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Full text of "Leon Battista Alberti, architetto"

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THE  LIBRARY 
OF 

Sarah  Cooper  Hewitt 

PRESENTED  IN  MEMORY  OF 
HER  FATHER 

Abram  S.  Hewitt 

AND  HER  SISTER 

Eleanor  Garnier  Hewitt 


M 


MAR  2  7 


EMILIO  LONDI        ^mf^j 

LEON  BATTISTA  ALBERTI 

ARCHITETTO 


W 


FIRENZE 

ALFANI    E    VENTURI,    EDITORI 
1906 


FIRENZE,  Sn-1905-6.  —  Tipografia  Barbèra 
Alfani  e  Venturi  proprietari. 


Proprietà  artistica  e  letteraria  riservata. 


d.o; 


AI 
MIEI  GENITORI 


ì  v»%  H 


INTRODUZIONE 


ra  i  tanti  beni  per  i  quali  Giovanni  Rucellai,  un  gentile  e 
colto  mercante  fiorentino  del  Quattrocento,  rendeva  infinite 
grazie  al  Signore  era  quello  di  esser  nato  «  della  città  di 
Firenze,  la  quale  è  riputata  la  più  degna  e  la  più  bella  patria  che  abbi 
non  tanto  il  cristianesimo,  ma  tutto  l'universo  mondo  ».*  E  non  era 
questa  una  infondata  affermazione  dell'uomo  ottimista  per  eccellenza  né 
il  resultato  di  un  patriottismo  eccessivo  ;  era  la  giusta  e  lieta  constata- 
zione di  un  fatto  universalmente  riconosciuto,  l'espressione  nobile  d'or- 
goglio di  chi  si  sapeva  cittadino  di  una  patria  bella,  ricca,  potente.  Fi- 
renze nella  prima  metà  del  secolo  XV,  quale  ci  apparisce  dalle  pagine 
gentili  di  Vespasiano  da  Bisticci  e  dalle  descrizioni  fiorite  degli  umanisti 
(quanto  stupore  e  quanta  ammirazione  essa  destò  perfino  in  Ciriaco 
d'Ancona  che  pur  delle  città  ne  aveva  visitate  parecchie  !),  godeva  real- 
mente di  una  invidiabile  prosperità  economica  ed  era  di  fatto  il  centro 
felice  delle  lettere  e  delle  arti.  Un  cronista  contemporaneo,  giunto  al- 
l'anno 1422,  sentì  il  bisogno  di  soffermarsi  per  osservare  che  «  per  le 
vie  circostanti  a  Mercato  nuovo  erano  settantadue  banchi  di  tavolello  et 
tappeto  ;  di  denari  contanti  fra  cittadini  due  milioni  di  fiorini  d'oro,  in- 
credibile quello  di  mercanzie,  di  possessioni  e  di  crediti  di  Monte.  Con 


Marcotti,   Un  mercante  fiorentino  del  sec.  XV.  Firenze,  1881,  pag.  45. 


in  PRODUZIONE 


queste  ricchezze  crebbero  gli  esercizi  e  le  arti  nobili:  l'architettura  ca- 
vata di  sotterra  per  opera  di  Brunellesco  e  con  essa  la  scultura  e  la 
pittura.  Leonardo  Aretino,  segretario  della  Signoria,  aveva  in  gran  parte 
suscitata  l'eloquenza  e  gli  studi  delle  lettere  greche  e  latine  ».£  L'anna- 
lista fiorentino  volle  con  questo  darci  soltanto  un  esempio  dell'eccelso 
grado  al  quale  erano  arrivati  i  commerci,  le  arti  e  le  lettere  ;  ma  se  noi 
cerchiamo  di  completare  il  quadro  e  di  avere  un'  idea  più  generale  della 
vita  di  Firenze  nei  primi  decenni  del  secolo  XV,  troviamo  in  ogni  ramo 
del  sapere,  in  ogni  manifestazione  del  bello,  un'  attività  così  intensa  e 
felice  quale  è  ben  difficile  altra  volta  riscontrare  in  così  breve  spazio  di 
tempo  e  dentro  così  ristretti  confini.  Le  principali  famiglie  della  città,  fa- 
miglie sorte  dal  popolo  ed  arricchite  col  lavoro,  si  disputavano  il  primato 
nella  Repubblica  non  con  lotte  cruente  ma  con  l'astuzia  e  la  liberalità,  e 
Cosimo  il  Vecchio  dei  Medici,  che  nel  mecenatismo  verso  letterati  ed 
artisti  apparve  ben  presto  il  più  fortunato  e  il  più  accorto,  fu  poi  il 
vincitore  della  contesa  e  il  fondatore  della  potenza  politica  della  sua 
casa.  Egli  seppe  riunire  intorno  a  sé  i  principali  rappresentanti  del 
movimento  letterario  allora  prevalente  e  nel  suo  palazzo,  poco  dopo 
sontuosamente  riedificato,  formò  un  centro  umanistico  di  primaria  im- 
portanza; quivi  spadroneggiava  la  figura,  malgrado  i  suoi  difetti,  sim- 
patica di  Niccolò  Niccoli,  il  bibliomane  instancabile,  il  ricercatore  in- 
fatuato di  ogni  reliquia  dell'antichità,  e  quivi,  per  ottenere  gli  aiuti  del 
mecenate  o  i  consigli  dell'erudito,  si  rivolgevano  Leonardo  Bruni,  Carlo 
Marsuppini,  Poggio  Bracciolini,  tre  letterati  cui  la  conoscenza  del  fiorito 
stile  latino  procurò,  come  già  aveva  procurato  a  Coluccio  Salutati,  il 
posto  di  segretario  della  Repubblica,  e  Ambrogio  Traversari,  generale 
dell'ordine  dei  Camaldolesi  e  quanti  altri  coltivassero  con  successo  i 
tanto  lodati  studi  di  umanità.  Cosimo  non  voleva  rivali  neppure  nel 
mecenatismo  e  questo  era  al  suo  tempo  ben  più  difficile  del  non  avere 
contendenti  nella  politica  :  signori  che  promovevano  la  cultura  rimasero 


1  Ex  annalibus  Ceretani  ad  annuiti  1422,  in  Fabroni,  Magni  Cosmi  Medicei  vita.  Pisa,  1789, 
voi.  IL  pag.  63. 


INTRODUZIONE 


in  Firenze  anche  dopo  l'esilio  di  Palla  Strozzi,  di  Giannozzo  Manetti, 
di  Felice  Brancacci.  E  di  fronte  ai  Medici  e  alle  altre  famiglie  signorili 
stava  il  popolo  ancora  potente,  ancora  riunito  nelle  sue  gloriose  cor- 
porazioni, il  popolo  che  non  comprendeva  la  lingua  dei  dotti  ma  che 
amava  e  promoveva  le  opere  gentili  dei  suoi  amici,  gli  artisti  :  per  lui 
il  Brunellesco  voltava  la  cupola  di  S.  Maria  del  Fiore,  per  lui  Donatello 
e  Luca  della  Robbia  scolpivano  a  gara  le  cantorie  del  Duomo,  il  Ghi- 
berti  creava  la  porta  del  Paradiso  ;  nello  stesso  tempo  lavorava  in  Fi- 
renze Michelozzo  e  Masaccio  chiudeva  la  breve  sua  vita  feconda  di 
opere  immortali  e  l'Angelico  fissava  col  pennello  le  sue  mistiche  visioni.... 
Non  mi  è  concesso  che  fare  dei  nomi;  ma  ciascuno  di  questi  nomi 
richiama  alla  mente  una  serie  di  capolavori  e  tutti  insieme  dimostrano 
il  grande  sviluppo  della  cultura  nella  città  che  vantava  contempora- 
neamente così  numerosi  letterati  ed  artisti  così  valenti. 

Tale  era  Firenze  quando  nel  1428  potè  mettervi  piede  Leon  Bat- 
tista Alberti.  Egli  aveva  di  poco  passato  i  venti  anni  e  veniva  nella 
patria  dei  suoi  antenati,  lontano  dalla  quale  lo  aveva  fatto  nascere  l'odio 
politico  che  alla  sua  nobile  famiglia  portavano  gli  Albizzi,  con  la  mente 
già  nutrita  di  studi  profondi,  con  l'animo  pieno  di  entusiasmo  per  ogni 
cosa  bella  e  buona.  Gli  studi  umanistici  ai  quali  negli  anni  della  sua 
giovinezza  si  era  dedicato  con  tanto  ardore  da  rovinarsi  la  salute  e 
con  tanto  successo  da  scrivere  una  commedia  che  fu  creduta  antica, 
non  avevano  appagato  la  sua  infinita  curiosità  in  ogni  campo  della  cul- 
tura ;  peregrinando,  stanco  e  annoiato,  per  le  città  dell'alta  Italia,  aveva 
in  tutte  trovato  accoglienze  gentili  ed  amici  benevoli,  ma  in  nessuna 
un  ambiente  tale  che  potesse  sviluppare  i  germi  di  una  tendenza,  di 
un'aspirazione  che  pur  sentiva  indistinti  dentro  di  sé.  E  qui  bisogna 
por  mente  alla  figura  in  ogni  sua  parte  completa,  all'  ingegno  multi- 
forme di  quest'uomo  che  forse  più  di  ogni  altro  si  avvicina  a  Leonardo 
da  Vinci.  «  Quale  arte  per  quanto  difficile,  quale  scienza  per  quanto 
recondita  rimase  ignota  a  costui  ?  »  1  La  domanda  che,  pochi  anni  dopo 


1  L.  B.  Alberti,  De  re  aedificatoria.  Firenze,  1485.  Epistola  dedicatoria  del  Poliziano. 


INTRODUZIONE 


[a  morto  di  Battista,  Angelo  Poliziano  rivolgeva  al  Magnifico  Lorenzo 
è  la  domanda  che  oggi  ancora  ci  rivolgiamo  pieni  di  ammirazione  per 
questi  meravigliosi  uomini  del  Rinascimento  dotati  di  così  grande  e 
svariata  forza  intellettuale.  Quale  disciplina  fu  da  lui  ignorata  ?  Non 
corto  la  giurisprudenza,  egli,  laureato  in  legge  all'Università  di  Bologna 
ed  autore  di  un  trattato  intorno  al  diritto  ;  non  la  matematica  e  la 
fisica  se  intorno  alla  prima  potè  comporre  un  libro,  i  «  Ludi  Matema- 
tici » ,  contenente  la  soluzione  d' interessanti  problemi  e  con  le  leggi  della 
seconda  seppe  trovare  uno  strumento  per  misurare  la  profondità  del 
mare,  la  «  bolide  albertiana»,  e  scoprì  una  specie  di  camera  oscura  ed 
inventò  l'igrometro  fondato  sul  principio  anche  oggi  in  uso;  non  la 
filosofia  se  meritò  di  esser  fatto  protagonista  di  una  delle  opere  più 
leggiadre  che  abbia  prodotto  il  neo-platonismo  fiorentino,  le  «  Dispu- 
tationes  camaldulenses  »  di  Cristoforo  Landino.  Ma  prima  del  1428  una 
parte  importantissima  della  civiltà  del  suo  tempo  gli  era  rimasta  ignota 
o  gli  era  sembrata  trascurabile  :  l'arte.  L'arte  apparve  a  lui  in  tutta  la 
sua  grandezza  nella  patria  diletta  e  l'Alberti  vide  subito  con  essa  aprirsi 
un  nuovo  campo,  vasto  e  nobilissimo,  di  attività  intellettuale.  «  Io  cre- 
devo tramontate  per  sempre  le  arti  belle,  scrive  egli  qualche  tempo 
dopo  al  Brunellesco,  ma  poi  che  dal  lungo  esiglio  in  quale  siamo  noi 
Alberti  invecchiati  fui  in  questa  nostra  sopra  l'altre  ornatissima  patria 
ridotto  compresi  in  molti  ma  prima  in  te,  Filippo,  e  in  quel  nostro 
amicissimo  Donato  scultore  e  in  quelli  altri  Nencio,  Luca,  e  Masaccio 
essere  a  ogni  lodata  cosa  in  ingegno  da  non  posporgli  a  qual  si  sia 
stato  antiquo  e  famoso  in  queste  arti».1 

Altri  si  sarebbe  forse  contentato  della  semplice  ammirazione  :  non 
l'Alberti,  che  non  sapeva  concepire  l'ammirazione  senza  un  diretto  con- 
tributo di  operosità  verso  la  cosa  ammirata,  che  non  comprendeva 
come  ci  potesse  essere  lato  nobile  della  vita  al  quale  l' uomo  colto  non 
dovesse  applicare  l' ingegno  ;  in  una  parola  l'Alberti  dal  momento  che 


1  Xencio  è  certo  Lorenzo  Ghiberti,  Masaccio  non  è  il  celebre  pittore,  morto  l'anno  avanti 
l'arrivo  dell'Alberti  in  Firenze,  ma  un  Tommaso  di  Bartolommeo  scultore.  Cfr.  H.  Janitschek, 
L.  B.  Alberti  kleine  kunsthistorische  Schriften.  Vienna,   1877,  dove  è  pubblicata  la  lettera. 


INTRODUZIONE 


conobbe  e  comprese  la  grandezza  dell'arte  del  suo  tempo  sentì  il  bisogno 
di  divenire  artista.  Ma  quale  delle  tre  principali  arti  del  disegno  poteva 
essere  con  successo  praticata  da  lui  cui  mancava  quel  substrato  di  co- 
gnizioni tecniche  pur  necessarie  ad  ogni  artista?  L'architettura  sola, 
poiché  è  questa  l'unica  arte  nella  quale  si  può  essere  ideatori  senza 
essere  esecutori  ;  l'Alberti  infatti,  se  pure  eseguì  quei  lavoretti  di  pit- 
tura ricordati  ma  non  lodati  dal  Vasari,1  volle  essere  e  fu  esclusiva- 
mente architetto.  Ecco  dunque  un  primo  punto  da  tenersi  in  grande 
considerazione  :  l' impulso  che  spinse  Leon  Battista  a  dedicarsi  al- 
l'architettura fu  l'entusiasmo,  l'ammirazione  per  l'arte,  specialmente 
fiorentina,  del  suo  tempo  ;  quando  egli,  nella  piena  maturità  del  suo 
ingegno,  vorrà  fare  delle  opere  corrispondenti  alla  raffinata  cultura 
dei  suoi  contemporanei,  dovrà  ricorrere  alla  decorazione  elegante  intro- 
dotta nello  stile  architettonico  fiorentino  da  Michelozzo  ed  a  quelli  esem- 
plari romanico-toscani  ai  quali  s'ispirava  pure  il  più  grande  architetto 
del  suo  tempo,   Filippo  Brunelleschi. 

E  ormai  dimostrato  che  il  Brunellesco  ricercò  negli  antichi  edifici 
di  Roma  non  i  modelli  e  le  proporzioni  dei  dettagli,  ma  l'armonia,  la 
nobile  bellezza  delle  linee  generali.2  L'arte  sua,  arte  spontanea  e  po- 
polare come  quella  dell'amico  suo  Donatello  e  dell'emulo  suo  Ghiberti, 
non  ebbe  origine  dagli  studi  pazienti  sui  monumenti  classici  come  gli 
antichi  biografi  di  lui  vorrebbero  farci  apparire.  La  lingua  latina,  tra- 
sformandosi gradatamente  nel  Medio  Evo  e  pur  nella  sua  decadenza 
dando  origine  ad  opere  di  rara  ed  ingenua  bellezza,  aveva  prodotto  la 
lingua  di  Dante  ;  l'architettura  romana,  attraverso  una  naturale  evo- 
luzione che  pur  ci  dette  lo  stile  romanico,  produsse  l'arte  di  Fi- 
lippo Brunellesco.  Arte  che  non  è  dunque  una  copia  ma  una  libera 
creazione,  non  un  ritorno  violento  all'antico  ma  la  continuazione  natu- 
rale di  quella  che  il  popolo  italiano,  successore  diretto  del  latino,  aveva 


1  Vasari,    Vite,  ed.  Milanesi,  voi.  II,  pag.  535. 

-  È  la  conclusione  alla  quale  giunge,  nel  suo  ottimo  lavoro,  Cornel  von  Fabriczy,  Filippo 
Brunelleschi.  Stuttgart,  1S92.  Cfr.  Paolo  Fontana,  Filippo  Brunelleschi  e  P  architettura  classica, 
in  Ardi.  stor.  dell'arte,   1S93. 


IN  IKOIH/IONK 


mantenuta  nobile  e  leggiadra  anche  quando  d' intorno  strideva  il  verno 
della  barbarie.  11  Brunellesco  apparteneva  al  popolo  per  nascita,  per 
educazione,  por  carattere:  cercò  unicamente  di  esprimere  con  le  co- 
struzioni che  egli  ideava  e  dirigeva  i  sentimenti  prevalenti  nell'animo 
dei  suoi  concittadini  e  riuscì  classico,  di  quel  classicismo  così  corretto 
ed  originale  ad  un  tempo  che  ha  dato  all'arte  italiana  i  suoi  più  grandi 
capolavori.  Ben  altra  cosa  l'Alberti  che  quando  si  dedicò  all'architettura 
era  già  un  umanista;  egli  credette  suo  primo  imprescindibile  dovere 
di  studiare  diligentemente  il  più  grande  trattatista  che  sull'architettura 
aveva  avuto  l'antichità  e  di  riparare  con  studi  teorici  alla  mancanza 
di  pratica,  credette  necessario  misurare  diligentemente  le  forme  e  le 
proporzioni  degli  antichi  edifici  e  formare  con  queste  misure  un  pro- 
spetto, canone  fisso  di  tutta  l'arte  d'edificare. 

Dato  quest'ordine  di  idee,  è  ben  naturale  che  per  l'Alberti  divenisse 
centro  di  educazione  e  di  ispirazione,  subito  dopo  Firenze,  Roma;  ed 
infatti  a  Roma,  dove  passò  gran  parte  della  sua  vita  come  abbreviatore 
delle  lettere  apostoliche,  una  specie  di  segretario  pontificio,  egli  ma- 
turò le  idee  sorte  al  contatto  dell'arte  fiorentina  e  venne  determinando 
lo  stile  che  già  nel  primo  lavoro  architettonico  di  cui  abbiamo  com- 
pleta sicurezza,  l'esterno  del  tempio  Malatestiano,  apparisce  ben  svi- 
luppato e  fissato.  A  Roma  l'Alberti  poteva  con  piena  libertà  dedicarsi 
allo  studio  degli  antichi  scrittori  e  specialmente  di  Vitruvio  nella  ricca 
biblioteca  di  Niccolò  V,  pontefice  umanista;  a  Roma  sopra  tutto  egli 
poteva  osservare  i  mirabili  avanzi  dell'antichità  che  egli  tanto  amava 
e  il  cui  risorgimento  credeva  condizione  essenziale  per  lo  sviluppo  della 
società  del  suo  tempo.  Perchè  non  è  a  credere  che  le  reliquie  degli 
antichi  monumenti  fossero  nel  Quattrocento  così  rare  e  così  trasandate 
come  ci  vorrebbero  far  credere  gli  umanisti  nelle  loro  descrizioni  dove 
l'entusiasmo  e  la  ricerca  dell'effetto  facevano  spesso  caricare  le  tinte. 
Flavio  Biondo,  nella  «  Roma  instaurata  »,  cerca  con  l'aiuto  dei  classici 
di  enumerare  i  monumenti  distrutti  e  l'esaltazione  della  grandezza  pas- 
sata pone  in  maggior  risalto  l'accenno  alla  desolazione  presente  ;  Poggio 
Bracciolini  si  compiace  di  rappresentare  sé  stesso  errante  fra  le  rovine, 


INTRODUZIONE  13 


pieno  di  indignazione  e  di  sconforto  per  le  ingiurie  che  gli  uomini  e 
il  tempo  avevano  recato  ai  sacri  edifici.1  Ma  appunto  dalle  loro  descri- 
zioni noi  sappiamo  che  il  periodo  che  essi  chiamavano  il  barbaro  Medio 
Evo  ci  aveva  tramandato  molto  più  di  quello  che  il  civile  Rinascimento 
ci  abbia  poi  conservato.  Le  terme  di  Caracalla  e  di  Diocleziano  ave- 
vano ancora  il  loro  marmoreo  rivestimento  e  le  loro  colonne;  esisteva 
intatto  il  Circo  Agonale  dove  si  continuava  a  fare  dei  giuochi  ed  intatto 
il  sepolcro  di  Cecilia  Metella;  il  Mausoleo  di  Adriano,  se  pur  aveva 
perduto  il  suo  colonnato,  conservava  ancora  la  sua  forma  primitiva  e 
sul  declivio  del  Campidoglio  s'inalzavano  superbamente,  davanti  alla 
desolazione  del  Campo  Vaccino,  il  colonnato  e  il  frontone  del  tempio 
della  Concordia  distrutti  poco  dopo,  come  tanti  altri  monumenti,  per 
trasformarne  il  materiale  in  calce.  In  una  parola,  se  sopra  a  Roma  era 
passata  la  bufera  distruttrice  dei  barbari,  non  era  ancora  passata  la 
signoria  rinnovatrice  dei  Barberini,  e  l'Alberti  vi  potè  trovare  non  solo 
frammenti  di  colonne  e  di  architravi  per  studiarne  le  proporzioni  più 
corrette,  ma  anche  interi  edifici  per  osservare  la  disposizione  e  l'ar- 
monia dell'insieme. 

Firenze  coi  suoi  edifici  romanici  e  le  costruzioni  del  Brunellesco, 
Roma  con  i  monumenti  superstiti  dell'antica  civiltà  sono  dunque  le 
due  fonti  d'ispirazione  per  l'arte  di  Leon  Battista  Alberti,  arte  che 
non  è  così  spontaneamente  classica  come  quella  dei  suoi  contempo- 
ranei e  neppure  così  accademica  come  quella  dei  suoi  successori  :  dal- 
l' una  egli  apprese  la  grazia  e  la  gentilezza  care  al  suo  tempo,  all'altra 
egli  dette  il  più  grande  contributo  iniziando  in  Italia  lo  studio  e  il  rifa- 
cimento di  Vitruvio;  ma  fra  l'una  e  l'altra  egli  seppe  mantenersi  ori- 
ginale e  riuscì  a  dare,  come  vedremo,  al  suo  stile  uno  svolgimento 
logico  per  raggiungere  quella  che  egli  chiama  «  euritmia  »  ed  è,  nella 
felice  corcordia  delle  singole  parti  col  tutto,  attuazione  del  suo  più  alto 
ideale  artistico.  Anche  questo  lato  della  multiforme  figura  di  Battista 
merita  dunque  particolare  attenzione  da  chi  voglia  ben  conoscere  quali 


1  P.  Bracciolini,  Ruinarum  urbis  Romae  descriptio,  introduzione  al  trattato,  De  varietale 
fortunae,  in  Sallengre,  Novus  theasurus  antiquitatum  rotuanarnm.  1735.  Venezia,  voi.  I,   pag.  497. 


INTRODl    5IONE 


rapporti  e  quale  importanza  avevano  in  questo  primo  uomo  universale 
del  Rinascimento  le  varie  tendenze  ehe  si  contendevano  il  dominio 
della  sua  melile;  richiama  inoltre  l'attenzione  di  chi  voglia  seguire  con 
chiarezza  lo  svolgimento  dell'architettura  italiana,  perchè  l'Alberti,  in 
contrapposto  al  Brunellesco  il  quale  non  pone  affatto  come  fonda- 
mento dell'arte  la  teoria,  è  l'iniziatore  di  una  corrente  di  artisti-teorici 
ohe  arriva  quasi  ininterrotta  fino  al  Vignola  e  al   Palladio. 

Eppure  chi  voglia  studiare  l'attività  artistica  di  Leon  Battista  Al- 
berti non  dal  lato  puramente  tecnico  come  hanno  recentemente  fatto 
alcuni  architetti  tedeschi,1  ma  dal  lato  storico  per  determinare  l'im- 
portanza che  l'opera  sua  ha  avuto  nell'arte  italiana,  si  trova  subito 
davanti  ad  una  gravissima  difficoltà  :  la  grande  scarsezza  di  notizie  e 
la  conseguente  incertezza  sull'autenticità  degli  edifici  che  vanno  sotto 
il  suo  nome.  Gli  architetti  del  Quattrocento,  come  del  resto  indicava  il 
loro  appellativo  di  «  maestri  »,  erano  nello  stesso  tempo  ideatori  e  di- 
rettori, artisti  e  sorveglianti  nelle  costruzioni  loro  affidate  ;  figli  del 
popolo  essi  non  credevano  umiliante  occuparsi  dei  lavori  più  minuti  e 
materiali  della  loro  arte  ed  unirsi  ai  più  modesti  operai  perchè  il  la- 
voro riuscisse  in  ogni  sua  parte  perfetto.  L'Alberti  invece  discendeva 
da  nobile  famiglia  ed  apparteneva  per  educazione  ed  un  po'  anche  per 
indole  a  quel  superbo  cerchio  di  letterati,  gli  umanisti,  che  onoravano 
l'arte  in  generale,  considerata  come  astrazione,  ma  disprezzavano  coloro 
che  si  occupavano  direttamente  dei  lavori  materiali  che  essa  pure  im- 
poneva ;  egli  infatti,  un  po'  per  tale  superbia  nobiliare  ed  accademica, 
un  po'  anche  per  il  suo  ufficio,  non  curò  mai,  unico  fra  gli  architetti  del 
Quattrocento,  l'esecuzione  degli  edifici  da  lui  disegnati  ed  affidò  ad 
altri  la  direzione  dei  lavori,  riservandosi  solo  l'autorità  di  supremo  con- 
sigliere :  questo  gli  permise  di  eseguire  commissioni  per  principi  di  città 
diverse  pur  mantenendo  il  decoroso  impiego  che  i  suoi  studi  gli  ave- 
vano procurato  alla  Curia  pontificia,  ma  nello  stesso  tempo  questo 
nocque  moltissimo  alla  sua  fama,  perchè  documenti  e  cronisti  ricorda- 


Vedi  liiblio^rafia  in  fine  al  volume. 


INTRODUZIONE  15 


rono  raramente  il  nome  di  lui  attribuendo  il  merito  dei  suoi  edifici  a 
coloro  che  ne  diressero  la  costruzione.  Così  l'Alberti,  per  quel  che  ri- 
guarda l'architettura,  fu  per  diversi  secoli  celebrato  più  come  trattatista 
che  come  artista,  ed  il  nome  di  Vitruvio  fiorentino,  a  lui  concesso  dai 
suoi  contemporanei,  sembrò  per  lungo  tempo  compendiare  tutta  la  sua 
importanza  nell'arte  d'edificare  ;  ma  il  trattato  che  gli  fece  meritare 
questo  nome  non  fu  che  il  punto  di  partenza  per  l'educazione  artistica 
della  sua  mente  troppo  oppressa  dalla  scienza  e  dall'erudizione,  il  primo 
passo  che  egli  mosse  dall'  umanesimo  all'arte  ;  e  chi  pensi  all'enorme 
differenza  che  correva  fra  i  caratteri  dell'  uno  e  dell'altra  potrà  mera- 
vigliarsi che  un  solo  uomo  abbracciasse  insieme  ambedue  queste  cor- 
renti della  cultura,  ma  non  dovrà  meravigliarsi  se  egli  cercò  in  una 
grande  opera  di  transizione  di  riunire  la  sua  dottrina  umanistica  col 
suo  entusiasmo  artistico.  L'importante  era  nel  non  fermarsi  a  questo 
primo  passo,  nel  non  credere  che  tutta  l'arte  dovesse  essere  sottoposta 
alla  regola  ed  alla  legge  ;  questo  comprese  appunto,  con  intuizione 
finissima,  Leon  Battista  Alberti  che  si  servì  della  scienza  solo  per  avere 
più  ricca  l'ispirazione  e  passò  dal  trattato  all'imitazione  e  dall'imita- 
zione alla  creazione  originale. 


OD  °  DI D  ■=■  g D  °  DJa^gp  =  OD  =  QOQ  f  DO 
DoTdoMbTDO  =  DO  =  DlD^DlD  =  DID 


Capitolo  I. 

L'  ALBERTI  TEORICO  DI  ARCHITETTURA 


E  qualcuno  si  ponesse  la  questione  se  il  trattato  di  Vitruvio 
sia  stato  utile  o  dannoso  all'architettura,  dovrebbe,  a  parer 
mio,  giungere  alla  conclusione  che  esso  non  giovò  da  prima 
e  nocque  di  poi  allo  svolgimento  di  quest'arte.  Né  invero 
lo  scrittore  latino  pensò  mai  a  redigere  un  codice  di  leggi  al  quale  do- 
vessero poi  attingere  tutti  coloro  che  volevano  costruire  dei  belli  edifìci  ; 
il  modo  stesso  con  cui  la  materia  è  trattata  ci  dimostra  che  egli  voleva, 
servendosi  specialmente  di  scritti  teorici  greci,  dare  uno  sguardo  retro- 
spettivo agli  splendidi  resultati  del  periodo  passato,  senza  occuparsi  se 
nell'avvenire  sarebbe  stato  bene  tornare  sempre  ai  modelli  che  egli  aveva 
presenti.1  Vitruvio  ebbe  nel  Medio  Evo  e  nella  prima  metà  del  Quattro- 
cento una  fortuna  quasi  eguale  a  quella  di  un  altro  celebre  teorico  an- 
tico, Quintiliano.  Il  trattatista  dell'arte  oratoria  e  quello  dell'architettura 
furono  noti  nel  Medio  Evo  mutili  e  frammentari  ;  il  Petrarca,  in  una  let- 
tera indirizzata  a  Quintiliano  in  persona,  lamenta  di  possedere  le  sue 
«  Istituzioni  oratorie  »  in  uno  stato  deplorevole  ; 2  e  non  doveva  trovarsi 
in  migliori  condizioni  il  testo  di  Vitruvio  che  egli  pur  conosceva,  come 
si  vede  da  alcune  annotazioni  del  Virgilio  dell'Ambrosiana.3  Ma  nel  141 6 


Cfr.  Vitruvii  De  architectura.  Ed.  Rosen.  Praef. 

Epist.  ver.  famil.,  XXIV,  17. 

Vedi  De  Nolhac,  Pètrarque  et  V  humanisme.  Parigi, 

Alberti. 


pag.  299. 


e  \n  roLO 


Poggio  Bracciolini,  nel  monastero  di  S. Gallo,  scoprì  insieme  il  testo  com- 
pioto dell'uno  e  dell'altro  trattatista  latino;  naturalmente  la  gioia,  ormai 
insperata,  di  possedere  integro  Quintiliano  e  le  altre  scoperte  impor- 
tanti fatte  dal  Poggio  in  quel  monastero  fecero  sì  che  per  il  momento 
Vitruvio  passasse  in  seconda  linea;  ma,  svanito  il  primo  entusiasmo, 
si  rivolse  l'attenzione  anche  allo  scrittore  dell'età  di  Augusto  e  Leon 
Battista  Alberti,  appena  che,  tralasciando  gli  studi  puramente  umani- 
stici, si  applicò  alla  più  nobile  e  grandiosa  fra  le  arti  del  disegno, 
volle  per  sua  guida  Vitruvio,  il  cui  trattato,  dopo  pazienti  ricerche, 
tentò  di  riordinare  e  rimodernare  nei  dieci  libri  «  De  re  aedifìcatoria  ». 
Paolo  Hoffmann,  in  uno  studio  su  questi  libri  denso  di  dati  e  di 
fatti  come  solo  un  tedesco  sa  fare,1  dimostrò  chiaramente  che  l'Alberti 
si  è  valso  in  alcuni  passi  di  una  traduzione  di  Teofrasto  compiuta  da 
Teodoro  Gaza  nel  145 1;  d'altra  parte  Matteo  Palmieri,  un  contempo- 
raneo di  Battista  che  fra  l'altro  compose  intorno  al  1475  una  cronaca 
degli  avvenimenti  principali  a  cui  aveva  assistito,  pone  la  presentazione 
del  trattato  di  architettura  dell'Alberti  al  pontefice  Niccolò  V  fra  i  fatti 
principali  del  1452  2  e  l' Hoffmann  conferma  con  altri  buoni  argomenti 
quest'anno  come  data  della  pubblicazione  dell'opera.  Ma  non  è  possibile 
ammettere  che  un  lavoro  di  così  grande  mole  e  di  così  profonda  eru- 
dizione sia  stato  composto  in  un  anno;  esso  è  certo  il  irutto  di  un 
lungo  periodo  di  studi,  di  una  preparazione  minuziosa  quanto  paziente, 
e  siccome  non  possiamo  posporre  la  data  della  pubblicazione,  dobbiamo 
argomentare  che  molto  tempo  avanti  l'Alberti  concepisse  l'idea  di  rifare 
il  trattato  di  Vitruvio  e  raccogliesse  a  tale  scopo  il  materiale  che  negli 
ultimissimi  tempi  arricchì  anche  di  alcuni  passi  del  Teofrasto  tradotto 
dall'umanista  suo  amico.  Al  principio  del  sesto  libro,  parlando  delle 
difficoltà  immense  che  presentava  il  lavoro,  l'autore  espone  le  ragioni 
che  lo  avevano  indotto  a  mettersi  su  quella  via  e  che  lo  spingevano 
ora  a  proseguire  imperturbato  fino  al  termine  dell'  impresa  ;  e  le  ra- 
gioni sono  la  mancanza  di  un  trattato  di  architettura   chiaro   e    com- 


1  Paolo  Hoffmann,  Studien  zìi  Leon  Battista  Albertis  zehn  Bilchern  «  De  re  aedificatoria  ». 
Frankenberg,   Rossberg,   1883. 

-  MATTEO  Palmieri,  De  temporibus  suis,  in  Rer.  italic.  script.  Appendice  del  Tartini,  voi.  \y 
pag,  241. 


L  ALBERTI  TEORICO  DI  ARCHITETTURA  19 

pleto,  poiché  gli  antichi,  compreso  Vitruvio,  erano  troppo  oscuri  e  ina- 
datti al  suo  tempo,  e  la  rovina  dei  più  gloriosi  monumenti  classici, 
rovina  dalla  quale  era  facile  prevedere  che  in  breve  non  ne  sarebbe 
rimasta  alcuna  traccia.  Noi  sappiamo  che  l'Alberti  conosceva  Vitruvio 
già  nel  1435  i  e  che  a  Roma,  la  città  dalle  cadenti  rovine,  si  recò  per 
la  prima  volta  intorno  al  1432  :  il  proposito  di  riordinare  quel  tratta- 
tista e  di  illustrare  queste  rovine  fu  con  ogni  probabilità  l'effetto  della 
prima  dolorosa  impressione  prodotta  in  lui  dalle  deplorevoli  condizioni 
dell'uno  e  delle  altre,  e  non  credo  di  esser  lontano  dal  vero  suppo- 
nendo che  intorno  al  1435  egli  concepisse  l'idea  di  divenire  il  teorico 
dell'arte  nuova.  Certo  i  continui  viaggi  e  le  molteplici  occupazioni  im- 
pedirono a  Battista  di  dedicarsi  con  profitto  a  quest'opera  grandiosa 
prima  che  al  soglio  pontificio  salisse  l'erudito  Niccolò  V  (1447).  Avanti 
egli  avrà  raccolto  qua  e  là  una  parte  del  materiale  ;  da  quel  momento 
si  sarà  posto  con  ardore  alla  composizione.  Oltre  cinque  anni  di  lavoro 
non  sembreranno  poi  troppi  a  chi  consideri  le  difficoltà  dell'argomento 
e  la  mole  immensa  di  studi,  di  ricerche,  di  osservazioni  che  il  trattato 
racchiude;  sono  gli  anni  nei  quali  l'Alberti  cominciò  anche  pratica- 
mente ad  occuparsi  dell'architettura  e  nell'architettura,  come  nella  let- 
teratura, venne  formandosi  uno  stile  che  poi  variò  nei  diversi  momenti 
della  sua  vita,  ma  si  mantenne  sempre  corretto,  vigoroso,  personale. 
Tanto  più  dovette  esser  lungo  il  periodo  di  composizione  del  trat- 
tato in  quanto  non  vi  è  dubbio  che  l'Alberti  lo  scrisse  quasi  contem- 
poraneamente in  due  redazioni,  una  in  latino  e  l'altra  in  volgare.  Quale 
delle  due  fu  pubblicata  per  prima  ?  È  una  questione  a  lungo  discussa 
dai  critici  ma  che  non  credo  possa  risolversi  in  modo  sicuro  ;  né  gli 
argomenti  del  Mancini  e  dei  critici  tedeschi  che  sostengono  precedente 
la  redazione  latina,2  né  quelli  di  un  più  antico  ma  non  meno  diligente 
studioso  dell'Alberti,  il  dott.  Anicio  Bonucci,  che  crede  anteriore  invece 
la  redazione  italiana,3   sono  decisivi.  L'autore  può  al  principio  del  sesto 


1  Cita  Vitruvio  e  se  ne  vale  ampiamente  nel  piccolo  trattato  intorno  alla  pittura  composto 
nel  1435. 

-  G.  Mancini,  Vita  di  L.  Battista  Alberti.  Firenze,  18S2,  pag.  147  ;  Hoffmann,  op.  cit., 
Pag-  37  ;  Janitschek,  L.  B.  Albertis  kleine  kunsthistorischc  Schriften,  ediz.  cit.,  Prefaz. 

3  Opere  volgari  di  L.  B.  Alberti  pubblicate  dal  Dott.  Anicio  Bonucci.  Firenze,  1847,  voi.  IV, 
pag.  189. 


tapi  roi  o 


libro  avere  scritto  :  «  Tu  non  puoi  negare  che  queste  cose  sono  latine 
a  facili  a  comprendersi»,  indicando  con  quel  «latine»  non  la  lingua 
ma  la  chiarezza  della  sua  esposizione;1  così  cade  l'argomento  fonda- 
mentale del  Mancini.  Il  Bonucci  d'altra  parte  trovò  in  un  codice  Ric- 
cardiano  (n.  2520)  una  parte  del  trattato  in  volgare,  con  parecchie  cor- 
rezioni e  qualche  lacuna,  scritta  evidentemente  dalla  mano  stessa  di 
Battista  ;  cosa  che  gli  fece  supporre  che  fosse  quella  la  primitiva  reda- 
zione del  lavoro.  Le  correzioni  non  sono  però  mai  correzioni  di  fatto 
ma  solo  di  forma;  le  lacune  tralasciano  esclusivamente  dei  nomi  propri, 
in  special  modo  geografici  :  le  une  e  le  altre  non  escludono  quindi  che 
si  tratti  di  una  traduzione.  In  siffatte  circostanze  credo  meglio  confessare 
con  franchezza  che  non  è  possibile  giungere  ad  una  conclusione  sicura, 
piuttosto  che  cercare  con  sottigliezze  di  far  prevalere  l'una  ipotesi  o 
l'altra.  È  sotto  ogni  rispetto  probabile  che  la  copia  presentata  nel  1452 
al  pontefice  Niccolò  V  fosse  quella  in  latino  che  ebbe  poi  la  più  grande 
diffusione  ;  se  la  redazione  volgare,  che  pur  certo  esistette  e  della  quale 
possediamo  una  parte,  fosse  composta  prima  o  dopo  di  quella  non  sa- 
prei con  certezza  affermare  né  mi  sembra  poi  di  suprema  importanza 
il  poter  affermare.  Non  è  la  forma  o  la  lingua  che  deve  interessare 
chi  vuol  vedere  in  questo  trattato  solo  i  primi  germi  e  le  prime  idee 
dell'attività  artistica  dell'Alberti,  chi  vuole  osservare  come  egli  sapesse 
fin  da  principio  staccarsi  in  teoria  dagli  scrittori  antichi  per  compren- 
dere meglio  come  riuscisse  poi  nella  pratica  ad  allontanarsi  sempre  più 
dagli  antichi  modelli. 

L'umanesimo  (è  sempre  qui  donde  dobbiamo  partire  poiché  la 
mente  dell'Alberti  fu  per  molto  tempo  del  tutto  imbevuta  di  idee  uma- 
nistiche) aveva  creato  una  fraseologia  speciale  per  la  quale  ogni  con- 
dottiero veniva  paragonato  a  Giulio  Cesare,  ogni  pittore  ad  Apelle, 
ogni  matematico  a   Euclide  ;    l'Alberti,    iniziando   i   suoi   studi   per   un 


1  Latino  in  senso  di  «  facile,  chiaro  »  è  comune  nell'antico  italiano  a  cominciare  da  Dante. 
L'Alberti  l'usa  un'  altra  sola  volta  e  il  raffronto  conferma  questa  tesi.  Nel  IV  libro  della  Famiglia 
egli  narra  di  aver  salvato  il  re  di  Napoli  Alfonso  I  assalito  da  un  orso  :  «  Subito  il  re  co'  dardi  tra- 
fisse e  spacciò  quel  così  atterrato  orso  e  verso  me  ridendo  disse,  latino  loro  vocabolo  :  Te  amo, 
commiliton  mio,  che  nella  salute  nostra  nelle  voluttà  non  meno  avesti  che  in  arme  cura  »  (Bonucci, 
op.  cit.,  voi.  II,  pag.  395).  Anche  qui  «  latino»  significa  familiare,  dialettale  ;  in  sì  terribile  frangente 
il  re  non  si  sarà  messo  certo  a  ringraziare  l'Alberti  in  latino  ! 


L  ALBERTI  TEORICO  DI  ARCHITETTURA 


grande  trattato  di  architettura,  aspirò  senza  dubbio  a  meritare  il  nome 
che  poi  ebbe  di  fatto  di  nuovo  Vitruvio  ;  per  questo  imitò  il  teorico 
latino  e  cercò  di  completarlo  con  notizie  di  altri  scrittori  e  coi  resul- 
tati delle  sue  ricerche  sui  monumenti  ;  ma  d'altra  parte  il  suo  ingegno 
acuto  e  perspicace  seppe  manifestarsi  anche  in  quest'opera  e  ne  dettò 
la  parte  più  interessante  impedendole  di  divenire  un  lavoro  di  pura 
ed  arida  erudizione.  Può  sembrare  un'imitazione  del  trattatista  latino 
la  divisione  dell'«Arte  edificatoria»  in  dieci  libri,  ma  osservando  quali 
sono  gli  argomenti  di  questi  libri,  troviamo  subito  una  differenza  gran- 
dissima già  nella  disposizione  generale  della  materia.  Nei  primi  due 
libri,  dove  si  parla  delle  cose  più  elementari  e  materiali  necessarie  per 
una  costruzione,  la  somiglianza  fra  Vitruvio  e  l'Alberti  deriva  non  tanto 
da  una  voluta  imitazione  quanto  dall'affinità  dell'argomento  ;  ma  subito 
si  osserva  nel  nostro  autore  una  certa  indipendenza  di  giudizi  e  di  ordi- 
namento che  preannunzia  la  sua  intenzione  di  liberarsi  dalle  strettoie 
che  gì' imponeva  la  sua  guida.  Infatti  nel  terzo  e  nel  quarto  libro, 
mentre  Vitruvio  tratta  dei  templi  e  dei  vari  ordini  di  colonne,  l'Alberti 
prosegue  a  parlare  in  generale  del  modo  di  inalzare  edifici  seguendo 
teoricamente  la  costruzione  dai  fondamenti  fino  al  compimento  dell'opera. 
Qui  la  differenza  è  nella  disposizione  della  materia,  non  nel  contenuto, 
perchè  le  singole  parti  trovano  riscontro  in  passi  sparsi  alla  rinfusa  nel 
trattatista  romano  ; 1  ma  quando  col  quinto  libro  l'Alberti  imprende  la 
trattazione  degli  edifici  in  particolare  descrivendoci  minutamente  come 
deve  esser  fatto  ciascun  edificio  pubblico  e  privato,  allora  ha  il  buon 
senso  di  rivolgere  lo  sguardo  alle  condizioni  del  suo  tempo  e  di  met- 
tere da  parte  Vitruvio  che  pur  nei  medesimi  libri  trattava  argomenti 
consimili.  Il  sesto  e  settimo  libro  sono  dedicati  alla  materia  che  occupa 
in  Vitruvio  i  libri  terzo  e  quarto,  vale  a  dire  i  templi  e  gli  ordini 
delle  colonne,  e  qui  l'imitazione  dell'antico  teorico  è  ampliata  ed  arric- 
chita da  un'altra  fonte  che  vedremo  di  primaria  importanza  per  que- 
st'opera :  l'osservazione  diretta  dei  monumenti  classici.  Su  tale  osser- 
vazione si  fonda  quasi  tutto  il   libro  ottavo  dell'Alberti  dove  si  parla 


1  Ecco  qualche  esempio:  Dei  fondamenti:  Alberti,  lib.  Ili,  cap.  II,  Vitruvio,  lib.  II, 
cap.  Vili  ;  Delle  prime  abitazioni:  Alberti,  IV,  i,  Vitruvio,  II,  i  ;  Delle  mura  della  città: 
Alberti,  IV,  Vitruvio,  I,  5  ;  Dei  ponti  e  dei  porti:  Alberti,  VI,  6,  Vitruvio,  V,  12. 


CAPITOLO    I 


dei  sepolcri,  argomento  trascurato  dal  teorico  latino,  dei  ponti,  che 
Vitruvio  aveva  descritto  solo  di  passaggio,  e  di  tutti  i  luoghi  per  gli 
spettacoli  (teatri,  circhi,  anfiteatri),  mentre  l'antico  scrittore  si  era  fer- 
mato siilo  ai  teatri.  (ìli  ultimi  due  libri  poi  sono  completamente  ori- 
ginali :  Vitruvio  non  aveva  fatto  una  trattazione  speciale  per  tutto  quello 
che  costituisce  l'ornamento  di  un  edificio  e  non  aveva  neppur  pensato 
a  parlare  dei  restauri,  perchè  a  lui  stavano  dinanzi  monumenti  che  sem- 
bravano, nel  loro  splendore,  eterni.  Ma  l'Alberti  volle  essere  completo 
pure  in  ogni  particolare  e  scrisse  con  lo  sguardo  fisso  a  delle  rovine 
che  egli  sperava,  come  l'amico  suo  Flavio  Biondo  nella  «  Roma  in- 
staurata »,  di  vedere  ravvivate  e  completate  a  ricostituire  le  antiche 
meraviglie  della  città  eterna,  e  chiuse  il  suo  trattato  parlando  degli 
ornamenti  e  dei  restauri,  là  dove  il  teorico  latino  prendeva  invece  per 
argomento  le  costellazioni,  parte  necessaria  solo  quando  all'architettura 
era  strettamente  congiunta  l'astrologia,  e  la  descrizione  di  alcune  mac- 
chine di  ingegneria  civile  e  militare. 

Bastano  questi  accenni  generalissimi  per  comprendere  che  l'opera 
dell'Alberti  non  deve  affatto  considerarsi  un  semplice  rifacimento  del 
trattato  di  Vitruvio,  ma  è  solo  una  liberissima  imitazione  di  quello  per 
alcune  parti,  è  esposizione  di  ricerche  e  di  osservazioni  originali  per 
altre.  L'esame  più  accurato  di  tutti  i  passi  che  l'Alberti  imita  da  Vi- 
truvio condurrebbe  egualmente  alla  conclusione  che  egli  lo  ha  cono- 
sciuto e  se  ne  è  valso,  senza  poterne  mai  riscontrare  l' influenza  nello 
sviluppo  del  pensiero  o  nelle  idee  fondamentali  del  lavoro.  Diverso 
era  lo  scopo  dei  due  autori  quando  impresero  a  scrivere  i  loro  trattati 
sull'architettura,  perchè  l'antico  volle  evidentemente  fare  solo  una  sintesi 
di  tutto  ciò  che  su  quell'arte  era  stato  scritto  fino  ai  suoi  giorni  senza 
occuparsi  dei  monumenti,  mentre  il  moderno  ebbe  sempre  di  mira  il 
fine  pratico  che  si  era  proposto  ;  la  diversità  degli  scopi  portò  ad  una 
diversità  sostanziale  dei  lavori  dal  momento  che  l'Alberti  non  si  lasciò 
mai  piegare,  e  qui  sta  il  merito  suo  principale,  dall'autorità  del  tanto 
celebrato  teorico  classico. 

Accanto  al  pregio  più  importante  poniamo  subito  il  difetto  più  evi- 
dente :  l'erudizione  sconfinata,  ingombrante  di  cui  vuol  far  mostra  l'au- 
tore. È  il  difetto  di  tutti  gli  scritti  degli  umanisti  portato  al  limite  estremo  : 


L  ALBERTI    TEORICO    DI    ARCHITETTURA  23 

non  vi  è  avvertimento,  anche  elementarissimo,  che  non  sia  corredato 
da  un  subisso  di  citazioni,  non  vi  è  particolare  che  non  sia  corredato 
da  numerose  leggende  e  aneddoti  favolosi.  L'autore  faceva  questo,  come 
afferma  ripetutamente,  per  interrompere  la  monotonia  dell'argomento 
e  rendere  più  varia,  più  dilettevole  la  trattazione,  ma  siccome  non  ha 
saputo  mantenere  tale  lodevole  proposito  entro  giusti  confini,  ha  ottenuto 
perfettamente  l'effetto  opposto,  vale  a  dire  di  annoiare  e  di  distrarre 
ad  ogni  passo  l'attenzione. del  lettore  dall'argomento  principale  del  libro. 
L'Hoffmann  ha,  con  una  pazienza  ed  una  minuziosità  spaventevoli, 
cercato  di  scoprire  quali  fra  i  tanti  autori  nominati  l'Alberti  conosceva 
direttamente  e  quali  invece  citava  di  seconda  mano  : L  oltre  a  Vitruvio 
ed  a  Teofrasto,  egli  aveva  letto  senza  dubbio  Plinio,  del  quale  erano 
noti  al  suo  tempo  specialmente  i  due  libri  che  davano  uno  sguardo 
all'arte  dell'antichità  ; 2  la  sua  predilezione  per  la  vita  di  campagna 
(predilezione  evidente  in  tutto  quanto  il  trattato  «  Della  famiglia  »)  lo 
portò  a  studiare  i  due  classici  scrittori  di  cose  rustiche,  Catone  e  Var- 
rone,  e  d'altra  parte  i  molti  passi  riportati  da  Vegezio  dimostrano  che 
egli  conosceva  anche  l'antico  teorico  d'arte  militare;  ma  accanto  a 
questi  quanti  altri  autori  greci  e  latini,  da  Omero  a  Finnico  Materno, 
vengono  ad  ogni  passo  nominati  nel  trattato  dell'Alberti!  Autori  che 
egli  ricordava  per  semplice  pompa  di  erudizione,  mai  per  togliervi 
qualche  notizia  che  direttamente  interessasse  il  suo  argomento  ;  a  questo 
scopo  serve  fra  gli  scrittori  soltanto  Vitruvio. 

Per  una  parte  speciale  della  trattazione,  gli  acquedotti,  l'Alberti 
poteva  per  esempio  utilmente  valersi  dell'opera  di  Frontino  che  Poggio 
Bracciolini,  suo  amico  ed  impiegato  come  lui  per  molto  tempo  alla 
Curia  pontificia,  aveva  nel  1429  trovato  a  Montecassino  ;  egli  invece 
non  se  ne  valse  e  non  sentì  il  bisogno  di  valersene  dal  momento  che 
degli  acquedotti  rimanevano,  modello  impareggiabile,  gli  avanzi  degli 
splendidi  esemplari  romani.  Perchè  sempre  al  confronto  degli  antichi 
monumenti  gli  antichi  scrittori,  Vitruvio  compreso,  devono  cedere  il 
campo  ;   la  superiorità  delle  notizie   ricavate   direttamente   dagli  edifici 


1     HOFFMANN,    Op.  CÌt.,  pag.  41. 

-   Sono  i  libri  XXXIV  e  XXXV  dell' Historia  naturalis.  Il  Ghiberti,  nel  primo  dei  suoi  «  Com- 
mentari »,  li  aveva  tradotti  in  volgare  quasi  letteralmente.  Cfr.  Cod.  Magliab.  II,  I,  333. 


24  CAIM  l'OLO    1 


classici  rispetto  a  quelle  desunte  da  altri  è  in  modo  esplicito  affermata 
dall'Alberti  :  «  Ecco  quanto  ho  appreso  con  somma  cura  e  diligenza 
dalle  opere  degli  antichi  ;  dalle  quali  confesso  di  avere  imparato  molto 
più  che  dagli  scrittori».1  E  con  quanto  amore,  con  quanto  entusiasmo 
egli  studiasse  i  monumenti  classici  sente  pure  il  dovere  di  dichiarare 
mentre  confessa  le  difficoltà  del  suo  lavoro:  «Non  vi  era  opera  degli 
antichi  degna  di  qualche  lode  che  io  subito  non  investigassi  per  vedere 
d'impararvi  qualcosa».2  È  però  molto  difficile  per  noi  seguire  questo 
genere  di  fonti,  perchè  ben  raramente  l'Alberti  tenne  davanti  agli  occhi 
un  singolo  edificio  ;  quando  egli  ci  descrive  coi  più  minuti  particolari 
i  circhi  o  gli  anfiteatri  non  ancora  in  grande  uso  al  tempo  di  Vitruvio, 
o  splendide  e  grandiose  terme  in  luogo  di  quelle  semplici  descritte  dal 
trattatista  antico,  è  evidente  che  prende  per  esemplari  il  Circo  Ago- 
nale, l'anfiteatro  Flavio,  le  terme  di  Caracalla  e  di  Diocleziano.  Ma 
questi  sono  casi  ben  rari,  perchè  di  solito  l'Alberti,  invece  di  fissare  lo 
sguardo  ad  un  solo  edificio,  usa  prendere  qua  e  là  le  parti  che  a  lui 
sembrano  migliori  e  congiungerle  in  un  insieme  organico  e  originale. 

Così  l'arte  antica  non  viene  considerata  come  modello  fisso  e  im- 
mutabile, ma  come  punto  di  partenza,  unico  punto  possibile,  di  un 
ulteriore  svolgimento  e  di  nuove  creazioni.  «  Di  queste  spezie  e  varietà 
di  edifici  (gli  antichi)  ne  abbiamo  fatta  qui  menzione,  non  per  trasfe- 
rirle nella  presente  nostra  opera,  o  perchè  noi  quasi  astretti  dalla  re- 
gola e  norma  di  queste  le  abbiamo  a  ogni  modo  a  seguitare,  ma  sola- 
mente a  questo  fine,  che  ammoniti  da  queste  varie  spezie  di  edificazioni, 
ci  sforziamo  con  le  nostre  nuove  invenzioni  di  agguagliarci  a  quelle, 
o  veramente  per  laude  superarle  ».3  All'umanista  piena  la  mente  di 
classicismo  si  sostituisce  d'un  tratto  l'artista  ricercatore  instancabile  del 
nuovo  e  del  bello. 

Solo  l'antichità  poteva  fornire  le  idee  per  questo  rinnovamento  del- 
l'architettura,  anzi  nella  mente  dell'Alberti  solo  l'antichità  romana.   E 


1  «  Nunc  quae  ex  veterum  operibus  summa  et  cura  et  diligentia  collegerim  referam,  a  quibus 
plura  me  longe  quam  a  scriptoribus  proflteor  didicisse  ».  Alberti,  De  re  aedificatoria.  Floren- 
tiae,  1485,  carta  53  a. 

-  «  Nihil  usquam  erat  antiquorum  operum  in  quo  aliqua  laus  elusceret  quin  ilico  ex  eo  per- 
vestigarem  si  quid  possem  perdiscere  ».  De  re  aedific,  ed.  cit.,  e.  92  b. 

'■''  Cito  in  italiano  la  parte  che  ci  è  pervenuta,  pubblicata  dal  Bonucci  in  op.  volg.  di  L.  B.  Al- 
berti (voi.  IV,  pag.  189)  e  traduco  il  rimanente  dall'  «  editio  princeps  ».  Firenze,  1485. 


L  ALBERTI    TEORICO    DI    ARCHITETTURA  25 

forse  un  sentimento  inconsapevole  di  nazionalismo,  è  forse  confessione 
implicita  della  propria  ignoranza  quello  che  lo  spinge  a  dare  la  pre- 
ferenza all'arte  latina  rispetto  alla  greca,  preferenza  che,  portata  fino 
all'eccesso  di  creare  dei  neologismi  per  tutti  quei  nomi  che  dall'archi- 
tettura greca  erano  passati  nella  tradizione,  ottiene  il  resultato  di  creare 
nuove  difficoltà  e  confusioni:  per  l'Alberti  il  plinto  si  deve  chiamare 
«  latastrum  »,  l'abaco  «  operculum  »,  i  triglifi  «  trisulcata  capita  »,  lo  zo- 
foro  «  fascia  regia  »,  e  dopo  aver  preso  da  Vitruvio  qualche  dimensione 
rilevata  da  monumenti  greci,  egli,  che  tutto  aveva  confrontato  e  stu- 
diato, sente  il  bisogno  di  avvertire  il  lettore  che  quelle  misure  non  si 
riscontrano  «  apud  nostros  latinos  ».  Ma  ben  diverso  atteggiamento  di 
questo  placido  ed  innocuo  ostracismo  assume  il  teorico  umanista  ri- 
spetto all'arte  così  detta  gotica;  essa  è  l'arte  di  quei  barbari  che  ave- 
vano con  le  loro  invasioni  distrutto  il  glorioso  impero  romano,  è  l'arte 
dell'oscuro  Medio  Evo,  l'arte  che  fa  consistere  la  bellezza  non  nella 
proporzione,  nell'armonia  delle  diverse  parti  (come  è  acuto  quel  capi- 
tolo dell'Alberti  che  paragona  l'architettura  alla  musica  !),  ma  nell'au- 
dacia, quasi  direi  nella  dissonanza  dei  singoli  membri.  Una  sola  volta 
egli  nomina  «  gli  archi  angulari  od  acuti  »  ; i  ma  perchè,  soggiunge 
subito  quasi  pentito  di  aver  ricordato  siffatta  aberrazione,  perchè  usare 
questi  archi  tanto  deformi,  tanto  deboli,  che  se  non  sono  avvinti  da 
solide  catene  si  sfasciano  ?  E  poi  contro  di  loro  vi  è  un  argomento 
formidabile,  decisivo  :  «  Appresso  gli  antichi  non  si  veggono  archi  com- 
posti ».  Non  bisogna  d'altra  parte  dimenticare  che  l'Alberti  scriveva  il 
trattato  perchè  vedeva  coloro  che  ai  suoi  tempi  edificavano  «  perdersi 
piuttosto  intorno  ai  delirii  dell'arte  nuova  (non  sembrano  parole  scritte 
oggi?)  che  ricorrere  all'esempio  delle  opere  più  lodate,».2  Con  queste 
parole  egli  non  allude  certo  al  Brunellesco  che  creava  il  nuovo  ricor- 
rendo appunto  «  all'esempio  delle  opere  più  lodate  »,  ma  cerca  di  dare 
e  dà  il  colpo  supremo  agli  ultimi  seguaci  dello  stile  gotico-italiano. 

Oblio  dunque  all'arte    dei  greci,  maledizione    all'arte    del    barbaro 
settentrione;  l'arte  del  Rinascimento  italiano  deve  essere  continuazione 


1  Bonucci,  op.  cit.,  voi.  IV,  pag.  370. 

-  «  Videbam  qui  forte  per  haec  tempora  aedificarent  novis  ineptiarum  deliramentis  potius  quam 
probatissimis  laudatissimorum  operarti  rationibus  delectari  ».  De  re  aedìfic,  ed.  cit.,  e.  97  a. 


26  capi  roi  o  i 


dell'arto  nazionale,  romana.  Tale  programma  l'Alberti,  primo  teorico 
di  tutte  e  tre  le  principali  manifestazioni  di  quest'arte  nuova,  proclama 
nei  suoi  trattati  come  poi  per  l'architettura  affermerà  nella  pratica.  Il 
passato  ha  gran  parte  nella  mente  di  lui,  ma  esso  non  è  mai  fine  a  sé 
stesso,  e.  nello  stesso  tempo,  modello  e  impulso  per  l'avvenire.  Idea 
questa  che  vien  fatto  di  ripetere  sovente,  forse  troppo  sovente,  ritor- 
nando, col  pensiero  all'  immenso  materiale  raccolto  nei  dieci  libri  del- 
l'«  Arte  edificatoria»;  del  quale  non  cercherò  nemmeno  di  dare  una 
idea  completa  contentandomi  di  fermarmi  solo  ai  due  o  tre  punti  che 
possono  maggiormente  interessare  il  lettore,  i  punti  cioè  dove  la  teoria 
ha  più  strette  attinenze  con  la  pratica.  Il  trattato  guida  l'architetto 
dalla  scelta  del  materiale  primo  fino  al  compimento  di  un  edificio  ;  ma 
io  tralascerò  i  primi  libri  dove  l'esempio  di  Yitruvio  e  il  desiderio  di 
riuscire  completo  portarono  Battista  ad  occuparsi  di  cose  di  minima 
importanza  e  riguardanti  più  1'  ufficio  del  maestro  muratore  che  il  giu- 
dizio dell'artista;  tralascerò  i  passi  nei  quali  l'ammirazione  per  la  grande 
antichità  gli  fece  per  un  momento  perder  di  vista  la  meta  e  lo  indusse 
a  descrivere  edifici  per  il  semplice  fatto  che  erano  esistiti  nel  periodo 
classico  dell'arte,  facendo  opera  più  di  archeologo  che  di  architetto. 
Ma  nel  quinto  libro  e  nei  seguenti  l'Alberti  imprende  la  trattazione 
speciale  di  ogni  genere  di  edifici  pubblici  e  privati  e  fra  i  primi  dà 
importanza  grandissima  al  palazzo  del  signore,  come  si  conveniva  in 
un  tempo  nel  quale  la  signoria  veniva  ovunque  sostituendosi  ai  liberi 
comuni,  ed  ai  templi  che  questi  recenti  tirannelli  erigevano  con  grande 
sfarzo  per  acquistarsi  col  titolo  di  protettori  della  fede  la  benevolenza 
del  popolo. 

La  casa  del  signore  l  deve  essere  nel  centro  della  città,  ornata  leg- 
giadramente, di  aspetto  piuttosto  dilettevole  che  superbo  ;  la  porta  prin- 
cipale, ampia,  conduca  direttamente  al  cortile  e  sul  cortile,  circondato 
da  ben  disposto  porticato  al  terreno,  da  logge  spaziose  nei  piani  su- 
periori, si  apra  lo  scalone  comodo  e  piano  ;  in  cima  allo  scalone  il 
vestibolo  per  la  servitù,  poi  la  sala  di  ricevimento,  poi  le  altre  sale 
numerose  e  adornate  a  seconda    della   famiglia  e  della    ricchezza    del 


1  Riassumo  e  coordino  le  notizie  date  nei  cap.  1-3  del  libro  V. 


L  ALBERTI    TEORICO    DI    ARCHITETTURA  2"] 

padrone.   Ecco  il  tipo  del  palazzo  signorile   fiorentino  del   400,  quale 
si  ebbe  di  fatto  con  gli  edifici  di  Michelozzo  e  del  Rossellino. 

E  la  chiesa?  Essa  è,  se  ne  accorge  con  grande  perspicacia  l'Alberti, 
derivazione  della  basilica  pagana  ed  appunto  per  questo  egli  si  ferma 
a  descriverci  la  forma  primitiva  della  chiesa  cristiana,  quella  la  cui 
pianta  ha  la  figura  della  lettera  T  ed  ha  per  facciata  principale  un 
portico  grandioso  e  solenne.1  Perchè  poi  non  accenni  neppure  alle 
chiese  a  croce  greca  o  a  croce  latina  che  erano  le  più  comuni  al  suo 
tempo  e  che  anch'egli  usò  più  tardi  nella  pratica,  non  saprei  spiegarmi 
se  non  ammettendo  che  i  ricordi  dell'antichità  si  siano  qui  pure  im- 
padroniti della  sua  mente  e  gli  abbiano  tolto  la  nozione  esatta  del  suo 
scopo.  Ma  come  è  preveggente,  acuta  questa  mente  quando  nessun 
ostacolo  ne  impedisce  la  libera  operosità!  Si  guardi  il  capitolo  riguar- 
dante i  teatri.  Vitruvio,  press'a  poco,  aveva  detto  :  la  pianta  del  teatro 
deve  essere  iscritta  in  un  cerchio  ;  una  metà  costituisce  le  gradinate 
per  il  pubblico,  una  corda  in  faccia  ad  esse  rappresenta  la  fronte  del 
proscenio.  Invece  l'Alberti  vuole  che  si  prolunghino  i  lati  del  semi- 
cerchio formato  dalle  gradinate  in  modo  che  «  la  pianta  del  teatro  sia 
simile  all'orma  di  un  piede  di  cavallo  ».2  È  la  forma  moderna  a  ferro 
di  cavallo,  forma  che  Battista  non  deve  aver  trovato  in  nessun  teatro 
antico  (il  teatro  di  Marcello  era  già  in  pessime  condizioni)  e  che  spera 
«  essere  in  ogni  lato  perfetta  e  degna  di  ammirazione  ».3  A  questo  ca- 
pitolo si  aggiunga  quello  riguardante  gli  ospedali  dove  con  criterio 
moderno  si  consiglia  la  costruzione  di  corsie  separate  per  le  varie  ma- 
lattie, specialmente  infettive,4  quello  che  tratta  delle  prigioni,  tutto  ispi- 
rato non  da  avversità  ma  da  pietà  verso  i  malviventi,5  quello  dove  si 
espongono  i  vantaggi  specialmente  igienici,  di  circondare  le  case  di  città 
con  ampi  giardini  tì  e  si  vedrà  che  anche  in  mezzo  al  cumulo  di  no- 


1  Libro  VII,  cap.  3  e  4,  ed.  cit.,  e.  120  a. 

-  «....  ut  lineamentum'areae  theatri  imitet  vestigium    pressum  pede  equino  ».  De  re  aedific, 
ed.  cit.,  e.  151  b. 

3  «  Nos  id  opus  describemus  quod  omni  ex  parte  fore  absolutissimum   et  probatissimum  ar- 
bitramur  ».  Id.  id,  e.  149  b. 

4  Libro  V,  cap.  VIII,  ed.  cit.,  e.  78  a. 
3  Libro  V,  cap.  XIII,  ed.  cit.,  e.  83  a. 
c  Libro  IX,  cap.  II,  ed.  cit.,  e.  160  b. 


CAPITOLO 


di   pura  erudizione  sa  più  volte  affermarsi  la  mente  vigorosa,  lo 

spirito  divinatore  dell'Alberti  che  inizia  gloriosamente  la  lunga  serie 
dei  trattatisti  dell'architettura  italiana. 

Scopo  supremo  dell'arte  deve  essere  quello  di  unire  1'  utile  al  bello. 
Ma  che  cos'è  il  bello?  L'Alberti  affronta  l'arduo  problema  e,  sebbene 
la  diversità  degli  umani  giudizi  lo  tenga  parecchio  incerto  prima  di 
giungere  ad  una  decisione,  infine  conclude,  che  la  bellezza  è  «  l'unione 
concorde  di  parti  diverse  in  un  insieme  armonioso  nel  quale  nessuna 
di  esse  possa  togliersi,  diminuirsi  o  mutarsi  senza  che  l'insieme  diventi 
peggiore  ».*  Definizione  non  certo  soddisfacente,  perchè  si  volge  in  un 
circolo  vizioso  e  non  corrispondente  al  vero,  perchè  la  bellezza  non 
può  essere  prodotta  esclusivamente  dalla  simmetria:  ma  l'Alberti  si 
allontana  dall'errore  quando  riconosce  che  il  valore  di  un'  opera  d'arte 
dipende  da  qualche  cosa  che  non  si  può  descrivere  né  definire  e  quando 
loda  il  soffio  dell'  ispirazione  personale  che  rende  singolare  e  originale 
la  creazione  dell'artista. 

Solo  un'  intelligenza  ampia  e  versatile  come  quella  di  un  uomo  del 
Rinascimento  poteva  comprendere  e  distribuire  in  ordinamento  logico 
tutto  ciò  che  concerne  l'arte  di  edificare,  dai  vari  modi  di  cuocere  i 
mattoni  fino  ai  più  alti  principi  di  estetica;  perchè  se  da  un  lato  la 
architettura  è  fra  le  arti  belle  la  più  docile  a  mettersi  sotto  l'impero 
di  leggi  fisse,  dall'altro  è  quella  che  abbraccia  il  maggior  numero  di 
problemi  ed  assurge  ad  importanza  civile  e  sociale.  L'Alberti  non  ri- 
volge il  suo  trattato  solo  agli  artisti,  ma  a  tutte  le  persone  colte  che 
desiderino  arricchire  le  loro  cognizioni,  e  nella  sua  idea  l'architetto 
diviene  qualcosa  di  più  nobile,  di  più  elevato  di  un  semplice  artista  : 
è  il  consigliere  in  tutte  le  più  ardue  difficoltà  della  vita,  l'uomo  che  sa 
col  suo  ingegno  mantenere  la  sicurezza  dei  cittadini  e  tener  lontani 
i  nemici,  il  dotto  che  provvede  con  l'opera  sua  alla  felicità  ed  alla 
quiete  dei  popoli.  L'architetto  olire  la  sua  attività  ai  più  splendidi  e 
munifici  signori  perchè  essi  possano  attuare  gli   edifici  che  egli  imma- 


1  «  Pulchritudo  est  certa  cum  ratione  concinnitas  universarum  partium  in  eo  cuius  sint  ita 
ut  addi  aut  diminuì  aut  immutari  possit  nini!  quin  improbabilius  reddat  ».  De  re  aedific,  ed.  cit., 
lib.  VI,  cap.  II. 


L  ALBERTI    TEORICO    DI    ARCHITETTURA  29 

gina,  non  per  ricevere  ricompensa  alcuna  :  unica  ricompensa  degna  di 
lui  è  la  gloria  che  gli  procureranno  le  opere  sue. 

Con  tanta  preparazione  e  con  sì  alti  ideali  l'Alberti,  oltrepassata 
già  la  quarantina,  intraprese  la  pratica  dell'arte  e  proprio  al  principio 
ebbe  la  fortuna  d' imbattersi  in  un  signore  che  corrispondeva  piena- 
mente al  tipo  di  mecenate  ricco  d'iniziativa  e  d'intelligenza  che  egli 
aveva  immaginato. 


Capitolo  II. 

IL   TEMPIO    MALATESTIANO 


l  desiderio  di  gloria  che  gli  studi  di  umanità  avevano  destato 
in  Leon  Battista  Alberti  infiammava  pure  l'animo  fiero  di 
Sigismondo  Pandolfo  Malatesta  signore  di  Rimini.  «  Mente 
del  Rinascimento  e  carattere  del  Medio  Evo  »  lo  definisce, 
nel  tratteggiarne  magistralmente  la  figura,  il  suo  storico  moderno.1 
Ed  invero  questo  condottiero  che  unisce  la  cavalleria  al  tradimento, 
il  mecenatismo  alla  crudeltà,  è  uno  dei  personaggi  più  caratteristici, 
più  contradittori  ma  anche  più  interessanti  del  suo  tempo.  Terribile  nei 
suoi  odi  come  nei  suoi  amori,  nel  suo  valore  come  nella  sua  ambizione. 
Il  Papa  l'offende:  egli  s'arma  di  un  pugnale,  monta  a  cavallo  e  via  per 
sette  giorni  al  galoppo,  senza  riposo,  senza  timore,  via  a  Roma,  ani- 
mato dal  solo  pensiero  della  vendetta.  Una  donna  rifiuta  il  suo  amore  e 
giura  di  non  essere  sua  finché  viva;  egli  l'uccide  per  possederne  almeno 
il  cadavere.  Già  condottiero  delle  truppe  pontificie,  medita  poi,  quando 
tutti  lo  abbandonano  per  i  suoi  tradimenti,  di  chiamare  i  Turchi  in  Italia; 
conoscitore  dell'arte  militare  quanto  nessun  altro  al  suo  tempo,  preferisce 
il  più  delle  volte,  per  pura  malvagità,  di  vincere  con  l'inganno  e  con  la 
perfidia;  i  principi  d'  Italia  lo  ammirano,  lo  ricercano,  lo  temono  finché 


Char.  Yriarte,    Un  condottiere  au  XV  siede.  Parigi,   1882,  pag.  179. 


CAPI  fOLO    il 


un  bel  giorno  si  riuniscono  tutti  quanti  per  disfarsene,  per  liberarsi  di 
lui  come  di  un  animale  pericoloso  e  terribile.  Eppure  questo  mostro, 
come  lo  chiama  il  Burckhardt,  è  nello  stesso  tempo  una  delle  menti  più 
elevate  del  secolo  XV:  protegge  ed  incoraggia,  con  quell'entusiasmo  che 
pone  in  ogni  sua  azione,  letterati  ed  artisti,  filosofi  e  scienziati  :  a  Gian- 
nozzo  Manetti  promette  la  neutralità  in  una  guerra  che  la  Repubblica 
fiorentina  intraprendeva  col  re  di  Napoli  in  cambio  di  alcuni  mano- 
scritti preziosi  ;  in  una  spedizione  in  Morea  ritrova  la  salma  di  Gemisto 
Pletone  e  la  riporta  in  Italia  dandole  degna  sepoltura;  da  Piero  della 
Francesca  si  fa  dipingere  in  atto  di  umile  preghiera  ai  piedi  di  S.  Sigi- 
smondo. Questo  mostro  conosce  anche  l'amore  nobile,  leale,  sincero,  e 
ad  Isotta  degli  Atti,  la  donna  superiore  che  riconosce  degna  del  suo 
affetto  costante,  dirige  poesie  piene  di  tenerezza  e  di  dolcezza.  Un'  idea 
sopra  tutte  lo  guida  e  lo  tormenta,  l'idea  dell'immortalità;  per  essa 
si  circonda  di  poeti  che  cantino  il  suo  nome,  di  storici  che  descrivano 
le  sue  gesta,  di  artisti  che  tramandino  le  sue  sembianze,  e  siccome 
tutto  questo  non  gli  sembra  uscire  dalla  cerchia  comune,  immagina  un 
monumento  dove  al  ricordo  della  sua  fede  si  unisca  la  glorificazione 
dei  suoi  antenati,  dove  la  tomba  sua  e  della  sua  bella  siano  per  sem- 
pre circondate  dai  dotti  che  avevano  in  vita  illustrato  la  loro  corte. 
Per  attuare  questo  monumento,  suprema  attestazione  di  potenza  e  di 
ambizione,  Sigismondo  si  rivolse  a  Leon  Battista  Alberti  e  siffatta  scelta 
soltanto  basta  a  indicarci  con  quanta  acutezza  egli  sapesse  conoscere 
gli  uomini  e  indovinare  i  caratteri  del  suo  tempo. 

L'Alberti  non  era  ancora  noto  per  nessuna  grande  opera  architet- 
tonica e  neppure  per  i  suoi  studi  teorici,  ben  lungi  dall'essere  compiuti, 
quando,  con  ogni  probabilità  intorno  al  1445,  strinse  relazione  con 
Sigismondo  Malatesta.  Non  credo  che  in  quell'anno  il  signore  di  Ri- 
mini vagheggiasse  già  l'idea  di  ridurre  la  chiesa  principale  della  sua 
città,  la  gotica  chiesa  di  S.  Francesco,  a  tempio  glorificatore  della  sua 
famiglia.  Ma  certo  fin  dai  primi  colloqui  i  due  grandi  uomini  del  Rina- 
scimento si  compresero  e  si  ammirarono  a  vicenda,  e  quando  pochi  anni 
dopo  Sigismondo  affidò  all'Alberti  l'esecuzione  del  difficile  lavoro,  fu 
sicuro  di  trovare  in  lui  l'interpetre  fedele  della  sua  sconfinata  ambizione, 
come  l'Alberti,   disegnando  l'edificio  a  Sigismondo,   era  sicuro  di  pre- 


IL   TEMPIO    MALATESTIANO  33 

stare  l'opera  sua  ad  un  signore  che  sapeva  apprezzare  l' altezza  dei 
suoi  ideali.  Un  semplice  artista,  per  quanto  geniale,  non  avrebbe  forse 
trovato  una  concezione  così  grandiosa  quale  ebbe  l'umanista  entusia- 
sta ma  non  ancora  seguace  dell'arte:  perchè  bisognava  conoscere  e 
sentire  tutta  la  grandezza  dell'arte  antica,  tutto  lo  sfrenato  desiderio 
pagano  di  godimento  e  di  gloria  del  condottiero  riminese  per  imma- 
ginare un  simile  edificio;  bisognava  essere  umanisti  ed  artisti  nello 
stesso  tempo  per  sapere  unire  all'umile  chiesa  dedicata  al  più  umile 
dei  santi  un'espressione  di  splendore,  di  fasto  e  diciamo  pure  di  vana- 
gloria quale  appare  dal  tempio  dei  Malatesta. 

I  primi  lavori  che  nella  chiesa  eretta  in  Rimini  dai  frati  minori  fran- 
cescani nel  secolo  XIII  furono  compiuti  per  impulso  del  fiero  figlio  di 
Pandolfo  risalgono  al  1447  j1  l'ultimo  giorno  di  ottobre  di  quest'anno 
fu  con  grande  solennità  posta  la  pietra  fondamentale  della  cappella 
dedicata  a  S.  Sigismondo  ;  si  tratta  evidentemente  di  un  semplice  rifa- 
cimento della  prima  cappella  di  destra  che  il  Signore  di  Rimini  volle 
dedicata  al  suo  omonimo  re  di  Borgogna.  Il  15  aprile  1448  si  lavorava 
alla  seconda  cappella  di  destra,  quella  che  poi  racchiuse  il  sepolcro 
della  divina  Isotta;  2  il  7  di  aprile  del  1449  Sigismondo,  mentre,  duce 
dei  Veneziani,  assediava  Cremona,  cercava  un  pittore  che  gli  adornasse 
alcune  cappelle  della  chiesa  di  S.  Francesco,  appena  asciutte  e  in  con- 
dizione da  poter  essere  dipinte.3  Ma  contemporaneamente  a  tali  restauri 
interni  Sigismondo  volle  iniziato  un  suntuoso  rivestimento  esterno  del 
tempio  :  di  questo  affidò  l' incarico  all'Alberti  e  l'Alberti,  desideroso  di 
illustrare  con  tale  opera  il  suo  nome  non  meno  del  Signore  ordinatore, 
offrì  in  brevissimo  tempo  i  disegni    dell'edificio. 

Non  è  possibile  ammettere  che  l'artista  iniziasse  i  suoi  lavori  prima 
di  aver  direttamente  veduto  la  chiesa  ed  i  monumenti  antichi  che  la 
circondavano;  non  abbiamo  notizie  della  presenza  dell'Alberti  in  Rimini 


1  Chronicon  ariminense,  presso  Muratori:  Rer.  ital.  script.,  voi.  XV,  pag.  960.  L' Ughelli 
{Italia  sacra,  voi.  II,  pag.  433),  seguito  da  alcuni  moderni,  dà  invece  come  data  il  1446,  ma  prefe- 
risco attenermi  al  cronista  contemporaneo. 

-  Battaglini,   Vita  e  fatti  di  Sigismondo  Malatesta.  Rimini,  1794,  pag.  570. 

3  Vedi  la  sua  lettera  scritta  dal  campo  di  Cremona  e  pubblicata  dal  Gaye  :  Carteggio  inedito 
d'artisti.  Firenze,  1839,  voi.  I,  pag.  159. 

Alberti.  7, 


34 


CAP]  rOLO    II 


Fi 


t.         Matteo  dei  Pasti. 

Medaglia 
col  Tempio  Malatestiano. 


prima  del  1440.  quando  vi  andò  per  una  missione  diplomatica  e  non 
vi  poteva  corto  essere  prima  del  1448,  essendo  egli  occupato  nei  la- 
vori per  il  ripescamento  di  una  nave  romana  nel  lago  di  Nemi.  D'altra 
parte  nel  1450  il  restauro  era  già  iniziato  e  dei  disegni  dell'Alberti 
potè  valersi  Matteo  dei  Pasti  per  rappresentare  il  tempio  compiuto, 
nella   medaglia   coniata   appunto  in  quell'anno   in  onore  di   Sigismondo 

(fig.  1);   l'opera  dell'Alberti  cade  quindi 
fra  il  1448  e  il  1450. 

Oual  è  l' idea  fondamentale  del  re- 
stauro? E  quella  di  sostituire  al  carattere 
religioso,  umilmente  cristiano  del  gotico 
francescano  lo  spirito  superbo,  paganeg- 
giante del  pieno  Rinascimento.  Tale  scopo 
l'autore  comprese  che  non  si  sarebbe  po- 
tuto raggiungere  con  una  semplice  mo- 
dificazione delle  principali  linee  già  esi- 
stenti ;  bisognava  creare  qualcosa  di  nuovo 
e  l'Alberti  immaginò  per  questo  di  cir- 
condare la  vecchia  chiesa  con  un  grosso  muro  di  rivestimento  che  per- 
mettesse di  svolgervi  i  motivi  architettonici,  espressione  delle  nuove 
idee  e  della  nuova  civiltà.  Ed  ancora  :  bisognava  creare  un'opera  tale 
che  soddisfacesse  il  desiderio  di  gloria  del  mecenate  e  ricordasse  ai  po- 
steri la  sua  grandezza  ;  l'Alberti  prese  per  questo  l'esempio  dal  monu- 
mento che  nell'antichità  aveva  servito  a  celebrare  i  conquistatori,  l'arco 
di  trionfo,  e  pose  al  lato  della  chiesa  le  tombe  dei  glorificatori  di 
Sigismondo. 

Gli  architetti  del  Quattrocento  non  si  erano  ancora  posti  il  pro- 
blema del  come  doveva  essere  la  facciata  di  una  grande  chiesa  del  Ri- 
nascimento ;  l'Alberti  inizia  i  suoi  lavori  affrontando  subito  e  risolvendo 
felicemente  tale  problema  (fig.  2)  ;  lo  risolve  con  l'aiuto  dei  monumenti 
antichi  e  dei  leggiadri  esemplari  dello  stile  romanico-toscano,  special- 
mente di  quel  suo  bel  S.  Miniato  che  egli  tanto  amava  ed  ammirava. 
Si  guardi  la  parte  inferiore  della  facciata  del  tempio  Malatestiano:  la 
disposizione  degli  elementi  architettonici  che  si  riscontra  nell'arco  inal- 
zato  in  onore  di  Augusto  lì  a  Rimini,   al  principio  della  via  Flaminia 


IL    TEMPIO    MALATESTIANO 


37 


(fig.  3),  vi  è  fedelmente  riprodotta  e  ripetuta  tre  volte.1  L'arcata  cen- 
trale, più  ampia,  arriva  fino  a  terra  :  le  altre  poggiano  invece  sopra  un 
alto  zoccolo  che  circonda  tutto  l'edificio  e  ripete  in  un  superbo  fregio 
ornamentale  in  marmo  rosso  di  Verona  il  monogramma  del  signore  e 
della  sua  bella.  Oual  era  lo  scopo  di  questa  triplice  arcata  ?  Nel  mezzo 
si  apre  la  porta,  graziosa  ma  troppo  piccola  e  quasi  meschina  fra  tanta 


Fig-  3- 


RlMINI 


Arco  di  Augusto. 


(Fot.  Aiutavi). 


grandiosità;  le  altre  due  arcate  dovevano  senza  dubbio,  secondo  l'idea 
e  il  disegno  dell'Alberti,  racchiudere  le  tombe  di  Sigismondo  e  d'Isotta; 
lo  sappiamo  da  un  passo  dell'  «  Arte  edificatoria  »  dove  egli  consiglia 
di  porre  i  sepolcri  in  territorio  sacro  ma  non  dentro  le  chiese,'2  dalla 
figura  offertaci  nella  medaglia  del  Pasti  già  ricordata  e  dalla  lettera  di 


1  Si  potrebbe  anche  pensare  che  l'Alberti  prendesse  addirittura  l' idea  dagli  archi  di  trionfo 
a  tre  fornici,  ma  in  questi  le  parti  laterali  sono  molto  pia  strette  della  centrale,  hanno  le  arcate 
più  piccole  e  sopra  ad  esse  resta  un  ampio  spazio  adornato  di  solito  da  grandi  bassorilievi. 

-  De  re  aedificatoria,  ed.  cit.,  e.  137  a. 


CAPITOLO    II 


uno  degli  esecutori  al  Malatesta,  dove  si  vedo  che  nel  1454  si  era 
ancora  in  dubbio  sulla  l'orma  definitiva  da  darsi  alle  nicchie  che  do- 
vevano contenere  i  due  monumenti  sepolcrali.1  La  difficoltà  maggiore 
era  questa,  che,  data  la  poca  profondità  delle  nicchie,  era  necessario  o 
incassare  i  monumenti  nel  muro  o  lasciarne  una  parte  sporgente  dalla 
linea  generale  dell'edificio  ;  ragione  per  la  quale  probabilmente  si  de- 
cise più  tardi  di  collocare  i  sepolcri  nell'interno  della  chiesa  e  di  la- 
sciare le  due  arcate  laterali  della  facciata  vuote  e  senza  nessun  ufficio. 

Le  difficoltà  incontrate  nella  fronte  principale  non  si  ripetevano  per 
la  fiancata  (fig.  4)  dove  l'Alberti  aveva  fatto  inalzare  il  nuovo  muro 
del  tutto  indipendente  dal  vecchio,  anzi  ad  una  distanza  di  oltre  mezzo 
metro  da  quello  e  lo  aveva  creato  di  tal  grossezza  da  contenere  nel  suo 
spessore  dei  massicci  sarcofagi.  Niente  di  più  semplice  e  di  più  severo 
insieme  di  questo  lato  del  tempio:  sopra  il  solito  zoccolo,  altissimo  e 
ornato  del  medesimo  fregio,  una  serie  di  arcate  separate  da  grossi  pi- 
lastri dorici  ;  nei  pilastri  degli  spazi  lisci  per  iscrizioni,  in  alto,  fra  un 
arco  e  l'altro,  una  serie  di  ghirlande  di  foglie  come  quelle  che  nella 
facciata  ornano  1  pannelli  fra  gli  archi  e  le  colonne.  Nei  vani  delle 
arcate  che  attraversano  completamente  il  muro  perchè  la  luce,  attra- 
verso le  finestre  gotiche  della  vecchia  costruzione,  penetri  dentro  la 
chiesa,  stanno  le  tombe  dei  dotti,  tombe  eguali,  semplici,  solenni. 
E  quella  fiancata  di  chiesa  così  maestosa  nella  sua  semplicità,  non 
più  destinata  ad  inutile  funzione  decorativa  ma  tempio  essa  stessa  e 
Pantheon  che  l'Alberti  immaginava  e  Sigismondo  decretava  ai  grandi 
suoi  contemporanei,  è  essa  sola  un  capolavoro  non  tanto  per  la  strut- 
tura architettonica  quanto  per  il  sentimento  umano  di  onore  e  di  am- 
mirazione   per  i  grandi  defunti  che  essa  esprime.2 

Torniamo  per  un  momento  alla  facciata  :  gli  archi,  come  il  loro 
prototipo,  l'arco  di  trionfo  di  Augusto,  sono  fiancheggiati  da  grandiose 


'  Questa  e  le  altre  lettere  che  citeremo  sono  state  ultimamente  pubblicate,  in  modo  molto 
più  esatto  delle  altre  volte,  dall'architetto  Fritz  Seitz,  S.  Francesco  in  Rimini.  Berlino,  1893, 
pag.  8  e  seg. 

-  L'architetto  Ettore  Bernich  (Rassegna  pugliese,  maggio,  1894)  trova  il  prototipo  di  questa 
idea  negli  archi  laterali  di  alcune  chiese  pugliesi.  Prima  di  tutto  bisognerebbe  sapere  se  l'Alberti 
fu  in  Puglia,  cosa  che  il  Bernich  afferma  ma  non  dimostra,  e  poi  bisognerebbe  affidarsi  completa- 
mente alla  sua  intuizione  perchè  quegli  archi  furono  ovunque  chiusi  intorno  al  1300. 


IL    TEMPIO    MALATESTIANO  41 

colonne  di  tre  quarti,  scannellate,  con  piccola  base  adornata  di  un  fregio 
e  con  un  capitello  caratteristico,  del  tutto  originale  ;  queste  colonne  so- 
stengono una  ricca  trabeazione  nel  cui  fregio  un'iscrizione  ricorda  ai  po- 
steri il  nome  del  rinnovatore  del  tempio  e,  sui  capitelli  delle  colonne,  si 
affacciano  graziosamente  delle  teste  alate  di  cherubini,  leggiadro  elemento 
decorativo  che  Luca  della  Robbia  aveva  introdotto  nell'arte  e  che  l'Alberti 
ripeterà  poi  nell'ultimo  dei  suoi  lavori.  La  trabeazione,  che  nella  parte 
laterale  serve  con  la  sua  cornice  assai  sporgente  come  cornicione  di  tutta 
la  parete,  nella  facciata  divide  la  parte  inferiore  dalla  superiore  ;  questa, 
disgraziatamente  incompiuta,  comprende  una  parte  centrale  assai  più 
alta,  sostenuta  ai  lati  da  due  mezzi  frontoni  simili  a  quelli  che  servono 
a  collegare  le  parti  laterali  alla  mediana  nella  facciata  di  S.  Miniato  a 
Firenze.1  Senonchè,  mentre  qui  la  triplice  divisione  e  la  maggiore  ele- 
vatezza della  parte  centrale  trova  corrispondenza  nella  struttura  orga- 
nica della  chiesa,  a  tre  navate  delle  quali  la  centrale  più  alta,  in  Ri- 
mini non  ha  altra  ragione  di  esistere  che  per  l'estetica  dell'insieme 
dal  momento  che  il  tempio  è  ad  una  sola  navata,  ed  un  unico  tetto, 
con  eguale  pendenza,  cuopre  il  corpo  principale  dell'edificio  e  le  cap- 
pelle laterali. 

Bisognerebbe  però  sapere  a  questo  proposito  quali  erano  le  idee 
dell'Alberti  per  quel  che  riguarda  la  copertura  della  chiesa.  Perchè 
lavori  per  l'attuazione  dei  suoi  disegni,  cominciati  con  grande  entu- 
siasmo sotto  la  direzione  di  Matteo  dei  Pasti  nel  1449,2  incontrarono 
ben  presto  delle  gravi  difficoltà  e  gravissime  poi  quando  si  giunse  al 
punto  di  dover  coprire  l'edificio.  Noi  possediamo  fortunatamente  su 
questo  punto  alcune  lettere  di  persone  addette  alla  costruzione  che 
danno  notizie  assai  interessanti  sull'andamento  dei  lavori  e  sulle  rela- 
zioni fra  l'artista  e  gli  esecutori  dei  suoi  disegni.3   Nella  prima,  diretta 


1  Cito  sempre  il  S.  Miniato  a  preferenza  di  altre  chiese  di  stile  romanico,  perchè  è  l'esempio 
che  l'Alberti  aveva  continuamente  sott' occhio.  Egli  narra  nel  trattato  «  Della  tranquillità  del- 
l' animo  »  che,  quando  era  a  Firenze,  non  passava  mattina  senza  salire  «  a  salutare  il  tempio  di 
S.  Miniato»  (Bonucci,  op.  volg.  di  L.  B.  Alberti,  I,  pag.  58). 

2  Un'  iscrizione,  in  greco,  del  primo  pilastro  della  fiancata  avverte  che  Sigismondo  inalzò  il 
tempio  per  ringraziare  Dio  di  averlo  fatto  vincitore  della  guerra  italica.  Sarà  questa  la  guerra  fra 
i  fiorentini,  comandati  dal  Malatesta,  e  re  Alfonso  d'Aragona  terminata  nel  1448  con  la  vittoria 
dei  primi. 

:ì  Pubblicate  prima  da  C.  Tonini,  Guida  illustrata  di  Rimini.  Rimini,  1893,  pag.  250  e  seg., 
poi  da  Fritz  Seitz,  op.  cit.,  pag.  8. 


42  CAPITOLO    II 


dall'Alberti  stesso  a  Matteo  dei  Pasti  «amico  dolcissimo»  e  scritta  come 
Le  seguenti  nel  1434.  abbiamo  subito  la  conferma  di  una  notizia  che  il 
Pasti  ci  aveva  elato  con  la  sua  medaglia  :  Battista  aveva  immaginato 
di  coronare  l'edificio  con  una  cupola  grandiosa  e  ne  aveva  probabil- 
mente fatto  il  modello  in  legno.  Antonio  Manetti,  architetto  fiorentino 
e  successore  del  Brunellesco  nell'ufficio  di  soprastante  ai  lavori  della 
cupola  di  S.  Maria  del  Fiore,  sosteneva,  certo  dietro  l'esempio  del 
maestro,  che  le  cupole  debbono  essere  alte  il  doppio  della  loro  lar- 
ghezza ;  l'Alberti  difende  la  forma  da  lui  ideata,  semisferica,  con  l'au- 
torità del  Pantheon,  delle  Terme  e  di  «tutte  queste  cose  massime». 
Ma  anche  da  un'altra  osservazione  sente  il  bisogno  di  difendersi  il 
nostro  autore  affermando  la  completa  indipendenza  della  facciata  col 
corpo  del  fabbricato.  «  Questa  faccia  convien  che  sia  opera  da  per  sé, 
perchè  queste  larghezze  ed  altezze  delle  cappelle  mi  perturbano.  Ricor- 
dati, e  ponvi  mente,  che  nel  modello,  sul  conto  del  tetto  a  man  ritta 
e  a  man  manca  v'è  una  simile  cosa  ».1  Vorrà  dire  con  queste  parole 
che  egli  aveva  intenzione  di  fare  anche  il  tetto  della  chiesa  a  piani 
diversi?  Troppo  vaga  è  l'affermazione  per  potervi  costruire  delle  ipotesi. 
E  però  certo  che  alla  fine  del  1454  i  lavori  erano  ancora  abba- 
stanza indietro:  il  17  dicembre  Matteo  dei  Pasti  e  Pietro  dei  Gennari, 
altro  artista  dirigente  la  costruzione,  avvertono  Sigismondo  di  aver 
ricevuto  da  «  messer  Battista  un  disegno  de  la  faciata  e  un  capitello 
bellissimo  ».  Il  disegno  contiene  delle  varianti  al  primitivo  modello, 
specialmente  per  quel  che  riguarda  la  forma  delle  nicchie  ove  devono 
esser  collocate  le  tombe,  il  capitello  è  certo  quello  per  le  colonne  della 
facciata;  ma  la  questione  principale  si  fa  ora  quella  del  tetto.  «  E  ra- 
gioniamo di  coprir  la  chiesa  di  cose  leggiere,  aveva  scritto  l'Alberti 
nella  sua  lettera.2  Non  vi  fidate  su  que'  pilastri  a  dar  loro  carico  :  e 
per  questo  ci  pare  che  la  volta  in  botte,  fatta  di  legname  fusse  più 
utile  ».3  Ma  non  sembra  che  egli  avesse  fatto  di  questo  un  modello 
dettagliato  come  per  il  resto,  perchè  subito  dopo  Matteo  dei  Pasti  in- 


1  F.  Seitz,  op.  cit.,  pag.  8. 

2  ivi. 

:È  un'  idea  già  espressa  nell'Arie  edificatoria  (VII,  n).  «  Voglio  che  il  tetto  del  tempio  sia 
a  volta  e  per  maestà  e  perchè  sia  più  duraturo  ». 


IL    TEMPIO    MALATESTIANO  43 

forma  Sigismondo  che  Maestro  Alvise  (maestro  falegname  della  co- 
struzione) sta  eseguendo  un  modello  del  tetto  e  che  Giovanni  (figlio 
del  precedente  e  segretario  della  fabbrica)  vuole  che  «  detto  tetto  de 
fora  sia  uno,  cioè  che  copra  la  capella  e  la  chiexa  »,  avvertendo  subito  il 
signore,  quasi  per  tranquillizzarlo,  che  «  se  1  bisognerà  andaremo  Gio- 
vanni de  M.  Aluixe  ed  io  a  Roma  a  star  due  giorni  con  Misser  Bat- 
tista e  ve  deremo  el  parer  suo,  a  ciò  le  cosse  vada  come  le  debiano 
andare  ;  o  veramente  far  che  lui  venga  qua  ;  questa  starà  in  là  S.  V.  ».d 
Il  2 1  dicembre  il  modello  di  Maestro  Alvise  è  compiuto  ed  il  figlio 
Giovanni  ne  manda  il  disegno  a  Sigismondo  con  una  lettera  di  calda 
raccomandazione  :  il  punto  che  al  segretario  preme  molto  di  porre  in 
rilievo  e  sul  quale  egli  si  ferma  con  particolare  insistenza,  è  che  questo 
modello  non  altera  in  nessun  modo  il  disegno  dell'Alberti.  «  Per  lo 
ditto  coverto  non  sa  a  removere  niente,  né  non  vole  ussire  del  stile 
del  preditto,  excetto  seria  de  bexognio  di  alciare  un  pocho  quel  fo- 
gliame che  vene  sopra  la  faciada  ».  Ecco  una  di  quelle  piccole  modi- 
ficazioni che  s' insinuano  in  mezzo  alle  più  ampie  affermazioni  di  stima 
e  di  rispetto  e  che  tradiscono  il  più  delle  volte  tutta  la  concezione  del- 
l'artista. Anche  Giovanni  termina  esprimendo  il  desiderio  di  andare  a 
Roma  per  parlar  con  Battista,  ma  siccome  sembra  che  il  modello  di 
suo  padre  fosse  sostenuto  a  spada  tratta  da  tutti  i  maestri  della  co- 
struzione, ecco  che  il  giorno  dopo  un  altro  di  questi,  e  fra  i  principali, 
Matteo  Nuti  da  Fano,  manda  un'altra  lettera  a  Sigismondo  per  difen- 
dere il  nuovo  modello  del  tetto  che  «  viene  a  cov[r]ire  la  nave  del 
corpo  della  chiesia  et  tutte  le  capelle  de  là  e  di  qua,  et  viene  fermato 
su  le  mura  grossa,  le  quale  la  S.  V.  fa  fare  di  là  e  di  qua  ».  Ora 
tutto  questo  accanimento  nel  difendere  l'unico  tetto  per  la  navata  e 
le  cappelle  dimostra  per  lo  meno  che  vi  era  chi  pensava  di  dare  una 
copertura  diversa  alla  chiesa  ;  ed  infatti  neh'  ultima  lettera  si  dice  di 
preferire  il  modello  di  Maestro  Alvise  perchè  «  secundo  il  primo  ra- 
gionamento i  tecti  de  le  capelle  bassi  verieno  a  essere  dannificati  da 
laque  che  verieno  dal  tecto  del  corpo  de  la  chiesia  ».'2  Quindi  esisteva 


1  F.  Skitz,  op.  cit,  paj 

2  Ivi,  pag\  :o. 


44 


CAPI  roLO  li 


anche  il  disegno  di  seguire  col  tetto  la  linea  della  facciata  e  questo 
era  probabilmente  il  disegno  dell'Alberti,  il  quale,  volendo  la  volta  a 
bone,   veniva  a  rialzare  di   molto  il  corpo  centrale  dell'edificio. 

La  volta  a  botte  e  la  grandiosa  cupola  in  fondo,  s'inalzasse  essa 
sul  coro  o  sulla  crociera  con  le  navate  trasversali,  come  disputano  an- 
cora gli  architetti  moderni,1  avrebbe  sostanzialmente  cambiato  anche 
il  carattere  interno  della  chiesa  molto  più  che  non  lo  cambiasse  la  ricca 


Fig.  5- 


Rumini. 


Interno  del  Tempio  Malatestiano. 


(Fot.  Alinari). 


decorazione  eseguita,  per  volere  di  Sigismondo,  da  una  serie  di  scul- 
tori, fra  i  quali  occupa  un  posto  preminente  Agostino  di  Duccio  (fig.  5). 
Decorazione  che  ripete  sopra  ogni  arco  delle  cappelle  il  nome  del  Ma- 
latesta,  in  ogni  pannello  il  suo  monogramma  intrecciato  a  quello  d'Isotta, 
in  ogni  riquadro  il  suo  stemma,  ed  interpetra  quindi  anch'essa  il  ca- 
rattere ambizioso  e  fastoso  del  signore  che  l'aveva  ordinata.  Ma  si 
guardi  con  quanto  diversi  mezzi  nell'esterno  e  nell'interno  del  mede- 


H.  Geymììller,  Die  Architektur  der  Renaissance  in   Toscana.  L.  Battista  Alberti,  pag.  4. 


IL    TEMPIO    MALATESTIANO  45 

simo  monumento  è  raggiunto  lo  stesso  scopo  della  glorificazione  di  un 
uomo  :  la  solenne  semplicità,  certo  con  intenzione  imitata  dall'antico, 
del  triplice  arco  di  trionfo  della  facciata  cede  il  campo  nei  bassorilievi 
dell'interno  alla  frivola  pompa  che  forma  pur  tanta  parte  della  vita  del 
Rinascimento  ;  all'eroismo  quale  la  mente  eroica  dell'Alberti  sentì  ed 
espresse  nella  classica  veste  del  tempio,  fa  qui  riscontro  la  cavalleria 
quattrocentesca  piena  di  bei  gesti  e  di  amorose  imprese  ;  alla  grandio- 
sità delle  linee  si  contrappone  la  virtuosità  delle  allegorie,  all'impres- 
sione dell'insieme  la  ricerca  d'effetto  coi  particolari. 

Questo  stridente  contrasto  di  caratteri  dimostra  nel  modo  per  me 
più  evidente  che  l'Alberti  non  ebbe  parte  nessuna  nei  lavori  interni 
della  chiesa,  i  quali  del  resto  non  richiedevano  affatto  l'opera  di  un 
architetto;  se  l'architetto  si  fosse  dovuto  occupare  anche  dell'interno, 
allora  valeva  meglio  abbattere  tutta  la  vecchia  costruzione  e  ricomin- 
ciarla ex  novo,  tanto  piccola  sarebbe  stata  la  parte  di  essa  rimasta.  Ed 
inoltre  ben  diverse  erano  le  idee  dell'Alberti  per  quel  che  concerne  la 
decorazione  delle  pareti  interne  di  un  tempio  :  egli  poteva  permettere 
e  desiderare  che  l'esterno  ricordasse  ai  posteri  la  gloria  del  fondatore, 
ma  voleva  nello  stesso  tempo  che,  entrati  nella  casa  di  Dio,  tutto 
esprimesse  devoto  raccoglimento.  Il  libro  dell' «Arte  edificatoria»  riguar- 
dante gli  edifici  religiosi  è  fra  i  più  oscuri,  perchè  contiene  una  selva 
di  notizie  confuse  e  contradittorie  rispecchianti  la  cultura  pagana  ed  i 
sentimenti  cristiani  dell'autore;  ma  le  sue  idee  intorno  all'ornamento 
delle  pareti  interne  di  una  chiesa  vi  sono  esplicitamente  dichiarate. 
«  È  certo  che  al  Signore  è  grata  sopra  tutto  la  purità  e  la  semplicità 
dei  colori  come  della  vita  ;  e  non  sta  bene  che  nei  templi  vi  siano  cose 
che  volgano  l'animo  dai  pensieri  della  fede  alle  distrazioni,  al  soddisfa- 
cimento dei  sensi  ».d  In  ben  altra  maniera  Agostino  di  Duccio  e  i  suoi 
collaboratori  sentivano  la  fede  :  essi  cercarono  di  abbagliare  con  l'eccesso 
della  decorazione  e,  divisi  i  pilastri  in  tanti  rettangoli,  vi  rappresentarono 
i  simboli  della  cultura  antica  (figure  mitologiche),  della  medievale 
{arti  liberali)  ed  i  putti  danzanti  e  suonanti  tanto  cari  al  nostro  Rina- 


1  «  Mihi  quidem  perfacile  persuadebitur  coloris  aeque  atque  vitae  puritatem  et  simplicitatem 
superis  optimis  gratissimam  esse  ;  et  habere  in  templis  quae  animos  a  meditatione  religionis  ad 
varia  sensus  illectamenta  et  amoenitates  avertant  non  convenit  ».  De  re  aedific,  ed.  cit.,  e.  125  a. 


±6  capi  roLO  u 


scimento.  Non  giudico  il  valore  di  queste  rappresentazioni,  alcune  delle 
quali  vere  opere  d*arte ;  credo  che  l'idea  di  così  sfarzosa  decorazione,. 
se  potè  essere  ispirata  da  Sigismondo  e  da  Isotta,  studiosa  di  storia 
e  di  filosofìa,  non  lo  fu  certo  dall'Alberti,  la  cui  opera  si  limitò  al  rive- 
stimento esterno  e,  se  le  vicende  della  politica  italiana  ne  avessero 
permesso  l'attuazione,   al  coronamento  superiore  del  tempio. 

Dopo  il  22  dicembre  1454  ben  rare  sono  le  notizie  dirette  della 
costruzione,  ed  è  probabile  che  da  quel  tempo  anche  i  lavori  comin- 
ciassero a  procedere  assai  lentamente.  La  stella  di  Sigismondo  decli- 
nava :  il  tradimento  che  proprio  nel  1454  meditò  ai  Senesi  gli  attirò 
l'odio  di  chi  era  allora  un  semplice  sacerdote  ma  che  fu  pochi  anni 
dopo  pontefice  potente,  Pio  II,  e  l'odio  del  Papa  di  casa  Piccolomini 
fu  la  rovina  di  Sigismondo;  travolto  per  molti  anni  dagli  avvenimenti 
ed  obbligato  a  difendere  la  sua  città  e  la  sua  vita  da  numerosi  nemici,, 
egli  non  ebbe  né  il  tempo  né  i  mezzi  per  far  proseguire  come  avrebbe 
voluto  l'opera  che  fu  però  sempre  uno  dei  pensieri  più  costanti  e  più 
gloriosi  della  sua  esistenza.  Del  giugno  1455  è  una  convenzione  a  noi 
pervenuta  per  l'acquisto  dei  marmi  che  dovevano  servire  alle  balaustrate 
delle  cappelle;1  nel  1461  Sigismondo  concesse  dei  privilegi  a  tutti  co- 
loro che  lavoravano  al  tempio,  il  23  aprile  1466,  redigendo  il  suo  te- 
stamento, stabilì  che  i  suoi  beni  fossero  adoperati  per  il  compimento 
della  costruzione;2  e  finalmente,  quando  il  7  ottobre  1468  l'inerzia  alla 
quale  il  Pontefice  lo  aveva  obbligato  lo  condusse  alla  tomba,  gli  ultimi 
suoi  pensieri  furono  per  Isotta,  la  bella  e  saggia  Isotta,  che  gli  era 
sempre  stata  fedele  e  degna  compagna  nella  travagliata  sua  vita,  e  per 
la  chiesa  ove  le  loro  iniziali  intrecciate  e  le  loro  tombe  vicine  avreb- 
bero ricordato  ai  posteri  l'amore  e  il  desiderio  di  gloria  che  li  avevano 
insieme  infiammati. 

Per  veder  compiuta  quella  chiesa,  mausoleo  dei  Malatesta,  Si- 
gismondo aveva  cercato  con  sacrifici  o  con  violenze  di  superare  tutte 
le  difficoltà,  principalmente  la  mancanza  di    materiale.    Non   saprei   se 


1  Riportata  da  C.  Yriarte,  op.  cit.,  pag.  398. 

1  «  Item  reliquit,  voluit,  iussit  et  mandavit  quod  sumptibus  suae  hereditatis  fiant  continue 
laborari  ad  templum  Sancti  Sigismundi  juxta  possibilitatem  suae  hereditatis  ».  Yriarte,  op.  cit., 
pag.  251. 


IL    TEMPIO    MALATESTIANO  47 

ammirare  il  suo  ardore  nel  non  permettere  interruzioni  alla  nuova  fab- 
brica o  se  piuttosto  rimproverargli  il  suo  cieco  entusiasmo  che  non  gli 
fece  rispettare  tanti  monumenti  antichi  e  gloriosi  :  il  vetusto  porto  di 
Rimini  e  quello  non  meno  celebre  di  Classe  presso  Ravenna,  la  chiesa 
di  S.  Apollinare  in  questa  città  e  perfino  alcuni  edifici  dell'arcipelago 
greco  fornirono  le  loro  pietre  e  i  loro  marmi,  per  volontà  imperiosa 
del  signore,  al  rinnovamento  del  tempio.  Sigismondo  volle  che  in  esso 
fossero  celebrate  solenni  funzioni  durante  l'anno  del  giubileo,  il  1450, 
con  una  specie  di  inaugurazione  provvisoria  della  quale  rimase  il  ri- 
cordo nella  bella  medaglia  di  Matteo  dei  Pasti,  prezioso  documento 
sebbene  contenga  qualche  variante  arbitraria  del  medaglista,  e  nel- 
T  indicazione  di  quell'anno  che  in  tutta  la  chiesa  si  ripete  insistente- 
mente accanto  al  nome  del  mecenate.  Ma  i  lavori,  già  ad  un  buon 
punto  nell'interno,  erano  appena  incominciati  all'esterno,  come  risulta 
dai  documenti  citati,  e  il  monumento,  che  nella  fervida  immaginazione 
del  condottiero  riminese  doveva  esser  compiuto  neh'  anno  sacro  alla 
fede  ed  al  perdono,  rimase  poi  violentemente  troncato  quando  il  Pon- 
tefice cercò  di  piegare  e  troncò  l' esistenza  inflessibile  del  Malatesta. 
Così  l'idea  geniale  che  aveva  ispirato  il  rifacimento  della  gotica  chiesa 
rimase  inattuata,  e  Sigismondo  ed  Isotta  non  riposano  circondati  dai 
loro  glorificatori,  perchè  di  questi  quattro  soltanto  morirono  così  presto 
da  poter  essere  collocati  presso  ai  signori  che  li  avevano  protetti,  nella 
fiancata  destra  del  tempio;  e  nel  lato  sinistro  le  forti  arcate  non 
ricevettero  i  massicci  sarcofagi.  Rimase  inadempiuta  l'esecuzione  della 
facciata,  la  quale,  così  come  è  oggi,  produce  un'impressione  di  pe- 
santezza che  non  aveva  certo  il  disegno  dell'Alberti,  tanto  è  vero  che 
essa  vien  tolta  da  qualsiasi  tentativo,  anche  men  felice,  di  completa- 
mento della  parte  superiore. 

«  L'Alberti  artista  ci  volle  la  leggiadra  potenza  dell'arte;  Sigismondo 
innamorato  il  fuoco  dell'amore;  entrambi  colti  e  desiosi  di  gloria  la 
suprema  idealità  della  cultura  classica  e  dell'umanesimo».1  Così  Cor- 
rado Ricci  riassume  i  caratteri  fondamentali  di  quest'opera,  che  è,  per 
unanime  consenso,   una  delle   più    interessanti    e    pregevoli   del  nostro 


1  Corrado  Ricci,  L.  Battista  Alberti.  Conferenza.  Rimini,  1904. 


CAPITOLO    li 


Quattrocento.  Con  essa  l'Alberti  compie  la  prima  attuazione  dei  suoi 
studi  eruditi  e  copia  dall'antico  tanto  l'idea  generale  quanto  i  parti- 
colari ;  ma  non  cade  per  questo  in  queir  accademismo  freddo  e  fuor 
di  luogo  nel  quale  cadranno  i  classicisti  del  secolo  seguente,  perchè 
al  risorgimento  delle  forme  antiche  egli  sa  congiungere  la  rievocazione 
di  un'antica  idea,  l'idea  della  gloria.  Lungi  dal  vedere  in  questa 
prima  opera  il  capolavoro  del  nostro  autore,  riconosciamo  col  Mala- 
giizzi-Yaleri  che  forse  nessun'  altra  costruzione  del  nostro  Rinascimento 
presenta  «  una  così  potente  romanità  senza  transazioni  come  il  tempio 


1  F.  Malaguzzi-Valeri,  II  tempio  Malatestiano,  in  "  Secolo  XX"  ",   1903,  p.  460. 


Capitolo  III. 

GLI   EDIFICI   DI   FIRENZE 


CCANTO  al  fiero  ed  ardente  condottiero  di  Rimini  si  presenta 
subito  un  pacifico  mercante  fiorentino:  Giovanni  di  Paolo 
Rucellai.  Egli  non  è  che  uno  dei  tanti  rappresentanti  di 
quella  borghesia  ricca  e  liberale,  specialmente  in  Firenze 
numerosa,  dalla  quale  doveva  uscire  poco  dopo  il  signore  della  città, 
e  non  è  nemmeno  uno  dei  rappresentanti  più  scaltri  e  più  in  vista, 
ma  pure  nella  sua  modestia  profondamente  erudito  e  ricercatore  giu- 
dizioso di  ogni  mezzo  per  accrescere  la  potenza  e  la  gloria  della  sua 
famiglia.  La  figura  di  questo  mercante,  quale  ci  apparisce  dalle  can- 
dide pagine  del  suo  Zibaldone,  ingenua  esposizione  di  tutte  le  sue 
idee  e  di  tutte  le  sue  azioni,  è  del  più  grande  interesse  per  cono- 
scere l'animo  dei  primi  mecenati  del  nostro  Rinascimento  che  hanno 
ancora  l'entusiasmo  semplice  e  puro  per  l'arte,  al  quale  succederà  poi 
la  sfrenata  ambizione.  Giovanni,  che  ha  veduto  nella  lunga  e  rigogliosa 
vita  accrescere  coi  traffici  le  sue  sostanze,  prosperare  nelle  arti  della  pace 
la  sua  città,  aumentare  la  potenza  della  sua  famiglia  col  matrimonio  di 
suo  figlio  Bernardo  con  la  figlia  di  Piero  di  Cosimo  dei  Medici,  è  l'uomo 
ottimista  per  eccellenza.  Lo  abbiamo  veduto  in  principio  ringraziare  il 
Signore  per  averlo  fatto  nascere  in  Firenze  ed  in  quel  periodo  di  tempo; 
ma  la  sua  gratitudine  è  infinita  e  si  rinnova  per  tutte  le  occasioni,  per 
tutti  i  minimi  fatti  della  sua  vita  ;  ad  ogni  bene  pensa  che  poteva  suc- 

Alberti.  .  4. 


50  CAPITOLO    III 


cedergli  un  male,  ad  ogni  male  che  poteva  avvenirgliene  uno  maggiore; 
ò  uomo  e  poteva  nascere  animale,  è  cristiano  e  poteva  nascere  pagano, 
è  civile  e  poteva  nascere  selvaggio.  E  di  tutta  questa  bontà  che  la 
Provvidenza  gli  ha  dimostrato  egli  crede  suo  dovere  rendersi  degno 
adoperando  tutti  i  mezzi  di  cui  dispone  per  il  suo  perfezionamento 
civile  e  morale  ;  in  tal  guisa  la  religione  diviene  per  lui  impulso  a  nobi- 
litare, ad  educare  lo  spirito.  Così  per  le  ricchezze  :  grazie  infinite  egli 
rivolge  all'  Onnipotente  per  averle  potute  raccogliere,  ma  a  che  cosa  ser- 
vono esse  per  chi  non  le  sappia  bene  spendere?  E  Giovanni  è  lieto 
di  poter  ringraziare  il  Signore  per  avere  ottenuto  anche  il  dono  di 
saper  spendere  bene  i  suoi  denari.  «  E  credo  che  m'abbi  fatto  più  onore 
l'averli  bene  spesi  ch'avergli  guadagnati  e  più  contentamento  nel  mio 
animo  e  massimamente  delle  muraglie  eh'  io  ho  fatte  della  casa  mia  di 
Firenze....,  della  facciata  della  chiesa  di  S.  Maria  Novella  e  della  loggia 
principiata  nella  Vigna  dirimpetto  alla  casa  mia.  E  ancora  della  cap- 
pella del  Santo  Sepolcro  a  similitudine  di  quello  di  Gerusalem  del 
Nostro  Signore  Jesu  Cristo  fatto  fare  in  Santo  Brancazio  ».1 

Nessun  documento  e  nessuno  scrittore  del  Quattrocento  fa  il  nome 
dell'autore  di  questi  edifici;  una  tradizione  che  risale  al  Vasari  li  at- 
tribuisce invece  tutti  quanti  all'Alberti  e  questa  tradizione  rimase  inin- 
terrotta fino  a  poche  diecine  di  anni  or  sono  quando  gli  studiosi  tede- 
schi vi  esercitarono  la  loro  critica  e  sollevarono  dei  dubbi  specialmente 
intorno  al  più  importante  di  essi,  il  palazzo  Rucellai  (fig.  6).  Le  strette 
relazioni  di  stile  che  esistono  fra  questo  palazzo  e  quello  eretto  in  Pienza 
per  incarico  di  Pio  II  da  Bernardo  Rossellino  furono  la  prima  causa  di 
tali  dubbi  ;  1'  indicazione  di  un  antico  cronista  dell'arte  fu  poi  il  mo- 
vente che  spinse  alcuni  a  passare  dal  dubbio  alla  certezza  che  il  palazzo 
della  ricca  famiglia  fiorentina  fosse  opera  del  Rossellino.  Il  libro  di  An- 
tonio Billi  dice  di  fatto  che  «  Bernardo  architettore  fece  il  modello  della 
casa  de  Rucellai  »,2  ma  si  sa  bene  che  non  è  questa  una  fonte  tale  da 
doversi  seguire  ciecamente  e  tanto  meno  in  questo  punto  dove  l'autore, 


1  Giovanni  Rucellai,  Zibaldone,  pubblicato  in  piccola  parte  dall'avv.  G.  Marcotti,  Un  mer- 
cante fiorentino  del  sec.  XV,  pag.  47. 

2  Cornel  von  Fabriczy,    //  libro  di  Antonio  Billi  e   le  sue  copie  nella  Biblioteca  Nazio- 
nale di  Firenze,  in  Archivio  storico  Hai.  Serie  V,  tomo  VII,  pag.  322. 


(Fot.  Alinari). 


Fig.  6. 


Firenzi-:.  —  Palazzo  Rucellai 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE  53 


che  scriveva  circa  settant'anni  dopo  la  costruzione,  potè  lasciarsi  esso 
pure  ingannare  dalla   somiglianza  col  palazzo  Piccolomini.1 

La  questione  che  merita  di  esser  risolta  prima  ancora  di  quella  del- 
l'autore è  la  questione  della  data.  Il  più  antico  ricordo  del  palazzo  ci 
è  dato  dal  Filarete,  il  quale  nel  suo  trattato  di  architettura,  composto 
intorno  al  1460,  lo  dice  fatto  «nuovamente»;2  indicazione,  come  si 
vede,  ben  vaga  ma  che  ha  accontentato  la  massima  parte  dei  critici, 
fino  allo  Stegmann  e  al  Geymùller,  che  fanno  così  risalire  il  palazzo  al 
periodo  1455-60.  È  merito  di  Iodoco  Del  Badia  di  avere  indicato  una 
fonte  di  notizie  più  esatta  ed  autorevole  :  le  denunzie  dei  beni  agli  Uf- 
ficiali del  Catasto.3  Scorrendo  queste  denunzie  si  vede  che  nel  catasto 
del  1446  Giovanni  Rucellai  si  affermava  possessore  di  tre  case  conti- 
gue in  Via  della  Vigna  e  di  più  annunziava  di  aver  comprato  accanto 
ad  esse  un  pezzo  di  terreno;4  nel  catasto  del  1451  è  invece  denun- 
ziata una  sola  casa  in  Via  della  Vigna  e  non  si  parla  affatto  di  altro 
terreno.5  Questo  dimostra  che  nel  1451  il  grande  palazzo  sorto  sul- 
l'area di  diverse  case  della  famiglia  Rucellai  era  già  costruito  o  almeno 
in  condizioni  tali  da  poter  essere  abitato,  e  siffatta  indicazione  viene  in 
parte  confermata  anche  dal  libro  di  ricordi  di  Neri  di  Bicci,  il  quale, 
nel  giugno  del  1455,  annotava  di  aver  eseguito  nella  casa  di  Giovanni 
Rucellai  alcuni  affreschi;  prova  che  i  lavori  costruttivi  erano  già  ter- 
minati.6 L'edificio  di  via  della  Vigna  risale  dunque  agli  anni  1447-145 1 
ed  è  contemporaneo  ai  lavori  del  tempio  Malatestiano:  vediamo  quanto 
la  determinazione  della  data  ci  può  giovare  per  la  determinazione  del- 
l'autore. 

Il  palazzo  Rucellai  palesa  lo  studio  dei  monumenti  classici,  spe- 
cialmente romani  ;  coloro  che  ne  attribuivano  il  merito  esclusivamente 


1  Non  sarebbe  poi  questo  l'unico  errore  del  Billi  anche  per  lavori  a  lui  egualmente  vicini: 
egli  attribuisce  a  Donatello  l'«  occhio  di  vetro»  della  facciata  del  Duomo  del  quale  invece  il  Ghi- 
berti  parla  nei  suoi  Commentari  come  opera  propria,  dà  a  Desiderio  il  monumento  della  Beata 
Villana  che  è  invece  del  Rossellino  (1451)  ed  al  Verrocchio  la  Madonna  del  Mausoleo  di  Carlo 
Marsuppini  che  risale  evidentemente  al  medesimo  autore  di  tutto  il  monumento  (1455). 

-  Codice  Magliabechiano-palatino,  372,  e.  Si. 

3  Vedi  Raccolta  delle  migliori  fabbriche  antiche  e  moderne  di  Firenze.  Firenze,   1876,  pag.  1. 

i  Archivio  di  Stato  di  Firenze.  Portate  del  Catasto.  Quartiere  di  S.  Maria  Novella.  Gonfa- 
lone del  Lion  Rosso,  n.  670. 

•'>  Archivio  di  Stato  di  Firenze.  Id.  id.  n.  707. 

6  Libro  di  ricordi  di  Neri  di  Bicci  dipintore.  Galleria  degli  Uffizi,  e.  12  a. 


54  CAPITOLO    111 


o  prevalentemente  al  Rossellino,  portando  la  costruzione  a  dopo  il  1455 
spiegavano  quel  classicismo  come  conseguenza  dei  quattro  anni  che 
Bernardo  passò  alla  Curia  pontificia  (1451-1455);  ma  prima  del  1451 
non  abbiamo  nessuna  notizia  di  una  sua  dimora  a  Roma  e  scemano 
perciò  di  molto  le  probabilità  che  egli  abbia  ideato  l'elegante  costru- 
zione del  patrizio  fiorentino.  D'altra  parte  non  bisogna  dimenticare  che 
Giovanni  Rucellai,  l'ordinatore  del  palazzo,  era  strettissimo  amico  del 
nostro  Alberti  ;  niente  di  più  naturale  che  quando  gli  venne  Y  idea  di 
rifare  suntuosamente  la  sua  casa  ne  parlasse  prima  che  ad  altri  a  Bat- 
tista, al  quale  lo  univa,  oltre  un'antica  relazione  di  famiglia,  l'accordo 
perfetto  di  sentimenti  e  di  pensieri  nelle  principali  questioni  che  agi- 
tavano la  vita  del  tempo  ;  niente  di  più  naturale  che  l'Alberti,  il  quale 
in  quel  periodo  dedicava  tutta  la  sua  attività  agli  studi  di  architettura, 
non  si  lasciasse  sfuggire  una  così  bella  occasione  per  farsi  onore  ed 
eseguisse  all'amico,  per  dimostrare  la  sua  abilità,  il  disegno  del  palazzo. 
Non  rimarrebbe  questa  che  una  semplice  ipotesi  se  altri  argomenti  non 
ci  facessero  passare  dal  dubbio  alla  certezza  anche  senza  tener  conto  del 
Vasari  e  della  tradizione. 

Poniamo  prima  di  tutto  i  raffronti  stilistici,  punto  fondamentale  di 
coloro  che  attribuiscono  il  lavoro  al  Rossellino.  Il  palazzo  Rucellai  pre- 
senta per  la  prima  volta  in  facciate  di  edifici  profani  un  elemento  che 
avrà  poi  grande  importanza  nell'arte  :  il  pilastro.  Questa  innovazione 
non  solo  deriva  dallo  studio  dei  monumenti  romani,  studio  che  nes- 
suno aveva  fatto  come  l'Alberti,  ma  per  la  sua  genialità  è  certo  il 
frutto  di  una  mente  indagatrice  e  inventiva  quale  era  quella  dell'Al- 
berti, che,  specialmente  in  questo  tempo,  aveva  fissa  l' idea  di  ripetere 
nell'architettura  moderna  le  forme  dell'antica.  Il  Rossellino  invece,  ar- 
chitetto e  scultore  equilibrato  e  corretto  quanto  altri  mai,  non  dà  la 
idea  di  uno  spirito  molto  fecondo  e  innovatore;  ma  sopra  tutto  non 
esprime  nelle  sue  opere  architettoniche  (eccettuato  il  Mausoleo  del 
Bruni  ove  ha  pure  la  sua  importanza  la  scultura)  quella  gentilezza, 
quella  sveltezza  che  sono  il  pregio  precipuo  del  palazzo  Rucellai;  di 
questo  egli  imitò  nel  suo  palazzo  Piccolomini  di  Pienza  (fig.  7)  le 
linee  principali,  ma  non  seppe  imitarne  la  grazia  ravvivatrice  come 
certo  avrebbe  saputo  se  fosse  stato  l' autore  anche  del  primo,  se  cioè 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE 


55 


a  Pienza  invece  di  una  copia  si  fosse  trattato  di  una  creazione  pa- 
rallela. Ed  inoltre,  esaminando  un  po'  più  da  vicino  i  due  palazzi,  si 
vede  che  le  somiglianze  non  [sono  poi  così  numerose  come  potrebbero 
a  prima  vista  apparire  :  specialmente  le  proporzioni  fra  le  parti  diverse 


Fig.  7- 


Pienza.  —  Palazzo  Piccolomini 
(Bernardo  Rossellino). 


(Fot.  Alinari). 


dei  due  edifici,  punto  fondamentale  in  un'  opera  architettonica,  sono 
assai  differenti  e  tale  differenza  contribuisce  non  poco  a  dare  al  pa- 
lazzo di  Pienza  quel  carattere  di  pesantezza  che  lo  rende  di  tanto 
inferiore  al  prototipo  di  Firenze  ;  infatti  mentre  in  questo  sopra  gli 
archi  delle  finestre  corre  un  tratto  assai  rilevante  di  parete  prima  di 
arrivare  alla  trabeazione  del  piano  superiore,  nel  palazzo  Piccolomini  le 
finestre  sono  pressoché  attaccate  a  tale  trabeazione  che  sembra  pog- 
giare su  di  esse  ed  opprimerle  ;  e  finestre  e  pilastri  sono  qui  assai 
più  radi  e  accrescono  l' effetto  di  gravità  dell'  insieme. 

È  innegabile  d' altra  parte  che  se  fra  i  due  palazzi  esiste  una 
certa  somiglianza  nelle  linee  generali  addentrandoci  nell'  esame  dei 
particolari,  ove  è  talvolta  più  facile  scoprire  la  personalità  dell'artista, 
troviamo  che  nel  palazzo  Rucellai  tutto  ci  allontana  dal  Rossellino  e 
tutto  ci  avvicina  invece  all'Alberti.    Per  quest'esame  debbo   riferirmi, 


CAPITOLO   III 


oltre  che  agli  altri  editici  fiorentini,  anche  a  quelli  che  formeranno  ar- 
gomento del  capitolo  seguente,  cioè  le  chiese  di  S.  Sebastiano  e  di 
S  Andrea  a  Mantova.  Per  esempio  l'ornamento  delle  porte  con  un 
cornicione  assai  sporgente  sorretto  da  due  mensole,  in  mezzo  alle  quali 
risalta  un  grosso  festone  di  foglie,  si  riscontra  tale  e  quale  nella  fac- 
ciata del  S.  Sebastiano,  opera  certa  dell'Alberti,  e  non  negli  edifici  del 
Rossellino  ;  i  capitelli  dei  pilastri  del  piano  terreno  sono  simili  a  quelli 
della  parte  superiore  di  S.  Maria  Novella  e  delle  cappelle  di  S.  Andrea; 
l'uso  così  misurato  e  sapiente  del  fregio  che  corre  in  un  motivo  con- 
tinuo lungo  la  facciata  è  comune  a  tutte  le  opere  dell'Alberti,  mentre 
non  si  trova  in  quelle  del  Rossellino.  Altre  relazioni  potremo  osser- 
vare nella  descrizione  del  palazzo  ;  altre  notizie  possiamo  intanto 
rilevare  entrando  in  un  nuovo  ordine  di  indagini  :  le  citazioni  degli 
eruditi. 

Il  Pozzetti,  nel  suo  dottissimo  elogio  di  L.  Battista  Alberti,  afferma 
di  aver  trovato  nell'archivio  «  dell'ornatissimo  Sig.  Cav.  Priore  Giovanni 
Orazio  Rucellai  »  alcune  memorie  che,  dopo  aver  descritto  gli  edifici 
fatti  costruire  dal  mercante  quattrocentista,  concludono  :  «  e  tutte  le 
sue  fabbriche  le  faceva  con  la  direzione,  disegno  ed  architettura  del 
nobile  uomo  ed  eccellente  architetto  L.  Battista  Alberti  ».d  Dove  sono 
andate  a  finire  queste  memorie  ?  Non  sappiamo  :  ma  nella  Biblioteca 
Nazionale  di  Firenze  si  conserva  inedito  un  manoscritto  contenente 
delle  notizie  della  famiglia  Rucellai,  manoscritto  che,  sebbene  dei  primi 
del  secolo  XVIII,  deve  richiamare  la  nostra  attenzione  perchè  è  certo 
copia  di  fonti  molto  antiche  e  autorevoli."2  Tutti  i  dubbi  e  tutte  le 
discussioni  cesserebbero  se  potessimo  trovare  nello  Zibaldone  dove 
Giovanni  annotava  i  fatti  principali  della  sua  vita  il  nome  dell'autore 
del  suo  palazzo  ;  ma  lo  Zibaldone,  rimasto  in  gran  parte  inedito  fin- 
ché è  stato  in  Italia,  tanto  più  rimarrà  chiuso  agli  studiosi  ora  che 
gli  eredi  del  Comm.  Tempie-Leader,  antico  proprietario,  se  lo  sono 
portato  a  Londra.  Per  fortuna  confrontando  i  passi  pubblicati  col  ma- 
noscritto Magiiabechiano  ora  ricordato,  si  vede  che  questo  è  in  parec- 


1  Pozzetti,  L.  B.  Alberti  laudatus,  pag.  39. 
-  Codice  Magiiabechiano.  ci.  XXVI,  n.  83. 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE  57 


chi  punti  un  estratto  dello  Zibaldone  :  per  la  parte  che  tratta  degli 
edifici  fatti  costruire  da  Giovanni  Rucellai  la  cosa  non  ammette  alcun 
dubbio;  subito  dopo,  come  nello  Zibaldone,  si  parla  delle  nozze  di 
Bernardo  con  Nannina  dei  Medici  e  tutto  il  passo  vien  chiuso  da  que- 
sta affermazione  :  «  come  diffusamente  vien  descritto  in  un  libro  ma- 
noscritto di  memorie  di  casa  Rucellai  favoritomi  da  messer  Francesco 
di  tal  casa  ».  Nel  codice  Magliabechiano  si  descrive  la  loggia  ripor- 
tando le  parole  medesime  dello  Zibaldone  che  citeremo  fra  breve  poi- 
ché per  fortuna  l'avv.  Marcotti  le  ha  pubblicate  e  si  soggiunge  :  «  Ar- 
tefice ne  fu  L.  Battista  Alberti  »  ;  e  subito  dopo  :  «  Il  palazzo  è  disegno 
del  medesimo  Alberti  ».  Queste  parole  saranno  state  aggiunte  dietro 
l'autorità  del  Vasari  dal  copista  del  700?  Non  credo;  il  confronto  col 
Pozzetti  che  da  una  fonte  certo  più  antica  e  diversa  ricavava  un'  iden- 
tica notizia  tende  ad  escludere  tale  ipotesi.1  Non  vi  è  quindi  nessuna 
ragione  per  non  prestar  fede  al  Vasari  quando  ci  afferma  che  l'Alberti 
«  al  Rucellai  fece  similmente  il  disegno  del  palazzo  ch'egli  fece  nella 
strada  che  si  chiama  la  Vigna  e  quello  della  loggia  che  gli  sta  di- 
rimpetto ».2 

Il  Rossellino  può  benissimo  assere  stato  l'esecutore  dei  disegni  di 
Battista,  il  direttore  dei  lavori  di  costruzione;  appena  finito  quel  pa- 
lazzo egli  fu  infatti  chiamato,  forse  per  consiglio  dell'Alberti  medesimo, 
con  l'identico  ufficio  a  Roma  da  Niccolò  V.  Questo  e  non  altro  credo 
indicare  la  notizia  del  Billi  :  egli  non  fece  che  accettare  l' opinione 
generale  che  era  naturalmente  portata  ad  attribuire  il  merito  del  pa- 
lazzo a  chi  era  stato  veduto  dirigerne  la  costruzione,  tanto  più  che 
siffatta  notizia  veniva  d'altra  parte  confermata  dalla  somiglianza  col 
palazzo  di  Pienza.  Quanto  poi  all'ipotesi,  che  Bernardo  neh" eseguire 
il  lavoro  abbia  apportato  modificazioni  importanti  ai  disegni,  rimane 
ipotesi  non  solo  senza  base  di  argomenti  autorevoli,  ma  anche,  dato 
il  carattere  dell'Alberti,   priva  di  verosimiglianza. 

Ho  insistito  nel  determinare  l'autore  del  palazzo  Rucellai,  perchè 
esso,  specialmente  per  la    sua   facciata,    segna    davvero   un  punto  im- 


1  Che  il  Pozzetti  si  riferisse   addirittura  al   ms.  Magliabechiano  non  è  possibile  perchè  cita 
passi  che  in  quello  non  si  riscontrano. 

-  Vasari,    Vite,  ed.  Milanesi,  II,  pag.  541. 


>s  CAPITOLO    III 


poliamo  nello  svolgimento  dell'arte.  Il  Brunellesco,  rinnovando  l'archi- 
tettura, aveva  creato  col  palazzo  Pitti  un  tipo  di  edificio  profano  troppo 
rude,  troppo  austero  per  lo  spirito  colto  e  raffinato  dei  suoi  concittadini  ; 
Michelozzo,  col  palazzo  dei  Medici  oggi  Riccardi,  aveva  cercato  di 
raggentilire  quel  tipo  proporzionando  meglio  le  varie  parti  dell'edificio 
e  diminuendo  le  asperità  delle  bugne  nei  piani  superiori.  L'Alberti, 
oltre  a  completare  questa  modificazione  rendendo  lisce  le  bozze  di  tutti 
i  piani,  introduce  l' innovazione  già  ricordata  :  i  pilastri.  Così  con  tre 
passi  giganteschi  dal  palazzo  che  ha  ancora  i  caratteri  della  fortezza 
medievale  si  giunge  al  palazzo  che  esprime  tutta  la  grazia  ed  eleganza 
della  società  del  Rinascimento. 

Un  rapido  raffronto  fra  il  palazzo  Riccardi  (fig.  8)  e  quello  Ru- 
cellai  ci  permetterà  di  stabilire  la  diversità  di  effetto  estetico  derivata 
dal  nuovo  elemento  introdotto  dall'Alberti  :  all'importanza  dei  vani,  gran- 
dissima dove  le  pareti  sono  pressoché  lisce,  si  sostituisce  l' importanza 
delle  parti  piene  ;  invece  della  prevalenza  assoluta  delle  linee  orizzontali 
abbiamo  una  proporzionata  unione  di  queste  con  le  linee  verticali  ;  fra 
un  piano  e  l'altro,  in  luogo  di  una  semplice  linea  di  divisione,  corre 
una  ricca  trabeazione  sostenuta  appunto  dai  pilastri;  il  frastagliamento 
della  facciata  dà  a  tutto  l' insieme  un  aspetto  più  gentile  e  leggiadro. 
Cosimo  dei  Medici,  che  aveva  ancora  dei  nemici  in  Firenze  quando  fece 
costruire  il  suo  palazzo,  sentì  il  bisogno  di  riaffermare  con  questo  la 
sua  potenza  severa  e  minacciosa,  e  Michelozzo,  interpetre  di  tali  sen- 
timenti, dette  alla  sua  arte  gentile  un'austerità  insolita  ma  grandiosa  ; 
Giovanni  Rucellai,  pacifico  cittadino  che  si  adattò  alle  condizioni  del 
tempo  e,  genero  e  seguace  da  prima  di  Palla  Strozzi,  si  fece  poi  par- 
tigiano e  parente  dei  Medici,  ricostruì  più  bella  la  casa  dei  suoi  an- 
tenati solo  per  adornare  con  essa  la  sua  città  ed  il  suo  nome,  e  l'arte 
maestosa  dell'Alberti  si  piegò  ad  esprimere  i  sorrisi  ed  i  complimenti 
del  buon  mercante  suo  amico. 

E  innegabile  inoltre,  e  a  questo  pure  dovette  pensare  l'autore,  che 
il  palazzo  Rucellai  si  presta  più  degli  altri  a  sorgere  in  una  strada 
stretta  quale  era  ed  è  tuttora  via  della  Vigna.  I  pilastri  sono  di  ordine 
diverso  nei  tre  piani  dell'edificio  :  dorici  al  terreno,  ionici  al  primo  piano 
(un  dorico  ed  un  ionico  caratteristici  dell'Alberti),  corinzi  al  secondo,  e 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE 


59 


questa  disposizione,  se  può  mostrare  un  ricordo  dei  monumenti  romani, 
può  anche  essere  frutto  della  semplice  riflessione,  perchè  l'ordine  do- 
rico ha  l'aspetto  più  forte  dell'ionico  e  l'ionico  più  forte  del  corinzio. 
Idea  felicissima  fu  poi  quella  di  non  turbare  con  linee  curve  il  ritmo 


(Fot.  Alinari). 

Fig.  8.     Firenze.  —  Palazzo  dei  Medici,  oggi  Riccardi 
(Michelozzo). 


e  la  severa  maestà  dell'ordine  dorico  del  piano  terreno  :  perciò  le  porte 
sono  rettangolari,  mentre  negli  altri  palazzi  erano  ad  arco,  e  le  pic- 
cole finestre  sono  quadrate.  Ma  nei  piani  superiori,  fra  le  volute  dei 
capitelli  ionici  e  corinzi,  torna  e  ben  si  addice  la  forma  di  finestra  ad 
arco  e  a  bifora  quale  già  Michelozzo  aveva  leggiadramente  fissato  : 
senonchè  la  colonnetta  centrale,  invece  di  poggiare  direttamente  come 


6o  capitolo  in 


nel  palazzo  Riccardi  sui  due  archi  minori,  è  da  essi  separata  per  mezzo 
di  un  piccolo  architrave  che  divide  trasversalmente  tutta  la  finestra; 
anche  questo  particolare  ci  riporta  all'Alberti,  perchè  è  appunto  una 
delle  leggi  architettoniche  più  comuni  in  teoria  quella  che  consiglia  di 
non  far  poggiare  gli  archi  direttamente  sui  capitelli  delle  colonne  o 
pilastri  ;  l' Alberti,  prima  di  ogni  altra  cosa  teorico,  conobbe  questa 
legge  e  l'osservò  poi  sempre  nella  pratica. 

Unico  difetto  che  si  può  rimproverare  alla  facciata  del  palazzo  Ru- 
cellai  è  il  cornicione  invero  troppo  tozzo  e  pesante  in  confronto  alla 
sveltezza  dell'insieme  dell'edificio;  ma  l'autore  si  preoccupò  da  una 
parte  della  strettezza  della  strada  che  non  gli  permise  di  disegnare 
una  cornice  molto  sporgente,  quale  aveva  fatto  Michelozzo,  e  d'altro 
lato,  come  osservò  benissimo  lo  Schumacher,  nelle  dimensioni  di  questa 
cornice  egli  fu  obbligato  a  tener  conto  dei  pilastri  che  aveva  introdotto 
nella  facciata  ed  a  cercare  così  una  specie  di  compromesso  fra  l'altezza 
totale  dell'edificio  e  le  proporzioni  dei  singoli  piani  ;  l  quando  si  tenga 
conto  di  queste  difficoltà  si  dovrà  riconoscere  che  anche  l'ultima  parte 
della  costruzione  rappresenta  un  tentativo  nuovo  e  sufficientemente 
riuscito. 

L'interno  del  palazzo  non  si  allontana  di  molto  dall'ordinamento 
consueto  in  tali  edifici  ;  solo  è  degno  di  nota  che  il  cortile,  con  un 
portico  parecchio  pesante,  non  appartiene  certo  all'Alberti,  perchè  quivi 
gli  archi  poggiano  direttamente  sulle  colonne  e  fa  l'effetto  di  un'opera 
molto  più  tarda. 

Quando  il  13  dicembre  1465  Giovanni  Rucellai  fece  testamento, 
lasciò  la  sua  casa  ai  figli  col  patto  che  né  essi  né  i  loro  discendenti 
potessero  «  né  venderla,  né  impegnarla,  né  testarla,  né  appigionarla,  né 
alienarla  »  ;  per  loro  egli  l'aveva  fatta  erigere  così  bella,  lieto  che  essa 
loro  ricordasse  un  giorno  la  potenza  e  la  liberalità  del  fondatore. 

Strettamente  unita  al  palazzo  Rucellai  è  la  piccola  loggia  che  le 
sorge  di  fronte  (fig.  9):  il  libro  di  Antonio  Billi  l'attribuisce  ad  un 
Antonio    di   Migliorino   Guidotti    confondendo    evidentemente   l'autore 


1  Fritz  Schumacher,  L.  B.  Alberti  und  seme  Bauten.  Berlino,  1899,  pag.  17. 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE 


61 


del  disegno  col  suo  esecutore;  le  testimonianze  che  abbiamo  citato  a 
proposito  del  palazzo  ed  i  raffronti  stilistici  indicano  invece  l'Alberti 
come  autore  anche  di  questa  loggia.  Di  essa  troviamo  ricordo  nello 
Zibaldone  :  «  Ugolino  di  Francesco  d'Ugolino  di  Nardo  Rucellai  sendo 
vecchio  d'età  d'anni  ottanta,  per  mio  conforto  e  d'altri  di  casa  nostra 


Fi£ 


Firenze. 


Loggetta  Rucellai. 


fece  donazione  inter  vivos  a  me  Giovanni  di  Pagolo  di  messer  Pagolo 
Rucellai  ricevente  per  tutta  la  famiglia  Rucellai  d'una  bottega  sotto  la 
casa  sua  dove  al  presente  sta  a  pigione  Domenico  Canacci  legnaiuolo, 
per  mano  di  ser  Antonio  di  Salomone  notaio  fiorentino  sotto  dì 
29  d'aprile  1456  perchè  vi  si  faccia  una  loggia  per  onore  della  nostra 
famiglia  per  aoperarla  per  le  letizie  e  per  le  tristizie  e  che  ciascuno 
de'  Rucellai  possa  murarla  e  adornarla  quando  tutti  non  volessino  con- 
correre alle  spese».1  Nel  1464  i  lavori  erano  principiati2  e  nel  1466, 
per  le  solenni  nozze  di  Bernardo  Rucellai  con  Nannina  di  Piero  dei  Me- 
dici, erano  già  compiuti. 


1  Margotti,  Zibaldone  di  Giovanni  Rucellai,  pagg.  66-67. 

-  Vedi  passo  dello  Zibaldone  riportato  in  principio  del  presente  capitolo. 


Sa  capi  roLO  in 


La  Loggia  è  semplicissima  come  tutte  le  costruzioni  di  simil  genere, 
conni  ni  specialmente  nel  Trecento.  La  fronte  ha  tre  arcate  mentre  i 
lati  ne  hanno  una  sola;  agli  angoli  stanno  pilastri  corinzi  e  gli  archi 
sono  sostenuti  da  colonne  pure  corinzie;  sui  capitelli  dei  pilastri  e  sul 
centro  degli  archi  poggia  una  trabeazione  che  ha  il  fregio  ornato  con  i 
consueti  emblemi  della  famiglia  Rucellai.  Forse  un  giorno  la  tettoia 
doveva  essere  molto  più  sporgente,  ma  l'aspetto  dell'edificio  è  oggi 
del  tutto  cambiato:  la  loggia  è  murata,  l'interno  è  diviso  in  due  piani; 
a  terreno  vi  è  un  ufficio  postale  e  telegrafico  ;  chi  lo  avrebbe  mai  detto 
a  messer  Giovanni  di   Paolo  Rucellai  ? i 

Non  credo  però  che  si  debba  dare  soverchia  importanza  a  questo 
piccolo  lavoro  dell'Alberti  come  ad  un  altro  eseguito  per  commissione 
del  medesimo  signore,  la  cappella  del  S.  Sepolcro  nella  chiesa  di  S.  Pan- 
crazio. Anche  un  superficiale  raffronto  fra  l'architettura  di  questa  cap- 
pella e  quella  della  facciata  della  chiesa  (facciata  ancora  esistente  seb- 
bene l'interno  sia  ridotto  a  R.  Manifattura  di  tabacchi)  dimostra  che 
lo  stile  è  identico  e  che  perciò  l'Alberti  non  vi  ebbe  nessuna  parte. 
Egli  fece  invece  con  ogni  probabilità  il  tempietto  centrale,  il  quale, 
secondo  il  desiderio  del  committente,  doveva  somigliare  il  sepolcro  di 
Cristo  in  Gerusalemme;  da  una  lettera  di  Giovanni  Rucellai  esistente 
in  copia  nel  codice  Magliabechiano  ricordato  in  principio  apparisce  che 
egli  mandò  effettivamente  in  Terra  Santa  due  navi  con  un  ingegnere 
e  diversi  uomini  «  per  pigliare  il  giusto  disegno  e  misura  del  Santo  Se- 
polcro di  Nostro  Signore  Gesù  Cristo  »,  ma  come  finisse  questa  mis- 
sione non  sappiamo  dal  momento  che  il  tempietto  eseguito  nel  centro 
della  cappella  non  ricorda  neppure  lontanamente  il  Santo  Sepolcro. 

Sembra  piuttosto  il  modello,  piccolo  ma  di  perfette  proporzioni,  di 
un  tempio  greco  :  è  rettangolare,  all'esterno  rivestito  di  marmo,  con 
graziosi  pilastri  scannellati  che  sorreggono  una  bella  cornice.  Si  entra 
nell'interno  per  mezzo  di  una  bassissima  porta  e  su  di  essa  un'iscri- 


1  II  danno  più  grave  e  irreparabile  di  questo  deturpamento  è  stata  la  perdita  degli  affreschi 
rappresentanti  scene  della  vita  di  S.  Benedetto  e  di  Giuseppe  Ebreo,  forse  di  mano  del  Pesellino, 
che  il  Cavalcasene  potè  vedere  e  descrivere  nella  prima  edizione  inglese  della  sua  Storia  della  pit- 
tura, ma  che  pochi  anni  dopo  furono  coperti  di  bianco. 


(Fot.  Alinari). 


Fisr.  io. 


Firenze.  —  Facciata  di  S.  Maria  Novella. 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE  65 


zione  ricorda  che  il  monumento  fu  costruito  nel  1467  ;  tutti  i  parti- 
colari stilistici  ci  riportano  all'architettura  dell'Alberti  che  anche  in  questi 
lavori  di  minore  mole  e  importanza  seppe  manifestare  quei  pregi  che 
porterà  poi  al  più  alto  grado  nelle  opere  più  grandiose. 

L'altra  manifestazione  capitale  della  liberalità  di  Giovanni  Rucellai 
fu  la  facciata  della  chiesa  di  S.  Maria  Novella  (fig.  io).  Anche  per  questa 
ci  troviamo  nelle  identiche  condizioni  che  per  il  palazzo  :  nessun  do- 
cumento e  nessuna  fonte  letteraria  autorevole  ci  parla  della  sua  costru- 
zione e  del  suo  autore.  Il  Pozzetti,  nell'elogio  dell'Alberti  già  ricor- 
dato, riporta  un  passo  di  un  Fra  Giovanni  di  Carlo  fiorentino,  vissuto 
fra  il  1425  e  il  1500,  che  dà  al  nostro  Battista  il  merito  della  fac- 
ciata ; i  ma  piuttosto  che  a  questa  testimonianza  gli  studiosi  hanno  pre- 
ferito di  prestar  fede  a  quella  di  un  altro  frate  domenicano,  Domenico 
Giovanni  da  Corella,  che  in  un  suo  carme  religioso  ricorda  insieme 
alla  facciata  di  S.  Maria  Novella  il  nome  di  Giovanni  di  Bertino  e  ne 
hanno  dedotto  che  questi  fosse  l'esecutore  della  costruzione  ;  altri  poco 
dopo  ne  fecero  addirittura  l'autore.  La  responsabilità  di  tale  attribu- 
zione risale  in  parte  al  Passerini,  il  quale  riportò  il  passo  del  Corella 
a  mezzo;2  ma  se  i  suoi  successori  si  fossero  dati  cura  di  leggere  il 
resto  avrebbero  veduto  che  quivi  Giovanni  di  Bertino  è  lodato  soltanto 
«  per  aver  resa  più  bella  la  facciata  del  tempio  intrecciando  fruttiferi 
rami  intorno  alla  porta  »  ;  in  una  parola,  egli  apparisce  qui  l'autore 
delle  sculture  della  porta  maggiore.3  Si  può  presentare  il  dubbio  e  discu- 
tere se,  oltre  a  queste  sculture,  egli  abbia  anche  diretto  i  lavori  archi- 
tettonici, ma  la  stretta  relazione  che  unisce  la  facciata  di  S.  Maria  No- 
vella agli  altri  edifici  eretti  in   Firenze  dai  Rucellai  e  alle  altre  opere 


1  Pozzetti,  L.  B.  Alberti  laudatus,  pag.  39. 

-  L.  Passerini,  Gli  Alberti  di  Firenze,   1870,  pag.  138. 

'■'•  Ecco  le  parole  del  Frate  domenicano  : 

Hic  quoque  praelucet  Bettini  fama  Johannis 
Arte  sua  tantum  qui  fabricavit  opus, 

Undique  pomiferis  complectens  ostia  ramis, 
Xudaque  sub  vario  marmora  flore  tegens. 

Unde  sit  eiusdem  facies  conspectior  aedis 
Sculptoris  studio  sic  renovata  probi. 

Dominici  Johannis,   Theolocon,  in  Lami,  Deliciae  eruditorum,  XII,  98. 
Alberti. 


66  CAPITOLO    III 


disegnate  dall'Alberti  non  permette,  a  parer  mio,  di  supporre  che  Gio- 
vanni sia  stato  l'architetto  di  questa  tacciata  e  neppure  che  egli  abbia 
avuto  nella  eostruzione  un  merito  «  per  lo  meno  così  grande  quanto 
quello  dell'Alberti».1  Specialmente  la  porta  maggiore  ha  tali  affinità 
con  la  porta  del  tempio  Malatestiano  da  un  lato  e  con  la  porta  del 
S.  Andrea  di  Mantova  dall'altro  che  non  è  possibile  attribuirla  ad  autore 
diverso  ;  e  bisogna  non  conoscere  il  carattere  riero,  attivo,  individua- 
lista dell'Alberti  per  poter  supporre  che  egli  si  sia  contentato  di  fare 
il  disegno  di  una  sola  parte  dell'edificio  o  che  abbia  permesso  che  altri 
modificassero  il  suo  modello. 

Fin  dal  1448  Giovanni  Rucellai  destinava  le  rendite  dei  suoi  pos- 
sessi di  Poggio  a  Caiano  per  la  costruzione  della  facciata  di  S.  Maria 
Novella  ; 2  i  lavori  non  cominciarono  però  che  parecchio  tempo  dopo 
e  furono  compiuti,  se  dobbiamo  prestar  fede  all'  iscrizione  del  fregio 
superiore,  nel  1470.  Molti  anni  si  persero  senza  dubbio  nelle  tratta- 
tive con  le  famiglie  proprietarie  dei  sei  avelli  o  tombe  che  già  al  tempo 
del  Boccaccio  si  trovavano  alla  base  della  facciata;  è  evidente  che 
l' idea  del  Rucellai  e  dell'architetto  era  di  abbattere  tutto  ciò  che  vi 
fosse  di  vecchio  per  rifare  un  lavoro  artisticamente  organico  e  con- 
corde ;  ma  quelle  famiglie  non  vollero  turbare  il  sonno  dei  loro  cari 
che  dormivano  negli  avelli  ed  alla  fine  mecenate  ed  artista  dovettero 
piegarsi  a  lasciare  intatta  la  parte  già  esistente. 

Bisogna  riconoscere  d'altra  parte  che  l'Alberti  non  si  lasciò  affatto 
preoccupare  dallo  stile  e  dalle  linee  dei  suoi  predecessori;  come  nel 
tempio  Malatestiano  egli  non  tenne  qui  nessun  conto  del  carattere  go- 
tico della  chiesa,  come  non  tenne  conto  degli  archi  acuti  che  copri- 
vano gli  avelli  e  le  porte  laterali  e  dei  piccoli  archi  sostenuti  da  esili 
pilastri  ad  imitazione  di  S.  Giovanni,  con  i  quali  un  altro  artista  aveva 
voluto  adornare  una  parte  di  quella  facciata.  C'era  dunque  già  un  po'  di 
gotico  e  un  po'  di  romanico;  l'Alberti  vi  gettò  l'impronta  della  sua 
arte,  arte  del  pieno  Rinascimento,  e  per  alcuni  suoi  tentativi  troppo 
audaci  prenunzio  il  barocco;  ben  può  dirsi  che  tutti  gli  stili  sono  rap- 
presentati in  quest'opera  bizzarra  e  piacevole  insieme. 


1  Tale  è  l'opinione  del  Geymuller,  op.  cit.,  pag.  12. 

-  Marcotti,  Zibaldone  di  G.  Rucellai,  ed.  cit.,  pag.  65. 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE 


67 


Il  Rinascimento  naturalmente  predomina  :  quattro  grandiose  colonne 
corinzie  di  marmo  verde  di  Prato,  rafforzate  ai  lati  da  due  pilastri, 
sostengono  una  ricca  trabeazione,  col  fregio  ornato  col  motivo  mede- 
simo del  secondo  piano  del  palazzo  Rucellai,  e  racchiudono  ed  offu- 
scano tutta  la  parte  precedente,  gotica  e  romanica.  In  mezzo  alle  due 


Fig.  11. 


Firenze.  —  S.  Marja  Novella 
Porta  principale. 


colonne  centrali  si  apre  la  porta  principale,  uno  dei  più  rari  gioielli 
dell'architettura  del  Quattrocento  (fig.  11);  due  ricchi  pilastri  corinzi 
racchiudono  l'apertura  che  ha  gli  stipiti  ornati  da  un  leggiadro  tralcio 
di  frutta  e  di  foglie,  essi  sostengono  una  trabeazione  nel  cui  fregio  ri- 
corre il  motivo  del  primo  piano  del  palazzo  Rucellai  (sono  tanto  questo 


68  CAPITOLO    Hi 


che  l'altro  ripetizioni  di  emblemi  della  famiglia  ordinatrice)  e  sono  uniti 
dd  un  grande  arco  con  le  varie  fascie  ornate  e  con  l'archivolto  diviso 
in  lacunari  che  hanno  al  centro  dei  rosoni  di  squisito  lavoro.  Ma  la 
bellezza  di  questa  come  delle  altre  vere  opere  d'arte  sta  nelle  felici 
proporzioni  ilei  diversi  elementi,  nell'armonia  dell'  insieme  che  sfugge 
nella  descrizione  dei  particolari. 

Per  giungere  all'altezza  del  tetto  delle  navate  laterali  l'Alberti  im- 
maginò una  specie  di  ammezzato,  semplicissimo,  con  un  cornicione 
alquanto  sporgente;  e  questo  cornicione,  insieme  a  quello  della  tra- 
beazione inferiore,  segnano  due  violente  linee  orizzontali  che  attraver- 
sano tutta  la  facciata  e  la  dividono  in  due  parti  ampiamente  separate. 
La  parte  superiore  corrisponde  alla  navata  centrale  più  alta  della  chiesa: 
in  essa  ritornano  i  consueti  pilastri  dorici  che  sostengono  un  archi- 
trave, il  fregio  con  l'iscrizione  e  un  frontone  triangolare.  Qui  sopra 
tutto  apparisce  secondo  altri  l'incapacità,  secondo  me  l'abilità  dell'Al- 
berti. Il  grande  occhio  centrale  che  dà  luce  all'interno  non  corri- 
spondeva nel  centro  del  piano  superiore;  era  questa  una  delle  diffi- 
coltà inevitabili  nel  voler  dare  una  facciata  classica  ad  una  chiesa 
gotica,  e  l'Alberti  dovette  appoggiare  il  gran  cerchio  sul  cornicione 
inferiore  con  un  effetto  non  certo  piacevole;  ma  nello  stesso  tempo 
egli  cercò  di  scemare,  di  annullare  1'  importanza  di  questo  cerchio  e 
creò  lateralmente  le  due  ardite  volute  che,  aumentando  l'estensione 
della  parete  e  stabilendo  la  supremazia  delle  linee  curve,  ottengono 
appunto  tale  scopo.  Così  quelle  volute  tanto  discusse  e  biasimate,  delle 
quali  si  è  cercato  per  mare  e  per  terra  un  prototipo  e  nelle  quali  si 
è  visto  il  germe  di  tutta  l'architettura  barocca,  appariscono  un  com- 
penso e,  diciamo  pure  la  parola,  un  ripiego  per  nascondere  un  di- 
fetto inevitabile.  E  come  ripiego  dobbiamo  riconoscere  che  è  ingegnoso 
e  ben  riuscito  ;  si  pensi  all'effetto  che  produrrebbe  la  facciata  se  invece 
di  queste  volute  avesse  la  parte  inferiore  congiunta  alla  superiore  per 
mezzo  dei  due  consueti  semifrontoni,  che  vengono  a  formare  due  trian- 
goli, come  a  S.  Miniato  e  nel  tempio  Malatestiano:  questi  triangoli 
rettangoli  o  dovrebbero  essere  molto  alti,  con  i  cateti  quasi  eguali,  e 
allora  darebbero  all'  insieme  un  aspetto  grave  e  sgraziato  o  altri- 
menti   lascerebbero    fuori    della    loro    linea  la  parte  superiore    dell'oc- 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE  69 


chio   centrale    che   verrebbe  così    ad   essere  messo  in  troppo   spiccata 
evidenza. 

Nel  tempio  Malatestiano  abbiamo  osservato  che  i  caratteri  stilistici 
ci  riportano,  attraverso  all'  imitazione  dell'  arco  di  Augusto,  al  senti- 
mento grandioso  che  ispirò  l'arte  romana  ;  la  facciata  di  S.  Maria  No- 
vella esprime  invece  la  gentilezza  dell'architettura  romanico-toscana  e 
ricorda  infatti  per  parecchi  punti  il  S.  Miniato  che  abbiamo  veduto  tanto 
caro  all'Alberti.  Deriva  certo  dall'esempio  della  parte  preesistente  ma 
ci  avvicina  al  S.  Miniato  il  saggio  alternarsi  del  marmo  bianco  col 
verde  di  Prato  (il  verde  dava  l' idea  del  nero  e  formava  col  bianco 
i  due  colori  cari  ai  domenicani)  che  accresce  l'eleganza  severa  delle 
principali  linee  architettoniche.  Da  Roma  egli  aveva  appresa  la  gran- 
diosità dello  stile  e  l'aveva  manifestata  per  incarico  di  un  principe 
guerriero  ;  in  Firenze  egli  apprese  la  grazia  e  l'adoperò  negli  edifici 
di  un  mercante  pacifico;  l'una  e  l'altra  riunite  in  una  creazione  su- 
prema formeranno  poi  il  magnifico  tempio,  espressione  di  una  Corte, 
di  vita,  di  cultura  del  pieno  Rinascimento. 

Ma  prima  di  parlare  di  questa  e  di  un'altra  chiesa  che  l'Alberti 
costruì  in  Mantova,  debbo  ricordare  l'ultimo  lavoro  che,  appunto  per 
incarico  del  principe  di  questa  città,  Lodovico  Gonzaga  che  impare- 
remo a  conoscere  fra  poco,  egli  disegnò  per  Firenze  :  il  coro  nella 
chiesa  della  SS.  Annunziata  (fig.  12).  Il  convento  dei  Servi  di  Maria 
ci  ha  conservato  molti  documenti  sui  lavori  delle  diverse  parti  della 
chiesa1  offrendo  così  ampio  materiale  a  Willelmo  Braghirolli  quando, 
in  una  rivista  tedesca,  tentò  di  fare  la  storia  della  parte  appunto  che 
c'interessa,  la  tribuna.'2  Dall'importante  articolo  del  Braghirolli  appren- 
diamo, sempre  dietro  la  scorta  di  documenti,  che  quando  i  frati  pen- 
sarono di  abbellire  la  loro  chiesa  con  una  tribuna,  si  rivolsero  primie- 
ramente a  Michelozzo  e  fecero  scavare  e  murare  le  fondamenta  secondo 
un  suo  disegno  ;  non  contenti  poi  dell'opera  sua,  preferirono  un  nuovo 
modello  di  Antonio  Manetti  che  dava  forma  circolare  alla  fabbrica,  e 


1  Archivio  di  Stato  di  Firenze  :  Carte  del  Convento  della  Nunziata. 

2  W.  Braghirolli,  Die  Baugeschichte  der  Tribuna  dcr  S.  Annunciata  in  Florenz,  in  Repert. 
fur  Kunstwis.,   1879,  pag.  260. 


70 


CAPITOLO    111 


nel  1400  cominciarono  i  secondi  fondamenti  obbligati  però  a  sospen- 
dere ben  presto  i  lavori  per  mancanza  di  mezzi.  Allora  il  Marchese 
di  Mantova,  capitano  dei  fiorentini,  li  soccorse  rilasciando  loro  una 
parte  della  paga  a  lui  spettante,  e  quando  i  frati,  dopo  molte  insi- 
stenze, poterono  avere  dal  Comune  questi  denari,  ricominciarono,  se- 
condo un  terzo  disegno,  la  costruzione  che  finalmente  questa  volta 
potè  giungere  alla  fine.  Che  il  terzo  disegno  per  il  coro  della  SS.  An- 
nunziata fosse  compiuto  dall'Alberti 
e  che  ad  esso  corrisponda,  nelle  sue 
linee  fondamentali,  la  forma  odierna 
di  quel  coro,  è  cosa,  malgrado  dubbi 
ed  ipotesi  anche  recenti,  sicura.  Ne 
abbiamo  certezza  da  alcune  lettere, 
pubblicate  dal  Gaye,  di  un  tal  Gio- 
vanni Aldobrandini  che  aveva  un 
suo  modello  da  mandare  avanti  e 
che  perciò  scrisse  ripetutamente  a 
Lodovico  mettendo  in  rilievo  tutti 
i  difetti  contenuti,  secondo  lui,  nel 
disegno  approvato  ed  esprimendo 
la  sua  meraviglia  che  quel  dise- 
gno fosse  opera  di  «  messer  Battista 
degli  Alberti  ».L  Le  lettere  sono 
del  1470  e  da  esse  apprendiamo  che  in  quel  tempo  i  lavori  erano  già 
ad  un  buon  punto;  solo  l'anno  avanti  i  Serviti  avevano  ricevuto  dal 
Comune  i  denari  concessi  dal  Gonzaga. 

I  difetti  principali  messi  in  rilievo  dall' Aldobrandini  sono  quelli 
medesimi  rimproverati  poi  dal  Vasari  e  che  tuttora  sollevano  le  cri- 
tiche degli  architetti  più  scrupolosi:  il  muro  principale  sul  quale  pog- 
gia la  cupola  è  indebolito  da  nove  nicchie,  scavate  nella  sua  grossezza, 
che  costituiscono  delle  cappelle  piccole  quanto  fuor  di  luogo  ;  l'unione 
di  questo  coro  col  rimanente  della  chiesa  per  mezzo  di  un  arco  smi- 
surato è  sgraziata  e  violenta  ;  l'arco  deve  necessariamente  nell'  interno 


Fig.  12.  Firenze. 

Pianta  dell'Abside  dell'Annunziata 


1  Gaye,  Carteggio  inedito  d'artisti,  voi.  I,  pag.  226. 


GLI    EDIFICI    DI    FIRENZE  71 


seguire  la  curva  della  rotonda  mentre  all'esterno  la  parete  è  piana  e 
l'archivolto  viene  così  ad  avere  una  forma  assai  strana;  le  nicchie,  se- 
guendo il  giro  della  parete,  da  certi  punti  sembrano  cadere  all' indie- 
tro. Questi  inconvenienti  ben  conobbero  subito  gli  artisti  fiorentini  e 
furono  tante  le  censure  mosse  al  Gonzaga  per  aver  scelto  quel  mo- 
dello che  egli  un  bel  giorno,  seccato,  scrisse  una  lunga  a  risentita 
lettera  alla  Signoria  fiorentina  avvertendola  chiaramente  che  se  vo- 
leva il  Coro  dell'Annunziata,  il  disegno  era  quello  o  altrimenti  ne  co- 
struisse essa,  a  sue  spese,  uno  più  bello.  La  Signoria  si  affrettò  a 
rispondere  che  lasciasse  parlar  le  male  lingue  e  facesse  proseguire  i 
lavori  in  quell'opera  costruita  «con  tanta  magnificenza  e  dottrina!»1 
La  ragione  per  cui  Lodovico  insisteva  nel  volere  eseguito  il  di- 
segno dell'Alberti  era  la  sicurezza  con  la  quale  questi  rispondeva  alle 
accuse  dei  suoi  oppositori.  Piero  del  Tovaglia,  rappresentante  del  Gon- 
zaga in  Firenze,  scriveva  al  suo  signore:  «  Messer  Batista  dicie  e 
chosì  ha  sempre  detto  che  sarà  più  bella  che  chosa  che  vi  sia,  e  che 
chostoro  nollo  intendono,  perchè  e'  non  sono  usi  a  vedere  simile  chose, 
ma  che  quando  lo  vedranno  fatto  che  parrà  loro  molto  più  bello  che 
la  crocie  ».2  Nuova  era  infatti  la  concezione  dell'Alberti  che  qui  come 
in  tutte  le  altre  sue  opere  ebbe  l' idea  originale  e  volle  tentarne  l'ap- 
plicazione; se  tutti  questi  tentativi  non  sono  egualmente  riusciti,  non 
potremo  poi  fargliene  soverchio  carico  e  mettere  in  campo  la  sua  man- 
canza di  pratica.  Quando  l'Alberti  prese  dal  Pantheon  1'  idea  della  ro- 
tonda con  dei  vani  nella  grossezza  della  parete,  vide  certo  le  difficoltà 
che  presentava  quel  motivo,  specialmente  quando  ad  architravi  soste- 
nuti da  colonne  si  sostituissero  delle  nicchie  ad  arco  ;  ma  il  suo  spi- 
rito inflessibile  non  gli  permise  di  lasciarsi  vincere  da  queste  difficoltà  ; 
il  tentativo  era  audace  e  valeva  la  pena  di  farlo  senza  tener  conto  delle 
piccole  preoccupazioni  che  desta  naturalmente  ogni  idea  nuova,  ogni 
forma  non  mai  tentata.  Prima  di  giudicare  oggi  il  lavoro  bisognerebbe 
sapere  se  l'Alberti  aveva  davvero  pensato  di  coprire  la  tribuna  con 
una  cupola  cieca,  illuminandola  invece  con  delle  finestre  sopra  gli  ar- 


1  Gaye,  op.  cit.,  voi.  I,  pag.  235. 
-  W.  Braghirolli,  op.  cit.,  pag.  27] 


CAPI  rOLO   IH 


chi  dolio  cappello  ;  di  questo  è  lecito  dubitare  dal  momento  che  dopo 
il  1470  i  lavori  furono  sospesi  e  ricominciati  solo  nel  1472,  anno  della 
morto  dell'Alberti;  un'iscrizione  che  occupa  tutto  il  fregio  della  tra- 
beazione porta  la  data  del  1477.  Chi  sa  che  i  difetti  lamentati  non 
fossero  diminuiti  0  nascosti  se  la  luce  provenisse  da  un  unico  punto 
centrale,  una  lanterna  al  culmine  della  cupola  che  riunirebbe  le  varie 
parti  dell'edifìcio  in  un  organismo  più  stretto;  oggi  serve  a  diminuirli 
la   ricca  ornamentazione  barocca  dalla  quale  è  coperta  tutta  la  chiesa. 


Capitolo   IV. 

LE   CHIESE   DI   MANTOVA 


'rf— rr 

— — tf^ct^i' 

1 

no  dei  meriti  principali  di  Giovan  Francesco  Gonzaga,  si- 
gnore di  Mantova,  fu  senza  dubbio  quello  di  affidare  l'edu- 
cazione dei  numerosi  suoi  figli  a  Vittorino  da  Feltre  che 
in  Mantova  fondò  quella  «  casa  giocosa  »,  centro  fecondo 
di  sapienza,  di  educazione,  di  pietà.  Fra  gli  scolari  più  diligenti  di 
questa  casa  era,  insieme  a  Federico  da  Montefeltro  che  fu  poi  Federico 
da  Urbino,  Lodovico  Gonzaga,  figlio  ed  erede  di  Giovan  Francesco. 
Fedele  agl'insegnamenti  del  maestro,  Lodovico,  successo  al  padre,  so- 
stituì al  fasto  lussurioso  della  Corte  mantovana  uno  splendore  più  raf- 
finato e  più  artistico  :  basterebbe  a  sua  gloria  l' aver  egli  protetto  a 
lungo  il  Mantegna  che  volle  nella  città  dei  Gonzaga  la  sua  tomba  ;  si 
aggiungano  altre  azioni  che  lo  rendono  degno  della  riconoscenza  dei 
posteri  e  fra  queste  non  ultima  l'incarico  affidato  all'Alberti  per  i  di- 
segni delle  due  chiese  con  le  quali  volle  adornare  la  capitale  del  suo 
marchesato. 

Pio  II,  salito  contro  l'aspettazione  di  tutti  al  trono  pontificio,  de- 
siderava con  un  gesto  grandioso  di  rendersi  noto  e  temuto  ai  prin- 
cipi d'Europa,  e  come  primo  atto  della  sua  sovranità  convocò  nel  1459 
un  Concilio  a  Mantova  per  organizzare  una  crociata  contro  i  Turchi, 
suprema  e  vana  aspirazione  di  tutta  la  sua  vita.  Con  grandi  feste  e 
con  lusso  inaudito  Lodovico  accolse  il  Pontefice  e  i  principi  che  per 


-.\  CAPITOLO   tV 


pompa  o  per  obbligo  erano  intervenuti  al  Concilio;  era  fra  questi  Si- 
gismondo Malatesta,  lontano  parente  del  Gonzaga,  fiducioso,  con  un 
atto  di  sottomissione  al  Pontefice,  di  conservare  la  supremazia  sulle 
Romagne  :  era  nel  numeroso  seguito  del  Papa  l'Alberti,  noto  ormai 
dovunque  per  le  numerose  sue  opere  letterarie  ed  artistiche. 

L'Alberti  aveva  conosciuto  Giovan  Francesco  Gonzaga,  padre  di 
Lodovico,  al  quale  aveva  anche  dedicato,  con  una  lettera  piena  di  lodi 
e  di  affettuosa  deferenza,  la  redazione  latina  del  suo  trattato  sulla  pit- 
tura; la  sua  dimora  ora  in  Mantova  e  la  presenza  nello  stesso  tempo 
del  Malatesta  sarebbero  certo  bastate  perchè  egli  stringesse  relazione 
col  figlio,  signore  della  città  ;  accadde  inoltre  un  fatto  speciale  per  cui 
si  ebbe  d'un  tratto  bisogno  dell'opera  sua  e  solo  sei  anni  dopo  Lo- 
dovico poteva  raccomandare  Battista  al  Pontefice  con  queste  affettuose 
parole  :  «  Il  venerabile  e  spettabilissimo  messer  Battista  degli  Alberti 
negli  ultimi  anni  ebbe  meco  somma  familiarità,  si  trattenne  molto  presso 
di  me,  né  mancò  mai  di  prestarmi  l'opera  ed  i  servigi  suoi,  per  la 
qual  cosa  me  gli  devo  professare  obbligato  >>.d  Sempre  verso  la  fine 
del  1459  il  Marchese  di  Mantova,  in  seguito  ad  un  sogno,  decise 
di  inalzare  precipitosamente  una  chiesa  a  S.  Sebastiano;  non  vi  era 
tempo  per  andare  a  cercare  un  architetto,  non  ve  ne  era  neppure  per 
raccogliere  i  materiali  fuori  della  città  ;  l' uno  per  fortuna  si  trovò  in 
Mantova  stessa  e  fu  l'Alberti,  gli  altri  vennero  presi  da  un'altra  fab- 
brica in  costruzione.  E  così  il  fedele  cronista  mantovano  del  Quattro- 
cento, lo  Schivenoglia,  potè  l'anno  seguente  appuntare  :  «  Nota  che 
lano  1460  fo  principiato  la  gexia  de  San  Sebastiano  in  di  prade  de 
Redevallo,  la  qual  gexia  la  fece  chomenzare  lo  marchexo  Lodovigo  per 
uno  insonio  chel  se  insonioe  una  note  et  fo  principiata  tanto  in  freza 
che  fo  tolto  predij,  e  giaronij  e  chalcina  che  era  stato  chondute  a  la 
porta  de  la  Pradela  per  livrare  la  racheta  de  quela  porta».2 

L'archivio  Gonzaga  è  ricco  di  documenti  che  riguardano  questa  e 
l'altra  chiesa  ben  più  importante  disegnata  dall'Alberti  per  Lodovico, 
il  S.  Andrea,   ed  uno  studioso  di  cose  mantovane,  Willelmo  Braghirolli, 


1  Archivio  storico  Hai.,  Serie  IV,  voi.  IX,  pag.  12. 

-  Schivexoglia,   Cronaca  di  Mantova,  in  Raccolta  di  cronisti  e  documenti  lombardi,  voi. 
pag.  145- 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA  75 


potè  qualche  tempo  fa  pubblicare  una  lunga  serie  di  lettere  riferentisi 
alle  relazioni  fra  Battista,  gli  esecutori  dei  suoi  disegni  e  il  signore 
di  Mantova,1  e  subito  dopo,  coi  documenti  del  medesimo  archivio,  trat- 
teggiarci la  figura  di  un  artista  che  da  ora  in  avanti  avremo  di  con- 
tinuo presente,  Luca  Fancelli.2  Era  questi,  dal  momento  che  Cosimo 
dei  Medici  lo  aveva  raccomandato  a  Lodovico  Gonzaga,  il  soprainten- 
dente,  come  si  direbbe  oggi,  o  il  capomastro,  come  si  diceva  allora, 
di  tutte  le  costruzioni  che  il  principe  faceva  erigere  in  Mantova  e  nei 
dintorni  ed  in  tale  sua  qualità  egli  fu  il  naturale  esecutore  dei  disegni 
dell'Alberti.  Il  Fancelli  trovò  almeno  per  un  certo  tempo  il  suo  com- 
pito assai  facilitato  in  confronto  dei  suoi  predecessori,  perchè  l'Alberti 
si  trattenne  allora  e  ritornò  poi  più  volte  a  Mantova3  e  potè  così 
sorvegliare  e  informarsi  direttamente  dell'andamento  dei  lavori;  ma 
dalle  lettere  che  ci  rimangono  si  apprende  che  ufficialmente  incaricato 
della  costruzione  era  solo  il  Fancelli,  mentre  Battista  si  riservava  l'au- 
torità di  modificare  o  spiegare  ogni  tanto  i  suoi  disegni. 

Il  22  febbraio  1460  il  modello  di  S.  Sebastiano  era  compiuto  e 
l'Alberti  ne  avvertiva  subito  Lodovico  che  trovavasi  in  quel  momento 
a  Milano;  nel  marzo  si  gettarono  i  fondamenti  ed  il  22  di  maggio  il 
Gonzaga  scriveva  da  Petriolo  ad  un  suo  fidato  di  Mantova  avverten- 
dolo di  voler  essere  continuamente  informato  del  come  procedevano  i 
lavori  del  S.  Sebastiano.4  A  tale  ordine  rispondono  tre  lettere  di  Luca 
«taglia  priete»,  come  egli  si  firmava:  una  dell'agosto  1463  avverte  il 
signore  che,  restaurati  alcuni  muri  di  vecchie  costruzioni,  si  attendeva 
ad  inalzare  la  parte  anteriore  della  chiesa;  un'altra  del  dicembre  dello 
stesso  anno  e'  informa  che  i  lavori  erano  giunti  all'  impiantito  del  piano 
superiore  (la  fabbrica  è,  come  vedremo,  a  due  piani)  ;  da  una  terza 
lettera  del  dicembre  1466  sappiamo  che  in  quel  tempo  si  lavorava 
«  alla  chornixe  che  va  alla  porta  della  volta  del   porticho  ».5   Così  la 


1  Willelmo  Braghirolli,  L.  B.  Alberti  a  Mantova,  in  Archivio  storico  ita!.,  Serie  II 
tomo  IV,  parte  I,  (1869),  pag.  13. 

-  Willelmo  Braghirolli,  L.  Fancelli  scultore,  architetto  e  idraulico  del  sec.  XV,  in  Archh 
storico  lombardo,  anno  II/,  pag.  610. 

3  Ci  stette  fino  alla  metà  del  1460,  vi  tornò  tutto  il  1463,  poi  nel  1465  e  nel  1470. 

4  Willelmo  Braghirolli,  L.  B.  Alberti  a  Mantova,  loc.  cit.,  pag.  20. 
■>  Ivi,  pagg.  20,  21. 


CAPITO]  0    i\ 


chiosa,  che  era  stata  cominciata  con  tanta  frotta,  dopo  sei  anni  ora  ben 
lungi  dall'essere  terminata;  dopo  altri  quattro  anni,  nel  1470,  si  di- 
scuteva ancora  sulla  torma  da  darsi  al  porticato  anteriore,  e  solo  nel 
novembre  di  quell'anno  l'Alberti  potè  rivolgere  una  lettera  a  Lodovico 
per  ringraziarlo  di  aver  finalmente  x  disposto  che  i  lavori  di  S.Seba- 
stiano procedessero  con  maggiore  alacrità  verso  la  fine.  Se  poi  fossero 
davvero  compiuti  non  sappiamo  e,  date  le  presenti  condizioni  dell'edi- 
ficio, è  ben  difficile  determinare;  per  me  non  credo,  dato  che  un'im- 
presa di  ben  maggiore  importanza 
distolse  subito  dopo  l'animo  di  Lo- 
dovico e  che  la  facciata  dà  tuttora 
l'idea  di  qualcosa  di  non  completo. 
Tutta  l'importanza  della  pic- 
cola chiesa  di  S.  Sebastiano  (piccola 
in  confronto  degli  altri  edifici  gran- 
diosi immaginati  dall'Alberti)  sta 
nel  fatto  che  essa  è  il  primo  esem- 
pio nell'architettura  del  Rinasci- 
mento di  una  costruzione  a  pianta 
centrale  o,  per  essere  più  preciso, 
a  croce  greca  (fig.  13).  Non  è  qui 
il  caso  di  fare  un  paragone  fra  la 
croce  latina  e  la  greca  per  dimo- 
strare i  vantaggi  e  la  superiorità  dell'una  o  dell'altra;  ma  è  innegabile 
che  il  sistema  a  croce  greca,  così  suggestivo,  così  organico,  così  armo- 
nioso, ha  sempre  sedotto  le  menti  più  vaste  e  potenti  :  Leonardo,  Bra- 
mante, Michelangiolo  riprenderanno  in  seguito  quel  sistema;  l'Alberti 
ne  dà  intanto  il  primo  esempio.  Peccato  che  questo  primo  esempio 
di  una  forma  di  architettura  tanto  importante  nella  storia  dell'arte  ita- 
liana sia  a  noi  pervenuto  e  sia  mantenuto  ai  giorni  nostri  in  condizioni 
talmente  deplorevoli  che  è  appena  possibile  con  uno  sforzo  d'imma- 
ginazione ricostruire  dalle  brutture  presenti  la  leggiadra  armonia  pri- 
mitiva ! * 


Fig.  13- 


Mantova. 


Pianta  della  Chiesa  di  S.  Sebastiano. 


Dal  1848  la  chiesa  è  ridotta  a  caserma 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA  77 


L'Alberti  aveva  evidentemente  voluto  dare  ali 'edificio  un  carattere 
di  grande  sveltezza  sviluppandolo  molto  in  alto  ;  a  questo  scopo  aveva 
elevato  il  livello  della  chiesa  costruendovi  sotto  un  piano  terreno  a 
guisa  di  cripta  ed  aveva  immaginato  di  coronare  l'edificio,  oltre  che 
con  una  grande  cupola  centrale,  con  due  snelli  campanili  ai  lati  di 
questa  cupola,  come  può  vedersi  dalla  pianta.1  Dei  due  campanili  uno 
o  non  è  mai  stato  costruito  o  è  rovinato;  la  cupola,  parte  essenziale 
in  un  edificio  di  tale  forma,  cadde  e  fu  sostituita  da  un  tetto  a  spio- 
venze  regolari. 

Nel  corpo  principale  si  aprono  i  quattro  bracci  con  volta  a  botte  : 
tre  terminano  con  abside  semicircolare,  il  quarto,  quello  che  corri- 
sponde alla  fronte,  contiene,  sorretta  da  colonne,  un'ampia  cantoria. 
Al  piano  della  chiesa  è  un  vestibolo  illuminato  da  una  serie  di  cinque 
finestre  che  corrispondono  sulla  facciata,  e  per  giungere  a  questo  piano 
l'Alberti  immaginò  una  scala  laterale  con  leggiadro  colonnato,  il  quale 
soltanto,  restaurato  recentemente,  può  darci  un'idea  di  quanta  grazia 
e  quanta  gentilezza  avessero  in  origine  i  disegni  di  questa  costru- 
zione (fig.  14).  La  facciata  invece  (fig.  15),  così  coni'  è,  produce 
l' impressione  di  un  lavoro  incompiuto  ;  sopra  una  serie  di  arcate 
chiuse,  divise  da  semplici  pilastri,  corrispondenti  al  piano  terreno  del- 
l'edificio, si  aprono  le  cinque  finestre  del  vestibolo  alternativamente 
ad  arco  e  ad  architrave,  delle  quali  soltanto  la  centrale  è  ornata  con 
un  cornicione  assai  sporgente,  sorretto  da  mensole  ;  sopra  a  questo 
cornicione  si  inalzano,  con  effetto  estetico  ben  problematico,  due 
piccoli  pilastri  che  giungono  all'architrave  delle  trabeazione  princi- 
pale sostenuta  agli  angoli  da  altri  due  pilastri,  di  ben  maggiore  effetto, 
che  partono  dalla  base  delle  finestre  ;  e  questa  trabeazione  è,  nel  centro 
della  facciata,  interrotta  e  il  vano  vien  chiuso  superiormente  da  un  arco 
il  quale,  almeno  presentemente,  non  raggiunge  altro  scopo  che  quello 
di  sciupare  la  felice  idea  di  terminare  l'edificio  con  un  grandioso  fron- 
tone triangolare. 

Troppo  comodo  sarebbe  attribuire  all'esecutore  del  lavoro,  il  Fan- 
celli, la  colpa  di  tutto  ciò  che  in  esso  troviamo   di   meno   bello   o   di 


1   Che  l'Alberti  avesse  pensato  ad  un  solo  campanile  non  credo  considerando  che  per  lui  legge 
fondamentale  e  imprescindibile  di  una  costruzione  è  la  simmetria. 


7S 


CAPITOLO    IV 


mono  corrispondente  al  nostro  gusto.  L'Alberti  non  permetteva  mo- 
dificazioni ai  suoi  disegni  e  tanto  meno  ne  avrebbe  permesse  in  questa 
chiosa,  sorta,  può  dirsi,  sotto  la  sua  immediata  sorveglianza.  Quando 
Matteo   dei    Pasti   gli   aveva  proposto  di  variare  la  proporzione  di  alcuni 


Fig.  14. 


Mantova. 


LOGGETTA   DI    S.  SEBASTIANO. 


pilastri  nel  tempio  Malatestiano,  egli  aveva  subito  risposto:  «Ciò  che 
tu  muti  discorda  tutta  quella  musica  » ,  proibendogli  la  variazione  ;  per 
questa  ragione  ho  a  lui  attribuito  tutto  il  merito  delle  rare  bellezze 
degli  altri  edifici  da  lui  disegnati  e  per  la  medesima  ragione  è  giusto 
che  faccia  a  lui  risalire  i  difetti,  se  difetti  ci  sono,  di  questa  facciata. 
Dico  «  se  difetti  ci  sono  »,  perchè  è  impossibile  nelle  condizioni  pre- 
senti formulare  un  giudizio  sicuro  e  definitivo  ;   l'Alberti,  tendente  per 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA 


79 


carattere  più  al  grandioso  che  al  grazioso,  voleva  qui  dilettare  l'occhio 
con  la  ricchezza  degli  ornamenti,  dei  quali  pur  troppo  non  rimangono 
che  rarissime  traccie.  Andrea  Mantegna,  che  aveva  la  sua  casa  pn> 
prio  di  faccia  alla  chiesa  di  S.  Sebastiano,  contribuì  all'abbellimento  della 


Fig.  15.  Mantova.  —  Chiesa  di  S.  Sebastiano. 

facciata  con  un  dipinto  che  oggi  conservasi,  assai  deperito,  nel  Museo 
di  Mantova  ; i  più  tardi  il  Mantegna  stesso,  prevedendo  vicina  la  morte, 
volle  acquistarsi  un  posto  per  la  sua  tomba  nella  chiesa  di  S.  Andrea 
per  dormire  l'eterno  riposo  nel  mirabile  tempio  che  il  genio  dell'Al- 
berti aveva   dato  alla  città   dei    Gonzaga. 


1  Rappresenta  la  Madonna  in  trono  circondata  dai  SS.  Fabiano  e  Sebastiano  e  da  Lodovico 
e  Barbara  Gonzaga.  Porta  nel  Museo  il  n.  13. 


SO  CAPI  rOLO    IV 


«  Vorrei  che  il  tempio  avesse  in  sé  tanta  bellezza  da  non  potersi 
pensare  eosa  più  bella;  e  desidero  che  in  ogni  sua  parte  sia  così  di- 
sposto che  coloro  che  vi  entrano  stupiscano  di  ammirazione  e  si  trat- 
tengano a  stento  dall'esclamare  esser  veramente  quel  luogo  degno  di 
Dio».1  Tale  era  per  l'Alberti  teorico  d'arte  l'ideale  della  chiesa  cri- 
stiana e  l'attuazione  di  questo  ideale  era  ancora,  venti  anni  dopo,  la 
suprema  aspirazione  di  lui.  Fino  ad  ora  non  gli  era  capitato  per  edifìci 
sacri  che  di  dover  restaurare  o  completare  costruzioni  preesistenti,  le 
quali,  malgrado  l'indipendenza  e  l'originalità  dell'artista,  venivano  ad 
ostacolare  il  libero  svolgimento  della  sua  abilità  creatrice;  nel  S.  Seba- 
stiano troppo  modeste  erano  le  idee  del  committente  per  poter  eseguire 
i  suoi  piani  grandiosi.  Solo  nell'ultima  sua  opera,  la  basilica  di  S.  An- 
drea, che  egli  non  potè  vedere  neppure  iniziata,  l'Alberti  ebbe  la  piena 
libertà  di  affermare  nella  pratica  quale  era  per  lui  il  supremo  ideale 
per  la  casa  di  Dio  ;  e  con  la  basilica  di  S.  Andrea  creò  il  suo  ca- 
polavoro. 

È  interessante  la  leggenda  che  negli  antichi  tempi  aveva  dato  origine 
a  questa  chiesa  :  Longino,  soldato  romano,  ferì  con  la  sua  lancia  Cristo 
morente  sulla  croce  e  si  macchiò  le  mani  del  sangue  del  Redentore: 
oppresso  dal  rimorso  raccolse  quel  sangue  in  un  vaso  e  si  pose  a 
predicare  pel  mondo  la  nuova  dottrina.  A  Mantova,  dove  egli  giunse 
dopo  lunga  peregrinazione,  trovò  la  morte  per  opera  del  governatore 
di  Tiberio,  ma  prima  di  morire  riuscì  a  nascondere  nell'orto  dell'ospe- 
dale dei  pellegrini  la  sacra  reliquia.  L'apostolo  Andrea  rivelò  poi  la 
esistenza  del  sangue  del  Salvatore  ed  al  suo  nome  fu  dedicato  un 
oratorio  eretto  nel  luogo  dove  si  ritrovò  il  vasello  di  Longino.  Più 
tardi  Beatrice  di  Canossa,  per  festeggiare  la  nascita  di  una  figlia  che 
fu  poi  la  Contessa  Matilde  di  Toscana,  volle  che  nel  luogo  dell'ora- 
torio di  S.  Andrea  sorgesse  ampia  e  ricca  chiesa;  questa  fu  per  lungo 
tempo  officiata  dai  monaci  benedettini  finché,  rilassatasi  la  disciplina, 
il  Pontefice  non  ne  affidò  la  direzione  ad  un  collegio  di  nobili   citta- 


1  -  Velim  quidem  templum  tantum  adesse  pulchritudinis  ut  nulla  speties  ne  cogitari  uspiam 
possit  ornatior  ;  et  omni  ex  parte  ita  esse  paratum  opto  ut  qui  ingrediantur  stupefacti  exhorrescant 
rerum  dignarum  admiratione  vixque  se  contineant  quin  clamore  profiteantur  dignum  profecto  esse 
ocum  Deo  ».  De  re  aedi/.,  ed.  cit.,  e.  122  a. 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA  Si 


dini  con  a  capo  il  vescovo  Francesco  Gonzaga,  figlio  di  Lodovico. 
Il  padre  allora  pensò  di  appagare  un  vivo  desiderio  dei  Mantovani 
facendo  ricostruire  più  magnifico  e  grandioso  il  tempio  dove  si  vene- 
rava il  sangue  di  Cristo.1 

Sebbene  durante  i  lavori  di  S.  Sebastiano  si  fosse  stabilita  una 
stretta  ed  affettuosa  relazione  fra  l'Alberti  e  il  Marchese  di  Mantova, 
non  sembra  che  questi  si  rivolgesse  prima  che  ad  altri  a  lui  per  avere 
i  disegni  della  nuova  chiesa;  certo  prima  di  Battista  fece  un  modello 
Antonio  Manetti,  modello  sul  quale  Lodovico  chiese  il  giudizio  del 
nostro  architetto.  «  Vidi  quel  modello  del  Manetti,  scrive  l'Alberti  nel- 
l'ottobre del  1470;  piaqquemi.  Ma  non  mi  pare  apto  a  la  intentione 
vostra.  Pensai  et  congettai  questo  qual  io  vi  mando.  Questo  sarà  più 
capace,  più  eterno,  più  degno,  più  lieto  ».2  Parole  meritevoli  di  esser 
ricordate  e  che  dimostrano  come  fin  da  principio  l'autore  fosse  con- 
tento dell'opera  sua.  Lodovico  si  affrettò  a  rispondere  all'Alberti  che 
il  suo  disegno,  «  prima  fatie  »,  a  prima  vista,  gli  era  piaciuto  e  che 
appena  ottenute  alcune  spiegazioni  si  sarebbe  proceduto  all'esecuzione; 
ma  siccome  per  buttar  giù  la  vecchia  chiesa  ci  voleva  il  permesso  del 
Papa  e  per  inalzare  la  nuova  ci  voleva  parecchi  denari,  così  passò 
ancora  un  anno  senza  che  niente  fosse  concluso.  Il  giorno  dell'Ascen- 
sione del  1471  si  aprì  una  sottoscrizione  alla  quale  tutti  contribuirono, 
da  Lodovico  all'  ultimo  cittadino  di  Mantova,  e  finalmente  ai  primi 
dell'anno  seguente  il  solito  cronista  potè  con  soddisfazione  annotare  : 
«  Adij  6  de  febraro  1472  fo  chomenzato  a  butar  zoxo  la  gexia  de 
San  Andria  in  Mantova  per  volirla  refare  più  bela  et  questo  prinzipio 
foe  fato  de  dinarij  chera  restato  de  li  ofifertij  che  se  fano  a  la  san- 
sione  (Ascensione).  E  foe  estimato  e  dito  che  perfino  a  anij  22  se 
lavoreria  la  dita  gexia  che  vigniria  finida  de  lano  1494  ».3  S.  Andrea 
fu  invece  compiuto  nel  1782;  tanto  ci  si  può  ingannare  nel  fare  delle 
previsioni  sulla  fine  di  certi  edifici  ! 

La  prima  pietra  del  nuovo  tempio  fu  posta  nel  giugno  del  mede- 
simo anno   1472  ;  ma  frattanto,  ai  primi  di  aprile,  era  morto  a  Roma 


1  Vittorio  Matteucci,  Le  chiese  artistiche  del  Mantovano.  Mantova,  1902,  pag.  10S. 

2  Willelmo  Braghirolli,  op.  cit.,  pag.  14. 
:?  Schivenoglia,  op.  cit.,  pag.  168. 

Alberti.  6 


CAPITOLO   IV 


l'Alberti  torso  ancora  incerto  se  il  grandioso  disegno  da  lui  ideato  sa- 
rebbe staio  eseguito.  Luca  Fancelli,  che  apparisce  qui  come  nel  S.  Se- 
bastiano il  capomastro,  condusse  con  alacrità  i  lavori  finché  (e  non 
era  ancora  passato  un  anno  dal  principio)  non  vennero  a  mancare  i 
mezzi  per  proseguire;  da  questo  momento  cominciò  una  serie  di  len- 
tezze e  di  interruzioni,  delle  quali  ci  rimangono  nell'archivio  Gonzaga 
moltissimi  documenti,  ma  che  troppo  lungo  sarebbe  enumerare,  mentre 
ti' altra  parte  non  ci  fornirebbero  nessuna  notizia  nuova  o  interessante. 
Questo  basti  ricordare  :  che  il  corpo  principale  dell'  edificio  fu  com- 
piuto alla  fine  del  secolo  XVI  e  che  la  cupola  fu  aggiunta  da  Filippo 
Juvara  nel  secolo  XVIII. 

Una  cosa  però  mi  preme  di  porre  bene  in  rilievo  insieme  al  Ritscher, 
un  architetto  tedesco  che  ha  poco  tempo  fa  compiuto  un  accuratissimo 
studio  sulla  chiesa  di  S.  Andrea,1  ed  è  che,  contro  all'affermazione  del 
Geymuller,  il  quale  tende  ad  attribuire  gran  parte  del  merito  di  que- 
sto edificio  al  Fancelli  ed  ai  suoi  successori,2  dai  documenti  risulta  che 
i  disegni  dell'Alberti  furono,  per  quel  che  riguarda  la  struttura  archi- 
tettonica, sempre  rispettati.  Fino  nel  luglio  del  1597,  quando  si  at- 
tendeva alla  costruzione  del  coro,  il  capomastro  teneva  a  dichiarare 
che  quella  costruzione  veniva  fatta  «  conforme  all'antico  disegno  del 
Marchese  Lodovico  secondo  ».3  E  difatti  la  chiesa  presenta  un  insieme 
così  organico  e  così  armonioso  che  non  può  assolutamente  essere  opera 
di  diversi  artisti  ;  idea  nuova  e  non  corrispondente  al  pensiero  dell'au- 
tore è  certo  la  ricca  decorazione  con  la  quale  il  grandioso  tempio  è 
oggi  adornato;  ma  quando  vogliamo  rilevare  i  caratteri  fondamentali 
di  un'opera  architettonica,  non  possiamo  tener  conto  delle  decorazioni 
come  per  giudicare  un  quadro  dobbiamo  fare  astrazione  dalla  cornice; 
solo  gli  artisti  mediocri  si  servono  della  decorazione  come  di  un  ele- 
mento essenziale  per  nascondere  la  mancanza  delle  proporzioni  o  la 
povertà  delle  forme. 

Un  intero  capitolo  è  nelP  «  Arte  edificatoria  »  dedicato  a  stabilire 
gl'intimi   rapporti    che    corrono   fra  l'architettura  e  la  musica,  le  due 


1  E.  Ritscher,  Die  Kirche  S.  Andrea  in  Mantua.  Berlino,  1899. 

-  Geymuller,  L.  B.  Alberti  in  Geschic.  der  Archit.  in  Toscana,   pag.  9. 

3  I.  Donesmondi,  Dell'  istoria  ecclesiastica  di  Mantova,  voi.  II,  pag.  44. 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA 


S3 


arti  sorelle  derivanti  da  un  unico  principio  :  l'armonia.1  L'ima  è  infatti 
fondata  sulla  corrispondenza  delle  linee,  l'altra  sulla  corrispondenza  dei 
suoni,  ambedue  sono  prodotte  dall'accordo  di  elementi  euritmicamente 
disposti  in  modo  da  pro- 
durre quell'effetto  estetico 
che  l'artista  sente  per  pri- 
mo nella  sua  creazione.  La 
chiesa  di  S.  Andrea  è  la 
più  fedele  e  la  più  geniale 
applicazione  di  queste  teo- 
rie. L'Alberti  la  immaginò 
certo  di  getto,  e  mentre  la 
chiesa  di  S.  Sebastiano  dà 
l'impressione  di  un'opera 
studiata  e  ritoccata,  questa 
apparisce  concepita  da  una 
unica  idea  grandiosa,  da 
un  lampo  di  genio  che  solo 
può  produrre  i  capolavori. 
Battista  gettò  il  primo  ab- 
bozzo del  disegno  e  subito 
sentì  di  aver  creato  una 
grande  opera  d'arte:  «  Que- 
sto sarà  più  capace,  più  de- 
gno, più  eterno,  più  lieto». 
La  chiesa  è  a  croce  la- 
tina, ad  una  sola  navata 
(fig.  16);  nel  braccio  prin- 
cipale sono  sei  cappelle  per 
parte,  alternativamente  una 

più  piccola  ed  una  più  grande  ;  nelle  cappelle  piccole  si  entra  per  mezzo 
di  una  porta  modesta  ma  elegante,  quelle  grandi  sono  invece  con- 
giunte al  tempio  con  archi  maestosi  fiancheggiati  da  immensi  pilastri 


Fig.  16.  Mantova. 

Pianta  della  Chiesa  di  S.  Andrea. 


'  E  il  capitolo  VI,  del  libro  IX. 


84 


CAPITOLO   IV 


che  «.la  terra  giungono  lino  alla  trabeazióne  che  corre  intorno  a  tutto 
quanto  l'edificio  e  sul  quale  poggia  la  volta.  Può  essere,  come  vogliono 
alcuni,  che  l'Alberti  abbia  preso  il  motivo  di  alternare  cappelle  di  va- 
rie dimensioni,  unendole  con  sistema  diverso  alle  pareti  della  navata 
principale,  dal  S.  Francesco  di  Rimini  dove  effettivamente  due  cappelle 

sono  congiunte  alla 
chiesa  con  una  porta 
anziché  con  un  arco, 
ma  si  guardi  quale 
felice  effetto  egli  ha 
saputo  ritrarre  da  que- 
sto motivo  :  le  pareti 
del  tempio  non  ven- 
gono più  ad  essere 
costituite  da  una  se- 
rie di  arcate  che  sce- 
mano l'importanza  del 
corpo  centrale  dando 
quasi  l' idea  di  un  edi- 
ficio a  tre  navate,  ma 
hanno  fra  un  arco  e 
l'altro  delle  superficie 
sulle  quali  l'occhio  si 
riposa  mentre  d'altra 
parte  servono  a  dare 
maggior  risalto  alle 
parti  vuote.  Sulla  crociera  dei  quattro  bracci  doveva,  anche  secondo 
il  disegni  dell'autore,  sorgere  una  cupola,  ma  questa  cupola  doveva 
essere  semisferica  e  cieca,  cioè  senza  nessuna  apertura  che  desse  luce 
all'  interno.1  Qui  è  fuori  di  dubbio  che  non  fu  tenuto  alcun  conto  dei 
disegni  dell'Alberti.  Filippo  Juvara  costruì  una  cupola  snella  e  civet- 
tuola, corrispondente  al  gusto  suo  e  del  suo  tempo,  ma  del  tutto  in 
contrasto  con  la  grave,  severa  maestà  dell'  insieme  ;  chi  sa  Battista,  se 


Fig.  17.         Mantova.  —  Interno  di  S.  Andrea. 


Cfr.  D'  Arco  Carlo,  Delle  arti  e  degli  artefici  di  Mantova.  Mantova,  1857,  pag.  15. 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA  85 


l'avesse  veduta,  come  avrebbe  protestato  e  gridato  che  quell'aggiunta 
sciupava  «  tutta  quella  musica  !  » 

Bella  come  un'armoniosa  frase  musicale  egli  aveva  infatti  immagi- 
nato questa  chiesa  (fig.  17);  è  degna  di  nota  la  perfetta  corrispon- 
denza delle  proporzioni  e  delle  dimensioni.  L'edificio  è  alto  venti  metri 
e  il  venti  è  preso  come  misura  fondamentale  di  tutte  le  parti  :  la  na- 
vata principale  è  lunga  cento  metri  dei  quali  venti  costituiscono  l'ab- 
side, venti  l'incrociatura  dei  quattro  bracci  della  croce  latina,  sessanta 
il  braccio  più  lungo,  mentre  i  due  bracci  trasversali,  lunghi  anch'essi 
venti  metri  ciascuno,  vengono  col  quadrato  centrale  a  formare  un'eguale 
estensione  di  sessanta  metri.  Il  Ritscher  si  è  posto  il  problema  del- 
l'effetto che  produrrebbe  il  tempio  senza  quell'ammasso  di  decorazioni, 
di  pitture  e  di  grottesche  che  gli  daranno,  sia  pure,  un  aspetto  più. 
ricco  e  più  lieto  ma  che  ne  turbano  la  solenne  semplicità  originale,1 
ed  ha  disegnato  uno  spaccato  della  chiesa  quale  deve  averla  immagi- 
nata l'Alberti,  dalle  pareti  bianche,  interrotte  solo  dalle  linee  architet- 
toniche.2 Quanto  l'edificio  perde  di  gaia  festività  altrettanto  guadagna 
per  severa  maestà,  per  sentimento  cristiano,  per  espressione  di  quel 
devoto  raccoglimento  che  Battista  voleva,  lo  abbiamo  già  veduto,  essere 
il  carattere  fondamentale  dell'interno  di  un  tempio. 

L'esempio  della  semplicità  originale  ci  è  dato  tuttora  dalla  facciata 
principale  (fig.  18),  l'unica  compiuta  delle  tre  che,  secondo  i  primitivi 
disegni,  doveva  avere  la  chiesa  concepita  come  edificio  del  tutto  isolato, 
vero  tempio,  come  lo  avevano  immaginato  gli  antichi,  nel  centro  della 
città.  Non  vi  è  dubbio  che  una  parte  di  quelle  reminiscenze  pagane 
che  avevano  nutrito  la  mente  dell'Alberti  umanista  e  che  si  erano  ma- 
nifestate nel  suo  trattato,  ritornano  qui  nell'ultima  opera  sua.  Si  guardi 
la  facciata  del  S.Andrea:  potrebbe  essere,  per  struttura  architettonica, 
il  peristilio  di  un  tempio  dedicato  a  qualche  divinità  pagana.  Ma  quante 
difficoltà  dovette  superare  l'autore  per  giungere  a  questo  resultato  felice 
in  quanto  l'antico  fornisce  soltanto  l'idea  grandiosa  per  una  creazione 


1  La  decorazione  fu  eseguita  alla  fine  del  secolo  XVIII,  per  impulso  dell'architetto  Paolo  Pozzo, 
il  quale  ha  d'altra  parte  il  merito  di  aver  tolto  le  ben  più  goffe  decorazioni  barocche  poste  dai 
suoi  predecessori. 

-  E.  Ritscher,  op.  cit.,  tav.  V  e  VI. 


CAPITOLO    IV 


del  tutto  originale  !  Egli  volle  evidentemente  ripetere  nella  facciata  il 
motivo  fondamentale  di  tutto  l'edificio  :  l'alternarsi  di  un  grande  arco 
con  una  piccola  porta,  separati  per  tutta  la  lunghezza  della  parete  da 
immensi  pilastri.  Qui  un  grande  arco  centrale  ha  ai  lati  due  piccole 
porte  ;  tanto  l' uno  che  le  altre  non  corrispondono  direttamente  nel- 
l' interno  ma  in  un  vestibolo  riccamente  ornato  ;  i  pilastri,  in  numero 
di  quattro,  sostengono  un'ampia  trabeazione  sulla  quale  poggia  un  fron- 
tone triangolare.  Certo  questo  frontone,  troppo  basso  e  troppo  vicino 
ai  pilastri,  diminuisce  di  molto  la  grandiosità  della  parte  inferiore,  ma 
l'autore  non  poteva  coprire  il  grande  occhio  centrale  che  illumina  l' in- 
terno della  chiesa,  la  quale,  con  la  sua  immensa  volta  a  botte,  viene 
ad  essere  assai  più  alta  della  facciata  ;  di  effetto  ben  relativo  è  inoltre 
quella  profonda  nicchia  che  si  alza  sopra  il  frontone,  ma  non  credo 
che  derivi  dal  disegno  dell'Alberti  ;  essa  fu  compiuta  nel  1 702  quando 
da  un  pezzo  non  si  teneva  più  conto  dei  primitivi  modelli.1 

Le  linee  generali  di  quest'edifìcio  sono  dunque  grandiose  e  mate- 
maticamente corrispondenti  ;  i  particolari  pure,  per  sobrietà  ed  eleganza, 
rivelano  l'opera  di  un  maestro:  i  grandi  pilastri  tanto  nell'interno  che 
all'esterno  terminano  con  ricchi  capitelli  corinzi  simili  a  quelli  della 
porta  centrale  di  S.  Maria  Novella,  eccettuati  i  due  laterali  della  fac- 
ciata, ionici,  che  ritornano  invece  alla  forma  già  usata  nel  primo  piano 
del  palazzo  Rucellai.  La  trabeazione  principale  ha  il  fregio  ornato  con 
teste  alate  di  cherubini  come  vedemmo  già  nel  tempio  Malatestiano  ; 
solo  che  nell'interno  questo  semplicissimo  motivo  è  stato  alterato  da 
altre  decorazioni  aggiunte  posteriormente.  Gli  archi  delle  grandi  cap- 
pelle, e  quindi  quello  centrale  della  facciata,  poggiano  su  pulvini  che 
fanno  parte  di  un'altra  trabeazione  più  piccola,  adornata  di  un  fregio 
a  motivo  continuo  (nell'esterno  diverso  da  quello  dell'  interno)  come 
già  abbiamo  osservato  negli  altri  edifici  precedenti;  e  i  pulvini  sono 
sostenuti  da  pilastri  minori,  dei  quali  i  due  della  facciata  scannellati  e 
con  capitelli  ionici  come  quelli  già  ricordati  del  palazzo  Rucellai,  gli 
altri  dell'  interno  lisci  e  con  capitelli  dorici  come  quelli  del  piano  ter- 
reno del  palazzo  medesimo.   Tutte  le  volte,  del  vestibolo,  della  navata 


Vedi  il  Fioretto  delle  Croniche  di  Mantova,  raccolto  da  Stefano  Gionta.  Mantova,  1774. 


Fig.   18. 


Mantova.  —  Basilica  di  S.  Andrea. 


(Fot.  Alinari). 


LE    CHIESE    DI    MANTOVA  89 


centrale,  delle  cappelle  più  grandi,  sono  divise  in  cassettoni  quadrati 
ornati  con  rosoni:  motivo  questo  di  grande  effetto  dacorativo  che 
l'Alberti  aveva  già  parcamente  usato  nell'arco  della  porta  principale 
di  S.  Maria  Novella  dopo  averlo  appreso  con  ogni  probabilità  dal 
Brunellesco. 

Mi  sono  fermato  a  tutti  questi  particolari  per  rilevare  i  punti  co- 
muni che  si  trovano  nei  vari  edifici  del  nostro  autore  e  per  riaffer- 
mare con  più  minuti  raffronti  che  le  costruzioni  di  Firenze  a  lui  attri- 
buite dalla  tradizione  sono  veramente  opera  sua.  La  basilica  di  S.  Andrea 
riassume  tutti  i  caratteri,  sia  per  quel  che  riguarda  le  idee  generali, 
sia  per  i  particolari,  dell'arte  dell'Alberti.  Quando  ne  fu  gettata  la  prima 
pietra  il  noto  medaglista  Sperandio  di  Mantova  coniò  appositamente 
una  medaglia  rappresentante  da  un  lato  il  Marchese  Lodovico  in  arma- 
tura e  dall'altro  il  medesimo  Lodovico  che,  vestito  alla  romana,  riceve 
gli  omaggi  della  Fede  e  della  Minerva.  La  fede  moderna  e  la  sapienza 
antica  ispirarono  infatti  l'autore  di  questo  tempio,  il  quale,  se  da  una 
parte  ricorda  per  certe  forme  e  sopratutto  per  la  sua  grandiosità  le 
terme  romane,  dall'altra  prelude  con  parecchi  punti  di  somiglianza  la 
massima  chiesa  del  cristianesimo,  il  S.  Pietro,  tanto  è  vero  che  un  critico 
acuto  ed  esperto  ha  voluto  vedere  in  questa  un'  imitazione  di  quello.1 
Sono  in  genere  molto  cauto  nell'ammettere  le  imitazioni  specialmente 
quando  mi  trovo  di  fronte  ad  uomini  di  genio,  perchè  credo  che  le 
medesime  idee  possano,  in  condizioni  simili,  sorgere  anche  spontanea- 
mente in  individui  diversi,  ma  siccome  la  stretta  relazione  fra  il  S.  Andrea 
ed  il  S.  Pietro  appare  evidentissima,  è  ad  ogni  modo  degno  di  nota 
che  quando  il  Bramante  e  i  suoi  successori  vollero  creare  il  più  maestoso 
e  magnifico  tempio  del  mondo  scegliessero  una  forma  dall'Alberti  già 
usata  nella  chiesa  di  Mantova.  La  quale  (è  bene  ogni  tanto  tornare 
alle  affermazioni  dei  nostri  vecchi  ma  eccellenti  storici  d'arte)  «  è  rego- 
lare e  non  ha  cosa  che  offenda  l'occhio  sia  nel  complesso  che  nella 
distribuzione  delle  parti  ;  ed  è  facile  il  conoscere  che  servì  di  modello 
a  molte  chiese  posteriormente  erette  e  riunisce  le  qualità  che  si  desi- 
derano in  molte  altre  ».2 


1   Geymììller,  Les  projets  primitifs  pour  la  basilique  de  S.  Pierre  à  Rome,  pag.  7. 
-  D'  Agincourt,  Storta  dell'arte.  Prato,  1826,  voi.  II,  pag.  324. 


OD 


Capitolo  V. 

LE    OPERE    DUBBIE 


er  ragioni  di  metodo  e  di  chiarezza  non  ho  potuto  osser- 
vare scrupolosamente  l'ordine  cronologico  nella  trattazione 
delle  opere  che  credo  certe  dell'Alberti  ;  tanto  meno  posso 
osservarlo  nel  presente  capitolo  dove  si  parlerà  dei  lavori 
a  lui  attribuiti  nei  tempi  più  vicini  a  noi  e  per  i  quali  la  questione 
più  importante  si  fa  quella  dell'esattezza  dell'attribuzione.  Ordinerò 
quindi  questi  lavori  secondo  la  maggiore  o  minore  probabilità  che 
siano  opera  dell'Alberti  tralasciando  del  tutto  quelli  che  sono  stati  af- 
fermati di  lui  non  solo  senza  l'appoggio  di  alcun  documento,  ma  anche 
senza  argomenti  di  una  certa  importanza. 

Ha  sempre  destato  grande  meraviglia  fra  i  critici  che  non  ci  sia 
pervenuto  nessun  lavoro  dell'Alberti  nella  città  dove  egli  passò  gran 
parte  della  sua  vita,  in  Roma  ;  donde  ricerche  de'  più  vaghi  indizi  per 
potere  a  lui  attribuire  qualche  edificio  romano  di  cui  non  si  conosca 
l'autore  ed  ipotesi  per  la  massima  parte  arbitrarie  e  fantastiche.  Il  Va- 
sari, che  già  abbiamo  avuto  modo  di  dimostrare  degno  di  fede  per 
moltissime  delle  notizie  riguardanti  l'Alberti,  ricorda  di  lui  in  Roma 
solo  un  restauro  del  palazzo  pontificio  ed  alcuni  lavori  in  S.  Maria  Mag- 
giore, l' uno  e  gli  altri  eseguiti  dal  Rossellino  ;  il  primo  disparve  na- 
turalmente nei  restauri  successivi,  i  secondi  consistono  con  ogni  prò- 


CAPI  polo   V 


babilità   nel  grandioso  soffitto  a  lacunari  che  l'architetto  Ettore  Bernich 
ha  recentemente  rivendicato  al  nostro  autore.1 

chiesti   ed   un  restauro  al  condotto  dell'acqua  Vergine  furono  i  soli 
lavori  che  noi  possiamo  con  sicurezza  affermare  eseguiti  in  Roma  dietro 

disegno  o  con- 
siglio dell'  Al- 
berti ;  ma  ciò 
non  toglie  che  i 
suoi  disegni  fos- 
sero ben  più  nu- 
merosi e  gran- 
diosi. Giannoz- 
zo  Manetti,  il 
biografo  di  papa 
NiccolòV,  parla 
a  lungo  di  un 
vasto  piano  del 
Pontefice  per  la 
ricostruzione  di 
gran  parte  della 
città  eterna  e  in 
particolarmodo 
di  S.  Pietro  e 
del  palazzo  Va- 
ticano ;  ora  un 
acuto  crìtico  te- 
desco, il  Dehio, 
è  riuscito  a  sco- 
prire un  per- 
fetto paralleli- 
smo fra  i  piani  di  Niccolò  e  le  idee  espresse  nel  trattato  dell'Alberti, 
venendo  così  alla  giusta  conclusione  che  solo  il  nostro  Battista  doveva 
essere  l'ideatore  di  tali  piani.2  Ed  infatti  nella  minuziosissima  descrizione 


Fig.  19.       Roma.  —  Pianta  per  la  chiesa  di  S.  Pietro. 


1  Nel  giornale  Fanfulla,  ottobre  1892. 

-  G.  Dehio,  Die  Bauprojekte  Nikolaus  V und  L.  B.  Alberti,  in  Repertor.  filr  Kunstwis.,  Ili 
(1880),  pag.  241  e  seg. 


LE    OPERE    DUBBIE 


93 


del  Manetti  tutto  ci  riporta  all'Alberti  :  la  scelta  del  terreno,  la  disposi- 
zione delle  strade  e  delle  piazze,  la  posizione  del  nuovo  palazzo  con 
abitazioni  per  l' inverno  e  per  l'estate,  le  proporzioni  stesse  della  nuova 
chiesa,  tutto  corrisponde  esattamente  alle  regole  date  nell'«Arte  edifi- 
catoria »  composta  nei  medesimi  anni  e  dedicata  al  medesimo  Pon- 
tefice che  doveva  fare  attuare  quei  piani.  Il  Ferrabosco,  in  un  dise- 
gno che  conservasi  oggi 
nella  Biblioteca  Barberini 
di  Roma  (fig.  19),  cercò 
di  ricostituire  la  pianta  di 
S.  Pietro  quale  1'  aveva 
ideata  l'Alberti  e  la  rico- 
struzione ci  fa  vedere  quale 
immensa  mole  fosse  già 
nel  pensiero  del  suo  primo 
rinnovatore  il  principale 
tempio  del  Cristianesimo; 
col  suo  modello  l'Alberti 
fu  degno  precursore  di 
quegli  altri  spiriti  magni 
che,  più  fortunati  di  lui, 
ebbero  poi  la  soddisfazione 
di  vedere  almeno  in  parte 
eseguiti  i  loro  disegni. 

L'editore  più  recente 
del  «  Cicerone  »  ha  vo- 
luto ritrovare  negli  sfondi 
architettonici  dei  quadri  di 

quei  pittori  che  furono  in  relazione  con  la  corte  di  Niccolò,  delle  traccie 
o  dei  riflessi  dei  piani  dell'Alberti  ;  ma  veramente  né  gli  edifici  degli 
affreschi  dell'Angelico  in  Vaticano,  né  quelli  di  Benozzo  Gozzoli  nel 
Camposanto  di  Pisa,  né  quelli  infine  del  Ghirlandaio  nel  Coro  di  S.  Ma- 
ria Novella  presentano  delle  peculiarità  tali  che  li  distinguano  dagli 
edifici  consueti  nelle  composizioni  dei  pittori  quattrocentisti  e  li  avvi- 
cinino alle  idee  ed  ai  caratteri  dell'architettura  albertiana. 


1-  20.  Signa  (Firenze). 

Abside  di  S.  Martino  a  Gangalandi. 


o.\  CAPITO]  O    V 


l' n'opera  di  poca  importanza,  ma  il  cui  disegno  appartiene  con 
grande  probabilità  all'Alberti,  è  l'abside  della  chiesa  di  S.  Martino  a 
Gangalandi  presso  Firenze  (fig.  20).  Lo  ha  a  lui  attribuito  Guido  Ca- 
rocci '  con  buoni  argomenti,  fra  i  quali  merita  speciale  considerazione 
il  seguente:  l'Alberti  fu  per  lungo  tempo  rettore  della  chiesa  ed  il 
restauro  dell'abside,  per  i  suoi  caratteri  stilistici,  ci  riporta  quasi  sicu- 
ramente a  quel  tempo  ;  è  possibile  che,  dovendo  egli  sorvegliare  i  lavori, 
non  pensasse  anche  a  prepararne  i  disegni?  Si  aggiunga  che  gli  Al- 
berti avevano  presso  a  S.  Martino,  dove  è  ora  il  paesetto  di  Lastra  a 
Signa,  la  loro  villa  nella  quale  Battista  stette  a  lungo  negli  ultimi  anni 
della  sua  vita,  e  che  nella  costruzione  in  parola  ricorre  il  loro  stemma. 
Si  tratta  evidentemente  di  un  semplice  lavoro  di  restauro,  ma  le  carat- 
teristiche dell'architettura  albertiana  hanno  anche  qui  modo  di  mani- 
festarsi nei  consueti  pilastri  scannellati  con  graziosi  capitelli  che  sosten- 
gono una  trabeazione,  nel  fregio  di  questa  ornato  con  un  leggiadro 
motivo  continuo,  nel  grande  arco  dai  modini  puri  e  corretti.  Il  tutto 
ricorda,  fatte  le  debite  proporzioni,  l'abside  della  basilica  di  S.  Andrea. 

Vittorio  Matteucci,  nel  suo  libro  sulle  chiese  artistiche  del  Manto- 
vano già  citato,  si  fa  strenuo  sostenitore  di  una  tradizione  assai  diffusa 
in  Mantova  che  attribuisce  all'Alberti  il  disegno  della  Cappella  dell'  In- 
coronata nella  Cattedrale.  La  tesi  del  Matteucci  si  fonda  tutta  sopra 
un  documento  pubblicato  dal  dottissimo  Carlo  D'Arco,  cioè  una  lettera 
che,  nel  1480,  il  Capitolo  della  Cattedrale  diresse  a  Federico  Gonzaga; 
in  essa  si  legge  :  «S'è  finito  quello  poco  principio  de  la  fabrica  a  quella 
capella  di  Nostra  Donna  di  voti  in  S.  Pedro  (la  Cattedrale)  secondo 
il  disegno  de  la  bona  memoria  de  lo  Ill.mo  Signor  Vostro  Padre  ».2 
Il  padre  di  Federico  era  Lodovico,  Lodovico  aveva  per  architetti  Leon 
Battista  Alberti  ideatore  e  Luca  Fancelli  esecutore,  al  loro  tempo  non 
vi  è  memoria  in  Mantova  di  altri  architetti  ;  dunque  anche  la  cappella 
dell'Incoronata  appartiene  a  questi  due. 


1   G.  Carocci,  La  chiesa  di  S.  Martino  a  Gangalandi  nel  periodico  Arte  e  storia,  aprile  1891 
e  recentemente  nella  monografia  sul   Valdarno.  Bergamo,  1906,  pag.  39. 

-  Carlo  D'Arco,  Delle  arti  e  degli  artefici  di  Mantova.  Mantova,  1857,  II,  pag.  14. 


LE    OPERE    DUBBIE  95 


Questo  il  ragionamento  del  Matteucci  e  starà  anche  bene  ;  ma  la 
questione  comincia  proprio  ora  :  i  disegni  della  cappella  del  Duomo 
risalgono  all'Alberti  o  al  Fancelli  non  solo  capomastro  ma  artista  egli 
stesso  di  un  certo  valore  ?  Il  Matteucci  non  osserva  una  cosa  che  pur 
salta  agli  occhi  a  prima  vista  ed  è  la  stretta  relazione  fra  la  pianta  di 
questa  cappella  e  la  pianta  della  chiesa  di  S.  Sebastiano,  ambedue  a 
croce  greca  ;  senonchè  questa  somiglianza  mi  sembra  diminuire  anziché 
accrescere  le  probabilità  per  l'Alberti,  il  quale,  abbiamo  già  avuto  modo 
di  osservarlo,  non  si  ripete  mai,  ma  in  ogni  sua  creazione  cerca  di 
risolvere  un  nuovo  problema.  Finché  ci  fermiamo  ai  particolari  pos- 
siamo stabilire  una  certa  continuità  ed  unità  nell'arte  di  lui,  ma  trat- 
tandosi qui  di  un  concetto  fondamentale  è  assai  più  probabile  che 
piuttosto  il  Fancelli  abbia  imitato  la  forma  della  chiesa  poco  avanti 
costruita.  Si  sarebbe,  in  una  parola,  ripetuto  il  caso  del  Rossellino  quando 
a  Pienza  imitò  la  facciata  del  palazzo  Rucellai. 

Lodovico  Gonzaga  si  rivolse  all'Alberti  per  le  due  opere  di  maggior 
mole  e  di  maggiore  importanza,  ma  nel  rimanente  ebbe  completa  fiducia 
ed  affidò  sempre  l'incarico  di  tutti  i  lavori  al  Fancelli  che  a  buon  conto 
era  il  suo  architetto  consueto  e  il  sopraintendente  a  tutte  le  costruzioni 
da  lui  ordinate;  per  molte  di  esse  noi  sappiamo  che  Luca  non  solo 
curò  l'esecuzione,  ma  fece  anche  i  disegni,  e  lo  stesso  sarà  accaduto 
quando  Lodovico  ebbe  l' idea,  che  non  potè  vedere  attuata,  di  far  co- 
struire nella  Cattedrale  una  nuova  cappella  per  la  Madonna.  Del  resto 
ai  giorni  nostri  non  rimane  evidentemente  del  primitivo  disegno  altro 
che  la  pianta;  in  questa  piccola  ma  elegante  costruzione,  come  già 
vedemmo  nel  coro  della  SS.  Annunziata  a  Firenze,  i  successivi  e  ripe- 
tuti restauri  hanno  mantenuto  intatti  i  fondamenti  e  con  essi  i  muri 
principali,  ma  hanno  poi  talmente  alterato  le  parti  superiori  e  l'aspetto 
generale  dell'edificio  che  non  è  più  possibile  oggi  giudicarne  il  pri- 
mitivo valore. 

E  passiamo  finalmente  all'opera  che  in  questi  ultimi  tempi  ha  sol- 
levato maggior  rumore  e  maggiori  discussioni  :  l'arco  in  onore  di  Al- 
fonso d'Aragona  nel  Castelnuovo  a  Napoli  (fig.  21).  Il  Fabriczy  ed 
altri  lo  avevano  attribuito  a  Pietro    di  Martino  ed  il    suo   nome  sem- 


CAPITOLO    V 


brava  resistere  ai  competitori  che  ve- 
nivano ogni  tanto  presentati  da  qual- 
che critico,  quando  l'architetto  Ettore 
Bermeli  con  l'evidenza  delle  date  di- 
mostrò falsa  quell'attribuzione  e  pre- 
sentò l'Alberti  come  autore  del  monu- 
mento. Senonchè  la  parte  positiva 
non  è  egualmente  convincente  quanto 
la  parte  negativa  e  questa  è  la  sorte 
comune  di  coloro  che  hanno  fino  ad 
oggi  cercato  di  scoprire  l'autore  del- 
l'arco aragonese  ;  tutti  giungono  a 
dimostrare  che  i  nomi  proposti  dagli 
altri  non  hanno  serio  fondamento,  ma 
nessuno  riesce  a  provare  che  la  sua 
ipotesi  ha  maggiore  probabilità  delle 
precedenti.  Il  Bernich,  per  esempio, 
osserva  giustamente  : *  l'erezione  del- 
l'arco in  onore  di  Alfonso  fu  delibe- 
rata dagli  Eletti  dei  sedili  di  Napoli 
nell'Assemblea  del  28  febbraio  1443; 
Bartolommeo  Fazio,  nel  «  De  rebus 
gestis  ab  Alfonso  »,  dice  che  era  ter- 
minato nel  1455  ;  questo  dimostra 
che,  almeno  nella  sua  ossatura  archi- 
tettonica, l'arco  fu  eretto  fra  il  1445 
e  il  1455  ;  Pietro  De  Martino  appa- 
risce invece  solo  nel  1456  e  quindi 
egli  può  avere  ideato  e  costruito  la 
parte  superiore  e  qualcuna  delle  tante 
sculture  che  adornano  il  monumento,  ma  non  può  essere  stato  l' idea- 
tore  primo  di   esso  ;    lo  studioso  dell'antichità,  lo  spirito   pagano   che 


Fig.  21.  Napoli.  (Fot.  Brogi). 

Arco  di  trionfo  di  Alfonso  d'Aragona. 


1  E.  Bernich,  L.  B.  Alberti  e  l'arco  trionfale  di  Alfonso  di  Aragona  in  Napoli,  in  Napoli 
nobilissima,  voi.  XII,  pagg.  114-118. 


LE    OPERE    DUBBIE  97 


immaginò  il  rinnovamento  della  forma  classica  della  glorificazione  fu 
un  erudito,   un  umanista,  l'Alberti. 

Per  dimostrare  questa  asserzione  egli  si  occupa  prima  di  tutto  dei 
raffronti  stilistici  che  hanno  per  lui  la  massima  importanza.  La  storia 
di  un  monumento,  egli  dice  in  un  articolo  successivo,  non  si  fa  solo 
consultando  le  vecchie  carte.  Occorre  avere  la  conoscenza  tecnica  del- 
l'opera ed  analizzarla  e  raffrontarla  con  quei  lavori  che  sappiamo  ve- 
ramente fatti  dall'autore  che  si  cerca  rivendicare.1  E  va  bene  purché  si 
sappia  mantenere  i  raffronti  nella  parte  che  può  essere  peculiare  di  un 
dato  autore  e  non  si  ecceda  o  nel  ricercare  l'affinità  di  caratteri  troppo 
generali  o  nello  scrutare  i  punti  di  contatto  dei  particolari  più  minuti  ; 
quest'ultimo  è  appunto  il  difetto  del  Bernich  cui  la  conoscenza  tec- 
nica spinge  ad  occuparsi  dei  minimi  particolari  che  per  la  loro  scarsa 
importanza  possono  esser  comuni  anche  ad  artisti  diversi.  Fondamento 
principale  della  sua  dimostrazione  è  l' affinità  che  unisce  l' arco  ara- 
gonese con  la  descrizione  degli  archi  di  trionfo  neh' «Arte  edificatoria» 
e  con  la  parte  centrale  del  tempio  Malatestiano.  Ma  il  Bernich  non 
ha  tenuto  conto  di  un'osservazione  che  pur  si  presentava  molto  ovvia, 
cioè  che  le  affinità  possono  derivare,  e  derivano  a  parer  mio,  dalla 
fonte  comune:  i  monumenti  di  Roma.  L'Alberti  quando  scriveva  il 
suo  trattato  aveva  davanti  agli  occhi  gli  archi  di  Tito  e  di  Costan- 
tino, quando  disegnò  la  facciata  della  chiesa  di  Rimini  tenne  presente 
l'arco  di  Augusto  ;  l'artista  che  ricevette  1'  incarico  di  inalzare  l'arco  di 
trionfo  in  onore  di  Alfonso  dovette  necessariamente  ricorrere,  in  man- 
canza di  altri,  a  quei  medesimi  modelli  ed  ecco  spiegate  le  affinità 
non  poi  tanto  numerose  né  caratteristiche  quanto  il  Bernich  crede  ; 
per  spiegare  tante  parti  che  non  corrispondono  egli  è  pure  obbligato 
a  supporre  che  gli  esecutori  abbiano  talvolta  cambiato  i  disegni  del- 
l' autore. 

Le  relazioni  che  l'Alberti  ebbe  con  la  Corte  di  Napoli  (relazioni 
delle  quali  il  Bernich  va  a  ricercare  gì'  indizi  più  vaghi  e  lontani  mentre 
abbiamo  la  testimonianza  diretta  di  lui  che  ci  afferma  di  avere  un  giorno 
salvata  la  vita  ad  Alfonso)2  sono  argomento  troppo  tenue  per  soste- 


1  Napoli  nobilissima,  voi.  XIII,  pagg.  148-156. 

-  Vedi  passo  della  Famiglia,  riportato  a  pag.  20,  n, 


Alberti 


q8  capitolo  v 


nero  che  egli  abbia  disegnato  l'arco,  come  non  credo  che  a  lui  possa 
attribuirsi  il  merito  «.lei  grandioso  bassorilievo  dell'attico  per  il  semplice 
tatto  ohe  quivi  la  prospettiva  è  sapientemente  osservata  e  che  l'Alberti 
scrisse  un  trattato  di  prospettiva.  Ha  letto  il  Bernich  questo  trattato  ? 
In  esso  si  parla  molto  di  ottica  e  di  matematica,  punto  di  vera  e  pro- 
pria  prospettiva. 

Ma  un  altro  è  per  il  Bernich  l'argomento  decisivo  :  nel  fregio  dello 
stilobate  interno  dell'arco  è  un  medaglione  con  una  testa  virile  coro- 
nata d'alloro,  ed  egli  vi  riconosce  subito  il  ritratto  dell'Alberti  che  si 
era  meritato  quella  corona  dal  momento  che  si  era  fatto  propugnatore 
del  certame  coronario.  Non  parlo  della  somiglianza,  perchè  il  Bernich 
stesso,  dopo  averla  proclamata  con  diversi  raffronti,  deve  riconoscere 
che  nel  Quattrocento  raramente  i  ritratti  di  una  stessa  persona  erano 
fra  loro  somiglianti  ; 1  solo  osservo  che,  oltre  alla  corona  d'alloro,  il  bas- 
sorilievo presenta  una  tunica  fermata  con  una  borchia  sulla  spalla  destra 
come  era  il  costume  dei  Romani,  e  questo  mi  conferma  l'ipotesi,  già 
fatta  da  altri,  che  il  medaglione  non  rappresenti  affatto  l'Alberti  ma 
un  imperatore  romano  ;  anche  la  corona  apparisce  molto  più  appropriata 
ad  un  imperatore  che  ad  un  semplice  cittadino. 

Uno  studioso  tedesco  che  ebbe  anch'egli,  e  con  eguale  successo 
degli  altri,  da  proporre  un  nome  per  l'arco  di  Napoli,  combattendo  la 
tesi  del  Bernich  concludeva  :  «  Per  asserire  che  a  L.  Battista  Alberti 
spetti  il  merito  del  modello  dell'arco  aragonese  non  basta  la  convin- 
zione personale,  non  basta  l'intuito  artistico,  occorrono  delle  prove  so- 
lide ».2  Tali  non  sono  certo  quelle  del  Bernich;  ed  io  credo  che  difficil- 
mente l'Alberti  si  sarebbe  piegato  a  disegnare  un  monumento  destinato 
a  restare  incassato  fra  due  muri  e  che  per  la  sua  infelice  posizione  non 
gli  permetteva  di  svolgere  le  sue  idee.  Anche  nel  tempio  Malatestiano 
la  costruzione  preesistente  impacciava  in  parte  la  creazione  nuova;  ma 
là  vi  era  il  mezzo,  e  l'artista  mostrò  di  averlo  subito  compreso,  di 
superare  con  uno  slancio  di  genio  gli  ostacoli  ;  qui  invece  niente  po- 
teva nascondere  l'enorme  sproporzione  fra  larghezza  ed  altezza,  l'effetto 


1   Napoli  nobilissima,  voi.  XIII,  pagg.  148-156. 

-  W.  Rolfs,  L' architettura  albertiana  e  l'arco  trionfale  di  Alfonso   d' Aragona,  in  Napoli 
nobilissima,  voi.  XIII,  pag.  172. 


LE    OPERE    DUBBIE  99 


di  sovrapposizione  che  il  nuovo  arco  doveva  necessariamente  produrre 
sulle  vetuste  mura  del  castello. 

La  sorte  comune  seguita  da  tutti  coloro  che  hanno  cercato  di  sco- 
prire l'autore  dell'arco  aragonese  può  avvalorare  l'ipotesi  esposta  in 
una  nota  della  Rivista  dove  specialmente  si  è  agitata  la  questione  : 1 
l' ipotesi  che  il  monumento  non  abbia  avuto  un  architetto  di  grido,  ma 
che  un  semplice  capomastro  o  anche  uno  scultore  abbia  copiato  per 
espressa  volontà  di  Alfonso  da  archi  romani  e  da  mausolei  angioini 
la  porta  trionfale  del  Castelnuovo  ;  certo  l'organismo  architettonico  è 
impari  alla  magnificenza  e  finezza  dell'ornamentazione  marmorea  ed  il 
monumento  apparisce  più  come  l'opera  di  uno  scultore  che  di  un  archi- 
tetto ;  e  per  l'appunto  l'Alberti,  al  contrario  della  massima  parte  degli 
artisti  del  suo  tempo,  dedicò  tutta  la  sua  attività  esclusivamente  all'ar- 
chitettura e  dette  nelle  sue  opere  pochissima  parte  alla  scultura. 

Dove  mai  si  andrebbe  a  finire  seguendo  il  metodo  puramente  com- 
parativo inagurato  dal  Bernich  ?  Ecco  gli  edifici  che  egli,  oltre  ai  ri- 
cordati, attribuisce  all'Alberti  :  a  Roma  il  palazzo  Venezia,  la  chiesa  di 
S.  Marco,  i  due  palazzi  Pichi,  uno  in  via  del  Paradiso,  l'altro  in  piazza 
Pollarola,2  il  chiostro  di  S.  Salvatore  in  Lauro,3  il  palazzo  della  Can- 
celleria, il  palazzo  del  Cardinal  Mezzarota  ;  a  Urbino  il  cortile  del  pa- 
lazzo Ducale,4  ed  infine  la  chiesa  di  S.  Bernardino  a  Perugia,  eseguita 
da  Agostino  di  Duccio,  semplicemente  perchè  la  porta  principale  è  a 
euisa   d'arco  di  trionfo  ! 5 


Nota  di  G.  Ceci  in  Napoli  nobilissima,  voi.  XIII,  pag.  155. 
Ai-te  e  storia,  febbraio  1901. 
Rassegna  pugliese,  maggio  1894. 
Rassegna  d'arte,   1902,  pag.  69. 
Napoli  nobilissima,  voi.  XII,  pag.  133. 


CONCLUSIONE 


UATTRO  periodi  principali  dobbiamo  dunque  distinguere 
nell'attività  artistica  di  Leon  Battista  Alberti  :  il  periodo  di 
preparazione  nel  quale  la  cultura  e  le  tendenze  umanisti- 
che hanno  la  prevalenza  assoluta  e  l'Alberti  è  solo  co- 
noscitore dell'arte  antica  e  per  mezzo  di  essa  teorico  dell'arte  mo- 
derna ;  il  periodo  di  attuazione  pratica  immediata  delle  sue  teorie 
caratterizzato  dal  tempio  Malatestiano  dove  l' imitazione  delle  forme 
classiche  serve  ad  esprimere  idee  e  caratteri  egualmente  classici  ;  il 
periodo  di  transizione  fra  l'antico  e  il  moderno  datoci  dagli  edifici 
fiorentini  dalle  linee  così  corrette  e  così  leggiadre;  il  periodo  di  piena 
maturità,  di  libera  ed  ardita  creazione  che  raggiunge  il  suo  grado  più 
elevato  nel  S.  Andrea  di  Mantova,  tipo  grandioso  e  non  superabile  di 
chiesa  cristiana  del  Rinascimento.  Ciascuno  di  questi  quattro  periodi 
è  indicato  da  opere  di  tale  importanza  che  non  è  davvero  necessario 
andare  a  ricercare  dietro  problematici  indizi  qualche  altro  edificio  da 
potergli  attribuire  per  accrescere  o  confermare  il  suo  merito  come  ar- 
chitetto ;  se  con  ulteriori  studi  o  scoperte  potremo  dare  a  lui  un 
maggior  numero  di  opere  d'arte,  tanto  meglio  ;  per  ora  le  attribuzioni 
che  si  sono  fatte  sono  semplicemente  possibili,  ma  ben  lungi  da  quella 
probabilità  che  ha  per  me,  per  esempio,  l'assegnazione  all'Alberti  del 
palazzo  Rucellai  e  ad  ogni   modo  non  cambierebbero  sostanzialmente 


CONCI  USIONE 


la  figura  e  il  valore  di  Battista  quale  ci  apparisce  dagli  edifici  che  con 
certo/za  o  quasi  certezza  possiamo  affermare  da  lui  disegnati. 

Vi  è  nei  quattro  periodi  che  siam  venuti  delineando  qualche  ca- 
rattere comune,  si  riscontra  in  essi  una  costanza,  una  continuità  di  mo- 
tivi fondamentali  che  ci  permetta  di  abbracciare  con  un  solo  sguardo 
tutta  l'arte  del  nostro  autore?  Non  credo:  di  comune  possiamo  osser- 
vare qualche  forma  decorativa,  qualche  particolare,  ma  nel  resto  ogni 
edificio  da  lui  ideato  è  del  tutto  indipendente  dagli  altri,  ciascuno 
esprime  una  nuova  idea.  E  non  parlo  della  differenza  enorme  che  corre 
fra  questi  editici  ed  il  trattato,  fra  la  pratica  e  la  teoria,  differenza  ine- 
vitabile dal  momento  che  nei  trattati  non  si  possono  in  nessun  modo 
trovare  le  regole  e  i  mezzi  per  fare  delle  opere  d'arte.  Quello  che  può 
essere  insegnato  e  consigliato  è  per  gli  architetti  di  tutti  i  tempi  un 
substrato  di  cognizioni  bensì  indispensabile  ma  che  solo  i  mediocri 
lasciano  apparire  nei  loro  lavori  ;  la  vera  opera  d'arte  si  presenta  alla 
mente  del  creatore  come  un  insieme  armonico  che  piace  e  diletta,  non 
come  frutto  di  studi,  di  misure  e  di  regole.  L'Alberti  fu  trattatista  ed 
artista  nello  stesso  tempo,  due  termini  che  sono  fra  loro  ben  più  lon- 
tani di  quanto  potrebbe  a  prima  vista  apparire  ;  anzi  fu  artista  appunto 
perchè  nella  pratica  si  dimenticò  sovente  delle  sue  teorie.  Le  quali 
teorie  ciò  non  ostante  rimasero  celebrate  e  studiate  e  servirono  a  sof- 
focare qualsiasi  tentativo  di  originalità  in  quei  più  tardi  commentatori 
di  Vitruvio  che  non  seppero  come  l'Alberti  distinguere  la  differenza 
fra  la  necessità  delle  regole  e  la  libertà  dell'arte. 

Leon  Battista  Alberti  fu  il  più  erudito,  ma  nello  stesso  tempo  anche 
il  più  originale  e  il  più  vario  fra  gli  architetti  del  suo  tempo  ;  per  la 
moltiplicità  delle  sue  attitudini  egli  lavorò  per  i  personaggi  più  impor- 
tanti e  di  carattere  più  diverso  che  esistessero  allora  riuscendo  a  com- 
penetrare, ad  assimilare  nello  spirito  delle  opere  sue  lo  spirito  del  si- 
gnore che  aveva  ordinato  il  lavoro.  È  tutta  qui,  io  credo,  la  grandezza 
di  Leon  Battista  Alberti  come  letterato  e  come  artista:  nell'aver  cono- 
sciuto gli  uomini  del  suo  tempo,  nell'aver  compreso  i  loro  sentimenti, 
nell'avere  espresso  con  la  parola  o  col  disegno  le  loro  idee.  Erano 
lampi  di  genio  che  gli  studi  di  umanità  nel  più  vero  e  più  ampio  senso 
della  parola  avevano  ridestato  nella  sua  mente  versatile  e  indagatrice  ; 


CONCLUSIONE  IO3 


appunto  per  questo  al  principio  di  ogni  capitolo  ho  cercato  di  tratteg- 
giare nelle  sue  linee  principali  il  carattere  di  ogni  mecenate  che  ha  in- 
coraggiato l'attività  dell'Alberti  ;  ed  abbiamo  veduto  che  questi,  se  a 
Niccolò  Y  pontefice  umanista  dedicò  quel  frutto  mirabile  di  erudizione 
che  doveva  a  lui  procurare  il  nome  di  Vitruvio  fiorentino,  per  Si- 
gismondo Malatesta,  il  condottiero  pagano  avido  di  gloria  e  di  amori, 
disegnò  il  triplice  arco  di  trionfo  nel  tempio  dove  le  ceneri  sue  e  della 
sua  bella  riposano  circondate  dai  gravi  sarcofagi  dei  loro  esaltatori  ; 
abbiamo  veduto  che  a  Giovanni  Rucellai,  mercante  operoso  e  pacifico, 
amante  di  feste  leggiadre  e  di  giuochi  cavallereschi,  egli  inalza  un  pa- 
lazzo che  è  tutto  un  inno  di  grazia  e  di  gentilezza  e  che  per  Lodovico 
Gonzaga,  educato  alla  scuola  di  Vittorino  da  Feltre,  egli,  l'autore  degli 
aurei  libri  sulla  «Famiglia»,  immagina  il  magnifico  tempio  di  S.An- 
drea che  preannunzia  tutta  l'artistica  grandiosità,  che  specialmente  per 
la  letteratura,  il  Rinascimento  svolgerà  poi  nelle  Corti  dell'alta  Italia. 

Avrebbe  un  altro  architetto,  anche  di  maggiore  abilità  tecnica  del- 
l'Alberti ma  di  minore  versatilità  di  lui,  potuto  contentare  il  gusto  così 
diverso  di  così  diversi  committenti  ?  No  certamente  ;  tanto  è  vero  che 
anche  il  massimo  degli  architetti  a  lui  immediatamente  precedenti,  il 
Brunellesco,  non  era  mai  uscito  coi  suoi  lavori  al  di  fuori  delle  mura 
della  sua  città;  e  Michelozzo  era  stato  quasi  esclusivamente  l'architetto 
di  Cosimo  il  Vecchio  dei  Medici  e  il  Rossellino  aveva  per  la  gloria  di 
Pio  II  ripetuto  più  volte  un  identico  motivo  di  architettura  civile.  Anche 
in  questo  l'Alberti  precorre  i  suoi  contemporanei  e  li  precorre  inoltre 
per  il  suo  studio  diretto  sui  modelli  classici,  sui  monumenti  di  Roma, 
mentre  quelli  vedevano  di  solito  l'antichità  solo  attraverso  gli  edifici 
romanici  ;  se  cerchiamo  delle  relazioni  fra  l'arte  di  Leon  Battista  e  l'arte 
di  altri  architetti,  vediamo  che  essa  trae  bensì  origine  dal  medesimo 
pensiero  che  ispirò  anche  il  rinnovamento  del  Brunellesco,  ma  giunge 
ad  un  punto  più  avanzato  di  questi  e  si  avvicina  di  molto  al  Bramante. 

E  non  soltanto  lo  stile  architettonico  si  svolgeva  e  perfezionava  nel 
nostro  autore  coi  continui  studi  e  col  maggior  vigore  della  mente; 
tutto  l'io,  tutta  l'individualità  sua  così  potente  e  così  concorde  nelle 
sue  molteplici  tendenze  si  modificava  insieme  alla  sua  arte.  Ne  abbiamo 
una  prova  volgendo  lo  sguardo  allo  stile  della  sua   prosa  ;    da    prima 


\,\\  CONCLUSIONE 


egli  scrive  in  latino  e  conio  nella  lingua  così  nella  forma  imita  i  classici, 
primo  fra  tutti  Cicerone.  Segue  un  periodo  nel  quale  la  medesima 
torma  classica  è  unita  al  volgare,  in  difesa  del  quale  l'Alberti  si  fa  pro- 
pugnatore del  certame  coronario;  e  no  deriva  una  prosa  forte,  risonante, 
ma  con  periodi  troppo  contorti,  con  costrutti  e  forme  che  sentono 
ancora  del  latino.  Negli  ultimi  suoi  scritti  Battista  si  libera  anche  da 
quest'ultimo  difetto  causatogli  dalla  sua  erudizione  e,  per  esempio,  in 
alcune  pagine  del  suo  trattato  più  tardo  intorno  al  governo  della  casa 
(«  De  iciarchia  »)  fissa  un  tipo  di  prosa  semplice  e  solenne.  Lo  studio 
dell'antico  ravvivato  dal  volgare  moderno  aveva  anche  in  questo  campo 
creato  qualcosa  di  vitale  e  di  artistico:  aveva  creato  la  prosa  dottrinale 
italiana. 

Il  Geymuller,  autore  della  più  volte  citata  monografia  dell'Alberti 
nella  grandiosa  «  Storia  dell'architettura  in  Toscana  »  della  Società  di 
S.  Giorgio,  insiste  nel  togliere  al  nostro  autore  una  parte  del  merito 
delle  sue  opere  per  attribuirla  invece  agli  esecutori  e  nel  mettere  in 
rilievo  la  qualità  sua  di  dilettante  ;  con  questo  egli  non  fa  che  ritor- 
nare al  Vasari,  il  quale  pure,  scandalizzato  che  vi  potesse  essere  un 
architetto  che  affidava  ad  altri  l'esecuzione  dei  suoi  lavori,  si  compiace 
più  volte  di  rimproverare  all'Alberti  la  mancanza  di  pratica.  Ma  questa 
mancanza  di  pratica  che  l'antico  storico  crede  di  poter  osservare  di  fatto 
negli  edifici  di  lui  e  che  il  critico  moderno  afferma  essere  stata  na- 
scosta dagli  esecutori,  è  semplicemente  un  presupposto  derivato  dalla 
notizia  che  egli  non  diresse  in  persona  nessuna  costruzione,  senza  pen- 
sare che  se  i  suoi  scrupoli  umanistici  e  la  sua  posizione  sociale  non  gli 
permisero  di  curare  l'esecuzione  dei  suoi  disegni,  egli  ebbe  egualmente 
modo  di  osservare  la  pratica  dell'arte  edificatoria  e  di  ri  trarne  gli  in- 
segnamenti necessari  ad  un  architetto  :  tutto  il  trattato,  dove  le  forme 
artistiche  sono  solo  fuggevolmente  accennate  ma  la  parte  tecnica  ha 
invece  grandissima  importanza,  è  una  dimostrazione  dei  suoi  studi  pro- 
fondi sul  modo  di  costruire.  L'Alberti  fu  dilettante  nel  senso  che  non 
esercitò  l'arte  per  professione  e  non  ricevette  ricompensa  alcuna  dei 
suoi  lavori  ;  non  fu  dilettante  nel  senso  oggi  più  comune  che  fa  cer- 
care nell'arte  un  semplice  passatempo,  perchè  nell'arte,  e  specialmente 
nell'architettura,   egli  vide  una  fonte  di  pubblica  utilità,  un  mezzo  per 


CONCLUSIONE  105 


illustrare  il  suo  nome.  Può  vincere  una  battaglia  tanto  il  generale  che 
si  reca  sul  campo  alla  testa  dei  suoi  soldati  per  guidarli  ed  incitarli 
con  l'esempio  quanto  lo  stratego  che  dal  suo  tavolino  dà  ordini  e  di- 
rige i  movimenti  degli  eserciti;  l'Alberti  riportò  i  suoi  trionfi  senza 
muoversi  dalla  quiete  del  suo  studio  e  non  è  questa  una  ragione  per 
attribuire  ad  altri  il  merito  di  quei  trionfi. 

I  seguaci  immediati  dell'arte  di  Leon  Battista  Alberti  furono  Bernardo 
Rossellino  e  Agostino  di  Duccio.  Il  primo,  forse  esecutore  del  palazzo 
Rucellai,  certo  in  dipendenza  diretta  dell'Alberti  negli  anni  in  cui  stette 
a  Roma  architetto  di  Niccolò  V,  ne  imitò  lo  stile  nel  palazzo  Picco- 
lomini  ed  anche  in  parte  nella  Cattedrale  di  Pienza;  il  secondo,  che 
lavorava  come  scultore  al  tempio  Malatestiano  nel  periodo  del  gran- 
dioso restauro,  quando  ricevette  l' incarico  di  costruire  la  chiesa  di 
S.  Bernardino  e  la  porta  monumentale  di  S.  Pietro  nella  città  di  Pe- 
rugia ripetè  i  motivi  dell'architettura  albertiana  pur  riserbando  nella 
prima  una  gran  parte  alla  scultura.  Ma  il  lato  più  importante  dell'arte 
dell'Alberti  è  quello  di  aver  posto  come  fondamento  della  nuova  archi- 
tettura l'armonia  e  quindi  la  corrispondenza  di  rapporti  numerici  ;  in 
questo  egli  ebbe  più  tardi  i  più  numerosi  seguaci  e  imitatori  che  de- 
viarono il  giusto  principio,  da  lui  sapientemente  osservato,  fino  all'ec- 
cesso di  considerare  l'architettura  esclusivamente  come  l'applicazione  di 
formule  matematiche.  Così  tanto  per  il  suo  rifacimento  di  Vitruvio  quanto 
per  la  ricerca  nella  pratica  dell'euritmia  cara  al  teorico  antico,  l'Alberti 
si  fece  precursore  dei  classicisti  accademici  che  nella  seconda  metà  del 
Cinquecento  inondarono  l'Italia  di  opere  fredde  e  monotone  ;  ma  egli 
non  è  un  classicista  accademico,  che  all'accademia  cerca  continuamente 
di  sottrarsi  con  l'audacia  delle  innovazioni,  con  la  ricerca  instancabile 
dell'originalità.  Quegli  accenni  al  barocco  che  taluno  ha  voluto  osser- 
vare nelle  volute  di  S.  Maria  Novella  o  nel  troncamento  dell'architrave 
di  S.  Sebastiano  derivano  appunto  dal  tentativo  di  liberarsi  dalle  stret- 
toie accademiche  ;  ed  anche  il  barocco  trasse  origine  dal  medesimo 
tentativo. 


INDICE    DELLE    ILLUSTRAZIONI 


Ritratto 

Fig. 

i. 

» 

2. 

» 

3- 

» 

4- 

» 

5. 

» 

6. 

» 

7- 

» 

8. 

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» 

IO. 

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n. 

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12. 

» 

13- 

» 

14. 

» 

15. 

» 

16. 

» 

17- 

» 

18. 

» 

19. 

» 

20. 

» 

21. 

di  Leon  Battista  Alberti Frontespizio 

Matteo  dei  Pasti.  —  Medaglia  col  Tempio  Malatestiano.  Pag.  34 

Rimini.  —  Il  Tempio  Malatestiano 35 

»         —  Arco  di  Augusto 37 

»         —  Fiancata  del  Tempio  Malatestiano 39 

»         —  Interno  del  Tempio  Malatestiano 44 

Firenze.  —  Palazzo  Rucellai 51 

Pienza.   —  Palazzo  Piccolomini  (Bernardo  Rossellino)    ...  55 

Firenze.  —  Palazzo  dei  Medici,  oggi  Riccardi  (Michelozzo)    .  59 

»          —  Loggetta  Rucellai 61 

»          —  Facciata  di  S.  Maria  Novella 63 

»          —  S.  Maria  Novella,  Porta  principale 67 

»          —  Pianta  dell'Abside  dell'Annunziata 70 

Mantova.  —  Pianta  della  Chiesa  di  S.  Sebastiano 76 

»           —  Loggetta  di  S.  Sebastiano 78 

»           —  Chiesa  di  S.  Sebastiano 79 

»          —  Pianta  della  Chiesa  di  S.  Andrea.     .....  St, 

»           —  Interno  di  S.  Andrea 84 

»          —  Basilica  di  S.  Andrea 87 

Roma.  —  Pianta  per  la  Chiesa  di  S.  Pietro 92 

Signa  (Firenze).   —  Abside  di  S.  Martino  a  Gangalandi     .     .  93 

Napoli.  —  Arco  di  Trionfo  di  Alfonso  d'Aragona    ....  96 


^ 


oooooooooooo  \\\  oooooooooooo 


BIBLIOGRAFIA1 


Opere   generali. 

Fra  le  storie  generali  di  architettura  notevole  specialmente  quella  edita 
dalla  Società  di  S.  Giorgio:  «Die  Architektur  der  Renaissance  in  Toscana  ». 
Il  testo  della  monografia  dell'Alberti  è  redatto  e  illustrato  dall'architetto  En- 
rico Geymlller. 

Anton  Springer,  L.  Battista  Alberti,  in  Bilder  aus  der  neueren  Kunst- 
geschichte.  Bonn,   1886.  Voi.  I.  pag.  257. 

Fritz  Schumacher,  L.  Battista  Alberti  und  seine  Bauten.  Fascicolo  della 
Rivista  Die  Baukunst.   1S99.  Berlino,  Spemann. 

Corrado  Ricci,  L.  Battista  Alberti.  Conferenza  tenuta  a  Rimini  nel 
V  centenario  della  sua  nascita.   Rimini,   1904. 

L'Alberti  teorico  d'architettura. 

La  migliore  edizione  deWArte  edificatoria  è  ancora  la  prima  L.  Baplistae 
Alberti  De  re  aedifi cataria,   Florentiae  per  Xicolaum  Laurentiuni.  i^Sj. 

Per  i  trattati  minori:  Uberto  Janitscheck,  L.  Battista  Alberti  Heine 
kunsthistorische  Schriften.  Wien,   1877. 

Paolo  Hoffmann,  Studien  zu  Albertis  zehn  B licheni  «  De  re  aedificato- 
ria ».  Francoforte  sul  Meno,   1883. 

Il  tempio  Malatestiano. 

Charles  Yriarte,  Un  condottiero  au  XVme  siede.  Rimini-Paris,   1SS2. 
Carlo  Tonini,   Guida  illustrata  di  Rimini.   Rimini,    1S93. 
Fritz  Seitz,  S.  Francesco  in  Rimini.  Berlino,   1S93.   Con  bibliografia  di 
tutte  le  opere  precedenti  all'  Yriarte. 


1  Sebbene  in  questa  bibliografìa  tenga  conto  soltanto  dei  lavori  cbe  trattano  di  L.  Battista 
Alberti  come  artista,  pure  non  posso  tacere  la  bella  Vita  di  L.  Battista  Alberti  di  Gerolamo  Man- 
cini 1  Firenze,  Sansoni.   1SS2Ì,  fondamento  di  qualsiasi  studio  sul  nostro  autore. 


i  [O  BIBLIOGRAFIA 


Gli  edifici   di   Firenze. 

[odoco  del  Badia,  Raccolta  delle  migliori  fabbriche  antiche  e  moderne 
di  Firenze.   Firenze,   1S76. 

Luigi   Passerini,   Gli  Alberti  di  Firenze.  Firenze,   1870. 

\\  11  1  i'i  au>  Braghirolli,  Die  Baugeschichte  der  Tribuna  der  S.  Annun- 

in  Flore?/:,  in  Reperì,  fùr  Kunstwis.,  Il   (1879). 

Le   chiese   di  Mantova. 

Willelmo  Braghirolli,  L.  Battista  Alberti  a  Mantova,  in  Archivio  sto- 
rico italiano,  serie  III,  tomo  IX. 

E.  Ritscher,  Die  Kirehe  S.  Andrea  in  Man  tua.  Berlino,  1S99.  Con  bi- 
bliografia delle  numerose  opere  precedenti. 

R.  Bellodi,  La  basilica  di  S.  Andrea  in  Mantova,  in  Eiuporinm,  1901,  n.83. 

Vittorio  Matteucci,  Le  chiese  artistiche  del  Mantovano.  Mantova,  1902. 


Opere  dubbie. 

Lavori  di  Roma  : 

G.  Dehio,  Die  Bauprojekte  Xikolaus  VundL.  Battista  Alberti,  in  Reperì. 
fur  Kunsiivis..   Ili  (1880). 
S.  Martino  a  Gangalandi  : 

Guido  Carocci,  La  chiesa  di  S.  Martino  a  Gangalandi,  in  Arte  e  Storia, 
aprile  1891. 

Arco  trionfale  di  Alfonso  d'Aragona  : 

Ettore  Berxich,  L.  Battista  Alberti  e  I-Arco  trionfale  di  Alfonso  d'Ara- 
gona in  Xapoli,  in  Napoli nobilissima. ,\ rol.  XII,  pag.  114-118  e  131-136  e  voi.  XIII, 
pag.  148   156. 

Wilhelm  Rolfs,  Der  Baumeister  des  Triumphboges  in  Xeapel.  Ber- 
lin, 1904. 

Wilhelm  Rolfs,  V architettura  albertiana  e  V Arco  trionfale  di  Alfonso 
«  d 'Aragona,  in  Napoli  nobilissima.  Voi.  XIII,  pag.  1 71-172. 


INDICE 


Introduzione Pag.  7 

Cap.  I.      L'Alberti  teorico  di  architettura 17 

»     II.     Il  Tempio  Malatestiano 31 

»     III.  Gli  edifici  di  Firenze 49 

»     IV.  Le  chiese  di  Mantova .......  73 

»     V.    Le  opere  dubbie 91 

Conclusione 101 

Indice  delle  Illustrazioni 107 


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