagnola, come fatto
avevano su Coriolano, ampia nutrizione di sceniche rap-
presentazioni ai lettori, piuttosto che rischiarare le fasi
della politica sua vita, e della triste sua fine. Il Carmagnola
condotliere pel duca Filippo Visconti aveva saputo con-
quistare per esso quasi senza esercito un ampio Stato.
Avesse o non il Carmagnola il genio riflessivo delle com-
binazioni strategiche .ed il genio fulminante delle batta-
glie, egli non provava lo sgoménto anticipato degli osta-
coli conóscendoli deboli , aveva ingegno , concitazione e
CAPITOLO III. 221
scaltrezza, qualità che han molla forza a successo d'im-
prese lodevoli e ree: era Tartefice capace di sciogliere il
nodo che aveva stretto: l'impresa ardua per un Ercole
imperito, poteva esser facile per il venturiero iniziato al
mistero. Sapeva il Carmagnola dov'era una bilancia di
partiti in bilico, e come delibrarla per farla traboccare;
sapeva come addensare passioni, e farne tempesta ; sa-
peva qual suono rendessero le spade del duca, e come
si aprissero le porte della sua città. Gorrucciossi col
duca, e lo lasciò : i Veneti allora lo scelsero a capitanarli
contro lo stesso duca; ma noi fecero già, come dice
Daru, e leggesi nel proemio della nota tragedia italiana,
perchè gli occhi del Carmagnola schizzassero d'ira con-
tro Filippo, non altrimenti che quelli di Coriolano al
focolare di Tulio, si sovente nelle scuole descritti , ne
schizzavano contro Roma. Ben meglio vide Oenina, lo
scrittore delle Rivoluzioni: i Veneti scelsero il Carma-
gnola, egli dice, perchè conoscitore del debole e de\ forte
del Milanese, e Coriolano fu scelto dai Volsci perchè
conosceva egli pure ogni seme di mala contentezza, ogni
via aperta all'ardimento, ed ogni mezzo onde il terrore
tornasse a chi dato l'aveva.
Così Coriolano, come il Carmagnola, si infiammarono
dell'impeto dell'ira, e non si governarono col freno della
ragione. Cadde il Carmagnola : cadde, sembra certissimo,
anche Coriolano. Entrambi prestarono a chi li accolse
servigi grandi, ma incompleti; non ebbero il premio dei
primi, ma la pena del compimento mancato : fu gridata
la colpa, non esposta la prova, e la posterità ammise
facilmente la colpa. Nessuno pensò alle arti tristissime
ed usate sì spesso da colui che diffida, e diffida a ragione
di chi ha già altri tradito : resi i servigi, forse i maggiori
che il traditore prestare potesse, viene abbandonalo o
222 PARTE SECONDA
spento. Ed anche Coriolano ed il Carmagnola portarono
forse pena deiraltrui diffidenza, della propria impotenza
a servire di più. non del proprio peccato. Quanti ebbero
destino più mite, ma pur essi infelice! I Veneti, p. es.,
giovaronsi del Colleone di Bergamo per impadronirsi
della sua città: entrati in essa, non attennero fede, e chi
sperava di diventarne il principe per Tajuto di Venezia,
ne divenne profugo per l'ordine di Venezia. Si pose al-
lora il Colleone agli sti pendii milanesi, e diede mano a
cacciare da Bergamo i Veneziani : reso quel servigio che
potè rendere, i Milanesi lo carcerarono perchè ai Veneti
non ritornasse.
Noi volentieri ci soffermiamo su queste politiche idee,
perchè recano, a quanto ci sembra, chiarezza a compren-
dere moltissimi fatti di storia antica, e moltissimi di
quella del medio evo, non mancando la analogie dei
medesimi nemmeno oggidì. È necessario portare luce
sulle cause di essi, perchè non solo gli scrittori letterarii
diedero frivole spiegazioni dei condottieri e delle milizie
di ventura j come già mostrammo nel capitolo III della
parte I averle date inesatte sul pregio dei mercenarii che
erano eserciti più o meno valenti, ma senza l'importanza
politica di quelle squadre di partigiani, e di cbi le for-
mava e reggeva. Perfino varii scrittori di storica filosofia
e di giurisprudenza di Slato giudicarono talvolta dei ven-
turieri e dell'uso di essi in modo troppo discorde dalle
vere loro origini, e dagli scopi politico-militari del loro
armeggiare. Cosi Gian Domenico Romagnosi e molti se-
guaci di lui opinarono che gli Stali d'Italia, ove i con-
dottieri e le schiere di ventura furono più che altrove nu-
merose e durevoli, si valessero di esse per non togliere
nelle guerre le braccia al commercio ed alle manifatture.
È meraviglia fin dove il predominio di certe idee abbia
CAPITOLO 111. 223
introdotto ed intronizzato la politica economia I Ci sia
dunque concesso Tesaminare più addentro ed estenderci,
e sarà utile airinlellìgenza della storia politica, ed al raf-
fronto d'epoche somiglianti, e degli identici effetti di
cause eguali in tempi remoti fra loro, ed in diverse re-
gioni. Questa opera già offri nella Grecia, in Roma, a
Cartagine, nella Siria, in Persia, abbondevoli esempii di
esuli armati, di soldatesche per odii di parte giurale a
bandiera straniera: moltissimi ancora ne vedremo in
tutto Torbe romano, ed in quei limitroQ Stati nei quali
giunge alcuna storica luce. Ne abbiamo addotto, ed
addurremo ragioni palesi. E palesi pur sono, e di
simile natura, le cause per cui Tltalia ebbe a sof-
frire nella media età più d'ogni paese di tanta tristezza,
che parve nella medesima inviscerata ed eternata a
sistema.
Per secoli intieri non vi fu governo in Italia che tiran-
nia non fosse, benché la tirannia variasse nei luoghi,
negli aspetti e nel nome, esercitandosi talvolta dall'auto-
rità ecclesiastica contro la secolare, spesso dai nobili
contro il popolo, spesso dal popolo contro i nobili, ta-
lora da sorti usurpatori in città, da principi venuti d'oltre
Alpi, o da capi arrivati pei mari. Poche erano le vittime
della giustizia, molte quelle del carnefice, e la confisca
era più ancora necessità di vittoria, che pena pel vinto.
Quindi l'Italia per più secoli sobbalzata e convulsa fu
piena di esuli e di proscritti che avrebbero arso ben anco
il mondo purché restassero le reliquie e le ceneri a loro
profitto, le vendette saziassero, e riacquistassero i beni
caduti in confisca, e la sovranità passala in altrui mani.
Crescevano per le continue violenze; erano forti di nu-
mero , più forti d'associazione fra loro , fortissimi per
le aderenze coU'estero e coirinterno : ingagliardivano
224 PARTE SECONDI
ancora della concorrenza dei volontarii, degli esteri, degli
avanzi d'eserciti imperiali, e degli Svizzeri venali. In si
complicalo inviluppo, quando vacillava la pace, o s'inti-
mava la guerra, l'assoldare le bande contrarie al governo
nemico era consiglio di politica insidia. Raccoglievansi
le bande monarchiche sotto al principe esule, le bande
popolari sotto l'esule demagogo, le nobili sotto l'esule
patrizio, le guelfe e le ghibelline sotto i varii loro capi
anelanti a vendetta. Se tanti furono e sono in ogni tempo
e contrada i governi ed i popoli che come Lodovico il
Moro chiamano gli stranieri, e poi lo Stato ne piange,
ed essi vanno a rovina con lui, quanto più dovevano es-
sere chiesti da chi anelava a rivolte i cittadini e con-
giunti ! II loro campo non era solo torneo per armi ,
ma fucina di politici intrighi : preparavano la mina ro-
vinatrice mettendo voci per arte sulla temperanza var-
cata, ed i procedimenti avari di chi teneva l'imperio :
narravano, inventavano le crude infamie dei dominatori :
cessassero, dicevano, i popoli dall'offrire i loro corpi per-
chè vi fossero piantati gli artigli. Scrivendo così sulle ban-
diere il pubblico bene, le bande marciavano. Queste ban-
diere facevano sovente migliore impressione nei difensori
che non l'ariete nelle mura, e talvolta ad uno squillo di
tromba il baluardo crollava. Chi mai può scorgere in
questo sistema di venturieri un riguardo pel commercio,
un beneflcio per le manifatture?
Un Cavalcabò comandava i mercenarii veneti quando
Venezia tentò l'acquisto di Cremona contro i Visconti :
colle bande degli Strozzi tentava Francia di precipitare i
Medici. Ora i Cavalcabò erano stati dai Visconti cacciati
da Cremona, e gli Strozzi cacciati da Firenze dai Medici.
I Benzoni, signori di Crema, ne venivano scacciati dai
Visconti : i Veneti ascrivevano allora i Benzoni al libro
CAPITOLO IH. , 225
(toro, li prendevano in servigio nelle (ruppe venete di
terraferma, e movevansi contro Crema.
Non che i Veneti dessero ascolto alla massima rac-
comandata dal Varchi, d'arruolare cioè i loro eserciti nelle
Provincie venete di terraferma, statuirono la legge che
chiamava al comando dell'esercito di terraferma uno stra*
niero, accompagnato in ogni suo passo dai commissarii
della Signoria. Anche in Milano valevansi i duchi più
spesso di stranieri che di sudditi cosi nei consigli, come
nel campo, e furono forestieri i Piccinino, gli Sforza, i
Dal Verme, i Malatesta, i Gozzadino, 1 Simonetta, gli Àn-
guissola, e tanti altri individui o famiglie, i fasti delle
quali desumonsi principalmente da ciò che operarono nel
.Milanese. Dappertutto poi il nome di straniero parve iden-
tico a quello di fedele, e furono detti fedeli gli Svizzeri,
fedeli gli Alemanni alle corti italiane ed alle altre europee,
fedeli le guardie scozzesi o quelle d'Irlanda alla corte di
Francia. Così i Califfi trovarono fedeli in Bagdad i mer-
cenarii turchi, e parvero fedeli i Mamelucchi in Egitto,
gli Slrelizzi nelle Russie ed i Gianizzeri in Turchia, al-
meno finché questi furono milìzie mercenarie composte
di schiavi cristiani, e tuttora lo sembra nel Marocco la
guardia imperiale dei negri Bocari. Anche in Germania,
allorché le ire politico-religiose elevarono tanti patiboli e
tanti roghi incesero, l'Olanda con torme assoldate di mer-
cenarii tedeschi toglieva al dominio di Spagna quelle
terre, che l'industria aveva dapprima conquistalo sul
mare.
Arruolavano i Veneti dei soldati anche nella terraferma
italiana, ma ai patrizii veneti sembrava che rendessero
migliore servigio nelle isole e negli stabilimenti del Le-
vante che non nella Penisola, che meglio avrebbero com-
battuto il Turco che non l'Italiano. Solo agli Schiavoni
15
Ì16 PAETB SECONDA
(ÌHlmati davansi le armi con sicurezza: gli Shiavoni for-
marono sino ai tempi moderni il nerbo delle truppe ve-
nete : essi non avevano a scegliere se non fra la signoria
di Venezia e quella del Turco.
In molti Stali italiani la classe commerciale e manifair
turiera non esercitava alcun diritto politico : essa non
decideva della guerra, né del modo di combatterla. Invece
in Firenze, prima della dominazione dei Medici, i mani-
fattori ed i commercianti avevano un voto principalissimo
nella legislazione. Nondimeno il sistema dei militi ventu-
rieri fu egualmente comune a tutti gli Stati. Dunque il si-
stema procedeva da cause universali, e non da particolari.
In Firenze vi fu un tempo in cui perfino l'ordine politico fu
intieramente sconvolto, perchè i popolani furono conver-
titi in nobili, ed i nobili furono convertiti in popolani,
giacché fu tolto il voto ai nobili, e fu riservato ai plebei.
Ma il sistema dei venturieri, perchè radicato nelle politi-
che condizioni di quelle età, continuò invariato. Ed anche
in questa età, in cui i metodi di guerra sono tanto diversi
dai metodi antichi, ed il pregio delle milizie tumultuarie
e raunaticcie è scemato, abbiamo veduto unirsi legioni
di profughi ad aggredire gli Stati.
Ma Tetà eroica dei venturieri è quella delle guerre in-
testine dei Greci e delle civili di Roma; soprattutto è quella
di Dante, delle fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Bian-
chi e dei Neri, dei Torriani e dei Visconti.
Quando Tltalia si ridusse ad un minor numero di Stati,
le bande mercenarie si fecero piti grosse ; ma erano già
bande degeneri, e non schiere di fuorusciti anelanti a
ritorno e vendetta. Perdettero allora quelle torme del
pregio politico, perdettero dell'impiego continuo, perdet-
tero dell'affluenza continua d'altri fuorusciti : scemarono
poi infinitamente del pregio militare pei variati sistemi
CAPITOLO III. 227
di guerra, e l'apparire sul campo di truppe regolari di
Francia e di Spagna. Machiavelli si doleva di queste mi-
lizie inferiori alle truppe dell'estero ; ma non era pilli lo
spirito di parte che rendeva una volta temibili le bande
mercenarie : all'epoca sua i venturieri erano soldati come
i Icgionarii, come gli odierni, ma non permanenti, né
disciplinati.
Nel libro XVI della sua storia in seguito a quella di
Guicciardini, Carlo Botta rammenta egli pure le compa-
gnie di ventura. Ma questo storico altronde illustre, non
considera le cause che loro diedero origine, e si lungo
tempo le conservarono. Egli non le considera politica-
mente, ma le deplora pietosamente : racconta come le
milizie ferme ' abbiano spento così brutta contamina-
zione, e dolendosi che i ribaldi una volta fossero as-
soldati, si consola che ora vengano impiccati.
Noi lasciando a ciascuno, ed anche a Botta queste
consolazioni sull'attualità delle condizioni sociali, ripe-
liamo soltanto che tutta l'antica istoria greco-romana
ridonda d'esempii di condottieri, e di milizie combattenti
ad ogni ventura. Già parlammo di Caridemo e di Corio-
lano, e fu condottiero Alcibiade, e lo fu Labieno quando
combatteva pei Parti, e Senofonte quando pugnava (non
però contro la patria) pel giovane Ciro. E si moltipli-
cheranno gli esempii nelle guerre sillane, nelle pompe-
jane, in qualunque rivolgimento sociale ed in ogni età
dolorosa, in cui siano scompigliate le cose politiche, e
falsali per esse i sentimenti morali.
CAPITOLO IV.
11 patriziato decimato di prerogative,
e deelìnalo di potenza.
Il Tribunato — Il diritto pretorio.
Il sistema patrizio di Roma, non altrimenti che ogni
aristocrazia, gradatamente crollò. Ma la lòlla fra patrizii
e plebei fu di molto maggior durala in Roma che non
presso gli altri popoli. Ne sono palesi le cause. È vero
infatti che il plebeo romano nei primordii della repub-
blica Irovavasi nella quasi servita dei patrizii. Ma del
barbaro servaggio rorislocralico sistema di Roma antica
dava anche al plebeo un barbaro compenso: per lungo
corso di secoli egli vide nella tutela perpetua delle donne
una meta della popolazione degradala al suo cospetto
nell'esercizio dei diritti non solo politici, ma anche nel-
l'uso dei diritti strettamente civili: dominava tutti i po-
poli peregrini che non avevano nemmeno il gius di con-
. nubio coi Romani : era padrone anch'egli della .sostanza
e della vita dei figli : era quasi padrone della mo-
glie: era padrone degli schiavi. Vi era pubblicità di
tutto: i magistrali politici e giudìziarii erano temporanei
ed elettivi: non vi erano mani-morte: non vi erano fede-
commessi: vi era assoluta libertà di proprietà: tulli
egualmente i cittadini servivano in armi. E se il plebeo
era ricco poteva variar di slato, entrar nell'ordine eque-
CAPITOLO IV. 229
sire, ed aggiungere alla domestica la politica dominazione.
Non soffrivano quindi i patrizii l'intiero urlo democra-
tico delle plebi: la proposta delle leggi tendenti a sfa-
sciare l'edificio aristocratico doveva trovare anche in
molli plebei violenti oppositori.
Alla legge agraria l'intero ordine senatorio, l'intero
ordine equestre, e le migliori centurie dei plebei si op-
ponevano. La legge agraria non giunse mai ad essere
attivala. Ma l'emigrazione della plebe povera era mollo
favorita dal patriziato romano, com'essa lo è al presente
dal patriziato inglese : spargevansi nelle provincie con-
quistate colonie romane, che contribuivano a tenerle ub-
bidienti e suddite, e diminuivano nella capitale il peri-
colo d'una disperata insorgenza delle masse affamate.
Vellejo Patercolo, al lib. I, cap. 14 e 15, enumera molle
di queste romane colonie , e nota le epoche della fon-
dazione di esse. E Lucio Floro narrando che Anco
Marzio inviò subito una colonia ad Ostia in ipso maris
(luminisque confinio, aggiunge, prmagiens animo, fu-
turum ut totius mundi open et commealvs ilio veluti
maritimo urbis hospitio reciperentur (1). E questo era
un popolo che dicesi avere disprezzato, ignorato perfino
le marittime navigazioni! (pag. 22 e seg.).
La liberazione dei figli dalla patria potestà, che in-
volge gran parte della legislazione civile, e concerne i
diritti di emancipazione, di maggiorennità, di scelta dello
stato, di legittima, di successione, ed in genere di famiglia,
era contrastata da quasi tutte le persone sui juris. La
romana aristocrazia di famiglia, senza cause di urgente
necessità, non mai sarebbe caduta. Ma questa causa di
« urgente necessità si trovò nelle relazioni di Roma cogli
(1) Anche nei frammenti di Polibio troviamo cenno dì questa colonia fondata
da Anco Marzio.
230 PARTE SECONDA
esteri Stati. La potenza delle forze estere, generatrici di
pericolo nell'interipo, furono e saranno sempre una
causa assai efficace dell'avvicendarsi delle interne forme
di reggimento.
I figli di famiglia non avevano proprietà; non avevano
nemmeno un diritto d'aspettativa alla sostanza paterna :
il padre poteva nel testamento diseredarli e preterirli, e
scorsero varii secoli prima che si facesse luogo alla que-
rela de inofficioso testamento^ e con essa si incomin-
ciasse ad opporre una limitazione al dirilto paterno d'as-
soluta libertà nel disporre per testamento dei beni (1).
(1) Sotto questo rapporto Roma discordò da tutti i sistemi patrizii, che ven-
nero dipoi, giaccliè in questi sistemi le devoluzioni feudali, fedecommissdrìe e
gentilizie assicuravano il trapasso ai figli delia sostanza paterna. In Roma non
fu mai cosi; ma da principio il gius di testare era almeno vincolato dalFobbligo
stesso di dovere testare pubblicamente in comUiii calatis, 11 testamento romano
nella prima origine era una legge, e fecondo l'astratta giurisprudenza non po-
trebbe essere che tale: Tuomo morendo perde ogni diritto alle cose, e queste
ricadono nella comunione sociale. Il testamento, ossia la facoltà di trasmettere
ad altri le cose quando pel fatto di morte Tuomo cessò dal possesso e dalla
volontà, è diritto d invenzione civile, ossia una concessione della società. Or
bene, in Roma questa concessione da princìpio ebbe il carattere di legge spe-
dale per ogni singolo caso. Il possessore doveva dichiarare Terede nei comizii:
Tannuenza espressa o tacita dei popolo fondava il diritto: non era questo
testamento una legge? Ma senza un fondato titolo chi testerebbe contro i figli,
0 con pochi riguardi di moralità in comiliis calatisi Se tutti i testamenti fos-
sero solenni, od almeno giudiziali, chi affronterebbe sì facilmente la pubblica
opinione, come pur troppo avviene giornalmente colle forme attuali dei testa-
menti segreti? L'avere dunque colle XII Tavole e con leggi successive introdotto
il principio tUi Ugasset, itajus eslo, senza stabilire un gius di legittima, fu pei
figli una nuova ferita, e rassodò ancor più l'impero domestico dei padri.
II paese d'Europa, dove il sistema patrizio della proprietà territoriale genti-
lizia venne da quasi un secolo totalmente distrutto, e diede a tutti l'esempio
della libertà dei possessi, è la Francia; TUngheria invece è il paese dove il
sistema gentilizio delle possidenze fu sempre più generale ed intenso, e si man-
tenne quasi inalterato fino a questi ultimi anni, nei quali crollò per fatto san-
guinoso e d'arbitrio, ma sostanzialmente vantaggioso all'uni versalilà della povera
popolazione del regno. Nella Scozia è libero a chiunque il sostituire a perpe-
tuità, od il fondare fedecommessi, e quindi la quantità delle terre libere vi si
rende sempre minore : attualmente la metà circa delle terre scozzesi è vincolata!
a fedecommesso. Nell'Inghilterra e nell'Irlanda non è permessa veruna soslitu*
xione a perpetuità, ma il vincolo non può estendersi, fra i non viventi^ al di
CAPITOLO IT. 231
Quanto ripugna dunque airinconcussa verità della sto-
ria legale di Roma l'asserzione di Gibbon, che scrive:
Nei primi secoli della repubblica tuia delle anni era
ritervato a quei cittadini che avevano una patria da
amare, ed un patrimonio da difendere I Cento mila gio-
vani senza patrimonio perirono nei primi tempi di Roma
sul campo di battaglia.
Ha le guerre rendevansi ad ogni istante più lunghe,
più pericolose e frequenti. In ciascun anno domandavasi
il tributo di sangue ai figli di famiglia, veri schiavi senza
personalità, senza patrimonio , e senza voto centuriale
per non aver censo, e per non essere $uijuri$. Come po-
teva sperarsi di lanciarli sempre vogliosi alla difesa di
quella Roma, ove beni non avevano, od all'assalto delle
nemiche città per acquistare col sangue proprio la preda
bellica ai padri sedenti tranquilli in patria? La necessità
indusse il legale riconoscimento dei peculii, ossia Tag-
giudicazione ai figli della proprietà di quanto i medesimi
militando acquistassero. Il primo peculio infatti, di cui
i figli di famiglia godettero, si fu il peculio castrense: il
quasi castrense acquistato colla milizia togiata, è d'assai
più recente, appartiene alle epoche successive, in cui le
magistrature avevano cessato di essere di diritto esclu-
sivo degli ottimati. Il peculio avventizio e profittizio è
d'orìgine ancora più moderna, e benché riveli esso pure
la politica servitù di famiglia, può quasi considerarsi
come istituzione meramente civile.
làiifm grido; in ilitto però la proprietà inglese ed irlandeie non si rende se
non monentanenniente /i6era, giacchi in Tia consuetudinaria il padrone jo</«-
Ittùee di mioTo fin deve la legge permette, e così di segnite. Pel codice austriaco
la fondazione di fedecommessi richiede il consenso sovrano : nel diritto russo
fiesto consenso non i espressamente ricbiesto, ma le istitusioni dei Tedecom*
nessi si sogliono sottoporre airapprovaziooe dei monarca. In varie Provincie di
Prussia fu impartita, non sono molti anni, Tautorìzzasione sovrana per nuove e
numerose istituzioni fedecommìssarìe.
232 PARTE SEGO!«OA
Lo specialissimo carattere politico dei peculii castremi,
la cui origine è così trascurata nelle storie di Roma,
diede al romano Senato anche nei primi secoli, ne' quali
al milite nessun stipendio si concedeva, la facollà di vi-
brare contro il nemico delle legioni entusiastiche di gio-
ventù, per le quali erano identiche le idee astratte di
gloria, e le idee reali di interesse. La vittoria era l'unico
modo d'acquisto, e l'acquisto la via più facile aìVeman-
cipazione, ossia al diYemre sui juris, al comandare allo
schiavo, e forse al salir alto nella repubblica.
Dal peculio castrense emanano infalli tutti i diritti fa-
migliari. Senza il diritto di vita e di indipendenza, il di-
ritto di proprietà sarebbe illusorio : l'aristocrazia di fa-
miglia, dopo rislituzione del peculio castrense, almeno
nell'esercizio, se non nelle vie solenni e legislative (1),
crollò rapidamente. .
Narra Montesquieu che quel trionfo e quella corona
murale o civica scuotevano tutte le fibre dei Romani, e
loro davano il nemico in {schiavitù. 11 trionfo era infatti
sapientemente inteso ad avvivare lo spirito d'emulazione
(1 ) L'abrogazione solenne della schiavitù dei 6gli fu operata da quello stesso
benefico potere imperatorio, che più avanti vedremo aver mitigato anche il
destino degli altri schiavi, e che si rendeva più forte collo svellere ogui radice
degli antichi sistemi patrizii ed oppressivi. Infatti il diritto paterno vilm et necis
fu limitato, poi abrogato e conferito ai magistrati pubblici dagli imperatori
Trajano, Adriano, Alessandro Severo, Costantino il Grande e Valentiniano
{L. uU. D, sia parente quis manum sit. — L. V, de L. Pompej. de parric.-^
L 13. D. de re milil. — L. 3. C. de patria poi, — L. «. I), ad L. Corn. de
sicar. — L. 6. C. de patr. poi. — L. un. C. de his qui par. vel lib. eco )
Diocleziano proibì ai padri di vendere i loro figli, qualunque ne fosse la causa
(L. \, C. de patrio, qui fil» suos distrax.). E Costantino, perché non s<'gui^*
né la vendita, né Tesposizione dei figli sanguinolenti, prescrisse cKe ai parenti
poveri si dessero alimenti dairerario (L. 1, 2. C. Theod, de alimenta, L. II.
t. XXVIi). Gli imperatori si opposero alla preterizione dei figli nel testamento
paterno : vollero che i figli uou si potessero diseredare se non nominativa-
mente: stabilirono da ultimo le sole cause di valida diseredazione (Just., Nov.
CXV).
CAPITOLO IV. 233
e d'onore, ed a sublimare le mentì romane a nobiltà e
grandezza. Non il solo capitano saliva al Campidoglio fra
l'ammirazione e l'applauso, ma lo saliva con esso una
eletta dei soldati suoi, che s*erano nelle battaglie mag-
giormente distinti (Livio, lib. XLII, e. 34). Leggi e co-
stumi, tutto spingeva, tutto animava alla guerra, e la
romana gioventù era coraggiosa e sagace, come lo è il
selvaggio scarnato che insegue la fiera, sfuggendogli la
quale egli perirà per fame; ma né la corona murale, né
la civica consta che fossero accompagnate da quelle retri-
buzioni 0 materiali vantaggi da cui le similari distinzioni
sogliono esserlo nelle truppe d'oggidì.
11 trionfo sarebbesi potuto imitare da altri, e forse si
imitò. Ma imitare non si può un sistema civile, che
emerge dallo stalo originario delle forze de'varii ceti, e
che la sola necessità modifica col successivo variarsi delle
forze originarie delle classi stesse. Le forme di Stato non
si pensano, ma trovansi: le leggi civili sono talvolta
l'opera d*un solo giurista illuminato, cui affidasi una
proposta: gli statuti fondamentali del gius pubblico po-
sitivo lo sono dell'intiera società armata, e spesso sono
l'opera mista delle forze interne e delle esterne. La le-
gislazione civile si migliora e si fa pid umana col pari-
ficarsi delle classi e coll'introdursi della eguaglianza ci-
vile: la scienza di Stato non si perfeziona, non si innova:
essa è sempre la stessa, i modi d'esercizio ne sono varii.
Torte e la sapienza é sempre l'antica.
Non del peculio castrense, ma dell'alloro, della co-
rona murale e del trionfo parlano i relori. Tutti però ac-
cennano la sapienza del privilegio dei militari testamenti,
sircome legge politica incitaliva alla milizia. E ci duole
che a questa sentenza abbiano sottoscrilto anche grandi
giuristi, come il Toniniasio e l'Einecio. Ma la logge che
234 PARTE SECONDA
privilegiava i testameDli militari era legge di civile giu-
stizia e non di politica convenienza. Si privilegiava il
testamento militare come si privilegiava quello fatto du-
rante una navigazione, durante una pestilenza, qualun-
que testamento cioè, che sì facesse in circostanze nello
quali fosse malagevole di soddisfare alle esigenze ordi-
narie della legge testamentaria, che nella giurisprudenza
romana erano molte e rigorose, ed essendo state conser-
vate in quasi tutti i codici moderni fuorché nell'austriaco,
ebbero pure nei codici moderni la necessaria sequela di
eccezioni e privila . Ma in questi codici, nel francese
p. es., nel sardo, ed in quello delle Due Sicilie, ema-
nati per Stati paciGci, in epoche paciGche, non si avreb-
bero almeno a trovare certe massime romane, che per-
fino nel gius di Roma sembrano troppe, ed inefficaci allo
scopo militare per cui si scrissero. Così troviamo in tutli
quei codici, non però nelVaustriaco , copiate le prescri-
zioni romane che non si dia azione di pagamento p^ì
giuochi, ma si accordi per quelli che tendono a rendere
l'uomo più atto alla guerra, che il padre non possa ri-
chiamare il figlio minorenne che abbandoni la casa pa-
terna per entrare in servizio militare, che i figli morii
combattendo si abbiano a computare vivi per eflelto di
scusa volontaria dalle tutele, ecc., le quali massimo
hanno nessuna influenza allo scopo militare, e sono de-
viazioni dai principii della sana giurisprudenza. Egual-
mente, ed ancor più disapproviamo in tutti quei codici
civili, ed anche nel codice. italiano recentemente adottato,
che si siano conservate non tutte, ma molte delle mas-
sime sui peculii sancite in Roma : il codice civile au-
striaco è il solo che le abbia totalmente abbandonate ,
né convertito in ufficio mercenario il diritto di patria po-
destà, che meglio vogliamo chiamare dovere di patria
CAPITOLO IV. 235
carità. Le condizioni della politica si sono variate affatto:
non è più necessario, né utile che quelle massime ro*
mane siano radicate in famiglia. Quel codice straniero lo
ha bene compreso, e le rifiutò : perchè non lo abbiamo
imitato? Ma ritorniamo ai Romani.
Di nessun eccitamento alla milizia poteva essere il pri-
vilegio di testare per chi non aveva proprietà. Inoltre
nessuno vien mosso ad esporre la vita in guerra pel
semplice vantaggio, che egli avrà diritto di scrivere nel-
Tdreqa il nome dell'erede colla punta della spada, vel
ìitteris sanguine mtilantibu$ in vagina (lib. I, 5, e. de
test, milit.), senz'essere vincolato a quel numero di te-
stimonii ed a quelle formalità, che sono prescritte per
chi voglia testare nelle domestiche pareti all'appropin-
quarsi del fine naturale della vita. Pure nelle scuole si
adduce per fondamento di questo militare privilegio
l'utilità di eccitare alla milizia. Ma la ragione della
legge era diversa: si semplificava il testamento nella
guerra per rendere possibile anche al soldato in qua-
lunque condizione si trovi di poter disporre delle cose
sue. Il considerare siccome di origine politica il privile-
gio del testamento militare, che mai non indurrebbe per-
sona ad esporre la vita in guerra, si è come il far dipen-
dere rincremento di popolazioYie (e vi fu chi il pensò, e
lo scrisse I) dalla legge che accordi l'esenzione di qual-
che onere al padre di dodici figli (1).
(1) A qoesfoggetto i Romani emanarono molte éispomioni, v^rìe delle quali
di non dabbia eÀicacia. I Censori esigevano ana Cassa dai celibi d*età matura,
fBs uxorium (Plutarco nella vita di Camillo, e Valerio Massimo, li, 9, 1).
Airepoca di Qainlo Cecilio Metello fu ingiunto espressamente ai celibi di ma-
ritarsi. Perla legge Papia Poppea, che fu in vigore sino a Costantino il Grande,
i celibi non potevano venir istituiti eredi (Dione Cassio, LiV. Cod. Theod, de
poma c(elib., ///). Fra i candidati si preferiva chi avesse molti fl(;1i(TAGiT.,XV,
19. PuN., EpUt, VII, 16). Ledonne ingenue, che avessero tre figli, e le liberiet
!236 TARTE SECO?; Di
Ogni precauzione che fosse di lutala alla libertà popo-
lare sembrava ai patrizii diminuzione di loro potenza:
quidquid Uhertali plebis caveretnr, id snis decedere
opibus credebant. Ma quando il pericolo dall'estero al-
lentava i nodi dell'ordine pubblico neirinlerno, la plebe
imbaldanzita chiedeva diritti a chi aveva maggiori diritti
da perdere» ed era forza accordare se il nemico esterno
doveva ritrovare una valida reazione. Piuttosto che leggi
isolate e scevre di garanzia, la plebe romana doman-
dava leggi di ordine pubblico, cui il diritto civile si
subordina ; voleva cioè leggi alterative della politica co-
stituzione. Onde resisterey come dice Appiano, alla forza
ed autorità senatoria, la plebe in un momento di gra-
vissima crisi domandò ed ottenne (anno 291) il tribunato,
ossia il diritto di iniziativa e di veto (1). Pel diritto di
iniziativa la plebe avendo un magistrato proprio, po-
teva proj)orre le leggi che utili le sembravano, mentre per
lo innanzi la partecipazione della plebe al governo, non-
ché ne avessero quattro, scioglievansi dalla (uleln perpetua, ed ì liberti per la
niolliludiiie dei figli si esimevano da varii servigi (I. 37. D. de oper. liberi.
Dione, LVl; Ulp., framm. XXIX).
Fino airepoca ili Valentiniano il Giovane , la poligamia non fu mai né adot-
tata, nò regolarmente proposta in Roma. Si ebbe però qualche esempio di non
punita bigamia. Ma Valentiniano avendo sposato due donne , dichiarò che a
chiunque era lecito di far lo stesso; il costume però non s'introdusse.
Il divorzio , la cui ammissione o ripulsa è la sola, od almeno la principalissiuia
questione che meriti seria attenzione nelfargomento matrimoniale in cui si sol-
levano per argomenti di minor conto discussioni senza fine , era lecito w
Roma : esso trovava però non pochi ostacoli nelle norme del regime dotalizio
e delle provvidenze pei fìgli , come li incontra oggidì in quegli Stati che lo
consentono a tutti, od almeno ai seguaci di fede diversa dalla cattolica, per cui
sempre ed in ogni luogo si rende di rara applicazione quella totale cessazione
del vincolo conjugale che altrimenti sarebbe molto frequente.
(1) I tribuni si nominavano non nei comizii centuriali, in cui tanto prevaleva
rinQuenza dei ricchi e patrizii, ma (da principio) nelle adunanze curiali, dovei
ricchi e i poveri avevano un voto equipollente, e poscia nelle tribù, dalle quali
i patrizii erano esclusi.
Le persone dei tribuni erano sacre ; il violarle era delitto di morte.
CAPITOLO IT. 237
che tenuissima pel sistema centuriale, era a dirsi vera-
mente nulla, giacché la plebe non poteva se non rispoìi'^
deve al magistrato patrizio, il quale proponeva, siccome
è manifesto, una legge patrizia. Pel diri Ilo di veto la
plebe fu a parte, quantunque in modo indiretto, del j9o-
tere esecutivo: per entrambi i diritti di iniziativa e di
teto la plebe propose di formare il codice del potere ese-
cutivo, e non ottenendolo, vincolò in modi rivoltosi ad
un tempo e giuridici lo stesso potere esecutivo.
La plebe ottenne l'esercizio attivo dell'autorità giudi-
ziaria mediante l'ammissione anche dei plebei alla di-
gnità pretoria. Ottenne la partecipazione alla politica
amministrazione dello Stalo mediante l'ammissione alla
dignità edilizia, alla censoria, alla consolare, e perGno
alla dittatoria (anno 389*404). E quando le dignità d'au-
gure e di pontefice furono accessibili agli stessi oriundi
plebei (1], non fu più possibile al patriziato di valersi in via
ordinaria della superstizione a scopo dì politica utilità.
Riformato cosi il diritto pubblico nazionale, il diritto ci-
vile privato, come necessaria conseguenza, andò facil-
mente alterandosi. Scomparvero gradatamente la quasi
servitù della plebe ed il quasi impero dei patrizii: scom-
parvero la schiavila dei figli e Vitupero dei padri, ossia
scomparvero Yaristocraziapolitica e la domestica. Egua-
glialo in diritto il popolo ai patrizii, collo scorrere del
lemp > e colla potente influenza delle leggi civili o politi-
che, che dir si vogliano, permettenti i connubii fra plebei
e patrizii, e determinanti l'ordine di successione ; decli-
nalo il principio del gius slretfamenle gentilizio dei pa-
Irìmonii; sanciti i diritti di successione legittima ecc., fu
la plebe finalmente eguagliata ai patrizii anche di fatto.
(\) II primo pontefice plebeo fu Coruncano.
338 Pl&TE SECONDI
Tali erano le conseguenze democratiche dei plebiscili
coi quali per Topera di Quinto Publio Filo, dittatore
popolare (anno 416), fu dichiarato che lo statuto del po-
polo (che oramai aveva esso pure Viniziativa) avrebbe
forza di diritto su tutti i Romani indistintamente, ed
opererebbe quindi anche a riguardo dei patrizii, non al-
trimenti che prima operava su tutti i cittadini la sola
legge, statuita dal Senato, da esso col mezzo de*magistrati
patrizii proposta alla plebe, e dalla plebe approvata.
Cosi cadeva Tautorità patrizia, già indebolita dai con-
soli popolari Valerio ed Orazio (anno 506], sotto i quali
fu abrogala la legge decemvirale (patrizia), che impediva
di provocare al popolo dalla decisione dei magistrati pa-
trizi!.
Coi plebisciti incomincia la democrazia potenziale;
quella democrazia, di cui le guerre contro Pirro e le pu-
niche ritardarono, ma non impedirono le conseguenze
rovinose ai patrizii; quella democrazia di Atene, da cui
i Romani favoleggiarono derivate le Dodici Tavole, che
stabilivano perfino la legge aristocratica impediente i
connubii misti.
Dalla democrazia fu poi facile il trapasso alla monar-
chia, poiché ottenuta la civile eguaglianza, altro non re-
sta a domandare se non la protezione civile, che può spe-
rarsi costante ed imparziale da colui che non spettando
a parte alcuna, non ritrae vero vantaggio dalla violenza,
ed almeno nei rapporti dell'esercizio del potere non può
avere altra passione se non la forza, la gloria e la quiete
dello Stato.
Il tribunato salvò Roma dagli stranieri pericoli, e diede
qualche misura al movimento d'interna riforma e pro-
gresso: senza il tribunato anche le assemblee popolari
di Roma avrebbero, come fecero molt'altre in tempo an-
CAPITOLO lY. 239
tico e recente, ucciso la nascente libertà colla confusione
delle idee, il precipizio e l'eccesso dei voleri e l'idolatria
dei demagoghi. Le assemblee popolari infatti sono come
gli eserciti : hanno bisogno di capi che le guidino ; ma
gli eserciti ricevono i capi che loro si danno, e le assem-
blee li creano n^i tumulti, e ad ogni istante li variano,
. né essi hanno giammai legale autorità o defluita compe*
tenza. Fondato però il tribunato in Roma, se vi fu per*
petua agitazione nelle masse, >i fu regolarità nel moto
e nel progresso : non vi furono leghe con esteri nemici,
0 rivoluzioni, che distruggessero l'opera di molti secoli
in un punto. Il tribuno nella politica estera, immaginosa
e veramente nazionale, comprendeva le mire del Senato,
e persuadeva facilmente alla guerra la plebe renitente a
sacrificarsi (1). Il popolo poi veniva facilmente indotto
dal suo proprio magistrato a quelle deliberazioni, delle
quali non conosceva né i motivi, né l'utilità, avendo il
giorno innanzi veduto il tribuno difenderlo fieramente
contro il Senato per l'acquisto di un diritto, di cui la
stessa plebe ben conosceva l'importanza.
Quando il Senato identificava al romano il sistema re-
ligioso dei popoli vinti coU'ascrivere i loro Dei al novero
degli Dei di Roma, e quando il Senato, quattrocento anni
dopo la morte di Numa, faceva abbruciare i libri sacri
di questo re (vedi Livio, 1. XL, e. 29), perchè il pretore
Petilio vi scopriva prescrizioni e riti non corrispondenti
(1) Furono realmente i Romani un popolo guerriero, ma non dobbiamo cre-
dere eoi retori che ogni Romano anelasse a battaglia come fanciulla a danza.
Anche nella storia romana è fatta ad ogni istante menzione dei renitenti alla
leva : troviamo perfino esempii di taluno che troncavasi le falangi delle dita per
inabilitarsi a servire : si parla le moltissime volte di disertori , ecc. Tutte la
islituxioni romane erano guerriere, e lo spirito militare era largamente dilAiso,
e con ogni arte nutrito ; ma anche i Romani avevano la nostra natura, ed av-
venita in Roma ciò che segue oggidì.
240 PARTE 8EC0!fDA
alle pratiche e ai sistemi in uso, il tribuno taceva.
Quando Paolo Emilio console in una occasione impor-
tante non trovando nelle viscere dell'immolata vittima
indizio d'augurio favorevole, ne apriva successiva-
mente venti , e da ultimo mostrava gli auspicii lieti ,
il tribuno li festeggiava. Quando il Senato, dopo la gior-
nata di Canne, rifìutavasi al riscatto dei Romani prigio-.
nieri, ma nelVurgentissimo bisogno di subitamente rin-
novare le mietute legioni non esitava ad armare otto mila
schiavi ; quando si decollavano a centinaja sul fòro romano
i legionarii che avevano tumultuato a Reggio, e non sem-
brava che fosse per quel delitto espiazione bastevole la
norma, già tanto orribile, della decimazione, il tribuno
silenzioso osservava. Quando Curio console, senza for-
malità di giudizio, sottoponeva all'asta i beni di un cit-
tadino romano, e vendeva schiavo il cittadino, perch(>
renitente a marciare contro di Pirro, eccedeva di molto il
limite delle facoltà sue proprie, ed anche quello delle
autorità senatorie, ma i tribuni in tal caso negavano di
proteggere il cittadino, ed approvavano col silenzio l'ope-
rato del console. Se il Senato con artifizii tristi si assi-
curava della persona di Giugurta, onde farlo morir di
fame in una prigione ; se il Senato perseguitava il vinto
Annibale minacciando chiunque gli dasse ospizio, e lo
costringeva al suicidio ; se infrangeva il trattato conchiuso
coi Sanniti che avevano risparmiato dalla strage l'esercito
di Postumio, e violava un'altra convenzione solenne sti-
pulata coi Numantini, che donavano libera ritirata ai venti
mila soldati del console Mancino accerchiati da essi ; se
un Aquilio nella guerra di Pergamo avvelenava le acque
per costringere alla resa certe città (Floro, 1. II, e. 20);
se inviavasi Catone a spogliar del regno e dei tesori To-
lomeo di Cipro, e l'intiera Roma esultante andava incon-
CAPITOLO IT. 241
Irò a Catone avida di subito contemplare rìtnmensa ra-
pina (Vellejo Pàtercolo, 1. II, e. 43); se i Romani di-
voravano i re fino alle ossa, come dice Giovenale nella
satira Vili, ossavidesregum vacuh exhausta medullis;
se la ricca Corinto ante opprimebatur, quam in nvmero
certorum hostium referreretur (Floro, 1. II, e. 16) ecc.,
vi era in tutta Roma chi declamasse nel Senato o nel
fòro contro lo spergiuro, la frode, la violenza?
II comando però delle armate non veniva conferito ai
tribuni, perchè, recandosi in mano la forza delle legioni,
questi difensori del popolo avrebbero potuto produrre
una innovazione violenta nello Stato.
Senza istituzione della dittatura tahto contrasto e tanta
opposizione avrebbero rovinalo la repubblica, perchè non
sempre i tribuni nel calore delle controversie si accor-
darono col Senato onde rimovere il comune pericolo. La
dittatura approvata da tutti nel momento del pericolo,
era un temporaneo juristizio, pel quale aggiornandosi
le interne controversie, l'intera repubblica combatteva i
nemici esterni. L'autorità dittatoria, immensa sopra coloro
che persistessero nelVeccitare turbolenze, era però nulla
anch'essa nel sistema dello Stato. Di brevissima durata
si era la carica; il Senato ed il popolo erano entrambi
gelosi del dittatore: la forza dell'armata, grandissima
contro Testerò, era nulla neirinterno, perchè l'esercito
constava di cittadini, i quali conservavano i privati inte-
ressi, ed erano rispettivamente discordi.
L'uomo ritiene e signoreggia fino che ha integrità di
potenza: concede e dona alcuna cosa per fiaccar l'impeto e
disunire i nemici, quando il negar tutto non sarebbesenza
pericolo di tutto ; rinuncia al possesso per atto generale,
solenne e perpetuo allorché sarebbe follia il tentare re-
sistenza. Queste semplici verità non possono preterirsi,
46
242 PiBTE ^SECONDA
quando si tenta di sciogliere quell'enigma deirorigine del
gius pretorio. Il pretore pronunciava spesso per Tequila
anche contro la legge ; il popolo non aveva ancora rove-
sciato rintero sistema aristocratico, e già fruiva di bene-
fici giudicati, senza che ancora godesse di vere leggi
eque : i patrizii se lo comportavano. I candidati alla di-
gnità pretoria significavano al popolo quali sarebb^^ro
state le loro massime nelVamministrare la giustizia: que-
st'era la pubblica professione di fede, che gli elettori esi-
gevano dai candidati, come la prestano chiesta, ma più
sovente spontanea la offrono gli attuali candidati al Par-
lamento italiano, che per avere dagli elettori i sufl^ragi,
dissetano gli elettori di loro sapienza, li inebbriano di
loro fragranza, e li addottrinano de'loro propositi di tron-
care in radice qualunque disordine, e di guidare pel più
corto cammino a compimento la patria belligera. I pre-
tori eseguivano la promessa deviazione, o meglio la pro-
messa violazione della legge odiosa al popolo con quelle
formole artificiose, e con quei legali rimedii di nuove
azioni, di eccezioni, di cauzioni, dì possessione dei beni,
di interdetti e di restituzioni in intero, onde tutto ri-
sulta il gius pretorio a noi pervenuto.
Ciò che ne' tempi addietro i pretori avevano statuito
perequila, i pretori nuovi, per l'incremento sempre pro-
gressivo della popolare potenza, per le promesse fatte
nuovamente nella loro candidatura, per questo quasi
patto conchiuso fra il popolo ed il giudice, riconoscevano
come norma indeclinabile : aggiungevano poi nuove mas-
sime di equalità. Nondimeno il potere legislativo non ri-
siedeva nei pretori : dunque non era in essi nemmeno la
facoltà di deviare dalla legge, nonché il diritto di pro-
nunciare contro la medesima.
Il gius pretorio ottenne poi maggiore validità quando
CAPITOLO lY. 243
gli slessi plebei furono sollevati alla pretura, ed i plebi-
sciti ordinarono che quei patti speciali fossero vere
leggi nella romana repubblica.
La democrazia pariQcativa del voto di tutti i padri di
famiglia non ebbe mai esistenza in Roma, e l'assoluta
democrazia che pariGcherebbe il voto di tutti i cittadini
maggiorenni, non sembra che di fatto possa armonizzare
col diritto di proprietà, giacché la maggioranza dei voti
si troverebbe sempre in mano di coloro che non hanno
possesso, e che aspirano ad ottenerlo.
PARTE TERZA
LE GUERRE DELLA RIFORMA INTERNA DI ROMA.
CAPITOLO L
I Gracchi: Mario e Siila.
L'uragano era addensato, ed alfine infuriò : vennero le
orride prove delle lotte gagliarde, sanguinose nel fóro, e
delle guerre civili. A queste spaventevoli scene si colle-
gano d'ora in poi tutti gli avvenimenti d'Italia, di Grecia,
d'Africa e d'Asia. Tiberio e Cajo Gracco ne furono i primi
attori. Non erano demagoghi per favore di plebi di re-
pente avanzati da palesi brutture, o già occulti nell'om-
bre, come negli Stati mal temperati a governo ne sor-
gono spesso, e si creano giganti a piedi di creta. In
Roma la vita era pubblica, e troppo noto ciascuno entro
la cerchia della sua città , perchè di fama menzognera
con temerario contendere potessero in un subito gran-
deggiare inette persone, ed involare furtive o rapinare
a forza i voti sorpresi alla fantasia del popolo. I Gracchi
erano chiari per avi, e più per ingegno : Tiberio, il mag-
giore fratello, era confortato dalla stima dei soldati va-
lenti: era salito il primo sulle mura di Cartagine, ed
aveva provato l'illibatezza e la fede davanti a Numanzia
essendo questore d'esercito. Cajo, il minore dei due,
aveva pensieri canuti anche da giovane: pur esso intre-
pido aveva veduto in viso il nemico, e con studio d'onestà
amministralo il tesoro di guerra: era chiaro per sapere*
ed aveva concitata eloquenza non d'acuti sillogismi e di
248 PARTE TERZA
dialettiche vanità, ma di reali interessi ; fu egli che diede
il primo esempio di grandi costruzioni stradali, che fu-
rono gloria e stromento di romana potenza. Entrambi
scesero dunque noti nel fóro, e più acclamati dal popolo
perchè preziosa conquista sul ceto patrizio.
Per antica legge nessuno doveva possedere più di 500
jugeri di terreno: quella legge non erasi osservata : com-
pere, successioni, contratti dotalizi!, ogni specie di sti-
pulazioni civili avevano disposto delle terre, senza ri-
guardo a misura, come di libere proprietà. Ora Tiberio
Gracco richiamava la legge : chiunque più di 500 jugeri
avesse, ne subisse il riparto ai poveri, e lo subisse
senza compenso: quod ab initio invalidum estj tractu
temporis convalescere nequit: era vizioso ogni posses-
so, ogni contratto eccedente i 500 jugeri : la legge d'an-
tico divieto esisteva, ma v'era stata altresì la tolleranza
secolare del maggiore possesso ottenuto ry^c vi, nec
clam, nec prcBcario. Della ricca eredità d'Attalo re di
Pergamo , voleva Tiberio che l'argento non si versasse
all'erario, ma donasse al popolo, e dello Stato disponesse
il popolo, non il Senato : voleva poi che granaglie si lar-
gissero al popolo, e colonie romane si traducessero in
ricche provincie, e specialmente a Cartagine. Nasceva il
contrasto: anche un tribuno stava pei palrizii : Tiberio
non potendogli togliere il veto, otteneva che il popolo gli
togliesse la carica: tutta l'amministrazione fosse sospesa
fino alla votazione della legge : chiudevasi infatti il tempio
di Saturno, ossia il pubblico tesoro ; sospendevansi per
generale interdetto tutti i magistrali. Imbaldanzivano pel
successo i riformatori : chiedevano modificazioni profonde
nei sistemi di votazione nel fòro, nella durata delVau-
tòrità tribunizia, nell'ampiezza del corpo deliberante:
proponevano si dessero i diritti politici agli alleati, cioè
CAPITOLO I. 249
cessasse il municipio, e si formasse lo Stato ; si dessero
anzi quei diritti a tutti quaoti gli abitatori al di qua delle
Alpi (Vell. Pàterc, n, 6), ossia si estendesse l'Italia poli-
tica oltre il Rubicone, TArno o la Macra, e si portasse ai
confini naturali, a quelli dell'Italia d'oggidì che vediamo
ed amiamo, ed ha un sol popolo, mentre l'Italia dei
Gracchi varii ne aveva, e tuttora di lingue e di costumi
discordi ; Roma si facesse Italia, e fosse madre per tutti,
e non matrigna ad alcuni ; si realizzasse pel bene d'Italia
ridea già lanciata da Annibale in Capua come tizzone di
discordia italiana e d'esautorazione di Roma ; si preve-
nisse, cedendo, quella guerra sociale, di cui i Gracchi fu-
rono per così dire i profeti , ed anche gli inconsapevoli
istigatori.
Allarmossi il Senato : credette spegnere il moto spe-
gnendo coloro che portavano l'audace bandiera. Uccise
Tiberio Gracco colle sole spade patrizie, e quando ri-
sorse con Cajo più violento il moto dapprima compresso,
introdusse in Roma truppe straniere (coorti cretesi), ed
uccise anche Cajo, ed una turba degli aderenti suoi. En-
trambi i Gracchi', e specialmente Tiberio, erano senza
dubbio usciti dai limiti della legalità, ma più n'uscirono
i patrizii, R la sola rabbia di partito dettava a Cicerone,
nell'orazione prò Milone, dicendo dei Gracchi, le parole
ifuorum interfectores implerunt orbem terrarum sui no-
minis gloria.
I Gracchi erano periti, ma lasciavano idee e passioni
che profondamente fermentavano, né i patrizii sapevano
moderare, correggere ed osteggiare le ire loro proprie, e
meno poi quei temperamenti concedere che rallentano i
moti civili, fondando non i perpetui, che impossibile è,
ma i durevoli imperi. L'agitazione non era stata creata,
ma propagata largamente dai Gracchi : la loro morte non
250 PARTE TERZA
ebbe dunque calmati, ma irritali gli sdegni. Si campeg-
giò dapprima, si scaramucciò sul terreno legale: i popo-
lani resi più destri vollero tentare, numerarsi, avere il
vantaggio sempre desiderabile delle forme, della legalità,
non l'odiosità delFassalto : quindi continue proposte di
leggi per distribuzioni di terreni, di grani al popolo, per
togliere Tautorità dei giudizi! all'ostile Senato, e porla
nelle mani ai cavalieri, ossia a ceto meglio neutrale, per
dare appello d'ogni decreto al popolo, per escludere il
precoce arrivo dei patrizii alle dignità di governo, per as-
sicurare alle romane colonie l'esercizio dei diritti poli-
tici ecc. L'eflervescenza passò dalla legalità al tumulto,
all'aperta violenza, alla guerra, e quando Mario si fece
a capitanare il popolo, ne sorse l'una delle più terribili
lolle cbe per battaglie e supplizii abbiano insanguinalo
la terra. Popolano egli stesso, mediocre d'ingegno, scarso
di coltura, ma vibrato, incisivo di parola, intrepido, in-
defesso, ferreo di corpo e di spirito, Mario è l'uno dei
più grandi caratteri di tutte le storie. Trionfatore di Giù-
gurta, dei Cimbri, dei Teutoni (1), cinque volte console,
(1) Mentre della guerra giugurtina abbiamo in Sallustio uno storico eccel-
lente, le campagne di Mario contro i Cimbri ed i Teutoni ci sono assai imper-
fettamente narrate. Livio ci manca, e dobbiamo seguire specialmente Plutarco,
che scrisse in epoca troppo lontana dai fatti, e cade sovente in esagerazioni e
stranezze. Quei Teutoni si numerosi che per sei giorni intieri sfilavano in
densa colonna davanti a Mario, che non si mosse nemmeno per prendere l'ul-
timo storpio passante , quei cento mila uccisi ed altrettanti prigioni ad Aix ,
quei Cimbri d'altro lato discesi in Italia a già prefìssa riunione coi Teutoni che
nulla affatto sapevano del massacro seguito da qualche anno di quei loro com-
pagni di guerra, si che ebbero ad esserne informati da Mario, quella loro gene-
rale risoluzione d'appiccarsi allorché furono rotti a Vercelli, e piò ancora quella
mancanza d'alberi in quantità sufficiente ad appendersi, e Tingegnoso loro trovalo
di porsi il laccio al collo e d attaccarlo alle corna de' buoi , e d'usar quindi il
pungolo perchè il bue lo stringesse muovendosi ecc., son gemme delle qunli
la relazione di Plutarco è tutta brillante. Ma queste gemme per DuUer non ba-
stano, e nella sua ^^oria del popolo tedesco, che pur taluno volle equiparare
aireccellente Storia (Tltaiia di Balbo , aggiunge che i cani dei Cimbri , fedeli
ai padroni, difesero ancora lungamenU le serrnglie dei carri, E pochi periodi
CAPITOLO I. 251
Mario si pose alla testa del popolo : volle pure essere a
capo di lutti gli eserciti, e se riusciva era re nel mezzo
del fòro, e nel mezzo del campo. Chiese infatti il comando
delle truppe pronte a marciare contro Mitridate, e Tot-
tenne dal popolo, ma nell'esercito prevalse l'elemento
patrizio: era conservatore, retrogrado come direbbesi
adesso: proruppe in rivolta, uccise i capi inviati per co-
mandarlo da Mario: entrò in Roma con Siila, Tempi di
stragi, ma Mario fuggì. Fra le spade sillane chi poteva
votare contro di Siila? Il popolo votò dunque per Siila:
si consacrò per legge la forza che era stala usurpata col
fatto. Lasciata Roma agli aderenti suoi, Siila partì per la
mitridatica guerra.
Appena sparite le terribili legioni dal fòro, ecco che
il partito popolare risorge ; il reduce Mario infuria ter-
ribilmente a vendetta , crea nuovi eserciti, e s'appresta
a combattere contro di Siila che ritorna dalla Grecia,
dall'Asia : è tolto però dalla scena per subita morte. Si
avanzano le legioni di Siila : portano il terrore dei loro
trionB, ed anche la seduzione dell'immenso bottino che
recano, e dei tesori a partaggio che offrono. Ondeggiano
le popolane legioni, tumultuano poi, uccidono i capi, si
prima Duller narra in modo assurdo un tentativo dei Cimbri di rompere un
ponte suirAdige gettato da Catulo a comunicazione delle truppe ch'egli teneva
«ulta destra e sulla sinistra del fiume, incerto com'era per quale delle due vie
i Cimbri scendenti dal Nerico si sarebbero presentati. In simili circostanze
tutti sanno che la rottura del ponte espone una metà deiresercito ad essere
assalita e tagliata a pezzi sotto gli occhi deiraltra impotente ad accorrere. Chi
è padrone del corso superiore del fiume abbandona quindi alla corrente e tronchi
d'alberi, e barche cariche di gravissimi pesi, e brulotti, sperando o di spezzare
il ponte colFurto, o/appiccarvi il fuoco. Cosi faceva Alessandro di Parma ad
Anversa, così fecero gli Austriaci nella ^ande giornata di Aspern, cosi fu fatto in
cento occasioni, cosi facevano anche i Cimbri lanciando immani tronchi d'alberi
airimpeto della corrente, e realmente rovinarono il ponte, e batterono Catulo.
Ma Dailer dice che i Cimbri si soleggiavano dileUosamenle al benigno cielo
£ Italia, e ne bevevano il dolce vino, poi sradicavano a sollazzo i grossi alberi,
eli gettavano nel fiume. Cosi si scrive la storia, e cosi gli scrittori si lodano!
252 PAHTE TERZA
sfasciano: parie vanno fuggiaschi, parte slaiino con
Siila. Questi è signore di Roma.
Vittoriosi con Siila i palrizii vollero ribadire i plebei
sulla croce del passato, e fecero retrocedere per un istante
Vintiera legislazione : tolsero forza ai plebisciti, e nega-
rono ai tribuni la facoltà di propor leggile di arringare al
popolo. Cacciarono da Roma i filosoB greci, e non fu igno-
ranza, come scrivesi, ma fu prudenza di Stato, giacché
nove decimi delle teorie filosofiche (qui non parliamo
delle meramente ideologiche, ma delle vere dottrine filo-
sofiche 0 sociali) s'accordano colla democrazia o colla
monarchia, col patriziato non mai.
Siila finalmente depòse spontaneo quella spaventevole
dittatura, che aflferrata di fatto, erasi pur fatto conferire
nelle vie legali per dare apparenza di giustizia ad ogni
maniera di violenta reazione, e Montesquieu, leggermente
interprete, spiega il fatto col dire, che la depose per fre-
nesia. Passeggiava come privato sul fóro romano, ed ac-
cusato non era. Appiano Alessandrino nel libro I delle
istorie si meraviglia che tanta fosse la riverenza della
riputazione e grandezza sua, o lo stupore per la deposta
dittatura, o la vergogna di punirlo, quasi la sua tiran--
nide fosse stata utile e gioconda alla repubblica. Queste
e simili frasi si sono generalizzate negli scritti moderni.
Ma Siila, prima di deporre la dittatura, aveva già isti-
tuito un governo alla sillana; aveva provveduto a conti-
nuarlo decretando la legge (abolita più lardi da Cesare)
che anche i figli dei proscritti fossero per sempre inca-
paci dei pubblici uflìcii. Abrogando le leggi precedenti,
Siila aveva concentrato nel Senato la giurisdizione cri-
minale, ed aveva ben purificato quel corpo, che avrebbe
dovuto giudicarlo, coll'uccidere novanta senatori : Roma
l'aveva veduto entrare due volte, cioè prima della guerra
CiPiTOLO I. 253
mitridatica, e dopo di essa, con un esercito ebbro di fu-
rore di parte, che trucidò a migliaja i nemici suoi : cen-
toventi mila soldati sillani erano ancora in Italia: aveva
scritto egli stesso perquando scendesse nella tomba l'epi-
grafe: 5i7/a, di cui nessuno ha fatto piii, male ai nemici f
0 pia bene agli amici I Ora i nemici erano spenti , e
gli amici avevano in mano la forza. Veramente Siila po-
teva correre pericolo di assassinio ; ma tale pericolo ei
lo correva anche come dittatore. Come dittatore poi do-
veva temere altresì di essere ucciso dai senatori, cui un
Siila era slato necessario per opprimere un Mario ed il
popolo con esso, ma dopo la vittoria diventava un osta-
colo al pieno esercizio della loro autorità. Così il rinun-
ciare alla supremazia fu per Siila un assicurarsi dei no-
bili, i quali nessun vantaggio riportavano dalle vittorie
sillane, finché Siila non era estinto o rimosso, né fu un
esporsi a pericolo per parte del governo, poiché le di-
gnità nobili e le popolari trovavansi nelle mani di chi lo
aveva seguito alla guerra, ed avendo eseguiti i suoi de-
creti di sangue, più non poteva essere caro al popolo.
Se egli depose l'autorità, si é perché avevano vinto i
palrizii piuttosto che Siila : qualora veramente avesse
vinto Siila, egli sarebbe rimasto re.
Non v'era poi in Roma quella mala giunta di pericolo
d'assassinio, che crebbe in Europa dipoi, allorché ai si-
carii per ira politica sopravvennero i fanatici, che per
idee travolte e modo speciale d'intendere religione e virtù,
credettero procacciarsi direttamente il cielo col ferire un
nemico come Enrico IV o Kleber, pronti a terreno mar-
tirio e sdegnanti salvezza.
Spaventevoli proscrizioni fece Siila : le fece dei nemici,
degli incerti, dei tiepidi. Sembrò che la proscrizione fosse
per lui un mezzo di mantenere l'unità delle voglie, l'ac-
254 PARTE TEBZi
cordo dei voti perfino in Senato : il dissenziente da una
misura proposta era ucciso : cosi purificatati il corpo
legislativo, e si poteva progredire concordi a misure ul-
teriori e più gravi. Di questo tremendo sistema ha pre-
sentato csempii la storia d'Inghilterra nelle lotte civili, e
ne oflerse d'orribili al pari dei sillani la Convenzione di
Francia nel secolo scorso.
I proscritti perdevano colla vita i beni. Le infinite con-
fische ammassarono un tesoro immenso(l). Non otteneva
il grado di senatore se non chi godeva di un cerno senato^
rio ; l'immolare un senatore mariano fruttava dunque un
pingue reddito all'erario. Era necessario confiscare onde
evitare le imposizioni, che avrebbero maggiormente in-
viperito la massa del popolo. La confisca dava ancora
qualche stabilità alle cose ottenute temporaneamente
dalla forza militare, perchè diminuiva i servi e l'opulenza
del popolo, ed accresceva i servi e l'opulenza dei patrizii,
nelle cui mani passavano i beni confiscati. Di questi poi
Siila, e più tardi Cesare ed Augusto, fecero infinite do-
(1) Da un passo di Cicerone nelPorazione prò domo sua appare che la con-
fisca dei beni non era conosciuta prima di Siila, che promulgò la funesta legge
Cornelia. Fu allora applicata su vastissima scala, e nelle successive guerre
civili la confìsca prese tali proporzioni da costituire un fondo quasi continuo
di reddito straordinario. Trajano non l'applicò ; Antonino il Pio la mitigò a favore
dei figli del condannato ; Marco Antonino segui lo stesso principio, ma fu più
avaro ; Adriano, Valentiniano e Teodosio l'usarono senzar rigore ; Giustiniano
nella Novella 17 la restrinse al crimeulese, mentre era stata prodigata anche
pei delitti contro i privati, e non contro lo Stato. In quelle epoche non sapevasi
ancora prelevare sulle rendite future ricorrendo al credito pubblico, di cui si fa
tanto uso ed abuso ai nostri giorni : la confisca era un'arma politica, ed una
fonte straordinaria di finanza.
Nel medio evo la confisca era d'applicazione giornaliera e continua, perchè
le leggi romane, e le norme del Pentateuco, formavano in allora le due infeli-
cissime basi di tutti gli statuti e costituzioni penali. La confisca però riguardava
precisamente gli allodii, non già i feudi, la perdita dei quali era mera conse-
guenza contrattuale della mancanza di fedeltà, ed era altresì necessità di
governo per quel sociale organismo in cui la giurisdizione e le armi non si
sarebbero potute lasciare prudentemente nelle mani dei figli del condannato.
CAPITOLO I. 255
nazioni ai legionarii, sul quale argomento ci riserviamo
ad esporre alcune considerazioni nel progresso di que-
sto nostro lavoro.
Cesare appena fuor di fanciullo corse pericolo d'essere
compreso nelle proscrizioni di Siila : era sì facile in al-
lora Tesser proscritto per un fatto, per un detto, per
parentele, incolpazioni, calunnie! Svetonio narrò, e piac-
que ai mille di ripetere che Siila era già sospettoso ed
ombratile di Cesare adolescente, ma gli die salva la vita
per le preghiere di molli, aggiungendo però che in quel
giovane v'erano più Marii, e ch*egli un giorno avrebbe
rovesciato ipatrizii. Noi crediamo che Cesare sembrasse
a Siila nulla più che un giovane irrequieto ed ardito : se
Siila avesse pensjBito, dubitato un istante al mattino che
potesse esservi un piccolo Mario in lui. Cesare certamente
non vedeva la sera. Non v'era mai stato al mondo un
più terribile percussore di Siila, ma ancora più terribile
era la calma con cui usava la scure. Nessuna affezione
lo strinse giammai, nulla il ridusse placato, noi commos-
sero numero o qualità delle vittime : uomo non fu che
gli rientrasse nell'animo quando ne era slato una volta
sbandilo : era una sola la pena che alle sue tetre convin-
zioni seguiva, quella di morte, né era mai lungi dalla
condanna l'effetto d'una vita immolata, di cento o di
mille. E Siila che le teste mieteva secondo potere, pas-
sione, vendetta o sospetto, avrebbe tenuto del misericor-
dioso con Cesare, se presentiva che la fortuna patrizia
non avrebbe potuto durare in istato con lui ?
CAPITOLO IL
Sertorio : Mitridate : Spartaco : Viriato.
La goerra sociale: i pirati.
Spogliava Siila, ed uccideva ancora» Così non solo lo-
glieva ai vinli i mezzi di nuocere, ma spegneva i vinti
stessi, onde pel riacquisto delle sostanze loro non com-
battessero. Nondimeno moltissimi poterono salvarsi dalla
mannaja sillana, ed appena spari dalla scena il formi-
dato signore, le tendenze furono maggiori dei freni, i
partiti riarsero, si agitarono, si oflersero ad ogni ambi-
zioso che volesse capitanarli, ed un Emilio Lepido, già
console, si offerse a loro, e chiese audacemente l'abroga-
zione di tutte le leggi sillane. In tanta concitazione di
spiriti dalla discussione si passò tosto alle armi ; il pro-
console Quinto Lutazio Catulo raccolse le truppe sillane:
Lepido fu in due battaglie sconfitto, ed ebbero non du-
revole saldezza, che era ormai impossibile, ma tempo-
ranea conferma di sangue le leggi sanguinose di Siila.
Fuggivano dall'Italia le torme proscritte; una di esse
si raccoglieva in Ispagna, e guidata da Sertorio divenne
potente per grandi vittorie dovute al genio di sì gran
condottiero, ed alle disposizioni dei Lusitani ad insorgere.
L'uragano muoveva troppo da lungi per essere vera-
mente formidabile a Roma, ma sempre cresceva, ed as-
sunse forme di grave pericolo quando Sertorio si cir-
condò d'un Senato, e proclamò che Roma era nel campo
CAPITOLO n. 257
con lui. Allora Pompeo chiamava ad alta voce rinforzi di
denaro e soldati , mancando i quali , aggiungeva, egli
poteva ben essere costretto a rientrare in Italia, ove
l'avrebbe seguito Ser torio portandovi tutta la guerra.
Allora si poneva una taglia sulla testa del gran capitano,
vile decreto che dimostrala disperazione di vincere colla
forza colui, il cui sangue si cerca a prezzo d'argento, e
Roma respirò per virtd di un coltello. Il traditore Per-
penna uccise Sertorio alla mensa, non per avere laìaglia,
ma per avere il comando : l'ebbe, ma senza il genio di
Sertorio, senza la venerazióne degli Iberi (1), senza il
cuore dei soldati. L'altera voce eccitatrice delle batta-
glie ora era muta: Perpenna fu presto battuto, e mozzo
del capo.
Anche del lusitano Yiriato Roma non aveva posato
che per virtii di pugnale: a lui tutto mancava, ma sover-
chiava il carattere, ed ha levato gran fiamma: gridò agli
Iberi che dove i Romani in due campi pugnavano, ardi-
mento prendessero: la via esser aperta contro ambi:
avrebbero libertà, ed oltre questa dominio: aver giurato
la fedeltà ponderando la potenza, temendo di essa, sof-
frendo le ingiurie: ora i Romani di proprie ferite mo-
rire : insorgessero, l'opera esecranda di brutale violenza
disfacessero con giusta violenza: venissero in fama, mo-
li) Sertorio aveva affezione ad una cervella, e sempre la leneva con sé :
quanti esempii non abbiamo adeguale affezione ad un cavallo» ad un cane ! Non
leneva seco Moreau il suo cane , non Taveva con lui quando a Dresda fu ucciso?
ila gii storici vogliono cbe Sertorio si tenesse la cerva perchè gli Spagnuoli
(t Lutilani) credevano che la cerva possedesse divinatoria virtù, e suggerisse
a Sertorio infallibili operazioni di guerra. Dio buono ! Non dirò delle migliaja di
Romani combattenti agli ordini di Sertorio, ma gli Spagnuoli e Lusitani non
erano barbari, che meglio credessero alla sapienza della cerva che al genio di
Sertorio : la Lusitania specialmente era fra le più colle e più ricche contrade
d'allora: aveva sul mare e neirinterno popolose e fiorenti città, ed in epoca non
mollo remota da quella di Sertorio la Lusitania ha prodotto alcuni dei più
gnndi scrittori, generali ed imperatori romani.
17
258 PASTE TERZA
strassero la fierezza del viso: la natura aver creati liberi
perfino i bruti, la virtù esser dell'uomo proprio bene e
premio, gli Dei ajutare i forti. Nel torbido scontento che
travagliava il paese, levaronsi al grido di Virialo le genti
guerriere, fecero oste grossa, e sopportarono i faticosi
cammini, gli scarsi viveri, le battaglie cruente, i rigidi
comandi di un capo tetragono ad ogni stento, inesausto
di stratagemmi, indomito ed impavido. Viriato, dice Giu-
stino (lib. XLIV, e. 2), tanta vir tute pr<Bditu$ continen-
tiaque fuit, ut cum comulares exercitus frequenter' vi-
cerit, ìion arma, non vestis cultum mntaveritj sed in
eo habitu quod primum bellare ccspit, perseveraverit,
ut quivis gregarius mileK ipso imperatore opulentior vi-
deretur, e Vellejo Palercolo ne confessa egli pure i trionfi,
scrivendo cheMirìalo contumelioso decemannorum bello
legiones romanas exercuit.
Certamente che la forma e la natura deiriberia facili-
tavano d'assai le resistenze nazionali. La separano dalla
Gallia i Pirenei, che stendonsi come muraglia dall'uno
all'altro mare: elevatissimi in centro, i Pirenei sono più
sommessi nell'approssimarsi alle acque; là sono più
agevoli i varchi, ma chi li supera è arrestato subito dopo
da potenti contrafi'orti nel nord e nel sud : incontra da
un lato le avviluppate catene ove scaturiscono l'Ehro
ed il Douro, e dall'altro il vasto labirinto montivo della
Catalogna orientale. Le Cordigliere solcano l'intiera peni-
sola: i nodi, ed i meandri di esse, le valli profonde, l'ele-
vatezza di alcune giogaje, i serpeggiamenti, le asprezze ed
i nascondìgli di tutte, sono di potente ajuto a perpetuare
la guerra. Chiunque penetri in una valle, e discenda per
essa, ha sempre da aver l'occhio alle Cordigliere sui fian-
chi, ha da occuparne le gole, ed assottigliarsi in presidii:
egli deve temere chei nemici non osservati, non noverati,
CAPITOLO II. 259
non intesi, prorompano sulle sue linee di comunica-
zione, e sui magazzini suoi, vi rechino rovina, distrug-
gano gli ajuli, ed immantinente scompajano. È quindi
costretto per assicurare i lati e le spalle ad occupare con
forza i vertici delle valli ed i nodi principali dei monti,
e ad operare anche nelle valli parallele e contigue. Ma
questi corpi secondarii^ che devono marciare di consenso
e d*armonia con lui, ne sono divisi di larghi spazii ed
ostacoli, e mentre coprono di loro ali l'esercito che
muove nel centro, pericolano essi medesimi sul fianco
esterno alla linea generale di guerra, e se l'uno dei
corpi è assalito e halluto, egli altri lo ignorano, e pronta^
mente non piegano, possono essere girati dal vincitore
alle spalle, e con gravi conseguenze assaltati ed op-
pressi. Or bene, di queste catene principali e seconde, dei
loro avvolgimenti e latebre, delle inaccessibili creste, de-
gli aspri loro dossi, del loro scoscendere talvolta imme-
diato al mare ed ai fiumi, di questa rete insomma di forti
posizioni militari giovossi Viriato per acconci accampa-
menti, per subitanei assalti, per occulto ritirarsi e ricom-
parire inatteso, per sottrarsi e ghermire, per eludere la
perizia, fiaccare gl'impeti e frangere la forza delle le-
gioni romane. Infatti le sue genti spedile ed esperte pò*
levano difficilmente assalirsi, pifi difficilmente isolarsi, e
quasi mai costringersi non volenti alla pugna, perchè
nella forma quasi circolare del paese non essendo mai
spinte e serrate in angustia di terreno, movendo per
greppi, ed attraversando in bande improvvise una valle,
un torrente, sfuggivano al disastro per riunirsi in altro
luogo forte, e di nuovo comballere. Tale doveva essere il
carattere di quelle guerre antiche, e tale fu sempre fino
ai di nostri il carattere delle guerre nazionali di Spagna.
Ma per esserne capo, per infondere perfetta fiducia ai
280 PiBTE TERZA
suoi, per animarli coi successi, rinfrancarli nei rovesci,
sottrarsi con destrezza, piombare inaspettato, trionfare,
perdurare, doveva Viriato avere su tutti e fra tutti prodezza
e virtù, essere vero eroe della propria nazione. Ed a que-
sto proposito non possiamo esimerci da breve riflesso
circa le dimostrazioni della riconoscenza dei popoli an-
che neirepoca moderna si loquace di nazionali senti-
menti, si ambiziosa di gloria. Vedonsì nella moderna Lu-
sitania monumenti a Camoens, che degno ne fu: vedonsi
a Vasco di Gama, gentiluomo di corte, che poco merito
ebbe, giacché prima di lui Diaz aveva scoperto, e di vasto
tratto anche girato il Capo di Buona Speranza, segnale
e porta delle Indie: non si eressero monumenti a Diaz
che fu veramente colui che apri ai Portoghesi i regni del-
l'Aurora: non si eressero a Viriato, quasi la notte dei
secoli coprisse pei Portoghesi medesimi la smisurata
grandezza di chi fece i loro padri per tempo non breve
rivali di Roma. Noi lodiamo chi opera grandemente per
la patria anche senza fortuna, ma Viriato ebbe pur genio
e successo: la sua gloria può certamente adornarsi, non
crescere, ed è vergogna non esaltarla sul Iago.
Né in terra, né in mare v'era pace: impotenti le orde
a vincere da sole, alleavansi a qualunque nemico. Serto-
rio, 0 per romana alterezza come si legge, o per scaltra
accortezza e confidenza in se stesso, aveva dapprima
schivato di stringere accordi con Mitridate che li propo-
neva : alQneli conchiuse dettando le condizioni : ricevette
denaro e vascelli, e promise soldati; ma di questi com-
battendo con Metello e Pompeo anche Sertorio non ne
aveva di troppi : era poi impossibile l'inviarli per terra,
e ben arrischiato lo spedirli per mare. Mandò invece in
Mario Vario un abile generale dei suoi : questi raggiunse
Mitridate, percorse le città della Grecia, e vi distrusse i
CAPITOLO II. 261
governi sillani. Altri Mariani servivano il re. Così leg-
giamo in Frontino che Archelao, generale di Mitridate,
combatteva contro Siila, schierava in battaglia anche un
corpo d'emigrati d'Italia, nella pertinacia dei quali
molto confidava. Plutarco nella vita di Lucullo fa cenno
pure dei Romani che militavano per Mitridate. Le Pro-
vincie debellate, gli schiavi oppressi, il popolo servo, le
città d'Italia col nome onorifico. di federale, vere suddite
della romana repubblica, presitaronsi ad alleanze nuove
e fornirono forze nuove. Ne sorse un Gerissimo combat-
tere da ogni lato, un'incertezza di possesso e di diritto,
una guerra universale. Gli sconfitti democratici trovarono
appoggio in tutti i confederati dell'Italia.
Eccoci alla guerra sociale, che Floro chiama civile :
sociale bellum vocetur licet ut extenuemus invidiam :
si verum tamen volwnus, illud civile bellum fuit. Gli
alleati e socii erano amministrativamente liberi, politica-
mente quasi servi, perchè non partecipavano alla romana
sovranità. Non erano si sudditi come le provincie lo fu-
rono di Venezia, la Valtellina dei Grigioni, il Ticino di
dodici Cantoni, il Vodese di Berna o la Corsica di Genova,
perchè non ricevevano governatori da Roma : avevano vita
provinciale propria, ma non i diritti politici dei Romani,
né Tammissione alle magistrature di Roma. Avevano ver-
sato a fianco dei Romani un fiume di sangue in tutte le
guerre, ma un alleato o socio non aveva mai comandato,
l'esercito intiero. Ora pretendevano all'eguaglianza, ossia
alla piena riforma politica. Il municipio di Roma doveva
dilargarsi a proporzioni di Slato : il vincolo d'alleanza
doveva cessare d'essere imperium per divenire wquum
fwdus (Liv., 1. XXXIX, e. 31]:V alleato voleva essere citta-
dino, mentre ogni Romano finora, se anche plebeo nel
fòro, era vero patrizio rispetto all'alleato, e padrone ris-
262 PAKTE TCEZA
petto al mondo : questo continuasse pure in servitù, ma
in servitù dellltalia, non in quella di Roma. Anzi a Roma
minacciavasi di sostituire una nuova capitale : si riuni-
vano i rappresentanti degli alleati in Corfinio, e davano
alla città il nome di Italica, e vi battevano moneta ita-
liana : ciò che Annibale probabilmente fu per fare in
Capua (vedi il capitolo III della parte I), ora aveva prin-
cipio d'esecuzione in Italica.
La guerra sociale, tanto più pericolosa, perchè il
sistema militare degli alleati, come vediamo in Polibio
(libro VI, frammento 5), non era meno perfetto di quello
dei Romani, dopo avere terribilmente infuriato per varii
anni, Gnl con una maggior^ democratizzazione di Roma,
e colla perdita della sua superiorità sugli Etruschi, Um-
brianì, Latini, Marsi, Vestini, Marrucini, Ferentani,
Lucani, Venosiani, ecc., che vennero ascritti alla romana
cittadinanza, e pariQcati ai Romani, cosa importantissima
dal lato politico ed economico. Questi popoli, già servi di
Roma patrizia e di Roma plebea, divennero comproprie-
tarii della romana sovranità sugli altri popoli di più re-
cente acquisizione. Ma gli imperatori Gommodo, Perti-
nace, Didio, Giuliano, Pescennio Negro e Severo, forse
a scopi privati per aver favore in certe provincie, ma senza
dubbio negli interessi dell'universale utilità, accrebbero
con una serie di decreti il numero dei cittadini^ scema-
rono quello dei peregrini, e Caracalla ordinò che in orbe
romano qui essent, omnes cives efficerentur (1. 17, D. de
Hatu hom.). Il gius dei liberi connubii, che allora si
estese indistintamente a tutti i cittadini nel mondo ro-
mano, rimase soltanto impedito coi Barbari (L. un. C.
Theod. De nuptiis gentil., lib. III, tit. 14). E questa re-
strizione fu subito violata dall'uso.
L'immenso disordine della guerra sociale, Torribile
CAPITOLO II. 263
Iratlamento degli schiavi, Tessere stati i medesimi durante
quella guerra armali più volle a migliaja negli eserciti
con promesse di liberazione forse violate, la condizione
dei servi certamente peggiorata in tante mutazioni e ro-
vine dei possessori di essi, Tesempio delle masse di li-
berti creali da Siila ed i ceppi ribadili alle torme servienti,
tutto addensava una negra nube su Roma e Tltalia, che
alfine squarciata tuonò e percosse. Fu la gran guerra
degli schiavi. Erano nellltalia e nella Sicilia in numero
prodigioso : certamente sommavano a più milioni : erano
dogni patria, d'ogni sangue e d'ogni ceto. Presi per Tor-
dinario in battaglia, nelle città espugnale, nelle conqui-
state campagne, erano stati venduti indistintamente al
mercato. Gli antichi schiavi non erano di colore e di
schiatta diversi dai loro signori : non erano inferiori ai
medesimi d'educazione e coltura : bene spesso erano La-
tini schiavi di Lalini, Greci di Greci, Greci di Romani,
ed orribile doveva essere il tormenlo di quelli che erano
precipitati dalle condizioni civili di vita nella servitù di
popolo 0 di privati moralmente inferiori ai medesimi.
Gii schiavi d'oggidì alla Luigiana, al Brasile od a Cuba
meritano miglior sorte, ed è dovere delle nazioni civili di
gradatamente redimerli dalla vita dei sensi a quella delle
idee, ma almeno per ora si trovano tutti o quasi tulli in
istato di brutalità e rozzezza: servendo i Negri soffrono
fisicamente, non moralmente, almeno i più : la lor mente
non si è aperta ad intuizioni ed a brame: non hanno gu-
stato agiatezza, indipendenza e coltura. Gli antichi schiavi
invece erano stali tolli a tulle le condizioni di vita, a tutti
i ceti sociali : prevalevano fra essi i Barbari, ma non tulli
lo erano : in alcune guerre, p. e. nelle greche, si erano
introdotte in Italia immense torme di schiavi moralmente
eguali 0 superiori ai Romani. Quindi gli schiavi non rap-
!264 PARTE TERZA
presentavano in Italia, come i Negri in America, la sola
forza materiale applicata alla terra, ma ogni specie d'in-
dustrialismo civile, e perfino Tintelligenza, le arti del bello
e gli studii. Si può appieno comprendere io spasimo di
migliaja di essi, la loro disperazione, Todio agli op-
pressori ?
Gli scrittori latini denominano gli schiavi sotto venti o
trenta diverse appellazioni desunte o dairufBcio cui Io
schiavo era destinato, o dal paese da cui era tratto, o dal
nome del console che lo aveva fatto prigioniero. Alcune
classi erano specialmente infelici : vediamo, p. e., in Sve-
tonio (De dar. rheL, Ili) che certi schiavi, come gli /a-
nitores e gli ostiarii, per l'ordinario servivano incatenati.
E nel libro I di Golumella, nel XVIII di Plinio il Vecchio,
ed in Seneca (De Benef.) si fa cenno anche d'altri schiavi
che parimenti lavoravano incatenati nei campi. Golumella
(lib. I) fa inoltre menzione degli ergastoli domestici, e si
hanno mille esempii di pene barbarissime cui i padroni
sottoponevano gli schiavi. Eppure in Grecia, almeno in
Atene, si erano perfino stabilite delle feste, durante le
quali ritornava Teguaglianza primitiva e naturale dei pa-
droni e dei servi, e la famiglia diveniva per tutti una pic-
cola repubblica; ed il diritto romano dichiara espressa-
mente che la schiavitù è d'istituzione civile, perchè gli
uomini sono per natura eguali. Seneca scriveva in tempii
nei quali in Roma l'abuso della podestà signorile era or-
ribile, e nondimeno dice: Servi $unt? imo homines;
servi sunt ? imo contubernale^; servi sunt ? imo hnmi-
les amici; ma l'indole romana era meno della greca
umana e benevola^ ed era deplorabile la condizione degli
schiavi formanti tanta parte della popolazione d'Italia.
Diversità di lingue, di professioni e coltura, luoghi
differenti, perpetuità di dimora, fatalità d'aderenze alla
Capitolo ii. 265
loro casta o nazione, ripulsione od isolamento dalle al-
tre, barbara vigilanza e spietate vendette, rendevano in
Italia, come ancor vediamo in America, malagevole l'in-
sorgenza contemporanea, concorde, disperata delle masse
di schiavi. Mancava poi un capo alle stesse , ma guai
se appariva ! e realmente comparve. Era Spartaco gla-
diatore. Si videro allora gli eserciti consolari o preterii
otto volle fugati : due di essi battuti in un sol giorno in
due successive battaglie : le aquile romane divenute tro-
fei degli schiavi, e portale in alto a segnale: prigionieri
romani costretli a battersi da gladiatori negli onori fune-
bri resi dagli schiavi ai loro condottieri caduti in balta-
glia : il popolo in tumulto.
Heissner ha pubblicalo in Germania nel 1784 due dotte
memorie su Spartaco e Masaniello quasi a raffronto tra
loro, ma senza darne comparato giudizio. Ma che fu mai
Masaniello a fronte dì Spartaco ? Masaniello capitanò per
pochi giorni (1647) un tumulto, non una rivoluzione:
ebbe tutta Napoli alla sua ubbidienza, ma nulla ne fece:
non levò un ardito stendardo, neppure sognò Tindipen-
denza di fuori, o la libertà nelFinterno : s'arrestò alla
cerchia del togliere qualche balzello inviso alla plebe mi-
nuta. Spartaco sovrasta gigante delle spalle e del capo
non solo a Masaniello, ma a Sickingen e Mùnzer, che
guidarono i contadini nella feroce loro rivolta del se-
colo XVI in Germania: sovrasta airanabatlista Giovanni
di Leida profeta e re (Mùnsler 1535), e ad Horja, il cru-
dele ungaro-valacco (1784) : sovrasta perGno al cosacco
Pugatscheff (1773-75), ed al negro Toussaint-Louverture
(1795-1802), che pur furono grandi. Sparlaco spicca in
rilievo fra le grandi ombre d'ogni eroica età : egli si alzò
per la vera superiorità dello spirito dalla valle più pro-
fonda alla vetta più sublime : gettò le disoneste catene,
266 PifiTB TEKZi
nella deficienza dei mezzi invigorì la prud^za, nella ne-
cessità ha acuito Tindustria, nelle cosi varie professioni
degli schiavi romani trovò quegli elementi ai multiformi
servigi, che nei Negri d'America sarebbe stato impossi-
bile di rinvenire o creare, trasfuse nei mille la sua grande
anima, e seguì ubbidienza agli ordini, riuscita ai pro-
getti. Creò l'esercito, e .nel crearlo l'usò ad immediale
vittorie : scrollò la potenza romana, ma non disconobbe
anche nei trionfi né la forza di Roma, né i vizii dei suoi:
guidò fin cento mila uomini : fu anche piò umano che
la natura dei tempi, dei compagni e dell'immanissima
guerra sembrasse concederlo. £ quando fu giunta Torà
del morire per lui, esalò colla spada in pugno l'anima
forte : non aspettò la morte sulla croce fra gli scherni
romani come l'aspettarono quasi tutti i già nominati, che
si paragonano a lui. Ben disse uno scrittore che per es-
sere degno fratello d'Annibale non mancò a Spartaco se
non l'accidente che Amilcare non fu padre d'entrambi.
Cicerone avrebbe dovuto rispettare in Spartaco, se non
la giustizia per cui combatteva, se non la spada impu-
gnata per difesa legittima, almeno la fiamma del genio;
ma egli non lo nomina mai se non con parole infamanti:
lo paragona ad Antonio, che per lui é la personificazione
dell'insensataggine, della scelleratezza : habemus certa-
men cum excursore, cum latroìw, cum Spartaco I
Noi discordiamo nel giudizio su Spartaco da Cicerone,
e siamo sdegnosi che Bossuet nel suo Discorso, che sem*
pre si dice ammirabile^ faccia menzione di Spartaco come
d'un vile ribaldo: tutti volevano comandare in Roma,
scrive Monsignore, perfino uno Spartaco I La fama di-
srpensa spesso ingiustamente la gloria ; ma a quel grande
uomo può applicarsi ciò che scrive Orazio nelFode nona
del libro quarto:
CAPITOLO II. 267
Vixere forte» ante Agamennona
Multi, sed omnes illacryroabiles
Urgentur, ignotique longa
Nocte, carent quia vale sacro : •
Paullum sepultae distat ÌDertiae
Gelata virtus.
Petrarca nel Trionfo della Fama non Irovò posto fra
1 nobilissimi ingegni nemmeno per Dante, e fra i grandi
guerrieri non lo trovò per Viriàto e Sertorio : noi lo
avremmo trovato per lutti loro, ed anche per Spartaco.
Appena fu appagato il popolo, gli schiavi vennero
sconQtti dalle forze congiunte dei Romani patrizii e dei
Romani plebei, egualmente signori degli schiavi, e ne-
mici dì essi. L'alleanza mariana cogli schiavi era semplice
effetto della preponderanza senatoria sui plebei ; quindi,
composte in qualche modo le cose interne a tranquillità,
ogni Romano concorse ad uccidere i servi ribelli (1).
(1) Giusta la sentenza di Machiavelli, che cioè gli uomini per te haltiture
diveniano savii e temperali, noi crediamo che le sanguinose insurrezioni degli
schiavi abbiano contribuito potentemente airemanazione di nuove leggi, che
facilitando Femancipazione dei servi, ne scemass(;ro gradatamente la massa.
Ciò era tanto più necessario, giacché le guerre ed il lusso ne introducevano ad
Ogni istante altre migliaja. 11 dottissimo Einecio nella sua opera sulle romane
antichità ha raccolto in tutta la giurisprudenza, nei prosatori e nei poeti ro-
mani e romano-greci i tanti modi di manumièsioney che furono successivamente
0 contemporaneamente in uso, ed ha indicato gli effetti politico -civili di ciascun
genere di manumissione.
Finalmente gli imperatori incominciarono a dare agli schiavi pace e prote-
zione. Infatti da Svelonio (C/au(/.,XXV) e da Dione Cassio (lib. XL) raccogliamo
che, per decreto delFimperatore Claudio, il padrone il quale non soccorresse
uno schiavo infermo, ne perdeva la proprietà, e Fuccisione di uno schiavo
punivasi dalFimperatore come un omicidio. Una egual massima si contiene nella
legge Petronia (Dig. ad legem Corn. de sicar.). Adriano fu ancora pii]i severo
repressore d'ogni crudeltà esercitata dal padrone sullo schiavo (L. 2. D. h. ^):
abolì gli ergastoli privati : riservò ai soli giudici il diritto di infliggere pena, e
confermò la legge Petronia. Antonino avvalorò la legge Cornelia, e ne estese
le massime favorevoli agii schiavi (L 2. D. h, /.), ed Ulpiano (De off, prmf.
wb,) ci indica qnal magistrato doveva sentire e decidere sulle querele degli
schiavi. Essi avevano dunque persona civile per stare in giudizio, ossia diritto
d^aztone contro i padroni. Questo diritto manca tuttora al contadino in uno
268 PÀKTE TERZA
Sembrerebbe che si feroci discordie dovessero del tulio
paralizzare la Repubblica nelle estere guerre. Nondimeno
la forza di Roma nel bel mezzo delle guerre civili si mo-
strava terribile anche ai lontani nemici: nei brevi inter-
valli d'interna quiete, e perfino durante i conQitti, Roma
lanciava masse di soldatesche sulVestero imbarberite per
concitazione e per stenti, cresciute nelle battaglie, ane-
lanti a rapina. Cosi alla fine del secolo passato la Fran-
cia inferocita nelle lotte fraterne versò sull'Europa nugoli
di combattenti, che uscendo da schiere contrarie trova-
vano sotto tende comuni la concordia, il trionfo, la glo-
ria. Ogni popolo poteva ripetere ormai il detto della Scrit-
tura: Venienl Romani^ et tollent divitias nostras et
regnum. Crollavano al grande impeto delle legioni ro-
mane le monarchie e le democrazie : cadevano di eguale
trabocco e principi e popoli. Non era necessaria in molti
casi neppur la rapina: Roma acquistava perfino collo
adocchiare e pretendere : acquistava con cessioni che pre-
stato di Europa: ivi il colono ha diriito nelle leggi, non ha gius d'azione: e
dunque schiavo.
L'asserzione di Warnkònig [Histoire exlerne da droil rotnain), che da prin-
cipio la sorte degli schiavi in Roma era più dolce e sopportabile di quella degli
schiavi negri in America, può essere forse vera in via generale e di fallo, ma
non in via speciale e di legge, perchè tutte le leggi coloniali più o meno garan-
tirono almeno la vita dolio schiavo, ma furono solamente gli imperatori che in
Roma emanarono leggi di protezione per gli schiavi.
E che diremo di Granier di Cassaf^nac (Viaggio alle Antillé) che vede nella
schiavitù americana la quasi felicità? Il libro suo fu scritto probabilmente a
servizio dei proprictarii delle piantagioni. « Fu la tragedia d'Otello, dice egli, la
quale sparse in Francia i ridicoli pregiudizii riguardo ai Negri delle Antilie :
Otello era un Moro, e non un Negro ; i Negri sono gli uomini più apatici della
terra (anche quelli che infuriarono cosi terribilmente a San Domingo?): la
tratta è un bene, giacché libera V Africa dalla popolazione, che soverchia-
mente aumenta in quello slerile territorio ; le raccontate caccie agli uomini
sono parlo d'immaginazione burlesca: la colonizzazione d'America operata cogli
schiavi africani accresce il benessere materiale, e le garanzie morali nei paesi
d'America: questa mancando d'uomini, e l'Africa abbondandone, la tratta è
un commercio di conguaglio e compensazione, ecc.». Eppure Granier diCassa-
gnac non è senza partigiani, né senza estimatori 1
CAPITOLO *II. 260
venivano la pretesa: acquistava anche per testamento di
princìpi ed isole greche e regni nelFAsia Minore, come
il mondo ha poi veduto i Russi acquistarne per docu-
menti lestamentarii nella Georgia e nel Caucaso. Tante
guerre civili avevano dato ai Romani la tempera di bronzo,
spenta la mollizie dei tempi pacifici, ridotti al silenzio i
garruli, creato una massa di soldati genii di vittoria od
almeno di pertinacia: nelle guerre dell'estero il popolo
di Roma era dunque un esercito che affrontavasi talora
non con un esercito, ma con un popolo di cittadini. Sul
campo delle politiche agitazioni si forma Tuomo di Stato;
sul campo di battaglia si forma l'uomo di guerra. Du-
rante la calma d'ordinario non s'addestra, e non si mo-
stra nelle pubbliche cose se non una parte minima della
massa sociale : nelle discordie civili questa compare, e si
esercita tutta : dallo spesso e generale operamento delle
armi si ingenera in tutti esperienza e fermezza, e dove è
maggiore la massa che opera, e tanto e più rapido e
moltiforme il moto, ivi naturalmente sorgono più nume-
rosi gli uomini di fama perpetua. Queste leggi del mondo
politico sono bene sviluppate negli scritti di Montesquieu.
Ma cadevano altresì all'urto romano, né era il crollo più
lento 0 la resistenza più soda, quelle federazioni chia-
mate repubbliche eteme da lui, che tanto le loda ed am-
mira. Precipitavano infatti all'urto romano la Lega degli
Achei e quella degli Etoli, e quelle eterne repubbliche
non erano decrepite, e né l'esempio romano, né i succes-
sivi confermano i vanti soverchiamente profusi da Mon-
tesquieu alle aggregazioni di Stali.
Anche senza disconoscere i vantaggi che una federa-
zione presenta dove non é possibile od opp#rtuno cer-
care unità, e senza voler giudicare i federali consorzii a
norma di una perfezione e perpetuità che nel mondo non
270 PlftE TEIZl
è, troviamo in essi i germi di discordia, sovente quelli di
contrasto, e non di rado quelli di dissoluzione. Chi
presieda al Consìglio esecutivo e quali autorità abbia
ad esercitare sui governi federali, dove debba risiedere
il Consiglio dietale, e come possa godere pienezza di li-
bertà se non è collocato in un territorio neutrale e reso
dipendente da esso, se i voti nella dieta abbiano ad es-
sere liberi od obbligati da istruzioni, se i voti debbano
essere equipollenti o proporzionali alla diversa popo-
lazione dei singoli Stati, ecc., queste, e cento altre cause
di conflitto ad ogni istante rinnovansi. Se poi le forme di
governo sono nei varii Stati diverse, od almeno lo sono,
come sempre avviene, le condizioni civili ed economiche
dei varii ceti, e diversi sono i diritti politici e lo sviluppo
intellettuale e morale di essi, la religione e la lingua, in
allora aumentano sommamente le difficoltà. Se uno Stato
è povero e l'altro è ricco, Tuno agricola e l'altro manifat-
turiero, l'uno esposto al pericolo d'aggressioni esteme e
l'altro no ; se i terreni dell'uno sono proprietà esclusiva
dei cittadini suoi proprii, e nell'altro sono frequenti ì
possessi stranieri; se l'uno ha paesi dominati privata-
mente da esso, e l'altro non ne ha, ecc., si moltiplicano
le ragioni d'attrito e violenza. E ben di rado, o non mai
s'ottengono nelle repubbliche federative luniformilà delle
milizie, l'utile scelta dei rappresentanti nell'estero, il buon
ordine delle finanze in ogni governo.
Noi non diremo di più, ma già sembra manifesto che
Montesquieu tenne in pregio soverchio la sodezza appa-
rente delle federazioni di Stato. Certamente ebbe lunga
durata sotto ereditario principe la lega delle Sette Pro-
vincie d'Oltfnda, ed è di molti secoli antica la federazione
d'Elvezia nelle sue grandi montagne, che ogni potente
vicino vorrebbe occupare per sé, ma nessuno tollererebbe
CAPITOLO II. 271
da altri occupate. Qoale spettacolo però hanno offerto per
mezzo secolo le federazioni deirAmerica Centrale, della
Nuova Granata, dell'Argentina e del Messico, per non
dire degli Stati Uniti, ove infuria da lunghi anni terribil-
mente la guerra! In tutte quelle federazioni abbiamo de-
plorato Tagitarsi incessante di una incomposta e pestile»^
ziale illùvie; abbiamo veduto Ferario povero in paesi
ricchissimi; gli atti eroici, ma inutili o dannosi; i coraggi
indomili, ina a strazio, non a difesa di patria. Yi si prova-
rono tutte le istituzioni, le censure, gli eforati, i sindacati,
i consigli degli anziani, i voti equipollenti, i voti diversi ;
l'iniziativa data al governo, ai corpi legislativi, ad ogni
membro di esso; la dittatura, strano rimedio; lo squittii
nio segreto e lo squittinio pubblico; il diritto politico se-*
condo i ceti, secondo le età, le possidenze, il colore ; le
cariche a vita, le cariche a tempo, le nomine dirette, le
nomine indirette, ecc. Di tutto fecero esperimento quelle
repubbliche federative d'America, protette non dal nodo
fraterno, ma solo dalla vastità dell'Oceano, e dalle gelo-
sie d'Europa contro la forza straniera. Non è certamente
colà dove non vedesi né pace, né forza, dove le costituzioni
ogni di furono e sono giurate, violate, divinizzate, ese-
crate, bruttate di sangue, deposte sull'ara, strascinate
nel fango, che Montesquieu avrebbe argomento ed ap-
poggio della prodotta sentenza.
La confusione ingenerata dalle tragiche catastrofi della
guerra civile, della sociale e della servile si era dalle
terre propagata sul mare. Divampò la guerra dei pirati:
qui Èuam rem nullam habent alienam exauriunt. Vaga-
bondi, avventurieri, malcontenti e proscritti corseggia-
vano per stimolo di necessità, per sete di vendetta, per
isperanza di rovesci e d'insorgenze. Il Mediterraneo, se-
gttàtamente nel suo latd orientale, presentò l'aspetto che
S72 PÀBTK TERZA
nei secoli vicini a noi offri lungamente nell'epoca dei flì-
bustieri il mare antillese ; erano predati i navigli, deso-
late le coste, invase le città. Quegli antichi flibustieri eb-
bero come i moderni le loro piazze forti, i loro palesi o
clandestini alleati, i loro tesori, e certamente anche il
loro statuto per dividere le prede secondo il valore pro-
vato, le riportate ferite, i bisogni comuni, ossia il codice,
la norma legale della pirateria ! Aliquot annos continuos
ille populus romanus (Cic, prò Lege Manilla), cujm
iisque ad nostram memoriam nomen invictum in nava-
libus pugnis permamerat, magna ac multo maxima
parte non modo utilitatis, sed dignitatis atque imperii
caruit ; nullo in loco jam prtedonibus pares esse potè-
ramus; non modo provinciis atque oris ItaÀim maritimit
ac portubus nostris, sed etiam Appia jam via careba-
mus. In Roma affamata proponevasi la legge Gabinia,
legge pericolosa alla sicurezza della forma repubblicana
perchè con essa conferivasi ad un solo un'autorità ecce-
zionale su tutto il Mediterraneo o mare interno fino allo
stretto di Ercole, ossia al mare esterno {l'Oceano occiden-
tale od Atlantico), ed inoltre gli dava l'impero su tutte
le coste a certa distanza da terra. I proponenti vincevano,
perchè la fame non soffre consiglio, ed il bisogno era
grande: si accordavano a Pompeo mille vascelli, trenta
mila soldati, ed un tesoro : Pompeo divideva tutto il mare
in tanti campi, quasi provincie, ed a ciascuno inviava
una flotta. Mancando i pirati d'unità di comando, non si
riunirono in forza, e furono isolati, od in pochi, op-
pressi dovunque. Nei castelli di Cicilia che erano i prin-
cipali loro covi, cercolli lo stesso Pompeo : ne prese un
gran numero, né tutti li consegnò al carneQce, ma ne
distribuì le migliaja in città lontane dal mare in Cilicia,
in Armenia e perQno in Acaja, facendo ai medesimi an-
CAPITOLO II. 973
che concessione di terre (Plut., in Pompeo^ e Floro,
III, 6).
E già Pompeo aspirava a potenza maggiore. Mitridate
aveva rinfrescato la guerra quando Siila ritirò le legioni
dall'Asia per correre con esse a feroce vendetta su Roma:
potè rinnovare gli eserciti, potè invadere quanto di ter-
reno rimaneva scoperto per la marcia delle forze ro-
mane in Italia: rifluendo però le legioni dall'Italia nella
Grecia e nell'Asia , Mitridate fu risospinto di nuovo ,
venne in grandi conflitti battuto, e perdette le sue più
forti città e le sue migliori piovincie. Tigrane temette
allora dei Romani venuti si vicini e potenti : li volle
lontani: s'uni a Mitridate, ma ebbe contraria fortuna, e
Lucullo lo batteva, lo incalzava e prostrava. Ormai la
corona cadeva dal capo ai due re : Pompeo lo vedeva ;
aspirava all'onore d'ultimare la guerra imperversante già
da varii decennii; quindi chiedeva d'avere il comando
dell'esercito di Lucullo, ed anche di conservare l'impero
del mare. £ veramente era utile, per non dire necessa-
rio, che in guerra si grande il capitano dell'esercito di
operazione nell'Asia fosse altresì immediato signore del
mare, e quindi dei mezzi di comunicazione. Ma opponevasi
Catulo a questa seconda e tanto maggiore concentrazione
di potenza in un solo cittadino : gridava che per essere
libero d'ora in poi bisognava ridursi a vivere nelle monta-
gne e nei boschi (Plut.) : resisteva anche Ortensio, dignù-
$imum esse Pompejum, sed ad unum tamen omnia de-
ferri non oportere. Sosteneva invece la proposta Cicerone
sempre ligio ai patrizii, e nella troppo famosa sua
orazione versava il fiume della vera eloquenza che era
somma in lui, e quello altresì della verbosità ond'era
spesso contaminato. Egli schivava d'aggirarsi sul vero
punto cardinale della controversia politica, e profoa-
48
274 PiBTE TEaZi
devasi in un panegirico a Ponapeo, che non è tutto di
liriche ascensioni, ma anche di trabocchi rettorie!. Lo-
dando p. es. la rapidità di Pompeo con cui si era con-
dotto ad assumere il comando della flotta nell'Asia, narra
agli uditori le inanissime fole che Pompeo non fu si
pronto perchè la sua nave avesse doppie vele, od i remi-
ganti avessero quattro braccia^ ma perchè Pompeo poco
trattenevasi colle cortigiane, né stavasi estatico davanti
ai monumenti d'Atene!
Gravissima era però la mitridatica guerra, né allora
credevasi che alcuno fosse pari a Pompeo nell'abilità del
condurre al trionfo Vesercito contro il perseverante ne-
mico. Gli fu dato il comando dell'esercito di Lucullo, ed
il governo di Frigia, di Licaonia, di Galazia, di Cappa»
docia, di Cilicia, di Colchìde, di Armenia e di Bitinia.
Egli poi dilatavasi su tutte le provincie che aveva occu*
pato ed aggiunto al suo Stato Tigrane, e quindi inva-
deva anche la Siria. Intanto facevansi e concessioni e
doni al popolo per averne i suffragi a si insolite leggi,
a si eccessiva larghezza di impero, ed era dall'oro, dalle
leggi e dall'armi la plebe nobilitata.
CAPITOLO UI.
Gatilina — Glodio — Gieerone.
Volevasi la riforma, da molti pel meglio dell'ordina-
mento di Roma, da molti per occasione a far sangue e
bottino : mirando diversamente a scopi lontani agivano
d'azione isolata o concorde al rovescio del potere pre-
sente : nei modi di congiura e d'insidia facevano comune
il peccato. Tutti volevano eseguire, ma tutti tremavano
d'incominciare : Catilina lo osò. Pronto di mano, ardito
di lingua, impetuoso e fervente d'ingegno, Catilina aveva
parteggiato per Siila, e largamente versato negli odii ci-
vili di sdegno e di sangue. É ignoto qual fosse il preciso
disegno di lui, ma troppo improbabile che non mirasse
se non a rovine ed incendii. Cicerone non ne calunnia
il carattere, perchè i deplorabili esordii della vita di Ca-
tilina abbastanza comprovano che Catilina cercava oro e
potenza, e n'andasse pure il mondo in fasci e faville;
ma v'erano certamente anche scopi di lusinghiere appa-
renze, e Cicerone li tacque, e rimasero ignoti. Sallustio
fu più mite, e probabilmente più giusto anche nel giu-
dicarne il carattere ; egli dice di lui : corpus pattern ine-
diw, algoris, vigilici supra quam cuiquam credibile:
animus audax, subdolus, varius, simulator ac dissimu-
276 PARTE TERZA
lator, alieni appelens, sui profusus, ardent in cupidi-
tatibus, vastu$ animus, immoderata^ incredibilia, nimis
atta semper cupiebat. Ma anche Sallustio non tocca delle
generali condizioni polìtiche della romana repubblica,
delle concitate passioni, delle fazioni pronte alla lolla,
per cui un audace tentativo, se anche fatto da indegna
persona, poteva convertirsi per opera dell'autore o di
altri da sanguinoso tumulto in vera rivoluzione di Stalo.
Secondo Cicerone e Sallustio, erano forza di Catilioa
in Roma le migliaja di quelli che flagitio ani faci-
nove domo expulsi Romam ticut in sentinam conflyse-
rant, et per dedecora patrimonia amiserant: erano poi
sua speranza in Italia le migliaja de' proprietarii espulsi
dalle loro terre da Siila, gli stessi legionarii sillani stan-
chi di quiete e pronti a lasciare l'aratro per riprendere
sotto d'alcuna bandiera la guerra, e quelli fra gli alleati
di Roma che non erano peranco stati appagati delle
loro domande dopo la guerra sociale. Ma v'erano inoltre
le torme di schiavi frementi alla memoria dì Spartaco,
benché il levare il grido spaventevole d'una nuova guerra
servile dovesse da qualsivoglia Romano riservarsi al caso
estremo come disperato ajuto a disperata impresa. L'esca
all'incendio era dunque abbondevole, perchè un gran
moto potesse scoppiare, se anche mancavano ai primi
congiurati le voci generose che scuotono solo in allora
che le dice generosa persona ; ma la tirannide patrizia
spianava la via al fondarsi di tirannidi plebee d'un de-
magogo 0 soldato.
È vero che Roma era stata di fresco pesta e dissan-
guata da Siila del più focoso suo sangue ; è vero che Ga-
tilina era macchiato di quel sangue medesimo, che non
aveva le memorie di domate provincie, non l'entusiasmo
concitato di confidenti legioni, non le assemblee già go-
CAPITOLO III. 277
vernale coU'eloquenza vittoriosa ; ma Toccasione vi era,
e Catilìna tal uomo da aprire una breccia da gittarvisi
entro, ove forse avrebbero trionfato i meno audaci, non
invisi e più sapienti di lui. Quindi Gatilina ebbe a parti-
giani undici senatori, e molti che erano slati tribuni e
questori: il silenzio ha certamente coperto la partecipa-
zione dei più, ma il sospetto risali fino al console Anto-
nio, fino a Giulio Cesare ! Noi quindi non sappiamo scor-
gere in tale congiura, in si grave condizione di tempi, il
solo fatto d'uomini scapestrati e violenti come Cicerone
li chiama. Le congiure sventate, anche le più serie, le
m^lio ordite, e le aventi nelle condizioni sociali maggior
fondamento a successo, non sono sempre rappresentate
da tutti i governi come stolti conati di scellerati ambi-
ziosi tendenti a direpzioni e rovina ? E realmente in ogni
congiura di pochi o di molti non si trova una mostruosa
congerie d'uomini facinorosi e perversi, e di altri utopisti,
assennati od illusi? (1)
Alla meditala rivoluzione di Stato tentò Calilina d'age-
volare la via anche col farsi corazza e spada di autorità
legale e suprema : voleva dirigere le forze romane e dis-
porne, od almeno paralizzarle e disperderle. Chiese
quindi il consolato, e non ottenendolo, fosse temerità,
fosse disperazione di essersi già troppo inoltrato, precipitò
i preparativi allo scoppio. Seppesi della macchinazione, e
Cicerone mena gran vanto di averla scoperta. Poco però
richiedevasi d'acutezza in un console a risapere d'una
(1) La famosa congiura di Mario Faliero (1355), Tuna delle più pericolose di
cui Tanno menzione le storie, aveva evidenza di scopo, quello cioè di distrug-
gere col favore delle plebi Faristocrazia in Venezia, e ne era alla testa il mede-
simo doge; eppure non ne fu confessato il carattere: fu attribuita a cause acciden-
tali e volgari, si ritenne, o si finse di crederla ristretta a persone di ceto infe-
riore: si sospese forse di cercare più addentro, e la vendetta non cadde che sul
capo, e su quelle.
278 BIRTB TEBZA
trama ordita da centinaja di persone, conosciuta dalle
loro amanze (da Fulvia p. e.), indiziata dalle agitazioni
incominciate nella Puglia e Piceno, e dai viaggi degli
emissarii mandati in ogni luogo da Calilina, fatta poi ma-
nifesta dall'esercito che Manlio raccoglieva per lei in Etru-
ria, e dalle istigazioni ed offerte ai legati degli Àllobrogi,
perchè quelle bellicose genti insorgessero. Aumentando
il pericolo, Cicerone risolve di denunziarlo al Senato :
Catìlina crede meno stringenti le prove raccolte dal con-
sole, e viene audacemente egli stesso in Senato.
Quanto era già debole l'autorità senatoria, se Cicerone
console, invece di afferrarlo, limitavasi ad inveire con
quella violenza, e quasi brutalità di parole : Fuggi, va via^
prorompi; perchè non vai? impudente, temerario, ecc.
Le quali invettive ripetute in caso simile da un console
per un'ora intiera, ci sembrano davvero troppe anche nel
regno dell'eloquenza. E Calilina sicuro sortiva dalla città
recandosi al campo in Etruria. Il Senato non conToca il
popolo che può ondeggiare e commoversi ; non provoca
alla nomina di un dittatore, essendo a ciò necessaria la
riunione del popolo, perchè questo pure abbia ad abdi-
care alFesercizio dei poteri suoi conferendolo a lui, ma
il Senato decreta la semplice formola : dent operam con-
sules ne quid respublica detrimenti capiat, che s'inter-
pretara dai patrizii di guisa che vera autorità dittatoriale
fosse investita nei consoli (1). Col quale senatorio decreto
(1) Ea potestas, dice Sallustio, per senatum more romano maghtraliU
maxima permiUiiwr, exereilum parare, bellum gerere, coereere «nmòitt malis
toctot ntgueciveif domi miliiif^que imperittm aiqu€ Judicium tummum kabere ;
aliier «ine popuU jwiu Huliiu$ eanun rerum eonsuli jtu tei* \ consoli di-
ventavano adunque per mero decreto senatorio temporanei dittatori e re: erano
responsabiii forse, ma pel momento sovrani; agivano eolle leggi» e fuori deUe
leggi : Tadagio legale nemo dot qwfd wti ka^ non era rispettato, perchè i
consoli per mero decreto senatorio concentravano in loro soli e le autorità
CAPITOLO m. 279
Cicerone console sostiene e traduce in carcere i capi di
congiura ancora presenti in Roma, poi non osa egli
stesso ferirli, ma il Senato li condannaTa, dissenziendo
però Cesare che scaltramente adulò i novatori con dot-
trine umanitarie e filosoAche non già sul diritto di in^
fliggere la pena capitale (che non se ne dubitava allora)
ma sulla convenienza di applicare il capestro (1).
Onde validare del tutto il senatorio decreto un eser-
cito consolare incalzava intanto in Etruria lo stesso Ca-
tilina, che poche genti, e meno armi aveva, e lo serrava
proprie del Senato che le conferiva, e quelle altresì del popolo che non le aveva
conferite. Tale provvidenza poteva essere strano rimedio, prevenzione di danno,
termine di quiete^ ma era usurpazione e inezzo di facile abuso*
(1) Nella quarta catilinaria Cicerone presenta un riassunto molto interessante
di quelle discussioni in Senato: la posizione politica é luminosamente indicata
dalla qualità degli argomenti usati in allora dai varii oratori. L*uomo sicuro
delle proprie forze ferisce diretto, e non volteggia con arte i quindi Cicerone
sicuro che i senatori volevano la morte di Catilina, traditore di essi, si lanciava
con violenti invettive contro di lui, e lo chiamava al supplizio. Cesare, trovan-
dosi debole, Untava di salvar la vita a Catilina, e di farsi così gradito al popolo.
Erano le voci di Cesare, che il traditore della patria ben altre pene merita che
la morte: merita di vivere alUnfamia ed all'esecrazione ù't tutti: la morte non
essere se non necessità di natura, un fine ai travagfi, una pace che non può
essere ulteriormente violata: la morte dagli spiriti forti e valorosi essere tal-
volta incontrata volonterosamente. Quando Cicerone invece doveva parlare al
popolo contro la legge agraria di Rullo tribuno, esordiva serpeggiando; nella
confermazione destreggiava; abbagliava con gli specchi degli esempii dei maggiori
(il cai governo, come aristocratico, uccideva i proponitori della legge agraria);
derideva Taspetto fisico ed insnltava alle azioni private di Rullo piuttosto che
parlare della qualità della legge. E Cesare e Cicerone, se forti stali fossero,
non avrebbero quel momento concionato; avrebbero combattuto. Cosi Cesare,
parlando pd Catilinarii, e Cicerone, paiiando contro Rullo, erano ideologi di
mala fede : sapeva Cesare che ai Catilinarii dispiaceva più la mannaja che non
il carcere; sapeva che, passata la bufera del momento, tutto eravi da sperare
dal popolo contro il Senato irritalìssìmo ; sapeva forse ch'egli stesso dei Cali*
linarìi sarebbesi a scopi immensi servito. Ma Cesare, non potendo ferir diretto,
adulava almeno il popolo in modo indiretto, non ch'ei credesse esistere nel
romano Senato il moderno filosofo, che voleva abolire la pena di morte, perchè
il patto sociale uon la permette, né potrebbe permetterla, e perchè la condanna
perpetua sia peggiore della morte, ed è nondimeno dal patto sociale e dalla
giaoliiia permena.
280 PiETE TEEZi
dappresso , perchè agio non avesse a crescere ed ordi-
nare le prime, ed alleslire le seconde. Passare i monti
entrando dall' Etruria nella Gallia cispadana, frapporre
anche il gran fiume fra sé ed il console, agitare le
Gallie, è ora per Catilina scopo e necessità. Assume
le forme imperatorie con fasci e littori, alza, egli sica-
rio di Siila, la bandiera di Mario, grida alla tiran-
nia dei pochi sulle misere plebi, alla larghezza a darsi
ai comizii politici, alla partecipazione di tutti ai diritti
di Stato, agli onori di città ; ma frattanto aATretta le mosse
ai monti ; eppure ne trova già occupate le gole da altre
legioni accorse dalle Gallie. Sostare è impossibile : ha un
esercito consolare a tergo, e presto sarebbe chiuso in un
cerchio di lance : ha l'audacia, ma non il genio di Spar-
taco, che seppe in più angusto terreno sfuggire a Grasso,
d'Annibale che sparve con uno stratagemma da Fabio,
di Banner svedese che accerchiato in Pomerania seppe
schermirsi, involarsi per ricomparire potente (1637), di
Napoleone che stretto da tre eserciti russi valicò la Be-
resiixa, e si tolse di mezzo ai medesimi. Catilina non ha,
0 non trova altra via se non quella che il porta ad ur-
tare nell'esercito delle Gallie, od in quello di Roma, cia-
scuno ben maggiore del suo. Forzare le gole dei monti,
e superare un esercito è dura impresa, e dove pur riesc^t,
la vittoria non sarà che una fuga : meglio dar d'urto
nell'esercito consolare, che è nel piano d'Etruria : se si
batte e si prostra, la vittoria guida alle porte di Roma,
dove per l'uno dei congiurati da Cicerone sgozzato, ne
sorgono mille. Si rivolge dunque Catilina contro i con-
solari, sfida la fortuna e comanda la vittoria non con
voci di cinguettiera eloquenza, ma d'eroica disperazione:
Ogni viltà convien che qui sia morta : o vinti od arresi
siamo scannati: meglio con virtù, che con istrazii e
CAPITOLO III. 281
schemi morire : eppure i pochi talora hanno vinto i
molti : impari dalla mia ogni tpada a ferire : piombi
quest'oggi sanguinosa sovra il nemico la nostra rovina.
Vi era la disperazione in tulli, may'erano certamente nei
molti non ì soli vizii e le nefandità che Cicerone e Sal-
lustio ai Calilinarii rimproverano, bensì' vera prodezza,
entusiasmo, e forse virtù. Non è un esercito di soli scel-
lerati e libertini, di cui dopo la battaglia si scriva quem
quisque vivus pugnando locum ceperat, eum, amissa
anima, corpore tegebat (Sìllustio). Tutti caddero, sì
che mancarono viventi al patibolo : cadde anche Catilina,
pulcherrima morte si prò patria sic cecidisset. E qui
Sallustio, da storico mutandosi in poeta, lo raffigura già
esanime come fa d'Argante il Tasso: ferociam animi,
quam habueral vivus, in vultu retinentem.
Cicerone medesimo, vista la fine di Catilina, i fiori
sparsi talvolta sulla sua tomba (Cic, prò Fiacco), e le
agitazioni civili pel suo sparire non spente, pronunciò
dopo pochi anni di lui quel più mite giudizio che egli po-
tesse dopo le tante contumelie proferito, ed il sangue il-
legalmente versalo. Così parlò p. es. di Catilina nella sua
orazione per un Celio difeso da lui benché avuto avesse
relazione con quel fiero suo nemico: Habuit ille per-
multa maximarum non expressa signa, sed adumbrata
virtutum: utebatur hominibus improbis multis, et qui-
dem optimisse viris deditumesse simulabat. Erant apud
illum illecebrcB libidinum multai : erant etiam industrie^
quidam stimuli ac laboris. Flagrabanl vitia libidinis
apud illum: vigebant etiam studia reimilitaris. Ncque
ego unquam fuisse tale monslrum in terris ullum puto,
tam ex contrariis, diversisque inter se pugnantibus na-
tura studiis, cupiditatibusque conflatum.
Intanto per la vittoria contro Catilina respirano i pa-
282 pàbte terza
trizii, ma un solo istante. II popolo condanna Cicerone
airesìlio per abuso d'autorità. Ecco le ragioni di quella
verbosa violenza: va via, fuggi, temerario. Cicerone
previdente non avrebbe voluto né uccidere, né esiliare :
avrebbe preferito che i cittadini si fossero spontaneamente
allontanati e scoperti. Egli doveva infatti presentire il pe-
ricolo: non aveva poco prima difeso, e con debole suc-
cesso, la vita di Rabirio, che trentasei anni avanti aveva uc-
cisa Saturnino? (Dione e Cicerone, fro/?a6irio). Il popolo
rovesciava, come già sotto Mario, Finterò patriziato: ri-
destava Tire nuove, richiamando le passate offese: vo-
leva vendetta di chiunque in ogni scorso tempo gli era
stato nemico. L'accusa contro Rabirio era una acerba
censura di tutta l'amministrazione senatoria, che aveva
approvalo Tuccisione di Saturnino. E già la legge sillana,
escludente dalle magistrature i figli dei proscritti , in
quell'epoca si abrogava.
Levossi Clodio a capo del popolo : era Tuno di quei
patrizii nudriti negli odiì civili e nelle violenze e stragi
dei campi, che nella preveduta rovina del ceto cui appar-
tengono tentano di salire essi slessi al potere coH'affret-
tarla. Egli precipitò Tuna sull'altra leggi di libertà pel
futuro, leggi di vendelta del passato, ed anche leggi di
svincolo dall'autorità censoria e pontiAcale, e perfino
d'estrema demagogia, la distribuzione p. e. non più a
prezzo moderato e per Terario perdente , che s'era in-
trodotta di già, ma affatto gratuita dei grani alla plebe.
Minacciò, spaventò, non già i deboli e piccoli, ma Cice-
rone, ma Pompeo, ma Tinliero Senato: violentò cogli
sgherri, colle armi impugnate: corse sangue, arsero edi-
ficii: la giusta riforma e l'indegna rivolta procedevano
per iscosse e per urli nella clodiana bufera.
Animandosi però alla memoria delle vittorie siUane
CAPITOLO III. 283
su Mario, ì patrizi! accettano, anzi provocano il grande
conflitto civile. Stringonsi d'attorno a Pompeo, gli man-
tengono il comando di Spagna che reggerà per legali ,
chiamano anche straniere coorti a miglior fondamento
d'autorità contro le ribaldaglie raunaticcie di Glodio.
Cicerone già espulso con voli popolari da Roma ne
viene adesso revocato con voti patrizii : deve porre al
servìzio del Senato la faconda loquela, come Pompeo ha
da assicurare il Senato colle armi. E Cicerone era in-
stancabile : saliva ogni giorno in bigoncia. Sensi pò-
pulum romanum, dice egli slesso, aures hebetiores,
oculo$ acret atque acutos habere: destiti quid de me
audituri essent homines cogitare : feci ut postea quo-
lidie me prmsentem haberent : habitam in oculis ,
pressi forum. Divenne realmente inevitabile : ringra-
ziava, satirizzava, insultava (oratio post reditum): ri-
vendicava Farea della sua casa, che il popolo aveva di-
strutta , e scaltramente consacrata alla libertà , onde
il carattere di sacra intangibilità impedisse di mai più
destinar Tarea ad altro uso ; e come, prima il popolo
aveva trovato chi consacrava, ora trovava il Senato chi
sconsacrava (oratio prò domo sua). Gridavano i tribuni
al sacrilegio : vi erano aruspici che narravano al popolo
di orribili strepiti che si udivano, di mostri, e di pro^
digi; essere gli Dei irritati per varie cause, ed una fra
queste (inserita fra le altre quasi casualmente) essere
l'uso profano di luoghi sacri; doversi placare gli Dei
per allontanare i danni imminenti. Cicerone non ne-
gava la verità dei prodigi, perchè negandola avrebbe in-
sultalo alla credenza delle plebi, che tanto è più intensa
nelle cose incredibili, e quindi indimostrabili ; ma diceva
di temere che gli bei non vendicassero sulla povera
Roma le scelleraggini ed i furori tribunizii: questa
284 PiETS TBEZi
essere la vera causa dell'ira degli Dei ; li placasse il
popolo colla tranquilla e devota ubbidienza IDe Ha-
ruspicum responsis).
Ma Clodio sempre imperversava più fiero , e ad
ogni istante si combatteva nel fòro : le condizioni le-
gali cessavano , e centurie e tribù erano da repentine
violenze raccolte e dissipate. Il grande agitatore delle
plebi era Clodio , ed un patrizio lo uccise : sperò il
Senato in qualche ritorno di calma : non si oppose
alla vendetta giuridica, ed ammise l'accusa : fors'an-
che i patrizii sentirono meno la gratitudine, che pri-
ma non avessero sentito il bisogno. L'uccisore Milone
venne condannato all'esilio, essendo troppo evidente
per ogni consesso di giudici che nell'ultimo fatto in cui
Clodio morì, non egli, ma Milone aveva provocato la
rissa. La capacità a delinquere , per valerci della fra^e
ai criminalisti ben nota, era squisita in entrambi: si
erano l'un Tallro almeno venti volte combattuti nelle
piazze di Roma. Milone non premeditò l'omicidio, al-
trimenti sarebbe uscito di Roma accompagnato soltanto
da' suoi armigeri, e non dalla moglie e da ancelle. Ed an-
che Clodio probabilmente non aveva in animo di assalire,
ma se anche l'avesse voluto, quando s'abbattè in Mi-
lone con trecento schiavi e gladiatori, egli che ne aveva
soli ventisei, avrebbe schivato e differito l'aggressione.
Vedendo poi che Milonegià vincitore nella rissa sangui-
nosa, assalta la casa ove era stato trasferito Clodio se-
mivivo per le riportate ferite, e lo massacra, chi non giu-
dicherebbe soverchiali i limili della difesa? E cade quasi
nel ridicolo Cicerone oratore nel dire che Milone non
poteva volere uccidere Clodio segetem, ac materiem mm
glorile, e nel pregare i giudici di salvare Milone perchè
è suo amico, perchè promise di salvarlo ai suoi figli,
CAPITOLO m. !285
perchè sta franco con una faccia ribalda, e non piange,
perchè chi lo vuol salvo è Cicerone I Strana poi e crudele
si è Taltra espressione di Cicerone, che richiamando nelle
Filippiche l'uccisione di Clodio, parla del fatto di Milone
quasi dicesse d'affare civile definito e composto: Milo
rem trantegit.
CAPITOLO IV.
Pompeo e Cesare.
Clodio era caduto, ma un uomo infinitamente maggiore
di lui erasi levato a capo delle moltitudini agitate e pres-
soché ribellanti alVautorità del Senato. Era Cesare: per
avi, per ingegno, per vittorie riportate, per governate Pro-
vincie, già tutti il vedevano rivale a Pompeo. Idoleggiato
dal popolo, guidante un esercito, padrone delle Gallio,
non lontano da Roma, Cesare poteva forse rovesciare la
sospesa bilancia se avversava arditamente il Senato, si
contrapponeva a Pompeo, e conservava le truppe nella
sua provincia al Campidoglio vicina. I patrizi! lo vollero
dunque disarmare : gli chiesero una parte delle truppe,
gli negarono di aspirare al consolato stando lontano, o
di conservare più lungamente legioni e provincie. Vide
Cesare e vide il popolo dove il colpo mirava : le sorti
commettevansi al cimento dell'armi : guideranno la
guerra pel Senato Pompeo, e pel popolo Cesare.
L'elemento popolare era più forte in Roma ed Italia
che non in qualunque provincia. Infatti le lontane Pro-
vincie soggiacciono all'influsso patrizio molto più lun-
gamente delle città, perchè i patrizii conservano nelle
Provincie la loro influenza patrimoniale, sinché il tempo
vi ha diviso quei latifondi, quelle dovizie, e quelle legioni
di servi , che le leggi non tolgono se non coll'azione
lenta del tempo.
eiPiTOLO IV. S87
Quindi Cesare passò il Rubicone, invase immediata-
mente ritalia, marciando a gran giornate su Roma.
Non era superstizioso , ma quand'anche slato lo fosse,
ed avesse creduto a quella apparizione della patria
che Lucano ci narra, non era certamente il freddo dis-
corso che le pose in bocca il poeta, che l'avrebbe arre-
stato al passaggio, 0 fatto più lento nel molo. Lo spronava
la voglia, e non lo riteneva il timore: vediamo infatti nei
Gommentarii che i tribuni del popolo, fuggiti da Roma,
si trovavano nel suo campo, e l'assalto era quindi, al«-
meno nei rapporti col popolo, legalizzato. Si mosse dap*
principio con una sola legione; ma già rimarcammo che
l'influenza patrizia, almeno in Italia, crollava. Edi Com*
menlarii cesariani narrano che Gubio, Osimo, Cingoli,
Ascoli, Sulmona, Pontina ecc., tutte piazze presidiate,
subilo insorsero a favore di Cesare, e quasi tutte legnar*
nigioni militari si dichiararono per lui : nella sola Cor*
fìnio trenta coorti pompejane dopo breve simulacro di
resistenza s'arresero, e consegnarono i loro capi. Defe*
zionarono a favore di Cesare, o stettero cheti anche
molti di quelli che aveva beneficato Pompeo : qui per eum
aut honores aut dtvitia$ eeperant, partim invitmimi
castra sunt secutù partim snmma cum offemione Pom^
pei domi remanserunt, dice Cornelio nella vita di Attico.
Probabilmente costoro come uomini di fede mutata mo-
stravansi pih dì tutti zelanti per Cesare, e strascinarono
i più infingardi e timorosi nel moto.
In Roma era il centro di tutto : vi erano risorse ine-
sauribili, e vi era l'apparenza della legittimità del co-
mando : quindi Cesare marciava difilato sovr'essa. Man-
cavano le forze a Pompeo: moltiplicava i proclami: li
moltiplicava per esuberanza anche Cesare : l'uno dicevasì
di femore del Senato, Fallro del popolo, entrambi di-
288 PARTE TERZA
femori di Roma: Vogliono entrambi la libertà e la pace:
entrambi sono pronti a disarmare, ma quando rawer-
sario abbia già disarmato: intanto raccoglie ciascuno
nuove truppe quante piti può. Pompeo, che è il più de-
bole, manda legati a Cesare che parlano d'amicizia, di
parentela, di facilità d'accordi, ma retroceda nella Gallia,
ed andrà poi in provincia anch'egli. Cesare non respinge
i legati, anzi li accarezza, che chiunque ha fisso la
guerra fa ampie proteste di pace, ma marcia, ed entra
in Roma. Irritato per fuga, Pompeo aveva dichiarato che
avrà per nemico chiunque non si levi contro di Cesare:
questi più sicuro e più savio offre tranquillità alle masse:
avrà per nemici quei soli che si schierino contro
di lui.
Trovò Cesare il pubblico tesoro in Roma, e ne prese
gran somma. Dicono alcuni scrittori che Pompeo vi
aveva lasciato il tesoro per negligenza inescusabtle di
non assicurarsene e trasportarlo con sé. Noi non cre-
diamo però che vi siano consoli o capitani d'esercito che
commettano si gran negligenza di lasciar il tesoro al ne-
mico, né siavi mai tal fretta di fuga che impedisca di
prendere e trasportare il denaro. Affermano altri scrit-
tori che il tesoro era conservato nel tempio di Saturno, e
credevasi quindi in sicuro per la riverenza del luogo.
Ma quando pur fosse, Tesservi il tesoro al sicuro da
Cesare, ne dava forse la disponibilità a Pompeo, o que-
sti aveva denaro di troppo? Non v'era in Roma chi
potesse credere all'inviolabilità del tesoro per la san-
tità di quel tempio. Ridondano nella storia gli esempii di
luoghi santi invasi e saccheggiati da Persiani, da Carta-
ginesi, da Greci, da Romani: si spogliarono egualmente
da popoli, da ribelli, da condottieri, da re: si espilarono
parimenti da Pagani e Cristiani ora per avaro ladroneg-
CAPITOLO IT. 289
gio, ora per necessità delVerario» ora, e fu il caso più
raro, per destinazioni d'utilità. Il più delle volte si prese,
e non si pensò nemmeno a dare le apparenze legali al
fatto del prendere; talora voli si raccolsero, e suffragi si
ebbero, perchè tutto si ha da chi possiede la forza, e
questa era di Cesare.
Rimase in Roma il tesoro, perchè Pompeo non osò di
toccarlo: vi rimase perchè la rivoluzione morale era già
vittoriosa in Roma prima dell'arrivo di Cesare, e Potn-
peo doveva temere d'opposizione all'atto rapace, e
di provocare rivolta ove già vi era fermento, ed il
suo potere cadeva. Diciotlo secoli dopo il mondo ve-
deva un fatto eguale, quello cioè di Napoleone che
dall'Elba disceso a Cannes, n'andava con mille soldati a
Parigi a riprendervi il trono, ed egli pure vi trovava
quanto di mezzi di governo raccoglieva la grande città.
Provveduto di denaro. Cesare ordina di costruire due
flotte, l'una sull'Adriatico, l'altra sul mar Tirreno, e non
tollera, anzi fieramente reprime nelle ben allestite sue
truppe il disordine e l'indisciplina, facili a propagarsi in
casi si gravi (1). Libera poi Aristobolo, già re degli Ebrei,
che era prigioniero in Roma, forse per inviarlo a com-
movere la Siria, dove Scipione levava truppe contro di
Cesare. E gli Ebrei non dimenticano nemmeno quelle
povere loro speranze : quando Cesare fu fatto cadavere,
gli Ebrei ne visitavano mesti ed onoravano la salma :
(1) Gli atti d'indiseiplina, e la repressione severa sono toccati anche da Lu-
cano nel libro I della Farsaglia : i soldati della nona lefpone erano già trascorsi
ad eccessi ; richiamati al dov.ere, disordinavano ancora ; vociferavano che mentre
Cesare li guidava ad attaccare il Senato, li voleva esempii di virtù ; che nelle
Gallie era capitano, ed in Italia era complice : Imus in omne nefas^ pauperate
pii: dux erat, hic sadiu: facinus quos inquinata ctquat. Cesare in allora
decimò la legione.
19
290 PARTE TERZi
pracipueque Judm, qui etiam noctibus continua hur
slum frequentaverunt (Svet., C(es., c. 84).
Lasciala Roma, Pompeo non sostò, non tentò in alcun
luogo difese, ma corse a Brindisi. Nei casi ordinarii di
guerra non avrebbe rinunciato si tosto a sostenerci in
Italia: poteva gettarsi nell'aspro paese dei Marsi e San*
niti (l'Abruzzo), che è la più forte posizione per con-
trastare la marcia ad un esercito che, vittorioso sul Po,
sia entrato nel Piceno ed Etruria. Da quel baluardo equi-
distante dalla doppia marina, e coperto contro gli as-
salti di fronte, avrebbe tenuto l'occhio su Roma, tagliato
le comunicazioni a Cesare se tentava girarlo lungo la
zona orientale dell' Averno, del Sangro o Tiferno, o lungo
l'occidentale del Liri e Volturno, e potuto valersi a difesa
dei fianchi delle munite città di Gasilino, di Fregelle, di
Istonio e di altre, che erano in quei tempi ciò che furono
nei moderni Civitella e Pescara nell'est, e Gaeta e Gapua
nell'ovest, tutte erette a sostegno delle linee medesime (1).
Anche nelle guerre sillane Pompeo aveva avuto ed esem-
pio altrui, e propria esperienza di pertinaci difese di quei
monti altissimi e di quelle gole tortuose e profonde. Ma
egli disperava di tener fermo finché da tergo gli arrivas-
sero d'oltremare gli ajuli : ben poche truppe aveva, ed
incerte di fede : la resa di Corfinio aveva d'altronde scon-
certato il sistema, e semiaperto il paese: romoreggiavano
gli Italici d'intorno a lui : gli stessi Marsi e Sanniti ave*
(1) Noi auguriamo di gran cuore prosperità all'Italia, ma se mai subissimo
un rovescio sul Po , se perdessimo quella magnifica posizione strategica di
Piacenza, e dovessimo ridurci a difendere temporariamente una sola mela del
paese per ricuperare Tintiero, vorremmo che riparando all'Abruzzo, già vi tro-
vassimo nel centro e sui Banchi moltiplicata daìrarte la forza naturale dei siti,
sicurate dalle offese le comunicazioni coi centri più importanti deirilalia au-
strale, e liberi a noi, e chiusi al nemico gli approdi per operazioni navali com-
binate alle difese terrestri.
CAPITOLO lY. 291
vano nelle guerre precedenti seguilo le parli popolari e
non le patrizie : poteva. yenir serralo nelle rupi del San-
nio, farvi come leone temporanea difesa, prorompere
talvolta e ferire, ma colla quasi certezza di essere da
ultimo separato dal mare, diviso dalle truppe accorrenti
dalVAsia, privo d'alleati e spento. Cesse d'Italia: segui
la lurba dei patrizii fuggenti : si fece schermo con essi
delle mura di Brindisi preparando pel tragitto le navi :
Cesare lo seguiva dappresso.
A Brindisi la natura fu prodiga dei favori di porto,
che negò airintiera costa fino ad Ancona cento leghe
lontana: Brindisi è porta d'Italia, ponte alla Grecia^ scala
all'Oriente: bisogna cacciare Pompeo di là: Cesare pre-
valente d'audacia e d'ingegno penetra più addentro , e
spera di rendere la prima offesa mortale: ravvisa infatti
possibile di chiudere Brindisi anche dal lato di mare,
di serrarvi Pompeo colle poche sue truppe e le molte
sue navi, e di fluirvi la guerra col farlo prigione. Il
doppio porto di Brindisi comunica per uno strettissimo
imbuto 0 canale col terzo porto, o rada esterna, e per
essa col mare: bisogna attraversarsi al canale, e chiu-
dere il varco che guida all'aperto. Non si avevano allora
i nostri bronzi per fulminare lontano, per incrociare coi
fuochi, per coprire d'una ferrea gragnuola l'angusto sen-
tiero come si fece in cento assedii moderni, e si fa per
isolare una piazza dal mare : era forza d'avvicinarsi al
canale, di giunger sovr'esso, e Cesare s'avanza lungo le
due lingue di terra fino al medesimo. Si incominciano
a rovinare le sponde, a gettare dei massi per ostruire
il passaggio : può seguirne per lungo tempo , forse
per sempre, incalcolabile danno ad un porto ottima-
mente situato e prezioso , ma chi si trattiene per tali
considerazioni dal vincere? Se vi sono in Europa molti
S92 FllTK TERZA
porti migliorati o creati da pertinace lavoro degli uo-
mini , non ne furono pur molti di colmali e distrutti
per fatti di guerra, per rivalità di commerci, per ire
di partili o di popoli? Si avvide Pompeo del pericolo
sorto e rapidamente crescente, non esitò finché fosse
incarcerato in Brindisi, urtò negli ingombri tuttora po-
chi e mal sodi, pugnò più giorni, alfine forzò il passo,
fu in libero mare , ed in Grecia. La sua era fuga , ma
sembrava vittoria, e Cesare deluso della preda mancata,
e meno lieto dell'Italia occupata, ritorna a Roma, e passa
tosto in Ispagna.
L'Oriente era aperto avanti a Pompeo, quell'Oriente
che era stato campo di sua gloria, dove egli tolse e diede
corone : ivi raccoglierà denaro e truppe, farà ritorno ar-
mato, ripetendo come Siila coll'esercito d'Oriente l'inva-
sione d'Italia. E Cesare non lo incalza colla spada alle
reni? E Pompeo, che non ha seco un vero esercito, potrà
tranquillamente formarlo? Come mai Cesare s'allontana,
lascia perfino l'Italia ai luogotenenti suoi, se ne va in
Ponente, e compare in Ispagna?
Pompeo aveva condotto tutte le navi con sé, e richie-
devasi tempo non breve per richiamarne altre da lungi
(De bello civili^ lib. I, e. 29). E sapeva Cesare che
quando già si battaglia nei campi la somma delle cose
sta negli eserciti, i quali se le questioni non solvono, ne
tagliano i nodi : fra gli eserciti poi più temeva i presenti
e gagliardi per uso antico ed onore di guerra, che non
i futuri, raunaticci, senza palme ed allori. Ora Pompeo
governava per legati la Spagna, e vi aveva da cento mila
soldati, ossia cinque romane legioni, ottanta coorti spa-
gnuole e cinque mila cavalli con .Afranio e Petrejo sul-
ribero, e due legioni e trenta coorti spagnuole con Var-
rone sul Beti, laddove due sole legioni conduceva con sé,
CAPITOLO IV. 293
quelle cioè che dianzi per ordine del Senato gli erano state
date da Cesare, che certamente non gli avrà fatto ces-
sione delle migliori che avesse. Cesare quindi drizzò i
colpi dove vide il più urgente, il più grave pericolo :
stette a Roma non più che bastasse a radunare il Senato.
Non era numeroso , perchè molti senatori avevano se-
guito Pompeo , ma giovava riunirlo per togliere pre-
stigio a quel Senato migrante opponendogli il Senato
presente in Roma. Passò poi le Alpi, e richiese d'ajuti
Marsiglia, importante per se stessa, e per essere bqcca
di Gallia e scala alla Spagna, ma non li ottenne. Gli ot-
timati polenti in città meglio inclinavano alle parti di
Pompeo che alle sue : tutti poi godevano delle discor-
die romane, sperandone, se non ritorno a grandezza,
diminuzione d^impero. Che in tanta bufera di venti
conlrarii la nave marsigliese potesse segnare nel mare
un solco tranquillo era vana lusinga, e conGdente bal-
danza, né Marsiglia osava pur essa di gettare affatto la
maschera. Rispondeva a Cesare : essere sempre stata
Marsiglia amica e devota a Roma, averla fin nel tempo
di Brenno soccorsa d'oro e d'argento, poi di navi e sol-
dati contro i Cartaginesi ed i Galli, avere molli Marsi-
gliesi militato nella mitridatica guerra, e molti sotto lo
stesso Cesare nelle sue gloriose campagne ; ora però ve-
dere Marsiglia scompigliate le cose romane, non essere
più concordi fra loro le autorità dello Stato, doppii eser-
citarsi gli ufficii, nelle legioni rimettersi le decisioni già
riservate al Senato, alle centurie e tribù ; non essere i
Marsigliesi abbastanza perspicaci a giudizio delle ragioni
dei contendenti, ma amici a Cesare ed amici a Pompeo,
ed il parteggiare per Tuno o per l'altro sarebbe scono-
scenza dei favori ricevuti da entrambi (Ces., lib. II; Giu-
stino, lib. XLIII). Chiudevano intanto le porte : ben avreb-
294 PARTE TEftZA
bero potuto dire, e col fatto il dicevano : fummo amici di
Roma quando temevamo dei Cartaginesi sul mare, e dei
Galli per terra, e furono i Romani amici nostri finché eb-
bero bisogno di noi : essi non hanno però diviso le prede
con noi : si dimenticarono anzi nell'ozio e nella pace delle
promesse fatte in guerra: appena ebbimo in guiderdone,
e fu quasi dileggio, qualche campo e qualche franchigia:
ora la misura dei sacrificìi è ricolma, e trabocca, e non
ne faremo di nuovi : i Romani sono ben occupati a di-
struggersi, e lunga pezza lo facciano senza di noi, e per
noi : non temiamo : vadano Cesare e Pompeo per la mala
ventura: non vogliamo dare né soldati, né denaro, né
viveri 0 navi. Cesare udiva le negative, comprendeva gli
insani progetti, vedeva l'efficacia dei pompejani artificii:
era pressato dal tempo, e pressava : non indugiassero a
mostrarsi coi fatti ossequenti al popolo romano siccome
dicevano : rispettassero Tautorilà sì grande di cui il po-
polo romano l'aveva di fresco munito ed armato : egli en-
trerebbe nell'amica città. Dicendo si mosse: allora Marsi-
glia coronò di difese le mura, ed introdusse anche ajuti
di Pompejani venuti per mare : fece perfino barbaro mas-
sacro di pochi Cesariani, perché non manca giammai chi
istiga la plebe a commettere qualche gran scelleraggine,
onde bene s'addentri nella via, ed abbia reciso, o difficol-
tato il ritorno. Così Marsiglia gettò il dado, e si precipitò
nella guerra : poteva resistere : non era vasta come oggidì,
ma avanzante nel mare, e quasi da tre lati difesa da esso.
Lasciar Marsiglia in mano al nemico coi Pompejani cosi
prevalenti dovunque sul mare, e forti d'eserciti nella Spa-
gna vicina, era per Cesare pericolo grave : ordinò dunque
la costruzione d'una flotta sul Rodano, e pose tre legioni
ad assedio della superba città : erano legioni sottratte
alla guerra di Spagna, dov'egli colle altre marciava. E
CAPITOLO IV. 295
come in questa guerra Marsiglia scemò le forze di Cesare
rattenendone alle sue mura una parie, così le diminuì
di due legioni anche quando fu espugnata, perchè Cesare
dovette lasciarle a sorveglianza ed impero mentre retro-
cedeva, già vincitore di Spagna, alla volta di Grecia contro
Pompeo. Grave corruccio doveva Cesare avere contro
Marsiglia, che gli fu due volte d'inciampo e pericolo nel
corso delle grandi operazioni di guerra : non si legge
però di spietate vendette: sapeva frenarsi.
Già aveva fatto occupare i passi dei Pirenei : ora lutti
vi aduna i gloriosi veterani, che non sono d'attorno a
Marsiglia : loro unisce migliaja d'ajuti gallici di truppe
leggiere e cavalli : ha pure seco eletti giovani delle prin-
cipali famiglie, ausilio non grande di guerra, ma ostaggi
importanti di politica fede. Incontra i Pompejani sulllbero :
resistono da prodi: aspeùano che venga a capilanarli
Pompeo : arriverà per mare a Tarragona, a Cadice, ar-
riverà per la via di Mauritania, condurrà le legioni d'Africa
a certezza di vittoria : dove è Cesare sarà certamente Pom-
peo: quivi, e non altrove è la guerra. Ma Pompeo non
compare : Cesare stringe il nemico, e lo serra, usa la
spada e l'arte, ma più Tarte che la spada : molte città si
danno a lui : la Belica, sempre amica di Cesare che vi
fu propretore e questore, e vi scemò in quel tempo, ne
avesse o non ne avesse autorità, i tributi, ora è irritata
molto più contro i Pompejani per leve, per tolte di denaro
e di viveri, per taglie e minaccie : tituba in fede Italica :
fa sdegnose mostre SivigUa, e Yarrone adunque non osa
togliersi di là per riunirsi ad Afranio e Petrejo. Questi
hanno ormai inopia di tutto : più non confidano nemmeno
in quelle posizioni di Lerida, che pur sono si forti, e furono
in ogni tempo della storia teatro di gloriose difese : Cesare
è già penetrato in più siti, è padrone dei passi dei fiumii
296 PjLKTB TEEZi
scorre vittorioso il paese colla polente cavalleria di Gallia.
Decampano adunque : andranno nei Celtiberi : quelle sono
contrade ancora più forti : vi si farà la resistenza perti-
nace che vi fecero Serlorio e Viriato, e vi fecero i Numan-
tini : Pompeo si scuoterà finalmente: non lascierà che
vengano calpestali gli stendardi delle sue veterane legioni !
Cesare segue, fiancheggia, precorre : riesce a precludere
ad Afranio e Petrejo la ritirata nel nord: essi tentano al-
lora di rovesciarsi sulla linea di Tarragona, ma quella
piazza è lontana : Cesare incalza, preme ed accerchia :
mesta convenzione segnano Afranio e Petrejo fra soldati
sbigotlili 0 titubanti in fede. Le loro legioni saranno di-
sciolte contro promessa dei singoli di non più battersi
contro di Cesare. Ma alla coscienza facile di mille soldati
romani, e più ancora spagnuoli sembra atto di libertà il
passare al servizio di Cesare, perchè dalla fede già data
a Pompeo li sciolsero i palli, e questi vietano il battersi
contro di Cesare, ma non di battersi a favore di Cesare.
Sono però fedeli Afranio e Petrejo : entrambi caddero più
tardi sotto pompejana bandiera : Varrone invece, uditi i
rovesci delFEbro, consegna a Cesare e legioni, e coorti, e
denaro, ed anche le navi con cui questi corre fino a Ca-
dice, ritorna a Tarragona, e di là passa a Marsiglia, che
ormai caduta d ogni speranza s'arrende.
Cosi Cesare era padrone deiritalia, dell'ampiissima
Gallia e di Spagna : Carlo Magno, che fu si grande, non
ha posseduto reame più vasto I II principale esercito ppm-
pejano è distrutto : si felice successo può ben consolarlo
della perdita di due legioni mandate con Curione ad oc-
cuparvi i PompejanideirAfricamentr'egli operava in Ispa-
gna, e della Dalmazia già sua, e nel frattempo caduta in
mano a Pompeo. E questi intanto ha già raccolto nella
Grecia un esercito, ed un altro ne raccolse in Oriente Sci-
CAPITOLO IV. 297
pione, che marcia a congìungersi. L'affrettarsi al pas-
saggio in Grecia non è soltanto saggezza per Cesare, ma
imperioso bisogno.
Brindisi vede un'altra volta addensarsi nelle sue mura,
stendersi sul margine delle sue marine le galliche legioni
fiere degli antichi, dei nuovi tronfi, del genio di Cesare:
esse guardano dalle italiche le coste di Grecia, ed hanno
navi bastevoli a successivi trasporti pel mare non largo,
ma di «mezzo vi è la flotta pompejana numerosa e po-
tente, che scorre la costa e sorveglia, e talvolta s'affac-
cia perfino, ed adocchia nella rada di Brindisi. Cosi al
principio del secolo il floridissimo esercito di Francia era
schierato sulla Manica presso le migliaja delle sue barche
osservando le coste britanniche, ed i vascelli d'Inghil-
terra che nel canale s'incrociavano, s'avvicinavano, in-
sultavano, impedivano il passo.
Struggevasi Cesare d'impazienza : stava pronto a co-
gliere il primo colpo di vento favorevole a sé, e contra-
rio al nemico : lo colse , fu fortunato come Bonaparte
quando di mezzo ai nemici potè involarsi e sbarcare
in Egitto : varcò incolume, e tradusse in Epiro una
metà dell'esercito. Qual era l'aspetto del campo pom-
pejano ? Cicerone prima della pugna di Farsaglia scri-
veva dal quartier generale di Pompeo che ogni cosa era
in diiordine, e che nulla di preparato vi era, e scrive
poi dopo la rotta : Pompejus signa tirone et collectitio
exercitu cura legionihm robustissimis contulit. E Cesare
che noi finora abbiamo fedelmente seguito, scrive pur
esso degli strani elementi ond'era composta quella varia
agglomerazione d'armati, né certamente esagerò perché
ne veniva scemato lo splendore della sua vittoria.
V'era poi nell'esercito cesariano vigore di soldati, as-
soluto impero e genio del capo : nel pòmpejano trova-
298 PARTE TERZA
vansi invece duecento senatori, volendosi in esso conser-
vare le forme e la visione di repubblica : ivi si altercava
per gli impieghi da conferirsi in Roma quasi fosse già
presa, ivi preparavansi liste di proscrizione, ivi si mor-
morava d'Afranio comandante un'ala di esercito, e forse
buon duce, ma macchiato nell'opinione dei soldati per
avere di fresco perdute le sue legioni in Ispagna, e per-
fino tacciato dai prù esaltati d'averle tradite. Si mormo-
rava dello stesso Pompeo che differisse il combattere per
conservare il comando : gli esaltati, gli stanchi, i molti che
pullulano nelle agitazioni civili ov'è cattiva decisione da
prendere, s'univano d'attorno allo stesso Cicerone, ed
egli che pur doveva scrivere un giorno le suddette parole
che nulla era pronto, parlava per sé, parlava per gli
altri,, parlava per tutti : era impaziente d'indugi : voleva
combattere, essere trionfante a Roma, e sermonare da
mane a sera nel fòro. Lucano deride o sembra deridere
Cicerone soldato : dice appunto che non tollerava tam
longa tilentia miles, irafus belli, qnum rostra forum-
que optaret (lib. VII). Era pessima condizione di guerra,
in cui ciascuno si millantava sapiente a comando, ed im-
poneva i consigli, sì che Pompeo non potesse proibire il
mal fare, ma solo avesse autorità di mandarlo ad effetto.
La disciplina degli eserciti d'ogni tempo e luogo, di quelli
in ispecie che formansi nelle agitazioni civili, non è me-
rito dei soggetti, ma virtù del capo, che per calcolo è
rigido, che insegna l'ubbidienza ai più bassi coll'ottenerla
dai primi, che rimuove dalle schiere chi non ha giura-
mento da milite. Questa virtù in Pompeo non v'era: si
irritava da saggio, ripudiava le idee, ma alle persone
cedeva: fors'anche cedeva a vanità: si batterebbe con
Cesare: Pompejum, vincere lente ^ gentibus indignum est
a transeunte subactis.
CAPITOLO IV. 200
Quant'era invece nei veterani di Cesare la confldente
ubbidienza, la gloria dei trionfi, la sicurezza del suc-
cesso! Erano quotidiane le diserzioni dei Pompejani a
Cesare: nulle quelle dei Cesariani a Pompeo: già si com-
batteva da più mesi, e non altri che due AUobrogi erano
passati a Pompeo fuggendo a pena ed infamia di delitti
commessi {Comment,]. E nel di di Farsaglia Graslino tri*
buno, traendosi dalle file, gridava che in quella giornata
avrebbe cessato d'opprimerlo il peso della gratitudine:
Finora, o Cesare, per infiniti beneficii noi ti dobbiamo
ringraziare ; ma vogliamo quest'oggi che, vivi o morti,
ci abbia tu stesso a ringraziare! Queste parole sono ri*
ferite da Cesare nei Commentarii suoi, né in alcuna allo-
cuzione militare antica o moderna abbiamo trovato egual
forza di sentimento giammai.
Tali erano i due eserciti, ma non riuniti né l'uno, né
l'altro. Una metà di quello di Cesare era con Antonio a
Brindisi, ed una metà di quello di Scipione in marcia
nell'Asia ed in Tracia: Pompeo era a Durazzo, e per
l'inestimabile premio che Cesare avrebbe avuto nel pren-
derla aranti che Scipione giungesse, Cesare circondava
la piazza, ed osava forse precipitosi gli assalti, si che ne
era aspramente respinto. Chiamava l'arrivo prontissimo
delle altre truppe da Brindisi quasi fosse libero il mare
dalle navi nemiche di Bibolo, ed al suo comando i venti
necessarii pel passo rischievole: scorse nell'ansietà tutta
la stagione d'inverno: crebbe l'ansietà collo scemarsi
giornaliero della lontananza di Scipione. Instava Cesare:
voleva vedere, guidare il fortunoso passaggio egli stesso:
esponevasi ai rischi delle navi nemiche e del mar^ agi-
tato: ben sapeva dei rischi, e non che avesse la cieca fi-
ducia del quid times ? Cwmrem vehis, che piacque a
Plutarco^ ad Appiano, a Dione, e fu si malamente ampli*
300 PARTE TEBZi
ficaio da Lucano, quando infuriò la procella voltò pru-
dentemente la prora, e là tornossi da dove era venuto.
Finalmente Antonio corse gli azzardi del mare, e
con altre tre legioni e molti cavalli usci da Brindisi,
ma inseguito dalle navi di Bibolo, o portato dal vento,
non potè tenersi al sud di Durazzo, ed afferrare alla
costa occupata da Cesare: toccò invece a Lisso neirillirico,
molto al nord di Durazzo, e quindi trovossi di avere
Pompeo frammezzo alle sue posizioni ed a quelle di
Cesare. Muove allora da Durazzo Pompeo nella spe-
ranza di sorprenderlo isolato, e distruggerlo: muove
anche Cesare dalle sue linee sulFApso per soccorrere
Antonio, e congiungersi a lui. Lo spazio si restringe, e
si attende una giornata campale; ma teme Pompeo di
essere soffocato fra i due campi nemici : si ritira, e Ce-
sare ed Antonio riuniscono le loro legioni : tentano di
nuovo, ma inutilmente, di forzare Durazzo.
Potrebbe Cesare slare a campo sotto Durazzo, e con-
tinuarne l'oppugnazione, ma con fama per inutili sforzi
scemata, coi viveri mancanti pel mare non suo, e colla
certezza di riporsi nella stessa situazione pericolosa, in
cui già trovossi nelle Gallie ad Alesia, di essere cioè,
quando giunga Scipione, circondato egli pure nelle
proprie Irinciere. Ormai gli è forza di prendere repentino
e straordinario partilo : poco o nulla più ha da sperare
di rinforzi da Brindisi: i Pompejani hanno occupalo
risola nella rada esterna di quella città, vi si stabilirono
in forza, rinnovano sovente il presidio, e mantengono
adesso un blocco infrangibile. Perchè si tardi occuparono
risola? Da sessanta ad ottanta mila uomini fra legioni
ed ajuti ne sono già usciti , e basteranno a Farsaglia.
Ha le mille volte in pace ed in guerra non si sono per
corta sapienza portati troppo tardi i rimedii?
CAPITOLO IT. 301
Le posizioni poinpejane sono però migliori di quelle di
Cesare. Pompeo può riunirsi a Scipione per la facile via
che da Durazzo guida direttamente in Macedonia per Can-
davia ed Eraclea: può chiamarlo a sé: può con forze riu-
nite, e col dominio del mare passare in Italia : può anche
dirigere per Tlllirico e pel mare nella Gallia cisalpina Sci-
pione. Provveduto dalle navi, Pompeo può stare raccolto, e
Cesare ha dovuto estendersi per vivere sul golfo Ambra-
cico, sul Corinzìaco, fino sulPEuboico e sul Maliaco.
Bisogna intraprendere un movimento generale , e ripa-
rare con nuovo intendimento strategico ai danni della
posizione attuale. I Cesariani distesi adesso in una lun-
ghissima curva dalle vicinanze di Durazzo lungo l'Epiro,
TAcarnania , TEtolia e la Locrìde, hanno la fronte al
mare Jonio : dovranno invece volgere le spalle al Jonio,
e la fronte all'Egeo : tutta la linea deve avanzare al nord,
e le ali serrarsi sul centro per entrare compatti e po-
derosi in Tessaglia: quella è provincia ubertosa, forse
la più ubertosa di tutte le greche ; l'esercito vi troverà
facili sussistenze e ristoro delle fami patite lungo lejonie
marine. Muovono le truppe; ma al concavo della loro
linea di marcia si presenta il convesso dell'arco della
catena del Pindo, che confina la Tessaglia da quel lato
di Grecia: la gran concentrazione ha appunto a seguire
sul versante orientale del Pindo: le truppe hanno dun-
que asprissime vie a battere per passare quei varchi. Le
legioni galliche però sono perduranti agli slenti: sanno
che Cesare non li domanda se non per alti disegni: pas-
sano lutti i varchi del Pindo, scendono a Gomfi, ad
Itome, a Metropoli, sui destri affluenti del Penco.
Precorre alla gran marcia il cesariano Domizio Cal-
vino con forte nerbo d'armati : egli deve oltrepassare la
Tessaglia, spingersi in Macedonia: si affretti, minacci.
302 PAfiTB TEBZi
SÌ ponga ben anche a cavaliere della via che da Durazzo
guida ad Eraclea e Tessalonica, veda spuntare Scipione,
lo numeri, lo provi, lo travagli, lo affami, e rallenti. In-
tento a Scipione, volga però Domiziolo sguardo inquieto
a Durazzo : scorra coi cavalli da lungi per sorprendere i
corrieri fra Scipione e Pompeo, e per conoscere le mosse
d'ognuno, e più le concertate fra entrambi: non attenda
di pie fermo l'assalto di Scipione se non è certo di vit-
toria, e quello di Pompeo giammai. Si tenga in legame
con Lucio Crasso Longino, che viene secondo, e que-
sti con lui: rammentino entrambi che anche sparsi
nella vastità della Grecia formano anella d'una stessa
catena come nei giorni in cui si stanno a fianco in bat-
taglia. Divulghino le rapacie di Scipione nell'Asia onde
sia in Grecia abborrito e respinto: mostrino a Dodonaed
a Delfo la continenza dell'oro che Scipione non ha mo-
strato ad Efeso : dicano l'Italia quietare contenta, e tutti
rallegrarsi della stolta intrapresa di Celio e Milone colla
loro morte cessata: allettino le città e provincie ad in-
viare a Cesare deputazioni ed inviti, né osservino pel
sottile alla legalità dei mandati: spargano dovunque
non essere vero che Cesare fu propulsato a Durazzo,
dicano che levò per vasta operazione di là il suo esercito
floridissimo, che nuove legioni vengono dalle Gallie
per rillirico a lui, che son anzi già in marcia, e Ce-
sare va incontro alle medesime: formino i magazzini,
riuniscano i cavalli, tutto preparino per lui che scenderà
di molto bisognoso dalle balze del Pindo: si mantengano
poi in comunicazione di notizie con lui, che avrà di
Scipione più completa vittoria, quanto più questi sarà
stato da Domizio attirato lungi da Pompeo, e ben ad-
dentro in Tessaglia (1). Tali istruzioni conformi agli
(1) Nella vita di Pietro il Grande incontriamo una operazione di questo gè-
CAPITOLO IT. 303
scopi dì bene immaginata operazione di guerra sono le
sole possibili, ma necessariamente generiche e vaghe :
non sono dunque eseguibili se non da capitani d'intel-
ligenza splendida, che comprendano appieno l'idea del
comandante supremo, la rendano propria, e la promuo-
vano in fatti senza timidità e baldanza. E noi crediamo
che Domizio fosse assai apprezzato nell'esercito di Cesare
se gli fu tale comando affidato : scorgesi dai Gommen-
tarii che bene lo eseguì: corse però grave pericolo, e
pel solo divario di quattro ore di marcia, e d'una ca-
suale notizia ricevuta, si sottrasse all'essere avviluppato
da Pompeo, e fatto prigione.
Un grande scopo strategico aveva la marcia di Cesare,
quello cioè d'opprimere Scipione in assenza di Pompeo:
se riusciva, Cesare gettavasi poscia sopra Pompeo, domi-
nava l'Illirico colle buone basi di Tessaglia e Macedonia
dietro di sé, e ristabiliva le comunicazioni per l'Illirico
colla Gallia cisalpina e l'Italia. Ma anche Pompeo si era
avveduto del rischio: al primo tempestare di Domizio
sulla linea di Macedonia si era mosso egli pure da Du-
razzo, e per la breve e libera via di Eraclea aveva dato
mano a Scipione. Al tempo stesso tutti i corpi di Cesare
sboccavano in Tessaglia, e raccoglievano Domizio: vi
entrava pure per le gole dell'Olimpo Pompeo: l'intiero
sforzo romano era dunque radunato nei tessalici piani.
La guerra era divenuta del tutto mediterranea, ma la
flotta di Pompeo rimasta nel Ionio pigliava ingloriose
vendette contro le povere città poste sul mare già oc-
nere che perfettamente riuscì. Carlo XU campeggiava in Ucrania, aveva urgente
bisogno di rinforzi, ed il generale Ldwenhaiipt glieli conduceva dalla Polonia.
Pietro il Grande tiene a bada Carlo XII, e marcia coMlro Ldwenhaupt, che è
disfatto completamente a Liesna. Allora Carlo XIE manca d*ogni appoggio, e
d*(^ni ritirata: vuole resistere, ma con deboli forze, col Dnieper a tergo, e col
territorio ottomano su cui è sospinto: è battuto ed annichilato.
304 PARTE TBBZi
cupate, ed ora abbandonate da Cesare. Ed in tutta
Grecia s*ina1za concorde. preghiera agli Dei che guidino
il nerissimo nembo lontano: si cacciano gli armenti allo
impervio ed all'erto dei monti, e le cose più preziose
si commettono alla sperata riverenza degli altari, o ad
ignorati nascondigli entro terra o parete. Stando però
in sulla fune e nel tormento di penosa incertezza, i Greci
nel cuore piangendo, preparano al vincitore, qualunque
sia per essere, la letizia sul viso, le proteste di fede alla
lingua ed i doni alla mano, pronti a gettarsi alFossequio
per violenza rimuovere, ed a cadere in vergogna per
comperare mitezza.
Schieransi di fronte gli eserciti presso Farsaglia.
Cesare stesso ci indicò l'ordine di battaglia in quella
famosa giornata, la distribuzione delie truppe, ed i
capi di esse. Teneva Pompeo la destra ai colli, e la si-
nistra al largo; viceversa Cesare la sinistra ai colli, e la
destra al piano. Pompeo aveva dunque la Grecia di
fronte e la Macedonia a tergo ; Cesare invece aveva die-
tro di sé la Grecia e la Macedonia in faccia: Pompeo co-
priva il suo campo, e la strada di Larissa (l'attuale
Jeni-Scher) prossima al mare; Cesare copriva il campo
proprio, e la via d'Epiro. Né {l'uno né l'altro stettero al
centro della linea loro, ma Pompeo si collocò alla si-
nistra, e Cesare rimpetto a lui alla destra : quello vera-
mente era il posto dei capi supremi, perché tutto lo
sforzo pompejano doveva esercitarsi da grandi masse
di cavalleria sulla destra di Cesare, e questi la rin-
forzò della propria presenza, di quella della decima le-
gione, la migliore di tutte, d'altre truppe leggiere poste
ad angolo rientrante per non essere girato ; le legioni
che avevano molto sofferto a Durazzo formavano^Ia sua
sinistra, più sicura per sé. Pompeo dal suo canto aveva
CAPITOLO IT. 30S
a lanciare i nugoli dei suoi cavalieri all'attacco, ed a
tenere in fede le due legioni già cesarìane, che formavano
appunto la sua sinistra, e ben potevano balenare e cedere
vedendosi in faccia Vantico e grande condottiero. Ma per-
chè Pompeo formò di queste cesariane legioni Tala si-
nistra, ove dovevano piombare i colpi più gravi? Forse le
legioni siriache, più sicure in fede, erano meno valenti
in armi? Forse credeva, come Cesare scrive, di fugare il
nemico solo col grido, il nitrito dei cavalli, ed il cal-
pesto terreno? Gli squadroni si mossero, e totalmente fal-
lirono: n'andò rovesciata la sinistra pompejana sul
centro : la mattina erasi da ambo i lati consunta nello
allestirsi, sfilare, concionare, ed a mezzodì non v*era più
battaglia, ma fuga: i Pompejani gettavano a terra le
armi infelici : anche il loro campo era preso. Era pari il
terrore dei vinti e l'avidità dei vincenti ; quel campo con-
teneva immense ricchezze, perchè Scipione aveva depre-
dato l'Asia nel modo più crudele ed infame^ e con estor^
giani indegnissime di qualunque cosa l'avevano del
pari tormentota i suoi capitani, i soldati, gli esattori,
i governanti istituiti da lui, i Pompejani emigrati, e
quanti si armano non per amore di patria ma per amore
del sacco {Comment., 1. HI, e. 3S!). Le quali ricchezze
mostrava anche Cesare ai suoi, invitandoli a dare assalto
immediato (1).
(1) 1 pensieri espressi da Cesare nelPeccitare i suoi alPinvasìone del campo
pompeiano (Commentarti), che anche Lucano ha reso, furono dal Tasso preci-
samente riprodotti nella concione tenuta da Solimano agli Arabi per animarli
ad aggredire il campo cristiano :
Vedete là di mille furti pieno
Un campo più famoso assai che forte,
Che quasi un mar nel suo vorace seno
Tutte dell'Asia ha le ricchezze assorte :
20
SùS PARTE TEBZÀ
Goirallro bottino cadeva in mano a Cesare anche la
corrispondenza epistolare di Pompeo : dicesi che si ri-
trasse dal leggerla, e l'arse. Di queste magnanime arsioni
è frequente narratrice la storia, ma non tengono somi*
glianza del vero ; bensì giova il divolgarle, il mostrarsi
acconciato a concordia, abborrente dal mutare in prove i
sospetti, dal tribolare per vendette, e dal consolare per
supplizii gli sdegni, e l'adescare ogni avversario che co-
scienza de* fatti flagelli, ma li speri ignorati. Niuno però
è testimonio alla continenza dal leggere, ed al tempo
dell'ardere , né Cesare avrebbe dato alle fiamme senza
ammaestrarsi di esse, le lettere di chi fosse rimasto in
Roma, e di là scrivesse a Pompeo, o quelle dei re che
informavano sul numero e qualità delle forze, colle quali
esso Cesare aveva tuttora a combattere.
Nella successiva giornata Cesare precorrendo ai fug-
genti s'attraversò alla strada di Larissa: allora la vitto-
ria di Cesare fu completa : i Pompejani più non pote-
vano né piegare sulla linea di Durazzo, da dove era
venuto Pompeo, né su quella di Tessalonica , da dove
era venuto Scipione: ogni base,. ogni ritirata, ogni ma-
gazzino , ogni truppa rimasta indietro era perduta , e
le legioni sconfitte a Farsaglia più non potevano che
gettarsi ai monti, e disperdersi. In situazione quasi
egualmente disperata come fu quella dei Pompejani in
allora, noi ci siamo trovati nel 1849 dopo la rotta di No-
vara, quando gli Austriaci vittoriosi avendoci già girali
sulla nostra destra, e spuntando sulla linea di Vercelli.
Queste ora a voi, né già potria con meno
Vostro periglio, espon benigna sorte:
L'armi e ì deslrier d*ostro guernili e d'oro
Preda fian vostra, e non difesa loro.
(Canto IX, st. 17).
CAPITOLO IT. 807-
noi fummo tagliati fuori cosi da Alessandria come da
Torino, e gettali sul Verbano, sul Sempione, sul nostro
confine del nord. Impediti dunque di battere in ritirata
sulla strada di Larissa, le tante migìiaja di Pompejani
sbalestrate nei colli e nei monti, s'arrendono : non una
coorte , non un manipolo rimane intiero, e sfugge al
disastro (1).
(1) Noi ridiamo d'una facezia del Tassoni nella sua Secchia rapila, ove uà
Buoso, cinto dai nemici che l'afl'errano e io strascinano, non pensa già alla vita»
ma all'abito ricco che indossa :
Fate pian» grida Buoso, ajuto, ajulo,
Non stracciate, che il sajo è di velluto.
Ma anche il severo Plutarco nella vita di Cesare sembra aver voluto celiart
dove espone Li causa della rotta di Pompeo in Farsaglia. Pompeo aveva sette-
mila soldati a cavallo, ossia sette volte più che non ne avesse Cesare ; tentò
con essi di girare il fìanco dei Cesariani, e d'assalirli a tergo. Ma Cesare co^
nosceva qual fosse l'animo di quei cavalieri : arditi ad esporre la vita, teme-
vano aver sfregio nelle loro bellissime facce : Cesare dunque tenne sei coorti
in riserva, e loro ordinò di dirigere i colpi al volto della galante gioventù :
questa paventò io allora la cicatrice futura, e rivolse le facce, il che fu natu-
rale principio al volger le spalle, poi al disperdersi ai quattro venti. Tale favo-
letta fu da cento scrittori volentieri copiata, e ripetuta in mille scuole: noi
pure Pabbiamo le mille volle udita con ricco corredo di commenti da novel-
lista e romanziere. Ma Cesare nella relazione sua propria della memorabile
battaglia (De bello civili, lib. HI, e. 93) non tocca della causa ingegnosa di si
grande successo, ma dice : //// (le sei coorti) celeriler prociurerunt, infestisque
signis tanta vi in Pompei equiles impetum fecerunt, ut eoriim nemo consisterei
omnesque conversi non solum loco excederent, sedprolinus incitati fUga montes
ahissimos peterent.
L'esercito pompeiano in Farsaglia subì una rotta completa. Questo è il vero,
ed in ciò consiste l'importanza del fatto. Del resto gli annunci antichi erano
veridici presso a poco come i bollettini moderni, perchè non vorremo credere
nemmeno a Cesare (lib. Iff, e. 99) che egli abbia perduto soli duecento sol-
dati, ossia settantacinque volte meno di Pompeo, in morti e feriti, senza tener
conto dei ventiquattro mila prigionieri fatti a Pompeo, numero già ben rilevante
perchè eguale a quello dell'esercito cesariano, ma sempre credibile. I molti
possono arrendersi ai pochi ed anche ai pochissimi, ma fin quando si combatte
con ordini eguali ed armi eguali la morte miete in entrambi gli eserciti, e per
dirlo col Tasso ,
Né la gente fedel più che l'infida.
Né più questa che quella il campo tinge,
Ma gli uni e gli altri vincitori e vinti
Egualmente dan morte e sono estinti.
308 PARTE TERZA
La vanità nazionale dei moderni cercò alimento anche
nei racconti della giornata di Farsaglia, ed appoggiati
ad un passo di Floro varii autori tedeschi scrivono che
Cesare fu debitore della vittoria ai Germani, perchè erano
germaniche le coorti le quali scompigliarono la caval-
leria di Pompeo. Noi siamo poco indulgenti alle moderne,
e per nulla alle antiche vanità nazionali. I popoli si
sono nel corso dei secoli tramestati e confusi come le
onde del mare; emigrazioni, colonie, commerci e con-
quiste hanno cosi trasfuso e rinsanguinato le genti, che
somiglianza colle antiche e corrispondenza non trovano.
Del magnanimo sangue romano noi Italiani ben poco ne
abbiamo, ed i Tedeschi e Francesi han poco del sangue
dei Germani e dei Galli. Insegna inoltre la storia antica e
moderna, non essere costante nei popoli la virtù di pro-
dezza, 0 la temenza e la fuga. Le truppe d'ogni popolo se
sono egualmente bene istrutte e condotte, e non scendono
nuove nel campo, diedero, ci sembra, al paragone delle
armi, le risultanze medesime. Egli è nelle istituzioni
politiche d'un popolo, e nelle qualità dei condottieri di
truppe, piuttosto che nella schiatta e nel sangue, che
dobbiamo rintracciare la causa della bellicosa costanza
d'alcuna nazione, delle virtù guerriere in onore, degli
splendidi fatti e straordinarii trionfi.
Pompeo aveva presentito la rotta ; quindi appena vide
l'esercito in piega, sensit transisse Deos, ossia intese
distinto l'insanabile danno: non sembra neppure che
abbia fatto gran sforzi per richiamar la fortuna, ma
concitus abstulit a bello sonipes, cioè se ne fuggi a bri-
glia sciolta nel campo, e venne a Larissa. Vi fu rispettata
la sua sventura ; non era però, come parve a Lucano,
incolume la maestà (salva verendus majestate dolor), né
certamente lo stesso Lucano fu fedele al vero dicendo che
CAPITOLO IV. 309
Larissa all'arrivo di lui effudit totas per mcenia vires,
obvia ceu IcBto; promittunt munera flentes, pandunt
tempia, domos, socios se cladibus optant. Tali non sono
gli uomini quando un terribile colpo abbatte i potenti,
e quel colpo può anche cadere sovr'essi. I Larissesi, l'a-
massero 0 no, l'avranno veduto volontieri uscirne, onde
non si desse battaglia nella loro spaventata città ; avranno
tosto preparato i viveri ai cesariani, e scelto qualche amico
di Cesare, od illustre cittadino perchè lo incontrasse, gli
narrasse quanto Larissa avesse sofferto nel passaggio
delle truppe pompejane, quanto sperasse, confidasse in
lui: venisse, essere felice Larissa d'acclamare la prima,
e di vedere bontà, forza ed ingegno in sommo grado ac-
coppiati : sempre fumerebbero per lui a Larissa gli onorati
incensi sui ricordevoli e conoscenti altari. E Cesare avrà
risposto le consuete parole di conforto, d'intimidazione
e lusinga, toccando della soperchievole forza, alludendo
per modo che potesse ritrarsene confusamente minaccia,
ed assicurando alle sue parti gli ondeggianti ed i ricchi :
sapere egli le affezioni dei Larissesi : pochi avere seguito
le parti contrarie, e questi per errore, ed egli condonarlo:
discendenti da Achille e dai Mirmidoni, i Larissesi non
poter essere che bravi, e quindi amici dei bravi : atte-
stare Farsaglia di che colpi ferissero i soldati suoi, ma
essere bisognosi di molto dopo tante fatiche, e di molto lì
confortassero : essere la disciplina sicura, generale e spon-
tanea se l'esercito è bene allestito, ed ha copia di viveri :
fossero i Larissesi prodighi di cure immediate a quelli
che avevano colle proprie ferite conquistato al mondo la
pace: indicassero ogni pompejano deposito d'armi o de-
naro : ogni assente tornasse, ogni latitante apparisse : es*
sere amico di quanti cessino dall'armi, dallo strepitare,
dal concionare: rammentassero aver egli in giovinezza.
310 PARTE TERZA
ed in tempi infelici, accusalo Antonio Ibrida perchè aveva
con truppe sillane depredato in Grecia (Plutarco):
adunque in lui confidasse Larissa : egli si confiderebbe
in essa.
Pompeo avrebbe potuto riparare di nuovo per Eraclea
a Durazzo, e molti di coloro che erano stati più veloci
al fuggire, realmente ripararono colà. Quella via era
libera : vi erano grandi magazzini e Irinciere : vi era
la flotta, e si poteva ancor molto salvare di genti e di
cose dalle mani di Cesare. Fosse orgoglio di non mo-
strarsi caduto dove era stato sì grande, fosse altra causa
migliore e non nota, Pompeo non se ne andò a Durazzo,
e non a Tessalonica, dove teneva la sede il pompejano
Senato. Entrò in piccola nave di commercio, e si volse
all'Oriente, forse sperando di ristorarvi le forze coirajulo
dei re conservati o posti in trono da lui. Ma la memoria
dei beiieficii è labile, e quella delle oflTese durevole : il
potere già in mano a Pompeo, è ora in mano di Cesare,
ed il potere adesca e spaventa. La notizia di Farsaglia
vola per ogni dove pei messi, pei fuggenti, per vocifera-
zioni, per lettere, ma non crediamo a Dione che a Roma
non si conoscesse se non per pubblico grido e corrispon-
denze private, essendosi Cesare astenuto di scriverne al
Senàioper non insultare alla sventura di Pompeo (Rollin) .
In tutto rOriente precorre a Pompeo la notìzia fatale : i
Rodii escludono dalla città e dal porto i fuggiaschi ; in
Antiochia Romani e Siriaci s'apprestano a combattere
Pompeo se mai si presenta : egli passa in Egitto, chiede
soccorsi, ed è invece ucciso dai sicarii del re. Ogni paese,
ogni città vuole entrare neije grazie di Cesare: si man-
dano corone : si inventano miracoli in Antiochia, in Per-
gamo, in Trolli, in Elide : gli Dei avevano presagito la sua
vittoria, ma il presagio narravasi dopo di essa.
CAPITOLO IV. 31 1
Vi è intanto a Durazzo indescrivibile spavento e disor-
dine. Chi fuggiva palesemente e chi di nascosto, chi gri-
dava di guerra ad ultimo sangue e fuggiva, chi per pla-
care Cesare voleva la resa affrettata: era fra questi
Cicerone, che post pharsaltcumpr(Blium madebat arma
non e$$e deponenda, sed abjicienda (Cic, prò Dejotaro):
come dunque potevano Catone, Labieno, Varrone e Sesto
Pompeo, inferociti a resistere, dare il comando a Cicerone,
cui avrebbe dovuto competere per la preminenza del
grado ? Sesto Pompeo traeva perfino la spada contro di
lui, chiamandolo traditore e vile, ed egli sen fugge. Dove
è discordia e terrore ; dove non è certo capitano, e v'è
licenza e rapina ; dove ogni odio si sfoga, ed ogni ven-
detta si compie, la difesa è impossibile. I cittadini non
vogliono esporsi agli orrori di rinnovato assedio : la resa
è invocata da quanti non temono di scontare nella vita
od averi il trionfo di Cesare : chi si imbarca tremante, e
chi monta in nave gridando che porta in sede migliore
la guerra. La flotta veleggia a Corfù: anche Durazzo è di
Cesare, e le sue comunicazioni con Brindisi sono quasi
ristabilite e sicure.
Atene, dove si radunava per gli studii tutta la gioventù
romana, si era pronunciata alquanto vivamente per Pom-
peo, ma al primo apparire di Cesare vittorioso a Farsa^
glia il coraggio di resistenza mancò, e fu chiesta clemenza^
Cesare accordò alla gloria degli antichi Ateniesi la saU
vezza degli attuali, ma ben migliore di Siila non attese
a salvarti d'averli prima immolati.
Difesero però i Pompejani risolutamente Hegara: era
la chiave dell'istmo, e tenendola, i Pompejani, che ave-
vano poderosa la flotta, speravano di conservare il Pelo-
ponneso, di raccogliersi, di rifornirsi, d'avere la Grecia
aperta, e forse di mettere in ispavento l'Italia* La povera
312 PARTE TERZA
città divezza dalla guerra, morbida perricchezza, fiorente
di traffico, indettata dalla paura, conosceva essere meno
molesto l'obbedire per dedizione che per conquista, e
che oppresso Pompeo, nessuno poteva lungamente re-
stare in forza in tutta la Grecia: avrebbe voluto sottrarsi
agli orrori d'un assedio, ed all'essere governata per
armi: vedeva che fermezza senza speranza è sacrificio
0 follia, ed avrebbe volontieri aperto le porte. Ma il
comandante che vuol salvare il Peloponneso, od al-
meno coprirne per qualche tempo lo sgombro, rampo-
gna austero i tremanti: deve grazie Megara a Pompeo
dell'esser difesa, per necessarii sacrificii non mutarsi il
beneficio in aggravio, dare le armi fermezza, e la fer-
mezza salute; egli saprebbe discernere i fedeli ed i prodi,
ma anche i capi ed autori dei traditori e dei vili; es-
sere Megara prescelta alla gloria di ristorare la sorte di
Grecia, del Senato e del popolo da momentanea ecclissi
ofi'uscata a Farsaglia: intanto che le abbondevoli forze
nel Peloponneso raccolgonsi, resisterà Megara sotto-
posta alle ragioni di guerra : lo sappiano i cittadini ;
nessuno avere le ritirale; tulli dovere alle difese con-
correre. I Megaresi erano prigioni : sapevano che il so-
lito orrore dei fatti consegue alle militari minaccie : per
non cambiare i rischi dell'assedio in patibolo, ubbidi-
vano al capitano non mosso da clemenza, né spaven-
tato da grida; dovevano a capo chino tollerare che la
funesta vena del sangue si aprisse nella loro città,
e mostrare coi fatti Tardore a difesa che il sentimento
negava.
La resistenza di Megara tornava di molto danno e quasi
di pericolo a Cesare, perchè importava d'assai che tutta
Grecia posasse, e lelegioni potessero passare senza ritardo
in Egitto e nell'Asia a sciogliervi colla forza e col prestigio
CAPITOLO IT. 313
dell'ottenuta vìtlorìa ogni nerbo di truppe che vi rifacesse
Pompeo. Galeno, luogotenente di Cesare, marciò veloce
contro l'infelice città, che si ricopriva di terrapieni, e si
ricingeva di fosse; vi portò sulle bandiere il gran nome
di Farsaglia, che sbigottiva anche i valenti, la oppugnò
e la prese : il Peloponneso era aperto, ed i Pompejani
cercavano a passo precipitoso le navi. Scontavano aspra-
mente i Hegaresi la violenza patita : Galeno, li credesse
colpevoli, 0 fingesse che fossero per avere argomento a
rapina, li vendeva schiavi: vedesse il mondo qual fosse
il destino di chi osasse opporsi alla fortuna di Gesare ;
apprendessero tutti da Megara essere finita la guerra ;
averla in Farsaglia decisa gli Dei 1 Conferendo all'antica
qualunque storia recente, sono ben molte le città che op-
posero a trionfante nemico non volontaria difesa e subi-
rono di strazii e fuoco vendetta e martirio.
All'occhio però degli storici e degli scolastici il fatto di
Megara getta una tìnta troppo oscura nel quadro conso-
lante dei perdoni cesariani : vogliono quindi rischiarare
possibilmente la tinta: dicono che forse le dolorose voci
degli ofiesi ed oppressi non pervenivano a Gesare, e
che Galeno vendeva i Megaresi, ma li vendeva a buon
mercato perchè i loro amici li potessero comperare , o
loro fosse più agevole il riscattarsi da sé. Oh ineffa*
bile bontà di Galeno 1 vendeva schiavi i Megaresi per
amore di Gesare, e li vendeva a buon mercato per amore
dei Megaresi stessi. Oh bontà degli storici e degli sco-
lastici si ingegnosi nell'interpretare la benevolenza di
Galeno, e dolcezza dei frutti della guerra che gli autori
chiamano civile 1
CAPITOLO V.
Cesare in Asia, in Africa, in Ispagna : signore in Roma:
snoi vasti progetti : sua morte.
Il vessillo pompejano era caduto in ogni terra dal
Tago airEllesponto, ma sventolava ancora neirAsia,
nell'Egitto e nelV Africa. In oltremare potevano quindi i
Pompejani raccogliersi, riordinarsi, schierarsi ancora in
battaglia : i re e tetrarchi dell'Asia fornirebbero e genti
e denaro: i timidi prostrati dell'animo pel fiero colpo
di Farsaglia riprenderebbero cuore, ed oserebbero di
nuovo: il tempo ristora gli animi, restituisce la lena,
rinsanguina gli eserciti, e le menti converte dal senti-
mento esclusivo delle proprie ferite all'esame altresì delle
piaghe del nemico, ed al ritrovo dei mezzi di porvi ve-
leno. Perciò deve Cesare tosto levarsi di Grecia, piom-
bare di là dall'onde sugli sbigottiti, irresoluti e dispersi
offrendo le grazie e portando le pene, sciogliere o rom-
pere ogni globo d'armati. E gli stessi Gesariani insu-
perbiti meglio ubbidiranno in travagli ed in marcie che
nei riposi insolili, divenendo in pace agli slessi capi
nocenli gli orgogli di soldatesche partigiane, che avendo
dato col loro sangue al comandante l'impero, aspettano
e vogliono lentezza di freno e licenza da lui.
Gesare non trattava con gl'indugi la guerra : la com-
prendeva politicamente e militarmente, né camminava
CAPITOLO V» 315
più lento che essa non ami: quindi s'affrettò, anzi
precipitò. Fu in Egitto, poco più di forze apportandovi
che il suo gran nome: ivi s'era diretto Pompeo: quello
era il centro della linea pompejana stesa dall'Africa al
Ponto Eusino; là v'erano tesori, truppe romane, e molte
e già bene disciplinate falangi d'indigeni e Barbari ; vi
era poi una flotta, e da questa poteva venire gran danno,
e crescere. Cesare arrivò quasi disarmalo, trovò che era
stata tronca da pugnale la vita di Pompeo, cui l'età
aveva prodigato il nome di Grjmde (1), ed era sorla la
guerra fra i varii contendenti alla corona d'£gitta Egli
intimò ad essi che cessassero dall'armi, e rimettessero la
decisione a lui, ma presto s'accorse d'avere troppo
osato: divenne allora prudente quanto era stato ardito,
si raccolse dall'aperto paese entro Alessandria, poi si
ridusse nella parte più forte di essa, e quindi nell'iso-
lotto di Faro congiunto alla città da un argine artifi-
ciale di novecento passi di lunghezza : colà dominava il
doppio porto, comunicava col mare aperto, e poteva
attendere le sue vecchie legioni, ed anche le nuove di
Pompejani, che, spento Pompeo, egli riuniva, riformava
ed usava. Gli Egiziani imbaldanziti attaccano le barri-
cate cesariane in città: s'avanzano lungo la diga: vo-
gliono prenderne i difensori alle spalle : muovono
quindi le navi, batteranno le poche cesariane, sbarche-
ranno a tergo delle trinciere, e riusciranno nell'isola.
(4) Quanto male si addice a Pompeo quel nome dì Grande, che gli si pro-
fonde sì spesso! Nessuno ebbe si numerosi eserciti e flotte al cenno, vasti tesori
a disporre, provincia e regni a donare, infìnit» uffici! a conferire, occasioni pro-
pìzie a miracolosa grandezza : ebbe anche Tambizione a sahrc, ma il genio mancò.
Sotto di lui avevano vinto i Romani, non egli : trovò Mitridate e Tigrane già
trafelanti, esangui, non si scontrò con Spartaco, ma coi fuggiaschi di lui già
caduto, si battè con Serlorio e fu malconcio e pericolò : quando alTrontossi con
Cesare precipitò.
316 PAaTE TERZI
Si pugna dunque in città, lungo Tistmo e nei porti »
e se gli Egiziani vincono nei porti, hanno per lo
meno vinto in città, sono padroni delFistmo, e forse
in islato d'assaltare i Cesariani nell'isola. Il vincitore
di Farsaglia in si grave cimento adempie tutte le parti
di capo, ed anche quelle di soldato ; ma una barricata
suiristmo è presa : egli passa allora sulla più vicina sua
nave, e questa sta per colare a fondo: Cesare si getta
in mare, raggiunge altra nave a nuoto, raddoppia di
sforzi, ed alfine contiene, anzi rintuzza il nemico.
Il fatto è grave ed anche drammatico : piacque però
agli scrittori di sceneggiarlo di più, e ci dipinsero Cesare
che si getta in mare tenendo la spada fra i denti, soste-
nendosi con una mano sull'onde, e portando coll'altra i
Commentarli suoi. Forse che Cesare andava alle bat-
taglie coi Commentari! in mano? forse che ne scriveva
qualche pagina in mezzo alla mischia? Che il povero
soldato Camoens naufragando alle coste cinesi salvasse
in tal modo i Lusiadi suoi, è credibile, ma è ridevole
novelletta, o piuttosto assurda vìetezza che Cesare sceso
a pugnare sul molo, montato poscia in nave, e quindi
gettatosi in mare, tenesse i Commentarii con sè«
Giungono a Cesare legioni dalla Grecia, e delle tre le-
gioni di Siria una gli arriva per mare, ed un'altra mar-
cia per terra verso Pelusio : già scema il vigore nei con-
trari!, e la discordia s'accresce: una parte della flotta
alleala defeziona dagli Egiziani : delirano invano i loro
capi una indipendenza ormai impossibile a tutti, e più
ancora a quelli che altercano per la corona e guer-
reggiano, e nemmeno si stringono ai Pompejani per
resistere uniti e compatti. Ogni popolo diviso e parteg-
giante male si difende, ed invariato è l'esempio che
chi non s'accorda, ruina ed impara a servire: nessun
CAPITOLO V. 317
flagello più funesto alFindipendenza può cadere sulle
nazioni infelici, dell'i mperizia ad ordinarsi ed unirsi:
questo flagello cadde sull'Egitto contendente di schiatte
di popolo, e di famiglie regnanti: aveva inoltre nelle vi-
scere milizie venderecce e ribalde, né era l'Egitto una
terra aspra e selvaggia, che producesse gli abitatori in-
domabili come i Sanniti ed i Parti. Gli Egìzii erano
inattivi non solo fuor del bisogno, ma anche quando
erano aggressi, non si svegliavano terribili e celeri come
fecero in varie età gli Spagnuoli, che da torpore scuo-
tendosi parvero folgori che nelle nubi quiete ed immo-»
bili posano.
Cesare è padrone d'Egitto, e vi rimane alcun tempo.
E qui. gli storici adducono a causa della sua dimora
che Cleopatra era la donna più bella che mai da un vi-
vente si fosse veduta, che Cesare fu inebbriato di essa,
che all'uomo invaghito rincrebbe la guerra, che Cleopa-
tra lo distolse dall'armi, volgendolo ad inflngarde mor-
bidezze e dissoluto costume. Noi noi crediamo: Cesare
cercò dolcezza con fiamma fugace, non con insano de-
lirio: egli voleva smisuratamente la gloria, e meno po-
teva l'amore che l'ambizione in lui. Stette in Egitto
non già per la donna, non per le prodighe cene, non
perchè i famosi astrologi alessandrini gli promettes-
sero per isquadri di stelle felicità ed impero, ma si
trattenne per prendere fermo piede ove molto importava
d'averlo, essendo ricco paese, granajo di Roma, pieno
di truppe pompejane e di ribaldaglie armate, che si
avevano ad ordinare, a dividere, a mandare lontane. E
forse allora si dolse d'avere negli impeti della guerra
bruciato gran parte della flotta egiziana.
Lasciato un forte presidio in Egitto perchè i regnanti
fossero dalle $ue truppe protetti se si conservavano fé-
318 FiRTE TEaZA
deli, e frenati se fossero ingrati (Guerra alessandrina^
cap. 33), Cesare sbarca in Cilicia, occupa le gole del
Tauro, e le posizioni di Isso. Durante la guerra d'Egitto
era sorto un grave scompiglio nell'Asia, e si doveva com-
porre perchè Cesare potesse passare neirAfrica, ove di
nuovo ingagliardiva il nemico. Farnace re del Ponto
aveva veduto partire le legioni siriache: ne prese bal-
danza, si dilargò neirArmenìa, invase provincie romane,
battè le poche forze accorse dalla Siria, e le raunaliccie
dell'Asia. Ma già tramontava la sua breve e male usata
fortuna. Cesare risaliva dalla Cilicia verso l'Armenia ed
il Ponto; aveva ottima base di guerra: copriva colla de-
stra la Siria e colla sinistra le provincie asiatiche sul-
l'Egeo: chiamava gli ajuti ai letrarchi, e li raccoglieva.
Farnace aveva condotto da barbaro invasore la guerra :
aveva ucciso, o con supplizii peggiori della morte stra-
ziato i cittadini romani , aveva spogliato i letrarchi ,
emunlo spietatamente i pubblicani, non inalzato una
bandiera pompejana. Era cieco della mente, che non
aveva veduto né la grandezza di Cesare, né le politiche
convenienze di guerra. Ora tremava, offriva la pace,
supplicava per essa, mandava corone d'oro, voleva cori
tutte le arti piacere, diceva d'essere volenteroso di fare
quanto fosse a grado di Cesare, ma pur non rientrava
nei confini suoi, ingrossava l'esercito, teneva il campo.
Cesare poche genti aveva, e meno di veterane: la sua
sesta legione appena schierava mille soldati in battaglia ;
tanto per marce, per disagi, per climi s'assottigliano le
truppe anche vittoriose, né mietute gravemente da ferro 1
Piombò sull'irresoluto Farnace, lo ruppe e fugò (1).
(1) Vuoisi che Cesare significasse la notizia della sua pronta vittoria contro
Farnace col famoso molto Veni, vidi, vici. Per adulazione o pretesa quel mollo
fu ripetuto più volte, ed inciso nelle medaglie commemorative di rapidi van*
CAPITOLO y. 819
Nessuno degli altri re osò resistere. Cesare avrebbe
potuto tanto più facilmente gettarli dal trono col richia--
mare ad esso i pretendenti che avea deposto Pompeo.
D'altronde i medesimi erano Tuno dell'altro gelosi, e pronti
a combattersi appena i Romani li istigassero, o rallentas-*
sero il freno; né in quei lerritorii divisi come patrimoni!
per favore, arbitrio od anche scaltrezza romana, alcuno
di loro aveva base nelle affezioni di popolo, nelle antiche
memorie, nelle esclusività e pertinacie nazionali. Neppure
nelle truppe propria base avevano : erano comandate in
gran parte da cittadini romani, e non da ufficiali indigeni :
i Romani infatti entravano in quegli eserciti por avere più
facili promozioni e probabilità d'arricchire ; i re, o tetrar-
chi, li dovevano ricevere volentieri perchè mal sicuri dei
sudditi, e vogliosi nella loro debolezza, che ne rendeva
Tindipendenza impossibile, di avere almeno mezzi mag-
giori di rapporti e d'influenze indirette a Roma. La Repub-
blica poi vedeva nella presenza dei suoi concittadini alla
testa delle truppe ausiliarie un nuovo pegno della fedeltà
di quei re, ed il vantaggio di poter dare, senza timore di
rivolte, discreta sodezza e pregio militare a quelle truppe
straniere, di cui si serviva sovente. Cosi i re asiatici erano
verso Roma in circostanze identiche a quelle dei principi
mediatizzati delle Indie verso Tlnghillerra. Ora tutti
sanno, e consta anche dagli Ànnuarii militari indiani
antichi e recenti, che il numero degli ufficiali inglesi
taggi ottenuti in guerra. Non di rado oratori e poeti gli tolsero col parafrasarlo
sublimità e vigore. Cosi parla, p. e., il Soldano d'Egitto ad Emireno, affidandogli
il comando del suo esercito contro Goffredo:
Tu porta, liberando il re soggetto,
Sui Franchi Tira mia vendicatrice:
Va, vedi e vinci, e non lasciar dei vinti
Avanzo, e mena presi i non estinti.
Tasso, canto xvii, si. 38.
320 PARTE TKBZi
nelle (ruppe indìgene dei princìpi medìatizzati fu sem-
pre grande. Doveva poi esser indifferente a quei prin-
cipi chi in Roma regnasse» purché conservassero la
loro corona, e Cesare quasi a tutti la conservò, ma con
nuovo riparto dei territorìi tolti a Farnace premiò ,
punì, commutò i paesi, confuse le cose e gli interessi,
sventò ogni disegno ostile, se pure esisteva, recidendo i
mezzi d'azione, e pose, per cosi dire, un re alla custodia
deirallro.
NeirAfrica (usiamo sempre questo nome nel senso
ristretto in cui lo usavano i Romani) le parti di Pompeo
avevano , come vedemmo , trionfato , ed il cesariano
Gurione vi era perito coiresercìto suo. Combattutasi la
gran giornata di Farsaglia, Catone, Tuno dei più grandi
caratteri deiranlìca storia, aveva raccolto la flotta pom-
pejana a Corei ra (Corfò), e migliaja di soldati, quasi un
esercito. Volgevasi come Pompeo all'Egitto, ma anche a
luì già chiudevasi il porto di Ficonte in Creta, come a
Pompeo era stato chiuso a Rodi : prevaleva dovunque il
terrore di Cesare I Odesi dai Catoniani la morte di Pom-
peo : scoppiano sedizioni : molti dichiarano apertamente
d'aver preso le armi non per seguitare l'esercito, ma il
solo Pompeo, e d'essere sciolti di fede colla morte di lui:
una parte della flotta e delle truppe diserta. Gli è dato,
ma noi segue, il consiglio di mterrogare l'oracolo di Giove
Ammone: temeva che i suoi udissero il verol Ma Catone
persiste, mostra a tutti la malinconica fierezza del viso,
e se disse realmente le parole che Lucano, piuttosto
storico che poeta, pose in bocca alni (lib. IX), nessuno
giammai le disse più nobili , e sono degne d'un dio.
E Catone è descritto, homo virtuti simillimm, et per
omnia ingenio Diis quam hominibus propior^ qui nun-
quam recte fecit ut facere videretur, sed quia aliter fa-
CAPITOLO T. 321
cere non poterai, come dice Vellejo Palercolo (lib. II,
cap. 33) benché scrivesse sotto Tiberio, e fosse parti-
giano di lui (i).
Ma nemmeno Catone poteva sostentare col braccio la
repubblica crollante. Vi era in tutti il terrore. Cirene o
perchè affezionata a Cesare, o perchè giustamente temesse
di lui, aveva già chiuso le porte al pompejano Labieno
(Plutarco) : ora le chiudeva anche a Catone (Lucano), che
fu costretto a farne l'assedio, e la prese. Uditovi che ì
Pompejani radunansi in forze nell'Africa (la* Tunisia),
Catone si volge egli pure colà, né avendo sicurezza di
forze navali, vi guida, si dice, i suoi cinque mila soldati
per terra. Leggesi che in sette giorni tragittò . da Cirene
neirAfrica, ma da qual punto parti, ed a quale arrivò?
Dobbiamo ritenere contro gli storici, se vogliamo esser
nel vero, che non tutto il viaggio, ma una ben piccola
parte ne facesse per terra. La lontananza è di dodici
gradi in longitudine, e di tre o quattro in latitudine, e
devesi per terra fare un giro immenso d'intorno alla
(1) Noi abbiamo volentieri citato anche Vellejo Patercolo, che visse in tempo
sì vicino a quel di Catone, ed era scrittore valente segnatamente nello scolpire
i caratteri se non era travolto da parzialità, come forse Io fu neirelogio di Sejano,
che fu poi stigmatizzato da Tacito. Cd era generale la riverenza per Catone Uticense
e somme furono le lodi degli antichi per lui e prima e dopo che si togliesse la
vita. Come potremo dunque ammettere che quest'uomo temprato alla stoica
ineude, così influente e venerato, fosse bensì sdegnoso di infingarde morbi-
dezze, ma d'ottimi vini vago? Se egli avesse amato troppo il sugo della vite,
sarebbe egli stato si rispettato e temuto? Nelle ire politiche non si pone con-
fine a calunnia ed a sprezzo : ogni casualità, ogni debolezza si aumenta o si
crea. Ma Plutarco raccoglie Taccusa, e per scemarla, e quasi rimuoverla, adduce
poi spiegazione così ridicola, che vogliamo ripeterla. Catone, egli dice, da prin-
cipio terminava la cena dopo aver bevuto una volta sola, ma in progresso fa
molto dedito al bere, e passava sovente la notte fino all'alba tra il vino ; del
che se ne dovevano incolpare gli affaci pubblici, nei quali stando Catone tutto
il giorno occupato senza poter discorrere di cose erudite, voleva poi intratte-
nersi la notte a tavola insieme col filosofi. Risum teneatis! Oh dolce filosofia
del frutto che piantò Noè !
21
322 PARTE TERZA
Syrtis major percorrendo un deserto orribile, anzi l'uno
dei più tristi che siano in quel continente, che si in-
contra appena lasciata la Pentapoli, e segue poco in-
terrotto fino al limitare dell* Africa. Quel deserto, che
conosciamo per gliitìnerarii di Della Cella, Horneraann
e Beurmann, non è tale che tutto si possa attraver-
sare da poche persone in meno d'un mese, e con
gran genti non crediamo che si possa attraversare giam-
mai. Senza dubbio Catone ne passò alcun tratto, per-
chè la descrizione del viaggio risponde appieno alle
sofferenze d'un cammino in deserto, ma non passò cer-
tamente l'intiero, militando contro quest'asserzione i
geografi, ossia la natura.
Al giungere di Catone crebbero ancor piii i pompejani
manipoli, aumentarono a coorti e legioni, o meglio a
torme guerresche ; ma da dove trarre lusinga di vittoria? I
Pompejani infuriavano insani: non avevano unità di co-
mando, e la forza d'esercito scorretto, se anche animoso
e grande, è come quella del Ciclope accecato. Per le
patite sconfitte sdegno s'era aggiunto a sdegno: nessuno
pensava a ritirarsi al coperto, ma delirava vicendevoli
stragi : si calpestavano le popolazioni desolate, ed era
un grido generale di spaventati e di tormentati. Ma se
vi era unità negli odii, non v'era di consigli e d'im-
pero, che è il più efficace mezzo a buon successo d'ogni
umana impresa, è soprattutto delle guerresche ; quindi il
moto africano, benché grande al vederlo, doveva essere
labile e caduco alla prova dell'armi, ed in confusione sì
torbida e mista la saggezza catoniana, foss'anche stata
maggiore, non bastava a salute. Scipione per la di-
gnità consolare era primo dì nome. Catone era primo
pel credito, Giuba era primo per la massa di truppe,
e per l'impero locale ora che la guerra s'era fatta locale
CAPITOLO y. 323
La discordia largamente invadeva: Catone insultava
Giuba coi fatti, e colle parole Scipione: Catone voleva
temporeggiare e Scipione combattere: entrambi disprez-
zavano il barbaro re : Scipione con precoce imprudenza
scopri vasi che avrebbe abusato di una vittoria, e lo pre-
vedeva Catone, e non lo taceva. Il paese taglieggiato,
esaurito, non era per loro: Scipione lo sapeva, ma
voleva per rimedio uccidere tutti i cittadini di Ulica onde
non si ribellassero : Catone salvava dal rimedio i poveri
Uticensi, ed avendo alcuni senatori o patrizii con sé,
formava con essi, e con qualche centinajo di mercanti
romani stabiliti in litica, un Senato che per l'umiltà dei
suoi membri aveva piuttosto l'apparenza di municipale
consiglio, che non di corpo politico per tutto Torbe ro-
mano. A quel Senato soltanto intento ai fondachi , ed
impaurito di perderli , che a quello appena cui fosse
forzato non fuggiva d'esser operato, magnanime idee vo-
leva ispirare Catone : egli non parlava ad orecchie sorde,
ed a cuori indurati , ma a bocche per timore silenti :
si ricordassero d'essere Romani : sapessero che non era
Utica, né Àdrumeto la loro città, ma esserlo Roma :
sacrificare beni e vita per Roma essere dovere di tutti:
liberassero ed armassero tutti gli schiavi (e negli schiavi
consisteva gran parte della loro fortuna !) : alzassero bar
luardi, combattessero^ egli esser pronto perfino a tra-
gittare in Italia, ed a vendicarla in libertà. Mentre
egli vociferava neirassemblea uticense smarrita di sì belle
yalenterie, impaurita di lui, impaurita di Cesare, questi
raccoglieva truppe in Sicilia di fronte all'Africa, e si dis-
poneva al tragitto. Le coste dirimpetto sono guardate :
è presidiata Utica, e certamente lo sono le magnifiche
posizioni di Biserta (1) : è impossibile di scendervi inos-
(1) La posizione di Biserta^ e lo stupendo suo porto o Iago ha dato a questa
324 PARTE TEKZi
servalo, e con forze non ancora cresciute e vigorose ad
esercito. Cesare non s'arresta, e sceglie altra base d'ope-
razione : attraversa il canale, oltrepassa il promontorio,
veleggia nel golfo delle Sirti, e sbarca a Leptis a rovescio
del nemico. Erano aperti a lui i fertili territorii di Adru-
meto e Buspina (Susa, Monastir); stendeva il braccio
polente su Tisdro, dove noi ammiriamo anche adesso gli
avanzi dell'antica grandezza; aveva magazzini sicuri nella
ricca isola di Cercina (Cerbi), e di là rimontando lungo
la corsa al nord poteva sospingere sul mare le legioni
di Scipione, e deviando di breve tratto a ponente, poteva
insinuarsi fra Scipione e l'esercito di Ciuba raccolto in
Numidia. Intanto Cesare ha già trovato alleati che mole-
stano Ciuba alle spalle, che ritardano la sua marcia alla
volta di Scipione, e perfino lo costringono a retrocedere
per salvare la sua capitale assalita : alfine è abbastanza
forte d'accorse truppe veterane, di cavallerie galliche, ed
anche d'Africani passati alla sua bandiera, che prostra a
Tapso (Mehadia) in grande giornata tutti i nemici suoi (1).
piazza ia diverse età della storia non poca importanza, e può darla ancor mag-
giore. Se la Francia che ora signoreggia Algeri e Tottimo golfo di Bona, e sub-
entra gradatamente agli Italiani nelle pesche del corallo a La Calle, che sono
una scuola numerosa di marinari eccellenti, riesce ad estendere di breve tratto
il proprio confine verso levante, acquisterà le grandi foreste di legname da
costruzione navale presso Tabarca, e potrà fondare uno stabilimento di somma
importanza nel vasto e sicuro estuario di Biserta. In tal caso la potenza navale
di Francia nel Mediterraneo, e quella soprattutto di essa relativamente alfltalia,
aumenterebbe d'assai, e presto la Tunisia, che è paese meglio collocato, più
fertile delPAIgeria, e per cosi dire connesso in un sistema colla Sicilia e la
Sardegna, diventerebbe totalmente francese.
L'importanza della Tunisia era ben conosciuta anche da Luigi IX di Francia,
che tentato invano l'acquisto dell'Egitto, che è per se stesso, e pel mondo il
primo paese deirAfrica, tentò quello di Tunisi, che è il secondo per T Africa,
ma forse per la Francia e per ritalia è il primo: la conosceva del pari Cirio V,
che alla Sardegna, a Napoli, a Sicilia ed a Malta procurò d'aggiungere Tunisi
per sicurarsi cosi nel bacino cristiano del Mediterraneo, agognando poi airallra
fatica del muovere di là alfoccupazione del bacino turchesco.
(i) Le cifre delle perdite sofferte dai combattenti nella giornata di Tapso sono
CAPITOLO V. 325
Anche rAfrica è in mano di Cesare : lo spento incen-
dio in quel paese si vicino alla Sicilia, e quasi formante
con essa una continuazione dei lerritorii italiani, con-
ferma la cesariana dominazione in Italia : anche dal-
TEgitlo possono adesso trarsi legioni, salvo le destinale
a riserva delle truppe di Siria nel caso che queste doves-
sero rimontare l'Eufrate per nuovi insulti di Parti. E Vab-
bondanza annonaria di Roma, cui ogni governo già da
gran tempo intendeva sollecito, è ora doppiamente sicura
per essere certa la tranquillità, e quindi l'arrivo dei grani
di Sicilia, certo l'arrivo di quelli d'Egitto, e rinnovata
Vaflluenza di quelli dell'Africa. Anzi Cesare, a similitu-
dine dei tributi che in sostanza di mele già si esigevano
dai Corsi, ed in varie merci altrove, impone anche alle
città africane una decima reale di frumento e di olii :
non solamente l'erario avrà soccorso d'argento per le
derrate vendute, ma le plebi romane avranno elargizioni
benché depravatrici di esse, e vedranno, godranno mate-
rialmente della vittoria, applaudiranno a Cesare! Ed ora
che egli sente l'onnipotenza, s'adonta dei nemici , non
comprime del tutto, come dianzi faceva, le passioni vio-
lente, uccide qualche pertinace avversario, conGsca i
beni a coloro che occuparono ufficii contro di lui, e pu-
nisce d'orribili tasse città chiamate ribelli perchè ebbero
la sventura che i Pompejani le invadessero, le rapinas-
sero, le rovinassero; lascia poi al governo dell'Africa
Cajo Sallustio proconsole, severo a vigilare, più severo
esattore (i). Tutto ciò consta da Irzio e Plutarco: la
ancor più menzognere delle già riferite nel fallo di Farsaglia. Giusta gli storici,
Cesare avrebbe avuto a Tapso duecento volle meno uccisi nelle proprie Gle che
non i nemici nelle loro: egli avrebbe cioè perduto soli cinquanta soldati, ed i
nemici dieci mila,
(1) Forse noi dobbiamo Tammirabile narrazione della guerra giugurtina alla
dimora che Sallustio, per ufficio conferito da Cesare, ha fatto neir Africa.
326 PARTE TERZA
scena rimane orrida , ma ha perduto mollo d'eroico
scendendo al vero: meglio piacciono però, e quindi si
continueranno nelle scuole i racconti, che non si com-
prendono per ragione, anzi ad essa contrastano, ma si
tengono per fede.
Catone si è ucciso da sé, altri si fanno uccidere da
amici 0 da schiavi ; alcuni si tolgono la vita battendosi
quasi a modo gladiatorio in duello; moltissimi cad-
dero a Tapso, non pochi di scure. Ma v'ha ancora chi
per odio, disperazione, vendetta anela a nuovi cimenti,
chi vuol rizzare altra volta la pompejana bandiera,
piuttosto che porgere le braccia ai ceppi, e la gola al
coltello. Ma dove dopo tante rovine vi ha terreno a
combattere? Ormai tutto è in potere di Cesare. NeirAfrica,
nella Numidia, nella Getulia si può ancora scorrazzare
a ladronaje, a sorprese, ma non risalire a speranza:
ebbene, gridano i Pompejani, gettiamoci nella Spagna
bellicosa, che ci sta dirimpetto, in quella vasta catena
nevosa fra il Beti ed il mare: è recente in Ispagna la
dominazione di Pompeo, e vi è antica la romana, e tut-
tora vi sono le glorie degli Scipioni, e le animosità
nazionali. Tragittano, occupano, ingrossano: evocano
anche l'ombra del grande Sertorio, che aveva combat-
tuto per causa si diversa dalla loro ! Ma Cesare accorre
egli stesso un'altra volta in Ispagna, e nel terribile
conflitto di Munda le sue legioni di ferso trionfano
ancora.
Creossi Cesare aderenti nuovi in ogni provincia, e
largamente premiò : donò sostanze ed ufficii ; ma esau-
ribile è l'oro, e sono limitate le cariche, sconGnata in-
vece e sempre assetata è l'ambizione dell'uomo. Napo-
leone inventò per essa la Legion d'onore : Cesare non
trovò gli ordini cavallereschi, che tanto abusati a' dì
CAPITOLO y. 327
nostri ancora son chiesti con disfrenalo appetito, ma
conferì in massa le appellazioni onorifiche delle magi-
strature a chi realmente non teneva Tufficio, e si com-
piaceva del titolo anche sine re. Accordò pure largamente
la prerogativa di romana cittadinanza, come già aveva
fatto Pompeo segnatamente in Ispagna (Cic, prò Corne-
lio Balbo], ed era pure ambito privilegio per l'esenzione
dalle giurisdizioni locali. Tradusse altresì colonie a Co-
rinto, a Cartagine, nella Gallia, nella Spagna, nelFÀsia
Minore: erano punti di vigilanza e d'appoggio: in molli
siti erano pure faro d'alcuna luce, scuola di qualche ci-
viltà. Cresceva, è vero, per esse il caos delle legislazioni
diverse simultaneamente in vigore in uno stesso paese,
ma diffondevasi ad esempio un migliore sistema di di*
ritto civile, ed inoltre Cesare pensava ad una completa
e forse uniforme legislazione del mondo. Quanto all'eser-
cizio dei diritti politici di questi Romani lontani da Roma,
esso non era loro tolto, ma impedito dal fatto della
loro assenza dal luogo ove i suffragi dovevano essere
deposti. A che però d'ora in poi si riduceva Tesercizio
dei diritti politici, mentre tutta la potenza era raccolta
in una sola persona? Riducevasi al nulla: quindi Xur
gusto, benché domasse Roma non pure ad ubbidire
ma ad essere schiava, né cercasse ajuto a governo, e
tutta la storia di Roma riducesse a quella del principe,
non temette concedere che le votazioni che si avessero a
fare, si raccogliessero anche nelle colonie, e le loro risul*
tanze si trasportassero poi, e si calcolassero a Roma.
Quand'era Cesare per le guerre d'Africa e Spagna
lontano da Roma, vi governava Antonio: era prodigo:
eppure il denaro non mancava a lui : non si sottilizzava
sui mezzi : il partito più pronto era il migliore, ed al sol*-
dato insolente sembrava anche giusto se colpiva i con*
328 PABTB TEaZi
trarli ; e se v'era taluno (e molti ve n'erano) che avesse
oro nell'arca, e quando giunsero in Roma le notizie delle
armi usate da Cesare infelicemente a Durazzo avesse giu-
bilato, allora sembrava l'occasione propizia ad applicar-
gli una tassa proporzionale a quel giubilo. Leggiamo
infatti che Antonio privatis pecunias per epistolas impe-
rabat^ ed altrove cujus modo rei nomen reperiri poterai,
hoc $ati$ erat ad cogendas pecunias. Ma dobbiamo noi
credere che questo Antonio, cui Cesare aveva già con-
ferito importanti comandi in cento battaglie, le quali
furono altrettante vittorie, e cui confidava il governo di
Roma» fosse davvero scimunito, demente, ubbriaco, in-
sensato, stupido, peggior di Spartaco e di Catilina,
come Cicerone sempre Io chiama nelle quattordici anto-
niane o filippiche ? Non poteva dirlo tale il giudizioso
Pomponio AtticO; che pur era nell'intimità coi nemici
suoi, e nondimeno ottenne da Antonio non solo salvezza,
ma delicati riguardi (Corn. Nip.).
Cesare democratico seguì, confiscando, l'esempio di
Siila patrizio : donò terreni ai legionarii. Confiscò anzi
più di Siila, e donò più di lui : le leggi criminali cesa-
riane gravemente deturpano il gius romano, dando al
sistema delle confische terribile estensione. E sono ap-
punto queste barbare leggi di confisca, e le più barbare
di sangue per delitto di lesa maestà, che si conservarono
per lunghi secoli, e spensero nei modi più atroci le mi-
gliaja di vittime. Ma nell'atto stesso in cui Cesare ema-
nava sì terribili leggi, non intimava diffatto i supplizii, e
per leggi atroci non applicate più clemente sembrava.
Erano atti di generosità, anche di utilità, ma Cesare tras-
modò ad errore credendo a possibilità di conciliazione sin-
cera, e perfino a fedeltà, perchè afiìdò a nemici salvati uQì-
cii elevati e Provincie importantissime, p. e. il governo della
CAPITOLO T. 329
Gallia cisalpina. Cesare perdonava spontaneo a Cicerone,
e questi pregava per Ligario, pregava per Dejotaro, rin-
graziava per Marcello, e diceva con ragione: quos ami-
simus cives, eos Martis vis perculit, non ira victorim.
Cesare perdonava facilmente a tulli quelli che avevano
combattuto soltanto in Farsaglia, meno prontamente a
quelli che avevano di nuovo combattuto a Tapso (Àfrica),
e difficilmente a quelli che avevano ]a terza volta pugnato
a Munda (Spagna) : faceva innocente ma ingloriosa ven-
detta letteraria contro di un morto perchè scriveva VAnli-
Catone, e puniva Catullo d'un modo cortese (1). Anche
egli voleva placare i rimorsi elargendo ed ottenendo per-
dono : voleva l'oblio del passato, ubbidienza e favore
all'attuale imperante (2). Eppure susurravasi di congiure:
parlavasi or di pugnali, or di veleno, e Cesare lo sapeva,
e Cicerone istesso perorando alludeva. I patrizii umiliati,
e fatti plebe, nutrivano un gran disegno : i graziati in
Roma, e gli emigrati pertinaci all'estero continuavano
nella corrispondenza (Cic, lib. V, epist. 12).
Cesare tutto vedeva : volle sventare il pericolo più grave
coU'imitare Alessandro : ne aveva il genio, e le circostanze
erano poco diverse: il mondo era ripieno di soldati che '
avevano seguito le parti cesariane o le pompejane:
v'erano delle masse di cruda ribaldaglìa, che in tanto
(1) Catullo scrisse qualche epigramma contro di Cesare, ma non ebbe in allora
nemmeno il pregio deireleganza :
iVt7 nimium^ Cessar, studeo Ubi velie piacere;
Nec scire ulrum sùs ater an albus homo.
Cesare, quasi grato al poeta che scrivendo contro di lui fosse caduto sì basso,
lo invitò a cena. E quanti dei nostri critici potrebbero essere invitati ogni d),
se però fossero GatuUil
(2) Questa universale benevolenza di Cesare ci richiama a mente il detto di
Eteocle in Euripide, che Cicerone ha tradotto negli Oflìcii : Si violandim estjus,
regnandi gratia violandum esi ; aliis rebus pielatem colas.
330 PARTB TBRZi
sforzo di guerra s'erano raccolte e formale ad eserciti
nell'una o nell'altra provincia (1) : v'era la prevalente fa-
zione soldatesca, ma v'erano pure gli indomiti fautori di
libertà, fautori di patriziato : chi non aveva le armi in
pugno poteva riprenderle, ed anelava a farlo. Bisogna
esiliare l'intiera massa, infonderle nuovo spirito, allon-
tanare il pericolo d'incendii rivoluzionarii, dare nuova
gloria, nuovo guadagno a qualunque soldato, consoli-
dare la pace nell'interno marciando a nuove battaglie in
campi lontani e stranieri. Cesare non ha dei Romani da
liberare nell'Asia, come Alessandro aveva a liberarvi i
Greci, ma vi ha da vendicare i Romani che vi sono morti
con Grasso. I Parti d'altronde erano invasori incessanti
delle romane provincie : finsero d'associarsi a tutti i par-
titi che nelle guerre civili si combatterono nel mondo ro-
mano : quando le legioni venivano richiamate nell'interno,
ed anche ire confedera ti o soggetti spedivano i loro conti n-
genti restando nel loro paese inermi, i Parti divallandosi
dalle montagne dell'Armenia , che come immensa
acropoli sovraincumbono a tante regioni, e ne sono
il castello e le porte, inondavano i regni e le provincie
romane. I Romani ritornavano, rincacciavano i Parti :
facevansi, o non facevansi trattati: seguiva un armistizio,
poi ripigliava la guerra, ed il conquistare il paese dei
Parti, ed il procurarsi cosi una sicurezza costante, rimase
nei Romani, Anch'ebbero lena, un desiderio che non sì
(i) Valga ad esempio Tesercìto d'EgittOi di cui Io stesso Cesare ha parlato
nel libro 111 De bello civili ^ al capo 90: consiahant copice ex Gabinianis mili'
tibuSf qui jam in consueludinem alexandrinoi vilm ac Ikentim venerant: ac-
cedebant coUecti ex prtrdonibus latronibusque Syriw Cilicireque provincitu
finitimarumregionum. Multi prtrlerea tapitis damnati exulesque convenerant:
fagitivis omnibus nostris ceiius erat Alexandrim recepius certaque t'ito con-
ditio ut dato nomine militum essent numero ; si quis a domino prehenderetur,
consensu militum eripiebatur, qui vim suorum^ quod in simili culpa versa--
bantur, ipsi prò suo periculo defendebant.
CAPITOLO V. 331
spense mai. Forse alle ordinarie idee di politica si ag-
giunsero altri argomenti a rendere i Romani pertinaci
allo scopo, e furono di natura economica e com-
merciale, quelli cioè d'aprirsi per l'Eufrate una via più
sicura e più rapida che in quei tempi non fosse quella
dell'Eritreo per giungere alle Indie, colle quali esercita-
vasi un immenso commercio. Ciò è probabile, ma non
troviamo documenti a prova. Cesare con plauso comune
proclama la guerra contro i Parti : egli non guiderà più
eserciti di poche legioni come quelli che ha capitanato
finora, ma un esercito pari alla grandezza dell'impero
romano, alla vastità degli spazii da invadere, al numero
delle nazioni da conquistare, alla mirabile altezza del
proprio suo genio : con esso Cesare penetrerà profonda-
mente nella contrada montìva stata girata, tocca o solo
rapidamente solcata; disseminerà i germi della vita ro-
mana anche colà dove hanno fonte i fiumi che volgono
i flutti a quattro mari contrarii : porterà le aquile vitto-
riose nella Battriana, dove saranno confini dell'impero
i territorii iniqui alla vita umana: egli è Cesare; sarà
anche Ciro, sarà Alessandro, ed i Romani diranno: Sisti'
mu$ ubi defuit orbis.
Tale 8i era il divisamente di Cesare, e vi era causai
vi era scopo e potenza per esso. Ma vorremo noi
s^uire Plutarco ed i moderni scrittori, che con volo
fantastico attribuiscono a Cesare anche l'insensato prò-
getto di oltrepassare le steppe del Caspio, girare quel
mare, varcare Tincommensurabile Scizia e Germania, e
rientrare per la Gallia in Roma? A fronte delle difficoltà
di simile impresa sarebbero state piccole prove e fan-
ciulleschi ardiri l'antica spedizione di Dario I nella Sci-
zia del sud, e nulla poi sarebbero le recenti di Carlo
svedese in Ucrania, e di Napoleone a Mosca» che tutte
332 PÀETB TEBZi
per disagi, per fame, per geli ebbero fine sì trista. Qui
dovevasi percorrere un migliajo di leghe di terreno, senza
base d*operazione, senza punto obbiettivo, senza magaz-
zini, senza comunicazioni con Roma: dovevansi passare
vasti deserti, e larghe fiumane: ogni soldato stanco, ogni
ferito era -inevitabilmente perduto: vi erano forse grandi
battaglie a vincere, ma certamente infiniti conflitti in cui
perdere sangue. NelVipotesi più favorevole si attraver-
sava il paese come un vascello nel mare senza lasciar
altra traccia che proprii cadaveri e salmerie rimaste: in
altra più facile ipolesi l'esercito assottigliato ed esausto
aveva a soccombere ignorato, invendicabile, sotto un
manto di nevi. Bisognava lasciare almeno cento mila
Romani nei presidii dell'Eufrate e d'Armenia, e gui-
darne non trenta o quaranta mila, ma almeno mezzo
milione all'immensa marcia delle inospitali, quasi ignote
contrade, ed alla guerra contro cinquanta stranie nazioni
necessariamente dislocate, saccheggiate e calpéste. Ha
chi non vede che le difficoltà inerenti alla natura del-
l'impresa insensata dovevano aumentare nella stessa
proporzione dell'aumento dei mezzi d'offesa, ossìa della
massa d'esercito? E potremo noi credere che Cesare, il
quale nei Commentarii ci si mostra, se è possibile, an-
cor più abile amministratore d'eserciti che non reggitore
di campali battaglie, che preparava le vittorie col per-
fetto allestimento dei suoi, che meritava il trionfo per
estrema diligenza di cure in ogni tempo prodigate, vo-
lesse gettarsi in tale voragine per perdere Roma e se
stesso? Tagliarsi le comunicazioni con Roma, lasciarla
per due e più anni libera all'audacia dei cospiratori,
levarne gli eserciti per battagliare a ventura, con rischio
micidiale di perdere tutto, con evidenza di acquistare
mai nulla, non erano idee che potessero capire nella
cAPnoLO V. 333
menle di Cesare. Egli ben conosceva tutta l'importanza
di non starsene lungamente lontano da Roma : costretto
a frequenti assenze, toccava sempre Roma negli itine-
rarii suoi: vi rimaneva alcun tempo» vi radunava il Se-
nato, vi teneva i comizii, spargeva le sue idee, presie-
deva alle elezioni dei nuovi magistrati, sapendo che per
le qualità delle persone si reggono le cose presenti, e
si provvede perfino alle future ed ignote ; vigilava sui
contrarii, conteneva e raffrenava anche le intemperanze
dei suoi perchè non trasmodassero ad ecccessi di provo-
cazione e violenza. Se Alessandro, se Gustavo Adolfo, se
Carlo XII, partiti per guerre straniere, si occuparono
talmente di queste che più non rividero le loro capitali,
Cesare noi fece, e nelle guerre civili più che nelle
estere sarebbe stato dannoso il farlo. Poteva muoversi
contro i Parti, e causa ne aveva, ma rifiutiamo cre-
denza alla spedizione di Scizia e Germania, aggiunta
da scrittori fantastici ad un progetto già grande ed ar-
dito. Sì, neghiamo fede agli antichi scrittori, e quindi ai
cento moderni, e ci duole che parlando di operazioni di
guerra vi siano autori e maestri che percorrono così in-
scienti col dito le carte del globo, come insciente Vindice
trascorre sul disco delVore. E ben potremmo addurre,
ma ci sembrano superflui, nuovi argomenti contro Fin-
credibilità del progetto: ripetiamo soltanto che Timmensa
intrapresa avrebbe dovuto farsi in paese quasi ignoto.
Infatti all'epoca di Cesare non si erano ancora combat-
tute dai Romani né le guerre pannoniche, né le daciche,
le quali disvelarono ad essi quelle contrade ignorate e
quasi favolose dapprima : le scitiche poi non furono in-
vase dai Romani in alcun tempo giammai. Erano si im-
perfette le notizie di quelle contrade, che Scilace cre-
deva che l'estremità dell'Adriatico comunicasse coU'Istro,
334 PARTE TEBZÀ
e Pomponio Mela deriva il nome d'Istria appunto dalla
antica credenza che un braccio di quel fiume si gettasse
neirAdriatico. Anche Apollonio Rodio ci narra che la
flotta di Giasone, fuggendo da quella di Età, rimontasse
per ristro, e di là passasse neirAdriatico. e perfino Ari-
stotele sembra credere che il pesce trichia trasmigri dal-
ristro nell'Adriatico. Senza dubbio le campagne militari
d'Illirio dovevano già al tempo di Cesare aver fatto co-
noscere le coste adriatiche, ma dall'Adriatico al Caspio la
linea itineraria era iiAmensa ed ignota, né mai un gran
capitano come Cesare l'avrebbe voluta percorrere pere-
grinando a scoperta con mezzo milione d'armati. Vero
si è che la vittoria cresce le voglie, e dà più mezzi di
contentarle: vero è altresì che Cesare non era uomo che
si appagasse del bisognevole, e nemmeno dell'utile, ed
anzi ambiva il superfluo, ma altissima mente era la sua:
prima di calpestare il mondo voleva persuadersi che
farlo si potesse, e che farlo giovasse. Si folle marcia non
avrebbe intrapreso giammai : erano già grandi le diffi*
colta della partica guerra.
Per questa spedizione contro i Parti si raccoglie un te-
soro, perchè il denaro nelle guerre vale come ferro, e tal-
volta più, e sempre si dà principio e continuazione al
combattere asuon di denaro (i) : si fanno infiniti appre-
stamenti: occorre un abile amministratore nella Grecia,
dalla quale si ha da muovere alla grande invasione, e deve
esserne base di sicura affluenza di soccorsi continui, e
Cesare vi spedisce a governo il giureconsulto Sulpizio,
(i) Anche in allora Cesare avrà forse adottato Tingegnoso espediente che usò
nella guerra civile, e di cui si compiace egli stesso come di stratagemma sa-
piente: a tribuni s mililum cenlurionibiisque mnluas pecunias sumpsit; has
exercilui dislribuit: quo facto duus res conseculus est, quod pignore animos
cenlurionum devinxU et largiliorie militum voluntates redemit (De belio civili,
1. !. e. 39). •
CAPITOLO V. 335
uno dei più splendidi ingegni di tutto lo Stato: era
uomo giusto: avrà avuto anche giuste istruzioni con-
venienti al suo senno, alla sua temperanza. Ogni pom-
pejano, e lo era anche Sulpizio, se non ha per carat-
tere la resistenza indomabile, può aspirare a grandezza
civile e ad onore guerriero : non rialza lo stesso Cesare
le statue di Pompeo? Cesare con ciò consolidava le sta-
tue sue proprie: allettava, diminuiva almeno il rossore a
chi si schierasse sotto le sue bandiere. Il mondo romano
era per rovesciarsi tutto intiero sull'Asia: il patriziato di
Roma era in procinto di perdere ogni sua spada. Più
non v'era una Vandea pertinace in sull'armi : già le masse
posavano: non v'era possibile rimedio di guerra, né tempo
a ritardo. Era lo Stato nella situazione in cui trovossi
la Francia al principio di questo secolo, quando chetata
ritornava con Napoleone a senno e temperanza, e per lo
migliore ordinavasi, e poneva amore a lui che le aveva
dato la gloria e le prometteva il riposo : allora i Borbo-
niani tramarono alla vita di lui, e la macchina infernale
si accese. Non altrimenti parve ai romani patrizii che
avrebbero eternato il danno col differire il rimedio, e ri-
medio non poter essere che il pugnale: fu infatti nelle
aule patrizie affilato il pugnale, e più lo affilò chi aveva
ricevuto da Cesare perdono, beneficii e governi. Cesare
cadde: se egli morendo disse realmente le parole Tu
quoque, Brute, fili mi^ troviamo più sublime lamento
nel solo Vangelo.
Scorsero diciotto secoli prima che la natura produ-
cesse in Napoleone un uomo sì grande da poter essere
comparalo a Cesare. Furono eguali? Chi fu il più grande?
A chi spetterebbe nel Trionfo della fama, che un nuovo
Petrarca scrivesse, il primo posto presso la Dea? Noi non
saremmo stati, come il Petrarca, perplessi se quel posto si
336 PÀETE TEBZi
dovesse a Scipione od a Cesare ; ma nel problema attuale
chi non si periterebbe alla scelta? Le grandi cose ope-
rate da Cesare e da Napoleone sì stringono pressoché in
egual numero d'anni, ed ambedue sparvero dal mondo
quasi alla stessa età. Entrambi sdegnarono gli argomenti
della temperanza cittadina, amarono pibla gloria tumul-
tuosa che l'onore tranquillo, vinsero Tanarchia per trarne
l'assolutismo, curando il presente non provvidero alle
istituzioni pel futuro, tolsero la libertà politica, ma con-
solidarono la civile, la sola che volessero duratura tras-
mettere, spensero l'idolatria di ogni privilegio, d'ogni
ereditaria grandezza, perchè sorsero nuovi dal popolo e
furono più grandi di tutti i re. Rischiararono di loro luce
le menti, ed infusero vigorosa l'azione ai loro generali,
ma non trasmisero ad essi creata fiammella di genio
come Gustavo Adolfo a Bernardo di Weimar, a Banner,
e più ancora a Torstenson : salirono a meravigliosa al-
tezza, ma solo per veder più lungi e per aspirare più
vasto. Ebbe Napoleone una sola passione, la gloria del
dominare sui popoli, e trarli a progresso civile e ser-
vaggio politico ; molte passioni ebbe Cesare, quella pre-
valente, né tutte splendide, ma anche volgari. Diversi da
Carlo XII, né l'uno né l'altro di essi cercò nelle batta-
glie per mera temerità e baldanza i pericoli, nessuno li
fuggi quando giovasse incontrarli: furono onniscienti
pressoché in tutte le discipline di Stato, e non solo
nelle militari, ma Cesare primeggiò perché al genio
eguale univa maggiore esperienza d'ogni carriera sociale,
ed ebbe elevazione men rapida : Cesare pensò a dare
una legislazione ordinata, e Napoleone la diede; quegli
dunque desiderò, e l'altro ottenne la lode di legislatore,
che ben dice Machiavelli essere la prima di tutte le
umane. Cesare non fu presago delle vendette dei privati,
CAPITOLO V. 337
e Napoleone di quelle dei popoli, sì che l'uno perì sotto
i colpi degli amici salvati, e l'altro non ebbe soccorso
ma rovina dai nemici non spenti ; Cesare contenne in fede
le Gallie, e Napoleone non contenne Germania. Cesare
fu conservatore di soldati, ordinatore di battaglie, maestro
d'assedii quanto Napoleone: forse lo fu pib di lui, e fu
inarrivabile nell'istruzione e nell'uso delle truppe leg-
gieri: la parte politica della guerra fu meglio apprezzata,
e ciò vuol dire compresa da Cesare che non da Napo-
leone, ma questi fu più grande nell'abilità strategica,
che alla tattica sovrasta: leloquenza militare rapida,
concitata, orgogliosa fu eguale in essi, e lo fu l'ardi-
mento a cogliere l'istante in cui il nemico sconfitto più
non dà pericolo, ma fatica e frutto: ebbero non amore
ma adorazione dai soldati : sempre indefessi e calmi, non
mai accrebbero nel tumulto, nei pericoli, nei rovesci col
turbamento proprio quello d'altrui. Fu uguale la vigi-
lanza in essi: né l'uno né l'altro subirono la vergogna
d'esser sorpresi nel campo come lo fu Federico II nella
notte tremenda di Hochkirchen. Vinsero entrambi in tre
parti del mondo battaglie preparate di guisa, com-
battute e seguite, che il nemico non ne fu affievolito,
respinto, ma prostrato , preso , totalmente distrutto.
Non ha la vita di Cesare il miracoloso spettacolo del
ritorno dall'Elba, ma nemmeno la catastrofe di Mosca e
di Lipsia che lo precorse, né quella di Waterloo che lo
segui: ambedue in certi momenti poterono dire che ormai
più doveva importare allo Stato che non a loro stessi la
propria salvezza : ma Napoleone, non Cesare, aveva in
allora creato la fatalità di posizione gravissima, disperata.
Cesare ha perduto truppe con Curione nell'Africa, con
Cajo Antonio nell'Illirico, e con Domizio Calvino nel
Ponto, e con Dolabella ha perduto navi nel Ionio, ma
22
338 PARTE TERZA
non fu egli stesso in grande certame superato giammai ;
ogni grande certame fu sempre un trionfo : Napoleone
moltiplicò i prodigi quando rovinava, ma rovinò anche
militarmente per intemperanza d'ampiezza di concetti
politici. L'uno fu debole verso gli amici, l'altro lo fa
verso i parenti ; l'uno fu ordinato e parco per poter
essere splendido, l'altro fu prodigo sempre confidando in
nuovi tesori ; l'uno fu grande nelle lettere, l'altro provò
che avrebbe potuto emularlo ; l'uno cercò la grandezza
pel popolo romano, per sé, l'altro cercolla pel popolo
francese, per la propria famiglia, per sé. Cesare non
aveva nazioni a creare. Napoleone ebbe nella destra po-
tente Italia e Poloniai e nulla ne fece: tentò poi di spe-
gnere Spagna, ed ha avvilito Germania : parve aspirare
all'impero dì Carlo Magno, non a quello di Cesare^ Chi
dunque fu maggiore fra essi? La nostra mente è'bassa a
tanta altezza ; ma la posterità suol giudicare meno dalle
cose fatte che dalle lasciate, ed ha ragione : molte ne la-
sciò Napoleone, ma la vita di Cesare si protrasse nel
mondo romano per secoli.
PARTE QUARTA
IL PRINCIPATO DIVISO, COMBATTUTO,
RIDOTTO AD UNITÀ.
CAPITOLO I.
BniU e Cassi* : Sesto Pmfet : i TrinTiri :
le preseruieiii.
Al cadere di Cesare estrema fu l'ansia, la trepidazione,
la discordia dei senatori. 11 maggior numero di essi per
odii patrizii era nemico al caduto, ma era spayentato
altresì dall'audacia dei percussori, e dalla prescienza delle
future tempeste : erano poi a centinaja i senatori scelti
da Cesare fra gli aderenti suoi. Nei tempi ordinarli i pò.
polani ammessi a gradi, a favore, a potenza, tosto assor-
bono e spirito e tendenze del corpo privilegiato in cui
entrano, anzi non pochi subitamente o rapidamente tras-
modano, e diventano cosi fieri aristocratici com'erano
popolani inquieti. Ha qui l'aspetto delle cose era sinistro
e grave : i senatori cesariani nel caso di reazione com-
pleta potevano perdere la dignità acquistata, gli ufficii
ottenuti, i beni di sanguinosa conquista a loro donati, le
patrimoniali ricchezze, fors'anche la vita. Non era più
dunque il Senato un corpo compatto : non vi era unità
d'interessi, e quindi di voglie: non esistevano quelle
maggioranze sicure, che imperano coi voti, ed abbattono
con certezza di repressione le manifestazioni contrarie.
E tremando altresì dei soldati e del popolo, il Senato non
sapeva prendere risoluzioni franche, costanti, recise, anzi
non osava dichiararsi, e faceva contraddi ttorii decreti : non
342 PÀBTE QUARTI
perseguitava colle pene, anzi adulava colle onorevoli di-
mostrazioni i percussori suoi : approvava però lutti gli
atti di Cesare, e quindi confermava anche le operate con-
fische. Gridavano invano i possessori spogliali, jm sem-
per hoc fuisse, ut, qticB tyranni eripuissent, ea, typan--
nis interfectis, ti, quibus erepta essent, recuperarent
(Cic, Filipp. II) : la rapina era venuta in mani troppo
forti per esser loro ritolta con leggi. Nondimeno il Senato
diede una volta per repentino decreto a Sesto Pompeo
una somma si enorme come indennità dei perduti beni
paterni, che sembrava mirasse ad armarlo. Non vi era
più il tiranno, e non vi era la libertà (1).
Cade la repubblica nella confusione piti orrìbile : il
Senato prendendo a prelesto veri o supposti decreti di
Cesare, aggiudica a Bruto la Gallia cisalpina : cosi l'avrà
vicino colle sue legioni ; ma Antonio appoggiato dal po-
polo reclama quella provincia per sé ond'essere il vero
dominatore di Roma, e l'ottiene dal popolo : Bruto vada
invece in Macedonia e Cassio nella Siria ! Nessuno cede,
anzi e Bruto e Antonio entrano entrambi armati nella Gal-
lia cisalpina a prendere possesso: vi entrano anche i con-
soli mandali dal Senato : si combatte fieramente, ed ambi
i consoli periscono. Ma come vi sono i violenti che stra-
scinano, e mettono il fuoco, cosi vi sono i deboli ed i
conciliatorì che credono mutare colle parole le cose, e
(\) Cieerone, benché invaso in tatte le fibre di |(ioja crodde per ruccisione
di Cesare, pur esso tremava^ e non solo tremava in quel momento, ma anche
più tardi. Abbundano infatti negli scritti di lui le Iodi del gloriosissimo eccidio,
ma sempre 8*a(fretta a soggiungere che Tapprovazione successiva é*un fatto non
ò complicità nei medesimo. Eppure sovente vuole aver parte alla gloria: omnes
boni quantum in ipsis fuil Cccsarem occiderunt; aliis consUiumi aliis animus,
aliis oceano dtfuit, voluntas nemini. Anzi Tedio contro Antonio che vive, Io
spinge ad altre voglie di sangue, ad altre brame omicide; se fossi stato fra i
congiurati, egli dice, non solum unum aclum, sed totamfabulam confecissem.
Ma non mancava nemmeno agli altri il desiderio, mancò il cuore e la fòrza {
CAPITOLO I. 343
distruggere col falso il vero : non si dà neppure in Senato
ai gran fatti di Gallia il nome di guerra^ ma solo di tu-^
multo: Cicerone però disserta, dislingue, grida che è
guerra, e chiede il capo d'Antonio; ma vi è terrore in
tutti, e di tutto decido la forza, che al fine è dal lato
di Antonio collegato ad Ottavio, più tardi chiamato Au«
gusto, ed a Lepido, e sostenuto dal popolo e dai veterani
di Cesare. Bruto e Cassio lasciano Tltalia, ove aderenti e
complici, ma adequala potenza non hanno. Raccolgono
anch'essi nell'Asia tesori ed esercito, come al tempo di
Cesare li aveva al servizio di Pompeo colà radunati Sci-
pione, e marciano come Scipione all'Ellesponto. Sboc^
cando dalla Tracia avranno aperta sulla sinistra la Grecia,
e saranno per la destra a Durazzo, il che vuol dire a Brin-
disi, perchè prevalgono in mare. Già guidano cento cin-
quanta mila soldati : quanti ne avranno quando si sarà
sollevata Tltalia, e sollevata la Grecia, che ormai è tanta
parte del sistema romano? Antonio ed Augusto hanno il
favore del popolo, ed i gloriosi veterani di Cesare per
concitazione, interesse ed orgoglio anelanti a combattere,
ma bisogna accorrere al pericolo militare e politico, rac«
cogliere le masse, ed arrestare frattanto la marcia del
nemico si che non possa dalla Tracia sboccare in Mace-
donia, ed afferrare il nodo delle comunicazioni colla Gre-*
eia e Durazzo. Si avviano dunque ad AmGpoli, a Filippi,
nelle Termopili tracio-macedonicbe tutte le truppe che
già sono in Grecia ed Illirico: si fortifichino, sbarrino tutti
i passi, confidino nelle numerose legioni che vengono a
prestissimi passi. Realmente affluivano da tutta Italia,
dalla Gallia, dalla Spagna a Brindisi, intrepide, insulta-
trìci di tutto, ma come al tempo di Cesare tremando del
mare. La flotta nemica però è mal guidata e discorde,
viene, scompare, ritorna per scomparire di nuovo : negli
344 FIRTE QUARTA
intervalli di libero mare incomincia il passaggio, ed in
breve Norbano e Decidio arrivano con otto legioni al-
1 eccellente ancoraggio di Durazzo, assicurano per chi li
ha da seguire il possesso di quella chiave importante
d'IUiria e di Grecia, avanzano più che di passo, e s*attra-
versano nelle gole di Tracia. Ad un attacco di fronte
potevano per alcun tempo resistere, ma Bruto e Cassio
sopravvenuti inforza, ed amici dei Traci, girano di fianco
alle loro posizioni, come Serse girò a quelle di Leonida
alle Termopili. Norbano e Decidio abbandonano allora
precipitosamente le gole, ove perirebbero di fame e di
ferro, e si gettano in Amfipoli risoluti a tener fermo ad
ogni strazio di guerra, ed a chiudere al torrente di Tracia
i liberi solchi dì Grecia e Durazzo. Non era Amfipoli
città da andarvi facilmente per entro, ed essi la resero
ancora più forte per starvi al coperto anche ravvolti
nel turbine: erano abili e coraggiosi soldati, ma se la
flotta nel canale di Brindisi impedisce i soccorsi , do-
vranno gettare a terra le spade. Quella flotta però, desti-
nata a speculare , sopraccorrere , sgombrare il mare ,
non fece con diligenza Tufficio, o fu dai venti respinta
e dispersa: Antonio ed Augusto con cento mila uomini
e cavalli possono tragittare a Durazzo : sono a Tessalo-
nica, e nell'ora estrema ad Amfipoli : vedono nelle mura
dilacerate e fesse, e nella città di dolori ripiena, i se-
gni della costanza dei difensori : applaudono a loro, si
uniscono , promettono nella prossima pugna preda, e
vendetta, danno nelle trombe, e si fanno avanti al ne-
mico. Due sole legioni in ritardo erano state assalite
in mare e distrutte o prese.
Ora Bruto e Cassio se vogliono procedere verso la Gre-
cia' 0 Durazzo dovranno colla spada aprire la via , e la
battaglia è ben pericolosa per essi che hanno a fronte i
CAPITOLO I. 345
veterani di Cesare : i capi prendono una forle posizione
a Filippi, ma altercano, ed i subalterni, come al tempo
di Pompeo seguiva, e sempre in tali eserciti segue, si
mescevano nelFallerco coi capi. I repubblicani hanno gli
ajuti d'allra flotta nell'Egeo, ed il loro campo comunica
con essa, e col centro dei loro magazzini nell'isola di Tasso
per un porto di poche miglia discosto da esso. Antonio
assicura dapprima la propria linea di comunicazione con
nuovi baluardi e guarnigioni in Amfìpoli e Tessalonica,
perchè al vertice del golfo Strimonico e del Termaico
quella linea potrebbe esser offesa dalla flotta nemica, ed
anche intercettata da sbarchi di truppe. II possesso sicuro
di Amfipoli e Tessalonica era infatti necessario ad Augu-
sto ed a lui, come lo fu in questo secolo quello di Danzica
a Napoleone operante sul Niemen(1807, 181S), o quello
di Tarragona a Suchet (181S1) marciante a Valenza per
assicurare le sue comunicazioni contro gli Inglesi pa-
droni del mare. La Grecia non è tocca da un combattente
o dall'altro, né obbietto alle mosse d'alcuno : essa si trova,
per dirlo con frase di marina, a sottovento delle linee di
battaglia : sarà di chi vince nella zona da Durazzo a Fi-
lippi, come lo fu in tante guerre l'Italia dell'esercito vin-
citore nell'avvallamento del Po. Per ora tutti le offrono
vantaggiata amicizia, ma si sente nelle forbici : la espi-
lano Antonio ed Augusto per terra, e Bruto e Cassio per
mare, ed essa trema del ricusare e del dare : è già depau-
perata d'assai, finge d'essere esausta, dliolsi talora della
rabbiosa cupidità di alcuni condottieri che congregano
pecunia per loro più che mezzi alle truppe, non vede la
patria nell'un campo o neirallro, ma del soperchio sof-
frire ha pur qualche conforto nelle ferite romane, e te-
nendo rancore impotente guarda verso Filippi sbigottita
ed an««iosa.
346 PARTE QUARTA
Fermamente assicurato di Tessalonica e di ÀmfìpoH,
Antonio, che guidava anche per Augusto la guerra, più
non teme per la linea delle comunicazioni sue proprie,
ed insidia invece la base di Bruto e di Cassio. Spinge il
suo corno destro fra il loro campo ed il porto : sta per
intercettare i convogli venienti da Tasso: in allora è tolta
ogni dubitazione al combattere : un grande esercito non
può vivere coi prodotti della catena dei monti di Tracia
che gli stanno da tergo: presto vi sarà fallimento di
sussistenze : non si può vincere stando : bisogna muo-
versi anche con rischio di perdere : si deve combattere.
Si urtano e si riurlano in doppio conflitto le masse
dei veterani di Cesare, e dei giovani fatti alla gcuola
di quelli, cogli indomiti patrizii, cogli indomiti repub-
blicani, cogli Asiatici e Barbari: il trionfo dei Cesa-
riani è generale e completo : non vi è pei fuggenti ritirata
al porto e su Tasso : non vi sono apprestate difese alle
gole di Tracia per raccogliere le genti conquassate, o nel
terrore si lasciano: abbandonano a briglia sciolta gli
stranii vessilli le compre o forzate cavallerie dei Barbari.
La riforma romana è confermata per sempre: il patri-
ziato è spento, ma è spenta con esso anche qualsivoglia
garanzia di politica libertà.
Il barone di Montesquieu ha scritto che Catone si
uccise alla fine della tragedia, e Bruto e Cassio si uc-
cisero al principio. È precisamente il contrario; Catone
si uccise quando fu vinto il partito pompejano , ma
un uomo veramente grande non si dà mai tutto ad un
uomo, 0 società di persone: il patriziato non era distrutto
di guisa che non potesse tentar di risorgere, «d infatti lo
tentò. Ma con Bruto e con Cassio il patriziato fu spento,
ed essi dunque si uccisero non al principio, ma alla fine.
Quali speranze potevano avere, dopo si grande sconfitta,
CAPITOLO I. 347
dì ripigliare il campo, di sostenere una lotta titanica ?
Già prima dì combattere manifestavansi nel loro esercito
segni di dissoluzione e sfiducia : un Gamulato prode in
guerra, ed onorato pel valore , passava ai triumviri
sotto gli occhi di Bruto: questi temeva di ribellione e
di tradimento maggiore, e per prevenirlo, cioè per di-
sperazione, assali promettendo ai soldati il saccheggio di
Tessalonica e di Lacedemone per animarli alla pugna
(Plutarco, in Bruto), Ed il di seguente alla seconda bat-
taglia di Filippi, Bruto, secondo Appiano, era riuscito a
raccogliere quattro legioni d'intorno a sé : voleva ancora
guidarle a disperata battaglia, ma esse non stettero in
ambiguo, non fluttuarono nell'ubbidienza, bensì aperta-
mente negaronsì : non aveva lo stesso Bruto temuto
della fedeltà dì molti ufiìzialì anche prima della batta-
glia, ed esposto i suoi timori a Cassio, che voleva ritar-
dare il conflitto? Un Messalla arrendevasi con 14,000
uomini, ed è a ritenersi che i triumviri non li credessero
pertinaci nei sentimenti contrarii, perchè li ricevettero
distribuendoli nelle loro legioni, e Messalla ebbe elevato
comando per Augusto nella giornata di Azio. Rovinava
da ogni parte la fortuna , ed era tolto il perseverare per
risorgere: è vero che Sesto Pompeo teneva ancora la
Sicilia e la Sardegna, ed avendo flotte sul mare poteva
molestare, come infatti molestò lungamente i signori di
Roma, ma precipitarli non mai.
Bruto e Cassio avrebbero potuto forse sottrarsi a chi
anelava al loro sangue, e, come tanti altri, battersi di
nuovo in Sicilia o nell'Asia, e desolare qualche provincia
in vagabondi affrontamenti : essi però od hanno creduto
la fuga impossibile, od hanno nobilmente sdegnato una
guerra di certa rovina: l'alterezza d*entrambi li avrebbe
sempre trattenuti di scendere a meri stromenti di Sesto
348 PARTE QUARTi
Pompeo, e meno ancora dei Parli. Quale ipotesi è la
più probabile? Noi crediamo che il Tasso si pronuncie-
rebbe per la prima, perchè cosi fece parlare lo sconfitto
Solimano:
Vegga il aemico ie mie spalle, e schema
Di nuovo ancora il nostro esiglio indegno.
Purché di nuovo armato -indi mi scerna
Turbar sua pace, e il non mai stabil regno :
Non cedo io no; fia con memoria eterna
Delle mie offese eterno anco il mio sdegno :
Risorgerò nemico ognor più crudo
Cenere anco insepolto e spirto ignudo.
(Canto IX).
Che la dignità deiristoria riQuta il racconto dello spet-
tro apparso a Bruto quand'era in procinto di battaglia
a Filippi, è troppo evidente. Ma come mai tanti scrittori
antichi e moderni si piacquero di si strano racconto ?
Taluno ha fors'anchè creduto allo spettro ; ma come non
riflettere almeno che nella notte che precede una grande
battaglia non v'ha capitano che perda le sue ore leggendo
Omero o Platone, come vuoisi che Bruto facesse finché
ebbe apparizione di spettri, e tenne discorso con essi ?
Il capitano che trovasi di fronte al nemico, che incalza
e prepara l'assalto, è assediato, oppresso da mille cure
e pensieri, appena basta ad ordini, a notizie, ad ispe-
zioni, ad incarichi, e prende spossato ora breve ed inter-
rotta di sonno.
Secondo Plutarco, Cassio si trafisse colla spada stessa
con cui aveva ferito Cesare, e Shakspeare lo fa dire a
Cassio nel momento del suicidio. Questo pensiero sta
bene al poeta, non allo storico. Ma quante mai fra le
armi istoriche che si mostrano nei gabinetti e nei musei
d'Europa hanno lo stesso pregio d'identità con quelle
CAPITOLO I. 349
che furono realmente usate a compire gloriosi o deplo-
rabili fatti I
Può anche dubitarsi se Cassio siasi tolto la vita da sé.
Egli aveva certamente premeditalo di uccidersi ; ma
quando leggiamo che era solo con uno schiavo, e si trovò
poscia il suo corpo col capo spiccato dal busto, né più
si rinvenne lo schiavo, noi crediamo piuttosto all'assas-
sinio, che non al suicidio. Probabilmente lo schiavo lo
uccise sperando d'aver ricco dono dai triumviri, che
avranno compianto Cassio, e premiato di scure lo schiavo,
Cassio e Bruto erano morti: bisognava pure oltrag-
giarli, oscurarli, gettare sovr'essi, se si potesse, l'obbro-
brio : giusta veggenza d'utilità noi consiglia, e l'effetto
non segue, ma spinge lo sdegno, ed illude a vendetta:
sempre lo si fece, e si fa. Quindi troviamo un cenno in
Plutarco che perfino la discendenza di Marco Bruto da
Giunio fu contrastata: si disse che era un plebeo avente
nome comune con Giunio, ma non derivante da lui,
giacché Giunio avendo ucciso i suoi figli, era orbo di
posteri. Le genealogie dei Greci e Romani erano sovente
fantastiche come lo sono le nostre: nelle Vite di Plutarco
ne abbiano prove copiose e stucchevoli. L'adulazione fu
sempre cercata, ed ai vivi e potenti si offre ancor più che
non si cerchi da essi : tutti i personaggi di Grecia e di
Roma facevansi quindi discendere dagli Dei, dai Semidei,
dagli Eroi, come i potenti signori dell'era di mezzo, gli
usurpatori d'impero negli italiani municipii, e perfino
gli umili cortigiani del principe, si fecero con scialacquo
di melensa dottrina e con sfrontate menzogne discendere
dalle grandi famiglie di Roma, od anche dalle greche e
Irojane. Finché regge la potenza della persona adulata la
prescrizione e le nebbie del tempo sembrano coprire Tin-
venzione ed il falso : quando cade la potenza, svani-
350 PAETE QUARTA
scono l'adulazione e le favole : cade perBno il prestigio,
e la slessa credenza di vera discendenza da illustre pro-
genie, e di nuovo le lellere abusate si fanno mancìpie di
contumelia e rancore. Ora Bruto era spento, ma non le
passioni politiche, non i partigiani suoi, non raffetto
personale per lui. Ogni insinuazione contro Torigine
patrizia di Marco Bruto fu dunque vana, e si credette
alla sua genealogia, vera o non vera. Ma come non ridere
di quegli argomenti che adduce Plutarco, che cioè Giunio
avrà avuto un terzo figlio piccolino che in vita rimase, e
che il naso di Marco, le sue fattezze somigliavano infatti
al naso e fattezze della statua di Giunio posja qualche
secolo avanti nel Campidoglio romano, la quale poi se
bene figurasse le forme di Giunio nessuno più dire il
poteva?
Molti dei partigiani di Bruto e di Cassia sono caduti
a Filippi, molti sono prigioni, molti deposero le armi,
pochi il maltalento. Taluno corse ad unirsi a Sesto
Pompeo in Sicilia per ingrossare quelle schiere di indo-
miti patrizii, di schiavi armati,, di pirati, di fuorusciti
d'ogni specie e paese raccolti sotto bandiera romana :
altri per casi di fuga, per scella, per disperazione e
per odio corsero a schierarsi coi Parli. Per un Corio-
lano che s'era collegato coi Volsci ora vi sono i mille
anelanti a nuova guerra sotto il vessillo dei Barbari.
Due nuovi incendii si preparano, l'uno nella Mesopo-
tamia, l'altro nella Sicilia; quello più grande ma lon-
tano, questo minore ma prossimo a Roma. Le grandi
masse vittoriose a Filippi hanno dunque a dividersi per
marciare a direzioni contrarie: un guerriero imperante
da solo avrebbe forse preferito di contenere pel momento
Sesto Pompeo, e di farsi incontro ai Parti rinnovando il
gran disegno di Cesare: le ragioni politiche erano le
CAPITOLO I. 351
stesse, e migliori le opportunità militari, perchè già si
avevano in Macedonia ed in Grecia quaranta legioni e
trenta mila cavalli sul limitare dell'Asia. In Asia d'al-
tronde era pur forza passare per distruggervi e sostituire
i governi istituiti da Bruto e da Cassio, che appunto di
là erano venuti per l'Ellesponto e la Tracia a Filippi, e
Sesto Pompeo aveva chiesto la pace purché conservasse
le isole in suo possesso.
Ma per sospendere una guerra, e trattare l'altra vigo-
rosamente contro i Parti che già s'armavano, ed accen-
navano all'invasione col dare al romano Labieno il
comando supremo del loro esercito, sarebbe stata indi-
spensabile la concordia, anzi la perfetta identità di volere
nei capi, ma la concordia assolutamente mancava. Erano
stati concordi per battere il pericoloso nemico a Filippi;
lo erano stati per spogliare di quasi tutte le sue Provin-
cie Lepido loro collega; ma né Augusto avrebbe ceduto
ad Antonio il comando di quasi tutti i soldati, né Antonio
ad Augusto il comando di quasi tutte le provincie. Fat-
tasi qualche mutua cessione di truppe e vascelli , sia
per meglio allestirsi ciascuno ad operazioni divise, sia
per gelosia d'esser entrambi con alcuna forza in ogni
fatto presenti, Augusto retrocedè colle sue legioni in Ita-
lia, ed Antonio scorse con parte delle proprie rapida-
mente l'Asia Minore, la Siria e l'Egitto, ordinò o dis-
ordinò nuovamente le cose, mutò governanti, impose
taglie. Poteva dire alle città spaventate, e certo disse:
avete pagato per Bruto e Cassio ; se lo faceste vostro
malgrado, dimostratelo adesso pagando di buona voglia
per me: erano le parole slesse che già Bruto, meno avido
ma più necessitoso, aveva detto a quei di Pergamo, loro
rammentando le somme sborsate a Dolabella. Come non
pagare con tali argomenti? Come non giubilare? Se poi
353 PARTE QUAETi
una povera città volontaria o forzata aveva realmente pom-
peggiato per Bruto« festeggiato nel circo, od eretto una
statua, in allora come l'esultanza si volgeva in contrario,
qual colmo di giubilo, qual misura di dono spontaneo^
com'era presa da forte e perduto entusiasmo di consu-
mare se stessa per ammirazione d'Antonio ed Augusto,
che non avevano tratto la repubblica in loro potere^
ma donato se stessi alla repubblica, che alle inferme
cose dei Romani erano stati dati in sanzione dagli Deil
Povere città, tante volte battute e calpeste, e che dove-
vano esserlo ancora, sempre udendo che erano amate
con affetto paterno, che si volevano liberare dai presenti
affanni, e ristorare dei danni passati 1 Nelle guerre ven-
gono vane le prove con ogni sforzo seguite d'avere ab-
bastanza denaro per oblazioni , per tributi, per tolte
simulate di prestiti: bisogna cavarne per forza, ed i glo-
riosi soldati lo cavano non pretermettendo acerbità, ed il
paese a modo militare consumando: vogliono non solo
vivere, ma anche piacevolezze e comodi talvolta incon-
venevoli e voluttuosi : i capi lasciano spesso ai soldati la
briglia sul collo, o si fanno tenere il sacco da loro, e gli
impotenti di felice pinguedine o no, usate le arti di stor-
nar la tempesta, si inchinano al destino, s'arrendono e
pagano, pur consolandosi della sola speranza che i sol-
dati prendano solamente il passaggio, e non fermino
le stanze. Nelle guerre civili poi il governarsi a partito
rende ancor più gravi i danni, perchè non vi è condottiero
si forte che possa dar misura e sosta allo spoglio e ra-
pina, dovendo ciascuno concedere o tutto o molto a chi
è parte della propria potenza : quindi è incredibile il sof-
frire dei seguaci o sospetti di fazione contraria, e straboc-
chevole lo sperpero e la necessità del denaro.
Cosi vennero a crudele sacco e rapina le provincia
CAPITOLO I. 353
dell'Asia. Alle crudeli necessità d'ogni guerra, alle tristi
inclinazioni delle guerre civili, si aggiungevano le disor-
dinate appetenze d'Antonio. Egli era già salito a quel
grado in cui l'uomo potente può ben meglio che di pe-
cunia pagarsi, ed aspirare fra popolo plaudente all'im-
pero, ma serbava l'ignobile contaminazione nell'animo
di far suo quello d'altrui, e di pompeggiare sprecando ;
ammassò tesori e profuse, non attaccò i Parti, e ritornò
a Roma per sorvegliarvi ed osteggiarvi Augusto. Allora
i Parti proruppero con Labieno nell'Asia romana, fecero
in pezzi le guarnigioni lasciate da Antonio, e trionfarono
nella Giudea, nella Siria, nell'Asia Minore. Cleopatra ri-
masta fedele ai Romani, o piuttosto ad Antonio, in Egitto
tremava, come aveva tremato di Cassio quando levò la
bandiera di guerra nella Siria : le tribù della Mesopota-
mia stavano per tragittare il mare sotto un capo romano,
come l'avevano passato con Dario e con Serse. Ma le
forze romane agguerrite in tante battaglie erano troppo
numerose se anche divise : accorsero da ogni lato le ro-
mane legioni, ed i luogotenenti d'Antonio, Yentidio il
più illustre, batterono, ricacciarono i Parti : giunse an-
che Antonio dall'Italia, volle farsi ad inseguirli nelle mon-
tagne d'Armenia, nei piani di Mesopotamia, ma ne tornò
sanguinoso e scemato di potenza e di fama, che quella
non era spedizione da operarsi con forze divise, senza
preparazioni sufficienti, da chi non era nò Alessandro,
né Cesare.
Già risplendevano invece di luce abbagliante le stelle
augustiane. Infatti dalla guerra di Sicilia usciva Au-
gusta vittorioso e più forte. Gli ostacoli a superare
erano stati grandi: sembravano quasi insormontabili
per la prevalenza delle forze navali di Sesto Pompeo:
questa era tale che fu perfino proposto ed incomin-
23
9H p^TJi ì^^k
mio li ÌMprfi d'B^ifa ij Jago ÌA^^m e quello 4i
4y^flp ^^ey^a^Jl^ jif> /canate al|a b^ji» di Po^«jW)U .
pad^ .ar^r^ uà badno 4el toUo sììi^uf.q d« f^gm asr
s«)to n^9)iao , ^1 quale co^jlruirie uaa gr/Mi floU4 da
gjjerra (SysT-i 4t/sf., i&^^nkf., y, *; yELj.;, }^i, 79).
I/In. fi^Tf^a ^i^iw^ri^ì Goflae usKure aU'aper^ 99 SesiQ
Pom^fìo ,o^cupa¥i| €00 forza at/tmua dal)e jsote all'in-
gres§p de)te J)pja e ^\ golfo 4i ?i»poU? Non S» sono
/ipyuti iqi ogB^ ^eiQp.o j||>bap4onar0 siiQÌ)i pfogieiU di
jfie$truzioR» 4i ftolte pello Zuyder-See, n^H Dollari, ni^-
ViiQW^ U solo luogo sicufo per costru^iopi ib<J adddr
straioeotp 4i flotto, che per quaiii^e secolo ha offerto la
storis, fu il va^tQ Har Mero, quando i Turichi ne ebbero
chiuso ai Dardanelli l'ingresso con difese in allora por
tontissimo; se anche non insuperabili.
Pare però che la flotte di Sesto Pompeo pon agissimo
bene in concerto, e non a¥essero sicura unità di eo*
mjipdo. Vi furono defezioni : la guerra navale diventò
secondaria: s| mutò prontamente in guerra terrestre, e
Sesto Pompeo fu quindi perduto. Infatti Augusto concenT
trò le proprie legioni nei Bruzii, e passò lo Stretto : chiar
mò anche Lepi4o dall'Asia colle truppe comandate da lui:
cos) concentrò nell'isola ben trenta legioni: prostrò ogni
resistenza con esse, e tronpò ogni radice all'albero
pompejano. Abile ad usare le e^rmi palesi, e piò ancora
i maneggi segreti. Augusto seppe guadagnare aqche
le legioni di Lepido, anche quelle di Sesto, e tutte giura-
rono a lui: il triumvirato diventava duumvirato perchè
Lepido n'andava relegato a Circeo : Sesto esulava, si of-
friva ad Antonio; si offriva ai Parti, mostrava la più
grande delle virtù militari dopo il genio, la perduran^a.
Vagf^boqdò sulle eoste asiatiche recando più sdegni che
f^rza: i»pn vi trovò numerosa h genti che da pari fu^
GAmoiAi. 355
rore invase e travolte cercassero nuova f uerra, e dopo
Ja guerra ì supplizii : invano mostrava alle popolazioni
roltima fronte di quella che era, o dioevasi libertà re-
pubblicana: esse lo guardavano in viso, ma non gli fa-
cevano copia di mezzi per alimentare la guerra che le
straziasse: avevano deposto le armi, ed anche la vo-
lontà di riprenderle, ed ormai conoscevano per le aspre
battiture patite che ogni condizione è migliore dell'anar-
chia. Come avviene a coUericOi che dopo lo sfogo cade
in accidia^ cosi è di commozione di popolo dopo gli
sforzi, esangue eruine: ogni principio è caldo, e le
comprese e non comprese parole agitano le turbe come
se loro fosse fatto un incanto ; poi vanno in declina*
zione gli spirili, pensieri più calmi rampollano, le stesse
voci eco fragoroso non rendono, e le genti addolorate
per affronti e battaglie si chiedono d'onde mai venne
tanta ebbrietà di passioni. Quel tempo è propizio a far
silenziose le armi, a svellere le radici d'agitazioni civili
ed a rendere pazienti d'ogni freno le turbe, che erano
intemperanti senz'esso. Ma per Sesto ^ Pompeo non v'era
salvezza : non v'era voce che s'interponesse ad ottenere
clemenza : l'avrebbe forse anche sdegnata : correva ad er-
rabonda ventura imprecando ai codardi che non anda-
vano sotto le insegne, né sentivano che meliu$ e$t mori
quam videre mala gentis nostrcB (Maccabei).
Non era di grave pericolo all'autorità dei duumviri
quel Sesto Pompeo caduto si basso, ma era offesa di
dignità e scompiglio di Stato: era una face vagante,
una bandiera rizzata, e grande era l'animo di chi la te-
neva; né la vittoria sembrava a termine condotta fin*
che quel pompejano vessillo ondeggiasse, e si udisse
gridare ai nomi del Senato e del popolo. Più non do*
vevano esservi cittadini, ma sudditi, non patria, ma re-
356 PARTE QUARTA
gno, e chi armi tenesse se non Gesariani costanti, o sol-
dati che si gloriassero d'aver mancato di fede a Pompeo,
a Bruto ed à Cassio, vanto vero o falso, ma sempre in*
fame, ed impediente il loro ritorno al campo primiero.
Quindi si fecero a Sesto Pompeo tranelli, aggiramenti ed
agguati, si veleggiò, si marciò da ogni lato contro di luì,
che su navi spigliate e leggieri sguizzava con ala veloce
toccando a più porti per racconci, per viveri, per genti,
per tribolare il nemico, e romoreggiare ad esperimento
d'insorgenze d'intorno: tutte le spade si strinsero, e
tutti gli archi si tesero: alfine fu posto in un cerchio di
ferro, e con ferita spontanea si tolse la nomada, tempe-
stosissima vita.
Augusto aveva da solo più truppe che non avesse con
Antonio a Filippi: non aveva più un nemico in Po-
nente, non aveva mai subito un rovescio : Antonio si
era oscurato nella guerra dei Parli, e li aveva ancora
minaccianti sul fianco. Più non v'erano in tutto l'orbe
romano patrizie o pompejane bandiere: i soldati erano
disciolti 0 servienti sotto altro vessillo; le migliaja di
schiavi già armati da Sesto Pompeo restituiti ai pa-
droni od uccisi : i capitani , e chiunque potesse muo-
vere nuove fazioni, erano già tolti di vita: in ciò i trium-
viri prima, ed Augusto ed Antonio dipoi avevano avuto
una sola volontà. Poiché Siila implacabile si era sal-
vato, e Cesare clemente era stato trafitto , parve alla
passione, alla politica, alla ferocia che fosse meglio l'uc-
cidere. Il possesso aveva convertito l'usurpazione del
potere in diritto, j'u^ datura scelerij come dice Lucano,
ossia intronizzato una nuova giustizia contraria all'antica.
Inoltre pel maggior numero venivano immolati dei reci-
divi che già avevano avuto perdono da Cesare. Tale era,
p. e., Quinto Cicerone, fratello dell'oratore, che aveva
CAPITOLO I. 357.
combattuto per Cesare nelle Gallie e contro Cesare a Far-
saglio, poi di nuovo contro i Cesarei a Filippi ; tali erano
Quintilio Varo, e Domizio Enobarbo, entrambi dei primi
prigionieri fatti a CorGnio da Cesare, poi combattenti
contro di lui a Marsiglia, poi su tutti i campi contro di
Cesare, é contro i triumviri. Appena le cose si composero
a tranquillità, il carattere di Augusto si mitigò a tempe-
ranza, e parve a dolcezza : fu fautore dei dotti come
Alessandro Magno, come Luigi XIV; egli amò le lettere,
ma serve le fece (1); non sembra però che fosse .dotto egli
stesso come lo furono Ferdinando li e Leopoldo dei
Medici, e Rodolfo li d'Austria. Ma Augusto fu impla-
cabile contro di Ovidio: non gli tolse d'un colpo la
vita , e gli lasciò i beni, ma l'inviò a morire nella tri-
stissima Tomi (2), ov'era solo Romano fra Ceti e Sar-
mati , dei quali gli fu forza imparare la lingua , come
egli stesso racconta. Né le tresche d'amore, né la li-
cenza di scritti lascivi, le cento volte indicate qual causa
di condanna si grave inflitta ad illustre persona, potevano
in Roma voluttuosa provocare contro di Ovidio l'odio
pertinace di Augusto : la vera causa è tuttora misteriosa,
e probabilmente non fu politica, ma affatto privata.
Quanto si era poi ingiusto, non solo in via d'abuso
e di pratica, ma anche in via di sistema e di legge, il
(1) L'Ariosto, parlando d'Augusto, motteggia cosi:
L'aver avuto in poesia buon gusto
La proscrizione iniqua gli perdona.
(2) Qnal fosse la precisa situazione di Tomi è ancora controverso fra i geo-
grafi, ma era certamente su quel tratto di costa al mezzodì delle foci deiristro,
dove fu poscia costrutto il vailo di Trajano, ed ai nostri giorni progettato il
canale di Czernawoda, e realmente eseguita la ferrovia fra quelia città e Kii-
stendge per evitare la difficile navigazione delle foci, ed abbreviare la linea di
circa 200 miglia. Quelle località, benché avvivate adesso dairaffluenza di più
cenlinaja di navi, dalle locomotive, dai rimurchiatori a vapore, dai fari, dai
telegrafi, sono ancora meste : quanto piii dovevano esserlo all'epoca d'Ovidio !
358 FÀRTS «ITABTi
metodo £ procedure che Augusto introdusse pei defitti
di Stato ì Era princìpio di romana grurispnidenza criini-
naìef che i serri non potessero assumersi come testimo-
nii contro ì padroni. Augusto )i ammise in base alia
massima che i) delitto di Sfato importara la confisca, e
quindi i\ delinquente cessara di essere padrone dello
schiaro. Eppure si è )a sentenza e non Taeeusa dre sta-
bilisce )a reità, ed Augusto poterà bens>, se iì lolera, re^
trodare la reità per gli effetti legali all'^epoca del commesso
defitto, ma ogni giurisprudenza abborre dal refrodare la
reità alla prora, ossia al metodo col quale la prora slessa
ST stabilisce (♦).
(i) U Codice pentJe ausIciacQ;^ ch^d^ba Wgo08r ai lungln aftfli in LombanliB,
conteAeva pur esso barbare massuae d'ecceziune al sistema delU. prove ordi-
narie testimoniali quando si trattasse dt delitto d'alio tntdimenh).
CAPITOLO IL
Anttiiì» ed (HtaviaM Anfort».
Aùguslc ed Afftoftky avevamo diviso fra hfo iì iÈtònd&
fommo: (jaeglì aveva avuto in partaggio FOrrénfe, 6 (|ue-
86 VOdCideirte. 6ià ift lale ripai'tizioM si eraf resa- «ia-
nifest« n^Fattribirzione^ dell'lllimo la difficoltò, tìbé si
riprodusse ancóra più* grave le molte voi fé dipoi qu'aiidò'
Fimpero fu divi-so in! oriervtate ed occidentate, e l'll'B#io^
doveva Assire una! sog;lia di due óase fi^alerhe. ÌSm il dó^
*iifn*to*e detrillifico p^sedeva an* éh!Ìà»v#sti*a'tégi«a pe*
oghi op^if*5^oile verso Fltalìa e véifso it Letàntó, e pre^'
soché ttflli ì bÉTOtti p(*li dfetì- Adriatico.
Augusto marciò égli Stesso contro grillirii : Sóst^hiSé
tenga e sanguitìostì guerra :• diede esempio di pen&àdte
tùt(tggiù,^àBt\xAò éòortì che ht)t segùivaiió: alfine sog-
giogò ii paese itati^ro : dalì*IllÌTÌ'o e' da Càrtagiii^ alFAt-
lantìco il mondo ròtfiaìib rioti ebbe altro signore éheiui.
Ma anche possedendo gébgraficàniente la sola melft' dtetìo
Stato, Augusto rie avrebbe posseduto politicamente di-
più', peluche i' éiftadini di Roma ergano* signori di iAfiiiiio
proprietà nel Levante, e nelle famiglie é Congiunti' rési-
denl* in ItoMà Augusto aveVa ostaggi per ogtii aderente
d'Antonio in Levante.
Dovevano i due colossi urtarsi, e s'urtarono. Una bat-
taglia nelle accfuejonie (ad Azio) donò ad Augusto Tesclu-
360 PARTE QUARTA
siyìlà deirimpero. Perchè la gran sorte si decise in un
conflitto navale, e non in certame terrestre ? Il quesito
è arduo, e non lo scioglie certamente Rollin colla frivola
risposta che Cleopatra, regina d'Antonio, preferì la pugna
sul mare perchè in caso di sconfitta avrebbe avuto me-
glio sulmare^ che sulla terra^ libere vie. Dobbiamo ridere
del dotto, coscienzioso ed eccellente, ma poco perspicace
Rollin, ed esaminare il problema. Aveva forse la flotta
d'Augusto troncato al campo d'Antonio l'arrivo dei viveri
dall'Egitto, che Antonio non poteva avere abbondevoli
nel poco fecondo paese ove trovavasi, né riceverli dalla
Puglia, dalla Sicilia e dall'Africa dominate dal nemico?
Non voleva Antonio decampare, ed andarne lungi dal--
l'Italia, che dello sguardo vedeva? 0 temeva che per
truppe oscillanti in fede, né strette in nodo di disciplina
tenace, il ritirarsi ordinato fosse occasione a scioglimento
ed a fuga? Noi crediamo all'eOìcacia della prima causa,
ed ancor più a quella della seconda, e ne troviamo gli
indizii. Infatti i due eserciti quasi eguali di numero sta-
vano di fronte sulle sponde del golfo Ambracico (golfo di
Arta), ed erano pure di fronte in quelle acque le flotte,
stando Tantoniana, che prevaleva di numero, nell'interno
del golfo, che è libero ai movimenti di qualunque vascello
abbia passato la barra, ed al largo quella d'Augusto su-
periore in perizia ; essa guardava nel golfo ; si attelava
talvolta alla bocca; era sul provocare il navile anto-
niano. Ma ancor minore confidenza che non nei vascelli
poteva riporre Antonio nell'esercito suo: era una strana
mischianza d'armi e d'armati, come, e ben più che noi
fosse in Farsaglia quello di Pompeo (1). V'era di peggio.
(1) Nel canto ottavo àéiVEneide Yìtgiìio descrisse i due eserciti cosi :
Hidc Augustus agens Italos in praelia Oesar
Cam patrìbas populoqué, peaatibus et magnis Dls.
CAPITOLO II. 361
Mentre non si accennano diserzioni di soldati o di capi
da Augusto ad Antonio, questi era già stato abbandonato
da molti generali e re. Erano già passati ad Augusto i
re di Paflagonia e di Galazìa, Domizio Enobarbo, Sillano,
Delio, ed altri : erano stati uccisi per prova o sospetto
d'infedeltà un re d'Arabia ed un Postumio senatore. Quale
fiducia dunque riporre in quest'esercito? Augusto già
aveva preso Patrasso e Corinto sotto gli occhi d'Antonio :
aveva offerto battaglia, ed Antonio l'aveva schivata: il
primo dei generali antoniani, Ganidio, consigliava la
ritirata nella Macedonia e nella Tracia.
La condizione morale dell'esercito dava più di timore
che di speranza, e del rimedio aveva Antonio meglio
la volontà che il potere ed il tempo, ma era impossibile
a lui, per mal fine che temesse, dall'azzardo d'un con-
flitto rimuoversi : più non era in lui il sostare, e dis-
pensarsi dalla pienezza del tempo ormai giunto al
combattere. Egli aveva un grande apparecchio : col
volteggiarsi, col vagare, col divergere dal nemico la
punta delle armi, poteva cadere dall'animo degli stessi
soldati, che dall'audacia ancor più che dal senno giu-
dicano i capi , e le vegnenti cose prevedono : se si
ritraesse, l'aver mostrato paura lo renderebbe disprez-
zalo : i popoli , tosto che fosse passato, se gli levereb-
bero alle spalle, e la diserzione diventerebbe dispersione,
e forse ribellione. In Antonio abbondava anche più il
coraggio del soldato, che la politica prudenza del capo:
sperò le cose inferme d'un gran colpo sanare, e solidare
gli animi ondeggianti colla fortuna tante volte stata favo-
Hinc ope barbarica variisque Antonius armìs
Victor ab Aurorae populis et littore rubro
iEgyptum Tiresque Orientis et ultima secum
Bactra vehìt : sequiturque, nefas ! aegyptia conjux.
30S Pà&TÌ^ QtÀRTi
/CTole a lui. Si preci pitò alla apada : tófeitfrò d*Ori gf&afrdo
H navììe e FesercitOf e feirmòr i) cofisjf Uó di per1^ìa!#$ì ih
mate, beticbè anebe sul ftiafé dovesse teisfefe delle eioriàe
d'Augusta rese più eì»peìrte nella kr>ga guerra iftétfittiintf
cantfo Se^to Pompeo. Prevalevaf di numero di. vaseeftr :
rinìmciò egtl stesso all'uso di un tefzo dei tascetft suoi
per trarne i{ megfto delire ciurflàe k bene equipaggìM^'egft
allfi. Le dne flotte nemidiie si eofiiébfttratto èà Mo: (fneìté
acque a^^ytfno veduto h ptim» battagliaf delk guerra fra^
trkidef del Fdopotìneso : <!)#a dovevano vedere fo ftffate
battaglia delle guerre civilr di BFóma, e te speranze <fi
Rbertà insa^abiìufteiite perdute, eessa*do perfino F*Bta-
gon*stìio dei forti éoMtì vittoria d'utf sólo.-
Anche Welfe battaglia d'Aiio, e fitto alfe É&orte di' Arf*
tonió gli scrittori hmtìo i« r6»an*oconfvenSfo 1* ste¥ia :
non v*ha ^uasf diflfiereiì;?a fra ìì racconto dei" Medesisrt e
qjBLeYh ete venne fatoleggiafo dafl Ta^so (1), ma noi- noi*
(1) Cori descrìve il tasso la battaglia di Azio,, e la fuga d'Antonio ia Egitto:
D'incontra è un mare , e di canuto flutto
Vedi spumanti i suoi' cerulei' campi :
tedi nel meAo' un' doppiò ordine instnitto-
Di navi ed armi, e uscir dalFarnie i lampi :
D*oro flammeggia Tonda, e par che tutto*
D'incendio rowziai Leucate avvampi :•
Quinci Augusto i Romani, Antonio quindi
Trae rOriente, Egizii. Arabi ed Indi.
Svelte* nuotar le Cicladl diresti'
Per Tonde, e i monti coi gmn monti urtaci,
L'impeto è tanto onde quei vanno e questi
eòi legni torrèggianti< ad incontrarsi :
(Sia' volar fad> e ddnli, e ^k (\inesli'
Vedi di nova strage i mari sparsi*.
Ecco, né punto ancor la pugna inchina,-
Ecco fuggir la barbara reina :
E fugge Antonio; e lasrdaf può Is ^me
Deirimperio dbl mondo, ov*cgIì' jwpiha'.
Nort fugge no, non teme il ficf, non teme,'
Uk segue Id che fugge, e seoof il tiM*
cinToio ». 363
c^rehiamo nei latti che la scbiella Tenta. Usd AnUmiù
dal golfo» ove ne) caso di Tittorìa mai noa avrebbe arato
yaotaggio di trionfo completo, ed inrece sofferto disine
zione totale in caso di perdita : allargossi in mare : pa-
reggiò dunque le sorli» purdiè fossero pari n^le due
squadre il yalore» ed egualmente serrate in linea di bat^
faglia nell'urto ed anciie dopo l'urto le nati. OccopaTano
il centro della sua linea sessanta TascelU egiziani, e CleO'
patra era sorra essi. All'urto terribile Cleop>atra colla sua
fiotta faggi (1). Restò cosi fessa per meno, e non pib
attelata Tarmata, ne cadde sotto rento una parte, e le
nari anfomane eombatterovifo separate od in snodati
gomitoli. Questa mancanza del centro ba deciso ad Azio
della giornata marittima, e posto fine nofi al fratagiio
dell'armi, ma alla dubbietò del successo, come la decise
nella grande battaglia antillese dote Ite Grasse fn di-
strutto da Rodney, ed in quella dì Trafalgar dove Yilfe-
neure tenne distrullo da Nelson, la battaglia era irre^
Vedresti lui simile ad un uomche freme
D'amore a un tempo, e di vergogna e d'ira,
Mirar aitemamente or h crudele
Pugna che è in dubbio, or le fuggenti vele.
Nelle latterei poi dal Nilo accolto,.
Attender pare in grembo a lei la morte ;
ET nef piacer d'un bel leggiadro volto
Sembra che il duro flito- egli eo)i<brt«.
(Canto xvt)..
(\) Ad. ogm^ istante Ifontesquieu scrive' epigrsonmi» e* biosarre sententi Cito*
patra fuffgt,. egli dice, per certa inconcepibile galanteria di donna chiamava
il trionfo d^ Augusto onde poter vedere ai mai piedi nel medesimo un terzo
signore del mondo. Ma non è piA naturale che* una ddnna> nuova a- qnellb ter-
rìbili scene» percossa da terrore, fuggisse e non pensassei per mente da terrore
turbata, alle fatali conseguenze per Antonio, per essa, del sottrarsi alla pugnai
Le nimtre fluite quando battagliano ravvolte in fìimo sembititìo disfarsi in tiUoni
ed in folgori, ma erano spaventevoli anche gli antichi combattimenti navali, per-
chè i vascelli si squarciavano, si inabissavano coirariete, il cui uso ai nostri
giorni ntomave già si è sperimentato t^ribile nell'iiltima guerre americaìia.
364 PARTE QUARTA
missibilmente perduta, ed Antonio poterà cadere pri-
gione : anche Antonio fuggi, non che seco il traesse la
calamitosa Cleopatra, ma perchè quella sua fuga for-
zava lui pure a fuggire : fu anche per cadere prigione :
una nave ammiraglia venne infatti presa si vicino alla
sua, che la voce dall'una alValtra nave si udiva.
Discorreva per tutto il mondo Taltissima fama della
vittoria: a Brindisi la portavano le lacere e conquassate,
ma incoronate prore, eia città pregava Augusto che tosto
la facesse lieta della sua presenza: venisse, diceva, che
l'universa Italia desiderava il suo volto : darebbe forma
civile al mondo: sarà l'impulsore di tutti i moti, il cen-
tro di tutti i freni: essere danno la dimora. Gli decretava
altresì un arco di trionfo (Dione Cassio), e noi crediamo
che tanti se ne erigessero lungo la via Appia quanti vi
erano da Brindisi a Roma villaggi e città, perchè archi
trionfali, luminarie e festeggiamenti al vincitore si inal-
zano dai contenti per gaudio, ed anche dagli scontenti
per tema. Inoltre la vittoria d'Azio era negli occhi di tutti
la pace, ed è dell'umana natura dopo le agitazioni con-
vulse amare il riposo, come dopo indolente quiete volere
la guerra.
Anche Augusto erige sul lido testimonio di tanta vit-
toria non temporaneo trofeo, ma stabile monumento a
ricordo perenne ; inalza poi in Roma un ricco tempio
in onore d'Apollo trionfante, ed istituisce i giuochi aziaci.
Non sono dunque di moderno, ma d'antico costume i
tempii votivi per congiure scoperte o vinte battaglie, ed
i monumenti collocati sui campi trionfali, né è forse mo-
derno nemmeno l'abuso d'inalzarli anche dopo sconQtte
a mentita testimonianza di gloria. £ come al presente
sempre si benedice e salmeggia quando il vincitore l'im-
pone, cosi gli auguri pompeggiavano per Augusto , ed
CAPITOLO n. 365
inneggiavano a lui: i poeti ìnsultayano al Paride ro-
mano fuggente con Elena alle latebre del Nilo (Orazio,
od. XXXI, lib. I, e Properzio, lib, IV, elegia V), e Virgilio
era incerto se Angusto fosse Dio della terra, del mare,
o del cielo, ma non credeva possibile che lo fosse del
Tartaro {Georgical). Cosi l'adulazione degli antichi, come
quella dei moderni, ruebat ore profundo, ed Augusto, cui
la vittoria non aveva tolto il senno di conoscenza, vedeva
contento che per canore stoltizie il disonore scendeva per-
fino dov'era valore, le cose in quiete venivano, e la soglia
del suo regno ponevasi.
I poeti, com'è costume di loro, stavano genuflessi al-
l'altare d'Augusto, e soperchiavano in lodi: egli però era
veramente grande, né solo sul mare, ma anche su terra.
Antonio aveva infatti sofferto un colpo terribile così sulle
acque come sul suolo di Grecia. In quella giornata la
sua linea di battaglia era stata, come vedemmo, rotta nel
centro e penetrata: le navi d'Augusto scorrevano adun-
que dietro di lui venuto da terra : Antonio non potè ri-
tornarsene a questa, e riunirsi all'esercito : fu spinto al
largo, inseguito, e si sottrasse a fatica. Nell'esercito già
v'erano stali segni di mala contentezza, e disertate ban-
diere: il fatto di Azio vi cresceva scontento e pericolo:
poteva vacillarne la fede, e più fàcile è il romperla a duce
infelice e lontano, cui s'appone ogni colpa, anche quella
non sua. Quindi Antonio, libero appena dei movimenti
suoi, vuol comunicare coU'esercito : egli tocca a Capo Te-
nario, e manda di là ordini di pronta ritirata alle truppe :
sono diciannove legioni e dodici mila cavalli al comando
di Ganidio, prode veterano di Gasare : non si sgomenti ;
si rileverà la fortuna ; per le navi perdute altre se ne
avranno in Egitto, in Cipro, in Greta ed in Rodi, se ne
appresteranno in Gilicia ed in Caria ; essere poi nell'eser-
366 ri&TE QUiAfA
cito, e non ndle uàYÌ la forza ; rammenti Ganidio aTer
essi a Farsaglia distruUo Pompeo che era più forte sul
mare, aver distruUo a Filippi e Bruto e Cassio che erano
signori del mare ; ricalchi quelle vie di Tessaglia e Mace-
donia che serbano le ?esUgie del suo valore e dei comuni
trionfi ; egli verr& tosto a dividere le fatiche e la gloria ;
condurrà seco nuove navi ed altre legioni rimaste lon-
tane; intanto procuri larghezze all'esercito; rallenti il
nemico ; lo agguati nel discosceso e nell'erto, alle tessa-^
licbe pile» alle tracie, ed al passo dei fiumi ; illustri di
nuovo onore tutta la corsa sua vita.
V'era Canidio, era fedele, ma in fuga, e più non v*era
l'esercito, che dopo di Azio si era arreso senza un colpo
di spada ad Augusto, che meno numeroso, od appena
pari l'aveva: avrebbe dunque Antonio in esercito si
grande, ma che visto un rovescio navale fu si pronto
alla resa, potuto porre fiducia anche prima del conflitto
di Azio? La meditazione dei fatti, e delle cause dei rivol*
gimenti sociali ci fanno ritenere il contrario.
Continua la fuga d'Antonio verso l'Egitto, che è il
centro delle sue forze in Oriente. Vi è ancora qual-
che speranza: vi è un tesoro, vi sono legioni d'An-
tonio a Cirene, ve ne sono nella Siria : vi sono truppe
romane ed egiziane in Egitto, che dal lato di mezzodì
confina col mondo ignoto , è inaccessibile dal lato
di ponente, è d'accesso difficile da quello di levante,
ha qualche porlo fortificato sul mare, e se bene si
difende, è sicuro per esserne Tapprodo quasi impos-
sibile altrove. Colà si raccolgono le navi disonorate.
Antonio non può vivere, dice Rotteck e tutti con lui, se
non pasce di continuo in Cleopatra gli sguardi famelici:
egli è folle cayaliere della donna, e non lo muove il crollo
del regno : la ragione non è più regina dei suoi sensi, ed
0
unflwrso rtk vergogne è neghittoso allt guerra. Ha ioYeoe
vediamo che egli appena giunto a Panelonio abbandona
la Gìree ammaliatricet e non poaando per ombra o per
sole corre a Cirene, oye sono, qual che pe sia la causa,
quattro legioni forse state ridotte in quel porto per pronto
passaggio in Grecia, e riunione all'esercito, [^'adoperare
cosi non ci pare né deporre l'ingegno guerriero, né il
desiderio di regno, né la firiie costanza anche sotto il
peso d'enorme sventura. Ma più non si chinavano come
dapprima armi e bandiere innanzi a lui : quelle legioni
che vuol tradurre in Egitto a ristorare la fortuna^ defe^
zionano da esso, agiscono anzi ostilmente, prendono
Paretonio, la ebiave occidentale dTgitto, mentre la chiave
orientale* Pelusio, è presa dalle altre l^ioni ribellate
nella Siria. Eppure l'Antonio che far non sa che il pia^
cere della reginat $tar$ene in sollazzo e letizia con essa.
e vivere nell'ozio voluttuoso della vita sensuale, non cede,
ed ancora delira resistenza e battaglie. Ma a nave rotta
ogni vento è contrario, e quando l'uomo va in precipizio,
ogni sasso rovina su di lui. Schiera l'esercito in battaglia
e la cavallerìa passa ad Augusto : tenta di battersi in
mare, e la flotta egiziana passa al nemico. Nessuno è
più vinto dalla sua autorità, né da benevolenza ohe gli
porti ; gli uomini fuggono i deboli, e seguono ì forti : si
sciolgono quindi tutti i nodi delle dipendenze antoniane ;
su nessun volto lampeggia il coraggio : le truppe non
resistono all'avvenante del loro numero e forza, anzi
vanno ad Augusto, che le innesta alle proprie: oramai
Antonio non sta a speranza d'alcun soccorso, né può
uscire a campo per opera disperata di spada: alfine
non gli rimase rizzata al vento un'insegna: ogni suo
dardo é spuntato : non ha alla propria persona né ma'»
glia, né scudo : vede già fuori tutto il coltello d'Auga-
36S PAETB QUARTA
sto, che è atteggiato a ferire. Poiché da grandissimo
stato è disceso a rovina, Antonio non soffrirà contami-
nazione ed insulto da nemico implacabile: non indugia,
e s'uccide. Ma egli esecrava il nemico, né certamente peri
pronunciando la frase postagli in bocca dai classici : non
mi è vergogna il morire : Romano, sono vinto da un
Romano. Nemmeno Catone avrebbe parlato cosi : l'odio
non parte da colui che rovina, ed Antonio odiava Augu-
sto ancor più per Tonta d'essersi inchinato inutilmente
a lui coirinviargli tre volte legati a chiedere d'aver salva
la vita, e di starsene ad Atene od altrove.
£ra merito pei contemporanei d'Augusto l'insultare
Antonio cadente, ed il coprirlo d'obbrobrio caduto: scrìs-
sero dunque che fu vergognosa fa fine del grande sol-
dato, che ad Azio, e dopo di Azio non concorreva con
ardore alla guerra, e già chino sul precipizio appena le
rivolgeva inerte e vagabondo pensiero : narrarono per-
fino che volesse, se vinceva la guerra, trasportare da
Roma ad Alessandria la sede dell'impero. E certamente
Antonio voleva dominare da Alessandria l'Oriente, se da
Roma non poteva dominare sul mondo, ma la voce della
meditata umiliazione di Roma era sparsa ad arte per
attizzare contro di Antonio tutte le passioni di orgoglio e
d'interesse dell'immensa capitale sul Tevere. Gli storici
più recenti però, che sono alle ire del tempo stranieri,
possono raccogliere, se mirano non ad ozioso diporto,
ma ad istruttiva intelligenza quei fatti, che Antonio
serbò «anche nell'estrema sventura il valore tenace e
l'animo signoreggiato dall'impeto, né pose per stolto
delirio d'amore la face all'edificio della propria gran-
dezza: egli seppe possedere per guerra, non mante*
nere per pace, bastando all'acquisto in certe circostanze
le qualità del soldato, ma richiedendosi a conservare
CAPITOLO n. 369
contro sapienti rivali l'adatta condotta delle politiche
cose.
Non bastava insultare al caduto: bisognava adulare
anche più direttamente il trionfante. Sapendo che nelle
cose politiche, ed in quelle specialmente di guerra non
deve credersi d'aver fatto tutto quando alcuna cosa
rimane ancora a farsi, Augusto s'era volto pur esso
all'Egitto, negandosi cosi gli immediati godimenti delle
allegrezze italiane per dare ad Antonio il deGnitivo trar
bocco. Ma Augusto, si dice, era tutto dolcezza, tempe-
ranza e virtù : avrebbe accolto Antonio nelle braccia
magnanime! Leggesi infatti che un Derceteo portò ad
Augusto la spada con cui Antonio si uccise, ed Augusto
ne lagrima. Augusto però non uccideva per insana fe-
rocia od ira provocata: uccideva freddamente per calcolo,
ed allora soltanto cessò dall'uccidere quando meditando
trovò che giovava cessare : ora il tempo a perdono non
gli sembrava venuto ; quindi faceva uccidere il figlio
di Antonio che con ogni argomento di pietà gli chiedeva
la vita: poi uccideva quanti fra i superstiti percussori di
Cesare gli cadevano in mano (1), ed era pur questo un
sacrificio alla grand'ombra dell'avo! Avea voluto entrare
in Alessandria a fianco dell'alessandrino suo amico ,
Areo filosofo: questi aveva coscienza sì timorata, che per
dargli consiglio piacente, gli suggeriva di uccidere Cesa-
(1) Da queste vendette d'Augusto su Cassio di Parma, su Trebonio ecc.
uccisori di Cesare, si raccoglie che alcuni di costoro si erano acconciati perfino
con Antonio, ed Antonio con loro. Ingiurie, confische, proscrizioni, sangue
sparso di congiunti e di complici, tutto ciò non aveva impedito Faccoinodarsi ;
e questo è carattere comune e perpetuo di tutte le agitazioni politiche: le ire
cedono alle ire nuove, e le passioni già barbare si esasperano ed infieriscono di
più. Quanti dei più feroci repubblicani che alla fine del secolo scorso avevano
voluto la morte di Luigi XVI, non si videro due o tre lustri dopo in assisa
monarchica al servizio del primo Napoleone, e portare perfino gli accesi cerei
in quelle chiese, di cui avevano infranto gli altari !
24
370 PASTE QUARTA
rióne, figlio di Cesare e di Cleopatra, ^ quindi per essa
ultimo rampollo dei re egiziani, il quale già preparalo a
fuggire alle Indie, m però venuto per altrui insinua-
zione a porsi in sua mano. Augusto non poteva trovarsi
in dissenso coWamico filosofo voglioso d'assicurare la
^ni^t^ della cara sua patria: ammazzò dunque Cesarioae;
l'avrà anche ptanfó/ Ma se Cesarione ed anche Cleo*
palra coi loro tesori, e coi fuorusciti romani, si fossero
realmente riparati alle Indie» forse ne sarebbero risultate
conseguenze grandissime, e ne veniva anticipata di lua*
ghi secoli quella diretta colleganza del mondo europeo
e del mondo asiatico, che fu si tarda ad insinuarsi, e
solamente ai giorni nostri pare avviarsi a fusione. È in-
fatti probabile che la politica romana avrebbe seguito i
fuggenti fin là ; che le cognizioni del ricco paese sareb-
bero cresciute in Roma ; che agli esistenti rapporti com-
merciali per rimmensa importazione di derrate indiane
in Italia, si sarebbero aggiunti per sospetto, vendetta,
avidità di conquista ed esempio dei Greci, altri rapporti
di vigilanza, di legazioni, e forse d'occupazioni e colo*
nie. Mancata invece la spinta, la politica romanai e le
cognizioni con essa, rimasero nel cérchio d'Egitto,
Moltiplicò Augusto nell'Egillo le adulazioni ai Greci:
gettò fiori e corone sulla tomba d'Alessandro, e ne toccò
come sante reliquie le ossa : i Greci quindi divinizzavano
le sue imprese, pazzamente comparandole a quelle di
Ercole , di Bacco e di Teseo , e dicevano che dietro il
corso delle sue vittorie era lenta la voce ed il pensiero :
perseguitavano vergognando la fama di Antonio caduto*
Non visitò le tombe dei Tolomei, perchè erano stati infe-
deli alla progenie d'Alessandro : non offese, ma trascurò
il bue Api , che degli onori ad esso e Greci e Romani
l'avrebbero derìso : i tempi erano ben mutati dall'epoca
CAPITOLO li. 371
di Cambise I Ormai nei Greci raccòglievasi la potenza
e la ricchézza d'Egitto: i veri Egiziani erano gèntame
e plebaglie : Tebe già era gloriosa rovina , ed anche
Menfi cedeva ad Alessandria.
Era morto Antonio : moriva anche Cleopatra, e le
menti vivaci, snelle ed immaginevoli hanno nuovo ar-
gomento a novelle: ci descrissero minutamente le
fattezze di Cleopatra, delle quali vi ha appena ricordo
in qualche profilo di medaglia o cammeo : ci accer-
tarono che non pose mai amore né in Cesare , né in
Antonio, che gradi sé sola, e, fuori di sé, in altrui ap-
pena le piacque qualche effelto della sua bellezza : ora ci
narrano che avrebbe consegnato volentieri Antonio ad
Augusto ; che questi lo conosceva, ma non sapeva di-
storsi da essa; che già morente si fece pel verone ascen-
dere a Cleopatra; che essa, umida negli occhi di confu-
sione e doglianza, e tuttora maestra d*accorgimenti e lu«-
singhe, cercò le vie del cuore d'Augusto e non le trovò,
ed allora agghiacciata di segreto spavento di essere tratta
a Roma in trionfo, nobilmente altiera s'uccise di veleno.
In tutto ciò vediamo il romanzo, ma non possiamo col
modificare e col togliere ridurlo al vero, né importe-
rebbe di farlo.
Ma più Tastro di Cesare Augusto s'inalza, e più
arde odorosa la nube d'incenso per lui. Ritornava
sulla scena l'instancabile coro dei poeti elogisti. Orazio
danzava d'intorno ad Antonio e Cleopatra caduti: nuM
est bibendum, nunc pede libero puUanda lellus (lib. I,
od. 37), Ovidio (e presto doveva dolersene I) cantava che
Augusto é tanto superiore a Cesare quanto Agamennone
lo fu ad Atreo (Metamorfosi, lib. XV), e Virgilio gli pro-
metteva un poema in cui dirà le sue lodi incominciando
da Tritone, marito dell'Aurora, l'uno dei certissimi bis--
372 PAETE QUARTA
arcavoli della famiglia Giulia [Georgica HI). Augusto
non li ripigliava d'eccesso: volgeva Taltrui abjezione
in diletto : con sottile avvedimento comprendeva il van-
taggio del loro acquistar biasimo: ad onta del suo
freddo carattere, pei prodigiosi successi di Filippi e di
Azio, e l'avere come Giove fulminato i giganti» s^accen-
deva forse egli stesso, non trovava i poeti sempre veri,
né ogni volta falsi, e cedeva alla lode, che è generale
passione di ciascuno che vive, e l'anima invade, come
fuoco di sua natura all'esca s'apprende. La vanità è l'ul-
tima veste che lasciano anche i filosoG, e bene avverte
Cicerone (Graz, prò Archia) che gli stessi autori che
scrivono sul disprezzo della gloria, appongono al libro
il nome loro. Possiamo supporre che di tale passione
fosse immacolato il solo Augusto?
Anche l'Oriente romano era conquistato. A bene assi-
curarlo restavano da superare i Partì, ma Augusto non
amò di correre nuove venture, né di starsene più lunga-
mente lontano da Roma. Una si gran guerra d'altronde
0 dovevasi capitanare da lui, od egli avrebbe dovuto affi-
darne il comando ad altri, concedendo al capitano troppo
grande potenza. Quindi Augusto lasciava che i poeti
gridassero alla guerra contro i Parti, ed anche contro
gli Indiani ed i Seri (Oràz., lib. I, od. 2, 11, 39): s'ac-
cordava a Properzio, il quale probabilmente non cre-
dendo alla guerra, adulava col dire che Augusto riser-
vava ai suoi figli la corona dei Parti, e certamente
sorrideva di Virgilio che chiudeva la quarta georgica par-
lando delle sue battaglie sull'Eufrate (che nessuna ne
aveva combattuto), e della menzogna di Orazio, che egli
avesse aggiunto airimperio quei Parti, che non mai as-
sali. Sapeva però che non erano, come diceva il poeta,
imminenti al Lazio^ ed anzi stavansi cheti, inviavano
CAPITOLO 11. 373
perfino legazioni e doni, e reslituiYano i vessilli tolti a
Crasso, per pascere i Romani d'ambile parvenze, e spia-
nare la pacifica via al nuovo Cesare divenuto solo si-
gnore di tutte le forze di Roma. Ed i Romani real-
mente giubilarono del ritorno di quelle aquile come di
vittoria, tanto le plebi sono idolatre dei sìmboli ! Tutti
gli scrittori acclamarono; in tutti lo stesso grido ripe-
tesi: fu sì concorde come quello degli scrittori di Fran-
cia-quando, traslate da Sant'Elena, si depositarono in
riva alla Senna le ossa di Napoleone.
Coi Parti si strinsero da Augusto facili accordi di pace,
perchè non si chiesero dalVuno o dall'altro contraente
cessioni, ed il solo possesso segnò i confini. Anche Au-
gusto provava però l'imperiosa necessità d'appagare i
soldati divenuti inoperosi: questi soli, e l'eguaglianza ci-
vile erano stati, ed esser dovevano le fondamenta della
sua grandezza: se avesse alienati i soldati, o questi po-
tevano scegliersi altri capi, o sorgere tribuni che agitas-
sero le masse chiedendo ordini dì politica libertà, ga-
ranzie di sicurezza futura, esame retrospettivo d'età
consumata. Egli aveva gli esempii di Siila, di Cesare,
ed inoltre le barbare leggi cesarìane di maestà : non ne
occorrevano di nuove né per la vendetta, né per rifor-
nire le casse esaurite, ed avere mezzi a doni, a com-
pensi, a premio di passati servigi, ed a sicurezza di
duratura fedeltà dei soldati. Quelle, come già avvertimmo
parlando di Siila, non erano epoche in cui si potesse
ricorrere alla ricca sorgente del pubblico credito, che
donando straordinarie risorse, permette oggidì, al chiu-
dersi d'una crisi sociale, d'esser moderati, ed almeno
nelle apparenze clementi : per avere, era forza rapire:
non bastava il tondere tutti, ma conveniva che fossero
dilacerati ì molti : la confisca era necessità di finanza,
374 PARTE QUARTA
necessità di politica ancor più, o quanto almeno fosse
vendetta. Quindi Augusto, non altrimenti che erasi fatto
da Siila e da Cesare, condannò in averi, confiscò lar-
gamente, spietatamente : perfino ad Orazio lasciava la
vita, ma non il patrimonio, né per blandizie di carmi
umiliati il poeta potè riaverlo giammai: Augusto voleva
poter disporre in Italia d'enorme quantità di terre:
espropriò, e né dispose. Appiano Alessandrino scriveva:
Italia propemodum transcribitur veteranis: ne colo-
nizzò cento cinquanta mila. Non conosciamo la forma
delle concessioni, ma era una quasi infeudazione. I le-
gionarii avranno ricevuto un titolo, e questo era Yinve-
stitura; la condizione di fedeltà, e d'eventuale servizio
in armij esisteva espressa o tacita pel concorde interesse
del donante e del donatario ; non mancava all'essenza
feudale se non la giurisdizione, perchè tutta concentrata
nel principe.
Ma altre migliaja di legionàrii, e probabilmente dei
meno affezionati a lui, inviò Augusto nelle Spagne
alla micidiale guerra dei Gantabri indocti [erre juga
(Orazio): in quell'aspro serraglio monti vo eterna-
mente classico per assedii, insidie e fazioni, legioni e
Gantabri consolidavano nel mutuo sterminio la gran-
dezza 0 la sicurezza di Augusto (i). Altre migliaja di
soldati impiegò a domare i Salassi (nella valle d'Aosta
ed adjacenze), a totalmente soggiogare le vigorose tribù
(1) Quando Ferdinando VII di Spagna, Tenuto nel 18U al trono, e ritor-
nato al potere nel 1823 dopo che ne era stato quasi spogliato pei fatti del 1820,
inviò in America contro le colonie ribelli tante truppe che avevano combattuto
non solo per rindipeuilenta, ma anche per le politiche libertà della patria, argo-
mentava appunto cosi. Bisognava esiliare dalla Spagna queste truppe sospette:
con ciò si assicurava il dispotismo in Ispagna, si tentava con armi possenti il
rìaquisto del dominio in America, e le genti assottigliate in guerra, lontane»
divise, confuse negli ordini con nuove milizie e capi^ più non erano di pericolo
aironnipolenza del re.
CAPITOLO li. 375
alpigiane, che avevano tuttora riconosciuta, o non rico^
nosciuta la dipendenza da Roma. Cosi Augusto occupò,
esercitò in lente, ma fiere ed utili guerre truppe nume-
rose: ad ogni eventualità sarebbero state quasi tutte a
disposizione immediata, ejion illanguidite per ozio: nes-
sun capò nelle oscure avvisaglie poteva salire a potenza
soverchia, e le Alpi ed i Pirenei cessavano d'essere osta-^
colo alle libere comunicazioni fra le provincie romane (1).
(i) I Salassi vennero quasi distrutti: più di trenta mila fiirono venduti al mer-
cato. La valle d'Aosta diventò allora la via di comunicazione ordinaria fra Fltalia
e la Gallia centrale e nordica: ne fu quindi assicurato il possesso, e ne venne
agevolato il transito: si stanziò una legione ad Ivrea (Eporedia): si costrusse,
e si cinse di bastioni e di torri la residenza del pretore in Aosta \ Augusta Prm^
ioria)'. si trasportò una colonia romana nella valle: si fecero le belle costruzioni
in Aosta delPareo trionfale ctie ancora esiste, dell'an fi teatro di cui restano i
96gni, e dei ponte ad Ael. Questi furono lavori dì Augusto, o dei successori suoi,
e noi crediamo che non sia di tempo più antico il taglio della gran rupe di
Donnas, aperto con incredibile sforzo onde si penetrasse per largo cammino
nella valle d'Aosta dal Iato d'Ivrea. Eppure leggesi spesso che la rupe di Donnas
fu tagliata da Annibale, ed a quel varco si dà appunto il nome di passaggio di
Annibale. Ma è assolutamente ignoto in qual punto Annibale passasse le Alpi,
e se le abbia passate in un sol luogo, o contemporaneamente in molti; come
fece Bonaparte a' di nostri. Il passaggio poi delle Alpi era uno stratagemma,
una marcia d^occasione per lui : egli non era signore delle Gallio : poteva desi-»
derare di mantenersi in temporanea comunicazione con esse, e quindi colle
Spagne, senz'essere limitato alla sola via di mare, ma non doveva amministrare
le Gallie, inviarvi annualmente e riceverne esercili, comprenderle nell'unità
dell'impero, e fermarle in ubbidienza ed iiì fede. Può dunque ammettersi che
Annibale senza averne cagione si travagliasse per mesi e per anni a conquistare
coll'assiduo scalpello entro le balze di Donnas un passaggio sicuro e perpetuo t
Anche sulla vetta del Gran San Bernardo avevano eretto i Romani un tem-^
pietto di Giove, del quale alcun vestigio rimane, e non poche sono le antichità
tutte romane che furono trovate su quella cima, o nelle arijacenze: non si rin-
vennero però né monete, né vestigia puniche al Gran San Bernardo, od in altri
passi delie Alpi, e solamente fu scoperto qualche tumulo celtico-gallo, l'uno
dei quali sufla cima del Piccolo San Bernardo. Non consta poi che i Romani
avessero preparato ricoveri su quelle cime nevose per salvezza dei transeunti nelle
pericolose bufere* L'idea degli ospizii sulle cime dei monti, l'una di quelle che più
onorano nell'uomo religione e virtù, è esciusivamenle cristiana; non si trova
nel paganesimo, non nel braminismo, non nel buddismo, non neirislamisipO)
sebbene sembri che l'uso dei pellegrinaggi la dovesse risvegliare ed estendere nel*
l'Arabia, e più ancora nelle elevatissime contrade dell'India e del Tibet, ove se-
gnatamente i Buddisti hanno si numerose istituzioni di somiglianza monastieai
376 PA&TE OUiETA
Oltre Reno però dovelle impiegare anche grandi masse
d'eserciti, ed uno ne sofferse distrutto: seppe però da quel
caso fatale trarre argomento a popolarità fra i soldati, e
le plebi di Roma. Augusto era riuscito ad acquistare, con-
fiscare per sé le più nobili intelligenze di Roma : ora-
tori e poeti lo circondavano, cantavano ogni giorno gli
inni per lui. Cosi Carlo V di Spagna, che era Tuno dei
più dispotici caratteri che abbia veduto la terra, pensio-
nava dei dotti, conversava volontieri con Guicciardini
(che poteva narrargli cose utili a lui), levava da terra il
pennello caduto a Tiziano, il cui genio innocente era
forse il solo che gli piacesse realmente, e dava denaro
all'impudente Aretino, che con impudenza il lodava. Poi-
ché l'intelligenza in colta nazione é una forza, importa
che un prìncipe l'abbia per sé, ed egli la ebbe. Era ri-
servato a Richelieu l'organizzare a servigio monarchico
questa conQsca delle intelligenze coli' istituire le Reali
Accademie, che l'esser sorte con lui, che tutto ad un
solo intento operò, manifesta dirette a stromento di do-
minare le menti. Ma Augusto tenne i dotti con sé, li
ebbe a commensali e compagni, li adulò della propria
grandezza, fu da loro adulato: non affidò ai medesimi
governi od affari. Quando Varo colle legioni peri, i com-
pagni d'Augusto lo facevano segno alla commiserazione
di tutti : il padre dei soldati e dei popoli era incorno-
labile: povero Augusto! riempiva di lamenti il pala-
gio : breve ora e poca terra aveva assorto l'esercito :
0 Varo, gridava Augusto, rendimi le mie legioni! Come
meglio adulare dopo si grave fatto i soldati? Egli era
tutto amore per essi: leggiamo che montava perfino in
bigoncia, e difendeva egli stesso nelle loro cause civili i
veterani suoi, e qualche storico ha il candore di nar-
rarci che era valente avvocato, e quei processi vinceva !
CAPITOLO li. 377
Amava anche le plebi, e moltiplicava il pane ad esse.
Cosi distoglieva le menti delle masse dalle politiche cose,
e le rivolgeva alle innocenti e di pace col bandire la
fame consigliera ai tumulti, ed i tumulti occasioni a ri-
volte. Non crediamo infatti che Augusto pel solo amore
intemerato dell'arte costruisse in Roma tanti ediQcii ma-
gnifici con prodigioso dispendio. Imitavanlo i suoi, pelu-
che sempre si imita il principe a conscio disegno, o
vezzo servile, e noi dobbiamo p. es. ad Agrippa le me-
raviglie del Panteon sfavillanti d'eterna bellezza. Era
una monarchia dittatoriale militare e plebea : dovevasi
compiacere ai soldati ed al popolo : il mondo più volte
tali monarchie ha veduto, e tali gli effetti.
Maestro ancor migliore a guanti vennero dipoi fu Au«
gusto nel tenere sospesa bilancia ed incerte le menti, e
nel prendere tempo al porre con nuovi uomini e cose
ferma radice al potere. Egli fu signore di tutto, fu auto-
crata: nondimeno conservò le forme repubblicane, lasciò
che taluno di facile fede credesse che volesse egli mede-
simo ridonare le politiche libertà ai Romani, e molti spe-
rassero che quelle forme basterebbero a richiamarne in
vita la forza quando Augusto morisse. Egli quindi governò
con ministri che erano d'opinioni contrarie, o d'esserlo
fingevano per meglio servire: erano Mecenate ed Agrippa.
Divulgavasi che l'uno consigliasse di ristabilire la repub-
blica, e l'altro di conservare per sempre, o per ora l'im-
pero ; l'uno era tronco e reciso ordinatore, l'altro facondo
ed ambiguo favellatore; Tuno stava fra soldati, l'altro
fra magistrati, fra cittadini, procaccianti e poeti ; l'uno
doveva adescare ed invigilare, l'altro ammonire e com-
prìmere; l'uno era invito, e l'altro era freno: entrambi
dovevano cosi di doppie fila Roma coprire, e d'una sola
catena tenere. Ed Augusto sedeva fra loro : pareva subire
378 PIITE OUiliTA
ritroso, ed a tempo la necessità di comando : t^ieva però
nella sinistra le leggi, e nella destra la spada. Le cento
Yolte nei tempi antichi e nei recenti le famiglie regnanti,
od i governi dei re, sì divisero di fatto od almeno nelle
apparenze sul teatro dèlio Stato cosi, e loro il farlo
giovò, ma forse il dramma non fu mai rappresentato sì
bene, per tempo più lungo, e con fruito maggiore, che
nel regno d'Augusto.
Intanto Roma era muta, ed aspettava il destino da un
solo : le ruinose discordie, se anche custodite nei cuori,
più non si mostravano nelle scene delle cittadine batta-
glie: Farsaglia, Perugia, Modena, Filippi, Azio, nomi
dolenti per doppie stragi romane, sembravano dover es^
sere gli ultimi nella storia di Roma : alle fazioni e pugne
succedeva col nome d'ordine, e con realtà d'eguaglianza
civile, rimpero d'un solo, l'unità rivoluzionaria, la legis-
lazione assoluta imperante nel principe, e quasi adorante
nei sudditi.
CAPITOLO in.
Le coBiselie: H tesoro: i pnbblieani: le eogiizioni
eeoMmiehe de§li Mtiehi.
Più volte neiUopera nostra abbiamo parlato delle con-
fische avare e crudeli, che nelle guerre civili si sono ri-
petute in Roma : parlammo del conservato tesoro ; toc-
cammo dei pubblicani. Di tutto ciò ampiamente favellano
gli storici, i politici ed in ispecie gli economisti d'oggidì,
condannano fatti e sistemi, e ne traggono anzi argqmento
a generale censura d'inscienza delle discipline economi-
che, ond'erano ottenebrate le menti romane e di tutti gli
antichi/ In tale opinione ed accusa non consentiranno,
speriamo , coloro che abbiano osservalo in quest'opera
i fatti, e meditato sulle idee brevemente enunciate ; ma
qualche particolareggiato riflesso recherà maggior luce e
convinzione del vero.
rha fra i moderni economisti una casta molto singo-
lare, che chiama sciocco il povero, ignorante il debole,
e giudica della sapienza dei sistemi seguiti dai politici
economisti o dagli uomini di Stato secondo scientifiche
astrattezze, e non secondo l'opportunità delle adottate
misure colla necessità degli scopi nazionali o principeschi
che i politici si proponevano nel momento di prenderle*
La necessità sforza, l'utilità allettai queste sono pel
mondo leggi indeclinabili; Cosi si preferisce il comodo
380 PARTE QUARTA
aireleganza, la salute alla comodila, la vita alla salute.
Cosi iQ materia d'acque è principio di giurisprudenza,
che si preferirà Vanimazione dei mulini da macina alla
irrigazione dei fondi, perchè la prima è necessaria e la
seconda è utile. L'economia pubblica non può quindi
studiarsi se non subordinata alla politica, né deve cer-
carsi altra spiegazione dei diversi sistemi di pubblica eco-
nomia seguiti nei varii tempi dalle nazioni varie, se non
la spiegazione che emerge spontanea dall'esame dei bi-
sogni politici di quel supremo magistrato, il quale piut*
tosto ad un sistema che non all'altro volle nel caso con-
creto accordare la preferenza. Il politico in ogni divisa-
mente cerca prima la sicurezza, e poi la comodità : cerca
la ricchezza, perchè è fonte di forza, ma alla potenza sono
e devono essere rivoltele primarie sue cure, e nell'ipotesi
che, senza impoverire, non potesse assicurare l'esistenza,
non v'ha dubbio che fra la morte politica e la paralisi
della povertà, egli preferirebbe la povertà.
Sarebbe stalo pericolo grave il dire ai legionarii di-
sciolti che nulla più avessero a mostrar di soldato che
necessità, infermità, cicatrici : bisognava invece dir loro
col fatto che erano stati illustri, e sarebbero in avvenire
felici : già incominciare per essi i prosperevoli giorni :
amassero il principe largitore di premii ; da lui discen-
dere ogni benignila: spiassero ogni mozione d'intorno,
vigilassero per lui, ed egli vigilerebbe per loro: se li
chiamasse a difendere la sua autorità e gli acquisti do-
nati ai medesimi, si arringassero di nuovo coU'armi, nei
cuori rinfrescando la virtù del tempo passato sui campi
testimonii della loro prodezza. Le conseguenze erano or-
ribili, e peggiori assai che di fiere: l'operare per istinto
crudele è anche dei bruti, ma l'operare per vendetta ed
a disegno è peste riservata all'umana generazione, e que-
CAPITOLO lU. ^ 381
sta peste ritornava ia ogni guerra civile ad avvolgere in
grande perturbazione lo Stato di Roma, e segnatamente
ritalia. Il sacco prendeva luogo della riforma» e della
libertà che ogni soldato era venuto vantando: tutto il
paese era di funeste spogliazioni dolente, ma nei risenti-
menti delle parli alle lagrime, come sempre avviene, si
mescolavano feste, e sempre il temuto principe col dolce
e venerato nome di padre chiamavasi.
Perchè dunque tanti scrittori tacciano d'ignoranza
nelle scienze economiche i Romani, che donando dei
latifondi ai legionarii non favorivano l'agricoltura ?
Siila, Cesare ed Augusto donando i latifondi ai legionarii
non intendevano di fertilizzare le terre, ma volevano far
crescere la molta zizzania : essi volevano accampare, per
cosi dire, i legionarii nelle provincie che fossero state più
rivoltose ; volevano necessitarli a difendere il premio con-
seguito, avere delatori e sicarii in ogni terra, spargere
dovunque timore e diffidenza, creare colonne mobili di
Yolontarii sempre presenti e sempre devoti, e cambiare
gradatamente coi variati interessi lo spirito pubblico delle
Provincie ribelli. Sul campo di battaglia una fazione aveva
trionfato delPaltra : la confisca aveva creato un immenso
possesso demaniale : lo si concedeva ai legionarii vinci-
tori siccome pegno d'eterna fede a chi li aveva guidali
alla guerra : si assicurava l'irreconciliabilità loro coi vinti :
a questi, se anche non spenti, toglievansi i mezzi di fu-
ture insorgenze.
Qui non v'ha ignoranza di scienze economiche a deri-
dere: vi sono piuttosto a deplorare le sciagure di tempi
orribilmente agitali. Né, ad onta della luce fulgida delle
scienze economiche^ possiamo in verun modo ammet-
tere l'idea di Mengotti [Commercio dei Romani; epoca III,
parte I), desunta, a quanto pare, da Appiano Alessandrino
381 ritTK QViBTA
(lib. I), che cioè gli imperatori donassero i fondi ai legio-
narii per riempiere in. tal guisa il vuoto della popola*
zione. Gli imperatori non intendevano se non a coprire,
per cosi.direi l'Italia di fortificazioni viventi a difesa non
già del territorio» ma del modo di reggerlo. Il medio evo
ridonda del pari di simili esempiì, e se non ne ridonda,
almeno molti esempii ne presenta in varie parti d'£u^
ropa l'età moderna. Eppure nella formazione degli odierni
eserciti v'hanno mezzi più forti per reggere uno Stato an-
che dopo la compressione di sanguinose turbolenze, che
non la confisca del possesso fondiario, e la fondazione
di militari colonie. Le confische avvenute p. e. in Polo-
nia vi hanno distrutto un infinito possesso territoriale
dei nobili: l'incamerazione di tutti i beni ecclesiastici
crebbe in immenso la massa dei fondi demaniali ; in un
brevissimo periodo vi si innova adunque del tutto lo
stato delle proprietà. Ciò è avvenuto in Irlanda nell'epoca
della riforma, è avvenuto in Boemia dopo la guerra degli
Ussiti e la battaglia del Monte Bianco, è avvenuto in ogni
tempo, e certamente avverrà anche in futuro sotto forme
manifestamente barbare, o mascherate, mitigate ben an-
che per progredita civiltà.
Anche a Virgilio, che pur sembra aver sempre vissuto
straniero ad ogni contrasto di fazioni politiche, era stato
confiscato un podere, ma lo riebbe per favore e per gra-
zia. Pari allo spavento e dolore ch'egli aveva provato nel
perderlo fu il suo contento al riaverlo, ed espresse il con-
tento dell'anima nell'egloga prima con quelle frasi d'am-
miranda eleganza, per le quali primeggia fra i sommi
poeti d'ogni nazione ed età. Ma la fantasia, la forza, il
carattere non erano pari in Virgilio alla concinnità dello
scrivere, e nemmeno in quest'egloga le idee hanno Tag*-
giustatezza, la profondità, la delicatezza che splende si
CAPITOLO m. 383
frequente nel poema dantesco. Virgilio parla con uno
&Tenturà(o vecchiocaccialo dal campo micino» che piange
l!esi]io che Io attende nella Brettagna del tutto teparata
dal mcmdo^ o n^Y Africa sitibonda : a quest'infelice Vir«
gilio fa Telogio del Dio che lo colpì d'immensa sciagura ;
gli ripete che ravrà sempre guai Dio, e sempre gli of-
frirà sacrifica; non trova una sola parola di conforto
pel vecchio ; non altro gli offre che il ricovero per una
notte soltanto, e qualche pomo maturo. Non la benevo*-
lenza operosa, non l'affanno partecipe dell'altrui infor-
tunio, ma consolato egoismo, adulazione profusa si trora
nel carme tersissimo, che in mille scuole si porge ad
esempio perenne del sentimento e del bello.
Si accusano altresì i Romani che ammassavano oro
ed argento, e li conservavano in un tempio non tocchi^
per valersene, come realmente facevano, in casi di stra*
ordinario bisogno e di guerra, sottraendo così un enorme
capitale a circolazione ed a frutto. E veramente in paesi
civili, e soprattutto in tempi tranquilli, l'accumulare tesori
ed il tenerli giacenti è certamente errore, e sarebbe del
tutto superfluo l'argomentare a mostrarlo ; ma anche in
epoche riposate ed in colte ed ordinate contrade qualun-
que finanziere e politico riconosce l'utilità di avere qual-
che piccolo fondo di previdenza, onde soccorrere ad im*-
prorvisi bisogni, evitare oscillazioni di valori dannose,
confermare la fiducia, e prender tempo a provvidenze
meditale e tranquille. Eppure noi possiamo ricorrere al
credito pubblico, conosciamo le tante forme di esso, i
boni del tesoro, le cedole di rendita, la carta monetata,
le banche, ecc. Tutto ciò era ignoto agli antichi, se anche
qualche istituzione di credito sotto alcuna forma ha esi-
stito fra loro. Era dunque utilità, era necessità e sapienza
d'avere non dei piccoli, ma dei grossi fondi di previdenza,
384 PARTE QUARTA
onde valersene al bisogno, segnatamente nei casi dì
guerra, di grandi calamità, di redditi mancanti per in-
vase Provincie, ecc. In certi governi, in quelli p. e. retti
da principi dissoluti ed inscienti, resistenza di un tesoro
poteva dare facile occasione a prodigalità e scialacquo,
fors'anche a precìpizii di dissennate intraprese, ma
l'abuso non condanna Tuso, ed in Roma per lungo tempo
non se ne abusò. Il tesoro colmavasi con certa assegna-
zione di piccola parte d'imposte ordinarie, e colle somme
pagate dai nemici dopo prospere guerre: si accumula-
vano tutti gli artificii di religione e politica per assicu-
rarne la conservazione : si toccava per allestire un eser-
cito, per costruire una flotta. In paese piccolo, ed in caso
di comunicazioni malsicure o gravemente difficili , si
avrebbe a censurare anche la preveggenza di un governo
che mantenesse una riserva di grani? Eppure chi vor*
rebbe in tesi generale ed astratta sorgere difensore delle
leggi granarie?
PerGno ai nostri giorni si è veduto quanto d'utilità può
nei casi straordinarìi derivare dalla preparazione d'un te-
soro, la cui amministrazione, e per così dire costante
vitalità, sia retta con sapienza di norme ed assicurata con
impiego continuo dei fondi. Napoleone aveva nei prosperi
tempi formato il tesoro delV armata, che era fondo spe-
ciale separato dall'erario, e non toccava al medesimo che
in eccezionali momenti. Or bene, negli anni di sventura
(1813-1814) Napoleone ha col tesoro dell'armata operato
prodigi : fece i grandi armamenti quando tutti gli altri
mezzi mancavano, o sarebbe stato pericoloso il ricorrere
ad essi.
Altro argomento addotto a dimostrare l'inscienza dei
Romani nelle discipline economiche si è quello dell'am-
ministrazione delle finanze affidata ai pubblicani. Il si-
CAPITOLO m. 385
sterna dei pubblicani però allro non è, se non quello
della ferma od appalto^ e per Tadozione di tale sistema
militano anche adesso ragioni fortissime perGno in pic-
coli Stati, ed in paesi d'antico governo, ove la pubblica
amministrazione già fece grandi esperienze e progresso.
Infatti l'amministrazione per conto altrui in confronto
dell'amministrazione per conto proprio ha sicuramente
svantaggio : .chiunque versi negli atfari, e voglia essere
di buona fede, ne deve convenire. La ragione è evidente.
La molla che induce l'uomo a sacriGcare il riposo della
notte, a crucciarsi nel giorno, a riflettere ad ogni istante
agli affari, ed a farne l'unico oggetto delle sue occupa-
zioni mentali e fisiche, è l'interesse diretto, giacché la
gloria è riservata alle azioni non pecuniarie. Nulla egua*
glia la vigilanza e la rapidità del fermiere, nulla la sua
industria nella scelta del personale, la sua abilità e per-
spicacia nel sistema dei registri, la sua scaltrezza nell'im-
pedire e perseguitare il contrabbando. Il finanziere invece
delegato e prezzolato si limita a far quanto lo esonera dalla
responsabilità, perchè ciò basta a farlo sicuro dell'onora-
rio, e non sacrifica le ore che tutti destinano al sonno,
ai sollazzi. Se il governo esercita in conto proprio le fi-
nanze, sono necessarii infiniti controlli ed ufficii, revi-
sioni, riserve e pensioni, lo che produce grandi lentezze,
e costa alFerario somme sì gravi, che la rendita netta è
d*assai inferiore alla lorda.
Non è che il fermiere opprima i contribuenti, e colle
estorsioni si faccia ricco, come volgarmente si dice ; e
giusta non è, almeno in tesi generale ed astratta, e fatta
astrazione dai disordini ingeniti ad insipienti governi qua-
lunque sia il sistema di finanze che seguano, la censura
che leggesi talvolta dei pubblicani nei classici, e meno
l'anatema frequente nella Bibbia contro di loro. Il pub*
25
389 PABTE QUAETÀ
blicano guadagna non violando le leggi, ma facendole
osservare: egli guadagna colle economie delle spese,
col reprimere il contrabbando, e coll'ordine esallo col
quale conduce la ferma. Il maggior suo guadagno poi
lo fa coiranimare e moltiplicare, mediante i suoi rapporti
ed industria, le commutazioni portanti tributo.
Si odiano i fermieri, si odiavano i pubblicani, perchè
arricchivano, e non perchè impoverissero l'impero o gli
fossero di danno. Ogni volta che il governo in tempi or-
dinati e tranquilli voglia far cessare la ferma, può rice-
vere le finanze in istalo florido e di eccellente amministra-
zione. Se rinnova la ferma, ha titolo per aumentare il
canone. Se pone fine alla ferma, trova un letto ben
disposto per adagiarsi» e non ha che a seguire i sistemi
in corso.
Le ferme miste (non sappiamo però se queste pure
esistessero a Roma) sono anche più utili. Il governo
che partecipa ai vantaggi del fermiere, conosce da vi-
cino ogni operazione, si garantisce dagli abusi, e divide
i frutti dei talenti e delle spese del suo conduttore. Le
tariffe dipendono dal governo, nò possiamo credere che
in Roma fossero lasciate airarbitrio dei pubblicani : se
questi non ne avevano che l'esazione, non potevano
pesare sul popolo. Se pesavano sui contravventori alle
leggi, servivano al governo, ed in ciò non erano che utili
ministri.
La convenienza poi delle ferme è assai più indicata,
e quasi indispensabile almeno ad intervalli, nell'eser-
cizio delle privative, ed anche in Roma, almeno in vaste
Provincie, vi fu quella del sale.
Né dalle inflitte confische, né dal serbato tesoro, né
dai pubblicani fermieri si può dunque desumere fonda-
mento ad accusa d'inscienza di dottrine economiche.
GAPITQLO ni. 387
Ma dalle meditazioni parziali ci piace d'elevarci ad al-
tre di ^fera generale, e d'argomentare dai fatti non dei
soli Romani, ma d'ogni popolo più famoso in antico o
della media età, se si possa accogliere il Tanto che la
scienza economica, come sempre si scrive, era ignota
agli antichi, e che i moderni, anzi noi stessi ne fummo
creatori, e ne siamo sagaci leviti.
Antica è la genesi della sapienza economica, se anche
fu ravvolta, non sappiamo se a grand*utile, in vestimenta
moderne. Non crediamo muta la scienza la quale per
mille bocche ci parla, cadendo nell'errore di chi figura
cieca la fortuna che pure ha mille occhi, e guida bene
spesso chi proprio lume non ha. In argomento d'inces-
sante esperienza, difficoltà ed indagine, non neghiamo
agli antichi le cognizioni economiche pel solo fatto che
alquanto teorizzate non le troviamo se non in Platone e
Senofonte. Quando vediamo che i Tirii, quasi senza ter-
ritorio, si erano prodigiosamente fatti grandi e potenti
di guisa che propugnarono le forze sterminate dei mo-
narchi assiri, e lungamente arrestarono il conquistatore
macedone; quando vediamo che coprirono di colonie
tutti i punti più vantaggiosi del Mediterraneo, fondarono
Cartagine e Cadice, e veleggiarono nell'Atlantico ed alle
ìsole Cassiteridi, si importanti in ogni tempo, e special-
mente in allora che non conoscendosi la Malesia, Io
stagno doveva ritrarsi quasi esclusivamente da esse;
quando vediamo Cartagine, mirabilmente ricca per colo-
niali possessi, inviare spedizioni di scoperta nelle regioni
meridionali e nelle settentrionali dello Stretto di Ercole ;
quando ci si descrive l'Egitto fertilizzato da centinaja di
canali, che scava il lago di Meride per regolare le escre-
scenze del fiume fecondatore, che apre una comunica-
zione per acqua fra l'Eritreo ed il Mediterraneo , che
388 PARTE QUARTI
fa intraprendere da naviganti fenicii un giro intorno
all'enorme continente deir Africa, ecc., ci è forza conchiu-
dere che gli antichi non erano ignari delle dottrine
che guidano alla ricchezza gli Stati.
Allorché i Greci munivano Atene d*un triplice porto,
ed onoravano gli Argonauti che aprivano al greco com-
mercio i porti del Ponto Eusino ; allorché colonizzavano
le foci dei fiumi scorrenti a quel mare, fondavano Sira-
cusa e Marsiglia, e lottavano per interessi commerciali
con tutte le colonie dei Cartaginesi e dei Tirii ; allorché
da Marsiglia scioglieva le vele Pitea, ed eseguiva perfino
nel Baltico una esplorazione ardita, in essa notando ciò
che avvantaggia le scienze ed interessa il commercio ;
allorché Alessandro pel commercio fondava una grande
città, ed Atene per assicurare la sussistenza del popolo
pubblicava quelle sue leggi frumentarie, che contengono
tutte le massime conservate tuttora in Europa dovunque
negli ultimi anni non ha trionfato il princìpio di perfetta
libertà, noi dobbiamo riconoscere che le idee politico-
economiche erano note anche agli antichi, benché si
manifestasse in tutta la ferocia quel sistema mercantile,
che non é del tutto abbandonato nemmeno oggidì.
V'erano cognizioni economiche se Lucullo trasportava
vegetali dall'Asia, e li indigenava in Italia ; vi erano se
le legioni romane scavavano canali nel nord di Germa-
nia; se nelle biblioteche dell'Asia i Romani raccoglievano
i libri d'agricoltura, eli trasportavano a Roma; se man-
tenevano centotrenta interpreti alle sponde del Fasi per
agevolare il commercio; se Caligola fondava un faro
sulle coste di Francia rimpelto a Brettagna ; se Anco
Marzio, e Claudio, e Trajano lottavano con ogni perseve-
ranza dell'arte per mantenere la navigazione del tronco
inferiore del Tevere, che la natura minacciava d'impedire
CAPITOLO III. 389
accumulando alle foci negli anni e nei secoli gli alluvio-
nali depositi ; se Claudio aboliva il numero soverchio dei
giorni festivi, dandone le ragioni medesime per cui si
aboliscono adesso ; se lo slesso Claudio ed Adriano sca-
vavano l'emissario al lago di Fucino (di Celano) ; se Ne-
rone inviava Cornelio Balbo all'esploraiione dell'Africa ;
se Cesare progettava di tagliare l'istmo di Corinto, e Ne-
rone intraprendeva realmente i lavori.
Il medio evo, che accordando tanti privilegi creava il
diritto cambiario, che sanciva tante utili servitù prediali,
che dava all'ipoteca il vero carattere pubblico e speciale,
che concedeva tanti privilegi dì maestranza e di fiere, ne-
cessarii in allora se anche inutili adesso; i Lombardi, i
duchi di Mantova, quelli di Ferrara ed i Veneti che ras-
sodavano, duplicavano le grandi arginature dei nostri
fiumi, già prima dell'epoca romana inalzate dai Galli,
che pure ci sono descritti quasi selvagge tribù ; Cortes
che concepiva il disegno di tagliare l'istmo di Panama ad
infinita utilità del commercio; gli Inglesi ed Olandesi,
che ripetevano le cento volle il tentativo di passare
dall'Atlantico nel Grande Oceano navigando i mari artici
dell'Asia e dell'America, tutto ci mostra che la scienza
degli economici interessi, e le relative dottrine, benché
non raccolte in volumi, erano radicate e discusse nei
consigli di Stato.
Non crediamo, scorgendo le rovine di Persepoli, di
Palmira, di Ninive, del Campidoglio dominatore d'un
mondo, che sempre la ricchezza o la gloria derivassero
da violenza o da caso. Non fu né violenza, né caso che
insegnò ai Peruviani a costruire con infinite fatiche le
loro strade attraverso le Cordigliere. I bisogni sentiti
politici ed economici insegnavano a Diaz il Capo, guida-
vano Vasco alle Indie, Albuquerque alla Cina. I si-
390 PARTE QCTiRTA
stemi del censo fondiario, quello dell'assunzione dei pre-
stili a rendila perpetua, Tislituzione delle banche, le
grandi compagnie mercantili pel commercio delle re-
gioni remote, tutti sono d'origine anteriore a quell'epoca
di Colberl, nella quale vorrebbesi essere sorta recono-
mica scienza. Ed il sistema degli emporii commerciali o
deposili franchi, delle polizze di proprietà delle merci
depositate, del giro di esse, che è sprone si polente ed
ajuto al commercio, dei diritti doganali d'esazione sospesa
fino alla consumazione di merci, è sì antico, che già ne
parla minutamente e precisamente Boccaccio [Decam.^
Gior. Vili, Nov.10).
Il mondo antico, il medio evo e l'attuale hanno sem-
pre riconosciuto l'importanza dell'Egitto, che sta come
isola fra deserti e fra mari sul sentiero d'Europa e
delle Indie. Il mondo ha sempre riconosciuto l'impor-
tanza di Panama, dell'istmo di Darien, del lago di Nica-
ragua per l'aprimento d'un canale fra l'Ayantico ed il
Pacifico. Conobbe il mondo la fonte della ricchezza olan-
dese, che diede a quella piccola terra combattuta dal mare
la forza di lottare per mezzo secolo, e di vincere la po-
tenza di Spagna, che trovò nel commercio e nelle arti
d'Italia nel medio evo l'inesausta sorgente di forza, per
cui Pisa, Firenze, Venezia salirono ad una grandezza
negata attualmente ad esse ed ai regni, che sempre vide
sorgere le città presso i seni sinuosi del mare, o lungo
le arterie dei fiumi, che ivi vide le popolazioni crescenti,
meravigliose le moli, splendente la civiltà. Conoscevano
le utilità economiche del loro Stalo i Polacchi ed i Russi
quando assaltavano Turchi e Svedesi padroni delle
bocche dei fiumi di Sarmazia e Polonia ; le conosce-
vano i Milanesi quando sussidiavano Genova contro Ve-
nezia, e costringevano entrambe a desistere da alcuni
CAPITOLO III. 391
monopolii di traffico ; le conoscevano i Fiorentini
quando dai Pisani affievoliti ottenevano concessioni e
franchigie.
E se talvolta un popolo operava in via direttamente
contraria al proprio immediato interesse economico, ne
era causa qualche prevalente ragione di politica neces-
sità. Così la Spagna padrona del Belgio tollerava che
fosse chiusa la Schelda per avere il soccorso d'Olanda
contro ringhilterra marittima; cosi la medesima conce-
deva un enorme possesso al clero per convertirne la
forza morale e fisica contro ì Mori; così operavano Ve-
nezia, la Polonia e l'Ungheria per timore dei Turchi, ed
al clero concedevano un possesso territoriale enorme e
sterminato. Cosi tutti gli Stati aristocratici posposero
talvolta per politici scopi le economiche utilità, non
amando di svolgere le ricchezze plebee certamente fu-
neste all'onnipotenza patrizia.
Anche nel capitolo seguente avremo nuova prova delle
cognizioni economiche degli antichi, e dell'applicazione
delle medesime alla legislazione di mare.
CAPITOLO lY.
I Rodìi e le leggi marittime.
Per felice collocazione, fertilità e bellezza. l'isola di
Rodi è la Sicilia del Mediterraneo orientale: guarda
TEgeo ed i mari di Siria e d'Egitto : aveva ottimi porti in
antico, che trascuranza, tremuoti, sabbie accumulate
resero mediocri oggidì : addossata alla costa asiatica, ne
è divisa da un largo canale che è per se stesso un porto
immenso, e comprende una baja (quella di Marmaritza),
che sta dirimpetto all'isola, ed è delle più magnifiche e
sicure che siano in tutto il mondo : avendo l'isola eleva-
tissimi monti, è ricca di acque, ed abbondevole di posi-
zioni assai forti.
Tutto invitava al commercio gli isolani di Rodi: la
fiera guerra del Peloponneso loro agevolava quei primi
passi nella vita commerciale e nella politica, che sono i
più difficili per l'essere i piccoli osteggiati dai forti. Trat-
tarono indisturbati il commercio : furono perfino favo-
reggiali dai combattenti, e più lo furono da chi più va-
cillava sul campo, ed era in mare più debole. Erano i
Rodii in allora pei Greci quel che furono nel medio evo
i navigatori italiani per gli eserciti crociati : avevano Tamì-
cizia di tutti, perchè il bisogno era di tutti : gli immensi
danni di guerra erano tormento e miseria d'altrui ; i lucri
immensi della guerra straniera erano dei Rodii : villaggi
CAPITOLO ir. 393
e città n'andavano a ruba in Grecia: Io scarso lucro del
soldato rapitore passa subito alle mani del commer-
dante, e si rende in esse dieci volte maggiore.
Cosi invigorirono i Rodii, come nelle crociate invigo-
rirono le repubbliche italiane (i). Divenuti ricchi e po-
tenti, usarono la potenza^ o ne abusarono : dominarono
le isole vicine: estesero la signoria o la politica influenza
anche sulla Licia e sulla Caria : fondarono colonie in Ita-
lia, in Sicilia, perfino in Ispagna (Stradone), mescendosi
cosi alla generale politica. Rodi era divenula uno Stato,
come lo divenne Venezia dopo gli acquisti suirimpero
bizantino e nella terraferma italiana : fu quindi tratta vo-
lente o non volente nel vortice delle guerre terrestri e
delle navali : dovette difendere gli acquisti colforo, par-
(i) GonYiene por mente a questa drcostanza spesso inaTTertìta, per ben com-
prendere la ragione delforìgine non impedita, e del rapido sviluppo di molti
Stati, che divennero come Rodi, e ben più di Rodi, grandi e potenti. Il volgarìs-
aimo adagio fra due litiganti il terzo gode si applica alla spiegazione anche
di cose politiche recondite ed elevate.
Favorirono il sorgere inosservato, tranquillo di Venezia le tante discordie dei
Bizantini coi popoli invasori d'Italia : favorirono le usurpazioni italiane sui Bi-
zantini le lotte di questi coi Saraceni e coi Turchi, perchè il mare divideva i
combattenti, ed il mare era degli Italiani. Formossi la potenza russa quando
TEoropa occupata, straziata dal centennale travaglio da cui usci la guerra dei
Trentanni, aveva si gran male al' centro da non potere sorvegliare e dominare
al confine. Diventò poi la Russia un formidabile Stato per la ragione stessa
durante la guerra della successione austriaca: allora le nuove delle battaglie
di Narva e di Pultava, che davano il predominio neirCst alla Svezia od alla
Russia, si udivano dai governi delFEuropa del centro senz'altro effetto che
quello di renderli più devoti al vincitore nelle dimostrazioni di benevolenza,
onde non inclinasse alla parte contraria alla loro. E guai anche adesso se pro-
rompendo una gran guerra sul Reno, la Russia non cercasse pericolosi, e poco
utili allori sulla combattuta fiumana, ma sempre dispensando ai duellanti timori
e speranze, usasse la sua clava ove ha colpi più vantaggiosi a vibrare !
Noi Italiani abbiamo ancora grandi difiicoltà a superare per rendere la patria
completa e sicura, perchè i nostri nemici son molti, e non tutti palesi. Con-
cbioderemo dunque volentieri con un detto di Tacito, ch'egli applica alla inco-
lumità delle romane frontiere agevolala dalle discordie intestine delle popolazioni
germaniche: deh rimanga, e nelle genti duri se non amore a noi, rabbia fra
loro, perchè la discordia dei nemici è il maggiore ajuto, che dopo la nostra
virtù possa porgere la fortuna ai destini deirimperio !
394 PARTE QUARTA
teggiare, tramutarsi da commerciante fortunata in com-
battente pericolante.
Nell'era d'Alessandro il Grande parvero i Rodii an-
dare sommersi: l'avevano osteggiato, e ne sarebbero
siali distrulli: rivissero al suo morire; cercarono nella
divisione dei successori l'indipendenza: oscillarono fra ì
medesimi : procurarono anche colle arli di legazioni in-
viate d'impedirne le temporanee leghe, che li avrebbero
stretti e soffocali: al sopraggiungere dei Romani, ebbero
nuove congiunture a destreggiarsi, prevalendo d'ordinario
l'amicizia dì Roma lontana, e non ancora signora di
Grecia e dell'Asia, a quella dei re della Siria o di Mace-
donia. Quando Anlioco estese largamente il dominio, in-
vase le isole, e penelrò nella Grecia, i Rodii entrarono ri-
solutamente nelle parli romane, e loro giovarono di forze
navali; ma caduto Anlioco, scemò nei Rodii il favore per
Roma: inclinarono ai Macedoni,, persuasero pace ed in-
viarono legali ad ogni combattente perchè la consigliasse:
volevano evitare i pericoli, e conservare i commerci. Con-
tinuando i danni , rinnovarono l'invio d'altre legazioni
in Macedonia ed a Roma: quasi osarono assumere forma
e baldanza di mediatori. Era troppo: repressero i Ro*
mani la baldanza ; schiacciarono Perseo, poi punirono i
Rodii, ingiunsero ai medesimi che ponessero certe isole
in libertà, la Caria e la Licia sciogliessero da vincoli di
dipendenza, diminuissero i balzelli sulla navigazione,
ossia impoverissero il loro tesoro, recidessero i muscoli
della loro potenza : Delo poi diventasse porto-franco, os-
sia concorresse con Rodi, anzi potesse superarla, se Rodi
non toglieva ogni tassa, e si privava così di mezzi a so-
stegno di forze navali. Rodi era ancor ricca, aveva la
pompa delle sue tre mila statue, dei suoi cento colossi
(Plinio il Vecchio): aveva la sapienza delle sue scuole,
GiPITOLO IT. 395
cui doveva un giorno concorrere anche Cicerone, an-
che Cesare» ma ricadeva ad insigniGcanza politica: do-
veva poi avere nell'era cristiana una seconda storia,
l'epopea cioè veramente eroica dei Cavalieri, ma non
più una storia nazionale: Roma Taveva per sempre
annientata.
Non furono però annientate le rodiane leggi di mare,
anzi i rudimenti di molte trasmigrarono nella legisla-
zione romana, e lo spirito delle medesime, e le fonda-
mentali disposizioni d'alcune, sussistono pure nei co-
dici attuali. È privilegio di esse la perennità sorgendo
da liberi rapporti commerciali, da libere contrattazioni,
da requisiti essenziali di utilità : hanno base negli accordi
spontanei ad invariabili scopi; i fatti ripetuti costitui-
scono la consuetudine: questa si fa regina, e si legalizza
dipoi.
I Fenicii, i Cartaginesi, i Greci esercitavano attivis-
simo commercio di mare : dovevano quindi avere una
legislazione marittima consuetudinaria o scritta : sembra
che essa primamente a Rodi sia stata raccolta in corpo
di dottrina : tutti gli antichi ricevettero la compilazione
di Rodi, perchè rispondente al fatto dell'osservanza uni-
versale, alla consuetudine cioè, al bisogno generale di
semplicità e d'evitare dubbiezze.
Anche i Romani dovettero assai per tempo conoscere
le leggi rodie, p vogliam dire le consuetudini marittime
del Mediterraneo nel libero commercio colle altre na-
zioni. Qui il romano conquistatore era forzato a starsene
nei limiti dell'eguaglianza. Quando le conquiste romane
si estesero su tutti i bordi del Mediterraneo, che divenne
un lago del vasto impero, i Romani avrebbero potuto
emanare quelle leggi marittime che loro piacevano. Ma
nessuna legge può essere più equa della legge naturale ;
396 PARTE QUARTA
sulla eguaglianza di indipendenza erano fondate le antiche
leggi ; sull'eguaglianza di dipendenza, o di impero che dir
si voglia, avrebbero dovuto essere fondate le nuove. Ciò
è quanto dire, che le nuove non potevano, e non dove-
vano essere diverse dalle antiche. Egli è per questo che
i Romani non le variarono, che ne furono da tutti i
popoli fino a noi sempre rispettate le basi, che Strabene
le diceva di saviezza ammirabile (lib. XIV, cap. 2), che
le lodava Cicerone, ed Antonino imperatore scriveva:
Ego mundi dominus, lex vero maris.
Le incertezze sull'origine e sull'adozione delle leggi
rodie si riproducono per causa identica nel medio evo
quanto al famoso Consolato del mare. Nel ricco campo
della letteratura gli scrittori italiani, i francesi e gli spa-
gnuoli cercarono prove per assicurare alla loro patria
la gloria di aver dettato al mondo nel medio evo le leggi
del commercio marittimo scritte nel Consolato.
Gli Italiani furono, non vi ha dubbio, la prima nazione
che esercitasse un attivo commercio di mare nel medio
evo. I Catalani, poco dopo, divennero attivi commercianti
nel Mediterraneo occidentale, e quindi concorsero anche
nel Mediterraneo orientale. Il continuo contatto coll'im-
pero greco-romano, la conquista fatta da Giustiniano di
parte dell'Italia, ecc., dovevano far conoscere agli Italiani
le leggi rodie-latine raccolte nel Digesto, e quelle vigenti
in via di consuetudine. All'epoca delle crociate doveva
insensibilmente formarsi, pel convegno nell'Oriente di
tutte le nazioni marittime, un diritto rodio, latino, greco,
italico e catalano. Questo diritto marittimo si è il Conso-
lato. Tutte le nazioni nell'originario sono a vicenda legis-
latrici, ed il Consolato del mare, fondato nella naturale
eguaglianza, corrisponde alle leggi di Rodi in quella
parte che ne è nota. Se Amalfi, o Pisa, o Marsiglia, o
GAPnoLO IT. 397
Barcellona abbiano dapprima scritto materialmente il
codice» è una controversia di mera letteratura, la quale
dagli scrittori meno traviati da nazionale vanità sempre
rispondesi a favore di Barcellona. Molti Francesi però,
consentendo in questa priorità di Barcellona, vogliono,
perchè la lode sia nondimeno francese, che Barcellona
emanasse il Consolalo precisamente nell'epoca in cui
Carlo Magno l'aveva unita alla monarchia dei Franchi.
Gli scrittori nordici sostengono spesso la priorità delle
Ordinanze di Wisby su quelle del Consolato, e noi leg-
giamo in Grozio: Qucb de maritimis negotth imnliB
GothlandiiB habitatortbn$ legei placuerunt, tantum in
te habent tum (Bquitatis, tum prudenticB, ut omnes
oceani accolm eo non tanquam proprio, $ed veluti gen-
tium jure, utantur. Ma il commercio del Baltico e quello
del mare del Nord, che in gran parte adottò quella legis-
lazione, sorse qualche secolo dopo di quello del Mediter-
raneo ; né gli scrittori nordici hanno documenti positivi
in appoggio della loro asserzione. Lo stesso si dica dei
Giudicati di Oleron, isola francese nel golfo di Guascogna.
E poiché né Wisby, né Oleron soggiacquero sempre alla
medesima sovranità, cosi vi sono scrittori che si affan-
nano nelle controversie di priorità, per aggiudicarne il
merito alla loro nazione, la quale dovrebbe aver emanato
le Ordinanze od i Giudicati nel tempo appunto in cui
dominava sopra Wisby o sopra Oleron.
Le tre legislazioni, emanando sempre dalla stessa base
di consuetudine e di eguaglianza, non differiscono sostan-
zialmente ne' principii giuridici. È però evidente che va-
riano assai fra di esse nelle prescrizioni meramente di-
sciplinari e nelle penali. La legislazione del Mediterraneo
è molto più severa che non le altre. Anche da ciò vollero
alcuni inferire una considerabile differenza nelle epoche,
398 PiATE QUAATi
quasi nella prima epoca vi fosse stata barbarie assoluta,
che andò graduatamente convertendosi in asprezza, e
quindi in temperanza. Seguendo questo principio, sa-
rebbe antichissimo il Consolalo, sarebbero meno antichi
i Giudicati di Oleron, e molto più recenti le Ordinanze
di Wisby. Ma deve riflettersi che la misura della pena
emerge dalla necessità della pena stessa. La reazione
penale doveva essere ben maggiore nel Mediterraneo che
non neirAtlanlico, e maggiore nelFAtlantico che non nel
Baltico. Le coste infatti del Mediterraneo erano possedute
da Cristiani e da Saraceni in perpetua guerra fra loro, e
la guerra doveva mantenervi una continua piraterìa. Le
coste degli altri mari erano possedute da soli popoli cri-
stiani. Il commercio del Baltico, ed in parte quello del-
rAllantico, era esercito dagli Anseatici fra loro confede-
rati : quello del Mediterraneo era travagliato dalle guerre
perpetue fra gli stessi Cristiani, Tuno all'altro ostilìssimi.
Le ciurme ribelli in un mare avrebbero trovato impos-
sibile> nell'altro diflicìle, e nelFultimo facilissimo lo sfug-
gire la pena.
Le stesse dispute di priorità sempre si trovano, e sem«
pre per cause identiche, in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
La sapienza dei filologi d'Inghilterra ci ha fatto, p. e.,
conoscere il codice marittimo dei Malesiani : le norme di
giustizia di quel codice non variano dalle europee. Quale
però de' commercianti Malesiani abbia avuto il vanto di
priorità, si è una controversia confusa, che ad un tempo
è malesiana, araba, indostanica e forse cinese.
Noi rispettiamo anche le vanità nazionali perchè da
onorevole fonte derivano, anzi le amiamo se con erudite
ricerche ridonano glorie dimenticate alla patria, e di esse
la gratificano e piaggiano. Inane è però la controversia
sulla priorità delle leggi marittime, perchè tutti i popoli
CAPITOLO IV. S99
alla lor vece furono di queste maestri e discepoli, e
l'unirle e lo scriverle fu opera utile di redazione dilìgente,
e non d'invenzione ispirata. Ma da che non traggono gli
scrittori argomento d'ambizione nazionale a primeggiare
ed escellere? Non bamboleggiava p. es. il Pindemonte
scrivendo nel volume delle sue dolcitudini e saporosità
melanconiche, che i giardini inglesi non sono inglesi,
ma italiani j e recando le prove che quelle ajuole, que-
gli avvolgimenti, quelle ombre, quei murnauri d'onde
d'argento, e quei pelaghetli o pozze lacustri son nostre?
Noi non veniamo in piacimento di ciò: ogni dottrina che
si consuma in olezzo senza grandezza o vantaggio, che
inganna di forme venuste la nudità del pensiero e la
mancanza di scopi, che non muove passioni, sentimenti
non agita, ed idee non suscita, è povera dottrina per
noi, se anche ritornasse all'albero delle glorie italiane
qualche foglia sfrondata da esso, ed innestata a pianta
straniera.
PARTE QUINTA
IL DISPOTISMO.
26
CAPITOLO I.
Le sette filosoGche:
loro traecie nella legislazione imperiale.
Il potere dei patrizii era distrutto: le rivoluzioni ave^
vano avvallalo tutte le poliliche sommila nello Sialo, ed
inalzalo quella so!a di Cesare. Tulli i Romani erano, per
così dire, diventati maggiorenni, ma in quel giorno tulli
traboccarono nella dominazione di Cesare, ed il nome di
cittadini più non significò che eguaglianza d'ubbidienza
comune. Il tizzone della discordia era spento, ma lo era
altresì il calore di libertà, né piii vi era rilegno ad ille«
galilà e tirannide.
Sotto i Cesari però le feroci discordie civili, che ave-
vano da tanti secoli dilanialo la repubblica, cessarono
del tutto. Il popolo di Roma e del mondo visse tranquillo
sotto gli imperatori: questi resero più sicura Tuniversale
eguaglianza per l'enorme potenza concentrala in essi. I
patrizii, che sotto gli imperatori non furono altrimenti
che plebe in diritto ed in fallo, i patrizii, che l'aristocra-
zia mantenere non seppero, e l'eguaglianza tollerare
non vollero, i soli patrizii ordivano congiure, e per con-
seguenza i medesimi sentivano spesso l'enorme peso del
potere esecutivo. Ed essi. Tacito specialmente (1)* scrìs-
(1) Tacito è il solo storico veramente grande di talta l'epoca impenale, al^
meno il solo storico illustre che abbia scritto delle cose dei Cesari. I tempi non
404 PAKTE OUINTi
sero la storia, tulta informandola alle astiose passioni,
perchè gli offesi e nemici ogni cosa dei loro odii colo-
rano, né sogliono essere ai posteri maestri del yero :
snebberò poi dai lettori pienissima fede, perchè se agevol-
mente si riprovano scrittori che adulano, parendo che
siano schiavi, non è frequente il dubbiare dei maledici,
sembrando che il maligno sia libero.
Tacito infatti fu sommo scrittore, ma troppo si verifica
in lui il detto che principe odiato fa male ciò ch'ei fa.
Egli non vedeva che Cesari trattanti i piaceri, tormen-
tanti infelici che all'aspetto degli spasimi, od alla prova
calavano, ìmmergentisi in nobile sangue, sazianti plebi
arroganti quanto fameliche : non fu estimatore severo, fu
erano favorevoli alla storia : era quasi impossibile, certamente pericolosissima
)a pubblicità. Non consta poi che i Cesari ordinassero la compilazione dei loro
annali, e se alcuno Tordinò, Topera servile non fu continuata, né si perpetuò
per credito e trascrizioni in Roma.
Vi sono condizioni politiche infeste alla storia, od almeno alla verità dei rac-
conti, e quindi alle luciibrazioni degli ingegni più perspicaci ed onesti. Anche
Venezia, che fu pure si grande, non ebbe storici fuori di quelli che erano al
servìzio della repubblica. Non era Ustoria in quel governo, come in Roma non
lo era, tale materia che si potesse abban 'onare ai giudizii sempre piò o meno
licenziosi delle trattazioni private ; non era neppure tale che si potessero in ogni
caso illustrare dal governo con argomenti di giustificazione le deliberazioni
ed i fatti. Quindi la repubblica ha bensì stipendiato scrittori per avere Tesclu-
sività dei racconti, ma non disse giammai la parola aperiantur oeuli veslri, e
la collana degli storici veneti, che pur coprirono quasi tutti elevate posizioni
nel governo della repubblica , ed erano bene iniziati nelle ragioni e misteri,
appare in complesso assai inferiore alla grandezza dei fatti, alFinnegabile sa-
pienza di Stato. Quasi tutte le pagine di essi sono impiegate a descrivere gli
apprestamenti navali, le battaglie, gli assedi!, i templi inalzati per voto, i
commerci predati, difesi, le isole occupate, perdute; pochissime pagiue riflet-
tono rinterna vita dello Stato, le scaturigini cioè di quelle forze cospiranti,
divergenti, esuberanti, deficienti, di cui lo storico non tocca che gli scenici
effetti, le ultime conseguenze. Del pari Venezia pei motivi medesimi non si
distinse nella lirica, nella tragedia e nella satira politica.
Più utili agli studii che non siano gli storici veneti sono gli storici toscani,
quelli almeno deirepoca repubblicana, che tutto vedevano, e compri non erano.
Ma fra i compri è a porre anche il Varchi, giacché confessa egli stesso d*es-
sere condotto dai Medici a scrivere istorie per stipendio mentile, quantunque
Carlo BotU lo dica uomo pieno delle generose idee dell'antica liberlà.
CAPITOLO 1. 405
burbero : non mirò alle generali condizioni polilìche, ma
alle sole tristezze di servitfi abjettissima, ed ai tìzìì so-
vente grandi, ìmmoderali dei Cesari. Non osservò Tacito
alla pace, che non fu mai tanta nel mondo romano, ma
alla tirannia, e contro i patrizii sospicati o confessi di
turbolenze o congiure non fu mai la maggiore: ai patri-
zii rassegnati e tranquilli sembrava tirannia la propria
nullità. Avendo però Tacito l'animo fortemente temprato,
ed essendo inoltre fuor di pericolo, lodò i molti patrizii
i quali soggiacquero nelle proscrizioni imperatorie, ma
non scrisse un cenno d'onore pel noto Lucano : era forse
indegnato perchè questi, nella speranza d'ottenere grazia
della vita per sé, ha denunciato sua madre. Eppure Lu-
cano in quella non aurea età delle lettere sovra gli altri
brillò: se non ebbe il genio dell'epopea, ebbe potenti pen-
sieri : non si pose sul capo il primo alloro dei vati, ma
vi stese vicina la mano: parve non poeta, ma storico
come Silio Italico, ma meglio di questi ha illustrato la
storia. L'elogio però di Nerone, che Lucano prepose alla
sua Farsaglia (1), si è forse la più impudente e la più
(1) Descrìtti dapprima gli orrori della guerra civile, Lucano continua cosi:
Quod si non aliam venturo fata Neroni
Invenere viam.,.
Jam nihil o superi querimur : scelera ipsa tiefasque
Hoc mercede placenl : diros Pharsalia campos
Imple*U^ et Pmni saturentur sanguine manes, ecc.
Poi raccomanda a Nerone, quando sarà in cielo, di sedere ben bene nel
mezzo del carro d'Apollo, onde non squilibri Passe del mondo :
jElheris immensi parlem si presseris unum
Seniiet azis onus. Librati pondera costi
Orbe tene medio, ecc.
La dedica della Farsaglia a Nerone è impropria, è ampollosa ed abjetta:
quella invece fatta da Eulropio airimperalore Valente, per cui scrisse il suo
epitome o breviario di storia romana, è ridicola. Lodando Timperalore Valente
pei suoi mirabili fatti (t). gli dice che imitò prima ancora di conoscerle, le
azioaì gloriose degli antichi Romani, che ora va a narrargli. Poteva Eutropio
406 PABTE QUINTA
vile adulazione che si ritrovi nelle opere antiche e nelle
moderne, che in gran numero ne sono sozze ed immonde,
ma l'abjezione della dedica non poteva in nessun caso
far libilo Nerone, né essere ministra di piacere per lui,
essendo sì cattiva la scelta dell'argomento verseggiato.
0 di continuo stigmatizzata nel poema Tusurpazione
di Cesare, e quindi Tillegittimità dell'impero negli eredi
di lui. Noi meravigliamo che Lucano offerisse a Nerone
quei versi impressi d^affello per la caduta repubblica, e
di dolore perchè più non vivesse di vita popolare lo Stato,
ma por volere di Cesare. E forse che il Trissino ha de-
dicato a Carlo V invasore d'Italia il suo poema deWIta-
Ha liberata dai Goti? (1),
dare airimperatore taccia più diretta d'ignoranza totale? Ben molliche dedi-
cano opere potrebbero essere sinceri cosi, ma no) sono.
(1) Nella letteratura, nelle arti, nella politica, in ogni lavoro d'ingegno, o
scelta di persone, si ba sempre da avere arcuralameole di mira la convenienza
della cosa o persona a quanto vuoisi esprimere, rappresentare, ottenere, e manca
ogni effetto, o viene malagevole e scemo cosi iielfestestica, come nella politica,
so questa norma fondamentale di morali o personali reciprocanze è trasgredita
ed offesa. La viulò Lucano scegliendo la Farsagiia per argomento da deilicare
a Nerone: la viuld Vincenzo Monti (risloriografo del primo regno dltalia ,
cbe tutto scrisse fuorcbè la storin) quando introdusse un bardo della Selva
Nera a cantare i trionfi di Napoleone in Alemagna, mentre tulli i bardi delle
selve germaniche ne avrebbero più volentieri cantalo i rovesci, e realmente li
cantarono spontanei pochi anni dipoi : la violò il renante di Baviera che co-
strusse a Hatisbona il gran Panteon alemanno (VValIhalla) di stile greco-romano
e non di goto, ed inalzò nelle isole greche il leone bavarese non a memoria di
soldati periti in battaglia, ma nellozio di guarnigioni.
Perfino il successo di grandi afiari non di rado si compremette e sacrifica
per contrasto a tali riguardi di necessarie convenienze, e scella inopportuna di
persone a traltazioni delicate. Lo stesso Governo veneto, che era sì perspicace
ed allento, ha talvolta erralo anche nella scelta dei legati suoi; lo mostra p. e.
il successo diverso di due legazioni da lui spedite a Carlo V, temuto nel mondo,
e più ancora in Italia dalla stessa repubblica : Tuna di esse fu aflidata a mon*
signor della Casa, e Taltra lo fu appunto al Trisstno: e Fune e Taltro, nonché
avere volonlà ad imporre, dovevano lusingare e chiedere. Orava il Casa : Carlo V
comparava a Cesare : se medesimo negli ambiti e nelle frasi delle concioni che
ci lasciò, voleva a Cicerone comparare: fosse il nuovo Ce.<are temperante:
io tanta potenza meritare maggior lode colla moderazione che colla vittoria,
col difendere che non coirinvadere. Ne rideva il Sire ìatemperantissifflos
CAPITOLO f* 407
Mòri Lucano: fa anche ucciso Seneca il filosofo delle
belle massime, che intra quadriennium regia amicitia^
t&rmilliei sestertium paravit .... Italiani et provinciai
immenso fwnore depopulatut est (Tac, AnnaL, \. XII»
a 42). E prima era stalo ucciso il gran Cicerone, che
ianto spregiava le professioni del popolo da scrivere negli
Dficii, al I. I, e. 42: opifiees omnes in sordida arte ver*
santur, nec quidquam ingenuum potest habere officina ;
che polendo essere giustamente altiero, era debolmente
vano ; che lodava a cielo lutti e ciascuno gli uccisori di
Cesare, ma sempre timido negava d'essere Correo, com-
plice 0 preventivo approvatore del fatto; che istigava im«
precando ad Antonio perchè avesse egual fine di vita; che
narrava la truffa commessa nella vendita della villa di
Gdjo Cannio con tale atticismo, lepore ed ilarità che quasi
sembra approvarla ed averne lietezza, e che facendo nelle
confidenze delle sue lettere ampie confessioni d'incredulità,
ne accusò Verre così acerbamente in pubblico.
Nell'epoca cesariana si diffusero mirabilmente in
Roma le due sette filosofiche degli Stoici e degli Epicurei*
Le opere letterarie ci parlano a questo proposilo di scienze
e di lumi: per il politico ogni effetto è conseguenza neces*
saria della causa, e la causa è politica e di fatto, non ideo*
logica e vana. Credono i filosofi di guidare i tempi, e di
ispirare le idee, ma di regola subiscono i primi, e rifletè
tono le seconde semplicemente teorizzandole. Nelle pro-
scrizioni quale dei patrizii aveva perduto i figli, quale 1
non ancora parevagli (fVsser Cesare padrone del mondo : pure fkceva qualche
concessione al Casa^ piarendogli pei^ ogni scopo futtiro che lo st credesse tem-
perante, ed accomiatava il legato con dulct parole. Non Toleva però essere ere-
dato debole, e quindi fu sobrio in pnrole ed austero col Trissino, cai nulla
concesse: in hil certamente spiacevagit Paulore d^iin poema che sembrava ail
iDTÌto agli lialiani d'insoi*g<>re contro agli oltramontani, benché il poema fosse
gelido, antiquato nelle fórme e seuza ispirazione.
408 PIBTE QUINTA
parenti : le erediti sperate da molti erano passate al fisco,
gli onori e le dignità erano perdute, i patrimonii erano
depauperati da imposte, da contributi, da necessarii donit
da mutui volontari! o forzati (1).
Gol mezzo della democrazia Roma era passata alla
monarchia; col mezzo della monarchia si era fatta uni-
Tersale; era divenuta uno Stato, malo Stato era fondo
(1) Di questi doni e mutui abbiamo copiosi esempii nei classici, e meravigliamo
della identità di quanto seguiva in allora con ciò che in certe proporzioni ve-
demmo anche ai nostri giorni ripetersi. Bruto e Cassio» p. e., lasciando Fltalia
per correre a sollevare la Grecia e le provinde dell' Asia, mancavano di de-
naro: ne chiedevano ai numerosi patrizii: aprivano soscrizioni palrìotticbe:
invitavano le persone più influenti a firmare le prime, a farsi c4)Uettori per lutti
i contribuenti : Attico poi doveva capitanare la grande soscrizione nazionale. Le
opinioni di Bruto e di Cassio erano nei patrizii largamente diffuse: vi era il
denaro, e nel maggior numero anche la brama di darlo, ma pochi osavano di
rompere apertamente coi forti triumviri : Attico declinava Tenore pericoloso :
tutti dicevano frefi(fe/e, piuttosto che dare: pensavano in ogni caso a riservarsi
la scusa di seflerta coazione almeno morale: per dirlo con Dante, volevano es-
sere piacenti a Dio, ed ai nemici sui. Di tali uomini abbondano tutti i luoghi
e tutte le età. Ma pure il denaro per vie aperte o clandestine si dav^, ed Attico
in ispecie ha dato a Bruto gran somma (Gorn. Nip.). Dopo la giornata di Filippi
chi avrà rifuso e doni e mutui ? Quale patrizio non avrà invece tentato di far
sparire le prove dei crediti suoi? Quanti non avranno anzi sacriflcato ai triumviri
l'argento rimasto per redimersi dalle conseguenze fatali di quei mutui e doni?
I soli che forse avranno ottenuto compenso sono i pubblicani delle provincie
dell'Asia, che nelle guerre civili, come rileviamo da Cesare, venivano costretti
ad anticipare le somme alTerarìo : anche ciò si è praticato talora da noi, che
pure abbiamo tanto usato ed abusato dei nuovi melodi dei boni del tesoro e
della carta monetata. Se poi ogni altro mezzo d'aver denaro mancava, si
ricorreva sovente ad una spietata misura alla Wallenstein, a quella cioè di con-
cedere ai soldati il sacco di qualche città, e ciascuno vi prendesse il debito suol
CivitatibuSy tyrannisque Scipio imperaverat pecunias, ilem ab publicanis
debitam hiennii pecuniam exegerat, et ab iisdem insequentis anni mutumm
prtBceperat. NonnuUm militum voces cum audirentur sese contra Porthos si
dedttcerent iluros, contro civem et consulem arma non laturos, deductis Per"
gamum atque in loeupletissimas urbes in hiberna legionibus, con/irmandorum
militum causa diripiendas kis civitates dedit (Cesare). Potevasi acquietare con
migliori argomenti la timorata coscienza di questi soldati? Ben conosceva la
loro delicatezza Scipione, e la conobbero cento volte i condottieri romani. Po-
tremmo mostrare che con forme per l'ordinario più miti, questi metodi di appa-
gamento militare non furono dimenticati neppure nelle guerre moderne, segna-
tamente nella peninsulare.
CAPITOLO I. 400
del prìncipe* e non feudo dei Romani. Roma più non era
la patria d'alcuno, perchè lo era di tulli ; ma alla vita
operosa e convulsa era succeduta la proterva, la fiacca.
Era cessato il cibo, il sangue, la vita delle lettere severe,
Teloquenza più non era che verbosità elogistica» via al
potere la sola ignominia delle prolezioni, la virtù in con-
trasto col secolo, Tavidità di popolarità dei governi liberi
mutata in avidità di favore del principe assoluto, trascorso
affatto il tempo di operare grandemente, finita per Roma
la gloria che era sempre andata in altezza, spenta lavila
virile, incomindata la parassita e molle, quella dei vizii
chiamali con nome onesto, quella delle lettere drude
non danti, ma riceventi opinioni, quella dei compri
poeti, che dove è silenziosa la fama, e servo l'impero, mi-
nistrano fulmini e divinizzano sorti, facendo l'ossequio
di deboli rime a chi tiene le forze. Le riputazioni vere
erano scolorate o punite, create e sostenute le false:
dignità e venerazione crescevano i pericoli. Allora i patri-
zii ridotti alla nullità, con eccettuazione di pochi, diven-
tarono Stoici od Epicurei. Ciò è quanto dire, che allon-
tanandosi dagli affari e dai pericoli, i patrizii di animo forte
e d'alta mente divenivano tristi e scettici : conscii per le
giornaliere esperienze che ormai salire era rovinare, che
più pericolosa era la gran fama che il delitto, che la stessa
iniquità ricca e vigorosa aveva seguenza di molli, anzi
di tulli, che perfino lo stesso favore del principe era breve
e malauroso : vedendo i comandi conferiti non ad uomini
chiari per trionfi nelle battaglie e nel fóro, ma abban-
donati a persone di fama già logora per cortigiane ne-
quizie : vedendo la politica libertà conculcata in fondo e
sommersa, ogni cosa scombujata dal principe, la scure
diventata stromenlo del principato, e chiuso ogni spi-
raglio di speranza al variare delle sorti , dicevano, or-
410 PARTE QUINTI
mai disgustati di tutto, che vizio e virtà ed ogni cota
al mondo erano templici idee relative, e la lode e il
bia$imo non ni determinavano se non dall'effetto seguito
0 mancato. Fastidivano la vita nella patria che era, e
più ai loro occhi pareva inabissata da podestà arbitraria:
di togliersi la vita ordinati, mostravano la misera virtù
di fortemente morire, e di non essere di vane supplica-
zioni codardi, o funesti agli amici di rivelatore linguag-
gio: leggevano il Fedone, lodavano il suicìdio, e lo
eseguivano. Altri di molla ricchezza, di passioni ferventi,
e non fermi di cuore fino all'estremo, non essendo l'in-
temperanza Oaccata e vinta dall'operare continuo e dalle
toglie ambiziose, avendo pace senza onore, grado senza
potenza, ozio senza dignità, domati e stanchi, dall'op-
porsi, dal furiare e dal cospirare cessavano, ed in quella
nefanda mistura di scelleratezze, patimenti e sollazzi,
cercavano ogni diletto di lorda vita, nessuno eccettuato.
£ quanti riscontri d'analogia a quest'epoca non offre la
storia moderna, e perfino quella d'alcun paese d^Italia!
Il sostenere davvero, come si fa nelle scuole, che gli
Stoici credessero tutti i vizii e tutte le virtù eguali,
perchè certa linea matematica separa vizio e virtà in
modo che non importi quanto questa linea si oltrepassi,
purché si sormonti la linea stessa, si è un escludere qua-
lunque criterio logico e riflessione. Come mai si può am*
mettere che tanti uomini eminenti, tanti consoli e duci
d'esercito considerassero ugual delitto pel milite Tassas-^
sinio del centurione, od il presentarsi macchialo alla ras-
segna, per un suddito il tentare il rovescio dello Stalo,
0 l'involare un fiore?
Quella linea matematica che separa vizioe virtù, quella
linea, la quale non ammette transazioni di sorta, e di-
stingue i perfidi dai fedeli, era segnata dal segreto rimorso
CAPITOLO 1. 411
che ormai gli Stoici senlivaao, conscii a se medesimi che
avrebbero pur essi in tempo utile potuto transigere col
vincitore, salve le apparenze dell'onore, e conseguito, al
pari di tanti loro complici inchinevoli ai Cesari onnipo-
tenti, le grandi dovizie e le supreme dignità. Questo pen-
siero inveleniva chi s'era reso impossibile la troppo larda
transazione: gli antichi amici erano tinti per gli Stoici di
colpa più nera, che non gli antichi nemici in Farsaglia:
lo sdegno, il rimorso, l'invidia traboccavano. Perfino la
speranza era ornai distrutta, per essersi il partilo sena-
torio affievolito colla diserzione. Contro tali disertori vi-
bravansi invano le saette sillogistiche.
Egli è delle selle filosofiche, ossia delle idee, quello
che è dei fatti e degli interessi. Anche nella Grecia e Pir-
rone, e Senocrale, e Diogene, ecc. comparvero quando
su tutta la Grecia si difi^use la sovranità macedonica. Se
Diogene ebbe fama, non se l'acquistò certamente col solo
starsene in una botte (1), col cercare Tuomo con una
lanterna, coU'abbracciare ignudo d'inverno sulla pub-
blica piazza una statua di marmo, e col fare le cose o
malte od indecenti, che sono scritte nelle pagine della
storia. V'era un'acerba satira nel motto che egli rispon-
deva ad Alessandro re, il quale andato non sarebbe a
visitarlo, se non avesse importalo l'acquistarlo al par-
lilo suo : tu ci hai tolto ogni cosa : lasciaci almeno la luce,
del iole. E Senocrate era anch'esso tentato coi donativi
da Alessandro re, ma mostrando ai legali la povera
mensa, rispondeva sdegnosamente non voler doni; i quali
{\) K questo proposito Clavier, nella Vita di Diogene^ fa uu'osservazione,
che è melensa davvero: Io non credo che Diogene abitasse sempre nella battei
quantunque è facile che siasi talvolta coricato in quella che stava nel tempio
degli Dei (?). La botte non era certamente il suo domicilio abituale: indole
di Diogene era troppo indipendente y perchè volesse costringersi a dormir
sempre nello stesso luogo (1).
412 PAITB QUINTA
(diceva) sarebbero stali un prezzo di corruzione. Pirrone
invece che seguito aveva Alessandro alle conquiste, e
s'era fallo ligio al potere, ed anteposto il lucro perso*
naie e privalo ad ogni idea di pubblico entusiasmo, gri-
dava maliziosamente che ogni cosa al mondo era dubbia
e relativa, e sola certezza il presente, e che ogni altra
indagine era superflua.
Cosi pure Orazio, che aveva avuto perdono da Cesare,
e combattuto a Filippi, e temere doveva quant'allri mai,
diceva à'etzere epicureo^ e di non scrivere jper inclina-
zione e per genio, ma per aver perduto i suoi beni :
paupertas impulit ut versus facerem (Cpisl., 11, 2).
Sembrava dicesse che non si giudicassero le sue inten-
zioni, ma si scusassero le sue necessità, e nell'ode Vii
del libro II Orazio toccava della giornata di Filippi ,
ma lievemente, e quasi di una giovanile sconsigliatezza.
Nulla diceva del titolo per cui Bruto e Cassio l'avevano
in onore, e in un momento cosi terribile gli davano il
comando d'una legione. Per allontanare il pericolo cer-
cava quasi la derisione: narrava d'aver preso la fuga alla
battaglia [celerem fu^am sensi, relieta non bene par-
mula) : ne dava a Mercurio il merito e il demerito {sed
me per hostes Mercurius celer denso paventem suslulit
aere). Ma se Orazio fosse fuggito per codardìa sul prin-
cipio 0 nel caldo dell'azione, e non per necessità dopo
una rotta completa (quum [racla virtus)^ egli, anziché
scrivere tali cose ad un Quìntilio Varo, che si ritrasse da
Filippi per correre disperato a nuova guerra (te tur-
sum in bellum resorbens), avrebbe tremalo che da altri
si raccontassero. Una parte forse della fama di Orazio ri-
posa sopra inni nazionali non pervenuti a noi, e composti
prima del fatto di Filippi. I versi d'Orazio, nelle cose che
non sono politiche, indicano una causticità e veleno, ed un
CAPITOLO I. 413
sapore, che dobbiamo credere essere scritte in mala fede,
od almeno di mala voglia, quelle fiacche e satiriche (7)
lodi della monarchia d'Augusto nell'ode IV del libro IV,
che cioè non vi iono stupri nelle caste case; che i ma-
riti dimorano colle mogli loro, ed i figli nascoìio lomt-
gitanti ai loro papà ; che i btwi errano sicuri per le
campagne; che ogni Romano, qualunque egli sia^ passa
il giorno sulla collina maritando la vite alt olmo, e
passa quindi alla cantina, e poi toma al vigneto (oh
che noja!), e che queste lodi d'Augusto tutti le dicono
alla mattina fra il sonno e la veglia^ e poi le ripetono
alla sera quando sono ubbriachi (dicimus uvidi). E vai
lo stesso dell'ode X del libro III, in cui scrive che poi-
ché Augusto ritorna vittorioso di Spagna, è tempo di
spillare la botte^ di cavarne il vino vecchio, e di chia-
mare la bella cortigiana Neera, se pure vorrà venire
da lui che è già avanti negli anni, ma da giovane
l'avrebbe ben saputa prendere. Il gran poeta, che com-
battè a Filippi alia testa di una legione, che aveva tanto
orgoglio di sé da profetizzarsi più volte imperitura la
fama (1. II, od. XVII; l III, od. XXIV), non credeva
che fosse felicità il dilacerare col vomere faticoso le terre,
ed il consegnare al loro seno sementi, il potare le viti
sul declivio adusto del sole, l'acconciare gli ulivi, il bat-
tere le aride ariste sull'aja, e preparare le arnie alle api
sollecite. Pensava certamente egli stesso che queste sue
lodi d'Augusto, vantate oggidì nelle scuole, non erano
liriche ascensioni, ma bucoliche inanità, od erotiche de-
liquescenze di giovanili ricordi: per uscire però dalla
scena politica, ove si inciampa e si soffre, cercava le in-
nocenze elogistiche nella varia, nella vaga, affettuosa
natura, saporava le campestri dolcezze, narrava i dilet-
tosi delirii dell'età già fuggita. Che fare? Orazio non
414 PAKTC oriNTi
aveva il pensiero melenso ed arcadico, né l'anima vir-
giliana mite e graziosa: egli aveva natura acerba, adi-
rosa e satirica, ma non la stoica pervicace fierezza: era
anzi trascorrevole ad ovidiana moUizie : s'umiliava per
vivere, ma si rodeva della sua propria bassezza; era
ad un tempo mordace e sdegnoso, ma anche epicureo
e cortigiano; avrebbe forse in elevatissima sfera gran-
demente operato, ma escluso da quella, egli voleva
almeno materialmente godere. Lodava Mecenate, non
indagava se fosse vera o no la sua vantata discendenza
dai re d'Etruria, ma la dava senz'altro esame per vera,
e chiamava Mecenate progenie regia. Lodava anche la
moglie di Mecenate: quando questi infermò, protestava
di non voler vivere più di Mecenate; eppure declinava
l'invito non fattogli ancora , ossia pregava di non
essere chiesto ad accompagnarlo quando parti per la
campagna contro di Antonio, dicendo che detestava la
guerra, e sarebbe capace di nulla. Tutto ciò è scritto let-
teralmente in molte odi di Orazio, ma egli non dimenti-
cava Agrippa, che aveva egual forza di Mecenate, e mag-
giore: moltiplicava poi sempre le lodi d'Augusto, e per-
fino diceva d'averlo veduto sedente fra le stelle nel
Consiglio degli Dei, Dicendosi poi impotente a lode degna
d^Augusto, proponeva a lodarlo in sua vece un poeta
Giulio (figlio di Marco Antonio I), ma questi che aveva
carattere meno rotto e sibaritico , meno maligno e più
violento che non avesse Orazio, congiurò, e fu ucciso.
L'interpretazione d'Orazio, e quella d'ogni classico, per
essere vera vuol esser sagace: vuol essere comparata alle
condizioni dei tempi, alle circostanze di vita. Nemmeno
Tibullo parlava dal cuore a Messalla quando, titubante
dell'esito, schivavasi all'invito di marciare contro Antonio
alla guerra, perchè egli aveva nuovi tralci a piantare, ad
cAmoto I. 415
a$pergere Pale di latte^ ai intessere un $erto di spiche
per Ce$are, soprattutto ad abbracciare la sua Delia.
Né Messalla aminìse le scuse . e io volle, ed il povero
Tibullo marciò : noo sapeva beoe dove frissero l'araiala
e l'esercito, e credeva s'andasse all'Egeo: ma dovun*
que s'andasse, lasciavansi le care oscitanze di Roma, e
s'andava alla guerra: tanto bastavagli perchè gramo e
sconsolato ne fosse: infer mossi a Gorfù: scrìveva nuove
lamentele d'amore per Delia ; imprecava a chi aveva
meiso per le onde il curvo abete, o tratto spada da
ferro: non s'arrischiava però mai ad esprimere pensa-
menti politici, perchè pendevano ancora incerte davanti
Azio le sorti (elogie I e II , lib. I). La storia letteraria
deve essa pure meditarsi in colleganza alla politica, ed
in allora la adorna e rischiara, e rende ad un tempo
sincere le ragioni di sue forme talvolta mentite con v^
lame ed orpello: noi lo abbiamo, ci sembra, provato.
Ha anche in più severo volume, cioè nel Corpus jvris
Justinianei troviamo dei passi che non possono bene
comprendersi se non meditando sulla politica origine
delle sette, delle scuole GlosoGche, e sugli artifici!, o vo-
gliam dire sugli schermi ed accorgimenti dialettici che
nascono, si sviluppano e si conservano per opera di emi-
nenti e positivi ingegni quando le condizioni di Stato
sono tali che non potendosi di ferree armi lottare nel
campo, non resta che la dinamica delle lotte mentali.
Giustiniano, rifondendo l'intiera legislazione, dichia-
rava di conservare alle leggi il loro nome antico, ma di
dar forza imperatoria alle stesse, e d'aver soppresso tutte
le sediziose, ossia tutte quelle che non erano più appli*
cabili agli scopi dell'imperiale sovranità: nomina guidem
veteribus legibus servavimus, legum avtem veritatem
nostram feoimus* Itaque si quid erat in illis seditiosum,
416 FÀlTE QUINTA
multa autem talia erant ibi reposita, hoc decisum est
et definitum, et ad perspicuum finem deducta est quw-
que lex. Senza artificio adunque l'imperatore dichiara
che egli conservò solo ì nomi di plebiscito, di senatuscon-
sulto ecc., che hanno a cessare i litigi sulla validità di
ogni fonte di legge, che ogni legge antica o moderna ha
forza da lui Cesare, che egli ha rimosso dalla collezione
delle leggi quelle disposizioni tutte che alla monarchia
non consentivano.
Questa dichiarazione di Giustiniano, ed altre induzioni
di molta probabilità c'inducono a credere che le celebri
sette dei romani giurisperiti, i cui responsi ammiriamo
nelle Pandette, non differissero neiratlribuire al caccia-
tore, od all'apprensore la proprietà della cerva dall'uno
ferita, ed occupata dall'altro, o nel decidere la tesi se fosse
a dirsi egrotante un evirato, o quale fosse realmente Ti-
stante della pubertà. I Sabiniani, i Proculejani, i Gassiani,
i PegasiéTni, giureconsulti sedenti in un Senato ordina-
tore di un mondo, ed ossequiati in Roma dove non ama-
vasi la scienza che camminasse superba senza piegarsi
verso il mondo reale, non si formarono certamente in
fazioni contrarie per sì frivoli argomenti, né per essi
più di un secolo acremente contrastarono, e lo stemma
dei loro principii ad un'intera legislazione indelebilmente
comunicarono. Quei sommi giuristi differivano probabil-
mente nei punti cardinali della legge regia e del plebiscito :
accordavansi poi nel principio moderatore della monar-
chica autorità: non ambigitur Senatum jn$ facete posse.
Cosi Àntistio Labeone, figlio di un tribuno militare sotto
Bruto, che si era ucciso dopo la sconfitta di Filippi, non
era partigiano di monarchia. Ma era di principii affatto
opposti Atlejo Capitone, devoto a Cesare infino a rispon-
dere a Tiberio, che voleva sembrare costretto a condan-
CAPITOLO 1. 417
Dare i delinquenti contro la maestà sua: non e$g€ patri-
bw auctoritatem eripiendiam, neque jus UH e$ie re-
mittendi ea% injuriaff, qua$ respublica, Imo principe^
accepisget. L'opposizione politica dei giureconsulti divìsi
in due campi conlrarii doveva necessariamente manife-
starsi, e traspare di fatto in ogni controversia di diritto
privato, ove potesse in alcuna guisa insinuarsi l'azione
od il riflesso dei superiori principii. Era p. es. contro-
verso, e nelle scuole moderne tuttora lo è, se la cosa
speciGcata debba appartenere al padrone della materia,
od allo specificatore. Ma anche la romana repubblica
aveva sofferto la specificazione politica, e per metamorr
fosi militare erasi a forma nuova costituita. Sembrava ai
giuristi della Corte, che i Cesari speciGcalori ne avessero
la proprietà: sembrava agli opponenti che non potesse
perimersi pel fatto della guerra la proprietà precedente.
Verso i tempi di Trajano le due sette dei romani giu-
risti parvero dileguarsi e sparire del tutto, e Gravina ne
adduce per causa che ormai l'ardore degli ingegni erasi
calmato, e declinava la giurisprudenza. Con ciò s'indica
il fatto, ma non la causa. Dopo mille congiure sempre
infruttuose e sempre fatali, dopoché l'autorità imperiale
si era del tutto consolidata, più non era a porsi in dub-
bio che realmente i Cesari regnavano, e potevano regnare.
E le sette si spensero, e le idee si uniformarono, ma il
culto degli studii rimase (1).
(i) Quanto fu grande la venerazione dei Romani pei loro giurìsconsulti ! Essa
h pari al merito dei medesimi, glorificato da venti seroli di culto generale e
eostante. Ad onta dell'urto delle sette, ad onta della gelosia e del dispotismo
dei Cesari, ad onta delle violenze parziali che colpirono qualche inflessibile,
implacabile loro nemico, il ceto dei giuristi nel mezzo alle più deplorabili crisi
ottenne rispetto e lode. Il diritto giustinianeo ne fornisce ad ogni tratto la prova.
Qui dirìmunt ambigua fata eatuarum, voccBque deferuionis viribus in red»
27
418 PARTB OmiCTi
La face della critica vuole essere portata per entro le
caligini degli studii legali, degli sludii GlosoQci e degli
studii letterari!. Noi non crederemo, p. es., che il valore
scìeiiliGco di Posidonio consistesse veramente nella con-
vinzione che la gotta ed il tifo non sono mali, perchè
ridea di male richiede un subbielto imputabile. Posi-
donio, al pari di Parmenide e d'Anassagora, aveva misu-
ralo dei gradi di latitudine ; egli era dunque un uomo
d'elevata intelligenza e coltura, e piuttosto superiore che
non eguale airetà sua; infatti Pompeo e Cicerone erano
amici suoi. Vuol dirsi lo stesso delle tante stranezze che
si sono scritte e perpetuate circa la metempsicosi, che
pure si è la prima idea potente, ed il primo immaginoso
concetto della chimica universale del mondo, o della
trasformazione generale degli esseri, per cui conservane
publicii oc privatis lapia mgtmi, fkligaié nparant, non minut pnwident
hìtmano generi quam si prwliis atque vulneribus patriam parente$que tal"
varent : cosi scriveva un imperatore ; altri chiamarono loro amici i giurìsconsulti,
e Catone, Germanico, Vespasiano furono del loro ceto. Labeone, Giuliano, Ho-
destino ecc., per non dire nò di Papintano, nò d'Dlpiano. venivano consultati
dagli imperatori. Sono a titolo d'onore citati dai Cesari i giurisco^sulti che ti
mostrarono più solerti nel coltivare la scienza, come Livio Druso, che era già
oppresso dall'età. Paolo Senatore e Ponzio Lupo, che ambedue ciechi non ab-
bandonarono il gius civile. Si encomiano quegli oratori che non abbondano di
immagini appassionale, di vivi colori, dì motti arguti, ma hanno chiaro ordine di
robuste ragioni, acuto giudizio e concisione elaborata. Quei giuristi specialmentt
si lodano, che aspirano al palmario, anzichò a mercede: est quidem retsanciis^
nma civilis sapientia, nd qua praUio non sit CBslimanda, nee dehonestanda,
qwBnam enim etiamsi honeste accipiunlur, inkonesU tamen petunlur^ e si
narra a censura il fatto del giurisconsulto Figulo, il quale, corrucciato di non
avere ottenuto il consolato, cui aspirava, rimandò i clienti che venivano a con-
sultarlo, rimproverandoli : an t;o# consuUre $eitÌM, consulem facere ne eeitis?
Llntenso studio della giurisprudenza, e Tenore reso ai legisti si è l'uno dei
tratti più caratteristici della romana grandezza, delfalta sapienza di questo
popolo che fu signore e civilizzatore del mondo. E la decadenza degli studii
legali, e la noncuranza del ceto dei legisti si è prova di prostrazione morale,
e tristo presagio per Tavvenire di qualsivoglia governo.
CIPITOLO I. 419
dosi gli elementi delle cose, la loro foggia o modalità di
esistenza con perpetua vicenda si muta. Ma come mai
questa idea potente in mille opere si converti nell'assurdo,
che la farfalla di quel giorno fosse Sesoslri egiziano, o
filomena plorante fosse Codro ateniese? Se Tidea della
metempsicosi fu d'origine greca, come vuoisi da alcuni,
è impossibile che tanta umiltà di concetto ridevole tro-
vasse seguaci si numerosi e si nobili dove la civiltà ri-
splendeva di corruscante bellezza, e gli ammirati filosofi
si gravassero la fronte di tale vergogna. Se invece l'idea
della metempsicosi fu d'origine indiana, come pare più
probabile, 6 primamente intessuta a quelle religiose cre^
denze, trasmigrò poi nella Grecia e nelle sue colonie
dispogliata di esse, l'avrebbero accolta gli Indiani, che
nel vetustissimo codice di Manu ci lasciarono una le*
gislazione ordinata, completa, che di gran lunga avanza
il Corano, ed è in molti punti tuttora imitabile? Nella
metempsicosi, che vuoisi purgare dal menzognero e
stranio velame, di cui fu coperta, hanno presentito gli
antichi la concatenazione dei fatti, che ora le fisiche
scienze verificano guardandovi con lume profondo per
entro, ma la parola degli antichi volava sovra la veduta
del tempo, che troppo distava.
CAPITOLO n.
La Honarchia dei Cesari ed il Patriziato dei Re.
Il governo di Roma sotto i Cesari fu da noi chiamato
monarchia, ma abbiamo una corrente di scrittori in con-
trario, perchè molti amano di appellarlo patriziato sotto
apparenza di monarchia, è gli antichi per qualche tempo
non hanno desistito dal chiamarlo repubblica. Questa
opinione fu accolta da un sommo giurista, il Gravina,
nella nota sua opera De Romano Imperio, ed attempi
nostri un altro sommo giurista la riprodusse fra noi. Ma
non è proprio solamente dell'eia nostra l'applicare alle
forme di politico reggimento nomi affatto contrari! alla
verità. Anche dopo l'assunzione di Napoleone all'impero,
la moneta per qualche anno portò l'inscrizione di Repub-
blica francese congiunta a quella di Napoleone Impe-
ratore.
In Roma la forza si trovava di diritto e di fatto nelle
mani di un solo : la concentrazione d'ogni potere nella
persona di Cesare era riconosciuta col fatto della ubbi-
dienza. In Roma, non altrimenti che ai tempi napoleo-
nici in Parigi, l'esercito era numeroso, permanente e sotto
il comando di un solo. Il governo di quello Stato era dun-
que monarchico. L'esercito aumentavasi a piacere del-
l'imperante : non era composto di soli cittadini, ma di
sudditi delle provincie tutte, ed anche di Barbari. L'im-
CAPITOLO n. 421
pero romano era quindi non una precaria, ma una ferma
e slabile monarchia. Erodiano nel proemio della sua isto-
toria dice dunque giustamente, che Cesare ed Augusto
cambiarono la forma del governo di Roma, e Zosimo
(lib. I) afferma, che la repubblica si converti in assolu--
tismo. Svetonio adotta la sentenza di Tito Àmpio: nihil
ette rempublicam, appellationem modo, sine corpore ac
specie. E Tacito scrive: nulla jam publica arma, ne Ju^
lianis quidem partibus, nisi Ccesar, dux reliquus; omnes^
exuta xqualitate^jmnaprinciph adgpectare; ed altrove:
consulemse ferensy munta $enalm, magistratuum, legum^
in $e trahere, nullo adversante, ecc. Il gran giurista
Ulpiano proclamava la massima, che il principe è sciolto
da tutte le leggi (Gottof., De maje$L princ, leg. sol.,
dis. I), e forse ha dovuto l'alta posizione di prefetto del
pretorio, cui fu sollevato, piuttosto a si sfacciata profes-
sione d'autocrazia imperiale, a si impudente negazione
dell'esistenza d'un diritto privato nei rapporti colla so-
vranità, che non agli eminenti suoi meriti nel diritto pri-
valo, ossia in quella parte di giurisprudenza che deter-
mina ì rapporti dei sudditi fra loro.
Da chi si potrà rivocare in dubbio che Roma fosse una
vera monarchia, quando il diritto di appellare al popolo
dalla decisione dei magistrati, sotto di Augusto cambiossi
in una provocazione all'imperante ; quando il diritto di
grazia fu esercitato da questo ; quando la forza e le ma-
gistrature concentraronsi in modo nell'imperatore, che
Augusto come console aveva il potere esecutivo, come
tribuno la somma dei diritti popolari, come censore au-
torità sull'onore, sulla condizione e sulla dignità di ogni
cittadino, come augure e ponteGce la santità della reli-
gione, come imperatore il supremo comando delle forze
di terra e di mare? Come non credere che Augusto fosse
422 PABTB QUIRTÀ
monarca se avendo sparso ad arte la Yoce, per tentare
la pubblica opinione, e provocare una dimostrazione
che intimorisse i malevoli, che egli volesse deporre il
potere, il popolo lo cottringeva di forza a conservarlo^
minacciando di bruciare nel palazzo i senatori che fos^
sero d'avviso diverso? (Plutarco, in Augusto).
Quei Cesari, che ora eletti in Roma, ed ora nelle pro*^
vincie, talvolta fra i Barbari, creavano altri Cesari nella
famiglia propria od in altre, associandosi per Tordinarìo
all'impero dei generali d'esercito capaci forse di muovere
fazioni contrarie; quei Cesari, che ad arbitrio trasferivano
la sede della capitale, e dividevano Fimpero nell'oggetto
suddito e nel subbietto imperante ; quei Cesari, che co-
mandavano quarantacinque legioni nelVimpero, ed eser-
citavano da soli nelle provincie le autorità che una volta
vi esercitavano a tempo i proconsoli; quei Cesari, che
tenevano una guardia pretoriana di venti, di quaranta
e Gno di cinquanta mila uomini accampati nella stessa
Roma (1) ; quei Cesari, che gelosi della loro autorità sulle
(!) Le guardie pretoriane ebbero dapprima forma d'esercito, ma sostanza d*ua
immenso satellizio imperiale: dominavano, spaventavano Roma, non le IdiKioni
che, iinbarberile nelle guerre, poco curavano i pretoriani, che non si erano me-
scolati in sanguinosi conflitti coi nemici stranieri. Anzi le legioni odiavano nei
pretoriani la ricchezza, gii onori, gli agi, comparando la propria povertà, le
ferite, la disciplina severa. I pretoriani nominavano i Cesari in Roma : le legioni
prorompenti uccidevano Cesari e pretoriani se vaneggiavano la resistenza, come
l*opposero per Vitellio a Vespasiano. E quante guardie ducali e reali non somi-
gliarono in varii tempi a quei pretoriani!
Ma Settimio Severo ha variato nelFessenza la forza dellei milizie pretoriane.
D*allora in poi furono una guardia imperiale, come veduta Tabbiamo sotto
Napoleone I, e quasi com'è sotto Napoleone HI. Furono un esercito composto
degli elementi di tutte le leeoni ; continuò il privilegio, il favore, ma largito
alFesercito, usufruito dai migliori in Intte le schiere; erano i triarii di tutte le
legioni, i rappresentanti dell'orgoglio, ma anche della forxa; divennero nel*
Tesercito una riserva delfesercito : dominavano Roma, ma non tremavano delle
legioni ; nessuna legione aveva veduto in viso il nemico più dei pretoriani. E
quali uomini li comandavano? Sotto Settimio Severo furono comandati da Pa«
piniano, da Ulpiano, da Paolo! Vi fu mai tanta forza agli ordini di tanta ìuUHr
ligenza?
CAPITOLO II. IS3
troppe^ vietavano perBno ai senatori dì parlare di esse»
e di proporre vantaggi per loro, volendo che qualsivo-
glia misura di bene per Tesercilo non avesse giammai a
dipendere da altri fuorché dall'imperatore (1) ; quei Ce-
sari, che giungendo airimperio non prestavano nemmeno
il giuramento di conservare le leggi e gli ordini dello
Stato, e comandavano pel potere esecutivo delle armi, e
per la legislativa autorità collettizia delle magistrature ple-
bee e patrizie in loro soli riunite; quei Cesari, che facevano
in proprio nome editti, decreti e costituzioni, che sceglie-
vano gli individui che poi emanavano i senatus-consulti
aventi forza jubente ; quei Cesari, che talora scrivevano
in nome proprio dei senatus-consulti (vedi le lettere dì
Cicerone) non stati in Senato né ventilati, né proposti ;
quei Cesari, l'inviolabilità dei quali era protetta da leggi
orribili di confisca e di morte per qualunque fatto, detto
0 segno che potesse formar oggetto d'interpretazione equi-
voca, non erano forse i più assoluti monarchi? Essi riern*
pivano di loro soli lo Stato : questo, all'infuori di loro^
era come la terra della Genesi inani$ et vacua. Roma
sovente scompigliata e convulsa, ma sempre rigogliosa
di vita, sembrava divenuta materia inerte in mano dei
Cesari : sembrava che gli imperanti potessero applicarle
le leggi meccaniche del mondo materiale: era cessato il
circolo vitale di pensieri, d'animazione e di moto. Era la
monarchia di Ferdinando II di Napoli, che abbiamo
veduto ai di nostri, quand'egli converti l'esercito in un
immenso satellizio, distrusse ogni autorità di gerarchie
civili e militari, costituì se stesso centro di tutti i raggi,
perno di ogni moto, dispensatore di ogni grazia, arbitro
d'ogni pena, pose egualmente il piede sulle cervici di
(1) Vedi a tal proposito il fiero rabbuffo dato da Tiberio in senato a Giunio
Gallio (Tacito, lib. VI, e. 3).
424 PAITE QUI!«TA
luttit quei soli adulando di parola e favore che nel-
Testrema bassezza dovevano adorarlo per idolo, colla
spada difenderlo contro il paese, contro i proprii parenti,
contro i loro capitani medesimi !
1 senatori non erano ereditarii per diritto proprio o
gentilizio, siccome lo sono gli attuali Lord d'Inghilterra,
ed i Magnati d'Ungheria, i Pari di Portogallo, i Grandi
di Spagna ed i Titoli di Castiglia, ma erano private
persone, talvolta soldati e Barbari, come dic« Svetonio,
per uso e per abuso introdotti in quel supremo consiglio
dall'imperante. Essi avevano dunque il carattere di sem-
plici mandatarìi regii, quale lo hanno appunto gli attuali
senatori di Francia, che scelli dall'imperatore, da esso
ricevono un mandato a vita. I senatori erano, è vero,
manda tarii irrequieti spesso, perchè perpetui, giudici del
mandalo proprio, e vogliosi di convertire l'allribuzione
personale in privilegio famigliare, e la forza locala sui
sudditi in forza propria sullo Stato. Cosi era in Boma,
e cosi fu dei senati in ogni paese d'Europa negli scorsi
secoli. Ma erano mandalarii deboli, perchè senza soldati:
toglievansi d'ufficio ora per uccisione, ora per radiazione,
ora per destituzione o relegazione alle magistrature lungi
da Roma; Non avevano i senatori diritto di interina-
tura (1), mancavano anche di un corpo di civiche milizie,
il) Nella storia di quasi tutti i paesi, s<>giiatamente nel medio évo, Vinteri^
natura^ ossia la registrazione delie leggi, ed il rivestimento delie forme per
Fattivazione di esse, t'oimò argomento d'etente discussioni e contrasti. I senati,
od altre autorità, corpi giudiziarii o politici, cui spettava Vinterinare^ avevano
diritto 0 dovere di ciò eseguire ? L'interinazinne era una mera formalità ester-
na, od imprimeva il vero carattere di legge? Llnlcrinarc era un approvare, ed
il non interinare era opporre un veto? E questo veto era giurìdico, od atto ar-
bitrario ed abusivo 1 L'interinante, con altre parole, era partecipe della sovra-
nità, anzi la racchiudevajtutta potenzialmente in sé, od era un semplice fan-
zionario? Se rinterinare era un diritto, come non ammettere rinamovìbilità
deirìnterìnante, e come non ricusare al principe la facoltà di tórre d'ufficio
chi non volesse interinare, e di delegare altri che intcriuasse, e spedisse ?
C1P1T0I0 u. 42S
che almeno nell'opinione d'alcuni potesse, contrapporsi
alle tante legioni di Cesare (1). Erano deboli i senatori,
ed essi sapevanlo, e piuttosto che domandare a' nuovi
imperatori il giuramento, e di prescrivere loro le condi-
zioni, vediamo negli storici, che d'ordinario limitavansi a
chiedere a Cesare la promessa di non uccidere verun se*
Datore senza averne almeno conosciuto prima le colpe
con forme regolari di processo: erano poi essi stessi
stromento a tirannia, ossia corpo di giudici sempre
pronto a condannare chiunque di cui l'imperante volesse
la morte. Nei rapporti esterni poi ogni Cesare poteva dire
con Seneca (De Clementia, lib. I] : qua$ nationen fwìr
dittis ex9cindij gua$ tramportarif quibm libertatem darh
qnibui eripi^ qv^$ reges mancipia fieri, quorumque cor
piti reginm decus circumdare oporteatt quo ruanl
urbe$, qtnB orianlur, mea jurisdictio e$t. !Eppure vi
Di simili questioni politiche il medio evo, ed anche i secoli più vicini, ne hanno
veduto ili Italia e fuori, e ne soffersero deplorabili conseguenze. Non le decideva
uno statuto, perchè nemmeno esistevano fondamentali costituzioni scrìtte: le
decideva dunque la forza, ossia la guerra, il carneGce. Ma la vittima non era
sempre la stessa, perchè la forza non trovavasi sempre nella medesima persona
tisica 0 morale. , ' ,
(i ) Nelle forme costituzionali d'oggidì, colle quali molti credono d'aver sciolto
il problema eterno della governativa perfettibilità mediante un sistema di forze
giurìdiche e malerìali che si contrappongano e si controllino,, si pregiano le
numerose colonne delle guardie namnaU, Queste però sono, piuttosto milizie
cittadine, che non guardie nazionali, perchè se bene o male si organizzano nelle
città, sogliono avere nelle campagne un'esistenza meramente nominale. In qua-
lunque caso tali milizie sono d'aggravio al paese cosi per spese effettive, come
pel lucro de6ciente di migliaja e niigUaja di giornate sottratte al lavoro, e sono
poi sempre imperfettissime nell'esercitazione dei militi, e nella scelta ed espe-
rienza dei capi. Quest'è, a parer nostro, la vertigine intellettuale delfetà presente,
che mentre mantiene in ciascuno dei grandi Stati eserciti stanziali più grossi
che non ne nutrisse all'epoca cesariana il mondo romano, crede di paralizzarne
alFuopo la tremenda energia con tali simulacri d'apparato militare.. Alcuna forza
di controllo al potere esecutivo vi è, ma trovasi non nelle guardie nazionali,
bensì nella civiltà diffusa, nella concorrenza generale europea, nella stessa
forma coscrizionale che dà agli eserciti, se non di tutti, di molti Stati,' il carat->
tere di legioni nazionali. . ..»« l/.Z «
4Ì6 PIKTK «OINTi
hanno scrittori e Vhanno legisti che ci rappresentano il
Senato siccome il vero Consiglio imperante nello Stato 1
Lucano invece a ragione scriveva: libertas obit, nec
frons e$t uUaSenatus (lib. IX), e Tadto anch*egli, testi*
monio dei fatti, rendeva giudizio ancor più grave del
vero : credeva cancellato perfino il nome del Senato e
del popolo. Oliando le legioni germaniche rifiutavano il
giuramento a Galbat e tuttora ondeggiando se avessero a
proclamare Vitellio, susurravano di legittimità, di Seg-
nato e di popolo, Tacito ne parla come di cessate vie-
tezze : ne re^ereniiam imperii ewuere vidirentWf Sena^
tu$ populique romani obliterata jam nomina sacramento
advocabant (Storie, lib. I, cap. b&).
Realmente il Senato, come suprema magistraturat
sembrava dominare nell'interregno: il popolo però, e
le legioni presentavano il successorci lo facevano cono-
scere col terrore delle armi, e Tautorità del Senato era
nulla pel fatto stesso, che non ne poteva usare per iscio*
gliere neirinterregno le coorti pretoriane.
La morte di Caligola infatti era stata per varii risenti-
menti e nuove speranze lieta al Senato: tentò di ripro-
durre la forma repubblicana; diede autorità ai consoli,
onore e gradi al percussore. E questi arringava i sol-
dati perchè più non eleggessero alcun imperatore; ma i
soldati erano sdegnosi al Senato, adirosi della scarsità
del medesimo, avidi delle larghezze del principe, orgo-
gliosi e sfrenati per molta seguenza di fatti impuniti, ed
anche il popolo era meno adiroso alle nequizie parziali
del signoreggio caduto , che non paventoso del ritorno
dell'arroganza patrizia* Quindi le truppe ed il popolo for«
zarono il Senato a riconoscere Claudio, che fece subito
uccidere Cherea, e per introdurre nuovi voti in Senato
estranei alle influenze patrizie di Romai e d'esclusiva
GAmoLO n. iV/
dipendenza imperiale, accordò ai Galli, ed altri popoli
già dichiarati Romani, l'unico diritto politico che non
ancora fosse stato concesso ai medesimi^ quello cioè
dell'eleggibilità anche ai seggi senatori!. Giuseppe Ebreo,
contemporaneo e buon politico, e bene inizialo nelle
cause delle vicende dei -regni, racconta l'assunzione di
Claudio nel XIX delle Antichità giudaiche, e riflette:
Conoscono gli imperatori la depressione dei patrizii^
li vedono soffrire; ben sanno ciò che malignano, e ne
sentono gaudio al cuore. -^ Divise erano^ dice altrove, le
sentenze del pòpolo e del Senato. Desiderava il Senato
l'antica potenza; ma il popolo aveva in odio il Senato^
rifuggiva dalle ingiustizie di quello, e voleva Vappog^
gio di un imperatore. In qualche altro caso il Senato
fece l'ultimo atto di chi è vinto, ma non vuol confessarsi
perduto, tenta di salvare almeno le apparenze, e spera
nella possibilità di resistenza futura : accettò la violenza»
ma volle sanzionarla: approvò solennemente i fatti, e
confermò le elezioni: era una tacita riserva di non ap^
provare e di non confermare quando potesse resistere,
ma ormai le decimazioni micidiali dei senatori eletti dai
Cesari in ogni provincia e nazione, toglievano al Senato
e forza e prestigio di corpo politico, riducendolo alle
condizioni di Consiglio consultivo di Stato.
Il trionfo non era piò il premio del merito di un capi--
tano: talvolta il sovrano negava la guerra, e concedeva il
trionfo ; talvolta voleva gli onori per sé, e com:e rappre-
sentante l'esercito, senza avere mostrato il viso al nemico,
ma regnato in Roma fra laidezze e misfatti, trionfava
egli stesso di date o tocche sconfitte. Piò non abbisogna*
vano né comizii, né tribuni, né consoli: quindi le forme
della repubblica, che, senz'essere dardi, erano però spine
nel corpo della monarchia, levaronsi, anzi cessarono
428 Pi&TK QUiniA
prima che se ne statuisse TaboIizioDe. E del pari Tenne
meno la potente eloquenza del fóro, che omai riducevasi
ad una semplice piazza, e più non era Tarringo dei pub-
blicisti istigatori. Ma non si osò proclamare il principio
d'eredità, ossia l'ordine di successione famigliare, perchè
il deposilo temporaneo del potere era nelle volontà del
soldato, e non distruggeva del tutto le speranze del
Senato.
Sia dunque, o non sia stata promulgata una legge
regia, per la quale, non altrimenti che nella Francia al
principio del secolo nostro, la forma di governo da re-
pubblicana in monarchica si convertisse, trasferendo
consensualmente il popolo ed il Senato l'autorità sovrana
nell'imperatore, certo però si è, che una forza regia si
formò, che incominciarono ad esservi in Roma dei mo-
narchi onnipotenti, e che perOno le apparenze della re-
pubblica gradatamente scomparvero.
Forse quella legge in un momento di terrore realmente
si emanò, perchè chi tiene il potere bene spesso pretende
averne anche la sanzione, ed ha il piacere superbo di
tutti forzare a dichiararlo legale ; ma è anche probabile
che i compilatori del Diritto Giustinianeo, i quali aperta-
mente dicono essere quella legge stala promulgala, senza
però riferirla, o citare almeno la discrepanza delle opi-
nioni a quella legge relative, adulassero l'imperatore
col titolo di un'originaria e non prescritta legittimità di
comando.
ìiolto agitossi negli ultimi secoli la controversia sulla
verità o sulla falsità della promulgazione della legge regia,
né tardò a comparire anche una marmorea tavola, che la
conteneva a perpetua memoria. Si affollarono molti ar-
cheologi intorno a questa, infìno a che li condussero ad
altri argomenti la tavola di Rosetta, e le meraviglie d'£r-
GAFITOLO n. 429
colano e Pompei, che scoperchiate dopo lunghissima
notte di secoli, trovaronsi conservate da quella stessa
causa che le aveva distrutte. Il Gravina, difensore della
marmorea tavola, si appoggia al voto peritale archeolo-
gico del Fabbretti e del Bianchini, i quali in difesa di
quella tavola n dichiararono pronti ad incontrare qua--
lunque pericolo (!). Ma fossevi o non fessevi la legge
regia, vi era certamente la forza regia, e nessuno al-
Tepoca dei Cesari avrebbe osato dire che la legge regia
non esisteva.
Nessun imperante esercitò maggiore autorità di quella
che godettero i romani Cesari, specialmente i primi. Lo
Stato era personificato in essi : non vi erano sudditi, ma
schiavi : spìacere a Cesare era morte inflitta da satelliti,
od ordinata alla vittima, come si fece lungo tempo in
Turchia, e si fa al Giappone, ma sempre certa, sia che si
incontrasse con audacia, sì subisse con fermezza, si fug-
gisse con codardìa. I romani Cesari fecero uso perfino
del potere giudiziario nelle controversie dei privati, avo-
candone la decisione a loro medesimi. Nelle monarchie
odierne (con eccezioni rarissime) il potere giudiziario è
totalmente demandato dal re ad appositi magistrati, ed
il re non giudica, e solo invigila perchè si giudichi a
tenore delle emanate disposizioni. Ma da cento passi del
romano diritto vediamo essersi esercitato dai Cesari il
diritto di sentenza nelle private controversie. Ed anche
quella pratica di autorizzare privati giuristi a risponderei
e di dar forza ai responsi loro, si era forse un modo
indiretto di avere ingerenza nel potere giudiziario (1).
(1) Giustiniano nel Corpui Juris non ha bastevolroente schiarito qual
fosse riifficio di questi giurìsconsulli, e quale l'efficacia dei loro responsi. Ma
nelle Islituiioni di Cajo, scoperte da Niebubr, si trova a tal proposito una in-
dicazione assai più precisa. Vi era un corpo, quasi peritale, di giuristi privi-
430 PAETE QUIIfTA
A giusto titolo noi abbiamo dunque asserito cbe erasi
stabilita in Roma nei primi tempi una vera anzi una
dispotica monarchia. Per ragioni poi d'eguale evidenza
abbiamo sempre appellato /7a/rmVi(o il governo di Roma
nei primi tempi, benché quello stato dal nome del pre*
side si soglia appellare regno. Ma i re di Roma non ave-
vano la forza» perchè non avevano esercito, ed il popolo
non godeva se non di una tenuissima parte dei diritti e
del possesso civile, che erano entrambi amplìssimi nei
patrizii. Il re era quindi debole, ed il popolo, suo natu-
rale confederato, era debole anch'esso.
Colla espulsione dei Tarquinii non si cambiò, come
molti credono, la forma del governo ; ma il popolo per-
dette l'unico suo appoggio contro la potenza senatoria.
Dice Tito Livio : Libertatis originem inde magù guia
annuum imperium cumulare factum est^ quam guod
diminutum $it quidquam ex regia potevate numerei.
Omnia jura, omnia insignia regum primi con$ule$ te^
nuere (1 ) . Le funzioni dei consoli corrispondevano a quelle
legtati, il voto unanime dei quali equivaleva ad evidenza di diritto. Qualora le
opinioni di questi giuristi privilegiati fossero discordi, era lecito al giudice rac-
costarsi a quel voto che più fondato gli sembrasse : responsa prudentum sunt
sententim $t opinione» eorum, quibue permiuum erat jura condere : qwtrum
omnium si in unum sententits amcurrant, id quod ita sentiunt, legis vicem
oblinet : si vero dissenliunt, judici licet quam velit tenientiam sequi : idque
rescripio divi Hadriani signi ficatur. In Pomponio poi (Fr. 2, D. 1, 2) ai legge
che dall'epoca di Augusto fino a quella di Adriano questo diritto di rispondere
veniva domandato e concesso siccome un beneficio ; ma Adriano , quum ab eo
viri prmiorii péterent, ui sibi liceret respondere, reseripsit eie : hoc non peti
sed prcesiare solere, et ideo deleclari se, si, qui fiduciam sui kaberet, populo
ad respondendum se prcepararet.
(1) Floro ed Eutropio espressero i medesimi concetti, ma sema feliri allu-
sioni allo stato servile della plebe. Dice Floro : Consules appellavit prò regibus,
ut consulere se civibus'suis debere meminissent : ex perpetuo imperio annuum
placuil, ex singulari dupfex, ne potestas solitudine, vel mora eorrumperetur.
Ed Eutropio : Mine consules cmpere prò uno rege duo hac causa ereari, ut si
unus malus esse voluisset, alter eum habens poteslatem similem, eoerceret.
Etplacuit né imperium hngius quam annuum haberent, ne per dUaumitatem
GAPtroio n. idi
dei re, ma i re averano maggior interesse per la sorte del
popolo, migliorandola quale potevano sperare di togliersi
essi medesimi alla prepotenza del Senato. I consoli invece
avevano interessi senatori). Furono i patrizii che uccisero
ì re di Roma, e poscia narrarono che il fulmine li awva
consunti, 0 che erano ialiti in cielo : furono i patrizii
che li cacciarono dalla città, che impressero il carattere
aristocratico a tutta la legislazione interna, l'estesero
all'ordinamento municipale e coloniale romano, e per
quanto era possibile lo trasfusero anche nei rapporti coi
dipendenti governi, cogli alleali di Roma, coi principi
stranieri (1) : furono i patrizii che si opposero al loro
ritorno, ed indussero con scaltri doni la plebe ad
armarsi : bona diripienda plebi sunt data, ut contacta
regia pmda, spem in perpetiium cum his pacis amit^
teret (T. L.).
potestatU insolentiores redderentur^ sed civil&s semper essent, qui se post
minum seirsnt fiiiuros use privata».
Non dico d'Aurelio Vittore, perchè non pare che ne' suoi terìtti si contenga
una sola perspicace osservazione né su di questo, né su d'altro oggetto.
(1) Non conosciamo altro esempio che da un paese di sode istituzioni patrizie
sia derivala, per altro paese soggetto, una forma di reggimento di natura aifìitto
contraria, che quello d'Inghilterra, ove sorse e si lungamente durò il sistema
di governo della Compagnia delle Indie Orientali. Quei governo però scalori
dalle tendenze commerciali, ed in origine non mirò che appagare queste sole,
richiamando i capitali da qualsivoglia mano, ed accordando la rappresentanza
ad ogni membro deiriotrapresa. Cosi nella Corte generale dei Proprielarii, in
cui risiedeva non Tesercizio, ma l'essenza della sovranità, non v*era distinzione
di cittadinanza: un inglese, un francese, un tedesco, qualunque straniero era
egualmente eleggibile. Nemmeno vi era differenza di religione;' il cristiano,
Tebreo, il turco, il pagano, i seguaci di ogni credenza erano ammissibili di
parità! cosi l'uomo come la donna avevano libero esercizio di parola e di voto
nell'assemblea: il soldato, il navigante, il negoziante, l'agricoltore avevano gli
stessi diritti ; l'unica differenza stava nel numero dei voti, potendo la mede-
sima persona averne un solo, ed anche quattro, secondo la quantità delle azioni
possedute. Se i ricchi principi delle Indie, invece di insinuare reclami, avessero
acquistato azioni, o sarebbe stata variata assai prima l'organizzazione della
Corte dei Proprietarii, o quei prìncipi avrebbero esercitato reale influenza nel
governo del loro proprio paese.
432 PARTE QUINTA
Giunìo Bruto non fu quindi fondatore di repubblica,
ma confermatore di patriziato. Marco Bruto volle imi-
tarlo, ma i tempi erano diversi. Il primo dei Bruti cacciò
un re senza forza, e confermò la servitù di una plebe
miserabile: il secondo dei Bruti volle cacciare dei re cir-
condati da cinquanta legioni, e ridurre all'antica servitù
un popolo polente, che aveva già conquistato Tegua-
glianza civile, e pariGcato i patrizii a se medesimo in
fatto ed in diritto. Eppure questi Bruti, Gerì difensori
d'aristocratica signorìa, ci vengono mille volte rappresen-
tati dai retori e dai poeti siccome gli eroi delle demo-
cratiche virtù, e Vittorio ÀlGeri con frasi di liberalismo
purissimo, ma imperito, dedicava il suo Bruto Primo a
Washington, ed il suo Bruto Secondo a\ popolo italiano
futuro, ossia a noi, che saggi del medio evo, ed esperti
dei più moderni signoraggi monarcati e nobili, siamo, si
teneri dei reggimenti patrizii ! (1)
(I) Abbiamo sovente cercato con desiderio e da principio con fiducia di ritro-
varle, nelle tragedie di Vittorio Alfieri, idee vivaci e profonde sulla politica greca
e romana. La nostra aspettazione fu sempre delusa : nessuno comprese le scienxe
di Stato meno di lui : nelle sue tragedie non parla da politico pensatore, ma
grida all'assassinio, quasi la tirannide, se tirannide vi è, non si trovasse npgli
ordini dello Stato, che non si sciolgono coU'assassinio di qualche re, e meno
poi colle tragedie omicide di tutti i re. Degli assassinii dei re, che tanti ne av-
vennero, qual mai ha cambiato la forma di governo, qual mai non ebbe per
unica conseguenza il supplizio del precussore? Quelle tragedie poste neireculeo
greco deiruiiità di tempo, di luogo e di carattere, e nello strettojo Oraziano,
che vuol cinque alti precisamente, hanno spesso assai merito dal lato delle
lettere, non ne hanno alcuno dal lato politico.
Ma né dal lato letterario, né dal politico è commendabile Taltra opera d* Alfieri
intitolata // Principe, Nel Principe di Machiavelli, se non troviamo norme am-
ministrative di Stato, se non vi sono né norme civili, né finanziarie, se bisogna
cercare le militari in altre opere delPautore stesso, vi è almeno una foga po-
tente di massime che fanno fremere : nel Principe d'Alfieri invece vi è latte
per arsenico ed una maglia di frasche contro il pugnale acuminatissimo. Infatti
il Principe d'Alfieri comincia con dei versi, e finisce con dei versi. Sono i versi
deiresordio un sonetto, che egli scrive fra il coro delle vergini sorelle, alle
quali il filosofo viene a voi con hli snelle, e queste sorelle dicono, che quel
volare ha da farlo bello assai, e che per quel volare un rio volgar parer fia
CAPITOLO II. 433
Quando però il Senato cacciò ì Tarquinii, non sotto-
pose la ragione al talento, e non fu precoce neirimpeto,
che seaneelle. Quel rio parer volgare si è che il mondo dà alle sorelle ver-
gini per padre Giove, mentre non importa saper del padre delle sorelle vergini :
bensì importa saper della madre, the figlia da sé per Tauro pure, e questa madre
è libertade.
Le figlie vergini hanno poi dettato all'Alfieri le prose della politica arcadica.
Sono queste: e che il principe ha per nemico Funi versale (ossia il campo suo);
che non ha parenti, e non ha amici; che odia le lettere, perchè le lettere hanno
un fine, ed il principe un altro fine ; che i letterati non debbono lasciarsi pro-
teggere dal principe, ma piuttosto sproteggere: che se non hanno pane, prima
facciano il fiibbro o il falegname finché sono divenuti ricchi, per poi potere col
mezzo dell'indipendenza scrivere liberamente. E di ciò li scongiura per quel
sommo utile che faranno a se medesimi col torno e colla sega, preparando quelle
ricchezze, che hanno poi da fare la purissima gloria degli scritti loro, e da semi*
gliarli niente meno che a Dio. Riuscirebbe conquistatore di tutto il mondo un
popolo di letterati non contaminato dai re •. Però gli Spartani senza muse bat-
terono gli Ateniesi con tutte le muse, e li batterono i Macedoni, e li batterono
i Romani, che muse non avevano; poi quando le ebbero essi, furono battuti
tutti da chi non le aveva. Anche Luigi XIV pare airAlfieri stesso che combat-
tesse meglio cogli eserciti, che non colle accademie : e ma appunto perchè egli
era contaminatore di letterati. Alla fine un letterato vai tutt*altra cosa che non un
re, e più che tutti t re, perchè i re sono i re del corpo, ed i letterati sono i re
deiranima, ch'è tutfaltra cosa che non il corpo. E poi i re sono i re del presente,
e i letterati sono i re del futuro e del passato ; e i re comandano in casa loro,
e i letterati comandano in tutto il mondo. Né un re può mai essere un letterato,
perchè se re fosse, getterebbe subito la corona, che è leggerissima cosa a fronte
deiralloro Apollineo , che è cosa gravissima ecc. •. Alfieri ha poi finito con
altri versi, dicendo, che se è stato ignaro in qualche cosa, gli amici gli perdo-
neranno.
Ripetiamo : molto aspettavamo da Alfieri, ma nessuna sodezza di politiche
dottrine trovammo, e ne fummo penosamente sorpresi. Infatti quando Alfieri
scriveva, tutta Europa era in fiamme: schiantavansi le legislazioni feudali ed
ecclesiastiche; un nuovo sistema civile, ed ordini nuovi fondavansi; rovescia-
vansi le elassi prepotenti per tanti secoli ; agguagliavansi le classi servienti per
tanti secoli; i sistemi civili, militari, finanziarli dal sommo all'imo rifondevansi ;
tutta Europa era in moto, ed il moto si eradi spada e di legislazione. E nell'uni-
versale commovimento se Alfieri sulla giusta via delle scienze pubbliche non
hioltravasi, bene è a dirsi che il fiele traboccava, ma fondamento non vi era,
perchè un grande scrittore di scienze pubbliche si formasse.
Eppure in. fronte alle tragedie ed al Principe, presentandoli al pubblico stam-
pavano i letterati scolastici : non voler essi scemare il pregio degli altri scrittori
italiani ; ma Alfieri essersi alzato sugli altri come una quercia annosa sugli
arboscelli (questo è un sale epigrammatico, che passa in eredità forzosa da
letterato in letterato son già mille anni); i pensieri di Alfieri sono sì profondi,
il suo stile sì forte, il suo gusto sì depurato, che Tacito ed Euripide g)ì direbbero
volentieri: Siedi in mezzo a noi (questo è sale moderno).
28
434 PiìlTB QUINTA
ma condotto dalla necessità. Esso più non poteva ingan-
narsi che era ormai tempo che il colpo scoccasse ; gii
era pronto a trascorrere in debolezza, ed a rimanerne
inferiore e vituperato : infatti il pericolo era per luì già
divenuto stringente. La dignità reale da elettiva si era già
mutata, almeno abusivamente, in forma successoria^
passaggio che Tistoriadi tutte le monarchie, meno quella
di Koma imperiale, ove fu sempre tolta o donata dall'eser*
cito, ci dimostra essersi verificato in ogni monarchia, dap-
prima col ricadere continuo delVelezione in una stessa
famiglia, e quindi con atto solenne, che rende pel futuro
ereditaria la corona in una lìnea determinata. Cosi fu
prima degli Jagelloni, e quindi degli Augusti in Polonia;
cosi fu degli Grange nell'Olanda ; cosi fu dei monarchi au*
striaci nellìmpero germanico, e probabilmente sarebbe
stato in Inghilterra se ad Oliviero Cromwell, che usurpò
il potere, lo conservò, lo trasmise, non succedeva Tinetlo
Riccardo, che se lo lasciò cadere di mano quando non era
ancora ben fermo. Anzi, per assicurare la scelta del succes-
sore nello Stato elettivo fin quando sì converta in succes-
sorio, il principe, investito della sovranità per la sola sua
vita, suole presentare egli medesimo agli elettori il figlio o
prossimo parente suo, e ne ottiene i voti, e se lo associa
nominalmente alPimpero, onde nel caso di sua morte già
esista l'eletto imperante, né si corra il rischio che nell'in-
tervallo alcuno s'attenti a novità. Tanto si è grande l'in-
fluenza del potere esecutivo! Tarquinio il Superbo si era già
cinto d'un corpo di guardie, ed aveva fabbricato il Campi-
doglio, ossia una fortezza a dominazione della città. E
Millotla chiamava una chimera destinata a divertire il
popolo, ed a dimostrare il rispetto del re per gli auguri
e per la religione^ ed ha poi chiuso quel capitolo lo*
dando se stesso per aver narrato soltanto cose utili e
CAPITOLO II. - 435
filosofiche I CcBdibus regis, come dice Livio, il numero
dei senatori era già ridotto a metà: dei beni degli uccisi
si gratificava sovente il popolo per captarne il favore :
nuovi senatori non venivano eletti : il re convocava rara-
mente il Senato, e la politica di Tarquinio, di confermare
cioè l'autorità regia coll'uccisione degli ottimati , si era
svelata pel consiglio dato dal re a suo figlio chiedente
istruzione pel governo di Gabio, che si mozzasse d'attorno
gli alti papaveri.
Queste cagioni, e non la morte di Lucrezia, pro-
dussero la caduta dei Tarquinii, ed avrebbero in breve
stabilito l'eguaglianza monarchica in Roma, se i patrizi!
fossero stati più lenti nelPinsorgere, o meno forti nella
pugna, né dopo la vittoria avessero a tutti i partigiani
dei profughi incusso spavento di vendetta implacabile
coU'esempio di Bruto, che i proprii suoi figli fautori dei
Tarquinii volle tronchi del capo. Il fatto di Lucrezia, sia
poi favola 0 verità, provi o non provi della sua virtù, il
che ci sembra dubbioso (1), poteva dar origine ad una
vendetta, od anche all'assassinio del principe, ma non
produrre la rivoluzione dello Stato ; né sappiamo come
Montesquieu aggiunga, che Sesto nel violare Lucrezia
•fece cosa, la quale quasi sempre ha fatto cacciare i ti--
(1) Alessandro Verri nelle sue Notti romane narra di Lucrezia, ma in questo
caso usò con perspicacia la critica. Non gli scorse, come nella comune dei retori,
per le fibre il ribreito della dolce pielà, non ripetè eoi medesimi che alla ce*
lebrala consorte di Collatino furono dalla reale dissolutezza contaminate le
sole membra, nelle quali lo spirilo pudico sdegnò poscia di abitare siccome
profanate, né che due donnCy Lucrezia e Virginia, furono col loro morire
due volte cagione della romana libertà. Notò che Lucrezia non era in deserta
solitudine in cui risuonassero vanamente le sue querele, ma in coniugale abi-
tazione di servi e congiunti piena, dove non era costretta recarsi alle voglie
del drudo, né cedere all'ebbrezza delle ignominiose delizie: conchiuse a debo-
lezza di superata virtù. Poco ci importa del fatto, ma in ogni racconto di
storia, qualunque pur sia, non vorremmo trovare giammai più meraviglia che
probabilità.
436 PARTE QUINTA
ranni dalle città ove comandavano, perchè il popolo
all'udire nn fatto $imile prende tosto una risoluzione
estrema. Anche Bossuet nel suo Discorso sulla storia
universale ha dato su ciò assai leggiero giudizio. Egli
dice che Tarquinio il Superbo aveva reso odiala l'auto-
rità reale per le sue violenze, e cheTimpudìcizia di Sesto
suo Gglio lo rovesciò. Il sangue di Lucrezia « continua
Bossuet, ed i discorsi di Bruto animarono i Romani a
vendicarsi in libertà. Machiavelli invece, per meditazione
ed uso si esperto nelle politiche cose, e per continua le-
zione nelle romane sì dotto, cosi scrive nel lìb. Ili, e. 5
dei Discorsi: Se r accidente di Lucrezia non fosse venuto,
come prima ne fosse nato un altro, avrebbe avuto il
medesimo effetto.
Cacciati, e poi respinti in battaglia i Tarquinii, che
avevano voluto ridurre nelle obbedienze civili i Romani
coirartificio e colia violenza, vendicata la congiura ordita
dai loro parenti in Roma con una crudeltà che dimostra
quanto se ne avesse avuto spavento, rotti i loro alleati
stranieri, esiliato perfino Tinnocente loro parente Colla-
tino (il marito di Lucrezia), e confiscati i loro beni, il
popolo provò di quanto si fosse aggravata la sua sorte
perla caduta dei re: plebi, cui ad eam diem summa ope
inservitum erat, injurim a primoribus fieri capere (Liv.)
— Regibus exactis, servili imperio patres plebem exer-
cere; de vita atque tergo consulere, agro pellere, et
emteris expertibus soli in imperio agere (Sàllust. in
fragm.)>
PARTE SESTA
L'INDEBOUHENTO E LA CADUTA DI ROMA.
CAPITOLO l
Decadenza ecratmiea deirimpero R«maoo.
Il problema delle cause del graduato impoverimento
di Roma occupò le menti di grandi scrittori. Alcuni
ne trattarono sotto Taspetto promiscuo d'economia e di
politica, essendo molta l'influenza della forza ad acqui-
stare ricchezza^ e quella della ricchezza a preparare ed
aumentare la forza, e nel pelago delle opinioni e dei
sistemi prodotti non mancarono gli glorici moralisti di
rammentare Tadagio mah parta^ male dilabuntur. Ci
sembra però che dallo slesso fatto deiruniversalità deirim-
pero nascesse danno e languore; ci sembra cioè che non
a vizio deiruomo, a folsilà di sistemi, a rovinosi com-
merci, a lusso smodato, ad operale confische, a schia-
vitù dilatata, ad eccidii crudeli, ad avara finanza, ad in-
sipiente governo, si debba ascrivere la sparita ricchezza
e la sopravvenuta miseria, ma al fallo medesimo che
aveva ridotto il mondo di molli nella dominazione di
un solo. Tutte quelle cause che sono le esposte dagli
scrittori piò celebri, possono avere contribuito a rovina»
ed alcuna certamente laccelerò e Tacerebbe; ma non da
una soltanto, e nemmeno dalTazione concorde di esse
derivò rimpoverimenlo deiropulenlissimaRomai bensì da
quella causa primariai che genti e fortune aveva assorto
in un vortice.
440 PilTB SESTA
I Romani soli signori del mondo non furono cosi ai-
tivi come stati lo erano i Fenici!, i Greci, i Siracusani, i
Cartaginesi comproprìetarìi del mondo ; non furono si
numerosi i vascelli, si coltivate le terre, le miniere cer-
cate, ingegnose le industrie ; non furono egualmente po-
polose le spiagge, fiorenti le città, pronte le commuta-
zioni, sveglie le menti. Come meglio Tagricoltore coltiva
il fondo proprio che non la terra altrui ; come le posses-
sioni piccole sono più ubertose delle grandi ; come T'ha
maggiore alacrità nelle opere, maggiore avvedutezza nd
divisamenti, maggiore interesse ed energia nel signore pre-
sente che non nel lontano, maggior fervore nel padrone
che non nel condotto a stipendio, oppure nello schiavo;
come è più grande l'alacrità nella città che nel villaggio,
e nel villaggio che non nella campagna, cosi il mondo
tutto convertito in un mondo romano, il mondo divenuto
la campagna di Roma, tanti Stati indipendenti, tante
città capitali divenute dipendenti e borgate, il comniercio
di tutti divenuto commercio di un solo, il lusso di mille
convertito nel lusso di un solo, produssero effetto di
sterilità e torpore. Scemarono le derrate, scemarono le
arti, scemò il commercio : diminuì la ricchezza, diminui-
rono i mezzi di sussistenza, il popolo mancò. L'industria
arenavasi dappertutto : doveva ben essere distrutta l'in-
dustria; anche i popoli erano distrutti. Più non re-
gnava sulle terre l'operosità, o sul Mediterraneo quel
commercio che copriva il mare di vascelli, e dissemi-
nava le terre di città allorquando ogni provincia colti-
vavasi per se medesima, commerciava ad utile esclusivo
di se stessa, aveva il proprio centro di consumazione, di
amministrazione e d'impulso.
Per lunga pezza Roma divenne sempre più popolosa
e superba, ma le provincie divenivano ogni giorno de*
CAPITOLO I. 441
serte e squallide. I lidi della Campania si convertivano
in giardini, il mondo si ricopriva di misere lande. Roma
era gigante ; ma Tunica Roma non equivaleva a Tiro,
a Cartagine, a Siracusa, ad Agrigento, ad Atene, ad Efeso,
a Corinto, a Rodi, a cento gloriose città (1).
Tutte le Provincie mandavano le loro derrate a Roma
regina, ma non era se non il commercio della campagna
colla città : era il semplice fatto dei servi, che locano vo*
lontana o forzata l'opera loro per avere la sussistenza,
e dei ricchi che consumano nel lusso il frutto delle fati-
che dei sempre laboriosi e sempre poveri coloni. Le Pro-
vincie popolose di schiavi che coltivavano sovente in ca-
tene le proprietà fondiarie dei Romani, che di molte non
avranno nemmeno conosciuto l'ubicazione precisa, le
condizioni agrarie, lo stato dei casolari, i bisogni, i me-
todi d'amministrazione, dovevano cadere in languidezza,
squallore e miseria. A molte provincie mancavano i pro-
duttori: in molte più mancavano i consumatori. La pro-
vincia che poteva spedire le sue derrate a Cartagine, o
ad Atene, o a Sardì, era troppo discosta da Roma: le Pro-
vincie a gran distanza da Roma e dai mari si mutavano
in solitudini.. L'India sola manteneva con Roma assai
vivo commercio, ma non già permutando derrate, bensì
vendendo contro denaro le proprie: i succhi vitali e nu-
tritivi delle provincievenivano assorbiti da Roma; Plinio
ne lasciò memorabile testimonianza.
Poiché la disfrenata possanza di Roma aveva preso
tanto di spazio sulla terra, appena vi giungeva la voce
(f ) Si kgge sovente che nel censo ordinato da Angusto si trovò la rìsultansa
di oltre quattro milioni di Romani, e nel cepso Claudiano di sette : da ciò le
meraviglie ed i commenti più strani. Quelle cifre però non devono riflettere, a
nostro avviso, gli abitalori di Roma, bensì il numero di coloro che godevano
in quel tempo dei diritti di cittadinanza romana.
44Ì PiBTE SESTA
delle sospirose provìncie, ogni senso spegnerasi d'inte-
resse per esse, e generose provvidenze nonne ravvivavano
la tramortita virtù: quindi crollavano le città una volta
florentissime , era trascurata Tagricoltura, impoverito
l'erario. Tutte le provincie, tutte le città avevano sofferto
la conquista, il saccheggio, l'avvilimento: qual forza
poteva sollevare le provincie serve, riparare le città ro-
vinate, elettrizzare il popolo languente e schiavo? Forse
l'impulso governativo? E poteva venire impulso vigo-
roso, adequato al bisogno, da remotissimo centro in
tempo di comunicazioni cosi lente che quando Ovidio
si trovava a Tomi nella Mesia inferiore non poteva,
com'egli stesso ci dice, ricevere una risposta da Roma
in meno di un anno, laddove noi le riceviamo adesso
da quel paese in pochi giorni, senza tener conto del-
ristanlaneità delle attuali corrispondenze telegrafiche?
Le difficoltà erano poi moltiplicate per le ribellioni fre-
quenti, le variazioni incessanti di principi, e le conse-
guenti mutazioni dei loro aderenti al governo in Roma
e nelle provincie. Nessuno pensava in Roma ai bisogni
diLusitania odi Paflagoniasenon per trarne quanto mai
si potesse denaro e soldati. Nessun governatore avrebbe
osato chiedere all'imperante di inviare tesori in provincie
considerate come cose longinque, e di meno vantaggiosa
spettanza, per migliorarne le condizioni materiali o mo-
rali: molti avvezzi alla vita dei campi, e non esperti nel
reggimento civile, non ne avranno neppure studiato e co-
nosciuto i bisogni; altri avranno compilato, com'è ben
antico costume di chi amministra provincie, le loro rela-
zioni con opera d'accorta invenzione del falso, o di simu*
lazione del vero per modo che seguitassero agli inganni
le inopportune risposte, e gli ordinamenti cattivi, e le
doglianze popolari di gravissimi mali fossero acchetate di
CAPITOLO I. 443
sole promesse, poi esasperate per indugi, per casi di
guerre, per mutale persone, per oblivione di principi.
Anche oggidì se una vasta provincia d'Europa divisa
fra migliaja di liberi possidenti, ciascuno dei quali sor-
veglia, affatica e medita per migliorare il suo campo,
passasse repentinamente nel possesso signorile d'un solo,
conoscerebbe questi le sue terre, sentirebbe lo stimolo
a svolgere in esse Tubertà, la ricchezza? Latifundia per-
didere Italiam, dicono i classici, e noi amiamo dire lor
tifundiaperdidere imperium, cosi nel significato econo-
mico, come nel significato politico. L'agricoltore che
veglia sull'argine del fiume minacciante di rompere le
dighe e di coprire d'arena il suo campo, è ben più desto
nella vigilia, e più ingegnoso ed attivo lavoratore che non
il mercenario povero, il mercenario che ha un'anima
languida al pari del corpo. Di quanto adunque deve
avere scemato la ricchezza con un solo padrone ed uh
solo consumatore! L'infermità e l'estenuazione delle Pro-
vincie reagirono alfine sulla capitale: si esaurirono i te-
sori ammassati dalla violenza, la squallidezza incominciò
a manifestarsi anche in Roma, il lusso scemò, la moneta
impoverì, il popolo si diminuì, tutto il commercio, anche
l'indiano, illanguidì. Coi Barbari poi il commercio non
poteva divenire giammai molto vantaggioso ed attivo,
tanto più che varie merci fra le più ricercate dai Barbari
erano d'esportazione vietata, come vediamo nel digesto
qucB res exportari non debeant. La vendita p. e. del ferro
ai Barbari era proibita sotto pena di morte.
La depauperazione dell'impero fu dunque conseguenza
diretta, inevitabile dell'estinzione d'ogni vita speciale nel
campo sterminato, d'ogni politica autonomia, d'ogni con»
correnza, rappresentanza, studio e devozione ad interessi
locali*
444 PAETS SESTA
Di questa depauperazione, deirepoca in cui si mani-
festò e s'accrebbe, s'arrestò breve tempo per sorgere e
dilatarsi di nuovo, abbondano le prove testimoniali nei
classici, ed altresì i documenti nelle collezioni numisma-
tiche di tutta l'Europa. In esse vediamo che come la
monetazione dei Greci erasi migliorata dopo che i tesori
di Persepoli, di Siria, d'Egitto e di Media furono conqui-
stati dai Macedoni, cosi la monetazione romana era dive-
nuta ricca d'oro ed argento allorché dopo la presa di
Cartagine, e più ancora dopo l'acquisto di Grecia, del-
l'Asia Minore, della Siria, d'Egitto, di Creta, Roma rigur-
gitante di tesori inalzava l'infame delubro a Giove Pre-
datore I Nei primi tempi dell'impero la massa dei metalli
nobili accumulati a Roma fu enorme, ma presto scemò,
e la scarsezza del denaro incominciò a rendersi manife-
sta sotto gli Antonini. Il primo di questi, benché mode-
ratissimo nell'uso delle rendite pubbliche, benché suc-
cedesse ai regni brillanti di Trajano e di Adriano, aveva
dovuto vendere gl'imperiali ornamenti. Marco Aurelio
per due volte fu costretto di mettere all'incanto i vasi
d'oro, le gemme e le pitture del palazzo imperiale. Didio
Giuliano falsiGcò la moneta ; Caracalla mescolò coll'ar-
gento la metà di rame; Alessandro Severo, quel principe
economo, alienò il suo vasellame d'oro, ed alterò di due
terzi il valore della moneta ; sotto Massimo si fusero i
preziosi metalli, che si trovavano in tutti i templi ed in
tutti i luoghi pubblici ; sotto Filippo il denaro era di già
quasi del tutto adulterato, né restavano più se non le
monete degli Antonini, che fossero di argento; sotto di
Gallieno non si vedevano se non monete di rame coperte
di stagno, e non fu che di breve durata il miglioramento
della monetazione quando Aureliano conquistò i tesori
della superba Palmira. Erodiano, Vopisco, Aurelio Vit-
• CAPITOLO I. 445
tore narrano questi fatti, e le monete e medaglie raccolte
nei gabinetti, e le esperienze degli antìquarii ne fanno
fede (1).
(1) Avremmo voluto conoscere, e non risparmiammo fatica d*indagini, quale
si fosse Tannuo prodotto montanistico dei metalli nobili nel mondo romano, e
quanta la massa che ne richiamava nell'Asia Timporlazione delle merci in-
diane a Roma; mancano però le generali indicazioni nei classici, ed appena si
trovano elementi in Senofonte circa la produzione d'alcune miniere di Grecia
all'epoca sua. Parlasi sovente di abbondevoli miniere, segnatamente di Lusi-
tania e di Spagna, ma può dubitarsi della loro ricchezza se tutte furono ab-
bandonate, né del maggior numero più si conosce nemmeno Tubicazione precisa.
Ma è evidente che la produzione adequata delle miniere romane non era pari
alla perdita nel commercio indiano, e la depauperazione del fondo metallico
doveva forsi sempre maggiore in Europa, come realmente si fece fin quando
dalle miniere d'America si stabili una corrente continua di metalli nobili
che toccando l'Europa passava nell'Asta. Ma le massime montanisliche della
legislazione romana erano savie. Infatti da moltissimi luoghi del Digesto chia-
ramente si rileva che le miniere non erano riguardate regali, ma private pro-
prietà. E realmente le miniere non sono regali per essenza, non essendovi
rapporto di necessità fra la proprietà delle miniere ed il libero esercizio della
sovranità, che infatti pienamente si esercita anche negli Stati ove non esistono
miniere. Neppure è conveniente di dichiararle regali con disposizione positiva,
e solamente la rapacità e l'inscienza dei tempi feudali rese le miniere cosi fre-
quentemente regali, che molti scrittori le supposero tali indipendentemente da
prova, e diedero anche al nome di miniera una interpretazione soverchiamente
estensiva, ed abnorme da ogni sano principio di privata giurisprudenza. Egli è
quanto in minori proporzioni segui del diritto di caccia e di pesca. Ma sebbene
tutte le miniere, ed anche quelle dei metalli nobili fossero dai Romani ricono-
sciate di privata proprietà, il fisco esigeva uno speciale tributo da coloro che,
senza avere la proprietà del fondo, scoprivano e scavavano miniere. Era poi
generale l'obbligo di vendere al fisco a giusto prezzo i metalli d'oro e d'ar-
gento che si scavassero, e ciò si scorge nelle sette leggi de melallariis et
meiallis.
CAPITOLO II.
La decadenza politica dell'Impero romano.
La ricchezza delPImpero era sparila : al rigoglio dello
Slato succedeva il languore. Verificossi nel tempo antico
in Roma ciò che si vide a Venezia dopo la guerra di Can-
dìa. £ra stala un*epopea quella difesa di Candia che quasi
trent*anni durò : i Veneti, lasciati dal mondo cristiano
quasi soli nella lotta, avevano attestato che la costanza
ed il valore romano duravano nel fondo dell'Adriatico :
sfolgorarono flotte, ne soffersero di sfolgorate, ne appre-
starono di nuove a riscatto, tentarono il varco pei Dar-
danelli, insegnarono l'arte delle cupe gallerie a propul-
sare le insidie preparale per altri oscuri meandri contro
le città da terribile circondazione ristrette, e fecero dì
Candia la scena d'onore per tutta l'Europa cavalleresca.
Ma che prò ? Perchè cessero alfine, e segnando la pace
misero essi stessi Maometto nelle chiese cristiane, e vi-
dero lo stendardo della luna falcata dov'era dapprima
l'alato leone? Perchè dopo la guerra di Candia i Veneti
non più brillarono se non d'ardenze fugaci, e vissero di
vita spossata e precaria? Erano consumati: in quella
guerra avevano vuoto il tesoro, fusi gli argenti dei pri-
vati alla zecca, elemosinato i patriottici doni, venduto
ogni cosa all'incanto, ed il ritratto usato a combattere,
venduta perfino l'ammissione al patriziato sovrano, e non
CAPITOLO II. 447
ai soli Veneti od ai sudditi, ma agli stranieri, ai Greci,
agli Alemanni, ai Francesi, agli Spagnuoli ed Inglesi !
Venezia aveva sortito grandi uomini, e grandi cose fece,
quasi fin oltre i limiti delPumana natura: tutta le sue
famiglie patrizie avevano versato il più generoso loro
sangue alla Canea, a Rettimo, a Candia o sul mare. Ma
dopo che la ricchezza andò sommersa in tanta procella,
Venezia non fu più nobile con gloria, bensì debole senza
vergogna : venne in allora insultata, perchè le offese inse-
guono i deboli, fuggono i forti : il suo territorio neutrale
fu da contendenti stranieri percorso e calpesto: soffri,
ma non con mollezza di persona cedente, bensì con atto
di ripugnante e sdegnosa.
L*impoverimento di Roma non era derivato da causa
Si nobile come la guerra di Candia, e non da vie diverse
aperte pei traffichi, che trassero la grandezza di Venezia
al tramonto, ma dalla principale ragione indicata nel
precedente capitolo, che cospirando con altre d'influenza
meno efficacie durevole, diseccarono alfine le fonti della
floridezza romana. Consegui a quella decadenza econo-
mica anche la languidezza politica, malo stremarsi dei-
Toro non era tal causa da produrre da sola il precipizio
ed il crollo deirirrimenso impero. Roma infatti fu preda
non di nazioni ricche e civili, ma di nazioni povere e bar-
bariche ; non soggiacque alla preponderanza dei mezzi
di guerra raccolti da straniera opulenza. Quali furono
adunque le cause per cui l'immenso impero crollò? A
che si deve ascrivere se torme barbariche salirono a quel
Campidoglio, da cui avevano spiccato il volo le aquile
romano per non arrestarlo che all'estremità della terra?
I più grandi scrittori tentarono la soluzione dell'arduo
problema: primeggiano fra essi Gibbon e Montesquieu,
e si è negli scritti di questi che altri autori valenti, p. e.
448 PÀITE SESTA
Sìsmondi (i), desunsero la maggior parte delle idee che
esposero neirargomento medesimo.
Le cause della rovina dell'Impero romano vengono in
generale riposte nel lusso smoderato, neireffeminatezzai
neiremancipazione accordata alle provincia, nelPinsu-
bordinazione delle coorti pretoriane e delle legioni, nella
vastità soverchia dello Stato, nelle confederazioni dei Bar-
bari, nell'ingaggio dei mercenarii, nelle venalità delle
cariche, nella prodigalità dei principi, nel commercio
rovinoso colle nazioni asiatiche, nella perdita fatta dai
Cesari della supremazia xeligiosa dopo la diffusione del
cristianesimo, ecc. L'attribuire però il crollo di Roma al-
l'azione complessiva di queste cause non è uno sciogliere
potenzialmente, ma solo materialmente il quesito. Tali
cause non sono indipendenti e primarie, ma effetti di una
causa veramente fondamentale, e questa è riposta nella
natura del governo di Roma, che reggendosi esclusiva-
mente ad arbitrio dei Cesari, per Tinettitudine di costoro
crollò.
Ài tempo della repubblica il Senato conservava inal-
terate le massime della romana politica. Allora un'età
disponeva un avvenimento, che l'età futura eseguiva :
allora i Romani edificavano nei secoli, e non negli anni.
Non si intraprendevano senza la forza di necessità impe-
riosa guerre simultanee, ma soltanto guerre successive :
non era un forsennato invadere il mondo tutto, ma un
far proprio tutto il mondo a palmo a palmo : era un
(1) Il volume di Sìsmondi ia cui espone le cause della caduta deirimpero
romano, molte desumendone da Gibbon e da Montesquieu, ed alcune aggiun-
gendone di proprie, dimostra ingegno felice e somma erudizione; ma che avrebbe
a dirsi di lui quando chiude la voluminosa sua storia delle repubbliche italiane
del medio evo indicando come causa delU loro caduta Teducazione viziosa data
alia gioventù nei semìnarii ecclesiastici? Se si ride del topolino d*Orazio parto-
rito dal monte, ben può rìdersi del topolino di Sismondi che partorì Telefante.
CAPITOLO 11. 449
procedere graduato alla conquista d'un paese più remoto,
quando si era già nazionalizzato il paese limilrofOt
quando 1 Romani vi avevano già mandato perfino la loro
lingua a prendervi il regno. Ma appunto nel saper evi-
tare la simultaneità delle guerre consiste la somma sa-
pienza d'uno Stato bellicoso, e questa sapienza vi fu nel
Senato. Qualunque potenza può essere distrutta se dis-
perde i suoi mezzi, se confida di guisa in una doppia
vittoria, da non poter riparare ad un rovescio anche
casuale in un punto senza richiamare le forze dall'altro,
ed esporsi al pericolo d'una doppia sconfitta.
Intimare successivamente le guerre, o prevenire con
assalto e pronte battaglie i nemici che congiurano e si
adunano, per non avere a sopportare il colpo irresistibile
delle masse raccolte, questa si è ad un tempo sapienza
politica e sapienza militare. Vi fu sapienza in Napoleone
quando, prevenendo colla rapidità delle mosse il rac-
cogliersi degli eserciti di coalizioni nemiche, distrusse gli
Austriaci ad Dima, e quindi battè i Russi ad Austerlitz,
quando distrusse i Prussiani a Jena, e poscia ruppe a
Fridlandia i Russi : vi fu nel secondo Federico quando
rivolgendo a vantaggio lo stesso suo danno della posi-
zione centrale ai vicini che tutti cospiravano contro di
lui, non aspettò d'essere preso in un cerchio di fuoco,
ma si lanciò sui Sassoni a Pirna, poi sugli Austriaci a
Praga, quindi sui Francesi a Rossbach, e poscia nell'eb-
brezza dei trionfi sterminò gli Austriaci in grandissima
battaglia a Leuthen. Evi era stata sapienza, e non mera
impetuosità e caldezza in Carlo XII di Svezia quando
non attese l'assalto dei Danesi, dei Polacchi e dei Russi,
ma sbarcò improvviso sotto Copenhagen, e forzò i Danesi
alla pace, corse di nuovo il mare, e sconfisse i Russi a
Narva, poi marciò sui Polacchi proclamando, giusta il
29
450 PAITE SESTÀ
consueto, la loro liberazione dai Sassoni. In queste guerre
fu bene inaitala, enoulala la romana sapienza: era il vit*
torioso conflitto d'Orazio contro i Curiazii. La storia dì
Ronìa si apre appunto colla favola (possianìo dirla tale
perchè desunta dai Greci) del trionfo d'Orazio sui tre
Curiazii assaliti Tuno dopo l'altro, ma si perpetuò nella
romana istoria, e si dilatò dall'arena di speciale duello
alla gran scena delle battaglie dei popoli. Napoleone, pid
intemperante nel 1812 che prima stato non fosse, mar-
ciava sopra Mosca nell'istante medesimo in cui gli eserciti
suoi venivano profugati a Salamanca, ed era presa Ma*
drid: egli perdeva nelle Russie il più grande esercito or-
dinalo ed istrutto che sia forse stato radunato giammai»
eveniva risospinlo sul Niemen, sulla Vistola, suH'Oder,
sull'Elba, mentre le agguerrite sue legioni di Spagna in-
vano accorrevano a prestissimi passi. La romana repub^-
blica nel corso di secoli di guerre incessanti trovossi in
rarissimi casi per doppio conflitto in lontane contrade
a cimento si grave.
Usava altresì il Senato costanti cautele politiche per
conservare l'imperio. Come la Polonia fu da varii inva-
sori scissa in più parti , e da triplici forze fu meno dif-
flcilmente tenuta segregata ed oppressa; come i monarchi
austriaci non ritornarono ad unità, né in una sola massa
raccolsero tulli i paesi dipendenti dalla corona unghe-
rese, ma li divisero in varie provincie. e li governarono
con diete diverse; così i Romani separavano talvolta un
paese conquistato in varii governi, togliendo agli abi-
tatori di una provincia perfino il gius dei connubii
con quelli di un'allra. Ciò avveniva specialmente se il
paese conquistato era grande ed accentrato : lo si sfor-
zava a retrocedere verso i tempi dei contrasti e dell'iso-
lamento provinciale. La vinta Macedonia p. e. fu divisa in
CiPlTOLO II. 451
quattro provincìe, ed i commissarii romani decretarono :
negtùe connubium, neque commercium agrorum mdifi^
ciorumque Inter $e piacere cuiquam extra fines regionit
su(B esse (Liv., XLV, 29). Trovaronsi lungamente nel
caso identico gli Ernici ed i Latini. Forse quelle infinite
gabelle e pedaggi, che i Romani avevano collocato sulle
strade, sui fiumi e sui porti, e dì cui fanno menzione
tanti antichi storici e legisti, come di tributi estrema-
mente vessalorii e soverchi, non derivavano tutti da cu*
pidità finanziaria, ma in parte derivavano dalla brama
di sempre più dissociare le pravincie, di isolarle, e di co-
stituirne tanti centri separati e deboli.
Certamente il Senato non mirava al progresso dell'u-
manità, ma provvedeva a quello di Roma: voleva vitto*
ria, ubbidienza e tributi, non pace, benedizioni ed amore:
coordinava le disposizioni agli effetti sperati o temuti
delle cause impellenti: prevedeva il pericolo d'una scin-
tilla quando era preparata vasta materia d'incendio: era
un corpo d'esperii, non una riunione di filosofi, di so-
fisti, di liberi pensatori: aveva le virtù, le tendenze,
anche i vizii patrizii, uniti però a vera sapienza di Stato.
Ha caduta la repubblica, il Senato decimato, aumentato,
modificato, paralizzato dai Cesari, fu ridotto ad un vano
simulacro. Il dispotismo aveva spento la lotta, ma an-
che la vita nobile e popolare, il cristianesimo non era
sorto e dilatato, l'autorità della Chiesa non aveva posto
radice e preso impero, ed il feudalismo non doveva ve-
nire che più tardi ad avvilire e disperdere la sovranità,
ed a combattere il trono.
Il Cesare di Roma era divenuto perfettamente auto-
crata, e l'Impero rassembrava a palazzo superbo e regale,
che anche ornato d*oro e di gemme si disordina e cade,
se, per non essere coperto, non è difeso da pioggia e bu-
452 PiRTB SESTA
fere. Infatti in nes&una eli della storia più che in quella
dei Cesari si è veduta di fatto raccogliersi totalmente nel
principe quella podestà dominicale o signoria d'assoluto
dominio sulle persone e sulle cose dei sudditi, che varii
scrittori denominarono regno erile, negandone l'esi-
stenza giuridica, perchè in diretta opposizione coi diritti
inalienabili dell'umanità (I). Tutto dipendeva dalle qua-
lità personali dell'imperante. Autocrata nello Slato, senza
vincoli di parentela con altri sovrani (2), senza concor-
renza d'una forza equipollente alla romana, non frenalo
dalle armi di Cartagine, di Pirro e Mitridate, il sovrano
di Roma agiva secondo la sua scienza od inscienza, se-
condo la sua rettitudine o malvagità (3). Non si trasmet-
tevano da un sovrano all'altro i ministri, non le mas-
sime, non i divisamenli, non i mezzi di esecuzione. Ad
un Cesare piaceva la gloria ed il lusso, ad un altro la
(1) Monlesquìeu trova Tesempio del regno erile in Turchìa, dove il dispotismo
del principe avrebbe fondamento nei codice fondamentale d'ogni Stalo musul-
mano, il Corano. E veramente i disordini d'ogni specie, che quello ^^graziato
paese tormentano, palesa il dispotismo che di fatto vi domina, ma l'idea di
regno erile non è consacrata dal Corano, né da alcuno dei codici d'Oriente fu
sancita giammai. I libri di Confucio, p. e., e quelli di Manu proscrivono que-
sta idea con tanta energia di ragioni, e tanta saviezza di doveri imposti al
principe, quali si trovano in pochi fra gli scrittori politici della colta Europa.
Se scorgiamo in Turchia e nelFAsia violenza e disordine, non è da accagionarne
il Corano, od altro codice: regna colà il dispotismo, come pur troppo anche in
paesi ed in tempi civili ha regnato e regna, come talora si deplora Tanarchia,
e si soffre la violenza ad onta delle leggi e di sistemi di Stato.
(!2) Queste relazioni di famiglia fra i principi non sorsero che più tardi: si
moltiplicarono e generalizzarono poi, e da ultimo crearono un gius pubblico
gentilizio, al quale si applicarono^ senza alcun riguardo ai popoli, le norme or-
dinarie del gius civile, privato. Dapprima le figlie dei Cesari d'Oriente furono
date in ispose ai prìncipi barbari sotto la condizione che le medesime non aves-
sero a mutare di religione: tali matrinionii si videro poscia anche nelPOcci-
dente: si strìnsero fra le famiglie dei prìncipi latini e dei Barbarì, fra le fami-
glie dei principi barbarì, e talvolta fra le famiglie degli imperatori d'Oriente e
le patrìzie di Stati potenti, p. e. della repubblica di Venezia.
(3) Saviamente scrìve Sallustio: Ante Carthaginem deletam metu* hostilit
in bonis artibus eivilatem retinebat.
CAPITOLO u. 453
semplicità eia pace; l'uno sceglieva a confidenti igiuris-
consulti, ed aveva un'epoca luminosa di regno, l'altro
sceglieva a confidenti uomini contennendi e liberti, e lo
Stalo cadeva in confusione ed avvilimento.
Se la causa della rovina di Roma fosse stata ingenita
a Roma medesima, e non propria degli imperanti suoi,
la storia sua non presenterebbe l'avvicendarsi di epoche
gloriose e dì epoche umilianti, ma sarebbe indeclinabil-
mente e rapidamente caduta.
Vero si è però che le epoche gloriose sì fecero sempre
più rare, e Roma andò perdendo provincie e regni.
Quando un principe edifica e l'altro distrugge; quando
un prìncipe rinforza, e l'altro indebolisce; quando un
prìncipe dispone un'intrapresa, e l'altro l'abbandona;
quando varii principi inetti succedono ad un sol prin-
cipe savio e forte, l'impero va continuamente affievolen-
dosi, e se ne prepara la caduta.
Cosi era in Roma: tutto si inchinava avanti a Cesare:
ogni barriera di istituzioni o di cose era tolta: ogni
prominenza di persone era spianata , rasa o schiac-
ciata : ogni coesione di interessi mancava, e ciascun Ce-
sare mandava confusione nell'impero, finché piombava
per una rivolta di soldati come un Titano percosso dal
fulmine di Giove. Chi non vìveva che ai truci diletti del
circo, chi aboliva le feste, chi donava per scialacquo,
chi rivocava le donazioni già date dai predecessori suoi,
inventava balzelli d'ogni specie, vendeva gli impieghi, fis-
sava e pubblicava la tariffa per essi (Tacito). Un principe
non a mostra di maestà, ma per timore inventava nuove
guardie, ed istigava le spie ; l'altro per onorarsi estir-
pando dall'ime barbe il male, le mandava in esìglio dì
assidue fruste punite: l'uno era si cupido del denaro
che vendeva, come Claudio, agli Ebrei perfino il diritto
454 PiBTE SESTA
di fortiBcarsi, ossia di prepararsi a rivolta, ond'essi fecero
in pace ripari da guerra; Tallro donava ai liberti o pro-
fondeva nel circo gli aspettati, né ancor giunti tributi
delle Provincie e dei re. Questi godeva degli aperti ca-
nali, delle dighe costrutte, dei porti scavali, delle strade
protese, dei fari schiarati ; un altro spegneva se stesso
nella verminazione di disordinalo costume, e di don-
nesca 0 mascolina bellezza. L'uno mansueto di benigna
virtù usava volentieri con le persone sapienti ; l'altro
disfrenando l'orgoglio, non applicava ad ogni infermità
delle genti se non il pericoloso rimedio del ferro e del
fuoco. Quegli riservava a se stesso, o donava ai propriì
clienti il governo d'intere provincie; questi ne conGdava
il reggimento al Senato. Chi conservava la gerarchia mi-
litare separata dalla civile ; chi riuniva i poteri civili ed i
militari nel capo della guardia pretoriana formandone
quasi un granvisire dell'impero; chi raccoglieva invece
in sé solo tulle le magistrature più eccelse, o le disperdeva
in molti favoriti suoi. Gallieno, l'uno di quelli che nella
lunga serie dei Cesari hanno contribuito di più alla ro-
vina di Roma, sceglieva perfino città esperimentali per
sottoporle alla prova dei diversi sistemi di politica filo-
sofia, dando p. es. a Plotino l'incarico di organizzare in
una di esse la repubblica di Platone. Un principe acer
in armiz esponevasi ai travagli della guerra, ed allonta-
nava i Barbari colla spada ; un altro non si curava che
l'orlo ed il cuore dell'imperio patissero vergogna, jE>/acfVi(t
populoB in pace regebat, ed i "Barbari allontanava col-
l'oro; un terzo sospettoso dei duci già suoi compagni,
ed ora sudditi suoi, assoldava numerose torme di Bar-
bari, e si cingeva di esse. Quindi consigli ancipiti, ritar-
dati, avventali, tementi, sempre turbata l'esecuzione ed
incerta la meta, ed anche le più grandi speranze ingan-
CAPITOLO it. 455
nate, perchè le migliori occasioni di fortuna per arte o
per armi hanno trascorrevole vita, e segue sovente insa-
nabile danno al non averle tosto afferrate, e pertinace-
mente tenute.
Non vi era né un ordine certo di successione alUm-
pero, né un corpo di elettori, né una famiglia imperiate:
il capo dello Slato era talvolta romano, e talvolta stra-
niero; ora vi era un solo imperatore ed un Cesare, ora
vi erano due imperatori e due Cesari, ora due imperatori
e qualtro Cesari.
Un sovrano opinava che conBni del romano imperio
dovevano essere l'Eufrate, il Reno ed il Danubio, e con
enorme dispendio di sangue e di denaro tentava di farsi
forte su queste linee; il successore voleva conquistare
nuove Provincie, o riliravasi a più angusti conGni. Cosi
Trajano aggiungeva all'impero la Mesopotamia e TAr-
menia, ed Adriano le abbandonava; voleva perfino ab-
bandonare la Dacia : Giuliano ritornava a campeggiare
sul Tigri, ed Aureliano lasciava la Dacia. Un sovrano
rinunciava alla Brettagna, e riliravasi di qua della Ma-
nica; un altro rientrava in Brettagna, e voleva anche la
Caledouia; un terzo si limitava alla Bretlagna, e costruiva
da mare a mare una grande muraglia che lo separasse
dalla Caledonia, ma anche la stessa muraglia veniva poi
abbandonata per erigerne una nuova in luogo diverso.
£ chi pensava intanto alle migliaja dei Romani che al-
l'aggiungersi d'una nuova provincia erano allettati a
trasferirsi colà, o vi si trasportavano^ come romane colo-
nie, ed all'abbandonarsi della stessa provincia erano
quindi lasciati in balla dei Barbari, o con deplorabile
perdita d'ogni frullo delle loro falìche ritirali* entro la
linea del pid angusto confine? Tutto era incerto, tutto
mutevole: Claudio dava franchigie ai Rodii, e Nerone le
456 rARTB SESTA
aboliva; Nerone dava l'indipendenza amministrativa ai
Greci, e Vespasiano la toglieva. Ora riconoscevasi la ne-
cessità di concentrare in provincie lontane, inquiete
nell'interno o minacciate dairestero, intenso potere e
grandi forze in una mano, e riunivansi vasti territorii e
truppe numerose sotto un solo comando; ora si diffi-
dava della fede di un capitano potente, e si divideva il
paese, si assottigliavano le forze affidate a duci diversi e
discordi, come fecero anche gli Europei, soprattutto gli
Spagnuoli nelle colonie d'America, e gli Inglesi in quelle
delle Indie: ora sceglievasia residenza Roma, ora Bisan-
zio, ora Milano ed ora Ravenna.
Per questo disordine e sconsigliatezza dei Cesari le
legioni tumultuavano, i pretoriani insorgevano, i Barbari
invadevano, gli imperatori morivano. Per esso la vena-
lità animavasi, i liberti arriccbivansi, la disciplina depe-
riva, la gloria militare offuscavasi, i Barbari armavansi,
l'impero cadeva. Quindi nasceva l'ardire dei Goti, quindi
lo sgomento dei Romani, quindi l'esaurimento della pub-
blica pecunia, quindi l'inutilità delle vittorie, quindi il
danno micidiale delle sconfitte. Una rivolta ne chiama
un'altra, e questa poi ne chiama varie. Il capitano che
colla forza delle legioni sue è salito al trono, deve ri-
muovere gli altri duci scelli dal predecessore, e rifor-
mare le loro legioni; ma vogliono gli altri duci, e le le-
gioni di essi prevenirlo nel suo disegno. Proclamasi
quindi un nuovo Cesare, e questi collocato fra l'ara fu-
mante di gratissimi incensi e la tagliente mannaja, aper-
tamente prorompe, ed ai soldati nuove mercedi e nuovi
doni promette. A nave rotta ogni vento è contrario, e le
continue bufere la chiamano a naufragio : Roma quindi
cadeva.
Ogni volta che sul trono saliva un prìncipe illuminato
CAPITOLO II. i57
e saggio, egli doveva assicurarsi sul soglio non suo, do*
veva riparare ai disordini del governo precedente, stabi-
lire l'interna quiete prima di combattere lo straniero ne-
mico, restituire la disciplina prima di avventarsi alla
guerra, riempire l'esausto tesoro prima di disporne, E
come è più presta l'opera del distruggere, che non quella
dell'ediGcare, Roma fu Analmente distrutta. Il Campido-
glio dalla sapienza del romano Senato edificato, fu dunque
dalla inettitudine di molli romani monarchi rovesciato,
e quei Cesari talvolta rotti ed arabici, ma più di sovente
rotti e sibaritici, infami per delitti ed infami per grazie e
favori, spesso regnanti per altri come gli ultimi Mero-
vingi, ma non coi Pipini e con Carlo Martello, cercanti
airinfuori del femminile amore lascivia, riguardanti
come un beneficio del cielo le nuove imbandigioni, dis**
sipanti frusto a frusto la vita, quasi sempre spieiati per
sospetto e temenza, e tribolanti l'impero con prodiga im-
manità di supplizii, rovinarono la potentissima Roma.
Nelle loro mani divenne barbarie la severità, furono di-
sciplina i patiboli, la generosità mutossi in scialacquo:
lussurie, ebbrezza, ritrovi di femmine furono frutti di
imperio : erano continue le rivolte ordite dai capi, vantag-
giose ai soldati, patite dal popolo : avevasì a peccalo gra-
vissimo la fede osservata al predecessore d'un principe:
poteva sol quello che adorava il despola facendosi schiavo
per esser fatto padrone: lo Stato precipitava.
Tutte le cause dì decadenza pertanto accennate più
sopra si unificano in questa della sfrenatezza dei Cesari
arbitri dell'Impero, padroni della terra, e Dei; si unifi-
cano adunque nell'accusa al governo personale, assoluto.
Anche Gibbon, anche Montesquieu, potrebbero nel pon-
deroso tema associarsi d'avviso con me, perchè ridussi
ad una sola ragione tutte le cause mutuate da essi. Ma
458 PiBTl SESTA
più spererei d'avere conferma ed onore di concorde sen-
tenza da Tbiers, Vuno dei più grandi storici e pubblicisti
d'ogni età e paese, perchè nella sua storia delllmpero,
che con quella del Consolato e della Repubblica forma
l'uno dei più splendidi monumenti eretti dall'uniana in-
telligenza, deduce la causa della caduta del primo im-
perio di Francia dalle sfrenate esorbitanze d*un genio,
che nella forma di Stato non aveva temperanza e ritegno
alle passioni ferventi, ad illimitali concetti, a prepotente
volere. Se la forza generò l'audacia, bandi la prudenza
ed il senno, se guidò al porre inconsulto della falce in
ogni messe in questa nostra età ad onta delle progredite
dottrine, e delle nazioni formate e civili, dotate intrinse*
camente di potenza attrattiva d'ogni elemento omogeneo
» ri pulsi va dell'estraneo, mentre regnava Napoleone, me-
ravigliosa mente a comprensione ed a calcolo, e la Gran
Brettagna sempre invulnerabile e nemica lo saettava da
ogni lato e premeva, che doveva mai essere dei Cesari in
Roma? Non vi era barriera alle loro passioni: non v'era
per essi necessità di consiglio, non misura di forza : il
mondo era nelle catene di Roma, e Roma in quelle dei
Cesari. In mezzo all'esercito non più nazionale, ma im-
periale quanto almeno l'ubbidienza durava, i Cesari dis*
potizzavano, stullizzavano, deliravano, e poiché i Cesari
infinitamente potenti furono appunto i primi, cosi pre-
cisamente fra questi noi troviamo coloro che più for-
sennati scapestrarono, che non si peritarono a tener
bassa virtù, ma posero ad occhi aperti sollecito studio a
nutrire orgogliosa la colpa , che più furono pronti ai
sospetti, da essi precipitando in barbarie e delitti, cui
non può dare condegno giudizio la storia e pena l'infa-
mia, che crearono la servitù abjettissima, e condussero
a mal termine Roma.
PARTE SETTIMA
L'ADOZIONE DEL CRISTIANESIMO.
CAPITOLO I.
li Cristianesimo adoUato da Costantino ;
la trasiazione disila sede dell'Impero a Bisanzio :
esempiì anaioglii : gli seismi politieo-reiigiosi.
Quale si fu la causa della traslazione della capitale a
Bisanzio? Gli scrittori la cercano ora nell'essere Bisanzio
meglio centrale di Roma nel grande Impero dei Cesari,
ora pel bisogno d'avere il centro d'azione più vicino ai
campi invasi sì spesso da nazioni barbariche. E fllontes*
quieu ripone la causa d'avvenimento si grande nella va-
nità di Costantino, che volle dare il suo nome ad una
nuova capitale. Nessuna però delle cause indicate ha ca-
rattere di verità, o di sufficiente efficacia. Non era Bisan-
zio più centrale nello Slato che Roma noi fosse : anzi
Roma era più di Bisanzio centrale ad uno Stalo che si
estendeva da Ulisippo all'Eufrate, e dalla Numidia alla
Caledonia, ma aveva nazioni nemiche sulle nordiche
sponde del Ponto Eusino. Se il centro ammim'stralivo è
vicino ai campi di guerra, si ha il vantaggio di provvi-
denze più pronte, ma rischio assai grave nel caso di bat-
taglie infelici. E l'Impero non era assalito nel solo oriente,
ma anche in ponente: Bisanzio era difeso dall'Emo e dal
mare, ma l'Italia era protetta dalle Alpi. Le potenti na-
zioni del Boristene e dell'Istro potevano ben anche, come
più tardi realmente segui, portare con felici fazioni e re-
462 PARTE SETTIMA
pentini movimenti l'allarme nella sorpresa città» e darle
l'assalto.
Dove non vi sono forme e condizioni civili di Stato,
ed anche colà dove la centralità amministrativa non ha
progredito spegnendo i municipalismi segreganti, le feu-
dali indipendenze e gli isolamenti provinciali, il governo
può mutare di sede senza lesione di gravi interessi, senza
il sacrificio di infiniti valori. Le capitali in quegli Stati,
specialmente nei primi, sono una specie di Campo Reale,
un'abitazione di principe, una località dove si trattano non
tutti gli affari, ma poca parte dei pubblici, e quasi nessuna
delle vertenze ed interessi privati. Ma quando Io Stalo ha
forma perfettamente civile, e grandi sistemi d'unità ammi-
nistrativa, quando la capitale è il cuore a cui da tutte le
membra il sangue ricorre ed alle parti ritorna, quando si
raccoglie in essa la vita, l'energia, la materiale e morale
potenza di tutto il paese, in allora il trasporto della capi-
tale è fatto si grande, lede si gran numero d'interessi costi-
tuiti, risveglia nel centro antico reazione si viva, reca si
forti dispendii se devesi, come lo fu nel caso in dis-
corso, edificare quasi intieramente una nuova città, pa-
ralizza per tempo non breve il corso d'una parte della
pubblica amministrazione, obbliga a tante, e si moleste e
nocive misure provvisorie, a mutazioni, a provvidenze ir-
regolari ecc., che giammai un governo o sovrano qualsiasi
delibera ed effettua la traslazione della capitale se non ce-
dendo a pressione assoluta di circostanza imperiosa. Ed
in questo caso soltanto un principe può essere indulgente
a vanità di dare alla città nuovamente creata il nome suo
proprio, ma da mera ambizione non deriva giammai una
deliberazione si grave. E la centralità di governo anche
nell'impero romano era grande, come potrebbe presu-
mersi dalla forma assoluta di Stato da si lungo tempo in«
CAPITOLO I. 463
Irodotla, e si raccoglie positivamente dalle belle lettere di
Plinio a Trajano e di Trajano a Plinio, scritte in assai
varii argomenti di pubblica amministrazione. Quanto più
forti dovevano poi essere le cause di non procedere senza
ragioni di necessità assoluta al trasporto della capitale,
se la città da abbandonare era Roma, l'immensa metro-
poli su cui riposava l'ereditaria venerazione dei popoli,
quella Roma da cui era uscita la voce arbitra degli imperi,
al suono della quale un principe saliva al trono, un altro
ne scendeva umiliato, la Roma trionfalrice, la regina ut'-
bium, la caput rerum, come la troviamo a ragione no*
minata nei classici !
Non si erano riunite le monarchie meda ed assira come
al tempo di Ciro, che sempre fu in forse, né seppe de-
cìdere dove avesse finalmente a stanziare ; non si erano
acquistate nuove ed importanti provincie come nel caso
di Pietro il Grande, che trasferì la sede dell'impero da
Mosca a Pietroburgo (1); non avevasi predato il Bengala,
(i) Noi citiamo il Tatto, ma nonio giustifìcliiamo. Cause temporanee, ma non
perpetue, potevano consigliare Tabbandono di Mosca per la nuova città. Era
utile il fondare sul Baltico uno stabilimento navale, e la presenza del conquista-
tore nei paesi d'aggregazione recente: facendo di più, noi siamo convinti che
Pietro il Grande commise un errore, e fu errore perpetualo dai successori suoi.
Quando si fondò Pietroburgo non era ancor riportata quella vittoria di Pultava
che sicuro lo fece, e per la quale lo felicitò anche la Repubblica di Venezia
temente dell'Austria divenuta signora di Milano e di Mantova : aveva già con-
quistato ringria, la Carelia e Tl^stonia, ma non erano in sua mano né la Cur-
landia, né alcuna parte della Finlandia si vicina alla nuova città, né lo erano
quelle isole di Aland, da cui ora il cannone moscovita si ode a Stockholm : nello
stabilirsi a Pietroburgo adunque girando tuttora molto incerte le sorti, Pietro,
a parer nostro, fu più audace che savio. Inoltre per quella traslazione di capi-
tale il dualismo politico slavo-alemanno che travagliala Russia, diventò più
potiìnte ; razione governativa fu spostata dal centro e fu quindi più lenta ;
un capitale infinito fil sacrificato al bisogno di richiamare le sussistenze da
lungi, e d'importarle in non poca parte daifestero; sì dovette mantenere un
esercito d'intorno alla capitale sul Baltico anche in alcune guerre nelle quali,
se si fosse avuta la capitale in Mosca, potevasi impiegarlo davanti al nemico;
si allontanarono le ricche famiglie dai loro possessi, il che è sempre gran
male; si affìevoli il sentimento nazionale distraendolo dalla santa cUlà, ecc.
464 PiRTE SETTIUi
come nel caso di dive che scelse a residenza Calcutta;
non si era incorporata rArmenìa ed il litorale del Caspio,
come nel caso dei re di Persia che da Ispahan si porta-
rono a Teheran ; non vi erano le cause d'abbandonare
Konisgberg per Berlino, Cracovia per Varsavia, Cham-
béry per Torino ; né la brama di non allontanarsi dal
centro delle proprie risorse durando il bisogno di sor-
vegliare un immenso paese di cui temevasi ancora, come
nel caso dei monarchi mongoli che abbandonavano Nan-
king. stanziandosi a Cambalu (Pekino); non v'era alcuna
di queste cause potenti, eppure Costantino abbandonava
l'eterna città, e trasferiva la sede dell'impero a Bisanzio,
la cui importanza, almeno militare, era già a quel tempo,
e fu sempre notissima (1).
Anche le tristi condizioni dell'erario dovevano sconsi-
gliare da un fatto che sotto molti aspetti gravissimo, lo
era parimenti, ed in sommo grado per le romane finanze.
Ormai l'impero era povero: le spoglie di tutta la terra
erano state dilapidate e consunte: ì campi, un giorno si
(1) Nelle guerre greche, nelle persiane, nelle mìlridatiche, ed anche nelle
successive Toccupazione di Bisanzio era stato scopo di numerose operazioni di
truppe e di flotte, ed un secolo prima di Costantino, Bisanzio aveva sostenuto
assedio triennale postogli da Settimio Severo, che combatteva contro Pescennio
Negro, Toccupò e distrusse. In quell'assedio Tingegnere Prisco aveva rinnovato
le meraviglie di Archimede, e Settimio Severo, che Tu crudele con tutti, rispar-
miò Prisco onde giovarsi del suo ingegno neiraltro assedio che andava a porre
ad Atra, cittadella sulPEufrate, che Trajano non aveva potuto espugnare. Pe-
scennio Negro fu poi totalmente sconfitto nella solita posizione strategica dì
Isso.
Quanto alFimportanza commerciale di Bisanzio, essa non fu, e non può es-
sere grande: dipende in gran parte dal grado di attività dei traffichi del Mar
Nero ora impediti, ora contrastati, ed ora liberi e fiorenti, m«i anche per questi
Bisanzio, o vogliam dire Costantinopoli, è ridotta al solo traffico di scalo, che
la perfezionata navigazione rende meno necessario adesso che non fosse un di.
Quasi tutti i territorii del Levante hanno liberi sbocchi sul mare, ed i prodotti
d'importazione non sì accumulano in una sola locahtà , ma il traffico è deter-
minato meramente dalle produzioni e consumazioni locali, che però sono eoa-
siderabili a Costantinopoli, perchè popolosa e ricca capitale.
CAPITOLO I. 465
ricchi, erano isteriliti e miseri. Quale ostacolo doveva
dunque incontrare in si tristi condizioni d'erario la tras-
locazione della capitale, e quanto forte doveva essere
l'urgenza di trasferirla se realmente Costantino la tras-
portò a Bisanzio ! Quale fu la vera causa di tale trasfe-
rimento? E per quale ragione la medesima non fu so-
lennemente dichiarata giammai da Costantino o dai
successori suoi 7 Perchè una causa che doveva essere
estremamente potente, rimase in silenzio, ed il prìncipe
ha preferito che sembrasse arbitraria, piuttosto che
propagarla, e mostrarne pubblicamente la necessità e
l'urgenza ?
A nostro avviso, la traslazione della sede dell'Impero
da Roma a Costantinopoli è strettamente connessa col
fatto della diffusione del cristianesimo nell'Impero ro-
mano, e dell'adozione che ormai Costantino era per fare
di esso. Un solo storico, per ciò che sappiamo, ci si asso-
cia, almeno in parte, in questo pensiero, ed è Rolteck
[Altgemeine Gezchichte, 1. Ili,* § 23), ma Rotteck si è
anche l'uno degli storici che sui fatti antichi e moderni
ha meditalo di più.
Finché i Cristiani furono in poco numero, i Cesari nqn
se ne curarono : divenuti numerosi, li perseguitarono.
I Cesari erano sovrani civili, militari e religiosi : nella
loro qualità di pontefici massimi del paganesimo, gli
imperatori dovevano scorgere facilmente dei sudditi
ribelli all'integrità della maestà loro in tutti quelli che
negavano ad essi l'incenso, e ne dichiaravano falsa la
fede. Questa era la causa delle persecuzioni, non già la
frivola indicala da Gibbon, che cioè i Cristiani erano
odiati perchè credevano essere Gerusalemme e non Roma
la santa città, né Giove presente in Campidoglio. A ceto
povero e perseguitato, ad uomini proscritti e dannati,
30
466 ^ PARTI BETTHIi
Ogni aderente ed ogni ossequente a Cesare doveva essere
infesto: le accuse d'ogni specie dovevano moltiplicarsi,
inventarsi, vorrei dire materialmente provarsi: tutte tro-
vavano credito nel fatto che la sovranità di Cesare era
dai Pagani, non già dai Cristiani riconosciuta più vasta,
ed idenliQcata con quella dei Numi, né ci devono recare
veruna sorpresa le imputazioni sempre vaghe, e certa-
mente fatsissime, scritte contro i Cristiani, probabilmente
in buona fede, da alcuno dei classici : Af/licti mtppliciis
Chrhiiani^ genus hominum superiti tionis novo ac male-
/ìc(b(Svet., in Ner.i cap» 16): Nero qumitntimù pcsnis
adfecit quos per flagitia invisos vulgus Chrutianm adr
pellabat. Auctor nominis ejus Chrintus, Tiberio impe-
ritante, per procuratorem Pontium Pilatum supplicio
adfectus erat. Repressaque in pnesens exitiabilis «u-
perstitio rursus erumpebat , rwn modo per JudcBam^
originem ejus mali y sed per urbem etiam, quo cuncta
undique atrocia aut pudenda confluunt, celebranturque
(Tacito, Ann., lib. XV, cap. 44).
Il cristianesimo crescente fu dunque perseguitato per
grave causa politica, ed anzi per causa più grave che
almeno nei rapporti coi governi laicali non militasse
contro pagani ed eretici quando nei secoli successivi lo
stesso cristianesimo si fece alla sua volta crudelmente
persecutore. Per la sua propria essenza nessuna religione
perseguita: non perseguita il paganesimo, non il cristia-
nesimo, nonTislamismo: nei codici fondamentali di quasi
tutte le religioni sta anzi scritta la tolleranza. Ma per inte-
ressi mondani la persecuzione politica si esercitò in nome
e colla veste d'apparenza religiosa : soprattutto furono
feroci le persecuzioni nei governi teocratici, e dove esìsteva
una classe sacerdotale forte d'influenze, ed anche di voto
nei legislalifi eonsigl li cristiànesimó^venne' oppugnato
OPITOLO 1. 467
dagli imperatori pontefici, né lo fu coi soli supplizii, ma
lo fu con tutte le armi ad un tempo : fu aggresso colla
filosofia, col ridicolo, colla calunnia, colla spada. Spe*
cialmente la scuola alessandrina, spontanea od invitata
dalle cesariane autorità, usò del credito, usò della dialet-
tica, per combattere il cristianesimo: moltiplicò gli scritti;
anzi quelli di Porfirio levarono grido, ma la vittoria com-
pleta del cristianesimo cagionò la perdita di tutti, o quasi
tutti i libelli, ed appena ne rimane la traccia nei cenni
di confutazione, che spesso ne fecero i Padri della Chiesa
arrivati a noi. I Romani però avevano bensì il vanto della
scienza legale (l'hanno quasi immobilizzata fino a noi I),
ma né i plebisciti, né i senatus-consulti, né i responsi,
né gli editti, decreti o rescritti dei Cesari avevano creato
la scienza morale. Ora il cristianesimo aveva ridotto ad
assiomi le morali verità: aveva parlato all'immaginazione
ed alla mente, ma più ancora al cuore. Lo difendevano
dunque la bontà splendidissima della morale, per verità
troppo celestiale per poter essere completamente politica,
e troppo universale per potere rafforzarsi delle idee e
delle aspirazioni esclusive e nazionali : lo difendevano la
proclamata unità di Dio creatore e benefico reggitore del
mondo, logico ritorno al monoteismo, da cui sembrano
incominciale tutte le religioni, cadute poscia nel poli-
teismo col fare un Dio diverso d'ogni nome di Dio, col
deificare gli elementi di natura, coll'adorare i capi delle
grandi schiatte, poi le immagini, ed i simboli di tutti gli
Dei. Allettavano al cristianesimo i cuori pid sensitivi, le
menti più nobili e vaste volenti trasfondere e compren-
dere tutte le famiglie di popoli nella sola famiglia romana,,
il principio consolatore del premio al di là del sepolcro,
la santificazione delje niQS3ÌmQ .universali di ragipn^
l'essere opportuno a tutte ie nazioni; idoneo 'per lutlii
468 PAETE SETTIMA
climi, eguale pei sessi, per ogni ordine e condizione di
società. Contribuivano a promoverlo, il discredito del
paganesimo (si grande, che già Cicerone scriveva mera-
vigliarsi del come due auguri incontrandosi, non si de-
ridessero a vicenda), le massime più sane della scuola
platonica ovunque diffuse, e quelle dei migliori giuristi
di Roma, l'eguaglianza politica reclamata da tutti i po-
poli, e l'eguaglianza civile degli uomini confessata dai
giurisconsullì, intrinsecata alle massime del cristiane-
simo, e sempre negata a milioni di schiavi. Era poi con*
naturale ad ogni mente elevata la tendenza alle idee
nobili e grandi, al progresso di tutta Tumanilà ; v'era la
propensione a resistere, che palese od occulta, quasi
sempre sì soffre da tutti i governi, e prende ogni forma,
ed anche quelle di nazionalità e di religione; vi era la
opposizione ad autorità spesso indegne di esercitarla.
Essendo poi in allora il cristianesimo ancora umile, e
nella purissima sfera delle astratte opinioni e credenze,
non incontrava quelle politiche difBcoltà d'adozione e
favore, che sorsero in tutto il mondo e si moltiplicarono
quando la Chiesa assunse forma terrena, e scendendo
dalle sublimi altezze partecipò alla lotta degli interessi
materiali, onde il principe di Roma n'andò confuso col
vicario di Cristo, e santa opera parve il bruciar vivi gli
uomini per salvar l'anima loro (1). Uomini d'ingegno
eminente, come Origene, come Tertulliano, prendevano
(1) Io opera del tutto storica e politica noi non abbiamo creduto di far cenno
ài cause soprannaturali, ma delle sole mondane. Balbo, nel lib. IK , § lì del
suo Sommario, che pur molto stimiamo, ricorse aireflìcacia delle prime, tanto
più che nelle seconde non ha trovato che ostacoli. In ciò le opinioni da noi
esposte si allontanano da quelle dello storico illustre : a lui pare che il cristia-
nesimo dovesse essere combattuto da tutti , e realmente lo fosse : gli facevano
guerra, egli dice, i filosofi trionfanti, guerra ogni uomo delFantica coltura al-
lora avanzatissima, guerra ogni uomo devoto alle religioni patrie, guerra ogni
uomo di Stato serbatore di queste contro ai nuovi seltarii.
GiPITOLO I. 469
le difese del cristianesimo: ne erano consacrate le cre-
denze dalla meravigliosa costanza dei martìri : avranno
apostatato per tormenti i mille, ma per violenza sofferta
da molti la convinzione delle masse non muta.
E v'era altra circostanza sommamente favorevole allo
spargersi della nuova religione, che passa sempre inav-
vertita: il cristianesimo non aveva a combattere con una
casta sacerdotale fortemente costituita ed irreconciliabile.
La società greco-romana non aveva né i leviti, né gli
ulema, né i lama, né i bonzi: ir cristianesimo poteva
dilatarsi nel mondo greco-romano senza mutare e di-
struggere radicalmente l'organismo politico della società,
non incontrava codici religiosi inalterabili, giurisdizioni
privilegiate, caste perpetue che la nuova fede avesse a
distruggere (1). Non altri che l'imperatore avrebbe ces-
sato dalla nominale supremazia, dalla qualità di ponte-
Gce; ma quanto di riverenza non mostrava ogni Cristiano
alla civile sovranità del medesimo, come santificava in
un mondo sconvolto da rivoluzioni incessanti il princi-
pio della sommissione al regnante! Se dunque l'impera-
tore non vibrava egli stesso la scure, se non spingeva i
governatori delle provincie a vibrarla, a confiscare, ad
incendere, chi altri nel popolo aveva grave e permanente
interesse, a farsi contro i Cristiani accusatore e car-
nefice?
Cosi crescendo i Cristiani giornalmente di numero,
invadendo ogni terra, ogni ceto di società, i Cesari do-
vettero moderare le ire, e pigliare consiglio. La questione
religiosa divenne la principale nell'impero: la persecu-
(1) Fa solamente nella Persia che il cristianesimo si trovò a fronte di una
casta sacerdotale, quella dei Magi, e benché questa casta già fosse stata umi-
liata e tolta dairantico suo grado di potenza , ivi il cristianesimo ebbe assai
turbato e molto lento ed incompleto il progresso.
470 PIBTB SETTIMi
zione non fu sempre crudele e continua, ma talora mo-
derala e con intervalli di tregua: vi furono epoche in cui
la controversia religiosa fu perGno proposta e discussa
a voti senatorii, e le misure di rigore incominciarono ad.
incontrare l'opposizione anche nelle alte magistrature
e corpi politici dello Stato. Già all'epoca di Trajano si
oscillava : quel suo dire a Plinio che non inquisisse i
Cristiani, ma che agisse se fossero portate accuse, mo-
strava la persuasione neirimperante che giovasse il tol-
lerare, sebbene il Pontefice Massimo dovesse allontanare
da sé il sospetto di favoreggiare i Cristiani, negando di
procedere contro i medesimi quando venivano accusati.
In tutto l'Impero l'antinomia delle due credenze si ap«
palesava, ma era assai maggiore nelle provincie orientali
che non nelle occidentali. Le orientali furono la culla del
cristianesimo, e la sede dei primi concilii: certamente
erano state meno sorvegliate delle provincie prossime
alla capitale; gli evangeli erano scritti tutti in greco,
tranne forse uno solo, composto originalmente in ebraico;
nessuno però lo era in latino. La filosofia greca, inge-
gnosa, acuta, ardita, ed anche in parte progressiva, an-
dava più oltre e più giusto nella verità che non il paga-
nesimo, ma era troppo mal logica, mal compiuta e
retrograda in molte parti per contrapporsi al Vangelo;
le sue massime però gli appianavano in parte la strada,
ed erano diffuse nel levante più che nel ponente: nelle
Provincie latine le massime dì alta moralità erano piut-
tosto parlate dai giuristi, da cui sorsero le Pandette, che
non largamente diQ*use nel popolo. Vi era poi nelle
greche provincie anche l'azione del dualismo, di cui fa-
cemmo cenno nel capitolo decimo della parte prima, e
d'altronde la Grecia pensante e retta popolarmente per
secoli « era il terreno più opportuno a ricevere i pria-
CAPITOLO I. * ^171
cipii d'eguaglianza e libertà , che risplendono nel cri-
stianesimo (1).
Neiroriente dell'Impero adunque la nuova religione si
era dilatata nel popolo assai più che in ponente, ed al-
l'epoca di Costantino era urgente pel governo il bisogno
di decidersi fra il paganesimo ed il cristianesimo. Ormai
tutte le esperienze per conservare Tunità di credenza si
erano esaurite: erasi provala la persecuzione contro i
Cristiani» la mera preferenza pei Pagani, la tolleranza»
rindiderentismo apparente o reale» ed il cristianesimo
sempre invadeva. Rendevasi palese la convenienza di
adottarlo, ma bisognava farlo senza scosse» senza ca-
lore di discussioni, senza dichiarazioni solenni; di guisa
però che il passaggio fosse rapido» e si grande il favore
impartito al cristianesimo, da renderlo presto vittorioso
del tutto. Devonsi infatti da ogni governo fare le muta*
zioni necessarie» ed importa di farle prima d'essere vio-*
lentali. I tempi» dice Cesare Balbo» che bene esprime
questo concetto, mutano sempre» onde i sapienti con*»
servatori sono quelli che mutano con essi» non gli im«
mobili che sempre resistendo si fanno impossibili» e ro«
vinano sé ed altrui.
Vi erano Cristiani nelle legioni; vi erano anzi legioni
cristiane; vi erano Cristiani nei più elevati gradi delle
amministrazioni civili: in tutte le famiglie principali ne
erano: gli Atti dei martiri ne fanno certissima fede. Ài
loro crescere non riparo» né schermo poteva farsi ; se ne
scoprivano sempre di nuovi: dal numero dei noti argui-
vasi quello degli ignoti, come s'argomenta fuoco da fumOi
Non bastavano né sottili» né atroci procedimenti : se ne
(i) Sotto tutti gli aspetti U Oféda era il terreno più aperto airadozione del
crìstiatiesimo: ad Atene; p. e.» na^ra Pausania, non v'erano solo i templi delle
note deità» ma anche un tempio eretto al Dio sconosciuto;
472 * PIETE SETTIMA
aveva piena esperienza nella strada dolente di tante re-
pressioni sanguigne, che s*era invano percorsa: non solo
dovevasi porre freno ad orgogli e violenze pagane, ma
volgere la riflessione politica a fafé le brame cristiane
contente: regnare senza mutamento era un inchinarsi
sul baratro attendendo paurosi o frementi la spinta : in-
fatti la nave era in fortuna, e poteva esser vinta dalle
onde.
Costantino era adulto nelle polìtiche arti: tutto osser-
vava, molto discerneva. Non chiese probabilmente consi-
gli ad alcuno, che nessuno conforta a tali ardimenti du-
bitabondo sovrano: non s'abbagliò dell'altrui lume, ma
s'accese e si invigorì di se stesso : guardò il triste calle
dei fatti operati, maturò le iterate esperienze, si fece
saggio delle condizioni delle varie provincie : a tanto rin-
calzo di argomenti gli fu manifesto il meglio, e le sue
esitanze si ruppero : fissò neiralto segreto principio e fine»
e francheggiato decise non contrasterebbe alla virtù delle
cose nuove e vincenti, vincerebbe con esse. Eppure non
anima cristiana, ma dispietata era la sua : non gli era
faticoso il delitto: si minava veloce nell'ira, intimava tor-
menti con barbarie dispotica, non con giustizia rigida,
ed era assetato, non saziato di loro, ed anzi sempre di-
sciolto a percuotere: uccise la moglie ed il figlio, il pa-
drigno, il cognato, il nipote: come fu un grande esecu-
tore di Marte in battaglia, fu un crudele esecutore sul
trono ; ma congiungeva Tindifferentismo all'intelletto,
e nelle grandi cose politiche colla mente temperò la
ferocia, e l'adottato cristianesimo nel giudizio d'autori
parziali lavoUo d'ogni biasimo, e lo disgravò d'ogni
tristizie (1).
(1) Perchè Costantino per convinzione o politica favorì il cristianesimo, gli
autori ecclesiastici gli perdonano troppo ; gli autori pagani invece rimproverano
CAPITOLO 1. ' 473
Nell'adozione del cristianesimo comprendesi» a parer
nostro, anche la causa della traslazione della capitale.
Costantino aveva tenuto il comando in Brettagna ed in
Gallia, ove già erano assai numerosi i Cristiani: aspirava
airimperìo: mostrò volto amico ai medesimi, li ammise
a migliaja nelFesercito suo, prese la porpora, marciò, ed
alla grande battaglia di Ponte Molle sotto Roma, gridò
ai prodigi, alla croce apparsa in cielo, alla promessa vit-
toria, in hoc signo vincer Janeiiizzò le genti, e vinse. Pur
non osò ancora professare apertamente la fede dei Cri-
stiani : con graduati ordinamenti si dispose al varco del
fiume: alfine trovò sicuro il guado epassollo: fecesiegli
medesimo, ma non solennemente, cristiano; parve anzi
che sempre lasciasse dietro di sé un ponte a ritirata ove
fosse necessaria, ma dopo due anni, che per si grande
misura erano ancora breve periodo, di necessarie pre-
parazioni e costruzioni a Bisanzio, vi trasportò la sede
dell'Impero, collocandola nel centro delle provincie cri-
stiane, che erano ad un tempo le più colte e più ric-
che (1). Come Anteo nella favola desumeva la sua forza
dalla terra, cosi Costantino volle da questa desumerla, e
più acremenle in lui quei delilti che, da altri Cesari parimente commessi, sono
dai medesimi preteriti o narrati con espressioni più miti. Diceva Tabate Fleury
(e peccava egli pure, ci sembra, di molto favore) che di Costantino si ha a
credere il male che ne racconta Eusebio, ed il bene indicato da Zosimo.
(1) La serie cronologica delle leggi pubblicate da Costantino convalida Topi-
nione prodotta. Le più antiche sue le^i emanate quando durava tuttavia Toscil-
ianza sulla deliberazione a prendere, sono leggi di riflessione e cautela, leggi
di tolleranza e d'amore per Pagani, per Cristiani, per tutti. Le leggi più recenti
sono di moderazione verso i Pagani, che tuttora incutevano spaventa, ma sono
favorevolissime pei Cristiani, ai quali desideravasi la pronta preponderanza.
Costantino non osò giammai usare violenza diretta perchè tosto traboccasse la
bilancia, ma distribuiva gradatamente i pesi per modo che piegasse a favore
della scelta religione, di cui egli procurava d'ottenere nei concilii il primato.
Ma tutte le sue leggi ed antiche e recenti sono sempre nemiche agli Ebrei,
perchè odiati da Pagani e Cristiani, destituiti di potenza, fra loro stessi discordi,
ed in varie sette divisi.
474 PIBTE SETTIMA
la terra più sicura per lui era appunto la greca. In Roma
tutti i monumenti attestavano il paganesimo e parlavano
la libertà ; quelli che si erigeranno a Bisanzio non atte-
steranno se non il cristianesimo e l'autocrazia impe-
riale. La politica religiosa e la governativa si associano
ad uno scopo: per esso la decadenza della coltura
latina accelera vasi , precipitavasi; si infondeva invece
nuova vita nella coltura greca, e forse fu Costantino
che inconscio salvò la coltura universale perchè in-
vigorì la greca, e quesla sopravvisse , e conlribul po-
tentemente nell'epoca delle crociate e nel secolo XIV al
risorgere della civiltà in Italia e nell'Europa occiden-
tale. Ma Costantino slesso non aveva pensieri sì no-
bili, non guardava si lungi, non favoriva Roma, ove
poteva sorgere una fazione contraria, ed inalzava Bi*
Sanzio. Fu certamente nel fabbricare Bisanzio in un'e-
poca, nella quale le arti costruttive, e le abbellitive di esse
erano perdute a Roma e decadute anche nella Grecia,
che un'immensa distruzione d'antichi monumenti segui:
specialmente rovinarono, cedendo quasi pietrame alla
nuova Bisanzio le nobili forme dei loro templi e dei cir-
chi, i grandi edlQcii dei quali era sparsa la Troade. Del-
l'antica Troja erano perite le stesse rovine (Lue, lib. IX),
ma ne era sorta una nuova (Ilium novum), alla cui gran-
dezza avevano contribuito Alessandro edi successori suoi.
Leggiamo che Costantino ne portò il palladio a Bisanzio,
ma quant^altro ne avrà portato volendo fare di Bisanzio
una capitale non indegna di Romal Continuò poi lunga-
mentela spogliazione di Roma per adornare Bisanzio t Co-
stanzo II vi trasportò perfìno le tegole di bronzo dorato
del Panteon : Eraclio prese quanto volle per sé, e con-
cesse al ponteGce Onorio di togliere dai romani monu-
menti ciò che credesse giovevole a costruire ed ornare basi-
CAPITOLO I. 475
liche. Più tardi Vopera della distruzione dei greci monu-
menti non lungi da Bisanzio fu proseguita dai Genovesi
per inalzare i loro castelli sul Bosforo, e per la colonia di
Galata, e dai sovrani del Basso Impero per ediQcare le
mura di Costantinopoli. Poco rimase da distruggere ai
Turchi : fecero però il loro meglio : appagandosi per le
abitazioni, perQuo per quelle dei sultani, di mura di
legno, considerarono le colonne di marmo sparse nella
Troade come miniera per trarne le palle da carica pei
mostruosi cannoni delle antiche batterie dei Dardanelli.
Cosi il propagato cristianesimo aveva guidato all'im-
prevedibile efl'etto della sostituzione di Bisanzio a Roma,
ma il decreto di Costantino deve essere caduto come ful-
mine sull'esautorata città, trionfante di sua corona da se-
coli. Infinite erano le sofferenze, le dolorazioni private,
i valori distrutti, gli interessi sconvolti, le affezioni tor-
mentate, gli orgogli umiliati, ed ogni somiglianza è
scarsa a rendere il vero. Costantino però avrà in allora
mantenuto a Roma le sue più salde legioni cristiane,
i suoi condottieri più prudenti ; bisogno grande, ma pur
molto minore s'aveva di quel nerbo di forze sicure .sul-
l'Eufrate, sull'Istro e sul Reno I
Intanto tutti i Cristiani, tutto l'Oriente, tutti gli uo-
mini temprati a benevolenza e virtù gridavano a Costan-
tino l'osanna. Le persecuzioni cessavano : si rompevano
i ceppi, gli antri di pena s'aprivano, sparivano le ta-
glienti mannaje, le infuocate tanaglie, le orribili ruote :
racconsolavansi di libertà le credenze: s'udiva pei Cri-
stiani e filosofi un nuovo e dolce parlare, e già si aveva
nel cospetto un tempo di sorti propizie : alti destini ed acute
voglie erano paghe: tutti i sudditi sarebbero degni dei
più alti seggi dello Stato, tutti accorti e provvidi dei loro
interessi, libere le menti di sollevarsi sovra l'ingombro
476 PiRTE SETTIMA
delle cose terrene, riposato il vivere di cittadinanza in som-
missione concorde. Ed ai medesimi poi i vescovi concio-
navano: TinfinitobeneGcio di Cesare riconoscessero, com-
pensassero: praticassero le virtù del Vangelo verso il
principe preposto al suo ufficio da Dio, adorassero nelle
sue le volontà del cielo, l'ostello di Cristo liberamente vi-
sitassero , sui sacri volumi con vista perpetua veglias-
sero, i poverelli (le masse) beneficassero, nuovi prodigi
sperasero: già essere sembrati datori di vita ai Cristiani
quei principi che non la toglievano ; infonderla invece Co-
stantino a loro, infonderla a quanti il loro esempio imi-
tassero ; finora essere stata gloria dei soli più eletti cam-
pioni di Cristo lo scriversi sulla fronte le parole ìwn
erubesco Evangelium, ora non essere vietato ad alcuno:
vedersi il dito di Dio nei mirabili fatti: non sarebbe
sforzo di più colpo il ridurrei Pagani al Vangelo: essere
la fede quella mistica palma che sempre fruttifica e non
perde mai foglia : per essa la piccola stanza di questo
pianeta all'immensità dei cieli congiungersi : tutto l'Im-
pero diventerebbe per essa una terra di promissione:
ormai non esservi distinzione fra i Romani ed i Greci :
lutti inchinarsi a Bisanzio: la fraternità fra i varii rami
d'uno stesso popolo essere antica ; fra i popoli diversi
non esservi stata, ma predicare il Vangelo la fraternità
fra tutti gli uomini: tutti si accostassero: inaugurerebbe
la grandmerà Costantino, potente airacquisto, sapiente a
conservare : già essere liberi di voce e viaggio i messag-
gieri del regno eterno, e spandere liberamente i puri e
dolci suoi rivi la santa dottrina: nessuno dei catecumeni
starsi più chiuso e smarrito fingendo all'infuori il paga-
nesimo: versarsi gli affetti dei Cristiani l'uno in seno
dell'altro, e parlare le braccia al collo avvinte: assidersi
la giustizia sul trono : non fine agli odii promettersi, ma
cAPnoLO I. 477
incatenarsi la discordia: cessare le scelleranze e pro-
celle: levarsi sulla prora fortunata dello Stato vittoriosa
la Croce. E più infervoravansi iterando esortazioni, av-
vertimenti e speranze: si legassero per fede al principe
in cui tanta divina grazia traluceva, né mai torcessero il
loro amore da lui: essere Gnìla la rovina ed il crudo
scempio dei Cristiani : più non faticherebbero in nuove
battaglie: ne recassero ogni cagione e grazia al cielo,
che aveva il gran movimento iniziato e lo compirebbe:
cadrebbero ormai di poco ventole tende pagane: pregas-
sero perchè sia agli occhi di tutti il vero schiarato : es-
sere la fede un bene che più si arricchisce in ciascuno,
quanto più in mille si spande: dessero ardore di fede:
quelli amassero da cui male ebbero: tutti raccogliessero
che siano da Dio raccolti : altri Sauli che avevano per-
seguitato la Chiesa di Dio, vasi di elezione diventerebbero ;
si convertirebbero altri Erodi, che avevano dato alla dan-
zatrice la testa di Giovanni : cantassero in ogni terra la
gloria di Costantino: avere egli edificato, perchè quegli
solo edifica la cui casa è edificata da Dio, e quegli solo
vigila, che è vigilato da lui : dietro l'imperiale guida, ed a
sua fidanza andassero.
Necessità, od utilità facevano andar veloce Costantino,
ma non cosi che ai Cristiani bastasse. Se però i mede-
simi vedevano si piana ed aperta la via del cielo, se
Costantino dannavano perfino di freddezza, di procedere
lento, e di non mostrarsi più vivo, egli non aveva sì
accese le voglie, né voleva essere da altri maggiormente
scoperto, che egli non si scoprisse: voleva guidare il moto,
e non esserne strascinato, e mirando col senno per entro
le politiche cose, amava gratificarsi i Cristiani, contenere
À Pagani, e non scompagnarsi afiatto da loro, atten-
dere Vajuto delle occasioni, che è tanto polente» comun-
478 pàbte settima
que incerto nei giorni e nei modi, maturare con pru-
denza i disegni, né tosto spiegare tutte le vele alla nave.
Costantino non era principe da vaneggiare coi detti :
meglio stavagli la spada allato, che il sermonare nella
lingua: avrebbe avuto per ragnatele tutte le ragioni dei
deboli, ma fra gli interessi di Stato in pazienti ondeggia-
menti volgevasi , non trasmodando a baldanza. Infatti
Costantino voleva- distruggere, ma bene sostituire, ed a
ciò durata di tempo richiedesì: sapeva che impronto
favellare guasta ogni buono agire, ed è della sapienza
politica come dei Gumi profondi che senza strepilo scor-
rono, laddove son garruli i rivi, e romorosi i torrenti :
conosceva che ogni errore gli sarebbe stato fatale, che
gli uomini non avevano tutti la sua penetrazione, che
ropposizione avvisa ad ogni vantaggio, d*ogni causa di
malcontento confortasi, raccoglie ogni stilla, e si forma
in mare: godeva del successo, avrebbe condotto a termine
il solco, ma con azione graduala di potenza attrattiva,
e non con violenza di pericoloso certame : s'irritava quindi
coi troppo plaudenti ; si governava col flagello e col morso,
e circondato da impazienti fautori, forse diceva: Quo*
modo me expediam ex hac turba tanta ?
Vi era in tutto l'Impero agitazione e dubbiezza : i Cri-
stiani, che avevano fino allora infinitamente sofferto,
spingevano ; ma il volto severo, implacabile di Costantino
dominava timori e speranze, le concitazioni degli uni, i
risentimenti degli altri. Intanto Roma oiTibilmente sof-
friva : era lagrimosa e malevola. Ma come scuotersi, dove
trovar lena, qual bandiera levare in tanto rivolgimento
di idee, fra tanto apparato di forze contrarie, nel ratto
cammino del cristianesimo, nello sfasciarsi del pagane-
simo? Ogni luogo inaccessibile diventa piano se mancano
i fdrti diférisarii ^'doWahoi' forti difensori di! Rotaa^
CAPITOLO I. 479
Avera inalzato dei templi alla Fortuna: ora non poteva
inalzarli che alla Quiete.
Eppure Roma fremeva. Leggesi infatti che le statue di
Costantino vi furono guaste a colpi di pietra. In circo-
stanze ordinarie egli avrebbe vendicato atrocemente Tol*
traggio : in queste noi fece. Gli eserciti più che i popoli
potevano, ma anche con questi non dovevasi fare a
sicurtà, ed altronde il consumarli era danno. Non biso*
gnava far cadere in disperazione i Romani, bensì ade-»
scare Roma con dolce dire, assicurarla che poco scen-
derebbe, che continuerebbe per operosità, per commerci
e per arti a recare la gloria nel mondo, che tutti accor-
rerebbero alla culla dell'impero romano ad apprendervi
l'eroismo generato da essa, che stanziava nel cuore del
principe vivissimo affetto per Roma, e precorrerebbe ad
ogni suo prego. Quindi Costantino da impetuoso e col-
lerico si fece rispettivo e pacato: esalò in celie il livore:
passò la mano sul viso, e sorridendo con dolcezza,
disse di non accorgersi di contusioni e ferite. Tale è
l'aneddoto che narra san Giovanni Crisostomo nell'ome-
lia sul ritorno del vescovo Flaviano ad Antiochia. Cosi
usò natura di volpe, benché quella del leone più amasse :
seppe farsi riverso, e l'offesa non riverberata brevemente
svanì.
Ha dove con luci acute d'intelletto vide Costantino che
la mitezza poteva gli effetti delle proprie azioni distrug-
gere, accorse con mano di ferro e con immanità sangui-
nosa. Già dissimo che egli uccise il Gglio : anche Filippo II
di Spagna, anche Pietro il Grande di Russia uccisero i
loro. E perchè? Narrasi di folli amori dei giovani colle
loro matrigne, di gelosie paterne, di incesti e vendette. E
romanzi e tragedie si scrìssero, e si fece anche della sto-
ria romanzo e tragedia. Quanto al figlio' di Cottaàti&a,
480 FAUTB SETTIXA
nuiraltro infatti si sa sulla causa per cui si è aguzzato il
paterno coltello: susurrasi però quanto ai figli di Fi-
lippo e di Pietro, che essi osteggiavano le disposizioni go-
vernative dei padri, che cioè Don Carlos faceva ai Rifor-
misti buon viso, ed Alessio facevalo ai Conservatori di
Russia. E questa, a parer nostro, è la vera causa del loro
morire, e senza dubbio lo fu anche della dispietata con-
danna del figlio di Costantino. Pietro e Costantino furono
entrambi riformatori grandi ed audaci: Filippo nonio fu,
ma il mondo riformavasi senza di lui, e contro di luì.
Avrebbero sofferto di vedere l'opera loro colla loro morie
distrutta? Come regnare dopo morte se l'erede presun-
tivo del trono voleva battere una via direttamente contra-
ria, svellere ogni radice dei paterni decreti, alzare l'op-
posta bandiera, se forse imprudentemente dicevalo, se
coi palesati intendimenti già rendeva attualmente dilli-
Cile il corso, e scemava la forza dei comandi del padre?
Venuti all'amara certezza che tutto l'edificio sarebbe alla
loro morte guasto e forse smantellato, Costantino, Fi-
lippo e Pietro mostrarono quanto possono nell'uomo
orgoglio, veggenza, fanatismo, ferocia ; decisero l'orribile
fatto : se lo fecero anche malignamente consigliare, quasi
ripugnassero, dagli Achitofelli e Gioabbo industri cono-
scitori delle voglie del principe: uccisero i figli come
Giunio Bruto uccise i suoi, e con maggiore argomento
di Bruto, che re non era, ma magistrato di repubblica:
sul trono regnavano: anche discesi nella tomba i loro
comandi vivrebbero : versando il sangue dei figli facevano
sull'avvenire conquista. Magli atroci fatti in silenzio e nel
mistero compivansi: potevasi fare regolarmente giudizio?
giovava il divulgare che la resistenza trovavasi entro le
soglie imperiali, e sugli stessi gradini del trono?^ Rimase
quindi aperto il volo all'errore, e largamente spaziò, ma
CAPITOLO I. 481
non così che non si discoprano alcune traccie del vero,
e l'evidenza delle condizioni politiche non le palesi e com-
pleti. Schiller, che fu Vana delle anime più belle e delle
pili chiare intelligenze che il nostro secolo onorino,
nella famosa tragedia il Don Carlo le ha anche cono-
sciute; ed àbilmente toccate.
Non altrimenti di Costantino agirono pel medesimo
impulso di interessi politici e prima e dopo di lui non
pochi condottieri e sovrani. Quando Gatumando, capo
d*una confederazione di Galli, aspirava al riacquisto del
litorale marittimo, a signoreggiare nelle greche colonie,
e soprattutto a possedere Marsiglia, egli si dimenticava
dei druidi, adorava Minerva, narrava d'averne appari-
zioni frequenti, d'ascoltarne i consigli, d'ubbidire ai co-
mandi, faceva ricchissimi doni ai tempii dei Greci, voleva
con essi amicizia perpetua (Giustino, lib. XLIII, e. 5).
Ed il pagano Glodoveo appena ebbe conquistato nel campo
di Soissons la Gallia cristiano-romana, comprese che nel
contrasto delle religioni non poteva mancare di essere
odiato da una metà del suo popolo, e volle esserlo dalla
parte che diveniva ogni giorno più debole. La barbarica
energia in lui manifestavasi per le azioni come si mani-
festa nelle piante pel verde lavila. A palesare adunque la
sua riverenza pel cristianesimo, e pei vescovi cattolici,
egli spaccò colla regia mazza il capo ad un condottiero
renitente a restituire ad un vescovo un vaso trovato in
mezzo al bottino (1); poi trasferì la sua sede nel paese
acquistato, si professò cristiano, comprese perfino che
l'arianismo era abbomineyole, e volle essere unto re col-
(1) Millot racconU il fatto, e non ne intende la cansa: crede spiegarlo dicendo
che ì Franchi erano barbari, ed afevano idu confuse tul dìriito di proprieià.
Eppure la storia di Millot ebbe Toaore di trenta edizioni, e non so di quante
traduzioni.
31
482 PilTB 8CTTIMÌ
Tolio della sacra ampolla, che credè discesa dal cielo.
Del resto Glodoveo non mutò costume, e continuò a giuo-
care di mazza ora per imprimere nelle dure cervici di
qualche suddito le nuove idee politiche e religiose, ora
per dilatare con grandi vittorie lo Stato ; cosi che non si
trovò possibile di farlo con buona difesa patrizio del cielo,
ossìa di canonizzarlo, come non era stato possibile di
canonizzare Costantino : si canonizzarono invece la mo-
glie dell'uno, e la madre delKaltro.
Ricerchiamo le storie di qualunque età e contrada, e
troviamo la politica consigliera dei re nelKabbandono di
antiche credenze, e nell'adozione di nuove. Leovigildo ha
battuto in [spagna e Romani, ed Alani, e Svevi, e Van-
dali, e lasciato a Recarcdo una mostruosa Rabele di lin-
gue e di culti : Recaredo studia, vuole TuniGcazione, tenta
gli animi dei suoi Goti e dei vassalli, propone Tadozione
d'un solo culto, e l'abolizione di tutti gli altri, vede che
i potenti si conformano al suo desiderio come metallo
stemperalo si figura dall'artefice, si fida allora al pas-
saggio, si fa Cristiano, e gli altri vanno alle nuove devo-
zioni con lui (anno 586). E Wladimiro creava di barbare
popolazioni un grande Stato nella Scizia, conquistava
paesi cattolici sui Polacchi, e paesi greco-eterodossi sui
Bizantini : entrava in Kherson : voleva civilizzare lo Stato,
ed essere il Carlo Magno del Nord. Incomincia a creare
nuovi idoli, il che vuol dire a degradare gli antichi, manda
inviati all'estero perchè gli narrino qual sia la religione
più utile, riceve legazioni dal pontefice, e ne riceve da
Bisanzio, disputa con Islamiti ed Ebrei. Si decide alfine
per la Chiesa dei Greci, ma l'imperatore lo riconosca si-
gnore di Kherson, e gli dia in moglie la figlia Anna,
poi si battezzerà. Viene Anna, ma si oscilla ancora,
si pensano malizie, si sperimentano opinioni con delti
CAPITOLO I. 483
incoerenti , diversi e contrarii : si divulgano miracoli ,
e sono creduli : alfine Wladimiro si fa battezzare in
Kherson, ed il suo esercito si battezza in massa nel
Dnieper (anno 988). Gli idoli si strascinano a coda di
cavallo, si frustano , si spezzano, si affogano : così si
avviliice e caHiga il demonio, e se gli Dei sono dal
principe trattati in tal modo, pensi ogni suddito come
lo sarà chi li veneri I Non era Wladimiro un principe che
diffondesse sulle labbra la grazia, od immettesse beni-
gnamente timore: era un Barbaro come il suo paese era
barbaro : procedeva col martello e coll'ascia : non cer-
cava blandimenti a placare, non aveva parole a molcere
le amaritudini, non quietava di industriose promesse, non
palliava di speranze, non mostrava in volto la pace
avendo nel cuore pensieri di guerra; anche Pietro il Grande
doveva un giorno apprendere da lui come diffondere col
ferro e col fuoco nelle masse moscovite la venerazione
ai nuovi ordinamenti religiosi imposti dal principe! Wla-
dimiro precipita: inalza chiese; concede possessi e diritti
ai vescovi: vuol dare pronta e salda radice alla fede, ed
è appunto nelle nebbie di quel tempo che il clero russo
cerca le prove dei tanti privilegi che ha per lunghi anni
goduto (1). Anche Canuto il Grande quando si insignorì
della cristiana Inghilterra (secolo XI), si fece Cristiano»
lasciò la Scandinavia pagana, andò pellegrino a Roma,
fu fondatore instancabile di chiese e conventi. Tutti
imitarono Costantino variando di fede per utilità di poli-
tica : variarono altresì di residenza, costituirono nuovo
Stato ogni volta che il farlo giovò,
rion variarono di fede, né fare il potevano» ma imita-
(1) Abbiamo desanto dal monaco Nestore , TErodoto dei Russi, cbe scrlTeva
alla Óne del secolo XI , quanto riguarda la conversione di Wladimiro. Quel
capitolo VIU della famosa sua Cronaca è sommamente interessante.
484 PARTE SETTIMA
rono Costantino mutando per cause identiche la sede
dello Stalo anche i calidi deirislamismo. Avevano bat-
tuto i Sassanidi a Cadesia (anno 636) : erano entrati nella
magnifica loro capitale Gtesifonte ; potevano risiedervi»
e di là, dominare sulla ricchissima Mesopotamia, ma la-
sciarono il Tigri, abbandonarono Gtesifonte, ed alla de-
stra dell'Eufrate fondarono Kufa in mezzo alle tribù
seguaci della loro credenza: quando poi questa si dif-
fuse, e trionfò in tutta la Siria, la Mesopotamia, la Persia,
in allora i califfi fecero rivivere in Bagdad Tantica Babi-
lonia. Anche neirindostan le capitali negli scorsi secoli
variarono sovente coirallernare dei successi guerreschi,
e delle credenze mussulmane, buddiste e braminiche.
Non altrimenti segui a Java; cosi avvenne in Sumatra.
Ogni conquistatore scelse a residenza quel punto che gli
parve più opportuno alla nuova monarchia, quand'anche
non fosse il vero centro di popolazione e ricchezza, ma si
dovesse procurare coll'arle di presto renderlo tale. La
forza delle religiose credenze è la massima nelle umane
società: essa adunque esercita influenza primaria anche
sulla collocazione del centro amministrativo.
Pel fatto di Costantino Roma divenne città secondaria
e dipendente da Costantinopoli : la sua decadenza in
allora precipitò, benché riprendesse per breve tempo la
corona delle provincie occidentali, che furono invase e
soggiogate dai Barbari (1). L'impero romano tuttora con-
(1) Coirerezione di Bisanzio a capitale rovinò pure profondamente, e per non
risorgere, Atene. Finché la sede deirimpero fu a Roma, Alene era stata, almeno
di gloria, la prima città del Levante, divideva con Alessandria non la ricchezza
dei commerci,*ma la nobiltà degli sttidii, e nessuna città Peguagliava nelPonore
delle arti : i Cesari la visitavano : Adriano lungamente vi dimorò, ed egli, ed il
dovizioso Erode Attico la abbellivano di nuovi monumenti, e Marco Aurelio ìa
beneficava. Dopo di Costantino, Atene oscurossi, e giacque: Giustiniano ne
abolì perfino le scuole, già diventate povere e silenti : tutto confluiva a Bisanzio \
Ma mirabile è che i Turchi ebbero per Atene quel maggiore rispetto di cui
CINTOLO I. 485
servando nome unitario, alla morte di Giuliano si separò
in due Stati : l'aquila romana si fece bicipite. Questo fatto
sarà stato indubbiamente agevolato dalla pertinace resi-
stenza romana ad osteggiare il primato di Bisanzio e
dalla sua potente tendenza a ripigliare di lena, ed a ri-
tornare sede sicura e perenne almeno del mondo occi-
dentale. Con ciò calmavasi Tantagonismo per così dire
municipale fra le due città, ma non cessava, anzi si ac-
cresceva la commozione politica delle influenze religiose.
Infatti diffondendosi sempre più la nuova credenza, si
fece quasi cristiano l'Oriente, mentre conservavasi tuttora
pagano il Ponente, sebbene l'idolatria anche colà rapi-
damente cadesse. Intanto sorgeva, consolida vasi, uniO-
cavasi la gerarchia ecclesiastica, il cui capo, qualunque
ne sia la causa, non era stato da Costantino trasferito a
Bisanzio, ma era rimasto a Roma (1). Quindi l'Impero
erano capaci. Dominando la Grecia, non aggiunsero Atene né al pascialato di
Morea, né agli altri di Negroponte, di Jannina o di Salonicchìo : non ne fecero,
é vero, il centro d'una greca amministrazione, che sarebbe stato errore pei Tur-
chi, ma destinarono sempre ad Atene un governatore speciale.
(1) Certamente Costantino non ha preveduto, né era facile il prevedere qual
grado di forza morale e materiale si sarebbe concentrala nel vescovo di Roma:
é a presumere che sia derivato da questa imprevidenza che Costantino non
trasse annuente o riluttante quel vescovo a Bisanzio. Se Costantino avesse po-
tuto leggere nel futuro , senza dubbio non lasciava san Silvestro a Roma nel
momento stesso che traeva ogni elemento d'azione e di forza per tutto con-
centrare sotto la propria direzione a Bisanzio. M'accordo dunque pienamente
col molto maggior degli scrittori, i quali non credono che Costantino abbia
egli stesso fondato con donazione d'importanza politica il potere temporale dei
pontefici, e scostandomi per singolarissima eccezione da Dante che scrisse :
Ahi Coslantin, di quanto mal fu maire
Non la tua conversion, ma quella dote.
Che da te prese il primo ricco patre !
(Inf., canto 19)
mi unisco invece all'Ariosto, che fa trovare ad Astolfo nel mondo lunare il do-
cumento di quella donazione:
Quest'era il dono, se però dir lece.
Che Costantino a san Silvestro fece,
(Canto 34, s. 80).
486 PARTE SETTIMA
romano-orìentale Irovossi nella dipendenza religiosa di
Roma, e nel rischio di subire per effetto di quella anche
qualche dipendenza politica: ne derivavano diffidenza,
discordia ed anche aperto contrasto, e da esso gli scismi,
che avendo base casuale, od arliPiciale e ricercata nel-
rinterpretazione diversa di indemonslrabìli cose, rie-
scono però a riGuto d'ubbidienza al capo per convinzione
0 pretesto che egli stesso sia in errore o ribelle al dogma.
Di ambiziosi agitati da avare cupidini di possesso ed
impero per malaventura non fu mai penuria nel mondo»
né di chi sapesse onestare con belle parole gli assalti, a
quella opinione professandosi, che meglio le porte agli
acquisti gli aprisse : costoro scompigliavano le cedevoli
cose del mondo con le perpetue del cielo: vaghi di pren-
dere, dov'era lo scopo il discorso volgevano di religione
coloralo, e si governavano per simulazioni di fede e realtà
d'interessi. E chi tiene l'impero, bramoso di sottrarsi ad
ogni influenza straniera, è di costituire piuttosto una
chiesa nazionale entro il proprio territorio, sperando di
signoreggiarla, favorisce di regola le tendenze che guidano
a sottrarla alla dominazione delFestero. L'arianismo, e
le altre credenze contrarie nelle basi o nelle conseguenze
alla supremazia romana, ebbero dunque favore in ispecie
nell'Impero d'Oriente. Ne risultarono mille discussioni,
ed anche deplorate violenze ; nondimeno i Cesari di Co-
stantinopoli non vollero giammai scatenare uno scisma,
che spezzasse la nominale unità deirimpero, e rendesse
più malagevole il riacquisto d'Italia e d'Occidente caduto
nel possesso dei Barbari. Quando però Carlo Magno ri-
dusse quasi tutto l'Occidente in sua mano^ si dichiarò
protettore dei pontefici, volle essere incoronato impera-
tore romano da essi, si amicò col califfo di Bagdad, Harun
el Ilaschid, scambiò doni e legazioni con lui^ e diede evi-
CAPITOLO I. 487
denza o sospetto di convenire con esso la divisione del
mondo in due Stati, l'uno cristiano e Taltro islamita, i
sovrani di Costantinopoli videro, o loro parve vedere,
approssimarsi Tassalto, ed in allora favoreggiarono aper-
tamente lo scisma. Le controversie politico-religiose con-
tinuate per secoli, scoppiarono in ribellione; i Greci sot«
traendosi al pontefice romano da loro dichiarato infedele
ad un dogma, concentrarono tutte le loro forze religiose
e politiche, ed aggiunsero una barriera d'odio alla temuta
invasione dei Latini. Cosi si ruppe quel vincolo religioso
della fede sotto lo stesso ponteGce, che era ormai il solo
imprimente uniti di carattere all'antico mondo romano,
e non collegossi di nuovo, sebbene la morte di Carlo
Magno e la pronta dissoluzione del grande suo impero
dissipasse i timori dei Greci. Ma ai giorni nostri politi-
che ragioni di sottrarsi ad imposte, e forza d'inQuenze
straniere imprimono quello strano movimento a favore
del cattolicismo, che osserviamo nei proseliti greci di
Bulgaria e Macedonia contro il loro episcopato.
Tutte queste politiche idee trovano applicazione co*
stante nella storia d'ogni età e paese, e portano poi luce
chiarissima anche sulle cause degli scismi, ossia sulla for«
mazione delle chiese nazionali operata colla separazione
politico-religiosa dalla Chiesa, dapprima generale ed uni-
taria. Appena formossi, p. es., il regno di Bulgaria, ve«
niva dichiarato patriarca il metropolita di Tyrnow : non
fu riconosciuto a Costantinopoli, e se presto il regno
non si affievoliva e cadeva, ne seguiva uno scisma.
Quando i Turchi conquistarono Costantinopoli, i Bussi
temettero d'influenza straniera, vollero un patriarcato
nazionale, e lo ebbero: Pietro il Grande ha poi abolito il
patriarcato sostituendolo con un Sinodo d'organizzazione
aflatto politica! il patriarca di Costantinopoli trovandosi
488 PABTE SETTIMi
in mano dei Turchi, tollerò il primo fatto, ed anche il
secondo: vi erano necessità politiche d'accordo: quindi
non sorsero nemmeno dispute dogmatiche, né vi furono
conseguenze di scismi. Restò in allora la Chiesa russa
riunita alla greca piuttosto di nome che di fatto, e sem-
pre poi divisa di nome e di fatto da Roma. Venuti però
i tempi di Caterina II, e fatta la conquista della Polo-
nia, dov'era cattolica gran parte del popolo e l'intiera
Dieta, la politica imperiale provossi a tentativi d'accordo
colla slessa Chiesa di Roma. La differenza dogmatica fra
le due Chiese era una sola, se cioè lo Spirito Santo pro-
ceda dal iolo Padre, come vogliono i Greci, od anche
dal Figlio, come affermano i Latini {ab utroque) ; le
altre differenze non erano, e sono, se non disciplinari e
rituali, l'uso p. es. dell'azimo nell'Eucaristia, la comu-
nione sotto le due specie, il battesimo per immersione,
l'epoca del conferimento della cresima, il matrimonio
del clero secolare, ecc.; delle quali diflerenze la prima,
cioè la dogmatica, su cui l'umana ragione si tace, non
opponeva difficoltà all'accordo qualora le parti ne fos-
sero state desiderose, e le altre, cioè le disciplinari e
rituali , non presentavano ostacolo alcuno , giacché la
Chiesa romana anche attualmente le ammette e consente
a tutti i proseliti di rito greco-orientale che riconoscono
la dipendenza religiosa da Roma. Ma appunto in questo
nesso religioso-politico, e non già nelle eccezioni dogma-
tiche 0 nelle opposizioni del debole patriarca di Costan-
tinopoli si incontrò non superabile difficoltà, e ad onta
di molti espedienti proposti e discussi, nessuna delle
parti piegò quanto bastasse a concordia circa la supre-
mazia gerarchica, i confini di essa, i metodi di esercizio
e quelli di perpetuarla. Né fu diversa la causa, come ci
sembra risultare chiaramente da letture diligenti e medi-
CAPITOLO I. 489
tate d'importanti documenti edili ed inedili sulle missioni
apostoliche alla Cina, per cui si ruppero gli accordi che
con somma sapienza e sagacia già incominciavano ad
insinuarsi dai Padri Gesuili coll*ìmperalore Kanghi, onde
diffondere il crislianesimo su lulla l'Asia confuciana e
buddistica.
Vogliamo altresì fare un'osservazione circa la prima
adozione del crislianesimo seguila in varii Siali nel me-
dio evo. Nella famiglia regnante la prima persona che si
faceva cristiana era quasi sempre la regina. Perchè av-
viene così? Quando una nuova religione invadeva lo
Stalo, ed il sovrano non trovava prudente combatterla»
ma ne prevedeva ed anzi bramava il trionfo, era difficile
allo stesso sovrano la scelta del momento d'accostarsi
alla nuova religione, e di professarla. Parve cosa cauta,
e fu quasi generale la costumanza che il primo esperi-
mento del passaggio dal paganesimo alla religione cri-
stiana non apparisse fatto immediatamente dal re, ma
piuttosto dalla regina, ed altre persone di condizione
elevata in corte. Così il re poteva tuttora sospendere il
passo pericoloso, ed osservare e decidere secondo le ma-
nifestazioni delle prevalenti opinioni. Quindi l'Elena di
Costantino, la Teodolinda dei Longobardi, la Clotilde dei
Franchi, l'Anna e TOlga dei Russi, ecc., hanno dato per
le prime l'esempio dell'adozione della nuova credenza.
L'adozione di nuove religioni, la conversione dei prin-
cipi ad altra fede, la causa degli scismi ecc., sono fra gli
argomenti più ardui ed elevali della storia politica, né
sembrano essere stati finora abbastanza meditati dai
pubblicisti ed istorici.
CAPITOLO IL
La Chiesa lel medio eTo: il Jus circa sacra.
Abbiamo veduto il cristianesimo adottato da Costan-
tino, propagato nell'orbe romano, e successivamente ab-
braccialo da altri grandi sovrani nelle provincie tolte
airimpero o limitrofe ad esso: abbiamo altresì toccato
delle contese di supremazia religioso-civile, delle tante
controversie di chiesa universale, di chiesa nazionale, di
chiesa indipendente, e dei politici scismi. Quale era dun-
que questo nuovo elemento introdotto nello Stato, che
diede alle umane società una forma di vita si diversa da
quella della Grecia e di Roma? Quale divenne col volgere
degli anni questa Chiesa dapprima regnante negli afielti,
imperante al pensiero, poi intessuta alla politica ed uni-
ficata allo Stalo? Come la medesima mettendo il capo nel
cielo aveva forza a conquista delle autorità cadenti di
mano al governo, e di fermare dovunque il piede sulla
terra? Esaminiamo brevemente gli elementi di questa
nuova potenza ignota agli antichi, eia maggiore sempli-
cità delle loro vicende politiche abbia così colla compii'»
cazione di quelle dell'era successiva migliore utilità di
raffronto.
Roma emunta di lena, debile di senno, trista di mar-
tirio era caduta: come la cecità degli occhi è danno di
tutto il corpo, cosi lo fu per Roma quella di sconsigliati
CAPITOLO n. 491
autocrati: ne fu disciollo ogni nesso, prostrata ogni
forza : quando poi accorsero i Barbari a dar sepoltura
a già preparate rovine, essa crollò, ed allora si diffuse
sul mondo la notte feudale. Non rimase neirOccidente se
non qualche pallido riflesso di luce romana, come ba-
gliore dopo il tramonto del sole : consociate alla romana
legislazione tutta assoluta nel principe, molliplicaronsi le
leggi barbariche favoreggianti la dispersione della regia
potenza, e sorsero allora castella e bastile dove crollavano
casali e cìltÀ. Gli usurpatori d^imperio o attraversavano
rapidi come sanguinosi fantasmi la politica scena, o ri-
manevano formidati per barbarie e supplizii, trasmet-
tendo talvolta il potere per adozioni, per destrezze, per
intrighi, per forza, per certe leggi giammai, che scorrere
dovevano dei secoli prima che una lunga prescrizione di
comando nelle stesse famiglie avesse somministrato Tàn-
Cora tenace della legittimità a fondamento d'ubbidienza
e d'imperio : il mondo romano non ne aveva lasciato in
retaggio una precisa idea.
Ha nel mentre Torganizzazione politica in tutto il
mondo crollava per l'anarchia feudale, la Chiesa si fa-
ceva terrena e gigante: diveniva un governo, uno Slato,
anzi il più ordinato, il più forte di tulli gli Stati. Por-
tando la bandiera della comune difesa contro gli irruenti
Islamiti, la Chiesa si era fatta centro d'ogni forza ed
azione. Prima che uno Stato qualsiasi avesse regolarità
di sistema ed unità di governo, la Chiesa aveva un orga-
nismo perfetto non solo nello Stato del regnante Ponte-
fice, e nei cento Stati dei principi ecclesiastico-civili di-
pendenti da lui, ma altresì in ogni Slato del mondo cat-
tolico avente tuttora dignità di governo civile suo proprio.
Dal pontetlce ai patriarchi, ai metropoliti, ai vescovi, ai
capi delle pievi» ai parrochi» ad ogni singolo membro
49Ì PIBTE SETTIMi
del sacerdozio degradava il potere ecclesiastico, scende-
vano gli ordini che si eseguivano su tutta la terra, o vi-
ceversa salivano rapporti, informazioni e richieste. La
Chiesa cattolica, sparsa in regni disgiuntissimi, era un
regno compatto ed unitissimo, che involgeva e feudatarii,
e principi, e re. Holli secoli prima che i re organizzassero
il potere ispettorio, la Chiesa esercitava intensissimo un
tale potere sul privato e sul pubblico in ogni parte del
mondo.
Non avevano i principi alcuna autorità sulla Chiesa, ma
la Chiesa, così organizzala, aveva un'immensa autorità
indiretta sullo Stato. Anzi la Chiesa aveva ancora una
potente autorità diretta sullo Stalo, perchè il clero aveva
voli numerosi nelle Camere feudali, o [Stati, o Cortes,
come si chiamavano nei varii paesi questi consigli le*
gìslativi, talvolta anche esecutivi, in faccia ai quali la
regia autorità era pressoché nulla. Potevasi forse umi-
liare nelle vi^ legislative la Chiesa organizzata entro e
fuori Stato, la Chiesa che poteva votare la guerra nel
paese vicino , e non votare le armi di difesa nel paese
minacciato ?
Il sistema dei concilii e delle nunziature pontificie è
di molli secoli anteriore a quello delle legazioni e dei
congressi dei principi. La Chiesa. aveva sempre un resi-
dente alla corte dei sovrani esteri, che ne sorvegliava Io
Stato, premiava, riferiva, promoveva. Che il sistema delle
nunziature precedesse quello delle ambasciate, è evidente
anche senza consultare la storia od il diritto canonico.
Il mondo cattolico formò un tutto prima del mondo po-
litico: dunque vi furono prima i nunzii, e poi gli amba-
sciatori. Quando nulla importava alla Svezia di ciò che
si facesse in Sardegna, Roma era interessata nelle vicende
svedesi e sarde. La politica di Roma era la politica uni*
CAPITOLO n. 49S
versale, quella degli altri Stati una politica semplicemente
territoriale e conGnaria.
In yariì Slati, p. e. in Polonia, i nunzii erano ì su-
premi presidi del tribunale ecclesiastico. La Chiesa aveva
dunque legati che comandavano direttamente negli Stati
esteri, prima che i principi temporali vi avessero legati
semplicemente informatori. Ai tribunali ecclesiastici poi,
0 per ragione di persona, o di cosa, o di causa, era
soggetta un'infinita quantità di private e di pubbliche
vertenze.
La Chiesa poteva sempre acquistare, non mai alienare:
doveva fruire la protezione dello Stato : non doveva pa-
gare imposte se non a Roma. Tutto il mondo doveva
diventare un patrimonio ecclesiastico, e fu per diventarlo.
Milioni d'uomini si trovavano nella dipendenza patrimo-
niale della Chiesa.
Il mondo era in preda ad un feudalismo senza freno
e senza legge. La Chiesa era invece fornita di collezioni
sistematiche di leggi ecclesiastiche. La Chiesa aveva un
ordine di istanze, una legge, un capo, quando il mondo
si trovava nell'inestricabile labirinto feudale. L'Europa
era sparsa di bande armate, distruggitrici, senza disci-
plina, e spesso senza capi. La Chiesa invece, prima di
ogni Stato, ha una milizia permanente negli ordini ec-
clesiastici militari, che, numerosissimi, potentissimi,
dominano i mari, dominano anche provincie e regni in-
tieri. Infiniti ordini monastici coi loro abati, provinciali
e generali trovansi in tutti gli Stati : abitano talora in
forti castelli chiamati modestamente conventi : posse-
dono enormi ricchezze, e per l'ordinario hanno volo alle
Camere legislative.
La carriera ecclesiastica era la sola carriera nobile che
fosse aperta anche per i plebei: era più vasta della car-
494 PAlTBfETTIllA
riera nobile» perchè era aperta fino alla sovranità della
terra.
La Chiesa organizzata ed indipendente, la Chiesa gius*
dicente nelle cose dello Stato, la Chiesa doviziosissima,
la Chiesa con un sistema di leggi ponderalissime, la
Chiesa armata» la Chiesa dominante in Europa, in ogni
paese nuovamente scoperto» . o da ultimo aggiunto al
mondo civile: gli Stati invece senza centralità» dipendenti
nelle cose ecclesiastiche, non indipendenti nelle assolu*
tamente temporali» poveri, senza legislazione, senza eser-
citi» senza libertà di pensiero, senza libertà di carriere
per la servitù della gleba» e le prerogative nobiliari :
quanto era divenuta grande nel medio evo la reale po-
tenza della Chiesa I
Il cristianesimo adunque non era più come neirepoca
primitiva il cantico consolante, non era più Tìnno della
grande trasformazione sociale della prima epoca cesa-
riana» e Tespressione della pariGcazione universale»
d*una nuova età di mitezza e giustizia nelle leggi dei
popoli» nella vita dei principi» nel progresso civile. Gli
Stati erano stretti nelle propaggini della Chiesa univer-
sale: cercavano d'impedirne 1 estendersi ; cercavano anche
di spezzarle. Fatta quindi astrazione da certi momenti
di monarchie bigotte, che erano» e pur sono talvolta og-
gidì occulto principato dei chierici, cessavano i Costan-
tini ed i Carlo Magno benefattori ; sorgeva il dualismo
fra i due governi concatenali» ravvolti, confusi ; monitO'^
rii ed interdetti da un lato, placet ed exequatur dal-
Taltro; preparata la guerra delle inveHiture, che fu Funa
delle più grandi perchè combattuta pel dominio esclu-
sivo del mondo» e dopo di essa le molte degli scismi re-
centi sorte per l'emancipazione dei singoli governi, sem-
pre iniziate al solito colle scaramuccie e gli affrontamenti
CAPITOLO li. 495
sul campo filosoQco tuttora nuovo deirastrattissima teo-»
logia, ajutate da versioni nuove di libri sacri, continuate
colla negazione delle annate e delle decime, prolungate
per la mancanza di quegli eserciti disciplinati e grossi,
che nelle epoche romane, e più nelle nostre, definiscono
prontamente con terribili colpi le guerre, e spesso com-
pite col formarsi di Chiese indipendenti da Roma.
inestricabile era il viluppo religioso, feudale e patrizio,
e propagato in ogni ordine, in ogni sistema di società.
Sovente il sovrano imperante in un paese era pei feudi
posseduti vassallo nell'altro, ed anche al Pontefice: i
principi, nascondendo nei penetrali della reggia enormi
delitti, erano sulla scena del trono riverenti alla Chiesa:
pel dovizioso e potente Tempia fortuna legata al cenobio
non era l'ultimo segno della lunga pietà, ma misura al
rimorso di turpissima vita ; nelle città vuote di famiglie
e d'officine dilalavansi i chiostri : il delubro abbracciato
non proteggeva il delinquente pentito, ma l'inseguito
colpevole. Si mercatava col campo l'albero per le radici
infisso alla zolla, e lo scarno colono immobilizzato alla
gleba : si introduceva, destinato a perpetuarsi, l'insen-
sato duello, sconosciuto alle società antiche, che pure
avevano in alto pregio l'onore: la pravità degli artifici!
formava gli eserciti, non più schiera di cittadini coscritti
come in Roma ed in Grecia, ma ciurma collettizia di
accorrenti venturieri, di presi vagabondi, di malfattori
condannati, e per empire soldatesche fortuite giurate a
capitani fortuiti, i gaggi, la frode, tutti i mezzi cercavansi,
il solo giusto, la sorte, obbliando : cento statuti distrug-
gendo il meglio che aveva fatto Giustiniano, le sue leggi
di successione cioè, sostituivano all'equo riparto dei beni
nelle famiglie i vincoli dei palrimonii, dì guisa che perfino
al principio di questo secolo in Francia la facoltà di
496 PA&TB gBTTnii
testare non rifletteva che il decimo delle fortune di chi
figli avesse, ed il sesto di chi non ne aveva : erano dub-
bie le competenze, e la curia vasta, intriganlei corrotta.
Tale si era il medio evo. Il mondo si liberò dai suoi
ceppi, ma ancora ne porla le livide cicatrici. E nemmeno
può dirsi che sia tutto distrutto, perchè nella via lumi-
nosa del progresso civile quelle sole cose irremissibil-
mente distruggonsi che sono bene sostituite con altre.
Y*hanno ancora nelle nostre istituzioni e nei codici le
vestigia del medio evo, e soprattutto vi è in quel perpetuo
contrasto riflettente l'esercizio del JM civile circa iacra.
Intorno al medesimo fu prodotto un pelago di opinioni
e sistemi, che per quanto sia immenso, andrà ancora cre-
scendo in immenso. Non sì risali infatti, e non si risale
giammai airindagine delle condizioni primordiali e di
fatto, in cui si trovavano originariamente la Chiesa e lo
Stato: è quindi perpetua edindeGnita la disputa sul pos-
sesso confuso, sulle dubbie costumanze, sulle non pro-
vate concessioni, laddove la controversia potrebbesi forse
ridurre semplice e piana muovendo da un punto tuttora
intentato» da quello cioè in cui la Chiesa e lo Stato si
sono dapprima incontrati. Infatti cosi nel consultare in
argomenti di privato diritto, come nel meditare sui grandi
problemi di diritto pubblico, il giurisconsulto, quando due
contendenti si rimproverano a vicenda di lesa giustizia,
di violate promesse, di arti subdole, di usurpazioni ecc.,
ha da ricercare nella storia di fatto un punto anteriore
a quello di confuso possesso, di abuso e di forza, onde
desumere da qual lato militi almeno in antico un titolo
incontrastabile, ond*eg1i possa conoscere a chi incomba
la prova d'aver eseguito giustamente, o di poter eseguire
le innovazioni discusse.
Nel caso delle religioni adottate mancano sempre, o
Cìntolo n. 497
quasi sempre, le prove documentali. L'unico titolo delle
Chiese verso lo Stato si è l'ammissione che lo Stato a
tutte preesistente ne fece: esse sono pertanto nello Siato
jwre familiaritatis, e non jure domimi. Lo Stato le am-
mise come società riputate innocue od utili, e le Chiese
osservate dal lato legale e politico, che è il solo pel quale
vivono di vita consociata allo Slato; le Chiese esaminate
nei rapporti col pubblico, e non coll'uomo privato ; le
Chiese considerate nel campo degli interessi mondiali,
che sono i soli assoggeltabili a calcolo dai governi esclu-
sivamente terreni, esistono nello Slato in via di preca-
rio, e colle prerogative che lo Stato trova opportuno di
concedere, e di conservare alle medesime in vista dell'uti-
lità che da esse ricava. Il giudizio su tale utilità non può
negarsi allo Slato, se anche il medesimo può commettere
errore: stabilito però che una Chiesa m utile, ed emi-
nentemente lo è la cristiana, lo Slato ha il dovere d'acco-
glierla e di conservarle prolezione e favore, giacché il con-
cetto d'utilità si identifica a quello di diritto e giustizia, e
non dipende da arbitrio, bensì deriva da necessità giuri-
dica che lo Stato ammetta e secondi le istituzioni d'emi-
nente utilità politica. Queste sono le idee fondamentali che
a nostro avviso dirimono e tolgono in radice la controver-
sia polìtica: esse sono egualmente applicabili a qualunque
Chiesa ad a qualunque Stato: non devesi nella discus-
sione politica contemplare il privato, bensì lo Stato, che
ha pur esso vita imperitura, ma tutta terrena. Sia la
Chiesa nell'interno suo regime monarchica, aristocra-
tica o democratica, occupi un campo geografico più o
meno esteso, goda o non goda di possesso territoriale o
di mobili ricchezze, riceva o non riceva assegni erariali,
presti o non presti allo Stato, olire i servigi religioso-mo-
rali, anche servigi meramente civili, abbia lo Stalo una
82
498 putì SiTTIMi
forma di governo oppure un'altra, sia stata solenne o
tacita rammissione della Chiesa, siasi il principe conrer*
tìto alla nuova fede o no, tutte queste specialità nulla in*
fluiscono sulla decisione che emana dall'ammissione che
lo Stato preesistente alla Chiesa ne fece. E nel fòro
esterno, e nel temporale la Chiesa ricevuta nello Stato non
ha verso il medesimo verun diritto temporaneo o perpe*
tuo a possesso ed esenzioni di sorta. E verso i terzi che
sono sudditi dello Stato, la Chiesa, qualunque essa sia,
ha tutti i diritti che lo Stato le consente di esercitare.
Tale sembra a noi essere il modo di ridurre questa tesi
si combattuta fra i politici ed i pubblicisti al vero suo
cardinale principio, e d'ottenerne la soluzione dalla nuda
ragione.
CAPITOLO IH.
Necessità ehe si initi dai Saltani la politica religiosa
di GostaatiM.
Il grande esempio dato da CostaDtioo nell'adozione del
cristianesimo, quello di Clodoveo, quello di san Stefano,
quello di tutti i principi del mondo romano, del goto,
dello slayo, tutti gli impulsi della storia politica, tutti i
prodigi operati da uomini intendenti dei tempi, tutte le
lodi impartile da quelli che hanno dato prova di inten-
derli, la necessità di non rimanere stazionarii per non
essere schiacciati dairinseguente progresso, l'inutilità di
ogni destrezza, doppiezza, e d'ogni buja è crudele abilità,
d'ogni gelosia e paura d'invadente civiltà, il bisogno di
agguagliarsi ad altrui, di raggiungere le grandezze inar-
rivabili degli Stati civili, od almeno d'aspirare a raggiun-
gerle, devono essere per l'infelice Turchia d'animazione ed
esempio. E quando mai sorgerà in Bisanzio un uomo
d'ingegno e carattere che, fortemente temprato ad idee ed
azione, insorga ad atto degno d'alta mente e cuore colla
energia che le genti conduce o strascina, compia tal fatto
che più esser non possa nei sultani l'errare, imiti Costan-
tino e cosi ritorni a gioventili e vigore un decrepilo impero
che minaccia da ogni lato rovina, che perde per carie ad
una ad una le membra, che di tanto si inabissa di
quanto i popoli cristiani gli salgono d'intorno in altura?
500 PiaTE SETTIMA
Quando verrà un sultano che non inutilmente com-
prenda che la Turchìa invano si prova a lottare col fato,
che è di essa come di chi nella negra belletta di palude
s'impaccia, che ad ogni scossa che per trarsene fa, vi si
tuffa di più? Quando verrà un sultano che non voglia
attendere spossato la Gne dell'impero, ma schiuda l'O-
riente letargico all'alacrità d'Europa, e senta d'avere una
gran missione da compiere? Quando verrà un sultano
che realmente, conosca da che procedano i lutti dell'Im-
pero, e pregusti la luculenta e cara gioja di poterlo val-
lare e difendere, un sultano che sappia che solamente
quel principe è grande che il proprio interesse confonde
con quello del popolo, un sultano che si convenga per
animo a quei giganti dei quali parla la storia, si sciolga
da ogni superstizione la mente, non creda consorti indi*
visibili in lui le due nature dell'islamita e del principe,
non si sgomenti perchè si romoreggi d'intorno, pensi
che muore l'uomo ma vive la gloria d'un fatto immor-
tale, si metta al viaggio dove già trova segnato il sentiero,
ed imperi da sé, e non per la trista Bliera dei Consigli,
che non v'è Consiglio, il quale sia rapido, costante e si
allo provveda?
Bisuoni finalmente sul Bosforo l'imperiale parola: ces-
sate di essere un'orda di Barbari, che hanno eretto i loro
padiglioni sulle più belle contrade dell'Europa e dell'Asia,
prendete sede fraterna frai popoli presso cui stanno la
civiltà e la forza, ridomandate a questi terreni, a questi
magnifici porti, a questo felicissimo clima la ricchezza
che vi hanno trovato gli antichi, ed ancora vi esiste non
ignorata e sepolta, ma palese alla faccia del suolo. Vor-
ranno mai sempre i sultani fondare il loro trono non
sulla massa del popolo che è più colta, più industriosa
e più ricca, non su quella che ogni giorno aumenta di
amoLO lu. 501
numerOi che è attiva nei commerci, che naviga i mari,
che ha colonie ed appoggi neiresteró, ma su quella che è
povera, insciente ed inerte, che ogni giorno decresce, che
non è operosa nei traffichi, non ha rapporti colle na-
zioni più grandi, non scorre coi vascelli le acque sue
proprie?
Gli Stati non si innovano come si mantengono, biso«
gnando forme e misure a conservarli, ardimento e vi-
gore ad innovarli. Prodiga non è la natura dei ferrei
caratteri che ad innovare abbisognano, né Teducazione,
se anche sapiente, è per se slessa potente a formarli, ma
di quando in quando certi uomini fatali s'elevano come
astri improvvisi sul firmamento del trono, arcane forze
ritrovano, volenti e non volenti nell'orbita loro strasci-
nano, ed invadono dei loro raggi la terra abbagliata : vo-
glia il Cielo prepararne alcuno per Todierna Turchia I II
contrasto fra le religioni è la rovina dell'Impero, ed il
cristianesimo potrà d*interno regime mutare, ma tanto
durerà quanto la civiltà: è dunque necessità che i sul-
tani si confessino a lui.
Ormai non v'ha Turco che abbia ingegno e qualche
coltura (e non mancano affatto), il quale non conosca e
confessi che crolla l'Impero, e non sappia che il Corano e
la Senna e la legge imamica sono d'ostacolo alla libertà
necessaria di legislatrice riforma: il fanatismo nelle alte
regioni non v'è, scemò nelle basse, od appena in qualche
provincia dell'Asia sussiste: non scemò perfino nel Ma-
rocco, ov'era si ardente? non si confessa anche colà dopo
l'ultima guerra spagnuola, e non si paventa la superio-
rità dei Cristiani? eppure il sultano di Marocco, e non
quello di Costantinopoli, è rispettato dai suoi perchè vero
0 creduto discendente del Profeta, mentre lutti sanno che
tale il sultano dei Turchi non è.
502 PARTE SBTTIlCi
I sultani sono ben discesi dal tempo in cui mandavano
duecento vascelli alPossidione di Malta, e trecento cin-
quanta navi contro la veneziana Canea, in cui oppugna-
vano con settanta mila uomini i bastioni di Candia« ed
entravano con duecento mila in Ungheria, in Istiria, in
Podolia: quindi non sono più avidi d'animose venture,
e di comprare dominio col sangue. Ora la Cristianità li
infrena, ed impiaga: hanno sotto i piedi spalancalo
l'abisso, e lo vedono: i sultani, perduta la potenza che li
rendeva intemperanti come gli antichi Cesari a Roma,
rìmellono della loro durezza, e sono sofferenti di fug-
gire e di tardare perìcoli: non stanno a sopraccigh'a
levate con milioni di sudditi cristiani rammaricatorì
perpetui, della dolcezza abusanti, della fermezza ade*
gnaulisi; eppure si mantengono disonnati suodievolevia,
quasi fosse meglio il perdere con violenza domani, che
il conservare con savio consenso ed energica risolutezza
per sempre.
Quanto è debole ed ancipite il governo degli attuali
sultani I Tutto lo Stalo è da mortifera apatìa prostrato,
0 per funeste agitazioni convulso: le armi ribelli ora
sono apprestate, ora usale a ferire : sempre lo scontento
si dilata, concessioni si chiedono, e disperando si danno,
ttè facendosi fine giammai al richiedere, ed al neoessario
accordare, ne va a precipizio sommersa la prevalenza
della massa ottomana, e raulorilà materiale e morale
d'ineguale partigiano governo* Vogliono i sultani conser-
vare la Turchia madre agli Islamiti, e matrigna ai Gri«^
stiani, invece di donare a tutti lo Stalo quieto, sicuro e
fecondo di beni: non possono ordinare il governo se non
eoo elementi cristiani, e se non si ordina cade, perchè
è solamente dall'ordine che si va alla forza*
La sola adozione del crìstianeumo può togliere i sol-
GA?ITOÌO HI. SOS
tani al vile martino di ottemperare alVEuropa, e sicurarli
sul Bosforo, che è segno di tanti orgogli e delle avare
cupidità di una vicina e potente nazione. Com'albero
sveste la fronda giallastra perchè si rinverdì e s*abbelli di
nuovo, cosi l'Impero l'islamismo dispogli per ritornare a
giovinezza, dilatare le forze interne, e prendere gagliar-
dia dall'estero. A tale mutazione dovrebbero tutti conver*
gerei consigli della diplomazia, che invano s'affanna d'in-
fondere alito ai Turchi di temporanea vita, e non di futura
vitalità : a questo scopo dovrebbero mirare in silenzio le
preparazioni dei sultani, le formazioni d'esercito, le gra*
duatema rapide emanazioni dileggi di tolleranza e favore
perle masse cristiane, l'ammissione di Cristiani ad eleva»
tissimi ufficii, la concessione della proprietà territoriale
ai capitalisti europei, la riverenza e l'onore ai dignitarii
ecclesiastici del cristianesimo. Ardua, anzi assai perico-*
Iosa è la via, ma è la sola possibile per togliersi a vita
precaria, a morte certissima. Constano di Cristiani i quat*
tre quinti del popolo nelle Provincie d'Europa, sono
quasi esclusivamente cristiane le isole, pressoché tutte
le coste dell'Impero sono occupate da una zona di popò*
lazioni cristiane, quasi tutte le grandi città sono sul mare
con popolazione turca e cristiana, e tutte potrebbero fa-*
cilmente dominarsi dalle flotte dell'Europa, che avrebbe
immenso interesse a favorire l'audace, ma savia, ma ne*
cessaria mutazione. Non ha l'Europa versato fiumi di
sangue, e consunto tesori nella guerra di Crimea, non
già per assicurare, ma solo per prolungare la vita, o
vogliam dire, la tabe dell'Impero ottomano ?
Vi è rischio, ripetiamo, nel tentare si gran metamor-
fosi: certamente potrebbe andarne perduta alcuna pro^
vincia nell'interno dell'Asia; in ispecie potrebbero inMt*
gere le poche provinde che, già tolte ai Persiani^ sono
504 PARTE SETTlMi
islamìte di persiana credenza. Ma rimpero non perde
adesso brani a brani se medesimo, non ba perduto la
Grecia, e quasi perduto la Servia? non perde allualmente
i Principati? non gli sfuggono perGno le ottomane pro-
yincie? Tunisi ed Algeri sono sottratte, la dominazione
sulla Siria« che è una religiosa Babele, ad ogni istante
vacilla, ed ora che l'Egitto pel taglio dell'istmo di Suez
va ad esser collocato di balzo nel bel mezzo del mondo
civile e dell'atti vita dei Cristiani, potrà la Turchia mao-
mettana conservare a lungo un'autorità più che nominale
sul medesimo? L'Impero soffre la pressione costante, la
quasi supremazia dell'estero, al quale tutti i Cristiani
dell'Impero si rivolgono per averne contro gli Ottomani
protezione ed appoggio : vede gli stessi Turchi, gli Alba-
nesi islamiti, e gli Arabi comperare sovente a gran prezzo
la protezione straniera, e con ignomìnia lo soffre : teme
perfino della debolissima Grecia, avendo nelle proprie
viscere le masse dei Greci cospiranti a suo danno in
Turchia, nella Grecia, nella gran capitale sul Baltico.
Ma se anche qualche provincia esclusivamente ottomana
nell'interno dell'Asia andasse nel momento della crisi
realmente perduta, non la potrebbe riacquistare l'Impero
ringiovanito di forze? e quando pur fosse insanabilmente
staccata, non è meglio soffrire l'amputazione d'un mem-
bro, che la perdita della vita? Vastissimo è tuttora l'im-
pero ottomano: stanca ancora la terra col peso di smisu**
rate, non valide membra, benché non domini come in
passato ed Algeri e Tunisi, e tutte le coste del mar Nero,
la Transilvania e l'Ungheria: immenso è il campo su cui
può moltiplicarsi il suo popolo, e germinare la sua ric-
chezza; possiede provincie nell'Asia ricchissime e popolo-
sissime nell'era greca e romana, ma sulle quali discese
l'oscurità ed il silenzio per noi, che abbiamo pure sco-
cimou) m. SOS
perto perfino i paesi Taticinati nella Medea da Seneca,
e quelle fonti del Nilo, che si cercavano dai Faraoni egi-
ziani, e Cesare, al dire di Lucano, ambiva conoscere, e
tentammo il misterioso soggiorno dei poli dove è spenta
ogni vita airinfuorì del cozzo dei ghiacci lottanti: sono
scrollale le fondamenta religiose delFautorità imperiale,
ed è vuoto Terario, amministrato, ossia dilapidato da uo-
mini rosi dal verme della cupidigia delle sostanze pubbli-
che. Ma la Turchia ha minor debito pubblico di qualsi-
voglia paese d'Europa, e se la religiosa variazione seguisse,
lo sterminato possesso dei beni immobili delle moschee
e delle religiose fondazioni sarebbe a libera disposizione
del principe: Temigrazione europea richiamata dalle co-
lonie cristiane già esistenti in Turchia accorrerebbe nu-
merosa a dar valore a quelle terre benedette dal sole. Si
adotti finalmente il cristianesimo, che solo può salvare
rimpero riconciliandolo con se stesso, e col mondo civile
in cui immerso si trova: nell'attuale colleganza dei po-
poli, non è dato a verun principe o gente di starsene
isolata, come il nostro pianeta sta librato nelFaria pel
peso suo proprio (1). Goll'adozione della nuova credenza
cesseranno le pericolose influenze stranière sulle masse
cristiane: si recluterà in allora l'esercito su tutta la po-
polazione dello Stato, e non più sulla sola metà : si po-
(1) Abbiamo desunto letteralmente dalle MetamorfMi d'Ovidio questa esatta
frase di matematica geografia
Cireumfùso pendebat in aere tellus
Ponderibus librata iuis.
(Lib. I).
Fra gli antichi, le giuste idee geografiche si trovano abbondevoli in Aristo-
tele, in Tolomeo, in Strabone, e nei matematici della scuola alessandrina, e
nella Bibbia che dice aver Dio iospeio la terra tul nulla^ ma ci piace il rin-
venire anche in Ovidio un cenno si preciso. Dante, che tredici secoli dopo di
Ovidio parlava del eentro generale d'attratione dei pesi^ ed il Pulci che diceva
Vacqua essere piana d'ogni parte, benché la terra t^bia forma di ruota, non
hanno meglio d*Ovidio in quei versi indicato il vero.
906 PilTE SBTTIIU
tranne allora avere uOQciali di terra e di mare dal medio
ceto, che quasi non esiste fra i Turchi, né è numeroso,
né colto abbastanza, ma pure già esiste, ed è civile fra i
Cristiani: si porrà fine a quel fatale viluppo di giurisdi-
zioni privilegiate degli stranieri in Turchia, che cresce
pel sistema illegale delle protezioni concesse da agenti
deirestero» ed estende nei territorii ottomani la giuris-
dizione forastiera con tanto detrimento della sovranità
territoriale: si darà nuova forma, nuova vita e possi-
bilità di progresso allo Stato.
Tutto ciò può ottenersi se un grand*uomo si trova.
Ciò che manca alla Turchia si è appunto quest'uomo:
manca un Costantino , un Clodoveo che veda e che
operi ; manca un grand'uomo di consiglio e di guerra,
od almeno un grande signor di soldati, un capo di
Stato; manca un forte carattere com'era quello di
san Stefano d'Ungheria, che si faceva cristianoi mo-
strava ad un tempo la croce e la spada, ed era do-
vunque vi fosse a combattere ; manca una diplomazia
d'elevata intelligenza, di iniziativa ardimentosa e con-
corde; manca la preparazione dei mezzi, che alcuni do-
rrebbero pure disporsi nell'interno, sebbene assegnamento
giustissimo possa farsi sulle forze straniere. Non è da
un sultano vivente in serraglio con eunuchi, con donne
od adolescenti servienti per femmine, quasi si propulsasse
di tali ajuti lo Slato, chiuso colà dove sì lussureggia e
trionfa, invisibile nelle provincie dove si soffre e con-
giura, accessibile solo a chi parla o tace a norma d'al-
trui piacere e di proprio interesse, ed è per inscienza
soggetto ad errare, e per depravazione a voler essere se-
dotto, non mai sentendo di dato consiglio o di crudati
del popolo penitenza nel cuore, che possono operarsi fatti
si grandi. Bensì lo potrebbero da un sultano che ritor-
CifiTOio ni. 507
nasse come i suoi avi alla vita dei campi, che riformasse
non da invisibile stanza, ma in mezzo ai soldati, che
avendo alcuna base di forza, ne usasse rapido s\, che
una grande resistenza non potesse sorgere ed ordinarsi.
Sono gli uomini che non ondeggiano incerti nei grandi
bisogni politici, che afferrata un'idea di necessità o van-
eggio, ogni mezzo d'azione preparano, ed ogni passione
a quella sola subordinano: sono gli uomini che come Cle-
mente VII per conservare Firenze alla propria famiglia
chiamò gli Imperiali che gli avevano saccheggiato Roma,
e lui tenuto prigioniero con molta miseria in Castel San*
t'Angelo. Pilli ancora sono gli uomini come Pietro il
Grande, come Federico, che strascinano volenti o non
volenti le masse, e presto le invadono dello stesso loro
spirito, della loro grandezza ; non già gli uomini anche
savii come Giuseppe II, che voleva riformare dal pro-
prio gabinetto col solo emanare degli ordini a ehi non
voleva, non sapeva, non aveva indomabìlità di carat*
tere, convinzione profonda, altezza abbagliante, maestà
a seduzione, a terrore, per bene eseguirli. Costantino che
dava un primo esempio invece di mostrarne e di seguirne
di grandi, che doveva temere il sorgere d'altri concorrenti
alla corona al luogo di quelli che aveva vinto ed ucciso,
che aveva a deprimere la gloriosissima Roma, e ad edifi-
care una nuova capitale, che non aveva soccorsi a sperare
dall'estero, ma ad attenderne guerre, ebbe ben altre dif-
ficoltà a superare che non ne avrebbe questo sultano, la
cui venuta noi invochiamo da Dio, e le superò. E fuor
d'ogni confronto maggiori ne ha poi superato l'Alberto
di Brandeburgo, che essendo Gran Maestro dell'Ordine
Teutonico, pensò, stabili, poi disse di repente ai suoi
frati soldati: sono luterano, e son principe, e principi
saranno i discendenti da me» e creò in principato eredita-
508 pàbte settdu
rio di sua casa la Prussia appartenente àlVOrdine (1525).
Il sultano, airappoggìo d'Europa, e d'una metà del suo
popolo, con si favorevoli condizioni di territorii schierati
sul mare, non avrebbe forse, se sapiente ed energico,
a vincere maggiori difficoltà che non furono quelle di
sfolgorare, di trucidare i Giannizzeri per regnare in Co-
stantinopoli imbelle e codardo di cadevole vita, non di
signoria potente nelle provincie, né rispettata e temuta
nel mondo. A compire la più nobile, la più utile delle
rivoluzioni i sultani hanno già troppo tardato; non as-
sumano, come fanno, vana forma di monarchi liberali,
ma vero nerbo di monarchi civilizzatori: il loro popolo
è muto, ma non è d'uopo d'interrogarne la malattìa, che
è nota: prolapsa sunt Pergama, ed unei sola è la via di
rialzarla : ciò che è stato per lo antecedente nei secoli,
insegna la via a salale. Così alle nazioni, come ai princìpi,
come ad ogni uomo» è condonabile Terrore se si risolvono
a non perdurare nel medesimo fin quando manchi il
tempo a rimedio.
Già vennero i sultani in rassegnazione, e ne fu offesa
la dignità con fomento al pericolo, mentre avrebbero
dovuto rizzare con impeto risoluto la novatrice bandiera,
non scendere col trionfato islamismo, ma trionfare so-
vr'esso. Essi entrarono, confessandolo ono, nella fami-
glia dei principi europei: e volenti o non volenti soscrìs-
sero al diritto quasi sociale dei popoli. Più non osano,
come un giorno, di mozzare il capo di uno schiavo in-
colpevole per modello al pittore di un decollato : i bascià
più non accettano il cordone rassegnati incapestrandosi :
non si mandano alle Sette Torri i ministri di Venezia, di
Russia e di Francia, ma si inviano i proprii ministri alle
corti straniere: fu spezzata, poi del tutto perduta quella
collana di Stati protetti, che erano una volta avanzate
CAPITOLO in. 509
vigìlie della dominazione dei Turchi: si insinuano in
tutto il paese, premono, imperano, in ogni amministra-
zione di Stato, in ogni sistema di cose militari e civili
invadono i Cristiani, e porta non è ad essi tenuta. L'isla-
mismo adunque non è più pei sultani una forza, un segno
ossequiato di carattere sacro, né sta alla soglia dello Stato
come temuto custode di inviolata nazionalità: esso non è
più che un danno, degrada i Turchi ponendoli al retro-
guardo d'Europa, mantiene anche anime nobili in vili
condizioni, perpetua la guerra alla civilizzazione, fa su-
bire ai sultani Tonta giornaliera di morali e materiali
sconQtte, li priva dell'utile gius dei connubii coi sovrani
d'Europa, della libertà ed integrità del potere ammini*
strati vo e civile, e quindi della conquista di milioni d'abi-
latori dello Sialo, che ora sono di diritto e di fatto se-
mistranieri al medesimo. Abbraccino il cristianesimo ,
scongiurino cosi la certezza di vicina, comechè d'inco-
gnita sventura ; li vinca il lume cristiano che loro raggia
d'intorno; non si immergano in sonno ignavo ed in-
sciente; si piacciano allo specchio dell'operare europeo,
e venga in essi lusinga del grado eguale o superno ;
almeno studiino a salvezza finché non affranti del tutto
hanno ancora potenza di salire alla stessa. Avranno
trionfo dei Cristiani loro sudditi, coi quali sono sempre
in aperto o segreto certame, lo avranno non tardo e com-
pleto degli stessi Mussulmani, dei quali adesso già spen-
gono l'entusiasmo e si alienano l'affetto con perpetue
titubanze, concessioni e tolleranze ai Cristiani : essi mu-
teranno la debolezza in conforto, opporranno una bar-
riera robusta ai rapaci proponimenti d'altrui, prende-
ranno fruito dei loro territorii, se non costringeranno
eventi e domineranno fortuna, avranno prosperità di
popolo, e questa sarà potenza di principe.
510 PAITE SETTIMI
Il campo geogràflco deirislamismo è vastissimo, ma
la Turchia (senza forza è la Persia) è il solo grande Stato
maomettano del mondo. Se i sultani adottano il crìstia*
nesimo, e la Turchia lo adotta, presto l'islamismo potrà
dirsi sparito dal mondo come sparì il culto d'Osiride,
quello di Belo e quello di Giove, ed il cristianesimo a?rà
forza maggiore nell'invasione salutare del globo. Ha se
i sultani non osano un gran colpo di Stato, la loro ca-
duta è sicura : non può infatti dirsi di loro ciò che Orazio
scriveva, che cioè il tempo prudente copre di notte cali-
ginoHU il futuro: del loro inevitabile crollo non siamo
profeti, ma veggenti : quando per agitazioni di popoli o
per vittorie di spada cesserà in Europa l'equilibrio degli
Stati discordi e gelosi, si vorranno gli acquisti e si cer-
cheranno i compensi, e si troveranno nelle contrade ot-
tomane, come alla fine dello scorso secolo ed al principio
dell'attuale, senza alcun riguardo alle ragioni dei deboli,
si sono cercati e trovati nelle repubbliche italiane, ed in
cento territorii di principi alemanni secolari ed ecclesia-
stici. I sultani lenti a risolvere, ed a dare assetto e
forza allo Stato, perderanno l'impero come lo hanno per-
duto i Paleologhi, che quando s'accorsero di avere una
via di scampo, si misero per essa, esitarono, ristettero,
non perdurarono audacemente, che forse il potevano,
come i sultani potrebbero (1).
(1) Quando Costantinopoli nel secolo XV fu seriamente minacciata dai Turchi,
rimperatore chiese soccorso ai Latini: costoro vedevano la convenienza poliiica
e quasi la necessità del soccorrere, ma essi, soprattutto il Pontefice, che doveva
essere l'animatore ed il centro direttivo della nuova crociata, mostravansi lan-
guidi, ed anzi poco propensi a grandi sacrifìcii per dare ajuto ai scismatici.
Allora rimperatore comprese Tindispensabililà della riunione religiosa: venne
egli stesso in Italia coi suoi vescovi e grandi: s'uni un concilio: i Greci am-
misero la procedenza ab utroque: si celebrò la concordia , ed i Latini airin-
Vito del papa s' armavano. Ma le plebi di Costantinopoli non erano state ben
preparate alla mutazione, ed iniziate al misterio: non vi erano forze latine
CAPITOLO m. 511
Ad {sviluppare adunque le membra impacciate dal-
rislamismo, ed a dare ai Cristiani libera e rigogliosa la
vita, non aspettino i sultani, ancora*una volta il diciamo,
né le ultime piaghe, né l'uccisione dei primogeniti, come
i Faraoni aspettarono. I popoli tenuti per forza sono nei
tempi pacifici di danno e di spesa, e sono di debolezza
e pericolo in quelli di guerra : quegli poi che gli tiene é
travagliato da doppia paura, Vuna dentro per conto dei
sudditi, Taltra fuori per conto dei rivali esterni. Accol-
gano i sultani la provvida idea, meditino il fulmine a lan-
ciare, nella via di ristoro si mettano, e della meta confi-
dino. Quel sultano che avrà sortilo mente nata al regno,
e non solo voglie prone alla mota del vizio, che nei di del
cimento senta l'energia nelle fibre discorrere, e tenga di
sua forza levate le braccia, non cercando il vigore in chi
lo circondi, ma prestandolo a tutti, sarà l'erede di Co-
stantino, sarà il Goffredo dì Buglione difensore del Santo
Sepolcro, mentre adesso tutti lo vogliono essere e lo sono
invece di lui, sarà l'Atlante che sostiene delle sue spalle
lo Stato.
presenti, e la popolazione non era mista come lo è di presente in Turchia.
Appena i vescovi ritornati dall'Italia incominciarono a cantare la procedenza
ab utroque, vi fu quindi tumulto, imperatore tentennò, poi piegò, e cedette
al clamore delle plebi stolte ed insane. Accorsero poscia i Turchi, non i Latini:
Costantinopoli fu battuta e presa, Fimperatore ucciso, e Maometto II s^intitolò,
quasi a ragione, fra lo spavento di tutta la Cristianità, tignare dei due mari
e dei due continenti.
PARTE OTTAVA
GLI STORICI NOVELLATORI.
33
CAPITOLO UNICO
Quesfopera già contiene numerose pròve della necei'»
sita di non abbandonarsi ciecamente ad ogni credenza
di storiche narrazioni, e di non lasciarsi traviare dal me-
raviglioso e strano, ma di interpretare con senno, di rin-
tracciare anche nelle immagini dell'arte e nei colori della
poesia la nuda verità, e di ridurre qualunque cifra esa-
gerata e bizzarra alle proporzioni, nel cui limite possa
essere creduta ed ammessa.
Di prodigiosi errori sono irte le storie, e nessuna ve-
rità si insegna più schiettamente, e si crede più vera,
di talMibbagli e flnzioni incominciate da uno o da pochi,
ricevute da molti, divulgate da mille, e durate per se-
coli. Noi stessi prepariamo pei posteri la storia fantastica
del tempo attuale. Non descriviamo e dipingiamo p« e.
il re Carlo Alberto nel palazzo di Novara dopo Tinfausta
giornata, affaticato la mente di gravi pensieri i meno
dolente di sé che d'Italia, che parla al figlio genuflesso,
lo nomina re, gli ricorda i doveri, e solve nel pianto i
congregati suoi duci? Vi sarà storico d'ora innanzi che
voglia escludere una pagina si commovente dai racconti
suoi? Eppure Carlo Alberto a Novara non apri il suo
pensiero ad alcuno, noi disse ai figli, né al generale co-
mandante l'esercitOi né lo comunicò per iscrìtto al pria-
516 PiRTB OTTiTA
cìpe, reggente del Regno, a Torino, ma lasciò nella notte
Novara, non indicò qual via prendesse, e senza compa-
gni n'andò a Mentone in Liguria, da dove si ebbero le
notizie ed un atto d*abdìcazìone di lui: non siamo dun-
que noi stessi maestri di verità.
E non sempre siamo maestri d'assennatezza nemmeno
nelle interpretazioni e giudizi!. Cosi Machiavelli non
esalta di forza, ma di sapienza e d'avvedutezza i Romani
perchè facevano corte le guerre; quasi il durare in esse
dipendesse da perspicacia, e non da potenza a riportare
prontamente vittoria, e non abbiano anche i Romani do-
vuto fare talvolta lunghissime guerre. Egli dice che gli
uomini si moltiplicano nel Settentrione pd freddo, e nelle
repubbliche per influenza di libertà ; quasi fosse popo-
losa la Siberia, ed in certe parti della Cina si avesse il
governò repubblicano. Dice che un principe armato deve
piuttosto aspettare in casa la guerra, che non farla di
fuori, e questa generalità di sentenza è dimostrata di
falso con ragioni e con fatti in molte parti dell'opera at-
tuale. Dice che i Romani inviando colonie assegnavano
poco terreno ai singoli, perchè i poveri vivevano già male
in Roma, ed inutile sarebbe stato che vivessero bene di
fuori. Dice che la sovrabbondanza degli umori nel corpo
dell'uomo genera purgazione da sé, e similmente avviene
che per guerre e pestilenze naturalmente s'abbia a pur-
gare e decrescere la sovrabbondanza del popolo in Pro-
vincie ed in regni, ecc. Di tale mondiglia abbondano le
opere di Machiavelli , perchè talvolta è dormigliosa an-
che nei sommi ingegni la mente.
Non diremo delle assurde indicazioni d'antichi autori,
0 piuttosto dell'incomportabile temerità dei moderni
nel tradurre nei pesi» monete e misure d'oggidì le .cifre
lette nei classici che parlano d'issirìi, d'Egiziani, di
OiPiTOLO innco 019
Gred e Romani. Per mero accidente si offre in qualche
luogo e tempo alcun elemento a percezione sicura d*un
fatto o cosa speciale, uMi tutti i gabinetti di antiquaria
dell'Europa insieine raccolti, e tutti gli studii fatti dagli
archeologi finora, sono ben lungi dal darci soddisfacente
notizia della generalità di tali sistemi, che furono d'al-
tronde cosi mutevoli in ogni paese ed età: noi ignoriamo
le basi di quei sistemi, e le vicende di essi : noi non co-
nosciamo né le fluttuazioni dei valori da cento cause pro-
dotte nel mondo consociato, e più nel mondo dissociato,
né le sproporzioni che dovevano essere enormi quando le
ali non erano fatte grandi al commercio, né era feconda
rindustria per agevole spaccio, per le foreste fossili, per le
audacie della meccanica: noi nulla sappiamo del prezzo
adeguato che avevano sui principali mercati del mondo
antico i generi di sussistenza, dal costo dei quali in oro
ed argento si avrebbe a desumere qual fosse il valore
reale del metallo in quel tempo e luogo. Eppure scri-
viamo qual era la capacità dell'arca di Noè, il peso del-
l'asta di Golia, il valore del bottino importato da Car-
tagine o dalla Macedonia, il prezzo della perla disciolta
da Cleopatra, il costo giornaliero delle ghiottonerie di
VitellioI
Questi errori son nostri, ma anche gli antichi ne ab-
bondano. Dì barbare carnificine p. es. è tutta immonlda
la storia. Dovremmo però rifiutare le iperboli di quei
monti d'uccisi e quei fiumi di sangue, che ad ogni passo
si incontrano, né crediamo alle intiere generazioni mie-
tute, alle città rase al suolo, ai fatti deserti dov'erano i
regni: troppo sovente gli storici nei racconti trasmo-
dano, e negli eccessi traboccano. Vi fu non rara pro-
dezza personale nei re e nei supremi condottieri d'esier*-
cito; che animando d'esempio in decisivi momenti hanno
118 fàXn MTàTA
condotto le colonne airassalto, e molti ebbero ad un
tempo Fanoro è la tomba, ma riGuta la logica quelle
perpetue immagini di re e di dubì d'esercito, che sempre
ci si presentano in una mischia confusa colla propria
spada combattere, come pugna p. es. Alessandro nelle
tele ammirate di Le Brun, o nel superbo mosaico tro-
Tato nella casa del Fauno in Pompei. Chi Uene il co-
mando di grandi masse in azione, che dere tutto cono-
scere» ed a tutto proTiedere, che ha da ogni lato notizie a
ricevere, ed ordini a dare, che de?e confermare e modi-
ficare le disposizioni, scemare, dividere, lanciare le ri-
terre secondo gli scopi premeditati egli istantanri bisogor,
non può scendere a soldato ordinario, vedere un sol
punto, non essere a tutli accessibile: diversamente ope-
rando, egli dovrebbe cedere la suprema direziofie ad
altrui nd momento medesimo in cui più gli importa, e
VQok conservaria a se slesso* Sempre la pitturai e so-
vente la poesia vestono di forme materiali le idee perdio
altra lingua, o miglior lingua non hanno: in tal modo
procurano di rendere oggettiva anche Tidea del comando,
oaaia dalla superiorità militare, col presentare Alessan-
dro o Cesare quali soldati più degli altri valeuti a eom-
ballere. Però lo storico non deve usurpare ad artisii o
pooti una lingua inferiore alla sua, ed esprimere 3 ISdso
potsoda dire il vero.
Muzio Seevola non ha eertamente eombùafo la destra
Si 99C9 nto C89 BOV MIKl n éUOfV,
le 4mIIo Sctva, aatarione ài Cesare^ si cÉvò dairo^
ibIw^i i dfevdo nenico portandolo imperterrito coIToc»
chb proprio confitto sutta polita^ perchè lo spaaìno vmosf
tciSlindodi aewi. I kreewto«l fabin tulli d'un tsBà-
^fat che aocloQO da Robm mm ipiaMio mila attici 9
càfRCM wmté bì9
dkwiff jne^ eraib«Uere gli Btf ti«<^f ^ e muc^cmc» luttì^ meM
Off solo Fffbietto fric€6r)iiMr/ cbè Vob0 dorerà fmr ▼iveré
péfr ia)fn« il Ma^oe dei tonti FaUi fenoli dif^e», e tìyì
afnebè irt «ftore <^ 7fta U? te iei^tiTii il raeéonlo » k
rapi ipeeeMe ià ÀnnìMe eoft looMr ed ecféta^ gli eséT^
eitf ébe 91 ìmUcme «1 Irstfimètle cm («ikr fiJrore de néà
a€(!(n'p0r$i im teUrmwM ék^ àiitrngge HiHété €ÌM;
Vm^ EtaììHt ébe rifilile le ieitere di Pmtm p^tchè «frtttf*
eerlMe ^mI rè^ leMMne kiflete re fatee^ «émdrlqtte
9«MiStl9/ HMt piànge^ fMrekè ftétt'c^e |W<iM»l#*IM
Mmd9 f edtilo «be ifàfma féuÉpl» de pinigare eOltè
greifdi fteiMttre; i iiieiie(«rii fa Ui dftemrif «est ffttrfMfó^^
ebe lècmidcr YofMto dd Aeretio Viltere «tr^bem fo^
malo eserciti contro i quali Aureliano in una sol#lMf«
taglia perdeva seHAAiki MMirti/ imi «effe falsità ed esa-
gerazioni màtnie9Ìè1
m #idiéKtfo del pMritn^tftf ài (pkm OVlà tm èì Me*
«l*tve^ em m sok» di tdm^rr^,' & ^ ràku/iim nofm*
MI9 kffó ^dì(ffl^lMìJ« ^ Mfìsc« d^ éùùjo #»» féfé;-
tfM ìfftidìdflfe f lAdéàitùi^fA Hi M^^i^i iÉÈtè: ttféfé
ptctflHtfv ÉMMMMtlB ||K esiéi^éifiy ftfMSf i(Séff iféttl éfòrfctf^/
«M M« pCMMiAio KéWM «Mlpfèttdere «Ile «i^ifd^ «Mi
e«MI#Mnii délTc^d^^ llte^fb^ kf ì^fMf^ta tfo« timéékéé^
trove frequenti le accuse contro priyd^r tSé^féti é^ ré
per dtfiMft^ f^(«KlMé^ «pd d»fèi9tf/ é- ì&rà Iketmi M ter-
sltMl^ dM{^ Egi«lef#/ dei fréMt < m «otf ^(^ftdoitf d
réiAMMìd dite Èàffà 9[¥Sttf ì ItétìtàtA 1filófiil& ìà fèùùté
étifté'WÈ IMì» fft ()«Mé(y de l«^ rìdt^dF da^
rdltl^ iV ìfèiMffA^ óHéS- M §ttféÉ& i(ffpf€SÌ tf iCoUBm^
telffi.- Cw MrtrldMéf m ^thMìflté^ àtMi§6 pSt iù&io m
éXeiSM eiie' p^ 9iifle diinf MnRiane séWt^é A^ féttitìt
S€Èttlt éfffMflK g^tflfiriM) fÉf tfùé déliél dr tfflnk (^ éittà^i e'jJM^
590 PARTE OTTAVA
scia comandando ad eserciti immensi, dieci volte mietuti
e rinnovali, conoscesse ogni soldato, ed a nome il chia-
masse, è favola, se pur non si è tradotto in questo modo
il concetto che Mitridate avesse stabilito registri d'eser-
cito si che d'ogni soldato tosto sapesse l'origine e nonae.
Cleopatra al precipizii, al nodo, alle vene aperte forse
preferi il veleno, ma credibile non è che bramasse di
trattare i serpenti, come dicono poeti ed istorici, e nelle
orribili loro spire morire. Gli angui attorti alla donna
deliziosa furono descritti, e creduti, ed in mille modi effi-
giati ; eppure Cleopatra ben poteva uscire brevemente
di vita por altro veleno riposto in quei cestelli di fiori,
in cui leggesi che essa ha potuto farsi portare il co-
lubro.
Da cui morte prese subitana ed atra.
(Dante, Par., VI)
Che Serse flagellasse il mare è favola, perchè seria-
mente meditate le operazioni di lui, non si trovano né
assurde, nò stolte; ma forse fu volta in ridicolo l'espres-
sione frequente del remeggio di navi che l'onde flagella.
Siccio Dentato era senza dubbio un prode guerriero se
miravasi a lui come al bravo dei bravi, ma non uccideva
da solo a centinàja i nemici al par di Sansone, d'Arturo,
e dei cavalieri fatati.
Se nella battaglia di Pidna la falange macedone avesse
resistito si ferma come narra la storia; se si fossero per-
fino dovute lanciare le bandiere romane in mezzo ai
suoi ranghi per eccitare i soldati a riprenderle, avrebbe
Paolo £milio avuto soli cento uccisi e feriti, ossia due^
cento cinquanta volte meno del numero d'uccisi e feriti
che vuoisi soflerto da Perseo ? Ma miglior duce di Paolo
Emilio era Crasso, che perdeva tre soli soldati quando
Spartaco sacrificava dodici mila dei suoi assaltandone
CAPITOLO UNICO 524
le trinciere (Appiano). Pare strano anche a Tacilo che
nella battaglia fra Svetonio Paolino e Baodicea moris-
sero ottanta mila Britanni, e soli quattrocento Romani.
Ma che diremo di quel bravo console Fabio (Plinio, 1. VII,
cap. 50), che sapeva risparmiare si bene i Romani, che
ne perdeva uno solo per ogni otto mila nemici uccisi ?
Egli infatti ne avrebbe perduto soli quindici nella gran
battaglia in cui ammazzò cento venti mila Allobrogi ed
Arverni. Eppure anche quel Fabio era uno scolaretto a
fronte di Lucullo, per cui la guerra d*Asia era simile alla
battaglia di Rinaldo nel Tasso :
Pugna questa non è, ma strage sola,
Che quinci oprano il ferro, indi la gola.
(Canto 20, st. 56).
Egli infatti avendo soltanto dieci mila Romani uccise
cento mila soldati a Tigrane, non perdendo che cinque
dei suoi. Non possiamo però credere a si gran strage del-
l'esercito di Tigrane quando leggiamo che all'avanzare dei
Romani immantinente si sciolse ai quattro venti e sparì,
e nella stessa capitale si ribellarono le colonie greche ed
asiatiche che vi erano state strascinate a popolarla, onde
la città cadde di subito in mano a Lucullo. Se leggiamo
di quel milione d'uomini uccisi da Pompeo in battaglia,
di quei due milioni uccisi da Cesare, di quel milione che
in ogni città della Persia si uccideva dai Mongoli, del
milione di Ebrei uccisi da Tito, soprattutto dei ventuno
milioni (Procopio) fatti perire da Giustiniano, siam certi
che sono corse delle cifre di più. Se si narra d'una vora-
gine che s'era aperta nel fòro di Roma, e fu colma al
giltarvisi d'un cavaliero coU'armi, di Curzio cioè.
Che di sé e dell armi empiè lo speco
In mezzo al fòro orribilmente irdto,
(Petrarca)
51S Pàmn MTAf à
Gvediatto piultoslo ad bdc sediziotie scoppinta, e ceisiUi
colUi perdiU d'on solo eooibatteifter cki« noo ad Hd Imh
ratro spalancalo aeniM causa, e di sì poca materia ripieno^
So TwfMf la milite di Bralo^ e Saf?i)ia fnogUe d(^ figlio
di Lepido si toglkmo la ?ita coi cwrbom aecesi^ dkè col-
Tasfif fiatodolla dai gas earbomosi^ cti* è iMida A aviocto
tranquiDo e fraquenter gli atorici rof^tiano m^t^i/igMù^
atrasìf, e piìi ancora dì donna^ e quindi nairaffo dM
posero i carboni in bo«sa« e pei la teimero ben dmsa
Le piraoiidi erano tomba A'oz$o$af€€mnià e Hòlu^ a*w^
tazione di re, come ledisseFedfOf manonnimiiiMi b«r^
riera ai venti del deserto, perchè non versassero sulla valle
del Nilo le sabbio ad ist^ilira r£|plto, la ({naie interpre-
tazione di pMos&doMrina fu prodotta, e da molti creduta,
senza riOetl^e cbe quella barriera cento volle interrotta
sarebbe stata fra lattala possibili la più costosa ed inutile.
Demetrio Polioi cete non ha certamente rinunciatoa presh
deve Rodiy e levato Tassedia ff&t non esporre a pericolo^
come dice Aulo GelliQ pib* XV), un quadro di {fotogene
espugnando con forza e con fnoco l'odiata^ città. Sltticon^
non distmise a Fiesole resercito di Radagiso $eni^piv-
iere^ mh^ uamo^ né crediamo alle fibre ddicale de» 6er-'
mani rimasti in allofa priii^o»^ die tutti moriu^f o per
MmtàiicUnuk e ài tikof ma^^nUo^ creiamo a bat-
terie eba U abbia uccisf di ferro, di veleno a éK lame.
Bisogna meditare traacittìklr, e pef l'cMrdinaiio la buona
spi^azifi^ie si Wo?ar Non era nscito di senno JUilonio se
adendo » eeotro éA gieco suaimf^ria iUessandria» adu-
lava le plebi^ assumeva le costumanze greeher vestiva
alla greca: anche Publio ScrpMme vestiva alla gr^eca in
Sicilia, ed anche Germanico cosi vestiva in Egitto, eppure
né Tuno, né l'altro a^^vano gl'interessi si forti e gli scopi
d'Antonio : be»fMlevasi Antonio di ciò censurare da tutta
Roma, e spedalmente da Augusto, ma non si dotrebbero
ripetere fra noi accuse si leggimi di sconsiglialetza nel-
Fabbandono degli usi romani. Non era pazzo Cambise
perchè, conquistato FEgitto, marciò pei deserto al tempio
di Giove Ammone: doveva togliere ai Greci, sempre ne-
mici di Persia, un luogo (fi somma influenza, e le loro
edionie fiorenti ddla Cirenaica, non lontane da paese
soggiogato di nuovo, e d'antico orgamsmo civile tanto
difierente dal persiano* E per l'opposta ragione anche
Alessandro marriara dairEgitto al tempio di Giove, e gli
recava dei doni, e da quel Dio dei Greci era didiiaralo
firn ^glio. Se Tiberio lasdando Roma si ritiniva a Capri,
ed altri Cesari in Campania, non era già per nascondere
le tnrpitiàiànif come sempte ss dice : trovavano a Capri
ed in Campania più serena almo^ra che a Roma, ove
le loro aufe, deserte di palrizii, non raco^ievano che
nomum nuovi e liberti : cigni volta che Varistocrasm è
dq[>ress8, od una dinastia è icaodafadall'allra, non suo-
cede sempre cosi?
Inalsarono i Rodii p« s^^nale ed ornamento atrim^
boocaltiradel porto ito grande colosso, fmsse cirif le navi
trapassavano neiroscire od entrare, na le difficolti della
statica, reaormìtji delle pn^rrioot che altrimeftti
avrebbe dovuto avere la statue^ il pmcolo delle scoase
Bdle tempeste di ANve, e la frequenza dei terremoti hi
Rodi, tolgofioeffniffedealramoiitocheilgigaf!^
èait*uffo all'altro molo le gambe, ed i vasci^ avessero 9
loro cammino fina qn^lei I Itoci cft^ vestono d*abftr di
aoldati gli alberi d^inra foresta, ed i Komavi che retroce^
4aiio iafgamiafi da esercito iffatle90 A gwwfcToso e A
saldo fiffasamoni chieenffanoviClofKisi Af nel camptt di
VlaocOf ma trovavo nefle fende e villo 6 bevande, cfper
■mnIo 99 W6 pascono^ dio al ritomsr de? Romani soffo
L
Sii PARTE OTTÀti
obesi ed uccisi; Paolo Emilio che vedendo ad Olìmpia
Dell'Elide la istatua di Giove, lavoro di Fidia, credesì;
stupefatto, dirimpetto a Giove vivente, sono racconti
che non sapremmo ripetere volendo escludere dairislo-
ria e romanzo e fole.
Immanità, oscenità, atrocità insozzavano, imperversa-
vano sotto Caligola e sotto Nerone, ma come credere che
Caligola seriamente facesse console il suo cavallo, che
Nerone incendiasse due terze parti di Roma non per ven-
detta, 0 per trasferirsi altrove, ma per mero diletto e ri-
fabbricarla di iluovo, che facesse venire non grano, ma
mota e sabbia dal Nilo, quando v*era mancanza di viveri
in Roma? E forse che un vero mentecatto e maniaco
può per giorni, per mesi, per anni realmente regnare
come Caligola, e più ancora Nerone regnò t E forse che, •
morto Nerone, sarebbero sorli in Creta e nell'Asia due
pseudo-Neroni nella speranza di salire per inganno a
potenza, trovando dei buoni e ragunando dei bravi, se
tutti e ciascuno nell'Imperio gli fossero stati di parte
contraria ? Sono argomenti a mostrare che Caligola non
era affatto demente il grande acquedotto scavato per
Roma, e l'ordine che i fatti della guerra civile (il cenno
che troviamo riflette la battaglia d'Azio) né si glorificas-
sero, né si deplorassero, ma possibilmente si diménti-
cassero. Voleva invadere la Brettagna : incominciò egli
pure coll'accogliere Arminio, figlio di Cinobelino re dì
Brettagna, onde gettare la discordia nell'isola , ed age-
volare l'acquisto : uni l'esercito sulla Manica ; lo imbar-
cava, sbarcava, agitava ad esempio di fazioni di guerra,
probabilmente attendendo l'istante propizio a passare lo
Stretto, e scender nell'isola. Sono questi indizii di pazzia?
Quante volte Napoleone sulla Manica non ha egli stesso
imbarcato, sbarcato, agitato l'esercito suo destinato alla
CAPITOLO UNICO 525
medesima intrapresta 1 Abbandonò Napoleone la Manica
per correre ad Ulma: ignoriamo perchè la lasciasse Ca-
ligola. E di tanto sforzo, di tanto apparato romano e
francese che cosa rimase su quella spiaggia di mare?
Rimase di Caligola Taltissima torre ex qua^ ut ex pharo^
noctibw ad regendoi navium curtw ignei emicarent.
E degli immensi preparativi di Napoleone, delle sue
tre mila navicelle apprestate, del suo tanto armeggiare
sulla Manica che altro rimase se non il faro di Boulogne?
La fondazione di q\ie\Valtis$%mo faro di Caligola non
può perfino guidarci ad induzione ragionevole che egli
pensasse a creare in quel punto, che è dei più vantag-
giosi sulla Manica, un vero stabilimento navale? Ora
l'importanza d'una costante e forte stazione navale colà
era ben grande per un impero padrone delle coste gal-
liche, delle bataviche e delle britanniche, che doveva sor-
vegliare ed all'uopo minacciare l'Ibernia, guerreggiare
si spesso nella riottosa Brettagna, ed era sovente costretto
a tradurre le piccole navi del Reno per già esistenti, o
per nuovamente scavati canali da quel fiume ai golfi ba-
tavici, e nel mare fino alle foci dell'Ems e del Weser per
appoggi di forze e di viveri alla sinistra dei grossi eser-
citi combattenti nella vasta Germania. Eppure non suolsi
riflettere, e contro il principe tristo. si pronuncia senza
alcuna riserva condanna assoluta d'efferatezza, d'imbe-
cillità e pazzia.
- Sotto Nerone una metà di Roma fu da orribile incendio
consunta: durò quanto quello di Mosca o quello d'Am*
burgoa' di nostri: arsero le spoglie di tante vittorie, i mi-
racoli dei greci artefici , le opere antiche e conservate di
grandi intelletti, perfino molti dei più magnifici monumenti
dei re, della repubblica, di Cesare Augusto. Ma fu Nerone
l'incendiario di Roma? Quando leggiamo negli scrittori
nmàA dì luì ebe rincaodia MDppia in un povero quar-
tiere dei venditori! d^i oliii ebe Nerone hU'httìso delk
Fineendio ritorna immantinente in città da dove era a^
sanie» che prende tutte le disposizioni onde arrestare le
fianme almeno per isolamento* e nudi spazii ed aria,
che dispone delle sue case per rifugio di chi ha perduto
le proprie* che fa subito erigere capanne e tettoje, che
da tutti i vicini municipii fa portare a Roma masserizie
e soccorsi, che ribassa il prezzo dei grani ordinandone
arrivi alla flotta imperiale a giorni fissi non exeeptii
marti ea$ibu$^ ecc. ; quando tutto ciò sta scritto leticai-
menta in Tacito» potremo dar retta a qualche mormora-
tore di piazza che Nerone era Tautore deirinccHidio» e si
sollazzava durante il medesimo cantando dei versi sul-
rincendio di Troja? Né erano da imperante furioso e bru-
tale le disposizioDi impartite per la ricostruzione di Roma:
esterum urbù. qua domui iupererantt non ut poMt gal-'
lica incendia, nulla di$iinctianet nee passim ereeta^
$ed dimensis vieorum ardinibus^ et latis viarum spatiis.
cohibitaqw wdifieiorum altitudine^ ae pateftutis areis
additisque partieibi^t quw flrontem insularum protege^
rent : ea$ portieus Nero sua pecunia extructurum, purga-
tasque areasdominis traditurum pollicitus est: addidit
pramia, ecc. (Tìcit., 1. XV, cap. 43). Migliori leggi edi-
lizie non si fanno oggidì. Come Nerone ricostrusse Roma
consunta da incendio, ed anche Lione divorata pur essa
dal fuoco, Pombal ricostrusse Lisbona distrutta da ter-
remoto, e noi crediamo Nerone cosi innocente deirincen-
dio di Roma e Lione, come Io fu del terremoto di Lisbona
il famoso marchese, o Tito imperatore del vulcano che
distrusse Ercolano e Pompei. Ma qualora si accogliesse la
nostra opinione, quante belle dissertazioni scolastiche
andrebbero perdute i
MiUifi «j tm^e^ «19'^ ÌÌ»m^ M«b* 9#r Vmme «gK
«lijto g0)l« Me0# ja Omùé fi i» Nipoti. «b9 em pur
99S9i, «ow'mmIm Ta«i0 <iÀce, gnte» «itti Egli peit^ «▼«▼•
iJieaiiia ««usa im (m^a* éi Gr»à, ben^j^è oVimiftH
quelli dei Roinfni. cIm ^iN>tf^«JM> i»^) s|>«U«eotf. non
fpt0 fmi Grmi» vifiWm Otywj^w eiutri; m $cm«m
vfiTP prQÌif§ »c pqpvlo e»$0 tp»*Ui4vk nomini in fitkm
gmtiku* Mi tprpitv4im: qv» Qmnia ^pvd im {«pami-
4^^ poftim infmi9, parfifu hnmiiif^, i^ttM» ab kont^
H/i ^nc\m 4'ipg^gnQ e ^im^mm ^ ftUnimi» nélh
jEterfibin dell! cognizioni comni hi^i^f^lmm pP9ve
ìierom: legU v(>ll« più largnineB^ mmem^iH oofiro
piwiela. .e £ajce ioirapreo4ar6 dwe ^»p)pr«7i<M)i, rniM m)
ee^Ufo 4«irAfriie«i oiccid«Dta}« <oe)r«liii9l« Sndtp). VtMn
neU'ilU fifubiia. Furono rimgniidooi oneramenl* geo^w^
^ehet furono «todii d^lo »Uio poUlieo dei popoli é^
rinternoi e teotoliyi d'«nnod«rt cgi m»é»mù relanoni
d'otìliii £0Pi9)0fci/iM? bell'uno « n^'tliro caso iono
d'onoro a questo Cesare, nj; btono risconti ntlla storia
deirantiebiUL.
Intraprese Verone ii (aglio dieiU'istpo 4i Corinto, wh-
piegando a^ laForo la migliaja dai pri^onierì ebe in
masse forniva la guerra giudaiea. la quale opera certa-
mefite difficile ma non iaipossiMle. né inutile nemmeno
oggidì, sarebbe stata in allora d'estrema importansa. Vo*
leva con largbissimo canale riunire il porto d'Ostia sul
l'evere alla gran beja di Pozzuoli e Miseno attraversando
il lago d'Averno, il territorio di Cuma e le paludi Pon^
tine. Grande progetto era questo pei sottopassaggi dai
colli, a per difficoltà d'ogni specie, abenobè noi eonsen*
tiaqdo con Tacito cbe lo chiaqaa intolerandui labore net
528 PARTE OTTAVA
$atis carnee, non troviamo né demente né stolto chi vo-
leva facilitare in tal modo a Roma la consumazione dei
prodotti della Campania , e traforò realmente i colli
prossimi al lago Averno colla grotta per quei tempi
prodigiosa, e tuttora ammirata nei nostri.
Anche gli storici moderni vengono spesso negli as-
surdi a comparazione coi vecchi. L'uno ci descrive il
gran Ziska che comandava nelle battaglie agli Ussiti an-
che in allora che affatto cieco divenne ; l'altro ci magni-
fica lo spavento di Carlo Vili alla risposta di Piero
Capponi, Suonate le vostre trombe, e noi suoneremo le
nostre campane, mentre. vediatno che Carlo Vili, ad
onta del fiero discorso, nulla mutò dei propositi, e li
ha appieno eseguiti. Qui Paolo Gio\io dice che Io storico
Bernardino Corio morì di dolore per le disgrazie di Lo-
dovico il Moro, e lo troviamo vivere diciannove anni dopo
quelle disgrazie ; là Carlo Botta ci mette i brividi descri-
vendo Genova nel dicembre 1746 convertita in vulcano,
ed allagata di sangue, e sappiamo, e confessa egli stesso
che nello spaventevole giorno otto soli popolani hanno
perduto la vita. Altrove Pietro Verri fantastica che l'an-
tica Lombardia fosse una vasta palude ove le acque
stagnavano impure, e ciò per rendere una prima imma-
gine da cui poi trarne sanata ed abbellita la patria, seb-
bene il territorio lombardo sia una larga pianura con
forte pendenza, e non impedito versante di tutte le acque
all'emissario coinune del Po: come dunque sospendere
le acque sui piani inclinati?
Gli storici antichi e recenti hanno da essere ponderali,
e le loro asserzioni poste al vaglio con senno. Nella let-
tura poi degli scrittori orientali, che quasi sempre assu-
mono le forme della poesia, che abbondano di figure,
di traslati, d'iperboli, bisogna essere accorti ancor più
CAPITOLO unico 529
che non in quelle degli scrittori d'Occidente , i quali so-
gliono essere più temperati e meglio rispondenti a na-
tura di prosa. Se noi quindi leggiamo delle mura di
Gerico cadute a suono di trombe, intenderemo che fu-
rono superate per vigore d'assalto, e non che altri-
menti crollassero. Se ci si dice di Giuditta.
Che fé* il folle amador del capo scemo,
(Petrarca)
intenderemo che lo tolse di cervello, come di cento Olo-
ferni segue ogni di, e non che Giuditta gli spiccasse
materialmente il capo dal busto, e lo ponesse in un
sacco.
Ma vano sarebbe il dire di più. Non si acquista pre-
gio se non di verità, ed aggiustatezza di idee: le esorbi-
tanze di fantasia, le baje audaci, le poetiche immagini,
le leggende bizzarre abbondano negli scritti d'ogni paese
ed età, ed i giovanili ingegni, come più sensitivi e più fer-
vidi, di tali letture facilmente si invogliano, par loro di
intenderle, si annebbiano le menti, e trasmodano al falso
di giudizii, ed a leggerezza di idee. Diremo con un clas-
sico: nocet empta errore voluptas.
Non dobbiamo nemmeno abbagliarci del lume dei
grandi maestri da esserne idolatri, ed infedeli a ragione,
ma passeggiando le antiche memorie allo scopo di por-
tare perfetta esperienza del vero, quando essi torcansi per
fantasmi od errori da quello, non li seguiamo nel falso
cammino. Che anzi non traviati per dolcezza e per grazia
che muova da sommo scrittore, non poniamo in esso rin-
tuzzato e servile, ma sempre svegliato e scrutatore Hnge-
gno,nè siamo di meraviglie esurienti da disgiungere dalla
dottrina l'intelletto per dissetarci ad impura o torbida
onda fluente. Sdegnosi da ogni vaneggio di fole, aguz-
34
S30 PAITE OTTAVA
ziamo Vingegno alla ruota delle dilBcili indagini: studio
sia il nostro, ma anche milizia e difesa contro Terrore
invadente : raccogliamo nell'istoria gli strali di luce, non
le inani spiegazioni dei fatti, i falsiloquii, i mendaci!:
riGuliamo le fole che d'ogni lato rampollano, come già
furono riOutali da tutti i tremiti fatidici deirantro di
Trofonio , i sortilegi ippici d'Alessandro , gli spettri pro-
mettenti il regno, e le caligini {storiche purghiamo fi-
nalmente nelFaere sereno e vitale del vero.
Buona opera è la nostra di non ardere incenso che
al vero. Sappiamo però che non solo con le tristi, ma
anche colle buone azioni la malevolenza di alcuni si
acquista , e questi scritti intinti nel vero non saranno
accetti a coloro che ogni dottrina loro nelle sole grotte
di Parnaso bevettero: per essi è usanza il peccare, e
Torà a ricredersi non sorviene che lenta, o non mai:
trassero il vello anche a leoni ben più forti di noi, e
nobili lavori d*intelletto tentarono spingere nella oscu-
rità deirobblio. Ma noi non vogliamo ornare d'altra
guisa i pensieri, né trattenere nella chiostra dei labbri
censura d'errori o follie, sperando che l'istoria ne abbia
ad essere alGne sgombrata e redenta.
CfflUSA.
n eolio dei elassiei e gli stndii italiaBl.
Qui chiudiamo i nostri studii storico«politici sull'anti-
chili, e deponiamo gli autori che ci furono nei medesimi
lume ed appoggio. Da essi abbiamo tratto e dottrina pò**
litica, e dilettazione di lettere. Meditammo infatti coi
classici ciò che torna in debolezza o fortificazione degli
Stati, ciò che spinge le genti ad interni od esterni certami.
Vedemmo che tanto va lungi nei popoli la brama di
acquisto , quanto il tiro delFarmi ; che le dominazioni
patrizie guidano a resistenze e rivolte plebee, e queste
alla lotta, e 4a lotta all'impero; che si disse in ogni tempo
diritto Torribile fatalità della guerra; che coloro che vin-
serot in qualunque modo vincessero, non ne hanno
riportato vergogna. Le antiche nazioni erano una razza
gladiatoria come lo sono le moderne; le promesse di li-
bertà ai popoli servi venivano foriere o compagne delle
armi, e fede trovavano, perchè più poteva nei popoli la
futura speranza che il presente timore, ma erano ingan-
nati di loro opinione e del bene creduto. Il conservare
però paesi eterogenei fu sempre più difficile che Tacqui-
starli, e col diventare imperatori di molte favelle ^ i
principi ebbero bagliore di grandezza, ma rare volta
realtà di potenza. Osservammo le fazioni vittoriose sempre
trascorrere oltre i termini di cittadina virtù: uscite da.
532 CHirsA /
un pericolo, ne proYocayano un altro : ponevano esse
medesime le armi disperate in mano al partito depresso,
non mai unendo nelle leggi il diritto individuale al di-
ritto collettivo del governo. Avuta anzi la vittoria nella
guerra civile, la fazione incominciava la vendetta, ed i
vinti erano da nefande violenze percossi perfino nei figli
e nipoti: cosi i discendenti dei proscritti da Siila, erano
esclusi da ogni pubblico ufficio , come lo furono nel
medio evo in Firenze dominata dai Guelfi i posteri di
tutti quelli che avevano aderito alla parte ghibellina (gli
Ammoniti). Di questi e di mille ammaestramenti ci fu-
rono datori i classici, ed essi ci hanno inoltre delle loro
bellezze invaghito, e del loro lume schiarato. Il tempo ha
doppia natura : le cose materiali distrugge, ma le morali
prova e raffina : venti secoli hanno suggellato la fama dei
classici, e sempre crebbe ai medesimi nel sepolcro la glo-
ria: anche le nostre idee si ampliarono nel sublime oriz-
zonte delle loro, e fummo sovente al loro fuoco purificati
ed accesi. Ma nella nostra tenuità non ci assalse il grillo,
che venne al Petrarca, di scrivere quelle lettere a Cicerone,
a Seneca, a Livio, le quali vediamo nelle opere sue. Amiamo
le prose molto sensate se anche di povero e non maestoso
linguaggio, ed aiicor più la poesia quando è dono del
cielo, e non di mere immagini e senza lenimento alla
terra, ma si ispira alla vita oggettiva, e conduce per
amico sentiero le genti a civiltà e progresso ; quando
cioè il poeta canta la nazione, la ammaestra, la guida,
le disvela il futuro. Quindi amiamo specialmente i poeti
della Bibbia (i Profeti), perchè furono i più nazionali di
tutti i poeti, amiamo i carmi del bardo di Galedonìa,
amiamo Camoens, che dopo il risorgimento delle lettere
scrisse il primo poema veramente nazionale fra tutti gli
Europei. Il pregio della nazionalità del poema era man-
CHIUSI 533
cato perfino alla splendidissima corona di Dante, che fu
il più grande poeta di tutti ì popoli e di tutte le età : egli
non vide la nazione, l'Italia signora e potente ; vide l'im-
pero romano-germanico, gli italiani municipii e le loro
franchigie, ed indarno ci aifatichiamo con violenza d'in-
terpretazioni e ricerche per aggiungere al serto di Dante
una gemma, che neirammirabile cantica né palese, né
nascosta ritrovasi.
Più ancora amiamo i nazionali poeti se bene corri-
spondono allo scopo politico scrivendo carmi inspiranti
magnanimi sensi ed amore alla patria. Non vorremmo
che Omero avendo neWIUade un magnifico argomento
nazionale a svolgere, Favesse ristretto alle proporzioni
meschine di vendetta per donna rapita, e non ci affezio*
nasse più ad Ettore che non ad Achille, come Virgilio ci
allontana non volente da Enea per accostarci giustamente
a Turno. Leggendo Vlliade siamo invece per Troja, e
leggendo YEneide noi siamo pei Latini difensori del
suolo, come percorrendo YÀraucana di don Alonso d'Er-
cilla siamo pei selvaggi e non per gli Spagnuoli, e quasi
lo stesso poeta é tratto inconscio con noi alla parte con-
traria a quella per cui usava la penna e la spada.
Amiamo i poeti che adornano la vita reale, e la rive-
stono di forme sublimi o leggiadre, più di quelli che in
si incognite regioni sì inalzano o calano, che ne abbiamo
rintelligenza offuscata e la vista smarrita. La discesa
p. e. di Ulisse e quella di Enea al Tartaro, é forse in
Omero e Virgilio Tuna delle più poetiche parti dei loro
poemi? Le Metamorfosi d'Ovidio racchiudono clandestina
sapienza, ma egli non si è affannato a spiegarla : Lucrezio
volle trattare il vero che sta appunto nella natura, ma ai
suoi tempi non si era ancor posto profondo scandaglio
nella medesima : ha quindi argomentato prima di cono*
5S4 cvitfli
scerla, mentre si deve esaminarla, e parlare dopò che
essa parlò. Noi ci inchiniamo a Mtlion, ma avremmo pre-
ferito che avesse scelto, come voleva, a scrivere il poema
d'Arturo piuttosto che il primo gran fallo : rispettiamo
Klopstoclc e Gessner, m^la mente dell'uomo non li può
sempre raggiungere, non può spaziare dileltosamenle
con essi dove spiegarono il volo. Il solo genio di Dante
seppe guidarci con ala sicura per tutti i regni consolatio
terribili, ma egli, istruendo, tenne mai sempre il piede
alla terra.
t^i rallegra Aristofane che scrìve per uno Stato popo-
lesco la politica sua commedia, se anche non sempre fu
savio a scegliere dove rivolgere il frizzo: lodiamo Eschilo
poeta e soldato, perchè durando tuttora la lotta greco-
persiana canta i trionfi di Grecia sopra Serse monarca :
apprendiamo volentieri da Sofocle ed Euripide come nel-
l'assenza dei re della Grecia partiti per Troja si prepa-
rasse negli abbandonati lor regni quello spirito popolare,
di cui caddero vittime al ritorno le dinastie sovrane.
Ci corrucciamo invece coi classici di Roma se il loro
cuore è chiuso talmente ad ogni pietà di sofferenze e
supplizii di principi e re caduti prigioni, che nella bar-
bara indifferenza piò di loro non curansi, onde noi ap-
pena sappiamo come Perseo e Giugurta morirono, e noi
sappiamo di cento altri martoriati senza dubbio al pari
di quelli in un carcere : ci irritiamo con quei latini poeti
se non li scuote ed esagita a voli sublimi la patria gran-
dezza, di cui lo stesso Virgilio non fu ispirato e fervente,
se scelgono, come Stazio, non patrio argomento pei
carmi, o meste memorie come fece Lucano, se sono ag-
ghiacciati come Silio Italico (come lo fu Voltaire nel-
VEnriade) perfino nel cantare le glorie nazionali : ab-
biamo corruccio cogli storici quando Tacito, e più ancora
OBIVSA 5S5
Svetonio, sono così inverecondi nello scrivere le libidini
dei Cesari come questi lo furono in esse : ci sdegniamo
cogli oratori se Cicerone s*abbassa a contumelie volgari,
ed in ogni serietà di argomento maestrevolmente com-
battuto 0 difeso pone la mala giunta della vanità di se
stesso (1). Non siamo con Cicerone quand'egli la memo-
ria delle civili discordie non copre d'oblio, ma risveglia
e fomenta, quando disconosce quel grand*uomo di Spar-
taco, quando precipita nell'ampolloso e nel tronfio, par-*
landò p. e. della compassione che avranno gli scogli del
mare udendo da lui le infamie di Verre. Deploriamo la
scbiavitili ammessa nello Stato che pure la conosceva in-
gìusta« come lo stesso Diritto romano confessa, e cen«
suriamo i giuristi che invece d'accostarsi almeno nelle
leggi secondarie ad umanità e ragione, fanno continuare
anche dopo la manumissione, le memorie e certe conse-
guenze della schiaviti!! nel liberto : ci irritiamo contro
essi quando scrivono le pene di perduellione e lesa mae-
stà contro chiunque molilm est aliquid^ o solamente Ao*
stili mente adversus principem animatns est, e quando
trovano la tortura indispensabile nei delitti di maestà
anche in allora che le altre prove soperchino : non
consentiamo cogli storici se lodano Virginio che uccide
la figlia innocente, e non l'empio decemviro, se esaltano
la sola prodezza, non la magnanimità, la giustizia e
l'umanità, se applaudono indifi'erenti a riportata vittoria
(1) Non taciamo però che Cicerone era vano della abilità che realmente
possedeva, Tano cioè deirammirabile facondia, vano della perìzia amministra-
tiva e politica, non gii ostentatore di cognizioni che mancassero a lui. Scrì-
vendo p. Ci ad Attico d*una breve campagna militare che ebbe a comandare in
Ctlicia, Cicerone così derìde se stesso: caslra kahuimus ea ipsa qwB anitra
Darium habuerat apud hsum Alexander, imperator haudpaulo melior quam
aut tUi aul ego. Ma anche in tal caso Cicerone fece prova di senno: tenne seco
ti fratello Quinto che aveva comandato sotto Cesare una legione nella gran
flcnola della guerra gallica, e Pontiuio che aveva trionfato degli AUobrogi*
536 CHIUSA
contro un forte nemico, od a mero disarmamento e di-
struzione d'un debole, a pace imposta con gloria, od a
capitolazione estorta da violenza e rapina: riGutiamo per-
fino le pagine del sommo Platone, in cui deduce deplo-
rabili conseguenze dalle massime pia splendide di sa-
pienza e virtù (1). Ma in generale nei classici abbiamo
(1) Questa censura ad uno scrittore cui dicesi che ispirarono il discorso gli
Dei, richiede schiarimenti da noi.
La liepubblica di Piatone offre due ordini distinti di idee, die egli ha gettato
come due metalli per una stessa fusione in una sola fornace. Ma Tuno si era
oro, e l'altro pioroho. Or bene, nella lettura di Platone bisogna separarli, e ki
nostra opinione si troverà, crediamo, fondata.
Come 61osofo moralista Platone ha promosso la civiliziazione del mondo. Egli
è al suo libro, tersissimo specchio del buono e del bello, che gli antichi ed i
moderni attinsero mai sempre massime luminose di sapienza ed umanità. Egli
dettò una morale, che di secoli precede ed annuncia la morale evangelica. Per-
sino nelle opere dei Padri della Chiesa cristiana traluce ad ogni passo la dot-
trina di Platone : le massime di lui abbondano in Aristotele, in Cicerone, io
Plutarco, in Grozio, in tutti i moderni pubblicisti. Egli è il sole di tutti questi
pianeti, perchè li penetra del suo fuoco e li inonda di sua luce.
La parte morale dell'opera platoniana è inatti sublime. Egli identifica ia
giustizia e la moralità, le idee di privata e di pubblica utilità ; dimnstra i van-
taggi deiraggregazionc soci.ile e deiristruzione del popolo; proclama Punita di
Dio, e la proclama a fronte di un popolo, che ancora era lordo del sangue di
Socrate ; consacra 1 idea deir immortalità deiranima, e la nozione che ci vien
porta da lui è fuor di confronto più pura e consobmte che non quella vaga, in-
distinta nozione, che troviamo negli omerici carmi della vita delfombre.
Quando però Platone discende alle applicazioni concrete, quando organiua
una società immaginaria, in allora si manifesta la più strana contraddizione in
lui, e quelle idee di giustizia, di natura, di generale utilità, che egli slesso ha
stabilito, sono violale dall'autore medesimo. Elgli desume da Licurgo errori e
stranezze, benché non segua completamente la fallace sua guida, ma di quando
in quando si sovvenga di Socrate , e s'inchini al medesimo, e sia tratto dal-
ristinto del genio suo proprio sulla via del vero teoricamente annunciato. Se
avesse meno studiato le leggi degli uomini, probabilmente Platone non si sa-
rebbe scostato da quell'eterno tipo di saviezza e bontà, di cui diede egli stessa»
un quadro si ammirabile. &la nella Repubblica, o per meglio dire nello Stato di
Platone le idee morali e le politiche, le teoriche e l'applicazione, l'astratto ed il
positivo, che pur sono cosi difformi e contrastanti in lui, si trovano costante-
mente confusi. Egli da un lato dichiara che le sociali istituzioni devono corri-
spondere in modo assoluto all'ideale della moralità, che una legge medesima deve
governare il cuore del privato e lo stato sociale, che la pubblica e la privata
felicità si fondano egualmente sulla saviezza e sulla virtù. Accenna Platone che
CHIUSA 537
sempre trovato una semplicità, una grazia, che ci ha
sedotti e conquisi : trovammo nell'era greca e romana
tale gra^ndezza, che ci parve minore ogni magnificenza
moderna: vedemmo caratteri d'uomini di tempra si forte,
di costanza si indomita, ed anche di virtù si sublimi e
si nobili, che appena risplendono negli eroi dell'era cri-
stiana supplicati agli altari, o presentati alla perpetua
Io Stato è legge per l'umanità, la quale non potrebbe raggiungere k felicità cogli
sforzi di individui isolati, ma si consegue colle leggi che danno superiorità di
potenza all'interesse generale sulla isolata avidità dell'egoismo, e dimostra che
la vera libertà consiste nella sommissione generale alle leggi della ragione. Queste
e cento massime di simile genere, che servono di base a mille opere antiche e
moderne di morale e di politica» si trovano dovunque nello Stato di Platone. Ma
egli dimentica i suoi alti ed umani concelti nel tradurli a pratica applicazione.
Infatti volendo distruggere nell'aggregazione politica i privilegi di nascita, onde
non sorgano fazioni, né cada in mani inette il potere, volendo svellere la radice
dei mali provenienti dal cieco amore dei padri verso i loro figli, propone la
comunanza delle mogli, e distrugge ogni vincolo di famiglia: i figli adunque
non conosceranno i loro padri ; si violeranno tutte le leggi di paternità, d'af-
fetto e pudicizia.
Un popolo lìbero, dice Platone, deve continuamente occuparsi della cosa
pubblica. Da ciò deduce la necessità ehe una parte del popolo si affatichi per
la sussistenza dell'altra, il che è quanto dire, ne deduce la necessità e la san-
zione della schiavitù. Come nelle visioni del vate nasce il lauro alla gloria,
ed il cipresso alla tomba, vivrà nello Siato di Platone una parte del popolo
alla vita delle idee, ed un'altra sarà sempre curva sul suolo, e costretta alla
sola .vita dei sensi.
Deve evitarsi, egli continua, Tinfluenza corruttrice dei popoli stranieri ; da
«io emana la necessità dell'isolamento. Le porte della sua città saranno chiuise
al generale consorzio deirumanltà.
Bisogna conservare, egli dice, il popolo in tutto il vigore della stirpe primi-
liva* Da ciò le tante misure feroci, che Platone ha fatalmente desunte a Licurgo.
Tali sono l'educazione delle donne identica a quella degli uomini, e l'addestrarsi
di quelle non altrimenti che di questi alla guerra, l'ingiungere alle donne che
concepissero dopo il quarantesimo anno di procurare l'aborto, rendendo co$l
lecito alle stesse l'amore, e non la maternità, l'uccidere i mal conformali bam-
bini, ecc.
Così Platone viola la legge dell'amore prescrivente l'unità del matrimonio:
viola la legge di natura, e non ha le mogli in conto di donne, ma di femmine:
viola la socialità che avvicina i popoli, e crea l'umana famiglia: viola infine
la perfettibilità, che sviluppa la potenza intellettuale dell'uomo, ciò chiama col
corso dei secoli a sempre più alti destini. Libertinaggio, schiavitù, crudeltà,
immobilità, ecco, nell'esempio positivo e concreto, lo Stato di Platone qual è !
La scienza di Platone non fu governata dall'affetto: non ebbe sede nel cuore.
34*
S36 GfllQSi
ammiraBioiie dei popoli nelle effigie collocate nelle cala-
tali dei regni e nelle aule di Stato.
Il sommo Gothe, scrivmdo da Roma, diceva: questa
è la gran scuola di tutto il mondo, ed anch'io qui sono
a purificazione ed esame. E noi abbiamo sempre tentato
d'agguagliard all'ala dei classid, ci nutricammo in pue-
rizia di essi, ce ne facemmo delizia nella florida età, e
questa ci ha seguito compagna ora che siamo trapassati
negli anni senili. Non abbiamo veduto in Roma soltanto
il valore scolpito sul fronte del popolo gigante, ma qual
faro che d'ogni terra fu luce: vedemmo uomini cuirobur
et mn triplex circa pectu$ erat, come Scipione Africano,
aversi un Ennio a compagno, come l'Emiliano, tenersi a
fianco Polibio : ci parve d'esser trasportali da quell'era
vetusta in quella d'Eugenio di Savoja che voleva Hucten-
burgh con sé a pittore delie sue battaglie, od in quella di
Bonaparte che conquistava alla Francia ed alle scienze
l'Egitto coi soldati e coi dotti. Come non esser invaghito,
soggiogato dal popolo di Marte, capitanato da uomini
che a tempra di bronzo univano ampiezza di mente ,
elevatezza di sensi, aspirazioni civili?
Vedemmo solvere nella scuola alessandrina le idee
della geografia giuste nella teoria, benché inesatte nelle
misure per imperfezione d'istromenti : anche quella
scuola poggiò alle sideree rote, e ne scrisse le curve con
numeri, ma non osò spingere in giro la terra! Vedemmo
apparire la fisica geografia nel saggio idrologica sul
Ponto Eusino, e sulla palude Meolide, che ci ha dato
Polibio (lib. IV, e. iO). Provammo consolazione nel
cuore vedendo cessare ben presto in Roma i sacrificii
umani, ed udendo qualche scrittore parlare diritto e
virtù, Io stesso Polibio p. es., Tuomo di guerra nemico
della guerra, sapiente di politica e devoto alla morale, e
L
CHIUSA 539
si tocco da gratitudine pei benrfattori suoii da chiudere
la sua storia supplicando tutti gli Dei che gli accordino
di passare il resto dei suoi giorni a Roma, e di vedere
crescere e grandeggiare la sua fortuna, oggetto deirinvidia
del mondo. Con?inli che la guerra non è giusta se non
è necessaria, e quelle sole sono armi pietose nelle quali
unicamente ha speranza la patria, non abbiamo seguito
inebbriati il clangore dei romani oricalchi ; né i trionfa-
tori che salivano al Campidoglio coi re in catene per get^
tarli in una prigione a morir di fame dipoi, ma ci piacque
la romana nazionalità e coltura faciente irruzione nel
mondo barbaro, come aveva fatto irruzione la greca, e
più tardi la fecero l'italiana in Levante, la tedesca sul
Baltico, e la spagnuola, l'inglese e la francese in America.
Vedemmo con delizia la parificazione civile stabilirsi in
quella Roma in cui si era sviluppata la potenza attrattiva
che riunì la penisola, ed alla penisola il mondo, ed i
magistrati prima tenuti dai patrìzii, poi dai plebei, indi
dai Latini, poscia da ogni sorta d'Italiani, dai Galli, da
chiunque dell'orbe romano. Gi piacquero in mezzo al
suono delle armi, e perfino fra gli orrori delle guerre
civili, gli esempii di Camillo che consegna il maestro
traditore ai Falisci, di Mario che protegge Siila rifugiatosi
in sua casa, ed Antonio che salva Lucilio, il quale con
azione generosa gli ha forse impedito la cattura di Bruto
a Filippi, e se lo tiene ad amico. Ci piacquero Gelone di
Siracusa allorché impone ai Cartaginesi in un trattato la
cessazione dei sacrificii umani, ed il Senato dì Roma al-
lorché rinunzia alle rappresaglie per non imitare ciò die
agli stessi Cartaginesi rimprovera, e rifiuta la proposta
del principe dei Catti d'avvelenare Armido, pur dichia-
rando che sempre lo perseguiterà colle armi. Godemmo
osservando i Subalpini, fra cui viviamo, fin nell'antico ar^
540 CHIUSA
mali di ferro e valore, difendere la loro indipendeDza sul
dorso selvaggio e nelle anfrattuosita dei monti, che por-
gono le prime onde al Po : furono perduranti comei Gan-
labri, e sera domiti catena^ com'essi: sigli uni che gli
altri non piegarono a Roma se non dopo che tutto il
mondo piegò; si gli uni che gli altri hanno poscia arre*
stalo il torrente degli Àrabi in Alpi e Pirene (I).
. Cosi ritirandoci nella mente di quei pensatori, ci sen-
timmo come da mite rugiada irrigati della loro dolcezza,
e riscaldandoci al loro sole ci parve perfino aver goc-
ciola di sangue latino noi stessi, ed esserne rigenerati e
redenti. Quindi la lettura e la meditazione di quei primi
pittori delle antiche memorie, che non verrà d'alcuna
scuola maestro che li levi di fama, ci ha spesso versato
la gioja neiranima, od almeno ci fu schermo contro le
dolorazioni frequenti nella vita, moltiplicate dalla nostra
sensibilità, dalla velenosa atmosfera del tempo, e dalla
jseria meditazione delle pubbliche cose in Italia. Il primo
regno italico s'ordinò in breve volger d'anni, e s'illustrò
non di soli fasti di guerra, ma d'ogni pregio di civile
sapienza: quel regno succedeva alla celebre Università
,4i Maria Teresa e di Giuseppe II, e chiamava agli alti
seggi di Stato la gioventù a forti studii nutrita. Alcuni
fra gli studii fisici vivono ancora, anzi si dilatano fra
noi ; gli storici invece, i politici, i legali, i filologici, tutti
i morali insomma, quelli specialmente si fondamentali
dei classici , sono affatto prostrati , e solo da leggiere
effemeridi distilla volatile scienza la nostra gioventù,
J^ pubblica opinione è travolta mancando la diffusa
dottrina che la corregga e diriga, ed i temerarìi ardimenti
di chi viene agli uQicii siccome a presa città, od inetto
(i) Sono di molto iateresse le erudite memorie deirorientalisla Beinaud
tikta le invasioni dei Saraceni in Provenza, Saioja e Piemonte.
GHI€8A 541
si presenta ai comizii, panisca e rimuova. Cosi spalan-
chiamo corrivi le porte del governo italiano ad ogni
ambizione inesperta e precipite, ed il fllosofo Anlistene
potrebbe ripetere a noi ciò che leggiamo in Diogene
Laerzio che agli Ateniesi diceva: coi vostri decreti voi
date egual senno a ciascuno per governare il paese :
e perchè non fate similmente decreto che il somiere
tragga d' egual forza l'aratro come il hue^ e corra ti
rapido come il cavallo di Olimpia? Quindi si accresce
nei nostri ufficii l'ingombro e disordine da poterne es-
sere arrestato per confusione delle menti il moto, come
sì arrestò per confusione delle lingue TediBcazione
dell'antica Babele. Di qualunque arte piò facile sia, nes-
suno presume dirsi maestro se prima per lungo novi-
ziato non la studia ed apprende; ma noi del reggimento
del regno, che è la maggiore arte che sia, improvvisiamo
ciascun maestro, e lo insediamo in ufficio, e cosi Tam-
ministrazione italiana peggiora della medicina per la
quale dovrebbe migliorare. Per entrare dinnanzi ad al-
cuno non è adesso in Italia bisogno di superarlo in sa-
pienza« né per salire ad altezza si è costretto a fare le
larghe spire e le volte vantaggiate : chi sa mescersi ai
partili, se anche nulla tiene di scienza, e di ragione ben
poco, ma ha molto d'audacia, e destreggia con certe
misteriose aggregazioni, fa voli pindarici, si sublima a
tribuno , fa le pubbliche cose a suo modo ondeggiare,
si attraversa ad altrui, ha la palma senza la vittoria, e
la vittoria senza la battaglia, e spazia dominando fra noi.
Dante nel nono del Paradiso ha parlato d'analoghe con-
fusioni d'ufficii e persone, e de' mali coroUarii suoi, e
con lui conchiudiamo
Onde la traccia nostra è futr di strada.
Ma quando mai risorgeranno gli studii? Quando ri-
54S emnsi
tornerà Tltalia a sistema di procedenze ordinate? Quando
òònferirà gli ufBcii secondo il chiaro intelletto, il sottile
esame, i sentimenti provati, e la perizia destra alle
cose? Quando si comprenderà che non si crea negli uo-
mini esperienza e dottrina con repentini decreti, né di-
scende da essi improvvisa scienza sull'uomo, come per
imposizione di apostoliche mani discende sul chierico la
potestà d'ordine a dominare la Chiesa? Importa che cessi
la funesta gragnuoia di quei bolidi politici si ignoti nelle
orìgini come i Gsici sono, che il Parlamento lancia ogni
dì negli ufflcii interni ed all'estero; importa cherilalia
conosca d'esser negli ufficii inferma, perchè chi non
sente l'infermità, più è dilungi dal guarirne; importa
che cessi negli ufficii quelVorrendo accoppiamento dì
corpi vivi e di cadaveri, che facevasi da un tiranno
dell'antichità. Vorrà l'Italia dare ai meno esperti se
stessa, come Milton ha dato agli spirili ribelli la parte
più attiva del carme? La scienza (U governo è di studii
penosi, e di notti con piccolo sonno condotte, non di
facella di celestiale sapienza posata d'improvviso sul
capo d*aIcuno: pur troppo l'Italia triste esperienza ne
fa. All'appoggio di Francia grandi fatti politici si sono
compili fra noi; nessuno o quasi nessuno di sapienza
civile. Abbiamo dato a gran parte dltàlia una legisla*
zione uniforme, ma certamente la meno sapiente di tutte
le esistenti dapprima: grande fu il concetto politico, ma
deplorabile è l'esempio di dejezione di studii: un tempo
la pratica scienza precedeva le teorie in Italia; ora non
precede» né segue. Solamente i tristi potrebbero rimpìan*
gere gli antichi governi, ma abbiamo operato di guisa
che quanti per inscienza, ipocrisia ed inganno non sono
in abjezione dell'animo, conoscono che ogni provincia
italiana ha sofferto il flagello, e non poche fra le antiche
CHitSA 549
istituzioni ridotte improvvidamente a rovine , sarebbero
state ornamento e sostegno deirediBcio che abbiamo
senza pregio di nobili forme novellamente costrutto.
Dal punto ove Mongibello per le rotte fornaci esala le
fiamme, infino alla cerchia delle Alpi ammantate di lar-
' ghi ghiacciai, ebbero più volte le scienze sacerdozio ed
altare. Qui fiori, poi ripullulò la sapienza antica, e le
fonti della nuova s'aprirono : qui squagliaronsi i ghiacci
della barbarie del medio evo, la mansuetudine e la dot-
trina incominciarono ad accoppiarsi, a mitigarsi le leggi
già tinte di pece barbara, a farsi chiaro che non era data
invano alle umane generazioni la facoltà di migliorarsi.
Qui TÀlighieri scrisse quella trina sua cantica, primo
prodigio deiringegno umano, in cui si urtano scettri e
tiare, popolo e principi, vizii e virtù, vendetta e perdono,
premii e castighi, ove trovasi il sorriso della speranza,
la dolcezza dell'amore, il gelo della paura, la fiamma
deirira. Qui si produsse una germinazione di idee che dif-
fuse la civilizzazione sul mondo, e Tltalia fu moralmente
grande pel suo genio, le sue arti, Tinfluenza del suo spi-
rito emulatore delle tacitiane severità, delle apelliane gra-
zie, delle fidiache grandezze. Essa rivaleggiò nel frizzo di
Giovenale, nella magniloquenza di Tullio, nel lepore ovi-
diano: essa fece sentire nel nostro idioma l'onda, il
susurro, il fremito e la procella del suono ciceroniano.
Invasa da genti straniere, aspreggiata, e se non di-
sciolta, sconnessa, anche negli studii l'Italia decadde,
non così però che nelle classi seconde^ e forse più nella
patrizia di ciascuna città italiana non si elevassero alcune
sommità del pensiero a scagliare nelle masse parole po-
tenti, rispettale in luogo, e ripetute da lungi. Se nell'Italia
peròi che ora è signora di sé, l'assoluta inscienza fosse
bensì partaggio di pochi» ma la confusa dottrina fosse
544 anosÀ
vergogna di molti, se l'oscurità fosse il fato comune di
tutti, se qui non si smentisse quel motto nessuno alza
il velo che copre la scienza, noi saremo dejettali in breve
al relroguardo degli studii europei, troppo gli stranieri
avranno vanto su noi, e non potremo darne se non a
noi stessi cagione. Di questa dolorosa sentenza che vor-
remmo non vera, ma discende infallibile dai raffronti
degli sludii italiani cogli esteri, si convinca la gioventù
italiana, e si scuota : non soffra che lltalia sia com'era
negli scorsi decennii ridente soggiorno d'indolenza, né,
com'ora s'è fatta, arena di passioni contrarie ad ogni vita
serena, a pensamenti sublimi: soccorra la patria di
scienza, si crei negli studii e nelle cogitazioni, nel rea-
gire di proprio vigore su ciò che legga, ed oda, un pia-
cere che la segua per tutta la vita ; questa è si corta, che
nulla vale un diletto che duri meno di essa, ed è sol-
tanto al piacere degli studii che può ben applicarsi il bel
consiglio di Seneca : Sicprmsentibus utaris volnptatibus,
ut futuris ìwn noceas. Possano i nostri consigli, le no*
stre rampogne essere d'alcun frutto feconde ! Noi non
disperiamo che eco ritrovino, e segua di gagliardo o di
pigro moto l'effetto. La ragione, per dirlo coi poeti, è
vestita di armi adamantine, e finalmente trionfa : viviamo
quindi in desiderio, e stiamo anzi a fidanza, perchè se
l'amore di patria a mille muove la lingua, ad alcuni ri-
scalda anche il cuore, e questi non sosterranno che l'Ita-
lia, ornala un giorno d'ogni splendore del vero e del bello,
rimanga adesso in molti nobilissimi studii inonorata, dei
jetla, ed a varie nazioni seconda. Ci incuora d'altronde e
fortifica l'esperienza d'effetti ottenuti con altra opera già
da noi pubblicata a scopi di utilità italiane (1).
(1) Quando nelPopera La Grandezza italiana non rìsIeUimo tementi dairin-
dicare desiderìi, o dallo scoprire deBcienze che si nascondevano nella nostra
CHIUSA 545
Quanto a noi abbiamo infatti cercato conforto e pia-
cere negli studi], e l'abbiamo realmente trovato. Quanto
piò ci agitava il presente» il passalo piacevaci: risalimmo
amministrazione marittima, parve che quel volume ai volesse senz'altro dan-
nare alle fiamme per non trarne che cenere, e vi fu chi ci avrebbe volentieri
veduto tolti d'ufficio, e chi consigliava per noi come la madre di Erodiade alla
figlia : Nikii aliud peias nisi eapui Johannù. Eppure quelle pagine non furono
tutte né consunte da fuoco, né immerse iu Lete, né lasciate alla rapina del
vento come le augurose sentenze che nelle foglie leggiere la Sibilla scriveva :
infatti poco tempo stette che alla nostra scrittura qualche effetto segui, e
noi non fummo già offesi dal conservato silenzio di essa, ma letiziati delFesito.
Vedemmo che in parte il torpore si scosse, e molli si disposero a muoversi per
le cose indicate, che non erano stati veloci a muovere. Nuovi studii si intro-
dussero, ed altri si promisero : realmente preparansi in Genova ed a Napoli
Istituti scientifici per la Marina: presto vedremo iniziarsi lavori idrografici, tras-
curati si deplorabilmente finora : si attiveranno i meteorologici in entrambe
le città, e forse se ne concentreranno in appresso le risultanze in un Istituto
superiore a Livorno, da cui anche T Italia predica gli uragani de' suoi mari, ed
insegni a schivarne gli effetti : si porranno le basi per un'officina se non di
costruzione, almeno di conservazioue di nautici istromenti : si raccoglierà il
materiale scientifico finora disperso, confuso, guasto e negletto. Si armò una
nave a scuola di esercizio d'artiglieria in mare, furono messe le prore per
oceani dianzi non visti, sì confortarono molte popolazioni italiane neirestero
della lungamente invocata presenza della bandiera italiana da guerra, si avve-
rarono necessarie provvidenze di legge, si cessò da cieca fiducia in molle cose
obsolete e rimorte, e già si brama invigorito il Consiglio deirAmmiraglialo, ed
istituito il necessario Consiglio delle costruzioni navali. Fuor di dubbio piccola
parte possiamo ascrivere a noi del merito dell'iniziato progresso, ma vero si è
che animosi gettammo semente, clie Topinione irrigò : la buona ventura italiana
le darà, speriamo, incremento, e la lunga nostra sete del meglio sarà appa-
gala. Pensando adunque che non indarno ci eravamo in allora indolii ad opera
d'avvertenza e consiglio, che non era sdegnosa, ed a noi stessi pesava, anche
in questo lavoro non ci ha fallito la lena d'indicare le nostre infermità.
L'Italia sarà potente a rilevarsi in dignità quando cessi dal drizzarsi in va-
nità, quando s'arresti dal farsi sgabello di coloro che scrivono che essa è sempre
maestra nel mondo d'ogni sublime dottrina e d'ogni arte gentile, veda che non
sono studii ma ruine i suoi, e ricompri con fervore il danno degli indugi e del
sonno. SI, non tanlo ci accechiamo di luce it^iliana da non vedere le cose di
fuori : siamo invece credenti dell'inferiorità attuale, e convinti che gli stranieri
meglio gloriosi di noi procedono sui campi indeterminati di tutti gli studii scien-
tifici, facciamoci stretta coscienza d'avanzare d'egual moto con essi.
Bene sarebbe stato a noi l'essere entusiasti per Dante, ed alle recenti festi-
vità fiorentine parve lo fossimo, ma perchè il mondo si convinca che realmente
lo siamo, gli studii d'antica dottrina non dovrebbero essere in Italia scolorati di
vita, né i forastieri essere più teneri di noi delle stesse glorie italiane. E forse
&iQ CBIUSi
col pensiero il torrente delle età, e nessuna storia ci parve
così maestosa, cosi drammatica, come l'antica: quei re
clienti dei senatori di Roma ci mostrarono una sublimità
di potere, oltre la quale nessun popolo sembra che possa
andare giammai: la civiltà diffusa da Roma ci parve la
più bella, la più utile opera del valore e della fortuna.
Pochi disinganni soffrimmo o patimmo dolori che il vi*
vere nel pensiero cogli antenati e coi classici non abbia
in breve dissipato, ritornandoci a calma consolata, e ri-
temprandoci a serenità e vigore pel compimento di que-
st'opera promeltilrice lusinghiera, forse ingannatrice !,
di onore. Ci siamo resi ai classici in cui si profonda sa-
pienza fu messa: fastidendo i mediocri ci volsimo ai
sommi, che effondono i fiumi della loro dottrina, che
non sono velati per vetustà , ma d'eterna corona redi-
miti risplendono : ci confortammo del loro valore, e ci
accesi mo del loro raggio.
Nondimeno la divina virtù spirante dai classici non ci
fece nfe servala ragione, nèabbaglialorinlelletto: vedemmo
di quando in quando difetti, benché le bellezze vincano
incomparabilmente la bilancia: scoprendo una macchia,
non abbiamo voluto che ammirazione ed affetto legas-
sero il nostro dire, che non è acquistare perfezione il se-
guire opinioni in falsa parte correnti, ed il caricare ogni
merce per buona. Ma benché non sempre ci sia stato
possibile di venire in concordia di sentimenti coi clas-
sici, nutriamo venerazione e quasi cullo per loro. Scor-
diamo coi medesimi i secoli che ci separano: li abbiamo
a maestri di saggezza, e talvolta per interpreti dei bisogni
che è possibile Tessere percossi dai rsggi erompenti dsl lame di Dante se non
è diffusa e profonda la cognizione della lingua latina, che è il fermo polo del
nuovo idioma per lui, e quella dei classici che Dante ad ogni momento rieopia,
rivaleggia, ed anche più alto snblimaf
CHIUSA 547
d'oggidì: siamo osservanli di essi, e vinti dal loro diletto.
Essi elevano il nostro spirito, allargano le nostre idee:
pensando all'antico , noi diciamo: Voi andate ad Atene
ed a Roma : rispettate gli Dei !
FINE.
'i
I .
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