Skip to main content

Full text of "Le cronache italiane nel medio evo"

See other formats


Digitized  by  the  Internet  Archive 

in  2009  with  funding  from 

University  of  Toronto 


littp://www.arGliive.org/details/leGronaclieitaliaOObalz 


CRONACHE  ITALIANE 


.^^ 


±*A^ 


LE 

CRONACHE  ITALIANE 

NEL  MEDIO  EVO 


DESCRITTE 


UGO    BALZANI 


Le  cronache   portano  le   azioni,  i  soli 
tempi  rivelano  l' individuo. 

L.  Tosti,  Za  Contessa  Matilde. 


)  M  ^  ^5 


ULRICO    HOEPLI 

LIBRAIO-EDITORE 

MILANO 

NAPOLI  —  PISA 

1S84 


PROPRIETÀ  LETTERARIA 


1015.  —  Firenze,  Tipografia  dell'Arto  della  Stampa. 


TERENZIO  MAMIANI  DELLA  ROVERE 

IN  ATTESTATO 
DI  REVERENZA  E  DI  AFFETTO 


PKEFAZIONE 


Inteso  a  far  noti  popolarmente  i  cronisti  italiani 
del  Medio  Evo,  io  ho  cercato  di  togliere  ogni  in- 
gombro di  erudizione  da  questo  libro  e  presentarlo 
ai  lettori  il  più  semplice  e  spedito  di  citazioni  che 
si  potesse.  Che  se  non  m' è  riuscito  di  tenermi  più 
strettamente  a  questo  metodo,  n'  è  cagione  l' avere 
io  tentato  per  quanto  sapevo,  di  fare  un  lavoro  il 
quale  non  riuscisse  del  tutto  inutile  anche  agli  eru- 
diti poiché  questo,  a  mia  notizia,  è  il  primo  tenta- 
tivo che  siasi  fatto  di  raccogliere  espressamente  in 
un  libro  tuttaquanta  la  storia  della  cronografia  me- 
dioevale italiana.  Perciò  ho  procurato  di  studiare 
con  diligenza  nelle  migliori  edizioni  il  testo  degli 
autori  dei  quali  tengo  parola,  e  prima  di  profferirne 


vili  PREFAZIONE 

definitivo  giudizio,  ho  procurato  di  vedere  quanto 
sopra  ciascuno  autore  altri  ha  pensato  o  scritto. 

Per  quel  che  si  riferisce  alla  struttura  del  libro, 
se  talora  mi  sono  diffuso  alquanto  nel  tratteggiare 
i  vari  periodi  storici  che  questo  lavoro  attraversa, 
io  spero  che  mi  sarà  perdonato  da  chi  pensi  che 
non  è  facile  ne  sarebbe  buon  metodo  parlar  *di  sto- 
rici e  tacere  sui  tempi  nei  quali  essi  han  vissuto  e  dei 
quali  scrissero.  Così  anche  mi  è  spesso  accaduto  di 
dilungarmi  a  narrare  le  vite  degli  scrittori  dei  quali 
esaminavo  i  lavori.  L'ho  fatto  perché  mi  è  parso 
narrandole  di  chiarir  meglio  i  tempi  che  essi  de- 
scrissero e  le  ragioni  delle  opere  loro,  giacché  la 
storia  del  Medio  Evo  è  stata  detta  in  Italia  più 
che  altrove  da  uomini  che  parteciparono  largamente 
ai  fatti  di  cui  ci  lasciarono  memoria,  e  ciò  dai  primi 
agli  ultimi  tempi,  da  Cassiodoro  e  Gregorio  Magno 
fino  ad  Albertino  Mussato,  a  Dino  Compagni,  a  Gio- 
vanni Villani. 

Per  far  meglio  conoscere  l'indole,  la  natura  e  lo 
stile  delle  diverse  cronache,  ho  recato  di  esse  nel 
libro  molti  e  lunghi  frammenti  volgarizzati  dai  testi. 
In  tal  modo  que' vecchi  cronisti  nelle  ingenue  pa- 
gine loro  descriveranno  sé  stessi  alla  memoria  e 
alla  fantasia  del  lettore  assai  meglio  che  non  var- 
rebbe a  descriverli  l' amoroso  ma  incerto  tentare  di 
uno  scrittore  moderno.  Questi  frammenti  erano  già 
stati  tradotti  da  mia  moglie  che  ha  dato  veste  in- 
glese a  tutto  il  libro  e  diviso  con  me   in  larghis- 


PREFAZIONE  IX 

sima  parte  la  fatica  e  il  piacere  del  compilarlo.  Nel 
voltarli  ora  io  in  italiano,  ho  cercato  com'  ella  avea 
fatto  di  tenermi  il  più  die  potevo  fedele  alla  lettera 
dei- testi,  ma  dove  alcuni  d'essi  per  la  oscura  e  in- 
tralciata latinità  si  opponevano  ad  una  traduzione 
letterale,  mi  sono  sforzato  d'accostarmi  al  concetto 
degli  autori  quanto  meglio  e  più  precisamente  ho 
saputo  farlo.  11  numero  dei  libri  dei  quali  mi  son 
dovuto  giovare  è  stato  di  necessità  assai  grande,  e 
poiché  non  potevo  mentovarli  tutti,  ho  cercato  al- 
meno di  professare  la  gratitudine  mia  ricordando 
([uelli  da  cui  ho  ricavato  maggior  profitto.  È  super- 
fluo poi  r  avvertire  che  non  essendo  questo  uno  stu- 
dio critico  sulle  fonti  ma  una  storia  descrittiva  della 
nostra  cronografia,  ho  di  proposito  evitato  ogni 
discutere  intorno  alle  sorgenti  da  cui  ciascun  cro- 
nista è  venuto  attingendo.  Del  pari  non  si  fa  di- 
scorso, 0  di  rado  e  solo  fuggevolmente,  dei  lavori 
che  si  son  pubblicati  e  si  pubblicano  ad  ogni  ora 
intorno  alla  critica  dei  testi,  ma  ho  speranza  che 
coloro  i  quali  hanno  familiarità  con  siffatti  lavori, 
non  vorranno  perchè  io  ne  taccio  mettermi  tra  quelli 
che  li  ignorano  e  scusano  il  peccato  della  ignoranza 
con  una  sciocca  mostra  di  dispregio.  Ma  costoro  per 
fortuna  ed  onore  degli  studi  nostri  son  rari,  e  la 
critica  storica  italiana^  memore  di  sue  tradizioni,  cre- 
sce sempre  più  in  fiore  e  dà  fi'utti. 

Questo  libro  fu  prima  pubblicato  in  inglese  per 
incarico  e  cura  di  una  poderosa  società  che  con 


X  PREFAZIONE 

larghe  vedute  e  concetti  vasti  s'affatica  di  spargere 
la  cultura  cristiana  dovunque  la  lingua  inglese  è 
X)arlala  o  si  legge,  e  stima  a  ragione  questa  cultura 
essere  universale  e  non  doversi  disgiungere  dal  pen- 
siero moderno  (1).  Sebbene  sieno  corsi  sol  pochi  mesi 
da  che  la  edizione  inglese  fu  pubblicata,  già  nell'in- 
tervallo son  venuti  fuori  altri  studi  intorno  a  pa- 
recchi tosti  e  io  ho  procurato  per  quanto  ho  potuto 
di  vederli  e  aiutarmene,  ed  anche  ho  cercato  di  cor- 
regger qua  e  là  talune  imperfezioni  secondo  che  io 
stesso  le  scoprivo  o  m'erano  indicate  da  qualche 
benevolo.  Tra  questi  ringrazio  particolarmente  il 
conte  Costantino  Nigra  che  non  solo  mi  additò  un 
errore  ma,  come  si  vedrà  a  suo  luogo,  volle  indi- 
carmi la  via  di  correggerlo,  e  ringrazio  l'autore 
dell'  insigne  libro  sul  Sacro  Komano  Impero,  il  pro- 
fessor Bryce  dell'  Università  di  Oxford  a  cui  debbo 
alcuni  utili  suggerimenti  per  questa  edizione.  Al- 


(1)  La  Society  for  Promoting  Christian  Knotvìeclge.  Cito 
tra  le  serie  più  importanti  pubblicate  da  questa  beneme- 
rita Società  alcune  di  quelle  che  hanno  particolare  atti- 
nenza cogli  studi  storici  :  Earhj  Chronielers  of  Europe  in 
cui  fu  pubblicato  il  libro  pi-esente  ;  Daion  of  European  lite- 
rature  della  quale  è  già  pubblicato  un  volume  sulla  lettera- 
tura slava,  e  sta  per  pubblicarsene  uno  sulla  anglosassone, 
il  primo  dal  professore  MorfiU,  il  secondo  dal  professore  Earle 
che  tengono  cattedra  l'uno  di  slavo  e  l'altro  di  anglosassone 
nella  Università  di  Oxford.  Le  Diocesan  Hislorics  abbi-acciano 
la  storia  ecclesiastica  di  ciascuna  diocesi  dell'  Inghilterra,  e 
i  Fathers  for  English  readers  descrivono  le  vite  e  le  opere 
dei  principali  Padri  della  Chiesa. 


PREFAZIONE  XI 

r  amico  mio  avvocato  Scipione  Lupacchioli  son  grato 
per  la  critica  arguta  e  vigorosa  colla  quale  accom- 
pagnò la  compilazione  del  mio  lavoro  man  mano 
che  lo  scrivevo.  Da  ultimo  amo  rendere  anche  qui 
reverente  tributo  alla  memoria  del  canonico  Eohert- 
son  di  Canterbury  il  quale  innanzi  eh'  io  li  mandassi 
la  prima  volta  alla  stampa,  lesse  ed  onorò  di  cousigli 
i  primi  capitoli  di  questo  libro.  Pur  troppo  la  morte 
gli  tolse  di  continuare  nell'  amorevole  ufficio,  e  certo 
molti  in  Inghilterra  lo  rimpiangono  meco  per  le  no- 
bili e  gentili  qualità  del  cuore^  mentre  e  in  Inghil- 
terra e  in  Italia  è  rimpianto  da  quanti  ne  studia- 
rono i  libri  ed  ammirarono  in  essi  la  dottrina  vasta 
e  quella  calma  ed  acuta  serenità  di  giudizio  che  ci 
fa  fede  della  bontà  di  chi  scrive  ed  è  tra  le  prime 
doti  e  più  necessarie  a  chi  va  cercando  il  vero  nella 
storia. 

Oxford,  21  settembre  1883. 

Ugo  Balzani 


INDICE 


Capitolo  I Parj.       1 

L'arte  storica  decade  col  decadere  di  Roma  —  Si  ravviva  durante  la  età 
gotica  —  Cassiodoro.  Sue  dignità  e  tendenza  politica  delle  opere  sue. 
La  perduta  storia  dei  Goti  e  i  «  Libri  Epistolarum  Variarum  »  —  Com- 
pendio della  storia  di  Cassiodoro  compilato  dal  Goto  Giordane  —  Dissensi 
tra  Romani  e  Goti  fomentati  da  Bizanzio  —  Guerra  gotica  narrata  da 
Procopio  di  Cesarea.  Pregi  e  importanza  di  questo  scrittore  —  Scrit- 
tori minori. 

Capitolo  II 35 

Calamitose  condizioni  d' Italia  nel  primo  periodo  della  invasione  longo- 
barda —  Gregorio  il  Grande.  Raccolta  delle  sue  lettere.  Altissima  im- 
portanza di  esse  per  la  storia  d' Italia.  I  libri  dei  Dialoghi  —  Editto  di 
Rotari  —  La  «  Origo  Langobardorum  »  e  scritti  minori  fino  a  Paolo  Dia- 
cono —  Vita  di  Paolo  Diacono,  sue  opere  e  specialmente  sua  storia  dei 
Longobardi. 

Capitolo  III 81 

Decadenza  della  cronografia  italiana  —  Il  «  Liber  Pontificalis  »  —  «  Gesta 
Episcoporum  Xeapolitanorum  v  —  Agnello  Ravennate  —  Scritti  polemici 
di  Ausilio  e  Vulgario  —  I  monasteri  e  le  invasioni  saraceniche  —  Farfa: 
la  «  Constructio,  »  le  vite  dei  santi  Volturnensi,  la  «  Destructio  »  — 
Montscassino  :  Il  «  Chronicon  Sancti  Benedicti  Casinensis  »  —  I  cataloghi 
e  le  traslazioni  dei  Santi  —  La  Historia  di  Erchemperto  e  l'Anonimo 
Salernitano  —  Andrea  da  Bergamo  —  Panegirico  di  Berengario  —  Stato 
della  cultura  laica  in  Italia  —  Liudprando  —  Scritti  imperialisti  —  Be- 
nedetto del  Soratte  —  Cronaca  veneta  di  Giovanni  Diacono. 


XIV  INDICE 

Capitolo  IV Pag.    133 

Movimento  intellettuale  del  secolo  undecimo  e  del  dodicesimo  —  Riforma 
della  Chiesa  —  Risveglio  della  cultura  ecclesiastica  e  dalle  indagini  sto- 
riche nei  monasteri  —  Regesti  e  cronache  monastiche  —  Il  monastero  di 
Farfa  e  le  opere  di  Gregorio  di  Catino.  «  Chronicon  Vulturnense  »  —  Ri- 
nascenza artistica  e  letteraria  di  Montecassino  promossa  dall'abbate  De- 
siderio. Il  monaco  Amato  e  la  storia  dei  Normanni.  Leone  Marsicano 
e  Pietro  diacono,  storici  di  Montecassino  —  Scritti  storici  dell'  Italia  me- 
ridionale —  Cronaca  del  monastero  della  Novalesa. 

Capitolo  V 169 

I  continuatori  del  Libro  Pontificale:  Bruno  da  Segni.  Guiberto  di  Toul.  Paolo 
di  Bernried.  «  Annales  Romani.  »  Pietro  Pisano.  Pandolfo.  Rosone  — 
Scritti  polemici:  San  Pier  Damiani.  «  Liber  ad  Amicum  »  di  Bonizone  — 
La  Vita  di  Anselmo  da  Lucca  —  La  Vita  della  contessa  Matilda  di  Do- 
nizone  —  Le  lettere  di  Gregorio  VII. 

Capitolo  VI 207 

Nuove  fasi  del  pensiero  italiano  dal  dodicesimo  secolo  al  decimoquario  — 
Scrittori  meridionali  dei  tempi  normanno  e  svevo  —  Saba  Malaspina  — 
Storici  del  Vespro  Siciliano  —  Vite  dei  Papi  —  Vita  di  Cola  di  Rienzo  — 
Scrittori  municipali  lombardi  del  primo  periodo  —  Ottone   di  Frisinga 

—  Altri  cronisti  imperiali  —  Storie  generali  —  Fra  Salimbene  da  l'arma 

—  Cronisti  di  varie  città  dell'  alta  e  della  media  Italia  —  Cronisti  di 
Lombardia  e  della  Marca  Trivigiana  —  Albertino  Mussato. 

Capitolo  VII 269 

Cronisti  delle  repubbliche  marinare  —  Cronache  di  Venezia  :  Martino  da 
Canale  e  Andrea  Dandolo  —  Gli  Annalisti  di  Genova  dal  Caflaro  a  Gia- 
como D'  Oria  —  Pisa  :  Pietro  Pisano.  Bernardo  Marangone  —  I  cronisti 
della  rimanente  Toscana  e  principalmente  i  Fiorentini  :  I  Malespinl.  Dino 
Compagni.  I  Villani. 


LE 

CRONACHE  ITALIANE 

KEL    MEDIO    EVO 


LE  CROXACHE  ITALIAXE  XEL  MEDIO  EYO 


Capitolo  I 


L"  arte  storica  decade  col  decadere  di  Roma  —  Si  ravviva  durante  la  età 
gotica — Cassiodoro.  Sue  dignità  e  tendenza  politica  delle  opere  sue. 
La  perduta  storia  dei  Goti  e  i  «  Libri  Epistolarum  Variarum  ■>  —  Com- 
pendio della  storia  di  Cassiodoro  compilato  dal  goto  Giordane  —  Dissensi 
tra  Romani  e  Goti  fomentati  da  Bizanzio  —  Guerra  gotica  narrata  da 
Procopio  di  Cesarea.  Pregi  e  importanza  di  questo  scrittore  —  Scrit- 
tori minori. 

Colla  decadenza  di  Roma  e  lo  sfasciarsi  lento  della 
unità  latina  fiaccandosi  il  nervo  della  vita  all'Italia, 
s'era  dileguata  da  essa  la  potenza  e  l'arte  dello  scri- 
vere storie.  L' antichità  moriva  in  Occidente  e  con 
essa  veniva  meno  la  vasta  luce  della  civiltà  sua.  Da 
secoli  eran  cessate  le  magnifiche  ispirazioni  di  Tito 
Livio  e  la  incisiva  parola  di  Tacito  era  fatta  muta. 
A  poco  a  poco  ogni  fonte  di  ricordi  s'era  cosi  ina- 
ridita, che  al  quinto  secolo  la  buia  e  malcerta  storia 
di  quella  età  dolorosa  vuoisi  cercare  a  fatica  tra  i 

1.  B.vLz.vNi,  Le  Cronache  iUtUane. 


2  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

pochi  scrittori  che  si  mostravano  ancora  e  i  più  non 
erano  storici  neppur  di  nome.  Ammiano  Marcellino, 
Prudenzio,  Claudiano,  Rutilio  Numaziano,  Olimpio- 
doro  e  con  San  Girolamo  i  principali  Padri  della 
Chiesa,  ecco  le  scarse  sorgenti  a  cui  si  volge  ora  lo 
storico  che  tenta  d'investigar  quel  passato,  ed  è  na- 
turale che  venissero  meno  le  memorie  della  vita  là 
dove  la  vita  stessa  languiva.  Né,  mentre  si  spegneva 
la  storia  tra  i  Latini,  poteva  nascer  d'un  subito  quella 
dei  primi  popoli  invasori.  Mancava  l'arte  in  costoro, 
e  non  potevano  mutare  in  istoria  le  tradizioni  vive 
dei  loro  canti  senza  prima  imparar  quest'arte  in  Ita- 
lia o  trovare  almeno  tra  i  vinti  chi  prendesse  a  nar- 
rare le  loro  vicende.  Per  giungere  a  questo  era  ne- 
cessario che  vinti  e  vincitori  mescolati  insieme  si 
confondessero  in  una  aspirazione  comune,  e  mentre 
gli  uni  infiltravano  sangue  nuovo  nelle  stanche  vene 
d'Italia,  gli  altri  lo  fecondassero  con  quel  che  avan- 
zava dell'antica  sapienza.  Una  siffatta  fusione  che  non 
potea  farsi  coi  primi  invasori  parve  un  momento  ef- 
fettuabile coi  Goti,  e  nel  tempo  loro  risorgendo  a  un 
tratto  il  culto  delle  memorie  può  dirsi  che  abbian 
principio  le  narrazioni  e  i  documenti  storici  del  me- 
dio evo. 

Certo  di  tutti  ì  popoli  germanici  il  gotico  era  il  me- 
glio temprato  a  civiltà,  il  pii^i  capace  di  assimilarsi  la 
cultura  latina  e  d'intrecciarsi  alle  antiche  stirpi  tra 
cui  era  disceso  recando  nuovi  elementi  di  vita.  Quando 
la  luce  del  cristianesimo  penetrava  in  Germania,  trovò 
pronto  a  propagarla  il  linguaggio  dei  Goti,  ed  Ultìla 
traducendo  in  gotico  la  Bibbia  gettò  le  prime  fonda- 


I    GOTI  à 

menta  delle  lingue  e  delle  letterature  germaniche  (1). 
Popolo  forte  e  originale,  da  lungo  e  di  frequente  in 
commercio  colle  nazioni  latine  e  coi  Greci  di  Bizanzio, 
i  Goti  non  ignoravano  le  tradizioni  intellettuali  di 
Roma,  né  potevano  accostarsi  con  tutto  rozzo  dispre- 
gio alle  opere  dell'arte  greco-romana  o  a  quella  sa- 
pienza legislatrice  che  stava  per  sintetizzarsi  tutta- 
quanta  nella  raccolta  Giustinianea.  E  come  in  questi 
barbari  men  rudi  era  una  cotale  capacità  d' intendere 
le  tradizioni  dell'antico,  così  queste  ancor  vive  nella 
loro  caduta  avevano  in  sé  tanto  di  forza  da  attirarli 
e  costringerli  ad  ammirazione  e  a  rispetto.  Se  il  com- 
paginarsi del  doppio  elemento  in  una  forte  nazione 
fosse  stato  possibile,  solo  sarebbe  stato  possibile  coi 
Goti  e  solo  in  quel  tempo.  La  maestà  dell'  Impero 
era  ancor  grande  e  non  pativa  ancora  l'ingiuria  della 


(1)  «  How  carefully  the  Moeso-Gotliic  language  was  con- 
«  sidered  and  prepared  for  the  expression  of  Scripture,  be- 
«  Comes  manifest  to  the  philological  student,  when  he  examines 
«  those  precious  relics  of  the  fourth  centuiy  which  bear  the 
«  name  of  Ulphilas.  Here  we  ofteu  meet  the  very  woi'ds  with 
«  which  we  are  so  familiar  in  our  Englìsh  Bible,  bnt  linked 
«  together  by  a  flesional  structure  that  finds  no  parallel  short 
«.  of  Sanscrit.  This  is  the  oldest  book  we  can  go  back  to,  as 
«  written  in  a  language  like  our  own.  It  has  therefore  a  na- 
«  tional  interest  for  us  ;  but  apart  from  this  it  has  a  nobility 
<<  and  grandeur  ali  its  own,  as  it  is  one  of  the  finest  speci- 
«  mens  of  ancient  language.  »  John  Eakle,  The  jìliUoìogy  of 
the  English  tongue.  Oxford,  Clarendon  Press,  1873.  Oltre  la  tra- 
duzione di  Ulfila  avanzano  alcuni  altri  frammenti  in  lingua 
gotica  dopo  la  quale  vien  Fanglosassone  per  antichità  di  re- 
liquie scritte,  che  però  non  risalgono  di  là  dal  secolo  settimo. 


4  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

noncuranza.  Più  tardi  dopo  molti  contrasti  e  guerre 
lunghe  e  disastri,  smunta  dissanguata  spoglia  d'abi- 
tatori, cupidamente  desiderata  e  mal  difesa  dai  Greci, 
l'Italia  non  avrà  più  forze  in  sé  d'aiuto,  e  i  nuovi 
invasori  potranno  calpestar  senza  cura  le  ultime  re- 
liquie della  scaduta  civiltà  romana.  Ma  per  allora  era 
altrimenti,  e  in  quel  supremo  albore  di  vita  il  regno 
di  Teodorico  sembra  mirar  del  continuo  a  riunire  in 
un  fascio  le  forze  germaniche  e  le  romane  affratel- 
lando i  due  popoli  in  comunione  d'affetti  e  di  pen- 
sieri. Cassiodoro  che  tenne  le  più  alte  cariche  dello 
Stato  da  Teodorico  a  Vitige  per  un  tratto  lunghissimo 
della  dominazione  gotica,  cercando  quanto  era  da  lui 
di  dar  ferme  radici  al  nuovo  regno,  volse  a  questa 
riunione  tutto  il  potere  dell'  ingegno  suo.  «  Siam  nel 
«  proposito,  se  Iddio  ci  aiuti,  di  far  che  i  sudditi  no- 
«  stri  si  dolgano  d'esser  troppo  tardi  venuti  al  nostro 
«  dominio.  »  Così  esclamava  Cassiodoro  per  bocca  di 
Teodorico,  e  queste  parole  in  cui  si  ripone  il  con- 
cetto fondamentale  della  sua  mente,  come  un  ago  ma- 
gnetico gli  puntano  innanzi  una  via  che  vuole  esser 
seguita  senza  oscillare. 

Finché  resse  la  cosa  pubblica,  Cassiodoro  concordò 
a  questa  le  opere  sue  letterarie  e  ne  trasse  aiuto  per 
tendere  alla  meta  prefissa,  onde  bene  può  dirsi  che 
egli  rappresenta  l'età  sua  così  nelle  lettere  come  nella 
politica.  La  corte  di  Teodorico,  animata  da  lui,  si 
fé'  centro  in  breve  ai  più  colti  ingegni  di  quel  tempo, 
e  in  essa  furono  originate  molte  opere  per  le  quali 
calò  al  medio  evo  la  conpscenza  del  sapere  antico. 
La  scuola  dei  grammatici  Donato,  Macrobio,  Mar- 


CASSIODORO  0 

ciano  Capella,  scende  di  questi  anni  a  congiungersi 
con  Prisciano  e  Cassiodoro  dai  quali  l'età  di  mezzo 
imparerà  ammirando  lo  stile  intralciato  e  la  latinità 
gonfia  ed  oscura.  La  filosofia  aristotelica  prenderà 
impero  sulle  menti  medioevali  per  mezzo  del  maggiore 
erudito  allora  vivente,  Severino  Boezio,  nobilissimo 
uomo  fatto  immortale  dalle  sue  sventure  e  dal  libro 
ch'esse  gì'  ispirarono  a  conforto.  Quello  che  fra  tanto 
rivolgimento  d' uomini  e  di  pensieri  non  era  morto 
dell'  antica  sapienza,  ripullulava  in  questi  uomini  i 
quali  in  certa  guisa  cristianizzandola  la  rendeano  ac- 
cettevole alle  generazioni  future.  Né  i  Goti  se  ne  ten- 
nero in  tutto  lontani.  Alcuni  tra  essi,  per  quanto 
pare,  s'avvicinarono  ai  dotti  romani  e  ne  seguirono 
l'esempio  e  le  usanze  studiose.  Non  è  ben  chiaro  se 
vissero  veramente  i  filosofi  goti  Atanarido,  Ildibaldo 
e  Marcomiro  menzionati  in  alcun  luogo,  ma  senza  dub- 
bio Teodato  parente  di  Teodorico  e  più  tardi  re  egli 
stesso  inclinava  agli  studi  filosofici  e  seguiva  Pla- 
tone ;  la  vittima  di  costui  Amalasuhta  regina  fu  pei 
suoi  tempi  donna  di  rarissima  cultura,  e  al  goto  Gior- 
dane dovrò  rivolgermi  di  corto  dopo  aver  discorso 
di  Cassiodoro  del  quale  per  buona  fortuna  egli  com- 
pendiò la  storia  dei  Goti  ora  perduta. 

Magno  Aurelio  Cassiodoro  nato  nel  Sannio  da  no- 
bilissima famiglia  e  fin  da  giovane  entrato  nella  vita 
pubblica,  teneva  con  quella  parte  del  patriziato  ro- 
mano che  riputò  opportuno  fondere  in  una  le  sorti 
della  patria  e  quelle  dei  barbari.  Sotto  Odoacre  ebbe 
incarichi  pubblici  e  Teodorico  non  pure  lo  confermò 
in  essi  ma  sollevatolo  a  dignità  altissime  gli  die'  in 


6  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

mano  le  cure  maggiori  dello  Stato.  Ciò  valse  a  de- 
terminar sempre  più  l' indole  dei  lavori  suoi  letterari 
e  a  farla  concorde  allo  scopo  politico  della  sua  vita. 
E  prima  è  da  menzionare  una  breve  cronaca,  intesa 
a  glorificare  i  Goti  e  gonfia  d'ampollose  lodi  per  Teo- 
dorico, meschina  opera  e  grave  d'errori  indicati  e 
censurati  severamente  da  Teodoro  Mommsen  innanzi 
al  quale  Cassiodoro  trova  di  rado  favore.  D' assai 
maggior  pregio  invece  e  tali  da  onorarsene  la  eru- 
dizione del  tempo  suo  sembrano  essere  stati  i  dodici 
libri  della  sua  storia  gotica  sui  quali  peraltro  pesa 
a  ragione  il  sospetto  di  soverchia  parzialità  verso 
i  Goti.  Ma  questa  storia  andò  smai'rita  in  breve  e 
solo  ci  avanza  di  giudicarne  in  modo  imperfetto  dal 
compendio  che  ce  ne  lasciò  Giordane.  L' intendimento 
del  libro  apparisce  dalle  parole  colle  quali  il  re  Ata- 
larico  annunzia  al  Senato  Romano  l' innalzamento  di 
Cassiodoro  a  Prefetto  del  Pretorio.  Non  solo,  egli  dice, 
Cassiodoro  ha  magnificato  i  suoi  signori  presenti,  ma 
rifacendosi  indietro,  «  si  distese  anche  sulla  antica 
«  nostra  prosapia  imparando  col  leggere  quello  che 
«  appena  ricordavano  in  lor  tradizioni  i  nostri  ca- 
«  nuti.  Egli  dalle  latebre  dell'antichità  trasse  i  re 
«  de'  Goti  nascosti  per  lungo  oblìo.  Egli  restituì  l'an- 
«  tica  nobiltà  di  sangue  agli  Amali,  dimostrando  aperto 
«  la  stirpe  nostra  essere  stata  regale  per  diciasette 
«  generazioni.  Fé'  diventare  storia  romana  la  origine 
«  dei  Goti  raccogliendo  quasi  in  ghirlanda  i  germi 
«  fioriti  che  prima  si  dispergevan  qua  e  là  pe'  campi 
«  dei  libri.  Considerate  quanto  in  lodarci  v'amò  colui 
«  che  dimostrò  esser  mirabile  fin  dall'antichità  la  na- 


CASSIODORO  / 

«  zione  del  vostro  principe,  affinché  come  foste  sem- 
«  pre  ritenuti  nobili  cosi  imperasse  sopra  voi  una 
«  antica  progenie  di  re.  »  Lo  scopo  politico  del  libro 
si  mostra  qui  chiaro.  Ai  Romani  tanto  più  alteri  di 
loro  storia  quanto  più  era  scadente  la  grandezza  reale 
di  Roma,  riusciva  opportuno  il  dire  che  questi  bar- 
bari calati  di  Germania  a  divider  con  loro  la  patria, 
avevano  anch'essi  nobiltà  d'origine  e  storia  gloriosa. 
A  ciò,  dice  il  "Wattenbach,  intese  la  erudizione  di 
Cassiodoro.  «  Che  i  Goti  e  i  Geti  fossero  un  sol  po- 
«  polo  già  da  lungo  tempo  era  facilmente  creduto, 
«  ma  nessuno  aveva  ancora  cercato  di  dimostrarne 
«  la  parentela.  Fé'  ciò  Cassiodoro.  Intrecciò  le  me- 
«  morie  propriamente  storiche  dei  Goti,  il  contenuto 
«  dei  loro  canti,  con  quanto  intorno  ai  Geti  egli 
«  trovò  presso  i  Romani  ed  i  Greci,  e  poiché  così  gli 
«  uni  come  gli  altri  dai  Greci  erano  detti  Sciti,  risali 
«  la  intera  storia  primitiva  degli  Sciti  e  senza  esitare 
«  chiamò  donne  gotiche  anche  le  Amazzoni.  Così  gii 
«  Amali  di  cui  lo  splendore  era  narrato  dalle  saghe 
«  gotiche,  apparivano  ora  come  i  discendenti  imme- 
«  diati  di  Zamolchi  e  di  Sitalchi,  e  i  Romani  pote- 
«  vano  trovare  in  ciò  un  conforto  all'amarezza  della 
«  signoria  straniera  (1).  » 

Le  parole  indirizzate  a  Cassiodoro  dai  re  Teodo- 
rico e  Atalarico  che  ho  citato  più  sopra,  furono  scritte 


(1)  Wattenbach,  Deutschlands  GescMcMsquelIen  ini  Mitteì- 
alter,  I,  59.  Berlin,  1877-1878.  Di  questa  opera  magistrale  mi 
sono  giovato  molto  in  queste  prime  pagine,  e  avrò  frequente 
occasione  di  giovarmi  in  seguito. 


O  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

da  Cassiodoro  medesimo  e  leggonsi  tra  le  lettere  che 
egli  per  ufficio  venne  scrivendo  in  nome  dei  suoi  so- 
vrani e  delle  quali  più  tardi  compose  una  raccolta 
divisa  in  dodici  libri.  Queste  lettere  rivolte  per  lo  più 
a  personaggi  importanti  o  agli  istituti  maggiori  dello 
Stato  contengono  come  in  una  serie  i  principali  atti 
coi  quali  i  re  goti  e  il  loro  ministro  governarono  la 
cosa  pubblica  in  Italia  fino  al  principio  del  regno  di 
Vitige.  Il  valore  ch'esse  hanno  per  la  storia  d'Italia 
è  supremo.  La  stessa  smarrita  storia  dei  Goti  non 
avrebbe  potuto  indicare  con  tanta  evidenza  le  con- 
dizioni morali  e  politiche  degli  Italiani^  ne  recar  tanti 
ragguagli  intorno  alla  vita  d'allora  e  allo  stato  degli 
uomini  e  delle  cose.  Documenti  di  tal  sorta  parlano 
ai  posteri  con  una  eloquenza  che  nessuna  stoi'ia  può 
raggiungere  mai,  perché  inconsciamente  toccano  di 
fatti  a  cui  la  storia  non  arriva.  Così,  per  citare  un 
esempio,  Teodorico  annunziando  al  Senato  d'aver  con- 
ferita a  Cassiodoro  la  dignità  di  Patrizio,  mentre  ci 
rende  una  immagine  che  non  potremmo  avere  altri- 
menti della  reverenza  che  si  spandeva  ancora  dal 
nome  romano,  ci  mostra  insieme  con  quale  romanità 
di  espressione  il  re  goto  rammentasse  le  invasioni  di 
Attila.  «  Anzitutto,  egli  dice,  noi  bramiam  con  ar- 
«  dorè  che  il  vostro  collegio  s'adorni  nel  lume  delle 
«  dignità  quando  coloro  che  crebbero  nel  potere  au- 
«  lieo  tributano  onestamente  alla  patria  la  loro  gran- 
«  dezza....  Che  il  padre  di  questo  candidato  (di  Cas- 
«  siodoro)  per  giovare  alla  repubblica  associossi  con 
«  gran  carità  ad  Ezio  patrizio....  Ad  Attila  fu  inviato 
«  non  vanamente  in  legazione.  Mirò  intrepido  l'uomo 


CASSIODORO  9 

«  di  cui  tutto  l' Impero  temeva  5  forte  nel  vero,  non 
«  curò  que' volti  terribili,  minacciosi,  ne  dubitò  di 
«  contrastare  agli  alterchi  di  colui  che  rapito  da  non 
«  so  qual  furore  parca  pretendere  al  dominio  del  mon- 
«  do.  Trovò  superbo  il  re  ma  lo  lasciò  placato....  La 
«  sua  costanza  rialzava  i  timorosi,  né  furon  creduti 
«  imbelli  uoloro  che  s'armavano  di  tali  ambasciatori. 
«  Riportò  una  pace  che  parca  disperata  (1).  »  E  men- 
tre queste  lodi  al  padre  di  Cassiodoro  indicano  come 
un  timoroso  desiderio  di  veder  tenuto  alto  ancora  e 
riverito  il  nome  della  virtù  romana,  altre  ne  contiene 
questa  raccolta  che  giovano  mirabilmente  a  chiarirci 
intorno  a  varie  questioni  storiche  di  gran  momento. 
Il  brano  seguente  ci  serba  un  insegnamento  duplice 
anch'esso,  affermando  a  un  punto  le  condizioni  giu- 
ridiche dei  due  popoli  e  ritraendoci  in  vera  e  trista 
dipintura  gli  scaduti  costumi  del  patriziato  romano. 
In  uno  di  quei  tumulti  che  per  brutta  usanza  venuta 
da  Costantinopoli  nascevano  frequenti  nelle  ire  par- 
tigiane del  Circo,  un  patrizio  di  nome  Teodorico  e  il 
console  Importuno  avean  fatta  ingiuria  ai  popolani 
della  parte  avversa  alla  loro  nei  giuochi  e  fatto  uc- 
cider l'un  d'essi.  E  Cassiodoro  parlando  nella  persona 
regia  così  ne  scriveva  al  magistrato  con  austera  fer- 


(1)  «  Vidit  intrepidus  quem  tìmebat  Imperium:  facies  illas 
«  terribiles  et  minaces  fretus  ventate  despexit,  nec  dubitavit 
«  eius  altercationibus  obviare  qui  furore  nescio  quo  raptatus 
«  mundi  dominatum  videbatur  expetere.  Invenit  regem  super- 
«  bum  sed  reliquit  placatum....  Erigebat  constantia  sua  partes 
«  timentes,  nec  imbelles  sunt  crediti  qui  Legatis  talibus  vi- 
«  debantur  armari.  Pacem  retulit  desperatam.  » 


10  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

mezza:  «  Se  noi  moderiam  colla  legge  le  usanze  di 
«  straniere  genti,  se  chiunque  si  associa  all'Italia  ob- 
«  bedisce  al  diritto  romano,  quanto  più  si  conviene 
«  alla  sede  stessa  della  cittadinanza  aver  maggiore 
«  la  reverenza  delle  leggi  affinché  la  grazia  delle  di- 
«  gnità  risplenda  in  esempio  di  moderazione?  E  dove 
«  sarà  da  cercare  un  animo  modesto  se  i  Patrizi  si 
«  macchiano  con  atti  violenti?...  Ma  affinché  i  ma- 
«  gnifici  personaggi  non  sieno  offesi  dalla  loquacità 
«  popolare  frenisi  di  questa  la  presunzione.  Si  tenga 
«  in  colpa  chiunque  sulla  via  faccia  ingiuria  ad  un 
«  reverendissimo  Senatore,  poiché  mal  si  condusse 
«  quando  era  da  parlare  onesto.  Ma  chi  può  preten- 
«  dere  gravità  di  costumi  agli  spettacoli?  Al  Circo 
«  non  sanno  convenire  Catoni.  Checché  ivi  il  popolo 
«  gaudente  si  dica,  non  s'ascriva  ad  ingiuria  che  il 
«  luogo  protegge  gli  eccessi.  Che  se  la  costoro  gar- 
«  rulità  sia  portata  pazientemente,  se  ne  onoreranno 
«  gli  stessi  principi.  »  Nobili  e  temperati  sensi  a  cui 
fanno  bel  riscontro  questi  cenni  dati  a  Sunivado  se- 
natore inviato  da  Teodorico  nel  Sannio  a  compor  liti 
tra  Romani  e  Goti:  «  Entra  dunque  nella  provincia 
«  del  Sannio.  Se  un  Romano  avrà  a  far  co'  Goti  o 
«  un  Goto  co'  Romani,  e  tu  definisci  considerando  la 
«  legge  né  si  conceda  vivere  in  diversa  legge  a  co- 
«  loro  che  vogliam  protetti  da  un  giudice  solo.  Sen- 
«  tenzierai  dunque  in  comune  ciò  che  è  secondo  giu- 
«  stizia,  che  non  sa  guardare  alle  persone  colui  che 
«  solo  fa  stima  dell'equo.  » 

Era  dunque  diritto  che  Teodorico  lodasse  Cassio- 
doro  per  avere  reso  famoso  il  suo  regno  recando  la  in- 


CASSIODORO  1 1 

tegrità  della  coscienza  nelle  corti  e  dando  alta  quiete 
ai  popoli  (1).  Sulla  soglia  del  medio  evo  si  sente  an- 
cora per  le  lettere  di  quest'ultimo  uomo  di  Stato  ro- 
mano che  l' antichità  non  è  tutta  spenta,  e  che  alla 
civiltà  romana  avanza  tuttavia  un  ultimo  alito  di  vita 
e  di  vigore.  Nessuno  elemento  di  civiltà  è  trascurato 
in  esse.  Come  alla  conservazione  delle  leggi  romane, 
così  v'apparisce  continua  la  cura  alla  conservazione 
dei  monumenti  e  delle  opere  d'  arte  in  tutta  Italia. 
Ora  son  lettere  per  ricuperare  all'ornato  pubblico  una 
statua  di  bronzo  rubata  a  Como,  ora  per  restaurare 
le  terme  di  Spoleto,  ora  pel  rifacimento  di  acquedotti 
che  minacciavan  rovina,  ora  per  inviare  a  Ravenna 
colonne  e  mai-mi  giacenti  fuor  d'  opera  in  Rofna  e 
colà  ornare  nuovi  monumenti  poiché  1'  arte  scaduta 
mal  si  prestava  ad  ornati  nuovi.  La  musica  ha  suo 
tributo  d'  onore  anch'  essa  in  una  lettera  a  Boezio  al 
quale  un'  altra  pure  è  diretta  di  cui  i  brani  seguenti 
ci  mostrano  in  quale  stato  si  conservassero  gli  studi 
meccanici.  «  Il  signore  dei  Borgognoni  ci  richiede  a 
«  grande  istanza  d'inviargli  un  orologio  che  si  muova 


(1)  «  ....  nostra  feclsti  eximia  tempora  praedicari.  Ornasti 
«  de  conscientiae  integritate  palatia,  dedisti  populis  altam 
«  quietem.  »  Variarum  III,  23.  Un  bell'esempio  di  tolleranza 
antica  trovasi  in  queste  parole  di  una  lettera  al  Senato  di 
Roma,  motivata  dall'incendio  di  una  sinagoga  in  una  sedi- 
zione contro  i  Giudei,  «  quia  nolumus  aliquid  detestabile  fieri 
«  unde  romana  gravitas  debeat  accusari....  Hoc  enim  nobis 
«  vehementer  displicuisse  cognoscite  ut  intentiones  vanissimae 
«  populorum  usque  ad  eversiones  pervenerint  fabricarum,  ubi 
«  totum  pulchrum  volumus  esse  compositum.  »  Var.  IV,  43. 


12  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

«  pel  correr  dell'  acque  sotto  la  ruota,  e  segni  l' ora 
«  comprendendo  in  sé  la  luce  dell'immenso  sole.  E 
«  chiede  maestri  dell'arte  a  collocarlo,  talché  godendo 
«  questo  impetrato  piacere  sembri  miracolo  a  loro  quel 
«  che  è  quotidiana  cosa  per  noi....  Il  meccanico  è  il 
«  dir  così  come  il  socio  della  natura,  svela  le  occulte 
«  cose,  le  manifeste  trasforma,  scherza  co' miracoli, 
«  e  cosi  bene  dissimula  che  non  si  sospetta  artificio 
«  e  l'imitato  si  ritien  vero.  Ora  poiché  ti  sappiamo 
«  addentro  in  siffatte  cose,  studiati  di  mandarci  al 
«  più  presto  i  predetti  orologi,  e  ti  farai  cosi  cono- 
«  scinto  in  quella  parte  del  mondo  dove  non  hai  po- 
«  tuto  penetrare  altrimenti.  Imparino  per  te  le  genti 
«  straniere  esser  tali  i  nostri  nobili  quali  si  leggon 
«  gli  autori.  Quante  volte  non  crederanno  agli  occhi 
«  loro  !  quante  volte  stimeranno  sogni  d' illusi  questa 
«  realtà  !  E  quando  saranno  usciti  dallo  stupore  non 
«  vorranno  chiamarsi  uguali  a  noi  appo  i  quali  sanno 
«  tali  cose  essere  escogitate  dai  nostri  sapienti.  » 

Leggendo  questa  lettera  si  fa  più  doloroso  il  pen- 
sare che  Teodorico  macchiò  negli  ultimi  anni  la  gloria 
del  suo  regno  colla  crudele  uccisione  di  Boezio  che 
ha  qui  così  largo  tributo  di  lodi.  Forse  la  feroce  con- 
danna sua  e  quella  di  Simmaco  sono  indizio  che  il 
patriziato  romano  s'andava  staccando  dai  Goti  e  l'ac- 
cordo fra  i  due  popoli  appariva  arduo  più  che  non 
s' era  creduto  in  sulle  prime.  Ma  intorno  a  questo  ar- 
gomento non  ci  ponno  dar  luce  le  lettere  ufficiali  di 
Cassiodoro,  e,  poiché  ogni  certezza  storica  ci  fa  di- 
fetto, forza  è  contentarci  d'ipotesi.  Ad  ogni  modo,  co- 
munque andassero  gli  eventi  e  qual  che  fosse  Fanimo 


CASSIODORO  13 

dei  nobili  romani,  Cassiodoro  rimase  fermo  nei  suoi 
propositi  di  conciliazione,  e,  morto  Teodorico,  tenne 
il  suo  ufficio  presso  Amalasunta  che  regnò  qualche 
anno  in  nome  del  fanciullo  Atalarico.  Reggendo  ella 
lo  Stato,  gli  screzi  tra  Romani  e  Goti  appariscon  più 
aperti.  L'educazione  del  giovinetto  re  fomentava  spe- 
cialmente ire  e  sospetti,  che  i  Romani  con  Amala- 
sunta tendevano  a  coltivarne  latinamente  lo  spirito, 
ma  i  principali  Goti  lo  volevano  Goto  e  non  Latino, 
alieno  da  ogni  studio  e  unicamente  inteso  agli  eser- 
cizi del  corpo  e  alle  arti  di  guerra.  Il  governo  im- 
periale frattanto  da  Costantinopoli  soffiava  nel  fuoco, 
e  raccendendo  la  vampa  di  queste  discordie  nazio- 
nali e  quella  che  serpeggiava  interna  tra  gli  stessi 
Goti,  si  apparecchiava  a  giovarsene  per  ricuperare 
le  Provincie  italiane.  Alla  morte  del  giovinetto  Ata- 
larico, la  madre  Amalasunta  tenne  alcun  tempo  il 
regno  da  sola,  ma  ne  l' intelletto  suo  vasto  né  l'esser 
figlia  di  Teodoi'ico  valsero  a  salvarla  dalle  diffidenze 
dei  Goti,  talché  per  un  momento  nelle  cupe  angoscie 
d' un  regnar  minacciato,  trattò  in  segreto  con  Giu- 
stiniano imperatore  per  fuggir  d'Italia  e  avere  asilo 
a  Costantinopoli.  Poi  nella  lusinga  di  potersi  reggere 
ancora  sul  trono  vacillante,  tentò  di  legare  a  sé  Teo- 
dato un  suo  cugino  della  stirpe  degli  Amali,  già  suo 
nemico.  Sperava  conciliarselo  associandolo  al  regno, 
ma  l'abbietto  nomo  salito  al  trono  rilegò  Amalasunta 
in  una  isoletta  del  lago  di  Bolsena  dove  indi  poco  la 
fé'  trucidare.  Rimasto  solo  regnò  breve  tempo,  ma 
pericolando  anch'  egli  e  desideroso  com'era  di  menar 
vita  pacifica,  offrì  a  Giustiniano  di  cedergli  lo  Stato 


14  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

e  chiese  in  ricambio  ricchezze  e  tranquilli  onori  sul 
Bosforo.  I  Goti  avvedendosi  d'esser  traditi  da  quel 
codardo,  lo  deposero,  e  coltolo  fuggente  a  Ravenna 
lo  sgozzarono.  Vitige^  un  prode  guerriero  loro,  levato 
sagli  scudi  fu  acclamato  re,  e  Cassiodoro  rimasto  in 
carica  tutto  quel  tempo  scrisse  in  nome  del  nuovo 
sovrano  la  lettera  seguente  che  riferisco  intera  per- 
ché mi  par  che  suoni  come  uno  squillo  di  tromba  de- 
stinato ad  annunziare  la  fortunosa  guerra  imminente. 
^<  A  tutti  i  Goti,  Vitige  re.  Se  ogni  bene  vuoisi  ri- 
«  ferire  a  dono  della  divinità  né  v'  ha  nulla  di  buono 
«  se  non  quanto  ella  ci  concede,  tanto  più  vuoisi  at- 
«  tribuire  la  dignità  regale  al  giudizio  divino  che 
«  ordina  coloro  a  cui  vuol  soggetti  i  suoi  popoli.  Di 
^<  che  a  Cristo  signor  nostro  riferendo  grazie  con  umi- 
«  lissima  compiacenza,  giudichiam  che  i  Goti  ci  ab- 
«  biano  coli' aiuto  di  Dio  conferita  la  dignità  regia 
«  levandoci  tra  le  spade  in  sugli  scudi,  secondo  l'uso 
«  dei  maggiori  nostri,  affinché  l'armi  dessero  l'onore 
«  a  colui  cui  le  guerre  procacciarono  stima.  Impe- 
«  rocche  sappiate  eh'  io  fui  eletto  non  tra  1'  angustia 
«  delle  stanze  ma  nel  largo  aperto  dei  campi,  ne  fui 
«  chiamato  tra  i  sussurati  colloqui  de'  blandienti  ma 
«  tra  lo  squillar  delle  trombe,  affinché  il  popol  gotico 
«  concitato  da  quel  fremere  nel  desiderio  dell' inge- 
«  nito  valore,  si  trovasse  un  re  guerriero.  E  quanto 
«  mai  tempo  uomini  forti  e  nutriti  nel  fervor  delle 
«  guerre  potrebbero  tollerare  un  principe  non  pro- 
«  vato  di  cui  fosse  dubbia  la  fama,  anche  s'ei  pre- 
«  sumesse  del  valor  suo  ?  Imperocché,  come  avrete 
«  udito,  io  chiamato  nel  pericolo  dei  parenti  ero  ac- 


CASSIODORO  15 

«  corso  a  portar  cogli  altri  la  fortuna  comune,  ma 
«  e'  non  si  contentarono  d'avermi  a  condottiero  desi- 
«  derosi  com'erano  d'un  re  sperimentato.  Per  la  qual 
«  cosa,  prima  nella  grazia  d'Iddio  poi  compiacetevi 
«  nel  giudizio  dei  Goti,  perché  tutti  mi  fate  re  voi 
«  che  unanimi  rivolgete  in  me  i  voti.  Deponete  ora- 
«  mai  ogni  timore  di  danni,  ogni  sospetto  di  spese; 
«  non  temete  nulla  d'aspro  sotto  di  noi.  Noi  trat- 
«  tando  così  spesso  la  guerra  imparammo  ad  amare 
«  i  forti.  S' aggiunga  eh'  io  son  testimonio  a  ciascuna 
«  delle  prodezze  vostre,  né  v'  occorre  che  altri  mi 
«  narri  vostre  gesta  perch'  io  le  conobbi  tutte,  socio 
«  con  voi  nelle  imprese.  L'armi  dei  Goti  mai  non 
«  si  frangeranno  pel  mutar  delle  mie  promesse.  Ad 
«  utilità  del  popolo  si  rivolgerà  ogni  atto  nostro  né 
«  trascureremo  i  privati.  Promettiam  di  compiere 
«  quel  che  orni  il  nome  di  re.  Da  ultimo  promet- 
«  tiamo  di  far  che  l' imperio  nostro  sia  tale  quale 
«  ponno  aspettarselo  i  Goti  dopo  l'inclito  Teodorico, 
«  uomo  così  singolarmente  e  mirabilmente  adatto  alle 
«  cure  del  regno,  che  ben  può  ogni  principe  esser 
«  tenuto  insigne  a  seconda  ch'ei  mostra  d'amare  i 
«precetti  di  lui.  Pertanto  dovrà  esser  creduto  pa- 
«  rente  suo  chiunque  potrà  imitarne  le  imprese,  e 
«  perciò  siate  solleciti  per  la  utilità  del  regno  nostro 
«  e  sicuri  dello  stato  interno  se  Iddio  ci  aiuti.  » 

Questa  ed  un'  altra  inviata  da  Vitige  a  Giustiniano 
per  annunziargli  la  sua  elezione  ed  esortarlo  a  pace 
senza  mostrar  timore  di  guerra,  sono  le  due  ultime 
lettere  importanti  che  si  leggono  nella  raccolta  di  Cas- 
siodoro,  e  parrebbe  notevole  segno  dei  tempi  il  non 


16  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

trovarsene  alcuna  diretta  al  Senato  Romano.  Non  è 
ben  noto  in  quale  momento  Cassiodoro  lasciasse  la 
vita  pubblica,  ma  è  opinione  comune  eh'  egli  se  ne 
ritraesse  alla  chiusa  del  regno  di  Vitige  dopo  la  prima 
grande  disfatta  dei  Groti.  A  me  dall'  improvviso  in- 
terrompersi delle  sue  lettere,  dal  non  trovar  menzione 
di  lui  nelle  storie  di  Procopio  e  dalle  nuove  decise 
tendenze  sorte  col  cadere  degli  Amali,  pare  invece 
probabile  eh'  egli  cessasse  anche  prima,  stanco  alla 
fine  e  perduta  ogni  fede  in  un  accordo  tra  Romani 
e  Goti  più  che  mai  necessario  in  quell'ora  suprema 
alla  salute  del  regno.  Ad  ogni  modo  verso  l'anno  540 
aveva  abbandonato  le  cure  del  mondo.  Ritiratosi  ne- 
gli Abruzzi  presso  Squillaci,  fondò  il  Monastero  Vi- 
variense  e  vi  condusse  la  rimanente  vita  in  quieta 
solitudine  tra  lavori  letterari  e  pie  contemplazioni. 
Quivi  oltre  le  opere  già  composte  da  lui  fece  racco- 
gliere e  tradurre  una  storia  della  Chiesa  (1),  e  nel 
novantesimo  terzo  anno  di  sua  età  compose  un  trat- 
tato sull'ortografia  per  ammaestramento  dei  suoi  mo- 
naci ai  quali  aveva  imposto  l'obbligo  di  copiar  libri. 
In  quale  anno  egli  morisse  è  incerto,  ma  forse  la  vita 
sua  si  prolungò  fino  alla  invasione  dei  Longobardi  e 
si  chiuse  tra  le  calamità  di  una  oppressione  ch'egli 
aveva  indarno  tentato  di  stornar  dalla  patria  favo- 
rendo la  fondazione  di  un  regno  goto-romano. 


(1)  A  questa  storia  nota  col  nome  di  Historia  Tripartita 
per  essere  compilata  dalle  opere  dei  tre  scrittori  greci  So- 
crate, Sozomene  e  Teodoreto,  rimase  per  secoli  una  grande  e 
popolare  autorità  nella  Chiesa  d'Occidente. 


GIORDANE  17 

Allo  scopo  di  Cassiodoro  mirava  anche  il  compen- 
diatore  della  sua  storia  Giordane  uscito  da  nobilis- 
sima famiglia  gotica  stretta  di  parentela  cogli  Amali. 
L'avol  suo  Paria  era  stato  notaio  in  Mesia  e  cancelliere 
di  Candac  re  degli  Alani^  e  prima  d'abbracciare  la 
vita  ecclesiastica  fu  egli  stesso  notaio  presso  il  nipote 
di  Candac,  Guntige  o  Baza.  Scrittore  spesso  ricercato 
e  sentenzioso  come  Cassiodoro,  e  come  lui  smodato 
lodatore  dei  Goti,  egli  è  del  pari  dominato  dallo  stesso 
pensiero.  Dimostra  lo  Stahlberg  e  lo  ripete  il  Wat- 
tenbach^  com'  egli  riconoscesse  in  quel  pensiero  ogni 
speranza  per  l' avvenire  di  sua  nazione.  Perciò  Gior- 
dane non  pure  s'astenne  dal  prender  parte  nella  lotta 
che  seguì  tra  i  Goti  e  l' Impero,  ma  parve  piuttosto 
propendere  verso  i  Greci  che  verso  i  suoi  connazio- 
nali. La  stessa  sua  parentela  cogli  Amali  e  le  tradi- 
zioni di  Teodorico  che  serbandosi  indipendente  s'era 
mostrato  ossequioso  all'  Impero  ed  amico  ai  Romani, 
schieravano  Giordane  in  un  partito  contrario  alle  idee 
prevalenti  allora  tra  i  Goti  e  che  mal  s' acconciava 
alla  caduta  degli  Amali  e  al  distacco  dei  Goti  dai 
Romani.  Di  che  si  chiarisce  come  nel  suo  lavoro  egli 
faccia  appena  menzione  di  Totila  che  doveva  parer- 
gli quasi  un  usurpatore.  Del  resto  egli  non  scrisse 
in  Italia  i  libri  suoi,  ma  a  Costantinopoli  e,  come  il 
Mommsen  dimostra,  intorno  all'anno  551.  Ciò  spiega 
per  qual  ragione  non  avesse  innanzi  a  sé  scrivendo 
l'opera  di  Cassiodoro,  ma  la  compendiasse  di  memo- 
ria aggiungendovi  alquanto  di  suo  circa  agli  eventi 
contemporanei.  Ma  poiché  di  questi  ei  tratta  assai 
brevemente  e  degli  anteriori  la  narrazione  sua  è  con- 

2.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


18  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

fusa  molto  e  disordinata,  ne  segue  che  il  valor  del 
suo  libro  come  fonte  di  storia  italiana  è  scarso  più 
della  fama  sua.  Un  altro  libro  di  Giordane  che  vien 
chiamato  De  summa  temiìorum  vel  origine  actibusque 
gentis  romanorum,  è  compilazione  anch'essa  di  poco 
pregio  (1).  Già  il  Wattenbach  ha  notato  come  la  ca- 
ratteristica principale  di  Giordane  stia  nel  suo  con- 
cetto storico  secondo  il  quale  l'impero  romano  legato 
attraverso  i  secoli  alle  generazioni  del  Vecchio  Te- 
stamento è  destinato  a  perpetuarsi  nel  tempo  fino  alla 
fine  del  mondo.  A  me  più  che  per  questa  romana  uni- 
versalità di  vedute  sembra  essere  particolarmente  no- 
tevole in  quanto  egli  ci  rappresenta  tutto  un  partito 
gotico  che  per  convincimento  o  per  interesse  voleva 


(1)  Quasi  universalmente  finora  si  tenne,  dietro  la  scorta 
di  Giacomo  Grimm,  che  il  Vigilio  a  cui  questo  libro  è  dedi- 
cato fosse  Papa  Vigilio,  ed  io  ho  seguita  la  comune  sentenza 
nella  edizione  inglese  di  questo  mio  scritto.  Il  Mommsen,  e  an- 
cor prima  di  lui  l' Ebert,  hanno  notato  con  molta  giustezza  che 
\xn  semplice  ecclesiastico  com'  era  Giordane,  mai  non  avrebbe 
potuto  nella  dedica  trattar  familiai'mente  un  papa,  e  meno  anco- 
ra rivolgergli  le  esortazioni  che  si  leggono  nel  passo  seguente  : 
«  Tu  vero  ausculta  lohannen  apostolum  qui  ait:  carissimi,  no- 
<■<  lite  diligere  mundum  ncque  ea  que  in  mundo  sunt,  quia 
«  mundus  trausit  et  concupiscentia  eius:  qui  autem  fecerit  vo- 
«  luntatem  Dei,  maneat  in  aeternum.  Estoque  toto  corde  dili- 
«  gens  Deum  et  proximum  ut  adimpleas  legem  et  ores  prò 
«  me,  novilissime  et  magnitìce  frater.  >>  Veggasi  la  prefazione 
del  Mommsen  alla  recente  edizione  di  Giordane  pubblicata  da 
lui  nei  Monumenta  Germaniae  Historica  (Auctoncm  Antiqiiis- 
simorum  tom.  V,  Pars  Prior). 


GIORDANE  19 

accomunarsi  ai  Romani  e  si  sforzava  di  creare  una 
nazionalità  mista  dei  due  popoli  riuniti  (1). 

Ma  le  forze  di  questo  partito  erano  frante  oramai 
e  ogni  legame  tra  Romani  e  Goti  era  sciolto.  Giu- 
stiniano frattanto,  uscite  vane  le  pratiche  per  ricu- 
perare pacificamente  l'Italia,  s'apprestava  a  ricon- 
quistarla colle  armi.  Belisario,  già  famoso  per  le  guerre 
vinte  contro  i  Vandali  in  Affrica,  era  stato  spedito 
in  Italia,  e,  regnando  ancora  Teodato  (A.  D.  535-536), 


(1)  Per  dare  un  saggio  del  libro  di  Giordane  reco  tradotto 
qui  in  nota  questo  ritratto  di  Attila  eh'  egli  attinse  da  Prisco  : 
«  Uomo  nato  a  desolazione  di  popoli,  a  sgomento  d'  ogni  terra, 
«  il  quale,  non  so  per  qual  sorte,  atterriva  tutti  colla  formi- 
«  dabile  fama  che  si  spargeva  di  lui.  Incedeva  superbo  gi- 
«  rando  gli  occhi  qua  e  là  per  mostrar  l'altera  potenza  sua 
«  pur  col  muovere  del  corpo.  Amante  di  guerre  ma  tempe- 
«  rante  di  mano,  validissimo  di  consiglio,  arrendevole  ai  sup- 
«  plicanti,  propizio  a  chi  una  volta  egli  avea  ricevuto  nella 
«  sua  fede.  Breve  di  statura,  largo  del  petto,  grosso  il  capo, 
«  piccoli  gli  occhi,  rada  la  barba  sparsa  di  canizie,  schiac- 
«  ciato  il  naso,  pallido  il  colorito,  segni  di  sua  razza.  Il  quale, 
«  avvegnaché  per  natura  confidasse  molto,  pur  gli  cresceva 
«  fiducia  la  ritrovata  spada  di  Marte  sempre  sacra  agli  Sciti. 
«  Questa,  narra  Prisco  lo  storico,  ritrovossi  in  tal  modo.  Un 
«  pastore,  egli  dice,  vedendo  zoppicare  una  giovenca  dell'ar- 
«  mento  né  potendo  trovar  la  cagione  di  quella  ferita,  segui 
«  attento  le  tracce  del  sangue  e  finalmente  arrivò  alla  spada 
«  che  la  giovenca  aveva  calcato  incauta  pascendo,  e  trattala 
«  di  terra  subito  la  recò  ad  Attila.  Questi  rallegratosi  di  quel 
«  dono,  di  gran  core  com'era,  stimò  d'esser  fatto  principe  del- 
«  l'universo  e  per  la  spada  di  Marte  essergli  concessa  la  po- 
«  testa  della  guerra.  » 


20  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

erasi  impadronito  della  Sicilia  e  di  Napoli.  Vitige 
fatto  re  appena,  non  sentendosi  forse  in  forza  da  resi- 
stere al  primo  urto  di  Belisario,  indietreggiò  fino  a  Ra- 
venna, e  il  bizantino  mettendo  a  profitto  quella  mossa, 
rapido  s' impadroni  di  Roma.  Qui  veramente  inco- 
mincia il  periodo  eroico  di  questa  guerra  una  fra  le 
più  memorabili  che  sieno  state  mai  combattute.  Vi- 
tige raccolte  tutte  le  forze  gotiche,  con  largo  esercito 
mosse  da  Ravenna  a  Roma  e  vi  pose  assedio.  La  co- 
stanza e  il  genio  militare  di  Belisario  tennero  contro 
lo  sforzo,  e  dopo  accanite  lotte  e  patimenti  indicibili 
di  fame  e  di  peste,  Roma  fu  sollevata  da  quel  primo 
assedio  e  la  forza  dell'  esercito  goto  in  gran  parte 
esaurita.  Ma  la  guerra  continuò  in  tutta  Italia.  In 
ogni  luogo  combattimenti  e  assedi  di  città  prese  e  ri- 
prese, da  Milano  infin  presso  a  Roma  le  campagne 
devastate,  le  messi  distrutte,  e  per  una  gran  parte 
d' Italia  una  dolorosa  fame  che  menò  strage  tra  il  po- 
polo (A.  D.  537-538).  Il  combattere  seguitava  e  i  suoi 
mali  con  esso,  quando  un  esercito  di  Franchi  valutato  a 
circa  centomila  uomini  calò  dalle  Alpi  improvviso  come 
un  nuvolo  di  locuste,  e  spargendo  intorno  devasta- 
zione, incendio  e  rapina,  corse  un  largo  tratto  della 
penisola  e  se  ne  tornò  indietro  per  la  Liguria  ca- 
rico di  preda.  Di  lì  a  poco  Ravenna  stretta  dai  Greci 
arrendevasi,  e  Belisario  con  Vitige  prigioniero  tor- 
nava a  Costantinopoli  rifiutando  il  regno  d'Italia  che 
gli  era  offerto  dai  Goti  (A.  D.  540).  Questi  allora  si 
scelsero  prima  Ildibaldo  poi  Erarico  uccisi  ambidue 
entro  pochi  mesi.  A  loro  succedette  un  eroe,  Totila, 
il  quale  radunati  quanti  rimanevano  Goti  e  riordi- 


GUERRA   GOTICA  21 

natili,  mentre  i  capitani  greci  discordavan  fra  loro 
riusci  in  breve  a  ricuperare  quasi  tutta  Italia  tranne 
Ravenna  e  Roma  (A.  D.  542).  Belisario  mandato  di 
nuovo  in  Italia  non  potè  come  avrebbe  voluto  soc- 
correr subito  Roma  cinta  strettamente  dai  Goti,  e  poi 
più  tardi  con  inauditi  sforzi  lo  tentò  invano.  Roma 
resse  a  lungo  in  preda  alla  fame  e  ad  ogni  sorta  d'an- 
goscia ma  finalmente  cadde  in  mano  di  Totila.  Poiché 
se  ne  fu  impadronito  il  re  dei  Goti,  forse  perché  non 
avrebbe  potuto  reggersi  dentro  la  vasta  cinta  della 
città,  ne  smantellò  le  mura,  ne  cacciò  fuori  i  citta- 
dini e  abbandonandola  la  lasciò  vuota  e  deserta;  poi 
mosse  verso  il  mezzogiorno.  Belisario  la  rioccupò  su- 
bito, e  pur  così  diroccata  seppe  difenderla  da  ripe- 
tuti assalti  intanto  che  la  guerra  continuava  sparsa- 
mente per  tutta  Italia  (A.  D.  547).  Più  tardi  per 
intrighi  di  palazzo  richiamato  Belisario  a  Costanti- 
nopoli, le  cose  d'Italia  scesero  di  nuovo  alla  peggio 
pei  Greci.  Totila  potè  rifar  sua  Roma  e  spingersi  fino 
in  Sicilia  ad  occuparla,  mentre  i  Franchi  giovandosi 
della  debolezza  dei  Greci  e  dei  Goti,  calati  di  nuovo 
si  stendevano  devastando  nel  Veneto  e  nella  Liguria 
(A.  D.  548-552).  Narsete  eletto  capitano  alla  guerra 
d'Italia  rialzò  le  sorti  dei  Greci,  i  quali  vinta  prima 
una  battaglia  navale  nell'Adriatico  liberarono  Ancona 
assediata.  Poi  ricuperata  Corsica,  Sardegna  e  Sicilia, 
seguitarono  combattendo  e  vagando  per  tutta  Italia, 
finché  raccoltisi  i  due  eserciti  nemici  un  contro  l'altro 
presso  Tagina  nell'  Umbria,  i  Goti  dopo  una  ostinata 
battaglia  furono  disfatti  e  Totila  ucciso  (A.  D.  552). 
All'eroe  caduto  i  Goti  sostituirono  un  altro  eroe  e 


22  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

s'  elessero  in  re  Teia  a  Pavia,  mentre  i  Greci  com- 
pievano nel  mezzogiorno  altre  imprese,  ricuperavano 
Roma  e  assediavano  Cuma  dove  Aligerno  fratello  di 
Totila  difendeva  il  riposto  tesoro  dei  Goti.  Il  nuovo 
re  Teia  con  le  ultime  reliquie  dell'  esercito  percor- 
rendo quasi  tutta  l' Italia  arrivò  fino  a  Nocera  alle 
falde  del  Vesuvio.  Quivi  ebbe  luogo  l' ultima  decisiva 
battaglia  nella  quale  i  Goti  soggiacquero  per  sempre, 
e  Teia  trovò  una  morte  degna  di  rinomanza  impe- 
ritura. 

Di  questa  maravigliosa  epopea  non  ci  sarebbe  ri- 
masta quasi  nessun  ricordo  contemporaneo  se  per  buona 
sorte  non  ce  l' avesse  narrata  Procopio  lo  storico  il 
quale  seguì  Belisario  e  gli  fu  compagno  nelle  sue 
guerre.  Perciò  ho  voluto  richiamarla  alla  memoria  dei 
miei  lettori  prima  di  farmi  a  parlar  di  lui  e  dei  par- 
ticolari del  suo  lavoro. 

Da  Cesarea  in  Palestina  dov'  egli  sortì  i  natali, 
Procopio  ai  tempi  dell'  imperatore  Anastasio  venne 
a  Bizanzio  e  per  le  molte  doti  dell'ingegno  e  della 
dottrina  presto -seppe  aprirsi  innanzi  una  via.  Giu- 
stino I  seniore,  in  un  momento  arduo  per  l' Impero, 
mentre  i  Persiani  prevalevano  in  guerra,  pose  Pro- 
copio come  consigliere  presso  Belisario.  Con  lui  ri- 
mase anche  piiì  tardi  ai  tempi  di  Giustiniano,  e  nelle 
guerre  d'Affrica  e  d' Italia  meritò  bene  dello  Stato 
in  vari  uffici  e  fu  di  molto  aiuto  al  grande  capitano 
imperiale.  Richiamato  Belisario  dall'Affrica  soggio- 
gata. Procopio  si  trattenne  qualche  tempo  col  suc- 
cessore di  lui  Solomoue,  e  si  die' con  prudente  energia 
a  rassodare  l'autorità  dell'Impero  mal  ferma  ancora 


pRocopio  23 

in  quelle  regioni  così  rapidamente  piegate.  Egli  stesso 
ci  ha  lasciata  memoria  di  ciò  che  compi  in  Persia, 
e  pili  tardi  a  Roma,  a  Napoli,  a  Siracusa,  ne  vera- 
mente gli  si  può  far  mai  rimprovero  di  soverchia 
baldanza  in  parlar  di  sé  stesso.  L'  operosità  sua  non 
restò  senza  premio,  e  prima  ascritto  al  Senato  sali 
alla  Prefettura  Urbana  nel  trentacinquesimo  anno  del- 
l'Impero  di  Giustiniano.  Intorno  a  quel  tempo  avea 
già  composte  le  sue  storie  e  divulgatele  tutte,  tranne 
un  ultimo  libro  che  fu  chiamata  Anecdota  ed  è  noto 
universalmente  col  titolo  di  Historia  Arcana  (1).  In 
quest'ultimo  libro  scritto  ma  non  pubblicato  innanzi 
alla  morte  di  Giustiniano,  ei  rivelò  molti  intrighi  di 
palazzo  che  mettono  in  mala  luce  la  corte  imperiale. 
Contro  Giustiniano  e  sua  moglie  Teodora  salita  dai 
giuochi  del  Circo  alla  maestà  dell'  impero,  si  volge 
specialmente  velenosa  la  Historia  Arcana^  la  quale 
per  essere  tortuosa  rivelatrice  di  vizi  taciuti  nei  li- 
bri anteriori,  ha  messo  in  qualche  sospetto  la  vera- 
cità di  Procoisio.  Ma  oltreché  l' impero  di  Giustiniano 
ebbe  varia  luce  di  virtù  e  di  colpe  tanto  da  poter- 
sene fare  descrizioni  diverse  insieme  e  veraci,  non 
è  di  questo  luogo  esaminar  la  giustezza  delle  accuse 
che  la  critica  ha  mosse  a  Procopio,  ne  la  bontà  delle 
difese.  Io  qui,  tralasciando  la  Historia  Arcana  che 

(1)  Consultando  le  opere  di  Procopio  mi  sono  giovato  della 
edizione  che  trovasi  nel  Corpus  Scriptorum  historiae  Byzanti- 
nae,  stampata  a  Bonn,  1833-1838,  in  tre  volumi.  Oltre  le  storie, 
rimane  di  Procopio  un  altro  scritto  intitolato  Degli  Edifici, 
nel  quale  si  descrivono  i  monumenti  e  le  opere  pubbliche 
eseguite  sotto  Giustiniano. 


24  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

non  riguarda  molto  direttamente  l'Italia,  e  la  nar- 
razione delle  guerre  condotte  da  Belisario  in  Affrica 
e  in  Persia^  debbo  trattar  solo  di  quella  parte  delle 
sue  storie  clie  propriamente  si  riferisce  alla  guerra 
gotica.  Il  valore  della  testimonianza  sua  intorno  a 
questa  guerra  è  doppio,  e  per  la  parte  eh'  ei  v'  ebbe 
a  fianco  del  condottiero  supremo  e  per  la  grande  im- 
parzialità che  dimostra  inverso  i  Groti  ai  quali  non 
nega  una  ammirazione  sincera  e  onorevole  (1).  Te- 
stimonio di  vista  egli  non  pure  descrive  vivido  le 
imprese  di  quei  diciotto  anni  di  guerra,  ma  anche 
raffigura  i  mali  lunghi  che  ne  derivarono,  onde  è 
agevole  immaginar  dal  suo  libro  lo  stato  d'Italia  alla 
fine  di  quel  contrasto,  e  come  rimanesse  smunta  di 
forze  e  prostrata  in  un  letargo  mortale.  Scrittor  greco 
d' una  età  di  decadenza,  apparisce  chiaro  eh'  egli  ha 
scritto  il  suo  libro  a  Bizanzio  e  non  in  Atene,  e  così 
il  suo  stile  come  la  sua  lingua  cedendo  alla  povertà 
dei  tempi,  rimangono  assai  lontani  dalla  severa  pu- 
rità degli  antichi.  Tuttavia  non  gli  manca  vigore  né 
colorito,  e  il  suo  libro  superiore  di  molto  all'arte  la- 


(1)  «  Illucl  vero  seiebat  Autbor,  condendae  huic  historiae 
«  idoueum  se  esse  maxime  omnium  ;  ob  aliud  certe  nihil,  nisi 
«  quia  cum  a  consiliis  fuerit  Belisario  Duci,  quidquid  fere 
«  gestum  est  vidit.  Hoc  etiam  persuasum  habuit,  arti  Orato- 
le riae  convenire  eloquentiam  ;  Poeticae,  fabularum  figmenta  ; 
«  Historiae  veritatem.  Quare  ne  amicissimorum  quidem  pec- 
«  cata  texit;  sed  cuiusque  actus,  pravos  iuxta  atque  honestos, 
«  quam  potuit  accuratissimis  literis  prodidit.  »  —  Peocop.,  De 
Bello  Persico,  I,  1.  Adopero  per  questa  citazione  la  versione 
del  Maltreto. 


PROcopio  25 

tina  contemporanea,  in  paragone  cogli  scritti  di  Cas- 
siodoro  è  un  modello.  Quando  egli  narra  la  fame  che 
desolò  tutta  Italia  e  le  malattie  che  ne  seguirono  e 
falciaron  via  un  infinito  numero  di  vite,  trova  a  di- 
pingerla una  evidenza  di  colori  fosca  terribile  pau- 
rosa, quale  occorreva  a  ritrar  que'  famelici  vaganti 
per  cibo  in  cerca  di  cadaveri.  La  brevità  stessa  colla 
quale  racconta  di  cinquantamila  agricoltori  morti  nel 
solo  Piceno  e  dei  molti  più  morti  oltre  il  seno  Jo- 
nico,  rende  più  efficaci  i  suoi  detti  e  ne  cresce  la 
pietà  e  lo  sgomento.  Basterebbe  quel  cenno  a  farci 
intravvedere  quanto  per  quella  guerra  restasse  diser- 
tata l'Italia,  ma  non  è  il  solo  purtroppo.  Quasi  ogni 
pagina  narra  nuove  miserie,  descrive  nuovi  dolori, 
e  ne  sia  esempio  la  descrizione  seguente  di  un'altra 
fame  che  cruciò  Roma  in  uno  dei  frequenti  assedi 
sostenuti  in  quegli  anni: 

«  Frattanto  continuando  e  aumentandosi  la  fame, 
«  si  mutò  in  grande  miseria  e  suggerì  strane  maniere 
«  di  cibi  ripugnanti  a  natura.  E  anzitutto  Bessa  e 
«  Conone,  i  quali  eran  capi  del  presidio  di  Roma  e 
«  avevano  abbondanza  di  frumento  raccolta  ne'granai 
«  entro  le  mura  della  città^  riserbando  quel  ch'era  ne- 
«  cessarlo  ai  soldati,  vendevano  il  resto  per  molto  da- 
«  naro  ai  ricchi  romani,  che  sette  monete  d'oro  erano 
«  il  prezzo  d'  un  medimno.  Ma  coloro  che  non  ave- 
«  van  modo  di  spender  tanto  pel  cibo,  pagavano  il 
«  quarto  di  tal  prezzo  per  un  medimno  di  crusca  e 
«  necessità  la  faceva  parer  loro  dolcissima  e  squisita. 
«  E  un  bove  che  i  soldati  di  Bessa  presero  in  una 
«  sortita^  fu  venduto  ai  Romani  per  cinquanta  mo- 


26  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  nete  d' oro.  E  ogni  Romano  che  avesse  un  cavallo 
«  morto  0  qualcosa  di  simile  bene  era  stimato  felice 
«  eh'  ei  poteva  sfamarsi  nella  carne  della  morta  be- 
«  stia.  Ma  tutto  il  rimanente  popolo  si  pasceva  solo 
«  d'ortiche  le  quali  crescevano  abbondanti  d'ogni  ìn- 
«  torno  tra  le  mura  e  le  ruine  della  città.  E  affinché 
«  la  ruvidezza  della  pianta  non  pungesse  loro  le  lab- 
«  bra  e  la  gola,  ei  le  bollivano  bene  prima  di  man- 
«  giarle.  Pertanto  finché  i  Romani  ebbero  oro  e'  lo 
«  barattarono  come  s'  è  detto  in  grano  e  in  crusca, 
«  ma  finito  l' oro  traevano  al  mercato  le  lor  masse- 
«  rizie  e  le  bai'attavano  nel  cibo  d' ogni  giorno.  E 
«  finalmente,  quando  nò  i  soldati  dell'Imperatore  avean 
«  più  grano  da  vendere,  appena  rimanendone  alquanto 
«  per  Bessa,  né  ai  Romani  era  più  nulla  lasciato  da 
«  offrire  in  cambio,  tutti  ebbero  ricorso  alle  ortiche. 
«  Ma  poiché  questo  cibo  non  era  sufficiente  e  nep- 
«  pure  ne  avevano  tanto  quanto  avrebber  potuto  man- 
«  giarne,  i  corpi  loro  man  mano  s'  estenuavano,  e  il 
«  colorito  loro  presto  divenendo  livido  li  faceva  in 
«  tutto  parer  simili  a  spettri.  E  molti  mentre  cam- 
«  minavano  e  ancor  masticavano  fra  i  denti  le  or- 
«  tiche,  cadeau  di  botto  morti  in  terra.  E  molti  altri 
«  spinti  dalla  fame,  uccidevansi  quando  non  potevano 
«  più  trovar  cani  o  sorci  o  altra  cosa  vivente  della 
«  quale  cibarsi.  E  fuvvi  un  Romano,  padre  a  cinque 
«  figliuoli  i  quali  lo  circondavano  e  gli  s' attaccavano 
«  alle  vesti  implorando  cibo.  Ma  egli  senza  piangere 
«  e  senza  mostrare  la  sua  confusione,  con  gran  forza 
«  d'animo  celando  la  sua  miseria  comandò  ai  figli 
«  che  lo  seguissero  come  s' ei  volesse  procurar  loro 


PROcopio  27 

«  il  cibo.  E  quando  fu  al  ponte  sul  Tevere,  avvol- 
«  tasi  nel  manto  la  faccia  e  copertisi  gli  occhi  con 
«  esso,  lanciossi  nel  Tevere  in  vista  dei  figliuoli  e  di 
«  tutti  i  Romani  ch'eran  presenti.  Dopo  ciò  i  gover- 
«  natori  imperiali,  estorta  maggior  moneta,  diedero 
«  a  quanti  Romani  piaceva,  licenza  di  fuggirsene  dove 
«  volevano.  Cosi,  pochi  soltanto  rimanendo  indietro, 
«  tutti  gli  altri  usciron  fuori  a  gran  fretta  per  dove 
«  potevano.  E  molti  di  loro  morirono  in  lor  via  per 
«  mare  e  per  terra  essendo  ogni  loro  forza  esaurita 
«  dalla  fame.  E  molti  furono  presi  dal  nemico  e  uc- 
«  cisi.  A  tale  fortuna  s'erano  ridotti  il  Senato  e  il 
«  popolo  di  Roma  !  » 

La  cupidigia  sordida  atroce  di  Bessa  e  Conone, 
rivelata  qui  dallo  scrittor  greco  è  altrove  rimprove- 
rata con  fierezza  acerba.  Per  contrario  di  fronte  a 
questa  viltà  dei  Greci  si  trova  contrapposta  la  con- 
dotta di  Papa  Pelagio  che  si  volse  con  dignitose  pre- 
ghiere al  vincitore  Totila  chiedendo  che  i  Goti  ri- 
sparmiassero le  vite  dei  Romani  contro  i  quali  essi 
entrati  appena  nella  città  incominciavano  ad  incru- 
delire. Totila  si  mostrò  benigno  alla  domanda  ma 
s' impadronì  egli  stesso  e  i  suoi  Goti  delle  ricchezze 
rimaste.  Per  tal  modo  i  male  accumulati  tesori  di 
Bessa  caddero  in  mano  del  goto  principe  e  tutte  le 
case  patrizie  furono  spogliate.  «  E  cosi,  »  continua 
Procopio,  «  accadde  agli  altri  Romani  e  senatori,  e 
«  più  specialmente  a  Rusticiana  moglie  di  Boezio  e 
«  figliuola  di  Simmaco  la  quale  avea  sempre  dato 
«  tutto  il  suo  ai  poveri,  tanto  ch'essi  dovevano  an- 
«  dare  accattando  dpi  lor  nemici  il  pane  e  ogni  cosa 


28  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

«  necessarica  al  vivere,  in  veste  di  schiavi  o  di  con- 
«  tadini.  Imperocclié  essi  andavano  picchiando  di  porta 
«  in  porta  mendicando  il  cibo  ne  ciò  teneano  a  vergo- 
«  gna.  E  i  Goti  instavano  che  Kusticiana  fosse  messa 
«  a  morte  accusandola  d'aver  pagato  romani  ufficiali 
«  affinché  distruggessero  le  statue  di  Teodorico  per 
«  vendicar  l' uccisione  del  padre  Simmaco  e  del  ma- 
«  rito  Boezio.  Ma  Totila  non  concesse  che  le  si  fa- 
«  cesse  ingiuria  e  salvò  da  oltraggio  lei  e  tutte  l'al- 
«  tre  donnC;  della  qual  temperanza  ei  ricevette  gran 
«  lode.  » 

Mentre  Procopio  in  questo  episodio  commovente 
tributa  onore  a  Totila  e  alle  ultime  reliquie  del  pa- 
triziato romano,  ci  dà  prova  insieme  di  possedere  una 
grande  serenità  di  giudizio  e  quella  qualità  eccellente 
in  lino  storico  del  saper  cogliere  la  vera  luce  dei  fatti 
ed  esporli  in  guisa  che  dal  complesso  loro  appariscano 
le  condizioni  generali  dei  tempi  descritti.  Del  resto  le 
buone  qualità  e  i  difetti  suoi  di  scrittore  mi  par  che 
si  mostrino  tutti  in  questa  descrizione  dell'estrema 
battaglia  combattuta  tra  Bizantini  e  Goti,  colla  quale 
Procopio  conclude  la  sua  narrazione: 

«  A  pie'  del  monte  Vesuvio  sono  sorgenti  di  pura 
«  acqua  e  ne  deriva  un  fiume  chiamato  Draco  che 
«  passa  assai  prossimo  alla  città  di  Nocera,  e  i  due 
«  eserciti  s' erano  accampati  a'due  lati  del  fiume.  ^Ma 
«  il  Draco  ancorché  contenga  poca  acqua,  non  può 
«  guadarsi  da  cavalieri  ne  da  fanti  perché  stringe 
«  il  suo  letto  in  breve  spazio  e  solca  d'ambo  i  lati 
«  la  terra  a  molta  profondità  talché  le  sponde  di- 
«  vengono  ripide  molto.  Se  ciò  avvenga  per  la  qua- 


PROCopio  29 

«  lità  della  terra  o  dell'  acqua  io  non  so.  E  i  Goti 
«  occupato  il  ponte  e  accampati  visi  presso,  posero  in 
«  quello  torri  di  legno  e  macchine  diverse,  e  tra 
«  esse  quella  ch'essi  chiamavan  balestra,  per  modo 
«  eh'  essi  potevano  dall'  alto  ferire  e  tormentar  l'ini- 
«  mico.  Imperocché,  come  ho  detto,  per  cagion  del 
«  fiume  che  si  frapponeva,  era  impossibile  combatter 
«  petto  a  petto  e  per  lo  più  ciascuna  parte  attaccava 
«  r  altra  con  missili  avvicinandosi  per  quanto  poteva 
«  sulla  sua  sponda.  Pochi  certami  singolari  avean 
«  luogo  quando  qualche  Goto  varcava  il  ponte  re- 
«  cando  una  sfida.  E  così  i  due  eserciti  passarono 
«  lo  spazio  di  due  mesi.  Ma  quinci  i  Goti  eran  pa- 
'^  droni  del  mare  presso  a  cui  s'  accampavano,  e  po- 
<■'  tevan  reggere  finche  le  lor  navi  recavan  per  essi 
«  le  provviste  occorrenti.  Poi  i  Romani  (1)  preser  le 
«  navi  nemiche  per  tradimento  del  Goto  che  coman- 
«  dava  r  armata,  ed  anche  navi  innumerevoli  da  Si- 
cilia e  dal  rimanente  Impero  vennero  a  loro  soc- 
«  corso.  Nel  tempo  stesso  Narsetc  ponendo  torri  di 
«  legno  sulla  sponda  del  fiume  riusci  interamente  ad 
«  abbatter  l' animo  dei  suoi  avversari.  I  Goti  scorati 
«  e  stretti  dal  difetto  di  cibo  si  rifugiarono  ad  una 
«  montagna  vicina  chiamata  dai  Romani  in  latino 
Mons  Lactis.  Quivi  non  potevano  inseguirli  i  Ro- 
<'  mani  per  cagione  del  cattivo  terreno.  Ma  presto 
«  i  barbari  incominciarono  a  pentirsi  d'  esserci  an- 
«  dati  che  le  provviste  si    fecero    anche  piìi  scarse 


(1)  La  parola  Romani  ò  qui  usata  genericamente  per  in- 
dicar gl'imperiali. 


30  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

«  tanto  che  in  nessun  modo  potevano  più  mantener 
«  sé  stessi  e  i  cavalli  loro.  Di  che,  stimando  meglio 
«  accettevole  morire  in  ordine  di  battaglia  che  per 
«  lenta  fame,  calaron  giù  quando  il  nemico  men  li 
«  aspettava  facendo  contro  esso  impeto  improvviso. 
«  I  Romani  li  fronteggiarono  così  com'erano  senza 
«  ordinarsi  secondo  lor  capitani,  o  compagnie,  o  po- 
«  sizioni,  ne  collocarsi  in  alcuna  maniera  d'  ordine 
«  tra  loro,  ma  difendendosi  contro  il  nemico  ciascuno 
«  come  gli  accadde  trovarsi.  Allora  i  Goti  lasciati  i 
«  cavalli  composero  una  profonda  falange  tutti  colla 
«  faccia  rivolta  al  nemico  e  anch'  essi  i  Romani  ve- 
«  dendo  questo  lasciarono  i  cavalli  e  tutti  si  strin- 
«  sero  insieme  nello  stesso  ordine. 

«  E  qui  io  narrerò  una  battaglia  assai  memora- 
«  bile  per  sé  stessa  e  per  la  chiara  virtù  spiegata 
«  da  Teia  che  non  si  mostrò  minore  ad  alcuno  di 
«  quelli  a  cui  diamo  nome  d'eroi.  E  il  disperato  par- 
«  tito  a  cui  erano  ridotti  i  Goti  accresceva  in  essi 
«  prodezza,  mentre  i  Romani  li  confrontavano  con 
«  ogni  possa  vergognosi  di  cedere  a  coloro  che  già 
«  eran  vinti,  sicché  d' ambe  parti  s' attaccavano  i  più 
«  vicini  nemici,  gli  uni  cercando  la  morte  gli  altri 
«  la  gloria.  E  cominciando  la  battaglia  per  tempo  al 
«  mattino,  Teia  riparato  dallo  scudo  e  imbrandita  la 
«  lancia  stava  in  luogo  cospicuo  innanzi  alla  falange. 
«  Quando  i  Romani  lo  videro,  pensarono  che  s' egli 
«  cedesse  sarebbe  più  facile  romper  tutta  la  linea  di 
«  battaglia,  onde  quanti  pretendevano  d'aver  corag- 
«  gio,  ed  eran  molti,  s'  adunarono  insieme  contro  di 
«  lui,  alquanti  appuntando  in  lui  le  lancie  altri  lan- 


PROCOPIO  31 

«  ciandogliele  addosso.  Ma  egli  celato  dallo  scudo, 
«  in  questo  riceveva  i  dardi  e  poi  a  un  tratto  get- 
«  tandosi  sui  nemici,  molti  ne  uccideva.  E  quando 
«  vedeva  che  lo  scudo  era  carico  di  dardi  ei  lo  dava 
«  ad  uno  de'suoi  scudieri  e  prendevane  un  alti'O.  Così 
«  continuò  a  combattere  per  una  terzaparte  del  giorno, 
«  quando  essendo  il  suo  scudo  trapassato  da  dodici 
«  dardi  ei  non  poteva  più  muoverlo  a  posta  sua  né 
«  respingere  i  suoi  assalitori.  Ma  egli  soltanto  chiamò 
«  in  fretta  uno  dei  suoi  scudieri,  senza  lasciar  suo 
«  posto  0  dare  indietro  un  pollice  o  lasciare  il  nemico 
«  avanzarsi,  e  senza  rivolgersi  o  coprirsi  le  spalle 
«  con  lo  scudo  o  mettersi  da  lato  ;  ma  egli  stava  con 
«  lo  scudo  come  piantato  in  terra,  menando  colpi 
«  mortali  colla  destra,  tenendo  tutti  a  distanza  colla 
«  manca,  e  chiamando  per  nome  il  suo  scudiero.  E 
«  allorché  questi  gli  portò  lo  scudo,  ei  subito  lo  cam- 
«  biò  con  quel  che  aveva  greve  per  gl'infissi  dardi. 
«  In  quella  avvenne  che  gli  rimase  il  petto  scoperto 
«  un  momento  e  un  giavellotto  colselo  e  V  uccise  di 
«  colpo.  E  alcuni  Romani  infissero  una  picca  al  capo 
«  suo  e  questo  portarono  attorno  mostrandolo  ai  due 
«  eserciti  ;  ai  Romani  per  incorarli,  ai  Goti  affinché, 
«  sparita  ogni  speranza,  cessassero  la  guerra.  Pure 
«  nemmen  per  questo  i  Goti  lasciarono  il  combattere, 
«  ancora  che  per  certo  sapessero  eh'  era  morto  il  re 
«  loro.  Ma  quando  fu  scuro,  gli  uni  e  gli  altri  se- 
«  parandosi  passaron  la  notte  entro  1'  arme,  e  sor- 
«  gendo  presto  il  mattino  appresso  venner  fuori  di 
«  nuovo  neir  ordine  medesimo  e  combatterono  fino 
«  a  notte,,  gli  uni  non  cedendo   agli  altri  ne   rivol- 


32  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  gendosi  o  lasciando  presa  un  momento,  avvegnaché 
«  molti  restassero  morti  d'  ambo  i  lati,  ma  ostinan- 
«  dosi  nel  contrasto  e  infuriati  a  vicenda.  Imperocché 
«  i  Goti  bene  sapevano  di  combattere  la  battaglia  su- 
«  prema  e  i  Romani  stimavano  troppo  da  meno  di 
«  loro  r  essere  vinti.  Da  ultimo  i  barbari  spedirono 
«  alcuni  di  lor  capi  a  Narsete  dicendo  d'essere  omai 
«  persuasi  eh'  eglino  contendevano  eoo  Dio  perché 
«  sentivano  che  il  poter  suo  stava  contr'essi.  Perciò 
«  considerando  questa  verità  al  paragone  di  quanto 
«  era  accaduto,  desideravano  mutar  d'  avviso  e  ces- 
«  sare  la  lotta  non  già  per  obbedire  all'  imperatore 
«  ma  per  vivere  liberamente  con  altri  barbari.  E 
«  chiesero  che  i  Romani  li  lasciassero  ritirarsi  in 
«  pace  e  non  contrastassero  a  loro  un  trattamento 
«  ragionevole,  ma  concedessero  loro  come  manteni- 
«  mento  pel  viaggio  tutta  la  moneta  eh'  essi  tenevan 
«  raccolta  in  lor  castella  in  Italia.  E  mentre  Nar- 
«  sete  stava  deliberando,  Giovanni  figlio  di  Vitaliano 
«  lo  consigliò  di  acconsentire  alla  domanda,  e  che  non 
«  era  da  seguitare  a  combatter  con  uomini  disposti 
«  a  morire,  né  porre  più  oltre  a  prova  una  virtù  che 
«  veniva  da  disperazione  e  del  pari  era  funesta  a  chi 
«  la  mostrava  e  a  chi  l' opponeva.  '  Imperocché,  egli 
«  disse,  all'uom  saggio  dovrebbe  bastare  il  vincere, 
»  e  il  voler  troppo  rischia  d' essere  in  pregiudizio 
«  d'ambe  le  parti'.  Questo  consiglio  piacque  a  Xar- 
«  sete,  e  combinarono  che  quanti  rimanevano  dei  bar- 
«  bari,  raccolti  i  lor  beni  tosto  se  n'  andassero  fuori 
«  d' Italia,  e  per  nessuna  ragione  combattessero  più 
«  contro  i  Romani.  Frattanto  circa  mille  dei  Goti, 


ENNODIO  33 

«  lasciando  il  campo  procedettero  alla  città  di  Pavia 
«  e  alle  contrade  di  là  dal  Po  ;  e  quell'  Indulfo  che 
-<  abbiam  già  menzionato  era  tra  coloro  che  li  con- 
«  ducevano.  Ma  tutti  gli  altri  confermarono  per  giu- 
<^<  ramento  quanto  s'era  combinato.  Così  i  Romani  pre- 
«  sero  Cuma  e  tutti  gli  altri  luoghi,  e  questo  fu  il 
«  termine  del  decimottavo  anno  della  guerra  coi  Groti 
«  che  fa  scritta  da  Procopio.  » 

In  Cassiodoro  e  Procopio  si  riassume  tutta  la  storia 
di  questa  età,  ma  v'hanno  insieme  alcuni  scrittori  mi- 
nori degni  di  menzione.  Agatia  continuò,  anch' egli 
in  greco,  la  storia  di  Procopio  narrando  le  imprese 
di  Narsete,  e  può  essere  consultato  con  frutto  circa 
le  ultime  vicende  della  guerra  gotica  dopo  la  morte 
di  Teia.  Un'  arida  cronaca  latina  è  quella  di  Mar- 
cellino Conte,  la  quale  dai  tempi  di  Teodosio  va  fino 
a  quelli  di  Giustiniano  (A.  D.  379-558),  ma  pur  mal- 
grado l'aridità  sua  ha  valore  specialmente  per  la  cro- 
nologia di  alcuni  fatti.  Lo  stesso  può  dirsi  por  la  cro- 
naca di  Mario  Aventicense.  Assai  superiore  a  costoro 
per  interesse  e  per  pregio  è  Magno  Felice  Ennodio 
vescovo  di  Pavia.  Di  stirpe  indubbiamente  gallo-ro- 
mana e  nobile,  nacque  per  quanto  pare  a  Pavia  e 
certo  v'  ebbe  dimora  fanciullo.  Fu  legato  di  paren- 
tela e  d'amicizia  coi  primi  uomini  del  suo  tempo  e 
più  segnalati  per  sapere  e  per  nascita.  Ebbe  moglie 
ed  un  figlio,  ma  più  tardi  egli  e  la  sposa  lasciato  il 
secolo  si  consacrarono  alla  Chiesa.  Nominato  diacono, 
Ennodio  rimase  lungamente  in  tal  grado  finché  fu  chia- 
mato alla  dignità  di  vescovo  di  Pavia  dove  mori  verso 
il  521.  Godè  riputazione  grande  come  retore  a' suoi 

3.  Balzani,  Le  Cronache  ilaliane. 


34  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

tempi,  e  scrisse  in  nome  suo  e  d'altrui  moltissime  ora- 
zioni, lettere  ed  epitaffi  per  cui  fu  celebrato  larga- 
mente. Ma  la  fama  maggiore  gli  venne  da  un  panegi- 
rico di  Teodorico  e  da  un  libro  apologetico  in  favore 
di  papa  Simmaco.  Il  panegirico  fu  scritto  nei  primi 
anni  del  sesto  secolo.  Non  è  ben  certo  in  quale  città 
fosse  recitato  a  Teodorico  e  taluno  reca  valide  ragioni 
per  credere  che  esso  non  sia  stato  recitato  mai  (1). 
È  scrittura  di  pessimo  gusto  abbondante  in  tutti  i 
difetti  dello  stile  di  Cassiodoro,  scarsa  nei  pregi.  La 
povertà  di  migliori  documenti  le  dà  qualche  impor- 
tanza storica  ma  non  certo  paragonabile  alla  impor- 
tanza delle  sue  lettere  e  della  vita  di  Santo  Epifanio 
vescovo  di  Pavia.  Le  lettere  dirette  quasi  sempre  a 
personaggi  cospicui,  contengono  molte  notizie  preziose 
per  gli  studiosi  del  secolo  quinto  e  del  sesto.  La  vita 
di  Santo  Epifanio  poi  non  pure  dipinge  l'accesa  ca- 
rità d' un  santo  tutto  rivolto  a  riscattar  coloro  che  i 
barbari  nelle  loro  incursioni  trascinavano  schiavi  fuor 
della  patria,  ma  è  una  pittura  viva  della  torbida  età 
che  precedette  immediatamente  i  tempi  gotici,  tor- 
bidi anch'  essi  e  sovra  i  quali  purtroppo  incombono 
oramai  tempi  di  maggior  dolore. 


(1)  Tale  è  l'opinione  del  conte  Carlo  Cipolla  neW Archivio 
Storico  Italiano,  XI,  3  (1883). 


Capitolo  II 


Calamitose  condizioni  d'Italia  nel  primo  periodo  della  invasione  longo- 
barda —  Gregorio  il  Grande.  Raccolta  delle  sue  lettere.  Altissima  im- 
portanza di  esse  per  la  stoi-ia  d' Italia.  I  libri  dei  Dialoghi-^  Editto  di 
Rotari  —  La  «  Origo  Langobardorum  »  e  scritti  minori  fino  a  Paolo  Dia- 
cono —  Vita  di  Paolo  Diacono,  sue  opere  e  specialmente  sua  storia  dei 
Longobardi. 

Caduto  il  regno  dei  Goti,  l' Italia  non  fu  affran- 
cata. Belisario  e  Narsete  colle  loro  imprese  erano  ba- 
stati a  spezzar  le  armi  gotiche  ma  non  potevano  eri- 
gere un  baluardo  sicuro  dagli  assalti  nuovi.  L'Impero 
in  Occidente  era  davvero  sfasciato  e  i  suoi  legami 
coir  Oriente  gli  erano  inevitabile  cagion  di  rovina. 
La  corte  di  Bizanzio  fiacca  per  corruzione  non  era 
sufficiente  a  sé  stessa  e  sciupava  le  forze  d'Italia  col 
suo  dominio  non  nazionale  e  non  abbastanza  stra- 
niero.'Da  ciò  la  rovina  d'Italia.  Se,  come  già  si  è 
venuto  dicendo,  il  concetto  di  Cassiodoro  avesse  po- 
tuto avverarsi  e  il  popol  goto  fondersi  nelle  stirpi  la- 


36  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

tine,  forse  un  vero  regno  italico  sarebbe  sorto  capace 
di  contrastare  da  un  lato  alle  nuove  immigrazioni 
barbariche,  dall'altro  alle  sordide  pretese  dei  Bizan- 
tini. Assicurata  così  per  quanto  comportavano  i  tempi 
una  specie  di  nazionalità  italica,  forse  la  civiltà  ro- 
mana non  sarebbe  rimasta  soffocata  per  tanto  andare 
di  secoli,  e  i  giorni  della  rinascenza  si  sarebbero  ma- 
turati prima  e  con  minore  stento.  Se  non  che  guida 
le  vicissitudini  umane  una  legge  storica  profonda  come 
ogni  decreto  della  Provvidenza  e  non  facilmente  scru- 
tabile ,  e  1'  umanità  attraversando  tanto  dolore  ha 
forse  invece  affrettato  il  suo  cammino.  Ma  se  il  rim- 
pianto è  vano,  mal  sa  guardarsene  chi  s'affaccia  a 
riconsiderar  nella  mente  gì'  immensi  mali  che  sovra- 
stavano in  queir  ora  all'  alma  parente  delle  nazioni 
moderne. 

Il  primo  invadere  e  stabilirsi  dei'  Longobardi  in 
Italia  segna  il  periodo  più  infausto  della  storia  me- 
dioevale italiana.  Venuti  dalla  Pannonia,  sotto  la  guida 
d'un  re  prode  e  feroce,  Alboino^  i  Longobardi  sce- 
sero in  Italia  pochi  anni  dopo  l'ultima  disfatta  dei 
Goti.  Trovarono  poca  resistenza.  A  Narsete  era  suc- 
ceduto un  dappoco,  Longino  esarca,  e  le  città  abban- 
donate a  sé  stesse  si  difesero  come  poterono.  In  po- 
chi anni  la  dominazione  loro  incominciata  nel  Friuli 
si  distese  per  una  gran  parte  d' Italia.  Diversi  di  re- 
ligione perché  altri  d'essi  erano  ariani,  altri  idolatri 
ancora,  i  Longobardi  vivevano  ferocemente  e  feroce- 
mente operavano  verso  i  conquistati.  Le  rapine  e 
le  stragi  spargevano  intorno  squallore  e  desolazione 
echeggiate  nel  lamento  che  prorompeva  dal  cuore  di 


GREGORIO  IL  GRANDE  37 

papa  Pelagio  II  quando  in  una  lettera  ad  Aunacario 
vescovo  di  Auxerre,  esclamava:  «  E  perché  non  ge- 
«  mete  in  vedere  sparso  dinnanzi  agli  occhi  nostri 
«  tanto  sangue  d' innocenti,  e  profanati  i  sacri  altari, 
«  e  fatto  insulto  dagli  idolatri  alla  fede  cattolica?  » 
Le  condizioni  giuridiche  degli  Italiani  sotto  i  nuovi 
conquistatori  furono  durissime  per  tutto  il  tempo  della 
loro  dominazione  che  si  mantenne  due  secoli  finché 
fu  abbattuta  da  Carlomagno.  L'antica  civiltà  già  sca- 
dente patì  un  ultimo  colpo  e  fu  gran  pena  se  potè 
serbare  qualche  povero  frammento  di  vita  e  la  tra- 
dizione del  gran  nome  di  Roma. 

E  in  Roma  veramente  giaceva  il  seme  della  re- 
denzione futura.  In  quell'ora  di  dolore  Roma  matu- 
ra vasi  ad  una  grande  trasformazione  e  l'antica  do- 
minatrice scaduta  dalla  primitiva  grandezza  e  coi 
barbari  alle  porte,  apparecchiavasi  ad  esercitare  una 
influenza  nuova  e  non  meno  vasta  sul  mondo.  Mentre 
l'Italia  era  lacerata  dal  mal  governo  dei  Bizantini 
di  Ravenna  e  dalle  devastazioni  dei  Longobardi,  un 
uomo  di  genio,  Gregorio  il  Grande,  dalla  cattedra  di 
Pietro  sorgeva  a  difendere  V  Italia,  e  girando  lontano 
lo  sguai'do^  quasi  inconscio  e  per  istinto  di  romana 
grandezza  poneva  le  fondamenta  alla  supremazia 
universale  della  Chiesa.  Certo  niun  uomo  poteva 
nascer  temprato  meglio  di  lui  a  condurre  un  rivolgi- 
mento cosi  tenacemente  durevole,  cosi  riccamente  fe- 
condo d' eventi  nella  storia  futura.  «  A  pochi  altri 
«  uomini,  »  ha  scritto  di  recente  uno  storico,  «  natura 
«  e  fortuna  si  fecero  incontro  con  più  benigna  concor- 
«  dia,  ma  pochi  uomini  anche  piiì  solleciti  di  quello 


38  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  in  spender  bene  i  lor  doni  e  cavarne  il  più  largo 
«  frutto  e  farne  ricco  patrimonio  altrui.  Rampollo  di 
«  illustre  stirpe  patrizia  (si  crede  che  fosse  della  gente 
«  Anicia  ;  suo  padre  era  il  senatore  Gordiano ,  tra 
«  gli  antenati  contava  un  papa,  Felice  IV)  insiero.e 
«  col  censo  cospicuo  de'  maggiori  ne  aveva  ereditate 
«  le  tempre  robuste  e  l'assennatezza.  La  gravità  del 
«  romano  e  l'ardore  del  cristiano  si  unirono  in  Gre- 
«  gorio  come  in  nessun  altro  pontefice  prima  e  dojDO 
«  di  lui  (1).  » 

Un  uomo  siffatto,  mescolato  com'era  a  quanto  di 
notevole  accadeva  nel  mondo,  di  necessità  doveva  ri- 
flettere l'età  sua  in  quante  scritture  gli  sgorgavano 
dalla  penna  feconda,  onde  talune  di  queste,  intese 
allora  a  tutt' altro  scopo,  hanno  oggi  un  valore  sto- 
rico altissimo  che  s'accresce  per  la  gran  povertà  di 
ricordi  contemporanei.  Nato  verso  il  540,  mentre  Be- 
lisario contrastava  ai  Goti  il  dominio  d'Italia,  Gre- 
gorio studiò  a  Roma  grammatica,  rettorica,  filosofia 
e  diritto.  Giovanissimo  ancora  era  salito  alla  dignità 
di  Pretore  o  di  Prefetto  in  Roma,  ma  le  cure  poli- 
tiche non  bastavano  a  distoglier  lui  uomo  insieme  di 
azione  e  di  pensiero,  dalle  pie  opere  e  dalle  abitu- 
dini contemplative.  Mosso  da  quella  forza  infatica- 
bile che  non  gli  fallì  mai  nella  vita,  egli  dietro  la 
guida  d'Ambrogio  e  d'Agostino,  fonti  limpide  e  pro- 
fonde com'  ei  le  chiamava,  intendeva  la  mente  alla 
teologia  e  intanto  volgeva  le  vaste  ricchezze  sue  a 
fondare  sei  monasteri  in  Sicilia  e  un  settimo  a  Roma 


(1)  Malfatti,  Imperatori  e  Pajn.  Hoepli,  1S76,  I,  103. 


GREGORIO  IL  GRANDE  39 

al  Clivo  di  Scauro  là  sul  Celio,  dove  oggi  ancora 
sorge  una  Chiesa  che  s' intitola  dal  suo  nome.  In  que- 
sto monastero  egli  si  chiuse  alquanto  più  tardi  a  vita 
austera  abbandonando  la  cosa  pubblica,  ma  da  que- 
sta non  gli  fu  dato  sottrarsi  gran  tratto.  L' illustre 
casato  e  la  potenza  dell'  ingegno  suo  non  erano  tali 
da  lasciarlo  rimaner  nell'oscuro.  Il  pontefice  Bene- 
detto l'ordinò  diacono  per  affidargli  una  delle  sette 
regioni  di  Roma,  e  Pelagio  secondo  lo  mandò  come 
apocrisario  a  trattar  gli  affari  della  Chiesa  a  Costan- 
tinopoli. Quivi  durante  l'ambasceria  acquistò  molta 
grazia  presso  l'Imperatore,  e  sali  in  tale  riputazione, 
che  al  suo  ritorno  in  Roma,  morto  nel  590  papa  Pe- 
lagio, i  Romani  con  voto  unanime  lo  chiamarono  a 
succedergli.  La  sua  resistenza  e  la  tentata  fuga  da 
Roma  non  valsero  a  salvarlo  dal  peso  di  quella  gran 
dignità.  Il  volere  del  popolo  e  del  clero  di  Roma  ebbe 
a  Costantinopoli  la  sanzione  imperiale  e  gli  fu  forza 
rassegnarsi  ed  accettare  un  incarico  che  tanto  più  lo 
sgomentava  quanto  al  suo  genio  e  al  suo  cuore  ne 
apparivano  più  vasto  il  concetto  e  più  tremendi  i  do- 
veri. I  tempi  calamitosi  imponevano  all'alto  ministero 
sempre  nuove  fatiche  e  suggerivano  sempre  nuovi  pen- 
sieri, ma  la  sua  mente  anelando  al  cielo  ritornava 
ogni  ora  al  ricordo  della  pace  perduta  e  richiamava 
con  tenerezza  infinita  la  solitudine  del  monastero. 
«  Il  dolore  eh'  io  soffro  continuamente^  ormai  per  uso 
«  è  antico  ed  è  pur  sempre  nuovo.  L'anima  mia  an- 
«  gustiata  ricorda  quale  era  un  tempo  nel  monastero 
«  e  come  ella  sovrastava  alle  cose  fugaci,  e  pensando 
«  solo  delle  celesti  per  virtù  di  contemplazione  tra- 


40  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  passava  oramai  il  claustro  della  carne  e  la  morte 
«  (livenivale  cara  come  principio  di  vita  e  premio 
«  dell'opera  sua  (1).  »  Con  tale  rimpianto  egli  apriva 
un  giorno  Tangosciata  anima  ad  un  amico  che  lo  aveva 
sorpreso  sedente  in  luogo  solitario,  a  meditare  in 
silenzio  il  suo  dolore.  Ma  né  le  tendenze  ascetiche 
dello  spirito  né  le  infermità  che  lo  travagliavano  eb- 
bero forza  di  stornarlo  dagli  obblighi  dell'  ufficio 
suo.  Un  cuore  romano  gli  batteva  nel  romano  petto, 
ed  ei  ne  seguiva  i  dettami  con  fermezza  d'antico.  La 
mente  sua  larga  come  il  suo  zelo  spandeva  in  ogni 
plaga  le  cure  benefiche,  e  per  esse  ei  diveniva 
centro  a  popoli  diversi  e  guida  ad  una  nuova  ci- 
viltà ignota  ancora  ma  nascente  per  impulso  di  lui. 
Or  tutte  queste  cure  continue  e  varie,  animate  da 
una  carità  così  intensa  e  così  comprensiva,  origina- 
rono tra  gli  altri  suoi  scritti  uno  stupendo  volume 
di  lettere  che  attestano  la  sublimità  di  sua  vita  e 
sono  insieme  il  maggiore  monumento  storico  dell'età 
sua.  Divise  in  quattordici  libri  secondo  gli  anni  del 
suo  pontificato  (2),  e  scritte  ad  ogni  ceto  di  persone 


(1)  Dialog.^  Lib.  I,  nell'esordio. 

(2)  lutoruo  alla  cronologia  delle  lettere  Gregoriane  gioverà 
riferire  alcune  parole  di  ima  avvertenza  premessa  dal  signor 
Paolo  Ewald  al  regesto  di  esse  nella  seconda  edizione  della 
raccolta  dello  JafFé:  «  .  .  .  .  Nam  cum  argumentis  meis  certe 
«  probatum  sit,  non  Registri  illius  authentici  libris  cliarticeis 
«  scripti  apographum  uobis  traditum  esse,  sed  tria  excerpta 
«  solummodo  extare  et  haec  excerpta,  quanivis  ratione  et  nu- 
«  mero  epistolarum  eligendarum  maxime  seenni  dissentiant, 
<s  tamen  pari  modo  in  eo  consentire,  quod  ad  certum  temporis 


GREGORIO  IL  GRANDE  41 

queste  lettere  spiegano  mirabilmente  le  condizioni  dei 
tempi  gregoriani  e  riflettendo  l' immagine  della  vita 
d'allora  mantengono  o  confermano  il  ricordo  di  fatti 
ignoti  0  mal  noti.  Semplici  e  prive  d'ogni  ornamento, 
ciascuna  d'esse  rivela  la  ispirazione  momentanea  per 
cui  fu  dettata,  ma  dal  loro  complesso  si  ricava  il 
lungo  e  continuo  pensiero  dello  scrittore.  IjO  stile  dei 
profeti  ai  quali  ispiravasi  nelle  altre  opere  sue.  non 
veniva  innanzi  a  Gregorio  quando  esprimeva  calda- 
mente e  improvviso  i  pensieri  suoi  senza  scopo  let- 
terario e  stretto  quasi  sempre  da  motivi  immediati 
e  incalzanti.  Perciò  lo  stile  delle  sue  lettere  scevro 
da  mistica  ampollosità  procede  piano  e  scorrevole  ri- 
cordando talora  la  semplice  e  dignitosa  latinità  di 
tempi  migliori.  I  soggetti  d'esse  svariatissimi  trattano 


<,<  ordinem  resplciant,  hoc  iudicium  nou  paucis  locis  prioruin 
o(  editionum  auctoritatem  tollit.  Ad  quem  annum  et  raensem 
«  epistolae  antea  incerti  temporis  regerendae  sint,  liane  ratio- 
«  nem  excerptorum  intelligentes  penitus  pernoscere  possumus. 
«  Sed  hoc  praemittendum  esse  videtur  de  siguis  illis  chrouolo- 
«  gicis,  quae  epistolis  adscriptae  sunt,  notas  anuorum  et  men- 
«  sium  non  teinpus  edicere,  quo  epistola  quaeque  scripta  sit, 
«  sed  quo  scriptores  Registri  eam  receperint;  ita  ut  mirari  non 
«  liceat  interdum  et  epistolas  diversis  temporibus  scriptas  sub 
«  eodem  mense  coniunctas  esse,  et  alias  loco  disiunctas  ad  idem 
«  tempus  spectare.  Eegistri  igitur  seriem  talibus  locis  relin- 
«  quentes  secundum  chronologiam  epistolas  hic  ordinavimus. 
«  Authenticum  autem,  ut  ita  dicam,  datum  in  epistolis  Grego- 
«  rianis  non  invenitur,  nisi  in  eis  perpaucis,  quae  etiam  diem 
«  non  tacent.  »  Regesta  PonUficum  Bomanortim....  edidit  Ph. 
Jaffé,  ed.  secimcla.  Anche  vuoisi  qui  menzionare  il  notevolis- 
simo studio  dell' EwALD,  Studien  zur  Ansgaben  des  Begisters 
Gregors  I,  pubblicato  nel  Xeues  Archiv.,  Ili,  433-625. 


42  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

Ogni  materia  dalle  più  ardue  questioni  religiose  e  po- 
litiche  alla  minuta  amministrazione  dei  beni  della 
Chiesa,  dalla  ansiosa  cura  delle  singole  anime  al  pa- 
tetico familiare  racconto  dei  suoi  lunghi  e  quasi  con- 
tinui patimenti  morali  e  fisici  (1).  Ma  il  riferire  al- 
cuna di  queste  lettere  gioverà  meglio  d'ogni  discorso 
a  descriverne  l' importanza  e  a  dipingere  lo  squallore 
che  ravvolgeva  allora  la  storia  nostra.  Così  ta  let- 
tera seguente  indirizzata  all'  imperatrice  Costantina 
per  ottenere  alleviamento  ai  mali  che  gravavano  sulla 
Corsica  e  la  Sardegna,  mostra  qual  fosse  il  governo 
dei  Greci  e  come  stesse  l'Italia  a  straziò  tra  le  due 
tirannidi  dei  nuovi  e  degli  antichi  oppressori. 

«  Posciaché  »  egli  scrive  «  io  conosco  la  serenissima 
«  Donna  nostra  esser  pensierosa  della  patria  celeste 
«  e  della  vita  dell'anima  sua,  io  terrei  me  gravemente 
«  colpevole,  se  tacessi  quanto  per  timore  dell' onni- 
«  potente  Iddio  è  da  suggerire.  Avendo  io  saputo  es- 
«  sere  nell'  isola  di  Sardegna  molti  gentili,  ed  essi 
«  tuttavia  secondo  loro  mal  uso,  sacrificare  agi'  idoH, 
«  e  i  sacerdoti  di  quell'isola  andare  torpenti  a  pre- 
«  dicare  il  Redentore,  \ì  mandai  uno  de'  vescovi  ita- 
«  liani,  che,  aiutando  Iddio  trasse  alla  fede  molti  dei 


(1)  «  luerat  denique  ei  tanta  abstinentia  in  cibis,  vigilantia 
«  iu  orationibus,  strenuitas  in  ieiuniis,  ut  infirmato  stomacho 
«  vix  consistere  posset.  Sustinebat  praeterea  assiduas  corporis 
«  infirmitates  et  maxime  ea  pulsabatur  molestia,  quam  graeco 
«  eloquio  medici  syncopin  vocant;  cuìus  incommodis  ita  dolore 
«  vitalium  cruciabatur  ut  crebris  interceptus  angustiis,  per 
«  singula  pene  borarum  momenta  ad  exitum  propinquaret.  » 
S.  Gregorii  Magni  Vita.,  auctore  Paulo  Diacono. 


GREGORIO  IL  GRANDE  43 

«  gentili.  Ma  egli  mi  ha  annunciata  una  cosa  sacri- 
«  lega;  che  coloro,  i  quali  colà  sacrificano  agl'idoli, 
«  pagano  al  giudice  affinché  ciò  sia  lecito  loro.  Dei 
«  quali  essendo  alcuni  stati  battezzati  e  avendo  la- 
«  sciati  quei  sacrifizi,  tuttavia  il  giudice  dell'  isola, 
«  anche  dopo  il  battesimo  ^  esige  quella  paga  usata 
«  dare  da  loro.  Ed  avendolo  il  vescovo  ripreso  di 
«  ciò,  rispose  egli,  aver  promesso  tanto  in  paga  del- 
«  l'impiego,  che  noi  potrebbe  riavere  se  non  a  quel 
«  modo.  L' isola  di  Corsica  poi  è  oppressa  di  tanta 
«  soverchieria  degli  esattori  e  tanta  gravezza  d'esa- 
«.<  zioni,  che  gli  abitatori  vi  possono  a  mala  pena  sup- 
«  plire  vendendo  i  propri  figliuoli  ;  ondeché  lasciando 
«  la  pia  repubblica  e'  sono  sforzati  a  rifuggire  alla 
«  nefandissima  gente  de'  Longobardi.  E  qual  cosa  più 
«  grave,  qual  più  crudele  veramente,  potrebbero  eglino 
«  patire  dai  Barbari,  oltre  all'esser  ridotti  a  vendere 
«  i  propri  figliuoli  ?  In  Sicilia  dicesi  d'un  cotale  Ste- 
«  fano  cartulario  delle  parti  marittime,  che  coli'  in- 
«  vadere  ogni  luogo,  e  con  porre  senza  pronunziar 
«  giudizio  i  cartelli  a'  poderi  e  alle  case,  arreca  tanti 
«  danni,  tante  oppressioni  che  s' io  volessi  dire  tutte 
«  le  opere  riferitemi  di  lui,  noi  potrei  compiere  in 
«  un  gran  volume.  Adunque  vegga  la  serenissima  no- 
«  stra  Donna  tutte  queste  cose,  e  sollevi  i  gemiti  degli 
«  oppressi.  Ben  sono  io  certo  non  essere  elleno  per- 
«  venute  alle  vostre  pie  orecchie;  che  se  '1  fossero 
«  non  avrebbono  durato  fino  al  presente.  Suggeritele 
«  a  suo  tempo  al  piissimo  Signore,  affinché  dall'anima 
«  sua^  dall'  Imperio  e  da'  suoi  figliuoli  ei  rimova  tale 
«  e  tanto  gravame  di  peccato.  E  ben  so  ch'ei  dirà 


44  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  forse,  mandarsi  a  noi  per  le  spese  d' Italia  quanto 
«  si  raccoglie  dalle  suddette  isole.  Ma  dico  io  :  con- 
«  ceda  meno  per  le  spese  d' Italia  e  tolga  dal  suo 
«  Imperio  le  lacrime  degli  oppressi.  E  perciò  forse 
«  tante  spese  fatte  per  questa  terra  giovano  meno 
«  perché  con  mescolanza  di  peccato  lor  si  provvede. 
«  Comandino  adunque  i  serenissimi  Signori  che  nulla 
«  più  si  raccolga  con  peccato.  E  se  cosi  si  attribui- 
«  sca  meno  alle  spese  della  repubblica,  tuttavia  le  si 
«  gioverà  più,  e  sarà  meglio  non  provvedere  alla  vita 
«  nostra  temporale  che  procacciare  impedimento  alla 
«  vostra  eterna.  Pensate  di  che  animo,  di  che  cuore, 
«  in  che  strazi  esser  debbano  quei  genitori  che  per 
«  salvarsene  strappansi  dappresso  i  figliuoli  !  E  chi 
«  ha  figliuoli  ben  può  sapere  come  s'abbiano  a  com- 
«  passionare  gli  altri.  A  me  poi  basti  l'aver  questo 
«  brevemente  suggerito,  affinché  se  rimanesse  la  vo- 
«  stra  pietà  ignorante  di  quanto  succede  in  questi 
«  paesi  non  fossi  io  poi  del  mio  silenzio  appresso  il 
«  severo  Giudice  incolpato  e  castigato  (1).  » 

In  quella  desolazione  d' Italia,  Gregorio  conscio  che 


(1)  Gregokii  Magni,  Epistoìarum,  V,  41.  Per  questa  lettera 
e  per  la  seguente  diretta  a  Maurizio  imperatore,  riproduco, 
con  alcune  poche  e  lievi  modificazioni,  la  bella  traduzione  che 
ne  dà  il  Balbo  nella  Storia  cVItalia  sotto  ai  Barbari.  Per  le 
opere  di  Gregorio  mi  son  valso  della  edizione  dei  Maurini,  la 
migliore  che  s'abbia  finora  ma  non  cosi  perfetta  che  non  fac- 
cia desiderar  vivamente  la  edizione  delle  Epistole  a  cui  da 
molti  anni  attende  il  signor  Paolo  p]wald  per  la  raccolta  dei 
Monumenta  Germaniae. 


GREGORIO  IL  GRANDE  45 

il  governo  imperiale  jaiuttosto  era  d'aggravio  che  di 
soccorso  ai  mali,  cercava  quando  poteva  di  concluder 
paci  temporanee  coi  Longobardi  per  procacciare  al- 
meno a  Roma  e  alle  provincie  dell'Impero  qualche 
respiro  in  quella  vita  d'oppressione.  Ma  Romano  esarca 
di  Ravenna  con  gretta  e  gelosa  politica  gli  faceva 
ostacolo  e  gli  ruppe  tra  gli  altri  un  accordo  iniziato 
con  Ariolfo  duca  longobardo  di  Spoleto.  Ne  conseguì 
una  incursione  longobarda  intorno  a  Roma  e  stragi 
e  rapine  fin  sotto  le  mura  della  città.  Il  pontefice 
oppresso  dal  gran  dolore  ne  cadde  infermo  e  solo 
riebbesi  per  andare  incontro  a  nuove  amarezze.  Agi- 
lulfo, re  dei  Longobardi,  volendo  ricuperare  alcune 
città  ritoltegli  per  tradimento  dai  Greci,  mosse  ra- 
pidamente da  Pavia  verso  Toscana,  ricuperò  Perugia 
e  accostatosi  anch'egli  fin  sotto  le  mura  di  Roma,  recò 
ivi  intorno  nuovi  guasti  e  saccheggi.  Gregorio  che  a 
quel  tempo  spiegava  ai  Romani  Ezechiele  in  un  corso 
d'omelie,  sopraffatto  dalle  calamità  del  suo  popolo, 
non  ebbe  forza  di  seguitare.  «  Da  ogni  lato  »  scla- 
mava «  udiam  gemiti;  città  distrutte,  castella  rase, 
«  campi  devastati,  la  terra  mutata  in  un  deserto.  Altri 
«  vediam  tratti  prigioni,  altri  mutilati,  altri  uccisi.  » 
E  di  11  a  poco  cessando,  così  se  ne  scusava  :  «  Non 
«  mi  si  faccia  rimprovero  s' io  cesso  dopo  questo  di- 
«  scorso,  poiché,  tutti  lo  vedete,  le  nostre  tribolazioni 
«  s'accrebbero.  D'ogni  parte  ne  circondai!  le  spade, 
«  da  ogni  parte  temiamo  un  pericolo  imminente  di 
«  morte.  Altri  ci  tornano  innanzi  colle  mani  moz- 
«  zate,  d'altri  ci  si  annunzia  che  son  captivi,  d'altri 


46  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  che  spenti.  M' è  necessario  oramai  trattener  la  lin- 
«  gua  da  questa  esposizione  (1).  » 

Intanto  ch'egli  tentava  d'alleggerir  le  sventure  della 
patria  e  soffriva  per  esse  nell'anima  col  doppio  do- 
lore di  cristiano  e  di  cittadino,  i  dignitari  imperiali 
affaticandosi  di  scalzare  l'autorità  sua  a  Costantino- 
poli, l'accusavano  d'esser  caduto  negli  inganni  del  Duca 
di  Spoleto  e  d'aver  con  ciò  ingannato  l'Imperatore. 
Gregorio  indignato  si  difese,  e  scrivendo  aperto  ed 
austero  all'  Imperatore  stesso  :  «  Se  la  schiavitù  di  mia 
«  terra  »  diceva  «  non  crescesse  ogni  di,  io  pur  ta- 
«  cerei  del  dispi-ezzo  e  della  derisione  fatta  di  me. 
«  Ma  questo  mi  duole  che  mentre  mi  si  dà  taccia  di 
«  mentitore  si  strascina  Italia  più  e  più  sotto  al  giogo 
«  de' Longobardi.  Io  dico  al  mio  piissimo  signore: 
«  pensi  egli  di  me  ogni  male  ;  ma  intorno  all'  utile 
«  della  repubblica  e  alla  liberazione  d' Italia,  non  dia 
«  facile  le  pie  orecchie  a  ciascuno  ma  più  creda  ai 
«  fatti  che  alle  parole.  Contro  ai  sacerdoti  poi  non 
«  si  sdegni  nella  sua  terrena  potestà  il  signor  nostro 
«  si  prontamente  ;  ma  in  considerazione  di  colui  onde 
«  essi  sono  servi,  comandi  loro  in  modo  da  mostrar 
«  la  dovuta  riverenza....  Di  quanto  ebbi  a  soffrire 
«  dirò  brevemente.  Primo,  mi  fu  guasta  la  pace  eh'  io 
«  senza  spesa  della  repiibblica  avea  fatta  co'  Longo- 
«  bardi  in  Toscana;  poi,  guasta  la  pace,  si  tolsero 
«  dalla  città  di  Roma  i  soldati,  e  gli  uni  rimasero 
«  uccisi  da'  nimici  gli  altri  collocati  a  Narni  o  a  Pe- 
«  rugia  ;  e  per  tener  Perugia  si  lasciò  Roma.  Fu  peg- 


(l)  HomUiarium  in  Ezechieìem,  Lib.  II,  Hom.  10. 


GREGORIO  IL  GRANDE  47 

«  gio  la  venuta  d'Agilulfo,  quando  io  ebbi  di  miei 
«  occhi  a  vedere  i  Romani  a  guisa  di  cani  colle  funi 
«  al  collo  ire  ad  esser  venduti  in  Francia.  Noi,  la 
«  Dio  grazia,  sfuggimmo,  racchiusi  nella  città,  dalle 
«  costoro  mani  ;  ma  allora  fu  cercato  d' incolparci  che 
«  mancasser  frumenti  nella  città,  dove  pure,  com'  io 
«  esposi  altra  volta,  non  si  possono  a  lungo  serbare. 
«  Ne  di  me  duolmi;  che  fidato,  il  confesso  in  mia 
«  coscienza,  purché  salvi  l'anima  mia,  mi  tengo  ap- 
«  parecchiato  ad  ogni  cosa.  Duolmi  sì  dei  gloriosi 
«  uomini  Gregorio  prefetto  e  Castorio  maestro  de'  mi- 
«  liti,  i  quali  fecero  ogni  cosa  fattibile  e  durarono 
«  nell'assedio  durissime  fatiche  di  vigilie  e  guardie, 
«  e  tuttavia  poi  furono  colpiti  dalla  grave  indigna- 
«  zione  de'  signori.  Ond'  io  ben  veggo  aver  ad  essi 
«  nociuto  non  le  azioni  loro  ma  la  mia  persona  5  che 
«  dopo  essersi  con  me  affaticati  con  me  ora  son  tri- 
«  bolati.  E  quanto  a  ciò  che  mi  si  accenna  del  ter- 
«  ribile  giudicio  dello  onnipotente  Iddio  prego  io  per 
«  lo  stesso  onnipotente  Iddio  che  più  noi  faccia  la 
«  pietà  de'  miei  signori.  Perché  noi  non  sappiamo 
«  quale  abbia  ad  essere  quel  giudicio  ;  e  dice  Paolo 
«  egregio  predicatore:  Non  giudicare  anzi  tempo,  fin- 
«  che  non  venga  il  Signore  il  quale  illuminerà  i  na- 
«  scondigli  delle  tenebre  e  manifesterà  i  consigli  dei 
«  cuori.  Questo  io  dico  brevemente  perché,  indegno 
«  peccatore  più  m'affido  nella  misericordia  di  Gesù 
«  che  nella  giustizia  della  vostra  pietà.  E  Iddio  regga 
<<  qui  di  sua  mano  il  mio  piissimo  signore  e  in  quel 
«  terribil  giudicio  lo  trovi  libero  d'  ogni  delitto  ;  e 
«  faccia  poi  piacere  me,  se  è  d'uopo,  agli  uomini; 


48  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  ma  in  cotal  modo  che  io  non  offenda  la  sua  eterna 
^<  grazia  (1).  » 

Del  resto  né  calunnie  ne  ostacoli  lo  trattennero  dal 
negoziar  nuove  tregue  coi  Longobardi  studiandosi 
così  di  sollevar  le  campagne  specialmente  da  quelle 
guerre  devastatrici.  Regnava  allora  sui  Longobardi 
Agilulfo  già  duca  di  Torino  principe  di  gran  valore 
e  conciliante  d'animo^  chiamato  al  trono  da  Teode- 
linda  allorché  rimasta  vedova  di  re  Autari,  i  nobili  la 
lasciarono  arbitra  del  regno  invitandola  ad  eleggersi 
fra  i  duchi  longobardi  un  successore  all'  estinto.  Que- 
sta principessa,  donna  d'alte  virtih,  bavarese  di  nascita, 
cattolica  di  fede,  esercitò  una  grande  e  salutare  in- 
fluenza nelle  cose  del  regno  e  sui  consigli  del  marito, 
e  fu  spesso  mediatrice  di  pace.  Dalle  lettere  di  Gre- 
gorio apparisce  sovente  com'  egli  la  tenesse  in  gran 
pregio  e  sperasse  per  lei  di  condurre  al  cattolicesimo 
i  Longobardi.  Riuscì  in  parte  all'intento.  Perle  per- 
suasioni di  Teodelinda  par  che  Agilulfo  s' inducesse 
a  lasciar  1'  arianesimo  a  quel  modo  che  in  Inghilterra 
le  persuasioni  di  Berta  aiutarono  la  conversione  di 
Etelberto.  Certo  dopo  Agilulfo  i  Longobardi  a  poco 
a  poco  incominciarono  a  tenere  una  sola  fede  con  gli 
Italiani  e  il  fatto  avea  grande  importanza  perché  va- 
leva a  scemare  le  divisioni  tra  i  due  popoli  e  n'aiutava 
la  fusione  alla  quale  peraltro  fé'  sempre  impedimento 
la  coesistenza  dell'Impero  in  Oriente.  Verso  quel  tempo 
per  cura  di  Teodelinda  sorse  la  cattedrale  di  ì\Ionza 
a  cui  fu  data  in  offerta  la  corona  ferrea  che  servì  da 


(1)  Epist.,  V,  40. 


GREGORIO  IL  GRANDE  49 

quel  tempo  a  incoronare  i  re  d' Italia  e  dopo  aver  cinta 
la  fronte  a  Carlomagno  e  a  Napoleone,  apparve  di  re- 
cente in  un  giorno  di  dolore  solenne  dietro  al  feretro 
di  Vittorio  Emanuele  rinnovatore  del  regno  italico. 
Quando  nacque  ad  Agilulfo  un  figliuolo  (A.  D.  603), 
fu  battezzato  secondo  il  rito  cattolico.  Gregorio  clie 
afferrava  bene  la  utilità  di  quell'evento,  ne  mandò 
lieto  rallegramenti  e  lodi  a  Teodelinda.  «  Quello  che 
«  mi  mandaste  in  iscritto  dalle  contrade  genovesi,  » 
così  le  diceva  Gregorio,  «  mi  fece  partecipe  del  gaudio 
«  vostro  col  farmi  noto  che  per  la  grazia  di  Dio  on- 
«  nipotente  vi  fu  concesso  un  figliuolo,  e,  quel  che 
«  torna  a  lode  della  eccellenza  vostra,  ch'egli  fu  ascritto 
«  alla  fede  cattolica.  Né  altro  era  da  aspettarsi  dalla 
«  cristianità  vostra  se  non  che  avreste  procurato  di 
«  munir  del  sussidio  della  giustizia  cattolica  colui  che 
«  v'era  dato  per  dono  divino,  affinché  il  Redentore 
«  conoscesse  in  voi  una  serva  fedele,  e  alimentasse 
«  nel  suo  timore  il  nuovo  re  alla  nazione  dei  Longo- 
«  bardi.  Perciò  prego  l'onnipotente  Iddio  ch'egli  cu- 
«  stodisca  voi  nella  via  de'suoi  mandati  e  faccia  crescer 
«  nell'amor  suo  l'eccellentissimo  figliuol  mio  Adaloaldo 
«  per  tal  modo  eh'  egli  già  grande  infra  gli  uomini 
«  anche  per  sue  buone  opere  divenga  glorioso  dinnanzi 
«  agli  occhi  del  nostro  Iddio. 

«  Quanto  a  ciò  che  scrisse  la  eccellenza  vostra  che 
«  io  dovessi  sottilmente  rispondere  all'  abate  Secondo, 
«  figliuol  mio  carissimo,  chi  mai,  se  infermità  noi  con- 
«  trastasse,  vorrebbe  indugiarsi  a  soddisfare  la  do- 
«  manda  sua  e  il  desiderio  vostro  il  quale,  vedesi,  riu- 
«  scirebbe  utile  a  molti?  Se  non  che  mi  opprime  tale 

4.  Balzani,  Le  Cronache  Hai  lane. 


50  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

«  infermità  di  podagra,  che  non  pur  m'è  negato  il  det- 
«  tare,  ma  a  stento  posso  levarmi  a  discorrere.  Ciò 
«  sanno  i  legati  vostri  apportatori  di  queste  lettere,  i 
«  quali  mi  trovarono  infermo  al  venire  e  mi  lasciano 
«  in  pericolo  grande  e  dubbio  della  vita.  Ma  se  l'on- 
«  nipotente  Iddio  vorrà  eh'  io  guarisca,  a  quanto  egli 
«  mi  scrisse  risponderò  sottilmente. 

«  ....All'  eccellentissimo  figliol  mio  Adaloaldo  re, 
«  mando  alcune  ricoperte  reliquie  (1),  cioè  una  croce 
«  col  legno  della  santa  croce  del  Signore,  ed  una  lezione 
«  del  Santo  Vangelo  inclusa  in  una  teca  persica.  E  alla 
«  figliuola  mia,  sua  sorella,  mando  tre  anelli,  due  con 
«  giacinti  uno  con  onice,  le  quali  cose  prego  sien  date 
«  da  voi  a  loro  affinché  per  mezzo  della  eccellenza 
«  vostra  riesca  loro  grato  l'affetto  mio. 

«  Nel  mandarvi  con  amor  paterno  il  debito  saluto, 
«  chieggovi  che  al  figliuol  nostro  eccellentissimo  il  re 
«  vostro  sposo  rendiate  grazie  per  la  fatta  pace,  e  che 
«  per  l'avvenire  secondo  l'uso  vostro,  lo  esortiate  con 
«  ogni  maniera  alla  pace.  Così  tra  le  molte  buone 
«  opere  vostre  potrete  trovare  innanzi  al  cospetto  di 
«  Dio  la  mercé  usata  ad  un  popolo  innocente  che  po- 
«  teva  perir  nel  dissidio  (2).  » 

Queste  lettere  scelte  non  senza  esitazione  tra  molte 
d' ugual  valore,  possono  in  qualche  modo  mostrar  la 
luce  che  viene  alla  storia  d'Italia  da  questo  singolare 
epistolario.  Ma  l' ampia  mente  di  Gregorio,  le  ispira- 
zioni del  suo  ministero,  la  larghezza  cristiana  della 


(1)  Phylacteria. 

(2)  Epist.  XIV,  12. 


GREGORIO   IL    GRA>-I)E  51 

sua  carità,  non  gli  consentivano  di  restringere  nella 
sola  Italia  l' opera  sua  onde  le  sue  lettere  sono  fonte 
di  storia  non  pure  italiana  ma  universale.  La  storia 
d'Europa  si  chiarisce  mirabilmente  perle  lettere  scritte 
nelle  Gallie  e  in  Ispagna,  notevolissime  tra  le  prime 
quelle  dirette  alla  famosa  Brunichilde  (1),  e  tra  le  se- 
conde quelle  dirette  a  Leandro  quel  vescovo  di  Sivi- 
glia che  indusse  il  re  Recaredo  e  i  suoi  Visigoti  ad 
abbandonar  l'arianesimo.  Del  pari  le  lettere  dirette 
a  Costantinopoli,  ad  Alessandria  ed  altrove  in  Oriente 
e  in  Affrica,  descrivono  lo  stato  dei  paesi  più  lontani 
e  le  loro  relazioni  con  Roma.  Quali  poi  fossero  le  rela- 
zioni tra  Gregorio  e  la  Inghilterra,  e  qual  parte  egli 
avesse   alla    conversione  di  quel  paese,  è  famoso  al 


1)  Questa  corrispondenza  di  Gregorio  colla  scostumata  re- 
gina dei  Franchi  ha  chiamato  su  lui  il  rimprovero  d'  alcuni 
storici.  Secondo  essi  Gregorio  non  avrebbe  dovuto  trattar  con 
forme  tanto  amichevoli  una  donna  di  cui  la  memoria  è  discesa 
ai  posteri  cosi  macchiata  d'infamia.  Il  rimprovero  non  mi  par 
giusto.  La  Chiesa  pativa  a  quel  tempo  grave  danno  nelle  Gallie 
per  le  frequenti  elezioni  simoniache  dei  vescovi,  e  contro  questo 
scandalo  Gregorio  appuntava  tutte  le  sue  forze  adoperandosi 
del  continuo  presso  Brunichilde  affinché  s'inducesse  a  farlo 
sparire.  Il  Pontefice  adunque  trattando  con  quella  singoiar 
donna  trovavasi  in  posizione  assai  delicata  e  difficile,  della 
qual  cosa  è  da  far  conto  nel  giudicai-e  la  condotta  d'un  uomo 
la  cui  virtù  e  la  purezza  delle  intenzioni  sono  riconosciute 
dall'universale.  Più  grave  parrebbemi  1' altro  rimprovero  che 
gli  è  mosso  per  la  lettera  colla  quale  riconobbe  1'  autorità  del 
tiranno  Foca  usurpator  sanguinoso  del  trono  di  Costantino- 
poli, ma  pur  qui  è  da  riflettere  alla  responsabilità  che  pesava 
'i  Gregorio  per  la  sorte  di  tanto  popolo  che  si  volgeva  a  lui 
come  ad  unico  protettore. 


52  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

mondo.  Beda  il  venerabile  raccogliendo  le  tradizioni 
inglesi  ne  ha  lasciato  un  racconto  notissimo  ripetuto 
per  tutto  il  medio  evo.  Egli  narra  come  Gregorio  non 
ancora  pontefice  veduti  in  Roma  alcuni  schiavi  inglesi^ 
colpito  dall'angelica  bellezza  loro,  udendo  eh'  essi 
erano  idolatri,  concepisse  il  pensiero  di  convertir  l'In- 
ghilterra alla  fede.  Ottenutane  licenza  ei  s'avviava 
missionario  a  quelle  contrade,  ma  appena  mosso,  ecco 
il  popolo  romano  a  sollevarsi  e  costringere  il  papa  a 
richiamarlo.  Questo  racconto  della  cui  verità  non  ap- 
parisce traccia  nelle  opere  di  Gregorio,  riflette  non 
solo  r  affettuosa  venerazione  che  nutrivasi  per  lui  in 
Inghilterra  qualche  secolo  dopo  la  sua  morte,  ma 
puranco  l'affettuosa  sollecitudine  che  nelle  lettere  di 
Gregorio  traluce  continua  per  quella  missione  (1).  L'in- 
fiammato ardore  di  carità  che  lo  ispira  su  tale  argo- 
mento mi  sforza  a  varcare  i  limiti  di  questo  lavoro,  e 
uscendo  dalla  storia  particolare  d'Italia  raccolgo  qua 
e  là  qualche  frammento  in  cui  Gregorio  parla  di  que- 
sta impresa  a  lui  cara,  e  nel  compiacersi  della  riu- 
scita, coi  gravi  e  dolci  ammonimenti  là  dirige  al  suo 
termine. 

«  Ma,  »  egli  scrive  ad  Eulogio  vescovo  Alessandrino, 
«  poiché  io  so  che  voi  tanto  vi  rallegrate  nel  bene 
«  operato  da  voi  quanto  in  quel  che  è  operato  dagli 


(1)  Non  ricordo  se  altri  l'abbia  notato:  a  me  pare  non  im- 
probabile che  la  leggenda  di  Beda  tragga  in  qualche  modo 
origine  dalla  fuga  da  Roma  che,  secondo  il  biografo  suo  Gio- 
vanni Diacono,  Gregorio  tentò  per  sottrarsi  all'  onore  della 
dignità  papale. 


GREGORIO   IL    GRANDE  53' 

«  altri,  rendevi  cambio  del  favor  vostro  e  v'  annunzio 
«  non  dissimili  cose.  Imperocché  perfidiando  finora 
«  nel  culto  de'  tronchi  e  delle  pietre  la  nazione  degli 
«  Angli  che  vive  nel  più  remoto  angolo  del  mondo,  a 
«  me  collo  aiuto  delle  orazioni  vostre  entrò  nell'animo 
«  eh'  io  doveva  mandar  colà  un  monaco  del  monastero 
«  a  predicare  colla  grazia  di  Dio.  Il  quale  con  mia 
«  licenza  fatto  vescovo  dai  vescovi  di  Germania,  anche 
«  col  conforto  loro  fu  condotto  laggiù  in  fin  del  mondo  a 
«  quella  gente,  e  pur  ora  ci  son  pervenute  scritte  notizie 
«  di  sua  salute  e  dell'  opera  sua.  E  tra  quella  gente 
«  splendono  di  tanti  miracoli  ed  egli  e  gl'inviati  con 
«  lui,  che  sembrano  imitar  le  virtù  insigni  eh'  essi 
«  vanno  sponendo  degli  apostoli.  Nella  festa  della  Na- 
«  tività  del  Signore  occorsa  in  questa  prima  indizione, 
«  ci  annunzia  il  fratello  e  convescovo  nostro  che  oltre 
«  a  diecimila  Angli  fur  battezzati.  La  qual  cosa  io 
«  vi  narro  affinché  sappiate  ciò  che  parlando  operate 
«  tra  il  popolo  alessandrino  e  pregando  operate  ai 
«  confini  del  mondo.  Le  orazioni  vostre  sono  dove  voi 
«  non  siete  e  dove  siete  appariscono  le  opere  sante.  » 
Nel  seguito  di  questa  lettera  così  notevole  per  giu- 
sta compiacenza  e  per  l'umile  fede  che  ne  traspare, 
si  fa  cenno  d'una  grave  questione  ch'egli  ebbe  in 
Oriente  con  Giovanni  il  Digiunatore  patriarca  co- 
stantinopolitano, intorno  al  titolo  di  vescovo  univer- 
sale ch'egli  rifiutava  per  sé  e  non  voleva  riconoscere 
in  altri.  Ma  una  tale  questione  che  originò  molte  let- 
tere della  raccolta  importantissime  per  la  storia  della 
Chiesa,  trasmoda  troppo  la  cerchia  di  questo  libro. 
E  necessità  tralasciarla  e  concludere  queste  citazioni, 


54  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

forse  già  troppo  lunghe,  coi  brani  di  un'  altra  lettera 
scritta  ad  Agostino  l'apostolo  d'Inghilterra:  «Gloria 
«  negli  eccelsi  a  Dio  e  pace  in  terra  agli  uomini  di 
«  buona  volontà.  Come  il  morto  grano  di  frumento 
«  recò  molto  frutto  cadendo  a  terra  affinché  non  re- 
«  gnasse  solo  nel  cielo,  così  noi  viviamo  per  la  morte 
«  sua,  ci  confortiamo  per  la  sua  infermità,  pel  suo 
«  patire  siam  tolti  al  patire,  per  l' amor  suo  cerchiamo 
«  in  Britannia  i  fratelli  che  ci  erano  ignoti,  per  sua 
«  grazia  troviamo  quelli  che  noi  ignoranti  cercavamo. 
«  Chi  varrà  a  dir  quanta  gioia  sia  nata  qui  in  cuore 
«  di  tutti  i  fedeli  a  udir  che  la  nazione  degli  Angli 
«  per  la  grazia  dell'  onnipotente  Iddio  e  le  fatiche 
«  della  fraternità  tua,  scacciate  le  tenebre  dell'errore 
«  s'è  circondata  della  luce  della  santa  fede,  che  già 
«  con  mente  franca  essa  calpesta  gl'idoli  a  cui  prima 
«  soggiaceva  insana  per  terrore,  a  Dio  onnipotente 
«  si  piega  pura  nel  cuore,  dalle  prave  opere  è  trat- 
«  tenuta  per  le  regole  della  santa  predicazione,  ai 
«  precetti  divini  inchina  1'  animo  e  sollevasi  coli'  in- 
«  telletto,  infino  a  terra  umiliasi  coli'  orazione  per 
«  non  giacer  colla  mente  a  terra?  Di  chi  è  questa 
«  opera  se  non  di  colui  che  dice  :  Il  Padre  mio  opera 
«  fino  ad  ora  ed  opero  anch'io?  (1)  ....  Or  tu  godi 
«  pure  perché  le  anime  degli  Angeli  pe'  miracoli 
«  esteriori  son  tratti  alla  grazia  interiore,  ma  temi 
«  che  fra  queste  maraviglie  che  sono  operate  l' in- 
«  fermo  animo  non  si  levi  a  presunzione,  e  mentre 
«  esaltasi    fuori    ad    onore   non    cada    internamente 


(1)  Johann.  V,  17. 


GREGORIO   IL    GRANDE  55 

«  per    vanagloria Imperocché    ai    discepoli    del 

«  vero  non  deve  arrecar  gaudio  se  non  quel  bene 
«  che  hanno  comune  con  tutti  e  nel  quale  non  hanno 
«  fine  alla  letizia.  Resta  dunque,  o  fratello  carissimo, 
«  che  tra  ciò  che  tu  per  opera  di  Dio  fai  esterna- 
«  mente,  sempre  all'interno  ti  giudichi  sottilmente,  e 
«  che  sottilmente  osservi  ciò  che  sei  tu  stesso  e  quanta 
«  grazia  sia  in  quella  gente  per  la  cui  conversione 
«  ottenesti  perfino  il  dono  di  far  miracoli.  E  se  ti 
«  ricorderai  d'  aver  mancato  talora  innanzi  al  Crea- 
«  tore  nostro  o  colla  parola  o  coli'  opera,  sempre  ti 
«  richiamerai  ciò  a  memoria  affinché  il  ricordo  della 
«  colpa  reprima  la  insorgente  vanità  del  cuore.  E  quanto 
«  di  operar  miracoli  ti  sarà  o  ti  fu  concesso,  stimalo 
«  donato  non  a  te  ma  a  coloro  per  la  cui  salute  ti  si 
«  concede....  Molto  adunque  vuoisi  premer  giù  l'animo 
«  tra  i  segni  e  i  miracoli  affinché  esso  non  cerchi  la 
«  propria  gloria  ed  esulti  nel  gaudio  privato  della  sua 
«  esaltazione. 

«  Le  quali  cose  io  dico  perché  desidero  umiliar 
«  l'animo  di  chi  m'ascolta,  ma  tuttavia  abbia  anche 
«  la  sua  fiducia  l'umiltà  tua.  Imperocché  io  pecca- 
«  tore  tengo  speranza  certissima  che  per  la  grazia 
«  dell'  onnipotente  nostro  Creatore  e  Redentore  Dio 
«  e  Signore  Gesù  Cristo,  già  i  peccati  tuoi  sono  ri- 
«  messi  e  perciò  sei  eletto  affinché  per  te  si  rimet- 
«  tana  i  peccati  altrui.  Ne  avrai  afflizione  d'  alcun 
«  peccato  in  avvenire  tu  che  ti  sforzi  di  far  gaudio 
«  in  cielo  per  la  conversione  di  molti.  Lo  stesso  Crea- 
«  tore  e  Redentore  nostro,  parlando  della  penitenza 
«  degli  uomini,  afi^erma:  Io  vi  dico  che  si  farà  mag- 


56  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  gioì'  gaudio  in  cielo  per  un  peccatore  penitente,  che 
«  per  novantanove  giusti  a  cui  non  fa  d'uopo  pen- 
«  tirsi  (1).  E  se  per  un  sol  penitente  è  così  grande 
«  gaudio  nel  cielo,  qual  gaudio  crederem  noi  che  si 
«  faccia  per  tanto  popolo  convertito  dall'  error  suo, 
«  il  quale  venendo  alla  fede  condannò  col  pentirsi  il 
«  male  che  fece  ?  In  tanto  gaudio  di  cielo  e  d' angeli 
«  ripetiam  dunque  quelle  parole  angeliche  che  pre- 
«  mettemmo:  «  Gloria  negli  eccelsi  a  Dio  e  pace  in 
«  terra  agli  uomini  di  buona  volontà  (2).  » 

L'anno  604,  nel  giorno  14  di  marzo,  chiudeva  la  santa 
vita  Gregorio  IMagno  e  col  cessare  del  suo  epistolario 
la  storia  d'Italia  perde  la  guida  sua  più  luminosa  at- 
traverso que' secoli.  Altre  opere  di  Gregorio  hanno 
pregio  storico  per  le  allusioni  che  vi  si  trovano  a  fatti 
contemporanei  o  recenti,  e  principale  tra  queste  opere 
è  il  libro  dei  Dialoghi.  In  questo  libro  singolare,  uno  di 
quelli  che  più  hanno  affascinata  la  fantasia  del  medio 
evo,  Gregorio  descrisse  le  vite  e  i  miracoli  di  San 
Benedetto  e  d'alcuni  altri  Italiani  in  fama  di  santità 
vissuti  intorno  al  suo  tempo  e  i  più  d' essi  o  conosciuti 
da  lui  0  da  persone  a  lui  note.  E  una  raccolta  di  leg- 
gende strane  e  fantastiche  narrate  con  ferma  fede  e 
con  ferma  fede  ripetute  per  secoli,  ed  è  maraviglioso 
insieme  e  caratteristico  di  que'  tempi  e  di  questa  no- 
stra natura  umana  il  trovar  tanta  puerile  credulità 
in  uomo  di  genio  così  mirabile.  Ma  queste  leggende 
riescon  preziose  alla  storia  sparse  come  sono  di  fatti 


(1)  Lue.  V,  7. 

(2)  Episi.  XI,  28. 


EDITTO   DI   ROTARI  57 

reali  e  d'allusioni  a  luoghi  ad  usi  a  monumenti  non 
ancora  scomparsi,  a  personaggi  che  vissero  e  opera- 
rono in  quella  età  momentosa  (1). 

Colla  morte  di  Gregorio  le  testimonianze  contem- 
poranee e  dirette  sulla  storia  d' Italia  nei  tempi  lon- 
gobardi cessano  quasi  del  tutto.  Il  documento  di  mag- 
gior valore  è  l'Editto  di  re  Rotari  (A.  D.  643),  che 
con  le  aggiunte  fattevi  dai  re  successivi  raccoglie  in 
sé  tutta  la  legislazione  longobarda.  Rotari  prefisse 
all'Editto  un  prologo  il  quale  nella  scarsità  delle  me- 
morie serve  molto  alla  storia  essendo  riferita  in  esse 
con  diligenza  la  serie  dei  re  longobardi  coi  nomi  di 
loro  famiglie  ed  una  accurata  genealogia  per  dieci 
generazioni  della  famiglia  dello  stesso  Rotari  che  era 
degli  Arodi. 

Finche  Rotari  non  le  raccolse,  nessuno  aveva  scritto 
le  leggi  dei  Longobardi.  Esse  scendevano  tramandate 
colla  parola  viva  da  generazione  a  generazione  e  il 
somigliante  accadeva  per  la  memoria  di  loro  genea- 
logie e  di  loro  imprese  che  circonfuse  di  leggende 
erano  affidate  al  canto.  Verso  il  670  un  Longobardo 
tentò  come  seppe  di  ricavare  da  quelle  saghe  alquanti 
cenni  intorno  alla  provenienza  del  suo  popolo,  e  que- 
sto lavoro  detto  Origo  Langohardorum  s'aggiunse  ab 
antico  nei  codici  al  prologo  dell'Editto  di  Rotari  e 
parve  quasi  confondersi  in  quello.  Prima  di  questi 
tentativi  esisteva  una  storia  dei  Longobardi  compi- 
lata da  Secondo  vescovo  di  Trento  (f  612),  ma  di 


(1)  Sancti  Gkegorii  Papae,  Biaìogonm  Libri  IV,  de  vita 
et  miraculis   Patrum   italicorum  et  de  aeternitate  animarum. 


58  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

questa  storia,  che  sembra  essere  stata  importante, 
riman  la  sola  menzione  negli  scritti  di  Paolo  Diacono 
a  cui  siam  giunti  oramai.  Il  continuatore  di  Prospero 
d'Aquitania  il  quale  condusse  la  sua  continuazione 
fino  al  671  ed  un  magister  Stefanns  che  verso  il  698 
compose  una  rozzissima  poesia  in  lode  di  re  Cuni- 
perto  sono  le  sole  fonti  contemporanee  che  abbiamo 
oltre  la  Origo  e  l'Editto,  e  provenienti  da  scrittori 
di  origine  latina.  I  Longobardi  stentarono  sopra  ogni 
altro  popolo  germanico  ad  avvicinarsi  alla  cultura 
latina  e  vi  si  avvicinarono  sol  quando  la  loro  domi- 
nazione era  presso  al  tramonto.  Però,  come  osserva 
il  Wattenbach,  «i  grammatici  che  malgrado  la  contra- 
«  riétà  dei  tempi  avevano  sempre  continuata  l'opera 
«  loro,  trovarono  a  poco  a  poco  discepoli  tra  i  Lon- 
«  gobardi  e  quando  la  costoro  signoria  si  appressò 
«  alla  fine,  già  avevano  educato  al  popolo  straniero 
«  il  suo  storico  che,  come  Giordane,  alla  caduta  del 
<'  regno  ne  serbò  almeno  la  memoria  (1).  »  Questo 
storico  fu  Paolo  Diacono,  e  di  lui,  insigne  tra  gli 
storici  dell'  antico  medio  evo  italiano  devesi  ora 
trattar  di  proposito  (2). 


(1)  Wattenbach,  ojj.  cit.  Voi.  I,  e.  2,  §  6. 

(2)  Pauli,  Historia  Langóbardorum  edentibus  L.  Bethmann 
et  G.  Waitz^  nel  volume  degli  Scriptores  rerum  langohard.  et 
itaìic.  saec.  VI-IX  nei  Monumenta  Germaniae  Historica.  Le 
poesie  di  Paolo  sono  raccolte  in  nn  altro  volume  dei  Momi- 
menta:  Poetae  Latini  aevi  carolini  recensuitE.  Duemmìer.  In- 
torno alla  persona  e  agli  scritti  di  Paolo  Diacono  s'è  in  que- 
st'ultimo mezzo  secolo  affaticata  con  amore  tenace  una  schiera 
d'eruditi,  tedeschi  pressoché  tutti.  Oltre  al  Daliu,  al  AVatten- 


PAOLO   DIACONO  59 

Paolo  Diacono  ci  ha  lasciato  egli  stesso  memoria  di 
sé  qua  e  là  uè' suoi  scritti,  e  in  essi  possiamo  seguir 
le  traccie  della  sua  vita  che  fu  certo  notevole.  Na- 
sceva da  stirpe  antica  ed  egli  ne*risalisce  la  storia 
intessuta  di  leggende.  Leupchis,  lo  stipite  ch'egli  men- 
ziona del  suo  casato,  scese  nel  Friuli  con  Alboino  al 
tempo  della  prima  invasione  longobarda  e  quivi  mori 
lasciando  cinque  figliuoli  che  poco  appresso  presi  in 
una  incursione  degli  Avari  furon  tratti  via  dalla  pa- 
tria. Durava  da  lungo  la  lor  prigionia  quando  Lo- 
pichis  un  d'essi,  pervenuto  alla  virilità  potè  scampar 
colla  fuga.  Dopo  un  lungo  vagar  solitario  alla  ven- 
tura tra  stenti  immani  e  pericoli,  un  di  sulle  Alpi 
mentre  considerava  incerto  il  suo  cammino,  ecco  pre- 
sentarsegli  innanzi  d'improvviso  un  lupo  e  farglisi 
guida  per  la  via  sconosciuta.  Poi  a  un  tratto  spari- 
togli dagli  occhi  misteriosamente  il  lupo,  una  visione 
gli  venne  a  soccorso  nel  sonno  e  gì'  indicò  la  rima- 
nente strada   fino  al  Friuli.  Quivi   trovò  la  deserta 


bach,  allo  Jacobi  e  al  Mommsen,  noto  i  nomi  del  Bethmann, 
del  Waìtz  e  del  Duemmler  come  di  quelli  che  hanno  meglio 
meritato  del  grande  cronista  friulano.  Il  Bethmann  iniziò  gli 
studi  lunghi  e  pazienti  che  proseguiti  dal  Waitz  hanno  con- 
dotto ad  una  eccellente  edizione  della  Ilistoria  Langohardo- 
rum  ;  al  Duemmler  poi  devesi  la  raccolta  delle  poesie  paoline 
e  la  possibilità  di  raffrontarle  utilmente  colle  altre  poesie 
deir  età  carolina.  Non  è  nei  propositi  di  questo  libro  il  di- 
scorrere degli  studi  che  i  critici  sono  venuti  facendo  intorno 
al  Varnefrido.  Chi  ne  desidera  notizia  potrà  consultare  con 
profitto  uno  studio  fatto  con  gran  diligenza  e  gran  lucidezza 
dal  professor  P.  Del  Giudice,  e  pubblicato  col  titolo  Lo  sto- 
rico dei  Longobardi  e  la  critica  moderna.  IMilano,  Hoepli,  1880. 


60  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

casa  clov'  era  nato,  e  riconosciuto  dai  suoi  parenti  potè 
ristorarla  e  fondare  in  essa  la  sua  famiglia.  Da  Lo- 
picliis  derivò  Arechis  e  da  lui  Warnefrit  il  quale 
unitosi  ad  una  T«odelinda,  n'ebbe  alquanti  figliuoli. 
Un  d'essi,  nato  per  quanto  si  congettura  tra  il  720  e 
il  725  air  incirca,  fu  il  nostro  Paolo  Varnefrido  o,  come 
pili  universalmente  è  chiamato,  Paolo  Diacono. 

Paolo  ebbe  a  maestro  nelle  lettere  il  grammatico 
Flaviano  nipote  ad  un  altro  grammatico  di  nome  Fe- 
lice. Nelle  scuole  studiò  la  lingua  greca  non  senza 
profitto  come  è  da  credere  malgrado  la  modestia  colla 
quale  egli  accenna  a  questo  ramo  del  suo  sapere.  Non 
è  ben  sicuro  in  quale  luogo  Flaviano  gì'  impartisse 
l'insegnamento  suo,  ma  par  probabile  ch'ei  fosse  edu- 
cato in  Pavia  alla  corte  del  re  dove  per  questi  gram- 
matici la  cultura  latina  schiudevasi  un  varco.  Cer- 
to Paolo  trovavasi  in  corte  ai  tempi  del  re  Ratchis 
(A.  D.  744-749),  perché  ci  narra  d'avere  egli  stesso 
veduto  quel  re  mostrare  dopo  un  convito  la  tazza  fa- 
mosa che  Alboino  fé'  far  col  teschio  di  Cunimondo 
re  dei  Gepidi.  Com'è  noto,  Alboino,  ucciso  in  guerra 
Cunimondo  di  cui  poscia  sposò  la  figliuola  Rosemunda, 
soleva  ai  solenni  conviti  ber  nel  suo  teschio  ridotto 
ad  uso  di  coppa.  Un  giorno  a  Verona  grave  di  vino 
oltre  il  dovere,  il  tiranno  offrì  la  tazza  orrenda  alla  re- 
gina invitandola  a  ber  lietamente  col  padre.  L'atroce 
ingiuria  vendicata  più  tardi  ferocemente  par  così 
enorme  a  Paolo  che  nel  narrarcela  esclama:  «  Affin- 
«  che  ciò  ad  alcuno  non  apparisca  impossibile,  dico 
«  la  verità  innanzi  a  Cristo,  io  stesso  un  dì  di  festa 


PAOLO   DIACONO  61 

«  vidi  il  re  Ratchis  che  tenea  in  mano  questa  coppa 
«  mostrandola  a' convitati  suoi.  » 

Questo  episodio  che  s'introduce  qui  ad  esempio  della 
feroce  barbarie  de' primi  Longobardi,  bene  ci  aiuta  a 
seguire  la  storia  della  vita  di  Paolo  e  non  è  il  solo 
per  cui  lo  vediamo  trattare  familiarmente  coi  prin- 
cipi del  suo  tempo.  Lo  scritto  più  antico  che  ci  ri- 
mane di  Paolo  (A.  D.  763),  è  un  carme  sulle  sei  età 
del  mondo,  di  cui  le  strofe  recano  acrosticamente  il 
nome  di  Adelperga  pia  figlia  del  re  longobardo  De- 
siderio e  moglie  di  Arichi  duca  di  Benevento.  Questa 
principessa  che  aveva  avuto  Paolo  a  maestro,  gli  ri- 
mase sempre  amica  e  lo  invitò  più  tardi  ad  aumen- 
tare e  continuare  la  storia  romana  di  Eutropio.  Pare 
che  egli  componesse  1'  epitafio  in  versi  per  la  regina 
Ansa  madre  di  Adelperga  il  cui  cadavere  fu  ricon- 
dotto in  patria  dalla  Francia  dove  Ansa  era  andata 
con  Desiderio  quando  l' armi  di  Carlo  Magno  fran- 
sero il  regno  dei  Longobardi.  I  versi  della  iscrizione 
che  dallo  stile  pare  sicuramente  esser  di  Paolo,  spirano 
una  malinconia  profonda  e  attestano  l'affetto  che  V  au- 
tore portava  alla  stirpe  sua  longobarda.  Non  si  sa  in 
quale  anno  egli  ricevesse  i  sacri  ordini  né  quando  en- 
trasse nel  chiostro,  ma  il  Waitz  tiene  per  non  improba- 
bile eh'  egli  si  rendesse  monaco  a  Montecassino  quando 
Ratchis  balzato  dal  trono  vi  trovò  un  rifugio.  Quivi 
la  solenne  pace  del  monastero  presto  pigliò  tanto  im- 
pero sull'  animo  di  Paolo,  che  mai  forse  non  si  sarebbe 
indotto  a  lasciarla  se  gravi  casi  non  1'  avessero  chia- 
mato fuori.  Nel  776  i  Longobardi  da  breve  conqui- 


62  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

stati  si  rivoltarono  in  vari  luoghi  contro  a'  Franchi 
e  più  vastamente  nel  ducato  del  Friuli.  8e  Paolo  non 
s'immischiò  in  questa  rivolta  certo  vi  prese  parte  il 
fratel  suo  Arechis,  il  quale  tratto  prigioniero  in  Fran- 
cia ebbe  confiscate  tutte  le  sostanze  sue.  Da  questo 
fatto  dee  trarre  origine  una  leggenda  intorno  a  Paolo 
nata  verso  il  secolo  decimo  e  largamente  diffusa  nei 
secoli  posteriori.  A  voler  seguire  questa  leggenda,  Carlo 
Magno  sospettando  Paolo  complice  in  una  congiura, 
l'avrebbe  cacciato  in  esilio  e  confinatolo  nell'isoletta  di 
Tremiti  donde  egli  qualche  anno  appresso  avrebbe  po- 
tuto fuggire  per  miracolo,  rifugiarsi  a  Benevento  e  di  là 
a  Montecassino.  Ma  tutto  questo  racconto  è  fantastico. 
Per  contrario  quando  già  Carlo  era  venuto  a  Roma  e 
avea  dato  prova  di  temperata  mitezza  nelle  cose  di 
Stato  e  mostravasi  protettore  delle  lettere,  vediamo 
Paolo  rivolgersi  al  monarca  vincitore.  In  versi  ei  gli 
chiede  che  sia  reso  il  fratel  suo  alla  famiglia  da  sei 
anni  giacente  in  una  miseria  di  cui  dipinge  lo  squal- 
lore con  gran  vivezza  di  colorito  e  gran  calore  d'af- 
fetto. A  far  più  efficace  la  intercessione,  Paolo  lasciò 
il  monastero  e  valicate  le  Alpi  si  recò  in  corte  di 
Carlo.  Questi  lo  accolse  con  molto  onore  e  lo  trat- 
tenne più  a  lungo  eh'  ei  non  avrebbe  voluto.  Dalle 
rive  della  Mosella  il  desiderio  del  monaco  tornava 
alla  dolce  pace  gustata  tra  i  maestosi  silenzi  delle  rupi 
cassinosi:  «  Sebbene,  »  egli  scrive  all'abate  suo  Teo- 
demaro,  «  uno  spazio  vasto  di  terra  mi  separi  dal  con- 
«  sorzio  vostro,  me.  congiunge  a  voi  un  tenace  affetto 
«  che  non  può  mai  disciogliersi,  nò  il  riferir  per  let- 
«  tera  e  la  brevità  di  queste  pagine  bastano  a  dirvi 


PAOLO   DIACONO  63 

«  l'amor  che  mi  crucia  ad  ogni  momento  per  voi 
«  e  pe'  miei  seniori  e  fratelli.  Imperocché  quando  mi 
«  sovvengono  alla  mente  gli  ozi  occupati  solo  in  opere 
«  divine,  e  la  grata  dimora  della  cella  mia,  e  il  pio 
«  religioso  affetto  vostro,  e  la  santa  caterva  di  tanti 
«  soldati  di  Cristo  intesa  al  culto  divino,  e  di  cia- 
«  scun  fratello  gli  esempi  fulgidi  per  virtù  diverse, 
«  e  i  dolci  colloqui  sulle  perfezioni  della  superna  pa- 
«  tria,  io  tremo  attonito  e  languisco,  né  so  trattener 
«  le  lacrime  tra  i  sospiri  che  m'escono  dal  pi'ofondo 
«  del  petto.  M'aggiro  tra  cattolici  e  dediti  al  culto 
«  cristiano,  tutti  m'  accolgono  bene,  tutti  mi  si  mo- 
«  strano  benigni  per  amore  del  padre  nostro  Bene- 
«  detto,  e  pei  meriti  vostri.  Ma  al  paragone  del  ce- 
«  nobio  vostro  il  palazzo  m'  è  carcere,  al  paragone 
«  di  tanta  quiete  che  si  trova  fra  voi  il  viver  qui 
«  m' è  tempesta.  Solo  pel  corpo  frale  son  tenuto  via 
«  da  codesta  patria  ;  con  tutta  l' anima  mia  sono  con 
«  voi.  E  ora  mi  pare  d'essere  ai  vostri  troppo  soavi 
«  concenti,  ora  seder  nel  cenacolo  a  saziarci  più  colla 
«  lettura  che  col  cibo,  ora  a  considerar  le  opere  di 
«  ciascuno  negli  uffici  diversi,  ora  a  indagar  lo  stato 
«  degli  aggravati  per  vecchiezza  o  per  male,  ora  a 
«  logorar  le  soglie  dei  santi  care  a  me  come  un  pa- 
«  radiso.  »  E  chiudeva  la  lettera  esprimendo  la  spe- 
ranza di  raggiunger  presto  i  fratelli  suoi,  ma  l' in- 
dugio al  ritorno  non  fu  cosi  breve.  Appunto  in  quel 
tempo  Carlo  adunando  alla  sua  corte  da  ogni  paese 
tutti  coloro  nei  quali  splendeva  ancor  qualche  rag- 
gio della  ormai  spenta  cultura,  studiavasi  di  ravvi- 
vare intorno  a  sé  la  luce  della  civiltà  romana  mentre 


64  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

si  preparava  a  far  rivivere  neir  ordinamento  politico  il 
nome  di  Roma  e  l'autorità  dell'Impero.  Paolo  Diacono 
non  poteva  rimanersi  estraneo  a  quest'opera  di  civiltà 
e  si  lasciò  indurre  a  prendervi  parte.  Di  ciò  avanza 
un  chiaro  monumento  nei  vei'si  che  Pietro  da  Pisa 
gli  scrisse  in  nome  di  Carlo  magnificando  le  doti 
e  la  scienza  di  Paolo  e  paragonandolo  agli  scrit- 
tori più  grandi  della  antichità.  «  La  figliuola  mia,  » 
dice  Carlo  in  que'  versi  «  deve  andare  sposa  in  Gre- 
«  eia  ed  è  mio  desiderio  che  Paolo  ammaestri  nella 
«  lingua  greca  coloro  che  dovranno  accompagnarla 
«  a  Costantinopoli.  »  Paolo  verseggiando  in  risposta 
accetta  1'  incarico  ma  rifiuta  modesto  le  lodi  regali 
ed  anche  nega  d'aver  tentata  la  conversione  del  re 
di  Danimarca  Sigfrido,  attribuitagli  da  Carlo  in  altri 
versi  di  Pietro  da  Pisa.  Verso  quel  tempo  Paolo  com- 
pose r  epitafio  d' Ildegarde  moglie  di  Carlo  Magno 
(f  783)  e  delle  sorelle  e  figliuole  di  lui.  Inoltre,  sem- 
pre ad  istanza  di  Carlo,  condusse  a  termine  una  pre- 
gevole raccolta  di  omelie,  abbozzata  già  a  Monte- 
cassino  la  quale,  come  già  altri  osservò,  venne  in 
grande  aiuto  all'  ignoranza  quasi  universale  in  quei 
tempi  del  clero. 

Nò  si  limitarono  a  tanto  le  fatiche  letterarie  del 
nostro  monaco  cresciuto  oramai  in  fama  tra  i  letterati 
dell'età  sua.  Fece  un  estratto  del  trattato  De  verbo- 
rum  significatione  di  Festo  Pompeio,  serbando  così  ai 
posteri  almeno  in  parte  un  documento  che  ancora  è 
prezioso  ai  filologi  e  agli  studiosi  della  legislazione 
romana.  Pregato  da  Angiìramno  vescovo  di  IMetz, 
compose  la  storia  dei   vescovi   Metensi  e   aprì   egli 


PAOLO   DIACONO  65 

primo  oltre  l'Alpi,  la  serie  di  quelle  storie  episcopali 
che  hanno  tanto  giovato  in  ogni  paese  alla  storia  della 
chiesa  cristiana.  In  quest'  opera  narrò  diffusamente 
la  vita  di  santo  Arnulfo  stipite  della  casa  carolin- 
gia e  colse  al  volo  la  propizia  occasione  per  celebrare 
le  glorie  e  le  virtù  del  monarca  che  gii  si  mostrava 
cosi  benigno.  In  corte  dovette  Paolo  incontrarsi  e  si 
strinse  di  calda  intima  amicizia  con  uno  dei  maggiori 
uomini  di  quella  età,  parente  a  Carlo,  Adalardo  abate 
di  Corvey.  Pur  questa  amicizia  recò  frutti  letterari, 
e,  a  richiesta  dell'amico.  Paolo  si  die  ad  emendare  il 
testo  delle  lettere  di  Gregorio  il  Grande  del  quale 
anche  dettò  una  vita,  ma  colto  da  infermità  potè  solo 
compiere  una  breve  parte  del  suo  lavoro  che  mandò 
ad  Adalardo  con  una  soave  lettera  riboccante  d'affetto. 
Pare  che  Paolo  mettendo  a  profitto,  quegli  anni  di 
dimora  oltralpe  visitasse  gran  parte  di  Francia  e  i 
monasteri  più  famosi  in  essa.  Ma  né  le  attrattive  di 
quel  bel  paese  bastarono  a  fargli  dimenticare  la  cara 
patria,  ne  i  dolci  legami  delle  nuove  amicizie  a  fermarlo 
per  sempre  in  corte  di  Carlo.  Nota  il  Wattenbach  che 
forse  la  nimicizia  tra  Carlo  e  Arechis  principe  di  Be- 
nevento, sempre  crescente  finché  scoppiò  in  guerra 
aperta^  potè  da  ultimo  rattristargli  la  dimora  in  Fran- 
cia sebbene  il  re  gli  rimanesse  sempre  amico.  Inchina 
altri  a  credere  che  Paolo  sul  cadere  del  786  tornasse 
in  Italia  collo  stesso  Carlo.  Conghietture  probabili 
entrambe  ma  non  sicure.  Certo  è  solo  che  intorno 
al  787,  Paolo  da  Montecassino  dettava  una  bella  iscri- 
zione per  Arechis  morto  in  quell'anno  e  con  quel  piò 
tributo  suggellava  1'  amicizia  fedele  onde  s'  era  legato 

5.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


66  LE    CRONACHE    ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

al  marito  d'Adelperga  sua  discepola.  L'affannoso  de- 
siderio del  monaco  toccava  alfine  la  cima  sua.  Dopo 
così  lungo  aggirarsi  tra  i  rumori  del  mondo  e  il  fasto 
delle  corti,  egli  poteva  adesso  rigoder  quella  pace 
profonda  verso  cui  s' affannano  certe  anime  con  tanto 
più  ardore  quanti  più  trovano  contrasti  a  raggiungerla. 
Dalla  vetta  di  quel  monte  venerando  per  pie  memorie, 
dove  Benedetto  aveva  deposto  un  seme  tanto  fecondo 
di  civiltà,  quel  monaco  solitario  sciolto  alfine  d'ogni 
cura  mondana  poteva  levarsi  dalla  contemplazione 
degli  eventi  umani  alla  contemplazione  serena  di  Dio. 
Cosi  in  quei  riposi  tranquilli  nacquero  gli  ultimi  due 
lavori  a  cui  consacrò  la  rimanente  vita  (1),  un  com- 
mentario alla  regola  monastica  e  quella  storia  dei 
Longobardi  che  gli  ha  assicurata  la  fama  presso  i  po- 
steri. 

La  nascita  di  Paolo  Diacono  e  i  casi  di  sua  vita 
sembravano  destinarlo  all'  ufficio  di  storico.  Nato  in 
Italia  da  stirpe  longobarda  quando  il  regno  longobardo 
si  avvicinava  alla  sua  caduta,  amante  del  popolo  da 
cui  traeva  l'origine,  amico  ai  suoi  principi,  e  d'altra 
parte  educato  da  maestri  italiani  alle  tradizioni  dop- 
piamente latine  della  antichità  classica  e  della  Chiesa, 
Paolo  Diacono  era  insieme  italiano  e  longobardo.  Da 
ciò  quella  specie  di  patriottismo  che  unisce  in  lui  le 


(1)  Un  necrologio  cassinese  indica  il  giorno  della  morte  di 
Paolo  che  fu  un  tredici  d'aprile,  ma  si  è  incerti  dell'anno. 
Il  Waitz  ed  altri  stimano  cU'  egli  morisse  prima  dell'  incoro- 
nazione di  Carlo  Magno,  e  forse  nel  799.  Ebbe  nel  monastero 
parecchi  discepoli  tra  i  quali  un  Ilderico  che  verseggiò  a  ri- 
cordo di  lui  un  epitaffio  pregevole. 


PAOLO   DIACONO  67 

due  razze  e  par  che  simboleggi  tra  esse  una  fusione 
che  non  potè  mai  compiersi  intera  e  solo  si  compi  in 
parte  quando  il  popolo  oppressore  soggiacendo  ai 
Franchi  scese  alquanto  più  vicino  agli  oppressi.  Già 
Paolo  rifacendo  l'opera  d'Eutropio  aveva  narrata  la 
storia  di  Eoma,  ed  ora  mutato  per  dir  cosi  il  titolo  del 
suo  lavoro,  nelle  vicende  del  popolo  longobardo  nar- 
rava il  proseguimento  di  quella  storia.  Come  s'  è  già 
veduto,  i  popoli  germanici  ignari  di  lettere  affidavano 
la  notizia  di  loro  genealogie  e  di  loro  imprese  alla  tra- 
dizione che  le  tramutava  in  canti  e  in  leggende.  Ri- 
cavare da  queste  leggende  la  vita  del  popolo  eh'  esse 
celebravano,  era  l'ufficio  di  chi  metteva  mano  alla 
storia  quando  le  imprese  accumulate  e  i  primi  raggi 
della  civiltà  penetrati  ispiravano  quasi  inconsciamente 
il  desiderio  d'una  narrazione  più  certa  e  più  duratura. 
Da  ciò  queir  intrecciarsi  continuo  dei  fatti  reali  coi 
leggendari  che  dà  un  carattere  cosi  spiccato  alla  sto- 
ria dei  Longobardi  i  quali  anche,  per  loro  indole 
rude  ma  cavalleresca,  spesso  condussero  imprese  da 
leggenda  piuttosto  ispirati  da  vaghezza  di  mostrarsi 
prodi  che  da  ragione  di  Stato.  Bene  Cesare  Balbo  con 
l'usata  acutezza  sua  ha  notato  che  fin  dai  tempi  di 
Autari  e  di  Teodelinda  «  possono  dirsi  incominciati 
«  in  Italia  i  tempi,  benché  il  nome  non  peranco,  della 
«  cavalleria 5  tempi  più  piacevoli  all'immaginazione 
^<  che  all'  effetto,  più  ammirabili  ne'  romanzi  che  nelle 
«  storie  ;  tempi  non  senza*  virtù,  ma  di  virtù  spre- 
«  cata(l).  »  Né  v'ha  per  fermo  romanzo  cavalleresco 


(1)  C.  Balbo,  Storia d'Itaìia  sotto  ai  Barbari,  II,  13.  Fir.  1:56. 


68  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

delle  età  posteriori  die  narri  alcun  racconto  più  ricco 
d'avventurosa  poesia  di  questo  che  ci  e  narrato  da 
Paolo  : 

«  ....Dopo  queste  cose  re  Autari  inviò  legati  in  Ba- 
«  viera  per  chiedere  in  matrimonio  la  figlia  del  re 
«  Garibaldo,  e  questi  accoltili  benignamente  promise 
«  di  dare  ad  Autari  la  figlia  sua  Teodelinda.  Ciò  nei 
«  tornare  riferendo  i  legati  ad  Autari,  egli  desideroso 
«  di  veder  cogli  occhi  suoi  la  sua  sposa,  presi  con  sé 
«  alcuni  pochi  ma  scelti  Longobardi  e  conducendo 
«  quasi  come  seniore  un  suo  fedelissimo,  senza  in- 
«  dugio  trasse  in  Baviera.  I  quali  introdotti  secondo 
«  l'usanza  dei  legati  al  cospetto  di  re  Garibaldo,  po- 
«  sciaché  colui  eh'  era  venuto  con  Autari  quasi  come 
«  seniore  ebbe  fatti  i  saluti  e  le  parole  d'uso,  Autari 
«  ignoto  a  tutta  quella  gente,  fattosi  più  presso  a  re 
«  Garibaldo  gli  disse  :  '  Il  signor  mio  Autari  re  qui  mi 
«  ha  propriamente  inviato  a  veder  la  figliuola  vostra 
«  sua  sposa,  affinché  io  possa  sicuramente  annunziare 
«  al  signor  mio  quale  ne  sia  la  bellezza.'  E  udendo 
«  ciò  il  re  e  fatta  venir  la  figliuola,  Autari  contem- 
«  piatala  tacitamente  e  vedendola  di  belle  forme  e 
«  compiacendosene  in  ogni  cosa,  disse  al  re:  'Poiché 
«  tale  vediamo  essere  la  persona  della  figliuola  vostra 
«  che  bene  dobbiamo  desiderarla  per  nostra  regina, 
«  noi  ameremmo,  se  piace  alla  podestà  vostra,  che 
«  ella  ci  desse  di  mano  sua  la  coppa  del  vino  come 
«  dovrà  fare  appresso  conjioi.'  E  avendo  il  re  conce- 
«  duto  che  ciò  si  facesse,  ella  presa  la  coppa  del  vino, 
«  prima  propinò  a  colui  che  pareva  esser  seniore. 
«  Poscia  avendola  porta  ad  Autari  eh'  ella  ignorava 


PAOLO   DIACONO  69 

«  esser  lo  sposo  suo,  questi,  dopo  aver  bevuto,  nel 
«  render  la  tazza,  senza  che  altri  'lo  notasse  col  dito 
«  le  toccò  la  mano,  e  accostò  la  fronte  e  il  volto  alla 
«  sua  destra.  Ella  suffusa  di  rossore  narrò  il  fatto  alla 
*  nutrice.  A  cui  la  nutrice  disse  :  '  Se  questi  non  fosse 
«  lo  stesso  re  e  il  tuo  sposo,  certo  non  avrebbe  osato 
«  toccarti.  Ma  tacciamo  frattanto  che  non  lo  sappia 
«  tuo  padre:  per  fermo  egli  è  persona  degna  e  di 
«  tenere  il  regno  e  d' associartisi  in  matrimonio.'  Era 
«  allora  Autari  florido  d' età  giovanile,  di  bella  sta- 
«  tura,  biondo  di  crine  e  di  nobilissimo  aspetto.  Co- 
«  loro  preso  commiato  dal  re,  ripigliando  la  via  della 
«  patria  mossero  in  fretta  a*  confini  dei  Norici.  Impe- 
«  rocche  la  provincia  dei  Norici  abitata  dal  popol 
«  de'  Bavari,  ha  la  Pannonia  da  oriente,  da  occidente 
«  la  S  ve  via,  da  mezzogiorno  l'Italia  e  da  tramontana 
«  il  corso  del  Danubio.  Autari  adunque  essendo  già 
«  arrivato  presso  a' confini  d'Italia  e  avendo  con  sé 
«  i  Bavari  che  lo  riaccompagnavano,  levossi  quanto 
«  potè  sul  cavallo  che  inforcava,  e  con  tutta  forza 
«  infisse  neir  albero  che  gli  era  più  prossimo  la  scure 
«  che  tenea  in  mano  e  ve  la  lasciò  infissa  con  queste 
«  parole:  'Di  cotali  ferite  suol  fare  Autari.'  E  avendo 
«  ciò  detto,  allora  i  Bavari  che  l'accompagnavano  in- 
«  tesero  eh'  egli  era  lo  stesso  re  Autari  (1).  » 

Ne  solo  per  fatti  somiglianti  apparisce  in'  forma 
cosi  leggendaria  la  storia  dei  Longobardi.  Il  racconto 
di  rivolgimenti  politici  gravissimi  mostra  il  vero  della 
osservazione  del  Balbo  intorno  alla  tendenza  cavalle- 


(1)  Historia  Langohardonnn^  IH,  30. 


70  LE   CRONACHE    ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

resca  che  si  veniva  manifestando  allora  in  Italia  e 
improntava  del  suo  carattere  molte  azioni  reali  di 
quel  popolo.  Questa  tendenza  si  riflette  come  in  uno 
specchio  nell'anima  ingenua  ed  immaginosa  di  Paolo 
diacono  ed  è  gran  fortuna  pei  posteri.  Ispirato  da  essa 
egli  narra  la  storia  delle  cose  avvenute  quali  la  voce 
viva  delle  tradizioni  gliele  riferisce  e  non  sciupa  que- 
ste ultime  sfoggiando  una  vana  erudizione  o  una  cri- 
tica non  concessa  ai  suoi  tempi.  Così  per  lui  rientriamo 
davvero  nella  età  longobarda  e  i  suoi  personaggi  sono 
ritratti  con  un  vigore  di  movimento  e  di  colorito  che 
ci  aiuta  a  maraviglia  per  intenderli  e  per  rifarci  nella 
mente  que'tempi  de'quali  egli  solo  ci  ha  lasciato  un  largo 
e  durevole  ricordo.  Dalle  prime  mitiche  origini  lon- 
gobarde egli  scende  fin  quasi  ai  tempi  di  Desiderio  e 
di  Adelchi  di  cui  non  tratta,  o  che  la  morte  gli  rom- 
pesse a  mezzo  il  racconto  o  che  gli  fosse  troppo  arduo 
narrar  la  conquista  del  suo  popolo  compiuta  da  quel 
Carlo  che  lo  aveva  tanto  onorato.  Longobardi,  Greci, 
Romani  da  Alboino  a  Liutprando  ci  ritornano  ancor 
vivi  dinnanzi.  Tra  la  gran  folta  del  popolo  tutti  quei 
papi  e  re  e  gran  baroni,  e  gli  aderenti  loro  e  i  nemici, 
e  monaci  e  guerrieri  e  santi  e  donne  eroiche  ed  ab- 
biette tutti  risorgono  e  si  muovono  nel  libro  di  Paolo. 
Battaglie  aperte  e  congiure,  splendori  di  corti  e  spe- 
lonchS  di  romiti,  virtiì  e  delitti,  sacrilegi  e  miracoli, 
si  seguono  e  s' intrecciano  in  un  contrasto  pieno  di 
vita.  Scegliere  esempi  dalle  narrazioni  di  Paolo  è  dif- 
ficile, massime  quando  è  necessità  limitarsi:  valga 
perciò  questo  solo  episodio  che  narro  in  gran  parte 
colle  parole  stesse  di  Paolo. 


PAOLO   DIACONO  71 

Dopo  il  glorioso  regno  di  Rotari  il  legislatore  e  l'al- 
tro assai  breve  di  Rodoaldo,  fu  chiamato  al  trono 
Ariperto  figlio  ad  un  fratello  di  Teodelinda  il  quale 
regnò  nove  anni  di  cui  quasi  nulla  ricorda  la  storia. 
Alla  sua  morte  due  figli  suoi  Godeperto  e  Pertarito 
si  divisero  il  regno  e  il  primo  pose  stanza  a  Pavia 
r  altro  a  Milano.  Questa  divisione,  nuova  presso  i 
Longobardi,  mostra  come  gli  animi  fossero  divisi  in- 
torno alla  elezione  e  si  potessero  male  accordare.  In- 
fatti indi  a  breve  pur  tra  i  fratelli  sorse  dissenso,  e 
Gqdeperto  istigato  da  mali  consiglieri,  spedì  il  duca 
di  Torino  a  Grimoaldo  duca  di  Benevento,  principe 
dei  più  potenti  d'Italia  e  per  le  qualità  sue  personali 
riputatissimo.  Godeberto  offriva  una  sua  sorella  in 
isposa  al  beneventano  e  in  cambio  gli  chiedeva  aiuto 
contro  Pertarito,  ma  il  messaggero  fattosegli  traditore 
offri  invece  a  Grimoaldo  la  corona  regia  e  l'esortò  a 
trar  partito  dalle  discordie  di  que' fratelli  per  farsi 
signore  d'Italia.  Grimoaldo  si  recò  in  Lombardia,  e 
quel  da  Torino  inteso  sempre  nel  suo  proposito,  ecci- 
tando sospetti  vicendevoli  tra  i  due  alleati,  adoperò 
così  scaltro  che  al  primo  loro  abboccarsi  Grimoaldo 
uccise  di  mano  sua  Godeperto.  All'annunzio  del  fatto 
Pertarito,  sentendosi  forse  mancare  a  un  tratto  ogni 
appoggio,  abbandonò  Milano  a  così  gran  fretta  che  si 
lasciò  dietro  la  regina  e  il  figliuol  Cuniperto  i  quali 
furono  confinati  entrambi  a  Benevento  mentre  egli  va- 
gava. Grimoaldo  intanto  sposò  la  sorella  dell'ucciso 
principe,  fatto  non  senza  esempio  nella  storia  longo- 
barda ma  pur  molto  strano,  e  nel  662  fu  confermato 
re  a  Pavia.  Le  vicende  dello  sbandito  re  Pertarito 
lungo  l'esilio  ci  sono  così  narrate  dallo  storico  nostro: 


72       LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  Confermato  dunque  Grimoaldo  nel  regno  sul  Ti- 
«  cino,  non  molto  dopo  si  tolse  in  moglie  la  figliuola 
«  di  re  Ariperto  che  già  eragli  stata  promessa  e  di 
«  cui  egli  avea  ucciso  il  fratello  Godeperto.  L'eser- 
«  cito  beneventano  che  1'  aveva  aiutato  a  impadro- 
«  nirsi  del  regno  rimandò  con  gran  doni  alle  sue 
«  case.  Tuttavia  trattenne  solo  alquanti  di  esso  a  star 
«  seco  concedendo  a  loro  possedimenti  larghissimi. 

«  Il  quale  posciaché  seppe  che  Pertarito  fuggendo 
«  era  arrivato  in  Scizia  e  dimorava  presso  del  Kan, 
«  a  quel  medesimo  Kan  re  degli  Avari  mandò  di- 
«  cendo  per  suoi  ambasciatori,  che  se  ricoverasse  Per- 
«  tarito  nel  regno  suo^  non  potrebbe  mantener  più 
«  quella  pace  che  s'era  mantenuta  fino  ad  allora  tra 
«  i  Longobardi  e  lui.  Udendo  ciò  il  re  degli  Avari 
«  chiamato  Pertarito  dissegli  ch'egli  antìasse  pure  in 
«  qua!  parte  gli  piaceva  ma  che  gli  Avari  non  ayean 
«  da  contrarre  nimicizie  coi  Longobardi.  E  Pertarito 
«  in  udir  ciò  si  rivolse  all'  Italia  per  tornarsene  a 
«  Grimoaldo  perché  aveva  udito  ch'egli  era  clemen- 
«  tissimo.  Pervenuto  adunque  alla  città  di  Lodi,  prima 
«  di  sé  mandò  a  re  Grimoaldo,  Unulfo  un  fedehssimo 
«  uom  suo  che  gli  annunziasse  la  sua  venuta.  Unulfo 
«  quindi  presentandosi  al  re  gli  annunziò  che  Per- 
«  tarito  veniva  a  mettersi  nella  sua  fede.  La  qual 
«  cosa  udendo  colui  promise  sicuramente  ch'egli  non 
«  patirebbe  alcun  male  poiché  veniva  alla  fede  sua. 
«  In  questa  venendo  Pertarito,  entrato  presso  Gri- 
«  moaldo,  mentre  voleva  buttarglisi  a' piedi,  il  re  cle- 
«  mente  lo  trattenne  e  lo  sollevò  all'amplesso  suo.  A 
«  cui  Pertarito:  'Io  son  tuo  servo,  gli  dice;  sapen- 


PAOLO   DIACONO  73 

«  doti  cristianissimo  e  pio,  mentre  potea  viver  tra  i 
«  pagani,  m'affidai  alla  tua  clemenza  e  ti  venni  in- 
«  nanzi.'  A  cui  il  re  col  solito  suo  giuramento  così 
«  promise  dicendo  :  'Per  colui  che  mi  fé'  nascere,  po- 
«  sciaché  tu  venisti  alla  mia  fede,  in  ninna  cosa  tu 
«  patirai  male,  ed  io  così  ordinerò  le  tue  cose  che 
«  tu  possa  vivere  onoratamente.  '  Quindi  assegnando- 
«  gli  ospizio  in  una  casa  spaziosa  gli  disse  di  ripo- 
«  sarsi  dopo  il  travaglio  del  viaggio,  e  impose  che 
«  gli  si  somministrasse  largamente  dal  denaro  pub- 
«  blico  il  vitto  e  ogni  cosa  necessaria.  Ma  poiché  Per- 
«  tarito  fu  andato  alla  casa  apparecchiatagli  dal  re, 
«  subito  cominciarono  torme  di  cittadini  pavesi  ad 
«  accorrer  quivi  o  per  vederlo^  o,  quelli  che  già  lo 
«  conoscevano,  per  salutarlo.  Però  dove  non  giungono 
«  le  male  lingue  ?  Imperocché  tosto  alcuni  adulatori 
«  maligni  recatisi  al  re  gli  sussurrano  che  s'ei  non 
«  toglierà  prestamente  Pertarito  di  vita,  egli  stesso 
«  perderà  in  breve  e  regno  e  vita,  asseverando  che 
«  perciò  tutta  la  città  accorreva  a  lui.  Udito  ciò  Gri- 
«  moaldo  troppo  credulo  e  dimentico  delle  promesse, 
«  s'accende  subito  al  pensiero  d'uccider  Pertarito  e 
«  fa  consiglio  del  come  ucciderlo  l' indomani  poiché 
«  l'ora  era  omai  troppo  tarda.  In  sul  vespro  gli  invia 
«  diversi  cibi,  scelti  vini  e  bevande  di  varie  maniere, 
«  affinché  abbandonatosi  quella  notte  al  molto  bere 
«  e  sepolto  nel  vino  non  valesse  a  badare  in  nulla 
«  alla  salvezza  sua.  Allora  un  tale  ch'era  stato  ai  ser- 
«  vigi  di  suo  padre,  avendo  recato  a  Pertarito  le  re- 
«  gie  vivande,  inchinando  il  capo  fin  sotto  la  mensa 
«  quasi  a  salutarlo,  segretamente  gli  annunziò  che  il 


74  LE   CRONACHE    ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  re  aveva  divisato  d' ucciderlo.  E  Pertanto  subito 
«  comandò  al  suo  coppiere  che  nella  tazza  d'argento 
«  nuli' altro  gli  versasse  fuorché  un  po'd'acc^ua.  E 
«  poiché  coloro  che  gli  portavano  le  varie  bevande 
«  lo  pregavano  a  nome  del  re  che  si  bevesse  tutta 
«  la  fiala,  quegli  promettendo  di  berla  tutta  in  onore 
«  del  re,  libava  un  po'  d'acqua  nel  calice  d'argento. 
«  Quei  ministri  annunziando  ciò  al  re  e  ch'egli  be- 
«  veva  avidissimo,  il  re  lieto  rispose  :  'Beva  quel  bria- 
«  cone;  domani  renderà  quel  vino  medesimo  misto 
«  col  sangue.  '  Pertarito  intanto  chiamato  a  sé  subito 
«  Unulfo  gli  narrò  la  trama  del  re  per  ucciderlo. 
«  Unulfo  subito  mandò  a  casa  sua  un  ragazzo  che 
«  gli  portasse  i  panni  del  letto  e  si  fé'  apparecchiare 
«  un  letto  presso  quello  di  Pertarito.  Xè  andò  un  pezzo 
«  e  Grimoaldo  diresse  i  suoi  satelliti  a  circondar  la 
«  casa  dove  Pertarito  dormiva  talché  non  potesse 
«  scampare  in  alcun  modo.  E  finita  la  cena  e  tutti 
«  usciti,  rimanendo  soli  Pertarito,  Unulfo  e  il  guar- 
«  darobiere  di  Pertarito  che  gli  era  fedele  davvero, 
«  essi  s'aprono  con  lui  e  lo  supplicano  che,  mentre 
«  Pertarito  fuggirà,  egli,  il  più  lungo  tempo  che  potrà, 
«  entro  la  stanza  da  letto  finga  di  dormire.  E  promet- 
«  tendo  quegli  di  far  cosi,  Unulfo  impose  sulle  spalle  e 
«  sul  collo  a  Pertarito  i  panni  del  letto  e  la  coltrice  e 
«  una  pelle  d'orso,  e  secondo  l'accordo  cominciò  a 
«  cacciarlo  fuor  della  porta  ingiuriandolo  forte  e  per 
«  giunta  battendolo  colla  verga,  senza  cessar  mai  di 
«  sgridarlo,  talché  colpito  e  spinto  ruzzolava  spesso 
«  a  terra.  E  interrogandolo  di  ciò  i  satelliti  regi  che 
«  eran  lì  posti  a  custodia:  'Questo  servo  cialtrone, 


PAOLO    DIA.CONO  75 

«  rispose  Unulfo,  mi  avea  collocato  il  letto  nella  stanza 
«  di  codesto  briacon  Pertarito,  il  quale  è  così  pien 
«  di  vino  ch'ei  giace  come  morto.  Mi  basta  d'aver 
«  seguita  finora  la  pazzia  sua,  d'ora  innanzi,  finché 
«  viva  il  re,  io  nella  propria  casa,  mi  rimarrò.  ' 
«  Udendo  tali  cose  coloro  e  credendole  vere  se  n'al- 
«  lietarono,  e  dando  luogo  a  lui  e  a  Pertarito,  che 
«  stimavano  essere  un  servo  e  che  per  non  farsi  co- 
«  noscere  avea  il  capo  coperto,  li  lasciarono  andare. 
«  Mentre  essi  andavano,  quel  fedelissimo  guardaro- 
«  biere  chiusa  bene  la  porta  se  ne  rimase  dentro  solo. 
«  Unulfo  intanto  calò  con  una  fune  Pertarito  giù  da 
«  quel  lato  delle  mura  che  è  verso  il  Ticino,  e  l'as- 
«  socio  a  que'  compagni  che  potè  trovare.  I  quali  tolti 
«  que'  cavalli  che  poteron  trovar  lì  alla  pastura^  mos- 
«  sero  in  fretta  ad  Asti  dove  Pertarito  aveva  amici 
«  i  quali  si  mantenevano  tuttavia  ribelli  a  Grimoaldo. 
«  Quindi  movendo  quanto  più  presto  potè  a  Torino, 
«  superati  i  confini  d' Italia  giunse  alla  patria  dei 
«  Franchi.  Così  Iddio  onnipotente  per  disposizione  di 
«  misericordia  e  strappò  un  innocente  alla  morte  e 
«  salvò  da  colpa  il  re  che  nell'animo  suo  desiderava 
«  di  far  bene. 

«  Ma  Grimoaldo  stimando  che  Pertarito  dormisse 
«  nella  dimora  sua,  tra  questa  e  il  suo  palazzo  fece 
«  distendere  una  schiera  d'uomini  per  far  passare 
«  Pertarito  in  mezzo  a  loro  aflSnché  non  potesse  fug- 
«  gire  in  nessun  modo.  E  venendo  i  messi  del  re  a 
«  chiamar  Pertarito  a  palazzo,  e  picchiando  alla  porta 
«  dove  e'  credean  che  si  stesse  dormendo,  quel  guar- 
«  darobiere  che  stava  dentro  li  pregava  dicendo  :  '  Ab- 


76  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  biategli  misericordia  e  lasciatelo  dormire  alquanto 
«  perché  stanco  ancora  del  viaggio  è  oppresso  da  sonno 
«  gravissimo.  '  E  annuendo  quelli  riportarono  al  re  che 
«  Pertarito  dormiva  tuttavia  un  grave  sonno.  Egli  al- 
«  lora  :  '  Così  s'  è  caricato  iersera  che  adesso  non  può 
«  tenersi  sveglio.'  A  quelli  tuttavia  impose  che  sve- 
«  gliatolo  subito  lo  conducessero  a  palazzo.  I  quali 
«  recatisi  all'uscio  della  stanza  dove  speravano  che 
«  Pertarito  riposasse,  incominciaron  piiì  forte  a  pic- 
«  chiare.  Allora  il  guardarobiere  di  nuovo  prese  a 
«  pregarli  che  concedessero  ancora  a  Pertarito  di  dor- 
«  mire  un  poco.  Quelli  irati  esclamando  che  ormai  il 
«  briacone  avea  dormito  a  sufficienza,  rompono  a  calci 
«  l'uscio  della  stanza  ed  entrati  cercano  nel  letto  Per- 
«  tarito.  Non  trovandolo  chiedono  al  guardarobiere 
«  che  cosa  fosse  di  Pertarito  e  quegli  rispose  ch'egli 
«  era  fuggito.  Furenti  a  ciò  lo  prendono  pe  capelli 
«  e  tra  le  percosse  lo  strascinano  a  palazzo,  e  con- 
«  dottolo  alla  presenza  del  re,  lo  dichiarano  conscio 
«  della  fuga  di  Pertarito  e  però  degnissimo  di  morte. 
«  Il  re  comanda  che  lo  lascino  e  s'informa  ordina- 
«  tamente  in  qual  modo  Pertarito  sia  scampato.  Que- 
«  gli  riferisce  ogni  cosa  come  s'era  fatta.  Il  re  in- 
«  terrogò  allora  i  circostanti  dicendo  :  '  Che  vi  par  di 
«  quest'  uomo  che  fece  una  siffatta  cosa  ?  '  E  tutti  a 
«  una  voce  risposero  ch'egli  era  degno  di  morir  fra 
«  mille  tormenti.  ]\Ia  il  re:  'Per  colui  che  mi  fé' na- 
«  scere ,  disse ,  degno  è  d' essere  ben  trattato  que- 
«  st'uomo  che  non  ricusò  di  consacrarsi  a  morte  per 
«  la  fede  del  suo  signoro.'  E  tosto  comandò  che  l'an- 
«  noverassero  tra  i  suoi  guardarobieri  ammonendolo 


PAOLO   DIACONO  77 

«  che  gli  serbasse  la  stessa  fede  che  aveva  serbata 
«  a  Pertarito  e  promettendo  di  largirgli  ogni  agio. 
«  Chiedendo  poi  il  re  che  fosse  avvenuto  d'  Uniilfo, 
«  gli  dissero  che  s'era  rifugiato  nella  Chiesa  del  Beato 
«  Arcangiolo  IMichele.  Il  re  mandò  subito  per  lui  pro- 
«  mettendogli  spontaneo  che  non  patirebbe  alcun  male, 
«  ma  ch'ei  venisse  nella  sua  fede.  Unulfo  poi  udendo 
«  una  tale  promessa  del  re,  subito  venne  a  palazzo 
«  e  gettatosi  ai  piedi  del  re  fu  interrogato  da  lui  come 
«  e  qualmente  Pertarito  avesse  potuto  scampare.  Ma 
«  quegli  avendo  riferita  ogni  cosa  per  ordine,  il  re 
«  lodando  la  fede  e  la  prudenza  sua,  gli  concesse  cle- 
«  mente  tutte  le  sue  facoltà  e  quanto  poteva  avere. 

«  Il  re  poi  dopo  qualche  tempo  interrogando  Unulfo 
«  s' egli  volesse  allora  esser  con  Pertarito,  quegli  giu- 
«  rando  disse  che  piuttosto  vorrebbe  morir  con  Per- 
«  tarito  che  vivere  altrove  nelle  maggiori  delizie. 
«  Allora  il  re  interrogò  anche  il  guardarobiere  chie- 
«  dendo  s' egli  trovava  migliore  lo  star  con  lui  in 
«  palazzo  o  andar  seguendo  Pertarito  uell'  esilio.  E 
«  avendo  quegli  risposto  il  medesimo  che  Unulfo,  il 
«  re  accogliendo  benignamente  le  parole  loro  e  lo- 
«  dando  la  loro  fede  disse  ad  Unulfo  che  dalla  casa 
«  sua  prendesse  quanto  piacevagli,  cioè  garzoni,  ca- 
«  valli  e  suppellettile  diversa,  e  se  ne  andasse  illeso 
«  a  Pertarito.  Nel  medesimo  modo  licenziò  anche  il 
«  guardarobiere.  I  quali  secondo  la  benignità  regia 
«  pigliando  a  sufficienza  tutte  le  cose  loro,  coli' aiuto 
«  del  re  medesimo  si  recarono  nella  patria  de'Fran- 
«  chi  al  diletto  lor  Pertarito.  » 

Ne  qui  finisce  questa  drammatica  storia.  Qualche  anno 


78  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

più  tardi  Pertarito  sentendosi  mal  sicuro  nella  terra 
Franca  pensò  d'  andarsene  in  Inghilterra.  Frattanto 
Griinoaldo  mori  d'una  ferita  ch'egli  avea  cagionata  a  se 
stesso  nel  tirar  d'arco^  e  fu  sospettato  che  i  medici  l'aves- 
sero avvelenata  mentre  mostravano  di  curarla.  «  Questi, 
«  conclude  Paolo  parlando  di  lui,  all'editto  composto 
«  da  re  Rotari  aggiunse  alcuni  capitoli  di  legge  che 
«  gli  parvero  utili.  Fu  egli  validissimo  di  corpo,  in- 
«  nanzi  a  tutti  per  audacia,  calvo  del  capo,  lunga  la 
«  barba,  non  meno  ornato  di  consiglio  che  di  forza. 
«  Il  corpo  suo  fu  sepolto  nella  basilica  del  beato  Am- 
«  brogio  confessore,  già  fabbricata  da  lui  entro  Pavia. 
«  Un  anno  e  tre  mesi  dopo  la  morte  del  re  Ariperto 
«  egli  avea  invaso  il  regno  dei  Longobardi,  e  regnò 
«  nove  anni  lasciando  re  in  età  ancor  puerile  Gari- 
«  baldo  un  figliuolo  che  da  lui  avea  generato  la  figlia 
«  del  re  Ariperto.  Adunque,  come  avevamo  incomin- 
«  ciato  a  dire,  Pertarito  lasciata  la  Gallia,  salì  una 
«  nave  per  passar  nell'  isola  britannica  al  regno  dei 
«  Sassoni.  E  già  aveva  alquanto  navigato  in  mare, 
«  quando  fu  dalla  riva  udita  una  voce  chiedente  se 
«  Pertarito  si  trovasse  in  quella  nave.  E  risposto  ch'ei 
«  v'era,  colui  che  chiamava,  soggiunse:  ^Ditegli  che 
«  egli  se  ne  torni  alla  patria  sua  :  già  fan  tre  giorni 
«  oggi  da  che  Grimoaldo  fu  tolto  alla  luce.'  Udendo 
«  ciò  Pertarito  subito  tornò  indietro  ma  giunto  al  lido 
«  non  potè  trovar  la  persona  che  avevagli  annunziata 
«  la  morte  di  Grimoaldo,  onde  fe'stima  colui  non  essere 
«  stato  un  uomo  ma  un  nunzio  celeste.  E  quindi,  mo- 
«  vendo  verso  la  patria,  giunto  ai  confini  d'Italia  trovò 
«  che  l'aspettavano  palatini  ossequi  ed  ogni  regia  di- 


PAOLO   DIACONO  79 

«  gnità  con  grande  moltitudine  di  Longobardi.  Adun- 
«  que  tornato  a  Pavia,  tolto  del  regno  il  fanciul- 
«  letto  Garibaldo,  fu  da  tutti  i  Longobardi  sollevato 
«  al  regno  nel  terzo  mese  dopo  la  morte  di  Grimoaldo. 
«  Era  egli  uomo  pio,  cattolico  di  fede,  tenace  della 
«  giustizia,  e  dei  poveri  nutritore  larghissimo.  Il  quale 
«  subito  mandò  a  Benevento  e  richiamò  di  quivi  Ro- 
«  dolinda  consorte  sua  e  Cuniperto  suo  figlio  (1).  » 

Dagli  esempi  che  son  venuto  recando  non  sarà  ma- 
lagevole al  lettore  il  figurarsi  i  pregi  principali  e  i 
difetti  di  Paolo  e  come  scrittore  e  come  storico.  Nato 
quando  le  lettere  latine  erano  cadute  nel  folto  della 
barbarie,  egli  al  paragone  de'  suoi  tempi  è  scrittore 
eccellente  ma  non  è  da  aspettarsene  quella  purezza 
sicura  che  abbellisce  lo  stile  di  latinisti  fioriti  in  età 
diverse.  Poeta  gentile  e  talora  perfino  elegante  egli 
adopera  la  lingua  latina  colla  facilità  nativa  di  chi 
l'ha  usata  fanciullo  ancorché  talvolta  pecchi  di  qual- 
che errore.  Di  stile  è  disugualissimo,  e  la  disugua- 
glianza per  lo  più  deriva  dalle  fonti  a  cui  egli  attinge 
spesso  copiando.  Generalmente  egli  è  chiaro,  ma  si 
incontrano  nel  suo  libro  taluni  passi  intralciati  e 
in  tal  modo  oscuri,  che  dopo  infiniti  lavori  tormen- 
tano ancora  la  fantasia  e  la  pazienza  degli  eruditi  a 
cui  tocca  d'interpretarli.  Ama  il  vero  con  ardore  di 
uomo  onesto  ma  ripete  credulo  le  leggende  e  i  rac- 
conti favolosi  che  ha  trovato  sparsamente  nelle  cro- 
nache 0  nelle  tradizioni  ne  cerca  d'alterarli  togliendo 
ad  essi  o  aggiungendovi  nulla.  E  ciò  è  un  gran  pre- 


(1)  Historia  Langobardorum,  V,  1,  et  seq. 


80  LE    CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

gio  e  tanto  più  gliene  dobbiamo  esser  grati  quanto 
più  la  cultura  sua,  vastissima  pe'  suoi  tempi^  poteva 
tentarlo  ad  una  narrazione  più  ricercata  e  artificiosa 
che  ne  avrebbe  insieme  distrutto  il  fascino  e  il  me- 
rito storico.  Così  com'  essa  è  la  sua  narrazione  ha  un 
valore  immenso  che  s'  accresce  per  l' uso  eh'  egli  fece 
degli  scritti  perduti  oramai  senza  speranza  di  Secondo 
vescovo  di  Trento.  Il  lungo  e  vario  commercio  di  pen- 
sieri e  d'affetti  ch'egli  ebbe  con  uomini  e  paesi  assai 
diversi  tra  loro,  lo  trae  quasi  per  istinto  ad  allargar 
la  tela  del  suo  racconto  e  a  largamente  giovarsi  di 
altri  scrittori  per  narrar  fatti  lontani  da  lui  di  tempo 
e  di  paesi.  Perciò  oltre  che  alla  Origo  e  al  vescovo 
Secondo,  egli  attinge  sovente  a  Gregorio  da  Tours, 
a  Beda  il  venerabile^  alle  vite  dei  Pontefici,  alle  opere 
di  Gregorio  il  Grande  e  d'altri  somiglianti  scrittori. 
L'amore  della  verità  che  Io  animava,  i  viaggi,  le  molte 
cose  vedute,  l'accesso  familiare  alle  corti  dei  Longo- 
bardi e  dei  Franchi,  gli  agevolarono  il  mezzo  di  rac- 
cogliere le  tradizioni  del  passato,  mentre  la  fantasia 
vivida  e  la  ingenuità  sua  lo  muovevano  a  dipingerle 
al  vero.  Quanto  ha  di  plausibile  la  Historia  Lango- 
hardorum  vuoisi  riputar  grave  e  degno  d' esame  ma- 
turo, e  quanto  v'ha  di  non  plausibile  in  essa,  bene 
dipinge  e  fedelmente  gli  antichi  costumi  dei  Longo- 
bardi, a  quel  modo  che  la  vecchia  Scozia  meglio  che 
da  ogni  storico  ci  rimane  innanzi  dipinta  dal  mara- 
viglioso  pennello  del  suo  gran  romanziere. 


Capitolo  III 


Decadenza  della  cronografia  italiana  —  Il  «  Liber  Pontilìcalis  »  —  «  Gesta 
Episcoporum  Neapolitanorum  »  —  Agnello  Ravennate  —  Scritti  polemici 
di  Ausilio  e  Vulgario  —  I  monasteri  e  le  invasioni  saraceniche  —  Farla  : 
la  «  Constructio,  »  le  vite  dei  santi  Vulturnensi,  la  «  Destructio  »  — 
Montecassino  :  il  «  Chronicon  Sanati  Benedicti  Casinensis  »  —  I  cataloghi 
e  le  traslazioni  dei  Santi  —  La  Historia  di  Erciiemperto  e  l'Anonimo 
Salernitano  —  Andrea  da  Bergamo  —  Panegirico  di  Berengario  —  Stato 
della  cultura  laica  in  Italia.  —  Liudprando  —  Scritti  imperialisti  —  Be- 
nedetto del  Soratte  —  Cronaca  veneta  di  Giovanni  Piacono. 

La  historia  di  Paolo  Diacono  ebbe  alcune  continua- 
zioni (1),  ma  il  valor  d'esse  dppena  merita  una  fug- 
gitiva menzione  in  questo  libro  che  non  considera 
esclusivamente  le  opere  dei  cronisti  come  sorgenti 
di  storia  ma  sì  anche  come  manifestazioni  letterarie 
della  età  medioevale.  La  cronografia  italiana  entra 


(1)  Palili  Continuationes  nel  volume  Scriptores  Bemm  Lan- 
gobardiearum  et  Italicarum  saec.  VI-IX  dei  Monumenta  Ger- 
maniae  Historica. 

6.  Balzvxi,  Le  Cronache  italiane. 


82  LE    CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

ora  nel  periodo  più  povero  della  sua  vita.  Un  deca- 
dimento pi'ofondo  seguì  gli  ultimi  bagliori  del  clas- 
sicismo e  quello  sforzo  verso  una  rinascenza  tentato 
da  Carlo  Magno  e  cessato  con  lui.  Al  notevole  la- 
voro di  Paolo  tennero  dietro  cronache  o  ricordi  sto- 
rici d' assai  minore  importanza.  «  E  ben  da  compian- 
«  gere,  nota  il  gran  Muratori,  la  storia  d'Italia  che 
«  ci  lascia  per  tanto  tempo  digiuni  dei  fatti  ed  av- 
«  venimenti  d'allora,  con  restarne  solo  un  qualche 
«  barlume  presso  gli  antichi  oltramontani  (1).  »  Infatti 
dal  periodo  dei  Carolingi  a  quel  degli  Ottoni,  dove 
non  ci  soccorrono  documenti  indiretti  come  iscrizioni, 
diplomi  e  somiglianti  aiuti,  spesso  è  necessità  ricor- 
rere a  fonti  tedesche  o  francesi  per  aver  qualche  luce 
tra  il  folto  buio  della  storia  nostra.  Come  vedremo 
non  s'  era  spento  del  tutto  nei  laici  ogni  ricordo  del- 
l' antico  sapere  ma  l' impulso  a  scrivere  mancava  in 
essi,  e  la  parte  piìi  colta  del  clero  era  troppo  intesa 
nelle  agitazioni  politiche  per  consacrarsi  a  dettare 
scritti  di  storia.  In  genere  la  cultura  ecclesiastica 
parve  concentrai'si  pressoché  intera  nella  trattazione 
degli  affari,  talché  le  raccolte  delle  lettere  pontificie 
di  Niccolò  I  (t  867)  e  di  Giovanni  Vili  (f  882),  cosi 
per  forza  e  bontà  d'  espressione  e  di  stile  come  per 
valore  storico,  sono  forse  i  documenti  più  pregevoli 
che  ci  abbiano  lasciato  quei  tempi.  Ma  il  silenzio  che 
nel  secolo  nono  sembra  regnare  in  Italia  intorno  agli 
avvenimenti  contemporanei,  non  può  dirsi  assoluto. 
Quegli  avvenimenti  medesimi  furono   talvolta  occa- 


(1)  Muratori,  Annali  d'Italia,  ad  an.  800. 


IL    «    LIBER   PONTIFICALIS    »  83 

sione  pressoché  necessaria  di  scritti  che  direttamente 
0  indirettamente  hanno  carattere  storico,  tra  i  quali 
vuoisi  dar  luogo  eminente  al  Liber  Pontificalìs  che 
per  quanto  riguarda  la  prima  metà  del  nono  secolo 
è  di  grande  sussidio  alla  storia  generale  della  Chiesa 
e  a  quella  particolare  di  Roma.  Questo  libro  andò 
lungo  tempo  sotto  il  nome  di  Anastasio  Bibliotecario 
uomo  di  molta  dottrina,  che  tradusse  dal  greco  varie 
opere  ma  che  assai  probabilmente  non  ebbe  nessuna 
parte  in  questa.  Certo  l'attribuire  il  Libro  Pontificale 
ad  un  solo  autore  è  contraddire  all'  indole  stessa  del- 
l' opera  la  quale  consiste  in  una  serie  di  notizie  bio- 
grafiche dei  papi  compilate  or  più  or  meno  estesa- 
mente in  vari  tempi  e  da  vari  scrittori.  La  storia 
di  questo  libro  e  delle  sue  compilazioni,  le  indagini 
circa  gli  autori  di  esso,  la  critica  dei  manoscritti  che 
lo  contengono  hanno  dato  materia  di  lungo  lavoro 
agli  eruditi  e  pur  di  recente  originarono  alcune  dis- 
sertazioni dottamente  elaborate  e  ricche  d'acume  (1). 
Ma  a  me  qui  non  è  conceduto  indugiarmi  con  esse 
e  mi  avanza  appena  lo  spazio  per  augurare  che  dalle 
discussioni  erudite  scaturisca  alfine  una  edizione  si- 
cura del  testo.  Basti  ora  descrivere  brevemente  la 
prima  parte  di  questo  libro  che  pel  frequente  variar 
di  forme  può  in  certo  modo  rassomigliarsi  al  nascere 
e  al  correr  d' un  fiume.  Il  bisogno  continuo  d' aver 
familiare  per  motivi  ecclesiastici  la  cronologia  pon- 


(1)  Notevolissime  fra  queste  VEtmle  sur  le  Liber  Pontifi- 
calis  del  signor  abate  Duchesue  e  la  polemica  ch'essa  ha 
suscitata. 


84  LE    CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

tificia  fu  prima  origine  del  libro.  Così,  verso  il  quarto 
secolo,  dagli  antichi  cataloghi  dei  nomi  dei  papi,  dalle 
costoro  lapidi  sepolcrali,  dalle  menzioni  che  se  ne 
trovavano  negli  atti  dei  martiri  o  in  lettere  o  in  libri, 
cominciò  a  comporsi  il  primo  nucleo  del  libro  pon- 
tificale per  la  più  antica  e  popolare  redazione  che 
risalisce  al  pi'incipio  del  sesto  secolo.  Sulle  prime  le 
biografie  indicavano  fuggevolmente  il  nome,  la  fa- 
miglia, la  patria  del  pontefice,  la  durata  del  suo  pon- 
tificato, i  decreti  dati  nel  suo  tempo  e  il  luogo  di 
sua  sepoltura.  Tra  un  pontefice  e  l'altro  era  notato 
il  tempo  della  sede  vacante.  Poi  a  poco  a  poco  le 
brevi  indicazioni  aumentarono,  e  le  compendiose  no- 
tizie si  vennero  mutando  in  biografie  più  larghe  e 
ricche  di  dettagli  preziosi  (1).  Sventuratamente  nel- 
l'ultimo quarto  del  nono  secolo  quando  avremmo  più 
bisogno  dei  soccorsi  di  questo  libro  esso  ci  vien  meno 
quasi  interamente.  Le  turbolenze  politiche  vincono 
la  forza  della  tradizione,  e  il  Libro  Pontificale  rica- 
duto nella  aridità  primitiva  si  scheletrisce  di  nuovo 
e  si  riduce  a  un  catalogo.  Più  tardi,  giunti  al  pon- 
tificato di  Leone  IX,  col  risoi'gere  della  cultura  sto- 
rica lo  ritroveremo  più  ricco  di  fatti  e  più  fiorente, 
rendendoci  così  sempre  la  immagine  di  un  fiume  che 
si  nasconde  a  un  tratto  per  riapparire  più  vasto  e 
più  copioso  altrove. 


(1)  «11  Libro  Pontificale  utilissimo  per  le  preziose  notizie 
«  che  ci  fornisce  delle  riparazioni  e  de' lavori  fatti  da  romani 
«pontefici  in  que' luoghi  venerandi»  (le  catacombe)....  De 
Rossi,  Eoma  fiotterranea  cristiana.  I,  8.  Roma,  1864. 


LE    «    GESTA   EPISCOPORUM   NEAPOLITANORUM    »  85 

Quando  Paolo  Diacono  scrisse  le  Gesta  dei  vescovi 
di  Metz,  inaugurava  un  genere  di  letteratura  storica 
che  rispondeva  veramente  a  un  bisogno  dei  suoi  tempi, 
e  nei  secoli  seguenti  trovò  molti  imitatori.  Lo  stesso 
concetto  che  aveva  ispirato  il  libro  pontificale  ispi- 
rava qua  e  colà  in  varie  diocesi  storie  di  vescovi 
alle  quali  talvolta  la  importanza  della  sede  e  la  po- 
vertà di  altre  notizie  allargano  il  valore  nella  storia 
generale  della  Chiesa.  Così  le  storie  dei  vescovi  na- 
poletani e  dei  ravennati,  compilate  nel  nono  secolo, 
sono  documenti  che  vogliono  tenersi  in  gran  conto 
da  chi  indaga  studiando  le  vicende  di  quella  età. 
Come  la  raccolta  delle  vite  dei  vescovi  romani,  cosi 
le  Gesta  Episcoporum  Neapolitanorum  sono  opera  di 
diversi  autori  e  anch'  esse  furono  attribuite  quasi  per 
intero  ad  un  autor  solo,  Giovanni  Diacono.  Il  Waitz 
in  una  recente  edizione  di  questo  libro  (l),  ha  dimo- 

(])  Gesta  Episcoporum  Neapolitanorum  edidit  G.  Waitz, 
nel  volume  Scriptores  Berum  Langohardicarum  et  Italicarum 
saec.  VI-IX  dei  Monumenta  Germaniae  Historica.  Per  queste 
notizie  sul  testo  delle  Gesta  seguo  1'  autorità  del  Waitz  e 
quella  del  Capasso  che  ne  ha  pubblicato  dopo  il  Waitz  un'altra 
eccellente  edizione  col  titolo  di  Chronicon  Episcoporum  S. 
Neapolitanae  Eccìcsiae  corredandola  di  note  dottissime.  En- 
trambi questi  eruditi  lavorando  contemporaneamente  e  indi- 
pendentemente un  dall'altro,  sono  arrivati  a  molto  simili  con- 
clusioni intorno  al  testo  del  libro  e  agli  autori  di  esso.  Noto 
tuttavia  che  il  Waitz  reputa  che  l'anonimo  autore  della  prima 
parte  abbia  scritto  sul  finire  del  secolo  ottavo  mentre  il  Ca- 
passo reca  gravi  ragioni  per  credere  eh'  egli  scrivesse  verso 
la  metà  del  secolo  nono.  Monumenta  ad  Keapolitani  Ducatus 
historiam  perfinentia....  cura  et  studio  Bartholojiaei  Capasso. 
Voi.  I.  Napoli,  presso  la  Società,  1881. 


86  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

strato  come  essa  debba  dividersi  in  tre  parti.  La  prima 
compilata  da  un  ignoto  autore  verso  la  metà  del  se- 
colo nono,  incomincia  da  Cristo  e  arriva  con  arida 
compilazione  fino  all'anno  763  aggiungendo  poco  o 
nulla  di  nuovo  alla  storia.  La  seconda  parte  è  da 
ascriversi  a  quel  Giovanni  Diacono  che  già  fu  sti- 
mato autore  di  quasi  tutto  il  libro  e  a  cui  veramente 
riman  1'  onore  d'  averne  composta  la  parte  maggiore 
e  la  meglio  pregevole.  Giovanni  cominciò  adolescente 
il  lavoro  suo,  e  ripigliando  la  storia  dei  vescovi  na- 
poletani alF  anno  763  dove  V  altro  1'  aveva  lasciata, 
la  continuò  fino  alla  morte  del  vescovo  Atanasio  I 
(A.  D.  872).  Col  successore  di  lui  incomincia  la  terza 
parte  delle  vite,  scritta  da  un  Pietro  suddiacono,  ma 
n'avanza  un  frammento  così  breve  che  non  giova 
esaminarlo  (1).  Lo  scrivere  di  Giovanni  è  corretto  a 
sufiicienza  né  s'  hanno  da  rimproverar  molte  mende 
al  suo  latino.  Considerando  i  tempi  è  scrittore  di 
qualche  merito  e  gli  acquista  lode  la  cura  ch'ei  pone 
a  cercare  il  vero  delle  cose  che  narra  e  a  darne  as- 
sicurazione al  lettore.  Le  molteplici  relazioni  di  Na- 
poli con  altri  paesi  e  specialmente  con  Roma,  colla 
Grecia  e  col  Principato  Beneventano,  accrescono  dal 
lato  storico  il  valore  a  questo  lavoro  di  Giovanni 
e  ad  alcuni  altri  suoi  scritti  minori  sulle  vite  e  la 
traslazione  delle  reliquie  d'  alcuni  santi  napoletani. 
Di  maggior  momento  è  il  Libro  Pontificale  di 
Agnello  da  Ravenna.  La  importanza  di  questa  città, 


(1)  «  De  Petri  subdiaconi  auctario,   utpote   minimo,   nihil 
singulare  dicendum  est.  »  Capasso,  op.  cit. 


AGNELLO   RAVENNATE  87 

assai  grande  mentre  decadeva  Tlmpero^  non  pur  si 
mantenne  alta,  ma  per  la  favorevole  sua  posizione 
sulla  costa  adriatica  si  fece  forse  maggiore  nei  primi 
secoli  del  medio  evo.  Poiché  i  Greci  ebbero  riper- 
duta gran  parte  d' Italia  all'  invader  dei  Longobardi, 
Ravenna  divenuta  sede  del  governo  imperiale  poteva 
assai  più  di  Roma  considerarsi  come  capitale  del- 
l'Impero. Mentre  gli  Esarchi  di  Ravenna  reggevano 
la  Pentapoli  in  nome  degli  Imperatori,  Roma  circon- 
data dal  dominio  longobardo,  tanto  si  scioglieva  man 
mano  dalla  influenza  imperiale  quanto  più  i  Papi  ve- 
nivano slargando  la  loro  e  aspiravano  a  sottrarsi  dalla 
soggezione  bizantina.  La  rilevanza  della  città  crebbe 
rilievo  alla  diocesi  di  Ravenna  e  1'  autorità  dei  ve- 
scovi ravennati  sali  così  alto  da  indurli  a  contrastare 
con  Roma  e  a  non  voler  facilmente  accogliere  le  pa- 
pali pretese  di  supremazia.  Da  ciò  si  fa  agevole  in- 
tendere come  il  libro  di  Agnello  che  tratta  dei  vescovi 
ravennati,  debba  riuscire  di  pregio.  Composto  in  modo 
somigliante  al  Libro  Pontificale  romano,  ha  comune 
con  esso  il  titolo  ancorché  sovente  mostri  tendenze 
poco  favorevoli  a  Roma.  Contro  1'  usanza  seguita  dai 
compilatori  delle  vite  papali.  Agnello  ha  lasciata  am- 
pia traccia  di  sé  nel  suo  libro,  onde  la  sua  biografia 
riesce  facile  a  tessere.  Nacque  di  nobile  famiglia  a 
Ravenna  verso  l' anno  805,  e  destinato  dai  primi 
anni  alla  vita  ecclesiastica,  fu  educato  nella  catte- 
drale {Ecclesìa  Ursiana).  Fanciullo  ancora  ebbe  in 
beneficio  V  abbazia  del  monastero  di  Santa  Maria  ad 
Blachernas  e  in  seguito  anche  quella  di  San  Barto- 
lomeo. Più  tardi  però  quest'ultima  gli  fu   tolta  per 


88  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

qualche  tempo  dall'  arcivescovo  Giorgio  il  quale,  senza 
giusta  ragione  al  dire  d'Agnello,  d'amico  grande  gli 
si  converti  in  nemico.  Agnello  fu  ordinato  prete  da 
Petronace  arcivescovo  che  governò  la  sede  ravennate 
dall'anno  817  fino  all'anno  835.  Oltreché  la  nascita 
e  le  ricchezze  già  lo  collocavano  in  posizione  elevata, 
Agnello  potè  splender  tra  il  clero  non  pure  per  queste 
doti  esteriori  ma  per  quelle  ancora  dell'  ingegno  e 
del  sapere.  Ne  ciò  vorrebbe  dir  molto,  come  osserva 
a  ragione  l'ultimo  editore  d'Agnello,  che  la  cultura 
del  clero  ravennate  era  allora  meno  che  scarsa,  ma 
tuttavia  fu  bastevole  occasione  per  un  lavoro  utilis- 
simo ai  posteri  lontani.  La  fantasia  vivace,  1'  amor 
suo  per  le  arti  e  i  frequenti  incarichi  eh'  egli  ebbe 
d'  attendere  all'  ornamento  e  ai  restauri  delle  chiese 
ravennati,  una  certa  conoscenza  del  greco  necessa- 
ria allo  storico  d'una  diocesi  così  legata  ai  Bizantini, 
tutto  doveva  aiutarlo  all'opera  che  sì  metteva  a  com- 
porre. E  però  è  naturale  il  credere  che  la  riputazione 
di  sua  dottrina  inducesse  gli  altri  preti  di  Ravenna 
ad  insistere  forte  presso  di  lui  per  fargli  intraprender 
la  storia  dei  loro  vescovi.  Accettato  l'incarico,  Agnello 
lo  eseguì  con  lentezza  e  a  frammenti,  malgrado  lo 
stimolo  impaziente  dei  colleghi  ai  quali,  per  quanto 
apparisce,  egli  veniva  leggendo  il  libro  man  mano 
che  lo  componeva.  Questo  lavoro,  compiuto  verso  la 
metà  del  secolo  nono,  muove  dai  tempi  apostolici  colla 
vita  di  santo  Apollinare  e  giunge  fino  ai  vescovi  con- 
temporanei dell'autore.  E  opinione  generalmente  ac- 
colta che  il  libro  d'Agnello  traesse  origine  ed  ispi- 
razione dal  Libro  Pontificale  romano,  ma  non  trovo 


AGNELLO   RAVENNATE  89 

per  essa  molta  solidità  di  fondamento.  Gli  argomenti 
addotti  per  sostenerla  s'appoggiano  principalmente 
sulla  identità  del  titolo  e  su  talune  somiglianze  nella 
disposizione  del  libro,  ma  al  giudizio  mio  sono  ar- 
gomenti deboli  e  inefficaci  alla  prova.  Inoltre  ammet- 
tendo queste  ipotesi  non  è  facile  intendere  come  Agnello 
non  si  sia  mai  giovato  del  Pontificale  Romano.  In  pa- 
recchi luoghi  egli  avrebbe  potuto  attingere  da  esso 
utilissime  notizie,  e  non  par  cosa  probabile  il  suo  tra- 
scurarle senza  ragione  (1).  Ma  tralasciando  questo 
mio  dubbio,  il  libro  di  Agnello  ha  certo  tra  i  suoi 
pregi  maggiori  quello  di  non  aver  solo  attinto  dai 
libri  come  da  unica  fonte.  Una  delle  sue  somiglianze 
colle  vite  dei  papi  consiste  nelF  essersi  molto  giovato 
dei  monumenti  e  d' avere  ritrovata  in  essi  una  gran 
parte  della  sua  storia.  Come  s'  è  detto,  il  sentimento 
e  il  sapere  dell'  arte  lo  aiutarono  grandemente  nel 
suo  lavoro.  Del  continuo  s'incontrano  nel  suo  libro 
descrizioni  di  chiese  e  d' altri  edifici  ravennati,  e 
il  suo  racconto  s'appoggia  alla  autorità  di  epigrafi 
trovate  in  que'  monumenti.  Persin  le  figure  dei  per- 
sonaggi di  cui  fa  discorso,  ci  son  recate  innanzi  dal- 
l' autore  con  descrizioni  ricavate  dalle  pitture  e  dai 
mosaici  di  cui  era  allora  così  gran  copia  in  Ravenna 
che  ancora  è  ricchezza  stupenda  quel  che  ne  avanza 
dopo  tanti  secoli  e  tante  vicende.  «  E^  »  dichiara  egli 


(1)  Il  signor  abate  Duclie,sne  nel  dotto  lavoro  citato  qui 
sopra,  vede  una  relazione  tra  alcuni  passi  di  Agnello  ed  altri 
del  Pontificale  Romano,  ma  a  me  questa  relazione  non  par 
chiara  abbastanza. 


90  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

Stesso^  «  se  a  voi  che  leggete  questo  Pontificale  verrà 
«  alcun  dubbio,  e  vorrete  indagare  dicendo  :  '  Perché 
«  non  narrò  i  fatti  di  questo  pontefice  come  degli 
«  altri  predecessori  ?  '  udite  per  qual  ragione.  Que- 
«  sto  Pontificale  dal  tempo  del  beato  Apollinare  per 
«  ottocento  e  più  anni  dopo  la  sua  morte  composi  io 
«  Agnello  che  anche  son  detto  Andrea,  esiguo  prete 
«  di  questa  santa  mia  chiesa  ravennate,  pregandomi 
«  e  costringendomi  i  fratelli  di  questa  sede  mede- 
«  sima.  E  dove  trovai  quel  eh'  essi  fecero  certamente, 
«  ciò  io  recai  dinanzi  a  voi,  e  di  quanto  udii  da  più 
«  vecchi  e  longevi  non  defraudai  gli  occhi  vostri,  e 
«  dove  non  trovai  storia  o  qual  fosse  la  vita  loro  né 
«  per  uomini  annosi  e  vetusti  né  per  edificio  né  per 
«  autorità  alcuna,  per  non  far  lacuna  tra  i  santi  pon- 
«  tefici^  io,  secondo  l'ordine  in  che  ottenner  la  sede 
«  un  dopo  l'altro,  composi  la  vita  loro  aiutandomi 
«  Iddio  per  le  vostre  orazioni,  e  credo  di  non  aver 
«  mentito  perché  e'  furono  pii  e  casti  e  limosinieri  e 
«  acquistatori  a  Dio  d' anime  umane.  E  della  effigie 
«  loro,  se  forse  nasca  pensiero  tra  voi  come  io  potei 
«  conoscerla,  sappiate  che  mi  ammaestrò  la  pittura, 
«  perché  ai  lor  tempi  sempre  si  facevan  le  immagini 
«  a  lor  simiglianza.  E  se  nasca  questione  che  io  do- 
«  vessi  affermare  dalle  pitture  la  effigie  loro,  Am- 
«  brogio  vescovo  santo  di  Milano,  nella  Passione  dei 
«  beati  martiri  Gervaso  e  Protaso  parlò  della  effigie 
«  del  beato  Paolo  apostolo  dicendo:  'Il  cui  volto  mi 
«  additò  la  pittura.'  » 

Com'è  da  aspettarsi,  Agnello  con  questo  suo  me- 
todo di  scriver  la  storia  mescola  frequenti  leggende 


AGNELLO   RAVENNATE  91 

di  miracoli  tra  i  fatti  che  narra  e  le  notizie  artisti- 
che che  ci  tramanda  indirettamente.  Quando  nelle 
vite  più  antiche  gli  vien  meno  l'aiuto  di  positive  in- 
dicazioni ne  trova  molto  oltre  il  nome  del  vescovo, 
egli  stima  lecito  aggiunger  di  suo  parole  e  racconti 
di  lode  contrapponendo,  non  senza  amarezza  di  rim- 
proveri, quelle  vite  ideali  degli  antichi  alle  vite  reali 
dei  vescovi  moderni.  Ciò  d'assai  scema  fede  alla  sua 
storia  quando  in  essa  raccontasi  direttamente  alcun 
fatto  antico,  ed  anche  vien  dubbio  della  imparzialità 
sua  verso  i  contemporanei  leggendo  le  acri  espressioni 
appuntate  contro  queir  arcivescovo  Griorgio  che  per 
qualche  tempo  gli  tolse  1'  abbazia  di  San  Bartolomeo. 
Dei  papi  parla  spesso  con  gran  libertà  e  con  poco 
favore,  la  qual  cosa  ha  forse  ristretta  la  sua  fama 
nel  medio  evo  e  fatti  scarsi  a  tal  punto  i  manoscritti 
del  suo  libro,  che  oramai  un  sol  codice  se  ne  cono- 
sce che  lo  contiene  intero.  Lo  stile  suo  molto  disu- 
guale è  stato  descritto  bene  dall' Holder  Egger  con 
queste  parole  che  pongo  qui  a  conclusione  :  «  Il  suo 
«  linguaggio,  come  quello  di  tutti  gli  scrittori  ita- 
«  liani  di  quella  età  simile  piuttosto  alla  lingua  del 
«  volgo  che  a  quella  dei  classici,  poco  cura  le  leggi 
«  di  grammatica.  Ma  le  varie  parti  differiscono  molto 
«  tra  loro  di  stile  e  di  maniera.  Talora  scrive  abba- 
«  stanza  corretto,  e,  per  quanto  può,  elegante  ;  ta 
«  lora  spropositato  a  maraviglia,  negligente  d'  ogni 
«  composizione  buona  e  costruzion  retta  di  parole  ; 
«  per  lo  più  semplice  e  asciutto,  ma  dove  riferisce 
«  udite  favole,  parla  copioso,  concitato  e  spesso  tu- 
«  midissimo  ne  di  rado  oscuro.  Massimamente  imita 


92  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  la  Sacra  Scrittura^  de'  cui  detti  è  ripieno  il  suo 
«  discorso  oltre  quanto  può  notarsi,  ed  i  Padri  della 
«  Chiesa,  ma  dove  descrive  fervidamente  t'imbatti 
«  qua  e  là  a  spesso  ripetute  sentenze  di  Virgilio.  Dal 
«  quale  anche  pigliò  in  ridiool  modo  nomi  d' antichi, 
«  onde  chiama  i  Greci  dei  suoi  tempi  Pelasgi  e  Danai 
«  eMirmidoni.  Inoltre  vuoisi  avvertire  che  il  discorso 
«  suo  abbonda  di  parole  altrove  inusitate,  oinoi.'E,  Xsyo- 
«  (iévotc,  per  lo  più  tratte  dalla  lingua  greca  (1).  » 

Il  rapido  decadimento  morale  a  cui  soggiacque  la 
Chiesa  Romana  sul  finire  del  secol  nono,  mentre  inari- 
diva alle  sorgenti  il  Libro  Pontificale  romano,  die'vita 
a  taluni  scritti  polemici  il  cui  valore  storico  risalta 
per  le  molteplici  questioni  lungamente  agitate  sulla 
infallibilità  papale.  La  storia  di  papa  Formoso  è  nota. 
Strappato  dalla  tomba  per  volere  di  Stefano  VI  suo 
successore  e  nemico,  il  suo  cadavere  fu  come  per- 
sona viva  sottoposto  al  giudizio  di  una  sinodo  e  con- 
dannato solennemente  (A.  I).  897).  L'assemblea  sa- 
crilega e  feroce  dichiarò  reo  quel  miserando  avanzo 
di  papa^  e  affermò  ch'egli  era  stato  contravventore 
alle  leggi  della  Chiesa  e  usurpatore  della  sedia  apo- 
stolica. Rinnegata  la  elezione  sua,  tutti  gli  atti  del 
suo  pontificato  furono  annullati  e  l'informe  spoglia, 
svestita  delle  insegne  pontificie  e  mutila,  fu  con  ob- 
brobrio gettata  in  Tevere.  A  così  turpe  strazio  la 
malvagità  dei  tempi  sempre  crescente  e  la    dura  fe- 


(1)  Dalla  prefazione  al  Liber  Pontificalis  di  Agnello  pub- 
blicato nel  volume  Scriptores  Rerum  Langobardicarum  et  Ita- 
licarum  saec.  VI-IX  dei  Monumenta  Germaniae  Historica. 


AUSILIO   E   VULGA.RIO  93 

l'ocia  delle  parti  avean  messo  il  papato,  e  cosiffatti  suc- 
cessori sedevano  dove  Gregorio  Magno  area  mini- 
strato! Ma  contro  lo  scellerato  atto  di  Stefano  s'  alzò 
la  voce  d'alcuni  scrittori,  e  il  morto  Formoso  ebbe 
sue  difese.  Uno  di  questi  scrittori,  Ausilio,  nato  d'ori- 
gine franca,  viveva  a  Napoli  e  credesi  che  morisse 
monaco  a  Montecassino.  Lo  aveva  consacrato  prete 
Formoso,  e  la  consacrazione  sua  considerandosi  nulla, 
egli  alcun  tempo  dopo  lo  scandalo  di  Roma  sostenne 
coraggioso  e  per  quella  età  con  molto  sapere,  la  causa 
del  condannato  papa  che  in  certo  modo  era  sua  causa. 
Colle  stesse  tendenze  scrisse  Eugenio  Vulgario  gram- 
matico italiano,  anch'  egli  per  quanto  pare  dimorante 
a  Napoli.  Lo  scritto  suo  è  piuttosto  una  glorificazione 
che  una  difesa  di  Formoso  a  cui  peraltro  non  si  tenne 
sempre  fedele.  Dopo  i  primi  scritti  piegò  verso  la 
parte  contraria,  ma  poi  venuto  al  pontificato  Gio- 
vanni X,  di  nuovo  si  mostrò  formosiano  colla  Invectiva 
in  Romani  se  è  vero  ch'egli  la  componesse,  ma  di  ciò 
resta  ancor  qualche  dubbio.  Scritto  con  pesante  arti- 
fizio di  stile  questo  libello  è  fatto  quasi  eloquente  dalla 
fiera  iracondia  che  lo  anima.  Con  ardor  grande  in- 
veisce contro  la  intera  città  di  Roma  e  chiama  in  colpa 
della  esecranda  opera  i  Romani  usati  ab  antico  a  ri- 
pagar di  morte  i  loro  benefattori.  Perciò  la  violenza 
patita  in  altri  tempi  da  Romolo  e  da  San  Pietro  e  San 
Paolo,  doveva  ora  patire  Formoso  uomo  santo  giusto 
cattolico.  «  Il  cadavere  già  per  nove  mesi  sepolto 
strappaste  dal  sepolcro.  Se  era  interrogato  che  mai 
<•'  poteva  rispondere?  Se  avesse  risposto,  tutta  quella 
«  orrenda  congresa   colta  di  terrore  si   sarebbe   di- 


94  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

«  spersa  (1).  »  Cosi  in  pochi  tocchi  egli  descrive  \ix 
sinodo  che  giudicò  Formoso  e  che  fu  chiamata  horri- 
bìh's  pur  dal  Concilio  Romano  dell'anno  898  adunatosi 
a  riparare  la  sozza  ingiuria. 

Da  questi  scritti  polemici  i  quali  malgrado  la  pas- 
sione che  li  impronta  recano  pure  utilissime  testimo- 
nianze su  quel  fatto  straordinario,  volgiamo  ora  a 
diverso  genere  di  componimento.  Appena  Benedetto 
da  Norcia  ebbe  fondati  i  primi  monasteri,  tosto  il  vi- 
ver monastico  si  distese  rapido  per  una  immensa  re- 
gione. La  scintilla  accesa  a  Subiaco  e  a  Montecassino 
s'era  propagata  lontano  e  a  stuoli  i  benedettini  popo- 
lavano ormai  le  campagne  dell'intero  occidente.  A  se- 
condare questa  tendenza  verso  la  vita  cenobitica  e 
per  impulso  di  essa,  erano  frequenti  le  fondazioni  di 
nuovi  monasteri.  I  quali  spesso,  favoriti  dalle  circo- 
stanze, privilegiati  dai  principi,  arricchiti  da  ogni 
maniera  di  gente  con  doni  di  terre  che  i  monaci  co- 
lonizzavano quando  il  valor  della  terra  era  in  picciol 
conto,  presto  salivano  a  grande  stato  di  ricchezza  e 
potenza.  La  regola  benedettina  che  oltre  al  lavoro 
manuale  dei  campi,  imponendo  ai  monaci  il  leggere 
promuoveva  la  trascrizione  dei  manoscritti,  accop- 
piava al  beneficio    inestimabile    di  moltiplicar   libri 


(1)  «  Cadaver  nainque  per  uovem  meuses  sepultum  de  se- 
«  pultura  extraxisti.  Si  interrogabatur  quid  responderet?  Si 
«  responderet,  omnis  illa  horrenda  congregatio  timore  perter- 
-i  rita  ab  invicem  separata  discederet.  »  Intorno  a  questi  po- 
•  lemisti  è  da  vedere  come  fondamento  a  quanto  se  ne  è  detto 
appresso,  lo  studio  del  Dìjmmlek,  Aiixiìins  nnd  Vulgarius, 
Lipsia,  18G6.  Cf.  anche  il  Wattenbach,  op.  cit.,  I,  247. 


LA    «    CONSTRUCTIO   FARFENSIS    »  95 

r  altro  non  lieve  di  serbar  nei  monasteri  alcun  bar- 
lume di  quella  cultura  che  allora  spegnevasi  negletta 
dal  rimanente  clero  in  Italia.  Fioca  luce  invero,  ma 
pur  cosi  fioca  valse  tra  il  nono  secolo  e  il  decimo  a 
ispirar  talune  scritture  intorno  alla  origine  e  alle  prime 
vicende  di  parecchi  monasteri.  ]\Iista  di  leggende  e- 
di  racconti  miracolosi  esse  contengono  una  messe  con- 
siderevole di  fatti  veri  e  molti  tratti  caratteristici  di  cui 
può  servirsi  lo  storico  nel  ricomporre  da  quegli  scarni 
profili  il  quadro  di  una  età ^  tanto  buia  (1). 

Tra  questi  lavori  uno  ve  n'ha  che  narra  le  ori- 
gini del  monastero  di  Farfa  in  Sabina.  La  storia 
delia  prima  fondazione  di  questo  monastero  non  posa 
nel  fermo  e  si  perde  nella  leggenda.  Un  santo  uomo 
di  nome  Lorenzo,  venuto  dalla  Siria  a  Roma  nei 
tempi  di  Giuliano  imperatore,  fondò  il  monastero  di- 
strutto poi  alla  prima  venuta  dei  Longobardi  o,  se- 
condo un'altra  versione,  anche  prima  durante  l'inva- 
sione vandalica  di  Genserico.  Più  tardi  coli' aiuto 
di  Faroaldo  duca  di  Spoleto,  il  pellegrino  Tommaso 
da  Morienna  ricostruì  il  monastero.  Presto  v'afflui- 
rono d'ogni  lato  i  monaci,  e  la  badia  prosperò  di  tal 
guisa  che  a  breve  andare  fu  delle  prime  d' Italia,  vasta 
per  la  estensione  de'  suoi  possedimenti,  potente  per  le 
sue  relazioni  coi  duchi  di  Spoleto  e  coi  re  d'Italia. 


(1)  Nel  render  conto  di  questi  scritti  monastici  non  posso 
seguir  sempre  l'ordine  cronologico  come  ho  cercato  di  fare 
finora.  In  qualche  caso  per  motivi  di  affinità  che  il  lettore 
potrà  veder  facilmente,  mi  è  stato  necessario  aggruppare  in- 
sieme alcuni  scritti  lontani  di  tempo  fra  loro,  oltrepassando 
fors'  anco  il  tempo  che  dovrebbe  limitare  questo  capitolo. 


96  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

Perciò  riesce  pieno  d'interesse  quanto  ce  ne  narra 
la  Constructio  o  Liber  Constructionis  Farfensis,  dal- 
l'anno 705,  a  cui  può  ricondursi  approssimativa- 
mente la  seconda  e  certa  fondazione  del  monastero, 
fino  air  anno  857  nel  quale  essa  Constructio  ha  il  suo 
termine.  Opera  d'un  monaco  ignoto  del  secolo  nono, 
questo  scritto  non  è  pervenuto  a  noi  quale  lo  com- 
pose r  autore,  e  solo  ce  ne  resta  quel  che  ne  fu  in- 
terpolato in  un  antico  codice  del  monastero  che  con- 
tiene lezioni  sulle  vite  di  alcuni  santi  (1).  Questi 
avanzi  della  Constructio  copiati  senza  alcun  dubbio 
dal  testo  originale,  recano  testimonianza  di  una  la- 
tinità assai  migliore  di  quella  che  s'incontra  per  solito 
in  quella  età.  Ciò  forse  è  dovuto  alla  influenza  delle 
relazioni  onde  il  monastero  fu  sempre  legato  ai  do- 
minatori longobardi  e  franchi  che  nei  loro  contrasti 
colla  sede  apostolica  lo  tennero  fin  dal  principio  come 
il  baluardo  loro  più  prossimo  alle  mura  di  Roma. 
Governato  da  abbati  di  origine  franca  quando  la 
cultura  ecclesiastica  era  meglio  curata  oltralpe  che 
a  Roma,    il   monastero    non    soggiacque   del   tutto  a 


[\)  Uu  frammento  della  Constructio  fu  pubblicato  dal  be- 
nedettino Caetani,  secondo  il  testo  unico  che  se  ne  conserva, 
nel  terzo  volume  degli  Ada  SS.  Ord.  S.  Benedicti.  e  riprodotto 
nella  raccolta  dei  BoUandisti  al  volume  terzo  di  settembre. 
Il  Bethmann  pubblicando  per  primo  l'intero  testo  nei  JTonum. 
Gemi.  Hist.  voi.  XI,  credette  che  esso  contenesse  la  Cow^fr»- 
ctio  completa  e  genuina  quale  prima  fu  scritta.  Il  dotto  te- 
desco, del  resto  assai  benemerito  degli  studi  farfensi,  era  in 
errore,  e  l'amico  mio  Ignazio  Giorgi  ha  dimostrato  con  evi- 
denza che  il  vero  testo  originale  è  perduto.  Archivio  della 
Società  romana  di  Storia  patria,  anno  II. 


i:go  di  farfa  97 

questo  periodo  di  decadenza  letteraria  clie  si  attra- 
versa, e  vedremo  più  tardi  sorgere  tra  le  sue  mura 
i  primi  inizi  di  una  rinascenza  storica  a  cui  pre- 
lude intanto  questa  Constructio.  Ad  essa  collegasi 
strettamente  e  fornisce  materia  di  compilazione,  la 
vita  dei  tre  fondatori  del  monastero  di  San  Vincenzo 
al  Volturno.  Nel  primo  quarto  del  secolo  ottavo  fon- 
darono questo  monastero  tre  giovinetti  beneventani 
di  nobile  lignaggio  e  parenti  fra  loro,  consigliandoli 
ed  aiutandoli  all'opera  quel  medesimo  Tommaso  di 
Morienna  che  avea  ravvivato  il  monastero  di  Farfa. 
Autperto  monaco  e  più  tardi  abbate  di  San  Vincenzo 
raccontò  la  storia  de' suoi  fondatori  non  molti  anni 
dopo  ch'essi  eran  morti.  Per  questo  racconto  non 
s' accresce  invero  il  patrimonio  della  storia  e  solo 
è  da  farne  menzione  perché  si  ricongiunge  alla  storia 
di  Farfa  ed  è  monumento  antichissimo  della  età  lon- 
gobarda (1).  Più  rilevante  invece  è  la  Destructio  Far- 


(1)  Stimo  tuttavia  opportuno  il  riferire  uu  tratto  in  cui  si 
accenna  all'  opera  colonizzatrice  del  monachismo,  la  quale 
sembrami  essersi  poi  continuata  in  Italia  anche  verso  la  metà 
del  nono  secolo  quando  molti  monasteri  eran  caduti  giù  nel 
più  profondo  della  corruzione.  In  questo  passo  che  segue,  Tom- 
maso di  Morienna  consiglia  i  tre  giovani  a  fondare  il  loro 
monastero  sulle  rive  del  Volturno:  «  Est  autem,  dilectissimi 
«  filii,  locus,  ad  quem  vos  ire  desidero,  in  Samnii  partibus 
«  super  ripara  Vulturni  fluminis,  ubi  initium  sumit  a  mille 
«  fere  passibus.  In  quo  videlicet  loco  situm  est  oratorium  mar- 
«  tyris  Christi  Vincentii  nomine  dedicatum;  ex  utraque  vero 
«  parte  fluminis  silva  densissima,  quae  tantum  babitationem 
«  praestat  ferarum  latibulaque  latronum.  Omnipotens  autem 
«  Dominus,  cui  vos  famulatum  exhibere  desideratis,  et  vos  in 

7.  Balzani,  Le  Cronacìie  i/aliane. 


98  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

fensis,  scrittca  nel  principio  del  secolo  undecimo  da 
Ugo  abate  di  Farfa.  Al  fermarsi  delle  invasioni  bar- 
bariche calate  da  settentrione,  l'Italia  ebbe  a  patire 
nuove  invasioni  dall'  Affrica.  I  Saraceni  fattisi  signori 
della  Sicilia,  venivano  distendendo  il  domìnio  loro 
nel  mezzogiorno  d' Italia,  e  dove  non  avevano  do- 
minio stabile  si  spingevano  rapinando  in  temporanee 
incursioni.  Secondo  il  più  o  men  di  resistenza  che 
lo  stato  politico  d'Italia  poteva  opporre,  essi  davano 
indietro  o  avanzavansi.  Roma  stessa  minacciata  so- 
vente, vide  un  giorno  le  orde  saraceniche  irrompere 
in  San  Pietro,  e  le  volte  della  venerata  basilica  echeg- 
giarono r  urlo  selvaggio  degli  Infedeli  saccheggiatori. 
È  agevole  intendere  come  i  monasteri  meridionali  o 
non  lontani  dal  mezzogiorno,  isolati  nelle  campagne 
e  celebri  per  le  raccolte  ricchezze,  fosser  continuo 
oggetto  di  mira  pei  Saraceni.  L'odio  pei  tempi  cri- 
stiani e  la  cupidigia  del  bottino  eran  d' invito  a  spiar 
le  occasioni  per  invadere  quelle  badie  e  spesso  dopo 
averle  predate  distruggerle.  La  badia  farfense  posta 
alle  falde  d' un  colle  sabinate  in  luogo  molto  bene 
accessibile  ad  una  incursione,  soggiacque  alla  sorte 
comune  e  fu  distrutta.  Così  ridotta  in  rovina,  Farfa 
rimase  a  lungo  deserta  dai  monaci  che  vi  tornarono 


«  eodem  loco  illaesos  servabit,  et  cunctis  iter  ageutibus  a  ti- 
«  more  latronum  pacatum  atque  securum  constituet,  necnon 
«  et  erutis  dumis  ac  seutibus,  lignis  fructiferis  habundare 
«  faciet.  Ite,  ait,  filii,  ite,  et  in  eodem  loco,  sine  metu  cuius- 
«  cumque  permanete.  »  Vita  Pcddonis  Tatonis  et  Tasonis  Vnl- 
turnensium,  nel  volume  citato  degli  Scriptores  Rerum  Langob. 
et  Itaì. 


UGO   DI   FARFA  99 

sol  quando  fa  possibile  tornarvi  con  qualche  speranza 
di  sicurezza.  La  restaurata  badia  patì  varie  vicende 
finché  il  monaco  TJgo  levato  al  seggio  abbaziale  potè 
in  un  governo  lungo  e  glorioso  (A.  D.  998-1039)  rial- 
zarne le  sorti  e  la  scaduta  disciplina.  Uomo  di  gran 
cuore  e  d' ingegno^  Ugo  non  s'  appagò  del  riformare 
il  suo  monastero  e  richiamarlo  allo  splendore  antico: 
volle  farsene  storico  e  seguitar  l'opera  dell'anonimo 
autore  della  Constructio.  Colla  buona  latinità  tradi- 
zionale nella  scuola  di  Farfa,  Ugo  ripigliò  il  lavoro 
dove  l'altro  lo  aveva  lasciato^  e  continuandolo  fino 
ai  suoi  tempi  lo  intitolò  Destructìo  dal  gran  fatto 
eh'  ei  narra  della  incursione  saracenica.  Per  la  storia 
di  queste  incursioni  e  per  quella  di  Roma  e  di  Spoleto 
ai  tempi  di  Alberico,  di  Marozia  e  di  Ugo  re  d'Italia, 
la  Destructìo  ha  grande  importanza  e  merita  forse 
più  attento  esame  che  non  ebbe  finora  dagli  storici. 
Prima  di  distrugger  la  badia  di  Farfa,  i  Saraceni 
avean  distrutta  quella  di  San  Vincenzo  al  Volturno 
e  quella  di  Montecassino  non  meno  fiorente  e  piìi 
famosa  d'  ogni  altra.  Quest'  ultima  fortemente  situata 
a  mezza  via  tra  Roma  e  Napoli  sul  vertice  d' un 
monte  che  domina  la  valle  del  Garigliano,  fu  minac- 
ciata lungamente  prima  di  patire  il  saccheggio  degli 
Arabi.  Tra  le  ansietà  di  questa  minaccia  fu  scritta 
una  breve  cronaca  che  dopo  avere  riassunto  rapida- 
mente dietro  le  vestigia  di  Paolo  Diacono  la  prima 
storia  di  Montecassino,  si  distende  in  molti  dettagli 
sui  fatti  avvenuti  in  quei  luoghi  d' Italia  verso  il 
mezzo  del  secol  nono  fino  all'anno  867.  Intreccia,  al 
solito^  fatti  veri  e  leggende,  ed  è  scritta  in  un  latino 


100  LE    CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

di  cui  la  rozzezza  male  potrebbero  superare  altri 
scritti  di  quella  età  cosi  barbara.  Ma  per  la  storia 
del  Principato  longobardo  di  Benevento,  per  quella 
degli  Arabi  in  Italia  e  di  lor  guerre  con  Ludovico 
imperatore,  è  una  preziosa  cronaca.  Nel  frammento 
che  segue  si  narra  in  qual  modo  il  Monastero  sfuggì 
una  volta  l' eccidio  minacciatogli,  e  bene  si  pare 
da  esso  con  quali  cautele  debba  aggirarsi  lo  storico 
tra  queste  cronache  per  isceverare  il  vero  tra  le  molte 
fallacie  che  ne  precludono  la  vista  agli  occhi  suoi. 
«  A  questi  dì  i  Saraceni  uscendo  di  Roma,  tutto 
«  devastarono  l'oratorio  di  Pietro  principe  degli  apo- 
«  stoli  beatissimi,  e  la  chiesa  del  beato  Paolo,  e  uc- 
«  cisero  Sassoni  (1)  assai,  e  molt'  altra  gente  varia 
«  di  sesso  e  d'età.  E  pigliarono  la  città  di  Fondi 
«  e  depredati  i  luoghi  vicini,  a  settembre  accampa- 
«  ronsi  di  là  da  Gaeta.  Contro  ai  quali  arrivò  l'eser- 
«  cito  dei  Franchi,  ma  sbaragliato  dai  Saraceni  il 
«  dì  quarto  delle  idi  di  novembre,  si  mise  in  fuga. 
«  I  Saraceni  inseguendo  i  Franchi  e  pigliando  loro 
«  ogni  cosa,  giunsero  da  ultimo  a  santo  Andrea  e  ne 
«  arsero  il  convento.  I  quali  pervenuti  al  convento 
«  del  beatissimo  Apollinare  vescovo,  che  chiamano 
«  d'Alviano,  vider  da  presso  il  monte  del  beatis- 
«  simo  confessore  di  Cristo,  e  volean  subito  salirvi 
«  ma  r  ora  tarda  vietò  loro  il  passaggio.  Adunque 
«  tanta  era  allora  serenità  di  cielo  e  siccità  di  terreno, 
«  che  il  fiume   poteva   attraversarsi  a  piedi  da    chi 


(1)  Par  che  il  cronista  alluda  ai  soldati  lasciati  in  Roma 
dagli  imperatori  Franchi.  Cf.  Waitz  nelle  note  a  questo  passo. 


CRONICA  DI  SAN  BENEDETTO  101 

«  voleva.  I  monaci  del  beatissimo  padre  Benedetto, 
«  vedendosi  cosi  vicina  la  morte,  tosto  si  dieder  l'as- 
«  soluzione  a  vicenda  supplicando  il  Signore  miseri- 
«  cordioso  che  ricevesse  propizio  in  pace  le  loro  anime 
«  ch'essi  ad  ogni  minuto  aspettavansi  dovesser  mi- 
«  grare  per  morte  repentina.  Tutti  dunque  a  pie'nudi, 
«  sparso  di  cenere  il  capo,  con  litanie  trassero  al 
«  patrono  loro  Benedetto  beato.  Mentre  era  grande 
«  il  terrore  e  trepida  l' aspettazione  e  facevasi  co- 
«  piosa  prece  all'onnipotente  Signore,  apparve  in  vi- 
«  sione  a  Bassacio  padre  il  suo  predecessore  Apol- 
«  linare  abbate,  dicendo:  'O  che  avete?  che  dolore  vi 
«  preme?  '  E  Bassacio:  '  Padre,  ci  sta  sopra  la  morte, 
<"  e  non  è  da  temere  ?  '  '  No^  dice^  non  vogliate  temer 
«  nulla  :  il  pio  padre  Benedetto  ottenne  la  salvezza 
«  vostra.  Pregate  dunque  ardentemente  Iddio  con 
«  litanie  e  solennità  di  messe.  Iddio  esaudirà  pronto 
«  le  voci  che  chiamano  a  lui  :  da  ultimo  noi  pur  che 
«  siam  nella  chiesa,  non  cessiamo  insieme  cogli  altri 
«  cittadini  del  cielo  di  pregare  Gesìi  Cristo  Signore 
«  per  voi.  '  E  sorgendo  dal  sonno  il  pastor  Bassacio 
«  e  narrando  ciò  ai  fratelli,  tutti  insieme  con  eccelsa 
«  voce  benedissero  Iddio  che  salva  chi  spera  nella 
«  misericordia  sua.  Allora  subito  ecco  venire  una 
«  pioggia  immane,  e  lampi  e  tuoni  così  veementi  che 
«  il  fiume  Camello  (Garigliano)  crescendo  oltre  il 
«  segno,  die'  fuori.  E  mentre  il  dì  prima  potevano 
«  i  nemici  passarlo  a  piede,  il  dì  appresso,  costretti 
«  dalla  repulsione  divina,  non  potevano  neppure  ac- 
«  costarsi  alle  ripe.  Volevan  pure  attraversare  ad 
«  ogni  modo  il  fiume,  ma  non  trovando  alcun  adito 


1.02  LE    CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

«  per  passare  al  cenobio,  mordevansi  le  dita  secondo 
«  lor  fiera  barbarie,  e  fremevano  e  stridevano  i  denti 
«  correndo  qua  e  là  furibondi.  E  per  non  tralasciare 
«  l'usata  scelleratezza  loro  arsero  i  conventi  dei  bea- 
«  tissimi  martiri  Stefano  e  Giorgio,  e  passando  pei 
«  Due  Leoni  se  ne  tornarono  all'  accampamento.  Al- 
«  quanti  giorni  dipoi  uccisi  i  loro  cavalli  si  misero 
«  in  mare.  I  quali  quando  furono  cosi  prossimi  alla 
«  patria  loro  che  già  vedevano  i  monti  vicini,  fecero 
«  festa  con  applausi  marinareschi  secondo  1'  usanza 
«  loro.  Ed  ecco  apparir  tra  loro  una  navicella  che 
«  recava  due  uomini,  e  1'  uno  avea  1'  abito  come  di 
«  chierico  e  1'  altro  di  monaco.  I  quali  dissero  a  loro: 
«  '  Onde  venite  e  dove  andate  ?  '  Ma  quelli  risposero 
«  dicendo  :  '  Torniamo  via  da  Pietro,  devastammo  a 
«  Roma  tutto  l' oratorio  di  lui,  predammo  il  popolo 
«  e  il  paese,  vincemmo  i  Franchi  e  ardemmo  i  con- 
«  venti  di  Benedetto.  E  voi,  '  dicono,  '  chi  siete  ?  '  Ri- 
«  spondono  quelli:  'Chi  noi  pur  siamo  vedrete  or  ora.  ' 
«  Tosto  venne  su  una  gran  tempesta  e  una  procella 
«  veemente  :  onde  le  navi  tutte  furono  infrante  e  tutti 
«  i  nemici  perirono:  nessuno  affatto  di  loro  rimase 
«  che  annunziasse  la  cosa  ad  altri.  Nel  tempo  se- 
«  guente  poi,  Leone  venerabile  papa,  circondò  l'ora- 
«  torio  del  beato  Pietro  di  mura  fermissime  ed  eccelse 
«  affinché  un  evento  somigliante  non  accadesse  più 
«  mai  in  Roma  (1).  » 


(1)  Chronica  S.  Benedicti  Casinensis,  ed.  G.  Waitz  nel  vo- 
lume degli  Scriptores  Eerum  Langoh.  et  Itaì.  nei  Monum. 
Gemi.  Ilist. 


CATALOGHI  103 

Alla  cronaca  cassinese  è  aggiunto  un  catalogo  degli 
abbati  del  monastero  colla  indicazione  degli  anni  in 
cui  vissero  e  governarono  a  Montecassino.  E  qui  men- 
tovando un  catalogo  mi  par  luogo  d'accennare  a  que- 
st'  altro  genere  di  componimento  storico,  non  raro 
intorno  a  questi  tempi  fino  all'undecimo  secolo  e  uti- 
lissimo specialmente  alla  cronologia.  Questi  cataloghi 
consistono  generalmente  di  semplici  liste  con  nomi 
di  sovrani,  di  vescovi,  d' abbati  o  d'  altri  personaggi, 
colla  menzione  degli  anni  in  cui  governarono,  e  tal- 
volta col  ricordo  di  qualche  avvenimento.  Cosi  per 
esempio  in  un  catalogo  la  serie  dei  re  longobardi  ter- 
mina in  questo  modo  : 

«  Ratchis  regnò  anni  cinque  e  mesi  tre. 

«  Astolfo  regnò  anni  otto  e  mesi  sei. 

<.<  Desiderio  regnò  anni  diciotto,  mesi  due,  giorni 
«  dieci.  E  così  compiono  201  anni  nei  quali  i  predetti 
«  re  regnarono  nel  regno  d'Italia,  come  s'è  notato 
«  di  sopra.  Nel  qual  tempo  fu  presa  Pavia  e  la  in- 
«  carnazione  del  nostro  signore  Gesìi  Cristo  a  quel 
«  tempo  correva  nell'anno  775. E  dopo  i  predetti  venti, 
«  il  dominio  del  regno  d' Italia  pervenne  a  Carlo  im- 
«  peratore  succedente  al  re  Desiderio  sopraddetto....  » 
e  dopo  qualche  altra  parola  cominciando  la  serie  dei 
Carolingi  scende  per  tutti  i  dominatori  d'Italia  fino 
agli  Enrichi  dell'undecime  secolo  (1). 


(1)  Dal  volume  citato  qui  innanzi  tolgo  i  titoli  di  alcuni 
cataloghi  che  hanno  relazione  colla  storia  e  specialmente  colla 
longobarda.  Sono  i  seguenti:  Catalogus  regum  Langobardonim 
et  diicum  Beneventanorum  (è  quello  da  cui  traggo  il  brano  tra- 


104  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

Quando  finalmente  Montecassino  fu  preso  e  deva- 
stato dai  Saraceni  (A.  D.  883),  toccò  ai  monaci  di 
rifugiarsi  come  in  esilio  ad  aspettare  giorni  migliori 
nelle  vicine  città  di  Teano  e  di  Capua.  Il  monaco 
Erchemperto  trasse  cogli  altri  a  Capua  ed  ivi  poi 
scrisse  una  storia  de'  Longobardi  beneventani  la  quale 
incomincia  dal  duca  Arichis  e  si  distende  fino  al- 
l'anno 889  appoggiandosi  come  di  consueto  per  la 
parte  più  antica  a  Paolo  Diacono  e  ai  suoi  continua- 
tori. Nato  a  Teano,  Erchemperto  entrò  fanciullo  nel 
monastero  e  ne  segui  le  sorti  travagliose  in  quella 
età  di  procelle.  Lasciata  Capua  dopo  restaurata  la 
Badia  (A.  D.  886),  pare  ch'egli  tornasse  in  breve 
a  quella  città,  e  vi  tenesse  poi  stabilmente  dimora, 
accolto  forse  in  qualche  monastero  dipendente  da  Mon- 


dotto  qui  sopra),  Cataìogus  comitum  Capuae,  Catalogus  re- 
gum  Langoharcìorum  et  ItaUcorum  Brixiensis  et  Nonantoìa- 
nus,  Cataìogus  regiim  Langobardorum  et  ItaUcorum  Venetus, 
Catalogus  regum  Langobardorum  et  ItaUcorum  Lombardus^  Ca- 
taìogus regimi  tuscus,  Catalogus  regum  Itaìicorum  Osceìensis, 
Cataìogus  imiìeratorum^  regum  Itaìicorum,  ducum  Beneventa- 
norum  et  Spoìetinorum  Farfensis.  Nel  medesimo  volume  sono 
anche  pubblicate  una  breve  vita  piena  d' interesse  di  S.  An- 
selmo fondatore  della  Badia  di  Nonantola  e  diversi  racconti 
di  traslazioni  di  reliquie  meritevoli  anch'essi  d'attenzione. 
Com'è  noto,  nei  secoli  rozzi  e  superstiziosi  dei  quali  si  tiene 
discorso,  tanto  avida  era  la  smania  di  possedere  reliquie  di 
santi,  che  spesso  ora  con  buone  or  con  male  arti,  esse  ve- 
nivano tolte  da  una  terra  e  trasportate  in  un'  altra.  Sotto  il 
nome  generico  di  transìationes  trovausi  negli  atti  dei  santi 
frequenti  narrazioni  di  questi  trasporti,  le  quali  assai  volte 
hanno  un  carattere  storico. 


ERCHEMPERTO  105 

tecassino.  Quivi  egli  longobardo  di  origine  e  di  ade- 
renze, fu  indotto  dagli  amici  suoi  a  scrivere  il  suo 
lavoro  e  a  riferir  le  vicende  dei  Longobardi  meri- 
dionali «  dei  quali,  »  egli  dice,  «  a  questi  giorni  nulla 
«  si  trova  degno  e  lodevole  che  meriti  d'esser  notato 
«  con  verace  stile,  e  perciò  io  non  il  governo  loro 
«  ma  r  eccidio,  non  la  felicità  ma  la  miseria,  non  il 
«  trionfo  ma  la  rovina,  non  come  sieno  cresciuti  ma 
«  come  si  sieno  disfatti,  non  come  abbiano  superati 
«  gli  altri  ma  come  dagli  altri  sieno  stati  superati  e 
«  vinti,  traendo  alti  sospiri  dall'  intimo  core,  narrerò 
«  rozzamente  e  breve  ad  esempio  dei  posteri.  E  vinto 
«  dalle  preghiere  degli  amici,  dichiaro  che  io  non 
«  solo  narro  quanto  vidi  cogli  occhi  miei,  ma  e  più 
«  quanto  udii  cogli  orecchi,  imitando  Y  esempio  di 
«  Marco  e  Luca  evangelisti  i  quali  piuttosto  per  quel 
«  che  udirono  che  per  quello  che  videro,  scrissero 
«  gli  evangeli  (1).  » 

Vivente  nel  teatro  della  sua  storia,  talvolta  spet- 
tatore o  vittima  dei  fatti  che  narra,  e  più  sovente, 
amico  e  uditore  di  chi  ne  fu  testimonio  di  vista,  Er- 
chemperto  produce  il  suo  racconto  colla  semplicità 
spedita  di  chi  parla  cose  familiari  alla  sua  mente.  Al- 
quanto rozzo  ma  non  pesante  di  forma,  nella  sostanza 
sincero  e  credibile,  ei  ci  ragguaglia  intorno  alle  guerre 
che  si  aggravavano  nell'Italia  meridionale  e  sulle  spo- 
gliazioni che  infliggevano  ad  essa  le  orde  dei  Saraceni 
e  dei  Greci  i  quali  ultimi  odia  e  spregia  assai  peg- 


(1)  ErcJiempertì  Jiistoria  Langóbardorum  Beneventanorum, 
ed.  G.  Waitz,  in  Scrijìtores  Rer.  Laruj.  et  Ital.  saec.  VI-JX. 


106  LE    CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

gio  dei  primi.  Il  lavoro  suo  che  ci  abbandona  al- 
l'anno 889,  aveva  un  seguito  la  cui  perdita  è  grave. 
Di  questa  perdita  ci  compensa  in  qualche  modo  lo 
scritto  di  un  anonimo  salernitano  (1),  che  ci  raggua- 
glia intorno  alla  storia  dei  principati  longobardi  fino 
al  974.  Egli  adopera  molto  Paolo  Diacono  ed  Erchem- 
perto  nella  compilazione  sua,  e  solo  può  considerarsi 
come  fonte  originale  nell'ultima  parte  del  suo  lavoro. 
Scrittor  vivace  ma  di  poca  critica,  è  l'unico  cronista 
a  cui  possa  appoggiarsi  in  questi  anni  la  storia  del- 
l' Italia  inferiore.  Ciò  rende  tanto  più  importuna  la 
interruzione  dell'opera  di  Erchemperto  il  quale  per 
fermo  tra  gli  scrittori  meridionali  è  il  maggiore,  e 
neppure  trova  fuor  della  scuola  di  Farfa  chi  possa 
paragouarsegli  nell'Italia  centrale. 

Nell'alta  Italia  due  scrittori  assai  diversi  tra  loro 
diedero  segno  di  loro  attività  letteraria  nel  campo 
storico.  Un  d'essi,  il  prete  Andrea  da  Bergamo,  com- 
pilando nell'anno  877  un  riassunto  della  storia  lon- 
gobarda di  Paolo  Diacono,  la  continuò  fino  al  suo 
tempo.  Di  quante  se  ne  sono  menzionate  finora  que- 
sta è  forse  la  scrittura  piìi  barbara,  talché  la  esat- 
tezza delle  notizie  la  fa  pregevole  per  la  parte  media 
del  secolo  nono  ma  non  vale  a  salvar  dal  tedio  e 
dalla  fatica  chi  prende  a  leggerla  (2).  Per  contro  po- 
chi anni  dopo,  sullo  schiudersi  del  secolo  decimo,  ci 
apparisce  innanzi  un  lavoro  di  poesia  storica  il  quale 


(1)  Chronicon  Salernitamim  in  iliòn.  Germ.  Hist.  SS.  III. 

(2)  Andreae  Bergomatis  historia,  ed.  Waitz  iu  Script.  Ee- 
rnm  Lang.  et  Ital.  saec.  VI-IX. 


PANEGIRICO   DI    BERENGARIO  107 

lasciandosi  indietro  a  gran  pezza  ogni  altro  scritto 
contemporaneo,  rivela  d'improvviso  una  larga  cono- 
scenza della  lingua  latina  e  degli  autori  classici.  Il 
poeta  si  propone  per  eroe  Berengario  e  celebra  le 
imprese  ch'egli  sostenne  per  conquistarsi  il  regno 
d' Italia  e  la  corona  imperiale.  Il  poema  che  s' intitola  : 
Panegyricus  Berengarii  è  veramente  un  panegirico, 
e  l'autorità  sua  come  fonte  storica  per  chi  lo  pigli 
da  solo,  non  ha  gran  valore.  Con  molta  finezza  l'au- 
tore si  studia  di  far  sempre  apparire  legittima  ogni 
pretesa  di  Berengario,  e  di  palliare  coi  versi  il  si- 
gnoreggiar della  forza  sopra  ogni  pretesa  di  diritto. 
Ma  se  non  si  vuol  dar  cieca  fede  alla  storia  di  que- 
sto poema,  certo  come  produzion  letteraria,  raggua- 
gliandolo alla  stregua  dei  tempi,  è  lavoro  mirabile. 
Fu  composto,  per  quanto  pare,  a  Verona  tra  l'anno  91(5 
e  il  924  da  un  maestro  di  grammatica  il  cui  nome  è 
rimasto  ignoto.  Non  può  affermarsi  con  sicurezza  se 
r  autore  fosse  laico  od  ecclesiastico,  ma  l' ignoranza 
che  prevaleva  allora  nel  clero  italiano ,  indurrebbe 
piuttosto  a  farlo  ritener  laico.  Postosi  innanzi  gli 
esempi  d' Omero ,  di  Virgilio  e  di  Stazio ,  egli  rac- 
conta sulle  orme  loro  le  imprese  dell'  eroe  fino  alla 
sua  coronazione  in  Roma.  Tra  i  frequenti  difetti  di 
costruzioni  stravolte  e  d'espressioni  ricercate  ed  oscure, 
gli  esametri  suoi  tutti  fioriti  d'emistichii  e  di  versi 
classici  son  messi  assieme  con  abilità  sufiiciente.  Com- 
posto per  essere  letto  e  studiato  nelle  scuole  di  gram- 
matica, questo  panegirico  ebbe  l'onore  di  un  com- 
mentario contemporaneo  che  lo  spiega  nei  passi  men 
facili.  Anch'esso  questo  commentario  è  notevole  per 


108  LE   CROXACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

la  buona  conoscenza  che  mostra  della  letteratura  clas- 
sica e  ancor  più  per  un  certo  modo  di  commentare 
che  indica  come  coloro  ai  quali  il  commento  si  di- 
rigeva, possedessero  pure  nozioni  classiche  non  troppo 
scarse  né  vili  (1). 


(1)  Panegijriciis  Berengarii  Imperatoris,  in  3Ionum.  Germ. 
Ilist.  SS.  IV,  Cf.  anche  Wattexbach,  op.  cit.,  I,  251.  È  no- 
tevole pure  una  lunga  poesia  in  metro  saffico  dettata  a  Ve- 
rona in  lode  del  vescovo  Adalardo  che  sembrami  tanto  più 
degna  di  nota  perché  pare  accertato  che  anche  il  panegirico 
di  Berengario  usci  da  penna  Veronese.  Alcuni  altri  versi  di 
carattere  indirettamente  storico  furono  compilati  da  autore 
anonimo  nell'  anno  876  ma  non  hanno  nessun  valore.  Anche 
vuoisi  fare  menzione  dei  versi  composti  da  un  monaco  irlan- 
dese in  lode  dell'arcivescovo  di  Milano  Tadone  (A.  D.  861-S69, 
Ughelli,  Italia  sacra,  IV,  83.  Ed.  Venez.,  1719)  e  di  Lotario 
imperatore.  Queste  produzioni  poetiche  attestano  la  presenza 
di  letterati  stranieri  in  Italia  e  collcgano  il  nostro  paese  con 
un  movimento  letterario  che  uscito  d'Irlanda  sparse  una  certa 
luce  di  civiltà  in  parecchi  luoghi  d'  Europa.  E  qui  mi  corre 
il  caro  obbligo  di  ringraziare  pubblicamente  il  conte  Costan- 
tino Nigra  che  in  una  dotta  lettera  mi  corresse  amorevolmente 
d'alcuni  errori  nei  quali  inceppai  toccando  di  tale  argomento 
nella  edizione  inglese  di  questo  libro.  E  aggiungerò,  appro- 
fittando di  quanto  l'illustre  celtista  mi  scrisse,  che  il  codice 
da  cui  furono  tolti  que'  versi  ne  contiene  altri,  scritti  proba- 
bilmente dallo  stesso  monaco  irlandese,  in  lode  di  un  Sofrido, 
eh'  egli  identifica  col  vescovo  Sofi-edo  o  Seufredo  che  ponti- 
ficava in  Piacenza  negli  anni  858-867,  ed  in  lode  del  Duca 
Lodfrido  ch'egli  identifica  col  Duca  di  Trento  che  viveva  nel- 
r845.  Inoltre  qualche  altro  verso  nel  codice  fa  menzione  di 
Angilberto  Pusterla  immediato  predecessore  di  Tadone  (A.  D. 
827-861.  Ughelli,  It.  Sac,  IV,  79).  Ermanno  Hagen  ha  pub- 
blicato tali  versi  nella  raccolta  intitolata  Carmina  medii  aevi.... 
inedita,  exhibliothecis  Heìveticis  colkcta.  Bernae,  Froben,  1877. 


STATO    DELLA.    CULTURA    ITALIANA  109 

Dinnanzi  a  questo  poema  e  ai  segni  di  sapere  che 
intorno  a  questo  tempo  appariscono  sparsi  qua  e  là 
in  Italia,  viene  naturale  il  domandarsi  quale  fosse 
allora  lo  stato  della  cultura  italiana.  E  egli  ben  vero 
che  l'Italia  fosse  ottenebrata  dalla  profonda  barbarie 
indicata  dalle  scarse  e  ruvide  scritture  ecclesiastiche 


Li  trasse  da  questo  codice  prezioso  che  si  conserva  ora  nella 
biblioteca  di  Berna  e  di  cui  lo  stesso  Nigra  nella  B,evue  Cel- 
t'ique  (luglio  1875)  diede  una  descrizione  assai  precisa.  In  esso 
si  contengono  parecchie  materie  d'argomento  vario,  «e  poi,  »  mi 
scrive  il  conte  Nigra,  «  nelle  pagine  rimaste  vuote  e  di  mano 
«  posteriore  ma  irlandese,  i  versi  sopradetti,  iscrizioni,  prove  di 
«  penna  e  chiose  marginali  e  interlineari,  non  copiose,  alcune 
«  delle  quali  in  lingua  irlandese  del  IX  secolo.  I  nomi  propri 
<v  scritti  nei  margini  appartengono  alle  tre  nazionalità,  irlan- 
«  dese,  longobarda  ed  italiana.  Fra  i  nomi  irlandesi  vi  è  quello 
«  di  Dungal,  il  quale  da  un  capitolare  dell'anno  823  di  Lo- 
«  tario  I  imperatore  fu  chiamato  ad  istituire  la  scuola  di  Pavia 
«  (MUEATORI,  Ant.  Itaì.  III,  815)....  Fra  i  nomi  italiani,  oltre 
«  quelli  degli  arcivescovi  Tadone  e  A.ngilberto  che  sono  lon- 
«  gobardi  italianizzati,  vi  sono  quelli  della  maggior  parte  dei 
«  vescovi  contemporanei  dell'alta  Italia.  Sono  notevoli  alcune 
«  jn'ove  di  penna  nei  margini  scritte  da  mani  longobarde  che 
^<  fanno  supporre  che  il  codice  servisse  alla  scuola,  probabil- 
«  mente  di  Pavia.  Certo  fu  scritto  in  Irlanda,  ed  era  in  Italia 
«  fino  allo  scorcio  del  IX  secolo  portatovi  probabilmente  da 
«  Dungal.  >^  Cosi  quell'  erudito,  e  bene  vorrei  che  i  limiti  del 
mio  lavoro  mi  concedessero  di  stampar  qui  tutta  la  sua  lettera 
a  dimostrar  sempre  meglio  come  sia  da  tenere  in  gran  conto 
un  siffatto  elemento  irlandese  nella  storia  difficile  di  questo  pe- 
riodo letterario.  Certo  farebbe  pregevole  studio  chi,  massime 
aiutandosi  di  paragoni  paleografici,  s'accingesse  a  indagare 
se  vi  sono  traccie  d'influenza  irlandese  nei  monasteri  del- 
l'Italia centrale  e  del  mezzogiorno. 


110  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

che  ci  avanzano  di  quei  secoli?  A  questa  domaiida, 
dopo  il  Tiraboschi  e  il  Giesebrecht,  ha  risposto  con 
tanta  giustezza  l'alemanno  Wattenbach  che  mi  sti- 
merei in  colpa  s' io  togliessi  ai  lettori  una  bella  pa- 
gina esponendo  con  parole  mie  le  sentenze  di  quel- 
l'erudito maestro  : 

«  Noi  ci  troviamo  innanzi  ad  una  cultura  »  così 
egli  parla  «  che  non  trae  origine  dalla  Chiesa  ma 
«  è  nutrita  da  quegli  isolati  grammatici  di  cui  l'at- 
«  tività  non  cessò  mai  in  Italia.  È  merito  di  Guglielmo 
«  di  Giesebrecht  l'avere  indicato  per  la  prima  volta 
«  come  queste  scuole  rimanessero  sempre  in  Italia  e 
«  spargessero  un  grado  di  cultura  tra  i  laici  scono- 
«  scinto  dall'altro  lato  delle  Alpi.  In  Italia,  dice  Wi- 
«  pone  nell'undecimo  secolo,  tutti  i  fanciulli  vanno 
«  regolarmente  a  scuola,  e  soltanto  in  Germania  si 
«  stima  cosa  inutile  o  sconveniente  l'educare  un  fan- 
«  ciullo  s'egli  non  è  destinato  alla  Chiesa.  I  laici  ita- 
«  liani  leggevano  Virgilio  ed  Orazio  ma  non  scrive- 
«  vano  libri,  e  intanto  il  clero  parte  s' immergeva 
«  neir  ignoranza  e  parte  si  consacrava  troppo  agli 
«  afifari  politici  per  affannarsi  dietro  agli  sforzi  eru- 
«  diti  di  quel  tempo.  Per  tal  modo  si  spiega  il  di- 
«  fetto  di  produttività  letteraria  e  la  povertà  della 
«  attuale  letteratura,  mentre  d'altronde  per  quel  pa- 
«  negirista,  e  alquanto  più  tardi  per  Liudprando,  ap- 
«  parisce  una  piena  maravigliosa  di  erudizione  clas- 
«  sica  e  grande  abilità  d' espressione ,  massime  nel 
«  verseggiare,  che  era  oggetto  precipuo  della  cultura 
«  scolastica.  Alcuni  del  clero  gustavano  avidamente 
«  il  frutto  jDi'oibito,  ma  generalmente  il  clero  stava 


STATO   DELLA   CULTURA    ITALIANA  III 

«  contro  questo  movimento  in  cui  non  senza  ragione 
«  riconosceva  un  elemento  pagano.  La  scienza  non 
«  era  qui  presa  a  servizio  della  Chiesa  :  essa  teneva 
«  una  posizione  indipendente  ma  era  quasi  esclusi- 
«  vamente  di  una  natura  formale  e  però  essenzial- 
«  mente  improduttiva  (1).  » 

Col  sorgere  della  dominazione  degli  Ottoni  (A. 
D.  961),  si  chiude  il  faticoso  ciclo  storico  di  cui  sono 
venuto  descrivendo  le  fonti  man  mano  che  le  rac- 
coglievo di  qua  e  di  là  secondo  che  mi  riusciva.  La 
fiacca  dominazione  dei  successori  di  Carlomagno,  sce- 
mando in  Italia  le  forze  della  monarchia,  aveva  per 
guisa  accresciute  quelle  dei  nobili,  che  a  poco  a  poco 
essi  fatti  come  indipendenti  guerreggiavan  tra  loro 
disputandosi  il  potere  supremo.  Così  crebbero  quei 
fieri  e  potenti  signori  d' Ivrea,  del  Friuli,  della  To- 
scana, di  Spoleto,  i  quali  oramai  fuor  d'ogni  sogge- 
zione dall'Impero  ambivano  al  regno.  Sono  di  questa 
età  le  lotte  di  Berengario  duca  del  Friuli  con  Guido 
e  Lamberto  di  Spoleto  pel   trono  d' Italia,  e  le  di- 


(1)  Wattenbach,  Deut.  Gescliiclitsqu.,  I,  252  (ed.  1877).  Men- 
tre m' accordo  con  questa  opinione,  stimo  debito  di  osservare 
che  assai  prima  del  Giesebrecht,  la  continuata  esistenza  delle 
scuole  italiane  era  sWta  affermata  e  dimostrata  dal  Tirabo- 
sclii  nella  sua  storia  della  letteratura.  Su  qiiesto  argomento 
rOzanam  pubblicò  un  saggio  eccellente  intitolato  Des  Écoles 
en  Italie  aux  temps  Barbares,  nel  quale  anche  tien  conto, 
forse  con  favore  alquanto  soverchio,  della  esistenza  delle  scuole 
ecclesiastiche.  Un  recente  lavoro  del  signor  Salvioli  sulla  istru- 
zione pubblica  in  Italia  dall'ottavo  al  decimo  secolo,  è  scritto 
con  uno  spirito  meno  comprensivo  ma  è  pi'egevole  pei  molti 
dettagli  che  reca. 


112  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

spute  tra  loro  e  i  principi  tedeschi  e  francesi  per  la 
corona  imperiale  (A.  D.  888-924),  e  i  regni  turbo- 
lenti e  tirannici  di  Rodolfo,  Ugo,  Lotario  di  Pro- 
venza, e,  per  ultimo,  di  Berengario  II.  Tra  queste 
lotte  pativa  oppressa  l' Italia,  mentre  a  Roma  gli 
Alberichi  e  Marozia  trascinavano  nel  fango  il  Papato 
di  cui  s'erano  fatti  padroni  (A.  D.  924-961).  A  questo 
punto  le  tenebre  cominciano  a  diradarsi  e  succede 
l'età  dei  tre  Ottoni  sassoni  i  quali  tennero  l'Impero 
e  ressero  Italia  per  quarant'anni  circa,  dal  961  al  1002. 
Xon  è  di  questo  luogo  esaminare  i  vantaggi  e  i  danni 
di  questa  dominazione,  e  come  con  essa  si  stringesse 
inestricabilmente  quel  vincolo  tra  Italia  e  Germania 
per  cui  la  storia  delle  due  nazioni  quasi  si  confonde 
in  un  cumulo  doloroso  di  vicende  igiene  di  miseria 
e  di  sangue.  Giovi  qui  soltanto  accennare  come  Ot- 
tone il  Grande  per  abbassare  la  potenza  dei  nobili 
aiutò  lo  svolgersi  delle  libertà  comunali,  e  nelle  città 
accrescendo  le  attribuzioni  politiche  dei  vescovi,  so- 
stituì in  certo  modo  la  forza  di  una  nobiltà  elettiva 
a  quella  di  una  nobiltà  ereditaria.  Da  ciò  le  ade- 
renze degli  Ottoni  tra  gli  uomini  di  chiesa  e  massi- 
mamente tra  i  vescovi  dell'  alta  Italia.  Tra  questi 
campeggia  Liudprando  vescovo  di  Cremona  che  si 
fece  storico  di  quei  tempi  (1).  Simile  in  ciò  ai  più 


(1)  LiUDPKANDi  Episcopi  Ceemonensis  opera  omnia  in  usimi 
scholarum  ex  Monumentis  Germaniae  historicis  recusa.  Editio 
altera.  JRecognovit  Ernestus  Dimmler.  HanDOverae,  1877.  Per 
quanto  si  riferisce  alla  vita  di  Liudprando  mi  appoggio  molto 
alla  bella  e  concisa  prefazione  del  Diimmler  il  quale  restringe 


LIUDPRANDO  113 

antichi  scrittori  di  cui  si  è  trattato,  Liudprando  ebbe 
parte  non  ultima  nella  vita  pubblica.  Nacque  verso 
il  920  in  Lombardia  e,  secondo  alcuni,  fu  propria- 
mente pavese.  Perdette  nella  infanzia  il  padre,  e  fu 
educato  con  molta  cura  dal  suo  patrigno,  uomo^  come 
egli  ci  narra,  grave  di  costumi  e  pieno  di  sapienza  (1), 
le  quali  parole  ricordano  quel  che  s' è  detto  sulla  cul- 
tura del  laicato  italiano.  Nell'anno  931  raccomandato 
al  re  Ugo  come  fanciullo  ricco  d' ingegno  e  dotato  di 
bella  voce,  fu  ammesso  alla  corte  regia.  Guadagna- 
tosi il  favore  del  re,  prese  più  tardi  la  via  ecclesia- 
stica e  fu  ascritto  tra  i  diaconi  della  chiesa  di  Pavia. 
Quando  nel  945  Ugo  abbandonò  in  fuga  il  regno, 
Liudprando  potè  ottenere  onorata  posizione  alla  corte 
del  nuovo  re  Berengario  IL  Sembra  che  per  qualche 
tempo  anche  questo  sovrano  ne  tenesse  in  pregio  le 
doti  e  si  servisse  di  lui  volentieri.  Negli  anni  949-950 
fu  inviato  a  Costantinopoli  in  imbasciata  e  a  siffatta 
legazione  parevano  designarlo  particolarmente  i  suoi 
studi  e  le  tradizioni  di  famiglia  perché  già  il  padre 
e  il  patrigno  suo  avevano  entrambi  disimpegnato  lo 
stesso  ufficio.  Il  viaggio  gli  giovò  mirabilmente  a  farsi 
pratico  delle  usanze  e  delle  istituzioni  dei  Greci,  e 
a  procacciarsi  una  conoscenza  piena  di  lor  lingua  e 
di  loro  letteratura  da  cui  doveva  trarre  gran  giova- 
mento più  tardi.  Quando  fu  ritornato  in  patria  alienò 
da  sé  fino  all'odio  Berengario  e  la  regina  Willa  ma 


con  grande  competenza  i  molti  studi  fatti  nel  corso  di  que- 
sto secolo  intorno  a  Liudprando,  di  cui  peraltro  tende  ad  esal- 
tare forse  un  po'  troppo  il  valore. 

(1)  «Viro  gravitate  ornato  et  sapientia  pieno.» 

8.  I'alzant,  La  Cronache  ilalkme. 


114      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

non  se  ne  sanno  i  motivi,  e  fu  costretto  a  ri- 
fugiarsi in  Germania  dove  il  sassone  re  Ottone  I 
lo  accolse  onorevolmente.  Neil'  esilio  si  rese  fami- 
liare la  lingua  tedesca  che  anch'  essa  gli  riuscì  poi 
di  grande  vantaggio  nella  trattazione  degli  affari  a 
cui  fu  chiamato  allorché  Ottone  spinto  dai  suoi  grandi 
destini  scese  in  Italia.  Nell'anno  956,  mentre  ancora 
era  a  corte  in  Germania  si  strinse  d' amicizia  con 
Recemundo  vescovo  di  Elvira  il  quale  lo  consigliò 
d' intraprendere  la  storia  dei  suoi  tempi.  Maturato 
un  pezzo  il  consiglio,  Liudprando  dopo  due  anni  co- 
minciò a  Francoforte  il  suo  lavoro.  L'odio  che  nu- 
triva verso  Berengario  e  Willa,  gli  suggei'ì  il  titolo 
del  libro  e  lo  chiamò  Antapodoseos,  o  libro  della  re- 
stituzione, volendo  significare  ch'egli  avrebbe  resti- 
tuito bene  per  bene  agli  amici  e  male  per  male  a 
chi  lo  aveva  cacciato  in  esilio.  I  sei  libri  àéiVAnta- 
jjodoseos  furono  scritti  interrottamente  tra  il  958  e 
il  962  in  luoghi  e  tempi  diversi.  Incominciando  dal- 
l'anno 888,  data  abbastanza  vicina  all'autore  per 
ottener  verbalmente  le  testimonianze  contemporanee 
o  quasi  contemporanee^  egli  racconta  la  storia  dei  fatti 
accaduti  in  Europa.  E  un  libro  curiosissimo  nel  quale 
gli  avvenimenti  dei  diversi  paesi  si  seguono  e  s'incal- 
zano con  grande  abbondanza  e  con  ricchezza  di  det- 
tagli maravigliosa.  Naturalmente  le  cose  d'Italia  oc- 
cupano la  parte  maggiore  dell'opera,  ma  la  vasta  tela 
di  essa  abbraccia  luoghi  e  persone  lontane.  Italiani, 
Tedeschi,  Saraceni,  figure  e  storie  d'ogni  maniera  dagli 
atti  di  papi  e  d' imperatori  fino  a  quelli  del  volgo, 
racconti  di  battaglie,  esempì  di  virtìi,  pitture  di  scan- 


LIUDPRAKDO  115 

dali  osceni,  v'  è  un  po'  di  tutto  nel  libro,  ed  anco  è 
notevole  che  le  leggende  occupano  in  esso  piccolissimo 
luogo.  La  narrazione  giunge  fino  all'anno  950  dove 
il  sesto  libro  dell'Antapodosi  rimane  interrotto.  Liud- 
prando  s'era  proposto  di  condur  l'opera  fino  ai  tempi 
del  suo  esilio,  ma  la  gran  mole  degli  affari  che  gli 
venne  sopra,  e  forse,  come  pensa  il  Diimmler,  l'odio 
suo  placato  per  la  caduta  di  Berengario,  lo  distolsero 
dal  continuare.  Le  sorti  della  sua  vita  s'erano  mu- 
tate. La  nazionalità  sua,  l' ingegno  pronto  e  versa- 
tile, l'attitudine  agli  incarichi  diplomatici,  la  fami- 
liare conoscenza  di  varie  lingue,  lo  chiamavano  alle 
cose  di  Stato.  Nell'anno  961  Ottone  il  Grande  sceso 
appena  in  Italia  lo  aveva  preposto  alla  sede  vescovile 
di  Cremona.  Da  quel  tempo  egli  fu  in  mezzo  a  tutti 
gli  affari  d'Italia  e  alle  relazioni  d'Ottone  colla  Gre- 
cia. Nell'estate  dell'anno  964  andò  a  Roma  legato  al 
papa  Giovanni  XII  e  di  li  a  breve  si  trovò  con  Ot- 
tone presente  al  Concilio  dove  quell'indegno  ponte- 
fice fu  deposto,  e  toccò  a  lui  d'interpretare  ivi  ai 
vescovi  italiani  il  discorso  del  monarca  tedesco.  Par- 
tecipò alle  elezioni  di  Leone  Vili  e  alla  deposizione 
di  Benedetto  V  suo  competitore.  Di  tutti  questi  avve- 
nimenti occorsi  sotto  gli  occhi  suoi  tra  il  960  e  il  964, 
egli  scrisse  la  storia  per  comando  dello  stesso  impe- 
ratore in  un  libro  intitolato  Historia  Ottonis.  Forse 
la  dignità  delle  cariche  a  cui  era  salito  e  la  parte 
presa  alle  cose  narrate,  contribuirono  a  rendere  que- 
sto scritto  assai  più  calmo  e  scevro  da  quella  pas- 
sione di  parte  che  fa  così  acre  l'Antapodosi.  Né  ciò 
giova  solo  a  diminuirgli  d'assai  il  difetto  di  parzia- 


116  LE   CRONACHE   1TA.LIA.NE   NEL    MEDIO    EVO 

lità  onde  è  accusato,  ma  aggiunge  se  è  possibile  evi- 
denza dì  colorito  al  suo  racconto.  La  deposizione  di 
Giovanni  XII,  per  esempio,  è  narrata  in  modo  così 
vivo  e  spiccato,  che  leggendola  par  d'assistere  al  Con- 
cilio che  la  decretò.  Dopo  aver  descritte  le  differenze 
per  le  quali  l' imperatore  e  il  jjapa  erano  venuti  a 
termini  inconciliabili,  e  come  il  pontefice  non  solo 
non  avesse  badato  alla  sua  legazione,  ma,  contro  i 
patti,  avesse  accolto  Adalberto  figlio  di  re  Berengario 
entro  le  mura  stesse  di  Roma,  Liudprando  prosegue: 

«  Mentre  accadean  tali  cose,  la  costellazione  del 
«  Cancro  ardua  per  gli  accesi  raggi  di  Febo  allon- 
«  tanava  l' imperatore  dai  castelli  romani,  ma  quando 
«  la  costellazione  della  Vergine  tornando  portò  seco 
«  la  stagion  grata,  invitato  segretamente  dai  Romani 
«  egli  venne  a  Roma  (A.  D.  963).  Ma  perché  dirò  «  se- 
«  gretamente  »  quando  la  maggior  parte  degli  ottimati 
«  invase  il  caste!  di  San  Paolo  e  invitò  il  santo  im- 
«  peratore  dando  perfino  gli  ostaggi  ?  A  che  indu- 
«  giarsi  in  parole  ?  Accampatosi  l' imperatore  presso 
«  alla  città,  il  papa  e  Adalberto  se  ne  fuggon  da  Roma. 
«  I  cittadini  accolgono  nella  città  il  santo  imperatore 
«  con  tutti  i  suoi,  promettono  fedeltà,  aggiungendo 
«  e  giurando  fermamente  ch'essi  mai  non  eleggereb- 
«  bero  il  papa  né  l'ordinerebbero  senza  il  consenso 
«  e  la  elezione  del  signore  imperatore  Ottone  cesare 
«  augusto,  e  del  figlio  di  lui  il  re  Ottone. 

«  Dopo  tre  giorni  chiedendolo  del  pari  i  vescovi 
«  romani  e  la  plebe,  si  fa  grande  adunanza  nella 
«  Chiesa  di  San  Pietro,  e  coli' imperatore  sedettero 
«  gli  arcivescovi,  di  quei  d' Italia  :  Rodaldo  diacono 


LIUDPRANDO  117 

«  per  Ingelfredo  patriarca  d'Aqiiileia  trattenuto  colà, 
«  come  suole  accadere,  da  una  improvvisa  malattia, 
«  e  Gualperto  di  Milano  e  Pietro  da  Ravenna;  di 
«  quei  di  Sassonia  :  Adeltac  arcivescovo,  e  Landoardo 
«  vescovo  Mimendense  ;  di  Francia  Otclierio  vescovo 
«  di  Spira;  dall'Italia  i  vescovi  Uberto  da  Parma, 
«  Liudprando  da  Cremona,  Ermenaldo  da  Reggio.  » 
E  qui  segue  una  lunga  lista  di  vescovi  quasi  tutti 
italiani  e  dei  preti  e  cardinali  romani  che  si  trova- 
rono al  concilio  oltre  ai  rappresentanti  della  nobiltà 
e  del  popol  di  Roma  menzionati  anch'essi  nella  lista, 
dopo  la  quale  Liudprando  ripiglia  il  suo  racconto: 
«  Sedutisi  adunque  costoro  e  fattosi  un  gran  si- 
«  lenzio,  così  sorse  a  dire  il  santo  imperatore  :  '  Quanto 
«  sarebbe  acconcio  che  a  tanto  chiaro  e  santo  concilio 
«  si  trovasse  presente  il  signor  papa  Giovanni  !  Però 
«  avendo  egli  rifiutata  la  compagnia  vostra,  noi  con- 
«  sultiam  voi,  o  padri  santi,  che  avete  seco  comune 
«  la  vita  e  gl'interessi.  '  Allora  i  pontefici  romani  e 
«  i  cardinali  preti  e  diaconi  con  tutta  la  plebe  uni- 
«  versale  esclamarono  :  '  Ci  maraviglia  che  la  san- 
«  tissima  prudenza  vostra  voglia  farci  scrutare  quello 
«  che  non  è  nascosto  agli  Iberici  né  ai  Babilonesi, 
«  né  agli  Indi.  Costui  non  è  già  di  coloro  che  ven- 
«  gono  in  veste  di  agnello  e  dentro  son  lupi  rapaci  : 
«  egli  infierisce  così  apertamente,  tratta  così  in  pa- 
«  lese  i  suoi  diabolici  affari  che  non  usa  andare  in 
«  circuito.  '  L' imperatore  rispose  :  '  A  noi  par  giusto 
«  che  le  accuse  siano  espresse  nominatamente,  e  quindi 
«  si  tratti  di  comune  consiglio  ciò  che  dobbiamo  fare.  ' 
«  Allora  sorgendo  Pietro  cardinale  prete,  attestò  che 


118  LE   CRONACHE    ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

«  egli  l'aveva  veduto  celebrar  la  messa  senza  comu- 
«  nione.  Giovanni  vescovo  di  Narni  e  Giovanni  car- 
«  dinaie  diacono,  dichiararono  d'averlo  veduto  ordi- 
«  nare  un  diacono  in  una  stalla  di  cavalli  e  non  nelle 
^<  proprie  ore.  Benedetto  cardinale  diacono  con  altri 
«  condiaconi  e  preti  dissero  ch'ei  sapevano  che  egli 
«  faceva  a  prezzo  ordinazioni  di  vescovi,  e  che  aveva 
«  ordinato  vescovo  un  fanciul  di  dieci  anni  nella  città 
«  di  Todi.  Dissero  non  esser  necessario  indagare  sui 
«  sacrilegi  perchè  ne  avevano  veduto  piìi  di  quanto 
«  potrebbero  apprendere  udendo.  Dissero  degli  adul- 
«  terì....  Dissero  che  aveva  esercitata  pubblicamente 
«  la  caccia;  che  avea  privato  degli  occhi  Benedetto 
«  padre  suo  spirituale  talché  ei  n'era  morto  indi  a 
«  poco  ;  che  aveva  evirato  e  ucciso  Giovanni  cardi- 
«  naie  suddiacono  ;  e  attestarono  che  avea  fatti  in- 
«  cendi,  cinta  la  spada,  vestito  l'elmo  e  la  lorica.  Che 
«  avea  bevuto  per  amor  del  demonio  lo  acclamarono 
«  tutti,  chierici  e  laici.  Dissero  che  giuocando  ai  dadi 
«  aveva  invocato  l'aiuto  di  Giove  e  di  Venere  e  degli 
«  altri  demoni.  Dichiararono  ch'egli  non  avea  cele- 
«  brato  mattutino  e  le  ore  canoniche,  e  ch'ei  non  si 
«  muniva  col  segno  della  croce. 

«  Udito  ciò  r  imperatore,  poiché  i  Romani  non  po- 
«  tevano  intendere  il  linguaggio  suo  sassone^  impose 
«  a  Liudprando  vescovo  di  Cremona  di  esprimere  a 
«  tutti  i  Romani  quanto  segue  in  latino.  Onde  que- 
«  gli  sorgendo  incominciò  :  *  Spesso  accade,  e  noi  per 
«  esperienza  crediamo,  che  gli  uomini  costituiti  in 
«  dignità  sieno  macchiati  d'infamia  dagli  invidiosi, 
«  che  il  buono  spiace  ai  malvagi  come  il  malvagio 


LIUDPRANDO  119 

«  ai  buoni.  E  ciò  è  cagione  che  ci  sembri  dubbia 
«  questa  accusa  contro  il  papa,  che  ora  lesse  e  fece 
«  con  voi  Benedetto  cardinale  diacono,  incerti  se  essa 
«  prorompa  da  zelo  di  giustizia  o  da  livore  d' em- 
«  pietà.  Onde  coll'autorità  della  dignità  concessa  a 
«  me  indegno,  io  vi  prego  per  queir  Iddio  che  pur 
«  volendo  niuno  può  ingannar  mai,  e  per  la  santa 
«  madre  di  lui  Maria  Vergine  intemerata,  e  pel  corpo 
«  preziosissimo  del  principe  degli  apostoli  nella  cui 
«  Chiesa  si  tiene  questo  discorso,  che  non  si  lanci 
«  al  signor  papa  accusa  nessuna  di  colpe  ch'egli  non 
«  abbia  commesse  e  che  non  sieno  state  vedute  da 
«  uomini  provatissimi.  '  Allora  i  vescovi,  i  pi'eti,  i  dia- 
«  coni  e  il  rimanente  clero  e  tutto  il  popolo  dei  Ro- 
«  mani  come  un  sol  uomo  dissero  :  '  Se  e  quanto  lesse 
«  Benedetto  diacono,  e  indegne  cose  anche  maggiori 
«  e  più  turpi  non  commise  Giovanni  papa,  non  ci 
«  assolva  dai  legami  dei  peccati  nostri  Pietro  prin- 
«  cipe  beatissimo  degli  apostoli  che  chiude  il  cielo 
«  agli  indegni  e  l'apre  ai  giusti,  ma  ci  annodi  il  vin- 
«  colo  dell'anatema  e  nel  giorno  novissimo  siam  posti 
«  dalla  parte  sinistra,  con  coloro  che  dissero  al  si- 
«  gnore  Iddio:  Allontanati  da  noi,  non  vogliamo  la 
«  scienza  delle  tue  vie.  Che  se  non  concedete  fede  a 
«  noi,  almeno  dovete  credere  all'esercito  del  signor 
«  imperatore,  a  cui  quegli  andò  incontro  cinque  giorni 
«  indietro  cinto  di  spada  e  armato  di  scudo,  di  elmo 
«  e  di  lorica.  '  Allora  disse  il  santo  imperatore  :  '  Tanti 
«  sono  i  testimoni  di  ciò  quanti  i  combattenti  nel- 
«  l'esercito  nostro.  '  La  Santa  Sinodo  disse  :  '  Se  piace 
«  al   santo  imperatore  si   mandino   lettere  al  signor 


120  LE   CRONà.CHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  papa,  che  venga  e  si  purghi  da  tutte  queste  ac- 
«  cuse  '.  Allora  gli  fu  mandata  questa  lettera  : 

«  'Al  sommo  pontefice  e  papa  universale  Giovanni 
«  signore,  Ottone  per  concessione  della  clemenza  di- 
«  vina  imperatore  augusto,  cogli  arcivescovi  e  ve- 
«  scovi  di  Liguria,  Toscana,  Sassonia  e  Francia,  nel 
«  nome  del  Signore.  Venuti  a  Roma  per  servigio  di 
«  Dio,  avendo  richiesto  intorno  alla  vostra  assenza 
«  i  figliuoli  vostri,  cioè  i  vescovi  romani,  i  cardinali 
«  preti  e  diaconi,  e  tutta  la  plebe  universa,  e  per 
«  quale  cagione  non  volevate  veder  noi  che  slam  di- 
«  fensori  di  vostra  Chiesa  e  vostri,  tali  e  cosi  oscene 
«  cose  ci  riferirono  di  voi,  che  ci  farebbero  vergogna 
«  se  si  dicessero  d'un  istrione.  Delle  quali,  per  non 
«  tenerle  nascoste  alla  grandezza  vostra,  descrive- 
«  remo  qui  alcune  brevemente,  che  se  volessimo  spe- 
«  cificarle  tutte,  un  sol  giorno  non  ci  basterebbe.  Sap- 
«  piate  adunque  che  non  da  pochi,  ma  da  tutti,  cosi 
«  dell'ordine  nostro  che  dell'altro,  voi  siete  accusato 
«  d'omicidio,  di  spergiuro,  di  sacrilegio  e  d' incesto. 
«  Dicono  anche,  e  fa  raccapriccio  a  udirsi,  che  avete 
«  bevuto  per  amor  del  diavolo,  e  che  al  giuoco  dei 
«  dadi  avete  invocato  l'aiuto  di  Giove,  di  Venere  e 
«  d'altri  demoni.  Ora  noi  preghiam  vivamente  la  pa- 
«  ternità  vostra  che  non  lasciate  di  venire  a  Roma 
«  e  di  purgarvi  da  tutte  queste  accuse.  Se  per  av- 
«  ventura  temete  la  violenza  della  moltitudine  teme- 
«  raria,  noi  vi  promettiamo  con  giuramento  che  non 
«  si  farà  nulla  fuor  della  sanzione  dei  santi  canoni.  ' 

«  Colui  avendo  letta  questa  lettera  scrisse  questa 
«  apologetica:   'Giovanni  vescovo,  servo  dei  servi  di 


LIUDPKANDO  121 

«  Dio,  a  tutti  i  vescovi.  Abbiamo  sentito  dire  che 
«  voi  volete  fare  un  altro  papa;  se  ciò  farete  io  vi 
«  scomunico  da  parte  di  Dio  onnipotente  per  modo 
«  che  non  abbiate  licenza  di  ordinar  nessuno  né  di 
«  celebrar  la  messa  (1).  » 

Allorché  questa  rozza  lettera  fu  letta  in  Concilio, 
spiacque  del  pari  per  la  forma  e  per  la  sostanza.  Fu 
stabilito  che  l' imperatore  e  con  lui  tutta  la  sinodo  inti- 
massero a  Giovanni  di  venire  in  Roma  alle  discolpe,  mi- 
nacciandogli di  deporlo  se  non  si  piegasse.  La  lettera 
d' intimo  come  era  stata  concepita  fu  subito  scritta 
con  vigore  fermo  di  pensiero  e  di  stile.  Respingeva 
sdegnosa  la  scomunica  papale,  con  acerbi  rimproveri 
per  l'inconsulta  ingiuria  fatta  all'assemblea,  affermava 
l'autorità  di  questa  a  minacciar  lui  di  scomunica  se 
non  compariva  e  concludeva  paragonandolo  a  Griuda 
di  cui  l'autorità  apostolica  era  cessata  col  tradimento. 
Il  messaggio  fu  affidato  ai  cardinali  Adriano  e  Be- 
nedetto e  questi  si  mossero  subito  per  andarlo  a  recare. 

«  I  quali  arrivati  a  Tivoli  non  lo  trovarono;  che 
«  già  se  n'era  andato  in  arme  alla  campagna  né  v'era 
«  alcuno  il  quale  sapesse  indicar  loro  dov'  egli  fosse. 
«  E  non  potendo  trovarlo  se  ne  tornarono  alla  Santa 


(1)  «  Joannes  episcopus,  servus  servorum  Dei,  omnibus  epi- 
«  scopis.  Nos  audivimus  dicere  quia  vos  vultis  alium  papain 
«  facere  :  si  hoc  facitis,  excommunico  vos  da  deum  omnipoten- 
«  tara,  ut  non  habeatis  licentiam  nuìlum  ordinare,  et  missam 
«  celebrare.  »  È  curioso  che  nella  lettera  diretta  in  risposta 
dal  Concilio  a  Giovanni,  gli  si  rimprovera  anche  Terrore  di 
grammatica  commesso  scrivendo  nuìlum  invece  di  ìdium.  Del- 
l'idiotismo  da  deum,  non  è  fatta  parola. 


122      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  Sinodo  che  si  raccolse  allora  per  la  terza  volta.  Ed 
«  ora  l'imperatore  disse:  'Aspettammo  la  venuta  sua 
<.<  per  lamentarci  lui  presente  della  condotta  sua  verso 
«  di  noi.  Ma  poiché  sappiam  certo  ch'ei  non  verrà, 
«  vi  chiediam  con  istanza  di  ascoltare  com'egli  siasi 
«  con  noi  condotto  perfidamente.  Facciam  dunque 
«  noto  a  tutti  voi,  o  arcivescovi,  vescovi,  preti,  dia- 
«  coni  e  a  tutto  il  rimanente  clero,  e  a  voi  conti,  e 
«  giudici,  e  a  tutta  la  plebe^  che  questo  medesimo 
«  Giovanni  papa  oppresso  da  Berengario  e  da  Adel- 
«  berto  ribelli  nostri,  mandò  nunzi  in  Sassonia  pre- 
«  gandoci  che  per  1'  amor  d' Iddio  venissimo  in  Italia 
«  a  liberar  la  chiesa  di  san  Pietro  e  lui  dalle  loro 
«  fauci.  Quello  poi  che  noi  coli'  aiuto  di  Dio  abbiamo 
«  fatto,  non  serve  dire  perché  voi  lo  vedete  innanzi 
«  a  voi.  Strappato  per  opera  mia  dalle  loro  mani  e 
«  restituito  al  debito  onore,  egli,  dimentico  del  giu- 
«  ramento  e  della  fedeltà  che  mi  promise  qui  sopra 
«  le  reliquie  di  san  Pietro,  fece  venire  a  Roma  Adal- 
«  berto  e  lo  difese  contro  di  me  e  fece  sedizioni 
«  e  in  vista  dei  soldati  nostri,  fatto  duce  di  guerra 
«  vesti  l'elmo  e  la  lorica.  Decreti  ora  sopra  ciò  la 
«  Santa  Sinodo  e  sentenzii.  '  A  ciò,  i  romani  pontefici 
«  e  il  rimanente  clero  e  tutto  il  popolo  risposero:  '  Una 
«  piaga  inaudita  vuoisi  cauterizzare  con  inaudito  cau- 
«  terio.  Se  coi  corrotti  costumi  sé  solo  danneggiasse 
«  e  non  gli  altri,  potrebbe  in  qualche  modo  tolle- 
«  rarsi.  Ma  quanti  che  prima  erano  casti  son  fatti 
<'  incestuosi  per  imitazione  di  lui  ?  Quanti  probi  con- 
«  versando  seco  divenuti  reprobi  ?  Noi  domandiamo 
«  adunque  alla  imperiale  grandezza  vostra,  che  quel 


LIUDPRA>'DO  123 

«  mostro  i  cui  vizi  non  sono  redenti  da  virtù  al- 
«  cuna,  sia  respinto  dalla  santa  chiesa  romana,  e  un 
«  altro  sia  posto  in  suo  luogo  che  possa  guidarci  e 
«  giovarci  coli'  esempio  delia  buona  conversazione  ; 
«  viva  retto  per  sé  e  e'  insegni  coli'  esempio  a  ben 
«  vivere.  '  Allora  l' imperatore  :  '  Piace  a  noi  ciò  che 
«  dite,  e  nulla  ci  sarà  caro  più  del  potersi  trovare 
<'  tale  uomo  che  possa  preporsi  a  questa  santa  ed 
«  universale  sede.  ' 

«  A  ciò  tutti  ad  una  voce  dissero  :  '  Leone  venera- 
«  bile  protoscriniario  della  santa  chiesa  romana,  uomo 
«  provato  e  degno  del  supremo  grado  sacerdotale, 
«  noi  ci  eleggiamo  in  pastore,  come  sommo  ed  uni- 
«  versale  papa  della  santa  chiesa  romana,  riprovato 
«  pei  suoi  mali  costumi  Giovanni  1'  apostata.  '  E  ri- 
«  potuto  ciò  per  tre  volte,  consenziente  l' imperatore, 
«  secondo  la  usanza  conducono  tra  le  laudi  il  nomi- 
«  nato  Leone  al  palazzo  Lateranense,  e  al  tempo  de- 
«  terminato  lo  sollevano  con  santa  consacrazione  al 
«  sommo  sacerdozio  nella  chiesa  di  san  Pietro,  e  con 
«  giuramento  promettono  d'essergli  fedeli. 

«  Compiute  cosi  queste  cose,  l'imperatore  santis- 
«  simo  sperando  di  poter  dimorare  in  Roma  con  poca 
«  gente,  die' licenza  a  molti  di  tornarsene  a  casa  af- 
«  finché  il  popol  romano  non  rimanesse  consunto 
«  dalla  moltitudine  dell'esercito.  E  risapendo  ciò  quel 
«  Giovanni  che  già  fu  chiamato  papa,  non  ignorando 
«  come  potesse  facilmente  corrompere  a  denaro  le  menti 
«  dei  Romani,  manda  di  celato  messaggeri  a  Roma 
«  promettendo  il  denaro  di  san  Pietro  e  di  tutte  le 
«  chiese  se   dessero   addosso  al  pio    imperatore  e  a 


ìli  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  papa  Leone  ed  empiamente  li  trucidassero.  A  che 
«  indugiarmi  in  parole  ?  I  Romani  confidando,  anzi 
«  ingannati  per  la  picciolezza  dell'  esercito,  animati 
«  dal  denaro  promesso,  dato  fiato  alle  trombe  cor- 
«  rono  contro  all'  imperatore  per  ucciderlo.  Ai  quali 
«  l'imperatore  muove  incontro  sul  ponte  del  Tevere 
<.<  che  i  Romani  avevano  ingombrato  di  carri.  I  forti 
«  soldati  suoi,  assuefatti  alla  guerra,  intrepidi  di  petto 
«  e  armati,  si  caccian  tra  loro,  e  come  falchi  tra  una 
«  moltitudine  d'  uccelli,  li  atterriscono  senza  incon- 
«  trar  chi  resista.  Non  nascondigli,  non  corbe,  non 
«  barche^  non  cloache  furon  tutela  ai  fuggenti.  Li 
«  uccidono,  e  come  accade  ai  forti,  li  feriscono  nelle 
«  terga.  E  chi  mai  sarebbe  avanzato  superstite  dei 
«  Romani,  se  il  santo  imperatore,  inclinato  ad  una 
«  misericordia  che  non  era  certo  dovuta,  non  avesse 
«  ritratti  e  richiamati  i  suoi  ancora  assetati  di  san- 
«  gue?  (1)  » 

È  gran  danno  che  V  intero  racconto  di  questi  av- 
venimenti, scritto  mentre  essi  accadevano,  non  sia 
stato  terminato  da  Liudprando  e  s' interrompa  poco 
oltre  r  esagerato  ragguaglio  di  questa  sedizione  dei 
Romani.  Gli  afifari  io  incalzavano.  Concluso  il  Con- 
cilio tornò  a  Cremona  ma  di  11  a  poco,  morto  Leone  Vili 
(A.  D.  965),  fu  spedito  un'  altra  volta  a  Roma  per  la 
elezione  del  nuovo  papa.  Nel  967  intervenne  a  due 
altri  concili,  un  di  Ravenna  e  un  di  Roma,  e  in 
quest'ultima  città  si  trovò  alla  incoronazione  del  gio- 
vinetto Ottone  associato  dal  padre  all'  impero.  Col- 


(1)  Historia  Ottonis^  8-16. 


L1UDPRA.ND0    '  125 

l'animo  inteso  a  restaurar  l'impero  d'Occidente,Ottone 
tendeva  ad  assoggettarsi  il  papato  mentre  lo  riformava, 
e  a  far  sua  tutta  Italia  scacciando  dal  mezzogiorno 
Arabi  e  Greci.  In  pari  tempo,  sempre  collo  stesso 
pensiero,  desideroso  di  circondare  il  suo  trono  coi 
classici  splendori  delle  tradizioni  antiche,  egli  imma- 
ginava d'  amicarsi  la  corte  di  Bizanzio  e  stringersi 
di  parentela  ad  essa  maritando  al  figliuol  suo  una 
principessa  greca.  ]\la  la  diffidenza  dei  Greci  ombrosi 
a  ragione  per  1'  allargarsi  d'  Ottone  nella  Italia  in- 
feriore, faceva  ardua  l'  esecuzione  di  questo  concetto. 
A  vincere  questa  diffidenza  era  mestieri  trovar  l'uomo 
adatto,  destro  nei  maneggi  diplomatici  ed  esperto 
della  Grecia.  Certo  pareva  tale  Liudprando  e  fu  in- 
viato a  Niceforo  Foca  per  chieder  la  mano  di  Teo- 
fania figlia  di  Romano  II,  ma  1'  ambasciata  andò  a 
vuoto.  Liudprando  fu  male  accolto  e  con  patente  di- 
spregio. Fin  dalla  prima  udienza  Niceforo  gli  mosse 
acerbe  lagnanze  contro  il  suo  signore  per  1'  occupa- 
zione di  Roma,  pel  titolo  assunto  d'imperatore,  per 
la  soggezione  ottenuta  dai  principi  di  Benevento  e 
di  Capua;  tutte  cose  nel  parer  suo  lesive  dei  suoi 
diritti.  Gli  argomenti  e  le  ardite  risposte  dell'am- 
basciatore non  giovarono  a  nulla  o  valsero  solo  ad  ina- 
sprir maggiormente  l'animo  del  sovrano  orientale. 
Dopo  varie  udienze  tutte  inutili,  raggirato  scherne- 
volmente in  mille  modi,  trattenuto  a  lungo  in  Co- 
stantinopoli tra  mille  pretesti  piìi  come  prigioniero 
che  come  legato,  Liudprando  ebbe  in  grazia  di  po- 
tersene alfine  tornare  in  patria  senza  nulla  conclu- 
dere. Di  questo  smacco  egli  provò  un  dispetto  amaro 


126  LE    CRONACHE    ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

e  lo  versò  tutto  qucanto  in  una  relazione  della  mis- 
sione sua  eh'  egli  compose  e  indirizzò  ai  suoi  sovrani. 
Malgrado  la  impronta  della  vanità  personale  e  della 
parzialità  caratteristiche  di  Liudprando,  questa  Re- 
latio  de  Legatlone  Costantinopolitana  ci  offre  un  quadro 
spiccato  e  vivissimo  della  corte  greca.  Il  Gregoro- 
vius  con  quella  ricca  esuberanza  d'  immagini  onde 
colorisce  il  suo  stile^  afferma  che  «  questo  bellissimo 
«  immplilet  somiglia  ad  un'oasi  che  s'incontra  dopo 
«  avere  percorso  un  deserto  letterario  (1)  »  ed  ag- 
giunge che  da  Procopio  in  poi  non  possediamo  uno 
scritto  che  gli  sia  paragonabile.  Io  col  pensiero  a 
Paolo  Diacono  esiterei  a  far  mio  questo  giudizio,  ma 
certo  la  Relatìo  è  tra  gli  scritti  più  dilettevoli  ed 
istruttivi  che  ci  offra  l' antico  medio  evo  italiano.  La 
descrizione  della  corte  di  Niceforo,  le  vivaci  argute 
risposte  colle  quali,  s' ei  dice  il  vero,  Liudprando 
rimbeccava  le  accuse  mosse  al  suo  sire  e  al  suo  po- 
polo, la  fede  bugiarda  e  la  rapace  corruttela  dei 
Greci,  gli  ostacoli  posti  alla  sua  partenza  e  le  an- 
gherie patite  sulla  via  del  ritorno,  tutto  così  nell'in- 
sieme come  nei  particolari  porge  risalto  al  libro  e 
lo  fa  attraente.  Anch'  esso  come  gli  altri  libri  di  que- 
sto autore  è  incompleto  e  s' interrompe  mentre  narra 
il  viaggio  che  fece  tornando,  sul  principio  dell'anno  969. 
Rientrato  in  corte,  Liudprando  seguitò  a  prender  parte 
nei  pubblici  afifari.  Nel  971,  morto  Niceforo  Foca  e 
rese  piìi  facili   le    relazioni   tra  i  due  imperi,  pare 


(1)  Gkegorovius,  Storia  della  città  di  Roma  nel  Medio  Evo. 
Lib.  VI,  e.  IV,  §  1.  Traduz.  Manzato. 


LIUDPRANDO  127 

eh'  egli  andasse  di  nuovo  a  Costantinopoli  colla  so- 
lenne ambasceria  che  andò  a  prendere  la  principessa 
Teofania  destinata  sposa  di  Ottone  II.  Ma  oramai 
il  corso  della  sua  vita  era  al  termine  ed  egli  non 
toccò  più  la  sua  Cremona.  S' ignorano  la  data  pre- 
cisa e  il  luogo  di  sua  morte,  ma  par  eh'  ei  sia  tra- 
passato mentre  era  ancora  in  Grecia,  o  appena  tor- 
nato con  Teofania  in  Italia  nei  primi  mesi  del  972, 
tra  il  quinquagesimo  e  il  sessagesimo  anno  della  età  sua. 
Cosi  terminava  quest'uomo  singolare  la  cui  vita 
e  gli  scritti  mostrano  profondo  lo  stampo  di  un  in- 
gegno arguto  e  originale,  di  un  carattere  vivace  e 
appassionato.  Uguale  ai  più  capaci  tra  gli  scrittori 
suoi  contemporanei  in  Europa,  incomparabilmente  su- 
periore a  quelli  d'Italia,  non  sempre  corretto  latini- 
sta ma  neppure  spregevole.  Egregiamente  e  laicamente 
educato  nella  infanzia,  conobbe  per  tempo  ed  amò  i 
classici.  Ebbe  familiari  quasi  tutti  gli  antichi  e  tra 
essi  Terenzio,  Cicerone,  Virgilio,  Orazio,  Ovidio,  dei 
quali  cercò  d' incastonar  qua  e  là  frasi  ne'  suoi  libri 
non  senza  pompa  ma  pur  con  migliore  discernimento 
d'altri  scrittori  medioevali.  Né  si  tenne  contento  alle 
citazioni  latine,  ma  in  ogni  scritto  amò  sfoggiare  la 
sua  conoscenza  del  greco  interpolando  nel  suo  latino 
greche  parole  e  frasi.  Come  a  modello  dei  suoi  la- 
vori mirò  molto  a  Severino  Boezio  i  cui  libri  nel 
medio  evo  ebbero  una  smisurata  influenza,  e,  special- 
mente neir  Antapodosiy  sull'  esempio  di  Boezio  me- 
scolò la  sua  prosa  con  versi  abbastanza  bene  archi- 
tettati. Ma  quell'esagerato  spirito  d'imitazione  non 
bastò  a  cancellare  la  originalità  dello  stile  in  un  uomo 


128  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

COSÌ  conscio  ad  ogni  ora  della  personalità  propria. 
J^'  Antapodosi,  che  de' suoi  libri  è  il  più  lungo  e  il 
più  liberamente  composto,  è  forse  quello  in  cui  rive- 
lasi meglio  il  carattere  dell'uomo  e  le  sue  contrad- 
dizioni. Ingegnoso  e  credulo,  acuto  osservatore  dei 
fatti  e  imjDetuoso  nei  giudizi,  desideroso  del  bene 
ma  troppo  facile  censore  del  male  e  cupido  raccon- 
tatore di  scandali.  De'  suoi  nemici,  massime  di  Be- 
rengario e  di  Willa,  flagellatore  acerrimo,  degli  amici 
e  benefattori  lodatore  smisurato  e  adulatore,  ma  è 
pur  chiaro  a  chi  lo  legge  eh'  egli  sente  in  cuore  ciò 
che  manda  fuori,  e  per  caldo  di  fantasia  denigra  o 
adula  colla  convinzione  d'  esser  nel  vero.  Da  queste 
qualità  personali  l'autorità  sua  di  storico  per  un 
tempo  patì  di  soverchio,  ed  ora  parmi  di  notare  una 
moderna  tendenza  ad  alzarla  oltre  il  dovuto  alquanto. 
Io  per  me  son  d'avviso  che  le  narrazioni  di  Liud- 
prando  in  quanto  riguardano  i  particolari  dei  fatti 
sieno  preziose  a  confermare  o  a  spiegare  quanto  ci 
•  è  detto  da  altri,  ma  ch'esse  debbano  esser  pure  ado- 
perate con  maggior  cautela  di  quella  usata  da  qualche 
storico  recente.  Certo  in  complesso  nessun  lavoro  con- 
temporaneo potrebbe  aiutarci  meglio  dei  suoi  a  darci 
una  idea  generale  del  secolo  decimo  e  a  recarcelo 
innanzi  alla  mente.  Uomo  di  Stato  e  di  Chiesa,  esperto 
della  vita  per  fortuna  varia  di  casi,  pronto  d' inge- 
gno, abile  e  colto  scrittore,  Liudprando  potè  come 
niun  altro  afferrar  col  pensiero  e  congiunger  tra  loro 
le  relazioni  delle  cose  che  vide  e  narrò,  mentre  l'in- 
dole sua  vivacemente  ingenua  era  mirabilmente  for- 
mata a  suscitare  in  noi  le  impressioni  medesime  che 


BENEDETTO   DEL    SORATTE  129 

l'insieme  degli  avvenimenti  reali  avevano   suscitato 
nell'animo  suo  (1). 

Affatto  diversa  dalle  opere,  di  Liudprando  nelle 
tendenze  come  nella  forma,  è  la  cronaca  di  Bene- 
detto del  Monte  Soratte  scritta  ancor  essa  intorno  a 
questi  tempi  (2).  Grrossissimo  di  stile,  il  monaco  Be- 
nedetto si  sforza  di  raccogliere  la  storia  del  mondo 
dalla  venuta  di  Cristo,  ma  non  ha  vera  importanza 
che  per  la  storia  locale  di  Roma  verso  i  tempi  d'Al- 
berico al  quale  come  a  protettore  del  suo  monastero 
prodiga  lodi  larghissime.  La  voce  di  Benedetto  av- 


(1)  L'idea  imperiale  risuscitata  dagli  Ottoni  e  sostenuta 
cosi  caldamente  in  Italia  da  Liudprando,  già  prima  della  di- 
scesa di  Ottone  il  Grande  aveva  trovato  un  campione  nell'au- 
tore di  un  Lihelhis  de  imperatoria  potestate  in  urbe  Roma  che 
non  è  scarso  di  valore  storico  {3Ion.  Germ.  i/tsf.  SS. Ili,  719-722). 
E  del  pari  hanno  valore  storico  e  tendenze  imperiali  due  poesie 
comparse  nell'  alta  Italia  nei  primissimi  anni  del  secolo  XI. 
Una  di  queste  poesie  specialmente,  in  cui  si  rimpiange  la  morte 
immatura  di  Ottone  III,  contiene  qualche  strofa  da  fare  im- 
pressione. 

(2)  Chronicon  Benedicti  de  S.  Andrea  {Mon.  Germ.  Hist. 
SS.  III).  Anche  la  vita  di  San  Nilo  fondatore  del  monastero 
di  Grottaferrata,  scritta  in  greco  da  un  suo  discepolo,  e  le 
lettere  del  famoso  Gerberto  che  fu  poi  papa  col  nome  di  Sil- 
vestro II,  contengono  dati  storici  contemporanei  intorno  al 
periodo  degli  Ottoni.  Del  pari  sono  degne  di  attenzione  due 
vite  di  sant'Adalberto  e  specialmente  la  più  antica  di  esse, 
scritta  in  Roma  da  Giovanni  Canapakio  abbate  del  monastero 
di  sant'  Alessio  suU'  Aventino.  «  Das  werk  »  osserva  giusta- 
mente il  GiESEBKECHT  nella  sua  Storia  deìVimpero  tedesco^ 
«  schon  dadurch  interessant  dass  er  das  einzige  namhafte  lit- 
«  terarische  Erzeugniss  eines  Ròmers  iener  zeit  ist,  gehort  zu 
a  den  wichtigsten  Quellen  der  Zeitgeschichte.  » 

9.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


130  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

versa  ma  senza  odio  e  non  ingiusta,  suona  rampogna 
contro  i  nuovi  monarchi  calati  cV  oltralpe,  le  cui  sol- 
datesche egli  di  su  le  cime  solitarie  e  poetiche  del 
Soratte  vedeva  spargersi  per  la  campagna  romana. 
In  contrasto  colle  amplificazioni  adulatorie  di  Liud- 
prando  e  mestamente  ispirate,  quelle  rozze  pagine  la- 
sciano in  chi  le  percorre  un  senso  di  tristezza  pie- 
tosa. Il  rude  uomo  che  le  scrisse  non  conosce  i  classici, 
non  sa  di  grammatica,  ma  l'amor  della  patria  gli 
scalda  il  petto  e  il  volgare  linguaggio  suo  si  leva  ad 
una  eloquenza  funerea  quando  ricorda  l'abbandono 
desolato  di  Roma  dopo  le  repressioni  feroci  colle  quali 
Ottone  soffocò  ogni  resistere  dei  Romani  alla  auto- 
rità sua.  «  Guai  per  te,  o  Roma,  »  esclama  egli  «  op- 
«  pressa  e  conculcata  da  tante  genti  !  Anche  il  sas- 
«  sone  re  ti  prese,  e  il  popol  tuo  fu  mandato  a  fil 
«  di  spada  e  la  tua  forza  annullata  !  Tu  che  nella 
«  tua  grandezza  trionfasti  delle  genti,  mettesti  a  morte 
«  i  re  della  terra,  calcasti  l' universo,  tenevi  scettro 
«  e  potestà  suprema,  tu  sei  spogliata  dal  re  sassone 
«  e  desolata....  Fosti  troppo  bella  !  Vediamo  ancora 
«  le  tue  mura  colle  torri  e  i  merli.  Avevi  trecento 
«  ottant'una  torri,  quarantasei  castelli  turriti,  seimila 
«  ottocento  merli,  quindici  erano  le  tue  porte.  Guai 
«  a  te,  0  città  Leonina  !  già  fosti  presa  dal  re  sas- 
«  sone  ed  ora  egli  t'abbandona!  (1).  » 


(1)  «  Ve  Koma,  quia  tantis  geutis  oppressa  et  conculcata; 
<<  qui  etiam  a  Saxone  rege  appreensa  fuisti  et  gladiati  populi 
"  tui,  et  robor  tua  ad  nichilum  redacta  est....  Gelsa  tuaruin 
«  triumphasti  gentibus,    mundurn   calcasti,  iugulasti  regibus 


GIOVANM   DIACONO  131 

Malinconiche  parole  invero  e  triste  richiamo  dalla 
decadenza  presente  allo  splendor  del  passato  !  Ma  se 
lo  squallore  di  Roma  ispirava  il  rozzo  compianto  di 
Benedetto  del  Soratte,  a  Venezia  invece  il  diacono 
Giovanni  cappellano  del  Doge  Pietro  Orseolo  II  (A. 
D.  991-1009),  ci  schiude  le  prime  pagine  di  una  tra 
le  più  maravigliose  storie  dell'universo  (1).  Inviato 
più  volte  ad  Ottone  III  e  ad  Enrico  II  come  amba- 
sciatore, usato  a  conversare  in  una  corte  di  gente 
pratica,  Giovanni  era  uomo  avvezzo  alle  cose  ordi- 
narie della  vita  e  aperto  agli  affari.  Di  ciò  rimau 
traccia  nella  sua  narrazione,  la  quale  semplice^  non 
curante  di  rettorica  e  spesso  neppur  di  grammatica, 
procede  spedita  e  piacevole  a  leggersi.  Dalle  prime 


«  terre  ;  sceptrum  tenebat  et  potestas  maxima;  a  Saxone  rege 
«  expoliata  et  menstruata  fortiter....  Nimium  spesiosa  fuisti  I 
«  Omnes  tua  moenia  cura  turris  et  pugnaculis  sicuti  modo  rep- 
><  peritur.  Turres  tuarum  tricenti  octoginta  uuahabuistis,turres 
«  castellis  quadraginta  sex,  pugnaculi  sex  milia  octocenties, 
«  portes  tue  ^uiudecim.  Ve  civitas  Leoniana!  dudum  capta 
«  fuistis,  modo  vero  a  Saxonicum  rege  relieta!  •> 

(1)  JoHANMS  Diaconi  Chronicon  Venetum  et  Gradense.  Mon. 
Germ.  Hist.  SS.  III.  Con  tale  titolo  il  Pertz  pubblicò  questo 
scritto,  ma  più  moderni  critici  tornano  alla  sentenza  del  Fo- 
scarini  e  staccano  la  cronaca  di  Giovanni  da  quella  di  Grado 
che  è  cosa  anteriore.  Merita  anche  menzione  il  Chronicon 
Aìtinate  che  contiene  elementi  antichissimi  e  pregevoli  per  la 
storia  di  Venezia.  Veggansi  intorno  a  queste  cronache  il  bel 
lavoro  del  Simonsfeld  sul  Chronicon  Aìtinate  pubblicato  nel- 
V  Archivio  Veneto^  ed  un  altro  studio  eccellente  del  professore 
G.  B.  ilONTicOLO  intitolato  La  cronaca  del  Diacono  Giovanni 
e  ìa  storia  politica  di  Venezia  sino  al  1009.  Pistoia,  1882. 


132  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

origini  di  Venezia  essa  giunge  fino  al  1008,  manchevo- 
lissima ed  erronea  per  la  parte  più  antica,  preziosa 
per  la  contemporanea  massime  dove  parla  delle  re- 
lazioni tra  gì' imperatori  d'Occidente  e  Venezia.  Nella 
cronaca  sua  ci  è  dato  di  conoscer  piìi  pienamente 
quale  fosse  l' operoso  governo  di  Pietro  Orseolo  e 
quanto  per  impulso  di  lui  la  repubblica  veneta  si 
lanciasse  piìi  sicura  nella  via  delle  sue  grandezze. 
È  lodator  grande,  forse  soverchio,  del  suo  principe 
a  cui  lo  stringeva  un  affetto  devoto,  ma  è  pur  vero 
che  quel  principe  è  annoverato  tra  i  più  insigni  che 
vanti  r  antica  storia  di  Venezia.  Con  Giovanni  siam 
fuori  della  vita  claustrale  e  respiriamo  aperta  e  libera 
l'aria  delle  sue  lagune.  Degno  predecessore  di  Andrea 
Dandolo  egli  ci  fa  intravveder  primo  la  gloriosa  età 
dei  Comuni  a  cui  stava  per  muover  l' Italia  attra- 
verso il  laborioso  periodo  che  ora  s'  affaccia  innanzi 
allo  sguardo  nostro. 


Capitolo  IV 


Movimento  intellettuale  del  secolo  undecimo  e  del  dodicesimo  —  Riforma 
della  Chiesa  —  Risveglio  della  cultura  ecclesiastica  e  delle  indagini  sto- 
riche nei  monasteri  —  Regesti  e  ci'onache  monastiche  —  Il  monastero  di 
Farfa  e  le  opere  di  Gregorio  di  Catino.  «  Chronicon  Vulturnense  »  —  Ri- 
nascenza artistica  e  letteraria  di  Montecassino  promossa  dall'abate  De- 
siderio. Il  monaco  Amato  e  la  storia  dei  Normanni.  Leone  Marsicano 
e  Pietro  diacono,  storici  di  Montecassino  —  Scritti  storici  deli'  Italia  me- 
ridionale —  Cromico  del  monastero  della  Novalesa. 

Usciti  dalle  chiuse  anguste  per  le  quali  ci  siamo 
avvolti  così  lungamente,  ora  si  aprono  dinnanzi  a  noi 
orizzonti  più  vasti.  Incomincia  un'  età  di  giganti  e 
la  storia  d' Italia  si  risolleva  ad  altezze  epiche.  Il  Pa- 
pato trattosi  appena  dal  fango  entro  cui  s'era  ingol- 
fato, riafferma  con  audacia  grandiosa  il  suo  potere, 
esagera  le  romane  tradizioni  di  Gregorio  il  Grande 
e  colla  universalità  del  dominio  spirituale  reclama  ad 
alta  voce  la  supremazia  della  Chiesa  sopra  popoli  e 
re.  L' Impero  geloso  di  sue  prerogative  contrasta  alla 
smisurata  pretesa,  si  difende  or  cavilloso  or  violento 
contro  la  prepotenza  morale  del   sacerdozio  e  tenta 


134  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

invano  di  soggiogarselo.  Una  mano  di  venturieri  nor- 
manni approda  in  Sicilia  e  sgombrati  da  essa  i  Sa- 
raceni, s'allarga  nel  mezzogiorno  d' Italia  a  fondare 
un  regno  talora  nemico,  talor  protettore  dei  papi  i 
quali  intanto  mirando  lontano,  maturano  in  mente  il 
vasto  concetto  delle  crociate  e  lo  bandiscono  al  mon- 
do. E,  quasi  inavvertito,  tra  tanto  mutare  di  casi  il 
genio  latino  risorgente  mette  i  primi  germi  di  una 
vita  nuova  feconda  di  glorie  all'  Italia  :  la  vita  dei 
Comuni.  Le  lettere  rinverdiscono.  Chiesa,  Impero,  po- 
polo, tutti  variamente  tendono  al  rinascimento  degli 
studi.  Il  bisogno  di  una  riforma  nella  Chiesa  e  gli 
sforzi  per  ottenerla  tentati  prima  dagli  Ottoni  e  ri- 
pigliati con  maggior  lena  dai  grandi  papi  del  secolo 
undecime,  riconducono  la  cultura  e  l'amor  dello  stu- 
dio nel  clero.  Il  cozzar  delle  parti  suscita  frequenti 
e  vivaci  le  scritture  polemiche,  e  il  bisogno  di  trovar 
nel  passato  le  conferme  dei  diritti  asseriti  apre  una 
vìa  allo  studio  della  legge  romana.  Il  rinnovato  vi- 
gore del  diritto  pubblico  e  privato  ispira  l'amore  e  lo 
studio  dei  documenti,  mentre  il  primo  sorgere  e  svol- 
gersi della  vita  comunale  è  come  un'alba  di  nuovi 
tempi  che  sveglia  a  maggiore  attività  letteraria  il 
laicato  non  immemore  delle  antiche  tradizioni.  L'età 
del  ferro  per  la  cronografia  italiana  è  oramai  cessata. 
La  riforma  penetrata  nella  Chiesa  al  tempo  di  cui 
teniamo  discorso,  non  fu  ne  tutta  opera  dei  papi,  ne 
tutta  degli  imperatori,  nò  tutta  del  minor  clero,  né 
del  popolo.  Fu  opera  complessiva  e  comune.  Un  alito 
rigeneratore  si  agitava  pel  mondo  e  gli  animi  aspi- 
rando all'alto  tendevano  inconsci  per  vie  diverse  alla 


IL   MONACHISMO  135 

riforma.  Una  tendenza  siffatta,  essenzialmente  reli- 
giosa da  principio  nel  suo  carattere,  di  necessità  do- 
veva appoggiarsi  al  monachismo  e  trattolo  seco  farne 
leva  precipua  al  gran  moto.  La  seconda  metà  del  se- 
colo undecimo  e  la  prima  del  dodicesimo  possono  in 
certo  modo  chiamarsi  il  secol  d'oro  pel  monachismo 
d'Occidente. così  per  la  influenza  ch'esso  esercitò  in 
generale  sulla  Chiesa  e  l'impulso  che  diede  alla  sua 
riforma,  come  per  la  influenza  e  l'impulso  che  ne 
ricevette.  Nell'età  precedente  la  corruzione  dei  mo- 
nasteri era  grande  in  ogni  luogo,  e,  come  vedemmo, 
in  Italia  grandissima.  Ma  quando  le  cose  toccavano 
all'estremo  ecco  risorgere  a  Cluny  la  vigoria  del  mo- 
nachismo e  di  là  muover  l' iniziativa  di  un  miglio- 
ramento universale.  I  monasteri  italiani  furono  rin- 
sanguati per  questa  via.  Odone  di  Cluny  riformatore 
zelante  e  savio  riusci  tra  molti  ostacoli  a  far  molto 
bene  massime  a  Montecassino  e,  dietro  invito  del  fa- 
moso Alberico  principe  dei  Romani,  anche  nei  mo- 
nasteri di  Roma  e  della  Sabina.  Questo  missionario 
della  riforma  monastica  alle  virtù  morali  accoppiava 
il  sapere,  e  in  Francia  aveva  studiato  filosofia,  gram- 
matica, musica  e  arte  poetica.  Naturalmente  egli  do- 
vette cercare  di  ricondurre  l'amor  dello  studio  nei 
chiostri  e  farne  rifiorire  le  scuole,  onde  i  semi  get- 
tati da  lui,  presa  lentamente  radice,  diedero  entro  il 
giro  d'un  secolo  frutti  copiosi.  Il  monastero  di  Farfa 
è  primo  in  questa  risurrezione  intellettuale.  Nel  ca- 
pitolo precedente  abbiamo  veduto  che  l' abbate  Ugo 
non  contento  di  restaurar  la  Badia  e  di  ritornarla 
agli  antichi  splendori,  si  era  adoperato  a  perpetuarne 


13G  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

la  storia  dettando  uno  dei  più  notevoli  tra  gli  scritti 
storici  dell'età  sua.  Ne  questa  iniziativa  fu  sterile. 
Allorché  nel  1039  Ugo  moriva,  dietro  a  quel  glorioso 
abbate  rimaneva  nel  monastero  una  scuola  destinata 
a  ripigliar  l'opera  sua  e  ad  essa  fu  educato  il  fan- 
ciullo Gregorio  dei  conti  di  Catino  in  Sabina.  Suo 
padre,  seguendo  un  costume  dei  suoi  tempi^  aveva  of- 
ferto questo  fanciullo  al  monastero  insieme  con  un 
altro  figlio,  clic  mori  di  li  a  poco  nel  1068.  Da  circa 
trent'  anni  Gregorio  viveva  modesto  ed  oscuro  nella 
Badia  quando,  uscente  il  secolo  undecimo,  suggerì 
all'abate  Beraldo  II  un  vasto  lavoro  e  fu  incaricato 
di  mandarlo  ad  effetto.  Le  invasioni  patite  nell'età 
anteriore,  la  distruzione  e  il  lungo  abbandono  del  mo- 
nastero, gli  abbati  dilapidatori,  avevano  inevitabil- 
mente disordinato  molto  e  indotto  mutazioni  nelle 
proprietà  del  monastero,  onde  seguiva  un  frequente 
contestar  di  diritti,  e  litigi  innanzi  ai  tribunali.  Perciò 
Gregorio  propose  di  riordinare  l'archivio  e  radunati 
tutti  i  documenti  sui  quali  si  fondavano  i  diritti  del 
monastero,  copiarli  ordinatamente  in  un  sol  libro.  Così 
con  una  copia  autentica  e  maneggevole  essi  eran  fatti 
facilmente  adoperabili  e  il  monastero  si  premuniva  da 
ogni  possibile  deperimento  degli  originali.  Affidatagli 
la  impresa,  Gregorio  si  accinse  a  compierla  e  quin- 
dici anni  durò  nell'opera  laboriosa  né  la  lasciò  fin- 
ché l'età  ornai  tarda  e  la  vista  indebolita  non  gli  fe- 
cero impedimento  a  seguitare.  Ma  la  maggior  parte 
e  la  più  difficile  del  lavoro  era  fatta,  ond'egli  potò 
senza  danno  affidare  il  rimanente  ad  un  suo  nipote 
di  nome  Tadino,  monaco  anch'egli  di  Farfa,  il  quale 


GREGORIO   DI   CATINO  137 

die'  l'ultima  mano  all'opera  e  la  condusse  al  compi- 
mento. 

Il  Regesto  di  Farfa,  o,  come  Gregorio  lo  intitolò,  il 
Liber  gemniagraphus  sive  cleronondalis  Ecclesiae  Far- 
fensis,  è  per  fermo  uno  dei  documenti  di  maggiore 
importanza  per  la  storia  del  medio  evo  italiano  dai 
tempi  longobardi  fino  alla  fine  del  secolo  undecimo, 
I  numerosi  documenti  antichissimi  ch'esso  ci  tramanda, 
presentano  un  insieme  di  valore  insuperabile  per  la 
storia  del  diritto  e  pel  problema  delle  relazioni  che 
correvano  tra  le  popolazioni  latine  e  i  dominatori  lon- 
gobardi e  franchi  nei  secoli  ottavo  e  nono.  Relativi 
a  questi  due  soli  secoli  il  Regesto  contiene  quasi  tre- 
centocinquanta documenti,  e  sovr'essi  come  sovra  una 
delle  basi  principali,  posa  molta  parte  degli  studi  fatti 
in  Italia  e  in  Germania  intorno  a  questo  periodo  della 
nostra  storia.  A  centinaia  trovansi  in  questa  raccolta 
diplomi  di  papi,  di  imperatori,  di  re,  di  duchi,  e 
si  aggiungono  alle  carte  private  anch'  esse  piene  di 
parole  e  di  notizie  che  giovano  indirettamente  alla 
storia,  0  allo  studio  del  diritto  o  della  topografia  me- 
dioevale. La  importantissima  storia  del  Ducato  spo- 
letino  si  attinge  tutta  per  la  parte  più  antica  nel 
Regesto  di  Farfa,  che  inoltre  ha  capitale  importanza 
per  la  storia  particolare  di  Roma  nel  decimo  secolo 
e  nel  decimoprimo. 

I  limiti  del  libro  presente  non  consentono  ch'io  mi 
dilunghi  trattando  di  questo  insigne  documento  di  no- 
stra storia.  Fin  qui  la  scarsità  dei  ricordi  storici  mi  ha 
invitato  ad  allargarmi  e  a  parlar  di  raccolte  che  non 
erano  propriamente  cronache  ;   adesso  l' abbondanza 


138  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

a  cui  muoviamo  incontro  mi  costringe  di  lasciar  da 
lato  e  menzionare  appena  ogni  fonte  indiretta  di  sto- 
ria come  i  diplorai  e  le  lettere.  Tuttavia  è  necessario 
indugiarsi  alquanto  sul  Regesto  di  Parfa  che  è  l'an- 
ticliissima  tra  le  raccolte  vaste  e  complete  del  suo 
genere.  Esso  a  dir  così  è  il  l'oriero  degli  altri  Regesti 
che  comparvero  verso  quella  età  e  giovarono  mara- 
vigliosamente a  fare  risorgere  non  pure  l'amor  del  rac- 
conto, ma  la  critica  della  storia  con  esso  (1).  Impe- 
rocché ai  Regesti,  o  almeno  alle  indagini  fatte  negli 
archivi,  tenevano  dietro  come  naturai  conseguenza  le 
cronache  delle  badie,  e  il  lume  della  critica  si  ac- 
cendeva spontaneo  in  quei  monaci  archivisti.  Nei  pen- 
sosi silenzi  di  loro  celle  essi  interrogando  i  documenti 
e  comparandoli  insieme,  vedevano  uscirne  la  storia 
del  monastero  e  s' invogliavano  di  narrarla  ai  po- 
steri. Gregorio  di  Catino  ci  porge  un  esempio  di  que- 
sto spontaneo  educarsi  ad  un  senso  sagace  di  critica. 
Solo  e  non  soccorso  da  verun  modello  anteriore,  egli 
immaginò  per  la  compilazione  del  suo  lavoro  un  me- 
todo così  giusto  e  semplice  che  quasi  non  potrebbe 


(1)  Il  solo  di  una  certa  importanza  che  si  conosca  ante- 
riore in  parte  al  Regesto  di  Farfa,  è  quello  del  monastero  di 
Subiaco.  Esso  per  altro  non  è  una  compilazione  unica  e  tutta 
di  un  tempo,  ma  opera  di  vari  autori  cominciata  verso  il  prin- 
cipio dellundeeimo  secolo  e  terminata  verso  il  principio  del 
decimoterzo.  Contiene  documenti  antichissimi  e  ha  molto  va- 
lore per  la  storia  locale  di  Eoma,  ma  non  cosi  grande  per  la 
storia  generale.  Tanto  il  Regesto  di  Farfa  che  quel  di  Subiaco. 
rimasti  fin  qui  inediti,  si  vengono  ora  pubblicando  per  cura 
della  Societn  romana  di  Storia  2^ntria. 


GREGORIO   DI   CATINO  139 

aspettarsi  migliore  dalla  critica  odierna.  Conscio  di 
fare  opera  storica  e  degna  di  pregio,  egli  vi  si  con- 
sacra con  dignitosa  coscienza  e  con  un  concetto  limi- 
tato e  manchevole  della  storia  ma  moralmente  elevato, 
la  qualche  modo  s'accosta  alla  definizione  ciceroniana 
allorché  dimostra  la  storia  dover  giovare  ai  posteri 
narrando  ad  esempio  le  virtuose  opere  compiute  dai 
giusti  delle  generazioni  passate.  «  Le  età  dei  giusti,  » 
egli  dice  in  un  luogo,  «  sono  principalmente  descritte 
«  affinché  noi  passiam  l'età  nostra  con  saggia  e  somi- 
«  gliante  felicità  e  senza  offesa.  Imperocché  sta  scritto 
«  che  noi  slam  fatti  più  cauti  dagli  esempi  dei  giusti, 
<.<  le  cui  orme  seguendo  non  cadremo  per  via.  »  E 
tra  questi  pensieri  egli  cercava  con  amor  sincero  la 
verità  nella  storia  della  sua  Badia,  respingendo  le 
favole  e  cercando  appoggio  nei  documenti  dell'  ar- 
chivio. Per  le  prime  leggendarie  notizie  sulla  anti- 
chissima fondazione  di  Farfa,  egli  non  ha  altra  guida 
che  la  Constructio ;  ma  se  ne  serve,  citandola,  con 
molta  cautela  e  senza  affermar  nulla  dove  l'afferma- 
zione non  ha  fondamento  di  certezza:  «  Basti  sapere,  » 
così  si  contenta  di  dire  «  che  questo  santo  cenobio 
«  fu  costruito  da  questo  santissimo  uomo  (Lorenzo) 
«  e  non  per  opera  pubblica.  Perché  poi  il  tempo  di 
«  tale  costruzione  ci  è  ignoto,  amiamo  meglio  tacere 
«  intorno  a  ciò  che  profferir  cosa  mendace  o  frivola. 
«  Che  se  a  noi  non  è  lecito  ascoltar  la  menzogna  assai 
«  meno  si  conviene  il  profferirla  in  alcun  modo  (1).» 

(1)  lì  Begesto  di  Farfa  compilato  da  Gregorio  di  Catino  e 
puhhiicato  dalla  Società  romana  di  Storia  patria,  a  cura  di 
I.  Giorgi  e  U.  Balzani.  Eoma,  1879,  Voi.  II,  pag.  5. 


140      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

Nobile  sentenza  degna  di  storico,  pur  troppo  non  se- 
guita sempre  dagli  scrittori  di  storia  ecclesiastica! 
Ma  se  da  un  lato  lo  scrupoloso  timor  d' ingannarsi  lo 
ritiene  dal  creder  troppo,  dall'altro  non  si  perita  di 
cercar  nella  critica  aiuto  a  congetture  probabili,  e  in 
questo  caso  aiutandosi  con  un  passo  dei  dialoghi  di 
►San  Gregorio,  immagina  argomenti  assai  validi  per 
riferire  la  data  della  prima  fondazione  ad  una  età 
non  precisa  ma  certo  anteriore  a  quel  pontefice.  Del 
resto  le  norme  ch'egli  seguì  nel  suo  lavoro  sono  molto 
bene  chiarite  in  questa  pagina  di  una  sua  prefazione 
al  Regesto,  la  quale  merita  anche  d'esser  considerata 
come  indizio  del  nuovo  movimento  intellettuale  che 
incominciava  ad  agitarsi  nei  monasteri:  «  Io,  »  dice 
l'onesto  monaco  «  non  sento  nulla  delle  mie  forze,  ma 
«  per  carità  d' Iddio  e  fidente  nel  suo  aiuto  per  la 
«  intercessione  della  nostra  gloriosissima  Signora,  so- 
«  nomi  studiato  attentamente  di  compier  quest'opera 
«  molto  devota  e  assai  proficua  nel  modo  più  verace 
«  e  fedele.  Non  eh'  io  sia  sufficiente  in  emendar  le 
«  parti  corrotte  della  rettorica  ma  secondo  la  pochezza 
«  del  mio  picciol  sapere  (1)  procacciai  di  cori'eggere 
«  quelle  parti  che  oltremodo  parevan  confuse,  ma  noi 
«  feci  interamente  affinché  i  semplici  non  avessero 
«  a  credere  che  si  volesse  confonder  l' intelligenza 
«  della  prima  edizione  nella  quale  furono  scritte.  E 
«  massimamente  perché  io  non  mi  sedei  soletto  in  di- 
«  sparte  remoto  dalle  turbe  per  insister  più  attento 
«  al  quieto  lavoro,  ma  situato  all'aperto  appena  potei 


(1)  «  Juxta  ineae  scieutiolae  parvitatem.  » 


GREGORIO   DI   CATINO  141 

«  esser  tranquillo  alquanto  e  aver  favore  della  soli- 
«  tudine  necessaria  a  tale  opera.  Né  io  mi  reputo  di 
«  essere  a  ciò  abbastanza  idoneo,  perché  non  fui  eru- 
«  dito  alle  scuole  dei  poeti  né  addottrinato  nella  pro- 
«  fondita  dei  grammatici,  ma  nudrito  fin  quasi  dalla 
«  cuna  agli  esercizi  divini  nella  scuola  di  questo  sa- 
«  ero  cenobio  e  alimentato  nella  fedele  sapienza  del 
«  latte  della  madre  di  Dio,  a  lei,  operando  alcun  che 
«  d'utile,  ho  voluto  riferire  quanto  imparai.  Adun- 
«  que  come  m' imposero  il  predetto  abbate  e  gli  altri 
«  religiosi  seniori,  nulla  di  ciò  che  vidi  tolsi  dalla  in- 
«  telligenza  delle  carte  e  nel  trascriver  le  cose  nulla 
«  v'aggiunsi,  ma  come  le  vidi  cogli  occhi  mentre  scri- 
«  vevo  e  potei  capire  con  intelletto  sincero,  mi  stu- 
«  diai  di  riscriverle,  tranne  certe  prolissità  di  parole 
«  e  ripetizioni  inutili,  come  dir  talune  obbligazioni 
«  già  estinte,  affinché  per  le  moltissime  corruzioni 
«  delle  parti,  lungamente  affaticato  e  trattenuto  nello 
«  scrivere  non  mi  venisse  composto  troppo  lentamente 
«  il  volume  e  fastidioso,  male  acconciu  ad  esaminarlo 
«  ed  immenso.  Adunque  solo  contento  alla  verità  delle 
«  cose  e  all'utile  delle  cause,  col  soccorso  di  Cristo 
«  e  i  suffragi  della  genitrice  sua  sempre  vergine,  mi 
«  studiai  di  compier  questo  lavoro  sincerissìmo  e  senza 
«  frode  alcuna,  con  solerte  e  sottile  sagacia.  Anche 
«  nelle  singole  carte  curammo  d'inserire  i  nomi  dei 
«  testimoni  come  li  trovammo  descritti  negli  origi- 
«  nali.  Que'  nomi  poi  che  per  antichissima  vetustà 
«  trovammo  consunti  e  corrosi  dai  tarli  e  difficilis- 
«  simi  a  intendere,  con  equo  giudizio  omettemmo  in- 
«  tatti,  non  volendo  in  questa  purissima  operetta  in- 


14:2  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

«  serir  nulla  che  non  vedessimo  chiaramente  cogli 
«  occhi  0  potessimo  copiare  con  intelletto  verace  (1). 
«  E  poiché  io  mi  sono  sforzato  di  trasferir  qui  una 
«  verissima  e  fedele  riproduzion  delle  cose,  così  possa 
«  io  avere  delle  colpe  mie  certissima  remissione  dal- 
«  Fonnipotente  Iddio  per  intercessione  della  nostra 
«  Signora,  e  ottener  mercede  perpetua  a' miei  parenti. 
«  E  a  questo  libro  imponemmo  il  nome  di  Gemnia- 
«  grafo  ossia  Memoria  della  descrizione  delle  terre, 
«  perché  inserimmo  in  esso  memoria  delle  terre  di 
«  questo  cenobio  da  qualunque  persona  e  in  qualun- 
«  que  luogo  acquisite.  Anche  ci  piacque  che  si  chia- 
«  masse  Cleronomiale  ossia  ereditale  della  chiesa  far- 
«  fense,  perché  dimostra  fin  dal  principio  i  suoi 
«  possessi  immobili.  Premettemmo  inoltre  i  nomi  di 
«  tutti  i  luoghi  e  a  ciascun  d' essi  aggiungemmo  i 
«  propri  numeri  e  notammo  con  gran  cura  in  quali 
«  scritti  tu  potrai  ritrovarli  (2).  » 

Da  questo  brano  rilevasi  chiaro  con  quanto  discer- 
nimento Gregorio  conducesse  la  compilazione  del  va- 
sto lavoro,  e  oggi  la  dispersione  completa  dei  docu- 
menti originali  cresce  lode  al  pensiero  prudente  che 
ne  ispirò  la  raccolta.  Ne  l'erudito  monaco  limitò  ad 
essa  l'attività  sua,  ma  pose  mano  e  recò  a  termino 
tre  altri  lavori  :  il  Largitorium,  il  Floriger  e  il  Chro- 
nlcon  Farfense.  Il  primo,  simile  nella  disposizione  al 


(1)  Infatti  nel  Regesto  s'incontrano  qua  e  là  lacune  di 
qualche  parola  lasciata  in  bianco  specialmente  tra  le  sotto- 
scrizioni. 

(2)  Il  Eegesto  di  Far  fa,  Voi.  li,  pag.  6. 


GREGORIO   DI   CATINO  143 

Regesto,  contiene  i  documenti  dei  beni  dati  dal  mo- 
nastero in  enfiteusi  ai  coloni  che  ne  imprendevano  la 
coltivazione.  Così  mentre  il  Regesto  autenticava  i  di- 
ritti immobili  del  monastero,  il  Liber  Largitorhis,  o 
come  Gregorio  anche  lo  chiamò,  Liber  notarius  sive 
emphiteuticusj  registrava  tutti  i  contratti  temporanei 
e  ne  determinava  le  circostanze  e  il  valore.  Esso  in- 
comincia con  un  documento  dell'anno  792  e  termina 
verso  il  principio  del  dodicesimo  secolo  coi  documenti 
contemporanei  al  compilatore.  Un  indice  e  un  pro- 
logo spiegano  il  concetto  di  questa  raccolta,  ancora 
quasi  sconosciuta  e  di  gran  pregio  per  la  storia  della 
proprietà  fondiaria  e  delle  condizioni  dell'agricoltura 
in  Italia  durante  il  medio  evo.  Delle  altre  due  opere 
di  Gregorio^  il  Floriger  cartarum  è  un  copioso  in- 
dice topografico  del  Regesto  disposto  per  ordine  al- 
fabetico ed  ha  minore  importanza  degli  altri  due. 
Grandissima  invece  è  la  importanza  del  terzo  libro 
che  fu  pubblicato  dal  Mui'atori  col  titolo  di  Chronicon 
Farfense  (1).  Questa  compilazione  fatta  un  po'in  forma 
di  cronaca,  riassume  il  contenuto  del  Regesto  e  ri- 
ferendone i  principali  documenti  spreme  da  essi  la 
storia  del  monastero.  Colla  guida  della  Constructio 
e  della  Destructio,  di  cui  già  ho  tenuto  parola  nel- 
l'altro capitolo,  Gregorio  di  Catino  narra  in  questo 
libro  gli  avvenimenti  dei  tempi  più  antichi  ponendo 
le  sue  fonti  al  paragone  della  critica  e  dei  documenti, 
o  cercando  in  essi  la  conferma  dei  fatti  narrati.  Ric- 
chissimo di  notizie  e  di  diplomi  tolti  le  une  e  gli  altri 


(1)  Ber.  Ita!.  Script.  Voi.  II,  p.  2. 


li-i  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

tlairarchivio  di  Farfa,  questo  libro  mi  par  descritto 
a  sufficienza  nella  descrizione  del  Regesto,  di  cui  può 
in  certo  modo  ritenersi  come  il  compendio  e  il  com- 
mento. Del  resto  il  Chronicon  Farfense  nel  suo  con- 
cetto e  nella  sua  partizione,  non  ha  forma  propria  di 
storia  e  ciò  farebbe  maraviglia  se  non  apparisse  mani- 
festo che  malgrado  la  latinità  sufficiente  del  suo  det- 
tato, a  Gregorio  manca  affatto  l'arte  dello  scrittore.  I 
pregi  suoi  son  diversi,  e  l'essersi  egli  prima  e  meglio 
d'ogni  altro  aperta  la  via  all'esame  critico  dei  docu- 
menti, il  suo  genio  erudito  e  il  suo  schietto  amore  del 
vero,  levano  alto  il  valore  dell'opera  sua  e  lo  fan 
degno  di  una  fama  assai  superiore  a  quella  che  gli 
fu  concessa  finora  (1). 

All'ordinamento  dell'archivio  Farfense  corrispon- 
dono intorno  a  quel  tempo  gli  ordinamenti  di  altri 
archivi  monastici,  e  le  cronache  e  i  regesti  che  ne 
derivarono.  Il  monastero  di  San  Vincenzo  al  Vol- 
turno legato  fin  dalle  origini  sue  con  una  specie  d'af- 
finità al  monastero  di  Farfa,  ci  offre  anch'esso  la  sua 
cronaca  documentata  che  fu  composta  da  un  monaco 
di  nome  Giovanni.  Intrapreso  il  lavoro  per  esorta- 
zione di  Girardo  abbate  del  monastero,  Giovanni 
ebbe  il  conforto  di  poter  mostrare  già  molta  avan- 
zata r  opera  sua  al  pontefice  Pasquale  II  (A.  D. 
1099-1118),  che  lo  incoraggiò  dicendogli  :  «Bene,  o 

(1)  Generalmente  a  Gregorio  dì  Catino  si  attribuisce  un 
altro  scritto  polemico  intitolato  :  Orthodoxa  Defensio  Lìq^erialis, 
inteso  a  sostenere  i  diritti  dell'  Imperatore  contro  le  pretese 
papali.  Mi  astengo  dal  notarlo  tra  i  suoi  lavori  perché  inclino 
forte  a  credere  che  eecU  non  ne  sia  l'autore. 


«  CHRONICON   VULTURNENSE  »  145 

fili,  magnum  opus  coepisti  secl  bene  coepta  melius 
perjìcere  stude.  »  La  cronaca  che  incomincia  ripi- 
gliando il  racconto  di  Autperto  sulle  origini  della 
Badia  (1)  e  prosegue  fino  all'anno  1075,  fu  compiuta 
quando  Gelasio  II  era  già  pontefice  (A.  D.  1118-1119). 
Anch'essa  può  dirsi  piuttosto  un  regesto  che  una 
cronaca  e  la  sua  vera  importanza  consiste  nei  di- 
plomi che  le  servono  di  base  e  ne  costituiscono  la 
parte  maggiore.  L' antichità  di  questi  diplomi  rila- 
sciati per  lo  più  da  sovrani,  estende  l' utilità  del 
libro  non  solo  alla  storia  dell'Italia  meridionale  ma 
a  quella  di  tutta  la  penisola,  e  la  storia  del  diritto 
può  anch'essa  trarne  partito.  Abbastanza  buona  è  la 
latinità  di  Giovanni  nei  brani  che  aggiunge  di  suo 
tra  documento  e  documento,  ma  il  senso  critico  di 
Gregorio  da  Catino  gli  fa  difetto,  e  le  notizie  pre- 
gevoli che  ci  fornisce  vanno  spesso  commiste  a  fa- 
volosi racconti  di  miracoli  accolti  senza  ombra  di 
discernimento. 

Se  può  dirsi  che  Farfa  nel  secolo  undecimo  ini- 
ziasse un  nuovo  movimento  storico,  a  Montecassino 
tocca  invece  la  gloria  d' aver  prodotte  le  migliori 
storie  monastiche  scritte  in  Italia  a  quei  tempi. 
Dopo  che  l'abate  Aligerno  (A.  D.  949-985)  ebbe  ri- 
costruito quel  famoso  luogo  già  rovinato  dai  Sara- 
ceni, la  vita  intellettuale  rinata  a  poco  a  poco  nei 
chiostri  cassinesi  erasi  venuta  svolgendo  man  mano 
e  aumentando  finché  toccò  sua  cima  tra  l'anno  1058 
e  il  1087,  durante  il  governo  abbaziale  di  Desiderio 


(1)  Vedasi  il  capitolo  precedente. 

10.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


146  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

che  fu  poi  papa  col  nome  di  Vittore  III.  E  questo 
il  periodo  più  glorioso  che  vanti  Montecassino  nei 
secoli  della  sua  storia  fino  ai  dì  nostri,  e  questa  luce 
di  rinascenza  si  fa  notevole  pei  tempi  torbidamente 
procellosi  tra  cui  risplendette.  Nato  dai  principi  di 
Benevento,  signorile  in  ogni  sua  tendenza,  di  mente 
versatile,  d'  animo  mite  fin  troppo,  pio,  dotto,  ele- 
gante. Desiderio  pareva  destinato  a  protegger  le  arti 
e  le  lettere  e  a  dar  loro  un  impulso  efficace.  Aggiun- 
gansi  a  ciò  i  viaggi  ch'egli  compì,  quello  in  ispecie 
a  Costantinopoli  dove  andò  in  qualità  di  apocrisario 
insieme  con  Federico  dei  duchi  di  Lorena  chiamato 
come  lui  più  tardi  a  salir  sul  trono  pontificio  dove 
prese  il  nome  di  Stefano  IX.  «  Il  monaco  lorehese 
«  e  il  longobardo,  »  nota  di  loro  opportunamente  il 
Tosti  «  quando  tornavano  dalle  Bizantine  legazioni, 
«  recavano  nel  loro  saio  la  semenza  della  civiltà 
«  greca,  e  sul  loro  labbro  il  racconto  di  quel  che 
«  fosse  la  santa  Sofia  di  Giustiniano  :  per  cui  poi 
«  Desiderio  chiamò  colonie  di  artisti  alla  costruzione 
«  e  decorazione  della  basilica  e  del  monastero,  di 
«  cui  fu  veramente  altro  fondatore.  Anzi  parmi  che 
«  questo  Desiderio  s'avesse  quasi  per  natura  inchi- 
«  nato  r  animo  all'  oriente,  donde  voleva  quasi  evo- 
«  care  un  raggio  di  sole,  che  collustrasse  e  vivifi- 
«  casse  la  sconvolta  ragione  occidentale  e  scaldasse 
«  le  radici  del  vecchio  tronco  latino  a  dar  fuori  ger- 
«  mogli  di  nuova  civiltà.  Imperocché  egli  fu  il  primo 
«  tra'  Romani  Pontefici  a  levai'e  la  voce  adunatrice 
«  di  eserciti  contro  gì'  Islamiti  di  Oriente.  Le  cro- 
«  ciate  furono  una  santa  follia  :  ma   non   è   dubbio 


DESIDERIO   DI   MONTECASSINO  147 

«  che  in  quella  incomposta  commozione  di  tutto 
«  l'occidente,  e  peregrinazione  in  oriente  venne  molto 
«  bene  alle  scienze  ed  alle  arti  pel  ricambio  di  pen- 
«  sieri  tra  le  disgiunte  generazioni  (1).  » 

Mosso  dalle  incivilitrici  sue  ispirazioni  Desiderio 
rifece  per  gran  parte  il  monastero  e  la  sua  chiesa. 
In  questa  raccolse  quanto  di  più  squisito  sapeva 
concepire  ed  eseguire  l'arte  a  quei  tempi,  ed  è  grande 
sventura  che  il  mirabile  lavoro  fosse  tutto  scrollato 
alquanti  secoli  appresso  da  un  terremoto.  Ma  l'arte 
non  teneva  sola  il  campo  a  Montecassino.  Mentre 
ogni  maniera  d'  artisti  chiamati  da  Lombardia,  da 
Amalfi,  da  Costantinopoli,  lavorando  ai  mosaici,  allo 
scolpire,  al  dipingere,  fondavano  colà  una  scuola  ar- 
tistica, anche  sorgeva  accanto  ad  essa  una  scuola 
letteraria  e  allargava  i  suoi  rami.  La  biblioteca  si 
arricchiva  di  codici  preziosi  che  Desiderio  faceva 
scrivere  e  alluminare  nella  Badia;  i  documenti  or- 
dinavansi,  e  tra  le  scritture  teologiche  e  le  polemi- 
che s'  apriva  un  varco  la  storia.  A  quel  modo  che 
Farfa  parteggiava  per  l' Impero  nella  gran  lotta 
delle  Investiture,  Montecassino  teneva  fermo  pei  Papi 
Di  là  come  da  rocca  munita  uscivano  spesso  cava- 
lieri di  Cristo  i  monaci,  e  lasciata  appena  la  quiete 
del  chiostro  si  gettavano  ardenti  in  quel  turbine  di 
guerra  politica  e  religiosa  a  combattere  le  loro  bat- 
taglie colla  penna  e  colla  parola.  Solo  da  una  gran 
forza  morale  poteva  veramente    trar  vittoria  il  Pa- 


li) L.  Tosti,  La  Biblioteca  dei  Codici  manoscritti  di  Mon- 
tecassino. Napoli,  1874. 


148      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

pato,  e  strumento  poderoso  ad  ottenerla  era  la  dot- 
trina che  i  monaci  quasi  per  istinto  si  affaticavano 
di  riguadagnarsi  e  di  possedere.  Situato  non  lontano 
da  Roma,  ma  al  riparo  delle  violenze  imperiali, 
Montecassino  divenne  in  breve  il  convegno  dei  più 
dotti  e  zelanti  ecclesiastici  di  quel  tempo,  e  centro 
di  un  movimento  politico  e  letterario.  Appartene- 
vano a  Montecassino,  tra  molti  altri  uomini  insigni, 
Pandolfo  dei  principi  di  Capua  die  in  versi  scrisse 
di  matematica  e  d'astronomia  5  Costantino  l'Affricano 
fondatore  della  scuola  medica  di  Salerno  ;  Oderisio 
dei  conti  marsicani,  scrittore  di  grido  e  più  tardi 
abbate  del  monastero;  Guaiferio  poeta,  e  Alfano 
poeta  anch'  egli  e  celebratissimo  uomo  che  divenuto 
arcivescovo  di  Salerno  ospitò  quivi  il  fuggiasco  Gre- 
gorio settimo  e  ne  raccolse  il  sospiro  morente.  La 
storia  naturalmente  doveva  approfittare  di  queste 
tendenze  erudite,  e  lo  stesso  abbate  Desiderio  scri- 
vendo un  libro  di  dialoghi  sui  miracoli  di  San  Be- 
nedetto ci  serbò  notizie  storiche  rilevantissime,  mas- 
sime intorno  al  pontificato  di  Leone  IX  col  quale 
aveva  vissuto  familiarmente  e  avea  divise  molte  vi- 
cende. Del  pari  le  poesie  d'Alfano  non  sono  solo 
monumenti  letterari  ma  storici  eziandio  (1),  e  così 
quelle  di  Guaiferio  e,  in  genere,  molti    altri   scritti 


(1)  Specialmente  i  Versus  de  situ,  constructione  et  renova- 
tione  coenohii  casinensis^  relativi  alla  riedificazione  della  Ba- 
dia compiuta  da  Desiderio,  hanno  grande  valore  per  la  storia 
dell'  arte  al  secolo  xi,  e  vogliono  essere  paragonati  con  ciò 
che  sullo  stesso  argomento  scrisse  Leone  Ostiense  nella  storia 
di  cui  son  per  parlare. 


AMATO   STORICO   DEI   NORMANNI  149 

cassinesi  di  quel  tempo.  Ma  alle  testimonianze  sto- 
riche indirette  s'  aggiunsero  le  dirette,  e  il  salerni- 
tano monaco  Amato  dedicava  al  suo  abbate  Desiderio, 
con  bellissime  parole,  una  storia  della  conquista  dei 
Normanni  in  Italia,  e  dei  primi  tempi  di  loro  domi- 
nazione. Questa  storia  risalisce  alla  origine  dei  Nor- 
manni e  trattando  delle  invasioni  loro  nella  Spagna^ 
nell'Inghilterra  e  in  Italia,  termina  colla  morte  di 
Riccardo  principe  di  Capua,  uno  dei  figli  di  Tan- 
credi, avvenuta  nell'anno  1078.  La  narrazione  è  di- 
visa in  otto  libri,  e  ciascuno  di  questi  in  vari  ca- 
pitoli che  portano  in  capo  un  breve  sommario  dei 
fatti  narrati.  Sventuratamente  l'opera  di  Amato  è 
perduta,  e  solo  se  ne  conosce  il  contenuto  per  una 
antica  traduzione  francese  scoperta  in  questo  secolo 
e  pubblicata  dallo  Champollion  Figeac  (1).  Tutte  le 
ricerche  fatte  finora  per  ritrovare  1'  originale  sono 
riuscite  vane,  ed  esso  è  forse  scomparso  per  sempre, 
ma  per  somma  fortuna  oltre  alla  traduzione  fran- 
cese ci  compensa  di  questa  mancanza  il  sapere  che 
l'opera  di  Amato  pochi  anni  dopo  essere  stata  com- 
posta fu  largamente  adoperata  da  uno  storico  assai 
maggiore  di  lui  per  un  lavoro  che  ancora  ci  rimane. 
Intorno  all'anno  lOGO,  l'abate  Desiderio  accoglieva 
nel  monastero  un  giovinetto  quattordicenne  di  nome 
Leone  destinato  al  chiostro.  Istruito  con  cura  nelle 
scuole  cassinesi,  ebbe  tra  i  suoi   maestri  Aldemario 


(1)  L'ystoire  de  li  Normant  et  la  Chronique  de  Eohert 
Viscart  par  Aimé  moine  du  Mont-Cassin,  publiées  par  M.  Cham- 
pollion Figeac.  Paris,  1835. 


130  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

che  già  prima  d' esser  monaco  era  stato  «  un  pru- 
dentissimo  e  nobile  chierico  di  Capua  e  notaio  del 
principe  Riccardo  (1).  »  Di  pronto  ingegno  e  di 
buona  indole,  Leone  attirò  presto  1'  attenzione  dei 
monaci  sopra  di  sé  e  divenne  caro  a  Desiderio.  Il 
quale  in  breve  fattoselo  familiare,  incominciò  a  ser- 
virsi di  lui  ne' gravi  e  molteplici  affari  che  gli  oc- 
cupavano 1'  animo.  Questa  consuetudine  di  vita  gli 
avvinse  Leone  con  grato  e  venerabondo  affetto  che 
non  venne  meno  quando  Desiderio  morì  a  Monte- 
cassino,  dopo  essere  stato  papa  due  anni  col  nome 
di  Vittore  III.  A  Desiderio  successero  nel  pontificato 
romano  Urbano  II,  e  nel  governo  della  Badia  Odo- 
risio dei  conti  di  Marsi,  il  quale  probabilmente  era 
parente  a  Leone  e  certo  gli  mantenne  la  fiducia  e 
r  afi'etto  del  suo  predecessore.  Il  nuovo  abbate  gli 
commise  di  scriver  la  vita  di  Desiderio,  e  di  li  a 
poco  allargò  la  tela  del  lavoro  commettendogli  in- 
vece di  scrivere,  dalle  prime  origini  fino  ai  loro  tempi, 
tutta  la  storia  della  Badia.  Non  si  poteva  scegliere 
autor  migliore  di  Leone  per  siffatto  lavoro.  Lo  de- 
signavano a  ciò  r  ufficio  suo  di  archivista  che  gli 
dava  una  facile  opportunità  di  conoscere  i  docu- 
menti storici  del  monastero,  la  sua  dottrina,  gli  af- 
fari monastici  e  di  stato  tra  cui  era  vissuto,  e  la  fa- 
miliarità avuta  con  tutti  i  principali  uomini  che 
dimoravano  o  convenivano  a  Montecassino.  Dubitoso 


(1)  «  Capuanae  civitatis  prudentissimum  ac  nobilem  cleri- 
cum  et  Richardi  principis  notarium.  »  Cosi  Leone  stesso  nella 
sua  cronaca,  III,  24. 


LEONE   MARSICANO  151 

in  sulle  prime,  egli  intraprese  il  lavoro  e  proseguen- 
dolo con  amor  grande  ne  narrò  l'origine  e  il  concetto 
allo  stesso  abbate  Oderisio  in  una  lettera  dedicatoria. 
«  La  beatitudine  tua,  »  egli  scrive,  «  o  padre  vene- 
«  rando,  già  avevami  ingiunto  che  io  dessi  opera  a 
«  scrivere  per  ricordo  dei  posteri  le  gesta  magnifi- 
«  che  del  glorioso  tuo  predecessore  l'abbate  Desiderio 
«  di  santa  memoria,  uomo  per  fermo  singolare  e  a 
«  questi  tempi  unico  dell'ordine  suo.  Imperocché  ti 
«  parve  indegno  imitar  la  inerzia  degli  antichi  di 
«  questo  luogo  i  quali  non  si  studiarono  di  riferir 
«  cogli  scritti  quasi  nulla  dei  fatti  di  tanti  abati  e 
«  tempi  :  e  se  di  ciò  taluni  scrissero  alcuna  cosa, 
«  queste  scritture  inette  e  rozze  di  stile  piuttosto 
«  recano  fastidio  che  scienza  a  chi  legge.  La  pater- 
«  nità  tua  provvedendo  solerte  che  ciò  non  avvenisse 
«  pel  nostro  abate  Desiderio,  compiacquesi  di  desti- 
«  nar  me  a  questa  opera,  imponendomi  un  peso  per 
«  verità  impari  alle  mie  forze,  talché  soccombente 
«  al  solo  pensiero  di  essa,  per  quasi  un  anno  non  mi 
«  sono  attentato  di  cominciare.  Ma  poco  fa  quando 
«  io  per  mio  ufficio  t'  accompagnava  al  ritorno  da 
«  Capua,  risovvenendoti  lungo  il  cammino  deiregre- 
«  gio  ordine  tuo,  mi  richiedesti  s'io  avevo  adempiuto 
«  la  tua  voglia  e  scritte  le  gesta  di  Desiderio.  Io, 
«  colpito  da  quella  subita  domanda,  dovetti  pure  ri- 
«  spondere  che  invero  non  ne  avevo  fatto  nulla.  Poi 
«  ripigliato  un  po'  di  coraggio  :  '  e  quando,  '  dissi, 
«  *"  potevo  io  obbedire  all'ordine  tuo,  mentre  quasi 
«  tutto  quest'anno  occupato  per  tuo  incarico  ora  in 
«  servizio  del  Signore  Apostolico,  ora  in  varie  fac- 


152  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  cende  tue,  appena  rimasi  nel  monastero  otto  giorni 
«  di  seguito?  Un  siffatto  lavoro  richiede  non  poca 
«  quiete  ne  è  per  un  uomo  affaccendato  lo  assumere 
«  una  cosi  vasta  materia  ma  sì  piuttosto  per  uno 
«  sciolto  da  ogni  altra  cura.  '  Ascoltata  questa  ra- 
«  gione  pazientemente  e  rimproveratami  assai  blando 
«  la  mia  negligenza,  '  ed  ora,  '  dicesti,  '  abbiti  la 
«  quiete  che  desideri  e  non  metter  più  indugio  a 
«  scrivere  di  Desiderio.  Anzi  io  voglio  e  comando. 
«  poiché  la  cosa  fu  indugiata  finora,  che  tu  pigliando 
«  le  mosse  pel  tuo  lavoro  dal  padre  Benedetto,  ricer- 
«  chi,  indagatore  studiosissimo,  la  serie  degli  abbati 
«  del  nostro  luogo  e  i  tempi  e  le  gesta  fino  a  Desi- 
«  derio  medesimo  :  e  quali  e  per  chi  e  in  qual  modo 
«  sotto  ciascuno  abbate  sieno  venute  al  monastero 
«  nostro  le  possessioni  e  le  chiese  che  ora  possedia- 
«  mo;  ed  esaminando  scrupolosamente  i  diplomi  degli 
«  imperatori  e  dei  duchi  e  dei  principi  e  le  carte 
«  degli  altri  fedeli,  a  mo'  di  cronaca  comporrai  una 
«  storia  non  poco  utile  a  noi  e  ai  successori  nostri. 
«  Non  ti  sia  grave  inoltre  aggiungere  brevemente  a 
«  suoi  luoghi  tanto  la  distruzione  che  la  restaura- 
«  zione  di  questo  cenobio  due  volte  avvenuta  in  di- 
«  versi  tempi,  e  se  qua  e  là  capiterà  alcuna  cosa  me- 
«  morabile  delle  opere  e  azioni  dei  chiari  uomini  di 
«  queste  parti.  '  Quando  io  ebbi  incominciato  a  con- 
«  siderar  tra  me  stesso  la  gravità  di  questo  comando, 
«  mi  sorse  in  mente  uno  spineto  fitto  di  pensieri  e 
«  non  vedendo  facile  per  la  povertà  del  mio  ingegno 
«  donde  e  in  qual  modo  eseguirlo  degnamente,  io 
«  stava  incerto  tra  l'accettare  e  il  ricusare  un  cosi 


LEONE   MARSICAKO  153 

«  gran  lavoro.  Accettando,  mi  pungeva  il  pensiero 
«  della  temerità  ;  ricusando,  della  inobbedienza.  Oltre 
«  a  ciò  io  mi  ricordava  che  il  predetto  signor  mio 
«  Desiderio  già  aveva  commessa  questa  opera  me- 
«  desima  ad  Alfano  arcivescovo  di  Salerno,  uomo 
«  nei  nostri  tempi  sapientissimo,  ma  egli  prevedendo 
«  troppo  laborioso  il  tema  si  sottrasse  alla  prova. 
«  Che  se  colui  il  quale  allora  era  così  incompara- 
«  bilmente  eccelso  per  sapere  e  per  eloquenza,  ebbe 
«  timore  di  sottomettersi  a  quésto  peso,  che  dovrei 
«  fare  io  che  non  ho  scienza  di  sorta  né  eloquenza  ? 
«  Anche  mi  tormentava  la  coscienza  mia  chieden- 
«  dosi  perché  tu  non  commetteresti  piuttosto  que- 
«  st'  opera  a  qualche  altro  dei  confratelli  nostri  di 
«  gran  lunga  più  scienziati  di  me  e  più  esperti  nel- 
«  l'uso  dello  scrivere,  i  quali  già  aveva  aggregati  a 
«  questo  luogo  la  diligenza  del  medesimo  santo  pre- 
«  decessor  tuo  o  da  lui  erano  stati  fatti  educar  con 
«  gran  cura  in  questo  stesso  cenobio.  In  tali  pen- 
<.<  sieri  io  m'affannavo  ondeggiando,  che  la  cosa  troppo 
«  era  più  alta  eh'  io  non  potessi  attingere  e  certo 
«  più  astrusa  eh'  io  non  valessi  a  scrutare.  Tuttavia, 
«  poiché  io  per  la  divozione  singolare  che  da  lungo 
«  portavo  alla  paternità  tua  già  m'ero  proposto  di 
«  non  volerti  ricusare  mai  nulla,  fermai  finalmente 
«  l'animo  mio.  E  mentre  prima  pusillanime  avevo 
«  temuto  di  attentar  le  sole  gesta  di  Desiderio,  ora 
«  poi  fidando  nell'aiuto  di  Dio  e  stimando  di  dover 
«  così  fare,  impresi  come  sapevo  a  scriver  di  tutti 
«  i  predecessori  suoi.  Raccolti  adunque  tutti  quegli 
«  scrittarelli  che  di  questa  materia  avevano  trattato, 


154      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EA'O 

«  pur  con  cencioso  stile  e  scarsi,  e  principalmente 
«  la  cronaca  di  Giovanni  abbate  cbe  primo  costruì 
V  il  monastero  nostro  di  Capua  Nuova  ;  e  presi  i  li- 
^  bri  che  erano  necessari  a  quest'opera,  vale  a  dire 
«  la  storia  dei  Longobardi  e  la  cronaca  degli  impe- 
«  ratori  e  dei  pontefici  romani  5  indagati  diligente- 
«  mente  i  privilegi,  i  precetti,  le  concessioni  e  le 
«  carte  di  diversi  titoli,  tanto  cioè  dei  romani  pon- 
«  tefici  che  dei  vari  imperatori,  re,  principi,  duchi  e 
«  conti,  e  d'altri  uomini  illustri  e  di  fedeli,  che  dopo 
«  due  incendi  ancora  ci  rimangono,  sebbene  neppure 
«  mi  riuscisse  di  veder  tutti  questi  ;  da  ultimo  in- 
^<  terrogai  scrupolosamente  coloro  che  dei  tempi  mo- 
«  derni  e  dei  fatti  degli  abbati  avevano  potuto  udir 
«  dappresso  o  vedere.  Come  lo  concede  la  tenuità 
«  dell'  ingegno  mio  io  m' accingo  ad  eseguire  quanto 
«  m' imponesti,  più  certo  affidato  alla  obbedienza  che 
«  ti  debbo  come  a  padre  e  a  signore  che  presumente 
«  d'alcuna  scienza.  M'assista  Iddio  e  la  grazia  del 
«  suo  Spirito,  tanto  eh'  io  possa  mandare  ad  effetto 
«  quello  che  ti  sei  degnato  amorevolmente  d' ingiun- 
«  germi,  talché  questa  operetta  e  a  te  sia  grata  e 
«  profittevole  a  molti.  Queste  cose  pertanto,  guar- 
«  dando  a  me  stesso,  ebb'  io  necessità  di  premettere 
«  in  questa  prefazioncella  affinché  chi  le  ignora  non 
«  mi  arguisse  di  temerità  0  di  presunzione,  e  se 
«  m'accusa  la  pochezza  mia  mi  scusi  almeno  l'au- 
«  torità  dì  colui  che  mi  comanda  (1).  » 

(1)  Leonis  Maesicani  et  Petri  Diaconi  Chronicon  Mona- 
sterii  Casinensis  edidit  W.  Wattenbach  in  Mon.  Germ.  Hist., 
§  VII. 


LEONE   MARSICANO  155 

Incominciata  cosi  la  sua  storia,  egli  la  condusse 
dalle  prime  origini  della  Badia  fino  all'  anno  1075, 
ma  non  la  potè  condurre  oltre  quell'  anno  ancorché 
v'attendesse  pur  dopo  che  Pasquale  II  1'  ebbe  nomi- 
nato cardinale  vescovo  d'  Ostia,  onde  gli  venne  tra 
i  posteri  il  nome  di  Leone  Ostiense.  I  troppi  affari 
e  i  tempi  affannosi  lo  distoglievano  dalla  impresa  e 
gli  vietavano  un  continuato  lavoro.  Si  trovò  a  Roma 
(A.  D.  1111)  quando  Enrico  V  impadronitosi  vio- 
lento di  papa  Pasquale  in  San  Pietro,  lo  trascinò 
seco  prigioniero  in  Sabina.  Travestiti  da  popolani 
egli  e  Giovanni  cardinal  vescovo  di  Tusculo,  pote- 
rono sfuggire  alla  cattività,  e  non  par  dubbio  che 
anch'  egli,  come  Giovanni,  tentasse  d' infiammare  i 
Romani  alla  fiera  resistenza  eh'  essi  opposero  ai  Te- 
deschi d'  Enrico.  Ma  se  non  fu  preso  ancor'  egli  e 
non  sottoscrisse  la  convenzione  sulle  investiture  strap- 
pata per  forza  al  Papa,  la  ragion  dei  tempi  lo  co- 
strinse pure  di  malavoglia  a  piegarsi  e  a  tenere 
con  quei  prelati  che  insieme  con  Pasquale  II  preferi- 
vano le  vie  conciliative  ad  una  inflessibilità  immota. 
Inflessibili  erano  altri  prelati  e  un  dei  principali  tra 
questi  era  Bruno  d'Asti  vescovo  di  Segni  e  abbate  di 
Montecassino,  uomo  di  molta  dottrina,  austero  e  santo 
di  vita,  nella  sua  resistenza  all'Impero  irreconcilia- 
bile. Il  Papa  stimando  pericoloso  che  un  forte  nu- 
cleo di  oppositori  gli  si  formasse  contro  a  Monte- 
cassino,  tosto  inviò  quivi  Leone  a  cui  riuscì  d'ottenere 
che  Bruno,  abdicata  la  dignità  abbaziale  si  ritirasse 
nella  sua  diocesi  di  Segni.  Tornato  a  Roma  Leone 
prese  gran  parte  nel  concilio  Lateranense  del  1112, 


156      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

ma  dopo  riman  poca  traccia  della  sua  vita.  Essa 
cessò  un  ventidue  di  maggio,  non  si  può  bene  affer- 
mare di  quale  anno  tra  il  1115  e  il  1117. 

Come  può  intendersi  anche  dalla  lettera  premessa  al 
suo  lavoro,  Leone,  oltre  al  grande  sussidio  trovato  nei 
documenti  dell'archivio,  s'era  pure  aiutato  della  biblio- 
teca cassinese  che  gli  forni  dovizia  copiosa  di  scritture 
relative  in  qualche  modo  alla  storia  del  monastero. 
Il  maggior  numero  degli  scrittori  di  cui  sono  venuto 
parlando  finora  fu  nota  a  quel  dotto  uomo  e  se  ne 
servì  largamente.  Inoltre  attinse  talvolta  a  qualche 
fonte  che  non  è  pervenuta  infino  a  noi,  e  verso  l'ul- 
timo periodo  della  narrazione  aggiunse  di  suo  quanto 
della  storia  contemporanea  aveva  veduto  o  udito  egli 
stesso.  Di  quanti  scrissero  in  quella  età  di  tendenze 
partigianesche,  Leone  per  la  elevatezza  e  la  natu- 
rale imparzialità  dello  spirito,  è  uno  di  quelli  che 
meritano  maggior  fede.  Se  gli  fosse  rimasto  agio  di 
condurre  il  lavoro  fino  agli  ultimi  tempi  di  sua  vita, 
forse  oggi  dovremmo  considerarlo  come  il  maggiore 
storico  italiano  del  medio  evo  dopo  Paolo  Diacono. 
Ne  come  monumento  letterario  l' opera  di  Leone  è 
inferiore  alla  sua  importanza  storica.  «  In  quanto 
«  alla  forma,  »  volentieri  torno  a  citare  il  venerando 
storico  di  Montecassino,  «  noi  pensiamo,  che  in  mezzo 
«  alla  barbarie,  il  cassinese  Leone  sia  il  primo  a 
«  farci  ricordare  degli  storici  latini  e  ad  accennare 
«  a  quelli  che  sarebbero  stati  per  fiorire  in  Italia 
«  dopo  il  risorgimento  delle  lettere.  Ne  in  Italia  né 
«  fuori  troviamo  alcuno  che  in  quei  tempi  vada  al 
«  pari  di   Leone  per  certa    tal   quale    composizione 


LEONE   MARSICANO  157 

«  de' fatti,  nesso  di  ragioni  e  decenza  di  discorso, 
«  per  cui  la  storia  si  distingue  dalla  rozza  cronaca, 
«  che  non  è  altro  se  non  una  materiale  riproduzione 
«  per  la  scrittura  delle  successive  e  incoerenti  no- 
«  tizie  di  fatti,  le  quali  cadono  dall'animo  dello  scrit- 
«  tore  senza  che  ci  dicano  del  come  e  del  perché  vi 
«  siano  entrate.  Egli  stesso  sente  non  essere  un  vol- 
«  gare  cronista;  imperocché  deputato  dall'abate  Ode- 
«  risio  a  scrivere  dei  fatti  del  suo  predecessore  De- 
«  siderio,  afferma,  che  quelli  giudicassero  indegna 
«  cosa  il  non  esser  stato  per  lo  passato,  alcuno  che 
«  avesse  messo  opera  a  tramandare  con  le  scritture 
«  le  opere  degli  antichi  abati,  e  se  pur  ve  ne  fosse 
«  stato  alcuno,  lo  avesse  fatto  con  isconcio  e  sel- 
«  vaggio  stile,  da  ingenerare  in  chi  li  legge  piut- 
«  tosto  fastidio  che  dottrina.  Egli  prende  le  mosse 
«  da  San  Benedetto  fino  ai  suoi  tempi  ;  si  prepara 
«  con  molto  studio  al  racconto  che  imprende;  ac- 
«  cenna  alle  fonti  onde  attinse  la  notizia  dei  fatti.... 
«  e  sotto  il  velame  di  religiosa  modestia  rivela  la 
«  coscienza  d'aver  fatto  da  più  degli  altri  nella  sua 
«  narrazione,  alla  quale  lo  stesso  Alfano,  richiesto 
«  dall'abate  Desiderio,  non  volle  porsi  ;  per  cui  re- 
«  puta  non  degno  della  sua  cronaca  il  titolo  di  cro- 
«  naca  ed  osa  chiamarla  Mstoriola.  Adunque  e  per 
«  la  veracità  del  racconto  e  per  la  forma  questa 
*  cronaca  arrecò  molta  luce  alla  storia  del  Medio 
«  Evo  (1).  » 


(1)  L.  Tosti,  La  Biblioteca  dei  Codici  manoscritti  di  3Ion- 
tecassino,  Napoli,  1874.  Veggasi  anche  ciò  che  T  illustre  mo- 


158      LE  eRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

L'opera  di  Leone  interrotta  col  racconto  della  con- 
sacrazione della  restaurata  badia,  fu  ripresa  da  Pie- 
tro Diacono  e  continuata  fino  all'anno  1138.  Di- 
scendente dalla  illustre  famiglia  dei  conti  Tusculani, 
Pietro  era  nato  verso  il  1107,  dal  romano  Egidio 
tiglio  di  Grregorio  patrizio  e  console  dei  romani,  e 
pronipote  di  Alberico  e  di  Marozia.  Offerto  da  fan- 
ciullo in  oblazione  al  monastero  nel  1115  sotto  l'abbate 
Giraldo^  Pietro  fu  educato  con  cura  ed  ebbe  a  prin- 
cipal  guida  ne'  suoi  studi  il  monaco  Guido,  uomo, 
al  dire  del  suo  discepolo,  assai  riputato,  autore  di 
varie  opere  storiche  ora  perdute  e  di  una  «  Visione 
di  Alberico^  »  rimasta  famosa  perché  parve  ad  al- 
cuni di  ravvisare  in  essa  un  concetto  ispiratore  della 
Divina  Commedia.  Nel  1128  la  nimicizia  dei  conti 
d'Aquino  ai  quali  si  era  strettamente  legato  il  pa- 
dre di  Pietro,  indussero  l'abbate  Senioretto  ad  allon- 
tanare il  giovinetto  monaco  da  Montecassino.  Pietro 
allora  si  ritrasse  nella  prossima  Atina  dove,  richie- 
sto da  Adenolfo  conte  di  quella  città,  scrisse  una 
storia  del  martirio  di  San  Marco  vissuto  nei  tempi 
apostolici  e  primo  vescovo  della  diocesi  atinate.  Mentre 
durava  il  suo  esilio,  gli  zii  di  Pietro  dai  quali  suo 
padre  erasi  distaccato  per  allearsi  ai  conti  di  Aquino, 


naco  scrive  del  tempo  di  Desiderio  nella  sua  storia  di  quella 
Badia,  e  il  Caravita  nel  libro  intitolato:  I  codici  e  le  arti  a 
3Iontecassino.  E  per  citare  altri  giudizi,  il  Baroni©  chiamò 
il  cronista  Leone  «  scriptor  sui  temporis  integerrimus,  »  il 
Muratori  «  viagnae  gravitatis  et  auctoritaiis  »  e  il  Wattenbacb 
che  ne  curò  Tedizione  pei  Monumenta  Germaniae  gli  dà  gran 
fede. 


PIETRO   DIACONO  159 

gli  scrissero  esortandolo  a  tentare  d' indurre  il  pa- 
dre a  tornare  in  lega  con  loro.  Non  può  affermarsi 
con  sicurezza  ma  pare  probabile  che  Pietro  aderisse 
air  invito  de'  suoi  parenti.  Certo  noi  lo  troviamo  di 
lì  a  poco  a  Montecassino  in  amiche  relazioni  con 
quelli  e  nel  favore  dell'abbate  suo  Senioretto  che  gli 
commise  più  tardi  di  continuare  la  storia  della  badia 
e  gliene  narrò  molta  parte  di  cui  egli  stesso  era 
stato  testimonio  oculare.  Ma  prima  che  gli  fosse  af- 
fidata questa  storia,  egli  s'  era  venuto  acquistando 
fama  con  altri  lavori.  Nominato  come  Leone  archi- 
vista e  bibliotecario  della  Badia,  l' ingegno  facile 
arguto  meridionale  gli  spianò  la  via  a  sviluppare 
una  prodigiosa  attività  letteraria.  In  vari  tempi  e 
tra  molte  occupazioni  copiò  molti  codici,  scrisse  vite 
di  santi  e  narrazioni  di  miracoli  e  versi  e  lettere, 
compilò  un  grande  Regesto  dei  documenti  serbati 
neirarchivio,  narrò  le  vite  dei  più  illustri  monaci 
del  monastero  e  continuò  l'opera  che  Leone  d'Ostia 
aveva  lasciata  interrotta.  Pietro  fu  meu  di  Leone 
mescolato  nelle  vicende  politiche  della  età  sua,  e  le 
molteplici  cure  sue  si  restrinsero  quasi  tutte  entro 
la  cerchia  del  suo  monastero.  Da  ciò  si  spiega  la 
moltitudine  dei  suoi  lavori  e  la  mole  di  alcuni  tra 
essi.  La  calata  di  Lotario  nel  mezzogiorno  d'  Italia 
(A.  D.  1137)  segnò  il  punto  più  culminante  della  sua 
vita,  che  ci  vien  descritto  da  lui  con  boriosa  com- 
piacenza. Ai  tempi  di  Pietro,  cessata  oramai  la  lotta 
delle  Investiture,  Montecassino  cercava  come  sapeva 
r  appoggio  della  protezione  imperiale  per  sottrarsi 
dalle  frequenti  e  varie  pretese  dei  principi  normanni 


160  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

e  della  Curia  romana.  La  soggezione  ad  un  impera- 
tore lontano  riusciva  assai  meno  molesta  alla  Badia 
delle  relazioni  sue  temporali  e  spirituali  con  possenti 
vicini.  Allorché  Lotario  insieme  con  Innocenzo  II 
trovavasi  presso  Melfi  a  Lago  Pesole,  Pietro  recossi 
colà  col  suo  abbate  ed  ivi  fu  incaricato  di  sostenere 
innanzi  all'  imperatore  le  ragioni  del  monastero  con- 
tro i  diritti  asseriti  dal  cardinale  Gerardo  in  nome 
della  Chiesa.  La  facile  arguta  parola  del  monaco 
riportò  vittoria  dopo  vari  giorni  di  contrasto,  e  l'Im- 
peratore stupito  di  tanta  facondia  e  di  tanta  dot- 
trina pose  grande  benevolenza  a  Pietro,  lo  colmò  di 
onori  e  mostrò  desiderio  d'averlo  seco  in  Germania. 
Almeno  cosi  egli  ci  narra  e  veramente  parve  ch'egli 
dovesse  seguirlo  colà,  ma  varie  cagioni  ne  lo  distol- 
sero e  rimase  nel  suo  monastero.  La  data  della  sua 
morte  è  incerta  ma  non  è  debole  la  congettura  del 
Wattenbach  che  lo  reputa  morto  non  molto  dopo 
il  1140.  Infatti  dopo  quel  tempo  non  si  ha  più  no- 
tizia di  lui,  né  par  naturale  che  uno  scrittore  cosi 
fecondo  il  quale  nello  spazio  di  circa  dieci  anni  aveva 
posto  mano  e  compiuti  tanti  lavori  cessasse  a  un 
tratto  lo  scrivere  e  cadesse  in  un  silenzio  assoluto. 
Tralasciando  le  minori  opere  sue,  Pietro  Diacono 
ha  raccomandata  la  sua  fama  ad  alcuni  lavori  sto- 
rici ricchi  di  merito  e  di  difetti.  I  suoi  libri  sugli 
uomini  illustri  di  Montecassino  e  sulla  vita  e  la  morte 
dei  giusti  di  quel  monastero,  contengono,  miste  a 
portentose  leggende,  notizie  storiche  di  gran  pregio 
massime  pe'  tempi  più  vicini  all'  autore.  Ma  i  due 
lavori  suoi  più  importanti  sono  il  Regesto  di  Mon- 


PIETRO   DIACONO  161 

tecassino  e  la  continuazione  della  cronaca  cassinese. 
Se  l'onorato  amore  del  vero  che  animò  Gregorio  di 
Catino  e  Leone  Ostiense  avesse  animato  anche  Pie- 
tro Diacono^  per  fermo  il  pregio  di  questi  due  suoi 
lavori,  e  specialmente  della  cronaca,  sarebbe  riuscito 
incalcolabile  ;  ma  per  disavventura  non  fu  così.  I 
dubbi  eh'  egli  e'  ispira  del  continuo  sono  l'opposto  di 
quella  fede  sicura  colla  quale  possiamo  abbandonarci 
alle  narrazioni  di  Leone  Marsicano.  Questi  semplice 
imparziale  veridico,  e  Pietro  vanitoso  appassionato 
malsincero.  Colla  compilazione  del  Regesto  egli  fece 
opera  grande  e  utilissima  anche  oggi  sebbene  i  do- 
camenti  originali  dell'archivio  cassinese  si  conservino 
ancora  in  gran  parte.  Questo  suo  libro  scritto  in 
bellissimo  carattere  longobardo^  è  quasi  altrettanto 
vasto  di  mole  quanto  il  Regesto  di  Farfa  ma  diverso 
nella  distribuzione  del  contenuto.  I  documenti  non 
si  seguono  tutti  indistintamente  un  dopo  1'  altro  in 
ordine  cronologico,  ma  sono  ripartiti  in  vari  gruppi 
secondo  la  varia  loro  natura  e^  come  si  pare  dalle  pa- 
role della  prefazione,  secondo  un  piano  già  iniziato 
da  Leone  Marsicano.  «  Di  grandissimo  aiuto,  »  dice 
Pietro,  «  mi  fu  in  ciò  la  storia  di  Leone  venerabile 
«  vescovo  d'Ostia,  il  quale  pigliando  cominciamento 
«  dal  beatissimo  padre  Benedetto,  scrisse  sulle  cose 
«  del  cenobio  cassinese  un  libro  utilissimo  nel  quale 
«  pose  tanta  ricchezza  d' ingegno  che  quasi  nulla 
«  tralasciò  di  quanto  è  avvenuto  in  questo  medesimo 
«  cenobio.  Non  potendo  adunque  seguire  la  diligenza 
«  di  un  tanto  uomo  in  quest'  opera  per  la  facoltà 
«  soverchio  impari   dell'  ingegno,    tenni    tuttavia    il 

11.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


162  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  medesimo  ordine  eh'  egli  avea  stabilito  alle  carte 
«  di  donazione.  »  Questa  opera  di  Pietro  fu  consul- 
tata spesso  dagli  eruditi  con  gran  profitto,  e  certo 
è  desiderabile  che  i  monaci  di  Montecassino,  termi- 
nata la  magnifica  descrizione  che  stanno  facendo 
dei  loro  manoscritti,  mettano  mano  a  pubblicare  un 
codice  diplomatico  dei  documenti  originali  dell'ar- 
chivio cassinese,  raffrontandoli  e  completandoli  col 
Regesto  di  Pietro  Diacono.  Ma  se  il  lavoro  di  Pietro 
è  pregevole,  non  è  però  tale  da  accettarlo  mai  senza 
molta  cautela.  La  tendenza  dell'autore  e  quella  dei 
suoi  tempi  contribuiscono  a  toglier  fede  a  quel  la- 
voro. Le  contese  frequenti  sulle  proprietà  dei  beni 
monastici  e  talora  sulla  santità  delle  origini  o  sulla 
autenticità  delle  reliquie  serbate  nei  monasteri,  non 
solo  spingevano  i  monaci  alle  compilazioni  dei  re- 
gesti ma  spesso  anche  a  falsificare  o  ad  alterare  i 
documenti  con  impudente  audacia.  Ne  Pietro  fu  im- 
mune da  questa  colpevole  tendenza  a  cui  lo  spingeva 
in  molti  casi  l'animo  vanitoso  e  il  desiderio  di  tro- 
vare immaginarie  nobiltà  di  origini  e  di  vicende  al 
suo  monastero  pur  così  nobile  e  famoso.  Se  non  si 
può  affermare  del  sicuro  eh'  egli  abbia  fabbricato 
documenti  falsi,  certo  ha  talora  scientemente  alte- 
rato con  interpolazioni  gli  originali  che  copiò  entro 
il  Regesto.  E  lo  stesso  difetto  di  onesta  sincerità 
macchia  la  sua  cronaca  di  Montecassino  che  movendo 
come  dicemmo,  dal  punto  dove  s'era  interrotto  Leone 
(A.  D.  1075)  prosegue  fino  all'anno  1138  e  abbrac- 
cia cosi  il  periodo  storico  piiì  rilevante  di  quell'  età 
momentosa.  Anzi  qui  alla  vanità  del  monaco  pel  suo 


PIETRO   DIACONO  163 

monastero  sì  aggiunge  la  boria  gentilizia  e  personale 
grandissima  in  lui,  talché  il  suo  lavoro  dovunque  si 
riferisce  agli  interessi  della  Badia  o  alla  persona  sua 
nominata  ad  ogni  tratto,  sempre  è  di  autorità  molto 
dubbia.  Ma  tuttavia  la  importanza  dei  tempi  per  cui 
s'aggira  la  sua  narrazione  dà  uno  speciale  valore  a 
questa  cronaca,  fatta  anche  piacevole  dalla  spigliata 
franchezza  del  suo  stile  che  attira  pur  coi  difetti  e 
svela  spesso  all'aperto  l'anima  dello  scrittore  ingenua 
nella  sua  scaltrezza.  Diverso  anche  in  ciò  da  Leone 
il  quale  attingendo  notizie  ad  altre  fonti  componeva 
sempre  di  suo  il  racconto,  Pietro  spesso  copia  brani 
d'altri  scrittori  e  li  innesta  colle  stesse  loro  parole 
nel  libro.  Di  che  viene  una  grande  disuguaglianza 
di  stile.  Ma  dove  egli  scrive  del  proprio,  se  talora  è 
un  po'  scorretto  per  frettolosa  negligenza,  egli  è  pur 
sempre  vivace  evidente  ricco  di  colorito  e  di  vita, 
e  malgrado  i  difetti  rimane  sempre  un  curioso  e 
singolare  scrittore,  degno  d'essere  letto  da  chi  voglia 
aver  familiare  la  letteratura  storica  di  questo  pe- 
riodo (1). 

Il  grande    risorgimento    artistico    e    letterario    di 
Montecassino  si  collegava  ad  un  consimile  movimento 


(l)  Un  altro  Eegesto  detto  di  S.  Placido,  di  minore  impor- 
tanza ma  aneli'  esso  pregevole,  si  conserva  attualmente  a 
Montecassino  ed  è  opera  di  Pietro  Diacono.  Ivi  si  conservano 
anche  due  altri  regesti  pregevolissimi  della  stessa  età  e  di 
monasteri  connessi  a  Montecassino,  quello  di  S.  Angelo  in 
formis,  monastero  del  territorio  di  Capua,  e  l'altro  del  mona- 
stero di  S.  Matteo,  di  cui  avanzano  le  rovine  in  una  monta- 
gna vicinissima  alla  madre  Badia. 


164  LE    CRONACHE    ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

in  tutta  la  bassa  Italia  nella  quale  per  gli  imme- 
diati contatti  suoi  colla  Grecia  e  cogli  Arabi  spar- 
gevansi  a  un  tempo  i  raggi  fecondatori  di  due  civiltà. 
Gli  istinti  quasi  medicei  che  Desiderio  avea  recato 
nel  chiostro,  eran  pure  gì'  istinti  dei  principi  longo- 
bardi da  cui  usciva.  La  nobiltà  longobarda  di  quei 
luoghi  protettrice  delle  lettere  fin  dai  tempi  di  Paolo 
Diacono,  erasi  a  poco  a  poco  assimilata  agli  indigeni, 
e  nel  fondersi  con  essi  e  ingrecandosi  cogli  elementi 
avanzati  dal  greco  dominio,  aveva  assorbito  i  pregi 
e  i  difetti  della  nuova  patria.  Da  ciò  la  prontezza 
di  quelle  regioni  nel  risvegliarsi  alla  civiltà  e  V  in- 
flusso efficace  che  esercitarono  sovr'  essa  per  alcuni 
secoli  da  quel  tempo.  A  testimoniare  questo  primo 
risveglio  nel  Mezzogiorno  oltre  i  lavori  monastici  di 
Montecassino  concorrono  vari  lavori  di  carattere 
storico  dei  quali  terrò  discorso  ora  per  isgombrar 
la  via  ad  altri  soggetti  che  son  da  trattare  nel  ca- 
pitolo seguente  (1).  Della  città  di   Bari    sulla   costa 


(1)  Annales  Barenses  e  Annales  Lupi  Peotospataeii  in  Mo- 
nutnetita  Germaniae  Historica,  Script,  voi.  V.  —  Anonymus  Ba- 
rensis  in  Muratoei,  Ber.  Italie.  Script  voi.  V.  —  Annales 
Beneventani  e  Chronicon  Bucum  Beneventi  in  Mon.  Gemi, 
Hist.  Script,  voi.  III.  —  Falconis  Beneventaki  Chronicon  in 
SIUEATORi,  op.  cit.,  voi.  V.  —  Annaìes  Cavenses  in  Mon.  Gemi. 
Hist.  Script,  voi.  Ili,  e  più  recentemente  una  edizione  im- 
portante nel  Coclex  Diplomaticus  Cavensis,  voi.  V.  —  Chro- 
nicon Nortmannicum  Breve  in  Muratori,  op.  cit.,  voi.  V.  — 
GuiLLERMi  Apuliensis  Gcsta  Roberti  Wiscardi  in  3Ion.  Gemi. 
Hist.  Script,  voi.  IX.  —  Gaufredi  Malaterea,  Historia  Sicula 
in  Muratori,  op.  cit.,  voi.  V. 


SCRITTORI   MERIDIONALI  165 

adriatica  ci  lasciò  notizie  fino  al  1102  Lupo  Proto- 
spatario,  e  più  tardi  fino  al  1152  Fanonimo  Baren- 
se.  Benevento  ha  suoi  annali  fino  all'anno  1130  ed 
una  cronaca  che  per  mala  ventura  è  incompleta, 
rude  di  stile  ma  di  gran  pregio  alla  storia.  Del  pari 
ha  suoi  annali  il  famoso  monastero  della  Trinità 
della  Cava  presso  Salerno,  ricostruito  anch'  esso  a 
que'  tempi  e  consacrato  solennemente  da  Urbano  II 
della  quale  consacrazione  riman  pure  memoria.  Da 
Taranto  derivano  le  notizie  intorno  ai  primi  invasori 
normanni  che  ci  son  porte  dal  Chronicon  nortman- 
nicnm  hreve.  Del  monaco  Amato  che  scrisse  più  lar- 
gamente intorno  ai  Normanni  si  è  già  detto,  e  quando 
il  suo  lavoro  ci  lascia,  serve  a  completarlo  il  poema 
eroico  di  Guglielmo  di  Puglia  che  celebra  Roberto 
Guiscardo  e  le  imprese  dei  suoi  Normanni.  Buon 
poeta  pe'  suoi  tempi  e  abbastanza  familiare  coi  clas- 
sici, egli  ci  canta  le  gesta  del  suo  eroe  in  esametri 
infiorati  di  citazioni  virgiliane.  L'  opera  sua  intra- 
presa per  desiderio  di  Urbano  II  e  dedicata  a  Rug- 
giero figliuol  di  Roberto,  oltre  al  pregio  dell'essere 
scritta  in  tempi  e  luoghi  prossimi  agli  avvenimenti, 
mostra  una  buona  conoscenza  degli  scrittori  che  lo 
precedettero  e  tra  questi  di  un  biografo  di  Roberto 
del  quale  oggi  non  avanzano  traccio.  E,  contempo- 
raneo al  poeta  Guglielmo,  Goffredo  Malaterra  per 
incarico  del  gran  conte  Ruggiero  scriveva  una  pre- 
ziosa storia  dei  Normanni  in  Sicilia  con  sufficiente 
scioltezza  di  stile  e  ricca  di  notizie  anche  per  la 
storia  delle    relazioni    che    corsero    tra    ì  Normanni 


166  LE    CRONACHE    ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

stessi  e  il  pontefice  Urbano.  Come  si  vede,  la  caval- 
leresca epopea  dei  Normanni  non  mancò  di  scrittori 
che  la  celebrassero,  e  la  nuova  tendenza  storica  dei 
tempi  trovò  in  quelle  imprese  spazio  largo  abbastanza 
per  non  aver  bisogno  di  tramutarsi  in  leggenda. 

E  per  fermo,  attratta  dalla  verità  della  vita,  ani- 
mata da  forti  ideali,  la  fantasia  si  volgeva  all'umano 
e  la  luce  della  leggenda  impallidita  innanzi  alla 
luce  della  storia  rifugiavasi  nelle  tradizioni  del  po- 
polo 0  in  qualche  oscuro  libro  monastico  destinato  a 
lontane  e  inaspettate  risurrezioni.  Infatti,  lontan 
lontano  dai  luoghi  di  cui  si  tiene  parola^  in  Val  di 
Susa  alle  falde  del  Cenisio,  un  monaco  del  mona- 
stero della  Novalesa  raccoglieva  le  tradizioni  della 
calata  di  Carlomagno  in  Italia  e  manteneva  ricordi 
di  un  ciclo  di  leggende  che  più  tardi  ispirò  trova- 
tori e  poeti  del  medio  evo,  illuminò  la  fantasia  del- 
l'Ariosto e,  ai  tempi  nostri,  innestato  alla  storia 
crebbe  colore  alla  musa  pensosa  di  Alessandro  Man- 
zoni. La  storia  vera  del  monastero  della  Kovalesa 
somiglia  alle  altre  storie  monastiche  di  quei  tempi. 
Fondato  nell'anno  726,  distrutto  dai  Saraceni  nel  906 
o  nel  916,  restaurato  verso  il  mille,  ebbe  tra  i  suoi 
intorno  alla  metà  del  secolo  undecime  un  monaco 
del  territorio  di  Vercelli  che  ne  scrisse  la  cronaca  (1). 
Quest'  opei'a  fantastica  ci  è  avanzata  mutila  nello 
stesso  antico  rotolo  membranaceo  su  cui  l'autore  la 


(1)  Chronicon  Novaliciense,  in  Monumenta  Germaniae  Hi- 
storica.  Script.,  voi.  vìi. 


CRONACA  DELLA  NOVALESA  167 

scrisse  a  più  riprese^  tra  lunghi  intervalli  dì  tempo 
senza  condurla  a  termine  mai.  Attinta  alle  fonti  del 
popolo  incomincia  quasi  subito  con  una  favolosa 
leggenda  di  un  monaco  ortolano  di  sangue  reale 
chiamato  Waltario  che  compì  gesta  prodigiose  a  tu- 
tela del  monastero  ed  è,  come  nota  il  Bartoli,  quello 
stesso  Walter  figliuolo  del  re  di  Aquitania  preso  in 
ostaggio  da  Attila  e  la  cui  leggenda  si  rilega  ai 
Niebelunghi,  alla  Wilkina-Saga  scandinavica  e  a 
tutto  il  ciclo  delle  tradizioni  eroiche  intorno  ad 
Attila.  Alle  quali  leggende  tengono  dietro  altre 
leggende  del  ciclo  di  Carlomagno  importantissime 
perché  dopo  men  di  tre  secoli  narrano  ciò  che  la 
fantasia  popolare  aveva  creato  sui  fatti  avvenuti  tra 
quelle  montagne  dove  il  monaco  le  raccoglieva.  La 
visione  di  Carlomagno,  l'ospitalità  ch'egli  trovò  alla 
Novalesa;  il  giullare  che  insegnò  a  Carlo  il  valico 
per  passar  le  Alpi  e  prendere  i  Longobardi  alle 
spalle^  la  presa  di  Pavia,  le  miserie  del  longobardo 
re  Desiderio,  e  le  maravigliose  prodezze  di  suo  figlio 
Adelchi,  sono  altrettanti  episodi  di  leggende  ricchi 
di  poesia  e  di  sentimento.  Diversa  dalle  cronache 
erudite  dei  monaci  del  Mezzogiorno,  questa  cronaca 
della  Novalesa  ha  pure  una  importanza  singolare 
perché  raccoglie  le  impressioni  del  popolo  durevoli 
assai  lungamente  oltre  le  sue  cagioni.  Tornando  in- 
dietro con  essa  fino  alla  età  longobarda,  al  punto  ove 
Paolo  Diacono  s'arresta,  noi  possiam  colorire  quelle 
scarne  notizie  che  la  critica  ci  aiuta  a  trarre  dagli 
ampi  Regesti  e  dalle   cronache  più  severe.    Che   se 


168      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

questo  scritto  nato  al  pie  delle  Alpi  è  piuttosto  poe- 
sia che  storia,  certo  è  poesia  che  ricorda  la  vita  dei 
tempi  lontani  e  la  ripete  dopo  secoli  di  silenzio  come 
le  maestose  montagne  che  incoronano  le  ruine  della 
Novalesa,  ripetono  tra  i  vasti  silenzi  la  lunga  e  so- 
litaria eco  dei  suoni  cessati. 


Capitolo  V 

I  continuatori  del  Libro  Pontificale:  Bruno  da  Segni.  Guiberto  di  Toul.  Paolo 
di  Bernried.  «  Annales  Romani.  »  Pietro  Pisano.  Pandolfo.  Bosone  — 
Scritti  polemici.  San  Pier  Damiani.  «  Liber  ad  Amicum  »  di  Bonizone  — 
La  Vita  di  Anselmo  da  Lucca  —  La  Vita  della  contessa  Matilda  di  Do- 
nizone  —  Le  lettere  di  Gregorio  VII. 

«  Il  beato  papa  Gregorio  (VII)  soleva  narrarci  assai 
«  cose  di  quest'uomo  (Leone  IX),  e  da  lui  ho  memo- 
«  ria  d'avere  udito  in  gran  parte  tutto  ciò  che  sono 
«  venuto  dicendo  fin  qui.  Ora  egli  un  giorno^  par- 
«  landò  di  lui  incominciò  a  rimproverarci  e  me  prin- 
«  cipalmente  (come  mi  parve  poiché  tenea  fissi  in  me 
«  gli  occhi)  perché  lasciavamo  passare  in  silenzio  le 
«  gesta  del  beato  Leone  e  non  iscrivevamo  ciò  che 
«  sarebbe  riuscito  a  gloria  per  la  Chiesa  Romana  e 
«  ad  esempio  di  umiltà  per  molti  che  avrebbero  ascol- 
«  tato  (1).  »  Queste  parole  di  Bruno  vescovo  di  Se- 


(1)  La  importanza  di  queste  parole  era  stata  già  rilevata 
molto  opportunamente  dal  Wattcrich  nella  prefazione  alla  sua 
raccolta  sulle  vite  dei  pontefici,  lavoro  di  cui  mi  sono  molto 
giovato  nello  scrivere  questo  capitolo.  Pontificum  Bomanorum 
Vitne....  ab  aequaìibus  conscriptae,  edidit  J.  ÌVI.  Wattf.rich, 
Lipsiae,  1862. 


170  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

gni  mostrano  come  al  risorgere  dell'autorità  e  del  vi- 
gore nella  sede  romana,  rinascesse  il  bisogno  di  un 
libro  pontificale  e  come  i  papi  stessi  promuovessero 
quest'opera.  Infatti  nel  secolo  undecimo,  le  vite  dei 
papi,  a  muover  da  quella  di  Leone  IX  (f  1054),  in- 
cominciano ad  essere  narrate  con  larga  estensione  da 
scrittori  non  privi  di  merito^  spesso  testimoni  oculari 
0  assai  prossimi  delle  cose  narrate  e  mescolati  in 
qualche  modo  ad  esse.  Così,  per  esempio,  le  parole 
citate  qui  sopra  furono  scritte  in  una  vita  di  Leone  IX 
da  quel  medesimo  Bruno  vescovo  di  Segni  e  abbate 
di  Montecassino  che  nell'  altro  capìtolo  ci  apparve 
tanto  attivo  e  ardente  partigiano  nella  lotta  delle  In- 
vestiture. Ma  quest'  opera  sua  non  ha  molto  valore 
e  fu  superata  da  altre  venute  in  luce  verso  il  suo 
tempo,  quali  la  commovente  descrizione  della  morte 
di  Leone  IX  dettata  in  Roma  dal  chierico  Libuino 
custode  del  sepolcro  di  quel  pcipa,  ricca  di  fatti  veri 
tra  molte  leggende,  e  la  vita  scritta  da  un  monaco 
beneventano  specialmente  stimabile  pel  racconto  della 
mal  provvida  spedizione  di  Leone  contro  i  Normanni 
e  della  prigionia  che  seguì  alla  sua  disfatta.  Più  impor- 
tanti ancora  sono  due  altri  lavori  di  due  tedeschi  (1), 


(1)  È  da  notare  che  molti  annalisti  tedeschi  del  secolo  un- 
decirao  e  del  principio  del  dodicesimo  hanno  importanza  per 
la  storia  del  Papato  tanto  strettamente  congiunta  in  quel  tempo 
colla  storia  di  Germania.  Non  essendo  del  mio  ufficio  il  pren- 
derli specialmente  in  esame,  io  mi  limito  qui  a  menzionar 
di  passaggio  tra  i  più  cospicui  gli  annalisti  Bertoldo,  Bernoldo 
di  Costanza  e  Lamberto  di  Hersfeld,  scrittori  che  meritano 
tutta  l'attenzione  di  chi  studia  la  storia  d' Italia. 


PAOLO   DI   BERNRIED  171 

Guiberto  di  Toul  e  Paolo  di  Bernried,  che  scrissero 
molto  dififasamente  il  primo  di  Leone  IX  il  secondo 
di  Gregorio  VII.  Guiberto  che  fu  familiare  di  Leone 
quando  questi  era  vescovo  di  Toul  è  specialmente 
ricco  di  dettagli  circa  la  prima  parte  della  sua  vita, 
ma  pel  rimanente  sebbene  pregevole  non  ci  dà  un 
ritratto  così  completo  di  quel  pontefice  che  non  sia 
bisogno  di  cercare  anche  da  altre  fonti  aiuto  a  ri- 
farne la  storia. 

Scritta  mentre  cessava  la  contesa  delle  Investiture, 
la  storia  di  Gregorio  VII  lasciataci  da  Paolo  di  Bern- 
ried ripete  l'eco  delle  antiche  querele  e  magnifica  la 
potenza  morale  di  Gregorio  quasi  ad  ammonir  gli  av- 
versari del  pericolo  che  correrebbero  a  rinnovar  la 
gran  lotta.  Dedicatosi  fin  dal  1102  alla  vita  eccle- 
siastica, Paolo  fu  ordinato  prete  nel  1120.  Per  le  per- 
secuzioni dell'  imperatore  Enrico  V,  riparò  l'anno  se- 
guente a  Bernried  nella  diocesi  di  Augusta.  Nel  1122 
si  recò  a  Roma  e  quivi  forse  gli  venne  in  animo  di 
narrar  la  vita  di  Gregorio  VII.  Senza  dubbio  radunò 
colà  la  materia  del  suo  lavoro,  studiò  il  registro  delle 
lettere  gregoriane,  interrogò  i  superstiti  testimoni  delle 
vicende  del  suo  eroe,  tra  i  quali  lo  stesso  pontefice 
Calisto  IL  Tornato  a  Bernried  si  mise  all'opera  e  la 
condusse  a  termine  nell'anno  1128.  Narratore  inge- 
nuo egli  sebbene  sprovveduto  di  critica,  attinge  per 
lo  pili  a  buone  fonti  e  fa  largo  uso  di  documenti  uf- 
ficiali. Per  teli  modo  bene  e  coscienziosamente  infor- 
mato, scrive  di  eventi  occorsi  quasi  cinquant' anni 
prima  di  lui  con  una  tenace  semplicità  di  convinzione 
che  penetra  efficace  nell'animo  di  chi  lo  legge.  Con 


172  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

facile  credulità  egli  corre  spesso  al  soprannaturale  e 
spiega  miracolosamente  assai  fatti  o  li  colorisce  colla 
aggiunta  di  episodi  leggendari,  ma  è  così  onesto  e  di 
buona  fede  in  queste  aggiunte,  che  la  critica  può  fa- 
cilmente respingerle  o  spremer  da  esse  il  vero  della 
storia  e  l'arte  aiutarsene  a  descrivere  una  età  dram- 
matica oltremodo.  Uno  storico  artista,  il  Villemain, 
che  ha  lumeggiato  a  maraviglia  la  vita  di  Grrego- 
rio  VII  (1),  si  giovò  assai  di  questo  biografo  per  dar 
colore  ai  suoi  quadri  e  specialmente  alla  sua  descri- 
zione di  quella  fosca  notte  di  Natale^  quando  il  ro- 
mano Cencio  entrato  in  Santa  Maria  Maggiore  strappò 
Gregorio  dall'  altare  e  lo  trascinò  in  una  sua  torre 
prigioniero  e  ferito.  Amo  riferir  qui  in  parte  il  rac- 
conto dell'antico  scrittore  che  è  bello  confrontare  collo 
storico  moderno  e  vedere  in  qual  modo  le  vivide  im- 
pressioni d'un  semplice  cronista  del  medio  evo  ab- 
biano ispirata  una  delle  più  luminose  pagine  di  cui 
si  onori  la  moderna  letteratura  storica  di  Francia. 

«  Ecco  venuta  la  notte  in  cui  il  figliuol  delle  te- 
«  nebre  sta  per  assalire  il  ministro  della  luce.  E  prima 
«  manda  esploratori  ed  altre  spie,  perché  tra  gli  abi- 
«  tanti  di  quel  quartiere  presso  alla  chiesa,  e'  s'erano 
«  aggiunti  una  certa  società  che  notando  ogni  cosa 
«  ne  mandava  notizia  a  quello  scellerato.  Allora  egli 
«  messa  in  arme  la  legione  sua  la  condusse  rapida- 
«  mente  disponendo  in  modo  che,  o  dopo  aver  vinto 
«  uccidendo  Grregorio  o  trionfato  portandolo  via  vivo, 
«  chiunque  potesse  avere  un  cavallo  lo  inforcasse  af- 


<^1)  Villemain,  Eistoire  de  Grégoire  VII.  Paris,  Didier,  1872. 


PAOLO   DI   BERNRIED  173 

«  finché  niuno  s'attentasse  d' insorger  contro  di  loro. 
«  E  si  viene  alla  chiesa.  Il  Papa  in  luogo  glorioso 
«  nel  presepio,  come  insegna  la  religione  cantava  la 
«  prima  messa  di  notte  e  già  egli  e  il  suo  clero  avean 
«  preso  il  corpo  del  Signore.  Partecipavano  gli  altri 
«  alla  comunione  quando  ecco  tuona  improvviso  un 
«  clamor  grande,  un  grande  ululato,  e  riempie  la  chie- 
«  sa.  Ed  eccoli  a  percorrer  d'ogni  parte  la  chiesa, 
«  colle  sguainate  spade  a  percuoter  chi  capitava,  e 
«  affacciatisi  alla  cappella  del  presepio  dove  in  alto 
«  sedeva  il  Papa,  percotendo  alcuni  e  spezzando  i 
«  cancelli^  a  cacciar  truculenti  le  mani  nel  presepio 
«  del  re  eterno  e  della  madre  sua.  Allora  poser  le 
«  mani  sul  Papa  e  lo  tennero.  Un  d' essi  tratta  la 
«  spada  voleva  troncargli  il  capo  ma  per  volontà  di 
«  Dio  non  potè.  Però  percosso  in  fronte  e  gravemente 
«  ferito,  colle  violente  mani  lo  strapparon  via  dalla 
«  chiesa  che  ancora  la  messa  non  era  finita,  tra  le 
«  uccisioni  e  il  percuotere.  Quegli  intanto  come  agnello 
«  innocente  e  mansueto,  levando  gli  occhi  al  cielo  non 
«  die'  loro  alcuna  risposta,  non  si  lagnò,  non  fé'  re- 
-«  sistenza,  non  pregò  che  lo  risparmiassero.  Spogliato 
«  del  pallio  e  della  pianeta,  della  dalmatica  e  della 
«  tunica,  ravvolto'  solo  nel  camice  e  nella  stola,  tra- 
«  scinandolo  come  un  ladro  lo  poser  sul  dorso  a  uno 
«  di  quei  sacrileghi.  Quel  tale  poi  che  colla  spada  gli 
«  aveva  percossa  la  fronte,  preso  dal  demonio  s'av- 
«  voltolò  spumando  un  pezzo  nell'atrio  della  chiesa, 
«  e  il  suo  cavallo  fuggì  via  e  non  fu  più  trovato. 

«  La  fama  di  tanto  male  tosto  colpi  la  città  tutta- 
«  quanta,  e  chi  potrebbe  ridirne  il  pianto  e  i  funerei 


174  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  lamenti?...  Il  clero  tutto,  perché  il  pastore  era  per- 
«  cosso  correva  qua  e  là,  e  spogliando  denudava  tutti 
«  gli  altari.  Tranne  ciò  che  si  era  detto  prima,  nulla 
«  in  niun  luogo  nelle  chiese  fa  detto  del  divino  uf- 
«  ficio.  E  gli  elementi  che  erano  stati  turbati  fino  ad 
«  allora,  per  non  impedire  il  popolo  zelante  nello  zelo 
«  del  Signore  si  mostrarono  pacati,  e  la  terra  assor- 
«  bendo  tutta  l'acqua  che  reggeva  per  la  soverchia 
«  inondazione,  mostrò  di  nuovo  l'asciutto  per  far  che 
«  tutti  accorressero  alla  vendetta.  Tutta  la  notte  adun- 
«  que,  suonandosi  le  campane  e  le  trombe,  i  soldati 
«  percorsero  ogni  andito  affinché  con  qualche  astuzia 
«  non  portassero  fuori  della  città  il  Papa,  ma  di  lui 
«  non  apparve  vestigio.  E  per  vero  nel  dubbio  igno- 
«  rando  tutti  s'egli  era  vivo  o  morto,  radunatosi  il 
«  popolo  in  Campidoglio,  riferirono  alcuni  ch'egli  era 
«  tenuto  prigione  in  certa  torre.  Tutta  la  gente  allora 
«  mandò  grida  alle  stelle.  E  appena  tornò  sulla  terra 
«  il  giorno,  tutti   esortandosi  a  vicenda  s'avviarono 
«  innumerevoli  alla  casa  di  queiranticristo.  S'appiccò 
«  la  zuflfa,   ma  al  primo  scontro  la  parte  nemica  si 
«  die'  in   fuga  e  tutta   la   fazione   si   rinchiuse   nella 
«  torre.  Allora  in  tutta  la  parte  munita  fu  posto  il 
«  fuoco,  e  recate  macchine  e  arieti  spezzasi  il  muro 
«  e  quanto  era  là  chiuso  dìvien  preda  al  popolo  del 
«  Signore.  Nessuno  evitava  il  pericolo  ma  dimentico 
«  di  sé  combatteva  ciascuno  a  tutta  possa. 

«  Peraltro  un  nobile  uomo  e  una  nobil  matrona  ave- 
«  vano  seguito  il  padre  Gregorio  e  gli  erano  stati  di 
«  qualche  sollievo.  L'uomo  trovate  alcune  pelli  scaldò 
«  il  pontefice  affranto  dalla  via  per  cui  era  stato  tra- 


PAOLO    DI    BERNRIED  175 

«  scinato  e  se  ne  pose  i  piedi  sul  petto.  La  matrona 
«  deplorando  molceva  coi  medicamenti  la  piaga  del  no- 
«  stro  padre  molle  pel  rosso  profluvio  del  molto  san- 
«  gue,  e  sclamava  contro  quegli  omicidi  sacrileghi  ne- 
«  mici  di  Dio.  Era  quasi  un'altra  Maria,  clié  come 
«  quella  piangendo  i  delitti  suoi  bagnava  in  lacrime 
«  le  vestigia  del  Signore,  così  questa  con  le  lacrime 
«  sue  bagnava  un  tanto  pastore  ! 

«  ....  Ma  quanto  era  animosa  la  fede  di  costei  tanto 
«  era  linguacciuta  la  perfidia  d'un'altra  donna.  Im- 
«  perocché  come  già  nella  Domenica  di  Passione  l'an- 
«  cella  ostiaria  aveva  atterrito  Pietro,  così  costei  con 
«  suoi  mordaci  obbrobri  ne  conturbava  il  Vicario. 
«  La  quale  era  sorella  di  quel  traditore  e  però  non 
«  temeva  di  maledire  a  tanto  padre.  E  un  altro  mi- 
«  nistro  e  seguace  di  quel  traditore  colla  spada  alla 
«  mano  minacciava  bestemmiando  di  voler  troncare 
«  in  quello  stesso  giorno  il  capo  di  tanto  uomo.  Ma 
«  il  giudizio  velocissimo  di  Dio  non  differì  la  ven- 
«  detta  della  empietà  sua:  un  dardo  vibrato  dal  di 
«  fuori  troncandogli  la  gola  onde  usciva  la  crudel 
«  voce,  lo  prostrò  a  terra  moribondo  e  palpitante,  e 
«  cosi  lo  mandò  all'  inferno. 

«  ....  Finalmente  il  pio  Papa  affacciatosi  alla  fine- 
«  stra  aprendo  le  braccia  verso  la  turba  furente,  fece 
«  cenno  che  si  calmassero  e  alcuni  dei  maggiori  sa- 
«  Ussero  entro  la  torre.  Alcuni  però  credendo  ch'ei  li 
«  esortasse  all'opera  incominciata,  fatto  impeto  schiu- 
«  dono  la  torre.  E  così  fu  condotto  fuori,  piangendo 
«  di  gaudio  tutte  le  turbe  esclamanti  per  la  pietà. 
«  Imperocché  lo  si  vedeva  tutto  cosperso  di  sangue 


176  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  per  la  gran  ferita,  onde  presi  d'orrore  mandavan 
«  le  voci  alle  stelle.  Avuta  cosi  vittoria,  tutti  con 
«  papa  Gregorio  pieni  d' infinito  gaudio  tornarono 
«  alla  chiesa  della  Madre  di  Dio  da  cui  l' avevano 
«  strappato  in  quella  notte.  E  il  comun  padre  compi 
«  allora  la  messa  che  non  aveva  potuto  terminar  nella 
«  notte  impedito  dai  ministri  del  diavolo^  e  ai  ritor- 
«  nati  dalla  gran  vittoria  die'  la  grazia  della  bene- 
«  dizion  del  Signore  (1).  » 

Il  cozzar  delle  parti  ora  più  che  mai  favoriva  il 
risorgere  della  storia  pontificia  cercando  aiuto  nella 
esposizione  dei  fatti.  E  poiché  il  giudizio  dei  fatti 
raro  scompagnasi  dal  giudizio  sugli  uomini  che  li  pro- 
muovono, così  le  vite  dei  papi  erano  di  frequente  nar- 
rate e  poste  in  buona  luce  o  cattiva  secondo  il  sen- 
timento del  narratore.  Entro  le  stesse  mura  di  Roma 
i  partiti  in  contrasto  produssero  alcuni  scritti  che 
furono  pubblicati  col  titolo  di  Annales  Romani  (2),  e 
manifestano  le  due  contrarie  tendenze  nei  pensieri  di 
quel  tempo.  Il  primo  di  questi  scritti  inteso  a  con- 
tinuar propriamente  l'antico  Libro  Pontificale  con- 
tiene le  vite  dei  vari  papi  che  si  seguirono  a  breve 
distanza  tra  l'anno  1044  e  il  1049.  E  uno  scritto  ano- 
nimo condotto  con  diligenza  e  ricco  di  dettagli  in- 
torno alle  cose  cittadine  e  alle  famiglie  nobili  di  Roma. 


(1)  Ap.  Watteeich,  Vitae  Pontificum,  I,  p.  501  e  seg.  Paolo 
di  Bernried  ci  lia  anche  lasciata  una  i-elazione  della  vita  e  mi- 
racoli della  beata  Herluca,  una  santa  visionaria  morta  nel  1142, 
alla  quale  egli  era  legato  di  stretta  amicizia. 

(2)  Nei  Monumenta  Germaniae  Historica,  SS.  voi.  V,  e  ri- 
pubblicati dal  Watterich,  op.  cit. 


«    ANNALES   ROMANI   »  177 

Ad  esso  tengono  dietro  due  narrazioni  che  compren- 
dono la  serie  dei  papi  da  Leone  IX  fino  ad  Alessan- 
dro II  (A.  D.  1049-1072),  scritte  da  partigiani  dello 
Impero  e  con  animo  avverso  ai  papi.  Per  contrario 
è  favorevole  ad  essi  un  altro  scritto  che  ci  narra  con 
semplicità  evidente  la  violenza  patita  in  Vaticano  da 
Pasquale  II  quando  Eurico  lo  trascinò  via  da  Roma 
come  prigioniero.  Presente  ai  fatti  che  narra,  «  que- 
«  ste  cose  »  aflferma  l'autore  «  come  le  abbiamo  pa- 
«  tite,  e  le  vedemmo  cogli  occhi  nostri  e  udimmo 
«  colle  nostre  orecchie,  così  iu  pura  verità  abbiamo 
«  scritte  (1).  »  E  procede  descrivendo  anche  le  vite 
degli  antipapi  che  si  opposero  a  Pasquale  II  e  a  Ge- 
lasio II.  L'ultima  continuazione  finalmente  viene  a 
tempi  più  recenti  ed  abbraccia  i  pontificati  che  si 
seguirono  a  breve  intervallo  tra  Lucio  III  e  Cle- 
mente III  (A.  D.  1181-1188),  e  le  controversie  di  quei 
papi  con  Federico  Barbarossa.  Scritture  tutte  quante 
appassionate  eccedono  nel  biasimo  o  nella  lode  e  par- 
teggiano secondo  le  passioni  dei  loro  autori,  ma  per 
essere  state  composte  nei  tempi  e  sui  luoghi  degli  av- 
venimenti, rimangono  pur  sempre  sorgenti  ricchissime 
di  informazioni.  Né  hanno  pregio  storico  solamente; 
dal  lato  letterario  il  rozzo  e  popolare  latino  in  cui  son 
dettate,  acquista  loro  importanza  per  le  forme  lin- 
guistiche italiane  le  quali  fanno  già  presentire  il  gran 
mutamento  che  veniva  operandosi  nel  linguaggio  in 
quella  età  feconda  di  trasformazioni  all'Italia. 


(1)  «  Haec  sieuti  passi  sumus,  et  oculis  uostris  vidimus  et 
«  auribus  nostris  audivimns,  mera  ventate  perscripsimus.  » 

12.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


]  78  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

A  questa  raccolta  di  vite  pontificie  che  può  con- 
siderarsi in  certo  modo  come  una  continuazione  po- 
polare dell'  antico  Liber  Pontificalis ,  figura  accanto 
un'altra  continuazione  di  carattere  piìi  ufficiale,  scritta 
quasi  sotto  gli  occhi  dei  papi  da  due  dignitari  della 
Curia  :  Pietro  Pisano,  e  Pandolfo.  Il  primo  di  questi 
scrittori,  Pietro,  di  origine  indubbiamente  pisana,  già 
fin  dai  tempi  di  Urbano  II  e  in  età  giovanile  si  tro- 
vava nella  Curia  verso  il  1094  come  notaio  del  sacro 
palazzo.  Continuò  in  quell'ufficio,  finché  tra  il  1 1 04 
e  il  1116,  nel  pontificato  di  Pasquale  II,  fu  nominato 
cardinale  diacono.  Nel  1108  quando  il  pontefice  Pa- 
squale dovetts  recarsi  in  Puglia  sembra  che  Pietro 
fosse  scelto  a  rimanere  con  Tolomeo  di  Tusculo  e 
Gualfredo  principe  delle  milizie,  a  tutelare  i  diritti 
della  Chiesa  nel  territorio  della  Marittima  inferiore 
intorno  a  Terracina.  Se  cosi  fu,  la  scelta  apparve  op- 
portuna, perché  mentre  la  nobiltà  avversa  al  ponte- 
fice teneva  agitata  contr'esso  Roma  e  la  campagna  vi- 
cina, e  lo  stesso  Tolomeo  di  Tusculo  s'accostava  ai 
ribelli,  sola  quella  provincia  rimase  in  gran  parte 
quieta  e  fedele.  Nell'anno  seguente  tornando  a  Roma 
il  pontefice,  sembra  che  Pietro  tornasse  seco,  ma  per 
qualche  anno  non  possiamo  tener  dietro  alle  sue  trac- 
cia con  sicurezza  (1).  Quando  i  Pisani  crociati  fecero 


(1)  Per  molti  dettagli  intorno  alla  vita  di  Pietro  Pisano 
stimo  prudente  parlare  con  riserva  e  tenermi  alla  forma  du- 
bitativa. Il  Watterich  che  ha  consacrato  a  questo  autore  al- 
cune pagine  pregevolissime,  mi  par  che  affermi  con  troppa 
certezza  alcuni  fatti  i  quali  hanno  solo  il  valore  di  una  ipo- 
tesi sagace  e  probabile.  Anche  talora  alcune  delle  sue  ipotesi 


PIETRO    PISANO  179 

sulle  lor  navi  una  vittoriosa  spedizione  alle  isole  Ba- 
leari  contro  i  Saraceni  (A.  D.  1114-1 115i,  egli  per 
quanto  pare  si  trovò  colà  coi  suoi  concittadini  e  ci 
lasciò  un  racconto  delle  loro  gesta  di  cui  si  farà  cenno 
a  suo  luogo.  Nel  1116  era  certamente  cardinale  e  di 
nuovo  a  Roma  dove  per  incarico  di  Pasquale  II  si 
affaticò  a  sedare  un  tumulto,  e  non  riuscendo  intese 
almeno  a  tutelare  la  vita  del  vecchio  pontefice  messa 
a  gran  pericolo  dai  minacciosi  ribelli  romani.  Rima- 
sto a  Roma  quando  il  Papa  fu  costretto  a  partirne, 
Pietro  fu  tra  i  cardinali  che  si  negarono  a  consa- 
crare Enrico  V  tornato  per  cingere  la  corona  impe- 
riale. Raggiunse  dopo  in  Anagni  il  papa  infermo, 
partecipò  alla  elezione  di  Gelasio  II  e  ne  segui  le 
sorti  travagliose  e  l'esilio,  fedele  a  lui  e  ai  due  pon- 
tefici che  gli  successero  Calisto  e  Onorio  secondi. 
Morto  quest'ultimo  fu  scisma  nella  Chiesa:  Pietro  Pi- 
sano parteggiò  per  Anacleto  contro  Innocenzo  II,  e 
colla  dottrina  e  l'eloquenza  sua  fu  per  otto  anni  l'anima 
dello  scisma.  Da  ultimo  San  Bernardo  in  una  lunga  e 

mi  sembrano  più  ingegnose  che  vere.  Cosi  per  esempio,  non 
vedendo  il  nome  di  Pietro  tra  coloro  che  Enrico  V  fece  pri- 
gionieri insieme  col  Papa  nel  1111,  il  Watterich  pensa  che 
forse  egli  scampasse  travestito  come  i  cardinali  Giovanni  di 
Tusculo  e  Leone  Marsicano,  lo  storico  di  Montecassino,  e  che 
unito  ad  essi  eccitasse  il  popolo  romano  ad  irrompere  in  armi 
contro  i  Tedeschi.  Or  questo  a  me  non  sembra  molto  ammis- 
sibile neppur  come  ipotesi.  Un  fatto  simile  non  sarebbe  pas- 
sato inosservato,  e  piuttosto  mi  par  da  credere  o  ch'egli  si 
trovasse  fuori  di  Pioma  a  quel  tempo,  o  ch'egli  non  fosse  an- 
cora cardinale  e  la  sua  persona  non  ancora  richiamasse  sopra 
di  sé  quella  attenzione  che  richiamò  più  tardi. 


180  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

calorosa  disputa  tenuta  in  presenza  del  re  Ruggiero 
a  Salerno,  seppe  indurlo  ad  abbandonar  l'antipapa 
(A.  D.  1137).  E  singolare  che  una  conversione  cosi 
utile  alla  sua  causa  non  bastasse  ad  Innocenzo  II  il 
quale  tentò  di  togliere  a  Pietro  la  sua  dignità  car- 
dinalizia. E  glie  l'avrebbe  tolta  se  San  Bernardo  non 
si  fosse  opposto  fieramente  all'  ingiustizia  del  Papa 
con  una  lettera  che  dipinge  al  vivo  i  tempi  e  l'ar- 
dente natura  di  quell'apostolo.  «  A  voi  »  egli  sci'isse 
al  pontefice  «  io  me  ne  appello  a  voi;  voi  giudicate 
«  tra  me  e  voi  !  Io  ve  lo  chieggo  :  in  che  il  figliuol 
«  vostro  meritò  cosi  male  della  vostra  paternità  che 
«  vogliate  bruciarlo  e  segnare  col  marchio  e  il  nome 
«  di  traditore?  Forseché  la  degnazione  vostra  non 
«  mi  costituì  vicario  vostro  nella  riconciliazione  di 
«  Pietro  Pisano,  se  mai  Iddio  si  fosse  degnato  per 
«  me  di  richiamarlo  dal  fango  dello  scisma  ?  Se  mei 
«  negate,  io  ve  lo  proverò  con  quanti  testimoni  si 
«  trovavano  allora  in  Curia.  Forseché  dopo  ciò  e 
«  secondo  la  parola  del  mio  signore,  (Innocenzo  II) 
«  colui  non  fu  ricevuto  nel  suo  ordine  e  nel  suo  onore? 
«  Chi  mai  dunque  in  suo  consiglio  o  piuttosto  in  sua 
«  frode  insinuò  alla  costanza  vostra  di  revocare  il 
«  concesso  e  annullare  quello  che  usci  dalle  labbra 
«  vostre  ?  E  io  parlo  cosi  non  perch'  io  voglia  ri- 
«  prendere  il  rigore  apostolico  e  lo  zelo  acceso  del 
«  fuoco  di  Dio  contro  gli  scismatici....  ma....  non  con- 
«  viene  in  una  sola  sentenza  involger  colui  che  ab- 
«  bandonò  il  peccato  e  coloro  che  piuttosto  furono 
«  abbandonati  dal  peccato.  Per  Colui,  che  afiine  di 
«  perdonare  ai  peccatori  non  perdonò  a  sé  stesso,  to- 


PIETRO   PISANO  181 

«  glietemi  questo  obbrobrio,  e  restituendo  ciò  che 
«  prima  avevate  fermato,  provvedete  anche  alla  sana 
«  ed  integra  riputazione  vostra  (1).  »  Né  questa  let- 
tera fu  vana.  Pietro  Pisano  rimase  cardinale  e  in 
quella  dignità  intervenne  al  Concilio  Lateranense 
del  1139  e  continuò  in  essa  fino  all'estremo  di  sua 
vita  che  si  chiuse  in  età  avanzata  l'anno  1144. 

Le  storie  dei  papi  che  ressero  la  Chiesa  da  Leone  IX 
fino  a  Calisto  TI  (1049-1124),  possono  in  certo  modo 
considerarsi  come  altrettanti  atti  di  un  dramma  che 
ha  il  suo  punto  culminante  nel  pontificato  di  Gre- 
gorio VII.  Tutti  quei  pontificati  hanno  una  sola  ten- 
denza e  lottano  per  un  principio  comune  che  il  mo- 


(1)  «  Vos,  appello  ad  vos,  voi  iudicate  inter  me  et  vos  !  In 
«  quo  quaeso  puer  vester  tam  male  meruit  de  vestra  paternitate 
«  ut  eum  inurere  et  insignire  placeret  nota  et  nomine  prodi- 
«  toris  ?  Numquid  non  me  vestrum  vicarium  dignatio  vestra 
«  constituit  in  reconcilìatione  Petri  Pisani,  si  forte  illura 
«  Deus  per  me  revocare  a  faece  schismatis  dignaretur  ?  Si 
«  negatis,  probabo  tot  testibus  quot  in  curia  tunc  temporis 
«  fuerunt.  Ntimqicicl  non  deniqtie  lìost  hacc  iuxta  verbum 
«  domini  mei,  liomo  in  suo  ordine  et  lionore  receptus  est? 
«  Quisnam  ergo  constantiae  vestrae  subripuit ,  indulta  re- 
«  patere,  et  quae  processere  de  labiis  vestris  facere  irrita? 
«  Et  hoc  ego  dixerim  non  ut  Apostolicum  reprehendam  rigo- 
«  rem  et  zelum  igne  Dei  suceensum  con  tra  schismaticos....  sed 
«  ubi  non  est  par  culpa,  par  piane  non  debet  procedere  poena, 
«  nec  convenit  eadem  involvi  sententia  eum  qui  peccatum, 
«  eum  bis  quos  magis  peccatum  deseruit.  Propter  eum  qui  ut 
«  peccatoribus  parceret  sibi  ipsi  non  pepercit,  auferte  oppro- 
«  brium  meum  et  restituendo  quod  statuisti»  vestrae  etiam  tam 
«  sanae  et  integrae  opinioni  consulite.  »  S.  Bernardi,  ep.  213 
citata  dal  Watterich. 


182  LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

iiaco  Ildebrando  promosse  prima  d'esser  pontefice  e 
lasciò  morendo  in  eredità  ai  suoi  successori.  Di  che 
si  spiega  naturalmente  come  il  Libro  Pontificale  ri- 
pigli un  racconto  più  largo  delle  vite  dei  papi  a  co- 
minciare da  Leone  IX  poiché  da  lui  s' inizia  un  pe- 
riodo nuovo  nella  storia  della  Chiesa.  Dalle  parole 
che  si  sono  citate,  secondo  le  quali  Gregorio  VII 
esortava  Bruno  da  Segni  a  parlar  di  Leone,  già  tra- 
spare questo  concetto  e  ad  esso  si  attenne  Pietro  da 
Pisa.  Egli  infatti  ci  ha  lasciato  quasi  senza  interru- 
zione le  vite  dei  papi  di  quel  periodo,  due  delle  quali, 
quelle  di  Gregorio  VII  e  d'Urbano  II,  sono  importanti 
per  molti  e  precisi  dettagli,  ma  superiore  a  tutte  e  det- 
tata con  una  grande  e  profonda  conoscenza  dei  fatti, 
la  vita  di  Pasquale  II. 

Ciò  che  si  è  detto  delle  vicende  personali  di  Pietro 
durante  quel  pontificato,  basta  a  mostrare  come  egli 
fosse  in  grado  di  vedere  addentro  le  cose  e  quale 
il  valore  della  testimonianza  sua.  Uomo  ricco  d' in- 
gegno e  d'eloquenza,  «  cui  »  secondo  Giovanni  di  Sa- 
lisbury  «  nullus  aut  vìx  similis  erat  alter  in  curia  » 
pratico  di  rilevantissimi  documenti  ufficiali  ai  quali 
egli  appoggiò  la  sua  narrazione  citandoli  e  talora  ri- 
producendoli  interi,  Pietro  ritrasse  la  storia  di  quel 
lungo  e  momentoso  pontificato  con  molta  vivezza, 
stile  assai  puro  e  serenità  d'animo  rara  ai  suoi  tempi. 
Per  quest'ultimo  rispetto  egli  è  paragonabile  al  suo 
illustre  contemporaneo  e  compagno  di  porpora  Leone 
Marsicano,  ma  gli  è  inferiore  nel  resto  che  Leone  è 
storico  veramente  e  stende  vasta  la  tela  del  suo  rac- 
conto, mentre  Pietro  è  biografo  e  di  necessità  la  re- 


PANDOLFO  183 

stringe.  In  un  lavoro  che  sarà  menzionato  più  oltre 
lasciò  più  libere  le  forze  al  volo  della  immaginazione, 
ma  in  questo  si  studiò  di  tenerle  frenate.  Fu  assai 
buon  giudizio,  perché  narrava  eventi  nei  quali  era 
gran  parte  dell'anima  sua  e  sarebbe  stato  facile  ab- 
bandonarsi e  dimenticare  che  nei  lavori  letterari  la 
sobria  e  la  giusta  estimazione  del  soggetto  sono  il 
primo  pregio  a  cui  deve  mirare  chi  scrive. 

La  parte  attivissima  eh'  egli  dovette  prendere  di 
persona  agli  avvenimenti  del  suo  tempo,  obbligò  Pie- 
tro da  Pisa  ad  interrompere  la  compilazione  del  Li- 
bro Pontificale.  La  proseguì  Pandolfo,  nato  di  fami- 
glia romana  nobilissima  e  addetto  con  varie  cariche 
alla  Curia  fin  dai  tempi  di  Pasquale  II.  Durante  lo 
scisma  egli  come  Pietro  Pisano  parteggiò  per  l'anti- 
papa Anacleto  che  lo  creò  cardinale,  ma  spento  lo 
scisma  non  pare  che  il  suo  grado  fosse  riconosciuto 
e  non  rimane  altra  memoria  di  lui.  Scrisse  le  vite 
di  Gelasio  II,  CaUsto  II  ed  Onorio  II  ;  piuttosto  brevi 
le  due  ultime,  più  diffusa  la  prima  che  tra  le  sue  è 
la  più  importante  e  la  meglio  scritta.  Diverso  dal  suo 
predecessore,  Pandolfo  non  appoggia  mai  particolar- 
mente il  suo  racconto  a  nessun  documento  ma  trae 
dalla  memoria  gli  elementi  del  suo  lavoro.  Narra- 
tore di  cose  quasi  sempre  vedute  e  patite  in  tempi 
d'angoscia  ei  le  dipinge  con  evidenza,  e  imprimendo 
in  esse  un  cotal  suo  sentimento  pieno  d'efficacia  dram- 
matica, risuscita  le  immagini  di  quel  passato  come 
egli  le  vide  agitarglisi  intorno.  E  gran  colorista  e  le 
scene  descritte  da  lui  per  istinto  d'aifetto  e  di  fan- 
tasia durano  nella  mente  di  chi  le  legge  e  non  si  can- 


184       LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

celiano.  Veggasi  come  egli  descrive  l'affannosa  fuga  a 
Gaeta  colla  quale  il  vecchio  e  travagliato  papa  Ge- 
lasio scampò  all'improvviso  assalto  d'Enrico  quinto 
(A.  D.  1118): 

«  ....  Mentre  accadean  queste  cose,  un  tale  clie 
«  avea  molti  amici,  mandò  nel  silenzio  della  notte 
«  tarda  un  uomo  al  predetto  egregio  cardinale  Ugo, 
«  per  avvertirlo  che  Enrico  chiamato  Imperatore  Ro- 
«  mano,  veniva  armato  contro  il  Papa  entro  il  por- 
«  tico  di  San  Pietro.  Non  serve  eh'  io  mi  dilunghi  : 
«  il  Papa  è  prevenuto  dal  cardinale ^  e  poiché  ac- 
«  ciaccato  dagli  anni  e  dalla  infermità  non  poteva 
«  cosi  di  repente  fuggire,  vien  condotto  a  mano  dai 
«  servi,  e  messo  su  a  cavallo  fugge  e  nascondesi  per 
«  quella  notte  nella  casa  di  Bulgamino.  Fuggiam  tutti 
«  con  lui.  Venuto  il  mattino,  turbati  noi  tutti  e  sba- 
«  lorditi,  poiché  ne  potevam  rimaner  sicuri  in  città 
«  né  potevam  fuggire  per  terra  sendo  da  ogni  lato 
«  piena  d'inciampi  la  via,  facciam  consiglio  di  darci 
«  alla  fuga  per  mare ,  e  così  fu  fatto.  Entriam  nel 
«  Tevere  e  con  due  galee  scendiam  fino  a  Porto^  ma 
«  quivi  cielo  e  terra  e  mare  e  quanto  è  in  essi  tutto 
«  ci  congiura  contro.  Perché  il  cielo  era  carico  di 
«  pioggia  greve  e  grandine  e  tuoni  e  lampi  e  fol- 
«  gori,  e  il  mare  e  il  Tevere  insieme  contrastavano 
«  con  tali  tempeste  alla  nave  che  nonché  metterci 
«  in  mare  a  stento  potevamo  rimaner  vivi  nel  porto. 
«  Inoltre  già  dalla  ripa  la  crudel  barbarie  degli  Ale- 
«  manui  ci  lanciava  contro  dardi  avvelenati,  e  ci  mi- 
«  nacciavano  anche  di  venir  nuotando  con  fuoco  di 
«  pece  ad  abbruciarci  in  mezzo  all'acqua  se  non  da- 


BOSONE  185 

«  vamo  nelle  mani  loro  e  il  Papa  e  noi.  E  credo  che 
«  saremmo  stati  presi  se  coloro  non  fossero  stati  im- 
«  pediti  dalla  notte  e  dall'  ira  del  fiume.  Che  potevano 
«  opporre  a  tanto  que'  miseri  ?  Si  presero,  anzi  Ugo 
«  cardinal  prete  fu  lui  che  si  pigliò  in  collo  il  no- 
«  stro  Papa  e  così  di  notte  lo  portò  al  castello  di 
«  San  Paolo  in  Ardea. 

■  «  Il  di  appresso  all'  aurora  i  Tedeschi  tornarono 
«  volendo  impadronirsi  di  noi.  Ma  giurammo  loro  che 
«  il  Papa  era  fuggito,  e,  sia  lodato  Iddio,  s'allonta- 
«  narono  da  noi.  Frattanto  ritentammo  se  potevamo 
«  ancora  metterci  in  mare;  di  notte  riportammo  il 
«  Papa.  Allora  non  senza  pericolo  arrivammo  ai  flutti 
«  marini  e  il  terzo  giorno  toccammo  alla  ripa  di  Ter- 
«  racina  e  il  quarto  entrammo  nel  porto  di  Gaeta,  e 
«  dagli  uomini  di  quella  terra  fummo  ricevuti  a  grande 
«  onore  e  benignamente  trattati.  » 

Al  romano  Pandolfo  succede  come  biografo  pon- 
tificio r  inglese  Bosone  cardinale  del  titolo  di  Santa 
Pudenziaua.  Ascritto,  per  quanto  pare,  alla  Curia 
verso  il  1147,  quando  Eugenio  III  era  in  Francia, 
Bosone  continuò  nel  suo  ufficio  di  scrittore  aposto- 
lico fino  al  pontificato  di  Adriano  IV,  il  solo  inglese 
che  abbia  mai  saliti  i  gradi  del  trono  pontificio.  Al- 
lora Bosone,  com'egli  stesso  ci  narra,  nominato  ca- 
merario fin  dal  principio  di  quel  pontefice,  e  ordi- 
nato cardinale  diacono  nella  chiesa  dei  Santi  Cosma 
e  Damiano,  restò  con  lui  assiduo  e  familiare  finché 
egli  mori.  Sollevato  cosi  alla  dignità  cardinalizia  ma- 
neggiò con  molta  cura  le  finanze  pontificie,  costrinse 
colle  armi  alla  soggezione  alcuni  vassalli  ribellantìsi 


186  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

alla  Chiesa,  andò  legato  in  Inghilterra. Morto  Adriano, 
propugnò  strenuamente  la  elezione  di  Alessandro  III, 
osteggiata  da  Federico  Barbarossa,  e  finché  il  Papa 
fu  eletto  tutelò  in  San  Pietro  il  conclave  dalle  mi- 
naccie  armate  che  lo  circondavano.  Da  Alessandro  III 
ebbe  il  titolo  di  cardinale  prete  di  Santa  Pudenziana 
e  partecipò  con  lui  alla  famosa  lotta  che  si  raccese 
tra  r  Impero  e  il  Papato,  e  che  per  la  lega  dei  co- 
muni lombardi  trasformatasi  in  lotta  nazionale  fiaccò 
l'Impero  alla  battaglia  di  Legnano.  Fissata  la  pace 
di  Anagni,  Bosone  si  trovò  presente  in  Venezia  al- 
l'incontro del  Papa  coli'  Imperatore  e  seguì  il  Papa 
nel  suo  ritorno  a  Roma  (12  marzo  1178).  Di  11  a 
poco  cessa  ogni  menzione  di  lui  nei  registri  pontifici 
ed  è  probabile  ch'egli  verso  quel  tempo  chiudesse  la 
vita  sua. 

Il  lavoro  di  Bosone  abbraccia,  con  qualche  inter- 
ruzione, la  storia  dei  pontefici  da  Stefano  VI  fino  ad 
Adriano  IV  ed  Alessandro  III,  ma  non  ha  valore  di 
scrittura  originale  che  per  questi  due  ultimi  ponti- 
ficati (1).  Per  tutti  gli  altri,  egli  quasi  a  parola  copia 
gli  antichi  cataloghi  e  gli  autori  delle  vite  che  lo  pre- 
cedettero e  per  l'undecimo  secolo  massimamente  Pie- 
tro Pisano,  Pandolfo  e  il  Liher  ad  Amìcum  di  Bo- 


(1)  Il  lavoro  di  Bosone,  ripubblicato  di  recente  dal  Watte- 
ricli  nelle  Vitae  Pontifieum^  ci  fu  conservato  da  Cencio  Ca- 
merario (più  tardi  papa  col  nome  di  Onorio  III)  il  quale 
nel  1 192  lo  inseri  nel  suo  Liber  censtinm  Bomanae  Jicdesiae, 
compilazione  indigesta  ma  di  gran  valore  storico,  ricavata 
dagli  archivi  per  servire  come  registro  di  tutti  i  redditi  della 
Chiesa. 


BOSONE  187 

nizone  di  cui  sto  per  discorrere.  Ma  se  la  prima  parte 
dell'opera  di  Bosone  non  reca  nulla  di  nuovo,  assai 
ci  compensa  la  seconda  parte  e  più  lunga.  La  fami- 
liarità sua  coi  due  pontefici  di  cui  scrive,  il  grado 
eminente  che  occupò  nella  Chiesa,  i  vari  e  difficili 
uffici  suoi  pei  quali  si  trovò  a  conoscere  personal- 
mente i  principali  personaggi  d' Europa,  danno  au- 
torità grandissima  alle  biografie  di  Bosone.  Meno  in- 
gegnoso di  Pietro  da  Pisa,  men  colorito  di  Pandolfo, 
è  più  diffuso  più  dettagliato  più  preciso  di  loro,  e 
narra  minutamente  tutti  gli  avvenimenti  che  ebbero 
luogo  a  quel  tempo  nella  Curia  e  le  relazioni  di  essi 
cogli  avvenimenti  generali  dell'età  sua.  I  piùmi  di- 
saccordi tra  Adriano  e  Federico  Barbarossa,  la  morte 
di  Arnaldo  da  Brescia,  le  relazioni  del  Papa  col  mez- 
zogiorno d'Italia,  la  lotta  d'Alessandro  III  e  dei  col- 
legati lombardi  contro  l' Impero,  e  finalmente  1'  ab- 
boccamento del  Papa  e  dell'  Imperatore  a  Venezia, 
sono  i  punti  più  salienti  del  vasto  quadro  che  Bosone 
ha  dipinto.  Il  suo  racconto  che  vien  come  a  conclu- 
dere le  antiche  redazioni  del  Libro  Pontificale,  ci  fa 
sentir  che  la  storia  si  muove  in  un  ambiente  nuovo. 
In  legger  quelle  due  vite  si  sente  il  rapido  trasfor- 
marsi dei  tempi  e  ci  si  dischiude  innanzi  allo  sguardo 
il  mare  delle  nuove  vicende  in  cui  siam  per  enti'are 
coi  cronisti  municipali.  E  appunto  le  relazioni  del 
Papato  non  solo  con  l' Impero  ma  anche  coi  muni- 
cipi italiani  trovano  in  Bosone  un  illustratore  molto 
pregevole,  sia  ch'egli  si  appoggi  a  documenti  tratti 
dalla  cancelleria  pontificia,  sia  ch'egli  scriva  di  me- 
moria le  cose  vedute.  Pregevolissimo  poi  egli  mi  sem- 


188  LE   CRONACHE    ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

bra  per  la  storia  di  Roma,  e  degno  di  essere  pon- 
derato più  che  non  siasi  fatto  finora  per  contrapporlo 
agli  esagerati  scrittori  di  parte  imperiale  troppo  se- 
guiti da  qualche  storico  moderno.  E  dico  contrapporlo, 
perchè  vuol  essere  anch'egli  sottoposto  alla  critica, 
e  gli  scrittori  di  parte  contraria  giovano  alla  lor  volta 
a  ritrovare  nelle  sue  narrazioni  quella  giusta  verità 
da  cui  quasi  sempre,  pur  con  animo  inconscio,  si  di- 
stacca ogni  storico  che  tratta  cose  nelle  quali  ebbe 
parte.  Ne  certo  sarebbe  potuto  accader  diverso  a 
Bosone.  Anche  tralasciando  l'affetto  personale  che  lo 
avvicinava  ai  due  pontefici  di  cui  descrisse  la  vita, 
troppo  sarebbe  stato  difficile  ad  ogni  uomo  evitare 
qualche  tendenza  partigiana  in  quel  poetico  periodo  di 
lotte  nelle  quali  per  un  momento  la  causa  nazionale 
d' Italia  s' intrecciò  a  quella  della  Chiesa,  e  il  lom- 
bardo rintuzzar  delle  spade  straniere  ebbe  per  un 
momento  il  bagliore  di  una  guerra  sacra. 

Ma  la  prosecuzione  del  Libro  Pontificale  mi  ha 
tratto  lontano  fuor  dell'undecimo  secolo  ed  è  mestieri 
rifare  indietro  la  via.  Il  contrasto  delle  Investiture, 
lungo  ostinato  violento,  die'  luogo  a  molti  scritti  po- 
lemici i  quali  anch'  essi^  qual  piìi  qual  meno  hanno 
valore  storico  e  taluni  anzi  sono  addirittura  scritti 
di  storia.  Già  si  è  menzionata  la  Ortliodoxa  Defensio 
ImperiaUs^  opuscolo  composto  senza  dubbio  a  Farfa 
nei  tempi  di  Pasquale  II,  e,  parmi  a  torto,  attribuito 
generalmente  a  Gregorio  di  Catino.  Scrittura  sobria 
dotta  misurata,  la  migliore  forse  che  sia  stata  scritta 
in  quel  tempo  a  favor  dell'Impero  per  dimostrarne 
canonicamente  i  diritti,  sembra  percorrere  il  futuro 


SCRITTI   POLEMICI  189 

trattato  dantesco  De  Monarchia,  ed  è  meritevole  di 
speciale  attenzione.  Appoggiata  all'autorità  della  legge 
romana  è  un'altra  difesa  dei  diritti  imperiali  scritta 
da  Pietro  Crasso  e  son  pure  notevoli  alcuni  scritti 
in  favore  dell'antipapa  Guiberto,  e  specialmente  quello 
di  Guido  vescovo  di  Ferrara  il  quale  dopo  aver  se- 
guita la  causa  di  Gregorio  VII  e  avere  scritto  per 
essa,  mutò  parte  al  morir  di  Gregorio  e  rovesciò  le 
proprie  argomentazioni  in  un  altro  lavoro  ricco  di 
notizie  storiche.  Di  carattere  polemico  e  di  parte  im- 
periale è  pure  r  apologia  di  Enrico  IV,  scritta  da 
Benzene  vescovo  d'Alba,  in  una  prosa  rimata  ab- 
bietta per  l'adulazione  sua  verso  l'Imperatore  e  per 
le  turpi  ingiurie  che  scaglia  contro  i  Gregoriani,  e, 
peggior  dell'  altro,  il  libello  intitolato  :  Vita  Grego- 
rii  VII  che  Bennone  cardinale  guibertino  compose 
non  solo  contro  Gregorio  ma  anche  contro  i  papi  che 
lo  precedettero  e  contro  Urbano  II.  Scritti  calun- 
niatori entrambi,  hanno  valore  non  pei  fatti  che  nar- 
rano ma  come  espressione  dello  stato  degli  animi  e 
della  violenza  colla  quale  i  due  partiti  avversi  si  com- 
battevano. Che  se  questa  violenza,  come  osserva  il 
Wattenbach,  era  in  Italia  piiì  aspra  e  meno  scrupo- 
losa nel  partito  imperiale,  e  se  i  Gregoriani  avevano 
contro  questo  il  vantaggio  di  una  maggiore  cultura  e 
di  una  moralità  più  elevata,  certo  è  tuttavia  che  nep- 
pur  questi  si  mostravano  miti  quando  scrivevano.  L'ec- 
citamento della  passione  apparisce  in  tutti  gli  scritti 
di  quella  età,  e  come  già  s'  è  veduto  in  Brunone  da 
Segni  e  negli  scrittori  delle  vite  papali,  così  fra  gli 
altri  traluce  nel  fiero  ritmo  che  deplora  la  prigionia 


190  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

di  Pasquale  II,  nello  scritto  sull'onor  della  Chiesa 
composto  da  Placido  priore  della  Badia  di  Nonantola 
e  in  queir  altro  sul  diritto  del  Papa  a  scomunicar 
l'Imperatore,  scoperto  di  recente  e  attribuito  a  Lam- 
berto d'  Ostia  che  fu  più  tardi  papa  col  nome  di  Ono- 
rio II  (1).  Ma  non  è  il  caso  d' indicar  qui  tutti  mi- 
nutamente gli  scritti  polemici  comparsi  intorno  a  quel 
tempo,  e  poiché  s' è  altrove  accennato  sufficientemente 
a  Brunone  da  Segni  convien  limitare  il  discorso  a  due 
altri  scrittori  soltanto  :  Pietro  Damiani  e  Bonizone 
da  Sutri. 

Tra  i  polemisti  papali  dell'undecimo  secolo  senza 
dubbio  tiene  il  primo  posto  San  Pier  Damiani  mo- 
naco e  cardinale,  uno  dei  più  singolari  uomini  che 
la  età  sua  producesse,  sempre  in  contrasto  tra  il  mi- 
sticismo dell'anima  che  lo  faceva  anelare  alla  soli- 
tudine e  all'asprezza  delle  penitenze,  e  la  inflessibile 

(1)  \YiDONis,  ep.  Ferrariensis ,  de  scismate  Hiìdebranti ,  in 
Mon.  Germ.  Hist,  voi.  XII.  —  Benzonis,  ep.  AJbensis,  ad-Hein- 
ricum  IV,  libri  VII.  Ibid.,  voi.  XI.  —  Bennonis  Vita  Grego- 
rii  VII,  ap.  GOLDAST,  Apólog.  prò  Heinrico  IV.  —  Placidi  No- 
NANTULANi  Liber  de  honore  Ecclesiae,  ap.  Fez,  Tlies.  Anecd., 
voi.  II.  —  Tractatus  de  investitura  in  Jahrbucher  der  Akad.  ge- 
meiniìts.  Wiss.  su  Erfurt,  Heft  Vili,  1 877.  —  Anche  .sono  notevoli 
Io  scritto  del  cardinale  Umberto,  Cantra  Simoniacos  in  Martene 
et  DURAND,  Thes.  nov.  anecd.^  V;  e  quello  del  cardinale  Deus- 
dedit,  Libellus  cantra  invasores  et  simoniacos  et  reìiquos  sehi- 
Sìnaticos,  ap.  Mai,  Patrmn  Nova  Bibliotheca,  V,  voi.  VII.  Il 
cardinale  Deusdedit  è  anche  autore  di  una  specie  di  rege- 
sto in  cui  oltre  una  collezione  di  canoni  sono  raccolti  diplomi 
imperiali  e  carte  di  grande  antichità  relativi  alla  Chiesa  Eo- 
mana.  Fu  pubblicato  da  monsignor  Martinucci  a  Venezia 
nel  1869. 


SAN   PIER   DAMIANI  191 

volontà  d' Ildebrando  che  imperiosamente  lo  costrin- 
geva di  uscir  dal  chiostro  a  combattere  con  tutte  le 
appassionate  forze  che  aveva  in  core.  Natura  ner- 
vosa sensibilissima  complessa,  impastata  di  lacrime 
e  di  fuoco,  di  tenerezza  e  di  violenza,  Pietro  Damiani 
improntò  di  sé  stesso  tutti  gli  scritti  suoi  che  si  ap- 
poggiano per  lo  piìi  a  fatti  avvenuti  di  recente  e 
traggono  argomento  dallo  stato  della  società  e  soprat- 
tutto del  clero,  alla  cui  i-iforma  egli  mirò  con  infiam- 
mato zelo.  Sostenitore  del  celibato  ecclesiastico,  gli 
opuscoli  suoi  sono  la  principal  guida  che  ci  aiuti  a 
seguire  lo  svolgersi  di  quella  questione  cosi  fieramente 
contrastata  e  che  malgrado  le  resistenze  ebbe  allora 
definitiva  risoluzione  secondo  il  volere  della  Chiesa 
di  Roma.  Né  per  quello  solo  ma  per  quanti  problemi 
si  trattarono  allora,  Pietro  Damiani  mescolato  in  tutti 
operò,  scrisse,  parlò  nei  Concili  nelle  Corti  tra  il  po- 
polo, teologo  ambasciatore  agitatore.  Da  ciò  s' in- 
tende che  sarebbe  impossibile  tracciar  la  storia  della 
Chiesa  e  d' Italia  al  secolo  XI,  senza  tener  conto  delle 
opere  polemiche  e  più  dell'epistolario  di  quest'uomo 
nel  quale  si  confusero  in  così  strano  congiungimento 
l'operosità  appassionata  di  un  partigiano  e  l'asceti- 
smo contemplativo  dei  primi  romiti  d'Oriente  (1). 


(1)  S.  Petri  Damiani,  Opera,  ed.  Const.  Caetani,  1783,  in-4. 
È  una  raccolta  in  quattro  volumi  delle  opere  uscite  dalla  fe- 
conda penna  di  questo  scrittore  che  in  prosa  o  in  verso  trattò 
d'ogni  materia  nella  sua  corrispondenza  e  in  vite  di  santi,  in 
trattati  di  politica  e  di  religione.  Oltre  le  lettere  sono  note- 
voli e  insieme  assai  strani  i  due  scritti  intitolati:  Apologia  e 
Liber  Gomorrhiamis. 


192  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

Singolare  anch'  essa  è  la  vita  di  Bonizone  il  cui 
Liher  ad  Amicum  è  più  che  altro  una  storia  del  Pa- 
pato ai  suoi  tempi  scritta  in  forma  di  trattato  pole- 
mico. Nato,  per  quanto  può  congetturarsi,  nel  secondo 
quarto  del  secolo  XI,  egli  apparisce  nel  1074  come 
suddiacono  a  Piacenza  e  un  dei  più  zelanti  capi  di 
un  partito  popolare  surto  allora  in  Lombardia  e 
chiamato  la  Pataria,  il  quale,  favorito  dal  Papa  e 
favoreggiandolo,  osteggiava  aspramente  le  tendenze 
imperialiste  dell'alto  clero  lombardo  e  il  matrimonio 
dei  preti.  A  capo  del  suo  partito  Bonizone  entrò  pre- 
sto con  Dionigi  vescovo  di  Piacenza  in  una  lotta  che 
terminò  sfavorevolmente  a  quest'ultimo  riprovato  da 
Roma  e  discacciato  dai  Patarini  di  Piacenza  che  non 
vollero  più  saperne  di  lui.  Nel  1078  Gregorio  VII, 
nominò  Bonizone  alla  sede  di  Sutri,  città  che  per 
esser  posta  presso  Roma  sulla  via  che  mette  al  set- 
tentrione d' Italia ,  domandava  un  vescovo  fedele  a 
prova  e  di  robusta  energia  non  pur  nelle  lotte  spi- 
rituali ma  nelle  temporali,  e  pronto  occorrendo  a  di- 
fender la  Chiesa  colle  armi.  In  quello  stesso  anno, 
volgendo  gravi  le  cose  di  Lombardia,  Bonizone  fu 
inviato  colà  dal  Papa  come  Legato  Apostolico.  Quivi 
lo  troviam  poi  di  nuovo  nel  1081  sempre  tra  i  più 
attivi  capi  della  Pataria  e  così  formidabile,  che  Ben- 
zone  d'Alba  nella  Apologia  di  cui  si  è  discorso,  con- 
gratulandosi coli'  Imperatore  che  impadronitosi  di 
Runcio  capo  dei  Patarini  di  Cremona  lo  aveva  fatto 
abbacinare  e  morire ,  soggiunge  :  «  O  Runcio ,  fatto 
«  deforme  dormi  senza  luce  !  Lode  a  Dio  che  mal  potè 
«  fuggir  dalle  tue  mani  chi  osò  assalirti  colle  ingiù- 


BONIZONE  193 

«  rie  della  sua  lingua.  Nelle  quattro  plaghe  del  mondo 
«■  si  udì  in  qual  modo  tu,  o  formidabile  potestà,  ti 
«  vendicasti  di  Runcio  da  Cremona  e  d'alcuni  altri. 
«  Ma  tutto  il  popol  si  lagna  che  di  Bonizello  (1),  d'Ar- 
«  manello  e  di  Morticello,  tre  demoni,  non  avvenne 
«  il  medesimo  (2).  »  Sfuggito  appena  da  quel  peri- 
C(j1o  egli  lasciò  Lombardia  e  corse  a  raggiungere  il 
pontefice  mentre  Enrico  IV  muoveva  verso  Roma  (A. 
D.  1081).  Poi  quando  l'imperatore  volgeva  indietro^ 
egli  s'affrettò  alla  sua  sede  di  Sutri  dove  l'anno  ap- 
presso Enrico,  tornato  da  quelle  parti;  lo  prese  e  lo 
trasse  con  sé  prigioniero.  Ma,  o  fosse  rilasciato  o  gli 
riuscisse  una  fuga,  certo  di  li  a  qualche  tempo  egli 
ricompar  sulla  scena  come  Legato  Apostolico  in  Lom- 
bardia, in  Toscana,  e  presso  la  contessa  Matilde  che 
lo  ebbe  tra  i  suoi  consiglieri,  sempre  attivo  corag- 
gioso indomabile.  Forse  per  dargli  modo  di  guidare 


(1)  Forma  dispregiativa  per  Bonizo.  L'uso  di  alterare  il  nome 
degli  avversari  per  torcerlo  a  significato  spregevole,  frequente 
in  questi  scrittori  polemici,  è  frequentissimo  in  Benzone.  Cosi 
oltre  i  tre  nomi  citati  in  questo  passo,  quello  di  Anselmo  ve- 
scovo di  Lucca,  l'amico  della  contessa  Matilde,  diviene  Asi- 
nehnus,  quel  d'Alessandro  II  Asinandrum,  e  si  potrebbero  mol- 
tiplicar questi  esempi  di  scurrile  violenza,  da  cui  ancbe  gli 
scrittori  di  parte  avversa  non  si  astenevano. 

(2)  «  Runcie  deformis  factus  sine  lumine  dormis  I  Laudetnr 
«  Deus  quia  vix  potuit  manus  tuas  evadere,  qui  iniuriis  lin- 
<  guae  ausus  est  te  invadere.  Auditum  est  in  quattuor  mundi 
-  plagis  qualiter  es  ultus,  formidanda  potestas,  super  Runtio 
<<  Cremoneusi  atque  quibusdam  aliis.  Sed  de  Bonizello,  Arnia- 
«  nello,  Morticiello,  tribus  daemonibus,  quod  non  idem  contigit 
«  improbat  omnis  populus.  » 

13.  Ba.lza>,-i,  Le  Cronache  italiane- 


194  LE    CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

più  facilmente  le  forze  della  Fatarla  in  cui  soffiava 
il  caldo  alito  suo,  egli  fu  trasferito  dalla  sede  di  Su- 
tri  a  quella  di  Piacenza  dove  aveva  fatto  le  sue  prime 
prove,  e  quivi,  non  si  sa  bene  in  quale  anno  ma  certo 
prima  del  1092,  egli  finì  tragicamente  la  vita  mar- 
tire della  sna  causa.  «  Bonizone  di  pia  memoria  »  cosi 
ne  ha  lasciato  ricordo  l' annalista  Bernoldo  di  Co- 
stanza «  vescovo  di  Sutri,  ma  scacciato  di  quivi  per 
«  la  fedeltà  sua  a  San  Pietro,  da  ultimo  dopo  molte 
«  prigionie,  tribolazioni,  esili  fu  eletto  vescovo  dai 
«  cattolici  piacentini,  ma  gli  scismatici  di  quel  luogo 
«  strappatigli  gli  occhi,  dilaniate  quasi  tutte  le  mem- 
«  bra  sue,  lo  coronarono  di  martirio.  »  Così  l'ardore 
posto  da  lui  nel  combattere  eccitò  la  vendetta,  e  il 
rabbioso  desiderio  espresso  da  Benzene  d' Alba  era 
finalmente  sfogato  e  si  mutava  in  trionfo. 

All'  attività  nell'operare  Bonizone  accoppiò  l' atti- 
vità nello  scrivere  e  lasciò  dietro  a  sé  testimoni  di 
sua  erudizione  ecclesiastica  una  collezione  di  canoni, 
un  libro  sui  sacramenti  e  un  estratto  delle  opere  di 
Santo  Agostino.  Ma  lo  scritto  pel  quale  egli  vuole 
essere  annoverato  tra  gli  scrittori  di  polemica  insieme 
e  di  storia,  è  un  libro  intitolato:  Lìbei^  ad  Amicum, 
de  persecutioìie  Ecclesiae  nel  quale  appoggiato  ai  ca- 
noni e  alla  storia  della  Chiesa  risponde  ad  un  amico 
che  gli  proponea  per  quesiti  come  mai  Iddio  lasciasse 
affliggere  da  tante  calamità  la  sua  Chiesa,  e  se  fosse 
lecito  di  impugnare  le  armi  temporali  a  difenderla  (1). 


(1)  «  Queris  a  me,  unicum  a  tribulatione  que  circumdedit 
«  me  presidium:  Quid  est  quod  hac  tempestate  mater  ecclesia 


BONIZONE  195 

E  a  trovar  la  risposta  egli  risale  al  passato  e  la  cerca 
dalle  prime  vicende  della  Chiesa,  condensate  in  breve 
con  molta  ma  confusa  erudizione,  fino  a  quelle  dei 
suoi  tempi  che  narra  distesamente.  E  nelle  prime  per- 
secuzioni tra  il  sangue  dei  martiri  vede  nascer  la 
pianta  del  cristianesimo  e  prendere  radice  tra  i  po- 
poli, seguitar  nel  germoglio  in  mezzo  a  mille  eresie 
da  Costantino  fino  ai  Longobardi,  fiorire  coi  primi 
carolingi  e  di  nuovo  intristirsi  e  risorgere  con  varia 
vicenda  fino  alla  età  sua.  Qui  comincia  la  parte  pre- 
ziosa del  libro  che  lasciando  molto  in  disparte  le 
questioni  proposte  dall'amico,  narra  a  lungo  con  in- 
telletto di  storico  e  per  gli  ultimi  anni  con  voce  di 
testimonio,  i  fatti  avvenuti  nel  corso  di  quasi  mezzo 
secolo  dai  tempi  di  Leone  IX  fino  a  quelli  di  Gre- 
gorio VII.  Scrittore  non  elegante  ma  neppure  arti- 
ficioso, scrive  semplicemente  i  fatti  come  li  sa  senza 
alterarli  mai  di  proposito.  Cercando  in  essi  se  non 
le  cause,  almeno  la  giustificazione  dei  fatti  posteriori. 


«  in  terris  posita  gemens  clamat  ad  Deum  nec  exauditur  ad 
«  votum,  premitur  nec  liberatur,  filìique  obedientie  et  pacis 
«  iacent  prostrati,  filii  autem  Belial  exultant  cum  rege  suo 
«  praesertim  cum  qui  dispensai  omnia,  ipse  sit  qui  iudicat 
«  aequitatem?  Est  et  aliud,  unde  de  veteribus  sanctorum  pa- 
«  trum  exemplis  a  me  petis  auetoritatem  :  si  Hcuit  vel  licet 
«  Christiane  prò  dogmate  armis  decertare  ?  Quibus  tuae  mentis 
«  tluctuationibus,  si  aurem  sani  cordis  adhibueris,  facile  re- 
«  spondebitur,  tum  quia  in  promptu  nobis  est,  tum  quia  hoc 
«  tempore  mihi  scribere  hoc  visum  est  pernecessarium.  Igitur 
«  de  Dei  misericordia  confisi ,  qui  linguas  infantum  disertas 
«  facit,  adoriamur  sermonem.  >>  Bonithonis  Sutriensis,  Liber 
ad  Amicum,  I,  ap.  Watterich,  oj>.  cit. 


196  LE    CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

veniva  inaugurando  uno  studio  quasi  filosofico  della 
storia  mentre  Gregorio  di  Catino  nella  solitaria  sua 
cella  inaugurava  la  storia  erudita.  La  tendenza  di 
Bonizone  è  sempre  di  giustificare  i  fatti  narrati  con 
esempì  canonici  e  scritturali,  perché,  convien  ram- 
mentarlo, la  sua  narrazione  è  intesa  sempre  a  dimo- 
stx'are  che  l'opera  del  Papato  ai  suoi  tempi  era  giusta 
e  consentanea  alle  tradizioni  della  Chiesa.  Che  se  la 
mal  digerita  erudizione  sua  gli  fa  sovente  confondere 
date  e  alterar  fatti  lontani  da  lui ,  man  mano  che 
s'avvicina  all'età  sua  egli  divien  più  preciso  finché 
arrivato  alla  storia  contemporanea,  e  specialmente 
nella  vita  di  Gregorio  settimo,  il  suo  racconto  prende 
una  forma  molto  sicura  e,  per  fermo,  autorevole.  Il 
Watterich  il  quale  ripubblicando  il  lavoro  di  Boni- 
zone ne  ha  scritto  con  gran  diligenza  la  vita,  trova 
a  ragione  che  ciò  è  assai  naturale.  Le  stesse  vicende 
della  sua  vita  lo  avean  condotto  a  conoscere  tutti  i 
principali  uomini  di  quella  età  e  a  trattar  con  loro 
degli  eventi  di  cui  ha  lasciato  memoria.  Gregorio  VII 
e  il  suo  successore  Desiderio  di  Montecassino,  la  im- 
peratrice Agnese,  la  contessa  IMatilde,  Bruno  da  Se- 
gni, l'antipapa  Guiberto  e  tanti  altri,  gli  furono  per- 
sonalmente noti  e  con  molti  d'essi  ebbe  consuetudine 
familiare,  onde  ad  ogni  nuovo  avvenimento  che  narra, 
nasce  nella  mente  il  pensiero  ch'egli  può  averlo  udito 
da  chi  ne  fu  autore  o  lo  vide  compiere.  Perciò  amo 
scegliere  dal  suo  libro  il  racconto  di  uno  tra  i  mag- 
giori episodi  che  son  registrati  nella  storia  del  medio 
evo,  l'episodio  del  convegno  di  Canossa  (A.  D.  1077), 
narrato  com'egli  certamente  dovette  udirlo  dai  prin- 


BONIZONE  197 

cipali  personaggi  che  vi  jDresero  parte.  La  storia  di 
quella  scena  e  delle  cagioni  che  la  produssero  è  nota 
all'universale,  e  par  superfluo  aggiunger  nulla  a  chia- 
rire il  racconto  già  per  sé  così  chiaro  di  Bonizone. 
«  Frattanto  poiché  fu  arrivata  all'orecchio  del  po- 
«  polo  la  notizia  che  il  re  era  messo  al  bando,  tutto 
«  il  nostro  mondo  romano  tremò,  e  ne  fecero  diverso 
«  giudizio  gì'  Italiani  e  gli  Oltramontani,  Imperocché 
«  gì'  Italiani  dopo  la  Pasqua  celebrarono  a  Pavia  un 
«  Concilio  di  male  intenzionati,  in  cui  per  opera  di 
«  GuibertO;  del  pari  i  vescovi  e  gli  abbati  lombardi, 
«  imitando  Fozio  e  Dioscoro  scomunicarono  il  signor 
«  Papa  della  seniore  Roma,  né  mai  s'era  udito  che 
«  r  inimico  dell'uman  genere  armasse  a  un  sol  tempo 
«  tanti  mentecatti  vescovi  contro  la  Santa  Chiesa 
«  Romana.  Mentre  a  persuasione  del  diavolo  si  fa- 
«  cean  tali  cose  in  Italia,  i  piùncipi  oltramontani 
«  convengono  insieme  e  con  salutare  consiglio  chia- 
«  mano  quasi  in  giudizio  le  due  parti  per  potersi 
«  chiarire  se  il  Papa  potesse  o  non  potesse  scomu- 
«  nicare  il  Re,  o  se  l'avesse  o  no  scomunicato  a  ra- 
«  gione.  Imperocché  non  volevano  distruggere  la  legge 
«  loro  la  quale  prescrive  che  se  taluno  non  sia  pro- 
«  sciolto  dalla  scomunica  entro  un  anno  e  un  giorno^ 
«  perda  ogni  onore  delle  sue  dignità.  Adunque  i  pru- 
«  dentissimi  vescovi  e  gli  abbati  e  i  chierici  di  quel 
«  regno,  preso  insieme  consiglio  decretarono  secondo 
«  i  decreti  dei  Santi  Padri  e  gli  esempì  dei  maggiori, 
«  che  il  Re  bene  poteva  essere  scomunicato  dal  Papa, 
«  e  che  come  Fozio  e  Dioscoro  era  scomunicato  a 
«  ragione.  Che  piìi  ?  Non  trovando   nulla  di  meglio 


198      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  in  sul  momento,  affermano  con  giuramento  e  ap- 
«  presso  a  loro  affermarono  i  duchi  Rodolfo,  Guelfo  e 
«  Teodorico  (Goffredo  marito  della  eccellentissima  Ma- 
«  tilde  era  morto  pochi  di  innanzi),  insiem  cogli  altri 
«  maggiori  del  regno,  che  se  il  Re  volesse  acconsentire* 
«  al  consiglio  loro,  essi  entro  il  giro  dell'  anno  con- 
«  durrebbero  oltre  i  monti  il  Papa  che  liberamente 
«  lo  assolverebbe  dalla  scomunica.  E  costrinsero  il 
«  Re  a  giurare  colle  sue  labbra  ch'egli  aspetterebbe 
«  la  presenza  e  il  giudizio  del  Papa.  E  fatto  ciò  tutti 
«  di  nuovo  giurarono  unanimi,  che  se  il  Re  tenesse 
«  il  dato  giuramento,  eglino  farebber  con  lui  una 
«  spedizione  in  Italia  e  assalendo  i  Normanni  libe- 
«  rerebbero  Puglia  e  Calabria  dalla  dominazione  loro. 
«  Che  se  pei  suoi  peccati  egli  venisse  meno  al  giu- 
«  ramento,  mai  più  non  lo  riconoscerebbero  per  si- 
«  gnore  e  sovrano.  Frattanto  mandano  a  Roma  il  ve- 
«  scovo  di  Treviri  affinché  conduca  il  Papa  oltre 
«  i  monti  ad  Augusta.  Ma  come  egli  per  l'astuzia 
«  del  Re  fosse  preso  presso  Piacenza  e  non  fosse  libe- 
«  rato  prima  che  da  Spira  arrivassero  lettere  regie 
«  al  vescovo  piacentino  per  la  liberazione,  io  non 
«  dirò  perché  la  storia  è  lunga. 

«  Il  venerabile  Gregorio  per  amor  della  pace  muo- 
«  veva  intanto  verso  Augusta  tra  somme  difficoltà 
«  di  viaggio  che  l' inverno  allora  era  gravissimo.  Ma 
«  il  Re  sprezzando  il  suo  giuramento  entrò  d' improv- 
«  viso  in  Italia,  e  sono  alcuni  i  quali  dicono  ch'egli 
«  voleva  all'  impensata  impadronirsi  del  Papa ,  ciò 
«  che  par  verosimile.  Imperocché  Gregorio  vescovo 
«  di  Vercelli  e  cancelliere  suo,  a  cui  i  principi  avean 


BONIZONE  199 

«  commesso  di  condurre  il  Papa  oltre  i  monti,  poi- 
«  che  ebbe  passato  il  giogo  d'Apennino,  udi  eh'  En- 
«  rico  nascostamente  era  arrivato  a  Vercelli,  e  an- 
«  nunziatolo  al  Papa  questi  subito  si  ritrasse  a  Canossa 
«  sicuro  castello  della  eccellentissima  Matilde. 

«  Il  re  allora  vedendo  svelate  le  macchinazioni  sue^ 
«  deposta  in  apparenza  ogni  fierezza,  ammantandosi 
«  di  colombina  semplicità  andò  a  Canossa.  E  per  al- 
«  quanti  giorni  durando  tra  la  neve  e  il  ghiaccio  a 
«  pie'  nudi ,  ingannò  i  meno  accorti ,  e  dal  venera- 
«  bile  Gregorio  che  però  non  ignorava  l'astuzia  sua, 
«  ottenne  la  richiesta  assoluzione  e  fu  mediatore  tra 
«  loro  il  sacramento  eucaristico  nella  celebrazion  della 
«  messa  per  questo  modo.  In  presenza  di  vescovi,  ab- 
«  bati^  religiosi,  chierici  e  laici  lo  fé'  partecipe  della 
«  mensa  divina  a  questo  patto,  che  s'egli  s'umiliasse 
«  della  mente  come  del  coiyo,  e  se  credesse  lui  esser 
«  Pontefice  di  diritto  e  sé  scomunicato  a  imitazione  di 
«  Fozio  e  di  Dioscoro,  e  se  credesse  di  potere  essere 
«  assoluto  per  quel  sacramento^  gliene  crescerebbe  sa- 
«  Iute,  ma  se  fosse  altramente,  come  a  Giuda  gli  en- 
«  trerebbe  per  la  bocca  Satana  in  persona.  Che  più  ? 
«  celebrata  la  messa  ebbero  la  mensa  in  comune. 
«  Quindi  assoluti  tutti  gli  altri  dalla  scomunica  fu 
«  imposto  loro  che  si  guardassero  dal  consorzio  degli 
«  scomunicati.  Taluni  anche  asseriscono  ch'egli  giurò 
«  omaggio  al  Papa  per  la  sua  vita,  le  sue  membra 
«  e  il  suo  onore,  ma  io  di  ciò  che  ignoro  interamente 
«  non  vuo'  afi'ermar  nulla. 

«  Intanto  il  Re,  posciaché  fu  assolto  dal  bando  mo- 
«  stravasi  in  apparenza  devoto  al  Papa  e  obbediente, 


200  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO   EVO 

«  che  si  sequestrava  dal  consorzio  di  tutti  i  vescovi 
«  considerandoli  scomunicati,  ma  la  notte  annuendo 
«  ai  consigli  loro  nefandi  volgeva  in  mente  ciò  che 
«  i  fatti  mostrarono  più  tardi.  E  così  fece  per  tutto 
«  il  tempo  che  rimase  a  Piacenza,  assai  temendo  la 
«  presenza  di  sua  madre  imperatrice  religiosissima, 
«  che  per  avventura  colà  si  ritrovava. 

«  In  quel  tempo  medesimo  venne  a  lui  quel  Cencio 
«  odioso  a  Dio,  di  cui  facemmo  sopra  menzione  (1), 
«  ed  egli  di  giorno  rifiutava  di  vederlo  come  scomu- 
«  nicato,  ma  di  notte  si  dava  tutto  ai  pestiferi  con- 
«  sigli  suoi.  E  vedendo  che  non  gli  riusciva  dì  tor 
«  via  il  Papa  da  Canossa^  ei  mosse  a  Pavia.  Quivi 
«  Cencio  odioso  a  Dio  morì  d'amara  morte,  e  Gui- 
«  berto  e  gli  altri  scomunicati  ne  celebrarono  il  fu- 
'^<  nerale  con  pompa  mirabile.  » 

Narrata  la  storia  di  Gregorio  VII,  il  libro  di  Bo- 
nizone  torna  al  punto  onde  era  mosso,  e  dagli  am- 
maestramenti del  passato  viene  nella  sentenza  che 
pure  tra  le  persecuzioni  vive  la  Chiesa  cara  al  Si- 
gnore e  fiorisce  pur  nei  contrasti  pei  quali  talora  è 
di  necessità  costretta  ad  usar  l'armi  temporali  e  le 
è  lecito  usarle.  «  Adunque  »  egli  conclude  «  combat- 
«  tano  i  gloriosissimi  soldati  di  Dio  per  la  verità, 
«  contrastino  per  la  giustizia  e  combattano  con  tutta 
«  l'anima  contro  l'eresia  che  si  rizza  contro  a  quanto 
«  si  dice  e  si  venera.  Emulino  nel  bene  la  eccellen- 
«  tissima  contessa  Matilde,  la  quale  con  virile  animo, 
«  postergata  ogni  cosa  mondana,  piuttosto  è  pronta 


(1)  È  quel  medesimo  che  fece  violenza  al  Papa  in  Santa  Ma- 
ria Maggiore. 


BONIZONE  201 

«  a  morire  che  a  frangere  la  legge  dì  Dio,  e  con 
«  quante  lia  forze  in  ogni  modo  impugna  l'eresia  che 
«  ora  infierisce  nella  Chiesa.  In  mano  sua,  noi  cre- 
«  diamo,  sarà  dato  Sisara,  e  come  Jabin  sarà  di- 
«  sperso  nel  torrente  Cison  perché  sterminò  la  vigna 
«  del  Signore  e  la  divora  talché  è  fatto  come  sterco 
«  della  terra.  E  noi  secondo  il  tenore  del'  ministero 
«  nostro  preghiamo  che  l'eresia  si  distrugga  pronta- 
«  mente  arsa  dal  fuoco  e  sgominata  dalla  severità 
«  del  tuo  volto,  0  Signore  (1).  »  * 

Cosi  termina  questo  libro  che  aveva  una  specie  di 
continuazione  storica  in  un  altro  opuscolo  scritto  da 
Bonizone  contro  Ugo  cardinale  guibertino.  E  gran 
danno  che  questo  opuscolo  sia  ora  perduto,  perché 
da  quanto  ne  sappiamo  può  rilevarsi  che  contenesse 
notizie  importanti  pei  primi  anni  del  pontificato  di 
Urbano  II.  Amico  di  Bonizone  e  suo  compagno  di 
lotte  era  stato  un  nipote  di  papa  Alessandro  II,  An- 
selmo vescovo  di  Lucca,  uom  caro  e  devoto  a  Gre- 
gorio VII  che  lo  aveva  dato  per  consigliero  alla  con- 
tessa Matilde,  e  tale  era  rimasto  fino  alla  morte.  Di 
lui  ci  rimane  una  biografia  che  pei  tempi  e  le  per- 
sone che  tratta  ha  un  certo  valore^  e  fu  scritta  da 
un  prete  suo  famigliare  di  nome  Bardone  il  quale 
con  affetto  fedele  raccolse  le  memorie  delle  sue  virtù 
e  dei  miracoli  che  si  moltiplicavano  sulla  sua  tomba  (2). 


(1)  Ap.  Watterich,  op.  cit. 

(2)  Vita  Ansélmi  episcopi  Liicensis ,  auctore  Baedone  ,  in 
Monum.  Gemi.  Hist.  SS.,  XII.  Lo  stesso  Anselmo  era  autore 
di  parecchi  lavori,  alcuni  dei  quali  polemici,  ma  la  maggior 
parte  di  essi  è  perduta. 


202  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

Più  importante  e  più  noto  è  un  curioso  poema  scritto 
da  Donizone  monaco  benedettino  addetto  alla  Chiesa 
di  S.  Apollonio  nel  castello  di  Canossa  ai  tempi  della 
contessa  Matilde  (1).  In  versi  barbari  oltremodo  ed 
oscuri,  egli  narrò  le  gesta  della  sua  signora  ispirato 
ad  un  affetto  profondo  e  ad  un  culto  pieno  di  am- 
mirazione per  la  fortissima  donna.  Questo  culto  na- 
turalmente scema  autorità  ai  suoi  detti,  e  l'ufficio 
suo  lo  induce  talora  ad  una  cauta  riserva  mentre  la 
intralciata  rozzezza  dei  suoi  versi  lo  rende  a  leggere 
faticoso  e  spesso  difficile  a  capire.  Tuttavia,  come 
nota  un  ardente  ammii-atore  suo  (2),  tutti  coloi'O  che 
scrivono  di  Matilda  e  dei  suoi  tempi  sono  costretti 
a  valersi  di  lui  e  a  tenerne  gran  conto.  Erroneo  re- 
latore dei  fatti  lontani,  rapido  o  silenzioso  dove  teme 
d'offender  Matilde,  del  resto  egli  è  dettagliato  e  ab- 
bastanza preciso  nei  fatti  dei  quali  ha  personalmente 
contezza,  e  l'affetto  serbato  oltre  la  tomba  alla  sua 
eroina  gì' ispira  nei  rozzi  versi  parole  non  prive  di 
eloquenza  come  queste  colle  quali  nel  chiudere  il  suo 
poema  si  volge  a  Canossa  esclamando  :  «  O  candida 
«  pietra....  un  tempo  fosti  felice  e  gloriosa  allorquando 
«  la  gran  Matilde  fu  teco;  gl'illustri  suoi  antenati  ti 
«  amarono  di  spontaneo  affetto  e  in  alto  edificarono 
«  le  tue  mura.  La  stirpe  che  in  te  riposa  non  è  più  ; 
«  ....  Più  non  esiste  la  grande  Matilde  ma  vive  in 
«  te  gloriosa  la  sua  memoria,  e  mentr'ella  è  in  nuovi 

(1)  DoMNizo,  Vita  MatMldis,  ed.  Bethmann,  3Ion.  Gemi. 
Hist.  Script.,  XII. 

(2)  A.  Ferretti,  autore  di  un  saggio  piuttosto  diligente  in- 
titolato:  Canossa.  Reggio  Emilia,  1876. 


GREGORIO   SETTIMO  203 

«  regni  beata,  risuona  in  ogni  parte  la  fama  dell'ec- 
«  Celso  suo  nome  (1).  » 

Generazioni  feconde  di  segnalati  uomini  furono 
queste,  ma  vinti  tutti  da  Gregorio  VII  che  fu  per 
certo  lo  spirito  animatore  della  età  sua.  Grandissimo 
uomo,  superiore  ad  ogni  altro  papa  dopo  il  primo 
Gregorio,  pontefice  e  monaco,  visse  nel  mondo  e  col 
mondo,  eppure  tanto  se  ne  distaccò  nella  rigida  fer- 
mezza dell'anima  da  parer  quasi  diverso  nella  natura 
sua  dall'umano.  Mentre  lo  straordinario  uomo  colla 
mano  ferrea  scolpiva  un  monumento  di  storia  mara- 
viglioso,  ei  ne  veniva  insieme  scrivendo  gli  annali  e 
segnava  le  pietre  miliari  del  suo  cammino  nel  registro 
delle  sue  lettere.  Fin  da  tempi  antichissimi  e  per  tutto 
il  Medio  Evo  la  Curia  Romana  usò,  e  continua  l'uso, 
di  trascriver  gli  atti  spediti  in  suo  nome  e  serbarli 
in  appositi  registri  ordinati  cronologicamente  in  libri 
e  divisi  per  anni.  Questo  provvido  pensiero  avrebbe 
potuto  preparare  una  infinita  miniera  di  notizie  alla 
storia  se  nel  corso  dei  molti  secoli  e  delle  molte  vi- 
cende, tranne  alquante  lettere  di  Giovanni  Vili  (872- 
882),  tutti  i  Regesti  che  stanno  tra  quello  di  Grego- 


(1)  I  versi  seguenti  che  descrivono  V  incontro  di  Enrico  IV 
con  Gregorio  VII,  serviranno  a  dare  un'idea  del  verseggiare 
di  Donizone  il  quale  si  trovava  anch'egli  in  quel  momento  nel 
castello  di  Canossa. 

Ante  dies  septem  quam  flnem  Janus  haberet, 
Ante  suam  faciem  concessit  Papa  venire 
Regem  cura  plantis  nudis  a  frigore  captis. 
In  cruce  se  iactans,  Papae  saepissime  clamans: 
Farce,  beate  pater,  pie,  parce  michi,  peto  piane! 


204  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

rio  primo  e  questo  di  Gregorio  VII,  non  fossero  andati 
smarriti.  Per  maggiore  sventura  neppur  esso  il  Re- 
gesto di  Gregorio  VII  ci  avanza  intero,  e  solo  ne  son 
discesi  a  noi  otto  libri  talché  gli  ultimi  quattro  anni 
di  quel  pontificato  rimangono  senza  tanto  sussidio. 
Filippo  Jaffé,  che  ha  pubblicato  la  migliore  e  piiì 
completa  edizione  delle  lettere  gregoriane  (1),  supplì 
in  parte  alla  mancanza  raccogliendo  ogni  altra  let- 
tera che  potè  trovare  sparsamente,  edita  o  inedita, 
ma  pur  così  gli  avanzi  relativi  a  quell'ultimo  pe- 
riodo riescono  scarsi  al  paragone  del  desiderio.  E 
tuttavia^  anche  monco  in  tal  guisa,  questo  massimo 
tra  i  documenti  storici  apparsi  allora  in  Italia,  sparge 
un  immenso  tratto  di  luce  sugli  eventi  di  quella  età, 
e  riproducendo  con  evidenza  scultoria  la  figura  gran- 
diosa e  severa  di  Gregorio  VII,  ce  lo  mostra  quale 
era  nelle  sue  relazioni  coi  contemporanei  e  nelle  lotte 
sue  quotidiane  colle  infinite  difficoltà  che  si  leva- 
vano contro  i  suoi  vasti  disegni.  Libro  mirabilissi- 
mo, degno  di  molta  meditazione,  solo  paragonabile 
alle  lettere  di  Gregorio  Magno  dalle  quali  però  dif- 
ferisce per  molti  rispetti.  Paragonar  quei  due  libri 
vale  paragonarne  gli  autori.  Benedetti  entrambi  dalla 


(1)  Monumenta  Gregoriana,  edidit  Ph.  Jaffé,  Berolini,  1865. 
Alcune  altre  lettere  sono  state  scoperte  dipoi.  Secondo  uno 
scritto  recente  del  Pflug-Harttung  il  cardinale  Deusdedit 
avrebbe  adoperato  per  la  sua  Coìlectio  Canonum  un  altro  re- 
gistro gregoriano  anteriore  a  quello  pubblicato  dallo  Jaffé  e 
più  completo.  Io  qui  mi  limito  a  far  cenno  soltanto  delle  let- 
tere di  Gregorio,  ma  hanno  pur  grande  valore  quelle  che  ancora 
si  trovano  degli  altri  pontefici  che  gli  furono  vicini  di  tempo. 


GREGORIO    SETTIMO  205 

forza  di  una  fede  senza  confini,  mossi  dall'imperso- 
nale desiderio  d'assicurar  la  vittoria  a  questa  fede, 
dotati  entrambi  di  genio,  superiore  ciascuno  di  essi 
all'età  sua,  eppure  stretti  e  ossequenti  a  molti  dei 
pregiudizi  che  li  circondavano ,  que'  due  papi  dif- 
feriscono tra  loro  per  l'indole  diversa  e  per  un  di- 
verso concetto  dell'  idea  della  Chiesa  dovuto  alla  di- 
versità dei  tempi^  delle  circostanze,  delle  ispirazioni. 
Nel  primo  d'essi  comparso  sul  limitare  del  medio  evo 
germoglia  ancora  la  vita  del  passato,  e  l'anima  gli 
si  tempra  fra  le  tradizioni  dell'antica  Roma  e  le  tra- 
dizioni dei  tempi  apostolici,  fi'a  gli  echi  del  Palatino 
e  gli  echi  delle  Catacombe.  Intelletto  prudente  pie- 
ghevole, cuore  indulgente  e  bisognoso  d'espansione  e 
d'affetto,  anima  essenzialmente  umana,  il  più  perfetto 
uomo  che  sia  comparso  in  tutta  la  storia  medioevale. 
L'altro  vien  fuori  nel  colmo  del  medio  evo,  dopo  una 
lunga  tenebra  di  corruzioni  e  di  barbarie,  monaco 
fin  dall'  infanzia,  non  freddo  ma  poco  dischiuso  a 
tenerezza  d'affetti,  calmo  severo  inflessibile  domina- 
tore. Riformare  la  Chiesa  imputridita  per  le  colpe 
passate,  trasformare  l'ammollito  clero  in  una  falange 
d' apostoli  austera  e  staccata  da  ogni  cura  d' affetti 
mondani,  l'episcopato  sottratto  all'autorità  regia  e 
stretto  intorno  al  pontefice  pastore  di  popoli  e  di  re, 
guida  suprema  alla  giustizia  e  alla  pace.  Tale  il  con- 
cetto di  Gregorio  VII  come  scaturisce  da  queste  let- 
tere se  non  materialmente  scritte  certo  almeno  sem- 
pre ispirate  da  lui  ed  esprimenti  tutte  in  diversi  casi 
una  tendenza  sola.  Che  se  questo  concetto  avanzando 
1  termini  del  possibile  e  del  giusto  non  toccò  inte- 


206  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   ISIEDIO    EVO 

ramente  la  sua  meta  e  presto  cedendo  luogo  a  con- 
cetti nuovi  si  trasmutò  in  parte,  non  si  scema  per 
questo  la  grandezza  di  Gregorio,  ed  egli  rimane  pur 
sempre  nella  storia  come  un'aquila  solitaria  che  po- 
sata sulla  cima  d'una  rupe  ivi  sovrasta  e  guarda  in 
basso  impassibile  e  maestosa. 


I 


Capitolo  VI 


Nuove  fasi  del  pensiero  italiano  dal  dodicesimo  secolo  al  decimoquarto  — 
Scrittori  meridionali  dei  tempi  normanno  e  svevo  —  Saba  Malaspina  — 
Storici  del  Vespro  Siciliano  —  Vite  dei  Papi  —  Vita  di  Cola  di  Rienzo  — 
Scrittori  municipali  lombardi   del  primo  periodo  —  Ottone   di  Frisinga 

—  Altri  cronisti  imperiali  —  Storie  generali  —  Fra  Salimbene  da  Parma 

—  Cronisti  di  varie  città  dell'  alta  e  della  media  Italia  —  Cronisti  di 
Lombardia  e  della  Marca  Trivigiana  —  Albertino  Mussato. 

Mentre  durava  la  lotta  delle  Investiture  tra  la 
Chiesa  e  l'Impero,  un  grande  mutamento  veniva  ma- 
turandosi nelle  condizioni  politiche  e  intellettuali 
d'Italia,  e  al  cessare  di  quella  lotta  la  storia  lettera- 
ria italiana  trovasi  come  all'  improvviso  in  un  campo 
diverso.  Nel  Mezzogiorno  il  reame  fondato  prima  dai 
Normanni,  radicatosi  forte,  divenne  la  sola  monar- 
chia che  rimanesse  ferma  in  Italia,  accolse  per  un 
momento  la  sede  dell'  Impero  e  né  per  le  molte  vi- 
cissitudini né  pel  mutare  delle  dinastie  si  disciolse 
mai  più.  La  Chiesa  Romana  salita  in  alto  per  l'im- 
pulso poderoso  di  Gregorio  VII,  mentre  allargava 
vastamente  le  influenze  sue  spirituali  e  politiche  ve- 


208      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

niva  aumentando  e  rafforzando  il  patrimonio  suo  tem- 
porale, finclié  ai  tempi  d'Innocenzo  III  (f  1216)  toccò 
il  culmine  di  una  potenza  che  cominciò  a  scadere 
con  Bonifazio  Vili  (f  1303).  Nell'Italia  centrale  e 
nell'alta  i  Comuni  dopo  una  laboriosa  gestazione  di 
germi  latenti^  fiorivano  a  un  tratto  d'ogni  parte  e  si 
svolgevano  rapidamente  forti  liberi  e  ricchi.  Milano, 
Venezia^  Genova,  Pisa,  Firenze,  ad  ogni  passo  s'in- 
contra una  città,  ed  ogni  città  è  una  potenza.  Il  sole 
sorto  dopo  i  primi  albori  dell'  età  precedente  s'  ac- 
campa in  cielo  e  sale  a  splendere,  la  luce  di  Tom- 
maso d'Aquino,  di  Giotto  e  di  Dante.  Tra  cosi  rigo- 
gliosa ricchezza  di  vita,  il  laicato  comincia  ad  uscire 
dalla  tutela  ecclesiastica,  anzi  la  democrazia  invadente 
nello  Stato  tenta  d' invader  la  Chiesa.  Dappertutto  al 
fervore  del  pensiero  s'accompagna  il  fervore  dell'azio- 
ne, e  lo  spirito  filosofico  appena  rinato  cerca  subito 
di  promuovere  nuove  riforme.  Agitato  prima  da  Ar- 
naldo da  Brescia  esso  scruta  arditamente  le  dottrine 
ecclesiastiche  difese  da  San  Bernardo  e  più  tardi  dai 
Domenicani,  e  intanto  varie  eresie  serpeggiano  tra  il 
popolo,  stendono  loro  riti  e  ispirano  sacri  entusiasmi 
ed  eccessi  strani,  mosse  in  parte  da  tendenze  non 
diverse  da  quelle  che  muovono  l'ordine  democratico 
di  Francesco  d'Assisi.  Le  mutate  condizioni  mutano 
le  condizioni  dell'  Impero  tedesco  che  s'  impegna  in 
una  lotta  nazionale  ai  tempi  di  Federico  Barbarossa, 
s' italianizza  un  momento  con  Federico  II,  e  poi  tra- 
piantato di  nuovo  in  Germania  perde  ogni  forza  tra 
noi  ed  è  svigorito  quando  Aringo  VII  vi  discende 
confortato  dai  Ghibellini.  I  nomi  di  guelfo  e  di  ghi- 


CRONISTI  MERIDIONALI  209 

bellino  divengono  pretesto  e  segnacolo  delle  discordie 
italiane  che  crescono  quanto  più  esuberante  è  la  vita, 
e  creano  lotte  e  anarchie  e  tirannidi  e  sventure  in- 
finite alla  patria.  Ma  pur  tra  queste  discordie  si  esplica 
la  espressione  vera  del  pensiero  e  dell'  indole  italiana 
coU'esplicarsi  delle  arti  e  più  della  lingua  che  tenta 
le  sue  prime  canzoni  in  Sicilia  alla  corte  di  Fede- 
rico II,  canta  tra  il  popolo  le  laudi  spirituali  dei 
Francescani,  e  cercando  perfezioni  per  tutta  Italia, 
pone  finalmente  sede  in  Toscana  ad  aspettare  la  vi- 
cina musa  dell'Alighieri. 

Tale  il  periodo  di  cui  debbonsi  ora  esaminare  gli 
storici.  Come  al  rovinar  dell'  Impero  s' erano  inari- 
dite le  fonti  storiche,  cosi  ora  quanto  più  cresce  e 
si  feconda  la  vita  del  popolo  tanto  si  moltiplicano  le 
cronache  e  a  poco  a  poco  saliscono  a  dignità  di  sto- 
ria. I  materiali  ci  si  aflfoltano  intorno  cosi  aumentati 
d'importanza  e  di  numero,  che  non  è  più  possibile 
per  me  e  non  gioverebbe  oramai,  il  tener  dietro  sin- 
golarmente alle  centinaia  di  cronisti  che  spuntano 
fuori  da  ogni  parte  d'Italia  tra  il  dodicesimo  secolo 
e  il  decimoquarto.  E  necessario  restringersi.  E  per 
cominciare  dal  Mezzogiorno,  ai  cronisti  del  primo 
periodo  normanno  menzionati  più  sopra  nel  capitolo 
qnarto,  altri  se  ne  vogliono  aggiungere  (1)  fioriti  sotto 


(1)  Per  questi  scrittori  del  Mezzogiorno,  oltre  lo  studio  che 
sono  venuto  facendo  sui  testi,  mi  giovo  grandemente  dell'ec- 
cellente lavoro  pubblicato  dal  Capasso  col  titolo:  Le  fonti  della 
storia  delle  provincie  napoletane,  hqW Archivio  storico  delle  Pro- 
vincie napoletane,  an.  1876.  Mi  hanno  anche  molto  giovato  al- 
cune pubblicazioni  inserite  n^W Archivio  storico  siciliano,  e 
14.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


210      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

gli  ultimi  re  di  quella  dinastia,  i  quali  più  o  meno 
si  collegano  coi  cronisti  del  periodo  svevo  che  suc- 
cedette (A.  D.  1194-1268).  Le  cronache  monastiche 
danno  un  secondo  germoglio.  Appartengono  a  questa 
età  gli  Annales  Casinenses  (1000-1212),  compilazione 
di  diversi  monaci  che  ritesserono  la  storia  di  Monte- 
cassino  traendola  dagli  storici  che  già  si  sono  esa- 
minati ed  aggiungendovi  notizie  proprie  per  gli  anni 
posteriori.  Il  monastero  di  S.  Clemente  di  Casauria 
e  quello  di  S.  Bartolomeo  di  Carpineto  situati  en- 
trambi in  Abruzzo,  entrambi  di  fondazione  antichis- 
sima, ebbero  anch'essi  le  loro  cronache  infarcite  di 
documenti  preziosi  al  modo  della  cronaca  di  Farfa, 
e  compilati  sul  finire  del  dodicesimo  secolo  la  prima 
da  un  Giovanni,  la  seconda  da  un  Alessandro  mo- 
naci ciascuno  del  monastero  di  cui  raccolsero  le  me- 
morie. Di  carattere  più  vasto  di  queste  cronache  mo- 
nastiche, gli  Annales  Ceccanenses,  pubblicati  prima 
col  titolo  di  Chronicon  Fossae  Novae  dal  monastero 
in  cui  furono  rinvenuti  e  composti  in  forma  di  storia 
universale,  cominciano  dall'era  volgare  e  proseguono 
fino  al  principio  del  secolo  decimoterzo  in  cui  furono 
scritti  da  un  cittadino  di  Ceccano.  Inutile  rabbercia- 
mento di  antichi  scritti  nella  prima  parte,  questo  la- 
voro divien  diffuso  e  circostanziato  nella  parte   più 


varie  opere  dei  due  storici  siciliani,  il  La  Lumia  e  TAMARI. 
Anzi  al  caro  e  venerato  autore  del  Vespro  Siciliano  e  della 
Storia  dei  Musulmani  in  Sicilia,  debbo  anche  speciali  ringra- 
ziamenti per  alcune  indicazioni  verbali  che  mi  riuscirono  uti- 
lissime. 


ROMUALDO    SALERNITANO  211 

recente.  In  essa  all'anno  1192  anche  si  contiene  di 
diverso  autore  una  rozza  ed  oscura  poesia  contro 
Enrico  VI  imperatore,  il  quale  pel  suo  matrimonio 
colla  principessa  normanna  Costanza,  aveva  impian- 
tata nel  mezzogiorno  la  dinastia  sveva  degli  Hohen- 
staufen  e  s'era  fatto  odioso  così  per  le  influenze  tede- 
sche che  introduceva  come  per  le  sue  crudeltà  contro 
il  partito  normanno  divenuto  oramai  nazionale  e  caro 
ai  Siciliani.  Più  universale  ancora  è  la  cronaca  di 
Romualdo  Guarna  arcivescovo  di  Salerno  e  celebrato 
tra  i  medici  della  scuola  salernitana.  La  quale  cro- 
naca incomincia  dalla  creazione  del  mondo  e  scende 
fino  alla  seconda  metà  del  secolo  dodicesimo  dove  si 
interrompe.  Uomo  di  alto  affare  nella  Corte  normanna 
dei  due  Guglielmi  di  Sicilia  ai  quali  era  legato  di 
sangue,  occupò  cariche  eminenti  presso  quei  due'  so- 
vrani ed  ebbe  gran  parte  nei  molti  rivolgimenti  che 
agitarono  quegli  ultimi  regni  della  dinastia  degli  Haute- 
ville.  Andò  a  Venezia  rappresentante  di  Guglielmo  II 
il  Buono,  e  prese  parte  in  nome  del  suo  signore  al 
convegno  e  ai  trattati  di  pace  che  ivi  ebbero  luogo 
tra  Alessandro  III  e  i  Comuni  Italiani  da  un  lato 
e  Federico  Barbarossa  dall'altro.  Accolto  con  parti- 
colari attestati  d'onoranza  dall'  Imperatore  e  condotti 
a  termine  con  buon  esito  i  suoi  negoziati,  egli  parla 
del  convegno  di  Venezia  con  diffusa  compiacenza  nella 
sua  cronaca.  Questa,  come  può  credersi,  ha  gran  pre- 
gio quando  giunge  ai  fatti  contemporanei,  sebbene 
una  certa  parzialità  spiegabile  in  un  uomo  vissuto  in 
mezzo  alle  lotte  vive  e  violente  dei  partiti,  inclini 
spesso  l'autore  a  colorire  i  fatti  o  a  sbiadirne  le  tinte 


212  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

0  a  tacerli  secondo  il  vantaggio  del  partito  suo.  Egli 
stava  coi  governativi  e  monarchici  ai  quali  si  op- 
poneva il  partito  feudale  dei  baroni  mal  sofferenti 
degli  uomini  nuovi  che  salivano  al  potere  con  danno 
loro.  A  questo  partito  apparteneva  invece  Ugo  Fal- 
cando, robusto  e  generoso  scrittore  che  si  guadagnò 
colla  sua  storia  dei  fatti  di  Sicilia  il  glorioso  sopran- 
nome di  Tacito  del  Medio  Evo.  È  disputa  sul  luogo 
della  sua  nascita,  ma  par  vero  ch'egli  nascesse  in 
Francia  e  venuto  in  Sicilia  da  giovane  rimanesse  non 
breve  tempo  nell'  isola  dov'  ebbe ,  come  narra  egli 
stesso,  favore,  sostegno  e  condizione  onorata.  Ripas- 
sato in  Francia  o,  forse,  in  Inghilterra,  scrisse  la  sua 
storia  e  la  compì  verso  il  1169.  Poi  più  tardi,  nel  1189, 
ripresa  la  penna,  in  una  lettera  a  Pietro  di  Blois  toccò 
nuovamente  delle  cose  di  Sicilia  quando  Guglielmo  II 
moriva  e  Tancredi  di  Hauteville  levatosi  a  capo  del 
partito  siculo-normanno  e  proclamato  re,  tentò  d'op- 
porsi,  e  per  quattro  anni  che  durò  in  vita  si  op- 
pose alle  pretese  del  tedesco  Enrico  VI.  Partigiano 
ed  amante  della  feudale  nobiltà  normanna  stabilita 
in  Sicilia,  Falcando  ne  accomuna  gì'  interessi  a  quelli 
del  Regno,  che  gli  è  caro  malgrado  le  amare  parole 
che  di  tanto  in  tanto  volge  a  Siciliani  e  a  Pugliesi, 
mosso  piuttosto  da  antipatia  di  partito  che  da  anti- 
patia nazionale.  Diverso  in  ciò  da  Romualdo  Saler- 
nitano, egli  ci  parla  appena  di  sé  e  da  questo  ri- 
serbo deriva  la  povertà  delle  notizie  che  rimangono 
sul  conto  suo.  Anche  vi  è  un'altra  diversità  tra  lui 
e  r  arcivescovo,  che  dove  questi  tende  a  tacere  le 
circostanze  sfavorevoli  al  suo  partito.  Falcando  in- 


UGO   FALCANDO  213 

vece  è  più  coraggioso  e  affronta  la  difficoltà  franca- 
mente, esponendo  mentre  li  giudica  i  fatti  pervenuti 
a  sua  notizia  o  per  averli  egli  stesso  veduti  o  per 
averli  uditi  dai  ragguagli  dei  nobili  normanni  ai  quali 
fu  familiare.  E  sebbene  egli  attinga  a  fonti  parti- 
giane e  parteggi  egli  stesso  in  cuor  suo,  tuttavia  è 
più  imparziale  che  non  potrebbe  aspettarsi.  Inoltre, 
sagace  com'egli  è  ed  acuto,  sente  che  la  nuda  narra- 
zione dei  fatti  non  basta  all'  ufficio  di  storico ,  e  ci 
serba  una  quantità  di  notizie  che  non  sapremmo  al- 
trimenti, intorno  alla  costituzione  politica  della  mo- 
narchia, alle  condizioni  dei  feudatari,  dei  municipi 
e  del  popolo.  Il  Gibbon,  malgrado  qualche  lieve  ine- 
sattezza parla  di  Falcando  con  l'usata  intuizione  sua, 
e  dice  che  «  Falcando  è  stato  detto  il  Tacito  di  Si- 
«  cilia  e  dopo  una  giusta  ma  immensa  riduzione  dal 
«  primo  al  dodicesimo  secolo,  da  un  senatore  ad  un 
«  monaco,  io  non  lo  vorrei  privar  del  suo  titolo.  La 
«  sua  narrazione  è  rapida  e  lucida,  il  suo  stile  ar- 
«  dito  ed  elegante,  il  suo  spirito  d'osservazione  è 
«  acuto  :  aveva  studiati  gli  uomini  e  sente  come  un 
«  uomo  (1).  »  E  narrando  le  ultime  vicende  del  regno 
normanno,  e  come  Enrico  VI  se  ne  impadronisse  col- 
l'armi  «  contro  l'unanime  volere  d'un  popolo  libero,  » 


(1)  «  Falcandus  has  been  styled  the  Tacitus  of  Sicily,  and 
«  after  a  just  but  immense  abatement,  from  the  first  to  the 
«  twelfth  centurj,  from  a  senator  to  a  mouk,  I  would  not 
«  strip  him  of  his  title;  his  narrative  is  rapid  and  perspicu- 
«  ous,  his  style  bold  and  elegant,  his  observation  keen:  he 
«  had  studied  raankind  and  feels  like  a  man.  »  GiBBON,  De- 
cìiìie  and  Fall  of  the  Roman  Empire,  cap.  Ivi. 


214      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

il  Gibbou  reca  in  parafrasi  le  profetiche  parole  che 
Falcando  compiuta  la  sua  storia  mandava  a  Pietro 
di  Blois  sul  cominciar  della  lotta.  Le  quali  parole 
son  qui  ripetute  per  intero  come  le  scrisse  lo  storico 
di  Sicilia,  a  testimoniare  i  nobili  affetti  e  la  malin- 
conia profonda  che  gì' ispirava  la  caduta  del  regno 
normanno. 

«  E  Dio  volesse  che  entrata  col  re  tedesco  in  Si- 
«  cilia,  mancasse  a  Costanza  la  fermezza  del  perse- 
«  verare,  né  le  si  desse  copia  dei  campi  messinesi, 
«  o  di  trapassare  i  confini  dell'  Etna  !  Là  rimarrebbe 
«  benissimo  quella  gente  dove  la  crudeltà  dei  Pirati 
«  verrebbe  in  cozzo  colla  atrocità  dei  Teutoni....  Ma 
«  i  luoghi  interni  di  Trinacria,  massime  dove  splende 
«  il  fulgore  della  città  nobilissima  preminente  per 
«  singoiar  merito  a  tutto  il  Regno,  sarebbe  nefando  e 
«  mostruoso  veder  polluti  dall'  ingresso  dei  Barbari, 
«  scomposti  dal  terrore  degli  irruenti,  esposti  alle  ra- 
«  pine  dei  predoni  o  turbati  dalla  barbarie  delle  leggi 
«  straniere.  Ma  tu  mi  dirai,  '  A  che  vuoi  venire,  e 
«  qual  consiglio  stimi  che  prenderanno  i  Siciliani  ? 
«  Si  eleggeranno  essi  un  Re  e  combatteranno  a  forze 
«  unite  contro  i  Barbari,  ovvero  cedendo  alla  diffi- 
«  denza  e  all'uggia  della  insolita  impresa,  preferi- 
«  ranno  accettare  ogni  duro  giogo  di  servitù  piutto- 
«  sto  che  provvedere  alla  fama  e  alla  dignità  propria, 
«  alla  libertà  della  patria  ?  '  Io  stesso  trattando  tacito 
«  questi  pensieri  nella  mente  dubbiosa,  tenzono  tra 
«  me  distratto  dalle  varie  ragioni,  né  veggo  chiaro 
«  il  partito  da  scegliere.  Certo  se  si  eleggeranno  un 
«  Re  di  non  dubbio  valore  e  se  i  Saraceni  non  di- 


UGO   FALCANDO  215 

«  scorderanno  dai  Cristiani,  l'eletto  Re  potrà  soccorrer 
«  le  cose  quasi  disperate  e  perdute,  e  conducendosi 
«  prudentemente  respinger  le  incursioni  dei  nemici. 
«  Imperocché  s'egli  si  concilierà  il  favor  dei  soldati 
«  aumentando  gli  stipendi,  se  conferendo  benefici  si 
«  cattiverà  l'animo  della  plebe,  se  premunendo  con 
«  cura  le  città  e  le  fortezze  anche  in  Calabria  di- 
«  sporrà  presidi  in  luoghi  opportuni ,  ei  jsotrà  pro- 
«  tegger  per  modo  Sicilia  e  Calabria  che  non  cadano 
«  in  man  de'  Barbari.  Ma  in  Puglia  dove  godon  sem- 
«  pre  del  nuovo  e  voglion  sempre  cose  diverse,  non 
«  reputo  che  si  possa  riporre  speranza  o  fiducia  ve- 
«  runa.  Che  se  raccogliendo  soldati  a  forza  li  co- 
«  manderai  alla  battaglia,  e'  ti  si  metteranno  in  fuga 
«  prima  che  si  dia  fiato  alle  trombe  :  se  li  porrai  a 
«  difender  le  fortezze,  ecco  che  gli  uni  tradiscono  gli 
«  altri  e  ti  introducono  dentro  il  nemico  alla  insa- 
«  puta  o  a  malgrado  dei  compagni.  E  poi  perché  è 
«  difìScile  che,  tolto  il  timore  del  re,  in  tanto  turbinar 
<'  delle  cose  i  Saraceni  non  sieno  oppressi  dai  Cri- 
«  stiani,  se  i  Saraceni  stanchi  per  le  molte  ingiurie 
«  di  costoro  comincieranno  a*  discordarne  e  occupe- 
«  ranno  le  castella  marittime  e  le  fortezze  della  mon- 
«  tagna,  per  modo  che  si  debba  combatter  da  un  lato 
«  i  Tedeschi  a  tutta  possa  e  dall'altro  respingere  le 
«  frequenti  scorrerie  dei  Saraceni,  che  credi  faranno 
«  i  Siculi  oppressi  tra  queste  angustie,  e  posti  come 
«  tra  il  martello  e  l'incudine?  Faranno  come  potranno, 
«  e  arrendendosi  in  quella  miserevole  condizione  ai 
«  Barbari  si  metteranno  nella  potestà  loro.  Oh  voglia 
«  Iddio  che  s'accordino  i  voti  della  plebe  e  dei  no- 


216  LE   CRONACHE   ITALIANE  NEL   MEDIO   EVO 

«  bili  de'  Cristiani  e  de'  Saraceni  affinché  eleggendosi 
«  concordemente  un  Re,  si  sforzino  di  contrastare  con 
«  ogni  potere,  con  ogni  sforzo,  con  ogni  aspii*azione 
«  alla  irruenza  dei  Barbari.  Infelice  isola  condannata 
«  dalla  sorte  a  nutrire  e  far  così  prosperare  i  tuoi  figli, 
«  che  quando  sono  giunti  alla  desiderata  maturità  di 
«  lor  forze  prima  ne  fanno  esperimento  in  te  e  gli 
«  allevati  dalle  tue  pingui  mammelle  ti  scerpono  ri- 
«  calcitrando  le  viscere  !  Cosi  molti  nutriti  già  nel  tuo 
«  seno  e  nelle  tue  delizie,  t'afflissero  poi  con  infinite 
«  ingiurie  e  guerre  infinite.  Così  anche  Costanza  edu- 
«  cata  dalla  cuna  alla  abbondanza  delle  tue  delizie, 
«  istruita  nelle  tue  dottrine,  informata  ai  tuoi  co- 
«  stumi,  se  n'andò  da  ultimo  tra  i  Barbari  ad  arric- 
«  chirli  delle  tue  ricchezze,  ed  ora  con  esercito  in- 
«  gente  viene  a  ripagarti  una  scellerata  mercede^  a 
«  distrugger  violenta  la  ornatezza  della  sua  bella  nu- 
«  trice,  a  contaminar  colla  sozzura  barbarica  quella 
«  tua  purezza  per  cui  sovrasti  ad  ogni  altro  regno. 
«  Muoviti  ora  o  Messina  città  possente  e  prevalente 
«  per  molta  nobiltà  di  cittadini,  segui  qual  miglior 
«  consiglio  t' è  dato  gurardando  alla  salvezza  tua  per 
«  fiaccare  i  primi  sforzi  dei  Barbari  e  vietare  il  passo 
«  del  Faro  alle  armi  nemiche.  Preme  che  tu  maturi 
«  ponderatamente  ciò  che  farai.  Imperocché  come  tu 
«  prima  ti  presenti  innanzi  alle  navi  che  vengono  in 
«  Sicilia  appena  passato  il  Faro,  anche  t'è  necessità 
«  sostenere  i  primi  impeti  dei  combattenti  e  speri- 
«  mentare  i  primi  auspici  della  guerra.  Certo  ti  cre- 
«  scerà  gran  forza  e  fiducia,  grande  speranza  e  sicu- 
«  rezza,  se  guardi  al  valore  e  alla  audacia  dei  cittadini 


UGO   FALCANDO  217 

«  tuoi,  i  vecchi  atti  a  maturar  consigli,  i  giovani  av- 
«  vezzi  alle  cose  di  guerra,  il  giro  delle  tue  mura 
«  tutto  cosparso  intorno  di  torri,  se  pensi  alle  forze 
«  tue  colle  quali  spesso  frangesti  la  superbia  dei 
«  Greci,  e  spogliando  Aflfrìca  e  Spagna  ne  traesti 
«  spesso  preda  ingente  e  spoglie  opime.  Non  ti  dia 
«  dunque  nessun  timore,  nessun  terrore  la  turbulenta 
«  barbarie  di  costoro,  se  resistendo  fortemente  potrai 
«  sostenere  i  primi  assalti,  scuoterai  dal  tuo  collo  un 
«  giogo  durissimo  e  spargerai  lontano  la  gloria  im- 
«  mortale  del  celebrato  tuo  nome  (1).  » 

Con  Ugo  Falcando  può  dirsi  che  abbiano  termine 
gli  storici  del  periodo  normanno  dai  quali  si  fa  pas- 
saggio a  quelli  del  periodo  svevo  mediante  il  carme 
di  Pietro  da  Eboli  (A.  D.  1187-1195)  che  in  versi 
eleganti  narrò  la  lotta  fra  Tancredi  ed  Enrico  VI, 
scrivendo  piuttosto  un  panegirico  di  quest'ultimo  che 
una  storia.  E  un  periodo  povero  di  cronisti  speciali 
per  la  bassa  Italia,  sebbene  in  esso  grandeggi  la  figura 
di  Federico  II  che  tanto  affascinò  le  menti  de'  suoi 
contempoi'anei  in  Italia,  e  la  corte  sua  di  Sicilia  di- 
venisse convegno  d'uomini  dotti  e  di  letterati  e  quasi 
culla  della  poesia  italiana.  La  cronaca  anonima  De 
rebus  siculis,  gli  Annales  Siculi,  il  Breve  chronicon 
ìauretanum  sono  scritture  utili  a  consultar  dallo  sto- 
rico ma  di  mediocre  valore,  e  sole  davvero  impor- 
tanti tra  i  cronisti  meridionali  di  quella  età  sono 
Riccardo  da  San  Germano,  Niccolò  di  Jamsilla  e  Saba 


(1)  Hdgonis  Falcandi,  Hist.  de  rebus  gestis  in  Siciliae  re- 
gno. R.  I.  S.,  VII. 


218      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

Malaspina  sul  continente,  e  nell'  isola  di  Sicilia  Nic- 
colò Speciale  e  Bartolomeo  da  Neocastro.  Il  primo  di 
questi  scrittori  nato  nella  città  di  San  Germano  alle 
falde  di  Montecassino,  fu  notaio  imperiale  e  adope- 
rato in  molti  negozi  da  Federico  II.  Le  molte  cose 
vedute,  l'esperienza  della  vita  pubblica,  e,  forse,  le 
tradizioni  della  letteratura  storica  attinte  dalla  grande 
Badia  presso  cui  era  nato,  lo  invogliarono  a  scrivere 
la  storia  dei  tempi  che  corsero  dalla  morte  di  Gu- 
glielmo il  Buono  fino  al  1254.  Lavoro  preciso  e  sem- 
plice; scritto  con  imparzialità  diligente,  ricco  di  fatti 
narrati  schiettamente,  senza  nessuno  ornamento  ora- 
torio, povero  di  colorito,  cronaca  vera  e  non  storia, 
esso  è  la  guida  piìi  sicura  che  abbiamo  per  quegli 
anni  intorno  alle  vicende  di  Federico  II  e  delle  Pro- 
vincie napoletane. 

Onesti  narratori  anch'essi  gli  altri  due  ma  parteg- 
giatori  entrambi  e  appassionati  nella  lotta  rinnovata 
per  la  terza  volta  tra  la  Chiesa  e  l' Impero  della  quale 
descrivono  le  ultime  vicende.  Del  ghibellino  Niccolò 
Jamsilla  non  sappiam  nulla  oltre  il  nome  e  questo 
pur  dubbiamente,  ma  dalla  stessa  opera  sua  può  de- 
dursi  ch'egli  era  notaio,  familiare  e  segretario  di  re 
Manfredi,  e  suo  seguace  negli  anni  1253-1256,  tanto 
appariscono  minute  e  sicure  le  notizie  che  egli  più 
specialmente  ci  dà  per  questi  anni  del  regno  di  quel 
cavalleresco  sovrano.  Scrive  con  eleganza  dignitosa 
e  le  tendenze  ghibelline  non  nuocciono  alla  sua  fe- 
deltà di  storico,  che  anzi  lo  stesso  parteggiar  suo  gli 
cresce  forse  la  naturale  attitudine  di  connettere  in- 
sieme gli  avvenimenti  e  di  giudicarne  da  un  punto 


UGO   FALCANDO  219 

di  vista  complessivo  e  sintetico.  Questa  attitudine  egli 
ha  comune  con  Saba  Malaspina,  di  cui  pure  si  hanno 
scarse  notizie.  Saba  nacque  a  Roma  d' una  vecchia 
famiglia  romana,  fu  decano  della  Chiesa  di  Mileto 
in  Calabria  e  addetto  alla  Curia  di  papa  Martino  IV, 
durante  il  cui  pontificato  (A.  D.  1281-1285)  scrisse 
la  storia  sua  e  la  dedicò  ad  un  collegio  di  ufficiali 
della  Curia.  In  questa  storia  dichiara  di  voler  nar- 
rare i  fatti  veri  de'  quali  fu  testimonio  egli  stesso  o 
quelli  che  divulgati  tra  i  contemporanei  gli  sono  giunti 
alForecchio  e  gli  paiono  aver  sembiante  di  certezza. 
L' opera  divisa  in  due  parti  tratta  gli  avvenimenti 
del  regno  dalla  morte  di  Federico  II  fino  alla  morte 
di  Carlo  d'Angiò  (A.  D.  1250-1285).  È  la  storia  di  un 
periodo  agitato  e  pieno  di  rivolgimenti,  e  abbraccia 
le  fortunose  vicende  del  regno  di  Manfredi.  Il  quale 
da  Federico  II  colla  regia  corona  ereditò  il  mortale 
odio  del  partito  guelfo  e  la  nimistà  dei  papi  onde  si 
spianò  la  via  a  Carlo  d'Angiò  finché  alla  battaglia  di 
Benevento  cadde  Manfredi  cessando  insieme  il  regno 
e  la  vita.  E  dopo  Manfredi,  continua  Saba  narrando  lo 
stabilirsi  di  Carlo  d'Angiò  e  le  molteplici  sue  rela- 
zioni col  partito  guelfo  in  tutta  Italia  e  specialmente 
coi  papi  e  col  municipio  di  Roma  di  cui  fu  senatore  ; 
e  il  tentativo  del  bello  e  infelice  Corradino  di  Ho- 
henstaufen  che  scese  di  Germania  a  sedici  anni  per 
riacquistare  il  regno  de'  suoi;  ma  fu  vinto  a  Taglia- 
cozzo  e  il  fosco  Angioino  gli  fé'  come  un  fiore  reciso 
cader  sul  patibolo  la  testa  giovinetta  vendicata  più 
tardi  in  Sicilia  quando  suonò  la  tremenda  campana 
del  Vespro  (A.  D.  1282).  Guelfo  d'animo  e  addetto 


220      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

alla  curia  pontificia,  Saba  rende  bella  giustizia  al  va- 
lore e  alle  sventure  di  Manfredi  e  di  Corradino,  e 
non  si  studia  di  nascondere  le  colpe  del  re  Carlo  di 
cui  pure  pregia  oltremodo  le  doti  che  gli  valsero  di 
conquistare  il  regno  e  di  piantarvi  la  sua  dinastia. 
Gonfio  ricercato  oscuro  di  stile,  rozzo  nel  suo  la- 
tino, non  difetta  tuttavia  d'efficacia  ne  di  colorito, 
ispirato  com'  è  dalla  importanza  del  suo  soggetto  e  dai 
sentimenti  cbe  gli  desta  in  core  il  continuo  mutarsi 
di  tante  fortune  (1). 

Lo  scoppio  improvviso  che  determinò  la  rivolu- 
zione del  Vespro  e  lo  stabilirsi  della  stirpe  d'Ara- 
gona in  Sicilia,  trovano  in  Saba  uno  storico  acuto 
ed  onesto  che  pur  malgrado  l'animo  sfavorevole  seppe 
vederne  le  cause  e  le  conseguenze,  e  con  lui  sono  tra 


(1)  Giunto  a  questa  età  non  è  più  possibile  per  me  trattare 
neppur  brevemente  d'altre  fonti  storiche  oltre  i  cronisti.  Mi 
limito  quindi  a  rammentar  qui  in  nota  le  lettere  di  Pier  della 
Vigna  il  Gran  Cancelliere  di  Federico  IL  II  suo  epistolario  è 
uno  dei  piia  pregevoli  monumenti  letterari  di  quel  tempo,  e 
ha  valore  storico  inestimabile.  Anche  si  conoscono  altri  epi- 
stolari contemporanei  a  quello,  scritti  da  uomini  che  presero 
parte  alla  vita  pubblica  ma  i  più  sono  inediti  e  meriterebbero 
d'essere  pubblicati  in  tutto  o  in  parte.  È  pure  assai  deside- 
rabile una  edizione  completa  e  definitiva  dell'  epistolario  di 
Pier  della  Vigna  intorno  al  quale  sono  da  consultare  il  sag- 
gio del  napolitano  De  Blasiis  e  l'altro  dell'  Huillard  BréhoUes 
Pierre  de  la  Vigne,  sa  vie  et  sa  correspondance.  Vuoisi  menzio- 
nar di  passaggio  anche  la  grande  raccolta  fatta  dall'  HuJL- 
LARD  Bréholles  in  dieci  volumi  col  titolo  Historia  Diploma- 
tica Friderici  II,  e  l'altra  di  Bartolomeo  Capasso,  Historia 
Diplomatica  Begni  utriusque  Siciìiae  ab  an.  ]250  ad  an.  1266. 


BARTOLOMEO   DA.   NEOCASTRO   E   NICCOLÒ    SPECIALE     221 

i  principali  storici  di  quell'  avvenimento  i  siciliani 
Bartolomeo  da  Neocastro  e  Niccolò  Speciale.  Barto- 
lomeo da  Neocastro,  messinese,  giurista^  magistrato  re- 
pubblicano di  Messina  durante  la  rivoluzione  del  1282, 
indi  avvocato  del  fisco  e  nel  1286  ambasciatore  di  Gio- 
vanni I  di  Sicilia  al  pontefice  Onorio  IV,  è  forse  il 
miglior  testimonio  che  ci  rimanga  intorno  a  quel  fatto. 
La  sua  narrazione  muove  dal  1250  e  va  fino  al  1293 
distendendosi  nell'ultimo  periodo  di  tempo  e  descri- 
vendo gli  eventi  ancor  fresclii  nella  memoria  dell'au- 
tore con  intendimento  onesto  di  dire  il  vero,  salvo 
cbe  un  soverchio  amore  alla  nativa  Messina  lo  rende 
talvolta  ingiusto  ai  Palermitani  e  a  ciò  eh'  essi  fe- 
cero per  affrancar  l'isola  dalla  tirannia  dei  Francesi. 
La  Historia  Sicilia  di  Niccolò  Speciale  abbraccia  un 
periodo  posteriore,  e  muovendo  appunto  dal  Vespro 
giunge  fino  al  1337  e  narra  la  storia  dei  primi  re- 
gni aragonesi  di  Sicilia.  Uomo  d' alto  stato  e  ricco 
di  buone  lettere,  Niccolò  Speciale  era  stretto  di  ami- 
chevoli legami  colla  corte  di  Federico  II  d'Aragona 
il  quale  nel  1334  mandò  anche  lui  ambasciatore  a 
papa  Benedetto  XII.  Da  questi  legami,  nota  giusto 
l'Amari,  «  abbiamo  un  bene  ed  un  male,  il  bene  che 
«  fu  in  luoghi  e  in  tempi  da  conoscere  appunto,  e 
«  non  da  uom  del  volgo,  ciò  che  scrisse,  veduto  co- 
«  gli  occhi  propri  e  ritratto  da  vicino  ;  il  male  che 
«  potè  peccar  di  prudenza  cortigiana  contro  la  ve- 
«  rità  (1).  » 


(1)  Annales  Casinenses  in  Mon.  Germ.  ifist.  SS.  voi.  XIX. 
—  Chronicon  Casaiiriense,  in  Muratoei,  Ber.  Italie.  Script., 


222      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

Dalla  famosa  isola  tornando  ora  di  nuovo  alla  terra 
ferma,  senza  indugiarmi  a  parlare  degli  scrittori  dei 
primi  tempi  angioini,  che  sono  scarsi  e  di  poco  in- 
teresse allo  scopo  del  libro,  passerò  d'un  tratto  a  par- 
lare degli  scrittori  romani.  Anch'  essi  scarseggiano, 
e  dice  vero  il  Gregorovius  osservando  che  le  migliori 
notizie  sulla  storia  municipale  di  Roma  ci  sono  for- 
nite dai  cronisti  inglesi,  Guglielmo  di  Malmesbury, 
Rogero  Hoveden  e  soprattutto  da  Matteo  Paris  i  cui 
lavori  sono  preziosi  alla  storia  italiana  del  tredice- 
simo secolo.  Di  Saba  Malaspina  si  è  detto  come  egli 
romano  trattasse  insieme  gli  avvenimenti  del  reame 
napoletano  e  quelli  di  Roma  allora  assai  mescolati. 
Le  vite  dei  papi,  dopo  quelle  che  scrisse  il  cardinal 
Bosone  furon  prima  ripigliate  da  un  altro  inglese.  Gio- 


ii, 2.  —  Chronicon  S.  Barthólomaei  de  Carpineta,  in  Ughelli, 
Italia  Sacra,  voi.  VII.  —  Romtjaldi  Salernitani  Annales, 
Ibid,  —  HuGONis  Falcandi  Hist.  de  rebus  gestis  in  Siciliae 
regno,  in  Muratori,  op.  cit.,VII.  —  Petri  de  Ebulo  Carmen 
de  bello  inter  Heinricum  VI  et  Tancredum,  ap.  Dal  Re,  Cro- 
nisti sincroni  napoletani.  Napoli,  1845.  —  Ricardi  de  Sancto 
Germano  Chronica,  Mon.  Germ.  Hist,  SS.  XIX.  —  Nicolai 
DE  Iamsilla  De  rebus  gestis  Friderici  II,  Muratori,  op.  cit., 
VIII.  —  Sabae  Malaspinae  Bes  Siculae,  Ibid.  e  meglio  ap. 
Dal  Re,  op.  cit.  —  Nicolai  Specialis  Hist  Sicula,  Mura- 
tori, op.  cit.,  X.  —  Barthólomaei  de  Neocastro  Hist.  Si- 
cula, Ibid.,  XIII.  —  Degli  scritti  riconosciuti  apocrifi  come  i 
Diurnali  di  Matteo  Spinelli,  e  tra  le  croniche  romane  quella 
del  MONALDESCHi,  non  tengo  parola,  né  tengo  parola  del 
Rebellamentu  di  Sichilia,  una  specie  di  romanzo  storico,  come 
lo  chiama  l'Amari,  dettato  in  Siciliano  e  che  mi  par  dimo- 
strato non  essere  contemporaneo  del  Vespro. 


VITE   DEI    PAPI  223 

vanni  di  Salisbury  del  quale  avanza  un  frammento 
pregevolissimo  per  la  storia  di  Eugenio  III  che  fu 
pubblicato  col  titolo  di  Historia  Pontificalis  (1).  Dopo 
lui  un  prete  anonimo  narrò  le  Gesta  d'Innocenzo  III 
(A.  D.  1198-1216),  e  trattò  le  relazioni  di  quel  pon- 
tefice illustre  verso  l'Oriente  e  la  Sicilia  con  difi'u- 
sione  e  autorità  di  contemporaneo  ma  non  chiaro  né 
elegante.  Scritta  anch'essa  da  un  contemporaneo,  ma 
parziale  assai  e  nemica  all'  imperatore  Federico  II 
è  la  vita  di  Gregorio  IX  (f  A.  D.  1241).  A  questo 
di  gran  lunga  più  pregevole  tien  dietro  la  storia  d'In- 
nocenzo IV  (A.  D.  1243-1254),  composta  da  un  cap- 
pellano di  lui,  Niccolò  da  Curbio,  scrittore  apologetico 
ma  bene  informato  e  diligente  che  ricorda  i  migliori 
scrittori  del  Libro  Pontificale  e  li  supera  per  la  fa- 
cile eleganza  dello  stile  e  per  una  purezza  di  lin- 
guaggio che  ci  fa  sentire  come  oramai  la  buona 
latinità  sia  risorta  e  s' avanzi  rapida  nella  via  di 
maravigliosi  progressi.  Dopo  Niccolò  da  Curbio  non 
abbiam  più  proprie  biografie  di  pontefici  ma  solo 
aridi  cenni  riuniti  più  tardi  nelle  raccolte  che  si 
vennero  compilando  al  secolo  decimoquarto  quando 
la  storiografia  pontificia  trasformandosi  prendeva  un 
carattere  più  generale  nella  cronaca  di  Martino  di 
Troppau  famoso  col  nome  di  Martin  Polono,  e  in 
quelle  men  celebrate  ma  migliori  assai  dei  domeni- 
cani Bernardo  Guidone  e  Tolomeo  di  Lucca  le  quali 


(1)  Historia  Pontificalis  ed.  Akxdt,  in  Mon.  Germ.  Hist., 
SS.  XX. 


224      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

muovendo  entrambe  dall'  èra  volgare  cessano  nella 
prima  parte  del  secolo  decimoquarto  (1). 

Il  passaggio  della  sede  pontificia  ad  Avignone,  to- 
gliendo ogni  occasione  di  scriver  da  Roma  la  storia 
dei  papi,  riuscì  a  danno  della  storiografia  romana 
ed  è  ragione  che  sia  così.  I  municipi  dell'  alta  e 
della  media  Italia  rappresentavano  propriamente  uno 
stato  ed  avevano  una  vita  politica  che  difettava  alla 
città  di  Roma  assorbita  dalla  vita  politica  del  Pa- 
pato. Quando  questa  veniva  meno,  il  valore  della  sto- 
ria di  Roma  non  superava  quello  d' ogni  mezzano 
Comune  fuorché  per  la  grandezza  del  nome  romano 
e  de'  suoi  ricordi  immortali.  E  ciò  è  così  vero,  che 
appena  tra  i  ruderi  giacenti  del  Fóro,  si  rizzò  la 
figura  fantastica  di  un  uom  singolare  che  risognando 
la  vaghezza  delle  glorie  antiche  salì  al  Campidoglio, 
brillò  quivi  un  momento  e  svanì  nel  buio,  tosto  ecco 
apparire  una  cronaca  a  ricordarne  le  gesta,  ma  venne 
isolata,  e  la  Vita  di  Cola  di  Rienzo  riman  solitaria  co- 
m' è  solitaria  la  figura  dell'eroe  che  descrive. 

Tra  pochi  altri  frammenti  di  mediocre  valore,  la 
Vita  di  Cola  di  Rienzo  è  il  lavoro  storico  più  po- 
deroso prodotto  da  Roma  nel  secolo  decimoquarto. 
Della  autenticità  di  questo  lavoro  fu  mosso  dubbio 
e  taluno  anzi  la  negò  addirittura,  e  neppur  io,  lo 
confesso,  oserei  dichiararmi  scevro  da  ogni  esita- 
zione. Ma  le  ragioni  per  ritenerlo  autentico  mi  sem- 


(1)  Ptolemaei  Lucensis,  Historia  Ecclesiastica  in  Muratori, 
Ber.  Italie.  Script..,  v.  XI.  —  Tutte  le  altre  vite  pontificie 
Ibid.,  voi.  III. 


VITA    DI    COLA.    DI    RIENZO  225 

brano  tali,  che  quando  per  uno  studio  accurato  dei 
manoscritti  che  restano,  e  per  un  esame  storico  e 
filologico  del  testo  si  potrà  pronunciare  un  giudizio 
definitivo,  io  fo  stima  che  la  sentenza  sarà  favore- 
vole alla  cronaca  e  se  ne  avrà  una  edizione  genuina 
e  monda  dagli  errori  e  dalle  interpolazioni  che  la 
deturpano  adesso.  Del  resto  pur  cosi  imperfetta  come 
oggi  la  leggiamo,  quella  vita  è  piena  d' attrattive, 
dettata  in  dialetto  romano,  animata  da  esclamazioni 
e  da  dialoghi,  semplice  evidente  piena  di  movi- 
mento e  di  vita.  Mossa  da  grande  ammirazione  per 
Cola,  è  temperata  dal  profondo  patriottismo  del  cro- 
nista il  quale  amante  ancor  più  di  Roma  che  di  lui, 
ci  mette  innanzi  l' immagine  fantasiosa  del  Tribuno 
in  tutte  le  sue  strane  contraddizioni.  Quel  suo  mi- 
sto di  senno  e  di  capricci,  la  grandezza  classica  dei 
propositi  di  un  uomo  quasi  ispirato  e  le  puerili  va- 
nità di  chi  a  un  tratto  salisce  da  umiltà  di  stato  ad 
autorità  illimitata,  ogni  impulso,  ogni  nota  caratte- 
ristica di  quella  curiosa  indole  ci  è  descritta  con  tanta 
vivacità  che  sembra  risorgerci  innanzi  a  rivivere  la 
clamorosa  sua  vita.  E  con  lui  rivediamo  i  legati  del 
Papa  e  i  baroni  ora  accarezzati  or  minacciati  da 
Cola,  tremargli  innanzi  di  paura  e  d' ira  e  covar 
la  brama  della  vendetta  in  core;  e  le  sedizioni 
bollire  e  sbollii'e,  e  agitarsi  armati  que'  turbolenti 
Romani  e  muovere  a  combattere  nelle  piazze  e  ta- 
lora acquetarsi  e  poi  frementi  riarder  di  nuovo  e 
tornare  alle  ire,  alle  grida^  ai  tumulti.  È  quel  libro 
un  romanzo  immaginoso  e  vivace  assai  piiì  di  quello 
del  Bulwer   ed  è   insieme   storia,   come    il   tipo   del 

15.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


226  LE   CRONACHE   ITALIANE    >'EL   MEDIO   EVO 

tribuno  romano  è  di  quei  tipi  che  fermano  a  un 
temjDO  la  mente  degli  storici  e  la  fantasia  dei  poeti  {!). 
Se  in  Roma  era  grande  povertà  di  cronisti;  ben 
diverso  accadeva  in  altre  parti  d' Italia,  in  Lombar- 
dia soprattutto,  dove  la  vita  comunale  si  svolgeva 
floridissima,  le  libertà  cittadine  si  allargavano  e  con 
esse  i  commerci  e  le  ambizioni  e  il  cozzar  delle  armi 
agitate  talora  contro  le  invasioni  tedesche,  più  spesso 
in  guerre  fratricide  tra  le  città  vicine  e  fin  dentro 
le  mura  d'una  sola  città.  Già  fin  dal  secolo  undecimo 
quando  Roma  lottava  per  la  supremazia,  comincia 
in  Milano  a  profilarsi  la  storia  secondo  le  nuove 
tendenze,  e  un  elemento  laico  e  popolare  penetra  in 
essa  e  vi  soffia  dentro  1'  alito  della  vita  sua.  In  tal 
modo  Arnolfo  sebbene  partigiano  della  aristocrazia  ec- 
clesiastica milanese  è  inconsciamente  animato  ancor 
egli    da    questo    elemento    nelle    Gesta  Archiepisco- 


pi) Vita  di  Cola  di  Rietizo,  Bracciano  1624  e  1631  ;  ap.  Ma- 
BATOEI,  Ber.  Italie.  Script-.^  UT,  e  con  note  di  Zefirino  Re, 
Ferii  1828,  ristampata  a  Firenze  dal  Le  Monuier.  Tutte  edi- 
zioni imperfette  e  1"  ultima  più  imperfetta  delle  altre.  E  de- 
bito ricordar  qui  che  Cola  di  Rienzo  fu  benemerito  degli  studi 
storici  e  iniziò  in  certo  modo  l'archeologia  romana  indagando 
negli  storici  antichi  e  nelle  epigrafi,  la  storia  di  quei  monu- 
menti che  gì' infiammavano  l'anima.  I  quali  fino  ad  allora 
ebbero  per  quasi  unica  illustrazione  le  leggende  medioevali 
contenute  nella  Mirahiìia,  curioso  e  caratteristico  libro  di  cui 
molto  volentieri  avrei  parlato  se  non  fosse  stato  il  timore  d'ec- 
ceder troppo  i  confini  di  questo  lavoro.  Toglionsi  anche  men- 
zionare alcuni  annali  relativi  a  Roma  e  a  paesi  prossimi 
a  Roma,  pubblicati  nel  volume  XIX  dei  3Ionumenta  Germa- 
niae  Historica. 


ARNOLFO   MILANESE  227 

poruììi  Mediolanensium  (A.  D.  925-1076).  In  esse  egli 
narra  quel  periodo  agitato  d'  ansie  e  di  contrasti  tra 
r  alto  clero  milanese  da  un  lato,  e  dall'  altro  gran 
parte  del  basso  clero  e  del  popolo  :  quello  per  antica 
tradizione  ostile  alle  pretese  romane,  geloso  di  sue 
prerogative  e  di  sue  ricchezze,  contrario  al  celibato 
ecclesiastico,  ma  il  basso  clero  e  il  popolo  tra- 
scinati dalla  corrente  delle  idee  riformatrici,  e  ad- 
dicentisi  a  quel  partito  della  Pataria  di  cui  abbiam 
veduto  farsi  campione  a  Piacenza  e  divenir  martire 
Bonizone  da  Sutri.  Arnolfo  inizia  a  Milano  la  cro- 
naca municipale,  clie  ci  apparve  iniziata  a  Venezia 
da  Giovanni  diacono,  e  nelle  pagine  d'Arnolfo,  dice 
assai  bene  uno  scrittore  recente,  «  non  siamo  più 
«  nel  chiostro,  .siamo  nella  città  in  mezzo  ai  suoi  tu- 
«  multi  e  alle  sue  lotte  (1).  »  E  mentre  la  Pataria 
milanese  aveva  anch'essa  i  suoi  martiri  in  Arialdo 
e  in  Erlembaldo  delle  cui  vite  ci  rimane  un  racconto, 
altri  storici  sorgevano  a  narrare  le  vicende  delle  lotte 
religiose  e  delle  civili.  Cosi  due  Landolfi,  il  seniore 
e  il  giuniore,  riproducevano  il  popolo  tra  cui  vive- 
vano, il  primo  addetto  al  partito  degli  arcivescovi, 
fiero  appassionato  parzialissimo  \  assai  migliore  e 
moderato  il  secondo,  piii  veritiero  e  ricco  di  mag- 
gior dottrina  e  di  maggior  diligenza.  Nato  sul  cadere 
dell'  undicesimo  secolo,  Landolfo  giuniore  fu  educato 
con  cura,  viaggiò  per  motivo  di  studi  a  Parigi,  dove 
allora  conveniva  d'  ogni  parte  d'  Europa  la  gioventù 


(1)  Adolfo  Bartoli,  St.ria  delia  Letteratura  Italiana,  voi.  I. 
Firenze  1878. 


228      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

ad  istruirsi,  e  tornato  in  patria  fu  addetto  alla  chiesa 
di  San  Paolo  riedificata  da  suo  zio  Liprando,  elo- 
quente ardentissimo  e  perseguitato  capo  della  Pata- 
ria.  Perseguitato  ancor  egli  ma  pur  tenuto  in  gran 
conto,  Landolfo  giunìore  scrisse  una  storia  di  Mi- 
lano dal  1095  al  1137,  che,  al  dire  del  Muratori,  è 
breve  ma  contiene  tutti  i  maggiori  eventi  che  muo- 
vevano allora  Milano  e  i  rivolgimenti  degni  di  me- 
moria, ed  esprime  vividamente  quel  che  poteva  in 
que'  tempi;  e  potrà  sempre,  la  cupidigia  del  domi- 
nare. Xè  la  narrazione  di  Landolfo  si  restringe  en- 
tro le  mura  della  città,  ma  s' allarga  ad  illustrare 
molta  parte  della  storia  italiana  (1). 

Contemporanei  a  Landolfo  un  Magister  Moyses  ce- 
lebrava verseggiando  le  lodi  della  nativa  Bergamo, 
dov'era  tornato  dopo  essersi  guadagnato  ricchezze  ed 
onori  alla  corte  di  Costantinopoli,  e  un  altro  poeta, 
anonimo,  piangeva  la  devastazione  di  Como  compiuta 
dai  Milanesi  e  la  guerra  lunga  ed  aspra  che  la  pre- 
cedette dal  1118  al  1127.  Ma  i  tempi  procedevano 
rapidi  e  i  nuovi  avvenimenti  apparecchiavau  materia 
ai  nuovi  cronisti,  tra  i  quali  ci  si  presenta  primo  un 
Milanese  conosciuto  col  nome  dì  Sire  Raoul  o  Ra- 
dulfo,  a  cui  dobbiamo  una  buona  storia  delle  guerre 


(1)  «  Brevis  est,  grandia  tameD  in  Mediolanensi  urbe  gesta 
«  coutinet,  et  rerum  perturbationes  memoria  dignas  ;  graphi- 
«  ceque  exprimit,  quid  in  auirais  hominum  eorum  temporum 
«  potuerit,  semperque  poterit,  dominandi  cupido.  Neque  intra 
«  pomoeria  uuiusMediolani  consistit  Landulphi  uarratio:  multa 
«  etiam  habet,  quibus  Italica  eius  aevi  bistoria  illustretur.  » 
MuRATOKi,  in  praef.  ad  Landuìpli.  B.  I.  S.  voi.  V. 


SIRE   RAOUL  229 

sostenute  dai  Milanesi  contro  il  Barbarossa  (1).  Il 
momento  solenne  per  la  storia  di  Milano  che  rasa 
al  suolo  e  solcata  dall'  aratro  del  vincitore  era  ri- 
sorta a  un  tratto  indomita  e  più  implacabile  che  mai 
contro  Federico,  le  feroci  crudeltà  di  quella  lotta 
accanita,  le  nimicizie  mortali  di  talune  città  fra  loro 
e  la  gloriosa  concordia  delle  altre  che  liberò  l'Italia 
colla  vittoria  di  Legnano  (A.  D.  1176,  29  maggio), 
trovano  in  Raoul  un  testimonio  oculare  che  narra  i 
fatti  con  calma  austera  e  con  desiderio  di  cavarne 
ammaestramento  per  le  generazioni  future  :  «  Ciò  ch'io 
«  vidi  e  che  udii  di  verace,  tenterò  di  scrivere.  Im- 
«  perocché  è  di  grande  utilità  a  chi  vien  dopo  l'impa- 
«  rare  da  ciò  che  è  accaduto  a  guardarsi  per  l'avve- 
«  nire.  »  E  a  questo  severo  cronista  che  narra  le  difese 
della  patria,  dalle  coste  adriatiche  fa  eco  il  fiorentino 
Boncompagno  che  descrive  con  molto  maggiore  impeto 
un  episodio  di  quel  contrasto^  l'assedio  d'Ancona  la 
quale  stretta  dai  soldati  imperiali  guidati  da  un  prete 
guerriero,  Cristiano  arcivescovo  di  Colonia,  si  difese 
ostinato  e  costrinse  i  Tedeschi  a  levai'e  l' assedio. 

Guardando  le  cose  con  occhio  affatto  diverso  e  ap- 
passionati per  la  parte  imperiale,  scrissero  Ottone 
Morena  e  suo  figlio  Acerbo,  i  quali  lasciarono  me- 
moria delle  cose  operate  in  Italia  da  Federico  I,  e 
delle  vicende  di  Lodi  loro  patria.  Ottone  che  fu  giu- 


(1)  Questa  cronaca  è  stata  generalmente  attribuita  a  Sire 
Raoul  di  cui  non  si  sa  nulla  oltre  il  nome,  ma  sembra  ch'egli 
abbia  soltanto  adunate  ed  esposte  le  notizie  di  un  altro  scrit- 
tore rimasto  anonimo. 


230  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

dice  e  messo  imperiale  di  Lottario  e  di  Corrado  III, 
produsse  fino  al  1162  il  suo  lavoro,  continuato  poi 
fino  al  1167  dal  figliuolo  Acerbo,  caro  all'imperator 
Federico  che  lo  nominò  podestà  di  Lodi.  Alla  costui 
morte  avvenuta  in  Siena  nel  1167,  un  anonimo  pro- 
seguì la  storia  interrotta  e  la  prolungò  di  qualche 
anno  con  intelletto  alquanto  piìi  nazionale  dei  due 
Morena,  i  quali  vincolati  d'  affetto  all'  Impero  e  ac- 
cesi dell'  antico  odio  di  Lodi  contro  Milano,  sono 
ardentemente  nemici  a  quest'  ultima.  Ma  pur  con  que- 
sto difetto  di  parzialità,  per  la  forza  dell'ingegno  e 
della  espressione  e  per  le  molte  notizie  che  recano, 
voglionsi  tenere  tra  le  migliori  fonti  che  ci  riman- 
gono di  quella  età  memoranda  (1). 

La  figura  grandiosa  di  Federico  Barbarossa  ebbe 
fra  i  Tedeschi  uno  storico  il  cui  nome  di  necessità 
si  registra  in  queste  pagine.  Fu   questi  Ottone  ve- 


(1)  Arnulphi,  Gesta  Archiepiscoporum  Medioìanensnim,  in 
Mon.  Germ.  Hist.  SS.  Vili.  —  Landdlphi,  Historia  Medioìa- 
nensis.  Ibid.  —  Landulphi  Jdnioris  de  S.  Paulo,  Historia  Me- 
dioìanensis.  Ibid.  XX  e  Muratori,  op.  cit.,  voi.  V.  —  Andreae, 
Vita  S.  AriaJdi  in  Acta  Sanctorum,  (5  giugno).  —  MoYSis  Ma- 
GiSTRl  Bergomexsis,  De  Landibus  Bergomi.  Muratori  B.  I.  S. 
voi.  V.  —  Anonimi,  Poema  de  bello  et  excidio  urbis  Comensis. 
Ibid.  —  Eadulfi  sive  Eaul,  De  rebus  gestis  Trideriei  I.  Ibid., 
VI,  e  Annales  Mediolanenses,  3Ion.  Germ.  Hist.  SS.  XVIII. 
—  BoNcoiiPAGNi  Magistri  Florentini,  De  Obsidione  Anconae, 
Murat.  B.  I.  S.  VI.  —  Otto  Morena,  Acerbus  Morena,  Ano- 
NYMUS,  De  rebus  Laudensibus,  in  Mon.  Germ.  Hist.  SS.  XVIII. 
Intorno  ai  Morena  viene  ora  in  luce  a  Lodi  uno  studio  e  la 
traduzione  dell'  opera  loro  nelV Archivio  storico  per  la  città 
e  comune  del  circondario  di  Lodi.  Anni  II  e  III. 


OTTONE   DI   FRISINGA  231 

SCOVO  di  Prisinga,  nato  verso  il  1114  dalle  seconde 
nozze  di  Agnese  figlia  dell'  imperatore  Enrico  IV, 
con  Liupoldo  marchese  d'Austria,  e  così  fratello  ute- 
rino del  re  Corrado  III  e  zio  del  Barbarossa  che 
r  ebbe  tra  i  più  fidati  consiglieri  e  partecipe  negli 
affari  dell'  Impero.  Ingegno  pronto  e  versatile,  indole 
mistica  e  malinconiosa,  Ottone  tendeva  al  chiostro  e 
dopo  alcun  tempo  passato  agli  studi  in  Parigi,  si 
rese  monaco  cisterciense  nella  badia  di  Morimund. 
Di  quello  stesso  monastero  fu  eletto  abbate,  ma  pre- 
sto dopo  fu  sollevato  alla  sede  episcopale  di  Frisinga 
senza  però  eh'  egli  smettesse  1'  abito  e  gli  affetti  di 
monaco.  Durante  la  seconda  crociata,  guidò  in  Pa- 
lestina contro  i  Saraceni  un  esercito  che  fu  distrutto, 
e  scampato  a  fatica  egli  stesso  e  visitata  Gerusalemme, 
tornò  in  Occidente.  Non  par  che  fosse  molta  armonia 
di  pensiero  tra  lui  e  il  fratello  Corrado  ma  quando 
sali  al  trono  Federico,  ei  s'accostò  maggiormente  alle 
cose  del  Regno.  Rimase  coU'Imperatore  fino  al  1158, 
ma  apparecchiandosi  Federico  a  tornare  in  Italia,  egli 
per  la  fiaccata  salute  sua  ottenne  di  rimanere  in  patria. 
Quivi  morì  di  lì  a  poco  in  quella  stessa  badia  di  Mori- 
mund dove  era  stato  monaco  ed  abbate,  e  alla  quale 
era  legato  d'affetto  come  alla  diocesi  sua  di  Frisinga 
la  cui  cattedrale  trasandata  nelle  turbolenze  dei  tempi 
precedenti,  egli  aveva  restaurata  nobilmente  e  resa 
splendida  e  ricca. 

Meditabondo  per  istinto  e  nutrito  di  forti  studi  filo- 
sofici e  teologici.  Ottone  dallo  spettacolo  degli  avve- 
nimenti umani  nei  quali  si  trovò  mescolato  trasse  ispi- 
razioni ad  un  libro  di  storia  in  cui  filosofar  mestamente 


232  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

sulla  caducità  delle  cose  mondane  e  andar  cercando 
conforto  nel  pensiero  di  un  immortale  avvenire.  Il 
Chronicon,  o,  per  chiamarlo  come  lo  chiamò  Ottone 
stesso^  il  Liber  de  duabus  civitatibus,  raccoglie  sinte- 
ticamente le  varie  età  del  mondo,  e  dalla  creazione 
perviene  ai  suoi  tempi  in  sette  libri  ai  quali  se  ne 
aggiunge  un  ottavo  che  tratta  del  giudizio  finale  e 
della  vita  futura.  Informata  all'erudizione  storica  di 
Paolo  Orosio,  e  ispirata  per  le  vedute  filosofiche  agli 
scritti  di  Santo  Agostino,  è  forse  la  prima  opera  che 
in  quegli  albori  di  rinascenza  tentò  di  conglobare 
tutta  quanta  la  storia  deirumanità  in  un  sistema  pi*eor- 
dinato  di  cause  e  d'  effetti.  E  ciò  ha  gran  pregio  per 
chi  cerca  il  vario  e  progressivo  svolgersi  degli  studi 
storici,  come  senza  dubbio  hanno  pregio  per  lo  studio 
minuto  della  storia  tedesca  quei  libri  del  Chronicon 
che  trattano  dei  tempi  piìi  vicini  ad  Ottone.  Ma  il 
libro  che  ha  speciale  valore  per  la  storia  italiana  è 
un  altro  che  s' intitola  Gesta  Friderici  Imperatoris 
e  discorre  la  prima  parte  delle  imprese  del  Barba- 
rossa.  Calmo  estimator  del  dissidio  fra  la  Chiesa  e 
l'Impero,  questo  vescovo  monaco,  zio  dell'Impera- 
tore, testimonio  oculare  dì  molti  fatti,  assai  bene  in- 
formato di  molti  altri,  sarebbe  senza  paragone  il  mi- 
gliore storico  di  quella  età,  se  alcuni  gravi  difetti 
non  gli  vietassero  quella  gloria.  La  stessa  tendenza 
filosofica  della  sua  mente  che  gli  fa  abbracciar  d'uno 
sguardo  i  fatti  e  giudicarli  abbastanza  giusto  quando 
li  contempla  dall'alto,  lo  rende  spesso  trascurato  nei 
dettagli  e  non  bene  sicuro.  Inoltre  un  certo  pomposo 
amore  di  frasi,  un  desiderio  rettorico  di  crear  con- 


OTTONE   DI   FRISINGA  233 

trasti  d'  ombre  e  di  luce,  lo  inducono  spesso  ad  al- 
terare per  modo  le  circostanze  narrate  che  se  anche 
riman  veritiero  nel  complesso  di  un  fatto,  nei  partico- 
lari riesce  inverosimile.  Tale  si  mostra  narrando  la 
impetuosa  sollevazion  dei  Romani  contro  l'esercito  di 
Federico  (A.  D.  1155,  18  giugno)  e  il  lungo  ostinato 
contrasto  e  la  strage  che  ne  seguì,  dove  afferma  che 
dei  sollevati  mille  furono  i  morti,  dugento  i  prigioni, 
innumerabili  i  feriti,  ma  aggiunge  che  uno  solo  peri 
dei  Tedeschi  e  un  altro  ne  rimase  prigione,  e  con  un 
mirum  dicfu  si  sbriga  classicamente  dell'  ardua  asser- 
zione (1).  Ma  se  questo  difetto  e  un  cotal  misto  di 
boria  nazionale  e  di  cortigiana  adulazione  lo  rendono 
men  degno  di  fede  in  certi  particolari,  egli  tutta- 
via è  nell'insieme  uno  storico  pregevolissimo,  e  in 
questo  ancor  singolare  che  nel  rendersi  conto  degli 
avvenimenti  spesso  con  sottile  intuito  ne  ritrova  le 
ragioni  storiche  e  politiche,  e  risalendo  al  passato 
spiega  con  grande  acume  il  presente.  Così  per  esem- 
pio il  passo  che  son  per  citare  mi  sembra  mirabile, 


(1)  «  Praelium  hoc  a  decima  pene  dici  hora  usque  ad  noc- 
«  tem  protractum  est.  Caesi  fuerunfc  ibi  vel  in  Tyberi  mersi 
«  pene  mille,  capti  ferme  ducenti,  sautiati  innumeri,  caeteri 
«  in  fugam  versi,  uno  tantum  ex  nostris,  mirum  dictu,  occiso, 
«  uno  capto.  Plus  enim  nostros  intemperies  coeli  aestusque  ilio 
«  in  tempore  maxime  circa  Urbem  immoderatior,  quam  Eo- 
«  manorum  laedere  poterant  arma.  »  Eppure  «  Finito  tam  ma- 
«  gnifico  triumplio^  »  il  di  seguente  l'Imperatore  ritraeva  l'eser- 
cito e  s'accampava  a  rispettosa  distanza  da  Pioma.  Non  è 
senza  interesse  il  confrontar  questo  episodio  della  storia  del 
vescovo  di  Frisinga  col  passo  di  Liudprando  citato  qui  sopra 
alla  pagina  124. 


234  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

specialmente  se  si  consideri  che  fu  dettato  da  un  Te- 
desco imperialista  quando  la  volontà  di  Federico  e 
lo  studio  rinascente  della  legge  romana  tendevano 
ad  esagerare  oltre  ogni  termine  i  diritti  e  le  pretese 
del  cesarismo. 

«  Tuttavia  i  Lombardi,  forse  perché  i  lor  figliuoli 
«  pei  maritaggi  cogli  Italiani  ereditavano  in  linea  ma- 
«  terna,  e  per  influenza  del  suolo  e  del  clima,  alcunché 
«  della  romana  mitezza  e  della  sagacia,  deposta  tutta 
«  r  asprezza  della  ferità  loro,  ritengono  la  eleganza 
«  del  linguaggio  latino  e  certa  cortesia  di  costumi. 
«  Inoltre  essi  imitano  la  solerzia  dei  Romani  an- 
«  tichi  nel  governo  delle  città  e  nella  conserva- 
«  zione  della  cosa  pubblica.  Da  ultimo  essi  così 
«  sono  affezionati  alla  libertà  loro,  che  ad  evitar  la 
«  insolenza  de' reggitori  amano  meglio  essere  gover- 
«  nati  da  consoli  che  da  principi.  E  poiché,  sono  fra 
«  loro  tre  ordini,  quel  dei  capitanei,  quel  de'valvas- 
«  sori  e  quel  della  plebe,  a  tener  giù  l'arroganza, 
«  questi  predetti  consoli  sono  scelti  non  da  un  solo 
«  ordine  ma  da  ciascuno,  e  affinché  non  li  vinca  la 
«  cupidigia  del  potere,  essi  quasi  ogni  anno  sono  mu- 
«  tati.  Di  che  avviene  che  quella  contrada  è  tutta 
«  divisa  in  città  le  quali  hanno  costretto  quei  del 
«  territorio  loro  a  vivere  in  esse,  e  a  stento  trove- 
«  rebbesi  uom  nobile  o  grande  con  tanto  potere  da 
«  esser  franco  dell'  obbedienza  alle  leggi  della  città 
«  sua.  E  usano  di  chiamar  Contadi  o  Comitati  que- 
«  sti  diversi  territori  dal  privilegio  del  vivere  in- 
«  sieme.  E  affinché  non  manchi  loro  il  mezzo  d'in- 
«  frenare  i  vicini  e' non  disdegnano  di  levare  al  grado 


OTTONE   DI   FRISINGA  235 

■«  della  cavalleria  e  ad  ogni  grado  di  autorità  gio- 
«  vani  di  bassa  estrazione  e  perfino  operai  di  spre- 
«  gevoli  arti  meccaniche  che  gli  altri  popoli  allon- 
«  tanano  come  pestiferi  dalle  più  nobili  e  liberali 
«  professioni.  Onde  avviene  che  essi  avanzano  ogni 
«  altro  del  mondo  per  loro  ricchezza  e  potenza.  E 
<^  a  ciò,  come  s'  è  detto,  sono  aiutati  dall'  indole  loro 
«  laboriosa  e  dalla  lontananza  dei  loro  principi  l'e- 
«  sidenti  di  solito  a  settentrione  dell'Alpi.  In  ciò 
«  tuttavia  essi  dimentichi  della  nobiltà  antica  riten- 
«  gono  la  traccia  di  lor  barbare  costumanze  che  men- 
«  tre  si  vantano  di  viver  secondo  la  legge,  pure  alle 
«  leggi  non  obbediscono.  Imperocché  di  rado  o  non 
«  mai  accolgono  riverenti  il  principe  a  cui  sarebbero 
«  in  obbligo  di  mostrare  una  volenterosa  reverenza 
«  di  soggezione,  né  accettano  obbedienti  quel  ch'egli 
«  impone  secondo  la  giustizia  delle  leggi,  se  non 
«  sentono  1'  autorità  sua  costretti  dal  coadunarsi  di 
«  molto  esercito.  Onde  egli  accade  frequente  che  men- 
«  tre  il  cittadino  dovrebbe  esser  frenato  sol  dalla 
«  legge  e  il  nemico  secondo  la  legge  essere  costretto 
«  dall'  armi,  es§i  veggono  colui  appo  il  quale  come 
«  lor  principe  dovrebbero  trovar  clemenza,  aver  più 
«  spesso  ricorso  alle  armi  per  mantenere  i  diritti  suoi. 
«  Di  che  viene  allo  Stato  un  doppio  danno,  che  il 
«  principe  deve  torcer  sue  cure  a  raccogliere  un  eser- 
«  cito  per  tenere  in  freno  i  cittadini,  e  questi  deb- 
«  bono  esser  costretti  ad  obbedire  al  principe  non 
«  >!enza  grave  dispendio  della  sostanza  sua.  Onde  per 
«  la  stessa  ragione  che  il  popolo  è  in  tal  caso  col- 
«  pevole  d' improntitudine,  vuoisi  scusare  il  principe 


236  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

«  innanzi  a  Dio  e  agli  uomini  per  la  necessità  del 
«  caso. 

«  Tra  le  altre  città  di  questa  nazione,    è  princi- 

«  pale  ora  Milano  posta  fra  il  Po  e  le  Alpi Ed 

«  è  stimata  più  famosa  d'  altre  città  non  pure  in  ra- 
«  gione  di  sua  maggiore  ampiezza  e  del  suo  maggior 
«  numero  d'  uomini  d' arme,  ma  sì  anche  perché  en- 
«  trano  nella  giurisdizion  sua  altre  due  città  poste 
«  nella  regione  medesima,  ciò  sono  Como  e  Lodi. 
«  Quindi  come  avviene  nelle  umane  cose  pel  blandir 
«  della  ridente  fortuna,  essa  per. tal  modo  si  gonlfiò 
«  in  ardimento  d'orgoglio,  che  non  solo  non  s'astenne 
«  dall'  assalire  i  vicini  suoi  ma  perfino  s'  avventurò 
«  senza  sgomento  a  incorrere  nella  recentemente  of- 
«  fesa  maestà  del  principe.  » 

E  da  dolere  che  una  morte  immatura  togliesse  ad 
Ottone  di  pros,eguir  la  sua  storia  oltre  il  1158  quando 
il  conflitto  tra  Fedei'ico  e  i  Comuni  poteva  dirsi  poco 
più  che  iniziato.  Per  fermo  la  esperienza  dei  fatti, 
la  familiarità  sua  coli'  Imperatore  e  l' uso  facile  di 
documenti  ufficiali  avrebbero  sempre  più  cresciuto 
A^alore  al  suo  libro  col  progredir  degli  eventi.  Non 
ce  ne  compensa  abbastanza  il  suo  fedel  cappellano 
Ragevino  che  ne  proseguì  alquanto  1'  opera  e  la  pro- 
trasse fino  al  1160,  testimonio  anch'  egli  di  vista  e 
forse  più  diligente  del  suo  patrono,  ma  come  di  stato 
così  d' ingegno  e  di  dottrina  infinitamente  minore.  E 
oltre  a  questa  continuazione  le  Gesta  ispirarono  il 
poema  di  Guntero  Ligurino  intitolato  Carmina  de 
rebus  gestis  Friderici  I  Aenoharhi  che  di  recente  die 
luogo  a  molte  discussioni  sulla  autenticità  sua.  Qualche 


GOFFREDO   DA    VITERBO  237 

erudito  dichiarò  essere  quel  poema  una  impostura  del 
secolo  decimosesto  ma  questa  par  sentenza  esagerata. 
Assai  più  ragionevole  è  quella  dell'erudito  francese, 
Gastone  Paris,  che  tiene  essere  il  poema  una  specie  di 
esercitazione  letteraria  scritta  sul  finire  del  dodice- 
simo secolo  quasi  intieramente  sulle  traccie  delle  Ge- 
sta di  Ottone  di  Frisinga,  talché  dal  punto  di  vista 
storico  non  eccede  molto  il  valore  di  una  parafrasi 
in  versi. 

Né  molto  più  valgono  le  Gesta  Friderici  di  Goffredo 
da  Viterbo  che  trattò  anch'  egli  lo  stesso  tema  ma  roz- 
zamente, disordinato  e  senza  dir  quasi  nulla  di  nuovo. 
Goffredo  scrisse  alcune  altre  opere  tra  le  quali  una 
storia  assai  nota  intitolata  Pantheon,  ed  anche  fu  at- 
tribuito a  lui  un  carme  sulle  imprese  di  Enrico  VI 
contro  Tancredi  in  Sicilia  ma  non  par  che  sia  suo. 
Si  disputa  s'  egli  nascesse  a  Viterbo  o  in  Germania 
e  il  più  dei  critici  lo  ritiene  Tedesco,  ma  io  non  oserei 
affermare  migliore  l' una  sentenza  dell'  altra.  Certo 
fa  educato  fanciullo  a  Bamberga  e,  addetto  alla  corte 
di  Federico,  si  adoperò  molto  per  lui.  Lo  seguì  nelle 
sue  imprese,  e,  come  dice  egli  stesso  viaggiò  per  luì 
«  due  volte  in  Sicilia,  tre  in  Provenza,  una  in  Ispa- 
«  gna,  sovente  in  Francia  e  quaranta  volte  dalla  Ger- 
«  mania  a  Roma.  »  Morì  a  Viterbo  che  se  non  lo 
vide  nascere  gli  fu  patria  adottiva  negli  ultimi  anni 
suoi,  e  certo  gli  mancò  piuttosto  1'  arte  che  1'  occa- 
sione di  salir  più  alto  fra  gli  storici  del  suo  tempo  (1). 


(1)  Ottonis  Frisingensis  Opera  (I.  Chronicon,  II.    Gesta 
Friderici  Imperatoris)  in  Mon.  Gemi.  Hist.  SS.  XX  ed.  E.  WiL- 


238      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

Ben  diversamente  pregevole  apparisce  invece  un 
altro  poema  che  di  recente  scopri  il  professor  Mo- 
naci nella  Biblioteca  Vaticana  e  che  sarà  pubbli- 
cato dalla  Società  romana  di  Storia  patria.  L'ano- 
nimo autore,  nativo  per  quanto  pare  di  Bergamo  e 
molto  probabilmente  discepolo  di  quel  Magister  Moy- 
ses  che  si  è  già  menzionato,  è  un  imperialista  am- 
miratore del  Barbarossa  e  canta  le  costui  imprese  in 
Lombardia  fino  al  1160,  interrompendosi  a  un  tratto 
forse  perché  mentr'egli  scriveva,  intorno  al  1116, 
Bergamo  mutata  parte  staccavasi  da  Federico  ed  en- 
trava nella  lega  lombarda.  Verseggiatore  abbastanza 
buono  e  dipintore  vivace  egli  non  accresce  di  molti 
fatti  nuovi  la  conoscenza  che  abbiamo  di  quei  tempi, 
tua  ne  modifica  alcuni  ed  altri  ne  conferma  o  ne 
spiega.  Finora  ne  fu  pubblicato  un  breve  saggio  sol- 
tanto in  cui  si  narra,  modificando  il  racconto  di  Ot- 
tone di  Frisinga  e  con  molto  maggior  sembianza  di 
vero,  la  incoronazione  del  Barbarossa  e  la  zuffa  av- 
venuta  tra  i  Romani  e  gì'  Imperiali.  Questo   fram- 


MANS.  Un'altra  opera  di  Ottone  intorno  alla  storia  d'Austria 
è  perduta.  Oltre  Ragevino  che  nelle  antiche  edizioni  veniva 
erroneamente  chiamato  Radevico,  e  che  ebbe  egli  stesso  un 
continuatore  anonimo,  il  vescovo  di  Frisinga  ebbe  un  altro 
continuatore  in  Ottone  da  San  Biagio  che  condusse  il  Chro- 
nicon  lino  al  1209.  Intorno  ad  Ottone  di  Frisinga  si  è  scritto 
molto  e  sono  da  segnalare  sopra  gli  altri  gli  studi  del  Giese- 
brecht  e  del  Wattenbach,  e  le  belle  prefazioni  del  Wilmans  alla 
edizione  delle  opere  citata  qui  sopra.  Guntheri  Ligukini,  De 
Rebus  gestis  Friderici  1  Aenobarbi  ed.  pr.  Basileae,  1569.  Go- 
TiFEEDi  ViTERBiENSis  Opera,  in  Mon.  Germ.  Hist.  SS.  XXII. 


POEMA    SU   FEDERICO   BARBAROSSA.  239 

mento  pubblicato  si  chiude  con  una  digressione  com- 
movente intorno  alle  dottrine  e  al  supplizio  d'Arnaldo 
da  Brescia  eh'  egli  ci  mostra  serenamente  intrepido 
innanzi  al  laccio  ed  al  rogo,  martire  fermo  della 
sua  fede. 

«  Ma  come  vide  prepararglisi  il  supplizio  e  affret- 
«  tandosi  il  fato  legarglisi  il  laccio  al  collo,  richiesto 
«  se  volesse  abbandonare  il  pravo  dogma  e  confessar 
«  sue  colpe  a  mo'  de'  savi,  egli,  mirabile  a  dirsi,  in- 
«  trepido  e  sicuro  di  sé  rispose  parergli  salutare  il 
«  suo  dogma  né  dubitare  di  subir  la  morte  per  le  sue 
«  parole  nelle  quali  nulla  era  assurdo  nulla  nocivo.  E 
«  chiese  un  breve  indugio  per  pregare  un  momento,  per- 
«  che  disse  di  voler  confessar  le  sue  colpe  a  Cristo.  Al- 
«  lora  piegate  le  ginocchia,  levati  gli  occhi  e  le  mani  al 
«  cielo  gemette  sospirando  dall'imo  petto  e  senza  pa- 
«  role  pregò  mentalmente  il  celeste  Iddio  racco man- 
«  dandogli  1'  anima  sua  ;  e  rimasto  così  alcun  poco 
«  diede  il  corpo  alla  morte  preparato  a  patirla  co- 
«  stantemente.  Gli  spettatori  scoppiarono  in  lacrime 
«  ed  erano  perfino  alquanto  commossi  i  littori.  Fi- 
«  nalmente  pendette  sospeso  al  laccio  che  lo  tratte- 
«  neva,  e  dicesi  che  ne  dolesse  al  re,  troppo  tardi 
«  misericordioso.  O  dotto  Arnaldo,  a  che  ti  giovò 
«  tanta  letteratura  ?  a  che  tanti  digiuni  e  tanti  tra- 
«  vagli  ?  Perché  mai  seguì  egli  sì  dura  vita,  e  spregiò 
«  i  molli  ozi,  né  volle  conceder  nulla  alla  carne?  Ah, 
«  chi  mai  lo  persuase  di  volgei'e  il  dente  mordace 
«  contro  la  Chiesa?  Ecco  perisce  il  tuo  dogma  pel 
«  quale,  o  condannato,  portasti  la  pena,  e  non  rimane 
«  viva  la  tua  dottrina  !   Arse  e  s' è  risoluta  teco  in 


240  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

«  tenue  favilla  affinché  non  avanzino  reliquie  che  ta- 
«  luno  potrebbe  forse  venerare.  » 

L' esser  questo  un  poema  storico  e  non  propria- 
mente una  storia,  le  difficoltà  del  verseggiare,  le  re- 
miniscenze classiche  di  cui  s' infiora  il  libro  massime 
dove  descrive  battaglie,  tolgono  alquanto  alla  preci- 
sione storica  delle  notizie  narrate.  Ma  1'  amore  e  l'in- 
tuito del  vero  che  trovansi  in  esso  lo  fanno  pi'ezioso, 
ed  è  ammirabile  l' attitudine  del  poeta  a  scolpire  in 
un  solo  verso  i  particolari  impoi-tanti  di  un  fatto  o 
le  intime  ragioni  di  molti.  Così  allorquando,  nel  dir 
del  fascino  esercitato  dalla  eloquenza  d' Arnaldo  in 
molte  città  d' Italia,  egli  aggiunge  che  l' esercitò  an- 
che sulla 

....  Romanam  facilem  nova  credere  plebem, 

ci  snuda  innanzi  e  ci  dipinge  al  vivo  quel  popolo 
sempre  irrequieto  attraverso  i  secoli  del  medio  evo, 
sempre  troppo  memore  del  suo  passato  che  gli  pe- 
sava addosso  colla  sua  grandezza,  sempre  male  con- 
tento del  suo  presente  che  non  poteva  rivendicare 
ad  alti  destini  (1). 


(1)  Ernesto  Monaci,  H  Barharossa  e  Arnaldo  da  Brescia 
a  Roma,  nelV Archivio  della  Società  romana  di  Storia  patria, 
voi.  I.  e  W.  V.  GiESEBEECHT,  Soi^ra  il  poema  recentemente  sco- 
perto intorno  all'  imperatore  Federico  J,  lettera  al  prof.  Mo- 
naci. Ibid.,  voi.  II.  11  Signor  C.  Wenck  ha  testé  proposto  il  dub- 
bio che  l'autore  sia  Thadeus  de  Roma  nel  Neues  Archiv,  IX,  1. 
(Anno  1883).  Il  manoscritto  che  contiene  il  poema  è  del  se- 
colo XIII,  e  in  calce  porta  questo  titolo:  Gesta  per  impera- 
lorem  Federicum  Barbam  ruheam,  in  partibus  Lumbardie  et 


STORIE   MUNICIPALI  241 

Colla  pace  tra  i  Comuni  e  Federico  fermata  a  Co- 
stanza nel  1183,  cessa  il  primo  periodo  della  storia 
comunale  e  un  altro  se  n'  apre  ancor  più  fecondo  di 
attività  e  di  rivolgimenti  interni,  età  di  guerre  in- 
testine fiere  e  continue,  età  di  commerci,  d' arti,  di 
letteratura.  La  storiografia  se  ne  giova,  e  mentre  la 
erudizione  crescente  e  il  propagato  desiderio  d'ap- 
prendere fan  crescere  il  numero  di  quelle  compila- 
zioni generali  che  abbracciano  tutta  la  storia  dal 
nascere  del  mondo  fino  ai  tempi  del  compilatore,  ogni 
città  grande  o  piccola  ha  suoi  cronisti  e  tra  essi  ne 
sorge  alcuno  che  stendendosi  oltre  la  cinta  delle  sue 
mura  è  storico  veramente  di  tutta  Italia  o  di  gran 
parte  di  essa.  Anche  il  soffio  animatore  dell'arte  pe- 
netra in  queste  pagine  di  storia,  e  cominciano  a  ri- 
velarsi scrittori  ricchi  di  pensiero  ed  eleganti  dettatori 
o  neir  antico  linguaggio  o  nel  nuovo  vivente  parlare 
che  si  vien  formando  sotto  la  lor  penna  e  diventa 
classico.  Degli  autori  di  compilazioni  generali  vuoisi 
qui  trattar  brevemente  e  toccherò  appena  alcuni  dei 
minori  tra  i  cronisti  particolari,  per  potermi  disten- 
dere alquanto  più  sui  maggiori.  Dei  primi  apparisce 
notevole  Sicardo,  eletto  vescovo  di  Cremona  nel  1185, 
uomo  di  gran  zelo  e  di  gran  cuore,  che  molto  si  ado- 
però in  favor  della  patria  presso  Federico  I,  esortò 
i  Cremonesi  a  mandare  aiuti  ai  Crociati  in  Oriente 
e  colà  si  recò  egli  stesso  nel  1203  spingendosi  fino 


Italie.  Ruggero  Bonghi  in  un  recente  e  mirabile  studio  sopra 
Arnaldo  da  Brescia  si  è  servito  assai  della  pubblicazione  qui 
citata  del  Monaci  rilevandone  il  gran  valore. 

16.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


242  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

in  Armenia  compagno  di  un  legato  apostolico.  Scrisse 
vari  libri  tra  i  quali  una  cronaca  abbondante  di  fa- 
vole pei  tempi  antichi  ma  assai  diligente  ed  esatta 
in  ciò  che  espone  delle  cose  avvenute  all'  età  sua. 
Altri  scrittori  dello  stesso  genere  sono  un  Giovanni 
Colonna  arcivescovo  di  Messina  il  quale  nel  1257 
fu  in  Inghilterra  legato  del  pontefice  Alessandro  IV, 
e  compose  un  Biave  Historiarum  tuttora  inedito  ;  Ri- 
cobaldo  da  Ferrara  che  sul  finire  del  tredicesimo  se- 
colo scrisse  una  storia  universale  intitolata  Poma- 
rium,  e  Iacopo  d'Acqui,  e  Giovanni  diacono  vero- 
nese, e  Landolfo  Colonna  romano,  scrittori  tutti  le 
cui  opere,  come  quella  di  Sicardo,  non  hanno  verun 
valore  per  la  parte  antica  ma  dai  quali  si  possono 
estrarre  utili  notizie  pei  tempi  contemporanei  a  loro. 
E  molta  utilità  di  notizie  si  può  ricavare  da  frate 
Francesco  Pipino,  domenicano  bolognese  che  tradusse 
di  francese  in  latino  una  storia  della  guerra  di  Terra 
Santa  e  i  viaggi  di  Marco  Polo,  e,  dopo  essere  stato 
anch'  egli  in  Oriente  descrisse  i  suoi  viaggi,  aggiun- 
gendo per  ultimo  a  tanti  lavori  una  cronaca  gene- 
rale dalla  prima  origine  dei  Re  Franchi  fino  al  1314. 
L' ultima  parte  di  essa  abbonda  di  fatti  avvenuti  in 
varie  parti  d' Italia  eh'  egli  narra  con  diligenza  ac- 
curata. 

La  cronaca  di  Francesco  Pipino  rappresenta  una 
tendenza  letteraria  dell'  ordine  domenicano,  il  quale 
inteso  alla  predicazione  e  alle  controversie  aveva  bi- 
sogno di  vaste  compilazioni  che  facilitassero  una  certa 
erudizione  abbracciando  in  copia  grande  avvenimenti 
tratti  dalla  Scrittura,  dalle  storie,  dalle  tradizioni,  prò- 


FRA    SALIMBENE  243 

priamente  enciclopedie  storiche  mescolate  di  vero  e 
di  leggende.  Diversa  invece  la  tendenza  dei  Fran- 
cescani che  s'aggiravano  tra  il  popolo  e  ne  avevano 
r  intelletto,  la  fantasia  e  gì'  istinti.  Mirabile  libro 
tutto  ingenuità  e  freschezza  popolare  i  Fioretti  di 
San  Francesco,  ardore  infiammato  di  zelo  e  spirito 
di  satira  mordace  nei  canti  di  lacopone  da  Todi  che 
sfogava  1'  un  sentimento  nella  mestizia  solenne  del 
suo  Stahat  Mater  e  l'altro  nelle  satire  sanguinose 
contro  Bonifazio'  Vili.  L'ordine  francescano  era  de- 
mocratico, e  pur  quando  accarezzato  e  temuto  pene- 
trava come  un'  onda  di  popolo  nei  palagi  e  nelle 
corti,  mai  non  abbandonava  la  primitiva  tendenza, 
e  vi  penetrava  colla  familiarità  sprezzante  di  una 
democrazia  conscia  della  sua  forza.  Era  naturale  che 
il  guelfismo  popolare  del  secolo  decimoterzo  trovasse 
a  rappresentarlo  il  suo  pittore  in  un  francescano, 
che  frate  Salimbene  da  Parma  piìi  che  lo  storico  è 
il  pittore  dei  suoi  tempi.  Nacque  a  Parma  nel  1221, 
di  quindici  anni  abbandonò  la  casa  paterna  per  ren- 
dersi francescano  e  resistè  ostinato  alle  preghiere,  alle 
lusinghe,  alle  maledizioni  del  padre  che  lo  supplicava 
di  tornare  alla  dolce  compagnia  dei  parenti.  Di  con- 
vento in  convento  peregrinò  per  l' Italia  centrale  e 
per  r  alta,  arrestandosi  piìi  o  men  lungamente  nei 
principali  paesi  di  quella  regione  ;  viaggiò  la  Francia 
per  circa  due  anni  e  tornato  in  Italia  dimorò  un 
pezzo  a  Ferrara,  poi  seguitò  a  muovere  da  città  a 
città,  sbalestrato  qua  e  là  secondo  i  casi,  il  volere 
dei  superiori  e  un  certo  irrequieto  bisogno  di  moto 
e  di  novità  che  era  nella  natura  sua.  Vide  e  conobbe 


244      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

infinita  gente,  varia  di  paese,  di  condizione,  d'animo; 
papi,  re,  vescovi,  baroni,  popolani,  e  profeti  e  giul- 
lari e  santi  e  ribaldi.  Trattò  parecchi  affari  per  l'or- 
dine suo,  nel  1256  cooperò  colla  nomina  di  un  ar- 
bitro a  comporre  certe  differenze  tra  il  Comune  di 
Bologna  e  quel  di  Keggio.  Di  li  a  poco  lo  troviamo 
presso  Piacenza  al  capezzale  di  un  contagioso,  nel  1260 
guida  per  le  vie  di  Modena  una  di  quelle  strane  pro- 
cessioni di  flagellanti  che  intorno  a  quegli  anni  ec- 
citavano r  ascetismo  disordinato  e  fantastico  delle 
popolazioni.  Passato  in  Romagna  mentre  s'  occupava 
di  studi  e  a  Ravenna  esaminava  il  Libro  Pontificale 
di  Agnello,  vide  accadergli  intorno  molti  fatti  note- 
voli «...  e  così  sempre  con  un  pie  nel  chiostro  ed 
«  uno  nel  mondo,  sempre  in  mezzo  a  quell' agitarsi 
«  d' idee  e  di  passioni,  di  penitenze  e  di  delitti,  di 
«  libertà  e  di  tirannide  (1).  »  Visse  certamente  fino 


(1)  M.  Tabarkini,  La  cronaca  di  Fra  Salimbene  da  Parma. 
In  tutto  ciò  che  dico  di  Salimbene,  seguo  iDvecipuaraente  il 
saggio  del  senatore  Tabarrini  uno  dei  piìi  perfetti  lavori  usciti 
dalla  penna  di  questo  sciùttore  eminente.  È  stato  ripubblicato 
tra  i  suoi  Studi  di  critica  storica,  Firenze,  1S76.  Quanto  al 
Chronicon  Fr.  Salimbene  Paemensis,  esso  fu  per  la  prima 
volta  pubblicato  nel  1857  in  Parma  da  una  copia  moderna  e 
incompleta  tratta  da  un  codice  vaticano.  Più  volte  fu  espresso 
il  desiderio  di  una  nuova  edizione  e  avendo  io  avuta  occasione 
di  confrontar  molti  passi  sul  testo  vaticano,  m'è  parso  che 
metterebbe  conto  di  compierla.  E  questa  opinione  che  espri- 
mevo nella  edizione  inglese  di  questo  libro,  trova  ora  con- 
ferma in  un  recente  articolo,  assai  ben  fatto  e  diligentissimo, 
intitolato  La  cronaca  di  Salimbene  e  pubblicato  nel  Giornale 
Storico  della  Letteratura  Italiana,  I,  3  (an.  1883). 


FRA    SALIMBENE  245 

al  1288  e  probabilmente  oltre  il  1290,  attraversando 
cosi  nella  sua  vita  la  parte  maggiore  e  più  caratte- 
ristica del  secolo  decimoterzo.  Dopo  aver  composte 
diverse  opere  teologiche  e  storiche  quasi  tutte  per- 
dute, finalmente  per  una  sua  nipote  monaca  in  un 
monastero  di  Parma  raccolse  quanto  aveva  imparato 
dai  libri  o  veduto  nel  mondo,  e  tutto  fuse  e  mescolò 
insieme  in  una  vasta  cronaca  discesa  infino  a  noi. 

Il  secolo  in  cui  visse  Salimbene  si  riproduce  in 
questa  cronaca  come  in  uno  specchio  luminoso.  Diverso 
in  ciò  da  quasi  tutti  i  principali  cronisti  italiani,  que- 
sto frate  fu  piuttosto  spettatore  che  attore  nella  storia 
del  suo  tempo,  ma  spettatore  acuto  sagacissimo  pieno 
d'  osservazione,  abbastanza  sciolto  dai  pregiudizi  del 
suo  partito  e  della  età  sua  per  giudicar  liberamente 
ogni  cosa,  abbastanza  legato  ad  essi  per  rifletterli  in- 
consciamente. Francescano  del  tredicesimo  secolo, 
l'abito  e  i  tempi  gl'ispiravano  un  certo  misticismo  asce- 
tico che  non  era  nel  fondo  dell'  indole  sua  ruvida- 
mente schietta  e  piena  di  buon  senso.  Scrivendo  di- 
ceva senza  reticenze  il  vero  d'ogni  uomo  o  lo  coprisse 
r  elmetto  o  il  cappuccio  o  la  mitra,  e  del  pari  giu- 
dicava le  cose  alla  libera  con  quel  suo  stile  andante 
e  pittoresco,  e  quel  suo  latino  rozzo  e  cosi  pieno  di 
forme  italiane  che  della  latinità  non  ritien  quasi  nulla. 
Non  è  uno  storico,  è  un  raccontatore  che  viene  man 
mano  descrivendo  quanto  gli  cade  sott'  occhio,  fami- 
liarmente, senza  ordine  e  quasi  senza  proposito^  tra 
digressioni  continue,  inframettendo  ai  suoi  racconti 
osservazioni  e  giudizi  arguti  che  mostrano  in  lui  una 
lucidezza  di  mente  usata  a  cogliere  per  intuito  il  vero 


246      LE  CROXA.CHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

delle  cose.  La  lotta  tra  Federico  II  e  i  Comuni  guelfi 
di  Lombardia  è  narrata  a  frammenti  in  mille  epi- 
sodi nei  quali  appariscono  e  si  muovono  tutti  que'per- 
sonaggi  secondari  e  molti  anche  degl'  infimi  che  sono 
tanta  parte  della  storia  eppur  trovano  appena  rade  e 
fuggevoli  menzioni  presso  gli  storici  di  professione. 
E  coi  minori  uomini  dipinge  a  larghi  tratti  anche  i 
grandi,  e  V  imperatore  Federico  II  «  non  avea  punta 
«  fede,  fu  uomo  scaltro,  furbo,  lussurioso,  malizioso, 
«  iracondo  ",  e  tuttavia  fu  valente  uomo  quando  gli 
«  piacque  mostrar  sue  bontà  e  cortesie;  sollazzevole, 
«  giocondo,  industrioso;  sapea  leggere,  scrivere  e  can- 
«  tare  e  trovar  cantilene  e  canzoni ....  sapeva  par- 
«  lar  molte  e  diverse  lingue  :  e,  a  sbrigarmi  in  breve, 
«  se  fosse  stato  buon  cattolico ....  pochi  uguali  avrebbe 
«  avuto  nell'Impero  ....  fu  beli'  uomo  e  ben  formato 
«  ma  di  mezzana  statura.  Io  l'ho  veduto  alcuna  volta 
«  e  mi  piacque.  »  E  dopo  aver  parlato  di  alcune  cru- 
deltà commesse  da  Federigo  per  curiosità  d'investi- 
gazione scientifica,  aggiunge  eh'  egli  era  epicureo  «  e 
«  quanto  poteva  per  sé  o  pei  suoi  sapienti  ricavare 
«  nella  Divina  Scrittura  che  dopo  morte  non  ci  fosse 
«  altra  vita,  tutto  tirava  fuori  (1).  »  Edera  sua  in- 
tenzione che  «  tanto  il  papa  che  i  cardinali  e  gli 
«  altri  prelati  fosser  poveri    e  andassero   a  piedi,  e 


(!)  Suo  cimitero  da  questa  parte  hanno 

Con  Epicuro  tutti  i  suoi  seguaci 
Che  l'anima  col  corpo  morta  fanno. 


Qua  entro  è  lo  secondo  Federico. 

D.\NTE,  Inferno.  X. 


FRA    SALIMBENE  247 

«  ciò  non  intendea  fare  per  zelo  divino,  ma  perché 
«  avaro  era  molto  e  cupido,  e  voleva  avere  le  ric- 
«  chezze  e  i  tesori  della  Chiesa  per  sé  e  pe'  figliuoli 
«  suoi ....  e  ciò  egli  riferiva  ad  alcuni  dei  suoi  se- 
«  gretarì.  »  E  altrove  aggiunge  che  Federico  «  coi 
«  suoi  principali  si  sforzava  di  rovesciare  la  libertà 
«  ecclesiastica  e  corrompere  la  unità  dei  fedeli,  »  la 
quale  accusa  che  dovette  essere  popolare  a  que'  dì, 
è  consona  all'opinione  di  chi  tra  i  moderni  attri- 
buisce a  Federico  e  a  Pier  della  Vigna  il  disegno  di 
volersi  staccar  dal  Papato  e  fondar  nuova  Chiesa,  e 
spiega  sempre  più  il  favore  accordato  dai  Papi  a  Carlo 
d'Angiò  contro  gli  Hohenstaufen.  E  questo  principe 
fortunato,  ipocrita  simulator  di  pietà,  per  interesse 
e  senza  affetto  capo  e  rovina  del  guelfismo  italiano, 
anch'  esso  qual  fu  vien  descritto  in  più  luoghi  della 
cronaca  di  Salimbene  che  prima  lo  vide  in  un  mona- 
stero di  Francia  in  compagnia  del  fratello,  il  re  santo 
Luigi.  Ma  in  questa  cronaca  più  d'ogni  cosa  è  at- 
traente e  pregevole  la  dipintura  larga  insieme  e  mi- 
nuziosa dello  stato  d'Italia  quale  scaturisce  in  ogni 
pagina,  in  ogni  episodio  eh'  ei  narra.  L'  agitarsi  delle 
dottrine  teologiche  e  la  tenace  fermezza  di  Roma  tra 
quel  nuovo  fermento  indagatore  degli  spiriti  o  vol- 
genti come  Federico  II  verso  una  specie  di  epicurei- 
smo negativo,  o  come  i  gioachimiti  verso  un  misticismo 
visionario,  è  mirabilmente  ritratto  da  Salimbene.  Il 
quale  seguace  egli  stesso  per  alcun  tempo  dell'  abate 
Gioachino,  non  rimase  a  lungo  in  quelle  dottrine  per 
l' indole  sua  inclinata  al  pratico  e  troppo  diversa  dalle 
tendenze  fantastiche  del  visionario  calabrese.  Di  che 


248  LE    CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

nella  cronaca  e'  si  volge  naturalmente  a  molti  episodi 
che  descrivono  la  vita  dei  vari  ceti  del  clero  e  le  virtù 
loro  e  i  vizi,  e  le  relazioni  di  essi  col  popolo,  e  le  stra- 
nezze religiose  di  questo  che  in  parte  egli  approva  e 
in  parte  talor  disapprova.  Del  pari  la  vita  politica 
del  suo  tempo,  il  largo  spandersi  delle  libertà  repub- 
blicane, e  i  mali  a  cui  le  guerre  di  Federico  II  con- 
ducevano la  Lombardia  eh'  egli  dipinge  «  ridotta  in 
«  solitudine  tanto  che  non  avea  più  cultori  ne  pas- 
«  seggieri  ....  Non  potevano  arare  gli  uomini,  né  se- 
«  minare  ne  mietere  ne  far  vendemmia  né  abitare 
«  in  villa  ....  Tuttavia  presso  le  città  si  lavgrava 
«  colla  scorta  dei  soldati  ....  E  bisognava  far  così 
«  pe'  berrovieri  e  predoni  che  erano  moltiplicati  a  dis- 
«  misura.  E  pigliavan  la  gente  e  la  incarceravano  af- 
«  finché  si  riscattasse  a  denaro  ....  E  così  volentieri 
«  in  quel  tempo  un  uomo  incontrava  un  altr'  uomo  in 
«  sulla  via  come  vedrebbe  volentieri  il  diavolo  (1).  » 
Dolorose  circostanze  aggravate  dalle  lotte  parziali  e 
continue  che  Salimbene  descrive  ad  ogni  tratto  tra 
il  guelfismo  popolare  e  la  vecchia  nobiltà  ghibellina 


(1)  «  Eeducta  in  solitudinem  eo  quod  non  esset  nec  cultor 
«  nec  trausiens  per  eam  ....  nec  poterant  homines  arare,  nec 
«  seminare,  nec  metere,  nec  vineas  facere,  nec  in  vìllis  ha- 
«  bitare  ....  Verumtamen  prope  civitates  laborabant  homines 
«  cum  custodia  militum  ....  Et  hoc  oportebat  fieri  propter 
<.<  berruarios  et  praedones  qui  multiplicati  erant  nimìs.  Et  ca- 
«  piebant  homines  et  diicebant  ad  carceres  ut  se  redimerent 
«  prò  pecunia ... .  Et  ita  libenter  videbat  homo  hominem, 
«  tempore  ilio  euntem  per  viam,  sicut  libenter  videret  diabo- 
«  lum.  »  Salimb.,  Chron.  pag.  71. 


FRA.    SALIMBENE  249 

sdegnosa  della  democrazia  che  la  sforzava  di  curvarsi 
alle  leggi.  Ma  seguir  negli  infiniti  meandri  suoi  que- 
sta cronaca  tutta  digressioni  ed  episodi  di  piccoli  fatti 
e  di  grandi,  è  impossibile.  Tanto  varrebbe  quanto  il 
volere  stringere  in  una  pagina  la  compiuta  dipintura 
degli  uomini  e  dei  costumi  d'Italia  in  quel  periodo 
di  rivolgimento,  quando  la  vita  comunale  distendeva 
più  rigogliosi  intorno  i  suoi  rami  e  il  sangue  scorreva 
più  fervido  nelle  vene  di  quel  popolo  ringiovanito. 
La  cronaca  di  Salimbene  arriva  fino  al  1288  e  si 
hanno  buoni  argomenti  per  creder  sua  un'  altra  cro- 
naca che  si  prolunga  fino  al  1290,  e  fu  pubblicata 
come  anonima  dal  Muratori  col  titolo  di  Memoriale 
Potestatum  Reginensium.  Tratta  questa  le  cose  della 
città  di  Reggio  e  si  distende  molto  sulla  storia  della 
Lombardia  e  dell'  Emilia.  E  con  essa  discendendo  a 
parlare  delle  altre  cronache  particolari^  può  dirsi  che 
appena  si  trovi  una  città  in  quelle  parti  la  quale  tra 
il  secolo  decimoterzo  e  i  primi  anni  del  decimoquinto 
non  conti  una  o  più  cronache  quasi  tutte  abbondanti 
di  notizie  pregevoli.  Bologna,  Ferrara,  Modena,  Par- 
ma, Piacenza  hanno  principalmente  cronache  degne 
di  nota;  Piacenza  soprattutto  la  cui  storia  si  è  recen- 
temente arricchita  di  altre  due  cronache  del  più  alto 
valore  pei  tempi  di  Federico  II,  pubblicate  prima 
dall'  Huillard  Bréholles,  a  cui  tenne  dietro  con  una 
seconda  edizione  migliorata,  la  vSocietà  storica  di  Par- 
ma e  Piacenza.  A  Milano  Stefanardo  da  Vimercate, 
domenicano,  teologo  e  dotto  scrittore  di  libri  legali  e 
canonici,  in  un  poema  dettato  con  eleganza  scrisse 
intorno  alle  cose  avvenute  colà  tra  il  1262  e  il  1295 


250  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

mentre  era  arcivescovo  Ottone  Visconti.  Un  altro 
frate  di  San  Domenico^  Guai  vano  Fiamma  milanese, 
nato  sul  cadere  del  secolo  decimoterzo,  scrisse  varie 
opere  importanti  per  la  storia  milanese  e  della  casa 
Visconti  delle  quali  opere  la  più  celebre  che  ha  per 
titolo  Manipulus  Florum  fu  pubblicata  dal  Muratori 
nella  sua  grande  raccolta.  Milanese  anch'egli  ed  amico 
al  Fiamma  fu  il  notaio  Giovanni  da  Cermenate  che 
ebbe  qualche  parte  negli  avvenimenti  della  patria  e 
ne  descrisse  quelli  che  occorsero  dal  1307  al  1313, 
con  gran  precisione  e  vigorosa  eleganza  di  stile.  Men 
buono  scrittore  ma  sincerissimo  fu  Pietro  Azario  da 
Novara,  che  narrò  la  storia  della  famiglia  Visconti 
dal  1250  al  1362,  e  un  anonimo  la  storia  di  Fra  Dol- 
cino  eretico  novarese,  e  Bonincontro  Morigia  quella 
di  Monza  fino  al  1349,  testimonio  oculare  anch' egli 
e  partecipe  dei  fatti  narrati  nel  suo  lavoro.  Del  Pie- 
monte^  piìi  scarso  allora  di  cronisti,  basterà  citar  solo 
la  cronaca  d'Asti,  scritta  da  un  Ogerio  uscito  dalla 
famiglia  degli  Alfieri,  un'  altra  cronaca  pur  d'Asti  di 
Guglielmo  Ventura,  ed  il  Chronicon  Imaginis  Mundi 
di  Giacomo  d'Acqui.  IMolto  ricca  invece  per  copia  e 
qualità  di  scrittori  la  Marca  Trivigiana  e  specialmente 
Verona,  Vicenza  e  Padova.  Per  la  prima  di  queste 
città  merita  menzione  il  cronista  guelfo  Parisio  da 
Cereta  che  riferì  con  semplice  stile  e  con  animo  molto 
imparziale  gli  avvenimenti  di  Verona  nella  prima  parte 
del  tredicesimo  secolo  fermandosi  principalmente  sui 
fatti  di  Ezzelino  e  di  Mastino  della  Scala.  Ma  gli  sto- 
rici maggiori  di  tutta  quella  regione  son  vicentini  e 
padovani.  Mescolato  sovente  alle  vicende  che  narra, 
Gerardo  Maurisio  scrisse  con  spirito  ardente  di  ghi- 


FERRETO   DA    VICENZA.  251 

bellino  le  imprese  della  famiglia  da  Romano  dal  1182 
al  1287,  e  trattò  specialmente  dei  primi  tempi  d'Ezze- 
lino. Profuse  lodi  a  costui  che  stupirebbero  se  non  fosse 
che  il  Maurisio  scriveva  quando  Ezzelino  non  aveva 
ancora  rivelata  la  mostruosa  eflferatezza  dell'anima 
sua,  e  inoltre  1'  opera  del  Maurisio  fu  raffazzonata  in 
versi  leonini  dal  contemporaneo  Taddeo  notaio  il  quale 
molto  probabilmente  esagerò  quelle  lodi.  E  pur  di  Vi- 
cenza e  dei  paesi  che  furono  in  relazione  d'amicizia 
0  di  guerra  con  essa  nel  secolo  XIV,  scrissero  Antonio 
Godi  e  Nicolò  Smerego  che  fu  continuato  da  un  ano- 
nimo monaco  di  Santa  Giustina  di  Padova,  ma  supe- 
riori a  tutti  furono  gli  storici  Ferreto  da  Vicenza 
e  i  due  padovani  Rolandino  e  Albertino  Mussato. 

Nato  verso  il  1295  di  buona  e  ricca  famiglia  vi- 
centina Ferreto  Ferreti,  dal  pronto  e  immaginoso  in- 
gegno, dall'  indole  vivace  e  satirica  fu  tratto  alle  let- 
tere. Lo  guidò  alla  poesia  Benvenuto  de'  Campesani 
celebrato  per  un  poema  in  lode  di  Arrigo  VII  e  di  Can- 
grande  Della  Scala,  e  in  vitupero  di  Padova.  Seguendo 
il  salutare  impulso  della  età  sua  studiò  con  grande 
affetto  i  classici  e  cercò  d'imitarli.  Lodato  dal  Mura- 
tori come  uno  dei  migliori  latinisti  di  quel  tempo  egli 
tuttavia  non  evitò  di  cadere  in  quella  stentata  af- 
fettazione da  cui  si  salvarono  appena  nei  due  secoli 
seguenti  i  migliori  umanisti  del  rinascimento.  Scrisse 
una  storia  delle  cose  avvenute  in  Italia  tra  il  1250 
e  il  1318,  e  le  trattò  specialmente  in  relazione  co- 
gli avvenimenti  a  cui  si  trovava  più  prossimo,  mo- 
strandosi abilissimo  •  a  raggruppare  i  fatti  e,  sce- 
gliendoli acconciamente,  a  rappresentarli  con  viva- 
cità   alla    fantasia   del    lettore.   Ma    questa    abilità 


252      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

stessa  che  gli  veniva  da  una  ricca  vena  poetica,  più 
che  a  minute  indagini  lo  trascinava  a  cercare  nelle 
azioni  umane  la  parte  abbagliante  e  a  servirsene  per 
crear  begli  effetti  nel  quadro  che  dipingeva.  Rerum 
gestarum  splendida  facta  percurrimus  egli  esclama,  e 
davvero,  come  osserva  il  professor  Zanella  nel  suo  bel 
saggio  sopra  Ferreto  «  campo  migliore  non  poteva 
«  desiderare  al  suo  ingegno  ;  poiché  quel  periodo  che 
«  prese  a  narrare,  dal  1250  al  1317,  è  de' più  splen- 
«  didi  e  fecondi  di  avvenimenti  che  abbiano  le  storie 
«  italiane.  Ninno  negherà  che  Carlo  d'Angiò,  Piero 
«  d'Aragona,  Bonifacio  Vili,  le  fazioni  di  Toscana, 
«  Corso  Donati,  Clemente  V,  Arrigo  VII,  Cangrande, 
«  Matteo  Visconti,  Uguccione  della  Faggiuola  non 
«  sieno  vivamente  ritratti  da  Ferreto,  che  si  com- 
«  piace  parimente  di  descrivere  con  ricchezza  di  stile, 
«  siti,  battaglie,  assedii,  ingressi,  coronazioni,  morti 
«  di  papi  e  d' imperatori.  Ma  quanto  alla  professione 
«  che  fa  di  essere  sempre  veridico  e  di  non  lasciarsi 
«  indurre  a  menzogne  nò  per  amore  ne  per  odio,  credo 
«  che  spesso  dimenticasse  la  fatta  promessa.  E  nota- 
«  bile  come  di  molte  voci  che  corsero  intorno  ad  un 
«  fatto,  mai  non  trascuri  quelle  che  tornano  a  vitupe- 
«  rio  di  qualche  potente;  propensione  satirica  che  male 
«  si  concilia  coli'  amore  del  vero  (1).  »  Anche  come 
poeta  Ferreto  tentò  soggetti  storici,  e  il  suo  poema 
suir  origine  della  gente  Scaligera  dedicato  a  Can- 
grande abbonda  di  notizie  intorno  alle  principali  città 


(1)  Zanella,  Ferreto  de'Ferreti,  nel  volume  intitolato:  Scritti 
varii,  Firenze,  Le  Monnier,  1877. 


ROLANDINO   DA   PADOVA  253 

del  Veneto,  e  specialmente,  oltre  Vicenza  e  Padova, 
a  Verona  la  quale  per  la  estesa  influenza  degli  Sca- 
ligeri che  v'ebbero  sede,  viene  ad  essere  illustrata 
da  tutti  i  cronisti  di  quella  parte  d'Italia,  E  come 
aveva  celebrato  gli  Scaligeri  così  Ferreto  celebrò  in 
un  carme  la  morte  del  grande  fuoruscito  che  aveva 
trovato  alla  loro  corte  il  primo  suo  rifugio  e  il  primo 
ostello,  e  ch'egli  probabilmente  aveva  conosciuto  di 
persona,  ma  questo  tributo  antico  alla  tomba  dell'Ali- 
ghieri sventuratamente  è  perduto. 

Rolandino  da  Padova  scrisse  la  storia  di  sua  pa- 
tria dal  1200  al  1260.  Aveva  studiato  alla  Univer- 
sità di  Bologna  e  nel  1221  ricevuto  ivi  il  titolo  di 
Maestro  e  Dottore  in  grammatica  e  rettorica.  Tor- 
nato presso  suo  padre  ch'era  notaio  in  Padova,  questi 
gli  cedette  alcune  note  ch'era  venuto  scrivendo  sulle 
cose  pili  memorabili  accadute  a'  suoi  tempi  e  l'esortò 
a  scriver  la  storia  della  loro  città.  Rolandino  seguì 
l'esortazione  paterna,  e  aiutato  dagli  studi  fatti  in 
Bologna  dettò  in  dodici  libri  il  suo  lavoro  con  tanta 
chiarezza  e  così  diligente  e  ordinata  conoscenza  dei 
fatti  che  gli  meritò  subito  fama  di  storico  insigne. 
Nel  1262,  due  anni  dopo  ch'egli  l'ebbe  condotta  a 
termine,  la  sua  storia  fu  in  segno  di  grande  onore 
letta  pubblicamente  nella  Università  di  Padova  al  co- 
spetto dei  professori  e  della  scolaresca  che  l'appro- 
varono solennemente,  e  i  posteri  han  confermato  il 
giudizio  (1). 


(1)  Fereeti  Vicentini,  Historia   rerum  in  Italia  gestarum 
ab  an.  1250  usque  ad  an.  ]318,  e  De  Scaìigerornm  origine poema^ 


254  LE   CRONACHE    ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

A  Rolandino  tenne  dietro  uno  storico  anche  mas:- 
giore,  in  verità  uno  dei  maggiori  letterati  d'Italia, 
Albertino  Mussato  che  fu  contemporaneo  ed  amico 
di  Ferreto  da  Vicenza.  Nacque  poveramente  in  Pa- 
dova nel  1201.  Rimasto  orfano,  da  giovinetto  prov- 
vide a  sé  e  ai  fratelli  minori  col  copiar  libri  per  gli 
scolari  dello  studio  padovano,  finché  facendosi  man 
mano  erudito  collo  stesso  copiarli,  cominciò  a  trattar 
qualche  causa  nel  fòro.  La  potenza  dell'  ingegno  e  la 
grandezza  generosa  dell'animo  gii  procacciarono  fa- 
vore e  lo  sollevarono  rapidamente  in  fama  e  in  agia- 
tezza, talché  nel  1296  era  fatto  cavaliere  e  chiamato 
al  Consiglio  di  Padova  che  allora  si  reggeva  libera- 
mente in  Repubblica.  Quivi  in  breve  salì  a  tanto  cre- 
dito nelle  cose  di  Stato,  che  nel  1302  fu  inviato  am- 
basci adore  a  papa  Bonifazio  Vili,  ebbe  pubblici  in- 
carichi a  Firenze^  e  da  quei  primi  tempi  in  poi  egli 
tra  le  varie  vicende  della  patria,  anche  quando  le 
procelle  della  fortuna  lo  sbattevano  al  fondo,  statista, 
soldato,  storico,  poeta,  sempre  fino  al  fin  delia  vita  ri- 
mase in  evidenza,  e  fu  tenuto  in  gran  conto  pur  dai 
nemici. 

Quando,  tormentandosi  Italia  tra  la  fazione  guelfa 
e  la  ghibellina,  Arrigo  VII  di  Lussemburgo  scese 
invocato  da  quest'ultima,  a  prender  la  corona  impe- 


in  Muratori,  Ber.  Ital.  Script.,  voi.  IX.  —  Eolandini  Pata- 
vini De  factis  in  Marchia  Tarvisina,  lib.  XII.  Ibid..,  voi.  VII, 
e  3Ion.  Gemi.  Hist.  SS.,  voi.  XIX.  Gli  altri  scritti  menzionati 
qui  sopra  trovansi  anch'essi  nella  raccolta  muratoriana.  Le 
cronache  piemontesi  sono  state  ripubblicate*  alcuni  anni  or 
sono  a  Torino  negli  Historiae  Patriae  Momunenta. 


ALBERTINO   MUSSATO  255 

ri  ale,  fu  un  grande  rimescolarsi  nella  parte  superiore 
e  centrale  della  penisola.  Non  che  il  novello  impe- 
ratore avesse  in  sé  vera  potenza,  ma  i  partiti  per- 
corsi da  un  nuovo  fremito  per  la  sua  venuta  e  agitati 
da  indefinite  speranze  e  indefiniti  timori,  divampa- 
vano in  fuoco  più  acceso.  Le  città  guelfe  di  Lombar- 
dia, gelose  di  loro  libertà  e  memori  delle  resistenze 
opposte  in  passato  a  ben  altri  imperatori,  accoglievan 
quest'ultimo  freddamente  o  gli  negavano  risolute  V  in- 
gresso. Lo  favorivano  invece  le  città  ghibelline,  ma 
e  nell'une  e  nell'altre  rigogliose  com'erano  di  vita 
propria,  l'autorità  sua  .era  assai  poca  e  la  parte  che 
egli  credeva  far  di  paciero  riusciva  invano.  Più  che 
la  reverenza  o  l'odio  dell'Impero  potevano  le  ire  cit- 
tadine, e  ciascuna  città  era  divisa  in  due  parti  di  cui 
la  prevalente  s'affannava  di  reggersi  mentre  la  soc- 
combente era  sempre  agitata  nella  speranza  d'abbatter 
l'altra,  e  afi'errato  il  timon  dello  stato  dirizzarne  al- 
trove la  prora.  Di  che  spesso  un  salire  e  discendere 
delle  fazioni^  e  la  città  guelfa  mutarsi  a  un  tratto  in 
ghibellina  e  la  ghibellina  in  guelfa,  e  un  combattere 
entro  le  mura  di  cittadini  contro  cittadini  e  i  vincitori 
radere  al  suolo  le  case  dei  vinti,  e  questi  andar  profughi 
sbanditi  in  esilio  col  rancore  nell'anima  e  l' invincibile 
speranza  del  ritorno  e  delle  vendette.  Questa  agitata 
vita  viveva  anche  Padova,  guelfa  per  la  prevalenza 
di  quella  parte  e  pel  timor  che  Vicenza  su  cui  do- 
minava, scosso  il  suo  giogo  si  desse  a  Cangrande  della 
Scala  signore  di  Verona  e  capo  dei  Ghibellini  in  quelle 
Provincie.  Al  primo  giungere  di  Arrigo  VII  in  Italia, 
Padova  con  qualche  riluttanza  ma  con  savio  consi- 


256  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

glio  aveva  mandato  un'ambasciata  a  salutarlo  in  Mi- 
lano (A.  D.  1311).  Degli  ambasciatori  uno  fu  Alber- 
tino Mussato  ormai  glorioso  tra  i  letterati  del  tempo 
suo  e  già  noto  come  uno  dei  primi  restauratori  della 
poesia  latina  in  Italia.  Arrigo  VII  lo  accolse  con  tanta 
e  così  singolare  benevolenza  da  ispirargli  un  affetto 
che  mai  non  si  smentì,  neppur  quando  i  suoi  doveri 
di  cittadino  l'obbligarono  di  far  tacere  il  suo  senti- 
mento privato  e  d'opporsi  coU'armi  alla  volontà  im- 
periale. Dopo  alcun  tempo  Albertino  Mussato  di  nuovo 
fu  inviato  in  ambasceria  ad  Arrigo  VII^  per  chiedere 
guarentigie  alla  libertà  padovana,  che  furono  consen- 
tite con  qualche  condizione.  Ma  tornando  in  Padova 
gli  ambasciatori  trovarono  i  lor  cittadini  forte  agitati 
per  la  voce  corsa  che  Arrigo  avesse  nominato  Can- 
grande  della  Scala  a  Vicario  Imperiale  per  Padova, 
titolo  abborrito  dai  guelfi  e  quasi  sempre  sinonimo 
di  signore  e  tiranno.  Si  respinsero  le  condizioni  pro- 
poste da  Arrigo  il  quale  se  ne  irritò.  Il  momento  parve 
propizio  ai  Vicentini  i  quali  si  ribellarono  a  Padova  e  si 
buttarono  in  braccio  allo  Scaligero,  che  fu  principio 
di  una  guerra  lunga  e  accanitamente  contrastata  tra 
le  due  città  (A.  D.  1311).  Albertino  Mussato  che  aveva 
fatto  tutto  il  poter  suo  per  impedirla,  ebbe  più  volte 
a  recarsi  presso  Arrigo  cercando  di  compor  le  cose 
verso  la  pace  e  la  conferma  delle  prime  concessioni. 
Ma  r  opera  sua  era  malagevole  tra  lo  sdegnato  so- 
vrano e  gli  animi  eccitati  de'  suoi  concittadini  che 
piegavano  a  stento  verso  le  proposte  pacifiche  solo 
quando  il  pericolo  pareva  maggiore.  Di  questo  stato 
pieno  di  ondeggiamenti  subiva  il  contraccolpo  Alber- 


ALBERTINO    MUSSATO  257 

tino  che  tornava  dalle  frequenti  ambascerie  ora  ac- 
colto in  patria  come  un  salvatore  or  cupamente  coni  e 
se  recasse  con  sé  il  tradimento  e  la  vergogna.  Le  cose 
si  facevan  sempre  più  gravi.  Nel  settembre  del  1311, 
Arrigo  VII,  a  tenore  di  certe  condizioni  pattuite,  scelse 
tra  quattro  persone  proposte  dallo  stesso  Consiglio  Pa- 
dovano Gherardo  da  Euzola  come  Vicario  Imperiale 
in  Padova.  Il  nome  odiato  di  Vicario  accrebbe  i  ma- 
lumori nel  popolo  e  si  faceva  oramai  impossibile  vincer 
le  proposte  pacifiche  nel  Consiglio.  Nel  1312  tornando 
da  Genova  cogli  ultimi  patti  ottenuti  dall'Imperatore, 
Albertino  trovò  la  città  in  gran  tumulto.  Lo  Scaligero 
era  stato  nominato  Vicario  per  la  città  di  Vicenza, 
certo  lo  sarebbe  in  breve  per  Padova,  forse  la  no- 
mina era  già  decretata  in  segreto  e  s'aspettava  il 
momento  opportuno  per  pubblicarla.  Tali  le  voci  che 
concitavano  la  città  fiera  e  desiderosa  di  guerra,  e 
r  ira  di  tutto  il  popolo  echeggiava  in  core  dei  con- 
siglieri adunati  nella  gran  Sala  della  Eagione.  Ei-a 
un  fremito  in  tutta  l'Assemblea.  Rolando  da  Piazzola 
ch'era  stato  dell'Ambasceria  col  Mussato,  levatosi  con 
impeto  grande  ricordò  le  calamità  già  sofferte  per  al- 
tri Vicari  imperiali,  e  profetando  nello  Scaligero  un 
nuovo  Ezzelino:  «Vidi  io  »  esclamava  infiammato  ri- 
ferendosi al  recente  suo  viaggio  presso  l'Imperatore, 
«  vidi  città  poco  innanzi  floridissime,  ora  scacciatine 
«  i  cittadini  andare  in  rovina,  le  campagne  deserte 
«  abbandonate  alle'  ortiche,  le  faccie  dei  nobili  dive- 
«  nute  squallide  per  inedia,  la  plebe  esausta  per  fa- 
«  me.  0  vergogna!  La  ferace  terra  lombarda,  inculta 
«  adesso  è  paragonabile  a  un  deserto  selvaggio....  E 

17.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


258  LE   CRONACHE    ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

«  chi  abita  le  nobili  castella  ?  I  vecchi  tiranni  am- 
«  mantati  del  titolo  di  Vicari  Imperiali.  Da  loro  oggi 
«  son  consumate  le  reliquie  ultime  di  Lombardia.... 
«  Vidi  Genova....  la  vidi  bella  e  la  rividi  sformata 
«  in  tre  giorni  ;  bella  per  l' allegrezza  dei  cittadini 
«  che  accoglievano  questo  fantasma  di  felicità,  sfor- 
«  mata  pel  mutato  aspetto  del  popolo  vivente  a  co- 
«  mune  cui  s'eran  cangiate  le  usanze  patrie  in  prin- 
«  cipati  dispotici.  Come  se,  o  cittadini,  rimosso  questo 
«  nostro  Preside  si  sostituisse  a  lui  un  ignoto,  e  re- 
«  scissi  e  distrutti  fossero  i  plebisciti  vostri  e  le  leggi, 
«  e  questo  Senato  disciolto,  e  i  tribuni  che  voi  chia- 
«  mate  gastaldionl  turpemente  e  ignorainiosamente 
«  deposti....  S'ebbe  forse  vergogna,  mutando  il  soda- 
«  lizio  di  Vicenza  e  Padova  in  pace  tra  loro,  d'eleg- 
«  gere  questo  Cane,  uom  nefando,  a  Vicario  di  Vi- 
«  cenza  proprio  in  sull'uscio  di  questa  nostra  fiorente 
«  città  ?  Non  solo  non  se  n'ebbe  vergogna,  o  cittadini, 
«  ma  fu  consiglio  di  partigiani  affinché  questo  Cane 
«  vi  tragga  alla  sua  tirannide  e  muova  guerra  civile 
«  tra  i  vicini  nel  seno  di  questa  città.  Oh  vi  torni 
«  in  memoria  la  fiera  strage  dei  padri  nostri,  orri- 
«  bile  pure  a  ridirsi.  Quel  figlio  di  Satana  Ezzelino 
«  da  Romano  che  lo  scellerato  Federico  predecessore 
«  di  questo  Enrico  di  Lussemburgo  costituì  qui  mi- 
«  nistro  solamente  di  stragi,  con  questo  falso  titolo 
«  del  Vicariato  Imperiale....  »  e  rivolgendosi  al  Vi- 
cario Imperiale  seguitava:  «  E  tu,  Gherardo,  se  così 
«  ti  piacerà  di  fare,  giura  di  rinunziare  al  Vicariato 
«  e  ripigliare  il  dolce  e  sacro  ufficio  e  nome  di  Po- 
«  desta  nostro,  e  di  reggere  pel  semestre  questa  città 


ALBERTINO   MUSSATO  259 

«  nella  libertà  sua;  se  no,  prendi  il  tuo  stipendio  e 
«  vattene.  Abbiam  qui  Rodolfo  da  San  Mimato  ec- 
«  celiente  uomo,  che  io  stimo  adatto  a  pigliare  la  sede 
«  di  questa  beata  e  libera  podestà  e  a  reggerla  (1).  » 
Fu  un  grido  di  plauso  (2).  Invano  Albertino  tentò 
rimetter  calma  negli  animi ,  espose  lo  stato  dubbio 
delle  cose  in  Italia,  mostrò  come  la  parte  ghibellina 
ancor  vigorosa  potrebbe  divenire  un  aiuto  dell'Impe- 
ratore pericoloso  alla  patria,  invano  pregò^  scongiurò, 
per  più  mite  consiglio.  Tutta  la  sua  eloquenza  si  franse 
contro  l'ira  popolare  e  vinse  il  partito  dell'armi. 

La  guerra  incominciò  indi  a  pochi  giorni  interrotta 
e  ripresa  ogni  tratto  e  condotta  molti  anni  con  varia 
vicenda  e  con  tutto  l' odio  che  solevasi  mettere  al- 
lora da  quegli  appassionati  animi  in  quelle  guerre 
fraterne.  Albertino  Mussato  che  s'era  mostrato  così 
blando  al  consigliare  apparve  un  leone  al  combat- 
tere, sempre  nelle  più  arrischiate  fazioni,  primo  a 
gettarsi  nel  folto  del  pericolo,  ultimo  a  ritrarsene.  Pa- 
reva che  gli  fosse  scomparso  dalla  mente  quell'Ar- 
rigo VII  ch'egli  amava  tanto  e  di  cui  descriveva  le 
imprese  le  quali  egli,  come  Dante,  si  lusingava  do- 
vessero riuscire  a  benefizio  d' Italia.  Padova  la  cara 
patria  era  in  guerra,  ed  egli  ne  combatteva  i  nemici. 
Xel  novembre  dei  1313,  parve  che  l'odio  cedesse  un 
momento.  Albertino   Mussato  ed  un  altro   padovano 


(1)  Albertini  Mussati  Historia  Augusta,    ap.  Mueatoei, 
Ber.  It.  Script.,  voi.  X,  col.  417. 

(2)  «  Fine  facto  fremens  Senatus  in  altiim  voces  tulit  pari 
assensu  haec  omnia  sancienda  dijudicans.  »  Ibid, 


260  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

andarono  a  discutere  le  parole  di  pace  che  lo  Sca- 
ligero faceva  proporre,  ma  le  trattative  si  ruppero 
senza  alcun  frutto  e  si  tornò  di  nuovo  a  pensar  di 
guerra.  Intanto  Arrigo  VII  era  morto  (24  agosto  1313), 
e  con  lui  si  spezzavano  molte  speranze  dei  Ghibellini 
più  ardenti,  molte  illusioni  di  coloro  che  guardavano 
a  lui  come  ad  un  angelo  annunziatore  di  pace.  Il  par- 
tito guelfo  ne  saliva  in  superbia,  e  a  Padova  sotto 
colore  di  riforme  impadronitosi  d'ogni  potere  si  sfre- 
nava non  pur  contro  i  ghibellini  ma  contro  i  citta- 
dini più  temperati  e  diveniva  tiranno  (A.  D.  1314). 
Ne  seguì  una  sommossa  popolare  violenta,  nella  quale 
contro  ogni  ragione  fu  preso  di  mira  il  Mussato  alle 
cui  case  si  volse  una  plebaglia  inferocita  per  portarvi 
l'incendio  e  la  morte.  In  vista  del  pericolo  Albertino 
non  si  smarrì:  consigliato  di  nascondersi,  non  volle, 
e  per  non  macchiarsi  nel  sangue  del  popolo  non  volle 
difendersi,  ma  salito  un  cavallo,  venne  fuori  ardita- 
mente dalla  casa  infestata  e  di  gran  corsa  uscì  in- 
colume dalla  città  e  si  ritrasse  in  salvo.  Fu  un  gran 
dolore  al  cuor  del  Mussato  a  cui  pareva  tanto  più 
amara  l'offesa  e  l'esilio  quanto  più  gli  era  cara  la 
patria  e  se  ne  sentiva  benemerito.  Onde  in  una  con- 
cioue  ch'egli  dettò  in  sua  difesa,  e  inserì  poi  nella 
stoi'ia,  esclamava  dolente  e  sdegnoso  :  «  Dovrei  io  ver- 
«  gognarmi  o  arrossire  se  avendo  bene  meritato  in 
«  alcuna  cosa,  la  tanta  ingratitudine  onde  son  cir- 
«  condato  mi  sforza  a  recitar  da  me  le  mie  lodi?  An- 
«  che  se  lo  facessi  con  petulanza  ?  No,  perché  quando 
«  una  cagione  di  passati  contrasti  ci  costringe  a  par- 
«  lare  per  respinger  le  ingiurie,  la  violenza  del  timore 


ALBERTINO   MUSSATO  261 

«  vince  la  calma  d' ogni  più  forte  uomo.  Dopo  le  ucci- 
«  sioni  compiute  il  dì  innanzi  da  quegli  iniqui  e  le 
«  stragi  orrende;,  una  turma  tumultuaria  concorse  alla 
«  casa  di  me  Albertino  Mussato,  la  tenne  assediata  da 
«  manipoli  di  gente  che  le  infuriava  attorno  chiedendo 
«  i  miei  penati,  i  miei  figli,  il  sangue  mio.  Se  posso 
«  parlare  col  Redentore  del  mondo  :  '  O  popol  mio  ' 
«  Egli  diceva  '  che  t'  ho  mai  fatto  ?  Per  quarant'anni 
«  ti  guidai  nel  deserto.  '  Io  ti  condussi,  dico  io  Mus- 
«  sato,  0  popol  di  Padova,  per  altrettanti  mesi  tra 
«  vasti  pericoli  dietro  le  orme  mie  sulla  mia  strada 
«  da  cui  tu  stessa  confessi  d' aver  deviato  per  tua 
«  ignavia....  »  E  dopo  avere  enumerata  una  lunga  se- 
rie di  servigi  resi  alla  patria  e  i  miti  consigli  dati  ài 
Padovani  nella  prospera  fortuna,  alludendo  al  loro  ti- 
more nei  pericoli  procede:  «  . . . .  Ma  tardo  viene  dopo 
«  la  grandine  il  pentimento.  E  che  rimedi  si  son  tro- 
«  vati  a  tanti  mali  ?  O  tribuni  della  plebe  ricordate- 
«  vene.  Parlo  a  voi  consci  ed  autori  di  tanto  prov- 
«  vedimento.  Voi  pensaste,  Ottimati  della  città,  che 
«  se  era  fattibile,  Cesare  doveva  esser  placato.  E  in 
«  che  modo  ?  con  quale  ingegno  ?  con  quali  arti  ?  E 
«  che?  la  opportunità,  la  difficoltà  chiamò  innanzi 
«  'Albertino  Mussato.  Costui^  si  asserì,  può  fai'  salva 
^<  la  repubblica  e  rovinata  rialzarla.  Se  avanzava  da 
«  far  qualche  cosa  a  lui  solo  ricorreste,  a  lui  jDi'ivo 
«  d'ogni  speranza  di  trattar  gli  affari  e  prostrato,  e 
«  vi  consigliaste  seco,  e  lui  unico  imploraste.  E  Vi- 
«  taliano  de'Basilii,  che  allora  quasi  dominava  sul 
«  volgo,  a  mani  giunte  a  ginocchia  piegate,  lacri- 
«  mando,  stipato  da  voi  tutti,  o  Tribuni,  mi  supplicò 


262      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  di  andare  al  Re....  Io  guardo  a  Die  stesso  ammi- 
«  rando  e  compassionando.  E  necessario  che  la  penna 
«  mandi  tutto  alla  posterità.  Forse  mi  resi  colpevole 
«  verso  questa  Repubblica?  Tralascio  le  diurne  le 
«  notturne  le  annuali  fatiche.  Non  vale  la  pena  di 
«  allegare  le  vigilie,  le  cure,  le  sollecitudini  mordaci. 
«  Non  si  nascondano  gli  assertori  ;  attestino  affinché 
«  io  sia  creduto.  Consumai  forse  il  denaro  pubblico  ?  E 
«  quale?  e  quando?  Mi  son  forse  arricchito  coi  danni 
«  dei  privati?  Di  quali?  Venga  fuori  un  solo  vessato 
«  0  spogliato  da  me.  Abbiatevi^  o  Tribuni,  un  argo- 
«  mento  efficace  della  sincerità  nostra.  In  queste  ul- 
«  time  calende  di  decembre^  per  non  ricondurvi  in- 
.  «  dietro  al  non  ricordabile,  la  sorte  mi  prepose  allo 
«  ufficio  di  Anziano,  onore  uguale  quasi  al  consolato 
«  dei  Romani.  Questo  Pietro  d'Alticlino  potentissimo 
«  uomo  e  formidabile  contro  cui  si  esclamava,  e  molti 
«  altri  dell'ordine  equestre  e  plebeo,  io  convenni  in 
«  giudizio  di  restituzione,  li  feci  incatenare,  li  convinsi 
«  e  li  costrinsi  a  rimettere  nell'erario  la  mal  tolta 
«  moneta  con  rigido  e  severo  ardore.  Così  mi  persua- 
«  devano  a  fare  i  miei  costumi,  così  l'audacia,  l'amor 
«  della  patria,  l' atrocità  di  quelle  rapine  e  la  giu- 
«  stizia.  »  E  dopo  queste  calde  parole  altre  ne  ag- 
giunge enumerando  le  prodezze  compiute  in  guerra, 
spiega  per  quali  ragioni  egli  avesse  promossa  la 
imposizione  di  una  tassa  utile  e  giusta  che  gli  aveva 
procacciato  l'odio  del  volgo  e  l'esilio,  e  couchiude  con 
disdegnosa  fierezza:  «  A  ragione  il  gregge  macchiato 
«  odia  il  vello  della  pecora  dorata.  Sia  lungi  da  voi, 


ALBERTINO   MUSSATO  263 

«  0  Tribuni,  la  ferocia  delle  vili  belve  assetate  di  san- 
■«  glie  innocente.  Salvato,  io  voto  la  mia  salute,  le  mie 
*  fortune  ed  ogni  poter  del  mio  ingegno  e  delle  fa- 
«  colta  mie,  ai  Padri,  ai  Maggiori  e  al  Popol  più 
«  sano  (1).  » 

Pagine  eloquenti  davvero  che  strappavano  l'ammi- 
razione ai  contemporanei  e  ancora  l' ispirano  ai  po- 
steri richiamati  per  esse  al  ricordo  della  romana  re- 
pubblica e  di  quella  forte  eloquenza  che  scoppiava 
in  Grecia  e  in  Roma  nel  tumultuoso  bollire  degli  af- 
fetti politici  quando  la  democrazia  stendeva  sovr'esse 
l'agitato  suo  impero  !  Sedato  finalmente  il  disordine 
e  ricomposta  la  quiete  nella  città,  si  adunò  il  Con- 
siglio, e,  abolite  le  esorbitanti  riforme  e  ripristinato 
il  vecchio  stato,  decretò  unanime  il  richiamo  d'Al- 
bertino j\Iussato  e  pubbliche  solenni  onoranze  per 
compensarlo  dello  sfregio  patito.  Ne  esultò  il  buon 
cittadino,  ma  prima  pure  del  suo  ritorno  i  Padovani 
mossero  improvvisamente  ad  oste  contro  Vicenza  ed 
egli  s'aggiunse  agli  armati.  Nelle  fazioni  che  segui- 
rono egli  combatté  con  l'usato  ardimento,  finché  in 
una  mischia  precipitando  da  un  ponte  in  una  fossa, 
accerchiato  dagli  uomini  di  Cangrande,  fu  con  undici 
ferite  preso  e  condotto  a  Vicenza.  Quivi  egli  rimase 
onorato  prigioniero  di  Cane  che  con  la  sua  corte  an- 
dava a  visitarlo  e  a  scambiar  con  lui  amicamente  gravi 
discorsi  e  celie  frizzanti,  esempio  non  unico  di  quel- 
l'etk,  che  all'abbassar  delle  spade  stillanti  sangue, 


(1)  De  Gestis  lUiUcorum,  loc.  cit.,  col.  G14. 


264  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

rammii'azione  prevalesse  sull'  ira  e  un  prepotente  ba- 
rone rendesse  onore  alle  virtù  e  all'  ingegno  cV  un 
semplice  cittadino. 

Nel  novembre  del  1314,  al  concliiudere  d'una  pace, 
Albertino  liberato  dalla  prigionia  tornava  in  patria 
a  ricevere  le  decretate  onoranze  e  a  cinger  le  tempia 
di  quell'alloro  poetico  a  cui  sospirò  tutta  la  vita  Dante 
nella  vana  speranza  che  il  poema  sacro  vincesse  la 
crudeltà  che  lo  serrava  fuori  della  patria.  Pieno  di 
compiacenza  egli  descrive  a  lungo  e  con  tratti  carat- 
teristici nella  sua  storia  la  festa  che  gli  fu  fatta  e  che 
riuscì  solenne,  perché  a  celebrarla  concorse  col  Se- 
nato e  colla  Università  la  città  tutta  quanta  altera 
adesso  di  questo  suo  figlio  la  cui  fama  letteraria  spai'- 
gevasi  ormai  onorata  per  tutta  Italia. 

E  veramente  le  opere  letterarie  di  Albertino  Mus- 
sato meritavano  quegli  onori  (1).  Latinista  ottimo  pei 


(1)  Albektini  Mussati  Opera,  Venetiis,  1636.  De  Gestis 
Heinrici  VII  Caesaris,  Ilistoria  Angusta.  De  Gestis  Italico- 
rum  jjosi  mortem  Henrici  VII.  Eccerinis  Tragoedia,  ap.  Mu- 
KATORI,  Eer.  Ital.  ^Scr/pf.,  voi.  X.  Diversi  scritti  sono  apparsi 
di  recente  su  questo  autore  tra  i  quali  uno  assai  buono  del 
prof.  Giacomo  Zanella,  Di  Albertino  Mussato  e  delle  guerre 
tra  Padovani  e  Vicentini.,  in  cui  esamina  con  molta  finezza 
oltre  gli  storici  alcuni  altri  componimenti  letterari  e  in  uno 
d"essi  intitolato  II  Sogno  vede  alcune  relazioni  colla  Divina 
Commedia,  Ke  ho  tratto  aiuto.  Veggansi  anche  sopra  il  Mus- 
sato gli  scritti  del  Wychgram,  del  Cappelletti,  dello  Zardo, 
tutti  però  inferiori  al  soggetto.  Superiore  a  questi  W.  Fkie- 
DENSBURG,  Zur  KrilìJc  der  Historia  Augusta  nelle  Forscliunqen 
sur  Deutschen  Geschichte.  XXIII,  1.  Il  Friedensburg  ha  anche 
tradotto  in  tedesco  il  lavoro  d'Albertino  di  cui  non  esiste,  ch'io 


ALBERTINO   MUSSATO  265 

suoi  tempi,  egli,  con  Giovanni  Del  Virgilio,  con  Dante 
e  gli  altri  latinisti  contemporanei,  superiore  forse  a 
tutti,  spiana  le  vie  della  rinascenza  al  Petrarca,  e 
mentre  studia  gli  antichi  e  ne  ritenta  le  forme  del 
dire,  nel  concetto  e  nell'architettura  de'  suoi  lavori 
apparisce  scrittore  originalissimo.  Poeta  dettò  epi- 
stole, sermoni,  egloghe,  elegie  non  prive  di  pregio, 
ma  soprattutto  si  rivelò  creatore  potente  nella  sua 
tragedia  l' Ezzelino.  Spastoiatosi  d' ogni  teoria  pre- 
concetta, pur  senza  abbandonare  le  orme  classiche 
che  trovava  tracciate  da  Seneca,  egli  primo  tra  i  mo- 
derni italiani  scelse  un  soggetto  moderno,  vivo  anzi 
ancora  nella  memoria  e  nel  terrore  del  popol  suo,  sog- 
getto cupamente  tragico  ch'egli  trattò  con  evidenza 
drammatica  e,  soprattutto  nei  cori,  con  impeto  li- 
rico maraviglioso.  L'argomento  storico  ch'egli  scelse 
e  che  accrebbe  di  tanto  la  popolarità  del  suo  lavoro, 
annunzia  la  tendenza  storica  dell'intelletto  del  Mus- 
sato. Il  quale  innamorato  degli  antichi  scrittori  e 
dei  tempi  romani,  colla  mente  vigorosa  d'immagi- 
nazione e  di  pensiero,  doveva  sentirsi  irresistibilmente 
attratto  a  raccontar  la  storia  ch'egli  aveva  vissuto,  e 
ridir  le  cose  vedute  e  pensate  fra  tanto  tumulto  di 
azione,  fra  tanta  grandezza  di  virtù  e  di  vizi.  E  io 
son  venuto  finora  descrivendo  così  lungamente  la  vita 


sappia,  traduzione  italiana.  Finora  il  Mussato  è  il  migliore  sto- 
rico di  sé  stesso.  I  due  Cortusi  e  i  due  Gatara  zio  e  nipote  i 
primi,  padre  e  figlio  i  secondi,  scrìssero  di  Padova  dopo  Alber- 
tino ma  son  di  molto  inferioi-i  a  lui.  È  necessario  limitarsi  a 
menzionarli  qui  in  nota.  Le  opere  loro  furono  pubblicate  dal 
Muratori,  op.  cit,  voi.  X  e  XVII. 


266      LE  CRONA.CHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

di  quest'uomo  perché  mi  parve  eli  veder  compendiata 
in  lui  una  gran  parte  dell'  età  sua  come  egli  la  de- 
scrisse e  come  fu  veramente.  Dettò  la  Historia  Au- 
gusta delle  gesta  in  Italia  di  Arrigo  VII  (A.  D.  1308- 
1313Ì,  principe  di  buone  intenzioni  ma  di  debole 
potere^  caldamente  invocato  dai  Ghibellini,  pregiato 
anche  dai  Guelfi,  ma  né  obbedito  ne  temuto  vera- 
mente mai,  sceso  dall'Alpi  a  risuscitare  il  fantasma 
d'un  Impero  che  aveva  perduto  i  nervi  in  Italia  tra 
tante  repubbliche  e  coi  papi  avversi  e  ancor  potenti 
per  l'aiuto  dei  Guelfi  e  degli  Angioini.  Scrisse  Al- 
bertino con  imparzialità  grande  ma  con  tutto  1'  ar- 
dore di  chi  ha  preso  parte  nelle  cose  pubbliche  e 
postovi  tutta  l'anima  sua  desiderosa  del  bene.  Il  viag- 
giar suo  frequente,  per  lo  più  come  ambasciatore,  in 
molte  parti  d' Italia  (e  negli  ultimi  anni  andò  anche 
ambasciatore  in  Germania)  gli  avean  dato  modo  di 
veder  d'appresso  le  condizioni  dei  diversi  paesi  che 
ei'an  teatro  della  sua  storia,  di  conoscer  gli  uomini 
principali ,  e  d'  attingere  dappertutto  o  d' appurare 
molte  notizie.  Non  tutto  guelfo  nò  tutto  ghibellino, 
diresti  ch'egli  ondeggia  intra  due  ed  è  ondeggiamento 
non  raro  nelle  menti  più  elevate  di  quella  età.  Vor- 
rebbe dall'  Impero  una  forte  unità  di  comando  a  cessar 
le  discordie  dei  partiti,  mentre  piega  ai  Guelfi  per  le 
tradizioni  repubblicane  e  la  cura  di  una  libertà  ge- 
losa dell'aquila  imperiale  e  dei  tirannelli  che  col  nome 
di  Vicari  crescevano  all'ombra  dell'ale  sue.  Amico  e 
ammiratore  d'Arrigo  ma  storico  libero  e  austero,  nel 
dedicargli  la  sua  storia  lo  avvertiva  che  in  quelle 
pagine  non  avrebbe  trovato  lusinghe  né  solo  le  im- 


ALBERTINO   MUSSATO  267 

prese  degne  di  lode  ma  gli  errori  altresì  dai  quali, 
come  uomo,  anche  egli  Arrigo  non  era  immune.  La 
morte  d'Arrigo  troncò  il  suo  lavoro,  ma  più  tardi  egli 
Io  continuò  con  una  seconda  storia  che  intitolò  Ge- 
sta degli  Italiani  dopo  la  morte  di  Enrico  VII^  di- 
visa in  dodici  libri,  dei  quali  tre  in  versi  descrivono 
l'assedio  sostenuto  da  Padova  nel  1320.  Lavoro  piut- 
tosto abbozzato  che  finito^  presenta  qua  e  là  varie  la- 
cune di  tempo  ed  è  assai  men  perfetto  di  stile  che 
non  la  Historia  Augusta  ma  non  è  inferiore  ad  essa 
per  la  importanza  storica.  Lo  intraprese  per  esorta- 
zione di  Pagano  della  Torre,  vescovo  allora  di  Pa- 
dova, e  tra  le  molte  cure  che  lo  affaticavano  (1),  lo 
condusse  innanzi  molti  anni  per  andarlo  a  terminare 
nell'esilio  di  Chioggia  dove  abbozzò  anche  uno  scritto 
su  Ludovico  il  Bavaro  rimasto  in  frammento.  Impe- 
rocché intorno  al  1330  concluse  in  esilio  la  forte  e 
onorata  vita  Albertino  Mussato.  Dopo  molti  altri  ser- 
vigi resi  alla  patria  e  molto  travagliar  di  fortuna  egli 
fu  nuovamente  sbandito,  ne  lo  richiamarono  questa 
volta.  Fu  lasciato  morir  fuori,  nella  miseria,  colla 
vecchiezza  aggravata  dal  dolore  di  una  cara  amicizia 
tradita,  dalla  ingratitudine  di  un  figlio,  dalla  vista 
delle   libertà  padovane  spente  per  mano  di  tiranni. 


(1)  «  Scis  quippe  tu  nostrorum  actuura  in  Eempubblicam, 
«  fide  testis  Episcope,  quantis  domi  militiaeque  solertiis  im- 
«  plicei',  ut  nee  nox  agendorum  variis  meditationibus  suppe- 
«  tat,  nec  agendis  lux  diurna  sufficiat....  Sed  quamquam  sic 
«  agitantibus  vexatus  anfractibus,  quia  in  parte  laborum  ipse 
«  fuerim,  scribendi  laborem  recusasse  nolim,  praesertira  tanto 
«  permotus  auctore.  » 


268      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

Malinconica  fine  e  piena  di  pietà,  eppur  confortevole 
e  bella  di  quella  morale  bellezza  che  splende  da  una 
vita  pura  ed  uguale  a  sé  stessa  nella  fortuna  prospera 
e  nella  avversa,  da  una  vita  destinata  a  mostrarci  nelle 
stesse  ingiustizie  delle  sorti  terrene,  la  testimonianza 
certa  di  una  giustizia  immortale. 


Capitolo  VII 


Cronisti  delle  repubbliche  marinare  —  Cronache  di  Venezia:  Martino  da 
Canale  e  Andrea  Dandolo  —  Gli  Annalisti  di  Genova  dal  Caffaro  a  Gia- 
como D'  Oria  —  Pisa  :  Pietro  Pisano.  Bernardo  Marangone  —  I  cronisti 
della  rimanente  Toscana  e  principalmente  i  Fiorentini  :  I  Malespini.  Dino 
Compagni.  I  Villani. 


Volgendomi  ai  cronisti  delle  città  marinare,  primi 
mi  si  porgono  innanzi  alla  mente  quei  di  Venezia. 
Illustrata  pei  tempi  più  remoti  dalla  Cronica  Altinate 
e  dalla  Gradense  che  recano  qualche  luce  nel  buio 
delle  sue  origini,  poi  da  quel  Giovanni  diacono  che 
ci  si  mostrò  ai  primi  albori  della  vita  comunale,  Ve- 
nezia ebbe  copia  di  storici  degna  degli  splendori  della 
sua  storia  (1).  A  que'  primi  cronisti  tenne  dietro  un 


(1)  Le  fonti  della  storia  veneziana  sono,  com'è  naturale, 
oggetto  continuo  di  ricerche  e  di  dissertazioni  per  gli  eruditi. 
Oltre  ciò  clie  hanno  lasciato  su  tale  argomento  il  Muratori, 
il  Foscarini,  il  Tiraboschi  ed  il  Pertz,  cito  particolarmente  per 
averne  ricavato  grande  aiuto  i  due  lavori  del  Simonsfeld  e  del 
Monticolo  già  mentovati,  ed  un  altro  studio  del  Simonsfeld  so- 
pra Andrea  Dandolo  pubblicato  neW Archivio  Veneto.  Veggansi 
anche  i  lavori  del  Prost  nella  Revue  des  Questions  Historiques. 


270      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

anonimo  clie  dettò  gli  annali  veneti  dalla  metà  del- 
l'undecimo  secolo  fino  alla  fine  del  dodicesimo,  e  tra 
le  notizie  sulla  storia  politica  lasciò  molti  importanti 
dettagli  intorno  ad  avvenimenti  locali  relativi  alla 
città  di  Venezia.  Un  frammento  di  cronaca,  scritto 
certamente  dopo  la  morte  del  doge  Sebastiano  Ziani 
(A.  D.  1229)  e  già  pubblicato  come  parte  del  Chro- 
nicon  Altinate,  è  anch'esso  pregevole  per  la  storia 
delle  relazioni  di  Venezia  cogli  altri  Stati,  e  in  par- 
ticolare coir  Oriente  dov'essa,  padrona  oramai  del- 
l'Adriatico, stendeva  largamente  la  sua  influenza  e 
il  potere.  E  dal  tredicesimo  secolo  in  poi  la  lettera- 
tura storica  veneziana  diviene  sempre  più  fiorente  e 
s'ispira  alla  poesia  del  luogo  e  alla  grandezza  di  quel 
senno  politico  che  mentre  reggeva  dentro  con  tanta 
sapienza  lo  Stato,  guidava  lontane  imprese  in  ogni 
parte  del  mondo.  Pieno  di  questa  poesia  e  di  questa 
grandezza  è  il  cronista  Martino  da  Canale  che  de- 
scrisse la  storia  di  Venezia  fino  al  secolo  decimoquarto 
in  forma  piuttosto  di  romanzo  che  di  storia,  ma  ap- 
poggiato alle  fonti  che  lo  precedettero,  alle  tradizioni, 
e,  pe'  suoi  tempi  alla  fede  degli  occhi  suoi  o  alla  viva 
voce  di  testimoni  oculari,  egli  in  ciò  che  narra  del  se- 
colo decimoterzo,  sostanzialmente  è  scrittore  veridico 
e,  spesso  pur  nei  particolari,  bene  informato  ed  esatto 
quanto  è  vivace.  Di  lui  non  si  sa  quasi  nulla  e  nep- 
pure s'egli  fosse  veramente  veneziano,  ma  certo  visse 
lungamente  in  Venezia  per  cui  mostra  un  affetto  caldo 
ed  una  ammirazione  infinita.  Come  il  Tesoro  di  Bru- 
netto Latini,  come  il  Libro  di  Marco  Polo,  la  sua 
cronaca  è  scritta  in  francese  perché  «  lengue  fran- 


MARTINO    DA    CANALE  271 

ceìse  cori  panni  le  monde  et  est  la  plus  delitahle  a  lire 
et  a  oir  que  nule  autre.  »  Sui  principi  di  Venezia  fa- 
voleggiò colle  leggende  troiane  e  con  quelle  d'Attila^ 
e  seguitò  breve  fin  verso  i  tempi  di  Enrico  Dan- 
dolo. Con  questo  glorioso  Doge  la  narrazione  di  Mar- 
tino incomincia  fv  distendersi  e  diviene  sempre  più 
ricca.  Quando  tocca  poi  i  tempi  del  doge  Giacomo 
Tiepolo  fino. al  1275^  ultima  data  della  sua  cronaca, 
i  dettagli  che  reca,  specialmente  sui  costumi  di  Ve- 
nezia, acquistano  un  valore  inestimabile.  Le  sue  no- 
tizie intorno  ai  personaggi  dell'età  sua,  alla  Chiesa 
di  San  Marco,  alla  Piazza  e  ai  tornei  celebrati  in 
essa,  alle  vesti  ed  onorificenze  dei  Dogi,  alle  loro  com- 
23arse  e  a  quelle  delle  varie  corporazioni  delle  Arti, 
alla  festa  solenne  delle  Marie,  sono  altrettanti  quadri 
di  un'età  singolare  dipinti  sopra  un  fondo  maravi- 
glioso.  Scrittore  con  cui  è  necessario  adoperar  molta 
critica,  storico,  come  s'  è  detto,  e  romanziere  a  un 
tempo,  Martin  da  Canale  colla  ingenua  vivacità  della 
sua  fantasia  riesce  tale  pittor  di  Venezia  da  non  aver 
chi  lo  superi  tra  i  contemporanei  o  l'agguagli  a  gran 
pezza.  Dal  suo  libro  pieno  d'attrattive  tolgo  l'episo- 
dio della  presa  di  Zara  avvenuta  per  opera  del  Doge 
Dandolo  mentre  si  recava  coi  Crociati  in  Oriente  al 
conquisto  di  Costantinopoli: 

« Vi  dirò  che  il  Conte  di  S.  Polo  e  il  Conte 

«  di  Fiandra,  il  Conte  di  Savoia  ed  il  Marchese  di 
«  Monferrato,  nell'anno  della  Incarnazione  di  Nostro 
«  Signor  Gesù  Cristo  MCCII,  inviarono  loro  messaggi 
«  al  nobile  Doge  di  Vinegia  messere  Errico  Dandolo, 
»  e  lo   pregarono  ch'egli  loro   donasse  naviglio    per 


272  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

«  passare  di  là  il  mare.  E  quando  Monsignore  il  Doge 
«  Errico  Dandolo  udì  la  preghiera  che  li  messaggi 
«  dei  Baroni  di  Francia  gli  ferono  da  parte  di  lor 
«  signori,  sì  ne  fu  lieto  e  disse  ai  messaggi:  'Andate 
«  e  dite  ai  signori  vostri  che  di  quell'ora  ch'elli  vor- 
«  ranno  venire  in  Vinegia  troveranno  l'armata  ap- 
«  parecchiata  per  passare  di  là  il  mare,  e  che  il  Doge 
«  di  suo  corpo  medesimo  vorrà  passare  con  loro  al  ser- 
«  vigio  di  Santa  Chiesa.  '  Allora  se  ne  tornarono  li 
«  messaggi  a'  Signori  loro,  e  loro  dissero  tutto  in  così 
«  come  Monsignore  il  Doge  loro  mandava.  E  quando 
«  i  Baroni  di  Francia  udirono  ciò  ne  furono  molto 
«  lieti  che  dell'  armata,  la  quale  Monsignore  il  Doge 
«  loro  aveva  promesso,  che  del  voler  passare  il  mare 
«  di  suo  corpo  medesimo  con  loro,  e  dissero  che  mi- 
«  glior  compagnia  non  potrebhon  elli  avere  in  tutto 
«  il  mondo. 

«  Messere  Errico  Dandolo,  il  nobile  Doge  di  Ve- 
«  nezia,  mandò  venissero  li  carpentieri  e  fece  retta- 
«  mente  apparecchiare  e  fare  palandre  e  navi  e  galee 
«  a  gran  numero,  e  fece  prestamente  fare  medaglie 
«  d'argento  per  dare  ii  soldo  ai  maestri  ed  ai  lavo- 
«  ratori,  che  le  piccole  ch'elli  aveano  non  venian 
«  loro  così  opportune.  E  del  tempo  di  monsignore 
«  Errico  Dandolo  in  qua  fu  cominciato  in  Vinegia 
«  a  ferire  le  nobili  medaglie  d'argento,  che  l'uomo 
«  dice  Ducato,  le  quali  corrono  per  mezzo  il  mondo 
«  per  la  bontà  loro.  Molto  si  affrettarono  li  Viuiziani 
«  per  apparecchiare  il  navigUo,  e'  Francesi  allorquando 
«  furono  in  punto  si  misero  alla  via  e  cavalcarono 
«  tanto  ch'elli  furono  venuti  in  Vinegia,  ove  furono 


MARTINO    DA   CANALE  27  3 

«  molto  bene  ricevuti,  e  fecer  loro  li  Yiniziani  grande 
«  gioia  e  grande  festa.  E  Monsignore  lo  Apostolo  loro 
«  avea  dato  un  suo  legato  che  de'  peccati  li  avea  prò- 
«  sciolti.  A  quel  legato  fece  Monsignore  il  Doge  grande 
«  onore,  e  prese  la  Santa  Croce  da  sua  mano  e  molti 
«  nobili  Viniziani  la  presero  e  del  popolo  ancora. 

«  A  grande  gioia  ed  a  grande  festa  entrò  messer 
«  Errico  Dandolo  in  una  nave  per  passare  il  mare 
*  coi  Baroni  di  Francia  al  servigio  di  Santa  Chiesa; 
«  ed  i  Baroni  si  misero  ciascuno  in  sua  nave,  ed  i 
«  cavalieri  entrarono  negli  uscieri  e  nelle  palandre  e 
«  nelle  altre  navi  da  ciò  ove  loro  cavalli  erano  messi. 
«  Ed  allorquando  elli  furono  in  mare  i  marinai  driz- 
«  zaron  le  vele  al  vento  e  lasciarono  ire  a  vele  piene 
«  le  navi  pea  mezzo  il  mare  alla  forza  del  vento.  E 
«  Monsignore  il  Doge  avea  lasciato  in  Vinegia  in 
«  luogo  suo  un  suo  figliuolo  detto  messer  Rinieri  Dan- 
«  dolo,  e  quegli  governò  i  Viniziani  in  Vinegia  molto 
«  saggiamente. 

«  Monsignore  il  Doge  se  ne  andò  tanto  per  mezzo 
«  il  mare  ch'egli  fu  venuto  a  Giadra  e  tutta  sua  com- 
«  pagnia  :  e  Giadratini  erano  a  quel  tempo  sì  orgo- 
«  gliosi  eh' elli  aveano  rifiutata  la  signoria  di  Mon- 
«  signore  il  Doge  e  faceano  dirubare  i  trapassanti  pel 
«  mare  ed  aveano  levate  le  muraglia  d'  intorno  la 
«  città.  Il  temporale  era  cambiato  ed  il  mai'e  iroso, 
«  si  loro  convenne  prendere  terra  per  salvare  il  na- 
«  viglio,  ed  allora  se  ne  andarono  a  Malconsiglio,  ciò 
«  è  un'isola  la  quale  è  tutto  dinnanzi  Giadra.  Quando 
«  elli  furono  dentro  il  porto  messi  a  salvezza,  Mon- 
«  signore  il  Doge  disse  ai  Baroni:  'Signori,  vedete 

18.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


274  LE    CRONACHE    ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

«  là  quella  città?  sappiate  ch'ella  è  mia,  ma  quelli 
«  di  dentro  sono  sì  orgogliosi  ch'elli  hanno  rifiutato 
«  mio  comandamento  :  io  voglio  che  voi  m'attendiate 
«  qui,  eh'  io  vuo'  mostrar  loro  quale  merito  debbano 
«  avere  essi  che  rifiutano  il  comandamento  del  Si- 
«  gnor  loro.  ' 

«  Quando  i  Baroni  udirono  ciò  dissero  a  Monsi- 
«  gnore  il  Doge:  'Sire,  noi  siamo  apparecchiati  di 
«  venire  con  voi  e  nostri  cavalieri  anche.  '  '  In  nome 
«  di  Dio,  disse  Monsignore  il  Doge,  già  nullo  di  voi 
«  non  vi  metterà  suo  piede,  anzi  voglio  che  voi  ve- 
«  diate  ciò  che  io  so  fare  ed  i  Viniziani  con  me.  '  Ed 
«  allorquando  elli  furono  apparecchiati  di  loro  armi 
«  e  di  loro  scale,  non  fecero  altro  soprastamento  fuor- 
«  che  messere  Errico  Dandolo,  l' alto  Doge  di  Vine- 
«  già,  si  mise  avanti  e  li  Viniziani  appresso  ed  an- 
«  darono  assalire  Giadra  e  fu  la  battaglia  cominciata  ; 
«  e  già  non  rimase  per  nessuna  difesa  che  i  Giadre- 
«  tini  ci  facessero,  che  i  Viniziani  non  salissero  in 
«  secca  terra.  Si  fu  allora  la  battaglia  a  colpi  di 
«  lance  e  di  spade,  e  quelli  di  sovra  le  muraglia  git- 
«  tavano  giavelotti  e  pietre  canterute  e  pali  aguti  e 
«  difendevano  la  città  a  lor  podere.  Ma  la  difesa  non 
«  valse  loro  niente  perché  immantinente  che  i  Vini- 
«  zi  ani  misero  loro  scale  alle  mura  vi  montarono  sopra 
«  ed  abbatterono  i  Giadratini  a  terra,  e  presero  la 
«  città  rattamente  rincacciandone  i  cittadini  e  dando 
«  Giadra  in  preda  di  monsignore  Erriao  Dandolo  (1).  » 


(\)  La  Cronique  des  Veniciens  de  Maistre  Martin  Da  Canal, 
edita  dal  Polidori  con  traduzione  a  fronte  del  Galvani.  Ho  ado- 


ANDREA   DANDOLO  275 

A  quel  modo  che  Martino  Da  Canale  aveva  attinto 
largamente  dagli  storici  che  lo  precedettero,  così  un 
altro  cronista  di  nome  Marco  si  giovò  molto  di  lui 
per  compilare  una  cronaca  latina  di  cui  furono  pub- 
blicati sol  dei  frammenti;  e  dopo  lui  e  d'assai  mag- 
giore rilievo  appariscono  Marin  Sanudo  Torsello,  e 
il  frate  Paolino,  due  delle  principali  fonti  storiche 
di  cui  si  servi  il  grande  cronista  medioevale  di  Ve- 
nezia, Andrea  Dandolo. 

Da  una  antica  e  gloriosa  famiglia  di  guerrieri  e 
d'uomini  di  Stato  e  di  Chiesa,  Andrea  Dandolo  nacque 
nei  primi  anni  del  secolo  decimoquarto.  Giovanissimo 
sostenne  cariche  importanti,  Procuratore  di  San  Marco 
nel  1331,  Podestà  di  Trieste  nel  1333,  e  tre  anni  ap- 
presso Provveditore  in  campo  nella  guerra  contro  Ma- 
stino della  Scala.  Nel  1343  a  soli  trentasei  anni,  o, 
come  altri  vuole,  a  trentatre,  Andrea  con  esempio  in- 
solito fu  levato  al  trono  ducale.  Giusto  liberale  be- 
nefico, i  contemporanei  sono  pieni  di  lodi  per  lui; 
dottissimo  di  giurisprudenza  e  di  storia,  volse  le  sue 
cognizioni  a  benefizio  dello  Stato  e  delle  lettere  che 
gli  procurarono  amicizie  di  letterati  insigni,  massimo 
fra  questi  il  Petrarca.  L' indole  e  gli  studi  lo  trae- 
vano alla  pace,  ma  i  tempi  gravi  in  cui  resse  lo  Stato 
volgevano  a  guerra  e  gli  fu  mestieri  spender  gran 


parato  questa  traduzione  nel  frammento  riportato  qui  so- 
pra. La  cronaca  è  pubblicata  neìV Archivio  Storico  Italiano, 
prima  serie,  voi.  Vili,  an.  1845.  Lo  stesso  volume  contiene  il 
Chronicon  Altinate  pubblicato  da  A.  Eossi,  e  i  frammenti  della 
cronaca  di  Marco  pubblicati  da  Angelo  Zon. 


276      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

parte  della  sua  mente  a  negoziati  che  s'appoggiavan 
suir  armi.  Le  continue  relazioni  di  commercio  e  di 
guerre  tra  l'Asia  Minore  e  Venezia  alla  quale  anche 
s'aprivano  allora  i  porti  d'  Egitto  e  di  Siria,  le  con- 
tese commerciali  sorte  e  appianate  coi  Tartari,  la 
ribellione  di  Zara  in  Dalmazia  vinta  malgrado  gli 
sforzi  avversi  del  re  d'Ungheria,  e  quella  di  Giu- 
stiuopoli  nell'Istria  vinta  ancor  essa,  e  una  terribile 
pestilenza  in  Venezia,  occuparono  con  molte  altre  cure 
l'attività  di  Andrea  Dandolo  nei  primi  anni  del  suo 
principato.  In  proceder  di  tempo  queste  cure  si  ac- 
crebbero per  la  rivalità  ognor  crescente  tra  i  Vene- 
ziani e  i  Genovesi  i  quali  anch'essi  volgevan  lor  mire 
al  commercio  coi  Tartari  nel  mare  d'Azof.  La  riva- 
lità si  mutò  presto  in  guerra  (A.  D.  1351),  e  tal  guerra 
quale  potevano  farsela  le  due  maggiori  potenze  ma- 
rittime d'Europa  a  quel  tempo.  Guerra  lunga  for- 
tunosa varia  di  vittorie  e  di  sconfitte,  difficile  a  con- 
durre per  le  molteplici  alleanze  eh'  era  necessario 
stringere  e  opporre  alle  alleanze  nemiche.  E  qui  è 
bello  ricordare  come  la  inerme  voce  del  Petrarca, 
si  levasse  tra  quel  frastuono  d'armi  a  consigliare  di 
pace  il  Doge  Andrea  Dandolo.  Ma  a  questo  non  era 
dato  ascoltarlo.  I  casi  incalzando  rendevano  necessa- 
ria la  prosecuzion  della  guerra  nella  quale  i  Vene- 
ziani toccarono  una  grave  sconfitta.  Mentre  si  prov- 
vedeva a  difender  la  città  da  un  possibile  assalto,  o 
fosse  il  crepacuore  pel  danno  patito  dalla  patria  o  fos- 
sero le  fatiche  sopportate  in  quegli  allestimenti  di  di- 
fesa, Andrea  Dandolo  mori  il  7  settembre  1354  dopo 
appena  cinquant'anni  di  vita  e  dodici  di  principato. 


ANDREA.    DANDOLO  277 

Le  molte  cure  dello  Stato  e  i  tempi  bellicosi  in  cui 
governò,  non  lo  avevano  distolto  dai  suoi  lavori  di 
giurisperito  e  di  storico.  Aggiunse  un  libro  agli  Sta- 
tuti di  Venezia,  rivedendo  egli  stesso  e  perfezionando 
il  lavoro  man  mano  che  si  preparava.  Assicurò  l'or- 
dinamento degli  archivi  veneti  facendo  compilare  due 
libri  d' immenso  pregio  intitolati  Liber  Albits  e  Liber 
Blancus,  contenenti  il  primo  i  trattati  conclusi  da 
Venezia  cogli  Stati  orientali,  V  altro  quelli  conclusi 
cogli  Stati  d'Italia.  Prima  di  salire  al  principato 
aveva  già  intrapreso  qualche  lavoro  storico  che  poi 
rifuse  nella  grande  opera  sua,  la  Cronaca  o,  come 
altri  la  chiama,  gli  Annali  di  Venezia^  scritta  mentre 
egli  era  Doge.  E  lavoro  insigne  pel  quale  si  aiutò 
con  ogni  maniera  di  materiali  e  raccoglie  in  sé  tutta 
quanta  la  storia  di  Venezia  fino  al  chiudersi  del  tre- 
dicesimo secolo,  cercata  con  cura  grande  e  grande 
erudizione.  La  piena  libertà  di  consultare  gli  archivi 
gli  rendeva  facile  l'uso  dei  documenti,  ed  egli  se  ne 
servi  lungamente  anche  inserendone  molti  o  per  in- 
tero o  in  estratto  nel  suo  lavoro.  Lesse  molti  degli 
scrittori  non  veneziani  dai  quali  poteva  trarre  notizie 
utili  all'  opera  sua,  e  dei  veneziani  che  lo  avevano 
preceduto  non  gli  sfuggi  quasi  nessuno  e  forse  co- 
nobbe qualche  scrittura  che  non  è  pervenuta  infino 
a  noi.  Di  tutti  fece  uso  non  senza  acume  di  critica 
talché  non  sai-ebbe  ingiustizia  affermare  che  dove  tutti 
fossero  periti,  la  cronaca  di  Andrea  Dandolo  avrebbe 
conservato  il  succo  delle  opere  loro  e  la  storia  di  Ve- 
nezia rimarrebbe  intera.  Come  scrittore  non  ha  grandi 
attrattive;  assai  semplice  e  lucidissimo  ma  piuttosto 


278      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

scarso  di  fantasia,  narra  i  fatti  senza  curarsi  d' or- 
dinarli con  intendimento  d'artista,  E  neppure  il  no- 
stro cronista  è  storico  perfetto.  Non  si  guarda  abba- 
stanza dalle  favole,  dice  il  Muratori,  dove  narra  cose 
remote  da'  suoi  tempi,  e  talvolta  nella  cronologia  egli 
incespica  e  cade  negli  errori  di  chi  1'  ha  preceduto. 
Ma  pur  con  ciò  non  è  da  spregiarlo,  e  quanto  egli 
dice  intorno  all'  origine  e  al  crescere  di  Venezia  è 
da  avere  in  gran  conto,  ne  certo  si  troverebbe  scrit- 
tore pili  grave  di  lui  (1).  Dei  suoi  tempi  non  parla 
nella  sua  cronaca  ma  di  quelli  abbastanza  vicini  a 
lui  tratta  con  serena  ed  onesta  imparzialità  d'animo. 
Sulla  vita  e  sull'ordinamento  politico  di  Venezia  ha 
idee  chiarissime  e  man  mano  che  narra  i  fatti,  egli 
espone  lo  svolgimento  storico  e  progressivo  di  quella 
mirabile  costituzione,  e  in  ciò  è  tal  pregio  che  solo  ba- 
sterebbe a  farlo  un  dei  più  grandi  e  più  importanti 
storici  di  tutto  il  medio  evo  italiano.  All'opera  sua 
premise  una  lettera  introduttoria  Benintendi  de'  Ra- 
vegnani  cancelliere  della  Repubblica,  amico  anch'egli 
al  Petrarca,  letterato  di  fama  e  autore  di  una  storia 
veneta  che  rimasta  incompiuta  non  oltrepassa  i  primi 
secoli  di  Venezia.  Un  altro  cancelliere,  Raffaello  o 
Rafaino  de' Caresini,  prosegui  l'opera  del  Dandolo  e 
ne  continuò  gli  Annali  fino  al  1383,  in  un  lavoro  ac- 
curato anch'esso,  e  sebbene  meno  imparziale  di  quello 
del  Doge,  pure  molto  commendevole  come  opera  di 


(1)  «  Certe  graviorem  de  iis  rebus  scriptoretn  nullum  pro- 
«  feram.  »  Muratori,  In  jyraef.  ad  A.  Danduli  chronioon. 


ANNALISTI    GENOVESI  279 

storico  contemporaneo  e  di  cittadino  devoto  e  gene- 
roso verso  la  patria  (1). 

Né  la  superba  Genova  volle  restare  indietro  al- 
l'emula sua  ma  con  sapiente  consiglio  provvide  alla 
città  una  serie  di  istoriografi  i  quali  succedendosi  gli 
uni  agli  altri  ne  descrissero  le  vicende  per  circa  due 
secoli  dal  1100  al  1293.  Ideatore  e  iniziatore  di  que- 
sta serie  fu  un  illustre  cittadino  genovese^  il  Cafifaro, 
il  quale  nato  intorno  al  1080  si  trovò  come  soldato  e 
come  duce  a  molte  spedizioni,  e  prese  gran  parte  come 
console  nelle  cose  della  Repubblica  e  come  ambascia- 
tore a  papa  Calisto  II  e  a  Federico  Barbarossa.  In 
sui  vent'anni  d'età,  al  tempo  della  spedizione  di  Ce- 
sarea nel  1100,  entrò  nel  proposito  di  descrivere  le 
gesta  dei  concittadini  suoi,  e  da  quel  tempo  quanto 
vide  egli  stesso  o  seppe  dalla  testimonianza  oculare 
d'altri  consoli  o  somiglianti  personaggi,  tutto  notò 
costantemente,  e  nel  1152  presentò  il  suo  lavoro  in 
pieno  Consiglio  ai  consoli  della  Repubblica.  I  con- 
soli decretarono  che  il  libro,  copiato  con  gran  cura 
ed  eleganza,  fosse  collocato  nell'  archivio  pubblico. 
Lieto  il  Caffaro  con  raddoppiato  zelo  si  ripose  al- 
l'opera e  condusse  innanzi  gli  Annali  fino  al  1163, 
ottantesimoterzo  dell'età  sua,  ma  le  turbolenze  civili 


(1)  Andreae  Danduli,  Chronicon  Venetum,  a  Poniificatu 
S.  Marci  ad  an.  usque  1339:  succedit  Eaph.  Caeesixi  conti- 
nuano tisqiie  ad  an.  1388  mine  primum  evulgata,  in  Mueatoki, 
Her.  Itàl.  Script.)  voi.  XII.  Menziono  qui  anche  la  cronaca 
scritta  in  italiano  da  Daniele  Chixazzo  sulla  guerra  di  Chiog- 
gia  tra  Veneziani  e  Genovesi  (A.  D.  1378  e  seg.).Ibid.  voi.  XV. 


280      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

che  agitavano  Genova  a  quel  tempo  gì'  impedirono 
dì  seguitare  per  gli  altri  tre  anni  che  visse.  Morì 
nel  1166  lasciando  oltre  gli  Annali  un  Liber  de  Expe- 
ditione  Almariae  et  Tortuosae  alla  quale  egli  aveva 
preso  parte  (1147-1148),  ed  uno  De  liberatione  civi- 
tatum  Orientis  che  descrive  le  spedizioni  dei  Geno- 
vesi in  Siria  e  in  Palestina.  In  essi,  come  negli  Annali, 
il  Cafifaro  rivela  sé  stesso  quale  scrittore  ottimamente 
informato,  testimonio  quasi  sempre  oculare  delle  cose 
che  narra^  uom  forte  pio  candido,  della  patria  aman- 
tissimo, indagatore  solerte  di  quanto  possa  riferirsi 
alla  vita  pubblica  e  privata  dei  cittadini,  d'affari  in- 
tendentissimo,  familiare  coi  sommi  uomini  del  suo 
tempo,  coir  imperatore  Federico  specialmente  e  coi 
papi,  tenace  del  retto  e  del  giusto  cosi  nelle  cose  del- 
l'Impero  che  della  Chiesa,  uomo  alla  cui  felicità,  dopo 
le  nobili  cose  operate  in  pace  e  in  guerra,  s'aggiunse 
da  vecchio  di  vedere  il  figliuol  suo  Ottone  console 
nella  Repubblica.  Tali  le  ampie  e  meritate  lodi  colle 
quali  il  Pertz  delinea  il  ritratto  del  Caffaro. 

Proseguì  la  sua  storia  per  ordine  della  Repubblica 
il  cancelliere  Oberto,  e  la  condusse  dal  1164  al  1173. 
Mescolato  ancor  egli  a  tutti  gli  eventi  della  patria, 
Oberto  ebbe  campo  di  vedere  e  conoscer  bene  quanto 
accadeva  d' importante  per  la  Repubblica  genovese 
e  dentro  la  città  e  lontano,  talché  la  sua  storia  rende 
una  viva  immagine  dei  tempi  suoi.  Le  trattative  di 
pace  coir  imperatore  di  Costantinopoli,  gli  armamenti 
a  Porto  Venere  contro  Pisa,  la  esposizione  ch'ei  fece 
a  Federico  Barbarossa  sulla  contesa  tra  Pisani  e  Ge- 
novesi a  proposito  della  Corsica,  i  sussidi  dati  a  Mi- 


ANNALISTI   GENOVESI  281 

lano  per  fabbricare  Alessandria  sono  alcuni  tra  i  molti 
episodi  nei  quali  ebbe  parte.  Dopo  lui,  Genova  per 
quindici  anni  non  ebbe  storiografo,  ma  nel  1189  Ot- 
tobono  scriba  del  Comune  riprese  l'opera,  e  colmata 
succintamente  la  lacuna  di  quei  quindici  anni  con- 
tinuò con  maggior  larghezza  gli  Annali  fino  al  1196. 
Fu  a  molte  imprese  e  narrò  quel  che  vide  egli  pure 
scrivendo  con  quello  stile  piano  e  scorrevole  che  è 
proprio  di  una  mente  usata  agli  affari  e  a  guardar 
nelle  cose  il  lato  reale  e  pratico.  Nel  1194  colla  flotta 
genovese  mandata  in  soccorso  d'  Enrico  VI,  parte- 
cipò air  assedio  di  Gaeta  e  quando  quella  città  fu 
presa  ne  ricevette  per  Genova  il  giuramento  di  fe^ 
deità.  Nel  1196  si  trovò  presso  San  Bonifacio  al  con- 
flitto tra  la  flotta  di  Genova  e  quella  di  Pisa,  e  dalle 
minute  e  precise  narrazioni  sue  può  indursi  ch'egli 
assistesse  anche  alle  altre  spedizioni  narrate  nel  se- 
guito del  suo  lavoro.  Lasciò  anche  importanti  noti- 
zie sui  mutamenti  politici  interni  avvenuti  in  Genova 
nel  1194  quando  ai  Consoli  del  Comune  fu  sostituito 
un  Podestà  annuo  e  forestiero  secondo  l'usanza  ge- 
nerale allora  nelle  Repubbliche  italiane.  Gli  succe- 
dette nel  lavoro  Ogerio  Pane  (A.  D.  1197-1219),  uomo 
che  si  adoprò  molto  in  vari  negozi  della  Repubblica 
col  Re  d'Aragona  Ildefonso,  colla  città  di  Marsiglia, 
e  con  Federico  II.  Dopo  Ogerio,  pregevolissimi  e  ado- 
perati anche  più  di  lui  nelle  cose  di  Stato,  Marchisio 
(A.  D.  1220-1224)  e  Bartolomeo  (A.  D.  1225-1248) 
ebbero,  quest'ultimo  specialmente,  a  narrare  un  tratto 
di  storia  rilevantissimo,  e  ci  mostrano  Genova  nelle 
sue  relazioni  colle  potenze  vicine  e  lontane  del  Me- 


282  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

diterraueo  e  la  varia  parte  ch'essa  ebbe  nelle  lotte 
in  Italia  tra  Federico  II  e  la  Chiesa. 

Dopo  una  continuazione  rimasta  anonima  che  va 
dal  1249  al  1264,  la  cura  degli  Annali  genovesi  fu 
affidata  non  piìi  ad  uno  ma  contemporaneamente  a 
diversi  scrittori  i  quali  allargando  alquanto  oltre  la 
cerchia  di  Genova  i  confini  del  loro  lavoro^  lo  conti- 
nuarono dal  1264  al  1279,  con  grande  zelo  e,  tra  quel 
parteggiare  continuo  che  travagliava  la  città  loro, 
con  imparzialità  mirabile  nell'  esporre  i  fatti  e  nel 
giudicarne.  Tra  gli  ultimi  chiamati  a  questo  ufficio 
fu  sin  dal  1269  Giacomo  D'Oria,  al  quale  nel  1280 
fu  dato  incarico  di  proseguir  solo  gli  Annali,  ed  egli 
li  condusse  fino  al  1294.  Nato  nel  1234  da  Pietro 
figlio  del  celebrato  ammiraglio  Oberto  D'Oria,  fu  tra 
le  varie  vicende  della  patria  esperto  uomo  di  toga 
e  di  spada.  Nel  1284  saliva  con  molti  parenti  una 
galera  di  casa  D' Oria  in  una  gran  battaglia  contro  i 
Pisani  ma  nel  tornar  vittorioso,  assalito  da  una  tem- 
pesta presso  a  Porto  Venere,  scampò  a  fatica  da  morte. 
Tornato  in  patria,  attese  a  riordinare  l'archivio  della 
città,  fece  trascrivere  in  regesto  molti  documenti  e 
di  essi  si  servi  nel  suo  ufficio  di  storico.  Dotto  co- 
noscitore degli  antichi  scrittori,  ricercò  in  essi  quanto 
potè  trovar  di  notizie  per  riassumere  brevemente  la 
storia  di  Genova  anteriore  ai  tempi  del  Caffaro.  Di 
ciò  che  concerne  i  suoi  tempi  fu  larghissimo  esposi- 
tore, massime  per  le  relazioni  tra  Genova  e  Carlo 
d'Angiò  e  per  la  spedizione  in  Corsica  condotta  da 
Percivallo  D'Oria,  Scrittore  sagacissimo,  avanza  tutti 
i  predecessori  suoi  per  acutezza  d'osservazione,  per 


ANNALISTI   GENOVESI  283 

larghezza  di  vedute  e  per  una  precisione  di  mente 
che  non  gli  fa  mai  trascurar  dettaglio  che  possa  im- 
portare ai  posteri.  A  queste  doti  la  storia  di  Genova 
deve  la  memoria  d' infinite  notizie  intorno  alla  sua 
costituzione,  all'esercito,  alla  flotta,  alla  moneta.  Il 
16  luglio  1294,  stanco  per  fiaccata  salute  più  che  per 
vecchiezza,  egli  consegnò  il  suo  lavoro  ai  magistrati 
della  città  che  lo  ricevettero  solennemente  e  con  lodi 
degne  del  servigio  ch'egli  avea  reso  alla  patria.  Con 
lui  si  conclude  la  serie  di  questi  Annali,  l'unica  che 
sia  stata  scritta  per  incarico  di  una  Repubblica  ita- 
liana, la  più  completa  in  tutta  l'età  dei  Comuni.  Storia 
di  un  popolo  mercantile  e  guerriero,  riflette  l'indole 
di  questo  popolo  nelle  pagine  di  ciascun  degli  au- 
tori malgrado  la  molti plìcità  loro  e  la  differenza  dei 
tempi  in  cui  scrissero.  A  questi  autori  molte  carat- 
teristiche sono  comuni.  Latinità  piena  di  forme  e  di 
parole  italiane^  quasi  nessuno  ornamento  oratorio  ma 
semplicità  di  frase  e  precisione  di  stile  grandissima, 
grande  abbondanza  di  fatti,  di  nomi,  di  date,  molto 
amor  patrio  e  molta  imparzialità  di  giudizio,  si  tro- 
vano in  tutti  questi  scrittori  dal  Caffaro  a  Giacomo 
D'  Oria  che  sono  il  primo  e  l'ultimo  della  serie  e  i  due 
maggiori  per  vastità  di  vedute  e  acutezza  di  indagini. 
Gli  Annali  di  Genova  provano  più  sempre  come  la  sto- 
ria contemporanea  per  rendere  viva  figura  di  ciò  che 
descrive,  vuole  essere  rappresentata  da  chi  la  vide  e 
partecipando  ad  essa  si  scaldò  al  calore  dell'azione  (1). 


(1)  Cafari  et  continuatorum  Annaìes  Januenses,  ed.  Pertz, 
ia  Mon.  Gemi.  Hist.,  voi.  XIII.  Agli  Annali  è  premessa  una 


284  LE   CRONACHE    ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 

Men  ricca  di  Annali  fa  Pisa  ma  non  priva  affatto 
di  essi.  Alleata  nel  1088  a  Genova  e  ad  Amalfi  per 
una  gloriosa  impresa  in  Affrica  contro  i  Saraceni, 
che  fu  preludio  alle  crociate,  ebbe  un  cittadino  che 
ricordò  questa  impresa  con  un  rozzo  ritmo  rimato 
pieno  di  fuoco  patrio.  Del  pari  un  poema  latino  in 
sette  libri  notevole  per  molte  notizie  e  per  la  ten- 
denza classica  del  verseggiare,  celebrò  la  presa  di 
Maiorca  (A.  D.  1115)  che  fu  pure  descritta  dal  car- 
dinale Pietro  Pisano.  Di  quest'ultimo  si  è  già  fatto 
lunga  menzione  tra  i  compilatori  del  Libro  Pontifi- 
cale, e  si  è  detto  come  egli  si  trovasse  co'  suoi  con- 
cittadini alla  spedizione  delle  Isole  Baleari,  e  tornato 
in  patria  scrivesse  la  narrazione  di  quella  impresa  (1). 
E  veramente  egli  nel  narrarla  allargò  il  primo  con- 
cetto del  suo  lavoro,  e  risalendo  fino  alla  prima  cro- 
ciata e  alla  presa  di  Gerusalemme,  dettò  i  Gesta 
trmmphalia  'per  Pisanos  facta,  magnificando  anch'egli 
con  molto  calore  e  con  molta  evidenza  le  glorie  dei 
suoi  concittadini.  Ma  il  principale  fra  i  cronisti  pi- 
sani fu  Beimardo  Marangone  che  fiorì  nel  dodicesimo 


buonissima  prefazione  del  Pertz  alla  quale  mi  sono  attenuto 
assai  da  vicino  per  le  notizie  che  reco  sugli  annalisti.  Ee- 
lativamente  a  Genova  anche  giova  ricordare  il  Chronicon 
Genuense  ab  origine  urbis  nsqiie  ad  an.  1297,  di  Jacopo  da 
Varagine,  noto  autore  della  Legenda  aurea.  Lo  pubblicò  il 
Muratori  nel  IX  volume  dei  Rerum  Italicarum  compendian- 
done la  parte  antica  e  leggendaria  e  conservando  intera  la 
serie  dei  vescovi  e  la  parte  del  Chronicon  più  vicina  ai  tempi 
dell'autore. 

(1)  Veggasi  qui  sopra,  cap.  V,  pag.  178  e  seg. 


BERNARDO   MARANGONE  285 

secolo,  ebbe  molti  pubblici  incarichi  in  patria  e  so- 
stenne in  più  luoghi  varie  legazioni  una  delle  quali 
nel  1164  a  Roma  per  la  conferma  di  una  pace  pat- 
tuita tra  i  suoi  concittadini  e  il  popolo  romano.  Dopo 
brevi  note  cronologiche  gli  Annali  suoi  incominciano 
all'anno  1004,  da  principio  brevissimi,  poi  dal  1136 
al  1175  pili  larghi  e  con  maggior  pienezza  nei  fatti. 
Al  J175  cessa  il  lavoro  suo  che  fu  continuato  fino 
al  1269  da  Michele  De  Vico  canonico  pisano  del  se- 
colo decimoquarto.  Il  Marangone  è  scrittore  rozzo  ma 
chiaro,  e  la  latinità  sua  è  piena  anch'essa  di  forme 
e  di  parole  italiane.  Annalista,  quanto  alla  sostanza, 
bene  informato  e  sincero,  egli  ci  lasciò  notizie  che 
non  sapremmo  senza  di  lui  e  che  attinse  a  fonti  og- 
gimai  perdute.  Ha  pregio  specialmente  per  la  storia 
delle  relazioni  di  Pisa  coli' Impero  e  coi  Papi,  con 
Genova,  e  colla  rimanente  Toscana  di  cui  la  storia 
appunto  in  quei  tempi  veniva  in  gran  luce  pel  salire 
della  importanza  politica  di  Firenze,  e  per  quel  ma- 
raviglioso  sorgere  d'arti  e  di  lettere  destinato  a  stam- 
pare un  segno  cosi  profondo  nella  storia  della  ci- 
viltà (1). 


(1)  Laueentii  Vernensis,  De  bello  Maioricano  libri  VII.  Ber. 
Ital.  Script.,  voi.  VI.  —  Gesta  truinphalia  per  Pisanos  facta., 
Ibid.  Bernardi  Marangokis,  Annales  Pisani,  1004-1175,  Mon. 
Gemi.  Hist.  Script.,  voi.  XIX,  e  colla  continuazione  di  Mi- 
chele De  Vico,  in  Muratori,  Ibid.  Le  opere  nominate  qui  ap- 
presso immediatamente,  in  Muratori,  Op.  cit.,  voi.  XI,  XV, 
XVIII.  E  veggasi  anche  il  volume  VII  dei  Documenti  di  Storia 
italiana  pubblicato  dalla  Deputazione  di  Storia  patria  in  Fi- 
renze, 1876. 


286  LE    CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

Infatti  verso  quel  tempo  i  cronisti  cominciarono  a 
fiorire  in  ogni  città  di  Toscana,  utilissimi  illustra- 
tori della  storia  d' Italia  dal  secolo  dodicesimo  al  de- 
cimoquinto. Lucca,  Siena,  Pistoia  principalmente  eb- 
bero cronisti  pregevoli  tra  i  quali  gioverà  menzionare, 
per  Lucca  gli  Annali  (A.  D.  1061-1394)  di  quel  To- 
lomeo Lucense  che  abbiam  veduto  autore  di  una  storia 
ecclesiastica^  la  vita  di  Castruccio  di  Nicola  Tegrimo 
(A.  D.  1301-1328),  e  la  cronaca  di  Giovanni  di  Ser 
Cambio  (A.  D.  1400-1409).  Per  Siena,  a  non  dir  d'altri 
posteriori,  vogliono  citarsi  la  Cronica  di  Andrea  Dei 
continuata  da  Angelo  Tura  (A.  D.  1186-1352)  e  gli 
Annali  di  Neri  Donati  (A.  D.  1352-1381),  e  per  Pi- 
stoia gli  Annali  Pistoiesi  (A.  D.  1300-1348)  dettati 
in  italiano.  E  in  italiano  furono  scritte  varie  di  que- 
ste cronache  menzionate  ed  altre  di  cui  si  tace,  non 
piccolo  merito  ancor  esso  sì  perché  aiutavano  lo  svi- 
lupparsi della  lingua,  e  perché  gli  autori  scrivendo 
come  parlavano,  non  avevano  imj)accio  che  rallen- 
tasse il  pensiero  loro  e  l'esprimevano  tutto  quanto 
vivace  e  vero  come  scintillava  ad  essi  nella  mente. 

Sovra  la  rimanente  Toscana,  dopo  il  dodicesimo 
secolo  torreggia  Firenze,  dagli  umili  e  mal  noti  prin- 
cipi salita  rapidamente  al  primato  e  fatta  insigne 
dalle  cresciute  ricchezze,  dalle  arti  e  dalla  letteratura. 
Popolo  pieno  d'ingegno  ed  attivo,  il  piìi  simile  al- 
l'antico ateniese  di  quanti  ne  conosce  la  storia  mo- 
derna, per  natura  vivace  arguto  riottoso  discorde, 
i  Fiorentini  quasi  d' istinto  si  formarono  ad  una  mi- 
rabile democrazia  ricca  di  tutti  i  pregi  democratici 
e  di  tutti  i  difetti.  Il  sentimento  individuale  forte  in 


FIRENZE  287 

tutti  gl'Italiani  si  mostrò  fortissimo  in  Firenze  e  creò 
miracoli  di  virtù  e  di  colpe.  Da  un  lato  gare  d'uf- 
fici e  nimistà  private  suscitavan  feroci  le  lotte  delle 
parti,  ghibellina  e  guelfa  di  nome  dapprima,  e  poi, 
quando  il  partito  guelfo  e  democratico  prevalse,  rin- 
novate coi  nomi  di  parte  bianca  e  di  parte  nera: 
lotte  tra  famiglie  e  famiglie,  tra  nobiltà  e  popolo  in- 
sofferenti gli  uni  degli  altri.  Dall'altro  lato  un  fiorir 
di  commerci,  di  ricchezze,  d' industrie,  e  le  corpora- 
zioni degli  artieri  così  saldamente  costituirsi  da  di- 
venir base  allo  Stato  e  curvare  la  nobiltà  costrin- 
gendola per  entrar  negli  uffici  d'ascriversi  ad  essa, 
e  Dante  fa  esempio.  La  lingua  formarsi  e  le  lettere 
e  l' arti  spiccare  un  volo  non  tentato  prima  nelle 
età  moderne  ne  mai  superato  in  appresso.  E  sen- 
tenza perpetua  di  Dio  che  solo  un  popolo  il  quale 
senta  in  ogni  cosa  con  forza  possa  esser  grande  in 
ogni  cosa,  e  non  v'era  bellezza  di  cui  non  s'  inna- 
morassero quegli  animi  cosi  fieri  e  appassioaati,  né 
tra  le  guerre  fratricide  e  le  uccisioni  e  gli  esili,  v'era 
altezza  di  pensiero  a  cui  non  giungessero  o  genti- 
lezza d'affetto  che  non  capisse  in  loro.  Una  fraterna 
simpatia  legava  tra  loro  quasi  misticamente  quei 
grandi  artisti  che  sorgevano  a  rinnovar  di  bellezza 
i  regni  del  pensiero,  e  quasi  inavvertitamente  e  per 
istinto  si  legavano  a  Dante  giovine  allora  e  pensoso 
di  versi  e  d'amore.  E  mentre  egli  dettava  la  Vita 
Nuova,  Casella  musicava  la  sua  canzone  Amoì'  che 
nella  mente  mi  ragiona,  e  Giotto  lo  dipingeva  bello 
di  sentimento  e  di  dolcezza,  e  Guido  Cavalcanti  e 
Gino  da  Pistoia  e  Lapo  Gianni  gli  scrivevano  versi 


288  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO    EVO 

ed  egli  a  loro.  Erano  nella  primavera  dei  loro  pen- 
sieri e  mettevan  fiori,  ma  presto  l'arduo  fiotto  del- 
l'ire civili  travolse  Dante  e  lo  gettò  a  maturar  l'anima 
grande  tra  i  dolori  dell'  esilio.  Vagando  da  paese  a 
paese  l' immortai  profugo  guardò  nel  segreto  degli 
uomini  e  delle  cose,  imparò  una  ad  una  le  virtù,  le 
colpe,  le  sventure  d'Italia,  e  nel  comporre  il  poema 
sacro  a  cui  posero  mano  e  cielo  e  terra,  scolpi  in 
esso  la  storia  d' Italia,  e  in  verità  gettò  le  basi  alla 
storia  di  tutto  il  medio  evo.  Non  è  di  questo  libro 
trattare  il  valore  storico  del  poema  di  Dante,  ma  giovi 
aver  qui  evocata  la  immagine  sua  e  che  la  santa  figura 
attraversi  queste  pagine  come  una  fulgente  visione  di 
luce  (1). 

Le  origini  di  Firenze  son  buie.  Fondata  per  quanto 
pare  due  secoli  prima  di  Cristo  e  rifondata  da  Au- 
gusto, la  sua  storia  fino  al  secolo  undecimo  non  ha 
quasi  altra  base  che  le  note  e  favolose  leggende  di 
Troia,  di  Catilina  e  di  Totila,  popolari  a  Firenze  (2). 
Intorno  a  queste  leggende  spaziò  la  fantasia  de'  suoi 


(1)  Non  mi  pare  di  dover  far  menzione  del  Petrarca  per- 
ché razione  sua  come  storico  si  volse  alla  antichità  classica 
di  cui  promosse  con  tanto  amore  e  con  tanta  fortuna  la  ri- 
surrezione. Tra  le  opere  sue  hanno  grande  importanza  per 
la  storia  contemporanea  le  sue  lettere.  Per  le  stesse  ragioni 
non  parlo  del  Boccaccio  di  cui  neppure  tengo  discorso  per 
la  Vita  di  Dante  e  pel  Commento  alla  Divina  Commedia  che 
mi  condurrebbe  agli  altri  commentatori  e  fuori  dei  miei  confini. 

i'^)  L'altra  traendo  alla  rocca  la  chioma 

Favoleggiava  con  la  sua  famiglia 
De'  Troiani  e  di  Fiesole  e  di  Roma. 

Dante,  Paradiso,  XV. 


FIRENZE  289 

cronisti,  e  finora  non  si  ricavò  quasi  nulla  che  non 
sia  congettura  dalle  più  antiche  memorie  che  pos- 
sono descriversi  in  breve.  Le  Gesta  Florentinorum 
del  Sanzanome  partendo  dalle  origini  incominciano 
a  uscir  del  vago  intorno  al  1125  colla  unione  di  Fie- 
sole a  Firenze,  e  ci  mostrano  quest'ultima  già  bene 
avviata  nel  corso  della  prosperità  sua  matei'iale  e  in- 
tellettuale fino  al  1231.  La  Chronica  de  origine  ci- 
vitatis  sembra  essere  una  compilazione  di  varie  mani 
e  di  vari  tempi,  nella  quale  sono  venute  agglomeran- 
dosi le  varie  leggende  delle  origini.  Grli  Annales  Fio- 
rentini 'primi  (A.  D.  1110-1173)  e  gli  Annales  Fio- 
rentini secundi  (A.D.  1107-1247),  un  elenco  dei  Consoli 
e  dei  Podestà  di  Firenze  dal  1197  al  1267  ed  un'altra 
cronaca  già  attribuita  ma,  pare,  senza  ragione,  a  Bru- 
netto Latini  completano  la  raccolta  delle  prime  me- 
morie di  Firenze.  Alle  quali  è  da  aggiungere  un 
gruppo  di  notizie  che  verso  il  secolo  decimoterzo  si 
venne  formando  e  trasformando  in  vari  codici,  e  fu 
adoperato  nelle  varie  sue  forme  dagli  antichi  scrit- 
tori Fiorentini  e  Toscani,  e  citato  da  essi  col  nome  ge- 
nerico di  Gesta  Florentinorum.  «  Opera,  »  come  con- 
gettura sagacemente  il  prof.  Paoli  «  di  compilazione 
«  e  ricompilazione  continua,  molteplice,  anonima,  uni- 
«  versale  ;  non  opera  veramente  letteraria  ma  fonda- 
«  mento  d'una  letteratura  storica  splendidissima^  quale 
«  fu  la  fiorentina  del  secolo  decimoquarto.  » 

Finora  questa  letteratura  facevasi  risalire  di  qual- 
che tempo  pili  in  alto  e  incominciar  dalla  cronaca  che 
va  sotto  il  nome  di  Ricordano  e  Giacotto  Malespini, 
vissuti  nella  seconda  metà  del  secolo  decimoterzo,  e 

19.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


290      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

delle  cui  persone  si  sa  poco  ed  incerto.  Era  questa 
considerata  come  la  più  antica  cronaca  scritta  in  vol- 
gare dopoché  i  Dhirnali  di  Matteo  Spinelli  furono 
dichiarati  apocrifi.  Ma  pur  contro  essa  ora  si  accam- 
pano taluni  eruditi  e  la  combattono  con  gran  vigor 
di  ragioni  talché  par  difficile  che  possa  difendersene 
l'autenticità  malgrado  alcune  serie  obbiezioni  mosse 
da  chi  la  sostiene.  Certo  oramai  tutti  ammettono  che 
s'anco  la  cronaca  nella  sostanza  è  autentica,  essa  deve 
essere  pervenuta  a  noi  sformata  oltremodo  e  diversa 
dalla  primitiva  lezione.  Finora  ad  un  giudici©  defi- 
nitivo manca  una  base  ferma,  e  non  si  può  andare 
oltre  le  ipotesi  tra  le  quali  ci  sembra  probabile  quella 
del  professor  Paoli  che  questa  cronaca  sia  un  raffaz- 
zonamento di  più  antiche  memorie  sconosciute  a  noi 
e  da  cui  avrebbero  attinto  parecchi  cronisti  senza  ci- 
tarle 0  con  citazioni  mal  certe.  Così  come  ci  rimane, 
la  cronaca  Malespiniana  è  libro  molto  attraente;  muove 
dalle  leggende  delle  origini  e  discende  fino  ai  secoli 
dodicesimo  e  tredicesimo  in  cui  narra  per  disteso  la 
storia  di  Firenze.  Ha  forme  antiche  di  stile  ed  ar- 
caismi di  lingua  che  la  fanno  scrittura  assai  pitto- 
resca e  coloriscono  le  abbondanti  notizie  e  i  molti 
fatti  ed  episodi  che  si  ritrovano  poi  quasi  tutti  scritti 
colle  stesse  parole  nella  grande  cronaca  del  Villani, 
accusato  finora  d'aver  copiato  e  rifusa  nella  sua  l'opera 
dei  così  detti  Malespini  mentre  ora  parrebbe  che  essi 
abbian  copiato  da  lui.  Ma  innanzi  d'affermar  nulla  è 
necessario  aspettare  il  risultato  di  nuove  indagini  con- 
dotte sui  manoscritti  e  di  più  profondi  studi  di  cri- 
tica, e  ad  ogni  modo,  se  anche  verrà  dichiarata  senza 


DINO   COMPAGNI  291 

contrasto  apocrifa,  alcuni  pregi  letterari  vieteranno 
che  questa  cronaca  sia  cancellata  interamente  dalla 
letteratura  italiana. 

Cagione  di  lunghe  appassionate  controversie,  è 
stata  per  questi  ultimi  anni  la  Cronaca  di  Dino  Com- 
pagni una  delle  più  care  gemme  che  vanti  la  lingua 
italiana  (1).  Nato  verso  il  1260  d'antica  famiglia  po- 
polana, l'autor  della  Cronaca,  giovine  ancora  si  trovò 
come  Dante  partecipe  alla  vita  pubblica  quando  per 
Firenze  s'apriva  un  periodo  agitato  di  lotte  civili, 
e  la  costituzione  sua  popolare  volgeva  a  forme  sem- 
pre più  democratiche.  La  città  divisa  per  la  nimi- 
cizia  d'alcune  potenti  famiglie,  il  popolo  in  lotta  vit- 
toriosa colla  nobiltà,  fiero  contr'essa  e  tendente  ad 
opprimerne  la  prepotenza  con  rigore  prepotente  di 
leggi.  Il  guelfismo  prevalente,  poiché  ebbe  sconfitti  i 


(1)  I  contrasti  anche  qui  vertevano  intorno  alla  autenti- 
cità, fieramente  impugnata  da  alcuni  critici,  principalmente 
italiani  e  tedeschi,  e  fieramente  difesa  da  altri.  La  importanza 
del  libro  e  la  dottrina  dei  contendenti  ingrossava  la  questione 
che  è  stata  trattata  con  grande  sfarzo  di  sapere  ma  non  sem- 
pre né  da  tutti  con  temperanza  né  con  buona  fede.  L'opera 
ponderosa  ma  dotta  onesta  e  sagace  del  professore  Isidoro 
Del  Lungo  {Dino  Coinpagìii  e  la  sua  cronica^  Firenze,  Le  Mon- 
nier,  1879-1880)  ha  nel  parer  mio  conclusa  la  questione  e  reso 
doppio  servigio  alle  lettere  provando  l'autenticità  della  cro- 
naca e  porgendone  anche  una  edizione  assai  buona.  Di  tutta 
questa  questione  di  Dino  Compagni,  come  1'  hanno  chiamata, 
io  non  farò  parola,  memore  che  il  libro  presente  non  è  po- 
lemico. Solo  era  necessità  accennare  al  fatto  e  ricordare  il 
libro  del  professore  Del  Lungo  che  mi  è  guida  in  queste  pa- 
gine, e  al  quale  dovranno  sempre  aver  grande  obbligo  quanti 
d'ora  innanzi  studieranno  la  cronaca  del  Compagni. 


292  LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL   MEDIO    EVO 

Gliibelliui  d'Arezzo  e  quei  di  tutta  Toscana  con  essi 
alla  battaglia  di  Campaldino  (A.  D.  1289),  si  veniva 
lacerando  rabbiosamente  da  sé,  diviso  come  abbiam 
detto,  in  Guelfi  Bianchi  e  in  Guelfi  Neri,  i  primi 
colla  famiglia  dei  Cerchi  e  con  quella  dei  Donati  i 
secondi.  A  questi  si  piegava  favorevole  Bonifazio  Vili 
che  della  parte  bianca  adombravasi  perché  non  gli 
pareva  staccata  abbastanza  dai  Ghibellini.  Perciò  il 
Papa  mandava  a  Firenze  i  suoi  legati  a  spalleggiare 
i  Neri,  e  più  tardi  chiamava  sovr'essa  le  armi  di 
Carlo  di  Valois^  principe  avventuriero,  povero  e  af- 
famato di  ricchezze  e  d'onori,  la  cui  dimora  in  Italia 
fu  tutta  una  vergogna  e  non  recò  altro  frutto  che 
di  discordie.  Pochi  anni  innanzi  il  popolo  di  Firenze 
guidato  da  un  generoso  tribuno,  Giano  della  Bella, 
aveva  stabilita  co'  suoi  Ordinamenti  di  Giustizia  una 
delle  più  fiere  costituzioni  democratiche  che  potes- 
sero immaginarsi.  Poi  Giano  andava  bandito  in  esi- 
lio, sopraffatto  da  molte  invidie  di  potenti  e  da  un 
altro  e  ben  tristo  tribuno,  il  beccaio  Pecora  che  s'era 
fatto  innanzi  adulando  le  male  passioni  della  plebe 
e  facendone  prò.  Contro  gli  Ordinamenti  di  Giusti- 
zia tramava  intanto  Corso  Donati,  il  Catilina  di  Fi- 
renze, il  quale  messosi  a  capo  dei  Neri  si  sforzava 
di  rendersi  superiore  alla  legge  e  di  scuotere  il  giogo 
a  cui  i  popolani  avevan  curvata  la  nobiltà.  Per  la 
venuta  di  Carlo  di  Valois,  Corso  Donati  e  i  Neri  eran 
saliti  in  forza  e  se  ne  giovarono  alla  oppressione  del- 
l'altro  partito,  onde  la  dimora  in  Firenze  di  quel 
Francese  venuto  con  titolo  di  Paciere,  servi  solo  a 
sbrigliar  le  male  passioni  e  a  insozzar  la  città  e  i 


DINO   COMPAGNI  293 

sobborghi  d' omicidi,  di  saccheggi  violenze  d' ogni 
maniera.  Poi  il  Valese  lasciava  Firenze  alle  sue  de-, 
solazioni.  Bonifazio  Vili  indi  a  poco,  patito  l'insulto 
d'Anagni,  moriva,  Corso  Donati  era  ucciso,  ma  sem- 
pre duravano  le  discordie  e  il  contrastare  indomato. 
Intanto  molti  dei  Bianchi  che  erano  stati  banditi  dalla 
patria,  e  Dante  tra  essi,  per  necessità  di  casi  e  similtà 
di  nemici  si  venivano  accostando  ai  Ghibellini,  e  più 
vi  s'accostarono  quando  splendette  anche  a  Toscana 
quel  raggio  di  speranza  che  illuminò  un  momento  l'af- 
faticata Italia.  Arrigo  di  Lussemburgo  scendendo  a 
coronarsi  imperatore  pareva  invece  dello  scettro  re- 
car nella  mano  il  ramuscello  dell'ulivo.  Era  un  sogno 
desideroso  di  stanche  anime  affannate  di  pace  e  già 
abbiam  veduto  a  Padova  il  gvielfo  Mussato  inneggiare 
ad  Ari'igo  e  celebrarne  le  gesta.  Però  le  discordie 
non  si  assopivano  e  quando  Arrigo  mosse  per  la  To- 
scana, i  Ghibellini  di  quelle  parti  esultarono  e  nei 
Guelfi  Bianchi  si  ravvivò  la  speranza  del  rialzarsi. 
Ma  i  Neri  di  Firenze  non  s' impaurirono,  e  strettisi 
agli  Angioini  di  Napoli  si  mostrarono  apertamente 
ostili  ad  Arrigo  a  cui  la  morte  non  die'  tempo  di  con- 
tinuar nel  contrasto.  Con  lui  cadde  ogni  forza  alla 
parte  bianca  e  la  speranza  di  mai  più  prevalere. 

A  tutti  questi  avvenimenti  aveva  assistito  e  par- 
tecipato in  Firenze  Dino  Compagni  che  fu,  tra  il  1282 
e  il  1301,  più  volte  Priore  nel  governo  della  città  e 
nel  1293  Gonfaloniere  di  Giustizia.  Anima  inteme- 
rata, cuor  mite  e  sincero,  mente  diritta  e  semplice, 
tentò  fra  le  turbolenze  della  patria  di  richiamar  gli 
animi  verso  la  pace,  e  prodigò  vanamente  a  quel  santo 


294      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

scopo  le  forze  della  eloquenza  sua  fervidissima  e 
dell'onesto  volere.  L'indole  temperata  lo  accostò  ai 
Bianchi  e  quando  la  parte  sua  cadde,  egli  costretto  a 
cessare  dalla  vita  pubblica  e  sospiroso  sui  mali  della 
patria,  si  restrinse  alF  arte  sua  di  setaiuolo  e  cercò 
conforto  nelle  lettere  di  cui  già  prima  aveva  dato 
qualche  saggio  in  alcune  liriche  e,  per  quanto  pare, 
in  un  poema  che  ha  per  titolo  la  Intelligenza,  Col- 
l'anima  piena  delle  impressioni  delle  cose  vedute  e 
dell'affetto  doloroso  che  portava  alla  patria,  ei  si  senti 
tratto  a  scrivere  i  fatti  a  cui  s'era  trovato:  «  Le  ri- 
«  cordanze  dell'antiche  istorie,  »  egli  dice  «  lunga- 
«  mente  hanno  stimolata  la  mente  mia  di  scrivere  i 
«  pericolosi  avvenimenti  non  prosperevoli  i  quali  ha 
«  sostenuti  la  nobil  città  figliuola  di  Roma,  molti  anni  e 
«  specialmente  nel  tempo  del  giubileo  dell'anno  1300. 
«  Io  scusandomi  a  me  medesimo  si  come  insufficiente, 
«  e  credendo  che  altri  scrivesse,  ho  restato  di  scri- 
«  vere  molti  anni;  tanto  che  moltiplicati  i  pericoli  e 
«  gli  aspetti  notevoli,  si  che  non  sono  da  tacere,  pro- 
«  posi  di  scrivere  a  utilità  di  coloro  che  saranno  eredi 
«  de' prosperevoli  anni,  acciò  che  riconoscano  i  benefici 
«  da  Dio,  il  quale  per  tutti  i  tempi  regge  e  governa.  » 
«  Quando  io  incominciai,  proposi  di  scrivere  il  vero 
«  delle  cose  certe  che  io  vidi  e  udii,  però  che  furono 
«  cose  notevoli,  le  quali  ne'  loro  principi  nullo  le  vide 
«  certamente  come  io  :  e  quelle  che  chiaramente  non 
«  vidi,  proposi  di  scrivere  secondo  udienza  ;  e  perché 
«  molti  secondo  le  loro  volontà  corrotte  trascorrono 
«  nel  dire  e  corrompono  il  vero,  proposi  di  scrivere 
«  secondo  la  maggior  fama.  » 


DINO   COMPAGNI  295 

Narrato  così  la  ispirazione  e  il  concetto  del  suo 
lavoro  e  descritte  con  vivida  brevità  la  città  di  Fi- 
renze e  le  origini  di  sue  discordie  civili,  egli  entra 
propriamente  nella  sua  storia  che  dal  1280  al  1312 
abbraccia  tutti  gli  eventi  ai  quali  slam  venuti  ac- 
cennando. In  quella  storia  egli  vive  e  respira  e  si 
agita  in  essa  per  modo  che  non  sapremmo  trovar  fra 
i  moderni  uno  scrittore  di  storia  che  gli  si  agguagli 
per  la  potenza  ch'egli  ha  di  scaldare  il  petto  di  chi 
lo  legge  con  tutto  il  fuoco  che  scaldava  il  suo  petto. 
Tra  gli  antichi  1'  han  paragonato  di  preferenza  a  Tu- 
cidide e  a  Sallustio  e  forse  somiglia  più  al  primo  per 
lo  spontaneo  candore  che  manca  al  secondo  a  cui  pure 
s'accosta  Dino  per  una  certa  esteriorità  dello  stile 
pittoresco  e  nervoso.  Nella  Cronaca  di  Dino  è  tutta 
l'anima  dell'autore  quale  essa  fu,  consacrata  alla  pa- 
tria e  piena  di  sdegni  virtuosi  e  d'amore  per  essa. 
L'amor  patrio  infatti  è  la  passione  che  muove  sem- 
pre l'anima  di  Dino  o  ch'egli  narri  imprese  di  virtù 
e  se  ne  esalti,  o  ch'egli  giudichi  severo  e  bolli  d' in- 
famia quei  tristi  che  distruggevano  la  patria  per  pas- 
sióni private  o  di  parte,  imprecando  ad  essi  come  in 
questa  apostrofe  :  «  Levatevi,  o  malvagi  cittadini  pieni 
«  di  scandali,  e  pigliate  il  ferro  e  il  fuoco  colle  vostre 
«  mani  e  distendete  le  vostre  malizie.  Palesate  le  vo- 
«  stre  inique  volontà  e  i  pessimi  proponimenti;  non 
«  penate  più;  andate  e  mettete  in  mina  le  bellezze 
«  della  vostra  città.  Spandete  il  sangue  de'  vostri  fra- 
«  telli,  spogliatevi  della  fede  e  dell'amore,  nieghi  l'uno 
«  all'altro  aiuto  e  servigio.  Seminate  le  vostre  men- 
«  zogne  le  quali  empieranno  i  granai  de' vostri  figliuoli. 


296  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL   MEDIO   EVO 

«  Fate  come  fé'  Siila  nella  città  di  Eoma,  che  tutti  i 
«  mali  che  esso  fece  in  dieci  anni^  Mario  in  pochi  di 
«  li  vendicò.  Credete  voi  che  la  giustizia  di  Dio  sia 
«  venuta  meno  ?  pur  quella  del  mondo  rende  una  per 
«  una.  Guardate  a'  vostri  antichi^  se  ricevettono  me- 
«  rito  nelle  loro  discordie:  barattate  gli  onori  che 
«  eglino  acquistarono.  Non  v'indugiate,  miseri:  che 
«  più  si  consuma  in  uno  di  nella  guerra,  che  molti 
«  anni  non  si  guadagna  in  pace  e  picciola  è  quella 
«  favilla  che  a  distruzione  mena  uno  grande  regno.  » 
L' indole  mite  e  schietta  di  Dino  male  adattavasi 
alla  età  turbolenta  in  cui  visse.  Tra  l'agitarsi  di  tante 
passioni,  se  come  uom  di  Stato  ei  rimaneva  sempre 
nel  giusto  e  accordava  gli  atti  alla  purità  delle  in- 
tenzioni, non  sempre  nell'ingenuo  candor  di  sua  mente 
trovava  rimedi  efficaci  a  prevenir  le  discordie  o  a  re- 
primerle. E  ciò  sente  egli  stesso^  e  quando  ripensa  il 
passato  e  lo  giudica  nella  sua  narrazione^  da  sé  rico- 
nosce gli  errori  propri  e  dei  suoi  colleghi  e  li  con- 
fessa, e  com'  è  giusto  dispensiero  di  lode  e  di  biasimo 
a  tutti,  cosi  non  rifugge  dal  chiamarsi  in  colpa.  Non 
è  la  persona  sua  ch'egli  vede  ma  i  fatti  che  l' hanno 
mossa,  e  questo  rende  bello  il  seguirlo  dov'egli  parla 
di  sé  e  rivela  nella  semplicità  sua  la  magnanima  in- 
dole del  suo  carattere  e  la  serena  imparzialità  del 
giudizio.  Niuno  episodio  piiì  commovente  che  quello 
narrato  da  lui,  di  ciò  ch'ei  fece  essendo  Priore  quando 
Carlo  di  Valois  stava  per  entrare  in  Firenze.  Paven- 
tando le  discordie  civili  in  faccia  d'uno  straniero  egli 
ascolta  la  voce  del  cuore  e  parendogli  che  debba  par- 
lar potente  in  ciascuno  dinnanzi  alla  carità  della  pa- 


DINO   COMPAGNI  29? 

tria,  con  fiducia  ingenua  e  sublime  la  invoca  dai  suoi 
concittadini: 

«  Stando  le  cose  in  questi  termini  a  me  Dino  venne 
«  uno  santo  e  onesto  pensiero  imaginando:  'Questo 
«  signore  verrà  e  tutti  i  cittadini  troverà  divisi  ;  di 
«  che  grande  scandalo  ne  seguirà.  '  Pensai  per  lo  ufi- 
«  ciò  eh'  io  tenea  e  per  la  buona  volontà  eh'  io  sentia 
«  ne'  miei  compagni,  di  raunare  molti  buoni  cittadini 
«  nella  chiesa  di  San  Giovanni;  e  così  feci.  Dove  fu- 
«  rono  tutti  gli  ufici  ;  e  quando  mi  parve  tempo,  dissi  : 
«  '  Cari  e  valenti  cittadini,  i  quali  comunemente  tutti 
«  prendeste  il  sacro  battesimo  di  questo  fonte,  la  ra- 
«  gione  vi  sforza  e  stringe  ad  amarvi  come  cari  fra- 
«  telli,  e  ancora  perché  possedete  la  piìi  nobile  città 
«  del  mondo.  Tra  voi  è  nato  alcuno  sdegno,  per  gara 
«  d'uficii,  li  quali,  come  voi  sapete,  i  compagni  e  io 
«  con  saramento  v'abbiamo  promesso  d'accomunarli. 
«  Questo  signore  viene,  e  conviensi  onorare.  Levate 
«  via  i  vostri  sdegni,  e  fate  pace  tra  voi,  acciò  che 
«  non  vi  trovi  divisi  :  levate  tutte  l'offese  e  ree  vo- 
«  lontà  state  tra  voi  di  qui  adietro  ;  sieno  perdonate 
«  e  dimesse,  per  amore  e  bene  della  vostra  città.  E 
«  sopra  a  questo  sacrato  fonte,  onde  traesti  il  santo 
«  battesimo,  giurate  tra  voi  buona  e  perfetta  pace, 
«  acciò  che  il  signore  che  viene  trovi  i  cittadini  tutti 
«  uniti.  '  A  queste  parole  tutti  s'accordorono,  e  così 
«  feciono,  toccando  il  libro  corporalmente  e  giurorono 
«  attenere  buona  pace  e  di  conservare  gli  onori  e  giu- 
«  risdizioni  della  città.  E  cosi  fatto,  ci  partimmo  di 
«  quel  luogo. 

«  I  malvagi  cittadini  che  di  tenerezza  mostravono 


298  LE   CRONACHE   ITALIANE   NEL    MEDIO   EVO 

«  lagrime,  e  baciavono  il  libro,  e  che  mostravono  più 
«  acceso  animo,  furono  principali  alla  distruzione  della 
«  città.  De' quali  non  dirò  il  nome  per  onestà:  ma 
«  non  posso  tacere  il  nome  del  primo,  perché  fu  ca- 
«  gione  di  fare  seguitare  gli  altri,  il  quale  fu  il  Rosso 
«  dello  Strozza;  furioso  nella  vista,  e  nelle  opere  prin- 
«  cipio  degli  altri  ;  il  quale  poco  poi  portò  il  peso  del 
«  saramento. 

«  Quelli  che  aveano  mal  talento,  diceano  che  la 
«  caritevole  pace  era  trovata  per  inganno.  Se  nelle 
«  parole  ebbe  alcuna  fraudo,  io  ne  debbo  patire  le 
«  pene",  benché  di  buona  intenzione  ingiurioso  merito 
«  non  si  debba  ricevere.  Di  quel  saramento  molte  la- 
«  grime  ho  sparte,  pensando  quante  anime  ne  sono 
«  dannate  per  la  loro  malizia.  »  «Pietosissime  parole» 
esclama  il  Tosti  riferendole  in  un  suo  libro  (1)  «  ed  oh 
«  fossero  nelle  italiane  menti  scolpite  !  »  Ma  le  pietose 
parole  che  infiammavano  dopo  sei  secoli  il  santo  e  pa- 
triottico petto  del  monaco  cassinese  non  bastavano 
tra  quei  torbidi  casi,  e  forse,  come  Dino  stesso  la- 
menta un'altra  volta  di  non  aver  fatto,  sarebbe  stato 
meglio  arrotare  i  ferri.  La  concordia  delle  parti  era 
in  cima  dei  suoi  pensieri,  ed  egli  sperava  di  ottenerla 
con  la  mitezza  delle  persuasioni  come  ci  è  mostrato 
da  un  altro  episodio  che  non  è  meno  degno  di  me- 
moria né  men  bella  pittura  dei  tempi  e  degli  sforzi 
che  pure  si  venivano  facendo  per  tornare  alla  pace 
la  travagliata  città.  «  I  Signori  erano  molto  stimolati 
«  dai  maggiori  cittadini,  che  facessero  nuovi  Signori. 


(1)  Tosti,  Storia  di  Bonifazio  Vili  e  dei  suoi  tempi. 


DINO   COMPAGNI  299 

«  Benché  contro  alla  legge  della  giustizia  fusse,  per- 
«  che  non  era  il  tempo  da  eleggerli^  accordammoci 
«  di  chiamarli  piìi  per  pietà  della  città  che  per  altra 
«  cagione.  E  nella  cappella  di  San  Bernardo  fui  io 
«  in  nome  di  tutto  l'uficio,  e  ebbivi  molti  popolani, 
«  i  più  potenti,  perché  senza  loro  fare  non  si  potea. 
«  Ciò  furono  Clone  Magalotti,  Segna  Angiolini,  Noffo 
«  Guidi,  per  parte  Nera:  messer  Lapo  Falconieri, 
«  Ceco  Canigiani  e  '1  Corazza  Ubaldini,  per  parte 
«  Bianca.  E  a  loro  umilmente  parlai  con  gran  tene- 
«  rezza,  dello  scampo  della  città  dicendo:  'Io  voglio 
«  fare  l'uficio  comune,  da  poi  che  per  gara  degli  uficì 
«  è  tanta  discordia.  '  Fummo  d'accordo,  e  elegemmo 
«  sei  cittadini  comuni,  tre  de'  Neri  e  tre  de'  Bianchi. 
«  Il  settimo,  che  dividere  non  si  potea,  elegemmo  di 
«  si  poco  valore  che  ninno  ne  dubitava.  I  quali,  scritti, 
«  posi  in  su  l'altare.  E  Noffo  Guidi  parlò  e  disse:  'Io 
«  dirò  cosa  che  tu  mi  terrai  crudele  cittadino.'  E  io 
«  gli  dissi  che  tacesse  ;  e  pur  parlò,  e  fu  di  tanfa  ar- 
«  roganza,  che  mi  domandò  che  mi  piacesse  far  la 
«  loro  parte,  nell'ufficio,  maggiore  che  l'altra:  che 
«  tanto  fu  a  dire,  quanto  '  disfà  l'altra  parte,  '  e  me 
«  porre  in  luogo  di  Giuda.  E  io  li  risposi,  che  innanzi 
«  io  facessi  tanto  tradimento,  darei  i  miei  figliuoli  a 
«  mangiare  a'  cani.  E  così  da  collegio  ci  partimmo.  » 
Così,  senza  saperlo,  dipinge  tutto  sé  stesso  que- 
st'uomo, il  quale  col  cader  di  sua  parte,  lasciata  la 
cosa  pubblica,  continuò  come  s'  è  detto  tra  la  mer- 
catura e  le  lettere  una  vita  forse  per  necessità  oscura 
di  cui  non  riman  quasi  traccia  fino  all'anno  1323  che 
fu  l'ultimo  suo.  Storico  mirabile  e  uom  giusto  e  buono, 


300      LE  CRONACHE  ITALIANE  KEL  MEDIO  EVO 

deguo  contemporaneo  e  concittadino  di  Dante  a  cui, 
più  d'ogni  altro  scrittore  della  età  sua^  rassomiglia  per 
l'ardore  grande  degli  affetti,  per  l' indole  piena  d'amore 
e  di  sdegno,  per  la  singolare  attitudine  di  guardar 
le  cose  dall'alto,  di  giudicare  conciso  degli  uomini 
e  di  scolpirne  con  una  frase  il  ritratto.  Di  lui  molti 
scrittori  han  parlato  ma  nessuno  forse  con  tanto  acume 
quanto  il  grande  storico  moderno  di  Firenze,  Gino  Cap- 
poni, clie  ne  fa  memoria  cosi:  ^<  Dino  Compagni  buon 
«  uomo  e  un  po'  corto  nei  suoi  politici  pensamenti, 
«  ma  caldo  fautore  del  buono  e  del  retto  era  impossi- 
«  bile  che  scrivesse  con  la  pazienza  d'un  erudito  o  con 
«  l'accuratezza  di  uno  stenografo,  che  a  volte  non  ba- 
«  sta.  Compagno  allegro  dei  primi  fondatori  d'un  go- 
«  verno  popolare^  devoto  a  chi  aveva  saziato  le  ire 
«  contro  ai  nobili,  poi  male  contento  dei  nuovi  uo- 
«  mini  e  delle  plebi  salite  in  iscanno;  guelfo  ma  per 
«  l'amore  dell'ordine  pronto  ad  accogliere  un  Impe- 
«  ratore,  da  ultimo  impaurito  di  questo  stesso  Impe- 
«  ratore,  a  cui  gli  pareva  che  si  facesse  una  pazza 
«  e  inutile  guerra  ;  onesto  in  ciascuno  di  questi  con- 
«  cetti,  ma  in  tutti  accorgendosi  avere  sbagliato  ;  im- 
«  maginoso  e  appassionato  e  sempre  rigido  moralista  : 
«  è  un  chiedergli  troppo  pretendere  ch'egli  desse  alla 
«  storia  l'esattezza  d' un  registro  minuto  e  impassi- 
«  bile....  La  sua  Storia  è  tutta  composta  sopra  una 
«  serie  d'impressioni  di  cui  l'evidenza,  la  vivacità, 
«  la  forza  sono  argomenti  della  sincerità:  lo  scrittore 
«  nel  raffigurare  sé  medesimo  dipinge  il  suo  tempo; 
«  e  in  questo  appunto  consiste  il  pregio  di  Dino  Com- 
«  pagni,  che  ha  pochi  uguali  per  questo  rispetto.... 


GIOVANNI   VILLANI  301 

«  Ai  prosatori  del  dugento  sovrasta  molto  con  quella 
«  sua  Cronaca  il  fiorentino  Dino  Compagni:  l'Ali- 
«  ghieri  tiranneggia  col  fiero  ingegno  la  lingua,  al- 
«  zandola  come  una  bella  prigioniera  fino  agli  am- 
«  plessi  del  sire  ;  Dino,  che  ha  tanto  viva  ed  efficace 
«  la  parola,  non  riesce  però  a  nascondere  un  qual- 
«  che  sforzo  nella  composizione  ;  sinceramente  appas- 
«  sionato,  ma  pure  ambizioso  di  dare  al  racconto  la 
«  forma  di  storia  secondo  forse  potè  averne  l'esempio 
«  in  Sallustio.  In  quanto  all'arguta  speditezza  dello 
«  stile  si  lascia  il  Compagni  addietro  il  Villani,  che 
«  tanto  lo  supera  per  la  universalità  dell'argomento 
«  e  nella  scienza  dei  fatti  (1).  » 

Nei  tempi  di  Dino  ma  d'alquanti  anni  più  giovane, 
nasceva  in  Firenze  il  grande  cronista  Giovanni  Vil- 
lani il  quale,  secondo  le  tradizioni  di  sua  famiglia, 
addettosi  alla  mercatura  la  esercitò  in  patria  e  fuori. 
Nei  primi  anni  del  secolo  decimoquarto  viaggiò  a 
Roma,  in  Francia  e  nei  Paesi  Bassi,  dove  vide  e  notò 
molto  d'uomini  e  di  cose.  Tornato  in  patria  incomin- 
ciò a  consacrarsi  alla  cosa  pubblica  verso  il  tempo 
in  cui  Dino  se  ne  staccava,  quando  alle  turbolente 
agitazioni  che  Dino  descrisse,  succedeva  un  periodo 
di  calma  relativa.  Negli  anni  1316  e  1317  fu  del- 
l'ufficio dei  Priori  ed  ebbe  parte  negli  astuti  maneggi 
dei  Fiorentini  per  concluder  pace  coi  Pisani  e  i  Luc- 
chesi. Anche  nel  1317  fu  Uffiziale  della  Moneta,  e  am- 
ministrando le  cose  della  zecca,  ne  raccolse  studio- 


(1)  Gino  Capponi,  Storia  della  Rejguhhlica  di  Firenze.  Fi- 
renze, Barbèra,  1876. 


302      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO  . 

samente  le  memorie  componendo  in  gran  parte  egli 
stesso  un  registro  delle  monete  coniate  in  Firenze 
fino  al  suo  tempo.  Priore  nuovamente  nel  1321,  pre- 
siedette alla  riedificazione  delle  mura  di  Firenze  con 
zelo  grande  e  mal  ripagato  perché  poi  l'opera  sua 
fu  soggetta  ad  accuse  di  cui  però  si  disciolse  pro- 
vando la  innocenza  sua.  Più  tardi  fé'  parte  dell'eser- 
cito mosso  dai  Fiorentini  contro  Castruccio  degl'In- 
terminelli  e  sconfitto  da  lui  ad  Altopascio.  In  una 
dolorosa  carestia  che  travagliò  molte  provincie  d'Ita- 
lia nel  1328,  egli  s'adoperò  con  l'usata  attività  sua 
a  lenirne  i  danni  entro  Firenze,  e  de'  provvedimenti 
che  furon  fatti  lasciò  memoria  in  un  capitolo  della 
sua  cronaca  che  è  monumento  di  quella  sapienza  eco- 
nomica per  la  quale  i  Fiorentini  del  medio  evo  anti- 
venendo i  tempi  s' accostarono  spesso  nella  pratica 
alle  teorie  degli  economisti  moderni.  Due  anni  dopo 
presiedette  alla  fattura  delle  porte  di  metallo  di  San 
Giovanni  «  molto  belle  e  di  maravigliosa  opera  e  co- 
«  sto,  e  furono  formate  in  cera  e  poi  pulire  e  dorare 
«  le  figure  per  uno  maestro  Andrea  Pisano  e  gittate 
«  furono  a  fuoco  di  fornello  per  maestri  viniziani.  » 
Nel  1341  fu  ostaggio  di  guerra  a  Mastino  della  Scala 
in  Ferrara  e  quivi  insiem  cogli  altri  ostaggi  rimase 
alquanti  mesi  trattato  a  grande  onore  e  con  grande 
amorevolezza.  Tornato  a  Firenze  vide  tra  le  ulteriori 
vicende  della  patria  e  descrisse  vivamente  la  breve 
usurpazione  e  la  cacciata  del  Duca  d'Atene.  Tra- 
volto senza  colpa  in  un  grande  fallimento  della  Com- 
pagnia de'Bonaccorsi  (1345)  fa  sostenuto  qualche 
tempo  in  prigione.  Morì  nel  1348  vittima  della  gran 


GIOVANNI   VILLANI  303 

peste  famosa    per   la   dipintura    che  ne   ha    fatto  il 
Boccaccio. 

L'anno  1300  pel  solenne  Giubileo  bandito  da  Bo- 
nifazio Vili,  Roma  accolse  tra  le  sue  mura  uno  ster- 
minato numero  di  fedeli  accorsi  d' ogni  parte  della 
cristianità  in  pellegrinaggio  a  venerar  le  tombe  degli 
Apostoli.  Colà  mosse  fra  gli  altri  pellegrini  il  Vil- 
lani. Aggirandosi  per  la  maravigliosa  città  egli  ne 
subì  il  fascino  infinito,  e  innanzi  alla  maestosa  soli- 
tudine delle  sue  rovine  sentì  la  mente  riandargli  al 
passato  e  il  cuore  infiammarglisi  in  quelle  memorie. 
E  mentre  a  Dante  che  s' aggirava  anch'  egli  per  le 
vie  di  Roma  in  quell'anno,  tumultuava  indistinto  nel- 
l'anima il  grande  concetto  del  suo  poema,  allo  spi- 
rito sagace  e  osservatore  del  mercante  fiorentino  si 
rivelava  la  sua  potenza  di  storico  (1).  «Negli  anni  di 
«  Cristo  1300,  secondo  la  nativitade  di  Cristo,  con  ciò 
«  fosse  cosa  che  si  dicesse  per  molti,  che  per  addie- 
«  tro  ogni  centesimo  d'anni  dalla  natività  di  Cristo, 
«  il  papa  ch'era  in  que' tempi,  facea  grande  indul- 
«  genza,  papa  Bonifazio  ottavo  che  allora  era  apo- 
«  stolico,  nel  detto  anno  a  reverenza  della  natività 
«  di  Cristo  fece  somma  e  grande  indulgenza  in  que- 
«  sto  modo;  che  qualunque  Romano  visitasse  infra 
«  tutto  il  detto  anno,  continuando  trenta  dì,  le  chiese 


(l)  «  Like  our  own  Gibbon  musing  upon  tbe  steps  of  Ara 
«  Coeli,  within  sigbt  of  tbe  Capitol,  and  witbin  hearing  of  the 
«  monks  at  prayer,  he  felt  the  genius  loci  stir  him  with  a 
«  mixture  of  astonishment  and  pathos.  »  J.  A.  Stmonds,  Be- 
naissance  in  Italy. 


304      LE  CRONACHE  ITALIANE  NEL  MEDIO  EVO 

«  de'  beati  apostoli  sauto  Pietro  e  santo  Paolo,  e  per 
«  quiiidici  dì  l'altra  universale  gente  che  non  fos- 
«  sono  Eomani,  a  tutti  fece  piena  e  intera  perdonanza 
«  di  tutti  i  suoi  peccati,  essendo  confesso  o  si  con- 
«  fessasse,  di  colpa  e  di  pena.  E  per  consolazione  dei 
«  cristiani  pellegrini,  ogni  venerdì  o  dì  solenne  di 
«  festa,  si  mostrava  in  San  Pietro  la  Veronica  del 
«  sudario  di  Cristo.  Per  la  qual  cosa  gran  parte  dei 
«  cristiani  che  allora  viveano,  feciono  il  detto  pelle- 
«  grinaggio  così  femmine  come  uomini  di  lontani  e 
«  diversi  paesi,  e  di  lungi  e  d'appresso.  E  fa  la  più 
«  mirabile  cosa  che  mai  si  vedesse,  che  al  continuo 
«  in  tutto  l'anno  durante,  avea  in  Roma  oltre  al  po- 
«  polo  romano,  duecentomila  pellegrini  sanza  quegli 
«  ch'erano  per  gli  cammini  andando  e  tornando,  e 
«  tutti  erano  forniti  e  contenti  di  vittuaglia  giusta- 
«  mente,  così  i  cavalli  come  le  persone,  e  con  molta 
«  pazienza  e  sanza  romori  o  zuffe:  ed  io  il  posso  te- 
«  stimoniare,  che  vi  fui  presente  e  vidi.  E  dell'  of- 
«  ferta  fatta  per  gli  pellegrini  molto  tesoro  ne  crebbe 
«  alla  Chiesa,  e'  Romani  per  le  loi'o  derrate  furono 
«  tutti  ricchi.  E  trovandomi  io  in  quello  benedetto 
«  pellegrinaggio  nella  santa  città  di  Roma,  veggendo 
«  le  grandi  e  antiche  cose  di  quella,  e  leggendo  le 
«  storie  e'  grandi  fatti  de'  Romani  scritti  per  Virgilio 
«  e  per  Sallustio  e  Lucano  e  Tito  Livio  e  Valerio  e 
«  Paolo  Orosio  e  altri  maestri  d' istorie,  li  quali  così 
«  le  piccole  cose  come  le  grandi,  delle  geste  e  fatti 
«  de'  Romani  scrissono,  e  eziandio  degli  strani  del- 
«  l'universo  mondo,  per  dare  memoria  e  esemplo  a 
«  quelli  che  sono  a  venire,  presi  lo  stile  e  forma  da 


GIOVANNI   VILLANI  305 

«  loro,  tutto  si  come  discepolo  non  fossi  degno  a  tanta 
«  opera  fare.  Ma  considerando  che  la  nostra  città  di 
«  Firenze,  figliuola  e  fattura  di  Roma,  era  nel  suo 
«  montare  e  a  seguire  grandi  cose,  siccome  Roma  nel 
«  suo  calare,  mi  parve  convenevole  di  recare  in  que- 
«  sto  volume  e  nuova  cronaca  tutti  i  fatti  e  comin- 
«  ciamenti  della  città  di  Firenze,  in  quanto  m'è  stato 
«  possibile  a  ricogliere  e  ritrovare,  e  seguire  per  in- 
«  nanzi  stesamente  i  fatti  de'  Fiorentini  e  dell'altre 
«  notabili  cose  dell'universo  in  breve,  infìno  che  fia 
«  piacere  di  Dio,  alla  cui  speranza  per  la  sua  gra- 
«  zia  feci  la  detta  impresa,  più  che  per  la  mia  povera 
«  scienza;  e  così  negli  anni  1300  tornato  da  Roma, 
«  cominciai  a  compilare  questo  libro,  a  reverenza  di 
«  Dio  e  del  beato  Giovanni,  e  commendazione  della 
«  nostra  città  di  Firenze  (1).  » 

L'opera  incominciata  dal  Villani  nel  1300  risalisce 
ai  tempi  biblici  e  scende  al  1346.  Né  solo  il  con- 
cetto del  suo  lavoro  era  vasto  pel  profondarsi  ch'ei 
fece  nel  buio  delle  età  lontane  e  pel  raccogliere  dei 
pochi  fatti  noti  e  delle  molte  leggende  tra  le  quali 
si  nasconde  il  primo  sorgere  di  Firenze.  La  vasta 
universalità  del  suo  racconto  massime  pei  tempi  che 
gli  sono  vicini,  mentre  attesta  i  viaggi  dell'autore  e 
la  mente  sua  comprensiva,  ti  fa  quasi  sentire  la  ro- 
mana ispirazione  del  libro.  Infatti  come  la  cronaca 
di  Dino  Compagni  si  stringe  entro  determinati  con- 
fini di  tempo  e  di  luogo,  questa  del  Villani  è  cronaca 
universale  e  spazia  per  tutta  Europa.  Dino  Compagni 


(1)G.  Villani,  Vili,  36. 

20.  Balzani,  Le  Cronache  italiane. 


306  LE    CRONACHE    ITALIANE   NEL    MEDIO    EVO 

sente  i  fatti  della  sua  storia  e  vive  in  essi,  il  Villani 
li  guarda  e  li  narra,  giusto  calmo  sereno,  quasi  estra- 
neo ad  essi  pur  quando  vi  è  in  mezzo  o  ne  è  autore 
egli  stesso.  Pregevolissimo  per  la  storia  italiana  del 
secolo  decimoquarto  egli  è  come  la  pietra  angolare 
alla  storia  medioevale  di  Firenze  di  cui  rianda  e  ag- 
gruppa le  tradizioni,  e  raccogliendo  ogni  cosa  che  sa, 
tutto   con  più  0  meno  d' ordine   racconta  dei   tempi 
passati  e  dei  presenti.  Di  questi  è  conoscitore  gran- 
dissimo. Mescolato  agli  affari  pubblici,  educato  alla 
vita  intellettuale  e  alla  vita  economica  della  sua  città 
quando  essa  primeggiava  per  entrambe  in  Europa, 
egli  dipinge  le  cose  vedute  e  udite  con  quella  evi- 
denza che  è  spontanea  in  una  mente  chiara  e  avvezza 
agli  affari  e  alla  osservazione  degli  uomini.  E  guelfo 
ma  senza  passione,  e  la  serenità  sua  si   diffonde  in 
tutto  il  suo  libro  che  assai  più  si  rivolge  a  conside- 
rare le  ragioni   dell'utile  e  del  vero  che  le   ragioni 
dei   partiti.  Cronista  veramente  e  non   isterico   egli 
non  ha  molto  metodo  nella  sua  narrazione  ;  le  cose 
che   gli  sono  lontane  di  tempo  o  di  luogo  riferisce 
spesso  come  le  ha  apprese  senza  vagliarle  ;  di  quando 
in  quando  cade  in  qualche  inesattezza,  ma  tutti  questi 
difetti  ei  compensa  largamente  coi  pregi.  Narratore  di 
una  storia  eh'  egli  ha  veduto  svolgerglisi  innanzi  per 
mezzo  secolo,  sulla  costituzione  di  Firenze,  sui  costumi, 
sulle  industrie  e  i  commerci  e  le  arti  sparge  notizie  in 
gran  copia,  e  pel  valore  dei  dati  statistici  eh'  egli  ha  ser- 
bati non  ha  forse  l'uguale  tra  i  cronisti  di  tutta  l' Eu- 
ropa. Giovanni  Villani  è  meno  profondo  scrittore  che 
arguto  e  chiaro,  e  se  la  sua  prosa  non  è  robusta  né 


MATTEO   E   FILIPPO    VILLANI  307 

colorita  come  quella  del  Compagni,  ha  il  vantaggio 
sovr'essa  d'una  semplicità  maggiore,  e  nel  suo  in- 
sieme egli  è  indubbiamente  senza  paragone  il  piii 
grande  tra  quanti  cronisti  hanno  scritto  in  lingua  ita- 
liana. È  maraviglia  che  del  suo  libro  manchi  all'  Ita- 
lia una  perfetta  edizione,  e  che  tra  i  molti  e  dotti  ri- 
cercatori di  storia  che  vanta  Firenze  nessuno  siasi 
accinto  finora  a  prepararla. 

Il  filo  del  racconto  che  s'era  spezzato  per  la  morte 
di  Giovanni,  fu  riallacciato  da  suo  fratello  Matteo  che 
condusse  la  cronaca  fino  al  1363  quando,  colpito  an- 
ch'egli  di  peste,  morì  lasciando  a  suo  figlio  Filippo 
la  cura  di  continuare  il  libro  fino  al  1364.  Del  primo 
si  sa  assai  poco.  Più  nota  è  la  vita  del  secondo  che  fu 
più  anni  cancelliere  del  Comune  di  Perugia,  uomo 
di  dottrina  e  di  lettere,  nel  1401  e  nel  1404  eletto 
a  spiegar  pubblicamente  la  Divina  Commedia  nello 
Studio  Fiorentino,  e  autor  celebrato  d'una  raccolta  di 
vite  dì  Fiorentini  illustri.  Più  letterato  del  padre  e 
dello  zio  egli  è  cronista  inferiore  ad  entrambi,  e  già 
il  padre  pur  seguendo  lodevolmente  le  orme  di  Gio- 
vanni, gli  rimane  di  gran  distanza  indietro. 

Come  in  altre  partì  d'Italia  cosi  in  Firenze  non 
mancano  per  l'età  seguente  a  quella  dei  Villani  altri 
cronisti  e  alcuni  d'essi  eccellenti.  Marchionne  Stefani, 
Piero  Minerbetti,  i  due  Boninsegni,  Giovanni  Morelli, 
sono  tutti  cronisti  pregevoli  e  i  più  s'avvantaggiano 
sugli  altri  d' Italia  pel  più  facile  uso  e  più  elegante 
della  lingua  materna.  Forse  superiore  a  tutti  Gino 
Capponi  scrisse  una  eccellente  narrazione  del  tumulto 
dei  Ciompi  (A.  D.  1378)  e  anche,  seppur  non  è  autore 


308  LE    CRONACHE    ITALIANE    NEL   MEDIO   EVO 

di  esso  SUO  figlio  Neri,  un  Commentario  sull'acquisto  di 
Pisa  (A.  D.  1402-1406).  Ma  coi  Villani  può  dirsi  che 
la  serie  dei  cronisti  medioevali  sia  chiusa.  Dopo  loro 
sorge  la  storia,  poco  sostanziosa  e  nella  forma  imi- 
tatrice servile  dei  modelli  antichi  durante  il  movi- 
mento umanistico  del  quattrocento,  ma  pel  secolo  se- 
guente meditabonda  acuta  vigorosa  nelle  pagine  non 
ancor  superate  del  Machiavelli  e  del  Guicciardini.  I 
quali  con  intelletto  e  cuore  diverso  s'affacciarono  en- 
trambi all'età  moderna  mentre  la  patria  loro  moriva, 
e  meditando  sulle  cagioni  di  quel  morire,  aprirono 
nuovi  spazi  al  volo  del  pensiero  umano.  Ma  la  vi- 
goria dei  loro  intelletti  s'appoggia  al  passato,  e  le  loro 
storie  traggono  molto  succo  vitale  da  quelle  umili  e 
robuste  cronache  che  congiungono  l'antichità  ai  no- 
stri tempi  moderni,  e  che  raccolgono  per  quasi  dieci 
secoli  la  storia  di  uno  tra  i  più  travagliosi  sforzi  che 
l'umanità  abbia  compiuto  nel  suo  cammino. 


INDICE  DEI  NOMI 


A 

Agatia,  33. 

Agnello  Ravennate,  86,  92. 
Alfano,  148. 
Alfieri  Ogerio,  250. 
Alighieri  Dante,  287-288. 
Amato  di  Salerno,  149. 
Anastasio  Bibliotecario,  83. 
Andrea  da  Bergamo,  106. 
Annales  Beneventani,  165. 
Annales  Casinenses,  210. 
Annales  Cavenses,  165. 
Annales  Ceccanenses,  210. 
Annales  Fiorentini  289. 
Annales  Romani,  176-177. 
Annali  Pistoiesi,  286. 
Anonimo  Earense,  165. 
Arnolfo,  227. 
Ausilio,  93. 
Azario  Pietro,  250. 

B 

Bardone,  201. 

Bartolomeo  annalista  di  Geno  va,  281. 


Bartolomeo  da  Neocastro,  221. 

Benedetto  del  Soratte,  129-130. 

Bennone,  189. 

Benzene,  189. 

Bernardo  Guidone,  223. 

Boezio,  5,  11-12. 

Boncompagno   Maestro   Fiorentino, 

229. 
Eonizone,  192-201. 
Bosone,  185-183. 
Bruno  da  Segni,  155,  169-170. 

c 

Cafi"aro,  279-280. 

Canale  Martin  da,  270-274. 

Caresini  Rafaino  de' ,  278. 

Cassiodoro,  4-16. 

Cataloghi,  103. 

Chronicon  S.  Bartholomaei  de  Car- 

pineto,  210. 
Chronicon  Casauriense,  210. 
Chronicon  Normannicum  breve,  165 . 
Chronicum  Novaliciense,  166. 
Chronicum  Salernitanum,  106. 


310 


LE   CRONACHE   ITALIANE    NEL    MEDIO    EVO 


Chì'onicum  VvUurnense,  144-145. 
Colonna  Giovanni,  242. 
Colonna  Landolfo,  242. 
Compagni  Dino,  291-301. 
Constructio  Farfensis,  93-97. 

D 

Damiani  Pietro,  190-191. 

Dandolo  Andrea,  275-278. 

Dei  Andrea,  286. 

Desiderio  abbate    di    Montecassino, 

145-150. 
Destruclio  Farfensis,  97-99. 
Dolcino,  Vita  di  Fra,  250. 
Donati  Neri,  286. 
Donizone,  202. 
D'  Oria  Giacomo,  282-283. 

E 

Ennodio,  33,31. 
Erchemperto,  101-106. 

F 

Falcando  Ugo,  212-217. 

Farfa,  Monastero  di,  95-99,  135-144, 

sua  cronaca,  143-141,  suo  regesto, 

137-143. 
Ferreto  da  Vicenza,  251-252. 
Fiamma  Galvano,  250. 
Federico  Barbarossa,  Poema  intorno 

a,  238-240. 

G 

Gesta  Episcoporum  Neapolilanortim, 

85-86. 
Gesta  Florentinorum,  289. 
Giacomo  d'Acqui,  250. 
Giordane,  17-19. 


Giovanni  da  Cerraenate,  250. 
Giovanni  Diacono,  principale  autore 

delle  Gesta  Eplscoporum  Neapo'i- 

tanorum,  85-86. 
Giovanni  Diacono  di  Venezia,  131- 

132. 
Giovanni  Diacono  Vulturnense,  144- 

145. 
Godi  Antonio,  251. 
Goffredo  da  Viterbo,  237. 
Gregorio  di  Catino,  136-144. 
Gregorio  il  Grande,  37-57. 
Gregorio  VII,  203-206. 
Guaiferio,  148. 
Guglielmo  di  Puglia,  165. 
Guiberto  di  Toul,  171. 
Guido  vescovo  di  Ferrara,  189. 
Guntero  Ligurino,  236. 


Lamberto  d'Ostia,  190. 
Landolfo  seniore,  227. 
Landolfo  giuniore,  227-228. 
Leone  Marsicano,  149-157. 
Liber  Pontiflcalis,  83-84,  169-188. 
Libuino,  170. 
Liudprando,  112-129. 
Lupo  Protospatario,  165. 

M 

Malaspina  Saba,  219. 
Malaterra  Goffredo,  165. 
Malespini  Giacotto,  289-291. 
Malespini  Ricordano,  289-291. 
Marangone  Bernardo,  284-285. 
Marcellino  Conte,  33. 
Marchisio,  281. 
Mario  .A.venticense,  33. 
Maurisio  Gerardo,  250-251. 


INDICE   DEI    NOMI 


311 


Montecassino,  Monastero  di,  99-102, 
145-163,  scritti  minori  di,  1-18,  la 
cronaca  di  S.  Benedetto,  99-102. 

Morèna  Acerbo,  230. 

Morena  Ottone,  229. 

Morigia  Bonincontro,  250. 

Moyses  Magister,  228. 

Mussato  Albertino,  254-268. 

N 

Niccolò  da  Curbio,  223. 
Niccolo  Jamsilla,  218. 

0 

Oberto,  280. 

Odorisio    abbate    di    Montecassino, 

148,  150,  157. 
Origc  Langóbardorum,  57. 
Orthodoxa  Defensio  Imperialis,  144, 

188. 
Ottobono,  281. 
Ottone  di  Frisinga,  230-236. 


Pandolfo,  183-185. 

Pane  Ogerio,  281. 

Panegirico  di  Berengario,  107-108. 

Paolino,  275. 

Paolo  di  Bernried,  171-176. 

Paolo  Diacono,  58-80. 

Parisio  da  Cereta,  250. 

Pietro  da  Eboli,  217. 

Pietro  Crasso,  189. 

Pietro  Diacono,  158-163. 

Pietro  Pisano,  178-183,  284. 

Pipino  Francesco,  242. 

Placido  Nonantolano,  190. 

Procopio,  22-33. 


R 

Ragevino,  236. 
Raul  Sire,  228-229. 
Riccardo  da  San  Germano,  218. 
Riccobaldo  da  Ferrara,  242. 
Rienzo,  Vita  di  Cola  di,  224-226. 
Rolandino  da  Padova,  253. 
Romualdo  Salernitano,  211. 
Rotari,  Editto  di,  57. 

S 
Salimbene,  243-219. 
Salisbury,  Giovanni  di,  223. 
Sanudo  Torsello  Marin,  275. 
Sanzanome,  289. 
Secondo  vescovo  di  Trento,  57. 
Ser  Cambio  Giovanni,  286. 
Sicardo'fla  Cremona,  241. 
Smerego  Nicola,  251. 
Speciale  Niccolò,  221. 
Stefanardo  da  Viraercat'3,  249. 
Stefanus  Magister,  58. 
Subiaco,  Monastero  di,  94,  138,  suo 
regesto,  138. 

T 

Tegrimo  Nicola,  286. 
Tolomeo  da  Lucca,  223,  286. 

u 

Ugo  di  Farfa,  97-99. 


Ventura  Guglielmo,  250. 
Vico  Michele  de,  285. 
Vigna,  Pier  della,  220. 
Villani  Filippo,  307. 
Villani  Giovanni,  301-307. 
Villani,  Matteo,  307. 
Vulgario  Eugenio,  93. 


w 


o 

0' 

e. 


o 

co 

eo 
O 
tO 
1-t 


pi 


SI 


«li 


0)1 

fi; 
o; 

§: 

•HI 

•H; 
«i 
-pi 


s: 

ti; 

O: 

u\ 
o\ 

<ù 

Ji 


^     H 


University  of  Toronto 
Ubrary 


DO  NOT 

REMOVE 

THE 

CARD 

FROM 

THIS 

POCKET 


Acme  Library  Card  Pocket 

Under  Pat.  "Ref.  Index  FUe" 

Made  by  LIBRARY  BUREAU