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Full text of "La storia antica : restituita a verità e raffrontata alla moderna"

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LA 


STORIA  ANTICA 


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LA 


STORIA  ANTICA 


BBSTirUITÀ  A  VEBITl 


RAFFRONTATA  ALLA  MODERNA 


DAL  COMMERDÀTOBB 

KEOBI  CBI8TOFOBO. 


lonidoidflre  tottort  attntt  e  eoiliHi,  boi 
ottai  e  svasali. 

Couitta:  StorUéaR.  ék  Svoli, 


•••     !      >•      i  »' 


TORINO 

RAinMi  DBLL'OinONK  TVOGIUnCO-CDlTIlICE 

Via  Cario  Alberto,  n.  SS. 

1865. 

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Diritti  di  proprietà  e  di  tradueicne  riservati  àWautore. 
Ptesentato  U  21  giugno  1865.' 


INDICE 


PASTE  PKMA. 
Compèiidia  generale  di  siarie  «iitioe. 

Dedica pag.     ix 

Proemio •     xi 

€i|iUlf    L  Qbadro  degli  antichi  popoli  del  M edilerraileo  :  loro  diffi- 
denze e  rivalità « 3 

—  U.  Esordii  della  potenza  romana  :  guerre  coi  Galli  e  con 

Pirro  :  prima  guerra  punica »    13 

—  in.  Conquiste  cartaginesi  in  Ispagna,  e  conquiste  romane 

natta  GaUia cisalpina  e  neUlUirìa:  disees»  di  AmlS)^e  |n 
Italia •    34 

—  IV.  La  aecoiida  e  la  terza  guerra  punica  ..    * i»  J^ 

—  V.  Riassunto  della  storia  greca  prima  delilutasione  romana: .. 

Filippo  ^  Macedonia .«•••.»    68 

—  TI.  Alessandro  il  Grande:  sue  conquiste:  sua  morte:  nuovi 

Stati  greco-macedonici    •••... »    86 

—  TH.  I  Romani  signori  di  Grecia  e  di  tutto  TOrìente  :  Filip* 

pò  n  di  Macedonia  e  Perseo:  Antioco:  Mitridate.    .    •    »  110 

—  Tlll.  Finali  conquiste  dei  Romani:  loro  politica  estema.    •  128 

—  IX.  Confini  delITmpero»  a  loro  dltaidibilità •  142 

—  X.  Il  dualismo  politico  dell'Impero  romano •  161 

—  XI.  Pericle  e  le  teerariglie  dell'arte  ........    a  165 

—  XU.  Confronto  dei  Greci  e  dei  Romani  :  effetto  deUe  conquiste 

macedoniche  e  delle  romatte  sulla  civiltà  mondiale .    •    •  169 


VI  INDICE 

PARTE  SECONDA. 
L'antica  forma  del  reggimenf  o  di  Roma. 

Ctpitolt  I.  n  patriziato  di  Roma  :  basi  di  sua  forza  nelle  istituzioni 

politiche  e  civili pag.  181 

—  11.  Gli  eserciti  romani  considerati  in  se  stessi,  ed  in  confor- 

mità col  sistema  di  governo ■  199 

—  III.  Cincinnato  e  Coriolano.  I  fuorusciti  ed  i  Condottieri .    »  217 

—  IV.  n  patriziato  decimato  di  prerogative,  e  declinato  di  po- 

tenza. Il  Tribunato.  Il  diritto  pretorio •  228 

PARTE  TERZA. 
La  guerre  della  riforma  infama  di  Rama. 

Capitelt  1.  I  Gracchi:  Mario  e  Siila »  247 

—  II.  Sertorìo  :  Mitridate  :  Spartaco  :  Viriate.  La  guerra  sociale: 

i  pirati »  256 

—  111.  Catilina:  Clodio:  Cicerone »  275 

—  IV.  Pompeo  e  Cesare ■  286 

—  V.  Cesare  in  Asia,  in  Africa,  in  Ispagna  :  signore  in  Roma: 

sud  vasti  progetti  :  sua  morte »  314 

PARTE  QUARTA. 
II  Principato  diviso,  combat f  ato.  ridotto  ad  imita. 

Caf  Itolt  1.  Bruto  e  Cassio:  Sesto  Pompeo:  1  Triumviri:  le  proscrizioni  •  341 

—  II.  Antonio  ed  Ottaviano  Augusto «359 

—  111.  Le  confische:  il  tesoro:  i  pubblicani:  le  cognizioni  econo- 

miche degli  antichi     »  379 

—  IV.  I  Rodii,  e  le  leggi  marittime t  392 

PARTE  QUINTA. 

Il  Dispotismo. 

Capitolt   1.  Le  sette  filosofiche:  loro  traccio  nella  legislazione  im- 
periale         .    ...»  403 

-^     li.  La  monarchia  dei  Cesari  ed  il  patriziato  dei  Re  .    .    .    •  420 


INDICE  TU 

PARTE  SESTA. 
L'indebolimenfa  e  la  oadoU  di  Roma. 

Gafitolt   I.  Decadenza  economica  delllmpero  romano     .    .    .    pag.  4d9 

—  n.  Decadenza  politica  deirimpero  romano »  446 

PABTE  SETTIMA. 

L'adosione  del  Cristianesimo. 

Cafitolt  I.  11  Cnstìaneaimo  adottato  da  Costantino:  la  traslazione  della 
sede  dell'Impero  a  Bisanzio:  esempii  analoghi:  gli  scismi 
politico-religiosi •  461 

—  II.  La  Chiesa  nel  medio  evo:  il  Jm  circa  sacra  .    .    .    .    •  490 

—  111.  Necessità  che  si  imiti  dai  Sultani  la  politica  religiosa  di 

Costantino •  499 

PABTE  OTTAVA. 
Oli  siorioi  novellatori. 

Gapltolf  snlet    .    .    . •  515 

CHIUSA, 
n  colto  dei  dassid,  e  gli  stndii  italiani i  531 


AI  MIEI  ANTICHI  STUDENTI 


Quando  io  era  nell  Università  di  Padova  con  Voi, 
Vi  amava,  ed  era  corrisposto  d'affetto. 

Per  lungo  corso  di  anni,  o  per  vicende  di  vita,  la 
vostra  memoria  non  si  è  spenta,  né  affievolita  in 
me,  e  certamente  mi  conservate  Voi  pure  V antica 
benevolenza. 

A  Voi  presento  adunque  di  gran  cuore  quest'opera. 
Vi  troverete  non  poche  delle  idee  che  nelle  aule  ac- 
cademiche, e  più  spesso  nella  dolcezza  dei  privati 
consorzii ,  ho  discorso  or  sono  vent'anni  con  Voi: 
allora  le  ascoltavate  con  attenzione  e  favore:  ora 
potete  giudicarle. 


Torino,  20  giugno  1865. 


NEGRI  CRISTOFORO. 


PROEMIO 


Parve  a  perspicacissime  menti  che  nei  simboli 
mitologfci  l'infante  società  balbettasse  la  storia,  e 
con  sottile  ed  orgoglioso  intelletto  interpretarono 
le  mistiche  forme,  e  le  tradussero  a  noi  ;  ma  quelle 
fosche  immagini,  e  quelle  precoci  leggende  man- 
canti dell'appoggio  d'ogni  prova  sensibile,  bale- 
nano indistinte,  incerte  e  discusse,  e  sovente  son 
mute.  Né  forse  può  bene  comprendersi  come  rag- 
giasse per  entro  la  rozzezza  delle  società  primitive 
tal  forza  ed  acume  di  filosofiche  astrazioni,  e  nella 
sempUcità  dei  consorzii,  e  la  coltura  non  sorta,  gU 
uomini  tenessero  si  fina  ragione,  da  rendere  con 
fogge  mirabilmente  ingegnose  il  pensiero.  Quanto 
a  noi,  non  vediamo  nella  mitologia  se  non  trave- 
stimenti di  fatti  in  forme  vivaci  e  bizzarre:  volendo 
conoscerne  significanze  recondite,  ed  allusioni  so- 


XII  PROEMIO 

ciali,  s'incalzano,  si  avvicendano  e  si  confondono 
in  noi  le  idee  accolte  e  cangiate  e  riprese  e  re- 
spinte, di  guisa  che,  disperanti  dell'acquisto  del 
vero,  ci  togliamo  dal  seguirle,  e  rinunciamo  a 
squarciarne  il  misterioso  velame. 

Altra  scienza  meno  ardita  ed  astrusa,  ma  so- 
lerte e  severa,  spazia  non  già  nell'alto  del  mare 
tenebroso  delle  età  consumate,  ma  ferma  il  piede 
come  prima  arrivata  sul  margine  suo,  e  dovun- 
que le  appare  scintilla  di  lume  propinquo,  collega 
gli  ardimenti  ipotetici  al  positivismo  dei  fatti,  e 
nei  papiri,  nei  tumuli,  nei  cippi,  nei  delubri,  nei 
vasi,  nei  riti,  nelle  lingue,  nelle  monete  scrutando, 
compone  le  forme  degli  Stati  crollati,  e  raffigura 
le  fattezze  delle  società  che  p'erirono.  Essa  si  piace 
della  bendata  Etruria,  dimora  contenta  in  riva  al- 
l'onda isiaca  fecondatrice  dei  campi,  accompagna 
l'arte  che  dapprima  scavava  uno  schifo  al  selvag- 
gio, gli  costruiva  di  tronchi  la  capanna,  e  gli  ap- 
parecchiava con  pochi  sassi  la  tomba,  poi  ergeva 
i  misteriosi  ipogei,  le  terme  ed  i  circhi,  ed  elevava 
le  piramidi  ad  emular  le  montagne:  si  asside  sulle 
infrante  rovine  dell'adusta  Persepoh,  e  di  Ninive 
assira,  ricerca  e  raffronta  i  caratteri  che  diedero 
primitiva  forma  ai  suoni,  e  favella  costante  al  pen- 
siero, e  segue  la  recondita  via  di  quei  simboh  di 
civiltà  da  un  paese  nell'altro  migranti.  Quella 
scienza  invola  bensì  segreti  alla  sfinge,  e  guizza 
lampi  di  luce  che  dirompono  parzialmente  le  te- 
nebre, ma  non  rischiara  completamente  la  scena: 
ci  dà  ricca  congerie  di  fatti,  ci  guida  ad  argomen- 


PEOEMIO  ZIII 

tame  il  legame,  non  ne  espone  la  serie  ordinata: 
ci  svela  in  alcuna  parte  lo  stato  sociale,  non  la 
politica  vita  del  popolo  :  ci  presenta  l'antichità  ve- 
nerabile, ma  monca  e  spezzata,  quale  traggiamo 
da  sotterra  dopo  lunghissima  notte  di  secoli  un 
prezioso  mosaico.  Noi  rispettiamo  questa  scienza, 
e  gli  ardimenti  suoi,  ma  non  la  invochiamo  per 
guida. 

Altra  scienza  è  la  nostra,  che  siamo  a  più  sem- 
plice, ma  pur  faticosa  ed  ardua  meta  intenti.  Ab- 
biamo anche  noi  latebre  a  cercare,  ma  non  nel- 
Fordine  materiale  dei  fatti,  bensì  nel  viluppo  poli- 
tico non  mai  consolante  d'ogni  età  consumata, 
neiràmbito  d'orditi  scaltrimenti  ed  insidie,  nei  re- 
cessi in  cui  si  comprendono  facoltà,  appetiti  e  vizii 
e  virtù  di  regnanti  e  di  popoU  :  abbiamo  a  vedere 
come  non  vada  in  dileguo  all'esperienza  delle  vi- 
cende sociaU,  ma  tetragona  resti  la  dolorosa  dot- 
trina degli  interessi  teorizzata  da  Elvezio,  e  ^à 
da  Guicciardini  confermata  pel  disordinato  appe- 
tito di  maggioranza  e  d'acquisto,  che  in  tutta  la 
sua  storia  nelle  azioni  e  negli  scopi  predomina. 
Benché  vaghi  infatti  di  giungere  a  conclusioni 
diverse,  e  di  lietezza  e  virtù,  indagando  per  recon- 
dite fila  le  reciprocanze  e  le  influenze  dei  fatti, 
ed  il  nesso  clandestino  fra  le  lusinghiere  parole, 
le  voghe  ambiziose  e  la  tristizie  dell'opere  avare 
e  rapaci,  dovremo  noi  pure  riferire  alla  nequizie 
sovente  scoperta  dei  forti  la  malvagità  ingegnosa  e 
frequente  dei  deboli  :  dovremo  rivelare  il  bene  che 
quasi  sempre  procede  inosservato  e  per  gradi,  ed 


XIT  PROEMIO 

il  male  che  in  piena  e  manifesto  trabocca.  E  far 
lo  potremo  con  fondamento  di  prove,  perchè  non 
intraprendiamo  all'incerto  crepuscolo  delle  dot- 
trine archeologiche  il  nostro  cammino;  ci  po- 
niamo ipvece  in  via  quando  già  è  rischiarato 
lorizzonte,  e  si  ha  visione  dei  fatti;  spazieremo 
quindi  colFocchio  sicuro  sovr  essi,  rintraccieremo 
le  cause,  ed  esamineremo  attrazioni  e  ripulsioni 
di  popoli,  facendo  però  con  riflessioni  sulF anda- 
mento generale  dell'umana  coltura,  scorrere  il 
livello  della  critica  sui  fatti  e  gli  scritti,  e  mar- 
ciare parallela  la  storia  del  diritto  e  quella  dei 
Governi. 

Ma  grave  fatica  sarà  anche  la  nostra  per  es- 
sere costanti  propagatori  del  vero.  Abbonda  il 
mendacio,  e  tutti  lo  sanno,  sulle  cose  presenti  per- 
chè son  molte  le  lingue  che  acquistano  o  perdono 
lena  per  oro  concesso  o  negato,  siccome  l'acqui- 
stano 0  perdono  i  fiumi  per  pioggia  od  arsura; 
abbonda  anche  il  falsiloquio  perchè  interessi  e 
passioni  i  veggenti  e  gli  ingenui  traviano,  o  con 
violenza  trascinano;  ma  anche  la  storia  antica  è 
tutta  spinosa  d'errori  ed  immonda  d'opinioni  in- 
fondate- Dicesi  che  il  passato  insegna  l'avvenire, 
e  la  storia  è  maestra,  benché  l'umanità  sempre 
cada  dov'era  prima  caduta,  ed  ogni  età  si  creda 
della  precedente  più  saggia.  Ma  se  anche  l'uomo 
potesse  trarsi  di  dosso  ambizione  e  passioni,  a 
fare  profitto  dell'istoria  richiederebbesi  che  dessa 
non  fosse  sovente  una  scena  di  sola  fantasia  di- 
lettosa 0  terribile.  E  volendo  che  non  sia  tale  la 


paoEVio  xr 

nostra,  saremo  spesso  costretti  a  penose  ricerche 
d'un  vero  rannuvolato  e  latente,  e  di  conseguenza 
avremo  a  produrre  moltissime  nuove  opinioni  non 
per  facile  indulgenza  a  spirito  novatore  e  censorio, 
bensì  per  effetto  dellavere  seriamente  assogget- 
tato a  calcolo  di  fredda  ragione  le  asserzioni  di 
menti  asservite  da  non  considerate  letture,  o  pro- 
clivi a  fantastici  voli.  Vi  sono  autori  e  maestri, 
che  sono  cruciati  dal  bisogno  di  credere  ciò  che 
hanno  letto  od  udito:  per  essi  non  trascorre  d  al- 
cuna moneta  giammai  la  lega  ed  il  peso;  essi  ca- 
scano in  ogni  fossa,  e  mordono  ad  ogni  amo  :  il 
loro  ingegno  sembra  animato  da  forza  centrifuga 
per  uscire  dal  vero,  e  nellestimazione  dei  fatti  più 
semplici  e  piani  è  meravigliosa  l'industria  colla 
quale  sostituiscono  alle  spiegazioni  più  naturali  e 
più  ovvie,  cause  e  ragioni  d'immaginazione  bizzar- 
ra. Costoro  asservendo  le  menti,  intorbidano  alla 
gioventù  esordiente  la  parte  di  anima  che  riflette, 
ond'è  si  malagevole  il  richiamarla  dipoi  a  verità 
e  ragione,  perchè  meglio  può  trarsi,  dice  Machia- 
velli, una  bella  statua  d  un  marmo  rozzo,  che  da 
uno  male  abbozzato  da  altri.  All'evidenza  od  alle 
probabilità  del  vero  abbiamo  dunque  consecrato 
i  lavori  nostri,  e  speriamo  di  mostrare  che  il 
mondo  camminò  sempre  col  medesimo  ordine,  e 
che  le  cose  recenti  ed  attuali  hanno  il  proprio  ri- 
scontro colle  lungamente  trascorse.  E  se  real- 
mente chiariremo  l'invariata  esistenza  nelle  pas- 
sate società  degli  stessi  elementi  delle  moderne,  e 
negli  uomini  d'ogni  tempo  non  diverse  le  passioni, 


xn  PKOjuuo 

i  difetti,  le  virtù,  e  che  nello  studio  dell'antica  iato- 
ria  si  hanno  ad  abbandonare  i  capricciosi  con- 
cepimenti, le  credenze  contrarie  a  ragione,  e  le 
strane  comunque  brillanti  invenzioni,  per  s^uire 
la  sola  sostanza  e  visione  del  vero,  la  nostra  fatica 
sarà  feconda  di  frutto.  Se  non  potremo  tórre  del 
tutto  il  disordine,  che  gettò  troppo  profonde  ra- 
dici, e  stese  troppo  larghe  propagini,  reprimeremo 
almeno  i  maggiori  vituperii  dei  racconti  istorici, 
si  che  non  pullulino  e  peggiorino  colla  consueta 
Ucenza  nelle  scuole  e  nelle  opere  incensurate 
brutture. 

Scrivendo  a  ricerca  del  vero,  e  non  a  suggello 
d'opinioni  a  difendere,  noi.  non  avremo  nei  rac- 
conti ,  nelle  interpretazioni  e  ^udizii  alla  mano 
quei  ceppi  che  furono  posti  a  molti  scrittori  da 
comando  d'altrui,  o  che  da  se  stessi  cedendo  a 
preconcette  opinioni  si  posero.  GU  studii  delle 
cose  greche  e  romane  già  sarebbero  progrediti  di 
più,  e  meglio  sarebbesi  già  fatta  la  storia  credit 
bile  e  maestra  a  governo,  se  non  prendeva  predo- 
minio nei  dotti  ora  l'intento  di  tutto  rivolgere  a 
lode  dei  sistemi  popolari  o  patrizii,  ora  quello  di 
mostrare  salutevoh  e  pure,  o  torbide  e  nocive  le 
origini  della  Chiesa  cristiana.  Dove  era  lo  scopo, 
ivi  andava  il  discorso,  perchè  il  proposito  legava 
l'intelletto,  rendeva  lo  scandagUo  parziale,  e  det- 
tava le  deduzioni  forzate;  cosi  per  ingannate  guide 
o  guide  ingannatrici,  p^  seduzione,  p^r  errore, 
per  colpe  «  vennero  in  contrarie  e  false  partì  le 
scuole;  furono  torti  i  racconti,  ed  idee  ed  opinioni 


PAOUnO  ITU 

travolte  e  disviate  dal  vero.  Ma  quale  che  sia  il 
merito  dei  giudizii  nostri,  essi  non  saranno  mu; 
tuati  giammai  a  partigiani  interessi,  né  conformati 
a  scopo  prefisso,  od  asserviti  dal  volere  d'alcuno: 
tutti  saranno  indipendenti  d'un  modo,  e  nelle 
moltiplicate  ricerche,  e  nelle  conseguenti  opinioni, 
saremo  dislegati  da  vincoli,  e  non  avremo  tre- 
mante, ma  libera  la  mano. 

Cercando  sicurezza  nella  logica,  speriamo 
di  essere  muro  forte  anche  senz'intonaco  e  lu- 
stro, e  senza  il  heto  candore  del  bello  :  avremo 
adunque  chi  ci  segua,  perchè  lo  spirito  dell'uo- 
mo è  pieno  di  idee  confuse  del  vero,  se  anche 
noi  sente  e  noi  vede  che  per  metà  in  conse 
guenza  d'istruzione  mal  data,  e  di  propria  rifles- 
sione mancata ,  ma  è  contento  quando  a  lui  si 
presentano  ben  rischiarate  le  idee.  Severa  am- 
monizione pei  critici  è  quella  di  Dante,  che  chi 
s'adocchia  baldanzoso,  e  s argomenta  di  trovare 
ecclissato  il  sole,  per  vedere  non  vedente  diventa, 
ma  noi  non  ritrarremo  dall'esame  coscienzioso 
la  mano  solerte  e  sicura,  perchè  nel  combattere 
contro  credenze  largamente  diffuse  saremo  quasi 
sempre  suffulti  ed  avvalorati  dai  classici,  così 
che  le  nostre  parole  sovente  non  saranno  che  un 
tessuto  di  frasi  letteralmente  mutuate  agli  anti- 
chi, i  quali,  se  bene  interrogati,  sogliono  rispon- 
dere pressoché  costantemente  e  sènza  velame  il 
vero.  Discorderemo  però  le  moltissime  volte  da 
scrittori  moderni,  che  sono  idoleggiati  dì  troppo, 
sebbene  dimostrino  ad  ogni  pagina  di  non  avere 


xTin  paoBMio 

bevuto  alle  prime  sorgenti,  ma  scritto  guidan- 
dosi da  soli  impulsi  fantastici,  o  dall'attento  ori- 
gliare da  dove  potesse,  venire  lapplauso.  A  noi . 
poco  dorrà  d'averli  nelle  narrazioni  dei  fatti  con- 
cordi e  numerosi  in  contrario,  sapendo  che  essi 
hanno  costume  d  augeUi  che  benigni  ed  ingenui 
vanno  di  schiera,  e  là  tutti  si  posano  dove  il  primo 
calò. 

Per  li  paragoni  che  andremo  facendo  delle  cose 
antiche  a  quelle  dei  tempi  di  mezzo  e  dell'era  mo- 
derna, le  vetuste  immagini  diventeranno  più  chiare 
siccome  di  oggetti  che  ottico  stromento  avvicini, 
e  sarà  più  fermo  il  giudizio  su  uomini  e  fatti  del- 
l'era lungamente  trascorsa  per  le  identità  dimo- 
strate con  condizioni  di  governi,  di  fatti  e  di  per- 
sonaggi meglio  conosciuti  e  recenti. 

Nello  scrivere  saremo  semplici  e  piani,  perchè 
non  abbiamo  lusinga  di  salire  in  eleganza,  né 
siamo  intenti,  o  capaci  di  avvolgerci  in  delizie  di 
lingua.  Invaghiti  però  del  nostro  idioma,  e  con- 
vinti che  è  idoneo  stromento  ad  esprimere  qual- 
sivoglia pensiero,  non  seguiremo  il  mal  vezzo  di 
quelli  che  facendo  della  lingua  nostra  un  intriso 
di  tutte  le  lingue,  spalancano  corrivi  le  porte  ad 
ogni  Hcenza  oltremarina  ed  oltremontana  di  voci, 
ed  alle  parole  bisbetiche,  selvatiche,  che  l'alfabeto 
non  ha  i  segni  per  indicarne  il  suono.  Non  ci  cre- 
deremo in  diritto  di  dare,  com'essi,  cittadinanza 
ad  ogni  parola  straniera  facendola  nostra  coU'ap- 
plicarle  italiana  desinenza,  ma  rifuggiremo  ad  un 
tempo  dalla  divota  e  pusillanime  scelta  dei  voca- 


PBOKmO  XIX 

boli,  e  dagli  ardimenti  linguistici,  perchè  non  pos- 
sono pigliarseli  altri  che  i  sommi  ingegni,  i  quali 
allora  ci  apparecchiano  di  ghiotte  bellezze,  e  danno 
alle  idee  vigore  ed  impulso.  Né  ci  porremo  nello 
scrivere  ai  ceppi  idolatrando  i  granmiatici,  perchè 
il  pensiero  non  sempre  si  può  per  retta  gramma- 
tica bene  spiegare,  e  ci  basterà  di  scrivere  con 
chiarezza  e  misura,  sapendo  che  male  si  addice 
negligenza  in  comporre,  come  nel  camminare  mo- 
venza caschevole.  Non  saremo  giammai  pedis- 
sequi e  proni  ad  altri  scrittori,  benché  ammiriamo 
quelli  che  parlarono  una  lingua  scolpita,  ma  non 
potendone  imitare  la  virilità  nella  nostra,  avremo 
almeno  l'indipendenza  della  lingua  pari  a  quella 
delle  idee. 

Vorremo  piuttosto  pensare  e  scegUere  che  ac- 
cumulare e  copiare,  ed  avendo  noi  molto  pensato 
per  scrivere,  sarà  pur  necessario  che  altri  pensi 
per  leggerci.  Non  saliamo  quindi  in  speranza  di 
numerosi  lettori  ;  ma  non  era  perfino  Orazio  con- 
tentus  paucis  lectoribus  ?  Non  può  esserci  ascoso 
che  chi  non  ha  l'abitudine  della  riflessione,  e  non 
ci  segua  d'attenzione  costante ,  non  amerà  l'o- 
pera nostra,  che  è  storia  politica  e  non  finzione 
drammatica,  che  non  mira  a  sedurre  la  imma- 
ginazione, ma  a  guidare  la  ragione,  che  è  se- 
vera e  melanconica,  non  ilare  e  bella.  Ma  chi 
mediterà  quest'opera  scevra  di  correlazioni  sfor- 
zate, e  vedrà  nei  fatti  antichi  e  moderni  essere  dei- 
Fumana  natura  che  gh  avvenimenti  si  riprodu- 
cano analoghi,  ne  avrà,  osiamo  sperarlo,  buon 


XX  PROEMIO 

frutto,  se  non  per  le  idee  dettate  da  noi,  almeno 
per  quelle  che  dalla  novità  delle  nostre  verranno 
suscitate  in  lui,  tanto  più  se  le  dizioni  sapremo 
talvolta  illustrare  per  modo  che  il  lettore  si  muti 
da  uditore  in  spettatore  dei  fatti. 

Gonscii  che  meno  efficace  è  in  rivi  superflui  dif- 
fusa parola,  intenderemo  a  scrivere  con  breve 
pienezza  finché  non  ci  trattenga  il  pericolo  di 
cadere  in  oscurità.  Lo  spirito  umano  non  ritiene 
se  non  ciò  che  è  conciso,  e  si  va  solamente  da 
brevità  a  vigore,  ed  a  quella  chiara  comprensione 
generale  delle  cause  e  delle  conseguenze,  da  cui 
facile  discende  Tintelligenza  spontanea  nel  colto 
e  giudizioso  lettore  delle  azioni  subordinate  e 
minori. 

Noi  conosciamo  che  incommensurabile  spazio 
separa  dall'altezza  di  Tucidide  la  nostra  umiltà, 
ma  abbiamo  avuto  di  comune  con  esso  il  cercare 
conforto  di  storici  studii  negli  anni  d'esilio,  e  gli 
intendimenti  conformi  nel  ridurli  in  iscritto.  Que- 
sti libri,  egli  dice  (lib.  I,  e.  22),  e  vorremmo  poter 
dire  noi  pure,  spogli  del  meravigUoso  e  poetico, 
non  saranno  forse  piacevoli  a  leggersi,  perchè  la 
più  parte  degli  uomini  à  indolènte  a  ricercare  il 
vero,  ma  saranno  cari  a  quelli  che  vorranno  co* 
noscerlo  od  averne  le  maggiori  probabilità,  es- 
sendo  quest'opera  composta  per  istruzione  durer 
vole,  non  già  perchè  sia  di  momentaneo  diletto. 

Su  tutte  le  bandiere,  ed  anche  su  quella  degli 
studii  deve  star  scritto  il  progresso:  specialmente 
deve  scritto  vedersi  sulle  scuole  italiane,  che  un 


*  PROEMIO  XXI 

giorno  insegnavano  al  mondo  ogni  scienza  che 
solleva  e  consola,  arricchisce  e  migliora,  che  impe- 
riali iiiscepoli  avevano,  che  inviavano  a  tutte  le 
Corti  i  dotti  del  domestico  consorzio  dei  principi 
onorati,  che  illuminavano  col  sapere  l'Europa,  che 
ora  le  ecclissa.  Se  le  scuole  di  storia  furono  e 
sono  su  falso  sentiero,  n  esciamo  fuori,  ed  avan- 
ziamo. 

E  se  consacrando  la  stanca  penna  a  narrare  le 
molte  e  concordi  esperienze  dei  tempi,  a  far  si  che 
assurde  leggende  siano  dispogliate  di  loro  luce 
mentita,  e  volte  in  giusto  ludibrio  scompaiano,  ad 
escludere  dalla  storia  l'intervento  dei  favolosi  prò- 
digii  per  la  sola  presenza  dei  veri,  abbiamo  gui- 
dato l'intelletto  a  più  chiara  ed  esatta  intuizione 
del  vero,  altri  divenendone  accorto  non  si  ri- 
manga dall' invogliarsi  dell'aperto  sentiero ,  si 
metta  animoso  per  esso,  e  lo  segua,  lo  dilati,  lo 
scopra  egualmente  indefesso  e  più  perspicace  di , 
noi,  e  meglio  stenebri  del  falso ,  e  renda  dotti  i 
lettori. 


PARTE  PRIMA 


COMPENDIO  GENERALE  DI  STORIA  ANTICA 


CAPITOLO  I. 

Qoadro  degli  antichi  popoli  del  Mediterraneo: 
loro  diffidenze  e  rivalità. 

Ài  cessare  della  storia  eroica,  ed  all'esordio  dell'appog- 
giata a  monumenti  letterarii  attendibili  e  regolari,  tro- 
viamo sulle  sponde  del  Mediterraneo  i  Persiani  nell'Asia 
Minore,  nella  Siria  e  nell'Egitto,  i  Cartaginesi  nell'Africa 
e  nel  ponente,  ed  i  Romani  o  Latini  ed  i  Greci  nel 
mezzo.  Ma  i  Greci  non  occupavano  un  territorio  unito  e 
continuo,  né  essi  erano  raccolti  in  un  solo  sistema  di 
Stato:  erano  anzi  distinti  in  tre  masse  o  sistemi  politici. 

Il  sistema  orientale,  quello  cioè  dei  Greci  dell'Asia 
Minore,  si  era  momentaneamente  formato  in  un  gran 
regno  da  Creso,  ma  Ciro  lo  aveva  tosto  disfatto  e  sog- 
giogato trionfando  in  Timbrea.  Ciro  aveva  cosi  portato 
all'Egeo  ed  all'Ellesponto  le  frontiere  di  quella  sua  mo- 
narchia medo-persiana,  che  Dario  Islaspe  rese  ancora 
più  minacciante  per  tutti  i  Greci  d'Europa  col  passare  lo 
Stretto,  e  coU'occupare  contrade  di  Mesiae  di  Tracia. 

Il  sistema  centrale,  o  quello  dei  Greci  più  comune- 
mente noti,  era  florido,  dovizioso,  potente  e  diviso  in  un 
gran  numero  di  piccoli  Stati  indipendenti  e  gelosi  fra 
loro,  ma  tutti  tementi  di  Persia. 

Il  sistema  occidentale,  ossia  quello  delle  colonie  gre- 
che del  mezzodì  d'Italia  (Taranto,  p.  es.,  Crotona,  Sibari, 


4  PIKTI  PKniÀ 

Turìo,  Locri,  Reggio,  Cuma,  Partenope],  di  Gallia,  di 
qualche  tratto  a  levante  delle  coste  spagnuole,  e  soprat- 
tutto dì  Sicilia,  era  del  pari  florido  e  potente,  ma  rotto 
pur  esso  in  cento  spezzami. 

Tale  era  l'aspetto  del  mondo  d'allora.  Le  due  masse 
dei  Greci  orientale  e  centrale  si  trovavano  dunque  ri- 
spetto alla  P^sia  in  quelle  condizioni  stesse  in  cui  si 
trovano  gli  Italiani  d'oggidì  rispetto  all'Austria,  che  una 
parte  ne  domina  e  l'altra  no,  e  nelle  quali  si  trova  la 
slessa  Atene  dei  giorni  nostri,  che  è  centro  ad  un  regno 
greco,  e  vede  a  sé  vicine  grandi  masse  d'altri  Greci  nella 
sudditanza  dei  Turchi.  Quale  incentivo,  e  quale  spinta  a 
discordie  ed  a  guerre  doveva  adunque  essere  l'esistenza 
e  quasi  contatto  di  Slati  liberi  greci,  e  d'altri  Greci 
nella  sudditanza  di  Persia!  Quale  diffidenza  per  l'eccesso 
di  libertà  da  un  lato,  e  l'eccesso  di  servitù  dall'altro,  e 
per  le  forme  democratiche  prevalenti  in  Europa,  e  l'as- 
solutismo, 0  le  forme  rigorosamente  aristocratiche  od 
anche  principesche,  introdotte  dai  Persiani  nelle  colonie 
greche  dell'Asia,  nonché  pel  sistema  dei  Persiani  inva- 
denti colle  armi,  e  quello  dei  Greci  invadenti  coi  com* 
merci  e  colla  civiltà!  Greci  e  Persiani  dovevano  egual- 
mente sentirsi  a  disagio,  attraversarsi  scambievolmente, 
nutrire  superlativi  pensieri.  I  Greci  d'Europa  potevano 
sperare  facile  acquisto  di  territorii  doviziosi  facendo  in- 
sorgere le  popolazioni  greche  dell'Asia.  I  Persiani  non 
erano  sicuri  nel  loro  possesso  se  i  Greci  d'Europa  con- 
servavano l'indipendenza  ;  ne  erano  anzi  minacciati  se  i 
Greci  d'Europa  arricchivano,  invigorivano.  Ed  ancor  più 
della  nazione  persiana  ne  era  minacciato  il  dispotismo 
de  re  nella  Persia  sconQnato  ed  estremo,  per  le  popo- 
lari forme  di  governo  che  gradatamente  s'introdus- 
sero in  tutti  gli  Stati  greci  d'Europa,  e  non  possono  mi- 


CAPITOLO  PRIMO  5 

surarsi,  rallemperarsi,  acquistarsi  coU'esca  deiroro  e  Tof- 
ferta  di  speciali  interessi,  come  facilmente  Io  possono  da 
grande  sovrano  le  sempre  deboli  famiglie  dei  piccoli  re 
in  opposizione  frequente  colle  loro  città.  Doveva  quindi 
temere  la  Grecia;  doveva  temere  la  Persia:  anche  nella 
pace  non  potevasi  posar  Tasta  ;  era  inevitabile  una  guerra, 
anzi  una  serie  di  guerre,  che  deBnisse  la  violenta  con- 
dizione di  cose,  mediante  una  divisione  di  territorio  af- 
fatto nuova.  Ed  ogni  guerra  aveva  necessariamente  a 
riunire  al  carattere  militare  il  polìtico  ;  anzi  il  politico 
aveva  sovente  a  prevalere  nelle  deliberazioni  alle  previ- 
sioni e  calcoli  di  natura  militare  esclusiva.  I  capi  d'eser- 
cito stando  per  cosi  dire  alla  prora  della  nave,  non  pote- 
vano vedere  più  innanzi  dei  piloti,  ossia  dei  politici  che 
erano  in  poppa;  essi  pertanto  dovevano  volgere  gli  occhi 
a  questi,  e  spesso  subordinare  alle  politiche  considera- 
zioni anche  le  deliberazioni  di  guerra. 

Ma  anche  il  terzo  gruppo  o  sistema  dei  popoli  greci, 
quello  cioè  dei  Greci  d'occidente,  era  in  continuo  travaglio 
ed  in  armi.  Quei  Greci  d'Italia  avevano  certamente  lot- 
tato in  tempi  anteriori  agli  scritti  documenti  d'istoria  coi 
popoli  etruschi  stabiliti  nel  centro  d'Italia  ai  due  lati  del- 
l'Appennino, ed  invadenti  per  civiltà  e  per  forza  le  tribù 
barbaredell'avvallamento  del  Po(1  ).  Ma  l'elemento  etrusco 
già  era  confinato,  e  cadeva:  al  nord  lo  respingevano  le  ir- 
ruzioni dei  Galli  transalpini  :  al  sud  lo  arrestavano  le  con- 


(i)  É  probabile,  e  fu  più  volte  scritto  che  la  civiltà  etnisca  avesse  invaso 
anche  ia  Liguria ,  ed  anzi  che  col  mezzo  dei  Liguri  fosse  penetrata  nella  valle 
superiore  del  Po  prima  che  i  Liguri  venissero  risospinti  dai  Galli,  econGnati  ai 
monti  ed  al  mare.  Mancano  però  totalmente  le  prove  :  non  abbiamo  né  costru- 
zioni, né  iscrizioni,  né  monete ,  né  vasi ,  né  nomi  di  città  in  Liguria  anteriori 
all'epoca  romana:  quanto  di  più  antico  trovossi  e  si  trova  in  Liguria  è  romano, 
ed  i  libri  di  Tito  Litio  riflettenti  la  prima  guerra  dei  Liguri  coi  Romani  anda- 
rono perduti. 


6  PARTE  PRlMi 

quiste  crescenti  di  Roma;  era  già  dunque  politicamente 
depresso»  ed  alla  decadenza  politica  era  conseguita  la 
morale,  e  la  sospensione  della  sua  azione  a  civilizzare  il 
mondo  barbaro.  Le  conquiste  di  Roma  però  assorbivano 
a  poco  a  poco  anche  gli  Stati  greci  delVItalia  del  sud.  E 
Cartagine,  la  Tiro  africana,  estendeva  sempre  più  Tele- 
mento  fenìcio  nell'ovest  del  Mediterraneo,  ed  anche  a  po- 
nente dello  Stretto,  impediva  lo  spandersi  dell'elemento 
greco,  anzi  lo  alterava,  lo  opprimeva,  lo  escludeva  vit- 
toriosamente in  molte  località,  insidiandolo  in  altre,  e 
preparandone  la  caduta.  Ma  la  lotta  degli  elementi  e  si- 
stemi punico-greci  era  ancor  più  grave  in  Sicilia. 

L'isola  di  Sicilia,  d'oltrepotente  feracità,  in  situazione 
del  pari  felice  rispetto  a  Cartagine  ed  alla  Grecia,  divìsa 
dalla  penisola  italiana  da  un  angusto  canale,  che  essa  do- 
mina dagli  ottimi  porti  di  Àgosta,  di  Messina  e  dì  Sira- 
cusa (mentre  l'Italia  da  quel  lato  manca  quasi  assoluta- 
mente di  porti  per  un  lunghissimo  tratto  di  coste),  aveva 
spinto  il  suo  commercio,  le  sue  arti,  la  sua  coltura  a  sor- 
prendente grandezza.  Siracusa  era  popolata  quanto  un 
regno  intiero,  era  ricca  d'ogni  meraviglia  delle  arti,  e  te- 
neva-la  più  splendida,  la  più  dotta  corte  di  tutti  i  popoli 
greci  :  Eschilo,  Pindaro,  Platone  accorrevano  ad  essa  ; 
grandeggiavano  Agrigento,  la  seconda  Siracusa,  e  Seli- 
nunte  marmorea:  numerose  città  erano  sparse  sul  suolo 
ubertosissimo:  la  Sicilia  in  ìspazio  angusto  aveva  forze 
poderosissime.  Cartagine,  che  prima  aveva  accresciuto  la 
sua  potenza  colle  sue  ricchezze,  ora  voleva  accrescere  le 
sue  ricchezze  colla  sua  potenza  ;  faceva  quindi  ogni  sforzo 
per  rapirsi  la  beata,  la  fiorente  Sicilia.  Già  tenevala  asse- 
diata da  Malta,  dalla  Sardegna,  dalle  ìsole  Baleari,  dalle 
Lipari,  da  quelle  del  Mar  Tirreno.  Sperava  di  facilitarsi 
la  via  al  monopolio  del  commercio  di  tutto  il  Mediterra- 


CAPITOLO  PRIMO  7 

neo,  rìducendola  in  servitù.  Pure  Cartagine  parlava  solo 
di  volerla  liberare  dalla  tìrannia'di  Siracusa,  di  voler  di- 
fendere rindipendenza  dei  minori  Stali  di  Sicilia.  Ma  per 
quanto  Cartagine  fosse  prodiga  d'oro  e  di  sangue,  non 
le  venne  mai  fatto  di  conseguirne  l'assoluto  dominio. 
Sempre  che  Cartagine  fu  per  stringere  la  preda  sangui- 
nosa, si  vide  delusa  dalle  forze  riunite  di  tutti  i  Siciliani. 
Cartagine  sovente  vittoriosa,  più  spesso  sconfitta  ;  Sira- 
cusa percossa  e  ripercossa,  ma  sempre  gigante;  i  Carta- 
ginesi in  Sicilia  a  porvi  ribellione,  anche  i  Siracusani  in 
Africa  (1)  a  porvi  ribellione;  i  Greci  di  Sparta,  di  Atene, 
con  Timoleone,  con  Nicia,  a  proleggere,  a  sconvolgere, 
a  ribellare;  fiere,  ma  transitorie  le  invasioni  dei  Greci; 
perpetua  Faltra  guerra  ;  le  forze  cartaginesi  e  siracusane 
sempre  di  fronte  e  sempre  minacciose.  Le  lotte  di  con- 
correnza di  popoli  sono  immense  ;  non  cessano  se  non 
colla  rovina  di  uno  dei  rivah,  o  di  entrambi  per  la  forza 
di  un  terzo;  non  si  limitano  a  spazio,  a  cessioni  di  terre, 
ma  si  riferiscono  a  tutti  gli  spazii,  a  tutte  le  terre;  e  ben- 
ché sembri  sovente  che  una  sola  sia  la  città  per  cui  si 
contende,  dall'acquisto  di  questa  dipende  Tuniversalità 
degli  acquisti,  la  possibilità  di  ridurre  la  nazione  nemica 
a  bassezza  e  quindi  di  conquistarla. 

Intanto  Dario  persiano  estendeva  da  ogni  lato  l'impero, 
toccava  al  Ponto  Eusino,  al  Bosforo  Tracio,  armava 
grandi  flotte  di  sudditi  fenicii,  egiziani  e  greci,  circon- 
dava, predava  ad  una  ad  una  le  isole  greche:  sbarcava 

(i)  Il  nome  d'Africa,  che  frequentemente  si  ripete  nell'opera  attuale,  denota 
il  lerrilorio  che  gli  antichi  indicavano  sotto  il  nome  medesimo  ,  e  corrisponde 
presso  a  poco  a  quello  deirodierna  Reggenza  di  Tunisi.  Tutto  il  paese  a  ponente 
fino  sulPAtlanlico  aveva  il  nome  di  Numidia  e  quindi  di  Mauritania.  La  Tingi- 
tana e  la  Getulia  erano  neirinterno  confinanti  al  deserto.  A  levante  deirAfrica 
cravi  il  deserto  detto  talvolta  Syrika ,  poi  la  Cirenaica  e  Marmarica,  di  nuovo 
il  deserto  chiamato  di  Libia,  e  quindi  TEgitto. 


8  PARTE  PRIMA 

perfino  un  esercito  neir Attica,  ma  di  doppia  ferita  era 
ad  un  tempo  percosso  :  egli  era  cioè  rotto  a  Maratona 
per  terra,  e  battuto  a  Micale  sul  mare.  Regnando  su 
quanti  popoli  stanno  fra  Tlndo,  il  deserto  di  Libia  ed  il 
Bosforo,  ben  poteva  Dario  riparare  al  danno  di  Mara- 
tona, ma  quello  sofferto  a  Micale  troncava  i  nervi  di  sua 
potenza.  Anche  all'esercito  di  Maratona  era  forza  di  su- 
bito riparare  alle  navi  per  non  aver  preclusa  la  via  al 
ritorno,  ed  al  correre  a  spegnere  l'incendio  della  ribel- 
lione degli  Jonii,  e  di  tutti  i  Greci  dell'Asia  Minore.  La 
battaglia  navale  di  Micale,  e  non  la  terrestre  di  Maratona 
fu  la  decisiva  della  guerra,  e  decisiva  doveva  essere  per 
la  condizione  politica  dei  combattenti  (1). 

Morto  Dario,  Serse  successore  sollevava  contro  i  Greci 
più  grave  tempesta.  Disertando  d'uomini,  come  dicono 
gli  storici  e  poeti  di  Grècia,  il  vastissimo  impero,  procla- 
mava Serse  la  nuova  spedizione  di  Grecia,  e  marciava 
contr'essa  colle  sue  torme  favoleggiate  a  milioni  da  Ero- 
doto. Sembrava  impossibile  la  resistenza:  i  Cartagi- 
nesi ed  i  Siracusani  vedevano  da  lungi  addensarsi  l'ura- 
gano contro  i  loro  operosi  competitori  sui  mari  :  poca 
pietà  lì  stringeva  dei  Greci  ;  colla  loro  rovina  sarebbero 

(1)  I  classici  greci  (e  qualche  latino  die  da  essi  copiò,  p.  e.  Giustino)  scri- 
vendo a  proprio  elogio  le  più  strane  esagerazioni  sul  fatto  di  Maratona,  hanno 
assai  contribuito  a  falsifìcare  il  giudizio  politico  sui  fatti,  che  pur  ci  sembrano 
assiomi  nella  storia  greco-persiana.  È  ben  noto,  fu  misurato  e  descritto  il  ter- 
reno su  cui  fu  data  la  battaglia  di  Maratona ,  e  nemmeno  materialmente  po- 
trebbe contenere  le  tante  centinaja  di  mille  uomini,  che  gli  storici  vorrebbero 
addensarvi,  e  forse  Dario  realmente  aveva  non  a  Maratona,  ma  sparsi  in  tutte 
le  isole,  su  tutte  le  coste.  Il  poeta  ateniese  (d'Eleusi)  Eschilo  combattè  a  Ma- 
ratona, vi  fu  ferito,  vi  perdo  il  suo  fratello  Cinegiro  (che  mori  da  prode,  come 
narra  Erodoto ,  ma  non  colle  circostanze  pazzamente  inventate  da  Giustino): 
egli  è  quindi  il  più  credibile  testimonio.  Eppure  egli  medesimo  nella  tragedia 
/  Persiani,  che  è  un  carme  entusiastico  sulle  lotte  dei  Greci  contro  gli  assalti 
di  Dario  e  di  Serse,  non  attribuisce  al  fatto  di  Maratona  importanza  speciale, 
ma  glorifica  i  fasti  di  Salamina  e  Platea ,  evoca  sulle  scene  Tombra  di  Dario , 
e  parla  perfino  di  esso  come  d'un  grande  conquistatore  e  sovrano. 


CAPITOLO  PRIMO  9 

diventati  monopolisti  ;  non  temevano  di  seria  concorrenza 
persiana,  ma  alle  antiche  controversie  fra  Cartagine  e 
Siracusa  si  aggiungeva  questa  ancora,  quale  cioè  delle 
due  città  rivali  dovesse  succedere  nella  signoria  e  ric- 
chezza dei  Greci  debellati. 

Varcato  TEllesponto,  e  calpestata  la  Tracia  e  la  Mace- 
donia, Serse  si  presentò  alle  Termopili:  le  trovò  chiuse 
non  da  trecento  Spartani,  comesempre  si  scrive,  ma  da 
quasi  quattro  mila  Spartani  e  non  Spartani  al  comando 
di  Leonida.  Quel  numero  bastava  alla  difesa  locale  d'un 
varco  angusto  contro  un  esercito,  non  alla  difesa  di  tutti 
i  varchi  di  una  lunga  catena  montiva  contro  un  nemico 
si  numeroso,  che  tutti  poteva  contemporaneamente  ten- 
tarli. Infatti  non  bastò  :  Serse  valicò  in  luoghi  superiori 
e  lontani,  e  scese  a  tergo  di  Leonida.  Non  è  lode  di 
questi  Tessere  stato  anche  sorpreso,  ma  sua  gloria 
l'avere  tenuto  fermo  cogli  Spartani  suoi  (fors'anche  cogli 
Iloti,  dai  quali  ogni  Spartano  era  sempre  accompagnato), 
flnchò  combattendo  pori.  GH  esempii  eroici  sempre  sono 
utili  perchè  danno  alterezza  e  confidenza  ad  un  popolo, 
e  terrore  al  nemico,  ed  il  sacrificio  di  Leonida  e  dei  suoi 
era  atto  di  generosa,  sublime  intrepidezza.  Le  Termopili 
però  erano  già  girate  anche  per  mare,  giacché  la  flotta  di 
Serse,  che  per  sussistenze  ed  appoggi  gli  era  sempre 
vicina  radendo  le  coste,  già  attaccava  le  piazze  d'Eubea, 
ed  entrava  nell'Euripo. 

In  rischio  si  grave  domandarono  i  Greci  soccorso  ai 
Siracusani.  Rammentarono  la  comune  origine  ;  rappre- 
sentarono i  progetti  del  monarca  persiano  essere  smisu- 
rati, immensi;  dissero  doversi  difendere  Siracusa  in 
Atene,  la  Sicilia  in  Grecia.  Ma  i  Siracusani  godevano  che 
i  Greci  industriosi  e  potenti,  loro  rivali  nel  Mediterjaneo, 
forti  d'influenze  per  colonie  in  Sicilia»  fossero  rovinati  da 


10  PARTE  PUMI 

Serse  :  vedevano  presente  il  vantaggio  di  Siracusa,  lon- 
tano il  pericolo  :  sarebbesi  a  questo  provveduto  col  non 
permettere  che  i  Greci  perissero,  ed  i  Persiani  occupas- 
sero ;  ma  col  fare  in  modo  che  i  Greci  si  rovinassero,  i 
Persiani  s'indebolissero,  i  Siracusani  occupassero.  Vole- 
vano però  i  Siracusani  assicurarsi  delFesito,  guidare 
rimpresa,  entrar  nella  Grecia  come  amici,  servirsi  dei 
Greci  anche  per  rovina  di  Cartagine.  Risposero  quindi, 
aver  cara  la  comune  origine;  essere  pronti  a  soccorrere; 
un  esercito  siracusano  verrebbe  sbarcato  in  Grecia,  una 
flotta  si  spedirebbe  ;  la  flotta  greca  si  unirebbe  alla  sici- 
liana, ma  quella  ubbidirebbe,  questa  comanderebbe; 
rimperio  di  terra  e  di  mare  sarebbe  dei  Siracusani. 

Ciò  era  uno  scoprirsi  manifestamente.  Sostennero  i 
Greci  che  quelli  dovevano  avere  il  comando  per  la  co- 
mune difesa,  pei  quali  il  pericolo  era  presente,  non 
quelli  pei  quali  il  pericolo  era  rimoto  ;  i  Siciliani  non 
essere  che  ausiliarii;  pregare  caldamente  per  un  soc- 
corso. Allora  Siracusa  ripigliò,  dolersi  vivamente  della 
loro  sventura,  ma  essere  sventurata  essa  medesima  ;  la 
Sicilia  già  essere  invasa  dalle  genti  africane  ;  già  soste- 
nere inopia  di  soldati  e  d'oro  ;  temere  di  Cartagine,  che  si 
allestiva  a  porle  campo  d'intorno.  La  saviezza  di  Temi- 
stocle sottrasse  i  Greci  all'estremo  sterminio.  Avventan- 
dosi contro  la  flotta,  e  non  contro  l'esercito,  distruggeva 
ad  un  tempo  la  flotta  e  l'esercito,  poiché  le  sole  navi  po- 
tevano mantenere  l'esercito  in  comunicazione  colla  Persia. 
Battere  la  flotta,  era  un  prendere  l'Asia  dentro  l'Europa, 
com'egli  stesso  diceva,  ed  il  supei*are  la  flotta,  composta 
in  parte  di  Greci  asiatici  che  i  Persiani  avevano  ridotto 
in  servitù,  doveva  essere  molto  più  facile  che  non  il  su- 
perare un  esercito  composto  di  Persiani,  di  Medi  e  di 
altri  Barbari.  Appena  era  stata  compressa  una  fierissima 


CAPITOLO  PRIMa  11 

ribellione  di  questi  Greci,  bollivano  feroci  le  ire,  atten- 
devasi  l'ora  del  riscatto.  Proclamava  Temistocle  awedu- 
tissimo  la  liberazione  di  tutti  i  Greci:  egli  chiamava  in 
ispecie  a  rivolta  gli  Jonii,  il  popolo  principe  dei  Greci 
delVAsia,  e  lasciava  dovunque  iscrizioni  d'invito  per 
e$$i  (Plutarco  in  Temistocle),  Ancor  prima  della  battaglia 
varie  navi  di  Tenedo  avevano  abbandonato  i  Persiani: 
nella  battaglia  defezionarono  da  Serse  gli  Jonìi  ;  la  flotta 
persiana  fu  sconcertata,  catturata,  distrutta,  e  furono 
cosi  aperte  ai  Greci  d*£uropa  le  vie  all'assalto  delle  isole» 
dei  porti  dell'Asia,  alla  distruzione  dei  popoli  persiani 
suir£lIesponto,  anzi  alla  stabile  occupazione  del  passo. 
Dal  fatto  militare  di  Salamina  scaturivano  adunque 
enormi  conseguenze  politiche  (1). 

(1)  Se  tutlì  i  politici  loderanno  Temistocle  delFaver  combattuto  in  mare 
piuttosto  che  in  terra»  molti  fra  i  militari  saranno  tentali  di  accusarlo  di  so- 
verchio ardimento  per  aver  egli  aspettato  l'assalto  dei  Persiani  a  Salamina, 
ossia  precisamente  nelPinterno  del  golfo  di  Eleusi.  La  flotta  persiana  ne  occupò 
le  due  stretto  imboccature  colKisola  che  le  separa,  e  Tesercito  persiano  copriva 
gran  parte  delle  spiaggic.  Se  Temistocle  veniva  battuto,  era  impossibile  ch'egli 
salvasse  una  sola  nave,  ed  era  del  pari  impossibile  che  un  uomo,  gittandosi  a 
terra ,  trovasse  scampo.  Però  Temistocle ,  che  nel  giorno  della  pugna  tenne 
tutte  le  sue  navi  raccolte  ad  una  sola  delle  due  imboccature,  rese  con  ciò  inutile 
una  parte  della  flotta  persiana  (regizia),  la  quale  era  corsa  a  chiudere  Taltro 
stretto  (quello  cioè  verso  Megara).  Ed  anche  la  flotta  persiana ,  che  realmente 
combattè  (nello  stretto  più  vicino  ad  Atene),  non  poteva  bastantemente  spiegarsi, 
girare  e  circondare  Temistocle,  per  l'angustia  dello  spazio  :  essa  poi  combatteva 
precisamente  nelle  acque  rimpelto  «il  Pireo,  ossia  in  luogo  al  nemico  notissimo, 
che  seppe  infatti  avvantaggiarsi  d'una  corrente  favorevole  a  sé  e  contraria  ai 
Persiani,  per  cui  le  navi' greche  avevano  nell'urto  l'utilità  dell'impulso  cbe  alle 
persiane  mancava.  Tali  vantaggi  erano  certamente  considerabili  per  chi  trova- 
tasi inferiore  di  numero;  nondimeno  l'ardimento  fu  grande,  perchè  sempre 
esiste,  ad  onta  d'ogni  previdenza  ,  la  possibilità  d'un  rovescio,  e  la  prudenza* 
richiede  di  conservarsi  un  modo  di  ripararvi ,  ritraendosi ,  onde  nuovamente 
tentare  la  sorte.  Ora  pei  Greci  a  Salamina  era  impossibile  ogni  ritirata:  erano 
chiusi  nei  golfo,  come  lo  furono  i  Francesi  ad  Abukir  (1798),  ed  i  Turco- 
Egizii  a  Navarino  (1827),  ove  tutti  perirono:  il  Pireo  stava  avanti  ad  essi,  ma 
erano  frammezzo  i  Persiani.  Temistocle  si  governò  per  audacia  e  fortuna.  11 
poeta  Eschilo  combattè  anche  nella  giornata  di  Salamina,  e  nella  tragedia 
/  Persiani  descrive  minutamente  la  battaglia  :  nel  suo  racconto  abbiamo  argo* 
menti  a  conferma  delle  nostre  considerazioni. 


12  PARTE  PAIMi 

I  Siracusani  dal  canto  loro,  col  soccorso  di  tutti  i 
Greci  di  Sicilia,  batterono  ad  Imera  Tesercito  cartaginese, 
che  per  essere  numerosissimo,  non  parve  alle  minori 
città  di  Sicilia  un  soccorso  contro  Siracusa,  ma  un  eser- 
cito venuto  a  generale  conquista. 

I  popoli  di  stirpe  fenicia  non  diedero  migliore  esempio 
di  fraterna  assistenza,  che  dato  avessero  i  Greci.  Quando 
Alessandro  Macedone  assediò  Tiro  superba,  chiesero 
i  Tirii  soccorso  ai  Cartaginesi  ;  ma  i  Cartaginesi  limila- 
ronsi  a  compiangere  i  Tirii  :  essere  pur  dura  la  sorte, 
che  Cartagine  figlia  non  potesse  soccorrere  Tiro  madre; 
ma  soccorrere  Tiro  essere  un  indebolire  Cartagine  ;  do- 
vere i  Cartaginesi  star  in  guardia  contro  la  rapacità  dei 
Siracusani.  Erano  discorsi  d'affetto,  egoismo  velato,  ri- 
pulse spietate:  barbari  effetti  reca  innanzi,  e  tetre  verità 
insegna  la  storia  non  cortigiana  di  tempi,  di  re  o  di  po- 
poli. I  Cartaginesi  commercianti  videro  volentieri  la  rovina 
di  Tiro  :  confermaronsi  nella  speranza  di  poter  un  giorno 
divenire  monopolisti.  Solo  spiac^valoro  quell'enorme  im- 
pero d'Alessandro:  l'Egitto  e  la  Grecia,  l'Ellesponto, 
l'Eritreo,  il  golfo  Persico,  e  tanta  parte  di  Mediterraneo 
sotto  una  sola  sovranità:  la  repentina  morte  di  Alessan- 
dro, e  la  dissoluzione  del  suo  impero,  dissiparono  i  loro 
timori. 

Questi  erano  i  possedimenti  dei  popoli  dattorno  al  Me- 
diterraneo; questi  erano  i  rapporti  loro,  le  ambizioni, 
le  gelosie,  le  necessità  e  le  guerre,  mentre  sorgeva,  dap- 
prima inosservata,  sul  Tevere  la  potenza  romana. 


CAPITOLO  IL 

Esordii  della  potenza  romana;  guerra  eoi  Galli  e  eon  Pirro; 
prima  guerra  pnniea. 

Breve  doveva  essere  quella  gioja  di  Cartagine  ;  era  sorto 
in  Italia  uno  Stato,  che  aveva  a  prendere  subita  parte 
alla  gara  del  Mediterraneo,  e  tutti  i  popoli  soverchiare 
ed  opprimere:  era  lo  Stato  di  Roma.  Già  aveva  debellato 
Etruschi  e  Latini,  s'era  invigorito,  allargato  :  aveva  su- 
perato una  crisi  gravissima,  e  se  n'era  tratto  con  gloria: 
aveva  cioè  respinto  quell'invasione  dei  Galli,  che  fu  ri- 
vestita di  forme  drammatiche,  le  quali  si  possono  però 
sulla  scorta  dei  più  antichi  e  giudiziosi  fra  i  classici  ri- 
durre a  segno  e  misura  del  vero. 

La  causa  della  guerra  dei  Romani  coi  Galli  narrata 
da  Diodoro  Siculo  è  si  ridevole  come  Io  è  in  altri  clas- 
sici greci  la  causa  delle  grandi  guerre  greco-persiane  ac- 
cennate nel  precedente  capitolo,  riposta  nella  deliziosa  sa- 
porosità  dei  fichi  dell'Attica  dai  Persiani  bramati,  e  dei 
servigi  di  donzelle  ateniesi  ambili  da  Atossa  moglie  di 
Dario.  Leggiamo  infatti  in  Diodoro  che  i  Galli  abitavano 
un'altura  lontanissima  dal  mare,  ed  ivi  essendo  troppo 
molestati  dal  caldo,  cercarono  altre  sedi,  ed  invasero 
VEtruria.  I  popoli  non  trasmigrano  come  gli  uccelli  ; 
il  sistema  della  proprietà  non  si  crea,  e  non  si  lascia 
come  il  nido.  Ed  anche  gU  uccelli,  se  soffrono  il  caldo 


14  '   PAftTE  PRIVi 

al  nord,  non  cercano  il  freddo  al  sud^  e  se  soffrono  caldo 
sulle  alture,  non  cercano  il  freddo  nel  piano. 

Tito  Livio  confessa  egli  stesso  di  poco  saperne  :  Tror- 
ditur  fama  (leggesi  nel  libro  V,  cap.  33),  eam  gentem^ 
dulcedine  frugum,  maximeque  vini  nova  tum  voluptale 
captata,  Alpes  transisse,  agrosque  ab  Etrmcis  ante  cui- 
to8  possedissej  et  invexisse  in  Galliam  vinum,  illicien- 
dm  gentil  causa,.  Àjuntem  Clminum,  ira  corruptce 
uxoris  ab  Lucumone,  cui  tutor  is  fuerat  ipse,  prepo- 
tente juvene,  et  a  quo  expeti  pwnce,  nisi  externa  vis 
qucBsita  esset,  nequirent:  hunc  transeuntibus  Alpes  dur 
cem,  auctoremque  Clusium  oppugnandi  fuisse. 

Diodoro  Siculo  però  non  racconta  quella  favola  tea- 
trale dell'immaginato  ingresso  dì  Camillo  in  Roma  nel- 
l'istante appunto  in  cui  Brenno  ponendo  sulla  bilancia  la 
sua  spada  pronunciava  le  parole:  Vcb  vtctis  esse.  Questa 
scena  si  trova  in  Livio  nel  libro  V,  al  capo  49.  I  Galli 
non  l'avevano  neppure  sentito  bussare  alle  porte,  e  tro- 
vano Camillo  comparso  sulla  piazza  con  un  esercito 
piombato  di  repente  come  un  bolide  dalle  nuvole.  Ca- 
millo rovescia  la  bilancia  d'un  calcio  eroico,  e  nessuno 
si  muove;  poi  ordina  ai  Galli  che  se  ne  vadano,  ma  essi 
allegano  il  conchìuso  trattato,  e  si  fa  sulle  aste  poggiate 
una  bella  dissertazione  accademica  se  sia  valido  un  trat* 
tato  non  ratificato,  anzi  se  avesse  autorità  a  trattare  alcun 
magistrato  che  non  aveva  ricevuto  i poteri  dal  dittatore  già 
eletto.  Alfine  Camillo  tronca  la  disputa  coll'intimareaisuoi 
ed  ai  Galli  di  prepararsi  a  combattere,  ecc.  Nondum  omni 
auro  appenso,  dictator  intervenit,  auferrique  aurum  de 
medio,  et  Gallos  submoveri  jubet.  Cum  UH  renitentes 
pactos  dicerent  se  se,  negat  eam  pactionem  ratam  esse^ 
qua^f  postquam  ipse  dictator  creatus  esset,  injussu  suo  ab 
inferioris  juris  magistratu  facta  esset ,  denuntiatque 


CAPITOLO  U.  15 

Gallù^  ut  se  adpreelium  expediant:  $uo8  in  acervum 
conjicere  sarcinas  et  arma  aptare,  ferroque  non  avrò 

recuperare  patriam  jubeU  Imtruit  deinde  aciem 

primo  concurm  haud  majore  momento  fusi  Galli  sunt, 
quam  ad  Alliam  vicerant.  Justiore  deinde  pr celio  ad 
octavum  lapidem  Gabina  via,  quo  se  ex  fuga  contule^ 
rantj  vincuntur...  ne  nuntius  quidem  cladis  reliclus. 

Bossuet  nel  noto  suo  Discorso  sulla  storia  universale 
ha  seguito  a  ragione  piuttosto  la  narrazione  di  Diodoro, 
che  non  quella  di  Livio.  Ma  l'antica  istoria  abbonda  di 
narrazioni  in  cui  si  desumono  alla  poesia  e  colori  e 
forme,  colle  quali  la  fantasia  adorna,  e  le  arti  del  bello 
rendono  oggettive  le  astratte  idee,  presentandole  per  ma* 
gisterio  dì  tele  dipinte  e  di  marmi  incisi.  Cosi  noi  tutti 
abbiamo  letto  in  cento  scritture,  e  veduto  in  opere  di 
pittura  e  scalpello  i  senatori  assisi  nelle  sedie  curuli,  i 
Galli  ammiranti  *la  dignità  di  quei  vecchi,  il  soldato  che 
strofina  la  barba  di  Papirio,  e  questi  che  il  percuote,  e 
la  strage  che  segue  dell'intiero  Senato.  Tale  si  è  il 
dramma  tragico-comico  che  fu  scritto,  ci  duole  il  dirlo, 
anche  da  Livio  su  Roma  presa  e  liberata  dai  Galli  :  que* 
sto  è  il  dramma  che  copiarono  i  mille,  ed  esornarono 
ancora  colla  sorpresa  tentata  dai  Galli  del  Campidoglio 
romano,  colle  scolte  letargiche,  coi  cani  sonnolenti,  e 
colla  rócca  salvata  dal  rauco  gracidare  delle  oche  vigi-- 
lauti.  Quale  si  è  dunque  il  vero?  Come  scoppiò  la 
guerra?  Come  Roma  fu  dapprima  perdente,  e  vittoriosa 
dipoi? 

I  Galli  erano  un  popolo  guerriero  ed  invasore.  Dalle 
regioni  centrali  della  Francia  attuale  uscirono  con  due 
masse  prepotenti  d'eserciti  ;  Tuna  con  Sigoveso  passò  il 
Reno,  combattè  e  stanziossi  in  Westfalia,  Tal  tra  con  Bel- 
loveso  passò  le  Alpi,  trovò  germogli  d'etrusca  cultura. 


16  PARTE  PRIMA 

se  ne  appropriò  alcuni,  p.  es.  il  carattere  alfabetico,  al- 
terò alquanto  il  celtico  tipo  generale  alla  nazione  da  cui 
s'era  staccata,  e  conquistò  tutto  o  quasi  tutto  il  paese  fra 
le  Alpi,  l'Adige  e  l'Appennino.  Era  già  assai  per  eccitare 
diffidenza  e  reazione,  e  dare  giusta  causa  di  guerra  ai 
vicini  se  anche  divenuti  tali  per  fatti  somiglianti  d'in- 
vasione e  rapina.  Ma  ormai  i  Galli  passavano  anche 
l'Appennino,  31  rinversavano  sulI'Etruria,  oppugnavano 
Giusto,  bevevano  dunque  alle  scaturigini  dell'Arno,  anzi 
a  quelle  del  Tevere.  Si  allarmavano  i  Romani:  man- 
davano legati  ai  Galli  perchè  desistessero  dall'assedio  di 
Clusio.  La  giusta  causa  era  dal  lato  di  Roma,  ma  i  Galli 
obbietlavano  pur  essi  giustamente  il  fatto  che  anche  pei 
Romani  era  vasto  il  dominio  quanto  il  tiro  dell'arco,  e 
che  per  essi  e  pei  Galli  era  titolo  eguale  e  sanzione  la 
spada:  non  essere  Clusio  romana:  fosse  Roma  dei  suoi 
acquisti  contenta:  non  avere  a  frammettersi  nelle  opera- 
zioni dei  Galli.  I  legati  romani  entravano  allora  nell'as- 
sediata città,  e  misti  ai  cittadini  pugnavano.  Più  non  era 
'  ufficio  di  legati  il  loro*:  i  Galli  ne  chiedono  quindi  la  con- 
segna, ed  il  popolo  romano  non  li  consegna,  né  conse- 
gnare li  doveva  perchè  cittadini  suoi,  ma  nemmeno  li 
punisce,  anzi  li  premia.  Da  ciò  ruppe  la  guerra,  che 
giusta  pei  Romani  nella  causa  remota,  fu  ingiusta  nella 
prossima. 

Muovono  i  Galli  contro  Roma:  si  scontrano  gli  eser- 
citi al  fiume  AUia,  e  narransi  scene  di  distruzione,  di 
monti  d'uccisi,  che  sempre  pei  retori  sono  a  monti  i  ca- 
daveri. Eppure  abbastanza  concordi  e  chiari  sono  i  rac- 
conti dei  classici,  che  l'armata  romana  all' AUia,  guidata 
da  inettissimi  capi,  non  fu  distrutta,  ma  prontamente 
dispersa,  che  poscia  si  ricompose  alla  nota  voce  d'un 
grand'uomo,  Camillo,  che  varii  popoli  latini  la  ingros- 


CAPITOLO  II.  17 

sarono  perchè  interessati  al  par  dei  Romani  a  respin- 
gere rinvasione  dei  Galli,  che  essa  si  serrò  a  tergo  di 
questi  precipitosamente  avanzali  su  Roma,  che  guerri* 
gliò  più  mesi  loro  precludendo  i  viveri  e  battendone  so- 
vente il  retroguardo  ed  i  corpi  slaccati,  e  che  da  ultimo 
ì  Galli  erano  cosi  assediati  in  Roma  commessi  assediavano 
il  Campidoglio.'  Consta  che  Camillo  comunicò  cogli  as* 
sediati  in  Campidoglio,  e  quindi  la  chiusura  non  ne 
era  perfetta;  consta  che  in  Campidoglio  si  raccoglieva  il 
Senato,  e  quindi  i  senatori  morti  con  Papirio  vivevano 
ancora  (e  crediamo  vivesse  anche  Papirio  con  loro); 
consta  che  elessero  a  dittatore  Camillo;  ma  la  guarni- 
gione era  agli  estremi,  quand'egli  fu  vincitore.  A  tutto 
ciò  che  è  narrato  letteralmente  dagli  storici,  aggiungiamo 
anche  una  causa  concomitante  indicala  da  Polibio,  che 
deve  aver  scemato  le  masse  eia  pertinacia  dei  Galli  nella 
guerra  romana,  e  si  è  che  il  loro  slesso  paese  in  quel 
tempo  era  stato  assalilo  ed  invaso  dai  Veneti.  Nuove  osti- 
lità più  tardi  proruppero,  e  Camillo  fu  altre  volte  alla 
testa  deiresercito,  e  vinse.  Nelle  ultime  sue  campagne 
era  già  ottuagenario,  ma  sempre  lo  si  raffigura  e  descrive 
come  Alessandro,  come  Annibale,  ecc.,  ed  ogni  capitano 
e  giovane  e  vecchio,  in  mezzo  alla  mischia  sovra  un  monte 
d'uccisi.  Chi  insegna  e  chi  legge  non  pensa  che  chi  tiene 
un  comando,  ed  ha  da  ogni  lato  ofdini  a  dare  e  notizie 
a  ricevere,  può  soltanto  in  rarissimi  casi  ed  in  estremo 
frangente  sospendere  per  brevi  istanti  l'azione  morale 
del  comandare  alle  truppe,  e  tramutarsi  in  combattente 
volgare,  se  anche  ne  ha  il  vigore  e  la  brama. 

Le  vittorie  sui  Galli  avevano  raddoppiato  nei  Romani 
la  confidenza  e  la  forza  :  Camillo  non  aveva  alleralo  la  po- 
tente organizzazione  militare  romana,  ma  miglioralo  Tar- 
mamento,  che  trovò  troppo  debole  all'esperimento  delle 


18  PÀftTB  PRtHA 

battaglie  contro  quella  bellicosa  nazione.  Presto  però  si 
miglioravano  atìche  i  sistemi  di  campo  ;  e  ciò  avvenne 
nella  guerra  contro  di  Pirro.  Anche  la  vera  origine  di 
questa  guerra  non  è  chiaramente  indicata,  ma  si  disco- 
pre pur  essa.  Roma  aveva  battuto  i  popoli  etruschi  ed  i 
gallici,  e  quasi  totalmente  prostrato  i  Latini,  special- 
mente i  Sanniti,  che  nelle  aspre  montagne  avevano  op- 
posto resistenza  terribile.  Già  dominava  in  tutto  il  centro 
d'Italia:  doveva  piombare  la  sua  procella  sui  Greci  dei 
sud  :  forse  costoro  avevano  provocato  le  oflese  col  som- 
ministrare soccorsi  ai  Senoni  o  Sanniti  nell'intento  di 
porre  equilibrio  nelle  forze  rivali.  I  Romani  infatti 
accusarono  i  Greci  d'aver  inviato  ai  loro  nemici  gli 
ajuli:  era  verità  o  pretesto?  certamente  si  rinversava  so- 
vr*essi  il  torrente  romano  che  aveva  superato  la  gallica 
e  la  sannìtica  diga.  1  Tarentini  conoscendosi  deboli, 
chiamarono  Pirro  ad  ajuto,  e  questi  all'esca  si  mosse. 
Salpate  dall'Epiro,  entrano  nel  doppio  porto  di  Taranto 
le  navi  di  Pirro,  ed  ora  un  esercito  di  Epiroti,  d'IUirii, 
di  Greci  e  Macedoni  stretti  in  nodo  militare  saldissimo, 
calca  il  suolo  italiano.  Il  primo  alto  di  forza  si  è  per 
Pirro  quello  di  costringere  gli  stessi  Tarentini  e  gli  altri 
Greci  d'Italia  a  ripigliare  le  armi  disusate  :  Date,  dice  loro, 
soldati  e  denaro  :  combattete  nelle  mie  file  :  volete  l'indi- 
pendenza? l'ubbidire  ìidesso  è  difenderla.  E  Tarentini  e 
Greci  vedono  che  hanno  chiamato  un  padrone. 

Anche  in  questa  guerra  troviamo  alla  storia  mischialo 
il  romanzo,  ma  il  romanzo  ha  già  perduto  la  forma  se- 
vera, e  si  è  reso  gentile,  anzi  dilettevole  e  gajo.  I  Ro- 
mani hanno  in  un  subito  svestito  la  scorza  rubesta  degli 
eroi  di  Omero,  e  si  mutarono  nei  paladini  di  Francia: 
tutta  l'epopea  si  6  fatta  cavalleresca.  Ai  Greci  di  Pirro 
grandi  per  le  arti  e  valenti  per  Toro,  si  contrappongono 


aPITOLO  II.  i9 

i  Romani  austeri  di  virtù  e  formidati  per  ferro.  Un  Curio 
Dentato  sacrifica  agli  Dei  di  legno  e  di  creta  ;  chi  è  pago 
del  necessario  ha  del  superfluo,  ed  il  necessario  per  lui 
glorioso  di  tanti  trionfi,  sono  sette  jugeri  di  terra,  ed  una 
scodella  ;  Fabrizio  rivela  a  Pirro  le  preparategli  insidie 
del  medico.  Pirro  Io  tenta  invano  coi  doni,  lo  tenta  col 
terrore  dell'elefante  che  il  tocca,  ma  Fabrizio  non  si 
scuote,  né  imbianca  nel  viso.  Pirro  inneggia  ai  Romani  : 
lincerebbe  il  mondo  se  li  avesse  a  soldati  ;  è  più  facile 
smuovere  dall'orbita  il  sole  che  dalla  virtù  i  Romani  :  di^ 
luviano  gli  epigrammi  e  le  Iodi,  che  dei  Romani  hanno 
scritto  i  Romani. 

Cinea  filosofo  va  a  Roma  legato  di  Pirro  :  v'era  splen* 
dida  scienza  ed-  elegante  loquela  in  lui  :  si  gareggia  di 
maestà,  di  cortesia:  è  lodato  e  loda:  vuol  insegnare  a 
Fabrizio  la  stoica  filosofia:  avrà  onori  da  Pirro,  Io  segua, 
avrà  dignità  e  potenza.  Fabrizio  risponde  che  resta*  ed 
aggiunge  modesto  che  se  fosse  con  Pirro,  i  popoli  inva- 
ghili di  lui  lo  vorrebbero  re.  Ma  già  Cinea  filosofo  si  è 
troppo  avanzato  oltre  l'ufficio  di  legato,  ed  il  Senato  gli 
dà  commiato,  o  lo  sfratta.  Eppure  Cinea  non  è  avvilito 
od  astioso  :  racconta  a  Pirro  che  non  riuscì,  ma  Roma 
templum  sibi  visam  ,  Senatus  antem'regnnm  Deum 
esse  (1). 

(1)  Alla  legazione  di  Cinea,  se  fu  quale  si  espone ,  ci  piace  di  contrapporre 
per  le  cerimonie ,  per  Finsuccesso  ,  e  per  le  reciproche  burle ,  altra  legazione 
celebre  nella  storia  italiana  del  medio  evo,  quella  cioè  del  Petrarca  inviato  dal 
duca  di  Milano  a  Venezia.  Le  forze  alleate  dei  Catalani  e  dei  Veneti  avevano 
ridotto  Genova  a  lagrime  vele  estremità  :  essa  domandò  la  protezione  del  duca. 
Piaceva  al  signore  di  Milano  Tavere  il  porto  di  Genova ,  e  le  ricche  colonie 
della  superba  città  ;  non  voleva  però  rompere  facilmente  colla  poderosa  Ve- 
nezia :  servivasi  del  famoso  Petrarca  per  le  negoziazioni.  Dura  impresa  era 
la  sua. 

Nel  veneto  Areopago  era  proscritta  ogni  pompa  del  dire  :  in  modo  semplice 
e  pronto  doveva  ciascuno  indicare  Tintcrcsse  ,  e  proporre  la  parte.  Il  Petrarca 
eloquentissimo   ottenne  gli  onori  di  tutti ,  ed  il  voto  dì  nessuno.  Largheggiossì 


20  PARTE   PRIMi 

Le  armi  però  terrìbilmente  suonavano:. si  combattè 
in  piena  ordinanza  ad  Eraclea  e  ad  Ascoli:  a  Bene- 
vento Pirro  fu  poi  di  tal  colpo  di  clava  percosso,  che 
ogni  speranza  di  far  sua  Tltalia  se  ne  andò  in  dileguo, 
onde  egli  sanguinoso  e  lacero  là  tornossi  donde  era 
venuto. 

Rimasero  ai  Romani  le  istruttive  esperienze  di  .tanta 
guerra  combattuta  con  un  gran  condottiero  di  truppe 
eredi  delle  glorie  dei  trionfi  asiatici  e  dell'arte  militare  di 
Macedonia  e  di  Grecia.  Ed  ora  anche  Tltalia  greca  era 
in  loro  mano:  potevano  vendicarsi  di  Taranto,  vendicarsi 
di  tutti  i  Greci  d'Italia,  e  si  vendicheranno,  ma  ora  sapien- 
temente sospendono:  a  nuova  ed  a  grandissima  impresa 
intendono.  Non  bisogna  concitare  a  rivolta  i  Greci  d'Italia 
sì  prossimi  a  quei  di  Sicilia  tuttora  potenti:  meglio  l'as- 
sumere con  essi  forma  protettrice,  ed  anzi  proteggere 
non  i  soli  Greci  d'Italia,  ma  quelli  pur  di  Sicilia.  Erano 
•  sullo  Stretto:  guardavano  cupidamente  quell'isola  da  si 
piccola  onda  divisa.  Peritissimi  nell'approfittare  della 
discordia  altrui,  videro  che  dove  ferveva  una  discordia 
immensa  fra  Cartaginesi  e  Siracusani,  poteva  assicurarsi 
il  possesso  dei  paesi  greci  dltalia,  ed  inoltre  trovereb- 
besi  facile  strada  all'acquisto  di  un  bottino  immenso. 
Già  diventava  pìccola  l'Italia  pel  loro  vasto  desiderio  di 
regno:  volevano  disserrarsi  dalle  angustie  del  carcere 
suo.  La  Grecia  straziata  dalle  guerre  che  sciolsero  alOne 


nei  donativi  e  nelle  feste.  II  Petrarca  adulalissimo  pur  egli  adulava  :  i  preziosi 
manoscritti  da  hii  raccolti  con  tanta  cura  e  tanta  dottrina,  avesse  in  perpetuo 
deposito  ritalica  Atene.  Aveva  lodato  a  cielo  Cola  di  Rienzo  demagogo  plebeo, 
s'era  comportato  colla  teocrazia  pontificia  e  col  feudalismo  dei  Colonna ,  viveva 
in  colleganza  coi  Visconti  dispotici,  fu  coi  patrizii  di  Venezia,  e  diede  loro  Fin- 
censo.  Ma  Tamico  dei  Colonna  era  di  necessità  nemico  degli  Orsini  :  questi 
dnnquc  il  Petrarca  chiamava  non  so  con  qual  vezzo  di  poesia  Orsi,  lupi,  leoni, 
aquile  e  serpi,  che  danno  noja  ad  una  Colonna  di  marmo. 


GiPITOLO  II.  21 

rimpero  di  Alessandro  ia  varie  monarchie  combattenti 
fra  loro,  non  poteva  frammettersi  e  rovinare  l'impresa. 

La  Sicilia  era  il  c^mpo  controverso  fra  Siracusani  e 
Cartaginesi;  i  Romani,  approfittando  di  tale  discordia, 
incominciarono  quindi  le  guerre  puniche  nella  Sicilia,  e 
le  incominciarono  appunto  nell'epoca  in  cui  lo  consi- 
gliava l'utilità,  e  lo  comandava  la  prudenza,  perchè  Si- 
racusa da  sola  più  non  bastava  alla  guerra.  Grande,  ma 
breve  soccorso  le  aveva  dato  Pirro.  Vittorioso  dei  Romani 
ad  Eraclea  e  ad  Ascoli,  egli,  senza  cessare  dalla  guerra 
latina,  era  accorso,  sperando  agevoli  acquisti,  a  battersi 
anche  contro  i  Cartaginesi  in  Sicilia.  Ciascuna  delle  sin- 
gole guerre  sarebbe  stata  ben  grave  per  lui:  era  im- 
possibile che  le  sostenesse  entrambe,  e  fu  in  entrambe 
disfatto. 

Appena  Pirro  sgombrò  la  Sicilia,  i  Cartaginesi  preval- 
sero contro  Siracusa,  e  la  ridussero  perfino  a  cooperare 
per  essi,  quasi  protetta  città,  a  qualche  loro  spedizione 
militare.  E  già  tentavano  d'aprirsi  le  vie  d'Italia,  d'occu- 
pare il  magnifico  porto  di  Taranto,  per  quindi  signoreg- 
giare nella  Magna  Grecia,  escluderne  i  soccorsi  ai  Greci 
di  Sicilia,  assicurarsi  il  Mediterraneo  occidentale,  minac- 
ciar forse  il  Levante.  L'equilibrio  politico  era  in  Sicilia 
perduto  :  ogni  dilazione  avrebbe  esposto  Roma  a  cimento 
gravissimo.  Saviamente  presero  dunque  i  Romani  l'ini- 
ziativa, e  la  presero  in  Sicilia.  Ma  importava  d'avervi 
subito  una  forte  città,  e  la  migliore  di  tutte  è  Messina  per 
chi  tenga  a  base  d'operazione  l'Italia.  Una  banda  di  ladri 
(i  Mamertini)  l'aveva  sorpresa:  anche  con  essi  i  Romani 
si  strinsero  in  lega,  e  v'entrarono  (1)  :  era  grande  l'acqui- 


(t)  Divenne  allora  Messina  la  principale  piazza  d'armi  dei  Romani  in  Sicjlia; 
pei  Cartaginesi  to  era  Liiibeo ,  e  Siracusa  per  Gelone.  Vuoisi  por  mente  alle 


32  VlìLlK  PHlVi 

sto  come  la  vergogna  del  modo  con  cui  si  ottenne.  Facili 
furono  gli  accordi  con  Siracusa  timorosa  di  Cartagine, 
impossibili  erano  con  questa  anelante  ad  universalità 
d*imper0i  e  non  si  tentarono. 

Si  legge  negli  storici,  e  tuttodì  si  racconta,  che  quando 
gridossi  la  guerra  contro  Cartagine,  ì  Romani  in  sessanta 
giorni  allestirono  cento,  e  v'ha  chi  dice  cento  e  sessanta 
galere.  Come  le  navi  d'Enea  si  cambiarono  in  ninfe  (Vir- 
gilio), eie  foglie  sparse  da  Astolfo  sul  mare  crebbero  al- 
l'istante a  navi  con  remi,  con  vele  e  con  sarte  (Ariosto), 
le  foreste  dell'Appennino,  al  cenno  di  Roma,  dovrebbero 
essersi  convertile  in  vascelli  :  non  ut  arte  factWf  sed  quo- 
dam  tnunere  Deorum  conversm  in  naves  et  mutata;  arbo- 
rea viderentur  (Flor.,  lib.  2,  cap.  2).  Questi  sono  poetici 
vaneggiamenti.  In  sessanta  giorni  non  solo  una  nazione 
affatto  nuova  nelle  cose  marittime,  ma  anche  la  più  esperla 
e  meglio  provveduta  negli  arsenali,  non  fabbrica  cento  e 
più  galere.  Or  i  Romani,  giusta  gli  storici,  vedendo  un 
vascello  cartaginese  gettato  sulla  spiaggia  da  una  tempesta, 
avrebbero  appreso  a  costruirne  di  proprii  ;  in  sessanta 
giorni,  vele,  sartiame  ed  ancore,  tutto  fu  pronto;  fabbrica- 
rono cento  navi,  e  ne  compirono  l'armamento.  Si  sarebbe 
addestrata  la  ciurma  al  mareggiare  ;  un  Romano,  che  non 
sapea  di  vascelli ,  sarebbe  stato  ammiraglio  in  sessanta 
giorni,  e  si  sarebbe  vinta  la  prima  battaglia  contro  i  Carta- 
ginesi da  tanti  secoli  esperti  nelle  cose  di  mare.  Questi  non 
sono  poetici  vaneggiamenti,  ma  grossolane  assurdità.  Ep- 
pure non  v'ha  mistero.  Noi  abbiamo  veduto  quali  odii 

posizioni  di  queste  tre  piazze ,  per  ben  comprendere  le  operazioni  strategiche 
tcrreilri  e  navali  della  prima  guerra  punica.  D'intorno  a  Lilibco  p.  e.  si  con- 
centrò per  anni  intieri  un  immenso  sforzo  d'assalto  e  difesa  con  flotte  ed  eser- 
citi ,  e  quando  la  gran  vittoria  riportata  da  Lutazio  Catulo  tolse  del  tutto  a 
Cartagine  la  speranza  di  potere  più  oltre  sostenersi  nel  possesso  di  quella  piazza, 
essa  scese  finalmente  ad  accordi,  e  cedette  la  Sicilia. 


cimoLo  n.  23 

regnassero  fra  Carlaginesi  e  Siracusani  :  in  quelle  condi- 
zioni politiche  i  Romani  ben  potevano  accingersi  ad  una 
guerra  anche  senza  vascelli.  I  Siracusani  avrebbero  fatto  in 
modo  che  i  Romani  diventassero  estemporanei  navigatori» 
le  quercie  diventassero  navi  estemporanee,  ed  un  console 
diventasse  ammiraglio  estemporaneo.  I  Romani  avrebbero 
trovato  in  Sicilia  lutto  Toccorrente  :  lo  avrebbe  fornito  in 
via  segreta  Siracusa  se  Cartagine  lo  comportava,  od  in  via 
pubblica  se  Cartagine  esternava  il  suo  corruccio.  Sembra 
che  i  Siracusani  fornissero  in  realtà  molto  di  ciò  che  oc- 
correva alle  flotte  romane.  Dicono  infatti  gli  storici  greci 
e  latini  che  Gelone  di  Siracusa  era  un  ottimo  re:  gtretta- 
mente  neutrale,  ma  molto  amico  dei  Roihani.  Questa  neu- 
tralità di  Gelone,  cosi  amico  dei  Romani,  deve  aver  fatto 
gran  danno  ai  Cartaginesi.  Voleva  Gelone  che  i  Romani 
cacciassero  i  Cartaginesi  dalla  Sicilia  ;  voleva  occupare 
tutta  risola  ;  voleva  diventare  conquistatore  e  monopo-- 
lista,  e  tutto  questo  a  spese,  altrui. 

Era  pei  Romani  Siracusa  un'assai  potente  confederata  ; 
v'erano  però  altri  neutrali,  amicissimi  dei  Romani,  è 
pur  essi  esperti  nelle  cose  di  mare.  A  Marsiglia,  ricca 
colonia  greca  sulle  coste  della  Gallia,  la  forza  di  Carta- 
gine non  era  meno  molesta  che  a  Siracusa.  Quell'uso 
cartaginese,  di  cui  parla  Strabone,  di  far  cioè  annegare 
tutti  gli  stranieri  che  navigassero  nella  Sardegna  o  verso 
le  colonne  d'Ercole,  non  era  costume  grato  a  Marsiglia 
commerciante.  Marsiglia  e  Cartagine  erano  già  venute  in 
guerra  per  controversie  commerciali  ;  vediamo  infatti  in 
*  Giustino,  che  il  diritto  della  libera  pesca  era  già  stato  da 
Cartagine  conteso  a  Marsiglia  colla  forza  delle  armi.  Que* 
sto  già  si  era  l'apice  del  sistema  proibitivo.  Tale  si« 
stema  è  antico  come  sono  antichi  gl'interessi,  e  gl'iute* 
ressi  sono  antichi  come  il  mondo. 


24  PARTE  l'RiMi 

Inoltre,  senza  esaminare  se  ì  cittadini  di  Roma  allo 
scoppiare  delle  guerre  puniche  fossero  affatto  nuovi  nelle 
faccende  di  mare,  è  d'uopo  rimarcare  una  distinzione  di* 
Romani  in  antichi  e  nuovi  ;  ìale  distinzione,  che  viene 
costantemente  ommessa,  potrebbe  rendere  evidente  un 
fatto*  che  d'ordinario  si  espone  in  modo  assurdo. 

Sia  pure  che  i  cittadini  di  Roma  non  esercitassero  il 
commercio  di  mare  ;  sia  pure  estendibile  anche  ai  plebei 
quella  massima  che  proibiva  ai  patrizii  di  occuparsi  del 
traffico  :  i  patrizii  non  dovevano  esercitare  il  commercio  ; 
essi  dovevano  reggere  la  repubblica,  sedere  in  Senato, 
comandare  alle  legioni.  Si  ammetta  Tautorità  degli  sto- 
rici (Livio,  lib.  IVI;  Polib.,  lib.  I,  cap.  xix),  che  cioòi 
Romani  limitrofi  ad  un  mare  percorso  da  attivissimi  na- 
vigatori, e  padroni  della  foce  di  un  fiume,  non  conosces- 
sero il  commercio  marittimo,  non  avessero  vascelli.  Ma 
i  Romani  già  si  erano  fatti  grandi,  avevano  passato  TAp- 
pennino,  e  s'erano  allargati  su  entrambi  i  mari  ;  avevano 
soggiogato  quasi  tutti  i  popoli  della  Magna  Grecia  e  del- 
TEtruria,  la  civiltà  dei  quali  fu  grandissima,  e  la  cui 
perizia  nella  nautica  non  può  esser  rivocata  in  dubbio. 
Prima  delle  guerre  puniche  essi  erano  padroni  di  un  va- 
stissimo liltoralc:  erano  padroni  di  Brindisi,  e  padroni 
di  Taranto,  che  hanno  magnifici  porti,  ed  erano  ricche  e 
potenti  città:  agli  antichi  Romani,  se  essi  ignoravano  le 
cose  marittime,  si  erano  aggiunti  dei  Romani  nuovi,  chn 
le  conoscevano  e  le  apprezzavano. 

I  Romani,  si  dice,  non  avrebbero  amato  il  commer- 
cio, perchè  sgombra  le  idee  entusiastiche,  e  fa  gli  animi 
propensi  piuttosto  al  guadagno  che  non  alla  gloria. 
Ma  questa  stessa  massima  pur  condannata  di  falso 
dalle  storie  tanto  luttuose  pcyttticamenle  quanto  militar- 
mente gloriose  delle  guerre  delle  repubbliche  italiane, 


cAnTOLO  II.  25 

batave  ed  anseatiche  del  medio  evo«  avrebbe  consigliato 
che  i  Romani,  escludendo  il  commercio  da  Uoma,  lo 
coltivassero  invece  presso  i  loro  alleati,  come  più  di 
sovente  si  chiamavano  questi  sudditi  di  Roma.  Dei  gua- 
dagni mercantili  di  essi  i  Romani  avrebbero  fruito  col 
decimarne  una  squisita  parte,  del  loro  amore  di  gloria 
avrebbero  provato  ì  frutti  amari. 

I  Romani  concessero  a  molti  popoli  italiani  di  vivere 
secondo  i  loro  costumi  e  le  leggi  loro  ;  come  si  può  cre- 
dere che,  neiraccordarlo,  abbiano  escluso  il  commercio, 
distrutto  le  navi,  incendiato  gli  arsenali,  e  leso  a  gravis- 
simo danno  di  Roma  stessa  infiniti  interessi  dei  proprii 
sudditi?  I  Romani  infatti  non  estinscro  il  commercio  dei 
loro  sudditi.  Da  Tito  Livio  e  da  Polibio  sappiamo  che 
prima  delle  guerre  puniche,  ossia  negli  anni  di  Roma 
245,  402,  416  e  473  i  Romani  avevano  conchiuso  coi 
Cartaginesi  varii  trattati,  ed  il  primo  di  essi  esposto  da 
Polibio,  era  un  trattato  di  navigazione  (lib.  3).  Leggiamo 
inoltre  che  i  Romani  nell'anno  443,  ossìa  cinquantanni 
avanti  la  prima  guerra  punica,  crearono  i  Duumviri  di 
mare,  e  diciolt'anni  prima  di  quella  guerra,  una  flotta 
romana  di  dieci  navi  annate,  avvicinatasi  a  Taranto 
onde  rinfrescarsi  (?) ,  fu  colata  a  fondo.  V'ha  ancora  di 
pili.  Prima  dell'epoca,  a  cui  precisamente  si  riferirebbe 
questa  creazione  d'una  romana  flotta,  i  consoli  Otlacilio  e 
Valerio  avevano  passato  il  mare  con  quattro  legioni,  con- 
quistato una  parte  della  Sicilia ,  battuto  i  Cartaginesi 
sotto  Agrigento,  ed  assediato  e  preso  questa  città. 

Onde  continuare  i  loro  successi  contro  Cartagine  ed 
assicurarsi  le  comunicazioni  coirisola,  i  Romani  pote- 
rono adunque  allestire  in  breve  tempo  una  flotta  formi- 
dabile; tanto  più  che  le  guerre  non  nascono,  come  le 
risse,  per  fatto  subitaneo  e  non  preveduto,  ma  prepa- 


26  PiHTE  PfUlIA 

ransi  di  lunga  mano,  e  si  dichiarano  solo  quando  si  sta 
per  combattore,  e  sovente  dopo  di  aver  combattuto.  Ed 
i  Romani  già  da  qualche  anno  combatteyano  contro  ì 
Cartaginesi  nella  Sicilia ,  avevano  un  vasto  littorale,  ave- 
vano vascelli,  avevano  marinai:  i  Romani,  almeno  i 
nuovi,  conoscevano  il  Mediterraneo  quanto  lo  conosce- 
vano i  Cartaginesi.  Dove  poi  mancava  la  perizia  dei  Ro- 
mani antichi  e  dei  Romani  nuovi,  non  mancava  Gelone 
amico,  non  mancavano  i  porti,  i  vascelli  e  le  genti  dei 
Siracusani  e  dei  Marsigliesi. 

Ecco  la  ragione  facile  perchè  i  Romani  guerreggiarono 
sul  mare  coi  Cartaginesi,  e  furono  vittoriosi  nel  primo 
conflitto,  non  che  in  molti  che  vennero  dappoi.  Se  i  Ro- 
mani non  avessero  avuto  marinai  esperti  d'Italia,  di  Si- 
cilia e  di  Gallia,  i  Cartaginesi  li  avrebbero  vinti  quasi 
senza  combattere.  Bastava  che  i  Cartaginesi  assalissero  i 
Romani  a  mare  grosso  :  gli  scogli  e  le  correnti  avrebbero 
per  Cartagine  compensato  la  perdita  di  qualche  vascello 
colla  distruzione  totale  della  flotta  di  Roma. 

Vuoisi  inferire  che  i  vascelli  romani  fossero  del  tutto 
informi  dall'avere  i  Romani  applicato  ai  medesimi  un 
uncino  0  corvo  per  stringersi  addosso  ai  vascelli  nemici, 
e  costringere  in  certo  modo  i  Cartaginesi  a  combattere 
di  pie  fermo.  Questo  era  forse  un  eccellente  provvedi- 
mento pei  legionarii  romani  del  tutto  mesperti  nelle  fac- 
cende di  mare  ;  ma  il  governo  dei  vascelli  medesimi  ri- 
chiedeva ben  altro  che  un  uncino  o  corvo,  é  dei  legionarii 
anche  coraggiosissimi.  La  direzione  dei  vascelli  doveva  es- 
sere affidata  ad  una  ciurma  esperta  :  la  pugna  poteva 
essere  sostenuta,  dopo  cert'epoca  di  addestramento,  an- 
che dai  legionarii.  Ma  nemmeno  mancavano,  anzi  ab- 
bondavano le  genti  di  mare  :  i  Romani  avevano  in  copia 
rematori,  velieri  e  piloti  pel  governo  delle  navi  e  pel 


cimoLO  II.  27 

molo.  £  non  hanno  o  Turchi  e  Barbareschi  per  due  secoli 
combattuto  sul  mare  con  gran  parie  di  ciurme  composte 
di  schiavi  crisliani  ?  Le  galere  dei  cavalieri  di  Rodi  e  di 
Malia  non  furono  per  un  tempo  ancora  più  lungo  montale 
in  gran  parte  di  schiavi  ottomani?  Era  necessario  Tusare 
con  tali  ciurme  vigilanza  e  rigore,  e  si  usò  con  sospetto, 
e  si  inGeri  con  barbarie,  ma  v'erano  gli  elementi  di 
guerra,  e  spesso  vi  fu  la  vittoria. 

Nessuno  più  dello  storico  ha  da  stare  in  guardia  con- 
tro le  cose  romanzesche  ed  incredibili,  e  nessuno  più 
dello  storico  si  diletta  di  narrare  cose  romanzesche  ed 
incredibili.  Cosi  piacque  anche  agli  storici  moderni  la 
leggenda  egualmente  poetica  d'altra  flotta  improvvisala 
da  Pietro  il  Grande  dopo  gli  studii  che  avrebbe  fatto  in 
otto  giorni  in  Olanda  nel  cantiere  di  Saardam.  Eppure 
è  ben  noto  che  prima  di  quel  viaggio  in  Olanda,  Pietro 
aveva  già  navigato  con  proprii  vascelli  il  Mar  Bianco , 
aveva  fondato  un  arsenale  a  Woronesh ,  vi  aveva  tras- 
ferto  le  ciurme  da  Arcangelo,  vi  aveva  costruito  ventitre 
galere  per  l'attacco  di  Azow,  ed  intrapreso  la  costruzione 
di  trenta  navi  da  quaranta  a  sessanta  cannoni  ciascuna. 

Se  ì  Romani  in  allora  combatterono  e  vinsero  sul  mare, 
dovevano  poter  combattere  e  vincere.  Come  poi  si  ac- 
cordi la  probabilità  di  combattere  e  di  vincere  con  quella 
fola  dei  sessanta  giorni  di  creazione,  nessuno  vi  sarà  che  il 
comprenda.  Nondimeno  lo  slesso  Montesquieu,  nella  sua 
ammirazione  per  la  romana  sapienza,  ha  narralo  questi 
romani  miracoli,  e  tante  cose  soprannaturali  strette  da 
luì  in  un  solo  periodo,  ha  trovato  naturali  e  facili  pel  sin- 
golare amor  romano  di  patria  e  di  gloria.  Ed  anche  Men- 
gottì  segue  l'ordinaria  corrente,  narrando  della  ereazione 
della  flotta  romana.  È  facile  immaginarsi^  egli  dice, 
qwmto  quelle  navi  fossero  goffe,  sciancate  e  deformi. 


28  PABTE   l*RIIIi 

Ma  che?  a  questo  trislissitno  stato  delle  navi' romane 
Mengotli  attribuisce  appunto  la  vittoria,  pe?rcA^  vascelli 
sì  tardi  e  sì  rozzi  dovevano  essere  disprezzati  da  tm 
popolo  sovrano  del  mare  guai  era  il  cartaginese  :  il  dts- 
prezzo  del  nemico  adunque  fece  uscire  vittoriosi  i  Ro- 
mani, tanto  più  che  combattevano  con  ferocia^  ed  i  Car- 
taginesi  erario  molli  per  il  clima  e  per  ricchezza  :  cosi  si 
scrive,  si  ripetei  e  si  spiega  la  storia! 

Nella  prima  guerra  punica  i  Romani  fecero  quanto 
Siracusa  bramava  che  si  facesse  da  essi;    scacciarono 
cioè  i  Cartaginesi  dalla  Sicilia.  Ma  fecero  assai  più  che 
non  fosse  desideralo  :  tennero  dopo  i  trionfi  guarnigioni 
in  Sicilia,  tolsero  ai  Cartaginesi  anche  la  Sardegna,  ben- 
ché loro  stala  non  fosse  nel  trattalo  ceduta,  e  vi  fioris- 
sero le  colonie  cartaginesi  doviziose  e  polenti,  attestate 
anche  oggidì  dalla  quantità  e  preziosità  degli  oggetti  fe- 
nicio-punici che  si  scopersero  e  scoprono  specialmente 
nella  necropoli  di   Thurium  presso  Oristano:  stanzia- 
ronsi  altresì  nella  Corsica.  Sostituendosi  cosi  i  Romani 
ai  Cartaginesi  nei  possessi,  ed  estendendosi  per  ogni  dove, 
si  sostituivano  nelle  diffidenze  e  nelle  avversioni  di  Sira- 
cusa, e  se  prima  la  politica  di  questa  piegava  verso  Roma, 
ora  incomincia  a  piegare  verso  Cartagine.  La  quale  epoca 
di  variata  politica  è  forse  quella  in  cui  il  siciliano  Fileno 
scrisse  la  sua  storia  della  prima  guerra  punica  favore- 
vole ai  Cartaginesi^  che  non  giunse  a  noi,  ma  è  ram- 
mentala più  volte  da  Polibio. 

Regnava  allora  in  Siracusa  il  figlio  di  Gelone,  cui  Plu- 
tarco chiama  uno  scostumato,  forse  perchè  si  diparti  dal 
costume  paterno;  ma  Gelone  decrepito  avrebbe  egli  pure 
cambiato  costume  se  fosse  vissuto  quando  Siracusa  aveva 
a  temere  piuttosto  di  Roma  che  di  Cartagine.  I  Siracu- 
sani anelano  adesso  a  prendere  le  terre  dalle  quali  i  Ro- 


CAPITOLO  li*  29 

mani  hanno  cacciato  i  Cartaginesi,  e  s'abbia  pure  Carta- 
gine un  compenso  a  danno  di  Roma.  La  seconda  guerra 
punica  sarà  ancor  più  feroce  della  prima.  Nella  prima 
guerra  punica  doveva  andare  a  ruba  Cartagine,  edovevano 
dividere  Roma  e  Siracusa  ;  nella  seconda  dovrebbe  andar 
a  ruba  Roma,  e  Cartagine  e  Siracusa  devono  rapire. 

Cartagine  e  Roma  possedevano  un  vasto  territorio 
acquistato  colla  frode  e  colla  forza.  Le  nazioni  conqui- 
statrici sono  di  molto  più  deboli  nel  difendersi  in  casa 
propria  per  le  ribellioni  che  soffrono,  che  non  nell'as- 
salire  pei  numerosi  eserciti  disciplinali  che  muovono  (1),. 
Quando  Pirro  invase  Tllalia,  Roma  perigUò  nella  lolla; 
quando  Attilio  Regolo,  durante  la  prima  guerra  punica, 
vìnta  la  gran  battaglia  navale  di  Ennone  (2),  discese 
con  40,000  uomini  neirAfrica,  seltantaquatlro  città,  per 
odio  contro  di  Cartagine ,  come  dicono  Eutropio  ed  Ap- 
piano, si  diedero  a  lui,  ed  egli  comparve  davanti  a  Car- 
tagine. E  se  egli  invece  di  offrire  i  patti,  che  fu  uno  sco- 
prire manifestamente  qual  fede  voleva  serbare  ai  suoi  al- 
leali, subito  assaliva,  sembra  potersi  dire  ragionevol- 
mente che  Cartagine  sarebbe  stata  sua. 

Ma  l'aperta  negativa  di  Dione  Cassio  ed  il  silenzio  di 

(1)  Alle  ribellioni  dei  paesi  ridotti  in  servitù,  e  quindi  al  f:icilc  crollo  di 
grandi  Stati  d'agglomerazione  inrorme  di  popoli  servi,  alludeva  anche  Machia* 
Telli  in  una  sensata  terzina: 

Spesso  lino  ha  pianto  lo  Stato  ch'egli  ebbe , 

E  dopo  il  fallo  poi  s'accorge  come 

A  sua  rovina  ed  a  suo  daimo  crebl^e. 
1^)  Non  sappiamo  credere  che  la  flolla  di  Regolo  ad  Ennone  fosse  si  grande 
da  portare ,  come  dicono  gli  storici ,  niente  meno  che  centoqmranta  mila 
rematori  e  soldati.  Gli  esperti  nelle  cose  marittime  parteciperanno  alla  no- 
stra incredulità.  Ma  anche  questi  fatti  si  aggiungono  ad  escludere  ogni  verosi- 
miglianza della  sempre  ripetuta  inscienza  dei  Romani  nelle  cose  marittime 
quando  proruppe  la  guerra.  Dopo  soli  otto  anni  dal  principio  di  essa,  e  non 
.ostante  naufragii,  incendii  e  rovesci,  Regolo  comandava  una  flolla  immensa,  e 
tale  ne  era  rallestimento  e  perizia,  che  egli  trionfava  dei  Cartaginesi,  la  cui 
flotta  era  ancor  più  numerosa  della  sua. 


30  PARTE    t»BIMA 

Polibio  e  di  Diodoro  Siculo  ci  fanno  relegare  fra  le  favole 
quei  racconti  scenico4ragici  che,  non  sostanzialmente 
variati,  si  trovano  in  altri  classici  suirambasciata  di  Re- 
golo a  Roma ,  sugli  abbracciari  e  le  lagrime ,  sui  guer- 
rieri consigli  dati  al  Senato  paventoso  ondeggiante,  e  sul 
supplizio  sofferto  in  Cartagine.  £  chi  poi  ha  suggerito  a 
Paulmier  che  Regolo  morì  male  medicato  ?  E  come  mai 
il  Vesselingio  ha  adottata  questa  bizzarra  opinione  di 
Paulmier?  Riflettiamo  d'altronde  che  tre  soli  anni  dopo 
il  supposto  martirio  di  questo  Regolo,  che  amò  Roma 
e  non  se  stesso  (Petr.),  lo  scambio  dei  prigionieri  fu 
dai  Romani  consentito  e  realmente  segui. 

In  generale  quella  prima  discesa  dei  Romani  nell'Africa 
fu  narrata  in  modo  bizzarro  e  fantastico.  Non  è  infalli 
una  favola  il  racconto  di  quello  smisurato  serpente  tro- 
valo da  Regolo  al  fiume  Bagrada,  contro  il  quale  dovette 
far  uso  di  macchine  da  guerra  ?  I  più  grandi  serpenti 
non  sono  nell'Africa,  ma  neirAmerica,  ed  anche  quelli 
d'America  sarebbero  ben  piccoli  in  confronto  all'imma- 
ginario  serpente  incontrato  da  Regolo.  Secondo  Bossuef, 
nel  suo  famoso  Discorso,  il  cui  merito  abbiamo  sempre 
udito  esser  sommo,  ma  non  trovato  superlativo  giammai, 
quel  serpente  doveva  essere  ben  altra  cosa  che  tutti  i  ser- 
penti dei  poemi  cavallereschi,  perchè  Regolo  avrebbe  do- 
vuto impiegare  contro  il  medesimo  tutto  il  suo  esercito. 


CAPITOLO  III. 

Conquiste  eartaginesi  in  Ispagna , 

e  eonqniste  romane  nella  Gallia  cisalpina  e  neirilliria. 

Discesa  di  Annibale  in  Italia, 

Infelici  Della  prima  lolla  contro  i  Romani,  avevano  i 
Cartaginesi  perduto  nella  Sardegna  e  Sicilia  possedimenti 
preziosi:  se  ne  erano  però  compensali  dilargando  il  do- 
minio in  Ispagna,  non  altrimenti  che  gli  Inglesi  nella  se- 
conda metà  dello  scorso  secolo,  perduta  tanta  parie  delle 
colonie  d'America,  estesero  gli  acquisti,  ed  ebbero  com- 
penso nelle  Indie. 

Infatti  i  Cartaginesi  avevano  occupato  quasi  tutte  le 
coste  della  Spagna  ulteriore,  e  gran  parte  di  quelle  del 
pari  magniQche  della  Spagna  citeriore  ;  su  queste  ave* 
vano  formato  ed  eretto  a  principale  loro  piazza  la  Nuova 
Cartagine  (Cartagena),  centrale  alla  linea  marittima, 
fronteggiante  l'Africa,  ed  in  ogni  tempo  pel  vasto  ed  ot- 
timo porto  si  prezioso  possesso,  ed  ambila  conquista. 
Altra  piazza  principale  avevano  in  Cadice,  pressoché 
isola  adesso,  ma  forse  insulare  allora ,  giacché  sembra 
che  il  mare  non  avesse  accumulato  le  sabbie,  che  ora  per 
lunghissima ,  bassa  ed  esile  diga  quasi  riuniscono  al 
continente  la  roccia  su  cui  la  città  è  costrutta.  In  Cadice, 
nelle  altre  colonie  fenicie  alla  spiaggia,  nelle  Baleari  pure 
fenicie,  i  Cartaginesi  d'eguale  origine  e  riti  parevano 
naturali  signori  :  erano  stranieri  e  nemici  per  le  poche 


32  PARTE  PRIMA 

greche  colonie  nel  ponente  di  Spagna,  e  lo  erano  pei 
popoli  deirinterno.  Stabilivano  però  colla  spada,  sempre 
invadendo,  l'impero  ;  traevano  argento  dalle  miniere,  e 
buone  genti  da  guerra  dalle  bellicose  tribù.  Ormai  do- 
minavano non  senza  contrasto,  ma  con  sicura  fortuna. 
Roma  aveva  seguito  con  occhio  geloso  il  ritorno  a 
vigore  della  pericolosa  rivale;  aveva  voluto  conterminare 
gli  acquisti,  anzi  predisporvi  alVuopo  il  conseguimenlo 
di  proprii.  S'era  quindi  alleata,  aveva  cioè  concesso 
od  imposto  il  proprio  protettorato  a  molte  città  nell'av- 
vallamento deiribero  (Ebro).  La  linea  di  quelle  citlA 
doveva  essere  il  dio  Termine  delle  invasioni  di  Cartagine, 
ed  il  toccarle  riaprire  in  Roma  il  tempio  di  Giano.  Così 
abbiamo  veduto  nel  secolo  scorso  in  America  i  Francesi 
padroni  del  Canada  e  della  Luigiana,  osteggiare  gli  In- 
glesi, signori  della  costa  orientale,  volendo  escluderli  dal 
progredire  neirinterno  con  piccoli  forti  ed  alleanze  d'in- 
digeni lungo  l'Ohio  ed  il  Mississippi,  e  similmente  osteg- 
giarsi le  potenti  compagnie  francesi  ed  inglesi  del  Canada 
e  della  Baja  di  Hudson,  onde  avere  il  monopolio  delle 
pelliccie  e  d'ogni  minore  commercio  nelle  polari  regioni 
d'America.  Né  in  altro  modo  si  contrastarono  le  stesse 
compagnie  inglesi  dell'est  e  dell'ovest  d'America  alleati^ 
dosi  agli  indigeni,  e  Francesi  ed  Inglesi  nelle  Indie  col- 
Vallearsi  coi  principi  indostani  e  maratti  contro  il  con- 
corrente europeo.  E  vediamo  anche  al  presente  nell'Asia 
e  Russi  ed  Inglesi,  dov'hanno  voglie  ambiziose  essi  stessi. 
0  gelosia  delle  altrui,  stabilire  questi  avamposti  d'alleati 
0  protetti,  che  spariscono  poi  inghiottiti  per  l'ordinario 
dal  loro  amico  e  signore,  il  quale  procede  più  oltre,  e 
nuove  linee  d'amici  o  protetti  disegna.  Le  politiche  arti 
si  accomodano  al  bisogno:  col  tempo  ne  vengono  in 
uso  di  nuove,  ma  sono  antiche  le  più.  Tutti  sono  avidi 


CAPITOLO  ni.  33 

di  dissetarsi  alla  fonte  copiosa:  tutti  sono  gelosi  che 
altri  derivi  dal  fiume  un  ruscello  per  sé:  s'intrecciano 
alle  economiche  le  politiche  idee,  si  fanno  a  vicenda  più 
forti ,  e  sempre  ad  una  meta  cospirano ,  l'arricchirsi  e 
Finvadere. 

Ora  Annibale  cartaginese,  volendo  rompere  guerra,  as- 
saltò appunto  sull'Ebro  Sagunto  a//^a/a  di  Roma.  In  quale 
situazione  politica  trovavansi  in  quel  momento  i  Roma- 
ni? Che  avevano  operato  i  medesimi  dopo  d'avere  con 
Cartagine  conchiuso  la  pace?  Anch'essi  non  erano  stati 
oziosi:  avevano  invaso  altri  paesi,  eccitato  altre  gelosie, 
commosso  altre  popolazioni.  Perseguitando  con  giusta 
causa  i  Galli  Senoni  perchè  invasori,  s'erano  fatti  alla 
loro  volta  invasori  essi  stessi:  occupavano,  dividevano  a 
voglia  loro  il  territorio  Piceno:  poi,  avessero  o  non  aves- 
sero titolo  d'aggressione  contro  le  altre  popolazioni  gal- 
liche della  valle  padana,  passavano  all'est  ed  al  nord 
l'Appennino  etrusco,  che  non  fu  mai  in  verun'epoca 
della  storia  per  gli  eserciti,  da  qualunque  versante  mo- 
vessero, Vinespugnabile  cittadella  che  ai  giorni  nostri 
si  afferma.  Calarono  sul  Po,  battagliarono  con  alcune 
tribù  galliche,  si  confederarono  ad  altre,  uccisero  un  re, 
varcarono  il  gran  fiume  e  poi  l'Adda,  ed  entrarono  in 
Milano.  Tradussero  poscia  colonie  romane  a  Piacenza, 
che  è  risso  d'Italia,  la  gran  chiave  strategica  d'ogni  guerra 
italiana,  ed  a  Cremona  per  avere  in  ogni  operazione  si- 
curo un  doppio  passaggio  sul  Po.  Era  impossibile  di  fare 
scelte  più  giudiziose  di  località  per  porvi  colonie:  i  Ro- 
mani devono  averle  anche  fortificale  d'assai  :  infatti  esse 
rimasero  intatte  anche  circumfuse  da  sollevate  nazioni, 
e  la  romana  bandiera  continuò  a  sventolarvi  anche  dopo 
le  battaglie  del  Trasimeno  e  di  Canne,  e  quando  ritornò 
la  fortuna  di  Roma  quelle  colonie  devono  aver  contri- 


34  PARTE  PRWA 

builo  d'assai  alla  facile  restituzione  della  romana  potenza 
nella  Gallia  cispadana. 

Intanto  i  Romani  scorrevano  orgogliosi  e  forti  il  paese, 
e  guardavano  alle  Alpi  come  a  baluardo  donato  dagli  Dei 
a  sicurezza  d'Italia,  specialmente  a  precludere  l'arrivo  di 
altre  torme  di  Galli:  Alpibus  Italiam  munierat  natura 
non  sine  aliquo  divino  numine,  nam  si  ille  aditus  GaU 
lorum  immanitati  multitudinique  patui$set^  nunquam 
Roma  ecc.  (Cic,  De  prov.  cons.)  (1). 

Dal  lato  orientale  d'Italia  però  i  Romani  non  mostra- 
vano volersi  arrestare  ai  conQni  naturali  ;  li  avevano  anzi 
oltrepassali:  erano  tragittati  neir Illirico,  vi  spaziavano 
largamente:  divenivano  cosi  per  possidenze  dirette  od  in- 
fluenze politiche  limitrofi  per  spiaggie  e  territorii  di  in- 
certo confine  coi  re  di  Macedonia  eredi  della  gloria  di 
Alessandro,  e  tuttora  potenti.  Gli  stessi  Illirii  avevano 
dato  all'invasione  il  pretesto  o  la  causa:  dai  labirinti 
delle  loro  isole  e  dalle  sinuose  costiere  lanciavano  ardili 
pirati  sull'Adriatico  e  sul  Ionio  :  erano  gli  antenati  degli 
Vscochi,  che  dovevano  per  un  secolo  far  tanto  danno  a 
Venezia  cosi  polente  sul  marel  I  Romani  si  collegarono 
alle  città  greche  dagli  Uscochi  insultate  sovente  ed  offese 
pei  depredati  navigli:  inlimarono  a  Tenta,  regina  degli  Il- 
lirii, che  la  piraleria  cessasse,  ossia  le  ingiunsero  ciò  che 
era  ben  giusto,  ma  che  la  regina,  se  pur  lo  voleva,  molto 

(1)  Perchè  le  Alpi  fossero  anche  ai  nostri  giorni  per  Fltalia  quel  potente 
baluardo  a  difesa ,  che  da  molti  si  credono ,  sarebbe  necessario  che  TUalia 
possedesse  ancora  il  territorio  nizzardo.  Da  quel  lato  le  Alpi  sono  adesso 
oltrepassate  dal  territorio  francese.  Fatta  anche  astrazione  dalle  operazioni  di 
mare  cosi  potenti  a'  di  nostri ,  le  difese  terrestri  italiane  dal  lato  del  sud  sono 
adesso  pericolanti  e  girate;  e  se  la  valle  'd'Aosta  fosse  riunita  alla  Francia, 
che  in  due  epoche  della  storia  di  Casa  Savoja  ne  fece  con  grandissinìa  istanza 
ed  offerta  di  compensi  domanda,  quelle  difese  sarebbero  affatto  perdute  dal  lato 
del  nord,  e  nel  sistema  militare  ben  potrebbe  dirsi  che  la  barriera  delle  Alpi  ha 
cessato  d'esistere. 


CAPITOLO  ni.  35 

probabilmente  era  impotente  a  coni^egaire  dai  sudditi 
suoi.  Presero  poi  sotto  la  loro  protezione  il  gruppo  delle 
isole  Lissa,  che  sono  la  Malta  deirAdriatico,  pretesero 
che  grillirii  non  navigassero  a  ponente  del  gruppo: 
quindi  occuparono  essi  medesimi  quel  magniQco  punto 
di  sorveglianza  e  di  blocco  di  tutte  le  coste  illiriane.  Gua- 
dagnarono in  appresso  al  loro  partito  un  Demetrio,  con- 
fidente della  regina,  e  questi  la  tradì,  e  consegnò  le 
piazze  principali  ai  Romani.  Essi  divisero  allora  il  paese 
fra  Teuta  e  Demetrio,  confidando  nei  loro  odii  intensi  e 
negli  opposti  interessi  :  si  tennero  in  fortissimi  luoghi 
a  vigilanza  di  entrambi,  reclutarono  fra  i  montanari  più 
turbolenti  truppe  alleate  per  presidi!  lontani,  e  presto 
spari  ogni  traccia  del  regno  di  Demetrio  e  di  quello  di 
Teuta. 

Per  le  conquiste  romane  nella  Gallia  cisalpina  e  nel- 
rniiria  cadde  in  isolamento  impotente,  e  fu  ridotto  a  vita 
temporanea  e  languida,  Tantico  popolo  abitatore  delle  parti 
orientali  del  Veneto,  perchè  trovossi  ristretto  da  tre  lati 
dai  possessi  romani  e  dal  quarto  dai  Barbari.  Quale  si 
fosse  questo  popolo  è  vano  il  chiederlo  perfino  agli  ar- 
cheologi, che  mancano  pur  essi  di  prove  a  sostegno  delle 
loro  controversie  se  i  Veneti  fossero  Eneti-asiatici,  Tro- 
jani,  Pelasgi  o  Vendo-celtici.  Appena  conosciamo  che  non 
erano  Galli,  il  che  rende  più  probabile  la  già  riferita  as- 
serzione di  Polibio,  che  assalissero  i  Galli  quand'erano  a 
Roma,  perchè  Toltrepotenza  di  questi  non  soverchiasse 
del  tutto,  e  non  si  rovesciasse  sui  Veneti  stessi.  Ma  quanto 
noi  sappiamo  dei  Veneti  appartiene  esclusivamente  alla  sto- 
ria di  Roma,  che  nelle  potenti  sue  braccia  ormai  li  strin- 
geva. Lunghi  secoli  dopo  doveva  la  Repubblica  veneta  ve- 
dersi in  condizione  identica,  quando  cioè  fu  rinserrata  da 
tre  parti  da  territorii  della  Casa  d'Austria  tedesco-spa- 


36  PARTE  PRIMA 

gnuola,  e  quindi  dai  possessi  della  sola  Gasa  d'Austria 
tedesca.  Fatali  furono  per  la  Repubblica  le  conseguenze 
di  quella  condizione  infelice  delle  sue  frontiere  (1),  ma 
l'antica  storia  romana  è  quasi  muta  sul  fatto  lento,  gra- 


(1)  Crediamo  di  poterlo  dimostrare,  e  d'indicare  una  causa  a  nessuna  se- 
conda, ed  anzi,  ci  sembra,  prevaiente  su  tutte,  di  quella  caduta  delia  Repubblica 
veneta,  circa  la  quale  si  scrissero  tanti  falsiloquii  e  non  pocbi  stultiloquii. 

11  territorio  della  Repubblica  era  nell'est ,  nel  nord  e  neirovest  stretto  dal 
confine  austriaco  :  se  anche  la  Repubblica  era  avversa  al  turbolento  e  sangui- 
nario governo  di  Francia,  non  poteva  desiderare  che  l'Austria  trionfasse  com- 
pletamente e  si  invigorisse  di  più  :  doveva  anzi  bramare  che  i  casi  di  guerra 
spezzassero  quella  catena  austriaca  col  ridonare  indipendenza,  od  altro  signore 
a  Milano  ed  a  Mantova.  Era  infatti  Venezia  rispetto  all'Austria  nella  posizione 
stessa  in  cui  trovossi  nel  secolo  XVII  la  Danimarca  rispetto  alla  Svezia  quando 
Gustavo  Adolfo  trionfò  sul  Reno  e  sul  Lecb,  o  Torstenson  entrò  vittorioso  in 
Moravia,  e  tempestò  sul  Danubio  minacciando  la  stessa  Vienna.  E  come  i  Da- 
nesi erano  in  allora  ostili  itila  Svezia,  cos'i  dovevano  i  Veneziani  non  essere  pro- 
pensi per  l'Austria.  Ma  ciò  era  ben  noto  a  Vienna:  quindi  i  Veneti  non  avreb- 
bero avuto  facoltà  d'armarsi ,  od  armandosi  dovevano  dare  guarentigie  all'.Au- 
stria,  porre  le  piazze  in  sua  mano,  forse  marciare  al  comando  austriaco.  Prefe- 
rirono starsene  inermi;  ma  clii  non  lo  avrebbe  preferito,  anche  senza  tener  conto 
degli  argomenti  addotti  nelle  belle  concioni  da  Botta?  Le  prime  vittorie  francesi 
nelle  Alpi  .Marittime  saranno  state  udite  con  segreta  gioja  a  Venezia ,  perchè 
erano  d'umiliazione  e  d'indebolimento  per  l'Austria  :  nessuno  poi  poteva  preve- 
dere che  quel  torrente  di  Francia  avrebbe  allagato  immediatamente  luttaquanta 
l'Italia.  Ma  vincitore  a  Montenotlc ,  Bonaparte  fu  a  Lodi  :  allora  gli  Austriaci 
si  rinversano  in  fuga  sul  territorio  veneziano  indifeso  :  Venezia  voleva  armare, 
ma  i  mezzi  mancavano,  e  più  dei  mezzi,  il  tempo.  Intima  Bonaparte,  e  ragione 
ne  aveva,  che  Venezia  chiuda  agli  Austriaci  il  suo  territorio  ;  e  certamente  Ve- 
nezia voleva  chiuderlo,  ma  come  lo  poteva?  Bonaparte  dichiara  che  egli  segue 
il  nemico  ovunque  lo  trovi,  che  saranno  sue  le  piazze  da  cui  scaccia  il  nemico: 
fìnge  perOno  di  credere  che  la  Repubblica  sia  connivente  coH'Austria ,  ed  insi- 
diosa nemica  di  Francia  ;  ed  essere  avversa  in  quel  momento  poteva,  ma  era 
avversione  impotente  contro  Francia,  com'era  stata  impotente  avversione  con- 
tr'Austria.  Forza,  inganno,  favore  dato  al  popolo  di  terraferma  contro  il  patri- 
ziato, miracolose  fortune  francesi  di  guerra,  occupazione  delle  private  proprietà 
dei  nobili  in  terraferma,  delìrii  di  tempi,  tutto  operò  a  rovinare  Venezia,  ma  la 
causa  primaria  fu  questa  della  mancanza  d'esercito,  e  dell'impossibilità  di  re- 
pentinamente formarlo.  Certamente  la  Repubblica  avrebbe  potuto  chiamare  gli 
Inglesi  nella  città  imprendibile ,  ed  arrestare  i  Francesi  al  margine  della  fatale 
laguna:  ma  quale  ne  sarebbe  stata  la  conseguenza?  Genova  lo  seppe  nel  18 U. 

Mostra  la  storia  politica  antica  e  moderna  che  nel  di  in  cui  uno  Stato  è  av- 
volto come  Laocoonte  nelle  spire  d'altro  Stalo  più  forte,  incomincia  pel  debole 
una  vita  precaria,  nella  quale  gli  è  tolta  perfino  la  possibilità  dei  rimedii. 


CAPITOLO  III.  37 

duato,  pel  quale  i  Veneti,  prima  ancora  soffocali  che  vinti, 
vennero  poi  aggiunti  ai  Galli,  e  confusi  con  essi  nella  to- 
tale sudditanza  di  Roma. 

Quando  Annibale  si  mosse,  non  era*compita  né  la  con- 
quista romana  della  Gallia  cisalpina,  né  quella  deirilli- 
ria;  continuava  la  guerra  o  piuttosto  il  massacro  dei 
Galli  ;  combattevasi  cogli  Illirj,  ed  erano  gelosi,  allar- 
mati i  Macedoni;  Annibale  dunque  confldavae  sperava: 
i  Cartaginesi  avevano  esaurito  iFloro  compito  in  Ispa- 
gna  :  non  ancora  lo  avevano  esaurito  i  Romani  neirilli- 
ria  e  sul  Po. 

Quindi  all'udire  il  pericolo  di  Sagunto,  l'orgoglioso 
Senato  di  Roma  appare  tollerante  e  pacifico,  consigliando 
utilità  che  si  guadagni  del  tempo.  Egli  chiede  ad  Anni- 
bale che  s'arresti,  ragiona  dei  diritti  dei  protetti  e  dei 
neutri,  espone  i  diritti  di  Roma,  precisa  quelli  di  Carta- 
gine, indica  perfino  quelli  degli  Spagnuoli,  ai  quali  né 
Roma  né  Cartagine  avevano  pensato  giammai  ;  ma  An- 
nibale nulla  ascolta,  e  percuote  Sagunto.  Rivolgesi  allora 
il  Senato  a  Cartagine  perché  sconfessi  Annibale,  ed  a 
prova  d'amicizia  lo  tenga  impedito  :  finge  di  credere  (e  già 
v'era  da  arrossire!)  che  Annibale  assale  di  proprio  odio 
ed  arbitrio,  che  contrasta,  e  non  ubbidisce  alla  patria, 
che  dev'essere  represso  e  punito.  Speravano  i  Romani 
d'uscirne  non  migliorati  di  fama,  più  sicuri  però,  e  di 
avere  poi  la  vendetta  più  dolce  dopo  d'avere  in  segreto 
temuto,  e  d'essersi  in  palese  quasi  mostrati  manchevoli. 
Ma  anche  Cartagine  non  ode  :  questa  è  dunque  presente^ 
inevitabile  guerra.  Gli  eserciti  più  numerosi  e  forti  di 
Cartagine  sono  in  Ispagna  :  v'andrà  a  rintuzzarli  il  con- 
sole Publio  Cornelio  Scipione  ;  ma  la  Sicilia  prossima  a 
Cartagine,  porta  per  l'Italia,  e  già  gran  campo  di  guerra, 
può  esser  invasa  ed  insorgere  :  vi  andrà  il  console  Sem- 


38  '  FAETE  PEIHi 

pronio  :  e  Tuno  o  Faltro  dei  consoli  passerà  poi  all'of- 
fesa se  bene  sarà.  Intanto  Tltalia  è  lontana  dai  colpi  :  la 
guerra  si  restringe  in  Illiria  :  spesseggia^invece  il  ferire, 
il  disperdere  dei  Gdli  sul  Po  :  imporla  che  le  turbolenze 
cessino  affatto  in  quel  paese  vicino,  e  che  il  solo  nome 
di  Roma,  il  solo  terrore  vi  imperi  :  le  legioni  abbisognano 
altrove,  e  lontano. 

Tali  disposizioni  erano  conformi  alle  previsioni  possi- 
bili d'arte  militare  e  politica.  Ma  chi  dà  legge  al  genio? 
chi  conosce  per  antiveggenza  d'indizii  tutti  i  pensieri  e 
gli  stratagemmi  suoi  ? 

Non  le  sole  condizioni  politiche  della  Gallia  cisalpina, 
ma  quelle  altresì  di  tutta  l'Italia  romana  mostravano  ad 
Annibale  nella  stessa  Italia  il  vero  punto  ove  portare  la 
guerra.  Non  vi  era  Roma  conquistatrice  ed  odiata  ?  Non 
si  sarebbero  sollevati  gli  oppressi  ricevendo  soccorso  ? 
L'esempio  di  Regolo  sbarcato  nell'Africa  cartaginese  sarà 
imitato  adesso  a  pernicie  di  Roma  in  Italia  da  un  uomo 
ben  più  grande  di  lui.  Dalla  Spagna  Annibale  poteva 
trarre  un  esercito  :  voleva  però  premunirsi  egli  stesso 
contro  le  insidie  che  intendeva  di  usare  a  danno  di  Roma. 
Mandava  truppe  spagnuole  nell'Africa  :  vi  erano  presidio 
ed  ostaggio  :  chiamava  truppe  africane  in  Ispagna  a  stan- 
ziarvi sostegno  a  fedeltà  :  prendeva  poi  seco  un  esercito 
misto  africano  e  spagnuolo,  e  marciava  verso  l'Italia. 
Era  un  esercito  di  mercenarii  il  suo,  e  doveva  restar  tale 
tutta  la  guerra;  ma  Annibale  marciava  confidente  di  dare 
il  trabocco  alla  ponderosa  bilancia  di  Roma.  Non  si  era 
sempre  battuto  suo  padre  ;  non  si  era  sempre  battuto 
egli  stesso  con  mercenarii  soldati?  Per  verità  erano  an- 
cora recenti  le  memorie  della  terribile  rivolta  dei  merce- 
narii  a  Cartagine  quando  v'erano  stati  richiamati  dopo  la 
prima  punica  guerra  per  essere  pagati  e  disciolti  ;  ma  quale 


CAPITOLO  in.  39 

soldatesca  lacera  e  sanguinosa  per  tante  battaglie  non  si 
sarebbe  ammutinata  allorché  invece  di  paghe  complete, 
non  le  si  offi*iyano  se  non  monchi  stipendii  a  conto  ed 
a  spizzico?  (1) 

(1)  Senza  tener  conto  di  questa  considerazione ,  e  ad  onta  delle  prove  date 
dai  mercenarii  nelle  battaglie  d'Annibale,  ed  in  cento  occasioni  e  prima  e  dopo 
di  lui,  ed  anzi  date  in  ogni  tempo  e  paese  semprecbc  i  mercenarii  furono  ridotti 
a  forma  di  giusto  esercito,  gli  scrittori  ed  i  politici  richiamansi  ad  ogni  istante 
a  quella  guerra  cartaginese,  nella  quale  i  mercenarii  scapestrarono  orribilmente 
con  ìncendii  e  rovine.  Essi  dicono  die  i  mercenarii  non  combattono,  ma  fuggono, 
perchè  non  cale  ai  medesimi  dello  Stato  che  servono  ;  che  se  fra  i  mercenarii 
v'ha  per  eccezione  un  valoroso  soldato,  è  sempre  un  Triulzio  che  vuol  dare  la  pa- 
tria italiana  alla  Francia,  od  un  Pescara  che  la  dà  alla  Spagna  ;  che  tutti  intendono 
aiforo,  che  non  li  commovono  dolorazioni  e  disastri  di  chi  li  guida  a  stipendio, 
che  vogliono  premii  e  non  paghe,  che  conservano  il  nemico  per  continuare  nei 
gaggi,  che  son  vili  nel  campo  e  tumultuosi  nel  fóro,  che  non  onore  dì  milizia, 
ma  hanno  vitaperio  di  cruda  ribaldaglia.  E  tutti  i  mercenarii  sono  dagli  stessi 
scrittori  segnati  d'un  marchio,  e  colpiti  d'un  solo  anatema,  benché  fra  loro  vi 
siano  notevoli  anzi  essenziali  differenze ,  nò  tutti  egualmente  si  meritino  la 
stessa  riprovazione. 

Somma  è  p.  e.  la  dilTerenza  fra  le  comuni  milizie  mercenarie,  quali  erano 
per  l'appunto  quelle  di  Annibale ,  e  le  Compagnie  di  ventura,  si  note  nella 
storia  specialmente  italiana  del  medio  evo.  Le  milizie  mercenarie  sono  truppe 
che  il  governo  raccoglie  con  ingaggio  fra  i  sudditi  suoi ,  od  anche  all'estero  , 
specialmente  se. manca  di  sistemi  coscrizionali ,  non  ha  o  non  vuole  usare 
i  sempre  cattivi  sistemi  feudali,  o  vuol  moltiplicare  i  soldati,  ed  averli  di  pre- 
ferenza di  tal  provincia ,  paese ,  religione  ed  idee.  Queste  truppe  dipendono 
completamente  dal  governo ,  da  lui  ricevono  i  capi ,  i  premii  e  le  pene ,  e  se 
forroansi  con  certa  avvedutezza ,  non  hanno  di  comune  che  la  bandiera ,  non 
sono  pericolose  al  governo  che  le  iinpiega,  possono  essere  eccellenti  contro  il 
nemico,  e  pressoché  in  nulla  distinguersi  nei  rapporti  militari  e  d'esterna  poli- 
tica dalle  truppe  raccolte  nei  grandi  Stati  coi  modi  di  leva. 

Le  Compagnie  di  ventura  invece  formavansi  da  un  condottiero ,  giuravansi 
non  allo  Stato  ma  a  lui,  erano  stipendiate  direttamente  da  esso,  ricevevano  i 
capi  dal  medesimo,  avevano  leggi,  ordinamenti  suoi,  nessun  vincolo  diretto  col 
governo  del  paese  in  cui  erano,  nessun  territorio  a  fissa  dimora.  11  condottiero 
vendeva  ad  un  governo  che  già  combatteva,  era  in  procinto  di  guerra,  o  non 
s'assicurava  in  pace,  Fimpiego  della  sua  banda  :  per  lo  speciale  contratto  en- 
trava nello  Stato  civile  uno  Stato  militare ,  che  in  certe  circostanze  divideva 
col  governo  le  passioni  e  gli  scopi,  in  altri  seguiva  la  bandiera  indifferente,  e 
muovevasi  a  suon  di  denaro  senza  entusiasmo  ed  onore  almeno  neiranime  vol- 
gari, che  sono  le  più.  Scarsa  disciplina,  ùcile  migrazione  del  soldato  dall'una 
all'altra  banda ,  diserzione  frequente,  impuniti  delitti ,  taglieggiate  città,  molte 
le  bande,  nessuna  numerosa,  carriere  d'onore  impossibili,  facile  mancanza 
diapiego  ecc.,  caratieriziavano  queste  truppe  mercenarie  d'un  capo  e  non 


40  PARTE  PHIMA 

Annibale  coi  suoi  mercenarii  marciava:  quasi  precor- 
reva colla  marcia  la  fama.  Ma  perchè  non  ha  egli  prefe- 
rito la  via  di  mare?  Ha  forse  temuto  di  avventurare  l'eser- 
cito fra  la  Sicilia,  la  Sardegna  e  la  Corsica  romane  ?  Egli 
aveva  una  flotta,  e  leggiamo  che  la  lasciò  al  fratello  in 
Ispagna:  era  prudente,  ma  anche  ardito:  se  forti  ragioni 
non  prevalevano  in  lui  per  scegliere  strada  diversa,  egli 
era  capace  della  stessa  temerità  colla  quale  Bonaparte, 
non  avendo  altra  via,  si  spiccò  dai  porti  d'Italia  e  di 
Francia  con  500  vascelli  cercando  l'Egitto,  mentre  Nelson 
cercava  lui  stesso  sul  mare. 

Annibale  però  aveva  a  far  insorgere  o  piuttosto  a  dar 
cuore  ai  Galli  cispadani  già  insorti  :  pronte  e  vigorose 
braccia  quei  Galli  gli  promettevano  :  di  loro  non  comperati, 
non  presi,  ma  accorrenti,  si  sarebbe  formato  un  esercito. 
Narrano  i  classici  che  aveva  inviato  messaggieri  a  tutti 
i  capi  nelle  Gallie,  a  tutti  i  regoli  nelle  Alpi,  e  non  si 
mosse  finché  ricevette  i  riscontri.  Un  re  dei  Galli 
cisalpini,  Magile,  venne  in  persona  ad  incontrarlo,  e  gli 
narrò  che  i  popoli  erano  pronti  a  combattere  per  lui  ; 
gli  disse  delle  già  scoppiate  ribellioni,  delle  ottenute 
vittorie,  dei  sofferti  sinistri,  delle  armi  novellamente 
impugnate  ;  aggiunse  che  i  Galli  già  avevano  distrutto 
un  esercito  pretorio,  ed  assediavano  varie  colonie  ro- 
mane :  entrasse  però  subitamente,  perchè  nuove  legioni 
romane  marciavano.  Ecco  il  perchè  Annibale  scelse  la 
via  di  terra  (1). 

<Vun  governo.  Ma  di  queste  Compagnie  di  venttira  noi  ci  riverviamo  a  dire 
ampiamente  nella  parte  li,  cap.  ni  delPopera  attuale. 

(1)  Che  grave  ragione  avesse  Annibale  di  prendere  la  via  di  terra,  lo  ab- 
biamo, ci  pare,  mostrato.  Ma  fatta  astrazione  dalla  causa  speciale  di  questo  suo 
passaggio,  ci  ha  sempre  sorpreso,  né  sapremmo  darne  spiegazione  appieno  ap- 
pagante, la  tanta  differenza  fra  la  prima  e  la  seconda  guerra  punica  :  in  quella 
lo  sforzo  fu  segnatamente  navale,  e  fu  in  questa  terrestre  ;  eppure  sembrerebbe 


ciPiTOLO  in.  41 

Il  paese  da  attraversare  era  neutrale,  ma  in  quale 
guerra  antica  o  moderna  un  condottiero  anelante  ad  un 
successo  grandissimo  si  arrestò  nella  marcia  per  neutra- 
lità di  paese  frapposto,  specialmente  se  lo  Stato  neutrale 
era  debole,  od  acche  forte,  ma  in  altre  imprese  impac- 
cialo, 0  per  interessi  suoi  proprii  desideroso  che  si  ten- 
tasse con  rischio  altrui  la  rovina  della  parte  contraria  ? 
I  forti  potrebbero  star  neutri  e  quietare  nelle  lotte  dei 
deboli,  e  non  vogliono,  ed  i  deboli  e  quelli  che  sono  in 

che  il  carattere,  i  mezzi,  gli  sc<)pi  dovessero  in  cnlrambe  le  guerre  rivolgere 
le  Tisle  e  gli  sforzi  principali  alla  prevalenza  navale.  Infatti  cosi  i  Romani 
come  i  Cartaginesi  avevano  di  continuo  a  tradurre  eserciti  in  Ispagna,  in  Si- 
cilia, neiritalia,  nelPAfrica  :  chi  avesse  ottenuto  sul  mare  una  superiorità  as- 
soluta sarebbe  slato  signore  di  valersi  di  tutte  le  comunicazioni  per  se ,  e  di 
tulte  impedirle  al  nemico.  Eppure  nella  seconda  punica  guerra  la  lotta  marit- 
tima non  primeggia  giammai:  vi  sduo  i  trasporti  continui,  rare  e  non  decisive 
le  pugne  navali. 

E  vero  che  in  quelle  età  la  propensione  naturale  dei  combattenti  non  doveva 
essere  il  mare.  Senza  la  bussola,  senza  istromenli  d'astronomia  navale,  senza 
carie  idrografiche ,  senza  la  luce  dei  fari ,  senza  buoni  mezzi  di  conservazione 
dell'acqua  e  dei  viveri,  senza  perfezionati  sistemi  di  segnali  ecc.,  la  vita  mari- 
naresca era  ben  dura ,  i  pericoli  incomparabilmente  maggiori  che  non  oggidì , 
ed  i  disastri  orribili,  e  pur  troppo  frequenti.  Se  anche  ai  nostri  giorni,  in  cui 
Tarte  marinaresca  fece  in6niti  progressi,  sono  si  mimerosi  i  sinistri  di  mare , 
se  p.  e.  nelle  guerre  della  Rivoluzione  e  dell'Impero  francese  la  flotta  britan- 
nica ha  perduto  per  soli  sinistri  di  mare  32  vascelli  di  linea,  86  fregate  e  750 
legni  minori,  quali  danni  dovevano  in  antico  soffrire  le  flotte  !  Noi  infatti  leg- 
giamo sovente  nella  prima  punica  guerra  d'intiere  flotte  sommerse  con  spa- 
ventevoli sacrificii  di  vile  :  nondimeno  quelle  perdile  non  trattenevano  i  belli- 
geranti dal  costruire  immantinente  nuovi  vascelli,  e  dal  riprendere  con  essi  i 
pericolosi  sentieri  del  mare.  Confessiamo  aduuque  di  non  sapere  rinvenire 
spiegazione  ben  chiara  del  metodo  si  diverso  del  combattere  nelle  due  puniche 
guerre,  ed  osserviamo  altresì  che  anche  più  tardi  sembrarono  alternarsi  la 
tendenza  e  la  ripugnanza  alle  grandi  imprese  navali  :  cosi  le  guerre  fra  Mario 
e  Siila ,  fra  Cesare  e  Pompeo  si  sono  combattute  in  tutti  quanti  i  paesi  che 
circondano  il  Mediterraneo  :  le  legioni  si  trasportavano  in  Siria,  in  Grecia,  in 
Egitto,  nella  Spagna,  ncirAfrica  :  pugnavasi  anche  in  mare,  ma  erano  pugne 
accessorie,  non  quelle  che  decidessero  delle  sorti  del  mondo  romano,  come  la 
decisero  in  altre  guerre,  e  p.  e.  ad  Azio. 

Altra  cosa  che  ci  sorprende  nelle  guerre  puniche,  e  nelle  navali  pii^  recenti 
di  Roma,  si  è  il  poco  conto  che  sembra  essere  stalo  fallo  di  Malta ,  che  per  la 
posizione  e  pel  porto,  segnatamente  in  quelle  guerre  doveva  essere  ad  entrambi 
i  combattenti  d'importanza  grandissima. 


42  PAITE  Finii 

altra  causa  occupati  non  possono  :  essi  vedono  fre- 
menti, ma  soffrono  che  il  paese  sia  strada  alle  marcie,  si 
faccia  mercato  alle  proprie  città  da  condottieri  stranieri 
pel  cammino  variato,  Talloggio  risparmiato,  il  grano  non 
tolto,  e  seguano  le  orride  battaglie  sul  proprio  terreno. 
Cosi  Brasida  nella  guerra  del  Peloponneso  attraversava 
con  Lacedemoni  e  Traci  la  Tessaglia  neutrale  marciando 
contro  gli  Ateniesi,  e  parlava  ai  Tessali  propensi  ad  Atene, 
ma  sorpresi  ed  inermi,  della  libertà  di  ciascuno  di  deam^ 
buldrsi  e  peregrinare  (TucmiDE,  IV,  78)  ;  cosi  Carlo  XII 
marciando  dalla  Polonia  in  Sassonia  attraversò  la  Slesia 
neutrale,  e  l'Austria  già  in  guerra  con  Luigi  XIV  si 
tacque  ;  cosi  Eugenio  di  Savoja  discese  dalla  Germania 
in  Italia  pel  Veneto,  e  Venezia  si  tacque;  cosi  in  questo 
secolo  abbiamo  veduto  gli  eserciti  belligeranti  attra- 
versare le  Provincie  neutrali  di  Venezia,  neutrali  di 
Prussia,  neutrali  di  Svizzera.  Ed  anche  Annibale  poteva 
attraversare  con  confidenza  la  Gallia  :  egli  reggeva  armi 
forti,  non  voleva  che  passaggio  rapido,  aveva  probabil- 
mente raccolto  denaro  per  le  necessità  dei  suoi  fin  oltre 
l'Alpi  onde  risparmiare  il  paese  da  tolte  forzale,  mar- 
ciava a  soccorso  di  nazione  gemella  dei  Galli,  tendeva  a 
distruggere  quei  Romani  che  già  avevano  usurpato  una 
parte  cospicua  della  stessa  Gallia  transalpina  lungo  il 
mare  Mediterraneo  (1). 
Vedevano  anche  i  Romani  la  gravità  del  pericolo  :  voi- 


(i)  Noi  siamo  rimasti  net  limiti  della  stona:  non  abbiamo  voluto  entrare  nel 
campo  delle  ipotesi.  Eppure  non  è  improbabile ,  anzi  sembra  doversi  ritenere 
che  fra  i  Galli  ed  i  Cartaginesi  esistesse  una  yera  alleanza  forse  fondata  su 
norme  regolari  e  giuridiche  di  convenzioni  e  trattati.  Dopo  la  prima  punica 
guerra  i  Romani  erano  pei  Cartaginesi  e  pei  Galli  un  nemico  comune  :  v'era 
contro  i  medesimi  concordia  d'interessi  e  di  scopi  r  può  dunque  presumersi  che 
si  fossero  stipulati  anche  accordi  palesi  o  segreti,  benché  dei  medesimi  non  sia 
rimasta  la  prova. 


CAPITOLO  111.  43 

lero  precludere  la  via  ad  Annibale  :  infatti  un  esercito  ro- 
mano era  sbarcato  a  Marsiglia,  e  risaliva  lungo  il  Ro«^ 
dano  per  attraversargli  la  marcia.  Qui  rifulse  il  genio  di 
Annibale.  Destreggiò,  finse  gli  aflfronti  e  schivoUi,  curvò 
la  marcia,  scomparve  nelle  valli,  fu  al  limitare  d'Italia 
non  armata  che  dei  monti  che  la  fasciano  :  non  stette  per- 
plesso perdendo  celerità,  che  il  dubbiare  in  azione  non 
è  d'alto  intelletto  :  balenò  sul  vertice,  e  calò  nel  piano. 
Le  truppe  romane  non  erano  vinte,  ma  vinto  era  il  con- 
sole cosi  superato  dallo  schermitore  maestro.  Scornati 
ripresero  i  Romani  la  via  di  mare  per  afferrare  in  Ligu- 
ria, varcare  l'Appennino,  e  fare  giornata. 

Di  quel  passaggio  delle  Alpi  le  piò  strane  leggende  si 
scrissero  ;  ma  quante  non  se  ne  dissero  e  scrissero  per- 
fino ai  giorni  nostri  sul  passaggio  di  Bonaparte  pel  Gran 
San  Bernardo  !  Non  abbiamo  sempre  sotto  gli  occhi  mon- 
tato su  cavallo  arabesco  in  cima  alle  rupi  nevose  quel 
Bonaparte  che  realmente  passò  su  modesto  somiere  ?  E 
pensiamo  cosi  passasse  Annibale,  non  a  dorso  d'elefante 
magnifico  sulle  vette  eternamente  ammantate  di  larghi 
ghiacciai.  Ma  le  favole  sparse  circa  il  passaggio  d'Anni- 
bale dovevano  in  quella  età  essere  più  strane  che  non 
nella  nostra,  e  le  rammenta  Polibio  (lib.  3,  cap.  9),  e 
rifiuta,  conchiudendo  cosi  :  Prima  di  intraprendere  la 
marcia^  Annibale  si  era  informato  esattamente  della 
natura  e  posizione  dei  luoghi  pei  quali  si  era  proposto 
di  passare:  sapeva  che  la  via  era  difficile,  ma  pratica- 
bile ;  conosceva  che  i  popoli  lungo  il  cammino  non  at^ 
tendevano  che  un'occasione  d'insorgere  :  si  era  provve- 
duto di  scorte  d'uomini  dei  paesi  che  aveva  da  attra- 
versare, e  costoro  lo  servivano  tanto  piò,  volontieri 
perchè  avevano  gli  stessi  interessi  e  le  stesse  speranze. 
Parlo  con  sicurezza  di  tutte  queste  cose,  perchè  le  ho 


44  PARTE  PaiMi 

apprese  dai  testimonii  contemporanei,  ed  andai  io  stesw 
nelle  Alpi  per  averne  esatta  cognizione.  Ma  il  racconto 
del  giudizioso  Polibio,  che  tanto  s*approssima  nell'indi- 
cazione  delle  cautele  prese  da  Annibale  a  quelle  che  sap- 
piamo avere  poi  usato  Bonaparte  nel  suo  passaggio  delle 
Alpi  (anno  1800),  toglie  molto  al  dramma,  ed  è  appunto 
il  dramma  che  più  del  vero  nelle  scuole  e  nella  storia 
circa  Tantico  ed  il  moderno  passaggio  si  insegna.  Noi 
non  cerchiamo  che  il  vero:  non  abbiamo  Tincompatibile 
senso  di  immaginose  stranezze.  Studiamo  la  storia  per 
scandaglio  dei  fatti,  non  già  per  abbracciare  come  Issione 
una  splendida  nube  invece  della  Dea  corporea.  E  colle- 
ghiamo nello  studio  le  idee  politiche,  le  militari  e  le  let- 
terarie, perchè  dall'armonia  loro  meglio  riluce  Tintelli- 
genza  dei  fatti,  e  per  le  scoperte  colleganze  passa  nel- 
l'animo il  vero  delle  esperienze  sociali. 


CAPITOLO  IV. 
La  secoDda  e  la  terza  guerra  puDiea. 

Annibale  ayeya  passato  le  Alpi,  e  colla  rapidità  a  pas- 
sarle aveva  ottenuto  lo  scopo  che  per  lentezza  di  mosse 
avrebbe  potuto  mancare  al  medesimo,  come  sarebbe  in- 
fallìbilmente a  Bonaparle  mancalo  se  egli  pure  non  era 
mirabilmente  rapido  nell'attraversare  inatteso,  e  piom- 
bare a  tergo  degli  Austriaci  aflferrando  le  loro  linee  di 
comunicazione  col  Mincio  (1800).  Aveva  vinto  politica- 
mente col  dare  mano  ai  Galli,  e  quindi  provveduto  a  po- 
ter vincere  anche  militarmente. 

Rammentò  il  Cartaginese  ai  soldati  estenuati  e  stanchi 
le  favorevoli  disposizioni  dei  Galli,  essere  vicini  al  ne- 
mico, ma  già  in  mezzo  ad  amici;  rammentò  la  ric- 
chezza d'Italia,  ed  a  tutti  parlò  costantemente  di  li- 
bertà: Polibio  lo  dice  più  volte.  Teneva  prigionieri  i  Ro- 
mani che  cadevano  in  sua  mano  :  rilasciava  senza  riscatto 
i  loro  alleati:  Italia  libera,  Cartagine  lo  vuole,  era  la 
sua  divisa  :  prendete  le  armi,  e  siate  con  me,  era  il  suo 
dire.  Già  i  Galli  cisalpini  insorgevano,  anzi  un  corpo  di 
essi,  che  era  col  console  Scipione,  massacrava  i  Romani, 
e  passando  al  nemico  ne  ingrossava  l'esercito  scemato 
dalle  marcie,  da  varii  scontri,  e  forse  da  guarnigioni  la- 
sciate in  addietro.  Doppio  pericolo  adunque  minacciava 


46  PABTB  PRIMA 

Roma,  il  politico  cioè,  ed  il  militare,  dovendo  frenare  i 
popoli,  e  combattere  un  grand'uomo  di  Stato,  ed  un  gran 
capitano.  Tale  infatti  era  Annibale:  la  prima  guerra  pu- 
nica non  aveva  oflferto  un  uomo  veramente  grande  né  ai 
Cartaginesi,  né  ai  Romani;  la  seconda  guerra  punica 
doveva  oflfrirne  due,  cioè  Annibale  e  Scipione  rAfricano, 
ma  Annibale  era  presente,  e  guidava  un  esercito  ;  Sci- 
pione tuttora  ignorato,  e  confuso  nelle  file  inferiori  dei 
militi,  partecipava  a  tutte  le  rotte,  egli  si  capace  di  vin- 
cere quando  imperiasse  ! 

Anche  Tito  Livio  riconosce  il  genio  d'Annibale,  e  per- 
fino lo  ammira.  Nescio,  egli  dice  nel  libro  28,  cap.  12, 
an  mirabilior  Hannibal  adversis,  quam  secundis  rebus 
fuerit,  quippe  qui  cum  in  hostium  terra  per  annoi  tre^ 
decim,  tara  procul  a  domo^  varia  fortuna  bellum  gere- 
ret,  exercitu  non  suo  civili,  $ed  mixto  ex  colluvione 
omnium  gentium,  quibus  noti  lex,  non  mo$j  non  lingìia 
communio  ;  alim  habitus,  alia  vestis,  alia  arma,  alii 
ritus,  alia  sacra,  alii  prope  Dii  essent,  ita  qnodam 
uno  vinculo  copulaverit  eos,  ut  nulla  nec  inter  ipsos, 
nec  adversus  ducem  seditio  extitisset,  cum  et  pecunia 
scepe  in  stipèndium  et  commeatus  in  hostium  agro  dees^ 
sent.  Ma  del  carattere  d'Annibale,  Livio  parla  come  d'un 
mostro  linhumana  crudelitas,  perfidia  plusquam  punica  j 
nihil  veri,  nihil  sancti,  nullum  deorum  vietus,  nullum 
jusjurandum,  nulla  religio.  Qui  l'ira  romana  lo  ha  reso 
ingiusto:  non  ci  rimasero,  è  vero,  scrittori  cartaginesi  a 
difesa,  ma  non  s'accordano  nelle  accuse  con  Livio  né 
Polibio,  né  Diodoro  Siculo,  e  nemmeno  Cornelio  Nipote 
e  Trogo  Pompeo,  e  non  le  conferma  la  calma  ed  impar- 
ziale meditazione  dei  fatti.  Che  anzi  la  riflessione  solleva 
la  grande  figura  d'Annibale  si  alto,  che  da  qualunque 
lato  si  guardi,  pochi  personaggi  in  tutte  le  età  della  sto- 


CAPITOLO  IT.  47 

ria  troTansi  degni  di  tanta  ammirazione^  ed  anzi  d'affetto. 
Entrò  in  Italia  giovane  come  Alessandro  al  Cranico,  Fe- 
derico II  a  Mollwitz,  0  Bonaparte  a  Monlenotte  (1),  e 


(1)  Salva  qualche  ecceuone  rarissima  (io  non  saprei  addurre  che  quelU  di 
Tamerhino),  né  Tantica,  né  la  moderna  storia  di  offrono  esempii  di  capitani  che 
abbiano  eseguito  replicati  e  grandi  fatti  di  guerra  in  matura  età.  Cromwell  in- 
cominciò tardi  la  carriera  delFarmi,  e  fu  vittorioso,  ma  il  mondo  ha  piuttosto 
stupito  della  tempra  delFanimo  suo,  che  non  del  suo  genio  ne'  trionfi  delFarroi. 
Certamente  si  incontra  qualche  trionfo  anche  d'un  generale  ottuagenario,  e 
vinsero  p.  e.  Agesilao,  Focione,  Camillo  e  Yillars  anche  ad  ottanf  anni  bat- 
taglie, perché  se  due  vecchi  comandanti  combattono,  o  Tuno  o  Taltro  di  loro 
deve  pur  vincere,  ma  una  serie  splendida  di  grandi  vittorie  non  ha  illustrato 
giammai  se  non  capitani  neiretà  di  venti,  trentanni,  in  rari  casi  di  quaranta  : 
Ciro,  Alessandro,  Annibale,  Scipione,  Cesare,  Gustavo  Adolfo,  Eugenio  di  Sa- 
voja/.Napoleone,  Wellington  ecc.,  erano  giovani.  E  perché  mai  la  vittoria  inco- 
rona quasi  esclusivamente  le  giovani  fronti?  Egli  é  perché  la  tattica  é  un'arte 
che  s'apprende  solo  coiresercizio  e  col  tempo,  e  quindi  nessuno  nasce  in 
essa  maestro,  sebbene  con  molta  attitudine  e  giornaliera  esperienza  si  possa 
rapidamente  diventare  ;  ma  la  strategia,  cui  la  stessa  tattica  si  fa  secondaria, 
non  s'impara  per  gradi,  né  mai  perfettamente  colla  fatica  e  lo  studio.  La 
scienza  strategica  é  simile  all'estro  poetico,  alla  perfezione  dei  sensi  :  é  insita 
airuomo,  é  figlia  del  genio  :  é  una  facoltà  potente,  che  piuttosto  crea  che  ra- 
gioni, piuttosto  si  slancia  che  non  combini,  non  attinge  la  sua  ispirazione  se 
non  alla  forza  del  genio  :  misura  sulla  vastità  di  un  regno  il  tempo,  lo  spazio, 
i  mezzi,  comprende  coll'occhio  della  mente  uno  Stato  intiero  o  molti,  come  col- 
l'occhio  del  corpo  si  vede  un  campo  od  un  colle  per  disporvi  opportunamente  le 
truppe  in  battaglia.  D'un'eseguita  operazione  strategica  bene  si  comprendono 
le  ragioni  e  si  ammirano,  ma  non  si  apprende  per  attenta  lettera  ad  emularla 
in  altri  tempi,  in  altro  corso  di  fatti.  E  nemmeno  manifesta  la  storia  che  un 
genio  perfezioni  se  stesso,  perché  é  della  natura  del  genio  Tessere  nel  primo 
istante  perfetto.  Quindi  vediamo  che  i  genii  di -guerra  hanno  operato  i  predigli 
cosi  nel  primo  istante  del  loro  apparire,  come  più  tardi,  affievolendosi  poi  coi- 
rete, e  perfino  riducendosi  ad  una  stregua  volgare  se  la  morte  non  li  tolse 
prontamente  alla  fama.  Non  si  indebolisce  egualmente  cogli  anni,  e  non  si 
spegne  l'estro  poetico?  Non  é  languida  VOdissea  se  si  confronta  hW Iliade?  Ma 
è  ben  più  rapida  la  decadenza  del  capitano  che  non  quella  del  poeta.  Il  poeta 
non  deve  se  non  brillare  di  idee,  perché  chi  non  arde  non  incende,  ma  alla 
fertilità  delle  idee  non  é  necessaria  né  vigorosa  salute,  nò  moto  :  il  capitano 
deve  concepire  l'idea,  ed  inoltre  eseguirla,  il  che  si  fa  con  infinita  serie  di  or- 
dini, di  ispezioni,  di  movimenti,  coH'essere  ovunque,  coll'essere  padroni  della 
veglia  e  del  sonno,  col  pensare  a  tutto  e  veder  tutto,  infondere  la  propria  attività 
a  tutti,  perché  il  proprio  genio  non  si  può  infondere  in  tutti  :  non  si  possono 
trovare  se  non  abili  esecutori,  e  sono  abili  allora  soltanto  che  sono  sempre 
sorvegliati.  Chi  dunque  non  é  giovane,  non  ha  corpo  di  ferro,  può  immaginare, 
ma  non  operare  predigli.  E  perché  i  grandi  successi  si  ottennero  piuttosto  con 


48  PABTE  PRIMA 

trionfando  la  corse:  fu  sempre  sobrio  come  Bonaparte, 
amò  le  lettere,  e  gli  storici  greci  Sosilo  e  Filenio  lo  ac- 
compagnarono in  ogni  spedizione  come  Polibio  accom- 
pagnò Scipione:  non  aveva  Vodio  dei  Romani  di  cui 
sempre  si  accusa,  ma  aveva  la  splendidissima  fiamma  del 
patriottismo,  virtù  che  fu  tanto  più  nobile  in  lui,  perchè 
sempre  somme^sso  a  Cartagine  anche  quando  ne  deplo- 
rava gli  errori:  guidava  mercenarii  raunaticci  d'ogni 
paese  e  favella,  ma  nelle  prospere  e  nelle  avverse  fortune 
li  tenne  raccolti  alla  bandiera,  e  sempre  ossequenti.  Tale 
si  era  il  grande  Africano.  Con  tanta  superiorità  sulle 
masse  sue  proprie,  col  caldo  favore  dei  popoli  ila- 
liani,  con  un'estrema  perizia  nei  movimenti  strategici, 
che  emerge  all'evidenza  dallo  studio  delle  campagne 
sue,  Annibale  trasse  la  romana  potenza  a  precipitoso 
crollo. 

Il  primo  colpo  fu  dai  Romani  sofferto  al  Ticino.  Visto 
che  il  pericolo  ingrossava  sul  Po,  ove  la  guerra  punica 
stava  per  diventare  punico-galla,  mentre  d'invasione  for- 
midabile non  era  peranco  minacciata  la  Sicilia,  Roma  ne 
aveva  richiamato  il  console  Sempronio.  Un  secondo  eser- 
cito si  formava  dunque  in  riserva  pronto  ad  aggiungersi 
al  primo  :  Sempronio  s'attergherà  a  Publio  Cornelio  : 
la  linea  romana  così  raddoppiata  sarà  più  forte  di  fronte 
ad  Annibale  :  sarà  anche  potente  ad  abbattere  squadre 
contrarie,  e  porte  di  città  rivoltose. 

Ma  qui  v'ha  qualche  circostanza  che  gli  scrittori  la- 
ciono,  e  non  possiamo  indovinare.  Le  legioni  di  Sem- 
pronio non  furono  lanciate  per  diritto  cammino  attraverso 


piccoli  die  non  con  numerosi  eserciti?  Egli  è  perchè  i  piccoli,  e  non  i  grandi 
eserciti  sono  effettivamente  nella  mano,  ossia  sotto  l'impulsione  diretta  del 
capo,  che  può  tutto  conoscere,  tutto  vedere,  e  la  virtù  del  suo  genio,  se  genio 
egli  ha,  riluce  in  ogni  suo  fatto,  in  ogni  suo  movimento. 


CAPITOLO  IV.  49 

la  Liguria  nei  piani  superiori  del  Po  :  noi  le  troviamo  in- 
vece a  Rimini,  colonia  romana  fondata  presso  il  Rubi- 
cone alla  frontiera  italiana  colla  Gallia  transpadana; 
quindi  le  vediamo  di  largo  spazio  da  Cornelio  divise. 
Temevasi  forse  ancora  dei  Galli  Senoni?  avevano  essi  fatto 
dimostrazioni  ostili?  Volevasi  marciando  attraverso  Tin- 
tiero  paese  ammonire  a  quiete  per  formidata  presenza 
tutti  i  popoli  galli?  Si  ignora:  certamente  Cornelio  Sci- 
pione restò  solo  controia  valanga  scesa  dall'Alpi,  e  contro 
la  bufera  rumoreggiante  d'attorno.  Aspettare  il  collega  e 
temporeggiare  Cornelio  non  può,  perchè  Annibale  in- 
calza e  percuote  :  potrebbe  però  marciare  egli  stesso  verso 
Sempronio  Gracco,  e  scemare  cosi  al  doppio  esercito  di 
una  metà  il  cammino  ed  il  tempo  a  riunione  di  forze,  ma 
questa  ai  Galli  sembrerebbe  una  fuga,  e  darebbe  segnale 
alla  ribellione  di  tutti  :  meglio  dunque  tener  fermo,  ac- 
cettare giornata,  od  offrirla  secondo  i  casi  :  non  volevasi 
gi&  assaltare  Annibale  sul  Rodano?  Cosi  non  si  vedranno 
le  aquile  romane  voltar  indietro  il  rostro  quasi  tementi  : 
ogni  Romano  poi  sa  che  di  gran  forza  ferisce,  ma  chi 
sia  Annibale  non  ancora  pienamente  Io  sa.  Quindi  Sci- 
pione azzarda  la  zuffa,  è  sgominato,  e  la  perde,  e  la  ma- 
gnifica contrada  di  Gallia  sulla  sinistra  del  Po  è  in  mano 
ad  Annibale. 

Ora  accorre  Sempronio  :  ha  da  raccogliere  le  reliquie 
dell'esercito  di  Scipione:  ha  da  sbarrare  ad  Annibale  cosi 
la  via  della  Gallia  cispadana,  come  quella  d'Etruria  :  il 
punto  di  chiuderle  entrambe  è  Piacenza  :  ivi  l'Appennino 
scende  quasi  nel  Po,  poi  se  ne  allontana  e  dal  lato  di 
levante  e  da  quello  di  ponente:  è  dunque  la  chiave  delle 
difese  possibili.  Sempronio  potrà  assodare  la  sinistra  ai 
colli,  la  destra  al  Po:  avrà  vicine  Piacenza  e  Cremona, 
che  incoraggiate  non  caleranno  bandiera  ;  se  avrà  vit- 

4 


50  -  .  PARTE  pumi 

torìa  sarà  con  esse  padrone  dei  varchi  del  Po,  e  libero 
di  dilargarsi  nei  piani. 

Giunto  però  sul  luogo,  Sempronio  cangia  inopportu- 
namente la  difesa  in  assalto  :  è  completamente  battuto  : 
Annibale  varca  l'Appennino,  scende  in  Etruria,  per  que- 
sto movimento  fa  sua  anche  la  Gallia  cispadana  ora  ae- 
cessariamente  abbandonata  dai  Romani  a  se  stessa: 
quindi  rompe  e  distmgge  al  Trasimeno  anche  il  console 
Flaminio.  Cosi  alla  Trebbia,  come  al  Trasimeno,  i  Ro- 
mani avevano  pugnato  con  prodezza  di  soldati,  ma  non 
con  scienza  di  capi.  Alla  Trebbia  potevano  aspettare  die- 
tro il  fiume  in  preparata  posizione  l'assalto,  ed  anche  in 
caso  infelice  ritirarsi  per  combattere  di  nuovo  in  luoghi 
di  quasi  egual  forza  sul  Taro,  sul  Panaro,  sul  Crostolo. 
La  loro  sola  presenza  nellEmilia  avrebbe  vietato  ad  An- 
nibale la  marcia  d'Elruria,  perchè  l'Appennino  poteva 
chiudersi  dietro  di  lui,  ed  essergli  tolta  ogni  comunica- 
zione coi  Galli.  Ma  alla  Trebbia  i  Romani  vollero  invece 
assaltare:  passarono  il  fiume,  che  è  povero  d'acque 
fuorché  in  momenti  di  piene,  ma  d'ampio  letto,  e  sem- 
pre d'ostacolo  alla  libertà  dei  movimenti  in  caso  di  riti- 
rata e  di  nemico  inseguente.  Essi  combatterono  dunque 
col  fiume  a  tergo,  come  pugnarono  al  Trasimeno  addos- 
sati ad  un  lago:  fallita  la  vittoria,  la  sofferta  ripulsa  di- 
venne un  disastro.  Quando  mai  Annibale  ha  offerto  od 
accettato  battaglia  in  si  svantaggioso  terreno?  Non  fu  lo 
stesso  Napoleone  in  estremo  pericolo  di  totale  sterminio 
quando  schierossi  in  battaglia  fra  Aspern  ed  Essling  ad- 
dossato al  Danubio,  e  venne  respinto?  E  quante  precau- 
zioni non  prese  quando  forzò  di  nuovo  il  passaggio  del 
fiume,  e  con  masse  prepotenti  combattè  la  gran  giornata 
di-Wagram!  (1809). 

Continuò  Annibale  fulminando  la  marcia  pel  sud,  la- 


CIPITOLO  IT.  51 

gciandosul  fianco  destro  Timperterrita  Roma.  Bisogna  le» 
rare  a  rivolta  tutte  le  greche  colonie  :  avranno  da  Anni- 
bale la  spinta  e  l'ardire,  mentre  già  ne  hanno  le  voglie: 
i  più  rovinati  saranno  i  più  presti  a  dare  l'esempio,  ma 
a  nessuno  sarà  vergogna  il  lasciare  il  campo  romano,  e 
gloria  per  tutti  il  rizzare  proprio  stendardo:  ora  vedrà 
ritaliaun  esercito  cartaginese  alleato  dei  Greci  I  Pirro  ha 
già  tentato  coi  Greci  suoi  di  levare  a  rivolta  tutti  i  Greci 
d'Italia,  ed  in  parte  ottenne  successo:  ora  lo  tenta  Anni- 
bale col  gran  nome  dei  riportati  trionfi,  e  colle  semine- 
gre tribù  del  deserto,  cogli  Spagnuoli  ed  i  Galli.  Quali 
speranze,  quali  terrori,  quanto  agitarsi  palese  e  recondito 
in  tutta  la  Magna  Grecia  I  Accorrono  i  Romani  con  eser- 
citi consolari  riuniti,  ma  nella  terribile  giornata  di  Canne 
sono  di  nuovo  prodigati  e  distrutti. 

Descrìvono  gli  storici  militari  quella  grande  battaglia, 
e  vi  cercano  insegnamenti  di  guerra.  Annibale  assai  in- 
feriore ai  Romani  nell'infanteria,  li  superava  di  molto 
nella  cavalleria,  e  vinse  con  questa.  Da  ciò  Polibio  troppo 
facilmente  conchiude  che  nelle  battaglie  meglio  è  l'avere 
una  cavallerìa  superìore  alla  nemica,  e  la  metà  d'infan- 
teria di  meno,  che  non  l'eguagliare  il  nemico  nell'una  e 
nell'altra.  Ma  nell'antica  storia  non  si  è  veduto  in  cento 
conflitti  che  la  superiorità  nella  cavalleria  non  è  pegno 
di  vittoria?  Non  lo  si  è  p.  es.  veduto  a  Farsaglia?  Né  la 
storia  moderna  discorda  dall'antica  :  vinse  Napoleone  la 
giornata  di  Aspern  (1809)  colle  grandi  sue  masse  di  ca- 
valli? vinsero  gli  Alleati  a  Lùtzen  ed  a  Bautzen  (1813), 
benché  prevalessero  fuor  d'ogni  misura  di  cavallerie  ec- 
cellenti? Annibale  ha  trionfato  a  Canne  perché  le  infan- 
terie romane  vittoriose  nel  centro,  nell'avanzare  con 
impeto  si  scomposero  negli  ordini  loro,  di  guisa  che  si 
battevano  per  coorti  e  per  manipoli:  aggresse  di  re- 


52  PARTE   PRIVi 

pente  da  onde  di  cavalleria,  fu  un  orribile  viluppo  di 
fanti  e  cavalli,  e  giacquero  i  primi.  Non  è  dunque  la  su- 
periorità nella  cavalleria  che  ha  dato  la  vittoria  ad  Anni- 
bale, maTavere  lancialo  in  momento  opportuno  su  fanti 
disordinati  i  cavalli:  perduti  gli  ordini,  le  fanterie  son 
nulla.  Che  altro  pose  a  Bonaparte  a  Marengo  la  corona 
sul  capo  se  non  una  carica  di  poche  centinaja  di  cavalli 
su  superbi  reggimenti  di  fanteria,  fatta  nell'istante  in  cui 
le  profonde  colonne  di  marcia  sfasciandosi  per  formarsi 
in  linea,  ed  aprire  i  fuochi,  erano  del  pan  impotenti  a  re- 
sistenza ed  offesa? 

Vittorioso  a  Canne,  non  mantenne  Annibale  ai  prigio- 
nieri romani  i  patti  concessi  da  Maharbale  :  usò  l'argo- 
mento sempre  prodotto  in  casi  simili  nel  tempo  antico  e 
nel  moderno  :  disse  cioè  che  Maharbale  non  aveva  auto- 
rità a  conchiudere,  ed  avrebbe  dovuto  riferirsene  a  lui. 
E  che  altro  dissero  gli  Alleati  a  Cara-Saint-Cyr  quando 
lo  presero  nel  4813  con  trenta  mila  Francesi  a  Dresda, 
od  i  Borboni  al  maresciallo  Ney  quando  lo  moschetta- 
rono (1815),  infrangendola  capitolazione  di  Parigi? 

Ricercasi  la  causa  per  cui  l'uomo  smisurato  che  aveva 
vinto  a  Canne  non  si  lanciò  subito  contro  di  Roma  prw- 
cipiti  cursu  bellorum,  et  tenfpore  rapto  (Silio  Ital.). 
Tutti  censurano  Annibale  che  vincere  sapeva,  non  va- 
lersi  della  vittoria:  molti  scrivono,  p.  es.  Vertol,  che  gli 
bastava  presentarsi  a  Roma  per  entrarvi,  e  Bossuet  dice 
che  non  si  curò  neppure  d'andarvi,  perchè  Vimpadro- 
nirsi  di  Roma  era  cosa  ormai  troppo  facile  per  lui  :  non 
pochi  poi  aggiungono  che  divenne  in  un  subito  dissoluto 
e  molle.  Venti  secoli  corsero  sopra  i  fatti,  né  più  è  pos- 
sibile di  recare  nei  medesimi  chiarezza  di  luce  ;  ma  ben 
audace  è  colui  che  scaglia  contro  il  gigante,  con  sì  scarsi 
elementi  a  giudizio,  accusa  e  condanna.  Non  era  assai  nu- 


CAPITOLO  IV.  53 

meroso  Vesercìlo  col  quale  Annibale  giunse  in  Italia:  egli 
ayeva  combattuto  grandi,  ed  anche  pei  suoi  micidiali 
battaglie:  in  quella  di  Canne  p.  es.  magna  pars  de  exer- 
citu  Hannibalh  muda  fuit  (Eutrop.,  lib.  Ili]  :  consta 
poi  che  dalla  Spagna  o  dall* Africa  non  era  stato  rifornito 
di  genti  giammai.  Annibale  si  trovava  adunque  in  Italia 
presso  a  poco  nella  situazione  in  cui  si  vide  nella  guerra 
dei  Trent'anni  Gustavo  Adolfo  in  Germania  ;  egli  aveva 
poche  truppe  cartaginesi,  e  le  molte  dei  popoli  italiani 
attorno  a  sé,  come  Gustavo  aveva  le  poche  scandinave, 
e  le  molte  della  lega  protestante:  il  tesoro  poi  era  total- 
mente italico  per  Annibale,  com'era  tedesco  per  Gustavo. 
Ma  dopo  la  battaglia  di  Canne  gli  Italici  non  dovevano 
più  avere  la  stessa  devozione  per  Annibale,  la  stessa  dis- 
posizione a  sacrificii  di  denaro  e  di  sangue:  prima  di 
Canne  gli  Italici  temevano  di  Roma,  ora  temevano  di 
lui  ;  se  avessero  dovuto  rassegnarsi  a  servitù,  meno  sem- 
brava nociva  la  servitù  consueta  di  Roma  vicina,  che  non 
la  insolita  della  lontana  Cartagine.  Quanto  Annibale  a 
Canne  era  militarmente  salito  in  altezza,  altrettanto,  ò 
poco  meno,  era  politicamente  disceso.  Incominciava  un 
secondo  periodo  di  politiche  cose  ;  importava  di  stabilire 
accordi  cogli  Italici,  soprattutto  di  stipulare  una  Lega 
fra  e$$%  e  Cartagine,  d'assicurare  la  fedeltà  degli  amici 
attuali,  di  non  dar  loro  sospetto,  d'ammetterli  anzi, 
se  non  a  partecipazione  d'impero  militare,  almeno  a 
godimento  esclusivo  d'impero  civile,  e  d'allettare  altri 
Italiani  a  defezione  da  Roma.  Questa  aveva  ancor  truppe 
in  Italia,  ricevette  da  Marcello  che  era  in  Sicilia  imme- 
diato soccorso  di  genti  (Plut.,  in  Marc),  ebbe  da  venti 
colonie  romane,  di  cui  gli  storici  ci  conservarono  il  nome, 
e  denaro  e  soldati,  e  presto  fu  tanto  sicura  da  riprendere 
attivamente  la  guerra  in  Italia,  ed  anche  da  lanciare 


54  PARTB    PEIMA 

nuove  legioni  in  Sicilia,  nella  Spagna  e  neirAfrica.  Dopo 
la  battaglia  della  Trebbia,  non  si  era  arresa  Piacenza,  e 
dopo  quella  del  Trasimeno  Annibale  non  aveva  potuto 
forzare  a  dedizione  Spoleto:  avrebbe  dopo  di  Canne  ab* 
battuto  le  porte  di  Roma?  Essa  non  era  né  si  rimessa 
di  volontà,  né  si  scema  dì  forze  da  distruggerla  per  re- 
pentino spavento,  o  breve  ora  d'assalto  :  se  fosse  stata 
tale,  chi  meglio  se  ne  sarebbe  avveduto,  chi  l'avrebbe 
più  vigorosamente  assalita  d'Annibale?  Era  la  sua  tal 
anima  che  volesse  saporare  in  Gapua  volgari  dolcezze, 
piuttosto  che  inebbriarsi  in  Roma  dei  godimenti  sublimi 
di  completa  vittoria?  Egli  pensò  infatti  a  detronizzare  po- 
liticamente Roma  con  una  Lega  italiana,  con  mvl  emula 
Roma,  con  città  eguale  a  Cartagine,  che  tale  era  Capua, 
e  cosi  è  chiamata  talora  nei  classici.  Poche  città  nel 
mondo  furono  si  opulenti  e  magnifiche  come  Capua: 
gli  avanzi  del  suo  anfiteatro,  che  esistono  ancora  oggidì 
(a  Santa  Maria),  sono  più  maestosi  di  quelli  dello  stesso 
Colosseo  di  Roma.  Capua  non  aveva  ancora  osato  pre- 
tendere di  sostituirsi  a  Roma,  ma  ora  che  Roma  si  era 
affievolita,  Capua  ardiva 

summi  partem  deposcere  juris, 

Atque  alternatos  sodato  consule  fasces. 

Siuo  Italico,  lib.  XI. 

A  quest'effetto  d'essere  perfettamente  pareggiata  a  Roma, 
Capua,  dando  il  primo  esempio,  e  per  cosi  dire  movi- 
mento alla  futura  guerra  sociale,  mandava  una  lega- 
zione che  fu  respìnta,  ed  anzi  insultata  dal  Senato  tuttora 
fiero  anche  dopo  di  Canne.  Allora  Capua  si  pronunciò 
per  Annibale,  e  questi  condusse  l'esercito  nell'agro  ca- 
puano fundum  pulcherrimum  populi  romani,  caput  pe- 
cunice,  pam  ornamentum,  subsidium  belli,  fìj^ndamen* 


amoLo  ir.  b& 

tum  veetigalium,  horreum  legionum,  tolatium  annonm 
(Cic,  De  Lege  agraria).  lyi  l'esercito  poteva  dunque  es* 
sere  ben  ristorato:  di  là  sorregliavasi  Roma,  si  minac- 
ciava Napoli  che  cinta  di  forti  baluardi  ancor  resisteva 
agli  attacchi  di  Annibale  voglioso  d'averla  per  facili  co-- 
municazioni  colla  Sicilia,  colla  Spagna,  colla  Liguria, 
coU'Àfrìca:  ivi  si  sarebbero  trovati  anche  soldati  a  col« 
mare  i  vuoti  nelle  truppe  cagionati  dal  ferro,  dalle  marce, 
dal  tempo,  ed  anche  dalle  diserzioni  dal  suo  campo  a 
quello  di  Roma,  che  prima  di  Canne,  dice  Plutarco  (in 
Marc.]^  non  erano  avvenute  giammai,  ed  ora  seguivano, 
secondo  il  suo  racconto,  non  solo  fra  gli  Italici,  ma  per- 
fino fra  gli  Iberi  e  Numidi.  Or  bene,  Capua  poteva  ri- 
fornirlo di  genti  :  Gapua  infatti  aveva  dalle  sue  mura  in- 
viato più  volte  intieri  eserciti  in  guerra.  Egli  chiamava 
dunque  a  Capua  i  delegati  di  tutte  le  città,  e  teneva  ai 
Capuani  discorsi  riferiti  da  Livio,  in  cui  loro  promet- 
teva il  primato  d'Italia.  Capua  doveva  romuleis  suIh 
cedere  miiris:  i  classici  dicono  apertamente  quanto  a 
Capua  prometteva  Cartagine  :  tibi,  perfida^  fasces  dei 
Carthago  siios. 

Raccogliendo  adunque  le  sparse  notizie,  indagando 
nei  frammenti  istorici,  e  soprattutto  meditando  sulla  si** 
tuazione  militare  e  politica,  ci  sembra  che  non  senza 
causa  Annibale  rinunciò  al  cammino  di  Roma,  e  ben  a 
ragione  si  condusse  a  Capua,  e  vi  fece  lunga  dimora,  con- 
tinuando però  a  combattere  colle  armi  dei  capitani  suoi, 
e  sovente  uscendo  a  combattere  egli  stesso.  Ma  la  ferocia 
dei  Romani  nel  vendicarsi  di  Capua  viene  altresì  ad  ap- 
poggio delle  nostre  induzioni.  Appena  Roma  potè  strin-. 
gere  i  Capuani  d'assedio,  e  superarne  le  forti,  non  molli 
difese,  uccise  a  mìgliaja  o  cacciò  quanti  avevano  voluto 
fare  di  Capua  la  nuova  capitale  d'Italia:  fu  anzi  per  di* 


56  PARTE  PfilHi 

# 

struggere  tolalmente  la  gloriosa  città,  e  gli  storici  ro- 
mani partecipando  alFesasperazione  comune  (ma  come 
mai  ad  essi  si  è  aggiunto  anche  RoUin  moderno  e  mo- 
ralista?] lodano  come  atto  di  clemenza  il  non  aver  ab- 
battuto e  case  e  muraglie,  che  non  avevano  colpa  del- 
l'infedeltà  dei  loro  abitatori.  L'agro  fu  confiscalo,  e  vi 
vennero  poscia  tradotte  romane  colonie. 

Resistevano  con  ogni  vigore  i  Romani,  ma  cercavano 
anche  appoggi  nell'estero.  Essi  scandagliavano  le  opi- 
nioni edi  desiderii  dei  Greci,  cui  le  vittorie  cartaginesi  in 
Italia  potevano  far  presentire  non  lontano  pericolo,  e  la 
Grecia  colla  voce  degli  Amfizioni  in  Delfo  (1)  rispondeva 
a  Quinto  Fabio  Pittore  spedito  a  consultare  l'oracolo , 
che  non  avessero  i  Romani  a  sgomentarsi,  ma  slessero 
saldi  alla  procella,  e  la  vittoria  finalmente  coronerebbe  i 
loro  sforzi  {T.  Livio,  lib.  XXIII,  cap.  6). 

Poiché  la  Lega  italica  ingelosita  d'Annibale  non  lo  se- 
conda abbastanza,  ed  è  scemalo  di  genti  sue  proprie, 
e  lotta  dubbioso,  quasi  perdente  con  Roma  pertinace, 
egli  invoca  rinforzi,  volge  l'occhio  alla  Spagna,  da  dove 
trasse  un  esercito,  e  ne  spera  un  secondo,  ed  Asdrubale 
infatti  marcia  dalla  Spagna  alla  volta  d'Italia. 

Che  era  avvenuto  in  Ispagna  dopo  la  partenza  d'Anni- 
bale? Vi  erano  forse  i  Cartaginesi  ancora  vittoriosi  e  soli? 
Se  non  lo  erano,  come  mai  Asdrubale  potè  levarne  l'eser- 
cito? Eccoci  ad  un  passo  di  storia  che  negli  autori  mo- 
derni non  si  comprende  giammai,  e  senza  accurata  let- 
tura di  Livio  e  Polibio,  e  paragone  diligente  di  date  e 

(1)  Mengolti,  che  ripelè  i  leggieri  racconti  dèlia  flotta  di  Ronda  improvvisa- 
mente creata,  ha  invece  scritto  una  perspicace  memoria  sulForacoIo  di  Delfo, 
e  sulla  formazione  del  Consiglio  amfizionico,  la  quale  in  parte  rivela  perchè 
l'oracolo  potesse  sovente  essere  veritiero,  e  godere  quindi  d'un  credito  di  cui 
avrebbe  certamente  mancato  qualora  la  Pizia  non  avesse  risposto  giammai  se 
non  voci  ambigue  o  vuote  di  senso. 


CAPITOLO  IV.  67 

studio  di  guerra,  è  realmente  impossìbile  ad  essere  inteso. 
Riducendo  però  a  tutta  semplicità  il  racconto,  e  nulla 
aggiungendo  a  quei  classici,  renderemo,  ci  sembra,  chia- 
rahnente  il  vero. 

La  Spagna  era  per  Cartagine  miniera  d'argento  e  sol- 
dati, maerainquiela,  taglieggiala  ed  oppressa.  Occuparvi, 
scemarvi,  distruggervi,  se  possibile  era,  l'autorità  di  Car- 
tagine, era  affievolire  Annibale  e  la  potente  rivale.  Erano 
quindi  accorsi  per  mare  nelle  Spagne  i  Romani:  avevano 
sollevato  più  popoli  :  Publio  e  Gneo  Scipioni  vi  ebbero  e 
gloria  ed  acquisti  ;  Spagnuoli  combattevano  contro  Spa- 
gnuoli,  come  Romani  contro  Cartaginesi,  ma  i  Romani 
in  nome  della  libertà,  e  quindi  coll'amore  del  paese.  Fatta 
però  dagli  Scipioni  una  falsa  operazione  di  guerra,  se- 
paratisi cioè  per  essere  dappertutto  e  vincere  tutto,  fu- 
rono disfatti  ed  uccisi  dal  nemico  riunito.  Nessun  limite 
allora  alle  violenze  di  Cartagine,  nessun  conBne  a  ven- 
detta e  rapina  :  fremono  gli  Spagnuoli,  ma  sono  in  catene. 
In  si  grave  frangente  un  Romano,  Marzio,  non  dispera: 
si  mostra  improvviso  grand'uomo  di  guerra  :  raccoglie  le 
reliquie  delle  truppe  battute,  leva  da  tutte  le  piazze  le 
guernigioni  romane  (1),  che  hanno  vedutole  vittorie,  non 
le  rotte  dei  Scipioni  ;  la  fortuna  di  Roma  sia  tutta  in  un 
campo!  Si  Gcca  poi  colle  truppe  in  mezzo  a  due  eserciti 


(1)  Se  Napoleone  quando  sofferse  la  terribile  catastrofe  di  Mosca  (Ì8i2),  e 
fu  costretto  a  retrocedere  fin  oltre  TElba,  avesse  imitato  Marzio,  e  non  lasciato 
settanta  mila  uomini  nelle  piazze  della  Vistola  e  deirOder  ;  se  quando  fu  rotto 
a  Lipsia  (1813)  non  ne  avesse  lasciati  almeno  altrettanti  nelle  piazze  dell'Elba 
e  del  Reno  ;  se  dopo  la  gran  rotta  di  Vittoria  (1812)  non  avesse  lasciato  al* 
meno  venti  mila  uomini  nelle  piazze  di  Catalogna  e  Valenza,  sarebbe  egli  stato 
costretto  a  combattere  fra  la  Senna  e  la  Marna  con  trenta  o  quaranta  mila  fra 
veterani  e  coscritti  contro  TEuropa  per  difendere  Parigi  e  la  sua  corona?  Olii 
lo  avrebbe  forzato  quando  avesse  avuto  cento  cinquanta  mila  veterani  dat- 
torno a  Parigi?  E  quali  discordie  non  sarebbero  scoppiate  fra  gli  Alleati  pei 
possesso  dei  paesi  che  egli  avrebbe  abbandonato  ? 


58  PiETB  PBmi 

cartaginesi,  che  un  vallone  separa:  consdo  del  grave  pe- 
ricolo, non  ha  titubanza  un  momento,  assalta  di  notte  un 
dopo  l'altro  i  nemici  incauti  per  sicurezza  ed  orgoglio,  e 
li  prostra.  Le  sorti  militari  sono  di  nuovo  in  bilancio, 
ma  i  popoli  propendono  a  Roma.  Arriva  al  comando  in 
Ispagna  Publio  Cornelio  Scipione,  progenie  dei  libera^ 
tori,  e  genio  di  guerra  :  accorrono  gli  Spagnuoli  a  lui  : 
anche  i  principi  Mandonio  ed  Indibiie  abbandonano 
Asdrubale  :  rilascia  Scipione  senza  riscatto  i  prigionieri 
spagnuoli,  combatte  per  loro!  restituisce  spose,  fa  doni 
a  tutti,  anche  ai  Numidi  ;  è  idolatrato,  gli  Spagnuoli  lo 
vorrebbero  re!  È  presa  Cartagine,  in  qua,  dice  Eutropio 
nel  lìb.  Ili,  omne  aumm  et  argentum,  et  belli  appara^ 
tum  Afri  habebant;  nobilissimos  quoque  obsides  quos 
ab  Hispanis  acceperant,  Magonem  etiam  fratrem  Han- 
nibalis  ibidem  capit,  quem  Romam  cum  aliis  mittit. 
Asdrubale  è  rotto,  e  cacciato  lontano  nel  nord:  non  vi  è 
scampo  per  lui  :  da  Cartagine  lo  separa  l'esercito  dì  Sci- 
pione ed  il  mare  :  è  in  paese  nemico  :  tiene  mesta  con- 
sulta coi  generali  suoi.  Discendere  di  nuovo  alla  costa 
può  essere  da  generoso  soldato,  ma  non  da  capitano  che 
prevede  l'evento  d'altra  battaglia  :  fermarsi  è  sciogliersi 
per  diserzioni  continue  :  ì  mezzi  mancano  perchè  il  ricco 
paese  è  in  mano  a  Scipione.  Tutti  i  generali  convengono 
che  le  truppe  spagnuole  non  possono  piò,  usarsi  in  Ispa- 
gna, che  bisogna  ad  ogni  modo  cavarle  di  là.  Una  sola 
strada  è  aperta,  ed  è  quella  di  Gallia:  si  vada  per  essa, 
si  ricalchino  le  orme  d'Annibale,  si  corra  a  congiunzione 
con  esso:  trionfi  Roma  in  Ispagna,  e  sia  presa  in  Italia  1 
Era  nei  destini  che  Asdrubale  nel  momento  stesso  di  co- 
gliere il  frutto  perdesse  l'esercito  e  fosse  mozzo  del  capo, 
ma  la  sua  grande  risolutezza  l'onora,  manifestando  che 
era  degno  fratello  d'Annibale. 


CAPITOLO  IT.  60 

Si  muove  Asdrubale  a  prestissimi  passi  :  gli  pare  d'aver 
a  tergo  Scipione!  Realmente  non  lo  aveva,  perchè  Sci-* 
pione  si  contenne  in  Ispagna  ad  ordinarla,  ossia  ad  ìm- 
perarvi:  Vetà  degli  amori  ispano-romani  ormai  finiva: 
incominciava  quella  della  dominazione,  quella  età  cioè 
che  doveva  crearvi  nuove  rivolle  e  guerre,  e  massacri  di 
Spagnuoli  impotenti  ed  isolati,  la  defezione  seconda  di 
Indibile  e  Mandonio,  e  la  loro  morte.  Manda  però  Sci- 
pione al  Senato  per  la  via  di  mare  soccorso  di  truppe 
romane  e  di  truppe  spagnuole  per  la  guerra  d'Italia  e  per 
quella  di  Sicilia,  ove  parimenti  si  combatteva.  Nondimeno 
serio  argomento  d'esame  e  forse  d'accusa  per  Scipione 
può  essere,  e  Io  fu  realmente  in  Senato,  se  egli  non 
avrebbe  dovuto  piuttosto  seguire  Asdrubale,  che  arre*- 
starsi  in  Ispagna.  Ah  se  nella  battaglia  del  Hetauro 
Asdrubale  non  perdeva  esercito  e  vita,  Scipione  proba- 
bilmente non  avrebbe  acquistato  il  glorioso  nome  d'Afri- 
cano, ma  subito  triste  destino  ! 

Passa  Asdrubale  i  Pirenei,  e  varca  senza  perdita  le 
Alpi  :  forse  Annibale  aveva  stabilito  .rapporti  d'amicizia 
coi  regoli  e  colle  tribù,  e  lasciato  guarnigioni  al  varco, 
la  quale  ipotesi  meglio  di  ogni  altra  spiegherebbe  anche 
la  diminuzione  tanto  notevole  del  suo  esercito  quando 
giunse  nel  piano.  Asdrubale  viene  ingrossato  pur  esso 
da  Ugurì  e  Galli,  tenta  invano  di  occupare  la  forte  posi- 
zione di  Piacenza,  e  spinto  dalla  necessità  studet  celeri» 
tati,  gira  d'intorno  a  Piacenza,  e  s'inoltra  neirfimìlia. 
I  Romani  allora  inviano  il  console  Nerone  contro  Anni- 
bale nel  sud,  ed  il  console  Livio  contro  Asdrubale  nel 
nord  :  bisognava  ottenere  una  doppia  vittoria  :  potevasi 
temere  una  doppia  sconfitta  :  era  nelle  sorti  di  riuscire 
in  un  luogo  vittoriosi,  e  nell'altro  perdenti.  Nerone  osa 
l'uno  di  quei  fatti  che  il  solo  successo  giustifica,  assale 


60  PIBTE  PRIMA 

Annibale,  ed  ha  la  fortuna  di  aspramente  rintuzzarlo  in 
due  conflitti.  In  allora  Nerone  sceglie  la  miglior  parte  del- 
l'esercito,  e  lasciando  ogni  apparenza  del  campo  quasi 
fosse  completo,  sen  va  cinquanta  leghe  lontano  a  riu- 
nirsi con  Livio.  Non  si  avvede  Annibale  del  nemico  sce- 
mato, non  Asdrubale  del  nemico  cresciuto  :  non  s'avanza 
Annibale  :  non  retrocede  in  tempo  Asdrubale,  e  questi  è 
oppresso  ed  affatto  distrutto  (1).  Che  significa  ciò  se  non 
chei  Cartaginesi  erano  ormai  traditi  da  tutti?  Per  quante 
precauzioni  si  prendano  (e  molte  ne  prese  Nerone),  non 
si  nascondono  le  marcie  degli  eserciti,  e  meno  poi  si  oc- 
cultano ad  un  Annibale,  al  quale,  quando  venne  in  Italia, 
omnia  et  hoitium  haud  secus  quam  ma  nota  erant,  nec 
quidquam  eorum  qucB  apud  hostes  agebantur  eum  falle- 
hat  (Liv.,  lib.  Sl2).  L'intiero  paese  era  divenuto  ostile  ad 
Annibale,  e  tutti  erano  caduti  di  speranza  in  lui  :  la  sorte 
stessa  che  poteva  scoprirgli  l'assenza  di  Nerone  fu  mula 
per  luì,  od  egli  (e  quésto  ci  sembra  più  probabile)  già 
era  si  debole  da  noia  poter  azzardare  battaglia  nem- 
meno contro  l'esercito  consolare  scemalo,  ma  ancora 
forte,  bene  accampato  e  fiero  di  recenti  vittorie. 

Dal  sanguinoso  Metauro  Nerone  ritorna  più  che  di 

(1)  Quando  diverse  armate  campeggiano  sopra  vasto  o  ristretto  territorio, 
Teslremo  dell*ahiii(à  sta  neirawentarsi  raccolto  e  compatto  sul  nemico  diviso 
per  scontiggere  successivamente  le  varie  membra  di  esso.  Agevola  il  successo 
la  posizione  centrale  alle  masse  nemiche,  ma  guai  al  capitano  che  vi  si  trova 
0  la  sceglie,  e  non  è  estremamente  rapido,  energico  ed  anche  Telice  !  Fede- 
rico II  ha  combattuto  in  tale  posizione  con  successo  Tìntiera  guerra  dei  Sette 
anni  ;  Macdonald  fu  rotto  alla  Trebbia  non  essendosi  ancor  legato  a  Moreau 
quando  già  erano  congiunti  Suwarow  e  Melas  (1799);  Napoleone  riunì  Tarmata 
del  Reno  e  quella  d'Italia  a  Wagram  (1809).  e  vinse  l'arciduca  Carlo,  che  non 
aveva  ancora  aggiunto  al  suo  fianco  sinistro  Tarmata  d'Ungheria,  ma  fu  egli 
stesso  distrutto  a  Waterloo  (1815)  quando  non  gli  riuscì  dirompere  subita- 
mente gli  Inglesi,  e  sul  suo  fianco  diritto  gli  sopravvenne  Tarmata  prussiana 
.  non  stata  arrestata  tra  via.  E  noi  vediamo  la  morte  d'Asdrubale  schiacciato  dai 
due  eserciti  romani  al  Metauro,  come  abbiamo  veduto  la  morte  dei  due  Sci- 
pioni  isolatamente  oppressi  da  due  eserciti  cartaginesi. 


CAPITOLO  lY.  61 

passo  al  suo  esercito,  ed  Annibale  si  ritira  nelle  aspre 
regioni  all'estremità  della  penisola.  Ma  ora  che  Livio  po- 
trebbe con  sicurezza  ripetere  ciò  che  Nerone  ha  fatto  con 
pericolo  t  perchè  non  marcia  con  tutto  l'esercito  a 
congiungersi  al  collega,  ed  a  schiacciare  Annibale?  Gli 
storici  noi  dicono  e  noi  chiedono,  né  il  problema  può 
essere  sciolto  chiaramente  da  noi.  Però  le  imprese  sva- 
nite, la  fama  menomata,  gli  ajuii  diminuiti,  la  relega- 
zione nel  fondo  dltalia  necessaria,  avevano  distrutto  mo- 
ralmente anche  Annibale  :  era  ormai  una  fiamma  non 
spenta  per  forza,  ma  che  si  consumava  lentamente  da  sé. 
Non  gli  giovava  la  prossimità  dì  Sicilia  :  colà  i  Cartagi- 
nesi avevano  bensì  tentato  di  ristorare  le  sorti,  avevano 
eseguito  sbarchi,  combattuto  battaglie,  istigato  i  Siracu- 
sani, ma  rìsola  era  già  irremissibilmente  perduta. 

Le  molte  vicende  di  questa  guerra  fierìssima,  e  l'in- 
certezza dell'esito,  avevano  reso  Siracusa  vacillante  ed 
infedele  non  meno  a  Roma  che  a  Cartagine.  I  Romani 
nella  loro  profonda  politica  alimentarono  gli  odii  ed  i 
partiti,  e  ben  lo  potevano  fare,  giacché  alle  cause  esterne 
di  politica  divisione  si  aggiungevano  ancora  cause  gra- 
vissime di  civile  discordia.  Siracusa  aveva  avuto  la  sven- 
tura ch'ebbero  molte  altre  città,  quella  cioè  d'essere  stata 
il  teatro  di  tanti  uomini  grandi,  il  che  equivale  a  teatro 
delle  rivoluzioni,  e  bene  spesso  agli  spaventi  e  rovesci, 
onde  sempre  rimane  l'addentellato  a  nuove  turbolenze, 
a  scompiglio  di  cose  e  disunione  di  forze.  La  vita  di  Dio- 
nigi il  vecchio  era  stala  insidiata;  Dionigi  il  giovane  due 
volte  montò  sul  trono,  e  due  volte  ne  fu  balzato  ;  Dione 
liberatore  fu  ucciso,  ed  ucciso  Agatocle  usurpatore  :  si 
avvicendavano  ì  governi  popolari  e  regii  :  teorizzavano 
con  quelli  i  filosofi  architettori  di  nuove  forme  di  Stato, 
come  Filosseno,  come  Platone;  ne  erano  poi  cacciati  con 


69  rABTE  Pimi 

questi,  sembrando  ad  ogni  principe  che  basti  a  governo 

la  sua  persona. 

Tante  rivoluzioili  e  partiti  riproducendosi  poi  di  con- 
tinuo, ne  indebolirono  rapidamente  la  potenza.  I  Romani 
favorendo  ora  i  democratici  ed  orai  realisti,  concitarono 
sempreppiù  gli  animi.  E  come  i  medesimi  non  assalirono 
Siracusa  dopo  vinta  Cartagine,  perchè  avrebbero  riunito 
contro  di  loro  tutti  i  partiti,  ma  circondarono  Siracusa, 
mentre  la  fortuna  di  guerra  non  era  ancora  decìsa,  par- 
larono sempre  ai  Siracusani  parole  di  pace,  e  promisero 
libertà  e  quiete  a  quella  città,  dove  aveva  regnato  Gelone, 
a  cui  profeisavano  tanta  gratitudine,  cosi  trovarono 
alla  fine  un  partito  che  loro  aperse  VÀcradina  (cittadella), 
che  non  erano  riusciti  a  sforzare.  Vi  periva  Archimede, 
il  Briareo  dei  geometri  di  tutte  le  età  (1).  Egli  aveva,  dice 
Plutarco,  rivolto  la  sua  arte  dalla  contemplazione  della 
mente  alle  pratiche  cose,  e  per  la  via  dei  sensi  fatto  ap- 
parire i  pensamenti  scientifici  anche  alle  persone  volgari. 
Difese  con  meravigliose  invenzioni  la  piazza,  ma.  non 
conosciamo  precisamente  i  meccanici  ingegni  usati  da 
lui  :  notiamo  però  che  niun  autore  antico,  ed  in  ispecie  né 

(1)  Anche  Tllalìa  moderna  ebbe  il  tuo  Archimede,  perchè  certamente  fu  tale 
Federico  Gianibelli  di  Mantova  allorché  nel  memorabile  assedio  d'Anversa 
(158Ì-85)  resisteva  colle  arti  d'ingegno  all'oppugnazione  diretta  in  servizio 
spagnuolo  da  altro  italiano,  il  duca  Alessandro  di  Parma.  Più  che  da  alcuno 
dei  nostri  scrittori  fu  eretto  a  Gianibelli  monumento  d'onore  da  Schiller  ale- 
manno. 

Nelle  guerre  di  Fiandra  di  quella  età,  in  quegli  assedii  che  furono  si  nume* 
rosi  e  terribili,  non  altrimenti  che  in  quelli  di  Catalogna,  Aragona  e  Valenza 
del  secolo  attuale  (1808-14),  operarono  gli  Italiani  prodigai  di  valore  in  ogni 
grado  di  milizia,  in  ogni  forma  dì  guerra,  e  caddero  a  migliaja  non  per  la 
causa  d'Italia,  né  per  quella  (salvo  Gianibelli)  della  libertà  materiale  e  morale 
del  mondo.  Ma  le  loro  prodezze  devono  illustrarsi  di  pagine  d'onore  dagli  sto- 
rici italiani,  e  non  coprirsi  totalmente  d'oblio  :  è  una  taccia  che  ci  sembra 
dover  fare  specialmente  a  Carlo  Botta,  che  ha  pur  scritto  diffusamente  del- 
l'epoca triste  ed  oscura  del  nostro  servaggio  alla  Spagna,  e  delle  incomplete 
nostre  glorie  del  moderno  periodo  francese. 


CÀFiTOLO  m  6S 

Polibio,  né  Lifio,  né  Plutarco  fanno  menzione  delle  nari 
combuste  cogli  specchi,  né  sappiamo  chi  pel  primo  in- 
Tentasse  il  racconto  di  quelle  navi  pazienti  a  starsene  ih 
cine  ed  immote  per  essere  bruciate  da  un  immenso  af>* 
parato  di  specchi. 

1  Romani  conoscevano  che  quelle  ricchezze  di  Siracusa 
erano  troppe,  e  che,  se  Siracusa  fosse  stata  povera  e  Roma 
ricca,  la  quiete  sarebbe  meglio  durata  •  che  se  Roma 
fosse  stata  povera  e  Siracusa  ricca.  Fu  dato  a  Siracusa 
un  sacco  spaventevole.  Il  bottino  fu  Anto»  dice  Livio, 
quanto  sarebbe  stato  in  Cartagine,  colla  quale  combatte* 
vasi  a  forze  pari:  SyracuscB  capto,  in  quibut  pradw 
tantum  fuit^  quantum  vix  capta  Carthagine  tum  futi'» 
$ett  cum  qua  viribui  CBqun  certabatur.  Ma  anche  in  que^ 
sta  scena  di  ferro,  di  fuoco  e  di  rapina  v'erano  le  lagrime 
(che  nei  classici  son  sempre  abbondevoli),  e  v'era  Gelane 
amico.  Marcellug,  ut  mcdnia  ingreuus,  ex  superioribui 
locit  urbem,  omnium  ferme  illa  tempettate pulckerrimam^ 
tubjeciam  oculit  vidit,  illacrima$se  dicitur,  partim  gau^ 
dio  tantce  perpetrato  rei^  partim  vetusta  gloria  urbit. 
Athenien$ium  clasiei  demence,  et  duo  ingentes  exerei^ 
tus  cum  duobus  clarissimis  ducibun  deleti  occurrebant  : 
et  tot  betta  cum  Carthaginien$ibus  tanto  cum  discrimine 
gesta  ^  tot,  ae  tam  opulenti  tyranni,  regesque;  proter 
eateros  Biero ,  cum  recentissima  memoria  rex ,  tum 
ante  omnia,  qux  virtus  ejus,  fortunaque  sua  dederat, 
beneficiis  in  populum  romanum  insignis;  ea  cum  uni-- 
versa  occurrerent  animo,  subiretque  cogitatio,  jam  illa 
momento  horce  arsura  omnia,  et  ad  cineres  reditura  etc. 
Saperano  i  Romani  che  città  morta  non  fa  guerra,  ma  sape- 
vano altresì  che  Ulisse  va  spesso  più  lungi  di  un  Achille, 
e  non  precipitarano  il  colpo  finale  senz'essere  sicuri  di 
darlo  impuniti  :  quindi  continuarono  lunga  pezza  a  fin- 


64  PARTE  PRIMA 

gere  coi  Siracusani.  Si  dolevano  della  licenza  dei  soldati  ; 
ascoltavano  benignamente  in  Senato  i  messaggi  dei  Sira- 
cusani, che  accusavano  Marcello  presente;  mandavano 
un  pretore  che  provvedesse  ;  amavano  Gelone  defunto  : 
volevano  ad  ogni  modo  proteggere  Siracusa,  eredità  dì 
queiro//mo  re.  Cosi  i  Siracusani,  molto  sperando  e  molto 
temendo,  non  proruppero  in  Serissima  ribellione  ;  a  poco 
a  poco  le  ricchezze  scomparvero  :  fu  vinta  Cartagine  ;  al- 
lora non  si  parlò  più  di  Gelone  e  di  Siracusa. 

Rotto  Àsdrubaìe,  rotto  più  volte  Annibale,  conquistata 
dai  Romani  la  Spagna,  conquistata  la  Sicilia,  erano  agli 
estremi  Annibale,  ed  agli  estremi  Cartagine.  Scipione  non 
ha  più  donato,  come  prima  faceva,  in  Ispagna,  mei  preso: 
mantenne  il  suo  esercito  senza  ricorrere  a  Roma:  venne 
anzi  egli  stesso  portando  denaro  per  la  guerra  d'Italia, 
come  Bonaparte  Io  mandava  d'Italia  a  Parigi  perla  guerra 
del  Reno  (1797).  Fu  accolto  con  doppia  festività:  lo  si 
mandava  in  Sicilia  ove  più  non  v'era  seriamente  a  com- 
battere, ma  da  dove  era  corto  il  tragitto  a  Cartagine  ;  es- 
sendovi però  Annibale  in  Italia,  si  esitava  al  grand'atto. 
Da  ciò  scissure  e  contrasti,  ed  alfine  il  decreto  poco  ono- 
revole invero  pel  Senato  e  pel  popolo  :  passi  Scipione  in 
Africa  se  conveniente  lo  crede.  Egli  tragitta,  guadagna 
in  parte  i  Numidi,  batte  le  truppe  raunaticcie,  e  stringe 
da  vicino  Cartagine.  Annibale  non  lo  prevenne,  e  non  lo 
segui,  e  fece  a  creder  nostro  gran  fallo,  perchè  essendo  im- 
potente a  muovere  sopra  Roma,  lasciò  indebolire  e  distrug- 
gere i  mezzi  di  resistenza,  ai  quali  soltanto  l'aggiunta  dei 
veterani  suoi  poteva  dare  saldezza.  Ma  anche  Annibale  te- 
neva per  orgoglio  all'Italia,  come  per  catena  allo  scoglio 
Prometeo:  terribile  infatti  è  il  tormento  del  genio,  che 
vede  l'edificio  con  titanici  sforzi  eretto  crollare,  prepo- 
tente l'indistinta  speranza  che  possa  risorgere,  fatale  la 


CAPITOLO  IV.  65 

ripugnanza  di  confessarsi  superato,  di  ritrarsi  dal 
campo  già  teslimonio  di  gloria!  Dopo  la  catastrofe  di 
Russia  (1812),  ove  andarono  per  non  più  ritornarne 
gli  eserciti,  che  altro  fuorché  l'ambizione,  l'orgoglio 
di  sé  e  non  l'onore  di  Francia,  offuscò  la  chiaroveg- 
genza militare  e  politica  del  grande  Napoleone,  e  lo 
tenne  per  rovina  di  Francia  e  di  lui  contro  forze  sover- 
cbìanti  suirOder  e  sull'Elba,  laddove  sarebbe  stato  invin- 
cibile se  si  fosse  tosto  ritratto  alla  frontiera  del  Reno? 

AlGne  tragittò  anche  Annibale  in  Africa  alle  grida  di 
dolore  della  patria  agonizzante  :  si  batté  da  prode,  e  cer- 
tamente balleronsi  con  furia  disperata  le  povere  truppe 
italiane  che  erano  con  esso,  ma  fu  battuto,  ed  il  periodo 
sanguinoso  della  seconda  guerra  punica  si  chiuse.  Dove 
erano  però  le  flotte?  Chi  da  entrambi  i  lati  reggevale  se 
Romani  e  Cartaginesi  tragittavano  con  sì  grossi  eserciti 
il  mare  senza  scontri  navali?  È  un  problema,  come  già 
dissimo,  insolubile  a  noi. 

Più  non  poteva  Cartagine  essere  xivale  di  Roma,  ma 
rodio  di  questa  durava  anche  contro  le  afflitte  reliquie 
dell'emula  antica  :  credevasi  poi  che  piccolo  impulso  ba- 
stasse a  rovesciarla.  Non  v'era  però  giusto  titolo  d'attac- 
carla, ma  si  cercò  il  pretesto,  e  cercandolo  si  trovò.  Ba- 
lenarono dapprima  i  Romani  fra  il  restare  e  l'uscire  alla 
guerra,  nia  non  guari  dimorarono,  che  anche  l'ingiusti- 
zia diventa  onestà  alle  voglie  della  passione.  Intimarono 
la  guerra,  ossia  l'eccidio  a  Cartagine,  che  nemmeno  era 
del  lutto  innocente,  perchè  sappiamo  da  Plutarco  d'intrighi 
che  vi  manteneva  Annibale  riparatosi  in  Siria,  e  di  messi 
mandati  dai  Cartaginesi  ad  Antioco  che  affilava  le  armi 
contro  i  Romani  :  populus  maluit  Carthaginem  innoxiam 
plectij  qnatn  se  diutius  esse  inpodna.  Quindi  non  si  replicò 
a  Cartagine  supplichevole  se  non  la  feroce  sentenza  :  ma- 


66  PAKTE   PRIMA 

jor  est  iniquitM  tuaquam  ut  veniam  mereas  :  tentò  resi- 
stere perchè  tal  fiata  la  disperazione  è  salvezza  :  per  essa 
non  fu  (1).  La  sua  grande  caduta  scuoteva  tutte  le  menti 
romane:  la  poesia  nazionale  sorgeva  con  Ennio  (2),  e 
nessuno  in  Roma  pensava  né  ai  ribaldi  latrocinii  com- 
messi, né  all'empietà  dei  perpetrati  massacri. 

Da  questo  momento  i  Numidi,  già  alleali  de' Romani, 
e  favoriti  da  essi,  divennero  soggetti  prima  di  fatto,  poi 
anche  di  nome  a  Roma  preponderante.  I  Numidi  infe- 
stando Cartagine  alle  spalle,  mentre  Roma  la  assaliva  di 
fronte,  contribuirono  grandemente  alla  sciagura  di  Car- 
tagine: ma  quando  Cartagine  fu  debellata,  quei  Numidi 
già  minacciati  da  Cartagine,  che  pure  aveva  nella  Sicilia 
e  nell'Italia  un  freno  così  potente,  più  non  poterono  re- 
sistere a  Roma  padrona  d'Italia,  di  Sicilia,  di  Cartagine, 
di  tutto  l'Occidente.  Vi  erano  Numidi  amicij  ossia  cosi 
rassegnati  all'impero,  cosi  fuor  di  speranza  di  potersene 
trarre,  che  s'accosciavano  ad  ogni  bassezza  a' pie  del 
Senato,  ed  un  discendente  di  Massinissa  richiesto  di 
grani  e  cavalli,  e  pagato  per  essi,  riportava  il  denaro  al 
Senato  :  esprimeva  perfino  lamento  di  non  essere  trattato 
qual  suddito:  non  doversi  fare  inviti,  ma  dar  ordini  a 
lui  :  essere  egli  servo  del  popolo  di  Roma  :  tale  per  sem- 


(i)  Come  in  tante  storie  si  legge  ed  in  tante  scaole  si  narra,  che  fu  la  squi- 
sitezza dei  fichi  deir Attica,  la  quale  indusse  i  Persiani  ad  invadere  la  Grecia, 
cosi  la  distruzione  di  Cartagine,  giusta  gli  stessi  autori  e  retori,  è  da  attri- 
buirsi ai  fichi  :  •  Catojam  senex  in  cuHatn  intulit  ficum  pruDCocem,  et  excutsa 
toga  effuditf  cujus  quum  piilchritudinem  Patres  admirarentur,  interrogavit 
eos  Cato,  quandonam  ex  arbore  lectam  putarent?  Jllis  ficum  recentem  videri 
affirmantibus  :  atgui^  inquit,  iertio  abhinc  die  icitote  decerptam  esse  Cartha- 
gine  :  tam  prope  ab  hoste  absumus,  Movit  ea  res  Patrum  animoSy  et  bellum 
Carlhaginiensibus  indictum  est  (Lhomond,  De  viris  illustribus  urbis  Romm). 
(2)  Non  incendia  Carthaginis  impim, 

Ejus  qui  domita  nomen  ab  Africa 
Lucratus  rediit,  clarivs  indicant 
Laudes,  quam  calabrce  Pierides,,,,  (Horat.) 


ciriTOLo  IV.  67 

pre  ravessero.  Voleva  dire  l'Africano  :  io  governo  per  voi  ; 
non  avreste  governatore  più  ligio  di  me:  non  cercale 
dunque  di  più.  Ma  in  breve  volgere  d'anni  non  si  fece 
più  distinzione  in  Roma  di  Numidi  amici  e  di  Numidi 
nemici,  di  re  fedeli  e  di  re  traditori  :  scordossi  Massinissa  : 
scordaronsi  i  servigi  prestati  in  tante  battaglie  dalle  ca- 
vallerie numidiche  alle  fiancheggiate  legioni  :  i  Romani 
trattarono  tutti  i  Numidi  ad  un  modo,  perchè  di  amici 
non  avevano  bisogno,  e  di  nemici  non  avevano  paura  ; 
di  servi  e  di  tributi  avevano  sempre  cupidità. 

I  Greci  od  i  Macedoni,  che  dir  si  voglia,  poiché  tutti 
i  Greci  dipendevano  dai  Macedoni  più  o  meno  diretta- 
mente, avevano  veduto  con  compiacenza  le  sciagure  di 
Cartagine  e  quelle  di  Siracusa.  Ma  avevano  da  ultimo 
preso  a  molestare  i  Romani,  perchè  troppo  potenti,  e  pel 
rancore  e  sospetto  delle  loro  occupazioni  neiriUirio.  Non- 
dimeno la  distruzione  di  vascelli  cartaginesi  e  siracusani 
era  slata  pei  Greci  uno  spettacolo  consolante.  Speravano 
che  fosse  giunto  il  momento  del  monopolio.  Cartagine 
non  era  ancora  del  tutto  distrutta,  ma  era  una  città  senza 
forze  e  senza  speranze;  era  omai  giunto  il  giorno  del 
monopolio  :  era  quello  in  cui  i  Romani  entravano  nella 
Grecia. 


CAPITOLO  Y. 

Riassnolo  della  storia  greca  prima  dell'invasione  romana; 
Filippo  di  Macedonia. 

Quale  si  era  propriamente  la  condizione  politica  della 
Grecia  allorché  vi  entrarono  i  Romani?  Una  rapida  espo- 
sizione delle  principali  vicende  percorse,  nella  quale 
avremo  a  toccare  di  nuovo  anche  di  alcuni  fatti  narrati 
nell'esordio  dell'opera  attuale,  la  mostrerà  chiaramente: 
dovremo  poi  di  necessità  offrire  meno  condensato  il  rac- 
conto quando  diremo  dell'era  prodigiosa  d'Alessandro  il 
Macedone. 

Vigeva  in  Grecia  piuttosto  un  diritto  sociale  interno, 
che  non  vi  fosse  un  diritto  pubblico  esterno,  quale  lo  si 
intende  nelle  scuole  d'oggidì.  Sedeva  in  Delfo  un  con- 
gresso permanente  dei  legati  dei  maggiori  Stati  di  Grecia, 
ed  ogni  quattro  anni  un'assemblea  nazionale  radunavasi 
in  Olimpia.  In  Delfo  parlavano  i  governi  per  la  voce  di 
Apollo;  in  Olimpia  consultavasi  il  voto  potente  delle 
masse  civili:  Delfo  ed  Olimpia  si  erano,  per  così  dire,  la 
Mecca  e  Medina,  a  cui  d'ogni  parte  del  mondo  accorrono 
i  Musulmani.  Queste  istituzioni  s^ìntessono  col  commer- 
cio e  colla  politica  ;  le  troviamo  nei  grandi  sistemi  bra- 
minici  e  nei  buddistici  ;  ed  anche  nell'Europa  occiden- 
tale sembrarono  riprodursi  nei  secolari  giubilei.  Fra  loro 
adunque  avevano  i  Greci  un  diritto  delle  genti  nazionale 


CAPITOLO  r.  69 

e  federativo,  nel  senso  almeno  d'unite  volontà  contro  il 
perìcolo  d'invasioni  persiane,  le  sole  che  fossero  in  al- 
lora temute  dai  Greci. 

Cosi  i  Greci  erano  varii  socii  diffidenti  reciprocamente, 
interessati  nella  società,  nemici  di  chiunque  non  appar- 
teneva alla  società.  Ma  quest'unità  nazionale  e  politica 
dei  Greci  era  aQìevolila  d'assai  per  la  separazione  dei 
Greci  medesimi  in  due  famiglie,  quella  cioè  dei  Dorici,  e 
quella  degli  Àttico-Jonii,  le  cui  differenze  ci  sono  mal 
note  perchè  colle  successive  fusioni  macedoniche  e  ro- 
mane in  gran  parte  sparirono,  ma  dovevano  essere  in 
antico  profondamente  scolpite,  se  durò  lungo  tempo  l'op- 
posizione fra  le  due  famiglie  d'un'unica  gente,  e  tuttora 
se  ne  rinvengono  traccio  dagli  studiosi  delle  forme  lin- 
guistiche della  greca  nazione.  Erano  Dorici  i  Greci  del 
Peloponneso,  deiritalia  meridionale  e  della  Sicilia;  erano 
Attico-Jonii  quelli  del  nord,  delle  isole  e  dell'Asia.  Ma  le 
colonizzazioni  avevano  in  parte  tramestato  le  sedi  delle 
famìglie:  colonie  doriche  s'erano  stanziate  nel  campo 
geografico-politico  degli  Attico-Jonii,  e  colonie  attico- 
jonìe  in  quello  dei  Dorici:  popolazioni  adunque  consan- 
guinee o  cognate  in  grado  rimoto  si  intrecciavano  diffi- 
denti ed  astiose,  e  la  sola  minaccia  dei  Barbari  poteva 
porre  concordia  d'azione,  ma  non  affatto  di  spiriti  fra 
le  greche  famiglie.  E  v'era  poi  ampia  materia  ad  insidie 
politiche,  a  collisioni  ed  a  guerre  per  essere  l'albero  colo- 
niale propagato  nei  rami,  ed  indistinto  nel  nesso.  Erano 
indefiniti  fra  le  metropoli  e  le  colonie  i  diritti  e  doveri  ; 
confondevansi  la  signoria,  il  protettorato,  gli  ufficii  pre- 
tesi, imposti  0  rejetti,  domandati  ;  i  tributi  erano  concessi, 
riservati  o  negati,  ed  ingiunta  talvolta  da  forti  metropoli 
pienezza  d'impero  non  solo  sulle  colonie  direttamente 
fondate,  ma  anche  sulle  secondarie  figliate  da  queste.  Da 


70  PARTE  FBIHi 

ciò  le  dissensioni  continue,  ed  il  veleno  posto  in  ciascuna  ; 
da  ciò  il  volgersi  d'ogni  colonia  lamentante  gravezze  ad 
altra  potente  città  della  propria,  e  perfino  della  diversa 
famiglia  per  togliersi  a  soggezione  più  dura  ;  da  ciò  le 
perturbazioni  moltiplicate  per  la  vicenda  delle  forme  oli- 
garchiche e  delle  popolesche  in  ciascuna  città  inducenli 
ad  attrazioni  e  gravitazioni  diverse  anche  n^li  esterni 
rapporti.  Tale  si  era  la  Grecia. 

Quando  i  Persiani  invasero,  come  già  vedemmo  {cap.  I) , 
la  Grecia  con  Dario,  e  poscia  con  Serse,  il  pericolo  co- 
mune riunì  tutti,  0  quasi  tutti  i  Greci:  Atene  marittima 
e  centrale  era  già  lo  Stato  più  florido,  più  commerciante 
e  più  dovizioso  di  tutti.  Atene  diresse  la  guerra  greca, 
e  cacciò  i  Persiani  dalla  Grecia  a  vantaggio  comune. 
Questa  guerra  fu  narrata  dal  greco  Erodoto  che  era  na- 
tivo dell'Asia,  e  visse  profugo  dalla  patria.  Ostilissimo  ai 
Persiani,  egli  è  quindi  di  soverchio  propenso  ad  esage- 
rare, e  trovare  nei  falli  dei  Persiani  il  ridicolo  e  l'assur- 
dità. Ma  gli  encomii  profusi  ai  Greci  dal  sapientissimo 
Erodoto  loro  piacevano,  ed  egli  ne  riceveva  lodi  e  rimu- 
nerazioni in  Olimpia. 

Battuti  i  Persiani,  restarono  sul  mare  i  potenti  Ate- 
niesi, le  isole  ed  il  mare  furono  conquiste  di  Atene. 
Cinse  con  un  vasto  sistema  di  baluardi  la  città  ed  i  porli, 
inviò  colonie  segnatamente  airEllesponto ,  occupando 
quelle  Termopili  marittime,  che  sono  ad  un  tempo  porle 
necessarie  d'un  grande  commercio,  e  moltiplicò  istitu- 
zioni e  leggi  promovenli  lo  sviluppo  della  marinerìa, 
non  concedendo  onori  ai  magistrati  uscenti  d'ufBcio  se 
non  avevano  fabbricato  un  certo  numero  di  galere  (1).  Le 


{\)  Demostene  difeDde  Tosservanza  rigorosa  di  questa  legge  nella  sua  arringa 
contro  Androtione. 


CAPITOLO  y.  71 

mandava  d'attorno,  e  dichiarando  che  portavano  sovra 
esse  dìie  Dee,  la  Permatione  e  la  Forza  (Erodoto),  chie- 
devano denaro ,  e  l'avevano.  V'wa  il  pretesto  :  molli 
isolani  cedendo  alla  forza  avevano  servito  ai  Per- 
siani: dovevano  scontare  l'involontario  servire;  erano 
slati  nelle  file  o  nelle  flotte  persiane  come  i  reggimenti 
veneti  lo  sono  nelKesercito  austriaco  od  i  polacchi  nel 
russo  ;  l'avidità  faceva  loro  una  colpa  della  stessa  disgra- 
zia :  la  liberazióne  era  multa.  Volevansi  ad  Atene  emu« 
lare  le  grandezze  delle  coslruttùre  egiziache  ingentilite 
dall'arte,  ed  era  enorme  il  dispendio  di  cambiare  in  mar- 
morea una  laterizia  città  :  pagasse  adunque  chiunque 
avesse  dell'oro;  non  compensava  Atene  d'indipendenza  e 
libertà?  T^  ricca  Rodi,  la  ricchissima  Samos  erano  ta- 
glieggiate, ed  i  Tasii,  che  resistevano,  furono  calpestati 
dall'ateniese  Cimone:  Thatiot  opulentia  fretoz^  tuo 
adventu  fregit  (Corn.  Nip.,  in  Cimone).  Peggiore  era  la 
sorte  di  Sciro:  Scyrum  vacue fecit  (Cimone),  sesiores  t?f- 
tere$  urbe  insulaque  ej ecity  agros  Àtheniensibus  divisi t. 
Anche  gli  Egineli  erano  cacciali  :  parve  ad  Atene  che  la 
loro  isola  si  ben  situata  nel  mare  deirAllica  sarebbe  di 
utilità  piò  sicura  te  fosse  abitata  non  da  genti  doriche, 
ma  da  Ateniesi:  ne  cacciò  dunque  gli  Egineti,  e  vi 
mandò  coloni  tuoi  (Tucid.,  II,  SS?}.  Certamente  non  re- 
gnava in  Alene  Minosse,  ma  crediamo  che  nel  mondo 
politico  non  abbia  regnalo,  né  sia  per  regnare  giammai! 
Tutti  gli  Europei  nelle  loro  colonie  non  hanno  sempre 
trattato  gli  indigeni  possessori  del  suolo  come  furono 
trattati  gli  Egineli?  Ed  anche  la  nostra  età  li  tratta  così, 
benché  siamo  venuti  in  usanza  di  placare  talvolta  il  ri- 
morso deHogliere  col  far  segnare  a  bordo  delle  nostre 
navi  da  guerra,  od  entro  le  mura  delle  nostre  colonie, 
ad  avvinazzali  selvaggi  scritture  loro  ignote  di  lingua  ed 


72  PIKTE  PfilMA 

argomento  d'ampia  cessione  de'  terreni  contro  povere 
consegne  di  vesti  e  di  merci. 

Cosi  Alene  soperchiava  ixi  violenze  ed  orgoglio:  si  go- 
vernava colle  voglie  del  popolo  ingordo,  e  non  col  pre- 
veggente consigliò  dei  savii  ;  misurava  il  diritto,  dalla  cu- 
pidità sconfinata.  E  già  la  Grecia  era  piccola  per  essa: 
dilatava  Tavidìlà  al  móndo  non  greco,  e  poneva  la  falce 
in  ogni  messe.  Gli  Egizii  si  erano  sollevali  contro  i  Pct- 
siani;  chiamavano  ad  alle  grida  soccorso,  e  tutto  pro- 
mettevano come  colui  che  affoga.  Accorrono  gli  Ateniesi, 
mettono  agli  Egiziani  coraggio  di  battaglia  e  vergogna  di 
fuga,  combattono  più  anni,  e  signoreggiano  in  Memfi  : 
tramonta  poi  in  Egitto  la  loro  fortuna,  non  si  tolgono  a 
tempo  giù  dairimpresa,  e  perdono  truppe  e  vascelli  : 
mutasi  allora  in  mesta  rassegnazione  là  disperazione 
egiziana.  La  spedizione  d'Egitto  era  stala  falla  con  più 
impeto  che  saggezza. 

-  Più  che  agli  altri  Slati  di  Grecia,  Atene  era  infesta  a 
Corinto,  che  dopo  le  proprie  ha  le  più  grandi  colo- 
nie, e  la  maggior  flotta  sul  mare.  Corinto  è  vicina  ad 
Atene;  è  posta  sull'istmo  ,  e  per  l'uno  dei  golfi  con- 
corre cogli  Ateniesi  nell'Egeo  ,  e  per  l'altro  s'allarga 
nel  Joiiio,  s'addentra  nell'Adriatico,  veleggia  nel  mare 
di  Sicilia;  è  poi  il  forte  avamposto  di  tulle  le  dori- 
che popolazioni.  Atene  vede  in  Corinto  una  rivale;  bi- 
sogna umiliarla,  armare  per  vincerla,  poi  si  disarmerà 
per  godere  in  pace  dei  tesori  raccolti  nell'Egeo,  e  dei 
nuovi  acquistati  nell'emula  città;  assicurerà  il  successo 
un  alleato,  e  gli  Ateniesi  lo  trovano  nei  Corciresi.  Era 
Corcìra,  antica  colonia  di  Corinto,  ed  aveva  essa  stessa 
colonizzato  Epidamno  (Durazzo)  :  voleva  Corinto  signo- 
raggio  in  Corcira,  ed  anche  in  Epidamno  :  negava  Cor- 
eira  di  concedere  se  stessa  e  la  figlia:  l'occasione  per 


CAPITOLO  V.  73 

Alene  è  ótliina:  si  unisce  a  Corcìra,  che  ha  già  lina  flótta, 
e  si  rinforzerà  da  Alene:  così  sarà  soffocala  Corinto,  im- 
pedita nel  golfo  suirEgeo  dalla  flotta  d'Alene,  e  nel  golfo 
sul  Ionio  da  quella  di  Corcira:  si  stringono  i  patii,  e  le 
flotte  combaltono.  Intanto  Atene  s'associa  anche  a  Me- 
gara,  e  vi  pone  presidio:  in  tal  guisa  si  controvalla  sul- 
ristmo:  i  Dorici  hanno  precluso  agli  Atlico*Jonii  con 
Corinto  il  varco  dalla  Grecia  nel  Peloponneso,  e  gli  Ate- 
niesi chiudono  con  Megara  ai  Dorici  il  varco  dal  Pelo- 
ponneso in  Grecia:  sperano  che  lutla  la  guerra  si  couibal- 
lerà  soltanto  sul  mare,  ov'essi  son  forti. 

Di  queste  alleanze  di  due  concorrenti  sul  mare  per 
dare  la  stretta  ad  un  terzo,  e  trarne  le  spoglie,  abbonda 
la  storia  di  tutte  le  età.  Ne  vide  nel  medio  evo  Tilalia  un 
esempio  impudente,  che  per  un  specolo  tinse  in  sanguigno 
le  acque  del  Levante  e  le  nostre.  Avevano  i  Veneti  cac- 
cialo con  armi  crociate  da  Costantinopoli  un  imperatore 
greco,  e  posto  in  trono  un  imperatore  latino:  da  questi, 
cui  donavano  Costantinopoli,  vollero  in  dono  una  metà 
dello  Stato,  e  l'ebbero.  Ingelosì  Genova:  operò  una  rivo- 
luzione seconda,  cacciò  col  favore  dei  Greci  l'imperatore 
Ialino,  intronizzò  un  imperatore  greco,  e  gli  dettò  i  patti. 
Genova,  già  forte  in  Ponente  per  acquisti  sui  Saraceni  e 
Pisani,  lo  divenne  anche  in  Levante;  allora  i  Veneti  si 
allearono  ai  Catalani:  costoro  cacceranno  Genova  dalle 
isole  e  dagli  scali  di  Ponente,  ed  i  Veneziani  li  cacceranno 
dalle  isole  e  dagli  scali  di  Levante.  Genova  era  allora  Co- 
rinto, i  Catalani  ^rano  i  Corciresi ,  ed  Ateniesi  erano  i 
Veneziani. 

La  commozione  si  difluse  in  tutte  le  popolazioni  do- 
riche, in  tutta  la  Grecia;  si  estese  perfino  alle  città  do- 
riche della  Sicilia:  si  grida  a  vendetta  ed  a  guerra,  e 
scoppia  appunto  la  terribile  guerra,  che  ventisette  anni 


74  PARTE  PRIMI 

durò,  e  ci  fu  narrata  da  due  dei  più  esperti  e  giudiziosi 
scrillori  di  ogni  tempo  e  paese,  cioè  da  Tucidide  e  da  Se- 
nofonte. I  popoli  del  Peloponneso  pei  primi  si  uniscono 
in  lega  :  abbondano  d'armi,  e  non  mancheranno  di  oro: 
Atene  impera  e  riscuote  :  se  dunque  si  ha  a  pagare  per 
subire  l'orgoglio  d'Atene,  meglio  sarà  pagare  per  umi- 
liarla e  vendicarsi  in  libertà.  E  se  non  basteranno  allo 
sforzo  le  sceme  casse  dei  Greci,  vi  sarà  Toro  di  Persia, 
che  Atene  ha  provocato  ed  offeso  in  Egitto  ed  altrove  (1). 
Da  molte  città  mandansi  infatti  dei  legati  a  chiedere 
al  re  di  Persia  dell'oro:  s'avviano  per  la  Tracia,  ma 
Atene  li  discopre  in  cammino,  ha  buoni  rapporti  con 
Sadoco  di  Tracia  fatto  cittadino  di  Atene,  ne  ottiene 
la  consegna,  ed  immantinente  li  uccide:  sono  indegni  di 
vita  :  vogliono  collegarsi  coi  Barbari  ! 

Aspettando  di  più ,  diventava  impossibile  il  rimedio. 
Sparla  forte  sulla  terra,  e  non  temente  sul  mare,  pro- 
clama altamente  che  si  leva  a  difesa  della  libertà  dei 
Greci  contro  di  Alene  minacciante  per  navi,  per  co- 
lonie, per  oro,  pel  genio  di  Pericle.  Ecco  la  guerra  del 
Peloponneso.  Atene  si  difende  con  ogni  sua  forza,  eccita 
a  sommosse  i  democratici  in  ogni  città  nemica,  ed  occu- 
pata risola  Sfacleria  sulle  coste  del  Peloponneso,  trova 
occasione  frequente  di  muovere  a  ribellione  gli  Iloti, 
schiavi  di  Sparla,  ma  gli  Spartani  frenano  sempre  gli 
Iloti  con  quelle  misure  spaventose,  dalle  quali  nessuna 
età  rifugge  nel  proprio  interesse  giammai,  se  anche  le 
nega  talvolta  per  erubescenza  del  fallo.  Vuol  precludere 
la  via  ai  soccorsi  che  dalle  potenti  colonie  doriche  di  Si- 

(1)  Scrive  Demostene  nella  Filippica  decima:  //  Ae  ài  Penta  è  ricchissimo 
di  tesori,  e  questi  hanno  tanta  influenza  nelle  cose  di  Grecia,  che  anche  per  lo 
passato,  nel  tempo  delle  nostre  guerre  coi  Lacedemoni,  il  partito  fiancheggialo 
daWopnlen%a  di  Persia  costantemente  prevalse; 


CAPITOLO  T.  75 

cilia,  da  Siracusa  in  ispecie,  già  gelosa  di  Atene,  ven- 
gono ai  confederali  del  Peloponneso,  e  prima  d'aver  vinto 
del  tutto,  le  plebi  d'Alene  stultizzano,  e  contro  il  parere 
dei  savii  mandano  in  Sicilia  un  esercito.  La  guerra  si  rende 
cosi  doppia,  ossia  siciliana  e  greca  ;  Atene  non  trova  in 
Sicilia  alleati  potenti,  e  come  trovarli?  I  soli  alleati  possi- . 
bili  in  questa  sconsigliata  intrapresa  sarebbero  stali  i 
Cartaginesi,  ma  Atene  doveva  evitare  perfino  l'apparenza 
di  accordi  con  essi,  giacché  avrebbero  avuto  agli  occhi 
di  tutti  i  Greci  di  Sicilia  sembianza  e  realtà  di  partizione 
e  servaggio.  Langue  l'esercito  :  non  può  allargarsi  per 
vivere  :  da  principio  non  aveva  che  trenta  cavalli 
(TcciD.,  VI,  43),  e  non  ne  ebbe  che  seicento  più  tardi  : 
i  Greci  d'Italia  gli  sono  ostili:  anche  nel  passaggio  l'ave- 
vano male  accolto,  e  da  più  porti  respinto.  Gli  arrivano 
da  Atene  i  rinforzi,  non  ad  fmpedire,  bensì  ad  accrescere 
il  danno,  e  la  stella  d'Atene  impallidita  in  Egitto,  tra- 
montava in  Sicilia,  ove  molto  e  generoso  sangue  perde- 
vasi.  Intanto  gli  Spartani  incalzano:  si  piantano  nel 
cuore  dell'Attica  fortificando  Decelia  :  devastano  tutto  il 
paese:  le  ricche  miniere  di  Laurio  pericolano:  venti 
mila  schiavi  disertano  (Tucid.,  VII,  27).  Diventano  più 
rari  i  difensori  d'Atene  nelle  battaglie  di  Grecia,  rari  per- 
fino quelli  sulle  slesse  sue  mura:  appare  al  fine  inevita- 
bile la  resa  della  superba  e  provocatrice  città  ;  deve  se- 
gnarsi, e  si  segna,  ma  ì  più  timorosi,  giunto  il  momento 
della  reddizione  ben  certa,  avranno  al  consueto  gridalo  che 
si  doveva  combattere  ancora  e  morire.  Del  resto  non  si 
parlò  di  portare  in  alcuna  delle  colonie  residue  il  nome 
e  la  vita  d'Atene,  perchè  tali  risoluzioni  possono  pren- 
dersi in  casi  estremi  da  sovrani  e  da  governi  patrizii,  non 
mai  da  governi  popolari  qual  era  quello  d'Atene.  D'altronde 
Rodi  si  era  già  sollevata  e  vendicata  in  libertà,  ed  ormai 


76  PARTE  rami 

priva  era  Atene  d*aUre  potenti  colonie  ove  rifugiarsi  sicura  : 
non  aveva  Candia ,  ove  i  Veneti  in  un  istante  di  quasi 
disperata  salvezza  proposero  di  trasferire  il  governo  ;  non 
aveva  Batavia,  ove  gli  Olandesi  furono  per  rizzar  la  ban- 
diera quando  Luigi  XIV  invase  tutto  il  paese;  non  aveva 
il  Messico,  ove  furono  per  andare  al  principio  del  secolo 
nostro  i  Reali  di  Spagna,  nò  il  Brasile,  ove  realmente  ri- 
covrossi  fuggendo  da  Lisbona  un  re. 

Da  ateniesi  esorbitanze  ì  Lacedemoni  erano  stati  po- 
sti nella  necessità  di  prendere  le  armi  a  sicurezza  e  di^ 
fesa  (TuciD.,  I,  23)  :  avevano  vinto  ;  beati  essi,  e  la  Creda, 
se  i  lunghi  patimenti  avessero  temperato  nella  fortuna, 
e  preparato  le  cose  future  con  la  visione  delle  andate! 
Noi  fanno:  entrano  in  Atene,  ne  abbattono  le  difese  con- 
giungenti in  un  solo  sistema  la  città  ed  i  porli,  incen-r 
diano  le  triremi,  discutono  ^perfino  se  tutti  gli  Ateniesi 
debbano  trattarsi  come  prigionieri  di  guerra  e  vendersi 
all'incanto.  Non  osano  farlo,  ma  fondano  nuovo  governo 
oligarchico,  e  lo  appoggiano  ponendo  presidio  nella 
rocca.  Di  là  gli  Spartani  prendono  a  dettare  ai  Greci 
quella  legge,  che  prima  dettavano  gli  Ateniesi.  Tutto  ò 
spavento  in  Atene,  ed  in  Grecia.  Dalle  conquistate  città 
gli  uomini  d'indole  più  arrisicata  e  manesca  erano  fug- 
gili; altri  rimanevano  tentatori  di  novità  perigliose:  ro- 
vinavano sé,  e  non  erano  agli  altri  principio  di  libertà, 
ma  le  città  vestivano  a  lutto  per  congiure  sempre  sco- 
perte da  jattanza,  tradimento  o  torture,  e  con  molto 
sangue  espiate. 

Gli  Spartani  opprimono  la  Grecia.  Tebe,  il  più  polente 
Sialo  dopo  Sparta,  proclama  la  libertà  dei  Greci  contro  di 
Sparta,  come  Sparla  l'aveva  proclamata  contro  Atene, 
ed  i  Greci  favoreggiano  Tebe,  come  avevano  favorito 
Sparta. 


GiPITOLO   V.  77 

La  lolla  di  Tebe  contro  Sparta  è  lunga  e  sanguinosa, 
ma  meno  lunga  e  meno  sanguinosa  che  non  quella  di 
Sparta  contro  di  Atene,  perchè  Sparta  fu  sempre  più  de- 
bole di  Atene,  ed  aveva  inoltre  perduto  di  sangue  nella 
guerra  precedente.  In  quella  gli  Spartani  avevano  invaso 
tutta  la  Grecia,  perchè  dovunque  giungevano,  il  paese  si 
univa  volonteroso  ad  essi  ;  in  questa  Epaminonda,  ap- 
pena dopo  Leuttra  il  potè,  entrò  nel  Peloponneso,  sol- 
levò a  ribellione  l'Arcadia ,  vertice  e  chiave  di  tutte  le 
valli  della  possente  penisola,  scorse  la  Messenia,  rico- 
strusse  la  loro  città  demolita  da  Sparta,  e  ristabilì  Tanta- 
gonismo  secolare  fra  Messenii  e  Laconii.  Dei  grandi  suc- 
cessi di  Tebe  ingelosisce  Atene,  già  calma  le  ire  contro  di 
Sparta,  vuol  essere  la  terza,  forse  ritornare  al  grado  di 
prima  città.  Muove  anche  le  armi  contio  Stati  minori,  e 
riacquista  qualche  fama  di  guerra  con  Ifìcrate  e  Gabria, 
ma  sono  scarse  prodezze  ed  incompleti  acquisti,  come  lo 
è  la  politica  tentennante,  ingloriosa.  Anche  Demostene 
nelParringa  per  le  cose  di  Megalopoli  consiglia  oscillando  : 
vuole  cioè  che  s'appoggino  gli  insorti  senza  rinunciare, 
alV amicizia  di  Sparta:  dice  e$$er  utile  che  i  Lacede- 
moni  siano  deboli,  e  che  né  i  Tetani,  né  essi  abbiano 
forze  bastanti  ad  umiliare  Atene;  parla  inoltre  del- 
V opportunità  di  frenare  Fingordigia  delle  rivali  città. 
Ma  non  si  segnano  accuratamente  i  confini,  né  si  dà  mi- 
sura precisa  al  genio,  e  genio  v'era  in  Epaminonda,  che 
d'un  terribile  colpo  prostra  in  Mantinea  la  potenza  spar- 
tana (1).  I  politici  in  pace  comandano  ai  generali  di 

(i)  Ecco  con  quale  facilità  di  argomeDti  spiega  Montesquieu  perchè  i  Tebani 
furono  vittoriosi  a  Leuttra  ed  a  Mantinea  :  egli  dice,  t  Tebani  erano  un  popolo 
cke  $i  esercitava  nella  lotta.  Sarebbe  però  a  chiedere  a  Montesquieu  :  perchè 
i  Tebani  vinsero  queste  battaglie  contro  i  Lacedemoni  che  da  centinaja  d'anni 
si  esercitavano  nella  ginnastica  ? 

Gli  scrittori  militari,  p.  e.  Jomini,  fanno  invece  osservare  che  nelle  giornale 


78  PARTE  PBIHA 

truppe,  ma  i  generali  in  guerra  comandano  sovente  ai 
politici,  e  li  traggono  di  forza  con  loro. 

Lisandro  lacedemone  però  era  sopravvissuto  alla  vit- 
toria, colla  quale  rovinò  Atene,  e  quindi  fu  subito  chia- 
mato tiranno  :  Epaminonda  più  non  stringeva  la  folgore, 
perchè  in  M antinea  perì  :  egli  pertanto  ebbe  la  fama  di 
guerriero  liberatore  di  Grecia.  Fors'anche  della  vittoria 
non  avrebbe  fatto  abuso  egli  stesso,  che  sempre  fu  po- 
vero, sdegnoso  delVoro,  né  avido  di  primeggiar  in  co- 
mando ;  anzi  colla  fronte  già  cinta  del  lauro  di  Leuttra 
aveva  servita  in  una  campagna  da  semplice  soldato  senza 
farne  lagnanza.  Ma  avrebbe  sempre  dominato  se  stesso? 
avrebbe  dominato  e  contenuto  i  suoi,  sui  quali  cadde 
appunto  la  taccia  d'oppressori  di  Grecia  dopo  il  gran 
fatto  di  M antinea?  (4) 

Così  i  Greci  si  erano  lungamente  combattuti  in  lotta 
fratricida,  ma  delle  loro  dissensioni  veniva  adesso  a  farne 
suo  prò  un  popolo  conquistatore  dall'estero.  Erano  i  Ma- 
cedoni, guidati  da  un  grande  sovrano,  Filippo.  Il  primo 

di  Leuttra  e  di  Mantinea,  Epaminonda  diede  prove  di  somma  perizia  tattica; 
egli  sì  battè  disponendo  le  sue  forze  in  queìVordine  obliquo,  che  imitato  da 
Federico  il  Grande  a  Leuthen,  procurò  anche  al  medesimo  un  completo  trionfo. 
Epaminonda  ha  cioè  portato  il  grosso  delle  sue  forze  sopra  un  sol  punto  della 
lìnea  nemica:  contenne  Tala  indebolita  proteggendola  di  qualche  vantaggio  di 
terreno:  con  essa  sorvegliò  la  parte  di  linea  che  non  voleva  attaccare,  e  non- 
dimeno poteva  al  bisogno  valersi  di  questa  sua  ala  corno  di  riserva  per  Tala 
assalitrice. 

(\)  Come  Epaminonda  periva  di  freccia  in  Mantinea,  Gustavo  Adolfo  cadeva 
di  moschetto  in  Lutzen,  e  Schiller  onorava  la  memoria  del  re  liberatore  con 
nobilissima  epopea,  chò  tale  rassembra  quella  sua  brillante  istoria  della  Guerra 
dei  Trentanni.  Noi  però  pensando  alle  umane  vicende,  agli  esempii  antichi, 
alla  stessa  fama  illibata  del  re  fìno  alla  vittoria  di  Lipsia,  ed  alla  fama  alquanto 
controversa  dipoi,  ci  siamo  fatti  più  volte  il  quesito:  se  Gustavo  Adolfo  uscendo 
vivo  dalla  mìschia  dì  Lulzen  correva  la  Germania  trionfando  d'irresistibile  spada, 
avrebbe  egli  avuto  le  stesse  lodi  da  Schiller?  Certamente  che  Gustavo  ha  dato 
minori  prove  di  moderazione  che  non  ne  abbia  dato  Epaminonda,  ed  egli  aveva, 
almeno  sugli  Svedesi,  autorità  ben  altrimenti  sicura  ed  intensa  che  Epaminonda 
non  l'avesse  sui  Tebani. 


CiPlTOLO  ▼.  79 

contatto,  il  primo  urto  dei  Macedoni  coi  Greci  sorgeva 
da  cause  che  vogliamo  spiegare,  perchè  il  bene  compren- 
derle giova  a  chiarezza  d'idee  non  solo  in  questa  storia, 
ma  in  molle  successive  del  medio  evo  e  dell'era  moderna, 
e  porta  luce  sui  tanti  effetti  vantaggiosi  o  tristi  delle  co- 
lonie fondate,  sui  modi  d'espansione  della  civiltà,  sugli 
attriti,  sui  contrasti  e  sulla  serie  di  guerre  secolari  e 
feroci  sorte  da  appena  percettibili  origini  fra  popoli  di 
diversa  schiatta,  e  lingua  e  coltura. 

I  Greci  avevano  fondato  piccole  colonie  in  tutti  i  punti 
più  importanti  delle  spiagge  marittime  fra  la  Tessaglia  e 
l'Ellesponto,  sui  quattro  golfi  di  Macedonia  cioè,  e  lungo 
lo  sinuose  costiere  di  Tracia,  e  specialmente  quelle  della 
Calcìde  e  dell'Ellesponto  divennero  fiorenti  pei  commerci 
colle  popolazioni  tuttora  barbare  o  semi-barbare  dell'in- 
terno  fino  a  distanze  dal  mare  che  ci  sono  ignote.  Ave- 
vano del  pari  fondato  colonie  nell'IUiria  sui  bordi  del  Io- 
nio e  dell'Adriatico,  eia  parte  meridionale deirilliria,  ove 
più  abbondavano,  giàdenominavasi  da  esse  Illiria  greca. 
Non  era  una  sola  la  madre-patria  delle  colonie,  ma  tutle 
le  principali  città  di  Grecia  ne  avevano  fondato:  frequenti 
erano  dunque  per  avidità  d'esclusive  influenze  e  commerci 
le  lotte  fra  le  colonie  :  frequente  il  propagarsi  di  queste 
lotte  alle  loro  metropoli  :  frequente  del  pari  il  mescersi 
dei  regoli  e  delle  tribù  dell'interno  alle  sanguinose  discor- 
die; ma  l'intiero  sistema  coloniale  giovava  ai  traffichi 
greci,  alla  civiltà  propagata  lentamente  nell'interno,  all'al- 
leggerire di  plebaglia  le  greche  città,  al  dare  a  turbolenti 
persone  governi  secondarli  e  lontani  a  coperta  d'esilio,  ad 
arricchire  avari,  a  spegnere  in  campo  inglorioso  la  sfre- 
nata concitazione  di  molti,  al  trarre  di  schiavi  e  di  vigo- 
rosi soldati.  Cosi  fu  più  tardi  delle  colonizzazioni  geno- 
vesi e  veneziane  in  Levante  e  nel  mar  Nero,  delle  ansea- 


so  PARTE  PRIMA 

tìche  sul  mar  di  Germania  e  sul  Baltico,  delle  portoghesi 
neirAfrica,  delle  spagnuole  in  America,  ecc.  Tutte  furono 
scale  di  commercio  aperte,  tulle  furono  fari  di  civiltà  ir- 
radiala fra  i  Barbari.  Quando  però  Vinterno  si  ordinò  a 
forma  di  Stato,  quando  la  civiltà  germinando  dalle  colo- 
nie nelle  schiatte  indigene  le  raccolse  a  governo  prima 
che  in  esse  penetrasse  e  si  radicasse  Timpero  delle  genti 
straniere,  quelle  colonie  parvero  ai  nuovi  Stati  blocco  e 
serrame,  e  lo  erano.  Incominciò  lo  sforzo  degli  indigeni 
per  riacquistare  il  mare,  per  la  loro  libertà  commerciale, 
per  rindipendenza  daziaria  delle  loro  finanze,  per  aver 
completa  la  patria.  Da  ciò  proruppero  battaglie  e  guerre, 
essendovi  da  un  lato  la  massa,  dall'altro  la  civiltà  preva- 
lente ancora,  e  di  più  il  soccorso,  della  madre-patria  in- 
teressata a  sostegno  della  colonia,  da  cui  aveva  e  tributi 
e  forza,  e  dove  aveva  investito  i  suoi  proprii  capitali.  La 
storia,  quella  in  ispecie  del  medio  evo,  ne  offre  a  cenli- 
naja  gli  esempii,  più  facili  a  conoscersi  nei  loro  dettagli 
che  non  gli  esempii  antichi,  che  chiari  però  sono  pur  essi 
per  l'assoluta  identità  delle  condizioni  geografiche  e  delle 
politiche  degli  antichi  e  dei  moderni  sistemi  coloniali. 

Or  bene,  in  Macedonia  si  era  appunto  costituito  uno 
Stato  :  le  greche  sementi  vi  ebbero  creato  un  governo, 
ed  il  caso,  che  ha  pur  tanto  di  parte  nelle  politiche  cose, 
vi  pose  al  trono  un  sovrano  profondo  conoscitore  di  Slato, 
abile  ad  eccitare,  a  sgominare,  a  dividere  o  riunirei  par- 
liti, a  dissimulare  e  mentire,  perspicace  a  scoprire  il 
punto  vitale,  indifeso,  ove  sicuramente  colpire,  temibile 
cosi  nel  segreto  della  reggia,  come  alla  testa  degli  eser- 
citi, inventore  d'ordini  militari  in  cui  appena  si  discerne 
il  temente  dal  prode,  ma  tutti  sono  forti  :  immaginava  le 
cose  più  grandi,  e  senza  ritegno,  né  fede,  per  forza  od 
insidia  sapeva  eseguirle  :  nulla  apud  eum  erat  turpn 


CAPITOLO  T.  81 

ratio  vincendi,  fallere  hostem,  aut  vi  mperare  wque 
gloriosum  (Giustino).  Egli  era  stato  per  lunghi  anni  ostag- 
gio in  Grecia  :  aveva  conosciuto  uomini  e  cose:  aveva  ve* 
duto  da  vicino  come  si  adoperasse  efficacia  di  prezzo, 
dov*era  mercato  e  tutti  vendessero  :  si  era  fatto  un  carat- 
tere conveniente  allo  scopo  :  sapeva  che  tocche  dalVoro 
meglio  le  porte  s'aprivano  delle  greche  città.  I  Barbari 
schìeraronsi  sotto  di  lui  in  esercito  regolare,  ed  egli  ebbe 
per  ogni  arte  militare  o  civile  quei  Greci  a  servizio,  che 
anche  il  re  di  Persia  aveva  per  oro  :  cercò  i  confini  del 
regno  nella  vasta  catena  dei  monti  e  del  mare:  domò  i 
Barbari  ed  ebbe  i  monti,  ingrossò  Tesercito,  cercò  il  mare, 
s'abbattè  nelle  greche  colonie,  le  strinse,  le  forzò  :  ad  una 
ad  una  furono  sue  dalla  Tessaglia  all'Ellesponto.  Poteva 
posare  ?  altamente  noi  volle  :  ambi  le  sponde  del  Jonio 
ed  Adriatico,  penetrò  in  quel  serraglio  forte  e  difficile  di 
m^nti  e  dì  valli,  che  noi  conosciamo  adesso  col  nome 
d'Albania ,  di  Montenegro ,  d'Erzegovina  e  Bosnia  :  ogni 
cupo  recesso  fu  coll'arte  e  la  forza  invaso  da  lui,  che 
pose  allo  stesso  servaggio  le  signorie  selvatiche  e  le  colo- 
nie dei  Greci. 

Tutte  le  città  greche  commovevansi  ad  una  tanta  rovina, 
tutte  imprecavano,  tutte  gridavano  contro  l'invasore,  ma 
tutte  battagliavano  fra  loro  come  sopra  fu  detto,  e  quindi 
tremavano  d'avere  Filippo  a  nemico.  Quelle  il  volevano 
staccare  da  Atene,  da  Sparta,  da  Tebe,  da  Corinto  ;  queste 
il  volevano  con  Alene,  con  Sparta,  con  Tebe  e  Corinto. 
I  Greci  avevano  per  lungo  tempo  conculcato,  espilato 
questa  Macedonia,  questa  Tracia  ed  Illiria:  avevano  ar- 
mato gli  uni  contro  gli  altri  e  Macedoni  e  Traci  ed  lllirii: 
avevano  goduto  dì  quelle  mischie,  di  cui  parla  confusa- 
mente la  storia,  nelle  quali  le  larghe  ferite  dei  Barbari 

davano  ai  soli  Greci  vittoria;  ma  ora  era  sorto  Tarchi- 

6 


82  PARTE  PBIHA 

tetto  del  grande  edificio,  e  l'aveva  costrutto:  tutti  i  Bar- 
bari marciavano  ad  una  sola  bandiera,  a  quella  del  re. 
L'amore  del  dominare  spinge  più  d'ogni  affetto  ;  è  poi  più 
intenso  nelle  menti  quanto  meno  volgari,  e  quella  di  Fi- 
lippo era  vasta.  Per  lui  la  verità  non  era  di  sua  natura 
migliore  della  menzogna,  ma  il  pregio  dell'una  e  dell'al- 
tra determinavasi  dal  vantaggio  che  si  trae  da  esse  :  usava 
il  mendacio,  usava  la  corruzione,  adulava,  falsava,  sa- 
peva esser  rapido ,  ma  anche  aspettare ,  preparava  in 
silenzio ,  poi  immantinente  ghermiva  :  non  voleva  esser 
lodato,  ma  esser  grande,  e  lo  fu. 

Già  signore  di  vasto  regno,  a  più  largo  volo  tendeva 
Filippo.  Egli  ridonerà  ai  coloni  greci  la  madre-patria  : 
onora  la  Grecia;  è  la  patria  d'Aristotele  sì  caro  a  lui^ 
maestro  di  suo  figlio  Alessandro,  che  scrive  V  opera  di  tutte 
le  costituzioni  delle  città  greche,  e  probabilmente  Filippo 
vedeva  per  rilevarne  la  debolezza,  e  non  la  sodezza.  Già 
medita  il  conquisto  della  Grecia  armigera  ed  opulenta  : 
ma  come  conquistare  la  Grecia,  che  è  più  forte  della  Ma- 
cedonia ?  L'entrarvi  a  modo  dei  Persiani,  e  con  forze  mi- 
nori delle  persiane,  è  un  voler  distruggersi  da  se  mede- 
simo. Si  dichiara  difensore  della  libertà  dei  Greci  contro 
i  Tebani,  e  contro  gli  Ateniesi  partecipi  della  potenza 
tebana,  non  altrimenti  che  i  Tebani  si  erano  dichiarati 
liberatori  di  Grecia  contro  di  Sparta,  e  gli  Spartani  libe- 
ratori di  Grecia  contro  di  Atene. 

Appena  Filippo  si  professa  liberatore  di  Grecia,  la  Pizia 
filippizza.  Non  solo  la  maggioranza  del  Consiglio  amfi- 
zionico  era  negli  interessi  di  lui,  ma  aveva  ottenuto  di 
partecipare  al  Consiglio  egli  stesso  (1).  Invano  si  leva  contro 

(1)  Di  questa  strana  partecipazione  d'un  estero  a  società  d'altrui  interesse,  a 
questo  legale  disordine  di  voto  conseguito  da  chi  ha  scopo  ed  utilità  nelPabuso 
e  nel  rivolgere  al  peggio  le  deliberazioni  sociali,  offre  multi  esempii  la  storia 


CAPITOLO  ▼.  8 

Filippo  la  voce  di  sommo  oratore,  Demostene;  invano 
egli  lo  assale  con  oltrepotente  facondia  ;  invano  espone 
(p.  e.  nella  filippica  quarta)  con  istupenda  chiarezza  tutte 
le  doppiezze,  artificii  e  simulazioni  del  re,  e  rimprovera 
con  mirabile  coraggio  agli  Ateniesi  le  loro  sale  deserte 
dai  legali  delle  greche  repubbliche,  l'isolamento  in  cui 
sono,  la  ricchezza  volta  in  indigenza,  e  la  gloria  in  ob- 
brobrio. Egli  li  scongiura  a  prendere  una  risoluzione  ar- 
dita, a  comporre  l'esercito,  ad  allestire  la  flotta,  e  fa  loro 
sperare  d'aver  soccorsi  d'argento  anche  dalla  Persia,  per- 
chè Filippo  colle  conquiste  di  Tracia  si  è  fatto  vicino  ai 
possessi  persiani,  e  la  Persia  è  gelosa  ed  offesa  dalla  sua 
crescente  grandezza.  Scopriva  Demostene  anche  le  occulte 
conquiste  che  Filippo  faceva  negli  oratori  coU'oro,  e  que- 
sti sentendosi  da  colpo  crudele  feriti,  ritorcevano  contro 
Demostene  l'accusa ,  dicendolo  condotto  agli  sti pendii  di 
Persia.  Infatti  nel  libro  17**  di  Diodoro  Siculo  è  riferito 
un  passo  di  Eschine,  competitore  di  Demostene,  che  con- 
tiene appunto  quest'incolpazione  contro  di  lui.  Ma  nella 
filippica  decima  così  si  era  espresso  Demostene  :  //  re  di 
Macedonia  ha  sempre  al  suo  soldo  uno  stuolo  di  soldati 
mercenarii,  e,  quel  che  è  piii^  fra  i  suoi  mer cenar ii  ha 
sempre  alcuni  dei  nostri  oratori,  che  ricevono  i  suoi 
doni,  e  vivono  per  luiy  e  per  guadagno  vendono  la  patria 
e  se  stessi. 
Tale  era  Demostene  (1),  e  tale  la  trepidazione  in  Atene, 

delibera  feudale.  RileTiamo  poi  dai  dispacci  di  Paruta  ambasciatore  di  Venezia 
al  Pontefice,  che  anche  Filippo  H  di  Spagna  tentò  di  raccogliere  in  una  lega 
ritalia,  ove  pei  vasti  suoi  possessi  italiani  avrebbe  avuto  voce  preponderante 
egli  stesso,  ma  per  la  sagace  e  ferma  opposizione  di  Venezia  non  riusci  nel 
progetto.  Né  ai  nostri  giorni  mancò  chi  consigliasse  il  formarsi  di  una  strana 
Confederazione  italiana  in  cui  FAustria  fosse  accolta  per  la  Venezia,  il  che  ò 
quanto  dire  che  volevasi  anche  nella  lega  italiana  introdurre  im  Filippo  di  Mace- 
donia, che  già  una  parte  possedeva,  ed  ambiva  alfacquisto  del  resto. 
(1)  Volentieri  aggiungiamo  qualche  altro  riflesso  su  uomo  si  grande.  Quale 


84  PAITB  PUMA 

in  Grecia,  in  Persia  ;  ma  i  Persiani  travagliati  pur  essi  da 
intestine  discordie,  godenti  dell'umiliazione  di  Grecia,  so- 
spettosi bensì,  ma  non  ancora  tementi  dei  Macedoni, 
esitano  a  gittarsi  in  quel  pericoloso  e  confuso  viluppo 
macedonico-greco  ;  gli  Spartani  poi  non  si  vedono  pros- 
simi ai  colpi,  e  scorgono  volontieri  minacciali  e  depressi 
Ateniesi  e  Tebani.  Perfino  tra  questi  vi  è  poca  concor- 
dia, perchè  i  Tebani  vorrebbero  del  tutto  rovinati  gli  Ate- 
niesi, ai  quali  hanno  dovuto  qualche  cosa  concedere,  e 
gli  Ateniesi  vedrebbero  volontieri  rovinata  Tebe  succe- 


8i  era  il  vero  carattere  della  sua  facondia;  quale  differenza  yì  è  nelle  arringhe 
politiche  dei  due  sommi  maestri  deiParte  oratoria  greca  e  romana?  Demostene 
in  tutte  le  sue  concioni  ha  stretto  parlare  e  raccolto,  che  subito  viene  a  mezza 
spada  e  conchiude  :  Cicerone  nelle  sue  (eccettuando  le  sole  antoniane)  volteggia, 
schermisce,  s*introduce  furtivo.  L'eloquenza  di  Demostene  non  è  bagliore  d'e- 
loquio, ma  è  nutrita  dalla  materia  come  la  fiamma,  levasi  per  agitare  e  cliia- 
rìsce  per  ardere;  sa  muovere  a  qualunque  affetto,  ma  sempre  conciso  e  vee- 
mente; egli  mira  per  cosi  dire  alla  clessidra  che  misurava  nell'assemblea  di  Atene 
il  tempo  concesso  ai  discorsi,  come  nel  Congresso  americano  dopo  una  sola 
mezz'ora  misura  ed  arresta  la  eloquenza  sovrabbondante  in  tribuna;  ed  oh  !  per- 
chè la  pietosa  clessidra  non  si  pone  nel  Parlamento  italiano,  ove  la  parola  per 
ore  e  per  giorni  abusata  suona  indefessa  come  gualchiera 

Mossa  dall'acqua  che  per  doccia  corre? 
(Gozzi). 

Cicerone  invece  è  magniloquente,  veste  e  riveste  sovente  lo  stesso  concetto  : 
talora  è  verboso  di  troppo.  Demostene  nelle  filippiche  è  concitato,  fiero,  ve- 
lenoso, ma  senza  le  invettive  ed  ingiurie  frequenti  nelle  antoniane.  Scrisse  nei 
Trianfi  il  Petrarca  che  Demostene  è  fuori  di  ìperama  dei  primi  onori,  ma  non 
tutti  consentiranno  in  si  recisa  sentenza  :  noi  lo  vorremmo  piuttosto  considerare 
sdegnoso  del  luogo  secondo  (Tasso)  :  entrambi  furono  grandi,  e  vorremmo  ad 
entrambi  applicare  l'adagio  che  non  ha  torti  la  gloria  !  A  Demostene  però  poteva 
ribellarsi  l'orgogliosa  assemblea  per  non  sembrar  di  cedere  a  violenza  e  pres- 
sione, né  avere  apparenza  di  confessare  le  colpe;  poteva  talvolta  a  Cicerone 
sfuggire  per  non  mostrarsi  ingannata  e  delusa,  o  per  tedio  e  disgusto  di  vederlo 
su  tutti  gli  uomini  di  vana  alterezza. 

Demostene  non  solo  rispetta,  ma  sembra  amare  le  istituzioni  affatto  popolari; 
Cicerone  è  sempre  proclive  per  le  patrizie,  e  lo  palesa  con  velame  e  senza  ogni 
volta  che  può  :  ambedue  sperimentarono  che  gli  amori  delle  assemblee  sono 
malaurosi  ed  incerti  :  ambedue  nati  in  patria  libera,  la  videro  serva,  andarono 
in  esilio  e  tornarono  :  chiusero  ambedue  di  morte  violenta  la  loro  vita  :  i  loro 
posteri  da  venti  secoli  ne  sodo  i  discepoli. 


CAPITOLO  T.  85 

duta  al  luogo  di  Sparta.  Filippo  promette  a  Tebe,  pro- 
mette ad  Atene,  promette  a  Sparta  :  intanto  occupa  le 
Termopili,  inyadela  Focide,  presiede  agli  Amfìzioni,  pone 
guarnigioni  nelle  città  di  Tessaglia,  si  estende  nella  Lo- 
crìde,  s'allarga  in  Eubea,  ma  più  s'avanza  e  più  finge,  pro- 
fonde l'oro  a  piene  mani,  oppone  l'interesse  privato  e  di- 
retto all'interesse  comune  ed  indiretto.  Tardi,  troppo  tardi 
Atene  e  Tebe  per  le  cose  fatte  e  patite  orgogliose  e  fre- 
menti, danno  di  piglio  alle  armi,  ma  né  Atene  ha  un 
Temistocle,  né  Tebe  un  Epaminonda  :  scontransi  a  Chero- 
neale  milizie  cittadine  generose,  loquaci,  per  ordini  e  scopi 
diverse  d'Atene  e  di  Tebe  coi  sodi  soldati  del  re  ridotti  a 
mero  flagello  di  tormento  e  sconfitta,  non  chiedenti  il 
diritto  di  chi  comandava  il  percuotere,  né  le  ragioni  po- 
litiche di  chi  veniva  percosso  :  incomincia  in  breve  ora 
la  turpe,  poi  la  necessaria  fuga  degli  alleati  :  perseguita 
danneggiando  Filippo,  ed  é  si^ore  di  Grecia. 


CAPITOLO  VI. 

Alessandro  il  Grande:  sae  conquiste:  saa  morte: 
nooYÌ  Stati  greeo-macedonici. 

Quando  gli  Spartani  soggiogarono  gli  Ateniesi,  ed  i 
Tebani  batterono  i  Lacedemoni,  più  oltre  non  videro, 
parvero  smarriti  di  scopo  maggiore,  onon  ebbero  corag- 
giosa virtù  di  raggiungerlo  :  sciolsero  il  freno  alle  pas- 
sioni volgari  perchè  circoscritte  e  sicure  :  incominciarono 
a  dispotizzare,  e  furono  subito  gridati  tiranni  di  Grecia. 

Ma  Filippo  aveva  smisurata  la  cupidigia  e  smisurata 
del  pari  la  scaltrezza  politica,  l'ambizione  e  l'ingegno  : 
vedeva  una  gran  preda  lontana,  era  potente  per  armi  e 
consiglio,  e  volle  ghermirla.  Nobilissime  città  greche, 
egli  dice,  sono  ancora  dolenti  del  giogo  persiano:  saranno 
i  Greci  spettatori  tranquilli  dell'indegno  martirio  d'altri 
popoli  greci?  Spezziamo  le  loro  catene,  facciamo  le  loro 
e  le  nostre  vendette  :  allontaniamo  per  sempre  anche  da 
quelle  sedi  fraterne  di  Greci  la  persiana  barbarie  alle  di- 
vine ed  alle  umane  leggi  nemica  :  sia  questa  la  guerra 
redentrice  di  tutte  le  famiglie  dei  Greci:  ciascuna  città  ha 
avuto  finora  la  sua  storia,  le  sue  prodezze,  ma  di  lotte 
intestine  e  contrasti  :  le  sole  glorie  comuni  furono  l'as- 
sedio di  Troja  e  le  guerre  persiane:  portiamo  adesso  sulle 
nostre  bandiere  la  vittoria  comune,  la  civiltà  generale:  gli 


CAPITOLO  yi«  87 

aflelti  patrii  sono  i  più  santi  :  diventi  universale  la  Grecia* 
Cosi  Filippo  esì'glia  tutte  le  trappe  greche  alla  conquista 
deirAsia  :  ivi  la  natura  deiresercilo  diventava  passiva  ;  nella 
Grecia  poteva  esser  tumulluaria  e  deliberativa  disordi- 
nando le  schiere  e  lo  Stato,  Le  truppe  greche  assai  peri- 
colose allo  stesso  imperante  se  abbandonate  in  paese  alle 
proprie  licenze  ed  agli  eventi  politici,  mutavansi  nelKAsia 
in  fulmine  nelle  mani  del  re.  Ora  tutta  Grecia  è  inerme, 
tutta  Grecia  è  occupata  da  guarnigioni  macedoniche. 

Un  colpo  di  pugnale  non  vibrato  da  fanatismo ,  ma 
da  vendetta  privata»  tolse  di  vita  Filippo.  Lasciò  ad 
Alessandro  copiosi  elementi  di  vittoria,  e  questi,  raccolta 
l'idea  potente  slanciata  dal  padre,  liberò,  come  c'insegna 
Curzio,  dai  tributi  tutta  la  Macedonia,  volendo  però  che 
ogni  Macedone  fosse  soldato.  Egli  doveva  presidiare  tutta 
la  Grecia,  e  doveva  inoltre  rinforzare  in  modo  la  sua  guar- 
dia reale,  o  falange  come  appellavasi,  da  esser  temuto  in 
mezzo  all'armata  greca  nell'Asia.  Né  importa  che  man- 
chino i  tributi  della  Macedonia  povera,  purché  non  man- 
chino quelli  della  Grecia  ricca  ;  né  questi  mancano,  finché 
le  greche  città  non  hanno  presidio  greco,  ma  hanno  pre- 
sidio macedonico.  Alla  reclutazione  poi  di  tali  presidii 
era  ampiamente  provveduto,  perchè  con  fortunate  fazioni 
di  guerra  Alessandro  aveva  posto  miglior  proporzione  di 
massa  di  popolo  fra  Macedoni  e  Greci.  Egli  infatti  aveva 
esleso  le  frontiere  del  regno  oltre  l'Emo,  né  s'era  arre- 
slato  che  al  Danubio  ed  alla  Sava  :  di  là  poteva  trarre 
gente  orrida  e  bellicosa  quanta  mai  volesse  alle  guarni- 
gioni di  Grecia,  a  reclutare  la  falange,  a  montare  cavalli: 
qualche  milizia  di  Greci  relegata  sull'Emo,  neirillirio, 
suU'Istro  vi  era  a  vicenda  frenatrice  dei  Barbari,  e  con- 
tenuta da  essi. 

Già  s'adunano ,  s'addensano ,  armeggiano  sotto  i  ri<» 


88  PAITE  PllMA 

nomati  condottieri  le  truppe  ansiose  del  re;  già  mar- 
ciano con  lui  per  la  Tracia  volendo  pel  varco  dell'Elle- 
sponlo  introdurre  la  guerra  neirAsia.  Ha  appena  Tebe  ha 
veduto  diradarsi  nelle  sue  mura  i  Macedoni,  insorge  a 
tergo  dell'esercito  che  marcia,  chiama  a  rivolta  tutte  le 
città  che  vogliono  cooperare  a  far  liberi  i  Greci,  e  co- 
strìnge il  presidio  macedonico  a  serrarsi  a  rifugio  nella 
rocca  cadmea.  Il  fatto  è  grave:  tentennare  fra  i  Greci  in- 
quieti ed  i  Persiani  oflfesi,  esitare  con  un  esercito  non 
ancora  assimilato  dalle  vittorie  e  dal  tempo,  perdere  le 
comunicazioni,  veder  chiudere  le  Termopili  dietro  di  so, 
e  gli  assediati  presidii  calare  la  bandiera  del  re,  sarebbe 
lutto  e  rovina.  Ben  prende  Alessandro  subitaneo  partito  : 
retrocede  con  Macedoni  e  Traci,  e  si  getta  come  un  leone 
su  Tebe  male  apprestata  alla  guerra.  Ha  fiera  vendetta 
a  fare  del  grande  disegno  rotto  o  sospeso ,  e  deve  dare 
un  terribile  esempio  perchè  nessuno  più  strepiti  iu 
Grecia,  ed  egli  possa  allontanarsi  ed  internarsi  nelFÀsia. 
Cada  dunque  la  pena  sui  veri  ribelli ,  e  cada  altresì 
sugli  inerti  che  furono  strascinati  dall'impeto  altrui. 
In  ogni  città  dell'antico  come  del  mondo  moderno  i 
veri  agitatori  non  sono  mai  molti ,  ma  nel  loro  vor- 
tice aggirano  i  mille  passivi,  s'ingrossano  poi  di  inquieti, 
di  facinorosi  e  di  tristi  :  apprenda  dunque  la  maggio- 
ranza a  resistere ,  sapendo  che  dovunque  si  insorga, 
tutti  avranno  d'egual  rovina  a  soffrire,  ed  abbiano  le 
truppe  esasperate  un'arra  del  bottino  che  faranno  nel- 
l'Asia :  il  sacco  di  Tebe  è  per  esse.  L'infelice  città  è  for- 
zata: sei  mila  Tebani  sono  uccisi,  e  trenta  mila  al 
mercato. 

Ma  anche  trucidando  Alessandro  meditava,  accoppiava 
ai  rigori  qualche  mansuetudine;  perfino  adulava  la  civiltà 
della  Grecia.  Si  rispettavano  i  sacerdoti  degli  Dei,  e  non 


CAPITOLO  VI.  89 

si  violava  la  casa  di  Pindaro  :  volevasi  avere  chi  consa- 
crasse il  massacro,  e  chi  lo  cantasse,  ed  avuti  si  avranno, 
perchè  non  mancano  mai  se  facilmente  s'accettano,  o  per 
poco  si  cercano.  Lodavansi  gli  aderenti  dei  Macedoni  sia 
che  vi  fossero,  o  perchè  si  credesse  che  vi  erano,  si  spar- 
gessero nelle  masse  le  diffidenze  e  gli  odii,  e  venisse  tolta 
Tunità  ai  contrarii.  Le  terre  dei  Tebani  uccisi  o  proscritti 
si  davano  in  dono  a  Platea,  a  Tespia,  ad  Orcomeno,  che 
rientravano  cosi  nelle  proprietà  da  cui  Tebe  le  aveva  con 
precedente  conGsca  cacciate,  ed  aggiungevano  all'antico 
possesso  dei  brani  sanguinosi  di  preda  tebana.  Alcuni 
godevano,  tutti  temevano  :  correvano  dunque  da  più  lati 
di  Grecia  gli  ambasciatori  a  congratularsi  col  Macedone 
dell'orribile  fatto,  e  più  correvano  quelli  d'Atene,  che  più 
degli  altri  tremavano.  Intanto  spargevasi  che  i  Tebani 
s'erano  alleati  col  ré  di  Persia  per  tradire  la  Grecia  ;  avere 
meritato  la  proscrizione  ;  doversi  estendere  ad  ogni  pro- 
fugo ;  le  ombre  degli  eroi  di  Maratona  e  di  Salamina 
perseguitare  i  Tebani  ;  il  cielo  avere  mostrato  con  spa- 
ventosi prodigii,  durante  l'assedio  di  Tebe,  la  sua  ira  con- 
tro la  città  abbominevole  ;  continuare  i  prodigii  in  ogni 
terra,  ove  i  profughi  si  volgevano  (Diod.  Sic,  17).  Le 
scimitarre  macedoniche  vegliavano  alle  porte  dei  delubri  ; 
dai  delubri  adunque  narravansi  i  prodigii  e  tuonavano 
gli  anatemi.  Alessandro  visita  Delfo,  e  la  Pizia  gli  ri- 
sponde :  Tu  sei  invincibile. 

Era  ormai  tempo  di  muovere,  ma  dopo  il  gran  fatto 
della  resistenza  di  Tebe,  vuole  Alessandro  imporre  alla 
pubblica  opinione  con  un  altro  gran  fatto  di  servitù  ge- 
nerale, con  un  nuovo  plebiscito  che  gli  cresca  autorità. 
Raccoglie  nell'istmo  (Corinto)  le  deputazioni  di  Grecia,  le 
seduce,  le  invade  della  propria  grandezza  :  le  tiene  in  ogni 
caso  nella  sua  mano  potente  :  è  acclamalo  di  nuovo  a 


90  PIRTB  PRIVA 

guidare  la  guerra  persiana  :  Timpero  sulle  truppe  delle 
greche  repubbliche  è  suo  di  fatto,  ed  anche  legale. 

Si  riprende  la  marcia:  oro  per  le  necessità  dei  suoi 
aveva  raccolto  Alessandro,  come  accennano  i  classici, 
fin  oltre  l'Ellesponto  :  poi  si  confidava  nell'Asia.  Ivi  è 
aperta  per  tutti  i  Greci  una  via  di  gloria  innocente,  ed 
anzi  vantaggiosa  pei  Macedoni.  Vi  è  un  libero  deflusso  per 
ogni  umore,  che  lungamente  conservato  potrebbe  pro- 
durre rivolta.  Vi  è  guerra,  vi  è  rapina,  vi  è  alimento 
d'idea  entusiastica  ;  vi  sono  onori  e  gradi  ;  vi  sono  nemici, 
ma  non  sicarii  ;  non  v'hanno  patiboli,  nò  veleni.  Chi  vuol 
liberare  i  Greci,  può  liberarli  ;  non  già  togliere  i  Greci  di 
Europa  alla  sudditanza  dei  Macedoni,  ma  i  Greci  d'Asia 
alla  sudditanza  dei  Persiani,  per  renderli  soggetti  ai 
Macedoni. 

Così  la  Grecia,  inondata  da  truppe  macedoniche,  non 
aveva  forza;  l'armata  greca  aveva  forze,  ma  si  trovava 
ricca  e  gloriosa  nell'Asia.  Siccome  però  l'armata  greca 
aveva  fòrza,  e  questa  era  sempre  pericolosa,  il  re  mace- 
done, in  mezzo  ad  una  falange  macedonica  temutissima, 
tenne  il  comando  diretto  dell'armata.  Quivi  era  il  peri- 
colo, quivi  doveva  trovarsi  il  re.  Ad  una  massa  sì  ete- 
rogenea di  truppe  assai  bisognava  dare  unità,  e  la  sola 
unità  possibile,  la  sola  desiderabile  era  quella  dello  spi- 
rito, dell'ardore,  dell'emulazione  militare,  e  questa  facil- 
mente la  dà  non  spettatore,  ma  combattente  sovrano  qual 
era  Alessandro.  Davanti  al  nemico  è  vergogna  ad  un  prin- 
cipe l'esser  vinto  di  virtù,  ed  agli  altri  il  non  pareggiarlo  : 
nessuno  vinceva  Alessandro  in  virtù,  e  tutti  erano  trion- 
fanti d'essere  capitanati  da. lui.  In  tante  guerre  si  erano 
formati  i  soldati,  e  la  buona  scelta  dei  capi  non  è  solo 
sicura,  ma  agevole  a  chi  per  qualità  militari  a  tutti  so- 
vrasta, ed  ha  impero  di  libera  scelta  fra  tutti,  e  ciascuno 


GAmOIO  TI.  91 

ha  Teduto  in  consiglio  ed  azione.  Non  è  merayiglia  adun- 
que se  Alessandro,  Cesare  e  Napoleone  ebbero  grandi 
generali  :  merayiglia  sarebbe  se  non  li  avessero  avuti 
valenti,  o  piuttosto  siali  non  sarebbero  Cesare,  Alessan- 
dro e  Napoleone. 

Nella  Grecia  eravi  sicurezza  maggiore  ;  ivi  poteva  re- 
gnare Antipatro  ministro.  Se  i  Persiani,  invece  di  limi- 
tarsi a  dare  ai  Tebani  qualche  soccorso  di  denaro  (Diod. 
Sic,  c.  17),  e  di  spingerli  cosi  all'estrema  rovina,  si  fos- 
sero mossi  prima  dei  Macedoni,  il  che  forse  durante  la 
guerra  tebana  avrebbero  potuto  fare,  ed  avessero  tradotto 
nella  Grecia ,  siccome  lo  consigliavano  Memnone  rodio 
e  Caridemo  ateniese,  un  forte  corpo  di  truppe  contro  i 
Macedoni  oppressori,  avrebbero  per  lo  meno  salvato  se 
medesimi.  E  meglio  che  operare  nella  Grecia  con  truppe 
persiane,  il  che  dava  il  carattere  di  assalto,  dovevano  i 
Persiani  operare  con  un  esercito  di  Greci  ausiliarii,  ed  il 
re  di  Persia  già  ne  contava  ben  cinquanta  mila  nelle  sue 
truppe  (Curzio,  V,  20):  i  più  erano  certamente  Greci  del- 
l'Asia e  delle  isole  greco-persiane,  ma  anche  i  Greci 
d'Europa  abbondavano,  perchè  rivoluzioni,  congiure, 
esigli,  lauti  stipendii,  tutto  concorreva  ad  attirare  a  mi- 
gliaja  i  Greci  al  servizio  di  Persia.  Erano  inoltre  i  Greci 
per  l'Asia  ciò  che  lungo  tempo  furono  gli  Svizzeri  per 
l'Europa  ;  apostoli  di  libertà  in  casa  propria,  erano  mi- 
nistri di  servitù  negli  Stati  altrui.  In  ogni  storia  dei  re 
di  Persia  noi  troviamo  menzione  delle  truppe  greche  al 
loro  soldo.  Sembra  che  su  questi  mercenarii  i  re  di  Persia 
fondassero  anche  le  principali  speranze  di  contenere  la 
nobiltà  ed  il  sacerdozio  de'  loro  Slati,  e  ne  avevano  in- 
fatti gran  bisogno  ora  che  eransi  arrogali  l'assolutismo 
distruggendo  il  potere  dei  magi  (sacerdoti) .  Fra  i  Greci 
allo  stipendio  di  Dario  si  contavano  molti  dei  migliori 


01  PAETEPEIIU 

generali  di  Sparta,  d'Alene  ed  anche  di  Macedonia,  che 
per  cause  pubbliche  o  private  erano  divenuti  profughi  e 
nemici  di  Alessandro.  Tale  era  Caridemo.  Né  per  tradurre 
un  esercito  in  Europa  i  Persiani,  padroni  di  Tiro  e  di 
centinaja  di  leghe  d'ottime  coste,  mancavano  di  navigli  ; 
anche  dopo  la  battaglia  del  Cranico  la  flotta  allestita  da 
Hemnone  operò  liberamente  contro  le  isole. 

Guidava  Alessandro  da  quaranta  a  sessanta  mila  sol- 
dati, ma  sbarcava  fra  amici,  ossia  fra  i  Greci  impazienti 
di  lui ,  e  numerosi  e  potenti.  Anche  Gustavo  Adolfo 
nel  1630  non  sbarcava  con  soli  quindici  mila  Svedesi 
in  Germania  contro  l'imperatore  che  aveva  cento  mila 
uomini  di  truppe  eccellenti  ?  Non  sbarcava  in  Inghilterra 
nel  1688  con  poche  mighaja  Guglielmo  d'Orange  contro 
Giacomo  II?  E  Napoleone  nel  1815  non  entrava  con 
soli  mille  e  duecento  uomini  in  Francia  ?  Tulli  corsero 
nel  primo  istante  azzardo  e  ventura  perchè  impossibile 
è  di  porre  in  esatta  bilancia  i  fenomeni  sottratti  al  senso, 
le  passioni  cioè,  le  tendenze,  l'impulso  a  scuotersi, 
a  determinarsi,  ad  osare;  ma  se  un  invasore  ha  scelto 
bene  il  suo  campo,  se  è  da  tutti  desiderato  il  suo  ar- 
rivo, se  è,  liberatore  creduto,  ove  non  sia  nel  primo 
istante  oppresso,  si  fa  forte  e  si  ingrossa  come  si  in- 
grossa lavina. 

L'Asia  Minore  popolala  in  gran  parte  di  Greci,  è  lolla 
da  Alessandro  ai  Persiani  in  una  sola  battaglia.  Si  era 
combattuto  non  lungi  da  Troja:  là  avrà  detto  Alessandro 
ai  suoi  :  dall'alto  dell'Ida  vi  contemplano  le  grandi  ombre 
dei  Greci,  e  l'allusione  non  era  mero  fantasma  d'eloquente 
immagine,  come  lo  fu  pei  Francesi  in  Egitto  (1798)  l'evo- 
cazione dei  quaranta  secoli  che  li  contemplavano  dalle 
piramidi. 

Disputano  gli  storici,  perchè  Alessandro  dopo  la  vii- 


CAPITOLO  VI,  93 

toria  abbia  sciolto  l'esercito.  Egli  correva  il  paese  come 
un  liberatore:  nonv*era  chi  resistesse.  I^sercito  diviso  in 
piccoli  corpi  tulio  occupava  ;  trovava,  cosi  diviso  Ja  mas- 
sima comodità  dì  ricoveri  e  sussistenza.  Permetteva  Ales- 
sandro, dice  Diod^  Siculo,  e.  47,  alle  città  greche  di  reg- 
gersi colle  loro  leggi;  prometteva  esentarle  dai  tributi, 
dichiarava  di  avere  intrapreso  la  guerra  al  solo  scopo 
di  liberare  i  Greci  dalla  tirannide  dei  Persiani:  resti- 
tuiva  ad  Ada  l* autorità  di  cui  essa  godeva  nella  Caria, 
prima  che  i  Persiani  ne  la  cacciassero.  Tutte  le  città 
si  commossero  ;  tutte  spedirono  deputati  a  presentarlo 
di  corone  d'oro  ;  tutte  furono  pronte  e  devote  ad  ogni 
uopo. 

Ma  la  ricuperala  liberlà  (?)  dei  Greci  asiatici  non  è  si- 
cura, Anche  rimpero  persiano  sussiste.  Prosiegue  Ales- 
sandro a'  proclamare  la  liberazione  di  tulli  i  popoli  di 
quel  mostruoso  impero,  frutto  delle  conquiste  e  della 
violenza  di  Ciro  e  di  Dario.  Memnone  anche  morienle 
ripete  il  consìglio  di  trasportare  un  esercito  nella  Grecia, 
onde  far  cuore  ai  ribelli.  Insiste  pure  Garidemo.  Àgide 
re  di  Sparta  ha  preso  le  armi  contro  i  Macedoni,  ha  oc- 
cupato Greta  (Gandia]  ;  non  ardisce  però  d'avventurarsi 
nella  Macedonia  ;  bisogna  fargli  cuore  e  rinforzarlo  ;  la 
diversione  obbligherà  Alessandro  a  ritornare  in  Europa. 
Un  Aminta  ateniese  raccoglie  varie  migliaja  di  Greci  stali 
battuti  e  dispersi  militando  coi  Persiani:  scompigliala 
Siria  e  TEgitto  ;  potrebbe  di  là  gittarsi  sulla  Grecia.  La 
sana  politica  consiglierebbe  a  Dario  un'ardita  intrapresa, 
ed  Agide  rinforzato,  invece  di  perdersi  in  operazioni  iso- 
late ed  estrinseche,  invaderà  l'Attica,  la  Beozia,  l'Epiro 
e  tuttala  Grecia.  Le  stesse  città,  che  al  cenno  d'Antipatro 
fornirono  oro  e  truppe  contro  di  Àgide,  spontanee  accor- 
deranno doppii  sussidii  in  uomini  ed  in  denari  contro  di 


94  pàkte  paini 

Anlipatro.  Mail  monarca  coiranimo  prima  da  felicità  ed 
adulazione  corrotto,  ed  ora  da  danni  e  sventure  precipi- 
tato, non  comprende,  o  non  osa  riverberare  l'assalto  col 
mandar  truppe  airestero,  mentre  è  minacciato  rinterno. 
J  satrapi  persiani,  gelosi  dei  Greci,  avranno  poi  mostrato 
al  debole  re,  che  la  greca  incursione  era  momentaneo 
disastro  e  pena  per  infedeli  città,  che  svanirebbe  come 
solco  di  vascello  che  non  lascia  segno  nel  mare  ;  che  nel 
cuore  dell'impero  era  la  forza,  e  fioritissimi  eserciti  ac- 
correvano a  riurtare  il  temerario  nemico,  che  avan- 
zandosi sarebbe  preso  e  distrutto  :  intanto  non  donasse 
facile  orecchio  ai  Greci  :  bramare  i  medesimi  valersi  delle 
forze  persiane  e  dei  tesori  del  re  a  scopi  proprii,  e  nulla 
loro  importare  la  difesa  dello  Stato  dei  Barbari.  I  ri- 
belli di  Grecia,  destituiti  d'appoggio,  sono  da  Antipatro 
passati  a  fil  di  spada.  Sparta  chiede  pace  e  perdono.  Lo 
scaltro  Antipatro  però  adula  i  Greci  rispondendo  che 
Sparta  coU'allearsi  ai  Barbari  ha  offeso  tutta  la  Grecia,  e 
rimette  il  giudizio  di  Sparta,  come  dianzi  quello  di  Tebe, 
all'assemblea  dei  Greci.  Essa  dichiara  solennemente,  che 
spetterà  air  arbitrio  di  Alessandro  di  pronunciare  sulla 
sorte  de'contriti  ribelli.  Le  ragioni  battevano  pari,  ma 
scellerata  gara  era  questa,  a  chi  competesse  l'onore  di 
usare  il  capestro,  e  potendolo  i  Macedoni  usare,  ultimo 
segno  di  servitù  per  i  Greci  doveva  essere  che  i  Greci 
l'usassero  contro  quei  Greci  medesimi,  che  avevano  per 
essi  levato  contro  i  Macedoni  un  generoso  stendardo. 
Poteva  nondimeno  risorgere,  se  Alessandro  subiva  un 
rovescio,  quella  greca  rivoluzione  ora  affogata  nel  san- 
gue, e  forse  i  Persiani  sarebbero  in  nuovo  fatto  più  ope- 
rosi ed  accorti  :  importa  di  troncare  del  tutto  ai  Persiani 
le  comunicazioni  colla  Grecia.  Agide  aveva  tentato  con 
forza  d'esercito,  e  favore  di  popolo  contro  Alessandro 


CAPITOLO  VI.  95 

nell'Asia,  di  fronte  ai  Persiani,  di  torgli  la  base  d*ogni 
sua  forza,  la  Grecia,  come  nel  1812  tentò  audacemente 
3Iaìlet  in  Parigi  di  tórre  la  corona  a  Napoleone,  quando 
egli  stava  con  mezzo  milione  di  soldati  fra  il  Niemen  ed 
il  Dnieper  in  presenza  dei  Russi. 

Persiani  e  Macedoni  confliggono  con  piena  ordinanza 
ad  Isso  (Alessandretta).  Ivi  realmente,  e  non  altrove,  si 
doveva  combattere.  Infatti  se  i  Persiani  non  si  arresta- 
vano ad  Isso,  ma  avessero  più  oltre  continuato  la  loro 
ritirata,  una  metà  dell'impero  cadeva  in  balia  di  Ales* 
Sandro;  giacché  se  la  ritirata  proseguivasi  verso  TEufrate, 
rimaneva  scoperta  ai  Macedoni  la  Siria  e  TEgitto,  e  se 
la  ritirata  proseguiva  verso  la  Siria,  rimanevano  scoperte 
tutte  le  regioni  dell'Eufrate  ed  il  centro  dell'impero.  Che 
se  le  truppe  persiane  si  dividevano,  Alessandro  entrava 
loro  frammezzo,  i  Persiani  più  non  potevano  agire  a 
scopo  concorde,  e  non  mai  più  avrebbero  potuto  riunirsi 
per  l'interposizione  dei  mari  e  dei  deserti.  Ecco  il  mo- 
tivo per  cui  Isso  in  questa  guerra,  ed  in  tante  che  av- 
vennero fino  ai  nostri  giorni,  fu  teatro  di  decisive  bai- , 
taglie.  La  forma  geografica  di  quelle  regioni  d'Asia  occi- 
dentale fa  si  che  quel  punto  sia  di  estrema  importanza 
per  l'assalto  e  la  difesa  degli  Stati  che  comprendono  la 
Siria  e  l'Asia  Minore  sotto  una  sola  dominazione.  Vinse 
Alessandro  ad  Isso  :  vinse  pienamente  :  i  Persiani  erano 
entrati  per  la  porta  amanica,  i  Greci  per  la  porta  siriaca  ; 
la  battaglia  segui  sul  fianco  e  sul  rovescio  dei  Persiani, 
e  non  sulla  loro  fronte:  i  Persiani  non  ebbero  dunque 
ritirata,  e  la  vittoria  di  Alessandro  fu  completamente  di- 
struttiva del  nemico  sconfitto.  L'esercito  persiano  non 
potè  ritirarsi,  ma  si  disciolse  in  bande.  Anche  il  campo, 
anche  la  famiglia  di  Dario  vennero  in  potere  del  vinci- 
tore. L'angustia  dello  spazio  rese  inutile  la  moltitudine 


96  PIETI  PUMA 

dei  Persiani:  la  montuosità  del  terreno  rese  inutile  la  loro 
cavalleria  (Curzio,  III,  li). 

Alessandro  può  adesso  invadere  a  piacimento  Tuna  o 
l'altra  metà  dello  Stato.  E  perchè  sceglie  d'invadere  la 
Siria  e  TEgitto  piuttosto  che  piombare  immediatamente 
sulla  capitale  dell'impero  persiano?  Perchè  dare  tempo  a 
Dario  di  prender  animo,  di  coprire  la  capitale,  d'unire 
un  nuovo  esercito,  di  porre  altra  volta  la  guerra  in 
forse?  Era  avido  non  di  sola  vittoria,  ma  anche  di  ce- 
lerità; eppure  erano  prevalenti  in  lui  all'impeto  di  guerra 
le  meditazioni  di  politica,  le  alte  ragioni  di  Stato,  alle 
quali  è  pur  forza  di  subordinare  la  condotta  e  le  generali 
disposizioni  di  guerra.  Preferì  ad  ogni  altra  intrapresa 
l'occupazione  di  tutte  le  coste,  dalle  quali  il  nemico 
avrebbe  potuto  insidiare,  veleggiare,  rinvigorire  le  agita- 
zioni di  Grecia,  che  in  allora  non  erano  del  tutto  com- 
presse. E  questa  si  è  la  causa  della  giusta  pertinacia  dei 
Persiani  a  difendere  Tiro,  e  della  giusta  ostinazione  di 
Alessandro  a  farne  il  terrìbile  assedio.  Quand'egli  ebbe  co- 
strutta una  diga  ciclopica  dal  continente  all'insulare  città, 
e  potè  dirle  come  nella  Bibbia,  non  e$t  maris  cingulum 
viltà  tibif  passò  coi  Macedoni  sovr'essa,  la  espugnò  e 
distrusse.  Né  Tiro  potè  più  rinascere  magnifica  e  forte, 
perchè  né  Tiro ,  né  Sidone ,  né  alcuna  città  della  Siria , 
meno  le  sole  collocate  suirOronte,  trovasi  sulla  lìnea 
necessaria  o  più  breve  dei  grandi  commerci  asiatico-eu- 
ropei,  e  ne  godono  soltanto  in  allora  che  le  più  agevoli 
vìe  dell'Eritreo,  dell'Eufrate  e  delf  Oronte  sono  impedito. 
Ond'è  che  poco  nuoce  ai  commerci  del  mondo  l'essere 
la  costa  siriaca  per  un  tratto  lunghissimo  priva  di  buoni, 
e  scarsamente  provveduta  di  porti  mediocri. 

Sapeva  inoltre  Alessandro  che  entrando  nella  Siria  gli 
Ebrei  avrebbero  acclamato  a  lui;  tutte  le  popolazioni  son 


CAPITOLO  VI.  97 

preste  a  credere ,  a  rallegrarsi ,  e  ad  onorare  con  illu- 
sione sincera  ed  anche  con  gara  vigliacca  i  trionfanti  coi 
sacrìfizii  e  gli  incensi  a  tutti  gli  altari  I  Gii  Ebrei  furono 
infatti  più  memori  dell'ingiuria  della  schiavitù  babi- 
lonica, che  non  del  beneGzio  della  liberazione  di  Ciro, 
ed  Alessandro  si  mostrò  loro  benevolo,  li  adulò,  adorò 
il  loro  Dio,  prevenne  colle  concessioni  le  domande,  ed 
essi  alla  lor  volta  adularono  il  guerriero,  che  gli  altri 
popoli  domava  ed  esaltava  il  loro:  la  Bibbia  ne  decanta 
la  grandezza  :  $iluit  terra  in  conspectu  ejus,  e  san  Ci- 
priano anche  dopo  lungo  corso  di  tempo  non  sa  por 
fine  alle  lodi. 

Continuò  Alessandro  verso  r£gitto,  il  superbo  reame 
aggiunto  dalla  violenza  di  Cambise  al  regno  di  Persia, 
la  sua  marcia  piuttosto  di  trionfo  che  dì  guerra.  Come 
potrebbe  Dario  soccorrere  dopo  Isso,  dopo  la  caduta  di 
Tiro,  dopo  la  perdita  delle  isole,  dopo  la  conchiusa  ami- 
cizia macedonico-ebrea,  le  guarnigioni  persiane  in  Egitto? 
Erano  separate  dal  centro,  erano  isolale,  e  quindi  irre- 
missibilmente perdute,  come  nel  medio  evo  lo  furono  le 
già  fiorenti  colonie  genovesi  in  Crimea,  nella  Colchide  e 
negli  scali  del  Fasi  quando  i  Turchi  s'impadronirono  dei 
Dardanelli  e  del  Bosforo,  e  preclusero  ogni  via  ai  soc- 
corsi. Cosi  derelitte  tutte  le  guarnigioni  persiane  più  non 
potevano  essere  né  scudo  all'Egitto,  né  lancia  alla  Persia  : 
quindi  s'arrendono,  e  Curzio  nomina  i  loro  capi,  che  ve- 
nivano all'incontro  d'Alessandro  facendo  atto  di  som- 
missione :  forse  gli  inviarono  perfino  i  cammelli  onde 
agevolargli  il  passaggio  del  piccolo  deserto  della  Siria  al 
Delta  del  Nilo:  realmente  si  legge  che  lo  attraversò  senza 
difficoltà  in  pochi  giorni.  Probabilmente  non  prese  seco 
che  piccola  parte  di  truppe ,  giacché  inutile  era  il  con- 

7 


M  PiHTS   HWi 

durne  di  più,  e  meglio  importava  chela  massa  maggiore 
restasse  di  presidio  al  Tauro,  e  lungo  l'Eufrate. 

La  politica  che  Alessandro  ba  da  seguire  in  Egitto  è 
chiaramente  indicata  da  quanto  prima  del  suo  arrivo  in 
Egitto  segui.  I  Persiani  avevano  fatto  scontare  aspra* 
mente  agli  Egiziani  la^  gloria  delle  vittoriose  scorrerie  del 
grande  Sesostri  in  tutte  le  contrade  persiane  dell* Asia, 
Cambise  feri  gli  Egiziani  nelle  loro  più  venerate  cre- 
denze, uccise  il  bue  Api,  e  profanò  i  loro  templi,  non  li 
potendo  per  la  prodigiosa  mole  e  Tinconsu utile  materia 
distruggere;  fece  poi  certamente  di  moltiplicati  balzelli 
e  di  ladre  molestie  impedimento  ai  transiti  del  commer- 
cio indiano  per  l'Eritreo,  onde  rivolgere  alla  sola  Meso- 
potamia  quei  lucri  ricchissimi.  Conferma  invece  il  Mace- 
done le  leggi  e  costumi  egiziani  (Curzio,  IV,  20),  rispetta 
i  riti  e  quelle  stupende  creazioni  dell'arte,  giusto  orgoglio 
del  popolo,  e  fonda  fuor  delle  melme  e  dei  bassi  fondi 
del  Nilo,  ov'è  una  rada  sicura  protetta  da  un'isola  che 
frange  le  onde  venenti  dal  largo,  la  famosa  Alessandria, 
destinata  a  raccogliere  il  commercio  mondiale,  non  già 
a  dividerlo  colle  rivali  città  sull'Eufrate  persiano  (1). 

Le  colonie  greche  in  Egitto  erano  già  all'epoca  di  Ales- 
sandro numerose  e  potenti  :  importava  che  divenissero, 
e  dovevano  tosto  divenire  assai  più  floride,  e  primeggiare 
assorbendo  la  ricchezza  e  vitalità  del  paese,  e  distrug- 
gendo coll'invasione  dell'elemento  greco  l'isolalo  e  strano 
sistema  egiziano.  Alessandro  adula  quindi  i  Greci,  per- 
chè è  buona  politica  il  guadagnarli  con  ogni  arte  a  sé. 
Avido  dello  scopo  politico,  egli  sa  perfino  domare  le  pas- 

(i)  Neir ///»erar/o  d'ÀUtfondro  a  Coitalo  Mg^Ho  si  park  della  fonda- 
zione di  questa  città  come  si  parlerebbe  d'una  villa  o  giardino  fatto  per  ca- 
priccio di  prìncipe  ;  si  dice  cioè  che  Alessandro  venne  a  Canopo,  ed  jvi  loci 
facie  éelectatus,  condendo  urbis  desiderium  habuit. 


CAPITOLO  TI.  99 

sìoni  tumultuose  e  yìolentì,  e  corre  per  calcolo  alla  mi- 
sericordia quanto  per  concitazione  si  sarebbe  Totentierì 
versato  nell'ira:  decreta  dall'Egitto  che  rilascia  dai  ceppi 
tutti  i  Greci  fatti  prigioni  al  Cranico  nelle  file  persiane: 
furono  illusi  :  fu  grave  errore  il  loro,  ma  egli  lo  scorda, 
e  li  ridona  ai  Greci.  E  così  anche  le  migliaja  dì  Greci  che 
servono  ancora  sotto  vessillo  persiano  non  dispereranno 
d'accostarsi  pur  essi  ad  Alessandro,  e  Dario  diffiderà  dei 
medesimi  sospettandoli  disposti  a  conciliarsi  con  chi  loro 
stende  le  braccia,  riapre  la  patria,  forse  li  ammetto  a 
servigio.  Dopo  di  Arbela,  Alessandro  non  avrebbe  sotto- 
messo in  tal  guisa  le  passioni  a  ragione,  ma  ora  era  po- 
tente, non  però  onnipotente;  ogni  cosa  voltavasi  a  lui, 
ma  rimaneva  la  guerra;  percorreva  paesi  già  senza 
amore  di  Persia,  ed  ora  senza  paura,  ma  dovrà  presi- 
diarli, e  non  esaurire  le  genti,  onde  porne  in  linea  quante 
più  possa  nelle  imminenti  battaglie.  Ecco  dunque  tem- 
perante l'Alessandro,  che  fu  si  intemperante  dipoi  I  Delle 
amnistie  politiche  antiche  e  moderne  le  cento,  o  vogliam 
dire  le  mille,  furono  al  pari  di  questa  non  consigliate 
dal  cuore,  ma  dettate  ed  imposte  dall'accorgimento  del- 
l'utile. 

Rispettando  le  credenze  egiziane,  tanto  più  doveva 
Alessandro  rispettare  le  greche.  Visitò  dunque  il  tempio 
di  Giove  Ammone,  e  l'oracolo  gli  promise  l'impero  del 
mondo:  come  non  promelterlo,  se  già  tanto  ne  aveva, 
se  lo  stesso  Giove  Ammone  bramava  che  il  sole  di  Persia 
non  gli  fosse  né  signore,  né  compagno,  se  d'altronde 
Alessandro  aveva  già  mostrato  a  Delfo  collo  strascinare 
al  tripode  di  viva  forza  la  Pizia  irresoluta  a  rispondere, 
che  egli  non  tollerava  che  alcuna  lingua  d'uomo  o  di 
Dio  fosse  muta  della  sua  grandezza? 

Non  appare  da  classico  alcuno  che  Alessandro  durante 


100  PARTE  PKIHA 

il  soggiorno  ia  Egitto,  che  già  tante  relazioni  commerciali 
aveva  colle  Indie,  annodasse  altresì  relazioni  politiche 
con  quella  ricca  contrada  che  egli  poscia  invase.  È  più 
che  probabile  che  egli  allora  non  pensasse  a  quella  spe- 
dizione. Nessuna  mente  per  vasta  che  sia,  nessun  ar- 
dire guerriero,  nessuna  sete  di  regno  e  di  gloria  aspira 
ad  un  tratto  a  dominare  sul  mondo  ;  ma  s'allargano  coi 
trionfi  e  gli  acquisti  le  idee,  come  l'orizzonte  sempre  più 
si  dilata  agli  oggetti  lontani  a  chi  più  sale  in  altura,  e 
l'ambizione  vittoriosa,  non  più  consolata  nò  sazia  dei 
primi  onori,  è  poco  curante  di  essi,  intende  a  maggiori, 
butta  la  visiera,  d'ogni  temperanza  dispogliasi,  e  pone 
progetto  sopra  progetto  come  i  Titani  ponevano  monte 
su  monte  per  farne  scaglioni  ed  invadere  il  cielo.  Ora 
v'era  a  calpestare  la  Persia. 

Ed  ormai  era  tempo  di  precipitarsi  su  Dario  :  scorsero 
dopo  Isso  due  anni  :  si  è  forse  già  tardato  di  troppo  :  dis- 
perdere ore  in  allegrezze,  in  consigli,  in  provvidenze 
lontane,  in  speculare  nell'ignoto,  chiarirebbe  fiacchezza 
d'ingegno,  proverebbe  inscienza  delle  ragioni  e  successi 
di  guerra.  L'esercito  è  rifatto  completo  cogli  arrivi  conti- 
nui di  rinforzi  di  Macedonia  e  di  Grecia.  Curzio  parla  si 
esattamente  di  questa  incessante  fiumana  di  gioventù  ac- 
corrente dall'Europa  ai  punti  diversi  dell'itinerario  di 
guerra  del  re,  che  ci  sembra  di  vedere  in  questa  remotis- 
sima scena  quel  moto  perpetuo  dei  battaglioni  di  marcia 
che  nutriva  ovunque  fossero  gli  eserciti  di  Napoleone  il 
Grande,  formandosi  ai  depositi  nell'interno  dell'impero, 
seguendo  le  traccie  dei  combattenti,  raggiungendoli  per 
sfasciarsi  e  trasfondersi  in  loro.  Levasi  Alessandro  dal- 
l'Egitto: precorrono  alle  truppe  più  riposate  nella  Siria 
gli  ordini  di  concentrazione  e  di  marcia  :  succederanno 
alle  medesime  a  ristorarsi  nelle  guarnigioni  di  Siria  le 


(;apitolo  ti.  101 

truppe  ritornanti  d'Egitto:  queste  che  erano  alla  fronte, 
diventano  retroguardo ,  e  riserva  d'esercito  nell'immi- 
nente campagna. 

Steso  a  Tapsaco  un  letto  di  navi  sull'Eufrate,  ne  fé* 
ponte,  e  senza  contrasto  passò:  i  Barbari  della  Mesia  gli 
avevano  reso  meno  agevole  il  passaggio  dell'lstro!  Senza 
opposizione  attraversa  anche  il  Tigri  :  fu  abilità  di  sor- 
prendere e  virtù  d'Alessandro,  o  persiana  imperizia  di 
non  arrestarlo  ai  fiumi?  Può  scendere  per  la  sinistra  dei 
fiumi,  ed  invadere  Babilonia,  e  Susa,  e  Persepoli:  può 
risalire,  entrare  in  Ecbatana  e  far  sua  la  Media.  I  Per- 
siani lo  fronteggiano,  ma  non  hanno  pari  speditezza  di 
esercito,  risoluzione  ed  ingegno  di  principe:  Alessandro 
ha  prèsto  oltrepassato  la  sinistra  persiana  :  ha  afferrato 
la  linea  di  comunicazione  fra  le  provincie  del  nord  e 
quelle  del  sud:  le  grandi,  le  ricche  città  già  sono  poten- 
zialmente sua  preda,  perchè  Dario  combatte  ad  Arbela 
non  già  coprendole  coU'esercito  suo,  ma  col  tergo  all'Ar- 
menia, e  colla  fronte  rivolta  alle  stesse.  Una  rotta  per 
Dario  valeva  la  capitale  perduta,  come  in  analoghe  cir- 
costanze di  movimenti  strategici  e  di  fronti  di  battaglia, 
perdevano  ì  Prussiani  a  Jena  Berlino  (1806),  e  gli  Au- 
strìaci a  Ratisbona  Vienna  (1809). 

Rovinano  ad  Arbela  le  sorti -di  Persia:  l'impero  si 
sfascia:  lo  sventurato  Dario  fugge  fino  sull'Osso  e  sul 
Jaxarte  (Amur-Deria,  Sir-Deria),  ed  i  superstiti  merce- 
narii  greci  lo  seguono  fedeli  fin  là:  non  più  amore  di 
paghe,  ma  odio  da  partigiani,  disperazione  da  profughi, 
sono  per  essi  virtù,  o  ne  hanno  sembianza.  E  Curzio  e 
Giulio  Valerio  (1)  pongono  in  bocca  a  Dario  spirante  as- 


(1)  Giulio  Valerio  è  un  autore  latino  del  terzo  o  quarto  secolo  che  tradusse 
la  vita  d'Alessandro  d'uno  storico  greco  di  nome  Esopo.  11  testo  di  Giulio  Va- 
lerio fu  scoperto  nell'Ambrosiana  di  Milano,  e  pubblicato  da  Mai  nel  1817. 


103  riRTB  PHIMi 

surdi  discorsi  di  rendimento  di  grazie  ad  Alessandro 
pei  benefizii  suoi,  e  preghiere  perchè  sposi  sua  figlia. 
Ed  Alessandro  gli  fa  magnifiche  esequie,  e  lo  piange; 
non  ha  egli  versalo  lagriìne,  a  detta  di  tutti  gli  storici,  an- 
che per  la  morte  della  madre  di  Dario?  Eppure  Eusebio 
Cesarense  ne' suoi  Canoni  cronici  di  fresco  pubblicati 
nella  scoperta  versione  armena  scrive  che  Dario  fu  ne- 
cito  per  ordine  d'ÀlesscOidro.  Qual  è  il  vero?  Sarà  ignoto 
per  sempre:  certo  si  è  però  che  Dario  morì  non  in  mano 
ai  Persiani,  ma  in  mano  ai  Macedoni,  che  dicono  di 
averlo  raccolto  ferito.  Eppure  i  suoi  non  avevano  van- 
taggio a  ferirlo,  né  argomento  a  vendetta,  ed  Alessan- 
dro non  era  tale  da  rifuggire  dal  sangue ,  ma  ambiva  ad 
apparenze  di  legittimo  impero,  voleva  sembrare  erede  di 
Dario,  ne  sposava  la  figlia,  ed  assumeva  le  forme  ed  i 
modi  di  Persia.  Il  detto  del  giureconsulto  Cassio,  cui 
bono  8it,  se  non  prova  il  delitto,  dona  almeno  dubbiezza 
che  Eusebio  Cesarense  abbia  scritto  il  vero.  Le  corone 
di  Nino,  di  Creso,  di  Sesostri,  di  Ciro,  con  quella  di  Ma- 
cedonia diventano  sul  capo  di  Alessandro  una  sola  co- 
rona. Ma  per  eternare  il  trionfo,  torre  il  pericolo  di  vio- 
lenti insorgenze,  aver  forza  a  corso  ulteriore  d'indefinite 
conquiste,  è  necessario  di  riformare,  d'unificare  possi- 
bilmente lo  Stato,  di  confondere  gl'interessi  divisi,  di 
crearne  di  nuovi  a  concordia  e  legame.  Ed  Alessandro  che 
teme  d'essere  creduto  vero  uccisore  di  Dario,  strazia  con 
orribili  tormenti  gli  indiziati  uccisori  di  esso,  unisce  la  se- 
conda figlia  di  Dario  con  nozze  pompose  al  favorito  Efe- 
slione,  promove  matrimonii  d'ottanta  suoi  primarii  uffi- 
ciali con  figlie  d'illustri  famiglie  di  Persia,  favorisce  altresì 

Cosi  di  Giulio  Valerio,  come  àcìVIlinerario  d'Alessandro  a  Costanzo  Augusto 
d'ignoto  autore  latino,  edito  nell'anno  stesso  da  Mai,  abbiamo  fatto  uso  più 
volle  per  confronti  e  riprove. 


CAITfOLO  VI.  103 

ì  corinubii  di  miglioja  (gli  storici  dicono  7000)  di  soldati 
greco-macedoni  con  donne  persiane.  Egli  affida  inoltre  ad 
un  Persiano  ramministrazione  civile  di  Babilonia,  onora 
la  memoria  di  Ciro,  e  ne  ricostruisce  la  tomba,  colonizza 
in  Persia  veterflni  macedoni  o  greci,  leva  miriadi  di  Per- 
siani, li  arma,  li  organizza  alla  greca,  li  esercita  egli 
stesso^  si  forma  una  guardia  persiana^  trasporta  alla 
gran  Babilonia  tuttora  ricca  di  tante  memorie  assire  la 
capitale  del  nuovo  Stato  (1),  vuole  rialzare  il  tempio  di 


(1)1  tnonarcbì  persiani  avevano  trasferito  la  sede  dello  Stato  da  Babilonia, 
lanlica  capitale  assira,  a  Susa,  e  quindi  a  Persepoii.  Grandi  ragioni  politiclie 
devono  aver  consiglialo  Tabbandono  della  magnifica  Babilonia,  la  cui  ubica- 
zione pei  commerci  era  d'altronde  tanto  migliore  dì  quella  delle  nuove  resi- 
denze. Contrarie  cause  politiche,  e  Timmutabile  vantaggio  della  posizione  geo- 
grafica persuasero  Alessandro  a  ritornare  a  Babilonia  il  primato  facendola 
capitale  del  nuovo  impero:  i  grandi  lavori  cbe  egli  ordinò,  ed  anche  intraprese 
a  Babilonia,  Io  rendono  manifesto.  Persepoii  non  poteva  avere  che  un'artifi- 
ciale, e  per  così  dire  forzata  esistenza. 

Narrasi  che  per  caso  fortuito  Persepoii  fosse  da  incendio  consunta.  Nelle  eb- 
brezze di  un'orgia,  che  possa  andarne  un  palazzo  in  fumo  e  faville  è  cosa  pro- 
babile, ma  assai  poco  lo  è  che  dalUncendio  d'un  palazzo  escano  fiamme  divora- 
trici di  una  intiera  città.  Ma  quando  pur  arda  una  grande  capitale,  essa  risorge 
dalle  ceneri  come  la  fenice  della  favola,  essa  rialza  i  suoi  palagi,  i  suol  templi 
come  la  selva  che .  incurva  la  testa  alla  violenza  dei  vento,  e  la  sublima  di 
nuovo.  Persepoii  invece  giacque  per  sempre.  E  noi  vedendo  che  dcirarsione 
completa  e  del  sussessivo  abbandono  non  vi  ha  causa  che  appaghi,  che  Ales- 
sandro, li  quale  fondava  città  ovunque  passava,  non  pose  mano  a  rialzare  Per- 
sepoii, che  anzi  da  quella  meno  opportuna  contrada  egli  traduceva  la  residenza 
a  Babilonia  gloriosa  di  tante  memorie,  superba  dei  monumenti'  ài  Semiramide, 
e  mirabilmente  situata  pei  commerci  del  mondo,  siamo  indolii  a  sospetto  che 
Alessandro  se  non  portò  egli  stesso  face  insidiosa  o  scoperta  airiucendio  di 
Persepoii,  né  ha  pasciuto  dello  spettacolo  gli  occhi  insaziabili»  almeno  ha  go-' 
duto  che  quanto  avrebbe  a  disegno  intrapreso,  sembrasse  operato  per  la  ne- 
cessità d'un  evento.  Del  resto  un  governo  non  mai  confessa  d'essere  autore  di 
simili  fatti  0  per  erubescenza  dei  danno,  o  per  la  responsabilità  dei  compensi  : 
forse  che  il  governo  russo  ha  mai  confessato  d'avere  ordinato  l'incendio  di 
Mosca,  che  sicuramente  non  fu  arsa  dai  Francesi,  cui  molto  importava  di  con- 
servarla ? 

Nell'argomento  però  della  scelta  di  Babilonia  a  capitale  amiamo  d'agginngere 
un'altra  osservazione,  ed  è  il  dubbio  nostro  che  se  Alessandro  avesse  conti- 
nualo in  vita,  forse  si  sarebbe  alquanto  scemata  la  sua  predilezione  per  la 
città  che  aveva  fondalo  in  EgìUo«  Egli  aveva  costruito  Alessandria  quando  non 


104  PAKTE  PRIUi 

Belo,  egli  figlio  di  Giove  Àmmonel  Vuole  essere  oÀoi^ato, 
non  già  cbe  si  creda  diventalo  Dio,  ma  perchè  vuol  es- 
sere onorato  come  Dario,  come  lutti  i  re  di  Persia  lo  fu- 
rono» prima  di  lui  ;  dispenserebbe  volentieri  dairadora- 
zione  i  Greco-Macaoni,  cui  l'adorazione  prelesa  pare 
frenesia  e  stranezza,  ma  come  liberarli  dal  rito  in  mezzo 
ai  Persiani?  L'unione  personale  d'immensi  paesi  erasi 
fatta  al  Cranico,  ad  Isso,  ad  Arbela  ;  doveva  farsi  la  fu- 
sione politica.  Era  Alessandro  nell'immensifà  di  contrade 
e  nazioni  come  nell'Inghilterra  del  nono  secolo  fu  il 
grande  Alfredo,  che  fondava  con  Danesi  e  con  Sassoni 
l'unità  dello  Stato  I  Alessandro  ha  da  costringere  a  fu- 
sione repentina  elementi  disparatissimi,  nazioni,  religioni 
ed  eserciti:  ignora  che  un  fattore  principale  delle  trasfor- 
mazioni politiche  è  il  tempo,  o  noi  cura:  incontra  pii!i 
resistenze  nei  suoi  proprii  soldati,  che  non  ne  abbia  tro- 
vato nelle  battaglie  persiane:  non  può  infondere  a  tutte 
le  menti  l'ampiezza  e  l'audacia  della  sua:  ordina,  prega, 
premia,  ma  se  incontra  ostacolo,  la  sua  anima  esacer- 
bala, che  aspira  alla  riforma  del  mondo,  ricorda  a  tutti 
l'ubbidienza  collo  spietato  castigo  dei  pochi  e  supremi. 
Mentre  Alessandro  è  intento  a  trarre  per  arte  o  vio- 
lenza il  nuovo  Stalo  dal  caos,  giungono  da  ogni  parte 
ad  inchinarlo  gli  sbigottiti  principi  e  re;  i  più  timorosi, 


dominava  nella  Mesopotamia  ;  quand'era  conveniente  per  lui  di  tagliare  i  nervi 
di  ricchezza  airerario  persiano  ed  alle  rivali  città;  quando  giovava  che  si  ab- 
bandonasse il  Golfo  Persico,  e  si  navigasse  l'Eritreo.  Ora  le  cose  avevano  total- 
mente cambiato:  egli  era  Dario,  la  Persia  era  con  nuovo  principe  di  pia  vasta 
ambizione  e  maggior  vigore  rinata,  e  ne  era  capitale  la  gran  Babilonia  suir£u- 
frate,  il  fiume  emulo,  nemico  del  Nilo  :  TEgillo  era  una  provincia  come  sotto 
Cambise,  come  sotto  Dario.  L'Egitto  era  per  verità  una  provincia  di  maggior 
interesse  per  la  Grecia  e  la  Macedonia,  che  per  condizioni  geografiche  non  lo 
potesse  essere  la  stessa  Mesopotamia  ;  ma  non  degradavano  a  mere  provincie 
la  stessa  Grecia  e  la  Macedonia,  che  avevano  fatto  Timpero,  e  tuttora  sommi- 
nistravano le  forze  a  possederlo,  a  completarlo,  a  solidificarlo? 


CAPITOLO  TI.  105 

i  procaccianti  arrivano  certamente  i  primi,  poi  altn,  poi 
tutti  per  non  rimanersene  soli,  notati  d'assenza,  ed  in 
tante  spogliazioni  facilmente  compresi.  Non  accorsero 
nel  4812  a  Dresda  tutti  i  principi  d'Europa  per  ono- 
ranza a  Napoleone  quand'egli  marciava  con  esercito  im- 
menso contro  i  Russi?  Così  dove  traboccavano  dal  trono 
i  più  grandi  monarchi,  dove  il  Macedone  guidava  con 
stella  sicura  la  guerra  conquidendo  e  principi  e  popoli, 
doveva  ad  ogni  vicino  sovrano  venir  meno  Valterigia  e 
l'ardire,  e  tutti  avevano  a  farsi  dappresso,  a  cercar  soc- 
corso al  pericolo,  a  recar  doni,  ad  adulare,  ad  acqui- 
stare il  favore  del  prepotente  signore.  Con  qual  cuore 
venissero  noi  lo  sappiamo,  perchè  conosciamo  con  qual 
cuore  venivano  anche  a  Napoleone,  e  come'  quasi  tutti 
gli  furono  un  anno  dopo  nemici.  Accorse  dunque  ad  os- 
sequio, a  devozione  e  proteste  anche  Talestri,  la  regina 
delle  Amazzoni  ;  ma  come  mai  leggiamo  in  Strabone 
(lib.  XI,  6),  ed  in  molti,  che  venne  per  desiderio  d'aver 
prole  da  uomo  si  grande?  Avesse  o  non  avesse  Talestri 
a  sua  difesa  sul  Terraodonte  la  milizia  donnesca,  che 
ben  averla  poteva  se  anche  oggidì  vediamo  il  re  negro  di 
Dahomey  che  la  mantiene  numerosa  e  privilegiata  sulla 
virile,  il  motivo  del  suo  accorrere  per  riverenza  e  cor- 
teggio è  evidente  ed  era  comune  a  tutti  i  re  e  regine  va- 
cillanti sul  trono. 

Ha  né  per  ordinamenti  di  governo,  né  per  ebbrezza  di 
venerazioni  ed  omaggi  posa  Alessandro  dall'armi,  o  de- 
pone l'ambizione  più  vasta.  Mari  e  deserti  davano  alle 
conquiste  sicuri  confini  nel  sud:  li  ebbero  nel  nord  nella 
immensa  steppa  del  Caspio  e  dell'Arai  :  li  ebbero  anche 
nell'est  quando  caddero  in  mano  ai  Macedoni  le  gole  della 
grande  catena  che  fronteggia  dal  Paropamiso  al  mare  il 
fianco  destro  dell'Indo,  e  furono  la  strada  perpetua  e  sola 


lOG  PARTE    PBIMA 

dei  grandi  conquistatori  antichi  e  moderni  deirindia. 
Alessandro  anela  ad  imitarli,  e  farà  la  conquista  delFIn- 
dia,  0  vi  si  renderà  temuto  come  signore  di  Stato  nuovo 
e  contiguo  :  saprà  anche  rettificare  secondo  giustizia  le 
sempre  controverse  frontiere:  egli  è  l'erede  dei  monar- 
chi persiani,  ed  il  campione  degli  antichi  diritti  di 
Persia  :  non  soffrirà  la  Persia  ingiurie  o  lesione  di  pos- 
sessi con  lurl  Spinge  ai  regni  dell'Aurora  i  suoi  Mace- 
doni e  Greci,  e  con  essi  torme  di  Persiani,  di  Battriani, 
di  Sciti  :  erano  truppe  di  Dario,  e  giova  levarle  di  Persia  ; 
ma  s'aumenta  anche  di  truppe  indiane,  perchè  nell'usare 
la  spada  non  dimentica  artificii  e  politica,  né  disprezza 
alleati,  ma  li  cerca  o  riceve.  Questa  però  è  guerra  del 
tutto  estranea  alla  liberazione  di  Grecia  :  nelFIndia  non 
vi  sono  da  riavere  trofei,  e  da  restituirli  alla  Grecia,  come 
Alessandro  trovolli  nell'Asia  Minore  ed  in  Persia,  ov'erano 
stati  portati  dal  primo  Dario,  da  Artaserse,  da  Serse. 
Non  vi  è  ad  eccitare  nuovo  entusiasmo  politico  nei  Greco- 
Macedoni,  e  l'antico  è  già  appagato  e  spento:  le  ricchezze 
si  largamente  acquisite  hanno  già  attutito  le  guerresche 
passioni,  ed  ingenerato  la  brama  del  loro  godimento  nella 
pace  e  famiglia  :  è  instancabile  Alessandro,  ma  tutti  non 
sono  instancabili  al  pari  di  lui,  e  migliaja  di  soldati  per 
slenti  0  ferite  già  sono  invasi  ed  inerti  da  precoce  vec- 
chiezza 0  virilità  defatigata.  Insorgono  quindi  tumulti 
neiresercito  :  Greci  e  Macedoni  negano  di  marciare  più 
oltre:  Alessandro  non  ancora  può  agire  senz'essi  nell'In- 
dia coi  Barbari  soli,  né  lasciare  i  Greco-Macedoni  tumul- 
tuanti dietro  di  sé.  Consente  quindi  al  ritorno,  ma  come 
colui  che  noi  vuole,  e  cede  costretto  :  aveva  già  gettalo 
sul  medio  Indo  un  ponte  nell'intento  di  invadere  il  cen- 
tro dell'ampia  penisola  1  Or  vuole  almeno  assicurarsi  la 
Nesopolamia  indiana  :  vi  fonda  l'una  della  dodici  Ales- 


CAPITOLO  VI.  107 

sandrie  che  Giulio  Valerio  enumera  costruite  da  lui  in 
ogni  parie  dello  Stalo,  e  segnatamente  ai  confini  :  poi 
dona  a  principi  amici  i  possessi  che  ad  altri  ritolse,  onde 
averli  sempre  interessati  alla  fede,  e  sostegno  alla  pro- 
pria grandezza.  Quindi  scende  lentamente  per  lindo , 
che  sarà  d'ora  innanzi  la  frontiera,  di  Persia  :  toccando 
l'Oceano,  egli  discepolo  d'Aristotele  vi  ammira  la  violenza 
del  mare  che  ora  fugge  dal  lido,  ora  torna  su  quello  (1): 
poscia  rientra  nella  Persia  perle  provincie  del  sud,  com- 
pieodo  cosi  il  giro  d'intorno  al  gran  deserto  dell'interno: 
adula  però  tuttora  gli  Indiani  conducendo  Bramini  e  Gin- 
nosofistì  con  sé,  trattandoli  da  amici,  mostrando  rispetto 
ai  loro  riti,  onore  per  essi.  Che  rivolgeva  nella  sua  mente 
irrequieta  quest'uomo  grandissimo  ?  Qual  forma .  voleva 
dare  all'impero  ?  Pensava  che  un  giorno  potrebbe  ritor- 
nare nell'Indie?  Sperava  in  una  fusione  possibile  di  genti 
e  credenze,  e  nell'ordina mento  del  caos  che  aveva  trovato 
e  cresciuto?  Credeva  che  l'elastico  politeismo  dei  Greci 

(1)  Anche  su  tale  argomento  molle  assurde  cose  si  scrissero.  I  Macedoni, 
leggiamo,  stupivano  de)  flusso  e  riflusso,  che  loro  era  ignoto,  e  ne  stupirono 
i  Romani  in  Brettagna,  e  sulle  coste  germaniche.  Dobbiamo  ridurre  lo  stu- 
pore, se  pur  vi  fu,  a  proporzioni  del  vero.  II  flusso  e  riflusso,  e  la  sua  cor- 
rispondenza colle  posizioni  lunari,  era  ben  noto  ai  Macedoni  e  Greci,  come  lo 
era  ai  Romani.  In  tutto  il  Mediterraneo  vi  ha  flusso  e  riflusso,  quantunque  sia 
debole  :  nell'Adria tico  è  anche  forte  :  lo  conoscevano  dunque  e  Macedoni,  e 
Greci,  e  Romani.  Prima  che  i  Macedoni  fossero  alle  foci  delFIndo  erano  siali 
ili  Egitto,  ed  ò  impossibile  che  ignorassero  la  forza  del  flusso  e  riflusso,  che  ò 
enorme  delFEritreo,  come  lo  è  alle  foci  deirindo.  Questa  forza  non  è  massima, 
ma  grande  alle  coste  lusitane,  ed  i  Romani  già  erano  stali  con  Sertorio  in  Lu- 
sttania,  e  furono  con  Pompeo  in  Egitto.  Cesare  quando  fu  propretore  in  Ispa- 
gna  aveva  navigato  da  Cadice  a  Briganzio  (la  Gorogna),  e  più  lardi  conquistò 
tutte  le  coste  oceaniche  della  Gallia,  lungo  le  quali  il  flusso  e  riflusso  è  si  grande 
come  lo  è  alle  spiagge  britanniche  ed  alle  germaniche.  Non  parliamo  dunque 
deirignoranza  macedonica  o  romana  di  un  fenomeno  che  lutti  avevano  veduto 
od  udito,  benché  Taltezza  delle  maree,  la  rapidità  del  loro  scorrere  su  terreni 
leggermente  inclinati,  ecc.,  potessero  destare  in  varii  casi  sorpresa,  ed  anche 
recare  danni  e  perìcoli.  Non  fa  per  affogare  al  principio  del  secolo  nostro  pel 
rapido  ritorno  della  marea  anche  alcuna  divisione  deiresercito  francese  alle 
coste  del  Nord,  che  s^era  alquanto  ritardata  armeggiando  in  hassi  terreni? 


108  PARTE  PBIHA 

potesse  distruggere  perfino  Timmutabilità  delle  caste  in- 
diane? Ma  appena  reduce  a  Babilonia  la  sua  gran  vita  si 
spegne,  edi  vasti  progetti  hanno  tomba  con  lui  (1). 

Chiuderemo  toccando  d^un'ipotesi  che  a  proposito  di 
Alessandro  e  dei  rivolgimenti  dell'Asia  viene  presentata 
da  Tito  Livio.  Essa  è  vaga  e  bizzarra,  ma  fu  ripetuta  in 
molte  opere  militari  e  letterarie:  Che  sarebbe  avvenuto^ 
se  Alessandro,  invece  di  assalire  l'impero  di  Persia^ 
avesse  assalito  Roma? 

.  Alessandro  non  per  caso,  ma  per  calcolo  sì  gettò  sulla 
Persia.  La  politica  lo  chiamava  in  Asia,  e  non  in  Italia: 
ivi  erano  i  Greci  da  liberare,  o  per  lo  meno  i  Persiani 
da  rimuovere  dalla  Grecia;  ivi  lo  spingeva  Toracolo 
di 'Delfo,  che  già  un  secolo  avanti  aveva  eccitato  Creso 
alle  armi  contro  di  Persia.  Né  le  memorie  di  Tim- 
brea  sì  fatale  a  Creso  intimidivano  Alessandro  ,  per- 
chè una  più  recente  esperienza  mostrava  che  l'esca 
era  ornai  sicura  e  pronta  per  un  grande  incendio. 
Infatti  Agesilao  l'aveva  trovata  ;  la  sua  campagna  nel- 
l'Asia fu  coronata  da  grandi  successi.  E  forse  Age- 
silao distruggeva  l'impero  di  Persia,  siccome  più  tardi 
lo  distrusse  Alessandro,  ma  in  allora  Artaserse  si  difese 
con  miglior  artifizio  di  politica  guerra,  che  poscia  non 
sìa  stato  usato  da  Dario.  Artaserse  profuse  (an t'oro  a 
Tebe,  che  presto  Epaminonda  si  trovò  in  grado  di  con- 


(i)  Fra  questi  progetti  d'Alessandro  sicuramente  non  v*era  quello  di  donare 
i  diritti  politici  ai  sudditi  suoi.  Alessandro  non  fu  mai  calunniato  di  liberali 
tendenze,  come  non  lo  fu  suo  padre  Filippo  ;  anzi  le  nature  si  intensamente 
dispotiche  quali  furono  le  loro  non  sono  frequenti,  benché  la  specie  ne  sia 
tanto  abbondevole.  Eppure  uno  scrittore  d'Inghilterra,  che  nelle  scuole  colà  è 
generalmente  in  uso,  censura  Alessandro  di  non  aver  dato  un  parlamento 
all'impero.  Forse  che  a  quella  mostruosa  Babele  di  religioni ,  di  lingue  e  di 
popoli  Tuno  all'altro  ostilissirai,  ma  momentaneamente  raccolti  in  un  nodo,  o 
per  dir  meglio  in  un  militare  capestro,  avrebbe  potuto  dare  Alessandro  rap- 
presentanze e  franchigie,  se  anche  fosse  stato  un  Washington  1 


CAPITOLO  VI.  109 

durre  un  esercito  tebano  nel  Peloponneso,  il  che  obbligò 
i  Lacedemoni  a  richiamare  Agesilao  dairAsia.  Come  il 
filibustiere  volge  la  prora  della  nave  dove  scorge  la 
preda,  cosi  Alessandro  volse  le  prore  con  molla  politica 
accortezza  piuttosto  airoriente  che  non  alFoccidente. 
Anzi  si  può  dire  con  molto  fondamento  di  sana  politica, 
che  se  Alessandro  avesse  cosi  fallito  la  condizione  dei 
tempi  e  dei  luoghi,  da  mirare  piuttosto  all'Italia  che  non 
alla  Persia,  e  nondimeno  i  Greci  l'avessero,  temendo, 
eletto  a  comandante  di  tutte  le  forze,  non  altrimenti  che, 
temendo  e  sperando,  lo  elessero  comandante  contro  i 
Persiani,  i  monarchi  della  Persia  avrebbero  colto  il  destro, 
ed  alla  loro  volta  avrebbero  minacciato  la  Grecia.  Tito 
Livio  adunque  doveva  prima  d'ogni  altra  cosa  oflfrirci 
un  utile  quadro  delle  generali  relazioni  politiche  di  quella 
età.  La  tesi  militare  è  già  secondaria  alla  tesi  politica. 
In  Italia  non  vi  era  ancora  la  materia  d'incendio  che  vi 
trovò  Pirro,  e  trovò  Annibale,  perchè  le  colonie  greche 
non  erano  in  quel  tempo  minacciate  o  serve,  come  lo 
furono  poi:  quindi  le  loro  relazioni  con  Alessandro  non 
sarebbero  mai-àtate  così  spontaneamente  favorevoli  come 
quelle  delle  colonie  greco-persiane.  Inoltre  nei  Greci  di 
Sicilia  si  sarebbe  destato  il  sospetto,  e  poteva  sorgere 
facilmente  anche  nei  Cartaginesi.  £  questa  lega  generale 
delle  forze  di  Occidente  contro  di  lui  sarebbe  fuor  di 
ogni  dubbio  avvenuta,  se  Alessandro  avesse  intrapreso 
la  spedizione  d'Italia  non  prima  di  muoversi  contro  la 
Persia,  ma  dopo  di  avere  conquistato  quell'impero. 


CAPITOLO  VII. 

I  Romagi  signori  di  Greeia  e  di  lutto  l'Oriente: 

Filippo  di  Macedonia  e  Perseo: 

Antioeo:  Mitridate. 

Appena  morto  Alessandro,  precipita  l'unità  delVimpero. 
Ciò  che  fece  nel  secolo  XVII  Bernardo  di  Weimar  alla 
morte  di  Gustavo  Adolfo ,  i  generali  d'Alessandro  con 
meno  ragione  lo  fecero  tutti:  sconoscendo  la  famiglia  del- 
l'eroe defunto,  vollero  essere  re.  Cosi  rivivono  nelle  varie 
membra  dell'incommensurabile  impero  gli  antichi  regni 
distrutti  dalle  invasioni  persiane,  ma  alle  indigene  dina- 
stie perite  o  neglette  subentrano  le  nuove,  che  fondansiin 
ciascuna  contrada  dai  generali  d'Alessandro  colle  greche 
e  macedoniche  spade,  coU'ajuto  delle  greche  colonie, 
con  elementi  locali  abilmente  impiegati. 

Muovonsi  a  tumulto  le  città  greche  d'Europa.  Ciascuna, 
come  abbiamo  negli  storici,  gli  aveva  mandato  indirizzi  e 
felicitazioni  e  giuramenti  d'incrollabile  fede  a  lui,  alla 
prole,  alla  Macedonia.  Ciascuna  città  gli  aveva  detto  in 
Egitto  ed  in  Persia  per  mezzo  di  legali  suoi  che  durerebbe 
perpètuo  quel  vincolo  perchè  d'imperio  radicato  nei  cuori: 
udirsi  con  stupore  dal  mondo  intiero  le  estreme  meravi- 
glie di  lui,  ma  ascoltarsi  dai  Greci  anche  con  affetto  ed 
orgoglio  :  gli  Dei  avere  creato  per  Alessandro  nuove  genti 
e  nuovi  cieli  scoperto,  ma  non  animi  più  devoti  dei  Greci: 
antivedere  essi  nelle  passate  vittorie  i  trionfi  futuri,  se- 


^  Cif ITOLO  TU.  Ili 

guirlo  in  ogni  passo  coirammirazione,  coi  Toli  e  Iti  fede. 
Cosi  aveva  parlato  ogni  città,  e  se  ad  alcuna  toccava  di 
piangere  i  tristissimi  effetti  d^agitazioni  inconsulte,  più 
aveva  adulato  e  promesso.  Eppure  quanti  fra  i  Greci  erano 
stati  realmente  rapiti  e  conquisi  dallo  straordinario  spet- 
tacolo, e  trasformati  da  sovrumana  potenza  in  cortigiani 
sinceri  !  Il  genio  di  un  grand'uomo  fa  serve  le  menti,  ed 
anche  ì  non  volenti  sovente  incatena,  soggioga  e  strascina 
con  sé.  Abbagliati  dal  napoleonico  sole  molti  sinceri  re- 
pubblicani non  seguirono  le  sue  bandiere  più  fedeli  dei 
condottieri  pagati  a  gran  prezzo?  Allo  sparire  d'Alessan- 
dro però  tutte  le  protestazioni  furono  chiuse  nella  stessa 
tomba  con  luì  :  ogni  promessa  dispersa.  Ritorna  ad  agi- 
tarsi Demostene,  che  era  in  esiglio,  e  regnando  Alessan- 
dro si  era  tenuto  in  silenzio  e  nell'ombra  :  ricompare  in 
Atene  :  ha  un'apoteosi  dal  popolo,  che,  come  scrisse  con 
cieca  ubbidienza  la  pena  d'esiglio,  ora  scrive  con  cieca 
confidenza  il  richiamo  e  la  lode:  si  inneggia  a  libertà  :  si 
evocano  le  fredde  ceneri  degli  antenati  a  difenderla.  Ma 
un'immensa  variazione  negli  interessi  è  seguita  :  migliaja 
di  Greci  meglio  amano  conservare  i  palazzi  e  l'impero 
acquistato  nell'Asia,  che  non  ritornare  alle  capanne  na* 
tive  ed  alle  ubbidienze  e  vendette  delle  assemblee  della 
Grecia.  Mancanti  d'altronde  d'un  nerbo  di  forza  militare 
loro  propria,  e  sempre  divisi  e  contendenti  fra  loro,  i 
Greci  ribelli  sono  facilmente  sconfitti  dai  presidii  mace- 
donici vigilanti  e  numerosi,  e  Demostene  beve  il  veleno. 
Certamente  che  Eschine  ne  aveva  calunniato  il  carattere! 
Se  Demostene  avesse  amato  più  l'oro  che  Atene,  qual  mai 
fra  gli  ambiziosi  generali  d'Alessandro  lottanti  fra  loro 
non  avrebbe  fatto  salvo  e  comprato  un  uomo  si  grande? 
Avuta  la  seconda  vittoria,  confermano  i  Macedoni  le  isti- 
tuzioni oligarchiche  nelle  singole  città,  rovesciano  i  go- 


112  PARTE  PRIMA 

verni  popoleschi  dove  sono  risorti,  diradano  le  plebaglie 
facile  strumento  agli  agitatori,  mandandone  le  migliaja  a 
colonizzare  la  Tracia  ed  i  bordi  del  Ponto  Eusino,  TAu- 
stralia  di  quelle  età,  e  precorrono  ai  sistemi  economico- 
politici  di  colonizzazione,  che  ogni  aristocrazia  ha  lar- 
gamente praticato  nell'età  antica ,  nella  media  e  nella 
moderna. 

Abbiamo  delineato  la  storia  di  Grecia,  eia  riassumiamo 
ancora:  furono  i  Greci  prima  servi  di  Atene,  poi  servi  di 
Sparta,  poi  servi  di  Tebe,  finalmente  servi  dei  Mace- 
doni (1).  La  fortuna  aveva  infatti  versato  la  sua  ruota 
in  giro  :  si  erano  variate  le  forme»  non  la  sostanza  delle 
cose  :  nella  lotta  fra  la  ragione  e  la  violenza^  il  possesso 
e  la  pretesa,  il  dardo  era  sempre  stato  scoccato  al  cuore 
del  debole.  Ah  se  i  Greci,  invece  di  battersi  senza  posa  fra 
loro,  avessero  riunito  le  loro  forze  di  terra,  e  le  flotte  delle 
cinquanta  loro  isole  e  delle  immense  loro  coste,  chi  li 
avrebbe  eguagliati  di  prosperità  e  di  gloria?  Prima  che 
dai  Macedoni  o  dai  Romani,  il  mondo  sarebbe  stato  con- 
quistato da  essi  ! 

Tale  si  era  dunque  lo  slato  di  Grecia  quando  i  Romani 
v'entrarono.  Vi  era  la  servitù  macedonica  senza  l'operosa 
scaltrezza  del  primo  Filippo  ed  il  genio  impetuoso  d'Ales- 
sandro :  vi  erano  le  lotte  incessanti,  confuse,  dei  succes- 
sori suoi,  pretendenti  ciascuno  a  più  vasto  od  a  generale 
impero.  La  sovranità  d'ognuno  era  sorta  dall'usurpa- 
zione, ma  ora  chiamava.si  legalità,  ed  in  nome  di  questa 
ciascuno  rapiva  le  provincie  vuote  per  morte  di  principe, 
od  esulato  rivale.  1  Greci  combattevano  in  tutti  i  campi, 
in  tutte  le  contrade  sotto  i  fatali  condottieri  :  talvolta  le 


(i)  Vi  ha  certa  proporzione  anche  nella  varia  durata  deUa  supremazia  eser- 
citata dalle  diverse  città  della  Grecia.  Il  primato  di  Atene  durò  75  anni;  quello 
di  Sparta  34  :  quello  di  Tebe  25. 


GIPITOLO   Yll.  1t3 

città  acquistavano  momentanea  indipendenza;  allora 
scacciavano  i  patrizii  od  oligarchi  insediati  dai  Macedoni, 
si  reggevano  a  popolo,  si  insanguinavano  per  vendette, 
uccidevano  Focione  ed  i  suoi  :  poi  gli  esuli  ingrossavano 
le  file  dei  Macedoni,  e  questi  colVuno  o  colPaltro  signore 
tornavano,  e  rivolgevano  di  nuovo  il  governo. 

Sulle  spiaggie  di  questa  Grecia  lacera  e  convulsa  sbar- 
cavano i  Romani  le  truppe  vittoriose  di  Annibale.  Le  reg- 
geva Tito  Flamini  no,  bene  scelto  al  servizio  militare  e  po- 
litico: giovane^  d'appetto  benigno,  favella  e  pronuncia 
greca.  Proponeva  pace  a  Filippo  re  (il  quinto  di  questo 
nome  in  Macedonia)  purché  ritirasse  le  truppe  dalla  Gre- 
cia-j  e  la$cia$8e  i  Greci  in  loro  totale  arbitrio,  che  è 
quanto  dire  si  desse  per  vinto  avanti  il  combattere,  e  la 
Macedonia  retrocedesse  •  al  confine  che  aveva  prima  del 
trionfo  in  Cheronea.  Ebbe  la  repulsa  prevista,  ma  anche 
Teffetto  atteso  :  poiché  era  venuto  non  a  guerreggiare 
contro  i  Greci,  ma  contro  i  Macedoni  a  prò  dei  Greci, 
questi  lo  acclamano  liberatore,  riscattano  dai  padroni 
mille  e  duecento  Romani  superstiti  di  quelli  che  Annibale 
aveva  fatto  vendere  schiavi  in  Grecia,  e  li  donano  a  lui. 
/  Beozii  e  gli  Etoli  si  schierano  tosto  con  F laminino  : 
ed  un  terzo  del  suo  esercito  è  composto  di  Greci  :  non  vi 
sono  più  dunque  per  lui  nello  scacchiere  militare  di 
Grecia  né  chiusi  passi,  ne  impervii  paesi,  né  sussistenze 
difficili:  egli  ha  dovunque  partigiani  ed  amici  per  giun- 
gere a  scopo  :  confortati  dalVoste  poderosa  di  Roma, 
Eloli,  Achei  e  città  si  accostano  ad  essa,  negano  la  sog- 
gezione ai  Macedoni,  e  si  congiurano  a  torli  d'impero. 

Da  tutti  gli  storici  appare  infatti  che  i  Romani  ave- 
vano le  migliaja  di  Greci  congiuntissimi  a  loro  se  non 
di  fede ,  almeno  di  momentaneo  interesse  e  dì  voglie ,  e 
se  ne  giovavano  a  notizie,  ad  istigazioni,  ad  ajuti,  a  per- 

8 


114  PAIITE  PlIIMi 

correre.  Erano  genti  spigliate  ed  ardite,  atte  a  travagliarsi 
in  ogni  conserta  ed  inestricabile  via:  v'era  però  fra  esse 
anche  il  grande  Polibio  amico  dei  Scipioni,  ed  i  Romani 
se  ne  valsero  in  Grecia  per  paciere  e  legato ,  ma  non 
gli  affidarono  un  comando  giammai.  Dicevano  di  far 
la  guerra  agli  oppressori,  e  non  ai  Greci.  Qui  non  vi 
era  inganno  :  infatti  nessuno  fa  guerra  al  popolo,  ma  fa 
guerra  all'imperante,  perchè  il  popolo  vuole  conser- 
vare per  se  stesso,  il  signore  vuol  rimuovere  per  suc- 
cedere a  lui;  il  rapitore  non  fa  la  guerra  al  denaro, 
ma  a  chi  tiene  il  denaro,  perchè  il  denaro  vuol  conser- 
vare, e  chi  lo  tiene  vuol  rimuovere.  I  Macedoni  devono 
tenere  in  freno  tutta  Grecia,  e  devono  inoltre  combat- 
tere le  legioni  di  Roma.  Contro  una  potenza  quale  si 
è  la  romana,  è  inutile  di  opporre  una  forza  divisa  :  non- 
dimeno i  Macedoni  sperano  nella  saldezza  delia  loro  fa- 
mosa falange,  e  credono  che  le  legioni  non  ne  sosterranno 
il  peso  ;  al  peso  però  non  è  pari  il  moto,  e  quindi  la 
potenza  dell'urto.  La  legione  è  soda,  ma  altresì  snodala 
e  pieghevole,  è  utile  in  tutti  i  terreni  piani  od  alpestri, 
ha  tutte  le  armi  con  sé,  e  come  piccolo  esercito,  ha  per 
ogni  bisogno  potenza  d'assalto  e  difesa  :  la  falange  invece 
è  pigra,  indifesa  sui  fianchi;  può  ripiegarsi  a  coprirli, 
ma  è  sempre  debole  agli  angoli  come  lo  sono  i  nostri  bat- 
taglioni quadrati,  che  hanno  pur  quel  vantaggio  di  ferire 
da  lungi,  di  cui  la  falange  mancava.  Noi  però  non  pos- 
siamo indurci  a  credere  che  la  falange  si  schierasse  real- 
mente con  profondità  di  sedici  ranghi:  tale  profondità 
sarebbe  soverchia  ed  assurda:  dovendo  la  lancia  del  sol- 
dato dell'ultimo  rango  oltrepassare  la  fronte  del  primo, 
il  soldato  del  rango  estremo  avrebbe  avuto  a  sostenere 
una  lancia  d'almeno  trenta  piedi,  e  senza  equilibrio  ! 
Probabilmente  occorse  errore  di  cifra  nei  manoscritti  dei 


CAPlfOLO  TU.  IIS 

classici  copiati  per  secoli,  e  l'errore  fu  creduto,  e  si  crede  : 
forse  la  profondità  era  di  soli  sei  ranghi,  e  già  sufficiente 
a  sodezza.  Certo  si  è  che  la  falange  resìsteva  qual  muro, 
ma  al  solo  attacco  di  fronte,  e  non  s'avyentava  con  im- 
peto :  sgominata,  non  si  riformava,  abbisognava  d'un 
terreno  speciale ,  non  era  sempre  usabile  in  quello  ove 
il  nemico  la  sorprendesse.  La  falange  era  una  cittadella 
vivente,  ma  la  legione  era  cittadella  ed  esercito,  ed  abil- 
mente condotta  inopportuno  terreno,  doveva  prevalere, 
e  prevalse,  tanto  più  che  il  soldato  romano  era  anche, 
a  quanto  sembra,  meglio  armato  del  greco.  Le  quali  due 
cause  di  superiorità  militare  dei  Romani  sui  Greci  sono 
cosi  raccolte  da  Tito  Livio ,  e  presentate  in  complesso  : 
Macedonibus  arma  clypeuSj  sarisgwqua;  Ramanit  tctir- 
tum,  majus  corporis  tegumentum,  et  pilum,  haudpanlo, 
quatn  ha$ta ,  vehementiut  ictu  mmuque  tetum.  Sta- 
tarius  uterque  miles^  ordiìies  servam:  ted  illa  phalanx 
immobilis  et  uniw  generis.  Romana  aeies  dintinctior, 
ex  pluribus  partibus  constans,  facilis  partienti,  qua^ 
cumqìie  opus  esset,  facilis  jungenti. 

Rotto  a  Cinocefale,  Filippo  è  lasciato  pel  momento  sul 
trono,  ma  avvilito  e  senza  vascelli.  Posto  cosi  piede  più 
fermo  in  Grecia,  i  Romani  ripigliano  la  guerra,  marciano 
nella  stessa  Macedonia ,  vendicano  i  Greci  della  patita 
servita  dei  Macedoni,  tacciono  della  gloria  luminosis- 
sima che  con  essi,  e  per  essi  i  Greci  nell'Asia  acquista- 
rono, e  sono. padroni  di  tutto. 

Quando  Sparta  debellò  Atene,  non  aveva  debellato  Tebe 
sua  alleata  contro  di  Atene,  finché  Atene  era  più  forte  di 
tutte,  ma  sua  rivale  dopoché  Atene  cadde,  e  Sparta 
s'inalzò.  I  Macedoni,  più  previdenti,  avevano  distrutto 
Tebe;  i  Romani,  eccessivi,  rovinano  Perseo,  rovinano 
tutte  le  città  del  popoloso  Epiro,  rovinano  Corinto  poten- 


116  PARTE  Pimi 

tissima  :  ne  posset  aliquando  ad  bellum  faciendum  locut 
ipse  adhortari,  è  Tunica  causa  che  Cicerone  nell'opera 
(morale  !)  degli  Officii  adduce  della  distruzione  di  Corinto. 
E  Giustino  :  Qucerentibus  Romanis  causas  belli,  tempe- 
stive fortuna  querelai  Spartanorum  obtulit ....  Spar- 
tanis  a  Senatu  responsum  est,  legatos  se  ad  inspicien^ 
das  res  sociorum  et  ad  injuriam  demendam  in  Grwciam 
missuros  ;  sed  legatis  occulta  mandata  sunt,  ut  corpus 
AchcBorum  dissolver ent,  singulasque  urbes  proprii  juris 
facerent,  quo  facilius  ad  obsequia  cogerentur,  et  si  quoe 
urbes  contumaces  essente  frangerentur . ...  Vrbs  ipsa 
Corinthus  diruitur  ;  poputus  omnis  sub  corona  venditur^ 
ut  hoc  exemplo  c(Bterìs  civitatibus  m(Btus  novarum  re- 
rum irnponeretur. 

,  Ritornava  però  a  brevi  intervalli  anche  nei  vinti  la 
virtù  che  ne  aveva  cacciato  il  timore,  e  la  tardiva  sag* 
gezza,  che  ne  era  stala  per  inganno  sbandita.  Special- 
mente nella  Macedonia  calpestata  e  mesta  le  gloriose  me- 
morie erano  sprone  ad  ardimento  e  prodezza,  che  ancora 
non  era  antico  il  tempo  delle  egregie  imprese,  ed  il  po- 
polo trionfato,  ma  non  avvilito  e  molle,  addolciva  il  ran- 
core colla  speranza  di  vendetta.  S'avvicinavano  di  nuovo 
pel  bisogno  comune  Macedoni  e  Greci  ;  cospiravano , 
speculavano  i  cuori  dei  popoli,  saldo  studio  facevano  di 
non  darsi  perduti,  usavano  più  irose  le  liYigue  frenate. 
Tutti  consigliano  il  pericolo,  e  molti  vi  entrano:  uniscono 
genti  poco  stabili  per  se  stesse,  ma  le  sperano  forti  quando 
saranno  in  necessità  di  difendersi  :  delle  rotte  patite  danno 
la  colpa  a  discordia,  ad  errori  di  re:  saranno  emendati 
dalla  virtù  d'altri  principi.  E  non  essendovi  i  principi 
veri,  ma  giovando  che  principi  siano  per  aver  centro  al 
potere,  e  capi  confortati  dalla  riverenza  del  popolo,  che 
non  sa  separarsi  facilmente  da  loro,  là  disperazione  o 


cAmoLO  rn.  117 

scaltrezza  ne  creava  dU  falsi,  e  si  piaceva  di  loro,  ed  in 
essi  credeva.  La  Macedonia  infatti  e  la  Grecia  ebbero  in 
allora  i  loro  pseudo-Filippi  e  pseudo-Persei,  come  v'eb- 
bero nelVantica  Persia  i  pseudo-Darii,  ed  in  Russia  in 
tempi  meno  remoti,  o  vicini  a  noi,  i  falsi  Demetrii  ed  i 
Pietri  redivivi.  Quindi  si  videro  popoli  precipitosi  correre 
confusamente  alle  armi,  fare  ai  falsi  principi  le  consuete 
adulazioni,  schierarsi  di  nuovo  in  battaglia,  affaticare  in 
numerosi  conflitti  la  romana  fortezza,  sparire  Qualmente 
per  orribili  stragi. 

Ora  la  Grecia  è  povera  e  languente  ;  le  armi  di  Roma 
tutta  la  signoreggiano.  I  Greci  possono  giuocare  in  Olim- 
pia, ma  davanti  ad  un  proconsole  romano,  e  realmente 
giuocavano,  che  alla  umiliazione  dei  Greci  non  mancava 
se  non  il  fare  allegrezza,  e  facevanla;  possono  vivere 
secondo  le  loro  leggi,  ma  viene  inviato  da  Roma  il  gius- 
dicente pretore;  possono  interrogare  Apollo  in  Delfo, 
ma  già  sobillalo  da  Apollo  romano.  Disperati  però  i 
possibili  ajuti  d*opera  umana,  cessò  anche  la  frequenza 
agli  altari  supplicati  per  soccorsi  divini,  e  quindi  l'Apollo 
di  Delfo,  non  pid  interrogato  che  da  qualche  credente 
volgare,  preferisce  di  tacere:  Delphis  oracula  cessant 
(Giov.,  Sat.  VI),  Delphica  $edes  siluit  (Lue,  \]. 

Debellati  i  Greci  d*£uropa,  restavano  a  vincersi  i  Greci 
d*Asia,  l'Egitto,  la  Siria  e  la  Gallia;  poi  tutto  il  Mediter- 
raneo era  nel  cerchio  delle  provincie  romane. 

Finché  i  Romani  non  erano  padroni  di  tutto  il  Me- 
diterraneo, non  erano  sicuri  delle  loro  conquiste  :  dove- 
vano progredir  oltre,  o  sempre  temere  di  retrocedere. 
La  marineria  non  era  in  antico  perfezionata  come  la  ve- 
diamo oggidì,  celere,  forte  e  sicura  per  modo  che  ogni 
popolo  prevalente  sul  mare  può  crearsi  su  qualunque 
spiaggia  straniera  una  base  repentina,  impreveduta  di 


118  rA&TfiriiiMA 

operazioni  guerresche,  forzare  arditamente  con  uayi 
corazzate  l'ingresso  in  ogni  porto  che  non  sia  di  varco 
s)  angusto  com'è  p.  es.  il  Pireo,  ed  effettuare  sbarchi 
anche  a  fianco  ed  a  tergo  di  quelle  linee  formidabili  di 
fiumi  e  di  monti,  coi  quali  gli  Stati  sogliono  proteggere 
la  loro  fronte  contro  gli  sforzi  degli  eserciti  avanzanti  per 
terra.  Ma  anche  in  antico  la  movibililà  della  marineria 
ne  costituiva  un  elemento  potente  d'aggressione  o  difesa 
per  Stati  aventi  grande  sviluppo  di  spiaggia  in  non  va- 
stissimo mare,  ed  i  popoli  del  Levante  avevano  flotte 
considerabili,  perchè  la  guerra  lunghissima  di  Roma  e 
di  Cartagine  aveva  loro  dato  tempo  di  costruirle,  e  di 
addestrarle.  Padroni  di  grandi  flotte,  i  monarchi  del  Le- 
vante potevano  ad  ogni  momento  prendere  per  base  di 
operazione  il  mare,  per  scala  d'operazione  le  isole,  per 
ajuti  le  malcontente  provincie,  per  obbietto  l'Italia;  essi 
potevano  sconvolgere  l'impero  romano,  infestare  tutte 
le  coste,  muovere  le  ribellioni  e  dar  forza  alle  medesime. 
11  guardare  una  provincia  disaffetta  doveva  essere  facile 
per  Roma  potentissima;  non  era  però  possibile  il  guar- 
dare migliaja  di  leghe  di  littorale  popolato  da  nazioni 
disposte  a  ribellarsi  appena  ricevessero  soccorso.  Ma 
gli  eserciti  minacciano  un  punto  solo ,  e  Roma  poteva 
guardarlo:  le  flotte  minacciano  tutti  i  punti,  tutte  le  coste, 
tutte  le  Provincie,  e  Roma  non  poteva  guardarle  ;  doveva 
possedere  tutti  i  vascelli,  possedere  tutte  le  coste  del  He* 
diterraneo,  altrimenti  non  era  sicura. 

Da  ciò  proviene  quell'odio  intenso  dei  Romani  contro 
le  flotte,  che  uomini  d'altronde  assenna tissimi,  per  esem- 
pio Mengotli,  spiegherebbero  in  modo  poco  meno  che 
assurdo.  I  Romani  odiavano  le  flotte,  abbruciavano  i 
vascelli,  in  ogni  trattato  di  pace  se  li  facevano  conse- 
gnare: ciascuno  odia  le  armi  del  nemico,  e  più  le  odia 


cmtoto  VìU  110 

quanto  pia  sono  pericolose.  Era  profonda  politica,  non 
era  rozza  barbarie  la  decimazione  e  l'incendio  de'  va- 
scelli cartaginesi  non  meno  ne'  trattati  di  pace  che  nella 
guerra  (i).  Ogni  detrimento  alle  flotte  di  Cartagine  era 
per  quello  Stato  una  ferita  profondissima.  Roma  sa- 
piente non  limitava  nella  pace  il  numero  delle  falangi 
terrestri  della  sua  rivale;  bensì  limitava  quello  delle 
sue  navi. 

Quanto  i  Romani  dovevano  odiare  la  flotta  d'Antioco 
re  di  Siria  !  Annibale  rifugiato  in  sua  corte ,  e  bene  ac- 
colto da  lui,  aveva  sobillato,  istigato,  ed  Antioco  aveva 
inteso  quanto  un  uomo  ambizioso  ma  mediocre  può  inten- 
dere da  un  grande.  Portate^  diceva  Annibale,  la  guerra 
in  Italia^  ivi  conquisterete  la  Grecia,  ivi  troverete  un 
etercito,  e  tutto  ciò  che  è  d'uopo  a  mantenerlo  :  fuori 
dell'Italia  non  vi  è  né  un  re,  né  nazione  capace  di  re- 
siitere  ai  Romani;  datemi  dieci  mila  ìwmini,  e  ba^ 
stano  (Plutarco,  in  Annibale).  Per  verità  il  consiglio  era 
audacissimo,  mentre  erano  ancora  si  recenti  i  fatti  della 
punica  guerra  :  si  esitò,  si  contraddisse  :  si  volle  essere 
arditi,  non  temerarii  :  si  preferì  d'accorrere  nella  Grecia 
malcontenta. 

Mediante  la  flotta  Antioco  sì  era  infatti  gettato  sulla 
Grecia,  aveva  potuto  proclamarvi  la  libertà,  aveva  dato 
soccorso  al  popolo,  e  posto  le  cose  romane  in  pericolo. 
Appena  i  Romani  riportarono  dei  vantaggi  contro  An- 
tioco, offersero  la  pace,  purché  stesse  di  là  dal  Tauro 
a  confine,  mandasse  a  Roma  un  figlio  (che  fu  poi 
YEpifane,  e  quindi  il  nipote  Demetrio  Solerò) ,  e  so- 
prattutto consonasse  loro  la  flotta.  Antioco  intimorito 
consegnò  i  vascelli  :  da  quel  momento  cessò  di  essere 

(i)  Scipione,  p.  e.,  nel  trattato  di  pace  che  stipulò  dopo  la  gran  vittoria  di 
Zama,  ai  fece  consegnare  cinquecento  vascelli  cartaginesi,  e  lì  abiNruciò. 


120  FAIITE  PRIMA 

pericoloso  per  Roma  quel  re  della  Siria  !  Alcune  le- 
gioni bastavano  a  tener  in  freno  un  re  che  più  non  pos- 
sedeva le  formidabili  gole  di  Cilicia ,  né  più  aveva  una 
flotta  per  insidiare  i  lidi,  oflendere  da  lungi,  portare  la 
guerra  in  Provincie  remote.  Tórre  la  flotta  ad  un  nemico 
era  un  limitare  la  sua  potenza,  un  circoscriverla  entro  la 
sfera  del  proprio  territorio,  un  ridurre  ad  una  semplice 
lotta  militare  e  locale  una  pericolosissima  lotta  politica 
ed  universale.  La  vittoria  era  certa  per  Tesercilo  pre- 
ponderante :  di  quanto  le  legioni  romane  nou  dovevano 
prevalere  all'esercito  siriaco! 

Noi  siamo  ben  lungi  dal  voler  indagare  in  ogni  fatto 
allusioni  strane  o  misteriose  immagini  :  rifuggiamo  anzi 
cosi  da  audacie  fantastiche,  come  da  facili  credenze  che 
sottraggono  a  pena  di  indagini  della  nuda  verità.  Sem- 
braci però,  che  quando  Popilio  Lena  segnava  sul  ter- 
reno un  cerchio  intorno  ad  Antioco  Epifane,  e  gli  do- 
mandava superbamente  immediata  risposta  agli  ordini 
del  Senato,  potesse  dire  a  lui:  e  Roma  ti  ha  isolato  nel 
tuo  regno,  siccome  io  l'isolo  con  questa  linea  :  tu  non 
puoi  sortire  dal  cerchio  del  tuo  regno  :  la  Siria  non  ha 
più  vascelli:  il  mare  e  le  legioni  di  Roma  sono  la  bar- 
riera del  tuo  carcere:  ubbidisci  al  Senato:  tu  sei  nelle 
forze  di  Roma  i  (Giustino,  lib.  XXXIV). 

Non  solo  erano  distrutte  le  forze  di  mare,  ma  anche 
le  terrestri  de'  re  siriaci  erano  ormai  paralizzate  e  vinte. 
Il  Senato  di  Roma  non  aveva  scemato  di  prudenza, 
sebbene  i  re  della  Siria  avessero  scemato  di  forza.  I  re 
di  Siria  erano  dai  Romani  insidiali  alle  spalle;  Roma 
stringevasi  in  lega  con  tutti  i  popoli  che  il  regno  siriaco 
circondavano,  e  dal  polso  dei  Romani  speravano  mu- 
tuata potenza  d'indipendenza  e  vendetta.  Fra  questi 
erano  principali  gli  Ebrei. 


.      CAPITOLO  TU.  121 

Nei  frequenti  e  sempre  dubbii  conflitli  fra  le  dinastie 
d'Egitto  e  quella  di  Siria,  gli  Ebrei  occupando  il  terreno 
intermedio,  erano  stali  da  entrambe  vagheggiati,  insi- 
diati, istigati:  prevalendo  poi  di  forza  la  dinastia  siriaca, 
gli  Ebrei  erano  stati  da  questa  aggressi  e  conculcati. 
Come  gli  antichi  monarchi  degli  Assiri  li  avevano  una 
volta  calpestati  e  costretti  all'adorazione  di  Belo,  ora 
Antioco  Epifane  li  voleva  costringere  all'adorazione  di 
Giove  Olimpico,  e  ne  collocava  la  statua  nello  stesso 
tempio  di  Gerusalemme;  dovevano  mutarsi  in  Siriaci,  il 
che  in  quel  tempo  voleva  dire  in  Greci  :  così  i  successori 
d'Alessandro  rispettavano  quel  Dio  degli  Ebrei,  che  Ales- 
sandro aveva  adorato  prima  d'essere  vincitore  in  Arbela! 
Resistevano  gli  Ebrei,  e  per  meglio  raccolti  resistere, 
riunivano  di  nuovo  il  principato  al  sacerdozio  già  scisso 
all'epoca  di  Sanile.  Seguivano  orribili  massacri,  e  fughe 
di  torme  d'Ebrei  specialmente  in  Egitto:  i  Tolomei  li 
accoglievano,  onoravano  i  loro  Capi,  facevano  tradurre 
la  Bibbia  dai  Settanta  :  si  narravano  miracoli,  si  mormo- 
ravano profezie.  I  re  d'Egitto  speravano  negli  Ebrei, 
e  gli  Ebrei  in  loro,  ma  ora  si  vedevano  spuntare  da 
lungi  le  aquile  romane,  e  più  speravano  gli  Ebrei  in  Roma 
fortissima.  Ed  anche  per  Roma  era  ancor  tempo  di  mo- 
strar volto  benigno,  e  di  porgere  liberali  parole.  Quindi  i 
Romani  stipulavano  cogli  Israeliti  quel  patto  federale  che 
troviamo  nelle  sacre  pagine,  al  primo  libro  dei  Mac- 
cabei, unito  a  laudi  amplissime  della  fortezza  e  della  sa- 
pienza dei  Romani,  ed  all'orgoglioso,  non  vero,  nemini 
servivimus  unquam  (1).  Quando  i  re  di  Siria  furono  quasi 


(1)  Questi  non  erano  del  resto  i  primi  amorì  politici  degli  Ebrei  cogli  stra- 
nieri che  siano  ben  noli  alla  stona.  Ve  n'erano  slati  altrì  per  cause  identiche 
cogli  Spartani,  ed  in  quelli,  come  nei  primi  amorì,  le  espressioni  d'affetlo  sono 
più  effuse  e  piik  tenere.  Alcuno  aveva  trovato  (ciò  vuol  dire  inventato,  ed  in 


Hi  nilTE  PAìUk 

esangui  per  le  tante  ferite  ai  fianchi  ed  alle  spalle  (e 
Giuda  Maccabeo  nell'eroica  sua  vita  loro  ne  aveva  por* 
lato  di  asprissime),  i  Romani  si  lanciarono  loro  al  petto» 
e  non  ristettero  dal  percuotere  e  dalFinvadere ,  finché 
i  loro  nemici  e  gli  alleati  non  furono  ad  ugual  sorte 
sudditi  dì  Roma.  Allora  avranno  inteso  i  Giudei  quale 
sincerità  vi  fosse  in  quel  romano  monitorio  mandato  a 
Demetrio  re,  perchè  il  suo  giogo  sopra  Israele,  amico  dì 
Roma,  non  aggravasse,  né  Roma  obbligasse  a  combat- 
tere per  la  giustizia  e  perla  felicità  del  popolo  giudaico  1 
Allora  intesero  quale  si  fosse  veramente  quella  tempe- 
ranza dei  Romani,  qui  acquiescunt  ad  omnia  qum  po^ 
stulantur  ab  eis  I  Giuseppe  Ebreo  aveva  veduto  le  con- 
seguenze; egli  aveva  cioè  veduto  i  tremendi  massacri  del- 
Tossidione  romana,  le  carni  dei  figli  per  delirio  di  fame 
dalle  madri  pasciute,  i  veri  o  creduti  discendenti  di  Davide 
crocifissi  dai  romani  prefetti,  ed  il  principio  di  quell'an- 
dare ramingo  del  suo  popolo  per  tutto  il  mondo  noto 
ed  ignoto,  che  dopo  venti  secoli  non  ha  cessato  ancora, 
e  la  cui  amarezza,  grave  per  ogni  popolo,  lo  era  di  più 
per  Tebreo  da  tante  memorie,  da  tante  credenze  infisso 
alla  terra  prometta.  E  doveva  ben  conoscerlo  Giuseppe 
Ebreo ,  se  lo  sapeva  Tacito  che  scrisse  che  era  peggiore 
di  morte  :  ti  trantferre  tedet  cogerentvr ,  major  vita^ 
metut  quam  mortit  (Storie,  lib,  V,  cap,  13).  Aveva  egli 
pure  combattuto  da  forte  i  Romani,  ma  quando  argo- 
mentò nella  forza  di  questi ,  e  nei  delirii  furibondi  dei 


politica  che  mai  non  si  inventa  e  si  crede?)  che  gH  Ebrei  ed  i  Lacedemoni  de- 
rivavano egualmente  da  Abramo,  ed  erano  quindi  fratelli,  e  questa  parola,  di 
cui  si  fa  a'  di  nostri  tanto  uso  ed  abuso,  biiila  nelle  tenerezze  politiclie  anche 
venti  secoli  fa.  Invtntum  est,  dice  la  Bibbia,  in  icripiura  da  Spartiati$  et 
Judeeis  quoniam  $unt  fratre$,  et  qw>d  sunt  de  genere  Abraham,  e  Gionala 
Maccabeo  scriveva  ai  Lacedemoni  come  a  fratelli;  Spartiatie  finUrìbue  M/ti/em. 


antoto  VII.  1S3 

suoi  la  vanità  del  resistere ,  non  rimase  cosi  della  sua 
patria  dolente  che  non  cercasse  sicurezza  nel  campo  ro- 
mano* e  favore  e  ricchezza  con  Vespasiano  e  con  Tito. 
Entrambi  accolsero  ed  amarono  questo  Livio  della  na- 
zione giudea,  ed  egli  di  mille  scorni  ed  imprecazioni  in- 
giuriato dai  suoi,  ha  bensì  maculato  la  penna  d'inchio- 
stri servili  a  Vespasiano  ed  a  Tito,  ma  narrando  di  quelle 
antiche  alleanze  pensò  nel  suo  cuore  agli  effetti,  e  quindi 
fu  muto  d'ogni  lode  alla  temperanza  romana. 

Mitridate  aveva  ridotto  in  suo  potere  gran  parte  delle 
città  greche  dell'Asia,  e  minacciava  di  prendersi  il  rima- 
nente. I  Romani  si  mossero  per  liberarle,  ed  acquistare 
cosi  il  pieno  dominio  dell'Arcipelago  e  del  Ponto  £usino. 
Ma  le  fiere  turbolenze  scoppiate  in  Roma  fra  il  popolo 
ed  il  Senato  ritardarono  il  corso  degli  eserciti  romani,  e 
Mitridate  ebbe  il  tempo  di  entrare  nella  Grecia.  Da  Ap- 
piano alessandrino  sappiamo  che  egli  proclan^ò  la  libe- 
razione dei  Greci  dal  dominio  dei  Romani,  ed  inoltre  la 
liberazione  degli  schiavi  e  l'assoluzione  degli  obblighi  dei 
debitori  verso  i  creditori  loro.  Cosi  si  fece  subito  forte 
nella  Grecia  :  proscrisse  i  cittadini  romani,  e  ne  segui  una 
strage  orribile  dal  Ponto  alF Adriatico.  Fu  un  vespro 
siciliano  ;  fu  la  strage  dei  Danesi  eseguita  in  un  di  da 
£telredo  II d'Inghilterra;  fu  una  notte  di  san  Bartolomeo 
in  grandi  proporzioni:  caddero  in  un  sol  giorno  ottanta 
mila  Romani  secondo  Valerio  Massimo,  e  centocinquanta 
mila  secondo  Plutarco,  che  il  numero  degli  uccisi,  pel 
silenzio  da  un  lato,  l'esagerazione  dall'altro,  non  lo  si 
conosce  con  precisione  in  simili  casi  giammai.  Cer- 
tamente i  Romani  erano  numerosissimi  in  quelle  ricche 
e  già  acquistate  provincie,  giacché  abbiamo  non  poche 
prove  nei  classici ,  per  esempio  in  Cesare  e  Tacito , 
che  essi  erano  numerosi  anche  nelle  provincia  straniere 


124  PIITB  PEIIU 

conOnanti  colle  romane,  e  perfino  nelle  barbare,  nel  Bel- 
gio e  Germania,  ove  si  conducevano  e  stabilivano  pel  van- 
taggio dei  traffichi,  ed  ove  pure  perirono  a  migliaja  in 
diverse  occasioni  d*orribili  stragi  per  le  rivolle  esasperate 
dei  popoli  (1).  I  beni  degli  uccisi  avrà  Mitridate  promesso 
ai  creditori  per  Tindennizzazione  dei  debiti,  che  il  re  con- 
donava, ai  padroni  degli  schiavi  pel  prezzo  dei  medesimi» 
alle  città  per  la  rifusione  delle  taglie,  il  tutto  da  liqui- 
darsi dopo  la  guerra  (2).  Ha  quella  fu  lunga  e  terribile: 
nell'odio  contro  i  Romani  Mitridate  battuto  da  Siila,  da 
Murena,  da  Lucullo,  sempre  risorgeva,  e  l'esercito  ro- 
mano di  Triario  fu  per  modo  distrutto  da  lui,  che  non 
ex  prceiio  nuntiWy  sed  ex  sermone  rumor  (Cic.)  informò 
Roma  del  disastro,  appunto  come  segui  ai  giorni  nostri 
(1841)  dell'esercito  indo-britannico  totalmente  stermi- 
nato dagli  Afgani  a  Gabul.  Riuscì  nondimeno  a  Siila , 
terribile  guerriero,  col  soccorso  specialmente  dei  Rodii, 
minacciati  da  Mitridate,  di  cacciarlo  dalla  Grecia  e  da 
Atene,  che  Mitridate  volle  difendere  fino  agli  estremi, 
ben  conoscendo  l'importanza  di  tener  fermo  piede  nella 
Grecia.  Siila  massacrò  ad  Atene  senza  pietà,  ma  non  ere- 

(1)  Un  passo  di  Cicerone  ci  spiega  chiaramente  come  una  si  orribile  proscri- 
zione mitridatica  abbia  potuto  effettuarsi  in  paesi  così  vasti  ed  in  gran  parte 
civili  :  «  Difficile  est  dictu  (parlava  nel  fóro  allo  stesso  popolo  romano)  quarUo 
in  odio  sinms  apud  exleras  nationes  propler  eorum  quos  ad  eas  per  hos  annos 
cum  imperio  misimus  injurias  ac  libidines.  Quod  enim  fanitm  putalis  in 
illis  ierris  noslris  magistralibiu  religiosum,  qMtn  civitatem  sanclam,  quam 
domum  saiis  clausam  ac  munitam  fuisse?  Urbesjam  locupleles  ac  copiosm 
requirunlur,  quibiis  causa  belli  propler  diripiendi  cupiditatem  inferatur, 

(2)  Vedonsi  nei  musei  monete  d'oro  e  d'argento  con  greca  leggenda  di  questo 
Mitridate,  che  nella  serie  dei  re  di  tal  nome  è  Mitridate  VI  Eupatore  Diouisio, 
ma  per  essere  il  più  famoso  di  tutti  suolsi  per  Tordinario  appellare  semplice- 
mente Mitridate.  Non  si  sa  dove  quelle  monete  con  greca  leggenda  furono  bat- 
tute :  forse  io  furono  in  Panticapeo  o  Fanagoria,  od  in  altra  colonia  greca  del- 
l'Asia sul  Ponto  Eusino  compresa  nel  regno  di  Ponto.  Potrebbero  però  essere 
state  battute  nella  stessa  Grecia  di  Europa,  dove  Mitridate  avrà  assunto  ogni 
forma  ed  usato  ogni  arte  di  piacere*  di  seduzione  e  d^in^anno  pei  Greci. 


CAPITOLO  yn.  125 

diamo  a  quei  finmi  di  sangue,  che  scorrono  si  di  fre- 
quente nelle  pagine  degli  storici,  che  talvolta  descrivono 
perGno  il  nuotare  d'uomini  e  cavalli  in  essi  :  dopo  il 
massacro  Siila  perdonò,  e  come  sempre  si  legge  quando 
'  ktene  èinYasei,  pei  meriti  degli  antenati.  Mitridate  tentò 
rientrare,  e  realmente  rientrò  per  la  Propontide,  ma  Siila 
si  avventò  contro  di  lui  a  Cheronea  ed  Orcomeno,  e  ne 
sgombrò  la  Grecia  in  due  battaglie,  che  non  devono  però 
essere  slate  battaglie  di  giganti,  come  le  descrive  Plutarco, 
né  stragi  di  centomila  Asiatici,  come  egli  dice,  ma  fughe, 
se  Siila  non  perdeva  che  pochi  soldati,  anzi  soli  dieci  a 
Cheronea.  Fino  a  quei  trionfi  Siila  per  mantenere  le  sue 
genti  aveva  spogliato  senza  scrupolo  i  più  ricchi  templi 
degli  Dei  :  dopo  i  trionfi  volle  indennizzare  gli  Dei  :  or- 
dinò ai  Tebani  ed  altri  Greci  che  avessero  a  pagare  per  lui. 
Del  resto  Siila  rapiva  tutto  anche  senza  lasciare  ad  altri 
il  carico  di  compensare  :  predava  quanto  si  era  con  arte 
incantevoledi  pennello  dipinto,  sculto  con  ferro,  o  fuso  con 
fiamma,  e  tutto  a  Roma  portava,  all'Atene  occidentale  :  il 
gusto  dell'arte  si  mesceva  a  quello  della  rapina:  Siila  ne 
fu  maestro  a  Fulvio  Nobiliore  che  da  Ambracia  (Arta), 
la  capitale  di  Pirro,  portò  a  Roma  le  cenlinaja  di  statue 
greche  di  metallo  e  di  marmo,  ed  anche  quadri  di  Zeusi 
(Plut.):  ne  fu  maestro  a  Lucullo,  a  Pompeo,  che  preda- 
vano i  capolavori  ovunque  li  trovavano:  lo  fu  fino  a  coloro 
che  nel  medioevo  rapirono  anche  reliquie  e  corpi  di  santi 
(cosicché  vediamo  a  Colonia  quelli  che  Barbarossa  vi  portò 
da  Milano),  fino  a  Gustavo  Adolfo  che  mandò  da  Germania 
in  Isvezia  i  protolavori  tipografici,  fino  a  Bonaparte  che 
volle  fare  di  Parigi  un  museo  universale,  a  lutti  i  principi 
insomma,  che  in  modo  più  silenzioso,  graduato  e  spesso 
artificioso  spogliarono  le  provincie  pel  lustro  della  capi- 
tale. Ma  Siila  aveva  pur  esso  avuto  l'esempio  da  Mum- 


126  PABTB  FElHi 

mio  di  questo  estetico  latrocinio ,  di  questo  rapire  cioè 
per  nobile  entusiasmo  e  culto  dell'arte.  Mummio  infatti 
poco  prima  di  Siila  aveva  rapito  tutti  i  capolavori  a  Co- 
rinto, ed  il  solo  averli  rapili  palesa  che  barbaro  non  era, 
e  ne  conosceva  il  pregio.  Suona  quindi  come  terribile  mi- 
naccia, e  non  già  come  stolta  dichiarazione,  quella  inti- 
mazione di  Mummio  ai  nocchieri  incaricati  del  trasporto 
dei  capolavori  a  Roma,  sulla  quale  tanto  si  ride  e  si  stul- 
tizza  ogni  d)  :  se  voi  li  perderete^  se  li  guasterete,  do^ 
vrete  restituirli  con  altrettanti  d'eguale  bontà.  Erano 
le  opere  incantevoli  di  Polignoto,  di  Zeusi  e  di  Apelle  ! 
(Vell.  Paterc).  Può  dirsi  idiota  quel  console  che  sce- 
glieva si  bene  la  preda?  Se  fosse  stato  un  idiota,  si  sa- 
rebbe curato  di  mandare  fino  a  Roma  delle  tele  e  dei 
marmi,  e  di  raccomandare  egli  stesso  il  trasporto?  Ma 
anche  Mummio  aveva  avuto  i  suoi  precursori  in  Fabio, 
che  prese  a  Taranto  e  collocò  in  Roma  l'Ercole  di  Li- 
sippo ,  ed  in  Marcello  che  spogliò  la  miranda  Siracusa 
d'ogni  capolavoro  dell'arte  greca.  Chi  mai  potrebbe  però 
indicare  il  primo  autore  di  tali  rapine?  Sempre  si  governò 
col  martello,  e  la  civiltà  d'un  uomo  o  d'un  popolo  inse- 
gnò piuttosto  a  dirigerne  la  tempesta  dei  colpi  che  non 
a  sospenderla,  e  paragonando  le  storie  si  vedono  ripro-: 
dotte  le  medesime  sembianze  di  cose  quaggiù,  come  si 
vedono  le  medesime  apparizioni  nell'aspetto  dei  cieli. 

Mitridate  veniva  così  dalla  Grecia  profligato  ed  espulso. 
Parve  quasi  che  Roma  non  volesse  fruire  del  suo  trionfo: 
parve  che  cercasse  la  quiete,  la  conquista  disdegnasse. 
Accordò  la  pace  al  re,  purché  desse  denaro  e  desse  i  va- 
scelli. Fosse  necessità,  fosse  terrore,  Mitridate  acconsenti, 
e  coU'acconsenlire  si  pose  in  mano  di  Roma.  I  Romani, 
sicuri  de'  loro  regni  e  delle  provincìe  loro,  si  avanzarono 
nell'Asia,  ed  usarono  contro  Mitridate  quelle  armi  di 


CAPITOLO  TU.  187 

suggestione  e  di  guerra,  ma  più  di  suggestione  che  di 
guerra,  che  Mitridate  aveva  usato  contro  di  loro  nella 
Grecia.  In  allora  tutta  TAsia  andò  a  ruba  :  arricchivano 
i  soldati,  i  duci  d'esercito  straricchivano.  L'oro  pre- 
dato veniva  poi  a  profondersi  in  Roma  nel  broglio 
sfrenatissimo  dei  suffragi  comiziali.  Tutti  gli  storici  ne 
fanno  fede.  Ad  ogni  istante  nuove  leggi  contro  il  broglio, 
accuse  nuove,  leggi  neglette,  richiamate,  invilite.  Offerte 
pubbliche  di  milioni  di  sesterzii  per  ottenere  una  provin- 
eia,  un  comando,  un  mezzo  d'arricchire;  doni  immensi 
per  conservarsi  Tufficio  oltre  la  durata  legale.  Cicerone 
promotore  di  leggi  contro  la  vendita  dei  voti,  difendeva 
perorando  i  compratori  nelle  arringhe  prò  Murena,  prò 
Piando  e  prò  Fontejo,  ed  anche  i  rapitori  in  quella  prò 
Fiacco,  che  i  presenti  testimoni!  greci  ed  asiatici  accusa- 
vano de  repetundh.  La  sera  poi,  quasi  per  diporto,  Ci- 
cerone scriveva  le  sue  quwstiunculcB  stoicw  de  pregna 
ntilis  eum  honesto. 

Percosso  e  ripercosso  Mitridate  non  piegò  mai  la 
fronte  superba:  cacciato  di  paese  in  paese,  mostrò  la  più 
grande  delle  soldatesche,  forse  delle  umane  virtù,  la. 
perduranza;  ma  il  torrente  delle  forze  romane  non 
aveva  più  diga:  all'asiatico  Anteo  fu  tolta  ogni  terra: 
Schiacciato  fra  braccia  di  ferro,  Mitridate  periva  (1). 


(1)  Secondo  TErodoto  degli  Armeni,  Mosè  di  Gorene,  la  cui  storia  conosciamo 
per  la  versione  pubblicata  dai  Mechitaristi  di  Venezia  nel  1841,  Mitridate  morì 
di  veleno  propinatogli  dal  padre  di  Ponzio  Pilato  per  ordine  di  Pompeo. 

Mosè  Corenense  discorda  quindi  da  tutti  gli  storici  greci  e  latini,  che  narra- 
rono cose  sceniche  e  romanzesche  circa  la  morte  di  Mitridate,  il  dolore  di 
Pompeo,  e  gli  onori  che  questi  fece  rendere  al  defunto. 


CAPITOLO  Vili. 

FiAali  conquiste  dei  Romani.  —  Loro  politica  esterna. 

La  Gallia  transalpina,  vasta  contrada  che  compren- 
deva in  allora  quanto  di  paese  giac^  a  ponente  delle  ori- 
gini, corso  e  foci  del  Reno  fino  ai  Pirenei  ed  ai  mari,  era* 
già  stretta  dai  possessi  dei  Romani ,  che  avevano  anche 
invaso  il  liltorale,  movendosi  a  soccorrere  i  Marsigliesi 
minacciali  dai  Barbari.  Ne  .conquistarono  poi  Tinterno 
colle  armi  e  col  consiglio  di  Giulio  Cesare,  che  forse  fu 
Tuomo  più  grande  che  sia  vissuto  giammai.  Egli  stesso 
descrisse  nei  commentarii  che  ci  lasciò,  la  guerra  gallica 
e  la  civile,  ed  è  gran  danno  per  gli  studii  che  non  ci  la- 
sciasse altresì  la  storia  della  sua  prima  guerra  ispano- 
lusitana,  dell'alessandrina,  delPafricana  e  della  seconda 
spagnuola.  L'opera  di  Cesare  è  quasi  esclusivamente 
militare,  e  solo  incidentalmente  politica,  ed  i  più  nella 
lettura  si  appagano  della  visione  di  quella  scena  ani- 
mata di  battaglie  ed  assedii,  quasi  le  conquiste  di  Cesare 
siano  state  un  mero  frutto  di  militare  prodezza.  Ma 
Cesare  ha  dato  nel  libro  VI  una  descrizione  brevissima 
delle  Gallie  da  grande  politico  qual  egli  era.  In  essa  dice 
apertamente  che  nella  Gallia  vi  sono  fazioni  non  solo  in 
ogni  contrada,  in  ogni  città  e  borgata,  ma  eziandio  in 
quasi  tutte  le  famiglie  ;  dice  che  la  discordia  fra  le  classi 
vi  è  immensa  ;  che  ogni  fazione  ha  i  suoi  capi  nell'in- 
lerno  e  le  sue  relazioni  all'esterno  ;  che  le  elezioni  dei 


CAPITOLO  TIU.  129 

capi-druidi  di  rado  procedono  senza  sangue;  che  non  è 
permesso  a  veruno  di  parlare  delle  cose  pubbliche, 
eccetto  (;he  nel  consiglio  nobile,  da  cui  la  plebe  è 
esclusa  (1). 

Da  ciò  si  fa  manifesto  quanto  questa  Gallia  divisa  in 
cento  sovranità,  delle  quali  ciascuna  in  preda  agli  odii 
ed  ai  partiti,  fosse  debole  per  chi  sapesse  approfittare 
degli  odii  e  dei  partili.  E  quanto  sapevano  approfittarne 
i  Romani,  e  Cesare  primo  fra  i  Romani!  Nomina  Cesare 
frequentemente  i  principi  galli  suoi  confidenti:  accenna 
je  missioni  in  cui  li  usava  ;  parla  della  religione  gallica, 
greca  nella  base  mitologica,  diversa  nella  disciplina 
druidica  perii  disgiungimento  della  classe  sacerdotale  e 
della  nobile,  onde  nasceva  nella  Gallia  la  separazione  del 
popolo  in  plebe,  in  nobili  ed  in  sacerdoti.  Qual  preda 
per  un  guerriero  terribile,  e  per  un  politico  più  terribile 
ancora  qual  era  Cesarei  L'autorità  de'giudizii  trovavasi 
nei  Druidi,  esenti  da  ogni  pubblica  gravezza  (privilegio 
sostenuto  dal  clero  sino  dai  tempi  più  remoti),  la  cura 
della  guerra  nei  nobili,  che  muovevansi  alla  medesima 
seguiti  dai  loro  servi,  quasi  feudalmente. 

Che  questa  pure  fu  guerra  di  seduzioni  e  di  fraudi, 
di  promesse  e  d'inganni,  lo  rileviamo  con  bastante  chia- 


(1)  Possiamo  altresì  desumere  con  bastevole  sicurezza  da  qualche  fatto  indi- 
calo da  Cesare  che  la  lingua  (celtica)  della  Gallia  transalpina  si  scriveva  con 
carattere  greco,  mentre  già  avvertimmo  in  una  nota  precedente  che  la  lingua 
(pure  celtica)  della  Gallia  cisalpina  si  scrìveva  col  carattere  etrusco.  Un  princi- 
pale elemento  civile  cosi  irradiato  dai  Greci  ed  Etruschi  in  due  masse  d'una 
stessa  nazione,  le  scindeva  nel  rapporto  tanto  importante  della  scrittura  in  diversi 
sistemi,  il  gallo-greco  cioè  ed  il  gallo-etrusco,  come  nel  medio  evo  si  sepa- 
rarono gli  Siavi  sotto  il  rapporto  medesimo  nei  sistemi  slavo-latino  e  slavo-greco. 
Ma  gli  Slavi,  se  non  tutti,  almeno  alcuni,  giunsero  a  civiltà  avanzata  e  proprìa,  e 
gii  Slavo-Greci  probabilmente  sono  destinati  a  grandezza:  i  Gallo-Etruschi  in- 
vece, ed? Gallo-Greci,  appena  fatto  quel  prìmo  passo  di  civiltà  non  latina,  su- 
birono la  dominazione  romana,  che  dai  loro  paesi  allontanò  il  greco  e  Tetrusco 
elemento,  ed  amendue  sostituì  col  latino. 

9 


130  PARTE  PRIMA 

rezza  anche  da  Cesare  avvedulissimo,  per  quella  politica 
descrizione  della  Calila.  Ad  accertarcelo  consegue  il  passo 
di  Svetonio,  ove  narrasi  che  Cesare  nella  Gallia  com- 
battè spesso  per  la  giustizia,  spesso  ancora  per  l'ingiu- 
stizia ;  che  ora  mosse  guerra  ai  nemici,  ora  la  mosse  ai 
confederati;  che  in  Senato  levaronsi  dei  riclami,  e  si 
proposero  misure  per  torre  di  mezzo  Cesare  scompi- 
gliatore  delle  Gallie  ;  ma  che  le  molte  vittorie  e  Vacqui- 
slo  grandissimo  gli  ottennero  facilmente  l'approva- 
zione e  le  lodi. 

Il  fatto  più  rimarchevole  della  guerra  gallica  è  l'asse- 
dio di  Alesia,  la  distruzione  dell'esercito  federale  giunto 
per  soccorrerla,  eia  presa  della  città.  Questo  gran  fatto, 
che  ha  moltissime  analogie  nella  storia  militare,  fu  va- 
riamente apprezzato.  Certamente  non  si  danno  leggi  al 
genio,  e  molto  gli  si  consente  se  osa,  e  tutto  gli  si  per- 
dona se  vince.  D'altronde  nella  scienza  di  guerra  non  si 
possono,  per  la  quantità,  l'azione,  il  contrasto  di  circo- 
stanze perpetuamente  mutevoli,  tutte  influenti,  e  non 
tutte  note  specialmente  dopo  lunga  età,  stabilire  norme 
costanti,  e  pronunciare  invariate  sentenze  di  lode  o  con- 
danna d'operazioni  di  guerra;  male  astratte  meditazioni, 
e  la  prova  più  frequente  dei  fatti,  indicano  da  qual  lato 
penda  la  probabilità  del  successo  in  determinate  condi- 
zioni ,  fra  truppe  egualmente  agguerrite  e  bene  con- 
dotte. E  noi  siamo  guidati  a  credenza  che,  salvi  eccezio- 
nalissimi  casi,  non  mai  convenga  ad  un  generale  d'eser- 
cito d'accettare  giornata  nel  campo  ristretto  fra  una 
piazza  oppugnata  ed  un  esercito  che  venga  a  soccorso, 
ma  piuttosto  debba  marciargli  risolutamente  all'incontro, 
rallentare  l'assedio,  ed  anche  abbandonarlo  del  tutto  se 
non  ha  tale  esuberanza  di  mezzi  da  eseguire  sicuramente 
le  due  operazioni  ad  un  tempo.  Ci  sembra  quindi  che 


CAPITOLO  Vili.  131 

Cesare  cingendo  Alesia,  aspettandovi  Varrivo  dei  confe- 
derati, e  circonvallando  se  stesso  contro  i  medesimi, 
chiudendosi  cioè  in  una  doppia  linea  di  terrapieni  e  ba- 
stioni contro  l'interno  e  contro  l'esterno  nemico,  abbia 
troppo  confldato  nella  sua  fortuna,  e  corso  soverchia- 
mente gli  azzardi  di  distruzione  completa,  senza  avere 
certezza  di  finire  tutte  le  guerre  in  un  sol  punto  con  una 
grande  vittoria.  Francesco  I  di  Francia  non  volle  desi- 
stere dall'oppugnare  Pavia  (1525),  ed  assalito  colla  for- 
tezza ed  il  Ticino  a  tergo  dagli  Imperiali  sopraggiunti, 
perdette  l'esercito,  e  n'andò  prigione:  i  Russi  continua- 
rono a  stringere  Narva  all'arrivo  di  Carlo  XII,  e  subirono 
un  disastro  (1700).  I  marescialli  francesi  all'assedio  di 
Torino  (1707)  vollero  pur  essi  aspettare  nelle  loro  trin- 
ciere  il  principe  Eugenio  che  giungeva  a  soccorso  della 
piazza,  e  si  controvallarono  anche  contro  di  lui  :  furono 
aggressi,  ed  impacciati  nel  moto,  e  nella  ritirata  impediti, 
vennero  battuti  con  perdite  enormi.  Eppure  lo  stesso 
Eugenio  dieci  anni  dopo  si  fermò  nelle  sue  linee  da- 
vanti l'oppugnala  Belgrado:  vi  sostenne  l'attacco  d'un 
grande  esercito,  e  vinse  come  Cesare  ad  Alesia,  ma 
corse  terribile  rischio,  e  parve  prodigio  la  sua  vittoria. 
Bonaparle  non  aspettò  Wurmser  od  Alvinzi  nelle  linee 
di  Mantova,  ma  corse  all'incontro  di  loro  (1796),  e  Tor- 
stenson,  che  fu  pur  esso  grand'uomo  di  guerra,  non  at- 
tese il  nemico  nelle  trinciere  di  Lipsia  assediata  da 
lui  (1643):  anche  Federico  II  non  ha  imitato  Cesare, 
ma  s'avventò  contro  Daun,  che  muoveva  a  liberare  la 
piazza  (1757).  In  generale  i  sommi  uomini  di  guerra  di 
tulle  le  eia  hanno  preferito  i  movimenti  liberi,  il  cam- 
peggiare aperto:  hanno  cercato  la  vittoria  col  debellare 
Taccorrente  a  soccorso  :  se  non  avevano  forze  sufficienti 
a  combattere  ed  a  continuare  l'assedio,  hanno  prescelto 


132  PARTE  paiMi 

il  desistere  dairassedio  al  marciare  divisi  :  vollero  pro- 
rogare Tassedio,  ma  assicurare  con  una  baltaglia  la 
resa. 

Quando  poi  Cesare,  passato  il  Reno,  ebbe  represso  i 
Germani;  quando,  costruita  una  flotta,  dominò  nella 
Manica  troncando  con  essa  la  via  ai. soccorsi  che  erano 
venuti  ai  Galli  dalla  Brettagna  ;  quando  vi  tragittò  egli 
stesso,  e  vi  portò  la  forza  delle  armi  e  la  grandezza  del 
nome  (1),  divenne  si  completa  non  solo  la  conquista, 
ma  la  dominazione  (dire  non  la  vogliamo  pacificazione) 
della  Gallia,  che  al  prorompere  della  guerra  civile  la 
Gallia  non  insorse  a  favor  di  Pompeo,  ma  eccettuan- 
done un  moto  nella  greca  Marsiglia,  di  cui  diremo  mag- 
giormente nella  parte  terza  delPopera  nostra ,  rimase 
sempre  con  Cesare.  Di  si  grande  successo  proviamo 
meraviglia  ogni  volta  che  ai  fatti  del  grand'uomo  po- 
niamo pensiero. 

Fu  poi  invaso  l'Egitto,  e  vi  si  vide  la  solita  scena  in 
parte  prodotta  dagli  stessi  attori.  Uomini  destrissimi  nel 
parteggiare,  Pompeo,  Cesare,  Antonio  ed  Augusto  su* 
scitarono  le  controversie  di  successione  alla  corona 
d'Egitto,  od  almeno  se  ne  prevalsero  a  loro  proprio 
vantaggio.  I  luoghi  forti  vennero  successivamente  in 
potere  delle  legioni  di  Roma  ;  i  principi  caddero  o  per 
morte  volontaria  o  per  assassinio  altrui  ;  la  sovranità 
d'Egitto  passò  rapidamente  in  mano  di  Roma. 

Ma  comandava  la  sicurezza  del  littorale  d'Africa,  ra- 


(1)  Ogni  spedizione  in  oltremare  non  è  senza  pericolo  :  soprattutto  lo  era  in 
qnei  tempi  una  spedizione  in  Brettagna,  paese  vasto  e  malnoto,  avente  per  base 
la  Gallia  soggiogata  di  fresco,  né  disarmata  del  tutto.  Ma  quante  cautele  e  mi- 
litari e  politiche  non  furono  in  allora  prese  da  Cesare  !  Quando  passò  coireser- 
cito  nell'isola  aveva  con  sé,  quasi  ostaggi,  membri  di  tutte  le  famiglie  più  influ- 
enti nelle  Gallio  :  fu  anzi  ben  severo  neircsigere  d'essere  accompagnato  da  essi: 
incrudelì  perfino  contro  chiunque  non  fu  pronto  all'invito. 


CAPITOLO  TIII.  .  133 

pina  immensa  involata  a  Cartagine,  che  le  romane  le- 
gioni si  spingessero  nelVinterno  di  quel  continente  inGno 
che  rinvenissero  una  linea  sicura  di  naturali  baluardi. 
Questi  si  trovano  nel  deserto  che  incominciando  alVEri- 
treo  continua  non  interrotto  e  sempre  di  larghezza  cre- 
scente fino  all'Atlantico,  e  separa  cosi  le  due  zone  uber- 
tose dell'Africa  settentrionale  e  centrale.  Tra  l'Egitto  e  la 
Tunisìa  lo  spaventevole  deserto  s'avanza  fino  al  Medi- 
terraneo avvolgendo  la  fertile  Cirenaica,  e  dal  lato  d'oc- 
cidente si  solleva  quasi  al  margine  del  deserto  e  si 
estende  e  ramifica  la  catena  deir Atlante,  che  nella  Tin- 
gitana raggiunge  quasi  la  linea  delle  nevi  perpetue.  Ora 
Svelonio  Paolino,  uno  dei  migliori  guerrieri  che  la  città 
conquistatrice  del  mondo  abbia  prodotto,  portò,  re- 
gnando Claudio,  le  aquile  romane  sulla  sommità  del- 
l'Atlante, ed  i  Romani  avanzarono  su  tutta  la  fronte 
dall'Eritreo  all'Atlantico  fino  al  deserto.  Piacque  a  molli 
immaginosi  retori  di  fare  a  Svetonio  realmente  altra- 
versare  l'incommensurabile  Sahara,  e  le  romane  le- 
gioni descrissero  incolumi  in  mezzo  al  favoloso  deserto, 
marcianti  senza  rezzo  alla  rabbia  d'un  sole  che  versa 
non  raggi,  ma  dardi  di  fuoco  sul  capo.  Essi  cercarono 
anche  in  Strabone  ed  in  Dione  Cassio  indicazioni  confuse 
di  queste  marce  d'eserciti,  che  in  quel  deserto  africano  non 
sono  seguite  giammai  se  non  fra  l'Egitto  e  la  Nubia  in 
qualche  età  della  storia,  ma  che  Gibbon  troppo  facilmente 
ammise,  scrivendo  che  i  Romani  avanzarono  mille  mi- 
glia al  di  là  del  tropico.  Plinio  però  nel  libro  V  deW Isto- 
ria Naturale,  ove  narra  l'impresa  di  Svetonio  accaduto  al 
suo  tempo,  dice  espressamente  che  Svetonio  non  oltre- 
passò l'Atlante  se  non  di  alcune  miglia:  Transgre$$u$ 
quoque  Atlantem  aliquot  millium  spatio. 
Claudio  riunì  all'impero  le  provincie  al  di  qua  del- 


134  PIRTE  PRIMA 

TAtlante,  di  cui  guarnite  le  sommità  ed  accastellale  le 
gole,  le  vie  furono  chiuse  alle  orde  barbare,  e  Tlmpero 
ebbe  un  naturale  trincieramento  per  la  tranquilla  sicu- 
rezza deirinterno.  Entro  quelle  barriere,  ma  non  oltre 
le  medesime,  furono  infatti  rinvenuti  in  tanti  viaggi 
e  studii  eseguiti  dopo  che  i  Francesi  s'impadronirono 
d'Algeri  (1830)  gli  avanzi  di  magnifiche  o  comuni  co- 
struzioni romane,  che  s'ammirano  od  osservano  nei 
lerrilorii  delle  antiche  provincie  d'Africa,  Mauritania  e 
Numidia.  L'interno  era  visitato  dai  Romani  od  indigeni 
soltanto  per  trarne  poche  merci,  e  le  fiere,  che  in  numero 
sorprendente  combattevano  nel  circo  non  solo  di  Roma, 
ma  anche  d'altre  città.  Da  quei  viaggi  però  nessun  lume 
ha  ricavato  in  allora  od  ereditato  la  scienza  dipoi  :  essi 
furono  inutili  alla  geografia,  come  furono  pressoché 
inutili  ad  essa  negli  ultimi  quattro  secoli  prima  di  noi 
le  migliaja  dei  viaggi  nell'interno  dell'Africa  fatti  dai  com- 
mercianti e  cacciatori  di  schiavi. 

Anche  i  possedimenti  romani  nella  Brettagna  non  erano 
sicuri  finché  i  monti  e  le  foreste  della  Caledonia  erano  ri- 
covero di  sempre  prorompenti  assalitori.  Ad  ogni  vittoria 
dei  Romani  tornavano  i  Caledonii  al  loro  covo;  ranno- 
davansi,  agglomeravansi,  congiuravano,  e  di  nuovo  pro- 
rompevano. Svetonio  Paolino,  il  conquistatore  della  Mau- 
ritania, invase  non  poca  parte  deirisola,  battè  piti  volte  i 
Britanni,  occupò  Londra  colonia  opulenta  e  di  gran  traf- 
fico mercantile  [Tkcno.XlV, 33),  pensando  dipiantarvi, 
se  era  bene,  la  sede  del  comando,  ma  poi  la  distrusse. 
Sollevatasi  nuovamente  la  Brettagna,  i  Romani  la  ricon- 
quistarono con  Agricola  :  questi  penetrò  pure  e  distrusse 
le  orride  devozioni  in  Mona,  che  era  probabilmente  An- 
gleseaenon  Man,  perchè  leggiamo  che  Agricola  vi  passò 
senza  flotte,  e  l'ottenne  a  sorpresa.  Veleggiarono  d'intorno 


CAPITOLO    VUI.  135 

alla  Caledonia;  ebbero  cosi,  al  dire  degli  storici  romani, 
la  prova  materiale  che  la  Brettagna  era  isola,  presero  le 
Orcadi,  seppero  di  Tile  o  Tuie,  e  pare  anzi  che  l'abbiano 
veduta,  ma  non  bene  risulta  se  fosse  l'Islanda  come  sera-- 
pre  si  scrive,  o  fossero  piuttosto  le  Shetland.  Chiudevasi 
così  un  mezzo  secolo  di  guerre  micidiali  e  continue  :  Tin- 
liera  Brettagna  era  soggiogata.  Ma  la  gelosia  dei  Cesari 
provata  da  Svelonio  e  da  Agricola,  Tamministrazione  ci- 
vile e  militare  divisa  anzi  tempo  in  un  paese  remotissimo, 
riottosissimo,  furono  causa  che  i  trionfi  militari,  appena 
rimpero  si  affievolì,  si  volsero  in  vitupero.  Dalle  pendici 
più  inaccessibili,  ripreso  cuore,  i  Caledonii,  siccome  i 
Cantabri  nelle  Spagne,  scesero  al  riacquisto  della  vinta 
loro  patria.  Senza  la  gelosia  dei  Cesari,  il  pieno  trionfo 
sarebbe  stato  seguito  da  occhio  vigile  estirpatore  di  ogni 
materia  alimentatrice  di  guerre  future,  e  da  una  vasta 
colonizzazione,  che,  a  poco  a  poco  trasformando  il  paese, 
vi  avrebbe,  come  altrove,  diffuso  le  lettere  e  la  lingua  di 
Roma,  spegnendo  gl'idiomi  indigeni,  che  invece  rivissero, 
e  si  parlano  ancora.  Ma  l'acquisto  erasi  fatto  col  metodo 
comune  ad  ogni  romana  guerra,  anzi  quasi  esclusivo  per 
ogni  guerra  ed  ogni  popolo  antico  e  moderno.  Vediamo 
infatti  in  Tacito  che  Agricola  faceva  insegnare  belle  let- 
tere ai  figliuoli  dei  nobili  britanni  per  invogliarli  alla  lin- 
gua romana  poco  dianzi  abborrita,  che  aveva  incomin- 
ciato ad  introdurre  le  fogge  romane  di  vestilo  e  le  abitu- 
dini di  vita  a  confermazione  di  amato  vassallaggio,  che 
aveva  collocato  le  sue  forze  a  ponente  di  Brettagna,  e  di 
là  mirava  all'Ibernia,  credendo  che  facilmente  si  potrebbe 
pigliare  e  tenere,  e  meglio  starebbero  allora  al  giogo  i  Bri- 
tanni quando  non  vedessero  dappertutto  che  armi  romane, 
e  lolla  d'in  su  gli  occhi  la  libertà.  Già  studiava  Agricola,  e 
bene  Tacito  il  mostra,  i  porti,  la  conOgurazione,  l'am- 


136  PARTE  PRIIfl 

piezza  e  la  natura  dell'Ibernia  :  accolse  anche  nei  suoi 
campi  un  regolo  di  quel  paese,  e  gli  offrì  la  protezione 
romana  per  riporlo  nel  paese,  da  dove  una  fazione  Taveva 
cacciato:  quel  regolo  sarebbe  stato  per  Agricola  ottimo 
stromento  per  importare  la  guerra,  e  sperperare  gVIberni. 
Non  era  l'epoca  dei  manifesti  ai  popoli,  ma  anche  in 
allora  le  persone  parlavano,  e  le  illusioni  abbondavano. 
Uno  spettacolo  di  conquiste  si  vaste  e  sì  rapide  come 
furono  le  romane,  non  si  era  offerto  giammai,  né  fu  ve- 
duto in  appresso  fino  al  tempo  dei  Mongoli  (1200),  o 
quando  creossi  l'impero  indo-britannico  dopo  la  giornata 
di  Plassey  (1757),  e  nel  decennio  del  primo  Impero  fran- 
cese. Anzi  la  generale  ed  esclusiva  dominazione  del  Me- 
diterraneo non  si  è  verificata  mai  più,  mentre  per  Roma 
quel  mare  coi  golfi  e  le  isole  diventò  realmente  un  lago 
interno,  circondato  interamente  dai  possessi  suoi.  Le  sta- 
zioni militari  navali  rimasero  allora  ridotte  all'esercizio 
della  polizia  dei  porti,  ed  alla  prestazione  d'amministrativi 
servigi  :  vennero  quindi  in  decadenza  d'addestramento  e 
di  gloria  quantunque  numerose  ad  Ostia,  a  Miseno,  a 
Brindisi,  a  Ravenna  od  a  Fola.  Ciò  che  perfeziona  un 
corpo  militare  qualunque  esso  sia,  è  l'emulazione,  l'esem- 
pio, il  timore  dell'allrui  superiorità:  senza  queste  spinte 
langue  e  si  perde  l'ardore  d'innovazione,  la  tendenza 
allo  studio,  la  disposizione  ai  sacrifizii  di  somme.  La 
Cina  fino  ai  nostri  giórni  fu  più  potente  d'ogni  suo  vi- 
cino; non  ha  quindi  perfezionato  i  proprii  mezzi  di 
guerra  terrestri  o  navali  :  ora  la  Cina  teme  degli  Euro- 
pei, che  si  sono  fatti  vicini,  e  l'hanno  perfino  aggressa 
nel  cuore  ;  noi  vedremo  le  sue  armi  ed  i  suoi  mezzi  di 
difesa  rapidamente  mutarsi.  Nei  rapporti  marittimi  l'Im- 
pero dei  Cesari  era  ridotto  in  allora  alle  condizioni  in 
cui  per  lunghi  secoli  trovossi  la  Cina:  precipitò  dunque 


CAPITOLO  Vili.  437 

lo  spirito  militare  della  marineria,  ma  troppi  erano  i 
trionfi  scritti  sulle  bandiere  romane,  troppo  l'orgoglio  di 
loro  potenza,  perchè  precipitasse  egualmente  il  vigore  delle 
legioni,  che  d'altronde  era  ritemprato  sovente  nelle  bat- 
taglie coi  Barbari  alle  frontiere  nell'Europa  e  nell'Asia. 

Così  il  mondo  era  caduto  nel  possesso  di  Roma.  La 
potente  organizzazione  militare  di  Roma  e  la  sua  avve- 
dutezza politica  avevano  operato  prodigi.  I  Romani  ave- 
vano riposto  Tonestà  nella  gloria,  e  la  gloria  nell'allargare 
l'imperio  :  avevano  mostrato  le  virtù  precipiti  dell'urto, 
le  tranquille  dell'ordinarsi,  le  politiche  dell'opportunità, 
le  sagaci  dell'arte:  avevano  grandeggiato  sulle  confuse 
rovine,  e  minacciavano  ancora. 

Furono  i  Romani  nei  primi  tempi  circospetti  quando 
la  prudenza  imponeva  di  procedere  a  gradi,  di  invigo- 
rirsi e  di  crescere,,  e  di  non  correre  baldanzosi  a  peri- 
gliosa ventura.  Quindi  occupata  una  città  vicina  a  Roma, 
non  facevano  servi  i  patrizii  di  essa,  ma  li  facevano  im- 
peranti di  una  maggiore  città,  ascrivendoli  al  Senato.  Cosi 
raccoglievano,  non  distraevano  le  forze,  l'interno  assicu- 
ravano, l'esterno  invadevano.  E  Tacito  nell'undecimo  dei 
suoi  Annali  meraviglia  giustamente  questa  sapienza  di 
Stato.  Il  concepimento  ne  doveva  esser  facile  ;  ma  l'ese- 
cuzione di  tale  unificazione  di  Stati,  che  prima  combat- 
tevano per  opposti  interessi,  deve  aver  presentato  im- 
mense difficoltà:  Condilor  no$ter  Romulu$  tantum 
sapientia  valuit^  ut plero$que  populns  eodem  die  hostesy 
dein  cives  habuerit. 

11  Senato  romano  molto  confidava  nelle  sue  armi, 
ma  meno  confidava  nelle  armi  che  nella  saviezza  :  in- 
finite battaglie  ed  infiniti  sforzi  costò  a  Roma  il  conqui- 
stare i  piccoli  popoli  suoi  confinanti  ;  molto  minor  nu- 
mero di  battaglie  e  sforzi  molto  minori  costò  a  Roma  il 


138  PARTE    PUHi 

conquisto  di  grandi  nazioni.  Non  mancavano  alle  romane 
guerre  i  colori  di  giustizia;  i  paesi  conquistali  perdevano 
ogni  accentramento,  ogni  comunanza  d'interesse,  l'ener- 
gia e  Tunità.  Di  un  vasto  Stalo,  parte  occupavasi  con  ro- 
mane colonie  inviate  acentinaja  nei  luoghi  più  opportuni 
ad  aprire  ed  a  chiudere  i  passi,  parte  donavasi  ai  re  con- 
federati, che  ne  avevano  facilitato  l'acquisto  ;  dislocavansi 
genti,  confondevansi  popoli  e  cose  ut  non  audiat,  come 
dicela  Bìhhisit unusquisque  vocemproximisui:  combalie- 
vano  i  Romani  contro  tutti,  e  ad  un  giogo  ponevano»  ma 
ebbero  sempre  chi  parteggiava  per  loro.  Ciò  che  segue  nel- 
rAustria,  in  cui  si  dominano  coi  Ruteni  i  Polacchi,  cogli 
Slavi  i  Magiari,  cogl'Italiani  i  Morlacchi,  ed  i  Tedeschi  con 
tutti,  segui  per  secoli  nello  Stato  di  Roma,  che  fu  chiara 
per  armi  ed  istoria,  per  uomini  ed  arte.  Ad  una  città  con- 
cedevasi  giurisdizione  libera,  ed  una  parte  del  bottino  e  del 
territorio  della  distrutta  sua  rivale  ;  un'altra  città  cadeva 
in  romana  servitù,  ed  un  pretore  ne  assumeva  il  regime  ; 
potevano  i  proconsoli  espilare  le  provincie,  non  potevano 
farsele  amiche  ed  assicurarsene  il  dominio,  perchè  di 
troppo  breve  durata  si  era  Tufficio  loro.  Utica,  fatta 
grande  e  ricca  pel  donativo  d'una  parte  del  bottino 
mobile  ed  immobile  di  Cartagine  sua  rivale,  sua  vi- 
cina, collocala  sullo  stesso  golfo  di  mare  :  Massinissa, 
reso  potente  pel  donativo  di  paesi  tolti  a  Cartagine  ed 
agli  alleati  di  essa,  erano  per  Roma  di  primaria  utilità. 
Cosi  vi  erano  nel  mondo  romano  i  varii  romani  centri 
di  forza,  di  interesse,  di  locale  conoscenza.  Il  mondo 
romano  non  era  solo. tenuto  in  sudditanza  dalla  pre- 
senza di  romani  campi  nelle  provincie,   ma  dall'esi- 
stenza di  romani  sistemi  civili  in  ogni  provincia,  che, 
sussidiati  da  qualche  forza  militare,  l'intiera  provincia 
facilmente  sorvegliavano,  signoreggiavano. 


CAPITOLO  TIU.  139 

Divenuti  potentissimi,  i  Romani  divennero  intemperan- 
tissimi, ma  non  cessarono  d'essere  accorti,  ed  accoppia- 
rono sempre  Tasluzia  e  la  forza,  anzi  non  si  fecero  di 
questa  se  non  Testremo  mezzo  di  mietere  le  messi  cre- 
sciute per  le  gittate  sementi.  Le  loro  conquiste  furono 
sempre  una  scena  di  libertà  vaneggiata  e  promessa,  e 
di  perfidie  disumane  pel  sangue,  ma  ancora  più  inique 
per  arte  e  nequizia.  Ora  avevano  girato  a  tondo  in  ogni 
terra  conosciuta  la  spada,  e  la  tenevano  su  tutte  levata, 
ma  confessando  agli  schiavi  susurranti  delle  promesse, 
dei  tradimenti,  dei  finti  liberatori,  dei  veri  oppressori, 
che  era  stata  una  scena  di  perfidia,  ne  accusavano  i  ne- 
mici uccisi  o  servi  :  fides  punica,  fides  grwca.  Ed  a  que- 
ste parole  riduconsi  appunto  pressoché  tutte  le  orazioni 
dei  senatori,  dei  consoli  e  dei  duci  d'esercito,  quali  le 
abbiamo  si  frequenti  nei  latini  classici.  Il  mondo  squal- 
lente  rendeva  testimonianza  del  vero,  perchè  i  luoghi  non 
si  mettono  la  maschera  come  gli  uomini  ;  ma  i  Romani 
prendevano  scaltramente  Toffensiva  :  non  avevano  fatto 
che  rintuzzare  la  violenza,  vendicare  le  ingiurie  :  erge- 
vano templi  a  Giove  Ultore j  a  Marte  Ultore  :  redargui- 
vano i  legati  supplichevoli  ed  i  principi  e  re  vinti  e  pri- 
gionieri di  rotta  fede,  di  violate  alleanze,  di  tradimento 
e  di  spergiuro  :  fidet  punica,  fides  grcBca,  fides  gallica, 
fides  syriaca,  fides  (Bgyptiaca.  Così  nella  nostra  Italia 
quando  fu  tutta  sanguinosa  e  lacera  in  mani  francesi» 
spagnuole  e  tedesche ,  i  conquistatori ,  che  erano 
di  politiche  enormezze  maculati  e  sozzi  non  meno 
di  noi,  ebbero  la  lingua  presta  alle  ingiurie,  ed  in- 
finite penne  straniere  scrissero,  e  scrivono  dei  Machia- 
velli e  dei  Borgia,  degli  stiletti  e  pugnali,  dei  tradimenti 
e  veleni,  quasi  le  loro  istorie  fossero  fragranti  di  tutta  dol- 
cezza, e  non  tinte  come  lo  sono  di  nerissima  pece,  e  ci 


t40  PIHTE  PRIMA 

avessero  dalo  in  Italia  l'esempio  che  con  essi  regnavano 
umanità  e  Platone  !  Noi  non  sappiamo  se  verrà  in  terra  il 
giorno  della  fratellanza  universale  :  certamente  nell'epoca 
romana,  e  nell'italiana  del  medio  evo  la  fratellanza  non 
v'era,  né  mai  vi  fu  in  veruna  età  della  storia,  in  nessun 
paese  del  mondo.  Invece  in  allora,  e  mille  volte  dipoi  si 
verificò  il  detto  del  Salmista  :  Reges  eos  in  virga  ferrea^ 
et  tanquam  va$  figuli  confringas  eo$. 

Meditando  sulla  storia  romana,  eliminando  ogni  pre- 
venzione, spogliando  d'ogni  ornamento  e  d'ogni  falsilo- 
quio  i  fatti,  non  chiudendo  ed  occhi  e  cuore  al  vero  ed 
al  giusto,  ci  domandiamo  come  mai  ha  potuto  scrìvere 
Montesquieu  che  i  popoli  si  sottomettevano  a  Roma  senza 
precisamente  sapere  il  perchè,  e  come  Rotteck  ha  ripe- 
tuto quel  detto  7  E  siamo  attoniti  di  leggere  anche  nel 
capo  primo  della  Storia  di  Milano  del  Verri,  che  i  Ro- 
mani giammai  insultarono  ai  vinti,  né  mai  schernirono 
i  meno  forti  ;  che  essi  arditi  nei  pericoli ,  fieri  contro 
la  resistenza ,  estendevano  la  dominazione  sui  popoli 
per  liberarli  dalla  tirannia,  per  condurli  alla  coltura 
ed  allo  stato  civile  ;  ed  i  popoli  si  dirozzavano  per  imi- 
tazione di  esempii  che  erano  a  loro  cari.  Quelle  parole 
del  Verri,  e  dei  molti  che  scrissero  come  Verri  e  prima  e 
poi,  non  possiamo  perdonarle  che  a  Cicerone  negli  Oj^cit'i 
lib.  S,  dove  fa  l'apologia  del  Senato  di  Roma  :  Regum,  pò- 
pulorum,  nationum  portus  et  refugium  erat  Senalus  : 
nostri  autem  magistratus,  imperatoresque  ex  hac  una 
re  maximam  laudem  capere  studebant^  si  provincias,  si 
socios  (zquitate  et  fide  defenderent  :  itaque  illud  patro- 
cinium  or  bis  terrw  verius  quam  imperium  poter  at  no- 
minari. 

Quali  però  fossero  questi  Romani,  come  sempre  alle 
genti  parlassero  educam  vos  de  sepulcris  vestris,  come 


CAPITOLO  TIII.  141 

fossero  di  promesse  osservanti,  ed  imperassero  alle  na- 
zioni prima  da  arte  che  da  ferro  vinte,  noi  lo  abbiamo 
veduto.  Ma  in  ogni  luogo  e  tempo  ha  insegnato  la  storia 
che  chi  s'argomenta  di  avere  da  altri  indipendenza  e  li- 
bertà, è  schernito  di  sua  credenza,  ed  è  di  se  stesso  omi- 
cida. Anzi  contrasta  sovente  a  necessario  ardimento  di 
forse  uscire  per  proprio  sforzo  di  servitù  la  stessa  fiducia 
nelle  armi  straniere  ;  come  mura  vicine  dando  speranza 
di  rifugio,  tolgono  talora  la  pertinace  virtù  del  combattere 
e  la  palma  del  vincere.  Per  affievolire  un  prepotente  ne- 
mico col  togliergli  un  paese  levatosi  in  armi,  gli  viene 
in  qualche  ^caso  mutuato  soccorso ,  e  se  l'insorto  si 
schiera  gagliardo  in  battaglia,  e  fortunate  circostanze 
concorrono,  egli  può  sottrarsi  a  servaggio,  come  si  sot- 
trassero coll'appoggio  francese  e  spagnuolo  le  colonie 
inglesi  d'America.  Ma  se  quegli  che  porge  l'ajuto  assoluta- 
mente prepondera,  in  allora  qualunque  promessa  poli- 
tica ha  suonato  più  dolce,  riesce  ad  impero,  perchè  il 
vittorioso  d'una  concessione  od  acquisto  non  s'appaga 
giammai,  ma  di  ciascuna  si  fa  ponte  ad  avanzare  di  più. 
Né  giova  che  i  savii  ed  onesti  prevedano  da  lungi  il 
danno  che  approssima,  perchè  le  masse  illuse,  adescate 
0  corrotte  sentono  il  presente,  poco  guardano  al  passato, 
nulla  al  futuro ,  e  genio,  virtù  e  saggezza  in  un  mo- 
mento dì  agitazione  sconsiderano.  Perpetua  è  la  mas- 
sima :  colla  spada  si  segnano  i  confini  degli  Stali  ;  colla 
spada  si  deve  vegliare  sul  confine  segnalo. 


CAPITOLO  IX. 
Confioi  deiilmpero  e  loro  difendibilità* 

Appena  Roma  nascente  potè  vincere  i  pìccoli  popoli 
che  la  circondavano,  più  non  ebbero  sicurezza  i  vinti 
se  non  nelle  parli  dltalia  selvose,  scoscesife,  solcate, 
vorremmo  dire  gagliardamente  vertebrate  dei  monti  Ap- 
pennini :  tutte  le  campagne  all'occidente  di  quelle  aspre 
contrade  che,  degradando  d'ambo  i  lati  in  fino  al  mare 
con  quasi  uguale  pendìo,  formano  le  due  ubertose  linee 
del  paese  italiano  a  levante  ed  a  ponente  dei  monti 
stessi,  furono  subito  percorse  dalle  romane  legioni.  Un 
si  angusto  paese  non  oppone  alcuna  linea  militare  di 
fiume,  che  troppo  scarso  si  è  il  regno  di  ogni  fiume,  e 
non  elevatissime  le  pendici,  perchè  possa  un  fiume  es- 
sere sempre  grosso  e  di  difficile  passaggio. 

Ma  dal  nodo  principale  e  più  elevato  degli  Appennini 
(l'attuale  Abbruzzo)  gli  indomiti  Sanniti  piombavano  sui 
vincitori  con  guerra  perpetua.  Durò  cenlennale  lo  sforzo 
di  Roma  per  impadronirsi  di  quella  schiena  di  monti  : 
fu  insanguinata  ogni  rupe.  I  Romani  soffersero  nelle 
gole  dell'Appennino  i  più  gravi  rovesci,  e  forse  avrebbe 
potuto  cadere  la  loro  potenza  alle  Forche  Caudine. 

Superali  gli  Appennini,  e  fattisi  forti  alle  gole,  i  Ro- 
mani furono  sicuri  nel  paese  d'occidente,  e  subito  con- 
quistarono, divallandosi  dall'Appennino  ad  opportune 
occasioni,  tutto  il  versante  orientale  d'Italia. 


CAPITOLO  IX.  143 

Le  linee  romane  si  spinsero  allora  rapidamente  infino 
al  Po.  Non  debole  linea  era  questa  a  resistenza  e  ad  offesa, 
ma  la  medesima  era  già  stata  girata  nell'ovest  per  la  con- 
quista che  i  Romani  precedentemente  avevano  fatto  della 
Liguria.  Quindi  invasero  la  Gallia  Cisalpina,  od  il  set- 
tentrione dell'Italia.  Comparvero  poi  come  sussidiarii 
contro  gli  Elvezii  invasori,  e  le  Alpi,  la  più  gran  linea 
militare  dell'Europa,  enorme  ammasso  di  torri  naturali, 
inaccessibili,  formanti  una  zona  tante  volte  ripetuta  di 
linee  fortissime  a  sicurezza  e  ad  offesa  della  romana 
Italia,  furono  specialmente  da  Cesare  prese  in  possesso. 
Vi  fu  allora  sicurezza  per  l'Italia,  pericolo  per  gli  altri 
Stati.  L'estrema  importanza  militare  del  paese  degli  Al- 
lobrogi,  degli  Edui  e  dei  Sequani  dominatore  di  tutti  gli 
avvallamenti  dei  fiumi  francesi,  fu  causa  che  i  Romani 
donativi  e  privilegi  a  quei  popoli  largissero ,  e  sempre 
quali  alleati  ed  amici  di  Roma  li  riguardassero.  La  ser- 
vitù loro,  ossia  la  loro  fusione  nell'università  del  sistema 
romano,  seguì  soltanto  allora  che  l'intera  Elvezia,  la 
Gallia  intera,  e  le  adjacenti  prime  regioni  di  Germania 
caddero  nella  sudditanza  di  Roma. 

Dal  lato  di  Germania,  fra  pugne  micidialissime  pro- 
gredendo, recarono  i  Romani  in  poter  loro  dapprima  la 
valle  meridionale  della  Sava  e  della  Drava,  dappoi  le 
controlinee  della  Mur,  dell'Inn  e  della  Salza,  da  ullimo 
la  linea  od  il  versante  settentrionale  delle  Alpi,  che  il 
loro  tributo  d'acque  convertono  al  Danubio,  gran  linea 
militare  anch'esso,  perchè  dall'enorme  suo  regno  riceve 
alimento  di  grandissime  fiumane.  Qui  posaronsi  le  aquile 
romane.  La  sede  dell'Impero  era  ricoperta  da  numerosi 
recinti  di  smisurati  baluardi  naturali,  e  da  grossissime 
fosse  resi  di  più  difficile  accesso.  Contro  ogni  pericolo 
di  sorpresa  per  parte  delle  potenti  nazioni  dell'interno, 


144  PARTE  PEIMl 

che  tanto  estendesi  verso  settentrione,  Roma  lasciò  sul- 
rultima  fossa  sempre  pronte  a  combattere  intere  legioni 
accampate  d*ogni  intorno  quasi  perpetue  vigilie.  Non  nel- 
l'interno, ma  neiresterno,  l'esercito  di  Roma  stava  schie- 
rato dalla  Pannonia  infìno  ai  Datavi,  e  scorreva  giusta 
l'opportunità  in  direzioni  concentriche  a  grandi  fazioni 
inverso  l'interno,  appena  giungesse  sospetto  di  confede- 
razione dei  Barbari,  e  di  guerra.  Ma  questa  serie  d'eser- 
citi a  duci  diversi  ubbidiva.  Un  solo  duce  avrebbe  avuto 
in  mano  l'Italia,  sguarnita,  senza  eserciti,  senza  naturali 
difese.  I  tumulti  delle  legioni  germaniche,  in  preda  agli 
stenti  di  un  perpetuo  campo,  furono  sempre  pei  Cesari 
pericolosissime.  L'unanime  insorgere  di  gente  unita,  im- 
barberita  nelle  battaglie  e  negli  strazii,  il  rapido  presen- 
tarsi a  Roma  proclamando  Cesare  il  loro  duce,  che  in- 
finiti doni  offriva,  per  essere  omai  costretto  alla  corona 
od  alla  morte,  la  marcia  sicura  infino  a  Roma,  quelle 
vicende  produssero,  che  si  prodigiose  appariscono.  Ma 
il  retrocedere  delle  legioni  dai  loro  posti  di  vigilia,  ai 
Barbari  lasciava  aperti  i  passi  :  il  riacquistarli  era  san- 
guinosissima intrapresa,  e  forzava  ad  una  concentra- 
zione d'eserciti;  gli  eserciti  concentrati  sotto  un  solo 
duce,  nuovamente  tumultuavano  ed  insorgevano.  L'im- 
pero perdette  gradatamente  la  prima  linea  militare,  la 
seconda,  la  terza,  e  l'Italia  fu  invasa. 

Dappertutto  presenta  la  combattuta  Germania  sulla 
linea  surriferita  gli  avanzi  di  questi  romani  valli,  quan- 
tunque gli  archeologi  ne  abbiano  probabilmente  ritro- 
vato più  del  vero.  Le  escavazioni  che  praticansi  a  Salis- 
burgo danno  sicuro  indizio  del  lungo  soggiorno  che  vi 
fecero  in  campo  perpetuo  le  legioni  romane.  Era  Salis- 
burgo punto  principalissimo  a  dominare  i  fiumi  che 
immetlonsi  nel  Danubio ,  ed  il  Danubio  stesso  :  assicu- 


CAPITOLO  IX.  145 

ravasi  il  Nerico,  primo  fra  i  fortissimi  castelli  della  na- 
tura, e  con  pari  celerità  da  quel  punto  centrale  e  sicuro 
potevano  prorompere  le  legioni  da  un  lato  verso  Talto 
Danubio  ed  il  Meno  di  concerto  colle  truppe  stanziate 
sull'alto  e  sul  medio  Reno,  o  dall'altro  entrare  in  con^ 
cordia  d'azione  colle  legioni  illiriche  nel  gran  piano  del 
medio  Danubio  per  involgere  con  rapidi  movimenti  stra- 
legici  Germani  o  Pannoni,  impedirne  le  fughe,  e  co- 
stringerli a  definitiva  battaglia.  Sul  basso  Reno  però, 
ossia  verso  l'inferiore  e  più  ampia  Germania  le  legioni 
renane  e  bataviche  non  avevano  altra  base  d'operazione 
che  il  Reno.  Mancando  infatti  ogni  punto  sporgente 
entro  il  campo  nemico,  non  essendovi  per  così  dire  ve- 
run  bastione  saliente  che  facilitasse  l'assalto  di  fianco 
0  da  tergo,  i  Romani  dovevano  agire  di  fronte,  e  d'urto 
parallelo  al  nemico  senza  speranza  di  risolutiva  \ittoria. 
Sette  secoli  dopo  anche  Carlo  Magno  trovossi  nelle  con- 
dizioni medesime  :  varcava  pur  egli  il  Reno ,  correndo 
suir£ms,  sulWeser,  sull'Elba  e  perfino  suU'Oder:  egli 
ha  quindi  dovuto  impiegare  trent'anni  in  continue  cam- 
pagne, vincere  cento  battaglie,  e  stanziarsi  in  Aquisgrana 
presso  al  confine,  prima  di  riuscire  allo  scopo  che  più 
dei  Capitolari,  e  d'ogni  sua  gloria  comunemente  vantata, 
lo  fa  realmente  grande  nella  storia  dei  secoli,  quello 
cioè  d'aver  posto  un  termine  alle  emigrazioni  dei  popoli, 
e  d'avere  con  ciò  reso  possibile  il  graduato  formarsi  delle 
odierne  nazioni,  e  lo  sviluppo  progressivo  della  civiltà 
europea. 

Nella  meridionale  Germania  e  nell'occidentale  Pan- 
nonìa  i  Barbari  potevano  essere  distrutti  se  mai  incauta- 
mente si  inoltravano  nei  campi  fiancheggiati,  quantun- 
que a  grande  distanza,  dai  campi  romani  ;  ma  nella  set- 
tentrionale Germania  il  loro  moto  era  più  libero,  e  la 

10 


146  PiRTB  ntMi 

ritirata  sicura»  perchè  sommamente  rari  sono  i  genii  che 
anche  nei  terreni  aperti  sanno  procurarsi  elementi  a  com- 
pleta vittoria,  come  se  li  procurò  Napoleone  alla  giornata 
di  Jena  (1806).  Ed  in  ogni  guerra  dovevano  i  Romani 
porre. grandmar  te  di  calcolo  per  rapidità  e  simultaneità 
di  movimenti  si  vasti  in  paese  nemico,  ingombro  di 
boschi  senza  veruna  grande  città,  senza  centro  unitario 
di  forza  e  d'impero  contro  cui  dirigere  colpi  gravi,  ma 
certi  :  potevano  corseggiare,  incendere  messi,  rapire  ar- 
menti, far  strage  d'inermi  più  che  di  armati.  Disaccordo 
d'operazioni  però,  e  lentezza,  confldenza  soverchia  nelle 
stagioni,  negletta  vigilanza  sui  fianchi,  rotte  comunica- 
zioni ai  rinforzi  ed  ai  viveri,  erano  rovina.  Varo  fu  di- 
strutto, Druso  e  Germanico  trionfarono  con  genti  assot- 
tigliate, ed  i  cinque  eserciti  consolari  di  Carbone,  di 
Cassio,  di  Scauro,  di  Gepione  e  di  Manlio  non  ricon- 
dussero dalle  campagne  germaniche  se  non  poveri  mani- 
poli al  Reno.  Perfino  dell'invasione  di  Giulio  Cesare 
scrive  Tacito  {De  moribng  Germ.)  :  lngente$  C.  Cmsarii 
miniB  in  ludibrium  verste  (1). 

La  linea  del  confine  romano  per  l'esser  cosi  curva  dal 
Norico  infino  ai  fiatavi,  come  lo  è  la  curva  delle  Alpi  e 
del  Reno,  era  estesissima,  né  poteva  assicurarsi  che  da 
catena  continua  di  campi  occupali  da  truppe  numerose 
e  valenti  :  la  vigilanza  del  confine  germanico  obbligava 
dunque  a  gravissime  spese  ed  ingente  sacrificio  di  forze. 


(1)  Cesare  aveva  passato  il  Reno  al  di  sotto  di  Colonia  sopra  un  ponte  a  ca- 
vaìletti,  che  in  brevi  giorni  costnfsse,  e  nei  Commentarii  descrive.  Quel  ponle 
è  il  primo  esempio  istorico  dei  gran  ponti  militari ,  e  sq  ne  parla  in  tutte  le 
storie  delle  arti  costruttive  civili  e  militari.  Anche  al  presente  in  cui  lutti 
gli  eserciti  hanno  corpi  speciali  pel  servizio  dei  ponti,  l'opera  cesariana  è  an- 
cora ammirata,  e  negli  attuali  congegni  si  conserva  d'alcuni  di  quelli  memoria 
ed  uso.  Almeno  rimase  questo  grande  esempio  dcllardimento  e  dell'ingegno  di 
Cesare  allorché  guidò  i  Romani  al  primo  passaggio  del  Reno. 


CAPITOLO  IX.  147 

Eppure  se  procedendo  dal  Norico  i  Romani  avessero 
posto  fermo  piede  in  Boemia,  cioè  in  quel  castello  di 
monti  che  si  avanza  nel  centro  dei  piani  germanici  fino 
ad  un  punto  meno  di  tutti  lontano  dal  mare,  cui  rivolge 
una  larga  fiumana  (l'Elba),  essi  avrebbero  di  molto  mi- 
gliorato, accorciato  e  fortificato  il  loro  confine,  e  quasi 
isolato  una  metà  di  Germania  dai  soccorsi  dell'altra. 
Avrebbero  infatti  potuto  ad  ogni  istante  sboccare  dalle 
gole  dei  monti,  operare  sulla  diritta  o  sulla  sinistra  del- 
TElba,  precipitare  il  nemico  non  sulle  linee  d'indefinita 
ritirata  e  salvezza,  ma  sull'alto  Danubio  e  sul  Beno.  Dalla 
Boemia  avrebbero  sorvegliato  tutto  il  paese  d'intorno,  ed 
avuto  linee  di  difesa  perpetua,  mentre  non  erano  perpe- 
tua difesa  quelle  linee  renane  nel  tempo  in  cui  il  fiume 
congela.  Pel  solo  effetto  poi  della  loro  collocazione  avreb- 
bero assalilo  i  Germani  da  fianco  o  da  tergo  (i  quali  as- 
salti SODO  facilmente  mortali  a  qualunque  nemico),  in- 
vece di  cercare  con  complicate  operazioni  di  riuscire  a 
questa  forma  d'assaltò:  si  sarebbero  trovati  per  Salis- 
burgo in  buone  comunicazioni  col  Norico ,  e  potevano, 
volendolo,  costituirsi  una  serie  di  campi  o  di  punti  for- 
tificati sull'Elba  bene  vettovagliati  pel  fiume,  essere  cosi 
meglio  raccolti,  ed  avere  in  minor  numero  più  vigorose 
le  forze.  La  natura  dei  territorii  germanici,  la  posizione 
di  Boemia,  la  figura  dei  monti  suoi,  l'accessibilità  del 
paese  non  agevole  che  dal  lato  del  sud,  hanno  dato  in 
ogni  guerra  germanica  un  vantaggio  grandissimo  al  pos- 
sessore di  quel  castello  montivo.  Nella  guerra  dei  Tren- 
t'anni  quella  fortificazione  di  natura  salvò  più  volte 
Vienna  quando  i  vittoriosi  Svedesi  tentavano  girare  d'in- 
torno, e  procedere  innanzi  per  la  via  di  Moravia  dando 
mano  a  Transilvani  ed  Ungheri,  o  per  la  valle  del  Danu- 
bio di  concerto  con  eserciti  giungenti  da  Francia.  E 


148  PARTE  PRIMA 

nel  1813  il  possesso  di  Boemia  in  mano  a  neutrali  o  ne- 
mici Austriaci  diede  dapprima  inciampo,  e  quindi  rovina 
al  più  grande  guerriero  della  moderna  età.  Ma  le  descri- 
zioni dei  geograQ  antichi,  e  quella  pure  della  Germania 
di  Tacito  ci  manifestano  che  erano  d'assai  inesatte  ìe  co- 
gnizioni romane  dei  lerritorii  germanici,  e  pressoché 
nulle  quelle  dei  paesi  situati  più  oltre  :  forse  per  queste 
incomplete  cognizioni  i  Romani  non  invasero  profonda- 
mente, e  con  masse  prepotenti  la  Boemia,  né  vi  pianta- 
rono il  loro  quartiere  generale  delle  difese  del  Nord. 
Rimasero  invece  sul  Reno  e  nelle  Alpi  :  ivi  attivarono 
rescavazione  delle  immense  miniere  di  ferro:  infatti  la- 
tine inscrizioni  nelle  cave  di  Eisenerz  attestano  che  già 
si  utilizzavano  dagli  antichi  Romani.  Usarono  poi  le  arti 
politiche  sperando  in  esse  più  che  nei  brandi  :  educarono 
giovani  principi  di  tribù  germaniche  in  Roma  :  perGno 
il  grande  Arminio,  che  poi  li  lasciò,  e  vibrò  ai  medesimi 
ferita  sì  grave,  era  divenuto  cittadino  e  cavaliere  romano, 
ma  un  fratello  di  lui  rimase  fedele  ai  Romani,  prese  nome 
latino,  e  marciò  contro  gli  stessi  Germani  :  anche  un  Se- 
geste  tenne  con  Roma,  e  leggiamo  della  lega  che  Maro- 
boduo  strinse  con  essi.  Era  però  incessante  la  guerra, 
favoreggiandone  la  durata  il  paese  sconfinato  ed  aperto. 
Pare  però  che  grado  a  grado  colle  cognizioni  cresciute, 
ma  tuttora  senza  bene  stabilito  concetto  e  disegno  fossero 
i  Romani  per  appoggiare  la  loro  frontiera  appunto  alla 
Boemia  ed  ai  Carpati.  Battagliando  coi  popoli  di  Panno- 
nia,  cercando  di  dominarli  non  potendo  in  altro  modo 
acchetarli,  volendo  coprire  le  provincie  di  Grecia,  i  Ro- 
mani avevano  costrutto  un  ponte  stabile  sull'Istro  nelle 
regioni  di  Dacia  dove  la  fiumana  è  rapida  ed  immensa, 
s'erano  stanziati  a  Linz  (Lincium),  località  di  somma  im- 
portanza strategica,  e  che  nondimeno  l'Austria  tanto  ri- 


antoLO  IX.  149 

tardò  a  munire  di  grandi  difese,  a  Vienna  (Vindobona), 
a  Gran  [Ad  Herculem  Strigonium].  Erano  cosi  prolelli 
dal  fiume,  e  padroni  dei  varchi.  Poi  eressero  immensi 
valli  fra  il  Danubio  e  la  Theiss,  volendo  rettificare,  abbre- 
viare, afforzare  la  loro  linea  nella  vasta  contrada  :  quindi 
tradussero  a  migliore  difesa  nei  piani  di  Mesia  e  Panno- 
nia  numerose  colonie. 

La  lingua  romancia  o  romaniesca,  la  quale  dopo  in- 
finite vicende  si  parla  tuttora  da  più  milioni  d'uomini 
in  quella  regione ,  ed  i  miràbili  avanzi  di  romana  ci- 
viltà, e  non  solo  di  potenza  militare,  che  ancora  si  ve- 
dono nel  Banato  in  vicinanza  della  salutare  Mehadia,  at- 
testano che  le  stesse  colonie  erano  fiorenti.  Per  ottenere 
però  un  confine  veramente  forte  sarebbe  stato  necessario 
di  non  arrestare  le  bandiere  nei  piani,  ma  di  piantarle 
su  tutta  la  catena  degli  Ercinio-Carpati,  d'avere  cioè  nel 
ponente  il  bastione  di  Boemia,  e  nel  levante  l'altro  ba- 
stione di  Dacia  collegati  colla  cortina  continua  della  mon- 
tuosa giogaja.  La  catena  di  Dacia  s'approssima  al  Ponto 
Eusino  e  giunge  a  brevissima  distanza  dalla  foce  del  Se- 
reth  neiristro,  ch^  più  oltre  è  laguna,  od  è  mare.  Un 
campo  sul  Sereth  (a  Galatz),  ed  un  esercito  in  Transil- 
vania  pronto  a  sboccare  dalle  gole  delle  Alpi  di  Dacia, 
avrebbero  precluso  del  tutto  una  marcia  dei  Sarmati  verso 
le  Provincie  orientali ,  giacché  i  medesimi  o  dovevano 
ricevere  battaglia  còl  pericolo  d'essere  di  breve  tratto  pre- 
cipitali nel  mare,  o  correre  il  rischio  di  rimanere  rin- 
chiusi fra  ristro  ed  i  monti.  L'importanza  della  Dacia 
nelle  guerre  dell'Europa  orientale  è  grandissima  :  lo  è 
quanto  l'importanza  della  Boemia  nelle  guerre  germani- 
che :  lo  è  anzi  ancor  più  se  l'assalitore  non  ha  ad  appog- 
gio delle  operazioni  di  terra  l'incontrastato  dominio  del 
mare  :  ma  come  l'avrebbero  avuto  i  Sarmati  se  i  Romani 


150  PAATE   nilMl 

erano   vigilanti   neirallestire    navigli  ed   esercitare  le 
ciurme?  (4) 

L'occupazione  di  posizioni  fortissime  che  coprissero 
la  Pannonia  era  necessaria  non  solo  alla  sicurezza  delle 
Provincie  romane  di  là  delle  Alpi,  ma  perfino  alla  difesa 
dltalia.  Infatti  dal  lato  d'oriente  le  Alpi  sono  di  passag-- 
gio  facile,  e  chi  abbia  trionfato  in  Pannonia,  o  trionfato 
sull'Adige,  non  trova  nella  buona  stagione  ostacolo  di 
natura  a  marcie  ulteriori.  Invasero  l'Italia  da  quel  lato 
i  Barbari  nelle  loro  emigrazioni,  la  invasero  più  volte 
depredando  gli  Ungheri,  e  vi  penetrarono  i  Turchi  nelle 
guerre  coi  Veneti.  E  nelle  lotte  più  recenti  vedemmo  i 
Francesi  nel  1797,  nel  1803  e  nel  1809  passare  senza 
gravi  contrasti  dall'Adige  al  Danubio,  e  viceversa  passare 
agevolmente  gli  Austriaci  nel  1813  dal  Danubio  sull'Adige. 
Le  Alpi  rialzano  più  oltre  verso  mezzodì  neirillirico  un'al- 
tra volta  le  cime,  e  vi  formano  raddoppiali  serragli  di  na- 
turali difese,  ma  le  Alpi  Pannoniche,  quelle  cioè  che 
stanno  a  cavaliere  di  Pannonia  e  d'Italia  hanno  dilatata 
la  base,  e  moltiplicate  catene,  non  valli  profonde,  non 
geli  perpetui,  non  fiumi  indomiti  o  formidabili  gole  (2). 

(1)  Le  tante  cose  discorse  circa  i  lerritorii  deirEuropa  centrale  e  la  varia 
loro  importanza  relativamente  ai  grandi  sistemi  militari  d'assalto  e  di  difesa,  ci 
inducono  ad  una  osservazione  sulle  condizioni  dell'Europa  d'oggidì.  Quando  uno 
Stato,  che  è  l'Austria,  ha  mezzo  milione  di  soldati,  e  possiede  nel  centro  d'Eu- 
ropa la  Boemia,  la  Transilvania,  il  Nerico  e  la  Rczia,  ed  ha  inoltre  in  Italia 
sull'Adige,  sul  Mincio  e  sul  Po  linee  fortissime  completanti  il  sistema  di  difese 
germaniche,  che  altrimenti  sarebbe  da  quel  lato  imperfetto,  dovrà  sempre  ri- 
guardarsi in  tutte  le  guerre  d'Europa  come  Stalo  militare  d'importanza  pri- 
maria, se  anche  le  sue  condizioni  interne  non  gli  consentono  di  far  pesare  la 
sua  spada  terribilmente  sull'estero,  e  d'abusare  ad  assalto  deireminenle  van- 
taggio di  poter  vibrare  in  caso  fehce  dei  colpi  mortali,  e  di  rientrare  in  caso 
di  rotta  nel  serraglio  di  difese  fortissime  d'arte  e  natura. 

(2)  Abbiamo  anche  in  Tacito  nel  libro  III  delle  sue  Storie  un  esempio  di 
chiarissima  prova  di  quanto  abbiamo  esposto  finora,  e  gioverà  l'indicarlo,  es- 
sendo perpetue  e  sempre  applicabili  le  norme  di  strategia  dipendenti  dalle 
slesse  condizioni  politiche  e  dall'immutabilità  d'elementi  locali.  Vitellio  ò  prò* 


CÀmoLO  IX.  151 

Verso  la  Germania  adunque  e  verso  la  Pannonia  e  Sar- 
mazia  la  linea  del  conGne  romano  non  era  completa  e  per- 
fetta: quindi  i  Romani  lungo  tale  confine  non  ebbero  sicu- 
rezza giammai,  ma  guerra  e  sovente  sventure:  gli  eserciti 


clamato  imperatore:  Roma,  e  tutte  le  forze  deirOccidente  9on  sue:  Vespasiano 
é  invece  acclamato  dalle  legioni  d'Egitto  e  di  Siria,  e  successivamente  da  quelle 
deirAsia  Minore,  deiriUiria,  di  Mesia  e  Pannonia:  le  ultime  sono  le  più  dispo- 
nibili, essendo  le  altre  occupate  nella  guerra  giudaica,  od  a  sorveglianza  dei 
Parti.  Vitellio  ha  già  concentrato  in  Italia  Tesército  vittorioso  di  Ottone  :  sono 
sparse  invece  le  legioni  deirilliria,  di  Mesia  e  Pannonia.  Tengono  consiglio  i 
generali  di  Vespasiano  :  cause  politiche  consigliano  la  guerra  offensiva,  ma 
tutti  vorrebbero  arrestarsi  alle  Alpi  Pannoniche,  finché  le  legioni  non  siano 
riunite  :  Vespasiano  stesso  manda  ordini  che  non  si  oltrepassi  Aquilea.  Ma  vi 
era  fra  quei  generali  un  grand'uomo  di  guerra,  Antonio  Primo,  di  cui  Tacito 
ha  forse  più  censurato  le  colpe,  che  glorificato  l'ingegno  :  Slrenuui  manu,  ser- 
mone promplu$,  serendce  in  alios  invidicR  arti  fez»  discordiis  et  sedUionihus 
poUns,  raptor,  largitor,  pace  pessimus,  bello  non  sptmendus.  Questi  non 
trattiene  la  guerra  né  alle  Alpi  Pannoniche,  né  all'ingresso  dei  piani  italiani  : 
Vespasiano,  egli  dice,  se  fosse  sui  luoghi  correggerebbe  gli  ordini  proprìi,  non 
frenerebbe  la  marcia  :  doversi  il  principe  colla  vittoria  servire,  e  mezzo  a  vit- 
toria essere  l'avanzare  a  posizione  atta  a  sostare  sicuri  :  non  essere  poi  sola 
guerra  del  principe  questa  in  cui  tutti  combattono  per  non  essere  da  Vitellio 
multati  del  capo.  Procede  sollecito,  entra  in  Padova  e  Vicenza,  s'avanza  con 
vessillarii  spediti  e  cavalli,  occupa  Verona,  si  trìnciera  d'ambo  i  lati  sul  fiume, 
getta  colle  truppe  gradatamente  vegnenti  presidii  in  Aitino  sull'Adige  per  pre- 
munirsi coatro  le  operazioni  della  flotta  di  Ravenna,  chiude  i  varchi  delle  Alpi 
ai  rinforzi  che  giungono  dalla  Germania  a  Vitellio,  sorprende  un  corpo  di  Vi- 
teliiani,  lo  disperde,  e  si  assicura  a  Ferrara  un  passo  sul  Po  :  allora  aspetta 
ansiosamente  le  sue  genti  che  arrivano.  Scoppiata  poi  la  discordia  nel  campo 
di  Vitellio,  Antonio  balza  da  Verona  sui  disordinati  e  li  batte,  li  sospinge  sul 
Po,  entra  con  gran  strage  in  Crenrona.  Defeziona  da  Vitellio  anche  la  flotta  di 
Ravenna  :  allora  |utte  le  guarnigioni  lasciate  sul  littorale  e  stil  Po  si  possono 
levare  :  esse  riarmano,  rinforzano  la  flotta  di  Ravenna,  e  prendono  Rimini. 
L'intiera  Italia  al  nord  dell'Appennino  non  é  più  di  Vitellio,  ed  anche  la  cen- 
trale è  perduta,  perché  le  truppe  Vitelliane  già  vedono  nell'Etruria  e  nell'Um- 
bria minacciate  le  vie  di  Roma  dai  Flaviani  sbarcati  a  Rimini,  ed  Antonio 
Primo  le  spinge  procedendo  dal  Po.  Presto  Vitellio  cadrà,  e  le  sue  truppe 
sconnesse,  confuse  d'altri  soldati,  e  con  capi  diversi  n'andranno  ai  lontani  con- 
fini dell' Istro  e  dell'Asia  a  respingere  i  Rarbari  divenuti  insolenti  durante  la 
guerra  civile. 

In  questa  esposizione  noi  fummo  guidati  per  mano  da  Tacito  :  sono  forse  più 
esatti  e  più  chiarì  di  lui  gli  scrittori  d'oggidì  nei  racconti  delle  guerre  recenti? 
Non  si  pud  trarre  anche  dai  classici  antichi  soda  istruzione  per  le  moderne 
operasìpni  militari  t 


152  PifiTB  PKìUk 

loro  in  paese  vastissimo,  intersecato  da  grandi  fiumi , 
senza  comunicazioni  costanti,  tra  orde  ostilissime,  in 
foreste  impenetrabili,  dovevano  incontrare  nell'esecuzione 
contemporanea  ed  unisona  dei  più  sapienti  piani  stra- 
tegici gravissime  difficoltà.  Quelle  foreste  mascheravano 
i  movimenti  dei  Barbari ,  servivano  loro  di  sicuro  ri- 
covero, le  difficoltà  delle  sussistenze  ad  ogni  passo 
dovevano  accrescersi,  i  modi  di  involarsi  e  di  sfuggire 
al  pericolo  grandemente  aumentavansi  ;  il  precipitarsi 
repentinamente  sui  fianchi  ed  alle  spalle  delle  inoltratesi 
legioni  dovea  per  un  Barbaro  intraprendente  essere 
facil  cosa.  Il  mantenere  le  comunicazioni  coi  campi 
e  coi  magazzini  dell'esercito  doveva  essere  infinita  pena. 
Qual  debba  essere  l'intensità  delle  pene  da  stabilirsi 
vìen  indicalo  dalla  necessità  delle  pene  medesime.  Tutte 
le  nazioni  nei  militari  loro  Godici  puniscono  senza  para- 
gone più  gravemente  i  delitti  commessi  dai  soldati  in 
tempo  di  guerra,  che  non  i  delitri  commessi  dai  soldati 
nella  quiete  delle  guarnigioni.  Le  romane  legioni,  atten- 
date ai  confini,  trovavansi  in  istato  di  perpetua  guerra  ; 
era  quindi  estremamente  severa  la  militare  disciplina  di 
queste  legioni.  Suolsi  dire  che  la  molta  paura  accusa  la 
coscienza,  ed  anche  la  severità  delie-pene  accusa  il  grave 
timore.  Corbulone,  scrive  Tacito  nell'undecimo  delle  5<o- 
rie,  punì  di  morte  due  soldati  perchè  zappavano  alla 
trinciera,  Tuno  senz'armi,  l'altro  col  solo  pugnale  :  si 
grande  era  il  pericolo  d'incursioni  e  sorprese  !  E  Giuseppe 
Ebreo,  che  conosceva  la  disciplina  delle  legioni  romane 
nell'Oriente,  le  quali  rendevano  lo  stesso  servigio  delle 
legioni  germaniche,  loda  questa  estrema  severità.  Ottimo 
ordine  era  questo,  dice  egli,  che  faceva  i  capitani  ai  sol- 
dati più  terribili  delle  leggi.  Dal  che  sembra  potersi  infe- 
rire che  la  giurisdizione  militare  romana  fosse  parimenti 


CAPITOLO  IX.  153 

distinta  in  legale  ed  in  arbitrar ia,  siccome  la  si  trova, 
od  almeno  trovavasi  or  sono  pochi  anni  distinta  nella 
legislazione  militare  deirAustria  (1). 

Nell'Asia  i  Romani  si  erano  falli  forti  sino  dall'epoca 
di  Pompeo,  appoggiandosi  al  mar  Nero,  alle  elevatissime 
pendici  dell'Armenia  e  del  Caucaso,  alle  grosse  fiumane 
dell'Eufrate  e  del  Tigri,  ed  ai  deserti  dell'Arabia.  Migliori 
linee  militari  di  queste  avere  non  potevansi,  anche  pro- 
cedendo centinaja  di  leghe  più  oltre.  Ma  l'enorme  va- 
stità di  quegli  altipiani,  e  di  quelle  catene,  che  da  16,000 
e  fino  da  20,000  piedi  d'elevazione  (l'Ararat  p.  es.  ed 
il  Demavend)  precipitano  poco  meno  che  verticalmente 
sino  al  livello  del  Caspio  e  del  mar  Nero,  quantunque 
fosse  dai  Romani  penetrata,  non  fu  mai  perfettamente 
soggiogata.  Nel  Caucaso,  siccome  in  Caledonia  e  nella 
Cantabria,  i  Romani  non  mai  poterono  intieramente  si- 
gnoreggiare. Nei  secoli  che  seguirono,  gli  Arabi,  i  Tartari, 
i  Persiani,  i  Turchi,  tutti  si  appoggiarono  al  Caucaso,  e 
talvolta  girando  sul  bordo  dei  due  mari,  lo  oltrepas- 
sarono :  però  i  soli  Russi  dopo  mezzo  secolo  di  lotte, 
lo  sterminio  quasi  totale  degli  indigeni,  la  sostituzione 
ai  medesimi  di  colonie  russe,  e  l'acquisto  ben  consoli- 
dalo di  Georgia  e  dell'Armenia  del  nord,  giunsero  vera- 
mente a  dominarlo.  Egli  è  per  questo  che  l'inaccessibile 
Caucaso,  non  meno  dei  monti  della  Caledonia,  della 
Biscaglia  e  del  Tibet,  presenta  agli  studii  archeologici  la 

(1)  Tra  i  Godici  penali  civili  o  militari  moderni  nessuno  ha  titolo  spaventoso 
come  quello  di  Maria  Teresa,  che  ventanni  fa  era  tuttora  la  base  dei  giudizii 
penali  per  Tesercito  d'Austria.  Esso  intitolavasi  Hals-  und  Strangordnung,  le 
quali  parole  letteralmente  tradotte  suonano  in  lingua  italiana  Regolamento  del 
collo  e  della  corda.  Eppure  anche  in  quel  Codice,  e  nei  successivi  articoli  di 
guerra^  vi  è  qualche  disposizione  benevola,  che  vorrei  trascritta  in  tutti  i  Go- 
dici: tale  è.  p.  e.,  quella  che  se  un  condannato  a  morte  viene  graziato  sul 
campo  stesso  dove  si  avrebbe  ad  eseguire  la  sentenza,  non  gli  si  abbia  a  mi- 
tigar» la  pena,  ma  ne  sia  esente  del  tutto. 


154  PABTE  PRIUA 

maggiore  dovìzia  d'anliche  lingue  per  le  sapienti  indagini 
della  storia. 

Nelle  loro  guerre  contro  i  Parti  dominatori  o  vicini  di 
quelle  contrade  alpestri  e  selvagge  i  Rimani  partivano 
dalla  Siria,  che  era  buona,  non  ottima  base  d'operazioni 
militari,  s'avanzavano  sull'Eufrate,  e  di  là  sforzavansi  di 
risalire  le  profonde  valli  d'Armenia,  coprendosi  pur  sem- 
pre verso  la  Siria  del  fiume  guardato.  Quand'erano  felici, 
entravano  in  Armenia,  ma  già  spossali  e  pochi,  e  quelli 
erano  appunto  i  luoghi  più  difficili  perle  vettovaglie  ed  i 
movimenti  di  truppe.  Se  anche  le  comunicazioni  colla 
Siria  erano  aperte  e  difese  contro  le  escursioni  delle  ca- 
vallerie fiorenti  dei  Parti,  esse  erano  già  soverchiamente 
estese.  Quindi  i  Romani  cercavano  di  crearsi  sul  mar 
Maggiore,  ossia  sul  Ponto  Eusino  una  base  secondaria 
per  sussistenze  e  rinforzi,  e  talora  la  ebbero,  come  ri- 
sulta da  Tacito,  in  quelle  colonie  greco-latine.  Anzi  se  la 
marineria  di  quei  tempi  fosse  stata  più  numerosa  ed  abile  » 
e  più  grandi  i  mezzi  d'azione  raccolti  sul  Rosforo, 
meglio  conveniva  di  scegliere  a  base  principale  le  colonie 
del  Ponto,  e  d'avere  a  base  secondaria  la  Siria  ;  allora  i 
Romani  sarebbero  entrati  tuttora  vigorosi  e  grossi  nella 
difficile  Armenia,  e  quando  v'avessero  nella  prima  cam- 
pagna posto  piede  sicuro,  potevano  lanciarsi  di  là  sui 
piani  del  medio  Eufrate.  Ma  chi  avrebbe  osato  nel  primo 
secolo  dell'era  nostra  di  concepire  l'idea,  ed  effettuare  il 
disegno  di  imbarcare  cento  mila  soldati  per  scendere  a 
Trebisonda  ed  entrare  in  Armenia? 

La  guerra  contro  i  Parli  era  grave,  feroce  ed  insidiosa. 
Gli  eserciti  erano  disciolti  dalle  fatiche,  e  talora  distrutti 
dal  ferro.  Abbondano  gli  esempii  di  eserciti  ribellanti  per 
eccesso  di  strapazzi,  di  consunti  da  fame  per  convogli 
perduti,  di  oppressi  dopo  lunga  estenuazioae  da  nemico 


CAPITOLO   11.  155 

crudele.  E  crudeli  erano  pure  i  Romani  :  non  hanno 
anch'essi  distrutto  ì  nemici  nei  modi  spietatissimi  che 
treni  anni  sono  TEuropa  rimproverava  al  generale  Pclis- 
sier  guerreggiante  in  Algeri?  Narra  infatti  Tacito  nel 
libro  XIV  al  cap.  23:  Dux  romanus  immitis  in  qui  late- 
bras  insederant,  ora  et  exitu$  specnum,  sarmeìitis  vir^ 
(jultisque  completos,  igni  exurit.  Anche  in  queste  guerre 
però  i  Romani  accoppiavano  alla  forza  le  destrezze  poli- 
tiche; giovavansi  delle  guerre  di  successiona  dei  principi 
nativi»  parteggiavano  per  alcuno  di  essi,  restituivano 
leggi  ed  ordini  antichi  a  qualche  città,  dei  quali  l'avesse  il 
nr^mico  privata;  si  collegavano  cogli  Ircani,  ossia  con  po- 
poli attergati  ai  Parti,  e  comunicavano  con  essi  mediante 
viaggi  d'immenso  circuito.  Tutto  ciò  appare  da  Tacito. 

Come  i  Romani  giovavansi  delle  discordie  degli  indi- 
geni e  dei  Parti  per  assodare  la  sovranità  loro  nei  dirupi 
deirArmenia,  giovaronsi  anche  i  Parti  delle  discordie 
degli  indigeni  e  dei  Romani,  onde  scacciarne  i  Romani, 
e  porre  se  medesimi  in  possesso.  Leggiamo,  in  via  d'esem- 
pio, che  i  Parti  guerreggiando  contro  Cesare  ed  Augusto, 
avevano  dato  ricovero  ai  Pompejani  ed  ai  seguaci  di 
Bruto  e  Cassio,  e  colle  armi  e  colle  aderenze  dei  mede- 
simi speravano  di  trovare  una  facile  via  nelle  provincie 
di  Roma.  Ad  un  Quinto  f^abieno,  ostilissimo  ai  Cesa- 
riani,  conferirono  i  Parti  il  comando  supremo  allorché 
invasero  la  Cilicia.  Cosi  imitavano  le  insidie  di  Mitridate, 
che  per  combattere  il  Senato  ed  i  Siilani  mostrava  volto 
amico  al  popolo  ed  ai  Romani  :  in  ogni  tempo  si  usano 
con  pari  perfìdia  le  armi  stesse.  Il  furore  di  parte  pre- 
vale all'amore  di  patria,  le  voci  insidiose  degli  stranieri 
si  odono,  le  armi  venturiere  si  radunano,  le  fazioni  coms 
battono.  Ha  tali  fatti  avranno  ulteriore  sviluppo  nel  pro- 
gresso dell'opera  nostra. 


156  fi&Tfi  PÀttti 

L'Egitto,  circondato  da  vasti  deserti  senza  acque,  è 
quasi  invulnerabile  da  ogni  lato,  fuorché  da  quello  di 
mare.  I  Romani  adunque,  padroni  del  mare,  presidia- 
vano TEgitto ,  come  vediamo  in  Strabone,  con  poche 
coorti,  e  queste  stanziavano  neirAlto  Egitto,  perchè  ap- 
punto dalla  Nubia  le  orde  barbare  potevano  insinuarsi 
nella  romana  provincia.  Lo  tentarono  infatti,  furono  re- 
spinte, e  lo  stesso  paese  loro  fu  invaso. 

Verso  TArabia  il  confine  romano  appoggiavasi  al  de- 
serto. Ma  gli  Arabi  infestando  prorompevano.  I  Romani 
concessero  diritti  ampiissimi  alle  colonie  lungo  l'Arabia 
per  mantenerle  in  fede,  ma  non  sempre  riuscirono.  Gli 
Arabi  ed  i  Persiani  contemporaneamente  assaltavano; 
nelle  discordie  intestine  di  Roma  giunsero  perfino  a  re- 
spingere le  romane  legioni  al  Mediterraneo  ed  al  monte 
Tauro.  Ma  gli  Arabi  ed  i  Persiani  si  inimicarono  nella 
divisione  del  bottino.  Stipularono  allora  i  Romani  pace 
cogli  Arabi,  dando  ai  medesimi  larghissimo  compenso 
di  Provincie,  ed  uniti  con  essi  cacciarono  i  Persiani  al 
di  là  dell'Eufrate,  e  li  inseguirono  fino  a  Glesifonte. 

Zenobia,  la  Clorinda  guerriera  della  storica  età,  Iro- 
vossi  signora  di  un  immenso  Stato  che  estendevasi  dal 
mar  Rosso  fino  al  mar  Nero,  e  dal  Nilo  all'Eufrate.  Non 
scelse  a  sua  residenza  una  nuova  città  :  ritenne  l'antica 
e  centrale,  ma  i  traffici  indiani  devono  essersi  in  allora 
incomparabilmente  moltiplicati  in  Palmira.  Dai  traffici  i 
lucri,  e  da  questi,  e  dalla  politica  potenza  il  fasto:  Pai- 
mira  eresse  in  quel  tempo  gli  immensi  monumenti,  le 
cui  vestigia  vengono  ancora  oggidì  visitate  con  devota 
ammirazione  dal  viaggiatore,  che  li  vede  inalzarsi  da 
un  mare  di  sabbia,  non  altrimenti  che  sorgono  i  monu- 
menti veneti  dal  seno  delle  onde  (1).  Il  genio  militare 

(1)  Considerando  la  natura  del  lerritorio  ove  si  trova  Palmira,  crediamo  che 


Capitolo  ix.  157 

degli  Àrabi  dava  saggio  del  volo  che  doveva  spiccare 
sotto  i  primi  Califfi.  Le  iscrizioni  che  ricoprono  i  monu- 
menti palmireni  sono  lo  stemma  di  quell'arabo  Stato. 
Tutte  le  lingue  e  tutte  le  religioni  erano  comprese  in . 
questo  regno  arabo:  l'utilità  politica  richiedeva  la  tolle- 
ranza» e  tolleranza  vi  era,  perchè  le  leggi  conformansi 
all'utilità.  Da  ciò  nasce  perfino  il  dubbio  a  varii  scrit- 
tori, quale  cioè  si  fosse  la  religione  di  Zenobia.  Giusta 
S.  Atanasio  era  ebrea  di  religione,  perchè  eresse  sinago- 
ghe ;  pure  sappiamo  che  discendeva  da  un  arabo  re  ;  e 
se  favori  il  giudaismo,  doveva  aspirare  a  farsi  un  .par- 
tito fra  gli  infiniti  Ebrei  raminghi  dopo  la  distruzione  di 
Gerusalemme. 

Narrasi  che  Zenobia  compiacevasi  di  letteratura,  per- 
chè chiamò  Longino  dalla  Grecia.  Ma  Zenobia  fece  di 
Longino  un  ministro  e  non  un  maestro,  ed  aveva  a  co- 
noscere i  Greci,  e  ad  adulare  questi  nuovi  sudditi  del  suo 
impero.  Aureliano  uccise  Longino  quando  conquistò 
Palmira:  se  Longino  fosse  stalo  un  semplice  retore, 
Aureliano  non  lo  avrebbe  ucciso  ma  disprezzato.  £  ciò  ci 
richiama  alla  mente  quel  passo  di  Hume,  ove  si  narra 
che  Edoardo  re  d'Inghilterra,  dopo  d'aver  conquistato  il 
paese  di  Galles,  per  confermare  il  popolo  nella  servitù, 
condannò  a  morte  i  poeti,  e  fece  bruciare  i  loro  scritti. 
Quelli  certamente  non  erano  poeti  arcadi,  ma  bardi 
esaltatori  delle  glorie  nazionali,  e  cantori  di  guerra  non 

siasi  molto  cambiata  nel  corso  dei  secoli.  Non  si  fondano  in  un  deserto  i  mo- 
numenti magnifici,  né  vi  sorge  una  grande  città  capitale  d'impèro.  Forse  che 
dal  lato  di  Palmira  ha  progredito  il  deserto  d'Arabia,  come  dal  lato  di  Cire- 
naica si  è  esteso  quello  di  Libia,  e  noi  vediamo  adesso  arsa  e  deserta  la  terra, 
che  era  un  giorno  feconda  e  popolosa.  Certo  si  è  che  se  i  transiti  possono  dare 
temporanea  o  perpetua  importanza  anche  ad  un  punto  situato  in  deserto,  riu- 
nirvi le  genti,  stabilirvi  capanne,  farvi  perfino  sorgere  sotto  arido  cielo  alcuna 
triste  città ,  questa  non  può  mai  assumere  le  proporzioni  e  le  forme  della 
grande  Palmira. 


Itt8  PAETE  raiMA 

senza  influenza  presso  quel  popolo  di  vigorosi  montanari 
e  di  vaganti  pastori. 

Compostosi  il  romano  impero  a  tranquillità,  il  nuovo 
regno  arabo,  che  presentava  moltissimi  elementi  di  dis- 
soluzione, fu  subilo  rovesciato.  Gli  Arabi  intermedii  ai 
Romani  ed  ai  Persiani  furono  da  entrambi  i  popoli  chia- 
mati a  rovina,  e  fino  ai  tempi  di  Maometto  furono  stra- 
nieri alla  storia  fi):  continuarono  invece  le  guerre  fra  i 
Romani  ed  i  Persiani. 

L'arma  più  potente  con  cui  i  Romani  combattevano 
il  regno  di  Persia  doveva  certamente  essere  l'istigare  alla 
guerra  contro  gli  stessi  Persiani  ipopoli  orientali  al  regno 
di  Persia,  onde  cosi  dividere  le  loro  forze  e  sterminarli. 
Gli  scrittori  moderni,  colla  mente  piena  di  merci  e  di 
speculazioni,  credono  che  le  numerose  legazioni  spedila 
dagli  imperatori  romani  ai  popoli  dell'Asia  remotissima, 
e  le  legazioni  ricevute  dai  medesimi ,  concernessero  il 
commercio.  iNoi  crediamo  che  riguardassero  la  politica, 
e  che  le  infinite  persecuzioni  che  avvenivano  nella  Persia 
e  nei  paesi  romani  dei  settarii  di  religioni  diverse,  del 
pari  si  riferissero  a  questa.  Quando  i  Romani  perse- 
guitavano i  Cristiani,  i  Persiani  facevano  buon  viso  ai 
medesimi,  e  viceversa  agivano  nel  caso  opposto  a  favore 
dei  Pagani.  I  Persiani  sospettavano  che  i  Cristiani. del 
loro  Stato  parteggiassero  per  i  Romani,  ed  i  Romani  alla 
lor  volta  sospettavano  chei  Cristiani  dell'impero  favoris- 

(I)  Gli  Arabi  però  non  rimasero  dopo  Zenobia  stranieri  alle  scienze,  e  meno 
ancora  alle  lettere,  siccome  cosi  di  sovente  si  legge.  La  letteratura  degli  Arabi 
non  ebbe  vero  principio  dairAlcorano.  Colfislamìsmo  le  cento  tribù  d'Arabia  si 
centralizzarono,  ed  i  mille  loro  poeti  e  scrittori  d'ogni  genere  uniQcarono  p^f 
mezzo  secolo  le  loro  idee.  Cosi  quella  lingua,  che  divagando  in  centinaja  di 
dialelli,  si  era  la  più  vasta  ed  anzi  indefinita  fra  quante  si  conoscono,  sembrò 
per  qualche  tempo  assumere  un  tipo  uniforme,  inalterabile.  Gli  sludii  delle 
cose  orientali  hanno  talmente  progredito  in  Europa,  e  segnatamente  nel  nord 
di  Germania,  da  fornire  ampia  prova  di  ciò  che  asseriamo. 


CAPITOLO  IX.  159 

sero  i  Persiani  :  ne  abbiamo  nei  martirologi  le  prove  più 
manifeste.  Che  però  le  numerose  ambascerie  avranno 
anche  trattato  affari  di  commercio,  è  cosa  probabile,  ma 
prima  si  avrà  avuto  riguardo  alla  politica,  che  precede 
ad  ogni  sorta  di  economia  nei  calcoli  della  sovranità.  E 
nell'argomento  di  simili  legazioni,  delle  quali  ci  rima- 
sero ignoti  gli  incarichi,  riflettiamo  all'analogia  di  tante 
altre  legazioni  solenni  o  secrete  inviate  nei  secoli  di  mezzo 
in  Oriente  dai  Veneti  o  dal  Pontefice,  perchè  in  antico 
e  nel  medio  evo,  ogni  guerra,  non  altrimenti  chfe  nel* 
Tepoca  nostra,  era  una  guerra  universale.  La  guerra  dei 
Veneti  cogli  Ungheresi  attivava  una  guerra  dei  Polacchi 
contro  gli  Ungheresi  per  pretensioni  che  non  mancano 
mai,  e  questa  era  seguita  da  una  guerra  russa  contro  i 
Polacchi  medesimi,  perchè  ogni  nazione  coglie  il  destro 
appena  si  presenta  (1).  Le  guerre  degli  Europei  coi  Tur- 
chi richiamando  le  forze  turche  sulle  rive  del  Danubio, 
erano  seguite  da  un'alleanza  contrattuale  o  non  contrat- 
tuale fra  gli  Europei  ed  i  Persiani  che  prorompevano  dal- 
l'Eufrate, e  se  ne  ha  continua  prova  nella  storia  delle 
relazioni  diplomatiche  fra  la  Repubblica  di  Venezia  e  la 
Persia  durante  le  guerre  turchesche,  che  ora  ben  si  co- 
noscono per  la  pubblicazione  testé  seguita  (dicembre  1864) 
d'autentici  documenti.  Ogni  storia  è  necessariamente  po- 
litica ed  universale.  E  come  non  è  possibile  nei  colori 
prismatici  d'un  raggio  solare  discernere  la  linea  precisa 
che  l'uno  dall'altro  separa,  cosi  si  confondono  i  confìni 
d'ogni  storia  speciale  con  quelli  delle  altre,  e  tutti  si  per- 

(1)  A  proposito  di  queste  aggressioni  veneziane  e  polacche,  che  per  essere 
simultanee  rivelavano  intelligenza  fra  i  governi,  il  Corpus  juris  hungarici  con- 
tiene una  disposizione  nnolto  singolare,  e  si  è  il  divieto  di  concedere  Tindigc- 
nato,  ossia  la  naturalità  ai  Veneziani  o  Polacchi,  quia  Veneti  et  Poloni  semper 
conati  sunt  et  semper  conantur  ad  terras  et  dominia  ad  sacram  coronam  per^ 
^tinentia  pedem  inferre. 


160  PAftTE  PRIMI 

dono  nella  sfera  della  storia  universale.  Riesce  quindi 
sommamente  difficile  e  quasi  impossibile  il  riconoscere 
i  limiti  d'una  storia  speciale,  e  l'apprenderla  e  scriverla 
rimanendo  fra  essi.  L'unica  diiTerenza  sotto  questo  rap- 
porto fra  la  storia  delle  guerre  antiche  e  delle  moderne 
si  è  che  spesso  nelle  odierne  tutti  i  popoli  rappresentali 
nei  loro  eserciti  combattono  su  un  campo  solo,  in  un 
momento  solo,  mentre  in  antico  ciascuna  nazione  com- 
batteva sulle  proprie  linee  geograOche  ed  in  momenti 
successivi. 

Un  filologo  eccellente,  Giulio  Klaproth,  ha  nelle  do^ 
tissime  sue  Memorie  relative  all'Aiia  (Parigi,  1824, 
pag.  82)  desunto  dagli  annali  cinesi  memoria  di  quattro 
legazioni  romane  giunte  alla  Cina.  Cosi  resta  incontra- 
stabilmente provata  l'antica  relazione  fra  questi  imperi, 
che,  giusta  i  classici  latini,  non  si  potrebbe  con  fonda- 
mento stabilire,  troppo  vago  essendo  l'appellativo  di 
Seres  perchè  questo  nome  debba  esclusivamente  attri- 
buirsi ai  Cinesi.  Klaproth  narra  infatti  di  un'ambasciata 
che,  nell'anno  166  dell'era  nostra,  Antonino  imperatore 
romano  inviò  a  Houn-Ei  della  dinastia  degli  Han,  ed 
accenna  di  altra  legazione  che  nel  284  fu  spedita  agli 
Tsin.  Egli  fa  cenno  inoltre  di  ambasciate  inviate  negli 
anni  637  e  719,  ma  queste  appartengono  alla  storia 
dell'impero  romano-greco,  che  di  lunghi  secoh  soprav- 
visse alla  caduta  di  Roma. 


CAPITOLO  X. 
11  daalismo  polìtico  dell'Impero  romano. 

Quali  si  fossero  i  confini  militari  del  romano  imperio, 
si  è  esposto  superiormente.  Entro  questi  confini  il  bilin- 
gue impero  romano-greco,  quasi  smisurato  accampa- 
mento nel  mezzo  delle  sue  scolte  vigilanti  e  sempre  pronte 
alla  pugna,  era  sicuro  dagli  insulti  stranieri:  il  solo  ro- 
more  di  guerra,  che  i  Romani  sentissero,  era  l'eco  delle 
germaniche,  delle  pannoniche  e  delle  partiche  pugne  alle 
lontane  frontiere.  Ma  nell'inlerao  irrompevano  frequenti 
ribellioni  militari  per  Tordinario  dal  popolo  passiva- 
mente osservate,  perchè  non  importavano  variazione  di 
cose,  ma  solo  di  Capo,  e  consentivano  la  pace  a  chiun- 
que non  faceva  la  guerra.  Provava  però  l'Impero  l'azione 
lentamente  dissolutiva  del  dualismo  politico  nato  dal- 
l'acquisto di  tante  greche  contrade.  Infatti  colla  morte 
d'Alessandro  era  crollata  l'unità  politica  dell'immenso 
impero  creato  da  lui,  ma  grandi  conseguenze  delle 
sue  conquiste  erano  rimaste.  L'impero  persiano  ne  andò 
allora  sepolto  per  sempre  :  nei  tronchi  dello  spento  co- 
losso rivissero  invece  sotto  greche  dinastie  gli  antichi 
Stati,  che  la  Persia  aveva  riunito  a  se  stessa.  La  risorta 
indipendenza  di  quei  paesi  però  poca  parte  vi  aveva  ri- 
chiamalo delle  loro  forme  vetuste.  La  lingua,  la  filosofia, 
le  arti  dei  Greci  erano  penetrate  nell'interno  dell'Asia,  e 

41 


f62  PARTE  PRIMA 

la  trasmigrazione  delVelemento  greco  'continuò  sotto  le 
nuove  dinastie,  che  lo  riportarono  con  altre  spedizioni 
perflno  nelle  Indie,  ove  i  viaggiatori  e  gli  archeologi  in- 
glesi ne  hanno  in  questo  secolo  appunto  discoperto  ve- 
stigia nel  Pengiab.  La  Sacra  Scrittura  è  bensì  esatta, 
rimontando  alle  origini,  allorché  chiama  Macedoni  i 
Greci,  ma  i  Macedoni  si  erano  essi  medesimi  tramutali  in 
Greci,  e  se  non  si  tramutarono  in  Greci  anche  i  Romani, 
ne  subirono  pur  essi  la  prepotente  influenza.  Cosi  le 
conquiste  romane  avevano  esteso  nell'Occidente  l'elemento 
latino,  che  vi  assorbì  il  fenicio,  l'etrusco,  il  druidico  :  le 
conquiste  greche  avevano  propagato  neirOriente  l'ele- 
mento greco,  che  vi  spense  il  fenicio,  vi  cancellò  l'assiro, 
e  vi  indebolì  l'egìzio.  Queste  nozioni  sono  necessarie  a  ben 
comprendere  la  storia  delle  arti,  quella  delle  lingue,  ed 
in  parte  anche  quella  dei  governi.  Signoreggiarono  nel 
mondo  i  soli  elementi  latino  e  greco,  l'uno  dominante  di 
vita  politica,  potente  di  unità,  e  quindi  prevalente  di  forza 
materiale,  l'altro  vincente  di  forza  morale  per  civiltà  piti 
avanzata.  Perciò  l'elemento  greco  non  impedì  il  materiale 
progresso  dei  Romani  in  Grecia  e  Levante,  ma  arrestò  la 
loro  marcia  d'invasione  morale:  i  popoli  greci  furono  ag- 
gregati, non  assimilati  ai  Romani,  non  fusi  in  una  massa 
con  essi.  La  lingua  latina  sempre  robusta,  si  era  fatta 
anche  pomposa  con  Cicerone  e  con  Livio,  era  divenuta 
esatta  coi  giureconsulti,  ed  aveva  acquistato  da  Virgilio 
ineffabile  grazia,  ma  la  greca  rimase  la  lingua  primaria 
del  mondo  d'allora,  e  più  a  ragione  che  la  francese  at- 
tualmente in  Europa  noi  sia.  Solamente  da  principio  i 
Romani  aspirarono  ad  introdurre  anche  nelle  provincie 
greche  pel  governo  ed  affari  la  lingua  latina  (Val.  Mass., 
lib.  II,  e.  SI),  ma  subito  abbandonarono  la  stolta  pretesa, 
e  non  provocarono  l'urto.  Desistettero  anzi  dai  progetti 


GiPITOLO  X.  163 

d'assimilazione,  e  noi  Tediamo  infatti  che  anche  la  mo- 
netazione romana,  dapprima  marcata  con  sole  leggende 
latine,  a  cert'epoca  si  forma  in  due  serie,  delle  quali 
runa  si  conserva  latina  e  l'altra  porta  greche  leggende, 
continuando  però  la  serie  latina  per  le  colonie  romane 
se  anche  situate  nel  Levante  o  neirAfrica  ;  il  quale  esem- 
pio più  tardi  imitato  saviamente  dai  Veneti,  che  ebbero 
pur  essi  la  speciale  monetazione  pei  loro  regni  di  Can- 
dia,  di  Cipro,  di  Grecia  e  Dalmazia,  divenne  canone  quasi 
generale  per  le  colonie  indostaniche  degli  Europei.  Le 
idee  religiose  e  filosofiche  erano  pei  Romani  e  pei  Greci  le 
stesse  :  non  vi  erano  codici  di  immutabili  leggi,  né  forme 
sociali  di  immutabili  caste  :  il  contrasto  adunque  esi- 
steva, ma  grave  non  era.  Atene,  Rodi  ed  Alessandria, 
che  pur  essa  non  era  egiziana,  ma  greca,  diventarono  le 
scuole  dei  Romani:  chi  aspirava  a  coltura  studiava  il  greco 
piuttosto  che  il  latino,  ma  Plutarco  eccede  dicendo  che 
nessun  Greco  studiava  il  latino,  giacché  Ammiano  Mar- 
cellino, greco  d'Antiochia,  scrisse  la  sua  storia  in  latino, 
e  pare  fosse  greco  anche  Eutropio  che  scrisse  nell'idio- 
ma di  Roma.  Che  anzi  nelle  più  illustri  colonie  greche 
d'Occidente  rianimavasi  la  vita  nazionale,  e  quindi  tro- 
viamo che  Cicerone  parlava  greco  al  Senato  di  Siracusa  : 
egli  poi  scriveva  in  greco  la  storia  del  suo  consolato  ; 
Marco  Aurelio  scrisse  in  greco  ciò  che  abbiamo  di  lui, 
e  Tito  le  tragedie  ora  perdute. 

Ma  v'ha  nel  mondo  politico,  come  nel  mondo  fisico, 
l'attrazione  per  così  dire  molecolare  dei  corpi  omogenei, 
e  v'ha  altresì  la  repulsione  degli  eterogenei.  Questa  legge, 
che  tende  a  formare  gli  Stati  per  lingue,  ò  antica  quanto 
il  mondo,  benché  non  si  manifesti  vigorosa  se  non  quando 
un  popolo  vive  raccolto  in  sistema  teocratico,  o  le  varie 
masse  sociali  sono  in  condizioni  di  civiltà  progredita. 


164  PARTE  paraA 

Anche  nello  Stalo  di  Roma,  dopo  conquistati  i  paesi  dei 
Greci,  incominciò  adunque  a  manifestarsi  il  dualismo 
politico,  ossia  una  tensione  di  forze  divergenti  e  dissol- 
venti la  politica  unità  dello  Stato.  Se  ne  videro  i  sintomi 
primi  nelle  parti  diverse  che  nelle  guerre  civili  solevano 
prendere  le  provincie  latine  e  le  greche,  poi  nelle  divisioni 
temporanee  di  Stato  sotto  i  Cesari,  più  tardi  nella  trasla- 
zione della  capitale  nelle  provincie  greche,  e  da  ultimo 
nella  vera  e  costante  separazione  delle  masse  politiche 
male  palliata  da  nome  conservato  d'unità  dell'impero. 

Di  tale  dualismo  politico  non  abbiamo  continue  prove 
anche  sotto  gli  occhi  nostri?  La  Russia,  p.  e.,  lo  speri- 
menta da  un  secolo,  dall'epoca  cioè  in  cui  ha  aggregato 
a  se  stessa  le  regioni  tedesche  del  Baltico,  che  sono  più 
colte  delle  russo-slave  :  eppure  quelle  regioni  sono  si  pic- 
cole in  confronto  delle  altre,  ed  hanno  religione  non 
greca  !  Se  alla  Russia  fosse  riuscito  anche  l'acquisto  di 
Kónigsberg,  che  imprudentemente  tentò  di  riunire  a  se 
stessa  nella  guerra  dei  Sette  anni  (dal  1756  al  1763), 
quel  dualismo  si  sarebbe  manifestato  ognora  più  forte 
con  effetti  se  non  dissolutivi  dell'unità  dello  Stato,  almeno 
affievolenti  il  vigore  di  esso. 


CAPITOLO  XI. 
Periele  e  le  meraviglie  dell'arte. 

L'antica  civillà  fu  glorificata  dalle  arti  :  segnatamente 
lo  fu  nella  Grecia  al  tempo  di  Pericle.  Al  genio  di  lui  si 
arde  incenso  ogni  dì;  tutte  le  età  che  furono  grandi  per 
le  arti  presero  ispirazione,  ed  ebbero  e  lode  e  nome  da 
quel  grande  Ateniese,  e  siamo  in  costumanza  noi  stessi 
di  chiamare  Lorenzo  il  Magnifico  il  nuovo  Pericle  d'una 
nuova  Atene.  Ma  esaminando  nelVistoria  greca,  nella  ro- 
mana e  nella  moderna  il  complesso  dei  fatti,  confron- 
tando le  epoche  dello  splendore  abbagliante  delle  arti 
coirapogeo  di  potenza,  e  col  tempo  di  decadenza  poli- 
tica delle  nazioni,  ci  sembra  che  anche  dalla  storia  delle 
arti  si  possano  dedurre  insegnamenti  per  l'uomo  di  Stato. 
La  storia  artistica  e  la  politica  soglionsi  scrivere  separate 
del  tutto,  e  quindi  gli  ammiratori  del  bello  non  s  avve- 
dono del  politico  danno  che  fra  le  artistiche  pompe  ser- 
peggia latente,  od  anche  spicca  palese. 

Le  così  dette  età  dell'oro  glorificate  dal  volgo,  per  Tor- 
dinario  traboccano  precipiti  in  era  di  ferro.  Al  lusso  in- 
clinano per  alterezza  i  potenti,  e  per  naturale  imprevi- 
denza tutte  le  plebi  del  mondo.  Il  bello  non  dovrebbe 
essere  che  lo  splendore  del  vero,  la  corona  dell'utile,  ma 
sovente  non  è  che  improduttiva  consumazione  di  mezzi, 
la  cui  mancanza  si  deplora  prossimamente  dipoi.  Quando 
Pericle  profondeva  le  ateuiesi  ricchezze  foggiando  ad 


166  PIBTE  PRIMA 

archi,  a  templi,  a  palagi  le  rupi  del  Penlelico  e  quelle 
di  Paro,  già  si  addensava,  anzi  piombava  la  negra  pro- 
cella suirAllica,  nella  quale  lo  sparlano  Lisandro,  di- 
strutto il  navile  d'Atene,  doveva  salire  insultante  all'Acro- 
poli. Forse  coi  tesori  profusi  nella  costruzione  del  Colos- 
seo romano,  e  col  tradurvi  le  tante  migliaja  di  belve 
feroci  pel  rinnovarsi  continuo  dei  truci  diletti  del  popolo, 
sarebbero  stati  distrutti  i  Gatti,  e  spezzate  sul  nascere 
quelle  leghe  dei  Barbari,  che  trionfarono  poi.  Ergevano 
i  Mori  TAlambra  in  Granata  quando  già  appariva  alFo- 
rizzonte  la  sanguigna  cometa  di  Gonzalvo  di  Cordova. 
L'oro  prodigato  nella  stolta  mole  dell'Escuriale  accre- 
sceva la  difficoltà  di  riparare  alla  perdita  deW invincibile 
armada,  e  quello  più  stoltamente  profuso  in  Mafra  Lu- 
sitana avrebbe  potuto  aprire  nel  regno  e  strade  e  canali, 
onde  ristorare  coll'agraria  i  danni  della  perdita  dell'esclu- 
sivo commercio  degli  asiatici  mari. 

Anche  il  maggior  numero  dei  più  superbi  edificii  di  Ve- 
nezia non  si  alzò  quand'essa  non  aveva  campi,  ma  va- 
scelli, quando  mieteva  in  Egitto,  premeva  gli  olii  in 
Provenza,  sfrondava  i  gelsi  in  Brussa,  vendemmiava  in 
Cipro,  ma  quando  cadevano  dilacerali  dalle  mine  tur- 
chesche  i  bastioni  di  Candia,  e  quando  i  Turchi,  prese 
Otranto  e  Brindisi,  minacciavano  di  far  di  Venezia  una 
prigioniera  nel  golfo,  e  dell'Italia  una  seconda  Grecia. 
11  prodigioso  Vaticano  sorgeva  quando  più  larghi  soc- 
corsi dati  alla  Lega  cattolica  forse  potevano  renderla  vit- 
toriosa contro  i  Protestanti  in  Germania,  in  Danimarca, 
in  Isvezia,  e  v'era  ancora  speranza  di  far  cigolare  in 
Inghilterra  e  in  Iscozia  l'incerta  bilancia  a  favore  di 
Roma.  Già  passavano  altrove  l'industrialismo  bancario 
e  la  ricchezza  di  Firenze  quand'essa  abbellivasi  di  pit- 
ture e  di  marmi  ;  le  manifatture  già  fuggivano  dal  Reno 


GAPITOIX)  XI.  167 

e  dall'Elba  quando  vi  sì  emulava  Tltalia  nella  ricchezza 
dei  templi,  e  nelle  incantevoli  tele;  la  vittoria  già  era 
infedele  alle  legioni  di  Francia  quando  Luigi  XIV  con 
favoloso  dispendio  ediQcava  Versailles. 

Ammiriamo  TOdeone,  i  Propilei  ed  il  Partenone  di  Pe- 
ricle: stupiamo  dei  monumenti,  che  sovente  discopronsi 
anche.adesso  in  Atene  presso  l'Acropoli  nella  turca  città 
sotto  le  macerie  accumulate  nei  secoli.  Anzi  deploriamo 
che  ai  giorni  nostri  costruendo  la  nuova  Atene  senza  ne- 
cessila  su  parte  del  terreno  che  l'antica  occupò,  ci  to- 
gliamo in  perpetuo  la  visione  di  quanto  giace  nascosto, 
e  Tonore  di  guidare  Tavido  sguardo  del  sole  a  raggiare 
per  entro  altre  spoglie  gloriose  dell'età  consumata.  L'in- 
forme palagio  reale  d'oggidì,  gli  adusti  giardini  di  esso, 
ed  i  tanti  edifizii  della  nuova  città  soprastanno  agli  an* 
tichi  come  la  barbarie  alla  civiltà,  né  i  vetusti  potranno 
scoperchiarsi  onde  il  mondo  ne  prenda  diletto  e  stupore, 
e  cresca  nel  gusto  e  nella  sapienza  dell'arte. 

Noi  rispettiamo  il  nobile  e  grande  sentimento  di  Pe* 
ride:  noi  ne  proviamo  quasi  incanto  e  malia;  ma  co-* 
noscenti  delle  grazie  delle  arti,  nemmeno  di  queste  pren- 
diamo superbia ,  né  amiamo  l'estetica  se  dà  onore  con 
danno.  I  falli  dei  governi  non  sono  sempre  espiabili, 
sebbene  talvolta  derivino  da  impulso  generoso  di  idee. 
Chi  regge  un  popolo  deve  tener  freno  di  ragione  anche 
alle  ispirazioni  più  nobili,  e  prima  deve  assicurarne  la 
polìtica  vita  che  illustrarla ,  perchè  è  mesta  vittoria  e 
lagrimata  conquista  l'orgoglio  dell'arte  ottenuto  col 
prezzo  deirumiliazione  di  Stato.  Nella  sfera  delle  poli- 
tiche idee  vediamo  che  perfino  la  potenza  di  un  vivo 
ingegno,  e  la  generosità  di  caldo  e  delicato  sentire  so- 
vente fanno  tristi  illusioni  e  traviano.  Chi  trovando  il 
tesoro  accumulato  nell'arca,  lo  crede  in  perpetuo  pò- 


168  PARTE    PRIMI 

tenie,  e  sicura  per  sempre  la  serenila  di  fortuna,  se 
fiacca  nelle  pompe  le  pubbliche  forze,  ne  volge  al  tra- 
monto la  gloria  e  grandezza. 

Quindi  stupefalli  scorgiamo  i  monumenti  di  Tebe,  ma 
dalle  moli  adorale  dal  volgo  ritraendo  lo  sguardo,  lo  ri- 
posiamo appagato  sui  canali  dei  Faraoni  e  dei  Tolomei  : 
lodiamo  il  Partenone  d'Alene,  ma  più  il  triplice  porlo; 
il  Colosseo  di  Roma,  ma  più  le  dighe  di  Ostia,  di  Anzio 
e  d'Ancona;  i  palagi  di  Venezia,  ma  più  i  murazzi  suoi; 
il  gran  tempio  di  Milano,  ma  più  i  canali  lombardi  e  le 
arginature  del  Po,  che  degradano  per  la  prodigiosa  loro 
mole  le  piramidi  egiziane.  Queste  opere  non  distruggono, 
ma  creano  la  ricchezza,  non  scemano  ma  donano  vigore, 
nobiltà  ed  orgoglio  di  menti,  attestano  pur  esse  la  civillà, 
ma  rassicurano  ed  accrescono  moltiplicando  la  forza,  e 
Toro  in  esse  profuso  non  si  lamenta  in  alcuna  età  vicina 
0  lontana,  ed  anzi  si  raccoglie  moltiplicato  ogni  di. 

Tenga  il  politico  sempre  presente  nell'amministrare  le 
finanze  quel  dello  di  Floro:  Opulentia  paritura  max 
egestatem,  ossia  la  povertà  essere  il  fine  di  male  usata 
ricchezza.  Se  antiveggente  sapienza  non  presiede  a  giusto 
impiego  deiroro,  se  meglio  si  seguono  le  vanità  del  po- 
polo, che  non  si  odano  i  consigli  dei  savii,  se  adornando 
le  città,  le  campagne  s*obbliano  che  sono  il  principale 
stromento  di  forza  e  grandezza,  germina  dairinconsullo 
scialacquo  la  pronta  rovina,  e 

Frangitur  ìpsa  suis  Roma  superba  bonis. 


CAPITOLO  XII. 

Confronto  dei  Greci  e  dei  Romani: 

effetto  delie  conquiste  macedoniche  e  delle  romane 

sulla  civiltà  mondiale. 

Abbiamo  ormai  presentalo  il  quadro  deWesterna  po- 
litica degli  antichi  popoli,  segnatamente  dei  Greci  e  dei 
Romani.  Ma  pochi  scrittori  si  occuparono  delle  cose  ro- 
mane e  greche,  che  non  abbiano  voluto  un  parallelo  della 
sapienza  di  quei  due  famosi  popoli  presentare.  V'ha  chi 
confronta  le  greche  e  le  romane  pive,  e  gli  idillii  e  le 
georgiche,  e  le  ninfe  dei  fiumi  e  quelle  dei  monti,  e  le 
epiche  trombe,  e  Veloquenza  del  fòro  e  la  filosoQa  del 
portico,  ed  i  quadri  e  le  statue  colla  piacevole  sequela 
d'aneddoti  e  novelle  di  cui  i  Greci  hanno  dote  sì  ricca, 
ed  ognuno  deriderebbe  udite  in  piazza,  ma  tanti  ammi- 
rano udite  in  iscuola.  Noi  ameremmo  distinti  dapprima 
gli  scrittori  latini  dai  greci,  e  fra  i  greci  quelli  dell'epoca 
della  loro  indipendenza,  e  quelli  dell'epoca  romana,  come 
Diodoro  Siculo,  Dionigi  d'Alicarnasso,  Appiano  alessan- 
drino, Plutarco,  ecc.  ;  ameremmo  distinti  quelli  che  vis- 
sero in  Grecia,  e  quelli  che  abitarono  in  Roma  e  nelle 
Provincie  d'Occidente,  quelli  che  scrissero  all'epoca  per- 
siana trovandosi  liberi  od  essendo  servi,  e  nel  tempo  del 
cristianesimo  quelli  che  gli  furono  devoli,  e  quelli  che  gli 
rimasero  ostili.  Tali  distinzioni,  sempre  trascurate,  sono 
necessarie  per  ben  comprendere  il  carallere  e  calcolare  il 


t70  PARTE  PEIUi 

grado  di  credibilità  degli  scrittori  greci,  come  è  ben  ne- 
cessario allo  scopo  di  conoscere  la  storia  del  medio 
evo,  di  fare  le  distinzioni  stesse  quanto  agli  storici  e  geo- 
grafi dell'islamismo.  Ma  nel  caso  attuale  facile  compito 
è  il  nostro,  perchè  possiamo  appoggiarci  al  giudizio  di 
un  uomo,  che  nelle  memorie  dei  secoli  fu  a  nessuno  se- 
condo per  genio  ed  imprese. 

Nei  tristi  ozii  di  Sant'Elena  cosi  definiva  Napoleone  la 
controversia  sul  merito  comparativo  dei  Greci  e  dei  Ro- 
mani: ci  Greci  ed  i  Romani  (diceva  quest'uomo  straor- 
dinario, che  a  tutti  superiore  voleva  essere,  ed  a  tutti 
superiore  si  fece)  narrarono  essi  medesimi  la  loro  storia: 
devesi  diffidare  degli  uni  e  degli  altri,  perchè  parlarono 
in  causa  propria.  Ma  i  Greci  non  conquistarono  un  palmo 
di  terreno,  ed  in  gran  parte  soggiacquero  sempre  ad  estera 
sovranità.  1  Romani  invece  conquistarono  tutto  il  mondo, 
ed  anche  la  Grecia.  Essi  dunque  furono  più  grandi  dei 
Greci  ». 

Certamente  v*ha  bizzarria  in  si  strano  giudizio  ;  ma  non- 
dimeno vi  ha  in  esso  un  fondamento  di  verità.  All'aprirsi 
della  storia  vediamo  i  pochi  abitanti  di  una  sola  città 
lottare  fra  mille  pericoli ,  gradatamente  conquistare  11- 
talia»  l'Europa  ed  il  mondo,  i  popoli  barbari,  ed  i 
popoli  colti,  e  regnare  su  tutti.  Vediamo  invece  i  Greci 
numerosissimi  in  Asia  ed  in  Europa  difendere  penosa- 
mente la  loro  indipendenza;  troviamo  i  Greci  di  Sicilia 
frequentemente  in  estera  servitù,  e  quelli  di  Asia  ridotti 
in  quasi  perpetua  servitù  straniera.  Le  più  grandi  imprese 
dei  Greci  furono  operate  durante  la  servitù  macedonica, 
e  non  appartengono  rigorosamente  ai  Greci,  che  in  quel- 
l'epoca erano  dominati  dai  Macedoni,  non  altrimenti  che 
i  Macedoni  furono  poscia  dominati  dai  Romani.     . 

Napoleone  giudicava  come  voleva  essere  giudicalo  egli 


cApnoLO  xn.  171 

stesso,  che  tanta  parte  d'Europa  soggiogò.  Plutarco  nei 
paralleli  suoi  di  personaggi  greci  e  romani  non  offre 
elementi  a  giudizio  generale  e  sicuro.  Per  le  dispara tis- 
sime  condizioni  degli  uomini  e  dei  tempi,  quelle  compa- 
razioni sono  sovente  forzate,  troppo  imperfette  e  quasi 
fantastiche  :  tali  sono,  p.  e.,  i  raffronti  dei  Gracchi  con 
Agide  e  Cleomene,  di  Timbleonte  con  Paolo  Emilio,  di 
Pirro  con  Mario,  di  Pericle  con  Fabio  Massimo  (!)  :  ad 
ogni  modo  da  questi  sforzi  d'ingegno  a  paragone  dei 
personaggi  discorsi,  non  si  avrebbero  argomenti  a  gene- 
rale giudizio  sul  primato  dei  Romani  o  dei  Greci.  Ma  il 
politico,  in  una  controversia  così  vasta,  cosi  antica,  e  nei 
minuti  rapporti  inestricabile,  porta  l'occhio  sulle  masse, 
e  per  ultimo  risultato  non  sa  qual  paragone  di  politica 
sapienza  vi  possa  essere  fra  una  nazione  che  da  grande 
impiccolisce  e  serve,  ed  una  nazione  che  da  piccola  in- 
gigantisce ed  impera. 

I  Romani  meno  dei  Greci  ebbero  fervido  il  cuore,  alata 
la  fantasia,  entusiastica  l'arte:  essi,  e  non  i  Greci,  fu- 
rono i  veri  iconoclasti  della  storia  dei  popoli  fenicii  : 
non  posero  pensiero  a  conservare  l'egizia,  l'assira  o  l'ar- 
mena ;  fecero  anzi  per  trascuranza  od  orgoglio  degli  sto- 
rici documenti  delle  vinte  nazioni  la  stessa  distruzione 
che  per  rozzezza  e  fanatismo  operarono  nel  medio  evo 
le  religioni  cristiana  ed  islamita,  entrambe  intente  ad  am- 
mutolire ogni  storica  voce,  a  schiantare  monumenti  ed  a 
togliere  prove,  perchè  ogni  memoria  avesse  dalle  sole 
bibliche  tradizioni  nascimento  e  propagine.  Quanto  so* 
pravvisse  al  romano  diluvio  non  è  dunque  pregio  latino, 
ma  greco  :  i  Romani  non  vantarono  la  potente  scuola 
dei  matematici  greco-alessandrini ,  e  non  è  onore  per 
essi,  che  presaghi  non  furono  di  quella  inesausta  fe- 
condità di  beni  esteriori  che  è  dono  delle  scienze  natu- 


172  PiETE  PEIHl 

rali  ed  esalte,  prodigioso  negli  effetti  oggidì,  ma  non 
scarso  nemmeno  in  antico.  I  Romani  però  furono  veri  uo- 
mini di  Slato  ;  ebbero  sorprendente  esperienza  di  carriere 
nazionali,  religione  ubbidiente  allo  Stato,  e  parte  del  suo 
meccanismo  politico  ;  non  una  casta  sacerdotale  ad  osta- 
colo in  Roma,  non  proselitismo  insensato  nelle  conqui- 
state contrade,  non  intolleranza  barbara,  non  orride  de- 
vozioni, non  fede  precipitosa  nelle  istituzioni  che  sorgono 
sul  vuoto  di  istituzioni  demolite,  non  greca  licenza,  ma 
greca  sapienza;  ebbero  scetticismo  d'uomini  come  Lucre- 
zio, come  Cicerone;  non  femminili  influenze  a  governo; 
musica,  quadri,  statue,  mosaici,  cammei  tenuti  in  pregio, 
ma  piuttosto  greci  che  romani  ;  grandi  strade,  valli  smi- 
surate, acquedotti  magnifici,  opere  immense  di  dighe,  di 
ponti,  di  acquedotti,  di  porti  ;  non  ebbero  ideologi,  non 
scuole  fllosofiche  d'origine  latina  ;  nessuno  di  quei  me- 
tafìsici che  s'affannano  a  cavare  il  sottile  dal  sottile,  in- 
segnando ad  apprendere  con  grande  fatica  il  poco  od  il 
nulla.  Ebbero  invece  oratori  legali  e  politici  maestri  a 
tulio  il  mondo  ed  a  tutte  le  età,  meravigliosa  sapienza  di 
giuristi  civili,  ma  non  aforismi  di  diritto  pubblico  esterno, 
perchè  li  avrebbero  dovuto  scrivere  anche  contro  se  slessi, 
che  si  sentivano  rigoglio  di  forza,  e  si  facevano  unico  prin- 
cipio ed  unica  dottrina  di  essa.  Ebbero  poca  poesia  leg- 
giadra e  quasi  tulta  d'imitazione,  molta  poesia  satirica, 
e  questa  nazionale,  storici  illustri,  scrittori  di  agricoltura 
nazionali  valenti  :  cercarono  con  ogni  cura  e  tradussero 
anche  gli  esteri,  quelli,  p.  e.,  di  Magone  cartaginese  sal- 
vati alla  presa  ed  incendio  della  città.  Tentarono  con  Pli- 
nio (1)  di  scrivere  l'enciclopedia  delle  cognizioni  del- 

(i)  Lo  scrittore  latino  ciie  fu  sempre  meno  studiato  d^ugni  altro,  e  quasi 
mancò  di  traduttori  in  Italia,  ove  le  versioni  degli  altri  sommano  certamente 
a  centìnaja,  fu  appunto  Plinio  il  Vecchio.  Eppure  si  è  in  questo  scrittore  che  si 


CAPITOLO  xn.  173 

Tepoca,  ed  uomini  come  Siila,  Cesare,  Augusto  e  Corbu- 
Ione  dettarono  i  loropropriicommentarii.  I  Romani  tro- 
yarono  quasi  tutte  le  fonti  di  finanza  che  si  applicano 
oggidì,  verificarono  il  detto  et  facete  et  pati  fortia  ro- 
manum  est,  ebbero  modestia  di  abitazioni  private,  fasto 
di  moli  smisurate  nei  monumenti  pubblici  anche  in  città 
di  terzo  ordine  come  Pompei,  come  Verona,  come  Fola, 
architetti  come  Vitruvio,  come  Cossuzio,  che  perfino  ad 
Atene  dava  al  tempio  di  Giove  Olimpico  le  proporzioni  e 
forme  che  lo  resero  il  più  magnifico  tempio  che  proba- 
bilmente sia  slato  inalzato  giammai.  Occuparonsi  ad 
estendere  l'impero,  non  la  mitologia,  che  le  guerre  della 
Genesi,  dell'Alcorano,  del  Vangelo  non  entrarono  negli 
intendimenti  di  alcun  Romano  giammai,  e  tulto  ai  vinti 


trova  l'onniscienza  delPctà  antica,  e  se  uomini  non  già  di  coltura  letteraria  e 
lederà,  ma  tecnica  e  profonda  avessero  sottoposto  a  serio  esame  i  libri  di 
Plinio,  noi  probabilmente  avremmo  bene  interpretato  anche  ciò  che  .vi  è  di 
oscuro,  ed  acquistalo  cognizioni  utili  alle  arti  ed  alUndustria,  che  in  alcuni 
rami  aveva  raggiunto  un  grado  di  perfezione  superiore  a  quello  d'oggidh 

Invece  noi  abbiamo  una  illuvie,  ed  anche  una  contaminazione  e  bruttura  di 
versioni  e  commenti  d'altri  classici  e  buoni  e  mediocri,  e  prosatori  e  poeti 
d*assai  indiretta  e  perfino  di  problematica  utilità.  Cosi  abbondano  le  versioni  ita- 
liane di  Properzio,  di  Tibullo,  di  Catullo,  di  Marziale,  di  Stazio,  di  Manilio  ecc. 
Non  dico  delle  versioni  di  Virgilio  che  sono  almeno  cinquanta ,  e  si  molti- 
plicano in  ciascun  anno.  Eppure  non  possiamo  astenerci  da  un  riflesso.  Il 
pregio  principale  di  Virgilio  sta  nella  lingua  deliziosa,  sta  neirarmonia  d'un 
gorgheggio  incantevole  ;  ma  questo  pregio  non  fu  reso,  e  non  si  può  rendere 
ton  alcuna  versione  giammai  nei  grandi  poeti,  e  meno  forse  in  Virgilio  che  in 
altri,  perchè  l'eccellenza  virgiliana  è  piuttosto  d'acustica  perfezione  che  non 
d'intellettuale.  Noi  quindi  compassioniamo  le  lunghe  fatiche  dei  traduttori  a  si 
povero  fine  condotte.  Ed  in  generale  ci  accostiamo  alPopinione  prodotta  con  si 
grande  squisitezza  di  gusto  da  Cervantes  nel  capitolo  sesto  del  suo  faceto  rac- 
conto, ove  il  parroco  facendo  lo  scrutinio  dei  libri  deWingenioso  hidalgo,  pone 
con  venerazione  sol  capo  i  grandi  poeti  d'ogni  età  e  paese  se  li  trova  neirorigi- 
naie  loro  lingua,  e  li  getta  per  la  finestra  nel  fuoco  che  ardeva  in  cortile  se 
erano  in  esemplare  tradotto. 

Sappiamo  che  i  buoni  estimatori  ci  chiameranno  severi  :  dagli  altri  saremo 
detti  burberi.  Ma  chi  non  diventerebbe  rannuvolato  e  sdegnoso  vedendo  TAriosto 
si  ladramente  immascherato  da  Dacier,  e  TUgolino  di  Dante  vestito  da  Truf- 
faldino dal  famoso  Voltaire? 


174  PIETE  P&11U 

lasciavano  se  ad  essi  materialmente  non  giovava  rapirlo. 
Non  avevano  sempre  parola  da  rozzi  e  fieri  soldati,  ma 
anche  addolcimenti  e  lusinghe:  assumevano  somiglianze 
di  bontà  e  virtù:  per  rovesciare  gli  Stati  gridavano  libertà, 
poi  la  estinguevano  se  rovesciati. 

Anche  i  Romani  hanno  subito  grandi  sventure:  hanno 
sofferto  grandi  rovesci ,  hanno  dato  ostaggi  agli  Etru- 
schi ,  hanno  avuto  Brenno  in  Roma ,  sono  passati 
sotto  il  giogo  dei  Sanniti,  ma  sapevano  perdurare,  aspet- 
tare, che  è  si  rara  sapienza  :  erano  grandi  nella  tattica, 
grandi  nella  strategia,  ma  anche  la  strategia  subordina- 
vano alla  politica;  avevano  disciplina  d'eserciti  severa  io 
pace,  barbara  in  guerra,  e  la  natura  dell'ubbidire  negli 
eserciti  quasi  altrettanto  generosa  come  quella  del  coman- 
dare. Tali  furono  i  Romani. 

Ma  la  storia  politica  conservatrice  delle  esperienze  di 
tutte  le  scienze  sociali,  non  solo  ricorda  le  gesto  dei  po- 
poli antichi ,  non  solo  richiede  quale  fra  essi  sia  stato  più 
grande ,  e  trova  che  la  Repubblica  Tomana  ha  prodotto 
uomini,  la  cui  potenza  morale  non  fu  sorpassata  giam- 
mai, ma  cerca  nella  serie  dei  fatti  polluli  di  sangue  e  ri- 
lucenti d'incendii,  se  i  medesimi  siano  stati  per  ultimo 
effetto  funesti  all'umana  coltura,  che  la  sua  vita  misura 
non  colla  gioja  od  il  pianto  d'un  tempo  o  d'un  popolo, 
ma  colla  vita  dei  secoli  e  colla  durata  del  mondo.  Par- 
lando della  conquista  che  i  Romani  fecero  della  Grecia, 
già  abbiamo  nel  testo,  e  più  ancora  in  una  nota,  esposto 
in  parte  le  nostre  idee  :  vogliamo  però  aggiungere  qual- 
che altra  considerazione  d'ordine  sempre  più  generale. 

Noi  vorremmo  che  tutti  i  paesi  di  questo  pianeta  fos- 
sero colti  e  civili,  e  si  traducesse  nei  fatti  la  bella  mas- 
sima di  Cicerone  negli  Officii  :  Suscipienda  bella  ^^t 
wlum  ob  eam  causarti  ut  une  injuria  in  pace  riDaWr» 


CAPITOLO  XII.  175 

Tutti  però  lodarono,  e  nessuno  rispettò  nell'era  antica  o 
nella  moderna  ciò  che  sant'Agostino  scriveva  nella  Città 
di  Dio  :  Infette  bella  finitimis,  ac  populoi  sibi  non  mo^ 
lestos  sola  tegni  cupiditate  contetete,  gtande  lattoci- 
nium  est  :  il  mondo  fu  dunque  sempre  bruttato  di  sangue, 
ma  vero  si  è  che  talvolta  fu  mezzo  di  civiltà  e  progresso 
il  terrìbile  apostolato  delle  armi.  Desolatrice  è  sempre  la 
spada  se  ruotata  da  ambizione  o  barbarie  la  mappa  dei 
confini  politici  alternamente  disegna  e  dilacera;  è  desola- 
trice se  popolazioni  crude  ed  indomite  per  natura,  per 
uso  e  per  concitazione,  perpetuano  dopo  la  vittoria  la 
guerra;  è  desolatrice  se  per  essa  sulle  tombe  d'un  popolo 
illustre  passeggia  trionfante  una  turba  barbarica.  Deplo- 
rata è  la  guerra  quando  le  torme  dei  Barbari  invadono 
l'impero  latino,  quando  in  tante  contrade  dell'Asia  il  bra- 
minismo  immoto  e  rigido  prevale  fra  orribili  stragi  al 
buddismo  politicamente  più  libero,  quando  la  scimitarra 
turchesca  conquista  la  Grecia,  quando  la  spada  persiana 
signoreggia  l'Armenia,  quando  Venezia  combatte  per  avere 
l'esclusivo  dominio  deir Adriatico,  la  Turchia  per  chiudere 
il  mar  Nero,  la  Danimarca  per  esigere  le  gabelle  del  Sund, 
eFOlanda  per  serrare  la  Schelda.  Ma  non  è  deplorata  la 
guerra  se- le  crociate  maturano  i  mezzi  coi  quali  l'Europa 
si  toglie  al  tormento  feudale,  se  gli  Inglesi  invadendo  le 
Indie  insegnano  alle  vedove  a  non  consumarsi  nelle  pire 
infiammate  coi  corpi  dei  mariti,  ed  alla  plebe  fanatica  a 
non  precipitarsi  sotto  le  ruote  dell'idolo  di  Giaggrenat, 
se  vi  spengono  la  tirannide  di  centinaja  di  despoti,  det- 
tano  un  giusto  sistema  d'imposte,  tolgono  i  ceppi  delle 
interne  barriere  daziarie,  stabiliscono  la  monetazione  uni- 
forme, salgono  i  fiumi  a  ritroso  con  navi  fumiganti  di 
caligine  ondante,  volano  sulla  terra  listata  di  ferro  con 
anelito  di  carri  fiammanti,  e  fanno  per  le  elettriche  fibre 


176  pàbte  peimà 

una  voce,  una  vita  discorrere  che  distrugge  ogni  longin- 
quità  dello  spazio,  e  per  gli  umani  consorzii  riduce  ad 
un  sol  punto  la  terra.  I  beneficii  della  civiltà  sono  tal- 
volta diffusi  col  sangue,  e  sta  scritto  nel  libro  misterioso 
del  fato,  che  sia  impura  la  fonte  da  cui  la  civiltà  derivi, 
e  più  largamente  si  estenda. 

Sovveniamoci  che  senza  le  conquiste  di  Semiramide  le 
sponde  delFEufrate  e  del  Tigri  non  si  sarebbero  coperte 
di  quelle  magniGche  moli,  i  cui  ruderi  tuttora  degradano 
in  maestà  quanto  Tarte  ha  eretto  dipoi.  Sovveniamoci 
che  senza  le  conquiste  del  Macedone  l'Egitto  non  avrebbe 
vantato  la  sua  Alessandria,  né  la  Mesopotamia  la  ricca 
Seleucia,  e  le  maggiori  meraviglie  dei  monumenti  d'Elio- 
poli  (Baalbec).  Alessandro  insegnò  ai  Sogdiani  a  non  uc- 
cidere i  vecchi  parenti,  ai  Persiani  a  non  prendere  in 
mogli  le  madri,  agli  Sciti  ad  incendere  ed  a  non  divorare 
i  defunti.  Egli  sparse  in  gran  parte  deirAsia  la  greca 
coltura:  per  lui  si  tradussero  perfino  sulVldaspe  i  lumi 
desunti  dall'Attica  ;  egli  riattivò  le  vie  del  commercio  in- 
diano per  l'Eritreo  e  per  l'Eufrate  ;  egli  sostituì  all'ele- 
mento assiro  e  fenicio  ed  alla  schiavitù  delle  classi  orien- 
tali l'elemento  greco,  e  colle  lettere  anche  le  idee  della 
greca  libertà. 

Allorché  i  Romani  tuttora  incolti  e  feroci  opprimevano 
nell'esordio  dei  loro  trionfi  l'elemento  etrusco  dell'Italia 
centrale,  e  l'elemento  greco  di  quella  del  sud ,  essi  re- 
trospingevano  la  civiltà:  in  appresso  educati  a  mitezza, 
e  già  invasi  dagli  stessi  elementi  ed  etruschi  e  greci  che 
non  avevano  nei  primi  conflitti  potuto  del  lutto  soffocare 
e  spegnere,  divennero  maestri  di  costumanze  migliori  ai 
popoli  di  sistema  fenicio  o  di  sistema  druidico.  Essi  edu- 
carono i  Galli  a  non  sacrificare  tante  vittime  umane  che 
ardevano  entro  roghi  composti  a  forma  di  simulacri  cor 


CAPITOLO  xn.  177 

lossali,  0  consegnavano  a  furibonde  sacerdotesse.  I  ca- 
nali aperti  da  Druso  e  Gorbulone  in  Germania,  ed  i  loro 
argini  e  dighe  insegnarono  ai  Batavi  a  conquistare  una 
patria  sulle  onde  dei  fiumi  e  del  mare.  £  quando  nella 
grande  unità  deirimpero  stabilita  colle  armi  potè  rapi- 
damente diffondersi  e  consociarsi  colla  romana  sag- 
gezza ogni  dottrina  della  greca  filosofia,  la  strada  fu 
largamente  aperta  all'adozione  del  cristianesimo  allora 
sorgente. 

Favoleggiarono  i  Greci  che  era  armata  Minerva,  che 
Ercole  guidava  le  Muse,  che  Tasta  d'Achille  ferendo  sa* 
nava  :  essi  resero  cosi  con  forme  pittoriche  oggettivi  gli 
effetti  delle  conquiste  guerriere  sulla  barbarie.  SI  :  come 
vediamo  col  volgere  degli  anni  maturarsi  la  ricca  ven- 
demmia anche  sulle  lave  che  furiosamente  tramestate  ed 
accese  in  sotterranea  fornace  traboccano  devastando  dal 
fiammeggiante  cratere,  cosi  ogni  volta  che  la  vittoria  di- 
serta i  nocenti  manipoli  delle  rozze  tribù,  ed  incorona  i 
vessilli  di  colte  ed  industri  nazioni,  vediamo  seguire  alle 
lotte  spietate  ed  alle  rapine  cruente  la  prosperità  gene- 
rale. Né  solo  sono  sciolte  le  menti,  e  snebbiati  gli  intel- 
letti al  lampo  di  quelle  folgori,  ed  al  tuono  delle  procelle, 
ma  la  stessa  natura  tramutasi  alFalito  delVintelligenza 
ispirato,  perchè  il  travaglio  assiduo  dell'uomo  spiana  e 
compone  i  suoi  campi  come  edifica  le  sue  città.  Anche 
la  Flora  si  dilata,  si  spande  ed  utilmente  si  confonde  e 
moltiplica:  distinta  dapprima  in  separate  contrade  di  ve- 
getazioni speciali,  la  Flora  distrugge  i  suoi  termini,,  di- 
larga i  suoi  campi  ed  invade  quanto  lo  consente  la  cli- 
matologia del  globo,  si  che  il  botanico  leva  sovente  il 
fortunato  lamento  ch'ei  più  non  raffigura  qual  fosse  la 
vegetazione  primitiva.  A  quest'opera  salutare  dì  migliore 
partecipazione  delle  genti  ai  tesori  vegetali,  alla  loro 

12 


178  PiRTE  PAIHi 

Irasmigrazione  ad  ogni  contrada  similare  per  clima,  ha 
presieduto  in  ogni  tempo  la  guerriera  Minerva,  e  furono 
indigenatori  d'esotiche  piante  e  Lucullo  e  Pompeo,  ed  i 
Crociati  ed  i  conquistatori  d'America,  che  tutti  hanno 
distribuito  nelle  patrie  o  nelle  stranie  contrade  ad  inso- 
lite terre  i  doni  di  Flora. 

Cosi  i  popoli  avanzano  perfino  cogli  strazìi  della 
guerra  nell'esecuzione  di  un  benefico  ordinamento  che 
sovente  non  hanno  concepito.  Essi  sono  gli  artefici  di 
un'opera  che  non  si  prefissero  a  scopo,  l'opera  della  ci- 
vilizzazione. Il  mondo  non  la  riconosce  tra  via,  e  non  la 
comprende  che  tardi,  quando  cioè  la  medesima  si  ma- 
nifesta negli  effetti,  e  si  è  fatta  gigante.  A  quest'opera 
gloriosa  presero  una  grandissima  parte  i  Romani. 


PARTE  SECONDA 


L'ANTICA  FORMA  DEL  REGGIMENTO  DI  ROMA. 


CAPITOLO  L 

Il  patriziato  dì  Roma  :  basi  di  soa  forza 
nelle  islìtozioni  polìtiche  e  eìyìli. 

Nella  prima  parte  di  questo  nostro  lavoro  abbiamo 
esposto  TesterDa  storia  di  Grecia  e  segnatamente  quella 
di  Roma,  in  cui  le  greche  famiglie  e  tutti  i  popoli  più 
noti  del  mondo  antico  si  sono  raccolti  e  confusi  sic- 
come fiumi  nel  mare.  Ora  ci  apprestiamo  invece  a  svol- 
gere Finterria  storia  di  Roma ,  l'organismo  sociale  cioè 
dell'eterna  città  che  fu  regina  di  tutte.  Vedremo  qual  era 
in  origine  la  natura  del  governo  di  essa,  quali  ne  fossero 
le  basi  e  la  forza  :  osserveremo  poscia  il  sistema  del  reg- 
gimento romano  lentamente  modificato  per  l'opera  assi- 
dua di  riforme  legali,  e  faremo  poi  grado  ad  esporre 
nella  parte  terza  le  violenze  sanguinose  e  ]e  lotte  civili 
che  sommersero  affatto  l'inferma  repubblica ,  e  la  ri- 
dussero a  completa  soggezione  all'imperio  d'un  solo. 

La  sola  quarta  parte  dei  libri  di  Tito  Livio  arrivò  sino 
a  noi,  ma  quelli  che  rimangono  provano  all'evidenza  che 
se  possedessimo  tutte  le  sue  istorie,  l'amministrazione  di 
Roma  antica,  le  fasi  e  le  rivoluzioni  di  essa  ci  sarebbero 
pienamente  note.  Ma  dobbiamo  dolerci  che  la  perdita  di 
una  gran  parte  delle  narrazioni  di  quel  vero  principe  dei 
buoni  storici  civilisti  ci  abbia  sottratto  un  valido  sussidio 
agli  studii  legali  e  politici.  Vi  sono  concioni  in  Livio  che 


182  PiBTE  SECONDI 

chiaramente  presentano  il  contrasto  dei  parliti  politici 
negli  argomenti  addotti  da  ciascuno  dei  capi  per  soste- 
nere od  abbattere  una  riforma  proposta,  come  vi  sono 
in  Tucidide ,  che  nell'uso  delle  concioni  venne  da  Livio 
preso  a  modello.  Ma  Tucidide  che  è  pur  austero  e  breve, 
non  Io  fu  sempre  nelle  sue  concioni,  ed  in  quella  d'elogio 
dei  soldati  uccisi  in  guerra,  ch'egli  pone  in  bocca  a  Pe- 
ricle, fu  diffuso  di  troppo:  Livio  invece,  che  è  scrittore 
più  copioso  e  più  largo,  fu  nelle  riferite  concioni  meglio 
assegnato  e  porco.  L'esempio  di  Tucidide  e  Livio  di  ri- 
schiarare con  introdotte  concioni  Tinlelligenza  di  con- 
troverse ragioni  civili  o  politiche  fu  ben  imitato  da  vani 
scrittori  italiani,  p.  es.  dal  Pallavicino  e  dal  Sarpi,  i 
quali  hanno  pure  offerto  in  tal  modo  tutti  gli  aspetti  delle 
controversie  religioso-politiche,  e  le  passioni  della  Chiesa 
combattuta  e  difesa.  Altri  scrittori  ne  hanno  invece  deplo- 
rabilmente abusato,  destinando  i  discorsi  a  fasto  d'elo- 
quenza stucchevole.  Ma  di  quali  esempii  in  ogni  tempo 
ed  in  ogni  sfera  di  studii  non  si  è  gravemente  abusato? 
Seguirono  alla  grandiloquenza  di  Cicerone  le  nojose  lun- 
gaggini di  monsignor  Della  Gasa,  e  la  prosa  cortigiana, 
arliQziata  del  Bembo;  la  concinnità  delle  Georgiche 
ebbe  la  narcotica  sequenza  dei  poemi  didascalici  ;  tras- 
sero dall'inarrivabile  grazia  del  Canzoniere  del  Petrarca 
ì  melensi  citaristi  il  loro  nauseabondo  melume,  e  dal 
Furioso  sfavillante  d'ogni  prestigio  fantastico,  d'ogni 
gemma  linguistica,  si  desunsero  insulse  leggende  di  ro- 
manzi d'eroi. 

Quando  con  artiGcio  mirabile  si  cominciarono  a  svol- 
gere, interpretare  e  leggere  i  carbonizzati  papiri  di  Erco- 
lano,  si  erano  concepite  grandi  speranze  di  scoperte  che 
colmassero  le  lacune  di  Tito  Livio,  quelle  di  Tacito,  di 
cui  una  metà  è  parimenti  perduta»  quelle  di  Polibio,  di 


cimoLO  I.  183 

cui  appena  Tottava  parie  rimane,  e  di  tanti  altri  scrittori 
greci  e  latini,  e  fosse  cosi  più  agevole  e  sicura  la  cogni- 
zione deirinterna  ed  esterna  storia  segnatamente  di 
Roma.  L'aspettativa  però  fu  quasi  del  tutto  tradita.  Si 
ottenne  soltanto  la  conoscenza  di  frammenti  di  opere  G- 
losoGche,  specialmente  di  Filodemo  sugli  effetti  della 
mn$ica,  sulle  virtà  e  jui  vizii,  sulla  ret lorica  e  sui  so- 
fismi^  sul  diritto  di  esternare  la  propria  opinione,  sugli 
usi  degli  Dei  e  su'  loro  cibi  favoriti,  di  Metrodoro  sui 
sentimenti,  di  Polistrato  sull'ambizione,  sull'onore  e  sui 
riguardi  verso  le  donne,  e  di  Rabirio  sulla  guerra  tra 
Cesare  ed  Antonio,  e  sulla  vittoria  di  Azio.  Non  fu- 
rono adunque  gli  sludii  da  nuove  scbperle  promossi,  ed 
ancor  devonsi  ricercare  in  ciò  che  ci  resta  di  Livio,  di 
Tacito,  di  Polibio,  e  così  pure  di  Svetonio,  di  Appiano, 
di  Dione  Cassio,  di  Plutarco,  di  Vellejo,  di  Floro  ecc., 
le  desiderate  nozioni. 

Di  grande  soccorso  però  per  lo  studio  del  governo  di 
Roma  si  è  l'attenta  lettura  del  diritto  Giustinianeo,  per- 
chè da  essa  raccolgonsi  nozioni  autorevoli  e  talvolta  cer- 
tissime prove  anche  dell'antico  diritto,  e  delle  riforme 
seguite.  Jus  civile  est  quod  unaqucBque  civitas  sibi  con- 
stituit:  le  leggi  sono  il  risultalo  dei  bisogni  sentiti  dalla 
nazione,  o  piuttosto  da  chi  la  rappresenta,  e  ne  esercita 
la  sovranità;  il  bisogno  è  la  potenza  motrice  della  legge, 
e  questa  è  Tespressione  con  cui  il  bisogno  si  soddisfa.  Il 
bisogno  si  identifica  nella  consuetudine,  e  la  consuetu^ 
dine  si  identifica  nella  legge. 

Le  leggi  organiche  d*uno  Stato  non  sono  merci  che  si 
vadano  a  prendere  altrove,  come  i  Romani  favoleg- 
giarono delle  loro  Dodici  Tavole.  Queste  leggi  informi, 
queste  leggi  feroci,  che  sanzionano  Taristocratica  disu- 
guaglianza delle  classi  dello  Slato,  e  perfino  la  domo< 


184  PARTE    SECONDI 

slica  aristocrazia,  di  cui  non  Y*ha  esempio  altrove  (1), 
e  che  considerano  siccome  bruto  e  come  cosa  durante 
la  vita  del  padre  il  figlio,  quando  pur  fosse  imperante 
nello  Slato,  come  supporle  derivate  dalla  Grecia,  segna- 
tamente da  Atene  democratica,  ed  a  quell'epoca  quasi 
affatto  plebea? 

Ma  le  varie  classi  sociali,  poste  fra  loro  in  condizioni 
d'ineguaglianza  di  diritto  e  di  fatto ,  sentono  lo  sforzo 
all'equilibrio,  ed  i  Romani  ne  provarono  l'effetto  per  se- 
coli intieri,  in  cui  la  potenza  dei  patrizii  lottò  senza  posa 
e  con  sempre  decrescente  successo  contro  la  plebe,  fin- 
ché questa  raggiunse  l'eguaglianza  giuridica,  che  l'opera 
delle  leggi  e  del  tempo  ridusse  poscia  all'eguaglianza 
reale.  È  della  natura  delle  umane  cose  che  il  bisogno 
generi  i  modi  con  cui  soddisfarlo  :  bastano  le  vicende 
dell'istoria  ad  illuminarci  sulle  vicende  delle  massime 
legislative  ;  basta  la  serie  delle  leggi  a  portar  luce  sulla 
storia. 

Fra  le  tribù,  di  cui  constava  originariamente  il  popolo 
di  Roma,  dei  Ramnes  cioè,  dei  Taties  e  dei  Lucerei, 
l'una,  quella  dei  Lucerei^  era  etrusca.  E  taluno  fra  i  re 
di  Roma  proveniva  da  stirpe  etrusca  o  greca.  E  se  anche 
non  vuoisi  convenire  con  Niebuhr  nel  riconoscere  l'as- 
soluta influenza  della  civilizzazione  etrusca  sullo  sviluppo 
dello  slato  sociale  di  Roma,  devesi  almeno  ammettere 
che  la  classe  patrizia  aveva  cognizioni  etrusche  e  greche. 
La  forma  sagacissima  dei  romani  comizii  cenluriati,  in 
cui  era  volo  potente  in  diritto  quello  soltanto  che,  ap- 
poggiato alla  prevalenza  delle  fortune,  sarebbe  stato  mai 
sempre  influente  o  come  voto,  o  come  consiglio,  o  come 

(1)  Giustiniano  nelle  Istituzioni  dice  apertamente:  Nulli  alii  iunt  homineSf 
qui  talem  in  liberos  habeani  potestatem,  qualem  nos  habemus.  Eppure  la  pallia 
podestà  era,  a  queirepoca,  già  diminuita  moltissimo. 


CAPITOLO  I.  185 

mìoaccìa»  dimostra  che  ancor  prima  delle  Dodici  Tavole 
il  sistema  di  Roma  era  molto  sapientemente  inteso. 

Il  difetto  che  Plinio  il  giovane  avverte  come  inerente 
ai  pubblici  giudicati:  Numerantur  sententiw^  non  pon- 
derantur,  nec  aliud  in  publico  comilto  fieri  potest,  in 
quo  nihil  est  tara  incBqnale  quam  dequalitas  ipsa,  nam 
ciétn  $it  impar  prvdenlia  par  omnium  jus  est;  questo 
difetto  che  fino  ai  nostri  giorni  equiparò  nei  valori  dei 
voli  dietali  in  modo  così  assurdo  i  minimi  ed  i  massimi 
cantoni  di  Svizzera,  comitati  d'Ungheria  o  borghi  d'In- 
ghilterra ;  quella  fallace  dottrina  insomma  che  concede 
in  ogni  sfera  di  decisioni  sociali  autorità  al  numero  sugli 
argomenti  di  ragione,  di  politica  e  scienza  che  impon- 
derabili sono,  non  esisteva  nel  sistema  delle  romane 
centurie:  il  voto  era  virile  in  ciascuna,  ma  ogni  centuria, 
rispetto  all'altra,  aveva  un  voto  ponderato  (1).  Siccome 
pel  diverso  ammontare  della  cifra  censuaria  il  cittadino 
di  Roma  apparteneva  piuttosto  ad  una  centuria  che  al- 
l'altra, cosi  tutte  le  centurie  constavano  d'un  numero 
ben  differente  di  cittadini  ;  e  mentre  ogni  padre  di  fami- 
glia era  ammesso  a  votare,  dieci  ricchi  avevano  un  voto 
più  potente  che  non  mille  proletarii  {proletarii  seu  ca- 
pite censi).  Questo  è  il  perpetuo  destino  dei  poveri:  ep- 
pure in  ogni  Stato  sono  i  poveri  che  rifondono  le  popo- 
lazioni, che  producono  nei  campi  e  nei  telai  le  sussistenze 
e  le  comodità,  che  formano  i  quadri  degli  eserciti,  e  che 
vincono  le  battaglie! 

Ma  le  leggi  delle  Dodici  Tavole  (benché  emanate  per 
acchetare  i  clamori  del  popolo,  che  domandava  qualche 
garanzia  contro  lo  sfrenato  abuso  del  potere,  e  contro  la 

(1)  Cicerone,  cosi  aderente  al  sistema  patrizio,  spiega  quest'idea  colla  frase 
più  CiTorevole  :  h  valebat  in  suffragio  plurimum,  cui  plurimum  intererat 
esu  in  oplimo  statu  civilalem.  (Uè  Republica), 


186  PiRTE  SECOr^Dl 

privata  violenza)  conservarono  ai  patrizii  Vautorità  che 
godevano  amplissima.  Romanorum  legislator,  così  Dio- 
nigi d'Alicarnasso  nel  libro  li  delle  Storie,  omnempote- 
statem patri dedit  infiUum^  idque  tota  vitx  tempore,  sivc 
in  carcererà  eum  mittere,  iive  flagris  cadere,  sive  ne- 
care  libeat:  permisit  etiam  vendere  filium.  Quindi  Va- 
lerio Massimo  (VII,  7,  5)  non  impropriamente  denomina 
la  patria  podestà  patria  inajesta$ ,  Seneca  nel  secondo 
dette  controversie  chiama  il  padre  judex  domesticu$,  e  nel 
terzo  dei  benefizii  lo  chiama  domesticu$  magistratm , 
e  Svetonio  nella  vita  di  Claudio  lo  dice  censar  filii.  1 
figli  rapporto  agli  altri  uomini  erano  persone  ;  rapporto 
a  Roma  erano  cittadini;  rapporto  al  padre  erano  schiavi 
0  cose.  L'età  pubere  o  maggiorenne  scioglieva  dalla  po- 
destà tutoria  e  dalla  curatorìa,  ma  rapporto  alla  patria 
podestà,  il  figlio  non  era  mai  maggiorenne,  e  questa  pò- 
desta  si  esercitava  indiminuila  anche  sui  figli  dei  figli- 
Foss'anche  console,  il  figlio  soggiaceva  all'immane  auto- 
rità paterna,  e  fu  solo  assai  tardi,  nella  Roma  imperiale, 
che  il  console,  prefetto  del  Pretorio,  vescovo,  ecc.  fu  fi- 
nalmente sottratto  a  quel  potere  dispotico. 

Statuivano  le  Dodici  Tavole  con  militare  barbarie,  che 
i  figli  monstruosi  vel  prodigiosi  fossero  subito  ammazzati, 
statim  necato:  statuivano  la  perfetta  schiavitù  dei  figli) 
liberis  jus  vitce^  necis,  venundandique  potestas  patri 
esto;  e  se  il  figlio  venduto  veniva  dal  padrone  dichiarato 
liberto,  egli  ricadeva  nella  domestica  schiavitù,  e  solo  si 
pater  filium  ter  venundavit,  filius  a  patre  liber  esto: 
statuivano  che  connubii  non  vi  fossero  tra  patrizii  e  pie- 
bei,  patribus  cum  plebe  connubii  jus  nec  esto.  Questi* 
erano  le  belle  leggi  derivate  dalla  Grecia,  segnatamente 
da  Atene,  al  tempo  di  Pericle!  Non  senza  bile  di  par- 
tito Cicerone  patrizio^  nel  trattato  De  Oratore  loda  si 


CÀPiTOU)  I.  187 

altamente  le  Dodici  Tavole:  Incredibile  enim  est^  quam 
sit  omne  ju$  civile^  prmter  hoc  nostrum,  inconditum  et 
pene  ridiculum. 

Mentre  sancivasi  nella  famiglia  quest'impero  paterno 
di  cui  gli  scrittori  sovente  ci  rammentano  anche  il  deplo* 
rabile  esercizio  (1),  la  condizione  dei  padri  nel  gius  pub- 
blico si  assicurava  contro  la  violenza.  La  diminuito  car- 
pitisi 0  la  perdita  dei  diritti  di  famiglia,  di  città  e  di  vita, 
non  poteva  seguire  se  non  dietro  decreto  della  nazionale 
assemblea  o  delle  radunate  centurie:  De  capile  civis  nisi 
per  maximum  comitiatum  ne  ferunto.  Al  solo  giurì 
massimo  della  nazione  era  riservata  la  facoltà  di  torre 
ad  un  cittadino  la  vita,  di  privarlo  della  patria  podestà, 
0  di  pronunciare  contro  di  lui  l'ostracismo,  ossia  l'esilio, 
della  qual  pena  poteva  nascere  abuso  gravissimo  per 
cause  pubbliche,  se  una  semplice  misura  esecutiva  dei 
magistrati  l'avesse  potuta  infliggere. 

Ma  anche  queste  leggi  non  avevano  tutela,  perchè  per 
lungo  tempo  le  forze  patrizie  soperchiarono.  I  patrizii 
uccisero  Siccio  Dentato,  l'Ajace  romano,  e  Saturnino  e 
Melio,  ed  i  Gracchi  e  Clodio,  ed  i  Catilinarii  col  col- 
tello, e  non  col  decreto  centuriale,  che  a  quei  tempi  forse 
non  avrebbero  più  ottenuto.  Tutti  quei  monarchi,  che 
mai  non  mancano  alla  plebe,  furono  uccisi  per  nuda 
forza.  Il  Senato  aveva  ottenuto  l'intento,  quantunque  Tas- 
sassino  alcune  volte  venisse  condannato  dalle  adunate 
centurie:  il  secondo  fatto  spiaceva,  ma  sostanzialmente 
non  ledeva  il  Senato  ;  il  primo  lo  consolidava  al  potere  : 
esso  uccideva  quindi  il  demagogo,  concedeva  poi  la  per* 


(i)  Vediamo  in  Quintiliano  (Declam.  Ili)  un  Fabio  Eburno  condannare  a 
morte  suo  figlio,  in  Valerio  Massimo  (V,  8)  Tuccisione  del  figlio  Scauro,  in 
Sallustio  (De bello  CatiL,  XXXI)  quella  del  figlio  Fulvio,  ed  in  Seneca  (De  C/em.» 
I)  15)  Tesempio  di  Tito  Azio,  che  esiliava  suo  figlio. 


188  PA&TE  SECONDI 

dila  delVesecutore.  Ed  i  magistrati  palrizii ,  finché  nei 
patrìzii  vi  fu  forza  più  che  non  ve  ne  fosse  nei  tribuni, 
seppero  distinguere  fra  la  perdita  della  città,  che  non 
potevasi  imporre  se  non  per  decreto  centuriale,  e  Vin- 
terdizione  delV acqua  e  del  fuoco,  che  poteva  essere  mi- 
sura semplicemente  esecutiva,  e  forzava  ad  esiliarsi 
spontaneamente  chi  ne  era  colpito  (1). 

Quanto  il  diritto  Soloniano  varia  dalle  leggi  delle  Dodici 
Tavole,  che  in  esso  si  dissero  attinte  I  A  quello  la  schia- 
vitù di  famiglia  è  ignota  (Dionigi  d'Alic,  lib.  II,  com. 
de  patria  potestate),  ed  era  tale  l'eguaglianza  giuridica 
fra  i  cittadini  in  Atene,  che  la  democrazia  tosto  si  ridusse 
per  Tusurpazìone  di  Pisistrato  all'assoluta  monarchia, 
passaggio  che  facilmente  avviene  ove  l'eguaglianza  delle 
classi  sociali  siasi  raggiunta.  Noi  lo  vediamo  nella  romana 
repubblica  sotto  Cesare,  e  nella  francese  sotto  Napoleone. 
La  legislazione  civile  non  soffre  quasi  alterazione  allorché 
la  democrazia  pura  si  muta  in  pura  monarchia  :  la  per- 
fetta forma  monarchica  può  racchiudere  in  se  medesima 
la  civile  eguaglianza,  non  altrimenti  che  la  democratica. 
11  passaggio  fra  queste  forme  di  governo  può  quindi  es- 
sere calmo  ;  il  passaggio  dalla  pura  democrazia,  o  dalla 
pura  monarchia  all'aristocrazia,  è  sempre  sanguinoso  e 
fatale.  Trapassando  dalla  forma  democratica  alla  monar- 
chica le  masse  non  sono  necessariamente  lese  nei  loro 
interessi,  stato  di  famiglia,  eguaglianza  di  diritto  e  pro- 
prietà. Facile  si  è  quindi  nelle  repubbliche  ad  un  soldato 
la  monarchica  usurpazione,  specialmente  se  dopo  lunghe 
agitazioni  e  disastri  egli  promette  ai  popoli  protezione  e 
tranquillità.    I  singoli,  onde  le  masse  risultano,  non 


(1)  V ostracismo  di  Atene  e  di  Siracusa,  ed  il  discolalo  della  repubblica  di 
Lucca,  si  applicavano  per  legge,  e  non  già  per  decreto  del  polere  esecutivo. 


CAPITOLO  I.  189 

hanno  interessi  si  forti,  che  li  muovano  a  porre  sul  campo 
dell'opposizione  la  proprietà  e  la  vita. 

Le  leggi  delle  Dodici  Tavole  presentate  dai  Decemviri, 
magistrati  che,  pel  testimonio  di  Tito  Livio,  sappiamo 
essere  stati  tutti  di  itirpe  patrizia,  furono  una  semplice 
dichiarazione  dell'esistente  patriziato. 

Piuttosto  che  ricevere  le  leggi  dei  Greci,  i  Romani  in 
uno  stato  civile  talmente  diverso  in  allora  da  quello  dei 
Greci  avrebbero  tolto  di  vita  siccome  ribelle  chi  le  propo- 
neva. Questi  non  trovava  nel  popolo  potenza  politica  a 
sua  difesa,  e  la  trovava  invece  nella  classe  che  egli  chia- 
mava alla  caduta.  Lo  scita  Ànacarsi  propose  alla  sua  pa- 
tria, ritornando  dalla  Grecia,  le  leggi  greche  :  gli  aristo- 
crati  del  suo  paese  immolarono  quelFincauto,  che  mi- 
nacciavali  nel  loro  possesso.  L'eguaglianza  civile  non  può 
precedere  l'eguaglianza  politica  (1). 

Da  venti  secoli  la  storia  del  diritto  romano  si  identiQca 
a  quella  della  civiltà  e  dello  stato  sociale  dei  popoli.  Può 
però  ridursi  l'abisso  delle  leggi  organiche,  le  quali  sta- 
tuironsi  in  questi  secoli,  a  breve  quadro  secondo  viste 
sintetiche  ed  universali.  All'incontro  le  vicende  dei  secoli 
moderni  sono  molto  più  difficili  a  riassumersi,  che  non 
quelle  dei  secoli  antichi,  perchè  oggigiorno  non  uno 

(1)  Queste  massime  sulla  genesi  natarale  della  legislazione  avrebbero  dovuto 
sconsigliare  Mably  dairinlraprendere  nel  1771  Tinutile  suo  lavoro  d'una  costi- 
tuzione per  la  Polonia,  in  cui  raccolse  una  quantità  di  norme  greche  e  romane 
infinitamente  remote  dalle  condizioni  aristocratiche,  e  peggio  che  Tendali,  che 
in  quel  tempo  la  Polonia  aveva.  Anche  Rousseau  volle  in  allora  proporre  una 
serie  di  leggi  fondamentali  per  la  Polonia,  e  meglio  di  Mably  contemplandone 
le  circostanze,  parti  dalle  basi  di  fatto,  e  studiò  di  ridurre  a  feudalismo  tran- 
quillo quel  feudalismo  turbolento  :  anche  il  suo  lavoro  a  nulla  giovò.  Non  vol- 
lero i  nobili  né  accordare  un  esercito  permanente,  né  munire  fortezze,  temendo 
che  il  re  potesse  abusare  della  potenza  cresciutagli  :  vollero  poi  conservare  il 
principio  della  corona  elettiva  per  rivedere,  ed  all'uopo  distruggere  neirinter- 
regno  la  legislazione  reale,  ed  ogni  legge  famigliare  e  civile  vollero  confer- 
mativa e  non  già  dissolutiva  dell'aristocrazia  esistente. 


190  PIETB  BECOIVDl 

solo  è  il  campo,  siccome  in  Roma,  ma  sono  tanti  quanti 
sono  i  regni  e  le  provincie  ;  e  perchè  una  classe,  una 
podestà,  una  forza  nuova,  Tecclesiastica  cioè,  altera  ed 
avviluppa  il  movimento  politico,  che  era  più  semplice  in 
antico,  giacché  non  constava  se  non  dalPurto  nobile  e 
popolare.  L'essere  molli  i  campi  e  non  un  solo,  rende 
più  diffusa,  e  per  le  vicendevoli  influenze  riduce  anche 
più  complicata  la  trattazione  :  l'accostarsi  poi  di  questa 
nuova  férza,  l'ecclesiastica,  potente  di  gerarchia,  di  im- 
munità, di  possessi,  che  in  ogni  Stato  si  ramifica,  e,  senza 
mai  identificarsi  pienamente  al  sistema  civile,  varia  più 
0  meno  dal  medesimo ,  ed  ha  forme  e  relazioni  e  leggi 
proprie,  rende  la  moderna  trattazione,  che  pur  è  evidente 
in  ogni  fatto  singolo,  nell'enorme  serie  dei  fatti,  un  labi- 
rinto quasi  inestricabile.  Perfino  le  opere  storiche  e  po- 
litiche di  Machiavelli  lasciano  da  questo  lato  moltissimo 
a  desiderare,  perchè  egli  pure  assai  di  rado  ed  appena 
per  incidenza  contempla  l'azione  del  potere  sacerdotale 
sulle  politiche  società  de'  suoi  tempi  in  confronto  all'or- 
ganismo più  semplice  delle  repubbliche  antiche  (4).  --^M 
I  patrizii  di  Roma  tendevano  alla  conservazione  dei 
diritti  :  la  plebe,  all'acquisto  dei  diritti  medesimi.  Questa 
divisione  del  popolo  è  rappresentata  anche  dalla  mitolo- 
gia, cui  Vico  con  acutissimo  ingegno  dimostrò  non  es- 
sere se  non  una  rappresentazione  dello  statò  civile  delle 
prime  società.  Gli  Dei  sono  in  essa  varii  di  potenza  e  pre- 
sidi di  varie  classi  umane  ;  Dii  minorum  gentium,  Dii 
majorum  gentium.  Il  moto  necessario  delle  varie  classi 

(1)  In  Roma  non  esistevano  mani  mùrte^  o  corporazioni  religiose,  come  negli 
Stati  moderni  :  gli  Dei  non  potevano  essere  istituiti  eredi  (Ulpiano,  framm.  XXI): 
però  Teruditissimo  Eineccio  dimostra  che  i  romani  imperatori  fecero  qualche 
eccezione  a  questa  massima  riguardo  a  Giove  Tarpeo,  a  Diana  Efesia,  od  Er- 
Mò  Gaditano,  ecc.  I  tempii,  le  poche  Vestali,  ecc.  erano  a  carico  del  pubblico 
erario. 


CAPITOLO  I.  191 

sociali,  ciascuna  tendente  alla  conservazione  od  acquisto 
di  facoltà  0  diritti,  è  determinato  dal  Fato.  Questo  ente 
astratto  è  superiore  ad  ogni  forza  :  gli  Dei,  simbolo  dei 
patrizii,  presiedono  alla  società,  ma  non  la  reggono  in 
modo  assoluto»  perchè  il  bisogno  animatore  di  legge,  con 
altro  nome  il  Fato,  è  ancora  più  potente  di  loro,  ed  im- 
prime vita  e  movimento  a  quella  società,  che  altrimenti 
dovrebbe  reggersi  perpetuamente  ad  un  modo. 

La  legge  impediente  i  matrimoni!  fra  le  classi  diverse 
è  legge  fondamentale  di  queste  società  patrizie  e  plebee. 
Cosi  si  impedisce  raccomunarsi  degli  interessi  fra  classi, 
la  cui  necessaria  opposizione  è  nel  sistema  delle  stesse 
società.  Questa  legge  ò  di  ordine  pubblico  :  quando  dovrà 
abrogarsi,  lo  stato  civile  della  nazione  rapidamente  si 
altererà. 

La  legge  è  Fespressione  dello  stato  civile  :  dove  lo  stato 
civile  è  il  medesimo,  si  ha  la  legge  stessa.  Il  sistema  in* 
diano  è  basato  sulla  diversità  delle  classi  :  perchè  una 
classe  non  divenga  assorbente  dell'altra,  tutte  devono  te- 
nersi distinte.  Infatti  il  codice  religioso  delle  caste  indiane 
[Lois  de  Manou,  ossia  il  ManavorOharmorSastra)  con- 
danna i  matrimonii  fra  classi  diverse.  L'ordinaria  san* 
zione  è  la  perdita  dello  stato  civile,  ossia  la  relegazione 
del  marito  nella  classe  inferiore,  a  cui  appartenesse  la 
sposa. 

La  romana  aristocrazia  fu  aristocrazia  politica  e  do- 
mestica^  siccome  vedemmo.  Ma  essa  fu  ancora  censuaria 
0  timocratica.  Pei  tanti  elementi  di  forza  questa  romana 
aristocrazia,  quantunque  per  molti  secoli  senza  armi 
mercenarie  e  senza  inquisitori,  ebbe  nondimeno  grande 
saldezza.  Un  determinato  censo  sollevava  il  cittadino  al- 
Tordine  equestre,  che  insignito  di  privilegi  grandissimi, 
formava  un  corpo  intermedio  fra  l'ordine  senatorio  e  la 


192  PARTE  SECONDI 

plebe,  e  certa  misura  di  censo  era  richiesta  perchè  il  pa- 
trizio 0  cavaliere  potesse  venire  annoverato  alFordine 
senatorio.  La  perdita  del  censo  importava  la  perdita  della 
dignità  politica. 

E  poiché  il  censo  o  la  ricchezza  valeva  al  cambiamento 
dello  stato  politico,  in  nessun'altra  nazione  doveva  es- 
sere maggiore  Tordine  domestico  e  la  frugalità.  Quando 
l'intero  sistema  si  sciolse,  allora  proruppe  il  lusso  il  più 
sfrenato. 

Il  censo  romano  era  affidato  ad  una  permanente  ma- 
gistratura, rinnovavasi  a  brevi  intervalli,  e  serviva  di  base 
non  solo. al  sistema  economico,  ma  all'intero  sistema  po- 
litico della  repubblica  :  populut  romanus  relatus  in  ceri- 
sum,  digestus  in  classes,  curiis  atque  coUegiis  distribu- 
tùSf  ut  omnia  patrimonii,  dignitatii,  (Btatis,  artium, 
of^ciorumque  discrimina  in  tabulas  referrerentur,  ac 
$i  maxima  civitas  minima  domus  diligentia  contineretur 
(Floro,  I,  e.  6).  Non  ci  è  noto  con  quale  arte  ammini- 
strativa questo  censo  si  reggesse.  Le  moderne  nazioni,  per 
quanto  i  pubblicisti  vi  abbiano  collocato  di  studio,  ed  i 
governi  abbiano  offerto  di  mezzi,  non  inai  pervennero  a 
stabilire  un  censo,  che  all'universalità  dei  beni  si  esten- 
desse. Pure  i  Romani  ebbero  un  tale  censo,  che  intieri 
secoli  governò  la  repubblica,  e  quando  pure  si  voglia 
credere  che  non  fosse  imperfetto,  sempre  indurrebbe  a 
meraviglia. 

La  romana  aristocrazia,  oltre  l'essere  gentilizia,  do- 
mestica e  censuaria,  oltre  l'essere  estintiva  od  ammor- 
tizzalrice  dei  demagoghi  democratici,  col  lasciar  l'adilo 
ai  migliori  del  popolo  a  più  alta  dignità  (siccome  più  tardi 
si  vide  in  Genova  l'ammessa  ascrizione  al  libro  d'oro  di 
famiglie  plebee),  era  altresì  aristocrazia  elettiva.  Non 
tutti  i  palrizii  erano  senatori,  ma  quelli  soli  avenlj  censo 


CAPITOLO  I.  193 

senatorio  potevano  esserlo  ;  né  lutti  i  patrizii  aventi  cerno 
tenatorio  erano  senatori  ex  jure,  ma  potevano  diven- 
tare. Cosi  il  Divano  di  Moldavia  e  quello  di  Valacchia 
non  si  componeva  di  tutti  i  bojari  dei  Principati,  ma  sol- 
tanto di  certo  numero  di  bojari  eletti  ;  e  cosi  pure  non 
tutti  i  pari  d'Irlanda  o  di  Scozia  siedono  nel  Parlamento 
inglese,  ma  quelli  soltanto  che  a  preferenza  degli  altri 
si  scelgono  nell'Irlanda  a  vita,  e  nella  Scozia  a  tempo. 

In  generale  è  vantaggiosa  la  scelta,  perchè  questa  in 
via  ordinaria  cade  su  chi  ha  speciali  prerogative  di  in- 
gegno, di  opulenza  o  di  operosità,  e  dà  quindi  al  corpo 
degli  eletti  forza  morale  di  sapienza  e  d'energia,  ed  anche 
forza  fisica,  perchè  gli  eletti  rappresentano  appunto  il 
numero  degli  elettori,  ossia  quello  dei  voli  che  riunironsi 
per  alcun  titolo  a  favor  loro. 

La  trattazione  degli  affari  era  pubblica  (1)  ;  ma  finché 
i  patrizii  furono  forti,  davansi  dai  Romani  a  viva  voce  i 
suffragi.  Il  secreto  scrutinio  non  fu  ammesso  che  tardi. 

È  meraviglia  come  taluno  sappia  intendere  a  rovescio 
ogni  civile  istituzione.  Fu  scritto  fra  noi,  che  lo  scrutinio 
pubblico  si  era  un'ottima  legge  di  quella  pura  democra- 
zia, perchè  i  cittadini  savii  potevano  illuminare  gli 
ignoranti,  e  perchè  il  popolo  romano  fu  nei  primi  secoli 
di  tale  indole,  che  volentieri  arrendevasi  ai  consigli 
di  uomini  pregiati.  Quale  si  fosse  l'indole  e  la  morale 
del  popolo  romano,  anche  nei  primi  tempi  della  repub- 
blica, si  può  desumere  da  cento  passi  della  storia,  e  spe- 
cialmente dal  capitolo  XXXVI  del  libro  IH  di  Livio,  che  ha 

(1)  Wamk5DÌg  (Hièioire  du  Droit  fìomain)  scrisse  il  seguente  passo,  che 
è  troppo  futile  e  ridicolo:  L'inverno  di  Roma  era  rare  volle  rigoroso.  Questa 
rireostanza  ci  spiega  h  grande  pubblicilà  di  tutti  gli  affari  politici  :  tutto 
si  trattava  alFaria  libera  (in  foro),  o  in  templi  aperti.  Si  soffrivano  forse  in 
Venezia  —  30»  Réausiur  quando  vi  era  il  segreto  del  Consiglio  dei  Dieci  e 
degli  Inquisitori  T 

13 


194  PARTE  SECONDI 

per  titolo:  Populus  romanus  judex  sumtusinter  Ardea- 
te$  atque  Aricinog  de  ambiguo  agro  cerlantes,  Scaptio 
quodam  auctore,  eundem  agrum  sibi  [cede  adjudicat(i). 
A  fronte  d'esempio  cosi  pravo  e  pubblico  siamo  tentali  a 
credere  anomalie  in  Roma  quel  Fabrizio  indifferente  ai 
doni  di  Pirro,  e  quel  Curio  insensibile  all'oro  sannìtico, 
od  a  veder  anzi  negli  antichi  Romani  i  degni  antenati  di 
quelli,  dei  quali  un  giorno  Tacito  doveva  scrivere:  rap- 
tores  orbis,  postquam  cuncta  vastantibus  defuere  terree, 
et  mare  Hcrutantur:  si  locuples  hostis  e$t,  avari;  sipavr 
per,  ambitioii ;  quo8  non  Oriens,  non  Occidens  mliave-^ 
rit:  ioli  omnium  opes  atque  inopiam  pari  affeetu  conr 
cupiscunt:...  ubi  solittidinem  faciunt^pacem  appellante 
Ma  la  legge  dello  scrutinio  pubblico  è  legge  eminente- 
mente aristocratica.  È  cosa  innocua  pel  signore  che  il 
servo  abbia  il  voto,  se  questi  lo  deve  dare  pubblicamente, 
a  fronte  cioè  del  signore,  che  può  arrecargli  un  danno 
assai  maggiore  del  bene  che  ridonderebbe  al  povero  dal 
voto  emesso.  Ren  lo  sanno  tutte  le  nazioni  odierne,  al- 
meno tutte  le  persone  versate  nelle  cose  pubbliche  :  le 
Camere  nobili  o  quasi  feudali  d'oggidì  considerano  sic- 
come pericolosa  la  proposta  del  volo  segreto.  Gli  alfiUa- 
juoli  dei  fondi  in  Inghilterra  ottennero  il  diritto  attivo 
d'elezione  dei  membri  al  Parlamento  :  essi  però  non  rap- 
presentano in  massa  se  non  l'interesse  del  proprietario 
territoriale,  che  può  cacciarli  dal  fondo.  E  su  princi- 
pii  identici  riposa  la  massima  deirincompatibililÀ  di  un 
ufficio  dipendente  dal  potere  esecutivo  colla  partecipa- 
zione al  corpo  legislativo:  nessuno  dovrebbe  ad  un  tempo 


(i)  Fu  preparata  in  allora  pel  diritto  romano  quella  massima  che  ia  i^sso 
venne  inserita  di  poi ,  Stari  debei  gententioi  arbitri  qiiqm  de  re  dixfrit  sive 
requa,  sive  iniqua  ? 


CAPITOLO  I.  195 

essere  suddito  ed  imperante,  agente  e  controllore  delle 
proprie  azioni. 

Reggevasi  dunque  Roma,  come  vedemmo,  con  sistema 
patrìzio.  Ma  a  Roma,  come  a  Genova  nella  moderna  età, 
non  era  chiusa  al  plebeo  ogni  via  ad  uscire  dalla  sua  con- 
dizione inferiore,  ed  elevarsi  alla  classe  imperante:  quindi 
ni!!lla  romana  aristocrazia  e  nella  genovese  era  inces* 
sante  Tagitarsi  delle  plebi,  perpetuo  il  moto  d'ascensione 
verso  la  classe  imperante,  la  reazione  legale  od  illegale 
di  questa,  e  l'urto  d'entrambe.  Né  in  Roma,  né  in  Genova 
era  assolutamente  chiuso  il  libro  d'oro  ;  ma  come  indurre 
i  già  privilegiati  a  fare  altri  partecipi  del  privilegio  loro, 
specialmente  negli  Stali  in  cui  mancando  su  tale  oggetto 
le  leggi  organiche,  l'ascrizione  dipende  dal  voto  della 
nobile  assemblea?  L'attrito  continuo  fra  i  varii  ceti  sociali 
si  è  per  verità  una  potente  palestra,  in  cui  si  formano  gli 
uomini  di  Stato,  ma  il  disordine  e  la  rivolta  stanno  sem- 
pre sulla  soglia.  Nò  mai  una  pura  aristocrazia  può  reg- 
gersi col  principio  della  moderazione  raccomandato  da 
Montesquieu,  giacché  l'idea  di  aristocrazia  contrasta  as- 
solutamente coU'idea  di  moderazione.  L'aristocrazia  ha 
per  base  necessaria  alla  sua  esistenza  la  diseguaglianza 
sociale,  e  per  requisiti  necessarii  alla  sua  durata  l'esclu- 
sione dei  non  privilegiati  dalle  grandi  cariche  civili  e  mi- 
litari, il  possesso  dei  latifondi,  l'istruzione  massima  nel 
celo  imperante  e  minima  nel  celo  serviente,  la  giurisdi- 
zione nobile,  ed  altre  norme  troppo  discordi  dalla  gene- 
rale utilità,  e  quindi  perpetuo  fomite  di  reazione.  Negli 
Stati  che  hanno  una  forma  di  governo  monarchico  pura, 
appena  può  dirsi  nel  senso  politico  che  esista  la  nobiltà; 
perché  il  gius  di  conferirla,  di  riconoscerla  e  di  toglierla 
iN  esercitato  dal  principe,  e  la  nobiltà ,  se  anche  é  in- 
signita d'effettivi  privilegi,  ne  fruisce  in  via  precaria 


196  PARTE  SECONDA 

e  di  grazia.  E  v'  hanno  Stati  oionarcbìci,  nei  quali  vera- 
mente la  nobiltà  non  si  trova:  alla  Cina,  per  esera- 
pio,  non  forma  ceto,  né  è  successoria,  ma  personale. 
Essa  consegue  agli  incarichi  di  pubblico  funzionario  :  si 
confonde  quindi  col  pubblico  servigio,  ed  è  proporzio- 
nale al  grado  della  conseguita  dignità  militare  o  civile. 
Anche  nelle  Russie  il  pubblico  servigio  è  la  fonte  della 
nobiltà:  questa  passa  nei  discendenti  per  qualche  grado, 
e  cessa  se  con  nuovi  servigi  non  si  rinnova.   A  diffe- 
renza invece  di  Roma  e  di  Genova,  il  libro  d'oro  a  Vene- 
nezia  era  chiuso,  e  l'azione  perpetuamente  repressiva 
delle  classi  suddite  era  affidata  ad  una  magistratura  ec- 
cezionale, che  in  Roma  mancava,  cioè  agli  Inquisitori  di 
Stalo,  triumvirato  terribile  tenente  il  coltello.  E  v'era  cer- 
tamente in  Venezia  il  coltello  :  ogni  aristocrazia  lo  ha,  e 
l'adopera.  Agli  Efori  poi  di  Sparta  e  di  Venezia  (Consiglio 
dei  Dieci  ed  Inquisitori  di  Stato)  non  competeva  la  sola 
autorità  vigilatrice,  ma  quella  altresì  di  giudizio  e  con- 
danna, laddove  gli  Efori  di  Genova  (con  mitezza  di  nome 
chiamati  Censori)  non  avevano  se  non  la  facoltà  di  invi- 
gilare, e  di  proporre  l'accusa.  Ma  non  crederemo  di  leggieri 
che  il  coltello  degli  Efori  veneziani  si  sia  insanguinato  di 
colpi  si  frequenti  come  molte  volte  fu  scritto.   Al  ca- 
dere dello  scorso  secolo  l'innocente  Repubblica  veniva  uc- 
cisa; si  doveva  darle  una  tomba  d'infamia;  si  dovevano 
narrare  al  mondo  le  sue  iniquità  :  l'averla  spenta  doveva 
essere  un  trionfo  del  progresso  mondiale.  Apparvero  le 
più  strane  leggende,  e  ne  furono  popolatele  scene:  nar- 
raronsi  nefandità  e  misteri  :  nessuno  chiedeva  come  gli 
incriminati  segreti  fossero  divenuti  palesi.  E  forse  il  pa- 
triziato di  Venezia  si  involgeva  a  bello  studio  di  tenebre, 
nutriva  il  sospetto,  la  diffidenza,  il  terrore,  spargeva  la 
credenza  dell'onniveggenza  dei  triumviri  e  dell'implaca- 


CAPITOLO  I.  197 

bile  loro  ferire.  Cosi  non  cadeva  neiranimo  d'alcuno  di 
fare  novità,  ed  i  pensieri  erano  senza  voce,  o  la  voce  senza 
grido,  e  Venezia  poteva  essere  più  umana,  avendo  nella 
tema  di  tutti  una  salvaguardia  di  più. 

Mancava  però  alla  veneta  aristocrazia  Tislituzione  cen- 
soria, che  era  inerente  alla  romana.  Mediante  questa 
istituzione  il  patriziato  di  Venezia  avrebbe  avuto  più 
salde  radici,  perchè  non  si  sarebbe  solamente  fondato 
sul  privilegio  gentilizio,  ma  avrebbe  avuto  l'appoggio 
costante  della  ricchezza,  che  è  tanta  base  di  forza.  E 
poiché  il  perdere  la  ricchezza  sarebbe  stato  un  perdere 
il  privilegio  aristocratico,  cosi  si  sarebbe  introdotto  nelle 
famìglie  patrizie  buon  ordine  ed  anche  frugalità,  né  vi 
sarebbe  stata  nel  Maggior  Consiglio  quella  riunione  di 
doviziosa  e  di  povera  nobiltà,  ove  si  insinua  si  facilmente 
il  broglio,  e  fondasi  l'oligarchia.  Questo  difetto,  che  fu 
sempre  grave  in  Venezia,  si  rese  gravissimo  allorché  per 
l'acquisto  di  tanti  territorii  nella  terraferma  italiana  la 
privilegiata  aristocrazia  di  Venezia  ebbe  a  sostenersi  in 
impero  non  solo  rimpelto  al  popolo  della  propria  città, 
ma  a  tutte  le  masse  popolari  e  nobili  di  vaste  e  dovi- 
ziose Provincie.  Cosi  la  stessa  invariabilità  del  governo 
di  Venezia  produceva  una  mutazione  insensibile  e  sem- 
pre crescente  nella  natura  e  nella  forza  di  esso.  Colla 
serrata  del  Maggior  Consiglio  sorse  essenzialmente 
Taristocrazia,  ossia  la  dominazione  privilegiata  ed  ere- 
ditaria: di  fatto  però,  e  pel  primo  momento  il  privilegio 
di  centinaja  di  famiglie  potenti  in  una  sola  città  dava  al 
governo  la  quasi  equivalenza  d'una  forma  popolare: 
estinguendosi  in  progresso  di  tempo  molte  famiglie  pri- 
vilegiate, impoverendosi  altre,  acquistando  ricchezza 
varie  fra  le  plebee,  e  soprattutto  dilatandosi  lo  Stato  su 
vaste  Provincie,  quel  governo  assunse  evidenza  e  carat- 


193  PARTE  SEGO.NOi 

lere  non  solo  di  rigorosa  aristocrazia»  ma  perfino  d*oli- 
garchia»  che  le  poche  ascrizioni  di  nuove  famiglie  al  pa- 
triziato di  quando  in  quando  seguite  non  valsero  ad 
escludere,  e  nemmeno  a  mitigare. 

Vi  è  una  materia  di  legislazione,  quella  deiracfo^ion^, 
che  in  ogni  governo  aristocratico  assume  speciale  impor- 
tanza, disputandosi  suirammelterla  o  no,  ed  in  caso  af- 
fermativo se  e  quando  abbia  a  concedersi  che  Tadottato 
muti  di  stato  non  solamente  civile,  ma  anche  politico. 
Questa  materia  presso  i  Romani  ha  quindi  formalo  uno 
dei  più  complicati  argomenti  e  delle  parli  più  artificiose 
della  loro  legislazione.  I  Romani  la  trattarono  sotto  i  due 
aspetti  di  semplice  adozione  o  di  arrogazione  ;  invece 
lo  statuto  veneto  tacque  intieramente.  E  noi  crediamo 
che  peivatti  di  adozione  la  persona  in  Venezia  non  va- 
riasse giammai  di  stato  politico  ;  in  ogni  caso  la  mula- 
mm  non  avrebbe  potuto  effettuarsi  che  per  legge  spe- 
ciale ,  e  quindi  colle  restrizioni  e  cautele  che  fossero 
state  nei  singoU  casi  trovate  convenienti  dairimperanle 
aristocrazia. 

Venezia  aveva  riunito  nelle  più  importanti  elezioni  i 
due  sistemi  dei  voli  pubblici  e  dei  segreti,  e  vi  aveva 
ancora  a^iunlo  la  sorte.  Ouest'ultima  istituzione,  che 
mancava  alla  romana  repubblica,  è  una  potente  bar- 
riera contro  la  corruzione  e  le  cabale^  poiché  i  candidali, 
OTe  al  sistema  dello  scrutinio  pubblico  sia  aggiunto  uno 
sorutinio  segreto^  e  fra  i  proposti  si  esfaragga  a  sorte, 
e  fra  i  sortiti  si  faccia  luogo  a  scrutinio  nuovo,  meno 
corrivi  son  certo  a  profondere  molt'oro  per  un  esito  as- 
sai dubbioso.  La  sorte  e  gli  Inquisitori  furono  per  Vene- 
zia, prima  che  tulio  si  sfasciasse  lo  Stato,  una  gran 
barriera  contro  le  cabale  dei  candidali.  In  Roma  proruf)- 
pero  apertamente  senza  che  verun  freno  si  opponesse. 


CAPITOLO  n. 

Gli  esfrali  ronani  eoHsiderati  in  it  stessi, 
ed  io  conformila  al  sistema  di  governo. 

Vedemmo  qual  era  il  sistema  del  governo  di  Roma,  e 
quali  fossero  nell'ordine  civile  e  politico  gli  elementi  di 
sua  forza.  Ma  se  la  vera  essenza  del  governo,  se  la  base 
di  sua  saldezza  deve  appunto  trovarsi  negli  elementi  di 
forza,  e  fra  questi  vi  è  principalmente  l'esercito,  comefor- 
mavasi,  come  reggevasi  la  forza  militare  di  Roma,  e  come 
la  medesima  non  rovesciò  subitamente  il  sistema  patrizio 
per  inalzare  coi  soldati  e  col  popolo  la  democrazia  d'un 
giorno,  e  quindi  uno  stabile  governo  assoluto? 

Negli  Stali  odierni  vi  ha  un  elemento  di  forza  materiale 
indipendente  dal  civile  possesso,  quella  cioè  degli  ordinati 
eserciti.  Questa  forza,  che  trovasi  nelle  mani  del  potere 
esecutivo,  dà  un'immensa  preponderanza  a  chi  la  regge, 
tanto  più  se  l'imperante  militare  si  associa  ad  un  par- 
tito per  dare  la  stretta  ad  un  altro.  Poco  salde  e  quasi 
precarie  sono  quindi  ai  di  nostri  le  forme  miste  dì 
governo,  perchè  il  potere  esecutivo,  reggendo  le  armi, 
regge  lo  Slato.  E  più  deboli  sono  dove  per- la  lunga 
durata  del  servizio  militare  molti  fra  i  sudditi  si  spo- 
gliano delle  abitudini  di  cittadino  e  si  affigliano  all'e- 
sercito, dove  il  sistema  di  centralizzazione  è  grande ,  e 
numerosissimi  sono  i  pubblici  funzionarli,  dove  iì  paese 
è  più  facile  a  percorrersi  cogli  eserciti,  dove  alle  truppe 


300  riRTB  SECONDA 

indigene  si  aggiungono  le  forestiere,  dove  si  hanno  co- 
lonie, stazioni  militari  o  magistrature  civili  da  coprirsi 
opportunamente  con  individui ,  o  con  truppe  allonta- 
nate in  tal  modo  dal  centro.  Né  in  generale  gli  Stali 
continentali  possono  nell'attuale  sistema  d'equilibrio 
europeo  mancare  d'un  esercito  valido  a  contrapporsi 
agli  esteri,  e  mentre  la  potenza  esecutiva  si  è  elemento 
necessario  d'ogni  forma  di  governo,  non  si  può  forse 
concepire  nei  casi  reali  e  concreti  l'esistenza  di  una  forza 
vincolata.  In  mano  di  chi  trovavasi  dunque  la  forza  di 
Roma?  Chi  era  investilo  del  potere  esecutivo? 

La  forza  trovavasi  appunto  in  mano  dei  patrizii,  che 
avevano  il  civile  possesso,  l'opulenza  ed  i  servi.  Roma 
nei  primi  tempi  non  aveva  un  esercito  permanente. 
Nelle  guerre  i  cittadini  si  armavano  sotto  la  con- 
dotta dei  consoli,  da  essi  medesimi  eletti  a  quel  grado, 
cui  era  inerente  Tautorità  sull'esercito  radunato  alla 
guerra.  Ma  il  popolo  era  appunto  l'esercito,  ed  era  quasi 
incessante  la  guerra;  quindi  l'elezione  difficilmente  po- 
teva cadere  su  persona  inetta,  e  che  non  avesse  già 
dato  buone  prove  di  sé.  Ogni  Romano  infatti  nel  de- 
porre il  suo  voto  per  la  scelta  del  console,  ossia  pel  fu- 
turo suo  generale  in  battaglia,  poteva  giustificare  quel 
voto  pel  suo  candidalo  cosi:  me  saucium  recreavit,  me 
prxda  donavit,  hoc  duce  castra  cepimus,  signa  conUé- 
limus,  nunquam  iste  plus  militi  laboris  imposuit  quam 
sibi  sumpsit;  ipse  quum  fortiSy  lum  etiam  fetix  (Cic, 
prò  Murena).  Cosi  confidenti  nel  console,  già  loro  com- 
militone, i  cittadini  marciavano,  ma  non  avevano  inte- 
ressi da  soldato,  bensì  conservavano  gli  interessi  da  cit- 
tadini. Durante  la  pace  non  vi  era  esercito:  da  principio 
le  legioni  non  erano  stipendiate  neppure  in  campo,  anzi 
non  erano  neppure  approvvigionale  dall'erario:  passalo 


CAPITOLO  li.  f  201 

il  bisogno  erano  disciolle,  come  si  sciolgono  gli  equi- 
paggi delle  flolte  inglesi  quando  scade  il  tempo  della  ferma 
dei  marinai,  e  cessa  l'ammiraglio  dal  comando  d'una 
flotta  per  varii  anni  guidata.  Nemmeno  si  conservavano 
i  gradi  nelle  legioni  ottenuti:  quando  si  raccoglieva 
nuovamente  un  esercito,  chi  aveva  servito  in  un  grado, 
p.  es.  come  centurione  o  primi  pilo ,  non  aveva  pre- 
ciso diritto  a  ritornare  a  quel  grado,  ma  ogni  ufficio  mi- 
nore si  dava  dal  console,  che  certamente  aveva  il  mas- 
simo interesse  di  ben  conferirlo.  Vediamo  infatti  in  Tito 
Livio,  lib.  XLII,  cap.  XLII,  l'interessante  discorso  del 
centurione  Spurio  Ligustino  tenuto  al  rompersi  della 
guerra  contro  di  Perseo  per  animare  col  proprio  esempio 
i  commilitoni  suoi  delle  passate  campagne  a  desistere  dalla 
pretesa  di  non  servire  nella  nuova  guerra  in  grado  infe- 
riore a  quello  precedentemente  coperto.  E  tutta  la  storia 
della  romana  repubblica  ci  offre  a  dovizie  i  più  nobili  esem- 
pii di  cittadini  che  servivano  nei  gradi  secondi  dopo  di 
avere  luminosamente  comandato  nei  primi  :  cosi  Servilio 
console  diventò  l'anno  dopo  luogotenente  di  Valerio , 
Fabio  dopo  tanti  trionfi  servi  sotto  suo  figlio,  Flaminino 
vincitore  del  re  di  Macedonia  discese  a  tribuno  militare, 
e  Scipione  il  Grande  dopo  d'aver  vinto  Annibale  ubbidì 
a  suo  fratello  nella  guerra  contro  Antioco.  Tanto  meno 
adunque  per  le  classi  inferiori  del  popolo  la  milizia  era 
una  professione  ordinata  di  gradi  e  di  lucri,  mentre 
negli  eserciti  odierni  lo  è:  l'interesse  del  milite  romano 
si  trovava  in  Roma,  e  non  nel  campo. 

Nessun  cittadino  di  Roma  poteva  essere  eletto  a 
magistrato  se  non  aveva  servito  almeno  dieci  anni  in 
guerra  ;  ai  posti  primarii  nominava  il  popolo  diviso  per 
uirie;  la  metà  dei  tribuni  militari  si  sceglieva  frai  cit- 
tadini che  avessero  servito  per  dieci  anni   nella  cavai- 


202  PARTE  SECONDA 

leria,  o  per  sedici  neìVinfanleria  ;  le  armi  d'esercitazione 
erano  il  doppio  pesanti  che  non  le  armi  di  guerra  ;  si 
fortificava  ogni  sera  il  campo  per  evitare  notturna  sor- 
presa; si  destinavano  due  capitani  ad  ogni  drappello, 
onde  mai  non  restasse  senza  guida:  la  disciplina,  l'emu- 
lazione e  l'orgoglio  non  potevano  allentarsi  o  decrescere 
in  un  esercito  composto  di  Romani  e  d'alleati,  ossia  di 
truppe  rivali  e  gelose.  Erano  eguali  nelle  legioni  ro- 
mane e  nelle  alleate  la  lingua,  l'armamento,  il  sistema, 
eguale  l'ardore  di  gloria  e  la  severità  delle  pene,  ma, 
come  si  raccoglie  da  più  passi  di  Livio,  ogni  posto  supe- 
riore di  comando  anche  nelle  truppe  alleate  non  era  co- 
perto che  da  cittadini  romani  (com'è  coperto  da  soli  In- 
glesi nell'Indie  ogni  posto  superióre  anche  negli  eserciti 
proprii  dei  principi  mediaJizzati),  onde  per  secoli  le  due 
masse  di  truppe  pugnarono  concordi  di  fianco  senza 
esempio  di  rivolta  e  d'insubordinazione ,  fin  quando  si 
propagò  negli  eserciti  la  guerra  civile  scoppiata  con 
Mario  e  con  Siila  nel  fóro  di  Roma.  Principale  speranza 
della  vittoria  si  riponeva,  come  mai  sempre  fecero  te  na- 
rioni  civilizzate,  non  nell'impeto  delle  cavallerie,  ma 
nelle  salde  falangi  dei  fanti.  Costituendo  infatti  nell'in* 
fanteria  la  base  della  forza,  Roma  la  collocò  nella  fer- 
mezza degli  ordini,  nella  massa  e  nella  disciplina,  coi 
quali  elementi  soltanto  le  fanterie  sono  d'uso  generale, 
costante,  di  potenza  calcolabile,  ed  atte  a  vittoria  anche 
sotta  rimpero  di  capi  non  sommi,  mentre  la  cavalleria 
sempre  costosa,  inutile  spesso,  facilmente  smontata  in 
lunga  campagna,  in  povero  paese,  rende  servigio  troppo 
dipendente  dal  terreno,  dall'azzardo,  dagli  errori  del  ne- 
mica, dall'incerta  fortuna  d'avere  al  comando  chi  pronto 
qoal  folgore  sappia  lanciarla,  prodigaria  nell'opportu- 
nità d'un  istante.  Appena  la  decima  od  undecima  parte 


CAPITOLO  11.  203 

della  legione  romana  si  componeva  di  cavalleria,  onde 
coprire  i  fianchi  deirinfanteria»  ed  approfittare  d'una 
vittoria  conseguita  da  questa.  Ma  era  realmente  ben  com- 
patta,  ben  ferma  e  bene  armata  quella  triplice  linea  di 
infanterìa  romana  di  astati,  di  prìncipi  e  di  trìarii,  perchè 
re^eva  alle  onde  delle  torme  equestri  senza  l'ingombro 
dei  cavalli  di  frìsia,  di  cui  nel  medio  evo  si  coprirono  le 
fanterìe  meno  disciplinate  e  valenti. 

Sostanzialmente  la  forma  degli  eserciti  romani,  la  loro 
divisione  in  truppe  di  diversa  armatura,  il  modo  di  schie* 
rarsi  in  battaglia  e  d'affrontare  il  nemico,  si  conservano 
tuttora  negli  eserciti,  ed  ogni  nostra  brìgata  si  compone 
d*<%ni  arma  come  la  legione  romana.  L'elemento  che  ci 
sembra  nuovo  fra  noi  è  quello  delle  potenti  rìserve  gene- 
rali d'esercito,  che,  bene  formale  e  laudate  in  tempo  op- 
portuno, possono  rìsolvere  in  grande  vìttorìa  un  dub- 
bioso e  pericoloso  conflitto;  ed  infatti  nelle  mani  di 
Napoleone,  che  le  introdusse  e  sapeva  usarle  si  bene,  di- 
vennero sovente  la  clava  di  Ercole,  colla  quale  ha  schiac- 
dato  tante  volte  i  nemici.  Ogni  legione  aveva  nei  triarii 
la  propria  riserva  a  se  stessa,  ma  non  l'aveva,  o  ci  sem- 
bra che  non  l'avesse  l'esercito. 

Da  Pirro,  dai  Cartaginesi  e  da  Antioco  ì  Romani  ap- 
presero il  serrigio  degli  elefanti  in  guerra,  ed  anche  lo 
sperimentarono  in  qualche  battaglia»  ma  saviamente 
abbandonarono  l'uso  di  questi  animali  poco  meno  piv 
ricolosi  ai  proprii  soldati  che  non  ai  contrarn,  e  d'al- 
tronde dìfliciU  a  ben  conservarsi  nei  climi  d'Europa^  e 
ad  operazioni  in  paesi  aspri,  intrarolti,  montiri  e  dirisi 
da  frequenti  fiumi  e  braccia  di  mare. 

Gli  eserciti  romani  per  l'ordinario  si  dividevano  in  due 
masse,  ciascuna  delle  quali  operava  in  luogo  od  anche 
in  guerra  diversa  sotto  d'un  console:  vi  doveva  dunque 


204  PIATE  SECONDA 

essere  emulazione  fra  loro.  Ai  capilani  degli  eserciti  da- 
vano i  Romani  libere  commissioni,  e  non  già  istruzioni 
vincolative,  che  ne  distruggessero,  od  almeno  scemassero 
la  responsabilità,  e  Machiavelli  nei  Discorsi  (lib.  II, 
cap.  33)  di  ciò  giustamente  li  loda.  La  frequente  varia- 
zione dei  capitani,  ossia  dei  consoli,  aveva  danni  e  van- 
taggi, maggiori  i  primi  :  quindi  nel  progresso  dei  tempi, 
ed  allo  scopo  di  lontane,  di  lunghe  o  gravissime  guerre, 
si  prorogò  il  consolato,  o  sotto  altro  nome  il  comando, 
e  Futilità  d'interna  politica  fu  posposta  alle  necessità  del- 
Testerna.  Nell'insolito  caso  di  riunione  d'eserciti  conso- 
lari, alternava  il  comando  giornalmente  fra  i  consoli,  ed 
era  gran  danno,  e  non  si  imita  fra  noi,  dove  il  comarMo 
compete  sempre  al  grado,  all'anzianità  del  medesimo,  e 
dove  tali  elementi  di  prerogativa  manchino,  come  fra 
i  consoli  mancavano,  compete  all'età. 

Non  sembra  che  i  romani  eserciti  fossero  privi  dei 
corpi  speciali,  che  tanto  crebbero  nell'era  moderna,  e 
sono  oggetto  di  somma  predilezione  e  di  molti  studii  og- 
gidì. Lo  stato-maggiore  sotlo  alcuna  forma  stabile  o  no 
è  indispensabile  al  movimento  degli  eserciti,  né  certa- 
mente mancava  nemmeno  negli  eserciti  di  Genserico 
o  di  Attila  :  la  soia  creazione  nello  stato-maggiore  che 
sia  moderna,  e  che  non  è  essenziale  al  medesimo,  è 
quella  degli  ingegneri  topograC  :  esservi  quindi  doveva 
in  ogni  campagna  romana,  qualunque  fosse  la  guisa  con 
cui  si  formasse.  La  questura  militare  era  una  vera  In- 
tendenza .Generale:  coprivasi  sovente  da  persone  di 
rango  elevato,  ed  era  regolarmente  condotta,  come  ve- 
diamo dagli  esami  frequenti  delle  relative  gestioni,  e  dal 
fatto  di  Tiberio  Gracco  che  si  espone  a  cimento  per  ria- 
vere dai  Numanlini  i  documenti  della  propria.  Non  leg- 
giamo di  un  corpo  pel  Genio  e  pei  ponti,  ma  Plutarco 


CAPITOLO  II.  205  * 

fa  cenno  dei  capitani  degli  artefici,  e  Cesare  nomina 
un  Cornelio  Balbo  di  Cadice ,  che  li  comandava  nelle 
sue  campagne  delle  Gallie.  Era  infatti  necessario  che  vi 
fossero  persone  speciali  ed  esperte  pel  servigio  compli- 
cato e  difficile  delle  macchine,  d'uso  grandissimo  negli 
assedii  si  frequenti  in  un'epoca  nella  quale  ogni  città 
circondata  di  mura,  chiudendo  le  porte,  era  mutata  in 
fortezza,  e  vi  fossero  altresì  per  la  costruzione  dei  ponti 
gettati  più  volle  su  grossissimi  fiumi.  Il  Corpo  sanitario 
militare  mancava,  perchè  in  allora  non  esìsteva  propria- 
mente nemmeno  un  ceto  sanitario  civile,  ma  l'igiene 
delle  truppe  essendo  identificata  alla  forza  materiale  del- 
l'esercito, che  sempre  vuoisi  conservare  ed  accrescere,  e 
non  solo  alla  causa  spesso  negletta  dell'umanità,  non 
poteva  essere  posta  deplorabilmente  in  non  cale  almeno 
dai  capi  migliori  del  primo  Stato  guerriero  del  mondo. 
Infatti  nei  commentarii  di  Cesare  si  trovano  prove  che 
egli  aveva  a  cuore  la  sanità  dei  soldati,  e  la  guarigione 
dei  feriti.  Non  occorre  però  presso  i  Romani  menzione 
di  quelle  benefiche  leggi  a  favore  dei  feriti,  dei  mutilati 
in  guerra  e  degli  uccisi,  che  onorano  l'antica  legislazione 
di  Atene,  eleggonsi  in  tutte  o  quasi  tutte  le  odierne  di 
Europa. 

I  soldati  romani  erano  numerosi  quanto  lo  era  il  po- 
polo, perchè  le  truppe  non  reclutavansi,  ma  coscriveansi. 
In  una  lunga  guerra  contro  una  nazione,  che  si  difen- 
desse col  sistema  dispendiosissimo  delle  reclutazioni,  i 
Romani  pel  loro  sistema  di  nazionale  armamento  o  di 
coscrizione  non  si  esaurivano  rapidamente  come  il  ne- 
mico, e  dovevano  quindi  prevalere.  Cosi  fu  nelle  guerre 
cartaginesi:  cosi  alla  fine  del  passato  secolo  abbiamo 
veduto  la  Francia  trovare  nella  coscrizione  il  modo  di 
levare  tanti  eserciti,  quanti  ne  metteva  insieme  l'intiera 


*  2Ì06  PIETB  SBCONDi 

Europa  reclutando.  I  Romani  aprirono  strade  militari 
con  spese  enormi:  favorirono  gli  spettacoli  pubblici, 
barbari  ma  non  frivoli,  rendendo  il  popolo  coraggioso 
ed  armigero.  Il  riscatto  del  soldato  che  si  fosse  arreso  al 
nemico  era  non  sempre,  ma  quasi  sempre  negalo  :  i  di- 
sertori poi  venivano  atrocemente  perseguitati,  ed  in  ogni 
trattato  erano  richiesti  per  consegna  e  supplizio. 

Indicatemi,  dice  con  fondamento  di  verità  un  applau- 
dito storico  dei  nostri  giorni ,  indicatemi  il  grado  di  di- 
sciplina degli  eserciti  di  un  popolo,  ed  io  vi  indicherò  il 
•  grado  dì  sua  civiltà  e  di  sua  potenza.  In  quale  esercito 
la  disciplina  militare  fu  così  severa  come  negli  eserciti  di 
Roma?  Eppure  dove  mai  i  comandanti  furono  più  liberi 
di  operare  in  campo  secondo  le  istantanee  utilità  che  in 
Roma,  dove  non  eravi  una  suprema  autorità  militare  che 
ne  vincolasse  le  disposizioni?  Quanta  doveva  malessere 
l'energia  di  un  console  che  sentiva  tutta  la  responsabilità 
dell'esito  gravitare  esclusivamente  sul  suo  capo,  che  co- 
mandava contemporaneamente  a  falangi  di  concittadini, 
che  non  trovava  scuse  nell'inopportunità  di  ordini  rice- 
vuti, che  era  investito  di  indefinita  autorità  per  l'esecu- 
zione degli  ordini  ch'egli  medesimo  impartiva  a  legioni 
disciplinatissime  ! 

Ma  v'erano  difetti  anche  nell'organismo  militare  di 
Roma,  e  questi  dipendevano  dalla  natura  stessa  del  go- 
verno. Tito  Livio  li  rimarca.  Egli  dice  che  spesso  in 
Roma  ah  tribuno  plebis  delectus  impediti  mnt  ;  con^ 
sules  post  tempus  ad  bella  ierunt  :  ante  tempus  comitio^ 
rum  causa  revocati  sunt  :  in  ipso  conatu  rerum  ctVcwm- 
egit  se  annus:  collegw  nunc  temeritas,  nunc  pravitag 
impedimento  aut  damno  fuit  :  male  gestis  rebus  alteriut 
successum  est  tironem,  aut  mala  disciplina  institutum, 
exercitum  acceperunt.  At  Hercule,  reges  non  liberi  so-- 


cìntolo  il  S07 

lum  impedimenti^  omnibui,  ned  domini  rerum  tempo^ 
rumque,  trahunt  congiliii  cuncta,  non  sequuntur. 

Anche  in  allora  che  all'uopo  di  lunghe  e  lontane 
guerre,  alla  cuslodia  dei  conOni,  alla  sicurezza  delle  con* 
quiste,  Roma  mantenne  numerose  e  permanenti  legioni, 
la  città  non  aveva  presidio,  e  quindi  i  consoli  non  potevano 
abusarne.  Le  legioni  stanziavano  nelle  provincie  :  erano 
rette  dai  proconsoli  scelti  dal  Senato  :  i  proconsoli  reci- 
procamente per  gelosia  e  diffidenza  Tun  l'altro  frenavansi. 
Queste  truppe  erano  la  vera  forza  militare  del  governo. 
Roma  reggeva  le  provincie  colla  forza  delle  medesime, 
ed  esse  davano  saldezza  all'in  terno  regime  romano,  mi* 
nacciando  di  prorompere  se  alcuno  dei  corpi  politici 
tentava  di  opprimere  il  rivale.  Ma  un  cittadino  che  risie- 
desse in  Roma,  non  poteva  reggere  una  provincia  :  egli 
avrebbe  avuto  in  tal  caso  una  potenza  alteratrice  di  li- 
bertà. Quando  Pompeo,  proconsole  della  Spagna,  stava- 
sene  in  Roma,  e  vi  formava  le  legioni  per  recarsi  nella 
provincia,  ma  sempre  differiva  la  partenza,  il  Senato, 
che  a  quell'epoca  era  già  debole  rispetto  al  popolo,  scor- 
geva in  Pompeo  il  suo  appoggio,  gli  procurava  anche  iJ 
consolato,  gli  dava  facoltà  di  scegliersi  egli  stesso  il  col*^ 
legale  l'autorizzava  a  rimanersi  in  patria.  Ma  Cesare, 
capo  de}  popolo  e  proconsole  della  Gallia,  chiedeva  giu- 
stamente di  poter  egli  pure  risiedere  in  Roma,  ritenere 
la  Gallia,  ed  aspirare  al  consolato. 

L'Italia  (non  ne  formavano  parte  né  la  Liguria,  né  la 
Gallia  cisalpina,  ossia  il  vasto  territorio  deiravvallamento 
del  Po)  non  era  governata  da  verun  proconsole,  né  in 
Italia  vi  erano  permanenti  legioni,  L'Italia  era  retta  dal 
Senato  :  se  in  Italia  vi  fosse  stato  un  proconsole,  questi 
sarebbe  stato  il  dominatore  di  Roma. 
Probabilmente  gli  annali  della  storia  antica  e  moderna 


208  PiETE  SBCQKDA 

non  ci  forniscono  verun  altro  esempio  d'un  sistema  d'eser- 
cito permanente  e  numeroso,  la  cui  forza  fosse  meno  in- 
fluente suirinterno  regime  dello  Stalo.  In  Roma  l'intero 
esercito  non  formava  un  solo  corpo  compatto  ;  ma  era 
diviso  in  corpi  distìnti,  e  governato  da  capi  egualmente 
grandi,  egualmente  anelanti  alla  gloria,  forzati  all'estrema 
attività  delle  imprese  per  la  stessa  brevità  della  durata 
della  loro  politica  magistratura,  bramosi  d'ottenerne  di 
nuove  0  di  prorogarsi  il  comando  coi  fasti  di  guerra,  e 
responsali  alla  romana  repubblica.  Egli  eradei  romani 
proconsoli  come  fu  sempre  degli  imperanti  prò  tempore 
neirindia  inglese:  energia,  sapienza  e  gloria  ;  ne  furono 
difetti  l'ardore  continuo  d'arrischiate  imprese,  e  la  sete 
di  pronto  arricchimento.  Ed  anche  nell'India  inglese  gli 
imperanti  erano  varii,  e  l'uno  dall'altro  indipendenti  ;  la 
suprema  dignità  d'un  governatore  generale  (che durò  fino 
al  totale  cambiamento  di  sistema  or  ora  seguito)  non  fu 
istituita  che  tardi,  l  proconsoli  entravano  poveri  in  una 
provincia  ricca,  e  sortivano  ricchi  da  una  provincia  po- 
vera ;  la  storia  ne  fornisce  mille  esempli.  Ciascun  procon- 
sole mentre  cercava  la  potenza,  limitava  quella  dei  con- 
correnti rivali.  La  repubblica  aveva  eserciti  da  disporre  ; 
con  essi  poteva  dunque  sostenere  con  gloria  gcandi 
guerre;  ma  gli  eserciti  permanenti  di  Roma,  quantunque 
già  avessero  cessato  di  essere  legioni  collettizie  di  citta- 
dini, ed  il  campo  ne  fosse  ormai  divenuto  la  patria  in 
conseguenza  alla  perpetuità  dell'esercito,  ed  alla  lunghis- 
sima durata  del  servizio  del  soldato,  erano  però  eserciti 
possibilmente  innocui  al  sistema  interno  della  repub- 
blica. Non  v'era  quindi  la  necessità  di  circondare  i  co- 
mandanti delle  truppe  con  quei  comminarii  della  Si^ 
gnoria  come  in  Venezia,  o  con  quei  rapprenentanii  del 
popolo  come  in  Francia,  che  per  sospetto  d'abuso  del 


CAPITOLO  II.  209 

potere  militare  intimidivano,  paralizzavano,  ammortizza- 
vano i  capi,  e  tanti  ne  spinsero  in  Venezia  e  Parigi  a 
fine  miseranda.  II  grave  scoglio  dei  governi  misti,  che 
rende  ai  di  nostri  cosi  pronta  e  precipitosa  la  vittoria  di 
un  partito  sull'altro,  è  la  concentrazione  del  potere  mi- 
litare, il  quale,  ove  sia  retto  da  un  uomo  ardito  e  savio, 
dà  una  forza  enorme  al  partito  a  cui  si  accosta.  Questo 
scoglio  in  Roma  non  v'era:  ove  stato  vi  fosse,  la  forma 
di  governo  sarebbe  stata  rovesciata  da  qualche  ambizioso 
soldato.  La  corona  ha  tale  fulgore  che  gli  occhi  abbaglia, 
ed  ammorza  virtù:  ov*è  speranza  d'averla,  chi  tiene  la 
forza  si  precipita  ad  essa,  e  v'ha  sempre  il  potente  che 
invade  la  breccia,  e  sormonta  il  cadavere  di  chi  primo 
morì.  Gli  esempii  di  Diocleziano  e  di  Carlo  V,  che  senz'es- 
sere costretti  depongono  la  corona  cercando  riposo,  sono 
rari  in  tutte  le  storie  :  sovente  chi  ha  esercitato  la  su- 
prema autorità  è  da  ambizioso  travaglio  disturbato  nel 
sonno  di  pace,  ed  anela  al  potere  per  ritornarvi  come 
Filippo  Y  di  Spagna,  o  per  fìnire  tristamente  i  suoi  di 
come  Vittorio  Amedeo  II  di  Savoja  :  nulli  sono  poi  gli 
esempii  di  privati  che  potendo  facilmente  afferrare  uno 
scettro,  ritirino  per  temperanza  e  moderazione  civile  la 
mano.  Ben  sappiamo  che  contro  la  nostra  sentenza  si  al- 
legano bene  spesso  dagli  scrittori  alcuni  fatti  desunti  al- 
l'antica ed  alla  moderna  istoria  che  sembrano  dimostrarla 
men  vera,  e  si  estolle  il  merito  di  personaggi  eminenti, 
dando  ai  medesimi  lode  infinita  di  temperanza  civile 
perchè  non  abbiano  saporato  nelKabuso  il  trionfo,  non 
si  siano  letiziati  di  rovina  di  libertà,  né  indulgenti  a  se 
stessi  non  abbiano  creduto  sempre  scarsa  la  gloria  ed 
impedito  il  potere,  se  cose  o  persone  attraversavano  a 
loro  l'occupazione  del  trono.  E  noi  volendo  non  solo 
nella  storia  vedere,  ma  anche  discernere ,  e  delle  poli- 

14 


ilo  PARTE  SECONDA 

liche  cose  cercare  origini,  effetti  e  raffronti,  digrediremo 
un  istante  per  ricercare  qual  fosse  veramente  il  grado 
di  reale  potenza  dei  personaggi  laudati  per  non  avere 
voluto  che  la  loro  fortuna  fosse  dal  diritto  discorde. 
Nell'esame  se  i  medesimi  altro  freno  non  avessero  all'a- 
buso di  forza  che  quello  della  cittadina  virtù  vien  sem* 
pre  primario  lo  studio  della  qualità,  del  numero  e 
dell'organizzazione  delle  truppe  che  erano  dipendenti 
da  essi. 

La  potenza  allettaa  prepotenza,  genera  l'intemperanza, 
consiglia  il  rompere  d'ogni  freno:  lo  seppe  l'Atene  dei  Pi- 
sistratidi,  la  Roma  di  Siila  e  di  Cesare,  la  Gallia  di  Carlo 
Martello,  la  Firenze  di  Cosimo:  lo  conobbero  l'Inghilterra 
di  Cromwell  e  l'Olanda  degliOrange.  Anche  le  stanze  di 
San  Clodoaldo  hanno  veduto  al  principio  del  secolo  at- 
tuale quanto  può  far  coi  soldati  un  grande  soldato.  Ma 
a  questi  conquistatori  d'imperio,  che  si  fabbricarono  nella 
repubblica  un  trono,  gli  storici  contrappongono  i  nobili 
esempii  di  Timoleone  che  ricusò  la  corona  di  Siracusa 
vendicata  per  esso  a  libertà  e  dominio,  dì  Dandolo  che 
declina  dal  regnare  nell'espugnala  Costantinopoli,  e  so- 
prattutto di  Washington,  che  fermata  l'indipendenza  degli 
Stali  Uniti  d'America,  scioglie  l'esercito,  e  ritorna  privato. 
Tutti  costoro,  ripetono  concordi  senza  speciali  osserva- 
zioni gli  storici,  patriw  parere  legibus,  quam  imperare, 
satius dìixerunt  ;  maluerunt  se  diligi,  quammetui  (Corn. 
Nip.). 

La  mente  di  tutti  e  la  nostra  s'allegra  e  riposa  sul  raro 
spettacolo  della  temperanza  civile,  e  certamente  quegli 
uomini  illustri  ne  erano  egregiamente  dotati,  perchè  nem- 
meno fecero  segno  d'ambire  al  seggio  sovrano,  non  so- 
bornarono,  non  sobillarono,  non  mossero  fazioni,  non 
mostrarono  perplessità.  Ma  vero  è  altresì  che  nessuno  di 


GAPnOLO  li.  iti 

loro  per  gli  ordini  dello  Stalo,  per  la  qualità  degli  eser- 
citi, per  le  circostanze  politiche  aveva  tal  forza  che  egli 
potesse  d'ogni  rispetto  spogliarsi,  passare  il  RubiconOt 
ed  afferrare  lo  scettro. 

Infatti  Tioìoleone  accorso  da  Corinto  in  ajuto  di  Sira- 
cusa, comein  al tr'epoca  v'accorsero  per  l'uno  o  l'altro  par- 
tito Epiroti,  Spartani,  Ateniesi  e  Romani,  non  aveva  un 
migliajo  di  Corinzii  con  sé.  Potè  colla  fazione  popolare 
cacciare  i  tiranni  dalle  mura  :  potè  colle  forze  siracusane 
respingere  i  Cartaginesi  dal  territorio  :  chiamò  nuovi  co- 
loni da  Corinto,  e  ne  ebbe  ;  ma  se  col  favore  momenta- 
neo di  essi  e  del  popolo  sì  fosse  fatto  re,  avrebbe  avuto 
la  forza  di  mantenersi  in  quella  reggia  in  cui  Dione  fu 
ucciso  ? 

Dandolo,  cieco  e  cadente  per  età,  entrava  in  Costan- 
tinopoli con  soli  quattro  mila  soldati  di  Venezia  ;  aveva 
a  fianco  di  questi  un  esercito  francese,  e  non  lungi  le  navi 
di  Genova.  Lo  circondava  Fodio  religioso-civile  della  massa 
dei  Greci,  e  lo  osservava  da  Venezia  un  sospettoso  go- 
verno, che  vegliava  sui  dogi  non  quasi  vi  fosse  pericolo, 
ma  come  già  tradimento  esistesse,  né  avrebbe  sofferto  un 
imperatore  per  doge.  Poteva  dunque  Dandolo  occupare 
la  sovranità  di  Costantinopoli  ?  Dove  era  la  sua  forza  ? 

Altissima  è  la  fama  di  Washington,  e  fra  le  sue  virtù 
crediamo  noi  pure  che  realmente  anche  la  continenza 
vi  fosse  ;  ma  se  ne  avesse  mancalo,  non  opiniamo  che 
neppure  Washington  avrebbe  ottenuto  o  conservato  l'im- 
pero. Egli  fu  il  Fabio  d'America,  che  non  risolvendo  bat- 
taglie, nutrì  la  vittoria.  Le  genti  nuove  appresero  da 
lui  a  star  ferme  sotto  la  tempesta  di  ferro,  ed  il  governo 
britannico,  che  non  volle  per  tempo  accordare  le  conces- 
sioni richiestegli,  subì  il  vitupero  ed  il  danno  di  dovere 
più  tardi  sopportare  il  rifiuto  delle  offerte  da  lui.  Leale 


2Ì2  PABTE  SECONDA 

ed  inconlamìnato,  Washington  esercitola  guerra,  non  la 
pirateria  :  era  disinteresse,  era  probità,  ma  anche  sag- 
gezza, perchè  guerreggiavasi  nella  propria  contrada,  e 
non  in  quella  d'altrui,  come  quasi  sempre  hanno  fatto  i 
Romani.  Non  mancarono  a  lui  né  un'insigne  causa  da 
difendere,  n^  Toccasione  di  acquistar  gloria,  né  l'ingegno 
per  meritarla,  né  la  fama  che  l'esaltasse,  né  tutta  una 
generazione  molto  bene  inclinata  a  celebrarlo.  Furono 
per  lui  la  vastità  del  paese,  i  mari  frapposti,  la  longin- 
quità  d'Inghilterra,  gli  ajuti  di  Francia  :  egli  seppe  man- 
tenere congregato  un  esercito  incomposto,  disordinato  e 
bisognoso;  sostenne  la  fortuna  americana  per  lunghi 
anni  sul  crollo  della  bilancia,  dove  un  uomo  meno  pru- 
dente le  avrla  fatto  subire  il  trabocco.  Ma  Washington 
non  parlò  mai  coi  miracoli  di  grandi  vittorie  agli  intel- 
letti incerti  del  popolo;  non  era  duce  d'eserciti,  ma  capo 
di  cittadine  milizie  ;  non  trascorse  mai,  come  Siila,  come 
Cesare,  con  eserciti  trionfanti  di  paese  in  paese,  non  li 
arricchì  di  tesori,  non  li  fece  grandi  d'orgoglio  e  d'acqui- 
sti, né  brillò  mai  di  quel  genio  che  degrada  agli  occhi 
dei  soldati  la  dignità  dei  legislativi  Consigli,  e  li  fa  volon- 
terosi stromenti  all'ambizione  del  capo.  Avrebbe  potuto 
Washington  avere  facilmente  l'impero  d'un  paese  sì  vasto, 
diviso  in  tante  repubbliche,  dove  mai  non  fu  patriziato, 
dove  le  istituzioni  erano  radicalmente  democratiche,  dove 
al  ritirarsi  degli  Inglesi,  e  talora  anche  presenti  i  mede- 
simi, si  squagliava,  anzi  spariva  l'esercito  ? 

Ma  anche  il  sistema  degli  eserciti  romani  fu,  come 
vedemmo,  per  varii  secoli  tale  che  nessun  condottiero 
l'avrebbe  potuto  con  immane  licenza  guidare  contro  la 
patria  ad  un  saturnale  di  sangue  per  stabilirvi  un  go- 
verno in  cui  tutto  si  iniziasse  e  terminasse  nel  capo.  Chi 
avesse  avuto  il  folle  ardimento  di  invitare  quelle  truppe 


CAPITOLO  II.  ^  213 

cittadine  airempietà  del  certame,  sarebbe  tosto  caduto  a 
prevedibile  fine. 

Se  però  neirAsia  i  confini  della  repubblica  e  le  vaste 
regioni  tolte  a  Mitridate  si  fossero  volute  reggere  con  pro- 
consoli militari,  come  governavansile  altre pròvincie dello 
Stalo,  o  si  sarebbe  dovuto  affidare  ai  medesimi  una  forza 
grandissima,  onde  porli  in  grado  di  difendere  la  repub- 
blica contro  le  potenti  nazioni  dell'Asia  in  paesi  cosi  lon- 
tani dal  centro  della  romana  potenza,  o  si  sarebbero  do- 
vuti nominare  mollf  proconsoli  con  forze  militari  e  con 
Provincie  anguste.  Né  da  questi  proconsoli  si  sarebbe 
potuto  sperare  armonia,  e  meno  ancora  subordinazione 
nel  caso  di  una  necessaria  riunione  d'eserciti.  Fu  quindi 
assai  provvida  la  misura  politica,  che  distribuì  i  più  lon- 
tani lerritorii  asiatici  a  molti  re,  come  li  distribuì  più  tardi 
Carlo  Magno  ai  suoi  Conti  lungo  il  confine  orientale  del 
vasto  suo  impero,  e  tuttora  lì  distribuiscono  o  conservano 
gli  Inglesi  lungo  la  frontiera  occidentale  dell'Indie.  Quei 
regoli  erano  piccoli  pianeti  necessariamente  aggirati  nel 
vortice  d'ogni  vicenda  di  Roma  :  avevano  poche  truppe, 
e  le  comandavano  :  non  entravano  però  mai  nelle  truppe 
roncane,  né  si  vedeva  cola  l'abjezione  di  principi  di 
case  sovrane,  anzi  di  veri  sovrani  che  servissero  in  eser- 
cito straniero,  come  tanti  abbiamo  veduto  e  vediamo  dei 
sovrani  germanici  servire  nell'esercito  austriaco  e  russo. 
Il  proconsole,  che,  giusta  gli  ordini  del  Senato,  riuniva 
le  proprie  forze  a  quelle  di  tali  tetrarchi,  poteva  combat- 
tere e  vincere  ;  ma  l'autorità  del  proconsole  non  era  pe- . 
ricolosa.  Se  egli  non  avesse  agito  in  ubbidienza  agli  or- 
dini del  Senato,  quei  piccoli  re  posti  cautamente  in  soglio 
dal  Senato,  che  aveva  detronizzato  i  parenti  loro,  distri- 
buito con  artificio  i  territorii  fra  essi,  e  sovente  riteneva 
in  Roma  quasi  in  ostaggio  i  figli  loro,  od  i  principi  che 


214  PUTE  SEGOlfDA 

per'/inaa  o  per  grado,  come  saviamente  osserva  Mon- 
tesquieu, dovevano  precedere  gli  attuali  nel  possesso  della 
corona,  lo  avrebbero  abbandonato. 

Tutto  il  potere  esecutivo  era  quindi  in  mano  del  Se- 
nato e  delle  centurie,  corpi  politici  elettori  dei  magistrati. 
L'autorità  consolare  era  grande,  ma  sulla  plebe  soltanto, 
perchè  sulla  plebe  i  consoli,  presidi  del  Senato,  rappre- 
sentavano la  prepotenza  senatoria.  Terenzio  Ansa  tri- 
bunOi  chiamava  atroce,  immensa  Tautorilà  consolare,  e 
certo  che  tale  si  era  perchè  i  consoli  esercitavano  sulla 
plebe  Tautorità  atroce,  immensa  dei  patrizii. 

Nel  sistema  dello  Stato  però  la  consolare  autorità  era 
quasi  nulla.  I  consoli  erano  semplici  presidi  del  Senato, 
né  comandavano  a  permanenti  legioni.  Quelle  legioni  che 
reggevano  nei  primi  tempi,  e  talvolta  anche  in  seguito, 
erano  semplici  legioni  collettizie  di  cittadini  armati  in 
un  momento  di  crisi.  I  consoli  non  stipulavano  la  pace, 
né  intimavano  la  guerra  :  non  ricevevano  legati  esteri, 
non  ne  spedivano:  tutto  ciò  operavasi  direttamente  dal 
Senato.  I  consoli  non  nominavano  alle  cariche  civili  e  po- 
litiche: essi  non  avevano  che  pochi  littori  a  testimonio  di 
dignità  e  non  a  fondamento  di  forza.  I  consoli  presiede- 
vano al  Senato  ;  ma  non  godevano  preminenza  di  esclu- 
sivo diritto,  di  iniziativa  o  di  veto.  I  due  consoli  paraliz- 
zavansiTun  l'altro,  e  quest'era  migliore  guarentigia  contro 
l'abuso  del  potere,  che  non  l'invigilare  sul  doge,  come  fa- 
cevasi  specialmente  in  Venezia.  Duravano  in  carica  un 
anno  solo,  ed  uscendo  di  dignità  ogni  influenza  loro  (che 
l'acquisto  d'alcuna  influenza  era  inevitabile)  cessava,  per- 
chè i  medesimi  partivano  subito  da  Roma  investiti  del  co- 
mando d'una  provincia  a  tempo  determinato.  Quella  pro- 
vincia, molte  volte  già  romana^  molte  volte  chiamata  a  di- 
ventare romana,  perchè  se  ne  aveva  decretatola  conquista, 


CAPITOLO  II.  215 

0  subito  governavasi  dai  medesimi,  o  prìma  conquistavasi 
colle  legioni  le  quali  già  stanziavano  nella  provincia, 
od  essi ,  con  autorizzazione  senatoria ,  formavano  in 
Roma,  all'estero  non  mai.  In  tal  modo  anche  sui  beni 
che  i  legionarii  in  Roma  possedevano,  sui  congiunti  e 
sui  figli,  il  Senato  aveva  sempre  una  cauzione  della  con- 
dotta dell'esercito.  Ed  una  miglior  cauzione  si  aveva  nella 
libera  scella  di  inviare  il  proconsole  piuttosto  al  regime 
di  una  provìncia  che  non  di  un'altra.  I  proconsoli  pote- 
vano, è  vero,  espilare  le  provincie,  ed  infatti  se  ne  hanno 
esempii  deplorabili  (1):  non  potevano  farle  proprie,  per- 
chè di  troppo  breve  durala  si  era  l'uOicio  loro. 

I  proconsoli,  reduci  dalle  provincie,  non  altrimenti 
che  tuUogiorno  vediamo  nell'alta  Camera  del  Parlamento 
inglese,  sedevano  in  Senato.  Quanta  sapienza  statìstica 
doveva  dunque  trovarsi  in  quel  romano  Senato!  Assurda 
in  vero  si  è  l'asserzione  degli  scolastici,  che  i  Romani 
non  sapevano  di  statistica.  Qualunque  Romano,  fino 
dalla  giovinezza,  aveva  veduto  agitarsi  pubblicamente 
l'intiero  organismo  dei  pubblici  poteri;  ogni  senatore 
aveva  corso  tutte  le  carriere  civili  e  militari,  aveva  ve- 
duto gran  parte  delle  provincie,  aveva  governato  nel- 
l'estero e  nell'interno,  aveva  combattuto  battaglie,  ordi- 
nato finanze,  falla  romane  le  provincie  barbare.  Quella 
era  una  statistica  viva,  razionale  e  concreta:  ciascun 
senatore  discuteva  con  intima  cognizione  ogni  pro- 
getto in  qualsiasi  ramo  d'amministrazione.  Anzi,  fatta 
ragione  alla  differenza  delle  cognizioni  degli  elementi  so* 


(1)  Cicerone  introduce  la  Sicilia  a  parlare  in  tal  modo  contro  di  Verre  :  Quod 
aurit  ^uod  argenti,  quod  ornametUorum  in  meis  urbibuSt  sedibtu,  ddubru 
fuit,  id  mihi  tu,  C.  VerreSy  enpuisli,  atqut  abstulisli.  Le  espilazioni  di  Verre 
tono  le  più  note,  perchè  divulgate  dagli  scritti  del  sommo  oratore,  ma  quanti 
Verre  si  incontrano  nella  storia  dei  proconsoli  romani  aifestero  ! 


216  PARTE    SEC07IDA 

ciali  antichi  e  presenti,  neppure  nel  Parlamento  inglese, 
in  cui  più  che  in  ogni  altro  d'oggidì  si  aduna  abbonde- 
vole ricchezza  d'esperienze  personali  e  dirette,  la  viva 
ntatislica  si  trova  sì  certa  e  copiosa  com'era  concentrata 
nell'antico  Senato  di  Roma. 

Maraviglioso  fu  l'organismo  del  romano  reggimento.  Il 
sistema  spartano,  che  pur  esso  ebbe  molta  forza  nell'in- 
terno, assomigliossi  in  qualche  parte  al  romano.  Stret- 
tamente patrizio  si  era  il  sistema  di  Sparta  :  i  due  re  pa- 
ralizzavansi  fra  loro:  erano  re  a  vita,  erano  ereditarti: 
stava  imbrandito  su  entrambi  il  coltello  degli  Efori  :  uno 
solo  di  loro  comandava  l'esercito,  che  non  fu  mai  nume- 
roso. Non  vi  era  disuguaglianza  di  proprietà:  probabil- 
mente non  vi  era  l'istituzione  testamentaria,  perchè  se 
quella  istituzione  vi  fosse  stata,  subito  si  sarebbe  intro- 
dottala disuguaglianza  di  fortune,  e  si  sarebbe  alterata 
la  divisione  territoriale  stabilita  da  Licurgo.  E   se   pure 
l'istituzione  testamentaria  esisteva,  è  a  credersi  che  ope- 
rasse sui  soli  beni  mobili,  e  fosse  quindi  quasi  innocua 
al  sistema  pohtico  in  un  paese  senza  industria  manifat- 
turiera 0  commerciale.  Se  una  quota  di  beni  era  nella 
disponibilità  paterna,  doveva  sicuramente  essere  mi- 
nima: ove  ciò  non  accade,  le  private  disposizioni  rea- 
giscono contro  al  sistema  anche  legale  della  maggior 
possibile  eguaglianza.  A  Sparta  non  vi  era  differenza  fra 
cittadino  e  soldato:  passavano  anche  gli  Spartani  per 
tutte  le  cariche  della  repubblica,  ma  la  suprema  era  ere- 
ditaria nei  re. 


CAPITOLO  in. 
CÌDeiDoalo  e  Coriolano  —  I  fooroseilì  ed  i  Condottieri. 

Appartengono  cosi  alla  storia  delle  lotte  intestine, 
come  a  quella  delle  esterne  guerre  di  Roma,  due  perso- 
naggi i  cui  fatti  vennero  rivestili  e  si  vestono  luttogiorno 
di  forme  drammatiche  e  romanzesche.  Essi  sono  Cincin- 
nato e  Coriolano.  La  storia  però  dei  Romani  è  spesso 
barbara  ed  orribile  come  lo  sono  le  storie  tutte  e  segna- 
tamente quelle  dei  tempi  commossi  e  degli  Stali  aristo- 
cratici, che  non  possono  ridurre  a  termini  d'eguaglianza 
le  cose,  né  di  temperanza  gli  affetti.  Ma  insana,  ridicola 
ed  assurda  la  storia  di  Roma  non  è  mai,  né  esserlo  può 
la  storia  di  verun  popolo,  poiché  reggono  il  mondo  gli 
interessi  delle  masse  e  del  governo,  non  le  chimere  e  le 
vanità.  V'hanno  però  scrittori  che  sempre  si  inflorano  di 
strane  saporose  favolelte.  Le  legioni  romane  sono  chiuse 
in  mezzo  da  un  esercito  di  Equi  e  Volsci:  la  repubblica  è 
sul  limitare  del  precipizio.  Radunansi  i  padri  alla  mesta 
consulta:  cade  loro  Tanimo  e  la  speranza.  Ma  brilla  re- 
pente rilarità  sui  volli:  andiamo  dal  bifolco^  é  il  grido 
di  tutti,  e  Roma  é  salva,  e  s'orni  al  trionfo  il  Campido- 
glio. Si  incontra  il  bifolco  curvo  sulParalro:  gaudebat 
terra  vomere  laureato,  et  triumphali  aratore  (Plinio, 
lib.  XVIIl)  :  egli  stacca  dal  giogo  i  buoi,  e  tosto  pone  al 
giugo  e  Volsci  ed  Equi,  e  sale  la  via  sacra  in  trionfo, 
poi  subilo  scappa  via  per  riprendere  il  solco  incomin- 


218  pàate  seconda 

ciato,  e  tendere  i  tralci  per  la  futura  vendemmia.  Queste 
sono  melense  islorielle  narrate  in  cento  libri,  e  sempre 
un  retore  diretto  aggiunge ,  qual  morale  della  favola, 
ghiaje  ribelli  ad  ogni  digestione.  Così  na>ra  Floro  nel 
libro  1,  cap.  XI,  che  Cincinnato  dictator  ab  aratro,  ne 
quid  a  rustici  operis  imitatione  cessaret,  victos  more 
pecudum  sub  jugum  misit  :  redit  ab  boves  triumphalis 
agricola:  inter  quindecim  dies  cosptum  peractumque 
bellum:  prorsus  ut  festinasse  dictator  adrelictum  opu^ 
videretur.  Aurelio  Vittore  (cap.  XVII),  per  rendere  più 
teatrale  il  fatto  del  conferimento  a  Cincinnalo  della  cla- 
mide dittatoriale,  dice  che  il  bifolco  fu  trovato  all'aratro 
ignudo.  Plinio  il  Vecchio  si  piace  anch'egli  di  dirlo 
(lib.  XVIII),  ed  avverte  che  il  nuncio  gli  disse  di  gettarsi 
almeno  un  abito  addosso  prima  di  udire  perchè  il  Senato 
ed  il  popolo  lo  mandassero  a  lui:  Eutropio  poi  (lib.  I) 
aggiunge  che  sudore  deterso,  togam  prcBtextam  accepiL 
Ma  il  fatto  di  Cincinnato  non  è  ridicolo  in  Tito  Livio. 
Cincinnato,  di  stirpe  patrizia,  era  già  stato  console:  un 
figlio  suo  venne  esiliato  per  fiere  contese  coi  tribuni  del 
popolo-  Nuovamente  eletto  console,  s'era  Cincinnato  op- 
posto alla  licenza  senatoria,  e  la  plebe  venerò  quindi  in 
lui  un  idolo  inaspettato.  Nell'estremo  pericolo  Cincinnato 
riuniva  i  voti  del  popolo,  e  le  sue  promesse  trovavano 
fede.  Era  povero  Cincinnato,  non  perchè  fosse  bifolco, 
che  i  bifolchi  guidano  i  buoi  e  non  gli  Slati  ;  ma  viveva 
alla  campagna  esercendo  la  coltivazione  di  un  fondo: 
aveva  prestato  cauzione  pel  figlio,  di  cui  i  tribuni  ordi- 
navano l'arresto,  e  dovuto  pagarla  colla  sua  scarsa  for- 
tuna per  essersi  il  figlio  reso  contumace  quando  fu  chia- 
mato a  giudizio  (1). 

(1)  Nei  travestire  GiaciDnato  da  bifolco  le  fantasie  romane  non  fecero  che 
imitare  le  greche.  Narrano  infatti  gli  storici  greci  che  Alessandro  Magno  scelse 


CAPITOLO  lU.  219 

In  Cincinnalo,  in  Camillo,  esaltano  gli  scrittori  la 
virtù  sceneggiando  in  racconti:  biasimano  in  Coriolano 
il  vizio  di  livore  e  vendetta,,  ma  sempre  sceneggiano. 
Anch'egli  era  forte  soldato  :  Shakspeare  però  nel  suo  Co- 
riolano ha  grandeggiato  di  troppo  quando  fa  dire  al  suo 
amico  Menennio  che  Coriolano  aveva  sparso  tonnellate 
di  sangue  di  Volsci,  e  che  per  essere  Dio  non  gli  man- 
cava che  l'eternità,  ed  il  cielo  per  trono:  Nelle  intestine 
discordie  Coriolano,  lancia  spezzata  del  partito  patrizio, 
resisteva  ai  tribuni  nel  fóro:  sortiva  anche  alla  guerra 
coi  partigiani  suoi  quando  i  tribuni  impedivano  le  leve: 
fu  per  esser  gettato  dalla  rupe  Tbrpea.  ÀlGne  spinto  in 
esiglio,  riparò  ai  Volsci,  e  nelle  storie  e  nelle  tele  dipinte 
lo  vediamo  assiso  al  focolare  di  AmQdio  Tulio,  come  Te- 
mistocle a  quello  del  re  dei  Molossi,  o  di  Sersepersiano. 
Piombò  su  Roma,  incendiò  e  distrusse:  arrivò  a  cinque 
miglia  da  Roma,  perchè  quanti  s'avanzarono  contro 
Roma  vengono  dagli  storici  arrestati  precisamente  ad 
quintum  lapiderà.  Ma  non  si  legge  che  Coriolano  avesse 
già  battuto  l'esercito,  che  s'era  ripiegato  sulla  città,  e 


a  re  di  Sidone  un  Abdolonimo ,  che  cavava  delV aequa  per  Virrigatione  dei 
eampi:  questa  indicazione  potrebbe  bene  applicarsi  anche  ad  abile  agricoltore 
che  fertilizzasse  i  suoi  fondi  coirirrigazione  artificiale  :  gli  storici  però  fecero 
d'Abdolonimo  un  semplice  bracciante,  un  precursore  di  Cincinnato,  un  uomo 
volgare  cbiamato  da  Alessandro  ad  imperare  a  Sidone.  Ma  era  Alessandro  tal 
prìncipe  che  conoscesse  si  male  i  doveri  di  governatore  e  di  re  da  afiìdarne 
l'esercizio  ad  un  ordinario  bracciante  ?  Alessandro  poteva  ben  togliere  Tautorità 
ad  00  ceto,  ed  investirne  un  altro,  poteva  bramare  che  Sidone  attendesse  piut- 
tosto alFagricoltura  che  al  mare,  poteva  volere  che  governasse  a  Sidone  persona 
affitto  nuova  e  totalmente  dipendente  da  lui  ;  ma  è  egli  credibile  che  Alessandro 
volesse  chiamare  al  potere  persona  assolutamente  inesperta,  che  amasse  di 
sollevare  un  idiota  incapace  di  comprendere  gli  ordini  e  scopi  del  grande  con* 
quistatore,  inetto  a  giovare  a  Sidone,  a  vigilare  su  Tiro,  a  favorire  i  Macedoni» 
die  donasse  uno  Stato  ad  un  bracciante  comune  per  avere  il  dileggio  dei  Greci» 
e  dovere  con  perpetua  presenza  di  forze  mantenerlo  in  impero?  Eppure  si  scrive, 
e  si  ripete  ogni  dì  con  irriOessione  costante  che  Abdolonimo  era  un  bracciante, 
e  Gioeionato  on  bifolco  I 


220  PIATE  SECONDA 

gravissima  impresa  doveva  essere  per  lui  l'assalto  di 
Roma  intera  di  forze,  e  ben  unita  contro  di  esso  per  an- 
tico odio  di  popolo,  e  pei  patrizii  alienali  da  defezione 
sì  grave.  Stipulò  accordi,  retrocesse:  fu  poi  ucciso  dai 
Volsci  credendosi  traditi?  si  uccise  da  sé?  mori  placida- 
mente in  vecchiaja?  Tutto  leggiamo,  tutto  adunque  è 
incerto,  e  Shakspeare  credette  di  poterlo  ammazzare 
a  suo  modo  facendolo  vittima  della  gelosia  d'Amfidio 
Tulio.  Ma  agli  storici  novellieri  più  piace  dipingerci 
non  Roma  madre  che  cerca  ed  ottiene  la  pace,  ma  quella 
che  l'ebbe  in  grembo,  Volumnia,  accorrente,  col  piccolo  * 
Coriolano  in  braccio  a  Virgilia,  che  dice  d'essere  egli 
pure  romano,  e  voler  essere  cogli  altri  scannalo:  ci  mo- 
strano poi  le  lacrime  Ogliali,  maritali ,  paterne  per  gli 
occhi  al  guerriero  rompenti ,  la  rinfacciata  vergogna  dei 
veri  trionfi,  il  ritirarsi  che  per  la  sua  salvezza  più  a 
tempo  non  era,  ed  il  sangue  del  traditore  di  Roma  ver- 
sato dai  Volsci  traditi  da  lui. 

Cercaronsi  nelle  storie  recenti  analogie  di  personaggi 
più  noti  col  Coriolano  di  Roma:  sono  abhondevoli,  ma 
fra  le  molte  sembrò  che  il  contedi  Carmagnola  più  d'ogni 
altro  fosse  il  Coriolano  della  moderna  età.  E  scrittori 
meno  avvezzi  a  pensar  grave  ed  aggiustalo,  ed  a  sobrio  e 
retto  ponderare,  ammanirono  sul  Carmagnola,  come  fatto 
avevano  su  Coriolano,  ampia  nutrizione  di  sceniche  rap- 
presentazioni ai  lettori,  piuttosto  che  rischiarare  le  fasi 
della  politica  sua  vita,  e  della  triste  sua  fine.  Il  Carmagnola 
condotliere  pel  duca  Filippo  Visconti  aveva  saputo  con- 
quistare per  esso  quasi  senza  esercito  un  ampio  Stato. 
Avesse  o  non  il  Carmagnola  il  genio  riflessivo  delle  com- 
binazioni strategiche  .ed  il  genio  fulminante  delle  batta- 
glie, egli  non  provava  lo  sgoménto  anticipato  degli  osta- 
coli conóscendoli  deboli ,  aveva  ingegno ,  concitazione  e 


CAPITOLO  III.  221 

scaltrezza,  qualità  che  han  molla  forza  a  successo  d'im- 
prese lodevoli  e  ree:  era  Tartefice  capace  di  sciogliere  il 
nodo  che  aveva  stretto:  l'impresa  ardua  per  un  Ercole 
imperito,  poteva  esser  facile  per  il  venturiero  iniziato  al 
mistero.  Sapeva  il  Carmagnola  dov'era  una  bilancia  di 
partiti  in  bilico,  e  come  delibrarla  per  farla  traboccare; 
sapeva  come  addensare  passioni,  e  farne  tempesta  ;  sa- 
peva qual  suono  rendessero  le  spade  del  duca,  e  come 
si  aprissero  le  porte  della  sua  città.  Gorrucciossi  col 
duca,  e  lo  lasciò  :  i  Veneti  allora  lo  scelsero  a  capitanarli 
contro  lo  stesso  duca;  ma  noi  fecero  già,  come  dice 
Daru,  e  leggesi  nel  proemio  della  nota  tragedia  italiana, 
perchè  gli  occhi  del  Carmagnola  schizzassero  d'ira  con- 
tro Filippo,  non  altrimenti  che  quelli  di  Coriolano  al 
focolare  di  Tulio,  si  sovente  nelle  scuole  descritti ,  ne 
schizzavano  contro  Roma.  Ben  meglio  vide  Oenina,  lo 
scrittore  delle  Rivoluzioni:  i  Veneti  scelsero  il  Carma- 
gnola, egli  dice,  perchè  conoscitore  del  debole  e  de\  forte 
del  Milanese,  e  Coriolano  fu  scelto  dai  Volsci  perchè 
conosceva  egli  pure  ogni  seme  di  mala  contentezza,  ogni 
via  aperta  all'ardimento,  ed  ogni  mezzo  onde  il  terrore 
tornasse  a  chi  dato  l'aveva. 

Così  Coriolano,  come  il  Carmagnola,  si  infiammarono 
dell'impeto  dell'ira,  e  non  si  governarono  col  freno  della 
ragione.  Cadde  il  Carmagnola  :  cadde,  sembra  certissimo, 
anche  Coriolano.  Entrambi  prestarono  a  chi  li  accolse 
servigi  grandi,  ma  incompleti;  non  ebbero  il  premio  dei 
primi,  ma  la  pena  del  compimento  mancato  :  fu  gridata 
la  colpa,  non  esposta  la  prova,  e  la  posterità  ammise 
facilmente  la  colpa.  Nessuno  pensò  alle  arti  tristissime 
ed  usate  sì  spesso  da  colui  che  diffida,  e  diffida  a  ragione 
di  chi  ha  già  altri  tradito  :  resi  i  servigi,  forse  i  maggiori 
che  il  traditore  prestare  potesse,  viene  abbandonalo  o 


222  PARTE  SECONDA 

spento.  Ed  anche  Coriolano  ed  il  Carmagnola  portarono 
forse  pena  deiraltrui  diffidenza,  della  propria  impotenza 
a  servire  di  più.  non  del  proprio  peccato.  Quanti  ebbero 
destino  più  mite,  ma  pur  essi  infelice!  I  Veneti,  p.  es., 
giovaronsi  del  Colleone  di  Bergamo  per  impadronirsi 
della  sua  città:  entrati  in  essa,  non  attennero  fede,  e  chi 
sperava  di  diventarne  il  principe  per  Tajuto  di  Venezia, 
ne  divenne  profugo  per  l'ordine  di  Venezia.  Si  pose  al- 
lora il  Colleone  agli  sti pendii  milanesi,  e  diede  mano  a 
cacciare  da  Bergamo  i  Veneziani  :  reso  quel  servigio  che 
potè  rendere,  i  Milanesi  lo  carcerarono  perchè  ai  Veneti 
non  ritornasse. 

Noi  volentieri  ci  soffermiamo  su  queste  politiche  idee, 
perchè  recano,  a  quanto  ci  sembra,  chiarezza  a  compren- 
dere moltissimi  fatti  di  storia  antica,  e  moltissimi  di 
quella  del  medio  evo,  non  mancando  la  analogie  dei 
medesimi  nemmeno  oggidì.  È  necessario  portare  luce 
sulle  cause  di  essi,  perchè  non  solo  gli  scrittori  letterarii 
diedero  frivole  spiegazioni  dei  condottieri  e  delle  milizie 
di  ventura  j  come  già  mostrammo  nel  capitolo  III  della 
parte  I  averle  date  inesatte  sul  pregio  dei  mercenarii  che 
erano  eserciti  più  o  meno  valenti,  ma  senza  l'importanza 
politica  di  quelle  squadre  di  partigiani,  e  di  cbi  le  for- 
mava e  reggeva.  Perfino  varii  scrittori  di  storica  filosofia 
e  di  giurisprudenza  di  Slato  giudicarono  talvolta  dei  ven- 
turieri e  dell'uso  di  essi  in  modo  troppo  discorde  dalle 
vere  loro  origini,  e  dagli  scopi  politico-militari  del  loro 
armeggiare.  Cosi  Gian  Domenico  Romagnosi  e  molti  se- 
guaci di  lui  opinarono  che  gli  Stali  d'Italia,  ove  i  con- 
dottieri e  le  schiere  di  ventura  furono  più  che  altrove  nu- 
merose e  durevoli,  si  valessero  di  esse  per  non  togliere 
nelle  guerre  le  braccia  al  commercio  ed  alle  manifatture. 
È  meraviglia  fin  dove  il  predominio  di  certe  idee  abbia 


CAPITOLO   111.  223 

introdotto  ed  intronizzato  la  politica  economia  I  Ci  sia 
dunque  concesso  Tesaminare  più  addentro  ed  estenderci, 
e  sarà  utile  airinlellìgenza  della  storia  politica,  ed  al  raf- 
fronto d'epoche  somiglianti,  e  degli  identici  effetti  di 
cause  eguali  in  tempi  remoti  fra  loro,  ed  in  diverse  re- 
gioni. Questa  opera  già  offri  nella  Grecia,  in  Roma,  a 
Cartagine,  nella  Siria,  in  Persia,  abbondevoli  esempii  di 
esuli  armati,  di  soldatesche  per  odii  di  parte  giurale  a 
bandiera  straniera:  moltissimi  ancora  ne  vedremo  in 
tutto  Torbe  romano,  ed  in  quei  limitroQ  Stati  nei  quali 
giunge  alcuna  storica  luce.  Ne  abbiamo  addotto,  ed 
addurremo  ragioni  palesi.  E  palesi  pur  sono,  e  di 
simile  natura,  le  cause  per  cui  Tltalia  ebbe  a  sof- 
frire nella  media  età  più  d'ogni  paese  di  tanta  tristezza, 
che  parve  nella  medesima  inviscerata  ed  eternata  a 
sistema. 

Per  secoli  intieri  non  vi  fu  governo  in  Italia  che  tiran- 
nia non  fosse,  benché  la  tirannia  variasse  nei  luoghi, 
negli  aspetti  e  nel  nome,  esercitandosi  talvolta  dall'auto- 
rità ecclesiastica  contro  la  secolare,  spesso  dai  nobili 
contro  il  popolo,  spesso  dal  popolo  contro  i  nobili,  ta- 
lora da  sorti  usurpatori  in  città,  da  principi  venuti  d'oltre 
Alpi,  o  da  capi  arrivati  pei  mari.  Poche  erano  le  vittime 
della  giustizia,  molte  quelle  del  carnefice,  e  la  confisca 
era  più  ancora  necessità  di  vittoria,  che  pena  pel  vinto. 
Quindi  l'Italia  per  più  secoli  sobbalzata  e  convulsa  fu 
piena  di  esuli  e  di  proscritti  che  avrebbero  arso  ben  anco 
il  mondo  purché  restassero  le  reliquie  e  le  ceneri  a  loro 
profitto,  le  vendette  saziassero,  e  riacquistassero  i  beni 
caduti  in  confisca,  e  la  sovranità  passala  in  altrui  mani. 
Crescevano  per  le  continue  violenze;  erano  forti  di  nu- 
mero ,  più  forti  d'associazione  fra  loro ,  fortissimi  per 
le  aderenze  coU'estero  e  coirinterno  :  ingagliardivano 


224  PARTE  SECONDI 

ancora  della  concorrenza  dei  volontarii,  degli  esteri,  degli 
avanzi  d'eserciti  imperiali,  e  degli  Svizzeri  venali.  In  si 
complicalo  inviluppo,  quando  vacillava  la  pace,  o  s'inti- 
mava la  guerra,  l'assoldare  le  bande  contrarie  al  governo 
nemico  era  consiglio  di  politica  insidia.  Raccoglievansi 
le  bande  monarchiche  sotto  al  principe  esule,  le  bande 
popolari  sotto  l'esule  demagogo,  le  nobili  sotto  l'esule 
patrizio,  le  guelfe  e  le  ghibelline  sotto  i  varii  loro  capi 
anelanti  a  vendetta.  Se  tanti  furono  e  sono  in  ogni  tempo 
e  contrada  i  governi  ed  i  popoli  che  come  Lodovico  il 
Moro  chiamano  gli  stranieri,  e  poi  lo  Stato  ne  piange, 
ed  essi  vanno  a  rovina  con  lui,  quanto  più  dovevano  es- 
sere chiesti  da  chi  anelava  a  rivolte  i  cittadini  e  con- 
giunti !  II  loro  campo  non  era  solo  torneo  per  armi , 
ma  fucina  di  politici  intrighi  :  preparavano  la  mina  ro- 
vinatrice  mettendo  voci  per  arte  sulla  temperanza  var- 
cata, ed  i  procedimenti  avari  di  chi  teneva  l'imperio  : 
narravano,  inventavano  le  crude  infamie  dei  dominatori  : 
cessassero,  dicevano,  i  popoli  dall'offrire  i  loro  corpi  per- 
chè vi  fossero  piantati  gli  artigli.  Scrivendo  così  sulle  ban- 
diere il  pubblico  bene,  le  bande  marciavano.  Queste  ban- 
diere facevano  sovente  migliore  impressione  nei  difensori 
che  non  l'ariete  nelle  mura,  e  talvolta  ad  uno  squillo  di 
tromba  il  baluardo  crollava.  Chi  mai  può  scorgere  in 
questo  sistema  di  venturieri  un  riguardo  pel  commercio, 
un  beneflcio  per  le  manifatture? 

Un  Cavalcabò  comandava  i  mercenarii  veneti  quando 
Venezia  tentò  l'acquisto  di  Cremona  contro  i  Visconti  : 
colle  bande  degli  Strozzi  tentava  Francia  di  precipitare  i 
Medici.  Ora  i  Cavalcabò  erano  stati  dai  Visconti  cacciati 
da  Cremona,  e  gli  Strozzi  cacciati  da  Firenze  dai  Medici. 
I  Benzoni,  signori  di  Crema,  ne  venivano  scacciati  dai 
Visconti  :  i  Veneti  ascrivevano  allora  i  Benzoni  al  libro 


CAPITOLO  IH.  ,  225 

(toro,  li  prendevano  in  servigio  nelle  (ruppe  venete  di 
terraferma,  e  movevansi  contro  Crema. 

Non  che  i  Veneti  dessero  ascolto  alla  massima  rac- 
comandata dal  Varchi,  d'arruolare  cioè  i  loro  eserciti  nelle 
Provincie  venete  di  terraferma,  statuirono  la  legge  che 
chiamava  al  comando  dell'esercito  di  terraferma  uno  stra* 
niero,  accompagnato  in  ogni  suo  passo  dai  commissarii 
della  Signoria.  Anche  in  Milano  valevansi  i  duchi  più 
spesso  di  stranieri  che  di  sudditi  cosi  nei  consigli,  come 
nel  campo,  e  furono  forestieri  i  Piccinino,  gli  Sforza,  i 
Dal  Verme,  i  Malatesta,  i  Gozzadino,  1  Simonetta,  gli  Àn- 
guissola,  e  tanti  altri  individui  o  famiglie,  i  fasti  delle 
quali  desumonsi  principalmente  da  ciò  che  operarono  nel 
.Milanese.  Dappertutto  poi  il  nome  di  straniero  parve  iden- 
tico a  quello  di  fedele,  e  furono  detti  fedeli  gli  Svizzeri, 
fedeli  gli  Alemanni  alle  corti  italiane  ed  alle  altre  europee, 
fedeli  le  guardie  scozzesi  o  quelle  d'Irlanda  alla  corte  di 
Francia.  Così  i  Califfi  trovarono  fedeli  in  Bagdad  i  mer- 
cenarii  turchi,  e  parvero  fedeli  i  Mamelucchi  in  Egitto, 
gli  Slrelizzi  nelle  Russie  ed  i  Gianizzeri  in  Turchia,  al- 
meno finché  questi  furono  milìzie  mercenarie  composte 
di  schiavi  cristiani,  e  tuttora  lo  sembra  nel  Marocco  la 
guardia  imperiale  dei  negri  Bocari.  Anche  in  Germania, 
allorché  le  ire  politico-religiose  elevarono  tanti  patiboli  e 
tanti  roghi  incesero,  l'Olanda  con  torme  assoldate  di  mer- 
cenarii  tedeschi  toglieva  al  dominio  di  Spagna  quelle 
terre,  che  l'industria  aveva  dapprima  conquistalo  sul 
mare. 

Arruolavano  i  Veneti  dei  soldati  anche  nella  terraferma 
italiana,  ma  ai  patrizii  veneti  sembrava  che  rendessero 
migliore  servigio  nelle  isole  e  negli  stabilimenti  del  Le- 
vante che  non  nella  Penisola,  che  meglio  avrebbero  com- 
battuto il  Turco  che  non  l'Italiano.  Solo  agli  Schiavoni 

15 


Ì16  PAETB  SECONDA 

(ÌHlmati  davansi  le  armi  con  sicurezza:  gli  Shiavoni  for- 
marono sino  ai  tempi  moderni  il  nerbo  delle  truppe  ve- 
nete :  essi  non  avevano  a  scegliere  se  non  fra  la  signoria 
di  Venezia  e  quella  del  Turco. 

In  molti  Stali  italiani  la  classe  commerciale  e  manifair 
turiera  non  esercitava  alcun  diritto  politico  :  essa  non 
decideva  della  guerra,  né  del  modo  di  combatterla.  Invece 
in  Firenze,  prima  della  dominazione  dei  Medici,  i  mani- 
fattori ed  i  commercianti  avevano  un  voto  principalissimo 
nella  legislazione.  Nondimeno  il  sistema  dei  militi  ventu- 
rieri fu  egualmente  comune  a  tutti  gli  Stati.  Dunque  il  si- 
stema procedeva  da  cause  universali,  e  non  da  particolari. 
In  Firenze  vi  fu  un  tempo  in  cui  perfino  l'ordine  politico  fu 
intieramente  sconvolto,  perchè  i  popolani  furono  conver- 
titi in  nobili,  ed  i  nobili  furono  convertiti  in  popolani, 
giacché  fu  tolto  il  voto  ai  nobili,  e  fu  riservato  ai  plebei. 
Ma  il  sistema  dei  venturieri,  perchè  radicato  nelle  politi- 
che condizioni  di  quelle  età,  continuò  invariato.  Ed  anche 
in  questa  età,  in  cui  i  metodi  di  guerra  sono  tanto  diversi 
dai  metodi  antichi,  ed  il  pregio  delle  milizie  tumultuarie 
e  raunaticcie  è  scemato,  abbiamo  veduto  unirsi  legioni 
di  profughi  ad  aggredire  gli  Stati. 

Ma  Tetà  eroica  dei  venturieri  è  quella  delle  guerre  in- 
testine dei  Greci  e  delle  civili  di  Roma;  soprattutto  è  quella 
di  Dante,  delle  fazioni  dei  Guelfi  e  dei  Ghibellini,  dei  Bian- 
chi e  dei  Neri,  dei  Torriani  e  dei  Visconti. 

Quando  Tltalia  si  ridusse  ad  un  minor  numero  di  Stati, 
le  bande  mercenarie  si  fecero  piti  grosse  ;  ma  erano  già 
bande  degeneri,  e  non  schiere  di  fuorusciti  anelanti  a 
ritorno  e  vendetta.  Perdettero  allora  quelle  torme  del 
pregio  politico,  perdettero  dell'impiego  continuo,  perdet- 
tero dell'affluenza  continua  d'altri  fuorusciti  :  scemarono 
poi  infinitamente  del  pregio  militare  pei  variati  sistemi 


CAPITOLO   III.  227 

di  guerra,  e  l'apparire  sul  campo  di  truppe  regolari  di 
Francia  e  di  Spagna.  Machiavelli  si  doleva  di  queste  mi- 
lizie inferiori  alle  truppe  dell'estero  ;  ma  non  era  pilli  lo 
spirito  di  parte  che  rendeva  una  volta  temibili  le  bande 
mercenarie  :  all'epoca  sua  i  venturieri  erano  soldati  come 
i  Icgionarii,  come  gli  odierni,  ma  non  permanenti,  né 
disciplinati. 

Nel  libro  XVI  della  sua  storia  in  seguito  a  quella  di 
Guicciardini,  Carlo  Botta  rammenta  egli  pure  le  compa- 
gnie di  ventura.  Ma  questo  storico  altronde  illustre,  non 
considera  le  cause  che  loro  diedero  origine,  e  si  lungo 
tempo  le  conservarono.  Egli  non  le  considera  politica- 
mente, ma  le  deplora  pietosamente  :  racconta  come  le 
milizie  ferme  '  abbiano  spento  così  brutta  contamina- 
zione, e  dolendosi  che  i  ribaldi  una  volta  fossero  as- 
soldati, si  consola  che  ora  vengano  impiccati. 

Noi  lasciando  a  ciascuno,  ed  anche  a  Botta  queste 
consolazioni  sull'attualità  delle  condizioni  sociali,  ripe- 
liamo soltanto  che  tutta  l'antica  istoria  greco-romana 
ridonda  d'esempii  di  condottieri,  e  di  milizie  combattenti 
ad  ogni  ventura.  Già  parlammo  di  Caridemo  e  di  Corio- 
lano,  e  fu  condottiero  Alcibiade,  e  lo  fu  Labieno  quando 
combatteva  pei  Parti,  e  Senofonte  quando  pugnava  (non 
però  contro  la  patria)  pel  giovane  Ciro.  E  si  moltipli- 
cheranno gli  esempii  nelle  guerre  sillane,  nelle  pompe- 
jane,  in  qualunque  rivolgimento  sociale  ed  in  ogni  età 
dolorosa,  in  cui  siano  scompigliate  le  cose  politiche,  e 
falsali  per  esse  i  sentimenti  morali. 


CAPITOLO  IV. 

11  patriziato  decimato  di  prerogative, 

e  deelìnalo  di  potenza. 

Il  Tribunato  —  Il  diritto  pretorio. 

Il  sistema  patrizio  di  Roma,  non  altrimenti  che  ogni 
aristocrazia,  gradatamente  crollò.  Ma  la  lòlla  fra  patrizii 
e  plebei  fu  di  molto  maggior  durala  in  Roma  che  non 
presso  gli  altri  popoli.  Ne  sono  palesi  le  cause.  È  vero 
infatti  che  il  plebeo  romano  nei  primordii  della  repub- 
blica Irovavasi  nella  quasi  servita  dei  patrizii.  Ma  del 
barbaro  servaggio  rorislocralico  sistema  di  Roma  antica 
dava  anche  al  plebeo  un  barbaro  compenso:  per  lungo 
corso  di  secoli  egli  vide  nella  tutela  perpetua  delle  donne 
una  meta  della  popolazione  degradala  al  suo  cospetto 
nell'esercizio  dei  diritti  non  solo  politici,  ma  anche  nel- 
l'uso dei  diritti  strettamente  civili:  dominava  tutti  i  po- 
poli peregrini  che  non  avevano  nemmeno  il  gius  di  con- 
.  nubio  coi  Romani  :  era  padrone  anch'egli  della  .sostanza 
e  della  vita  dei  figli  :  era  quasi  padrone  della  mo- 
glie: era  padrone  degli  schiavi.  Vi  era  pubblicità  di 
tutto:  i  magistrali  politici  e  giudìziarii  erano  temporanei 
ed  elettivi:  non  vi  erano  mani-morte:  non  vi  erano  fede- 
commessi:  vi  era  assoluta  libertà  di  proprietà:  tulli 
egualmente  i  cittadini  servivano  in  armi.  E  se  il  plebeo 
era  ricco  poteva  variar  di  slato,  entrar  nell'ordine  eque- 


CAPITOLO  IV.  229 

sire,  ed  aggiungere  alla  domestica  la  politica  dominazione. 
Non  soffrivano  quindi  i  patrizii  l'intiero  urlo  democra- 
tico delle  plebi:  la  proposta  delle  leggi  tendenti  a  sfa- 
sciare l'edificio  aristocratico  doveva  trovare  anche  in 
molli  plebei  violenti  oppositori. 

Alla  legge  agraria  l'intero  ordine  senatorio,  l'intero 
ordine  equestre,  e  le  migliori  centurie  dei  plebei  si  op- 
ponevano. La  legge  agraria  non  giunse  mai  ad  essere 
attivala.  Ma  l'emigrazione  della  plebe  povera  era  mollo 
favorita  dal  patriziato  romano,  com'essa  lo  è  al  presente 
dal  patriziato  inglese  :  spargevansi  nelle  provincie  con- 
quistate colonie  romane,  che  contribuivano  a  tenerle  ub- 
bidienti e  suddite,  e  diminuivano  nella  capitale  il  peri- 
colo d'una  disperata  insorgenza  delle  masse  affamate. 
Vellejo  Patercolo,  al  lib.  I,  cap.  14  e  15,  enumera  molle 
di  queste  romane  colonie ,  e  nota  le  epoche  della  fon- 
dazione di  esse.  E  Lucio  Floro  narrando  che  Anco 
Marzio  inviò  subito  una  colonia  ad  Ostia  in  ipso  maris 
(luminisque  confinio,  aggiunge,  prmagiens  animo,  fu- 
turum  ut  totius  mundi  open  et  commealvs  ilio  veluti 
maritimo  urbis  hospitio  reciperentur  (1).  E  questo  era 
un  popolo  che  dicesi  avere  disprezzato,  ignorato  perfino 
le  marittime  navigazioni!  (pag.  22  e  seg.). 

La  liberazione  dei  figli  dalla  patria  potestà,  che  in- 
volge gran  parte  della  legislazione  civile,  e  concerne  i 
diritti  di  emancipazione,  di  maggiorennità,  di  scelta  dello 
stato,  di  legittima,  di  successione,  ed  in  genere  di  famiglia, 
era  contrastata  da  quasi  tutte  le  persone  sui  juris.  La 
romana  aristocrazia  di  famiglia,  senza  cause  di  urgente 
necessità,  non  mai  sarebbe  caduta.  Ma  questa  causa  di 
«  urgente  necessità  si  trovò  nelle  relazioni  di  Roma  cogli 

(1)  Anche  nei  frammenti  di  Polibio  troviamo  cenno  dì  questa  colonia  fondata 
da  Anco  Marzio. 


230  PARTE  SECONDA 

esteri  Stati.  La  potenza  delle  forze  estere,  generatrici  di 
pericolo  nell'interipo,  furono  e  saranno  sempre  una 
causa  assai  efficace  dell'avvicendarsi  delle  interne  forme 
di  reggimento. 

I  figli  di  famiglia  non  avevano  proprietà;  non  avevano 
nemmeno  un  diritto  d'aspettativa  alla  sostanza  paterna  : 
il  padre  poteva  nel  testamento  diseredarli  e  preterirli,  e 
scorsero  varii  secoli  prima  che  si  facesse  luogo  alla  que- 
rela de  inofficioso  testamento^  e  con  essa  si  incomin- 
ciasse ad  opporre  una  limitazione  al  dirilto  paterno  d'as- 
soluta libertà  nel  disporre  per  testamento  dei  beni  (1). 

(1)  Sotto  questo  rapporto  Roma  discordò  da  tutti  i  sistemi  patrizii,  che  ven- 
nero dipoi,  giaccliè  in  questi  sistemi  le  devoluzioni  feudali,  fedecommissdrìe  e 
gentilizie  assicuravano  il  trapasso  ai  figli  delia  sostanza  paterna.  In  Roma  non 
fu  mai  cosi;  ma  da  principio  il  gius  di  testare  era  almeno  vincolato  dalFobbligo 
stesso  di  dovere  testare  pubblicamente  in  comUiii  calatis,  11  testamento  romano 
nella  prima  origine  era  una  legge,  e  fecondo  l'astratta  giurisprudenza  non  po- 
trebbe essere  che  tale:  Tuomo  morendo  perde  ogni  diritto  alle  cose,  e  queste 
ricadono  nella  comunione  sociale.  Il  testamento,  ossia  la  facoltà  di  trasmettere 
ad  altri  le  cose  quando  pel  fatto  di  morte  Tuomo  cessò  dal  possesso  e  dalla 
volontà,  è  diritto  d  invenzione  civile,  ossia  una  concessione  della  società.  Or 
bene,  in  Roma  questa  concessione  da  princìpio  ebbe  il  carattere  di  legge  spe- 
dale per  ogni  singolo  caso.  Il  possessore  doveva  dichiarare  Terede  nei  comizii: 
Tannuenza  espressa  o  tacita  dei  popolo  fondava  il  diritto:  non  era  questo 
testamento  una  legge?  Ma  senza  un  fondato  titolo  chi  testerebbe  contro  i  figli, 
0  con  pochi  riguardi  di  moralità  in  comiliis  calatisi  Se  tutti  i  testamenti  fos- 
sero solenni,  od  almeno  giudiziali,  chi  affronterebbe  sì  facilmente  la  pubblica 
opinione,  come  pur  troppo  avviene  giornalmente  colle  forme  attuali  dei  testa- 
menti segreti?  L'avere  dunque  colle  XII  Tavole  e  con  leggi  successive  introdotto 
il  principio  tUi  Ugasset,  itajus  eslo,  senza  stabilire  un  gius  di  legittima,  fu  pei 
figli  una  nuova  ferita,  e  rassodò  ancor  più  l'impero  domestico  dei  padri. 

II  paese  d'Europa,  dove  il  sistema  patrizio  della  proprietà  territoriale  genti- 
lizia venne  da  quasi  un  secolo  totalmente  distrutto,  e  diede  a  tutti  l'esempio 
della  libertà  dei  possessi,  è  la  Francia;  TUngheria  invece  è  il  paese  dove  il 
sistema  gentilizio  delle  possidenze  fu  sempre  più  generale  ed  intenso,  e  si  man- 
tenne quasi  inalterato  fino  a  questi  ultimi  anni,  nei  quali  crollò  per  fatto  san- 
guinoso e  d'arbitrio,  ma  sostanzialmente  vantaggioso  all'uni versalilà  della  povera 
popolazione  del  regno.  Nella  Scozia  è  libero  a  chiunque  il  sostituire  a  perpe- 
tuità, od  il  fondare  fedecommessi,  e  quindi  la  quantità  delle  terre  libere  vi  si 
rende  sempre  minore  :  attualmente  la  metà  circa  delle  terre  scozzesi  è  vincolata! 
a  fedecommesso.  Nell'Inghilterra  e  nell'Irlanda  non  è  permessa  veruna  soslitu* 
xione  a  perpetuità,  ma  il  vincolo  non  può  estendersi,  fra  i  non  viventi^  al  di 


CAPITOLO  IT.  231 

Quanto  ripugna  dunque  airinconcussa  verità  della  sto- 
ria legale  di  Roma  l'asserzione  di  Gibbon,  che  scrive: 
Nei  primi  secoli  della  repubblica  tuia  delle  anni  era 
ritervato  a  quei  cittadini  che  avevano  una  patria  da 
amare,  ed  un  patrimonio  da  difendere  I  Cento  mila  gio- 
vani senza  patrimonio  perirono  nei  primi  tempi  di  Roma 
sul  campo  di  battaglia. 

Ha  le  guerre  rendevansi  ad  ogni  istante  più  lunghe, 
più  pericolose  e  frequenti.  In  ciascun  anno  domandavasi 
il  tributo  di  sangue  ai  figli  di  famiglia,  veri  schiavi  senza 
personalità,  senza  patrimonio ,  e  senza  voto  centuriale 
per  non  aver  censo,  e  per  non  essere  $uijuri$.  Come  po- 
teva sperarsi  di  lanciarli  sempre  vogliosi  alla  difesa  di 
quella  Roma,  ove  beni  non  avevano,  od  all'assalto  delle 
nemiche  città  per  acquistare  col  sangue  proprio  la  preda 
bellica  ai  padri  sedenti  tranquilli  in  patria?  La  necessità 
indusse  il  legale  riconoscimento  dei  peculii,  ossia  Tag- 
giudicazione  ai  figli  della  proprietà  di  quanto  i  medesimi 
militando  acquistassero.  Il  primo  peculio  infatti,  di  cui 
i  figli  di  famiglia  godettero,  si  fu  il  peculio  castrense:  il 
quasi  castrense  acquistato  colla  milizia  togiata,  è  d'assai 
più  recente,  appartiene  alle  epoche  successive,  in  cui  le 
magistrature  avevano  cessato  di  essere  di  diritto  esclu- 
sivo degli  ottimati.  Il  peculio  avventizio  e  profittizio  è 
d'orìgine  ancora  più  moderna,  e  benché  riveli  esso  pure 
la  politica  servitù  di  famiglia,  può  quasi  considerarsi 
come  istituzione  meramente  civile. 

làiifm  grido;  in  ilitto  però  la  proprietà  inglese  ed  irlandeie  non  si  rende  se 
non  monentanenniente  /i6era,  giacchi  in  Tia  consuetudinaria  il  padrone  jo</«- 
Ittùee  di  mioTo  fin  deve  la  legge  permette,  e  così  di  segnite.  Pel  codice  austriaco 
la  fondazione  di  fedecommessi  richiede  il  consenso  sovrano  :  nel  diritto  russo 
fiesto  consenso  non  i  espressamente  ricbiesto,  ma  le  istitusioni  dei  Tedecom* 
nessi  si  sogliono  sottoporre  airapprovaziooe  dei  monarca.  In  varie  Provincie  di 
Prussia  fu  impartita,  non  sono  molti  anni,  Tautorìzzasione  sovrana  per  nuove  e 
numerose  istituzioni  fedecommìssarìe. 


232  PARTE  SEGO!«OA 

Lo  specialissimo  carattere  politico  dei  peculii  castremi, 
la  cui  origine  è  così  trascurata  nelle  storie  di  Roma, 
diede  al  romano  Senato  anche  nei  primi  secoli,  ne' quali 
al  milite  nessun  stipendio  si  concedeva,  la  facollà  di  vi- 
brare contro  il  nemico  delle  legioni  entusiastiche  di  gio- 
ventù, per  le  quali  erano  identiche  le  idee  astratte  di 
gloria,  e  le  idee  reali  di  interesse.  La  vittoria  era  l'unico 
modo  d'acquisto,  e  l'acquisto  la  via  più  facile  aìVeman- 
cipazione,  ossia  al  diYemre  sui  juris,  al  comandare  allo 
schiavo,  e  forse  al  salir  alto  nella  repubblica. 

Dal  peculio  castrense  emanano  infalli  tutti  i  diritti  fa- 
migliari. Senza  il  diritto  di  vita  e  di  indipendenza,  il  di- 
ritto di  proprietà  sarebbe  illusorio  :  l'aristocrazia  di  fa- 
miglia, dopo  rislituzione  del  peculio  castrense,  almeno 
nell'esercizio,  se  non  nelle  vie  solenni  e  legislative  (1), 
crollò  rapidamente.  . 

Narra  Montesquieu  che  quel  trionfo  e  quella  corona 
murale  o  civica  scuotevano  tutte  le  fibre  dei  Romani,  e 
loro  davano  il  nemico  in  {schiavitù.  11  trionfo  era  infatti 
sapientemente  inteso  ad  avvivare  lo  spirito  d'emulazione 


(1  )  L'abrogazione  solenne  della  schiavitù  dei  6gli  fu  operata  da  quello  stesso 
benefico  potere  imperatorio,  che  più  avanti  vedremo  aver  mitigato  anche  il 
destino  degli  altri  schiavi,  e  che  si  rendeva  più  forte  collo  svellere  ogui  radice 
degli  antichi  sistemi  patrizii  ed  oppressivi.  Infatti  il  diritto  paterno  vilm  et  necis 
fu  limitato,  poi  abrogato  e  conferito  ai  magistrati  pubblici  dagli  imperatori 
Trajano,  Adriano,  Alessandro  Severo,  Costantino  il  Grande  e  Valentiniano 
{L.  uU.  D,  sia  parente  quis  manum  sit.  —  L.  V,  de  L.  Pompej.  de  parric.-^ 
L  13.  D.  de  re  milil.  —  L.  3.  C.  de  patria  poi,  —  L.  «.  I),  ad  L.  Corn.  de 
sicar.  —  L.  6.  C.  de  patr.  poi.  —  L.  un.  C.  de  his  qui  par.  vel  lib.  eco  ) 

Diocleziano  proibì  ai  padri  di  vendere  i  loro  figli,  qualunque  ne  fosse  la  causa 
(L.  \,  C.  de  patrio,  qui  fil»  suos  distrax.).  E  Costantino,  perché  non  s<'gui^* 
né  la  vendita,  né  Tesposizione  dei  figli  sanguinolenti,  prescrisse  cKe  ai  parenti 
poveri  si  dessero  alimenti  dairerario  (L.  1,  2.  C.  Theod,  de  alimenta,  L.  II. 
t.  XXVIi).  Gli  imperatori  si  opposero  alla  preterizione  dei  figli  nel  testamento 
paterno  :  vollero  che  i  figli  uou  si  potessero  diseredare  se  non  nominativa- 
mente: stabilirono  da  ultimo  le  sole  cause  di  valida  diseredazione  (Just.,  Nov. 
CXV). 


CAPITOLO  IV.  233 

e  d'onore,  ed  a  sublimare  le  mentì  romane  a  nobiltà  e 
grandezza.  Non  il  solo  capitano  saliva  al  Campidoglio  fra 
l'ammirazione  e  l'applauso,  ma  lo  saliva  con  esso  una 
eletta  dei  soldati  suoi,  che  s*erano  nelle  battaglie  mag- 
giormente distinti  (Livio,  lib.  XLII,  e.  34).  Leggi  e  co- 
stumi, tutto  spingeva,  tutto  animava  alla  guerra,  e  la 
romana  gioventù  era  coraggiosa  e  sagace,  come  lo  è  il 
selvaggio  scarnato  che  insegue  la  fiera,  sfuggendogli  la 
quale  egli  perirà  per  fame;  ma  né  la  corona  murale,  né 
la  civica  consta  che  fossero  accompagnate  da  quelle  retri- 
buzioni 0  materiali  vantaggi  da  cui  le  similari  distinzioni 
sogliono  esserlo  nelle  truppe  d'oggidì. 

11  trionfo  sarebbesi  potuto  imitare  da  altri,  e  forse  si 
imitò.  Ma  imitare  non  si  può  un  sistema  civile,  che 
emerge  dallo  stalo  originario  delle  forze  de'varii  ceti,  e 
che  la  sola  necessità  modifica  col  successivo  variarsi  delle 
forze  originarie  delle  classi  stesse.  Le  forme  di  Stato  non 
si  pensano,  ma  trovansi:  le  leggi  civili  sono  talvolta 
l'opera  d*un  solo  giurista  illuminato,  cui  affidasi  una 
proposta:  gli  statuti  fondamentali  del  gius  pubblico  po- 
sitivo lo  sono  dell'intiera  società  armata,  e  spesso  sono 
l'opera  mista  delle  forze  interne  e  delle  esterne.  La  le- 
gislazione civile  si  migliora  e  si  fa  pid  umana  col  pari- 
ficarsi delle  classi  e  coll'introdursi  della  eguaglianza  ci- 
vile: la  scienza  di  Stato  non  si  perfeziona,  non  si  innova: 
essa  è  sempre  la  stessa,  i  modi  d'esercizio  ne  sono  varii. 
Torte  e  la  sapienza  é  sempre  l'antica. 

Non  del  peculio  castrense,  ma  dell'alloro,  della  co- 
rona murale  e  del  trionfo  parlano  i  relori.  Tutti  però  ac- 
cennano la  sapienza  del  privilegio  dei  militari  testamenti, 
sircome  legge  politica  incitaliva  alla  milizia.  E  ci  duole 
che  a  questa  sentenza  abbiano  sottoscrilto  anche  grandi 
giuristi,  come  il  Toniniasio  e  l'Einecio.  Ma  la  logge  che 


234  PARTE  SECONDA 

privilegiava  i  testameDli  militari  era  legge  di  civile  giu- 
stizia e  non  di  politica  convenienza.  Si  privilegiava  il 
testamento  militare  come  si  privilegiava  quello  fatto  du- 
rante una  navigazione,  durante  una  pestilenza,  qualun- 
que testamento  cioè,  che  sì  facesse  in  circostanze  nello 
quali  fosse  malagevole  di  soddisfare  alle  esigenze  ordi- 
narie della  legge  testamentaria,  che  nella  giurisprudenza 
romana  erano  molte  e  rigorose,  ed  essendo  state  conser- 
vate in  quasi  tutti  i  codici  moderni  fuorché  nell'austriaco, 
ebbero  pure  nei  codici  moderni  la  necessaria  sequela  di 
eccezioni  e  privila .  Ma  in  questi  codici,  nel  francese 
p.  es.,  nel  sardo,  ed  in  quello  delle  Due  Sicilie,  ema- 
nati per  Stati  paciGci,  in  epoche  paciGche,  non  si  avreb- 
bero almeno  a  trovare  certe  massime  romane,  che  per- 
fino nel  gius  di  Roma  sembrano  troppe,  ed  inefficaci  allo 
scopo  militare  per  cui  si  scrissero.  Così  troviamo  in  tutli 
quei  codici,  non  però  nelVaustriaco ,  copiate  le  prescri- 
zioni romane  che  non  si  dia  azione  di  pagamento  p^ì 
giuochi,  ma  si  accordi  per  quelli  che  tendono  a  rendere 
l'uomo  più  atto  alla  guerra,  che  il  padre  non  possa  ri- 
chiamare il  figlio  minorenne  che  abbandoni  la  casa  pa- 
terna per  entrare  in  servizio  militare,  che  i  figli  morii 
combattendo  si  abbiano  a  computare  vivi  per  eflelto  di 
scusa  volontaria  dalle  tutele,  ecc.,  le  quali  massimo 
hanno  nessuna  influenza  allo  scopo  militare,  e  sono  de- 
viazioni dai  principii  della  sana  giurisprudenza.  Egual- 
mente, ed  ancor  più  disapproviamo  in  tutti  quei  codici 
civili,  ed  anche  nel  codice. italiano  recentemente  adottato, 
che  si  siano  conservate  non  tutte,  ma  molte  delle  mas- 
sime sui  peculii  sancite  in  Roma  :  il  codice  civile  au- 
striaco è  il  solo  che  le  abbia  totalmente  abbandonate , 
né  convertito  in  ufficio  mercenario  il  diritto  di  patria  po- 
destà, che  meglio  vogliamo  chiamare  dovere  di  patria 


CAPITOLO  IV.  235 

carità.  Le  condizioni  della  politica  si  sono  variate  affatto: 
non  è  più  necessario,  né  utile  che  quelle  massime  ro* 
mane  siano  radicate  in  famiglia.  Quel  codice  straniero  lo 
ha  bene  compreso,  e  le  rifiutò  :  perchè  non  lo  abbiamo 
imitato?  Ma  ritorniamo  ai  Romani. 

Di  nessun  eccitamento  alla  milizia  poteva  essere  il  pri- 
vilegio di  testare  per  chi  non  aveva  proprietà.  Inoltre 
nessuno  vien  mosso  ad  esporre  la  vita  in  guerra  pel 
semplice  vantaggio,  che  egli  avrà  diritto  di  scrivere  nel- 
Tdreqa  il  nome  dell'erede  colla  punta  della  spada,  vel 
ìitteris  sanguine  mtilantibu$  in  vagina  (lib.  I,  5,  e.  de 
test,  milit.),  senz'essere  vincolato  a  quel  numero  di  te- 
stimonii  ed  a  quelle  formalità,  che  sono  prescritte  per 
chi  voglia  testare  nelle  domestiche  pareti  all'appropin- 
quarsi del  fine  naturale  della  vita.  Pure  nelle  scuole  si 
adduce  per  fondamento  di  questo  militare  privilegio 
l'utilità  di  eccitare  alla  milizia.  Ma  la  ragione  della 
legge  era  diversa:  si  semplificava  il  testamento  nella 
guerra  per  rendere  possibile  anche  al  soldato  in  qua- 
lunque condizione  si  trovi  di  poter  disporre  delle  cose 
sue.  Il  considerare  siccome  di  origine  politica  il  privile- 
gio del  testamento  militare,  che  mai  non  indurrebbe  per- 
sona ad  esporre  la  vita  in  guerra,  si  è  come  il  far  dipen- 
dere rincremento  di  popolazioYie  (e  vi  fu  chi  il  pensò,  e 
lo  scrisse  I)  dalla  legge  che  accordi  l'esenzione  di  qual- 
che onere  al  padre  di  dodici  figli  (1). 


(1)  A  qoesfoggetto  i  Romani  emanarono  molte  éispomioni,  v^rìe  delle  quali 
di  non  dabbia  eÀicacia.  I  Censori  esigevano  ana  Cassa  dai  celibi  d*età  matura, 
fBs  uxorium  (Plutarco  nella  vita  di  Camillo,  e  Valerio  Massimo,  li,  9,  1). 
Airepoca  di  Qainlo  Cecilio  Metello  fu  ingiunto  espressamente  ai  celibi  di  ma- 
ritarsi. Perla  legge  Papia  Poppea,  che  fu  in  vigore  sino  a  Costantino  il  Grande, 
i  celibi  non  potevano  venir  istituiti  eredi  (Dione  Cassio,  LiV.  Cod.  Theod,  de 
poma  c(elib.,  ///).  Fra  i  candidati  si  preferiva  chi  avesse  molti  fl(;1i(TAGiT.,XV, 
19.  PuN.,  EpUt,  VII,  16).  Ledonne  ingenue,  che  avessero  tre  figli,  e  le  liberiet 


!236  TARTE  SECO?;  Di 

Ogni  precauzione  che  fosse  di  lutala  alla  libertà  popo- 
lare sembrava  ai  patrizii  diminuzione  di  loro  potenza: 
quidquid  Uhertali  plebis  caveretnr,  id  snis  decedere 
opibus  credebant.  Ma  quando  il  pericolo  dall'estero  al- 
lentava i  nodi  dell'ordine  pubblico  neirinlerno,  la  plebe 
imbaldanzita  chiedeva  diritti  a  chi  aveva  maggiori  diritti 
da  perdere»  ed  era  forza  accordare  se  il  nemico  esterno 
doveva  ritrovare  una  valida  reazione.  Piuttosto  che  leggi 
isolate  e  scevre  di  garanzia,  la  plebe  romana  doman- 
dava leggi  di  ordine  pubblico,  cui  il  diritto  civile  si 
subordina  ;  voleva  cioè  leggi  alterative  della  politica  co- 
stituzione. Onde  resisterey  come  dice  Appiano,  alla  forza 
ed  autorità  senatoria,  la  plebe  in  un  momento  di  gra- 
vissima crisi  domandò  ed  ottenne  (anno  291)  il  tribunato, 
ossia  il  diritto  di  iniziativa  e  di  veto  (1).  Pel  diritto  di 
iniziativa  la  plebe  avendo  un  magistrato  proprio,  po- 
teva proj)orre  le  leggi  che  utili  le  sembravano,  mentre  per 
lo  innanzi  la  partecipazione  della  plebe  al  governo,  non- 


ché ne  avessero  quattro,  scioglievansi  dalla  (uleln  perpetua,  ed  ì  liberti  per  la 
niolliludiiie  dei  figli  si  esimevano  da  varii  servigi  (I.  37.  D.  de  oper.  liberi. 
Dione,  LVl;  Ulp.,  framm.  XXIX). 

Fino  airepoca  ili  Valentiniano  il  Giovane ,  la  poligamia  non  fu  mai  né  adot- 
tata, nò  regolarmente  proposta  in  Roma.  Si  ebbe  però  qualche  esempio  di  non 
punita  bigamia.  Ma  Valentiniano  avendo  sposato  due  donne ,  dichiarò  che  a 
chiunque  era  lecito  di  far  lo  stesso;  il  costume  però  non  s'introdusse. 

Il  divorzio ,  la  cui  ammissione  o  ripulsa  è  la  sola,  od  almeno  la  principalissiuia 
questione  che  meriti  seria  attenzione  nelfargomento  matrimoniale  in  cui  si  sol- 
levano per  argomenti  di  minor  conto  discussioni  senza  fine ,  era  lecito  w 
Roma  :  esso  trovava  però  non  pochi  ostacoli  nelle  norme  del  regime  dotalizio 
e  delle  provvidenze  pei  fìgli ,  come  li  incontra  oggidì  in  quegli  Stati  che  lo 
consentono  a  tutti,  od  almeno  ai  seguaci  di  fede  diversa  dalla  cattolica,  per  cui 
sempre  ed  in  ogni  luogo  si  rende  di  rara  applicazione  quella  totale  cessazione 
del  vincolo  conjugale  che  altrimenti  sarebbe  molto  frequente. 

(1)  I  tribuni  si  nominavano  non  nei  comizii  centuriali,  in  cui  tanto  prevaleva 
rinQuenza  dei  ricchi  e  patrizii,  ma  (da  principio)  nelle  adunanze  curiali,  dovei 
ricchi  e  i  poveri  avevano  un  voto  equipollente,  e  poscia  nelle  tribù,  dalle  quali 
i  patrizii  erano  esclusi. 

Le  persone  dei  tribuni  erano  sacre  ;  il  violarle  era  delitto  di  morte. 


CAPITOLO   IT.  237 

che  tenuissima  pel  sistema  centuriale,  era  a  dirsi  vera- 
mente nulla,  giacché  la  plebe  non  poteva  se  non  rispoìi'^ 
deve  al  magistrato  patrizio,  il  quale  proponeva,  siccome 
è  manifesto,  una  legge  patrizia.  Pel  diri  Ilo  di  veto  la 
plebe  fu  a  parte,  quantunque  in  modo  indiretto,  del  j9o- 
tere  esecutivo:  per  entrambi  i  diritti  di  iniziativa  e  di 
teto  la  plebe  propose  di  formare  il  codice  del  potere  ese- 
cutivo, e  non  ottenendolo,  vincolò  in  modi  rivoltosi  ad 
un  tempo  e  giuridici  lo  stesso  potere  esecutivo. 

La  plebe  ottenne  l'esercizio  attivo  dell'autorità  giudi- 
ziaria  mediante  l'ammissione  anche  dei  plebei  alla  di- 
gnità pretoria.  Ottenne  la  partecipazione  alla  politica 
amministrazione  dello  Stalo  mediante  l'ammissione  alla 
dignità  edilizia,  alla  censoria,  alla  consolare,  e  perGno 
alla  dittatoria  (anno  389*404).  E  quando  le  dignità  d'au- 
gure e  di  pontefice  furono  accessibili  agli  stessi  oriundi 
plebei  (1],  non  fu  più  possibile  al  patriziato  di  valersi  in  via 
ordinaria  della  superstizione  a  scopo  dì  politica  utilità. 
Riformato  cosi  il  diritto  pubblico  nazionale,  il  diritto  ci- 
vile privato,  come  necessaria  conseguenza,  andò  facil- 
mente alterandosi.  Scomparvero  gradatamente  la  quasi 
servitù  della  plebe  ed  il  quasi  impero  dei  patrizii:  scom- 
parvero la  schiavila  dei  figli  e  Vitupero  dei  padri,  ossia 
scomparvero  Yaristocraziapolitica  e  la  domestica.  Egua- 
glialo in  diritto  il  popolo  ai  patrizii,  collo  scorrere  del 
lemp  >  e  colla  potente  influenza  delle  leggi  civili  o  politi- 
che, che  dir  si  vogliano,  permettenti  i  connubii  fra  plebei 
e  patrizii,  e  determinanti  l'ordine  di  successione  ;  decli- 
nalo il  principio  del  gius  slretfamenle  gentilizio  dei  pa- 
Irìmonii;  sanciti  i  diritti  di  successione  legittima  ecc.,  fu 
la  plebe  finalmente  eguagliata  ai  patrizii  anche  di  fatto. 

(\)  II  primo  pontefice  plebeo  fu  Coruncano. 


338  Pl&TE  SECONDI 

Tali  erano  le  conseguenze  democratiche  dei  plebiscili 
coi  quali  per  Topera  di  Quinto  Publio  Filo,  dittatore 
popolare  (anno  416),  fu  dichiarato  che  lo  statuto  del  po- 
polo (che  oramai  aveva  esso  pure  Viniziativa)  avrebbe 
forza  di  diritto  su  tutti  i  Romani  indistintamente,  ed 
opererebbe  quindi  anche  a  riguardo  dei  patrizii,  non  al- 
trimenti che  prima  operava  su  tutti  i  cittadini  la  sola 
legge,  statuita  dal  Senato,  da  esso  col  mezzo  de*magistrati 
patrizii  proposta  alla  plebe,  e  dalla  plebe  approvata. 

Cosi  cadeva  Tautorità  patrizia,  già  indebolita  dai  con- 
soli popolari  Valerio  ed  Orazio  (anno  506],  sotto  i  quali 
fu  abrogala  la  legge  decemvirale  (patrizia),  che  impediva 
di  provocare  al  popolo  dalla  decisione  dei  magistrati  pa- 
trizi!. 

Coi  plebisciti  incomincia  la  democrazia  potenziale; 
quella  democrazia,  di  cui  le  guerre  contro  Pirro  e  le  pu- 
niche ritardarono,  ma  non  impedirono  le  conseguenze 
rovinose  ai  patrizii;  quella  democrazia  di  Atene,  da  cui 
i  Romani  favoleggiarono  derivate  le  Dodici  Tavole,  che 
stabilivano  perfino  la  legge  aristocratica  impediente  i 
connubii  misti. 

Dalla  democrazia  fu  poi  facile  il  trapasso  alla  monar- 
chia, poiché  ottenuta  la  civile  eguaglianza,  altro  non  re- 
sta a  domandare  se  non  la  protezione  civile,  che  può  spe- 
rarsi costante  ed  imparziale  da  colui  che  non  spettando 
a  parte  alcuna,  non  ritrae  vero  vantaggio  dalla  violenza, 
ed  almeno  nei  rapporti  dell'esercizio  del  potere  non  può 
avere  altra  passione  se  non  la  forza,  la  gloria  e  la  quiete 
dello  Stato. 

Il  tribunato  salvò  Roma  dagli  stranieri  pericoli,  e  diede 
qualche  misura  al  movimento  d'interna  riforma  e  pro- 
gresso: senza  il  tribunato  anche  le  assemblee  popolari 
di  Roma  avrebbero,  come  fecero  molt'altre  in  tempo  an- 


CAPITOLO  lY.  239 

tico  e  recente,  ucciso  la  nascente  libertà  colla  confusione 
delle  idee,  il  precipizio  e  l'eccesso  dei  voleri  e  l'idolatria 
dei  demagoghi.  Le  assemblee  popolari  infatti  sono  come 
gli  eserciti  :  hanno  bisogno  di  capi  che  le  guidino  ;  ma 
gli  eserciti  ricevono  i  capi  che  loro  si  danno,  e  le  assem- 
blee li  creano  n^i  tumulti,  e  ad  ogni  istante  li  variano, 
.  né  essi  hanno  giammai  legale  autorità  o  defluita  compe* 
tenza.  Fondato  però  il  tribunato  in  Roma,  se  vi  fu  per* 
petua  agitazione  nelle  masse,  >i  fu  regolarità  nel  moto 
e  nel  progresso  :  non  vi  furono  leghe  con  esteri  nemici, 
0  rivoluzioni,  che  distruggessero  l'opera  di  molti  secoli 
in  un  punto.  Il  tribuno  nella  politica  estera,  immaginosa 
e  veramente  nazionale,  comprendeva  le  mire  del  Senato, 
e  persuadeva  facilmente  alla  guerra  la  plebe  renitente  a 
sacrificarsi  (1).  Il  popolo  poi  veniva  facilmente  indotto 
dal  suo  proprio  magistrato  a  quelle  deliberazioni,  delle 
quali  non  conosceva  né  i  motivi,  né  l'utilità,  avendo  il 
giorno  innanzi  veduto  il  tribuno  difenderlo  fieramente 
contro  il  Senato  per  l'acquisto  di  un  diritto,  di  cui  la 
stessa  plebe  ben  conosceva  l'importanza. 

Quando  il  Senato  identificava  al  romano  il  sistema  re- 
ligioso dei  popoli  vinti  coU'ascrivere  i  loro  Dei  al  novero 
degli  Dei  di  Roma,  e  quando  il  Senato,  quattrocento  anni 
dopo  la  morte  di  Numa,  faceva  abbruciare  i  libri  sacri 
di  questo  re  (vedi  Livio,  1.  XL,  e.  29),  perchè  il  pretore 
Petilio  vi  scopriva  prescrizioni  e  riti  non  corrispondenti 


(1)  Furono  realmente  i  Romani  un  popolo  guerriero,  ma  non  dobbiamo  cre- 
dere eoi  retori  che  ogni  Romano  anelasse  a  battaglia  come  fanciulla  a  danza. 
Anche  nella  storia  romana  è  fatta  ad  ogni  istante  menzione  dei  renitenti  alla 
leva  :  troviamo  perfino  esempii  di  taluno  che  troncavasi  le  falangi  delle  dita  per 
inabilitarsi  a  servire  :  si  parla  le  moltissime  volte  di  disertori ,  ecc.  Tutte  la 
islituxioni  romane  erano  guerriere,  e  lo  spirito  militare  era  largamente  dilAiso, 
e  con  ogni  arte  nutrito  ;  ma  anche  i  Romani  avevano  la  nostra  natura,  ed  av- 
venita  in  Roma  ciò  che  segue  oggidì. 


240  PARTE  8EC0!fDA 

alle  pratiche  e  ai  sistemi  in  uso,  il  tribuno  taceva. 
Quando  Paolo  Emilio  console  in  una  occasione  impor- 
tante non  trovando  nelle  viscere  dell'immolata  vittima 
indizio  d'augurio  favorevole,  ne  apriva  successiva- 
mente venti ,  e  da  ultimo  mostrava  gli  auspicii  lieti , 
il  tribuno  li  festeggiava.  Quando  il  Senato,  dopo  la  gior- 
nata di  Canne,  rifìutavasi  al  riscatto  dei  Romani  prigio-. 
nieri,  ma  nelVurgentissimo  bisogno  di  subitamente  rin- 
novare le  mietute  legioni  non  esitava  ad  armare  otto  mila 
schiavi  ;  quando  si  decollavano  a  centinaja  sul  fòro  romano 
i  legionarii  che  avevano  tumultuato  a  Reggio,  e  non  sem- 
brava che  fosse  per  quel  delitto  espiazione  bastevole  la 
norma,  già  tanto  orribile,  della  decimazione,  il  tribuno 
silenzioso  osservava.  Quando  Curio  console,  senza  for- 
malità di  giudizio,  sottoponeva  all'asta  i  beni  di  un  cit- 
tadino romano,  e  vendeva  schiavo  il  cittadino,  perch(> 
renitente  a  marciare  contro  di  Pirro,  eccedeva  di  molto  il 
limite  delle  facoltà  sue  proprie,  ed  anche  quello  delle 
autorità  senatorie,  ma  i  tribuni  in  tal  caso  negavano  di 
proteggere  il  cittadino,  ed  approvavano  col  silenzio  l'ope- 
rato del  console.  Se  il  Senato  con  artifizii  tristi  si  assi- 
curava della  persona  di  Giugurta,  onde  farlo  morir  di 
fame  in  una  prigione  ;  se  il  Senato  perseguitava  il  vinto 
Annibale  minacciando  chiunque  gli  dasse  ospizio,  e  lo 
costringeva  al  suicidio  ;  se  infrangeva  il  trattato  conchiuso 
coi  Sanniti  che  avevano  risparmiato  dalla  strage  l'esercito 
di  Postumio,  e  violava  un'altra  convenzione  solenne  sti- 
pulata coi  Numantini,  che  donavano  libera  ritirata  ai  venti 
mila  soldati  del  console  Mancino  accerchiati  da  essi  ;  se 
un  Aquilio  nella  guerra  di  Pergamo  avvelenava  le  acque 
per  costringere  alla  resa  certe  città  (Floro,  1.  II,  e.  20); 
se  inviavasi  Catone  a  spogliar  del  regno  e  dei  tesori  To- 
lomeo di  Cipro,  e  l'intiera  Roma  esultante  andava  incon- 


CAPITOLO  IT.  241 

Irò  a  Catone  avida  di  subito  contemplare  rìtnmensa  ra- 
pina (Vellejo  Pàtercolo,  1.  II,  e.  43);  se  i  Romani  di- 
voravano i  re  fino  alle  ossa,  come  dice  Giovenale  nella 
satira  Vili,  ossavidesregum  vacuh  exhausta  medullis; 
se  la  ricca  Corinto  ante  opprimebatur,  quam  in  nvmero 
certorum  hostium  referreretur  (Floro,  1.  II,  e.  16)  ecc., 
vi  era  in  tutta  Roma  chi  declamasse  nel  Senato  o  nel 
fòro  contro  lo  spergiuro,  la  frode,  la  violenza? 

II  comando  però  delle  armate  non  veniva  conferito  ai 
tribuni,  perchè,  recandosi  in  mano  la  forza  delle  legioni, 
questi  difensori  del  popolo  avrebbero  potuto  produrre 
una  innovazione  violenta  nello  Stato. 

Senza  istituzione  della  dittatura  tahto  contrasto  e  tanta 
opposizione  avrebbero  rovinalo  la  repubblica,  perchè  non 
sempre  i  tribuni  nel  calore  delle  controversie  si  accor- 
darono col  Senato  onde  rimovere  il  comune  pericolo.  La 
dittatura  approvata  da  tutti  nel  momento  del  pericolo, 
era  un  temporaneo  juristizio,  pel  quale  aggiornandosi 
le  interne  controversie,  l'intera  repubblica  combatteva  i 
nemici  esterni.  L'autorità  dittatoria,  immensa  sopra  coloro 
che  persistessero  nelVeccitare  turbolenze,  era  però  nulla 
anch'essa  nel  sistema  dello  Stato.  Di  brevissima  durata 
si  era  la  carica;  il  Senato  ed  il  popolo  erano  entrambi 
gelosi  del  dittatore:  la  forza  dell'armata,  grandissima 
contro  Testerò,  era  nulla  neirinterno,  perchè  l'esercito 
constava  di  cittadini,  i  quali  conservavano  i  privati  inte- 
ressi, ed  erano  rispettivamente  discordi. 

L'uomo  ritiene  e  signoreggia  fino  che  ha  integrità  di 
potenza:  concede  e  dona  alcuna  cosa  per  fiaccar  l'impeto  e 
disunire  i  nemici,  quando  il  negar  tutto  non  sarebbesenza 
pericolo  di  tutto  ;  rinuncia  al  possesso  per  atto  generale, 
solenne  e  perpetuo  allorché  sarebbe  follia  il  tentare  re- 
sistenza. Queste  semplici  verità  non  possono  preterirsi, 

46 


242  PiBTE  ^SECONDA 

quando  si  tenta  di  sciogliere  quell'enigma  deirorigine  del 
gius  pretorio.  Il  pretore  pronunciava  spesso  per  Tequila 
anche  contro  la  legge  ;  il  popolo  non  aveva  ancora  rove- 
sciato rintero  sistema  aristocratico,  e  già  fruiva  di  bene- 
fici giudicati,  senza  che  ancora  godesse  di  vere  leggi 
eque  :  i  patrizii  se  lo  comportavano.  I  candidati  alla  di- 
gnità pretoria  significavano  al  popolo  quali  sarebb^^ro 
state  le  loro  massime  nelVamministrare la  giustizia:  que- 
st'era la  pubblica  professione  di  fede,  che  gli  elettori  esi- 
gevano dai  candidati,  come  la  prestano  chiesta,  ma  più 
sovente  spontanea  la  offrono  gli  attuali  candidati  al  Par- 
lamento italiano,  che  per  avere  dagli  elettori  i  sufl^ragi, 
dissetano  gli  elettori  di  loro  sapienza,  li  inebbriano  di 
loro  fragranza,  e  li  addottrinano  de'loro  propositi  di  tron- 
care in  radice  qualunque  disordine,  e  di  guidare  pel  più 
corto  cammino  a  compimento  la  patria  belligera.  I  pre- 
tori eseguivano  la  promessa  deviazione,  o  meglio  la  pro- 
messa violazione  della  legge  odiosa  al  popolo  con  quelle 
formole  artificiose,  e  con  quei  legali  rimedii  di  nuove 
azioni,  di  eccezioni,  di  cauzioni,  dì  possessione  dei  beni, 
di  interdetti  e  di  restituzioni  in  intero,  onde  tutto  ri- 
sulta il  gius  pretorio  a  noi  pervenuto. 

Ciò  che  ne'  tempi  addietro  i  pretori  avevano  statuito 
perequila,  i  pretori  nuovi,  per  l'incremento  sempre  pro- 
gressivo della  popolare  potenza,  per  le  promesse  fatte 
nuovamente  nella  loro  candidatura,  per  questo  quasi 
patto  conchiuso  fra  il  popolo  ed  il  giudice,  riconoscevano 
come  norma  indeclinabile  :  aggiungevano  poi  nuove  mas- 
sime di  equalità.  Nondimeno  il  potere  legislativo  non  ri- 
siedeva nei  pretori  :  dunque  non  era  in  essi  nemmeno  la 
facoltà  di  deviare  dalla  legge,  nonché  il  diritto  di  pro- 
nunciare contro  la  medesima. 

Il  gius  pretorio  ottenne  poi  maggiore  validità  quando 


CAPITOLO  lY.  243 

gli  slessi  plebei  furono  sollevati  alla  pretura,  ed  i  plebi- 
sciti ordinarono  che  quei  patti  speciali  fossero  vere 
leggi  nella  romana  repubblica. 

La  democrazia  pariQcativa  del  voto  di  tutti  i  padri  di 
famiglia  non  ebbe  mai  esistenza  in  Roma,  e  l'assoluta 
democrazia  che  pariGcherebbe  il  voto  di  tutti  i  cittadini 
maggiorenni,  non  sembra  che  di  fatto  possa  armonizzare 
col  diritto  di  proprietà,  giacché  la  maggioranza  dei  voti 
si  troverebbe  sempre  in  mano  di  coloro  che  non  hanno 
possesso,  e  che  aspirano  ad  ottenerlo. 


PARTE  TERZA 


LE  GUERRE  DELLA  RIFORMA  INTERNA  DI  ROMA. 


CAPITOLO  L 
I  Gracchi:  Mario  e  Siila. 

L'uragano  era  addensato,  ed  alfine  infuriò  :  vennero  le 
orride  prove  delle  lotte  gagliarde,  sanguinose  nel  fóro,  e 
delle  guerre  civili.  A  queste  spaventevoli  scene  si  colle- 
gano d'ora  in  poi  tutti  gli  avvenimenti  d'Italia,  di  Grecia, 
d'Africa  e  d'Asia.  Tiberio  e  Cajo  Gracco  ne  furono  i  primi 
attori.  Non  erano  demagoghi  per  favore  di  plebi  di  re- 
pente avanzati  da  palesi  brutture,  o  già  occulti  nell'om- 
bre, come  negli  Stati  mal  temperati  a  governo  ne  sor- 
gono spesso,  e  si  creano  giganti  a  piedi  di  creta.  In 
Roma  la  vita  era  pubblica,  e  troppo  noto  ciascuno  entro 
la  cerchia  della  sua  città ,  perchè  di  fama  menzognera 
con  temerario  contendere  potessero  in  un  subito  gran- 
deggiare inette  persone,  ed  involare  furtive  o  rapinare 
a  forza  i  voti  sorpresi  alla  fantasia  del  popolo.  I  Gracchi 
erano  chiari  per  avi,  e  più  per  ingegno  :  Tiberio,  il  mag- 
giore fratello,  era  confortato  dalla  stima  dei  soldati  va- 
lenti: era  salito  il  primo  sulle  mura  di  Cartagine,  ed 
aveva  provato  l'illibatezza  e  la  fede  davanti  a  Numanzia 
essendo  questore  d'esercito.  Cajo,  il  minore  dei  due, 
aveva  pensieri  canuti  anche  da  giovane:  pur  esso  intre- 
pido aveva  veduto  in  viso  il  nemico,  e  con  studio  d'onestà 
amministralo  il  tesoro  di  guerra:  era  chiaro  per  sapere* 
ed  aveva  concitata  eloquenza  non  d'acuti  sillogismi  e  di 


248  PARTE  TERZA 

dialettiche  vanità,  ma  di  reali  interessi  ;  fu  egli  che  diede 
il  primo  esempio  di  grandi  costruzioni  stradali,  che  fu- 
rono gloria  e  stromento  di  romana  potenza.  Entrambi 
scesero  dunque  noti  nel  fóro,  e  più  acclamati  dal  popolo 
perchè  preziosa  conquista  sul  ceto  patrizio. 

Per  antica  legge  nessuno  doveva  possedere  più  di  500 
jugeri  di  terreno:  quella  legge  non  erasi  osservata  :  com- 
pere, successioni,  contratti  dotalizi!,  ogni  specie  di  sti- 
pulazioni civili  avevano  disposto  delle  terre,  senza  ri- 
guardo a  misura,  come  di  libere  proprietà.  Ora  Tiberio 
Gracco  richiamava  la  legge  :  chiunque  più  di  500  jugeri 
avesse,  ne  subisse  il  riparto  ai  poveri,  e  lo  subisse 
senza  compenso:  quod  ab  initio  invalidum  estj  tractu 
temporis  convalescere  nequit:  era  vizioso  ogni  posses- 
so, ogni  contratto  eccedente  i  500  jugeri  :  la  legge  d'an- 
tico divieto  esisteva,  ma  v'era  stata  altresì  la  tolleranza 
secolare  del  maggiore  possesso  ottenuto  ry^c  vi,  nec 
clam,  nec  prcBcario.  Della  ricca  eredità  d'Attalo  re  di 
Pergamo ,  voleva  Tiberio  che  l'argento  non  si  versasse 
all'erario,  ma  donasse  al  popolo,  e  dello  Stato  disponesse 
il  popolo,  non  il  Senato  :  voleva  poi  che  granaglie  si  lar- 
gissero al  popolo,  e  colonie  romane  si  traducessero  in 
ricche  provincie,  e  specialmente  a  Cartagine.  Nasceva  il 
contrasto:  anche  un  tribuno  stava  pei  palrizii  :  Tiberio 
non  potendogli  togliere  il  veto,  otteneva  che  il  popolo  gli 
togliesse  la  carica:  tutta  l'amministrazione  fosse  sospesa 
fino  alla  votazione  della  legge  :  chiudevasi  infatti  il  tempio 
di  Saturno,  ossia  il  pubblico  tesoro  ;  sospendevansi  per 
generale  interdetto  tutti  i  magistrali.  Imbaldanzivano  pel 
successo  i  riformatori  :  chiedevano  modificazioni  profonde 
nei  sistemi  di  votazione  nel  fòro,  nella  durata  delVau- 
tòrità  tribunizia,  nell'ampiezza  del  corpo  deliberante: 
proponevano  si  dessero  i  diritti  politici  agli  alleati,  cioè 


CAPITOLO    I.  249 

cessasse  il  municipio,  e  si  formasse  lo  Stato  ;  si  dessero 
anzi  quei  diritti  a  tutti  quaoti  gli  abitatori  al  di  qua  delle 
Alpi  (Vell.  Pàterc,  n,  6),  ossia  si  estendesse  l'Italia  poli- 
tica oltre  il  Rubicone,  TArno  o  la  Macra,  e  si  portasse  ai 
confini  naturali,  a  quelli  dell'Italia  d'oggidì  che  vediamo 
ed  amiamo,  ed  ha  un  sol  popolo,  mentre  l'Italia  dei 
Gracchi  varii  ne  aveva,  e  tuttora  di  lingue  e  di  costumi 
discordi  ;  Roma  si  facesse  Italia,  e  fosse  madre  per  tutti, 
e  non  matrigna  ad  alcuni  ;  si  realizzasse  pel  bene  d'Italia 
ridea  già  lanciata  da  Annibale  in  Capua  come  tizzone  di 
discordia  italiana  e  d'esautorazione  di  Roma  ;  si  preve- 
nisse, cedendo,  quella  guerra  sociale,  di  cui  i  Gracchi  fu- 
rono per  così  dire  i  profeti ,  ed  anche  gli  inconsapevoli 
istigatori. 

Allarmossi  il  Senato  :  credette  spegnere  il  moto  spe- 
gnendo coloro  che  portavano  l'audace  bandiera.  Uccise 
Tiberio  Gracco  colle  sole  spade  patrizie,  e  quando  ri- 
sorse con  Cajo  più  violento  il  moto  dapprima  compresso, 
introdusse  in  Roma  truppe  straniere  (coorti  cretesi),  ed 
uccise  anche  Cajo,  ed  una  turba  degli  aderenti  suoi.  En- 
trambi i  Gracchi',  e  specialmente  Tiberio,  erano  senza 
dubbio  usciti  dai  limiti  della  legalità,  ma  più  n'uscirono 
i  patrizii,  R  la  sola  rabbia  di  partito  dettava  a  Cicerone, 
nell'orazione  prò  Milone,  dicendo  dei  Gracchi,  le  parole 
ifuorum  interfectores  implerunt  orbem  terrarum  sui  no- 
minis  gloria. 

I  Gracchi  erano  periti,  ma  lasciavano  idee  e  passioni 
che  profondamente  fermentavano,  né  i  patrizii  sapevano 
moderare,  correggere  ed  osteggiare  le  ire  loro  proprie,  e 
meno  poi  quei  temperamenti  concedere  che  rallentano  i 
moti  civili,  fondando  non  i  perpetui,  che  impossibile  è, 
ma  i  durevoli  imperi.  L'agitazione  non  era  stata  creata, 
ma  propagata  largamente  dai  Gracchi  :  la  loro  morte  non 


250  PARTE  TERZA 

ebbe  dunque  calmati,  ma  irritali  gli  sdegni.  Si  campeg- 
giò dapprima,  si  scaramucciò  sul  terreno  legale:  i  popo- 
lani resi  più  destri  vollero  tentare,  numerarsi,  avere  il 
vantaggio  sempre  desiderabile  delle  forme,  della  legalità, 
non  l'odiosità  delFassalto  :  quindi  continue  proposte  di 
leggi  per  distribuzioni  di  terreni,  di  grani  al  popolo,  per 
togliere  Tautorità  dei  giudizi!  all'ostile  Senato,  e  porla 
nelle  mani  ai  cavalieri,  ossia  a  ceto  meglio  neutrale,  per 
dare  appello  d'ogni  decreto  al  popolo,  per  escludere  il 
precoce  arrivo  dei  patrizii  alle  dignità  di  governo,  per  as- 
sicurare alle  romane  colonie  l'esercizio  dei  diritti  poli- 
tici ecc.  L'eflervescenza  passò  dalla  legalità  al  tumulto, 
all'aperta  violenza,  alla  guerra,  e  quando  Mario  si  fece 
a  capitanare  il  popolo,  ne  sorse  l'una  delle  più  terribili 
lolle  cbe  per  battaglie  e  supplizii  abbiano  insanguinalo 
la  terra.  Popolano  egli  stesso,  mediocre  d'ingegno,  scarso 
di  coltura,  ma  vibrato,  incisivo  di  parola,  intrepido,  in- 
defesso, ferreo  di  corpo  e  di  spirito,  Mario  è  l'uno  dei 
più  grandi  caratteri  di  tutte  le  storie.  Trionfatore  di  Giù- 
gurta,  dei  Cimbri,  dei  Teutoni  (1),  cinque  volte  console, 

(1)  Mentre  della  guerra  giugurtina  abbiamo  in  Sallustio  uno  storico  eccel- 
lente, le  campagne  di  Mario  contro  i  Cimbri  ed  i  Teutoni  ci  sono  assai  imper- 
fettamente narrate.  Livio  ci  manca,  e  dobbiamo  seguire  specialmente  Plutarco, 
che  scrisse  in  epoca  troppo  lontana  dai  fatti,  e  cade  sovente  in  esagerazioni  e 
stranezze.  Quei  Teutoni  si  numerosi  che  per  sei  giorni  intieri  sfilavano  in 
densa  colonna  davanti  a  Mario,  che  non  si  mosse  nemmeno  per  prendere  l'ul- 
timo storpio  passante ,  quei  cento  mila  uccisi  ed  altrettanti  prigioni  ad  Aix , 
quei  Cimbri  d'altro  lato  discesi  in  Italia  a  già  prefìssa  riunione  coi  Teutoni  che 
nulla  affatto  sapevano  del  massacro  seguito  da  qualche  anno  di  quei  loro  com- 
pagni di  guerra,  si  che  ebbero  ad  esserne  informati  da  Mario,  quella  loro  gene- 
rale risoluzione  d'appiccarsi  allorché  furono  rotti  a  Vercelli,  e  piò  ancora  quella 
mancanza  d'alberi  in  quantità  sufficiente  ad  appendersi,  e  Tingegnoso  loro  trovalo 
di  porsi  il  laccio  al  collo  e  d  attaccarlo  alle  corna  de'  buoi ,  e  d'usar  quindi  il 
pungolo  perchè  il  bue  lo  stringesse  muovendosi  ecc.,  son  gemme  delle  qunli 
la  relazione  di  Plutarco  è  tutta  brillante.  Ma  queste  gemme  per  DuUer  non  ba- 
stano, e  nella  sua  ^^oria  del  popolo  tedesco,  che  pur  taluno  volle  equiparare 
aireccellente  Storia  (Tltaiia  di  Balbo ,  aggiunge  che  i  cani  dei  Cimbri ,  fedeli 
ai  padroni,  difesero  ancora  lungamenU  le  serrnglie  dei  carri,  E  pochi  periodi 


CAPITOLO  I.  251 

Mario  si  pose  alla  testa  del  popolo  :  volle  pure  essere  a 
capo  di  lutti  gli  eserciti,  e  se  riusciva  era  re  nel  mezzo 
del  fòro,  e  nel  mezzo  del  campo.  Chiese  infatti  il  comando 
delle  truppe  pronte  a  marciare  contro  Mitridate,  e  Tot- 
tenne  dal  popolo,  ma  nell'esercito  prevalse  l'elemento 
patrizio:  era  conservatore,  retrogrado  come  direbbesi 
adesso:  proruppe  in  rivolta,  uccise  i  capi  inviati  per  co- 
mandarlo da  Mario:  entrò  in  Roma  con  Siila,  Tempi  di 
stragi,  ma  Mario  fuggì.  Fra  le  spade  sillane  chi  poteva 
votare  contro  di  Siila?  Il  popolo  votò  dunque  per  Siila: 
si  consacrò  per  legge  la  forza  che  era  stala  usurpata  col 
fatto.  Lasciata  Roma  agli  aderenti  suoi,  Siila  partì  per  la 
mitridatica  guerra. 

Appena  sparite  le  terribili  legioni  dal  fòro,  ecco  che 
il  partito  popolare  risorge  ;  il  reduce  Mario  infuria  ter- 
ribilmente a  vendetta ,  crea  nuovi  eserciti,  e  s'appresta 
a  combattere  contro  di  Siila  che  ritorna  dalla  Grecia, 
dall'Asia  :  è  tolto  però  dalla  scena  per  subita  morte.  Si 
avanzano  le  legioni  di  Siila  :  portano  il  terrore  dei  loro 
trionB,  ed  anche  la  seduzione  dell'immenso  bottino  che 
recano,  e  dei  tesori  a  partaggio  che  offrono.  Ondeggiano 
le  popolane  legioni,  tumultuano  poi,  uccidono  i  capi,  si 

prima  Duller  narra  in  modo  assurdo  un  tentativo  dei  Cimbri  di  rompere  un 
ponte  suirAdige  gettato  da  Catulo  a  comunicazione  delle  truppe  ch'egli  teneva 
«ulta  destra  e  sulla  sinistra  del  fiume,  incerto  com'era  per  quale  delle  due  vie 
i  Cimbri  scendenti  dal  Nerico  si  sarebbero  presentati.  In  simili  circostanze 
tutti  sanno  che  la  rottura  del  ponte  espone  una  metà  deiresercito  ad  essere 
assalita  e  tagliata  a  pezzi  sotto  gli  occhi  deiraltra  impotente  ad  accorrere.  Chi 
è  padrone  del  corso  superiore  del  fiume  abbandona  quindi  alla  corrente  e  tronchi 
d'alberi,  e  barche  cariche  di  gravissimi  pesi,  e  brulotti,  sperando  o  di  spezzare 
il  ponte  colFurto,  o/appiccarvi  il  fuoco.  Cosi  faceva  Alessandro  di  Parma  ad 
Anversa,  così  fecero  gli  Austriaci  nella  ^ande  giornata  di  Aspern,  cosi  fu  fatto  in 
cento  occasioni,  cosi  facevano  anche  i  Cimbri  lanciando  immani  tronchi  d'alberi 
airimpeto  della  corrente,  e  realmente  rovinarono  il  ponte,  e  batterono  Catulo. 
Ma  Dailer  dice  che  i  Cimbri  si  soleggiavano  dileUosamenle  al  benigno  cielo 
£  Italia,  e  ne  bevevano  il  dolce  vino,  poi  sradicavano  a  sollazzo  i  grossi  alberi, 
eli  gettavano  nel  fiume.  Cosi  si  scrive  la  storia,  e  cosi  gli  scrittori  si  lodano! 


252  PAHTE    TERZA 

sfasciano:  parie  vanno  fuggiaschi,  parte  slaiino  con 
Siila.  Questi  è  signore  di  Roma. 

Vittoriosi  con  Siila  i  palrizii  vollero  ribadire  i  plebei 
sulla  croce  del  passato,  e  fecero  retrocedere  per  un  istante 
Vintiera  legislazione  :  tolsero  forza  ai  plebisciti,  e  nega- 
rono ai  tribuni  la  facoltà  di  propor  leggile  di  arringare  al 
popolo.  Cacciarono  da  Roma  i  filosoB  greci,  e  non  fu  igno- 
ranza, come  scrivesi,  ma  fu  prudenza  di  Stato,  giacché 
nove  decimi  delle  teorie  filosofiche  (qui  non  parliamo 
delle  meramente  ideologiche,  ma  delle  vere  dottrine  filo- 
sofiche 0  sociali)  s'accordano  colla  democrazia  o  colla 
monarchia,  col  patriziato  non  mai. 

Siila  finalmente  depòse  spontaneo  quella  spaventevole 
dittatura,  che  aflferrata  di  fatto,  erasi  pur  fatto  conferire 
nelle  vie  legali  per  dare  apparenza  di  giustizia  ad  ogni 
maniera  di  violenta  reazione,  e  Montesquieu,  leggermente 
interprete,  spiega  il  fatto  col  dire,  che  la  depose  per  fre- 
nesia. Passeggiava  come  privato  sul  fóro  romano,  ed  ac- 
cusato non  era.  Appiano  Alessandrino  nel  libro  I  delle 
istorie  si  meraviglia  che  tanta  fosse  la  riverenza  della 
riputazione  e  grandezza  sua,  o  lo  stupore  per  la  deposta 
dittatura,  o  la  vergogna  di  punirlo,  quasi  la  sua  tiran-- 
nide  fosse  stata  utile  e  gioconda  alla  repubblica.  Queste 
e  simili  frasi  si  sono  generalizzate  negli  scritti  moderni. 
Ma  Siila,  prima  di  deporre  la  dittatura,  aveva  già  isti- 
tuito un  governo  alla  sillana;  aveva  provveduto  a  conti- 
nuarlo decretando  la  legge  (abolita  più  lardi  da  Cesare) 
che  anche  i  figli  dei  proscritti  fossero  per  sempre  inca- 
paci  dei  pubblici  uflìcii.  Abrogando  le  leggi  precedenti, 
Siila  aveva  concentrato  nel  Senato  la  giurisdizione  cri- 
minale, ed  aveva  ben  purificato  quel  corpo,  che  avrebbe 
dovuto  giudicarlo,  coll'uccidere  novanta  senatori  :  Roma 
l'aveva  veduto  entrare  due  volte,  cioè  prima  della  guerra 


CiPiTOLO  I.  253 

mitridatica,  e  dopo  di  essa,  con  un  esercito  ebbro  di  fu- 
rore di  parte,  che  trucidò  a  migliaja  i  nemici  suoi  :  cen- 
toventi mila  soldati  sillani  erano  ancora  in  Italia:  aveva 
scritto  egli  stesso  perquando  scendesse  nella  tomba  l'epi- 
grafe: 5i7/a,  di  cui  nessuno  ha  fatto  piii,  male  ai  nemici f 
0  pia  bene  agli  amici  I  Ora  i  nemici  erano  spenti ,  e 
gli  amici  avevano  in  mano  la  forza.  Veramente  Siila  po- 
teva correre  pericolo  di  assassinio  ;  ma  tale  pericolo  ei 
lo  correva  anche  come  dittatore.  Come  dittatore  poi  do- 
veva temere  altresì  di  essere  ucciso  dai  senatori,  cui  un 
Siila  era  slato  necessario  per  opprimere  un  Mario  ed  il 
popolo  con  esso,  ma  dopo  la  vittoria  diventava  un  osta- 
colo al  pieno  esercizio  della  loro  autorità.  Così  il  rinun- 
ciare alla  supremazia  fu  per  Siila  un  assicurarsi  dei  no- 
bili, i  quali  nessun  vantaggio  riportavano  dalle  vittorie 
sillane,  finché  Siila  non  era  estinto  o  rimosso,  né  fu  un 
esporsi  a  pericolo  per  parte  del  governo,  poiché  le  di- 
gnità nobili  e  le  popolari  trovavansi  nelle  mani  di  chi  lo 
aveva  seguito  alla  guerra,  ed  avendo  eseguiti  i  suoi  de- 
creti di  sangue,  più  non  poteva  essere  caro  al  popolo. 
Se  egli  depose  l'autorità,  si  é  perché  avevano  vinto  i 
palrizii  piuttosto  che  Siila  :  qualora  veramente  avesse 
vinto  Siila,  egli  sarebbe  rimasto  re. 

Non  v'era  poi  in  Roma  quella  mala  giunta  di  pericolo 
d'assassinio,  che  crebbe  in  Europa  dipoi,  allorché  ai  si- 
carii  per  ira  politica  sopravvennero  i  fanatici,  che  per 
idee  travolte  e  modo  speciale  d'intendere  religione  e  virtù, 
credettero  procacciarsi  direttamente  il  cielo  col  ferire  un 
nemico  come  Enrico  IV  o  Kleber,  pronti  a  terreno  mar- 
tirio e  sdegnanti  salvezza. 

Spaventevoli  proscrizioni  fece  Siila  :  le  fece  dei  nemici, 
degli  incerti,  dei  tiepidi.  Sembrò  che  la  proscrizione  fosse 
per  lui  un  mezzo  di  mantenere  l'unità  delle  voglie,  l'ac- 


254  PARTE  TEBZi 

cordo  dei  voti  perfino  in  Senato  :  il  dissenziente  da  una 
misura  proposta  era  ucciso  :  cosi  purificatati  il  corpo 
legislativo,  e  si  poteva  progredire  concordi  a  misure  ul- 
teriori e  più  gravi.  Di  questo  tremendo  sistema  ha  pre- 
sentato csempii  la  storia  d'Inghilterra  nelle  lotte  civili,  e 
ne  oflerse  d'orribili  al  pari  dei  sillani  la  Convenzione  di 
Francia  nel  secolo  scorso. 

I  proscritti  perdevano  colla  vita  i  beni.  Le  infinite  con- 
fische ammassarono  un  tesoro  immenso(l).  Non  otteneva 
il  grado  di  senatore  se  non  chi  godeva  di  un  cerno  senato^ 
rio  ;  l'immolare  un  senatore  mariano  fruttava  dunque  un 
pingue  reddito  all'erario.  Era  necessario  confiscare  onde 
evitare  le  imposizioni,  che  avrebbero  maggiormente  in- 
viperito la  massa  del  popolo.  La  confisca  dava  ancora 
qualche  stabilità  alle  cose  ottenute  temporaneamente 
dalla  forza  militare,  perchè  diminuiva  i  servi  e  l'opulenza 
del  popolo,  ed  accresceva  i  servi  e  l'opulenza  dei  patrizii, 
nelle  cui  mani  passavano  i  beni  confiscati.  Di  questi  poi 
Siila,  e  più  tardi  Cesare  ed  Augusto,  fecero  infinite  do- 


(1)  Da  un  passo  di  Cicerone  nelPorazione  prò  domo  sua  appare  che  la  con- 
fisca dei  beni  non  era  conosciuta  prima  di  Siila,  che  promulgò  la  funesta  legge 
Cornelia.  Fu  allora  applicata  su  vastissima  scala,  e  nelle  successive  guerre 
civili  la  confìsca  prese  tali  proporzioni  da  costituire  un  fondo  quasi  continuo 
di  reddito  straordinario.  Trajano  non  l'applicò  ;  Antonino  il  Pio  la  mitigò  a  favore 
dei  figli  del  condannato  ;  Marco  Antonino  segui  lo  stesso  principio,  ma  fu  più 
avaro  ;  Adriano,  Valentiniano  e  Teodosio  l'usarono  senzar  rigore  ;  Giustiniano 
nella  Novella  17  la  restrinse  al  crimeulese,  mentre  era  stata  prodigata  anche 
pei  delitti  contro  i  privati,  e  non  contro  lo  Stato.  In  quelle  epoche  non  sapevasi 
ancora  prelevare  sulle  rendite  future  ricorrendo  al  credito  pubblico,  di  cui  si  fa 
tanto  uso  ed  abuso  ai  nostri  giorni  :  la  confisca  era  un'arma  politica,  ed  una 
fonte  straordinaria  di  finanza. 

Nel  medio  evo  la  confisca  era  d'applicazione  giornaliera  e  continua,  perchè 
le  leggi  romane,  e  le  norme  del  Pentateuco,  formavano  in  allora  le  due  infeli- 
cissime basi  di  tutti  gli  statuti  e  costituzioni  penali.  La  confisca  però  riguardava 
precisamente  gli  allodii,  non  già  i  feudi,  la  perdita  dei  quali  era  mera  conse- 
guenza contrattuale  della  mancanza  di  fedeltà,  ed  era  altresì  necessità  di 
governo  per  quel  sociale  organismo  in  cui  la  giurisdizione  e  le  armi  non  si 
sarebbero  potute  lasciare  prudentemente  nelle  mani  dei  figli  del  condannato. 


CAPITOLO  I.  255 

nazioni  ai  legionarii,  sul  quale  argomento  ci  riserviamo 
ad  esporre  alcune  considerazioni  nel  progresso  di  que- 
sto nostro  lavoro. 

Cesare  appena  fuor  di  fanciullo  corse  pericolo  d'essere 
compreso  nelle  proscrizioni  di  Siila  :  era  sì  facile  in  al- 
lora Tesser  proscritto  per  un  fatto,  per  un  detto,  per 
parentele,  incolpazioni,  calunnie!  Svetonio  narrò,  e  piac- 
que ai  mille  di  ripetere  che  Siila  era  già  sospettoso  ed 
ombratile  di  Cesare  adolescente,  ma  gli  die  salva  la  vita 
per  le  preghiere  di  molli,  aggiungendo  però  che  in  quel 
giovane  v'erano  più  Marii,  e  ch*egli  un  giorno  avrebbe 
rovesciato  ipatrizii.  Noi  crediamo  che  Cesare  sembrasse 
a  Siila  nulla  più  che  un  giovane  irrequieto  ed  ardito  :  se 
Siila  avesse  pensjBito,  dubitato  un  istante  al  mattino  che 
potesse  esservi  un  piccolo  Mario  in  lui.  Cesare  certamente 
non  vedeva  la  sera.  Non  v'era  mai  stato  al  mondo  un 
più  terribile  percussore  di  Siila,  ma  ancora  più  terribile 
era  la  calma  con  cui  usava  la  scure.  Nessuna  affezione 
lo  strinse  giammai,  nulla  il  ridusse  placato,  noi  commos- 
sero numero  o  qualità  delle  vittime  :  uomo  non  fu  che 
gli  rientrasse  nell'animo  quando  ne  era  slato  una  volta 
sbandilo  :  era  una  sola  la  pena  che  alle  sue  tetre  convin- 
zioni seguiva,  quella  di  morte,  né  era  mai  lungi  dalla 
condanna  l'effetto  d'una  vita  immolata,  di  cento  o  di 
mille.  E  Siila  che  le  teste  mieteva  secondo  potere,  pas- 
sione, vendetta  o  sospetto,  avrebbe  tenuto  del  misericor- 
dioso con  Cesare,  se  presentiva  che  la  fortuna  patrizia 
non  avrebbe  potuto  durare  in  istato  con  lui  ? 


CAPITOLO  IL 

Sertorio  :  Mitridate  :  Spartaco  :  Viriato. 
La  goerra  sociale:  i  pirati. 

Spogliava  Siila,  ed  uccideva  ancora»  Così  non  solo  lo- 
glieva  ai  vinli  i  mezzi  di  nuocere,  ma  spegneva  i  vinti 
stessi,  onde  pel  riacquisto  delle  sostanze  loro  non  com- 
battessero. Nondimeno  moltissimi  poterono  salvarsi  dalla 
mannaja  sillana,  ed  appena  spari  dalla  scena  il  formi- 
dato  signore,  le  tendenze  furono  maggiori  dei  freni,  i 
partiti  riarsero,  si  agitarono,  si  oflersero  ad  ogni  ambi- 
zioso che  volesse  capitanarli,  ed  un  Emilio  Lepido,  già 
console,  si  offerse  a  loro,  e  chiese  audacemente  l'abroga- 
zione di  tutte  le  leggi  sillane.  In  tanta  concitazione  di 
spiriti  dalla  discussione  si  passò  tosto  alle  armi  ;  il  pro- 
console Quinto  Lutazio  Catulo  raccolse  le  truppe  sillane: 
Lepido  fu  in  due  battaglie  sconfitto,  ed  ebbero  non  du- 
revole saldezza,  che  era  ormai  impossibile,  ma  tempo- 
ranea conferma  di  sangue  le  leggi  sanguinose  di  Siila. 

Fuggivano  dall'Italia  le  torme  proscritte;  una  di  esse 
si  raccoglieva  in  Ispagna,  e  guidata  da  Sertorio  divenne 
potente  per  grandi  vittorie  dovute  al  genio  di  sì  gran 
condottiero,  ed  alle  disposizioni  dei  Lusitani  ad  insorgere. 
L'uragano  muoveva  troppo  da  lungi  per  essere  vera- 
mente formidabile  a  Roma,  ma  sempre  cresceva,  ed  as- 
sunse forme  di  grave  pericolo  quando  Sertorio  si  cir- 
condò d'un  Senato,  e  proclamò  che  Roma  era  nel  campo 


CAPITOLO  n.  257 

con  lui.  Allora  Pompeo  chiamava  ad  alta  voce  rinforzi  di 
denaro  e  soldati ,  mancando  i  quali ,  aggiungeva,  egli 
poteva  ben  essere  costretto  a  rientrare  in  Italia,  ove 
l'avrebbe  seguito  Ser torio  portandovi  tutta  la  guerra. 
Allora  si  poneva  una  taglia  sulla  testa  del  gran  capitano, 
vile  decreto  che  dimostrala  disperazione  di  vincere  colla 
forza  colui,  il  cui  sangue  si  cerca  a  prezzo  d'argento,  e 
Roma  respirò  per  virtd  di  un  coltello.  Il  traditore  Per- 
penna  uccise  Sertorio  alla  mensa,  non  per  avere  laìaglia, 
ma  per  avere  il  comando  :  l'ebbe,  ma  senza  il  genio  di 
Sertorio,  senza  la  venerazióne  degli  Iberi  (1),  senza  il 
cuore  dei  soldati.  L'altera  voce  eccitatrice  delle  batta- 
glie ora  era  muta:  Perpenna  fu  presto  battuto,  e  mozzo 
del  capo. 

Anche  del  lusitano  Yiriato  Roma  non  aveva  posato 
che  per  virtii  di  pugnale:  a  lui  tutto  mancava,  ma  sover- 
chiava il  carattere,  ed  ha  levato  gran  fiamma:  gridò  agli 
Iberi  che  dove  i  Romani  in  due  campi  pugnavano,  ardi- 
mento prendessero:  la  via  esser  aperta  contro  ambi: 
avrebbero  libertà,  ed  oltre  questa  dominio:  aver  giurato 
la  fedeltà  ponderando  la  potenza,  temendo  di  essa,  sof- 
frendo le  ingiurie:  ora  i  Romani  di  proprie  ferite  mo- 
rire :  insorgessero,  l'opera  esecranda  di  brutale  violenza 
disfacessero  con  giusta  violenza:  venissero  in  fama,  mo- 
li) Sertorio  aveva  affezione  ad  una  cervella,  e  sempre  la  leneva  con  sé  : 
quanti  esempii  non  abbiamo  adeguale  affezione  ad  un  cavallo»  ad  un  cane  !  Non 
leneva  seco  Moreau  il  suo  cane ,  non  Taveva  con  lui  quando  a  Dresda  fu  ucciso? 
ila  gii  storici  vogliono  cbe  Sertorio  si  tenesse  la  cerva  perchè  gli  Spagnuoli 
(t  Lutilani)  credevano  che  la  cerva  possedesse  divinatoria  virtù,  e  suggerisse 
a  Sertorio  infallibili  operazioni  di  guerra.  Dio  buono  !  Non  dirò  delle  migliaja  di 
Romani  combattenti  agli  ordini  di  Sertorio,  ma  gli  Spagnuoli  e  Lusitani  non 
erano  barbari,  che  meglio  credessero  alla  sapienza  della  cerva  che  al  genio  di 
Sertorio  :  la  Lusitania  specialmente  era  fra  le  più  colle  e  più  ricche  contrade 
d'allora:  aveva  sul  mare  e  neirinterno  popolose  e  fiorenti  città,  ed  in  epoca  non 
mollo  remota  da  quella  di  Sertorio  la  Lusitania  ha  prodotto  alcuni  dei  più 
gnndi  scrittori,  generali  ed  imperatori  romani. 

17 


258  PASTE  TERZA 

strassero  la  fierezza  del  viso:  la  natura  aver  creati  liberi 
perfino  i  bruti,  la  virtù  esser  dell'uomo  proprio  bene  e 
premio,  gli  Dei  ajutare  i  forti.  Nel  torbido  scontento  che 
travagliava  il  paese,  levaronsi  al  grido  di  Virialo  le  genti 
guerriere,  fecero  oste  grossa,  e  sopportarono  i  faticosi 
cammini,  gli  scarsi  viveri,  le  battaglie  cruente,  i  rigidi 
comandi  di  un  capo  tetragono  ad  ogni  stento,  inesausto 
di  stratagemmi,  indomito  ed  impavido.  Viriato,  dice  Giu- 
stino (lib.  XLIV,  e.  2),  tanta  vir tute pr<Bditu$  continen- 
tiaque  fuit,  ut  cum  comulares  exercitus  frequenter' vi- 
cerit,  ìion  arma,  non  vestis  cultum  mntaveritj  sed  in 
eo  habitu  quod  primum  bellare  ccspit,  perseveraverit, 
ut  quivis  gregarius  mileK  ipso  imperatore  opulentior  vi- 
deretur,  e  Vellejo  Palercolo  ne  confessa  egli  pure  i  trionfi, 
scrivendo  cheMirìalo  contumelioso  decemannorum  bello 
legiones  romanas  exercuit. 

Certamente  che  la  forma  e  la  natura  deiriberia  facili- 
tavano d'assai  le  resistenze  nazionali.  La  separano  dalla 
Gallia  i  Pirenei,  che  stendonsi  come  muraglia  dall'uno 
all'altro  mare:  elevatissimi  in  centro,  i  Pirenei  sono  più 
sommessi  nell'approssimarsi  alle  acque;  là  sono  più 
agevoli  i  varchi,  ma  chi  li  supera  è  arrestato  subito  dopo 
da  potenti  contrafi'orti  nel  nord  e  nel  sud  :  incontra  da 
un  lato  le  avviluppate  catene  ove  scaturiscono  l'Ehro 
ed  il  Douro,  e  dall'altro  il  vasto  labirinto  montivo  della 
Catalogna  orientale.  Le  Cordigliere  solcano  l'intiera  peni- 
sola: i  nodi,  ed  i  meandri  di  esse,  le  valli  profonde,  l'ele- 
vatezza di  alcune  giogaje,  i  serpeggiamenti,  le  asprezze  ed 
i  nascondìgli  di  tutte,  sono  di  potente  ajuto  a  perpetuare 
la  guerra.  Chiunque  penetri  in  una  valle,  e  discenda  per 
essa,  ha  sempre  da  aver  l'occhio  alle  Cordigliere  sui  fian- 
chi, ha  da  occuparne  le  gole,  ed  assottigliarsi  in  presidii: 
egli  deve  temere  chei  nemici  non  osservati,  non  noverati, 


CAPITOLO  II.  259 

non  intesi,  prorompano  sulle  sue  linee  di  comunica- 
zione, e  sui  magazzini  suoi,  vi  rechino  rovina,  distrug- 
gano gli  ajuli,  ed  immantinente  scompajano.  È  quindi 
costretto  per  assicurare  i  lati  e  le  spalle  ad  occupare  con 
forza  i  vertici  delle  valli  ed  i  nodi  principali  dei  monti, 
e  ad  operare  anche  nelle  valli  parallele  e  contigue.  Ma 
questi  corpi  secondarii^  che  devono  marciare  di  consenso 
e  d*armonia  con  lui,  ne  sono  divisi  di  larghi  spazii  ed 
ostacoli,  e  mentre  coprono  di  loro  ali  l'esercito  che 
muove  nel  centro,  pericolano  essi  medesimi  sul  fianco 
esterno  alla  linea  generale  di  guerra,  e  se  l'uno  dei 
corpi  è  assalito  e  halluto,  egli  altri  lo  ignorano,  e  pronta^ 
mente  non  piegano,  possono  essere  girati  dal  vincitore 
alle  spalle,  e  con  gravi  conseguenze  assaltati  ed  op- 
pressi. Or  bene,  di  queste  catene  principali  e  seconde,  dei 
loro  avvolgimenti  e  latebre,  delle  inaccessibili  creste,  de- 
gli aspri  loro  dossi,  del  loro  scoscendere  talvolta  imme- 
diato al  mare  ed  ai  fiumi,  di  questa  rete  insomma  di  forti 
posizioni  militari  giovossi  Viriato  per  acconci  accampa- 
menti, per  subitanei  assalti,  per  occulto  ritirarsi  e  ricom- 
parire inatteso,  per  sottrarsi  e  ghermire,  per  eludere  la 
perizia,  fiaccare  gl'impeti  e  frangere  la  forza  delle  le- 
gioni romane.  Infatti  le  sue  genti  spedile  ed  esperte  pò* 
levano  difficilmente  assalirsi,  pifi  difficilmente  isolarsi,  e 
quasi  mai  costringersi  non  volenti  alla  pugna,  perchè 
nella  forma  quasi  circolare  del  paese  non  essendo  mai 
spinte  e  serrate  in  angustia  di  terreno,  movendo  per 
greppi,  ed  attraversando  in  bande  improvvise  una  valle, 
un  torrente,  sfuggivano  al  disastro  per  riunirsi  in  altro 
luogo  forte,  e  di  nuovo  comballere.  Tale  doveva  essere  il 
carattere  di  quelle  guerre  antiche,  e  tale  fu  sempre  fino 
ai  di  nostri  il  carattere  delle  guerre  nazionali  di  Spagna. 
Ma  per  esserne  capo,  per  infondere  perfetta  fiducia  ai 


280  PiBTE  TERZA 

suoi,  per  animarli  coi  successi,  rinfrancarli  nei  rovesci, 
sottrarsi  con  destrezza,  piombare  inaspettato,  trionfare, 
perdurare,  doveva  Viriato  avere  su  tutti  e  fra  tutti  prodezza 
e  virtù,  essere  vero  eroe  della  propria  nazione.  Ed  a  que- 
sto proposito  non  possiamo  esimerci  da  breve  riflesso 
circa  le  dimostrazioni  della  riconoscenza  dei  popoli  an- 
che neirepoca  moderna  si  loquace  di  nazionali  senti- 
menti, si  ambiziosa  di  gloria.  Vedonsì  nella  moderna  Lu- 
sitania  monumenti  a  Camoens,  che  degno  ne  fu:  vedonsi 
a  Vasco  di  Gama,  gentiluomo  di  corte,  che  poco  merito 
ebbe,  giacché  prima  di  lui  Diaz  aveva  scoperto,  e  di  vasto 
tratto  anche  girato  il  Capo  di  Buona  Speranza,  segnale 
e  porta  delle  Indie:  non  si  eressero  monumenti  a  Diaz 
che  fu  veramente  colui  che  apri  ai  Portoghesi  i  regni  del- 
l'Aurora: non  si  eressero  a  Viriato,  quasi  la  notte  dei 
secoli  coprisse  pei  Portoghesi  medesimi  la  smisurata 
grandezza  di  chi  fece  i  loro  padri  per  tempo  non  breve 
rivali  di  Roma.  Noi  lodiamo  chi  opera  grandemente  per 
la  patria  anche  senza  fortuna,  ma  Viriato  ebbe  pur  genio 
e  successo:  la  sua  gloria  può  certamente  adornarsi,  non 
crescere,  ed  è  vergogna  non  esaltarla  sul  Iago. 

Né  in  terra,  né  in  mare  v'era  pace:  impotenti  le  orde 
a  vincere  da  sole,  alleavansi  a  qualunque  nemico.  Serto- 
rio,  0  per  romana  alterezza  come  si  legge,  o  per  scaltra 
accortezza  e  confidenza  in  se  stesso,  aveva  dapprima 
schivato  di  stringere  accordi  con  Mitridate  che  li  propo- 
neva :  alQneli  conchiuse  dettando  le  condizioni  :  ricevette 
denaro  e  vascelli,  e  promise  soldati;  ma  di  questi  com- 
battendo con  Metello  e  Pompeo  anche  Sertorio  non  ne 
aveva  di  troppi  :  era  poi  impossibile  l'inviarli  per  terra, 
e  ben  arrischiato  lo  spedirli  per  mare.  Mandò  invece  in 
Mario  Vario  un  abile  generale  dei  suoi  :  questi  raggiunse 
Mitridate,  percorse  le  città  della  Grecia,  e  vi  distrusse  i 


CAPITOLO   II.  261 

governi  sillani.  Altri  Mariani  servivano  il  re.  Così  leg- 
giamo in  Frontino  che  Archelao,  generale  di  Mitridate, 
combatteva  contro  Siila,  schierava  in  battaglia  anche  un 
corpo  d'emigrati  d'Italia,  nella  pertinacia  dei  quali 
molto  confidava.  Plutarco  nella  vita  di  Lucullo  fa  cenno 
pure  dei  Romani  che  militavano  per  Mitridate.  Le  Pro- 
vincie debellate,  gli  schiavi  oppressi,  il  popolo  servo,  le 
città  d'Italia  col  nome  onorifico. di  federale,  vere  suddite 
della  romana  repubblica,  presitaronsi  ad  alleanze  nuove 
e  fornirono  forze  nuove.  Ne  sorse  un  Gerissimo  combat- 
tere da  ogni  lato,  un'incertezza  di  possesso  e  di  diritto, 
una  guerra  universale.  Gli  sconfitti  democratici  trovarono 
appoggio  in  tutti  i  confederati  dell'Italia. 

Eccoci  alla  guerra  sociale,  che  Floro  chiama  civile  : 
sociale  bellum  vocetur  licet  ut  extenuemus  invidiam  : 
si  verum  tamen  volwnus,  illud  civile  bellum  fuit.  Gli 
alleati  e  socii  erano  amministrativamente  liberi,  politica- 
mente quasi  servi,  perchè  non  partecipavano  alla  romana 
sovranità.  Non  erano  si  sudditi  come  le  provincie  lo  fu- 
rono di  Venezia,  la  Valtellina  dei  Grigioni,  il  Ticino  di 
dodici  Cantoni,  il  Vodese  di  Berna  o  la  Corsica  di  Genova, 
perchè  non  ricevevano  governatori  da  Roma  :  avevano  vita 
provinciale  propria,  ma  non  i  diritti  politici  dei  Romani, 
né  Tammissione  alle  magistrature  di  Roma.  Avevano  ver- 
sato a  fianco  dei  Romani  un  fiume  di  sangue  in  tutte  le 
guerre,  ma  un  alleato  o  socio  non  aveva  mai  comandato, 
l'esercito  intiero.  Ora  pretendevano  all'eguaglianza,  ossia 
alla  piena  riforma  politica.  Il  municipio  di  Roma  doveva 
dilargarsi  a  proporzioni  di  Slato  :  il  vincolo  d'alleanza 
doveva  cessare  d'essere  imperium  per  divenire  wquum 
fwdus  (Liv.,  1.  XXXIX,  e.  31]:V  alleato  voleva  essere  citta- 
dino, mentre  ogni  Romano  finora,  se  anche  plebeo  nel 
fòro,  era  vero  patrizio  rispetto  all'alleato,  e  padrone  ris- 


262  PAKTE  TCEZA 

petto  al  mondo  :  questo  continuasse  pure  in  servitù,  ma 
in  servitù  dellltalia,  non  in  quella  di  Roma.  Anzi  a  Roma 
minacciavasi  di  sostituire  una  nuova  capitale  :  si  riuni- 
vano i  rappresentanti  degli  alleati  in  Corfinio,  e  davano 
alla  città  il  nome  di  Italica,  e  vi  battevano  moneta  ita- 
liana  :  ciò  che  Annibale  probabilmente  fu  per  fare  in 
Capua  (vedi  il  capitolo  III  della  parte  I),  ora  aveva  prin- 
cipio d'esecuzione  in  Italica. 

La  guerra  sociale,  tanto  più  pericolosa,  perchè  il 
sistema  militare  degli  alleati,  come  vediamo  in  Polibio 
(libro  VI,  frammento  5),  non  era  meno  perfetto  di  quello 
dei  Romani,  dopo  avere  terribilmente  infuriato  per  varii 
anni,  Gnl  con  una  maggior^  democratizzazione  di  Roma, 
e  colla  perdita  della  sua  superiorità  sugli  Etruschi,  Um- 
brianì,  Latini,  Marsi,  Vestini,  Marrucini,  Ferentani, 
Lucani,  Venosiani,  ecc.,  che  vennero  ascritti  alla  romana 
cittadinanza,  e  pariQcati  ai  Romani,  cosa  importantissima 
dal  lato  politico  ed  economico.  Questi  popoli,  già  servi  di 
Roma  patrizia  e  di  Roma  plebea,  divennero  comproprie- 
tarii  della  romana  sovranità  sugli  altri  popoli  di  più  re- 
cente acquisizione.  Ma  gli  imperatori  Gommodo,  Perti- 
nace, Didio,  Giuliano,  Pescennio  Negro  e  Severo,  forse 
a  scopi  privati  per  aver  favore  in  certe  provincie,  ma  senza 
dubbio  negli  interessi  dell'universale  utilità,  accrebbero 
con  una  serie  di  decreti  il  numero  dei  cittadini^  scema- 
rono quello  dei  peregrini,  e  Caracalla  ordinò  che  in  orbe 
romano  qui  essent,  omnes  cives  efficerentur  (1. 17,  D.  de 
Hatu  hom.).  Il  gius  dei  liberi  connubii,  che  allora  si 
estese  indistintamente  a  tutti  i  cittadini  nel  mondo  ro- 
mano, rimase  soltanto  impedito  coi  Barbari  (L.  un.  C. 
Theod.  De  nuptiis  gentil.,  lib.  III,  tit.  14).  E  questa  re- 
strizione fu  subito  violata  dall'uso. 

L'immenso  disordine  della  guerra  sociale,  Torribile 


CAPITOLO  II.  263 

Iratlamento  degli  schiavi,  Tessere  stati  i  medesimi  durante 
quella  guerra  armali  più  volle  a  migliaja  negli  eserciti 
con  promesse  di  liberazione  forse  violate,  la  condizione 
dei  servi  certamente  peggiorata  in  tante  mutazioni  e  ro- 
vine dei  possessori  di  essi,  Tesempio  delle  masse  di  li- 
berti creali  da  Siila  ed  i  ceppi  ribadili  alle  torme  servienti, 
tutto  addensava  una  negra  nube  su  Roma  e  Tltalia,  che 
alfine  squarciata  tuonò  e  percosse.  Fu  la  gran  guerra 
degli  schiavi.  Erano  nellltalia  e  nella  Sicilia  in  numero 
prodigioso  :  certamente  sommavano  a  più  milioni  :  erano 
dogni  patria,  d'ogni  sangue  e  d'ogni  ceto.  Presi  per  Tor- 
dinario  in  battaglia,  nelle  città  espugnale,  nelle  conqui- 
state campagne,  erano  stati  venduti  indistintamente  al 
mercato.  Gli  antichi  schiavi  non  erano  di  colore  e  di 
schiatta  diversi  dai  loro  signori  :  non  erano  inferiori  ai 
medesimi  d'educazione  e  coltura  :  bene  spesso  erano  La- 
tini schiavi  di  Lalini,  Greci  di  Greci,  Greci  di  Romani, 
ed  orribile  doveva  essere  il  tormenlo  di  quelli  che  erano 
precipitati  dalle  condizioni  civili  di  vita  nella  servitù  di 
popolo  0  di  privati  moralmente  inferiori  ai  medesimi. 
Gii  schiavi  d'oggidì  alla  Luigiana,  al  Brasile  od  a  Cuba 
meritano  miglior  sorte,  ed  è  dovere  delle  nazioni  civili  di 
gradatamente  redimerli  dalla  vita  dei  sensi  a  quella  delle 
idee,  ma  almeno  per  ora  si  trovano  tutti  o  quasi  tulli  in 
istato  di  brutalità  e  rozzezza:  servendo  i  Negri  soffrono 
fisicamente,  non  moralmente,  almeno  i  più  :  la  lor  mente 
non  si  è  aperta  ad  intuizioni  ed  a  brame:  non  hanno  gu- 
stato agiatezza,  indipendenza  e  coltura.  Gli  antichi  schiavi 
invece  erano  stali  tolli  a  tulle  le  condizioni  di  vita,  a  tutti 
i  ceti  sociali  :  prevalevano  fra  essi  i  Barbari,  ma  non  tulli 
lo  erano  :  in  alcune  guerre,  p.  e.  nelle  greche,  si  erano 
introdotte  in  Italia  immense  torme  di  schiavi  moralmente 
eguali  0  superiori  ai  Romani.  Quindi  gli  schiavi  non  rap- 


!264  PARTE  TERZA 

presentavano  in  Italia,  come  i  Negri  in  America,  la  sola 
forza  materiale  applicata  alla  terra,  ma  ogni  specie  d'in- 
dustrialismo civile,  e  perfino  Tintelligenza,  le  arti  del  bello 
e  gli  studii.  Si  può  appieno  comprendere  io  spasimo  di 
migliaja  di  essi,  la  loro  disperazione,  Todio  agli  op- 
pressori ? 

Gli  scrittori  latini  denominano  gli  schiavi  sotto  venti  o 
trenta  diverse  appellazioni  desunte  o  dairufBcio  cui  Io 
schiavo  era  destinato,  o  dal  paese  da  cui  era  tratto,  o  dal 
nome  del  console  che  lo  aveva  fatto  prigioniero.  Alcune 
classi  erano  specialmente  infelici  :  vediamo,  p.  e.,  in  Sve- 
tonio  (De  dar.  rheL,  Ili)  che  certi  schiavi,  come  gli /a- 
nitores  e  gli  ostiarii,  per  l'ordinario  servivano  incatenati. 
E  nel  libro  I  di  Golumella,  nel  XVIII  di  Plinio  il  Vecchio, 
ed  in  Seneca  (De  Benef.)  si  fa  cenno  anche  d'altri  schiavi 
che  parimenti  lavoravano  incatenati  nei  campi.  Golumella 
(lib.  I)  fa  inoltre  menzione  degli  ergastoli  domestici,  e  si 
hanno  mille  esempii  di  pene  barbarissime  cui  i  padroni 
sottoponevano  gli  schiavi.  Eppure  in  Grecia,  almeno  in 
Atene,  si  erano  perfino  stabilite  delle  feste,  durante  le 
quali  ritornava  Teguaglianza  primitiva  e  naturale  dei  pa- 
droni e  dei  servi,  e  la  famiglia  diveniva  per  tutti  una  pic- 
cola repubblica;  ed  il  diritto  romano  dichiara  espressa- 
mente che  la  schiavitù  è  d'istituzione  civile,  perchè  gli 
uomini  sono  per  natura  eguali.  Seneca  scriveva  in  tempii 
nei  quali  in  Roma  l'abuso  della  podestà  signorile  era  or- 
ribile, e  nondimeno  dice:  Servi  $unt?  imo  homines; 
servi  sunt  ?  imo  contubernale^;  servi  sunt  ?  imo  hnmi- 
les  amici;  ma  l'indole  romana  era  meno  della  greca 
umana  e  benevola^  ed  era  deplorabile  la  condizione  degli 
schiavi  formanti  tanta  parte  della  popolazione  d'Italia. 

Diversità  di  lingue,  di  professioni  e  coltura,  luoghi 
differenti,  perpetuità  di  dimora,  fatalità  d'aderenze  alla 


Capitolo  ii.  265 

loro  casta  o  nazione,  ripulsione  od  isolamento  dalle  al- 
tre, barbara  vigilanza  e  spietate  vendette,  rendevano  in 
Italia,  come  ancor  vediamo  in  America,  malagevole  l'in- 
sorgenza contemporanea,  concorde,  disperata  delle  masse 
di  schiavi.  Mancava  poi  un  capo  alle  stesse ,  ma  guai 
se  appariva  !  e  realmente  comparve.  Era  Spartaco  gla- 
diatore. Si  videro  allora  gli  eserciti  consolari  o  preterii 
otto  volle  fugati  :  due  di  essi  battuti  in  un  sol  giorno  in 
due  successive  battaglie  :  le  aquile  romane  divenute  tro- 
fei  degli  schiavi,  e  portale  in  alto  a  segnale:  prigionieri 
romani  costretli  a  battersi  da  gladiatori  negli  onori  fune- 
bri resi  dagli  schiavi  ai  loro  condottieri  caduti  in  balta- 
glia  :  il  popolo  in  tumulto. 

Heissner  ha  pubblicalo  in  Germania  nel  1784  due  dotte 
memorie  su  Spartaco  e  Masaniello  quasi  a  raffronto  tra 
loro,  ma  senza  darne  comparato  giudizio.  Ma  che  fu  mai 
Masaniello  a  fronte  dì  Spartaco  ?  Masaniello  capitanò  per 
pochi  giorni  (1647)  un  tumulto,  non  una  rivoluzione: 
ebbe  tutta  Napoli  alla  sua  ubbidienza,  ma  nulla  ne  fece: 
non  levò  un  ardito  stendardo,  neppure  sognò  Tindipen- 
denza  di  fuori,  o  la  libertà  nelFinterno  :  s'arrestò  alla 
cerchia  del  togliere  qualche  balzello  inviso  alla  plebe  mi- 
nuta. Spartaco  sovrasta  gigante  delle  spalle  e  del  capo 
non  solo  a  Masaniello,  ma  a  Sickingen  e  Mùnzer,  che 
guidarono  i  contadini  nella  feroce  loro  rivolta  del  se- 
colo XVI  in  Germania:  sovrasta  airanabatlista  Giovanni 
di  Leida  profeta  e  re  (Mùnsler  1535),  e  ad  Horja,  il  cru- 
dele ungaro-valacco  (1784)  :  sovrasta  perGno  al  cosacco 
Pugatscheff  (1773-75),  ed  al  negro  Toussaint-Louverture 
(1795-1802),  che  pur  furono  grandi.  Sparlaco  spicca  in 
rilievo  fra  le  grandi  ombre  d'ogni  eroica  età  :  egli  si  alzò 
per  la  vera  superiorità  dello  spirito  dalla  valle  più  pro- 
fonda alla  vetta  più  sublime  :  gettò  le  disoneste  catene, 


266  PifiTB  TEKZi 

nella  deficienza  dei  mezzi  invigorì  la  prud^za,  nella  ne- 
cessità ha  acuito  Tindustria,  nelle  cosi  varie  professioni 
degli  schiavi  romani  trovò  quegli  elementi  ai  multiformi 
servigi,  che  nei  Negri  d'America  sarebbe  stato  impossi- 
bile di  rinvenire  o  creare,  trasfuse  nei  mille  la  sua  grande 
anima,  e  seguì  ubbidienza  agli  ordini,  riuscita  ai  pro- 
getti. Creò  l'esercito,  e  .nel  crearlo  l'usò  ad  immediale 
vittorie  :  scrollò  la  potenza  romana,  ma  non  disconobbe 
anche  nei  trionfi  né  la  forza  di  Roma,  né  i  vizii  dei  suoi: 
guidò  fin  cento  mila  uomini  :  fu  anche  piò  umano  che 
la  natura  dei  tempi,  dei  compagni  e  dell'immanissima 
guerra  sembrasse  concederlo.  £  quando  fu  giunta  Torà 
del  morire  per  lui,  esalò  colla  spada  in  pugno  l'anima 
forte  :  non  aspettò  la  morte  sulla  croce  fra  gli  scherni 
romani  come  l'aspettarono  quasi  tutti  i  già  nominati,  che 
si  paragonano  a  lui.  Ben  disse  uno  scrittore  che  per  es- 
sere degno  fratello  d'Annibale  non  mancò  a  Spartaco  se 
non  l'accidente  che  Amilcare  non  fu  padre  d'entrambi. 

Cicerone  avrebbe  dovuto  rispettare  in  Spartaco,  se  non 
la  giustizia  per  cui  combatteva,  se  non  la  spada  impu- 
gnata per  difesa  legittima,  almeno  la  fiamma  del  genio; 
ma  egli  non  lo  nomina  mai  se  non  con  parole  infamanti: 
lo  paragona  ad  Antonio,  che  per  lui  é  la  personificazione 
dell'insensataggine,  della  scelleratezza  :  habemus  certa- 
men  cum  excursore,  cum  latroìw,  cum  Spartaco  I 

Noi  discordiamo  nel  giudizio  su  Spartaco  da  Cicerone, 
e  siamo  sdegnosi  che  Bossuet  nel  suo  Discorso,  che  sem* 
pre  si  dice  ammirabile^  faccia  menzione  di  Spartaco  come 
d'un  vile  ribaldo:  tutti  volevano  comandare  in  Roma, 
scrive  Monsignore,  perfino  uno  Spartaco  I  La  fama  di- 
srpensa  spesso  ingiustamente  la  gloria  ;  ma  a  quel  grande 
uomo  può  applicarsi  ciò  che  scrive  Orazio  nelFode  nona 
del  libro  quarto: 


CAPITOLO  II.  267 

Vixere  forte»  ante  Agamennona 
Multi,  sed  omnes  illacryroabiles 
Urgentur,  ignotique  longa 
Nocte,  carent  quia  vale  sacro  :  • 

Paullum  sepultae  distat  ÌDertiae 
Gelata  virtus. 

Petrarca  nel  Trionfo  della  Fama  non  Irovò  posto  fra 
1  nobilissimi  ingegni  nemmeno  per  Dante,  e  fra  i  grandi 
guerrieri  non  lo  trovò  per  Viriàto  e  Sertorio  :  noi  lo 
avremmo  trovato  per  lutti  loro,  ed  anche  per  Spartaco. 

Appena  fu  appagato  il  popolo,  gli  schiavi  vennero 
sconQtti  dalle  forze  congiunte  dei  Romani  patrizii  e  dei 
Romani  plebei,  egualmente  signori  degli  schiavi,  e  ne- 
mici dì  essi.  L'alleanza  mariana  cogli  schiavi  era  semplice 
effetto  della  preponderanza  senatoria  sui  plebei  ;  quindi, 
composte  in  qualche  modo  le  cose  interne  a  tranquillità, 
ogni  Romano  concorse  ad  uccidere  i  servi  ribelli  (1). 

(1)  Giusta  la  sentenza  di  Machiavelli,  che  cioè  gli  uomini  per  te  haltiture 
diveniano  savii  e  temperali,  noi  crediamo  che  le  sanguinose  insurrezioni  degli 
schiavi  abbiano  contribuito  potentemente  airemanazione  di  nuove  leggi,  che 
facilitando  Femancipazione  dei  servi,  ne  scemass(;ro  gradatamente  la  massa. 
Ciò  era  tanto  più  necessario,  giacché  le  guerre  ed  il  lusso  ne  introducevano  ad 
Ogni  istante  altre  migliaja.  11  dottissimo  Einecio  nella  sua  opera  sulle  romane 
antichità  ha  raccolto  in  tutta  la  giurisprudenza,  nei  prosatori  e  nei  poeti  ro- 
mani e  romano-greci  i  tanti  modi  di  manumièsioney  che  furono  successivamente 
0  contemporaneamente  in  uso,  ed  ha  indicato  gli  effetti  politico -civili  di  ciascun 
genere  di  manumissione. 

Finalmente  gli  imperatori  incominciarono  a  dare  agli  schiavi  pace  e  prote- 
zione. Infatti  da  Svelonio  (C/au(/.,XXV)  e  da  Dione  Cassio  (lib.  XL)  raccogliamo 
che,  per  decreto  delFimperatore  Claudio,  il  padrone  il  quale  non  soccorresse 
uno  schiavo  infermo,  ne  perdeva  la  proprietà,  e  Fuccisione  di  uno  schiavo 
punivasi  dalFimperatore  come  un  omicidio.  Una  egual  massima  si  contiene  nella 
legge  Petronia  (Dig.  ad  legem  Corn.  de  sicar.).  Adriano  fu  ancora  pii]i  severo 
repressore  d'ogni  crudeltà  esercitata  dal  padrone  sullo  schiavo  (L.  2.  D.  h.  ^): 
abolì  gli  ergastoli  privati  :  riservò  ai  soli  giudici  il  diritto  di  infliggere  pena,  e 
confermò  la  legge  Petronia.  Antonino  avvalorò  la  legge  Cornelia,  e  ne  estese 
le  massime  favorevoli  agii  schiavi  (L  2.  D.  h,  /.),  ed  Ulpiano  (De  off,  prmf. 
wb,)  ci  indica  qnal  magistrato  doveva  sentire  e  decidere  sulle  querele  degli 
schiavi.  Essi  avevano  dunque  persona  civile  per  stare  in  giudizio,  ossia  diritto 
d^aztone  contro  i  padroni.  Questo  diritto  manca  tuttora  al  contadino  in  uno 


268  PÀKTE  TERZA 

Sembrerebbe  che  si  feroci  discordie  dovessero  del  tulio 
paralizzare  la  Repubblica  nelle  estere  guerre.  Nondimeno 
la  forza  di  Roma  nel  bel  mezzo  delle  guerre  civili  si  mo- 
strava terribile  anche  ai  lontani  nemici:  nei  brevi  inter- 
valli d'interna  quiete,  e  perfino  durante  i  conQitti,  Roma 
lanciava  masse  di  soldatesche  sulVestero  imbarberite  per 
concitazione  e  per  stenti,  cresciute  nelle  battaglie,  ane- 
lanti a  rapina.  Cosi  alla  fine  del  secolo  passato  la  Fran- 
cia inferocita  nelle  lotte  fraterne  versò  sull'Europa  nugoli 
di  combattenti,  che  uscendo  da  schiere  contrarie  trova- 
vano sotto  tende  comuni  la  concordia,  il  trionfo,  la  glo- 
ria. Ogni  popolo  poteva  ripetere  ormai  il  detto  della  Scrit- 
tura: Venienl  Romani^  et  tollent  divitias  nostras  et 
regnum.  Crollavano  al  grande  impeto  delle  legioni  ro- 
mane le  monarchie  e  le  democrazie  :  cadevano  di  eguale 
trabocco  e  principi  e  popoli.  Non  era  necessaria  in  molti 
casi  neppur  la  rapina:  Roma  acquistava  perfino  collo 
adocchiare  e  pretendere  :  acquistava  con  cessioni  che  pre- 
stato di  Europa:  ivi  il  colono  ha  diriito  nelle  leggi,  non  ha  gius  d'azione:  e 
dunque  schiavo. 

L'asserzione  di  Warnkònig  [Histoire  exlerne  da  droil  rotnain),  che  da  prin- 
cipio la  sorte  degli  schiavi  in  Roma  era  più  dolce  e  sopportabile  di  quella  degli 
schiavi  negri  in  America,  può  essere  forse  vera  in  via  generale  e  di  fallo,  ma 
non  in  via  speciale  e  di  legge,  perchè  tutte  le  leggi  coloniali  più  o  meno  garan- 
tirono almeno  la  vita  dolio  schiavo,  ma  furono  solamente  gli  imperatori  che  in 
Roma  emanarono  leggi  di  protezione  per  gli  schiavi. 

E  che  diremo  di  Granier  di  Cassaf^nac  (Viaggio  alle  Antillé)  che  vede  nella 
schiavitù  americana  la  quasi  felicità?  Il  libro  suo  fu  scritto  probabilmente  a 
servizio  dei  proprictarii  delle  piantagioni.  «  Fu  la  tragedia  d'Otello,  dice  egli,  la 
quale  sparse  in  Francia  i  ridicoli  pregiudizii  riguardo  ai  Negri  delle  Antilie  : 
Otello  era  un  Moro,  e  non  un  Negro  ;  i  Negri  sono  gli  uomini  più  apatici  della 
terra  (anche  quelli  che  infuriarono  cosi  terribilmente  a  San  Domingo?):  la 
tratta  è  un  bene,  giacché  libera  V  Africa  dalla  popolazione,  che  soverchia- 
mente aumenta  in  quello  slerile  territorio  ;  le  raccontate  caccie  agli  uomini 
sono  parlo  d'immaginazione  burlesca:  la  colonizzazione  d'America  operata  cogli 
schiavi  africani  accresce  il  benessere  materiale,  e  le  garanzie  morali  nei  paesi 
d'America:  questa  mancando  d'uomini,  e  l'Africa  abbondandone,  la  tratta  è 
un  commercio  di  conguaglio  e  compensazione,  ecc.».  Eppure  Granier  diCassa- 
gnac  non  è  senza  partigiani,  né  senza  estimatori  1 


CAPITOLO  *II.  260 

venivano  la  pretesa:  acquistava  anche  per  testamento  di 
princìpi  ed  isole  greche  e  regni  nelFAsia  Minore,  come 
il  mondo  ha  poi  veduto  i  Russi  acquistarne  per  docu- 
menti lestamentarii  nella  Georgia  e  nel  Caucaso.  Tante 
guerre  civili  avevano  dato  ai  Romani  la  tempera  di  bronzo, 
spenta  la  mollizie  dei  tempi  pacifici,  ridotti  al  silenzio  i 
garruli,  creato  una  massa  di  soldati  genii  di  vittoria  od 
almeno  di  pertinacia:  nelle  guerre  dell'estero  il  popolo 
di  Roma  era  dunque  un  esercito  che  affrontavasi  talora 
non  con  un  esercito,  ma  con  un  popolo  di  cittadini.  Sul 
campo  delle  politiche  agitazioni  si  forma  Tuomo  di  Stato; 
sul  campo  di  battaglia  si  forma  l'uomo  di  guerra.  Du- 
rante la  calma  d'ordinario  non  s'addestra,  e  non  si  mo- 
stra nelle  pubbliche  cose  se  non  una  parte  minima  della 
massa  sociale  :  nelle  discordie  civili  questa  compare,  e  si 
esercita  tutta  :  dallo  spesso  e  generale  operamento  delle 
armi  si  ingenera  in  tutti  esperienza  e  fermezza,  e  dove  è 
maggiore  la  massa  che  opera,  e  tanto  e  più  rapido  e 
moltiforme  il  moto,  ivi  naturalmente  sorgono  più  nume- 
rosi gli  uomini  di  fama  perpetua.  Queste  leggi  del  mondo 
politico  sono  bene  sviluppate  negli  scritti  di  Montesquieu. 
Ma  cadevano  altresì  all'urto  romano,  né  era  il  crollo  più 
lento  0  la  resistenza  più  soda,  quelle  federazioni  chia- 
mate repubbliche  eteme  da  lui,  che  tanto  le  loda  ed  am- 
mira. Precipitavano  infatti  all'urto  romano  la  Lega  degli 
Achei  e  quella  degli  Etoli,  e  quelle  eterne  repubbliche 
non  erano  decrepite,  e  né  l'esempio  romano,  né  i  succes- 
sivi confermano  i  vanti  soverchiamente  profusi  da  Mon- 
tesquieu alle  aggregazioni  di  Stali. 

Anche  senza  disconoscere  i  vantaggi  che  una  federa- 
zione presenta  dove  non  é  possibile  od  opp#rtuno  cer- 
care unità,  e  senza  voler  giudicare  i  federali  consorzii  a 
norma  di  una  perfezione  e  perpetuità  che  nel  mondo  non 


270  PlftE  TEIZl 

è,  troviamo  in  essi  i  germi  di  discordia,  sovente  quelli  di 
contrasto,  e  non  di  rado  quelli  di  dissoluzione.  Chi 
presieda  al  Consìglio  esecutivo  e  quali  autorità  abbia 
ad  esercitare  sui  governi  federali,  dove  debba  risiedere 
il  Consiglio  dietale,  e  come  possa  godere  pienezza  di  li- 
bertà se  non  è  collocato  in  un  territorio  neutrale  e  reso 
dipendente  da  esso,  se  i  voti  nella  dieta  abbiano  ad  es- 
sere liberi  od  obbligati  da  istruzioni,  se  i  voti  debbano 
essere  equipollenti  o  proporzionali  alla  diversa  popo- 
lazione dei  singoli  Stati,  ecc.,  queste,  e  cento  altre  cause 
di  conflitto  ad  ogni  istante  rinnovansi.  Se  poi  le  forme  di 
governo  sono  nei  varii  Stati  diverse,  od  almeno  lo  sono, 
come  sempre  avviene,  le  condizioni  civili  ed  economiche 
dei  varii  ceti,  e  diversi  sono  i  diritti  politici  e  lo  sviluppo 
intellettuale  e  morale  di  essi,  la  religione  e  la  lingua,  in 
allora  aumentano  sommamente  le  difficoltà.  Se  uno  Stato 
è  povero  e  l'altro  è  ricco,  Tuno  agricola  e  l'altro  manifat- 
turiero, l'uno  esposto  al  pericolo  d'aggressioni  esteme  e 
l'altro  no  ;  se  i  terreni  dell'uno  sono  proprietà  esclusiva 
dei  cittadini  suoi  proprii,  e  nell'altro  sono  frequenti  ì 
possessi  stranieri;  se  l'uno  ha  paesi  dominati  privata- 
mente da  esso,  e  l'altro  non  ne  ha,  ecc.,  si  moltiplicano 
le  ragioni  d'attrito  e  violenza.  E  ben  di  rado,  o  non  mai 
s'ottengono  nelle  repubbliche  federative  luniformilà  delle 
milizie,  l'utile  scelta  dei  rappresentanti  nell'estero,  il  buon 
ordine  delle  finanze  in  ogni  governo. 

Noi  non  diremo  di  più,  ma  già  sembra  manifesto  che 
Montesquieu  tenne  in  pregio  soverchio  la  sodezza  appa- 
rente delle  federazioni  di  Stato.  Certamente  ebbe  lunga 
durata  sotto  ereditario  principe  la  lega  delle  Sette  Pro- 
vincie d'Oltfnda,  ed  è  di  molti  secoli  antica  la  federazione 
d'Elvezia  nelle  sue  grandi  montagne,  che  ogni  potente 
vicino  vorrebbe  occupare  per  sé,  ma  nessuno  tollererebbe 


CAPITOLO  II.  271 

da  altri  occupate.  Qoale  spettacolo  però  hanno  offerto  per 
mezzo  secolo  le  federazioni  deirAmerica  Centrale,  della 
Nuova  Granata,  dell'Argentina  e  del  Messico,  per  non 
dire  degli  Stati  Uniti,  ove  infuria  da  lunghi  anni  terribil- 
mente la  guerra!  In  tutte  quelle  federazioni  abbiamo  de- 
plorato Tagitarsi  incessante  di  una  incomposta  e  pestile»^ 
ziale  illùvie;  abbiamo  veduto  Ferario  povero  in  paesi 
ricchissimi;  gli  atti  eroici,  ma  inutili  o  dannosi;  i  coraggi 
indomili,  ina  a  strazio,  non  a  difesa  di  patria.  Yi  si  prova- 
rono tutte  le  istituzioni,  le  censure,  gli  eforati,  i  sindacati, 
i  consigli  degli  anziani,  i  voti  equipollenti,  i  voti  diversi  ; 
l'iniziativa  data  al  governo,  ai  corpi  legislativi,  ad  ogni 
membro  di  esso;  la  dittatura,  strano  rimedio;  lo  squittii 
nio  segreto  e  lo  squittinio  pubblico;  il  diritto  politico  se-* 
condo  i  ceti,  secondo  le  età,  le  possidenze,  il  colore  ;  le 
cariche  a  vita,  le  cariche  a  tempo,  le  nomine  dirette,  le 
nomine  indirette,  ecc.  Di  tutto  fecero  esperimento  quelle 
repubbliche  federative  d'America,  protette  non  dal  nodo 
fraterno,  ma  solo  dalla  vastità  dell'Oceano,  e  dalle  gelo- 
sie d'Europa  contro  la  forza  straniera.  Non  è  certamente 
colà  dove  non  vedesi  né  pace,  né  forza,  dove  le  costituzioni 
ogni  di  furono  e  sono  giurate,  violate,  divinizzate,  ese- 
crate, bruttate  di  sangue,  deposte  sull'ara,  strascinate 
nel  fango,  che  Montesquieu  avrebbe  argomento  ed  ap- 
poggio della  prodotta  sentenza. 

La  confusione  ingenerata  dalle  tragiche  catastrofi  della 
guerra  civile,  della  sociale  e  della  servile  si  era  dalle 
terre  propagata  sul  mare.  Divampò  la  guerra  dei  pirati: 
qui  Èuam  rem  nullam  habent  alienam  exauriunt.  Vaga- 
bondi, avventurieri,  malcontenti  e  proscritti  corseggia- 
vano per  stimolo  di  necessità,  per  sete  di  vendetta,  per 
isperanza  di  rovesci  e  d'insorgenze.  Il  Mediterraneo,  se- 
gttàtamente  nel  suo  latd  orientale,  presentò  l'aspetto  che 


S72  PÀBTK  TERZA 

nei  secoli  vicini  a  noi  offri  lungamente  nell'epoca  dei  flì- 
bustieri  il  mare  antillese  ;  erano  predati  i  navigli,  deso- 
late le  coste,  invase  le  città.  Quegli  antichi  flibustieri  eb- 
bero come  i  moderni  le  loro  piazze  forti,  i  loro  palesi  o 
clandestini  alleati,  i  loro  tesori,  e  certamente  anche  il 
loro  statuto  per  dividere  le  prede  secondo  il  valore  pro- 
vato, le  riportate  ferite,  i  bisogni  comuni,  ossia  il  codice, 
la  norma  legale  della  pirateria  !  Aliquot  annos  continuos 
ille  populus  romanus  (Cic,  prò  Lege  Manilla),  cujm 
iisque  ad  nostram  memoriam  nomen  invictum  in  nava- 
libus  pugnis  permamerat,  magna  ac  multo  maxima 
parte  non  modo  utilitatis,  sed  dignitatis  atque  imperii 
caruit  ;  nullo  in  loco  jam  prtedonibus  pares  esse  potè- 
ramus;  non  modo  provinciis  atque  oris  ItaÀim  maritimit 
ac  portubus  nostris,  sed  etiam  Appia  jam  via  careba- 
mus.  In  Roma  affamata  proponevasi  la  legge  Gabinia, 
legge  pericolosa  alla  sicurezza  della  forma  repubblicana 
perchè  con  essa  conferivasi  ad  un  solo  un'autorità  ecce- 
zionale su  tutto  il  Mediterraneo  o  mare  interno  fino  allo 
stretto  di  Ercole,  ossia  al  mare  esterno  {l'Oceano  occiden- 
tale od  Atlantico),  ed  inoltre  gli  dava  l'impero  su  tutte 
le  coste  a  certa  distanza  da  terra.  I  proponenti  vincevano, 
perchè  la  fame  non  soffre  consiglio,  ed  il  bisogno  era 
grande:  si  accordavano  a  Pompeo  mille  vascelli,  trenta 
mila  soldati,  ed  un  tesoro  :  Pompeo  divideva  tutto  il  mare 
in  tanti  campi,  quasi  provincie,  ed  a  ciascuno  inviava 
una  flotta.  Mancando  i  pirati  d'unità  di  comando,  non  si 
riunirono  in  forza,  e  furono  isolati,  od  in  pochi,  op- 
pressi dovunque.  Nei  castelli  di  Cicilia  che  erano  i  prin- 
cipali loro  covi,  cercolli  lo  stesso  Pompeo  :  ne  prese  un 
gran  numero,  né  tutti  li  consegnò  al  carneQce,  ma  ne 
distribuì  le  migliaja  in  città  lontane  dal  mare  in  Cilicia, 
in  Armenia  e  perQno  in  Acaja,  facendo  ai  medesimi  an- 


CAPITOLO  II.  973 

che  concessione  di  terre  (Plut.,  in  Pompeo^  e  Floro, 
III,  6). 

E  già  Pompeo  aspirava  a  potenza  maggiore.  Mitridate 
aveva  rinfrescato  la  guerra  quando  Siila  ritirò  le  legioni 
dall'Asia  per  correre  con  esse  a  feroce  vendetta  su  Roma: 
potè  rinnovare  gli  eserciti,  potè  invadere  quanto  di  ter- 
reno rimaneva  scoperto  per  la  marcia  delle  forze  ro- 
mane in  Italia:  rifluendo  però  le  legioni  dall'Italia  nella 
Grecia  e  nell'Asia  ,  Mitridate  fu  risospinto  di  nuovo  , 
venne  in  grandi  conflitti  battuto,  e  perdette  le  sue  più 
forti  città  e  le  sue  migliori  piovincie.  Tigrane  temette 
allora  dei  Romani  venuti  si  vicini  e  potenti  :  li  volle 
lontani:  s'uni  a  Mitridate,  ma  ebbe  contraria  fortuna,  e 
Lucullo  lo  batteva,  lo  incalzava  e  prostrava.  Ormai  la 
corona  cadeva  dal  capo  ai  due  re  :  Pompeo  lo  vedeva  ; 
aspirava  all'onore  d'ultimare  la  guerra  imperversante  già 
da  varii  decennii;  quindi  chiedeva  d'avere  il  comando 
dell'esercito  di  Lucullo,  ed  anche  di  conservare  l'impero 
del  mare.  £  veramente  era  utile,  per  non  dire  necessa- 
rio, che  in  guerra  si  grande  il  capitano  dell'esercito  di 
operazione  nell'Asia  fosse  altresì  immediato  signore  del 
mare,  e  quindi  dei  mezzi  di  comunicazione.  Ma  opponevasi 
Catulo  a  questa  seconda  e  tanto  maggiore  concentrazione 
di  potenza  in  un  solo  cittadino  :  gridava  che  per  essere 
libero  d'ora  in  poi  bisognava  ridursi  a  vivere  nelle  monta- 
gne e  nei  boschi  (Plut.)  :  resisteva  anche  Ortensio,  dignù- 
$imum  esse  Pompejum,  sed  ad  unum  tamen  omnia  de- 
ferri  non  oportere.  Sosteneva  invece  la  proposta  Cicerone 
sempre  ligio  ai  patrizii,  e  nella  troppo  famosa  sua 
orazione  versava  il  fiume  della  vera  eloquenza  che  era 
somma  in  lui,  e  quello  altresì  della  verbosità  ond'era 
spesso  contaminato.  Egli  schivava  d'aggirarsi  sul  vero 
punto  cardinale  della  controversia  politica,  e  profoa- 

48 


274  PiBTE  TEaZi 

devasi  in  un  panegirico  a  Ponapeo,  che  non  è  tutto  di 
liriche  ascensioni,  ma  anche  di  trabocchi  rettorie!.  Lo- 
dando p.  es.  la  rapidità  di  Pompeo  con  cui  si  era  con- 
dotto ad  assumere  il  comando  della  flotta  nell'Asia,  narra 
agli  uditori  le  inanissime  fole  che  Pompeo  non  fu  si 
pronto  perchè  la  sua  nave  avesse  doppie  vele,  od  i  remi- 
ganti avessero  quattro  braccia^  ma  perchè  Pompeo  poco 
trattenevasi  colle  cortigiane,  né  stavasi  estatico  davanti 
ai  monumenti  d'Atene! 

Gravissima  era  però  la  mitridatica  guerra,  né  allora 
credevasi  che  alcuno  fosse  pari  a  Pompeo  nell'abilità  del 
condurre  al  trionfo  Vesercito  contro  il  perseverante  ne- 
mico. Gli  fu  dato  il  comando  dell'esercito  di  Lucullo,  ed 
il  governo  di  Frigia,  di  Licaonia,  di  Galazia,  di  Cappa» 
docia,  di  Cilicia,  di  Colchìde,  di  Armenia  e  di  Bitinia. 
Egli  poi  dilatavasi  su  tutte  le  provincie  che  aveva  occu* 
pato  ed  aggiunto  al  suo  Stato  Tigrane,  e  quindi  inva- 
deva anche  la  Siria.  Intanto  facevansi  e  concessioni  e 
doni  al  popolo  per  averne  i  suffragi  a  si  insolite  leggi, 
a  si  eccessiva  larghezza  di  impero,  ed  era  dall'oro,  dalle 
leggi  e  dall'armi  la  plebe  nobilitata. 


CAPITOLO  UI. 
Gatilina  —  Glodio  —  Gieerone. 


Volevasi  la  riforma,  da  molti  pel  meglio  dell'ordina- 
mento di  Roma,  da  molti  per  occasione  a  far  sangue  e 
bottino  :  mirando  diversamente  a  scopi  lontani  agivano 
d'azione  isolata  o  concorde  al  rovescio  del  potere  pre- 
sente :  nei  modi  di  congiura  e  d'insidia  facevano  comune 
il  peccato.  Tutti  volevano  eseguire,  ma  tutti  tremavano 
d'incominciare  :  Catilina  lo  osò.  Pronto  di  mano,  ardito 
di  lingua,  impetuoso  e  fervente  d'ingegno,  Catilina  aveva 
parteggiato  per  Siila,  e  largamente  versato  negli  odii  ci- 
vili di  sdegno  e  di  sangue.  É  ignoto  qual  fosse  il  preciso 
disegno  di  lui,  ma  troppo  improbabile  che  non  mirasse 
se  non  a  rovine  ed  incendii.  Cicerone  non  ne  calunnia 
il  carattere,  perchè  i  deplorabili  esordii  della  vita  di  Ca- 
tilina abbastanza  comprovano  che  Catilina  cercava  oro  e 
potenza,  e  n'andasse  pure  il  mondo  in  fasci  e  faville; 
ma  v'erano  certamente  anche  scopi  di  lusinghiere  appa- 
renze, e  Cicerone  li  tacque,  e  rimasero  ignoti.  Sallustio 
fu  più  mite,  e  probabilmente  più  giusto  anche  nel  giu- 
dicarne il  carattere  ;  egli  dice  di  lui  :  corpus  pattern  ine- 
diw,  algoris,  vigilici  supra  quam  cuiquam  credibile: 
animus  audax,  subdolus,  varius,  simulator  ac  dissimu- 


276  PARTE  TERZA 

lator,  alieni  appelens,  sui  profusus,  ardent  in  cupidi- 
tatibus,  vastu$  animus,  immoderata^  incredibilia,  nimis 
atta  semper  cupiebat.  Ma  anche  Sallustio  non  tocca  delle 
generali  condizioni  polìtiche  della  romana  repubblica, 
delle  concitate  passioni,  delle  fazioni  pronte  alla  lolla, 
per  cui  un  audace  tentativo,  se  anche  fatto  da  indegna 
persona,  poteva  convertirsi  per  opera  dell'autore  o  di 
altri  da  sanguinoso  tumulto  in  vera  rivoluzione  di  Stalo. 
Secondo  Cicerone  e  Sallustio,  erano  forza  di  Catilioa 
in  Roma  le  migliaja  di  quelli  che  flagitio  ani  faci- 
nove  domo  expulsi  Romam  ticut  in  sentinam  conflyse- 
rant,  et  per  dedecora  patrimonia  amiserant:  erano  poi 
sua  speranza  in  Italia  le  migliaja  de'  proprietarii  espulsi 
dalle  loro  terre  da  Siila,  gli  stessi  legionarii  sillani  stan- 
chi di  quiete  e  pronti  a  lasciare  l'aratro  per  riprendere 
sotto  d'alcuna  bandiera  la  guerra,  e  quelli  fra  gli  alleati 
di  Roma  che  non  erano  peranco  stati  appagati  delle 
loro  domande  dopo  la  guerra  sociale.  Ma  v'erano  inoltre 
le  torme  di  schiavi  frementi  alla  memoria  dì  Spartaco, 
benché  il  levare  il  grido  spaventevole  d'una  nuova  guerra 
servile  dovesse  da  qualsivoglia  Romano  riservarsi  al  caso 
estremo  come  disperato  ajuto  a  disperata  impresa.  L'esca 
all'incendio  era  dunque  abbondevole,  perchè  un  gran 
moto  potesse  scoppiare,  se  anche  mancavano  ai  primi 
congiurati  le  voci  generose  che  scuotono  solo  in  allora 
che  le  dice  generosa  persona  ;  ma  la  tirannide  patrizia 
spianava  la  via  al  fondarsi  di  tirannidi  plebee  d'un  de- 
magogo 0  soldato. 

È  vero  che  Roma  era  stata  di  fresco  pesta  e  dissan- 
guata da  Siila  del  più  focoso  suo  sangue  ;  è  vero  che  Ga- 
tilina  era  macchiato  di  quel  sangue  medesimo,  che  non 
aveva  le  memorie  di  domate  provincie,  non  l'entusiasmo 
concitato  di  confidenti  legioni,  non  le  assemblee  già  go- 


CAPITOLO    III.  277 

vernale  coU'eloquenza  vittoriosa  ;  ma  Toccasione  vi  era, 
e  Catilìna  tal  uomo  da  aprire  una  breccia  da  gittarvisi 
entro,  ove  forse  avrebbero  trionfato  i  meno  audaci,  non 
invisi  e  più  sapienti  di  lui.  Quindi  Gatilina  ebbe  a  parti- 
giani undici  senatori,  e  molti  che  erano  slati  tribuni  e 
questori:  il  silenzio  ha  certamente  coperto  la  partecipa- 
zione dei  più,  ma  il  sospetto  risali  fino  al  console  Anto- 
nio, fino  a  Giulio  Cesare  !  Noi  quindi  non  sappiamo  scor- 
gere in  tale  congiura,  in  si  grave  condizione  di  tempi,  il 
solo  fatto  d'uomini  scapestrati  e  violenti  come  Cicerone 
li  chiama.  Le  congiure  sventate,  anche  le  più  serie,  le 
m^lio  ordite,  e  le  aventi  nelle  condizioni  sociali  maggior 
fondamento  a  successo,  non  sono  sempre  rappresentate 
da  tutti  i  governi  come  stolti  conati  di  scellerati  ambi- 
ziosi tendenti  a  direpzioni  e  rovina  ?  E  realmente  in  ogni 
congiura  di  pochi  o  di  molti  non  si  trova  una  mostruosa 
congerie  d'uomini  facinorosi  e  perversi,  e  di  altri  utopisti, 
assennati  od  illusi?  (1) 

Alla  meditala  rivoluzione  di  Stato  tentò  Calilina  d'age- 
volare la  via  anche  col  farsi  corazza  e  spada  di  autorità 
legale  e  suprema  :  voleva  dirigere  le  forze  romane  e  dis- 
porne, od  almeno  paralizzarle  e  disperderle.  Chiese 
quindi  il  consolato,  e  non  ottenendolo,  fosse  temerità, 
fosse  disperazione  di  essersi  già  troppo  inoltrato,  precipitò 
i  preparativi  allo  scoppio.  Seppesi  della  macchinazione,  e 
Cicerone  mena  gran  vanto  di  averla  scoperta.  Poco  però 
richiedevasi  d'acutezza  in  un  console  a  risapere  d'una 


(1)  La  famosa  congiura  di  Mario  Faliero  (1355),  Tuna  delle  più  pericolose  di 
cui  Tanno  menzione  le  storie,  aveva  evidenza  di  scopo,  quello  cioè  di  distrug- 
gere col  favore  delle  plebi  Faristocrazia  in  Venezia,  e  ne  era  alla  testa  il  mede- 
simo doge;  eppure  non  ne  fu  confessato  il  carattere:  fu  attribuita  a  cause  acciden- 
tali e  volgari,  si  ritenne,  o  si  finse  di  crederla  ristretta  a  persone  di  ceto  infe- 
riore: si  sospese  forse  di  cercare  più  addentro,  e  la  vendetta  non  cadde  che  sul 
capo,  e  su  quelle. 


278  BIRTB    TEBZA 

trama  ordita  da  centinaja  di  persone,  conosciuta  dalle 
loro  amanze  (da  Fulvia  p.  e.),  indiziata  dalle  agitazioni 
incominciate  nella  Puglia  e  Piceno,  e  dai  viaggi  degli 
emissarii  mandati  in  ogni  luogo  da  Calilina,  fatta  poi  ma- 
nifesta dall'esercito  che  Manlio  raccoglieva  per  lei  in  Etru- 
ria,  e  dalle  istigazioni  ed  offerte  ai  legati  degli  Àllobrogi, 
perchè  quelle  bellicose  genti  insorgessero.  Aumentando 
il  pericolo,  Cicerone  risolve  di  denunziarlo  al  Senato  : 
Catìlina  crede  meno  stringenti  le  prove  raccolte  dal  con- 
sole, e  viene  audacemente  egli  stesso  in  Senato. 

Quanto  era  già  debole  l'autorità  senatoria,  se  Cicerone 
console,  invece  di  afferrarlo,  limitavasi  ad  inveire  con 
quella  violenza,  e  quasi  brutalità  di  parole  :  Fuggi,  va  via^ 
prorompi;  perchè  non  vai?  impudente,  temerario,  ecc. 
Le  quali  invettive  ripetute  in  caso  simile  da  un  console 
per  un'ora  intiera,  ci  sembrano  davvero  troppe  anche  nel 
regno  dell'eloquenza.  E  Calilina  sicuro  sortiva  dalla  città 
recandosi  al  campo  in  Etruria.  Il  Senato  non  conToca  il 
popolo  che  può  ondeggiare  e  commoversi  ;  non  provoca 
alla  nomina  di  un  dittatore,  essendo  a  ciò  necessaria  la 
riunione  del  popolo,  perchè  questo  pure  abbia  ad  abdi- 
care alFesercizio  dei  poteri  suoi  conferendolo  a  lui,  ma 
il  Senato  decreta  la  semplice  formola  :  dent  operam  con- 
sules  ne  quid  respublica  detrimenti  capiat,  che  s'inter- 
pretara  dai  patrizii  di  guisa  che  vera  autorità  dittatoriale 
fosse  investita  nei  consoli  (1).  Col  quale  senatorio  decreto 


(1)  Ea  potestas,  dice  Sallustio,  per  senatum  more  romano  maghtraliU 
maxima  permiUiiwr,  exereilum  parare,  bellum  gerere,  coereere  «nmòitt  malis 
toctot  ntgueciveif  domi  miliiif^que  imperittm  aiqu€  Judicium  tummum  kabere  ; 
aliier  «ine  popuU  jwiu  Huliiu$  eanun  rerum  eonsuli  jtu  tei*  \  consoli  di- 
ventavano adunque  per  mero  decreto  senatorio  temporanei  dittatori  e  re:  erano 
responsabiii  forse,  ma  pel  momento  sovrani;  agivano  eolle  leggi»  e  fuori  deUe 
leggi  :  Tadagio  legale  nemo  dot  qwfd  wti  ka^  non  era  rispettato,  perchè  i 
consoli  per  mero  decreto  senatorio  concentravano  in  loro  soli  e  le  autorità 


CAPITOLO  m.  279 

Cicerone  console  sostiene  e  traduce  in  carcere  i  capi  di 
congiura  ancora  presenti  in  Roma,  poi  non  osa  egli 
stesso  ferirli,  ma  il  Senato  li  condannaTa,  dissenziendo 
però  Cesare  che  scaltramente  adulò  i  novatori  con  dot- 
trine umanitarie  e  filosoAche  non  già  sul  diritto  di  in^ 
fliggere  la  pena  capitale  (che  non  se  ne  dubitava  allora) 
ma  sulla  convenienza  di  applicare  il  capestro  (1). 

Onde  validare  del  tutto  il  senatorio  decreto  un  eser- 
cito consolare  incalzava  intanto  in  Etruria  lo  stesso  Ca- 
tilina,  che  poche  genti,  e  meno  armi  aveva,  e  lo  serrava 


proprie  del  Senato  che  le  conferiva,  e  quelle  altresì  del  popolo  che  non  le  aveva 
conferite.  Tale  provvidenza  poteva  essere  strano  rimedio,  prevenzione  di  danno, 
termine  di  quiete^  ma  era  usurpazione  e  inezzo  di  facile  abuso* 

(1)  Nella  quarta  catilinaria  Cicerone  presenta  un  riassunto  molto  interessante 
di  quelle  discussioni  in  Senato:  la  posizione  politica  é  luminosamente  indicata 
dalla  qualità  degli  argomenti  usati  in  allora  dai  varii  oratori.  L*uomo  sicuro 
delle  proprie  forze  ferisce  diretto,  e  non  volteggia  con  arte  i  quindi  Cicerone 
sicuro  che  i  senatori  volevano  la  morte  di  Catilina,  traditore  di  essi,  si  lanciava 
con  violenti  invettive  contro  di  lui,  e  lo  chiamava  al  supplizio.  Cesare,  trovan- 
dosi debole,  Untava  di  salvar  la  vita  a  Catilina,  e  di  farsi  così  gradito  al  popolo. 
Erano  le  voci  di  Cesare,  che  il  traditore  della  patria  ben  altre  pene  merita  che 
la  morte:  merita  di  vivere  alUnfamia  ed  all'esecrazione  ù't  tutti:  la  morte  non 
essere  se  non  necessità  di  natura,  un  fine  ai  travagfi,  una  pace  che  non  può 
essere  ulteriormente  violata:  la  morte  dagli  spiriti  forti  e  valorosi  essere  tal- 
volta incontrata  volonterosamente.  Quando  Cicerone  invece  doveva  parlare  al 
popolo  contro  la  legge  agraria  di  Rullo  tribuno,  esordiva  serpeggiando;  nella 
confermazione  destreggiava;  abbagliava  con  gli  specchi  degli  esempii  dei  maggiori 
(il  cai  governo,  come  aristocratico,  uccideva  i  proponitori  della  legge  agraria); 
derideva  Taspetto  fisico  ed  insnltava  alle  azioni  private  di  Rullo  piuttosto  che 
parlare  della  qualità  della  legge.  E  Cesare  e  Cicerone,  se  forti  stali  fossero, 
non  avrebbero  quel  momento  concionato;  avrebbero  combattuto.  Cosi  Cesare, 
parlando  pd  Catilinarii,  e  Cicerone,  paiiando  contro  Rullo,  erano  ideologi  di 
mala  fede  :  sapeva  Cesare  che  ai  Catilinarii  dispiaceva  più  la  mannaja  che  non 
il  carcere;  sapeva  che,  passata  la  bufera  del  momento,  tutto  eravi  da  sperare 
dal  popolo  contro  il  Senato  irritalìssìmo  ;  sapeva  forse  ch'egli  stesso  dei  Cali* 
linarìi  sarebbesi  a  scopi  immensi  servito.  Ma  Cesare,  non  potendo  ferir  diretto, 
adulava  almeno  il  popolo  in  modo  indiretto,  non  ch'ei  credesse  esistere  nel 
romano  Senato  il  moderno  filosofo,  che  voleva  abolire  la  pena  di  morte,  perchè 
il  patto  sociale  uon  la  permette,  né  potrebbe  permetterla,  e  perchè  la  condanna 
perpetua  sia  peggiore  della  morte,  ed  è  nondimeno  dal  patto  sociale  e  dalla 
giaoliiia  permena. 


280  PiETE  TEEZi 

dappresso ,  perchè  agio  non  avesse  a  crescere  ed  ordi- 
nare le  prime,  ed  alleslire  le  seconde.  Passare  i  monti 
entrando  dall' Etruria  nella  Gallia  cispadana,  frapporre 
anche  il  gran  fiume  fra  sé  ed  il  console,  agitare  le 
Gallie,  è  ora  per  Catilina  scopo  e  necessità.  Assume 
le  forme  imperatorie  con  fasci  e  littori,  alza,  egli  sica- 
rio di  Siila,  la  bandiera  di  Mario,  grida  alla  tiran- 
nia dei  pochi  sulle  misere  plebi,  alla  larghezza  a  darsi 
ai  comizii  politici,  alla  partecipazione  di  tutti  ai  diritti 
di  Stato,  agli  onori  di  città  ;  ma  frattanto  aATretta  le  mosse 
ai  monti  ;  eppure  ne  trova  già  occupate  le  gole  da  altre 
legioni  accorse  dalle  Gallie.  Sostare  è  impossibile  :  ha  un 
esercito  consolare  a  tergo,  e  presto  sarebbe  chiuso  in  un 
cerchio  di  lance  :  ha  l'audacia,  ma  non  il  genio  di  Spar- 
taco, che  seppe  in  più  angusto  terreno  sfuggire  a  Grasso, 
d'Annibale  che  sparve  con  uno  stratagemma  da  Fabio, 
di  Banner  svedese  che  accerchiato  in  Pomerania  seppe 
schermirsi,  involarsi  per  ricomparire  potente  (1637),  di 
Napoleone  che  stretto  da  tre  eserciti  russi  valicò  la  Be- 
resiixa,  e  si  tolse  di  mezzo  ai  medesimi.  Catilina  non  ha, 
0  non  trova  altra  via  se  non  quella  che  il  porta  ad  ur- 
tare nell'esercito  delle  Gallie,  od  in  quello  di  Roma,  cia- 
scuno ben  maggiore  del  suo.  Forzare  le  gole  dei  monti, 
e  superare  un  esercito  è  dura  impresa,  e  dove  pur  riesc^t, 
la  vittoria  non  sarà  che  una  fuga  :  meglio  dar  d'urto 
nell'esercito  consolare,  che  è  nel  piano  d'Etruria  :  se  si 
batte  e  si  prostra,  la  vittoria  guida  alle  porte  di  Roma, 
dove  per  l'uno  dei  congiurati  da  Cicerone  sgozzato,  ne 
sorgono  mille.  Si  rivolge  dunque  Catilina  contro  i  con- 
solari, sfida  la  fortuna  e  comanda  la  vittoria  non  con 
voci  di  cinguettiera  eloquenza,  ma  d'eroica  disperazione: 
Ogni  viltà  convien  che  qui  sia  morta  :  o  vinti  od  arresi 
siamo  scannati:  meglio  con  virtù,  che  con  istrazii  e 


CAPITOLO  III.  281 

schemi  morire  :  eppure  i  pochi  talora  hanno  vinto  i 
molti  :  impari  dalla  mia  ogni  tpada  a  ferire  :  piombi 
quest'oggi  sanguinosa  sovra  il  nemico  la  nostra  rovina. 
Vi  era  la  disperazione  in  tulli,  may'erano  certamente  nei 
molti  non  ì  soli  vizii  e  le  nefandità  che  Cicerone  e  Sal- 
lustio ai  Calilinarii  rimproverano,  bensì'  vera  prodezza, 
entusiasmo,  e  forse  virtù.  Non  è  un  esercito  di  soli  scel- 
lerati e  libertini,  di  cui  dopo  la  battaglia  si  scriva  quem 
quisque  vivus  pugnando  locum  ceperat,  eum,  amissa 
anima,  corpore  tegebat  (Sìllustio).  Tutti  caddero,  sì 
che  mancarono  viventi  al  patibolo  :  cadde  anche  Catilina, 
pulcherrima  morte  si  prò  patria  sic  cecidisset.  E  qui 
Sallustio,  da  storico  mutandosi  in  poeta,  lo  raffigura  già 
esanime  come  fa  d'Argante  il  Tasso:  ferociam  animi, 
quam  habueral  vivus,  in  vultu  retinentem. 

Cicerone  medesimo,  vista  la  fine  di  Catilina,  i  fiori 
sparsi  talvolta  sulla  sua  tomba  (Cic,  prò  Fiacco),  e  le 
agitazioni  civili  pel  suo  sparire  non  spente,  pronunciò 
dopo  pochi  anni  di  lui  quel  più  mite  giudizio  che  egli  po- 
tesse dopo  le  tante  contumelie  proferito,  ed  il  sangue  il- 
legalmente versalo.  Così  parlò  p.  es.  di  Catilina  nella  sua 
orazione  per  un  Celio  difeso  da  lui  benché  avuto  avesse 
relazione  con  quel  fiero  suo  nemico:  Habuit  ille per- 
multa  maximarum  non  expressa  signa,  sed  adumbrata 
virtutum:  utebatur  hominibus  improbis  multis,  et  qui- 
dem  optimisse  viris  deditumesse  simulabat.  Erant  apud 
illum  illecebrcB  libidinum  multai  :  erant  etiam  industrie^ 
quidam  stimuli  ac  laboris.  Flagrabanl  vitia  libidinis 
apud  illum:  vigebant  etiam  studia  reimilitaris.  Ncque 
ego  unquam  fuisse  tale  monslrum  in  terris  ullum  puto, 
tam  ex  contrariis,  diversisque  inter  se  pugnantibus  na- 
tura studiis,  cupiditatibusque  conflatum. 

Intanto  per  la  vittoria  contro  Catilina  respirano  i  pa- 


282  pàbte  terza 

trizii,  ma  un  solo  istante.  II  popolo  condanna  Cicerone 
airesìlio  per  abuso  d'autorità.  Ecco  le  ragioni  di  quella 
verbosa  violenza:  va  via,  fuggi,  temerario.  Cicerone 
previdente  non  avrebbe  voluto  né  uccidere,  né  esiliare  : 
avrebbe  preferito  che  i  cittadini  si  fossero  spontaneamente 
allontanati  e  scoperti.  Egli  doveva  infatti  presentire  il  pe- 
ricolo: non  aveva  poco  prima  difeso,  e  con  debole  suc- 
cesso, la  vita  di  Rabirio,  che  trentasei  anni  avanti  aveva  uc- 
cisa Saturnino?  (Dione  e  Cicerone,  fro/?a6irio).  Il  popolo 
rovesciava,  come  già  sotto  Mario,  Finterò  patriziato:  ri- 
destava Tire  nuove,  richiamando  le  passate  offese:  vo- 
leva vendetta  di  chiunque  in  ogni  scorso  tempo  gli  era 
stato  nemico.  L'accusa  contro  Rabirio  era  una  acerba 
censura  di  tutta  l'amministrazione  senatoria,  che  aveva 
approvalo  Tuccisione  di  Saturnino.  E  già  la  legge  sillana, 
escludente  dalle  magistrature  i  figli  dei  proscritti ,  in 
quell'epoca  si  abrogava. 

Levossi  Clodio  a  capo  del  popolo  :  era  Tuno  di  quei 
patrizii  nudriti  negli  odiì  civili  e  nelle  violenze  e  stragi 
dei  campi,  che  nella  preveduta  rovina  del  ceto  cui  appar- 
tengono tentano  di  salire  essi  slessi  al  potere  coH'affret- 
tarla.  Egli  precipitò  Tuna  sull'altra  leggi  di  libertà  pel 
futuro,  leggi  di  vendelta  del  passato,  ed  anche  leggi  di 
svincolo  dall'autorità  censoria  e  pontiAcale,  e  perfino 
d'estrema  demagogia,  la  distribuzione  p.  e.  non  più  a 
prezzo  moderato  e  per  Terario  perdente ,  che  s'era  in- 
trodotta di  già,  ma  affatto  gratuita  dei  grani  alla  plebe. 
Minacciò,  spaventò,  non  già  i  deboli  e  piccoli,  ma  Cice- 
rone, ma  Pompeo,  ma  Tinliero  Senato:  violentò  cogli 
sgherri,  colle  armi  impugnate:  corse  sangue,  arsero  edi- 
ficii:  la  giusta  riforma  e  l'indegna  rivolta  procedevano 
per  iscosse  e  per  urli  nella  clodiana  bufera. 

Animandosi  però  alla  memoria  delle  vittorie  siUane 


CAPITOLO  III.  283 

su  Mario,  ì  patrizi!  accettano,  anzi  provocano  il  grande 
conflitto  civile.  Stringonsi  d'attorno  a  Pompeo,  gli  man- 
tengono il  comando  di  Spagna  che  reggerà  per  legali , 
chiamano  anche  straniere  coorti  a  miglior  fondamento 
d'autorità  contro  le  ribaldaglie  raunaticcie  di  Glodio. 

Cicerone  già  espulso  con  voli  popolari  da  Roma  ne 
viene  adesso  revocato  con  voti  patrizii  :  deve  porre  al 
servìzio  del  Senato  la  faconda  loquela,  come  Pompeo  ha 
da  assicurare  il  Senato  colle  armi.  E  Cicerone  era  in- 
stancabile :  saliva  ogni  giorno  in  bigoncia.  Sensi  pò- 
pulum  romanum,  dice  egli  slesso,  aures  hebetiores, 
oculo$  acret  atque  acutos  habere:  destiti  quid  de  me 
audituri  essent  homines  cogitare  :  feci  ut  postea  quo- 
lidie  me  prmsentem  haberent  :  habitam  in  oculis , 
pressi  forum.  Divenne  realmente  inevitabile  :  ringra- 
ziava, satirizzava,  insultava  (oratio  post  reditum):  ri- 
vendicava Farea  della  sua  casa,  che  il  popolo  aveva  di- 
strutta ,  e  scaltramente  consacrata  alla  libertà ,  onde 
il  carattere  di  sacra  intangibilità  impedisse  di  mai  più 
destinar  Tarea  ad  altro  uso  ;  e  come, prima  il  popolo 
aveva  trovato  chi  consacrava,  ora  trovava  il  Senato  chi 
sconsacrava  (oratio  prò  domo  sua).  Gridavano  i  tribuni 
al  sacrilegio  :  vi  erano  aruspici  che  narravano  al  popolo 
di  orribili  strepiti  che  si  udivano,  di  mostri,  e  di  pro^ 
digi;  essere  gli  Dei  irritati  per  varie  cause,  ed  una  fra 
queste  (inserita  fra  le  altre  quasi  casualmente)  essere 
l'uso  profano  di  luoghi  sacri;  doversi  placare  gli  Dei 
per  allontanare  i  danni  imminenti.  Cicerone  non  ne- 
gava la  verità  dei  prodigi,  perchè  negandola  avrebbe  in- 
sultalo alla  credenza  delle  plebi,  che  tanto  è  più  intensa 
nelle  cose  incredibili,  e  quindi  indimostrabili  ;  ma  diceva 
di  temere  che  gli  bei  non  vendicassero  sulla  povera 
Roma  le  scelleraggini  ed  i  furori  tribunizii:  questa 


284  PiETS  TBEZi 

essere  la  vera  causa  dell'ira  degli  Dei  ;  li  placasse  il 
popolo  colla  tranquilla  e  devota  ubbidienza  IDe  Ha- 
ruspicum  responsis). 

Ma  Clodio  sempre  imperversava  più  fiero  ,  e  ad 
ogni  istante  si  combatteva  nel  fòro  :  le  condizioni  le- 
gali cessavano ,  e  centurie  e  tribù  erano  da  repentine 
violenze  raccolte  e  dissipate.  Il  grande  agitatore  delle 
plebi  era  Clodio ,  ed  un  patrizio  lo  uccise  :  sperò  il 
Senato  in  qualche  ritorno  di  calma  :  non  si  oppose 
alla  vendetta  giuridica,  ed  ammise  l'accusa  :  fors'an- 
che  i  patrizii  sentirono  meno  la  gratitudine,  che  pri- 
ma non  avessero  sentito  il  bisogno.  L'uccisore  Milone 
venne  condannato  all'esilio,  essendo  troppo  evidente 
per  ogni  consesso  di  giudici  che  nell'ultimo  fatto  in  cui 
Clodio  morì,  non  egli,  ma  Milone  aveva  provocato  la 
rissa.  La  capacità  a  delinquere ,  per  valerci  della  fra^e 
ai  criminalisti  ben  nota,  era  squisita  in  entrambi:  si 
erano  l'un  Tallro  almeno  venti  volte  combattuti  nelle 
piazze  di  Roma.  Milone  non  premeditò  l'omicidio,  al- 
trimenti sarebbe  uscito  di  Roma  accompagnato  soltanto 
da'  suoi  armigeri,  e  non  dalla  moglie  e  da  ancelle.  Ed  an- 
che Clodio  probabilmente  non  aveva  in  animo  di  assalire, 
ma  se  anche  l'avesse  voluto,  quando  s'abbattè  in  Mi- 
lone con  trecento  schiavi  e  gladiatori,  egli  che  ne  aveva 
soli  ventisei,  avrebbe  schivato  e  differito  l'aggressione. 
Vedendo  poi  che  Milonegià  vincitore  nella  rissa  sangui- 
nosa, assalta  la  casa  ove  era  stato  trasferito  Clodio  se- 
mivivo per  le  riportate  ferite,  e  lo  massacra,  chi  non  giu- 
dicherebbe soverchiali  i  limili  della  difesa?  E  cade  quasi 
nel  ridicolo  Cicerone  oratore  nel  dire  che  Milone  non 
poteva  volere  uccidere  Clodio  segetem,  ac  materiem  mm 
glorile,  e  nel  pregare  i  giudici  di  salvare  Milone  perchè 
è  suo  amico,  perchè  promise  di  salvarlo  ai  suoi  figli, 


CAPITOLO  m.  !285 

perchè  sta  franco  con  una  faccia  ribalda,  e  non  piange, 
perchè  chi  lo  vuol  salvo  è  Cicerone  I  Strana  poi  e  crudele 
si  è  Taltra  espressione  di  Cicerone,  che  richiamando  nelle 
Filippiche  l'uccisione  di  Clodio,  parla  del  fatto  di  Milone 
quasi  dicesse  d'affare  civile  definito  e  composto:  Milo 
rem  trantegit. 


CAPITOLO  IV. 
Pompeo  e  Cesare. 

Clodio  era  caduto,  ma  un  uomo  infinitamente  maggiore 
di  lui  erasi  levato  a  capo  delle  moltitudini  agitate  e  pres- 
soché ribellanti  alVautorità  del  Senato.  Era  Cesare:  per 
avi,  per  ingegno,  per  vittorie  riportate,  per  governate  Pro- 
vincie, già  tutti  il  vedevano  rivale  a  Pompeo.  Idoleggiato 
dal  popolo,  guidante  un  esercito,  padrone  delle  Gallio, 
non  lontano  da  Roma,  Cesare  poteva  forse  rovesciare  la 
sospesa  bilancia  se  avversava  arditamente  il  Senato,  si 
contrapponeva  a  Pompeo,  e  conservava  le  truppe  nella 
sua  provincia  al  Campidoglio  vicina.  I  patrizi!  lo  vollero 
dunque  disarmare  :  gli  chiesero  una  parte  delle  truppe, 
gli  negarono  di  aspirare  al  consolato  stando  lontano,  o 
di  conservare  più  lungamente  legioni  e  provincie.  Vide 
Cesare  e  vide  il  popolo  dove  il  colpo  mirava  :  le  sorti 
commettevansi  al  cimento  dell'armi  :  guideranno  la 
guerra  pel  Senato  Pompeo,  e  pel  popolo  Cesare. 

L'elemento  popolare  era  più  forte  in  Roma  ed  Italia 
che  non  in  qualunque  provincia.  Infatti  le  lontane  Pro- 
vincie soggiacciono  all'influsso  patrizio  molto  più  lun- 
gamente delle  città,  perchè  i  patrizii  conservano  nelle 
Provincie  la  loro  influenza  patrimoniale,  sinché  il  tempo 
vi  ha  diviso  quei  latifondi,  quelle  dovizie,  e  quelle  legioni 
di  servi ,  che  le  leggi  non  tolgono  se  non  coll'azione 
lenta  del  tempo. 


eiPiTOLO  IV.  S87 

Quindi  Cesare  passò  il  Rubicone,  invase  immediata- 
mente ritalia,  marciando  a  gran  giornate  su  Roma. 
Non  era  superstizioso ,  ma  quand'anche  slato  lo  fosse, 
ed  avesse  creduto  a  quella  apparizione  della  patria 
che  Lucano  ci  narra,  non  era  certamente  il  freddo  dis- 
corso che  le  pose  in  bocca  il  poeta,  che  l'avrebbe  arre- 
stato al  passaggio,  0  fatto  più  lento  nel  molo.  Lo  spronava 
la  voglia,  e  non  lo  riteneva  il  timore:  vediamo  infatti  nei 
Gommentarii  che  i  tribuni  del  popolo,  fuggiti  da  Roma, 
si  trovavano  nel  suo  campo,  e  l'assalto  era  quindi,  al«- 
meno  nei  rapporti  col  popolo,  legalizzato.  Si  mosse  dap* 
principio  con  una  sola  legione;  ma  già  rimarcammo  che 
l'influenza  patrizia,  almeno  in  Italia,  crollava.  Edi  Com* 
menlarii  cesariani  narrano  che  Gubio,  Osimo,  Cingoli, 
Ascoli,  Sulmona,  Pontina  ecc.,  tutte  piazze  presidiate, 
subilo  insorsero  a  favore  di  Cesare,  e  quasi  tutte  legnar* 
nigioni  militari  si  dichiararono  per  lui  :  nella  sola  Cor* 
fìnio  trenta  coorti  pompejane  dopo  breve  simulacro  di 
resistenza  s'arresero,  e  consegnarono  i  loro  capi.  Defe* 
zionarono  a  favore  di  Cesare,  o  stettero  cheti  anche 
molti  di  quelli  che  aveva  beneficato  Pompeo  :  qui  per  eum 
aut  honores  aut  dtvitia$  eeperant,  partim  invitmimi 
castra  sunt  secutù  partim  snmma  cum  offemione  Pom^ 
pei  domi  remanserunt,  dice  Cornelio  nella  vita  di  Attico. 
Probabilmente  costoro  come  uomini  di  fede  mutata  mo- 
stravansi  pih  dì  tutti  zelanti  per  Cesare,  e  strascinarono 
i  più  infingardi  e  timorosi  nel  moto. 

In  Roma  era  il  centro  di  tutto  :  vi  erano  risorse  ine- 
sauribili, e  vi  era  l'apparenza  della  legittimità  del  co- 
mando :  quindi  Cesare  marciava  difilato  sovr'essa.  Man- 
cavano le  forze  a  Pompeo:  moltiplicava  i  proclami:  li 
moltiplicava  per  esuberanza  anche  Cesare  :  l'uno  dicevasì 
di  femore  del  Senato,  Fallro  del  popolo,  entrambi  di- 


288  PARTE  TERZA 

femori  di  Roma:  Vogliono  entrambi  la  libertà  e  la  pace: 
entrambi  sono  pronti  a  disarmare,  ma  quando  rawer- 
sario  abbia  già  disarmato:  intanto  raccoglie  ciascuno 
nuove  truppe  quante  piti  può.  Pompeo,  che  è  il  più  de- 
bole, manda  legati  a  Cesare  che  parlano  d'amicizia,  di 
parentela,  di  facilità  d'accordi,  ma  retroceda  nella  Gallia, 
ed  andrà  poi  in  provincia  anch'egli.  Cesare  non  respinge 
i  legati,  anzi  li  accarezza,  che  chiunque  ha  fisso  la 
guerra  fa  ampie  proteste  di  pace,  ma  marcia,  ed  entra 
in  Roma.  Irritato  per  fuga,  Pompeo  aveva  dichiarato  che 
avrà  per  nemico  chiunque  non  si  levi  contro  di  Cesare: 
questi  più  sicuro  e  più  savio  offre  tranquillità  alle  masse: 
avrà  per  nemici  quei  soli  che  si  schierino  contro 
di  lui. 

Trovò  Cesare  il  pubblico  tesoro  in  Roma,  e  ne  prese 
gran  somma.  Dicono  alcuni  scrittori  che  Pompeo  vi 
aveva  lasciato  il  tesoro  per  negligenza  inescusabtle  di 
non  assicurarsene  e  trasportarlo  con  sé.  Noi  non  cre- 
diamo però  che  vi  siano  consoli  o  capitani  d'esercito  che 
commettano  si  gran  negligenza  di  lasciar  il  tesoro  al  ne- 
mico, né  siavi  mai  tal  fretta  di  fuga  che  impedisca  di 
prendere  e  trasportare  il  denaro.  Affermano  altri  scrit- 
tori che  il  tesoro  era  conservato  nel  tempio  di  Saturno,  e 
credevasi  quindi  in  sicuro  per  la  riverenza  del  luogo. 
Ma  quando  pur  fosse,  Tesservi  il  tesoro  al  sicuro  da 
Cesare,  ne  dava  forse  la  disponibilità  a  Pompeo,  o  que- 
sti aveva  denaro  di  troppo?  Non  v'era  in  Roma  chi 
potesse  credere  all'inviolabilità  del  tesoro  per  la  san- 
tità di  quel  tempio.  Ridondano  nella  storia  gli  esempii  di 
luoghi  santi  invasi  e  saccheggiati  da  Persiani,  da  Carta- 
ginesi, da  Greci,  da  Romani:  si  spogliarono  egualmente 
da  popoli,  da  ribelli,  da  condottieri,  da  re:  si  espilarono 
parimenti  da  Pagani  e  Cristiani  ora  per  avaro  ladroneg- 


CAPITOLO  IT.  289 

gio,  ora  per  necessità  delVerario»  ora,  e  fu  il  caso  più 
raro,  per  destinazioni  d'utilità.  Il  più  delle  volte  si  prese, 
e  non  si  pensò  nemmeno  a  dare  le  apparenze  legali  al 
fatto  del  prendere;  talora  voli  si  raccolsero,  e  suffragi  si 
ebbero,  perchè  tutto  si  ha  da  chi  possiede  la  forza,  e 
questa  era  di  Cesare. 

Rimase  in  Roma  il  tesoro,  perchè  Pompeo  non  osò  di 
toccarlo:  vi  rimase  perchè  la  rivoluzione  morale  era  già 
vittoriosa  in  Roma  prima  dell'arrivo  di  Cesare,  e  Potn- 
peo  doveva  temere  d'opposizione  all'atto  rapace,  e 
di  provocare  rivolta  ove  già  vi  era  fermento,  ed  il 
suo  potere  cadeva.  Diciotlo  secoli  dopo  il  mondo  ve- 
deva un  fatto  eguale,  quello  cioè  di  Napoleone  che 
dall'Elba  disceso  a  Cannes,  n'andava  con  mille  soldati  a 
Parigi  a  riprendervi  il  trono,  ed  egli  pure  vi  trovava 
quanto  di  mezzi  di  governo  raccoglieva  la  grande  città. 

Provveduto  di  denaro.  Cesare  ordina  di  costruire  due 
flotte,  l'una  sull'Adriatico,  l'altra  sul  mar  Tirreno,  e  non 
tollera,  anzi  fieramente  reprime  nelle  ben  allestite  sue 
truppe  il  disordine  e  l'indisciplina,  facili  a  propagarsi  in 
casi  si  gravi  (1).  Libera  poi  Aristobolo,  già  re  degli  Ebrei, 
che  era  prigioniero  in  Roma,  forse  per  inviarlo  a  com- 
movere la  Siria,  dove  Scipione  levava  truppe  contro  di 
Cesare.  E  gli  Ebrei  non  dimenticano  nemmeno  quelle 
povere  loro  speranze  :  quando  Cesare  fu  fatto  cadavere, 
gli  Ebrei  ne  visitavano  mesti  ed  onoravano  la  salma  : 


(1)  Gli  atti  d'indiseiplina,  e  la  repressione  severa  sono  toccati  anche  da  Lu- 
cano nel  libro  I  della  Farsaglia  :  i  soldati  della  nona  lefpone  erano  già  trascorsi 
ad  eccessi  ;  richiamati  al  dov.ere,  disordinavano  ancora  ;  vociferavano  che  mentre 
Cesare  li  guidava  ad  attaccare  il  Senato,  li  voleva  esempii  di  virtù  ;  che  nelle 
Gallie  era  capitano,  ed  in  Italia  era  complice  :  Imus  in  omne  nefas^  pauperate 
pii:  dux  erat,  hic  sadiu:  facinus  quos  inquinata  ctquat.  Cesare  in  allora 
decimò  la  legione. 

19 


290  PARTE  TERZi 

pracipueque  Judm,  qui  etiam  noctibus  continua  hur 
slum  frequentaverunt  (Svet.,  C(es.,  c.  84). 

Lasciala  Roma,  Pompeo  non  sostò,  non  tentò  in  alcun 
luogo  difese,  ma  corse  a  Brindisi.  Nei  casi  ordinarii  di 
guerra  non  avrebbe  rinunciato  si  tosto  a  sostenerci  in 
Italia:  poteva  gettarsi  nell'aspro  paese  dei  Marsi  e  San* 
niti  (l'Abruzzo),  che  è  la  più  forte  posizione  per  con- 
trastare la  marcia  ad  un  esercito  che,  vittorioso  sul  Po, 
sia  entrato  nel  Piceno  ed  Etruria.  Da  quel  baluardo  equi- 
distante dalla  doppia  marina,  e  coperto  contro  gli  as- 
salti di  fronte,  avrebbe  tenuto  l'occhio  su  Roma,  tagliato 
le  comunicazioni  a  Cesare  se  tentava  girarlo  lungo  la 
zona  orientale  dell' Averno,  del  Sangro  o  Tiferno,  o  lungo 
l'occidentale  del  Liri  e  Volturno,  e  potuto  valersi  a  difesa 
dei  fianchi  delle  munite  città  di  Gasilino,  di  Fregelle,  di 
Istonio  e  di  altre,  che  erano  in  quei  tempi  ciò  che  furono 
nei  moderni  Civitella  e  Pescara  nell'est,  e  Gaeta  e  Gapua 
nell'ovest,  tutte  erette  a  sostegno  delle  linee  medesime  (1). 
Anche  nelle  guerre  sillane  Pompeo  aveva  avuto  ed  esem- 
pio altrui,  e  propria  esperienza  di  pertinaci  difese  di  quei 
monti  altissimi  e  di  quelle  gole  tortuose  e  profonde.  Ma 
egli  disperava  di  tener  fermo  finché  da  tergo  gli  arrivas- 
sero d'oltremare  gli  ajuli  :  ben  poche  truppe  aveva,  ed 
incerte  di  fede  :  la  resa  di  Corfinio  aveva  d'altronde  scon- 
certato il  sistema,  e  semiaperto  il  paese:  romoreggiavano 
gli  Italici  d'intorno  a  lui  :  gli  stessi  Marsi  e  Sanniti  ave* 


(1)  Noi  auguriamo  di  gran  cuore  prosperità  all'Italia,  ma  se  mai  subissimo 
un  rovescio  sul  Po ,  se  perdessimo  quella  magnifica  posizione  strategica  di 
Piacenza,  e  dovessimo  ridurci  a  difendere  temporariamente  una  sola  mela  del 
paese  per  ricuperare  Tintiero,  vorremmo  che  riparando  all'Abruzzo,  già  vi  tro- 
vassimo nel  centro  e  sui  Banchi  moltiplicata  daìrarte  la  forza  naturale  dei  siti, 
sicurate  dalle  offese  le  comunicazioni  coi  centri  più  importanti  deirilalia  au- 
strale, e  liberi  a  noi,  e  chiusi  al  nemico  gli  approdi  per  operazioni  navali  com- 
binate alle  difese  terrestri. 


CAPITOLO  lY.  291 

vano  nelle  guerre  precedenti  seguilo  le  parli  popolari  e 
non  le  patrizie  :  poteva. yenir  serralo  nelle  rupi  del  San- 
nio,  farvi  come  leone  temporanea  difesa,  prorompere 
talvolta  e  ferire,  ma  colla  quasi  certezza  di  essere  da 
ultimo  separato  dal  mare,  diviso  dalle  truppe  accorrenti 
dalVAsia,  privo  d'alleati  e  spento.  Cesse  d'Italia:  segui 
la  lurba  dei  patrizii  fuggenti  :  si  fece  schermo  con  essi 
delle  mura  di  Brindisi  preparando  pel  tragitto  le  navi  : 
Cesare  lo  seguiva  dappresso. 

A  Brindisi  la  natura  fu  prodiga  dei  favori  di  porto, 
che  negò  airintiera  costa  fino  ad  Ancona  cento  leghe 
lontana:  Brindisi  è  porta  d'Italia,  ponte  alla  Grecia^  scala 
all'Oriente:  bisogna  cacciare  Pompeo  di  là:  Cesare  pre- 
valente d'audacia  e  d'ingegno  penetra  più  addentro ,  e 
spera  di  rendere  la  prima  offesa  mortale:  ravvisa  infatti 
possibile  di  chiudere  Brindisi  anche  dal  lato  di  mare, 
di  serrarvi  Pompeo  colle  poche  sue  truppe  e  le  molte 
sue  navi,  e  di  fluirvi  la  guerra  col  farlo  prigione.  Il 
doppio  porto  di  Brindisi  comunica  per  uno  strettissimo 
imbuto  0  canale  col  terzo  porto,  o  rada  esterna,  e  per 
essa  col  mare:  bisogna  attraversarsi  al  canale,  e  chiu- 
dere il  varco  che  guida  all'aperto.  Non  si  avevano  allora 
i  nostri  bronzi  per  fulminare  lontano,  per  incrociare  coi 
fuochi,  per  coprire  d'una  ferrea  gragnuola  l'angusto  sen- 
tiero come  si  fece  in  cento  assedii  moderni,  e  si  fa  per 
isolare  una  piazza  dal  mare  :  era  forza  d'avvicinarsi  al 
canale,  di  giunger  sovr'esso,  e  Cesare  s'avanza  lungo  le 
due  lingue  di  terra  fino  al  medesimo.  Si  incominciano 
a  rovinare  le  sponde,  a  gettare  dei  massi  per  ostruire 
il  passaggio  :  può  seguirne  per  lungo  tempo ,  forse 
per  sempre,  incalcolabile  danno  ad  un  porto  ottima- 
mente situato  e  prezioso ,  ma  chi  si  trattiene  per  tali 
considerazioni  dal  vincere?  Se  vi  sono  in  Europa  molti 


S92  FllTK  TERZA 

porti  migliorati  o  creati  da  pertinace  lavoro  degli  uo- 
mini ,  non  ne  furono  pur  molti  di  colmali  e  distrutti 
per  fatti  di  guerra,  per  rivalità  di  commerci,  per  ire 
di  partili  o  di  popoli?  Si  avvide  Pompeo  del  pericolo 
sorto  e  rapidamente  crescente,  non  esitò  finché  fosse 
incarcerato  in  Brindisi,  urtò  negli  ingombri  tuttora  po- 
chi e  mal  sodi,  pugnò  più  giorni,  alfine  forzò  il  passo, 
fu  in  libero  mare ,  ed  in  Grecia.  La  sua  era  fuga ,  ma 
sembrava  vittoria,  e  Cesare  deluso  della  preda  mancata, 
e  meno  lieto  dell'Italia  occupata,  ritorna  a  Roma,  e  passa 
tosto  in  Ispagna. 

L'Oriente  era  aperto  avanti  a  Pompeo,  quell'Oriente 
che  era  stato  campo  di  sua  gloria,  dove  egli  tolse  e  diede 
corone  :  ivi  raccoglierà  denaro  e  truppe,  farà  ritorno  ar- 
mato, ripetendo  come  Siila  coll'esercito  d'Oriente  l'inva- 
sione d'Italia.  E  Cesare  non  lo  incalza  colla  spada  alle 
reni?  E  Pompeo,  che  non  ha  seco  un  vero  esercito,  potrà 
tranquillamente  formarlo?  Come  mai  Cesare  s'allontana, 
lascia  perfino  l'Italia  ai  luogotenenti  suoi,  se  ne  va  in 
Ponente,  e  compare  in  Ispagna? 

Pompeo  aveva  condotto  tutte  le  navi  con  sé,  e  richie- 
devasi  tempo  non  breve  per  richiamarne  altre  da  lungi 
(De  bello  civili^  lib.  I,  e.  29).  E  sapeva  Cesare  che 
quando  già  si  battaglia  nei  campi  la  somma  delle  cose 
sta  negli  eserciti,  i  quali  se  le  questioni  non  solvono,  ne 
tagliano  i  nodi  :  fra  gli  eserciti  poi  più  temeva  i  presenti 
e  gagliardi  per  uso  antico  ed  onore  di  guerra,  che  non 
i  futuri,  raunaticci,  senza  palme  ed  allori.  Ora  Pompeo 
governava  per  legati  la  Spagna,  e  vi  aveva  da  cento  mila 
soldati,  ossia  cinque  romane  legioni,  ottanta  coorti  spa- 
gnuole  e  cinque  mila  cavalli  con  .Afranio  e  Petrejo  sul- 
ribero,  e  due  legioni  e  trenta  coorti  spagnuole  con  Var- 
rone  sul  Beti,  laddove  due  sole  legioni  conduceva  con  sé, 


CAPITOLO  IV.  293 

quelle  cioè  che  dianzi  per  ordine  del  Senato  gli  erano  state 
date  da  Cesare,  che  certamente  non  gli  avrà  fatto  ces- 
sione delle  migliori  che  avesse.  Cesare  quindi  drizzò  i 
colpi  dove  vide  il  più  urgente,  il  più  grave  pericolo  : 
stette  a  Roma  non  più  che  bastasse  a  radunare  il  Senato. 
Non  era  numeroso ,  perchè  molti  senatori  avevano  se- 
guito Pompeo ,  ma  giovava  riunirlo  per  togliere  pre- 
stigio a  quel  Senato  migrante  opponendogli  il  Senato 
presente  in  Roma.  Passò  poi  le  Alpi,  e  richiese  d'ajuti 
Marsiglia,  importante  per  se  stessa,  e  per  essere  bqcca 
di  Gallia  e  scala  alla  Spagna,  ma  non  li  ottenne.  Gli  ot- 
timati polenti  in  città  meglio  inclinavano  alle  parti  di 
Pompeo  che  alle  sue  :  tutti  poi  godevano  delle  discor- 
die romane,  sperandone,  se  non  ritorno  a  grandezza, 
diminuzione  d^impero.  Che  in  tanta  bufera  di  venti 
conlrarii  la  nave  marsigliese  potesse  segnare  nel  mare 
un  solco  tranquillo  era  vana  lusinga,  e  conGdente  bal- 
danza, né  Marsiglia  osava  pur  essa  di  gettare  affatto  la 
maschera.  Rispondeva  a  Cesare  :  essere  sempre  stata 
Marsiglia  amica  e  devota  a  Roma,  averla  fin  nel  tempo 
di  Brenno  soccorsa  d'oro  e  d'argento,  poi  di  navi  e  sol- 
dati contro  i  Cartaginesi  ed  i  Galli,  avere  molli  Marsi- 
gliesi militato  nella  mitridatica  guerra,  e  molti  sotto  lo 
stesso  Cesare  nelle  sue  gloriose  campagne  ;  ora  però  ve- 
dere Marsiglia  scompigliate  le  cose  romane,  non  essere 
più  concordi  fra  loro  le  autorità  dello  Stato,  doppii  eser- 
citarsi gli  ufficii,  nelle  legioni  rimettersi  le  decisioni  già 
riservate  al  Senato,  alle  centurie  e  tribù  ;  non  essere  i 
Marsigliesi  abbastanza  perspicaci  a  giudizio  delle  ragioni 
dei  contendenti,  ma  amici  a  Cesare  ed  amici  a  Pompeo, 
ed  il  parteggiare  per  Tuno  o  per  l'altro  sarebbe  scono- 
scenza dei  favori  ricevuti  da  entrambi  (Ces.,  lib.  II;  Giu- 
stino, lib.  XLIII).  Chiudevano  intanto  le  porte  :  ben  avreb- 


294  PARTE  TEftZA 

bero  potuto  dire,  e  col  fatto  il  dicevano  :  fummo  amici  di 
Roma  quando  temevamo  dei  Cartaginesi  sul  mare,  e  dei 
Galli  per  terra,  e  furono  i  Romani  amici  nostri  finché  eb- 
bero bisogno  di  noi  :  essi  non  hanno  però  diviso  le  prede 
con  noi  :  si  dimenticarono  anzi  nell'ozio  e  nella  pace  delle 
promesse  fatte  in  guerra:  appena  ebbimo  in  guiderdone, 
e  fu  quasi  dileggio,  qualche  campo  e  qualche  franchigia: 
ora  la  misura  dei  sacrificìi  è  ricolma,  e  trabocca,  e  non 
ne  faremo  di  nuovi  :  i  Romani  sono  ben  occupati  a  di- 
struggersi, e  lunga  pezza  lo  facciano  senza  di  noi,  e  per 
noi  :  non  temiamo  :  vadano  Cesare  e  Pompeo  per  la  mala 
ventura:  non  vogliamo  dare  né  soldati,  né  denaro,  né 
viveri  0  navi.  Cesare  udiva  le  negative,  comprendeva  gli 
insani  progetti,  vedeva  l'efficacia  dei  pompejani  artificii: 
era  pressato  dal  tempo,  e  pressava  :  non  indugiassero  a 
mostrarsi  coi  fatti  ossequenti  al  popolo  romano  siccome 
dicevano  :  rispettassero  Tautorilà  sì  grande  di  cui  il  po- 
polo romano  l'aveva  di  fresco  munito  ed  armato  :  egli  en- 
trerebbe nell'amica  città.  Dicendo  si  mosse:  allora  Marsi- 
glia coronò  di  difese  le  mura,  ed  introdusse  anche  ajuti 
di  Pompejani  venuti  per  mare  :  fece  perfino  barbaro  mas- 
sacro di  pochi  Cesariani,  perché  non  manca  giammai  chi 
istiga  la  plebe  a  commettere  qualche  gran  scelleraggine, 
onde  bene  s'addentri  nella  via,  ed  abbia  reciso,  o  difficol- 
tato il  ritorno.  Così  Marsiglia  gettò  il  dado,  e  si  precipitò 
nella  guerra  :  poteva  resistere  :  non  era  vasta  come  oggidì, 
ma  avanzante  nel  mare,  e  quasi  da  tre  lati  difesa  da  esso. 
Lasciar  Marsiglia  in  mano  al  nemico  coi  Pompejani  cosi 
prevalenti  dovunque  sul  mare,  e  forti  d'eserciti  nella  Spa- 
gna vicina,  era  per  Cesare  pericolo  grave  :  ordinò  dunque 
la  costruzione  d'una  flotta  sul  Rodano,  e  pose  tre  legioni 
ad  assedio  della  superba  città  :  erano  legioni  sottratte 
alla  guerra  di  Spagna,  dov'egli  colle  altre  marciava.  E 


CAPITOLO  IV.  295 

come  in  questa  guerra  Marsiglia  scemò  le  forze  di  Cesare 
rattenendone  alle  sue  mura  una  parie,  così  le  diminuì 
di  due  legioni  anche  quando  fu  espugnata,  perchè  Cesare 
dovette  lasciarle  a  sorveglianza  ed  impero  mentre  retro- 
cedeva, già  vincitore  di  Spagna,  alla  volta  di  Grecia  contro 
Pompeo.  Grave  corruccio  doveva  Cesare  avere  contro 
Marsiglia,  che  gli  fu  due  volte  d'inciampo  e  pericolo  nel 
corso  delle  grandi  operazioni  di  guerra  :  non  si  legge 
però  di  spietate  vendette:  sapeva  frenarsi. 

Già  aveva  fatto  occupare  i  passi  dei  Pirenei  :  ora  lutti 
vi  aduna  i  gloriosi  veterani,  che  non  sono  d'attorno  a 
Marsiglia  :  loro  unisce  migliaja  d'ajuti  gallici  di  truppe 
leggiere  e  cavalli  :  ha  pure  seco  eletti  giovani  delle  prin- 
cipali famiglie,  ausilio  non  grande  di  guerra,  ma  ostaggi 
importanti  di  politica  fede.  Incontra  i  Pompejani  sulllbero  : 
resistono  da  prodi:  aspeùano  che  venga  a  capilanarli 
Pompeo  :  arriverà  per  mare  a  Tarragona,  a  Cadice,  ar- 
riverà per  la  via  di  Mauritania,  condurrà  le  legioni  d'Africa 
a  certezza  di  vittoria  :  dove  è  Cesare  sarà  certamente  Pom- 
peo: quivi,  e  non  altrove  è  la  guerra.  Ma  Pompeo  non 
compare  :  Cesare  stringe  il  nemico,  e  lo  serra,  usa  la 
spada  e  l'arte,  ma  più  Tarte  che  la  spada  :  molte  città  si 
danno  a  lui  :  la  Belica,  sempre  amica  di  Cesare  che  vi 
fu  propretore  e  questore,  e  vi  scemò  in  quel  tempo,  ne 
avesse  o  non  ne  avesse  autorità,  i  tributi,  ora  è  irritata 
molto  più  contro  i  Pompejani  per  leve,  per  tolte  di  denaro 
e  di  viveri,  per  taglie  e  minaccie  :  tituba  in  fede  Italica  : 
fa  sdegnose  mostre  SivigUa,  e  Yarrone  adunque  non  osa 
togliersi  di  là  per  riunirsi  ad  Afranio  e  Petrejo.  Questi 
hanno  ormai  inopia  di  tutto  :  più  non  confidano  nemmeno 
in  quelle  posizioni  di  Lerida,  che  pur  sono  si  forti,  e  furono 
in  ogni  tempo  della  storia  teatro  di  gloriose  difese  :  Cesare 
è  già  penetrato  in  più  siti,  è  padrone  dei  passi  dei  fiumii 


296  PjLKTB  TEEZi 

scorre  vittorioso  il  paese  colla  polente  cavalleria  di  Gallia. 
Decampano  adunque  :  andranno  nei  Celtiberi  :  quelle  sono 
contrade  ancora  più  forti  :  vi  si  farà  la  resistenza  perti- 
nace che  vi  fecero  Serlorio  e  Viriato,  e  vi  fecero  i  Numan- 
tini  :  Pompeo  si  scuoterà  finalmente:  non  lascierà  che 
vengano  calpestali  gli  stendardi  delle  sue  veterane  legioni  ! 
Cesare  segue,  fiancheggia,  precorre  :  riesce  a  precludere 
ad  Afranio  e  Petrejo  la  ritirata  nel  nord:  essi  tentano  al- 
lora di  rovesciarsi  sulla  linea  di  Tarragona,  ma  quella 
piazza  è  lontana  :  Cesare  incalza,  preme  ed  accerchia  : 
mesta  convenzione  segnano  Afranio  e  Petrejo  fra  soldati 
sbigotlili  0  titubanti  in  fede.  Le  loro  legioni  saranno  di- 
sciolte contro  promessa  dei  singoli  di  non  più  battersi 
contro  di  Cesare.  Ma  alla  coscienza  facile  di  mille  soldati 
romani,  e  più  ancora  spagnuoli  sembra  atto  di  libertà  il 
passare  al  servizio  di  Cesare,  perchè  dalla  fede  già  data 
a  Pompeo  li  sciolsero  i  palli,  e  questi  vietano  il  battersi 
contro  di  Cesare,  ma  non  di  battersi  a  favore  di  Cesare. 
Sono  però  fedeli  Afranio  e  Petrejo  :  entrambi  caddero  più 
tardi  sotto  pompejana  bandiera  :  Varrone  invece,  uditi  i 
rovesci  delFEbro,  consegna  a  Cesare  e  legioni,  e  coorti,  e 
denaro,  ed  anche  le  navi  con  cui  questi  corre  fino  a  Ca- 
dice, ritorna  a  Tarragona,  e  di  là  passa  a  Marsiglia,  che 
ormai  caduta  d  ogni  speranza  s'arrende. 

Cosi  Cesare  era  padrone  deiritalia,  dell'ampiissima 
Gallia  e  di  Spagna  :  Carlo  Magno,  che  fu  si  grande,  non 
ha  posseduto  reame  più  vasto I  II  principale  esercito  ppm- 
pejano  è  distrutto  :  si  felice  successo  può  ben  consolarlo 
della  perdita  di  due  legioni  mandate  con  Curione  ad  oc- 
cuparvi i  PompejanideirAfricamentr'egli  operava  in  Ispa- 
gna,  e  della  Dalmazia  già  sua,  e  nel  frattempo  caduta  in 
mano  a  Pompeo.  E  questi  intanto  ha  già  raccolto  nella 
Grecia  un  esercito,  ed  un  altro  ne  raccolse  in  Oriente  Sci- 


CAPITOLO  IV.  297 

pione,  che  marcia  a  congìungersi.  L'affrettarsi  al  pas- 
saggio in  Grecia  non  è  soltanto  saggezza  per  Cesare,  ma 
imperioso  bisogno. 

Brindisi  vede  un'altra  volta  addensarsi  nelle  sue  mura, 
stendersi  sul  margine  delle  sue  marine  le  galliche  legioni 
fiere  degli  antichi,  dei  nuovi  tronfi,  del  genio  di  Cesare: 
esse  guardano  dalle  italiche  le  coste  di  Grecia,  ed  hanno 
navi  bastevoli  a  successivi  trasporti  pel  mare  non  largo, 
ma  di  «mezzo  vi  è  la  flotta  pompejana  numerosa  e  po- 
tente, che  scorre  la  costa  e  sorveglia,  e  talvolta  s'affac- 
cia perfino,  ed  adocchia  nella  rada  di  Brindisi.  Cosi  al 
principio  del  secolo  il  floridissimo  esercito  di  Francia  era 
schierato  sulla  Manica  presso  le  migliaja  delle  sue  barche 
osservando  le  coste  britanniche,  ed  i  vascelli  d'Inghil- 
terra che  nel  canale  s'incrociavano,  s'avvicinavano,  in- 
sultavano, impedivano  il  passo. 

Struggevasi  Cesare  d'impazienza  :  stava  pronto  a  co- 
gliere il  primo  colpo  di  vento  favorevole  a  sé,  e  contra- 
rio al  nemico  :  lo  colse ,  fu  fortunato  come  Bonaparte 
quando  di  mezzo  ai  nemici  potè  involarsi  e  sbarcare 
in  Egitto  :  varcò  incolume,  e  tradusse  in  Epiro  una 
metà  dell'esercito.  Qual  era  l'aspetto  del  campo  pom- 
pejano  ?  Cicerone  prima  della  pugna  di  Farsaglia  scri- 
veva dal  quartier  generale  di  Pompeo  che  ogni  cosa  era 
in  diiordine,  e  che  nulla  di  preparato  vi  era,  e  scrive 
poi  dopo  la  rotta  :  Pompejus  signa  tirone  et  collectitio 
exercitu  cura  legionihm  robustissimis  contulit.  E  Cesare 
che  noi  finora  abbiamo  fedelmente  seguito,  scrive  pur 
esso  degli  strani  elementi  ond'era  composta  quella  varia 
agglomerazione  d'armati,  né  certamente  esagerò  perché 
ne  veniva  scemato  lo  splendore  della  sua  vittoria. 

V'era  poi  nell'esercito  cesariano  vigore  di  soldati,  as- 
soluto impero  e  genio  del  capo  :  nel  pòmpejano  trova- 


298  PARTE  TERZA 

vansi  invece  duecento  senatori,  volendosi  in  esso  conser- 
vare le  forme  e  la  visione  di  repubblica  :  ivi  si  altercava 
per  gli  impieghi  da  conferirsi  in  Roma  quasi  fosse  già 
presa,  ivi  preparavansi  liste  di  proscrizione,  ivi  si  mor- 
morava d'Afranio  comandante  un'ala  di  esercito,  e  forse 
buon  duce,  ma  macchiato  nell'opinione  dei  soldati  per 
avere  di  fresco  perdute  le  sue  legioni  in  Ispagna,  e  per- 
fino tacciato  dai  prù  esaltati  d'averle  tradite.  Si  mormo- 
rava dello  stesso  Pompeo  che  differisse  il  combattere  per 
conservare  il  comando  :  gli  esaltati,  gli  stanchi,  i  molti  che 
pullulano  nelle  agitazioni  civili  ov'è  cattiva  decisione  da 
prendere,  s'univano  d'attorno  allo  stesso  Cicerone,  ed 
egli  che  pur  doveva  scrivere  un  giorno  le  suddette  parole 
che  nulla  era  pronto,  parlava  per  sé,  parlava  per  gli 
altri,,  parlava  per  tutti  :  era  impaziente  d'indugi  :  voleva 
combattere,  essere  trionfante  a  Roma,  e  sermonare  da 
mane  a  sera  nel  fòro.  Lucano  deride  o  sembra  deridere 
Cicerone  soldato  :  dice  appunto  che  non  tollerava  tam 
longa  tilentia  miles,  irafus  belli,  qnum  rostra  forum- 
que  optaret  (lib.  VII).  Era  pessima  condizione  di  guerra, 
in  cui  ciascuno  si  millantava  sapiente  a  comando,  ed  im- 
poneva i  consigli,  sì  che  Pompeo  non  potesse  proibire  il 
mal  fare,  ma  solo  avesse  autorità  di  mandarlo  ad  effetto. 
La  disciplina  degli  eserciti  d'ogni  tempo  e  luogo,  di  quelli 
in  ispecie  che  formansi  nelle  agitazioni  civili,  non  è  me- 
rito dei  soggetti,  ma  virtù  del  capo,  che  per  calcolo  è 
rigido,  che  insegna  l'ubbidienza  ai  più  bassi  coll'ottenerla 
dai  primi,  che  rimuove  dalle  schiere  chi  non  ha  giura- 
mento da  milite.  Questa  virtù  in  Pompeo  non  v'era:  si 
irritava  da  saggio,  ripudiava  le  idee,  ma  alle  persone 
cedeva:  fors'anche  cedeva  a  vanità:  si  batterebbe  con 
Cesare:  Pompejum,  vincere  lente ^  gentibus  indignum  est 
a  transeunte  subactis. 


CAPITOLO   IV.  200 

Quant'era  invece  nei  veterani  di  Cesare  la  confldente 
ubbidienza,  la  gloria  dei  trionfi,  la  sicurezza  del  suc- 
cesso! Erano  quotidiane  le  diserzioni  dei  Pompejani  a 
Cesare:  nulle  quelle  dei  Cesariani  a  Pompeo:  già  si  com- 
batteva da  più  mesi,  e  non  altri  che  due  AUobrogi  erano 
passati  a  Pompeo  fuggendo  a  pena  ed  infamia  di  delitti 
commessi  {Comment,].  E  nel  di  di  Farsaglia  Graslino  tri* 
buno,  traendosi  dalle  file,  gridava  che  in  quella  giornata 
avrebbe  cessato  d'opprimerlo  il  peso  della  gratitudine: 
Finora,  o  Cesare,  per  infiniti  beneficii  noi  ti  dobbiamo 
ringraziare  ;  ma  vogliamo  quest'oggi  che,  vivi  o  morti, 
ci  abbia  tu  stesso  a  ringraziare!  Queste  parole  sono  ri* 
ferite  da  Cesare  nei  Commentarii  suoi,  né  in  alcuna  allo- 
cuzione militare  antica  o  moderna  abbiamo  trovato  egual 
forza  di  sentimento  giammai. 

Tali  erano  i  due  eserciti,  ma  non  riuniti  né  l'uno,  né 
l'altro.  Una  metà  di  quello  di  Cesare  era  con  Antonio  a 
Brindisi,  ed  una  metà  di  quello  di  Scipione  in  marcia 
nell'Asia  ed  in  Tracia:  Pompeo  era  a  Durazzo,  e  per 
l'inestimabile  premio  che  Cesare  avrebbe  avuto  nel  pren- 
derla aranti  che  Scipione  giungesse,  Cesare  circondava 
la  piazza,  ed  osava  forse  precipitosi  gli  assalti,  si  che  ne 
era  aspramente  respinto.  Chiamava  l'arrivo  prontissimo 
delle  altre  truppe  da  Brindisi  quasi  fosse  libero  il  mare 
dalle  navi  nemiche  di  Bibolo,  ed  al  suo  comando  i  venti 
necessarii  pel  passo  rischievole:  scorse  nell'ansietà  tutta 
la  stagione  d'inverno:  crebbe  l'ansietà  collo  scemarsi 
giornaliero  della  lontananza  di  Scipione.  Instava  Cesare: 
voleva  vedere,  guidare  il  fortunoso  passaggio  egli  stesso: 
esponevasi  ai  rischi  delle  navi  nemiche  e  del  mar^  agi- 
tato: ben  sapeva  dei  rischi,  e  non  che  avesse  la  cieca  fi- 
ducia del  quid  times  ?  Cwmrem  vehis,  che  piacque  a 
Plutarco^  ad  Appiano,  a  Dione,  e  fu  si  malamente  ampli* 


300  PARTE  TEBZi 

ficaio  da  Lucano,  quando  infuriò  la  procella  voltò  pru- 
dentemente la  prora,  e  là  tornossi  da  dove  era  venuto. 

Finalmente  Antonio  corse  gli  azzardi  del  mare,  e 
con  altre  tre  legioni  e  molti  cavalli  usci  da  Brindisi, 
ma  inseguito  dalle  navi  di  Bibolo,  o  portato  dal  vento, 
non  potè  tenersi  al  sud  di  Durazzo,  ed  afferrare  alla 
costa  occupata  da  Cesare:  toccò  invece  a  Lisso  neirillirico, 
molto  al  nord  di  Durazzo,  e  quindi  trovossi  di  avere 
Pompeo  frammezzo  alle  sue  posizioni  ed  a  quelle  di 
Cesare.  Muove  allora  da  Durazzo  Pompeo  nella  spe- 
ranza di  sorprenderlo  isolato,  e  distruggerlo:  muove 
anche  Cesare  dalle  sue  linee  sulFApso  per  soccorrere 
Antonio,  e  congiungersi  a  lui.  Lo  spazio  si  restringe,  e 
si  attende  una  giornata  campale;  ma  teme  Pompeo  di 
essere  soffocato  fra  i  due  campi  nemici  :  si  ritira,  e  Ce- 
sare ed  Antonio  riuniscono  le  loro  legioni  :  tentano  di 
nuovo,  ma  inutilmente,  di  forzare  Durazzo. 

Potrebbe  Cesare  slare  a  campo  sotto  Durazzo,  e  con- 
tinuarne l'oppugnazione,  ma  con  fama  per  inutili  sforzi 
scemata,  coi  viveri  mancanti  pel  mare  non  suo,  e  colla 
certezza  di  riporsi  nella  stessa  situazione  pericolosa,  in 
cui  già  trovossi  nelle  Gallie  ad  Alesia,  di  essere  cioè, 
quando  giunga  Scipione,  circondato  egli  pure  nelle 
proprie  Irinciere.  Ormai  gli  è  forza  di  prendere  repentino 
e  straordinario  partilo  :  poco  o  nulla  più  ha  da  sperare 
di  rinforzi  da  Brindisi:  i  Pompejani  hanno  occupalo 
risola  nella  rada  esterna  di  quella  città,  vi  si  stabilirono 
in  forza,  rinnovano  sovente  il  presidio,  e  mantengono 
adesso  un  blocco  infrangibile.  Perchè  si  tardi  occuparono 
risola?  Da  sessanta  ad  ottanta  mila  uomini  fra  legioni 
ed  ajuti  ne  sono  già  usciti ,  e  basteranno  a  Farsaglia. 
Ha  le  mille  volte  in  pace  ed  in  guerra  non  si  sono  per 
corta  sapienza  portati  troppo  tardi  i  rimedii? 


CAPITOLO  IT.  301 

Le  posizioni  poinpejane  sono  però  migliori  di  quelle  di 
Cesare.  Pompeo  può  riunirsi  a  Scipione  per  la  facile  via 
che  da  Durazzo  guida  direttamente  in  Macedonia  per  Can- 
davia  ed  Eraclea:  può  chiamarlo  a  sé:  può  con  forze  riu- 
nite, e  col  dominio  del  mare  passare  in  Italia  :  può  anche 
dirigere  per  Tlllirico  e  pel  mare  nella  Gallia  cisalpina  Sci- 
pione. Provveduto  dalle  navi,  Pompeo  può  stare  raccolto,  e 
Cesare  ha  dovuto  estendersi  per  vivere  sul  golfo  Ambra- 
cico,  sul  Corinzìaco,  fino  sulPEuboico  e  sul  Maliaco. 
Bisogna  intraprendere  un  movimento  generale ,  e  ripa- 
rare con  nuovo  intendimento  strategico  ai  danni  della 
posizione  attuale.  I  Cesariani  distesi  adesso  in  una  lun- 
ghissima curva  dalle  vicinanze  di  Durazzo  lungo  l'Epiro, 
TAcarnania ,  TEtolia  e  la  Locrìde,  hanno  la  fronte  al 
mare  Jonio  :  dovranno  invece  volgere  le  spalle  al  Jonio, 
e  la  fronte  all'Egeo  :  tutta  la  linea  deve  avanzare  al  nord, 
e  le  ali  serrarsi  sul  centro  per  entrare  compatti  e  po- 
derosi in  Tessaglia:  quella  è  provincia  ubertosa,  forse 
la  più  ubertosa  di  tutte  le  greche  ;  l'esercito  vi  troverà 
facili  sussistenze  e  ristoro  delle  fami  patite  lungo  lejonie 
marine.  Muovono  le  truppe;  ma  al  concavo  della  loro 
linea  di  marcia  si  presenta  il  convesso  dell'arco  della 
catena  del  Pindo,  che  confina  la  Tessaglia  da  quel  lato 
di  Grecia:  la  gran  concentrazione  ha  appunto  a  seguire 
sul  versante  orientale  del  Pindo:  le  truppe  hanno  dun- 
que asprissime  vie  a  battere  per  passare  quei  varchi.  Le 
legioni  galliche  però  sono  perduranti  agli  slenti:  sanno 
che  Cesare  non  li  domanda  se  non  per  alti  disegni:  pas- 
sano lutti  i  varchi  del  Pindo,  scendono  a  Gomfi,  ad 
Itome,  a  Metropoli,  sui  destri  affluenti  del  Penco. 

Precorre  alla  gran  marcia  il  cesariano  Domizio  Cal- 
vino con  forte  nerbo  d'armati  :  egli  deve  oltrepassare  la 
Tessaglia,  spingersi  in  Macedonia:  si  affretti,  minacci. 


302  PAfiTB  TEBZi 

SÌ  ponga  ben  anche  a  cavaliere  della  via  che  da  Durazzo 
guida  ad  Eraclea  e  Tessalonica,  veda  spuntare  Scipione, 
lo  numeri,  lo  provi,  lo  travagli,  lo  affami,  e  rallenti.  In- 
tento a  Scipione,  volga  però  Domiziolo  sguardo  inquieto 
a  Durazzo  :  scorra  coi  cavalli  da  lungi  per  sorprendere  i 
corrieri  fra  Scipione  e  Pompeo,  e  per  conoscere  le  mosse 
d'ognuno,  e  più  le  concertate  fra  entrambi:  non  attenda 
di  pie  fermo  l'assalto  di  Scipione  se  non  è  certo  di  vit- 
toria, e  quello  di  Pompeo  giammai.  Si  tenga  in  legame 
con  Lucio  Crasso  Longino,  che  viene  secondo,  e  que- 
sti con  lui:  rammentino  entrambi  che  anche  sparsi 
nella  vastità  della  Grecia  formano  anella  d'una  stessa 
catena  come  nei  giorni  in  cui  si  stanno  a  fianco  in  bat- 
taglia. Divulghino  le  rapacie  di  Scipione  nell'Asia  onde 
sia  in  Grecia  abborrito  e  respinto:  mostrino  a  Dodonaed 
a  Delfo  la  continenza  dell'oro  che  Scipione  non  ha  mo- 
strato ad  Efeso  :  dicano  l'Italia  quietare  contenta,  e  tutti 
rallegrarsi  della  stolta  intrapresa  di  Celio  e  Milone  colla 
loro  morte  cessata:  allettino  le  città  e  provincie  ad  in- 
viare a  Cesare  deputazioni  ed  inviti,  né  osservino  pel 
sottile  alla  legalità  dei  mandati:  spargano  dovunque 
non  essere  vero  che  Cesare  fu  propulsato  a  Durazzo, 
dicano  che  levò  per  vasta  operazione  di  là  il  suo  esercito 
floridissimo,  che  nuove  legioni  vengono  dalle  Gallie 
per  rillirico  a  lui,  che  son  anzi  già  in  marcia,  e  Ce- 
sare va  incontro  alle  medesime:  formino  i  magazzini, 
riuniscano  i  cavalli,  tutto  preparino  per  lui  che  scenderà 
di  molto  bisognoso  dalle  balze  del  Pindo:  si  mantengano 
poi  in  comunicazione  di  notizie  con  lui,  che  avrà  di 
Scipione  più  completa  vittoria,  quanto  più  questi  sarà 
stato  da  Domizio  attirato  lungi  da  Pompeo,  e  ben  ad- 
dentro in  Tessaglia  (1).   Tali  istruzioni  conformi  agli 

(1)  Nella  vita  di  Pietro  il  Grande  incontriamo  una  operazione  di  questo  gè- 


CAPITOLO  IT.  303 

scopi  dì  bene  immaginata  operazione  di  guerra  sono  le 
sole  possibili,  ma  necessariamente  generiche  e  vaghe  : 
non  sono  dunque  eseguibili  se  non  da  capitani  d'intel- 
ligenza splendida,  che  comprendano  appieno  l'idea  del 
comandante  supremo,  la  rendano  propria,  e  la  promuo- 
vano in  fatti  senza  timidità  e  baldanza.  E  noi  crediamo 
che  Domizio  fosse  assai  apprezzato  nell'esercito  di  Cesare 
se  gli  fu  tale  comando  affidato  :  scorgesi  dai  Gommen- 
tarii  che  bene  lo  eseguì:  corse  però  grave  pericolo,  e 
pel  solo  divario  di  quattro  ore  di  marcia,  e  d'una  ca- 
suale notizia  ricevuta,  si  sottrasse  all'essere  avviluppato 
da  Pompeo,  e  fatto  prigione. 

Un  grande  scopo  strategico  aveva  la  marcia  di  Cesare, 
quello  cioè  d'opprimere  Scipione  in  assenza  di  Pompeo: 
se  riusciva,  Cesare  gettavasi  poscia  sopra  Pompeo,  domi- 
nava l'Illirico  colle  buone  basi  di  Tessaglia  e  Macedonia 
dietro  di  sé,  e  ristabiliva  le  comunicazioni  per  l'Illirico 
colla  Gallia  cisalpina  e  l'Italia.  Ma  anche  Pompeo  si  era 
avveduto  del  rischio:  al  primo  tempestare  di  Domizio 
sulla  linea  di  Macedonia  si  era  mosso  egli  pure  da  Du- 
razzo,  e  per  la  breve  e  libera  via  di  Eraclea  aveva  dato 
mano  a  Scipione.  Al  tempo  stesso  tutti  i  corpi  di  Cesare 
sboccavano  in  Tessaglia,  e  raccoglievano  Domizio:  vi 
entrava  pure  per  le  gole  dell'Olimpo  Pompeo:  l'intiero 
sforzo  romano  era  dunque  radunato  nei  tessalici  piani. 
La  guerra  era  divenuta  del  tutto  mediterranea,  ma  la 
flotta  di  Pompeo  rimasta  nel  Ionio  pigliava  ingloriose 
vendette  contro  le  povere  città  poste  sul  mare  già  oc- 
nere  che  perfettamente  riuscì.  Carlo  XU  campeggiava  in  Ucrania,  aveva  urgente 
bisogno  di  rinforzi,  ed  il  generale  Ldwenhaiipt  glieli  conduceva  dalla  Polonia. 
Pietro  il  Grande  tiene  a  bada  Carlo  XII,  e  marcia  coMlro  Ldwenhaupt,  che  è 
disfatto  completamente  a  Liesna.  Allora  Carlo  XIE  manca  d*ogni  appoggio,  e 
d*(^ni  ritirata:  vuole  resistere,  ma  con  deboli  forze,  col  Dnieper  a  tergo,  e  col 
territorio  ottomano  su  cui  è  sospinto:  è  battuto  ed  annichilato. 


304  PARTE  TBBZi 

cupate,  ed  ora  abbandonate  da  Cesare.  Ed  in  tutta 
Grecia  s*ina1za  concorde. preghiera  agli  Dei  che  guidino 
il  nerissimo  nembo  lontano:  si  cacciano  gli  armenti  allo 
impervio  ed  all'erto  dei  monti,  e  le  cose  più  preziose 
si  commettono  alla  sperata  riverenza  degli  altari,  o  ad 
ignorati  nascondigli  entro  terra  o  parete.  Stando  però 
in  sulla  fune  e  nel  tormento  di  penosa  incertezza,  i  Greci 
nel  cuore  piangendo,  preparano  al  vincitore,  qualunque 
sia  per  essere,  la  letizia  sul  viso,  le  proteste  di  fede  alla 
lingua  ed  i  doni  alla  mano,  pronti  a  gettarsi  alFossequio 
per  violenza  rimuovere,  ed  a  cadere  in  vergogna  per 
comperare  mitezza. 

Schieransi  di  fronte  gli  eserciti  presso  Farsaglia. 
Cesare  stesso  ci  indicò  l'ordine  di  battaglia  in  quella 
famosa  giornata,  la  distribuzione  delie  truppe,  ed  i 
capi  di  esse.  Teneva  Pompeo  la  destra  ai  colli,  e  la  si- 
nistra al  largo;  viceversa  Cesare  la  sinistra  ai  colli,  e  la 
destra  al  piano.  Pompeo  aveva  dunque  la  Grecia  di 
fronte  e  la  Macedonia  a  tergo  ;  Cesare  invece  aveva  die- 
tro di  sé  la  Grecia  e  la  Macedonia  in  faccia:  Pompeo  co- 
priva il  suo  campo,  e  la  strada  di  Larissa  (l'attuale 
Jeni-Scher)  prossima  al  mare;  Cesare  copriva  il  campo 
proprio,  e  la  via  d'Epiro.  Né  {l'uno  né  l'altro  stettero  al 
centro  della  linea  loro,  ma  Pompeo  si  collocò  alla  si- 
nistra, e  Cesare  rimpetto  a  lui  alla  destra  :  quello  vera- 
mente era  il  posto  dei  capi  supremi,  perché  tutto  lo 
sforzo  pompejano  doveva  esercitarsi  da  grandi  masse 
di  cavalleria  sulla  destra  di  Cesare,  e  questi  la  rin- 
forzò della  propria  presenza,  di  quella  della  decima  le- 
gione, la  migliore  di  tutte,  d'altre  truppe  leggiere  poste 
ad  angolo  rientrante  per  non  essere  girato  ;  le  legioni 
che  avevano  molto  sofferto  a  Durazzo  formavano^Ia  sua 
sinistra,  più  sicura  per  sé.  Pompeo  dal  suo  canto  aveva 


CAPITOLO  IT.  30S 

a  lanciare  i  nugoli  dei  suoi  cavalieri  all'attacco,  ed  a 
tenere  in  fede  le  due  legioni  già  cesarìane,  che  formavano 
appunto  la  sua  sinistra,  e  ben  potevano  balenare  e  cedere 
vedendosi  in  faccia  Vantico  e  grande  condottiero.  Ma  per- 
chè Pompeo  formò  di  queste  cesariane  legioni  Tala  si- 
nistra, ove  dovevano  piombare  i  colpi  più  gravi?  Forse  le 
legioni  siriache,  più  sicure  in  fede,  erano  meno  valenti 
in  armi?  Forse  credeva,  come  Cesare  scrive,  di  fugare  il 
nemico  solo  col  grido,  il  nitrito  dei  cavalli,  ed  il  cal- 
pesto terreno?  Gli  squadroni  si  mossero,  e  totalmente  fal- 
lirono: n'andò  rovesciata  la  sinistra  pompejana  sul 
centro  :  la  mattina  erasi  da  ambo  i  lati  consunta  nello 
allestirsi,  sfilare,  concionare,  ed  a  mezzodì  non  v*era  più 
battaglia,  ma  fuga:  i  Pompejani  gettavano  a  terra  le 
armi  infelici  :  anche  il  loro  campo  era  preso.  Era  pari  il 
terrore  dei  vinti  e  l'avidità  dei  vincenti  ;  quel  campo  con- 
teneva immense  ricchezze,  perchè  Scipione  aveva  depre- 
dato l'Asia  nel  modo  più  crudele  ed  infame^  e  con  estor^ 
giani  indegnissime  di  qualunque  cosa  l'avevano  del 
pari  tormentota  i  suoi  capitani,  i  soldati,  gli  esattori, 
i  governanti  istituiti  da  lui,  i  Pompejani  emigrati,  e 
quanti  si  armano  non  per  amore  di  patria  ma  per  amore 
del  sacco  {Comment.,  1.  HI,  e.  3S!).  Le  quali  ricchezze 
mostrava  anche  Cesare  ai  suoi,  invitandoli  a  dare  assalto 
immediato  (1). 


(1)  1  pensieri  espressi  da  Cesare  nelPeccitare  i  suoi  alPinvasìone  del  campo 
pompeiano  (Commentarti),  che  anche  Lucano  ha  reso,  furono  dal  Tasso  preci- 
samente riprodotti  nella  concione  tenuta  da  Solimano  agli  Arabi  per  animarli 
ad  aggredire  il  campo  cristiano  : 

Vedete  là  di  mille  furti  pieno 
Un  campo  più  famoso  assai  che  forte, 
Che  quasi  un  mar  nel  suo  vorace  seno 
Tutte  dell'Asia  ha  le  ricchezze  assorte  : 

20 


SùS  PARTE  TEBZÀ 

Goirallro  bottino  cadeva  in  mano  a  Cesare  anche  la 
corrispondenza  epistolare  di  Pompeo  :  dicesi  che  si  ri- 
trasse dal  leggerla,  e  l'arse.  Di  queste  magnanime  arsioni 
è  frequente  narratrice  la  storia,  ma  non  tengono  somi* 
glianza  del  vero  ;  bensì  giova  il  divolgarle,  il  mostrarsi 
acconciato  a  concordia,  abborrente  dal  mutare  in  prove  i 
sospetti,  dal  tribolare  per  vendette,  e  dal  consolare  per 
supplizii  gli  sdegni,  e  l'adescare  ogni  avversario  che  co- 
scienza de*  fatti  flagelli,  ma  li  speri  ignorati.  Niuno  però 
è  testimonio  alla  continenza  dal  leggere,  ed  al  tempo 
dell'ardere ,  né  Cesare  avrebbe  dato  alle  fiamme  senza 
ammaestrarsi  di  esse,  le  lettere  di  chi  fosse  rimasto  in 
Roma,  e  di  là  scrivesse  a  Pompeo,  o  quelle  dei  re  che 
informavano  sul  numero  e  qualità  delle  forze,  colle  quali 
esso  Cesare  aveva  tuttora  a  combattere. 

Nella  successiva  giornata  Cesare  precorrendo  ai  fug- 
genti s'attraversò  alla  strada  di  Larissa:  allora  la  vitto- 
ria di  Cesare  fu  completa  :  i  Pompejani  più  non  pote- 
vano né  piegare  sulla  linea  di  Durazzo,  da  dove  era 
venuto  Pompeo,  né  su  quella  di  Tessalonica ,  da  dove 
era  venuto  Scipione:  ogni  base,. ogni  ritirata,  ogni  ma- 
gazzino ,  ogni  truppa  rimasta  indietro  era  perduta ,  e 
le  legioni  sconfitte  a  Farsaglia  più  non  potevano  che 
gettarsi  ai  monti,  e  disperdersi.  In  situazione  quasi 
egualmente  disperata  come  fu  quella  dei  Pompejani  in 
allora,  noi  ci  siamo  trovati  nel  1849  dopo  la  rotta  di  No- 
vara, quando  gli  Austriaci  vittoriosi  avendoci  già  girali 
sulla  nostra  destra,  e  spuntando  sulla  linea  di  Vercelli. 

Queste  ora  a  voi,  né  già  potria  con  meno 
Vostro  periglio,  espon  benigna  sorte: 
L'armi  e  ì  deslrier  d*ostro  guernili  e  d'oro 
Preda  fian  vostra,  e  non  difesa  loro. 

(Canto  IX,  st.  17). 


CAPITOLO    IT.  807- 

noi  fummo  tagliati  fuori  cosi  da  Alessandria  come  da 
Torino,  e  gettali  sul  Verbano,  sul  Sempione,  sul  nostro 
confine  del  nord.  Impediti  dunque  di  battere  in  ritirata 
sulla  strada  di  Larissa,  le  tante  migìiaja  di  Pompejani 
sbalestrate  nei  colli  e  nei  monti,  s'arrendono  :  non  una 
coorte ,  non  un  manipolo  rimane  intiero,  e  sfugge  al 
disastro  (1). 

(1)  Noi  ridiamo  d'una  facezia  del  Tassoni  nella  sua  Secchia  rapila,  ove  uà 
Buoso,  cinto  dai  nemici  che  l'afl'errano  e  io  strascinano,  non  pensa  già  alla  vita» 
ma  all'abito  ricco  che  indossa  : 

Fate  pian»  grida  Buoso,  ajuto,  ajulo, 
Non  stracciate,  che  il  sajo  è  di  velluto. 

Ma  anche  il  severo  Plutarco  nella  vita  di  Cesare  sembra  aver  voluto  celiart 
dove  espone  Li  causa  della  rotta  di  Pompeo  in  Farsaglia.  Pompeo  aveva  sette- 
mila soldati  a  cavallo,  ossia  sette  volte  più  che  non  ne  avesse  Cesare  ;  tentò 
con  essi  di  girare  il  fìanco  dei  Cesariani,  e  d'assalirli  a  tergo.  Ma  Cesare  co^ 
nosceva  qual  fosse  l'animo  di  quei  cavalieri  :  arditi  ad  esporre  la  vita,  teme- 
vano aver  sfregio  nelle  loro  bellissime  facce  :  Cesare  dunque  tenne  sei  coorti 
in  riserva,  e  loro  ordinò  di  dirigere  i  colpi  al  volto  della  galante  gioventù  : 
questa  paventò  io  allora  la  cicatrice  futura,  e  rivolse  le  facce,  il  che  fu  natu- 
rale principio  al  volger  le  spalle,  poi  al  disperdersi  ai  quattro  venti.  Tale  favo- 
letta  fu  da  cento  scrittori  volentieri  copiata,  e  ripetuta  in  mille  scuole:  noi 
pure  Pabbiamo  le  mille  volle  udita  con  ricco  corredo  di  commenti  da  novel- 
lista e  romanziere.  Ma  Cesare  nella  relazione  sua  propria  della  memorabile 
battaglia  (De  bello  civili,  lib.  HI,  e.  93)  non  tocca  della  causa  ingegnosa  di  si 
grande  successo,  ma  dice  :  ////  (le  sei  coorti)  celeriler  prociurerunt,  infestisque 
signis  tanta  vi  in  Pompei  equiles  impetum  fecerunt,  ut  eoriim  nemo  consisterei 
omnesque  conversi  non  solum  loco  excederent,  sedprolinus  incitati  fUga  montes 
ahissimos  peterent. 

L'esercito  pompeiano  in  Farsaglia  subì  una  rotta  completa.  Questo  è  il  vero, 
ed  in  ciò  consiste  l'importanza  del  fatto.  Del  resto  gli  annunci  antichi  erano 
veridici  presso  a  poco  come  i  bollettini  moderni,  perchè  non  vorremo  credere 
nemmeno  a  Cesare  (lib.  Iff,  e.  99)  che  egli  abbia  perduto  soli  duecento  sol- 
dati, ossia  settantacinque  volte  meno  di  Pompeo,  in  morti  e  feriti,  senza  tener 
conto  dei  ventiquattro  mila  prigionieri  fatti  a  Pompeo,  numero  già  ben  rilevante 
perchè  eguale  a  quello  dell'esercito  cesariano,  ma  sempre  credibile.  I  molti 
possono  arrendersi  ai  pochi  ed  anche  ai  pochissimi,  ma  fin  quando  si  combatte 
con  ordini  eguali  ed  armi  eguali  la  morte  miete  in  entrambi  gli  eserciti,  e  per 
dirlo  col  Tasso , 

Né  la  gente  fedel  più  che  l'infida. 
Né  più  questa  che  quella  il  campo  tinge, 
Ma  gli  uni  e  gli  altri  vincitori  e  vinti 
Egualmente  dan  morte  e  sono  estinti. 


308  PARTE  TERZA 

La  vanità  nazionale  dei  moderni  cercò  alimento  anche 
nei  racconti  della  giornata  di  Farsaglia,  ed  appoggiati 
ad  un  passo  di  Floro  varii  autori  tedeschi  scrivono  che 
Cesare  fu  debitore  della  vittoria  ai  Germani,  perchè  erano 
germaniche  le  coorti  le  quali  scompigliarono  la  caval- 
leria di  Pompeo.  Noi  siamo  poco  indulgenti  alle  moderne, 
e  per  nulla  alle  antiche  vanità  nazionali.  I  popoli  si 
sono  nel  corso  dei  secoli  tramestati  e  confusi  come  le 
onde  del  mare;  emigrazioni,  colonie,  commerci  e  con- 
quiste hanno  cosi  trasfuso  e  rinsanguinato  le  genti,  che 
somiglianza  colle  antiche  e  corrispondenza  non  trovano. 
Del  magnanimo  sangue  romano  noi  Italiani  ben  poco  ne 
abbiamo,  ed  i  Tedeschi  e  Francesi  han  poco  del  sangue 
dei  Germani  e  dei  Galli.  Insegna  inoltre  la  storia  antica  e 
moderna,  non  essere  costante  nei  popoli  la  virtù  di  pro- 
dezza, 0  la  temenza  e  la  fuga.  Le  truppe  d'ogni  popolo  se 
sono  egualmente  bene  istrutte  e  condotte,  e  non  scendono 
nuove  nel  campo,  diedero,  ci  sembra,  al  paragone  delle 
armi,  le  risultanze  medesime.  Egli  è  nelle  istituzioni 
politiche  d'un  popolo,  e  nelle  qualità  dei  condottieri  di 
truppe,  piuttosto  che  nella  schiatta  e  nel  sangue,  che 
dobbiamo  rintracciare  la  causa  della  bellicosa  costanza 
d'alcuna  nazione,  delle  virtù  guerriere  in  onore,  degli 
splendidi  fatti  e  straordinarii  trionfi. 

Pompeo  aveva  presentito  la  rotta  ;  quindi  appena  vide 
l'esercito  in  piega,  sensit  transisse  Deos,  ossia  intese 
distinto  l'insanabile  danno:  non  sembra  neppure  che 
abbia  fatto  gran  sforzi  per  richiamar  la  fortuna,  ma 
concitus  abstulit  a  bello  sonipes,  cioè  se  ne  fuggi  a  bri- 
glia sciolta  nel  campo,  e  venne  a  Larissa.  Vi  fu  rispettata 
la  sua  sventura  ;  non  era  però,  come  parve  a  Lucano, 
incolume  la  maestà  (salva  verendus  majestate  dolor),  né 
certamente  lo  stesso  Lucano  fu  fedele  al  vero  dicendo  che 


CAPITOLO  IV.  309 

Larissa  all'arrivo  di  lui  effudit  totas  per  mcenia  vires, 
obvia  ceu  IcBto;  promittunt  munera  flentes,  pandunt 
tempia,  domos,  socios  se  cladibus  optant.  Tali  non  sono 
gli  uomini  quando  un  terribile  colpo  abbatte  i  potenti, 
e  quel  colpo  può  anche  cadere  sovr'essi.  I  Larissesi,  l'a- 
massero 0  no,  l'avranno  veduto  volontieri  uscirne,  onde 
non  si  desse  battaglia  nella  loro  spaventata  città  ;  avranno 
tosto  preparato  i  viveri  ai  cesariani,  e  scelto  qualche  amico 
di  Cesare,  od  illustre  cittadino  perchè  lo  incontrasse,  gli 
narrasse  quanto  Larissa  avesse  sofferto  nel  passaggio 
delle  truppe  pompejane,  quanto  sperasse,  confidasse  in 
lui:  venisse,  essere  felice  Larissa  d'acclamare  la  prima, 
e  di  vedere  bontà,  forza  ed  ingegno  in  sommo  grado  ac- 
coppiati :  sempre  fumerebbero  per  lui  a  Larissa  gli  onorati 
incensi  sui  ricordevoli  e  conoscenti  altari.  E  Cesare  avrà 
risposto  le  consuete  parole  di  conforto,  d'intimidazione 
e  lusinga,  toccando  della  soperchievole  forza,  alludendo 
per  modo  che  potesse  ritrarsene  confusamente  minaccia, 
ed  assicurando  alle  sue  parti  gli  ondeggianti  ed  i  ricchi  : 
sapere  egli  le  affezioni  dei  Larissesi  :  pochi  avere  seguito 
le  parti  contrarie,  e  questi  per  errore,  ed  egli  condonarlo: 
discendenti  da  Achille  e  dai  Mirmidoni,  i  Larissesi  non 
poter  essere  che  bravi,  e  quindi  amici  dei  bravi  :  atte- 
stare Farsaglia  di  che  colpi  ferissero  i  soldati  suoi,  ma 
essere  bisognosi  di  molto  dopo  tante  fatiche,  e  di  molto  lì 
confortassero  :  essere  la  disciplina  sicura,  generale  e  spon- 
tanea se  l'esercito  è  bene  allestito,  ed  ha  copia  di  viveri  : 
fossero  i  Larissesi  prodighi  di  cure  immediate  a  quelli 
che  avevano  colle  proprie  ferite  conquistato  al  mondo  la 
pace:  indicassero  ogni  pompejano  deposito  d'armi  o  de- 
naro :  ogni  assente  tornasse,  ogni  latitante  apparisse  :  es* 
sere  amico  di  quanti  cessino  dall'armi,  dallo  strepitare, 
dal  concionare:  rammentassero  aver  egli  in  giovinezza. 


310  PARTE  TERZA 

ed  in  tempi  infelici,  accusalo  Antonio  Ibrida  perchè  aveva 
con  truppe  sillane  depredato  in  Grecia  (Plutarco): 
adunque  in  lui  confidasse  Larissa  :  egli  si  confiderebbe 
in  essa. 

Pompeo  avrebbe  potuto  riparare  di  nuovo  per  Eraclea 
a  Durazzo,  e  molti  di  coloro  che  erano  stati  più  veloci 
al  fuggire,  realmente  ripararono  colà.  Quella  via  era 
libera  :  vi  erano  grandi  magazzini  e  Irinciere  :  vi  era 
la  flotta,  e  si  poteva  ancor  molto  salvare  di  genti  e  di 
cose  dalle  mani  di  Cesare.  Fosse  orgoglio  di  non  mo- 
strarsi caduto  dove  era  stato  sì  grande,  fosse  altra  causa 
migliore  e  non  nota,  Pompeo  non  se  ne  andò  a  Durazzo, 
e  non  a  Tessalonica,  dove  teneva  la  sede  il  pompejano 
Senato.  Entrò  in  piccola  nave  di  commercio,  e  si  volse 
all'Oriente,  forse  sperando  di  ristorarvi  le  forze  coirajulo 
dei  re  conservati  o  posti  in  trono  da  lui.  Ma  la  memoria 
dei  beiieficii  è  labile,  e  quella  delle  oflTese  durevole  :  il 
potere  già  in  mano  a  Pompeo,  è  ora  in  mano  di  Cesare, 
ed  il  potere  adesca  e  spaventa.  La  notizia  di  Farsaglia 
vola  per  ogni  dove  pei  messi,  pei  fuggenti,  per  vocifera- 
zioni, per  lettere,  ma  non  crediamo  a  Dione  che  a  Roma 
non  si  conoscesse  se  non  per  pubblico  grido  e  corrispon- 
denze private,  essendosi  Cesare  astenuto  di  scriverne  al 
Senàioper  non  insultare  alla  sventura  di  Pompeo  (Rollin)  . 
In  tutto  rOriente  precorre  a  Pompeo  la  notìzia  fatale  :  i 
Rodii  escludono  dalla  città  e  dal  porto  i  fuggiaschi  ;  in 
Antiochia  Romani  e  Siriaci  s'apprestano  a  combattere 
Pompeo  se  mai  si  presenta  :  egli  passa  in  Egitto,  chiede 
soccorsi,  ed  è  invece  ucciso  dai  sicarii  del  re.  Ogni  paese, 
ogni  città  vuole  entrare  neije  grazie  di  Cesare:  si  man- 
dano corone  :  si  inventano  miracoli  in  Antiochia,  in  Per- 
gamo, in  Trolli,  in  Elide  :  gli  Dei  avevano  presagito  la  sua 
vittoria,  ma  il  presagio  narravasi  dopo  di  essa. 


CAPITOLO  IV.  31 1 

Vi  è  intanto  a  Durazzo  indescrivibile  spavento  e  disor- 
dine. Chi  fuggiva  palesemente  e  chi  di  nascosto,  chi  gri- 
dava di  guerra  ad  ultimo  sangue  e  fuggiva,  chi  per  pla- 
care Cesare  voleva  la  resa  affrettata:  era  fra  questi 
Cicerone,  che  post  pharsaltcumpr(Blium  madebat  arma 
non  e$$e  deponenda,  sed  abjicienda  (Cic,  prò  Dejotaro): 
come  dunque  potevano  Catone,  Labieno,  Varrone  e  Sesto 
Pompeo,  inferociti  a  resistere,  dare  il  comando  a  Cicerone, 
cui  avrebbe  dovuto  competere  per  la  preminenza  del 
grado  ?  Sesto  Pompeo  traeva  perfino  la  spada  contro  di 
lui,  chiamandolo  traditore  e  vile,  ed  egli  sen  fugge.  Dove 
è  discordia  e  terrore  ;  dove  non  è  certo  capitano,  e  v'è 
licenza  e  rapina  ;  dove  ogni  odio  si  sfoga,  ed  ogni  ven- 
detta si  compie,  la  difesa  è  impossibile.  I  cittadini  non 
vogliono  esporsi  agli  orrori  di  rinnovato  assedio  :  la  resa 
è  invocata  da  quanti  non  temono  di  scontare  nella  vita 
od  averi  il  trionfo  di  Cesare  :  chi  si  imbarca  tremante,  e 
chi  monta  in  nave  gridando  che  porta  in  sede  migliore 
la  guerra.  La  flotta  veleggia  a  Corfù:  anche  Durazzo  è  di 
Cesare,  e  le  sue  comunicazioni  con  Brindisi  sono  quasi 
ristabilite  e  sicure. 

Atene,  dove  si  radunava  per  gli  studii  tutta  la  gioventù 
romana,  si  era  pronunciata  alquanto  vivamente  per  Pom- 
peo,  ma  al  primo  apparire  di  Cesare  vittorioso  a  Farsa^ 
glia  il  coraggio  di  resistenza  mancò,  e  fu  chiesta  clemenza^ 
Cesare  accordò  alla  gloria  degli  antichi  Ateniesi  la  saU 
vezza  degli  attuali,  ma  ben  migliore  di  Siila  non  attese 
a  salvarti  d'averli  prima  immolati. 

Difesero  però  i  Pompejani  risolutamente  Hegara:  era 
la  chiave  dell'istmo,  e  tenendola,  i  Pompejani,  che  ave- 
vano poderosa  la  flotta,  speravano  di  conservare  il  Pelo- 
ponneso, di  raccogliersi,  di  rifornirsi,  d'avere  la  Grecia 
aperta,  e  forse  di  mettere  in  ispavento  l'Italia*  La  povera 


312  PARTE   TERZA 

città  divezza  dalla  guerra,  morbida  perricchezza,  fiorente 
di  traffico,  indettata  dalla  paura,  conosceva  essere  meno 
molesto  l'obbedire  per  dedizione  che  per  conquista,  e 
che  oppresso  Pompeo,  nessuno  poteva  lungamente  re- 
stare in  forza  in  tutta  la  Grecia:  avrebbe  voluto  sottrarsi 
agli  orrori  d'un  assedio,  ed  all'essere  governata  per 
armi:  vedeva  che  fermezza  senza  speranza  è  sacrificio 
0  follia,  ed  avrebbe  volontieri  aperto  le  porte.  Ma  il 
comandante  che  vuol  salvare  il  Peloponneso,  od  al- 
meno coprirne  per  qualche  tempo  lo  sgombro,  rampo- 
gna austero  i  tremanti:  deve  grazie  Megara  a  Pompeo 
dell'esser  difesa,  per  necessarii  sacrificii  non  mutarsi  il 
beneficio  in  aggravio,  dare  le  armi  fermezza,  e  la  fer- 
mezza salute;  egli  saprebbe  discernere  i  fedeli  ed  i  prodi, 
ma  anche  i  capi  ed  autori  dei  traditori  e  dei  vili;  es- 
sere Megara  prescelta  alla  gloria  di  ristorare  la  sorte  di 
Grecia,  del  Senato  e  del  popolo  da  momentanea  ecclissi 
ofi'uscata  a  Farsaglia:  intanto  che  le  abbondevoli  forze 
nel  Peloponneso  raccolgonsi,  resisterà  Megara  sotto- 
posta alle  ragioni  di  guerra  :  lo  sappiano  i  cittadini  ; 
nessuno  avere  le  ritirale;  tulli  dovere  alle  difese  con- 
correre. I  Megaresi  erano  prigioni  :  sapevano  che  il  so- 
lito orrore  dei  fatti  consegue  alle  militari  minaccie  :  per 
non  cambiare  i  rischi  dell'assedio  in  patibolo,  ubbidi- 
vano al  capitano  non  mosso  da  clemenza,  né  spaven- 
tato da  grida;  dovevano  a  capo  chino  tollerare  che  la 
funesta  vena  del   sangue  si  aprisse  nella  loro  città, 
e  mostrare  coi  fatti  Tardore  a  difesa  che  il  sentimento 
negava. 

La  resistenza  di  Megara  tornava  di  molto  danno  e  quasi 
di  pericolo  a  Cesare,  perchè  importava  d'assai  che  tutta 
Grecia  posasse,  e  lelegioni  potessero  passare  senza  ritardo 
in  Egitto  e  nell'Asia  a  sciogliervi  colla  forza  e  col  prestigio 


CAPITOLO  IT.  313 

dell'ottenuta  vìtlorìa  ogni  nerbo  di  truppe  che  vi  rifacesse 
Pompeo.  Galeno,  luogotenente  di  Cesare,  marciò  veloce 
contro  l'infelice  città,  che  si  ricopriva  di  terrapieni,  e  si 
ricingeva  di  fosse;  vi  portò  sulle  bandiere  il  gran  nome 
di  Farsaglia,  che  sbigottiva  anche  i  valenti,  la  oppugnò 
e  la  prese  :  il  Peloponneso  era  aperto,  ed  i  Pompejani 
cercavano  a  passo  precipitoso  le  navi.  Scontavano  aspra- 
mente i  Hegaresi  la  violenza  patita  :  Galeno,  li  credesse 
colpevoli,  0  fingesse  che  fossero  per  avere  argomento  a 
rapina,  li  vendeva  schiavi:  vedesse  il  mondo  qual  fosse 
il  destino  di  chi  osasse  opporsi  alla  fortuna  di  Gesare  ; 
apprendessero  tutti  da  Megara  essere  finita  la  guerra  ; 
averla  in  Farsaglia  decisa  gli  Dei  1  Conferendo  all'antica 
qualunque  storia  recente,  sono  ben  molte  le  città  che  op- 
posero a  trionfante  nemico  non  volontaria  difesa  e  subi- 
rono di  strazii  e  fuoco  vendetta  e  martirio. 

All'occhio  però  degli  storici  e  degli  scolastici  il  fatto  di 
Megara  getta  una  tìnta  troppo  oscura  nel  quadro  conso- 
lante dei  perdoni  cesariani  :  vogliono  quindi  rischiarare 
possibilmente  la  tinta:  dicono  che  forse  le  dolorose  voci 
degli  ofiesi  ed  oppressi  non  pervenivano  a  Gesare,  e 
che  Galeno  vendeva  i  Megaresi,  ma  li  vendeva  a  buon 
mercato  perchè  i  loro  amici  li  potessero  comperare ,  o 
loro  fosse  più  agevole  il  riscattarsi  da  sé.  Oh  ineffa* 
bile  bontà  di  Galeno  1  vendeva  schiavi  i  Megaresi  per 
amore  di  Gesare,  e  li  vendeva  a  buon  mercato  per  amore 
dei  Megaresi  stessi.  Oh  bontà  degli  storici  e  degli  sco- 
lastici si  ingegnosi  nell'interpretare  la  benevolenza  di 
Galeno,  e  dolcezza  dei  frutti  della  guerra  che  gli  autori 
chiamano  civile  1 


CAPITOLO  V. 

Cesare  in  Asia,  in  Africa,  in  Ispagna  :  signore  in  Roma: 
snoi  vasti  progetti  :  sua  morte. 

Il  vessillo  pompejano  era  caduto  in  ogni  terra  dal 
Tago  airEllesponto,  ma  sventolava  ancora  neirAsia, 
nell'Egitto  e  nelV Africa.  In  oltremare  potevano  quindi  i 
Pompejani  raccogliersi,  riordinarsi,  schierarsi  ancora  in 
battaglia  :  i  re  e  tetrarchi  dell'Asia  fornirebbero  e  genti 
e  denaro:  i  timidi  prostrati  dell'animo  pel  fiero  colpo 
di  Farsaglia  riprenderebbero  cuore,  ed  oserebbero  di 
nuovo:  il  tempo  ristora  gli  animi,  restituisce  la  lena, 
rinsanguina  gli  eserciti,  e  le  menti  converte  dal  senti- 
mento esclusivo  delle  proprie  ferite  all'esame  altresì  delle 
piaghe  del  nemico,  ed  al  ritrovo  dei  mezzi  di  porvi  ve- 
leno. Perciò  deve  Cesare  tosto  levarsi  di  Grecia,  piom- 
bare di  là  dall'onde  sugli  sbigottiti,  irresoluti  e  dispersi 
offrendo  le  grazie  e  portando  le  pene,  sciogliere  o  rom- 
pere ogni  globo  d'armati.  E  gli  stessi  Gesariani  insu- 
perbiti meglio  ubbidiranno  in  travagli  ed  in  marcie  che 
nei  riposi  insolili,  divenendo  in  pace  agli  slessi  capi 
nocenli  gli  orgogli  di  soldatesche  partigiane,  che  avendo 
dato  col  loro  sangue  al  comandante  l'impero,  aspettano 
e  vogliono  lentezza  di  freno  e  licenza  da  lui. 

Gesare  non  trattava  con  gl'indugi  la  guerra  :  la  com- 
prendeva politicamente  e  militarmente,  né  camminava 


CAPITOLO  V»  315 

più  lento  che  essa  non  ami:  quindi  s'affrettò,  anzi 
precipitò.  Fu  in  Egitto,  poco  più  di  forze  apportandovi 
che  il  suo  gran  nome:  ivi  s'era  diretto  Pompeo:  quello 
era  il  centro  della  linea  pompejana  stesa  dall'Africa  al 
Ponto  Eusino;  là  v'erano  tesori,  truppe  romane,  e  molte 
e  già  bene  disciplinate  falangi  d'indigeni  e  Barbari  ;  vi 
era  poi  una  flotta,  e  da  questa  poteva  venire  gran  danno, 
e  crescere.  Cesare  arrivò  quasi  disarmalo,  trovò  che  era 
stata  tronca  da  pugnale  la  vita  di  Pompeo,  cui  l'età 
aveva  prodigato  il  nome  di  Grjmde  (1),  ed  era  sorla  la 
guerra  fra  i  varii  contendenti  alla  corona  d'£gitta  Egli 
intimò  ad  essi  che  cessassero  dall'armi,  e  rimettessero  la 
decisione  a  lui,  ma  presto  s'accorse  d'avere  troppo 
osato:  divenne  allora  prudente  quanto  era  stato  ardito, 
si  raccolse  dall'aperto  paese  entro  Alessandria,  poi  si 
ridusse  nella  parte  più  forte  di  essa,  e  quindi  nell'iso- 
lotto di  Faro  congiunto  alla  città  da  un  argine  artifi- 
ciale di  novecento  passi  di  lunghezza  :  colà  dominava  il 
doppio  porto,  comunicava  col  mare  aperto,  e  poteva 
attendere  le  sue  vecchie  legioni,  ed  anche  le  nuove  di 
Pompejani,  che,  spento  Pompeo,  egli  riuniva,  riformava 
ed  usava.  Gli  Egiziani  imbaldanziti  attaccano  le  barri- 
cate cesariane  in  città:  s'avanzano  lungo  la  diga:  vo- 
gliono prenderne  i  difensori  alle  spalle  :  muovono 
quindi  le  navi,  batteranno  le  poche  cesariane,  sbarche- 
ranno a  tergo  delle  trinciere,  e  riusciranno  nell'isola. 


(4)  Quanto  male  si  addice  a  Pompeo  quel  nome  dì  Grande,  che  gli  si  pro- 
fonde sì  spesso!  Nessuno  ebbe  si  numerosi  eserciti  e  flotte  al  cenno,  vasti  tesori 
a  disporre,  provincia  e  regni  a  donare,  infìnit»  uffici!  a  conferire,  occasioni  pro- 
pìzie a  miracolosa  grandezza  :  ebbe  anche  Tambizione  a  sahrc,  ma  il  genio  mancò. 
Sotto  di  lui  avevano  vinto  i  Romani,  non  egli  :  trovò  Mitridate  e  Tigrane  già 
trafelanti,  esangui,  non  si  scontrò  con  Spartaco,  ma  coi  fuggiaschi  di  lui  già 
caduto,  si  battè  con  Serlorio  e  fu  malconcio  e  pericolò  :  quando  alTrontossi  con 
Cesare  precipitò. 


316  PAaTE  TERZI 

Si  pugna  dunque  in  città,  lungo  Tistmo  e  nei  porti  » 
e  se  gli  Egiziani  vincono  nei  porti,  hanno  per  lo 
meno  vinto  in  città,  sono  padroni  delFistmo,  e  forse 
in  islato  d'assaltare  i  Cesariani  nell'isola.  Il  vincitore 
di  Farsaglia  in  si  grave  cimento  adempie  tutte  le  parti 
di  capo,  ed  anche  quelle  di  soldato  ;  ma  una  barricata 
suiristmo  è  presa  :  egli  passa  allora  sulla  più  vicina  sua 
nave,  e  questa  sta  per  colare  a  fondo:  Cesare  si  getta 
in  mare,  raggiunge  altra  nave  a  nuoto,  raddoppia  di 
sforzi,  ed  alfine  contiene,  anzi  rintuzza  il  nemico. 

Il  fatto  è  grave  ed  anche  drammatico  :  piacque  però 
agli  scrittori  di  sceneggiarlo  di  più,  e  ci  dipinsero  Cesare 
che  si  getta  in  mare  tenendo  la  spada  fra  i  denti,  soste- 
nendosi  con  una  mano  sull'onde,  e  portando  coll'altra  i 
Commentarli  suoi.  Forse  che  Cesare  andava  alle  bat- 
taglie coi  Commentari!  in  mano?  forse  che  ne  scriveva 
qualche  pagina  in  mezzo  alla  mischia?  Che  il  povero 
soldato  Camoens  naufragando  alle  coste  cinesi  salvasse 
in  tal  modo  i  Lusiadi  suoi,  è  credibile,  ma  è  ridevole 
novelletta,  o  piuttosto  assurda  vìetezza  che  Cesare  sceso 
a  pugnare  sul  molo,  montato  poscia  in  nave,  e  quindi 
gettatosi  in  mare,  tenesse  i  Commentarii  con  sè« 

Giungono  a  Cesare  legioni  dalla  Grecia,  e  delle  tre  le- 
gioni di  Siria  una  gli  arriva  per  mare,  ed  un'altra  mar- 
cia per  terra  verso  Pelusio  :  già  scema  il  vigore  nei  con- 
trari!, e  la  discordia  s'accresce:  una  parte  della  flotta 
alleala  defeziona  dagli  Egiziani  :  delirano  invano  i  loro 
capi  una  indipendenza  ormai  impossibile  a  tutti,  e  più 
ancora  a  quelli  che  altercano  per  la  corona  e  guer- 
reggiano, e  nemmeno  si  stringono  ai  Pompejani  per 
resistere  uniti  e  compatti.  Ogni  popolo  diviso  e  parteg- 
giante  male  si  difende,  ed  invariato  è  l'esempio  che 
chi  non  s'accorda,  ruina  ed  impara  a  servire:  nessun 


CAPITOLO  V.  317 

flagello  più  funesto  alFindipendenza  può  cadere  sulle 
nazioni  infelici,  dell'i mperizia  ad  ordinarsi  ed  unirsi: 
questo  flagello  cadde  sull'Egitto  contendente  di  schiatte 
di  popolo,  e  di  famiglie  regnanti:  aveva  inoltre  nelle  vi- 
scere milizie  venderecce  e  ribalde,  né  era  l'Egitto  una 
terra  aspra  e  selvaggia,  che  producesse  gli  abitatori  in- 
domabili come  i  Sanniti  ed  i  Parti.  Gli  Egìzii  erano 
inattivi  non  solo  fuor  del  bisogno,  ma  anche  quando 
erano  aggressi,  non  si  svegliavano  terribili  e  celeri  come 
fecero  in  varie  età  gli  Spagnuoli,  che  da  torpore  scuo- 
tendosi parvero  folgori  che  nelle  nubi  quiete  ed  immo-» 
bili  posano. 

Cesare  è  padrone  d'Egitto,  e  vi  rimane  alcun  tempo. 
E  qui.  gli  storici  adducono  a  causa  della  sua  dimora 
che  Cleopatra  era  la  donna  più  bella  che  mai  da  un  vi- 
vente si  fosse  veduta,  che  Cesare  fu  inebbriato  di  essa, 
che  all'uomo  invaghito  rincrebbe  la  guerra,  che  Cleopa- 
tra lo  distolse  dall'armi,  volgendolo  ad  inflngarde  mor- 
bidezze e  dissoluto  costume.  Noi  noi  crediamo:  Cesare 
cercò  dolcezza  con  fiamma  fugace,  non  con  insano  de- 
lirio: egli  voleva  smisuratamente  la  gloria,  e  meno  po- 
teva l'amore  che  l'ambizione  in  lui.  Stette  in  Egitto 
non  già  per  la  donna,  non  per  le  prodighe  cene,  non 
perchè  i  famosi  astrologi  alessandrini  gli  promettes- 
sero per  isquadri  di  stelle  felicità  ed  impero,  ma  si 
trattenne  per  prendere  fermo  piede  ove  molto  importava 
d'averlo,  essendo  ricco  paese,  granajo  di  Roma,  pieno 
di  truppe  pompejane  e  di  ribaldaglie  armate,  che  si 
avevano  ad  ordinare,  a  dividere,  a  mandare  lontane.  E 
forse  allora  si  dolse  d'avere  negli  impeti  della  guerra 
bruciato  gran  parte  della  flotta  egiziana. 

Lasciato  un  forte  presidio  in  Egitto  perchè  i  regnanti 
fossero  dalle  $ue  truppe  protetti  se  si  conservavano  fé- 


318  FiRTE  TEaZA 

deli,  e  frenati  se  fossero  ingrati  (Guerra  alessandrina^ 
cap.  33),  Cesare  sbarca  in  Cilicia,  occupa  le  gole  del 
Tauro,  e  le  posizioni  di  Isso.  Durante  la  guerra  d'Egitto 
era  sorto  un  grave  scompiglio  nell'Asia,  e  si  doveva  com- 
porre perchè  Cesare  potesse  passare  neirAfrica,  ove  di 
nuovo  ingagliardiva  il  nemico.  Farnace  re  del  Ponto 
aveva  veduto  partire  le  legioni  siriache:  ne  prese  bal- 
danza, si  dilargò  neirArmenìa,  invase  provincie  romane, 
battè  le  poche  forze  accorse  dalla  Siria,  e  le  raunaliccie 
dell'Asia.  Ma  già  tramontava  la  sua  breve  e  male  usata 
fortuna.  Cesare  risaliva  dalla  Cilicia  verso  l'Armenia  ed 
il  Ponto;  aveva  ottima  base  di  guerra:  copriva  colla  de- 
stra la  Siria  e  colla  sinistra  le  provincie  asiatiche  sul- 
l'Egeo: chiamava  gli  ajuti  ai  letrarchi,  e  li  raccoglieva. 
Farnace  aveva  condotto  da  barbaro  invasore  la  guerra  : 
aveva  ucciso,  o  con  supplizii  peggiori  della  morte  stra- 
ziato i  cittadini  romani ,  aveva  spogliato  i  letrarchi , 
emunlo  spietatamente  i  pubblicani,  non  inalzato  una 
bandiera  pompejana.  Era  cieco  della  mente,  che  non 
aveva  veduto  né  la  grandezza  di  Cesare,  né  le  politiche 
convenienze  di  guerra.  Ora  tremava,  offriva  la  pace, 
supplicava  per  essa,  mandava  corone  d'oro,  voleva  cori 
tutte  le  arti  piacere,  diceva  d'essere  volenteroso  di  fare 
quanto  fosse  a  grado  di  Cesare,  ma  pur  non  rientrava 
nei  confini  suoi,  ingrossava  l'esercito,  teneva  il  campo. 
Cesare  poche  genti  aveva,  e  meno  di  veterane:  la  sua 
sesta  legione  appena  schierava  mille  soldati  in  battaglia  ; 
tanto  per  marce,  per  disagi,  per  climi  s'assottigliano  le 
truppe  anche  vittoriose,  né  mietute  gravemente  da  ferro  1 
Piombò  sull'irresoluto  Farnace,  lo  ruppe  e  fugò  (1). 

(1)  Vuoisi  che  Cesare  significasse  la  notizia  della  sua  pronta  vittoria  contro 
Farnace  col  famoso  molto  Veni,  vidi,  vici.  Per  adulazione  o  pretesa  quel  mollo 
fu  ripetuto  più  volte,  ed  inciso  nelle  medaglie  commemorative  di  rapidi  van* 


CAPITOLO  y.  819 

Nessuno  degli  altri  re  osò  resistere.  Cesare  avrebbe 
potuto  tanto  più  facilmente  gettarli  dal  trono  col  richia-- 
mare  ad  esso  i  pretendenti  che  avea  deposto  Pompeo. 
D'altronde  i  medesimi  erano  Tuno  dell'altro  gelosi,  e  pronti 
a  combattersi  appena  i  Romani  li  istigassero,  o  rallentas-* 
sero  il  freno;  né  in  quei  lerritorii  divisi  come  patrimoni! 
per  favore,  arbitrio  od  anche  scaltrezza  romana,  alcuno 
di  loro  aveva  base  nelle  affezioni  di  popolo,  nelle  antiche 
memorie,  nelle  esclusività  e  pertinacie  nazionali.  Neppure 
nelle  truppe  propria  base  avevano  :  erano  comandate  in 
gran  parte  da  cittadini  romani,  e  non  da  ufficiali  indigeni  : 
i  Romani  infatti  entravano  in  quegli  eserciti  por  avere  più 
facili  promozioni  e  probabilità  d'arricchire  ;  i  re,  o  tetrar- 
chi,  li  dovevano  ricevere  volentieri  perchè  mal  sicuri  dei 
sudditi,  e  vogliosi  nella  loro  debolezza,  che  ne  rendeva 
Tindipendenza  impossibile,  di  avere  almeno  mezzi  mag- 
giori di  rapporti  e  d'influenze  indirette  a  Roma.  La  Repub- 
blica poi  vedeva  nella  presenza  dei  suoi  concittadini  alla 
testa  delle  truppe  ausiliarie  un  nuovo  pegno  della  fedeltà 
di  quei  re,  ed  il  vantaggio  di  poter  dare,  senza  timore  di 
rivolte,  discreta  sodezza  e  pregio  militare  a  quelle  truppe 
straniere,  di  cui  si  serviva  sovente.  Cosi  i  re  asiatici  erano 
verso  Roma  in  circostanze  identiche  a  quelle  dei  principi 
mediatizzati  delle  Indie  verso  Tlnghillerra.  Ora  tutti 
sanno,  e  consta  anche  dagli  Ànnuarii  militari  indiani 
antichi  e  recenti,  che  il  numero  degli  ufficiali  inglesi 

taggi  ottenuti  in  guerra.  Non  di  rado  oratori  e  poeti  gli  tolsero  col  parafrasarlo 
sublimità  e  vigore.  Cosi  parla,  p.  e.,  il  Soldano  d'Egitto  ad  Emireno,  affidandogli 
il  comando  del  suo  esercito  contro  Goffredo: 

Tu  porta,  liberando  il  re  soggetto, 
Sui  Franchi  Tira  mia  vendicatrice: 
Va,  vedi  e  vinci,  e  non  lasciar  dei  vinti 
Avanzo,  e  mena  presi  i  non  estinti. 

Tasso,  canto  xvii,  si.  38. 


320  PARTE  TKBZi 

nelle  (ruppe  indìgene  dei  princìpi  medìatizzati  fu  sem- 
pre grande.  Doveva  poi  esser  indifferente  a  quei  prin- 
cipi chi  in  Roma  regnasse»  purché  conservassero  la 
loro  corona,  e  Cesare  quasi  a  tutti  la  conservò,  ma  con 
nuovo  riparto  dei  territorìi  tolti  a  Farnace  premiò , 
punì,  commutò  i  paesi,  confuse  le  cose  e  gli  interessi, 
sventò  ogni  disegno  ostile,  se  pure  esisteva,  recidendo  i 
mezzi  d'azione,  e  pose,  per  cosi  dire,  un  re  alla  custodia 
deirallro. 

NeirAfrica  (usiamo  sempre  questo  nome  nel  senso 
ristretto  in  cui  lo  usavano  i  Romani)  le  parti  di  Pompeo 
avevano ,  come  vedemmo ,  trionfato ,  ed  il  cesariano 
Gurione  vi  era  perito  coiresercìto  suo.  Combattutasi  la 
gran  giornata  di  Farsaglia,  Catone,  Tuno  dei  più  grandi 
caratteri  deiranlìca  storia,  aveva  raccolto  la  flotta  pom- 
pejana  a  Corei ra  (Corfò),  e  migliaja  di  soldati,  quasi  un 
esercito.  Volgevasi  come  Pompeo  all'Egitto,  ma  anche  a 
luì  già  chiudevasi  il  porto  di  Ficonte  in  Creta,  come  a 
Pompeo  era  stato  chiuso  a  Rodi  :  prevaleva  dovunque  il 
terrore  di  Cesare  I  Odesi  dai  Catoniani  la  morte  di  Pom- 
peo :  scoppiano  sedizioni  :  molti  dichiarano  apertamente 
d'aver  preso  le  armi  non  per  seguitare  l'esercito,  ma  il 
solo  Pompeo,  e  d'essere  sciolti  di  fede  colla  morte  di  lui: 
una  parte  della  flotta  e  delle  truppe  diserta.  Gli  è  dato, 
ma  noi  segue,  il  consiglio  di  mterrogare  l'oracolo  di  Giove 
Ammone:  temeva  che  i  suoi  udissero  il  verol  Ma  Catone 
persiste,  mostra  a  tutti  la  malinconica  fierezza  del  viso, 
e  se  disse  realmente  le  parole  che  Lucano,  piuttosto 
storico  che  poeta,  pose  in  bocca  alni  (lib.  IX),  nessuno 
giammai  le  disse  più  nobili ,  e  sono  degne  d'un  dio. 
E  Catone  è  descritto,  homo  virtuti  simillimm,  et  per 
omnia  ingenio  Diis  quam  hominibus  propior^  qui  nun- 
quam  recte  fecit  ut  facere  videretur,  sed  quia  aliter  fa- 


CAPITOLO  T.  321 

cere  non  poterai,  come  dice  Vellejo  Palercolo  (lib.  II, 
cap.  33)  benché  scrivesse  sotto  Tiberio,  e  fosse  parti- 
giano di  lui  (i). 

Ma  nemmeno  Catone  poteva  sostentare  col  braccio  la 
repubblica  crollante.  Vi  era  in  tutti  il  terrore.  Cirene  o 
perchè  affezionata  a  Cesare,  o  perchè  giustamente  temesse 
di  lui,  aveva  già  chiuso  le  porte  al  pompejano  Labieno 
(Plutarco)  :  ora  le  chiudeva  anche  a  Catone  (Lucano),  che 
fu  costretto  a  farne  l'assedio,  e  la  prese.  Uditovi  che  ì 
Pompejani  radunansi  in  forze  nell'Africa  (la*  Tunisia), 
Catone  si  volge  egli  pure  colà,  né  avendo  sicurezza  di 
forze  navali,  vi  guida,  si  dice,  i  suoi  cinque  mila  soldati 
per  terra.  Leggesi  che  in  sette  giorni  tragittò .  da  Cirene 
neirAfrica,  ma  da  qual  punto  parti,  ed  a  quale  arrivò? 
Dobbiamo  ritenere  contro  gli  storici,  se  vogliamo  esser 
nel  vero,  che  non  tutto  il  viaggio,  ma  una  ben  piccola 
parte  ne  facesse  per  terra.  La  lontananza  è  di  dodici 
gradi  in  longitudine,  e  di  tre  o  quattro  in  latitudine,  e 
devesi  per  terra  fare  un  giro  immenso  d'intorno  alla 


(1)  Noi  abbiamo  volentieri  citato  anche  Vellejo  Patercolo,  che  visse  in  tempo 
sì  vicino  a  quel  di  Catone,  ed  era  scrittore  valente  segnatamente  nello  scolpire 
i  caratteri  se  non  era  travolto  da  parzialità,  come  forse  Io  fu  neirelogio  di  Sejano, 
che  fu  poi  stigmatizzato  da  Tacito.  Cd  era  generale  la  riverenza  per  Catone  Uticense 
e  somme  furono  le  lodi  degli  antichi  per  lui  e  prima  e  dopo  che  si  togliesse  la 
vita.  Come  potremo  dunque  ammettere  che  quest'uomo  temprato  alla  stoica 
ineude,  così  influente  e  venerato,  fosse  bensì  sdegnoso  di  infingarde  morbi- 
dezze, ma  d'ottimi  vini  vago?  Se  egli  avesse  amato  troppo  il  sugo  della  vite, 
sarebbe  egli  stato  si  rispettato  e  temuto?  Nelle  ire  politiche  non  si  pone  con- 
fine a  calunnia  ed  a  sprezzo  :  ogni  casualità,  ogni  debolezza  si  aumenta  o  si 
crea.  Ma  Plutarco  raccoglie  Taccusa,  e  per  scemarla,  e  quasi  rimuoverla,  adduce 
poi  spiegazione  così  ridicola,  che  vogliamo  ripeterla.  Catone,  egli  dice,  da  prin- 
cipio terminava  la  cena  dopo  aver  bevuto  una  volta  sola,  ma  in  progresso  fa 
molto  dedito  al  bere,  e  passava  sovente  la  notte  fino  all'alba  tra  il  vino  ;  del 
che  se  ne  dovevano  incolpare  gli  affaci  pubblici,  nei  quali  stando  Catone  tutto 
il  giorno  occupato  senza  poter  discorrere  di  cose  erudite,  voleva  poi  intratte- 
nersi la  notte  a  tavola  insieme  col  filosofi.  Risum  teneatis!  Oh  dolce  filosofia 
del  frutto  che  piantò  Noè  ! 

21 


322  PARTE  TERZA 

Syrtis  major  percorrendo  un  deserto  orribile,  anzi  l'uno 
dei  più  tristi  che  siano  in  quel  continente,  che  si  in- 
contra appena  lasciata  la  Pentapoli,  e  segue  poco  in- 
terrotto fino  al  limitare  dell* Africa.  Quel  deserto,  che 
conosciamo  per  gliitìnerarii  di  Della  Cella,  Horneraann 
e  Beurmann,  non  è  tale  che  tutto  si  possa  attraver- 
sare da  poche  persone  in  meno  d'un  mese,  e  con 
gran  genti  non  crediamo  che  si  possa  attraversare  giam- 
mai. Senza  dubbio  Catone  ne  passò  alcun  tratto,  per- 
chè la  descrizione  del  viaggio  risponde  appieno  alle 
sofferenze  d'un  cammino  in  deserto,  ma  non  passò  cer- 
tamente l'intiero,  militando  contro  quest'asserzione  i 
geografi,  ossia  la  natura. 

Al  giungere  di  Catone  crebbero  ancor  piii  i  pompejani 
manipoli,  aumentarono  a  coorti  e  legioni,  o  meglio  a 
torme  guerresche  ;  ma  da  dove  trarre  lusinga  di  vittoria?  I 
Pompejani  infuriavano  insani:  non  avevano  unità  di  co- 
mando, e  la  forza  d'esercito  scorretto,  se  anche  animoso 
e  grande,  è  come  quella  del  Ciclope  accecato.  Per  le 
patite  sconfitte  sdegno  s'era  aggiunto  a  sdegno:  nessuno 
pensava  a  ritirarsi  al  coperto,  ma  delirava  vicendevoli 
stragi  :  si  calpestavano  le  popolazioni  desolate,  ed  era 
un  grido  generale  di  spaventati  e  di  tormentati.  Ma  se 
vi  era  unità  negli  odii,  non  v'era  di  consigli  e  d'im- 
pero, che  è  il  più  efficace  mezzo  a  buon  successo  d'ogni 
umana  impresa,  è  soprattutto  delle  guerresche  ;  quindi  il 
moto  africano,  benché  grande  al  vederlo,  doveva  essere 
labile  e  caduco  alla  prova  dell'armi,  ed  in  confusione  sì 
torbida  e  mista  la  saggezza  catoniana,  foss'anche  stata 
maggiore,  non  bastava  a  salute.  Scipione  per  la  di- 
gnità consolare  era  primo  dì  nome.  Catone  era  primo 
pel  credito,  Giuba  era  primo  per  la  massa  di  truppe, 
e  per  l'impero  locale  ora  che  la  guerra  s'era  fatta  locale 


CAPITOLO  y.  323 

La  discordia  largamente  invadeva:  Catone  insultava 
Giuba  coi  fatti,  e  colle  parole  Scipione:  Catone  voleva 
temporeggiare  e  Scipione  combattere:  entrambi  disprez- 
zavano il  barbaro  re  :  Scipione  con  precoce  imprudenza 
scopri  vasi  che  avrebbe  abusato  di  una  vittoria,  e  lo  pre- 
vedeva Catone,  e  non  lo  taceva.  Il  paese  taglieggiato, 
esaurito,  non  era  per  loro:  Scipione  lo  sapeva,  ma 
voleva  per  rimedio  uccidere  tutti  i  cittadini  di  Ulica  onde 
non  si  ribellassero  :  Catone  salvava  dal  rimedio  i  poveri 
Uticensi,  ed  avendo  alcuni  senatori  o  patrizii  con  sé, 
formava  con  essi,  e  con  qualche  centinajo  di  mercanti 
romani  stabiliti  in  litica,  un  Senato  che  per  l'umiltà  dei 
suoi  membri  aveva  piuttosto  l'apparenza  di  municipale 
consiglio,  che  non  di  corpo  politico  per  tutto  Torbe  ro- 
mano. A  quel  Senato  soltanto  intento  ai  fondachi ,  ed 
impaurito  di  perderli ,  che  a  quello  appena  cui  fosse 
forzato  non  fuggiva  d'esser  operato,  magnanime  idee  vo- 
leva ispirare  Catone  :  egli  non  parlava  ad  orecchie  sorde, 
ed  a  cuori  indurati ,  ma  a  bocche  per  timore  silenti  : 
si  ricordassero  d'essere  Romani  :  sapessero  che  non  era 
Utica,  né  Àdrumeto  la  loro  città,  ma  esserlo  Roma  : 
sacrificare  beni  e  vita  per  Roma  essere  dovere  di  tutti: 
liberassero  ed  armassero  tutti  gli  schiavi  (e  negli  schiavi 
consisteva  gran  parte  della  loro  fortuna  !)  :  alzassero  bar 
luardi,  combattessero^  egli  esser  pronto  perfino  a  tra- 
gittare in  Italia,  ed  a  vendicarla  in  libertà.  Mentre 
egli  vociferava  neirassemblea  uticense  smarrita  di  sì  belle 
yalenterie,  impaurita  di  lui,  impaurita  di  Cesare,  questi 
raccoglieva  truppe  in  Sicilia  di  fronte  all'Africa,  e  si  dis- 
poneva al  tragitto.  Le  coste  dirimpetto  sono  guardate  : 
è  presidiata  Utica,  e  certamente  lo  sono  le  magnifiche 
posizioni  di  Biserta  (1)  :  è  impossibile  di  scendervi  inos- 
(1)  La  posizione  di  Biserta^  e  lo  stupendo  suo  porto  o  Iago  ha  dato  a  questa 


324  PARTE  TEKZi 

servalo,  e  con  forze  non  ancora  cresciute  e  vigorose  ad 
esercito.  Cesare  non  s'arresta,  e  sceglie  altra  base  d'ope- 
razione :  attraversa  il  canale,  oltrepassa  il  promontorio, 
veleggia  nel  golfo  delle  Sirti,  e  sbarca  a  Leptis  a  rovescio 
del  nemico.  Erano  aperti  a  lui  i  fertili  territorii  di  Adru- 
meto  e  Buspina  (Susa,  Monastir);  stendeva  il  braccio 
polente  su  Tisdro,  dove  noi  ammiriamo  anche  adesso  gli 
avanzi  dell'antica  grandezza;  aveva  magazzini  sicuri  nella 
ricca  isola  di  Cercina  (Cerbi),  e  di  là  rimontando  lungo 
la  corsa  al  nord  poteva  sospingere  sul  mare  le  legioni 
di  Scipione,  e  deviando  di  breve  tratto  a  ponente,  poteva 
insinuarsi  fra  Scipione  e  l'esercito  di  Ciuba  raccolto  in 
Numidia.  Intanto  Cesare  ha  già  trovato  alleati  che  mole- 
stano Ciuba  alle  spalle,  che  ritardano  la  sua  marcia  alla 
volta  di  Scipione,  e  perfino  lo  costringono  a  retrocedere 
per  salvare  la  sua  capitale  assalita  :  alfine  è  abbastanza 
forte  d'accorse  truppe  veterane,  di  cavallerie  galliche,  ed 
anche  d'Africani  passati  alla  sua  bandiera,  che  prostra  a 
Tapso  (Mehadia)  in  grande  giornata  tutti  i  nemici  suoi  (1). 


piazza  ia  diverse  età  della  storia  non  poca  importanza,  e  può  darla  ancor  mag- 
giore. Se  la  Francia  che  ora  signoreggia  Algeri  e  Tottimo  golfo  di  Bona,  e  sub- 
entra gradatamente  agli  Italiani  nelle  pesche  del  corallo  a  La  Calle,  che  sono 
una  scuola  numerosa  di  marinari  eccellenti,  riesce  ad  estendere  di  breve  tratto 
il  proprio  confine  verso  levante,  acquisterà  le  grandi  foreste  di  legname  da 
costruzione  navale  presso  Tabarca,  e  potrà  fondare  uno  stabilimento  di  somma 
importanza  nel  vasto  e  sicuro  estuario  di  Biserta.  In  tal  caso  la  potenza  navale 
di  Francia  nel  Mediterraneo,  e  quella  soprattutto  di  essa  relativamente  alfltalia, 
aumenterebbe  d'assai,  e  presto  la  Tunisia,  che  è  paese  meglio  collocato,  più 
fertile  delPAIgeria,  e  per  cosi  dire  connesso  in  un  sistema  colla  Sicilia  e  la 
Sardegna,  diventerebbe  totalmente  francese. 

L'importanza  della  Tunisia  era  ben  conosciuta  anche  da  Luigi  IX  di  Francia, 
che  tentato  invano  l'acquisto  dell'Egitto,  che  è  per  se  stesso,  e  pel  mondo  il 
primo  paese  deirAfrica,  tentò  quello  di  Tunisi,  che  è  il  secondo  per  T  Africa, 
ma  forse  per  la  Francia  e  per  ritalia  è  il  primo:  la  conosceva  del  pari  Cirio  V, 
che  alla  Sardegna,  a  Napoli,  a  Sicilia  ed  a  Malta  procurò  d'aggiungere  Tunisi 
per  sicurarsi  cosi  nel  bacino  cristiano  del  Mediterraneo,  agognando  poi  airallra 
fatica  del  muovere  di  là  alfoccupazione  del  bacino  turchesco. 

(i)  Le  cifre  delle  perdite  sofferte  dai  combattenti  nella  giornata  di  Tapso  sono 


CAPITOLO  V.  325 

Anche  rAfrica  è  in  mano  di  Cesare  :  lo  spento  incen- 
dio in  quel  paese  si  vicino  alla  Sicilia,  e  quasi  formante 
con  essa  una  continuazione  dei  lerritorii  italiani,  con- 
ferma la  cesariana  dominazione  in  Italia  :  anche  dal- 
TEgitlo  possono  adesso  trarsi  legioni,  salvo  le  destinale 
a  riserva  delle  truppe  di  Siria  nel  caso  che  queste  doves- 
sero rimontare  l'Eufrate  per  nuovi  insulti  di  Parti.  E  Vab- 
bondanza  annonaria  di  Roma,  cui  ogni  governo  già  da 
gran  tempo  intendeva  sollecito,  è  ora  doppiamente  sicura 
per  essere  certa  la  tranquillità,  e  quindi  l'arrivo  dei  grani 
di  Sicilia,  certo  l'arrivo  di  quelli  d'Egitto,  e  rinnovata 
Vaflluenza  di  quelli  dell'Africa.  Anzi  Cesare,  a  similitu- 
dine dei  tributi  che  in  sostanza  di  mele  già  si  esigevano 
dai  Corsi,  ed  in  varie  merci  altrove,  impone  anche  alle 
città  africane  una  decima  reale  di  frumento  e  di  olii  : 
non  solamente  l'erario  avrà  soccorso  d'argento  per  le 
derrate  vendute,  ma  le  plebi  romane  avranno  elargizioni 
benché  depravatrici  di  esse,  e  vedranno,  godranno  mate- 
rialmente della  vittoria,  applaudiranno  a  Cesare!  Ed  ora 
che  egli  sente  l'onnipotenza,  s'adonta  dei  nemici ,  non 
comprime  del  tutto,  come  dianzi  faceva,  le  passioni  vio- 
lente, uccide  qualche  pertinace  avversario,  conGsca  i 
beni  a  coloro  che  occuparono  ufficii  contro  di  lui,  e  pu- 
nisce d'orribili  tasse  città  chiamate  ribelli  perchè  ebbero 
la  sventura  che  i  Pompejani  le  invadessero,  le  rapinas- 
sero, le  rovinassero;  lascia  poi  al  governo  dell'Africa 
Cajo  Sallustio  proconsole,  severo  a  vigilare,  più  severo 
esattore  (i).  Tutto  ciò  consta  da  Irzio  e  Plutarco:  la 

ancor  più  menzognere  delle  già  riferite  nel  fallo  di  Farsaglia.  Giusta  gli  storici, 
Cesare  avrebbe  avuto  a  Tapso  duecento  volle  meno  uccisi  nelle  proprie  Gle  che 
non  i  nemici  nelle  loro:  egli  avrebbe  cioè  perduto  soli  cinquanta  soldati,  ed  i 
nemici  dieci  mila, 

(1)  Forse  noi  dobbiamo  Tammirabile  narrazione  della  guerra  giugurtina  alla 
dimora  che  Sallustio,  per  ufficio  conferito  da  Cesare,  ha  fatto  neir Africa. 


326  PARTE  TERZA 

scena  rimane  orrida ,  ma  ha  perduto  mollo  d'eroico 
scendendo  al  vero:  meglio  piacciono  però,  e  quindi  si 
continueranno  nelle  scuole  i  racconti,  che  non  si  com- 
prendono per  ragione,  anzi  ad  essa  contrastano,  ma  si 
tengono  per  fede. 

Catone  si  è  ucciso  da  sé,  altri  si  fanno  uccidere  da 
amici  0  da  schiavi  ;  alcuni  si  tolgono  la  vita  battendosi 
quasi  a  modo  gladiatorio  in  duello;  moltissimi  cad- 
dero a  Tapso,  non  pochi  di  scure.  Ma  v'ha  ancora  chi 
per  odio,  disperazione,  vendetta  anela  a  nuovi  cimenti, 
chi  vuol  rizzare  altra  volta  la  pompejana  bandiera, 
piuttosto  che  porgere  le  braccia  ai  ceppi,  e  la  gola  al 
coltello.  Ma  dove  dopo  tante  rovine  vi  ha  terreno  a 
combattere?  Ormai  tutto  è  in  potere  di  Cesare.  NeirAfrica, 
nella  Numidia,  nella  Getulia  si  può  ancora  scorrazzare 
a  ladronaje,  a  sorprese,  ma  non  risalire  a  speranza: 
ebbene,  gridano  i  Pompejani,  gettiamoci  nella  Spagna 
bellicosa,  che  ci  sta  dirimpetto,  in  quella  vasta  catena 
nevosa  fra  il  Beti  ed  il  mare:  è  recente  in  Ispagna  la 
dominazione  di  Pompeo,  e  vi  è  antica  la  romana,  e  tut- 
tora vi  sono  le  glorie  degli  Scipioni,  e  le  animosità 
nazionali.  Tragittano,  occupano,  ingrossano:  evocano 
anche  l'ombra  del  grande  Sertorio,  che  aveva  combat- 
tuto per  causa  si  diversa  dalla  loro  !  Ma  Cesare  accorre 
egli  stesso  un'altra  volta  in  Ispagna,  e  nel  terribile 
conflitto  di  Munda  le  sue  legioni  di  ferso  trionfano 
ancora. 

Creossi  Cesare  aderenti  nuovi  in  ogni  provincia,  e 
largamente  premiò  :  donò  sostanze  ed  ufficii  ;  ma  esau- 
ribile è  l'oro,  e  sono  limitate  le  cariche,  sconGnata  in- 
vece e  sempre  assetata  è  l'ambizione  dell'uomo.  Napo- 
leone inventò  per  essa  la  Legion  d'onore  :  Cesare  non 
trovò  gli  ordini  cavallereschi,  che  tanto  abusati  a'  dì 


CAPITOLO  y.  327 

nostri  ancora  son  chiesti  con  disfrenalo  appetito,  ma 
conferì  in  massa  le  appellazioni  onorifiche  delle  magi- 
strature a  chi  realmente  non  teneva  Tufficio,  e  si  com- 
piaceva del  titolo  anche  sine  re.  Accordò  pure  largamente 
la  prerogativa  di  romana  cittadinanza,  come  già  aveva 
fatto  Pompeo  segnatamente  in  Ispagna  (Cic,  prò  Corne- 
lio Balbo],  ed  era  pure  ambito  privilegio  per  l'esenzione 
dalle  giurisdizioni  locali.  Tradusse  altresì  colonie  a  Co- 
rinto, a  Cartagine,  nella  Gallia,  nella  Spagna,  nelFÀsia 
Minore:  erano  punti  di  vigilanza  e  d'appoggio:  in  molli 
siti  erano  pure  faro  d'alcuna  luce,  scuola  di  qualche  ci- 
viltà. Cresceva,  è  vero,  per  esse  il  caos  delle  legislazioni 
diverse  simultaneamente  in  vigore  in  uno  stesso  paese, 
ma  diffondevasi  ad  esempio  un  migliore  sistema  di  di* 
ritto  civile,  ed  inoltre  Cesare  pensava  ad  una  completa 
e  forse  uniforme  legislazione  del  mondo.  Quanto  all'eser- 
cizio dei  diritti  politici  di  questi  Romani  lontani  da  Roma, 
esso  non  era  loro  tolto,  ma  impedito  dal  fatto  della 
loro  assenza  dal  luogo  ove  i  suffragi  dovevano  essere 
deposti.  A  che  però  d'ora  in  poi  si  riduceva  Tesercizio 
dei  diritti  politici,  mentre  tutta  la  potenza  era  raccolta 
in  una  sola  persona?  Riducevasi  al  nulla:  quindi  Xur 
gusto,  benché  domasse  Roma  non  pure  ad  ubbidire 
ma  ad  essere  schiava,  né  cercasse  ajuto  a  governo,  e 
tutta  la  storia  di  Roma  riducesse  a  quella  del  principe, 
non  temette  concedere  che  le  votazioni  che  si  avessero  a 
fare,  si  raccogliessero  anche  nelle  colonie,  e  le  loro  risul* 
tanze  si  trasportassero  poi,  e  si  calcolassero  a  Roma. 
Quand'era  Cesare  per  le  guerre  d'Africa  e  Spagna 
lontano  da  Roma,  vi  governava  Antonio:  era  prodigo: 
eppure  il  denaro  non  mancava  a  lui  :  non  si  sottilizzava 
sui  mezzi  :  il  partito  più  pronto  era  il  migliore,  ed  al  sol*- 
dato  insolente  sembrava  anche  giusto  se  colpiva  i  con* 


328  PABTB  TEaZi 

trarli  ;  e  se  v'era  taluno  (e  molti  ve  n'erano)  che  avesse 
oro  nell'arca,  e  quando  giunsero  in  Roma  le  notizie  delle 
armi  usate  da  Cesare  infelicemente  a  Durazzo  avesse  giu- 
bilato, allora  sembrava  l'occasione  propizia  ad  applicar- 
gli una  tassa  proporzionale  a  quel  giubilo.  Leggiamo 
infatti  che  Antonio  privatis  pecunias  per  epistolas  impe- 
rabat^  ed  altrove  cujus  modo  rei  nomen  reperiri  poterai, 
hoc  $ati$  erat  ad  cogendas  pecunias.  Ma  dobbiamo  noi 
credere  che  questo  Antonio,  cui  Cesare  aveva  già  con- 
ferito importanti  comandi  in  cento  battaglie,  le  quali 
furono  altrettante  vittorie,  e  cui  confidava  il  governo  di 
Roma»  fosse  davvero  scimunito,  demente,  ubbriaco,  in- 
sensato, stupido,  peggior  di  Spartaco  e  di  Catilina, 
come  Cicerone  sempre  Io  chiama  nelle  quattordici  anto- 
niane  o  filippiche  ?  Non  poteva  dirlo  tale  il  giudizioso 
Pomponio  AtticO;  che  pur  era  nell'intimità  coi  nemici 
suoi,  e  nondimeno  ottenne  da  Antonio  non  solo  salvezza, 
ma  delicati  riguardi  (Corn.  Nip.). 

Cesare  democratico  seguì,  confiscando,  l'esempio  di 
Siila  patrizio  :  donò  terreni  ai  legionarii.  Confiscò  anzi 
più  di  Siila,  e  donò  più  di  lui  :  le  leggi  criminali  cesa- 
riane  gravemente  deturpano  il  gius  romano,  dando  al 
sistema  delle  confische  terribile  estensione.  E  sono  ap- 
punto queste  barbare  leggi  di  confisca,  e  le  più  barbare 
di  sangue  per  delitto  di  lesa  maestà,  che  si  conservarono 
per  lunghi  secoli,  e  spensero  nei  modi  più  atroci  le  mi- 
gliaja  di  vittime.  Ma  nell'atto  stesso  in  cui  Cesare  ema- 
nava sì  terribili  leggi,  non  intimava  diffatto  i  supplizii,  e 
per  leggi  atroci  non  applicate  più  clemente  sembrava. 
Erano  atti  di  generosità,  anche  di  utilità,  ma  Cesare  tras- 
modò ad  errore  credendo  a  possibilità  di  conciliazione  sin- 
cera, e  perfino  a  fedeltà,  perchè  afiìdò  a  nemici  salvati  uQì- 
cii  elevati  e  Provincie  importantissime,  p.  e.  il  governo  della 


CAPITOLO  T.  329 

Gallia  cisalpina.  Cesare  perdonava  spontaneo  a  Cicerone, 
e  questi  pregava  per  Ligario,  pregava  per  Dejotaro,  rin- 
graziava per  Marcello,  e  diceva  con  ragione:  quos  ami- 
simus  cives,  eos  Martis  vis  perculit,  non  ira  victorim. 
Cesare  perdonava  facilmente  a  tulli  quelli  che  avevano 
combattuto  soltanto  in  Farsaglia,  meno  prontamente  a 
quelli  che  avevano  di  nuovo  combattuto  a  Tapso  (Àfrica), 
e  difficilmente  a  quelli  che  avevano  ]a  terza  volta  pugnato 
a  Munda  (Spagna)  :  faceva  innocente  ma  ingloriosa  ven- 
detta letteraria  contro  di  un  morto  perchè  scriveva  VAnli- 
Catone,  e  puniva  Catullo  d'un  modo  cortese  (1).  Anche 
egli  voleva  placare  i  rimorsi  elargendo  ed  ottenendo  per- 
dono :  voleva  l'oblio  del  passato,  ubbidienza  e  favore 
all'attuale  imperante  (2).  Eppure  susurravasi  di  congiure: 
parlavasi  or  di  pugnali,  or  di  veleno,  e  Cesare  lo  sapeva, 
e  Cicerone  istesso  perorando  alludeva.  I  patrizii  umiliati, 
e  fatti  plebe,  nutrivano  un  gran  disegno  :  i  graziati  in 
Roma,  e  gli  emigrati  pertinaci  all'estero  continuavano 
nella  corrispondenza  (Cic,  lib.  V,  epist.  12). 

Cesare  tutto  vedeva  :  volle  sventare  il  pericolo  più  grave 
coU'imitare  Alessandro  :  ne  aveva  il  genio,  e  le  circostanze 
erano  poco  diverse:  il  mondo  era  ripieno  di  soldati  che  ' 
avevano  seguito  le  parti   cesariane  o  le  pompejane: 
v'erano  delle  masse  di  cruda  ribaldaglìa,  che  in  tanto 


(1)  Catullo  scrisse  qualche  epigramma  contro  di  Cesare,  ma  non  ebbe  in  allora 
nemmeno  il  pregio  deireleganza  : 

iVt7  nimium^  Cessar,  studeo  Ubi  velie  piacere; 
Nec  scire  ulrum  sùs  ater  an  albus  homo. 

Cesare,  quasi  grato  al  poeta  che  scrivendo  contro  di  lui  fosse  caduto  sì  basso, 
lo  invitò  a  cena.  E  quanti  dei  nostri  critici  potrebbero  essere  invitati  ogni  d), 
se  però  fossero  GatuUil 

(2)  Questa  universale  benevolenza  di  Cesare  ci  richiama  a  mente  il  detto  di 
Eteocle  in  Euripide,  che  Cicerone  ha  tradotto  negli  Oflìcii  :  Si  violandim  estjus, 
regnandi  gratia  violandum  esi  ;  aliis  rebus  pielatem  colas. 


330  PARTB  TBRZi 

sforzo  di  guerra  s'erano  raccolte  e  formale  ad  eserciti 
nell'una  o  nell'altra  provincia  (1)  :  v'era  la  prevalente  fa- 
zione soldatesca,  ma  v'erano  pure  gli  indomiti  fautori  di 
libertà,  fautori  di  patriziato  :  chi  non  aveva  le  armi  in 
pugno  poteva  riprenderle,  ed  anelava  a  farlo.  Bisogna 
esiliare  l'intiera  massa,  infonderle  nuovo  spirito,  allon- 
tanare il  pericolo  d'incendii  rivoluzionarii,  dare  nuova 
gloria,  nuovo  guadagno  a  qualunque  soldato,  consoli- 
dare la  pace  nell'interno  marciando  a  nuove  battaglie  in 
campi  lontani  e  stranieri.  Cesare  non  ha  dei  Romani  da 
liberare  nell'Asia,  come  Alessandro  aveva  a  liberarvi  i 
Greci,  ma  vi  ha  da  vendicare  i  Romani  che  vi  sono  morti 
con  Grasso.  I  Parti  d'altronde  erano  invasori  incessanti 
delle  romane  provincie  :  finsero  d'associarsi  a  tutti  i  par- 
titi che  nelle  guerre  civili  si  combatterono  nel  mondo  ro- 
mano :  quando  le  legioni  venivano  richiamate  nell'interno, 
ed  anche  ire  confedera  ti  o  soggetti  spedivano  i  loro  conti  n- 
genti  restando  nel  loro  paese  inermi,  i  Parti  divallandosi 
dalle  montagne  dell'Armenia ,  che  come  immensa 
acropoli  sovraincumbono  a  tante  regioni,  e  ne  sono 
il  castello  e  le  porte,  inondavano  i  regni  e  le  provincie 
romane.  I  Romani  ritornavano,  rincacciavano  i  Parti  : 
facevansi,  o  non  facevansi  trattati:  seguiva  un  armistizio, 
poi  ripigliava  la  guerra,  ed  il  conquistare  il  paese  dei 
Parti,  ed  il  procurarsi  cosi  una  sicurezza  costante,  rimase 
nei  Romani,  Anch'ebbero  lena,  un  desiderio  che  non  sì 

(i)  Valga  ad  esempio  Tesercìto  d'EgittOi  di  cui  Io  stesso  Cesare  ha  parlato 
nel  libro  111  De  bello  civili ^  al  capo  90:  consiahant  copice  ex  Gabinianis  mili' 
tibuSf  qui  jam  in  consueludinem  alexandrinoi  vilm  ac  Ikentim  venerant:  ac- 
cedebant  coUecti  ex  prtrdonibus  latronibusque  Syriw  Cilicireque  provincitu 
finitimarumregionum.  Multi  prtrlerea  tapitis  damnati  exulesque  convenerant: 
fagitivis  omnibus  nostris  ceiius  erat  Alexandrim  recepius  certaque  t'ito  con- 
ditio  ut  dato  nomine  militum  essent  numero  ;  si  quis  a  domino  prehenderetur, 
consensu  militum  eripiebatur,  qui  vim  suorum^  quod  in  simili  culpa  versa-- 
bantur,  ipsi  prò  suo  periculo  defendebant. 


CAPITOLO  V.  331 

spense  mai.  Forse  alle  ordinarie  idee  di  politica  si  ag- 
giunsero altri  argomenti  a  rendere  i  Romani  pertinaci 
allo  scopo,  e  furono  di  natura  economica  e  com- 
merciale, quelli  cioè  d'aprirsi  per  l'Eufrate  una  via  più 
sicura  e  più  rapida  che  in  quei  tempi  non  fosse  quella 
dell'Eritreo  per  giungere  alle  Indie,  colle  quali  esercita- 
vasi  un  immenso  commercio.  Ciò  è  probabile,  ma  non 
troviamo  documenti  a  prova.  Cesare  con  plauso  comune 
proclama  la  guerra  contro  i  Parti  :  egli  non  guiderà  più 
eserciti  di  poche  legioni  come  quelli  che  ha  capitanato 
finora,  ma  un  esercito  pari  alla  grandezza  dell'impero 
romano,  alla  vastità  degli  spazii  da  invadere,  al  numero 
delle  nazioni  da  conquistare,  alla  mirabile  altezza  del 
proprio  suo  genio  :  con  esso  Cesare  penetrerà  profonda- 
mente nella  contrada  montìva  stata  girata,  tocca  o  solo 
rapidamente  solcata;  disseminerà  i  germi  della  vita  ro- 
mana anche  colà  dove  hanno  fonte  i  fiumi  che  volgono 
i  flutti  a  quattro  mari  contrarii  :  porterà  le  aquile  vitto- 
riose nella  Battriana,  dove  saranno  confini  dell'impero 
i  territorii  iniqui  alla  vita  umana:  egli  è  Cesare;  sarà 
anche  Ciro,  sarà  Alessandro,  ed  i  Romani  diranno:  Sisti' 
mu$  ubi  defuit  orbis. 

Tale  8i  era  il  divisamente  di  Cesare,  e  vi  era  causai 
vi  era  scopo  e  potenza  per  esso.  Ma  vorremo  noi 
s^uire  Plutarco  ed  i  moderni  scrittori,  che  con  volo 
fantastico  attribuiscono  a  Cesare  anche  l'insensato  prò- 
getto  di  oltrepassare  le  steppe  del  Caspio,  girare  quel 
mare,  varcare  Tincommensurabile  Scizia  e  Germania,  e 
rientrare  per  la  Gallia  in  Roma?  A  fronte  delle  difficoltà 
di  simile  impresa  sarebbero  state  piccole  prove  e  fan- 
ciulleschi ardiri  l'antica  spedizione  di  Dario  I  nella  Sci- 
zia  del  sud,  e  nulla  poi  sarebbero  le  recenti  di  Carlo 
svedese  in  Ucrania,  e  di  Napoleone  a  Mosca»  che  tutte 


332  PÀETB  TEBZi 

per  disagi,  per  fame,  per  geli  ebbero  fine  sì  trista.  Qui 
dovevasi  percorrere  un  migliajo  di  leghe  di  terreno,  senza 
base  d*operazione,  senza  punto  obbiettivo,  senza  magaz- 
zini, senza  comunicazioni  con  Roma:  dovevansi  passare 
vasti  deserti,  e  larghe  fiumane:  ogni  soldato  stanco,  ogni 
ferito  era -inevitabilmente  perduto:  vi  erano  forse  grandi 
battaglie  a  vincere,  ma  certamente  infiniti  conflitti  in  cui 
perdere  sangue.  NelVipotesi  più  favorevole  si  attraver- 
sava il  paese  come  un  vascello  nel  mare  senza  lasciar 
altra  traccia  che  proprii  cadaveri  e  salmerie  rimaste:  in 
altra  più  facile  ipolesi  l'esercito  assottigliato  ed  esausto 
aveva  a  soccombere  ignorato,  invendicabile,  sotto  un 
manto  di  nevi.  Bisognava  lasciare  almeno  cento  mila 
Romani  nei  presidii  dell'Eufrate  e  d'Armenia,  e  gui- 
darne non  trenta  o  quaranta  mila,  ma  almeno  mezzo 
milione  all'immensa  marcia  delle  inospitali,  quasi  ignote 
contrade,  ed  alla  guerra  contro  cinquanta  stranie  nazioni 
necessariamente  dislocate,  saccheggiate  e  calpéste.  Ha 
chi  non  vede  che  le  difficoltà  inerenti  alla  natura  del- 
l'impresa insensata  dovevano  aumentare  nella  stessa 
proporzione  dell'aumento  dei  mezzi  d'offesa,  ossìa  della 
massa  d'esercito?  E  potremo  noi  credere  che  Cesare,  il 
quale  nei  Commentarii  ci  si  mostra,  se  è  possibile,  an- 
cor più  abile  amministratore  d'eserciti  che  non  reggitore 
di  campali  battaglie,  che  preparava  le  vittorie  col  per- 
fetto allestimento  dei  suoi,  che  meritava  il  trionfo  per 
estrema  diligenza  di  cure  in  ogni  tempo  prodigate,  vo- 
lesse gettarsi  in  tale  voragine  per  perdere  Roma  e  se 
stesso?  Tagliarsi  le  comunicazioni  con  Roma,  lasciarla 
per  due  e  più  anni  libera  all'audacia  dei  cospiratori, 
levarne  gli  eserciti  per  battagliare  a  ventura,  con  rischio 
micidiale  di  perdere  tutto,  con  evidenza  di  acquistare 
mai  nulla,  non  erano  idee  che  potessero  capire  nella 


cAPnoLO  V.  333 

menle  di  Cesare.  Egli  ben  conosceva  tutta  l'importanza 
di  non  starsene  lungamente  lontano  da  Roma  :  costretto 
a  frequenti  assenze,  toccava  sempre  Roma  negli  itine- 
rarii  suoi:  vi  rimaneva  alcun  tempo»  vi  radunava  il  Se- 
nato, vi  teneva  i  comizii,  spargeva  le  sue  idee,  presie- 
deva alle  elezioni  dei  nuovi  magistrati,  sapendo  che  per 
le  qualità  delle  persone  si  reggono  le  cose  presenti,  e 
si  provvede  perfino  alle  future  ed  ignote  ;  vigilava  sui 
contrarii,  conteneva  e  raffrenava  anche  le  intemperanze 
dei  suoi  perchè  non  trasmodassero  ad  ecccessi  di  provo- 
cazione e  violenza.  Se  Alessandro,  se  Gustavo  Adolfo,  se 
Carlo  XII,  partiti  per  guerre  straniere,  si  occuparono 
talmente  di  queste  che  più  non  rividero  le  loro  capitali, 
Cesare  noi  fece,  e  nelle  guerre  civili  più  che  nelle 
estere  sarebbe  stato  dannoso  il  farlo.  Poteva  muoversi 
contro  i  Parti,  e  causa  ne  aveva,  ma  rifiutiamo  cre- 
denza alla  spedizione  di  Scizia  e  Germania,  aggiunta 
da  scrittori  fantastici  ad  un  progetto  già  grande  ed  ar- 
dito. Sì,  neghiamo  fede  agli  antichi  scrittori,  e  quindi  ai 
cento  moderni,  e  ci  duole  che  parlando  di  operazioni  di 
guerra  vi  siano  autori  e  maestri  che  percorrono  così  in- 
scienti col  dito  le  carte  del  globo,  come  insciente  Vindice 
trascorre  sul  disco  delVore.  E  ben  potremmo  addurre, 
ma  ci  sembrano  superflui,  nuovi  argomenti  contro  Fin- 
credibilità  del  progetto:  ripetiamo  soltanto  che  Timmensa 
intrapresa  avrebbe  dovuto  farsi  in  paese  quasi  ignoto. 
Infatti  all'epoca  di  Cesare  non  si  erano  ancora  combat- 
tute dai  Romani  né  le  guerre  pannoniche,  né  le  daciche, 
le  quali  disvelarono  ad  essi  quelle  contrade  ignorate  e 
quasi  favolose  dapprima  :  le  scitiche  poi  non  furono  in- 
vase dai  Romani  in  alcun  tempo  giammai.  Erano  si  im- 
perfette le  notizie  di  quelle  contrade,  che  Scilace  cre- 
deva che  l'estremità  dell'Adriatico  comunicasse  coU'Istro, 


334  PARTE  TEBZÀ 

e  Pomponio  Mela  deriva  il  nome  d'Istria  appunto  dalla 
antica  credenza  che  un  braccio  di  quel  fiume  si  gettasse 
neirAdriatico.  Anche  Apollonio  Rodio  ci  narra  che  la 
flotta  di  Giasone,  fuggendo  da  quella  di  Età,  rimontasse 
per  ristro,  e  di  là  passasse  neirAdriatico.  e  perfino  Ari- 
stotele sembra  credere  che  il  pesce  trichia  trasmigri  dal- 
ristro  nell'Adriatico.  Senza  dubbio  le  campagne  militari 
d'Illirio  dovevano  già  al  tempo  di  Cesare  aver  fatto  co- 
noscere le  coste  adriatiche,  ma  dall'Adriatico  al  Caspio  la 
linea  itineraria  era  iiAmensa  ed  ignota,  né  mai  un  gran 
capitano  come  Cesare  l'avrebbe  voluta  percorrere  pere- 
grinando a  scoperta  con  mezzo  milione  d'armati.  Vero 
si  è  che  la  vittoria  cresce  le  voglie,  e  dà  più  mezzi  di 
contentarle:  vero  è  altresì  che  Cesare  non  era  uomo  che 
si  appagasse  del  bisognevole,  e  nemmeno  dell'utile,  ed 
anzi  ambiva  il  superfluo,  ma  altissima  mente  era  la  sua: 
prima  di  calpestare  il  mondo  voleva  persuadersi  che 
farlo  si  potesse,  e  che  farlo  giovasse.  Si  folle  marcia  non 
avrebbe  intrapreso  giammai  :  erano  già  grandi  le  diffi* 
colta  della  partica  guerra. 

Per  questa  spedizione  contro  i  Parti  si  raccoglie  un  te- 
soro, perchè  il  denaro  nelle  guerre  vale  come  ferro,  e  tal- 
volta più,  e  sempre  si  dà  principio  e  continuazione  al 
combattere  asuon  di  denaro  (i)  :  si  fanno  infiniti  appre- 
stamenti: occorre  un  abile  amministratore  nella  Grecia, 
dalla  quale  si  ha  da  muovere  alla  grande  invasione,  e  deve 
esserne  base  di  sicura  affluenza  di  soccorsi  continui,  e 
Cesare  vi  spedisce  a  governo  il  giureconsulto  Sulpizio, 

(i)  Anche  in  allora  Cesare  avrà  forse  adottato  Tingegnoso  espediente  che  usò 
nella  guerra  civile,  e  di  cui  si  compiace  egli  stesso  come  di  stratagemma  sa- 
piente: a  tribuni s  mililum  cenlurionibiisque  mnluas  pecunias  sumpsit;  has 
exercilui  dislribuit:  quo  facto  duus  res  conseculus  est,  quod  pignore  animos 
cenlurionum  devinxU  et  largiliorie  militum  voluntates  redemit  (De  belio  civili, 
1.  !.  e.  39).  • 


CAPITOLO  V.  335 

uno  dei  più  splendidi  ingegni  di  tutto  lo  Stato:  era 
uomo  giusto:  avrà  avuto  anche  giuste  istruzioni  con- 
venienti al  suo  senno,  alla  sua  temperanza.  Ogni  pom- 
pejano,  e  lo  era  anche  Sulpizio,  se  non  ha  per  carat- 
tere la  resistenza  indomabile,  può  aspirare  a  grandezza 
civile  e  ad  onore  guerriero  :  non  rialza  lo  stesso  Cesare 
le  statue  di  Pompeo?  Cesare  con  ciò  consolidava  le  sta- 
tue sue  proprie:  allettava,  diminuiva  almeno  il  rossore  a 
chi  si  schierasse  sotto  le  sue  bandiere.  Il  mondo  romano 
era  per  rovesciarsi  tutto  intiero  sull'Asia:  il  patriziato  di 
Roma  era  in  procinto  di  perdere  ogni  sua  spada.  Più 
non  v'era  una  Vandea  pertinace  in  sull'armi  :  già  le  masse 
posavano:  non  v'era  possibile  rimedio  di  guerra,  né  tempo 
a  ritardo.  Era  lo  Stato  nella  situazione  in  cui  trovossi 
la  Francia  al  principio  di  questo  secolo,  quando  chetata 
ritornava  con  Napoleone  a  senno  e  temperanza,  e  per  lo 
migliore  ordinavasi,  e  poneva  amore  a  lui  che  le  aveva 
dato  la  gloria  e  le  prometteva  il  riposo  :  allora  i  Borbo- 
niani  tramarono  alla  vita  di  lui,  e  la  macchina  infernale 
si  accese.  Non  altrimenti  parve  ai  romani  patrizii  che 
avrebbero  eternato  il  danno  col  differire  il  rimedio,  e  ri- 
medio non  poter  essere  che  il  pugnale:  fu  infatti  nelle 
aule  patrizie  affilato  il  pugnale,  e  più  lo  affilò  chi  aveva 
ricevuto  da  Cesare  perdono,  beneficii  e  governi.  Cesare 
cadde:  se  egli  morendo  disse  realmente  le  parole  Tu 
quoque,  Brute,  fili  mi^  troviamo  più  sublime  lamento 
nel  solo  Vangelo. 

Scorsero  diciotto  secoli  prima  che  la  natura  produ- 
cesse in  Napoleone  un  uomo  sì  grande  da  poter  essere 
comparalo  a  Cesare.  Furono  eguali?  Chi  fu  il  più  grande? 
A  chi  spetterebbe  nel  Trionfo  della  fama,  che  un  nuovo 
Petrarca  scrivesse,  il  primo  posto  presso  la  Dea?  Noi  non 
saremmo  stati,  come  il  Petrarca,  perplessi  se  quel  posto  si 


336  PÀETE  TEBZi 

dovesse  a  Scipione  od  a  Cesare  ;  ma  nel  problema  attuale 
chi  non  si  periterebbe  alla  scelta?  Le  grandi  cose  ope- 
rate da  Cesare  e  da  Napoleone  sì  stringono  pressoché  in 
egual  numero  d'anni,  ed  ambedue  sparvero  dal  mondo 
quasi  alla  stessa  età.  Entrambi  sdegnarono  gli  argomenti 
della  temperanza  cittadina,  amarono  pibla  gloria  tumul- 
tuosa che  l'onore  tranquillo,  vinsero  Tanarchia  per  trarne 
l'assolutismo,  curando  il  presente  non  provvidero  alle 
istituzioni  pel  futuro,  tolsero  la  libertà  politica,  ma  con- 
solidarono la  civile,  la  sola  che  volessero  duratura  tras- 
mettere, spensero  l'idolatria  di  ogni  privilegio,  d'ogni 
ereditaria  grandezza,  perchè  sorsero  nuovi  dal  popolo  e 
furono  più  grandi  di  tutti  i  re.  Rischiararono  di  loro  luce 
le  menti,  ed  infusero  vigorosa  l'azione  ai  loro  generali, 
ma  non  trasmisero  ad  essi  creata  fiammella  di  genio 
come  Gustavo  Adolfo  a  Bernardo  di  Weimar,  a  Banner, 
e  più  ancora  a  Torstenson  :  salirono  a  meravigliosa  al- 
tezza, ma  solo  per  veder  più  lungi  e  per  aspirare  più 
vasto.  Ebbe  Napoleone  una  sola  passione,  la  gloria  del 
dominare  sui  popoli,  e  trarli  a  progresso  civile  e  ser- 
vaggio politico  ;  molte  passioni  ebbe  Cesare,  quella  pre- 
valente, né  tutte  splendide,  ma  anche  volgari.  Diversi  da 
Carlo  XII,  né  l'uno  né  l'altro  di  essi  cercò  nelle  batta- 
glie per  mera  temerità  e  baldanza  i  pericoli,  nessuno  li 
fuggi  quando  giovasse  incontrarli:  furono  onniscienti 
pressoché  in  tutte  le  discipline  di  Stato,  e  non  solo 
nelle  militari,  ma  Cesare  primeggiò  perché  al  genio 
eguale  univa  maggiore  esperienza  d'ogni  carriera  sociale, 
ed  ebbe  elevazione  men  rapida  :  Cesare  pensò  a  dare 
una  legislazione  ordinata,  e  Napoleone  la  diede;  quegli 
dunque  desiderò,  e  l'altro  ottenne  la  lode  di  legislatore, 
che  ben  dice  Machiavelli  essere  la  prima  di  tutte  le 
umane.  Cesare  non  fu  presago  delle  vendette  dei  privati, 


CAPITOLO  V.  337 

e  Napoleone  di  quelle  dei  popoli,  sì  che  l'uno  perì  sotto 
i  colpi  degli  amici  salvati,  e  l'altro  non  ebbe  soccorso 
ma  rovina  dai  nemici  non  spenti  ;  Cesare  contenne  in  fede 
le  Gallie,  e  Napoleone  non  contenne  Germania.  Cesare 
fu  conservatore  di  soldati,  ordinatore  di  battaglie,  maestro 
d'assedii  quanto  Napoleone:  forse  lo  fu  pib  di  lui,  e  fu 
inarrivabile  nell'istruzione  e  nell'uso  delle  truppe  leg- 
gieri: la  parte  politica  della  guerra  fu  meglio  apprezzata, 
e  ciò  vuol  dire  compresa  da  Cesare  che  non  da  Napo- 
leone, ma  questi  fu  più  grande  nell'abilità  strategica, 
che  alla  tattica  sovrasta:  leloquenza  militare  rapida, 
concitata,  orgogliosa  fu  eguale  in  essi,  e  lo  fu  l'ardi- 
mento a  cogliere  l'istante  in  cui  il  nemico  sconfitto  più 
non  dà  pericolo,  ma  fatica  e  frutto:  ebbero  non  amore 
ma  adorazione  dai  soldati  :  sempre  indefessi  e  calmi,  non 
mai  accrebbero  nel  tumulto,  nei  pericoli,  nei  rovesci  col 
turbamento  proprio  quello  d'altrui.  Fu  uguale  la  vigi- 
lanza in  essi:  né  l'uno  né  l'altro  subirono  la  vergogna 
d'esser  sorpresi  nel  campo  come  lo  fu  Federico  II  nella 
notte  tremenda  di  Hochkirchen.  Vinsero  entrambi  in  tre 
parti  del  mondo  battaglie  preparate  di  guisa,  com- 
battute e  seguite,  che  il  nemico  non  ne  fu  affievolito, 
respinto,  ma  prostrato ,  preso ,  totalmente  distrutto. 
Non  ha  la  vita  di  Cesare  il  miracoloso  spettacolo  del 
ritorno  dall'Elba,  ma  nemmeno  la  catastrofe  di  Mosca  e 
di  Lipsia  che  lo  precorse,  né  quella  di  Waterloo  che  lo 
segui:  ambedue  in  certi  momenti  poterono  dire  che  ormai 
più  doveva  importare  allo  Stato  che  non  a  loro  stessi  la 
propria  salvezza  :  ma  Napoleone,  non  Cesare,  aveva  in 
allora  creato  la  fatalità  di  posizione  gravissima,  disperata. 
Cesare  ha  perduto  truppe  con  Curione  nell'Africa,  con 
Cajo  Antonio  nell'Illirico,  e  con  Domizio  Calvino  nel 
Ponto,  e  con  Dolabella  ha  perduto  navi  nel  Ionio,  ma 

22 


338  PARTE  TERZA 

non  fu  egli  stesso  in  grande  certame  superato  giammai  ; 
ogni  grande  certame  fu  sempre  un  trionfo  :  Napoleone 
moltiplicò  i  prodigi  quando  rovinava,  ma  rovinò  anche 
militarmente  per  intemperanza  d'ampiezza  di  concetti 
politici.  L'uno  fu  debole  verso  gli  amici,  l'altro  lo  fa 
verso  i  parenti  ;  l'uno  fu  ordinato  e  parco  per  poter 
essere  splendido,  l'altro  fu  prodigo  sempre  confidando  in 
nuovi  tesori  ;  l'uno  fu  grande  nelle  lettere,  l'altro  provò 
che  avrebbe  potuto  emularlo  ;  l'uno  cercò  la  grandezza 
pel  popolo  romano,  per  sé,  l'altro  cercolla  pel  popolo 
francese,  per  la  propria  famiglia,  per  sé.  Cesare  non 
aveva  nazioni  a  creare.  Napoleone  ebbe  nella  destra  po- 
tente Italia  e  Poloniai  e  nulla  ne  fece:  tentò  poi  di  spe- 
gnere Spagna,  ed  ha  avvilito  Germania  :  parve  aspirare 
all'impero  dì  Carlo  Magno,  non  a  quello  di  Cesare^  Chi 
dunque  fu  maggiore  fra  essi?  La  nostra  mente  è'bassa  a 
tanta  altezza  ;  ma  la  posterità  suol  giudicare  meno  dalle 
cose  fatte  che  dalle  lasciate,  ed  ha  ragione  :  molte  ne  la- 
sciò Napoleone,  ma  la  vita  di  Cesare  si  protrasse  nel 
mondo  romano  per  secoli. 


PARTE  QUARTA 


IL  PRINCIPATO  DIVISO,   COMBATTUTO, 
RIDOTTO  AD  UNITÀ. 


CAPITOLO  I. 

BniU  e  Cassi*  :  Sesto  Pmfet  :  i  TrinTiri  : 
le  preseruieiii. 

Al  cadere  di  Cesare  estrema  fu  l'ansia,  la  trepidazione, 
la  discordia  dei  senatori.  11  maggior  numero  di  essi  per 
odii  patrizii  era  nemico  al  caduto,  ma  era  spayentato 
altresì  dall'audacia  dei  percussori,  e  dalla  prescienza  delle 
future  tempeste  :  erano  poi  a  centinaja  i  senatori  scelti 
da  Cesare  fra  gli  aderenti  suoi.  Nei  tempi  ordinarli  i  pò. 
polani  ammessi  a  gradi,  a  favore,  a  potenza,  tosto  assor- 
bono e  spirito  e  tendenze  del  corpo  privilegiato  in  cui 
entrano,  anzi  non  pochi  subitamente  o  rapidamente  tras- 
modano, e  diventano  cosi  fieri  aristocratici  com'erano 
popolani  inquieti.  Ha  qui  l'aspetto  delle  cose  era  sinistro 
e  grave  :  i  senatori  cesariani  nel  caso  di  reazione  com- 
pleta potevano  perdere  la  dignità  acquistata,  gli  ufficii 
ottenuti,  i  beni  di  sanguinosa  conquista  a  loro  donati,  le 
patrimoniali  ricchezze,  fors'anche  la  vita.  Non  era  più 
dunque  il  Senato  un  corpo  compatto  :  non  vi  era  unità 
d'interessi,  e  quindi  di  voglie:  non  esistevano  quelle 
maggioranze  sicure,  che  imperano  coi  voti,  ed  abbattono 
con  certezza  di  repressione  le  manifestazioni  contrarie. 
E  tremando  altresì  dei  soldati  e  del  popolo,  il  Senato  non 
sapeva  prendere  risoluzioni  franche,  costanti,  recise,  anzi 
non  osava  dichiararsi,  e  faceva  contraddi ttorii  decreti  :  non 


342  PÀBTE  QUARTI 

perseguitava  colle  pene,  anzi  adulava  colle  onorevoli  di- 
mostrazioni i  percussori  suoi  :  approvava  però  lutti  gli 
atti  di  Cesare,  e  quindi  confermava  anche  le  operate  con- 
fische. Gridavano  invano  i  possessori  spogliali,  jm  sem- 
per  hoc  fuisse,  ut,  qticB  tyranni  eripuissent,  ea,  typan-- 
nis  interfectis,  ti,  quibus  erepta  essent,  recuperarent 
(Cic,  Filipp.  II)  :  la  rapina  era  venuta  in  mani  troppo 
forti  per  esser  loro  ritolta  con  leggi.  Nondimeno  il  Senato 
diede  una  volta  per  repentino  decreto  a  Sesto  Pompeo 
una  somma  si  enorme  come  indennità  dei  perduti  beni 
paterni,  che  sembrava  mirasse  ad  armarlo.  Non  vi  era 
più  il  tiranno,  e  non  vi  era  la  libertà  (1). 

Cade  la  repubblica  nella  confusione  piti  orrìbile  :  il 
Senato  prendendo  a  prelesto  veri  o  supposti  decreti  di 
Cesare,  aggiudica  a  Bruto  la  Gallia  cisalpina  :  cosi  l'avrà 
vicino  colle  sue  legioni  ;  ma  Antonio  appoggiato  dal  po- 
polo reclama  quella  provincia  per  sé  ond'essere  il  vero 
dominatore  di  Roma,  e  l'ottiene  dal  popolo  :  Bruto  vada 
invece  in  Macedonia  e  Cassio  nella  Siria  !  Nessuno  cede, 
anzi  e  Bruto  e  Antonio  entrano  entrambi  armati  nella  Gal- 
lia cisalpina  a  prendere  possesso:  vi  entrano  anche  i  con- 
soli mandali  dal  Senato  :  si  combatte  fieramente,  ed  ambi 
i  consoli  periscono.  Ma  come  vi  sono  i  violenti  che  stra- 
scinano, e  mettono  il  fuoco,  cosi  vi  sono  i  deboli  ed  i 
conciliatorì  che  credono  mutare  colle  parole  le  cose,  e 


(\)  Cieerone,  benché  invaso  in  tatte  le  fibre  di  |(ioja  crodde  per  ruccisione 
di  Cesare,  pur  esso  tremava^  e  non  solo  tremava  in  quel  momento,  ma  anche 
più  tardi.  Abbundano  infatti  negli  scritti  di  lui  le  Iodi  del  gloriosissimo  eccidio, 
ma  sempre  8*a(fretta  a  soggiungere  che  Tapprovazione  successiva  é*un  fatto  non 
ò  complicità  nei  medesimo.  Eppure  sovente  vuole  aver  parte  alla  gloria:  omnes 
boni  quantum  in  ipsis  fuil  Cccsarem  occiderunt;  aliis  consUiumi  aliis  animus, 
aliis  oceano  dtfuit,  voluntas  nemini.  Anzi  Tedio  contro  Antonio  che  vive,  Io 
spinge  ad  altre  voglie  di  sangue,  ad  altre  brame  omicide;  se  fossi  stato  fra  i 
congiurati,  egli  dice,  non  solum  unum  aclum,  sed  totamfabulam  confecissem. 
Ma  non  mancava  nemmeno  agli  altri  il  desiderio,  mancò  il  cuore  e  la  fòrza  { 


CAPITOLO  I.  343 

distruggere  col  falso  il  vero  :  non  si  dà  neppure  in  Senato 
ai  gran  fatti  di  Gallia  il  nome  di  guerra^  ma  solo  di  tu-^ 
multo:  Cicerone  però  disserta,  dislingue,  grida  che  è 
guerra,  e  chiede  il  capo  d'Antonio;  ma  vi  è  terrore  in 
tutti,  e  di  tutto  decido  la  forza,  che  al  fine  è  dal  lato 
di  Antonio  collegato  ad  Ottavio,  più  tardi  chiamato  Au« 
gusto,  ed  a  Lepido,  e  sostenuto  dal  popolo  e  dai  veterani 
di  Cesare.  Bruto  e  Cassio  lasciano  Tltalia,  ove  aderenti  e 
complici,  ma  adequala  potenza  non  hanno.  Raccolgono 
anch'essi  nell'Asia  tesori  ed  esercito,  come  al  tempo  di 
Cesare  li  aveva  al  servizio  di  Pompeo  colà  radunati  Sci- 
pione, e  marciano  come  Scipione  all'Ellesponto.  Sboc^ 
cando  dalla  Tracia  avranno  aperta  sulla  sinistra  la  Grecia, 
e  saranno  per  la  destra  a  Durazzo,  il  che  vuol  dire  a  Brin- 
disi, perchè  prevalgono  in  mare.  Già  guidano  cento  cin- 
quanta mila  soldati  :  quanti  ne  avranno  quando  si  sarà 
sollevata  Tltalia,  e  sollevata  la  Grecia,  che  ormai  è  tanta 
parte  del  sistema  romano?  Antonio  ed  Augusto  hanno  il 
favore  del  popolo,  ed  i  gloriosi  veterani  di  Cesare  per 
concitazione,  interesse  ed  orgoglio  anelanti  a  combattere, 
ma  bisogna  accorrere  al  pericolo  militare  e  politico,  rac« 
cogliere  le  masse,  ed  arrestare  frattanto  la  marcia  del 
nemico  si  che  non  possa  dalla  Tracia  sboccare  in  Mace- 
donia, ed  afferrare  il  nodo  delle  comunicazioni  colla  Gre-* 
eia  e  Durazzo.  Si  avviano  dunque  ad  AmGpoli,  a  Filippi, 
nelle  Termopili  tracio-macedonicbe  tutte  le  truppe  che 
già  sono  in  Grecia  ed  Illirico:  si  fortifichino,  sbarrino  tutti 
i  passi,  confidino  nelle  numerose  legioni  che  vengono  a 
prestissimi  passi.  Realmente  affluivano  da  tutta  Italia, 
dalla  Gallia,  dalla  Spagna  a  Brindisi,  intrepide,  insulta- 
trìci  di  tutto,  ma  come  al  tempo  di  Cesare  tremando  del 
mare.  La  flotta  nemica  però  è  mal  guidata  e  discorde, 
viene,  scompare,  ritorna  per  scomparire  di  nuovo  :  negli 


344  FIRTE  QUARTA 

intervalli  di  libero  mare  incomincia  il  passaggio,  ed  in 
breve  Norbano  e  Decidio  arrivano  con  otto  legioni  al- 
1  eccellente  ancoraggio  di  Durazzo,  assicurano  per  chi  li 
ha  da  seguire  il  possesso  di  quella  chiave  importante 
d'IUiria  e  di  Grecia,  avanzano  più  che  di  passo,  e  s*attra- 
versano  nelle  gole  di  Tracia.  Ad  un  attacco  di  fronte 
potevano  per  alcun  tempo  resistere,  ma  Bruto  e  Cassio 
sopravvenuti  inforza,  ed  amici  dei  Traci,  girano  di  fianco 
alle  loro  posizioni,  come  Serse  girò  a  quelle  di  Leonida 
alle  Termopili.  Norbano  e  Decidio  abbandonano  allora 
precipitosamente  le  gole,  ove  perirebbero  di  fame  e  di 
ferro,  e  si  gettano  in  Amfipoli  risoluti  a  tener  fermo  ad 
ogni  strazio  di  guerra,  ed  a  chiudere  al  torrente  di  Tracia 
i  liberi  solchi  dì  Grecia  e  Durazzo.  Non  era  Amfipoli 
città  da  andarvi  facilmente  per  entro,  ed  essi  la  resero 
ancora  più  forte  per  starvi  al  coperto  anche  ravvolti 
nel  turbine:  erano  abili  e  coraggiosi  soldati,  ma  se  la 
flotta  nel  canale  di  Brindisi  impedisce  i  soccorsi ,  do- 
vranno gettare  a  terra  le  spade.  Quella  flotta  però,  desti- 
nata a  speculare ,  sopraccorrere ,  sgombrare  il  mare , 
non  fece  con  diligenza  Tufficio,  o  fu  dai  venti  respinta 
e  dispersa:  Antonio  ed  Augusto  con  cento  mila  uomini 
e  cavalli  possono  tragittare  a  Durazzo  :  sono  a  Tessalo- 
nica,  e  nell'ora  estrema  ad  Amfipoli  :  vedono  nelle  mura 
dilacerate  e  fesse,  e  nella  città  di  dolori  ripiena,  i  se- 
gni della  costanza  dei  difensori  :  applaudono  a  loro,  si 
uniscono ,  promettono  nella  prossima  pugna  preda,  e 
vendetta,  danno  nelle  trombe,  e  si  fanno  avanti  al  ne- 
mico. Due  sole  legioni  in  ritardo  erano  state  assalite 
in  mare  e  distrutte  o  prese. 

Ora  Bruto  e  Cassio  se  vogliono  procedere  verso  la  Gre- 
cia' 0  Durazzo  dovranno  colla  spada  aprire  la  via ,  e  la 
battaglia  è  ben  pericolosa  per  essi  che  hanno  a  fronte  i 


CAPITOLO  I.  345 

veterani  di  Cesare  :  i  capi  prendono  una  forle  posizione 
a  Filippi,  ma  altercano,  ed  i  subalterni,  come  al  tempo 
di  Pompeo  seguiva,  e  sempre  in  tali  eserciti  segue,  si 
mescevano  nelFallerco  coi  capi.  I  repubblicani  hanno  gli 
ajuti  d'allra  flotta  nell'Egeo,  ed  il  loro  campo  comunica 
con  essa,  e  col  centro  dei  loro  magazzini  nell'isola  di  Tasso 
per  un  porto  di  poche  miglia  discosto  da  esso.  Antonio 
assicura  dapprima  la  propria  linea  di  comunicazione  con 
nuovi  baluardi  e  guarnigioni  in  Amfìpoli  e  Tessalonica, 
perchè  al  vertice  del  golfo  Strimonico  e  del  Termaico 
quella  linea  potrebbe  esser  offesa  dalla  flotta  nemica,  ed 
anche  intercettata  da  sbarchi  di  truppe.  II  possesso  sicuro 
di  Amfipoli  e  Tessalonica  era  infatti  necessario  ad  Augu- 
sto ed  a  lui,  come  lo  fu  in  questo  secolo  quello  di  Danzica 
a  Napoleone  operante  sul  Niemen(1807, 181S),  o  quello 
di  Tarragona  a  Suchet  (181S1)  marciante  a  Valenza  per 
assicurare  le  sue  comunicazioni  contro  gli  Inglesi  pa- 
droni del  mare.  La  Grecia  non  è  tocca  da  un  combattente 
o  dall'altro,  né  obbietto  alle  mosse  d'alcuno  :  essa  si  trova, 
per  dirlo  con  frase  di  marina,  a  sottovento  delle  linee  di 
battaglia  :  sarà  di  chi  vince  nella  zona  da  Durazzo  a  Fi- 
lippi, come  lo  fu  in  tante  guerre  l'Italia  dell'esercito  vin- 
citore nell'avvallamento  del  Po.  Per  ora  tutti  le  offrono 
vantaggiata  amicizia,  ma  si  sente  nelle  forbici  :  la  espi- 
lano Antonio  ed  Augusto  per  terra,  e  Bruto  e  Cassio  per 
mare,  ed  essa  trema  del  ricusare  e  del  dare  :  è  già  depau- 
perata d'assai,  finge  d'essere  esausta,  dliolsi  talora  della 
rabbiosa  cupidità  di  alcuni  condottieri  che  congregano 
pecunia  per  loro  più  che  mezzi  alle  truppe,  non  vede  la 
patria  nell'un  campo  o  neirallro,  ma  del  soperchio  sof- 
frire ha  pur  qualche  conforto  nelle  ferite  romane,  e  te- 
nendo rancore  impotente  guarda  verso  Filippi  sbigottita 
ed  an««iosa. 


346  PARTE  QUARTA 

Fermamente  assicurato  di  Tessalonica  e  di  ÀmfìpoH, 
Antonio,  che  guidava  anche  per  Augusto  la  guerra,  più 
non  teme  per  la  linea  delle  comunicazioni  sue  proprie, 
ed  insidia  invece  la  base  di  Bruto  e  di  Cassio.  Spinge  il 
suo  corno  destro  fra  il  loro  campo  ed  il  porto  :  sta  per 
intercettare  i  convogli  venienti  da  Tasso:  in  allora  è  tolta 
ogni  dubitazione  al  combattere  :  un  grande  esercito  non 
può  vivere  coi  prodotti  della  catena  dei  monti  di  Tracia 
che  gli  stanno  da  tergo:  presto  vi  sarà  fallimento  di 
sussistenze  :  non  si  può  vincere  stando  :  bisogna  muo- 
versi anche  con  rischio  di  perdere  :  si  deve  combattere. 
Si  urtano  e  si  riurlano  in  doppio  conflitto  le  masse 
dei  veterani  di  Cesare,  e  dei  giovani  fatti  alla  gcuola 
di  quelli,  cogli  indomiti  patrizii,  cogli  indomiti  repub- 
blicani, cogli  Asiatici  e  Barbari:  il  trionfo  dei  Cesa- 
riani  è  generale  e  completo  :  non  vi  è  pei  fuggenti  ritirata 
al  porto  e  su  Tasso  :  non  vi  sono  apprestate  difese  alle 
gole  di  Tracia  per  raccogliere  le  genti  conquassate,  o  nel 
terrore  si  lasciano:  abbandonano  a  briglia  sciolta  gli 
stranii  vessilli  le  compre  o  forzate  cavallerie  dei  Barbari. 
La  riforma  romana  è  confermata  per  sempre:  il  patri- 
ziato è  spento,  ma  è  spenta  con  esso  anche  qualsivoglia 
garanzia  di  politica  libertà. 

Il  barone  di  Montesquieu  ha  scritto  che  Catone  si 
uccise  alla  fine  della  tragedia,  e  Bruto  e  Cassio  si  uc- 
cisero al  principio.  È  precisamente  il  contrario;  Catone 
si  uccise  quando  fu  vinto  il  partito  pompejano ,  ma 
un  uomo  veramente  grande  non  si  dà  mai  tutto  ad  un 
uomo,  0  società  di  persone:  il  patriziato  non  era  distrutto 
di  guisa  che  non  potesse  tentar  di  risorgere,  «d  infatti  lo 
tentò.  Ma  con  Bruto  e  con  Cassio  il  patriziato  fu  spento, 
ed  essi  dunque  si  uccisero  non  al  principio,  ma  alla  fine. 
Quali  speranze  potevano  avere,  dopo  si  grande  sconfitta, 


CAPITOLO    I.  347 

dì  ripigliare  il  campo,  di  sostenere  una  lotta  titanica  ? 
Già  prima  dì  combattere  manifestavansi  nel  loro  esercito 
segni  di  dissoluzione  e  sfiducia  :  un  Gamulato  prode  in 
guerra,  ed  onorato  pel  valore ,  passava  ai  triumviri 
sotto  gli  occhi  di  Bruto:  questi  temeva  di  ribellione  e 
di  tradimento  maggiore,  e  per  prevenirlo,  cioè  per  di- 
sperazione, assali  promettendo  ai  soldati  il  saccheggio  di 
Tessalonica  e  di  Lacedemone  per  animarli  alla  pugna 
(Plutarco,  in  Bruto),  Ed  il  di  seguente  alla  seconda  bat- 
taglia di  Filippi,  Bruto,  secondo  Appiano,  era  riuscito  a 
raccogliere  quattro  legioni  d'intorno  a  sé  :  voleva  ancora 
guidarle  a  disperata  battaglia,  ma  esse  non  stettero  in 
ambiguo,  non  fluttuarono  nell'ubbidienza,  bensì  aperta- 
mente negaronsì  :  non  aveva  lo  stesso  Bruto  temuto 
della  fedeltà  dì  molti  ufiìzialì  anche  prima  della  batta- 
glia, ed  esposto  i  suoi  timori  a  Cassio,  che  voleva  ritar- 
dare il  conflitto?  Un  Messalla  arrendevasi  con  14,000 
uomini,  ed  è  a  ritenersi  che  i  triumviri  non  li  credessero 
pertinaci  nei  sentimenti  contrarii,  perchè  li  ricevettero 
distribuendoli  nelle  loro  legioni,  e  Messalla  ebbe  elevato 
comando  per  Augusto  nella  giornata  di  Azio.  Rovinava 
da  ogni  parte  la  fortuna ,  ed  era  tolto  il  perseverare  per 
risorgere:  è  vero  che  Sesto  Pompeo  teneva  ancora  la 
Sicilia  e  la  Sardegna,  ed  avendo  flotte  sul  mare  poteva 
molestare,  come  infatti  molestò  lungamente  i  signori  di 
Roma,  ma  precipitarli  non  mai. 

Bruto  e  Cassio  avrebbero  potuto  forse  sottrarsi  a  chi 
anelava  al  loro  sangue,  e,  come  tanti  altri,  battersi  di 
nuovo  in  Sicilia  o  nell'Asia,  e  desolare  qualche  provincia 
in  vagabondi  affrontamenti  :  essi  però  od  hanno  creduto 
la  fuga  impossibile,  od  hanno  nobilmente  sdegnato  una 
guerra  di  certa  rovina:  l'alterezza  d*entrambi  li  avrebbe 
sempre  trattenuti  di  scendere  a  meri  stromenti  di  Sesto 


348  PARTE  QUARTi 

Pompeo,  e  meno  ancora  dei  Parli.  Quale  ipotesi  è  la 
più  probabile?  Noi  crediamo  che  il  Tasso  si  pronuncie- 
rebbe  per  la  prima,  perchè  cosi  fece  parlare  lo  sconfitto 
Solimano: 

Vegga  il  aemico  ie  mie  spalle,  e  schema 
Di  nuovo  ancora  il  nostro  esiglio  indegno. 
Purché  di  nuovo  armato  -indi  mi  scerna 
Turbar  sua  pace,  e  il  non  mai  stabil  regno  : 
Non  cedo  io  no;  fia  con  memoria  eterna 
Delle  mie  offese  eterno  anco  il  mio  sdegno  : 
Risorgerò  nemico  ognor  più  crudo 
Cenere  anco  insepolto  e  spirto  ignudo. 

(Canto  IX). 

Che  la  dignità  deiristoria  riQuta  il  racconto  dello  spet- 
tro apparso  a  Bruto  quand'era  in  procinto  di  battaglia 
a  Filippi,  è  troppo  evidente.  Ma  come  mai  tanti  scrittori 
antichi  e  moderni  si  piacquero  di  si  strano  racconto  ? 
Taluno  ha  fors'anchè  creduto  allo  spettro  ;  ma  come  non 
riflettere  almeno  che  nella  notte  che  precede  una  grande 
battaglia  non  v'ha  capitano  che  perda  le  sue  ore  leggendo 
Omero  o  Platone,  come  vuoisi  che  Bruto  facesse  finché 
ebbe  apparizione  di  spettri,  e  tenne  discorso  con  essi  ? 
Il  capitano  che  trovasi  di  fronte  al  nemico,  che  incalza 
e  prepara  l'assalto,  è  assediato,  oppresso  da  mille  cure 
e  pensieri,  appena  basta  ad  ordini,  a  notizie,  ad  ispe- 
zioni, ad  incarichi,  e  prende  spossato  ora  breve  ed  inter- 
rotta di  sonno. 

Secondo  Plutarco,  Cassio  si  trafisse  colla  spada  stessa 
con  cui  aveva  ferito  Cesare,  e  Shakspeare  lo  fa  dire  a 
Cassio  nel  momento  del  suicidio.  Questo  pensiero  sta 
bene  al  poeta,  non  allo  storico.  Ma  quante  mai  fra  le 
armi  istoriche  che  si  mostrano  nei  gabinetti  e  nei  musei 
d'Europa  hanno  lo  stesso  pregio  d'identità  con  quelle 


CAPITOLO  I.  349 

che  furono  realmente  usate  a  compire  gloriosi  o  deplo- 
rabili fatti  I 

Può  anche  dubitarsi  se  Cassio  siasi  tolto  la  vita  da  sé. 
Egli  aveva  certamente  premeditalo  di  uccidersi  ;  ma 
quando  leggiamo  che  era  solo  con  uno  schiavo,  e  si  trovò 
poscia  il  suo  corpo  col  capo  spiccato  dal  busto,  né  più 
si  rinvenne  lo  schiavo,  noi  crediamo  piuttosto  all'assas- 
sinio, che  non  al  suicidio.  Probabilmente  lo  schiavo  lo 
uccise  sperando  d'aver  ricco  dono  dai  triumviri,  che 
avranno  compianto  Cassio,  e  premiato  di  scure  lo  schiavo, 

Cassio  e  Bruto  erano  morti:  bisognava  pure  oltrag- 
giarli, oscurarli,  gettare  sovr'essi,  se  si  potesse,  l'obbro- 
brio :  giusta  veggenza  d'utilità  noi  consiglia,  e  l'effetto 
non  segue,  ma  spinge  lo  sdegno,  ed  illude  a  vendetta: 
sempre  lo  si  fece,  e  si  fa.  Quindi  troviamo  un  cenno  in 
Plutarco  che  perfino  la  discendenza  di  Marco  Bruto  da 
Giunio  fu  contrastata:  si  disse  che  era  un  plebeo  avente 
nome  comune  con  Giunio,  ma  non  derivante  da  lui, 
giacché  Giunio  avendo  ucciso  i  suoi  figli,  era  orbo  di 
posteri.  Le  genealogie  dei  Greci  e  Romani  erano  sovente 
fantastiche  come  lo  sono  le  nostre:  nelle  Vite  di  Plutarco 
ne  abbiano  prove  copiose  e  stucchevoli.  L'adulazione  fu 
sempre  cercata,  ed  ai  vivi  e  potenti  si  offre  ancor  più  che 
non  si  cerchi  da  essi  :  tutti  i  personaggi  di  Grecia  e  di 
Roma  facevansi  quindi  discendere  dagli  Dei,  dai  Semidei, 
dagli  Eroi,  come  i  potenti  signori  dell'era  di  mezzo,  gli 
usurpatori  d'impero  negli  italiani  municipii,  e  perfino 
gli  umili  cortigiani  del  principe,  si  fecero  con  scialacquo 
di  melensa  dottrina  e  con  sfrontate  menzogne  discendere 
dalle  grandi  famiglie  di  Roma,  od  anche  dalle  greche  e 
Irojane.  Finché  regge  la  potenza  della  persona  adulata  la 
prescrizione  e  le  nebbie  del  tempo  sembrano  coprire  Tin- 
venzione  ed  il  falso  :  quando  cade  la  potenza,  svani- 


350  PAETE  QUARTA 

scono  l'adulazione  e  le  favole  :  cade  perBno  il  prestigio, 
e  la  slessa  credenza  di  vera  discendenza  da  illustre  pro- 
genie, e  di  nuovo  le  lellere  abusate  si  fanno  mancìpie  di 
contumelia  e  rancore.  Ora  Bruto  era  spento,  ma  non  le 
passioni  politiche,  non  i  partigiani  suoi,  non  raffetto 
personale  per  lui.  Ogni  insinuazione  contro  Torigine 
patrizia  di  Marco  Bruto  fu  dunque  vana,  e  si  credette 
alla  sua  genealogia,  vera  o  non  vera.  Ma  come  non  ridere 
di  quegli  argomenti  che  adduce  Plutarco,  che  cioè  Giunio 
avrà  avuto  un  terzo  figlio  piccolino  che  in  vita  rimase,  e 
che  il  naso  di  Marco,  le  sue  fattezze  somigliavano  infatti 
al  naso  e  fattezze  della  statua  di  Giunio  posja  qualche 
secolo  avanti  nel  Campidoglio  romano,  la  quale  poi  se 
bene  figurasse  le  forme  di  Giunio  nessuno  più  dire  il 
poteva? 

Molti  dei  partigiani  di  Bruto  e  di  Cassia  sono  caduti 
a  Filippi,  molti  sono  prigioni,  molti  deposero  le  armi, 
pochi  il  maltalento.  Taluno  corse  ad  unirsi  a  Sesto 
Pompeo  in  Sicilia  per  ingrossare  quelle  schiere  di  indo- 
miti patrizii,  di  schiavi  armati,,  di  pirati,  di  fuorusciti 
d'ogni  specie  e  paese  raccolti  sotto  bandiera  romana  : 
altri  per  casi  di  fuga,  per  scella,  per  disperazione  e 
per  odio  corsero  a  schierarsi  coi  Parli.  Per  un  Corio- 
lano  che  s'era  collegato  coi  Volsci  ora  vi  sono  i  mille 
anelanti  a  nuova  guerra  sotto  il  vessillo  dei  Barbari. 
Due  nuovi  incendii  si  preparano,  l'uno  nella  Mesopo- 
tamia,  l'altro  nella  Sicilia;  quello  più  grande  ma  lon- 
tano, questo  minore  ma  prossimo  a  Roma.  Le  grandi 
masse  vittoriose  a  Filippi  hanno  dunque  a  dividersi  per 
marciare  a  direzioni  contrarie:  un  guerriero  imperante 
da  solo  avrebbe  forse  preferito  di  contenere  pel  momento 
Sesto  Pompeo,  e  di  farsi  incontro  ai  Parti  rinnovando  il 
gran  disegno  di  Cesare:  le  ragioni  politiche  erano  le 


CAPITOLO  I.  351 

stesse,  e  migliori  le  opportunità  militari,  perchè  già  si 
avevano  in  Macedonia  ed  in  Grecia  quaranta  legioni  e 
trenta  mila  cavalli  sul  limitare  dell'Asia.  In  Asia  d'al- 
tronde era  pur  forza  passare  per  distruggervi  e  sostituire 
i  governi  istituiti  da  Bruto  e  da  Cassio,  che  appunto  di 
là  erano  venuti  per  l'Ellesponto  e  la  Tracia  a  Filippi,  e 
Sesto  Pompeo  aveva  chiesto  la  pace  purché  conservasse 
le  isole  in  suo  possesso. 

Ma  per  sospendere  una  guerra,  e  trattare  l'altra  vigo- 
rosamente contro  i  Parti  che  già  s'armavano,  ed  accen- 
navano all'invasione  col  dare  al  romano  Labieno  il 
comando  supremo  del  loro  esercito,  sarebbe  stata  indi- 
spensabile la  concordia,  anzi  la  perfetta  identità  di  volere 
nei  capi,  ma  la  concordia  assolutamente  mancava.  Erano 
stati  concordi  per  battere  il  pericoloso  nemico  a  Filippi; 
lo  erano  stati  per  spogliare  di  quasi  tutte  le  sue  Provin- 
cie Lepido  loro  collega;  ma  né  Augusto  avrebbe  ceduto 
ad  Antonio  il  comando  di  quasi  tutti  i  soldati,  né  Antonio 
ad  Augusto  il  comando  di  quasi  tutte  le  provincie.  Fat- 
tasi qualche  mutua  cessione  di  truppe  e  vascelli ,  sia 
per  meglio  allestirsi  ciascuno  ad  operazioni  divise,  sia 
per  gelosia  d'esser  entrambi  con  alcuna  forza  in  ogni 
fatto  presenti,  Augusto  retrocedè  colle  sue  legioni  in  Ita- 
lia, ed  Antonio  scorse  con  parte  delle  proprie  rapida- 
mente l'Asia  Minore,  la  Siria  e  l'Egitto,  ordinò  o  dis- 
ordinò nuovamente  le  cose,  mutò  governanti,  impose 
taglie.  Poteva  dire  alle  città  spaventate,  e  certo  disse: 
avete  pagato  per  Bruto  e  Cassio  ;  se  lo  faceste  vostro 
malgrado,  dimostratelo  adesso  pagando  di  buona  voglia 
per  me:  erano  le  parole  slesse  che  già  Bruto,  meno  avido 
ma  più  necessitoso,  aveva  detto  a  quei  di  Pergamo,  loro 
rammentando  le  somme  sborsate  a  Dolabella.  Come  non 
pagare  con  tali  argomenti?  Come  non  giubilare?  Se  poi 


353  PARTE  QUAETi 

una  povera  città  volontaria  o  forzata  aveva  realmente  pom- 
peggiato per  Bruto«  festeggiato  nel  circo,  od  eretto  una 
statua,  in  allora  come  l'esultanza  si  volgeva  in  contrario, 
qual  colmo  di  giubilo,  qual  misura  di  dono  spontaneo^ 
com'era  presa  da  forte  e  perduto  entusiasmo  di  consu- 
mare se  stessa  per  ammirazione  d'Antonio  ed  Augusto, 
che  non  avevano  tratto  la  repubblica  in  loro  potere^ 
ma  donato  se  stessi  alla  repubblica,  che  alle  inferme 
cose  dei  Romani  erano  stati  dati  in  sanzione  dagli  Deil 
Povere  città,  tante  volte  battute  e  calpeste,  e  che  dove- 
vano esserlo  ancora,  sempre  udendo  che  erano  amate 
con  affetto  paterno,  che  si  volevano  liberare  dai  presenti 
affanni,  e  ristorare  dei  danni  passati  1  Nelle  guerre  ven- 
gono vane  le  prove  con  ogni  sforzo  seguite  d'avere  ab- 
bastanza denaro  per  oblazioni ,  per  tributi,  per  tolte 
simulate  di  prestiti:  bisogna  cavarne  per  forza,  ed  i  glo- 
riosi soldati  lo  cavano  non  pretermettendo  acerbità,  ed  il 
paese  a  modo  militare  consumando:  vogliono  non  solo 
vivere,  ma  anche  piacevolezze  e  comodi  talvolta  incon- 
venevoli  e  voluttuosi  :  i  capi  lasciano  spesso  ai  soldati  la 
briglia  sul  collo,  o  si  fanno  tenere  il  sacco  da  loro,  e  gli 
impotenti  di  felice  pinguedine  o  no,  usate  le  arti  di  stor- 
nar la  tempesta,  si  inchinano  al  destino,  s'arrendono  e 
pagano,  pur  consolandosi  della  sola  speranza  che  i  sol- 
dati prendano  solamente  il  passaggio,  e  non  fermino 
le  stanze.  Nelle  guerre  civili  poi  il  governarsi  a  partito 
rende  ancor  più  gravi  i  danni,  perchè  non  vi  è  condottiero 
si  forte  che  possa  dar  misura  e  sosta  allo  spoglio  e  ra- 
pina, dovendo  ciascuno  concedere  o  tutto  o  molto  a  chi 
è  parte  della  propria  potenza  :  quindi  è  incredibile  il  sof- 
frire dei  seguaci  o  sospetti  di  fazione  contraria,  e  straboc- 
chevole lo  sperpero  e  la  necessità  del  denaro. 
Cosi  vennero  a  crudele  sacco  e  rapina  le  provincia 


CAPITOLO  I.  353 

dell'Asia.  Alle  crudeli  necessità  d'ogni  guerra,  alle  tristi 
inclinazioni  delle  guerre  civili,  si  aggiungevano  le  disor- 
dinate appetenze  d'Antonio.  Egli  era  già  salito  a  quel 
grado  in  cui  l'uomo  potente  può  ben  meglio  che  di  pe- 
cunia  pagarsi,  ed  aspirare  fra  popolo  plaudente  all'im- 
pero, ma  serbava  l'ignobile  contaminazione  nell'animo 
di  far  suo  quello  d'altrui,  e  di  pompeggiare  sprecando  ; 
ammassò  tesori  e  profuse,  non  attaccò  i  Parti,  e  ritornò 
a  Roma  per  sorvegliarvi  ed  osteggiarvi  Augusto.  Allora 
i  Parti  proruppero  con  Labieno  nell'Asia  romana,  fecero 
in  pezzi  le  guarnigioni  lasciate  da  Antonio,  e  trionfarono 
nella  Giudea,  nella  Siria,  nell'Asia  Minore.  Cleopatra  ri- 
masta fedele  ai  Romani,  o  piuttosto  ad  Antonio,  in  Egitto 
tremava,  come  aveva  tremato  di  Cassio  quando  levò  la 
bandiera  di  guerra  nella  Siria  :  le  tribù  della  Mesopota- 
mia  stavano  per  tragittare  il  mare  sotto  un  capo  romano, 
come  l'avevano  passato  con  Dario  e  con  Serse.  Ma  le 
forze  romane  agguerrite  in  tante  battaglie  erano  troppo 
numerose  se  anche  divise  :  accorsero  da  ogni  lato  le  ro- 
mane legioni,  ed  i  luogotenenti  d'Antonio,  Yentidio  il 
più  illustre,  batterono,  ricacciarono  i  Parti  :  giunse  an- 
che Antonio  dall'Italia,  volle  farsi  ad  inseguirli  nelle  mon- 
tagne d'Armenia,  nei  piani  di  Mesopotamia,  ma  ne  tornò 
sanguinoso  e  scemato  di  potenza  e  di  fama,  che  quella 
non  era  spedizione  da  operarsi  con  forze  divise,  senza 
preparazioni  sufficienti,  da  chi  non  era  nò  Alessandro, 
né  Cesare. 

Già  risplendevano  invece  di  luce  abbagliante  le  stelle 
augustiane.  Infatti  dalla  guerra  di  Sicilia  usciva  Au- 
gusta vittorioso  e  più  forte.  Gli  ostacoli  a  superare 
erano  stati  grandi:  sembravano  quasi  insormontabili 
per  la  prevalenza  delle  forze  navali  di  Sesto  Pompeo: 
questa  era  tale  che  fu  perfino  proposto  ed  incomin- 

23 


9H  p^TJi  ì^^k 

mio  li  ÌMprfi  d'B^ifa  ij  Jago  ÌA^^m  e  quello  4i 
4y^flp  ^^ey^a^Jl^  jif>  /canate  al|a  b^ji»  di  Po^«jW)U . 
pad^  .ar^r^  uà  badno  4el  toUo  sììi^uf.q  d«  f^gm  asr 
s«)to  n^9)iao ,  ^1  quale  co^jlruirie  uaa  gr/Mi  floU4  da 

gjjerra  (SysT-i  4t/sf.,  i&^^nkf.,  y,  *;  yELj.;,  }^i,  79). 

I/In.  fi^Tf^a  ^i^iw^ri^ì  Goflae  usKure  aU'aper^  99  SesiQ 
Pom^fìo  ,o^cupa¥i|  €00  forza  at/tmua  dal)e  jsote  all'in- 
gres§p  de)te  J)pja  e  ^\  golfo  4i  ?i»poU?  Non  S»  sono 
/ipyuti  iqi  ogB^  ^eiQp.o  j||>bap4onar0  siiQÌ)i  pfogieiU  di 
jfie$truzioR»  4i  ftolte  pello  Zuyder-See,  n^H  Dollari,  ni^- 
ViiQW^  U  solo  luogo  sicufo  per  costru^iopi  ib<J  adddr 
straioeotp  4i  flotto,  che  per  quaiii^e  secolo  ha  offerto  la 
storis,  fu  il  va^tQ  Har  Mero,  quando  i  Turichi  ne  ebbero 
chiuso  ai  Dardanelli  l'ingresso  con  difese  in  allora  por 
tontissimo;  se  anche  non  insuperabili. 

Pare  però  che  la  flotte  di  Sesto  Pompeo  pon  agissimo 
bene  in  concerto,  e  non  a¥essero  sicura  unità  di  eo* 
mjipdo.  Vi  furono  defezioni  :  la  guerra  navale  diventò 
secondaria:  s|  mutò  prontamente  in  guerra  terrestre,  e 
Sesto  Pompeo  fu  quindi  perduto.  Infatti  Augusto  concenT 
trò  le  proprie  legioni  nei  Bruzii,  e  passò  lo  Stretto  :  chiar 
mò  anche  Lepi4o  dall'Asia  colle  truppe  comandate  da  lui: 
cos)  concentrò  nell'isola  ben  trenta  legioni:  prostrò  ogni 
resistenza  con  esse,  e  tronpò  ogni  radice  all'albero 
pompejano.  Abile  ad  usare  le  e^rmi  palesi,  e  piò  ancora 
i  maneggi  segreti.  Augusto  seppe  guadagnare  aqche 
le  legioni  di  Lepido,  anche  quelle  di  Sesto,  e  tutte  giura- 
rono a  lui:  il  triumvirato  diventava  duumvirato  perchè 
Lepido  n'andava  relegato  a  Circeo  :  Sesto  esulava,  si  of- 
friva ad  Antonio;  si  offriva  ai  Parti,  mostrava  la  più 
grande  delle  virtù  militari  dopo  il  genio,  la  perduran^a. 
Vagf^boqdò  sulle  eoste  asiatiche  recando  più  sdegni  che 
f^rza:  i»pn  vi  trovò  numerosa  h  genti  che  da  pari  fu^ 


GAmoiAi.  355 

rore  invase  e  travolte  cercassero  nuova  f  uerra,  e  dopo 
Ja  guerra  ì  supplizii  :  invano  mostrava  alle  popolazioni 
roltima  fronte  di  quella  che  era,  o  dioevasi  libertà  re- 
pubblicana: esse  lo  guardavano  in  viso,  ma  non  gli  fa- 
cevano copia  di  mezzi  per  alimentare  la  guerra  che  le 
straziasse:  avevano  deposto  le  armi,  ed  anche  la  vo- 
lontà di  riprenderle,  ed  ormai  conoscevano  per  le  aspre 
battiture  patite  che  ogni  condizione  è  migliore  dell'anar- 
chia.  Come  avviene  a  coUericOi  che  dopo  lo  sfogo  cade 
in  accidia^  cosi  è  di  commozione  di  popolo  dopo  gli 
sforzi,  esangue  eruine:  ogni  principio  è  caldo,  e  le 
comprese  e  non  comprese  parole  agitano  le  turbe  come 
se  loro  fosse  fatto  un  incanto  ;  poi  vanno  in  declina* 
zione  gli  spirili,  pensieri  più  calmi  rampollano,  le  stesse 
voci  eco  fragoroso  non  rendono,  e  le  genti  addolorate 
per  affronti  e  battaglie  si  chiedono  d'onde  mai  venne 
tanta  ebbrietà  di  passioni.  Quel  tempo  è  propizio  a  far 
silenziose  le  armi,  a  svellere  le  radici  d'agitazioni  civili 
ed  a  rendere  pazienti  d'ogni  freno  le  turbe,  che  erano 
intemperanti  senz'esso.  Ma  per  Sesto  ^  Pompeo  non  v'era 
salvezza  :  non  v'era  voce  che  s'interponesse  ad  ottenere 
clemenza  :  l'avrebbe  forse  anche  sdegnata  :  correva  ad  er- 
rabonda ventura  imprecando  ai  codardi  che  non  anda- 
vano sotto  le  insegne,  né  sentivano  che  meliu$  e$t  mori 
quam  videre  mala  gentis  nostrcB  (Maccabei). 

Non  era  di  grave  pericolo  all'autorità  dei  duumviri 
quel  Sesto  Pompeo  caduto  si  basso,  ma  era  offesa  di 
dignità  e  scompiglio  di  Stato:  era  una  face  vagante, 
una  bandiera  rizzata,  e  grande  era  l'animo  di  chi  la  te- 
neva; né  la  vittoria  sembrava  a  termine  condotta  fin* 
che  quel  pompejano  vessillo  ondeggiasse,  e  si  udisse 
gridare  ai  nomi  del  Senato  e  del  popolo.  Più  non  do* 
vevano  esservi  cittadini,  ma  sudditi,  non  patria,  ma  re- 


356  PARTE  QUARTA 

gno,  e  chi  armi  tenesse  se  non  Gesariani  costanti,  o  sol- 
dati che  si  gloriassero  d'aver  mancato  di  fede  a  Pompeo, 
a  Bruto  ed  à  Cassio,  vanto  vero  o  falso,  ma  sempre  in* 
fame,  ed  impediente  il  loro  ritorno  al  campo  primiero. 
Quindi  si  fecero  a  Sesto  Pompeo  tranelli,  aggiramenti  ed 
agguati,  si  veleggiò,  si  marciò  da  ogni  lato  contro  di  luì, 
che  su  navi  spigliate  e  leggieri  sguizzava  con  ala  veloce 
toccando  a  più  porti  per  racconci,  per  viveri,  per  genti, 
per  tribolare  il  nemico,  e  romoreggiare  ad  esperimento 
d'insorgenze  d'intorno:  tutte  le  spade  si  strinsero,  e 
tutti  gli  archi  si  tesero:  alfine  fu  posto  in  un  cerchio  di 
ferro,  e  con  ferita  spontanea  si  tolse  la  nomada,  tempe- 
stosissima vita. 

Augusto  aveva  da  solo  più  truppe  che  non  avesse  con 
Antonio  a  Filippi:  non  aveva  più  un  nemico  in  Po- 
nente, non  aveva  mai  subito  un  rovescio  :  Antonio  si 
era  oscurato  nella  guerra  dei  Parli,  e  li  aveva  ancora 
minaccianti  sul  fianco.  Più  non  v'erano  in  tutto  l'orbe 
romano  patrizie  o  pompejane  bandiere:  i  soldati  erano 
disciolti  0  servienti  sotto  altro  vessillo;  le  migliaja  di 
schiavi  già  armati  da  Sesto  Pompeo  restituiti  ai  pa- 
droni od  uccisi  :  i  capitani ,  e  chiunque  potesse  muo- 
vere nuove  fazioni,  erano  già  tolti  di  vita:  in  ciò  i  trium- 
viri prima,  ed  Augusto  ed  Antonio  dipoi  avevano  avuto 
una  sola  volontà.  Poiché  Siila  implacabile  si  era  sal- 
vato, e  Cesare  clemente  era  stato  trafitto ,  parve  alla 
passione,  alla  politica,  alla  ferocia  che  fosse  meglio  l'uc- 
cidere. Il  possesso  aveva  convertito  l'usurpazione  del 
potere  in  diritto, j'u^  datura  scelerij  come  dice  Lucano, 
ossia  intronizzato  una  nuova  giustizia  contraria  all'antica. 
Inoltre  pel  maggior  numero  venivano  immolati  dei  reci- 
divi che  già  avevano  avuto  perdono  da  Cesare.  Tale  era, 
p.  e.,  Quinto  Cicerone,  fratello  dell'oratore,  che  aveva 


CAPITOLO   I.  357. 

combattuto  per  Cesare  nelle  Gallie  e  contro  Cesare  a  Far- 
saglio,  poi  di  nuovo  contro  i  Cesarei  a  Filippi  ;  tali  erano 
Quintilio  Varo,  e  Domizio  Enobarbo,  entrambi  dei  primi 
prigionieri  fatti  a  CorGnio  da  Cesare,  poi  combattenti 
contro  di  lui  a  Marsiglia,  poi  su  tutti  i  campi  contro  di 
Cesare,  é  contro  i  triumviri.  Appena  le  cose  si  composero 
a  tranquillità,  il  carattere  di  Augusto  si  mitigò  a  tempe- 
ranza, e  parve  a  dolcezza  :  fu  fautore  dei  dotti  come 
Alessandro  Magno,  come  Luigi  XIV;  egli  amò  le  lettere, 
ma  serve  le  fece  (1);  non  sembra  però  che  fosse  .dotto  egli 
stesso  come  lo  furono  Ferdinando  li  e  Leopoldo  dei 
Medici,  e  Rodolfo  li  d'Austria.  Ma  Augusto  fu  impla- 
cabile contro  di  Ovidio:  non  gli  tolse  d'un  colpo  la 
vita ,  e  gli  lasciò  i  beni,  ma  l'inviò  a  morire  nella  tri- 
stissima Tomi  (2),  ov'era  solo  Romano  fra  Ceti  e  Sar- 
mati ,  dei  quali  gli  fu  forza  imparare  la  lingua ,  come 
egli  stesso  racconta.  Né  le  tresche  d'amore,  né  la  li- 
cenza di  scritti  lascivi,  le  cento  volte  indicate  qual  causa 
di  condanna  si  grave  inflitta  ad  illustre  persona,  potevano 
in  Roma  voluttuosa  provocare  contro  di  Ovidio  l'odio 
pertinace  di  Augusto  :  la  vera  causa  è  tuttora  misteriosa, 
e  probabilmente  non  fu  politica,  ma  affatto  privata. 

Quanto  si  era  poi  ingiusto,  non  solo  in  via  d'abuso 
e  di  pratica,  ma  anche  in  via  di  sistema  e  di  legge,  il 

(1)  L'Ariosto,  parlando  d'Augusto,  motteggia  cosi: 

L'aver  avuto  in  poesia  buon  gusto 
La  proscrizione  iniqua  gli  perdona. 

(2)  Qnal  fosse  la  precisa  situazione  di  Tomi  è  ancora  controverso  fra  i  geo- 
grafi, ma  era  certamente  su  quel  tratto  di  costa  al  mezzodì  delle  foci  deiristro, 
dove  fu  poscia  costrutto  il  vailo  di  Trajano,  ed  ai  nostri  giorni  progettato  il 
canale  di  Czernawoda,  e  realmente  eseguita  la  ferrovia  fra  quelia  città  e  Kii- 
stendge  per  evitare  la  difficile  navigazione  delle  foci,  ed  abbreviare  la  linea  di 
circa  200  miglia.  Quelle  località,  benché  avvivate  adesso  dairaffluenza  di  più 
cenlinaja  di  navi,  dalle  locomotive,  dai  rimurchiatori  a  vapore,  dai  fari,  dai 
telegrafi,  sono  ancora  meste  :  quanto  piii  dovevano  esserlo  all'epoca  d'Ovidio  ! 


358  FÀRTS  «ITABTi 

metodo  £  procedure  che  Augusto  introdusse  pei  defitti 
di  Stato  ì  Era  princìpio  di  romana  grurispnidenza  criini- 
naìef  che  i  serri  non  potessero  assumersi  come  testimo- 
nii  contro  ì  padroni.  Augusto  )i  ammise  in  base  alia 
massima  che  i)  delitto  di  Sfato  importara  la  confisca,  e 
quindi  i\  delinquente  cessara  di  essere  padrone  dello 
schiaro.  Eppure  si  è  )a  sentenza  e  non  Taeeusa  dre  sta- 
bilisce )a  reità,  ed  Augusto  poterà  bens>,  se  iì  lolera,  re^ 
trodare  la  reità  per  gli  effetti  legali  all'^epoca  del  commesso 
defitto,  ma  ogni  giurisprudenza  abborre  dal  refrodare  la 
reità  alla  prora,  ossia  al  metodo  col  quale  la  prora  slessa 
ST  stabilisce  (♦). 

(i)  U  Codice  pentJe  ausIciacQ;^  ch^d^ba  Wgo08r  ai  lungln  aftfli  in  LombanliB, 
conteAeva  pur  esso  barbare  massuae  d'ecceziune  al  sistema  delU.  prove  ordi- 
narie testimoniali  quando  si  trattasse  dt  delitto  d'alio  tntdimenh). 


CAPITOLO  IL 
Anttiiì»  ed  (HtaviaM  Anfort». 

Aùguslc  ed  Afftoftky  avevamo  diviso  fra  hfo  iì  iÈtònd& 
fommo:  (jaeglì  aveva  avuto  in  partaggio  FOrrénfe,  6  (|ue- 
86  VOdCideirte.  6ià  ift  lale  ripai'tizioM  si  eraf  resa-  «ia- 
nifest«  n^Fattribirzione^  dell'lllimo  la  difficoltò,  tìbé  si 
riprodusse  ancóra  più*  grave  le  molte  voi  fé  dipoi  qu'aiidò' 
Fimpero  fu  divi-so  in!  oriervtate  ed  occidentate,  e  l'll'B#io^ 
doveva  Assire  una!  sog;lia  di  due  óase  fi^alerhe.  ÌSm  il  dó^ 
*iifn*to*e  detrillifico  p^sedeva  an*  éh!Ìà»v#sti*a'tégi«a  pe* 
oghi  op^if*5^oile  verso  Fltalìa  e  véifso  it  Letàntó,  e  pre^' 
soché  ttflli  ì  bÉTOtti  p(*li  dfetì- Adriatico. 

Augusto  marciò  égli  Stesso  contro  grillirii  :  Sóst^hiSé 
tenga  e  sanguitìostì  guerra  :•  diede  esempio  di  pen&àdte 
tùt(tggiù,^àBt\xAò  éòortì  che  ht)t  segùivaiió:  alfine  sog- 
giogò ii  paese  itati^ro  :  dalì*IllÌTÌ'o  e'  da  Càrtagiii^  alFAt- 
lantìco  il  mondo  ròtfiaìib  rioti  ebbe  altro  signore  éheiui. 
Ma  anche  possedendo  gébgraficàniente  la  sola  melft'  dtetìo 
Stato,  Augusto  rie  avrebbe  posseduto  politicamente  di- 
più',  peluche  i'  éiftadini  di  Roma  ergano*  signori  di  iAfiiiiio 
proprietà  nel  Levante,  e  nelle  famiglie  é  Congiunti'  rési- 
denl*  in  ItoMà  Augusto  aveVa  ostaggi  per  ogtii  aderente 
d'Antonio  in  Levante. 

Dovevano  i  due  colossi  urtarsi,  e  s'urtarono.  Una  bat- 
taglia nelle  accfuejonie  (ad  Azio)  donò  ad  Augusto  Tesclu- 


360  PARTE    QUARTA 

siyìlà  deirimpero.  Perchè  la  gran  sorte  si  decise  in  un 
conflitto  navale,  e  non  in  certame  terrestre  ?  Il  quesito 
è  arduo,  e  non  lo  scioglie  certamente  Rollin  colla  frivola 
risposta  che  Cleopatra,  regina  d'Antonio,  preferì  la  pugna 
sul  mare  perchè  in  caso  di  sconfitta  avrebbe  avuto  me- 
glio  sulmare^  che  sulla  terra^  libere  vie.  Dobbiamo  ridere 
del  dotto,  coscienzioso  ed  eccellente,  ma  poco  perspicace 
Rollin,  ed  esaminare  il  problema.  Aveva  forse  la  flotta 
d'Augusto  troncato  al  campo  d'Antonio  l'arrivo  dei  viveri 
dall'Egitto,  che  Antonio  non  poteva  avere  abbondevoli 
nel  poco  fecondo  paese  ove  trovavasi,  né  riceverli  dalla 
Puglia,  dalla  Sicilia  e  dall'Africa  dominate  dal  nemico? 
Non  voleva  Antonio  decampare,  ed  andarne  lungi  dal-- 
l'Italia,  che  dello  sguardo  vedeva?  0  temeva  che  per 
truppe  oscillanti  in  fede,  né  strette  in  nodo  di  disciplina 
tenace,  il  ritirarsi  ordinato  fosse  occasione  a  scioglimento 
ed  a  fuga?  Noi  crediamo  all'eOìcacia  della  prima  causa, 
ed  ancor  più  a  quella  della  seconda,  e  ne  troviamo  gli 
indizii.  Infatti  i  due  eserciti  quasi  eguali  di  numero  sta- 
vano di  fronte  sulle  sponde  del  golfo  Ambracico  (golfo  di 
Arta),  ed  erano  pure  di  fronte  in  quelle  acque  le  flotte, 
stando  Tantoniana,  che  prevaleva  di  numero,  nell'interno 
del  golfo,  che  è  libero  ai  movimenti  di  qualunque  vascello 
abbia  passato  la  barra,  ed  al  largo  quella  d'Augusto  su- 
periore in  perizia  ;  essa  guardava  nel  golfo  ;  si  attelava 
talvolta  alla  bocca;  era  sul  provocare  il  navile  anto- 
niano.  Ma  ancor  minore  confidenza  che  non  nei  vascelli 
poteva  riporre  Antonio  nell'esercito  suo:  era  una  strana 
mischianza  d'armi  e  d'armati,  come,  e  ben  più  che  noi 
fosse  in  Farsaglia  quello  di  Pompeo  (1).  V'era  di  peggio. 

(1)  Nel  canto  ottavo  àéiVEneide  Yìtgiìio  descrisse  i  due  eserciti  cosi  : 

Hidc  Augustus  agens  Italos  in  praelia  Oesar 
Cam  patrìbas  populoqué,  peaatibus  et  magnis  Dls. 


CAPITOLO  II.  361 

Mentre  non  si  accennano  diserzioni  di  soldati  o  di  capi 
da  Augusto  ad  Antonio,  questi  era  già  stato  abbandonato 
da  molti  generali  e  re.  Erano  già  passati  ad  Augusto  i 
re  di  Paflagonia  e  di  Galazìa,  Domizio  Enobarbo,  Sillano, 
Delio,  ed  altri  :  erano  stati  uccisi  per  prova  o  sospetto 
d'infedeltà  un  re  d'Arabia  ed  un  Postumio  senatore.  Quale 
fiducia  dunque  riporre  in  quest'esercito?  Augusto  già 
aveva  preso  Patrasso  e  Corinto  sotto  gli  occhi  d'Antonio  : 
aveva  offerto  battaglia,  ed  Antonio  l'aveva  schivata:  il 
primo  dei  generali  antoniani,  Ganidio,  consigliava  la 
ritirata  nella  Macedonia  e  nella  Tracia. 

La  condizione  morale  dell'esercito  dava  più  di  timore 
che  di  speranza,  e  del  rimedio  aveva  Antonio  meglio 
la  volontà  che  il  potere  ed  il  tempo,  ma  era  impossibile 
a  lui,  per  mal  fine  che  temesse,  dall'azzardo  d'un  con- 
flitto rimuoversi  :  più  non  era  in  lui  il  sostare,  e  dis- 
pensarsi dalla  pienezza  del  tempo  ormai  giunto  al 
combattere.  Egli  aveva  un  grande  apparecchio  :  col 
volteggiarsi,  col  vagare,  col  divergere  dal  nemico  la 
punta  delle  armi,  poteva  cadere  dall'animo  degli  stessi 
soldati,  che  dall'audacia  ancor  più  che  dal  senno  giu- 
dicano i  capi ,  e  le  vegnenti  cose  prevedono  :  se  si 
ritraesse,  l'aver  mostrato  paura  lo  renderebbe  disprez- 
zalo :  i  popoli ,  tosto  che  fosse  passato,  se  gli  levereb- 
bero alle  spalle,  e  la  diserzione  diventerebbe  dispersione, 
e  forse  ribellione.  In  Antonio  abbondava  anche  più  il 
coraggio  del  soldato,  che  la  politica  prudenza  del  capo: 
sperò  le  cose  inferme  d'un  gran  colpo  sanare,  e  solidare 
gli  animi  ondeggianti  colla  fortuna  tante  volte  stata  favo- 

Hinc  ope  barbarica  variisque  Antonius  armìs 
Victor  ab  Aurorae  populis  et  littore  rubro 
iEgyptum  Tiresque  Orientis  et  ultima  secum 
Bactra  vehìt  :  sequiturque,  nefas  !  aegyptia  conjux. 


30S  Pà&TÌ^  QtÀRTi 

/CTole  a  lui.  Si  preci pitò  alla  apada  :  tófeitfrò  d*Ori  gf&afrdo 
H  navììe  e  FesercitOf  e  feirmòr  i)  cofisjf Uó  di  per1^ìa!#$ì  ih 
mate,  beticbè  anebe  sul  ftiafé  dovesse  teisfefe  delle  eioriàe 
d'Augusta  rese  più  eì»peìrte  nella  kr>ga  guerra  iftétfittiintf 
cantfo  Se^to  Pompeo.  Prevalevaf  di  numero  di.  vaseeftr  : 
rinìmciò  egtl  stesso  all'uso  di  un  tefzo  dei  tascetft  suoi 
per  trarne  i{  megfto  delire  ciurflàe  k  bene  equipaggìM^'egft 
allfi.  Le  dne  flotte  nemidiie  si  eofiiébfttratto  èà  Mo:  (fneìté 
acque  a^^ytfno  veduto  h  ptim»  battagliaf  delk  guerra  fra^ 
trkidef  del  Fdopotìneso  :  <!)#a  dovevano  vedere  fo  ftffate 
battaglia  delle  guerre  civilr  di  BFóma,  e  te  speranze  <fi 
Rbertà  insa^abiìufteiite  perdute,  eessa*do  perfino  F*Bta- 
gon*stìio  dei  forti  éoMtì  vittoria  d'utf  sólo.- 

Anche  Welfe  battaglia  d'Aiio,  e  fitto  alfe  É&orte  di'  Arf* 
tonió  gli  scrittori  hmtìo  i«  r6»an*oconfvenSfo  1*  ste¥ia  : 
non  v*ha  ^uasf  diflfiereiì;?a  fra  ìì  racconto  dei"  Medesisrt  e 
qjBLeYh  ete  venne  fatoleggiafo  dafl  Ta^so  (1),  ma  noi-  noi* 

(1)  Cori  descrìve  il  tasso  la  battaglia  di  Azio,,  e  la  fuga  d'Antonio  ia  Egitto: 

D'incontra  è  un  mare ,  e  di  canuto  flutto 
Vedi  spumanti  i  suoi'  cerulei'  campi  : 
tedi  nel  meAo'  un'  doppiò  ordine  instnitto- 
Di  navi  ed  armi,  e  uscir  dalFarnie  i  lampi  : 
D*oro  flammeggia  Tonda,  e  par  che  tutto* 
D'incendio  rowziai  Leucate  avvampi  :• 
Quinci  Augusto  i  Romani,  Antonio  quindi 
Trae  rOriente,  Egizii.  Arabi  ed  Indi. 

Svelte*  nuotar  le  Cicladl  diresti' 
Per  Tonde,  e  i  monti  coi  gmn  monti  urtaci, 
L'impeto  è  tanto  onde  quei  vanno  e  questi 
eòi  legni  torrèggianti<  ad  incontrarsi  : 
(Sia'  volar  fad>  e  ddnli,  e  ^k  (\inesli' 
Vedi  di  nova  strage  i  mari  sparsi*. 
Ecco,  né  punto  ancor  la  pugna  inchina,- 
Ecco  fuggir  la  barbara  reina  : 

E  fugge  Antonio;  e  lasrdaf  può  Is  ^me 
Deirimperio  dbl  mondo,  ov*cgIì'  jwpiha'. 
Nort  fugge  no,  non  teme  il  ficf,  non  teme,' 
Uk  segue  Id  che  fugge,  e  seoof  il  tiM* 


cinToio  ».  363 

c^rehiamo  nei  latti  che  la  scbiella  Tenta.  Usd  AnUmiù 
dal  golfo»  ove  ne)  caso  di  Tittorìa  mai  noa  avrebbe  arato 
yaotaggio  di  trionfo  completo,  ed  inrece  sofferto  disine 
zione  totale  in  caso  di  perdita  :  allargossi  in  mare  :  pa- 
reggiò dunque  le  sorli»  purdiè  fossero  pari  n^le  due 
squadre  il  yalore»  ed  egualmente  serrate  in  linea  di  bat^ 
faglia  nell'urto  ed  anciie  dopo  l'urto  le  nati.  OccopaTano 
il  centro  della  sua  linea  sessanta  TascelU  egiziani,  e  CleO' 
patra  era  sorra  essi.  All'urto  terribile  Cleop>atra  colla  sua 
fiotta  faggi  (1).  Restò  cosi  fessa  per  meno,  e  non  pib 
attelata  Tarmata,  ne  cadde  sotto  rento  una  parte,  e  le 
nari  anfomane  eombatterovifo  separate  od  in  snodati 
gomitoli.  Questa  mancanza  del  centro  ba  deciso  ad  Azio 
della  giornata  marittima,  e  posto  fine  nofi  al  fratagiio 
dell'armi,  ma  alla  dubbietò  del  successo,  come  la  decise 
nella  grande  battaglia  antillese  dote  Ite  Grasse  fn  di- 
strutto da  Rodney,  ed  in  quella  dì  Trafalgar  dove  Yilfe- 
neure  tenne  distrullo  da  Nelson,  la  battaglia  era  irre^ 

Vedresti  lui  simile  ad  un  uomche  freme 
D'amore  a  un  tempo,  e  di  vergogna  e  d'ira, 
Mirar  aitemamente  or  h  crudele 
Pugna  che  è  in  dubbio,  or  le  fuggenti  vele. 

Nelle  latterei  poi  dal  Nilo  accolto,. 
Attender  pare  in  grembo  a  lei  la  morte  ; 
ET  nef  piacer  d'un  bel  leggiadro  volto 
Sembra  che  il  duro  flito-  egli  eo)i<brt«. 

(Canto  xvt).. 

(\)  Ad. ogm^ istante  Ifontesquieu scrive' epigrsonmi»  e* biosarre  sententi  Cito* 
patra  fuffgt,.  egli  dice,  per  certa  inconcepibile  galanteria  di  donna  chiamava 
il  trionfo  d^ Augusto  onde  poter  vedere  ai  mai  piedi  nel  medesimo  un  terzo 
signore  del  mondo.  Ma  non  è  piA  naturale  che*  una  ddnna>  nuova  a-  qnellb  ter- 
rìbili scene»  percossa  da  terrore,  fuggisse  e  non  pensassei  per  mente  da  terrore 
turbata,  alle  fatali  conseguenze  per  Antonio,  per  essa,  del  sottrarsi  alla  pugnai 
Le  nimtre  fluite  quando  battagliano  ravvolte  in  fìimo  sembititìo  disfarsi  in  tiUoni 
ed  in  folgori,  ma  erano  spaventevoli  anche  gli  antichi  combattimenti  navali,  per- 
chè i  vascelli  si  squarciavano,  si  inabissavano  coirariete,  il  cui  uso  ai  nostri 
giorni  ntomave  già  si  è  sperimentato  t^ribile  nell'iiltima  guerre  americaìia. 


364  PARTE  QUARTA 

missibilmente  perduta,  ed  Antonio  poterà  cadere  pri- 
gione :  anche  Antonio  fuggi,  non  che  seco  il  traesse  la 
calamitosa  Cleopatra,  ma  perchè  quella  sua  fuga  for- 
zava lui  pure  a  fuggire  :  fu  anche  per  cadere  prigione  : 
una  nave  ammiraglia  venne  infatti  presa  si  vicino  alla 
sua,  che  la  voce  dall'una  alValtra  nave  si  udiva. 

Discorreva  per  tutto  il  mondo  Taltissima  fama  della 
vittoria:  a  Brindisi  la  portavano  le  lacere  e  conquassate, 
ma  incoronate  prore,  eia  città  pregava  Augusto  che  tosto 
la  facesse  lieta  della  sua  presenza:  venisse,  diceva,  che 
l'universa  Italia  desiderava  il  suo  volto  :  darebbe  forma 
civile  al  mondo:  sarà  l'impulsore  di  tutti  i  moti,  il  cen- 
tro di  tutti  i  freni:  essere  danno  la  dimora.  Gli  decretava 
altresì  un  arco  di  trionfo  (Dione  Cassio),  e  noi  crediamo 
che  tanti  se  ne  erigessero  lungo  la  via  Appia  quanti  vi 
erano  da  Brindisi  a  Roma  villaggi  e  città,  perchè  archi 
trionfali,  luminarie  e  festeggiamenti  al  vincitore  si  inal- 
zano dai  contenti  per  gaudio,  ed  anche  dagli  scontenti 
per  tema.  Inoltre  la  vittoria  d'Azio  era  negli  occhi  di  tutti 
la  pace,  ed  è  dell'umana  natura  dopo  le  agitazioni  con- 
vulse amare  il  riposo,  come  dopo  indolente  quiete  volere 
la  guerra. 

Anche  Augusto  erige  sul  lido  testimonio  di  tanta  vit- 
toria non  temporaneo  trofeo,  ma  stabile  monumento  a 
ricordo  perenne  ;  inalza  poi  in  Roma  un  ricco  tempio 
in  onore  d'Apollo  trionfante,  ed  istituisce  i  giuochi  aziaci. 
Non  sono  dunque  di  moderno,  ma  d'antico  costume  i 
tempii  votivi  per  congiure  scoperte  o  vinte  battaglie,  ed 
i  monumenti  collocati  sui  campi  trionfali,  né  è  forse  mo- 
derno nemmeno  l'abuso  d'inalzarli  anche  dopo  sconQtte 
a  mentita  testimonianza  di  gloria.  £  come  al  presente 
sempre  si  benedice  e  salmeggia  quando  il  vincitore  l'im- 
pone, cosi  gli  auguri  pompeggiavano  per  Augusto ,  ed 


CAPITOLO  n.  365 

inneggiavano  a  lui:  i  poeti  ìnsultayano  al  Paride  ro- 
mano fuggente  con  Elena  alle  latebre  del  Nilo  (Orazio, 
od.  XXXI,  lib.  I,  e  Properzio,  lib,  IV,  elegia  V),  e  Virgilio 
era  incerto  se  Angusto  fosse  Dio  della  terra,  del  mare, 
o  del  cielo,  ma  non  credeva  possibile  che  lo  fosse  del 
Tartaro  {Georgical).  Cosi  l'adulazione  degli  antichi,  come 
quella  dei  moderni,  ruebat  ore  profundo,  ed  Augusto,  cui 
la  vittoria  non  aveva  tolto  il  senno  di  conoscenza,  vedeva 
contento  che  per  canore  stoltizie  il  disonore  scendeva  per- 
fino dov'era  valore,  le  cose  in  quiete  venivano,  e  la  soglia 
del  suo  regno  ponevasi. 

I  poeti,  com'è  costume  di  loro,  stavano  genuflessi  al- 
l'altare d'Augusto,  e  soperchiavano  in  lodi:  egli  però  era 
veramente  grande,  né  solo  sul  mare,  ma  anche  su  terra. 
Antonio  aveva  infatti  sofferto  un  colpo  terribile  così  sulle 
acque  come  sul  suolo  di  Grecia.  In  quella  giornata  la 
sua  linea  di  battaglia  era  stata,  come  vedemmo,  rotta  nel 
centro  e  penetrata:  le  navi  d'Augusto  scorrevano  adun- 
que dietro  di  lui  venuto  da  terra  :  Antonio  non  potè  ri- 
tornarsene a  questa,  e  riunirsi  all'esercito  :  fu  spinto  al 
largo,  inseguito,  e  si  sottrasse  a  fatica.  Nell'esercito  già 
v'erano  stali  segni  di  mala  contentezza,  e  disertate  ban- 
diere: il  fatto  di  Azio  vi  cresceva  scontento  e  pericolo: 
poteva  vacillarne  la  fede,  e  più  fàcile  è  il  romperla  a  duce 
infelice  e  lontano,  cui  s'appone  ogni  colpa,  anche  quella 
non  sua.  Quindi  Antonio,  libero  appena  dei  movimenti 
suoi,  vuol  comunicare  coU'esercito  :  egli  tocca  a  Capo  Te- 
nario, e  manda  di  là  ordini  di  pronta  ritirata  alle  truppe  : 
sono  diciannove  legioni  e  dodici  mila  cavalli  al  comando 
di  Ganidio,  prode  veterano  di  Gasare  :  non  si  sgomenti  ; 
si  rileverà  la  fortuna  ;  per  le  navi  perdute  altre  se  ne 
avranno  in  Egitto,  in  Cipro,  in  Greta  ed  in  Rodi,  se  ne 
appresteranno  in  Gilicia  ed  in  Caria  ;  essere  poi  nell'eser- 


366  ri&TE  QUiAfA 

cito,  e  non  ndle  uàYÌ  la  forza  ;  rammenti  Ganidio  aTer 
essi  a  Farsaglia  distruUo  Pompeo  che  era  più  forte  sul 
mare,  aver  distruUo  a  Filippi  e  Bruto  e  Cassio  che  erano 
signori  del  mare  ;  ricalchi  quelle  vie  di  Tessaglia  e  Mace- 
donia che  serbano  le  ?esUgie  del  suo  valore  e  dei  comuni 
trionfi  ;  egli  verr&  tosto  a  dividere  le  fatiche  e  la  gloria  ; 
condurrà  seco  nuove  navi  ed  altre  legioni  rimaste  lon- 
tane; intanto  procuri  larghezze  all'esercito;  rallenti  il 
nemico  ;  lo  agguati  nel  discosceso  e  nell'erto,  alle  tessa-^ 
licbe  pile»  alle  tracie,  ed  al  passo  dei  fiumi  ;  illustri  di 
nuovo  onore  tutta  la  corsa  sua  vita. 

V'era  Canidio,  era  fedele,  ma  in  fuga,  e  più  non  v*era 
l'esercito,  che  dopo  di  Azio  si  era  arreso  senza  un  colpo 
di  spada  ad  Augusto,  che  meno  numeroso,  od  appena 
pari  l'aveva:  avrebbe  dunque  Antonio  in  esercito  si 
grande,  ma  che  visto  un  rovescio  navale  fu  si  pronto 
alla  resa,  potuto  porre  fiducia  anche  prima  del  conflitto 
di  Azio?  La  meditazione  dei  fatti,  e  delle  cause  dei  rivol* 
gimenti  sociali  ci  fanno  ritenere  il  contrario. 

Continua  la  fuga  d'Antonio  verso  l'Egitto,  che  è  il 
centro  delle  sue  forze  in  Oriente.  Vi  è  ancora  qual- 
che speranza:  vi  è  un  tesoro,  vi  sono  legioni  d'An- 
tonio a  Cirene,  ve  ne  sono  nella  Siria  :  vi  sono  truppe 
romane  ed  egiziane  in  Egitto,  che  dal  lato  di  mezzodì 
confina  col  mondo  ignoto ,  è  inaccessibile  dal  lato 
di  ponente,  è  d'accesso  difficile  da  quello  di  levante, 
ha  qualche  porlo  fortificato  sul  mare,  e  se  bene  si 
difende,  è  sicuro  per  esserne  Tapprodo  quasi  impos- 
sibile altrove.  Colà  si  raccolgono  le  navi  disonorate. 
Antonio  non  può  vivere,  dice  Rotteck  e  tutti  con  lui,  se 
non  pasce  di  continuo  in  Cleopatra  gli  sguardi  famelici: 
egli  è  folle  cayaliere  della  donna,  e  non  lo  muove  il  crollo 
del  regno  :  la  ragione  non  è  più  regina  dei  suoi  sensi,  ed 


0 

unflwrso  rtk  vergogne  è  neghittoso  allt  guerra.  Ha  ioYeoe 
vediamo  che  egli  appena  giunto  a  Panelonio  abbandona 
la  Gìree  ammaliatricet  e  non  poaando  per  ombra  o  per 
sole  corre  a  Cirene,  oye  sono,  qual  che  pe  sia  la  causa, 
quattro  legioni  forse  state  ridotte  in  quel  porto  per  pronto 
passaggio  in  Grecia,  e  riunione  all'esercito,  [^'adoperare 
cosi  non  ci  pare  né  deporre  l'ingegno  guerriero,  né  il 
desiderio  di  regno,  né  la  firiie  costanza  anche  sotto  il 
peso  d'enorme  sventura.  Ma  più  non  si  chinavano  come 
dapprima  armi  e  bandiere  innanzi  a  lui  :  quelle  legioni 
che  vuol  tradurre  in  Egitto  a  ristorare  la  fortuna^  defe^ 
zionano  da  esso,  agiscono  anzi  ostilmente,  prendono 
Paretonio,  la  ebiave  occidentale  dTgitto,  mentre  la  chiave 
orientale*  Pelusio,  è  presa  dalle  altre  l^ioni  ribellate 
nella  Siria.  Eppure  l'Antonio  che  far  non  sa  che  il  pia^ 
cere  della  reginat  $tar$ene  in  sollazzo  e  letizia  con  essa. 
e  vivere  nell'ozio  voluttuoso  della  vita  sensuale,  non  cede, 
ed  ancora  delira  resistenza  e  battaglie.  Ma  a  nave  rotta 
ogni  vento  è  contrario,  e  quando  l'uomo  va  in  precipizio, 
ogni  sasso  rovina  su  di  lui.  Schiera  l'esercito  in  battaglia 
e  la  cavallerìa  passa  ad  Augusto  :  tenta  di  battersi  in 
mare,  e  la  flotta  egiziana  passa  al  nemico.  Nessuno  è 
più  vinto  dalla  sua  autorità,  né  da  benevolenza  ohe  gli 
porti  ;  gli  uomini  fuggono  i  deboli,  e  seguono  ì  forti  :  si 
sciolgono  quindi  tutti  i  nodi  delle  dipendenze  antoniane  ; 
su  nessun  volto  lampeggia  il  coraggio  :  le  truppe  non 
resistono  all'avvenante  del  loro  numero  e  forza,  anzi 
vanno  ad  Augusto,  che  le  innesta  alle  proprie:  oramai 
Antonio  non  sta  a  speranza  d'alcun  soccorso,  né  può 
uscire  a  campo  per  opera  disperata  di  spada:  alfine 
non  gli  rimase  rizzata  al  vento  un'insegna:  ogni  suo 
dardo  é  spuntato  :  non  ha  alla  propria  persona  né  ma'» 
glia,  né  scudo  :  vede  già  fuori  tutto  il  coltello  d'Auga- 


36S  PAETB  QUARTA 

sto,  che  è  atteggiato  a  ferire.  Poiché  da  grandissimo 
stato  è  disceso  a  rovina,  Antonio  non  soffrirà  contami- 
nazione ed  insulto  da  nemico  implacabile:  non  indugia, 
e  s'uccide.  Ma  egli  esecrava  il  nemico,  né  certamente  peri 
pronunciando  la  frase  postagli  in  bocca  dai  classici  :  non 
mi  è  vergogna  il  morire  :  Romano,  sono  vinto  da  un 
Romano.  Nemmeno  Catone  avrebbe  parlato  cosi  :  l'odio 
non  parte  da  colui  che  rovina,  ed  Antonio  odiava  Augu- 
sto ancor  più  per  Tonta  d'essersi  inchinato  inutilmente 
a  lui  coirinviargli  tre  volte  legati  a  chiedere  d'aver  salva 
la  vita,  e  di  starsene  ad  Atene  od  altrove. 

£ra  merito  pei  contemporanei  d'Augusto  l'insultare 
Antonio  cadente,  ed  il  coprirlo  d'obbrobrio  caduto:  scrìs- 
sero dunque  che  fu  vergognosa  fa  fine  del  grande  sol- 
dato, che  ad  Azio,  e  dopo  di  Azio  non  concorreva  con 
ardore  alla  guerra,  e  già  chino  sul  precipizio  appena  le 
rivolgeva  inerte  e  vagabondo  pensiero  :  narrarono  per- 
fino che  volesse,  se  vinceva  la  guerra,  trasportare  da 
Roma  ad  Alessandria  la  sede  dell'impero.  E  certamente 
Antonio  voleva  dominare  da  Alessandria  l'Oriente,  se  da 
Roma  non  poteva  dominare  sul  mondo,  ma  la  voce  della 
meditata  umiliazione  di  Roma  era  sparsa  ad  arte  per 
attizzare  contro  di  Antonio  tutte  le  passioni  di  orgoglio  e 
d'interesse  dell'immensa  capitale  sul  Tevere.  Gli  storici 
più  recenti  però,  che  sono  alle  ire  del  tempo  stranieri, 
possono  raccogliere,  se  mirano  non  ad  ozioso  diporto, 
ma  ad  istruttiva  intelligenza  quei  fatti,  che  Antonio 
serbò  «anche  nell'estrema  sventura  il  valore  tenace  e 
l'animo  signoreggiato  dall'impeto,  né  pose  per  stolto 
delirio  d'amore  la  face  all'edificio  della  propria  gran- 
dezza: egli  seppe  possedere  per  guerra,  non  mante* 
nere  per  pace,  bastando  all'acquisto  in  certe  circostanze 
le  qualità  del  soldato,  ma  richiedendosi  a  conservare 


CAPITOLO  n.  369 

contro  sapienti  rivali  l'adatta  condotta  delle  politiche 
cose. 

Non  bastava  insultare  al  caduto:  bisognava  adulare 
anche  più  direttamente  il  trionfante.  Sapendo  che  nelle 
cose  politiche,  ed  in  quelle  specialmente  di  guerra  non 
deve  credersi  d'aver  fatto  tutto  quando  alcuna  cosa 
rimane  ancora  a  farsi,  Augusto  s'era  volto  pur  esso 
all'Egitto,  negandosi  cosi  gli  immediati  godimenti  delle 
allegrezze  italiane  per  dare  ad  Antonio  il  deGnitivo  trar 
bocco.  Ma  Augusto,  si  dice,  era  tutto  dolcezza,  tempe- 
ranza e  virtù  :  avrebbe  accolto  Antonio  nelle  braccia 
magnanime!  Leggesi  infatti  che  un  Derceteo  portò  ad 
Augusto  la  spada  con  cui  Antonio  si  uccise,  ed  Augusto 
ne  lagrima.  Augusto  però  non  uccideva  per  insana  fe- 
rocia od  ira  provocata:  uccideva  freddamente  per  calcolo, 
ed  allora  soltanto  cessò  dall'uccidere  quando  meditando 
trovò  che  giovava  cessare  :  ora  il  tempo  a  perdono  non 
gli  sembrava  venuto  ;  quindi  faceva  uccidere  il  figlio 
di  Antonio  che  con  ogni  argomento  di  pietà  gli  chiedeva 
la  vita:  poi  uccideva  quanti  fra  i  superstiti  percussori  di 
Cesare  gli  cadevano  in  mano  (1),  ed  era  pur  questo  un 
sacrificio  alla  grand'ombra  dell'avo!  Avea  voluto  entrare 
in  Alessandria  a  fianco  dell'alessandrino  suo  amico  , 
Areo  filosofo:  questi  aveva  coscienza  sì  timorata,  che  per 
dargli  consiglio  piacente,  gli  suggeriva  di  uccidere  Cesa- 

(1)  Da  queste  vendette  d'Augusto  su  Cassio  di  Parma,  su  Trebonio  ecc. 
uccisori  di  Cesare,  si  raccoglie  che  alcuni  di  costoro  si  erano  acconciati  perfino 
con  Antonio,  ed  Antonio  con  loro.  Ingiurie,  confische,  proscrizioni,  sangue 
sparso  di  congiunti  e  di  complici,  tutto  ciò  non  aveva  impedito  Faccoinodarsi  ; 
e  questo  è  carattere  comune  e  perpetuo  di  tutte  le  agitazioni  politiche:  le  ire 
cedono  alle  ire  nuove,  e  le  passioni  già  barbare  si  esasperano  ed  infieriscono  di 
più.  Quanti  dei  più  feroci  repubblicani  che  alla  fine  del  secolo  scorso  avevano 
voluto  la  morte  di  Luigi  XVI,  non  si  videro  due  o  tre  lustri  dopo  in  assisa 
monarchica  al  servizio  del  primo  Napoleone,  e  portare  perfino  gli  accesi  cerei 
in  quelle  chiese,  di  cui  avevano  infranto  gli  altari  ! 

24 


370  PASTE  QUARTA 

rióne,  figlio  di  Cesare  e  di  Cleopatra,  ^  quindi  per  essa 
ultimo  rampollo  dei  re  egiziani,  il  quale  già  preparalo  a 
fuggire  alle  Indie,  m  però  venuto  per  altrui  insinua- 
zione a  porsi  in  sua  mano.  Augusto  non  poteva  trovarsi 
in  dissenso  coWamico  filosofo  voglioso  d'assicurare  la 
^ni^t^  della  cara  sua  patria:  ammazzò  dunque  Cesarioae; 
l'avrà  anche  ptanfó/  Ma  se  Cesarione  ed  anche  Cleo* 
palra  coi  loro  tesori,  e  coi  fuorusciti  romani,  si  fossero 
realmente  riparati  alle  Indie»  forse  ne  sarebbero  risultate 
conseguenze  grandissime,  e  ne  veniva  anticipata  di  lua* 
ghi  secoli  quella  diretta  colleganza  del  mondo  europeo 
e  del  mondo  asiatico,  che  fu  si  tarda  ad  insinuarsi,  e 
solamente  ai  giorni  nostri  pare  avviarsi  a  fusione.  È  in- 
fatti probabile  che  la  politica  romana  avrebbe  seguito  i 
fuggenti  fin  là  ;  che  le  cognizioni  del  ricco  paese  sareb- 
bero cresciute  in  Roma  ;  che  agli  esistenti  rapporti  com- 
merciali per  rimmensa  importazione  di  derrate  indiane 
in  Italia,  si  sarebbero  aggiunti  per  sospetto,  vendetta, 
avidità  di  conquista  ed  esempio  dei  Greci,  altri  rapporti 
di  vigilanza,  di  legazioni,  e  forse  d'occupazioni  e  colo* 
nie.  Mancata  invece  la  spinta,  la  politica  romanai  e  le 
cognizioni  con  essa,  rimasero  nel  cérchio  d'Egitto, 

Moltiplicò  Augusto  nell'Egillo  le  adulazioni  ai  Greci: 
gettò  fiori  e  corone  sulla  tomba  d'Alessandro,  e  ne  toccò 
come  sante  reliquie  le  ossa  :  i  Greci  quindi  divinizzavano 
le  sue  imprese,  pazzamente  comparandole  a  quelle  di 
Ercole ,  di  Bacco  e  di  Teseo ,  e  dicevano  che  dietro  il 
corso  delle  sue  vittorie  era  lenta  la  voce  ed  il  pensiero  : 
perseguitavano  vergognando  la  fama  di  Antonio  caduto* 
Non  visitò  le  tombe  dei  Tolomei,  perchè  erano  stati  infe- 
deli alla  progenie  d'Alessandro  :  non  offese,  ma  trascurò 
il  bue  Api ,  che  degli  onori  ad  esso  e  Greci  e  Romani 
l'avrebbero  derìso  :  i  tempi  erano  ben  mutati  dall'epoca 


CAPITOLO  li.  371 

di  Cambise  I  Ormai  nei  Greci  raccòglievasi  la  potenza 
e  la  ricchézza  d'Egitto:  i  veri  Egiziani  erano  gèntame 
e  plebaglie  :  Tebe  già  era  gloriosa  rovina ,  ed  anche 
Menfi  cedeva  ad  Alessandria. 

Era  morto  Antonio  :  moriva  anche  Cleopatra,  e  le 
menti  vivaci,  snelle  ed  immaginevoli  hanno  nuovo  ar- 
gomento a  novelle:  ci  descrissero  minutamente  le 
fattezze  di  Cleopatra,  delle  quali  vi  ha  appena  ricordo 
in  qualche  profilo  di  medaglia  o  cammeo  :  ci  accer- 
tarono che  non  pose  mai  amore  né  in  Cesare ,  né  in 
Antonio,  che  gradi  sé  sola,  e,  fuori  di  sé,  in  altrui  ap- 
pena le  piacque  qualche  effelto  della  sua  bellezza  :  ora  ci 
narrano  che  avrebbe  consegnato  volentieri  Antonio  ad 
Augusto  ;  che  questi  lo  conosceva,  ma  non  sapeva  di- 
storsi da  essa;  che  già  morente  si  fece  pel  verone  ascen- 
dere a  Cleopatra;  che  essa,  umida  negli  occhi  di  confu- 
sione e  doglianza,  e  tuttora  maestra  d*accorgimenti  e  lu«- 
singhe,  cercò  le  vie  del  cuore  d'Augusto  e  non  le  trovò, 
ed  allora  agghiacciata  di  segreto  spavento  di  essere  tratta 
a  Roma  in  trionfo,  nobilmente  altiera  s'uccise  di  veleno. 
In  tutto  ciò  vediamo  il  romanzo,  ma  non  possiamo  col 
modificare  e  col  togliere  ridurlo  al  vero,  né  importe- 
rebbe di  farlo. 

Ma  più  Tastro  di  Cesare  Augusto  s'inalza,  e  più 
arde  odorosa  la  nube  d'incenso  per  lui.  Ritornava 
sulla  scena  l'instancabile  coro  dei  poeti  elogisti.  Orazio 
danzava  d'intorno  ad  Antonio  e  Cleopatra  caduti:  nuM 
est  bibendum,  nunc  pede  libero  puUanda  lellus  (lib.  I, 
od.  37),  Ovidio  (e  presto  doveva  dolersene  I)  cantava  che 
Augusto  é  tanto  superiore  a  Cesare  quanto  Agamennone 
lo  fu  ad  Atreo  (Metamorfosi,  lib.  XV),  e  Virgilio  gli  pro- 
metteva un  poema  in  cui  dirà  le  sue  lodi  incominciando 
da  Tritone,  marito  dell'Aurora,  l'uno  dei  certissimi  bis-- 


372  PAETE  QUARTA 

arcavoli  della  famiglia  Giulia  [Georgica  HI).  Augusto 
non  li  ripigliava  d'eccesso:  volgeva  Taltrui  abjezione 
in  diletto  :  con  sottile  avvedimento  comprendeva  il  van- 
taggio del  loro  acquistar  biasimo:  ad  onta  del  suo 
freddo  carattere,  pei  prodigiosi  successi  di  Filippi  e  di 
Azio,  e  l'avere  come  Giove  fulminato  i  giganti»  s^accen- 
deva  forse  egli  stesso,  non  trovava  i  poeti  sempre  veri, 
né  ogni  volta  falsi,  e  cedeva  alla  lode,  che  è  generale 
passione  di  ciascuno  che  vive,  e  l'anima  invade,  come 
fuoco  di  sua  natura  all'esca  s'apprende.  La  vanità  è  l'ul- 
tima veste  che  lasciano  anche  i  filosoG,  e  bene  avverte 
Cicerone  (Graz,  prò  Archia)  che  gli  stessi  autori  che 
scrivono  sul  disprezzo  della  gloria,  appongono  al  libro 
il  nome  loro.  Possiamo  supporre  che  di  tale  passione 
fosse  immacolato  il  solo  Augusto? 

Anche  l'Oriente  romano  era  conquistato.  A  bene  assi- 
curarlo restavano  da  superare  i  Partì,  ma  Augusto  non 
amò  di  correre  nuove  venture,  né  di  starsene  più  lunga- 
mente lontano  da  Roma.  Una  si  gran  guerra  d'altronde 
0  dovevasi  capitanare  da  lui,  od  egli  avrebbe  dovuto  affi- 
darne il  comando  ad  altri,  concedendo  al  capitano  troppo 
grande  potenza.  Quindi  Augusto  lasciava  che  i  poeti 
gridassero  alla  guerra  contro  i  Parti,  ed  anche  contro 
gli  Indiani  ed  i  Seri  (Oràz.,  lib.  I,  od.  2,  11,  39):  s'ac- 
cordava a  Properzio,  il  quale  probabilmente  non  cre- 
dendo alla  guerra,  adulava  col  dire  che  Augusto  riser- 
vava ai  suoi  figli  la  corona  dei  Parti,  e  certamente 
sorrideva  di  Virgilio  che  chiudeva  la  quarta  georgica  par- 
lando delle  sue  battaglie  sull'Eufrate  (che  nessuna  ne 
aveva  combattuto),  e  della  menzogna  di  Orazio,  che  egli 
avesse  aggiunto  airimperio  quei  Parti,  che  non  mai  as- 
sali. Sapeva  però  che  non  erano,  come  diceva  il  poeta, 
imminenti  al  Lazio^  ed  anzi  stavansi  cheti,  inviavano 


CAPITOLO  11.  373 

perfino  legazioni  e  doni,  e  reslituiYano  i  vessilli  tolti  a 
Crasso,  per  pascere  i  Romani  d'ambile  parvenze,  e  spia- 
nare la  pacifica  via  al  nuovo  Cesare  divenuto  solo  si- 
gnore di  tutte  le  forze  di  Roma.  Ed  i  Romani  real- 
mente giubilarono  del  ritorno  di  quelle  aquile  come  di 
vittoria,  tanto  le  plebi  sono  idolatre  dei  sìmboli  !  Tutti 
gli  scrittori  acclamarono;  in  tutti  lo  stesso  grido  ripe- 
tesi:  fu  sì  concorde  come  quello  degli  scrittori  di  Fran- 
cia-quando, traslate  da  Sant'Elena,  si  depositarono  in 
riva  alla  Senna  le  ossa  di  Napoleone. 

Coi  Parti  si  strinsero  da  Augusto  facili  accordi  di  pace, 
perchè  non  si  chiesero  dalVuno  o  dall'altro  contraente 
cessioni,  ed  il  solo  possesso  segnò  i  confini.  Anche  Au- 
gusto provava  però  l'imperiosa  necessità  d'appagare  i 
soldati  divenuti  inoperosi:  questi  soli,  e  l'eguaglianza  ci- 
vile erano  stati,  ed  esser  dovevano  le  fondamenta  della 
sua  grandezza:  se  avesse  alienati  i  soldati,  o  questi  po- 
tevano scegliersi  altri  capi,  o  sorgere  tribuni  che  agitas- 
sero le  masse  chiedendo  ordini  dì  politica  libertà,  ga- 
ranzie di  sicurezza  futura,  esame  retrospettivo  d'età 
consumata.  Egli  aveva  gli  esempii  di  Siila,  di  Cesare, 
ed  inoltre  le  barbare  leggi  cesarìane  di  maestà  :  non  ne 
occorrevano  di  nuove  né  per  la  vendetta,  né  per  rifor- 
nire le  casse  esaurite,  ed  avere  mezzi  a  doni,  a  com- 
pensi, a  premio  di  passati  servigi,  ed  a  sicurezza  di 
duratura  fedeltà  dei  soldati.  Quelle,  come  già  avvertimmo 
parlando  di  Siila,  non  erano  epoche  in  cui  si  potesse 
ricorrere  alla  ricca  sorgente  del  pubblico  credito,  che 
donando  straordinarie  risorse,  permette  oggidì,  al  chiu- 
dersi d'una  crisi  sociale,  d'esser  moderati,  ed  almeno 
nelle  apparenze  clementi  :  per  avere,  era  forza  rapire: 
non  bastava  il  tondere  tutti,  ma  conveniva  che  fossero 
dilacerati  ì  molti  :  la  confisca  era  necessità  di  finanza, 


374  PARTE  QUARTA 

necessità  di  politica  ancor  più,  o  quanto  almeno  fosse 
vendetta.  Quindi  Augusto,  non  altrimenti  che  erasi  fatto 
da  Siila  e  da  Cesare,  condannò  in  averi,  confiscò  lar- 
gamente, spietatamente  :  perfino  ad  Orazio  lasciava  la 
vita,  ma  non  il  patrimonio,  né  per  blandizie  di  carmi 
umiliati  il  poeta  potè  riaverlo  giammai:  Augusto  voleva 
poter  disporre  in  Italia  d'enorme  quantità  di  terre: 
espropriò,  e  né  dispose.  Appiano  Alessandrino  scriveva: 
Italia  propemodum  transcribitur  veteranis:  ne  colo- 
nizzò cento  cinquanta  mila.  Non  conosciamo  la  forma 
delle  concessioni,  ma  era  una  quasi  infeudazione.  I  le- 
gionarii  avranno  ricevuto  un  titolo,  e  questo  era  Yinve- 
stitura;  la  condizione  di  fedeltà,  e  d'eventuale  servizio 
in  armij  esisteva  espressa  o  tacita  pel  concorde  interesse 
del  donante  e  del  donatario  ;  non  mancava  all'essenza 
feudale  se  non  la  giurisdizione,  perchè  tutta  concentrata 
nel  principe. 

Ma  altre  migliaja  di  legionàrii,  e  probabilmente  dei 
meno  affezionati  a  lui,  inviò  Augusto  nelle  Spagne 
alla  micidiale  guerra  dei  Gantabri  indocti  [erre  juga 
(Orazio):  in  quell'aspro  serraglio  monti vo  eterna- 
mente classico  per  assedii,  insidie  e  fazioni,  legioni  e 
Gantabri  consolidavano  nel  mutuo  sterminio  la  gran- 
dezza 0  la  sicurezza  di  Augusto  (i).  Altre  migliaja  di 
soldati  impiegò  a  domare  i  Salassi  (nella  valle  d'Aosta 
ed  adjacenze),  a  totalmente  soggiogare  le  vigorose  tribù 

(1)  Quando  Ferdinando  VII  di  Spagna,  Tenuto  nel  18U  al  trono,  e  ritor- 
nato al  potere  nel  1823  dopo  che  ne  era  stato  quasi  spogliato  pei  fatti  del  1820, 
inviò  in  America  contro  le  colonie  ribelli  tante  truppe  che  avevano  combattuto 
non  solo  per  rindipeuilenta,  ma  anche  per  le  politiche  libertà  della  patria,  argo- 
mentava appunto  cosi.  Bisognava  esiliare  dalla  Spagna  queste  truppe  sospette: 
con  ciò  si  assicurava  il  dispotismo  in  Ispagna,  si  tentava  con  armi  possenti  il 
rìaquisto  del  dominio  in  America,  e  le  genti  assottigliate  in  guerra,  lontane» 
divise,  confuse  negli  ordini  con  nuove  milizie  e  capi^  più  non  erano  di  pericolo 
aironnipolenza  del  re. 


CAPITOLO  li.  375 

alpigiane,  che  avevano  tuttora  riconosciuta,  o  non  rico^ 
nosciuta  la  dipendenza  da  Roma.  Cosi  Augusto  occupò, 
esercitò  in  lente,  ma  fiere  ed  utili  guerre  truppe  nume- 
rose: ad  ogni  eventualità  sarebbero  state  quasi  tutte  a 
disposizione  immediata,  ejion  illanguidite  per  ozio:  nes- 
sun capò  nelle  oscure  avvisaglie  poteva  salire  a  potenza 
soverchia,  e  le  Alpi  ed  i  Pirenei  cessavano  d'essere  osta-^ 
colo  alle  libere  comunicazioni  fra  le  provincie  romane  (1). 


(i)  I  Salassi  vennero  quasi  distrutti:  più  di  trenta  mila  fiirono  venduti  al  mer- 
cato. La  valle  d'Aosta  diventò  allora  la  via  di  comunicazione  ordinaria  fra  Fltalia 
e  la  Gallia  centrale  e  nordica:  ne  fu  quindi  assicurato  il  possesso,  e  ne  venne 
agevolato  il  transito:  si  stanziò  una  legione  ad  Ivrea  (Eporedia):  si  costrusse, 
e  si  cinse  di  bastioni  e  di  torri  la  residenza  del  pretore  in  Aosta  \ Augusta  Prm^ 
ioria)'.  si  trasportò  una  colonia  romana  nella  valle:  si  fecero  le  belle  costruzioni 
in  Aosta  delPareo  trionfale  ctie  ancora  esiste,  dell'an  fi  teatro  di  cui  restano  i 
96gni,  e  dei  ponte  ad  Ael.  Questi  furono  lavori  dì  Augusto,  o  dei  successori  suoi, 
e  noi  crediamo  che  non  sia  di  tempo  più  antico  il  taglio  della  gran  rupe  di 
Donnas,  aperto  con  incredibile  sforzo  onde  si  penetrasse  per  largo  cammino 
nella  valle  d'Aosta  dal  Iato  d'Ivrea.  Eppure  leggesi  spesso  che  la  rupe  di  Donnas 
fu  tagliata  da  Annibale,  ed  a  quel  varco  si  dà  appunto  il  nome  di  passaggio  di 
Annibale.  Ma  è  assolutamente  ignoto  in  qual  punto  Annibale  passasse  le  Alpi, 
e  se  le  abbia  passate  in  un  sol  luogo,  o  contemporaneamente  in  molti;  come 
fece  Bonaparte  a'  di  nostri.  Il  passaggio  poi  delle  Alpi  era  uno  stratagemma, 
una  marcia  d^occasione  per  lui  :  egli  non  era  signore  delle  Gallio  :  poteva  desi-» 
derare  di  mantenersi  in  temporanea  comunicazione  con  esse,  e  quindi  colle 
Spagne,  senz'essere  limitato  alla  sola  via  di  mare,  ma  non  doveva  amministrare 
le  Gallie,  inviarvi  annualmente  e  riceverne  esercili,  comprenderle  nell'unità 
dell'impero,  e  fermarle  in  ubbidienza  ed  iiì  fede.  Può  dunque  ammettersi  che 
Annibale  senza  averne  cagione  si  travagliasse  per  mesi  e  per  anni  a  conquistare 
coll'assiduo  scalpello  entro  le  balze  di  Donnas  un  passaggio  sicuro  e  perpetuo  t 

Anche  sulla  vetta  del  Gran  San  Bernardo  avevano  eretto  i  Romani  un  tem-^ 
pietto  di  Giove,  del  quale  alcun  vestigio  rimane,  e  non  poche  sono  le  antichità 
tutte  romane  che  furono  trovate  su  quella  cima,  o  nelle  arijacenze:  non  si  rin- 
vennero però  né  monete,  né  vestigia  puniche  al  Gran  San  Bernardo,  od  in  altri 
passi  delie  Alpi,  e  solamente  fu  scoperto  qualche  tumulo  celtico-gallo,  l'uno 
dei  quali  sufla  cima  del  Piccolo  San  Bernardo.  Non  consta  poi  che  i  Romani 
avessero  preparato  ricoveri  su  quelle  cime  nevose  per  salvezza  dei  transeunti  nelle 
pericolose  bufere*  L'idea  degli  ospizii  sulle  cime  dei  monti,  l'una  di  quelle  che  più 
onorano  nell'uomo  religione  e  virtù,  è  esciusivamenle  cristiana;  non  si  trova 
nel  paganesimo,  non  nel  braminismo,  non  nel  buddismo,  non  neirislamisipO) 
sebbene  sembri  che  l'uso  dei  pellegrinaggi  la  dovesse  risvegliare  ed  estendere  nel* 
l'Arabia,  e  più  ancora  nelle  elevatissime  contrade  dell'India  e  del  Tibet,  ove  se- 
gnatamente i  Buddisti  hanno  si  numerose  istituzioni  di  somiglianza  monastieai 


376  PA&TE  OUiETA 

Oltre  Reno  però  dovelle  impiegare  anche  grandi  masse 
d'eserciti, ed  uno  ne  sofferse  distrutto:  seppe  però  da  quel 
caso  fatale  trarre  argomento  a  popolarità  fra  i  soldati,  e 
le  plebi  di  Roma.  Augusto  era  riuscito  ad  acquistare,  con- 
fiscare per  sé  le  più  nobili  intelligenze  di  Roma  :  ora- 
tori e  poeti  lo  circondavano,  cantavano  ogni  giorno  gli 
inni  per  lui.  Cosi  Carlo  V  di  Spagna,  che  era  Tuno  dei 
più  dispotici  caratteri  che  abbia  veduto  la  terra,  pensio- 
nava dei  dotti,  conversava  volontieri  con  Guicciardini 
(che  poteva  narrargli  cose  utili  a  lui),  levava  da  terra  il 
pennello  caduto  a  Tiziano,  il  cui  genio  innocente  era 
forse  il  solo  che  gli  piacesse  realmente,  e  dava  denaro 
all'impudente  Aretino,  che  con  impudenza  il  lodava.  Poi- 
ché l'intelligenza  in  colta  nazione  é  una  forza,  importa 
che  un  prìncipe  l'abbia  per  sé,  ed  egli  la  ebbe.  Era  ri- 
servato a  Richelieu  l'organizzare  a  servigio  monarchico 
questa  conQsca  delle  intelligenze  coli' istituire  le  Reali 
Accademie,  che  l'esser  sorte  con  lui,  che  tutto  ad  un 
solo  intento  operò,  manifesta  dirette  a  stromento  di  do- 
minare le  menti.  Ma  Augusto  tenne  i  dotti  con  sé,  li 
ebbe  a  commensali  e  compagni,  li  adulò  della  propria 
grandezza,  fu  da  loro  adulato:  non  affidò  ai  medesimi 
governi  od  affari.  Quando  Varo  colle  legioni  peri,  i  com- 
pagni d'Augusto  lo  facevano  segno  alla  commiserazione 
di  tutti  :  il  padre  dei  soldati  e  dei  popoli  era  incorno- 
labile:  povero  Augusto!  riempiva  di  lamenti  il  pala- 
gio :  breve  ora  e  poca  terra  aveva  assorto  l'esercito  : 
0  Varo,  gridava  Augusto,  rendimi  le  mie  legioni!  Come 
meglio  adulare  dopo  si  grave  fatto  i  soldati?  Egli  era 
tutto  amore  per  essi:  leggiamo  che  montava  perfino  in 
bigoncia,  e  difendeva  egli  stesso  nelle  loro  cause  civili  i 
veterani  suoi,  e  qualche  storico  ha  il  candore  di  nar- 
rarci che  era  valente  avvocato,  e  quei  processi  vinceva  ! 


CAPITOLO  li.  377 

Amava  anche  le  plebi,  e  moltiplicava  il  pane  ad  esse. 
Cosi  distoglieva  le  menti  delle  masse  dalle  politiche  cose, 
e  le  rivolgeva  alle  innocenti  e  di  pace  col  bandire  la 
fame  consigliera  ai  tumulti,  ed  i  tumulti  occasioni  a  ri- 
volte. Non  crediamo  infatti  che  Augusto  pel  solo  amore 
intemerato  dell'arte  costruisse  in  Roma  tanti  ediQcii  ma- 
gnifici con  prodigioso  dispendio.  Imitavanlo  i  suoi,  pelu- 
che sempre  si  imita  il  principe  a  conscio  disegno,  o 
vezzo  servile,  e  noi  dobbiamo  p.  es.  ad  Agrippa  le  me- 
raviglie del  Panteon  sfavillanti  d'eterna  bellezza.  Era 
una  monarchia  dittatoriale  militare  e  plebea  :  dovevasi 
compiacere  ai  soldati  ed  al  popolo  :  il  mondo  più  volte 
tali  monarchie  ha  veduto,  e  tali  gli  effetti. 

Maestro  ancor  migliore  a  guanti  vennero  dipoi  fu  Au« 
gusto  nel  tenere  sospesa  bilancia  ed  incerte  le  menti,  e 
nel  prendere  tempo  al  porre  con  nuovi  uomini  e  cose 
ferma  radice  al  potere.  Egli  fu  signore  di  tutto,  fu  auto- 
crata: nondimeno  conservò  le  forme  repubblicane,  lasciò 
che  taluno  di  facile  fede  credesse  che  volesse  egli  mede- 
simo ridonare  le  politiche  libertà  ai  Romani,  e  molti  spe- 
rassero che  quelle  forme  basterebbero  a  richiamarne  in 
vita  la  forza  quando  Augusto  morisse.  Egli  quindi  governò 
con  ministri  che  erano  d'opinioni  contrarie,  o  d'esserlo 
fingevano  per  meglio  servire:  erano  Mecenate  ed  Agrippa. 
Divulgavasi  che  l'uno  consigliasse  di  ristabilire  la  repub- 
blica, e  l'altro  di  conservare  per  sempre,  o  per  ora  l'im- 
pero ;  l'uno  era  tronco  e  reciso  ordinatore,  l'altro  facondo 
ed  ambiguo  favellatore;  Tuno  stava  fra  soldati,  l'altro 
fra  magistrati,  fra  cittadini,  procaccianti  e  poeti  ;  l'uno 
doveva  adescare  ed  invigilare,  l'altro  ammonire  e  com- 
prìmere; l'uno  era  invito,  e  l'altro  era  freno:  entrambi 
dovevano  cosi  di  doppie  fila  Roma  coprire,  e  d'una  sola 
catena  tenere.  Ed  Augusto  sedeva  fra  loro  :  pareva  subire 


378  PIITE  OUiliTA 

ritroso,  ed  a  tempo  la  necessità  di  comando  :  t^ieva  però 
nella  sinistra  le  leggi,  e  nella  destra  la  spada.  Le  cento 
Yolte  nei  tempi  antichi  e  nei  recenti  le  famiglie  regnanti, 
od  i  governi  dei  re,  sì  divisero  di  fatto  od  almeno  nelle 
apparenze  sul  teatro  dèlio  Stato  cosi,  e  loro  il  farlo 
giovò,  ma  forse  il  dramma  non  fu  mai  rappresentato  sì 
bene,  per  tempo  più  lungo,  e  con  fruito  maggiore,  che 
nel  regno  d'Augusto. 

Intanto  Roma  era  muta,  ed  aspettava  il  destino  da  un 
solo  :  le  ruinose  discordie,  se  anche  custodite  nei  cuori, 
più  non  si  mostravano  nelle  scene  delle  cittadine  batta- 
glie: Farsaglia,  Perugia,  Modena,  Filippi,  Azio,  nomi 
dolenti  per  doppie  stragi  romane,  sembravano  dover  es^ 
sere  gli  ultimi  nella  storia  di  Roma  :  alle  fazioni  e  pugne 
succedeva  col  nome  d'ordine,  e  con  realtà  d'eguaglianza 
civile,  rimpero  d'un  solo,  l'unità  rivoluzionaria,  la  legis- 
lazione assoluta  imperante  nel  principe,  e  quasi  adorante 
nei  sudditi. 


CAPITOLO  in. 

Le  coBiselie:  H  tesoro:  i  pnbblieani:  le  eogiizioni 
eeoMmiehe  de§li  Mtiehi. 

Più  volte  neiUopera  nostra  abbiamo  parlato  delle  con- 
fische avare  e  crudeli,  che  nelle  guerre  civili  si  sono  ri- 
petute in  Roma  :  parlammo  del  conservato  tesoro  ;  toc- 
cammo dei  pubblicani.  Di  tutto  ciò  ampiamente  favellano 
gli  storici,  i  politici  ed  in  ispecie  gli  economisti  d'oggidì, 
condannano  fatti  e  sistemi,  e  ne  traggono  anzi  argqmento 
a  generale  censura  d'inscienza  delle  discipline  economi- 
che,  ond'erano  ottenebrate  le  menti  romane  e  di  tutti  gli 
antichi/ In  tale  opinione  ed  accusa  non  consentiranno, 
speriamo ,  coloro  che  abbiano  osservalo  in  quest'opera 
i  fatti,  e  meditato  sulle  idee  brevemente  enunciate  ;  ma 
qualche  particolareggiato  riflesso  recherà  maggior  luce  e 
convinzione  del  vero. 

rha  fra  i  moderni  economisti  una  casta  molto  singo- 
lare, che  chiama  sciocco  il  povero,  ignorante  il  debole, 
e  giudica  della  sapienza  dei  sistemi  seguiti  dai  politici 
economisti  o  dagli  uomini  di  Stato  secondo  scientifiche 
astrattezze,  e  non  secondo  l'opportunità  delle  adottate 
misure  colla  necessità  degli  scopi  nazionali  o  principeschi 
che  i  politici  si  proponevano  nel  momento  di  prenderle* 

La  necessità  sforza,  l'utilità  allettai  queste  sono  pel 
mondo  leggi  indeclinabili;  Cosi  si  preferisce  il  comodo 


380  PARTE  QUARTA 

aireleganza,  la  salute  alla  comodila,  la  vita  alla  salute. 
Cosi  iQ  materia  d'acque  è  principio  di  giurisprudenza, 
che  si  preferirà  Vanimazione  dei  mulini  da  macina  alla 
irrigazione  dei  fondi,  perchè  la  prima  è  necessaria  e  la 
seconda  è  utile.  L'economia  pubblica  non  può  quindi 
studiarsi  se  non  subordinata  alla  politica,  né  deve  cer- 
carsi altra  spiegazione  dei  diversi  sistemi  di  pubblica  eco- 
nomia seguiti  nei  varii  tempi  dalle  nazioni  varie,  se  non 
la  spiegazione  che  emerge  spontanea  dall'esame  dei  bi- 
sogni politici  di  quel  supremo  magistrato,  il  quale  piut* 
tosto  ad  un  sistema  che  non  all'altro  volle  nel  caso  con- 
creto accordare  la  preferenza.  Il  politico  in  ogni  divisa- 
mente cerca  prima  la  sicurezza,  e  poi  la  comodità  :  cerca 
la  ricchezza,  perchè  è  fonte  di  forza,  ma  alla  potenza  sono 
e  devono  essere  rivoltele  primarie  sue  cure,  e  nell'ipotesi 
che,  senza  impoverire,  non  potesse  assicurare  l'esistenza, 
non  v'ha  dubbio  che  fra  la  morte  politica  e  la  paralisi 
della  povertà,  egli  preferirebbe  la  povertà. 

Sarebbe  stalo  pericolo  grave  il  dire  ai  legionarii  di- 
sciolti che  nulla  più  avessero  a  mostrar  di  soldato  che 
necessità,  infermità,  cicatrici  :  bisognava  invece  dir  loro 
col  fatto  che  erano  stati  illustri,  e  sarebbero  in  avvenire 
felici  :  già  incominciare  per  essi  i  prosperevoli  giorni  : 
amassero  il  principe  largitore  di  premii  ;  da  lui  discen- 
dere ogni  benignila:  spiassero  ogni  mozione  d'intorno, 
vigilassero  per  lui,  ed  egli  vigilerebbe  per  loro:  se  li 
chiamasse  a  difendere  la  sua  autorità  e  gli  acquisti  do- 
nati ai  medesimi,  si  arringassero  di  nuovo  coU'armi,  nei 
cuori  rinfrescando  la  virtù  del  tempo  passato  sui  campi 
testimonii  della  loro  prodezza.  Le  conseguenze  erano  or- 
ribili, e  peggiori  assai  che  di  fiere:  l'operare  per  istinto 
crudele  è  anche  dei  bruti,  ma  l'operare  per  vendetta  ed 
a  disegno  è  peste  riservata  all'umana  generazione,  e  que- 


CAPITOLO  lU.  ^  381 

sta  peste  ritornava  ia  ogni  guerra  civile  ad  avvolgere  in 
grande  perturbazione  lo  Stato  di  Roma,  e  segnatamente 
ritalia.  Il  sacco  prendeva  luogo  della  riforma»  e  della 
libertà  che  ogni  soldato  era  venuto  vantando:  tutto  il 
paese  era  di  funeste  spogliazioni  dolente,  ma  nei  risenti- 
menti delle  parli  alle  lagrime,  come  sempre  avviene,  si 
mescolavano  feste,  e  sempre  il  temuto  principe  col  dolce 
e  venerato  nome  di  padre  chiamavasi. 

Perchè  dunque  tanti  scrittori  tacciano  d'ignoranza 
nelle  scienze  economiche  i  Romani,  che  donando  dei 
latifondi  ai  legionarii  non  favorivano  l'agricoltura  ? 
Siila,  Cesare  ed  Augusto  donando  i  latifondi  ai  legionarii 
non  intendevano  di  fertilizzare  le  terre,  ma  volevano  far 
crescere  la  molta  zizzania  :  essi  volevano  accampare,  per 
cosi  dire,  i  legionarii  nelle  provincie  che  fossero  state  più 
rivoltose  ;  volevano  necessitarli  a  difendere  il  premio  con- 
seguito, avere  delatori  e  sicarii  in  ogni  terra,  spargere 
dovunque  timore  e  diffidenza,  creare  colonne  mobili  di 
Yolontarii  sempre  presenti  e  sempre  devoti,  e  cambiare 
gradatamente  coi  variati  interessi  lo  spirito  pubblico  delle 
Provincie  ribelli.  Sul  campo  di  battaglia  una  fazione  aveva 
trionfato  delPaltra  :  la  confisca  aveva  creato  un  immenso 
possesso  demaniale  :  lo  si  concedeva  ai  legionarii  vinci- 
tori siccome  pegno  d'eterna  fede  a  chi  li  aveva  guidali 
alla  guerra  :  si  assicurava  l'irreconciliabilità  loro  coi  vinti  : 
a  questi,  se  anche  non  spenti,  toglievansi  i  mezzi  di  fu- 
ture insorgenze. 

Qui  non  v'ha  ignoranza  di  scienze  economiche  a  deri- 
dere: vi  sono  piuttosto  a  deplorare  le  sciagure  di  tempi 
orribilmente  agitali.  Né,  ad  onta  della  luce  fulgida  delle 
scienze  economiche^  possiamo  in  verun  modo  ammet- 
tere l'idea  di  Mengotti  [Commercio dei  Romani;  epoca  III, 
parte  I),  desunta,  a  quanto  pare,  da  Appiano  Alessandrino 


381  ritTK  QViBTA 

(lib.  I),  che  cioè  gli  imperatori  donassero  i  fondi  ai  legio- 
narii  per  riempiere  in.  tal  guisa  il  vuoto  della  popola* 
zione.  Gli  imperatori  non  intendevano  se  non  a  coprire, 
per  cosi.direi  l'Italia  di  fortificazioni  viventi  a  difesa  non 
già  del  territorio»  ma  del  modo  di  reggerlo.  Il  medio  evo 
ridonda  del  pari  di  simili  esempiì,  e  se  non  ne  ridonda, 
almeno  molti  esempii  ne  presenta  in  varie  parti  d'£u^ 
ropa  l'età  moderna.  Eppure  nella  formazione  degli  odierni 
eserciti  v'hanno  mezzi  più  forti  per  reggere  uno  Stato  an- 
che dopo  la  compressione  di  sanguinose  turbolenze,  che 
non  la  confisca  del  possesso  fondiario,  e  la  fondazione 
di  militari  colonie.  Le  confische  avvenute  p.  e.  in  Polo- 
nia  vi  hanno  distrutto  un  infinito  possesso  territoriale 
dei  nobili:  l'incamerazione  di  tutti  i  beni  ecclesiastici 
crebbe  in  immenso  la  massa  dei  fondi  demaniali  ;  in  un 
brevissimo  periodo  vi  si  innova  adunque  del  tutto  lo 
stato  delle  proprietà.  Ciò  è  avvenuto  in  Irlanda  nell'epoca 
della  riforma,  è  avvenuto  in  Boemia  dopo  la  guerra  degli 
Ussiti  e  la  battaglia  del  Monte  Bianco,  è  avvenuto  in  ogni 
tempo,  e  certamente  avverrà  anche  in  futuro  sotto  forme 
manifestamente  barbare,  o  mascherate,  mitigate  ben  an- 
che per  progredita  civiltà. 

Anche  a  Virgilio,  che  pur  sembra  aver  sempre  vissuto 
straniero  ad  ogni  contrasto  di  fazioni  politiche,  era  stato 
confiscato  un  podere,  ma  lo  riebbe  per  favore  e  per  gra- 
zia. Pari  allo  spavento  e  dolore  ch'egli  aveva  provato  nel 
perderlo  fu  il  suo  contento  al  riaverlo,  ed  espresse  il  con- 
tento dell'anima  nell'egloga  prima  con  quelle  frasi  d'am- 
miranda eleganza,  per  le  quali  primeggia  fra  i  sommi 
poeti  d'ogni  nazione  ed  età.  Ma  la  fantasia,  la  forza,  il 
carattere  non  erano  pari  in  Virgilio  alla  concinnità  dello 
scrivere,  e  nemmeno  in  quest'egloga  le  idee  hanno  Tag*- 
giustatezza,  la  profondità,  la  delicatezza  che  splende  si 


CAPITOLO  m.  383 

frequente  nel  poema  dantesco.  Virgilio  parla  con  uno 
&Tenturà(o  vecchiocaccialo  dal  campo  micino»  che  piange 
l!esi]io  che  Io  attende  nella  Brettagna  del  tutto  teparata 
dal  mcmdo^  o  n^Y Africa  sitibonda  :  a  quest'infelice  Vir« 
gilio  fa  Telogio  del  Dio  che  lo  colpì  d'immensa  sciagura  ; 
gli  ripete  che  ravrà  sempre  guai  Dio,  e  sempre  gli  of- 
frirà sacrifica;  non  trova  una  sola  parola  di  conforto 
pel  vecchio  ;  non  altro  gli  offre  che  il  ricovero  per  una 
notte  soltanto,  e  qualche  pomo  maturo.  Non  la  benevo*- 
lenza  operosa,  non  l'affanno  partecipe  dell'altrui  infor- 
tunio, ma  consolato  egoismo,  adulazione  profusa  si  trora 
nel  carme  tersissimo,  che  in  mille  scuole  si  porge  ad 
esempio  perenne  del  sentimento  e  del  bello. 

Si  accusano  altresì  i  Romani  che  ammassavano  oro 
ed  argento,  e  li  conservavano  in  un  tempio  non  tocchi^ 
per  valersene,  come  realmente  facevano,  in  casi  di  stra* 
ordinario  bisogno  e  di  guerra,  sottraendo  così  un  enorme 
capitale  a  circolazione  ed  a  frutto.  E  veramente  in  paesi 
civili,  e  soprattutto  in  tempi  tranquilli,  l'accumulare  tesori 
ed  il  tenerli  giacenti  è  certamente  errore,  e  sarebbe  del 
tutto  superfluo  l'argomentare  a  mostrarlo  ;  ma  anche  in 
epoche  riposate  ed  in  colte  ed  ordinate  contrade  qualun- 
que finanziere  e  politico  riconosce  l'utilità  di  avere  qual- 
che piccolo  fondo  di  previdenza,  onde  soccorrere  ad  im*- 
prorvisi  bisogni,  evitare  oscillazioni  di  valori  dannose, 
confermare  la  fiducia,  e  prender  tempo  a  provvidenze 
meditale  e  tranquille.  Eppure  noi  possiamo  ricorrere  al 
credito  pubblico,  conosciamo  le  tante  forme  di  esso,  i 
boni  del  tesoro,  le  cedole  di  rendita,  la  carta  monetata, 
le  banche,  ecc.  Tutto  ciò  era  ignoto  agli  antichi,  se  anche 
qualche  istituzione  di  credito  sotto  alcuna  forma  ha  esi- 
stito fra  loro.  Era  dunque  utilità,  era  necessità  e  sapienza 
d'avere  non  dei  piccoli,  ma  dei  grossi  fondi  di  previdenza, 


384  PARTE  QUARTA 

onde  valersene  al  bisogno,  segnatamente  nei  casi  dì 
guerra,  di  grandi  calamità,  di  redditi  mancanti  per  in- 
vase Provincie,  ecc.  In  certi  governi,  in  quelli  p.  e.  retti 
da  principi  dissoluti  ed  inscienti,  resistenza  di  un  tesoro 
poteva  dare  facile  occasione  a  prodigalità  e  scialacquo, 
fors'anche  a  precìpizii  di  dissennate  intraprese,  ma 
l'abuso  non  condanna  Tuso,  ed  in  Roma  per  lungo  tempo 
non  se  ne  abusò.  Il  tesoro  colmavasi  con  certa  assegna- 
zione di  piccola  parte  d'imposte  ordinarie,  e  colle  somme 
pagate  dai  nemici  dopo  prospere  guerre:  si  accumula- 
vano tutti  gli  artificii  di  religione  e  politica  per  assicu- 
rarne la  conservazione  :  si  toccava  per  allestire  un  eser- 
cito, per  costruire  una  flotta.  In  paese  piccolo,  ed  in  caso 
di  comunicazioni  malsicure  o  gravemente  difficili ,  si 
avrebbe  a  censurare  anche  la  preveggenza  di  un  governo 
che  mantenesse  una  riserva  di  grani?  Eppure  chi  vor* 
rebbe  in  tesi  generale  ed  astratta  sorgere  difensore  delle 
leggi  granarie? 

PerGno  ai  nostri  giorni  si  è  veduto  quanto  d'utilità  può 
nei  casi  straordinarìi  derivare  dalla  preparazione  d'un  te- 
soro, la  cui  amministrazione,  e  per  così  dire  costante 
vitalità,  sia  retta  con  sapienza  di  norme  ed  assicurata  con 
impiego  continuo  dei  fondi.  Napoleone  aveva  nei  prosperi 
tempi  formato  il  tesoro  delV armata,  che  era  fondo  spe- 
ciale separato  dall'erario,  e  non  toccava  al  medesimo  che 
in  eccezionali  momenti.  Or  bene,  negli  anni  di  sventura 
(1813-1814)  Napoleone  ha  col  tesoro  dell'armata  operato 
prodigi  :  fece  i  grandi  armamenti  quando  tutti  gli  altri 
mezzi  mancavano,  o  sarebbe  stato  pericoloso  il  ricorrere 
ad  essi. 

Altro  argomento  addotto  a  dimostrare  l'inscienza  dei 
Romani  nelle  discipline  economiche  si  è  quello  dell'am- 
ministrazione delle  finanze  affidata  ai  pubblicani.  Il  si- 


CAPITOLO  m.  385 

sterna  dei  pubblicani  però  allro  non  è,  se  non  quello 
della  ferma  od  appalto^  e  per  Tadozione  di  tale  sistema 
militano  anche  adesso  ragioni  fortissime  perGno  in  pic- 
coli Stati,  ed  in  paesi  d'antico  governo,  ove  la  pubblica 
amministrazione  già  fece  grandi  esperienze  e  progresso. 
Infatti  l'amministrazione  per  conto  altrui  in  confronto 
dell'amministrazione  per  conto  proprio  ha  sicuramente 
svantaggio  :  .chiunque  versi  negli  atfari,  e  voglia  essere 
di  buona  fede,  ne  deve  convenire.  La  ragione  è  evidente. 
La  molla  che  induce  l'uomo  a  sacriGcare  il  riposo  della 
notte,  a  crucciarsi  nel  giorno,  a  riflettere  ad  ogni  istante 
agli  affari,  ed  a  farne  l'unico  oggetto  delle  sue  occupa- 
zioni mentali  e  fisiche,  è  l'interesse  diretto,  giacché  la 
gloria  è  riservata  alle  azioni  non  pecuniarie.  Nulla  egua* 
glia  la  vigilanza  e  la  rapidità  del  fermiere,  nulla  la  sua 
industria  nella  scelta  del  personale,  la  sua  abilità  e  per- 
spicacia nel  sistema  dei  registri,  la  sua  scaltrezza  nell'im- 
pedire  e  perseguitare  il  contrabbando.  Il  finanziere  invece 
delegato  e  prezzolato  si  limita  a  far  quanto  lo  esonera  dalla 
responsabilità,  perchè  ciò  basta  a  farlo  sicuro  dell'onora- 
rio, e  non  sacrifica  le  ore  che  tutti  destinano  al  sonno, 
ai  sollazzi.  Se  il  governo  esercita  in  conto  proprio  le  fi- 
nanze, sono  necessarii  infiniti  controlli  ed  ufficii,  revi- 
sioni, riserve  e  pensioni,  lo  che  produce  grandi  lentezze, 
e  costa  alFerario  somme  sì  gravi,  che  la  rendita  netta  è 
d*assai  inferiore  alla  lorda. 

Non  è  che  il  fermiere  opprima  i  contribuenti,  e  colle 
estorsioni  si  faccia  ricco,  come  volgarmente  si  dice  ;  e 
giusta  non  è,  almeno  in  tesi  generale  ed  astratta,  e  fatta 
astrazione  dai  disordini  ingeniti  ad  insipienti  governi  qua- 
lunque sia  il  sistema  di  finanze  che  seguano,  la  censura 
che  leggesi  talvolta  dei  pubblicani  nei  classici,  e  meno 
l'anatema  frequente  nella  Bibbia  contro  di  loro.  Il  pub* 

25 


389  PABTE    QUAETÀ 

blicano  guadagna  non  violando  le  leggi,  ma  facendole 
osservare:  egli  guadagna  colle  economie  delle  spese, 
col  reprimere  il  contrabbando,  e  coll'ordine  esallo  col 
quale  conduce  la  ferma.  Il  maggior  suo  guadagno  poi 
lo  fa  coiranimare  e  moltiplicare,  mediante  i  suoi  rapporti 
ed  industria,  le  commutazioni  portanti  tributo. 

Si  odiano  i  fermieri,  si  odiavano  i  pubblicani,  perchè 
arricchivano,  e  non  perchè  impoverissero  l'impero  o  gli 
fossero  di  danno.  Ogni  volta  che  il  governo  in  tempi  or- 
dinati e  tranquilli  voglia  far  cessare  la  ferma,  può  rice- 
vere le  finanze  in  istalo  florido  e  di  eccellente  amministra- 
zione. Se  rinnova  la  ferma,  ha  titolo  per  aumentare  il 
canone.  Se  pone  fine  alla  ferma,  trova  un  letto  ben 
disposto  per  adagiarsi»  e  non  ha  che  a  seguire  i  sistemi 
in  corso. 

Le  ferme  miste  (non  sappiamo  però  se  queste  pure 
esistessero  a  Roma)  sono  anche  più  utili.  Il  governo 
che  partecipa  ai  vantaggi  del  fermiere,  conosce  da  vi- 
cino ogni  operazione,  si  garantisce  dagli  abusi,  e  divide 
i  frutti  dei  talenti  e  delle  spese  del  suo  conduttore.  Le 
tariffe  dipendono  dal  governo,  nò  possiamo  credere  che 
in  Roma  fossero  lasciate  airarbitrio  dei  pubblicani  :  se 
questi  non  ne  avevano  che  l'esazione,  non  potevano 
pesare  sul  popolo.  Se  pesavano  sui  contravventori  alle 
leggi,  servivano  al  governo,  ed  in  ciò  non  erano  che  utili 
ministri. 

La  convenienza  poi  delle  ferme  è  assai  più  indicata, 
e  quasi  indispensabile  almeno  ad  intervalli,  nell'eser- 
cizio delle  privative,  ed  anche  in  Roma,  almeno  in  vaste 
Provincie,  vi  fu  quella  del  sale. 

Né  dalle  inflitte  confische,  né  dal  serbato  tesoro,  né 
dai  pubblicani  fermieri  si  può  dunque  desumere  fonda- 
mento ad  accusa  d'inscienza  di  dottrine  economiche. 


GAPITQLO  ni.  387 

Ma  dalle  meditazioni  parziali  ci  piace  d'elevarci  ad  al- 
tre di  ^fera  generale,  e  d'argomentare  dai  fatti  non  dei 
soli  Romani,  ma  d'ogni  popolo  più  famoso  in  antico  o 
della  media  età,  se  si  possa  accogliere  il  Tanto  che  la 
scienza  economica,  come  sempre  si  scrive,  era  ignota 
agli  antichi,  e  che  i  moderni,  anzi  noi  stessi  ne  fummo 
creatori,  e  ne  siamo  sagaci  leviti. 

Antica  è  la  genesi  della  sapienza  economica,  se  anche 
fu  ravvolta,  non  sappiamo  se  a  grand*utile,  in  vestimenta 
moderne.  Non  crediamo  muta  la  scienza  la  quale  per 
mille  bocche  ci  parla,  cadendo  nell'errore  di  chi  figura 
cieca  la  fortuna  che  pure  ha  mille  occhi,  e  guida  bene 
spesso  chi  proprio  lume  non  ha.  In  argomento  d'inces- 
sante esperienza,  difficoltà  ed  indagine,  non  neghiamo 
agli  antichi  le  cognizioni  economiche  pel  solo  fatto  che 
alquanto  teorizzate  non  le  troviamo  se  non  in  Platone  e 
Senofonte.  Quando  vediamo  che  i  Tirii,  quasi  senza  ter- 
ritorio, si  erano  prodigiosamente  fatti  grandi  e  potenti 
di  guisa  che  propugnarono  le  forze  sterminate  dei  mo- 
narchi assiri,  e  lungamente  arrestarono  il  conquistatore 
macedone;  quando  vediamo  che  coprirono  di  colonie 
tutti  i  punti  più  vantaggiosi  del  Mediterraneo,  fondarono 
Cartagine  e  Cadice,  e  veleggiarono  nell'Atlantico  ed  alle 
ìsole  Cassiteridi,  si  importanti  in  ogni  tempo,  e  special- 
mente in  allora  che  non  conoscendosi  la  Malesia,  Io 
stagno  doveva  ritrarsi  quasi  esclusivamente  da  esse; 
quando  vediamo  Cartagine,  mirabilmente  ricca  per  colo- 
niali possessi,  inviare  spedizioni  di  scoperta  nelle  regioni 
meridionali  e  nelle  settentrionali  dello  Stretto  di  Ercole  ; 
quando  ci  si  descrive  l'Egitto  fertilizzato  da  centinaja  di 
canali,  che  scava  il  lago  di  Meride  per  regolare  le  escre- 
scenze del  fiume  fecondatore,  che  apre  una  comunica- 
zione per  acqua  fra  l'Eritreo  ed  il  Mediterraneo ,  che 


388  PARTE  QUARTI 

fa  intraprendere  da  naviganti  fenicii  un  giro  intorno 
all'enorme  continente  deir Africa,  ecc.,  ci  è  forza  conchiu- 
dere che  gli  antichi  non  erano  ignari  delle  dottrine 
che  guidano  alla  ricchezza  gli  Stati. 

Allorché  i  Greci  munivano  Atene  d*un  triplice  porto, 
ed  onoravano  gli  Argonauti  che  aprivano  al  greco  com- 
mercio i  porti  del  Ponto  Eusino  ;  allorché  colonizzavano 
le  foci  dei  fiumi  scorrenti  a  quel  mare,  fondavano  Sira- 
cusa e  Marsiglia,  e  lottavano  per  interessi  commerciali 
con  tutte  le  colonie  dei  Cartaginesi  e  dei  Tirii  ;  allorché 
da  Marsiglia  scioglieva  le  vele  Pitea,  ed  eseguiva  perfino 
nel  Baltico  una  esplorazione  ardita,  in  essa  notando  ciò 
che  avvantaggia  le  scienze  ed  interessa  il  commercio  ; 
allorché  Alessandro  pel  commercio  fondava  una  grande 
città,  ed  Atene  per  assicurare  la  sussistenza  del  popolo 
pubblicava  quelle  sue  leggi  frumentarie,  che  contengono 
tutte  le  massime  conservate  tuttora  in  Europa  dovunque 
negli  ultimi  anni  non  ha  trionfato  il  princìpio  di  perfetta 
libertà,  noi  dobbiamo  riconoscere  che  le  idee  politico- 
economiche  erano  note  anche  agli  antichi,  benché  si 
manifestasse  in  tutta  la  ferocia  quel  sistema  mercantile, 
che  non  é  del  tutto  abbandonato  nemmeno  oggidì. 

V'erano  cognizioni  economiche  se  Lucullo  trasportava 
vegetali  dall'Asia,  e  li  indigenava  in  Italia  ;  vi  erano  se 
le  legioni  romane  scavavano  canali  nel  nord  di  Germa- 
nia; se  nelle  biblioteche  dell'Asia  i  Romani  raccoglievano 
i  libri  d'agricoltura,  eli  trasportavano  a  Roma;  se  man- 
tenevano centotrenta  interpreti  alle  sponde  del  Fasi  per 
agevolare  il  commercio;  se  Caligola  fondava  un  faro 
sulle  coste  di  Francia  rimpelto  a  Brettagna  ;  se  Anco 
Marzio,  e  Claudio,  e  Trajano  lottavano  con  ogni  perseve- 
ranza dell'arte  per  mantenere  la  navigazione  del  tronco 
inferiore  del  Tevere,  che  la  natura  minacciava  d'impedire 


CAPITOLO  III.  389 

accumulando  alle  foci  negli  anni  e  nei  secoli  gli  alluvio- 
nali depositi  ;  se  Claudio  aboliva  il  numero  soverchio  dei 
giorni  festivi,  dandone  le  ragioni  medesime  per  cui  si 
aboliscono  adesso  ;  se  lo  slesso  Claudio  ed  Adriano  sca- 
vavano l'emissario  al  lago  di  Fucino  (di  Celano)  ;  se  Ne- 
rone inviava  Cornelio  Balbo  all'esploraiione  dell'Africa  ; 
se  Cesare  progettava  di  tagliare  l'istmo  di  Corinto,  e  Ne- 
rone intraprendeva  realmente  i  lavori. 

Il  medio  evo,  che  accordando  tanti  privilegi  creava  il 
diritto  cambiario,  che  sanciva  tante  utili  servitù  prediali, 
che  dava  all'ipoteca  il  vero  carattere  pubblico  e  speciale, 
che  concedeva  tanti  privilegi  dì  maestranza  e  di  fiere,  ne- 
cessarii  in  allora  se  anche  inutili  adesso;  i  Lombardi,  i 
duchi  di  Mantova,  quelli  di  Ferrara  ed  i  Veneti  che  ras- 
sodavano, duplicavano  le  grandi  arginature  dei  nostri 
fiumi,  già  prima  dell'epoca  romana  inalzate  dai  Galli, 
che  pure  ci  sono  descritti  quasi  selvagge  tribù  ;  Cortes 
che  concepiva  il  disegno  di  tagliare  l'istmo  di  Panama  ad 
infinita  utilità  del  commercio;  gli  Inglesi  ed  Olandesi, 
che  ripetevano  le  cento  volle  il  tentativo  di  passare 
dall'Atlantico  nel  Grande  Oceano  navigando  i  mari  artici 
dell'Asia  e  dell'America,  tutto  ci  mostra  che  la  scienza 
degli  economici  interessi,  e  le  relative  dottrine,  benché 
non  raccolte  in  volumi,  erano  radicate  e  discusse  nei 
consigli  di  Stato. 

Non  crediamo,  scorgendo  le  rovine  di  Persepoli,  di 
Palmira,  di  Ninive,  del  Campidoglio  dominatore  d'un 
mondo,  che  sempre  la  ricchezza  o  la  gloria  derivassero 
da  violenza  o  da  caso.  Non  fu  né  violenza,  né  caso  che 
insegnò  ai  Peruviani  a  costruire  con  infinite  fatiche  le 
loro  strade  attraverso  le  Cordigliere.  I  bisogni  sentiti 
politici  ed  economici  insegnavano  a  Diaz  il  Capo,  guida- 
vano Vasco  alle  Indie,  Albuquerque  alla  Cina.  I  si- 


390  PARTE  QCTiRTA 

stemi  del  censo  fondiario,  quello  dell'assunzione  dei  pre- 
stili a  rendila  perpetua,  Tislituzione  delle  banche,  le 
grandi  compagnie  mercantili  pel  commercio  delle  re- 
gioni remote,  tutti  sono  d'origine  anteriore  a  quell'epoca 
di  Colberl,  nella  quale  vorrebbesi  essere  sorta  recono- 
mica  scienza.  Ed  il  sistema  degli  emporii  commerciali  o 
deposili  franchi,  delle  polizze  di  proprietà  delle  merci 
depositate,  del  giro  di  esse,  che  è  sprone  si  polente  ed 
ajuto  al  commercio,  dei  diritti  doganali  d'esazione  sospesa 
fino  alla  consumazione  di  merci,  è  sì  antico,  che  già  ne 
parla  minutamente  e  precisamente  Boccaccio  [Decam.^ 
Gior.  Vili,  Nov.10). 

Il  mondo  antico,  il  medio  evo  e  l'attuale  hanno  sem- 
pre riconosciuto  l'importanza  dell'Egitto,  che  sta  come 
isola  fra  deserti  e  fra  mari  sul  sentiero  d'Europa  e 
delle  Indie.  Il  mondo  ha  sempre  riconosciuto  l'impor- 
tanza di  Panama,  dell'istmo  di  Darien,  del  lago  di  Nica- 
ragua per  l'aprimento  d'un  canale  fra  l'Ayantico  ed  il 
Pacifico.  Conobbe  il  mondo  la  fonte  della  ricchezza  olan- 
dese, che  diede  a  quella  piccola  terra  combattuta  dal  mare 
la  forza  di  lottare  per  mezzo  secolo,  e  di  vincere  la  po- 
tenza di  Spagna,  che  trovò  nel  commercio  e  nelle  arti 
d'Italia  nel  medio  evo  l'inesausta  sorgente  di  forza,  per 
cui  Pisa,  Firenze,  Venezia  salirono  ad  una  grandezza 
negata  attualmente  ad  esse  ed  ai  regni,  che  sempre  vide 
sorgere  le  città  presso  i  seni  sinuosi  del  mare,  o  lungo 
le  arterie  dei  fiumi,  che  ivi  vide  le  popolazioni  crescenti, 
meravigliose  le  moli,  splendente  la  civiltà.  Conoscevano 
le  utilità  economiche  del  loro  Stalo  i  Polacchi  ed  i  Russi 
quando  assaltavano  Turchi  e  Svedesi  padroni  delle 
bocche  dei  fiumi  di  Sarmazia  e  Polonia  ;  le  conosce- 
vano i  Milanesi  quando  sussidiavano  Genova  contro  Ve- 
nezia, e  costringevano  entrambe  a  desistere  da  alcuni 


CAPITOLO  III.  391 

monopolii  di  traffico  ;  le  conoscevano  i  Fiorentini 
quando  dai  Pisani  affievoliti  ottenevano  concessioni  e 
franchigie. 

E  se  talvolta  un  popolo  operava  in  via  direttamente 
contraria  al  proprio  immediato  interesse  economico,  ne 
era  causa  qualche  prevalente  ragione  di  politica  neces- 
sità. Così  la  Spagna  padrona  del  Belgio  tollerava  che 
fosse  chiusa  la  Schelda  per  avere  il  soccorso  d'Olanda 
contro  ringhilterra  marittima;  cosi  la  medesima  conce- 
deva un  enorme  possesso  al  clero  per  convertirne  la 
forza  morale  e  fisica  contro  ì  Mori;  così  operavano  Ve- 
nezia, la  Polonia  e  l'Ungheria  per  timore  dei  Turchi,  ed 
al  clero  concedevano  un  possesso  territoriale  enorme  e 
sterminato.  Cosi  tutti  gli  Stati  aristocratici  posposero 
talvolta  per  politici  scopi  le  economiche  utilità,  non 
amando  di  svolgere  le  ricchezze  plebee  certamente  fu- 
neste all'onnipotenza  patrizia. 

Anche  nel  capitolo  seguente  avremo  nuova  prova  delle 
cognizioni  economiche  degli  antichi,  e  dell'applicazione 
delle  medesime  alla  legislazione  di  mare. 


CAPITOLO  lY. 
I  Rodìi  e  le  leggi  marittime. 

Per  felice  collocazione,  fertilità  e  bellezza.  l'isola  di 
Rodi  è  la  Sicilia  del  Mediterraneo  orientale:  guarda 
TEgeo  ed  i  mari  di  Siria  e  d'Egitto  :  aveva  ottimi  porti  in 
antico,  che  trascuranza,  tremuoti,  sabbie  accumulate 
resero  mediocri  oggidì  :  addossata  alla  costa  asiatica,  ne 
è  divisa  da  un  largo  canale  che  è  per  se  stesso  un  porto 
immenso,  e  comprende  una  baja  (quella  di  Marmaritza), 
che  sta  dirimpetto  all'isola,  ed  è  delle  più  magnifiche  e 
sicure  che  siano  in  tutto  il  mondo  :  avendo  l'isola  eleva- 
tissimi monti,  è  ricca  di  acque,  ed  abbondevole  di  posi- 
zioni assai  forti. 

Tutto  invitava  al  commercio  gli  isolani  di  Rodi:  la 
fiera  guerra  del  Peloponneso  loro  agevolava  quei  primi 
passi  nella  vita  commerciale  e  nella  politica,  che  sono  i 
più  difficili  per  l'essere  i  piccoli  osteggiati  dai  forti.  Trat- 
tarono indisturbati  il  commercio  :  furono  perfino  favo- 
reggiali dai  combattenti,  e  più  lo  furono  da  chi  più  va- 
cillava sul  campo,  ed  era  in  mare  più  debole.  Erano  i 
Rodii  in  allora  pei  Greci  quel  che  furono  nel  medio  evo 
i  navigatori  italiani  per  gli  eserciti  crociati  :  avevano  Tamì- 
cizia  di  tutti,  perchè  il  bisogno  era  di  tutti  :  gli  immensi 
danni  di  guerra  erano  tormento  e  miseria  d'altrui  ;  i  lucri 
immensi  della  guerra  straniera  erano  dei  Rodii  :  villaggi 


CAPITOLO  ir.  393 

e  città  n'andavano  a  ruba  in  Grecia:  Io  scarso  lucro  del 
soldato  rapitore  passa  subito  alle  mani  del  commer- 
dante,  e  si  rende  in  esse  dieci  volte  maggiore. 

Cosi  invigorirono  i  Rodii,  come  nelle  crociate  invigo- 
rirono le  repubbliche  italiane  (i).  Divenuti  ricchi  e  po- 
tenti, usarono  la  potenza^  o  ne  abusarono  :  dominarono 
le  isole  vicine:  estesero  la  signoria  o  la  politica  influenza 
anche  sulla  Licia  e  sulla  Caria  :  fondarono  colonie  in  Ita- 
lia, in  Sicilia,  perfino  in  Ispagna  (Stradone),  mescendosi 
cosi  alla  generale  politica.  Rodi  era  divenula  uno  Stato, 
come  lo  divenne  Venezia  dopo  gli  acquisti  suirimpero 
bizantino  e  nella  terraferma  italiana  :  fu  quindi  tratta  vo- 
lente  o  non  volente  nel  vortice  delle  guerre  terrestri  e 
delle  navali  :  dovette  difendere  gli  acquisti  colforo,  par- 

(i)  GonYiene  por  mente  a  questa  drcostanza  spesso  inaTTertìta,  per  ben  com- 
prendere la  ragione  delforìgine  non  impedita,  e  del  rapido  sviluppo  di  molti 
Stati,  che  divennero  come  Rodi,  e  ben  più  di  Rodi,  grandi  e  potenti.  Il  volgarìs- 
aimo  adagio  fra  due  litiganti  il  terzo  gode  si  applica  alla  spiegazione  anche 
di  cose  politiche  recondite  ed  elevate. 

Favorirono  il  sorgere  inosservato,  tranquillo  di  Venezia  le  tante  discordie  dei 
Bizantini  coi  popoli  invasori  d'Italia  :  favorirono  le  usurpazioni  italiane  sui  Bi- 
zantini le  lotte  di  questi  coi  Saraceni  e  coi  Turchi,  perchè  il  mare  divideva  i 
combattenti,  ed  il  mare  era  degli  Italiani.  Formossi  la  potenza  russa  quando 
TEoropa  occupata,  straziata  dal  centennale  travaglio  da  cui  usci  la  guerra  dei 
Trentanni,  aveva  si  gran  male  al'  centro  da  non  potere  sorvegliare  e  dominare 
al  confine.  Diventò  poi  la  Russia  un  formidabile  Stato  per  la  ragione  stessa 
durante  la  guerra  della  successione  austriaca:  allora  le  nuove  delle  battaglie 
di  Narva  e  di  Pultava,  che  davano  il  predominio  neirCst  alla  Svezia  od  alla 
Russia,  si  udivano  dai  governi  delFEuropa  del  centro  senz'altro  effetto  che 
quello  di  renderli  più  devoti  al  vincitore  nelle  dimostrazioni  di  benevolenza, 
onde  non  inclinasse  alla  parte  contraria  alla  loro.  E  guai  anche  adesso  se  pro- 
rompendo una  gran  guerra  sul  Reno,  la  Russia  non  cercasse  pericolosi,  e  poco 
utili  allori  sulla  combattuta  fiumana,  ma  sempre  dispensando  ai  duellanti  timori 
e  speranze,  usasse  la  sua  clava  ove  ha  colpi  più  vantaggiosi  a  vibrare  ! 

Noi  Italiani  abbiamo  ancora  grandi  difiicoltà  a  superare  per  rendere  la  patria 
completa  e  sicura,  perchè  i  nostri  nemici  son  molti,  e  non  tutti  palesi.  Con- 
cbioderemo  dunque  volentieri  con  un  detto  di  Tacito,  ch'egli  applica  alla  inco- 
lumità delle  romane  frontiere  agevolala  dalle  discordie  intestine  delle  popolazioni 
germaniche:  deh  rimanga,  e  nelle  genti  duri  se  non  amore  a  noi,  rabbia  fra 
loro,  perchè  la  discordia  dei  nemici  è  il  maggiore  ajuto,  che  dopo  la  nostra 
virtù  possa  porgere  la  fortuna  ai  destini  deirimperio  ! 


394  PARTE  QUARTA 

teggiare,  tramutarsi  da  commerciante  fortunata  in  com- 
battente pericolante. 

Nell'era  d'Alessandro  il  Grande  parvero  i  Rodii  an- 
dare sommersi:  l'avevano  osteggiato,  e  ne  sarebbero 
siali  distrulli:  rivissero  al  suo  morire;  cercarono  nella 
divisione  dei  successori  l'indipendenza:  oscillarono  fra  ì 
medesimi  :  procurarono  anche  colle  arli  di  legazioni  in- 
viate d'impedirne  le  temporanee  leghe,  che  li  avrebbero 
stretti  e  soffocali:  al  sopraggiungere  dei  Romani,  ebbero 
nuove  congiunture  a  destreggiarsi,  prevalendo  d'ordinario 
l'amicizia  dì  Roma  lontana,  e  non  ancora  signora  di 
Grecia  e  dell'Asia,  a  quella  dei  re  della  Siria  o  di  Mace- 
donia. Quando  Anlioco  estese  largamente  il  dominio,  in- 
vase le  isole,  e  penelrò  nella  Grecia,  i  Rodii  entrarono  ri- 
solutamente nelle  parli  romane,  e  loro  giovarono  di  forze 
navali;  ma  caduto  Anlioco,  scemò  nei  Rodii  il  favore  per 
Roma:  inclinarono  ai  Macedoni,,  persuasero  pace  ed  in- 
viarono legali  ad  ogni  combattente  perchè  la  consigliasse: 
volevano  evitare  i  pericoli,  e  conservare  i  commerci.  Con- 
tinuando i  danni ,  rinnovarono  l'invio  d'altre  legazioni 
in  Macedonia  ed  a  Roma:  quasi  osarono  assumere  forma 
e  baldanza  di  mediatori.  Era  troppo:  repressero  i  Ro* 
mani  la  baldanza  ;  schiacciarono  Perseo,  poi  punirono  i 
Rodii,  ingiunsero  ai  medesimi  che  ponessero  certe  isole 
in  libertà,  la  Caria  e  la  Licia  sciogliessero  da  vincoli  di 
dipendenza,  diminuissero  i  balzelli  sulla  navigazione, 
ossia  impoverissero  il  loro  tesoro,  recidessero  i  muscoli 
della  loro  potenza  :  Delo  poi  diventasse  porto-franco,  os- 
sia concorresse  con  Rodi,  anzi  potesse  superarla,  se  Rodi 
non  toglieva  ogni  tassa,  e  si  privava  così  di  mezzi  a  so- 
stegno di  forze  navali.  Rodi  era  ancor  ricca,  aveva  la 
pompa  delle  sue  tre  mila  statue,  dei  suoi  cento  colossi 
(Plinio  il  Vecchio):  aveva  la  sapienza  delle  sue  scuole, 


GiPITOLO  IT.  395 

cui  doveva  un  giorno  concorrere  anche  Cicerone,  an- 
che Cesare»  ma  ricadeva  ad  insigniGcanza  politica:  do- 
veva poi  avere  nell'era  cristiana  una  seconda  storia, 
l'epopea  cioè  veramente  eroica  dei  Cavalieri,  ma  non 
più  una  storia  nazionale:  Roma  Taveva  per  sempre 
annientata. 

Non  furono  però  annientate  le  rodiane  leggi  di  mare, 
anzi  i  rudimenti  di  molte  trasmigrarono  nella  legisla- 
zione romana,  e  lo  spirito  delle  medesime,  e  le  fonda- 
mentali disposizioni  d'alcune,  sussistono  pure  nei  co- 
dici attuali.  È  privilegio  di  esse  la  perennità  sorgendo 
da  liberi  rapporti  commerciali,  da  libere  contrattazioni, 
da  requisiti  essenziali  di  utilità  :  hanno  base  negli  accordi 
spontanei  ad  invariabili  scopi;  i  fatti  ripetuti  costitui- 
scono la  consuetudine:  questa  si  fa  regina,  e  si  legalizza 
dipoi. 

I  Fenicii,  i  Cartaginesi,  i  Greci  esercitavano  attivis- 
simo commercio  di  mare  :  dovevano  quindi  avere  una 
legislazione  marittima  consuetudinaria  o  scritta  :  sembra 
che  essa  primamente  a  Rodi  sia  stata  raccolta  in  corpo 
di  dottrina  :  tutti  gli  antichi  ricevettero  la  compilazione 
di  Rodi,  perchè  rispondente  al  fatto  dell'osservanza  uni- 
versale, alla  consuetudine  cioè,  al  bisogno  generale  di 
semplicità  e  d'evitare  dubbiezze. 

Anche  i  Romani  dovettero  assai  per  tempo  conoscere 
le  leggi  rodie,  p  vogliam  dire  le  consuetudini  marittime 
del  Mediterraneo  nel  libero  commercio  colle  altre  na- 
zioni. Qui  il  romano  conquistatore  era  forzato  a  starsene 
nei  limiti  dell'eguaglianza.  Quando  le  conquiste  romane 
si  estesero  su  tutti  i  bordi  del  Mediterraneo,  che  divenne 
un  lago  del  vasto  impero,  i  Romani  avrebbero  potuto 
emanare  quelle  leggi  marittime  che  loro  piacevano.  Ma 
nessuna  legge  può  essere  più  equa  della  legge  naturale  ; 


396  PARTE  QUARTA 

sulla  eguaglianza  di  indipendenza  erano  fondate  le  antiche 
leggi  ;  sull'eguaglianza  di  dipendenza,  o  di  impero  che  dir 
si  voglia,  avrebbero  dovuto  essere  fondate  le  nuove.  Ciò 
è  quanto  dire,  che  le  nuove  non  potevano,  e  non  dove- 
vano essere  diverse  dalle  antiche.  Egli  è  per  questo  che 
i  Romani  non  le  variarono,  che  ne  furono  da  tutti  i 
popoli  fino  a  noi  sempre  rispettate  le  basi,  che  Strabene 
le  diceva  di  saviezza  ammirabile  (lib.  XIV,  cap.  2),  che 
le  lodava  Cicerone,  ed  Antonino  imperatore  scriveva: 
Ego  mundi  dominus,  lex  vero  maris. 

Le  incertezze  sull'origine  e  sull'adozione  delle  leggi 
rodie  si  riproducono  per  causa  identica  nel  medio  evo 
quanto  al  famoso  Consolato  del  mare.  Nel  ricco  campo 
della  letteratura  gli  scrittori  italiani,  i  francesi  e  gli  spa- 
gnuoli  cercarono  prove  per  assicurare  alla  loro  patria 
la  gloria  di  aver  dettato  al  mondo  nel  medio  evo  le  leggi 
del  commercio  marittimo  scritte  nel  Consolato. 

Gli  Italiani  furono,  non  vi  ha  dubbio,  la  prima  nazione 
che  esercitasse  un  attivo  commercio  di  mare  nel  medio 
evo.  I  Catalani,  poco  dopo,  divennero  attivi  commercianti 
nel  Mediterraneo  occidentale,  e  quindi  concorsero  anche 
nel  Mediterraneo  orientale.  Il  continuo  contatto  coll'im- 
pero  greco-romano,  la  conquista  fatta  da  Giustiniano  di 
parte  dell'Italia,  ecc.,  dovevano  far  conoscere  agli  Italiani 
le  leggi  rodie-latine  raccolte  nel  Digesto,  e  quelle  vigenti 
in  via  di  consuetudine.  All'epoca  delle  crociate  doveva 
insensibilmente  formarsi,  pel  convegno  nell'Oriente  di 
tutte  le  nazioni  marittime,  un  diritto  rodio,  latino,  greco, 
italico  e  catalano.  Questo  diritto  marittimo  si  è  il  Conso- 
lato. Tutte  le  nazioni  nell'originario  sono  a  vicenda  legis- 
latrici, ed  il  Consolato  del  mare,  fondato  nella  naturale 
eguaglianza,  corrisponde  alle  leggi  di  Rodi  in  quella 
parte  che  ne  è  nota.  Se  Amalfi,  o  Pisa,  o  Marsiglia,  o 


GAPnoLO  IT.  397 

Barcellona  abbiano  dapprima  scritto  materialmente  il 
codice»  è  una  controversia  di  mera  letteratura,  la  quale 
dagli  scrittori  meno  traviati  da  nazionale  vanità  sempre 
rispondesi  a  favore  di  Barcellona.  Molti  Francesi  però, 
consentendo  in  questa  priorità  di  Barcellona,  vogliono, 
perchè  la  lode  sia  nondimeno  francese,  che  Barcellona 
emanasse  il  Consolalo  precisamente  nell'epoca  in  cui 
Carlo  Magno  l'aveva  unita  alla  monarchia  dei  Franchi. 

Gli  scrittori  nordici  sostengono  spesso  la  priorità  delle 
Ordinanze  di  Wisby  su  quelle  del  Consolato,  e  noi  leg- 
giamo in  Grozio:  Qucb  de  maritimis  negotth  imnliB 
GothlandiiB  habitatortbn$  legei  placuerunt,  tantum  in 
te  habent  tum  (Bquitatis,  tum  prudenticB,  ut  omnes 
oceani  accolm  eo  non  tanquam  proprio,  $ed  veluti  gen- 
tium  jure,  utantur.  Ma  il  commercio  del  Baltico  e  quello 
del  mare  del  Nord,  che  in  gran  parte  adottò  quella  legis- 
lazione, sorse  qualche  secolo  dopo  di  quello  del  Mediter- 
raneo ;  né  gli  scrittori  nordici  hanno  documenti  positivi 
in  appoggio  della  loro  asserzione.  Lo  stesso  si  dica  dei 
Giudicati  di  Oleron,  isola  francese  nel  golfo  di  Guascogna. 
E  poiché  né  Wisby,  né  Oleron  soggiacquero  sempre  alla 
medesima  sovranità,  cosi  vi  sono  scrittori  che  si  affan- 
nano nelle  controversie  di  priorità,  per  aggiudicarne  il 
merito  alla  loro  nazione,  la  quale  dovrebbe  aver  emanato 
le  Ordinanze  od  i  Giudicati  nel  tempo  appunto  in  cui 
dominava  sopra  Wisby  o  sopra  Oleron. 

Le  tre  legislazioni,  emanando  sempre  dalla  stessa  base 
di  consuetudine  e  di  eguaglianza,  non  differiscono  sostan- 
zialmente ne' principii  giuridici.  È  però  evidente  che  va- 
riano assai  fra  di  esse  nelle  prescrizioni  meramente  di- 
sciplinari e  nelle  penali.  La  legislazione  del  Mediterraneo 
è  molto  più  severa  che  non  le  altre.  Anche  da  ciò  vollero 
alcuni  inferire  una  considerabile  differenza  nelle  epoche, 


398  PiATE  QUAATi 

quasi  nella  prima  epoca  vi  fosse  stata  barbarie  assoluta, 
che  andò  graduatamente  convertendosi  in  asprezza,  e 
quindi  in  temperanza.  Seguendo  questo  principio,  sa- 
rebbe antichissimo  il  Consolalo,  sarebbero  meno  antichi 
i  Giudicati  di  Oleron,  e  molto  più  recenti  le  Ordinanze 
di  Wisby.  Ma  deve  riflettersi  che  la  misura  della  pena 
emerge  dalla  necessità  della  pena  stessa.  La  reazione 
penale  doveva  essere  ben  maggiore  nel  Mediterraneo  che 
non  neirAtlanlico,  e  maggiore  nelFAtlantico  che  non  nel 
Baltico.  Le  coste  infatti  del  Mediterraneo  erano  possedute 
da  Cristiani  e  da  Saraceni  in  perpetua  guerra  fra  loro,  e 
la  guerra  doveva  mantenervi  una  continua  piraterìa.  Le 
coste  degli  altri  mari  erano  possedute  da  soli  popoli  cri- 
stiani. Il  commercio  del  Baltico,  ed  in  parte  quello  del- 
rAllantico,  era  esercito  dagli  Anseatici  fra  loro  confede- 
rati :  quello  del  Mediterraneo  era  travagliato  dalle  guerre 
perpetue  fra  gli  stessi  Cristiani,  Tuno  all'altro  ostilìssimi. 
Le  ciurme  ribelli  in  un  mare  avrebbero  trovato  impos- 
sibile>  nell'altro  diflicìle,  e  nelFultimo  facilissimo  lo  sfug- 
gire la  pena. 

Le  stesse  dispute  di  priorità  sempre  si  trovano,  e  sem« 
pre  per  cause  identiche,  in  tutti  i  tempi  e  in  tutti  i  luoghi. 
La  sapienza  dei  filologi  d'Inghilterra  ci  ha  fatto,  p.  e., 
conoscere  il  codice  marittimo  dei  Malesiani  :  le  norme  di 
giustizia  di  quel  codice  non  variano  dalle  europee.  Quale 
però  de'  commercianti  Malesiani  abbia  avuto  il  vanto  di 
priorità,  si  è  una  controversia  confusa,  che  ad  un  tempo 
è  malesiana,  araba,  indostanica  e  forse  cinese. 

Noi  rispettiamo  anche  le  vanità  nazionali  perchè  da 
onorevole  fonte  derivano,  anzi  le  amiamo  se  con  erudite 
ricerche  ridonano  glorie  dimenticate  alla  patria,  e  di  esse 
la  gratificano  e  piaggiano.  Inane  è  però  la  controversia 
sulla  priorità  delle  leggi  marittime,  perchè  tutti  i  popoli 


CAPITOLO   IV.  S99 

alla  lor  vece  furono  di  queste  maestri  e  discepoli,  e 
l'unirle  e  lo  scriverle  fu  opera  utile  di  redazione  dilìgente, 
e  non  d'invenzione  ispirata.  Ma  da  che  non  traggono  gli 
scrittori  argomento  d'ambizione  nazionale  a  primeggiare 
ed  escellere?  Non  bamboleggiava  p.  es.  il  Pindemonte 
scrivendo  nel  volume  delle  sue  dolcitudini  e  saporosità 
melanconiche,  che  i  giardini  inglesi  non  sono  inglesi, 
ma  italiani j  e  recando  le  prove  che  quelle  ajuole,  que- 
gli avvolgimenti,  quelle  ombre,  quei  murnauri  d'onde 
d'argento,  e  quei  pelaghetli  o  pozze  lacustri  son  nostre? 
Noi  non  veniamo  in  piacimento  di  ciò:  ogni  dottrina  che 
si  consuma  in  olezzo  senza  grandezza  o  vantaggio,  che 
inganna  di  forme  venuste  la  nudità  del  pensiero  e  la 
mancanza  di  scopi,  che  non  muove  passioni,  sentimenti 
non  agita,  ed  idee  non  suscita,  è  povera  dottrina  per 
noi,  se  anche  ritornasse  all'albero  delle  glorie  italiane 
qualche  foglia  sfrondata  da  esso,  ed  innestata  a  pianta 
straniera. 


PARTE  QUINTA 

IL  DISPOTISMO. 


26 


CAPITOLO  I. 

Le  sette  filosoGche: 
loro  traecie  nella  legislazione  imperiale. 

Il  potere  dei  patrizii  era  distrutto:  le  rivoluzioni  ave^ 
vano  avvallalo  tutte  le  poliliche  sommila  nello  Sialo,  ed 
inalzalo  quella  so!a  di  Cesare.  Tulli  i  Romani  erano,  per 
così  dire,  diventati  maggiorenni,  ma  in  quel  giorno  tulli 
traboccarono  nella  dominazione  di  Cesare,  ed  il  nome  di 
cittadini  più  non  significò  che  eguaglianza  d'ubbidienza 
comune.  Il  tizzone  della  discordia  era  spento,  ma  lo  era 
altresì  il  calore  di  libertà,  né  piii  vi  era  rilegno  ad  ille« 
galilà  e  tirannide. 

Sotto  i  Cesari  però  le  feroci  discordie  civili,  che  ave- 
vano da  tanti  secoli  dilanialo  la  repubblica,  cessarono 
del  tutto.  Il  popolo  di  Roma  e  del  mondo  visse  tranquillo 
sotto  gli  imperatori: questi  resero  più  sicura  Tuniversale 
eguaglianza  per  l'enorme  potenza  concentrala  in  essi.  I 
patrizii,  che  sotto  gli  imperatori  non  furono  altrimenti 
che  plebe  in  diritto  ed  in  fallo,  i  patrizii,  che  l'aristocra- 
zia mantenere  non  seppero,  e  l'eguaglianza  tollerare 
non  vollero,  i  soli  patrizii  ordivano  congiure,  e  per  con- 
seguenza i  medesimi  sentivano  spesso  l'enorme  peso  del 
potere  esecutivo.  Ed  essi.  Tacito  specialmente  (1)*  scrìs- 

(1)  Tacito  è  il  solo  storico  veramente  grande  di  talta  l'epoca  impenale,  al^ 
meno  il  solo  storico  illustre  che  abbia  scritto  delle  cose  dei  Cesari.  I  tempi  non 


404  PAKTE  OUINTi 

sero  la  storia,  tulta  informandola  alle  astiose  passioni, 
perchè  gli  offesi  e  nemici  ogni  cosa  dei  loro  odii  colo- 
rano, né  sogliono  essere  ai  posteri  maestri  del  yero  : 
snebberò  poi  dai  lettori  pienissima  fede,  perchè  se  agevol- 
mente si  riprovano  scrittori  che  adulano,  parendo  che 
siano  schiavi,  non  è  frequente  il  dubbiare  dei  maledici, 
sembrando  che  il  maligno  sia  libero. 

Tacito  infatti  fu  sommo  scrittore,  ma  troppo  si  verifica 
in  lui  il  detto  che  principe  odiato  fa  male  ciò  ch'ei  fa. 
Egli  non  vedeva  che  Cesari  trattanti  i  piaceri,  tormen- 
tanti infelici  che  all'aspetto  degli  spasimi,  od  alla  prova 
calavano,  ìmmergentisi  in  nobile  sangue,  sazianti  plebi 
arroganti  quanto  fameliche  :  non  fu  estimatore  severo,  fu 

erano  favorevoli  alla  storia  :  era  quasi  impossibile,  certamente  pericolosissima 
)a  pubblicità.  Non  consta  poi  che  i  Cesari  ordinassero  la  compilazione  dei  loro 
annali,  e  se  alcuno  Tordinò,  Topera  servile  non  fu  continuata,  né  si  perpetuò 
per  credito  e  trascrizioni  in  Roma. 

Vi  sono  condizioni  politiche  infeste  alla  storia,  od  almeno  alla  verità  dei  rac- 
conti, e  quindi  alle  luciibrazioni  degli  ingegni  più  perspicaci  ed  onesti.  Anche 
Venezia,  che  fu  pure  si  grande,  non  ebbe  storici  fuori  di  quelli  che  erano  al 
servìzio  della  repubblica.  Non  era  Ustoria  in  quel  governo,  come  in  Roma  non 
lo  era,  tale  materia  che  si  potesse  abban  'onare  ai  giudizii  sempre  piò  o  meno 
licenziosi  delle  trattazioni  private  ;  non  era  neppure  tale  che  si  potessero  in  ogni 
caso  illustrare  dal  governo  con  argomenti  di  giustificazione  le  deliberazioni 
ed  i  fatti.  Quindi  la  repubblica  ha  bensì  stipendiato  scrittori  per  avere  Tesclu- 
sività  dei  racconti,  ma  non  disse  giammai  la  parola  aperiantur  oeuli  veslri,  e 
la  collana  degli  storici  veneti,  che  pur  coprirono  quasi  tutti  elevate  posizioni 
nel  governo  della  repubblica ,  ed  erano  bene  iniziati  nelle  ragioni  e  misteri, 
appare  in  complesso  assai  inferiore  alla  grandezza  dei  fatti,  alFinnegabile  sa- 
pienza di  Stato.  Quasi  tutte  le  pagine  di  essi  sono  impiegate  a  descrivere  gli 
apprestamenti  navali,  le  battaglie,  gli  assedi!,  i  templi  inalzati  per  voto,  i 
commerci  predati,  difesi,  le  isole  occupate,  perdute;  pochissime  pagiue  riflet- 
tono rinterna  vita  dello  Stato,  le  scaturigini  cioè  di  quelle  forze  cospiranti, 
divergenti,  esuberanti,  deficienti,  di  cui  lo  storico  non  tocca  che  gli  scenici 
effetti,  le  ultime  conseguenze.  Del  pari  Venezia  pei  motivi  medesimi  non  si 
distinse  nella  lirica,  nella  tragedia  e  nella  satira  politica. 

Più  utili  agli  studii  che  non  siano  gli  storici  veneti  sono  gli  storici  toscani, 
quelli  almeno  deirepoca  repubblicana,  che  tutto  vedevano,  e  compri  non  erano. 
Ma  fra  i  compri  è  a  porre  anche  il  Varchi,  giacché  confessa  egli  stesso  d*es- 
sere  condotto  dai  Medici  a  scrivere  istorie  per  stipendio  mentile,  quantunque 
Carlo  BotU  lo  dica  uomo  pieno  delle  generose  idee  dell'antica  liberlà. 


CAPITOLO  1.  405 

burbero  :  non  mirò  alle  generali  condizioni  polilìche,  ma 
alle  sole  tristezze  di  servitfi  abjettissima,  ed  ai  tìzìì  so- 
vente grandi,  ìmmoderali  dei  Cesari.  Non  osservò  Tacito 
alla  pace,  che  non  fu  mai  tanta  nel  mondo  romano,  ma 
alla  tirannia,  e  contro  i  patrizii  sospicati  o  confessi  di 
turbolenze  o  congiure  non  fu  mai  la  maggiore:  ai  patri- 
zii rassegnati  e  tranquilli  sembrava  tirannia  la  propria 
nullità.  Avendo  però  Tacito  l'animo  fortemente  temprato, 
ed  essendo  inoltre  fuor  di  pericolo,  lodò  i  molti  patrizii 
i  quali  soggiacquero  nelle  proscrizioni  imperatorie,  ma 
non  scrisse  un  cenno  d'onore  pel  noto  Lucano  :  era  forse 
indegnato  perchè  questi,  nella  speranza  d'ottenere  grazia 
della  vita  per  sé,  ha  denunciato  sua  madre.  Eppure  Lu- 
cano in  quella  non  aurea  età  delle  lettere  sovra  gli  altri 
brillò:  se  non  ebbe  il  genio  dell'epopea,  ebbe  potenti  pen- 
sieri :  non  si  pose  sul  capo  il  primo  alloro  dei  vati,  ma 
vi  stese  vicina  la  mano:  parve  non  poeta,  ma  storico 
come  Silio  Italico,  ma  meglio  di  questi  ha  illustrato  la 
storia.  L'elogio  però  di  Nerone,  che  Lucano  prepose  alla 
sua  Farsaglia  (1),  si  è  forse  la  più  impudente  e  la  più 

(1)  Descrìtti  dapprima  gli  orrori  della  guerra  civile,  Lucano  continua  cosi: 

Quod  si  non  aliam  venturo  fata  Neroni 
Invenere  viam.,. 

Jam  nihil  o  superi  querimur  :  scelera  ipsa  tiefasque 
Hoc  mercede  placenl  :  diros  Pharsalia  campos 
Imple*U^  et  Pmni  saturentur  sanguine  manes,  ecc. 

Poi  raccomanda  a  Nerone,  quando  sarà  in  cielo,  di  sedere  ben  bene  nel 
mezzo  del  carro  d'Apollo,  onde  non  squilibri  Passe  del  mondo  : 

jElheris  immensi  parlem  si  presseris  unum 
Seniiet  azis  onus.  Librati  pondera  costi 
Orbe  tene  medio,  ecc. 

La  dedica  della  Farsaglia  a  Nerone  è  impropria,  è  ampollosa  ed  abjetta: 
quella  invece  fatta  da  Eulropio  airimperalore  Valente,  per  cui  scrisse  il  suo 
epitome  o  breviario  di  storia  romana,  è  ridicola.  Lodando  Timperalore  Valente 
pei  suoi  mirabili  fatti  (t).  gli  dice  che  imitò  prima  ancora  di  conoscerle,  le 
azioaì  gloriose  degli  antichi  Romani,  che  ora  va  a  narrargli.  Poteva  Eutropio 


406  PABTE  QUINTA 

vile  adulazione  che  si  ritrovi  nelle  opere  antiche  e  nelle 
moderne,  che  in  gran  numero  ne  sono  sozze  ed  immonde, 
ma  l'abjezione  della  dedica  non  poteva  in  nessun  caso 
far  libilo  Nerone,  né  essere  ministra  di  piacere  per  lui, 
essendo  sì  cattiva  la  scelta  dell'argomento  verseggiato. 
0  di  continuo  stigmatizzata  nel  poema  Tusurpazione 
di  Cesare,  e  quindi  Tillegittimità  dell'impero  negli  eredi 
di  lui.  Noi  meravigliamo  che  Lucano  offerisse  a  Nerone 
quei  versi  impressi  d^affello  per  la  caduta  repubblica,  e 
di  dolore  perchè  più  non  vivesse  di  vita  popolare  lo  Stato, 
ma  por  volere  di  Cesare.  E  forse  che  il  Trissino  ha  de- 
dicato a  Carlo  V  invasore  d'Italia  il  suo  poema  deWIta- 
Ha  liberata  dai  Goti?  (1), 

dare  airimperatore  taccia  più  diretta  d'ignoranza  totale?  Ben  molliche  dedi- 
cano opere  potrebbero  essere  sinceri  cosi,  ma  no)  sono. 

(1)  Nella  letteratura,  nelle  arti,  nella  politica,  in  ogni  lavoro  d'ingegno,  o 
scelta  di  persone,  si  ba  sempre  da  avere  arcuralameole  di  mira  la  convenienza 
della  cosa  o  persona  a  quanto  vuoisi  esprimere,  rappresentare,  ottenere,  e  manca 
ogni  effetto,  o  viene  malagevole  e  scemo  cosi  iielfestestica,  come  nella  politica, 
so  questa  norma  fondamentale  di  morali  o  personali  reciprocanze  è  trasgredita 
ed  offesa.  La  viulò  Lucano  scegliendo  la  Farsagiia  per  argomento  da  deilicare 
a  Nerone:  la  viuld  Vincenzo  Monti  (risloriografo  del  primo  regno  dltalia , 
cbe  tutto  scrisse  fuorcbè  la  storin)  quando  introdusse  un  bardo  della  Selva 
Nera  a  cantare  i  trionfi  di  Napoleone  in  Alemagna,  mentre  tulli  i  bardi  delle 
selve  germaniche  ne  avrebbero  più  volentieri  cantalo  i  rovesci,  e  realmente  li 
cantarono  spontanei  pochi  anni  dipoi  :  la  violò  il  renante  di  Baviera  che  co- 
strusse  a  Hatisbona  il  gran  Panteon  alemanno  (VValIhalla)  di  stile  greco-romano 
e  non  di  goto,  ed  inalzò  nelle  isole  greche  il  leone  bavarese  non  a  memoria  di 
soldati  periti  in  battaglia,  ma  nellozio  di  guarnigioni. 

Perfino  il  successo  di  grandi  afiari  non  di  rado  si  compremette  e  sacrifica 
per  contrasto  a  tali  riguardi  di  necessarie  convenienze,  e  scella  inopportuna  di 
persone  a  traltazioni  delicate.  Lo  stesso  Governo  veneto,  che  era  sì  perspicace 
ed  allento,  ha  talvolta  erralo  anche  nella  scelta  dei  legati  suoi;  lo  mostra  p.  e. 
il  successo  diverso  di  due  legazioni  da  lui  spedite  a  Carlo  V,  temuto  nel  mondo, 
e  più  ancora  in  Italia  dalla  stessa  repubblica  :  Tuna  di  esse  fu  aflidata  a  mon* 
signor  della  Casa,  e  Taltra  lo  fu  appunto  al  Trisstno:  e  Fune  e  Taltro,  nonché 
avere  volonlà  ad  imporre,  dovevano  lusingare  e  chiedere.  Orava  il  Casa  :  Carlo  V 
comparava  a  Cesare  :  se  medesimo  negli  ambiti  e  nelle  frasi  delle  concioni  che 
ci  lasciò,  voleva  a  Cicerone  comparare:  fosse  il  nuovo  Ce.<are  temperante: 
io  tanta  potenza  meritare  maggior  lode  colla  moderazione  che  colla  vittoria, 
col  difendere  che  non  coirinvadere.  Ne  rideva  il  Sire  ìatemperantissifflos 


CAPITOLO  f*  407 

Mòri  Lucano:  fa  anche  ucciso  Seneca  il  filosofo  delle 
belle  massime,  che  intra  quadriennium  regia  amicitia^ 
t&rmilliei  sestertium  paravit ....  Italiani  et  provinciai 
immenso  fwnore  depopulatut  est  (Tac,  AnnaL,  \.  XII» 
a  42).  E  prima  era  stalo  ucciso  il  gran  Cicerone,  che 
ianto  spregiava  le  professioni  del  popolo  da  scrivere  negli 
Dficii,  al  I.  I,  e.  42:  opifiees  omnes  in  sordida  arte  ver* 
santur,  nec  quidquam  ingenuum  potest  habere  officina  ; 
che  polendo  essere  giustamente  altiero,  era  debolmente 
vano  ;  che  lodava  a  cielo  lutti  e  ciascuno  gli  uccisori  di 
Cesare,  ma  sempre  timido  negava  d'essere  Correo,  com- 
plice 0  preventivo  approvatore  del  fatto;  che  istigava  im« 
precando  ad  Antonio  perchè  avesse  egual  fine  di  vita;  che 
narrava  la  truffa  commessa  nella  vendita  della  villa  di 
Gdjo  Cannio  con  tale  atticismo,  lepore  ed  ilarità  che  quasi 
sembra  approvarla  ed  averne  lietezza,  e  che  facendo  nelle 
confidenze  delle  sue  lettere  ampie  confessioni  d'incredulità, 
ne  accusò  Verre  così  acerbamente  in  pubblico. 

Nell'epoca  cesariana  si  diffusero  mirabilmente  in 
Roma  le  due  sette  filosofiche  degli  Stoici  e  degli  Epicurei* 
Le  opere  letterarie  ci  parlano  a  questo  proposilo  di  scienze 
e  di  lumi:  per  il  politico  ogni  effetto  è  conseguenza  neces* 
saria  della  causa,  e  la  causa  è  politica  e  di  fatto,  non  ideo* 
logica  e  vana.  Credono  i  filosofi  di  guidare  i  tempi,  e  di 
ispirare  le  idee,  ma  di  regola  subiscono  i  primi,  e  rifletè 
tono  le  seconde  semplicemente  teorizzandole.  Nelle  pro- 
scrizioni quale  dei  patrizii  aveva  perduto  i  figli,  quale  1 


non  ancora  parevagli  (fVsser  Cesare  padrone  del  mondo  :  pure  fkceva  qualche 
concessione  al  Casa^  piarendogli  pei^  ogni  scopo  futtiro  che  lo  st  credesse  tem- 
perante, ed  accomiatava  il  legato  con  dulct  parole.  Non  Toleva  però  essere  ere- 
dato  debole,  e  quindi  fu  sobrio  in  pnrole  ed  austero  col  Trissino,  cai  nulla 
concesse:  in  hil  certamente  spiacevagit  Paulore  d^iin  poema  che  sembrava  ail 
iDTÌto  agli  lialiani  d'insoi*g<>re  contro  agli  oltramontani,  benché  il  poema  fosse 
gelido,  antiquato  nelle  fórme  e  seuza  ispirazione. 


408  PIBTE  QUINTA 

parenti  :  le  erediti  sperate  da  molti  erano  passate  al  fisco, 
gli  onori  e  le  dignità  erano  perdute,  i  patrimonii  erano 
depauperati  da  imposte,  da  contributi,  da  necessarii  donit 
da  mutui  volontari!  o  forzati  (1). 

Gol  mezzo  della  democrazia  Roma  era  passata  alla 
monarchia;  col  mezzo  della  monarchia  si  era  fatta  uni- 
Tersale;  era  divenuta  uno  Stato,  malo  Stato  era  fondo 


(1)  Di  questi  doni  e  mutui  abbiamo  copiosi  esempii  nei  classici,  e  meravigliamo 
della  identità  di  quanto  seguiva  in  allora  con  ciò  che  in  certe  proporzioni  ve- 
demmo anche  ai  nostri  giorni  ripetersi.  Bruto  e  Cassio»  p.  e.,  lasciando  Fltalia 
per  correre  a  sollevare  la  Grecia  e  le  provinde  dell' Asia,  mancavano  di  de- 
naro: ne  chiedevano  ai  numerosi  patrizii:  aprivano  soscrizioni  palrìotticbe: 
invitavano  le  persone  più  influenti  a  firmare  le  prime,  a  farsi  c4)Uettori  per  lutti 
i  contribuenti  :  Attico  poi  doveva  capitanare  la  grande  soscrizione  nazionale.  Le 
opinioni  di  Bruto  e  di  Cassio  erano  nei  patrizii  largamente  diffuse:  vi  era  il 
denaro,  e  nel  maggior  numero  anche  la  brama  di  darlo,  ma  pochi  osavano  di 
rompere  apertamente  coi  forti  triumviri  :  Attico  declinava  Tenore  pericoloso  : 
tutti  dicevano frefi(fe/e,  piuttosto  che  dare:  pensavano  in  ogni  caso  a  riservarsi 
la  scusa  di  seflerta  coazione  almeno  morale:  per  dirlo  con  Dante,  volevano  es- 
sere piacenti  a  Dio,  ed  ai  nemici  sui.  Di  tali  uomini  abbondano  tutti  i  luoghi 
e  tutte  le  età.  Ma  pure  il  denaro  per  vie  aperte  o  clandestine  si  dav^,  ed  Attico 
in  ispecie  ha  dato  a  Bruto  gran  somma  (Gorn.  Nip.).  Dopo  la  giornata  di  Filippi 
chi  avrà  rifuso  e  doni  e  mutui  ?  Quale  patrizio  non  avrà  invece  tentato  di  far 
sparire  le  prove  dei  crediti  suoi?  Quanti  non  avranno  anzi  sacriflcato  ai  triumviri 
l'argento  rimasto  per  redimersi  dalle  conseguenze  fatali  di  quei  mutui  e  doni? 
I  soli  che  forse  avranno  ottenuto  compenso  sono  i  pubblicani  delle  provincie 
dell'Asia,  che  nelle  guerre  civili,  come  rileviamo  da  Cesare,  venivano  costretti 
ad  anticipare  le  somme  alTerarìo  :  anche  ciò  si  è  praticato  talora  da  noi,  che 
pure  abbiamo  tanto  usato  ed  abusato  dei  nuovi  melodi  dei  boni  del  tesoro  e 
della  carta  monetata.  Se  poi  ogni  altro  mezzo  d'aver  denaro  mancava,  si 
ricorreva  sovente  ad  una  spietata  misura  alla  Wallenstein,  a  quella  cioè  di  con- 
cedere ai  soldati  il  sacco  di  qualche  città,  e  ciascuno  vi  prendesse  il  debito  suol 
CivitatibuSy  tyrannisque  Scipio  imperaverat  pecunias,  ilem  ab  publicanis 
debitam  hiennii  pecuniam  exegerat,  et  ab  iisdem  insequentis  anni  mutumm 
prtBceperat.  NonnuUm  militum  voces  cum  audirentur  sese  contra  Porthos  si 
dedttcerent  iluros,  contro  civem  et  consulem  arma  non  laturos,  deductis  Per" 
gamum  atque  in  loeupletissimas  urbes  in  hiberna  legionibus,  con/irmandorum 
militum  causa  diripiendas  kis  civitates  dedit  (Cesare).  Potevasi  acquietare  con 
migliori  argomenti  la  timorata  coscienza  di  questi  soldati?  Ben  conosceva  la 
loro  delicatezza  Scipione,  e  la  conobbero  cento  volte  i  condottieri  romani.  Po- 
tremmo mostrare  che  con  forme  per  l'ordinario  più  miti,  questi  metodi  di  appa- 
gamento militare  non  furono  dimenticati  neppure  nelle  guerre  moderne,  segna- 
tamente nella  peninsulare. 


CAPITOLO  I.  400 

del  prìncipe*  e  non  feudo  dei  Romani.  Roma  più  non  era 
la  patria  d'alcuno,  perchè  lo  era  di  tulli  ;  ma  alla  vita 
operosa  e  convulsa  era  succeduta  la  proterva,  la  fiacca. 
Era  cessato  il  cibo,  il  sangue,  la  vita  delle  lettere  severe, 
Teloquenza  più  non  era  che  verbosità  elogistica»  via  al 
potere  la  sola  ignominia  delle  prolezioni,  la  virtù  in  con- 
trasto col  secolo,  Tavidità  di  popolarità  dei  governi  liberi 
mutata  in  avidità  di  favore  del  principe  assoluto,  trascorso 
affatto  il  tempo  di  operare  grandemente,  finita  per  Roma 
la  gloria  che  era  sempre  andata  in  altezza,  spenta  lavila 
virile,  incomindata  la  parassita  e  molle,  quella  dei  vizii 
chiamali  con  nome  onesto,  quella  delle  lettere  drude 
non  danti,  ma  riceventi  opinioni,  quella  dei  compri 
poeti,  che  dove  è  silenziosa  la  fama,  e  servo  l'impero,  mi- 
nistrano fulmini  e  divinizzano  sorti,  facendo  l'ossequio 
di  deboli  rime  a  chi  tiene  le  forze.  Le  riputazioni  vere 
erano  scolorate  o  punite,  create  e  sostenute  le  false: 
dignità  e  venerazione  crescevano  i  pericoli.  Allora  i  patri- 
zii  ridotti  alla  nullità,  con  eccettuazione  di  pochi,  diven- 
tarono Stoici  od  Epicurei.  Ciò  è  quanto  dire,  che  allon- 
tanandosi dagli  affari  e  dai  pericoli,  i  patrizii  di  animo  forte 
e  d'alta  mente  divenivano  tristi  e  scettici  :  conscii  per  le 
giornaliere  esperienze  che  ormai  salire  era  rovinare,  che 
più  pericolosa  era  la  gran  fama  che  il  delitto,  che  la  stessa 
iniquità  ricca  e  vigorosa  aveva  seguenza  di  molli,  anzi 
di  tulli,  che  perfino  lo  stesso  favore  del  principe  era  breve 
e  malauroso  :  vedendo  i  comandi  conferiti  non  ad  uomini 
chiari  per  trionfi  nelle  battaglie  e  nel  fóro,  ma  abban- 
donati a  persone  di  fama  già  logora  per  cortigiane  ne- 
quizie :  vedendo  la  politica  libertà  conculcata  in  fondo  e 
sommersa,  ogni  cosa  scombujata  dal  principe,  la  scure 
diventata  stromenlo  del  principato,  e  chiuso  ogni  spi- 
raglio di  speranza  al  variare  delle  sorti ,  dicevano,  or- 


410  PARTE  QUINTI 

mai  disgustati  di  tutto,  che  vizio  e  virtà  ed  ogni  cota 
al  mondo  erano  templici  idee  relative,  e  la  lode  e  il 
bia$imo  non  ni  determinavano  se  non  dall'effetto  seguito 
0  mancato.  Fastidivano  la  vita  nella  patria  che  era,  e 
più  ai  loro  occhi  pareva  inabissata  da  podestà  arbitraria: 
di  togliersi  la  vita  ordinati,  mostravano  la  misera  virtù 
di  fortemente  morire,  e  di  non  essere  di  vane  supplica- 
zioni codardi,  o  funesti  agli  amici  di  rivelatore  linguag- 
gio: leggevano  il  Fedone,  lodavano  il  suicìdio,  e  lo 
eseguivano.  Altri  di  molla  ricchezza,  di  passioni  ferventi, 
e  non  fermi  di  cuore  fino  all'estremo,  non  essendo  l'in- 
temperanza Oaccata  e  vinta  dall'operare  continuo  e  dalle 
toglie  ambiziose,  avendo  pace  senza  onore,  grado  senza 
potenza,  ozio  senza  dignità,  domati  e  stanchi,  dall'op- 
porsi,  dal  furiare  e  dal  cospirare  cessavano,  ed  in  quella 
nefanda  mistura  di  scelleratezze,  patimenti  e  sollazzi, 
cercavano  ogni  diletto  di  lorda  vita,  nessuno  eccettuato. 
£  quanti  riscontri  d'analogia  a  quest'epoca  non  offre  la 
storia  moderna,  e  perfino  quella  d'alcun  paese  d^Italia! 

Il  sostenere  davvero,  come  si  fa  nelle  scuole,  che  gli 
Stoici  credessero  tutti  i  vizii  e  tutte  le  virtù  eguali, 
perchè  certa  linea  matematica  separa  vizio  e  virtà  in 
modo  che  non  importi  quanto  questa  linea  si  oltrepassi, 
purché  si  sormonti  la  linea  stessa,  si  è  un  escludere  qua- 
lunque criterio  logico  e  riflessione.  Come  mai  si  può  am* 
mettere  che  tanti  uomini  eminenti,  tanti  consoli  e  duci 
d'esercito  considerassero  ugual  delitto  pel  milite  Tassas-^ 
sinio  del  centurione,  od  il  presentarsi  macchialo  alla  ras- 
segna, per  un  suddito  il  tentare  il  rovescio  dello  Stalo, 
0  l'involare  un  fiore? 

Quella  linea  matematica  che  separa  vizioe  virtù,  quella 
linea,  la  quale  non  ammette  transazioni  di  sorta,  e  di- 
stingue i  perfidi  dai  fedeli,  era  segnata  dal  segreto  rimorso 


CAPITOLO  1.  411 

che  ormai  gli  Stoici  senlivaao,  conscii  a  se  medesimi  che 
avrebbero  pur  essi  in  tempo  utile  potuto  transigere  col 
vincitore,  salve  le  apparenze  dell'onore,  e  conseguito,  al 
pari  di  tanti  loro  complici  inchinevoli  ai  Cesari  onnipo- 
tenti, le  grandi  dovizie  e  le  supreme  dignità.  Questo  pen- 
siero inveleniva  chi  s'era  reso  impossibile  la  troppo  larda 
transazione:  gli  antichi  amici  erano  tinti  per  gli  Stoici  di 
colpa  più  nera,  che  non  gli  antichi  nemici  in  Farsaglia: 
lo  sdegno,  il  rimorso,  l'invidia  traboccavano.  Perfino  la 
speranza  era  ornai  distrutta,  per  essersi  il  partilo  sena- 
torio affievolito  colla  diserzione.  Contro  tali  disertori  vi- 
bravansi  invano  le  saette  sillogistiche. 

Egli  è  delle  selle  filosofiche,  ossia  delle  idee,  quello 
che  è  dei  fatti  e  degli  interessi.  Anche  nella  Grecia  e  Pir- 
rone, e  Senocrale,  e  Diogene,  ecc.  comparvero  quando 
su  tutta  la  Grecia  si  difi^use  la  sovranità  macedonica.  Se 
Diogene  ebbe  fama,  non  se  l'acquistò  certamente  col  solo 
starsene  in  una  botte  (1),  col  cercare  Tuomo  con  una 
lanterna,  coU'abbracciare  ignudo  d'inverno  sulla  pub- 
blica piazza  una  statua  di  marmo,  e  col  fare  le  cose  o 
malte  od  indecenti,  che  sono  scritte  nelle  pagine  della 
storia.  V'era  un'acerba  satira  nel  motto  che  egli  rispon- 
deva ad  Alessandro  re,  il  quale  andato  non  sarebbe  a 
visitarlo,  se  non  avesse  importalo  l'acquistarlo  al  par- 
lilo suo  :  tu  ci  hai  tolto  ogni  cosa  :  lasciaci  almeno  la  luce, 
del  iole.  E  Senocrate  era  anch'esso  tentato  coi  donativi 
da  Alessandro  re,  ma  mostrando  ai  legali  la  povera 
mensa,  rispondeva  sdegnosamente  non  voler  doni;  i  quali 

{\)  K  questo  proposito  Clavier,  nella  Vita  di  Diogene^  fa  uu'osservazione, 
che  è  melensa  davvero:  Io  non  credo  che  Diogene  abitasse  sempre  nella  battei 
quantunque  è  facile  che  siasi  talvolta  coricato  in  quella  che  stava  nel  tempio 
degli  Dei  (?).  La  botte  non  era  certamente  il  suo  domicilio  abituale:  indole 
di  Diogene  era  troppo  indipendente  y  perchè  volesse  costringersi  a  dormir 
sempre  nello  stesso  luogo  (1). 


412  PAITB  QUINTA 

(diceva)  sarebbero  stali  un  prezzo  di  corruzione.  Pirrone 
invece  che  seguito  aveva  Alessandro  alle  conquiste,  e 
s'era  fallo  ligio  al  potere,  ed  anteposto  il  lucro  perso* 
naie  e  privalo  ad  ogni  idea  di  pubblico  entusiasmo,  gri- 
dava maliziosamente  che  ogni  cosa  al  mondo  era  dubbia 
e  relativa,  e  sola  certezza  il  presente,  e  che  ogni  altra 
indagine  era  superflua. 

Cosi  pure  Orazio,  che  aveva  avuto  perdono  da  Cesare, 
e  combattuto  a  Filippi,  e  temere  doveva  quant'allri  mai, 
diceva  à'etzere  epicureo^  e  di  non  scrivere  jper  inclina- 
zione e  per  genio,  ma  per  aver  perduto  i  suoi  beni  : 
paupertas  impulit  ut  versus  facerem  (Cpisl.,  11,  2). 
Sembrava  dicesse  che  non  si  giudicassero  le  sue  inten- 
zioni, ma  si  scusassero  le  sue  necessità,  e  nell'ode  Vii 
del  libro  II  Orazio  toccava  della  giornata  di  Filippi , 
ma  lievemente,  e  quasi  di  una  giovanile  sconsigliatezza. 
Nulla  diceva  del  titolo  per  cui  Bruto  e  Cassio  l'avevano 
in  onore,  e  in  un  momento  cosi  terribile  gli  davano  il 
comando  d'una  legione.  Per  allontanare  il  pericolo  cer- 
cava quasi  la  derisione:  narrava  d'aver  preso  la  fuga  alla 
battaglia  [celerem  fu^am  sensi,  relieta  non  bene  par- 
mula)  :  ne  dava  a  Mercurio  il  merito  e  il  demerito  {sed 
me  per  hostes  Mercurius  celer  denso  paventem  suslulit 
aere).  Ma  se  Orazio  fosse  fuggito  per  codardìa  sul  prin- 
cipio 0  nel  caldo  dell'azione,  e  non  per  necessità  dopo 
una  rotta  completa  (quum  [racla  virtus)^  egli,  anziché 
scrivere  tali  cose  ad  un  Quìntilio  Varo,  che  si  ritrasse  da 
Filippi  per  correre  disperato  a  nuova  guerra  (te  tur- 
sum  in  bellum  resorbens),  avrebbe  tremalo  che  da  altri 
si  raccontassero.  Una  parte  forse  della  fama  di  Orazio  ri- 
posa sopra  inni  nazionali  non  pervenuti  a  noi,  e  composti 
prima  del  fatto  di  Filippi.  I  versi  d'Orazio,  nelle  cose  che 
non  sono  politiche,  indicano  una  causticità  e  veleno,  ed  un 


CAPITOLO  I.  413 

sapore,  che  dobbiamo  credere  essere  scritte  in  mala  fede, 
od  almeno  di  mala  voglia,  quelle  fiacche  e  satiriche  (7) 
lodi  della  monarchia  d'Augusto  nell'ode  IV  del  libro  IV, 
che  cioè  non  vi  iono  stupri  nelle  caste  case;  che  i  ma- 
riti dimorano  colle  mogli  loro,  ed  i  figli  nascoìio  lomt- 
gitanti  ai  loro  papà  ;  che  i  btwi  errano  sicuri  per  le 
campagne;  che  ogni  Romano,  qualunque  egli  sia^ passa 
il  giorno  sulla  collina  maritando  la  vite  alt  olmo,  e 
passa  quindi  alla  cantina,  e  poi  toma  al  vigneto  (oh 
che  noja!),  e  che  queste  lodi  d'Augusto  tutti  le  dicono 
alla  mattina  fra  il  sonno  e  la  veglia^  e  poi  le  ripetono 
alla  sera  quando  sono  ubbriachi  (dicimus  uvidi).  E  vai 
lo  stesso  dell'ode  X  del  libro  III,  in  cui  scrive  che  poi- 
ché Augusto  ritorna  vittorioso  di  Spagna,  è  tempo  di 
spillare  la  botte^  di  cavarne  il  vino  vecchio,  e  di  chia- 
mare la  bella  cortigiana  Neera,  se  pure  vorrà  venire 
da  lui  che  è  già  avanti  negli  anni,  ma  da  giovane 
l'avrebbe  ben  saputa  prendere.  Il  gran  poeta,  che  com- 
battè a  Filippi  alia  testa  di  una  legione,  che  aveva  tanto 
orgoglio  di  sé  da  profetizzarsi  più  volte  imperitura  la 
fama  (1.  II,  od.  XVII;  l  III,  od.  XXIV),  non  credeva 
che  fosse  felicità  il  dilacerare  col  vomere  faticoso  le  terre, 
ed  il  consegnare  al  loro  seno  sementi,  il  potare  le  viti 
sul  declivio  adusto  del  sole,  l'acconciare  gli  ulivi,  il  bat- 
tere le  aride  ariste  sull'aja,  e  preparare  le  arnie  alle  api 
sollecite.  Pensava  certamente  egli  stesso  che  queste  sue 
lodi  d'Augusto,  vantate  oggidì  nelle  scuole,  non  erano 
liriche  ascensioni,  ma  bucoliche  inanità,  od  erotiche  de- 
liquescenze di  giovanili  ricordi:  per  uscire  però  dalla 
scena  politica,  ove  si  inciampa  e  si  soffre,  cercava  le  in- 
nocenze elogistiche  nella  varia,  nella  vaga,  affettuosa 
natura,  saporava  le  campestri  dolcezze,  narrava  i  dilet- 
tosi delirii  dell'età  già  fuggita.  Che  fare?  Orazio  non 


414  PAKTC  oriNTi 

aveva  il  pensiero  melenso  ed  arcadico,  né  l'anima  vir- 
giliana mite  e  graziosa:  egli  aveva  natura  acerba,  adi- 
rosa  e  satirica,  ma  non  la  stoica  pervicace  fierezza:  era 
anzi  trascorrevole  ad  ovidiana  moUizie  :  s'umiliava  per 
vivere,  ma  si  rodeva  della  sua  propria  bassezza;  era 
ad  un  tempo  mordace  e  sdegnoso,  ma  anche  epicureo 
e  cortigiano;  avrebbe  forse  in  elevatissima  sfera  gran- 
demente operato,  ma  escluso  da  quella,  egli  voleva 
almeno  materialmente  godere.  Lodava  Mecenate,  non 
indagava  se  fosse  vera  o  no  la  sua  vantata  discendenza 
dai  re  d'Etruria,  ma  la  dava  senz'altro  esame  per  vera, 
e  chiamava  Mecenate  progenie  regia.  Lodava  anche  la 
moglie  di  Mecenate:  quando  questi  infermò,  protestava 
di  non  voler  vivere  più  di  Mecenate;  eppure  declinava 
l'invito  non  fattogli  ancora ,  ossia  pregava  di  non 
essere  chiesto  ad  accompagnarlo  quando  parti  per  la 
campagna  contro  di  Antonio,  dicendo  che  detestava  la 
guerra,  e  sarebbe  capace  di  nulla.  Tutto  ciò  è  scritto  let- 
teralmente in  molte  odi  di  Orazio,  ma  egli  non  dimenti- 
cava Agrippa,  che  aveva  egual  forza  di  Mecenate,  e  mag- 
giore: moltiplicava  poi  sempre  le  lodi  d'Augusto,  e  per- 
fino diceva  d'averlo  veduto  sedente  fra  le  stelle  nel 
Consiglio  degli  Dei,  Dicendosi  poi  impotente  a  lode  degna 
d^Augusto,  proponeva  a  lodarlo  in  sua  vece  un  poeta 
Giulio  (figlio  di  Marco  Antonio I),  ma  questi  che  aveva 
carattere  meno  rotto  e  sibaritico ,  meno  maligno  e  più 
violento  che  non  avesse  Orazio,  congiurò,  e  fu  ucciso. 

L'interpretazione  d'Orazio,  e  quella  d'ogni  classico,  per 
essere  vera  vuol  esser  sagace:  vuol  essere  comparata  alle 
condizioni  dei  tempi,  alle  circostanze  di  vita.  Nemmeno 
Tibullo  parlava  dal  cuore  a  Messalla  quando,  titubante 
dell'esito,  schivavasi  all'invito  di  marciare  contro  Antonio 
alla  guerra,  perchè  egli  aveva  nuovi  tralci  a  piantare,  ad 


cAmoto  I.  415 

a$pergere  Pale  di  latte^  ai  intessere  un  $erto  di  spiche 
per  Ce$are,  soprattutto  ad  abbracciare  la  sua  Delia. 
Né  Messalla  aminìse  le  scuse .  e  io  volle,  ed  il  povero 
Tibullo  marciò  :  noo  sapeva  beoe  dove  frissero  l'araiala 
e  l'esercito,  e  credeva  s'andasse  all'Egeo:  ma  dovun* 
que  s'andasse,  lasciavansi  le  care  oscitanze  di  Roma,  e 
s'andava  alla  guerra:  tanto  bastavagli  perchè  gramo  e 
sconsolato  ne  fosse:  infer mossi  a  Gorfù:  scrìveva  nuove 
lamentele  d'amore  per  Delia  ;  imprecava  a  chi  aveva 
meiso  per  le  onde  il  curvo  abete,  o  tratto  spada  da 
ferro:  non  s'arrischiava  però  mai  ad  esprimere  pensa- 
menti politici,  perchè  pendevano  ancora  incerte  davanti 
Azio  le  sorti  (elogie  I  e  II ,  lib.  I).  La  storia  letteraria 
deve  essa  pure  meditarsi  in  colleganza  alla  politica,  ed 
in  allora  la  adorna  e  rischiara,  e  rende  ad  un  tempo 
sincere  le  ragioni  di  sue  forme  talvolta  mentite  con  v^ 
lame  ed  orpello:  noi  lo  abbiamo,  ci  sembra,  provato. 

Ha  anche  in  più  severo  volume,  cioè  nel  Corpus  jvris 
Justinianei  troviamo  dei  passi  che  non  possono  bene 
comprendersi  se  non  meditando  sulla  politica  origine 
delle  sette,  delle  scuole  GlosoGche,  e  sugli  artifici!,  o  vo- 
gliam  dire  sugli  schermi  ed  accorgimenti  dialettici  che 
nascono,  si  sviluppano  e  si  conservano  per  opera  di  emi- 
nenti e  positivi  ingegni  quando  le  condizioni  di  Stato 
sono  tali  che  non  potendosi  di  ferree  armi  lottare  nel 
campo,  non  resta  che  la  dinamica  delle  lotte  mentali. 

Giustiniano,  rifondendo  l'intiera  legislazione,  dichia- 
rava di  conservare  alle  leggi  il  loro  nome  antico,  ma  di 
dar  forza  imperatoria  alle  stesse,  e  d'aver  soppresso  tutte 
le  sediziose,  ossia  tutte  quelle  che  non  erano  più  appli* 
cabili  agli  scopi  dell'imperiale  sovranità:  nomina  guidem 
veteribus  legibus  servavimus,  legum  avtem  veritatem 
nostram  feoimus*  Itaque  si  quid  erat  in  illis  seditiosum, 


416  FÀlTE  QUINTA 

multa  autem  talia  erant  ibi  reposita,  hoc  decisum  est 
et  definitum,  et  ad  perspicuum  finem  deducta  est  quw- 
que  lex.  Senza  artificio  adunque  l'imperatore  dichiara 
che  egli  conservò  solo  ì  nomi  di  plebiscito,  di  senatuscon- 
sulto  ecc.,  che  hanno  a  cessare  i  litigi  sulla  validità  di 
ogni  fonte  di  legge,  che  ogni  legge  antica  o  moderna  ha 
forza  da  lui  Cesare,  che  egli  ha  rimosso  dalla  collezione 
delle  leggi  quelle  disposizioni  tutte  che  alla  monarchia 
non  consentivano. 

Questa  dichiarazione  di  Giustiniano,  ed  altre  induzioni 
di  molta  probabilità  c'inducono  a  credere  che  le  celebri 
sette  dei  romani  giurisperiti,  i  cui  responsi  ammiriamo 
nelle  Pandette,  non  differissero  neiratlribuire  al  caccia- 
tore, od  all'apprensore  la  proprietà  della  cerva  dall'uno 
ferita,  ed  occupata  dall'altro,  o  nel  decidere  la  tesi  se  fosse 
a  dirsi  egrotante  un  evirato,  o  quale  fosse  realmente  Ti- 
stante  della  pubertà.  I  Sabiniani,  i  Proculejani,  i  Gassiani, 
i  PegasiéTni,  giureconsulti  sedenti  in  un  Senato  ordina- 
tore di  un  mondo,  ed  ossequiati  in  Roma  dove  non  ama- 
vasi  la  scienza  che  camminasse  superba  senza  piegarsi 
verso  il  mondo  reale,  non  si  formarono  certamente  in 
fazioni  contrarie  per  sì  frivoli  argomenti,  né  per  essi 
più  di  un  secolo  acremente  contrastarono,  e  lo  stemma 
dei  loro  principii  ad  un'intera  legislazione  indelebilmente 
comunicarono.  Quei  sommi  giuristi  differivano  probabil- 
mente nei  punti  cardinali  della  legge  regia  e  del  plebiscito  : 
accordavansi  poi  nel  principio  moderatore  della  monar- 
chica autorità:  non  ambigitur  Senatum  jn$  facete  posse. 
Cosi  Àntistio  Labeone,  figlio  di  un  tribuno  militare  sotto 
Bruto,  che  si  era  ucciso  dopo  la  sconfitta  di  Filippi,  non 
era  partigiano  di  monarchia.  Ma  era  di  principii  affatto 
opposti  Atlejo  Capitone,  devoto  a  Cesare  infino  a  rispon- 
dere a  Tiberio,  che  voleva  sembrare  costretto  a  condan- 


CAPITOLO  1.  417 

Dare  i  delinquenti  contro  la  maestà  sua:  non  e$g€  patri- 
bw  auctoritatem  eripiendiam,  neque  jus  UH  e$ie  re- 
mittendi  ea%  injuriaff,  qua$  respublica,  Imo  principe^ 
accepisget.  L'opposizione  politica  dei  giureconsulti  divìsi 
in  due  campi  conlrarii  doveva  necessariamente  manife- 
starsi, e  traspare  di  fatto  in  ogni  controversia  di  diritto 
privato,  ove  potesse  in  alcuna  guisa  insinuarsi  l'azione 
od  il  riflesso  dei  superiori  principii.  Era  p.  es.  contro- 
verso, e  nelle  scuole  moderne  tuttora  lo  è,  se  la  cosa 
speciGcata  debba  appartenere  al  padrone  della  materia, 
od  allo  specificatore.  Ma  anche  la  romana  repubblica 
aveva  sofferto  la  specificazione  politica,  e  per  metamorr 
fosi  militare  erasi  a  forma  nuova  costituita.  Sembrava  ai 
giuristi  della  Corte,  che  i  Cesari  speciGcalori  ne  avessero 
la  proprietà:  sembrava  agli  opponenti  che  non  potesse 
perimersi  pel  fatto  della  guerra  la  proprietà  precedente. 
Verso  i  tempi  di  Trajano  le  due  sette  dei  romani  giu- 
risti parvero  dileguarsi  e  sparire  del  tutto,  e  Gravina  ne 
adduce  per  causa  che  ormai  l'ardore  degli  ingegni  erasi 
calmato,  e  declinava  la  giurisprudenza.  Con  ciò  s'indica 
il  fatto,  ma  non  la  causa.  Dopo  mille  congiure  sempre 
infruttuose  e  sempre  fatali,  dopoché  l'autorità  imperiale 
si  era  del  tutto  consolidata,  più  non  era  a  porsi  in  dub- 
bio che  realmente  i  Cesari  regnavano,  e  potevano  regnare. 
E  le  sette  si  spensero,  e  le  idee  si  uniformarono,  ma  il 
culto  degli  studii  rimase  (1). 


(i)  Quanto  fu  grande  la  venerazione  dei  Romani  pei  loro  giurìsconsulti  !  Essa 
h  pari  al  merito  dei  medesimi,  glorificato  da  venti  seroli  di  culto  generale  e 
eostante.  Ad  onta  dell'urto  delle  sette,  ad  onta  della  gelosia  e  del  dispotismo 
dei  Cesari,  ad  onta  delle  violenze  parziali  che  colpirono  qualche  inflessibile, 
implacabile  loro  nemico,  il  ceto  dei  giuristi  nel  mezzo  alle  più  deplorabili  crisi 
ottenne  rispetto  e  lode.  Il  diritto  giustinianeo  ne  fornisce  ad  ogni  tratto  la  prova. 
Qui  dirìmunt  ambigua  fata  eatuarum,  voccBque  deferuionis  viribus  in  red» 

27 


418  PARTB  OmiCTi 

La  face  della  critica  vuole  essere  portata  per  entro  le 
caligini  degli  studii  legali,  degli  sludii  GlosoQci  e  degli 
studii  letterari!.  Noi  non  crederemo,  p.  es.,  che  il  valore 
scìeiiliGco  di  Posidonio  consistesse  veramente  nella  con- 
vinzione che  la  gotta  ed  il  tifo  non  sono  mali,  perchè 
ridea  di  male  richiede  un  subbielto  imputabile.  Posi- 
donio, al  pari  di  Parmenide  e  d'Anassagora,  aveva  misu- 
ralo dei  gradi  di  latitudine  ;  egli  era  dunque  un  uomo 
d'elevata  intelligenza  e  coltura,  e  piuttosto  superiore  che 
non  eguale  airetà  sua;  infatti  Pompeo  e  Cicerone  erano 
amici  suoi.  Vuol  dirsi  lo  stesso  delle  tante  stranezze  che 
si  sono  scritte  e  perpetuate  circa  la  metempsicosi,  che 
pure  si  è  la  prima  idea  potente,  ed  il  primo  immaginoso 
concetto  della  chimica  universale  del  mondo,  o  della 
trasformazione  generale  degli  esseri,  per  cui  conservane 

publicii  oc  privatis  lapia  mgtmi,  fkligaié  nparant,  non  minut  pnwident 
hìtmano  generi  quam  si  prwliis  atque  vulneribus  patriam  parente$que  tal" 
varent  :  cosi  scriveva  un  imperatore  ;  altri  chiamarono  loro  amici  i  giurìsconsulti, 
e  Catone,  Germanico,  Vespasiano  furono  del  loro  ceto.  Labeone,  Giuliano,  Ho- 
destino  ecc.,  per  non  dire  nò  di  Papintano,  nò  d'Dlpiano.  venivano  consultati 
dagli  imperatori.  Sono  a  titolo  d'onore  citati  dai  Cesari  i  giurisco^sulti  che  ti 
mostrarono  più  solerti  nel  coltivare  la  scienza,  come  Livio  Druso,  che  era  già 
oppresso  dall'età.  Paolo  Senatore  e  Ponzio  Lupo,  che  ambedue  ciechi  non  ab- 
bandonarono il  gius  civile.  Si  encomiano  quegli  oratori  che  non  abbondano  di 
immagini  appassionale,  di  vivi  colori,  dì  motti  arguti,  ma  hanno  chiaro  ordine  di 
robuste  ragioni,  acuto  giudizio  e  concisione  elaborata.  Quei  giuristi  specialmentt 
si  lodano,  che  aspirano  al  palmario,  anzichò  a  mercede:  est  quidem  retsanciis^ 
nma  civilis  sapientia,  nd  qua  praUio  non  sit  CBslimanda,  nee  dehonestanda, 
qwBnam  enim  etiamsi  honeste  accipiunlur,  inkonesU  tamen  petunlur^  e  si 
narra  a  censura  il  fatto  del  giurisconsulto  Figulo,  il  quale,  corrucciato  di  non 
avere  ottenuto  il  consolato,  cui  aspirava,  rimandò  i  clienti  che  venivano  a  con- 
sultarlo, rimproverandoli  :  an  t;o#  consuUre  $eitÌM,  consulem  facere  ne  eeitis? 
Llntenso  studio  della  giurisprudenza,  e  Tenore  reso  ai  legisti  si  è  l'uno  dei 
tratti  più  caratteristici  della  romana  grandezza,  delfalta  sapienza  di  questo 
popolo  che  fu  signore  e  civilizzatore  del  mondo.  E  la  decadenza  degli  studii 
legali,  e  la  noncuranza  del  ceto  dei  legisti  si  è  prova  di  prostrazione  morale, 
e  tristo  presagio  per  Tavvenire  di  qualsivoglia  governo. 


CIPITOLO  I.  419 

dosi  gli  elementi  delle  cose,  la  loro  foggia  o  modalità  di 
esistenza  con  perpetua  vicenda  si  muta.  Ma  come  mai 
questa  idea  potente  in  mille  opere  si  converti  nell'assurdo, 
che  la  farfalla  di  quel  giorno  fosse  Sesoslri  egiziano,  o 
filomena  plorante  fosse  Codro  ateniese?  Se  Tidea  della 
metempsicosi  fu  d'origine  greca,  come  vuoisi  da  alcuni, 
è  impossibile  che  tanta  umiltà  di  concetto  ridevole  tro- 
vasse seguaci  si  numerosi  e  si  nobili  dove  la  civiltà  ri- 
splendeva di  corruscante  bellezza,  e  gli  ammirati  filosofi 
si  gravassero  la  fronte  di  tale  vergogna.  Se  invece  l'idea 
della  metempsicosi  fu  d'origine  indiana,  come  pare  più 
probabile,  6  primamente  intessuta  a  quelle  religiose  cre^ 
denze,  trasmigrò  poi  nella  Grecia  e  nelle  sue  colonie 
dispogliata  di  esse,  l'avrebbero  accolta  gli  Indiani,  che 
nel  vetustissimo  codice  di  Manu  ci  lasciarono  una  le* 
gislazione  ordinata,  completa,  che  di  gran  lunga  avanza 
il  Corano,  ed  è  in  molti  punti  tuttora  imitabile?  Nella 
metempsicosi,  che  vuoisi  purgare  dal  menzognero  e 
stranio  velame,  di  cui  fu  coperta,  hanno  presentito  gli 
antichi  la  concatenazione  dei  fatti,  che  ora  le  fisiche 
scienze  verificano  guardandovi  con  lume  profondo  per 
entro,  ma  la  parola  degli  antichi  volava  sovra  la  veduta 
del  tempo,  che  troppo  distava. 


CAPITOLO  n. 
La  Honarchia  dei  Cesari  ed  il  Patriziato  dei  Re. 

Il  governo  di  Roma  sotto  i  Cesari  fu  da  noi  chiamato 
monarchia,  ma  abbiamo  una  corrente  di  scrittori  in  con- 
trario, perchè  molti  amano  di  appellarlo  patriziato  sotto 
apparenza  di  monarchia,  è  gli  antichi  per  qualche  tempo 
non  hanno  desistito  dal  chiamarlo  repubblica.  Questa 
opinione  fu  accolta  da  un  sommo  giurista,  il  Gravina, 
nella  nota  sua  opera  De  Romano  Imperio,  ed  attempi 
nostri  un  altro  sommo  giurista  la  riprodusse  fra  noi.  Ma 
non  è  proprio  solamente  dell'eia  nostra  l'applicare  alle 
forme  di  politico  reggimento  nomi  affatto  contrari!  alla 
verità.  Anche  dopo  l'assunzione  di  Napoleone  all'impero, 
la  moneta  per  qualche  anno  portò  l'inscrizione  di  Repub- 
blica francese  congiunta  a  quella  di  Napoleone  Impe- 
ratore. 

In  Roma  la  forza  si  trovava  di  diritto  e  di  fatto  nelle 
mani  di  un  solo  :  la  concentrazione  d'ogni  potere  nella 
persona  di  Cesare  era  riconosciuta  col  fatto  della  ubbi- 
dienza. In  Roma,  non  altrimenti  che  ai  tempi  napoleo- 
nici in  Parigi,  l'esercito  era  numeroso,  permanente  e  sotto 
il  comando  di  un  solo.  Il  governo  di  quello  Stato  era  dun- 
que monarchico.  L'esercito  aumentavasi  a  piacere  del- 
l'imperante :  non  era  composto  di  soli  cittadini,  ma  di 
sudditi  delle  provincie  tutte,  ed  anche  di  Barbari.  L'im- 


CAPITOLO  n.  421 

pero  romano  era  quindi  non  una  precaria,  ma  una  ferma 
e  slabile  monarchia.  Erodiano  nel  proemio  della  sua  isto- 
toria  dice  dunque  giustamente,  che  Cesare  ed  Augusto 
cambiarono  la  forma  del  governo  di  Roma,  e  Zosimo 
(lib.  I)  afferma,  che  la  repubblica  si  converti  in  assolu-- 
tismo.  Svetonio  adotta  la  sentenza  di  Tito  Àmpio:  nihil 
ette  rempublicam,  appellationem  modo,  sine  corpore  ac 
specie.  E  Tacito  scrive:  nulla  jam  publica  arma,  ne  Ju^ 
lianis  quidem  partibus,  nisi  Ccesar,  dux  reliquus;  omnes^ 
exuta  xqualitate^jmnaprinciph  adgpectare;  ed  altrove: 
consulemse  ferensy  munta  $enalm,  magistratuum,  legum^ 
in  $e  trahere,  nullo  adversante,  ecc.  Il  gran  giurista 
Ulpiano  proclamava  la  massima,  che  il  principe  è  sciolto 
da  tutte  le  leggi  (Gottof.,  De  maje$L  princ,  leg.  sol., 
dis.  I),  e  forse  ha  dovuto  l'alta  posizione  di  prefetto  del 
pretorio,  cui  fu  sollevato,  piuttosto  a  si  sfacciata  profes- 
sione d'autocrazia  imperiale,  a  si  impudente  negazione 
dell'esistenza  d'un  diritto  privato  nei  rapporti  colla  so- 
vranità, che  non  agli  eminenti  suoi  meriti  nel  diritto  pri- 
valo, ossia  in  quella  parte  di  giurisprudenza  che  deter- 
mina ì  rapporti  dei  sudditi  fra  loro. 

Da  chi  si  potrà  rivocare  in  dubbio  che  Roma  fosse  una 
vera  monarchia,  quando  il  diritto  di  appellare  al  popolo 
dalla  decisione  dei  magistrati,  sotto  di  Augusto  cambiossi 
in  una  provocazione  all'imperante  ;  quando  il  diritto  di 
grazia  fu  esercitato  da  questo  ;  quando  la  forza  e  le  ma- 
gistrature concentraronsi  in  modo  nell'imperatore,  che 
Augusto  come  console  aveva  il  potere  esecutivo,  come 
tribuno  la  somma  dei  diritti  popolari,  come  censore  au- 
torità sull'onore,  sulla  condizione  e  sulla  dignità  di  ogni 
cittadino,  come  augure  e  ponteGce  la  santità  della  reli- 
gione, come  imperatore  il  supremo  comando  delle  forze 
di  terra  e  di  mare?  Come  non  credere  che  Augusto  fosse 


422  PABTB  QUIRTÀ 

monarca  se  avendo  sparso  ad  arte  la  Yoce,  per  tentare 
la  pubblica  opinione,  e  provocare  una  dimostrazione 
che  intimorisse  i  malevoli,  che  egli  volesse  deporre  il 
potere,  il  popolo  lo  cottringeva  di  forza  a  conservarlo^ 
minacciando  di  bruciare  nel  palazzo  i  senatori  che  fos^ 
sero  d'avviso  diverso?  (Plutarco,  in  Augusto). 

Quei  Cesari,  che  ora  eletti  in  Roma,  ed  ora  nelle  pro*^ 
vincie,  talvolta  fra  i  Barbari,  creavano  altri  Cesari  nella 
famiglia  propria  od  in  altre,  associandosi  per  Tordinarìo 
all'impero  dei  generali  d'esercito  capaci  forse  di  muovere 
fazioni  contrarie;  quei  Cesari,  che  ad  arbitrio  trasferivano 
la  sede  della  capitale,  e  dividevano  Fimpero  nell'oggetto 
suddito  e  nel  subbietto  imperante  ;  quei  Cesari,  che  co- 
mandavano  quarantacinque  legioni  nelVimpero,  ed  eser- 
citavano da  soli  nelle  provincie  le  autorità  che  una  volta 
vi  esercitavano  a  tempo  i  proconsoli;  quei  Cesari,  che 
tenevano  una  guardia  pretoriana  di  venti,  di  quaranta 
e  Gno  di  cinquanta  mila  uomini  accampati  nella  stessa 
Roma  (1)  ;  quei  Cesari,  che  gelosi  della  loro  autorità  sulle 

(!)  Le  guardie  pretoriane  ebbero  dapprima  forma  d'esercito,  ma  sostanza  d*ua 
immenso  satellizio  imperiale:  dominavano,  spaventavano  Roma,  non  le  IdiKioni 
che,  iinbarberile  nelle  guerre,  poco  curavano  i  pretoriani,  che  non  si  erano  me- 
scolati in  sanguinosi  conflitti  coi  nemici  stranieri.  Anzi  le  legioni  odiavano  nei 
pretoriani  la  ricchezza,  gii  onori,  gli  agi,  comparando  la  propria  povertà,  le 
ferite,  la  disciplina  severa.  I  pretoriani  nominavano  i  Cesari  in  Roma  :  le  legioni 
prorompenti  uccidevano  Cesari  e  pretoriani  se  vaneggiavano  la  resistenza,  come 
l*opposero  per  Vitellio  a  Vespasiano.  E  quante  guardie  ducali  e  reali  non  somi- 
gliarono in  varii  tempi  a  quei  pretoriani! 

Ma  Settimio  Severo  ha  variato  nelFessenza  la  forza  dellei  milizie  pretoriane. 
D*allora  in  poi  furono  una  guardia  imperiale,  come  veduta  Tabbiamo  sotto 
Napoleone  I,  e  quasi  com'è  sotto  Napoleone  HI.  Furono  un  esercito  composto 
degli  elementi  di  tutte  le  leeoni  ;  continuò  il  privilegio,  il  favore,  ma  largito 
alFesercito,  usufruito  dai  migliori  in  Intte  le  schiere;  erano  i  triarii  di  tutte  le 
legioni,  i  rappresentanti  dell'orgoglio,  ma  anche  della  forxa;  divennero  nel* 
Tesercito  una  riserva  delfesercito  :  dominavano  Roma,  ma  non  tremavano  delle 
legioni  ;  nessuna  legione  aveva  veduto  in  viso  il  nemico  più  dei  pretoriani.  E 
quali  uomini  li  comandavano?  Sotto  Settimio  Severo  furono  comandati  da  Pa« 
piniano,  da  Ulpiano,  da  Paolo!  Vi  fu  mai  tanta  forza  agli  ordini  di  tanta  ìuUHr 
ligenza? 


CAPITOLO  II.  IS3 

troppe^  vietavano  perBno  ai  senatori  dì  parlare  di  esse» 
e  di  proporre  vantaggi  per  loro,  volendo  che  qualsivo- 
glia misura  di  bene  per  Tesercilo  non  avesse  giammai  a 
dipendere  da  altri  fuorché  dall'imperatore  (1)  ;  quei  Ce- 
sari, che  giungendo  airimperio  non  prestavano  nemmeno 
il  giuramento  di  conservare  le  leggi  e  gli  ordini  dello 
Stato,  e  comandavano  pel  potere  esecutivo  delle  armi,  e 
per  la  legislativa  autorità  collettizia  delle  magistrature  ple- 
bee e  patrizie  in  loro  soli  riunite;  quei  Cesari,  che  facevano 
in  proprio  nome  editti,  decreti  e  costituzioni,  che  sceglie- 
vano gli  individui  che  poi  emanavano  i  senatus-consulti 
aventi  forza  jubente  ;  quei  Cesari,  che  talora  scrivevano 
in  nome  proprio  dei  senatus-consulti  (vedi  le  lettere  dì 
Cicerone)  non  stati  in  Senato  né  ventilati,  né  proposti  ; 
quei  Cesari,  l'inviolabilità  dei  quali  era  protetta  da  leggi 
orribili  di  confisca  e  di  morte  per  qualunque  fatto,  detto 
0  segno  che  potesse  formar  oggetto  d'interpretazione  equi- 
voca, non  erano  forse  i  più  assoluti  monarchi?  Essi  riern* 
pivano  di  loro  soli  lo  Stato  :  questo,  all'infuori  di  loro^ 
era  come  la  terra  della  Genesi  inani$  et  vacua.  Roma 
sovente  scompigliata  e  convulsa,  ma  sempre  rigogliosa 
di  vita,  sembrava  divenuta  materia  inerte  in  mano  dei 
Cesari  :  sembrava  che  gli  imperanti  potessero  applicarle 
le  leggi  meccaniche  del  mondo  materiale:  era  cessato  il 
circolo  vitale  di  pensieri,  d'animazione  e  di  moto.  Era  la 
monarchia  di  Ferdinando  II  di  Napoli,  che  abbiamo 
veduto  ai  di  nostri,  quand'egli  converti  l'esercito  in  un 
immenso  satellizio,  distrusse  ogni  autorità  di  gerarchie 
civili  e  militari,  costituì  se  stesso  centro  di  tutti  i  raggi, 
perno  di  ogni  moto,  dispensatore  di  ogni  grazia,  arbitro 
d'ogni  pena,  pose  egualmente  il  piede  sulle  cervici  di 

(1)  Vedi  a  tal  proposito  il  fiero  rabbuffo  dato  da  Tiberio  in  senato  a  Giunio 
Gallio  (Tacito,  lib.  VI,  e.  3). 


424  PAITE    QUI!«TA 

luttit  quei  soli  adulando  di  parola  e  favore  che  nel- 
Testrema  bassezza  dovevano  adorarlo  per  idolo,  colla 
spada  difenderlo  contro  il  paese,  contro  i  proprii  parenti, 
contro  i  loro  capitani  medesimi  ! 

1  senatori  non  erano  ereditarii  per  diritto  proprio  o 
gentilizio,  siccome  lo  sono  gli  attuali  Lord  d'Inghilterra, 
ed  i  Magnati  d'Ungheria,  i  Pari  di  Portogallo,  i  Grandi 
di  Spagna  ed  i  Titoli  di  Castiglia,  ma  erano  private 
persone,  talvolta  soldati  e  Barbari,  come  dic«  Svetonio, 
per  uso  e  per  abuso  introdotti  in  quel  supremo  consiglio 
dall'imperante.  Essi  avevano  dunque  il  carattere  di  sem- 
plici mandatarìi  regii,  quale  lo  hanno  appunto  gli  attuali 
senatori  di  Francia,  che  scelli  dall'imperatore,  da  esso 
ricevono  un  mandato  a  vita.  I  senatori  erano,  è  vero, 
manda tarii  irrequieti  spesso,  perchè  perpetui,  giudici  del 
mandalo  proprio,  e  vogliosi  di  convertire  l'allribuzione 
personale  in  privilegio  famigliare,  e  la  forza  locala  sui 
sudditi  in  forza  propria  sullo  Stato.  Cosi  era  in  Boma, 
e  cosi  fu  dei  senati  in  ogni  paese  d'Europa  negli  scorsi 
secoli.  Ma  erano  mandalarii  deboli,  perchè  senza  soldati: 
toglievansi  d'ufficio  ora  per  uccisione,  ora  per  radiazione, 
ora  per  destituzione  o  relegazione  alle  magistrature  lungi 
da  Roma;  Non  avevano  i  senatori  diritto  di  interina- 
tura  (1),  mancavano  anche  di  un  corpo  di  civiche  milizie, 

il)  Nella  storia  di  quasi  tutti  i  paesi,  s<>giiatamente  nel  medio  évo,  Vinteri^ 
natura^  ossia  la  registrazione  delie  leggi,  ed  il  rivestimento  delie  forme  per 
Fattivazione  di  esse,  t'oimò  argomento  d'etente  discussioni  e  contrasti.  I  senati, 
od  altre  autorità,  corpi  giudiziarii  o  politici,  cui  spettava  Vinterinare^  avevano 
diritto  0  dovere  di  ciò  eseguire  ?  L'interinazinne  era  una  mera  formalità  ester- 
na, od  imprimeva  il  vero  carattere  di  legge?  Llnlcrinarc  era  un  approvare,  ed 
il  non  interinare  era  opporre  un  veto?  E  questo  veto  era  giurìdico,  od  atto  ar- 
bitrario ed  abusivo  1  L'interinante,  con  altre  parole,  era  partecipe  della  sovra- 
nità, anzi  la  racchiudevajtutta  potenzialmente  in  sé,  od  era  un  semplice  fan- 
zionario?  Se  rinterinare  era  un  diritto,  come  non  ammettere  rinamovìbilità 
deirìnterìnante,  e  come  non  ricusare  al  principe  la  facoltà  di  tórre  d'ufficio 
chi  non  volesse  interinare,  e  di  delegare  altri  che  intcriuasse,  e  spedisse  ? 


C1P1T0I0  u.  42S 

che  almeno  nell'opinione  d'alcuni  potesse,  contrapporsi 
alle  tante  legioni  di  Cesare  (1).  Erano  deboli  i  senatori, 
ed  essi  sapevanlo,  e  piuttosto  che  domandare  a' nuovi 
imperatori  il  giuramento,  e  di  prescrivere  loro  le  condi- 
zioni, vediamo  negli  storici,  che  d'ordinario  limitavansi  a 
chiedere  a  Cesare  la  promessa  di  non  uccidere  verun  se* 
Datore  senza  averne  almeno  conosciuto  prima  le  colpe 
con  forme  regolari  di  processo:  erano  poi  essi  stessi 
stromento  a  tirannia,  ossia  corpo  di  giudici  sempre 
pronto  a  condannare  chiunque  di  cui  l'imperante  volesse 
la  morte.  Nei  rapporti  esterni  poi  ogni  Cesare  poteva  dire 
con  Seneca  (De  Clementia,  lib.  I]  :  qua$  nationen  fwìr 
dittis  ex9cindij  gua$  tramportarif  quibm  libertatem  darh 
qnibui  eripi^  qv^$  reges  mancipia  fieri,  quorumque  cor 
piti  reginm  decus  circumdare  oporteatt  quo  ruanl 
urbe$,  qtnB  orianlur,  mea  jurisdictio  e$t.  !Eppure  vi 


Di  simili  questioni  politiche  il  medio  evo,  ed  anche  i  secoli  più  vicini,  ne  hanno 
veduto  ili  Italia  e  fuori,  e  ne  soffersero  deplorabili  conseguenze.  Non  le  decideva 
uno  statuto,  perchè  nemmeno  esistevano  fondamentali  costituzioni  scrìtte:  le 
decideva  dunque  la  forza,  ossia  la  guerra,  il  carneGce.  Ma  la  vittima  non  era 
sempre  la  stessa,  perchè  la  forza  non  trovavasi  sempre  nella  medesima  persona 
tisica  0  morale.  ,  '  , 

(i  )  Nelle  forme  costituzionali  d'oggidì,  colle  quali  molti  credono  d'aver  sciolto 
il  problema  eterno  della  governativa  perfettibilità  mediante  un  sistema  di  forze 
giurìdiche  e  malerìali  che  si  contrappongano  e  si  controllino,,  si  pregiano  le 
numerose  colonne  delle  guardie  namnaU,  Queste  però  sono,  piuttosto  milizie 
cittadine,  che  non  guardie  nazionali,  perchè  se  bene  o  male  si  organizzano  nelle 
città,  sogliono  avere  nelle  campagne  un'esistenza  meramente  nominale.  In  qua- 
lunque caso  tali  milizie  sono  d'aggravio  al  paese  cosi  per  spese  effettive,  come 
pel  lucro  de6ciente  di  migliaja  e  niigUaja  di  giornate  sottratte  al  lavoro,  e  sono 
poi  sempre  imperfettissime  nell'esercitazione  dei  militi,  e  nella  scelta  ed  espe- 
rienza dei  capi.  Quest'è,  a  parer  nostro,  la  vertigine  intellettuale  delfetà  presente, 
che  mentre  mantiene  in  ciascuno  dei  grandi  Stati  eserciti  stanziali  più  grossi 
che  non  ne  nutrisse  all'epoca  cesariana  il  mondo  romano,  crede  di  paralizzarne 
alFuopo  la  tremenda  energia  con  tali  simulacri  d'apparato  militare..  Alcuna  forza 
di  controllo  al  potere  esecutivo  vi  è,  ma  trovasi  non  nelle  guardie  nazionali, 
bensì  nella  civiltà  diffusa,  nella  concorrenza  generale  europea,  nella  stessa 
forma  coscrizionale  che  dà  agli  eserciti,  se  non  di  tutti,  di  molti  Stati,' il  carat-> 
tere  di  legioni  nazionali.  .    ..»«  l/.Z   « 


4Ì6  PIKTK  «OINTi 

hanno  scrittori  e  Vhanno  legisti  che  ci  rappresentano  il 
Senato  siccome  il  vero  Consiglio  imperante  nello  Stato  1 
Lucano  invece  a  ragione  scriveva:  libertas  obit,  nec 
frons  e$t  uUaSenatus  (lib.  IX),  e  Tadto  anch*egli,  testi* 
monio  dei  fatti,  rendeva  giudizio  ancor  più  grave  del 
vero  :  credeva  cancellato  perfino  il  nome  del  Senato  e 
del  popolo.  Oliando  le  legioni  germaniche  rifiutavano  il 
giuramento  a  Galbat  e  tuttora  ondeggiando  se  avessero  a 
proclamare  Vitellio,  susurravano  di  legittimità,  di  Seg- 
nato e  di  popolo,  Tacito  ne  parla  come  di  cessate  vie- 
tezze  :  ne  re^ereniiam  imperii  ewuere  vidirentWf  Sena^ 
tu$  populique  romani  obliterata  jam  nomina  sacramento 
advocabant  (Storie,  lib.  I,  cap.  b&). 

Realmente  il  Senato,  come  suprema  magistraturat 
sembrava  dominare  nell'interregno:  il  popolo  però,  e 
le  legioni  presentavano  il  successorci  lo  facevano  cono- 
scere col  terrore  delle  armi,  e  Tautorità  del  Senato  era 
nulla  pel  fatto  stesso,  che  non  ne  poteva  usare  per  iscio* 
gliere  neirinterregno  le  coorti  pretoriane. 

La  morte  di  Caligola  infatti  era  stata  per  varii  risenti- 
menti  e  nuove  speranze  lieta  al  Senato:  tentò  di  ripro- 
durre la  forma  repubblicana;  diede  autorità  ai  consoli, 
onore  e  gradi  al  percussore.  E  questi  arringava  i  sol- 
dati perchè  più  non  eleggessero  alcun  imperatore;  ma  i 
soldati  erano  sdegnosi  al  Senato,  adirosi  della  scarsità 
del  medesimo,  avidi  delle  larghezze  del  principe,  orgo- 
gliosi e  sfrenati  per  molta  seguenza  di  fatti  impuniti,  ed 
anche  il  popolo  era  meno  adiroso  alle  nequizie  parziali 
del  signoreggio  caduto ,  che  non  paventoso  del  ritorno 
dell'arroganza  patrizia*  Quindi  le  truppe  ed  il  popolo  for« 
zarono  il  Senato  a  riconoscere  Claudio,  che  fece  subito 
uccidere  Cherea,  e  per  introdurre  nuovi  voti  in  Senato 
estranei  alle  influenze  patrizie  di  Romai  e  d'esclusiva 


GAmoLO  n.  iV/ 

dipendenza  imperiale,  accordò  ai  Galli,  ed  altri  popoli 
già  dichiarati  Romani,  l'unico  diritto  politico  che  non 
ancora  fosse  stato  concesso  ai  medesimi^  quello  cioè 
dell'eleggibilità  anche  ai  seggi  senatori!.  Giuseppe  Ebreo, 
contemporaneo  e  buon  politico,  e  bene  inizialo  nelle 
cause  delle  vicende  dei  -regni,  racconta  l'assunzione  di 
Claudio  nel  XIX  delle  Antichità  giudaiche,  e  riflette: 
Conoscono  gli  imperatori  la  depressione  dei  patrizii^ 
li  vedono  soffrire;  ben  sanno  ciò  che  malignano,  e  ne 
sentono  gaudio  al  cuore.  -^  Divise  erano^  dice  altrove,  le 
sentenze  del  pòpolo  e  del  Senato.  Desiderava  il  Senato 
l'antica  potenza;  ma  il  popolo  aveva  in  odio  il  Senato^ 
rifuggiva  dalle  ingiustizie  di  quello,  e  voleva  Vappog^ 
gio  di  un  imperatore.  In  qualche  altro  caso  il  Senato 
fece  l'ultimo  atto  di  chi  è  vinto,  ma  non  vuol  confessarsi 
perduto,  tenta  di  salvare  almeno  le  apparenze,  e  spera 
nella  possibilità  di  resistenza  futura  :  accettò  la  violenza» 
ma  volle  sanzionarla:  approvò  solennemente  i  fatti,  e 
confermò  le  elezioni:  era  una  tacita  riserva  di  non  ap^ 
provare  e  di  non  confermare  quando  potesse  resistere, 
ma  ormai  le  decimazioni  micidiali  dei  senatori  eletti  dai 
Cesari  in  ogni  provincia  e  nazione,  toglievano  al  Senato 
e  forza  e  prestigio  di  corpo  politico,  riducendolo  alle 
condizioni  di  Consiglio  consultivo  di  Stato. 

Il  trionfo  non  era  piò  il  premio  del  merito  di  un  capi-- 
tano:  talvolta  il  sovrano  negava  la  guerra,  e  concedeva  il 
trionfo  ;  talvolta  voleva  gli  onori  per  sé,  e  com:e  rappre- 
sentante l'esercito,  senza  avere  mostrato  il  viso  al  nemico, 
ma  regnato  in  Roma  fra  laidezze  e  misfatti,  trionfava 
egli  stesso  di  date  o  tocche  sconfitte.  Piò  non  abbisogna* 
vano  né  comizii,  né  tribuni,  né  consoli:  quindi  le  forme 
della  repubblica,  che,  senz'essere  dardi,  erano  però  spine 
nel  corpo  della  monarchia,  levaronsi,  anzi  cessarono 


428  Pi&TK  QUiniA 

prima  che  se  ne  statuisse  TaboIizioDe.  E  del  pari  Tenne 
meno  la  potente  eloquenza  del  fóro,  che  omai  riducevasi 
ad  una  semplice  piazza,  e  più  non  era  Tarringo  dei  pub- 
blicisti istigatori.  Ma  non  si  osò  proclamare  il  principio 
d'eredità,  ossia  l'ordine  di  successione  famigliare,  perchè 
il  deposilo  temporaneo  del  potere  era  nelle  volontà  del 
soldato,  e  non  distruggeva  del  tutto  le  speranze  del 
Senato. 

Sia  dunque,  o  non  sia  stata  promulgata  una  legge 
regia,  per  la  quale,  non  altrimenti  che  nella  Francia  al 
principio  del  secolo  nostro,  la  forma  di  governo  da  re- 
pubblicana in  monarchica  si  convertisse,  trasferendo 
consensualmente  il  popolo  ed  il  Senato  l'autorità  sovrana 
nell'imperatore,  certo  però  si  è,  che  una  forza  regia  si 
formò,  che  incominciarono  ad  esservi  in  Roma  dei  mo- 
narchi onnipotenti,  e  che  perOno  le  apparenze  della  re- 
pubblica gradatamente  scomparvero. 

Forse  quella  legge  in  un  momento  di  terrore  realmente 
si  emanò,  perchè  chi  tiene  il  potere  bene  spesso  pretende 
averne  anche  la  sanzione,  ed  ha  il  piacere  superbo  di 
tutti  forzare  a  dichiararlo  legale  ;  ma  è  anche  probabile 
che  i  compilatori  del  Diritto  Giustinianeo,  i  quali  aperta- 
mente dicono  essere  quella  legge  stala  promulgala,  senza 
però  riferirla,  o  citare  almeno  la  discrepanza  delle  opi- 
nioni a  quella  legge  relative,  adulassero  l'imperatore 
col  titolo  di  un'originaria  e  non  prescritta  legittimità  di 
comando. 

ìiolto  agitossi  negli  ultimi  secoli  la  controversia  sulla 
verità  o  sulla  falsità  della  promulgazione  della  legge  regia, 
né  tardò  a  comparire  anche  una  marmorea  tavola,  che  la 
conteneva  a  perpetua  memoria.  Si  affollarono  molti  ar- 
cheologi intorno  a  questa,  infìno  a  che  li  condussero  ad 
altri  argomenti  la  tavola  di  Rosetta,  e  le  meraviglie  d'£r- 


GAFITOLO   n.  429 

colano  e  Pompei,  che  scoperchiate  dopo  lunghissima 
notte  di  secoli,  trovaronsi  conservate  da  quella  stessa 
causa  che  le  aveva  distrutte.  Il  Gravina,  difensore  della 
marmorea  tavola,  si  appoggia  al  voto  peritale  archeolo- 
gico del  Fabbretti  e  del  Bianchini,  i  quali  in  difesa  di 
quella  tavola  n  dichiararono  pronti  ad  incontrare  qua-- 
lunque  pericolo  (!).  Ma  fossevi  o  non  fessevi  la  legge 
regia,  vi  era  certamente  la  forza  regia,  e  nessuno  al- 
Tepoca  dei  Cesari  avrebbe  osato  dire  che  la  legge  regia 
non  esisteva. 

Nessun  imperante  esercitò  maggiore  autorità  di  quella 
che  godettero  i  romani  Cesari,  specialmente  i  primi.  Lo 
Stato  era  personificato  in  essi  :  non  vi  erano  sudditi,  ma 
schiavi  :  spìacere  a  Cesare  era  morte  inflitta  da  satelliti, 
od  ordinata  alla  vittima,  come  si  fece  lungo  tempo  in 
Turchia,  e  si  fa  al  Giappone,  ma  sempre  certa,  sia  che  si 
incontrasse  con  audacia,  sì  subisse  con  fermezza,  si  fug- 
gisse con  codardìa.  I  romani  Cesari  fecero  uso  perfino 
del  potere  giudiziario  nelle  controversie  dei  privati,  avo- 
candone la  decisione  a  loro  medesimi.  Nelle  monarchie 
odierne  (con  eccezioni  rarissime)  il  potere  giudiziario  è 
totalmente  demandato  dal  re  ad  appositi  magistrati,  ed 
il  re  non  giudica,  e  solo  invigila  perchè  si  giudichi  a 
tenore  delle  emanate  disposizioni.  Ma  da  cento  passi  del 
romano  diritto  vediamo  essersi  esercitato  dai  Cesari  il 
diritto  di  sentenza  nelle  private  controversie.  Ed  anche 
quella  pratica  di  autorizzare  privati  giuristi  a  risponderei 
e  di  dar  forza  ai  responsi  loro,  si  era  forse  un  modo 
indiretto  di  avere  ingerenza  nel  potere  giudiziario  (1). 

(1)  Giustiniano  nel  Corpui  Juris  non  ha  bastevolroente  schiarito  qual 
fosse  riifficio  di  questi  giurìsconsulli,  e  quale  l'efficacia  dei  loro  responsi.  Ma 
nelle  Islituiioni  di  Cajo,  scoperte  da  Niebubr,  si  trova  a  tal  proposito  una  in- 
dicazione assai  più  precisa.  Vi  era  un  corpo,  quasi  peritale,  di  giuristi  privi- 


430  PAETE  QUIIfTA 

A  giusto  titolo  noi  abbiamo  dunque  asserito  cbe  erasi 
stabilita  in  Roma  nei  primi  tempi  una  vera  anzi  una 
dispotica  monarchia.  Per  ragioni  poi  d'eguale  evidenza 
abbiamo  sempre  appellato /7a/rmVi(o  il  governo  di  Roma 
nei  primi  tempi,  benché  quello  stato  dal  nome  del  pre* 
side  si  soglia  appellare  regno.  Ma  i  re  di  Roma  non  ave- 
vano la  forza»  perchè  non  avevano  esercito,  ed  il  popolo 
non  godeva  se  non  di  una  tenuissima  parte  dei  diritti  e 
del  possesso  civile,  che  erano  entrambi  amplìssimi  nei 
patrizii.  Il  re  era  quindi  debole,  ed  il  popolo,  suo  natu- 
rale confederato,  era  debole  anch'esso. 

Colla  espulsione  dei  Tarquinii  non  si  cambiò,  come 
molti  credono,  la  forma  del  governo  ;  ma  il  popolo  per- 
dette l'unico  suo  appoggio  contro  la  potenza  senatoria. 
Dice  Tito  Livio  :  Libertatis  originem  inde  magù  guia 
annuum  imperium  cumulare  factum  est^  quam  guod 
diminutum  $it  quidquam  ex  regia  potevate  numerei. 
Omnia  jura,  omnia  insignia  regum  primi  con$ule$  te^ 
nuere  (1  ) .  Le  funzioni  dei  consoli  corrispondevano  a  quelle 

legtati,  il  voto  unanime  dei  quali  equivaleva  ad  evidenza  di  diritto.  Qualora  le 
opinioni  di  questi  giuristi  privilegiati  fossero  discordi,  era  lecito  al  giudice  rac- 
costarsi a  quel  voto  che  più  fondato  gli  sembrasse  :  responsa  prudentum  sunt 
sententim  $t  opinione»  eorum,  quibue  permiuum  erat  jura  condere  :  qwtrum 
omnium  si  in  unum  sententits  amcurrant,  id  quod  ita  sentiunt,  legis  vicem 
oblinet  :  si  vero  dissenliunt,  judici  licet  quam  velit  tenientiam  sequi  :  idque 
rescripio  divi  Hadriani  signi ficatur.  In  Pomponio  poi  (Fr.  2,  D.  1,  2)  ai  legge 
che  dall'epoca  di  Augusto  fino  a  quella  di  Adriano  questo  diritto  di  rispondere 
veniva  domandato  e  concesso  siccome  un  beneficio  ;  ma  Adriano ,  quum  ab  eo 
viri  prmiorii  péterent,  ui  sibi  liceret  respondere,  reseripsit  eie  :  hoc  non  peti 
sed  prcesiare  solere,  et  ideo  deleclari  se,  si,  qui  fiduciam  sui  kaberet,  populo 
ad  respondendum  se  prcepararet. 

(1)  Floro  ed  Eutropio  espressero  i  medesimi  concetti,  ma  sema  feliri  allu- 
sioni allo  stato  servile  della  plebe.  Dice  Floro  :  Consules  appellavit  prò  regibus, 
ut  consulere  se  civibus'suis  debere  meminissent  :  ex  perpetuo  imperio  annuum 
placuil,  ex  singulari  dupfex,  ne  potestas  solitudine,  vel  mora  eorrumperetur. 
Ed  Eutropio  :  Mine  consules  cmpere  prò  uno  rege  duo  hac  causa  ereari,  ut  si 
unus  malus  esse  voluisset,  alter  eum  habens  poteslatem  similem,  eoerceret. 
Etplacuit  né  imperium  hngius  quam  annuum  haberent,  ne  per  dUaumitatem 


GAPtroio  n.  idi 

dei  re,  ma  i  re  averano  maggior  interesse  per  la  sorte  del 
popolo,  migliorandola  quale  potevano  sperare  di  togliersi 
essi  medesimi  alla  prepotenza  del  Senato.  I  consoli  invece 
avevano  interessi  senatori).  Furono  i  patrizii  che  uccisero 
ì  re  di  Roma,  e  poscia  narrarono  che  il  fulmine  li  awva 
consunti,  0  che  erano  ialiti  in  cielo  :  furono  i  patrizii 
che  li  cacciarono  dalla  città,  che  impressero  il  carattere 
aristocratico  a  tutta  la  legislazione  interna,  l'estesero 
all'ordinamento  municipale  e  coloniale  romano,  e  per 
quanto  era  possibile  lo  trasfusero  anche  nei  rapporti  coi 
dipendenti  governi,  cogli  alleali  di  Roma,  coi  principi 
stranieri  (1)  :  furono  i  patrizii  che  si  opposero  al  loro 
ritorno,  ed  indussero  con  scaltri  doni  la  plebe  ad 
armarsi  :  bona  diripienda  plebi  sunt  data,  ut  contacta 
regia  pmda,  spem  in  perpetiium  cum  his  pacis  amit^ 
teret  (T.  L.). 


potestatU  insolentiores  redderentur^  sed  civil&s  semper  essent,  qui  se  post 
minum  seirsnt  fiiiuros  use  privata». 

Non  dico  d'Aurelio  Vittore,  perchè  non  pare  che  ne'  suoi  terìtti  si  contenga 
una  sola  perspicace  osservazione  né  su  di  questo,  né  su  d'altro  oggetto. 

(1)  Non  conosciamo  altro  esempio  che  da  un  paese  di  sode  istituzioni  patrizie 
sia  derivala,  per  altro  paese  soggetto,  una  forma  di  reggimento  di  natura  aifìitto 
contraria,  che  quello  d'Inghilterra,  ove  sorse  e  si  lungamente  durò  il  sistema 
di  governo  della  Compagnia  delle  Indie  Orientali.  Quei  governo  però  scalori 
dalle  tendenze  commerciali,  ed  in  origine  non  mirò  che  appagare  queste  sole, 
richiamando  i  capitali  da  qualsivoglia  mano,  ed  accordando  la  rappresentanza 
ad  ogni  membro  deiriotrapresa.  Cosi  nella  Corte  generale  dei  Proprielarii,  in 
cui  risiedeva  non  Tesercizio,  ma  l'essenza  della  sovranità,  non  v*era  distinzione 
di  cittadinanza:  un  inglese,  un  francese,  un  tedesco,  qualunque  straniero  era 
egualmente  eleggibile.  Nemmeno  vi  era  differenza  di  religione;'  il  cristiano, 
Tebreo,  il  turco,  il  pagano,  i  seguaci  di  ogni  credenza  erano  ammissibili  di 
parità!  cosi  l'uomo  come  la  donna  avevano  libero  esercizio  di  parola  e  di  voto 
nell'assemblea:  il  soldato,  il  navigante,  il  negoziante,  l'agricoltore  avevano  gli 
stessi  diritti  ;  l'unica  differenza  stava  nel  numero  dei  voti,  potendo  la  mede- 
sima persona  averne  un  solo,  ed  anche  quattro,  secondo  la  quantità  delle  azioni 
possedute.  Se  i  ricchi  principi  delle  Indie,  invece  di  insinuare  reclami,  avessero 
acquistato  azioni,  o  sarebbe  stata  variata  assai  prima  l'organizzazione  della 
Corte  dei  Proprietarii,  o  quei  prìncipi  avrebbero  esercitato  reale  influenza  nel 
governo  del  loro  proprio  paese. 


432  PARTE  QUINTA 

Giunìo  Bruto  non  fu  quindi  fondatore  di  repubblica, 
ma  confermatore  di  patriziato.  Marco  Bruto  volle  imi- 
tarlo, ma  i  tempi  erano  diversi.  Il  primo  dei  Bruti  cacciò 
un  re  senza  forza,  e  confermò  la  servitù  di  una  plebe 
miserabile:  il  secondo  dei  Bruti  volle  cacciare  dei  re  cir- 
condati da  cinquanta  legioni,  e  ridurre  all'antica  servitù 
un  popolo  polente,  che  aveva  già  conquistato  Tegua- 
glianza  civile,  e  pariGcato  i  patrizii  a  se  medesimo  in 
fatto  ed  in  diritto.  Eppure  questi  Bruti,  Gerì  difensori 
d'aristocratica  signorìa,  ci  vengono  mille  volte  rappresen- 
tati dai  retori  e  dai  poeti  siccome  gli  eroi  delle  demo- 
cratiche virtù,  e  Vittorio  ÀlGeri  con  frasi  di  liberalismo 
purissimo,  ma  imperito,  dedicava  il  suo  Bruto  Primo  a 
Washington,  ed  il  suo  Bruto  Secondo  a\ popolo  italiano 
futuro,  ossia  a  noi,  che  saggi  del  medio  evo,  ed  esperti 
dei  più  moderni  signoraggi  monarcati  e  nobili,  siamo,  si 
teneri  dei  reggimenti  patrizii  !  (1) 

(I)  Abbiamo  sovente  cercato  con  desiderio  e  da  principio  con  fiducia  di  ritro- 
varle, nelle  tragedie  di  Vittorio  Alfieri,  idee  vivaci  e  profonde  sulla  politica  greca 
e  romana.  La  nostra  aspettazione  fu  sempre  delusa  :  nessuno  comprese  le  scienxe 
di  Stato  meno  di  lui  :  nelle  sue  tragedie  non  parla  da  politico  pensatore,  ma 
grida  all'assassinio,  quasi  la  tirannide,  se  tirannide  vi  è,  non  si  trovasse  npgli 
ordini  dello  Stato,  che  non  si  sciolgono  coU'assassinio  di  qualche  re,  e  meno 
poi  colle  tragedie  omicide  di  tutti  i  re.  Degli  assassinii  dei  re,  che  tanti  ne  av- 
vennero, qual  mai  ha  cambiato  la  forma  di  governo,  qual  mai  non  ebbe  per 
unica  conseguenza  il  supplizio  del  precussore?  Quelle  tragedie  poste  neireculeo 
greco  deiruiiità  di  tempo,  di  luogo  e  di  carattere,  e  nello  strettojo  Oraziano, 
che  vuol  cinque  alti  precisamente,  hanno  spesso  assai  merito  dal  lato  delle 
lettere,  non  ne  hanno  alcuno  dal  lato  politico. 

Ma  né  dal  lato  letterario,  né  dal  politico  è  commendabile  Taltra  opera  d* Alfieri 
intitolata  //  Principe,  Nel  Principe  di  Machiavelli,  se  non  troviamo  norme  am- 
ministrative di  Stato,  se  non  vi  sono  né  norme  civili,  né  finanziarie,  se  bisogna 
cercare  le  militari  in  altre  opere  delPautore  stesso,  vi  è  almeno  una  foga  po- 
tente di  massime  che  fanno  fremere  :  nel  Principe  d'Alfieri  invece  vi  è  latte 
per  arsenico  ed  una  maglia  di  frasche  contro  il  pugnale  acuminatissimo.  Infatti 
il  Principe  d'Alfieri  comincia  con  dei  versi,  e  finisce  con  dei  versi.  Sono  i  versi 
deiresordio  un  sonetto,  che  egli  scrive  fra  il  coro  delle  vergini  sorelle,  alle 
quali  il  filosofo  viene  a  voi  con  hli  snelle,  e  queste  sorelle  dicono,  che  quel 
volare  ha  da  farlo  bello  assai,  e  che  per  quel  volare  un  rio  volgar  parer  fia 


CAPITOLO  II.  433 

Quando  però  il  Senato  cacciò  ì  Tarquinii,  non  sotto- 
pose la  ragione  al  talento,  e  non  fu  precoce  neirimpeto, 

che  seaneelle.  Quel  rio  parer  volgare  si  è  che  il  mondo  dà  alle  sorelle  ver- 
gini per  padre  Giove,  mentre  non  importa  saper  del  padre  delle  sorelle  vergini  : 
bensì  importa  saper  della  madre,  the  figlia  da  sé  per  Tauro  pure,  e  questa  madre 
è  libertade. 

Le  figlie  vergini  hanno  poi  dettato  all'Alfieri  le  prose  della  politica  arcadica. 
Sono  queste:  e  che  il  principe  ha  per  nemico  Funi  versale  (ossia  il  campo  suo); 
che  non  ha  parenti,  e  non  ha  amici;  che  odia  le  lettere,  perchè  le  lettere  hanno 
un  fine,  ed  il  principe  un  altro  fine  ;  che  i  letterati  non  debbono  lasciarsi  pro- 
teggere dal  principe,  ma  piuttosto  sproteggere:  che  se  non  hanno  pane,  prima 
facciano  il  fiibbro  o  il  falegname  finché  sono  divenuti  ricchi,  per  poi  potere  col 
mezzo  dell'indipendenza  scrivere  liberamente.  E  di  ciò  li  scongiura  per  quel 
sommo  utile  che  faranno  a  se  medesimi  col  torno  e  colla  sega,  preparando  quelle 
ricchezze,  che  hanno  poi  da  fare  la  purissima  gloria  degli  scritti  loro,  e  da  semi* 
gliarli  niente  meno  che  a  Dio.  Riuscirebbe  conquistatore  di  tutto  il  mondo  un 
popolo  di  letterati  non  contaminato  dai  re  •.  Però  gli  Spartani  senza  muse  bat- 
terono gli  Ateniesi  con  tutte  le  muse,  e  li  batterono  i  Macedoni,  e  li  batterono 
i  Romani,  che  muse  non  avevano;  poi  quando  le  ebbero  essi,  furono  battuti 
tutti  da  chi  non  le  aveva.  Anche  Luigi  XIV  pare  airAlfieri  stesso  che  combat- 
tesse meglio  cogli  eserciti,  che  non  colle  accademie  :  e  ma  appunto  perchè  egli 
era  contaminatore  di  letterati.  Alla  fine  un  letterato  vai  tutt*altra  cosa  che  non  un 
re,  e  più  che  tutti  t  re,  perchè  i  re  sono  i  re  del  corpo,  ed  i  letterati  sono  i  re 
deiranima,  ch'è  tutfaltra  cosa  che  non  il  corpo.  E  poi  i  re  sono  i  re  del  presente, 
e  i  letterati  sono  i  re  del  futuro  e  del  passato  ;  e  i  re  comandano  in  casa  loro, 
e  i  letterati  comandano  in  tutto  il  mondo.  Né  un  re  può  mai  essere  un  letterato, 
perchè  se  re  fosse,  getterebbe  subito  la  corona,  che  è  leggerissima  cosa  a  fronte 
deiralloro  Apollineo ,  che  è  cosa  gravissima  ecc.  •.  Alfieri  ha  poi  finito  con 
altri  versi,  dicendo,  che  se  è  stato  ignaro  in  qualche  cosa,  gli  amici  gli  perdo- 
neranno. 

Ripetiamo  :  molto  aspettavamo  da  Alfieri,  ma  nessuna  sodezza  di  politiche 
dottrine  trovammo,  e  ne  fummo  penosamente  sorpresi.  Infatti  quando  Alfieri 
scriveva,  tutta  Europa  era  in  fiamme:  schiantavansi  le  legislazioni  feudali  ed 
ecclesiastiche;  un  nuovo  sistema  civile,  ed  ordini  nuovi  fondavansi;  rovescia- 
vansi  le  elassi  prepotenti  per  tanti  secoli  ;  agguagliavansi  le  classi  servienti  per 
tanti  secoli;  i  sistemi  civili,  militari,  finanziarli  dal  sommo  all'imo  rifondevansi  ; 
tutta  Europa  era  in  moto,  ed  il  moto  si  eradi  spada  e  di  legislazione.  E  nell'uni- 
versale  commovimento  se  Alfieri  sulla  giusta  via  delle  scienze  pubbliche  non 
hioltravasi,  bene  è  a  dirsi  che  il  fiele  traboccava,  ma  fondamento  non  vi  era, 
perchè  un  grande  scrittore  di  scienze  pubbliche  si  formasse. 

Eppure  in. fronte  alle  tragedie  ed  al  Principe,  presentandoli  al  pubblico  stam- 
pavano i  letterati  scolastici  :  non  voler  essi  scemare  il  pregio  degli  altri  scrittori 
italiani  ;  ma  Alfieri  essersi  alzato  sugli  altri  come  una  quercia  annosa  sugli 
arboscelli  (questo  è  un  sale  epigrammatico,  che  passa  in  eredità  forzosa  da 
letterato  in  letterato  son  già  mille  anni);  i  pensieri  di  Alfieri  sono  sì  profondi, 
il  suo  stile  sì  forte,  il  suo  gusto  sì  depurato,  che  Tacito  ed  Euripide  g)ì  direbbero 
volentieri:  Siedi  in  mezzo  a  noi  (questo  è  sale  moderno). 

28 


434  PiìlTB   QUINTA 

ma  condotto  dalla  necessità.  Esso  più  non  poteva  ingan- 
narsi che  era  ormai  tempo  che  il  colpo  scoccasse  ;  gii 
era  pronto  a  trascorrere  in  debolezza,  ed  a  rimanerne 
inferiore  e  vituperato  :  infatti  il  pericolo  era  per  luì  già 
divenuto  stringente.  La  dignità  reale  da  elettiva  si  era  già 
mutata,  almeno  abusivamente,  in  forma  successoria^ 
passaggio  che  Tistoriadi  tutte  le  monarchie,  meno  quella 
di  Koma  imperiale,  ove  fu  sempre  tolta  o  donata  dall'eser* 
cito,  ci  dimostra  essersi  verificato  in  ogni  monarchia,  dap- 
prima col  ricadere  continuo  delVelezione  in  una  stessa 
famiglia,  e  quindi  con  atto  solenne,  che  rende  pel  futuro 
ereditaria  la  corona  in  una  lìnea  determinata.  Cosi  fu 
prima  degli  Jagelloni,  e  quindi  degli  Augusti  in  Polonia; 
cosi  fu  degli  Grange  nell'Olanda  ;  cosi  fu  dei  monarchi  au* 
striaci  nellìmpero  germanico,  e  probabilmente  sarebbe 
stato  in  Inghilterra  se  ad  Oliviero  Cromwell,  che  usurpò 
il  potere,  lo  conservò,  lo  trasmise,  non  succedeva  Tinetlo 
Riccardo,  che  se  lo  lasciò  cadere  di  mano  quando  non  era 
ancora  ben  fermo.  Anzi,  per  assicurare  la  scelta  del  succes- 
sore nello  Stato  elettivo  fin  quando  sì  converta  in  succes- 
sorio,  il  principe,  investito  della  sovranità  per  la  sola  sua 
vita,  suole  presentare  egli  medesimo  agli  elettori  il  figlio  o 
prossimo  parente  suo,  e  ne  ottiene  i  voti,  e  se  lo  associa 
nominalmente  alPimpero,  onde  nel  caso  di  sua  morte  già 
esista  l'eletto  imperante,  né  si  corra  il  rischio  che  nell'in- 
tervallo alcuno  s'attenti  a  novità.  Tanto  si  è  grande  l'in- 
fluenza del  potere  esecutivo!  Tarquinio  il  Superbo  si  era  già 
cinto  d'un  corpo  di  guardie,  ed  aveva  fabbricato  il  Campi- 
doglio, ossia  una  fortezza  a  dominazione  della  città.  E 
Millotla  chiamava  una  chimera  destinata  a  divertire  il 
popolo,  ed  a  dimostrare  il  rispetto  del  re  per  gli  auguri 
e  per  la  religione^  ed  ha  poi  chiuso  quel  capitolo  lo* 
dando  se  stesso  per  aver  narrato  soltanto  cose  utili  e 


CAPITOLO  II.  -  435 

filosofiche  I  CcBdibus  regis,  come  dice  Livio,  il  numero 
dei  senatori  era  già  ridotto  a  metà:  dei  beni  degli  uccisi 
si  gratificava  sovente  il  popolo  per  captarne  il  favore  : 
nuovi  senatori  non  venivano  eletti  :  il  re  convocava  rara- 
mente il  Senato,  e  la  politica  di  Tarquinio,  di  confermare 
cioè  l'autorità  regia  coll'uccisione  degli  ottimati ,  si  era 
svelata  pel  consiglio  dato  dal  re  a  suo  figlio  chiedente 
istruzione  pel  governo  di  Gabio,  che  si  mozzasse  d'attorno 
gli  alti  papaveri. 

Queste  cagioni,  e  non  la  morte  di  Lucrezia,  pro- 
dussero la  caduta  dei  Tarquinii,  ed  avrebbero  in  breve 
stabilito  l'eguaglianza  monarchica  in  Roma,  se  i  patrizi! 
fossero  stati  più  lenti  nelPinsorgere,  o  meno  forti  nella 
pugna,  né  dopo  la  vittoria  avessero  a  tutti  i  partigiani 
dei  profughi  incusso  spavento  di  vendetta  implacabile 
coU'esempio  di  Bruto,  che  i  proprii  suoi  figli  fautori  dei 
Tarquinii  volle  tronchi  del  capo.  Il  fatto  di  Lucrezia,  sia 
poi  favola  0  verità,  provi  o  non  provi  della  sua  virtù,  il 
che  ci  sembra  dubbioso  (1),  poteva  dar  origine  ad  una 
vendetta,  od  anche  all'assassinio  del  principe,  ma  non 
produrre  la  rivoluzione  dello  Stato  ;  né  sappiamo  come 
Montesquieu  aggiunga,  che  Sesto  nel  violare  Lucrezia 
•fece  cosa,  la  quale  quasi  sempre  ha  fatto  cacciare  i  ti-- 


(1)  Alessandro  Verri  nelle  sue  Notti  romane  narra  di  Lucrezia,  ma  in  questo 
caso  usò  con  perspicacia  la  critica.  Non  gli  scorse,  come  nella  comune  dei  retori, 
per  le  fibre  il  ribreito  della  dolce  pielà,  non  ripetè  eoi  medesimi  che  alla  ce* 
lebrala  consorte  di  Collatino  furono  dalla  reale  dissolutezza  contaminate  le 
sole  membra,  nelle  quali  lo  spirilo  pudico  sdegnò  poscia  di  abitare  siccome 
profanate,  né  che  due  donnCy  Lucrezia  e  Virginia,  furono  col  loro  morire 
due  volte  cagione  della  romana  libertà.  Notò  che  Lucrezia  non  era  in  deserta 
solitudine  in  cui  risuonassero  vanamente  le  sue  querele,  ma  in  coniugale  abi- 
tazione di  servi  e  congiunti  piena,  dove  non  era  costretta  recarsi  alle  voglie 
del  drudo,  né  cedere  all'ebbrezza  delle  ignominiose  delizie:  conchiuse  a  debo- 
lezza di  superata  virtù.  Poco  ci  importa  del  fatto,  ma  in  ogni  racconto  di 
storia,  qualunque  pur  sia,  non  vorremmo  trovare  giammai  più  meraviglia  che 
probabilità. 


436  PARTE  QUINTA 

ranni  dalle  città  ove  comandavano,  perchè  il  popolo 
all'udire  nn  fatto  $imile  prende  tosto  una  risoluzione 
estrema.  Anche  Bossuet  nel  suo  Discorso  sulla  storia 
universale  ha  dato  su  ciò  assai  leggiero  giudizio.  Egli 
dice  che  Tarquinio  il  Superbo  aveva  reso  odiala  l'auto- 
rità reale  per  le  sue  violenze,  e  cheTimpudìcizia  di  Sesto 
suo  Gglio  lo  rovesciò.  Il  sangue  di  Lucrezia  «  continua 
Bossuet,  ed  i  discorsi  di  Bruto  animarono  i  Romani  a 
vendicarsi  in  libertà.  Machiavelli  invece,  per  meditazione 
ed  uso  si  esperto  nelle  politiche  cose,  e  per  continua  le- 
zione nelle  romane  sì  dotto,  cosi  scrive  nel  lìb.  Ili,  e.  5 
dei  Discorsi:  Se  r  accidente  di  Lucrezia  non  fosse  venuto, 
come  prima  ne  fosse  nato  un  altro,  avrebbe  avuto  il 
medesimo  effetto. 

Cacciati,  e  poi  respinti  in  battaglia  i  Tarquinii,  che 
avevano  voluto  ridurre  nelle  obbedienze  civili  i  Romani 
coirartificio  e  colia  violenza,  vendicata  la  congiura  ordita 
dai  loro  parenti  in  Roma  con  una  crudeltà  che  dimostra 
quanto  se  ne  avesse  avuto  spavento,  rotti  i  loro  alleati 
stranieri,  esiliato  perfino  Tinnocente  loro  parente  Colla- 
tino (il  marito  di  Lucrezia),  e  confiscati  i  loro  beni,  il 
popolo  provò  di  quanto  si  fosse  aggravata  la  sua  sorte 
perla  caduta  dei  re:  plebi,  cui  ad  eam  diem  summa  ope 
inservitum  erat,  injurim  a  primoribus  fieri  capere  (Liv.) 
—  Regibus  exactis,  servili  imperio  patres  plebem  exer- 
cere;  de  vita  atque  tergo  consulere,  agro  pellere,  et 
emteris  expertibus  soli  in  imperio  agere  (Sàllust.  in 
fragm.)> 


PARTE  SESTA 

L'INDEBOUHENTO  E  LA  CADUTA  DI  ROMA. 


CAPITOLO  l 
Decadenza  ecratmiea  deirimpero  R«maoo. 

Il  problema  delle  cause  del  graduato  impoverimento 
di  Roma  occupò  le  menti  di  grandi  scrittori.  Alcuni 
ne  trattarono  sotto  Taspetto  promiscuo  d'economia  e  di 
politica,  essendo  molta  l'influenza  della  forza  ad  acqui- 
stare ricchezza^  e  quella  della  ricchezza  a  preparare  ed 
aumentare  la  forza,  e  nel  pelago  delle  opinioni  e  dei 
sistemi  prodotti  non  mancarono  gli  glorici  moralisti  di 
rammentare  Tadagio  mah  parta^  male  dilabuntur.  Ci 
sembra  però  che  dallo  slesso  fatto  deiruniversalità  deirim- 
pero  nascesse  danno  e  languore;  ci  sembra  cioè  che  non 
a  vizio  deiruomo,  a  folsilà  di  sistemi,  a  rovinosi  com- 
merci, a  lusso  smodato,  ad  operale  confische,  a  schia- 
vitù dilatata,  ad  eccidii  crudeli,  ad  avara  finanza,  ad  in- 
sipiente governo,  si  debba  ascrivere  la  sparita  ricchezza 
e  la  sopravvenuta  miseria,  ma  al  fallo  medesimo  che 
aveva  ridotto  il  mondo  di  molli  nella  dominazione  di 
un  solo.  Tutte  quelle  cause  che  sono  le  esposte  dagli 
scrittori  piò  celebri,  possono  avere  contribuito  a  rovina» 
ed  alcuna  certamente  laccelerò  e  Tacerebbe;  ma  non  da 
una  soltanto,  e  nemmeno  dalTazione  concorde  di  esse 
derivò  rimpoverimenlo  deiropulenlissimaRomai  bensì  da 
quella  causa  primariai  che  genti  e  fortune  aveva  assorto 
in  un  vortice. 


440  PilTB  SESTA 

I  Romani  soli  signori  del  mondo  non  furono  cosi  ai- 
tivi come  stati  lo  erano  i  Fenici!,  i  Greci,  i  Siracusani,  i 
Cartaginesi  comproprìetarìi  del  mondo  ;  non  furono  si 
numerosi  i  vascelli,  si  coltivate  le  terre,  le  miniere  cer- 
cate, ingegnose  le  industrie  ;  non  furono  egualmente  po- 
polose le  spiagge,  fiorenti  le  città,  pronte  le  commuta- 
zioni, sveglie  le  menti.  Come  meglio  Tagricoltore  coltiva 
il  fondo  proprio  che  non  la  terra  altrui  ;  come  le  posses- 
sioni piccole  sono  più  ubertose  delle  grandi  ;  come  T'ha 
maggiore  alacrità  nelle  opere,  maggiore  avvedutezza  nd 
divisamenti,  maggiore  interesse  ed  energia  nel  signore  pre- 
sente che  non  nel  lontano,  maggior  fervore  nel  padrone 
che  non  nel  condotto  a  stipendio,  oppure  nello  schiavo; 
come  è  più  grande  l'alacrità  nella  città  che  nel  villaggio, 
e  nel  villaggio  che  non  nella  campagna,  cosi  il  mondo 
tutto  convertito  in  un  mondo  romano,  il  mondo  divenuto 
la  campagna  di  Roma,  tanti  Stati  indipendenti,  tante 
città  capitali  divenute  dipendenti  e  borgate,  il  comniercio 
di  tutti  divenuto  commercio  di  un  solo,  il  lusso  di  mille 
convertito  nel  lusso  di  un  solo,  produssero  effetto  di 
sterilità  e  torpore.  Scemarono  le  derrate,  scemarono  le 
arti,  scemò  il  commercio  :  diminuì  la  ricchezza,  diminui- 
rono i  mezzi  di  sussistenza,  il  popolo  mancò.  L'industria 
arenavasi  dappertutto  :  doveva  ben  essere  distrutta  l'in- 
dustria; anche  i  popoli  erano  distrutti.  Più  non  re- 
gnava sulle  terre  l'operosità,  o  sul  Mediterraneo  quel 
commercio  che  copriva  il  mare  di  vascelli,  e  dissemi- 
nava le  terre  di  città  allorquando  ogni  provincia  colti- 
vavasi  per  se  medesima,  commerciava  ad  utile  esclusivo 
di  se  stessa,  aveva  il  proprio  centro  di  consumazione,  di 
amministrazione  e  d'impulso. 

Per  lunga  pezza  Roma  divenne  sempre  più  popolosa 
e  superba,  ma  le  provincie  divenivano  ogni  giorno  de* 


CAPITOLO  I.  441 

serte  e  squallide.  I  lidi  della  Campania  si  convertivano 
in  giardini,  il  mondo  si  ricopriva  di  misere  lande.  Roma 
era  gigante  ;  ma  Tunica  Roma  non  equivaleva  a  Tiro, 
a  Cartagine,  a  Siracusa,  ad  Agrigento,  ad  Atene,  ad  Efeso, 
a  Corinto,  a  Rodi,  a  cento  gloriose  città  (1). 

Tutte  le  Provincie  mandavano  le  loro  derrate  a  Roma 
regina,  ma  non  era  se  non  il  commercio  della  campagna 
colla  città  :  era  il  semplice  fatto  dei  servi,  che  locano  vo* 
lontana  o  forzata  l'opera  loro  per  avere  la  sussistenza, 
e  dei  ricchi  che  consumano  nel  lusso  il  frutto  delle  fati- 
che  dei  sempre  laboriosi  e  sempre  poveri  coloni.  Le  Pro- 
vincie popolose  di  schiavi  che  coltivavano  sovente  in  ca- 
tene le  proprietà  fondiarie  dei  Romani,  che  di  molte  non 
avranno  nemmeno  conosciuto  l'ubicazione  precisa,  le 
condizioni  agrarie,  lo  stato  dei  casolari,  i  bisogni,  i  me- 
todi d'amministrazione,  dovevano  cadere  in  languidezza, 
squallore  e  miseria.  A  molte  provincie  mancavano  i  pro- 
duttori: in  molte  più  mancavano  i  consumatori.  La  pro- 
vincia che  poteva  spedire  le  sue  derrate  a  Cartagine,  o 
ad  Atene,  o  a  Sardì,  era  troppo  discosta  da  Roma:  le  Pro- 
vincie a  gran  distanza  da  Roma  e  dai  mari  si  mutavano 
in  solitudini..  L'India  sola  manteneva  con  Roma  assai 
vivo  commercio,  ma  non  già  permutando  derrate,  bensì 
vendendo  contro  denaro  le  proprie:  i  succhi  vitali  e  nu- 
tritivi delle provincievenivano  assorbiti  da  Roma;  Plinio 
ne  lasciò  memorabile  testimonianza. 

Poiché  la  disfrenata  possanza  di  Roma  aveva  preso 
tanto  di  spazio  sulla  terra,  appena  vi  giungeva  la  voce 

(f  )  Si  kgge  sovente  che  nel  censo  ordinato  da  Angusto  si  trovò  la  rìsultansa 
di  oltre  quattro  milioni  di  Romani,  e  nel  cepso  Claudiano  di  sette  :  da  ciò  le 
meraviglie  ed  i  commenti  più  strani.  Quelle  cifre  però  non  devono  riflettere,  a 
nostro  avviso,  gli  abitalori  di  Roma,  bensì  il  numero  di  coloro  che  godevano 
in  quel  tempo  dei  diritti  di  cittadinanza  romana. 


44Ì  PiBTE  SESTA 

delle  sospirose  provìncie,  ogni  senso  spegnerasi  d'inte- 
resse per  esse,  e  generose  provvidenze  nonne  ravvivavano 
la  tramortita  virtù:  quindi  crollavano  le  città  una  volta 
florentissime ,  era  trascurata  Tagricoltura,  impoverito 
l'erario.  Tutte  le  provincie,  tutte  le  città  avevano  sofferto 
la  conquista,  il  saccheggio,  l'avvilimento:  qual  forza 
poteva  sollevare  le  provincie  serve,  riparare  le  città  ro- 
vinate, elettrizzare  il  popolo  languente  e  schiavo?  Forse 
l'impulso  governativo?  E  poteva  venire  impulso  vigo- 
roso, adequato  al  bisogno,  da  remotissimo  centro  in 
tempo  di  comunicazioni  cosi  lente  che  quando  Ovidio 
si  trovava  a  Tomi  nella  Mesia  inferiore  non  poteva, 
com'egli  stesso  ci  dice,  ricevere  una  risposta  da  Roma 
in  meno  di  un  anno,  laddove  noi  le  riceviamo  adesso 
da  quel  paese  in  pochi  giorni,  senza  tener  conto  del- 
ristanlaneità  delle  attuali  corrispondenze  telegrafiche? 
Le  difficoltà  erano  poi  moltiplicate  per  le  ribellioni  fre- 
quenti, le  variazioni  incessanti  di  principi,  e  le  conse- 
guenti mutazioni  dei  loro  aderenti  al  governo  in  Roma 
e  nelle  provincie.  Nessuno  pensava  in  Roma  ai  bisogni 
diLusitania  odi  Paflagoniasenon  per  trarne  quanto  mai 
si  potesse  denaro  e  soldati.  Nessun  governatore  avrebbe 
osato  chiedere  all'imperante  di  inviare  tesori  in  provincie 
considerate  come  cose  longinque,  e  di  meno  vantaggiosa 
spettanza,  per  migliorarne  le  condizioni  materiali  o  mo- 
rali: molti  avvezzi  alla  vita  dei  campi,  e  non  esperti  nel 
reggimento  civile,  non  ne  avranno  neppure  studiato  e  co- 
nosciuto i  bisogni;  altri  avranno  compilato,  com'è  ben 
antico  costume  di  chi  amministra  provincie,  le  loro  rela- 
zioni con  opera  d'accorta  invenzione  del  falso,  o  di  simu* 
lazione  del  vero  per  modo  che  seguitassero  agli  inganni 
le  inopportune  risposte,  e  gli  ordinamenti  cattivi,  e  le 
doglianze  popolari  di  gravissimi  mali  fossero  acchetate  di 


CAPITOLO  I.  443 

sole  promesse,  poi  esasperate  per  indugi,  per  casi  di 
guerre,  per  mutale  persone,  per  oblivione  di  principi. 

Anche  oggidì  se  una  vasta  provincia  d'Europa  divisa 
fra  migliaja  di  liberi  possidenti,  ciascuno  dei  quali  sor- 
veglia, affatica  e  medita  per  migliorare  il  suo  campo, 
passasse  repentinamente  nel  possesso  signorile  d'un  solo, 
conoscerebbe  questi  le  sue  terre,  sentirebbe  lo  stimolo 
a  svolgere  in  esse  Tubertà,  la  ricchezza?  Latifundia  per- 
didere  Italiam,  dicono  i  classici,  e  noi  amiamo  dire  lor 
tifundiaperdidere  imperium,  cosi  nel  significato  econo- 
mico, come  nel  significato  politico.  L'agricoltore  che 
veglia  sull'argine  del  fiume  minacciante  di  rompere  le 
dighe  e  di  coprire  d'arena  il  suo  campo,  è  ben  più  desto 
nella  vigilia,  e  più  ingegnoso  ed  attivo  lavoratore  che  non 
il  mercenario  povero,  il  mercenario  che  ha  un'anima 
languida  al  pari  del  corpo.  Di  quanto  adunque  deve 
avere  scemato  la  ricchezza  con  un  solo  padrone  ed  uh 
solo  consumatore!  L'infermità  e  l'estenuazione  delle  Pro- 
vincie reagirono  alfine  sulla  capitale:  si  esaurirono  i  te- 
sori ammassati  dalla  violenza,  la  squallidezza  incominciò 
a  manifestarsi  anche  in  Roma,  il  lusso  scemò,  la  moneta 
impoverì,  il  popolo  si  diminuì,  tutto  il  commercio,  anche 
l'indiano,  illanguidì.  Coi  Barbari  poi  il  commercio  non 
poteva  divenire  giammai  molto  vantaggioso  ed  attivo, 
tanto  più  che  varie  merci  fra  le  più  ricercate  dai  Barbari 
erano  d'esportazione  vietata,  come  vediamo  nel  digesto 
qucB  res  exportari  non  debeant.  La  vendita  p.  e.  del  ferro 
ai  Barbari  era  proibita  sotto  pena  di  morte. 

La  depauperazione  dell'impero  fu  dunque  conseguenza 
diretta,  inevitabile  dell'estinzione  d'ogni  vita  speciale  nel 
campo  sterminato,  d'ogni  politica  autonomia,  d'ogni  con» 
correnza,  rappresentanza,  studio  e  devozione  ad  interessi 
locali* 


444  PAETS  SESTA 

Di  questa  depauperazione,  deirepoca  in  cui  si  mani- 
festò e  s'accrebbe,  s'arrestò  breve  tempo  per  sorgere  e 
dilatarsi  di  nuovo,  abbondano  le  prove  testimoniali  nei 
classici,  ed  altresì  i  documenti  nelle  collezioni  numisma- 
tiche di  tutta  l'Europa.  In  esse  vediamo  che  come  la 
monetazione  dei  Greci  erasi  migliorata  dopo  che  i  tesori 
di  Persepoli,  di  Siria,  d'Egitto  e  di  Media  furono  conqui- 
stati dai  Macedoni,  cosi  la  monetazione  romana  era  dive- 
nuta ricca  d'oro  ed  argento  allorché  dopo  la  presa  di 
Cartagine,  e  più  ancora  dopo  l'acquisto  di  Grecia,  del- 
l'Asia Minore,  della  Siria,  d'Egitto,  di  Creta,  Roma  rigur- 
gitante di  tesori  inalzava  l'infame  delubro  a  Giove  Pre- 
datore I  Nei  primi  tempi  dell'impero  la  massa  dei  metalli 
nobili  accumulati  a  Roma  fu  enorme,  ma  presto  scemò, 
e  la  scarsezza  del  denaro  incominciò  a  rendersi  manife- 
sta sotto  gli  Antonini.  Il  primo  di  questi,  benché  mode- 
ratissimo nell'uso  delle  rendite  pubbliche,  benché  suc- 
cedesse ai  regni  brillanti  di  Trajano  e  di  Adriano,  aveva 
dovuto  vendere  gl'imperiali  ornamenti.  Marco  Aurelio 
per  due  volte  fu  costretto  di  mettere  all'incanto  i  vasi 
d'oro,  le  gemme  e  le  pitture  del  palazzo  imperiale.  Didio 
Giuliano  falsiGcò  la  moneta  ;  Caracalla  mescolò  coll'ar- 
gento  la  metà  di  rame;  Alessandro  Severo,  quel  principe 
economo,  alienò  il  suo  vasellame  d'oro,  ed  alterò  di  due 
terzi  il  valore  della  moneta  ;  sotto  Massimo  si  fusero  i 
preziosi  metalli,  che  si  trovavano  in  tutti  i  templi  ed  in 
tutti  i  luoghi  pubblici  ;  sotto  Filippo  il  denaro  era  di  già 
quasi  del  tutto  adulterato,  né  restavano  più  se  non  le 
monete  degli  Antonini,  che  fossero  di  argento;  sotto  di 
Gallieno  non  si  vedevano  se  non  monete  di  rame  coperte 
di  stagno,  e  non  fu  che  di  breve  durata  il  miglioramento 
della  monetazione  quando  Aureliano  conquistò  i  tesori 
della  superba  Palmira.  Erodiano,  Vopisco,  Aurelio  Vit- 


•      CAPITOLO  I.  445 

tore  narrano  questi  fatti,  e  le  monete  e  medaglie  raccolte 
nei  gabinetti,  e  le  esperienze  degli  antìquarii  ne  fanno 
fede  (1). 


(1)  Avremmo  voluto  conoscere,  e  non  risparmiammo  fatica  d*indagini,  quale 
si  fosse  Tannuo  prodotto  montanistico  dei  metalli  nobili  nel  mondo  romano,  e 
quanta  la  massa  che  ne  richiamava  nell'Asia  Timporlazione  delle  merci  in- 
diane a  Roma;  mancano  però  le  generali  indicazioni  nei  classici,  ed  appena  si 
trovano  elementi  in  Senofonte  circa  la  produzione  d'alcune  miniere  di  Grecia 
all'epoca  sua.  Parlasi  sovente  di  abbondevoli  miniere,  segnatamente  di  Lusi- 
tania  e  di  Spagna,  ma  può  dubitarsi  della  loro  ricchezza  se  tutte  furono  ab- 
bandonate, né  del  maggior  numero  più  si  conosce  nemmeno  Tubicazione  precisa. 
Ma  è  evidente  che  la  produzione  adequata  delle  miniere  romane  non  era  pari 
alla  perdita  nel  commercio  indiano,  e  la  depauperazione  del  fondo  metallico 
doveva  forsi  sempre  maggiore  in  Europa,  come  realmente  si  fece  fin  quando 
dalle  miniere  d'America  si  stabili  una  corrente  continua  di  metalli  nobili 
che  toccando  l'Europa  passava  nell'Asta.  Ma  le  massime  montanisliche  della 
legislazione  romana  erano  savie.  Infatti  da  moltissimi  luoghi  del  Digesto  chia- 
ramente si  rileva  che  le  miniere  non  erano  riguardate  regali,  ma  private  pro- 
prietà. E  realmente  le  miniere  non  sono  regali  per  essenza,  non  essendovi 
rapporto  di  necessità  fra  la  proprietà  delle  miniere  ed  il  libero  esercizio  della 
sovranità,  che  infatti  pienamente  si  esercita  anche  negli  Stati  ove  non  esistono 
miniere.  Neppure  è  conveniente  di  dichiararle  regali  con  disposizione  positiva, 
e  solamente  la  rapacità  e  l'inscienza  dei  tempi  feudali  rese  le  miniere  cosi  fre- 
quentemente regali,  che  molti  scrittori  le  supposero  tali  indipendentemente  da 
prova,  e  diedero  anche  al  nome  di  miniera  una  interpretazione  soverchiamente 
estensiva,  ed  abnorme  da  ogni  sano  principio  di  privata  giurisprudenza.  Egli  è 
quanto  in  minori  proporzioni  segui  del  diritto  di  caccia  e  di  pesca.  Ma  sebbene 
tutte  le  miniere,  ed  anche  quelle  dei  metalli  nobili  fossero  dai  Romani  ricono- 
sciate di  privata  proprietà,  il  fisco  esigeva  uno  speciale  tributo  da  coloro  che, 
senza  avere  la  proprietà  del  fondo,  scoprivano  e  scavavano  miniere.  Era  poi 
generale  l'obbligo  di  vendere  al  fisco  a  giusto  prezzo  i  metalli  d'oro  e  d'ar- 
gento che  si  scavassero,  e  ciò  si  scorge  nelle  sette  leggi  de  melallariis  et 
meiallis. 


CAPITOLO  II. 
La  decadenza  politica  dell'Impero  romano. 

La  ricchezza  delPImpero  era  sparila  :  al  rigoglio  dello 
Slato  succedeva  il  languore.  Verificossi  nel  tempo  antico 
in  Roma  ciò  che  si  vide  a  Venezia  dopo  la  guerra  di  Can- 
dìa.  £ra  stala  un*epopea  quella  difesa  di  Candia  che  quasi 
trent*anni  durò  :  i  Veneti,  lasciati  dal  mondo  cristiano 
quasi  soli  nella  lotta,  avevano  attestato  che  la  costanza 
ed  il  valore  romano  duravano  nel  fondo  dell'Adriatico  : 
sfolgorarono  flotte,  ne  soffersero  di  sfolgorate,  ne  appre- 
starono di  nuove  a  riscatto,  tentarono  il  varco  pei  Dar- 
danelli, insegnarono  l'arte  delle  cupe  gallerie  a  propul- 
sare le  insidie  preparale  per  altri  oscuri  meandri  contro 
le  città  da  terribile  circondazione  ristrette,  e  fecero  dì 
Candia  la  scena  d'onore  per  tutta  l'Europa  cavalleresca. 
Ma  che  prò  ?  Perchè  cessero  alfine,  e  segnando  la  pace 
misero  essi  stessi  Maometto  nelle  chiese  cristiane,  e  vi- 
dero lo  stendardo  della  luna  falcata  dov'era  dapprima 
l'alato  leone?  Perchè  dopo  la  guerra  di  Candia  i  Veneti 
non  più  brillarono  se  non  d'ardenze  fugaci,  e  vissero  di 
vita  spossata  e  precaria?  Erano  consumati:  in  quella 
guerra  avevano  vuoto  il  tesoro,  fusi  gli  argenti  dei  pri- 
vati alla  zecca,  elemosinato  i  patriottici  doni,  venduto 
ogni  cosa  all'incanto,  ed  il  ritratto  usato  a  combattere, 
venduta  perfino  l'ammissione  al  patriziato  sovrano,  e  non 


CAPITOLO  II.  447 

ai  soli  Veneti  od  ai  sudditi,  ma  agli  stranieri,  ai  Greci, 
agli  Alemanni,  ai  Francesi,  agli  Spagnuoli  ed  Inglesi  ! 
Venezia  aveva  sortito  grandi  uomini,  e  grandi  cose  fece, 
quasi  fin  oltre  i  limiti  delPumana  natura:  tutta  le  sue 
famiglie  patrizie  avevano  versato  il  più  generoso  loro 
sangue  alla  Canea,  a  Rettimo,  a  Candia  o  sul  mare.  Ma 
dopo  che  la  ricchezza  andò  sommersa  in  tanta  procella, 
Venezia  non  fu  più  nobile  con  gloria,  bensì  debole  senza 
vergogna  :  venne  in  allora  insultata,  perchè  le  offese  inse- 
guono i  deboli,  fuggono  i  forti  :  il  suo  territorio  neutrale 
fu  da  contendenti  stranieri  percorso  e  calpesto:  soffri, 
ma  non  con  mollezza  di  persona  cedente,  bensì  con  atto 
di  ripugnante  e  sdegnosa. 

L*impoverimento  di  Roma  non  era  derivato  da  causa 
Si  nobile  come  la  guerra  di  Candia,  e  non  da  vie  diverse 
aperte  pei  traffichi,  che  trassero  la  grandezza  di  Venezia 
al  tramonto,  ma  dalla  principale  ragione  indicata  nel 
precedente  capitolo,  che  cospirando  con  altre  d'influenza 
meno  efficacie  durevole,  diseccarono  alfine  le  fonti  della 
floridezza  romana.  Consegui  a  quella  decadenza  econo- 
mica anche  la  languidezza  politica,  malo  stremarsi  dei- 
Toro  non  era  tal  causa  da  produrre  da  sola  il  precipizio 
ed  il  crollo  deirirrimenso  impero.  Roma  infatti  fu  preda 
non  di  nazioni  ricche  e  civili,  ma  di  nazioni  povere  e  bar- 
bariche ;  non  soggiacque  alla  preponderanza  dei  mezzi 
di  guerra  raccolti  da  straniera  opulenza.  Quali  furono 
adunque  le  cause  per  cui  l'immenso  impero  crollò?  A 
che  si  deve  ascrivere  se  torme  barbariche  salirono  a  quel 
Campidoglio,  da  cui  avevano  spiccato  il  volo  le  aquile 
romano  per  non  arrestarlo  che  all'estremità  della  terra? 
I  più  grandi  scrittori  tentarono  la  soluzione  dell'arduo 
problema:  primeggiano  fra  essi  Gibbon  e  Montesquieu, 
e  si  è  negli  scritti  di  questi  che  altri  autori  valenti,  p.  e. 


448  PÀITE  SESTA 

Sìsmondi  (i),  desunsero  la  maggior  parte  delle  idee  che 
esposero  neirargomento  medesimo. 

Le  cause  della  rovina  dell'Impero  romano  vengono  in 
generale  riposte  nel  lusso  smoderato,  neireffeminatezzai 
neiremancipazione  accordata  alle  provincia,  nelPinsu- 
bordinazione  delle  coorti  pretoriane  e  delle  legioni,  nella 
vastità  soverchia  dello  Stato,  nelle  confederazioni  dei  Bar- 
bari, nell'ingaggio  dei  mercenarii,  nelle  venalità  delle 
cariche,  nella  prodigalità  dei  principi,  nel  commercio 
rovinoso  colle  nazioni  asiatiche,  nella  perdita  fatta  dai 
Cesari  della  supremazia  xeligiosa  dopo  la  diffusione  del 
cristianesimo,  ecc.  L'attribuire  però  il  crollo  di  Roma  al- 
l'azione  complessiva  di  queste  cause  non  è  uno  sciogliere 
potenzialmente,  ma  solo  materialmente  il  quesito.  Tali 
cause  non  sono  indipendenti  e  primarie,  ma  effetti  di  una 
causa  veramente  fondamentale,  e  questa  è  riposta  nella 
natura  del  governo  di  Roma,  che  reggendosi  esclusiva- 
mente ad  arbitrio  dei  Cesari,  per  Tinettitudine  di  costoro 
crollò. 

Ài  tempo  della  repubblica  il  Senato  conservava  inal- 
terate le  massime  della  romana  politica.  Allora  un'età 
disponeva  un  avvenimento,  che  l'età  futura  eseguiva  : 
allora  i  Romani  edificavano  nei  secoli,  e  non  negli  anni. 
Non  si  intraprendevano  senza  la  forza  di  necessità  impe- 
riosa guerre  simultanee,  ma  soltanto  guerre  successive  : 
non  era  un  forsennato  invadere  il  mondo  tutto,  ma  un 
far  proprio  tutto  il  mondo  a  palmo  a  palmo  :  era  un 

(1)  Il  volume  di  Sìsmondi  ia  cui  espone  le  cause  della  caduta  deirimpero 
romano,  molte  desumendone  da  Gibbon  e  da  Montesquieu,  ed  alcune  aggiun- 
gendone di  proprie,  dimostra  ingegno  felice  e  somma  erudizione;  ma  che  avrebbe 
a  dirsi  di  lui  quando  chiude  la  voluminosa  sua  storia  delle  repubbliche  italiane 
del  medio  evo  indicando  come  causa  delU  loro  caduta  Teducazione  viziosa  data 
alia  gioventù  nei  semìnarii  ecclesiastici?  Se  si  ride  del  topolino  d*Orazio  parto- 
rito dal  monte,  ben  può  rìdersi  del  topolino  di  Sismondi  che  partorì  Telefante. 


CAPITOLO  11.  449 

procedere  graduato  alla  conquista  d'un  paese  più  remoto, 
quando  si  era  già  nazionalizzato  il  paese  limilrofOt 
quando  1  Romani  vi  avevano  già  mandato  perfino  la  loro 
lingua  a  prendervi  il  regno.  Ma  appunto  nel  saper  evi- 
tare la  simultaneità  delle  guerre  consiste  la  somma  sa- 
pienza d'uno  Stato  bellicoso,  e  questa  sapienza  vi  fu  nel 
Senato.  Qualunque  potenza  può  essere  distrutta  se  dis- 
perde i  suoi  mezzi,  se  confida  di  guisa  in  una  doppia 
vittoria,  da  non  poter  riparare  ad  un  rovescio  anche 
casuale  in  un  punto  senza  richiamare  le  forze  dall'altro, 
ed  esporsi  al  pericolo  d'una  doppia  sconfitta. 

Intimare  successivamente  le  guerre,  o  prevenire  con 
assalto  e  pronte  battaglie  i  nemici  che  congiurano  e  si 
adunano,  per  non  avere  a  sopportare  il  colpo  irresistibile 
delle  masse  raccolte,  questa  si  è  ad  un  tempo  sapienza 
politica  e  sapienza  militare.  Vi  fu  sapienza  in  Napoleone 
quando,  prevenendo  colla  rapidità  delle  mosse  il  rac- 
cogliersi degli  eserciti  di  coalizioni  nemiche,  distrusse  gli 
Austriaci  ad  Dima,  e  quindi  battè  i  Russi  ad  Austerlitz, 
quando  distrusse  i  Prussiani  a  Jena,  e  poscia  ruppe  a 
Fridlandia  i  Russi  :  vi  fu  nel  secondo  Federico  quando 
rivolgendo  a  vantaggio  lo  stesso  suo  danno  della  posi- 
zione centrale  ai  vicini  che  tutti  cospiravano  contro  di 
lui,  non  aspettò  d'essere  preso  in  un  cerchio  di  fuoco, 
ma  si  lanciò  sui  Sassoni  a  Pirna,  poi  sugli  Austriaci  a 
Praga,  quindi  sui  Francesi  a  Rossbach,  e  poscia  nell'eb- 
brezza  dei  trionfi  sterminò  gli  Austriaci  in  grandissima 
battaglia  a  Leuthen.  Evi  era  stata  sapienza,  e  non  mera 
impetuosità  e  caldezza  in  Carlo  XII  di  Svezia  quando 
non  attese  l'assalto  dei  Danesi,  dei  Polacchi  e  dei  Russi, 
ma  sbarcò  improvviso  sotto  Copenhagen,  e  forzò  i  Danesi 
alla  pace,  corse  di  nuovo  il  mare,  e  sconfisse  i  Russi  a 
Narva,  poi  marciò  sui  Polacchi  proclamando,  giusta  il 

29 


450  PAITE  SESTÀ 

consueto,  la  loro  liberazione  dai  Sassoni.  In  queste  guerre 
fu  bene  inaitala,  enoulala  la  romana  sapienza:  era  il  vit* 
torioso  conflitto  d'Orazio  contro  i  Curiazii.  La  storia  dì 
Ronìa  si  apre  appunto  colla  favola  (possianìo  dirla  tale 
perchè  desunta  dai  Greci)  del  trionfo  d'Orazio  sui  tre 
Curiazii  assaliti  Tuno  dopo  l'altro,  ma  si  perpetuò  nella 
romana  istoria,  e  si  dilatò  dall'arena  di  speciale  duello 
alla  gran  scena  delle  battaglie  dei  popoli.  Napoleone,  pid 
intemperante  nel  1812  che  prima  stato  non  fosse,  mar- 
ciava sopra  Mosca  nell'istante  medesimo  in  cui  gli  eserciti 
suoi  venivano  profugati  a  Salamanca,  ed  era  presa  Ma* 
drid:  egli  perdeva  nelle  Russie  il  più  grande  esercito  or- 
dinalo ed  istrutto  che  sia  forse  stato  radunato  giammai» 
eveniva  risospinlo  sul  Niemen,  sulla  Vistola,  suH'Oder, 
sull'Elba,  mentre  le  agguerrite  sue  legioni  di  Spagna  in- 
vano accorrevano  a  prestissimi  passi.  La  romana  repub^- 
blica  nel  corso  di  secoli  di  guerre  incessanti  trovossi  in 
rarissimi  casi  per  doppio  conflitto  in  lontane  contrade 
a  cimento  si  grave. 

Usava  altresì  il  Senato  costanti  cautele  politiche  per 
conservare  l'imperio.  Come  la  Polonia  fu  da  varii  inva- 
sori scissa  in  più  parti ,  e  da  triplici  forze  fu  meno  dif- 
flcilmente  tenuta  segregata  ed  oppressa;  come  i  monarchi 
austriaci  non  ritornarono  ad  unità,  né  in  una  sola  massa 
raccolsero  tulli  i  paesi  dipendenti  dalla  corona  unghe- 
rese, ma  li  divisero  in  varie  provincie.  e  li  governarono 
con  diete  diverse;  così  i  Romani  separavano  talvolta  un 
paese  conquistato  in  varii  governi,  togliendo  agli  abi- 
tatori di  una  provincia  perfino  il  gius  dei  connubii 
con  quelli  di  un'allra.  Ciò  avveniva  specialmente  se  il 
paese  conquistato  era  grande  ed  accentrato  :  lo  si  sfor- 
zava a  retrocedere  verso  i  tempi  dei  contrasti  e  dell'iso- 
lamento provinciale.  La  vinta  Macedonia  p.  e.  fu  divisa  in 


CiPlTOLO  II.  451 

quattro  provincìe,  ed  i  commissarii  romani  decretarono  : 
negtùe  connubium,  neque  commercium  agrorum  mdifi^ 
ciorumque  Inter  $e  piacere  cuiquam  extra  fines  regionit 
su(B  esse  (Liv.,  XLV,  29).  Trovaronsi  lungamente  nel 
caso  identico  gli  Ernici  ed  i  Latini.  Forse  quelle  infinite 
gabelle  e  pedaggi,  che  i  Romani  avevano  collocato  sulle 
strade,  sui  fiumi  e  sui  porti,  e  dì  cui  fanno  menzione 
tanti  antichi  storici  e  legisti,  come  di  tributi  estrema- 
mente vessalorii  e  soverchi,  non  derivavano  tutti  da  cu* 
pidità  finanziaria,  ma  in  parte  derivavano  dalla  brama 
di  sempre  più  dissociare  le  pravincie,  di  isolarle,  e  di  co- 
stituirne  tanti  centri  separati  e  deboli. 

Certamente  il  Senato  non  mirava  al  progresso  dell'u- 
manità, ma  provvedeva  a  quello  di  Roma:  voleva  vitto* 
ria,  ubbidienza  e  tributi,  non  pace,  benedizioni  ed  amore: 
coordinava  le  disposizioni  agli  effetti  sperati  o  temuti 
delle  cause  impellenti:  prevedeva  il  pericolo  d'una  scin- 
tilla quando  era  preparata  vasta  materia  d'incendio:  era 
un  corpo  d'esperii,  non  una  riunione  di  filosofi,  di  so- 
fisti, di  liberi  pensatori:  aveva  le  virtù,  le  tendenze, 
anche  i  vizii  patrizii,  uniti  però  a  vera  sapienza  di  Stato. 
Ha  caduta  la  repubblica,  il  Senato  decimato,  aumentato, 
modificato,  paralizzato  dai  Cesari,  fu  ridotto  ad  un  vano 
simulacro.  Il  dispotismo  aveva  spento  la  lotta,  ma  an- 
che la  vita  nobile  e  popolare,  il  cristianesimo  non  era 
sorto  e  dilatato,  l'autorità  della  Chiesa  non  aveva  posto 
radice  e  preso  impero,  ed  il  feudalismo  non  doveva  ve- 
nire che  più  tardi  ad  avvilire  e  disperdere  la  sovranità, 
ed  a  combattere  il  trono. 

Il  Cesare  di  Roma  era  divenuto  perfettamente  auto- 
crata, e  l'Impero  rassembrava  a  palazzo  superbo  e  regale, 
che  anche  ornato  d*oro  e  di  gemme  si  disordina  e  cade, 
se,  per  non  essere  coperto,  non  è  difeso  da  pioggia  e  bu- 


452  PiRTB  SESTA 

fere.  Infatti  in  nes&una  eli  della  storia  più  che  in  quella 
dei  Cesari  si  è  veduta  di  fatto  raccogliersi  totalmente  nel 
principe  quella  podestà  dominicale  o  signoria  d'assoluto 
dominio  sulle  persone  e  sulle  cose  dei  sudditi,  che  varii 
scrittori  denominarono  regno  erile,  negandone  l'esi- 
stenza giuridica,  perchè  in  diretta  opposizione  coi  diritti 
inalienabili  dell'umanità  (I).  Tutto  dipendeva  dalle  qua- 
lità personali  dell'imperante.  Autocrata  nello  Slato,  senza 
vincoli  di  parentela  con  altri  sovrani  (2),  senza  concor- 
renza d'una  forza  equipollente  alla  romana,  non  frenalo 
dalle  armi  di  Cartagine,  di  Pirro  e  Mitridate,  il  sovrano 
di  Roma  agiva  secondo  la  sua  scienza  od  inscienza,  se- 
condo la  sua  rettitudine  o  malvagità  (3).  Non  si  trasmet- 
tevano da  un  sovrano  all'altro  i  ministri,  non  le  mas- 
sime, non  i  divisamenli,  non  i  mezzi  di  esecuzione.  Ad 
un  Cesare  piaceva  la  gloria  ed  il  lusso,  ad  un  altro  la 


(1)  Monlesquìeu  trova  Tesempio  del  regno  erile  in  Turchìa,  dove  il  dispotismo 
del  principe  avrebbe  fondamento  nei  codice  fondamentale  d'ogni  Stalo  musul- 
mano, il  Corano.  E  veramente  i  disordini  d'ogni  specie,  che  quello  ^^graziato 
paese  tormentano,  palesa  il  dispotismo  che  di  fatto  vi  domina,  ma  l'idea  di 
regno  erile  non  è  consacrata  dal  Corano,  né  da  alcuno  dei  codici  d'Oriente  fu 
sancita  giammai.  I  libri  di  Confucio,  p.  e.,  e  quelli  di  Manu  proscrivono  que- 
sta idea  con  tanta  energia  di  ragioni,  e  tanta  saviezza  di  doveri  imposti  al 
principe,  quali  si  trovano  in  pochi  fra  gli  scrittori  politici  della  colta  Europa. 
Se  scorgiamo  in  Turchia  e  nelFAsia  violenza  e  disordine,  non  è  da  accagionarne 
il  Corano,  od  altro  codice:  regna  colà  il  dispotismo,  come  pur  troppo  anche  in 
paesi  ed  in  tempi  civili  ha  regnato  e  regna,  come  talora  si  deplora  Tanarchia, 
e  si  soffre  la  violenza  ad  onta  delle  leggi  e  di  sistemi  di  Stato. 

(!2)  Queste  relazioni  di  famiglia  fra  i  principi  non  sorsero  che  più  tardi:  si 
moltiplicarono  e  generalizzarono  poi,  e  da  ultimo  crearono  un  gius  pubblico 
gentilizio,  al  quale  si  applicarono^  senza  alcun  riguardo  ai  popoli,  le  norme  or- 
dinarie del  gius  civile,  privato.  Dapprima  le  figlie  dei  Cesari  d'Oriente  furono 
date  in  ispose  ai  prìncipi  barbari  sotto  la  condizione  che  le  medesime  non  aves- 
sero a  mutare  di  religione:  tali  matrinionii  si  videro  poscia  anche  nelPOcci- 
dente:  si  strìnsero  fra  le  famiglie  dei  prìncipi  latini  e  dei  Barbarì,  fra  le  fami- 
glie dei  principi  barbarì,  e  talvolta  fra  le  famiglie  degli  imperatori  d'Oriente  e 
le  patrìzie  di  Stati  potenti,  p.  e.  della  repubblica  di  Venezia. 

(3)  Saviamente  scrìve  Sallustio:  Ante  Carthaginem  deletam  metu*  hostilit 
in  bonis  artibus  eivilatem  retinebat. 


CAPITOLO  u.  453 

semplicità  eia  pace;  l'uno  sceglieva  a  confidenti  igiuris- 
consulti,  ed  aveva  un'epoca  luminosa  di  regno,  l'altro 
sceglieva  a  confidenti  uomini  contennendi  e  liberti,  e  lo 
Stalo  cadeva  in  confusione  ed  avvilimento. 

Se  la  causa  della  rovina  di  Roma  fosse  stata  ingenita 
a  Roma  medesima,  e  non  propria  degli  imperanti  suoi, 
la  storia  sua  non  presenterebbe  l'avvicendarsi  di  epoche 
gloriose  e  dì  epoche  umilianti,  ma  sarebbe  indeclinabil- 
mente e  rapidamente  caduta. 

Vero  si  è  però  che  le  epoche  gloriose  sì  fecero  sempre 
più  rare,  e  Roma  andò  perdendo  provincie  e  regni. 
Quando  un  principe  edifica  e  l'altro  distrugge;  quando 
un  prìncipe  rinforza,  e  l'altro  indebolisce;  quando  un 
prìncipe  dispone  un'intrapresa,  e  l'altro  l'abbandona; 
quando  varii  principi  inetti  succedono  ad  un  sol  prin- 
cipe savio  e  forte,  l'impero  va  continuamente  affievolen- 
dosi, e  se  ne  prepara  la  caduta. 

Cosi  era  in  Roma:  tutto  si  inchinava  avanti  a  Cesare: 
ogni  barriera  di  istituzioni  o  di  cose  era  tolta:  ogni 
prominenza  di  persone  era  spianata ,  rasa  o  schiac- 
ciata :  ogni  coesione  di  interessi  mancava,  e  ciascun  Ce- 
sare mandava  confusione  nell'impero,  finché  piombava 
per  una  rivolta  di  soldati  come  un  Titano  percosso  dal 
fulmine  di  Giove.  Chi  non  vìveva  che  ai  truci  diletti  del 
circo,  chi  aboliva  le  feste,  chi  donava  per  scialacquo, 
chi  rivocava  le  donazioni  già  date  dai  predecessori  suoi, 
inventava  balzelli  d'ogni  specie,  vendeva  gli  impieghi,  fis- 
sava e  pubblicava  la  tariffa  per  essi  (Tacito).  Un  principe 
non  a  mostra  di  maestà,  ma  per  timore  inventava  nuove 
guardie,  ed  istigava  le  spie  ;  l'altro  per  onorarsi  estir- 
pando dall'ime  barbe  il  male,  le  mandava  in  esìglio  dì 
assidue  fruste  punite:  l'uno  era  si  cupido  del  denaro 
che  vendeva,  come  Claudio,  agli  Ebrei  perfino  il  diritto 


454  PiBTE  SESTA 

di  fortiBcarsi,  ossia  di  prepararsi  a  rivolta,  ond'essi  fecero 
in  pace  ripari  da  guerra;  Tallro  donava  ai  liberti  o  pro- 
fondeva nel  circo  gli  aspettati,  né  ancor  giunti  tributi 
delle  Provincie  e  dei  re.  Questi  godeva  degli  aperti  ca- 
nali, delle  dighe  costrutte,  dei  porti  scavali,  delle  strade 
protese,  dei  fari  schiarati  ;  un  altro  spegneva  se  stesso 
nella  verminazione  di  disordinalo  costume,  e  di  don- 
nesca 0  mascolina  bellezza.  L'uno  mansueto  di  benigna 
virtù  usava  volentieri  con  le  persone  sapienti  ;  l'altro 
disfrenando  l'orgoglio,  non  applicava  ad  ogni  infermità 
delle  genti  se  non  il  pericoloso  rimedio  del  ferro  e  del 
fuoco.  Quegli  riservava  a  se  stesso,  o  donava  ai  propriì 
clienti  il  governo  d'intere  provincie;  questi  ne  conGdava 
il  reggimento  al  Senato.  Chi  conservava  la  gerarchia  mi- 
litare separata  dalla  civile  ;  chi  riuniva  i  poteri  civili  ed  i 
militari  nel  capo  della  guardia  pretoriana  formandone 
quasi  un  granvisire  dell'impero;  chi  raccoglieva  invece 
in  sé  solo  tulle  le  magistrature  più  eccelse,  o  le  disperdeva 
in  molti  favoriti  suoi.  Gallieno,  l'uno  di  quelli  che  nella 
lunga  serie  dei  Cesari  hanno  contribuito  di  più  alla  ro- 
vina di  Roma,  sceglieva  perfino  città  esperimentali  per 
sottoporle  alla  prova  dei  diversi  sistemi  di  politica  filo- 
sofia, dando  p.  es.  a  Plotino  l'incarico  di  organizzare  in 
una  di  esse  la  repubblica  di  Platone.  Un  principe  acer 
in  armiz  esponevasi  ai  travagli  della  guerra,  ed  allonta- 
nava i  Barbari  colla  spada  ;  un  altro  non  si  curava  che 
l'orlo  ed  il  cuore  dell'imperio  patissero  vergogna,  jE>/acfVi(t 
populoB  in  pace  regebat,  ed  i  "Barbari  allontanava  col- 
l'oro;  un  terzo  sospettoso  dei  duci  già  suoi  compagni, 
ed  ora  sudditi  suoi,  assoldava  numerose  torme  di  Bar- 
bari, e  si  cingeva  di  esse.  Quindi  consigli  ancipiti,  ritar- 
dati, avventali,  tementi,  sempre  turbata  l'esecuzione  ed 
incerta  la  meta,  ed  anche  le  più  grandi  speranze  ingan- 


CAPITOLO   it.  455 

nate,  perchè  le  migliori  occasioni  di  fortuna  per  arte  o 
per  armi  hanno  trascorrevole  vita,  e  segue  sovente  insa- 
nabile danno  al  non  averle  tosto  afferrate,  e  pertinace- 
mente tenute. 

Non  vi  era  né  un  ordine  certo  di  successione  alUm- 
pero,  né  un  corpo  di  elettori,  né  una  famiglia  imperiate: 
il  capo  dello  Slato  era  talvolta  romano,  e  talvolta  stra- 
niero; ora  vi  era  un  solo  imperatore  ed  un  Cesare,  ora 
vi  erano  due  imperatori  e  due  Cesari,  ora  due  imperatori 
e  qualtro  Cesari. 

Un  sovrano  opinava  che  conBni  del  romano  imperio 
dovevano  essere  l'Eufrate,  il  Reno  ed  il  Danubio,  e  con 
enorme  dispendio  di  sangue  e  di  denaro  tentava  di  farsi 
forte  su  queste  linee;  il  successore  voleva  conquistare 
nuove  Provincie,  o  riliravasi  a  più  angusti  conGni.  Cosi 
Trajano  aggiungeva  all'impero  la  Mesopotamia  e  TAr- 
menia,  ed  Adriano  le  abbandonava;  voleva  perfino  ab- 
bandonare la  Dacia  :  Giuliano  ritornava  a  campeggiare 
sul  Tigri,  ed  Aureliano  lasciava  la  Dacia.  Un  sovrano 
rinunciava  alla  Brettagna,  e  riliravasi  di  qua  della  Ma- 
nica; un  altro  rientrava  in  Brettagna,  e  voleva  anche  la 
Caledouia;  un  terzo  si  limitava  alla  Bretlagna,  e  costruiva 
da  mare  a  mare  una  grande  muraglia  che  lo  separasse 
dalla  Caledonia,  ma  anche  la  stessa  muraglia  veniva  poi 
abbandonata  per  erigerne  una  nuova  in  luogo  diverso. 
£  chi  pensava  intanto  alle  migliaja  dei  Romani  che  al- 
l'aggiungersi d'una  nuova  provincia  erano  allettati  a 
trasferirsi  colà,  o  vi  si  trasportavano^  come  romane  colo- 
nie, ed  all'abbandonarsi  della  stessa  provincia  erano 
quindi  lasciati  in  balla  dei  Barbari,  o  con  deplorabile 
perdita  d'ogni  frullo  delle  loro  falìche  ritirali*  entro  la 
linea  del  pid  angusto  confine?  Tutto  era  incerto,  tutto 
mutevole:  Claudio  dava  franchigie  ai  Rodii,  e  Nerone  le 


456  rARTB  SESTA 

aboliva;  Nerone  dava  l'indipendenza  amministrativa  ai 
Greci,  e  Vespasiano  la  toglieva.  Ora  riconoscevasi  la  ne- 
cessità di  concentrare  in  provincie  lontane,  inquiete 
nell'interno  o  minacciate  dairestero,  intenso  potere  e 
grandi  forze  in  una  mano,  e  riunivansi  vasti  territorii  e 
truppe  numerose  sotto  un  solo  comando;  ora  si  diffi- 
dava della  fede  di  un  capitano  potente,  e  si  divideva  il 
paese,  si  assottigliavano  le  forze  affidate  a  duci  diversi  e 
discordi,  come  fecero  anche  gli  Europei,  soprattutto  gli 
Spagnuoli  nelle  colonie  d'America,  e  gli  Inglesi  in  quelle 
delle  Indie:  ora  sceglievasia  residenza  Roma,  ora  Bisan- 
zio, ora  Milano  ed  ora  Ravenna. 

Per  questo  disordine  e  sconsigliatezza  dei  Cesari  le 
legioni  tumultuavano,  i  pretoriani  insorgevano,  i  Barbari 
invadevano,  gli  imperatori  morivano.  Per  esso  la  vena- 
lità animavasi,  i  liberti  arriccbivansi,  la  disciplina  depe- 
riva, la  gloria  militare  offuscavasi,  i  Barbari  armavansi, 
l'impero  cadeva.  Quindi  nasceva  l'ardire  dei  Goti,  quindi 
lo  sgomento  dei  Romani,  quindi  l'esaurimento  della  pub- 
blica pecunia,  quindi  l'inutilità  delle  vittorie,  quindi  il 
danno  micidiale  delle  sconfitte.  Una  rivolta  ne  chiama 
un'altra,  e  questa  poi  ne  chiama  varie.  Il  capitano  che 
colla  forza  delle  legioni  sue  è  salito  al  trono,  deve  ri- 
muovere gli  altri  duci  scelli  dal  predecessore,  e  rifor- 
mare le  loro  legioni;  ma  vogliono  gli  altri  duci,  e  le  le- 
gioni di  essi  prevenirlo  nel  suo  disegno.  Proclamasi 
quindi  un  nuovo  Cesare,  e  questi  collocato  fra  l'ara  fu- 
mante di  gratissimi  incensi  e  la  tagliente  mannaja,  aper- 
tamente prorompe,  ed  ai  soldati  nuove  mercedi  e  nuovi 
doni  promette.  A  nave  rotta  ogni  vento  è  contrario,  e  le 
continue  bufere  la  chiamano  a  naufragio  :  Roma  quindi 
cadeva. 

Ogni  volta  che  sul  trono  saliva  un  prìncipe  illuminato 


CAPITOLO   II.  i57 

e  saggio,  egli  doveva  assicurarsi  sul  soglio  non  suo,  do* 
veva  riparare  ai  disordini  del  governo  precedente,  stabi- 
lire l'interna  quiete  prima  di  combattere  lo  straniero  ne- 
mico, restituire  la  disciplina  prima  di  avventarsi  alla 
guerra,  riempire  l'esausto  tesoro  prima  di  disporne,  E 
come  è  più  presta  l'opera  del  distruggere,  che  non  quella 
dell'ediGcare,  Roma  fu  Analmente  distrutta.  Il  Campido- 
glio dalla  sapienza  del  romano  Senato  edificato,  fu  dunque 
dalla  inettitudine  di  molli  romani  monarchi  rovesciato, 
e  quei  Cesari  talvolta  rotti  ed  arabici,  ma  più  di  sovente 
rotti  e  sibaritici,  infami  per  delitti  ed  infami  per  grazie  e 
favori,  spesso  regnanti  per  altri  come  gli  ultimi  Mero- 
vingi, ma  non  coi  Pipini  e  con  Carlo  Martello,  cercanti 
airinfuori  del  femminile  amore  lascivia,  riguardanti 
come  un  beneficio  del  cielo  le  nuove  imbandigioni,  dis** 
sipanti  frusto  a  frusto  la  vita,  quasi  sempre  spieiati  per 
sospetto  e  temenza,  e  tribolanti  l'impero  con  prodiga  im- 
manità di  supplizii,  rovinarono  la  potentissima  Roma. 
Nelle  loro  mani  divenne  barbarie  la  severità,  furono  di- 
sciplina i  patiboli,  la  generosità  mutossi  in  scialacquo: 
lussurie,  ebbrezza,  ritrovi  di  femmine  furono  frutti  di 
imperio  :  erano  continue  le  rivolte  ordite  dai  capi,  vantag- 
giose ai  soldati,  patite  dal  popolo  :  avevasì  a  peccalo  gra- 
vissimo la  fede  osservata  al  predecessore  d'un  principe: 
poteva  sol  quello  che  adorava  il  despola  facendosi  schiavo 
per  esser  fatto  padrone:  lo  Stato  precipitava. 

Tutte  le  cause  dì  decadenza  pertanto  accennate  più 
sopra  si  unificano  in  questa  della  sfrenatezza  dei  Cesari 
arbitri  dell'Impero,  padroni  della  terra,  e  Dei;  si  unifi- 
cano adunque  nell'accusa  al  governo  personale,  assoluto. 
Anche  Gibbon,  anche  Montesquieu,  potrebbero  nel  pon- 
deroso tema  associarsi  d'avviso  con  me,  perchè  ridussi 
ad  una  sola  ragione  tutte  le  cause  mutuate  da  essi.  Ma 


458  PiBTl  SESTA 

più  spererei  d'avere  conferma  ed  onore  di  concorde  sen- 
tenza da  Tbiers,  Vuno  dei  più  grandi  storici  e  pubblicisti 
d'ogni  età  e  paese,  perchè  nella  sua  storia  delllmpero, 
che  con  quella  del  Consolato  e  della  Repubblica  forma 
l'uno  dei  più  splendidi  monumenti  eretti  dall'uniana  in- 
telligenza, deduce  la  causa  della  caduta  del  primo  im- 
perio di  Francia  dalle  sfrenate  esorbitanze  d*un  genio, 
che  nella  forma  di  Stato  non  aveva  temperanza  e  ritegno 
alle  passioni  ferventi,  ad  illimitali  concetti,  a  prepotente 
volere.  Se  la  forza  generò  l'audacia,  bandi  la  prudenza 
ed  il  senno,  se  guidò  al  porre  inconsulto  della  falce  in 
ogni  messe  in  questa  nostra  età  ad  onta  delle  progredite 
dottrine,  e  delle  nazioni  formate  e  civili,  dotate  intrinse* 
camente  di  potenza  attrattiva  d'ogni  elemento  omogeneo 
»  ri  pulsi  va  dell'estraneo,  mentre  regnava  Napoleone,  me- 
ravigliosa mente  a  comprensione  ed  a  calcolo,  e  la  Gran 
Brettagna  sempre  invulnerabile  e  nemica  lo  saettava  da 
ogni  lato  e  premeva,  che  doveva  mai  essere  dei  Cesari  in 
Roma?  Non  vi  era  barriera  alle  loro  passioni:  non  v'era 
per  essi  necessità  di  consiglio,  non  misura  di  forza  :  il 
mondo  era  nelle  catene  di  Roma,  e  Roma  in  quelle  dei 
Cesari.  In  mezzo  all'esercito  non  più  nazionale,  ma  im- 
periale quanto  almeno  l'ubbidienza  durava,  i  Cesari  dis* 
potizzavano,  stullizzavano,  deliravano,  e  poiché  i  Cesari 
infinitamente  potenti  furono  appunto  i  primi,  cosi  pre- 
cisamente fra  questi  noi  troviamo  coloro  che  più  for- 
sennati scapestrarono,  che  non  si  peritarono  a  tener 
bassa  virtù,  ma  posero  ad  occhi  aperti  sollecito  studio  a 
nutrire  orgogliosa  la  colpa ,  che  più  furono  pronti  ai 
sospetti,  da  essi  precipitando  in  barbarie  e  delitti,  cui 
non  può  dare  condegno  giudizio  la  storia  e  pena  l'infa- 
mia, che  crearono  la  servitù  abjettissima,  e  condussero 
a  mal  termine  Roma. 


PARTE  SETTIMA 

L'ADOZIONE  DEL  CRISTIANESIMO. 


CAPITOLO  I. 

li  Cristianesimo  adoUato  da  Costantino  ; 

la  trasiazione  disila  sede  dell'Impero  a  Bisanzio  : 

esempiì  anaioglii  :  gli  seismi  politieo-reiigiosi. 

Quale  si  fu  la  causa  della  traslazione  della  capitale  a 
Bisanzio?  Gli  scrittori  la  cercano  ora  nell'essere  Bisanzio 
meglio  centrale  di  Roma  nel  grande  Impero  dei  Cesari, 
ora  pel  bisogno  d'avere  il  centro  d'azione  più  vicino  ai 
campi  invasi  sì  spesso  da  nazioni  barbariche.  E  fllontes* 
quieu  ripone  la  causa  d'avvenimento  si  grande  nella  va- 
nità di  Costantino,  che  volle  dare  il  suo  nome  ad  una 
nuova  capitale.  Nessuna  però  delle  cause  indicate  ha  ca- 
rattere di  verità,  o  di  sufficiente  efficacia.  Non  era  Bisan- 
zio più  centrale  nello  Slato  che  Roma  noi  fosse  :  anzi 
Roma  era  più  di  Bisanzio  centrale  ad  uno  Stalo  che  si 
estendeva  da  Ulisippo  all'Eufrate,  e  dalla  Numidia  alla 
Caledonia,  ma  aveva  nazioni  nemiche  sulle  nordiche 
sponde  del  Ponto  Eusino.  Se  il  centro  ammim'stralivo  è 
vicino  ai  campi  di  guerra,  si  ha  il  vantaggio  di  provvi- 
denze più  pronte,  ma  rischio  assai  grave  nel  caso  di  bat- 
taglie infelici.  E  l'Impero  non  era  assalito  nel  solo  oriente, 
ma  anche  in  ponente:  Bisanzio  era  difeso  dall'Emo  e  dal 
mare,  ma  l'Italia  era  protetta  dalle  Alpi.  Le  potenti  na- 
zioni del  Boristene  e  dell'Istro  potevano  ben  anche,  come 
più  tardi  realmente  segui,  portare  con  felici  fazioni  e  re- 


462  PARTE  SETTIMA 

pentini  movimenti  l'allarme  nella  sorpresa  città»  e  darle 
l'assalto. 

Dove  non  vi  sono  forme  e  condizioni  civili  di  Stato, 
ed  anche  colà  dove  la  centralità  amministrativa  non  ha 
progredito  spegnendo  i  municipalismi  segreganti,  le  feu- 
dali indipendenze  e  gli  isolamenti  provinciali,  il  governo 
può  mutare  di  sede  senza  lesione  di  gravi  interessi,  senza 
il  sacrificio  di  infiniti  valori.  Le  capitali  in  quegli  Stati, 
specialmente  nei  primi,  sono  una  specie  di  Campo  Reale, 
un'abitazione  di  principe,  una  località  dove  si  trattano  non 
tutti  gli  affari,  ma  poca  parte  dei  pubblici,  e  quasi  nessuna 
delle  vertenze  ed  interessi  privati.  Ma  quando  Io  Stalo  ha 
forma  perfettamente  civile,  e  grandi  sistemi  d'unità  ammi- 
nistrativa, quando  la  capitale  è  il  cuore  a  cui  da  tutte  le 
membra  il  sangue  ricorre  ed  alle  parti  ritorna,  quando  si 
raccoglie  in  essa  la  vita,  l'energia,  la  materiale  e  morale 
potenza  di  tutto  il  paese,  in  allora  il  trasporto  della  capi- 
tale è  fatto  si  grande,  lede  si  gran  numero  d'interessi  costi- 
tuiti, risveglia  nel  centro  antico  reazione  si  viva,  reca  si 
forti  dispendii  se  devesi,  come  lo  fu  nel  caso  in  dis- 
corso, edificare  quasi  intieramente  una  nuova  città,  pa- 
ralizza per  tempo  non  breve  il  corso  d'una  parte  della 
pubblica  amministrazione,  obbliga  a  tante,  e  si  moleste  e 
nocive  misure  provvisorie,  a  mutazioni,  a  provvidenze  ir- 
regolari ecc.,  che  giammai  un  governo  o  sovrano  qualsiasi 
delibera  ed  effettua  la  traslazione  della  capitale  se  non  ce- 
dendo a  pressione  assoluta  di  circostanza  imperiosa.  Ed 
in  questo  caso  soltanto  un  principe  può  essere  indulgente 
a  vanità  di  dare  alla  città  nuovamente  creata  il  nome  suo 
proprio,  ma  da  mera  ambizione  non  deriva  giammai  una 
deliberazione  si  grave.  E  la  centralità  di  governo  anche 
nell'impero  romano  era  grande,  come  potrebbe  presu- 
mersi dalla  forma  assoluta  di  Stato  da  si  lungo  tempo  in« 


CAPITOLO  I.  463 

Irodotla,  e  si  raccoglie  positivamente  dalle  belle  lettere  di 
Plinio  a  Trajano  e  di  Trajano  a  Plinio,  scritte  in  assai 
varii  argomenti  di  pubblica  amministrazione.  Quanto  più 
forti  dovevano  poi  essere  le  cause  di  non  procedere  senza 
ragioni  di  necessità  assoluta  al  trasporto  della  capitale, 
se  la  città  da  abbandonare  era  Roma,  l'immensa  metro- 
poli su  cui  riposava  l'ereditaria  venerazione  dei  popoli, 
quella  Roma  da  cui  era  uscita  la  voce  arbitra  degli  imperi, 
al  suono  della  quale  un  principe  saliva  al  trono,  un  altro 
ne  scendeva  umiliato,  la  Roma  trionfalrice,  la  regina  ut'- 
bium,  la  caput  rerum,  come  la  troviamo  a  ragione  no* 
minata  nei  classici  ! 

Non  si  erano  riunite  le  monarchie  meda  ed  assira  come 
al  tempo  di  Ciro,  che  sempre  fu  in  forse,  né  seppe  de- 
cìdere dove  avesse  finalmente  a  stanziare  ;  non  si  erano 
acquistate  nuove  ed  importanti  provincie  come  nel  caso 
di  Pietro  il  Grande,  che  trasferì  la  sede  dell'impero  da 
Mosca  a  Pietroburgo  (1);  non  avevasi  predato  il  Bengala, 

(i)  Noi  citiamo  il  Tatto,  ma  nonio  giustifìcliiamo.  Cause  temporanee,  ma  non 
perpetue,  potevano  consigliare  Tabbandono  di  Mosca  per  la  nuova  città.  Era 
utile  il  fondare  sul  Baltico  uno  stabilimento  navale,  e  la  presenza  del  conquista- 
tore nei  paesi  d'aggregazione  recente:  facendo  di  più,  noi  siamo  convinti  che 
Pietro  il  Grande  commise  un  errore,  e  fu  errore  perpetualo  dai  successori  suoi. 
Quando  si  fondò  Pietroburgo  non  era  ancor  riportata  quella  vittoria  di  Pultava 
che  sicuro  lo  fece,  e  per  la  quale  lo  felicitò  anche  la  Repubblica  di  Venezia 
temente  dell'Austria  divenuta  signora  di  Milano  e  di  Mantova  :  aveva  già  con- 
quistato ringria,  la  Carelia  e  Tl^stonia,  ma  non  erano  in  sua  mano  né  la  Cur- 
landia,  né  alcuna  parte  della  Finlandia  si  vicina  alla  nuova  città,  né  lo  erano 
quelle  isole  di  Aland,  da  cui  ora  il  cannone  moscovita  si  ode  a  Stockholm  :  nello 
stabilirsi  a  Pietroburgo  adunque  girando  tuttora  molto  incerte  le  sorti,  Pietro, 
a  parer  nostro,  fu  più  audace  che  savio.  Inoltre  per  quella  traslazione  di  capi- 
tale il  dualismo  politico  slavo-alemanno  che  travagliala  Russia,  diventò  più 
potiìnte  ;  razione  governativa  fu  spostata  dal  centro  e  fu  quindi  più  lenta  ; 
un  capitale  infinito  fil  sacrificato  al  bisogno  di  richiamare  le  sussistenze  da 
lungi,  e  d'importarle  in  non  poca  parte  daifestero;  sì  dovette  mantenere  un 
esercito  d'intorno  alla  capitale  sul  Baltico  anche  in  alcune  guerre  nelle  quali, 
se  si  fosse  avuta  la  capitale  in  Mosca,  potevasi  impiegarlo  davanti  al  nemico; 
si  allontanarono  le  ricche  famiglie  dai  loro  possessi,  il  che  è  sempre  gran 
male;  si  affìevoli  il  sentimento  nazionale  distraendolo  dalla  santa  cUlà,  ecc. 


464  PiRTE  SETTIUi 

come  nel  caso  di  dive  che  scelse  a  residenza  Calcutta; 
non  si  era  incorporata  rArmenìa  ed  il  litorale  del  Caspio, 
come  nel  caso  dei  re  di  Persia  che  da  Ispahan  si  porta- 
rono a  Teheran  ;  non  vi  erano  le  cause  d'abbandonare 
Konisgberg  per  Berlino,  Cracovia  per  Varsavia,  Cham- 
béry  per  Torino  ;  né  la  brama  di  non  allontanarsi  dal 
centro  delle  proprie  risorse  durando  il  bisogno  di  sor- 
vegliare un  immenso  paese  di  cui  temevasi  ancora,  come 
nel  caso  dei  monarchi  mongoli  che  abbandonavano  Nan- 
king.  stanziandosi  a  Cambalu  (Pekino);  non  v'era  alcuna 
di  queste  cause  potenti,  eppure  Costantino  abbandonava 
l'eterna  città,  e  trasferiva  la  sede  dell'impero  a  Bisanzio, 
la  cui  importanza,  almeno  militare,  era  già  a  quel  tempo, 
e  fu  sempre  notissima  (1). 

Anche  le  tristi  condizioni  dell'erario  dovevano  sconsi- 
gliare da  un  fatto  che  sotto  molti  aspetti  gravissimo,  lo 
era  parimenti,  ed  in  sommo  grado  per  le  romane  finanze. 
Ormai  l'impero  era  povero:  le  spoglie  di  tutta  la  terra 
erano  state  dilapidate  e  consunte:  ì  campi,  un  giorno  si 

(1)  Nelle  guerre  greche,  nelle  persiane,  nelle  mìlridatiche,  ed  anche  nelle 
successive  Toccupazione  di  Bisanzio  era  stato  scopo  di  numerose  operazioni  di 
truppe  e  di  flotte,  ed  un  secolo  prima  di  Costantino,  Bisanzio  aveva  sostenuto 
assedio  triennale  postogli  da  Settimio  Severo,  che  combatteva  contro  Pescennio 
Negro,  Toccupò  e  distrusse.  In  quell'assedio  Tingegnere  Prisco  aveva  rinnovato 
le  meraviglie  di  Archimede,  e  Settimio  Severo,  che  Tu  crudele  con  tutti,  rispar- 
miò Prisco  onde  giovarsi  del  suo  ingegno  neiraltro  assedio  che  andava  a  porre 
ad  Atra,  cittadella  sulPEufrate,  che  Trajano  non  aveva  potuto  espugnare.  Pe- 
scennio Negro  fu  poi  totalmente  sconfitto  nella  solita  posizione  strategica  dì 
Isso. 

Quanto  alFimportanza  commerciale  di  Bisanzio,  essa  non  fu,  e  non  può  es- 
sere grande:  dipende  in  gran  parte  dal  grado  di  attività  dei  traffichi  del  Mar 
Nero  ora  impediti,  ora  contrastati,  ed  ora  liberi  e  fiorenti,  m«i  anche  per  questi 
Bisanzio,  o  vogliam  dire  Costantinopoli,  è  ridotta  al  solo  traffico  di  scalo,  che 
la  perfezionata  navigazione  rende  meno  necessario  adesso  che  non  fosse  un  di. 
Quasi  tutti  i  territorii  del  Levante  hanno  liberi  sbocchi  sul  mare,  ed  i  prodotti 
d'importazione  non  sì  accumulano  in  una  sola  locahtà ,  ma  il  traffico  è  deter- 
minato meramente  dalle  produzioni  e  consumazioni  locali,  che  però  sono  eoa- 
siderabili  a  Costantinopoli,  perchè  popolosa  e  ricca  capitale. 


CAPITOLO    I.  465 

ricchi,  erano  isteriliti  e  miseri.  Quale  ostacolo  doveva 
dunque  incontrare  in  si  tristi  condizioni  d'erario  la  tras- 
locazione della  capitale,  e  quanto  forte  doveva  essere 
l'urgenza  di  trasferirla  se  realmente  Costantino  la  tras- 
portò a  Bisanzio  !  Quale  fu  la  vera  causa  di  tale  trasfe- 
rimento? E  per  quale  ragione  la  medesima  non  fu  so- 
lennemente dichiarata  giammai  da  Costantino  o  dai 
successori  suoi  7  Perchè  una  causa  che  doveva  essere 
estremamente  potente,  rimase  in  silenzio,  ed  il  prìncipe 
ha  preferito  che  sembrasse  arbitraria,  piuttosto  che 
propagarla,  e  mostrarne  pubblicamente  la  necessità  e 
l'urgenza  ? 

A  nostro  avviso,  la  traslazione  della  sede  dell'Impero 
da  Roma  a  Costantinopoli  è  strettamente  connessa  col 
fatto  della  diffusione  del  cristianesimo  nell'Impero  ro- 
mano, e  dell'adozione  che  ormai  Costantino  era  per  fare 
di  esso.  Un  solo  storico,  per  ciò  che  sappiamo,  ci  si  asso- 
cia, almeno  in  parte,  in  questo  pensiero,  ed  è  Rolteck 
[Altgemeine  Gezchichte,  1.  Ili,*  §  23),  ma  Rotteck  si  è 
anche  l'uno  degli  storici  che  sui  fatti  antichi  e  moderni 
ha  meditalo  di  più. 

Finché  i  Cristiani  furono  in  poco  numero,  i  Cesari  nqn 
se  ne  curarono  :  divenuti  numerosi,  li  perseguitarono. 
I  Cesari  erano  sovrani  civili,  militari  e  religiosi  :  nella 
loro  qualità  di  pontefici  massimi  del  paganesimo,  gli 
imperatori  dovevano  scorgere  facilmente  dei  sudditi 
ribelli  all'integrità  della  maestà  loro  in  tutti  quelli  che 
negavano  ad  essi  l'incenso,  e  ne  dichiaravano  falsa  la 
fede.  Questa  era  la  causa  delle  persecuzioni,  non  già  la 
frivola  indicala  da  Gibbon,  che  cioè  i  Cristiani  erano 
odiati  perchè  credevano  essere  Gerusalemme  e  non  Roma 
la  santa  città,  né  Giove  presente  in  Campidoglio.  A  ceto 
povero  e  perseguitato,  ad  uomini  proscritti  e  dannati, 

30 


466       ^  PARTI  BETTHIi 

Ogni  aderente  ed  ogni  ossequente  a  Cesare  doveva  essere 
infesto:  le  accuse  d'ogni  specie  dovevano  moltiplicarsi, 
inventarsi,  vorrei  dire  materialmente  provarsi:  tutte  tro- 
vavano credito  nel  fatto  che  la  sovranità  di  Cesare  era 
dai  Pagani,  non  già  dai  Cristiani  riconosciuta  più  vasta, 
ed  idenliQcata  con  quella  dei  Numi,  né  ci  devono  recare 
veruna  sorpresa  le  imputazioni  sempre  vaghe,  e  certa- 
mente fatsissime,  scritte  contro  i  Cristiani,  probabilmente 
in  buona  fede,  da  alcuno  dei  classici  :  Af/licti  mtppliciis 
Chrhiiani^  genus  hominum  superiti tionis  novo  ac  male- 
/ìc(b(Svet.,  in  Ner.i  cap»  16):  Nero  qumitntimù  pcsnis 
adfecit  quos  per  flagitia  invisos  vulgus  Chrutianm  adr 
pellabat.  Auctor  nominis  ejus  Chrintus,  Tiberio  impe- 
ritante,  per  procuratorem  Pontium  Pilatum  supplicio 
adfectus  erat.  Repressaque  in  pnesens  exitiabilis  «u- 
perstitio  rursus  erumpebat ,  rwn  modo  per  JudcBam^ 
originem  ejus  mali y  sed  per  urbem  etiam,  quo  cuncta 
undique  atrocia  aut  pudenda  confluunt,  celebranturque 
(Tacito,  Ann.,  lib.  XV,  cap.  44). 

Il  cristianesimo  crescente  fu  dunque  perseguitato  per 
grave  causa  politica,  ed  anzi  per  causa  più  grave  che 
almeno  nei  rapporti  coi  governi  laicali  non  militasse 
contro  pagani  ed  eretici  quando  nei  secoli  successivi  lo 
stesso  cristianesimo  si  fece  alla  sua  volta  crudelmente 
persecutore.  Per  la  sua  propria  essenza  nessuna  religione 
perseguita:  non  perseguita  il  paganesimo,  non  il  cristia- 
nesimo, nonTislamismo:  nei  codici  fondamentali  di  quasi 
tutte  le  religioni  sta  anzi  scritta  la  tolleranza.  Ma  per  inte- 
ressi mondani  la  persecuzione  politica  si  esercitò  in  nome 
e  colla  veste  d'apparenza  religiosa  :  soprattutto  furono 
feroci  le  persecuzioni  nei  governi  teocratici,  e  dove  esìsteva 
una  classe  sacerdotale  forte  d'influenze,  ed  anche  di  voto 
nei  legislalifi  eonsigl  li  cristiànesimó^venne' oppugnato 


OPITOLO  1.  467 

dagli  imperatori  pontefici,  né  lo  fu  coi  soli  supplizii,  ma 
lo  fu  con  tutte  le  armi  ad  un  tempo  :  fu  aggresso  colla 
filosofia,  col  ridicolo,  colla  calunnia,  colla  spada.  Spe* 
cialmente  la  scuola  alessandrina,  spontanea  od  invitata 
dalle  cesariane  autorità,  usò  del  credito,  usò  della  dialet- 
tica, per  combattere  il  cristianesimo:  moltiplicò  gli  scritti; 
anzi  quelli  di  Porfirio  levarono  grido,  ma  la  vittoria  com- 
pleta del  cristianesimo  cagionò  la  perdita  di  tutti,  o  quasi 
tutti  i  libelli,  ed  appena  ne  rimane  la  traccia  nei  cenni 
di  confutazione,  che  spesso  ne  fecero  i  Padri  della  Chiesa 
arrivati  a  noi.  I  Romani  però  avevano  bensì  il  vanto  della 
scienza  legale  (l'hanno  quasi  immobilizzata  fino  a  noi  I), 
ma  né  i  plebisciti,  né  i  senatus-consulti,  né  i  responsi, 
né  gli  editti,  decreti  o  rescritti  dei  Cesari  avevano  creato 
la  scienza  morale.  Ora  il  cristianesimo  aveva  ridotto  ad 
assiomi  le  morali  verità:  aveva  parlato  all'immaginazione 
ed  alla  mente,  ma  più  ancora  al  cuore.  Lo  difendevano 
dunque  la  bontà  splendidissima  della  morale,  per  verità 
troppo  celestiale  per  poter  essere  completamente  politica, 
e  troppo  universale  per  potere  rafforzarsi  delle  idee  e 
delle  aspirazioni  esclusive  e  nazionali  :  lo  difendevano  la 
proclamata  unità  di  Dio  creatore  e  benefico  reggitore  del 
mondo,  logico  ritorno  al  monoteismo,  da  cui  sembrano 
incominciale  tutte  le  religioni,  cadute  poscia  nel  poli- 
teismo col  fare  un  Dio  diverso  d'ogni  nome  di  Dio,  col 
deificare  gli  elementi  di  natura,  coll'adorare  i  capi  delle 
grandi  schiatte,  poi  le  immagini,  ed  i  simboli  di  tutti  gli 
Dei.  Allettavano  al  cristianesimo  i  cuori  pid  sensitivi,  le 
menti  più  nobili  e  vaste  volenti  trasfondere  e  compren- 
dere tutte  le  famiglie  di  popoli  nella  sola  famiglia  romana,, 
il  principio  consolatore  del  premio  al  di  là  del  sepolcro, 
la  santificazione  delje  niQS3ÌmQ  .universali  di  ragipn^ 
l'essere  opportuno  a  tutte  ie  nazioni;  idoneo  'per  lutlii 


468  PAETE    SETTIMA 

climi,  eguale  pei  sessi,  per  ogni  ordine  e  condizione  di 
società.  Contribuivano  a  promoverlo,  il  discredito  del 
paganesimo  (si  grande,  che  già  Cicerone  scriveva  mera- 
vigliarsi del  come  due  auguri  incontrandosi,  non  si  de- 
ridessero a  vicenda),  le  massime  più  sane  della  scuola 
platonica  ovunque  diffuse,  e  quelle  dei  migliori  giuristi 
di  Roma,  l'eguaglianza  politica  reclamata  da  tutti  i  po- 
poli, e  l'eguaglianza  civile  degli  uomini  confessata  dai 
giurisconsullì,  intrinsecata  alle  massime  del  cristiane- 
simo, e  sempre  negata  a  milioni  di  schiavi.  Era  poi  con* 
naturale  ad  ogni  mente  elevata  la  tendenza  alle  idee 
nobili  e  grandi,  al  progresso  di  tutta  Tumanilà  ;  v'era  la 
propensione  a  resistere,  che  palese  od  occulta,  quasi 
sempre  sì  soffre  da  tutti  i  governi,  e  prende  ogni  forma, 
ed  anche  quelle  di  nazionalità  e  di  religione;  vi  era  la 
opposizione  ad  autorità  spesso  indegne  di  esercitarla. 
Essendo  poi  in  allora  il  cristianesimo  ancora  umile,  e 
nella  purissima  sfera  delle  astratte  opinioni  e  credenze, 
non  incontrava  quelle  politiche  difBcoltà  d'adozione  e 
favore,  che  sorsero  in  tutto  il  mondo  e  si  moltiplicarono 
quando  la  Chiesa  assunse  forma  terrena,  e  scendendo 
dalle  sublimi  altezze  partecipò  alla  lotta  degli  interessi 
materiali,  onde  il  principe  di  Roma  n'andò  confuso  col 
vicario  di  Cristo,  e  santa  opera  parve  il  bruciar  vivi  gli 
uomini  per  salvar  l'anima  loro  (1).  Uomini  d'ingegno 
eminente,  come  Origene,  come  Tertulliano,  prendevano 

(1)  Io  opera  del  tutto  storica  e  politica  noi  non  abbiamo  creduto  di  far  cenno 
ài  cause  soprannaturali,  ma  delle  sole  mondane.  Balbo,  nel  lib.  IK ,  §  lì  del 
suo  Sommario,  che  pur  molto  stimiamo,  ricorse  aireflìcacia  delle  prime,  tanto 
più  che  nelle  seconde  non  ha  trovato  che  ostacoli.  In  ciò  le  opinioni  da  noi 
esposte  si  allontanano  da  quelle  dello  storico  illustre  :  a  lui  pare  che  il  cristia- 
nesimo dovesse  essere  combattuto  da  tutti ,  e  realmente  lo  fosse  :  gli  facevano 
guerra,  egli  dice,  i  filosofi  trionfanti,  guerra  ogni  uomo  delFantica  coltura  al- 
lora avanzatissima,  guerra  ogni  uomo  devoto  alle  religioni  patrie,  guerra  ogni 
uomo  di  Stato  serbatore  di  queste  contro  ai  nuovi  seltarii. 


GiPITOLO  I.  469 

le  difese  del  cristianesimo:  ne  erano  consacrate  le  cre- 
denze dalla  meravigliosa  costanza  dei  martìri  :  avranno 
apostatato  per  tormenti  i  mille,  ma  per  violenza  sofferta 
da  molti  la  convinzione  delle  masse  non  muta. 

E  v'era  altra  circostanza  sommamente  favorevole  allo 
spargersi  della  nuova  religione,  che  passa  sempre  inav- 
vertita: il  cristianesimo  non  aveva  a  combattere  con  una 
casta  sacerdotale  fortemente  costituita  ed  irreconciliabile. 
La  società  greco-romana  non  aveva  né  i  leviti,  né  gli 
ulema,  né  i  lama,  né  i  bonzi:  ir  cristianesimo  poteva 
dilatarsi  nel  mondo  greco-romano  senza  mutare  e  di- 
struggere radicalmente  l'organismo  politico  della  società, 
non  incontrava  codici  religiosi  inalterabili,  giurisdizioni 
privilegiate,  caste  perpetue  che  la  nuova  fede  avesse  a 
distruggere  (1).  Non  altri  che  l'imperatore  avrebbe  ces- 
sato dalla  nominale  supremazia,  dalla  qualità  di  ponte- 
Gce;  ma  quanto  di  riverenza  non  mostrava  ogni  Cristiano 
alla  civile  sovranità  del  medesimo,  come  santificava  in 
un  mondo  sconvolto  da  rivoluzioni  incessanti  il  princi- 
pio della  sommissione  al  regnante!  Se  dunque  l'impera- 
tore non  vibrava  egli  stesso  la  scure,  se  non  spingeva  i 
governatori  delle  provincie  a  vibrarla,  a  confiscare,  ad 
incendere,  chi  altri  nel  popolo  aveva  grave  e  permanente 
interesse,  a  farsi  contro  i  Cristiani  accusatore  e  car- 
nefice? 

Cosi  crescendo  i  Cristiani  giornalmente  di  numero, 
invadendo  ogni  terra,  ogni  ceto  di  società,  i  Cesari  do- 
vettero moderare  le  ire,  e  pigliare  consiglio.  La  questione 
religiosa  divenne  la  principale  nell'impero:  la  persecu- 


(1)  Fa  solamente  nella  Persia  che  il  cristianesimo  si  trovò  a  fronte  di  una 
casta  sacerdotale,  quella  dei  Magi,  e  benché  questa  casta  già  fosse  stata  umi- 
liata e  tolta  dairantico  suo  grado  di  potenza ,  ivi  il  cristianesimo  ebbe  assai 
turbato  e  molto  lento  ed  incompleto  il  progresso. 


470  PIBTB  SETTIMi 

zione  non  fu  sempre  crudele  e  continua,  ma  talora  mo- 
derala e  con  intervalli  di  tregua:  vi  furono  epoche  in  cui 
la  controversia  religiosa  fu  perGno  proposta  e  discussa 
a  voti  senatorii,  e  le  misure  di  rigore  incominciarono  ad. 
incontrare  l'opposizione  anche  nelle  alte  magistrature 
e  corpi  politici  dello  Stato.  Già  all'epoca  di  Trajano  si 
oscillava  :  quel  suo  dire  a  Plinio  che  non  inquisisse  i 
Cristiani,  ma  che  agisse  se  fossero  portate  accuse,  mo- 
strava la  persuasione  neirimperante  che  giovasse  il  tol- 
lerare, sebbene  il  Pontefice  Massimo  dovesse  allontanare 
da  sé  il  sospetto  di  favoreggiare  i  Cristiani,  negando  di 
procedere  contro  i  medesimi  quando  venivano  accusati. 
In  tutto  l'Impero  l'antinomia  delle  due  credenze  si  ap« 
palesava,  ma  era  assai  maggiore  nelle  provincie  orientali 
che  non  nelle  occidentali.  Le  orientali  furono  la  culla  del 
cristianesimo,  e  la  sede  dei  primi  concilii:  certamente 
erano  state  meno  sorvegliate  delle  provincie  prossime 
alla  capitale;  gli  evangeli  erano  scritti  tutti  in  greco, 
tranne  forse  uno  solo,  composto  originalmente  in  ebraico; 
nessuno  però  lo  era  in  latino.  La  filosofia  greca,  inge- 
gnosa, acuta,  ardita,  ed  anche  in  parte  progressiva,  an- 
dava più  oltre  e  più  giusto  nella  verità  che  non  il  paga- 
nesimo, ma  era  troppo  mal  logica,  mal  compiuta  e 
retrograda  in  molte  parti  per  contrapporsi  al  Vangelo; 
le  sue  massime  però  gli  appianavano  in  parte  la  strada, 
ed  erano  diffuse  nel  levante  più  che  nel  ponente:  nelle 
Provincie  latine  le  massime  dì  alta  moralità  erano  piut- 
tosto parlate  dai  giuristi,  da  cui  sorsero  le  Pandette,  che 
non  largamente  diQ*use  nel  popolo.  Vi  era  poi  nelle 
greche  provincie  anche  l'azione  del  dualismo,  di  cui  fa- 
cemmo cenno  nel  capitolo  decimo  della  parte  prima,  e 
d'altronde  la  Grecia  pensante  e  retta  popolarmente  per 
secoli  «  era  il  terreno  più  opportuno  a  ricevere  i  pria- 


CAPITOLO  I.  *     ^171 

cipii  d'eguaglianza  e  libertà ,  che  risplendono  nel  cri- 
stianesimo (1). 

Neiroriente  dell'Impero  adunque  la  nuova  religione  si 
era  dilatata  nel  popolo  assai  più  che  in  ponente,  ed  al- 
l'epoca di  Costantino  era  urgente  pel  governo  il  bisogno 
di  decidersi  fra  il  paganesimo  ed  il  cristianesimo.  Ormai 
tutte  le  esperienze  per  conservare  Tunità  di  credenza  si 
erano  esaurite:  erasi  provala  la  persecuzione  contro  i 
Cristiani»  la  mera  preferenza  pei  Pagani,  la  tolleranza» 
rindiderentismo  apparente  o  reale»  ed  il  cristianesimo 
sempre  invadeva.  Rendevasi  palese  la  convenienza  di 
adottarlo,  ma  bisognava  farlo  senza  scosse»  senza  ca- 
lore di  discussioni,  senza  dichiarazioni  solenni;  di  guisa 
però  che  il  passaggio  fosse  rapido»  e  si  grande  il  favore 
impartito  al  cristianesimo,  da  renderlo  presto  vittorioso 
del  tutto.  Devonsi  infatti  da  ogni  governo  fare  le  muta* 
zioni  necessarie»  ed  importa  di  farle  prima  d'essere  vio-* 
lentali.  I  tempi»  dice  Cesare  Balbo»  che  bene  esprime 
questo  concetto,  mutano  sempre»  onde  i  sapienti  con*» 
servatori  sono  quelli  che  mutano  con  essi»  non  gli  im« 
mobili  che  sempre  resistendo  si  fanno  impossibili»  e  ro« 
vinano  sé  ed  altrui. 

Vi  erano  Cristiani  nelle  legioni;  vi  erano  anzi  legioni 
cristiane;  vi  erano  Cristiani  nei  più  elevati  gradi  delle 
amministrazioni  civili:  in  tutte  le  famiglie  principali  ne 
erano:  gli  Atti  dei  martiri  ne  fanno  certissima  fede.  Ài 
loro  crescere  non  riparo»  né  schermo  poteva  farsi  ;  se  ne 
scoprivano  sempre  di  nuovi:  dal  numero  dei  noti  argui- 
vasi  quello  degli  ignoti,  come  s'argomenta  fuoco  da  fumOi 
Non  bastavano  né  sottili»  né  atroci  procedimenti  :  se  ne 

(i)  Sotto  tutti  gli  aspetti  U  Oféda  era  il  terreno  più  aperto  airadozione  del 
crìstiatiesimo:  ad  Atene;  p.  e.»  na^ra  Pausania,  non  v'erano  solo  i  templi  delle 
note  deità»  ma  anche  un  tempio  eretto  al  Dio  sconosciuto; 


472      *  PIETE  SETTIMA 

aveva  piena  esperienza  nella  strada  dolente  di  tante  re- 
pressioni sanguigne,  che  s*era  invano  percorsa:  non  solo 
dovevasi  porre  freno  ad  orgogli  e  violenze  pagane,  ma 
volgere  la  riflessione  politica  a  fafé  le  brame  cristiane 
contente:  regnare  senza  mutamento  era  un  inchinarsi 
sul  baratro  attendendo  paurosi  o  frementi  la  spinta  :  in- 
fatti la  nave  era  in  fortuna,  e  poteva  esser  vinta  dalle 
onde. 

Costantino  era  adulto  nelle  polìtiche  arti:  tutto  osser- 
vava, molto  discerneva.  Non  chiese  probabilmente  consi- 
gli ad  alcuno,  che  nessuno  conforta  a  tali  ardimenti  du- 
bitabondo  sovrano:  non  s'abbagliò  dell'altrui  lume,  ma 
s'accese  e  si  invigorì  di  se  stesso  :  guardò  il  triste  calle 
dei  fatti  operati,  maturò  le  iterate  esperienze,  si  fece 
saggio  delle  condizioni  delle  varie  provincie  :  a  tanto  rin- 
calzo di  argomenti  gli  fu  manifesto  il  meglio,  e  le  sue 
esitanze  si  ruppero  :  fissò  neiralto  segreto  principio  e  fine» 
e  francheggiato  decise  non  contrasterebbe  alla  virtù  delle 
cose  nuove  e  vincenti,  vincerebbe  con  esse.  Eppure  non 
anima  cristiana,  ma  dispietata  era  la  sua  :  non  gli  era 
faticoso  il  delitto:  si  minava  veloce  nell'ira,  intimava  tor- 
menti con  barbarie  dispotica,  non  con  giustizia  rigida, 
ed  era  assetato,  non  saziato  di  loro,  ed  anzi  sempre  di- 
sciolto a  percuotere:  uccise  la  moglie  ed  il  figlio,  il  pa- 
drigno,  il  cognato,  il  nipote:  come  fu  un  grande  esecu- 
tore di  Marte  in  battaglia,  fu  un  crudele  esecutore  sul 
trono  ;  ma  congiungeva  Tindifferentismo  all'intelletto, 
e  nelle  grandi  cose  politiche  colla  mente  temperò  la 
ferocia,  e  l'adottato  cristianesimo  nel  giudizio  d'autori 
parziali  lavoUo  d'ogni  biasimo,  e  lo  disgravò  d'ogni 
tristizie  (1). 

(1)  Perchè  Costantino  per  convinzione  o  politica  favorì  il  cristianesimo,  gli 
autori  ecclesiastici  gli  perdonano  troppo  ;  gli  autori  pagani  invece  rimproverano 


CAPITOLO  1.  '  473 

Nell'adozione  del  cristianesimo  comprendesi»  a  parer 
nostro,  anche  la  causa  della  traslazione  della  capitale. 
Costantino  aveva  tenuto  il  comando  in  Brettagna  ed  in 
Gallia,  ove  già  erano  assai  numerosi  i  Cristiani:  aspirava 
airimperìo:  mostrò  volto  amico  ai  medesimi,  li  ammise 
a  migliaja  nelFesercito  suo,  prese  la  porpora,  marciò,  ed 
alla  grande  battaglia  di  Ponte  Molle  sotto  Roma,  gridò 
ai  prodigi,  alla  croce  apparsa  in  cielo,  alla  promessa  vit- 
toria, in  hoc  signo  vincer  Janeiiizzò  le  genti,  e  vinse.  Pur 
non  osò  ancora  professare  apertamente  la  fede  dei  Cri- 
stiani :  con  graduati  ordinamenti  si  dispose  al  varco  del 
fiume:  alfine  trovò  sicuro  il  guado  epassollo:  fecesiegli 
medesimo,  ma  non  solennemente,  cristiano;  parve  anzi 
che  sempre  lasciasse  dietro  di  sé  un  ponte  a  ritirata  ove 
fosse  necessaria,  ma  dopo  due  anni,  che  per  si  grande 
misura  erano  ancora  breve  periodo,  di  necessarie  pre- 
parazioni e  costruzioni  a  Bisanzio,  vi  trasportò  la  sede 
dell'Impero,  collocandola  nel  centro  delle  provincie  cri- 
stiane, che  erano  ad  un  tempo  le  più  colte  e  più  ric- 
che (1).  Come  Anteo  nella  favola  desumeva  la  sua  forza 
dalla  terra,  cosi  Costantino  volle  da  questa  desumerla,  e 

più  acremenle  in  lui  quei  delilti  che,  da  altri  Cesari  parimente  commessi,  sono 
dai  medesimi  preteriti  o  narrati  con  espressioni  più  miti.  Diceva  Tabate  Fleury 
(e  peccava  egli  pure,  ci  sembra,  di  molto  favore)  che  di  Costantino  si  ha  a 
credere  il  male  che  ne  racconta  Eusebio,  ed  il  bene  indicato  da  Zosimo. 

(1)  La  serie  cronologica  delle  leggi  pubblicate  da  Costantino  convalida  Topi- 
nione  prodotta.  Le  più  antiche  sue  le^i  emanate  quando  durava  tuttavia  Toscil- 
ianza  sulla  deliberazione  a  prendere,  sono  leggi  di  riflessione  e  cautela,  leggi 
di  tolleranza  e  d'amore  per  Pagani,  per  Cristiani,  per  tutti.  Le  leggi  più  recenti 
sono  di  moderazione  verso  i  Pagani,  che  tuttora  incutevano  spaventa,  ma  sono 
favorevolissime  pei  Cristiani,  ai  quali  desideravasi  la  pronta  preponderanza. 
Costantino  non  osò  giammai  usare  violenza  diretta  perchè  tosto  traboccasse  la 
bilancia,  ma  distribuiva  gradatamente  i  pesi  per  modo  che  piegasse  a  favore 
della  scelta  religione,  di  cui  egli  procurava  d'ottenere  nei  concilii  il  primato. 
Ma  tutte  le  sue  leggi  ed  antiche  e  recenti  sono  sempre  nemiche  agli  Ebrei, 
perchè  odiati  da  Pagani  e  Cristiani,  destituiti  di  potenza,  fra  loro  stessi  discordi, 
ed  in  varie  sette  divisi. 


474  PIBTE  SETTIMA 

la  terra  più  sicura  per  lui  era  appunto  la  greca.  In  Roma 
tutti  i  monumenti  attestavano  il  paganesimo  e  parlavano 
la  libertà  ;  quelli  che  si  erigeranno  a  Bisanzio  non  atte- 
steranno se  non  il  cristianesimo  e  l'autocrazia  impe- 
riale. La  politica  religiosa  e  la  governativa  si  associano 
ad  uno  scopo:  per  esso  la  decadenza  della  coltura 
latina  accelera  vasi ,  precipitavasi;  si  infondeva  invece 
nuova  vita  nella  coltura  greca,  e  forse  fu  Costantino 
che  inconscio  salvò  la  coltura  universale  perchè  in- 
vigorì la  greca,  e  quesla  sopravvisse ,  e  conlribul  po- 
tentemente nell'epoca  delle  crociate  e  nel  secolo  XIV  al 
risorgere  della  civiltà  in  Italia  e  nell'Europa  occiden- 
tale. Ma  Costantino  slesso  non  aveva  pensieri  sì  no- 
bili, non  guardava  si  lungi,  non  favoriva  Roma,  ove 
poteva  sorgere  una  fazione  contraria,  ed  inalzava  Bi* 
Sanzio.  Fu  certamente  nel  fabbricare  Bisanzio  in  un'e- 
poca, nella  quale  le  arti  costruttive,  e  le  abbellitive  di  esse 
erano  perdute  a  Roma  e  decadute  anche  nella  Grecia, 
che  un'immensa  distruzione  d'antichi  monumenti  segui: 
specialmente  rovinarono,  cedendo  quasi  pietrame  alla 
nuova  Bisanzio  le  nobili  forme  dei  loro  templi  e  dei  cir- 
chi, i  grandi  edlQcii  dei  quali  era  sparsa  la  Troade.  Del- 
l'antica Troja  erano  perite  le  stesse  rovine  (Lue,  lib.  IX), 
ma  ne  era  sorta  una  nuova  (Ilium  novum),  alla  cui  gran- 
dezza avevano  contribuito  Alessandro  edi  successori  suoi. 
Leggiamo  che  Costantino  ne  portò  il  palladio  a  Bisanzio, 
ma  quant^altro  ne  avrà  portato  volendo  fare  di  Bisanzio 
una  capitale  non  indegna  di  Romal  Continuò  poi  lunga- 
mentela  spogliazione  di  Roma  per  adornare  Bisanzio  t  Co- 
stanzo II  vi  trasportò  perfìno  le  tegole  di  bronzo  dorato 
del  Panteon  :  Eraclio  prese  quanto  volle  per  sé,  e  con- 
cesse al  ponteGce  Onorio  di  togliere  dai  romani  monu- 
menti ciò  che  credesse  giovevole  a  costruire  ed  ornare  basi- 


CAPITOLO  I.  475 

liche.  Più  tardi  Vopera  della  distruzione  dei  greci  monu- 
menti non  lungi  da  Bisanzio  fu  proseguita  dai  Genovesi 
per  inalzare  i  loro  castelli  sul  Bosforo,  e  per  la  colonia  di 
Galata,  e  dai  sovrani  del  Basso  Impero  per  ediQcare  le 
mura  di  Costantinopoli.  Poco  rimase  da  distruggere  ai 
Turchi  :  fecero  però  il  loro  meglio  :  appagandosi  per  le 
abitazioni,  perQuo  per  quelle  dei  sultani,  di  mura  di 
legno,  considerarono  le  colonne  di  marmo  sparse  nella 
Troade  come  miniera  per  trarne  le  palle  da  carica  pei 
mostruosi  cannoni  delle  antiche  batterie  dei  Dardanelli. 

Cosi  il  propagato  cristianesimo  aveva  guidato  all'im- 
prevedibile efl'etto  della  sostituzione  di  Bisanzio  a  Roma, 
ma  il  decreto  di  Costantino  deve  essere  caduto  come  ful- 
mine sull'esautorata  città,  trionfante  di  sua  corona  da  se- 
coli. Infinite  erano  le  sofferenze,  le  dolorazioni  private, 
i  valori  distrutti,  gli  interessi  sconvolti,  le  affezioni  tor- 
mentate, gli  orgogli  umiliati,  ed  ogni  somiglianza  è 
scarsa  a  rendere  il  vero.  Costantino  però  avrà  in  allora 
mantenuto  a  Roma  le  sue  più  salde  legioni  cristiane, 
i  suoi  condottieri  più  prudenti  ;  bisogno  grande,  ma  pur 
molto  minore  s'aveva  di  quel  nerbo  di  forze  sicure  .sul- 
l'Eufrate, sull'Istro  e  sul  Reno  I 

Intanto  tutti  i  Cristiani,  tutto  l'Oriente,  tutti  gli  uo- 
mini temprati  a  benevolenza  e  virtù  gridavano  a  Costan- 
tino l'osanna.  Le  persecuzioni  cessavano  :  si  rompevano 
i  ceppi,  gli  antri  di  pena  s'aprivano,  sparivano  le  ta- 
glienti mannaje,  le  infuocate  tanaglie,  le  orribili  ruote  : 
racconsolavansi  di  libertà  le  credenze:  s'udiva  pei  Cri- 
stiani e  filosofi  un  nuovo  e  dolce  parlare,  e  già  si  aveva 
nel  cospetto  un  tempo  di  sorti  propizie  :  alti  destini  ed  acute 
voglie  erano  paghe:  tutti  i  sudditi  sarebbero  degni  dei 
più  alti  seggi  dello  Stato,  tutti  accorti  e  provvidi  dei  loro 
interessi,  libere  le  menti  di  sollevarsi  sovra  l'ingombro 


476  PiRTE    SETTIMA 

delle  cose  terrene,  riposato  il  vivere  di  cittadinanza  in  som- 
missione concorde.  Ed  ai  medesimi  poi  i  vescovi  concio- 
navano: TinfinitobeneGcio  di  Cesare  riconoscessero,  com- 
pensassero: praticassero  le  virtù  del  Vangelo  verso  il 
principe  preposto  al  suo  ufficio  da  Dio,  adorassero  nelle 
sue  le  volontà  del  cielo,  l'ostello  di  Cristo  liberamente  vi- 
sitassero ,  sui  sacri  volumi  con  vista  perpetua  veglias- 
sero, i  poverelli  (le  masse)  beneficassero,  nuovi  prodigi 
sperasero:  già  essere  sembrati  datori  di  vita  ai  Cristiani 
quei  principi  che  non  la  toglievano  ;  infonderla  invece  Co- 
stantino a  loro,  infonderla  a  quanti  il  loro  esempio  imi- 
tassero ;  finora  essere  stata  gloria  dei  soli  più  eletti  cam- 
pioni di  Cristo  lo  scriversi  sulla  fronte  le  parole  ìwn 
erubesco  Evangelium,  ora  non  essere  vietato  ad  alcuno: 
vedersi  il  dito  di  Dio  nei  mirabili  fatti:  non  sarebbe 
sforzo  di  più  colpo  il  ridurrei  Pagani  al  Vangelo:  essere 
la  fede  quella  mistica  palma  che  sempre  fruttifica  e  non 
perde  mai  foglia  :  per  essa  la  piccola  stanza  di  questo 
pianeta  all'immensità  dei  cieli  congiungersi  :  tutto  l'Im- 
pero diventerebbe  per  essa  una  terra  di  promissione: 
ormai  non  esservi  distinzione  fra  i  Romani  ed  i  Greci  : 
lutti  inchinarsi  a  Bisanzio:  la  fraternità  fra  i  varii  rami 
d'uno  stesso  popolo  essere  antica  ;  fra  i  popoli  diversi 
non  esservi  stata,  ma  predicare  il  Vangelo  la  fraternità 
fra  tutti  gli  uomini:  tutti  si  accostassero:  inaugurerebbe 
la  grandmerà  Costantino,  potente  airacquisto,  sapiente  a 
conservare  :  già  essere  liberi  di  voce  e  viaggio  i  messag- 
gieri  del  regno  eterno,  e  spandere  liberamente  i  puri  e 
dolci  suoi  rivi  la  santa  dottrina:  nessuno  dei  catecumeni 
starsi  più  chiuso  e  smarrito  fingendo  all'infuori  il  paga- 
nesimo: versarsi  gli  affetti  dei  Cristiani  l'uno  in  seno 
dell'altro,  e  parlare  le  braccia  al  collo  avvinte:  assidersi 
la  giustizia  sul  trono  :  non  fine  agli  odii  promettersi,  ma 


cAPnoLO  I.  477 

incatenarsi  la  discordia:  cessare  le  scelleranze  e  pro- 
celle: levarsi  sulla  prora  fortunata  dello  Stato  vittoriosa 
la  Croce.  E  più  infervoravansi  iterando  esortazioni,  av- 
vertimenti e  speranze:  si  legassero  per  fede  al  principe 
in  cui  tanta  divina  grazia  traluceva,  né  mai  torcessero  il 
loro  amore  da  lui:  essere  Gnìla  la  rovina  ed  il  crudo 
scempio  dei  Cristiani  :  più  non  faticherebbero  in  nuove 
battaglie:  ne  recassero  ogni  cagione  e  grazia  al  cielo, 
che  aveva  il  gran  movimento  iniziato  e  lo  compirebbe: 
cadrebbero  ormai  di  poco  ventole  tende  pagane:  pregas- 
sero perchè  sia  agli  occhi  di  tutti  il  vero  schiarato  :  es- 
sere la  fede  un  bene  che  più  si  arricchisce  in  ciascuno, 
quanto  più  in  mille  si  spande:  dessero  ardore  di  fede: 
quelli  amassero  da  cui  male  ebbero:  tutti  raccogliessero 
che  siano  da  Dio  raccolti  :  altri  Sauli  che  avevano  per- 
seguitato la  Chiesa  di  Dio,  vasi  di  elezione  diventerebbero  ; 
si  convertirebbero  altri  Erodi,  che  avevano  dato  alla  dan- 
zatrice la  testa  di  Giovanni  :  cantassero  in  ogni  terra  la 
gloria  di  Costantino:  avere  egli  edificato,  perchè  quegli 
solo  edifica  la  cui  casa  è  edificata  da  Dio,  e  quegli  solo 
vigila,  che  è  vigilato  da  lui  :  dietro  l'imperiale  guida,  ed  a 
sua  fidanza  andassero. 

Necessità,  od  utilità  facevano  andar  veloce  Costantino, 
ma  non  cosi  che  ai  Cristiani  bastasse.  Se  però  i  mede- 
simi vedevano  si  piana  ed  aperta  la  via  del  cielo,  se 
Costantino  dannavano  perfino  di  freddezza,  di  procedere 
lento,  e  di  non  mostrarsi  più  vivo,  egli  non  aveva  sì 
accese  le  voglie,  né  voleva  essere  da  altri  maggiormente 
scoperto,  che  egli  non  si  scoprisse:  voleva  guidare  il  moto, 
e  non  esserne  strascinato,  e  mirando  col  senno  per  entro 
le  politiche  cose,  amava  gratificarsi  i  Cristiani,  contenere 
À  Pagani,  e  non  scompagnarsi  afiatto  da  loro,  atten- 
dere Vajuto  delle  occasioni,  che  è  tanto  polente»  comun- 


478  pàbte  settima 

que  incerto  nei  giorni  e  nei  modi,  maturare  con  pru- 
denza i  disegni,  né  tosto  spiegare  tutte  le  vele  alla  nave. 
Costantino  non  era  principe  da  vaneggiare  coi  detti  : 
meglio  stavagli  la  spada  allato,  che  il  sermonare  nella 
lingua:  avrebbe  avuto  per  ragnatele  tutte  le  ragioni  dei 
deboli,  ma  fra  gli  interessi  di  Stato  in  pazienti  ondeggia- 
menti volgevasi ,  non  trasmodando  a  baldanza.  Infatti 
Costantino  voleva-  distruggere,  ma  bene  sostituire,  ed  a 
ciò  durata  di  tempo  richiedesì:  sapeva  che  impronto 
favellare  guasta  ogni  buono  agire,  ed  è  della  sapienza 
politica  come  dei  Gumi  profondi  che  senza  strepilo  scor- 
rono, laddove  son  garruli  i  rivi,  e  romorosi  i  torrenti  : 
conosceva  che  ogni  errore  gli  sarebbe  stato  fatale,  che 
gli  uomini  non  avevano  tutti  la  sua  penetrazione,  che 
ropposizione  avvisa  ad  ogni  vantaggio,  d*ogni  causa  di 
malcontento  confortasi,  raccoglie  ogni  stilla,  e  si  forma 
in  mare:  godeva  del  successo,  avrebbe  condotto  a  termine 
il  solco,  ma  con  azione  graduala  di  potenza  attrattiva, 
e  non  con  violenza  di  pericoloso  certame  :  s'irritava  quindi 
coi  troppo  plaudenti  ;  si  governava  col  flagello  e  col  morso, 
e  circondato  da  impazienti  fautori,  forse  diceva:  Quo* 
modo  me  expediam  ex  hac  turba  tanta  ? 

Vi  era  in  tutto  l'Impero  agitazione  e  dubbiezza  :  i  Cri- 
stiani, che  avevano  fino  allora  infinitamente  sofferto, 
spingevano  ;  ma  il  volto  severo,  implacabile  di  Costantino 
dominava  timori  e  speranze,  le  concitazioni  degli  uni,  i 
risentimenti  degli  altri.  Intanto  Roma  oiTibilmente  sof- 
friva :  era  lagrimosa  e  malevola.  Ma  come  scuotersi,  dove 
trovar  lena,  qual  bandiera  levare  in  tanto  rivolgimento 
di  idee,  fra  tanto  apparato  di  forze  contrarie,  nel  ratto 
cammino  del  cristianesimo,  nello  sfasciarsi  del  pagane- 
simo? Ogni  luogo  inaccessibile  diventa  piano  se  mancano 
i  fdrti  diférisarii  ^'doWahoi' forti  difensori  di!  Rotaa^ 


CAPITOLO  I.  479 

Avera  inalzato  dei  templi  alla  Fortuna:  ora  non  poteva 
inalzarli  che  alla  Quiete. 

Eppure  Roma  fremeva.  Leggesi  infatti  che  le  statue  di 
Costantino  vi  furono  guaste  a  colpi  di  pietra.  In  circo- 
stanze ordinarie  egli  avrebbe  vendicato  atrocemente  Tol* 
traggio  :  in  queste  noi  fece.  Gli  eserciti  più  che  i  popoli 
potevano,  ma  anche  con  questi  non  dovevasi  fare  a 
sicurtà,  ed  altronde  il  consumarli  era  danno.  Non  biso* 
gnava  far  cadere  in  disperazione  i  Romani,  bensì  ade-» 
scare  Roma  con  dolce  dire,  assicurarla  che  poco  scen- 
derebbe, che  continuerebbe  per  operosità,  per  commerci 
e  per  arti  a  recare  la  gloria  nel  mondo,  che  tutti  accor- 
rerebbero alla  culla  dell'impero  romano  ad  apprendervi 
l'eroismo  generato  da  essa,  che  stanziava  nel  cuore  del 
principe  vivissimo  affetto  per  Roma,  e  precorrerebbe  ad 
ogni  suo  prego.  Quindi  Costantino  da  impetuoso  e  col- 
lerico si  fece  rispettivo  e  pacato:  esalò  in  celie  il  livore: 
passò  la  mano  sul  viso,  e  sorridendo  con  dolcezza, 
disse  di  non  accorgersi  di  contusioni  e  ferite.  Tale  è 
l'aneddoto  che  narra  san  Giovanni  Crisostomo  nell'ome- 
lia sul  ritorno  del  vescovo  Flaviano  ad  Antiochia.  Cosi 
usò  natura  di  volpe,  benché  quella  del  leone  più  amasse  : 
seppe  farsi  riverso,  e  l'offesa  non  riverberata  brevemente 
svanì. 

Ha  dove  con  luci  acute  d'intelletto  vide  Costantino  che 
la  mitezza  poteva  gli  effetti  delle  proprie  azioni  distrug- 
gere, accorse  con  mano  di  ferro  e  con  immanità  sangui- 
nosa. Già  dissimo  che  egli  uccise  il  Gglio  :  anche  Filippo  II 
di  Spagna,  anche  Pietro  il  Grande  di  Russia  uccisero  i 
loro.  E  perchè?  Narrasi  di  folli  amori  dei  giovani  colle 
loro  matrigne,  di  gelosie  paterne,  di  incesti  e  vendette.  E 
romanzi  e  tragedie  si  scrìssero,  e  si  fece  anche  della  sto- 
ria romanzo  e  tragedia.  Quanto  al  figlio' di  Cottaàti&a, 


480  FAUTB  SETTIXA 

nuiraltro  infatti  si  sa  sulla  causa  per  cui  si  è  aguzzato  il 
paterno  coltello:  susurrasi  però  quanto  ai  figli  di  Fi- 
lippo e  di  Pietro,  che  essi  osteggiavano  le  disposizioni  go- 
vernative dei  padri,  che  cioè  Don  Carlos  faceva  ai  Rifor- 
misti buon  viso,  ed  Alessio  facevalo  ai  Conservatori  di 
Russia.  E  questa,  a  parer  nostro,  è  la  vera  causa  del  loro 
morire,  e  senza  dubbio  lo  fu  anche  della  dispietata  con- 
danna del  figlio  di  Costantino.  Pietro  e  Costantino  furono 
entrambi  riformatori  grandi  ed  audaci:  Filippo  nonio  fu, 
ma  il  mondo  riformavasi  senza  di  lui,  e  contro  di  luì. 
Avrebbero  sofferto  di  vedere  l'opera  loro  colla  loro  morie 
distrutta?  Come  regnare  dopo  morte  se  l'erede  presun- 
tivo del  trono  voleva  battere  una  via  direttamente  contra- 
ria, svellere  ogni  radice  dei  paterni  decreti,  alzare  l'op- 
posta bandiera,  se  forse  imprudentemente  dicevalo,  se 
coi  palesati  intendimenti  già  rendeva  attualmente  dilli- 
Cile  il  corso,  e  scemava  la  forza  dei  comandi  del  padre? 
Venuti  all'amara  certezza  che  tutto  l'edificio  sarebbe  alla 
loro  morte  guasto  e  forse  smantellato,  Costantino,  Fi- 
lippo e  Pietro  mostrarono  quanto  possono  nell'uomo 
orgoglio,  veggenza,  fanatismo,  ferocia  ;  decisero  l'orribile 
fatto  :  se  lo  fecero  anche  malignamente  consigliare,  quasi 
ripugnassero,  dagli  Achitofelli  e  Gioabbo  industri  cono- 
scitori delle  voglie  del  principe:  uccisero  i  figli  come 
Giunio  Bruto  uccise  i  suoi,  e  con  maggiore  argomento 
di  Bruto,  che  re  non  era,  ma  magistrato  di  repubblica: 
sul  trono  regnavano:  anche  discesi  nella  tomba  i  loro 
comandi  vivrebbero  :  versando  il  sangue  dei  figli  facevano 
sull'avvenire  conquista.  Magli  atroci  fatti  in  silenzio  e  nel 
mistero  compivansi:  potevasi  fare  regolarmente  giudizio? 
giovava  il  divulgare  che  la  resistenza  trovavasi  entro  le 
soglie  imperiali,  e  sugli  stessi  gradini  del  trono?^  Rimase 
quindi  aperto  il  volo  all'errore,  e  largamente  spaziò,  ma 


CAPITOLO  I.  481 

non  così  che  non  si  discoprano  alcune  traccie  del  vero, 
e  l'evidenza  delle  condizioni  politiche  non  le  palesi  e  com- 
pleti. Schiller,  che  fu  Vana  delle  anime  più  belle  e  delle 
pili  chiare  intelligenze  che  il  nostro  secolo  onorino, 
nella  famosa  tragedia  il  Don  Carlo  le  ha  anche  cono- 
sciute; ed  àbilmente  toccate. 

Non  altrimenti  di  Costantino  agirono  pel  medesimo 
impulso  di  interessi  politici  e  prima  e  dopo  di  lui  non 
pochi  condottieri  e  sovrani.  Quando  Gatumando,  capo 
d*una  confederazione  di  Galli,  aspirava  al  riacquisto  del 
litorale  marittimo,  a  signoreggiare  nelle  greche  colonie, 
e  soprattutto  a  possedere  Marsiglia,  egli  si  dimenticava 
dei  druidi,  adorava  Minerva,  narrava  d'averne  appari- 
zioni frequenti,  d'ascoltarne  i  consigli,  d'ubbidire  ai  co- 
mandi, faceva  ricchissimi  doni  ai  tempii  dei  Greci,  voleva 
con  essi  amicizia  perpetua  (Giustino,  lib.  XLIII,  e.  5). 
Ed  il  pagano  Glodoveo  appena  ebbe  conquistato  nel  campo 
di  Soissons  la  Gallia  cristiano-romana,  comprese  che  nel 
contrasto  delle  religioni  non  poteva  mancare  di  essere 
odiato  da  una  metà  del  suo  popolo,  e  volle  esserlo  dalla 
parte  che  diveniva  ogni  giorno  più  debole.  La  barbarica 
energia  in  lui  manifestavasi  per  le  azioni  come  si  mani- 
festa nelle  piante  pel  verde  lavila.  A  palesare  adunque  la 
sua  riverenza  pel  cristianesimo,  e  pei  vescovi  cattolici, 
egli  spaccò  colla  regia  mazza  il  capo  ad  un  condottiero 
renitente  a  restituire  ad  un  vescovo  un  vaso  trovato  in 
mezzo  al  bottino  (1);  poi  trasferì  la  sua  sede  nel  paese 
acquistato,  si  professò  cristiano,  comprese  perfino  che 
l'arianismo  era  abbomineyole,  e  volle  essere  unto  re  col- 

(1)  Millot  racconU  il  fatto,  e  non  ne  intende  la  cansa:  crede  spiegarlo  dicendo 
che  ì  Franchi  erano  barbari,  ed  afevano  idu  confuse  tul  dìriito  di  proprieià. 
Eppure  la  storia  di  Millot  ebbe  Toaore  di  trenta  edizioni,  e  non  so  di  quante 

traduzioni. 

31 


482  PilTB  8CTTIMÌ 

Tolio  della  sacra  ampolla,  che  credè  discesa  dal  cielo. 
Del  resto  Glodoveo  non  mutò  costume,  e  continuò  a  giuo- 
care  di  mazza  ora  per  imprimere  nelle  dure  cervici  di 
qualche  suddito  le  nuove  idee  politiche  e  religiose,  ora 
per  dilatare  con  grandi  vittorie  lo  Stato  ;  cosi  che  non  si 
trovò  possibile  di  farlo  con  buona  difesa  patrizio  del  cielo, 
ossìa  di  canonizzarlo,  come  non  era  stato  possibile  di 
canonizzare  Costantino  :  si  canonizzarono  invece  la  mo- 
glie dell'uno,  e  la  madre  delKaltro. 

Ricerchiamo  le  storie  di  qualunque  età  e  contrada,  e 
troviamo  la  politica  consigliera  dei  re  nelKabbandono  di 
antiche  credenze,  e  nell'adozione  di  nuove.  Leovigildo  ha 
battuto  in  [spagna  e  Romani,  ed  Alani,  e  Svevi,  e  Van- 
dali, e  lasciato  a  Recarcdo  una  mostruosa  Rabele  di  lin- 
gue e  di  culti  :  Recaredo  studia,  vuole  TuniGcazione,  tenta 
gli  animi  dei  suoi  Goti  e  dei  vassalli,  propone  Tadozione 
d'un  solo  culto,  e  l'abolizione  di  tutti  gli  altri,  vede  che 
i  potenti  si  conformano  al  suo  desiderio  come  metallo 
stemperalo  si  figura  dall'artefice,  si  fida  allora  al  pas- 
saggio, si  fa  Cristiano,  e  gli  altri  vanno  alle  nuove  devo- 
zioni con  lui  (anno  586).  E  Wladimiro  creava  di  barbare 
popolazioni  un  grande  Stato  nella  Scizia,  conquistava 
paesi  cattolici  sui  Polacchi,  e  paesi  greco-eterodossi  sui 
Bizantini  :  entrava  in  Kherson  :  voleva  civilizzare  lo  Stato, 
ed  essere  il  Carlo  Magno  del  Nord.  Incomincia  a  creare 
nuovi  idoli,  il  che  vuol  dire  a  degradare  gli  antichi,  manda 
inviati  all'estero  perchè  gli  narrino  qual  sia  la  religione 
più  utile,  riceve  legazioni  dal  pontefice,  e  ne  riceve  da 
Bisanzio,  disputa  con  Islamiti  ed  Ebrei.  Si  decide  alfine 
per  la  Chiesa  dei  Greci,  ma  l'imperatore  lo  riconosca  si- 
gnore di  Kherson,  e  gli  dia  in  moglie  la  figlia  Anna, 
poi  si  battezzerà.  Viene  Anna,  ma  si  oscilla  ancora, 
si  pensano  malizie,  si  sperimentano  opinioni  con  delti 


CAPITOLO  I.  483 

incoerenti ,  diversi  e  contrarii  :  si  divulgano  miracoli , 
e  sono  creduli  :  alfine  Wladimiro  si  fa  battezzare  in 
Kherson,  ed  il  suo  esercito  si  battezza  in  massa  nel 
Dnieper  (anno  988).  Gli  idoli  si  strascinano  a  coda  di 
cavallo,  si  frustano ,  si  spezzano,  si  affogano  :  così  si 
avviliice  e  caHiga  il  demonio,  e  se  gli  Dei  sono  dal 
principe  trattati  in  tal  modo,  pensi  ogni  suddito  come 
lo  sarà  chi  li  veneri  I  Non  era  Wladimiro  un  principe  che 
diffondesse  sulle  labbra  la  grazia,  od  immettesse  beni- 
gnamente timore:  era  un  Barbaro  come  il  suo  paese  era 
barbaro  :  procedeva  col  martello  e  coll'ascia  :  non  cer- 
cava blandimenti  a  placare,  non  aveva  parole  a  molcere 
le  amaritudini,  non  quietava  di  industriose  promesse,  non 
palliava  di  speranze,  non  mostrava  in  volto  la  pace 
avendo  nel  cuore  pensieri  di  guerra;  anche  Pietro  il  Grande 
doveva  un  giorno  apprendere  da  lui  come  diffondere  col 
ferro  e  col  fuoco  nelle  masse  moscovite  la  venerazione 
ai  nuovi  ordinamenti  religiosi  imposti  dal  principe!  Wla- 
dimiro precipita:  inalza  chiese;  concede  possessi  e  diritti 
ai  vescovi:  vuol  dare  pronta  e  salda  radice  alla  fede,  ed 
è  appunto  nelle  nebbie  di  quel  tempo  che  il  clero  russo 
cerca  le  prove  dei  tanti  privilegi  che  ha  per  lunghi  anni 
goduto  (1).  Anche  Canuto  il  Grande  quando  si  insignorì 
della  cristiana  Inghilterra  (secolo  XI),  si  fece  Cristiano» 
lasciò  la  Scandinavia  pagana,  andò  pellegrino  a  Roma, 
fu  fondatore  instancabile  di  chiese  e  conventi.  Tutti 
imitarono  Costantino  variando  di  fede  per  utilità  di  poli- 
tica :  variarono  altresì  di  residenza,  costituirono  nuovo 
Stato  ogni  volta  che  il  farlo  giovò, 
rion  variarono  di  fede,  né  fare  il  potevano»  ma  imita- 

(1)  Abbiamo  desanto  dal  monaco  Nestore ,  TErodoto  dei  Russi,  cbe  scrlTeva 
alla  Óne  del  secolo  XI ,  quanto  riguarda  la  conversione  di  Wladimiro.  Quel 
capitolo  VIU  della  famosa  sua  Cronaca  è  sommamente  interessante. 


484  PARTE  SETTIMA 

rono  Costantino  mutando  per  cause  identiche  la  sede 
dello  Stalo  anche  i  calidi  deirislamismo.  Avevano  bat- 
tuto i  Sassanidi  a  Cadesia  (anno  636)  :  erano  entrati  nella 
magnifica  loro  capitale  Gtesifonte  ;  potevano  risiedervi» 
e  di  là,  dominare  sulla  ricchissima  Mesopotamia,  ma  la- 
sciarono il  Tigri,  abbandonarono  Gtesifonte,  ed  alla  de- 
stra dell'Eufrate  fondarono  Kufa  in  mezzo  alle  tribù 
seguaci  della  loro  credenza:  quando  poi  questa  si  dif- 
fuse, e  trionfò  in  tutta  la  Siria,  la  Mesopotamia,  la  Persia, 
in  allora  i  califfi  fecero  rivivere  in  Bagdad  Tantica  Babi- 
lonia. Anche  neirindostan  le  capitali  negli  scorsi  secoli 
variarono  sovente  coirallernare  dei  successi  guerreschi, 
e  delle  credenze  mussulmane,  buddiste  e  braminiche. 
Non  altrimenti  segui  a  Java;  cosi  avvenne  in  Sumatra. 
Ogni  conquistatore  scelse  a  residenza  quel  punto  che  gli 
parve  più  opportuno  alla  nuova  monarchia,  quand'anche 
non  fosse  il  vero  centro  di  popolazione  e  ricchezza,  ma  si 
dovesse  procurare  coll'arle  di  presto  renderlo  tale.  La 
forza  delle  religiose  credenze  è  la  massima  nelle  umane 
società:  essa  adunque  esercita  influenza  primaria  anche 
sulla  collocazione  del  centro  amministrativo. 

Pel  fatto  di  Costantino  Roma  divenne  città  secondaria 
e  dipendente  da  Costantinopoli  :  la  sua  decadenza  in 
allora  precipitò,  benché  riprendesse  per  breve  tempo  la 
corona  delle  provincie  occidentali,  che  furono  invase  e 
soggiogate  dai  Barbari  (1).  L'impero  romano  tuttora  con- 

(1)  Coirerezione  di  Bisanzio  a  capitale  rovinò  pure  profondamente,  e  per  non 
risorgere,  Atene.  Finché  la  sede  deirimpero  fu  a  Roma,  Alene  era  stata,  almeno 
di  gloria,  la  prima  città  del  Levante,  divideva  con  Alessandria  non  la  ricchezza 
dei  commerci,*ma  la  nobiltà  degli  sttidii,  e  nessuna  città  Peguagliava  nelPonore 
delle  arti  :  i  Cesari  la  visitavano  :  Adriano  lungamente  vi  dimorò,  ed  egli,  ed  il 
dovizioso  Erode  Attico  la  abbellivano  di  nuovi  monumenti,  e  Marco  Aurelio  ìa 
beneficava.  Dopo  di  Costantino,  Atene  oscurossi,  e  giacque:  Giustiniano  ne 
abolì  perfino  le  scuole,  già  diventate  povere  e  silenti  :  tutto  confluiva  a  Bisanzio  \ 
Ma  mirabile  è  che  i  Turchi  ebbero  per  Atene  quel  maggiore  rispetto  di  cui 


CINTOLO   I.  485 

servando  nome  unitario,  alla  morte  di  Giuliano  si  separò 
in  due  Stati  :  l'aquila  romana  si  fece  bicipite.  Questo  fatto 
sarà  stato  indubbiamente  agevolato  dalla  pertinace  resi- 
stenza romana  ad  osteggiare  il  primato  di  Bisanzio  e 
dalla  sua  potente  tendenza  a  ripigliare  di  lena,  ed  a  ri- 
tornare sede  sicura  e  perenne  almeno  del  mondo  occi- 
dentale. Con  ciò  calmavasi  Tantagonismo  per  così  dire 
municipale  fra  le  due  città,  ma  non  cessava,  anzi  si  ac- 
cresceva la  commozione  politica  delle  influenze  religiose. 
Infatti  diffondendosi  sempre  più  la  nuova  credenza,  si 
fece  quasi  cristiano  l'Oriente,  mentre  conservavasi  tuttora 
pagano  il  Ponente,  sebbene  l'idolatria  anche  colà  rapi- 
damente cadesse.  Intanto  sorgeva,  consolida  vasi,  uniO- 
cavasi  la  gerarchia  ecclesiastica,  il  cui  capo,  qualunque 
ne  sia  la  causa,  non  era  stato  da  Costantino  trasferito  a 
Bisanzio,  ma  era  rimasto  a  Roma  (1).  Quindi  l'Impero 

erano  capaci.  Dominando  la  Grecia,  non  aggiunsero  Atene  né  al  pascialato  di 
Morea,  né  agli  altri  di  Negroponte,  di  Jannina  o  di  Salonicchìo  :  non  ne  fecero, 
é  vero,  il  centro  d'una  greca  amministrazione,  che  sarebbe  stato  errore  pei  Tur- 
chi, ma  destinarono  sempre  ad  Atene  un  governatore  speciale. 

(1)  Certamente  Costantino  non  ha  preveduto,  né  era  facile  il  prevedere  qual 
grado  di  forza  morale  e  materiale  si  sarebbe  concentrala  nel  vescovo  di  Roma: 
é  a  presumere  che  sia  derivato  da  questa  imprevidenza  che  Costantino  non 
trasse  annuente  o  riluttante  quel  vescovo  a  Bisanzio.  Se  Costantino  avesse  po- 
tuto leggere  nel  futuro ,  senza  dubbio  non  lasciava  san  Silvestro  a  Roma  nel 
momento  stesso  che  traeva  ogni  elemento  d'azione  e  di  forza  per  tutto  con- 
centrare sotto  la  propria  direzione  a  Bisanzio.  M'accordo  dunque  pienamente 
col  molto  maggior  degli  scrittori,  i  quali  non  credono  che  Costantino  abbia 
egli  stesso  fondato  con  donazione  d'importanza  politica  il  potere  temporale  dei 
pontefici,  e  scostandomi  per  singolarissima  eccezione  da  Dante  che  scrisse  : 

Ahi  Coslantin,  di  quanto  mal  fu  maire 
Non  la  tua  conversion,  ma  quella  dote. 
Che  da  te  prese  il  primo  ricco  patre  ! 
(Inf.,  canto  19) 

mi  unisco  invece  all'Ariosto,  che  fa  trovare  ad  Astolfo  nel  mondo  lunare  il  do- 
cumento di  quella  donazione: 

Quest'era  il  dono,  se  però  dir  lece. 

Che  Costantino  a  san  Silvestro  fece, 

(Canto  34,  s.  80). 


486  PARTE  SETTIMA 

romano-orìentale  Irovossi  nella  dipendenza  religiosa  di 
Roma,  e  nel  rischio  di  subire  per  effetto  di  quella  anche 
qualche  dipendenza  politica:  ne  derivavano  diffidenza, 
discordia  ed  anche  aperto  contrasto,  e  da  esso  gli  scismi, 
che  avendo  base  casuale,  od  arliPiciale  e  ricercata  nel- 
rinterpretazione  diversa  di  indemonslrabìli  cose,  rie- 
scono però  a  riGuto  d'ubbidienza  al  capo  per  convinzione 
0  pretesto  che  egli  stesso  sia  in  errore  o  ribelle  al  dogma. 
Di  ambiziosi  agitati  da  avare  cupidini  di  possesso  ed 
impero  per  malaventura  non  fu  mai  penuria  nel  mondo» 
né  di  chi  sapesse  onestare  con  belle  parole  gli  assalti,  a 
quella  opinione  professandosi,  che  meglio  le  porte  agli 
acquisti  gli  aprisse  :  costoro  scompigliavano  le  cedevoli 
cose  del  mondo  con  le  perpetue  del  cielo:  vaghi  di  pren- 
dere, dov'era  lo  scopo  il  discorso  volgevano  di  religione 
coloralo,  e  si  governavano  per  simulazioni  di  fede  e  realtà 
d'interessi.  E  chi  tiene  l'impero,  bramoso  di  sottrarsi  ad 
ogni  influenza  straniera,  è  di  costituire  piuttosto  una 
chiesa  nazionale  entro  il  proprio  territorio,  sperando  di 
signoreggiarla,  favorisce  di  regola  le  tendenze  che  guidano 
a  sottrarla  alla  dominazione  delFestero.  L'arianismo,  e 
le  altre  credenze  contrarie  nelle  basi  o  nelle  conseguenze 
alla  supremazia  romana,  ebbero  dunque  favore  in  ispecie 
nell'Impero  d'Oriente.  Ne  risultarono  mille  discussioni, 
ed  anche  deplorate  violenze  ;  nondimeno  i  Cesari  di  Co- 
stantinopoli non  vollero  giammai  scatenare  uno  scisma, 
che  spezzasse  la  nominale  unità  deirimpero,  e  rendesse 
più  malagevole  il  riacquisto  d'Italia  e  d'Occidente  caduto 
nel  possesso  dei  Barbari.  Quando  però  Carlo  Magno  ri- 
dusse quasi  tutto  l'Occidente  in  sua  mano^  si  dichiarò 
protettore  dei  pontefici,  volle  essere  incoronato  impera- 
tore romano  da  essi,  si  amicò  col  califfo  di  Bagdad,  Harun 
el  Ilaschid,  scambiò  doni  e  legazioni  con  lui^  e  diede  evi- 


CAPITOLO  I.  487 

denza  o  sospetto  di  convenire  con  esso  la  divisione  del 
mondo  in  due  Stati,  l'uno  cristiano  e  Taltro  islamita,  i 
sovrani  di  Costantinopoli  videro,  o  loro  parve  vedere, 
approssimarsi  Tassalto,  ed  in  allora  favoreggiarono  aper- 
tamente lo  scisma.  Le  controversie  politico-religiose  con- 
tinuate per  secoli,  scoppiarono  in  ribellione;  i  Greci  sot« 
traendosi  al  pontefice  romano  da  loro  dichiarato  infedele 
ad  un  dogma,  concentrarono  tutte  le  loro  forze  religiose 
e  politiche,  ed  aggiunsero  una  barriera  d'odio  alla  temuta 
invasione  dei  Latini.  Cosi  si  ruppe  quel  vincolo  religioso 
della  fede  sotto  lo  stesso  ponteGce,  che  era  ormai  il  solo 
imprimente  uniti  di  carattere  all'antico  mondo  romano, 
e  non  collegossi  di  nuovo,  sebbene  la  morte  di  Carlo 
Magno  e  la  pronta  dissoluzione  del  grande  suo  impero 
dissipasse  i  timori  dei  Greci.  Ma  ai  giorni  nostri  politi- 
che ragioni  di  sottrarsi  ad  imposte,  e  forza  d'inQuenze 
straniere  imprimono  quello  strano  movimento  a  favore 
del  cattolicismo,  che  osserviamo  nei  proseliti  greci  di 
Bulgaria  e  Macedonia  contro  il  loro  episcopato. 

Tutte  queste  politiche  idee  trovano  applicazione  co* 
stante  nella  storia  d'ogni  età  e  paese,  e  portano  poi  luce 
chiarissima  anche  sulle  cause  degli  scismi,  ossia  sulla  for« 
mazione  delle  chiese  nazionali  operata  colla  separazione 
politico-religiosa  dalla  Chiesa,  dapprima  generale  ed  uni- 
taria. Appena  formossi,  p.  es.,  il  regno  di  Bulgaria,  ve« 
niva  dichiarato  patriarca  il  metropolita  di  Tyrnow  :  non 
fu  riconosciuto  a  Costantinopoli,  e  se  presto  il  regno 
non  si  affievoliva  e  cadeva,  ne  seguiva  uno  scisma. 
Quando  i  Turchi  conquistarono  Costantinopoli,  i  Bussi 
temettero  d'influenza  straniera,  vollero  un  patriarcato 
nazionale,  e  lo  ebbero:  Pietro  il  Grande  ha  poi  abolito  il 
patriarcato  sostituendolo  con  un  Sinodo  d'organizzazione 
aflatto  politica!  il  patriarca  di  Costantinopoli  trovandosi 


488  PABTE  SETTIMi 

in  mano  dei  Turchi,  tollerò  il  primo  fatto,  ed  anche  il 
secondo:  vi  erano  necessità  politiche  d'accordo:  quindi 
non  sorsero  nemmeno  dispute  dogmatiche,  né  vi  furono 
conseguenze  di  scismi.  Restò  in  allora  la  Chiesa  russa 
riunita  alla  greca  piuttosto  di  nome  che  di  fatto,  e  sem- 
pre poi  divisa  di  nome  e  di  fatto  da  Roma.  Venuti  però 
i  tempi  di  Caterina  II,  e  fatta  la  conquista  della  Polo- 
nia, dov'era  cattolica  gran  parte  del  popolo  e  l'intiera 
Dieta,  la  politica  imperiale  provossi  a  tentativi  d'accordo 
colla  slessa  Chiesa  di  Roma.  La  differenza  dogmatica  fra 
le  due  Chiese  era  una  sola,  se  cioè  lo  Spirito  Santo  pro- 
ceda dal  iolo  Padre,  come  vogliono  i  Greci,  od  anche 
dal  Figlio,  come  affermano  i  Latini  {ab  utroque)  ;  le 
altre  differenze  non  erano,  e  sono,  se  non  disciplinari  e 
rituali,  l'uso  p.  es.  dell'azimo  nell'Eucaristia,  la  comu- 
nione sotto  le  due  specie,  il  battesimo  per  immersione, 
l'epoca  del  conferimento  della  cresima,  il  matrimonio 
del  clero  secolare,  ecc.;  delle  quali  diflerenze  la  prima, 
cioè  la  dogmatica,  su  cui  l'umana  ragione  si  tace,  non 
opponeva  difficoltà  all'accordo  qualora  le  parti  ne  fos- 
sero state  desiderose,  e  le  altre,  cioè  le  disciplinari  e 
rituali ,  non  presentavano  ostacolo  alcuno ,  giacché  la 
Chiesa  romana  anche  attualmente  le  ammette  e  consente 
a  tutti  i  proseliti  di  rito  greco-orientale  che  riconoscono 
la  dipendenza  religiosa  da  Roma.  Ma  appunto  in  questo 
nesso  religioso-politico,  e  non  già  nelle  eccezioni  dogma- 
tiche 0  nelle  opposizioni  del  debole  patriarca  di  Costan- 
tinopoli si  incontrò  non  superabile  difficoltà,  e  ad  onta 
di  molti  espedienti  proposti  e  discussi,  nessuna  delle 
parti  piegò  quanto  bastasse  a  concordia  circa  la  supre- 
mazia gerarchica,  i  confini  di  essa,  i  metodi  di  esercizio 
e  quelli  di  perpetuarla.  Né  fu  diversa  la  causa,  come  ci 
sembra  risultare  chiaramente  da  letture  diligenti  e  medi- 


CAPITOLO  I.  489 

tate  d'importanti  documenti  edili  ed  inedili  sulle  missioni 
apostoliche  alla  Cina,  per  cui  si  ruppero  gli  accordi  che 
con  somma  sapienza  e  sagacia  già  incominciavano  ad 
insinuarsi  dai  Padri  Gesuili  coll*ìmperalore  Kanghi,  onde 
diffondere  il  crislianesimo  su  lulla  l'Asia  confuciana  e 
buddistica. 

Vogliamo  altresì  fare  un'osservazione  circa  la  prima 
adozione  del  crislianesimo  seguila  in  varii  Siali  nel  me- 
dio evo.  Nella  famiglia  regnante  la  prima  persona  che  si 
faceva  cristiana  era  quasi  sempre  la  regina.  Perchè  av- 
viene così?  Quando  una  nuova  religione  invadeva  lo 
Stalo,  ed  il  sovrano  non  trovava  prudente  combatterla» 
ma  ne  prevedeva  ed  anzi  bramava  il  trionfo,  era  difficile 
allo  stesso  sovrano  la  scelta  del  momento  d'accostarsi 
alla  nuova  religione,  e  di  professarla.  Parve  cosa  cauta, 
e  fu  quasi  generale  la  costumanza  che  il  primo  esperi- 
mento del  passaggio  dal  paganesimo  alla  religione  cri- 
stiana non  apparisse  fatto  immediatamente  dal  re,  ma 
piuttosto  dalla  regina,  ed  altre  persone  di  condizione 
elevata  in  corte.  Così  il  re  poteva  tuttora  sospendere  il 
passo  pericoloso,  ed  osservare  e  decidere  secondo  le  ma- 
nifestazioni delle  prevalenti  opinioni.  Quindi  l'Elena  di 
Costantino,  la  Teodolinda  dei  Longobardi,  la  Clotilde  dei 
Franchi,  l'Anna  e  TOlga  dei  Russi,  ecc.,  hanno  dato  per 
le  prime  l'esempio  dell'adozione  della  nuova  credenza. 

L'adozione  di  nuove  religioni,  la  conversione  dei  prin- 
cipi ad  altra  fede,  la  causa  degli  scismi  ecc.,  sono  fra  gli 
argomenti  più  ardui  ed  elevali  della  storia  politica,  né 
sembrano  essere  stati  finora  abbastanza  meditati  dai 
pubblicisti  ed  istorici. 


CAPITOLO  IL 
La  Chiesa  lel  medio  eTo:  il  Jus  circa  sacra. 

Abbiamo  veduto  il  cristianesimo  adottato  da  Costan- 
tino, propagato  nell'orbe  romano,  e  successivamente  ab- 
braccialo da  altri  grandi  sovrani  nelle  provincie  tolte 
airimpero  o  limitrofe  ad  esso:  abbiamo  altresì  toccato 
delle  contese  di  supremazia  religioso-civile,  delle  tante 
controversie  di  chiesa  universale,  di  chiesa  nazionale,  di 
chiesa  indipendente,  e  dei  politici  scismi.  Quale  era  dun- 
que questo  nuovo  elemento  introdotto  nello  Stato,  che 
diede  alle  umane  società  una  forma  di  vita  si  diversa  da 
quella  della  Grecia  e  di  Roma?  Quale  divenne  col  volgere 
degli  anni  questa  Chiesa  dapprima  regnante  negli  afielti, 
imperante  al  pensiero,  poi  intessuta  alla  politica  ed  uni- 
ficata allo  Stalo?  Come  la  medesima  mettendo  il  capo  nel 
cielo  aveva  forza  a  conquista  delle  autorità  cadenti  di 
mano  al  governo,  e  di  fermare  dovunque  il  piede  sulla 
terra?  Esaminiamo  brevemente  gli  elementi  di  questa 
nuova  potenza  ignota  agli  antichi,  eia  maggiore  sempli- 
cità delle  loro  vicende  politiche  abbia  così  colla  compii'» 
cazione  di  quelle  dell'era  successiva  migliore  utilità  di 
raffronto. 

Roma  emunta  di  lena,  debile  di  senno,  trista  di  mar- 
tirio era  caduta:  come  la  cecità  degli  occhi  è  danno  di 
tutto  il  corpo,  cosi  lo  fu  per  Roma  quella  di  sconsigliati 


CAPITOLO  n.  491 

autocrati:  ne  fu  disciollo  ogni  nesso,  prostrata  ogni 
forza  :  quando  poi  accorsero  i  Barbari  a  dar  sepoltura 
a  già  preparate  rovine,  essa  crollò,  ed  allora  si  diffuse 
sul  mondo  la  notte  feudale.  Non  rimase  neirOccidente  se 
non  qualche  pallido  riflesso  di  luce  romana,  come  ba- 
gliore dopo  il  tramonto  del  sole  :  consociate  alla  romana 
legislazione  tutta  assoluta  nel  principe,  molliplicaronsi  le 
leggi  barbariche  favoreggianti  la  dispersione  della  regia 
potenza,  e  sorsero  allora  castella  e  bastile  dove  crollavano 
casali  e  cìltÀ.  Gli  usurpatori  d^imperio  o  attraversavano 
rapidi  come  sanguinosi  fantasmi  la  politica  scena,  o  ri- 
manevano formidati  per  barbarie  e  supplizii,  trasmet- 
tendo talvolta  il  potere  per  adozioni,  per  destrezze,  per 
intrighi,  per  forza,  per  certe  leggi  giammai,  che  scorrere 
dovevano  dei  secoli  prima  che  una  lunga  prescrizione  di 
comando  nelle  stesse  famiglie  avesse  somministrato  Tàn- 
Cora  tenace  della  legittimità  a  fondamento  d'ubbidienza 
e  d'imperio  :  il  mondo  romano  non  ne  aveva  lasciato  in 
retaggio  una  precisa  idea. 

Ha  nel  mentre  Torganizzazione  politica  in  tutto  il 
mondo  crollava  per  l'anarchia  feudale,  la  Chiesa  si  fa- 
ceva terrena  e  gigante:  diveniva  un  governo,  uno  Slato, 
anzi  il  più  ordinato,  il  più  forte  di  tulli  gli  Stati.  Por- 
tando la  bandiera  della  comune  difesa  contro  gli  irruenti 
Islamiti,  la  Chiesa  si  era  fatta  centro  d'ogni  forza  ed 
azione.  Prima  che  uno  Stato  qualsiasi  avesse  regolarità 
di  sistema  ed  unità  di  governo,  la  Chiesa  aveva  un  orga- 
nismo perfetto  non  solo  nello  Stato  del  regnante  Ponte- 
fice, e  nei  cento  Stati  dei  principi  ecclesiastico-civili  di- 
pendenti da  lui,  ma  altresì  in  ogni  Slato  del  mondo  cat- 
tolico avente  tuttora  dignità  di  governo  civile  suo  proprio. 
Dal  pontetlce  ai  patriarchi,  ai  metropoliti,  ai  vescovi,  ai 
capi  delle  pievi»  ai  parrochi»  ad  ogni  singolo  membro 


49Ì  PIBTE  SETTIMi 

del  sacerdozio  degradava  il  potere  ecclesiastico,  scende- 
vano gli  ordini  che  si  eseguivano  su  tutta  la  terra,  o  vi- 
ceversa salivano  rapporti,  informazioni  e  richieste.  La 
Chiesa  cattolica,  sparsa  in  regni  disgiuntissimi,  era  un 
regno  compatto  ed  unitissimo,  che  involgeva  e  feudatarii, 
e  principi,  e  re.  Holli  secoli  prima  che  i  re  organizzassero 
il  potere  ispettorio,  la  Chiesa  esercitava  intensissimo  un 
tale  potere  sul  privato  e  sul  pubblico  in  ogni  parte  del 
mondo. 

Non  avevano  i  principi  alcuna  autorità  sulla  Chiesa,  ma 
la  Chiesa,  così  organizzala,  aveva  un'immensa  autorità 
indiretta  sullo  Stato.  Anzi  la  Chiesa  aveva  ancora  una 
potente  autorità  diretta  sullo  Stalo,  perchè  il  clero  aveva 
voli  numerosi  nelle  Camere  feudali,  o  [Stati,  o  Cortes, 
come  si  chiamavano  nei  varii  paesi  questi  consigli  le* 
gìslativi,  talvolta  anche  esecutivi,  in  faccia  ai  quali  la 
regia  autorità  era  pressoché  nulla.  Potevasi  forse  umi- 
liare nelle  vi^  legislative  la  Chiesa  organizzata  entro  e 
fuori  Stato,  la  Chiesa  che  poteva  votare  la  guerra  nel 
paese  vicino ,  e  non  votare  le  armi  di  difesa  nel  paese 
minacciato  ? 

Il  sistema  dei  concilii  e  delle  nunziature  pontificie  è 
di  molli  secoli  anteriore  a  quello  delle  legazioni  e  dei 
congressi  dei  principi.  La  Chiesa. aveva  sempre  un  resi- 
dente alla  corte  dei  sovrani  esteri,  che  ne  sorvegliava  Io 
Stato,  premiava,  riferiva,  promoveva.  Che  il  sistema  delle 
nunziature  precedesse  quello  delle  ambasciate,  è  evidente 
anche  senza  consultare  la  storia  od  il  diritto  canonico. 
Il  mondo  cattolico  formò  un  tutto  prima  del  mondo  po- 
litico: dunque  vi  furono  prima  i  nunzii,  e  poi  gli  amba- 
sciatori. Quando  nulla  importava  alla  Svezia  di  ciò  che 
si  facesse  in  Sardegna,  Roma  era  interessata  nelle  vicende 
svedesi  e  sarde.  La  politica  di  Roma  era  la  politica  uni* 


CAPITOLO  n.  49S 

versale,  quella  degli  altri  Stati  una  politica  semplicemente 
territoriale  e  conGnaria. 

In  yariì  Slati,  p.  e.  in  Polonia,  i  nunzii  erano  ì  su- 
premi presidi  del  tribunale  ecclesiastico.  La  Chiesa  aveva 
dunque  legati  che  comandavano  direttamente  negli  Stati 
esteri,  prima  che  i  principi  temporali  vi  avessero  legati 
semplicemente  informatori.  Ai  tribunali  ecclesiastici  poi, 
0  per  ragione  di  persona,  o  di  cosa,  o  di  causa,  era 
soggetta  un'infinita  quantità  di  private  e  di  pubbliche 
vertenze. 

La  Chiesa  poteva  sempre  acquistare,  non  mai  alienare: 
doveva  fruire  la  protezione  dello  Stato  :  non  doveva  pa- 
gare imposte  se  non  a  Roma.  Tutto  il  mondo  doveva 
diventare  un  patrimonio  ecclesiastico,  e  fu  per  diventarlo. 
Milioni  d'uomini  si  trovavano  nella  dipendenza  patrimo- 
niale della  Chiesa. 

Il  mondo  era  in  preda  ad  un  feudalismo  senza  freno 
e  senza  legge.  La  Chiesa  era  invece  fornita  di  collezioni 
sistematiche  di  leggi  ecclesiastiche.  La  Chiesa  aveva  un 
ordine  di  istanze,  una  legge,  un  capo,  quando  il  mondo 
si  trovava  nell'inestricabile  labirinto  feudale.  L'Europa 
era  sparsa  di  bande  armate,  distruggitrici,  senza  disci- 
plina, e  spesso  senza  capi.  La  Chiesa  invece,  prima  di 
ogni  Stato,  ha  una  milizia  permanente  negli  ordini  ec- 
clesiastici militari,  che,  numerosissimi,  potentissimi, 
dominano  i  mari,  dominano  anche  provincie  e  regni  in- 
tieri. Infiniti  ordini  monastici  coi  loro  abati,  provinciali 
e  generali  trovansi  in  tutti  gli  Stati  :  abitano  talora  in 
forti  castelli  chiamati  modestamente  conventi  :  posse- 
dono  enormi  ricchezze,  e  per  l'ordinario  hanno  volo  alle 
Camere  legislative. 

La  carriera  ecclesiastica  era  la  sola  carriera  nobile  che 
fosse  aperta  anche  per  i  plebei:  era  più  vasta  della  car- 


494  PAlTBfETTIllA 

riera  nobile»  perchè  era  aperta  fino  alla  sovranità  della 
terra. 

La  Chiesa  organizzata  ed  indipendente,  la  Chiesa  gius* 
dicente  nelle  cose  dello  Stato,  la  Chiesa  doviziosissima, 
la  Chiesa  con  un  sistema  di  leggi  ponderalissime,  la 
Chiesa  armata»  la  Chiesa  dominante  in  Europa,  in  ogni 
paese  nuovamente  scoperto» .  o  da  ultimo  aggiunto  al 
mondo  civile:  gli  Stati  invece  senza  centralità»  dipendenti 
nelle  cose  ecclesiastiche,  non  indipendenti  nelle  assolu* 
tamente  temporali»  poveri,  senza  legislazione,  senza  eser- 
citi» senza  libertà  di  pensiero,  senza  libertà  di  carriere 
per  la  servitù  della  gleba»  e  le  prerogative  nobiliari  : 
quanto  era  divenuta  grande  nel  medio  evo  la  reale  po- 
tenza della  Chiesa  I 

Il  cristianesimo  adunque  non  era  più  come  neirepoca 
primitiva  il  cantico  consolante,  non  era  più  Tìnno  della 
grande  trasformazione  sociale  della  prima  epoca  cesa- 
riana»  e  Tespressione  della  pariGcazione  universale» 
d*una  nuova  età  di  mitezza  e  giustizia  nelle  leggi  dei 
popoli»  nella  vita  dei  principi»  nel  progresso  civile.  Gli 
Stati  erano  stretti  nelle  propaggini  della  Chiesa  univer- 
sale: cercavano  d'impedirne  1  estendersi  ;  cercavano  anche 
di  spezzarle.  Fatta  quindi  astrazione  da  certi  momenti 
di  monarchie  bigotte,  che  erano»  e  pur  sono  talvolta  og- 
gidì occulto  principato  dei  chierici,  cessavano  i  Costan- 
tini ed  i  Carlo  Magno  benefattori  ;  sorgeva  il  dualismo 
fra  i  due  governi  concatenali»  ravvolti,  confusi  ;  monitO'^ 
rii  ed  interdetti  da  un  lato,  placet  ed  exequatur  dal- 
Taltro;  preparata  la  guerra  delle  inveHiture,  che  fu  Funa 
delle  più  grandi  perchè  combattuta  pel  dominio  esclu- 
sivo del  mondo»  e  dopo  di  essa  le  molte  degli  scismi  re- 
centi sorte  per  l'emancipazione  dei  singoli  governi,  sem- 
pre iniziate  al  solito  colle  scaramuccie  e  gli  affrontamenti 


CAPITOLO  li.  495 

sul  campo  filosoQco  tuttora  nuovo  deirastrattissima  teo-» 
logia,  ajutate  da  versioni  nuove  di  libri  sacri,  continuate 
colla  negazione  delle  annate  e  delle  decime,  prolungate 
per  la  mancanza  di  quegli  eserciti  disciplinati  e  grossi, 
che  nelle  epoche  romane,  e  più  nelle  nostre,  definiscono 
prontamente  con  terribili  colpi  le  guerre,  e  spesso  com- 
pite col  formarsi  di  Chiese  indipendenti  da  Roma. 

inestricabile  era  il  viluppo  religioso,  feudale  e  patrizio, 
e  propagato  in  ogni  ordine,  in  ogni  sistema  di  società. 
Sovente  il  sovrano  imperante  in  un  paese  era  pei  feudi 
posseduti  vassallo  nell'altro,  ed  anche  al  Pontefice:  i 
principi,  nascondendo  nei  penetrali  della  reggia  enormi 
delitti,  erano  sulla  scena  del  trono  riverenti  alla  Chiesa: 
pel  dovizioso  e  potente  Tempia  fortuna  legata  al  cenobio 
non  era  l'ultimo  segno  della  lunga  pietà,  ma  misura  al 
rimorso  di  turpissima  vita  ;  nelle  città  vuote  di  famiglie 
e  d'officine  dilalavansi  i  chiostri  :  il  delubro  abbracciato 
non  proteggeva  il  delinquente  pentito,  ma  l'inseguito 
colpevole.  Si  mercatava  col  campo  l'albero  per  le  radici 
infisso  alla  zolla,  e  lo  scarno  colono  immobilizzato  alla 
gleba  :  si  introduceva,  destinato  a  perpetuarsi,  l'insen- 
sato duello,  sconosciuto  alle  società  antiche,  che  pure 
avevano  in  alto  pregio  l'onore:  la  pravità  degli  artifici! 
formava  gli  eserciti,  non  più  schiera  di  cittadini  coscritti 
come  in  Roma  ed  in  Grecia,  ma  ciurma  collettizia  di 
accorrenti  venturieri,  di  presi  vagabondi,  di  malfattori 
condannati,  e  per  empire  soldatesche  fortuite  giurate  a 
capitani  fortuiti,  i  gaggi,  la  frode,  tutti  i  mezzi  cercavansi, 
il  solo  giusto,  la  sorte,  obbliando  :  cento  statuti  distrug- 
gendo il  meglio  che  aveva  fatto  Giustiniano,  le  sue  leggi 
di  successione  cioè,  sostituivano  all'equo  riparto  dei  beni 
nelle  famiglie  i  vincoli  dei  palrimonii,  dì  guisa  che  perfino 
al  principio  di  questo  secolo  in  Francia  la  facoltà  di 


496  PA&TB  gBTTnii 

testare  non  rifletteva  che  il  decimo  delle  fortune  di  chi 
figli  avesse,  ed  il  sesto  di  chi  non  ne  aveva  :  erano  dub- 
bie le  competenze,  e  la  curia  vasta,  intriganlei  corrotta. 

Tale  si  era  il  medio  evo.  Il  mondo  si  liberò  dai  suoi 
ceppi,  ma  ancora  ne  porla  le  livide  cicatrici.  E  nemmeno 
può  dirsi  che  sia  tutto  distrutto,  perchè  nella  via  lumi- 
nosa del  progresso  civile  quelle  sole  cose  irremissibil- 
mente distruggonsi  che  sono  bene  sostituite  con  altre. 
Y*hanno  ancora  nelle  nostre  istituzioni  e  nei  codici  le 
vestigia  del  medio  evo,  e  soprattutto  vi  è  in  quel  perpetuo 
contrasto  riflettente  l'esercizio  del  JM  civile  circa  iacra. 
Intorno  al  medesimo  fu  prodotto  un  pelago  di  opinioni 
e  sistemi,  che  per  quanto  sia  immenso,  andrà  ancora  cre- 
scendo in  immenso.  Non  sì  risali  infatti,  e  non  si  risale 
giammai  airindagine  delle  condizioni  primordiali  e  di 
fatto,  in  cui  si  trovavano  originariamente  la  Chiesa  e  lo 
Stato:  è  quindi  perpetua  edindeGnita  la  disputa  sul  pos- 
sesso confuso,  sulle  dubbie  costumanze,  sulle  non  pro- 
vate concessioni,  laddove  la  controversia  potrebbesi  forse 
ridurre  semplice  e  piana  muovendo  da  un  punto  tuttora 
intentato»  da  quello  cioè  in  cui  la  Chiesa  e  lo  Stato  si 
sono  dapprima  incontrati.  Infatti  cosi  nel  consultare  in 
argomenti  di  privato  diritto,  come  nel  meditare  sui  grandi 
problemi  di  diritto  pubblico,  il  giurisconsulto,  quando  due 
contendenti  si  rimproverano  a  vicenda  di  lesa  giustizia, 
di  violate  promesse,  di  arti  subdole,  di  usurpazioni  ecc., 
ha  da  ricercare  nella  storia  di  fatto  un  punto  anteriore 
a  quello  di  confuso  possesso,  di  abuso  e  di  forza,  onde 
desumere  da  qual  lato  militi  almeno  in  antico  un  titolo 
incontrastabile,  ond*eg1i  possa  conoscere  a  chi  incomba 
la  prova  d'aver  eseguito  giustamente,  o  di  poter  eseguire 
le  innovazioni  discusse. 

Nel  caso  delle  religioni  adottate  mancano  sempre,  o 


Cìntolo  n.  497 

quasi  sempre,  le  prove  documentali.  L'unico  titolo  delle 
Chiese  verso  lo  Stato  si  è  l'ammissione  che  lo  Stato  a 
tutte  preesistente  ne  fece:  esse  sono  pertanto  nello  Siato 
jwre  familiaritatis,  e  non  jure  domimi.  Lo  Stato  le  am- 
mise come  società  riputate  innocue  od  utili,  e  le  Chiese 
osservate  dal  lato  legale  e  politico,  che  è  il  solo  pel  quale 
vivono  di  vita  consociata  allo  Slato;  le  Chiese  esaminate 
nei  rapporti  col  pubblico,  e  non  coll'uomo  privato  ;  le 
Chiese  considerate  nel  campo  degli  interessi  mondiali, 
che  sono  i  soli  assoggeltabili  a  calcolo  dai  governi  esclu- 
sivamente terreni,  esistono  nello  Slato  in  via  di  preca- 
rio, e  colle  prerogative  che  lo  Stato  trova  opportuno  di 
concedere,  e  di  conservare  alle  medesime  in  vista  dell'uti- 
lità che  da  esse  ricava.  Il  giudizio  su  tale  utilità  non  può 
negarsi  allo  Slato,  se  anche  il  medesimo  può  commettere 
errore:  stabilito  però  che  una  Chiesa  m  utile,  ed  emi- 
nentemente lo  è  la  cristiana,  lo  Slato  ha  il  dovere  d'acco- 
glierla e  di  conservarle  prolezione  e  favore,  giacché  il  con- 
cetto d'utilità  si  identifica  a  quello  di  diritto  e  giustizia,  e 
non  dipende  da  arbitrio,  bensì  deriva  da  necessità  giuri- 
dica che  lo  Stato  ammetta  e  secondi  le  istituzioni  d'emi- 
nente utilità  politica.  Queste  sono  le  idee  fondamentali  che 
a  nostro  avviso  dirimono  e  tolgono  in  radice  la  controver- 
sia polìtica:  esse  sono  egualmente  applicabili  a  qualunque 
Chiesa  ad  a  qualunque  Stato:  non  devesi  nella  discus- 
sione politica  contemplare  il  privato,  bensì  lo  Stato,  che 
ha  pur  esso  vita  imperitura,  ma  tutta  terrena.  Sia  la 
Chiesa  nell'interno  suo  regime  monarchica,  aristocra- 
tica o  democratica,  occupi  un  campo  geografico  più  o 
meno  esteso,  goda  o  non  goda  di  possesso  territoriale  o 
di  mobili  ricchezze,  riceva  o  non  riceva  assegni  erariali, 
presti  o  non  presti  allo  Stato,  olire  i  servigi  religioso-mo- 
rali, anche  servigi  meramente  civili,  abbia  lo  Stalo  una 

82 


498  putì  SiTTIMi 

forma  di  governo  oppure  un'altra,  sia  stata  solenne  o 
tacita  rammissione  della  Chiesa,  siasi  il  principe  conrer* 
tìto  alla  nuova  fede  o  no,  tutte  queste  specialità  nulla  in* 
fluiscono  sulla  decisione  che  emana  dall'ammissione  che 
lo  Stato  preesistente  alla  Chiesa  ne  fece.  E  nel  fòro 
esterno,  e  nel  temporale  la  Chiesa  ricevuta  nello  Stato  non 
ha  verso  il  medesimo  verun  diritto  temporaneo  o  perpe* 
tuo  a  possesso  ed  esenzioni  di  sorta.  E  verso  i  terzi  che 
sono  sudditi  dello  Stato,  la  Chiesa,  qualunque  essa  sia, 
ha  tutti  i  diritti  che  lo  Stato  le  consente  di  esercitare. 
Tale  sembra  a  noi  essere  il  modo  di  ridurre  questa  tesi 
si  combattuta  fra  i  politici  ed  i  pubblicisti  al  vero  suo 
cardinale  principio,  e  d'ottenerne  la  soluzione  dalla  nuda 
ragione. 


CAPITOLO  IH. 

Necessità  ehe  si  initi  dai  Saltani  la  politica  religiosa 
di  GostaatiM. 

Il  grande  esempio  dato  da  CostaDtioo  nell'adozione  del 
cristianesimo,  quello  di  Clodoveo,  quello  di  san  Stefano, 
quello  di  tutti  i  principi  del  mondo  romano,  del  goto, 
dello  slayo,  tutti  gli  impulsi  della  storia  politica,  tutti  i 
prodigi  operati  da  uomini  intendenti  dei  tempi,  tutte  le 
lodi  impartile  da  quelli  che  hanno  dato  prova  di  inten- 
derli, la  necessità  di  non  rimanere  stazionarii  per  non 
essere  schiacciati  dairinseguente  progresso,  l'inutilità  di 
ogni  destrezza,  doppiezza,  e  d'ogni  buja  è  crudele  abilità, 
d'ogni  gelosia  e  paura  d'invadente  civiltà,  il  bisogno  di 
agguagliarsi  ad  altrui,  di  raggiungere  le  grandezze  inar- 
rivabili degli  Stati  civili,  od  almeno  d'aspirare  a  raggiun- 
gerle, devono  essere  per  l'infelice  Turchia  d'animazione  ed 
esempio.  E  quando  mai  sorgerà  in  Bisanzio  un  uomo 
d'ingegno  e  carattere  che,  fortemente  temprato  ad  idee  ed 
azione,  insorga  ad  atto  degno  d'alta  mente  e  cuore  colla 
energia  che  le  genti  conduce  o  strascina,  compia  tal  fatto 
che  più  esser  non  possa  nei  sultani  l'errare,  imiti  Costan- 
tino e  cosi  ritorni  a  gioventili  e  vigore  un  decrepilo  impero 
che  minaccia  da  ogni  lato  rovina,  che  perde  per  carie  ad 
una  ad  una  le  membra,  che  di  tanto  si  inabissa  di 
quanto  i  popoli  cristiani  gli  salgono  d'intorno  in  altura? 


500  PiaTE  SETTIMA 

Quando  verrà  un  sultano  che  non  inutilmente  com- 
prenda che  la  Turchìa  invano  si  prova  a  lottare  col  fato, 
che  è  di  essa  come  di  chi  nella  negra  belletta  di  palude 
s'impaccia,  che  ad  ogni  scossa  che  per  trarsene  fa,  vi  si 
tuffa  di  più?  Quando  verrà  un  sultano  che  non  voglia 
attendere  spossato  la  Gne  dell'impero,  ma  schiuda  l'O- 
riente letargico  all'alacrità  d'Europa,  e  senta  d'avere  una 
gran  missione  da  compiere?  Quando  verrà  un  sultano 
che  realmente,  conosca  da  che  procedano  i  lutti  dell'Im- 
pero, e  pregusti  la  luculenta  e  cara  gioja  di  poterlo  val- 
lare e  difendere,  un  sultano  che  sappia  che  solamente 
quel  principe  è  grande  che  il  proprio  interesse  confonde 
con  quello  del  popolo,  un  sultano  che  si  convenga  per 
animo  a  quei  giganti  dei  quali  parla  la  storia,  si  sciolga 
da  ogni  superstizione  la  mente,  non  creda  consorti  indi* 
visibili  in  lui  le  due  nature  dell'islamita  e  del  principe, 
non  si  sgomenti  perchè  si  romoreggi  d'intorno,  pensi 
che  muore  l'uomo  ma  vive  la  gloria  d'un  fatto  immor- 
tale, si  metta  al  viaggio  dove  già  trova  segnato  il  sentiero, 
ed  imperi  da  sé,  e  non  per  la  trista  Bliera  dei  Consigli, 
che  non  v'è  Consiglio,  il  quale  sia  rapido,  costante  e  si 
allo  provveda? 

Bisuoni  finalmente  sul  Bosforo  l'imperiale  parola:  ces- 
sate di  essere  un'orda  di  Barbari,  che  hanno  eretto  i  loro 
padiglioni  sulle  più  belle  contrade  dell'Europa  e  dell'Asia, 
prendete  sede  fraterna  frai  popoli  presso  cui  stanno  la 
civiltà  e  la  forza,  ridomandate  a  questi  terreni,  a  questi 
magnifici  porti,  a  questo  felicissimo  clima  la  ricchezza 
che  vi  hanno  trovato  gli  antichi,  ed  ancora  vi  esiste  non 
ignorata  e  sepolta,  ma  palese  alla  faccia  del  suolo.  Vor- 
ranno mai  sempre  i  sultani  fondare  il  loro  trono  non 
sulla  massa  del  popolo  che  è  più  colta,  più  industriosa 
e  più  ricca,  non  su  quella  che  ogni  giorno  aumenta  di 


amoLO  lu.  501 

numerOi  che  è  attiva  nei  commerci,  che  naviga  i  mari, 
che  ha  colonie  ed  appoggi  neiresteró,  ma  su  quella  che  è 
povera,  insciente  ed  inerte,  che  ogni  giorno  decresce,  che 
non  è  operosa  nei  traffichi,  non  ha  rapporti  colle  na- 
zioni più  grandi,  non  scorre  coi  vascelli  le  acque  sue 
proprie? 

Gli  Stati  non  si  innovano  come  si  mantengono,  biso« 
gnando  forme  e  misure  a  conservarli,  ardimento  e  vi- 
gore ad  innovarli.  Prodiga  non  è  la  natura  dei  ferrei 
caratteri  che  ad  innovare  abbisognano,  né  Teducazione, 
se  anche  sapiente,  è  per  se  slessa  potente  a  formarli,  ma 
di  quando  in  quando  certi  uomini  fatali  s'elevano  come 
astri  improvvisi  sul  firmamento  del  trono,  arcane  forze 
ritrovano,  volenti  e  non  volenti  nell'orbita  loro  strasci- 
nano, ed  invadono  dei  loro  raggi  la  terra  abbagliata  :  vo- 
glia il  Cielo  prepararne  alcuno  per  Todierna  Turchia  I  II 
contrasto  fra  le  religioni  è  la  rovina  dell'Impero,  ed  il 
cristianesimo  potrà  d*interno  regime  mutare,  ma  tanto 
durerà  quanto  la  civiltà:  è  dunque  necessità  che  i  sul- 
tani si  confessino  a  lui. 

Ormai  non  v'ha  Turco  che  abbia  ingegno  e  qualche 
coltura  (e  non  mancano  affatto),  il  quale  non  conosca  e 
confessi  che  crolla  l'Impero,  e  non  sappia  che  il  Corano  e 
la  Senna  e  la  legge  imamica  sono  d'ostacolo  alla  libertà 
necessaria  di  legislatrice  riforma:  il  fanatismo  nelle  alte 
regioni  non  v'è,  scemò  nelle  basse,  od  appena  in  qualche 
provincia  dell'Asia  sussiste:  non  scemò  perfino  nel  Ma- 
rocco, ov'era  si  ardente?  non  si  confessa  anche  colà  dopo 
l'ultima  guerra  spagnuola,  e  non  si  paventa  la  superio- 
rità dei  Cristiani?  eppure  il  sultano  di  Marocco,  e  non 
quello  di  Costantinopoli,  è  rispettato  dai  suoi  perchè  vero 
0  creduto  discendente  del  Profeta,  mentre  lutti  sanno  che 
tale  il  sultano  dei  Turchi  non  è. 


502  PARTE    SBTTIlCi 

I  sultani  sono  ben  discesi  dal  tempo  in  cui  mandavano 
duecento  vascelli  alPossidione  di  Malta,  e  trecento  cin- 
quanta navi  contro  la  veneziana  Canea,  in  cui  oppugna- 
vano con  settanta  mila  uomini  i  bastioni  di  Candia«  ed 
entravano  con  duecento  mila  in  Ungheria,  in  Istiria,  in 
Podolia:  quindi  non  sono  più  avidi  d'animose  venture, 
e  di  comprare  dominio  col  sangue.  Ora  la  Cristianità  li 
infrena,  ed  impiaga:  hanno  sotto  i  piedi  spalancalo 
l'abisso,  e  lo  vedono:  i  sultani,  perduta  la  potenza  che  li 
rendeva  intemperanti  come  gli  antichi  Cesari  a  Roma, 
rìmellono  della  loro  durezza,  e  sono  sofferenti  di  fug- 
gire e  di  tardare  perìcoli:  non  stanno  a  sopraccigh'a 
levate  con  milioni  di  sudditi  cristiani  rammaricatorì 
perpetui,  della  dolcezza  abusanti,  della  fermezza  ade* 
gnaulisi;  eppure  si  mantengono  disonnati  suodievolevia, 
quasi  fosse  meglio  il  perdere  con  violenza  domani,  che 
il  conservare  con  savio  consenso  ed  energica  risolutezza 
per  sempre. 

Quanto  è  debole  ed  ancipite  il  governo  degli  attuali 
sultani  I  Tutto  lo  Stalo  è  da  mortifera  apatìa  prostrato, 
0  per  funeste  agitazioni  convulso:  le  armi  ribelli  ora 
sono  apprestate,  ora  usale  a  ferire  :  sempre  lo  scontento 
si  dilata,  concessioni  si  chiedono,  e  disperando  si  danno, 
ttè  facendosi  fine  giammai  al  richiedere,  ed  al  neoessario 
accordare,  ne  va  a  precipizio  sommersa  la  prevalenza 
della  massa  ottomana,  e  raulorilà  materiale  e  morale 
d'ineguale  partigiano  governo*  Vogliono  i  sultani  conser- 
vare la  Turchia  madre  agli  Islamiti,  e  matrigna  ai  Gri«^ 
stiani,  invece  di  donare  a  tutti  lo  Stalo  quieto,  sicuro  e 
fecondo  di  beni:  non  possono  ordinare  il  governo  se  non 
eoo  elementi  cristiani,  e  se  non  si  ordina  cade,  perchè 
è  solamente  dall'ordine  che  si  va  alla  forza* 

La  sola  adozione  del  crìstianeumo  può  togliere  i  sol- 


GA?ITOÌO  HI.  SOS 

tani  al  vile  martino  di  ottemperare  alVEuropa,  e  sicurarli 
sul  Bosforo,  che  è  segno  di  tanti  orgogli  e  delle  avare 
cupidità  di  una  vicina  e  potente  nazione.  Com'albero 
sveste  la  fronda  giallastra  perchè  si  rinverdì  e  s*abbelli  di 
nuovo,  cosi  l'Impero  l'islamismo  dispogli  per  ritornare  a 
giovinezza,  dilatare  le  forze  interne,  e  prendere  gagliar- 
dia  dall'estero.  A  tale  mutazione  dovrebbero  tutti  conver* 
gerei  consigli  della  diplomazia,  che  invano  s'affanna  d'in- 
fondere alito  ai  Turchi  di  temporanea  vita,  e  non  di  futura 
vitalità  :  a  questo  scopo  dovrebbero  mirare  in  silenzio  le 
preparazioni  dei  sultani,  le  formazioni  d'esercito,  le  gra* 
duatema  rapide  emanazioni  dileggi  di  tolleranza  e  favore 
perle  masse  cristiane,  l'ammissione  di  Cristiani  ad  eleva» 
tissimi  ufficii,  la  concessione  della  proprietà  territoriale 
ai  capitalisti  europei,  la  riverenza  e  l'onore  ai  dignitarii 
ecclesiastici  del  cristianesimo.  Ardua,  anzi  assai  perico-* 
Iosa  è  la  via,  ma  è  la  sola  possibile  per  togliersi  a  vita 
precaria,  a  morte  certissima.  Constano  di  Cristiani  i  quat* 
tre  quinti  del  popolo  nelle  Provincie  d'Europa,  sono 
quasi  esclusivamente  cristiane  le  isole,  pressoché  tutte 
le  coste  dell'Impero  sono  occupate  da  una  zona  di  popò* 
lazioni  cristiane,  quasi  tutte  le  grandi  città  sono  sul  mare 
con  popolazione  turca  e  cristiana,  e  tutte  potrebbero  fa-* 
cilmente  dominarsi  dalle  flotte  dell'Europa,  che  avrebbe 
immenso  interesse  a  favorire  l'audace,  ma  savia,  ma  ne* 
cessaria  mutazione.  Non  ha  l'Europa  versato  fiumi  di 
sangue,  e  consunto  tesori  nella  guerra  di  Crimea,  non 
già  per  assicurare,  ma  solo  per  prolungare  la  vita,  o 
vogliam  dire,  la  tabe  dell'Impero  ottomano  ? 

Vi  è  rischio,  ripetiamo,  nel  tentare  si  gran  metamor- 
fosi: certamente  potrebbe  andarne  perduta  alcuna  pro^ 
vincia  nell'interno  dell'Asia;  in  ispecie  potrebbero  inMt* 
gere  le  poche  provinde  che,  già  tolte  ai  Persiani^  sono 


504  PARTE   SETTlMi 

islamìte  di  persiana  credenza.  Ma  rimpero  non  perde 
adesso  brani  a  brani  se  medesimo,  non  ba  perduto  la 
Grecia,  e  quasi  perduto  la  Servia?  non  perde  allualmente 
i  Principati?  non  gli  sfuggono  perGno  le  ottomane  pro- 
yincie?  Tunisi  ed  Algeri  sono  sottratte,  la  dominazione 
sulla  Siria«  che  è  una  religiosa  Babele,  ad  ogni  istante 
vacilla,  ed  ora  che  l'Egitto  pel  taglio  dell'istmo  di  Suez 
va  ad  esser  collocato  di  balzo  nel  bel  mezzo  del  mondo 
civile  e  dell'atti  vita  dei  Cristiani,  potrà  la  Turchia  mao- 
mettana conservare  a  lungo  un'autorità  più  che  nominale 
sul  medesimo?  L'Impero  soffre  la  pressione  costante,  la 
quasi  supremazia  dell'estero,  al  quale  tutti  i  Cristiani 
dell'Impero  si  rivolgono  per  averne  contro  gli  Ottomani 
protezione  ed  appoggio  :  vede  gli  stessi  Turchi,  gli  Alba- 
nesi islamiti,  e  gli  Arabi  comperare  sovente  a  gran  prezzo 
la  protezione  straniera,  e  con  ignomìnia  lo  soffre  :  teme 
perfino  della  debolissima  Grecia,  avendo  nelle  proprie 
viscere  le  masse  dei  Greci  cospiranti  a  suo  danno  in 
Turchia,  nella  Grecia,  nella  gran  capitale  sul  Baltico. 
Ma  se  anche  qualche  provincia  esclusivamente  ottomana 
nell'interno  dell'Asia  andasse  nel  momento  della  crisi 
realmente  perduta,  non  la  potrebbe  riacquistare  l'Impero 
ringiovanito  di  forze?  e  quando  pur  fosse  insanabilmente 
staccata,  non  è  meglio  soffrire  l'amputazione  d'un  mem- 
bro, che  la  perdita  della  vita?  Vastissimo  è  tuttora  l'im- 
pero ottomano:  stanca  ancora  la  terra  col  peso  di  smisu** 
rate,  non  valide  membra,  benché  non  domini  come  in 
passato  ed  Algeri  e  Tunisi,  e  tutte  le  coste  del  mar  Nero, 
la  Transilvania  e  l'Ungheria:  immenso  è  il  campo  su  cui 
può  moltiplicarsi  il  suo  popolo,  e  germinare  la  sua  ric- 
chezza; possiede  provincie  nell'Asia  ricchissime  e  popolo- 
sissime nell'era  greca  e  romana,  ma  sulle  quali  discese 
l'oscurità  ed  il  silenzio  per  noi,  che  abbiamo  pure  sco- 


cimou)  m.  SOS 

perto  perfino  i  paesi  Taticinati  nella  Medea  da  Seneca, 
e  quelle  fonti  del  Nilo,  che  si  cercavano  dai  Faraoni  egi- 
ziani, e  Cesare,  al  dire  di  Lucano,  ambiva  conoscere,  e 
tentammo  il  misterioso  soggiorno  dei  poli  dove  è  spenta 
ogni  vita  airinfuorì  del  cozzo  dei  ghiacci  lottanti:  sono 
scrollale  le  fondamenta  religiose  delFautorità  imperiale, 
ed  è  vuoto  Terario,  amministrato,  ossia  dilapidato  da  uo- 
mini rosi  dal  verme  della  cupidigia  delle  sostanze  pubbli- 
che. Ma  la  Turchia  ha  minor  debito  pubblico  di  qualsi- 
voglia paese  d'Europa,  e  se  la  religiosa  variazione  seguisse, 
lo  sterminato  possesso  dei  beni  immobili  delle  moschee 
e  delle  religiose  fondazioni  sarebbe  a  libera  disposizione 
del  principe:  Temigrazione  europea  richiamata  dalle  co- 
lonie cristiane  già  esistenti  in  Turchia  accorrerebbe  nu- 
merosa a  dar  valore  a  quelle  terre  benedette  dal  sole.  Si 
adotti  finalmente  il  cristianesimo,  che  solo  può  salvare 
rimpero  riconciliandolo  con  se  stesso,  e  col  mondo  civile 
in  cui  immerso  si  trova:  nell'attuale  colleganza  dei  po- 
poli, non  è  dato  a  verun  principe  o  gente  di  starsene 
isolata,  come  il  nostro  pianeta  sta  librato  nelFaria  pel 
peso  suo  proprio  (1).  Goll'adozione  della  nuova  credenza 
cesseranno  le  pericolose  influenze  stranière  sulle  masse 
cristiane:  si  recluterà  in  allora  l'esercito  su  tutta  la  po- 
polazione dello  Stato,  e  non  più  sulla  sola  metà  :  si  po- 

(1)  Abbiamo  desunto  letteralmente  dalle  MetamorfMi  d'Ovidio  questa  esatta 
frase  di  matematica  geografia 

Cireumfùso  pendebat  in  aere  tellus 
Ponderibus  librata  iuis. 

(Lib.  I). 
Fra  gli  antichi,  le  giuste  idee  geografiche  si  trovano  abbondevoli  in  Aristo- 
tele, in  Tolomeo,  in  Strabone,  e  nei  matematici  della  scuola  alessandrina,  e 
nella  Bibbia  che  dice  aver  Dio  iospeio  la  terra  tul  nulla^  ma  ci  piace  il  rin- 
venire anche  in  Ovidio  un  cenno  si  preciso.  Dante,  che  tredici  secoli  dopo  di 
Ovidio  parlava  del  eentro  generale  d'attratione  dei  pesi^  ed  il  Pulci  che  diceva 
Vacqua  essere  piana  d'ogni  parte,  benché  la  terra  t^bia  forma  di  ruota,  non 
hanno  meglio  d*Ovidio  in  quei  versi  indicato  il  vero. 


906  PilTE  SBTTIIU 

tranne  allora  avere  uOQciali  di  terra  e  di  mare  dal  medio 
ceto,  che  quasi  non  esiste  fra  i  Turchi,  né  è  numeroso, 
né  colto  abbastanza,  ma  pure  già  esiste,  ed  è  civile  fra  i 
Cristiani:  si  porrà  fine  a  quel  fatale  viluppo  di  giurisdi- 
zioni privilegiate  degli  stranieri  in  Turchia,  che  cresce 
pel  sistema  illegale  delle  protezioni  concesse  da  agenti 
deirestero»  ed  estende  nei  territorii  ottomani  la  giuris- 
dizione forastiera  con  tanto  detrimento  della  sovranità 
territoriale:  si  darà  nuova  forma,  nuova  vita  e  possi- 
bilità di  progresso  allo  Stato. 

Tutto  ciò  può  ottenersi  se  un  grand*uomo  si  trova. 
Ciò  che  manca  alla  Turchia  si  è  appunto  quest'uomo: 
manca  un  Costantino ,  un  Clodoveo  che  veda  e  che 
operi  ;  manca  un  grand'uomo  di  consiglio  e  di  guerra, 
od  almeno  un  grande  signor  di  soldati,  un  capo  di 
Stato;  manca  un  forte  carattere  com'era  quello  di 
san  Stefano  d'Ungheria,  che  si  faceva  cristianoi  mo- 
strava ad  un  tempo  la  croce  e  la  spada,  ed  era  do- 
vunque vi  fosse  a  combattere  ;  manca  una  diplomazia 
d'elevata  intelligenza,  di  iniziativa  ardimentosa  e  con- 
corde; manca  la  preparazione  dei  mezzi,  che  alcuni  do- 
rrebbero pure  disporsi  nell'interno,  sebbene  assegnamento 
giustissimo  possa  farsi  sulle  forze  straniere.  Non  è  da 
un  sultano  vivente  in  serraglio  con  eunuchi,  con  donne 
od  adolescenti  servienti  per  femmine,  quasi  si  propulsasse 
di  tali  ajuti  lo  Slato,  chiuso  colà  dove  sì  lussureggia  e 
trionfa,  invisibile  nelle  provincie  dove  si  soffre  e  con- 
giura, accessibile  solo  a  chi  parla  o  tace  a  norma  d'al- 
trui piacere  e  di  proprio  interesse,  ed  è  per  inscienza 
soggetto  ad  errare,  e  per  depravazione  a  voler  essere  se- 
dotto, non  mai  sentendo  di  dato  consiglio  o  di  crudati 
del  popolo  penitenza  nel  cuore,  che  possono  operarsi  fatti 
si  grandi.  Bensì  lo  potrebbero  da  un  sultano  che  ritor- 


CifiTOio  ni.  507 

nasse  come  i  suoi  avi  alla  vita  dei  campi,  che  riformasse 
non  da  invisibile  stanza,  ma  in  mezzo  ai  soldati,  che 
avendo  alcuna  base  di  forza,  ne  usasse  rapido  s\,  che 
una  grande  resistenza  non  potesse  sorgere  ed  ordinarsi. 
Sono  gli  uomini  che  non  ondeggiano  incerti  nei  grandi 
bisogni  politici,  che  afferrata  un'idea  di  necessità  o  van- 
eggio, ogni  mezzo  d'azione  preparano,  ed  ogni  passione 
a  quella  sola  subordinano:  sono  gli  uomini  che  come  Cle- 
mente VII  per  conservare  Firenze  alla  propria  famiglia 
chiamò  gli  Imperiali  che  gli  avevano  saccheggiato  Roma, 
e  lui  tenuto  prigioniero  con  molta  miseria  in  Castel  San* 
t'Angelo.  Pilli  ancora  sono  gli  uomini  come  Pietro  il 
Grande,  come  Federico,  che  strascinano  volenti  o  non 
volenti  le  masse,  e  presto  le  invadono  dello  stesso  loro 
spirito,  della  loro  grandezza  ;  non  già  gli  uomini  anche 
savii  come  Giuseppe  II,  che  voleva  riformare  dal  pro- 
prio gabinetto  col  solo  emanare  degli  ordini  a  ehi  non 
voleva,  non  sapeva,  non  aveva  indomabìlità  di  carat* 
tere,  convinzione  profonda,  altezza  abbagliante,  maestà 
a  seduzione,  a  terrore,  per  bene  eseguirli.  Costantino  che 
dava  un  primo  esempio  invece  di  mostrarne  e  di  seguirne 
di  grandi,  che  doveva  temere  il  sorgere  d'altri  concorrenti 
alla  corona  al  luogo  di  quelli  che  aveva  vinto  ed  ucciso, 
che  aveva  a  deprimere  la  gloriosissima  Roma,  e  ad  edifi- 
care una  nuova  capitale,  che  non  aveva  soccorsi  a  sperare 
dall'estero,  ma  ad  attenderne  guerre,  ebbe  ben  altre  dif- 
ficoltà a  superare  che  non  ne  avrebbe  questo  sultano,  la 
cui  venuta  noi  invochiamo  da  Dio,  e  le  superò.  E  fuor 
d'ogni  confronto  maggiori  ne  ha  poi  superato  l'Alberto 
di  Brandeburgo,  che  essendo  Gran  Maestro  dell'Ordine 
Teutonico,  pensò,  stabili,  poi  disse  di  repente  ai  suoi 
frati  soldati:  sono  luterano,  e  son  principe,  e  principi 
saranno  i  discendenti  da  me»  e  creò  in  principato  eredita- 


508  pàbte  settdu 

rio  di  sua  casa  la  Prussia  appartenente  àlVOrdine  (1525). 
Il  sultano,  airappoggìo  d'Europa,  e  d'una  metà  del  suo 
popolo,  con  si  favorevoli  condizioni  di  territorii  schierati 
sul  mare,  non  avrebbe  forse,  se  sapiente  ed  energico, 
a  vincere  maggiori  difficoltà  che  non  furono  quelle  di 
sfolgorare,  di  trucidare  i  Giannizzeri  per  regnare  in  Co- 
stantinopoli imbelle  e  codardo  di  cadevole  vita,  non  di 
signoria  potente  nelle  provincie,  né  rispettata  e  temuta 
nel  mondo.  A  compire  la  più  nobile,  la  più  utile  delle 
rivoluzioni  i  sultani  hanno  già  troppo  tardato;  non  as- 
sumano, come  fanno,  vana  forma  di  monarchi  liberali, 
ma  vero  nerbo  di  monarchi  civilizzatori:  il  loro  popolo 
è  muto,  ma  non  è  d'uopo  d'interrogarne  la  malattìa,  che 
è  nota:  prolapsa  sunt  Pergama,  ed  unei  sola  è  la  via  di 
rialzarla  :  ciò  che  è  stato  per  lo  antecedente  nei  secoli, 
insegna  la  via  a  salale.  Così  alle  nazioni,  come  ai  princìpi, 
come  ad  ogni  uomo»  è  condonabile  Terrore  se  si  risolvono 
a  non  perdurare  nel  medesimo  fin  quando  manchi  il 
tempo  a  rimedio. 

Già  vennero  i  sultani  in  rassegnazione,  e  ne  fu  offesa 
la  dignità  con  fomento  al  pericolo,  mentre  avrebbero 
dovuto  rizzare  con  impeto  risoluto  la  novatrice  bandiera, 
non  scendere  col  trionfato  islamismo,  ma  trionfare  so- 
vr'esso.  Essi  entrarono,  confessandolo  ono,  nella  fami- 
glia dei  principi  europei:  e  volenti  o  non  volenti  soscrìs- 
sero  al  diritto  quasi  sociale  dei  popoli.  Più  non  osano, 
come  un  giorno,  di  mozzare  il  capo  di  uno  schiavo  in- 
colpevole per  modello  al  pittore  di  un  decollato  :  i  bascià 
più  non  accettano  il  cordone  rassegnati  incapestrandosi  : 
non  si  mandano  alle  Sette  Torri  i  ministri  di  Venezia,  di 
Russia  e  di  Francia,  ma  si  inviano  i  proprii  ministri  alle 
corti  straniere:  fu  spezzata,  poi  del  tutto  perduta  quella 
collana  di  Stati  protetti,  che  erano  una  volta  avanzate 


CAPITOLO  in.  509 

vigìlie  della  dominazione  dei  Turchi:  si  insinuano  in 
tutto  il  paese,  premono,  imperano,  in  ogni  amministra- 
zione di  Stato,  in  ogni  sistema  di  cose  militari  e  civili 
invadono  i  Cristiani,  e  porta  non  è  ad  essi  tenuta.  L'isla- 
mismo adunque  non  è  più  pei  sultani  una  forza,  un  segno 
ossequiato  di  carattere  sacro,  né  sta  alla  soglia  dello  Stato 
come  temuto  custode  di  inviolata  nazionalità:  esso  non  è 
più  che  un  danno,  degrada  i  Turchi  ponendoli  al  retro- 
guardo  d'Europa,  mantiene  anche  anime  nobili  in  vili 
condizioni,  perpetua  la  guerra  alla  civilizzazione,  fa  su- 
bire ai  sultani  Tonta  giornaliera  di  morali  e  materiali 
sconQtte,  li  priva  dell'utile  gius  dei  connubii  coi  sovrani 
d'Europa,  della  libertà  ed  integrità  del  potere  ammini* 
strati vo  e  civile,  e  quindi  della  conquista  di  milioni  d'abi- 
latori  dello  Sialo,  che  ora  sono  di  diritto  e  di  fatto  se- 
mistranieri al  medesimo.  Abbraccino  il  cristianesimo , 
scongiurino  cosi  la  certezza  di  vicina,  comechè  d'inco- 
gnita sventura  ;  li  vinca  il  lume  cristiano  che  loro  raggia 
d'intorno;  non  si  immergano  in  sonno  ignavo  ed  in- 
sciente; si  piacciano  allo  specchio  dell'operare  europeo, 
e  venga  in  essi  lusinga  del  grado  eguale  o  superno  ; 
almeno  studiino  a  salvezza  finché  non  affranti  del  tutto 
hanno  ancora  potenza  di  salire  alla  stessa.  Avranno 
trionfo  dei  Cristiani  loro  sudditi,  coi  quali  sono  sempre 
in  aperto  o  segreto  certame,  lo  avranno  non  tardo  e  com- 
pleto degli  stessi  Mussulmani,  dei  quali  adesso  già  spen- 
gono l'entusiasmo  e  si  alienano  l'affetto  con  perpetue 
titubanze,  concessioni  e  tolleranze  ai  Cristiani  :  essi  mu- 
teranno la  debolezza  in  conforto,  opporranno  una  bar- 
riera robusta  ai  rapaci  proponimenti  d'altrui,  prende- 
ranno fruito  dei  loro  territorii,  se  non  costringeranno 
eventi  e  domineranno  fortuna,  avranno  prosperità  di 
popolo,  e  questa  sarà  potenza  di  principe. 


510  PAITE  SETTIMI 

Il  campo  geogràflco  deirislamismo  è  vastissimo,  ma 
la  Turchia  (senza  forza  è  la  Persia)  è  il  solo  grande  Stato 
maomettano  del  mondo.  Se  i  sultani  adottano  il  crìstia* 
nesimo,  e  la  Turchia  lo  adotta,  presto  l'islamismo  potrà 
dirsi  sparito  dal  mondo  come  sparì  il  culto  d'Osiride, 
quello  di  Belo  e  quello  di  Giove,  ed  il  cristianesimo  a?rà 
forza  maggiore  nell'invasione  salutare  del  globo.  Ha  se 
i  sultani  non  osano  un  gran  colpo  di  Stato,  la  loro  ca- 
duta è  sicura  :  non  può  infatti  dirsi  di  loro  ciò  che  Orazio 
scriveva,  che  cioè  il  tempo  prudente  copre  di  notte  cali- 
ginoHU  il  futuro:  del  loro  inevitabile  crollo  non  siamo 
profeti,  ma  veggenti  :  quando  per  agitazioni  di  popoli  o 
per  vittorie  di  spada  cesserà  in  Europa  l'equilibrio  degli 
Stati  discordi  e  gelosi,  si  vorranno  gli  acquisti  e  si  cer- 
cheranno i  compensi,  e  si  troveranno  nelle  contrade  ot- 
tomane, come  alla  fine  dello  scorso  secolo  ed  al  principio 
dell'attuale,  senza  alcun  riguardo  alle  ragioni  dei  deboli, 
si  sono  cercati  e  trovati  nelle  repubbliche  italiane,  ed  in 
cento  territorii  di  principi  alemanni  secolari  ed  ecclesia- 
stici. I  sultani  lenti  a  risolvere,  ed  a  dare  assetto  e 
forza  allo  Stato,  perderanno  l'impero  come  lo  hanno  per- 
duto i  Paleologhi,  che  quando  s'accorsero  di  avere  una 
via  di  scampo,  si  misero  per  essa,  esitarono,  ristettero, 
non  perdurarono  audacemente,  che  forse  il  potevano, 
come  i  sultani  potrebbero  (1). 

(1)  Quando  Costantinopoli  nel  secolo  XV  fu  seriamente  minacciata  dai  Turchi, 
rimperatore  chiese  soccorso  ai  Latini:  costoro  vedevano  la  convenienza  poliiica 
e  quasi  la  necessità  del  soccorrere,  ma  essi,  soprattutto  il  Pontefice,  che  doveva 
essere  l'animatore  ed  il  centro  direttivo  della  nuova  crociata,  mostravansi  lan- 
guidi, ed  anzi  poco  propensi  a  grandi  sacrifìcii  per  dare  ajuto  ai  scismatici. 
Allora  rimperatore  comprese  Tindispensabililà  della  riunione  religiosa:  venne 
egli  stesso  in  Italia  coi  suoi  vescovi  e  grandi:  s'uni  un  concilio:  i  Greci  am- 
misero la  procedenza  ab  utroque:  si  celebrò  la  concordia ,  ed  i  Latini  airin- 
Vito  del  papa  s' armavano.  Ma  le  plebi  di  Costantinopoli  non  erano  state  ben 
preparate  alla  mutazione,  ed  iniziate  al  misterio:  non  vi  erano  forze  latine 


CAPITOLO  m.  511 

Ad  {sviluppare  adunque  le  membra  impacciate  dal- 
rislamismo,  ed  a  dare  ai  Cristiani  libera  e  rigogliosa  la 
vita,  non  aspettino  i  sultani,  ancora*una  volta  il  diciamo, 
né  le  ultime  piaghe,  né  l'uccisione  dei  primogeniti,  come 
i  Faraoni  aspettarono.  I  popoli  tenuti  per  forza  sono  nei 
tempi  pacifici  di  danno  e  di  spesa,  e  sono  di  debolezza 
e  pericolo  in  quelli  di  guerra  :  quegli  poi  che  gli  tiene  é 
travagliato  da  doppia  paura,  Vuna  dentro  per  conto  dei 
sudditi,  Taltra  fuori  per  conto  dei  rivali  esterni.  Accol- 
gano i  sultani  la  provvida  idea,  meditino  il  fulmine  a  lan- 
ciare, nella  via  di  ristoro  si  mettano,  e  della  meta  confi- 
dino. Quel  sultano  che  avrà  sortilo  mente  nata  al  regno, 
e  non  solo  voglie  prone  alla  mota  del  vizio,  che  nei  di  del 
cimento  senta  l'energia  nelle  fibre  discorrere,  e  tenga  di 
sua  forza  levate  le  braccia,  non  cercando  il  vigore  in  chi 
lo  circondi,  ma  prestandolo  a  tutti,  sarà  l'erede  di  Co- 
stantino, sarà  il  Goffredo  dì  Buglione  difensore  del  Santo 
Sepolcro,  mentre  adesso  tutti  lo  vogliono  essere  e  lo  sono 
invece  di  lui,  sarà  l'Atlante  che  sostiene  delle  sue  spalle 
lo  Stato. 


presenti,  e  la  popolazione  non  era  mista  come  lo  è  di  presente  in  Turchia. 
Appena  i  vescovi  ritornati  dall'Italia  incominciarono  a  cantare  la  procedenza 
ab  utroque,  vi  fu  quindi  tumulto,  imperatore  tentennò,  poi  piegò,  e  cedette 
al  clamore  delle  plebi  stolte  ed  insane.  Accorsero  poscia  i  Turchi,  non  i  Latini: 
Costantinopoli  fu  battuta  e  presa,  Fimperatore  ucciso,  e  Maometto  II  s^intitolò, 
quasi  a  ragione,  fra  lo  spavento  di  tutta  la  Cristianità,  tignare  dei  due  mari 
e  dei  due  continenti. 


PARTE  OTTAVA 

GLI  STORICI  NOVELLATORI. 


33 


CAPITOLO  UNICO 


Quesfopera  già  contiene  numerose  pròve  della  necei'» 
sita  di  non  abbandonarsi  ciecamente  ad  ogni  credenza 
di  storiche  narrazioni,  e  di  non  lasciarsi  traviare  dal  me- 
raviglioso e  strano,  ma  di  interpretare  con  senno,  di  rin- 
tracciare anche  nelle  immagini  dell'arte  e  nei  colori  della 
poesia  la  nuda  verità,  e  di  ridurre  qualunque  cifra  esa- 
gerata e  bizzarra  alle  proporzioni,  nel  cui  limite  possa 
essere  creduta  ed  ammessa. 

Di  prodigiosi  errori  sono  irte  le  storie,  e  nessuna  ve- 
rità si  insegna  più  schiettamente,  e  si  crede  più  vera, 
di  talMibbagli  e  flnzioni  incominciate  da  uno  o  da  pochi, 
ricevute  da  molti,  divulgate  da  mille,  e  durate  per  se- 
coli. Noi  stessi  prepariamo  pei  posteri  la  storia  fantastica 
del  tempo  attuale.  Non  descriviamo  e  dipingiamo  p«  e. 
il  re  Carlo  Alberto  nel  palazzo  di  Novara  dopo  Tinfausta 
giornata,  affaticato  la  mente  di  gravi  pensieri  i  meno 
dolente  di  sé  che  d'Italia,  che  parla  al  figlio  genuflesso, 
lo  nomina  re,  gli  ricorda  i  doveri,  e  solve  nel  pianto  i 
congregati  suoi  duci?  Vi  sarà  storico  d'ora  innanzi  che 
voglia  escludere  una  pagina  si  commovente  dai  racconti 
suoi?  Eppure  Carlo  Alberto  a  Novara  non  apri  il  suo 
pensiero  ad  alcuno,  noi  disse  ai  figli,  né  al  generale  co- 
mandante l'esercitOi  né  lo  comunicò  per  iscrìtto  al  pria- 


516  PiRTB    OTTiTA 

cìpe,  reggente  del  Regno,  a  Torino,  ma  lasciò  nella  notte 
Novara,  non  indicò  qual  via  prendesse,  e  senza  compa- 
gni n'andò  a  Mentone  in  Liguria,  da  dove  si  ebbero  le 
notizie  ed  un  atto  d*abdìcazìone  di  lui:  non  siamo  dun- 
que noi  stessi  maestri  di  verità. 

E  non  sempre  siamo  maestri  d'assennatezza  nemmeno 
nelle  interpretazioni  e  giudizi!.  Cosi  Machiavelli  non 
esalta  di  forza,  ma  di  sapienza  e  d'avvedutezza  i  Romani 
perchè  facevano  corte  le  guerre;  quasi  il  durare  in  esse 
dipendesse  da  perspicacia,  e  non  da  potenza  a  riportare 
prontamente  vittoria,  e  non  abbiano  anche  i  Romani  do- 
vuto fare  talvolta  lunghissime  guerre.  Egli  dice  che  gli 
uomini  si  moltiplicano  nel  Settentrione  pd  freddo,  e  nelle 
repubbliche  per  influenza  di  libertà  ;  quasi  fosse  popo- 
losa la  Siberia,  ed  in  certe  parti  della  Cina  si  avesse  il 
governò  repubblicano.  Dice  che  un  principe  armato  deve 
piuttosto  aspettare  in  casa  la  guerra,  che  non  farla  di 
fuori,  e  questa  generalità  di  sentenza  è  dimostrata  di 
falso  con  ragioni  e  con  fatti  in  molte  parti  dell'opera  at- 
tuale. Dice  che  i  Romani  inviando  colonie  assegnavano 
poco  terreno  ai  singoli,  perchè  i  poveri  vivevano  già  male 
in  Roma,  ed  inutile  sarebbe  stato  che  vivessero  bene  di 
fuori.  Dice  che  la  sovrabbondanza  degli  umori  nel  corpo 
dell'uomo  genera  purgazione  da  sé,  e  similmente  avviene 
che  per  guerre  e  pestilenze  naturalmente  s'abbia  a  pur- 
gare e  decrescere  la  sovrabbondanza  del  popolo  in  Pro- 
vincie ed  in  regni,  ecc.  Di  tale  mondiglia  abbondano  le 
opere  di  Machiavelli ,  perchè  talvolta  è  dormigliosa  an- 
che nei  sommi  ingegni  la  mente. 

Non  diremo  delle  assurde  indicazioni  d'antichi  autori, 
0  piuttosto  dell'incomportabile  temerità  dei  moderni 
nel  tradurre  nei  pesi»  monete  e  misure  d'oggidì  le  .cifre 
lette  nei  classici  che  parlano  d'issirìi,  d'Egiziani,  di 


OiPiTOLO  innco  019 

Gred  e  Romani.  Per  mero  accidente  si  offre  in  qualche 
luogo  e  tempo  alcun  elemento  a  percezione  sicura  d*un 
fatto  o  cosa  speciale,  uMi  tutti  i  gabinetti  di  antiquaria 
dell'Europa  insieine  raccolti,  e  tutti  gli  studii  fatti  dagli 
archeologi  finora,  sono  ben  lungi  dal  darci  soddisfacente 
notizia  della  generalità  di  tali  sistemi,  che  furono  d'al- 
tronde cosi  mutevoli  in  ogni  paese  ed  età:  noi  ignoriamo 
le  basi  di  quei  sistemi,  e  le  vicende  di  essi  :  noi  non  co- 
nosciamo né  le  fluttuazioni  dei  valori  da  cento  cause  pro- 
dotte nel  mondo  consociato,  e  più  nel  mondo  dissociato, 
né  le  sproporzioni  che  dovevano  essere  enormi  quando  le 
ali  non  erano  fatte  grandi  al  commercio,  né  era  feconda 
rindustria  per  agevole  spaccio,  per  le  foreste  fossili,  per  le 
audacie  della  meccanica:  noi  nulla  sappiamo  del  prezzo 
adeguato  che  avevano  sui  principali  mercati  del  mondo 
antico  i  generi  di  sussistenza,  dal  costo  dei  quali  in  oro 
ed  argento  si  avrebbe  a  desumere  qual  fosse  il  valore 
reale  del  metallo  in  quel  tempo  e  luogo.  Eppure  scri- 
viamo qual  era  la  capacità  dell'arca  di  Noè,  il  peso  del- 
l'asta di  Golia,  il  valore  del  bottino  importato  da  Car- 
tagine o  dalla  Macedonia,  il  prezzo  della  perla  disciolta 
da  Cleopatra,  il  costo  giornaliero  delle  ghiottonerie  di 
VitellioI 

Questi  errori  son  nostri,  ma  anche  gli  antichi  ne  ab- 
bondano. Dì  barbare  carnificine  p.  es.  è  tutta  immonlda 
la  storia.  Dovremmo  però  rifiutare  le  iperboli  di  quei 
monti  d'uccisi  e  quei  fiumi  di  sangue,  che  ad  ogni  passo 
si  incontrano,  né  crediamo  alle  intiere  generazioni  mie- 
tute, alle  città  rase  al  suolo,  ai  fatti  deserti  dov'erano  i 
regni:  troppo  sovente  gli  storici  nei  racconti  trasmo- 
dano, e  negli  eccessi  traboccano.  Vi  fu  non  rara  pro- 
dezza personale  nei  re  e  nei  supremi  condottieri  d'esier*- 
cito;  che  animando  d'esempio  in  decisivi  momenti  hanno 


118  fàXn  MTàTA 

condotto  le  colonne  airassalto,  e  molti  ebbero  ad  un 
tempo  Fanoro  è  la  tomba,  ma  riGuta  la  logica  quelle 
perpetue  immagini  di  re  e  di  dubì  d'esercito,  che  sempre 
ci  si  presentano  in  una  mischia  confusa  colla  propria 
spada  combattere,  come  pugna  p.  es.  Alessandro  nelle 
tele  ammirate  di  Le  Brun,  o  nel  superbo  mosaico  tro- 
Tato  nella  casa  del  Fauno  in  Pompei.  Chi  Uene  il  co- 
mando di  grandi  masse  in  azione,  che  dere  tutto  cono- 
scere» ed  a  tutto  proTiedere,  che  ha  da  ogni  lato  notizie  a 
ricevere,  ed  ordini  a  dare,  che  de?e  confermare  e  modi- 
ficare le  disposizioni,  scemare,  dividere,  lanciare  le  ri- 
terre  secondo  gli  scopi  premeditati  egli  istantanri  bisogor, 
non  può  scendere  a  soldato  ordinario,  vedere  un  sol 
punto,  non  essere  a  tutli  accessibile:  diversamente  ope- 
rando, egli  dovrebbe  cedere  la  suprema  direziofie  ad 
altrui  nd  momento  medesimo  in  cui  più  gli  importa,  e 
VQok  conservaria  a  se  slesso*  Sempre  la  pitturai  e  so- 
vente la  poesia  vestono  di  forme  materiali  le  idee  perdio 
altra  lingua,  o  miglior  lingua  non  hanno:  in  tal  modo 
procurano  di  rendere  oggettiva  anche  Tidea  del  comando, 
oaaia  dalla  superiorità  militare,  col  presentare  Alessan- 
dro o  Cesare  quali  soldati  più  degli  altri  valeuti  a  eom- 
ballere.  Però  lo  storico  non  deve  usurpare  ad  artisii  o 
pooti  una  lingua  inferiore  alla  sua,  ed  esprimere  3  ISdso 
potsoda  dire  il  vero. 
Muzio  Seevola  non  ha  eertamente  eombùafo  la  destra 

Si  99C9  nto  C89  BOV  MIKl  n  éUOfV, 

le  4mIIo  Sctva,  aatarione  ài  Cesare^  si  cÉvò  dairo^ 
ibIw^i  i  dfevdo  nenico  portandolo  imperterrito  coIToc» 
chb  proprio  confitto  sutta  polita^  perchè  lo  spaaìno  vmosf 
tciSlindodi  aewi.  I  kreewto«l  fabin  tulli  d'un  tsBà- 
^fat  che  aocloQO  da  Robm  mm  ipiaMio  mila  attici  9 


càfRCM  wmté  bì9 

dkwiff  jne^  eraib«Uere  gli  Btf  ti«<^f  ^  e  muc^cmc»  luttì^  meM 
Off  solo  Fffbietto  fric€6r)iiMr/  cbè  Vob0  dorerà  fmr  ▼iveré 
péfr  ia)fn«  il  Ma^oe  dei  tonti  FaUi  fenoli  dif^e»,  e  tìyì 
afnebè  irt  «ftore  <^  7fta  U? te  iei^tiTii  il  raeéonlo  »  k 
rapi  ipeeeMe  ià  ÀnnìMe  eoft  looMr  ed  ecféta^  gli  eséT^ 
eitf  ébe  91  ìmUcme  «1  Irstfimètle  cm  («ikr  fiJrore  de  néà 
a€(!(n'p0r$i  im  teUrmwM  ék^  àiitrngge  HiHété  €ÌM; 
Vm^  EtaììHt  ébe  rifilile  le  ieitere  di  Pmtm  p^tchè  «frtttf* 
eerlMe  ^mI  rè^  leMMne  kiflete  re  fatee^  «émdrlqtte 
9«MiStl9/  HMt  piànge^  fMrekè  ftétt'c^e  |W<iM»l#*IM 
Mmd9  f edtilo  «be  ifàfma  féuÉpl»  de  pinigare  eOltè 
greifdi  fteiMttre;  i  iiieiie(«rii  fa Ui  dftemrif  «est  ffttrfMfó^^ 
ebe  lècmidcr  YofMto  dd  Aeretio  Viltere  «tr^bem  fo^ 
malo  eserciti  contro  i  quali  Aureliano  in  una  sol#lMf« 
taglia  perdeva  seHAAiki  MMirti/  imi  «effe  falsità  ed  esa- 
gerazioni màtnie9Ìè1 

m  #idiéKtfo  del  pMritn^tftf  ài  (pkm  OVlà  tm  èì  Me* 
«l*tve^  em  m  sok»  di  tdm^rr^,'  &  ^  ràku/iim  nofm* 

MI9  kffó  ^dì(ffl^lMìJ«  ^  Mfìsc«  d^  éùùjo  #»»  féfé;- 
tfM  ìfftidìdflfe  f  lAdéàitùi^fA  Hi  M^^i^i  iÉÈtè:  ttféfé 
ptctflHtfv  ÉMMMMtlB  ||K  esiéi^éifiy  ftfMSf i(Séff  iféttl  éfòrfctf^/ 
«M  M«  pCMMiAio  KéWM  «Mlpfèttdere  «Ile  «i^ifd^  «Mi 
e«MI#Mnii  délTc^d^^  llte^fb^ kf  ì^fMf^ta  tfo«  timéékéé^ 
trove  frequenti  le  accuse  contro  priyd^r  tSé^féti  é^  ré 
per  dtfiMft^  f^(«KlMé^  «pd  d»fèi9tf/  é-  ì&rà  Iketmi  M  ter- 
sltMl^  dM{^  Egi«lef#/  dei  fréMt  <  m  «otf  ^(^ftdoitf  d 
réiAMMìd  dite  Èàffà  9[¥Sttf  ì  ItétìtàtA  1filófiil&  ìà  fèùùté 
étifté'WÈ  IMì»  fft  ()«Mé(y  de  l«^ rìdt^dF da^ 
rdltl^  iV  ìfèiMffA^  óHéS-  M  §ttféÉ&  i(ffpf€SÌ  tf  iCoUBm^ 

telffi.-  Cw  MrtrldMéf  m  ^thMìflté^  àtMi§6  pSt  iù&io  m 
éXeiSM  eiie'  p^  9iifle  diinf  MnRiane  séWt^é  A^  féttitìt 
S€Èttlt  éfffMflK  g^tflfiriM)  fÉf  tfùé  déliél  dr  tfflnk  (^  éittà^i  e'jJM^ 


590  PARTE  OTTAVA 

scia  comandando  ad  eserciti  immensi,  dieci  volte  mietuti 
e  rinnovali,  conoscesse  ogni  soldato,  ed  a  nome  il  chia- 
masse, è  favola,  se  pur  non  si  è  tradotto  in  questo  modo 
il  concetto  che  Mitridate  avesse  stabilito  registri  d'eser- 
cito si  che  d'ogni  soldato  tosto  sapesse  l'origine  e  nonae. 
Cleopatra  al  precipizii,  al  nodo,  alle  vene  aperte  forse 
preferi  il  veleno,  ma  credibile  non  è  che  bramasse  di 
trattare  i  serpenti,  come  dicono  poeti  ed  istorici,  e  nelle 
orribili  loro  spire  morire.  Gli  angui  attorti  alla  donna 
deliziosa  furono  descritti,  e  creduti,  ed  in  mille  modi  effi- 
giati ;  eppure  Cleopatra  ben  poteva  uscire  brevemente 
di  vita  por  altro  veleno  riposto  in  quei  cestelli  di  fiori, 
in  cui  leggesi  che  essa  ha  potuto  farsi  portare  il  co- 
lubro. 

Da  cui  morte  prese  subitana  ed  atra. 

(Dante,  Par.,  VI) 

Che  Serse  flagellasse  il  mare  è  favola,  perchè  seria- 
mente meditate  le  operazioni  di  lui,  non  si  trovano  né 
assurde,  nò  stolte;  ma  forse  fu  volta  in  ridicolo  l'espres- 
sione frequente  del  remeggio  di  navi  che  l'onde  flagella. 
Siccio  Dentato  era  senza  dubbio  un  prode  guerriero  se 
miravasi  a  lui  come  al  bravo  dei  bravi,  ma  non  uccideva 
da  solo  a  centinàja  i  nemici  al  par  di  Sansone,  d'Arturo, 
e  dei  cavalieri  fatati. 

Se  nella  battaglia  di  Pidna  la  falange  macedone  avesse 
resistito  si  ferma  come  narra  la  storia;  se  si  fossero  per- 
fino dovute  lanciare  le  bandiere  romane  in  mezzo  ai 
suoi  ranghi  per  eccitare  i  soldati  a  riprenderle,  avrebbe 
Paolo  £milio  avuto  soli  cento  uccisi  e  feriti,  ossia  due^ 
cento  cinquanta  volte  meno  del  numero  d'uccisi  e  feriti 
che  vuoisi  soflerto  da  Perseo  ?  Ma  miglior  duce  di  Paolo 
Emilio  era  Crasso,  che  perdeva  tre  soli  soldati  quando 
Spartaco  sacrificava  dodici  mila  dei  suoi  assaltandone 


CAPITOLO  UNICO  524 

le  trinciere  (Appiano).  Pare  strano  anche  a  Tacilo  che 
nella  battaglia  fra  Svetonio  Paolino  e  Baodicea  moris- 
sero ottanta  mila  Britanni,  e  soli  quattrocento  Romani. 
Ma  che  diremo  di  quel  bravo  console  Fabio  (Plinio,  1.  VII, 
cap.  50),  che  sapeva  risparmiare  si  bene  i  Romani,  che 
ne  perdeva  uno  solo  per  ogni  otto  mila  nemici  uccisi  ? 
Egli  infatti  ne  avrebbe  perduto  soli  quindici  nella  gran 
battaglia  in  cui  ammazzò  cento  venti  mila  Allobrogi  ed 
Arverni.  Eppure  anche  quel  Fabio  era  uno  scolaretto  a 
fronte  di  Lucullo,  per  cui  la  guerra  d*Asia  era  simile  alla 
battaglia  di  Rinaldo  nel  Tasso  : 

Pugna  questa  non  è,  ma  strage  sola, 
Che  quinci  oprano  il  ferro,  indi  la  gola. 

(Canto  20,  st.  56). 

Egli  infatti  avendo  soltanto  dieci  mila  Romani  uccise 
cento  mila  soldati  a  Tigrane,  non  perdendo  che  cinque 
dei  suoi.  Non  possiamo  però  credere  a  si  gran  strage  del- 
l'esercito di  Tigrane  quando  leggiamo  che  all'avanzare  dei 
Romani  immantinente  si  sciolse  ai  quattro  venti  e  sparì, 
e  nella  stessa  capitale  si  ribellarono  le  colonie  greche  ed 
asiatiche  che  vi  erano  state  strascinate  a  popolarla,  onde 
la  città  cadde  di  subito  in  mano  a  Lucullo.  Se  leggiamo 
di  quel  milione  d'uomini  uccisi  da  Pompeo  in  battaglia, 
di  quei  due  milioni  uccisi  da  Cesare,  di  quel  milione  che 
in  ogni  città  della  Persia  si  uccideva  dai  Mongoli,  del 
milione  di  Ebrei  uccisi  da  Tito,  soprattutto  dei  ventuno 
milioni  (Procopio)  fatti  perire  da  Giustiniano,  siam  certi 
che  sono  corse  delle  cifre  di  più.  Se  si  narra  d'una  vora- 
gine che  s'era  aperta  nel  fòro  di  Roma,  e  fu  colma  al 
giltarvisi  d'un  cavaliero  coU'armi,  di  Curzio  cioè. 

Che  di  sé  e  dell  armi  empiè  lo  speco 
In  mezzo  al  fòro  orribilmente  irdto, 

(Petrarca) 


51S  Pàmn  MTAf  à 

Gvediatto  piultoslo  ad  bdc  sediziotie  scoppinta,  e  ceisiUi 
colUi  perdiU  d'on  solo  eooibatteifter  cki«  noo  ad  Hd  Imh 
ratro  spalancalo  aeniM  causa,  e  di  sì  poca  materia  ripieno^ 
So  TwfMf  la  milite  di  Bralo^  e  Saf?i)ia  fnogUe  d(^  figlio 
di  Lepido  si  toglkmo  la  ?ita  coi  cwrbom  aecesi^  dkè  col- 
Tasfif fiatodolla  dai  gas  earbomosi^  cti*  è  iMida  A  aviocto 
tranquiDo  e  fraquenter  gli  atorici  rof^tiano  m^t^i/igMù^ 
atrasìf,  e  piìi  ancora  dì  donna^  e  quindi  nairaffo  dM 
posero  i  carboni  in  bo«sa«  e  pei  la  teimero  ben  dmsa 
Le  piraoiidi  erano  tomba  A'oz$o$af€€mnià  e  Hòlu^  a*w^ 
tazione  di  re,  come  ledisseFedfOf  manonnimiiiMi  b«r^ 
riera  ai  venti  del  deserto,  perchè  non  versassero  sulla  valle 
del  Nilo  le  sabbio  ad  ist^ilira  r£|plto,  la  ({naie  interpre- 
tazione di  pMos&doMrina  fu  prodotta,  e  da  molti  creduta, 
senza  riOetl^e  cbe  quella  barriera  cento  volle  interrotta 
sarebbe  stata  fra  lattala  possibili  la  più  costosa  ed  inutile. 
Demetrio  Polioi cete  non  ha  certamente  rinunciatoa  presh 
deve  Rodiy  e  levato  Tassedia  ff&t  non  esporre  a  pericolo^ 
come  dice  Aulo  GelliQ  pib*  XV),  un  quadro  di  {fotogene 
espugnando  con  forza  e  con  fnoco  l'odiata^  città.  Sltticon^ 
non  distmise  a  Fiesole  resercito  di  Radagiso  $eni^piv- 
iere^  mh^  uamo^  né  crediamo  alle  fibre  ddicale  de»  6er-' 
mani  rimasti  in  allofa  priii^o»^  die  tutti  moriu^f o  per 
MmtàiicUnuk  e  ài  tikof  ma^^nUo^  creiamo  a  bat- 
terie eba  U  abbia  uccisf  di  ferro,  di  veleno  a  éK  lame. 

Bisogna  meditare  traacittìklr,  e  pef  l'cMrdinaiio  la  buona 
spi^azifi^ie  si  Wo?ar  Non  era  nscito  di  senno  JUilonio  se 
adendo  »  eeotro  éA  gieco  suaimf^ria  iUessandria»  adu- 
lava le  plebi^  assumeva  le  costumanze  greeher  vestiva 
alla  greca:  anche  Publio  ScrpMme  vestiva  alla  gr^eca  in 
Sicilia,  ed  anche  Germanico  cosi  vestiva  in  Egitto,  eppure 
né  Tuno,  né  l'altro  a^^vano  gl'interessi  si  forti  e  gli  scopi 
d'Antonio  :  be»fMlevasi  Antonio  di  ciò  censurare  da  tutta 


Roma,  e  spedalmente  da  Augusto,  ma  non  si  dotrebbero 
ripetere  fra  noi  accuse  si  leggimi  di  sconsiglialetza  nel- 
Fabbandono  degli  usi  romani.  Non  era  pazzo  Cambise 
perchè,  conquistato  FEgitto,  marciò  pei  deserto  al  tempio 
di  Giove  Ammone:  doveva  togliere  ai  Greci,  sempre  ne- 
mici  di  Persia,  un  luogo  (fi  somma  influenza,  e  le  loro 
edionie  fiorenti  ddla  Cirenaica,  non  lontane  da  paese 
soggiogato  di  nuovo,  e  d'antico  orgamsmo  civile  tanto 
difierente  dal  persiano*  E  per  l'opposta  ragione  anche 
Alessandro  marriara  dairEgitto  al  tempio  di  Giove,  e  gli 
recava  dei  doni,  e  da  quel  Dio  dei  Greci  era  didiiaralo 
firn  ^glio.  Se  Tiberio  lasdando  Roma  si  ritiniva  a  Capri, 
ed  altri  Cesari  in  Campania,  non  era  già  per  nascondere 
le  tnrpitiàiànif  come  sempte  ss  dice  :  trovavano  a  Capri 
ed  in  Campania  più  serena  almo^ra  che  a  Roma,  ove 
le  loro  aufe,  deserte  di  palrizii,  non  raco^ievano  che 
nomum  nuovi  e  liberti  :  cigni  volta  che  Varistocrasm  è 
dq[>ress8,  od  una  dinastia  è  icaodafadall'allra,  non  suo- 
cede  sempre  cosi? 

Inalsarono  i  Rodii  p«  s^^nale  ed  ornamento  atrim^ 
boocaltiradel  porto  ito  grande  colosso,  fmsse  cirif  le  navi 
trapassavano  neiroscire  od  entrare,  na  le  difficolti  della 
statica,  reaormìtji  delle  pn^rrioot  che  altrimeftti 
avrebbe  dovuto  avere  la  statue^  il  pmcolo  delle  scoase 
Bdle  tempeste  di  ANve,  e  la  frequenza  dei  terremoti  hi 
Rodi,  tolgofioeffniffedealramoiitocheilgigaf!^ 
èait*uffo  all'altro  molo  le  gambe,  ed  i  vasci^  avessero  9 
loro  cammino  fina  qn^lei  I  Itoci  cft^  vestono  d*abftr  di 
aoldati  gli  alberi  d^inra  foresta,  ed  i  Komavi  che  retroce^ 
4aiio  iafgamiafi  da  esercito  iffatle90  A  gwwfcToso  e  A 
saldo  fiffasamoni  chieenffanoviClofKisi  Af  nel  camptt  di 
VlaocOf  ma  trovavo  nefle  fende  e  villo  6  bevande,  cfper 
■mnIo  99  W6  pascono^  dio  al  ritomsr  de?  Romani  soffo 


L 


Sii  PARTE  OTTÀti 

obesi  ed  uccisi;  Paolo  Emilio  che  vedendo  ad  Olìmpia 
Dell'Elide  la  istatua  di  Giove,  lavoro  di  Fidia,  credesì; 
stupefatto,  dirimpetto  a  Giove  vivente,  sono  racconti 
che  non  sapremmo  ripetere  volendo  escludere  dairislo- 
ria  e  romanzo  e  fole. 

Immanità,  oscenità,  atrocità  insozzavano,  imperversa- 
vano sotto  Caligola  e  sotto  Nerone,  ma  come  credere  che 
Caligola  seriamente  facesse  console  il  suo  cavallo,  che 
Nerone  incendiasse  due  terze  parti  di  Roma  non  per  ven- 
detta, 0  per  trasferirsi  altrove,  ma  per  mero  diletto  e  ri- 
fabbricarla di  iluovo,  che  facesse  venire  non  grano,  ma 
mota  e  sabbia  dal  Nilo,  quando  v*era  mancanza  di  viveri 
in  Roma?  E  forse  che  un  vero  mentecatto  e  maniaco 
può  per  giorni,  per  mesi,  per  anni  realmente  regnare 
come  Caligola,  e  più  ancora  Nerone  regnò t  E  forse  che,  • 
morto  Nerone,  sarebbero  sorli  in  Creta  e  nell'Asia  due 
pseudo-Neroni  nella  speranza  di  salire  per  inganno  a 
potenza,  trovando  dei  buoni  e  ragunando  dei  bravi,  se 
tutti  e  ciascuno  nell'Imperio  gli  fossero  stati  di  parte 
contraria  ?  Sono  argomenti  a  mostrare  che  Caligola  non 
era  affatto  demente  il  grande  acquedotto  scavato  per 
Roma,  e  l'ordine  che  i  fatti  della  guerra  civile  (il  cenno 
che  troviamo  riflette  la  battaglia  d'Azio)  né  si  glorificas- 
sero, né  si  deplorassero,  ma  possibilmente  si  diménti- 
cassero.  Voleva  invadere  la  Brettagna  :  incominciò  egli 
pure  coll'accogliere  Arminio,  figlio  di  Cinobelino  re  dì 
Brettagna,  onde  gettare  la  discordia  nell'isola ,  ed  age- 
volare l'acquisto  :  uni  l'esercito  sulla  Manica  ;  lo  imbar- 
cava, sbarcava,  agitava  ad  esempio  di  fazioni  di  guerra, 
probabilmente  attendendo  l'istante  propizio  a  passare  lo 
Stretto,  e  scender  nell'isola.  Sono  questi  indizii  di  pazzia? 
Quante  volte  Napoleone  sulla  Manica  non  ha  egli  stesso 
imbarcato,  sbarcato,  agitato  l'esercito  suo  destinato  alla 


CAPITOLO  UNICO  525 

medesima  intrapresta  1  Abbandonò  Napoleone  la  Manica 
per  correre  ad  Ulma:  ignoriamo  perchè  la  lasciasse  Ca- 
ligola. E  di  tanto  sforzo,  di  tanto  apparato  romano  e 
francese  che  cosa  rimase  su  quella  spiaggia  di  mare? 
Rimase  di  Caligola  Taltissima  torre  ex  qua^  ut  ex  pharo^ 
noctibw  ad  regendoi  navium  curtw  ignei  emicarent. 
E  degli  immensi  preparativi  di  Napoleone,  delle  sue 
tre  mila  navicelle  apprestate,  del  suo  tanto  armeggiare 
sulla  Manica  che  altro  rimase  se  non  il  faro  di  Boulogne? 
La  fondazione  di  q\ie\Valtis$%mo  faro  di  Caligola  non 
può  perfino  guidarci  ad  induzione  ragionevole  che  egli 
pensasse  a  creare  in  quel  punto,  che  è  dei  più  vantag- 
giosi sulla  Manica,  un  vero  stabilimento  navale?  Ora 
l'importanza  d'una  costante  e  forte  stazione  navale  colà 
era  ben  grande  per  un  impero  padrone  delle  coste  gal- 
liche, delle  bataviche  e  delle  britanniche,  che  doveva  sor- 
vegliare ed  all'uopo  minacciare  l'Ibernia,  guerreggiare 
si  spesso  nella  riottosa  Brettagna,  ed  era  sovente  costretto 
a  tradurre  le  piccole  navi  del  Reno  per  già  esistenti,  o 
per  nuovamente  scavati  canali  da  quel  fiume  ai  golfi  ba- 
tavici,  e  nel  mare  fino  alle  foci  dell'Ems  e  del  Weser  per 
appoggi  di  forze  e  di  viveri  alla  sinistra  dei  grossi  eser- 
citi combattenti  nella  vasta  Germania.  Eppure  non  suolsi 
riflettere,  e  contro  il  principe  tristo. si  pronuncia  senza 
alcuna  riserva  condanna  assoluta  d'efferatezza,  d'imbe- 
cillità e  pazzia. 

-  Sotto  Nerone  una  metà  di  Roma  fu  da  orribile  incendio 
consunta:  durò  quanto  quello  di  Mosca  o  quello  d'Am* 
burgoa'  di  nostri:  arsero  le  spoglie  di  tante  vittorie,  i  mi- 
racoli dei  greci  artefici ,  le  opere  antiche  e  conservate  di 
grandi  intelletti,  perfino  molti  dei  più  magnifici  monumenti 
dei  re,  della  repubblica,  di  Cesare  Augusto.  Ma  fu  Nerone 
l'incendiario  di  Roma?  Quando  leggiamo  negli  scrittori 


nmàA  dì  luì  ebe  rincaodia  MDppia  in  un  povero  quar- 
tiere dei  venditori!  d^i  oliii  ebe  Nerone  hU'httìso  delk 
Fineendio  ritorna  immantinente  in  città  da  dove  era  a^ 
sanie»  che  prende  tutte  le  disposizioni  onde  arrestare  le 
fianme  almeno  per  isolamento*  e  nudi  spazii  ed  aria, 
che  dispone  delle  sue  case  per  rifugio  di  chi  ha  perduto 
le  proprie*  che  fa  subito  erigere  capanne  e  tettoje,  che 
da  tutti  i  vicini  municipii  fa  portare  a  Roma  masserizie 
e  soccorsi,  che  ribassa  il  prezzo  dei  grani  ordinandone 
arrivi  alla  flotta  imperiale  a  giorni  fissi  non  exeeptii 
marti  ea$ibu$^  ecc.  ;  quando  tutto  ciò  sta  scritto  leticai- 
menta  in  Tacito»  potremo  dar  retta  a  qualche  mormora- 
tore  di  piazza  che  Nerone  era  Tautore  deirinccHidio»  e  si 
sollazzava  durante  il  medesimo  cantando  dei  versi  sul- 
rincendio  di  Troja?  Né  erano  da  imperante  furioso  e  bru- 
tale le  disposizioDi  impartite  per  la  ricostruzione  di  Roma: 
esterum  urbù.  qua  domui  iupererantt  non  ut  poMt  gal-' 
lica  incendia,  nulla  di$iinctianet  nee  passim  ereeta^ 
$ed  dimensis  vieorum  ardinibus^  et  latis  viarum  spatiis. 
cohibitaqw  wdifieiorum  altitudine^  ae  pateftutis  areis 
additisque  partieibi^t  quw  flrontem  insularum  protege^ 
rent  :  ea$  portieus  Nero  sua  pecunia  extructurum,  purga- 
tasque  areasdominis  traditurum pollicitus  est:  addidit 
pramia,  ecc.  (Tìcit.,  1.  XV,  cap.  43).  Migliori  leggi  edi- 
lizie  non  si  fanno  oggidì.  Come  Nerone  ricostrusse  Roma 
consunta  da  incendio,  ed  anche  Lione  divorata  pur  essa 
dal  fuoco,  Pombal  ricostrusse  Lisbona  distrutta  da  ter- 
remoto, e  noi  crediamo  Nerone  cosi  innocente  deirincen- 
dio  di  Roma  e  Lione,  come  Io  fu  del  terremoto  di  Lisbona 
il  famoso  marchese,  o  Tito  imperatore  del  vulcano  che 
distrusse  Ercolano  e  Pompei.  Ma  qualora  si  accogliesse  la 
nostra  opinione,  quante  belle  dissertazioni  scolastiche 
andrebbero  perdute  i 


MiUifi  «j  tm^e^  «19'^  ÌÌ»m^  M«b*  9#r  Vmme  «gK 
«lijto  g0)l«  Me0#  ja  Omùé  fi  i»  Nipoti.  «b9  em  pur 
99S9i,  «ow'mmIm  Ta«i0  <iÀce,  gnte»  «itti  Egli  peit^  «▼«▼• 
iJieaiiia  ««usa  im  (m^a*  éi  Gr»à,  ben^j^è  oVimiftH 
quelli  dei  Roinfni.  cIm  ^iN>tf^«JM>  i»^)  s|>«U«eotf.  non 

fpt0  fmi  Grmi»  vifiWm  Otywj^w  eiutri;  m  $cm«m 
vfiTP  prQÌif§  »c  pqpvlo  e»$0  tp»*Ui4vk  nomini  in  fitkm 
gmtiku*  Mi  tprpitv4im:  qv»  Qmnia  ^pvd  im  {«pami- 
4^^  poftim  infmi9,  parfifu  hnmiiif^,  i^ttM»  ab  kont^ 

H/i  ^nc\m  4'ipg^gnQ  e  ^im^mm  ^  ftUnimi»  nélh 
jEterfibin  dell!  cognizioni  comni  hi^i^f^lmm  pP9ve 
ìierom:  legU  v(>ll«  più  largnineB^  mmem^iH  oofiro 
piwiela.  .e  £ajce  ioirapreo4ar6  dwe  ^»p)pr«7i<M)i,  rniM  m) 
ee^Ufo  4«irAfriie«i  oiccid«Dta}«  <oe)r«liii9l«  Sndtp).  VtMn 
neU'ilU  fifubiia.  Furono  rimgniidooi  oneramenl*  geo^w^ 
^ehet  furono  «todii  d^lo  »Uio  poUlieo  dei  popoli  é^ 
rinternoi  e  teotoliyi  d'«nnod«rt  cgi  m»é»mù  relanoni 
d'otìliii  £0Pi9)0fci/iM?  bell'uno  «  n^'tliro  caso  iono 
d'onoro  a  questo  Cesare,  nj;  btono  risconti  ntlla  storia 
deirantiebiUL. 

Intraprese  Verone  ii  (aglio  dieiU'istpo  4i  Corinto,  wh- 
piegando  a^  laForo  la  migliaja  dai  pri^onierì  ebe  in 
masse  forniva  la  guerra  giudaiea.  la  quale  opera  certa- 
mefite  difficile  ma  non  iaipossiMle.  né  inutile  nemmeno 
oggidì,  sarebbe  stata  in  allora  d'estrema  importansa.  Vo* 
leva  con  largbissimo  canale  riunire  il  porto  d'Ostia  sul 
l'evere  alla  gran  beja  di  Pozzuoli  e  Miseno  attraversando 
il  lago  d'Averno,  il  territorio  di  Cuma  e  le  paludi  Pon^ 
tine.  Grande  progetto  era  questo  pei  sottopassaggi  dai 
colli,  a  per  difficoltà  d'ogni  specie,  abenobè  noi  eonsen* 
tiaqdo  con  Tacito  cbe  lo  chiaqaa  intolerandui  labore  net 


528  PARTE  OTTAVA 

$atis  carnee,  non  troviamo  né  demente  né  stolto  chi  vo- 
leva facilitare  in  tal  modo  a  Roma  la  consumazione  dei 
prodotti  della  Campania ,  e  traforò  realmente  i  colli 
prossimi  al  lago  Averno  colla  grotta  per  quei  tempi 
prodigiosa,  e  tuttora  ammirata  nei  nostri. 

Anche  gli  storici  moderni  vengono  spesso  negli  as- 
surdi a  comparazione  coi  vecchi.  L'uno  ci  descrive  il 
gran  Ziska  che  comandava  nelle  battaglie  agli  Ussiti  an- 
che in  allora  che  affatto  cieco  divenne  ;  l'altro  ci  magni- 
fica lo  spavento  di  Carlo  Vili  alla  risposta  di  Piero 
Capponi,  Suonate  le  vostre  trombe,  e  noi  suoneremo  le 
nostre  campane,  mentre. vediatno  che  Carlo  Vili,  ad 
onta  del  fiero  discorso,  nulla  mutò  dei  propositi,  e  li 
ha  appieno  eseguiti.  Qui  Paolo  Gio\io  dice  che  Io  storico 
Bernardino  Corio  morì  di  dolore  per  le  disgrazie  di  Lo- 
dovico il  Moro,  e  lo  troviamo  vivere  diciannove  anni  dopo 
quelle  disgrazie  ;  là  Carlo  Botta  ci  mette  i  brividi  descri- 
vendo Genova  nel  dicembre  1746  convertita  in  vulcano, 
ed  allagata  di  sangue,  e  sappiamo,  e  confessa  egli  stesso 
che  nello  spaventevole  giorno  otto  soli  popolani  hanno 
perduto  la  vita.  Altrove  Pietro  Verri  fantastica  che  l'an- 
tica Lombardia  fosse  una  vasta  palude  ove  le  acque 
stagnavano  impure,  e  ciò  per  rendere  una  prima  imma- 
gine da  cui  poi  trarne  sanata  ed  abbellita  la  patria,  seb- 
bene il  territorio  lombardo  sia  una  larga  pianura  con 
forte  pendenza,  e  non  impedito  versante  di  tutte  le  acque 
all'emissario  coinune  del  Po:  come  dunque  sospendere 
le  acque  sui  piani  inclinati? 

Gli  storici  antichi  e  recenti  hanno  da  essere  ponderali, 
e  le  loro  asserzioni  poste  al  vaglio  con  senno.  Nella  let- 
tura poi  degli  scrittori  orientali,  che  quasi  sempre  assu- 
mono le  forme  della  poesia,  che  abbondano  di  figure, 
di  traslati,  d'iperboli,  bisogna  essere  accorti  ancor  più 


CAPITOLO  unico  529 

che  non  in  quelle  degli  scrittori  d'Occidente  ,  i  quali  so- 
gliono essere  più  temperati  e  meglio  rispondenti  a  na- 
tura di  prosa.  Se  noi  quindi  leggiamo  delle  mura  di 
Gerico  cadute  a  suono  di  trombe,  intenderemo  che  fu- 
rono superate  per  vigore  d'assalto,  e  non  che  altri- 
menti crollassero.  Se  ci  si  dice  di  Giuditta. 

Che  fé*  il  folle  amador  del  capo  scemo, 

(Petrarca) 

intenderemo  che  lo  tolse  di  cervello,  come  di  cento  Olo- 
ferni  segue  ogni  di,  e  non  che  Giuditta  gli  spiccasse 
materialmente  il  capo  dal  busto,  e  lo  ponesse  in  un 
sacco. 

Ma  vano  sarebbe  il  dire  di  più.  Non  si  acquista  pre- 
gio se  non  di  verità,  ed  aggiustatezza  di  idee:  le  esorbi- 
tanze di  fantasia,  le  baje  audaci,  le  poetiche  immagini, 
le  leggende  bizzarre  abbondano  negli  scritti  d'ogni  paese 
ed  età,  ed  i  giovanili  ingegni,  come  più  sensitivi  e  più  fer- 
vidi, di  tali  letture  facilmente  si  invogliano,  par  loro  di 
intenderle,  si  annebbiano  le  menti,  e  trasmodano  al  falso 
di  giudizii,  ed  a  leggerezza  di  idee.  Diremo  con  un  clas- 
sico: nocet  empta  errore  voluptas. 

Non  dobbiamo  nemmeno  abbagliarci  del  lume  dei 
grandi  maestri  da  esserne  idolatri,  ed  infedeli  a  ragione, 
ma  passeggiando  le  antiche  memorie  allo  scopo  di  por- 
tare perfetta  esperienza  del  vero,  quando  essi  torcansi  per 
fantasmi  od  errori  da  quello,  non  li  seguiamo  nel  falso 
cammino.  Che  anzi  non  traviati  per  dolcezza  e  per  grazia 
che  muova  da  sommo  scrittore,  non  poniamo  in  esso  rin- 
tuzzato e  servile,  ma  sempre  svegliato  e  scrutatore  Hnge- 
gno,nè  siamo  di  meraviglie  esurienti  da  disgiungere  dalla 
dottrina  l'intelletto  per  dissetarci  ad  impura  o  torbida 

onda  fluente.  Sdegnosi  da  ogni  vaneggio  di  fole,  aguz- 

34 


S30  PAITE  OTTAVA 

ziamo  Vingegno  alla  ruota  delle  dilBcili  indagini:  studio 
sia  il  nostro,  ma  anche  milizia  e  difesa  contro  Terrore 
invadente  :  raccogliamo  nell'istoria  gli  strali  di  luce,  non 
le  inani  spiegazioni  dei  fatti,  i  falsiloquii,  i  mendaci!: 
riGuliamo  le  fole  che  d'ogni  lato  rampollano,  come  già 
furono  riOutali  da  tutti  i  tremiti  fatidici  deirantro  di 
Trofonio ,  i  sortilegi  ippici  d'Alessandro ,  gli  spettri  pro- 
mettenti il  regno,  e  le  caligini  {storiche  purghiamo  fi- 
nalmente nelFaere  sereno  e  vitale  del  vero. 

Buona  opera  è  la  nostra  di  non  ardere  incenso  che 
al  vero.  Sappiamo  però  che  non  solo  con  le  tristi,  ma 
anche  colle  buone  azioni  la  malevolenza  di  alcuni  si 
acquista ,  e  questi  scritti  intinti  nel  vero  non  saranno 
accetti  a  coloro  che  ogni  dottrina  loro  nelle  sole  grotte 
di  Parnaso  bevettero:  per  essi  è  usanza  il  peccare,  e 
Torà  a  ricredersi  non  sorviene  che  lenta,  o  non  mai: 
trassero  il  vello  anche  a  leoni  ben  più  forti  di  noi,  e 
nobili  lavori  d*intelletto  tentarono  spingere  nella  oscu- 
rità deirobblio.  Ma  noi  non  vogliamo  ornare  d'altra 
guisa  i  pensieri,  né  trattenere  nella  chiostra  dei  labbri 
censura  d'errori  o  follie,  sperando  che  l'istoria  ne  abbia 
ad  essere  alGne  sgombrata  e  redenta. 


CfflUSA. 
n  eolio  dei  elassiei  e  gli  stndii  italiaBl. 

Qui  chiudiamo  i  nostri  studii  storico«politici  sull'anti- 
chili,  e  deponiamo  gli  autori  che  ci  furono  nei  medesimi 
lume  ed  appoggio.  Da  essi  abbiamo  tratto  e  dottrina  pò** 
litica,  e  dilettazione  di  lettere.  Meditammo  infatti  coi 
classici  ciò  che  torna  in  debolezza  o  fortificazione  degli 
Stati,  ciò  che  spinge  le  genti  ad  interni  od  esterni  certami. 
Vedemmo  che  tanto  va  lungi  nei  popoli  la  brama  di 
acquisto ,  quanto  il  tiro  delFarmi  ;  che  le  dominazioni 
patrizie  guidano  a  resistenze  e  rivolte  plebee,  e  queste 
alla  lotta,  e  4a  lotta  all'impero;  che  si  disse  in  ogni  tempo 
diritto  Torribile  fatalità  della  guerra;  che  coloro  che  vin- 
serot  in  qualunque  modo  vincessero,  non  ne  hanno 
riportato  vergogna.  Le  antiche  nazioni  erano  una  razza 
gladiatoria  come  lo  sono  le  moderne;  le  promesse  di  li- 
bertà ai  popoli  servi  venivano  foriere  o  compagne  delle 
armi,  e  fede  trovavano,  perchè  più  poteva  nei  popoli  la 
futura  speranza  che  il  presente  timore,  ma  erano  ingan- 
nati  di  loro  opinione  e  del  bene  creduto.  Il  conservare 
però  paesi  eterogenei  fu  sempre  più  difficile  che  Tacqui- 
starli,  e  col  diventare  imperatori  di  molte  favelle  ^  i 
principi  ebbero  bagliore  di  grandezza,  ma  rare  volta 
realtà  di  potenza.  Osservammo  le  fazioni  vittoriose  sempre 
trascorrere  oltre  i  termini  di  cittadina  virtù:  uscite  da. 


532  CHirsA   / 

un  pericolo,  ne  proYocayano  un  altro  :  ponevano  esse 
medesime  le  armi  disperate  in  mano  al  partito  depresso, 
non  mai  unendo  nelle  leggi  il  diritto  individuale  al  di- 
ritto collettivo  del  governo.  Avuta  anzi  la  vittoria  nella 
guerra  civile,  la  fazione  incominciava  la  vendetta,  ed  i 
vinti  erano  da  nefande  violenze  percossi  perfino  nei  figli 
e  nipoti:  cosi  i  discendenti  dei  proscritti  da  Siila,  erano 
esclusi  da  ogni  pubblico  ufficio ,  come  lo  furono  nel 
medio  evo  in  Firenze  dominata  dai  Guelfi  i  posteri  di 
tutti  quelli  che  avevano  aderito  alla  parte  ghibellina  (gli 
Ammoniti).  Di  questi  e  di  mille  ammaestramenti  ci  fu- 
rono datori  i  classici,  ed  essi  ci  hanno  inoltre  delle  loro 
bellezze  invaghito,  e  del  loro  lume  schiarato.  Il  tempo  ha 
doppia  natura  :  le  cose  materiali  distrugge,  ma  le  morali 
prova  e  raffina  :  venti  secoli  hanno  suggellato  la  fama  dei 
classici,  e  sempre  crebbe  ai  medesimi  nel  sepolcro  la  glo- 
ria: anche  le  nostre  idee  si  ampliarono  nel  sublime  oriz- 
zonte delle  loro,  e  fummo  sovente  al  loro  fuoco  purificati 
ed  accesi.  Ma  nella  nostra  tenuità  non  ci  assalse  il  grillo, 
che  venne  al  Petrarca,  di  scrivere  quelle  lettere  a  Cicerone, 
a  Seneca,  a  Livio,  le  quali  vediamo  nelle  opere  sue.  Amiamo 
le  prose  molto  sensate  se  anche  di  povero  e  non  maestoso 
linguaggio,  ed  aiicor  più  la  poesia  quando  è  dono  del 
cielo,  e  non  di  mere  immagini  e  senza  lenimento  alla 
terra,  ma  si  ispira  alla  vita  oggettiva,  e  conduce  per 
amico  sentiero  le  genti  a  civiltà  e  progresso  ;  quando 
cioè  il  poeta  canta  la  nazione,  la  ammaestra,  la  guida, 
le  disvela  il  futuro.  Quindi  amiamo  specialmente  i  poeti 
della  Bibbia  (i  Profeti),  perchè  furono  i  più  nazionali  di 
tutti  i  poeti,  amiamo  i  carmi  del  bardo  di  Galedonìa, 
amiamo  Camoens,  che  dopo  il  risorgimento  delle  lettere 
scrisse  il  primo  poema  veramente  nazionale  fra  tutti  gli 
Europei.  Il  pregio  della  nazionalità  del  poema  era  man- 


CHIUSI  533 

cato  perfino  alla  splendidissima  corona  di  Dante,  che  fu 
il  più  grande  poeta  di  tutti  ì  popoli  e  di  tutte  le  età  :  egli 
non  vide  la  nazione,  l'Italia  signora  e  potente  ;  vide  l'im- 
pero romano-germanico,  gli  italiani  municipii  e  le  loro 
franchigie,  ed  indarno  ci  aifatichiamo  con  violenza  d'in- 
terpretazioni e  ricerche  per  aggiungere  al  serto  di  Dante 
una  gemma,  che  neirammirabile  cantica  né  palese,  né 
nascosta  ritrovasi. 

Più  ancora  amiamo  i  nazionali  poeti  se  bene  corri- 
spondono allo  scopo  politico  scrivendo  carmi  inspiranti 
magnanimi  sensi  ed  amore  alla  patria.  Non  vorremmo 
che  Omero  avendo  neWIUade  un  magnifico  argomento 
nazionale  a  svolgere,  Favesse  ristretto  alle  proporzioni 
meschine  di  vendetta  per  donna  rapita,  e  non  ci  affezio* 
nasse  più  ad  Ettore  che  non  ad  Achille,  come  Virgilio  ci 
allontana  non  volente  da  Enea  per  accostarci  giustamente 
a  Turno.  Leggendo  Vlliade  siamo  invece  per  Troja,  e 
leggendo  YEneide  noi  siamo  pei  Latini  difensori  del 
suolo,  come  percorrendo  YÀraucana  di  don  Alonso  d'Er- 
cilla  siamo  pei  selvaggi  e  non  per  gli  Spagnuoli,  e  quasi 
lo  stesso  poeta  é  tratto  inconscio  con  noi  alla  parte  con- 
traria a  quella  per  cui  usava  la  penna  e  la  spada. 

Amiamo  i  poeti  che  adornano  la  vita  reale,  e  la  rive- 
stono di  forme  sublimi  o  leggiadre,  più  di  quelli  che  in 
si  incognite  regioni  sì  inalzano  o  calano,  che  ne  abbiamo 
rintelligenza  offuscata  e  la  vista  smarrita.  La  discesa 
p.  e.  di  Ulisse  e  quella  di  Enea  al  Tartaro,  é  forse  in 
Omero  e  Virgilio  Tuna  delle  più  poetiche  parti  dei  loro 
poemi?  Le  Metamorfosi  d'Ovidio  racchiudono  clandestina 
sapienza,  ma  egli  non  si  è  affannato  a  spiegarla  :  Lucrezio 
volle  trattare  il  vero  che  sta  appunto  nella  natura,  ma  ai 
suoi  tempi  non  si  era  ancor  posto  profondo  scandaglio 
nella  medesima  :  ha  quindi  argomentato  prima  di  cono* 


5S4  cvitfli 

scerla,  mentre  si  deve  esaminarla,  e  parlare  dopò  che 
essa  parlò.  Noi  ci  inchiniamo  a  Mtlion,  ma  avremmo  pre- 
ferito che  avesse  scelto,  come  voleva,  a  scrivere  il  poema 
d'Arturo  piuttosto  che  il  primo  gran  fallo  :  rispettiamo 
Klopstoclc  e  Gessner,  m^la  mente  dell'uomo  non  li  può 
sempre  raggiungere,  non  può  spaziare  dileltosamenle 
con  essi  dove  spiegarono  il  volo.  Il  solo  genio  di  Dante 
seppe  guidarci  con  ala  sicura  per  tutti i regni  consolatio 
terribili,  ma  egli,  istruendo,  tenne  mai  sempre  il  piede 
alla  terra. 

t^i  rallegra  Aristofane  che  scrìve  per  uno  Stato  popo- 
lesco la  politica  sua  commedia,  se  anche  non  sempre  fu 
savio  a  scegliere  dove  rivolgere  il  frizzo:  lodiamo  Eschilo 
poeta  e  soldato,  perchè  durando  tuttora  la  lotta  greco- 
persiana  canta  i  trionfi  di  Grecia  sopra  Serse  monarca  : 
apprendiamo  volentieri  da  Sofocle  ed  Euripide  come  nel- 
l'assenza dei  re  della  Grecia  partiti  per  Troja  si  prepa- 
rasse negli  abbandonati  lor  regni  quello  spirito  popolare, 
di  cui  caddero  vittime  al  ritorno  le  dinastie  sovrane. 

Ci  corrucciamo  invece  coi  classici  di  Roma  se  il  loro 
cuore  è  chiuso  talmente  ad  ogni  pietà  di  sofferenze  e 
supplizii  di  principi  e  re  caduti  prigioni,  che  nella  bar- 
bara indifferenza  piò  di  loro  non  curansi,  onde  noi  ap- 
pena sappiamo  come  Perseo  e  Giugurta  morirono,  e  noi 
sappiamo  di  cento  altri  martoriati  senza  dubbio  al  pari 
di  quelli  in  un  carcere  :  ci  irritiamo  con  quei  latini  poeti 
se  non  li  scuote  ed  esagita  a  voli  sublimi  la  patria  gran- 
dezza, di  cui  lo  stesso  Virgilio  non  fu  ispirato  e  fervente, 
se  scelgono,  come  Stazio,  non  patrio  argomento  pei 
carmi,  o  meste  memorie  come  fece  Lucano,  se  sono  ag- 
ghiacciati come  Silio  Italico  (come  lo  fu  Voltaire  nel- 
VEnriade)  perfino  nel  cantare  le  glorie  nazionali  :  ab- 
biamo corruccio  cogli  storici  quando  Tacito,  e  più  ancora 


OBIVSA  5S5 

Svetonio,  sono  così  inverecondi  nello  scrivere  le  libidini 
dei  Cesari  come  questi  lo  furono  in  esse  :  ci  sdegniamo 
cogli  oratori  se  Cicerone  s*abbassa  a  contumelie  volgari, 
ed  in  ogni  serietà  di  argomento  maestrevolmente  com- 
battuto 0  difeso  pone  la  mala  giunta  della  vanità  di  se 
stesso  (1).  Non  siamo  con  Cicerone  quand'egli  la  memo- 
ria delle  civili  discordie  non  copre  d'oblio,  ma  risveglia 
e  fomenta,  quando  disconosce  quel  grand*uomo  di  Spar- 
taco, quando  precipita  nell'ampolloso  e  nel  tronfio,  par-* 
landò  p.  e.  della  compassione  che  avranno  gli  scogli  del 
mare  udendo  da  lui  le  infamie  di  Verre.  Deploriamo  la 
scbiavitili  ammessa  nello  Stato  che  pure  la  conosceva  in- 
gìusta«  come  lo  stesso  Diritto  romano  confessa,  e  cen« 
suriamo  i  giuristi  che  invece  d'accostarsi  almeno  nelle 
leggi  secondarie  ad  umanità  e  ragione,  fanno  continuare 
anche  dopo  la  manumissione,  le  memorie  e  certe  conse- 
guenze della  schiaviti!!  nel  liberto  :  ci  irritiamo  contro 
essi  quando  scrivono  le  pene  di  perduellione  e  lesa  mae- 
stà contro  chiunque  molilm  est  aliquid^  o  solamente  Ao* 
stili  mente  adversus  principem  animatns  est,  e  quando 
trovano  la  tortura  indispensabile  nei  delitti  di  maestà 
anche  in  allora  che  le  altre  prove  soperchino  :  non 
consentiamo  cogli  storici  se  lodano  Virginio  che  uccide 
la  figlia  innocente,  e  non  l'empio  decemviro,  se  esaltano 
la  sola  prodezza,  non  la  magnanimità,  la  giustizia  e 
l'umanità,  se  applaudono  indifi'erenti  a  riportata  vittoria 

(1)  Non  taciamo  però  che  Cicerone  era  vano  della  abilità  che  realmente 
possedeva,  Tano  cioè  deirammirabile  facondia,  vano  della  perìzia  amministra- 
tiva e  politica,  non  gii  ostentatore  di  cognizioni  che  mancassero  a  lui.  Scrì- 
vendo p.  Ci  ad  Attico  d*una  breve  campagna  militare  che  ebbe  a  comandare  in 
Ctlicia,  Cicerone  così  derìde  se  stesso:  caslra  kahuimus  ea  ipsa  qwB  anitra 
Darium  habuerat  apud  hsum  Alexander,  imperator  haudpaulo  melior  quam 
aut  tUi  aul  ego.  Ma  anche  in  tal  caso  Cicerone  fece  prova  di  senno:  tenne  seco 
ti  fratello  Quinto  che  aveva  comandato  sotto  Cesare  una  legione  nella  gran 
flcnola  della  guerra  gallica,  e  Pontiuio  che  aveva  trionfato  degli  AUobrogi* 


536  CHIUSA 

contro  un  forte  nemico,  od  a  mero  disarmamento  e  di- 
struzione d'un  debole,  a  pace  imposta  con  gloria,  od  a 
capitolazione  estorta  da  violenza  e  rapina:  riGutiamo  per- 
fino le  pagine  del  sommo  Platone,  in  cui  deduce  deplo- 
rabili conseguenze  dalle  massime  pia  splendide  di  sa- 
pienza e  virtù  (1).  Ma  in  generale  nei  classici  abbiamo 


(1)  Questa  censura  ad  uno  scrittore  cui  dicesi  che  ispirarono  il  discorso  gli 
Dei,  richiede  schiarimenti  da  noi. 

La  liepubblica  di  Piatone  offre  due  ordini  distinti  di  idee,  die  egli  ha  gettato 
come  due  metalli  per  una  stessa  fusione  in  una  sola  fornace.  Ma  Tuno  si  era 
oro,  e  l'altro  pioroho.  Or  bene,  nella  lettura  di  Platone  bisogna  separarli,  e  ki 
nostra  opinione  si  troverà,  crediamo,  fondata. 

Come  61osofo  moralista  Platone  ha  promosso  la  civiliziazione  del  mondo.  Egli 
è  al  suo  libro,  tersissimo  specchio  del  buono  e  del  bello,  che  gli  antichi  ed  i 
moderni  attinsero  mai  sempre  massime  luminose  di  sapienza  ed  umanità.  Egli 
dettò  una  morale,  che  di  secoli  precede  ed  annuncia  la  morale  evangelica.  Per- 
sino nelle  opere  dei  Padri  della  Chiesa  cristiana  traluce  ad  ogni  passo  la  dot- 
trina di  Platone  :  le  massime  di  lui  abbondano  in  Aristotele,  in  Cicerone,  io 
Plutarco,  in  Grozio,  in  tutti  i  moderni  pubblicisti.  Egli  è  il  sole  di  tutti  questi 
pianeti,  perchè  li  penetra  del  suo  fuoco  e  li  inonda  di  sua  luce. 

La  parte  morale  dell'opera  platoniana  è  inatti  sublime.  Egli  identifica  ia 
giustizia  e  la  moralità,  le  idee  di  privata  e  di  pubblica  utilità  ;  dimnstra  i  van- 
taggi deiraggregazionc  soci.ile  e  deiristruzione  del  popolo;  proclama  Punita  di 
Dio,  e  la  proclama  a  fronte  di  un  popolo,  che  ancora  era  lordo  del  sangue  di 
Socrate  ;  consacra  1  idea  deir  immortalità  deiranima,  e  la  nozione  che  ci  vien 
porta  da  lui  è  fuor  di  confronto  più  pura  e  consobmte  che  non  quella  vaga,  in- 
distinta nozione,  che  troviamo  negli  omerici  carmi  della  vita  delfombre. 

Quando  però  Platone  discende  alle  applicazioni  concrete,  quando  organiua 
una  società  immaginaria,  in  allora  si  manifesta  la  più  strana  contraddizione  in 
lui,  e  quelle  idee  di  giustizia,  di  natura,  di  generale  utilità,  che  egli  slesso  ha 
stabilito,  sono  violale  dall'autore  medesimo.  Elgli  desume  da  Licurgo  errori  e 
stranezze,  benché  non  segua  completamente  la  fallace  sua  guida,  ma  di  quando 
in  quando  si  sovvenga  di  Socrate  ,  e  s'inchini  al  medesimo,  e  sia  tratto  dal- 
ristinto  del  genio  suo  proprio  sulla  via  del  vero  teoricamente  annunciato.  Se 
avesse  meno  studiato  le  leggi  degli  uomini,  probabilmente  Platone  non  si  sa- 
rebbe scostato  da  quell'eterno  tipo  di  saviezza  e  bontà,  di  cui  diede  egli  stessa» 
un  quadro  si  ammirabile.  &la  nella  Repubblica,  o  per  meglio  dire  nello  Stato  di 
Platone  le  idee  morali  e  le  politiche,  le  teoriche  e  l'applicazione,  l'astratto  ed  il 
positivo,  che  pur  sono  cosi  difformi  e  contrastanti  in  lui,  si  trovano  costante- 
mente confusi.  Egli  da  un  lato  dichiara  che  le  sociali  istituzioni  devono  corri- 
spondere in  modo  assoluto  all'ideale  della  moralità,  che  una  legge  medesima  deve 
governare  il  cuore  del  privato  e  lo  stato  sociale,  che  la  pubblica  e  la  privata 
felicità  si  fondano  egualmente  sulla  saviezza  e  sulla  virtù.  Accenna  Platone  che 


CHIUSA  537 

sempre  trovato  una  semplicità,  una  grazia,  che  ci  ha 
sedotti  e  conquisi  :  trovammo  nell'era  greca  e  romana 
tale  gra^ndezza,  che  ci  parve  minore  ogni  magnificenza 
moderna:  vedemmo  caratteri  d'uomini  di  tempra  si  forte, 
di  costanza  si  indomita,  ed  anche  di  virtù  si  sublimi  e 
si  nobili,  che  appena  risplendono  negli  eroi  dell'era  cri- 
stiana supplicati  agli  altari,  o  presentati  alla  perpetua 

Io  Stato  è  legge  per  l'umanità,  la  quale  non  potrebbe  raggiungere  k  felicità  cogli 
sforzi  di  individui  isolati,  ma  si  consegue  colle  leggi  che  danno  superiorità  di 
potenza  all'interesse  generale  sulla  isolata  avidità  dell'egoismo,  e  dimostra  che 
la  vera  libertà  consiste  nella  sommissione  generale  alle  leggi  della  ragione.  Queste 
e  cento  massime  di  simile  genere,  che  servono  di  base  a  mille  opere  antiche  e 
moderne  di  morale  e  di  politica»  si  trovano  dovunque  nello  Stato  di  Platone.  Ma 
egli  dimentica  i  suoi  alti  ed  umani  concelti  nel  tradurli  a  pratica  applicazione. 
Infatti  volendo  distruggere  nell'aggregazione  politica  i  privilegi  di  nascita,  onde 
non  sorgano  fazioni,  né  cada  in  mani  inette  il  potere,  volendo  svellere  la  radice 
dei  mali  provenienti  dal  cieco  amore  dei  padri  verso  i  loro  figli,  propone  la 
comunanza  delle  mogli,  e  distrugge  ogni  vincolo  di  famiglia:  i  figli  adunque 
non  conosceranno  i  loro  padri  ;  si  violeranno  tutte  le  leggi  di  paternità,  d'af- 
fetto e  pudicizia. 

Un  popolo  lìbero,  dice  Platone,  deve  continuamente  occuparsi  della  cosa 
pubblica.  Da  ciò  deduce  la  necessità  ehe  una  parte  del  popolo  si  affatichi  per 
la  sussistenza  dell'altra,  il  che  è  quanto  dire,  ne  deduce  la  necessità  e  la  san- 
zione della  schiavitù.  Come  nelle  visioni  del  vate  nasce  il  lauro  alla  gloria, 
ed  il  cipresso  alla  tomba,  vivrà  nello  Siato  di  Platone  una  parte  del  popolo 
alla  vita  delle  idee,  ed  un'altra  sarà  sempre  curva  sul  suolo,  e  costretta  alla 
sola  .vita  dei  sensi. 

Deve  evitarsi,  egli  continua,  Tinfluenza  corruttrice  dei  popoli  stranieri  ;  da 
«io  emana  la  necessità  dell'isolamento.  Le  porte  della  sua  città  saranno  chiuise 
al  generale  consorzio  deirumanltà. 

Bisogna  conservare,  egli  dice,  il  popolo  in  tutto  il  vigore  della  stirpe  primi- 
liva*  Da  ciò  le  tante  misure  feroci,  che  Platone  ha  fatalmente  desunte  a  Licurgo. 
Tali  sono  l'educazione  delle  donne  identica  a  quella  degli  uomini,  e  l'addestrarsi 
di  quelle  non  altrimenti  che  di  questi  alla  guerra,  l'ingiungere  alle  donne  che 
concepissero  dopo  il  quarantesimo  anno  di  procurare  l'aborto,  rendendo  co$l 
lecito  alle  stesse  l'amore,  e  non  la  maternità,  l'uccidere  i  mal  conformali  bam- 
bini, ecc. 

Così  Platone  viola  la  legge  dell'amore  prescrivente  l'unità  del  matrimonio: 
viola  la  legge  di  natura,  e  non  ha  le  mogli  in  conto  di  donne,  ma  di  femmine: 
viola  la  socialità  che  avvicina  i  popoli,  e  crea  l'umana  famiglia:  viola  infine 
la  perfettibilità,  che  sviluppa  la  potenza  intellettuale  dell'uomo,  ciò  chiama  col 
corso  dei  secoli  a  sempre  più  alti  destini.  Libertinaggio,  schiavitù,  crudeltà, 
immobilità,  ecco,  nell'esempio  positivo  e  concreto,  lo  Stato  di  Platone  qual  è  ! 
La  scienza  di  Platone  non  fu  governata  dall'affetto:  non  ebbe  sede  nel  cuore. 

34* 


S36  GfllQSi 

ammiraBioiie  dei  popoli  nelle  effigie  collocate  nelle  cala- 
tali dei  regni  e  nelle  aule  di  Stato. 

Il  sommo  Gothe,  scrivmdo  da  Roma,  diceva:  questa 
è  la  gran  scuola  di  tutto  il  mondo,  ed  anch'io  qui  sono 
a  purificazione  ed  esame.  E  noi  abbiamo  sempre  tentato 
d'agguagliard  all'ala  dei  classid,  ci  nutricammo  in  pue- 
rizia di  essi,  ce  ne  facemmo  delizia  nella  florida  età,  e 
questa  ci  ha  seguito  compagna  ora  che  siamo  trapassati 
negli  anni  senili.  Non  abbiamo  veduto  in  Roma  soltanto 
il  valore  scolpito  sul  fronte  del  popolo  gigante,  ma  qual 
faro  che  d'ogni  terra  fu  luce:  vedemmo  uomini  cuirobur 
et  mn  triplex  circa  pectu$  erat,  come  Scipione  Africano, 
aversi  un  Ennio  a  compagno,  come  l'Emiliano,  tenersi  a 
fianco  Polibio  :  ci  parve  d'esser  trasportali  da  quell'era 
vetusta  in  quella  d'Eugenio  di  Savoja  che  voleva  Hucten- 
burgh  con  sé  a  pittore  delie  sue  battaglie,  od  in  quella  di 
Bonaparte  che  conquistava  alla  Francia  ed  alle  scienze 
l'Egitto  coi  soldati  e  coi  dotti.  Come  non  esser  invaghito, 
soggiogato  dal  popolo  di  Marte,  capitanato  da  uomini 
che  a  tempra  di  bronzo  univano  ampiezza  di  mente , 
elevatezza  di  sensi,  aspirazioni  civili? 

Vedemmo  solvere  nella  scuola  alessandrina  le  idee 
della  geografia  giuste  nella  teoria,  benché  inesatte  nelle 
misure  per  imperfezione  d'istromenti  :  anche  quella 
scuola  poggiò  alle  sideree  rote,  e  ne  scrisse  le  curve  con 
numeri,  ma  non  osò  spingere  in  giro  la  terra!  Vedemmo 
apparire  la  fisica  geografia  nel  saggio  idrologica  sul 
Ponto  Eusino,  e  sulla  palude  Meolide,  che  ci  ha  dato 
Polibio  (lib.  IV,  e.  iO).  Provammo  consolazione  nel 
cuore  vedendo  cessare  ben  presto  in  Roma  i  sacrificii 
umani,  ed  udendo  qualche  scrittore  parlare  diritto  e 
virtù,  Io  stesso  Polibio  p.  es.,  Tuomo  di  guerra  nemico 
della  guerra,  sapiente  di  politica  e  devoto  alla  morale,  e 


L 


CHIUSA  539 

si  tocco  da  gratitudine  pei  benrfattori  suoii  da  chiudere 
la  sua  storia  supplicando  tutti  gli  Dei  che  gli  accordino 
di  passare  il  resto  dei  suoi  giorni  a  Roma,  e  di  vedere 
crescere  e  grandeggiare  la  sua  fortuna,  oggetto  deirinvidia 
del  mondo.  Con?inli  che  la  guerra  non  è  giusta  se  non 
è  necessaria,  e  quelle  sole  sono  armi  pietose  nelle  quali 
unicamente  ha  speranza  la  patria,  non  abbiamo  seguito 
inebbriati  il  clangore  dei  romani  oricalchi  ;  né  i  trionfa- 
tori che  salivano  al  Campidoglio  coi  re  in  catene  per  get^ 
tarli  in  una  prigione  a  morir  di  fame  dipoi,  ma  ci  piacque 
la  romana  nazionalità  e  coltura  faciente  irruzione  nel 
mondo  barbaro,  come  aveva  fatto  irruzione  la  greca,  e 
più  tardi  la  fecero  l'italiana  in  Levante,  la  tedesca  sul 
Baltico,  e  la  spagnuola,  l'inglese  e  la  francese  in  America. 
Vedemmo  con  delizia  la  parificazione  civile  stabilirsi  in 
quella  Roma  in  cui  si  era  sviluppata  la  potenza  attrattiva 
che  riunì  la  penisola,  ed  alla  penisola  il  mondo,  ed  i 
magistrati  prima  tenuti  dai  patrìzii,  poi  dai  plebei,  indi 
dai  Latini,  poscia  da  ogni  sorta  d'Italiani,  dai  Galli,  da 
chiunque  dell'orbe  romano.  Gi  piacquero  in  mezzo  al 
suono  delle  armi,  e  perfino  fra  gli  orrori  delle  guerre 
civili,  gli  esempii  di  Camillo  che  consegna  il  maestro 
traditore  ai  Falisci,  di  Mario  che  protegge  Siila  rifugiatosi 
in  sua  casa,  ed  Antonio  che  salva  Lucilio,  il  quale  con 
azione  generosa  gli  ha  forse  impedito  la  cattura  di  Bruto 
a  Filippi,  e  se  lo  tiene  ad  amico.  Ci  piacquero  Gelone  di 
Siracusa  allorché  impone  ai  Cartaginesi  in  un  trattato  la 
cessazione  dei  sacrificii  umani,  ed  il  Senato  dì  Roma  al- 
lorché rinunzia  alle  rappresaglie  per  non  imitare  ciò  die 
agli  stessi  Cartaginesi  rimprovera,  e  rifiuta  la  proposta 
del  principe  dei  Catti  d'avvelenare  Armido,  pur  dichia- 
rando che  sempre  lo  perseguiterà  colle  armi.  Godemmo 
osservando  i  Subalpini,  fra  cui  viviamo,  fin  nell'antico  ar^ 


540  CHIUSA 

mali  di  ferro  e  valore,  difendere  la  loro  indipendeDza  sul 
dorso  selvaggio  e  nelle  anfrattuosita  dei  monti,  che  por- 
gono le  prime  onde  al  Po  :  furono  perduranti  comei  Gan- 
labri,  e  sera  domiti  catena^  com'essi:  sigli  uni  che  gli 
altri  non  piegarono  a  Roma  se  non  dopo  che  tutto  il 
mondo  piegò;  si  gli  uni  che  gli  altri  hanno  poscia  arre* 
stalo  il  torrente  degli  Àrabi  in  Alpi  e  Pirene  (I). 
.  Cosi  ritirandoci  nella  mente  di  quei  pensatori,  ci  sen- 
timmo  come  da  mite  rugiada  irrigati  della  loro  dolcezza, 
e  riscaldandoci  al  loro  sole  ci  parve  perfino  aver  goc- 
ciola di  sangue  latino  noi  stessi,  ed  esserne  rigenerati  e 
redenti.  Quindi  la  lettura  e  la  meditazione  di  quei  primi 
pittori  delle  antiche  memorie,  che  non  verrà  d'alcuna 
scuola  maestro  che  li  levi  di  fama,  ci  ha  spesso  versato 
la  gioja  neiranima,  od  almeno  ci  fu  schermo  contro  le 
dolorazioni  frequenti  nella  vita,  moltiplicate  dalla  nostra 
sensibilità,  dalla  velenosa  atmosfera  del  tempo,  e  dalla 
jseria  meditazione  delle  pubbliche  cose  in  Italia.  Il  primo 
regno  italico  s'ordinò  in  breve  volger  d'anni,  e  s'illustrò 
non  di  soli  fasti  di  guerra,  ma  d'ogni  pregio  di  civile 
sapienza:  quel  regno  succedeva  alla  celebre  Università 
,4i  Maria  Teresa  e  di  Giuseppe  II,  e  chiamava  agli  alti 
seggi  di  Stato  la  gioventù  a  forti  studii  nutrita.  Alcuni 
fra  gli  studii  fisici  vivono  ancora,  anzi  si  dilatano  fra 
noi  ;  gli  storici  invece,  i  politici,  i  legali,  i  filologici,  tutti 
i  morali  insomma,  quelli  specialmente  si  fondamentali 
dei  classici ,  sono  affatto  prostrati ,  e  solo  da  leggiere 
effemeridi  distilla  volatile  scienza  la  nostra  gioventù, 
J^  pubblica  opinione  è  travolta  mancando  la  diffusa 
dottrina  che  la  corregga  e  diriga,  ed  i  temerarìi  ardimenti 
di  chi  viene  agli  uQicii  siccome  a  presa  città,  od  inetto 

(i)  Sono  di  molto  iateresse  le  erudite  memorie  deirorientalisla  Beinaud 
tikta  le  invasioni  dei  Saraceni  in  Provenza,  Saioja  e  Piemonte. 


GHI€8A  541 

si  presenta  ai  comizii,  panisca  e  rimuova.  Cosi  spalan- 
chiamo corrivi  le  porte  del  governo  italiano  ad  ogni 
ambizione  inesperta  e  precipite,  ed  il  fllosofo  Anlistene 
potrebbe  ripetere  a  noi  ciò  che  leggiamo  in  Diogene 
Laerzio  che  agli  Ateniesi  diceva:  coi  vostri  decreti  voi 
date  egual  senno  a  ciascuno  per  governare  il  paese  : 
e  perchè  non  fate  similmente  decreto  che  il  somiere 
tragga  d' egual  forza  l'aratro  come  il  hue^  e  corra  ti 
rapido  come  il  cavallo  di  Olimpia?  Quindi  si  accresce 
nei  nostri  ufficii  l'ingombro  e  disordine  da  poterne  es- 
sere arrestato  per  confusione  delle  menti  il  moto,  come 
sì  arrestò  per  confusione  delle  lingue  TediBcazione 
dell'antica  Babele.  Di  qualunque  arte  piò  facile  sia,  nes- 
suno presume  dirsi  maestro  se  prima  per  lungo  novi- 
ziato non  la  studia  ed  apprende;  ma  noi  del  reggimento 
del  regno,  che  è  la  maggiore  arte  che  sia,  improvvisiamo 
ciascun  maestro,  e  lo  insediamo  in  ufficio,  e  cosi  Tam- 
ministrazione  italiana  peggiora  della  medicina  per  la 
quale  dovrebbe  migliorare.  Per  entrare  dinnanzi  ad  al- 
cuno non  è  adesso  in  Italia  bisogno  di  superarlo  in  sa- 
pienza«  né  per  salire  ad  altezza  si  è  costretto  a  fare  le 
larghe  spire  e  le  volte  vantaggiate  :  chi  sa  mescersi  ai 
partili,  se  anche  nulla  tiene  di  scienza,  e  di  ragione  ben 
poco,  ma  ha  molto  d'audacia,  e  destreggia  con  certe 
misteriose  aggregazioni,  fa  voli  pindarici,  si  sublima  a 
tribuno ,  fa  le  pubbliche  cose  a  suo  modo  ondeggiare, 
si  attraversa  ad  altrui,  ha  la  palma  senza  la  vittoria,  e 
la  vittoria  senza  la  battaglia,  e  spazia  dominando  fra  noi. 
Dante  nel  nono  del  Paradiso  ha  parlato  d'analoghe  con- 
fusioni d'ufficii  e  persone,  e  de'  mali  coroUarii  suoi,  e 
con  lui  conchiudiamo 

Onde  la  traccia  nostra  è  futr  di  strada. 

Ma  quando  mai  risorgeranno  gli  studii?  Quando  ri- 


54S  emnsi 

tornerà  Tltalia  a  sistema  di  procedenze  ordinate?  Quando 
òònferirà  gli  ufBcii  secondo  il  chiaro  intelletto,  il  sottile 
esame,  i  sentimenti  provati,  e  la  perizia  destra  alle 
cose?  Quando  si  comprenderà  che  non  si  crea  negli  uo- 
mini esperienza  e  dottrina  con  repentini  decreti,  né  di- 
scende da  essi  improvvisa  scienza  sull'uomo,  come  per 
imposizione  di  apostoliche  mani  discende  sul  chierico  la 
potestà  d'ordine  a  dominare  la  Chiesa?  Importa  che  cessi 
la  funesta  gragnuoia  di  quei  bolidi  politici  si  ignoti  nelle 
orìgini  come  i  Gsici  sono,  che  il  Parlamento  lancia  ogni 
dì  negli  ufflcii  interni  ed  all'estero;  importa  cherilalia 
conosca  d'esser  negli  ufficii  inferma,  perchè  chi  non 
sente  l'infermità,  più  è  dilungi  dal  guarirne;  importa 
che  cessi  negli  ufficii  quelVorrendo  accoppiamento  dì 
corpi  vivi  e  di  cadaveri,  che  facevasi  da  un  tiranno 
dell'antichità.  Vorrà  l'Italia  dare  ai  meno  esperti  se 
stessa,  come  Milton  ha  dato  agli  spirili  ribelli  la  parte 
più  attiva  del  carme?  La  scienza  (U  governo  è  di  studii 
penosi,  e  di  notti  con  piccolo  sonno  condotte,  non  di 
facella  di  celestiale  sapienza  posata  d'improvviso  sul 
capo  d*aIcuno:  pur  troppo  l'Italia  triste  esperienza  ne 
fa.  All'appoggio  di  Francia  grandi  fatti  politici  si  sono 
compili  fra  noi;  nessuno  o  quasi  nessuno  di  sapienza 
civile.  Abbiamo  dato  a  gran  parte  dltàlia  una  legisla* 
zione uniforme,  ma  certamente  la  meno  sapiente  di  tutte 
le  esistenti  dapprima:  grande  fu  il  concetto  politico,  ma 
deplorabile  è  l'esempio  di  dejezione  di  studii:  un  tempo 
la  pratica  scienza  precedeva  le  teorie  in  Italia;  ora  non 
precede»  né  segue.  Solamente  i  tristi  potrebbero  rimpìan* 
gere  gli  antichi  governi,  ma  abbiamo  operato  di  guisa 
che  quanti  per  inscienza,  ipocrisia  ed  inganno  non  sono 
in  abjezione  dell'animo,  conoscono  che  ogni  provincia 
italiana  ha  sofferto  il  flagello,  e  non  poche  fra  le  antiche 


CHitSA  549 

istituzioni  ridotte  improvvidamente  a  rovine ,  sarebbero 
state  ornamento  e  sostegno  deirediBcio  che  abbiamo 
senza  pregio  di  nobili  forme  novellamente  costrutto. 

Dal  punto  ove  Mongibello  per  le  rotte  fornaci  esala  le 
fiamme,  infino  alla  cerchia  delle  Alpi  ammantate  di  lar- 
'  ghi  ghiacciai,  ebbero  più  volte  le  scienze  sacerdozio  ed 
altare.  Qui  fiori,  poi  ripullulò  la  sapienza  antica,  e  le 
fonti  della  nuova  s'aprirono  :  qui  squagliaronsi  i  ghiacci 
della  barbarie  del  medio  evo,  la  mansuetudine  e  la  dot- 
trina incominciarono  ad  accoppiarsi,  a  mitigarsi  le  leggi 
già  tinte  di  pece  barbara,  a  farsi  chiaro  che  non  era  data 
invano  alle  umane  generazioni  la  facoltà  di  migliorarsi. 
Qui  TÀlighieri  scrisse  quella  trina  sua  cantica,  primo 
prodigio  deiringegno  umano,  in  cui  si  urtano  scettri  e 
tiare,  popolo  e  principi,  vizii  e  virtù,  vendetta  e  perdono, 
premii  e  castighi,  ove  trovasi  il  sorriso  della  speranza, 
la  dolcezza  dell'amore,  il  gelo  della  paura,  la  fiamma 
deirira.  Qui  si  produsse  una  germinazione  di  idee  che  dif- 
fuse la  civilizzazione  sul  mondo,  e  Tltalia  fu  moralmente 
grande  pel  suo  genio,  le  sue  arti,  Tinfluenza  del  suo  spi- 
rito emulatore  delle  tacitiane  severità,  delle  apelliane  gra- 
zie, delle  fidiache  grandezze.  Essa  rivaleggiò  nel  frizzo  di 
Giovenale,  nella  magniloquenza  di  Tullio,  nel  lepore  ovi- 
diano:  essa  fece  sentire  nel  nostro  idioma  l'onda,  il 
susurro,  il  fremito  e  la  procella  del  suono  ciceroniano. 

Invasa  da  genti  straniere,  aspreggiata,  e  se  non  di- 
sciolta, sconnessa,  anche  negli  studii  l'Italia  decadde, 
non  così  però  che  nelle  classi  seconde^  e  forse  più  nella 
patrizia  di  ciascuna  città  italiana  non  si  elevassero  alcune 
sommità  del  pensiero  a  scagliare  nelle  masse  parole  po- 
tenti, rispettale  in  luogo,  e  ripetute  da  lungi.  Se  nell'Italia 
peròi  che  ora  è  signora  di  sé,  l'assoluta  inscienza  fosse 
bensì  partaggio  di  pochi»  ma  la  confusa  dottrina  fosse 


544  anosÀ 

vergogna  di  molti,  se  l'oscurità  fosse  il  fato  comune  di 
tutti,  se  qui  non  si  smentisse  quel  motto  nessuno  alza 
il  velo  che  copre  la  scienza,  noi  saremo  dejettali  in  breve 
al  relroguardo  degli  studii  europei,  troppo  gli  stranieri 
avranno  vanto  su  noi,  e  non  potremo  darne  se  non  a 
noi  stessi  cagione.  Di  questa  dolorosa  sentenza  che  vor- 
remmo non  vera,  ma  discende  infallibile  dai  raffronti 
degli  sludii  italiani  cogli  esteri,  si  convinca  la  gioventù 
italiana,  e  si  scuota  :  non  soffra  che  lltalia  sia  com'era 
negli  scorsi  decennii  ridente  soggiorno  d'indolenza,  né, 
com'ora  s'è  fatta,  arena  di  passioni  contrarie  ad  ogni  vita 
serena,  a  pensamenti  sublimi:  soccorra  la  patria  di 
scienza,  si  crei  negli  studii  e  nelle  cogitazioni,  nel  rea- 
gire di  proprio  vigore  su  ciò  che  legga,  ed  oda,  un  pia- 
cere che  la  segua  per  tutta  la  vita  ;  questa  è  si  corta,  che 
nulla  vale  un  diletto  che  duri  meno  di  essa,  ed  è  sol- 
tanto al  piacere  degli  studii  che  può  ben  applicarsi  il  bel 
consiglio  di  Seneca  :  Sicprmsentibus  utaris  volnptatibus, 
ut  futuris  ìwn  noceas.  Possano  i  nostri  consigli,  le  no* 
stre  rampogne  essere  d'alcun  frutto  feconde  !  Noi  non 
disperiamo  che  eco  ritrovino,  e  segua  di  gagliardo  o  di 
pigro  moto  l'effetto.  La  ragione,  per  dirlo  coi  poeti,  è 
vestita  di  armi  adamantine,  e  finalmente  trionfa  :  viviamo 
quindi  in  desiderio,  e  stiamo  anzi  a  fidanza,  perchè  se 
l'amore  di  patria  a  mille  muove  la  lingua,  ad  alcuni  ri- 
scalda anche  il  cuore,  e  questi  non  sosterranno  che  l'Ita- 
lia, ornala  un  giorno  d'ogni  splendore  del  vero  e  del  bello, 
rimanga  adesso  in  molti  nobilissimi  studii  inonorata,  dei 
jetla,  ed  a  varie  nazioni  seconda.  Ci  incuora  d'altronde  e 
fortifica  l'esperienza  d'effetti  ottenuti  con  altra  opera  già 
da  noi  pubblicata  a  scopi  di  utilità  italiane  (1). 

(1)  Quando  nelPopera  La  Grandezza  italiana  non  rìsIeUimo  tementi  dairin- 
dicare  desiderìi,  o  dallo  scoprire  deBcienze  che  si  nascondevano  nella  nostra 


CHIUSA  545 

Quanto  a  noi  abbiamo  infatti  cercato  conforto  e  pia- 
cere negli  studi],  e  l'abbiamo  realmente  trovato.  Quanto 
piò  ci  agitava  il  presente»  il  passalo  piacevaci:  risalimmo 


amministrazione  marittima,  parve  che  quel  volume  ai  volesse  senz'altro  dan- 
nare alle  fiamme  per  non  trarne  che  cenere,  e  vi  fu  chi  ci  avrebbe  volentieri 
veduto  tolti  d'ufficio,  e  chi  consigliava  per  noi  come  la  madre  di  Erodiade  alla 
figlia  :  Nikii  aliud  peias  nisi  eapui  Johannù.  Eppure  quelle  pagine  non  furono 
tutte  né  consunte  da  fuoco,  né  immerse  iu  Lete,  né  lasciate  alla  rapina  del 
vento  come  le  augurose  sentenze  che  nelle  foglie  leggiere  la  Sibilla  scriveva  : 
infatti  poco  tempo  stette  che  alla  nostra  scrittura  qualche  effetto  segui,  e 
noi  non  fummo  già  offesi  dal  conservato  silenzio  di  essa,  ma  letiziati  delFesito. 
Vedemmo  che  in  parte  il  torpore  si  scosse,  e  molli  si  disposero  a  muoversi  per 
le  cose  indicate,  che  non  erano  stati  veloci  a  muovere.  Nuovi  studii  si  intro- 
dussero, ed  altri  si  promisero  :  realmente  preparansi  in  Genova  ed  a  Napoli 
Istituti  scientifici  per  la  Marina:  presto  vedremo  iniziarsi  lavori  idrografici,  tras- 
curati si  deplorabilmente  finora  :  si  attiveranno  i  meteorologici  in  entrambe 
le  città,  e  forse  se  ne  concentreranno  in  appresso  le  risultanze  in  un  Istituto 
superiore  a  Livorno,  da  cui  anche  T Italia  predica  gli  uragani  de'  suoi  mari,  ed 
insegni  a  schivarne  gli  effetti  :  si  porranno  le  basi  per  un'officina  se  non  di 
costruzione,  almeno  di  conservazioue  di  nautici  istromenti  :  si  raccoglierà  il 
materiale  scientifico  finora  disperso,  confuso,  guasto  e  negletto.  Si  armò  una 
nave  a  scuola  di  esercizio  d'artiglieria  in  mare,  furono  messe  le  prore  per 
oceani  dianzi  non  visti,  sì  confortarono  molte  popolazioni  italiane  neirestero 
della  lungamente  invocata  presenza  della  bandiera  italiana  da  guerra,  si  avve- 
rarono necessarie  provvidenze  di  legge,  si  cessò  da  cieca  fiducia  in  molle  cose 
obsolete  e  rimorte,  e  già  si  brama  invigorito  il  Consiglio  deirAmmiraglialo,  ed 
istituito  il  necessario  Consiglio  delle  costruzioni  navali.  Fuor  di  dubbio  piccola 
parte  possiamo  ascrivere  a  noi  del  merito  dell'iniziato  progresso,  ma  vero  si  è 
che  animosi  gettammo  semente,  clie  Topinione  irrigò  :  la  buona  ventura  italiana 
le  darà,  speriamo,  incremento,  e  la  lunga  nostra  sete  del  meglio  sarà  appa- 
gala. Pensando  adunque  che  non  indarno  ci  eravamo  in  allora  indolii  ad  opera 
d'avvertenza  e  consiglio,  che  non  era  sdegnosa,  ed  a  noi  stessi  pesava,  anche 
in  questo  lavoro  non  ci  ha  fallito  la  lena  d'indicare  le  nostre  infermità. 

L'Italia  sarà  potente  a  rilevarsi  in  dignità  quando  cessi  dal  drizzarsi  in  va- 
nità, quando  s'arresti  dal  farsi  sgabello  di  coloro  che  scrivono  che  essa  è  sempre 
maestra  nel  mondo  d'ogni  sublime  dottrina  e  d'ogni  arte  gentile,  veda  che  non 
sono  studii  ma  ruine  i  suoi,  e  ricompri  con  fervore  il  danno  degli  indugi  e  del 
sonno.  SI,  non  tanlo  ci  accechiamo  di  luce  it^iliana  da  non  vedere  le  cose  di 
fuori  :  siamo  invece  credenti  dell'inferiorità  attuale,  e  convinti  che  gli  stranieri 
meglio  gloriosi  di  noi  procedono  sui  campi  indeterminati  di  tutti  gli  studii  scien- 
tifici, facciamoci  stretta  coscienza  d'avanzare  d'egual  moto  con  essi. 

Bene  sarebbe  stato  a  noi  l'essere  entusiasti  per  Dante,  ed  alle  recenti  festi- 
vità fiorentine  parve  lo  fossimo,  ma  perchè  il  mondo  si  convinca  che  realmente 
lo  siamo,  gli  studii  d'antica  dottrina  non  dovrebbero  essere  in  Italia  scolorati  di 
vita,  né  i  forastieri  essere  più  teneri  di  noi  delle  stesse  glorie  italiane.  E  forse 


&iQ  CBIUSi 

col  pensiero  il  torrente  delle  età,  e  nessuna  storia  ci  parve 
così  maestosa,  cosi  drammatica,  come  l'antica:  quei  re 
clienti  dei  senatori  di  Roma  ci  mostrarono  una  sublimità 
di  potere,  oltre  la  quale  nessun  popolo  sembra  che  possa 
andare  giammai:  la  civiltà  diffusa  da  Roma  ci  parve  la 
più  bella,  la  più  utile  opera  del  valore  e  della  fortuna. 
Pochi  disinganni  soffrimmo  o  patimmo  dolori  che  il  vi* 
vere  nel  pensiero  cogli  antenati  e  coi  classici  non  abbia 
in  breve  dissipato,  ritornandoci  a  calma  consolata,  e  ri- 
temprandoci a  serenità  e  vigore  pel  compimento  di  que- 
st'opera promeltilrice  lusinghiera,  forse  ingannatrice  !, 
di  onore.  Ci  siamo  resi  ai  classici  in  cui  si  profonda  sa- 
pienza fu  messa:  fastidendo  i  mediocri  ci  volsimo  ai 
sommi,  che  effondono  i  fiumi  della  loro  dottrina,  che 
non  sono  velati  per  vetustà ,  ma  d'eterna  corona  redi- 
miti risplendono  :  ci  confortammo  del  loro  valore,  e  ci 
accesi mo  del  loro  raggio. 

Nondimeno  la  divina  virtù  spirante  dai  classici  non  ci 
fece  nfe  servala  ragione,  nèabbaglialorinlelletto:  vedemmo 
di  quando  in  quando  difetti,  benché  le  bellezze  vincano 
incomparabilmente  la  bilancia:  scoprendo  una  macchia, 
non  abbiamo  voluto  che  ammirazione  ed  affetto  legas- 
sero il  nostro  dire,  che  non  è  acquistare  perfezione  il  se- 
guire opinioni  in  falsa  parte  correnti,  ed  il  caricare  ogni 
merce  per  buona.  Ma  benché  non  sempre  ci  sia  stato 
possibile  di  venire  in  concordia  di  sentimenti  coi  clas- 
sici, nutriamo  venerazione  e  quasi  cullo  per  loro.  Scor- 
diamo coi  medesimi  i  secoli  che  ci  separano:  li  abbiamo 
a  maestri  di  saggezza,  e  talvolta  per  interpreti  dei  bisogni 

che  è  possibile  Tessere  percossi  dai  rsggi  erompenti  dsl  lame  di  Dante  se  non 
è  diffusa  e  profonda  la  cognizione  della  lingua  latina,  che  è  il  fermo  polo  del 
nuovo  idioma  per  lui,  e  quella  dei  classici  che  Dante  ad  ogni  momento  rieopia, 
rivaleggia,  ed  anche  più  alto  snblimaf 


CHIUSA  547 

d'oggidì:  siamo  osservanli  di  essi,  e  vinti  dal  loro  diletto. 
Essi  elevano  il  nostro  spirito,  allargano  le  nostre  idee: 
pensando  all'antico ,  noi  diciamo:  Voi  andate  ad  Atene 
ed  a  Roma  :  rispettate  gli  Dei  ! 


FINE. 


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I  . 


*■.   •;       r    '.JL'H.J^