THE LIBRARY
OF
Sarah Cooper Hewitt
PRESENTED IN MEMORY OF
HER FATHER
Abram S. Hewitt
AND HER SISTER
Eleanor Garnier Hewitt
M
MAR 2 7
EMILIO LONDI ^mf^j
LEON BATTISTA ALBERTI
ARCHITETTO
W
FIRENZE
ALFANI E VENTURI, EDITORI
1906
FIRENZE, Sn-1905-6. — Tipografia Barbèra
Alfani e Venturi proprietari.
Proprietà artistica e letteraria riservata.
d.o;
AI
MIEI GENITORI
ì v»% H
INTRODUZIONE
ra i tanti beni per i quali Giovanni Rucellai, un gentile e
colto mercante fiorentino del Quattrocento, rendeva infinite
grazie al Signore era quello di esser nato « della città di
Firenze, la quale è riputata la più degna e la più bella patria che abbi
non tanto il cristianesimo, ma tutto l'universo mondo ».* E non era
questa una infondata affermazione dell'uomo ottimista per eccellenza né
il resultato di un patriottismo eccessivo ; era la giusta e lieta constata-
zione di un fatto universalmente riconosciuto, l'espressione nobile d'or-
goglio di chi si sapeva cittadino di una patria bella, ricca, potente. Fi-
renze nella prima metà del secolo XV, quale ci apparisce dalle pagine
gentili di Vespasiano da Bisticci e dalle descrizioni fiorite degli umanisti
(quanto stupore e quanta ammirazione essa destò perfino in Ciriaco
d'Ancona che pur delle città ne aveva visitate parecchie !), godeva real-
mente di una invidiabile prosperità economica ed era di fatto il centro
felice delle lettere e delle arti. Un cronista contemporaneo, giunto al-
l'anno 1422, sentì il bisogno di soffermarsi per osservare che « per le
vie circostanti a Mercato nuovo erano settantadue banchi di tavolello et
tappeto ; di denari contanti fra cittadini due milioni di fiorini d'oro, in-
credibile quello di mercanzie, di possessioni e di crediti di Monte. Con
Marcotti, Un mercante fiorentino del sec. XV. Firenze, 1881, pag. 45.
in PRODUZIONE
queste ricchezze crebbero gli esercizi e le arti nobili: l'architettura ca-
vata di sotterra per opera di Brunellesco e con essa la scultura e la
pittura. Leonardo Aretino, segretario della Signoria, aveva in gran parte
suscitata l'eloquenza e gli studi delle lettere greche e latine ».£ L'anna-
lista fiorentino volle con questo darci soltanto un esempio dell'eccelso
grado al quale erano arrivati i commerci, le arti e le lettere ; ma se noi
cerchiamo di completare il quadro e di avere un' idea più generale della
vita di Firenze nei primi decenni del secolo XV, troviamo in ogni ramo
del sapere, in ogni manifestazione del bello, un' attività così intensa e
felice quale è ben difficile altra volta riscontrare in così breve spazio di
tempo e dentro così ristretti confini. Le principali famiglie della città, fa-
miglie sorte dal popolo ed arricchite col lavoro, si disputavano il primato
nella Repubblica non con lotte cruente ma con l'astuzia e la liberalità, e
Cosimo il Vecchio dei Medici, che nel mecenatismo verso letterati ed
artisti apparve ben presto il più fortunato e il più accorto, fu poi il
vincitore della contesa e il fondatore della potenza politica della sua
casa. Egli seppe riunire intorno a sé i principali rappresentanti del
movimento letterario allora prevalente e nel suo palazzo, poco dopo
sontuosamente riedificato, formò un centro umanistico di primaria im-
portanza; quivi spadroneggiava la figura, malgrado i suoi difetti, sim-
patica di Niccolò Niccoli, il bibliomane instancabile, il ricercatore in-
fatuato di ogni reliquia dell'antichità, e quivi, per ottenere gli aiuti del
mecenate o i consigli dell'erudito, si rivolgevano Leonardo Bruni, Carlo
Marsuppini, Poggio Bracciolini, tre letterati cui la conoscenza del fiorito
stile latino procurò, come già aveva procurato a Coluccio Salutati, il
posto di segretario della Repubblica, e Ambrogio Traversari, generale
dell'ordine dei Camaldolesi e quanti altri coltivassero con successo i
tanto lodati studi di umanità. Cosimo non voleva rivali neppure nel
mecenatismo e questo era al suo tempo ben più difficile del non avere
contendenti nella politica : signori che promovevano la cultura rimasero
1 Ex annalibus Ceretani ad annuiti 1422, in Fabroni, Magni Cosmi Medicei vita. Pisa, 1789,
voi. IL pag. 63.
INTRODUZIONE
in Firenze anche dopo l'esilio di Palla Strozzi, di Giannozzo Manetti,
di Felice Brancacci. E di fronte ai Medici e alle altre famiglie signorili
stava il popolo ancora potente, ancora riunito nelle sue gloriose cor-
porazioni, il popolo che non comprendeva la lingua dei dotti ma che
amava e promoveva le opere gentili dei suoi amici, gli artisti : per lui
il Brunellesco voltava la cupola di S. Maria del Fiore, per lui Donatello
e Luca della Robbia scolpivano a gara le cantorie del Duomo, il Ghi-
berti creava la porta del Paradiso ; nello stesso tempo lavorava in Fi-
renze Michelozzo e Masaccio chiudeva la breve sua vita feconda di
opere immortali e l'Angelico fissava col pennello le sue mistiche visioni....
Non mi è concesso che fare dei nomi; ma ciascuno di questi nomi
richiama alla mente una serie di capolavori e tutti insieme dimostrano
il grande sviluppo della cultura nella città che vantava contempora-
neamente così numerosi letterati ed artisti così valenti.
Tale era Firenze quando nel 1428 potè mettervi piede Leon Bat-
tista Alberti. Egli aveva di poco passato i venti anni e veniva nella
patria dei suoi antenati, lontano dalla quale lo aveva fatto nascere l'odio
politico che alla sua nobile famiglia portavano gli Albizzi, con la mente
già nutrita di studi profondi, con l'animo pieno di entusiasmo per ogni
cosa bella e buona. Gli studi umanistici ai quali negli anni della sua
giovinezza si era dedicato con tanto ardore da rovinarsi la salute e
con tanto successo da scrivere una commedia che fu creduta antica,
non avevano appagato la sua infinita curiosità in ogni campo della cul-
tura ; peregrinando, stanco e annoiato, per le città dell'alta Italia, aveva
in tutte trovato accoglienze gentili ed amici benevoli, ma in nessuna
un ambiente tale che potesse sviluppare i germi di una tendenza, di
un'aspirazione che pur sentiva indistinti dentro di sé. E qui bisogna
por mente alla figura in ogni sua parte completa, all' ingegno multi-
forme di quest'uomo che forse più di ogni altro si avvicina a Leonardo
da Vinci. « Quale arte per quanto difficile, quale scienza per quanto
recondita rimase ignota a costui ? » 1 La domanda che, pochi anni dopo
1 L. B. Alberti, De re aedificatoria. Firenze, 1485. Epistola dedicatoria del Poliziano.
INTRODUZIONE
[a morto di Battista, Angelo Poliziano rivolgeva al Magnifico Lorenzo
è la domanda che oggi ancora ci rivolgiamo pieni di ammirazione per
questi meravigliosi uomini del Rinascimento dotati di così grande e
svariata forza intellettuale. Quale disciplina fu da lui ignorata ? Non
corto la giurisprudenza, egli, laureato in legge all'Università di Bologna
ed autore di un trattato intorno al diritto ; non la matematica e la
fisica se intorno alla prima potè comporre un libro, i « Ludi Matema-
tici » , contenente la soluzione d' interessanti problemi e con le leggi della
seconda seppe trovare uno strumento per misurare la profondità del
mare, la « bolide albertiana», e scoprì una specie di camera oscura ed
inventò l'igrometro fondato sul principio anche oggi in uso; non la
filosofia se meritò di esser fatto protagonista di una delle opere più
leggiadre che abbia prodotto il neo-platonismo fiorentino, le « Dispu-
tationes camaldulenses » di Cristoforo Landino. Ma prima del 1428 una
parte importantissima della civiltà del suo tempo gli era rimasta ignota
o gli era sembrata trascurabile : l'arte. L'arte apparve a lui in tutta la
sua grandezza nella patria diletta e l'Alberti vide subito con essa aprirsi
un nuovo campo, vasto e nobilissimo, di attività intellettuale. « Io cre-
devo tramontate per sempre le arti belle, scrive egli qualche tempo
dopo al Brunellesco, ma poi che dal lungo esiglio in quale siamo noi
Alberti invecchiati fui in questa nostra sopra l'altre ornatissima patria
ridotto compresi in molti ma prima in te, Filippo, e in quel nostro
amicissimo Donato scultore e in quelli altri Nencio, Luca, e Masaccio
essere a ogni lodata cosa in ingegno da non posporgli a qual si sia
stato antiquo e famoso in queste arti».1
Altri si sarebbe forse contentato della semplice ammirazione : non
l'Alberti, che non sapeva concepire l'ammirazione senza un diretto con-
tributo di operosità verso la cosa ammirata, che non comprendeva
come ci potesse essere lato nobile della vita al quale l' uomo colto non
dovesse applicare l' ingegno ; in una parola l'Alberti dal momento che
1 Xencio è certo Lorenzo Ghiberti, Masaccio non è il celebre pittore, morto l'anno avanti
l'arrivo dell'Alberti in Firenze, ma un Tommaso di Bartolommeo scultore. Cfr. H. Janitschek,
L. B. Alberti kleine kunsthistorische Schriften. Vienna, 1877, dove è pubblicata la lettera.
INTRODUZIONE
conobbe e comprese la grandezza dell'arte del suo tempo sentì il bisogno
di divenire artista. Ma quale delle tre principali arti del disegno poteva
essere con successo praticata da lui cui mancava quel substrato di co-
gnizioni tecniche pur necessarie ad ogni artista? L'architettura sola,
poiché è questa l'unica arte nella quale si può essere ideatori senza
essere esecutori ; l'Alberti infatti, se pure eseguì quei lavoretti di pit-
tura ricordati ma non lodati dal Vasari,1 volle essere e fu esclusiva-
mente architetto. Ecco dunque un primo punto da tenersi in grande
considerazione : l' impulso che spinse Leon Battista a dedicarsi al-
l'architettura fu l'entusiasmo, l'ammirazione per l'arte, specialmente
fiorentina, del suo tempo ; quando egli, nella piena maturità del suo
ingegno, vorrà fare delle opere corrispondenti alla raffinata cultura
dei suoi contemporanei, dovrà ricorrere alla decorazione elegante intro-
dotta nello stile architettonico fiorentino da Michelozzo ed a quelli esem-
plari romanico-toscani ai quali s'ispirava pure il più grande architetto
del suo tempo, Filippo Brunelleschi.
E ormai dimostrato che il Brunellesco ricercò negli antichi edifici
di Roma non i modelli e le proporzioni dei dettagli, ma l'armonia, la
nobile bellezza delle linee generali.2 L'arte sua, arte spontanea e po-
polare come quella dell'amico suo Donatello e dell'emulo suo Ghiberti,
non ebbe origine dagli studi pazienti sui monumenti classici come gli
antichi biografi di lui vorrebbero farci apparire. La lingua latina, tra-
sformandosi gradatamente nel Medio Evo e pur nella sua decadenza
dando origine ad opere di rara ed ingenua bellezza, aveva prodotto la
lingua di Dante ; l'architettura romana, attraverso una naturale evo-
luzione che pur ci dette lo stile romanico, produsse l'arte di Fi-
lippo Brunellesco. Arte che non è dunque una copia ma una libera
creazione, non un ritorno violento all'antico ma la continuazione natu-
rale di quella che il popolo italiano, successore diretto del latino, aveva
1 Vasari, Vite, ed. Milanesi, voi. II, pag. 535.
- È la conclusione alla quale giunge, nel suo ottimo lavoro, Cornel von Fabriczy, Filippo
Brunelleschi. Stuttgart, 1S92. Cfr. Paolo Fontana, Filippo Brunelleschi e P architettura classica,
in Ardi. stor. dell'arte, 1S93.
IN IKOIH/IONK
mantenuta nobile e leggiadra anche quando d' intorno strideva il verno
della barbarie. 11 Brunellesco apparteneva al popolo per nascita, per
educazione, por carattere: cercò unicamente di esprimere con le co-
struzioni che egli ideava e dirigeva i sentimenti prevalenti nell'animo
dei suoi concittadini e riuscì classico, di quel classicismo così corretto
ed originale ad un tempo che ha dato all'arte italiana i suoi più grandi
capolavori. Ben altra cosa l'Alberti che quando si dedicò all'architettura
era già un umanista; egli credette suo primo imprescindibile dovere
di studiare diligentemente il più grande trattatista che sull'architettura
aveva avuto l'antichità e di riparare con studi teorici alla mancanza
di pratica, credette necessario misurare diligentemente le forme e le
proporzioni degli antichi edifici e formare con queste misure un pro-
spetto, canone fisso di tutta l'arte d'edificare.
Dato quest'ordine di idee, è ben naturale che per l'Alberti divenisse
centro di educazione e di ispirazione, subito dopo Firenze, Roma; ed
infatti a Roma, dove passò gran parte della sua vita come abbreviatore
delle lettere apostoliche, una specie di segretario pontificio, egli ma-
turò le idee sorte al contatto dell'arte fiorentina e venne determinando
lo stile che già nel primo lavoro architettonico di cui abbiamo com-
pleta sicurezza, l'esterno del tempio Malatestiano, apparisce ben svi-
luppato e fissato. A Roma l'Alberti poteva con piena libertà dedicarsi
allo studio degli antichi scrittori e specialmente di Vitruvio nella ricca
biblioteca di Niccolò V, pontefice umanista; a Roma sopra tutto egli
poteva osservare i mirabili avanzi dell'antichità che egli tanto amava
e il cui risorgimento credeva condizione essenziale per lo sviluppo della
società del suo tempo. Perchè non è a credere che le reliquie degli
antichi monumenti fossero nel Quattrocento così rare e così trasandate
come ci vorrebbero far credere gli umanisti nelle loro descrizioni dove
l'entusiasmo e la ricerca dell'effetto facevano spesso caricare le tinte.
Flavio Biondo, nella « Roma instaurata », cerca con l'aiuto dei classici
di enumerare i monumenti distrutti e l'esaltazione della grandezza pas-
sata pone in maggior risalto l'accenno alla desolazione presente ; Poggio
Bracciolini si compiace di rappresentare sé stesso errante fra le rovine,
INTRODUZIONE 13
pieno di indignazione e di sconforto per le ingiurie che gli uomini e
il tempo avevano recato ai sacri edifici.1 Ma appunto dalle loro descri-
zioni noi sappiamo che il periodo che essi chiamavano il barbaro Medio
Evo ci aveva tramandato molto più di quello che il civile Rinascimento
ci abbia poi conservato. Le terme di Caracalla e di Diocleziano ave-
vano ancora il loro marmoreo rivestimento e le loro colonne; esisteva
intatto il Circo Agonale dove si continuava a fare dei giuochi ed intatto
il sepolcro di Cecilia Metella; il Mausoleo di Adriano, se pur aveva
perduto il suo colonnato, conservava ancora la sua forma primitiva e
sul declivio del Campidoglio s'inalzavano superbamente, davanti alla
desolazione del Campo Vaccino, il colonnato e il frontone del tempio
della Concordia distrutti poco dopo, come tanti altri monumenti, per
trasformarne il materiale in calce. In una parola, se sopra a Roma era
passata la bufera distruttrice dei barbari, non era ancora passata la
signoria rinnovatrice dei Barberini, e l'Alberti vi potè trovare non solo
frammenti di colonne e di architravi per studiarne le proporzioni più
corrette, ma anche interi edifici per osservare la disposizione e l'ar-
monia dell'insieme.
Firenze coi suoi edifici romanici e le costruzioni del Brunellesco,
Roma con i monumenti superstiti dell'antica civiltà sono dunque le
due fonti d'ispirazione per l'arte di Leon Battista Alberti, arte che
non è così spontaneamente classica come quella dei suoi contempo-
ranei e neppure così accademica come quella dei suoi successori : dal-
l' una egli apprese la grazia e la gentilezza care al suo tempo, all'altra
egli dette il più grande contributo iniziando in Italia lo studio e il rifa-
cimento di Vitruvio; ma fra l'una e l'altra egli seppe mantenersi ori-
ginale e riuscì a dare, come vedremo, al suo stile uno svolgimento
logico per raggiungere quella che egli chiama « euritmia » ed è, nella
felice corcordia delle singole parti col tutto, attuazione del suo più alto
ideale artistico. Anche questo lato della multiforme figura di Battista
merita dunque particolare attenzione da chi voglia ben conoscere quali
1 P. Bracciolini, Ruinarum urbis Romae descriptio, introduzione al trattato, De varietale
fortunae, in Sallengre, Novus theasurus antiquitatum rotuanarnm. 1735. Venezia, voi. I, pag. 497.
INTRODl 5IONE
rapporti e quale importanza avevano in questo primo uomo universale
del Rinascimento le varie tendenze ehe si contendevano il dominio
della sua melile; richiama inoltre l'attenzione di chi voglia seguire con
chiarezza lo svolgimento dell'architettura italiana, perchè l'Alberti, in
contrapposto al Brunellesco il quale non pone affatto come fonda-
mento dell'arte la teoria, è l'iniziatore di una corrente di artisti-teorici
ohe arriva quasi ininterrotta fino al Vignola e al Palladio.
Eppure chi voglia studiare l'attività artistica di Leon Battista Al-
berti non dal lato puramente tecnico come hanno recentemente fatto
alcuni architetti tedeschi,1 ma dal lato storico per determinare l'im-
portanza che l'opera sua ha avuto nell'arte italiana, si trova subito
davanti ad una gravissima difficoltà : la grande scarsezza di notizie e
la conseguente incertezza sull'autenticità degli edifici che vanno sotto
il suo nome. Gli architetti del Quattrocento, come del resto indicava il
loro appellativo di « maestri », erano nello stesso tempo ideatori e di-
rettori, artisti e sorveglianti nelle costruzioni loro affidate ; figli del
popolo essi non credevano umiliante occuparsi dei lavori più minuti e
materiali della loro arte ed unirsi ai più modesti operai perchè il la-
voro riuscisse in ogni sua parte perfetto. L'Alberti invece discendeva
da nobile famiglia ed apparteneva per educazione ed un po' anche per
indole a quel superbo cerchio di letterati, gli umanisti, che onoravano
l'arte in generale, considerata come astrazione, ma disprezzavano coloro
che si occupavano direttamente dei lavori materiali che essa pure im-
poneva ; egli infatti, un po' per tale superbia nobiliare ed accademica,
un po' anche per il suo ufficio, non curò mai, unico fra gli architetti del
Quattrocento, l'esecuzione degli edifici da lui disegnati ed affidò ad
altri la direzione dei lavori, riservandosi solo l'autorità di supremo con-
sigliere : questo gli permise di eseguire commissioni per principi di città
diverse pur mantenendo il decoroso impiego che i suoi studi gli ave-
vano procurato alla Curia pontificia, ma nello stesso tempo questo
nocque moltissimo alla sua fama, perchè documenti e cronisti ricorda-
Vedi liiblio^rafia in fine al volume.
INTRODUZIONE 15
rono raramente il nome di lui attribuendo il merito dei suoi edifici a
coloro che ne diressero la costruzione. Così l'Alberti, per quel che ri-
guarda l'architettura, fu per diversi secoli celebrato più come trattatista
che come artista, ed il nome di Vitruvio fiorentino, a lui concesso dai
suoi contemporanei, sembrò per lungo tempo compendiare tutta la sua
importanza nell'arte d'edificare ; ma il trattato che gli fece meritare
questo nome non fu che il punto di partenza per l'educazione artistica
della sua mente troppo oppressa dalla scienza e dall'erudizione, il primo
passo che egli mosse dall' umanesimo all'arte ; e chi pensi all'enorme
differenza che correva fra i caratteri dell' uno e dell'altra potrà mera-
vigliarsi che un solo uomo abbracciasse insieme ambedue queste cor-
renti della cultura, ma non dovrà meravigliarsi se egli cercò in una
grande opera di transizione di riunire la sua dottrina umanistica col
suo entusiasmo artistico. L'importante era nel non fermarsi a questo
primo passo, nel non credere che tutta l'arte dovesse essere sottoposta
alla regola ed alla legge ; questo comprese appunto, con intuizione
finissima, Leon Battista Alberti che si servì della scienza solo per avere
più ricca l'ispirazione e passò dal trattato all'imitazione e dall'imita-
zione alla creazione originale.
OD ° DI D ■=■ g D ° DJa^gp = OD = QOQ f DO
DoTdoMbTDO = DO = DlD^DlD = DID
Capitolo I.
L' ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA
E qualcuno si ponesse la questione se il trattato di Vitruvio
sia stato utile o dannoso all'architettura, dovrebbe, a parer
mio, giungere alla conclusione che esso non giovò da prima
e nocque di poi allo svolgimento di quest'arte. Né invero
lo scrittore latino pensò mai a redigere un codice di leggi al quale do-
vessero poi attingere tutti coloro che volevano costruire dei belli edifìci ;
il modo stesso con cui la materia è trattata ci dimostra che egli voleva,
servendosi specialmente di scritti teorici greci, dare uno sguardo retro-
spettivo agli splendidi resultati del periodo passato, senza occuparsi se
nell'avvenire sarebbe stato bene tornare sempre ai modelli che egli aveva
presenti.1 Vitruvio ebbe nel Medio Evo e nella prima metà del Quattro-
cento una fortuna quasi eguale a quella di un altro celebre teorico an-
tico, Quintiliano. Il trattatista dell'arte oratoria e quello dell'architettura
furono noti nel Medio Evo mutili e frammentari ; il Petrarca, in una let-
tera indirizzata a Quintiliano in persona, lamenta di possedere le sue
« Istituzioni oratorie » in uno stato deplorevole ; 2 e non doveva trovarsi
in migliori condizioni il testo di Vitruvio che egli pur conosceva, come
si vede da alcune annotazioni del Virgilio dell'Ambrosiana.3 Ma nel 141 6
Cfr. Vitruvii De architectura. Ed. Rosen. Praef.
Epist. ver. famil., XXIV, 17.
Vedi De Nolhac, Pètrarque et V humanisme. Parigi,
Alberti.
pag. 299.
e \n roLO
Poggio Bracciolini, nel monastero di S. Gallo, scoprì insieme il testo com-
pioto dell'uno e dell'altro trattatista latino; naturalmente la gioia, ormai
insperata, di possedere integro Quintiliano e le altre scoperte impor-
tanti fatte dal Poggio in quel monastero fecero sì che per il momento
Vitruvio passasse in seconda linea; ma, svanito il primo entusiasmo,
si rivolse l'attenzione anche allo scrittore dell'età di Augusto e Leon
Battista Alberti, appena che, tralasciando gli studi puramente umani-
stici, si applicò alla più nobile e grandiosa fra le arti del disegno,
volle per sua guida Vitruvio, il cui trattato, dopo pazienti ricerche,
tentò di riordinare e rimodernare nei dieci libri « De re aedifìcatoria ».
Paolo Hoffmann, in uno studio su questi libri denso di dati e di
fatti come solo un tedesco sa fare,1 dimostrò chiaramente che l'Alberti
si è valso in alcuni passi di una traduzione di Teofrasto compiuta da
Teodoro Gaza nel 145 1; d'altra parte Matteo Palmieri, un contempo-
raneo di Battista che fra l'altro compose intorno al 1475 una cronaca
degli avvenimenti principali a cui aveva assistito, pone la presentazione
del trattato di architettura dell'Alberti al pontefice Niccolò V fra i fatti
principali del 1452 2 e l' Hoffmann conferma con altri buoni argomenti
quest'anno come data della pubblicazione dell'opera. Ma non è possibile
ammettere che un lavoro di così grande mole e di così profonda eru-
dizione sia stato composto in un anno; esso è certo il irutto di un
lungo periodo di studi, di una preparazione minuziosa quanto paziente,
e siccome non possiamo posporre la data della pubblicazione, dobbiamo
argomentare che molto tempo avanti l'Alberti concepisse l'idea di rifare
il trattato di Vitruvio e raccogliesse a tale scopo il materiale che negli
ultimissimi tempi arricchì anche di alcuni passi del Teofrasto tradotto
dall'umanista suo amico. Al principio del sesto libro, parlando delle
difficoltà immense che presentava il lavoro, l'autore espone le ragioni
che lo avevano indotto a mettersi su quella via e che lo spingevano
ora a proseguire imperturbato fino al termine dell' impresa ; e le ra-
gioni sono la mancanza di un trattato di architettura chiaro e com-
1 Paolo Hoffmann, Studien zìi Leon Battista Albertis zehn Bilchern « De re aedificatoria ».
Frankenberg, Rossberg, 1883.
- MATTEO Palmieri, De temporibus suis, in Rer. italic. script. Appendice del Tartini, voi. \y
pag, 241.
L ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA 19
pleto, poiché gli antichi, compreso Vitruvio, erano troppo oscuri e ina-
datti al suo tempo, e la rovina dei più gloriosi monumenti classici,
rovina dalla quale era facile prevedere che in breve non ne sarebbe
rimasta alcuna traccia. Noi sappiamo che l'Alberti conosceva Vitruvio
già nel 1435 i e che a Roma, la città dalle cadenti rovine, si recò per
la prima volta intorno al 1432 : il proposito di riordinare quel tratta-
tista e di illustrare queste rovine fu con ogni probabilità l'effetto della
prima dolorosa impressione prodotta in lui dalle deplorevoli condizioni
dell'uno e delle altre, e non credo di esser lontano dal vero suppo-
nendo che intorno al 1435 egli concepisse l'idea di divenire il teorico
dell'arte nuova. Certo i continui viaggi e le molteplici occupazioni im-
pedirono a Battista di dedicarsi con profitto a quest'opera grandiosa
prima che al soglio pontificio salisse l'erudito Niccolò V (1447). Avanti
egli avrà raccolto qua e là una parte del materiale ; da quel momento
si sarà posto con ardore alla composizione. Oltre cinque anni di lavoro
non sembreranno poi troppi a chi consideri le difficoltà dell'argomento
e la mole immensa di studi, di ricerche, di osservazioni che il trattato
racchiude; sono gli anni nei quali l'Alberti cominciò anche pratica-
mente ad occuparsi dell'architettura e nell'architettura, come nella let-
teratura, venne formandosi uno stile che poi variò nei diversi momenti
della sua vita, ma si mantenne sempre corretto, vigoroso, personale.
Tanto più dovette esser lungo il periodo di composizione del trat-
tato in quanto non vi è dubbio che l'Alberti lo scrisse quasi contem-
poraneamente in due redazioni, una in latino e l'altra in volgare. Quale
delle due fu pubblicata per prima ? È una questione a lungo discussa
dai critici ma che non credo possa risolversi in modo sicuro ; né gli
argomenti del Mancini e dei critici tedeschi che sostengono precedente
la redazione latina,2 né quelli di un più antico ma non meno diligente
studioso dell'Alberti, il dott. Anicio Bonucci, che crede anteriore invece
la redazione italiana,3 sono decisivi. L'autore può al principio del sesto
1 Cita Vitruvio e se ne vale ampiamente nel piccolo trattato intorno alla pittura composto
nel 1435.
- G. Mancini, Vita di L. Battista Alberti. Firenze, 18S2, pag. 147 ; Hoffmann, op. cit.,
Pag- 37 ; Janitschek, L. B. Albertis kleine kunsthistorischc Schriften, ediz. cit., Prefaz.
3 Opere volgari di L. B. Alberti pubblicate dal Dott. Anicio Bonucci. Firenze, 1847, voi. IV,
pag. 189.
tapi roi o
libro avere scritto : « Tu non puoi negare che queste cose sono latine
a facili a comprendersi», indicando con quel «latine» non la lingua
ma la chiarezza della sua esposizione;1 così cade l'argomento fonda-
mentale del Mancini. Il Bonucci d'altra parte trovò in un codice Ric-
cardiano (n. 2520) una parte del trattato in volgare, con parecchie cor-
rezioni e qualche lacuna, scritta evidentemente dalla mano stessa di
Battista ; cosa che gli fece supporre che fosse quella la primitiva reda-
zione del lavoro. Le correzioni non sono però mai correzioni di fatto
ma solo di forma; le lacune tralasciano esclusivamente dei nomi propri,
in special modo geografici : le une e le altre non escludono quindi che
si tratti di una traduzione. In siffatte circostanze credo meglio confessare
con franchezza che non è possibile giungere ad una conclusione sicura,
piuttosto che cercare con sottigliezze di far prevalere l'una ipotesi o
l'altra. È sotto ogni rispetto probabile che la copia presentata nel 1452
al pontefice Niccolò V fosse quella in latino che ebbe poi la più grande
diffusione ; se la redazione volgare, che pur certo esistette e della quale
possediamo una parte, fosse composta prima o dopo di quella non sa-
prei con certezza affermare né mi sembra poi di suprema importanza
il poter affermare. Non è la forma o la lingua che deve interessare
chi vuol vedere in questo trattato solo i primi germi e le prime idee
dell'attività artistica dell'Alberti, chi vuole osservare come egli sapesse
fin da principio staccarsi in teoria dagli scrittori antichi per compren-
dere meglio come riuscisse poi nella pratica ad allontanarsi sempre più
dagli antichi modelli.
L'umanesimo (è sempre qui donde dobbiamo partire poiché la
mente dell'Alberti fu per molto tempo del tutto imbevuta di idee uma-
nistiche) aveva creato una fraseologia speciale per la quale ogni con-
dottiero veniva paragonato a Giulio Cesare, ogni pittore ad Apelle,
ogni matematico a Euclide ; l'Alberti, iniziando i suoi studi per un
1 Latino in senso di « facile, chiaro » è comune nell'antico italiano a cominciare da Dante.
L'Alberti l'usa un' altra sola volta e il raffronto conferma questa tesi. Nel IV libro della Famiglia
egli narra di aver salvato il re di Napoli Alfonso I assalito da un orso : « Subito il re co' dardi tra-
fisse e spacciò quel così atterrato orso e verso me ridendo disse, latino loro vocabolo : Te amo,
commiliton mio, che nella salute nostra nelle voluttà non meno avesti che in arme cura » (Bonucci,
op. cit., voi. II, pag. 395). Anche qui « latino» significa familiare, dialettale ; in sì terribile frangente
il re non si sarà messo certo a ringraziare l'Alberti in latino !
L ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA
grande trattato di architettura, aspirò senza dubbio a meritare il nome
che poi ebbe di fatto di nuovo Vitruvio ; per questo imitò il teorico
latino e cercò di completarlo con notizie di altri scrittori e coi resul-
tati delle sue ricerche sui monumenti ; ma d'altra parte il suo ingegno
acuto e perspicace seppe manifestarsi anche in quest'opera e ne dettò
la parte più interessante impedendole di divenire un lavoro di pura
ed arida erudizione. Può sembrare un'imitazione del trattatista latino
la divisione dell'«Arte edificatoria» in dieci libri, ma osservando quali
sono gli argomenti di questi libri, troviamo subito una differenza gran-
dissima già nella disposizione generale della materia. Nei primi due
libri, dove si parla delle cose più elementari e materiali necessarie per
una costruzione, la somiglianza fra Vitruvio e l'Alberti deriva non tanto
da una voluta imitazione quanto dall'affinità dell'argomento ; ma subito
si osserva nel nostro autore una certa indipendenza di giudizi e di ordi-
namento che preannunzia la sua intenzione di liberarsi dalle strettoie
che gì' imponeva la sua guida. Infatti nel terzo e nel quarto libro,
mentre Vitruvio tratta dei templi e dei vari ordini di colonne, l'Alberti
prosegue a parlare in generale del modo di inalzare edifici seguendo
teoricamente la costruzione dai fondamenti fino al compimento dell'opera.
Qui la differenza è nella disposizione della materia, non nel contenuto,
perchè le singole parti trovano riscontro in passi sparsi alla rinfusa nel
trattatista romano ; 1 ma quando col quinto libro l'Alberti imprende la
trattazione degli edifici in particolare descrivendoci minutamente come
deve esser fatto ciascun edificio pubblico e privato, allora ha il buon
senso di rivolgere lo sguardo alle condizioni del suo tempo e di met-
tere da parte Vitruvio che pur nei medesimi libri trattava argomenti
consimili. Il sesto e settimo libro sono dedicati alla materia che occupa
in Vitruvio i libri terzo e quarto, vale a dire i templi e gli ordini
delle colonne, e qui l'imitazione dell'antico teorico è ampliata ed arric-
chita da un'altra fonte che vedremo di primaria importanza per que-
st'opera : l'osservazione diretta dei monumenti classici. Su tale osser-
vazione si fonda quasi tutto il libro ottavo dell'Alberti dove si parla
1 Ecco qualche esempio: Dei fondamenti: Alberti, lib. Ili, cap. II, Vitruvio, lib. II,
cap. Vili ; Delle prime abitazioni: Alberti, IV, i, Vitruvio, II, i ; Delle mura della città:
Alberti, IV, Vitruvio, I, 5 ; Dei ponti e dei porti: Alberti, VI, 6, Vitruvio, V, 12.
CAPITOLO I
dei sepolcri, argomento trascurato dal teorico latino, dei ponti, che
Vitruvio aveva descritto solo di passaggio, e di tutti i luoghi per gli
spettacoli (teatri, circhi, anfiteatri), mentre l'antico scrittore si era fer-
mato siilo ai teatri. (ìli ultimi due libri poi sono completamente ori-
ginali : Vitruvio non aveva fatto una trattazione speciale per tutto quello
che costituisce l'ornamento di un edificio e non aveva neppur pensato
a parlare dei restauri, perchè a lui stavano dinanzi monumenti che sem-
bravano, nel loro splendore, eterni. Ma l'Alberti volle essere completo
pure in ogni particolare e scrisse con lo sguardo fisso a delle rovine
che egli sperava, come l'amico suo Flavio Biondo nella « Roma in-
staurata », di vedere ravvivate e completate a ricostituire le antiche
meraviglie della città eterna, e chiuse il suo trattato parlando degli
ornamenti e dei restauri, là dove il teorico latino prendeva invece per
argomento le costellazioni, parte necessaria solo quando all'architettura
era strettamente congiunta l'astrologia, e la descrizione di alcune mac-
chine di ingegneria civile e militare.
Bastano questi accenni generalissimi per comprendere che l'opera
dell'Alberti non deve affatto considerarsi un semplice rifacimento del
trattato di Vitruvio, ma è solo una liberissima imitazione di quello per
alcune parti, è esposizione di ricerche e di osservazioni originali per
altre. L'esame più accurato di tutti i passi che l'Alberti imita da Vi-
truvio condurrebbe egualmente alla conclusione che egli lo ha cono-
sciuto e se ne è valso, senza poterne mai riscontrare l' influenza nello
sviluppo del pensiero o nelle idee fondamentali del lavoro. Diverso
era lo scopo dei due autori quando impresero a scrivere i loro trattati
sull'architettura, perchè l'antico volle evidentemente fare solo una sintesi
di tutto ciò che su quell'arte era stato scritto fino ai suoi giorni senza
occuparsi dei monumenti, mentre il moderno ebbe sempre di mira il
fine pratico che si era proposto ; la diversità degli scopi portò ad una
diversità sostanziale dei lavori dal momento che l'Alberti non si lasciò
mai piegare, e qui sta il merito suo principale, dall'autorità del tanto
celebrato teorico classico.
Accanto al pregio più importante poniamo subito il difetto più evi-
dente : l'erudizione sconfinata, ingombrante di cui vuol far mostra l'au-
tore. È il difetto di tutti gli scritti degli umanisti portato al limite estremo :
L ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA 23
non vi è avvertimento, anche elementarissimo, che non sia corredato
da un subisso di citazioni, non vi è particolare che non sia corredato
da numerose leggende e aneddoti favolosi. L'autore faceva questo, come
afferma ripetutamente, per interrompere la monotonia dell'argomento
e rendere più varia, più dilettevole la trattazione, ma siccome non ha
saputo mantenere tale lodevole proposito entro giusti confini, ha ottenuto
perfettamente l'effetto opposto, vale a dire di annoiare e di distrarre
ad ogni passo l'attenzione. del lettore dall'argomento principale del libro.
L'Hoffmann ha, con una pazienza ed una minuziosità spaventevoli,
cercato di scoprire quali fra i tanti autori nominati l'Alberti conosceva
direttamente e quali invece citava di seconda mano : L oltre a Vitruvio
ed a Teofrasto, egli aveva letto senza dubbio Plinio, del quale erano
noti al suo tempo specialmente i due libri che davano uno sguardo
all'arte dell'antichità ; 2 la sua predilezione per la vita di campagna
(predilezione evidente in tutto quanto il trattato « Della famiglia ») lo
portò a studiare i due classici scrittori di cose rustiche, Catone e Var-
rone, e d'altra parte i molti passi riportati da Vegezio dimostrano che
egli conosceva anche l'antico teorico d'arte militare; ma accanto a
questi quanti altri autori greci e latini, da Omero a Finnico Materno,
vengono ad ogni passo nominati nel trattato dell'Alberti! Autori che
egli ricordava per semplice pompa di erudizione, mai per togliervi
qualche notizia che direttamente interessasse il suo argomento ; a questo
scopo serve fra gli scrittori soltanto Vitruvio.
Per una parte speciale della trattazione, gli acquedotti, l'Alberti
poteva per esempio utilmente valersi dell'opera di Frontino che Poggio
Bracciolini, suo amico ed impiegato come lui per molto tempo alla
Curia pontificia, aveva nel 1429 trovato a Montecassino ; egli invece
non se ne valse e non sentì il bisogno di valersene dal momento che
degli acquedotti rimanevano, modello impareggiabile, gli avanzi degli
splendidi esemplari romani. Perchè sempre al confronto degli antichi
monumenti gli antichi scrittori, Vitruvio compreso, devono cedere il
campo ; la superiorità delle notizie ricavate direttamente dagli edifici
1 HOFFMANN, Op. CÌt., pag. 41.
- Sono i libri XXXIV e XXXV dell' Historia naturalis. Il Ghiberti, nel primo dei suoi « Com-
mentari », li aveva tradotti in volgare quasi letteralmente. Cfr. Cod. Magliab. II, I, 333.
24 CAIM l'OLO 1
classici rispetto a quelle desunte da altri è in modo esplicito affermata
dall'Alberti : « Ecco quanto ho appreso con somma cura e diligenza
dalle opere degli antichi ; dalle quali confesso di avere imparato molto
più che dagli scrittori».1 E con quanto amore, con quanto entusiasmo
egli studiasse i monumenti classici sente pure il dovere di dichiarare
mentre confessa le difficoltà del suo lavoro: «Non vi era opera degli
antichi degna di qualche lode che io subito non investigassi per vedere
d'impararvi qualcosa».2 È però molto difficile per noi seguire questo
genere di fonti, perchè ben raramente l'Alberti tenne davanti agli occhi
un singolo edificio ; quando egli ci descrive coi più minuti particolari
i circhi o gli anfiteatri non ancora in grande uso al tempo di Vitruvio,
o splendide e grandiose terme in luogo di quelle semplici descritte dal
trattatista antico, è evidente che prende per esemplari il Circo Ago-
nale, l'anfiteatro Flavio, le terme di Caracalla e di Diocleziano. Ma
questi sono casi ben rari, perchè di solito l'Alberti, invece di fissare lo
sguardo ad un solo edificio, usa prendere qua e là le parti che a lui
sembrano migliori e congiungerle in un insieme organico e originale.
Così l'arte antica non viene considerata come modello fisso e im-
mutabile, ma come punto di partenza, unico punto possibile, di un
ulteriore svolgimento e di nuove creazioni. « Di queste spezie e varietà
di edifici (gli antichi) ne abbiamo fatta qui menzione, non per trasfe-
rirle nella presente nostra opera, o perchè noi quasi astretti dalla re-
gola e norma di queste le abbiamo a ogni modo a seguitare, ma sola-
mente a questo fine, che ammoniti da queste varie spezie di edificazioni,
ci sforziamo con le nostre nuove invenzioni di agguagliarci a quelle,
o veramente per laude superarle ».3 All'umanista piena la mente di
classicismo si sostituisce d'un tratto l'artista ricercatore instancabile del
nuovo e del bello.
Solo l'antichità poteva fornire le idee per questo rinnovamento del-
l'architettura, anzi nella mente dell'Alberti solo l'antichità romana. E
1 « Nunc quae ex veterum operibus summa et cura et diligentia collegerim referam, a quibus
plura me longe quam a scriptoribus proflteor didicisse ». Alberti, De re aedificatoria. Floren-
tiae, 1485, carta 53 a.
- « Nihil usquam erat antiquorum operum in quo aliqua laus elusceret quin ilico ex eo per-
vestigarem si quid possem perdiscere ». De re aedific, ed. cit., e. 92 b.
'■'' Cito in italiano la parte che ci è pervenuta, pubblicata dal Bonucci in op. volg. di L. B. Al-
berti (voi. IV, pag. 189) e traduco il rimanente dall' « editio princeps ». Firenze, 1485.
L ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA 25
forse un sentimento inconsapevole di nazionalismo, è forse confessione
implicita della propria ignoranza quello che lo spinge a dare la pre-
ferenza all'arte latina rispetto alla greca, preferenza che, portata fino
all'eccesso di creare dei neologismi per tutti quei nomi che dall'archi-
tettura greca erano passati nella tradizione, ottiene il resultato di creare
nuove difficoltà e confusioni: per l'Alberti il plinto si deve chiamare
« latastrum », l'abaco « operculum », i triglifi « trisulcata capita », lo zo-
foro « fascia regia », e dopo aver preso da Vitruvio qualche dimensione
rilevata da monumenti greci, egli, che tutto aveva confrontato e stu-
diato, sente il bisogno di avvertire il lettore che quelle misure non si
riscontrano « apud nostros latinos ». Ma ben diverso atteggiamento di
questo placido ed innocuo ostracismo assume il teorico umanista ri-
spetto all'arte così detta gotica; essa è l'arte di quei barbari che ave-
vano con le loro invasioni distrutto il glorioso impero romano, è l'arte
dell'oscuro Medio Evo, l'arte che fa consistere la bellezza non nella
proporzione, nell'armonia delle diverse parti (come è acuto quel capi-
tolo dell'Alberti che paragona l'architettura alla musica !), ma nell'au-
dacia, quasi direi nella dissonanza dei singoli membri. Una sola volta
egli nomina « gli archi angulari od acuti » ; i ma perchè, soggiunge
subito quasi pentito di aver ricordato siffatta aberrazione, perchè usare
questi archi tanto deformi, tanto deboli, che se non sono avvinti da
solide catene si sfasciano ? E poi contro di loro vi è un argomento
formidabile, decisivo : « Appresso gli antichi non si veggono archi com-
posti ». Non bisogna d'altra parte dimenticare che l'Alberti scriveva il
trattato perchè vedeva coloro che ai suoi tempi edificavano « perdersi
piuttosto intorno ai delirii dell'arte nuova (non sembrano parole scritte
oggi?) che ricorrere all'esempio delle opere più lodate,».2 Con queste
parole egli non allude certo al Brunellesco che creava il nuovo ricor-
rendo appunto « all'esempio delle opere più lodate », ma cerca di dare
e dà il colpo supremo agli ultimi seguaci dello stile gotico-italiano.
Oblio dunque all'arte dei greci, maledizione all'arte del barbaro
settentrione; l'arte del Rinascimento italiano deve essere continuazione
1 Bonucci, op. cit., voi. IV, pag. 370.
- « Videbam qui forte per haec tempora aedificarent novis ineptiarum deliramentis potius quam
probatissimis laudatissimorum operarti rationibus delectari ». De re aedìfic, ed. cit., e. 97 a.
26 capi roi o i
dell'arto nazionale, romana. Tale programma l'Alberti, primo teorico
di tutte e tre le principali manifestazioni di quest'arte nuova, proclama
nei suoi trattati come poi per l'architettura affermerà nella pratica. Il
passato ha gran parte nella mente di lui, ma esso non è mai fine a sé
stesso, e. nello stesso tempo, modello e impulso per l'avvenire. Idea
questa che vien fatto di ripetere sovente, forse troppo sovente, ritor-
nando, col pensiero all' immenso materiale raccolto nei dieci libri del-
l'« Arte edificatoria»; del quale non cercherò nemmeno di dare una
idea completa contentandomi di fermarmi solo ai due o tre punti che
possono maggiormente interessare il lettore, i punti cioè dove la teoria
ha più strette attinenze con la pratica. Il trattato guida l'architetto
dalla scelta del materiale primo fino al compimento di un edificio ; ma
io tralascerò i primi libri dove l'esempio di Yitruvio e il desiderio di
riuscire completo portarono Battista ad occuparsi di cose di minima
importanza e riguardanti più 1' ufficio del maestro muratore che il giu-
dizio dell'artista; tralascerò i passi nei quali l'ammirazione per la grande
antichità gli fece per un momento perder di vista la meta e lo indusse
a descrivere edifici per il semplice fatto che erano esistiti nel periodo
classico dell'arte, facendo opera più di archeologo che di architetto.
Ma nel quinto libro e nei seguenti l'Alberti imprende la trattazione
speciale di ogni genere di edifici pubblici e privati e fra i primi dà
importanza grandissima al palazzo del signore, come si conveniva in
un tempo nel quale la signoria veniva ovunque sostituendosi ai liberi
comuni, ed ai templi che questi recenti tirannelli erigevano con grande
sfarzo per acquistarsi col titolo di protettori della fede la benevolenza
del popolo.
La casa del signore l deve essere nel centro della città, ornata leg-
giadramente, di aspetto piuttosto dilettevole che superbo ; la porta prin-
cipale, ampia, conduca direttamente al cortile e sul cortile, circondato
da ben disposto porticato al terreno, da logge spaziose nei piani su-
periori, si apra lo scalone comodo e piano ; in cima allo scalone il
vestibolo per la servitù, poi la sala di ricevimento, poi le altre sale
numerose e adornate a seconda della famiglia e della ricchezza del
1 Riassumo e coordino le notizie date nei cap. 1-3 del libro V.
L ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA 2"]
padrone. Ecco il tipo del palazzo signorile fiorentino del 400, quale
si ebbe di fatto con gli edifici di Michelozzo e del Rossellino.
E la chiesa? Essa è, se ne accorge con grande perspicacia l'Alberti,
derivazione della basilica pagana ed appunto per questo egli si ferma
a descriverci la forma primitiva della chiesa cristiana, quella la cui
pianta ha la figura della lettera T ed ha per facciata principale un
portico grandioso e solenne.1 Perchè poi non accenni neppure alle
chiese a croce greca o a croce latina che erano le più comuni al suo
tempo e che anch'egli usò più tardi nella pratica, non saprei spiegarmi
se non ammettendo che i ricordi dell'antichità si siano qui pure im-
padroniti della sua mente e gli abbiano tolto la nozione esatta del suo
scopo. Ma come è preveggente, acuta questa mente quando nessun
ostacolo ne impedisce la libera operosità! Si guardi il capitolo riguar-
dante i teatri. Vitruvio, press'a poco, aveva detto : la pianta del teatro
deve essere iscritta in un cerchio ; una metà costituisce le gradinate
per il pubblico, una corda in faccia ad esse rappresenta la fronte del
proscenio. Invece l'Alberti vuole che si prolunghino i lati del semi-
cerchio formato dalle gradinate in modo che « la pianta del teatro sia
simile all'orma di un piede di cavallo ».2 È la forma moderna a ferro
di cavallo, forma che Battista non deve aver trovato in nessun teatro
antico (il teatro di Marcello era già in pessime condizioni) e che spera
« essere in ogni lato perfetta e degna di ammirazione ».3 A questo ca-
pitolo si aggiunga quello riguardante gli ospedali dove con criterio
moderno si consiglia la costruzione di corsie separate per le varie ma-
lattie, specialmente infettive,4 quello che tratta delle prigioni, tutto ispi-
rato non da avversità ma da pietà verso i malviventi,5 quello dove si
espongono i vantaggi specialmente igienici, di circondare le case di città
con ampi giardini tì e si vedrà che anche in mezzo al cumulo di no-
1 Libro VII, cap. 3 e 4, ed. cit., e. 120 a.
- «.... ut lineamentum'areae theatri imitet vestigium pressum pede equino ». De re aedific,
ed. cit., e. 151 b.
3 « Nos id opus describemus quod omni ex parte fore absolutissimum et probatissimum ar-
bitramur ». Id. id, e. 149 b.
4 Libro V, cap. VIII, ed. cit., e. 78 a.
3 Libro V, cap. XIII, ed. cit., e. 83 a.
c Libro IX, cap. II, ed. cit., e. 160 b.
CAPITOLO
di pura erudizione sa più volte affermarsi la mente vigorosa, lo
spirito divinatore dell'Alberti che inizia gloriosamente la lunga serie
dei trattatisti dell'architettura italiana.
Scopo supremo dell'arte deve essere quello di unire 1' utile al bello.
Ma che cos'è il bello? L'Alberti affronta l'arduo problema e, sebbene
la diversità degli umani giudizi lo tenga parecchio incerto prima di
giungere ad una decisione, infine conclude, che la bellezza è « l'unione
concorde di parti diverse in un insieme armonioso nel quale nessuna
di esse possa togliersi, diminuirsi o mutarsi senza che l'insieme diventi
peggiore ».* Definizione non certo soddisfacente, perchè si volge in un
circolo vizioso e non corrispondente al vero, perchè la bellezza non
può essere prodotta esclusivamente dalla simmetria: ma l'Alberti si
allontana dall'errore quando riconosce che il valore di un' opera d'arte
dipende da qualche cosa che non si può descrivere né definire e quando
loda il soffio dell' ispirazione personale che rende singolare e originale
la creazione dell'artista.
Solo un' intelligenza ampia e versatile come quella di un uomo del
Rinascimento poteva comprendere e distribuire in ordinamento logico
tutto ciò che concerne l'arte di edificare, dai vari modi di cuocere i
mattoni fino ai più alti principi di estetica; perchè se da un lato la
architettura è fra le arti belle la più docile a mettersi sotto l'impero
di leggi fisse, dall'altro è quella che abbraccia il maggior numero di
problemi ed assurge ad importanza civile e sociale. L'Alberti non ri-
volge il suo trattato solo agli artisti, ma a tutte le persone colte che
desiderino arricchire le loro cognizioni, e nella sua idea l'architetto
diviene qualcosa di più nobile, di più elevato di un semplice artista :
è il consigliere in tutte le più ardue difficoltà della vita, l'uomo che sa
col suo ingegno mantenere la sicurezza dei cittadini e tener lontani
i nemici, il dotto che provvede con l'opera sua alla felicità ed alla
quiete dei popoli. L'architetto olire la sua attività ai più splendidi e
munifici signori perchè essi possano attuare gli edifici che egli imma-
1 « Pulchritudo est certa cum ratione concinnitas universarum partium in eo cuius sint ita
ut addi aut diminuì aut immutari possit nini! quin improbabilius reddat ». De re aedific, ed. cit.,
lib. VI, cap. II.
L ALBERTI TEORICO DI ARCHITETTURA 29
gina, non per ricevere ricompensa alcuna : unica ricompensa degna di
lui è la gloria che gli procureranno le opere sue.
Con tanta preparazione e con sì alti ideali l'Alberti, oltrepassata
già la quarantina, intraprese la pratica dell'arte e proprio al principio
ebbe la fortuna d' imbattersi in un signore che corrispondeva piena-
mente al tipo di mecenate ricco d'iniziativa e d'intelligenza che egli
aveva immaginato.
Capitolo II.
IL TEMPIO MALATESTIANO
l desiderio di gloria che gli studi di umanità avevano destato
in Leon Battista Alberti infiammava pure l'animo fiero di
Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini. « Mente
del Rinascimento e carattere del Medio Evo » lo definisce,
nel tratteggiarne magistralmente la figura, il suo storico moderno.1
Ed invero questo condottiero che unisce la cavalleria al tradimento,
il mecenatismo alla crudeltà, è uno dei personaggi più caratteristici,
più contradittori ma anche più interessanti del suo tempo. Terribile nei
suoi odi come nei suoi amori, nel suo valore come nella sua ambizione.
Il Papa l'offende: egli s'arma di un pugnale, monta a cavallo e via per
sette giorni al galoppo, senza riposo, senza timore, via a Roma, ani-
mato dal solo pensiero della vendetta. Una donna rifiuta il suo amore e
giura di non essere sua finché viva; egli l'uccide per possederne almeno
il cadavere. Già condottiero delle truppe pontificie, medita poi, quando
tutti lo abbandonano per i suoi tradimenti, di chiamare i Turchi in Italia;
conoscitore dell'arte militare quanto nessun altro al suo tempo, preferisce
il più delle volte, per pura malvagità, di vincere con l'inganno e con la
perfidia; i principi d' Italia lo ammirano, lo ricercano, lo temono finché
Char. Yriarte, Un condottiere au XV siede. Parigi, 1882, pag. 179.
CAPI fOLO il
un bel giorno si riuniscono tutti quanti per disfarsene, per liberarsi di
lui come di un animale pericoloso e terribile. Eppure questo mostro,
come lo chiama il Burckhardt, è nello stesso tempo una delle menti più
elevate del secolo XV: protegge ed incoraggia, con quell'entusiasmo che
pone in ogni sua azione, letterati ed artisti, filosofi e scienziati : a Gian-
nozzo Manetti promette la neutralità in una guerra che la Repubblica
fiorentina intraprendeva col re di Napoli in cambio di alcuni mano-
scritti preziosi ; in una spedizione in Morea ritrova la salma di Gemisto
Pletone e la riporta in Italia dandole degna sepoltura; da Piero della
Francesca si fa dipingere in atto di umile preghiera ai piedi di S. Sigi-
smondo. Questo mostro conosce anche l'amore nobile, leale, sincero, e
ad Isotta degli Atti, la donna superiore che riconosce degna del suo
affetto costante, dirige poesie piene di tenerezza e di dolcezza. Un' idea
sopra tutte lo guida e lo tormenta, l'idea dell'immortalità; per essa
si circonda di poeti che cantino il suo nome, di storici che descrivano
le sue gesta, di artisti che tramandino le sue sembianze, e siccome
tutto questo non gli sembra uscire dalla cerchia comune, immagina un
monumento dove al ricordo della sua fede si unisca la glorificazione
dei suoi antenati, dove la tomba sua e della sua bella siano per sem-
pre circondate dai dotti che avevano in vita illustrato la loro corte.
Per attuare questo monumento, suprema attestazione di potenza e di
ambizione, Sigismondo si rivolse a Leon Battista Alberti e siffatta scelta
soltanto basta a indicarci con quanta acutezza egli sapesse conoscere
gli uomini e indovinare i caratteri del suo tempo.
L'Alberti non era ancora noto per nessuna grande opera architet-
tonica e neppure per i suoi studi teorici, ben lungi dall'essere compiuti,
quando, con ogni probabilità intorno al 1445, strinse relazione con
Sigismondo Malatesta. Non credo che in quell'anno il signore di Ri-
mini vagheggiasse già l'idea di ridurre la chiesa principale della sua
città, la gotica chiesa di S. Francesco, a tempio glorificatore della sua
famiglia. Ma certo fin dai primi colloqui i due grandi uomini del Rina-
scimento si compresero e si ammirarono a vicenda, e quando pochi anni
dopo Sigismondo affidò all'Alberti l'esecuzione del difficile lavoro, fu
sicuro di trovare in lui l'interpetre fedele della sua sconfinata ambizione,
come l'Alberti, disegnando l'edificio a Sigismondo, era sicuro di pre-
IL TEMPIO MALATESTIANO 33
stare l'opera sua ad un signore che sapeva apprezzare l' altezza dei
suoi ideali. Un semplice artista, per quanto geniale, non avrebbe forse
trovato una concezione così grandiosa quale ebbe l'umanista entusia-
sta ma non ancora seguace dell'arte: perchè bisognava conoscere e
sentire tutta la grandezza dell'arte antica, tutto lo sfrenato desiderio
pagano di godimento e di gloria del condottiero riminese per imma-
ginare un simile edificio; bisognava essere umanisti ed artisti nello
stesso tempo per sapere unire all'umile chiesa dedicata al più umile
dei santi un'espressione di splendore, di fasto e diciamo pure di vana-
gloria quale appare dal tempio dei Malatesta.
I primi lavori che nella chiesa eretta in Rimini dai frati minori fran-
cescani nel secolo XIII furono compiuti per impulso del fiero figlio di
Pandolfo risalgono al 1447 j1 l'ultimo giorno di ottobre di quest'anno
fu con grande solennità posta la pietra fondamentale della cappella
dedicata a S. Sigismondo ; si tratta evidentemente di un semplice rifa-
cimento della prima cappella di destra che il Signore di Rimini volle
dedicata al suo omonimo re di Borgogna. Il 15 aprile 1448 si lavorava
alla seconda cappella di destra, quella che poi racchiuse il sepolcro
della divina Isotta; 2 il 7 di aprile del 1449 Sigismondo, mentre, duce
dei Veneziani, assediava Cremona, cercava un pittore che gli adornasse
alcune cappelle della chiesa di S. Francesco, appena asciutte e in con-
dizione da poter essere dipinte.3 Ma contemporaneamente a tali restauri
interni Sigismondo volle iniziato un suntuoso rivestimento esterno del
tempio : di questo affidò l' incarico all'Alberti e l'Alberti, desideroso di
illustrare con tale opera il suo nome non meno del Signore ordinatore,
offrì in brevissimo tempo i disegni dell'edificio.
Non è possibile ammettere che l'artista iniziasse i suoi lavori prima
di aver direttamente veduto la chiesa ed i monumenti antichi che la
circondavano; non abbiamo notizie della presenza dell'Alberti in Rimini
1 Chronicon ariminense, presso Muratori: Rer. ital. script., voi. XV, pag. 960. L' Ughelli
{Italia sacra, voi. II, pag. 433), seguito da alcuni moderni, dà invece come data il 1446, ma prefe-
risco attenermi al cronista contemporaneo.
- Battaglini, Vita e fatti di Sigismondo Malatesta. Rimini, 1794, pag. 570.
3 Vedi la sua lettera scritta dal campo di Cremona e pubblicata dal Gaye : Carteggio inedito
d'artisti. Firenze, 1839, voi. I, pag. 159.
Alberti. 7,
34
CAP] rOLO II
Fi
t. Matteo dei Pasti.
Medaglia
col Tempio Malatestiano.
prima del 1440. quando vi andò per una missione diplomatica e non
vi poteva corto essere prima del 1448, essendo egli occupato nei la-
vori per il ripescamento di una nave romana nel lago di Nemi. D'altra
parte nel 1450 il restauro era già iniziato e dei disegni dell'Alberti
potè valersi Matteo dei Pasti per rappresentare il tempio compiuto,
nella medaglia coniata appunto in quell'anno in onore di Sigismondo
(fig. 1); l'opera dell'Alberti cade quindi
fra il 1448 e il 1450.
Oual è l' idea fondamentale del re-
stauro? E quella di sostituire al carattere
religioso, umilmente cristiano del gotico
francescano lo spirito superbo, paganeg-
giante del pieno Rinascimento. Tale scopo
l'autore comprese che non si sarebbe po-
tuto raggiungere con una semplice mo-
dificazione delle principali linee già esi-
stenti ; bisognava creare qualcosa di nuovo
e l'Alberti immaginò per questo di cir-
condare la vecchia chiesa con un grosso muro di rivestimento che per-
mettesse di svolgervi i motivi architettonici, espressione delle nuove
idee e della nuova civiltà. Ed ancora : bisognava creare un'opera tale
che soddisfacesse il desiderio di gloria del mecenate e ricordasse ai po-
steri la sua grandezza ; l'Alberti prese per questo l'esempio dal monu-
mento che nell'antichità aveva servito a celebrare i conquistatori, l'arco
di trionfo, e pose al lato della chiesa le tombe dei glorificatori di
Sigismondo.
Gli architetti del Quattrocento non si erano ancora posti il pro-
blema del come doveva essere la facciata di una grande chiesa del Ri-
nascimento ; l'Alberti inizia i suoi lavori affrontando subito e risolvendo
felicemente tale problema (fig. 2) ; lo risolve con l'aiuto dei monumenti
antichi e dei leggiadri esemplari dello stile romanico-toscano, special-
mente di quel suo bel S. Miniato che egli tanto amava ed ammirava.
Si guardi la parte inferiore della facciata del tempio Malatestiano: la
disposizione degli elementi architettonici che si riscontra nell'arco inal-
zato in onore di Augusto lì a Rimini, al principio della via Flaminia
IL TEMPIO MALATESTIANO
37
(fig. 3), vi è fedelmente riprodotta e ripetuta tre volte.1 L'arcata cen-
trale, più ampia, arriva fino a terra : le altre poggiano invece sopra un
alto zoccolo che circonda tutto l'edificio e ripete in un superbo fregio
ornamentale in marmo rosso di Verona il monogramma del signore e
della sua bella. Oual era lo scopo di questa triplice arcata ? Nel mezzo
si apre la porta, graziosa ma troppo piccola e quasi meschina fra tanta
Fig- 3-
RlMINI
Arco di Augusto.
(Fot. Aiutavi).
grandiosità; le altre due arcate dovevano senza dubbio, secondo l'idea
e il disegno dell'Alberti, racchiudere le tombe di Sigismondo e d'Isotta;
lo sappiamo da un passo dell' « Arte edificatoria » dove egli consiglia
di porre i sepolcri in territorio sacro ma non dentro le chiese,'2 dalla
figura offertaci nella medaglia del Pasti già ricordata e dalla lettera di
1 Si potrebbe anche pensare che l'Alberti prendesse addirittura l' idea dagli archi di trionfo
a tre fornici, ma in questi le parti laterali sono molto pia strette della centrale, hanno le arcate
più piccole e sopra ad esse resta un ampio spazio adornato di solito da grandi bassorilievi.
- De re aedificatoria, ed. cit., e. 137 a.
CAPITOLO II
uno degli esecutori al Malatesta, dove si vedo che nel 1454 si era
ancora in dubbio sulla l'orma definitiva da darsi alle nicchie che do-
vevano contenere i due monumenti sepolcrali.1 La difficoltà maggiore
era questa, che, data la poca profondità delle nicchie, era necessario o
incassare i monumenti nel muro o lasciarne una parte sporgente dalla
linea generale dell'edificio ; ragione per la quale probabilmente si de-
cise più tardi di collocare i sepolcri nell'interno della chiesa e di la-
sciare le due arcate laterali della facciata vuote e senza nessun ufficio.
Le difficoltà incontrate nella fronte principale non si ripetevano per
la fiancata (fig. 4) dove l'Alberti aveva fatto inalzare il nuovo muro
del tutto indipendente dal vecchio, anzi ad una distanza di oltre mezzo
metro da quello e lo aveva creato di tal grossezza da contenere nel suo
spessore dei massicci sarcofagi. Niente di più semplice e di più severo
insieme di questo lato del tempio: sopra il solito zoccolo, altissimo e
ornato del medesimo fregio, una serie di arcate separate da grossi pi-
lastri dorici ; nei pilastri degli spazi lisci per iscrizioni, in alto, fra un
arco e l'altro, una serie di ghirlande di foglie come quelle che nella
facciata ornano 1 pannelli fra gli archi e le colonne. Nei vani delle
arcate che attraversano completamente il muro perchè la luce, attra-
verso le finestre gotiche della vecchia costruzione, penetri dentro la
chiesa, stanno le tombe dei dotti, tombe eguali, semplici, solenni.
E quella fiancata di chiesa così maestosa nella sua semplicità, non
più destinata ad inutile funzione decorativa ma tempio essa stessa e
Pantheon che l'Alberti immaginava e Sigismondo decretava ai grandi
suoi contemporanei, è essa sola un capolavoro non tanto per la strut-
tura architettonica quanto per il sentimento umano di onore e di am-
mirazione per i grandi defunti che essa esprime.2
Torniamo per un momento alla facciata : gli archi, come il loro
prototipo, l'arco di trionfo di Augusto, sono fiancheggiati da grandiose
' Questa e le altre lettere che citeremo sono state ultimamente pubblicate, in modo molto
più esatto delle altre volte, dall'architetto Fritz Seitz, S. Francesco in Rimini. Berlino, 1893,
pag. 8 e seg.
- L'architetto Ettore Bernich (Rassegna pugliese, maggio, 1894) trova il prototipo di questa
idea negli archi laterali di alcune chiese pugliesi. Prima di tutto bisognerebbe sapere se l'Alberti
fu in Puglia, cosa che il Bernich afferma ma non dimostra, e poi bisognerebbe affidarsi completa-
mente alla sua intuizione perchè quegli archi furono ovunque chiusi intorno al 1300.
IL TEMPIO MALATESTIANO 41
colonne di tre quarti, scannellate, con piccola base adornata di un fregio
e con un capitello caratteristico, del tutto originale ; queste colonne so-
stengono una ricca trabeazione nel cui fregio un'iscrizione ricorda ai po-
steri il nome del rinnovatore del tempio e, sui capitelli delle colonne, si
affacciano graziosamente delle teste alate di cherubini, leggiadro elemento
decorativo che Luca della Robbia aveva introdotto nell'arte e che l'Alberti
ripeterà poi nell'ultimo dei suoi lavori. La trabeazione, che nella parte
laterale serve con la sua cornice assai sporgente come cornicione di tutta
la parete, nella facciata divide la parte inferiore dalla superiore ; questa,
disgraziatamente incompiuta, comprende una parte centrale assai più
alta, sostenuta ai lati da due mezzi frontoni simili a quelli che servono
a collegare le parti laterali alla mediana nella facciata di S. Miniato a
Firenze.1 Senonchè, mentre qui la triplice divisione e la maggiore ele-
vatezza della parte centrale trova corrispondenza nella struttura orga-
nica della chiesa, a tre navate delle quali la centrale più alta, in Ri-
mini non ha altra ragione di esistere che per l'estetica dell'insieme
dal momento che il tempio è ad una sola navata, ed un unico tetto,
con eguale pendenza, cuopre il corpo principale dell'edificio e le cap-
pelle laterali.
Bisognerebbe però sapere a questo proposito quali erano le idee
dell'Alberti per quel che riguarda la copertura della chiesa. Perchè
lavori per l'attuazione dei suoi disegni, cominciati con grande entu-
siasmo sotto la direzione di Matteo dei Pasti nel 1449,2 incontrarono
ben presto delle gravi difficoltà e gravissime poi quando si giunse al
punto di dover coprire l'edificio. Noi possediamo fortunatamente su
questo punto alcune lettere di persone addette alla costruzione che
danno notizie assai interessanti sull'andamento dei lavori e sulle rela-
zioni fra l'artista e gli esecutori dei suoi disegni.3 Nella prima, diretta
1 Cito sempre il S. Miniato a preferenza di altre chiese di stile romanico, perchè è l'esempio
che l'Alberti aveva continuamente sott' occhio. Egli narra nel trattato « Della tranquillità del-
l' animo » che, quando era a Firenze, non passava mattina senza salire « a salutare il tempio di
S. Miniato» (Bonucci, op. volg. di L. B. Alberti, I, pag. 58).
2 Un' iscrizione, in greco, del primo pilastro della fiancata avverte che Sigismondo inalzò il
tempio per ringraziare Dio di averlo fatto vincitore della guerra italica. Sarà questa la guerra fra
i fiorentini, comandati dal Malatesta, e re Alfonso d'Aragona terminata nel 1448 con la vittoria
dei primi.
:ì Pubblicate prima da C. Tonini, Guida illustrata di Rimini. Rimini, 1893, pag. 250 e seg.,
poi da Fritz Seitz, op. cit., pag. 8.
42 CAPITOLO II
dall'Alberti stesso a Matteo dei Pasti «amico dolcissimo» e scritta come
Le seguenti nel 1434. abbiamo subito la conferma di una notizia che il
Pasti ci aveva elato con la sua medaglia : Battista aveva immaginato
di coronare l'edificio con una cupola grandiosa e ne aveva probabil-
mente fatto il modello in legno. Antonio Manetti, architetto fiorentino
e successore del Brunellesco nell'ufficio di soprastante ai lavori della
cupola di S. Maria del Fiore, sosteneva, certo dietro l'esempio del
maestro, che le cupole debbono essere alte il doppio della loro lar-
ghezza ; l'Alberti difende la forma da lui ideata, semisferica, con l'au-
torità del Pantheon, delle Terme e di «tutte queste cose massime».
Ma anche da un'altra osservazione sente il bisogno di difendersi il
nostro autore affermando la completa indipendenza della facciata col
corpo del fabbricato. « Questa faccia convien che sia opera da per sé,
perchè queste larghezze ed altezze delle cappelle mi perturbano. Ricor-
dati, e ponvi mente, che nel modello, sul conto del tetto a man ritta
e a man manca v'è una simile cosa ».1 Vorrà dire con queste parole
che egli aveva intenzione di fare anche il tetto della chiesa a piani
diversi? Troppo vaga è l'affermazione per potervi costruire delle ipotesi.
E però certo che alla fine del 1454 i lavori erano ancora abba-
stanza indietro: il 17 dicembre Matteo dei Pasti e Pietro dei Gennari,
altro artista dirigente la costruzione, avvertono Sigismondo di aver
ricevuto da « messer Battista un disegno de la faciata e un capitello
bellissimo ». Il disegno contiene delle varianti al primitivo modello,
specialmente per quel che riguarda la forma delle nicchie ove devono
esser collocate le tombe, il capitello è certo quello per le colonne della
facciata; ma la questione principale si fa ora quella del tetto. « E ra-
gioniamo di coprir la chiesa di cose leggiere, aveva scritto l'Alberti
nella sua lettera.2 Non vi fidate su que' pilastri a dar loro carico : e
per questo ci pare che la volta in botte, fatta di legname fusse più
utile ».3 Ma non sembra che egli avesse fatto di questo un modello
dettagliato come per il resto, perchè subito dopo Matteo dei Pasti in-
1 F. Seitz, op. cit., pag. 8.
2 ivi.
:È un' idea già espressa nell'Arie edificatoria (VII, n). « Voglio che il tetto del tempio sia
a volta e per maestà e perchè sia più duraturo ».
IL TEMPIO MALATESTIANO 43
forma Sigismondo che Maestro Alvise (maestro falegname della co-
struzione) sta eseguendo un modello del tetto e che Giovanni (figlio
del precedente e segretario della fabbrica) vuole che « detto tetto de
fora sia uno, cioè che copra la capella e la chiexa », avvertendo subito il
signore, quasi per tranquillizzarlo, che « se 1 bisognerà andaremo Gio-
vanni de M. Aluixe ed io a Roma a star due giorni con Misser Bat-
tista e ve deremo el parer suo, a ciò le cosse vada come le debiano
andare ; o veramente far che lui venga qua ; questa starà in là S. V. ».d
Il 2 1 dicembre il modello di Maestro Alvise è compiuto ed il figlio
Giovanni ne manda il disegno a Sigismondo con una lettera di calda
raccomandazione : il punto che al segretario preme molto di porre in
rilievo e sul quale egli si ferma con particolare insistenza, è che questo
modello non altera in nessun modo il disegno dell'Alberti. « Per lo
ditto coverto non sa a removere niente, né non vole ussire del stile
del preditto, excetto seria de bexognio di alciare un pocho quel fo-
gliame che vene sopra la faciada ». Ecco una di quelle piccole modi-
ficazioni che s' insinuano in mezzo alle più ampie affermazioni di stima
e di rispetto e che tradiscono il più delle volte tutta la concezione del-
l'artista. Anche Giovanni termina esprimendo il desiderio di andare a
Roma per parlar con Battista, ma siccome sembra che il modello di
suo padre fosse sostenuto a spada tratta da tutti i maestri della co-
struzione, ecco che il giorno dopo un altro di questi, e fra i principali,
Matteo Nuti da Fano, manda un'altra lettera a Sigismondo per difen-
dere il nuovo modello del tetto che « viene a cov[r]ire la nave del
corpo della chiesia et tutte le capelle de là e di qua, et viene fermato
su le mura grossa, le quale la S. V. fa fare di là e di qua ». Ora
tutto questo accanimento nel difendere l'unico tetto per la navata e
le cappelle dimostra per lo meno che vi era chi pensava di dare una
copertura diversa alla chiesa ; ed infatti neh' ultima lettera si dice di
preferire il modello di Maestro Alvise perchè « secundo il primo ra-
gionamento i tecti de le capelle bassi verieno a essere dannificati da
laque che verieno dal tecto del corpo de la chiesia ».'2 Quindi esisteva
1 F. Skitz, op. cit, paj
2 Ivi, pag\ :o.
44
CAPI roLO li
anche il disegno di seguire col tetto la linea della facciata e questo
era probabilmente il disegno dell'Alberti, il quale, volendo la volta a
bone, veniva a rialzare di molto il corpo centrale dell'edificio.
La volta a botte e la grandiosa cupola in fondo, s'inalzasse essa
sul coro o sulla crociera con le navate trasversali, come disputano an-
cora gli architetti moderni,1 avrebbe sostanzialmente cambiato anche
il carattere interno della chiesa molto più che non lo cambiasse la ricca
Fig. 5-
Rumini.
Interno del Tempio Malatestiano.
(Fot. Alinari).
decorazione eseguita, per volere di Sigismondo, da una serie di scul-
tori, fra i quali occupa un posto preminente Agostino di Duccio (fig. 5).
Decorazione che ripete sopra ogni arco delle cappelle il nome del Ma-
latesta, in ogni pannello il suo monogramma intrecciato a quello d'Isotta,
in ogni riquadro il suo stemma, ed interpetra quindi anch'essa il ca-
rattere ambizioso e fastoso del signore che l'aveva ordinata. Ma si
guardi con quanto diversi mezzi nell'esterno e nell'interno del mede-
H. Geymììller, Die Architektur der Renaissance in Toscana. L. Battista Alberti, pag. 4.
IL TEMPIO MALATESTIANO 45
simo monumento è raggiunto lo stesso scopo della glorificazione di un
uomo : la solenne semplicità, certo con intenzione imitata dall'antico,
del triplice arco di trionfo della facciata cede il campo nei bassorilievi
dell'interno alla frivola pompa che forma pur tanta parte della vita del
Rinascimento ; all'eroismo quale la mente eroica dell'Alberti sentì ed
espresse nella classica veste del tempio, fa qui riscontro la cavalleria
quattrocentesca piena di bei gesti e di amorose imprese ; alla grandio-
sità delle linee si contrappone la virtuosità delle allegorie, all'impres-
sione dell'insieme la ricerca d'effetto coi particolari.
Questo stridente contrasto di caratteri dimostra nel modo per me
più evidente che l'Alberti non ebbe parte nessuna nei lavori interni
della chiesa, i quali del resto non richiedevano affatto l'opera di un
architetto; se l'architetto si fosse dovuto occupare anche dell'interno,
allora valeva meglio abbattere tutta la vecchia costruzione e ricomin-
ciarla ex novo, tanto piccola sarebbe stata la parte di essa rimasta. Ed
inoltre ben diverse erano le idee dell'Alberti per quel che concerne la
decorazione delle pareti interne di un tempio : egli poteva permettere
e desiderare che l'esterno ricordasse ai posteri la gloria del fondatore,
ma voleva nello stesso tempo che, entrati nella casa di Dio, tutto
esprimesse devoto raccoglimento. Il libro dell' «Arte edificatoria» riguar-
dante gli edifici religiosi è fra i più oscuri, perchè contiene una selva
di notizie confuse e contradittorie rispecchianti la cultura pagana ed i
sentimenti cristiani dell'autore; ma le sue idee intorno all'ornamento
delle pareti interne di una chiesa vi sono esplicitamente dichiarate.
« È certo che al Signore è grata sopra tutto la purità e la semplicità
dei colori come della vita ; e non sta bene che nei templi vi siano cose
che volgano l'animo dai pensieri della fede alle distrazioni, al soddisfa-
cimento dei sensi ».d In ben altra maniera Agostino di Duccio e i suoi
collaboratori sentivano la fede : essi cercarono di abbagliare con l'eccesso
della decorazione e, divisi i pilastri in tanti rettangoli, vi rappresentarono
i simboli della cultura antica (figure mitologiche), della medievale
{arti liberali) ed i putti danzanti e suonanti tanto cari al nostro Rina-
1 « Mihi quidem perfacile persuadebitur coloris aeque atque vitae puritatem et simplicitatem
superis optimis gratissimam esse ; et habere in templis quae animos a meditatione religionis ad
varia sensus illectamenta et amoenitates avertant non convenit ». De re aedific, ed. cit., e. 125 a.
±6 capi roLO u
scimento. Non giudico il valore di queste rappresentazioni, alcune delle
quali vere opere d*arte ; credo che l'idea di così sfarzosa decorazione,.
se potè essere ispirata da Sigismondo e da Isotta, studiosa di storia
e di filosofìa, non lo fu certo dall'Alberti, la cui opera si limitò al rive-
stimento esterno e, se le vicende della politica italiana ne avessero
permesso l'attuazione, al coronamento superiore del tempio.
Dopo il 22 dicembre 1454 ben rare sono le notizie dirette della
costruzione, ed è probabile che da quel tempo anche i lavori comin-
ciassero a procedere assai lentamente. La stella di Sigismondo decli-
nava : il tradimento che proprio nel 1454 meditò ai Senesi gli attirò
l'odio di chi era allora un semplice sacerdote ma che fu pochi anni
dopo pontefice potente, Pio II, e l'odio del Papa di casa Piccolomini
fu la rovina di Sigismondo; travolto per molti anni dagli avvenimenti
ed obbligato a difendere la sua città e la sua vita da numerosi nemici,,
egli non ebbe né il tempo né i mezzi per far proseguire come avrebbe
voluto l'opera che fu però sempre uno dei pensieri più costanti e più
gloriosi della sua esistenza. Del giugno 1455 è una convenzione a noi
pervenuta per l'acquisto dei marmi che dovevano servire alle balaustrate
delle cappelle;1 nel 1461 Sigismondo concesse dei privilegi a tutti co-
loro che lavoravano al tempio, il 23 aprile 1466, redigendo il suo te-
stamento, stabilì che i suoi beni fossero adoperati per il compimento
della costruzione;2 e finalmente, quando il 7 ottobre 1468 l'inerzia alla
quale il Pontefice lo aveva obbligato lo condusse alla tomba, gli ultimi
suoi pensieri furono per Isotta, la bella e saggia Isotta, che gli era
sempre stata fedele e degna compagna nella travagliata sua vita, e per
la chiesa ove le loro iniziali intrecciate e le loro tombe vicine avreb-
bero ricordato ai posteri l'amore e il desiderio di gloria che li avevano
insieme infiammati.
Per veder compiuta quella chiesa, mausoleo dei Malatesta, Si-
gismondo aveva cercato con sacrifici o con violenze di superare tutte
le difficoltà, principalmente la mancanza di materiale. Non saprei se
1 Riportata da C. Yriarte, op. cit., pag. 398.
1 « Item reliquit, voluit, iussit et mandavit quod sumptibus suae hereditatis fiant continue
laborari ad templum Sancti Sigismundi juxta possibilitatem suae hereditatis ». Yriarte, op. cit.,
pag. 251.
IL TEMPIO MALATESTIANO 47
ammirare il suo ardore nel non permettere interruzioni alla nuova fab-
brica o se piuttosto rimproverargli il suo cieco entusiasmo che non gli
fece rispettare tanti monumenti antichi e gloriosi : il vetusto porto di
Rimini e quello non meno celebre di Classe presso Ravenna, la chiesa
di S. Apollinare in questa città e perfino alcuni edifici dell'arcipelago
greco fornirono le loro pietre e i loro marmi, per volontà imperiosa
del signore, al rinnovamento del tempio. Sigismondo volle che in esso
fossero celebrate solenni funzioni durante l'anno del giubileo, il 1450,
con una specie di inaugurazione provvisoria della quale rimase il ri-
cordo nella bella medaglia di Matteo dei Pasti, prezioso documento
sebbene contenga qualche variante arbitraria del medaglista, e nel-
T indicazione di quell'anno che in tutta la chiesa si ripete insistente-
mente accanto al nome del mecenate. Ma i lavori, già ad un buon
punto nell'interno, erano appena incominciati all'esterno, come risulta
dai documenti citati, e il monumento, che nella fervida immaginazione
del condottiero riminese doveva esser compiuto neh' anno sacro alla
fede ed al perdono, rimase poi violentemente troncato quando il Pon-
tefice cercò di piegare e troncò l' esistenza inflessibile del Malatesta.
Così l'idea geniale che aveva ispirato il rifacimento della gotica chiesa
rimase inattuata, e Sigismondo ed Isotta non riposano circondati dai
loro glorificatori, perchè di questi quattro soltanto morirono così presto
da poter essere collocati presso ai signori che li avevano protetti, nella
fiancata destra del tempio; e nel lato sinistro le forti arcate non
ricevettero i massicci sarcofagi. Rimase inadempiuta l'esecuzione della
facciata, la quale, così come è oggi, produce un'impressione di pe-
santezza che non aveva certo il disegno dell'Alberti, tanto è vero che
essa vien tolta da qualsiasi tentativo, anche men felice, di completa-
mento della parte superiore.
« L'Alberti artista ci volle la leggiadra potenza dell'arte; Sigismondo
innamorato il fuoco dell'amore; entrambi colti e desiosi di gloria la
suprema idealità della cultura classica e dell'umanesimo».1 Così Cor-
rado Ricci riassume i caratteri fondamentali di quest'opera, che è, per
unanime consenso, una delle più interessanti e pregevoli del nostro
1 Corrado Ricci, L. Battista Alberti. Conferenza. Rimini, 1904.
CAPITOLO li
Quattrocento. Con essa l'Alberti compie la prima attuazione dei suoi
studi eruditi e copia dall'antico tanto l'idea generale quanto i parti-
colari ; ma non cade per questo in queir accademismo freddo e fuor
di luogo nel quale cadranno i classicisti del secolo seguente, perchè
al risorgimento delle forme antiche egli sa congiungere la rievocazione
di un'antica idea, l'idea della gloria. Lungi dal vedere in questa
prima opera il capolavoro del nostro autore, riconosciamo col Mala-
giizzi-Yaleri che forse nessun' altra costruzione del nostro Rinascimento
presenta « una così potente romanità senza transazioni come il tempio
1 F. Malaguzzi-Valeri, II tempio Malatestiano, in " Secolo XX" ", 1903, p. 460.
Capitolo III.
GLI EDIFICI DI FIRENZE
CCANTO al fiero ed ardente condottiero di Rimini si presenta
subito un pacifico mercante fiorentino: Giovanni di Paolo
Rucellai. Egli non è che uno dei tanti rappresentanti di
quella borghesia ricca e liberale, specialmente in Firenze
numerosa, dalla quale doveva uscire poco dopo il signore della città,
e non è nemmeno uno dei rappresentanti più scaltri e più in vista,
ma pure nella sua modestia profondamente erudito e ricercatore giu-
dizioso di ogni mezzo per accrescere la potenza e la gloria della sua
famiglia. La figura di questo mercante, quale ci apparisce dalle can-
dide pagine del suo Zibaldone, ingenua esposizione di tutte le sue
idee e di tutte le sue azioni, è del più grande interesse per cono-
scere l'animo dei primi mecenati del nostro Rinascimento che hanno
ancora l'entusiasmo semplice e puro per l'arte, al quale succederà poi
la sfrenata ambizione. Giovanni, che ha veduto nella lunga e rigogliosa
vita accrescere coi traffici le sue sostanze, prosperare nelle arti della pace
la sua città, aumentare la potenza della sua famiglia col matrimonio di
suo figlio Bernardo con la figlia di Piero di Cosimo dei Medici, è l'uomo
ottimista per eccellenza. Lo abbiamo veduto in principio ringraziare il
Signore per averlo fatto nascere in Firenze ed in quel periodo di tempo;
ma la sua gratitudine è infinita e si rinnova per tutte le occasioni, per
tutti i minimi fatti della sua vita ; ad ogni bene pensa che poteva suc-
Alberti. . 4.
50 CAPITOLO III
cedergli un male, ad ogni male che poteva avvenirgliene uno maggiore;
ò uomo e poteva nascere animale, è cristiano e poteva nascere pagano,
è civile e poteva nascere selvaggio. E di tutta questa bontà che la
Provvidenza gli ha dimostrato egli crede suo dovere rendersi degno
adoperando tutti i mezzi di cui dispone per il suo perfezionamento
civile e morale ; in tal guisa la religione diviene per lui impulso a nobi-
litare, ad educare lo spirito. Così per le ricchezze : grazie infinite egli
rivolge all' Onnipotente per averle potute raccogliere, ma a che cosa ser-
vono esse per chi non le sappia bene spendere? E Giovanni è lieto
di poter ringraziare il Signore per avere ottenuto anche il dono di
saper spendere bene i suoi denari. « E credo che m'abbi fatto più onore
l'averli bene spesi ch'avergli guadagnati e più contentamento nel mio
animo e massimamente delle muraglie eh' io ho fatte della casa mia di
Firenze...., della facciata della chiesa di S. Maria Novella e della loggia
principiata nella Vigna dirimpetto alla casa mia. E ancora della cap-
pella del Santo Sepolcro a similitudine di quello di Gerusalem del
Nostro Signore Jesu Cristo fatto fare in Santo Brancazio ».1
Nessun documento e nessuno scrittore del Quattrocento fa il nome
dell'autore di questi edifici; una tradizione che risale al Vasari li at-
tribuisce invece tutti quanti all'Alberti e questa tradizione rimase inin-
terrotta fino a poche diecine di anni or sono quando gli studiosi tede-
schi vi esercitarono la loro critica e sollevarono dei dubbi specialmente
intorno al più importante di essi, il palazzo Rucellai (fig. 6). Le strette
relazioni di stile che esistono fra questo palazzo e quello eretto in Pienza
per incarico di Pio II da Bernardo Rossellino furono la prima causa di
tali dubbi ; 1' indicazione di un antico cronista dell'arte fu poi il mo-
vente che spinse alcuni a passare dal dubbio alla certezza che il palazzo
della ricca famiglia fiorentina fosse opera del Rossellino. Il libro di An-
tonio Billi dice di fatto che « Bernardo architettore fece il modello della
casa de Rucellai »,2 ma si sa bene che non è questa una fonte tale da
doversi seguire ciecamente e tanto meno in questo punto dove l'autore,
1 Giovanni Rucellai, Zibaldone, pubblicato in piccola parte dall'avv. G. Marcotti, Un mer-
cante fiorentino del sec. XV, pag. 47.
2 Cornel von Fabriczy, // libro di Antonio Billi e le sue copie nella Biblioteca Nazio-
nale di Firenze, in Archivio storico Hai. Serie V, tomo VII, pag. 322.
(Fot. Alinari).
Fig. 6.
Firenzi-:. — Palazzo Rucellai
GLI EDIFICI DI FIRENZE 53
che scriveva circa settant'anni dopo la costruzione, potè lasciarsi esso
pure ingannare dalla somiglianza col palazzo Piccolomini.1
La questione che merita di esser risolta prima ancora di quella del-
l'autore è la questione della data. Il più antico ricordo del palazzo ci
è dato dal Filarete, il quale nel suo trattato di architettura, composto
intorno al 1460, lo dice fatto «nuovamente»;2 indicazione, come si
vede, ben vaga ma che ha accontentato la massima parte dei critici,
fino allo Stegmann e al Geymùller, che fanno così risalire il palazzo al
periodo 1455-60. È merito di Iodoco Del Badia di avere indicato una
fonte di notizie più esatta ed autorevole : le denunzie dei beni agli Uf-
ficiali del Catasto.3 Scorrendo queste denunzie si vede che nel catasto
del 1446 Giovanni Rucellai si affermava possessore di tre case conti-
gue in Via della Vigna e di più annunziava di aver comprato accanto
ad esse un pezzo di terreno;4 nel catasto del 1451 è invece denun-
ziata una sola casa in Via della Vigna e non si parla affatto di altro
terreno.5 Questo dimostra che nel 1451 il grande palazzo sorto sul-
l'area di diverse case della famiglia Rucellai era già costruito o almeno
in condizioni tali da poter essere abitato, e siffatta indicazione viene in
parte confermata anche dal libro di ricordi di Neri di Bicci, il quale,
nel giugno del 1455, annotava di aver eseguito nella casa di Giovanni
Rucellai alcuni affreschi; prova che i lavori costruttivi erano già ter-
minati.6 L'edificio di via della Vigna risale dunque agli anni 1447-145 1
ed è contemporaneo ai lavori del tempio Malatestiano: vediamo quanto
la determinazione della data ci può giovare per la determinazione del-
l'autore.
Il palazzo Rucellai palesa lo studio dei monumenti classici, spe-
cialmente romani ; coloro che ne attribuivano il merito esclusivamente
1 Non sarebbe poi questo l'unico errore del Billi anche per lavori a lui egualmente vicini:
egli attribuisce a Donatello l'« occhio di vetro» della facciata del Duomo del quale invece il Ghi-
berti parla nei suoi Commentari come opera propria, dà a Desiderio il monumento della Beata
Villana che è invece del Rossellino (1451) ed al Verrocchio la Madonna del Mausoleo di Carlo
Marsuppini che risale evidentemente al medesimo autore di tutto il monumento (1455).
- Codice Magliabechiano-palatino, 372, e. Si.
3 Vedi Raccolta delle migliori fabbriche antiche e moderne di Firenze. Firenze, 1876, pag. 1.
i Archivio di Stato di Firenze. Portate del Catasto. Quartiere di S. Maria Novella. Gonfa-
lone del Lion Rosso, n. 670.
•'> Archivio di Stato di Firenze. Id. id. n. 707.
6 Libro di ricordi di Neri di Bicci dipintore. Galleria degli Uffizi, e. 12 a.
54 CAPITOLO 111
o prevalentemente al Rossellino, portando la costruzione a dopo il 1455
spiegavano quel classicismo come conseguenza dei quattro anni che
Bernardo passò alla Curia pontificia (1451-1455); ma prima del 1451
non abbiamo nessuna notizia di una sua dimora a Roma e scemano
perciò di molto le probabilità che egli abbia ideato l'elegante costru-
zione del patrizio fiorentino. D'altra parte non bisogna dimenticare che
Giovanni Rucellai, l'ordinatore del palazzo, era strettissimo amico del
nostro Alberti ; niente di più naturale che quando gli venne Y idea di
rifare suntuosamente la sua casa ne parlasse prima che ad altri a Bat-
tista, al quale lo univa, oltre un'antica relazione di famiglia, l'accordo
perfetto di sentimenti e di pensieri nelle principali questioni che agi-
tavano la vita del tempo ; niente di più naturale che l'Alberti, il quale
in quel periodo dedicava tutta la sua attività agli studi di architettura,
non si lasciasse sfuggire una così bella occasione per farsi onore ed
eseguisse all'amico, per dimostrare la sua abilità, il disegno del palazzo.
Non rimarrebbe questa che una semplice ipotesi se altri argomenti non
ci facessero passare dal dubbio alla certezza anche senza tener conto del
Vasari e della tradizione.
Poniamo prima di tutto i raffronti stilistici, punto fondamentale di
coloro che attribuiscono il lavoro al Rossellino. Il palazzo Rucellai pre-
senta per la prima volta in facciate di edifici profani un elemento che
avrà poi grande importanza nell'arte : il pilastro. Questa innovazione
non solo deriva dallo studio dei monumenti romani, studio che nes-
suno aveva fatto come l'Alberti, ma per la sua genialità è certo il
frutto di una mente indagatrice e inventiva quale era quella dell'Al-
berti, che, specialmente in questo tempo, aveva fissa l' idea di ripetere
nell'architettura moderna le forme dell'antica. Il Rossellino invece, ar-
chitetto e scultore equilibrato e corretto quanto altri mai, non dà la
idea di uno spirito molto fecondo e innovatore; ma sopra tutto non
esprime nelle sue opere architettoniche (eccettuato il Mausoleo del
Bruni ove ha pure la sua importanza la scultura) quella gentilezza,
quella sveltezza che sono il pregio precipuo del palazzo Rucellai; di
questo egli imitò nel suo palazzo Piccolomini di Pienza (fig. 7) le
linee principali, ma non seppe imitarne la grazia ravvivatrice come
certo avrebbe saputo se fosse stato l' autore anche del primo, se cioè
GLI EDIFICI DI FIRENZE
55
a Pienza invece di una copia si fosse trattato di una creazione pa-
rallela. Ed inoltre, esaminando un po' più da vicino i due palazzi, si
vede che le somiglianze non [sono poi così numerose come potrebbero
a prima vista apparire : specialmente le proporzioni fra le parti diverse
Fig. 7-
Pienza. — Palazzo Piccolomini
(Bernardo Rossellino).
(Fot. Alinari).
dei due edifici, punto fondamentale in un' opera architettonica, sono
assai differenti e tale differenza contribuisce non poco a dare al pa-
lazzo di Pienza quel carattere di pesantezza che lo rende di tanto
inferiore al prototipo di Firenze ; infatti mentre in questo sopra gli
archi delle finestre corre un tratto assai rilevante di parete prima di
arrivare alla trabeazione del piano superiore, nel palazzo Piccolomini le
finestre sono pressoché attaccate a tale trabeazione che sembra pog-
giare su di esse ed opprimerle ; e finestre e pilastri sono qui assai
più radi e accrescono l' effetto di gravità dell' insieme.
È innegabile d' altra parte che se fra i due palazzi esiste una
certa somiglianza nelle linee generali addentrandoci nell' esame dei
particolari, ove è talvolta più facile scoprire la personalità dell'artista,
troviamo che nel palazzo Rucellai tutto ci allontana dal Rossellino e
tutto ci avvicina invece all'Alberti. Per quest'esame debbo riferirmi,
CAPITOLO III
oltre che agli altri editici fiorentini, anche a quelli che formeranno ar-
gomento del capitolo seguente, cioè le chiese di S. Sebastiano e di
S Andrea a Mantova. Per esempio l'ornamento delle porte con un
cornicione assai sporgente sorretto da due mensole, in mezzo alle quali
risalta un grosso festone di foglie, si riscontra tale e quale nella fac-
ciata del S. Sebastiano, opera certa dell'Alberti, e non negli edifici del
Rossellino ; i capitelli dei pilastri del piano terreno sono simili a quelli
della parte superiore di S. Maria Novella e delle cappelle di S. Andrea;
l'uso così misurato e sapiente del fregio che corre in un motivo con-
tinuo lungo la facciata è comune a tutte le opere dell'Alberti, mentre
non si trova in quelle del Rossellino. Altre relazioni potremo osser-
vare nella descrizione del palazzo ; altre notizie possiamo intanto
rilevare entrando in un nuovo ordine di indagini : le citazioni degli
eruditi.
Il Pozzetti, nel suo dottissimo elogio di L. Battista Alberti, afferma
di aver trovato nell'archivio « dell'ornatissimo Sig. Cav. Priore Giovanni
Orazio Rucellai » alcune memorie che, dopo aver descritto gli edifici
fatti costruire dal mercante quattrocentista, concludono : « e tutte le
sue fabbriche le faceva con la direzione, disegno ed architettura del
nobile uomo ed eccellente architetto L. Battista Alberti ».d Dove sono
andate a finire queste memorie ? Non sappiamo : ma nella Biblioteca
Nazionale di Firenze si conserva inedito un manoscritto contenente
delle notizie della famiglia Rucellai, manoscritto che, sebbene dei primi
del secolo XVIII, deve richiamare la nostra attenzione perchè è certo
copia di fonti molto antiche e autorevoli."2 Tutti i dubbi e tutte le
discussioni cesserebbero se potessimo trovare nello Zibaldone dove
Giovanni annotava i fatti principali della sua vita il nome dell'autore
del suo palazzo ; ma lo Zibaldone, rimasto in gran parte inedito fin-
ché è stato in Italia, tanto più rimarrà chiuso agli studiosi ora che
gli eredi del Comm. Tempie-Leader, antico proprietario, se lo sono
portato a Londra. Per fortuna confrontando i passi pubblicati col ma-
noscritto Magiiabechiano ora ricordato, si vede che questo è in parec-
1 Pozzetti, L. B. Alberti laudatus, pag. 39.
- Codice Magiiabechiano. ci. XXVI, n. 83.
GLI EDIFICI DI FIRENZE 57
chi punti un estratto dello Zibaldone : per la parte che tratta degli
edifici fatti costruire da Giovanni Rucellai la cosa non ammette alcun
dubbio; subito dopo, come nello Zibaldone, si parla delle nozze di
Bernardo con Nannina dei Medici e tutto il passo vien chiuso da que-
sta affermazione : « come diffusamente vien descritto in un libro ma-
noscritto di memorie di casa Rucellai favoritomi da messer Francesco
di tal casa ». Nel codice Magliabechiano si descrive la loggia ripor-
tando le parole medesime dello Zibaldone che citeremo fra breve poi-
ché per fortuna l'avv. Marcotti le ha pubblicate e si soggiunge : « Ar-
tefice ne fu L. Battista Alberti » ; e subito dopo : « Il palazzo è disegno
del medesimo Alberti ». Queste parole saranno state aggiunte dietro
l'autorità del Vasari dal copista del 700? Non credo; il confronto col
Pozzetti che da una fonte certo più antica e diversa ricavava un' iden-
tica notizia tende ad escludere tale ipotesi.1 Non vi è quindi nessuna
ragione per non prestar fede al Vasari quando ci afferma che l'Alberti
« al Rucellai fece similmente il disegno del palazzo ch'egli fece nella
strada che si chiama la Vigna e quello della loggia che gli sta di-
rimpetto ».2
Il Rossellino può benissimo assere stato l'esecutore dei disegni di
Battista, il direttore dei lavori di costruzione; appena finito quel pa-
lazzo egli fu infatti chiamato, forse per consiglio dell'Alberti medesimo,
con l'identico ufficio a Roma da Niccolò V. Questo e non altro credo
indicare la notizia del Billi : egli non fece che accettare l' opinione
generale che era naturalmente portata ad attribuire il merito del pa-
lazzo a chi era stato veduto dirigerne la costruzione, tanto più che
siffatta notizia veniva d'altra parte confermata dalla somiglianza col
palazzo di Pienza. Quanto poi all'ipotesi, che Bernardo neh" eseguire
il lavoro abbia apportato modificazioni importanti ai disegni, rimane
ipotesi non solo senza base di argomenti autorevoli, ma anche, dato
il carattere dell'Alberti, priva di verosimiglianza.
Ho insistito nel determinare l'autore del palazzo Rucellai, perchè
esso, specialmente per la sua facciata, segna davvero un punto im-
1 Che il Pozzetti si riferisse addirittura al ms. Magliabechiano non è possibile perchè cita
passi che in quello non si riscontrano.
- Vasari, Vite, ed. Milanesi, II, pag. 541.
>s CAPITOLO III
poliamo nello svolgimento dell'arte. Il Brunellesco, rinnovando l'archi-
tettura, aveva creato col palazzo Pitti un tipo di edificio profano troppo
rude, troppo austero per lo spirito colto e raffinato dei suoi concittadini ;
Michelozzo, col palazzo dei Medici oggi Riccardi, aveva cercato di
raggentilire quel tipo proporzionando meglio le varie parti dell'edificio
e diminuendo le asperità delle bugne nei piani superiori. L'Alberti,
oltre a completare questa modificazione rendendo lisce le bozze di tutti
i piani, introduce l' innovazione già ricordata : i pilastri. Così con tre
passi giganteschi dal palazzo che ha ancora i caratteri della fortezza
medievale si giunge al palazzo che esprime tutta la grazia ed eleganza
della società del Rinascimento.
Un rapido raffronto fra il palazzo Riccardi (fig. 8) e quello Ru-
cellai ci permetterà di stabilire la diversità di effetto estetico derivata
dal nuovo elemento introdotto dall'Alberti : all'importanza dei vani, gran-
dissima dove le pareti sono pressoché lisce, si sostituisce l' importanza
delle parti piene ; invece della prevalenza assoluta delle linee orizzontali
abbiamo una proporzionata unione di queste con le linee verticali ; fra
un piano e l'altro, in luogo di una semplice linea di divisione, corre
una ricca trabeazione sostenuta appunto dai pilastri; il frastagliamento
della facciata dà a tutto l' insieme un aspetto più gentile e leggiadro.
Cosimo dei Medici, che aveva ancora dei nemici in Firenze quando fece
costruire il suo palazzo, sentì il bisogno di riaffermare con questo la
sua potenza severa e minacciosa, e Michelozzo, interpetre di tali sen-
timenti, dette alla sua arte gentile un'austerità insolita ma grandiosa ;
Giovanni Rucellai, pacifico cittadino che si adattò alle condizioni del
tempo e, genero e seguace da prima di Palla Strozzi, si fece poi par-
tigiano e parente dei Medici, ricostruì più bella la casa dei suoi an-
tenati solo per adornare con essa la sua città ed il suo nome, e l'arte
maestosa dell'Alberti si piegò ad esprimere i sorrisi ed i complimenti
del buon mercante suo amico.
E innegabile inoltre, e a questo pure dovette pensare l'autore, che
il palazzo Rucellai si presta più degli altri a sorgere in una strada
stretta quale era ed è tuttora via della Vigna. I pilastri sono di ordine
diverso nei tre piani dell'edificio : dorici al terreno, ionici al primo piano
(un dorico ed un ionico caratteristici dell'Alberti), corinzi al secondo, e
GLI EDIFICI DI FIRENZE
59
questa disposizione, se può mostrare un ricordo dei monumenti romani,
può anche essere frutto della semplice riflessione, perchè l'ordine do-
rico ha l'aspetto più forte dell'ionico e l'ionico più forte del corinzio.
Idea felicissima fu poi quella di non turbare con linee curve il ritmo
(Fot. Alinari).
Fig. 8. Firenze. — Palazzo dei Medici, oggi Riccardi
(Michelozzo).
e la severa maestà dell'ordine dorico del piano terreno : perciò le porte
sono rettangolari, mentre negli altri palazzi erano ad arco, e le pic-
cole finestre sono quadrate. Ma nei piani superiori, fra le volute dei
capitelli ionici e corinzi, torna e ben si addice la forma di finestra ad
arco e a bifora quale già Michelozzo aveva leggiadramente fissato :
senonchè la colonnetta centrale, invece di poggiare direttamente come
6o capitolo in
nel palazzo Riccardi sui due archi minori, è da essi separata per mezzo
di un piccolo architrave che divide trasversalmente tutta la finestra;
anche questo particolare ci riporta all'Alberti, perchè è appunto una
delle leggi architettoniche più comuni in teoria quella che consiglia di
non far poggiare gli archi direttamente sui capitelli delle colonne o
pilastri ; l' Alberti, prima di ogni altra cosa teorico, conobbe questa
legge e l'osservò poi sempre nella pratica.
Unico difetto che si può rimproverare alla facciata del palazzo Ru-
cellai è il cornicione invero troppo tozzo e pesante in confronto alla
sveltezza dell'insieme dell'edificio; ma l'autore si preoccupò da una
parte della strettezza della strada che non gli permise di disegnare
una cornice molto sporgente, quale aveva fatto Michelozzo, e d'altro
lato, come osservò benissimo lo Schumacher, nelle dimensioni di questa
cornice egli fu obbligato a tener conto dei pilastri che aveva introdotto
nella facciata ed a cercare così una specie di compromesso fra l'altezza
totale dell'edificio e le proporzioni dei singoli piani ; l quando si tenga
conto di queste difficoltà si dovrà riconoscere che anche l'ultima parte
della costruzione rappresenta un tentativo nuovo e sufficientemente
riuscito.
L'interno del palazzo non si allontana di molto dall'ordinamento
consueto in tali edifici ; solo è degno di nota che il cortile, con un
portico parecchio pesante, non appartiene certo all'Alberti, perchè quivi
gli archi poggiano direttamente sulle colonne e fa l'effetto di un'opera
molto più tarda.
Quando il 13 dicembre 1465 Giovanni Rucellai fece testamento,
lasciò la sua casa ai figli col patto che né essi né i loro discendenti
potessero « né venderla, né impegnarla, né testarla, né appigionarla, né
alienarla » ; per loro egli l'aveva fatta erigere così bella, lieto che essa
loro ricordasse un giorno la potenza e la liberalità del fondatore.
Strettamente unita al palazzo Rucellai è la piccola loggia che le
sorge di fronte (fig. 9): il libro di Antonio Billi l'attribuisce ad un
Antonio di Migliorino Guidotti confondendo evidentemente l'autore
1 Fritz Schumacher, L. B. Alberti und seme Bauten. Berlino, 1899, pag. 17.
GLI EDIFICI DI FIRENZE
61
del disegno col suo esecutore; le testimonianze che abbiamo citato a
proposito del palazzo ed i raffronti stilistici indicano invece l'Alberti
come autore anche di questa loggia. Di essa troviamo ricordo nello
Zibaldone : « Ugolino di Francesco d'Ugolino di Nardo Rucellai sendo
vecchio d'età d'anni ottanta, per mio conforto e d'altri di casa nostra
Fi£
Firenze.
Loggetta Rucellai.
fece donazione inter vivos a me Giovanni di Pagolo di messer Pagolo
Rucellai ricevente per tutta la famiglia Rucellai d'una bottega sotto la
casa sua dove al presente sta a pigione Domenico Canacci legnaiuolo,
per mano di ser Antonio di Salomone notaio fiorentino sotto dì
29 d'aprile 1456 perchè vi si faccia una loggia per onore della nostra
famiglia per aoperarla per le letizie e per le tristizie e che ciascuno
de' Rucellai possa murarla e adornarla quando tutti non volessino con-
correre alle spese».1 Nel 1464 i lavori erano principiati2 e nel 1466,
per le solenni nozze di Bernardo Rucellai con Nannina di Piero dei Me-
dici, erano già compiuti.
1 Margotti, Zibaldone di Giovanni Rucellai, pagg. 66-67.
- Vedi passo dello Zibaldone riportato in principio del presente capitolo.
Sa capi roLO in
La Loggia è semplicissima come tutte le costruzioni di simil genere,
conni ni specialmente nel Trecento. La fronte ha tre arcate mentre i
lati ne hanno una sola; agli angoli stanno pilastri corinzi e gli archi
sono sostenuti da colonne pure corinzie; sui capitelli dei pilastri e sul
centro degli archi poggia una trabeazione che ha il fregio ornato con i
consueti emblemi della famiglia Rucellai. Forse un giorno la tettoia
doveva essere molto più sporgente, ma l'aspetto dell'edificio è oggi
del tutto cambiato: la loggia è murata, l'interno è diviso in due piani;
a terreno vi è un ufficio postale e telegrafico ; chi lo avrebbe mai detto
a messer Giovanni di Paolo Rucellai ? i
Non credo però che si debba dare soverchia importanza a questo
piccolo lavoro dell'Alberti come ad un altro eseguito per commissione
del medesimo signore, la cappella del S. Sepolcro nella chiesa di S. Pan-
crazio. Anche un superficiale raffronto fra l'architettura di questa cap-
pella e quella della facciata della chiesa (facciata ancora esistente seb-
bene l'interno sia ridotto a R. Manifattura di tabacchi) dimostra che
lo stile è identico e che perciò l'Alberti non vi ebbe nessuna parte.
Egli fece invece con ogni probabilità il tempietto centrale, il quale,
secondo il desiderio del committente, doveva somigliare il sepolcro di
Cristo in Gerusalemme; da una lettera di Giovanni Rucellai esistente
in copia nel codice Magliabechiano ricordato in principio apparisce che
egli mandò effettivamente in Terra Santa due navi con un ingegnere
e diversi uomini « per pigliare il giusto disegno e misura del Santo Se-
polcro di Nostro Signore Gesù Cristo », ma come finisse questa mis-
sione non sappiamo dal momento che il tempietto eseguito nel centro
della cappella non ricorda neppure lontanamente il Santo Sepolcro.
Sembra piuttosto il modello, piccolo ma di perfette proporzioni, di
un tempio greco : è rettangolare, all'esterno rivestito di marmo, con
graziosi pilastri scannellati che sorreggono una bella cornice. Si entra
nell'interno per mezzo di una bassissima porta e su di essa un'iscri-
1 II danno più grave e irreparabile di questo deturpamento è stata la perdita degli affreschi
rappresentanti scene della vita di S. Benedetto e di Giuseppe Ebreo, forse di mano del Pesellino,
che il Cavalcasene potè vedere e descrivere nella prima edizione inglese della sua Storia della pit-
tura, ma che pochi anni dopo furono coperti di bianco.
(Fot. Alinari).
Fisr. io.
Firenze. — Facciata di S. Maria Novella.
GLI EDIFICI DI FIRENZE 65
zione ricorda che il monumento fu costruito nel 1467 ; tutti i parti-
colari stilistici ci riportano all'architettura dell'Alberti che anche in questi
lavori di minore mole e importanza seppe manifestare quei pregi che
porterà poi al più alto grado nelle opere più grandiose.
L'altra manifestazione capitale della liberalità di Giovanni Rucellai
fu la facciata della chiesa di S. Maria Novella (fig. io). Anche per questa
ci troviamo nelle identiche condizioni che per il palazzo : nessun do-
cumento e nessuna fonte letteraria autorevole ci parla della sua costru-
zione e del suo autore. Il Pozzetti, nell'elogio dell'Alberti già ricor-
dato, riporta un passo di un Fra Giovanni di Carlo fiorentino, vissuto
fra il 1425 e il 1500, che dà al nostro Battista il merito della fac-
ciata ; i ma piuttosto che a questa testimonianza gli studiosi hanno pre-
ferito di prestar fede a quella di un altro frate domenicano, Domenico
Giovanni da Corella, che in un suo carme religioso ricorda insieme
alla facciata di S. Maria Novella il nome di Giovanni di Bertino e ne
hanno dedotto che questi fosse l'esecutore della costruzione ; altri poco
dopo ne fecero addirittura l'autore. La responsabilità di tale attribu-
zione risale in parte al Passerini, il quale riportò il passo del Corella
a mezzo;2 ma se i suoi successori si fossero dati cura di leggere il
resto avrebbero veduto che quivi Giovanni di Bertino è lodato soltanto
« per aver resa più bella la facciata del tempio intrecciando fruttiferi
rami intorno alla porta » ; in una parola, egli apparisce qui l'autore
delle sculture della porta maggiore.3 Si può presentare il dubbio e discu-
tere se, oltre a queste sculture, egli abbia anche diretto i lavori archi-
tettonici, ma la stretta relazione che unisce la facciata di S. Maria No-
vella agli altri edifici eretti in Firenze dai Rucellai e alle altre opere
1 Pozzetti, L. B. Alberti laudatus, pag. 39.
- L. Passerini, Gli Alberti di Firenze, 1870, pag. 138.
'■'• Ecco le parole del Frate domenicano :
Hic quoque praelucet Bettini fama Johannis
Arte sua tantum qui fabricavit opus,
Undique pomiferis complectens ostia ramis,
Xudaque sub vario marmora flore tegens.
Unde sit eiusdem facies conspectior aedis
Sculptoris studio sic renovata probi.
Dominici Johannis, Theolocon, in Lami, Deliciae eruditorum, XII, 98.
Alberti.
66 CAPITOLO III
disegnate dall'Alberti non permette, a parer mio, di supporre che Gio-
vanni sia stato l'architetto di questa tacciata e neppure che egli abbia
avuto nella eostruzione un merito « per lo meno così grande quanto
quello dell'Alberti».1 Specialmente la porta maggiore ha tali affinità
con la porta del tempio Malatestiano da un lato e con la porta del
S. Andrea di Mantova dall'altro che non è possibile attribuirla ad autore
diverso ; e bisogna non conoscere il carattere riero, attivo, individua-
lista dell'Alberti per poter supporre che egli si sia contentato di fare
il disegno di una sola parte dell'edificio o che abbia permesso che altri
modificassero il suo modello.
Fin dal 1448 Giovanni Rucellai destinava le rendite dei suoi pos-
sessi di Poggio a Caiano per la costruzione della facciata di S. Maria
Novella ; 2 i lavori non cominciarono però che parecchio tempo dopo
e furono compiuti, se dobbiamo prestar fede all' iscrizione del fregio
superiore, nel 1470. Molti anni si persero senza dubbio nelle tratta-
tive con le famiglie proprietarie dei sei avelli o tombe che già al tempo
del Boccaccio si trovavano alla base della facciata; è evidente che
l' idea del Rucellai e dell'architetto era di abbattere tutto ciò che vi
fosse di vecchio per rifare un lavoro artisticamente organico e con-
corde ; ma quelle famiglie non vollero turbare il sonno dei loro cari
che dormivano negli avelli ed alla fine mecenate ed artista dovettero
piegarsi a lasciare intatta la parte già esistente.
Bisogna riconoscere d'altra parte che l'Alberti non si lasciò affatto
preoccupare dallo stile e dalle linee dei suoi predecessori; come nel
tempio Malatestiano egli non tenne qui nessun conto del carattere go-
tico della chiesa, come non tenne conto degli archi acuti che copri-
vano gli avelli e le porte laterali e dei piccoli archi sostenuti da esili
pilastri ad imitazione di S. Giovanni, con i quali un altro artista aveva
voluto adornare una parte di quella facciata. C'era dunque già un po' di
gotico e un po' di romanico; l'Alberti vi gettò l'impronta della sua
arte, arte del pieno Rinascimento, e per alcuni suoi tentativi troppo
audaci prenunzio il barocco; ben può dirsi che tutti gli stili sono rap-
presentati in quest'opera bizzarra e piacevole insieme.
1 Tale è l'opinione del Geymuller, op. cit., pag. 12.
- Marcotti, Zibaldone di G. Rucellai, ed. cit., pag. 65.
GLI EDIFICI DI FIRENZE
67
Il Rinascimento naturalmente predomina : quattro grandiose colonne
corinzie di marmo verde di Prato, rafforzate ai lati da due pilastri,
sostengono una ricca trabeazione, col fregio ornato col motivo mede-
simo del secondo piano del palazzo Rucellai, e racchiudono ed offu-
scano tutta la parte precedente, gotica e romanica. In mezzo alle due
Fig. 11.
Firenze. — S. Marja Novella
Porta principale.
colonne centrali si apre la porta principale, uno dei più rari gioielli
dell'architettura del Quattrocento (fig. 11); due ricchi pilastri corinzi
racchiudono l'apertura che ha gli stipiti ornati da un leggiadro tralcio
di frutta e di foglie, essi sostengono una trabeazione nel cui fregio ri-
corre il motivo del primo piano del palazzo Rucellai (sono tanto questo
68 CAPITOLO Hi
che l'altro ripetizioni di emblemi della famiglia ordinatrice) e sono uniti
dd un grande arco con le varie fascie ornate e con l'archivolto diviso
in lacunari che hanno al centro dei rosoni di squisito lavoro. Ma la
bellezza di questa come delle altre vere opere d'arte sta nelle felici
proporzioni ilei diversi elementi, nell'armonia dell' insieme che sfugge
nella descrizione dei particolari.
Per giungere all'altezza del tetto delle navate laterali l'Alberti im-
maginò una specie di ammezzato, semplicissimo, con un cornicione
alquanto sporgente; e questo cornicione, insieme a quello della tra-
beazione inferiore, segnano due violente linee orizzontali che attraver-
sano tutta la facciata e la dividono in due parti ampiamente separate.
La parte superiore corrisponde alla navata centrale più alta della chiesa:
in essa ritornano i consueti pilastri dorici che sostengono un archi-
trave, il fregio con l'iscrizione e un frontone triangolare. Qui sopra
tutto apparisce secondo altri l'incapacità, secondo me l'abilità dell'Al-
berti. Il grande occhio centrale che dà luce all'interno non corri-
spondeva nel centro del piano superiore; era questa una delle diffi-
coltà inevitabili nel voler dare una facciata classica ad una chiesa
gotica, e l'Alberti dovette appoggiare il gran cerchio sul cornicione
inferiore con un effetto non certo piacevole; ma nello stesso tempo
egli cercò di scemare, di annullare 1' importanza di questo cerchio e
creò lateralmente le due ardite volute che, aumentando l'estensione
della parete e stabilendo la supremazia delle linee curve, ottengono
appunto tale scopo. Così quelle volute tanto discusse e biasimate, delle
quali si è cercato per mare e per terra un prototipo e nelle quali si
è visto il germe di tutta l'architettura barocca, appariscono un com-
penso e, diciamo pure la parola, un ripiego per nascondere un di-
fetto inevitabile. E come ripiego dobbiamo riconoscere che è ingegnoso
e ben riuscito ; si pensi all'effetto che produrrebbe la facciata se invece
di queste volute avesse la parte inferiore congiunta alla superiore per
mezzo dei due consueti semifrontoni, che vengono a formare due trian-
goli, come a S. Miniato e nel tempio Malatestiano: questi triangoli
rettangoli o dovrebbero essere molto alti, con i cateti quasi eguali, e
allora darebbero all' insieme un aspetto grave e sgraziato o altri-
menti lascerebbero fuori della loro linea la parte superiore dell'oc-
GLI EDIFICI DI FIRENZE 69
chio centrale che verrebbe così ad essere messo in troppo spiccata
evidenza.
Nel tempio Malatestiano abbiamo osservato che i caratteri stilistici
ci riportano, attraverso all' imitazione dell' arco di Augusto, al senti-
mento grandioso che ispirò l'arte romana ; la facciata di S. Maria No-
vella esprime invece la gentilezza dell'architettura romanico-toscana e
ricorda infatti per parecchi punti il S. Miniato che abbiamo veduto tanto
caro all'Alberti. Deriva certo dall'esempio della parte preesistente ma
ci avvicina al S. Miniato il saggio alternarsi del marmo bianco col
verde di Prato (il verde dava l' idea del nero e formava col bianco
i due colori cari ai domenicani) che accresce l'eleganza severa delle
principali linee architettoniche. Da Roma egli aveva appresa la gran-
diosità dello stile e l'aveva manifestata per incarico di un principe
guerriero ; in Firenze egli apprese la grazia e l'adoperò negli edifici
di un mercante pacifico; l'una e l'altra riunite in una creazione su-
prema formeranno poi il magnifico tempio, espressione di una Corte,
di vita, di cultura del pieno Rinascimento.
Ma prima di parlare di questa e di un'altra chiesa che l'Alberti
costruì in Mantova, debbo ricordare l'ultimo lavoro che, appunto per
incarico del principe di questa città, Lodovico Gonzaga che impare-
remo a conoscere fra poco, egli disegnò per Firenze : il coro nella
chiesa della SS. Annunziata (fig. 12). Il convento dei Servi di Maria
ci ha conservato molti documenti sui lavori delle diverse parti della
chiesa1 offrendo così ampio materiale a Willelmo Braghirolli quando,
in una rivista tedesca, tentò di fare la storia della parte appunto che
c'interessa, la tribuna.'2 Dall'importante articolo del Braghirolli appren-
diamo, sempre dietro la scorta di documenti, che quando i frati pen-
sarono di abbellire la loro chiesa con una tribuna, si rivolsero primie-
ramente a Michelozzo e fecero scavare e murare le fondamenta secondo
un suo disegno ; non contenti poi dell'opera sua, preferirono un nuovo
modello di Antonio Manetti che dava forma circolare alla fabbrica, e
1 Archivio di Stato di Firenze : Carte del Convento della Nunziata.
2 W. Braghirolli, Die Baugeschichte der Tribuna dcr S. Annunciata in Florenz, in Repert.
fur Kunstwis., 1879, pag. 260.
70
CAPITOLO 111
nel 1400 cominciarono i secondi fondamenti obbligati però a sospen-
dere ben presto i lavori per mancanza di mezzi. Allora il Marchese
di Mantova, capitano dei fiorentini, li soccorse rilasciando loro una
parte della paga a lui spettante, e quando i frati, dopo molte insi-
stenze, poterono avere dal Comune questi denari, ricominciarono, se-
condo un terzo disegno, la costruzione che finalmente questa volta
potè giungere alla fine. Che il terzo disegno per il coro della SS. An-
nunziata fosse compiuto dall'Alberti
e che ad esso corrisponda, nelle sue
linee fondamentali, la forma odierna
di quel coro, è cosa, malgrado dubbi
ed ipotesi anche recenti, sicura. Ne
abbiamo certezza da alcune lettere,
pubblicate dal Gaye, di un tal Gio-
vanni Aldobrandini che aveva un
suo modello da mandare avanti e
che perciò scrisse ripetutamente a
Lodovico mettendo in rilievo tutti
i difetti contenuti, secondo lui, nel
disegno approvato ed esprimendo
la sua meraviglia che quel dise-
gno fosse opera di « messer Battista
degli Alberti ».L Le lettere sono
del 1470 e da esse apprendiamo che in quel tempo i lavori erano già
ad un buon punto; solo l'anno avanti i Serviti avevano ricevuto dal
Comune i denari concessi dal Gonzaga.
I difetti principali messi in rilievo dall' Aldobrandini sono quelli
medesimi rimproverati poi dal Vasari e che tuttora sollevano le cri-
tiche degli architetti più scrupolosi: il muro principale sul quale pog-
gia la cupola è indebolito da nove nicchie, scavate nella sua grossezza,
che costituiscono delle cappelle piccole quanto fuor di luogo ; l'unione
di questo coro col rimanente della chiesa per mezzo di un arco smi-
surato è sgraziata e violenta ; l'arco deve necessariamente nell' interno
Fig. 12. Firenze.
Pianta dell'Abside dell'Annunziata
1 Gaye, Carteggio inedito d'artisti, voi. I, pag. 226.
GLI EDIFICI DI FIRENZE 71
seguire la curva della rotonda mentre all'esterno la parete è piana e
l'archivolto viene così ad avere una forma assai strana; le nicchie, se-
guendo il giro della parete, da certi punti sembrano cadere all' indie-
tro. Questi inconvenienti ben conobbero subito gli artisti fiorentini e
furono tante le censure mosse al Gonzaga per aver scelto quel mo-
dello che egli un bel giorno, seccato, scrisse una lunga a risentita
lettera alla Signoria fiorentina avvertendola chiaramente che se vo-
leva il Coro dell'Annunziata, il disegno era quello o altrimenti ne co-
struisse essa, a sue spese, uno più bello. La Signoria si affrettò a
rispondere che lasciasse parlar le male lingue e facesse proseguire i
lavori in quell'opera costruita «con tanta magnificenza e dottrina!»1
La ragione per cui Lodovico insisteva nel volere eseguito il di-
segno dell'Alberti era la sicurezza con la quale questi rispondeva alle
accuse dei suoi oppositori. Piero del Tovaglia, rappresentante del Gon-
zaga in Firenze, scriveva al suo signore: « Messer Batista dicie e
chosì ha sempre detto che sarà più bella che chosa che vi sia, e che
chostoro nollo intendono, perchè e' non sono usi a vedere simile chose,
ma che quando lo vedranno fatto che parrà loro molto più bello che
la crocie ».2 Nuova era infatti la concezione dell'Alberti che qui come
in tutte le altre sue opere ebbe l' idea originale e volle tentarne l'ap-
plicazione; se tutti questi tentativi non sono egualmente riusciti, non
potremo poi fargliene soverchio carico e mettere in campo la sua man-
canza di pratica. Quando l'Alberti prese dal Pantheon 1' idea della ro-
tonda con dei vani nella grossezza della parete, vide certo le difficoltà
che presentava quel motivo, specialmente quando ad architravi soste-
nuti da colonne si sostituissero delle nicchie ad arco ; ma il suo spi-
rito inflessibile non gli permise di lasciarsi vincere da queste difficoltà ;
il tentativo era audace e valeva la pena di farlo senza tener conto delle
piccole preoccupazioni che desta naturalmente ogni idea nuova, ogni
forma non mai tentata. Prima di giudicare oggi il lavoro bisognerebbe
sapere se l'Alberti aveva davvero pensato di coprire la tribuna con
una cupola cieca, illuminandola invece con delle finestre sopra gli ar-
1 Gaye, op. cit., voi. I, pag. 235.
- W. Braghirolli, op. cit., pag. 27]
CAPI rOLO IH
chi dolio cappello ; di questo è lecito dubitare dal momento che dopo
il 1470 i lavori furono sospesi e ricominciati solo nel 1472, anno della
morto dell'Alberti; un'iscrizione che occupa tutto il fregio della tra-
beazione porta la data del 1477. Chi sa che i difetti lamentati non
fossero diminuiti 0 nascosti se la luce provenisse da un unico punto
centrale, una lanterna al culmine della cupola che riunirebbe le varie
parti dell'edifìcio in un organismo più stretto; oggi serve a diminuirli
la ricca ornamentazione barocca dalla quale è coperta tutta la chiesa.
Capitolo IV.
LE CHIESE DI MANTOVA
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1
no dei meriti principali di Giovan Francesco Gonzaga, si-
gnore di Mantova, fu senza dubbio quello di affidare l'edu-
cazione dei numerosi suoi figli a Vittorino da Feltre che
in Mantova fondò quella « casa giocosa », centro fecondo
di sapienza, di educazione, di pietà. Fra gli scolari più diligenti di
questa casa era, insieme a Federico da Montefeltro che fu poi Federico
da Urbino, Lodovico Gonzaga, figlio ed erede di Giovan Francesco.
Fedele agl'insegnamenti del maestro, Lodovico, successo al padre, so-
stituì al fasto lussurioso della Corte mantovana uno splendore più raf-
finato e più artistico : basterebbe a sua gloria l' aver egli protetto a
lungo il Mantegna che volle nella città dei Gonzaga la sua tomba ; si
aggiungano altre azioni che lo rendono degno della riconoscenza dei
posteri e fra queste non ultima l'incarico affidato all'Alberti per i di-
segni delle due chiese con le quali volle adornare la capitale del suo
marchesato.
Pio II, salito contro l'aspettazione di tutti al trono pontificio, de-
siderava con un gesto grandioso di rendersi noto e temuto ai prin-
cipi d'Europa, e come primo atto della sua sovranità convocò nel 1459
un Concilio a Mantova per organizzare una crociata contro i Turchi,
suprema e vana aspirazione di tutta la sua vita. Con grandi feste e
con lusso inaudito Lodovico accolse il Pontefice e i principi che per
-.\ CAPITOLO tV
pompa o per obbligo erano intervenuti al Concilio; era fra questi Si-
gismondo Malatesta, lontano parente del Gonzaga, fiducioso, con un
atto di sottomissione al Pontefice, di conservare la supremazia sulle
Romagne : era nel numeroso seguito del Papa l'Alberti, noto ormai
dovunque per le numerose sue opere letterarie ed artistiche.
L'Alberti aveva conosciuto Giovan Francesco Gonzaga, padre di
Lodovico, al quale aveva anche dedicato, con una lettera piena di lodi
e di affettuosa deferenza, la redazione latina del suo trattato sulla pit-
tura; la sua dimora ora in Mantova e la presenza nello stesso tempo
del Malatesta sarebbero certo bastate perchè egli stringesse relazione
col figlio, signore della città ; accadde inoltre un fatto speciale per cui
si ebbe d'un tratto bisogno dell'opera sua e solo sei anni dopo Lo-
dovico poteva raccomandare Battista al Pontefice con queste affettuose
parole : « Il venerabile e spettabilissimo messer Battista degli Alberti
negli ultimi anni ebbe meco somma familiarità, si trattenne molto presso
di me, né mancò mai di prestarmi l'opera ed i servigi suoi, per la
qual cosa me gli devo professare obbligato >>.d Sempre verso la fine
del 1459 il Marchese di Mantova, in seguito ad un sogno, decise
di inalzare precipitosamente una chiesa a S. Sebastiano; non vi era
tempo per andare a cercare un architetto, non ve ne era neppure per
raccogliere i materiali fuori della città ; l' uno per fortuna si trovò in
Mantova stessa e fu l'Alberti, gli altri vennero presi da un'altra fab-
brica in costruzione. E così il fedele cronista mantovano del Quattro-
cento, lo Schivenoglia, potè l'anno seguente appuntare : « Nota che
lano 1460 fo principiato la gexia de San Sebastiano in di prade de
Redevallo, la qual gexia la fece chomenzare lo marchexo Lodovigo per
uno insonio chel se insonioe una note et fo principiata tanto in freza
che fo tolto predij, e giaronij e chalcina che era stato chondute a la
porta de la Pradela per livrare la racheta de quela porta».2
L'archivio Gonzaga è ricco di documenti che riguardano questa e
l'altra chiesa ben più importante disegnata dall'Alberti per Lodovico,
il S. Andrea, ed uno studioso di cose mantovane, Willelmo Braghirolli,
1 Archivio storico Hai., Serie IV, voi. IX, pag. 12.
- Schivexoglia, Cronaca di Mantova, in Raccolta di cronisti e documenti lombardi, voi.
pag. 145-
LE CHIESE DI MANTOVA 75
potè qualche tempo fa pubblicare una lunga serie di lettere riferentisi
alle relazioni fra Battista, gli esecutori dei suoi disegni e il signore
di Mantova,1 e subito dopo, coi documenti del medesimo archivio, trat-
teggiarci la figura di un artista che da ora in avanti avremo di con-
tinuo presente, Luca Fancelli.2 Era questi, dal momento che Cosimo
dei Medici lo aveva raccomandato a Lodovico Gonzaga, il soprainten-
dente, come si direbbe oggi, o il capomastro, come si diceva allora,
di tutte le costruzioni che il principe faceva erigere in Mantova e nei
dintorni ed in tale sua qualità egli fu il naturale esecutore dei disegni
dell'Alberti. Il Fancelli trovò almeno per un certo tempo il suo com-
pito assai facilitato in confronto dei suoi predecessori, perchè l'Alberti
si trattenne allora e ritornò poi più volte a Mantova3 e potè così
sorvegliare e informarsi direttamente dell'andamento dei lavori; ma
dalle lettere che ci rimangono si apprende che ufficialmente incaricato
della costruzione era solo il Fancelli, mentre Battista si riservava l'au-
torità di modificare o spiegare ogni tanto i suoi disegni.
Il 22 febbraio 1460 il modello di S. Sebastiano era compiuto e
l'Alberti ne avvertiva subito Lodovico che trovavasi in quel momento
a Milano; nel marzo si gettarono i fondamenti ed il 22 di maggio il
Gonzaga scriveva da Petriolo ad un suo fidato di Mantova avverten-
dolo di voler essere continuamente informato del come procedevano i
lavori del S. Sebastiano.4 A tale ordine rispondono tre lettere di Luca
«taglia priete», come egli si firmava: una dell'agosto 1463 avverte il
signore che, restaurati alcuni muri di vecchie costruzioni, si attendeva
ad inalzare la parte anteriore della chiesa; un'altra del dicembre dello
stesso anno e' informa che i lavori erano giunti all' impiantito del piano
superiore (la fabbrica è, come vedremo, a due piani) ; da una terza
lettera del dicembre 1466 sappiamo che in quel tempo si lavorava
« alla chornixe che va alla porta della volta del porticho ».5 Così la
1 Willelmo Braghirolli, L. B. Alberti a Mantova, in Archivio storico ita!., Serie II
tomo IV, parte I, (1869), pag. 13.
- Willelmo Braghirolli, L. Fancelli scultore, architetto e idraulico del sec. XV, in Archh
storico lombardo, anno II/, pag. 610.
3 Ci stette fino alla metà del 1460, vi tornò tutto il 1463, poi nel 1465 e nel 1470.
4 Willelmo Braghirolli, L. B. Alberti a Mantova, loc. cit., pag. 20.
■> Ivi, pagg. 20, 21.
CAPITO] 0 i\
chiosa, che era stata cominciata con tanta frotta, dopo sei anni ora ben
lungi dall'essere terminata; dopo altri quattro anni, nel 1470, si di-
scuteva ancora sulla torma da darsi al porticato anteriore, e solo nel
novembre di quell'anno l'Alberti potè rivolgere una lettera a Lodovico
per ringraziarlo di aver finalmente x disposto che i lavori di S.Seba-
stiano procedessero con maggiore alacrità verso la fine. Se poi fossero
davvero compiuti non sappiamo e, date le presenti condizioni dell'edi-
ficio, è ben difficile determinare; per me non credo, dato che un'im-
presa di ben maggiore importanza
distolse subito dopo l'animo di Lo-
dovico e che la facciata dà tuttora
l'idea di qualcosa di non completo.
Tutta l'importanza della pic-
cola chiesa di S. Sebastiano (piccola
in confronto degli altri edifici gran-
diosi immaginati dall'Alberti) sta
nel fatto che essa è il primo esem-
pio nell'architettura del Rinasci-
mento di una costruzione a pianta
centrale o, per essere più preciso,
a croce greca (fig. 13). Non è qui
il caso di fare un paragone fra la
croce latina e la greca per dimo-
strare i vantaggi e la superiorità dell'una o dell'altra; ma è innegabile
che il sistema a croce greca, così suggestivo, così organico, così armo-
nioso, ha sempre sedotto le menti più vaste e potenti : Leonardo, Bra-
mante, Michelangiolo riprenderanno in seguito quel sistema; l'Alberti
ne dà intanto il primo esempio. Peccato che questo primo esempio
di una forma di architettura tanto importante nella storia dell'arte ita-
liana sia a noi pervenuto e sia mantenuto ai giorni nostri in condizioni
talmente deplorevoli che è appena possibile con uno sforzo d'imma-
ginazione ricostruire dalle brutture presenti la leggiadra armonia pri-
mitiva ! *
Fig. 13-
Mantova.
Pianta della Chiesa di S. Sebastiano.
Dal 1848 la chiesa è ridotta a caserma
LE CHIESE DI MANTOVA 77
L'Alberti aveva evidentemente voluto dare ali 'edificio un carattere
di grande sveltezza sviluppandolo molto in alto ; a questo scopo aveva
elevato il livello della chiesa costruendovi sotto un piano terreno a
guisa di cripta ed aveva immaginato di coronare l'edificio, oltre che
con una grande cupola centrale, con due snelli campanili ai lati di
questa cupola, come può vedersi dalla pianta.1 Dei due campanili uno
o non è mai stato costruito o è rovinato; la cupola, parte essenziale
in un edificio di tale forma, cadde e fu sostituita da un tetto a spio-
venze regolari.
Nel corpo principale si aprono i quattro bracci con volta a botte :
tre terminano con abside semicircolare, il quarto, quello che corri-
sponde alla fronte, contiene, sorretta da colonne, un'ampia cantoria.
Al piano della chiesa è un vestibolo illuminato da una serie di cinque
finestre che corrispondono sulla facciata, e per giungere a questo piano
l'Alberti immaginò una scala laterale con leggiadro colonnato, il quale
soltanto, restaurato recentemente, può darci un'idea di quanta grazia
e quanta gentilezza avessero in origine i disegni di questa costru-
zione (fig. 14). La facciata invece (fig. 15), così coni' è, produce
l' impressione di un lavoro incompiuto ; sopra una serie di arcate
chiuse, divise da semplici pilastri, corrispondenti al piano terreno del-
l'edificio, si aprono le cinque finestre del vestibolo alternativamente
ad arco e ad architrave, delle quali soltanto la centrale è ornata con
un cornicione assai sporgente, sorretto da mensole ; sopra a questo
cornicione si inalzano, con effetto estetico ben problematico, due
piccoli pilastri che giungono all'architrave delle trabeazione princi-
pale sostenuta agli angoli da altri due pilastri, di ben maggiore effetto,
che partono dalla base delle finestre ; e questa trabeazione è, nel centro
della facciata, interrotta e il vano vien chiuso superiormente da un arco
il quale, almeno presentemente, non raggiunge altro scopo che quello
di sciupare la felice idea di terminare l'edificio con un grandioso fron-
tone triangolare.
Troppo comodo sarebbe attribuire all'esecutore del lavoro, il Fan-
celli, la colpa di tutto ciò che in esso troviamo di meno bello o di
1 Che l'Alberti avesse pensato ad un solo campanile non credo considerando che per lui legge
fondamentale e imprescindibile di una costruzione è la simmetria.
7S
CAPITOLO IV
mono corrispondente al nostro gusto. L'Alberti non permetteva mo-
dificazioni ai suoi disegni e tanto meno ne avrebbe permesse in questa
chiosa, sorta, può dirsi, sotto la sua immediata sorveglianza. Quando
Matteo dei Pasti gli aveva proposto di variare la proporzione di alcuni
Fig. 14.
Mantova.
LOGGETTA DI S. SEBASTIANO.
pilastri nel tempio Malatestiano, egli aveva subito risposto: «Ciò che
tu muti discorda tutta quella musica » , proibendogli la variazione ; per
questa ragione ho a lui attribuito tutto il merito delle rare bellezze
degli altri edifici da lui disegnati e per la medesima ragione è giusto
che faccia a lui risalire i difetti, se difetti ci sono, di questa facciata.
Dico « se difetti ci sono », perchè è impossibile nelle condizioni pre-
senti formulare un giudizio sicuro e definitivo ; l'Alberti, tendente per
LE CHIESE DI MANTOVA
79
carattere più al grandioso che al grazioso, voleva qui dilettare l'occhio
con la ricchezza degli ornamenti, dei quali pur troppo non rimangono
che rarissime traccie. Andrea Mantegna, che aveva la sua casa pn>
prio di faccia alla chiesa di S. Sebastiano, contribuì all'abbellimento della
Fig. 15. Mantova. — Chiesa di S. Sebastiano.
facciata con un dipinto che oggi conservasi, assai deperito, nel Museo
di Mantova ; i più tardi il Mantegna stesso, prevedendo vicina la morte,
volle acquistarsi un posto per la sua tomba nella chiesa di S. Andrea
per dormire l'eterno riposo nel mirabile tempio che il genio dell'Al-
berti aveva dato alla città dei Gonzaga.
1 Rappresenta la Madonna in trono circondata dai SS. Fabiano e Sebastiano e da Lodovico
e Barbara Gonzaga. Porta nel Museo il n. 13.
SO CAPI rOLO IV
« Vorrei che il tempio avesse in sé tanta bellezza da non potersi
pensare eosa più bella; e desidero che in ogni sua parte sia così di-
sposto che coloro che vi entrano stupiscano di ammirazione e si trat-
tengano a stento dall'esclamare esser veramente quel luogo degno di
Dio».1 Tale era per l'Alberti teorico d'arte l'ideale della chiesa cri-
stiana e l'attuazione di questo ideale era ancora, venti anni dopo, la
suprema aspirazione di lui. Fino ad ora non gli era capitato per edifìci
sacri che di dover restaurare o completare costruzioni preesistenti, le
quali, malgrado l'indipendenza e l'originalità dell'artista, venivano ad
ostacolare il libero svolgimento della sua abilità creatrice; nel S. Seba-
stiano troppo modeste erano le idee del committente per poter eseguire
i suoi piani grandiosi. Solo nell'ultima sua opera, la basilica di S. An-
drea, che egli non potè vedere neppure iniziata, l'Alberti ebbe la piena
libertà di affermare nella pratica quale era per lui il supremo ideale
per la casa di Dio ; e con la basilica di S. Andrea creò il suo ca-
polavoro.
È interessante la leggenda che negli antichi tempi aveva dato origine
a questa chiesa : Longino, soldato romano, ferì con la sua lancia Cristo
morente sulla croce e si macchiò le mani del sangue del Redentore:
oppresso dal rimorso raccolse quel sangue in un vaso e si pose a
predicare pel mondo la nuova dottrina. A Mantova, dove egli giunse
dopo lunga peregrinazione, trovò la morte per opera del governatore
di Tiberio, ma prima di morire riuscì a nascondere nell'orto dell'ospe-
dale dei pellegrini la sacra reliquia. L'apostolo Andrea rivelò poi la
esistenza del sangue del Salvatore ed al suo nome fu dedicato un
oratorio eretto nel luogo dove si ritrovò il vasello di Longino. Più
tardi Beatrice di Canossa, per festeggiare la nascita di una figlia che
fu poi la Contessa Matilde di Toscana, volle che nel luogo dell'ora-
torio di S. Andrea sorgesse ampia e ricca chiesa; questa fu per lungo
tempo officiata dai monaci benedettini finché, rilassatasi la disciplina,
il Pontefice non ne affidò la direzione ad un collegio di nobili citta-
1 - Velim quidem templum tantum adesse pulchritudinis ut nulla speties ne cogitari uspiam
possit ornatior ; et omni ex parte ita esse paratum opto ut qui ingrediantur stupefacti exhorrescant
rerum dignarum admiratione vixque se contineant quin clamore profiteantur dignum profecto esse
ocum Deo ». De re aedi/., ed. cit., e. 122 a.
LE CHIESE DI MANTOVA Si
dini con a capo il vescovo Francesco Gonzaga, figlio di Lodovico.
Il padre allora pensò di appagare un vivo desiderio dei Mantovani
facendo ricostruire più magnifico e grandioso il tempio dove si vene-
rava il sangue di Cristo.1
Sebbene durante i lavori di S. Sebastiano si fosse stabilita una
stretta ed affettuosa relazione fra l'Alberti e il Marchese di Mantova,
non sembra che questi si rivolgesse prima che ad altri a lui per avere
i disegni della nuova chiesa; certo prima di Battista fece un modello
Antonio Manetti, modello sul quale Lodovico chiese il giudizio del
nostro architetto. « Vidi quel modello del Manetti, scrive l'Alberti nel-
l'ottobre del 1470; piaqquemi. Ma non mi pare apto a la intentione
vostra. Pensai et congettai questo qual io vi mando. Questo sarà più
capace, più eterno, più degno, più lieto ».2 Parole meritevoli di esser
ricordate e che dimostrano come fin da principio l'autore fosse con-
tento dell'opera sua. Lodovico si affrettò a rispondere all'Alberti che
il suo disegno, « prima fatie », a prima vista, gli era piaciuto e che
appena ottenute alcune spiegazioni si sarebbe proceduto all'esecuzione;
ma siccome per buttar giù la vecchia chiesa ci voleva il permesso del
Papa e per inalzare la nuova ci voleva parecchi denari, così passò
ancora un anno senza che niente fosse concluso. Il giorno dell'Ascen-
sione del 1471 si aprì una sottoscrizione alla quale tutti contribuirono,
da Lodovico all' ultimo cittadino di Mantova, e finalmente ai primi
dell'anno seguente il solito cronista potè con soddisfazione annotare :
« Adij 6 de febraro 1472 fo chomenzato a butar zoxo la gexia de
San Andria in Mantova per volirla refare più bela et questo prinzipio
foe fato de dinarij chera restato de li ofifertij che se fano a la san-
sione (Ascensione). E foe estimato e dito che perfino a anij 22 se
lavoreria la dita gexia che vigniria finida de lano 1494 ».3 S. Andrea
fu invece compiuto nel 1782; tanto ci si può ingannare nel fare delle
previsioni sulla fine di certi edifici !
La prima pietra del nuovo tempio fu posta nel giugno del mede-
simo anno 1472 ; ma frattanto, ai primi di aprile, era morto a Roma
1 Vittorio Matteucci, Le chiese artistiche del Mantovano. Mantova, 1902, pag. 10S.
2 Willelmo Braghirolli, op. cit., pag. 14.
:? Schivenoglia, op. cit., pag. 168.
Alberti. 6
CAPITOLO IV
l'Alberti torso ancora incerto se il grandioso disegno da lui ideato sa-
rebbe staio eseguito. Luca Fancelli, che apparisce qui come nel S. Se-
bastiano il capomastro, condusse con alacrità i lavori finché (e non
era ancora passato un anno dal principio) non vennero a mancare i
mezzi per proseguire; da questo momento cominciò una serie di len-
tezze e di interruzioni, delle quali ci rimangono nell'archivio Gonzaga
moltissimi documenti, ma che troppo lungo sarebbe enumerare, mentre
ti' altra parte non ci fornirebbero nessuna notizia nuova o interessante.
Questo basti ricordare : che il corpo principale dell' edificio fu com-
piuto alla fine del secolo XVI e che la cupola fu aggiunta da Filippo
Juvara nel secolo XVIII.
Una cosa però mi preme di porre bene in rilievo insieme al Ritscher,
un architetto tedesco che ha poco tempo fa compiuto un accuratissimo
studio sulla chiesa di S. Andrea,1 ed è che, contro all'affermazione del
Geymuller, il quale tende ad attribuire gran parte del merito di que-
sto edificio al Fancelli ed ai suoi successori,2 dai documenti risulta che
i disegni dell'Alberti furono, per quel che riguarda la struttura archi-
tettonica, sempre rispettati. Fino nel luglio del 1597, quando si at-
tendeva alla costruzione del coro, il capomastro teneva a dichiarare
che quella costruzione veniva fatta « conforme all'antico disegno del
Marchese Lodovico secondo ».3 E difatti la chiesa presenta un insieme
così organico e così armonioso che non può assolutamente essere opera
di diversi artisti ; idea nuova e non corrispondente al pensiero dell'au-
tore è certo la ricca decorazione con la quale il grandioso tempio è
oggi adornato; ma quando vogliamo rilevare i caratteri fondamentali
di un'opera architettonica, non possiamo tener conto delle decorazioni
come per giudicare un quadro dobbiamo fare astrazione dalla cornice;
solo gli artisti mediocri si servono della decorazione come di un ele-
mento essenziale per nascondere la mancanza delle proporzioni o la
povertà delle forme.
Un intero capitolo è nelP « Arte edificatoria » dedicato a stabilire
gl'intimi rapporti che corrono fra l'architettura e la musica, le due
1 E. Ritscher, Die Kirche S. Andrea in Mantua. Berlino, 1899.
- Geymuller, L. B. Alberti in Geschic. der Archit. in Toscana, pag. 9.
3 I. Donesmondi, Dell' istoria ecclesiastica di Mantova, voi. II, pag. 44.
LE CHIESE DI MANTOVA
S3
arti sorelle derivanti da un unico principio : l'armonia.1 L'ima è infatti
fondata sulla corrispondenza delle linee, l'altra sulla corrispondenza dei
suoni, ambedue sono prodotte dall'accordo di elementi euritmicamente
disposti in modo da pro-
durre quell'effetto estetico
che l'artista sente per pri-
mo nella sua creazione. La
chiesa di S. Andrea è la
più fedele e la più geniale
applicazione di queste teo-
rie. L'Alberti la immaginò
certo di getto, e mentre la
chiesa di S. Sebastiano dà
l'impressione di un'opera
studiata e ritoccata, questa
apparisce concepita da una
unica idea grandiosa, da
un lampo di genio che solo
può produrre i capolavori.
Battista gettò il primo ab-
bozzo del disegno e subito
sentì di aver creato una
grande opera d'arte: « Que-
sto sarà più capace, più de-
gno, più eterno, più lieto».
La chiesa è a croce la-
tina, ad una sola navata
(fig. 16); nel braccio prin-
cipale sono sei cappelle per
parte, alternativamente una
più piccola ed una più grande ; nelle cappelle piccole si entra per mezzo
di una porta modesta ma elegante, quelle grandi sono invece con-
giunte al tempio con archi maestosi fiancheggiati da immensi pilastri
Fig. 16. Mantova.
Pianta della Chiesa di S. Andrea.
' E il capitolo VI, del libro IX.
84
CAPITOLO IV
che «.la terra giungono lino alla trabeazióne che corre intorno a tutto
quanto l'edificio e sul quale poggia la volta. Può essere, come vogliono
alcuni, che l'Alberti abbia preso il motivo di alternare cappelle di va-
rie dimensioni, unendole con sistema diverso alle pareti della navata
principale, dal S. Francesco di Rimini dove effettivamente due cappelle
sono congiunte alla
chiesa con una porta
anziché con un arco,
ma si guardi quale
felice effetto egli ha
saputo ritrarre da que-
sto motivo : le pareti
del tempio non ven-
gono più ad essere
costituite da una se-
rie di arcate che sce-
mano l'importanza del
corpo centrale dando
quasi l' idea di un edi-
ficio a tre navate, ma
hanno fra un arco e
l'altro delle superficie
sulle quali l'occhio si
riposa mentre d'altra
parte servono a dare
maggior risalto alle
parti vuote. Sulla crociera dei quattro bracci doveva, anche secondo
il disegni dell'autore, sorgere una cupola, ma questa cupola doveva
essere semisferica e cieca, cioè senza nessuna apertura che desse luce
all' interno.1 Qui è fuori di dubbio che non fu tenuto alcun conto dei
disegni dell'Alberti. Filippo Juvara costruì una cupola snella e civet-
tuola, corrispondente al gusto suo e del suo tempo, ma del tutto in
contrasto con la grave, severa maestà dell' insieme ; chi sa Battista, se
Fig. 17. Mantova. — Interno di S. Andrea.
Cfr. D' Arco Carlo, Delle arti e degli artefici di Mantova. Mantova, 1857, pag. 15.
LE CHIESE DI MANTOVA 85
l'avesse veduta, come avrebbe protestato e gridato che quell'aggiunta
sciupava « tutta quella musica ! »
Bella come un'armoniosa frase musicale egli aveva infatti immagi-
nato questa chiesa (fig. 17); è degna di nota la perfetta corrispon-
denza delle proporzioni e delle dimensioni. L'edificio è alto venti metri
e il venti è preso come misura fondamentale di tutte le parti : la na-
vata principale è lunga cento metri dei quali venti costituiscono l'ab-
side, venti l'incrociatura dei quattro bracci della croce latina, sessanta
il braccio più lungo, mentre i due bracci trasversali, lunghi anch'essi
venti metri ciascuno, vengono col quadrato centrale a formare un'eguale
estensione di sessanta metri. Il Ritscher si è posto il problema del-
l'effetto che produrrebbe il tempio senza quell'ammasso di decorazioni,
di pitture e di grottesche che gli daranno, sia pure, un aspetto più.
ricco e più lieto ma che ne turbano la solenne semplicità originale,1
ed ha disegnato uno spaccato della chiesa quale deve averla immagi-
nata l'Alberti, dalle pareti bianche, interrotte solo dalle linee architet-
toniche.2 Quanto l'edificio perde di gaia festività altrettanto guadagna
per severa maestà, per sentimento cristiano, per espressione di quel
devoto raccoglimento che Battista voleva, lo abbiamo già veduto, essere
il carattere fondamentale dell'interno di un tempio.
L'esempio della semplicità originale ci è dato tuttora dalla facciata
principale (fig. 18), l'unica compiuta delle tre che, secondo i primitivi
disegni, doveva avere la chiesa concepita come edificio del tutto isolato,
vero tempio, come lo avevano immaginato gli antichi, nel centro della
città. Non vi è dubbio che una parte di quelle reminiscenze pagane
che avevano nutrito la mente dell'Alberti umanista e che si erano ma-
nifestate nel suo trattato, ritornano qui nell'ultima opera sua. Si guardi
la facciata del S.Andrea: potrebbe essere, per struttura architettonica,
il peristilio di un tempio dedicato a qualche divinità pagana. Ma quante
difficoltà dovette superare l'autore per giungere a questo resultato felice
in quanto l'antico fornisce soltanto l'idea grandiosa per una creazione
1 La decorazione fu eseguita alla fine del secolo XVIII, per impulso dell'architetto Paolo Pozzo,
il quale ha d'altra parte il merito di aver tolto le ben più goffe decorazioni barocche poste dai
suoi predecessori.
- E. Ritscher, op. cit., tav. V e VI.
CAPITOLO IV
del tutto originale ! Egli volle evidentemente ripetere nella facciata il
motivo fondamentale di tutto l'edificio : l'alternarsi di un grande arco
con una piccola porta, separati per tutta la lunghezza della parete da
immensi pilastri. Qui un grande arco centrale ha ai lati due piccole
porte ; tanto l' uno che le altre non corrispondono direttamente nel-
l' interno ma in un vestibolo riccamente ornato ; i pilastri, in numero
di quattro, sostengono un'ampia trabeazione sulla quale poggia un fron-
tone triangolare. Certo questo frontone, troppo basso e troppo vicino
ai pilastri, diminuisce di molto la grandiosità della parte inferiore, ma
l'autore non poteva coprire il grande occhio centrale che illumina l' in-
terno della chiesa, la quale, con la sua immensa volta a botte, viene
ad essere assai più alta della facciata ; di effetto ben relativo è inoltre
quella profonda nicchia che si alza sopra il frontone, ma non credo
che derivi dal disegno dell'Alberti ; essa fu compiuta nel 1 702 quando
da un pezzo non si teneva più conto dei primitivi modelli.1
Le linee generali di quest'edifìcio sono dunque grandiose e mate-
maticamente corrispondenti ; i particolari pure, per sobrietà ed eleganza,
rivelano l'opera di un maestro: i grandi pilastri tanto nell'interno che
all'esterno terminano con ricchi capitelli corinzi simili a quelli della
porta centrale di S. Maria Novella, eccettuati i due laterali della fac-
ciata, ionici, che ritornano invece alla forma già usata nel primo piano
del palazzo Rucellai. La trabeazione principale ha il fregio ornato con
teste alate di cherubini come vedemmo già nel tempio Malatestiano ;
solo che nell'interno questo semplicissimo motivo è stato alterato da
altre decorazioni aggiunte posteriormente. Gli archi delle grandi cap-
pelle, e quindi quello centrale della facciata, poggiano su pulvini che
fanno parte di un'altra trabeazione più piccola, adornata di un fregio
a motivo continuo (nell'esterno diverso da quello dell' interno) come
già abbiamo osservato negli altri edifici precedenti; e i pulvini sono
sostenuti da pilastri minori, dei quali i due della facciata scannellati e
con capitelli ionici come quelli già ricordati del palazzo Rucellai, gli
altri dell' interno lisci e con capitelli dorici come quelli del piano ter-
reno del palazzo medesimo. Tutte le volte, del vestibolo, della navata
Vedi il Fioretto delle Croniche di Mantova, raccolto da Stefano Gionta. Mantova, 1774.
Fig. 18.
Mantova. — Basilica di S. Andrea.
(Fot. Alinari).
LE CHIESE DI MANTOVA 89
centrale, delle cappelle più grandi, sono divise in cassettoni quadrati
ornati con rosoni: motivo questo di grande effetto dacorativo che
l'Alberti aveva già parcamente usato nell'arco della porta principale
di S. Maria Novella dopo averlo appreso con ogni probabilità dal
Brunellesco.
Mi sono fermato a tutti questi particolari per rilevare i punti co-
muni che si trovano nei vari edifici del nostro autore e per riaffer-
mare con più minuti raffronti che le costruzioni di Firenze a lui attri-
buite dalla tradizione sono veramente opera sua. La basilica di S. Andrea
riassume tutti i caratteri, sia per quel che riguarda le idee generali,
sia per i particolari, dell'arte dell'Alberti. Quando ne fu gettata la prima
pietra il noto medaglista Sperandio di Mantova coniò appositamente
una medaglia rappresentante da un lato il Marchese Lodovico in arma-
tura e dall'altro il medesimo Lodovico che, vestito alla romana, riceve
gli omaggi della Fede e della Minerva. La fede moderna e la sapienza
antica ispirarono infatti l'autore di questo tempio, il quale, se da una
parte ricorda per certe forme e sopratutto per la sua grandiosità le
terme romane, dall'altra prelude con parecchi punti di somiglianza la
massima chiesa del cristianesimo, il S. Pietro, tanto è vero che un critico
acuto ed esperto ha voluto vedere in questa un' imitazione di quello.1
Sono in genere molto cauto nell'ammettere le imitazioni specialmente
quando mi trovo di fronte ad uomini di genio, perchè credo che le
medesime idee possano, in condizioni simili, sorgere anche spontanea-
mente in individui diversi, ma siccome la stretta relazione fra il S. Andrea
ed il S. Pietro appare evidentissima, è ad ogni modo degno di nota
che quando il Bramante e i suoi successori vollero creare il più maestoso
e magnifico tempio del mondo scegliessero una forma dall'Alberti già
usata nella chiesa di Mantova. La quale (è bene ogni tanto tornare
alle affermazioni dei nostri vecchi ma eccellenti storici d'arte) « è rego-
lare e non ha cosa che offenda l'occhio sia nel complesso che nella
distribuzione delle parti ; ed è facile il conoscere che servì di modello
a molte chiese posteriormente erette e riunisce le qualità che si desi-
derano in molte altre ».2
1 Geymììller, Les projets primitifs pour la basilique de S. Pierre à Rome, pag. 7.
- D' Agincourt, Storta dell'arte. Prato, 1826, voi. II, pag. 324.
OD
Capitolo V.
LE OPERE DUBBIE
er ragioni di metodo e di chiarezza non ho potuto osser-
vare scrupolosamente l'ordine cronologico nella trattazione
delle opere che credo certe dell'Alberti ; tanto meno posso
osservarlo nel presente capitolo dove si parlerà dei lavori
a lui attribuiti nei tempi più vicini a noi e per i quali la questione
più importante si fa quella dell'esattezza dell'attribuzione. Ordinerò
quindi questi lavori secondo la maggiore o minore probabilità che
siano opera dell'Alberti tralasciando del tutto quelli che sono stati af-
fermati di lui non solo senza l'appoggio di alcun documento, ma anche
senza argomenti di una certa importanza.
Ha sempre destato grande meraviglia fra i critici che non ci sia
pervenuto nessun lavoro dell'Alberti nella città dove egli passò gran
parte della sua vita, in Roma ; donde ricerche de' più vaghi indizi per
potere a lui attribuire qualche edificio romano di cui non si conosca
l'autore ed ipotesi per la massima parte arbitrarie e fantastiche. Il Va-
sari, che già abbiamo avuto modo di dimostrare degno di fede per
moltissime delle notizie riguardanti l'Alberti, ricorda di lui in Roma
solo un restauro del palazzo pontificio ed alcuni lavori in S. Maria Mag-
giore, l' uno e gli altri eseguiti dal Rossellino ; il primo disparve na-
turalmente nei restauri successivi, i secondi consistono con ogni prò-
CAPI polo V
babilità nel grandioso soffitto a lacunari che l'architetto Ettore Bernich
ha recentemente rivendicato al nostro autore.1
chiesti ed un restauro al condotto dell'acqua Vergine furono i soli
lavori che noi possiamo con sicurezza affermare eseguiti in Roma dietro
disegno o con-
siglio dell' Al-
berti ; ma ciò
non toglie che i
suoi disegni fos-
sero ben più nu-
merosi e gran-
diosi. Giannoz-
zo Manetti, il
biografo di papa
NiccolòV, parla
a lungo di un
vasto piano del
Pontefice per la
ricostruzione di
gran parte della
città eterna e in
particolarmodo
di S. Pietro e
del palazzo Va-
ticano ; ora un
acuto crìtico te-
desco, il Dehio,
è riuscito a sco-
prire un per-
fetto paralleli-
smo fra i piani di Niccolò e le idee espresse nel trattato dell'Alberti,
venendo così alla giusta conclusione che solo il nostro Battista doveva
essere l'ideatore di tali piani.2 Ed infatti nella minuziosissima descrizione
Fig. 19. Roma. — Pianta per la chiesa di S. Pietro.
1 Nel giornale Fanfulla, ottobre 1892.
- G. Dehio, Die Bauprojekte Nikolaus V und L. B. Alberti, in Repertor. filr Kunstwis., Ili
(1880), pag. 241 e seg.
LE OPERE DUBBIE
93
del Manetti tutto ci riporta all'Alberti : la scelta del terreno, la disposi-
zione delle strade e delle piazze, la posizione del nuovo palazzo con
abitazioni per l' inverno e per l'estate, le proporzioni stesse della nuova
chiesa, tutto corrisponde esattamente alle regole date nell'«Arte edifi-
catoria » composta nei medesimi anni e dedicata al medesimo Pon-
tefice che doveva fare attuare quei piani. Il Ferrabosco, in un dise-
gno che conservasi oggi
nella Biblioteca Barberini
di Roma (fig. 19), cercò
di ricostituire la pianta di
S. Pietro quale 1' aveva
ideata l'Alberti e la rico-
struzione ci fa vedere quale
immensa mole fosse già
nel pensiero del suo primo
rinnovatore il principale
tempio del Cristianesimo;
col suo modello l'Alberti
fu degno precursore di
quegli altri spiriti magni
che, più fortunati di lui,
ebbero poi la soddisfazione
di vedere almeno in parte
eseguiti i loro disegni.
L'editore più recente
del « Cicerone » ha vo-
luto ritrovare negli sfondi
architettonici dei quadri di
quei pittori che furono in relazione con la corte di Niccolò, delle traccie
o dei riflessi dei piani dell'Alberti ; ma veramente né gli edifici degli
affreschi dell'Angelico in Vaticano, né quelli di Benozzo Gozzoli nel
Camposanto di Pisa, né quelli infine del Ghirlandaio nel Coro di S. Ma-
ria Novella presentano delle peculiarità tali che li distinguano dagli
edifici consueti nelle composizioni dei pittori quattrocentisti e li avvi-
cinino alle idee ed ai caratteri dell'architettura albertiana.
1- 20. Signa (Firenze).
Abside di S. Martino a Gangalandi.
o.\ CAPITO] O V
l' n'opera di poca importanza, ma il cui disegno appartiene con
grande probabilità all'Alberti, è l'abside della chiesa di S. Martino a
Gangalandi presso Firenze (fig. 20). Lo ha a lui attribuito Guido Ca-
rocci ' con buoni argomenti, fra i quali merita speciale considerazione
il seguente: l'Alberti fu per lungo tempo rettore della chiesa ed il
restauro dell'abside, per i suoi caratteri stilistici, ci riporta quasi sicu-
ramente a quel tempo ; è possibile che, dovendo egli sorvegliare i lavori,
non pensasse anche a prepararne i disegni? Si aggiunga che gli Al-
berti avevano presso a S. Martino, dove è ora il paesetto di Lastra a
Signa, la loro villa nella quale Battista stette a lungo negli ultimi anni
della sua vita, e che nella costruzione in parola ricorre il loro stemma.
Si tratta evidentemente di un semplice lavoro di restauro, ma le carat-
teristiche dell'architettura albertiana hanno anche qui modo di mani-
festarsi nei consueti pilastri scannellati con graziosi capitelli che sosten-
gono una trabeazione, nel fregio di questa ornato con un leggiadro
motivo continuo, nel grande arco dai modini puri e corretti. Il tutto
ricorda, fatte le debite proporzioni, l'abside della basilica di S. Andrea.
Vittorio Matteucci, nel suo libro sulle chiese artistiche del Manto-
vano già citato, si fa strenuo sostenitore di una tradizione assai diffusa
in Mantova che attribuisce all'Alberti il disegno della Cappella dell' In-
coronata nella Cattedrale. La tesi del Matteucci si fonda tutta sopra
un documento pubblicato dal dottissimo Carlo D'Arco, cioè una lettera
che, nel 1480, il Capitolo della Cattedrale diresse a Federico Gonzaga;
in essa si legge : «S'è finito quello poco principio de la fabrica a quella
capella di Nostra Donna di voti in S. Pedro (la Cattedrale) secondo
il disegno de la bona memoria de lo Ill.mo Signor Vostro Padre ».2
Il padre di Federico era Lodovico, Lodovico aveva per architetti Leon
Battista Alberti ideatore e Luca Fancelli esecutore, al loro tempo non
vi è memoria in Mantova di altri architetti ; dunque anche la cappella
dell'Incoronata appartiene a questi due.
1 G. Carocci, La chiesa di S. Martino a Gangalandi nel periodico Arte e storia, aprile 1891
e recentemente nella monografia sul Valdarno. Bergamo, 1906, pag. 39.
- Carlo D'Arco, Delle arti e degli artefici di Mantova. Mantova, 1857, II, pag. 14.
LE OPERE DUBBIE 95
Questo il ragionamento del Matteucci e starà anche bene ; ma la
questione comincia proprio ora : i disegni della cappella del Duomo
risalgono all'Alberti o al Fancelli non solo capomastro ma artista egli
stesso di un certo valore ? Il Matteucci non osserva una cosa che pur
salta agli occhi a prima vista ed è la stretta relazione fra la pianta di
questa cappella e la pianta della chiesa di S. Sebastiano, ambedue a
croce greca ; senonchè questa somiglianza mi sembra diminuire anziché
accrescere le probabilità per l'Alberti, il quale, abbiamo già avuto modo
di osservarlo, non si ripete mai, ma in ogni sua creazione cerca di
risolvere un nuovo problema. Finché ci fermiamo ai particolari pos-
siamo stabilire una certa continuità ed unità nell'arte di lui, ma trat-
tandosi qui di un concetto fondamentale è assai più probabile che
piuttosto il Fancelli abbia imitato la forma della chiesa poco avanti
costruita. Si sarebbe, in una parola, ripetuto il caso del Rossellino quando
a Pienza imitò la facciata del palazzo Rucellai.
Lodovico Gonzaga si rivolse all'Alberti per le due opere di maggior
mole e di maggiore importanza, ma nel rimanente ebbe completa fiducia
ed affidò sempre l'incarico di tutti i lavori al Fancelli che a buon conto
era il suo architetto consueto e il sopraintendente a tutte le costruzioni
da lui ordinate; per molte di esse noi sappiamo che Luca non solo
curò l'esecuzione, ma fece anche i disegni, e lo stesso sarà accaduto
quando Lodovico ebbe l' idea, che non potè vedere attuata, di far co-
struire nella Cattedrale una nuova cappella per la Madonna. Del resto
ai giorni nostri non rimane evidentemente del primitivo disegno altro
che la pianta; in questa piccola ma elegante costruzione, come già
vedemmo nel coro della SS. Annunziata a Firenze, i successivi e ripe-
tuti restauri hanno mantenuto intatti i fondamenti e con essi i muri
principali, ma hanno poi talmente alterato le parti superiori e l'aspetto
generale dell'edificio che non è più possibile oggi giudicarne il pri-
mitivo valore.
E passiamo finalmente all'opera che in questi ultimi tempi ha sol-
levato maggior rumore e maggiori discussioni : l'arco in onore di Al-
fonso d'Aragona nel Castelnuovo a Napoli (fig. 21). Il Fabriczy ed
altri lo avevano attribuito a Pietro di Martino ed il suo nome sem-
CAPITOLO V
brava resistere ai competitori che ve-
nivano ogni tanto presentati da qual-
che critico, quando l'architetto Ettore
Bermeli con l'evidenza delle date di-
mostrò falsa quell'attribuzione e pre-
sentò l'Alberti come autore del monu-
mento. Senonchè la parte positiva
non è egualmente convincente quanto
la parte negativa e questa è la sorte
comune di coloro che hanno fino ad
oggi cercato di scoprire l'autore del-
l'arco aragonese ; tutti giungono a
dimostrare che i nomi proposti dagli
altri non hanno serio fondamento, ma
nessuno riesce a provare che la sua
ipotesi ha maggiore probabilità delle
precedenti. Il Bernich, per esempio,
osserva giustamente : * l'erezione del-
l'arco in onore di Alfonso fu delibe-
rata dagli Eletti dei sedili di Napoli
nell'Assemblea del 28 febbraio 1443;
Bartolommeo Fazio, nel « De rebus
gestis ab Alfonso », dice che era ter-
minato nel 1455 ; questo dimostra
che, almeno nella sua ossatura archi-
tettonica, l'arco fu eretto fra il 1445
e il 1455 ; Pietro De Martino appa-
risce invece solo nel 1456 e quindi
egli può avere ideato e costruito la
parte superiore e qualcuna delle tante
sculture che adornano il monumento, ma non può essere stato l' idea-
tore primo di esso ; lo studioso dell'antichità, lo spirito pagano che
Fig. 21. Napoli. (Fot. Brogi).
Arco di trionfo di Alfonso d'Aragona.
1 E. Bernich, L. B. Alberti e l'arco trionfale di Alfonso di Aragona in Napoli, in Napoli
nobilissima, voi. XII, pagg. 114-118.
LE OPERE DUBBIE 97
immaginò il rinnovamento della forma classica della glorificazione fu
un erudito, un umanista, l'Alberti.
Per dimostrare questa asserzione egli si occupa prima di tutto dei
raffronti stilistici che hanno per lui la massima importanza. La storia
di un monumento, egli dice in un articolo successivo, non si fa solo
consultando le vecchie carte. Occorre avere la conoscenza tecnica del-
l'opera ed analizzarla e raffrontarla con quei lavori che sappiamo ve-
ramente fatti dall'autore che si cerca rivendicare.1 E va bene purché si
sappia mantenere i raffronti nella parte che può essere peculiare di un
dato autore e non si ecceda o nel ricercare l'affinità di caratteri troppo
generali o nello scrutare i punti di contatto dei particolari più minuti ;
quest'ultimo è appunto il difetto del Bernich cui la conoscenza tec-
nica spinge ad occuparsi dei minimi particolari che per la loro scarsa
importanza possono esser comuni anche ad artisti diversi. Fondamento
principale della sua dimostrazione è l' affinità che unisce l' arco ara-
gonese con la descrizione degli archi di trionfo neh' «Arte edificatoria»
e con la parte centrale del tempio Malatestiano. Ma il Bernich non
ha tenuto conto di un'osservazione che pur si presentava molto ovvia,
cioè che le affinità possono derivare, e derivano a parer mio, dalla
fonte comune: i monumenti di Roma. L'Alberti quando scriveva il
suo trattato aveva davanti agli occhi gli archi di Tito e di Costan-
tino, quando disegnò la facciata della chiesa di Rimini tenne presente
l'arco di Augusto ; l'artista che ricevette 1' incarico di inalzare l'arco di
trionfo in onore di Alfonso dovette necessariamente ricorrere, in man-
canza di altri, a quei medesimi modelli ed ecco spiegate le affinità
non poi tanto numerose né caratteristiche quanto il Bernich crede ;
per spiegare tante parti che non corrispondono egli è pure obbligato
a supporre che gli esecutori abbiano talvolta cambiato i disegni del-
l' autore.
Le relazioni che l'Alberti ebbe con la Corte di Napoli (relazioni
delle quali il Bernich va a ricercare gì' indizi più vaghi e lontani mentre
abbiamo la testimonianza diretta di lui che ci afferma di avere un giorno
salvata la vita ad Alfonso)2 sono argomento troppo tenue per soste-
1 Napoli nobilissima, voi. XIII, pagg. 148-156.
- Vedi passo della Famiglia, riportato a pag. 20, n,
Alberti
q8 capitolo v
nero che egli abbia disegnato l'arco, come non credo che a lui possa
attribuirsi il merito «.lei grandioso bassorilievo dell'attico per il semplice
tatto ohe quivi la prospettiva è sapientemente osservata e che l'Alberti
scrisse un trattato di prospettiva. Ha letto il Bernich questo trattato ?
In esso si parla molto di ottica e di matematica, punto di vera e pro-
pria prospettiva.
Ma un altro è per il Bernich l'argomento decisivo : nel fregio dello
stilobate interno dell'arco è un medaglione con una testa virile coro-
nata d'alloro, ed egli vi riconosce subito il ritratto dell'Alberti che si
era meritato quella corona dal momento che si era fatto propugnatore
del certame coronario. Non parlo della somiglianza, perchè il Bernich
stesso, dopo averla proclamata con diversi raffronti, deve riconoscere
che nel Quattrocento raramente i ritratti di una stessa persona erano
fra loro somiglianti ; 1 solo osservo che, oltre alla corona d'alloro, il bas-
sorilievo presenta una tunica fermata con una borchia sulla spalla destra
come era il costume dei Romani, e questo mi conferma l'ipotesi, già
fatta da altri, che il medaglione non rappresenti affatto l'Alberti ma
un imperatore romano ; anche la corona apparisce molto più appropriata
ad un imperatore che ad un semplice cittadino.
Uno studioso tedesco che ebbe anch'egli, e con eguale successo
degli altri, da proporre un nome per l'arco di Napoli, combattendo la
tesi del Bernich concludeva : « Per asserire che a L. Battista Alberti
spetti il merito del modello dell'arco aragonese non basta la convin-
zione personale, non basta l'intuito artistico, occorrono delle prove so-
lide ».2 Tali non sono certo quelle del Bernich; ed io credo che difficil-
mente l'Alberti si sarebbe piegato a disegnare un monumento destinato
a restare incassato fra due muri e che per la sua infelice posizione non
gli permetteva di svolgere le sue idee. Anche nel tempio Malatestiano
la costruzione preesistente impacciava in parte la creazione nuova; ma
là vi era il mezzo, e l'artista mostrò di averlo subito compreso, di
superare con uno slancio di genio gli ostacoli ; qui invece niente po-
teva nascondere l'enorme sproporzione fra larghezza ed altezza, l'effetto
1 Napoli nobilissima, voi. XIII, pagg. 148-156.
- W. Rolfs, L' architettura albertiana e l'arco trionfale di Alfonso d' Aragona, in Napoli
nobilissima, voi. XIII, pag. 172.
LE OPERE DUBBIE 99
di sovrapposizione che il nuovo arco doveva necessariamente produrre
sulle vetuste mura del castello.
La sorte comune seguita da tutti coloro che hanno cercato di sco-
prire l'autore dell'arco aragonese può avvalorare l'ipotesi esposta in
una nota della Rivista dove specialmente si è agitata la questione : 1
l' ipotesi che il monumento non abbia avuto un architetto di grido, ma
che un semplice capomastro o anche uno scultore abbia copiato per
espressa volontà di Alfonso da archi romani e da mausolei angioini
la porta trionfale del Castelnuovo ; certo l'organismo architettonico è
impari alla magnificenza e finezza dell'ornamentazione marmorea ed il
monumento apparisce più come l'opera di uno scultore che di un archi-
tetto ; e per l'appunto l'Alberti, al contrario della massima parte degli
artisti del suo tempo, dedicò tutta la sua attività esclusivamente all'ar-
chitettura e dette nelle sue opere pochissima parte alla scultura.
Dove mai si andrebbe a finire seguendo il metodo puramente com-
parativo inagurato dal Bernich ? Ecco gli edifici che egli, oltre ai ri-
cordati, attribuisce all'Alberti : a Roma il palazzo Venezia, la chiesa di
S. Marco, i due palazzi Pichi, uno in via del Paradiso, l'altro in piazza
Pollarola,2 il chiostro di S. Salvatore in Lauro,3 il palazzo della Can-
celleria, il palazzo del Cardinal Mezzarota ; a Urbino il cortile del pa-
lazzo Ducale,4 ed infine la chiesa di S. Bernardino a Perugia, eseguita
da Agostino di Duccio, semplicemente perchè la porta principale è a
euisa d'arco di trionfo ! 5
Nota di G. Ceci in Napoli nobilissima, voi. XIII, pag. 155.
Ai-te e storia, febbraio 1901.
Rassegna pugliese, maggio 1894.
Rassegna d'arte, 1902, pag. 69.
Napoli nobilissima, voi. XII, pag. 133.
CONCLUSIONE
UATTRO periodi principali dobbiamo dunque distinguere
nell'attività artistica di Leon Battista Alberti : il periodo di
preparazione nel quale la cultura e le tendenze umanisti-
che hanno la prevalenza assoluta e l'Alberti è solo co-
noscitore dell'arte antica e per mezzo di essa teorico dell'arte mo-
derna ; il periodo di attuazione pratica immediata delle sue teorie
caratterizzato dal tempio Malatestiano dove l' imitazione delle forme
classiche serve ad esprimere idee e caratteri egualmente classici ; il
periodo di transizione fra l'antico e il moderno datoci dagli edifici
fiorentini dalle linee così corrette e così leggiadre; il periodo di piena
maturità, di libera ed ardita creazione che raggiunge il suo grado più
elevato nel S. Andrea di Mantova, tipo grandioso e non superabile di
chiesa cristiana del Rinascimento. Ciascuno di questi quattro periodi
è indicato da opere di tale importanza che non è davvero necessario
andare a ricercare dietro problematici indizi qualche altro edificio da
potergli attribuire per accrescere o confermare il suo merito come ar-
chitetto ; se con ulteriori studi o scoperte potremo dare a lui un
maggior numero di opere d'arte, tanto meglio ; per ora le attribuzioni
che si sono fatte sono semplicemente possibili, ma ben lungi da quella
probabilità che ha per me, per esempio, l'assegnazione all'Alberti del
palazzo Rucellai e ad ogni modo non cambierebbero sostanzialmente
CONCI USIONE
la figura e il valore di Battista quale ci apparisce dagli edifici che con
certo/za o quasi certezza possiamo affermare da lui disegnati.
Vi è nei quattro periodi che siam venuti delineando qualche ca-
rattere comune, si riscontra in essi una costanza, una continuità di mo-
tivi fondamentali che ci permetta di abbracciare con un solo sguardo
tutta l'arte del nostro autore? Non credo: di comune possiamo osser-
vare qualche forma decorativa, qualche particolare, ma nel resto ogni
edificio da lui ideato è del tutto indipendente dagli altri, ciascuno
esprime una nuova idea. E non parlo della differenza enorme che corre
fra questi editici ed il trattato, fra la pratica e la teoria, differenza ine-
vitabile dal momento che nei trattati non si possono in nessun modo
trovare le regole e i mezzi per fare delle opere d'arte. Quello che può
essere insegnato e consigliato è per gli architetti di tutti i tempi un
substrato di cognizioni bensì indispensabile ma che solo i mediocri
lasciano apparire nei loro lavori ; la vera opera d'arte si presenta alla
mente del creatore come un insieme armonico che piace e diletta, non
come frutto di studi, di misure e di regole. L'Alberti fu trattatista ed
artista nello stesso tempo, due termini che sono fra loro ben più lon-
tani di quanto potrebbe a prima vista apparire ; anzi fu artista appunto
perchè nella pratica si dimenticò sovente delle sue teorie. Le quali
teorie ciò non ostante rimasero celebrate e studiate e servirono a sof-
focare qualsiasi tentativo di originalità in quei più tardi commentatori
di Vitruvio che non seppero come l'Alberti distinguere la differenza
fra la necessità delle regole e la libertà dell'arte.
Leon Battista Alberti fu il più erudito, ma nello stesso tempo anche
il più originale e il più vario fra gli architetti del suo tempo ; per la
moltiplicità delle sue attitudini egli lavorò per i personaggi più impor-
tanti e di carattere più diverso che esistessero allora riuscendo a com-
penetrare, ad assimilare nello spirito delle opere sue lo spirito del si-
gnore che aveva ordinato il lavoro. È tutta qui, io credo, la grandezza
di Leon Battista Alberti come letterato e come artista: nell'aver cono-
sciuto gli uomini del suo tempo, nell'aver compreso i loro sentimenti,
nell'avere espresso con la parola o col disegno le loro idee. Erano
lampi di genio che gli studi di umanità nel più vero e più ampio senso
della parola avevano ridestato nella sua mente versatile e indagatrice ;
CONCLUSIONE IO3
appunto per questo al principio di ogni capitolo ho cercato di tratteg-
giare nelle sue linee principali il carattere di ogni mecenate che ha in-
coraggiato l'attività dell'Alberti ; ed abbiamo veduto che questi, se a
Niccolò Y pontefice umanista dedicò quel frutto mirabile di erudizione
che doveva a lui procurare il nome di Vitruvio fiorentino, per Si-
gismondo Malatesta, il condottiero pagano avido di gloria e di amori,
disegnò il triplice arco di trionfo nel tempio dove le ceneri sue e della
sua bella riposano circondate dai gravi sarcofagi dei loro esaltatori ;
abbiamo veduto che a Giovanni Rucellai, mercante operoso e pacifico,
amante di feste leggiadre e di giuochi cavallereschi, egli inalza un pa-
lazzo che è tutto un inno di grazia e di gentilezza e che per Lodovico
Gonzaga, educato alla scuola di Vittorino da Feltre, egli, l'autore degli
aurei libri sulla «Famiglia», immagina il magnifico tempio di S.An-
drea che preannunzia tutta l'artistica grandiosità, che specialmente per
la letteratura, il Rinascimento svolgerà poi nelle Corti dell'alta Italia.
Avrebbe un altro architetto, anche di maggiore abilità tecnica del-
l'Alberti ma di minore versatilità di lui, potuto contentare il gusto così
diverso di così diversi committenti ? No certamente ; tanto è vero che
anche il massimo degli architetti a lui immediatamente precedenti, il
Brunellesco, non era mai uscito coi suoi lavori al di fuori delle mura
della sua città; e Michelozzo era stato quasi esclusivamente l'architetto
di Cosimo il Vecchio dei Medici e il Rossellino aveva per la gloria di
Pio II ripetuto più volte un identico motivo di architettura civile. Anche
in questo l'Alberti precorre i suoi contemporanei e li precorre inoltre
per il suo studio diretto sui modelli classici, sui monumenti di Roma,
mentre quelli vedevano di solito l'antichità solo attraverso gli edifici
romanici ; se cerchiamo delle relazioni fra l'arte di Leon Battista e l'arte
di altri architetti, vediamo che essa trae bensì origine dal medesimo
pensiero che ispirò anche il rinnovamento del Brunellesco, ma giunge
ad un punto più avanzato di questi e si avvicina di molto al Bramante.
E non soltanto lo stile architettonico si svolgeva e perfezionava nel
nostro autore coi continui studi e col maggior vigore della mente;
tutto l'io, tutta l'individualità sua così potente e così concorde nelle
sue molteplici tendenze si modificava insieme alla sua arte. Ne abbiamo
una prova volgendo lo sguardo allo stile della sua prosa ; da prima
\,\\ CONCLUSIONE
egli scrive in latino e conio nella lingua così nella forma imita i classici,
primo fra tutti Cicerone. Segue un periodo nel quale la medesima
torma classica è unita al volgare, in difesa del quale l'Alberti si fa pro-
pugnatore del certame coronario; e no deriva una prosa forte, risonante,
ma con periodi troppo contorti, con costrutti e forme che sentono
ancora del latino. Negli ultimi suoi scritti Battista si libera anche da
quest'ultimo difetto causatogli dalla sua erudizione e, per esempio, in
alcune pagine del suo trattato più tardo intorno al governo della casa
(« De iciarchia ») fissa un tipo di prosa semplice e solenne. Lo studio
dell'antico ravvivato dal volgare moderno aveva anche in questo campo
creato qualcosa di vitale e di artistico: aveva creato la prosa dottrinale
italiana.
Il Geymuller, autore della più volte citata monografia dell'Alberti
nella grandiosa « Storia dell'architettura in Toscana » della Società di
S. Giorgio, insiste nel togliere al nostro autore una parte del merito
delle sue opere per attribuirla invece agli esecutori e nel mettere in
rilievo la qualità sua di dilettante ; con questo egli non fa che ritor-
nare al Vasari, il quale pure, scandalizzato che vi potesse essere un
architetto che affidava ad altri l'esecuzione dei suoi lavori, si compiace
più volte di rimproverare all'Alberti la mancanza di pratica. Ma questa
mancanza di pratica che l'antico storico crede di poter osservare di fatto
negli edifici di lui e che il critico moderno afferma essere stata na-
scosta dagli esecutori, è semplicemente un presupposto derivato dalla
notizia che egli non diresse in persona nessuna costruzione, senza pen-
sare che se i suoi scrupoli umanistici e la sua posizione sociale non gli
permisero di curare l'esecuzione dei suoi disegni, egli ebbe egualmente
modo di osservare la pratica dell'arte edificatoria e di ri trarne gli in-
segnamenti necessari ad un architetto : tutto il trattato, dove le forme
artistiche sono solo fuggevolmente accennate ma la parte tecnica ha
invece grandissima importanza, è una dimostrazione dei suoi studi pro-
fondi sul modo di costruire. L'Alberti fu dilettante nel senso che non
esercitò l'arte per professione e non ricevette ricompensa alcuna dei
suoi lavori ; non fu dilettante nel senso oggi più comune che fa cer-
care nell'arte un semplice passatempo, perchè nell'arte, e specialmente
nell'architettura, egli vide una fonte di pubblica utilità, un mezzo per
CONCLUSIONE 105
illustrare il suo nome. Può vincere una battaglia tanto il generale che
si reca sul campo alla testa dei suoi soldati per guidarli ed incitarli
con l'esempio quanto lo stratego che dal suo tavolino dà ordini e di-
rige i movimenti degli eserciti; l'Alberti riportò i suoi trionfi senza
muoversi dalla quiete del suo studio e non è questa una ragione per
attribuire ad altri il merito di quei trionfi.
I seguaci immediati dell'arte di Leon Battista Alberti furono Bernardo
Rossellino e Agostino di Duccio. Il primo, forse esecutore del palazzo
Rucellai, certo in dipendenza diretta dell'Alberti negli anni in cui stette
a Roma architetto di Niccolò V, ne imitò lo stile nel palazzo Picco-
lomini ed anche in parte nella Cattedrale di Pienza; il secondo, che
lavorava come scultore al tempio Malatestiano nel periodo del gran-
dioso restauro, quando ricevette l' incarico di costruire la chiesa di
S. Bernardino e la porta monumentale di S. Pietro nella città di Pe-
rugia ripetè i motivi dell'architettura albertiana pur riserbando nella
prima una gran parte alla scultura. Ma il lato più importante dell'arte
dell'Alberti è quello di aver posto come fondamento della nuova archi-
tettura l'armonia e quindi la corrispondenza di rapporti numerici ; in
questo egli ebbe più tardi i più numerosi seguaci e imitatori che de-
viarono il giusto principio, da lui sapientemente osservato, fino all'ec-
cesso di considerare l'architettura esclusivamente come l'applicazione di
formule matematiche. Così tanto per il suo rifacimento di Vitruvio quanto
per la ricerca nella pratica dell'euritmia cara al teorico antico, l'Alberti
si fece precursore dei classicisti accademici che nella seconda metà del
Cinquecento inondarono l'Italia di opere fredde e monotone ; ma egli
non è un classicista accademico, che all'accademia cerca continuamente
di sottrarsi con l'audacia delle innovazioni, con la ricerca instancabile
dell'originalità. Quegli accenni al barocco che taluno ha voluto osser-
vare nelle volute di S. Maria Novella o nel troncamento dell'architrave
di S. Sebastiano derivano appunto dal tentativo di liberarsi dalle stret-
toie accademiche ; ed anche il barocco trasse origine dal medesimo
tentativo.
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
Ritratto
Fig.
i.
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2.
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3-
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19.
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20.
»
21.
di Leon Battista Alberti Frontespizio
Matteo dei Pasti. — Medaglia col Tempio Malatestiano. Pag. 34
Rimini. — Il Tempio Malatestiano 35
» — Arco di Augusto 37
» — Fiancata del Tempio Malatestiano 39
» — Interno del Tempio Malatestiano 44
Firenze. — Palazzo Rucellai 51
Pienza. — Palazzo Piccolomini (Bernardo Rossellino) ... 55
Firenze. — Palazzo dei Medici, oggi Riccardi (Michelozzo) . 59
» — Loggetta Rucellai 61
» — Facciata di S. Maria Novella 63
» — S. Maria Novella, Porta principale 67
» — Pianta dell'Abside dell'Annunziata 70
Mantova. — Pianta della Chiesa di S. Sebastiano 76
» — Loggetta di S. Sebastiano 78
» — Chiesa di S. Sebastiano 79
» — Pianta della Chiesa di S. Andrea. ..... St,
» — Interno di S. Andrea 84
» — Basilica di S. Andrea 87
Roma. — Pianta per la Chiesa di S. Pietro 92
Signa (Firenze). — Abside di S. Martino a Gangalandi . . 93
Napoli. — Arco di Trionfo di Alfonso d'Aragona .... 96
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BIBLIOGRAFIA1
Opere generali.
Fra le storie generali di architettura notevole specialmente quella edita
dalla Società di S. Giorgio: «Die Architektur der Renaissance in Toscana ».
Il testo della monografia dell'Alberti è redatto e illustrato dall'architetto En-
rico Geymlller.
Anton Springer, L. Battista Alberti, in Bilder aus der neueren Kunst-
geschichte. Bonn, 1886. Voi. I. pag. 257.
Fritz Schumacher, L. Battista Alberti und seine Bauten. Fascicolo della
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Corrado Ricci, L. Battista Alberti. Conferenza tenuta a Rimini nel
V centenario della sua nascita. Rimini, 1904.
L'Alberti teorico d'architettura.
La migliore edizione deWArte edificatoria è ancora la prima L. Baplistae
Alberti De re aedifi cataria, Florentiae per Xicolaum Laurentiuni. i^Sj.
Per i trattati minori: Uberto Janitscheck, L. Battista Alberti Heine
kunsthistorische Schriften. Wien, 1877.
Paolo Hoffmann, Studien zu Albertis zehn B licheni « De re aedificato-
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Charles Yriarte, Un condottiero au XVme siede. Rimini-Paris, 1SS2.
Carlo Tonini, Guida illustrata di Rimini. Rimini, 1S93.
Fritz Seitz, S. Francesco in Rimini. Berlino, 1S93. Con bibliografia di
tutte le opere precedenti all' Yriarte.
1 Sebbene in questa bibliografìa tenga conto soltanto dei lavori cbe trattano di L. Battista
Alberti come artista, pure non posso tacere la bella Vita di L. Battista Alberti di Gerolamo Man-
cini 1 Firenze, Sansoni. 1SS2Ì, fondamento di qualsiasi studio sul nostro autore.
i [O BIBLIOGRAFIA
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in Flore?/:, in Reperì, fùr Kunstwis., Il (1879).
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gona in Xapoli, in Napoli nobilissima. ,\ rol. XII, pag. 114-118 e 131-136 e voi. XIII,
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lin, 1904.
Wilhelm Rolfs, V architettura albertiana e V Arco trionfale di Alfonso
« d 'Aragona, in Napoli nobilissima. Voi. XIII, pag. 1 71-172.
INDICE
Introduzione Pag. 7
Cap. I. L'Alberti teorico di architettura 17
» II. Il Tempio Malatestiano 31
» III. Gli edifici di Firenze 49
» IV. Le chiese di Mantova ....... 73
» V. Le opere dubbie 91
Conclusione 101
Indice delle Illustrazioni 107
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