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Full text of "Lirici marinisti / a cura di Benedetto Croce"

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LIRICI   MARINISTI 


A   CURA 


BENEDETTO  CROCE 


BARI  ^    ^ 

GIUS.    LATERZA   &   FIGLI 

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 
I9IO 


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PROPRIETÀ    LETTERARIA 


V 

f:3  20S741 


LUGLIO    MCMX   —    25091 


STIGLIAM  -  MACEDONIO  -  CAETAXO  -  MAXSO 
B.ALDUCCI  -  DELLA  V.ALLE 


TOMMASO  STIGLIANI 


I 

LUNA    IMPORTUNA 

O  del  traterno  lume  a  torto  adorna, 
poi  ch'in  danno   d'altrui   l'usi  e  in  oltraggio, 
Luna  spietata,   al  cui  improviso  raggio 
l'ombra  che  m'ascondeva  or  chiara  torna; 

chi  vieta  i  furti  a  te?  chi  ti  distorna, 
quando  a  trovar  vai  Pane,   il  dio  selvaggio; 
ch'abbi  a  troncarmi  il  mio  dolce  v. aggio, 
con  lo  splendor  che  l'atra  notte  aggiorna? 

Lasciar  ti  possa  il  Sol  per  sempre  oscura, 
che  t'illustrava,   e,   fatta  ai  divi  odiosa, 
ti  discacci  dal  ciel  l'eterna  cura; 

e  tu  giù  vadi,   ov'al  demon  sii  sposa, 
qual  fusti  ognor;   si  che  tua  faccia  impura 
più  non  debba  agli  amanti  esser  dannosa! 


LIRICI    MARINISTI 
II 

IL  DONO   DEL  FIORE 

Splendea  d'alta  finestra  il  viso  adorno, 
in  cui  natura  ogni  sua  grazia  pose  ; 
qual,   coronata  di  celesti  rose, 
appar  l'aurora  dal  balcon  del  giorno. 

Io,   che  sempr'erro   al   car'albergo   intorno, 
qual  fanno  intorno  ad  urna  ombre  dogliose, 
fermo  era,   quando,  avvista,  ella  s'ascose, 
tutta  vermiglia  d'amoroso  scorno. 

E  gettonimi  in  ritrarsi  un  fior  dal  seno, 
in  atto  che  fu  studio  e  parve  errore; 
di  che  augurio  prend'io  felice  appieno 

che,   forse,   appresso  al  picciolo  favore 
verrà  l'intera  grazia  un  di,   non  meno 
che  venir  soglia  il  frutto  appresso  al  fiore. 


Ili 
DURANTE  UN  GIUOCO  DI  VEGLIA 

—  Ardisci!  — disse  a  me  l'idolo  mio, 
quand'agio  gliene  porse  il  gioco  impreso; 
poi,  di  terger  fingendo  il  lume  acceso, 
nella  forbice  argentea  il  sepellio. 

Ratto  un  tacito  bacio  allor  cols'io, 
consigliato  dall'ombra  e  audace  reso; 
si  che  prima  ubbidito  ebbi  ch'inteso 
quel  che  dir  volse  il  mio  dolce  desio  ; 

che,   rallumato  il  già  morto  splendore, 
la  rividi  più  lieta  e  dissi  meco: 
—  Quest'era   certo   il   senso   del   suo   core. 

O  benedette  tenebre,   voi  speco 
siete  a'  furti  dolcissimi  d'Amore; 
né  per  altra  cagione  ei  finto  è  cieco. 


TOMMASO    STIGIJANI 
IV 

A  UNA  ZINGARA 

O  maga  egizia,   che  si  audace  e  franca, 
benché  ravvolta  in  povere  divise, 
vai  su  le  mani  altrui,   con  varie  guise, 
presagendo  ventura,   or  destra  or  manca  ; 

vanne  alla  donna  mia,  di  cui  la  bianca 
palma  mirando  e  le  sue  righe  incise: 
—  Questa  mano  —  le  di'  —  già  si  promise 
ad  un  amante  in  fede,   ed  or  gli  manca.  — 

Poi  soggiungi  che  '1  ciel  di  ciò  minaccia 
grave  vendetta.   Che,   s'a  sorte  crede 
tant'ella  a  l'arti  tue,   che  pia  si  faccia, 

dirò  che  i  fiati  suoi  Febo  ti  diede; 
e,   quel  che  forse  a  te  fia  che  più  piaccia, 
la  man  ti  colmerò  d'aurea  mercede. 


v 
IL  CAGNOLINO  DONATO 

Quella  candida  man,   che  sempre  scocca 
nel  misero  mio  cor  faci  e  quadrella, 
or  un  vii  can,   ch'ebbe  più  amica  stella, 
teneramente  lusingando  tocca. 

E  quella  amorosetta  e  dolce  bocca, 
ov'ha  per  me  '1  silenzio  eterna  cella, 
a  lui  non  ride  pur,   non  pur  favella, 
ma  in  lui  di  baci  una  tempesta  fiocca. 

Deh,   perché  questi  agli  amator  dovuti 
soavissimi  vezzi,   or  da  te  sono 
concessi,   ingrata  donna,   ai  rozzi  bruti? 

Tu  sai  che  chi  Zerbin   donotti ,   io   sono  : 
or  perché  a  lui  tu  baci  i  membri  irsuti? 
Si  premia  il  donatore  e  non  il  dono. 


LIRICI    MARINISTI 
VI 

AMORE  E  SPERANZA 

L'ardor  del  nostro  amore  in  te  fu  lampo, 
ch'arde  improviso  e  subito  trapassa; 
ma  fulmine  fu  in  me,   dal  quale  scampo 
non  v'ha,  perché  vestigia  eterne  lassa. 

Pur,  se  non  morto  in  te,  ma  ascoso  è  il  vampo 
dall'onestà,  che  '1  copre  e  giù  l'abbassa, 
fa  ch'in  ciò  saggia  almen,  porgi  almen  campo 
a  mia  speranza,   che  non  resti  cassa. 

Che,  perché  sino  a  qui  dubbio  timore 
che  tu  non  m'ami  più  mi  stringe  e  preme, 
temo  che  '1  temer  mio  spenga  il  mio  ardore. 

Non  può  dov'è  paura  essere  speme, 
né  dove  non  è  speme  esser  amore, 
perch 'amare  e  sperar  van  giunti  insieme. 


VII 

IL  SOGNO 

Godete  fra  le  doglie,  accorti  amanti, 
serbando  sempre  adamantina  fede; 
ch'alfin,  quando  più  s'ama  e   men   si   crede, 
v'è  dato  il  guidardon  di  strazi  tanti. 

Mentre  io  dormiva,  apparsami  davanti 
la  bella  donna  che  '1  mio  cor  possiede, 
tante  gioie  e  piacer  fìnta  mi  diede, 
quanti  vera  mi  dà  tormenti  e  pianti. 

Or  siemi  ella  crudel  pur  come  suole, 
poi  ch'ho,  malgrado  suo,  chi  la  fa  pia 
ed  a  forza  voler  ciò  che  non  vuole. 

E  tu,  sogno  gentil,  ch'ov'io  languia 
veder  mi  festi  a  mezza  notte  il  sole, 
torna  di  novo  e  poi  partirti  oblia. 


TOMMASO    STIGLIANI 
Vili 

NEL  COMPORRE  IL  «  MONDO  NUOVO  » 

A  Cesare  Orsino 

Or  nemica  fortuna  or  febbri  ardenti, 
Cesare,  m'assaliscono  si  spesso, 
mentr'io  la  chiara  istoria  in  versi  tesso 
del  gran  Colombo  alle  future  genti, 

che  temo  no  '1  vigor  cosi  s'allenti, 
ch'io  caggia  un  di,  tra  via,  dal  peso  oppresso, 
e  tante  mie  vigilie  a  un  tempo  istesso, 
tanti  affanni  e  sudor  restino  spenti. 

Deh,  re  del  ciel,  se  t'è  la  vita  amica 
d'un  che  non  la  consuma  in  ozio  cheto, 
ma  per  pubHco  prò  l'usa  e  fatica, 

non  mi  lasciar  perir  fin  ch'io  non  mieto 
de'  lunghi  studi  miei  la  dolce  spica; 
e,   poi,   chiamami  a  te,   che  verrò  lieto. 

IX 

L'INVIDIA   DEGLI   EMULI 

Potuto  ha  ben  con  sue  mal  arti  tante, 
mentre  io  vivo,   l'invidia  iniqua  e  fiera 
dal  mio  Colombo  allontanar  la  schiera 
de'  leggitor  del  secolo  regnante. 

Ma  d'avermi  però  non  fia  si  vante 
dramma  scemato  di  mia  gioia  intera; 
di  me  non  tien  quella  vittoria  vera, 
ch'ella  s'ha  finta  e  presentata  avante. 

Che  se  mi  loderan  le  lingue  umane, 
quando   udir   non   potroUe,    e   sorde   e   spente 
avrò  l'orecchie  alle  lor  voci  vane; 

godo  oggi  per  allor,   poi  che  con  mente 
quasi  l'etadi  anticipo  lontane 
e  '1  mio   futur  onor  mi  fo   presente. 


LIRICI    MARINISTI 
X 

PER  FLAMINIA  CECCHINI 

COMICA 

scampata  all'incendio  del  Vesuvio  e  recatasi  presso  Luigi  XIII 

Nel  più  bel  lido  de'  campani  lochi 
favoleggiava  io  già  da  palco  altiero 
come  Fortuna,  che  del  mondo  ha  impero, 
le  sue  felicità  consacri  a  pochi. 

Ecco,   ella,   che  cangiar  fa   nostri  giuochi 
in  vivo  pianto  e  nostre  fole  in  vero, 
fé'  improviso  tremar  Vesuvio  fiero 
e  gittar  dalla  cima  immensi  fuochi. 

Tal  ch'a  me,  lassa,   in  un  momento  fue 
ogn'aver  tolto  ed  ogni  bene  assorto 
dall'empia  arsura  e  dalle  fiamme  sue. 

Vendica  or  tu  della  mia  sorte  il  torto, 
buon  re  di  Gallia,  e  sien  le  braccia  tue 
de'  miei  duri  bisogni  il  dolce  porto. 

XI 

IL    RITRATTO 
Al  cavalier  Giuseppe  d'Arpino 

Ben  si  somiglia  in  parte, 
Arpin,   la  tua  pittura 
a  costei;   ma  può  l'arte 
mal  giunger  la  natura. 
Sempre  resta  minor  l'ombra  che  '1  vero, 
e  sempre  cede  l'opera  al  pensiero. 

Molto  sai,   ma  non  puoi 
tutto  '1  bello  di  lei 
veder  cogli  occhi  tuoi, 
perch'accese  non  sei. 
Sol  io,   perch'amo,   integra  la  guardo 
e  l'ho  tutta  negli  occhi  e  nello  sguardo. 


TOMMASO    STIGLIANI 

Pure,  a  me  giova  poco, 
senz'ingegno,   il  vedere; 
com'in  te  non  ha  loco, 
senza  vita,   il  sapere; 
che  tu  la  formeresti  e  non  t'appare, 
eJ  io  la  veggio  e  non  la  so  formare. 

Invan  tu  la  ritrai 
ed  io  la  miro  invano; 
che  tu  gli  occhi  non  hai 
ed  io  non  ho  la  mano. 
Deh,  potesti!  cogli  occhi   miei   minirla, 
o  potess'io  con  la  tua  man  ritrarla  ! 

Che  cosi  fora  il  iìnto 
tanto  bello  ed  adorno, 
che  '1  ver  resteria  vinto 
ed  il  vivo  avria  scorno; 
ed  avverria  che  l'imitata  cosa 
fusse  dell'imitante  invidiosa. 

Avria  ciascun  dì  nui 
premio  eguale  al  lavoro: 
tu  lodato  d'altrui 
ed  io  fuor  di  martoro; 
tu  ne  trarresti  fama  ed  io  diporto, 
tu  n'avresti  la  gloria  ed  io  '1  conforto. 

Or  poi  che  né  tu  amante 
né  io  son  dipintore, 
si  che  quel  bel  sembiante 
tu  veggia  ed  io  colore; 
l'opra  godrò  ch'i  tuoi  pennelli  ha  stanchi, 
col  pensier  rifacendola  ove  manchi. 

Di  rifarla  con  rime 
anco  direi  vivaci, 
se  foss'io  si  sublime 
fra  i  pittori  loquaci, 
qual  fra  i  muti  poeti  esser  tu  mostri  ; 
ma  pèrdon,   co'  tuoi  lini,   i  fogli  nostri. 


LIRICI    JIARINISTI 
XII 

LA  CANTATRICE 

A  Setlimia,   figliuola  di  Giulio  Romano 

Chi  non  sa  quanto  puote 
l'umano  canto  in  noi 
colle  vezzose  note 
de'  bei  numeri  suoi, 
overo  il  canto  angelico  non  crede, 
venga  ad  udir  costei,  che  ne  fa  fede. 

Ella,   mentre,   sedendo, 
va  co'  taciti  avori 
di  sue  dita  scorrendo 
gli  altri  avori  sonori, 
canta  in  tal  guisa  e  cosi  dolcemente, 
che  per  l'orecchie  i  cor  fura  alla  gente. 

Or  volanti  passaggi, 
or  affetti  e  sospiri, 
ora  fughe  e  viaggi, 
or  riposi  e  rispiri, 
ora  suole  alternar  dolci  durezze, 
ora  suole  intrecciar  dure  dolcezze. 

Quando  schiude  un  accento 
tremolante  e  soave, 
quando  move  un  concento 
armonioso  e  grave, 

quand'aito  forma  il  canto  e  quan  io  basso, 
quando  vivace  il  fa,   quando  il  fa  lasso. 

E,   quasi  un  rio  corrente, 
qui  mormorar  appena, 
là  gemer  altamente 
tu  l'odi  in  nota  piena; 
qui  gir  quieta  e  placida  l'ammiri 
là  gorgogliar  con  tortuosi  giri. 


TOMMASO    STIGLIANI 

Né  nuda  spada  in  mano 
di  snello  schermidore 
girò  mai  per  lo  vano 
con  si  presto  splendore, 
e  si  ratta  e  si  lieve  e  si  veloce 
quanto  la  bella  e  delicata  voce. 

Anz'ella,   a  chi  sentendo 
ne  sta  l'alta  dolcezza, 
non  già  una  parendo, 
ma  tre  per  la  prestezza, 
fa  all'orecchie  talor  l'istesso  inganno 
che  le  lingue  de'  serpi  agli  occhi   fanno. 

Or  quando  mai  più  vanto 
si  diede  alcun  d'udire 
nel  para  liso  il  canto 
senza  prima  morire, 

com'oggi  avvien  a  noi,  mentre  ch'udiamo 
questo  spirto  celeste  e  vivi  siamo? 

O  nel  velo  mortale 
angelo  dimorante, 
se  'n  ciel  si  canta  tale 
qual  in  terra  tu  caute, 
io  qui,   perché  lassù  ne  possa  girmi, 
voglio  veracemente  or  or  morirmi. 

E  s'ancor  non  è  giunto 
alla  fragil  mia  vita 
il  destinato  punto 
della  mortai  partita, 
far  vo'  si  sante  gesta  e  si  giust'opre, 
ch'io  merti,  poi  che  moia,  andar  là  sopre. 

Che,   chi  ben  mira  il  vero, 
tu  stata  esser  non  puoi 
senza  divin  mistero 
qua  giù  mandata  a  noi  ; 
ma  a  ciò  ch'alzando  a  Dio  l'umano  zelo, 
facci  la  terra  innamorar  del  cielo. 


LIRICI    MARINISTI 
XIII 

IL  SALUTO   DELL'AMANTE 

—  Ripigliate,   augelletti, 
i  vostri  dolci  canti. 
Già  vien  co'  zefiretti 
la  stagion  degli  amanti; 
e  ne'  prati  è  rinata 
la  famiglia  odorata. 

Ride  il  fresco  giacinto, 
il  gelsomin  nevoso; 
ride  il  ligustro,  tinto 
di  pallore  amoroso; 
ride  il  narciso  in  sponda, 
ride  la  calta  in  fronda, 

il  soave  amaranto, 
le  pallide  viole, 
il  pieghe  voi  acanto, 
Clizia  amante  del  sole, 
il  giglio  che  biancheggia, 
la  rosa  che  rosseggia... 

Mancava  a  tanti  fiori 
solo  il  fior  di  beltade. 
Ma  eccol,  che  vien  fuori, 
o  Po,  di  tue  contrade. 
Questa  è  l'alma  mia  diva, 
eh 'è  primavera  viva.  — 

Cosi  Tirsi  cantava 
a  suon  d'arguta  canna, 
mentre  Lidia  menava 
gli  agni  fuor  di  capanna. 
E  quella  volse  il  viso 
e  '1  premiò  d'un  sorriso. 


TOMMASO    STIGLIANI  I3 

XIV 

IL  CHIARIMENTO    ALL'AMATA 

—  Già  cessa  il  metitor  col  torto  ferro 
di  córre  i  frutti  del  sepolto  seme, 
e  sotto  l'ombra  del  fronzuto  cerro 

sta  '1  gregge  insieme. 
Fugge  ogni  fera  gì' infiammati  lampi, 
che  '1  sole  avventa  dall'ardente  faccia; 
né  alma  v'è  che  per  gli  aperti  campi 
dimora  faccia. 
O  bionda  più  della  matura  spica, 
ma  più  crudel  della  pungente  arista, 
che  qualor  vai  nella  fontana  aprica 

traggi  ogni  \'ista  ; 
per  non  venirne  all'ombra  ove  son  io, 
perché  or  dal  camino  arder  ti  fai  ? 
infino  a  quando  questo  sdegno  rio 
meco  tei'rai? 
Dunque,  t' han  le  bugiarde  altrui  parole 
potuta  trarre  a  prestar  fé  compita, 
ch'io  ami  altra  che  te,   mio  caro  sole, 
mio  ben,   mia  vita? 
Spogliati,   semplicetta,   i  rei  pensieri, 
ch'io  non  seguo  Licori,   ancora  ch'ella 
séguiti  me,   né  le  mandai  l' altrieri 

la  bianca  agnella. 
Bench'egli  è  vero  (acciocché  chiaro  appaia 
che  falsata  han  l'istoria  a  te  costoro) 
che  fu  ella  ch'a  me  mandò  dall'aia 
un  pomo  d'oro; 
su  '1  quale  era  con  lettera  cavata 
scritta  questa  sentenza  in  corti  accenti  : 
«  Giace  per  te  Licori,   empio,   infermata, 
e  tu   '1  consenti  ». 


14  LIRICI    MARINISTI 

Lessila  e  tosto  il  dono  a  terra  trassi. 
Vedi  tu,  dunque,  com'hai  meco  sdegno 
per  cosa,   ond'io  sarei  che  mi  lodassi 

più  tosto  degno  !  — 
Cosi  parlava  l'amator  selvaggio, 
quand'ella,   alquanto  accoltasi  la  vesta, 
ridendo  segui  oltra  il  suo  viaggio, 

coll'urna  in  testa. 

XV 

LA  LUSINGA  AMOROSA 

Dolce  Lidia,   Lidia  bella, 
sporgi  quella 

bocca  ov'abita  '1  mio  core; 
ch'io  farò  de'  labbri  bei 
poppe  ai  miei, 
vera  pecchia  di  tal  fiore. 

Che  insoffribile  contento 
è  ch'io  sento? 

Dimmi,   Lidia:   hai  pur  capanna; 
sei  svelata  al  ciel  giaciuta 
che  piovuta 
su  le  labbra  t' è  la  manna? 

O  pur  nettare  cibasti, 
né  curasti 

poi  la  bocca  rasciugarti? 
Ah  crudel,   tu  non  rispondi, 
ma  confondi 
col  baciar  gli  accenti  sparti. 

Grandinate,  dolci  baci, 
ma  loquaci, 

che  il  silenzio  Amore  annoia, 
e  dir  l'ultime  parole 
sempre  suole, 
quand' un'alma  avvien  che  moia. 


TOMMASO    STIGLIANI  I5 

Or  perché,   se  t'aggio  in   braccio, 
pur  mi  sfaccio? 
pur  sospiro,   idolo  mio? 
né  per  penderti  dal  collo 
fo  satollo 
il  famelico  desio  ? 

Deh  !  si  come  da  natura 
l'onda  pura 

nella  spugna  entra  e  s'asconde; 
cosi  entrarti  cogli  amplessi 
io  potessi  • 

nelle  viscere  profonde; 

tal  eh 'ognun  di  noi  cangfiato 
di  suo  stato, 
io  tu  stessa  e  tu  foss'io; 
come  a  Salmace  addivenne, 
quando  tenne 
il  fanciullo  in  mezzo  al  rio. 

Oual  dolcezza  indi  saria 
ch'uom  tra  via 
te  per  Tirsi  salutasse; 
e  chi  meco  all'ombra  siede, 
se  mi  chiede, 
sol  per  Lidia  m'appellasse! 

Dolce  Lidia,   Lidia  bella, 
sporgi  quella 

bocca  ov' abita  '1  mio  core; 
ch'io  farò  de'  labbri  bei 
poppe  ai  miei, 
vera  pecchia  di  tal  fiore. 


l6  LIRICI    MARINISTI 

XVI 

GUERRA  INTERNA 

Spesso  espongo  a  tenzone, 
nell'agon  de'  pensieri, 
duo  contrari  guerrieri, 
il  senso  e  la  ragione. 
Ma  essi,   benché  fieri, 
luttando  amici  fannosi,   e  gì' istessi 
della  contesa  amplessi 
in  amplessi  alfin  mutano  di  pace. 
Questo  nasce  e  si  face 
perch'ambi,   col  toccarsi, 
soglion  lor  qualitati  accommunarsi  ; 
si  che  poco  si  pena 
che  '1  senso  è   divo   e   la  ragion   terrena. 

XVII 

AD  AQUILINO  COPPINI 

Coppini,  io  vo'  di  me  novella  darte. 
Talora,   leggo  in  parte 
ciò  che  del  ver  fu  dai  due  greci   scritto; 
talora,   mi  tragitto 
dell'alme  muse  all'arte, 
ed  o  concepo  in  mente 
o  partorisco  in  carte. 
Cosi  di  mezzo  verno  ognor  sudando 
e  allor  più  travagliando 
quand'avvien  che  più  'I  vulgo 
goda  il  sonno  o  con  Vener  si  diporte, 
moro  in  vita,  per  viver  dopo  morte. 


TOMMASO    STIGLIANl  17 

XVIII 

CONTESE   AMOROSE   DI   FIORI 

Il  giglio  ama  la  rosa, 
ed  ella  lui  non  sdegna; 
ma  più  inchina  al  giacinto, 
sol  perché  quello  un  «  ahi  »  mostra  dipinto. 
Ecco  lite  amorosa 
fra  '1  giacinto  ed  il  giglio. 
L'un  dice:  —  Io  son  vermiglio, 
com'è  la  bella  sposa.  — 
L'altro  dice  :  —  Io  son  pallido  in  sembiante, 
com' esser  dee  l'amante.  — 
Ella  si  sta  tra  l'uno  e  l'altro  fiore 
ad  udir  con  rossore; 

poi  lor  concede  a  ciascheduno  un  bacio, 
quasi  volendo  dir:  —  Nessuno  escludo; 
siami  il  giacinto  sposo,  e  '1  giglio  drudo.  — 

XIX 

IL  MONTONE    VEZZOSO 

Lidia,   il  bianco  monton  ch'io  ti  donai, 
oh  quanto  per  suoi  vezzi 
merita  che  tu  '1  prezzi! 
Ecco,   per  roder  ora 
la  ghirlanda  di  ftonde, 
che  la  fronte  gli  onora 
si  ch'un  occhio  gli  asconde, 
egli  ha  in  tutto  obliato 
di  pascolar  sul  prato; 
e,   perch'ella  è   tropp'alta, 
erge  il  grifo,  e  s'affanna,  e  par  che  tenti 
la  stessa  fronte  sua  giunger  co'  denti. 


Linci  marinisti  —  2 


l8  LIRICI    MARINISTI 

XX 

IL  GIUSTO  MEZZO 

Se  con  lunga  fierezza 
i  fidi  amanti  scaccia, 
la  pregata  bellezza 

uccide  in  quei  la  speme  e  i  cuori  slaccia. 
E  s'ella  ai  primi  preghi 
avvien,   senza  contesa, 
ch'addolcita  si  pieghi, 
fa  in  breve  intepidir  la  voglia  accesa. 
Dunque,  s'usi  in   amore 
né  troppa  crudeltà  né  troppa  grazia, 
perché  l'una  dispera  e  l'altra  sazia. 

XXI 

GRADAZIONE  CRESCENTE  DI  FELICITÀ 

Felice  chi  ti  vede! 
Più  felice  a  cui  è  dato  di  parlarti  ! 
Felicissimo  quel  che  può  toccarti! 
Semidio  chi  ti  bacia  il  bel  sembiante! 
Dio  chi  ti  fa  il  restante! 


TOMMASO    STIGLIAMI  19 

XXII 

SONETTO  NELLO  STILE  DI   MODA 

Parodia. 

Quasi  viva  felluca  ed  animata, 
naviga  l'aria  coi  pennati  remi 
il  baldo  nibbio,  e  scorre  indi  e  boemi 
e  l'arrostita  zona  e  l'annevata. 

Poi  giù   piombando   ov'il   terren   s'imprata, 
acciocch'ivi  a  sua  fame  ésca  vendémi, 
rape  alla  chioccia  un  de'  suoi  vivi  semi, 
fatto  corsar  della  progenie  alata. 

Allor  la  rauca  madre  arruffa  i  cigli 
e  invan  croccia  al  volante  involatore, 
che   '1  picciol  Ganimede  ha  negli  artigli. 

Cosi  non  meno  a  me  rapi  il  mio  core; 
poi,  volando,   carpi  lontani  esigli 
il  gran  nibbio  dell'alme,   io  dico  Amore. 


xxni 

IL   BIDELLO    DELLO    STUDIO 

nel  chiedere  la  mancia  agli  scolari 

Sono  il  vostro  bidel,   che  m'appresento 
per  la  colletta  a  voi,   larghi  scolari. 
Non  appiattate  sotto  '1  manto  il  mento, 
non  vi  mostrate  dell'avere  avari. 
Questo  ch'ho  in  mano  è  un  bacil  d'argento 
però  convien  che  d'or  siano  i  danari. 
Su,   dunque,   se  larghezza  in  voi  s'aduna, 
gettate  alcuna  stella  in  questa  luna. 


MARCELLO  MACEDONIO 


I 

LE  BUGIE  NELL'AMORE 

Se  '1  petto  ha  cristallino  e  mostra  fòre 
le  viscere  più  interne  e  più  celate; 
se  nudo  è  sempre  e  nulla  asconde  Amore, 
chi  fa  bugiarda  voi,   che  tanto  amate? 

Quanto  con  bocca   angelica   dettate 
scrivo  in  diamante  e  serbo  in  mezzo  al  core. 
O  divina  bellezza,   or  non   vogliate 
il  tempio  in  cui  v'adoro  empir  d'errore! 

acciò  che  l'alma  a  voi  devota  ed  usa 
a  dar  incensi  al  vostro  altare  adorno, 
che  miracoli  tanti  or  di  voi  crede, 

non  abbandoni  il  vostro  culto  im   giorno 
e,  da  fallaci  oracoli  delusa, 
perda  a  l'idolo  suo  l'antica  fede. 


MARCELLO    MACEDONIO 
II 

ALLA  DAMIGELLA  DELLA  SUA  DONNA 

O  de  la  Luna  mia   seguace   stella, 
che  fai  terrena  a  le  celesti  oltraggio, 
anzi,  o  splendor,  che  sei  d'un  Sol  messaggio, 
d'amoroso  orizzonte  alba  novella; 

l'alba,  del  sole  orientale  ancella, 
gli  prepara  il  bel  carro  al  gran  viaggio, 
e  tu,   d'un  Sol  ministra,   appo  '1  cui  raggio 
par  l'altro  agli  occhi  miei  spenta  facella, 

tu  ne  dispensi  il  vago  lume  altero 
ed  in  cielo  d'Amor  l'aggiri  intorno; 
io,   che  tanto  bramai,   da  te  lo  spero. 

Fa',   tu  che  puoi,   che  Sol  cotanto  adorno, 
ch'or  co'  begli  occhi  alluma  altro  emispero, 
al  mio  si  volga  ed  a  me  porti  il    giorno. 


Ili 
VIAGGI  ED   AMORE 

Peregrino,   cercai  stranio  ricetto: 
vidi  antica  città  cui  nulla  è  pare, 
già  regina  del  mondo,   ed  anco  appare 
agli  occhi  altrui  d'imperioso  aspetto. 

Vidi  Adria  tempestoso  e  nel  suo  letto 
tra'  venti  insuperbir  machine  rare, 
che  si  fan  base  cristallina  il  mare, 
e,    col    ciel    confinando,    han    lui    per   tetto 

E  s'io  poggiassi  a  le  celesti  piagge 
mirando  il  Sol  nel  suo  palagio  adorno 
e  la  magion  de  l'alba  e  de  le  stelle, 

certo  direi  che  son  rive  selvagge, 
begli  occhi,   e  pur  farei  di  là  ritorno 
a  vagheggiar  in  voi  forme  più  belle. 


LIRICI    MARINISTI 
IV 

LE  VESTI   DI  VARI  COLORI 

Quei  tuo'  vaghi  colori 
onde  vai  tanto  altera, 
variando  or  le  bende  ed  ora  i   manti, 
in  te  son  quasi  fiori, 
cara  mia  primavera, 
che  togli  dal  mio  cor  verno  di  pianti. 
Or  fingi  gli  amaranti, 
or  ne  mostri  le  rose, 
or  viole  ed  or  gigli 
dolcemente  somigli 
ne  le  felici  tue  spoglie  amorose; 
né  manca  a  si  bel  maggio 
d'un  vivo  sole  il  raggio. 

Torbido  il  ciel  sovente 
mostra  in  segno  di  pace 
fra  le  nubi  dipinte  un  arco  vago. 
O  corpo  adorno,   ardente, 
tu  se'  cielo   verace, 

che  de  l'altro  io  conosco  in  te  l'imago. 
Ed  oh,  quanto  m'appago, 
mirando  che  ti  cinge 
con  si  vario  colore! 
Si  consoli  il  mio  core, 
che  ne  le  spoglie  sue  l'iride  pinge 
questo  ciel  di  beltade, 
e  promette  pietade. 

Fu  già  de'  saggi  avviso 
che  forman  la  bellezza 
i  vivaci  color  d'eguali  membra; 
però  l'amato  viso 
ha  cotanta  vaghezza, 
quindi  armato  ed  ardente  ai  cori  sembra. 


MARCELLO    MACEDONIO  2$ 

E  costei,    che   rimembra 

sua  bellezza   infinita 

farsi  da  color  vari, 

or  negli  abiti  cari 

diversa  di  color  pompa  n'addita, 

e  mostra  il   bello,  accolto 

ne  le  vesti  e  nel  volto. 

Dal  mondo  tenebroso 
i  colori  hanno   essiglio, 
né  si  veggon  da  noi  senza  la  luce  ; 
l'azzurro  e  il  verde,   ascoso, 
e  sepolto  è  '1  vermiglio, 
alor  che  l'ombre  sue  notte   n'adduce. 
Se  quel  Sol  che  riluce 
in  due  pupille  ardenti 
nascondesse  i  be'  rai, 
i  colori  più  gai 

certo  fòran  per  me  languidi  o  spenti. 
Or,   perché  sono  in    lei, 
son  belli  agli  occhi  miei. 

Voi,   mirabili  ingegni, 
che  movete  i  pennelli 
per  imitar  ne  l'opre  sue  natura, 
oh  che  novi  disegni, 
oh  quai  colori  belli 
usa  costei  che  l'arti  vostre  oscura! 
E,   pittrice  e  pittura, 
ella  fia  che  vi   mostri 
come  ben  si  dipinga, 
qual  color  più  lusinga. 
Imparate  da'  suoi  temprar  i  vostri, 
che  talor  pingereste 
qualche  forma  celeste. 

Vo  rimembrando  spesso 
l'animai  che  si  crede 
viver  digiuno  o  sol  d'aria  cibarsi; 


24  LIRICI    MARINISTI 

scolorito  in  se  stesso, 

dovunque  posa  il  piede 

suol  del  color  che  gli  s'appressa  ei  farsi. 

Ed  io  lo  cor  mutarsi 

a  que'  colori  sento; 

questa  cangia  le  spoglie, 

ed  io  cangio  le  voglie, 

e  n'acquisto  or  dolcezza  ed  or  tormento, 

e  mi  discopro  in  fronte 

novo  camaleonte. 

Occhi  belli  ond' io  ardo, 
occhi  crudi  ond' io  moro, 
poiché  si  vaghi  di  colore  séte, 
a  me  girate  il  guardo, 
che  con  altro  lavoro 
altro  nel  viso  mio  color   vedrete. 
Ch'io  son  ghiaccio  direte, 
se  ne  la  fronte  essangue 
la  pallidezza  ha  loco; 
direte  che  son  foco, 

se  mi  fugge  dal  cor  nel  volto  il  sangue. 
L'uno  e  l'altro   mi   viene 
da  voi,  luci  serene. 

Fia  vantaggio,  canzon,  ch'io  ti  nasconda; 
che  mal  con  fosco  inchiostro 
si  bei  colori  hai  mostro. 


MARCELLO    MACEDONIO 


25 


DISFIDA  DELLE  ACQUE  E  DELLE  AURE 


ACQUE 


AURE 


ACQUE 


AURE 


ACQUE 


AURE 


Cedete,   aure  volanti, 
cedete  a  l'acque  belle, 
che  vi  son  pur  sorelle, 
gli  alteri  vostri   vanti. 

V'adornan  molti  fregi, 
acque,  ma  quando  ardite 
entrar  con  l'aure  in  lite, 
pèrdono  i  vostri  pregi. 

Noi  siam  tesor  del  prato, 
argento  fuggitivo, 
zaffiro  molle  e  vivo, 
diamante  distillato. 

In  petto  a  le  montagne 
filze  di  perle  fine 
e  serpi  cristalline 
sembriam  per  le  campagne. 

E  noi,   spirti  vitali, 
che  scorriam  gli   elementi, 
quasi  angeliche  menti, 
con  invisibil  ali, 

figlie  de  l'aria  pura 
e  nunzie  de   l'aurora, 
e  compagne  di   Flora 
e  sospir  di  natura. 

Noi  degne  che   ne   rubi 
il  Sol  di  man  dal  mare, 
e  n'alzi  a  trionfare 
sul  carro  de  le  nubi. 

Noi  possiam  da'  suoi  raggi 
i  corpi  altrui  schermire, 
quand'ei  più  scalda  l'ire 
nei  lunghi  suoi  viaggi. 


26 


LIRICI    MARINISTI 


ACQUE  Noi,   sangue  dei  terreni, 

latte  clie  nutre  l'elei, 
nettare  de  le  selci, 
manna  degli  orti   ameni; 
noi,  vita  d'ogni  stelo 
e  specchio  ai  boschi  folti 
e  pittrici  dei  volti 
e  ritratti  del  cielo. 

AURE  Noi,   penne  degli   odori 

e  linguaggio  d'aprile 
e  musica  gentile 
a  cui  ballano  i  fiori  ; 

e  noi,   fiato  del  mondo, 
che  spira  al  spirar  nostro: 
che  più  ?   flagello  vostro, 
che  vi  scote  dal  fondo. 

ACQUE  Ben  séte  ingiuriose, 

aure  mormoratrici, 
aure  vendicatrici; 
ben  séte  ingiuriose. 

AURE  Deh,   garrule,   tacete, 

voi  che  già  cominciaste, 
voi  che  ne  provocaste, 
temerarie  ben  séte  ! 

AURE     à  Or  cessino  gli  sdegni, 

ACQUE  ^  né  si  cerchi  vittoria; 
ma  sia  pari  la  gloria 
di  si  congiunti  regni. 


MARCELLO    MACEDONIO 
VI 

INVOCAZIONE  ALL'AURORA 

Niso,  a  cui  già  la  greggia 
chiedea  belando  i  rugiadosi  paschi, 
vedendo  tutto  ancor  d'ebeno  il  cielo, 
se  non  che  già  d'avorio 
si  facea  l'orizzonte, 
or  premea  la  sampogna 
onde  con  soavissimo  lamento 
fuggia  musico  vento, 
or  l'alba  ch'indugiava 
con  tal  voci  invitava  : 

—  Pastorella  celeste, 
sonnacchiosa  ti  stai  fuor  del   tuo  stile; 
raccogli  omai  ne  l'infiorato  ovile 
dai  torti  suoi  viaggi 
la  greggia  de  le  stelle, 
lucide  pecorelle, 

a  cui  son  ricca   lana  i  folti   raggi. 
Tutta  notte  han   pasciuto 
per  li  sereni  campi 
che  germogliano  lampi, 
ed  assai  ruminato  han  per  le  valli 
dei  concavi  cristalli, 
in  fonti  di   rugiada 
ed  in  laghi  di  manna 
sommergendo  la  sete, 
e  ne  la  via  di  latte, 
quasi  in  fresco  ruscello, 
lavando  a  gara  il  fiammeggiante  vello. 
Deh,   guarda  ben  di  non  smarrirne  alcuna 
per  la  contrada  bruna. 
Tosto  verran  le  vagabonde  al  fischio 
de  l'Aura  tua  bifolca. 


28  LIRICI    MARINISTI 

e  tu  r  indrizza  al  solito  camino 
col  baston  corallino, 
e,  tosandole  poi,  di  quel  tesoro 
fa'  per  te  gonne  d'oro.  — 

Mentre  ch'ai  favellava, 
tra  colline  di  rosa, 
in  campagna  di  gigli, 
la  ninfa  orientai  vide  apparire; 
ond'ei  sospinse  la  sua  mandra  ai  prati 
e  la  fistola  empi  di  novi   fiati. 


SCIPIONE  GAETANO 


I 

LA  LUSINGATRICE  VOLUBILE 

Somiglia  fronda  a  cui   fa  guerra  il  vento, 
o  picciol  legno  in  mezzo  al  mar  sonante, 
la  donna  mia,   che  in  tante  parti  e  tante 
si  raggira  e  si  volge  in  un  momento. 

Or  di  gioia  è  ministra,   or  di  tormento, 
or  incerta  nemica,   or  dubia  amante; 
è  in  amar  varia,   in  variar  costante, 
ha  '1  pensier  vario,   in  varie  parti  intento. 

Or  arde,   or  gela,   e  l'ardor  suo  comparte, 
prodiga  a  mille  amanti,   in  mille  ardori, 
quasi  raggio  del  Sol  ch'in  rai  si  parte. 

Fa  mille  alme  d'un'alma;   in  mille  cori 
cangia,   infida,   un  cor  solo;   ahi,  con  qual  arte 
un  amor  si  divide  in  tanti  amori? 


30  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  CONTATTO  DEL  SENO 

Quel  vago  sen,  che  di  sua  mano  Amore 
tutto  cosparse  di  ligustri  e  rose, 
sul  petto  mio  Glori  leggiadra  pose, 
per  sanarmi  di  fuor  lieve  dolore. 

Ma  quanto  questo  diventò  minore 
quando  tanta  virtute  a  lui  s'oppose, 
tanto  il  foco  che  dentro  Amor  v'ascose 
più  fiero  corse  ad  infiammarmi  il  core. 

Cosi  dal  mal  mi  guarda  e  mi  difende; 
un  dolor  sana  e  fa  più  l'altro  atroce, 
e,  credendo  giovar,   m'arde  ed  offende. 

Or  so,  lasso,  per  prova  (e  ben  mi  nóce) 
che  vicino  e  lontan  quel  seno  accende, 
ma  quanto  è  più  vicin  tanto  più  coce. 


Ili 
IL  PIANTO 

Piangea  Corinna,   e  da'  begli  occhi  fviore, 
onde  par  ch'ogni  petto  arda  e  sfaville, 
con  nova  arte  d'amor  fiamme  e  scintille 
uscian  converse  in  lagrimoso  umore. 

E  pietosa  negli  atti  e  nel  colore, 
sugger  mi  fé'  l'insidiose  stille, 
e  fùr  le  finte  in  lagrime  faville 
refrigerio  a  la  bocca  e  foco  al  core. 

Facea  vago  parer  più  che  non  suole 
quell'umor  di  cui  tanto  io  mi  querelo, 
il  bel  volto  di  rose  e  di  viole. 

Tal,   distillando  il  matutino  gelo, 
rassembra,  alor  che  s'avicina  il  sole, 
sparso  di  fiori,  in  oriente,  il  cielo. 


SCH'IONE    GAETANO  31 

IV 

LA  VECCHIA  AMBASCIATRICE 

Alor  che  immerso  in  tenebrosi  errori 
aspetto  un  Sol  via  più  dei  sole  adorno, 
veggio  apparir  la  vecchia  nunzia  e  intorno 
seccarsi  i  prati  e  raddoppiar  gli  orrori. 

Ma  poi  che  cinta  di  più  bei  splendori 
fa  la  luce  ch'io  bramo  a  me  ritorno, 
porge  luce  a  quest'alma  e  luce  al  giorno 
e  raddoppia  a  la  terra  erbette  e  fiori. 

Quella  fra  noi,  quasi  novella  Aletto, 
ciò  che  mira  avelena;  e  questa  indora 
tutto   quel   eh 'è   de'  suoi   begli   occhi   oggetto. 

Quella  spoglia  il  terren,   questa  l'infiora; 
coni 'esser  può  che  sia  guidato  e  retto 
cosi  bel  Sol  da  cosi  brutta  Aurora? 


V 

LA  CASA  DELLA  DONNA  AMATA 

Corinna,  alor  che  il  rimirarvi  è  tolto 
agli  occhi,   che  non  hanno  altro  diletto, 
le  mura  io  miro  in  vece  de  l'aspetto, 
ed  —  Ivi  è  —  dico  —  ogni  mio  ben  raccolto  ! 

E  qual  si  vede  entro  a  cristallo  accolto, 
rinchiuso  si,   ma  non  celato  oggetto, 
cosi  scorge  il  pensiero  e  l'intelletto, 
ben  che  cinto  da  mura,   il  vostro  volto. 

Si  che  séte,   qualor  voi  v'ascondete, 
dal  corpo  si,   ma  non  da  l'alma  assente; 
perché  a  quella  celar  non  vi  potete. 

Che  '1  pensier  vi  figura  a  la  mia  mente, 
quasi  industre  pittore,   e  sempre  séte, 
benché  lunge  dagli  occhi,  al  cor  presente. 


32  I.IRICI    MARINISTI 

VI 

ALLA  LUCCIOLA 

V  «'■ 

Pargoletto  animai  cui  che  natura 

luce,  eh 'a  pena  fra  l'orror  traluce, 

ogni  stella  del  ciel  eh 'a  noi  riluce 

agli  occhi  miei  sembra  di  te  men  pura. 

Tu  nel  più  oscuro   de  la  notte  oscura, 
che  segno  alcun  non  apparia  di  luce, 
fida  stella  mi  fosti,   e  scorta  e  duce 
a  quelle  amate  e  desiate  mura. 

Se  potess'io  quel  che  poter  vorrei, 
sarian    men    vaghe,    che    non    son    le    stelle, 
e  tu  più  vaga  assai  di  quel  che  sei  ; 

tu  sol  in  ciel  stella  saresti,   e  quelle, 
che  propizio  non  furo  ai  voti  miei, 
sarian  di  te  men  lucide  e  men  belle. 


VII 

VENEZIA 

Alta  città,   ch'in  mezzo  a  l'onde  hai  nido, 
adorna  e  ricca  di  bellezze  tante, 
ch'Amor  per  te,   fatto  d'amore  amante, 
lasciato  ha  Pafo  e  derelitto  ha  Gnido  ; 

quand'io  l'orgoglio  di  fortuna  infido 
foggia  scacciato  peregrino  errante, 
tu  fosti  a  me,  eh'  in  te  fermai  le  piante, 
dolce  albergo  non  sol,  ma  dolce  e  fido. 

Non  posso,   io  no,   quel  che  poter  desio; 
voglio  almen  quel  che  posso;  e  viva  e  fresca 
di  te  memoria  entro  al  mio  cor  si  serra. 

Piaccia  or  voler,  quel  ch'io  non  posso,  a  Dio, 
e  col  crescer  degli  anni  a  te  s'accresca 
grazia  in  ciel,   forza  in  mar,   potenza  in  terra. 


GIAMBATTISTA  MANSO 


I 

ALLE  FALDE  DELLA  COLLINA  DI  SANT'ELMO 

Chiari,  tranquilli  e  liquidi  zaffiri; 
piaggia,  ch'a  l'onde  loro  apri  il  tuo  seno; 
ermo  colle,  cui  rende  il  ciel  sereno 
l'aura  de' miei  dolcissimi  sospiri; 

fiorita  valle,   che  de'  miei  desiri 
e  d'amorose  gioie  il  grembo  hai  pieno; 
fonte,  ch'intorno  a  si  bel  prato  ameno 
baci  a  madonna  il  pie,   mentre  t'aggiri: 

voi,   che  d'amor  siete  tesoro,   e  miei 
secretar i  e  custodi,   a  cui  '1  mio  core 
ciò  ch'altrui  celar  brama  apre  e  ridice; 

serbate  eterne  in  voi  del  nostro  ardore 
segno,   ma  occulto  il  bel  nome  di  lei 
e  la  gioiosa  mia  vita  felice. 

Lirici  ìiiarifiisti  —  3 


34  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  RITORNO   DELLA  PRIMAVERA 

Questi  fior,   queste  erbette  e  queste  fronde, 
di  novella  stagion  pompa  superba, 
e  questi,   che  serpeggiano  tra  l'erba, 
o  liquidi  cristalli  o  lucid'onde; 

pria  che  d'aspre  catene  e  di  profonde 
piaghe  pena  sentissi  ardente  acerba, 
che  né  state  né  verno  or  disacerba, 
trovai  sovente  a'  miei  desir  seconde. 

Ma  poscia  che  cangiar  m'ha  fatto  amore, 
che  mi  lega  il  voler  e  '1  cor  mi  sface, 
libertate  in  prigion,  gioia  in  ardore, 

fuggo  frond'erba  fiore  onda  fugace, 
e  bramo  sempre  un  tempestoso  orrore, 
che,  quando  orrido  è  il  mondo,  allor  mi  piace. 


Ili 
LA  SOLFATARA  DI  POZZUOLI 

Nuda  erma  valle,   ai  cui  taciti  orrori 
accrescon  tema  ombre  solinghe  oscure; 
sulfuree  rupi,  acque  bollenti  impure, 
sanguigni  fumi  e  tenebrosi  ardori  ; 

voi,   ch'in  parte  apprendeste  i  miei  dolori 
dagli  accesi  sospiri,  e  l'aspre  cure 
dal  largo  pianto  che  disfar  le  dure 
selci  potè  co' suoi  continui  umori; 

ditemi  pur  se  nel  penace  seno 
del  vostro  cieco,   afflitto,   orrido  regno, 
ove  '1  pianger  non  ha  conforto  o  freno, 

venne  uom  giainai  d'in  voi  penar  si  degno 
e  di  tanti  martir  l'alma  ripieno, 
che  d'un  sol  de'  miei  strazi  ei  giunga  al  segno! 


GIAMBATTISTA    MANSO  35 

IV 

PLACAMENTO   DI  GELOSIA 

Freddo  pensier,   che  d'agghiacciato  zelo 
creò  nel  petto  mio  fervido  amore, 
e  di  tema  nudrito  e  di  dolore 
mi  pasci  sol  di  venenoso  gelo; 

sgombrisi  omai  dagli  occhi  miei  quel   velo 
che '1   ben   nasconde   e '1    mal   palesa   al   core; 
ritorna  nel  tuo  cieco  ed  atro  orrore, 
oscura  nebbia  del  mio  chiaro  cielo. 

Se  l'altrui  vista  la  mia  vita  offende 
e  d'empia  voglia  invidiosa  armato 
sol  del  piacer  altrui  mi  spiace  e  dole; 

or  eh 'a  ciascun  si  cela  il  mio  bel  sole, 
ne  le  tenebre  mie  vi\'0  beato 
e  l'altrui  povertà  ricco   me  rende. 


.  V 
GELOSIA  OSTINATA 

Vattene,   infernal  mostro;   altrove  vibra 
tue  serpi,   ch'ebbre  del  mio  sangue  pasci. 
Ecco  che  corre  già  per  ogni  fibra 
freddo  venen,   né  d'infestarmi  lasci. 

L'amaro  tuo,   maggior   (se  '1  ver  si  libra) 
è  del  dolce  d'amor,   da  cui  tu  nasci; 
soavemente  i  lievi  spirti  ei  cribra, 
e  tu  d'acerbo  duol  mi  cingi  e  fasci. 

Che  non  fuggi,   crudel,   pria  che  più  cresca 
quel  rio  timor,   che  turba  il  mio  diletto, 
che  troppo  agli  angui  tuoi  fu  nobil  ésca? 

Ma,  lasso,   il  gelo  tuo  più  sento  al  petto, 
quanto  più  le  sue  fiamme  amor  rinfresca. . 
Oh  congiunto  al  piacer  mortale  effetto  ! 


FRANCESCO  BALDUCCI 


I 

AMORE  PALESE,   AMATA  NASCOSTA 

La  fronte  esangue,   lo  smarrito  aspetto 
tutti  gli  occhi  del  mondo  ha  in  me  rivolto, 
e  scovre  ornai  la  cenere  del  volto 
qual  sia  la  fiamma  che  mi  scalda  il   petto. 

Dice  altri,   mosso  da  pietoso  affetto: 
—  Questi  in  breve  sarà  spento  e  sepolto  ;   — 
ed  io  per  lei  ch'adoro  ad  arder  vòlto, 
il  mio  proprio  penar  prendo  a  diletto. 

Veggia  ognun  le  mie  fiamme  al  core  apprese  ; 
ma  la  bella  cagion  de  l'arder  mio 
non  già,  né  per  qual  mano  Amor  l'accese. 

Fiammeggi  pur,  se  sa,  l'alto  desio: 
pur  che  '1  mio  sole,   onde  lo  'ncendio  prese, 
altri  non  sappia  mai,  ch'Amore  ed  io. 


FRANCESCO    BALDUCCI  37 


II 


AL  FIGLIOLETTO  DELLA  SUA  DONNA 

Oh  caro  agli  occhi  miei  novello  Amore, 
de  la  Venere  mia  parto  diletto, 
che  mostri  a  me  nel  tuo  leggiadro  aspetto 
le  sembianze  ch'io  porto  impresse  al  core; 

fiamma  seconda  del  mio  primo  ardore, 
uscita  forse  a  'ncenerirmi  il  petto, 
poiché,   mentr'io  ti  miro,  entro  al  diletto 
sento  lo  'ncendio  mio  farsi  maggiore; 
oh  del  vivo  mio  sole   alba  novella, 
che  sembri,   a  quel   rotar  di  lumi  intorno, 
de  la  materna  luce  emola  bella; 

se  fa,   scorto  da  l'alba,  il  Sol  ritorno, 
certo  a  sperare  il  tuo  venir  m'appella 
che  presso  sia  di  que'  begli  occhi  il  giorno. 


Ili 
IL  DOLCE  SOGNO  INTERROTTO 

Ahi,   chi  mi  rompe  il  sonno,   or  che  l'amica 
luce  tra  l'ombre  agli  occhi  miei  s'apriva? 
or  ch'era  giunto  di  mia  speme  a  riva 
e  al  fin  de  l'amorosa  mia  fatica? 

Pareami  che  l'amata  mia  nemica, 
fatta  pietosa,   i  miei  lamenti  udiva, 
e  le  dolci  acque  a  la  mia  sete  offriva, 
nova  pietà  de  la  mia  fiamma  antica. 

Ma,  lasso  me,  per  l'infeconda  sabbia 
non  da  Tantalo  il  rio  fugge  cotanto, 
ond'a  l'arsura  sua  cresce  la  rabbia, 

come  allor  di  quel  fonte  amato  e  pianto 
l'onda  fuggi  da  l'assetate  labbia, 
e,  di  nettare  in  vece,  io  bevvi  il  pianto. 


3^  LIRICI    MARINISTI 

IV 

IL   RIVALE 

Dunque,  un  vano,  un  spergiuro,  un  fuggitivo, 
che  dianzi  '1  giogo  tuo  scuoter  si  volse, 
che  '1  pie  di  nodo  e  '1  cor  di  fé  disciolse, 
concorse  meco?  ed  io  mei  veggio  e  vivo? 

Dunque,   colui  ch'ai  volto  amato  e  divo 
per  vii  sasso  adorar  le  spalle  volse, 
quel  ch'offese  il  tuo  nume  e  non  si  dolse, 
s'appressa  a  l'ara?  e  tu  noi  prendi  a  schivo? 

Dunque,   in  servendo  avrà  di  par  mercede 
il  giusto  e  '1  reo?   Dunque,   egual  forza  teco 
ha  l'altrui  tradimento  e  la  mia  fede? 

Ah,  schernita  virtù,  che  fai  più  meco, 
lasso,   s'Amor  sol  per  ferirmi  vede, 
ma  per  mirar  le  mie  ragioni  è  cieco? 


V 

A  SANTO  STEFANO 

Felice  te,   che  per  sanguigne  vie 
movi  '1  primo  a  seguir  l'orme  di  Cristo, 
e  sai,   morendo,   far  di  vita  acquisto 
e  vincer  tutti  gli  anni  in  un  sol  die. 

Perché  l'umano  pie  mai  non  travia, 
il  mal  noto  camin  selciar  s'è  visto 
de  le  tue  pietre,  e  quindi  al  gran  conquisto 
dirizzar  l'orme  poi  l'anime  pie. 

Te  mira  il  cielo  dal  balcon  sovrano, 
che  gli  apre  del  zaffiro  il  fianco  inciso, 
pugnar,   campion  di   Dio,   presso  al  Giordano. 

Oh,  quanto  agli  empi,  onde  ne  cadi  anciso, 
Stefan,   de'  tu,   se  la  nemica  mano 
t'apre,   a  colpi  di  pietre,   il  paradiso! 


FRANCESCO  DELLA  VALLE 


I 

AL  NASCER  DEL  GIORNO 

Or  che  '1  di  nasce  e  la  mia  bella  e  cruda 
forse  dal  cheto  sonno  è  desta  al  lume, 
e  su  le  molli  fortunate  piume 
posa  le  membra  pensosetta  ignuda; 

Amor,  pria  ch'ella  sorga  o  gli  occhi  chiuda, 
deh  valle  a  rimembrar  com'è  mio  nume, 
e  che  pensando  a   lei,   com'ho  costume, 
quest'avvampato  cor  s'agghiaccia  e  suda. 

Chi  sa  se  per  pietà  de'  dolor  miei 
forse  in  quest'ora,   eh'  ad  Amor  si  piace, 
pensa  ella  a  me,   com'io  sol  penso  a  lei? 

Ahi,   che  vaneggia  il  mio  pensiero  audace? 
Se  ciò  mai  fosse,   io  di  piacer  morrei. 
O  miei  stanchi  pensier,  datevi  pace. 


40  LIRICI    MARINISTI 

II 

COMPIACIMENTO  DEI  PASSATI  AMORI 

Fùr  si  care  le  piaghe  e  si  gradite 
le  fiamme  onde  il  mio  cor  arse  e  si  dolse, 
e  con  si  vago  laccio  Amor  m'avvolse 
quelle  poche  felici  ore  sparite, 

ch'avvivar  le  reliquie  incenerite, 
or  che  lei  che  l'accese  il  ciel  mi  tolse, 
tento,   e,  ristretto  il  nodo  onde  mi  sciolse, 
aprir  l'antiche  mie  dolci  ferite. 

E  s'anco  affanno  in  rimembrarle  io  provo, 
pur  non  potete  voi,  memorie  amare, 
far  che  sia  vago  il  cor  di  piacer  novo. 

Ma  bacio  il  luogo  ove  alcun   segno    appare 
del  mal  antico,   e  le  scintille  covo 
de  le  ceneri  mie  soavi  e  care. 


Ili 
PASTORALE 

Bacia ,    non    più    rossor ,    Filli ,    cor    mio 
e  sian  risposte  dei   miei   baci  i  baci; 
faccian  le  braccia  al  sen  nodi  tenaci, 
che  nelle  labbra  tue  spirar  desio. 

Quel  susurro  de  l'aure  e  '1  mormorio 
di  queste  linfe  liquide  fugaci, 
qui  sol  s'ascolta,   e  l'amorose  paci 
sapran  de'  nostri  cori  Amore  ed  io. 

Quell'usignuol,  che  mille  voci  imita, 
con  dolci  fughe  tremole  e  canore 
a  gioir  noi  soavemente  invita. 

E  se  questo  silenzio  e  quest'orrore 
miri,   questa  gentil  riva  romita 
quasi  fatta  è  per  noi  scena  d'amore. 


FRANCESCO  DELLA  VALLE  41 

IV 

ALLA  STANZA 

dov'era  stato  con  la  sua  donna 

Pur  a  voi  volgo  il  pie,   solinghe  mura, 
e  in  voi  mi  poso,   o  vedove    mie   piume; 
ma  non  già,   come  un  tempo  ebbi  costume, 
quietar  vi  posso  o  rammollir  mia  cura. 

O  cieca  notte,   e  quanto   meno  oscura 
se'  di  quest'occhi  onde  ognor  verso  un  fiume, 
or  che  altrove  rimaso  è  il  chiaro  lume, 
di  cui  sempre  nel  cor  sento  l'arsura. 

Voi  sole,   ahi  lasso,   in  fra  i  sospiri  udite 
quante  volte  la  nomo;   e  mentre  taccio, 
voi,   ombre,   in  sogno  agli  occhi  miei  l'offrite. 

Voi,   ch'in  vece  di  lei  si   spesso  abbraccio, 
dogliosi  lini,   oimè,   perché  non  dite, 
quando  vi  vede  il  di,   come  mi  sfaccio? 

V 

PRIMA    DELL'ALBA 

Pria  che  l'alba  si  desti  in  oriente 
quest'occhi  lassi  a  lagrimare  io  desto, 
e  con  un  roco  oimè,   languido  e  mesto, 
chiamo  il  nome  di  lei,   che  non  mi   sente. 

Poi  vo  pensando  e  mi  riduco  a  mente 
del  di  già  scorso  or  quell'incontro  or  questo, 
e  '1  balenar  del  dolce  sguardo  onesto 
parmi  sempre  veder  quasi  presente. 

Onde  le  parlo  e  un  suon  di  sue  parole 
mi  sembra  udir  soavemente  espresso, 
ch'in  guisa  ch'io  vorrei  mi  racconsole. 

Cosi  covo  le  piume  e  chiamo  spesso 
de  le  mie  gioie  invidioso  il  sole; 
cotanto  io  godo  in  lusingar  me  stesso. 


42  LIRICI    MARINISTI 

VI 

AMORE  RECIPROCO 

Lunge,   lunge  da  me,   pianti  e  sospiri, 
ch'in   gioia   ha   vòlto   ogni   mia  noia   Amore. 
Ardo  ed  è  chi  m'accende  in  pari  ardore, 
cosi  conformi  abbiam  voglie  e  desiri. 

S'incontran  lieti  de' nostri  occhi  i  giri 
e  sempre  uniti  abbiam  core  con  core; 
s'io  per  lei  moro,  ella  per  me  pur  more: 
o  dolce  morte,   o  miei  cari  martiri! 

Gareggiando  d'amor,   baci  ed  amplessi 
godiam  felici,   e  nel  seren  de'  volti 
portiam  l'alme  dipinte  e  i  cori  impressi. 

Io  priego  Amor  che  le  mie  voci  ascolti, 
ch'il  mal  non  sani,  che  l'ardor  non  cessi, 
e  ch'i  nodi  del  cor  non  sian   mai  sciolti. 


VII 

L' IRREQUIETEZZA 

Qual  famelico  augello,   ove    rimira 
custodito  il  suo  cibo  avido  vola, 
or  di  quel  poca  parte  ardito    invola, 
ora  di  ramo  in  ramo  erra  e  s'aggira; 

come  d'amor  lungo  digiun  mi  tira, 
corro  a  colei  che  di  beltade  è  sola, 
ed  un  guardo,   un  sorriso,   una  parola 
involando  talor,   l'alma  respira. 

Al  felice  di  lei  caro  soggiorno 
giungo   a   pena   che    parto ,    e    parto    a    pena , 
ch'odiando  il  partir  faccio  ritorno. 

Se  m'è  tolta  di  lei  l'aria  serena, 
almen  beato  a  quelle  mura  intorno 
ha  qualche  tregua  il  cor  con  la  mia  pena. 


FRANCESCO    DELLA    VALLE  43 

Vili 

LA  CASA  DELLA  SUA  DONNA 

Al  nobil  tetto  ov'il  mio  sole  ha  sede, 
quasi  a  lume  farfalla  ognor   m'aggiro; 
ora  un  guardo  vi  mando,   or  un  sospiro, 
e  v'enti'o  col  pensier,   se  non  col  piede. 

S'il  mio  ben  non  m'ascolta  e  non  mi  vede, 
parlo  ai  muri  in  sua  vece  e  i  sassi   miro, 
e  ovunque  gli  occhi  innamorati  giro, 
l'aria  infocata  del  mio  ardor  fa  fede. 

Dal  dolce  fiato  suo  fatta    odorosa, 
l'aura,   che  spira  là,   mi  dà  ristoro, 
e,   vagando  le  piante,   il  core  ha  posa. 

Cosi,   felice  in  quelle  vie  dimoro, 
e,   se  m'è  de' suoi  rai  la  luce  ascosa, 
l'alba  attendendo,   l'orizzonte   adoro. 

IX 

IL  RITRATTO   DELLA   DONNA  AMATA 
A  Girolamo    Brivio 

Dopo  due  lustri,   le  romane  mura, 
ov'io  vissi  non  so  se  vita  o  morte, 
lascio,   e  sperando  di  cangiar  mia  sorte, 
stolto  il  partire  ogni  mio  ben  mi  fura. 

Se  resta  il  lume  e  meco  vien  l'arsura 
degli  occhi  che  mi  diede  Amor  per  sorte, 
in  uscir  queste  antiche  amate  porte 
esce  a  me  l'alma  ed  il  mio  di  s'oscura. 

Tu  che  sul  Tebro  ancor,    Brivio  felice, 
già  glorie  acquistar  sai  con  nobil  arte 
e  sei  del  mio  bel  Sol  fatto  fenice, 

deh,   fammi  per  pietà  picciola  parte 
del   ben   che   godi,    e   mentre   a   me   non   lice, 
invola  raggi  e  a  me  li  manda  in  carte. 


44  LIRICI    MARINISTI 


LE  NUOVE  FABBRICHE  DI  ROMA 
sotto  Paolo  V 

Già  cede  il  tempo  e  coronata  sporge 
d'aurei  tetti  ogni  monte  al  ciel  la  cima, 
ed  a  l'altera  maestà  di   prima 
da  le  ruine  sue  Roma  risorge. 

Ogni  machina  antica  a  l'aure  sorge, 
quant'in  terra  giacca  s'erge  e  sublima, 
e  ciò  che  de  l'età  róse  la  lima, 
ristorato  dal  ferro  omai  si  scorge. 

Gli  arapi  spazi  non  copre  inutil  soma, 
ma  l'adornan  le  fonti  e  inondan  l'acque, 
e  fatta  sopra  Roma  è  nova  Roma. 

Oh  valor  del  gran  Paolo!  Ella,  che  giacque 
nel  furor  de'  suoi  figli  estinta  e  domd, 
sott'un  gran  figlio  in  pace  al  fin  rinacque. 

XI 

ALLA  CITTÀ  DI    COSENZA 

Nobil  città,   ch'ai  chiaro  Grati  in    sponda 
siedi  e  superba  all'aure  ergi  le  mura, 
de  l'errante  virtù  stanza   sicura 
e  di  cigni  e  d'eroi  madre  feconda  ; 

non  lodo  io  te  perché  il  tuo  seno  abbonda 
di  ciò  che  parca  altrui  dona  natura: 
ch'il  cielo  hai  temperato  e  l'aria  pura 
e  cospira  a  tuo  ben  la  terra  e   l'onda; 

ma  perché  degno  sei  nido  e  soggiorno 
di  pellegrini  ingegni,   e  in  te  s'aduna 
d'armi   Marte  e  di  lauro  Apollo  adorno. 

Lunge  de'  colli  tuoi,   prego  fortuna 
ch'in  te  tomba  mi  dia  l'ultimo  giorno, 
come  presso  al  tuo  seggio  ebbi  la  cuna. 


II 

ACHILLINI  -  PRETI 
PAOLI  -  GIOVANETTI  -  SEMPRONIO 


CLAUDIO  ACHILLINI 


I 

LA   DIPARTITA 

Ecco  vicine,   o  bella  tigre,   l'ore 
che  tu  de  gli  occhi  mi  nasconda  i  rai. 
Ah,   che  l'anima  mia  non  senti  mai, 
meglio  che  dal  partir,   le  tue  dimore! 

Fuggimi  pur  con  sempiterno  errore: 
sotto  straniero  ciel,   dovunque,   sai 
che,   quanto  più  peregrinando  vai, 
cittadina  ti  sento  in  mezzo  al  core. 

Ma  potess'io  seguir,   solingo  errante, 
o  sia  per  valli  o  sia  per  monti  o  sassi,     | 
l'orme  del  tuo  bel  pie  leggiadre  e  sante  ;| 

ch'andrei  là,  dove  spiri  e  dove  passi, 
con  la  bocca  e  col  cor,  devoto  amante, 
baciando  l'aria  ed  adorando  i  passi. 


48  MRICI     MARINISTI 

II 

LA  BIONDA   SCAPIGLIATA 

Tra  i  vivi  scogli  de  le  due  mammelle 
la  mia  bella  Giunon  veggio  destare 
dal  suo  crinito  ciel  piogge  e  procelle, 
prodighe  d'oro  e  di  salute  avare. 

Se   mostra  gli   occhi    o    quelle    poma    belle, 
più  ricco  s'apre  e  più  fecondo  appare, 
mercé  di  due  rubini  e  di  due  stelle, 
quel  ciel  di  stelle  e  di  rubin  quel  mare. 

Ma  sia  di  scogli  e  di  tempeste  or  pieno, 
ch'io,  dai  venti  d'amor  sospinto  e  scorto, 
vo'  navigar  col  core  un  si  bel  seno. 

Né  tem'io  già  di  rimanerne  absorto, 
poiché  la  sua  tempesta  è  '1  mio  sereno, 
poiché  gli  scogli  suoi  sono  il  mio  porto. 


Ili 
LO  SDEGNO  NEL  BIANCO  VOLTO 

Corteggiata  da  l'aure  e  dagli  amori, 
siede  sul  trono  de  la  siepe  ombrosa, 
bella  regina  de'  fioriti  odori, 
in  colorita  maestà  la  rosa. 

Superbo  anch' ei  per  gli  odorati  onori, 
mirasi  il  giglio  al  pie  turba  odorosa 
d'ossequiosi  e  di  devoti  fiori, 
e  lo  scettro  ne  vuole  e  non  ha  posa. 

S'arman  di  spine  e  d'archi,  e  danno  segno 
fra  lor  di  guerra;   alfin,   prendon  consiglio 
d'esser  consorti  a  la  corona,  al  regno. 

Cosi  nel  volto  tuo  bianco  e  vermiglio. 
Filli,   cangiato  in  imeneo  lo  sdegno, 
veggio  la  rosa  maritarsi  al  giglio. 


CLAUDIO    ACHILLINI  49 

IV 

L'ANTICA  AMANTE  FATTA  MONACA 

Quell'idolo  mio  dolce,  a  cui  si  rese 
vinto  il  mio  core,   al  ciel  vinto  si  rende  ; 
la  beltà  del  suo  volto  il  cor  m'accese, 
la  beltà  del  suo  core  il  cielo  accende. 

S'egli  alle  fiamme  mie  placido  scese, 
or  tutto  fiamma  al  paradiso  ascende; 
e  s'egli  a'  miei  desir  nulla  contese, 
or  nulla  ancora  al  suo  Fattor  contende. 

Vedrem    quell'alma    al    suo    signore    ancella 
sparsa  in  sospiri  e.  seminata  in  pianto 
animar  di  pietà  povera  cella. 

Potessi  anch'io  per  le  sue  preci  intanto, 
soggiogata  ogni  voglia  a  Dio  rubella, 
condur  quest'ombra  al  primo  sole  accanto. 


V 
LA   MENDICANTE 

Sciolta  il  crin,  rotta  i  panni  e  nuda  il  piede, 
donna,   cui  fé'   lo  ciel  povera  e  bella, 
con  fioca  voce  e  languida  favella 
mendicava  per  Dio  poca  mercede. 

Fa  di  mill'alme,   intanto,   avare  prede 
al  fulminar  de  Tuna  e  l'altra  stella; 
e  di  quel  biondo  crin  l'aurea  procella 
a  la  sua  povertà  togliea  la  fede. 

—  A  che  fa  —  le  diss'io  —  si  vii  richiesta 
la  bocca  tua  d'orientai  lavoro, 
ov'Amor  sul  rubin  la  perla  inesta? 

Che  se  vaga  sei  tu  d'altro  tesoro, 
china  la  ricca  e  preziosa  testa, 
che  pioveran  le  chiome  i  nembi  d'oro.  — 

Lirici  marinisti  —  4 


50  LIRICI    MARINISTI 

VI 

LA  SPIRITATA 

Là   nel   mezzo   del    tempio,    a   l'improviso, 
Lidia  traluna  gli  occhi  e  tiengli  immoti, 
e  mirano  i  miei  lumi  a  lei  devoti 
fatto  albergo  di  furie  un  si  bel  viso. 

Maledice  ogni  lume  errante  e  fiso 
e  par  che  contra  Dio  la  lingua  arroti. 
Che  miracolo  è  questo,   o  sacerdoti, 
che  Lucifero  torni  in  paradiso? 

Forse  costui,  che  non  potea  nel  saggio  \ 
sovrastar,  per  superbia,  al  suo  Fattore,  i 
venne  in  costei  per  emolarne  un  raggio?    j 

Torna  confuso  al  tuo  dovuto  orrore, 
torna  al  nodo  fatai  del  tuo  servaggio, 
e  sgombra  questa  stanza  al  dio  d'amore  ! 


VII 

LO  SCOPPIO  DELLA  MINA   E  IL   BACIO 

Entra  per  nera  e  sconosciuta  bocca 
e  in  sotto  al  muro  ostil  duce  tiranno, 
e  con  industre  e  vigilato  affanno 
v'aggiusta  un  muto  foco  e  poi  ne  sbocca. 

Ma  non  si  tosto  una  favilla  tocca 
r  incendioso  e  prigioniero  inganno, 
che  in  un  solo  momento,   eterno  al  danno, 
crepa  il  suol,   tuona  il  ciel,   vola  la  ròcca. 

Portai  del  cor  nel  più  secreto  loco 
semi  di  foco  e  ne  cercai  lo  scampo 
per  non  esser  d'un  cieco   e   scherzo   e   gioco. 

La  favilla  d'un  bacio  accese  il  lampo 
in  su  la  mina  e  publicossi  il  foco; 
ed  ecco  Amor  trionfatore  in  campo. 


CLAUDIO    ACHILLINI  51 

Vili 

IL  RUSCELLETTO 

nella  villa  Camaldoli,  appartenente  ad  Annibale  Marescotti 

Tesse  quest'ermo  bosco,   allor  ch'ei  fugge 
a  l'ombra  di  se  stesso  il  raggio  estivo, 
un  ricovro  frondoso,   anzi  lascivo, 
ove  in  sen  di  Lesbin  Lidia  si  strugge. 

Qui,   se  il  Leon  tra  mille  fiamme  rugge, 
mormorando  sen  vien  limpido  e  vivo 
dal  fianco  di  quel  monte  un  picciol  rivo, 
cui  l'arsiccio  terreno  avido  sugge. 

Mira  l'acqua  gentil  come  s'affretta 
e  forma  col  suo  corso  un  liquid'arco, 
che  d'immensa  dolcezza  il  cor  saetta. 

Qui,   di  cure,   Annibal,   men  venni  carco; 
ma,    in   quest'onda   che   tanto   il    cor   m'alletta 
sommergendo  le  cure,   il  cor  ne  scarco. 

IX 

NELLA  .SELVA  PRESSO   IL  RENO 

al  ritorno  dalla  corte  di  Roma 

A  Gasparo  Ercolano 

Siedo  al  rezzo  gentil  di  selva  antica, 
che  se  stessa  nel   Ren  pinge  e  vagheggia, 
or  che  il  sol  bacia  Sirio  e  ne  fiammeggia 
ed  arde  quasi  la  campagna  aprica. 

Qui  par  che  il  fiume  in  suo  tenor  mi  dica  : 
—   De'  bei  riposi  tuoi  questa  è  la  reggia; 
qui  pur  sui  colli  del  tuo  cor  verdeggia 
la  fronda  degli  ulivi  al  cielo  amica.  — 

Gasparo,   io  sento  in  su  l'ombrosa  riva 
mormorando  recarmi  il  picciol   Reno 
la  pace,  che  col  Tebro  al  mar  fuggiva. 

Cosi  l'ore  tranquille  e  quel  sereno, 
cui  l'aprico  di   Roma  a  me  copriva, 
svelato  godo  a  le  bell'ombre  in  seno. 


52  LIRICI    MARINISTI 

X 
OMBRA  DI  NUOVE  FOGLIE 

Or  che  del  Sol  più  temperato  è  il  raggio, 
il  fiume  che  dormia  fra  bei  cristalli 
si  sveglia  e  segue  in  sugli  obliqui  calli, 
garrulo  peregrino,   il  suo  viaggio. 

Saluta  l'usignuolo  in  suo  linguaggio 
aprii,  che  tanti  fior  vermigli  e  gialli 
semina  su  le  piagge  e  su  le  valli, 
vago  forier  d'un  odorato  maggio. 

E  perché  d'ombre  il  pastorel  s'invoglia, 
a  lo  spirar  di  placid'aura  i'  veggio 
che  verde  il  bosco  a  quel  desio  s' infoglia. 

E  dice:  —  A  te  m'inchino,   a  te  verdeggio; 
e  l'ombre  mie  la  giovinetta   foglia 
tesse  col  sole  e  ti  ricama  il  seggio.  — 


XI 

SIC  VOS  NON  VOBIS 

Io  corsi,   o  bella  Dora,   ogni  tua  riva, 
quanto  cura  d'onor  stimola  e  preme; 
e  vidi  pur  la  rinascente  oliva 
porgere  un  nobil  verde  a  la  mia  speme. 

Con  la  man,  con  la  lingua,  io  sparsi  un  seme, 
che  là  sul  Tebro  il  suo  bel  fior  m'apriva; 
onde  il  mio  cor,   che  per  lung'uso  geme, 
nel  dolcissimo  aprii  lieto  gioiva. 

Già  d'oro  eran  le  spiche,  al  monte,  al  piano, 
quando,   per  riportar  le  mie  fatiche, 
straniero  mietitor  non  giunse  invano. 

Corrono  il  solco  mio  falci  nemiche, 
taglian  la  cara  mèsse,  e  quella  mano 
che  nulla  seminò,   miete  le  spiche. 


CLAUDIO    ACHILLINI  53 

XII 

MORTE    E    IL   TESTAMENTO    DI    SAN    GIUSEPPE 

Al  padre  Gioacchino  Ciomei,  cappuccino 

In   braccio    a    Cristo,    agli   angeli,    a    Maria 
era  nel  letticciuol  Gioseffo  assiso, 
e  stava  per  morire  e  non  moria, 
che  non  sapea  morire  in  paradiso. 

Ma  l'età,   ma  il  dolore  al  cor  conquiso 
insegnò  del  morire  al  fin  la  via; 
e  lo  spirito,   ornai  quasi  diviso, 
converso  a  Cristo  in  questi  detti  uscia: 

—  Io  moro,   o  figlio,   e  la  paterna  fede 
vuol  che  del  mio  retaggio  non  ti  frodi, 
ma  vi  succeda  tu,   l'unico  erede. 

Vanne,   e  le  mie  fortune  accetta  e  godi  ; 
stendivi  pur  la  man,   drizzavi  il  piede, 
che  troverai  martelli  e  travi  e  chiodi.  — 

XIII 

IL  FIOR  DI  PASSIONE 

Passi  colà  ne'  messicani  regni, 
mercé  d'un  fior,   religioso  aprile. 
Mira  che  spiega  in  su  la  foglia  umile 
dei  tormenti  di  Cristo  espressi  i  segni. 

Bel  libro  di  natura,   ai  sacri  ingegni 
de'  sacri  libri  imitator  gentile, 
tu  ne'  tuoi  fogli  in  adorato  stile 
le  pene  altrui,   la  mia  salute  insegni. 

Se  fia  giammai  che  degli  odor  su  l'ali 
da'  tuoi  sanguigni  e  tormentosi  inesti 
voli   dentro   il    mio    cor   duol    de'  miei    mali; 

oh  me  felice  allor,   che  da  funesti 
caratteri  trarrò  sensi  vitali, 
e  da  terreno  fior,   frutti  celesti  ! 


54  LIRICI    MARINISTI 


XIV 


A  LUIGI  XIII 

dopo  la  presa  della  Roccella  e  la  liberazione  di  Casale 

Sudate,   o  fochi,   a  preparar  metalli, 
e  voi,  ferri  vitali,  itene  pronti, 
ite  di  Paro  a  sviscerare  i  monti 
per  inalzar  colossi  al  re  de'  Galli. 

Vinse  l'invitta  ròcca  e  de'  vassalli 
spezzò  gli  orgogli  a  le  rubelle  fronti, 
e  machinando  inusitati  ponti 
die  fuga  ai  mari  e  gli  converse  in  valli. 

Volò    quindi    su    l'Alpi    e    il    ferro    strinse, 
e  con  mano  d'Astrea  gli  alti  litigi, 
temuto  solo  e  non  veduto,   estinse. 

Ceda  le  palme  pur  Roma  a  Parigi  : 
che  se  Cesare  venne  e  vide  e  vinse, 
venne,   vinse  e  non  vide  il  gran  Luigi. 


GIROLAMO   PRETI 


I 

LE   ROSE   PALLIDE 

Ite  in  dono  a  colei,   pallide   rose, 
a  cui  l'alma  donai  senza  mercede; 
e  poi  che  '1  mio  penar  non  cura  o  crede, 
siate  del  mio  morir  nunzie  amorose. 

Vidi  voi  d'ostro  già  tinte  e   pompose, 
d'ostro  che  '1  labro  suo  forse  vi  diede; 
ora  il  pallor  di  morte  in  voi   si  vede, 
imitatrici  del  mio  duol   pietose. 

Dite,   se  pur  vi  mira  e  se  v'accoglie, 
ch'io  son  mal  vivo  e  sarò  tosto  esangue, 
come  voi  moribonde  aride  foglie; 

e  se  'I  vostro  color  pallido  langue, 
ella  ravvivi  l'odorate  spoglie 
con  l'onda  del  mio  pianto  e  del  mio  sangue. 


56  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  CASA  DELLA  DONNA  AMATA 

Notturno  e  solo,  a  queste  mura  intorno 
vòmmene  errando  e  queste  pietre  adoro  ; 
eh 'a  me  sembra  influir  pace  e  ristoro 
questo  de  la  mia  dea  cielo  e  soggiorno. 

E  qual  avai'o  che  la  notte  e   '1  giorno 
s'aggira  ove  le  gemme  asconde  e  l'oro, 
tal  io  dove  si  cela  il  mio  tesoro 
vengo,  guardo,  m'aggiro,   e  parto  e  torno. 

Entra  il  pensier  dove  non  entra  il  passo, 
spargo  a  l'ombre  i  sospir  tra  vivo  e  morto, 
ed  ora  abbraccio  il  muro,  or  bacio  un    sasso. 

Cosi,   quasi  nocchier  naufrago  in  porto, 
qui  mi  ricovro  tempestoso  e  lasso, 
e  qui  rimango  infra  '1  mio   pianto   absorto. 


Ili 
LA  DONNA  A  CAVALLO 

Frenava  il  mio  bel  Sol  vago  destriero, 
ch'avea  di  neve  il  manto,  il  crin  d'argento  ; 
movea  veloci  i  passi  a  par  del  vento 
e  insuperbia  di  si  bel  pondo  altero. 

Pronto  di  bella  man  seguia  l'impero, 
a  la  sferza,  a  la  voce,  al  cenno  intento; 
dorato  il  morso  avea,   spumoso  il  mento, 
lungo  il  crin,  curvo  il  collo,  il  cor  guerriero. 

Sovra  un  colle  di  neve  un  fior  parca 
colei,   ma  per  odor  spirava  ardori, 
ed  ogni  cor  fra  quelle  nevi  ardea. 

Parean  le  Grazie  e  i  faretrati  Amori 
ministri  a  lei  d'intorno;  ella  pungea 
con  lo  sprone  il  destrier,   col  guardo  i  cori. 


GIROLAMO    PRETI  57 

IV 

L'AMANTE  TIMIDO 

Ardo,  tacito  amante,   e   '1  foco  mio 
celar  non  posso  e  palesar  pavento; 
e  vuol  quinci  il  timor,   quindi  il  desio, 
or  ch'io  taccia,  or  ch'io  dica  il  mio  tormento. 

Or  uno  sguardo,   or  un  sospiro  invio, 
muto  nunzio  del  cor,   muto  lamento; 
ma  sdegno  turba  i  be'  vostri  occhi,   ond'io 
di  quello  sguardo  e  del  sospir  mi  pento. 

Omai  privo  di  speme,   anzi  di  vita, 
scopro  a  voi  la  mia  morte  e  non  l'amore, 
e  vi  chieggio  pietà,   ma  non  aita. 

Chiede  l'alma  dolente  al  crudo  core 
solo  un  sospiro  all'ultima  partita... 
È  pur  poco  un  sospiro  a  chi  si  muore. 


V 

LA  DONNA  ALLO  SPECCHIO 

Mentre  in  cristallo  rilucente  e    schietto 
il  bel  volto  costei  vagheggia  e  mira, 
armando  il  cor  d'orgoglio,   il  ciglio  d'ira, 
del  suo  bel,   del  mio  mal   prende  diletto. 

Vaga  del  vago  e  lusinghiero  aspetto 
dice:  —  Ben  con  ragion  colui  sospira!  — 
Sembrano  a  lei,  che  sue  bellezze  ammira, 
oro  il  crin,  rose  il  labbro  e  gigli  il   petto. 

Ah,   quel  cristallo  è  mentitor  fallace, 
che  scopre  un  raggio  sol  del  bello  eterno, 
anzi  un'ombra  d'error  vana  e  fugace! 

Vedrai,  se  miri  il  tuo  sembiante  interno, 
cui  ritragge  il  mio  cor,   specchio  verace, 
angue  il  crin,  tòsco  il  labbro,  il  petto  inferno. 


58  LIRICI    MARINISTI 

VI 

IN  VILLA 

Verdi  poggi,  ombre  folte,   ermi  laureti, 
perpetui  fonti,  limpidi  ruscelli, 
mormoranti  e  canori  aure  ed  augelli, 
vaghe  piagge,   odoriferi  mirteti; 

antri  e  silenzi  solitari  e  queti, 
valli  romite  e  boschi  orridi  e  belli, 
tremule  fronde,  teneri  arbuscelli, 
siepi  rosate,   pallidi  oliveti; 

oh  quanto  or  godo,  abitator  selvaggio, 
più  che  morta  speranza,   un  verde  vivo, 
più  che  regio  splendor,   l'ombra  d'un  faggio! 

Deh,   quanto  più  qui  desiando  vivo 
povera  libertà  ch'alto  servaggio, 
più  che  sete  d'onor,   sete  d'un  rivo! 


VII 

PAESAGGIO 

Un  rio,  qui  gorgogliando  in  fra  le  sponde, 
con  tributo  d'argento  al   Ren  deriva; 
qui  fa  un'ombrella  il  platano  e  l'oliva, 
rami  a  rami  intrecciando  e  fronde  a  fronde. 

Al  garrir  degli  augelli  Eco  risponde  ; 
qui  tempra  un  venticel  l'arsura  estiva; 
molle  il  suol,   fresco  il  rio,   verde  è  la  riva; 
qui  fan  letto  l'erbette  e  specchio   l'onde. 

Quanti  augelletti,   o  Cinzia,   ascolti  e  miri, 
in  quel  linguaggio  lor  pianger,   cred'io, 
della  fierezza  tua,   de'  miei  martiri. 

Anzi,   mossi  a  pietà  del  dolor  mio, 
vanno  emulando  i  pianti  e  i  miei  sospiri, 
spirando  l'aura  e  mormorando  il  rio. 


GIROLAMO    PRETI  59 

Vili 

PAESAGGIO  AMOROSO 

Là  've  quel  monte  infin  al  del  inalza 
la  frondosa  di  querce   ispida  schiena, 
e  par  che  regga  il  debil  fianco  appena 
quella  d'alti  dirupi  orrida  balza; 

là  stassi  Cinzia  e,   leggiadretta  e  scalza, 
con  l'orme  del  bel  pie  stampa  l'arena, 
dove  quel  rio  da  cavernosa  vena 
sbocca  di  grembo  al  monte,   al   pie  gli  balza. 

Mira,   o  Tirsi,   colà  come  lasciva 
or  bagna  il  suo  bel  viso  ed  or  le  piante 
ne  l'onda  cristallina  e  fuggitiva. 

r  giurerei  che  quella  rupe  amante 
è  di  lei  fatta,   e  quella  fonte  viva 
è  di  pianto  amoroso  onda  stillante. 


IX 

INVITO 

Cinzia,   colà  tra  quelle  balze  alpine 
stassi  la  mia  capanna,   opaca,   ombrosa: 
la  difende  dal  ciel  quercia   frondosa 
e  le  fan  mura  intorno  ortiche  e  spine. 

Giace  un  mio  giardinetto  in  quel  confine, 
ch'ha  una  veste  di  fior  varia  e   pomposa; 
la  calta,   il  croco,   il  gelsomin,   la  rosa 
daran  fregi  al  tuo  sen,   ghirlande  al  crine. 

Là  scaturisce  un'onda  in  grembo  al  monte, 
nel  cui  specchio  potrai  limpido  e  schietto 
mirar  quanto  se'  bella,   ornar  la  fronte. 

Cosi,  tu  stessa  a'  tuoi  begli  occhi  oggetto, 
vedrai  qual  sia  maggior,   giudice  il   fonte, 
l'ardor  de  le  tue  luci  o  del  mio  petto. 


6o  LIRICI    MARINISTI 

X 

PER  UN  CAVALLO  BARBARO 

A  Vitale  de'  Buoi 

Figlio  dell'aura,   emulator  de'  venti, 
cursor  veloce  e  volator  senz'ale, 
di  cui  vola  più  tardo  alato  strale, 
volan  per  l'aria  i  fulmini  più  lenti; 

lo  tuo  corso  a  mirar  corron  le  genti, 
ma  per  seguir  tuo  corso  occhio  non  vale; 
non  corre  il  cielo  a  le  tue  piante  eguale, 
men  veloce  il  pensier  movon  le  menti. 

Tuona  il  nitrito,   e  la  ferrata  zampa 
sparge  de  le  faville  i  lampi  intorno 
e  pur  selce  non  tocca,   orma  non  stampa. 

Te  brama  il  Sol  per   lo   suo   carro   adorno  ; 
ma,  traendo  del  di  l'ardente  lampa, 
breve  faresti  col  tuo  corso  il  giorno. 

XI 

ALLA  PENNA  DEL  CAVALI ER  MARINO 

Penna  immortai,   che  col  tuo  volo  arrivi 
ove  d'umana  mente  occhio  non  sale, 
e,  quasi  de  la  gloria  alato  strale, 
l'oblio  saetti  e  le  memorie  avvivi; 

fonte  d'eternità,  che  mentre  scrivi 
spargi  d'eterno  onor  vesta  immortale, 
da  cui  traggon  gl'ingegni  umor  vitale 
come  traggon  umor  dal  fonte  i  rivi; 

per  te,    mia   penna   umil   s'alza   dal   suolo, 
come  l'augel  che,   per  sé  tardo  e  vile, 
già  si  levò  su  l'altrui  penna  a  volo; 

e,  per  far  ch'ella  sembri  a  te  simile, 
a  te  forme,  colori  e  spirti  involo 
e  de'  tuoi  spirti  sol  vive  il  mio  stile. 


GIROLAMO    PRETI  6l 

XII 

L'ORIUOLO 

Fabricando  sonora  e  viva  mole 
arte  si  mosse  ad  emular  natura, 
che,  se  diede  natura  il  moto  al  sole, 
questa  il  moto  del  Sol  segue  e  misura  ; 
se  eternamente  il  ciel  girar  si  suole, 
il  giro  anco  di  questa  eterno   dura, 
e  ciò  che  faccia  il  Sol,   nasca  o  tramonte, 
mostra,   nunzia  fedele,   in  voce  e  'n  fronte. 

Grave  al  canape  torto  il  piombo  appeso, 
aspirando  al  suo  centro,   in  aria  pende 
contro  al  piombo  maggior  più  lieve  a  un  peso, 
e  con  moto  contrario  un  sale,   un  scende. 
La  machina  dal  pondo  a  lei  sospeso 
quasi  da  intelligenza  il  moto  apprende  ; 
che,   girando  la  fune  un  polo  immoto, 
dà  un  sol  motore  a  cento  moti  il  moto. 

Come  sfera  maggiore  in  ciel  s'aggira, 
che  col  suo  cerchio  i  minor  cerchi  abbraccia, 
e  le  tonanti  sfere  al  corso  tira, 
che  del  corso  di  lei  seguon  la  traccia; 
cosi  ruota  maggior  qui  seco  gira 
ruote  minori  e  col  fuggir  le  caccia, 
e,   come  appunto  i  cieli,   intorno  ruota 
corso  a  corso  contrario  e  ruota  a  ruota. 

Girasi  un  orbe  e  con  tenaci  denti 
muove  sospesa  in  alto  instabil  libra. 
Questa  de  l'ore  il  tempo  e  dei  momenti 
quasi  con  giusta  lance  appende  e  libra  : 
tarda  i  moti  veloci,   affretta  i  lenti, 
l'un  de'  bracci  ritira  e  l'altro  vibra, 
e,   mentre  è  mossa,   altrui  muove  e  governa, 
e  pari  il  moto  a  la  quiete  alterna. 


62  LIRICI    MARINISTI 

Poiché  volubil  cerchio  in  giro  è  corso 
ai  confini  de  l'ore  e  tocco  lia  il  segno, 
scocca  tenace  ferro  e  scioglie  il   morso, 
che  al  fuggir  d'altre  ruote  era  ritegno. 
Movonsi  i  poli  in  giro,   i  giri  in  corso, 
e  sembran  in  girar  fremer  di  sdegno, 
che  rauco  un  mormorio  precede  al   suono 
com'anzi  il  fulminar  mormora  il  tuono. 

Ferro  percotitor  s'alza  pesante 
sovra  il  cavo  metallo  e  d'alto  piomba: 
tuona  ai  colpi  di  lui  squilla  sonante, 
che  a  le  guerre  del  tempo  è  quasi  tromba; 
tromba,  che  a  noi  funesta  e  minacciante 
numera  quanti  son  passi  a  la  tomba, 
gridando  a  l'uomo,   al  numerar  de  l'ore, 
che,   quanto  ei  vive  più,  tanto  più  muore. 

Stella,  quasi  cometa  errando  intorno, 
gl'interni  giri  in  suo  girar  seconda, 
che    morte    annunzia    in    distinguendo    il    giorno 
col  suo  raggio  mortai,   lingua  faconda. 
Cosi  la  mole  al  mentitor  fa  scorno, 
mentre  fa  che  la  lingua  al  cor  risponda; 
né,   simulando  il  vero  entro  sepolto, 
quel  che  cela  nel  sen  scopre  nel  volto. 


PIER  FRANCESCO  PAOLI 


I 

NELLA  CASA  DELLA  SUA  DONNA 

durante  l'assenza  di  lei 

Belle  mura  felici,   albergo  eletto 
di    lei,    che    dal    mio    cor    giamai    non   parte: 
or  che,   standosi  lunge  ella  in  disparte, 
di  meco  ragionar  non  v'è  disdetto; 

dite:  —  Mostra  ella  mai  pietoso  affetto 
de  le  mie  ch'ho  per  lei  lagrime  sparte?  — 
dite:  —  Legge  ella  mai  le  meste  carte, 
in  cui  scrivo  l'ardor  che  chiudo  in  petto? 

Vedeste  mai  per  solitaria  via 
venir  notturno  amante,   armato  e  solo, 
a  trionfar  de  la  guerriera  mia?  — 

Ah,  voi  tacete,  ed  io  che  per  lung'uso 
so  quanto  piaccia  altrui  l'esser  secreto, 
voi,   fidi  secretari,   or  non  accuso. 


64  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  BACIO   DATO  PER  DISPETTO 

Semivivo  anelar  costei  mi  vede, 
or  che  torno  a  mirar  suo  vago  volto; 
e,  caramente  infra  le  braccia  accolto, 
soave  un  bacio  al  mio  languir  concede. 

Poscia,  che  dispettosa  ella  me  '1  diede 
dice;  e  tutto  dal  cor  fummi  allor  tolto 
quel  dolce  ond'io  sperava   indi  a   non   molto 
altra  più  ricca  al  mio  servir  mercede. 

Chi  vide  mai  cader  dal  ciel  sereno, 
dietro  a  bella  rugiada  aspra  tempesta 
e  stillar  da  un  sol  fior  manna  e  veleno? 

Giardiniera  d'amore  empia  è  ben  que.sta, 
che  del  mio  cor  nel  povero  terreno 
sovra  un  bacio  vital  la  morte  innesta. 


Ili 
IL  CENNO  NON   INTESO 

Appena  i  passi  entro  le  scole  ho  steso 
d'Amore  e  forse  in  me  l'ingegno  è  tardo; 
ancor  non  so  quand'ei  da  l'arco  teso 
avventi  d'oro  o  pur  di  piombo  il  dardo. 

Con  immensa  mia  gioia  ho  solo  appreso 
questi  primi  elementi  :«  Io  amo,  io  ardo». 
Dunque,  donna,  io  non  deggio  esser  ripreso 
se  non  intendo  il  favellar  d'un  guardo. 

Ben  fia  ch'in  queste   scole  io   soffra  e  tenti 
ogni  affanno,   ogn' impresa,   e  in  esse  accolto 
spenda  del  viver  mio  l'ore  e  i  momenti. 

Tacerò  i  lustri  interi  e,  in  voi  sol  vòlto, 
leggerò  quei  caratteri  lucenti, 
che  v'  ha  scolpiti  il  ciel  entro  al  bel  volto. 


PIER    FRANCESCO    PAOLI  65 

IV 

LA    LETTERA 

Or  che  formo  di  pianto  un  ampio  lago 
lunge  da  lei,   che  hinge  anco  innamora, 
non  acconsente  un  suo  pensier  ch'io  mora, 
un  suo  pensier  del  mio  morir  presago  ; 

e  invece  del  suo  volto  amato  e  vago, 
in  cui  bellezza  angelica  s'adora, 
carta  m'invia,   perch'io  la  miri  ogni  ora, 
che  di  lei  che  la  scrisse  è  viva  imago. 

La  miro,   e  cangia  il  ciel  meco  tenore, 
mentre  con  quei  caratteri  possenti, 
fatto  mago  d'amor,  scongiuro  Amore. 

La  miro  e,   rileggendo  i  dolci  accenti, 
con  gli  occhi  entro  quel  nero  asciutto  umore 
bevo  la  medicina  a'  miei  tormenti. 


V 

LA  CHIOMA 

Vago  de  le  sue  glorie,   il  ciel  ripose 
di  bellezze  in  costei  ricco   tesoro; 
ma  più  del  biondo  crin  mostra  fra  loro 
essa  le  voglie  sue  liete  e  fastose. 

Belle  ha  le  luci  si,   ma  sonnacchiose 
prendon  stanche  talor  dolce  ristoro; 
belle  ha  le  mani  ond'io  beato   moro, 
ma  l'ascondon  talor  spoglie  odorose. 

Solo  il  crin,  non  mai  stanco  e  sempre  in  mostra, 
fra  le  belle  di  lei  pompe  guerrere, 
predando  ì  cor,   vittorioso  giostra. 

Vero  è  che  l'occhio  incende  e  la  man  fere; 
ma  legate  in  trionfo  il  crin  dimostra 
l'incenerite  e  le  piagate  schiere. 

Lirici  marinisti  —  5 


66  LIRICI    MARINISTI 

VI 

DINANZI  A  UN  OSPEDALE 

Qui,   dove  giace  in  un  turba  languente, 
or  che  '1  Sol  men  benigno  il  terren  fiede, 
veggio  mostrar  costei  pomposamente 
la  sua  beltà,   ch'ogni  beltade  eccede. 

Cosi  forse  talor,   vaga  e  ridente, 
fuor  da  la  reggia  sua  mover  il  piede, 
là  per  le  vie  de  la  dannata  gente, 
la  regina  Proserpina  si  vede. 

Già  non  le  scalda  il  sen  pietoso  ardore  ; 
troppo  ha  l'affetto  a  la  fierezza  esperto 
nel  mirar  le  ferite  del  mio  core. 

Ben  lieto  mor  chi  qui  di  morte  è  or  certo, 
che  mira,  ad  onta  del  mortale  orrore, 
in  quel  bel  volto  il  paradiso  aperto. 


VII 

DISTILLANDO  ROSE 

Tiensi  costei  (si  vago  ha  '1  seno  e  '1  volto) 
da  la  bellezza  de  le  rose  offesa; 
e,  di  disdegno  ambizioso  accesa, 
il  pensier  contra  lor  tutto  ha  rivolto. 

Le  chiude  in  cavo  rame,   ove  raccolto 
tien  lento  foco,   a  tormentarle  intesa; 
sin  che  '1  bel,   ch'ai  suo  bel  facea  contesa, 
vagheggia  in  poco  umor  stillar  disciolto. 

Quinci  lieta  e  superba,  ove  '1  Sol  splende, 
in  questo  vaso  e  in  quel  l'acque  odorose, 
quasi  trofei  di  sua  fierezza,  appende. 

Poi,  per  le  sue  saziar  voglie  fastose, 
in  varie  guise  a  dissiparle  attende... 
Oh  beltà,   eh 'è  tiranna  anco  a  le  rose! 


PIER    FRANCESCO    PAOLI  67 

Vili 

NSEGNANDO  A  LEGGERE  ALLA  DONNA  AMATA 

A  me  sen  vien,   per  sua  vaghezza  eletto, 
i  primi  ad  imparar  puri  elementi, 
costei  che  sa,   bench'io  H  chiuda  in  petto, 
legger  ne  la  mia  fronte  i  miei   tormenti. 

Ridice  ella  inesperta  ogni  mio  detto, 
ma  tace,  scaltra,   a'  miei  sospiri  ardenti; 
onde  ascolto  con  pena  e  con  diletto 
d'eco  muta  e  loquace  i  vivi  accenti. 

Talor  taccio  le  note,   e  'n   dolce   errore 
—  Amo:  —  le  dico,  ed  —  Amo:  —  ella  risponde. 
Ah,  rispondesse  in  un  la  lingua  e  '1  core! 

Fingo  in  lei  tardo  ingegno,   e  minacciante 
tocco  sul  volto  suo  le  chiome   bionde, 
maestro  ardito  e  rispettoso  amante. 


IX 

LE  AMICHE 

Stendea  Fillide  mia  la  man  cortese 
a  Glori  amica,  e  balenar  fé'  un  riso: 
la  bianca  man,   eh 'a  me  giammai  non  stese 
se  non  armata,   onde  ne  caddi  anciso. 

E,   vòlte  in  bel  seren  le  luci  accese, 
vide  il  pallor  che  mi  dipinse  il  viso; 
anzi  in  più  parti  entro  il  mio  sen  comprese 
per  due  destre  congiunte  il  cor  diviso. 

Con  gli  scherzi  leggiadri,   ond'esse  ardite 
stringonsi  dolcemente.   Amor  m'afferra, 
e  le  dolcezze  lor  son  mie  ferite. 

In  un  languido  «  oimè  »,  che  il  cor  disserra, 
dissi  :  —  Oh  stupor  !   due  belle  destre  unite 
simboleggian  la  pace,   e  a  me  fan  guerra.  — 


68  LIRICI    MARINISTI 

X 

FRA  LE  MASCHERE  IN  CARNEVALE 

Costei  da  parte  eccelsa  il  popol  folto 
stassi  a  mirare  in  varie  larve  ascoso, 
e  '1  suo  rigido  cor  dentro  al  bel  volto 
de  l'altrui  vaneggiar  mostra  gioioso. 

Se  talun  miro  in  rozze  spoglie  involto 
dico  :  —  Quegli  è  rivale  insidioso  ;  — 
se  chi  d'amarla  infìnge  intento  ascolto, 
anco  il  finto  amator  mi  fa  geloso. 

Se  avanti  a  lei  talun  con  dubbio  errore 
scherza  d'ebro  in  sembianza,  io  dir  mi  sento  : 
—  Quegli  per  lei  vacilla,   ebro  d'amore.  — 

Lasso,   e  quando  giamai  vivrò   contento, 
s'anco  da  vane  larve  entro  al  mio  core 
nel  comune  gioir  nasce  il  tormento? 


XI 

LA  BAMBINA   DELLA  SUA  DONNA 

Pargoletta  vezzosa,   i  miei  pensieri 
regge  la  man  eh 'a  te  regge  le   piante 
dentro  a  quegli  amenissimi  sentieri, 
là   dove    io    giro    a    pena    il    guardo    amante. 

Tu  movi  il  pie  sicuro  ai  dolci  imperi, 
ed  io  vacillo  a  duo  bei  lumi  avante; 
odi  tu  cari  accenti  e  lusinghieri, 
ed  io,   colmo  di  duol,   labro  tonante. 

A  te  già  stanca  il  molle  sen  concede 
l'amorosa  maestra;  al  mio  languore 
niega  fin  d'un  sospir  poca  mercede. 

Oh  stravaganza,   oh  crudeltà  d'Amore  ! 
Far  ne  la  stessa  via  sicuro  un  piede 
e  fabricare  il  precipizio  a  un  core. 


PIER    FRANCESCO    PAOLI  69 

XII 

LA   DONNA  SFIORENTE  PER  MALINCONIA 

Ne  la  tempesta  de  le  cure  ascose, 
ond'è  il  tuo  cor  miseramente  involto, 
la  bellezza  eh'  il  cielo  in  te  ripose, 
naufragante  si  mira  entro  al  tuo  volto. 

Pietà  dei  labri,   a  cui  mancan  le   rose  ! 
pietà  del  sen,   eh 'è  senza  gigli  incólto! 
pietà  degli  occhi,   in  cui  l'alme  amorose 
piangon  de  la  lor  vita  il  Sol  sepolto  ! 

Erran  d'intorno  a  te  le  Grazie  e  il   Riso, 
le  Gioie  e  i  Vezzi;   ed,   esuli   innocenti, 
braman  che  li  richiami  al  tuo  bel  viso. 

Prenda  eterni  un  augel  \-ivi  alimenti 
da  un  cor  dannato  :  il  bel  del  paradiso 
non   sia  preda  agli   affanni,   ésca   ai   tormenti. 

XIII 

LO  SPETTACOLO  DELLA  GUERRA  E  L'AMORE 

quando  l'autore   fu  addetto  alla  segreteria  di  guerra 

I   lunghi  affanni  onde,   scrivendo  in  carte 
l'occulte  voglie  altrui,   sudo  ed  aghiaccio, 
m'han  pur  sottratto  a  quel  gravoso  impaccio 
ch'opprimeva  di  me  la  miglior  parte. 

Or  da'  campi  d'Amor  movo  in  disparte, 
sicuro  il  pie,   senza  sentir  suo  laccio, 
quanto  più  lasso  infra  le  cure  io  giaccio 
qui  dove  aprono  i  suoi  Bellona  e  Marte, 

M'han  le  piaghe  e  le  morti  il  cor  sanato; 
ne  le  perdite  altrui  sedendo  ho  vinto 
guerra  mortai,   di  debil  penna  armato. 

Ho  da  me,   faticando.   Amor  sospinto; 
e  ben  dovea  chi  di  vii  ozio  è  nato 
cader  per  man  de  la  fatica  estinto.      ''  • 


70  LIRICI    MARINISTI 

XIV 

L'ABITO  SACRO 

quan<ìo  l'autore  ebbe  dal  suo  signore  un  beneficio  ecclesiastico 

Armato  il  fianco,   or  non  sei  più  di  Marte, 
come  sembravi,  intrepido  seguace; 
ma,  il  guerriero  desio  posto  in  disparte, 
sembri  in   vesta  sacrata  angel  di  pace. 

O  pur  son  l'armi  tue  di  vote  carte, 
onde  già  fatto  umilemente  audace, 
pugni  per  gir  vittorioso  a  parte 
del  bel,  che  sempre  sazia  e  sempre  piace. 

Arda  pur  nel  tuo  sen  si  bel  desio: 
già  t'ha  '1  sentier  per  le  vittorie  aperto 
l'augusta  man  del  tuo  signore  e  mio; 

e  '1  nero  manto,   in  cui  rivolgi  il  fianco, 
è  l'ombra  del  favore  onde  coperto 
vai  da  l'insidie  altrui  sicuro  e  franco. 

XV 
LA  MADDALENA 

Venite  a  rimirar  la  gloria  vostra, 
o  già  di  Maddalena  accesi  amanti  ; 
venite  a  rimirar  come  i  sembianti, 
con  novello  artificio,  ella  s'inostra. 

Oh  d'eccelsa  beltà  leggiadra  mostra! 
cangia  le  ricche  vesti  in  rozzi  manti, 
il  riso  insidioso  in  tristi  pianti, 
i  superbi  palagi  in  umil  chiostra. 

Quel  biondo  crin,   ch'in   dolci   nodi   accolto 
fregiò  di  perle,   or  fra  le  brine  e  '1  gelo 
sovra  gli  omeri  porta  ispido,  incólto. 

E  cosi,  armata  di  verace  zelo, 
serena  il  core  e  nubilosa  il  volto, 
se  già  l'alme  rapia,  rapisce  il  cielo. 


PIER    FRANCESCO    PAOLI  Jl 

XVI 

LA  POSA  DELLA  PRIMA  PIETRA 
DEL  NUOVO  CONVENTO  DEI  CAPPUCCINI 

Ad  Urbano  Vili 

Picciolo  è  '1  sasso  ond'or  tu,  grand' Urbano, 
di  sacro  tempio  il  fondamento  appresti  ; 
e  pur  terrore  immenso  entro  il  cor  désti 
de  l'ombre  eterne  al  regnator  insano  ; 

che  ben  tra  '1  cieco  orror  già  di  lontano 
mira  prodi  guerrieri  in  sacre  vesti 
mover  contra  i  suoi  campi  armi  celesti, 
qui  dove  architettrice  è  santa  mano. 

Davide  generoso,   a  cui  bastante 
sola  è  una  pietra  a  dar  con  dardo  eterno 
fiera  percossa  a  l'infernal  gigante, 

che  non  farà  tuo  giusto  sdegno  interno, 
se,   mentre  il  getti  in  placido  sembiante, 
va  picciol  sasso  a  lapidar  l'inferno? 

XVII 

IL  MAL  DI   PIETRA 

Questa,   ch'in  cieca  parte  afflitto  io  celo, 
pietra  pesante,   è  del  mio  fallo  indegno 
pena,   che   avvento   anch'io   colmo   di   sdegno 
pietre  pur  troppo  dure  incontro  al  cielo. 

Se  poso  o  vado,  io  sotto  il  pondo  anelo, 
né  però  langue  il  travagliato  ingegno, 
che  farsi  ora  una  pietra  alto  sostegno 
di  mia  salute  al  mio  pensier  rivelo. 

Si,   si,   col  peso  in  me  s'avanzi  il  duolo, 
cresca  l'atra  procella,   io  già  m'avviso 
ch'ho  meco  il  sasso  onde  discopro  il  polo; 

e  tutto  lieto  al  cor,   se  mesto  al  viso, 
m'inalzerò  con  grave  sasso  a  volo. 
Sisifo  penitente,   in  paradiso. 


72  LIRICI    MARINISTI 

XVIII 

A  LEI  CHE  ABITA  IN  UN  TUGURIO 

Statti  pur   baldanzosa 
in  quell'albergo  umile, 
mia  diletta  gentile. 
Basti  a  te  l'esser  degna 
che  non  solo  t'inviti 
Venere   ambiziosa 

a  passeggiar  su  la  sua  conca  il  mare, 
ma  su  l'eterea   mole 
ad  albergar  ne  la  sua  reggia  il  sole. 
Basti  a  te  che  conservi, 
come  dal  ciel  gli  avesti, 
in  terrena  magion  pregi  celesti. 
Son  forse  vili  i  fiori, 
perché  stan  su  la  terra? 
son  men  graditi  gli  ori, 
perché  stanzan  sotterra? 
Forma  in  quel  basso  tetto 
il  tuo  volto,   il  tuo  seno, 
un  praticello  ameno, 
e  la  chioma  dorata 
un  tesoro  amoroso; 
anzi,   a  gloria  d'Amore, 
ciò  che  vantar  non  puote  altro  terreno, 
quivi  con  novi   orrori 
dov'è  già  stato  l'or,   miransi  i  fiori. 
In  quella  bassa  terra 
sarai  tu  stabil   centro 
a  cui  discenderanno, 
se  benigna  il  consenti, 
a  ritrovar  quiete  i  miei  tormenti. 
Una  io  dirò  che  sia 
de  le  cimerie  grotte, 
ove,   notturno  amante, 


PIER    FRANCESCO    PAOLI  73 

dopo  le  sospirate 

mie  vigilie  amorose, 

per  prolungar  la  vita, 

verrò  del  sonno  a  mendicar  l'aita. 

In  quell'ima  pendice, 

più  che  in  alto  palagio, 

trarrò  sicuri  i  giorni, 

mentre  talor  fortuna 

con  violento   sdegno 

per  le  ruine  altrui  scuote  il  suo  regno. 

In  quell'ermo  ricetto, 

con  divoti  sospiri 

adorarò,   d'ogni  pensier  disciolto, 

peregrino  idolatra,   il  tuo  bel   volto. 

Godo,   mia  bella,   godo, 

che  vivi  in  parte  dove 

non  giunge  irato  il  fulmine  di  Giove. 

Spero  ben  che  terrai 

quivi  esposto  il  tuo  core, 

per  mio  conforto,   ai  fulmini  d'amore. 

Già  non  tem'io  ch'il  Tebro 

venga,   come  talor  tumido  ei  suole, 

per  inondar  quella  terrena  soglia; 

che  ne  sarò  custode, 

ed  esalando  fiamme 

fuor  del  mio  cor  geloso, 

respingerò  l'assaltatore  ondoso. 

Albergo  prezioso, 

mio  vago  paradiso, 

mio  leggiadro  oriente, 

da  cui,   di  balcon  privo, 

tu,   mio  bel  sole   adorno, 

quante  volte  apri  l'uscio,  apri  il  mio  giorno  ; 

chi  potrà  dir   che   ancora 

sia  superbo  tiranno, 

se  per  le  tue  bellezze, 


74  LIRICI    MARINISTI 

che  pur  tue  forze  sono, 

poco  men  che  sotterra  hai  posto  il  trono? 

Oh  quante  volte,   oh  quante, 

mentre  chiusa  è  la  porta 

de  la  real  magione, 

non  avendo  altro  varco 

da  penetrar  le  riverite  mura, 

anelante  si  duole, 

quasi  mendico  in  su  la  soglia,   il  sole! 

Fra  queste  del  mio  cor  candide  gioie 

serpe  mortai  veleno 

che  viatore  accorto, 

mentre  vede,   in  passando, 

il  letticciuol  eh' è  campo 

del  duello  amoroso, 

entrerà  baldanzoso. 

e  con  sua  lieta  sorte 

vibrerà  l'armi  e  sfideratti  a  morte. 

Deh,  per  schivar  perigli 

tieni  tu  sempre  chiusa 

a  l'arditezze  altrui 

quella  beata  porta, 

com'io  tengo  a  tutt'ore 

aperto  ai  cenni  tuoi 

questo  misero  core; 

né  t'affanni  il  pensiero 

di  rimaner  tra  l'ombre, 

che  può  de'  tuoi  begli  occhi  un  lampo  solo, 

non  pur  far  luminoso  un  picciol  tetto, 

ma,   con  vanti  più  alteri, 

i  negri  abissi  e  i  torbidi  emisperi. 

Che  se  ciò  non  t'aggrada, 

legge  sia  la  tua  voglia; 

e  s'altri  pur  tentasse  opra  si  rea, 

tu,   in  guardia  de  la  fede, 

contra  il  crudo  omicida, 

senza  mostrargli  altr'arme,  alza  le  strida. 


PIER    FRANCESCO    PAOLI  75 

XIX 

UNA  DAMA  SPAGNUOLA 

Là  dove  more  il  sole 
nata  è  costei;  ned  è  stupor,  se  accolto 
quanto  ha  di  bello  il  Sol  porta  nel  volto. 
Egli,  pria  che  la  sera 
giunga  a  la  tomba  ibera, 
per  non  lasciar  senza  splendor  quei  campi, 
nel  bel  volto  di  lei  lascia  i  suoi  lampi. 


MARCELLO    GIOVANETTI 


I 

CHIOME    NERE 

Chiome,   qualor  disciolte  in  foschi  errori 
da  la  fronte  vi  miro  in  giù  cadenti 
e  velate  al  mio  Sol  gli  aurei  splendori, 
siete  nubi  importune,   ombre  nocenti. 

Ma  s'in  groppo   accogliete   i   vostri   orrori, 
nera  cote  sembrate,   ove  pungenti 
rende  Amor  le  saette;  e  l'ambre  e  gli  ori 
vincete  d'ogni  crin,  chiome  lucenti. 

Escon  da'  vostri  torbidi  volumi, 
come  lampo  talor  da  nube  impura, 
verso  il  mio  cor  d'accese  fiamme  i  fiumi; 

ch'arte  fu,   non  error,   se  die  natura, 
quasi  pittor  che  mesce  l'ombre  ai  lumi, 
de  la  fronte  al  candor  la  chioma  oscura. 


MARCELLO    GIOVANETTI  77 

II 

LE  POZZETTE  NELLE  GUANCE 

Qualor  Cilla  vezzosa  i  lumi  gira, 
e  s'avvien  che  ridente  il  guardo  ruote, 
forma  vaghe  pozzette  in  su  le   gote, 
ove  quasi  in  suo  centro  il  cor   s'aggira. 

Quivi    Amor   certo   ad    alte    prede    aspira, 
ed  indi  l'alme  semplici  e  devote 
con  saette   invisibili   percuote, 
e  poi  colà,   furtivo,   ei  si  ritira. 

Direi  valli  di  gigli  in  campo  alpino, 
direi  cave  di  nevi  in  mezzo  ai  fiori 
quelle  fosse  sul  volto  almo  e  divino. 

Ma  come  non  si  sfanno  in  larghi  umori, 
s' hanno  di  que'  begli  occhi  il  Sol  vicino 
e   del  mio  cor  non  lunge  anco  gli  ardori? 

HI 

NELLO  SCORGERE  DA  LUNGI  IL  PAESE 

DELLA  SUA  DONNA 

Ecco  al  fin  pur  ti  scopro,   amato  colle, 
che  'n  brieve  giro  ascondi  ampio   tesoro; 
ove  non  giunge  il  pie,   prende  ristoro 
lo  sguardo  almen,   che  di  dolcezza  è  molle. 

E  col  pensier,   che   solo  a  lei  s'estolle, 
se  non  posso  vicin,   lunge  t'adoro. 
Sallo  Amor  con  qual  laccio  io  qui   dimoro 
e  qual  caldo  desio  nel  cor  mi  bolle  ! 

Che  di  lontan  sente  gli  ardor  più  fissi 
e  lunge  vede  il  cor  più  che  non  suole 
de'  suoi  begli  occhi  i  luminosi  abissi. 

Traggami,  dunque,  il  cielo  ove  '1  ciel  vuole, 
che  far  non  puote  ingiuriosa  eclissi 
lunga  terra  interposta  al  mio  bel  sole. 


78  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LA  DONNA  PRESENTE 
A  SPETTACOLO  DI  GIUSTIZIA 

Là   've  la  morte  in  fera  pompa    ergea 
spietata  scena  di  funesto  orrore, 
vidi  colei,  che  nel  tuo  regno,   Amore, 
di  mille  colpe  e  mille  morti  è  rea. 

Fra  que'  nocenti  uccisi,   ella  uccidea 
più  d'un 'alma  innocente  e  più  d'un  core; 
e  pure,   intenta  al  tragico  rigore, 
spettatrice  impunita  anco  sedea. 

Quale  scampo  il  mio  cor  fia  che  ritrove? 
Là  fra  rigide  morti  a  morte  ei  langue, 
qua  di  dolci  ferite   un  nembo  piove. 

Resta  per  doppia  strage   il   petto  essangue; 
fan  bellezza  e  spavento  eguali  prove, 
e  nuotano  gli  amori  in  mezzo  al    sangue. 


IL  BAGNO  NEL  LAGO 

AUor  che  l'alba  dal  mar  d'Adria  inalza 
la  face  per  fugar  l'ombra  notturna, 
a  solitario  lago,  incólta  e  scalza, 
col  canestro  sen  va  Fille  e  co'  l'urna. 

Per  bagnarsi   il   bel   pie,    con   mano   eburna 
i  lembi  de  la  veste  accoglie  ed  alza; 
e  l'onda,   ch'era  immota  e  taciturna, 
con  garrula  allegrezza  al  sen  le   balza. 

A  l'apparir  di  lei  sopra  la  sponda, 
al  discoprir  degli  animati  avori, 
al  folgorar  de  l'aurea  chioma  bionda, 

alga  o  scoglio  non  è,  che  non  s'infiori; 
fiore,  che  non  si  specchi  entro  quell'onda; 
onda,   che  non  sfavilli  a  tanti   ardori. 


MARCELLO    GIOVANETTI  79 

VI 

LA  DONNA  E   IL  VECCHIO 

Nisa,  è  pur  ver  che  tu  ne  l'alma  impressi 
hai  di  veglio  Titon  gli  essangui   ardori, 
e  di  braccia  cadenti  ai  freddi  amplessi 
offri  del  tuo  bel  seno  i  caldi  avori  ? 

Meraviglia  è  d'amor  veder  connessi 
crespo  crin,  crespa  gota,  ostri  e  livori, 
e  con  le  man  di  latte  insieme  espressi 
fra  le  rughe  senil  scherzar  gli  Amori. 

Ah,   sian  lunge  i  tuoi  fior  da   quel   confine! 
entro  que'  solchi  de  le  guance  annose 
il  tempo  sol  dee  seminar  le  spine; 

ch'ei  de  le  guance  tue  molli,   amorose, 
farà  col  gielo  del  suo  freddo  crine 
pallidi  i  gigli  e  livide  le  rose. 


VII 
LA  NINFA  E  IL   ROZZO  AMANTE 

Cinzia,   Cinzia  del   Ren,   colei  che  finge 
la  ritrosa,   la  schiva  (il  dico  o  taccio?). 
Cinzia,   bella  qual   dea,   fera  qual   sfinge, 
a  rozzo  pastorel  si  reca  in  braccio. 

Sovente  il  collo  d'amoroso  impaccio 
al  perfido  Filen  circonda  e  cinge  ; 
e  sembra  meco  poi  rigido  ghiaccio 
l'empia,    e   le    guance   di    rossor   non    tinge? 

Ben  la  vid'io  scherzar  sotto  una  folta 
siepe  col  vago,   e  sua  beltà  divina 
esser  da  rozza  man  recisa  e  còlta. 

Cosi  in  prato  talor  giace  vicina 
vipera  al  fior  ;   cosi  talor  sta  involta 
candida  perla  in  fango  o  rosa  in  spina. 


8o  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

LA   BELLA  SERVA 

Se  diede  al  tuo  natal,   bella  mia  Glori, 
oscure  fasce  il  ciel,   povera  cuna, 
ecco  più  chiare  perle  e  più  fini  ori 
Amor  prodigamente  in  te  raguna. 

E  se  d'altrui  ti  fé'  serva  fortuna, 
ch'a  la  cieca  dispensa    i  suoi  tesori, 
tu  per  quella  beltà,   ch'ogn'altra  imbruna, 
se'  reina  bellissima  de'  cori. 

Di  che  ti  lagni  tu?  Sappi  che  ancora 
sono  serve  di  Cinzia  in  ciel  le  stelle 
ed  è  serva  del  Sol  la  bionda  Aurora. 

Denno  esser  sol  le  voglie  tue  rubelle 
serve  d'Amor,  come  a  te  sono  ognora, 
tributarie  de'  cor,   mill'alme  ancelle. 


IX 

LA  CORTIGL'\NA  FRUSTATA 

Era  esposta  ai  flagelli  Eurilla  mia, 
per  lieve  colpa  condennata   rea; 
ma  fra  l'ombra  del  duol   che   l'avvolgea 
il  Sol  di  sua  bellezza  anco  apparia. 

E  mentre  in  lei,   da  man  nocente  e  ria, 
tempesta  di  percosse  aspra  piovea, 
quanti  gigli  sugli  omeri  abbattea 
quella  tempesta,  tante  rose  apria. 

Chi  sa  che,   mosso  Amor  da'  miei  lamenti, 
per  punir  di  costei  l'empio  rigore, 
la  mia  tormentatrice  or  non  tormenti? 

Ma  qual  gloria  sperar  potea  maggiore? 
Diranno  ormai  l'innamorate  genti: 
—  Questa  è  la  bella  martire  d'Amore.  — 


MARCELLO    GIOVANETTI  8l 

X 

LA    DORMENTE 

A  Girolamo  Mattei 

Presso  un  bel  rio,  che  de  la  sponda  erbosa 
umido  amante  iva  baciando  i  fiori, 
Cilla,  ch'ai  mio  languir  non  dà  mai  posa, 
posando  un  di,   del  di  fuggia   gli  ardori. 
In  su  la  guancia  di  color  di  rosa 
parean  tiepide  brine  i  bei  sudori, 
e  spogliavan  d'odor  quelle  pendici 
le  frese 'aure,  del  sonno  allettatrici. 

Mentre  co  '1  crin,  che  s'increspava  ai  venti, 
sovra  letto  di  fiori   ella   dormia, 
agli  occhi  miei  vagheggiatori  intenti 
duo  preziosi  fiumi  Amore  offria: 
l'uno  scorrea  con  liquefatti  argenti, 
l'altro  con  onda  d'or  serpendo  già; 
ciascuno  i  suoi  tesori  avea  disciolto: 
quegli  un  prato  rigava  e  questi  un  volto. 

Le  spoglie  ella  s'avea  tolte   d'avanti 
e  fidatele  in  guardia  ai  fior  vicini, 
che  '1  calor  fastidia  le  spoglie  e  i  manti, 
tolerando  a  fatica  i  bianchi  lini; 
e  questi  ancor,   mossi  da  l'aure  erranti, 
gian  scoprendo  del  seno  i  bei  confini, 
e  l'altre  membra  tralucean   fra  quegli, 
quasi  gemme  velate  in  tersi  spegli. 

Io  muovo  intanto  il  pie  furtivo  e  tardo, 
ove  costei  giacca  su  l'erba  molle; 
nel  vel  de  le  palpebre  ascoso  il  guardo 
punto  non  mi  vietava  il  pensier  folle. 
A  lei  m'appresso,  in  lei  m'affisso  e  guardo, 
ch'a  vagheggiarla  anco  ogni  fior  s'estolle. 
Dico  allor  io  :  —  Per  man  del  sonno  unita, 
sotto  imagin  di   Morte,   ecco   la  Vita.  — 

Lirici  marinisti  —  6 


82  LIRICI    MARINISTI 

Ornai  cessino,   Amore,   i  vanti  tuoi, 
non  dir  ch'ai  tuo  poter  nulla  contrasti; 
ch'in  paragon  del  sonno,  o  nulla  puoi 
o  rimangon  delusi  i  tuoi  gran  fasti. 
Per  far  ch'ella  piegasse  i  desir  suoi, 
sai  pur  ch'ogni  tua  possa  indarno  oprasti. 
Ecco:  il  sonno,   maggior  di  tutti  i  numi, 
la  stende  a  terra  e  le  imprigiona  i  lumi. 

Più  forza  ha  il  figlio  de  l'oscura  notte 
di  te,  fanciul  de  la  più  bella  diva? 
l'abitator  de  le  cimerie  grotte 
supera  un  Dio,  che  da  lo  ciel   deriva? 
Sian  le  saette  ornai  tarpate  e  rotte 
e  la  faretra  d'ogni  gloria  priva, 
s'al  tuo  fuoco  invisibile,  immortale, 
onda  scarsa  di  Lete  assai  prevale. 

Ma  come  il  cor  d'amor  più   forte  acceso 
sento,  s'Amor,  vinto  dal  sonno,   or  giace? 
come  breve  riposo  emmi  conteso, 
se  chi  guerra  mi  muove  ha  posa  e  pace? 
scocca  strali  non  visti  arco  non  teso? 
e  vibra  fiamme  non  vibrata  face? 
con  quali  armi  innocenti  ed  omicide 
giacendo  vince,   addormentata  uccide? 

Certo  ch'ella  a   nuove   arti   allor   s'accinge, 
quando  al  suo  mal  pietosa  altri  la  spera  ; 
non  dorme- no,   ma  di  dormir  s'infinge, 
appiattata  tra  i  fior,   la  scaltra  arciera. 
Sonnacchiosa  in  tal  guisa  anco   si  finge, 
là  nei  campi  d' Ircania,   empia  pantera, 
e  con  la  pompa  di  sue  spoglie  ognora 
suol  le  fere  allettar,  che  poi  divora. 

Ben  si  vedean  per  le  beate  sponde 
arder  vicine  a  lei  quell'erbe  e  queste, 
languir  le  piante,  inaridir  le   fronde, 
chinare  i  fiori  l'odorate  teste; 


MARCELLO    GIOVANETTI  83 

e  già  forano  asciutte  anco  quell'onde, 
che  per  l'erbe  muovean  tremole  e  preste, 
s'io  con  l'urne  colà  del  pianto  mio 
non  dava  piogge  al  prato  ed  acque  al  rio. 

Come  s'avvien  talor  ne'  giorni  estivi 
che  densa  nube  intorno  al  Sol  s'accampi, 
vibra  egli  i  raggi  più  cocenti  e  vivi, 
e  chiuso  par  che  con  più  forza  avvampi  ; 
cosi  costei,   per  far  eh 'anco  i  più  schivi 
sentan  di  sua  beltade  accesi  i  lampi, 
vuole  colà  che  le  circondi  e  tocchi 
bella  nube  di  sonno  il  Sol  degli  occhi. 

Anzi  ella  soffre  che  sia  fatto  donno 
un  ministro  di  Lete  in  quel  bel  viso, 
e  di  tenebre  armato  il  nero  sonno 
sia  là  nel  trono  de  la  luce  assiso. 
L'ombre  cieche  oggimai  vantar  si  ponno 
d'aver  posta  la  sede  in  paradiso; 
ma,  con  le  stelle  chiuse  in  fosco  velo, 
chi  mai  dirà  che  sia  più  bello  il  cielo? 

Ed  è  pur  vero,   e  più  leggiadre    forme 
ne  r  incomposto  volto  il  sonno  acquista; 
veglia   l'arso    mio    cuor    mentr'ella    dorme, 
e  d'un  sole  ecclissato  ama  la  vista. 
Stanno  in  sua  guardia  faretrate  torme, 
a  cui  la  schiera  de  le  Grazie  è  mista  : 
altri  terge  i  sudori,  altri  con   l'aura, 
mossa  da  lievi  piume,   il  cor  ristaura. 

Amanti,   o  voi  che  con  ardente  zelo 
bramate  l'ombre  amiche  ai  furti  vostri, 
de  la  notte  pregiando  il  fosco  velo 
più  che  de  l'alba  le  chiarezze  e  gli  ostri, 
venite  a  schiere;   ecco:   propizio  il  cielo 
tragge  la  notte  dagli  opachi  chiostri; 
e  perché  a  voi  più  ratta  ella  sen  vole 
colà  in  quegli  occhi  è  tramontato  il  sole. 


84  LIRICI    MARINISTI 

Oh  se  di  questa  Pasitea  giacente 
diventar  potess'io  larva  vagante, 
oh  come  lieto  a  la  sopita  mente 
discoprirmi  potrei,   fantasma  amante  ! 
Sonno,   felice  or  te  cui  si  consente 
star  catenato  a  que'  begli  occhi  avante; 
non  potea  darti  de  le  luci  accorte 
più  leggiadra  prigione  il  cielo  in  sorte. 

Mentre  si  parlo,   e  non  sapea  levarmi 
dal  contemplar  l'addormentato  viso, 
e  d'immenso  piacer  sentia  bearmi 
in  quel  dolce  periglio  intento  e  fiso, 
a  caso  leggo  in  mal  vergati   carmi 
su  la  corteccia  d'una  pianta  inciso: 
«  Se    non    fuggi,    pastor,    tu    resti    essangue; 
giace  quivi  fra  l'erbe  ascoso  un  angue  ». 


XI 

LA  FONTANA  NEL   GIARDINO  DI  TIVOLI 

RAFFIGURANTE    L' ANTICA    ROMA 
Al  cardinale  Alessandro  d'Este 

Colà  dove  con  flebile  singulto 
il  precipizio  suo  piange  Aniene, 
mentre  con  procelloso  aspro  tumulto 
giù  da'  monti  latini  a  cader  viene, 
che    poi,    placido    fatto,    or    muove    occulto 
fra  cavi  sassi  e  sotterranee  vene, 
or  con  la  lingua  tremola  de  l'onde 
lambendo  va  le  tiburtine  sponde; 

s'apre  vago  giardin,   di  cui  natura, 
di  cui  l'arte  la  palma  aver  presume, 
che  poi  (sia  loro  o  negligenza  o  cura) 
di  cangiar  le  vicende  han  per  costume. 


MARCELLO    GIOVANETTI  85 

Or  dentro  a  queste  villarecce  mura, 
libero  volse  imprigionarsi  il  fiume, 
e  sembra  sol  che  di  formar  s'appaghi 
loquaci  fonti  e  taciturni  laghi. 

Qui  le  ninfe  de'  liquidi  cristalli 
con  le  ninfe  de'  monti  in  schiera  accolte, 
fabbricando  tra  lor  trecce  di  balli, 
ora  in  gruppi  annodate  ora  disciolte, 
scherzando  gian  per  quegli  ondosi  calli 
con  auree  chiome  in  su  le  fronti  avvolte, 
e  di  mirto  e  d'allòr  frondosi  rami 
eran  del  biondo  crin  verdi  legami. 

Giunse  fra  loro  altera  donna  armata 
in  sembiante  magnanimo  e  augusto; 
ferreo  arnese  copria  la  fronte  aurata, 
grave  d'asta  la  man,   d'usbergo  il  busto. 
Forse  in  aspetto  tale  figurata 
Pallade  fu  nel  secolo  vetusto, 
e  dagli  anni  e  da  l'arme  ancor  non  doma 
nel  suo  volto  esprimea  l'antica  Roma. 

Per  ascoltar  costei  le  gelid'urne 
lasciar  de'  fonti  lor  Tetide  e  Flora; 
dagli  antri  oscuri  alzar  le  membra  eburne 
la  dea  casta  e  la  dea  che  n'innamora; 
cessar  da  l'opre  solite    diurne 
gli  augelli  e  l'aure  mormoranti  allora, 
e  per  non  fare  a  lei  garrule  offese 
il  corso  per  udir  l'onda  sospese. 

—  O  de  l'altro  Alessandro  emolo  altero  — 
disse  —  e  de  l'attio  sangue  inclito  pegno, 
splendor  de  l'ostro,   cardine  di  Piero, 
aquila  lucidissima  d'ingegno, 
di  magnanimità  ritratto  vero, 
de  la  nuda  virtù  ricco   sostegno, 
de  l'antica  valor  novella  prole 
e  del  del  de  la  gloria  unico  sole  ; 


86  LIRICI    MARINISTI 

lascia  oggimai,  ti  prego,   i  sette  colli 
che  di  Roma  novella  ornano  il  seno, 
che  sol  di  fasto  allettatrici  e  folli 
aure  nutre  nel  torbido  sereno, 
ha  mentiti  i  costumi,   i  vezzi  ha  molli, 
nel  facondo  suo  dir  mesce  il  veleno, 
e  allora  indice  altrui  guerra  verace 
quando  par  che  più  spiri  aura  di  pace. 

Lascia  pur  Roma,  e  vieni  omai  qui  dove 
fresco  è  il  rio,  dolce  è  l'aura  e  lieto  è  il  cielo; 
nembo  di  perle  qui  l'aurora  piove 
qualor  diffonde  il  matutino  gielo; 
la  libertà,  ch'invan  si  brama  altrove, 
qui  sol  lieta  fiorisce  in  ogni  stelo; 
e  van  per  l'amenissime  pendici 
l'aure,   de  l'alme  ognor  tranquillatrici. 

Qui  senza  velo  agli  occhi  altrui  dispiega 
nuda  semplicità  le  sue  ricchezze; 
qui  riposa  il  Riposo  e  qui  non  nega 
di  compartir  altrui  pure  dolcezze; 
qui  con  laccio  di  gioia  i  sensi  lega 
l'ombra  fra  le  real  salvatichezze; 
né  può  quinci  lontano  esser  diviso 
s'è  ver  ch'abbia  la  terra  il  paradiso. 

Vieni,  e  de'  grandi  Augusti  il  mio  desio 
di  nuovo  in  te  vagheggi  i  gesti  e  l'opre; 
vieni,   ch'ogn'uom  costi  fallace  e  rio 
sotto  contrario  vel  l'alma  ricopre; 
qui  schietto  il  fonte  e  trasparente  il  rio 
sin  da  l'intimo  fondo  il  cor  ti  scopre; 
e,   di  te  imitatrice,   in  grembo  ai  fiori 
versa  prodiga  vena  i  suoi  tesori. 

Se  le  romane  mura  e  gli  archi  e  i  tempi 
ti  spiace  forse  di  lasciarti  a  tergo, 
qui,  dagli  Estensi  tuoi  sottratta  agli  empi, 
mirerai  d'altra  Roma  il  prisco  albergo; 


MARCELLO    GIOVANETTI  87 

ch'io  qui  ricovro  e  de'  passati  scempi 
fra  i  diluvi  de  l'acque  il  duol  sommergo, 
e  trovo  sol  per  questi  chiostri  ombrosi 
nel  secolo  del  ferro  aurei  riposi. 

Qui,   qui,  scorno  del  tempo,  onta  de  l'armi, 
ogni  abbattuta  mole  anco  torreggia; 
qui  co'  teatri  e  con  le  statue  parmi 
traspiantata  veder  l'antica  reggia; 
distillan  acque  gli  obelischi  e  i  marmi 
e  quasi  la  città  fra  l'acque  ondeggia; 
vieni,  e  se  '1  Tebro  hai  di  veder  desio 
ho  fra  queste  mie  sponde  il  Tebro  anch'io. 

Qui  potrà  sollevar  da  gravi  cure 
l'alma  tua  degnamente  ozio  non  vile: 
vedrai  Pandora  acque  salubri  e  pure 
dal  suo  vaso  stillar,   fuor  del  suo  stile; 
e  Bacco,   invece  pur  d'uve  mature, 
ampie  tazze  colmar  d'onda  simile; 
e,  lasciato  Elicona  il  bel   Pegaso, 
d'acque  aprir  con  la  zampa  argenteo  vaso. 

Vedrai  per  te  formar  con  saggi  errori 
i  fonti,   al  ciel  balzando,   umidi  giochi; 
di  finti  augelli  inanimati   cori 
sciorranno  a  te  canti  non  finti  o  rochi  ; 
vedrai  lieta  spelonca  in  cui  gli  Amori, 
poste  in  disparte  le  saette  e  i  fochi, 
al  cenno  di  colei  che  dal  mar  nacque, 
i  petti  altrui  san  fulminar  con  l'acque. 

Fastose  ch'a  tal  gloria  il  ciel  sortille, 
se  son  di  fasto  qui   l'onde  capaci, 
con  riverenti,   ossequiose  stille 
stamperan  su  '1  tuo  pie  gelidi  baci- 
le fontane  più  lucide  e  tranquille 
faransi  al  volto  tuo  specchi  vivaci, 
e  '1  dio  de  l'onde  anch'ei  sarà  tenuto 
darti  in  coppa  d'argento  il  suo  tributo. 


LIRICI    MARINISTI 

Vieni,   Alessandro,   e   mirerai   disciorsi 
in  lagrime  di  gioia  i  vivi  fonti; 
a  le  tue  piante  i  lor  marmorei  dorsi 
supporran  volentier  portici  e  ponti; 
e  i  simolacri  e  le  colline  forsi 
per  adorarti  piegheran  le  fronti: 
certo,  per  pregio  suo  fia  che  s' inchine 
la  palma  e  '1  lauro  a  coronarti  il  crine. 

Ma  se  a  l'altro  Alessandro  intero  un  mondo 
era  spazio  incapace,   angolo   breve, 
il  tuo  valor,   che  non  ha  mèta  o   fondo, 
termine  angusto  imprigionar  non  deve. 
Sollo,   gran  prence,  e  pur  non  mi  confondo, 
ma  d'adempir  miei  voti  anco  fìa  lieve, 
che  ben  che  sia  maggior  de  l'ampia  terra, 
pure  in  brieve  epiciclo  il  Sol  si  serra.  — 

Accompagnò  quest'ultime  parole 
con  lieti  applausi  ogn'aura,   ogni  spelonca, 
e  dispiegar  da  le  canore  gole 
i  selvaggi  cantor  voce  non  tronca; 
ogn'onda  mormorò  più  che  non   suole 
armoniosa  entro  la  propria  conca, 
ed  agli  organi  die,   con  modo  ignoto, 
a  tempo  il  canto  ed  a  misura  il  moto. 

Fùr  veduti  a  la  fin  da  cento  bocche 
cento  fiumi  versar  gonfi  serpenti, 
e  con  tal  precipizio  avvien  che  fiocche 
il  bel  diluvio  di  que'  molli  argenti, 
che  sembra  udir  da  le  superbe   ròcche 
il  sonoro  ulular  de'  bronzi   ardenti. 
Ai  lieti  augùri,  al  plauso  de  le   linfe 
Eco  rispose  e  risero  le  ninfe. 

Pastor  del  Tronto  a  vagheggiar  sedea 
gli  orti  famosi,   a  cui  null'altro  agguaglia, 
di  cui  forse  men  bello  esser  dovea 
o  '1  giardino  di  Pesto  o  di  Tessaglia. 


MARCELLO    GIOVANETTI 

Or  mentre  ei  d'alta  gioia  il  cor  ricrea, 
le  sparse  voci  in  verde  pianta  intaglia; 
poi,  con  note  che  ruvide  compose, 
al    gran    prencipe    estense    il    tutto    espose. 

XII 

L'INONDAZIONE  DEL  TRONTO 

A  monsignor  X'itello 

Fra  l'atra  notte  e  'I  luminoso  giorno 
egualmente  diviso  era  l'impero, 
e  spandea  tanto  l'ombra  il  manto  nero 
quanto  splendea  di  raggi  il  sole  intorno; 

onde,   se  l'alba  ai  soliti  lavori 
destava  l'uom  su  l'aure  matutine, 
il  dolce  sonno,   con  egual  confine, 
sopiva  i  sensi  e  raddolciva  i  cori  ; 

con  grati  nodi  agli  olmi  lor  mariti 
dolcemente  stendean  le  braccia  amiche 
e  discoprian  per  le  colline  apriche 
lieti  tesor  le  pampinose  viti  ; 

quando  s'udio  sul  nubiloso  velo, 
presagio  d'oscurissima   tempesta, 
mormorando  con  voce  orrida  infesta, 
tuono  bombar  fra  inille  lampi  in  cielo; 

s'udirò  urtarsi  in  fera  giostra  i  venti, 
spinti  da  profondissime  caverne; 
fùr  visti  a  gara  poi  da  le  superne 
magioni  in  giù  precipitar  torrenti. 

Mai  non  s'udi  del  ciel  per  le  campagne, 
cotanto  imperversando,   austro  nimboso 
scuotere  il  dorso  a  l'Apennin  selvoso, 
fracassar  nubi  e  tempestar  montagne. 

Ma  crescendo  maggior   l'impeto   a   l'onde, 
e  qual  rauco  fragor  d'acque  sonanti, 
parea  che  l'etra  a  tanti  flutti  e  tanti 
picciole  avesse  e  troppo  anguste  sponde. 


90  LIRICI    MARINISTI 

Da  disusata  violenza  spinto, 
correva  il  flutto  ad  inondar  la  valle; 
era  Iago  la  piazza  e  fiume  il   calle 
e  la  cittade  ondoso  labirinto. 

Il  troppo  fosco  orror  rendea  cotanto 
confuso  il  ciel,  che  per  tre  spazi  integri 
il  Sol  rotar  non  volle  i  lampi  allegri, 
né  la  notte  spiegar  gemmato  il  manto. 

Da  cento  e  cento  lubrichi  vassalli 
ebbe  tributo  volontario  il  Tronto, 
che,  fatto  ingiusto  rege,  audace  e  pronto 
corse  a  tiranneggiar  l'amiche  valli. 

Se  pria  devoto  a  la  città  di  Pico 
il  pie  baciò  de  le  famose  mura, 
ora  senza  ritegno  ei  s'assicura 
moverle  aspra  tenzon,   fero  nemico; 

e  disdegnando  omai  degli  alti  ponti, 
novello  Arasse,  l'odiosa  soma, 
scuote  con  atto  altier  l'umida  chioma 
e  guerra  indice  con  spumosi  monti. 

E  qual  vittorioso  capitano 
per  batter  mura  di  superba  ròcca 
opra  ferrate  travi  e  sempre  scocca 
più  forti  colpi  con  robusta  mano, 

cotal  ruina  orribile  minaccia, 
ed  avventando  ai  ponti  elei  ed  abeti, 
fa  tremar,  fa  crollar  l'alte  pareti 
il  fiume  altier  con  spaventosa  faccia. 

Ma  raddoppiando  le  divelte  piante 
ognora  formidabili  percosse, 
forza   è  che  '1   ponte    al    fine    a   tante    scos 
cada  e  l' inghiotta  pur  l'onda   tonante; 

l'onda,  ch'ornai  la  chioma  più  frondosa 
copre  de'  pioppi,  e,  dove  fece  il  nido 
semplicetto  augellin,   del   fiume  infido 
allora  ivi  nato  plebe  squammosa; 


MARCELLO    GIOVANETTI  91 

l'onda  che  sozza,  fra  gli  acuti  dumi 
e  fra  le  tane  di  spinosi  sterpi, 
suflFoca  ancor  le  velenose  serpi 
strette  ed  avvolte  in  lubrichi  volumi; 

l'onda  che  seco  raggirando  balza 
rotte  schegge,  alti  scogli,  alpestre  rupi, 
e  ne'  vortici  suoi  rapidi  e  cupi 
ora  assorbe  gran  tronchi,  ora  gì' inalza. 

Stillava  pria  con  limpidi  zampilli 
entro  nera  spelunca  a  goccia  a  goccia 
l'onda  gelata  da  scabrosa  roccia, 
secreta  stanza  di  Piloro  e  Filli  ; 

ed  ora  in  questa,  fatta  orrida  grotta, 
formando  tal  rumor  ch'il  mondo  assorda, 
diluvia  l'acqua  impetuosa  e  lorda, 
e  un  fiume  intero  v'entra  e  vi  s' ingrotta. 

Scopre  l'intima  selce  e  '1  tufo  scabro, 
impoverito  omai  di  poca  terra, 
il  colle,  e  'I  monte  e  se  medesmo  atterra, 
fatto  del  danno  suo  mal  cauto  fabro; 

poscia  che,  riversando  a  nembo  a  nembo 
prodigamente  Giuno  le  procelle, 
egli  lieto  le  accoglie  e  'nsieme  a  quelle 
offre  ampiamente  l'arido  suo  grembo. 

Per  intenso  dolor  con  occhi  asciutti 
il  povero  cultor  vide  che  '1  crudo 
fiume  rapigli,  di  pietate  ignudo, 
del  dolce  Bacco  i  sospirati  frutti. 

Le  guance  lacerò,   squarciossi  i  crini 
il  timido  pastor,  che  '1  caro  armento 
vide  preda  de  l'onde,  e  'n  fero  accento 
più  volte  bestemmiò  gli  empi  destini. 

Ove  trasse  talor  notte  serena 
il  villanel,  sott' umile  capanna, 
co  '1  suol  di  lievi  ariste  e  '1  ciel  di  canna, 
è  fatto  lido  d'infeconda  arena. 


92  LIRICI    MARINISTI 

Udii  talor  sopra  frondoso  legno 
balenando  cadere  a  me  vicino 
folgore  orrendo,   e   nel   percosso  pino 
restar  del  suo  fragor  perpetuo  il   segno; 

tonar  superba  mole  al  Tebro  in  riva 
udii  talor  d'orribile  rimbombo, 
ed  alternando  ancorché  lieto  il  bombo, 
il  mio  volto  per  téma  impallidiva  ; 

e    quand'anco    da   l'antro   austro   sen   fugge 
e  '1  sonoro  ocean  mesce  e  conturba, 
celasi  per  terror  l'ondosa  turba, 
ove  men  rauco  il  mar  mormora  e  mugge. 

Ma  son  sembianze  ornai  troppo  ineguali 
folgore,   irato  mar,   fulmin  terreno, 
a  l'impeto  del  Tronto  irato  e  pieno, 
che  s'erge  su,   dove  fu  '1  varco  a  l'ali. 

Impetuosamente  orride  belve 
vedresti  per  le  liquide  pianure 
seco  trar  l'onda,   e  fra  quell'onde  oscure 
rotar  case  e  natar  l'intere  selve. 

Mal  cauto  peregrin,   che  vide  l'onda 
scorrer  si  gonfia  per  gli  aperti  campi, 
esser  pensò  là  dove  il  sole  i  lampi 
vibra  accesi  e  l'Egitto  il  Nil  feconda. 

Le  driadi,  le  napee  e  l'altre  ninfe, 
ch'abitan  l'onde  ed  oprano  le  frecce 
o  veston  le  selvatiche  cortecce, 
tutte  stupir  de  le  cangiate  linfe. 

Stupir  che  '1  Tronto,   ch'aggirar  solca 
lubrico  il  pie  per  limpida  pendice, 
e  che  scopriva  altrui  ciò  che  felice 
nel  più  secreto  fondo  ei  nascondea, 

e  che  più  volte  a  lor  fido  consiglio 
somministrò  co'  liquidi  zaffiri, 
e  come  s'orni  il  crin,   l'occhio  si  giri, 
e  come  rida,   in  su  la  rosa,   il  giglio; 


MARCELLO    GIOVANETTI  93 

ora,   fatto  d'orror  scena  funebre 
e  bara  de'  cadaveri  insepolti 
di  pallor  sparsi,   in  negro  fango  involti, 
fa  stillar  di  pietà  mille  palpebre. 

Fu  chi  pensò  che  '1  secolo  di  Pirra 
già  ritornasse  al  mondo;   ond' altri  il  voto 
preparava  a  Nettuno,   altri  devoto 
offriva  al  divo  Giove  incenso   e  mirra. 

Oh  quante  volte  il  tridentato  dio 
rivolto  ad  Ino,   ad  Anfitrite,   a  Glauco: 
—  Chi  è  —  disse  —  costui  si  altero  e  rauco, 
ch'esser  mostra  ribelle  al  regno  mio? 

Mirate  là  come  per  larga  foce 
sgorgando  in  mar,   qual  tortuosa  biscia, 
serba  fra  l'onde  mie  ben  lunga  striscia, 
e  non  l'arresta  lo  mio  guardo  atroce.  — 
Allora  anch'egli  i  suoi  spumosi  regni 
scosse  col  gran  tridente,   e  'n  un  s'udirò 
tonando  i  flutti  in  un  profondo  giro 
ravvoltati  assorbir  volanti  legni. 

Cosi  cavallo  indomito,   che  '1  morso 
rallentato  si  senta,   urta  e  si  scuote, 
pesta  il  suol,   sfida  l'aure  e  'n  varie  ruote 
girando  squassa  orribilmente  il  dorso. 

Ma,  poi  che  in  volto  formidabil  scerse 
il  mar  d'Adria  turbato  in  carro  assiso, 
a  le  guerre  del  ciel,  de  l'onda  fiso 
e  muto  spettator,  gli  occhi  converse. 

Cosi  dicea  con  più  sonori  carmi, 
posta  da  canto  l'umile  sua  cetra, 
Aldin,   che  di  dolcezza  i  marmi  spetra, 
Aldin,  che  canterà  guerrieri  ed  armi. 


GIOVAN  LEONE  SEMPRONIO 


I 

AMORE  FATTO  DI  SGUARDI 

Parlo  con  gli  occhi  a'  tuoi  begli  occhi,  e  spesso 
con  gli  occhi  ancora  i  tuoi  begli  occhi  ascolto; 
s'abbraccian  gli  occhi  nostri  in  dolce  amplesso, 
e  bacian  gli  occhi  nostri  il  nostro  volto. 

Ma  tu  inganni  te  stessa  ed  io  me  stesso: 
tu  troppo  semplicetta,   io  troppo  stolto; 
poscia  che  indarno  agli  occhi  miei  concesso 
è  quel  piacer,   ch'agli  altri  sensi  è  tolto. 

Miro  morendo  ogni  or,   moro  mirato; 
ed  usurpando  i  propri  uffici  al  core, 
amo  con  gli  occhi  e  son  con  gli  occhi  amato. 

Or  chi  dirà  che  in  tenebroso  orrore 
abbia  d'oscuro  ve!  l'occhio  bendato, 
s'altro  non  è,   che  un  solo  sguardo,   Amore? 


GIOVAN    LEONE    SEMPRONIO  95 

II 

LA    PENSOSA 

Con  immoto  ti  stai  ciglio  severo 
in  te  raccolta  e  nel  bel  velo  ascosa; 
ond'io,    nascendo   il    mio   dal   tuo   pensiero, 
penso  a  che  pensi,  o  bella  mia  pensosa. 

Pensi  forse  donar  pegno  più  vero 
e  più  dolce  al  mio  cor  gioia  amorosa? 
o  pur  pensi  trovar  strazio  più  fero 
e  più  cruda  al  mio  sen  pena  angosciosa? 

S'al  mio  novo  gioir,   Lidia,  si  pensa, 
si  pensi  pur,  che  farsi  ben  maggiore 
può  quel  piacer,  ch'avara  man  dispensa. 

Ma  s'a  novo  si  pensa  aspro  dolore, 
si  pensa  invan;  che  divenuta  immensa, 
più  oltre  non  può  gir  pena  d'amore. 


ITI 

I  CAPELLI  FASCIATI  DOPO  LA  LAVANDA 

Sembra  Eurilla  gentil  vaga  turchetta, 
quanto  barbara  più,  tanto  più  bella: 
porta  il  turco  sul  fianco  arco  e  saetta, 
porta  Eurilla  negli  occhi  archi  e  quadrella. 

Ei  di  nemici,  ella  d'amanti  ha  stretta 
in  catena  servii  gran  turba  ancella; 
egli  i  corpi,   ella  i  cori  arde  e  saetta; 
egli  del  cielo,   ella  d'amor  rubella. 

Ciascun   di   veli   ha   la  sua   chioma   attorta: 
egli  ha  più  d'una  benda  al  crin  contesta, 
all'ha  più  d'una  fascia  al  crin  ritorta. 

Ma  differente  è  sol  quello  da  questa, 
ch'ella  duo  Soli  interi  in  fronte  porta, 
e  mezza  Luna  a  lui  riluce  in  testa. 


96  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LA  CHIOMA  ROSSA 

Tutta    amor,    tutta    scherzo    e    tutta    gioco, 
il  suo  vermiglio  crin  Lidia  sciogliea, 
e  un  diluvio  di  fiamme  a  poco  a  poco 
sovra  l'anima  mia  piover  parea. 

E  con  ragion,   s'io  dal  mio  cor  traea 
mille  caldi  sospir  languido  e  fioco, 
succeder  finalmente  un  di  devea 
a  vento  di  sospir  pioggia  di  foco. 

Certo  costei  nel  tuo  bel  regno.   Amore, 
scioglie,   quasi  cometa,   il  crine  ardente, 
per  minacciar  la  morte  a  più   d'un  core; 

o  pur,   per  gareggiar  col  Sol  lucente, 
tinge  la  chioma  sua  di  quel  colore, 
di  cui  la  tinge  il  Sol  ne  l'oriente. 


v 
I  CAPELLI  PENDENTI  SUGLI  OCCHI 

Cari  lacci  de  l'alme  aurati  e  belli, 
oh 'a  ciocca  a  ciocca  in  su  la  fi-onte  errate, 
e  lascivi  e  sottili  e  serpentelli 
con  solchi  d'or  le  vive  nevi  arate; 

oh  quanto,   oh  quanto  ben  lievi  scherzate 
su  due  stelle  d'amor  torti  in  anelli, 
e  di  voi  stessi  ad  or  ad  or  sembrate 
preziosi  formar  ricchi  flagelli  ! 

Ecco,  vostra  mercé,  non  più  sospiro, 
che,  se  gran  tempo  io  sospirai  d'amore, 
quanto  già  sospirai,  tanto  respiro. 

Meco  fa  tregua  il  mio  mortai  dolore, 
poi  eh 'a  vendetta  mia  sferzar  vi  miro 
quegli  occhi  bei  che  m'han   piagato   il   core. 


GIOVAN    LEONE   SEMPRONIO  97 

VI 

LA  DONNA  DI  ALTA  STATURA 

Mentr'io  teco  tentava,  idei  diletto, 
paragon  di  grandezza,  altero  amante, 
provai  com'ad  Encelado  è  disdetto 
giungere  al  ciel,  bench'egli  sia  gigante. 

Ma  nell'eccesso  tuo  fosti  mancante, 
e  nel  mio  mancamento  io  fui   perfetto: 
tu  picciola  a  l'amor,  grande  al  sembiante, 
ed  io  basso  al  sembiante,  alto  a  l'affetto. 

Ben   fui,    noi   niego,    e  temerario  e  stolto; 
ma  se  non  mi  partii  contento  a  pieno, 
non  fummi  ogni  piacer  negato  e  tolto. 

Giunsi  a  baciare,  idolo  mio  terreno, 
se  non  gli  amati  fior  del  tuo  bel  volto, 
i  dolci  frutti  almen  del  tuo  bel  seno. 


VII 

LA  MAESTRA  DELLE  FANCIULLE 

Stuol  di  varie  fanciulle  in  giro  accolte 
davanti  a  la  mia  Glori  un   di  sedea, 
ed  ella  molte  in  tesser  tele  e  molte 
in  far  trapunti  ad  instruir  prendea. 

Là,  de  le  fila  a  l'arcolaio  avvolte 
un  bianco  e  picciol  globo  altra  facea  ; 
qua,  con  le  sete  or  annodate  or  sciolte 
preziose  orditure  altra  tessea. 

—  O  tènere  —  diss'io  —  vaghe   donzelle, 
ch'or  questi  ite  annodando  or  quei  lavori, 
ch'ite  pungendo  or  queste  tele  or  quelle; 

guardate  ancor  non  imparar  da  Glori, 
nemiche  di  pietà,   d'amor  rubelle, 
a  punger  l'alme,  ad  annodare  i  cori. 

Lirici  marinisti  —  7 


98  LIRICI    MARINISTI 

VII 

GIOCANDO  AI   DADI 

Quelle,  che  in   mezzo  a  spettatrice  schiera 
picciol  ossa,  giocando,  agiti  e  tiri, 
denti  fur  già  de  la  più  vasta  fera 
che  ne' gran  lidi  suoi  l'India  rimiri. 

Quindi,   s'a  loro  il  tuo  pensier  raggiri, 
o  mia  dolce  d'Amor  bella  guerriera, 
t'avedrai  dove  al  fin  termini  e  spiri 
orgogliosa  beltà,  fierezza  altera. 

Que'  vaghi  pregi  onde  t'adorni  il  viso, 
s'or  danno  ai  cori  altrui  pene  e  tormenti, 
saran  de'  cori  altrui  favola  e  riso. 

Cosi  que'  fieri  e  que'  temuti  denti, 
per  cui  giaceva  ogni  animale  ucciso, 
gioco  son,  se  terror  fùr  de  le  genti. 


IX 

IL  BALLO  DELLE  VILLANELLE 

Carolando  intrecciate  ai  lor  pastori, 
catenate  per  mano  e  in  giro  avvolte, 
vincean  de  le  cittadi  i  regi  cori 
lascive  forosette  al  ballo  accolte. 

Avean  le  piante  lor,  snodate  e  sciolte, 
legate  l'alme  ed  annodati  i  cori; 
l'erbe  crescean  sotto  il  lor  pie  più  folte, 
più  bei  crescean  sotto  il  lor  piede  i  fiori. 

Ed  ecco,  ornata  il  sen  d'azzurro  e  giallo, 
e  d'ostro,  Cilla  mia,  tinta  la  faccia, 
sotto  il  braccio  girommi  in  mezzo  al  ballo. 

—  Ferma  —  diss'io,  —  che  non  cosi  s'abbraccia; 
star  ti  vorrei,   ma  tu  mi  poni  in  fallo, 
sotto  le  braccia  no,   ma  fra  le  braccia.  — 


GIOVAN    LEONE   SEMPRONIO  99 

X 

ALLA  SUA  DONNA 

nell'atto  che  annoda  le  trecce 

Lascia,  Cilla  gentil,  lascia  disciolte 
le  ricciutelle  tue  fila  divine, 
che,  ben  che  sparso  e  ben  che  sciolto,  avvolte 
ha  pur  mill'alme  entr'i  suoi  lacci  un  crine. 

Non  voler  di  tue  chiome  aurate  e  fine 
catenelle  intrecciar  lucide  e  folte; 
lasciale  pur  su  '1  bianco  collo  incólte 
preziose  formar  belle  ruine. 

Quanto  è  più  cólto  un  crin,  tanto  pivi  spiace; 
ma  quanto  è  lento  più,   più  l'alme  allaccia, 
e  quanto  s'orna  men,   tanto  più  piace. 

E  se  treccia  vuoi  far,  treccia  si  faccia  ; 
ma  si  faccia  fra  noi  treccia  tenace, 
non  del  tuo  crin,   ma  de  le  nostre  braccia. 

XI 

RICORDI   DI  VITA  STUDENTESCA 

a   Bologna 

In  fin  di  qua  dal  mio  natio  terreno 
panni  sentir,   o  mio  gentil  Ferrari, 
che  tra  i  cristalli  suoi  limpidi  e  chiari 
mormori  ancor  le  nostre  gioie  il  Reno. 

Ivi  l'aria  tranquilla  e  '1  ciel  sereno 
e  i  di  godemmo  luminosi  e  cari, 
e  mille  or  dolci  amori  or  colpi  amari 
n'arsero  il  core  e  ne  ferirò  il  seno. 

Sovente  io  la  tua  donna  e  tu  la  mia, 
tu    con    le    tue    preghiere,    io    co'   miei    canti, 
rendemmo  al  nostro  amor  tenera  e  pia. 

Sovente  ancor  ci  rasciugammo  i  pianti, 
fera  placando  orgogliosetta  e  ria, 
fidi  amici  non  men  che  lieti  amanti. 


LIRICI    MARINISTI 
XII 

LA    RACCOLTA   DI   CODICI 

lasciata  dal  duca  alla  città  di  Urbino 

Queste  famose  e  celebrate  carte, 
che  Federico,  il  gran  guerrier,   raccolse 
qualor  l'ingegno  a  Pallade  rivolse 
dagli  studi  fierissimi  di  Marte; 

perch'apprendessi  ogni  più  nobil  arte 
ai  propri  eredi  il  tuo  signor  le   tolse, 
e  a  te  donolle,  o  cara  patria,  e  volse 
questo  de  l'amor  suo  pegno  lasciarte. 

Questi  i  retaggi  son,   questi  i  tesori: 
rendon  gemme  eritree  l'anima  ancella 
e  son  lacci  del  cor  gli  argenti  e  gli  ori. 

Su  queste  impallidisci;  e   rinovella 
i  Baldi,   i  Commandini,  i  Polidori, 
che    t'aggiunghino    ogni    or    gloria    più    bella. 

XIII 

LODI   DI   FABIO  ALBERGATI 

al  figliuolo  di  lui,  Ugo 

Come  acchetar,   come  compor  si  deggia 
d'antica  nemistade  odio  privato, 
e  di  che  raggi  esser  convenga  ornato 
vermiglio  Sol,   che  in  Vatican  fiammeggia; 

qual  esser  debba  entro  superba  reggia 
d'alto  monarca  il  glorioso  stato, 
e  quanto  sia  con  gran  ragion  dannato 
ciò  che  '1  falso  Bodin  sogna  e  vaneggia; 

quei  che  per  padre  il  ciel  ti  diede  in  sorte, 
qui  dove  il  bel  Metauro  il  pie  raggira, 
scrisse  d'Urbin  ne  la  famosa  corte. 

Quindi  ciascun  le  sue  grand'opre  ammira, 
poi  che  per  lui  non  è  ch'invidia  or  porte 
del  suo  buon  vecchio  Felsina  a  Stagira. 


GIOVAN    LEONE    SEMPRONIO 
XIV 

IMPOSSIBILITÀ 
DI  OCCULTARE  IL  PROPRIO  ANIMO 

Oh  come  vano,  oh  come  folle  e  stolto 
è   chiunque  fra  sé  tenta  e  presume 
l'immutabile  suo  natio   costume 
negli  abissi  del  cor  tener  sepolto  ! 

Traspar  di  fuor  ciò  eh' è  di  dentro  accolto, 
quasi  per  chiaro  vetro  ardente  lume; 
e,   quasi  in  breve  e  picciolo  volume, 
ciò  che  détta  il  pensier,   scritto  é  nel  volto. 

L'occhio  de  l'uomo  è  una  finestra  aperta, 
onde  si  puote  ogni  suo  chiuso   affetto 
ed  ogni  voglia  sua  mirar  scoperta. 

Un  cenno,  un  gesto,  un  movimento,  un  detto, 
testimonio  assai  buon,  prova  assai  certa 
pòn  far  altrui  di  ciò  che  chiuda  il  petto. 

XV 

LA  MADDALENA  AI  PIEDI  DI  GESÙ 

Se  già  con  cieco  e  poco  saggio  avviso 
mossi  le  piante  al  regno  tuo  rubelle, 
lungi  da  te,  che  su  le  sfere  assiso 
scorri  il  ciel,   calchi  il  Sol,   premi  le  stelle; 

oggi  a  le  piante  tue  candide  e  belle 
piego  il  sen,  gli  occhi  abbasso,  inchino  il  viso, 
per  discoprir,   per  imparar  da  quelle 
il  sentier  che  conduce  al  paradiso. 

Anzi,  per  dimostrar  prova  più  espressa 
de  la  cangiata  mia  vita  infelice, 
a  pie  de'  piedi  tuoi  getto  me  stessa. 

Oh  de  le  colpe  mie  peso  felice, 
da  la  cui  grave  soma  a  terra  oppressa, 
chinar  me  stessa  a  si  bei  pie  mi  lice! 


Ili 


MAIA  MATERDONA  -  BRUNI  -  ERRICO 


GIOVAN  FRANCESCO  MAIA  MATERDONA 


I 

ABBIGLIAMENTO  MATTUTINO 

Ad  un  tempo  col  Sol  madonna  desta, 
apre  del  del  d'un  volto  i  gemin' astri, 
bagna  di  nanfe  i  teneri  alabastri 
e  serici  al  bel  fianco  arnesi  appresta. 

Lo  speglio  adatta,  e  de  l'inculta  testa 
ara  il  crin  sciolto  con  eburnei  rastri; 
l'accoglie  e  intreccia  con  argentei  nastri 
e  di  mille  narcisi  indi  il  tempesta. 

Increspa  il  più  minuto  a  ferreo  stile, 
a  l'orecchie  sospende  aurate  anella 
e  fa  di  perle  al  collo  e  d'or  monile. 

Esce  alfin  di  sua  reggia  e  si  favella 
ne'  suoi  silenzi  :  —  Or  chi,   da  Battro  a  Tile, 
vide  cosa  già  mai  di  me  più  bella?  — 


Io6  LIRICI    MARINISTI 

II 

L'ASCIUGAMENTO  DEI  CAPELLI 

Spiega  madonna  i  bei  volumi  d'oro 
de  la  gemina  chioma  al  sole,   ai  venti  : 
questi  col  soffio  e  quel  co'  raggi  ardenti 
beono,   accesi  d'amor,   l'umor  eh' è  in  loro. 

Glorioso  de  l'alme  almo  tesoro, 
preziose  de'  cor  reti  lucenti, 
nodo  più  non  v'intrecci  e  fian  le  nienti 
via  più  vaghe  di  voi,   che  pria  non  fóro. 

Oh  come  bello  il  Sol  degli  occhi  splende 
tra  l'auree  nubi  e,   mezzo  ascoso,   il  volto 
oh  quanti  lacci  insidioso  tende  ! 

Tanto  è  più  vago  il  crin  quanto  è  men  cólto, 
e  quanto  molle  è  più  tanto  più  accende, 
e  tanto  lega  più  quant'è  più  sciolto. 


Ili 
LA  PROMESSA 

—  Verrò  —  mi  disse,  e  mi  prefisse  a  punto 
il  di  terzo  d'aprii  la  donna  mia. 
D'indi  in  qua  par  eh 'a  me  sia  stato  e  sia 
anno  il  di,   mese  l'ora  e  giorno  il  punto. 

Spero  e  temo,  ardo  e  gelo,  e  a  tal  son  giunto 
che  mia  vita  è  delirio  e   frenesia; 
meglio  il  non  aspettarla  a  me  saria, 
sete  ingorda  d'amor  si  m'ha  consunto. 

Crudo  aspettar,   cagion  d'acerbe  pene 
mi  sarai  tu,   cagion  d'estrema  noia, 
venga  e  non  venga  il  sospirato  bene. 

Poiché  verrà  che  o  per  gran  doglia  i'  moia, 
se  non  vien  la  mia  donna;    o  se  pur  viene, 
che  s'anneghi  il  mio  core  in  mar  di  gioia. 


G.    F.    MAIA    MATERDONA  I07 

IV 

INVIANDO   L'«  ADONE  » 

Queste  carte  che  Pindo  ammira  e  cole 
e  ch'io  supplice  umile  a  te  presento, 
quant' hanno  in  sé  d'amore  e  di  lamento 
tutte  menzogne  son,   tutte  son  fole. 

Sol  verace  è  l'amor,   vago  mio  sole, 
sol  verace  è  '1  martir  ch'io  nel  cor  sento; 
là  pinto  è  '1  duolo  e  qui  vivo  '1  tormento, 
qui  traboccano  affetti  e  là  parole. 

Leggi  pur,   leggi,   e  la  mia  vita  amara 
d'amara  morte  apprendi  ;   e  ad  esser  pia 
dalla  pietà  di  bella  diva  impara. 

Leggi,  e  se  '1  tutto  è  finto,  a  te  pur  sia 
scorta  il  finto  del  ver  e  fiati  chiara 
ne  le  favole  altrui  l'istoria  mia. 


V 

A  UNA  ZANZARA 

Animato  rumor,   tromba  vagante, 
che  solo  per  ferir  talor  ti  pósi, 
turbamento  de  l'ombre  e  de'  riposi, 
fremito  alato  e  mormorio  volante; 

per  ciel  notturno  animaletto  errante, 
pon  freno  ai  tuoi  susurri  aspri  e  noiosi; 
invan  ti  sforzi  tu  ch'io  non  riposi: 
basta  a  non  riposar  l'esser  amante. 

Vattene  a  chi  non  ama,   a  chi  mi  sprezza 
vattene;   e  incontro  a  lei  quanto  più  sai 
desta  il  suono,   arma  gli  aghi,   usa  fierezza. 

D'aver  punta  vantar  si  ti  potrai 
colei,   ch'Amor  con  sua  dorata  frezza 
pungere  ed  impiagar  non  potè  mai. 


[lo8  LIRICI    MARINISTI 

VI 

LA   MASCHERATA 

—  Tra  venti  dame  ordir  danza  reale, 
con  finte  spoglie  e  maschere  in  sembiante, 
devrò  —  dicesti:  —  or  vienne,  e  se  fra  tante 
riconoscer  mi  sai,  danne  un  segnale.  — 

Non  che  venni,  io  volai;  diemmi  Amor  l'ale: 
tutte  osservai  dal  crin  fino  a  le  piante, 
e  te  conobbi  a  le  due  luci  sante, 
perché  vidi  indi  uscir  l'usato  strale. 

Poscia,  per  lo  segnai  ch'a  me  chiedesti, 
ersi  il  ciglio  a  le  stelle  e  lagrimai, 
e  tu  '1  chinasti  a  terra,   indi  ridesti. 

—  Non  t'avrò  fede  —  io  dir  volea  —  più  mai  : 
m'invitasti  ai  piacer,   pianger  mi  festi  ; 

anzi,   preso  i  miei  pianti  a  riso  t'hai.  — 


VII 

LO   SDEGNO   LIBERATORE 

Qual  uom  talora  in  alta  notte   suole, 
mentre  i  sensi  ha  sopiti,   ebra  la  mente, 
scorgere  assalti  di  perduta  gente, 
e  fugge  e  teme  e  si  contrista  e  duole; 

se  poi  vien  desto  a  l'apparir  del  sole, 
ogn' affanno  da  sé  fuga  repente, 
e  '1  ciel  loda  e  ringrazia  immantinente 
che  i  passati  timor  fùr  ombre  e  fole  : 

tal  io,   mentre  t'amai,   spietati  morsi 
d'amore  e  gelosia  provar  mi  parve, 
onde  sentia  dal  cor  l'alma  disciorsi; 

ma,   poi  che  sdegno  a  risvegliarmi  apparve, 
giubilai  tosto  e  al  cielo  grazie  porsi 
che  fé'  da  me  sparir  fantasmi  e  larve. 


G.    F.    MAIA    MATERDONA  I09 

Vili 

IL  PRIMO  DI  MAGGIO 

Ecco  l'alba,  ecco  l'alba,  ecco  il  bel  giorno 
che  riconduce  al  nostro  mondo  il  maggio; 
salutatel,  pastor,  dateli  omaggio, 
or  ch'ei  fa  dolcemente  a  voi  ritorno. 

Di  verde  smalto  a  coronarlo  intorno, 
pria  che  '1  coroni  il  Sol  di  biondo  raggio, 
altri  al  colle  ed  al  prato  i  fiori,  al  faggio 
altri  involi  le  frondi  ed  altri  a  l'orno. 

Su,  su,  gite,  pastor;  per  l'odorate 
erbe  movete  a  vaghi  balli  il  piede 
e  '1  cantar  degli  augelli  accompagnate. 

Io  non  verrò,  poi  che  per  me  non  riede 
il  maggio:  nel  mio  cor  sempre  la  state, 
sempre  ne  le  mie  luci  il  verno  ha  sede. 


IX 

L'ESEMPIO 

Tisbe,  il  so,   noi  celar;   non  è  difetto 
ch'abbi  a  celar,   ch'opra  è  d'amore  al  fine: 
ier,  su  l'ore  più  fresche  e  mattutine, 
t'abbracciò  Coridon  dentro  un  boschetto. 

Fa'  ch'io  t'abbracci  ancor,   che  ti  prometto 
tre  canestri,  un  di  gelse,  un  di  susine 
ed  un  altro  o  di  fraghe  o  d'armelline, 
e,  s'al  padre  l'involo,  anco  un  capretto. 

Diman,  cor  mio,   ne  la  medesim'ora 
torna  al  boschetto  istesso;   ivi  m'attendi, 
eh 'a  quel  luogo,  in  quel  tempo,  i'  verrò  ancora. 

Taciturna  pian  pian  per  l'orto  scendi, 
che  non  t'oda  o  ti  veggia  altri  uscir  fuora, 
e  là  m'aspetta,  o  là  t'aspetto:  intendi? 


no  LIRICI    MARINISTI 

X 

AMOR  CONCORDE 

La  ninfa  sua  d'orgoglio  amica  e  d'ira 
altri  pur  chiami  e  rigida  e  ribella: 
s'io  miro  la  mia  ninfa,   ella  mi  mira; 
s'io  d'amor  parlo,  essa  d'amor  favella. 

S'io  rido  o  scherzo,  e  scherza  e  ride  anch' ella; 
piange  ai  miei  pianti,   ai  miei  sospir  sospira; 
s'io  lei  mia  gioia,  essa  suo  ben  m'appella; 
vuol  ciò  ch'io  vo',   ciò  ch'io  desio  desira. 

Ella  è  ver'  me  pietosa,  i'  ver'  lei  pio; 
de'  suoi  cenni  io  fo  legge,  ella  de'  miei; 
ella  a  me  cara  e  caro  a  lei  son  io. 

Ella  tutta  in  me  vive,   io  tutto  in  lei; 
io  spiro  col  suo  spirto,   ella  col  mio; 
e  s'a  lei  do  tre  baci,   ella  a  me  sei. 

XI 

LA  LODE  DEGLI  ALBERL  DEI  VENTI 
E  DELLE  ACQUE 

Ramillo,   Eurino  e  Idrino 

Ram.        Compagni  cari,   or  che  siam  qui  soletti, 

e  venti  ed  acque  e  piante  abbiam  presenti, 

cantiam  su,   lodiam  su,  con  tre  versetti, 

io  le  piante,   Idrin  l'acque.   Eurino  i  venti. 

Canti  Eurin,  segua  Idrin.  —  Eu.-Idr.  Si,  siam  contenti. 
Eu.     Sospir  voi  siete  onde  gli  antichi  affetti 

scopre  a  la  terra  il  ciel,   voi  siete  accenti 

d'innamorato  cor,   venti  diletti. 
Idr.         Lagrime  di  natura,   acque,   voi  siete, 

eh 'ad  Amor,   di  cui  visse  eterna  amante, 

a  palesare  il  bel  desio  correte. 
Ram.        Siete  figlie  del  Sol,   tenere  piante; 

le  fasce  da  l'aprii,   da  l'alba  avete 

il  latte,   e  i  vezzi  da  l'auretta  errante. 


G.    F.    MAIA    MATERDONA 
XII 

GIUOCO  DI  NEVE 

Cilla  di  bianco  umor  massa  gelata 
coglie  e  preme  e  ne  forma  un  globo  breve; 
n'arma  poscia  la  mano,  a  fredda  neve 
calda  neve  aggiungendo  ed  animata. 

Al  mio  sen  poi  l'avventa,   amante  amata; 
ma  se  fìnto  è  il  pugnar,  se  '1  danno  è  lieve, 
tragge  pur  da  que'  scherzi  offesa  greve 
l'alma,   a  provar  gli  antichi  assalti  usata. 

Porta  amico  sfidar  battaglia  vera, 
nascer  dal  riso  il  lagrimar  si  mira, 
fa  verace  impiagar  mentita  arcera; 

mirasi  il  duol  uscir  di  grembo  al  gioco, 
da  nuvoli  d'amor  saette  d'ira 
e  da  strali  di  giel  piaghe  di  foco. 


XIII 

LA  LEGATRICE   DI   LIBRI 

Costei  ch'altero  esempio  è  di  beliate, 
oh  con  che  leggiadria,   con  che  bell'arte 
troncar  le  fila,  adeguar  sa  le  carte 
ch'io  con  logiche  penne  avea  vergate! 

Poscia-;  di  greve  acciar  le  mani  armate, 
le  batte  e  le  ribatte  a  parte  a  parte, 
e  tra  pelli  sottil,  tratta  in  disparte, 
le  rende  in  mille  modi  incatenate'. 

Lasso,   e  questa  è  d'amor  frode  novella, 
inganno,   oimè,   che  in  atto  umile  e  pio 
scopre  il  fero  tenor  de  la  mia  stella. 

Tronca  il  filo,   ed  è  il  fil  del  viver  mio; 
martella  i  fogli,  ed  il  mio  cor  martella; 
legagli,   e  son  tra  lor  legato  anch'io. 


LIRICI    MARINISTI 
XIV 

AD  ISABELLA  CHIESA 
che  rappresentava  sul  teatro  una  regina 

Questi,   o  bella  istriona,   onde  tu  cingi 
fianco  e  crin,  regi  ammanti,  aurati  serti, 
mostrano  ai  guardi  alteri,  agli  atti  esperti, 
ch'esser  devi-esti  tal,   qual  ti  dipingi. 

Stringer  con  quella  mano,   onde  tu  stringi 
un  finto  scettro,   un  vero  scettro  merti; 
t'ammirano  i  teatri  e  stanno   incerti 
se  vanti  i  veri  regni  o  se  li  fingi. 

Sii  pur  finta  reina:   or  se  le  vere 
cangiasser  col  tuo  stato  i  regi  onori, 
quanto  gir  ne  porian  ricche  ed   altere  ! 

Ch'è  gloria  assai  maggior  d'alme  e  di  cori 
reggere  il  fi'en,  che  in  testa  e  'n  braccio  avere 
cerchio  e  verga  real  di  gemme  e  d'ori. 

XV 

LE  DONNE  DI  VENEZIA 

Voi  che  de  l'Adria  a  le  famose  sponde 
sovra  l'ali  de'  remi  il  volo  ergete, 
meraviglia  ben  fia  se  là  vedrete 
moli  eccelse  e  superbe  uscir  de  l'onde. 

Ma  se  candide  membra  e  trecce  +)ionde 
vedransi,  che  de'  cor  son  fiamma  e  rete, 

—  Maggior  beltà,   stupor  maggior  —  direte 

—  mai  non  si  vide  altrove,   e  forse  altronde.  — 
—  Qui  —  direte  —  è  d'ardor  più  che  d'umore 

ricca  ogni  riva,  e  fare  al  ciel  qui  piacque, 
più  che  Hbero  il  pie,  prigione  il  core.  — 

Direte  al  fine:  —  In  mar  Venere   nacque: 
Veneri  belle,   ond'oggi  nasce  Amore, 
nascono  a  mille  a  mille  entro  quest'acque.  — 


G.    F.    MAIA   MATERDONA  II3 

XVI 

IL  GIOCO  DEL  PALLONE 

Ignudo  il  petto  alabastrino  e  bello 
se  non  quanto  il  copriva  un  lino  adorno, 
per  temprar  con  bel  gioco  il  lungo  giorno 
formava  Ascanio  mio  nobil  duello. 

Battea  con  picciol  globo  i  sassi,   e  quello 
scacciava  al  salto,   e  s'a  lui  fea  ritorno, 
correa,  lo  dibattea,  lo  fea  d'intorno 
girar,  volar,  quasi  fugato  augello. 

Assai  più  che  la  palla,   il  cor  feriva; 
largo,  più  che  '1  sudor  dal  bel  sembiante, 
dagli  occhi  de  l'amanti  il  pianto  usciva. 

Premean,  più  che  '1  terren,  l'alma  le  piante, 
e  la  vampa  d'amor,   più  che  l'estiva, 
fean  cocente  provar  le  luci   sante. 

XVII 

LA  GIOSTRA 

Per  il  mantenitore  marchese    Pepoli 

Esce  d'armi  pomposo  e  folgorante 
d'un 'aperta  montagna  alto  guerriere, 
e  pender  fa  le  s  ettatrici  schiere 
da'  moti  de  la  destra  e  de  le  piante. 

Poi,   fatto   in   campo   a   l'aversario   avante, 
il  batte  e  scuote  con  cent'aste  altere, 
e,  queste  infrante,   invittamente  il  fere 
con  brando  lucidissimo  e  sonante. 

S'ordina  che  '1  valor  più  non  s'adopre 
e  confessa  ogn'eroe  ch'ivi  è  raccolto, 
che  attonito  è  rimasto  a  si  degn'opre. 

E  Io  stuol  de  le  dame  illustre   e  folto 
perché  vinto  anco  resti,   ecco  che  scopre 
il  campion  valoroso  il  suo  bel  volto. 

Lirici  ntarinisii  —  8 


114  LIRICI    MARINISTI 

XVIII 

A  MARIO  ALBRICCI  FARNESE 
Per  le  conclusioni  da  lui  sostenute 

In  pacifico  agon  Mario  contende 
con  chi  provar  ne  le  dott'armi  il  vuole; 
da  mille  colpi  arguti  ei  si  difende 
con  iscudo  fatai  d'alte  parole. 

Da  lui  nov'arti  e  novi  schermi  apprende 
il  fior  de'  fior  de  le  più  sagge  scole; 
discepola  già  fatta,  intenta  pende 
dal  discepolo  suo  l'Ignazia  prole. 

Stupisce  il  cerchio  universal  latino 
ch'ai  mostri  ingegno  intrepido  e  costante, 
in  si  tenera  età  si  pellegrino. 

Formar  poi  s'ode  un  suon  per  l'aria  errante: 
—  Senno  star  non  dovea  se  non  divino 
sotto  divino  angelico  sembiante.  — 

XIX 

I  SEPOLCRI   DEL  SANNAZARO  E  DI  VIRGILIO 

Non  perché  le  tue  falde  il  bel  Tirreno 
baci  con  labra  di  spumosi  argenti  ; 
non  perché  voli  ogn'or  ne'  Siri  ardenti 
freschissim'aura  a  vezzeggiarti  in  seno; 

non  perché   sempre  il   tuo  bel  colle   ameno 
smaltin  foglie  odorate,  erbe  ridenti; 
ne  le  future  età,  ne  le  presenti 
n'andrai,  ne  vai  di  pregi  ricca  a  pieno: 

ma  perché  '1  cener  sacro  il  gran  Sincero, 
Mergellina  gentile,  in  te  nasconde, 
l'ossa  in  te  chiude  il  mantuano  Omero. 

Anzi  l'inde,  oso  dir,  le  maure  sponde 
onor  non  han  di  quell'onor  pili  altero, 
di  cui  son  due  brev'urne  a  te  feconde. 


G.    F.    MAIA    MATERDONA  115 

XX 

LA  FONTANA  DI  PONTE  SISTO  IN   ROMA 

Vedi,  non  che  cader,  precipitare 
piogge  d'immensi  umor  quasi   d'un   cielo, 
che  ne  pungono  il  cor  di  dolce  telo, 
agli  orecchi  sonore,  agli  occhi    chiare. 

Liquida  è  l'onda  e  pur  gelata  appare, 
né  di  lassù  trabocca  altro  che  gelo; 
poi  se  ne  forma  un  curvo  e  crespo  velo,  y 

che  si  frange  in  sui  marmi  e  cangia  in  mare. 

Vedi  quel  mar  di  quante  spume  abonda; 
par  che  bolla  anco  il  giel,  fumi  e  faville 
par  che  surgano  ancor  da  gelid'onda. 

Vedi  come  concordi  anco  le  stille, 
a  l'armonia  di  quegli  umor  gioconda, 
ballano  a  cento  a  cento,  a  mille  a  mille. 


XXI 

LA  VERDEA  DI  FIRENZE 

Ai  labri  miei,   quando  più  gela  il   verno, 
l'alma  città,  cui  danno  il  nome  i  fiori, 
offre  un  sacro  licor  che  tra  i  licori 
serba  vanto  superbo  e  pregio  eterno. 

Nei  suoi  color  le  liquid'ambre   scerno, 
cedono  agli  odor  suoi  gli  arabi  odori, 
sembran  tasso  ed  assenzio  ai  suoi   sapori 
chiarello,   albano,   asprin,   greco  o   falerno. 

Ben   questa   esser   dovea   l'ambrosia   eletta 
che  '1  cor  di  Giove  e  de  gli  dèi  pascea, 
poi  ch'ella  tanto  inebriando  alletta; 

o  questa  del  piacer  la  «  vera  idea  » , 
d'Arno  o  la  «  vera  dea  »,  che  poi  fu  detta 
di  «  ver'  idea  »,  di  «  vera  dea  »,  «  verdea  ». 


Il6  LIRICI    MARINISTI 

XXII 

NELL'OSPEDALE  DEGL'INCURABILI  DI  NAPOLI 

Ahi  mondo,  ahi  senso!   or  ve'  qui  tanti  e  tanti 
in  tende  anguste,  ancorché  auguste,  accolti! 
Di  profana  beltà  fùr  tutti  amanti, 
tanto  or  tristi  e  meschin  quanto  pria  stolti. 

Per  picciol  riso  hann'or  continui  pianti, 
portan  l'inferno  ai  cor,   la  morte  ai  volti, 
vita  speranti  no,   vita  spiranti, 
morti  vivi  e  cadaveri  insepolti. 

Questi  è  in  preda  al  martir,   quegli  al  furore, 
un  suda,   un  gela,   un  stride,   un  grida,   un  freme, 
un  piange,  un  langue,  un  spasma,  un  cade,  un  more. 

Quinci  impara,   o  mortai:   dolce  è  l'errore, 
breve  è  '1  gioir;   ma  pene  amare  estreme 
dà  spesso  al  corpo,   eterne  sempre  al  core. 


XXIII 

NEL  PETTINARSI 

La  bella  Elisa  arava 
con  terso  eburneo  vomere  dentato 
campi  d'oro  animato. 
L'era  un  garzone  a  canto, 
che  i  rotti  stami  ad  uno  ad  un  cogliea 
e  in  sen  gli  nascondea. 
Rise  ella  e  disse:  —  Inutili  capegli 
a  che  tu  serbi?  —  Ed  egli: 
—  Quinci  ordisco  le  corde  a  l'arco  mio, 
quinci  le  reti    ond'  io 
impiago  l'alme  ed  imprigiono  il  core. 
Sappi  ch'io  sono  Amore.  — 


G.    F.    MAIA    MATERDONA  II? 

XXIV 

I  BACI  DELLA  DONNA  MUTA 

Quand'io  ti  bacio,   allora, 
muta  bocca  amorosa, 
muta  bocca  odorosa, 
intendo  la  cagion  perché  tu  taci  : 
nascesti  solo  a  mormorar  co'  baci. 


ANTONIO  BRUNI 


I 

IL  LUOGO  DEI  PASSATI  AMORI 

Sotto  l'ombra  di  quelle  edre  tenaci 
che  l'olmo  han  con  più  viti  avvolto  e   cinto, 
la  mia  vita  al  mio  cor  temprò  le  faci, 
con  lei  seno  con  sen  qual  edra  avvinto. 

Di  due  guance  godei  l'ostro  non  finto, 
qui  dove  aprono  i  fior  gli  ostri  veraci; 
s'udi  confuso  almeno,   ov'or  distinto 
è  '1  suon  de  l'aure,  il  mormorio  de'  baci. 

Rimembro  ancor  con  amorosa  arsura 
il  guardo  e  '1  riso  altrui,  molle  e  lascivo, 
nel  tremolo  seren  de  l'aria  pura. 

Lasso,  e  mentre  son  io  vedovo  e  privo 
de  le  gioie  d'amore,  al  cor  figura 
il  fugace  mio  ben  fugace  il  rivo. 


ANTONIO    BRUNI  II9 

II 

GLI  OCCHI  AZZURRI 

—  Qualor  de'  tuoi  begli  occhi  il  bello  io  guardo, 
cui  d'azzurro  color  fregiò  natura, 

s'è  ceruleo  l'arciero,  aureo  è  '1  suo  dardo, 
che  dà  le  piaghe  al  seno,   al  cor  l'arsura. 

Fra  quello  azzurro,   il  lascivir  d'un   guardo 
rassembra  il  Sol  ne  l'onda  azzurra  e   pura; 
del  pianto  i  mari  ove  sommerso  io  ardo, 
quel  ceruleo  ondeggiar  finge  e  figura.  — 

Cosi  parlo  al  mio  ben;   quando  i  ridenti 
lumi  rivolge  a  me,   spargendo  ardore, 
de  la  rosa  la  dea  con  questi  accenti: 

—  Sotto  due  archi  ove  trionfa  il  core, 

del  ceruleo  onde  scorno   han  gli  ostri  ardenti 
fahsi  il  manto  le  Grazie,   il  velo  Amore.  — 


III 
IL  NEO  SUL  LABBRO 

Giugne   fregio   a   la   bocca   e   fiamme   ai   cori, 
donna,   il  tuo  vago  neo,   per  cui   pomposo 
va  '1  tuo  molle  rubin  che  i  primi  onori 
toglie  al  rubin  più  ricco  e  prezioso. 

Con  si  bel  neo,   cred'io,   voller  gli  Amori, 
come  in  Menfi  solca  fabro  ingegnoso, 
segnar  nel  tuo  bel  volto  i  propri   ardori, 
qual  con  strano  carattere  amoroso. 

O,  presa  Amor  la  bella  Psiche  a  sdegno, 
te  bacia  e  '1  bacio  suo,   ch'altrui  si  vieta, 
lascia  l'orma  in  quel  neo,   del  core  in  pegno. 

Quinci  quest'alma  andrà  festante  e  lieta, 
s'ei,  qual  nel  labro  tuo  d'Amore  è  segno, 
de'  miei  labri  cosi  sia  segno  e  mèta. 


LIRICI    MARINISTI 
IV 

IL  VENTAGLIO 

D'ambizioso  augel  piume  gemmate 
bella  donna  d'amor  distinse  e  prese, 
e  per  trarne  aria  fresca,  aure  gelate, 
n'ordio  leggiadro  ed  ingegnoso  arnese. 

Lasso,  e  quinci  tem'io  che  innamorate, 
mentre  cercan  temprar  le  fiamme  accese 
ne  l'aria,   intorno  a  le  bellezze  amate 
apran  più  luci  a  vagheggiarla  intese. 

O  con  piuma  leggiera,   aura  volante, 
mostra  vario  desio,  volubil  core, 
più  che  vento  leggier,  piuma  inconstante; 

o  con   esse  a  me   spiega,  empia  in   amore, 
ch'odia  si  dentro  il  seno  incendio  amante, 
che  l'abborre,   non  ch'altro,  anco  di  fuore. 


V 
LA  LODATRICE  DI  POESIE 

Ond'è  che  i  versi  miei  leggi  ed  ammiri 
qualora  il  foco  mio  vi  leggi  impresso, 
ed  ingrata  che  sei,   poscia  t'adiri, 
s'a  le  tue  labra  le  mie  labra  appresso? 

È  ministro  d'amore  il  bacio  istesso, 
quinci  degno  è  d'amor,   se  dritto  miri; 
e  darti  un  bacio  a  me  non  fia  concesso, 
di  cui  lodi  le  rime,   il  cor  martiri? 

Lasso,    e   se   tanto   io   non   impetro   in   loro 
e  nel  Parnaso  mio  ch'almen  ti  baci, 
maledetto  quel  di  che  fui  canoro! 

Stimo  assai  più  de'  labri  tuoi  vivaci 
cortese  un  fiato  sol,   che  '1  proprio  alloro, 
o  che  tu  sdegni  i  versi  ed  ami  i  baci. 


ANTONIO    BRUNI 
VI 

A  UNA  POETESSA 

Oh  qual  radoppia  in  te  gemini  onori, 
nobil  donna,  fra  noi  pompa  novella, 
o  se  ti  mostri  altrui  leggiadra  e  bella 
o  se  spieghi  talor  carmi  canori  ! 

Sotto  l'ombra  or  de'  mirti  or  degli  allori, 
fai  col  volto  e  co'  versi  ogn'alma  ancella; 
si  che  dea  degli  Amori  Amor  t'appella 
e  del  canto  le  dee  col  canto  onori. 

Tu,   di  par  chiara  in  Cipro  e  in  Elicona, 
ardi  i  cor,   verghi  i  fogli  e  in  ogni  parte 
con  doppia  gloria  il  nome  tuo  risona. 

Ma  più  ricco  è  '1  tuo  crin  cólto  senz'arte 
che  di  sacra  ravvolto  aurea  corona: 
parlan  gli  occhi  d'amor  più  che  le  carte. 


VII 

LA  DAMA  FRANCESE  IN   ROMA 

Già  da  la  Senna  al  Tebro,   ove  t' invita 
gloria  d'amor  più  che  gli  altrui  stupori, 
passi  e  a  l'orgoglio  hai  la  bellezza  unita, 
tra  le  Grazie  famosa  e  tra  gli  Amori. 

Cosi  ciascuno  in   te,   fra  gli  ostri  e   gli  ori, 
l'ostro  del  volto  e  l'or  del  crine  addita, 
né  ti  vagheggia  mai  che  non  t'adori 
e  non  t'adora  sol  chi  non  ha  vita. 

Di  là  de  l'Alpi  incatenata  e  doma 
la  Gallia,  a  incatenar  giunta  qui  sei 
eserciti  di  cor  con  una  chioma. 

E  ben  chi  vince  altrui  vincer  tu  dèi, 
e  stimerà  di  trionfar  pur  Roma, 
mentre,  donna,  trionfi   in  lei  di  lei. 


LIRICI    MARINISTI 
VITI 

A  DIPORTO   PER  LA  RIVIERA  DI  POSILIPO 

In  questo  lido,  ove  tra  bei  cristalli 
gli  smeraldi  ogni  pianta  ognor  confonde 
e  va  Flora  con  Teti,   e  i  tralci  a  l'onde 
e  i  corimbi  nel  mar  mesce  ai  coralli; 

per  li  tranquilli  e  sempre  ondosi  calli 
passi  al  lieve  spirar  d'aure  seconde, 
là  've  sotto  il  bel  pie  d'oro  le  sponde 
fansi,   se  movi  i  leggiadretti  balli; 

e  stillando,  qualora  il  ciel  s'accende, 
sudori  a  l'ombra  preziosi  e  cari, 
mentre  perle  gli  dai,  perle  ti  rende; 

ma  se  dagli  occhi  tuoi  stellanti  e  chiari, 
lasso,  il  seren  de  l'aere  il  lito  apprende, 
tu  dai  suoi  scogli  ad  esser  cruda  impari. 


IX 

LA  FAVOLA  DI  EUROPA 

Rapita  Europa,   il  nuotator  cornuto 
che  passeggia  le  sfere  intorno  intorno 
col  diadema  real  di  gemme  adorno 
e  di  fiammelle  lucide  intessuto, 

fra  divino  e  ferin,  loquace  e  muto, 
si  parla  a  lei  ch'altrui  fa  ingiuria  e  scorno: 
—  Non  temer,   dea  terrena;   attienti  al  corno 
che  spuntar  vedi  in  me,   duro  ed  acuto. 

Già  presso  è  il  lido  ove,  sott'altro  velo, 
lieta  e  fastosa  or  or  veder  tu  puoi 
l'alta  divinità  ch'ora  ti  celo. 

Stella  non  splenda,  aura  non  spiri  a  noi, 
o  sia  l'aura  il  tuo  fiato  ond'arde  il  cielo, 
o  pur  sian  tramontana  i  lumi  tuoi.  — 


ANTONIO    BRUNI  123 

X 

LE  BELLE  CHIOME 

Di  spiegar  vostri  vanti 
già  m'acquista  vigor,  grazia  m'impetra 
da  le  muse  mia  cetra 
fra  i  cigni  e  fra  gli  amanti. 
Quinci  a  voi  giro  il  cor,  volgo  lo  stile, 
preziosi  legami, 
nembi  d'oro  sottile, 
auree  nubi,  aurei  stami. 
Ai  vostri  merti  il  metro  avrà  concorde, 
se  de  le  vostre  fila  avrà  le  corde. 

Voi,   luminose  e  pure, 
sol  fate   ai   lumi  altrui   ben  ricchi   oltraggi; 
sol  presso  ai  vostri  raggi 
l'alba  ha  le  chiome  oscure; 
voi,  ondeggiando  in  preziosi  errori 
su  le  guance  fiorite, 
al  naufragio  de'  cori, 

o  belle  chiome,   aprite, 

con  tremolo  sereno,   aria  celeste, 

su  '1   vaneggiar   de   l'aure   auree   tempeste. 
Sciolte  in  anella  d'oro, 

di  voi  caro  è  l'error,  grazia  il  disprezzo; 

in  voi  l'industria  è  vezzo 

ed  è  '1  vezzo  decoro. 

Non  so  dir  se  con  gioia  o  se  con  onte 

de  l'alme  innamorate 

sul  collo  e  su  la  fronte 

voi  scherzando  baciate 

talor  candido  avorio  e  nevi  intatte, 

animato  alabastro  e  vivo  latte. 
Nove  anella  talora 

pur  forma  in  voi  dal  lucido  oriente 

aura  lieve  e  ridente, 


124  LIRICI    MARINISTI 

ministra  de  l'aurora; 

si  che  mentre  ondeggiate  ai  soli  estivi 

con  lei,  che  lussureggia 

con  errori  lascivi, 

non  sa  chi  voi  vagheggia, 

del  servaggio  d'amor  fatti  trofei, 

se  son  vostri  gli  errori  o  pur  di  lei. 

Ma  qual  maestra  mano, 
di  qual  ricca  materia  ignota  a  noi 
le  fila  ordisce  a  voi, 
con  lavoro  sovrano? 
Forse  de'  velli  d'or  per  cui  ne  gio 
cosi  Giason  famoso, 
a  voi  le  fila  ordio 
ingegnerò  ingegnoso? 
o  per  ordire  a  voi  fila  si  belle 
filano  il  Sol  la  luce,  i  rai  le  stelle? 

Se  tronche  vi  rimiro, 
di  farne  corde  a  l'arco  Amor  la  palma 
porta,   o  lacciuoli  a  l'alma 
che  legata  sospiro  ; 
o  pure  a'  rai  de  l'amorosa  face, 
tratte  su  l'alte  sfere 
in  un  groppo  tenace 
da  l'acidalie  schiere, 
vi  trasforma  possente  il  dio  di  Delo 
di  crin  reciso  in  terra  in  stelle  in  cielo. 

S'in  lavacro  d'argento, 
entro   i   cui   flutti   Amor   le    piume   asperse, 
io  vi  contemplo  immerse, 
a  contemplarvi  intento 
gode  l'alma  di  voi  l'aureo  riflesso 
per  l'argentato  umore; 
anzi  l'umore  istesso 
solo  al  vostro  splendore 
che  fa  l'aure  più  fosche  anco  serene, 
se  d'argento  già  fu,  d'oro  diviene. 


ANTONIO    BRUNI  I25 

XI 

I  BACI 


Soavissimi  baci, 
che   son   nettare   ai   labri   e    manna   ai   cori, 
già  mi  desti,   o  Licori. 
Quinci  un  bacio  vorrei 
rapir  co'  labri  miei, 
per  dir  se  sian  più  dolci  e  più  graditi 
i  donati  o  i  rapiti. 


Bacia,  baciami,  o  Glori, 
ma  '1  tuo  bacio  si  scocchi 
o  nel  labro  o  negli  occhi; 
perché  l'anima  mia, 

che  negli  occhi  e  nel  labro  ognor  desia 
e  baciarti  e  mirarti 
o  mirarti  o  baciarti, 
goda  pari  dolcezza,   amante  amata, 
o  mirata  o  baciata. 


Perché,   mentre  mi  baci, 
donna,   mi  mordi  e  vuoi 
ch'io  provi  dolci  i  baci  e  i   morsi  tuoi? 
Aggiungi  i  morsi  ai  baci, 

perché    nel   labro   impresso    il    bacio    io    miri? 
Si,   si,   con  labri  accesi  e  denti  ingordi 
bacia,   baciami  pur,   mordimi,   mordi, 
perché  dolcezza  egual  l'anima  sente, 
se  talor  morde  il  labro  e  bacia  il  dente. 


126  LIRICI    MARINISTI 

XII 

IL  RAPIMENTO  D' ELENA 

DI    GUIDO    RENI 
E 

LA   BIDONE  TRAFITTA 

DEL  QUERCINO 
Al  cardinale  Spada 

Stupor  de  la  natura,  onor  de  l'arte, 
tua  mercé  pur  rimiro  in  tela  espressi 
i  pregi  altrui  ch'idolatrando  io  lessi 
in  argolico  stil,  latine  carte. 

Ecco  il  lino  animato  agli  occhi  esprime 
l'ideo  pastor,  de  la  beltà  l'idea, 
eh' è  frigia  meraviglia  e  pompa  achea, 
de  l'italico  Apelle  opra  sublime. 

La  bella  greca  al  giovine  troiano 
già  fu  rapina  a'  suoi  desir  gradita, 
e  disciolse  la  vergine  rapita 
i  gridi  al  ciel,   le  trecce  a  l'aura  invano. 

Già  di  tanto  tesor  vedove  e  prive, 
per  insolita  via  correndo  al  Xanto, 
più  che  d'umor  vedeansi  ebre  di  pianto 
d' Inaco  l'onde  e  d'Acheloo  le  rive. 

E  già,  tosto  ch'aperse  i  primi  albori 
a  l'Asia,  del  bellissimo  sembiante, 
adultera  in  amor,  lasciva  amante, 
arse  a  Scamandro  i  flutti,  ad  Ida  i  fiori. 

Ma  pur  oggi,   nel  lino,   al  patrio  lito 
Pari,  ch'altri  non  ha  pari  nel  viso, 
pur  lei  rapisce,   onde  ne  resta  anciso 
e  ne  la  sua  rapina  anco  rapito. 

Ben  veggio  in  lui,  se  lui  contemplo  e  guardo 
vagheggiator  del  vagheggiato  volto, 
col  vezzo  in  bocca  a  lascivir  rivolto, 
il  lusso  del  color,  ma  più  del  guardo. 


ANTONIO    BRUNI  127 

Ritratti,  ancor  miracoloso  amore 
gli  arde  fra  l'ombre  e  '1  foco  lor  non  cela, 
e  se  da  lor  non  miro  arsa  la  tela, 
è  di  pennel  miracolo  maggiore. 

Tremanti  si,   ma  nel  mirar  non  lassi, 
volgono  gli  occhi  a  l'amorose  prove; 
ma  per  molle  sentiero  impenna  e  move 
il  volo  il  cor,  più  che  la  pianta  i  passi. 

De  la  coppia  d'amor  ebra  e  seguace 
è  precursore  Amor;  ma  stella  e  guida 
è  di  lei  la  beltà  cupida  e  fida, 
vie  più  che  di  Cupidine  la  face. 

Ma  come  avvenir  può  ch'ella  s'avvezzi 
nel  tuo  albergo,   ov'Apollo  ha  '1  simulacro, 
a  trattar  si  profana  in  loco  sacro 
varie  lascivie,  e  la  lascivia  i  vezzi? 

Se  di  greca  eloquenza  amico  fonte 
ne  l'eccelsa  magion  lor  corre  avanti, 
come  da  Grecia  i  fuggitivi  amanti 
ne  l'eccelsa  magion  volgon  la  fronte? 

Qui,  di  cura  real  gravido  il  seno, 
spieghi  i  pregi  de  l'ostro  e  de  la  penna, 
famosissimo  al  par,   s'unqua  a  la  Senna 
giugni  dal  Tebro  o  se  dal  Tebro  al  Reno. 

Non  intrecci  di  mirti  altri  le  chiome 
qui,   dove  a  te  l'intreccia   o   lauro   o   palma; 
non  sia  ratto  d'amor  dov'hai  la  palma 
di  rapire  a  l'oblio  famoso  il  nome. 

Da  la  sacra  magion,  dunque,  sen  vada 
lungi  la  coppia  effeminata  e  molle. 
Miri  ch'incontra  a  lei  la  punta  estolle 
già  di  Febo  lo  strai,  d'Astrea  la  spada. 

Ma  quale  agli  occhi  miei  s'offre  novella 
opra  d'amore?  a  qual  di  morte  acerba 
apparato  d'orror,  scena  superba 
or  guida  i  guardi  miei  tragica  stella? 


128  LIRICI    MARINISTI 

Veggio  pur  io  l'innamorata  Elisa 
al  suo  spirto  che  fugge  aprir  la  via, 
onde  scerner  non  so  s'ella  più  sia 
arsa  nel  rogo  o  più  nel  sangue  intrisa; 

e  seco  miro  anch'io  pietosa  cura 
mostrar  su  lei  l'addolorata  suora 
che  sospira  e  che  piagne,   ond' avvalora 
col  pianto  il  foco  e  co'  sospir  l'arsura. 

Sembra   vivo   il   color,    se  '1   miro   intento; 
e  ben  opra  è  di  lui  ch'illustre  e  chiaro 
de  la  canora  dea  discioglie  al  paro 
inver'  la  gloria  e  cento  penne  e  cento. 

Né  dev'ella  mostrar  nel  regio  tetto 
su  '1  rogo  in  pria  d'amore,   indi  di  morte, 
de  la  vita  le  fila  o  tronche  o  corte, 
incenerita  il  cor,   svenata  il  petto. 

Sol  ne  la  reggia  tua  nutre  e  conserva 
il  ciel,  tra  varie  imagini  ingegnose, 
o  magnanimo  eroe  d'opre  famose, 
la  clemenza  e  '1  valor,   Febo  e  Minerva. 

Ah,   ben  leggo  il  magnanimo  pensiero! 
De  la  gemina  imagine  discerno 
non  vulgare  il  concetto,   il  senso  interno, 
e  certo,   invariabile,   il  mistero. 

Vuoi  che  guardo  modesto,   alma  pudica, 
argomenti  infallibili  n'apprenda, 
se  fia  che  a  contemplar  sui  lini  intenda 
l'afflitta  Dido  e  la  rapina  antica. 

Chi  di  teneri  mirti  avvolge  il  crine 
fugga  i  furti  d'amor,   saggio  ed  accorto; 
a  chi  da  due  begli  occhi  in  terra  è  scorto, 
s'è  principio  l'amore,   il  rogo  è  fine. 

Se  '1  frigio  involator,   d'amor  campione, 
l'adorata  bellezza  ha  sempre  appresso 
volge,   rivolto  in  cenere  se  stesso, 
in  fiamme  l'Asia,  in  cenere  Ilione. 


ANTONIO    BRUNI  I29 

S'al  troian  peregrin  l'anima  inchina, 
da  lo  strale  d'amor  ferita  e  vinta; 
giace  da  l'armi  de  la  morte  estinta 
di  Cartago  la  nobile  reina. 

Par  che   '1  saggio  pittor  fregi  ed  allumi 
con  l'ombre  de'  colori  e  de'  pennelli 
quei  de'  furti  d'amor  pregi  novelli 
vie  più  che  col  disegno  e  che  co'  lumi. 

Fuma  l'accesa  e   'nsanguinata  pira 
ov 'omicida  e  vittima  è  pur  Dido; 
e   '1  caro  amante  e  fuggitivo  infido 
con  gli  aliti  di  morte  anco  sospira. 

Quinci  cortese  il  ciel  questo  n'adombra 
veracissimo  senso  agli  occhi  miei: 
«  Fuggi  lascivo  amor,   se  saggio  sei  : 
la  gioia  è  un  fumo  ed  è  '1  diletto  un'ombra  ». 


XIII 


PER  LA  RELIQUIA  DEL  LATTE  DELLA  VERGINE 


Sacratissimo  latte 
a  cui  sono  purissime  ed  eterne 
fonti  due  mamme  intatte, 
virginali,   materne, 

che  l'offriscono  a  lui,   ch'in  rozze  fasce 
sazio  è   di  gloria   e   pur  la  gloria   il   pasce  ; 

fosti  già  sangue  eletto 
de  le  vergini  membra  unqua  non  grevi 
di  terreno  difetto, 
e  de  le  bianche  nevi 
a  le  porpore  tue  diede  il  candore, 
più  ch'ardor  di  natura,  ardor  d'amore. 

Lirici  marinisti  —  9 


130  LIRICI    MARINISTI 

Mentre  il  petto  stillante 
te,  vie  più  che  mortai,   licor  divino, 
pascea  Cristo  lattante 
stretto  in  povero  lino; 
chi  sa  che  non  spargesse  i  pregi  tui 
e  che  allor  non  toccassi  i  labri  a  lui! 

O  forse  allor  Maria 
con  prodigio  d'amor  dal  sen  ti  sparse, 
mentre  il  figlio  languia 
e  sitibondo  apparse, 
perché  bevesse  umor  di  latte  almeno, 
non  l'offerto  amarissimo  veleno! 

Tu  degno  sol,   tu  degno 
che  '1  cielo  istesso  i  tuoi  candori  imiti 
là  de  l'empireo  regno 
sui  talami  fioriti, 

e  che  presti  sol  tu,   mentre  s'inalba, 
la  candidezza  al  cielo,  il  latte  a  l'alba; 

degno  tu  che,   novello 
fiume,  sii  specchio  a  le  beate  menti, 
poiché  il  latteo  ruscello 
ch'ha  le  sponde  lucenti, 
benché  scorra  sul  ciel  stellato  chiostro, 
presso    a   te    sembra    d'ebeno   e    d'inchiostro. 

Anzi,   perché  tu  sei 
de  la  diva  degli  angeli  fattura 
e  col  dio  degli  dèi 
sue  viscere  e  sua  cura, 
dimostra  alma  trafitta  e  fioca  voce 
ella  a  pie  de  la  croce  ed  egli  in  croce; 

là  sui  poggi  stellanti, 
con  nov' ordine  d'astri  e  sito  estrano, 
guardo  di  lumi  amanti, 
perché  fregio  sovrano 
tu  giunga  a  inestinguibili  zaffiri, 
tra  la  Croce  e  la  Vergine  ti  miri. 


ANTONIO    BRUNI  I3I 

Quivi,   qualora  il  sole 
con  diadema  di  gemme  e  aurei  lampi 
de  la  celeste  mole 
scorre  i  prefissi  campi, 
riverente,  adorando  i  tuoi  candori, 
ceda    a    le    stille    tue    le    stelle    e    gli   ori. 


XIV 

SOFONISBA  A  MASSINISSA 

Mentre  gli  occhi  a  le  lagrime  discioglio, 
scriva  la  man  col  sangue,  e  quel  rossore 
che  manca  al  tuo  sembiante  abbia  il  mio  foglio. 

Sdegno  spiri  il  pensier  vie  più  che   amore, 
e  la  mia  fé  schernita  altrui  dimostri 
svenato  il  braccio  e  lacerato  il  core. 

In  questi  amari  miei  vermigli  inchiostri, 
s'altri  gli  guarda  mai,  spero  ch'almeno 
si  tinga  di  pietà,  se  non  s' inostri. 

Si  dunque,   o  Massinissa,   il  bel  sereno 
de  l'amor  che  la  destra  e  '1  cor  mi  giura, 
qual  baleno  svanisce  in  un  baleno? 

Qua!  rigido  destin,  qual  ria  sventura 
miete  in  erba  i  miei  fasti,  anzi  la  vita? 
chi  su  l'alba  il  mio  di  smorza  ed  oscura? 

Misera  Sofonisba  !  oimè,  tradita 
l'hai  tu,  crudel,  con  ferità  latina, 
pria  da  te  vinta  e  poi  d'amor  ferita. 

De  la  nobil  Numidia  alta  reina 
e  del  regno  d'Amor  trionfo  altera, 
il  mio  volto,   il  mio  scettro  ogn'alma  inchina. 

Gemina  maestà  placida  impera 
ne  la  mia  fama,  oltre  l'Idaspe  e  '1  Moro, 
a  qual  gente  è  più  barbara  e  più  fiera. 


132  LIRICI    MARINISTI 

Più  che  di  gemme  orientai  tesoro, 
m'orna  aspetto  reale;  ho  su  la  fronte 
corona  di  beltà  vie  più  che  d'oro. 

E   '1  romano  campion  passa  ogni  monte, 
varca  ogni  fiume  e  '1  mio  reame  assale 
e  desta  a  mie  bellezze  oltraggi  ed  onte; 

mentre  tu,   seco  unito  al  mio  gran  male, 
vinci  invitto  il  mio  regno  e  m'incateni, 
a  me  negli  anni  ed  in  bellezza  eguale. 

AUor,   preso  d'amor,   che  teco  io  meni 
in  nodo  maritai  le  notti  e  i  giorni 
brami,   e  le  nebbie  mie  squarci  e  sereni. 

Quinci,   lassa  (oh  mie  gravi  ingiurie  e  scorni, 
oh  servili  e  durissimi  legami 
di  cui  vien  che  me  stessa  onori  ed  orni!) 

fia  ch'amante  io  ti  segua  e  sposo  io  t'ami, 
mentre  leghi  il  mio  sposo,   il  gran  Siface, 
e  sconfitta  mi  vói,   vinta  mi  brami. 

E  là  dove  il  mio  trono  a  terra  giace, 
l'alma  al  tuo  amor  sollevo  e,   ft-a  gli  ardori 
di  Bellona,   d'Amor  tratto  la  face; 

e  poss'io  tra  le  morti  e  tra  i  furori, 
con  disprezzata  man,   fredda  qual  ghiaccio, 
destar  le  Grazie  e  suscitar  gli  Amori  ; 

anzi,   mentre  i  miei  fidi  in  stranio  laccio 
languiscon  di  dolor,   d'amor  poss'io 
languirti  in  seno  e  tramortirti  in  braccio  ! 

Ma  che  troppo  il  tuo  volto  è  vago  e  pio; 
più  che   '1  valor,   la  tua  beltà  guerreggia 
e  vince  i  miei  guerrieri  e  più   '1  cor  mio. 

Miro  e  piango  i  miei  fasti  e  la  mia  reggia 
e,   di  pianto  amoroso  ancor  stillante, 
la  tua  grazia  in  amor  l'occhio  vagheggia. 

Erro,    ma   non   ho   schermo,    egra   e   tremante; 
donna  tenera  e  molle  or  che  far  deve 
già  preda  e  serva  a  vincitor  amante? 


ANTONIO    BRUNI  133 

Erro,  e  in  amore  il  mio  contrasto  è  breve; 
ma  pur  pietà  non  che  perdono  io  merto, 
che  se   '1  fallo  è  d'amore,   il  fallo  è  lieve. 

Cosi,  vinto  il  mio  regno  e   '1  core  aperto, 
trionfando  ne  vai  di  me,   de'  miei, 
o  di  Marte,   o  d'Amor  guerriero  esperto; 

e  fra  soavi  lagrime  ed  omei 
passi  (oh  vergogne  mie!)  dal  campo  al  letto, 
via  più  fabro  d'amor  che  di  trofei. 

Quivi  il  bel  fianco  ignudo,   ignudo  il  petto 
t'offro;   ne'  lacci  tuoi  forti  e  tenaci 
godon  l'anima  avvinta,  il  sen  ristretto; 

e  quivi  or  fra  le  risse  or  fra  le  paci, 
giungi  a  molli  sospir  dolce  lusinga, 
a  le  lusinghe  i  vezzi,   ai  vezzi  i  baci. 

Sai    ben,    la 've    a    la    pugna    Amor    s'accinga, 
come  labro  con  labro  in  un  s'accoppi, 
come  core  con  core  in  un  si  stringa; 

anzi,   mentre  al  desio  l'ardor  raddoppi, 
doppian  per  te,   solo  a'  diletti  inteso, 
le  catene  le  braccia  e  l'alma  i  groppi. 

S' è  di  mia  pudicizia  il  pregio  offeso, 
in  me  provo  il  rossor,   dal  labro  impuro 
di  lascivia  assai  più  che  d'ostro  acceso. 

E  poi  (ben  di  mia  stella  orrido  e  scuro 
tenor!)  fra  tenerissime  dolcezze 
mostri  il  cor  di  diamante  assai  più  duro. 

Empio  e  crudo  che  sei,   di  mie  bellezze 
sazio,   or  torci  da  me  le  luci  amate, 
che  furo  in  prima  a  vagheggiarmi  avvezze. 

E  le  leggi  d'amor  rotte  e  sprezzate, 
se  de  l'armi  il  furor  l'alma  non  pavé, 
mi  dai  colme  di  fel  coppe  gemmate; 

mentr'  è  ancor  la  tua  bocca  umida  e  grave 
de'  miei  baci,   il  veleno  a  me  presenti 
in  difetto  del  nettare  soave. 


134  LIRICI    MARINISTI 

Dunque,  in  ora  si  breve  in  te  fian  spenti 
tutti  i  sensi  d'amore?  in  te  s'annida, 
in  te  spirito  uman,   dunque,   pur  senti? 

Dunque,    fia   eh 'a  te   il   Sol   splenda   ed    arrida, 
s'ei,   che  su  l'alba  già  sposo  ti  vide, 
ti  vede  anco  su  l'alba  empio  omicida? 

Perché  il  cor  con  la  man,   con  voglie  infide, 
se  promette  la  fé,   la  fé  schernisce, 
se  mi  giura  l'amor,   l'amor  deride? 

Ben  più  che  l'alma,  in  te  l'amor  languisce; 
brina  in  neve  si  tosto  o  neve  in  spuma 
come  la  fiamma  tua  già  non  svanisce. 

Dura  più  nebbia  a  sole  e  fiore  a  bruma; 
già  più  di  te  volubile  e  leggiero 
non  ha  volo  l'augel,  augel  la  piuma. 

Quindi,  tanto  infedel  quanto  guerriero 
(amante  io  non  dirò,   s'amor  gentile 
sprezzi,  vie  più  che  uman,  spietato  e  fero), 

porgi  in  vece  d'anello  e  di  monile 
ai  solenni  imenei  lacci  e  catene, 
con  servaggio  si  barbaro  e  si  vile; 

e  '1  tesoro  che  in  don  da  te  mi  viene, 
è  vascello  che  tòsco  a  me  sol  porta 
e  col  dono  primier  l'ultime  pene. 

Deh,  non  tronchi  mia  vita,  a  pena  attorta, 
altro  che  '1  ferro  tuo;  so  che  mi  vuoi 
al  tuo  trionfo  e  catenata  e  morta. 

Ben  riede  il  fato  in  me  degli  avi  eroi, 
del  forte  genitor,   del  gran  campione, 
d'Asdrubale,  ch'illustre  è  si  fra  noi; 

di  lui  che  coltivò  l'armi  e  l'agone 
col  sudore  e  col  sangue,   e  talor,  doma 
l'oste,   intrecciossi  al  crine  auree  corone; 

di  lui,   che  in  un  d'allòr  cinse  la  chioma, 
e  con  lume  d'onor  che  non  s'imbruna, 
fé'  superbe  cozzar  Cartago  e  Roma. 


ANTONIO    BRUNI  I35 

Ma  giace  vinto  al  fin  ;   ned  altri  aduna 
l'ossa  famose  e   '1  glorioso  busto, 
com'io  d'amor  trastullo,   ei  di  fortuna; 

proviam   ambi   il   destino   e   '1   cielo   ingiusto, 
fatto  già  spettator  de'  nostri  scherni 
orgoglioso  il  Metauro,  il  Tebro  augusto. 

Lassa,   ma  pria  che  in  me  rigido  verni 
di  morte  il  gelo,  io  spegnerò  l'indegno 
foco  e  del  foco  i  sensi  e  i  moti  interni. 

Si,  si,  perdasi  amor,  se  persi  il  regno; 
m'abbian  morte  ed  amor  tra  le  lor  prede; 
siasi,  tradito  amor,   giusto  lo  sdegno. 

Ben  cieco  è  chi  tue  frodi  oggi  non  vede: 
ecco  priva  d'amor,  d'amante,  io  giaccio; 
ecco  rompo  l'amor,   qua!  tu  la  fede. 

Già  fui  tutta  di  foco,  or  son  di  ghiaccio, 
serva  no,   ma  nemica;   a'  tuoi  trionfi 
mi  vedrai  morta,  pria  che  serva  al  laccio. 

Invano,  invan  di  mia  beltà  trionfi, 
di  Numidia  e  d'amor  barbaro  infido; 
invano,   invan  del  tuo  valor  ti  gonfi. 

Cerca  ornai  che  del  Tebro  al  patrio   lido, 
de  le  tue  glorie  illustri  e  pellegrine, 
pria   che   tu   quivi   aggiunga,    aggiunga   il    grido; 

che  già  le  vaghe  vergini  latine 
mostran,   perché   '1  lor  bello  ami  ed  ammiri, 
latteo  sen,   rosea  guancia,   aurato  crine; 

già  già  nel  grembo  tuo  le  abbracci  e  miri  : 
vie  più  dolci  de'  miei  so  che  saranno 
misti  i  lor  baci  a  languidi  sospiri. 

Ma  so  pur  ch'amarissime  godranno 
le  dolcezze  d'amor:   fian  mie  rivali 
si  nel  provar  l'amor  come  l'inganno; 

non  mancheran  già  loro  urne  regali, 
dove  ondeggi  il  velen  ch'immerga  e  chiuda 
in  caligine  eterna  i  di  vitali. 


136  LIRICI    MARINISTI 

Certo  è  pietà  far  che  vulgare  e  cruda 
man  col  laccio  o  col  ferro  in  me  non  privi 
del  suo  corporeo  vel  l'anima  ignuda! 

Regio  e  degno  pensier  ch'altri  rav\'ivi 
con  lode  ognor,  rubarmi  il  regno  e  il  trono, 
tormi  la  fama  e  me  ritorre  ai  vivi  ! 

E  si  vii,   si  schernita  ancor  ragiono? 
vivo  ancor,  spiro  ancor?  L'uomo  si  pio 
pur  la  vita  m'invola,  e  viva  io  sono? 

Moro,   ma  pria  vuo'  spento  il  fuoco  mio; 
il  velen  beverò,  pur  che  ne'  miei 
scorni  beva  ogni  età  l'acque  d'oblio. 

A  l'incendio  mio  spento  or  si  che  dèi 
scaldar  l'alma  col  gel,   mentre  al  mio  foco 
breve  punto  scaldarti  non  potei. 

Non  sarò  più  di  te  favola  e  gioco, 
chiuderò   gli   occhi   ove   al   tuo   amor  gli   apersi, 
avrà  in  vece  d'amor  l'odio  in  me  loco. 

In  preda  ai  venti  poi  parte  si  versi 
di  quel  foco  la  cenere  gelata, 
parte  asciughi  il  mio  sangue  in  questi  versi. 

Ma  de  la  vita  mia  da  te  sprezzata, 
reliquia  miserabile  e  funesta 
siasi  la  polve  al  tuo  gran  danno  armata. 

Quasi  turbo  sonante  ed  ombra  infesta 
io,  io,  rivolta  in  polve,  ovunque  andrai 
t'apparirò  crudel  non  che  molesta; 

sdegnerò,   t'odierò  quanto  t'amai; 
e  di  larve  e  d'orrori  avvolta,   intorno 
turbando  ove  tu  sia  la  luce  e  i  rai, 

l'ombre  sol  mi  fian  grate,   in  odio  il  giorno  (^). 


(i)  Allegoria.  —  L'innamoramento  di  Massinissa  con  Sofonisba  in  mezzo  del 
l'armi  accenna  quanto  sia  più  potente  degli  eserciti  armati  una  bellezza,  bencht 
ignuda.  L'aver  ella  nella  perdita  del  regno,  e  fra  le  proprie  catene  e  fra  quelle  di 
suo  marito,  dato  luogo  agli  amori  acconsentendo  al  volere  altrui,  significa  la  legge- 
rezza e  fragilità  delle  donne  in  affetti  somiglianti.  Il  passar  poi  in  un  subito  dai 
letto  di  nozze  alla  bara  di  morte,  avendo  per  mezzo  del  veleno  provato  il  nuove 
sposo  ed  amante  omicida  e  nemico,  ci  dichiara  esser  vero  in  più  guise  ciò  che  de 
gli  effetti  d'amore  testificò  il  greco  Focilide:  Amor  ìiominuni  sanguini  Hdev.do  gatidet. 


SCIPIONE    ERRICO 


I 

CONTRO  L'AMOR  PLATONICO 

Baciami,  o  Clori,  e  fa' ch'io  goda  a  pieno 
tua  leggiadra  beltà,  tuoi  pregi  tanti, 
e  de  le  grazie  tue  nel  prato  ameno 
fa'  che  appaghi  a  mia  voglia  i  sensi  erranti. 

Fa'  che  nel  molle  tuo  nettareo  seno 
gli  spirti  appaghi  languidi  e  tremanti, 
e  con  l'opre  da  noi  scherniti  sieno 
quei  che  dan  legge  ai  desiosi  amanti. 

Non  vuol  filosofìa  de  l'amar  l'arte, 
perché  il  fanciullo  Amor  non  ha  costume 
molto  internarsi  ne  le  dotte  carte. 

Ceda  al  tatto  la  vista,   al  labro  il  lume; 
il  guatar,  l'affissar  vada  in  disparte, 
perché  tocca  e  non  mira  il  cieco  nume. 


138  LIRICI    MARINISTI 

II 

L'AMANTE  TACITO 

Ardo,  e  l'immenso  ardor  ch'ho  in  seno  accolto 
regna  ne  l'alma  e  a  pena  il  petto  sente; 
e  cresciuto  e  già  grande  amor  fervente 
in  fasce  di  silenzio  ho  stretto  e  involto. 

Talor  tento  mostrar  nel  mesto  volto 
il  celato  desir,   ma  ne  la  mente 
tosto  ritorna  il  rio  pensiero  ardente, 
e  rassembro  Meandro,  in  me  rivolto. 

E  come  spesso  il  mar  con  onde  piene 
romper  le  mète  sue  par  che  si  miri, 
sol  poi  spuma  e  rimbomba  in  su  l'arene; 

cosi  tentan  passare  i  miei  martiri 
il  confine  del  cor,  ma  fuor  sol  viene 
spuma  di  pianto  e  suono  di  sospiri. 


Ili 
LA  BALBUZIENTE 

Del  tuo  mozzo  parlare  ai  mozzi  detti 
mozzar  mi  sento,  alta  fanciulla,  il  core. 
Lasso,  con  qual  dolcezza  e  qual  valore 
quella  annodata  lingua  annoda  i  petti! 

Tu  tronco,  io  tronco  il  suon  mando  pur  fuore, 
ma  fan  varie  cagioni  eguali  effetti, 
che  gli  accenti  a  formar  tronchi  e  imperfetti 
te  insegnò  la  natura  e  me  l'amore. 

Or  la  beltà  de  la  leggiadra  imago, 
cime,  qual  fia,  se  delle  tue  parole 
il  difetto  gentil,  pur  è  si  vago  ? 

Eco  sei  di  bellezza?  o  la  favella 
tra'  labri  appunta  e  abbandonar  non  vuole 
di  coralli  d'Amor  porta  si  bella? 


SCIPIONE    ERRICO  139 

IV 

PER  UNA  MERETRICE  SPAGNOLA  MORESCATA 

Chi  vuol  veder  pur  come  alletti  e  tiri 
un  laccio  ogn'alma  in  questa  nostra  etade, 
la  grazia  di  costei,  l'alma  beltade 
e   '1  soave  parlar  contempli  e  ammiri. 

Chi  vuol  veder  come  contrario  giri 
il  sole  e  a  sorger  vada  ov'egli  cade, 
questo  che  da  quell'ultime  contrade 
sen    vien.    Sol    di   vaghezza,    osservi    e    miri. 

Giunto  l'invitto  Alcide  a  l'oceano, 
già  con  l'ispane  e  con  l'arene  more 
pose  la  mèta  a  l'ardimento  umano. 

Or  di  lui  fatto  illustre  imitatore, 
in  costei  ch'ha  del  moro  e  de  l'ispano 
pose  la  mèta  alle  bellezze  Amore. 


V 

AL  PRINCIPE  TOMASO   DI  SAVOIA 

Tratti,   o  Tomaso  invitto,   aste  e  cimieri, 
onde  muto  l'estran  ti  tema  e  ammiri; 
e  chiarissimi  rai  dagli  occhi  alteri 
di  sovrana  bellezza  intanto  spiri. 

Cosi   in   uno    e   de    l'alme    e   de'  destrieri 
il  bel  fren  con  destrezza  allenti  e  tiri  ; 
alletti  e  morte  dai,   se  dolci  e  fieri 
i  vaghi  sguardi  e  i  ferri  infesti  aggiri. 

Tu  de  le  vesti  più  pregiate  e  fine 
o  d'esercito  anciso  o  in  fuga  vòlto 
arricchisci  talor  le  rupi  alpine. 

E  spesso  l'Alpe  fai,  di  sangue  involto, 
mentre  rosseggian  le  sue  bianche  brine, 
imitar  gentilmente  il  tuo  bel  volto. 


I40  LIRICI    MARINISTI 

VI 

A  GIOVANNI  ANTONIO  ARRIGONI 

Poggia  al  monte  di  Pindo  e  ardito  e  snello, 
Arrigoni,   trascorri  a  ogn' altro  innante, 
e  de  l'invidia  il  guardo  atroce  e  fello 
prendi  a  calcar  con  l'onorate  piante. 

Tra'  cigni  di  Parnaso  altero  e  bello 
apparirà  tuo  giovenil  sembiante, 
come  fiorito  e  nobile  arboscello 
talor  verdeggia  entro  l'annose  piante. 

Fia  che  prenda  per  te  dolce  martoro, 
d'amorosi  legami  il  core  involto, 
de  le  vergini  muse  il  sacro  coro. 

L'alta  corona  ond'egli  ha  il  capo  avvolto, 
Febo  a  te  sol  darà  di  sacro  alloro, 
perché  l'altra,   di  raggi,   hai  nel  bel  volto. 


VII 

LA   VIA    LATTEA 

Al  cardinal  Borghese 

Sorge  nobil  città,  che  altera  siede 
del  bel  Tirreno  in  su  l'argentee  sponde, 
che   l'ossa   illustri   ond'essa   è   degna   erede 
di  Partenope  bella  in  grembo  asconde. 
Tra  verde  e  fertil  urna  ella  si  vede 
del  riverente  mar  restringer  l'onde, 
e  con  cento  edifici  e  cento  braccia, 
Briarea  torreggiante,  il  ciel  minaccia. 

Ma  frondosa  con  lei  città  confine, 
con  bei  verdi  palaggi,  alta  gareggia, 
dove  Pomona  il  pampinoso  crine 
tra  vetri  di  ruscei  specchia  e  vagheggia; 


SCIPIONE    ERRICO  I4I 

dove  con  vive  e  ruggiadose  brine 
imperlarsi  il  bel  sen  Flora  si   preggia; 
dove  odorad,   candidi  e  vermigli 
cittadini  sen  stan  del  sole  i  figli. 

Di  piropi  e  smeraldi  allegri  tetti 
fan  le  viti  serpenti,   alto  poggiando, 
e  morbidi  figura  e  ft-eschi  letti 
l'umido  suol,   la  molle  erbetta  ornando, 
e,   con  fertil  guatar,   ne'  verdi  aspetti 
stansi  l'amanti  palme  amor  spirando, 
e  spiegano  i  naranzi  in  bel  tesoro 
odorati  diamanti  e  poma  d'oro. 

\'aghi  accenti,   volando  in  vaghi  cori, 
la  dipinta  d'augei  schiera  difi"onde; 
garrulo  rio  per  trasparenti  errori 
con  la  lingua  d'argento  a  quei  risponde; 
forma  anch'essa  tra  lor  detti  canori 
l'aura  con  susurrar  tra  fronde  e  fronde, 
si  che  in  dolce  armonia  s'accoppia  intanto 
d'aure,   d'acque,   d'augei  la  voce  e   '1  canto. 

L'aura,   che  del  ballar  nobil  maestra, 
dolce  commove  a  vaghe  danze  i  fiori, 
e  seco  or  a  sinistra  or  move  a  destra 
con  lunghi  giri  i  lascivetti  odori  ; 
l'aura,  ch'or  dona  or  toglie  e,  accorta  e  destra, 
di  natura  comparte  almi  tesori, 
de  la  verde  famiglia  è  spirto  e  vita 
e   '1  ciel  ridente  a  vagheggiarla  invita. 

Vicino  è   '1  mare,  e  vaghe  e  ricche  sponde 
fanno  minute  perle  ai  .suoi  zaffiri  ; 
vago  specchio  è  del  ciel,   qualor  senz'onde 
placido  starsi  e  trasparente  il  miri  ; 
vago  è  s'al  moto  il  mormorio  confonde, 
e  increspandosi  ancor  par  che  s'adiri; 
vaglie  son  l'ire  sue  spesso  a  vederle, 
quando  il  vago  zaffir  trasmuta  in  perle. 


142  LIRICI    MARINISTI 

Era  nel  tempo  allor  che  in  trono  ardente 
coronato  di  raggi   il  Sol  sedea 
e  ne  l'aria  accampar  duce  potente 
con  falangi  di  fiamme  alto  parea; 
struggeasi  in  foco  il  tutto  e  riverente 
a  l'aspetto  di  lui  l'aura  tacca; 
par  che  acceso  stupor  la  terra  ingombre, 
fugge  il   fresco  nel  centro   e   fuggon  l'ombre: 

quando  quivi  fur  viste  ignude  a  l'onde 
vaghe  ninfe  tuffarsi  e  vaghe  dee: 
tra  nereidi  cosi  liti  gioconde 
vengon  dolci  a  mischiar  l'alme  napee; 
rideva  il  mare  e  germogliar  feconde 
bianche  spume  parean  di  Citeree. 
Cosi  a  l'erm'acque,   ai  ciechi  sassi,   a  l'ore, 
spettacol  di  sue  pompe  offerse  Amore. 

Lega  in  trecce  una  il  crin,   l'altra  il  figura 
piramide  gentil  d'oro  con  oro; 
questa  al  vento  il  dà  preda  e  di  natura 
fa  ne  l'aria  ondeggiar  crespo  tesoro; 
fallo  incolto  cader  quella  e  noi  cura, 
de'  morbidi  alabastri  aureo  lavoro; 
gli  occhi  azzurri  una  tien,  ma  pura  luce 
da  due  neri  levanti  altra  ci  adduce. 

Clizia  ha  d'ostro  le  guance;  un  puro  latte 
in  faccia  ha  sol  la  delicata  Irene; 
Silvia  per  tutto  le  sue  nevi  intatte 
tempestate  di  rose  intorno  tiene; 
di  dolci  baci  al  molle  invito  fatte 
di  rugiada  d'amor  gravide  e  piene 
ha  due  porpore  Filli  e  par  che  scocchi 
dolce  riso  con  lor,   ma  pria  con  gli  occhi. 

Spira  con  grato  e  con  mortai  diletto 
da  mantice  gemmato  Armilla  i  venti  ; 
l'alma  Clori  consuma  in  vago  affetto 
al  dolce  foco  di  rubini  ardenti  ; 


SCIPIONE    ERRICO  143 

mamme  l'una  non  ha,  l'altra  nel  petto 
immature  le  mostra  ancor  nascenti  ; 
altra  grazia  e  beltà  si  cangia  e  mesce 
in  altre  ed  altre,   e  si  diffonde  e  cresce. 

Ma  gli  scoperti  e  tremoli  candori, 
de  l'incendio  d'amor  brine  cocenti, 
al  par  dolci,   al  par  vaghi  e  pari  albori 
son  de'  chiari  dal  mar  Soli  sorgenti  ; 
schiera  parean  di  delicati  avori, 
schiera  di  vaghi  e  teneretti  argenti  ; 
nuotan  leggiadre  e  fan  vezzoso  e  vago 
di  tenerette  nevi  amato  lago. 

Ed  in  un  s'inargenta  e  in  un  s'indora 
con  spume  il  mar,  con  sciolte  chiome  e  bionde, 
e  gemiti  d'amor  mandan  talora 
da  le  tenere  palme  aperte  l'onde; 
spingonsi  destre  e  fan  lor  moto  ancora 
le  man,   le  gambe  alabastrine  e  monde: 
vaghi  remi  d'avorio  ai  vivi  legni, 
di  merci  di  bellezza  onusti  e  pregni. 

Or  inarcan  le  braccia  ed  agli  aspetti 
son  con  archi  d'argento  ignudi  Amori; 
or  fermi  e  stesi  in  sugli  ondosi  letti 
spiegan  molli  d'amor  gli  aperti  onori  ; 
talor  mostran  sott'acqua  i  membri  e  i  petti, 
tra  vasi  di  zaffir  divi  candori  ; 
si  tuffan,  s'ergon,   fan  carole  e  balli 
per  l'ampie  vie  de'  trasparenti  calli. 

E  tra  moti  e  tra  nuoti  urtansi  a  gara 
l'amorose  guerriere  in  lieta  giostra; 
e  vi  è  cui  l'onestà  pur  troppo  è  cara, 
che  a  le  ignude  bellezze  il  volto  inostra; 
de'  bei  membri  altre  ancor  parte  più  rara 
toccan  scherzando  a  chi  schivar  ciò  mostra; 
d'acque  si  spruzzan  gli  occhi,   e  i  vaghi  visi 
accompagnano  al  nuoto  e  vezzi  e  risi. 


144  LIRICI    MARINISTI 

Tal  era  il  nuoto  e  cosi  arar  parieno 
con  aratro  d'avorio  i  salsi  campi; 
vibran  tra  '1  mar,  pur  come  un   ciel  sereno, 
gli  occhi,  stelle  d'amor,  tremoli  lampi; 
con  bellezze  schierate  ond'  è  il  mar  pieno 
par  che  contra  i  rubelli  Amore  accampi, 
o  che  vogli  destar  quasi  per  gioco 
per  le  nevi  guizzanti  a  l'onde  il  foco. 

E  voi,  stellati  pesci,   e  tu  bramasti 
tra  bei  pesci  d'amor  guizzar,   delfino; 
ed  anco  per  costor  tu  desiasti 
essere,   o  can  celeste,   il  can  marino; 
de  l'acceso  desir  parte  appagasti 
tu  de  l'eterne  sfere  occhio  divino, 
tra  le  bellezze  e  tra  l'argentee  stille 
seminando  talor  lampi  e  faville. 

In  ninfa  Proteo   per  nuotar  con  loro 
mutossì;   e  tutto  l'umido  confine, 
per  mirar,  ingombrar  vidute  fòro, 
sorte  dal  cinto  in  su,   le  dee  marine; 
invaghiti  correan  de'  lacci  d'oro 
i  bei  muti  nuotanti  al  biondo  crine, 
e  tra  lor  dolce  e  con  tarpate  penne 
stuol  d'ignudi  Amoretti  a  guizzar  venne. 

Escono  alfin  da'  salsi  ondosi  umori 
e  stillan  molli  perle  i  vivi  argenti, 
che  gocciolando  van  tra'  bei  candori, 
de  l'aria  di  beltà  stelle  cadenti. 
Ruggiadose  cosi  n'appaion  fuori 
l'aurore  al  bel  seren  de'  giorni  algenti; 
uscir  de  l'acque  e  mano  a  mano  unirò 
ne  l'arenosa  scena  e  han  fatto  un  giro. 

Vago  giro  d'amore  e  vaga  sfera 
d'alta  beltà  ne  l'amoroso  mondo; 
la  soma  soffreria  dolce  e  leggiera, 
fatto  Atlante,   ogni  cor  di  si  bel  pondo; 


SCIPIONE    ERRICO  145 

vago  e  novo  zodiaco,   entro   '1  qual  era 
fatto  più  nobil  Febo,   Amor  fecondo, 
o  pur  d'ogni  bramosa  accesa  mente 
del  bel  foco  d'amor  sfera  cocente. 

Danzan  festose,   e  l'animate  brine 
volgon  giocose  e  lascivette  e  snelle; 
sfavillanti  le  luci  e  peregrine 
seguon  pargoleggiando  i  piedi  anch'elle; 
scende  dal  molle  capo  il  folto  crine 
sovra  le  mamme  tenerette  e  belle, 
e  al  par  d'un  Sol  che  dal  mar  Indo  è  fuora, 
quei  due  monti  d'argento  il  capo  indora. 

Treman  le  crude  mamme  e  trar  diresti 
nel  teatro  de'  petti  i  balli  a  prova. 
Qual  veder  fu,   come  d'ignudi  e  presti 
vaghi  avori  saltanti  un  stuol  si  mova? 
qual  veder  fu  senza  l'odiose  vesti 
danzar  cerchio  amoroso  in  foggia  nova, 
che  gira  e  spiega  al  fin  d'alquante  rote, 
orologio  d'amor,   sonore  note? 

Canti,   scherzi,   sorrisi  entro  i  tesori 
di  scoperte  bellezze  Amor  confonde; 
quando  cantan  costor,  tra  salsi  umori 
sembran  vaghe  ballar  ne  l'alto  l'onde; 
quando  ballan  costor,   detti  canori 
confonde  il  mar  tra  miniate  sponde, 
ch'or  vago  suoni  a  le  lor  danze,   or  pare 
che  balli  al  suon  de  le  lor  note  il  mare. 

—  La  donna  è  un  ciel      diceano,  —  ha  il  capo  aurato, 
di  Berenice  i  lucidi  capelli  ; 
porta  negli  occhi  il  Sagittario  armato, 
porta  negli  occhi  i  lucidi  Gemelli; 
gli  occhi  ond'è  vago  un  Orion  formato, 
gli  occhi.   Soli  de  l'alma  amati  e  belli, 
gli  occhi  che,   vòlti  in  varie  e  gentil   arti, 
sembran  Veneri  ed  Orse  e  Giovi  e  Marti. 

Lirici  vtarinisti  —   io 


146  LIRICI    MARINISTI 

Del  troian  l'urna  è  de  la  bocca  il  vaso, 
son  picciole  vigilie  i  bianchi  denti  ; 
son  l'aquila  in  prontezza  e  '1  gran  Pegaso, 
cigno  e  cetra  in  dolcezza  i  lieti  accenti  ; 
libra  due  poli,   ed  orto  sono  e  occaso 
le  due  del  bianco  sen  poma  sorgenti  ; 
la  donna  è  un  ciel,   ma  al  moto  suo  giranti 
son  caduchi  elementi  i  fidi  amanti.  — 

A  tal  canto,   a  tal  ballo,  al  divo  aspetto 
ch'offre  ignuda  beltà  d'almi  candori, 
tacquer  gli  uccelli  e  sul  depinto  letto 
trattenne  il  rivo  i  fugitivi  umori  ; 
gli  elementi  arrestarsi,   e  per  diletto 
fermar  le  sfere  i  sempiterni  errori  : 
le  vidde  e  tenne  in  lor  stupide  e  fisse 
l'eterne  luci  il  sommo  Giove,   e  disse: 

—  Che  veggio?  or  che  vaghezze  oggi  apparirò, 
che  indizi  son  d'alte  bellezze  eterne? 
Non  formar  tai  concetti  unqua  s'udirò 
né  si  vaghe  girar  le  sfere  eterne. 
Più  non  dimori  in  terra  un  si  bel  giro, 
ma  faccia  adorne  le  maggion  superne, 
e  dal  candor  di  quelle  nevi  intatte 
si  figuri  nel  ciel  strada  di  latte.  — 

Cosi  diss'egli  e,   chini  e  riverenti, 
gl'imi  abissi  tremar,  tremar  le  sfere; 
veggonsi  in  ciel  di  fiamme  e  d'or  lucenti 
le  donzelle  poggiar  ratte  e  leggiere; 
s'alzan  tra  l'aria,   e  tra  le  nubi  e  i  venti 
sparivan  già;   ma  allor  che  in  vesti  nere 
dal  bel  terrestre  sen  la  notte  uscia 
n'apparve  impressa  in  ciel  la  Lattea  via. 

Cosi  per  sommo  eroe  spiegava  il  canto 
Opico  pastorel  presso  a  Peloro; 
poi  disse:  —  O  gran  Borgesi,   accetta  intanto 
frutto  immaturo  di  toscano  alloro; 


SCIPIONE    ERRICO  147 

mentre   non   può   mio   suon   poggiar   cotanto 
che  narri  i  preggi  tuoi,   che  muto  onoro. 
Solo  umil  sotto  te  star  io  m'appago, 
come  l'aquila  tua  sta  sotto  il  drago. 


IV 


DIVERSI 


GIAMBATTISTA    BASILE 


I 

SANTA   CRISTINA 

Di  Cristo  in  croce  essangue 
amante  sviscerata, 
nel  suo  duol,   nel  suo  sangue 
Cristina  trasformata, 

sente  dentro  al  suo  cor  mesto  e  doglioso 
amorosa  pietade,   amor  pietoso. 

Brama  con  lui  patire 
e  sferze  e  spine  e  croci  ; 
seco  desia  morire 
fra'  suoi  tormenti  atroci  ; 
e,   gravida  d'amor,   nel  cor  istesso 
ciò  che  brama  e  desia  le  resta  impresso. 

Talché  ne  l'alma  sente 
i  medesmi  flagelli, 
la  corona  pungente, 
i  chiodi  acuti  e  felli 

e,   nel  suo  duol  cangiata  acerbo  e  forte, 
prova  seco  ad  ogni  or  viva  la  morte. 


152  LIRICI    MARINISTI 

Né  sazia  l'alma  immersa 
d'esser  ne'  suoi  martiri, 
in  luì  tutta  conversa, 
vuol  ch'anco  il  corpo  aspiri 
a  trasformarsi  ne  l'amato  Cristo 
e  a  far  d'eterna  gloria  eterno  acquisto. 

Col  chiodo  aspro  e  mortale 
trafìgge  il  pie  beato; 
ma  in  amoroso  strale 
il  ferro  trasformato, 
con  soave  d'amor  dolce  ferita 
a  la  carne  dà  morte,   a  l'alma  vita. 

Gusta  l'assenzio  e   '1  fele, 
ma  quel  licor  l'è  dolce 
vie  più  che  d' Ibla  il  mele, 
SI   '1  cor  le  nutre  e  moke: 
stupendi  effetti  del  divin  amore, 
ch'amareggia  le  labbra  e  sana  il  core. 

Fu  d'alto  amor  altrice 
al  suo  celeste  amante 
e  vera  imitatrice 
de  le  sue  piaghe  sante, 
e  ben  mostrò  mirabilmente  come 
di  Cristo  corrispose  a  l'opre,   al  nome. 

Or  degnamente  in  cielo 
gode,   fra  spirti  eletti, 
del  suo  amoroso  zelo 
più  soavi  diletti, 
e  dolcemente  di  mirar  s'appaga 
di  Cristo  in  lei  le  piaghe,  in  lui  sua  piaga. 


GIAMBATTISTA    BASILE  I53 

II 

PER  L'INCENDIO  DEL  VESUVIO  DEL  1632 

Mentre  d'ampia  voragine  tonante 
fervido  vedi  uscir  parto  mal   nato, 
piover  le  pietre  e  grandinar  le   piante, 
spinte  al  furor  d'impetuoso  fiato, 

e  i  verdi  campi  già  si  lievi  avante 
coprir  manto  di  cenere  infocato, 
e   '1  volgo  saettar  smorto  e  tremante 
solfurea  parca,   incendìoso  fato: 

—  Ahi  !  —  con  lingua  di  foco  ei  par  che  gridi  — 
arde  il  tutto,   e  sei  pur  alma  di  gelo; 
tu  nel  peccar  t'avanzi  e  '1  mar  s'arretra. 

Non  temi,   e  crollar  senti  i  colli  e  i  lidi  ; 
non  cangi  stato,   e  cangia  aspetto  il  cielo; 
disfassi   un   monte,   e  più  il  tuo  cor  s'impetra!  — 


III 
LA  BELLA  CHIOMA 

Sovra  gli  omeri  bianchi 
via  più  che  freschi  gigli  e  pure  brine, 
l'aureo  mar  ondeggiava  del  bel  crine, 
e  al  dolce  lusingar  d'aura  seconda 
rendea  più  chiaro  l'or,   più  ricca  l'onda. 
Cosi,   lucente  e  vago 
copre  l'arena  d'or  superbo  il  Tago, 
e  cosi   '1  Gange  ancora 
l'illustre  riva  alteramente  indora. 


154  LIRICI    MARINISTI 

IV 

PALLORE  GRADITO 

Pallidetta  mia  vita, 
il  minio  cangerei 
col  tuo  pallor,  cosi  leggiadra  sei. 
Pallido  il  volto  bramo, 
vermiglio  già  non  l'amo; 
questo  è  color  di  sdegno, 
quel  di  pietade  è  segno: 
anzi,  segno  è   '1  pallore 
di  chi,  d'amor  ferita,  e  langue  e  more. 


BIAGIO    CUSANO 


I 

LE  TRE  BELLE 

O  belle  Parche  al  mio  stame  vitale, 
o  separato  Gerion  d'amore, 
o  tridente  gentil  che  nel  mio  core 
puoi   con   tre   punte   aprir   piaga   immortale! 

Ecco,   nuove  sirene  Amor  fatale 
ne  dà,   che  non  i  corpi  in  salso  umore, 
ma  sommergono  l'alme  in  dolce  ardore, 
né  canto  sol,   ma  sguardo  hanno  mortale. 

Ecco  quelle  tre  dee,   che  scorse  in  Ida 
del  più  bel  re  troian  la  bella  prole, 
più  de  la  greca  fede  al  greco  infida. 

Ecco  già  da  la  terza  eterea  mole 
discese  le  tre  Grazie,  ove  s'annida 
mirabilmente  triplicato  il  sole. 


156  LIRICI    MARINISTI 

II 

MUSICA  NOTTURNA 

Tu,   che  fra  le  caligini  profonde 
spiri  armonia,   de  la  tranquilla  notte 
le  dolci  pose  dolcemente  rotte 
che  del  fiume  leteo  stillano  l'onde, 

ben  sembri   chi   di   Lete  in  su   le   sponde 
fra  l'ombre  già  de  le  tartaree  grotte, 
per  trarne  le  bellezze  ivi  condotte, 
sciolse  dal  mesto  cor  note  gioconde. 

Quindi  ben  io  l'orride  pene  intanto 
di  questo  scorgo  invisitato  inferno 
a  si  placido  suon  temprarsi  alquanto. 

Ecco,   arresta  la  luna  il  moto  eterno; 
stupisce  forse,   poich'un  simil  canto 
fra  gli  orrori  ascoltò  del  nero  Averno. 


ni 
SEDENDO  GIUDICE  IN  TRIBUNALE 

Io,   che  giudice  altrui  qui  siedo  in  trono, 
son  fatto  reo  di  deità  terrena; 
io,   eh 'a  le  colpe  altrui  parto  la  pena, 
a  chi  pena  mi  dà,   lasso,   perdono. 

Quell'io,  ne  la  cui  man  che  punge  e  frena, 
e  l'altrui  vite  e  l'altrui  morti  sono, 
a  l'empia  ferità  di  tigre  armena 
de  l'egra  vita  mia  l'imperio  dono. 

Altri  al  mio  spesso  riverito  sguardo 
timido  agghiaccia;  ed  io,  se  miro  mai 
un  bel  volto  avvampar,   l'adoro  e  n'ardo. 

Giudice,   invero,   avventurato  assai, 
se,   qual  giudice  Ideo,   giamai  riguardo 
di  mia  Venere  ignuda  i  bianchi  rai  ! 


BIAGIO    CUSANO  157 

IV 

PER    I    SETTE   MONTI 

nella  mano  della  sua  donna 

Roma  sembri  animata  a  più  d'un  core 
co'  sette  bianchi  tuoi  monti  spiranti, 
mano,    in  cui   forma   il    Campidoglio   Amore, 
trìonfator  de'  prigionieri  amanti. 

Anzi,   pur  hai  di  ciel  vivi  sembianti  : 
ecco  la  bella  in  te  via  di   candore, 
ed  ecco  per  mirabile  stupore 
vi  miro  i  corsi  de'  pianeti  erranti. 

Qui,   mentre  del  pensier  dibatto  l'ali, 
a  preveder  da  si  bel  ciel  la  sorte 
degli  amorosi  miei  corsi  vitali, 

ah  mio  destino  doloroso  e  forte! 
con  infausti  caratteri  fatali 
scritto   in  ambe  le  palme  io  leggo:   Morte. 

V 

ROMA  -  AMOR 

Nel  Tebro  andrai,   fra  tante  moli  e  tante, 
de  l'arte  a  contemplar  gli  alti  stupori; 
meraviglie  però  molto  maggiori 
scoprirà  di  natura  il  tuo  sembiante. 

Già  non  entrò  con  si  superbi  onori 
nel   Campidoglio  mai  gran  trionfante, 
qual  tu,   che  porti  a'  tuoi  begli  occhi  avante 
novo  trofeo  d'incatenati  cori. 

A  Marte  crescerà  l'antica  arsura, 
or  ch'altra  Citerea  fa  più  sereno 
il  ciel  de  le  sue  belle  invitte  mura. 

E  Roma,   dolcemente  arsa  al  baleno 
di  tua  beltà  cosi  leggiadra  e  pura, 
quel  che  porta  nel  nome  avrà  nel  seno. 


158  LIRICI    MARINISTI 

VI 

ALL'AMANTE,  CHE  SI  È  RASO 

Scritto  ad  istanza  di  una  cortigiana 

Quella  selva  di  peli  orrida  e  scura, 
dove  occulto  leon  par  che  si  renda 
Amor,  tronca  già  cade,   oh  mia  ventura! 
e  l'ingiurie  del  tempo  il  ferro  ammenda. 

Ferro,   per  me  felice  oltre  misura, 
di  lanoso  Silen  squarcia  la  benda, 
onde  nova  beltà  celeste  e  pura, 
qual   Sol  rotte   le   nubi,    avvien   che   splenda. 

Cosi  lasci  a  ragion  barba  infelice 
Febo  novel,  che  per  fatai   tenore 
al  bel  Febo  nutrir  barba  non  lice. 

Ti  radi  il  volto  ed  a  me  rodi  il  core; 
tu  di  bellezza,   io  son  d'amor  fenice; 
tu  rinovi  la  luce  ed  io  l'ardore. 


GIOVANNI  PALMA 


I 

IL  SORRISO  MODESTO 

Ove  il  Sebeto  al  mar  porta  di  pianto, 
più  che  d'onde  lucenti,   argentea  soma, 
e  di  folti  ginepri  il  capo  inchioma 
la  bianca  amica  in  sul  sinistro  canto; 

quella  vid'io,   che  dà  lume  al  mio  canto, 
volger  in  groppi  d'  òr  la  lunga  chioma; 
allor:  —  Qual  più  leggiadra  oggi  si  noma, 
doni  a  te  —  dissi,  —  o  bella  ninfa,   il  vanto! 

Quanti  in  vari  composti  usò  natura 
di  bello,   ha  messo  in  tuo  gentile  aspetto, 
o  più  che  umana  angelica  figura! 

Non  può  scerner  l'invidia  in  te  difetto, 
si  perfetta  ti  rende  egual  misura...  — 
Ella  sorrise  e  chinò  gli  occhi  al  petto. 


l6o  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  BELLA  PARLATRICE 

Né  con  si  vaghi  ed  amorosi  accenti 
narra  Progne  a  voi,   selve,  i  suoi  dolori  ; 
né  Filomena  i  suoi  secreti  amori 
con  si  facondo  dir  commette  ai  venti  ; 

né  si  rotto  fra  sassi  i  pie  lucenti, 
mormora  il  rio  lungo  il  pratel  de'  fiori, 
come  la  bionda  mia  leggiadra  Glori, 
mentre  a  l'amica  sua  spiega  i  tormenti. 

Un  fiume  d' òr,   che  di  rubini  ha  sponde, 
scogli  di  perle,   il  suo  parlar  simiglia; 
ma  come  arciero  il  cor  punge  e  saetta. 

Deh,   qual  veggio  d'amor  gran  meraviglia  ! 
lingua  chi  mosse  mai  si  dolce,   o  donde, 
se  non  forse  dal  ciel  scesa  angioletta? 


Ili 
L'AMOROSA  IMAGINAZIONE 

Amor,   che  mal  mio  grado  mi  trasporta 
a  far  mia  stanza  in  solitario  monte, 
nei  fior,   ne  l'erba,   in  verde  faggio,   in  fonte 
mi  figura  colei  che   '1  mio  cor  porta. 

Onde  io,   vòlto  a  seguir  si  fida  scorta, 
e  mirando  or  le  luci  al  ferir  pronte, 
or  gli  atti  onesti  or  le  bellezze  conte, 
sento  un  dolce  piacer  che  mi  conforta. 

E  mentre  a  le  sembianze  amate  e  belle 
son  fiso,  io  veggio  uscir  la  notte  o   '1  giorno, 
e  l'un  l'alba  condur,  l'altra  le  stelle; 

e  passar  fere  a  l'ombra,   al  rivo,   al  prato, 
e  far  gli  armenti  a  lor  magion  ritorno... 
Me  solo  in  un  pensier  tien  fermo  il  fato. 


GIOVANNI    PALMA  l6l 

IV 

IL  PAESE  DI  PUGLIA 

O  felici  di  Dauno  alme  contrade 
ove  ha  sede  il  riposo,  o  campi  lieti, 
o  folti  boschi  solitari  e  queti, 
che  l'ondoso  Adrian  circonda  e  rade, 

o  monti,  o  valli,  o  piante  onde  ognor  cade 
salubre  manna,  o  fidi  antri  secreti 
ove  zefiro  ha  regno,  o  querce  e  abeti 
il  cui  rezzo  fé'  d'or  la  prisca  etade; 

ben  reo  tenor  di  non  amica  stella 
m'invidia  il  vostro  caro  ermo  ricetto 
che  la  mia  vita  ai  suoi  diporti  appella. 

Ma  siami  il  voi  goder  dal  ciel  disdetto, 
e'  non  potrà  l'imagin  vostra  bella 
tórre  al  pensier,  eh' è  suo  continuo  obbietto. 


Lirici  marinisti  —  ii 


GIOVANNI  ANDREA  ROVETTI 


I 

IL  LAGO  DI  DIANA  IN  NEMI 

Lago  ove  Cinzia  regna,  Amor  barcheggia, 
gloria  del  primo  Augusto,   onor  de  l'arte, 
occhio  de  la  natura  ond'ella  sparte 
mille  vaghezze  sue  lieta  vagheggia,  * 

Giove  sovra  il  tuo  ciel  stende  la  reggia, 
quando  i  consigli  suoi  libra  e  comparte; 
ivi  danza  Ciprigna  e  giostra  Marte, 
quando  il  coro  sovran  là  su  festeggia. 

Placidi  sempre  in  te  scherzano  i  venti, 
di  greggi  ondosi  le  tue  ninfe  appaghi, 
fatto  speco  ai  pastor,   specchio  agli  armenti. 

Ma  quel  recinto  d'arboscelli  vaghi, 
teatro  illustre  de'  tuoi  chiari  argenti, 
vuol  dir  che  la  corona  hai  tu  dei  laghi. 


GIOVANNI    ANDREA    ROVETTI  l6^ 

II 

IL  PIANTO  DEL  FIGLIUOLO 

Un  pìcciol  cane,   un  ghiro  ed  un  augello 
del  tuo  caro  fanciullo 
sono,   bella  Lisetta,   ognor  trastullo. 
Ruzza  col  ghiro  il  cane, 
ne  brilla  il  putto  in  vista; 
ma  l'augel,   che  non  tresca  e  becca  il  pane, 
infranto  ne  rimane: 

tu  ne  ridi,   io  ne  godo,   ei   se  n'attrista, 
e  scaccia  stizzosetto 
il  ghiro  e  '1  cane  e  piagne  l'augelletto. 
Se  ridi,   o  cruda,   del  tuo  figlio  ai  guai, 
al  mio  duol  che  farai? 

Ili 
PREMENDO   IL  PIEDE 

Tu  chiedi  quel  ch'io  voglio, 
quando  a  mensa  talor  ti  premo  il  piede  ? 
Ah,   che  negli  occhi  ogni  tuo  sguardo  il  vede! 
Lusingando  t' infingi 
e  '1  bianco  volto  in  bel  rossor  dipingi. 
Vorrei,   dolce  ben  mio... 
Lasso,  eh' a  dirlo  m'arrossisco  anch'io! 


BARTOLOMEO  TORTOLETTI 


I 

LA  SEGRETEZZA 

Lilla,   al  comune  onor  più  ch'ai  piacere 
vo'  che  serviam;   questi  passeggi  e  queste 
vanità  da  fanciul  son  poco  oneste, 
poco  conformi  a  le  tue  doti  altere. 

Amiamci  di  buon  cuor  ;   queste  le  vere 
parti  son  d'amor  puro,  amor  celeste. 
Oh  bell'inganno  ad  altrui  fa  chi  veste 
gli  amorosi  pensier  d'arti  severe. 

Lilla,  fa'  a  modo  mio;  non  ti  dispiaccia 
ch'io  ti  venga  a  servir  si  parcamente, 
ch'altri  non  creda  i  nostri  amori  e  taccia. 

Patisco  io  più  di  te;  ma  finalmente, 
dopo   alcun  di  che   non  si  vegga   in   faccia, 
fa  vista  più  soave  il  Sol  lucente. 


BARTOLOMEO    TORTOLETTI  165 

II 

LA  SOMIGLIANZA 

Ove  d'avara  chiostra  a  me  s'involi, 
idolo  mio  leggiadro,   il  tuo  splendore, 
maestro  a  vagheggiar  mi  guida  Amore 
somigliante  beltà  che  mi  consoli. 

Tu  non  temer  però  che  là  sen  voli 
da  le  tue  fiamme  fuggitivo  il  core; 
giuroti  ch'ardo  più,   quanto  maggiore 
conosco  il  raggio  onde  tu  splender  suoli. 

In  lei  null'altra  cosa  amar  poss'io 
ch'il  tuo  solo  ritratto:  una  è  la  bella 
luce  d'entrambe  ed  uno  il  mio  desio. 

Tai  sono  i  rai  del  Sol  ne  la  sorella; 
e  se  tu  sole  sei  del  giorno  mio, 
luna   esser   può   de    la   mia   notte   anch' ella. 


Ili 
LE  ROSE  GITTATE  AL  FUOCO 

Ite,  rose  lascive,   ite  d'amore 
pegni  vani  e  nocenti,   un  tempo  cari, 
e  da  l'arido  vostro  e  dal  pallore 
qual  sia  chi  mi  vi  die,   per  me  s'impari. 

Tal  diverrà  quella  beltà,   ch'in  fiore 
oggi  par  che  non  abbia  al  mondo  pari  ; 
e  deggio  ancor  seguirla?  ancor  dal   core 
m'usciranno  per  lei  singulti  amari? 

Ahi,   che  pur  troppo  il   mio   desire  insano 
mi  fé'  soggetto;   or  tempo  è  ben  che  fia 
sciolto  il  laccio  crudel  da  la  mia  mano. 

Intanto,  itene  voi  per  cotal  via, 
ch'il  rogo  vostro  e  '1  cenere  profano 
primo  trofeo  di  mia  vittoria  sia. 


l66  LIRICI    MARINISTI 

IV 

BELLEZZA  CHE  RESISTE  AGLI  ANNI 

Barbara,   da  che  vesti  il  mortai  velo 
a  l'undecimo  lustro  il  tempo  inchina, 
e  pur  non  anco  in  te  scesa  è  la  brina, 
né  cadute  le  rose  a  tanto  gelo; 

e   vibri  ancor   da'  tuoi   begli  occhi   il   telo 
eh 'a  ferir  ogni  core  Amor  destina, 
né  vai  saper  che  si  l'età  camina, 
ch'ella  non  può  mentir  se  mente  il  pelo. 

Fu  assai  che,   cinta  tu  d'aurata  gonna, 
amorosa  guerriera  ognun  vincesti, 
nel  fior  degli  anni  tuoi  vergine  e  donna; 

ma  perché  non  giungean  si  chiari  gesti 
al  gran  valor  che  del  tuo  cor  s'indonna, 
de  la  natura  trionfar  volesti. 


v 
LA  MASCHERATA   DELLE  ZINGARE 

Vaghe  di  misurar  nuovo  emisfero, 
scoprendo  ignoto  clima,   isole  estrane, 
da  le  dolci  d' Egitto  aure  lontane 
a  voi  ne  scorse  peregrin  sentiero. 

Quattro  zingane  siam  ;   chiedere  il  vero 
sogliam  al  ciel  de  le  venture  umane; 
ma,    qui,    son   l'arti   nostre   oscure   e   vane: 
altre  stelle,   altro  ciel  v'hanno  l'impero. 

Ivi  lumi  veraci  e  certi  errori 
son  caratteri  fidi,   in  cui  si  mira 
o  giusta  speme  o  pur  timor  de'  cori. 

Qui,   senza  legge  ogni  pianeta  gira, 
e  folle  è  ben,   fra  si  bugiardi  ardori, 
chi  per  un  guardo  mai  teme  o  respira. 


MAFFEO  BARBERINO 

(dipoi  papa  urbano  vili) 


I 

IL  DILETTO  TERRENO 

Acqua  limpida  sorge  e  si  diffonde 
in  verde  prato  tra  l'erbette  e  i  fiori; 
spira  l'aura  e  n'invola  i  cari  odori 
e  fra  le  nubi  il  Sol  più  non  s'asconde. 

Ride   il   suol,    ride   l'aria   e   ridon   l'onde, 
e  gli  augei,   dell'aurora  ai  primi  albori, 
con  note  argute  e  sibili  canori 
gioia  stillan,   ch'ai  cor  dolce  s'infonde. 

Tal  di  felice  stato  il  bel  sembiante 
qui  sembra  al  senso,   che  non  mira  al  fine; 
ahi  !   che  quaggiù  il  diletto  in  un  momento 

da  noi  sen  fugge  con  alate  piante; 
qui  l'alme  albergan  come  pellegrine, 
stabil  sol  hanno  in  ciel  vero  contento. 


l68  LIRICI    MARINISTI 

II 

OCCHI    CASTI 

Mortai  bellezza  ascoso  il  foco  tiene 
per  assalir  chi  '1  guardo  non  reprime. 
Ahi,  mentre  cauto  a  terra  non  s'adirne, 
ratto  l'ardor  li  scorre  entro  le  vene  ! 

Ch'è  varco  l'occhio  al  cor,  onde  sen  viene 
l'imagin  de  l'oggetto  e  vi    s'imprime. 
Se  dunque  fia  che  sua  salute  stime, 
schivi  mirar  là  dove  non  conviene. 

Alle  pupille  l'uno  e  l'altro  lume 
delle  palpebre  tien  pronto  lo  schermo, 
eh' a  tempo  è  di  celarle  arbitro  e   donno; 

come  vergini  in  sacro  chiostro  ed  ermo, 
che  di  velarsi  il  volto  han  per  costume, 
si  che  non  vedon  né  veder  si  ponno. 


HI 

LA    FONTANA 

Qui,  dove  sorge  la  volubil  onda, 
arresta  i  passi,  o  pellegrino,  e  intento 
in  mille  guise  il  bel  limpido  argento 
mira  cader  del  fonte  in  sulla  sponda. 

S'erge  altronde  l'umor  ch'in  copia  abbonda, 
in  stille  altronde  piove  ;  indi  non  lento 
vibrasi  in  giuso,   e  quivi  in  un  momento 
sale  e  in  sé  torna  ond'è  ch'in  sé  s'asconda. 

E  mentre  or  poggia  or  cade  o  in  sé  si  rota, 
tal  or  si  spande,  or  sé  medesmo  fiede, 
si  d'uno  in  altro  moto  si  trasforma, 

che,   sebben  nel  cristal  mobile  immota 
sua  sembianza  abbia  il  fonte,   l'occhio  crede 
ch'ognor  si  cangi  in  varia  e  nuova  forma. 


PAOLO  GIORDANO  ORSINO 

DUCA    DI    BRACCIANO 


I 

LA  BELLA  PELLEGRINA 

La  leggiadretta  e  vaga  pellegrina, 
che  mano  ostil  de  l'aver  suo  fé'  manca, 
fuggendo  l'arsa  patria,  ardita  e  franca 
venne  altrove  a  portar  luce  divina. 

La  lontana,  dapoi  che  la  vicina 
provincia  scorse,  scorre  e  non  si  stanca: 
intanto  l'occhio  nero  e  la  man  bianca 
fan  dei  semplici  cor  strage  o  rapina. 

Tu  che  rimiri  ognor  serrate  e  sole 
le  donne  di  bel  volto  o  di  crin  biondo 
e  risponder  altrui  poche  parole, 

non  prender  meraviglia,   non  immondo 
giudicare  il  pensier  :   proprio  è  del  sole 
l'andar  girando  e  illuminando  il  mondo. 


I70  LIRICI    MARINISTI 

II 

SENSO    E   RAGIONE 

Apria  bocca  vermiglia  un  vago  riso, 
occhio  azzurro  vibrava  aureo  splendore, 
guance  rosa  spargea  del  suo  colore 
dove  più  dove  meno  in  un  bel  viso. 

Nel  mirar  quel  seren,   da  sé  diviso 
per  l'estremo  diletto  era  ogni  core; 
questo  potea  ben  dirsi  il  di  d'amore, 
d'amor  la  primavera,  il  paradiso. 

Chiuse  gli  occhi  il  mio  volto,  aprigli  il  seno; 
era  (oh  stupori)  la  primavera  inverno, 
la  rosa  spina,   lo  splendor  baleno; 

il  breve  riso,   ésca  di  pianto  eterno; 
notte  il  giorno,  tempesta  era  il  sereno, 
duolo  il  diletto,   il  paradiso  inferno. 


Ili 
VANITAS   VANITATUM 

Tu,   che  giamai  non  ti  contenti  e  vuoi 
laute  mense  bramar  sotto  aurei  tetti, 
consorte  eccelsa  entro  a  gemmati  letti, 
esercito  di  servi  a'  cenni  tuoi  ; 

di  regnar  dagli  espèri  a'  lidi  eoi, 
di  canti  e  melodie  dolci  diletti, 
di  cacce  e  di  tornei  giocondi  aspetti, 
quando  alla  fin  tutto  ottenessi...   E  poi? 

In  breve  è  nulla.   Ed  anco  è  nulla  adesso 
se  tu  lo  paragoni  al  ben  eh' è  vero, 
e  sol  ti  sembra  ben  perdi' è  d'appresso. 

E  corta  hai  tu  la  vista.  Occhio  sincero, 
se  lo  mira  e  multiplica  in  se  stesso, 
ritroverà  zero  via  zero,   zero. 


PAOLO    GIORDANO    ORSINO  I7I 

IV 

LA    BUGIA 

La  bugia  non  mai  sola;   uno  squadrone 
ha  sempre  in  compagnia  de  la  sua  setta, 
che  le  va  dietro  o  innanzi,   e  l' interdetta 
strada  corre  con  essa  a  perdizione. 

Se   non   ha   gran   memoria,    è    confusione  ; 
se  tra  nemici  sta,   calunnia  è  detta; 
s'alberga  tra  gli  amici,   è  barzelletta; 
se  versa  circa  ai  grandi,   adulazione. 

Riso,   pianto  e  parlar  non  è  sincero 
sempre  in  noi;   ma  il  vestir  verace  addita 
se  teniamo  dal  franco  o  da  l'ibero. 

Questo  nostro  costume  non   imita 
già  la  bugia:   ella  è  contraria  al  vero 
e  va  di  verità  sempre  vestita. 


v 
LA    CITTÀ 

Ne  le  cittadi  ove  i   monarchi  han  sede, 
disusato  è  pel  tristo  il  bon  sentiero; 
fassi  solo  apparir  per  bianco  il  nero, 
oprar  fortuna  e  non  virtù  si  vede. 

Quivi  al  torto  ragion  soggiace  e  cede, 
il  doppio  cor  conculca  il  cor  sincero, 
l'interesse  l'onore,   il  falso  il  vero, 
l'odio  l'amor,  l'infedeltà  la  fede. 

Teco  piange  il  tuo  mal  chi  gusto  n'ebbe, 
ti  promette  favor  chi  vói  vendetta, 
arride  a  te  chi  '1  pianto  tuo  vorrebbe. 

Ti  dà  il  buon  di  chi  il  tuo  mal  anno  aspetta 
e  ti  saluta  chi  ti  caverebbe 
più  volentieri  il  cor  che  la  berretta. 


172  LIRICI    MARINISTI 

VI 

IL  RITORNO   ALLA   PROPRIA  TERRA 

Varcato  ho  mari  adusti  e  freddi,   ho  visto 
del  franco  regnatore  e  de  l'ibero 
province  immense,   e  del  romano  Impero, 
e  parte  ancor  de  l'ottomano  acquisto. 

Ho  dimorato  ove  il  potere  ha  misto 
sacro  e  profano  il  successor  di  Piero; 
ma  di  smarrir  desio,   guardo  e  pensiero 
in  tante  vastitadi  alfin  ravvisto, 

fermato  ho  il  pie  dove  dal  ciel  il  freno 
regger  de  la  Sabazia  è  a  me  concesso, 
che  giunge  al  mare  e  ha  cinque  laghi  in  seno. 

Angusto  spazio  ai   nominati  appresso; 
ma  il  debito  in  che  nacqui  adempio  appieno 
verso  i  popoli  miei,   verso  me  stesso. 


GIACOMO  D'AQUINO 

PRINCIPE    DI    CRUCOLI 


I 

IL  FASTIDIO 

Di  pianto  molle  e  di  sospiri  ardente, 
bagno,  lasso,  la  terra  e  scaldo  il  cielo; 
e  colmo  avendo  il  sen  di  mortai  gielo, 
di  dogliosi  pensier  pasco  la  mente. 

Se  cosa  veggio  mai  lieta  o  ridente, 
chiusi  gli  occhi  vorrei  d'oscuro  velo; 
e  quanto  posso  più  m'ascondo  e  celo, 
straniero  e  peregrin  da  l'altra  gente. 

Anzi  (colpa  d'amor)  da  me  stesso  amo 
esser  da  lungi,   oimè,   perché  me  stesso 
più  ch'altri  a  mio  poter  odio  e  disamo. 

Ma  poiché  tanto  più  me  stesso  ho  appresso 
quanto  più  di  fuggir  me  stesso  bramo, 
son,  più  che  d'altri,  da  me  stesso  oppresso. 


174  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  GIORNO  DEI  MORTI 

Queste  pompe  di  morte  e  questi  odori 
d'arabi  incensi  e  queste  accese  faci 
memorie  son  de'  nostri  di  fugaci 
per  pianger  sempre  i  già  commessi    errori. 

Tu,   che  godi  fra  gli  ozi  e  fra  gli  amori 
le  lusinghe  del  mondo  empie  e  fallaci, 
e  tra  i  diletti  addormentato    giaci, 
ami   ombre,    abbracci   vento   e   siegui   orrori. 

Chi  un  tempo,  carco  d'amorose  prede, 
ebbe  l'ostro  a  le  guance  e  l'oro  al  crine, 
deforme  arido  teschio,   ecco,   si  vede. 

Superbi  regi  e  la  Vii  plebe  alfine 
poca  polve  vegg' io  sotto  il  tuo  piede, 
oppressi  e  vinti  da  un  medesmo  fine. 


Ili 
•       LA  TEMPESTA 

Armato  il  ciel  di  tuoni  e  lampi  ardenti, 
e  col  volto  cruccioso  oltre  l'usato, 
vibrò  da  l'arco  suo,  fremendo  irato, 
contro  la  terra  i  fulmini  pungenti. 

Tolsero  i  nembi  e  le  pruine  e  i  venti 
allo  stelo  le  frondi  e  l'erba  al  prato; 
e  tonando  da  l'uno  e  l'altro  lato, 
cruda  guerra  tra  lor  fean  gli  elementi. 

Da  l'arenoso  letto,   ecco,   il  mar  esce, 
ed  ingombrando  il  mondo  or  vaga  errante 
fra  l'onde  il  cervo,   or  tra  bei  fiori  il  pesce; 

e  tra  diluvi  e  tra  tempeste  tante, 
con  gì'  infocati  lampi  il  giel  si  mesce, 
e  tra  le  nevi  il  cielo  è  fiammeggiante. 


MICHELANGELO  ROMAGNESI 


I 

LA    MORTE 

Andriozzi,   si  muore:  in  lance  eguale 
premio  e  pena  ha  condegna  il  buono,  il  reo; 
e  per  alto  decreto  ogni  mortale 
della  pallida  man  resta  trofeo. 

Picchia  l'orribil  dea  con  pie  letale 
alle  porte  dèi  grande  e  del  plebeo, 
ma  lottando  con  l'Ercole  fatale 
non  risorge  da  terra  umano  Anteo. 

Cosi,   allor  ch'andrem  sciolti  all'ultim'ore, 
non  avrem  più  l'invidia  al  fianco  unita, 
nemico  armato,   amico   ingannatore; 

superbia  entro  i  suoi  fumi  andrà  svanita, 
non  ci  faran  più  guerra  odio  ed  amore, 
eh 'è  principio  di  pace  il  fin  di  vita. 


1/6  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  TOMBA 

Allor  ch'io  copra  in  sonno  eterno  i  lumi, 
freddo  cibo  de'  vermi  e  poca  polve, 
mausolei  non  ambisco:   Atropo  solve 
i  più  famosi  marmi  in  ombre,  in  fumi. 

Ad  erger  tombe  Egitto  età  consumi; 
ciò  che  i  secoli  fanno,  un  di  risolve: 
tutte  un  oblio  le  umane  cose  involve, 
come  in  sé  accoglie  il  vasto  mare  i  fiumi. 

D'Agamennone  e  d'Irò  Euro  confuse 
le  ceneri,   e  del  cinico  mendico 
e  d'Alessandro  il  grido  eco  deluse. 

D'urna  paria  o  corintia  son  nemico, 
né  vo'  in  amomo  l'ossa  o  in  mirra  infuse, 
purché  m'apra  natura  il  grembo  amico. 


GENNARO   GROSSO 


I 

LA  NASCITA  DI   MARIA 

Soìietto  in  bisticcio 

Nasce  di   Dio  la  genetrice  eletta, 
ch'apre  a  l'uscita  sua  gli  usci  de'  cieli; 
nostr'alme  ergono  il  volo  infra  que'  veli, 
ella  s'allatta  e  nel  Signor  s'alletta. 

Da  que'  lini  la  lena  a  noi  s'aspetta, 
quelle  tele  a  Satan  rompono  i  teli, 
la  culla  il  calle  adagia  e  spezza  i  geli 
d'Averno,   inverno  de  la  colpa  infetta. 

Sorge  a  pena  e  di  Dio  s'erge  la  reggia, 
spunta  e  punta  a  Lucifero  è  la  squama, 
nasce   e   n'  esce   a  guardar   cara  sua  greggia. 

Col  dolce  nome  di  Maria  si  chiama, 
qual  bersaglio  d'amor,   perché  si  veggia 
che  Dio  nessun  più  di  Maria  riama. 

Lirici  ma-finisti  —   12 


lyS  LIRICI    MARINISTI 

II 

I  SANTI   INNOCENTI 

Per  accordar  d'alti  profeti  il  canto 
spargono  afflitte  madri  alte  querele, 
mentre  i  bambini  lor,   per  man   crudele, 
solcan  felici  un  ocean  di  pianto. 

Essi  prenci  immortali  ergonsi  in  vanto, 
poiché  morte  lor  dà  prence  infedele; 
veggonsi  a  quelli  insanguinar  le  tele, 
perché  tinto   ne   l'ostro   abbian   l'ammanto. 

Vuol  piccioli  Amoretti  il  nume  amante 
per  far  ch'entrino  al  ciel,   regno  divino, 
che  picciolo  è  del  ciel  l'uscio  prestante. 

Si  denno  in  vero,   e  con  fatai  destino, 
pargoletti  vassalli  a  un  rege  infante, 
guerrier  fanciulli  a  capitan  bambino. 


Ili 
CRISTO  ESORTANTE  ALLA  CONFESSIONE 

Schivo  de'  folli  errori,   agile  e  mesto 
corri  d'un  pio  ministro  al  sacro  piede, 
che,   prostrandosi  il  corpo,   alzar  si  vede 
e  l'uom  col  pianto  a  le  delizie  è  desto. 

Oh  come  un  puro  umiliato  gesto 
umilia  Stige  e  la  conculca  e  fiede  ; 
oh  come  al  tuo  parlar  mutolo  riede, 
qual  da  sacra  magia,   Satan  l'infesto! 

Per   darti   gaudio   il   tuo   dolore   io   bramo, 
son  tuoi  misfatti  i  miei  diporti  ameni, 
piropi  e  gemme  i  tuoi  peccati  io  chiamo. 

Io  ti  darò  la  grazia  e  i  miei  sereni, 
tu  mi  dà'  l'atre  colpe.  Ai  doni  siamo: 
tu  prodigo  di  falli  ed  io  di  beni. 


ANTONINO  GALEANI 


I 

IL  PERICOLO 

Festeggiano  le  squille,   Egle,   a  vicenda, 
ritorna  a  queste  ville  il  di  festivo; 
a'  nostri  balli  il  cittadin  lascivo 
verrà  pomposo,   onde  l'incaute  accenda. 

D'Amarilli  tu  sai:   pria  ch'ei  te  prenda, 
prendi  tu  lui,   più  di  lei  cauta,   a  schivo; 
diman  fia  '1  suo  partir,   s'oggi  è  l'arrivo, 
ch'a  variar  piacer  sempr'è  che  attenda. 

Noi  mirar,   se  di  sete  ei  coloreggia; 
noi   curar,    se   col    piede   or   gira   or   striscia; 
noi  sentir,   se  con  man  molle  tasteggia. 

Anch'ella  agile  al  moto,   al  tatto  liscia, 
e  variata  di  color  pompeggia, 
ma  velenosa  è  poi  su  '1  fin  la  biscia. 


l8o  LIRICI    MARINISTI 

II 

I  NASTRI  SEDUTTORI 

Diman  che  festo  è  '1  di,   col  crin  ripieno 
di  nastri  Egle  vedrete,   occhi  dolenti; 
di  que'  nastri,   di  cui  miraste  intenti 
far  ieri  acquisto  a  la  città  Sireno. 

—  Per  Egle  sono  —  infra  me  dissi  ;  —  almeno 
perduto  avesse  i  pattuiti  argenti, 
o  perda  sé,   pria  che  col  don  la  tenti!  — 
Tal  ne  sentia  geloso  picchio  al  seno. 

Sii  cauta,   o  bella;   di  quei  nastri  ei  trama 
lacci  a  l'onore  e,   credi  a  me,   n'avrai, 
via  più  che  fregio  al  crin,   sfregio  a  la  fama; 

che  l'indegno  amator  già  tra  caprai 
gloriando  si  va  (vedi  se  t'ama!) 
ch'avranne  in  cambio...  Io  noi  vuo'  dir:  tu  '1  sai! 


Ili 
IL  BALLO  GALEOTTO 

Lilla,   i'  mei  veggio,   il  cittadino  Aminta 
più  che  a'  suoi  campi,  a  tue  bellezze  attende, 
e  la  tua  fama  ed  il  mio  core  offende, 
e  pur  lo  stringi,   seco  al  ballo  accinta. 

Tu  '1  neghi?  e  che  dirai  se  sei  convinta? 
Su  la  man  che  tu  prendi  e  che  ti  prende, 
chi  non  vede  restar,   se  ben  v'attende, 
la  stampa  a'  diti  ed  a  pallor  dipinta? 

Ahi,  fai  rosse  le  gote  e  '1  ciglio  hai  basso! 
Perché  rossor  la  guancia,   allor,   non  veste? 
perché  a  lui,   come  a  me,   non  sei  di  sasso? 

Se  tra  le  belle  sei,   sia  tra  le  oneste; 
che  villanella  al  cittadino  è  spasso, 
ma  '1  cittadino  a  villanella  è  peste. 


ANTONINO    GALEANI 
IV 

LA  RANA 

Là  tra  i  giunchi  palustri  e  l'alga  immonda 
odi  gracchiare,   o  Filli,   in  strana  foggia, 
figlia  del  fango  e  de  l'estiva  pioggia, 
quella  verde  loquace  in  grembo  a  l'onda. 

O  che  '1  più  cupo  gorgo  in  sen  l'asconda, 
o  nuoti  all'aure  o  s'in  pantano  alloggia, 
inver'  la  sponda  avidamente  poggia, 
se  mai  face  apparir  vede  a  la  sponda. 

Purché  godano  gli  occhi  al  caro  lume, 
dimenticata  ogni  contraria  sorte, 
v'arde  il  cor  di  desio,   se  non  ha  piume; 

né  cura  o  vede  che  quel  raggio  acceso 
è  fiaccola  parata  a  la  sua  morte... 
Tal  de'  tuoi  lumi  al  lume  anch'io  fui  preso. 


V 

IL  DONO   DEL  LEPRE 

Questo  bel  leprettin,   eh' a  me  dal  braccio 
pendente  prigionier  l'orecchio  rese, 
ch'ognor  fa,   ranicchiandosi,   difese, 
per  levare  a  te  '1  dono,   a  sé  l'impaccio; 

non  fu  tolto  al  covile  o  còlto  al  laccio, 
di  degno  cacciator  men  degne  imprese; 
ma  questo  pie  col  pie  di  lui  contese, 
se  ben  rovescio  ne  cadei  sul  ghiaccio. 

Non  sprezzar.  Lilla,  il  don,  che,  se  noi  sai, 
accresce  la  beltà  s'è  cibo  a  noi. 
Tienlo,   che  fuggirà;   stringi,   che  fai? 

Ma  che  guardi?  che  ridi?  e  che  dir  vuoi? 
Ch'esser  bella  e  fugace  imparerai? 
Più  bella  e  più  fugace  esser  non  puoi. 


LIRICI    MARINISTI 
VI 

LA  BELLA  E  IL  VECCHIO 

Crespo  e  segnato  il  viso  a  maraviglia, 
lanoso  tutto  più  del  proprio  gregge 
è  Mopso;   un  occhio  ha  lippo,   un  pie  noi  regge, 
fosco  il  pel,  nero  il  crine,  irto  le  ciglia. 

E  pur  Lilla  gentil  bianca  e  vermiglia, 
forsennata  d'amor,   d'amarlo  elegge, 
o  sia  necessità  che  non  ha  legge, 
o  sia  che  donna  al  peggio  suo  s'appiglia. 

Natura  offesa  !   e  chi  dirà  che  piaccia 
ogni  pari  al  suo  pari  or  che  si  molle 
e  caro  sen  sta  fra  si  rozze  braccia? 

Ma  come  offesa?  anzi  non  già:   che  volle 
cosi  natura  pur,   che  stretta  giaccia 
perla  in  gusci,   astro  in  nicchi  ed  oro  in  zolle. 


GIAMBATTISTA   PUCCI 


I 

L'ARDORE 

Ardo  quando  talor  vien  ch'io  rimiri 
madonna  lampeggiar  lieta  e  vezzosa; 
ardo  quando  talor,   mesta  e  dogliosa, 
china  degli  occhi  i  lucidi  zaffiri. 

Ardo  s'avvien  che  contra  me  si  giri, 
turbata  il  volto,   altera  e  minacciosa; 
s'a  la  mia  pena  ancor  si  fa  pietosa, 
ritrovo  ésca  novella  ai  miei  martiri. 

Se  sospira,   quell'aura  il  foco  accende 
s'apre  un  riso  talvolta,   è  foco  il  riso; 
è  foco  tutto  il  bel  ch'in  lei  risplende. 

Ma  nel  foco  del  seno  e  del  bel  viso 
terrei,  cosi  m'appaga  il  bel  ch'offende, 
quasi  farfalla  rimaner  ucciso. 


l84  LIRICI    MARINISTI 


GLI  OCCHI  E  IL  SENO 

Dentro  al  candido  sen,   tra  le  mammelle, 
stese  madonna  la  man  bianca  al  core, 
e  da'  giri  lucenti  il  vivo  ardore 
rivolse  a  un  punto  istesso  in  questa  e  in  quelle. 

Biancheggiar,   lampeggiar  nevi  e  fiammelle, 
de'  begli  occhi  e  del  sen  foco  e  rigore, 
fatto  un  misto  di  luce  e  di  candore, 
qual  tra  '1  latte  del  ciel  fanno  le  stelle. 

De  le  mamme  e  del  sen  la  candidezza, 
emula  al  latte,   unita  allor  splendea 
dei  luminosi  giri  a  la  chiarezza. 

Questa  in  quella  a  vicenda  in  guisa  ardea, 
che  un  confuso  di  luce  e  di  bianchezza 
quinci  i  begli  occhi  e  quindi  il  sen  parca. 


ITI 

LO  SVELAMENTO 

Era  il  vel  di  madonna  al  volto  e  al  crine 
qual  nube  che  nasconda  il  dio  di   Delo, 
quando  parve  dicesse:  —  A  te  non  celo 
quel  che  de  l'alme  fa  prede  e  rapine.  — 

La  man,   cui  di  candor  cedon  le  brine, 
portiera  fatta  d'amoroso  cielo, 
stese,   e  al  tergo  raccolto  il  bianco  velo, 
forme  scoperse  angeliche  e  divine. 

Vidi  allor  lampeggiare  a  l' improviso 
e  gareggiar  di  luce  e  di  splendore 
il  crin,  gli  occhi,  la  bocca,  il  guardo  e  '1  riso. 

Di  tanta  luce  innebriato  il  core, 
non  sa  s'egli  sia  in  terra  o  in  paradiso, 
se  paradiso  ha  cosi  dolce  Amore. 


ANTON  MARIA  NARDUCCI 


I 

LA  VESTE  E  LA  GHIRLANDA 

Qualor  di  veste  serica  trappunta 
d'una  ricca  di  stelle  aurea  tempesta, 
donna,   adivien  che  le  tue  membra  vesta, 
notte  mi  sembri  in  bruno  carro  assunta. 

Ma  se  poi  veggio  a  quelle  stelle  aggiunta 
primavera  di  fior  su  l'aurea  testa, 
allor  dico  fra  me:  —  L'aurora  è  questa, 
che  fregiata  di  fior  ridendo  spunta.  — 

E  si  m'aggrada  per  mia  dolce  pena 
mirar  costei,   che  pur  m' ha  il  cor  piagato, 
di  mille  fior,   di  mille  stelle  piena, 

ch'io,   con  un  giorno  si  ridente  e  grato 
e  con  notte  si  bella  e  si  serena, 
dormirei  lieto  e  veglierei  beato. 


l86  LIRICI    MARINISTI 

II 

LE  «  FERE  D'AVORIO  »  TRA  I  CAPELLI 

Sembrar!  fere  d'avorio  in  bosco  d'oro 
le  fere  erranti  onde  si  ricca  siete  ; 
anzi,   gemme  son  pur  che  voi  scotete 
da  l'aureo  del  bel  crin  natio  tesoro; 

o  pure,   intenti  a  nobile  lavoro, 
cosi  cangiati  gli  Amoretti  avete, 
perché  tessano  al  cor  la  bella  rete 
con  l'auree  fila  ond'io  beato  moro. 

O  fra  bei  rami  d'or  volanti  Amori, 
gemme  nate  d'un  crin  fra  l'onde  aurate, 
fere  pasciute  di  nettarei  umori; 

deh,   s'avete  desio  d'eterni  onori, 
esser  preda  talor  non  isdegnate 
di  quella  preda  onde  son  preda  i  cori  ! 

Ili 
A  CAMILLO  BAFFI 

Per  domandargli  la  propria  «  natività  » 

Scrivea  nel  ciel  caratteri  di  stelle 
con  la  penna  de'  raggi  il  mio  natale 
il  Sol,   chiaro  scrittor  d'oscuro  annale, 
de  le  fortune  mie  benigne  e  felle. 

Dicean  le  gieroglifiche  facelle 
d'ogni  fortuna  mia  l'ora  fatale; 
ma  non  sa  sporre  interprete  mortale 
note  di  ciel  misteriose  e  belle. 

Tu,   che  sovente  al  ciel  t'ergi  vicino, 
discepolo  di  Febo,  anzi  sua  prole, 
Esculapio  celeste,   Orfeo  divino; 

apri  i  segreti  de  l'eteree  scole, 
tanto  ch'intenda  anch'io  nel  mio  destino 
del  linguaggio  del  ciel  l'alte  parole. 


TIBERIO    SBARRA 


L'AMOR  NOSTRO 

Ardano  pur  d'immacolati  e  puri 
desir,  Licida  mia,  Dameta  e  Glori, 
e  godan  sol  tra  loro  anime  e  cori, 
né  più  altro  si  brami  o  si  procuri; 

tengano  pur  d' incontinenza  oscuri 
e  rei  di  pianto  i  lascivetti  amori, 
e  siano  i  casti  cor  senza  rancori 
e  di  merto  e  di  lode  anco  sicuri. 

Noi  tal  foco  non  arda,   e  sia  da  noi 
lontana  pur  si  cieca  via  d'amare, 
e  tutte  le  sue  glorie  e  pregi  suoi. 

Ma  ristorino  i  sensi  ora  due  chiare 
luci  ridenti  or  dolci  note,  e  poi 
vezzosi  baci  o  cose  altre  più  care. 


l88  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  PANIERINO  DI  FRAGOLE  E  ROSE 

Questo  bel  panierin,   di  fiorfiorelli 
ricinto,   e  pien  di  fragole  e  di  rose 
che  Filli  ha  per  te  còlte,   e  con  ascose 
maniere  esalta  i  tuoi  sembianti  belli, 

cara  Lilia,  io  ti  dono.   I  fior  novelli 
non  dimostran  però  tutte  le  cose; 
che  son  le  luci  tue  stelle  amorose, 
né  l'immitan  del  Reni  anco  i  pennelli. 

De  le  chiome   non  parlo,    ella   nei  prati 
non  ha  fior  di  ginestre:   usò  le  fi-aghe 
per  l'essenzia  gentil  de  la  tua  bocca; 

che  son  le  labra  tue  com'esse  vaghe 
e  ravvivan  gli  spirti  arsi  e  gelati, 
con  quel  misto  sapor  che  ne  trabocca. 


FILIPPO    MASSINI 


I 

IL  VINO 

Vatten,   Volpin,   sotterra  al  picciol  vaso 
cui  ferro  cinge,   e  traggi  il  buon  liquore 
eh'  ha  di  topazio  e  d'ambra  aureo  colore, 
senza  cui  mai  non  oso  ire  in  Parnaso. 

Apra  altrui  fonte  o  rio  col  pie  Pegaso, 
perché  scriva  di  Marte  o  canti  Amore, 
che  sol  nasce  da  Bromio  il  mio  furore, 
onde  poi  vinco  e  la  fortuna  e  il  caso. 

Più  non  m'impenna  l'ale  o  scalda  il  seno 
Amore,  e  pur  talor  sovra  me  stesso 
m'ergo,   e  non  temo  le  pruine  e  '1  ghiaccio; 

perché  con  questo  mio  nettar  terreno 
di  sorso  in  sorso  al  ciel  men  volo,   e  spesso 
a  la  madre  d'Amor  mi  sveglio  in  braccio. 


igo  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL   VINO 

Questo  di  puro  vin  spumante  vaso, 
che  scintillando  essala  a  mille  a  mille 
vive  saltanti  e  spiritose  stille 
onde  gli  occhi  mi  punga  e  ingemmi  il  naso, 

è  '1  mio  Elicona;   e  sono  il  mio  Parnaso, 
ove  l'ore  men'  io  liete  e  tranquille, 
di  Bacco  i  colli  e  queste  amene  ville, 
orto  degli  ozi  e  de  le  cure  occaso. 

Mentre  la  lingua  il  buon  Lieo  m' inonda, 
oh  come  dolce  mormorar  si  sente 
e  fra  i  rami  e  fra  i  sassi  e  l'aura  e  l'onda! 

O  soave  liquor  dolce  e  pungente, 
se  mai  fortuna  i  miei  desir  seconda, 
terrò  le  muse  a  le  tue  lodi  intente. 


CESARE   abbellì 


I 

LA  VITE 

Fatto  ai  raggi  del  Sol  maturo  alfine, 
de  la  feconda  vite  il  biondo  incarco 
ornai  del  grave  peso  incurva  l'arco, 
perché  si  sciolga  il  pampinoso  crine. 

La  vite,   che  pur  dianzi  in  sul  confine 
d'aprii,   d'erbe  e  di  fior  gravido  e  carco, 
degli  occhi  aprendo  il  lagrimoso  varco 
pianse  l' ira  del  verno  e  le  pruine, 

già  ride;   e  mentre  da  la  verde  treccia 
lieto  cultor  su  le  ramose  braccia 
i  bei  racemi  ad  or  ad  or  distreccia, 

gioir,    Fillide,    impara;    e,    perch'io    faccia 
poi  vendemia  d'amor,   meco  t'intreccia, 
come  vite  gentil  ch'il  tronco  abbraccia. 


192  LIRICI    MARINISTI 

II 

GLI  ASTRI  NOTTURNI 

Quando  spuntar  de  l'oceano  fuori 
veggio  la  notte  e  scintillar  le  stelle, 
giro  tacito  il  pie,   scòrto  da  quelle 
lampade  amiche  a'  fortunati  amori. 

Certo  non  è  ch'in  que'  profondi  orrori, 
gli  occhi  rivolti  al  cielo,   i'  non  favelle: 

—  Qual  di  voi,   faci  luminose  e  belle, 
infuse  in  questo  san  fatali  ardori?  — 

E  del  ciel  vagheggiando  i  fregi  d'oro 

—  Chi  sa  —  dico  fra  me  —  eh 'ancor  non  giri 
gli  occhi  lassù  colei,  ch'in  terra  onoro?  — 

Cosi,   con  nova  idolatria,   ne'  giri 
del  cielo  il  bel  di  quel  sembiante  adoro, 
favellando  tra  lor  gli  occhi  e  i  sospiri. 


LUDOVICO  TINGOLI 


I 

INVOCAZIONE  ALL'INTEMPERIE 

Ne'  boschi  è  l'idol  mio:   finché  tu  ridi, 
invido  ciel  di  chiare  tempre  adorno, 
spegnere  il  pianto  mio  col  suo  ritorno 
non  è  che  la  speranza  egra  confidi. 

Deh  movi,   austro  gentil,   dai  mauri  lidi 
di  sonore  tempeste  orrido  il  corno; 
involvi  d'atre  bende  i  climi  intorno, 
porta  in  aria  Nettun  co'  flutti  infidi. 

Spero  tregua  ai  sospir  sol  dal  tuo  fiato, 
luce  a  l'orbo  desio  dal  tuo  baleno, 
pace  dai  tuoi  tumulti  al  cor  turbato. 

Sta  la   mia  calma   a   tue   procelle   in   seno, 
sol  da'  tuoi  nembi  attendo  il  sole  amato, 
solo  da  le  tue  nubi  il  mio  sereno. 

Lirici  tnarinisti  —  13 


194  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  BRUTTEZZA  INGIOIELLATA 

Costei  cui  sol  di  tenebre  e  d'orrori 
natura  acherontea  veste  e  circonda, 
osa  intorno  spiegar  quanti  ne  l'onda 
del  Gange  e  del  Fattoi  nascon  fulgori. 

Spargon  le  chiome  e  '1  labbro  ombre  e  squallori, 
e  d'oro  e  di  rubini  il  braccio  abbonda; 
invece  che  lo  sguardo  i  rai  diffonda, 
sfavillano  dal  sen  compri  splendori. 

La  perla,   onde  la  bocca  orba  notteggia, 
a  l'orecchia  plebea  quasi  per  scherno 
pende,   ed  intorno  al  nero  collo  albeggia. 

Ma  che  stupir,   s' è  pur  decreto  eterno 
ch'ove  ricco  tesoro  arde  e  lampeggia, 
ivi  custode  sia  spirto  d'Averno? 


FILIPPO  MARCHESELLI 


I 

L'ABITAZIONE  PRESSO  LA  FONTANA   DI  TREVI 

Qui  dove  il  crin  d'umide  perle  in  onde 
scioglie  prodigo  fonte  e  fuggitivo, 
che  più  natali  in  triplicato  rivo, 
quasi  Nilo  del  Lazio,   a  sé  confonde; 

qui  stassi  Nice,   e  le  catene  bionde 
del  crine  onde  il  mio  cor  splende  captivo, 
de'  franti  argenti  al  fluttuar  lascivo 
spesso  avvien  che,   qual  Sol,   tra  l'acque  affonda. 

Al  mormorio  di  quei  tesor  stillanti, 
che  pure  al  pianger  mio  sempre  s'accorda, 
più  stringe  il  gel  de'  suoi  rigor  costanti. 

Né  stupor  è  se,   di  mia  morte  ingorda, 
mai  non  ode  del  cuor  l'angosce  e  i  pianti, 
ch'anco,   ove  sgorga,   il  Nil  l'egizio  assorda. 


196  LIRICI    MARINISTI 


ALL'ANCELLA 

Docile  ancella,   che  mia  fé  verace 
animasti  di  speme  e  di  consiglio, 
e  del  linguaggio  onde  parlommi  un  ciglio 
fosti  interprete  pia,   cifra  sagace; 

or  che  colei  de  l'invecchiata  face 
spense  ogn' ardore  e  al  mio  peggior  periglio 
diede  a'  suoi  sguardi  dal  mio  cor  l'essiglio 
per  non  mirarmi  in  sen  piaga  vorace; 

dille  ch'eterno  strai  non  sazia  un  core, 
che  se  medico  sdegno  il  sen  mi  tange, 
d'un' ingrata  beltà  rido  al  rigore. 

L'Astrea  di  Cipro  a  un  cor  che  avvinto  piange, 
se  fu  innocente,   in  criminal  d'Amore, 
apre  alfin  la  prigione  e  i  ceppi  frange. 


PAOLO    ADRIANI 


I 

LA  BELLA   TARTAGLL'\NTE 

—  Mio  co-co-cor,  mio  ben,  mia  pu-pupilla, 
s' io  mi-mi-miro  il  tuo  be-bel  vi-viso, 
se-se-sentomi  il  sen  co-co-conquiso, 
pe-per  l'ardor,   che  da  te-te  sfavilla; 

ma  tu-tu-tu  non  hai  sci-sci-scintilla 
d'amor  e  stai  da-da-da  me  diviso, 
e  avendo" jn  te-te-te  il  pa-paradiso, 
di  gio-gioia  mi  nieghi  anco  una  stilla. 

S'ogni  mia  po-potenza  a  te  si  diede, 
s' hai  di  me-me  la  mo-mo-monarchia, 
pe-pe-perché  mi  nieghi  egual  mercede?  — 

Cosi,   d'amor  ardendo  in  fiamma  ria, 
qualche  segno  maggior  della  mia  fede 
tartagliando  chiedea  la  bella  mia. 


198  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  SONETTO 

Vorrei  per  Nuccia  mia  far  un  sonetto, 
ma  sento  che  la  vena  or  non  mi  serve, 
e  quanto  il  desiderio  in  me  più  ferve, 
tanto  il  mio  ingegno  a  questa  impresa  è  inetto. 

Pur  mi  ci  vuo'  provar,   che  se  più  aspetto, 
dubito  che  '1  poter  più  mi  si  snerve: 
«  Nuccia,   coni'  hai  per  me  cosi  proterve 
tue  voglie?  ».  Eh,  non  va  ben  questo  concetto! 

Voltiamo  faccia  e  andiam  da  poppa  a  prora: 
«  Io  canto  di  colei  l'alta  eccellenza  ». 
No,   diciam  meglio  e  incominciamo  ancora: 

«  Celebra,   Urania,   tu,   l'alma  presenza  ». 
Ma  come  c'entra  Urania?  Or  su,  per  ora, 
far  sonetti  non  so;   ci  vuol  pazienza! 


FRANCESCO  BRACCIOLINI 


L'  INQUIETUDINE 


O  de  la  pace  mia  nemica  imago 
che,   scacciata  da  me,  torni  sovente 
qual  vespa  impronta  a  raggirar  la  mente, 
per  trafiggermi  il  cor  di  pungent'ago; 

ti  ravviso  ben  io  l'accolto  e  vago 
crin  su  la  fronte  e  groppo  d'angui  algente, 
crudelissima  Aletto,  empia,   nocente 
abitatrice  del  sulfureo  lago; 

e  la  facella  ond' avventar  tu  suoli 
ne  le  viscere  altrui  veleno  e  fiamma, 
porti  ne  gli  occhi  e  in  lor  l'aggiri  e  scoti. 

Vattene,   va',   né  più  circondi  e  voli 
d'intorno   a   me;    l'abisso   orrendo   infiamma, 
tuo  degno  albergo,   e  l'ombre  ree  percoti. 


ANDREA  BARBAZZA 


LA  PARTENZA  ALL'APPARIRE  DELL'AURORA 


Già  le  tremule  stelle  in  ciel  più  rare 
chiudon  le  luci  impallidite  e  spente, 
e  già  la  rugiadosa  alba  ridente 
rende  col  suo  seren  l'ombre  più  chiare. 

Ecco  di  nova  luce  asperso  appare 
il  cristallino  e  candido  oriente; 
già   si   cangia    in   vermiglio   e   già   crescente 
Febo  con  aurei  lampi  esce  dal  mare. 

Ogni  scoglio,   ogni  lido  arde  e  balena, 
e  Glauco  fuor  del  suo  ceruleo  vaso 
co'  guizzanti  triton  sferza  l'arena. 

Io  sol,   Filli,   di  luce  orbo  rimaso 
a  lo  sparir  di  tua  beltà  serena, 
qui,   su  l'orto  del  di,   piango  l'occaso. 


ANTONIO  FORTINI 


IL  POETA  SEGRETO 


A  l'amico  silenzio,   a  l'ombra  folta 
narro  per  uso  i  miei  secreti  amori, 
perché  de'  pianti  ascosi  e  degli  ardori 
resti  ogni  stilla,   ogni  favilla  accolta. 

Quindi  la  musa  mia  rozza  ed  incólta 
sol  raccomando  ai  lor  eterni  orrori, 
perché,   morta  a  le  lodi  ed  agli  onori, 
queta  riposi  in  dolce  oblio  sepolta. 

Chi  dolce  canta  e  chi  lodato  scrive 
offra  sue  rime  a  bella  donna  in  dono 
e  scopra  del  suo  amor  le  fiamme  vive. 

Io,  che  solingo  amante  e  muto  sono, 
quelle  oscure  mie  note  e  di  suon  prive 
al  silenzio  consacro,   a  l'ombre  dono. 


AGOSTINO  AUGUSTINI 


IL    BRACCIERE   AVVENTURATO 


Filli,  a  cader  da  picciol  sasso  astretta 
che  duro  intoppo  al  molle  pie  propose, 
per  non  pestar  del  sen  le  vive  rose 
tutta  tremante  in  sul  braccier  si  getta. 

Servo  felice  !   or  chi  di  te  più  eletta 
sorte  vantar  può  mai,   se  rovinose 
per  sostegno  puoi  dir  ch'a  due  vezzose 
sfere  d'Amor  servi  tua  man  negletta? 

Ma  che  negletta?  Per  un  nuovo  segno 
degna  è  d'alzarsi  allo  stellato  velo, 
che  die  cadente  alla  beltà  sostegno. 

Lo  stato  tuo,  benché  di  servo,  anelo; 
che  mi  terrei  d'Atlante  ancor  più  degno, 
se  potessi  addossarmi  un  si  bel  cielo. 


MARCANTONIO  ARLOTTO 


L'OFFERTA 


In  cima  a  quegli  altissimi  dirupi, 
ove  sol  fra  latebre  e  ripostigli 
stanzan  veloci  damme,   ingordi  lupi, 
sals' io  l'altr'ier,   non  senza  aspri  perigli. 

E  poi  che   nulla  v'è  che '1  guardo  occupi, 
vidi  scherzar  fra  teneri  vincigli, 
d'alto  mirando  giù  ne'  fondi  cupi, 
due  vezzosetti  e  timidi  conigli. 

Ratto  calàimi  da  la  balza  alpestre 
e,   rannicchiato  e  quatto,   ambi  pigliai, 
giuntili  tra  i  ginebri  e  le  ginestre. 

A  te,   Nisa,  gli  serbo,  ed  anco  avrai 
da  me  più  vaga  fera  e  men  silvestre, 
se  men  fera  e  selvaggia  a  me  sarai. 


FABIO  LEONIDA 


LA  BELLEZZA  AL  TRAMONTO 


Non  già  perché  degli  anni  il  primo  fiore 
t'abbia  tolto   l'etade  invida  e  ria, 
donna,   sei  tu  men  bella,   o  men  che  pria 
degna  per  cui  sospir  tragga  ogni  core. 

Ancor  le  membra  tue  spiran  di  fòre 
r  usata  lor  vaghezza  e  leggiadria; 
anzi  col  tempo  avien  che  '1  volto  sia 
cresciuto  in  maestà,   l'alma  in  valore. 

Più  tranquillo  e  sereno  anco  risplende, 
senz'alterezza  e  con  misura  ardente, 
il  raggio   che   negli   occhi   Amor  t' accende. 

Cosi  riluce  '1  Sol  più  dolcemente 
e  meglio  si  vagheggia,   allor  che  scende, 
passato  '1  mezzo  di,   verso  occidente. 


GHERARDO  SARACINI 


IL  LACCIO  DI  CAPELLI 


Questa  pur  or  d'aurei  capelli  intesta 
nuviletta  lucente  e  preziosa, 
attorta  in  cerchi  d'or,   dianzi  pomposa 
splendea  nel  ciel  de  la  tua  ricca  testa. 

Ed  ora  a  me  l'invìi,   non  perché  mesta 
fortuna  mi  minacci  e  lagrimosa, 
ma  perché  versi  sovra  me  pietosa 
d'alte  gioie  d'amor  dolce  tempesta. 

Eterno  laccio  a  la  mia  fé  costante 
fia  questo  crine,   onde  con  bel  lavoro 
legheran  fila  d'or  fé  di  diamante. 

Ma  io  ben  a  ragione,   o  mio  tesoro, 
solcai   di   pianto   un   mar,   Giasone   amante, 
s'ottengo  al  fine  un  si  bel  vello  d'oro. 


PIETRO  PAOLO  BISSAR! 


BACIANDO 


Bindo,   che  fai?  se   non   mi   baci,   io   moro. 
Ecco  aperte  le  labbra,   il  seno  ignudo; 
bacia,  baciami  pur,   si,   bacia:   ah,   crudo 
troppo  grave  è  il  desio,   lieve  il  ristoro! 

Altro  ci  vuol  che  baci  al  mio  martoro: 
ahi,  che  mentre  baciando  il  cor  deludo, 
di  sdegno  io  son,  tu  di  pietà  sei  nudo, 
che  mi  lasci  morire  e  pur  t'adoro. 

Baci,  ma  son  tuoi  baci  e  dolci  e  rei; 
mira  s'ornai  piagato  il  cor  ne  fu, 
che  di  tua  ferità  sparge  i  trofei. 

Eccomi  morta  alfin;   ma  che  fai  tu? 
Deh,  che  tardo  soccorri  ai  dolor   miei! 
Lascia,   ferma,   cor  mio;   non  voglio  più. 


CLAUDIO    TRIVULZIO 


LA  VILLANELLA  IN   CITTA 


Dinanzi  al  novo  Sol,   pien  di  vaghezza 
sorger  insieme  il  mio  bel  Sol  vedrassi, 
e  là  drizzando  i  leggiadretti  passi, 
far  mostra  alla  città  di  sua  bellezza. 

Ella,   a  gir  tra  i  pastor,   tra  l'erbe  avvezza, 
tra  genti  astute  andrà,   tra  duri  sassi; 
ma  voi,   pietre,  onde  avvien  ch'ella  trapassi, 
deponete  al  bel  pie  l' usata  asprezza. 

E  ben  di  varie  man  l'arti  e  i  lavori 
intenta  mirerà  per  maraviglia, 
larghe  vie,   gran  palagi,   ampi  tesori. 

Ma  della  guancia  sua  bianca  e  vermiglia 
recheran  più  stupor  i  vivi  fiori, 
e  '1  semplice  girar  de  le  sue  ciglia. 


GIOVAN  FRANCESCO  CORMANI 


LA  DORMENTE  AL  FAR  DEL  GIORNO 


Sorge  l'aurora  e  con  la  man  di  rose 
tragga  da  l'oceano  il  sole  e  '1  giorno: 
fan  dai  riposi  a  l'opre  lor  ritorno, 
col  ritorno  del  di,  tutte  le  cose. 

Voi  con  le  stelle  sol,   luci  amorose, 
che  imparaste  a  vegghiar  per  far  più  adorno 
il  notturno  seren,   pur  qui   d'intorno 
con  lor  sparite  e  ve  ne  state  ascose. 

Nascondetevi  pur,   ch'a  voi  non  lice, 
immortali  bellezze  e  fiammeggianti, 
con  la  turba  mortai  sorgere  a  l'opre. 

Godete,   chiuse,   pur  sonno  felice, 
per  risorger  aperte  e  vigilanti 
quando  ogni  stella  si  risveglia  e  scopre. 


ERMES  STAMPA 


LA  DONNA  VESTITA  ALLA  GHIBELLINA 

coi  fiori  al  lato  sinistro  della  chioma 

Del  crine  il  manco  lato  orni  di  rose 
e  rinovi  ne  l'alme  ire  e  furori, 
tu,   che  dovresti  sol  guerre   amorose 
col  sembiante  gentil  movere  a'  cori. 

Del  bellicoso  Ren  segui  ed  onori 
l'insegne  formidabili  e  famose, 
onde  il  Tebro  nemico  i  bianchi  umori 
cangiò  sovente  in  porpore    dogliose. 

Di  fiori,  -idolo  mio,  spoglia  la  chioma; 
non  accrescer  nuov'ésca  a  l'ira  antica, 
onde  Italia  sospiri  oppressa  e  doma. 

Non  permetter,  crudel,  ch'altri  predica: 
—  Con  diverso  destino,   amica  a  Roma 
l'una  Venere  fu,   l'altra  nemica.  — 

Lirici  maiiiiisli  —  14 


AURELIO  MANCINI 


LA  DONNA  CHE  BACIA  IL  PAVIMENTO 
DELLA  CHIESA 

Bianca  il  sen,  bionda  il  crin,  bruna  le   spoglie, 
là  nel  tempio  divin,  con  sacri  accenti, 
Lilla  baciava,   al  cielo  i  lumi  intenti, 
ippocrita  d'amor  le  sacre  soglie. 

Arsi  io  di  sdegno,   allor  eh 'a  le  mie  voglie 
sempre  schivi  trovai  quei  labri  ardenti  ; 
ma  pensai  che  baciare  i  sassi  algenti 
sol  dee  colei  che  cor  di  sasso  accoglie. 

Di  quella  bocca  i  stessi  marmi,   audaci, 
come  già  a  Pirra  ed  a  la  tracia  cetra, 
corsero  per  baciar  gli  ostri  vivaci  ; 

ond'io  bramai  mirar  la  testa  tetra 
del  Gorgon,  per  poter  vago  di  baci 
cangiarmi  in  sasso  o  trasformarmi  in  pietra. 


D' INCERTO 


IL  GELSOMINO  TRA   LE   LABBRA 


Quasi  in  giardin  di  perle,   a  cui  ridenti 
fan  due  vaghi  rubin  mura  pompose, 
avea  madonna  un  fior  tra  i  bianchi  denti, 
che  del  latte  del  ciel  Flora  compose. 

Contendea  il  suo  candor  co'  gli  ostri  ardenti 
de  le  labra  bellissime  di  rose; 
ridean  queste  arrossendo  e  più  lucenti 
le  sue  fiamme  scoprian  dolci  amorose. 

—   Oh  felice  —  diss'io,  —  s'entro  a  le  porte 
di  quella  si  gentil  bocca  fiorita 
con  la  mia  d'involarlo  avessi  in  sorte; 

che  se,   spiccando  in  paradiso  ardita 
la  prima  donna  un  frutto,   ebbe  la  morte, 
da  un  fior  del  paradiso  i'  avrei  la  vita!  — 


MARTINO   LUNGHI 


IL  PALLONE 


Questa,  ch'in  sen  di  cuoio  alma  ha  di  vento, 
industriosa  macchina  leggiera, 
forse  è  di  novo  mondo  imago  vera, 
di  superbo  ludibrio  alto  istrumento. 

L' arte,   che  ancor  mirabilmente  altera 
negli  scherzi  si  mostra,   ebbe  ardimento 
qui  dentro  imprigionare  un  elemento 
e  di  membrane  edificar  la  sfera. 

Questa,   or  umile  a'  colpi  or  baldanzosa, 
lieve  in  aer  dal  gioco   erra  vagante, 
se  stabil  nel  suo  centro  il  mondo  posa; 

onde  il  globo  dagli  omeri  pesante 
sottragga  Alcide  e  con  la  man  famosa, 
scotitor  d'altro  mondo,   irrida  Atlante. 


ANTONIO   DE'  ROSSI 


CONTRO  IL  SALASSO 


Fiamma  gentil,   eh' è  spirto  insieme  e  vita, 
il  gran  padre  de'  lumi  accese  in  noi  ; 
di  vivo  sangue  ei  si  compiacque  poi 
si  pura  alimentar  luce  gradita. 

Quel  chiuse  in  vene  a  cui  l'arteria  unita 
ministra  alta  virtù  co'  spirti  suoi, 
e  perché  oltraggio  ostil  qui  non  l'annoi 
veste  gli  fabricò  forte  e  munita. 

Questo  a  formar  vari  instrumenti  ordio 
nel  corpo  uman  l'onnipotente  mano, 
e   '1  passo  a  lui  per  tutti  i  membri  aprio. 

Ma,  per  l'altrui  sciocchezza,  oprossi  invano: 
quel  tesor  che  di  vita  a  l'uom  fé'  Dio, 
ardisce  di  versar  medico  insano. 


D'  INCERTO 


TA  KATAMHNIA 


Pallide  il  mio  bel  Sol,   ma  pur  vezzose, 
porta  di  bel  pallor  le  guance  sparte; 
ivi  languian,   ma  in  più  nascosta  parte, 
ne'  begli  orti  d'Amor,   fiorian  le  rose. 

Ma  io,   ch'in  cotal  mar  tai  sirti  ascose 
di  trovar  non  credea,   sciolte  le  sarte 
e  drizzato  il  cammin,   l'ingegno  e  l'arte, 
a  solcar  m'accingea  l'onde  amorose. 

Quand'ella:  —  Ah,  non  fia,  no!  —  disse,  —  ben  mio, 
non  fia  che  tenti  i  perigliosi  umori, 
che  causar  ti  potrian  naufragio  rio. 

So  che  tu  il  frutto  de'  tuoi  degni  amori 
da  me  ricerchi,  e  dar  tei  bramo  anch'io; 
ma  cor  noi  puoi  ne  la  stagion  de'  fiori. 


D' INCERTO 


ZITELLA  ROMANESCA   RITROSA 


—  Oimè,   che  fastidioso!   andate  in  là, 
non  vi  vollio  baciare,   signor  no! 
Che  ci  credete  forse?  Oh,   guarda  un  po' 
costui   come   è   sfacciato!    Oh  via,   in   che   dà? 

Orsù,   andate  via,   lasciate  sta', 
ch'io  non  fo  queste  cose:   oh,   via,   mò; 
che  si,   che  sul  mustaccio  io  vi  darò 
una  pianella;   io  non  ci  voglio  fa'. 

Se  non  andate  via,   io  grido  a  fé, 
e  lo  dirò  a  mia  ma',   e  allora  qui 
più  non  verrete  e  vi  dirà  il  perché. 

Più  presto  un'altra  volta  o  un  altro  di... 
Come  séte  ostinato  !   In  quanto  a  me, 
credo  con  tutte  voi  fate  cosi. 

Pure  volete,   eh  si. 
Uh,  poveraccia  me!   oh,   via,   su, 
io  voglio  fa',   per  non  sentirvi  più!  — 


D'INCERTO 


LA  MOSCA  NEL  CALAMAIO 


Bevi,   augello  infernal,   pugliese  mostro, 
sanguisuga  volante,   alata  strega; 
bevi  a  schiattabudella  e  vatti  annega, 
sporca   arpia   della  terra,    in   mar   d' inchiostro. 

Tanto  sangue  m'hai  tratto,   orca  vorace, 
che  come  Erisitton  vuote  ho  le  vene; 
né  di  tua  crudeltà  presi  le  pene, 
che  quant' empia  e  crudel  fosti  fugace. 

Senza  pace  né  tregua,   atra  Medusa, 
di  te  stessa  facendo  arco  e  saetta, 
cavallo  e  cavalier,   tromba  e  trombetta, 
bersagliasti  il  mio  muso  e  la  mia  musa. 

Gittar  la  penna  e  rinegar  Parnaso, 
percoter  l'aria  e  schiaffeggiar  me  stesso, 
quante  fiate  m'hai  fatto?  e  come  spesso 
mi  fé'  una  mosca  andar  la  mosca  a!  naso? 


D    INCERTO  217 

Anzi,   mosca  non  sei;    ma  il  fiero  assilo, 
che  Giunon  mandò  dietro  alla  baldracca 
dal  tonante  rivai  cangiata  in  vacca 
ch'andò  per  rabbia  a  pascolar  nel  Nilo. 

S'io  scrivo,   in  su  la  man  scendi  boccone; 
se  difendo  la  man,   l'occhio  è  assaltato: 
cosi  gli  occhi  ho  trafitti  e  '1  naso  enfiato, 
ch'io  simiglio  ad  Omero  ed  a  Nasone. 

Trarmi  il  sangue  e  gli  spirti,  questo  è  un  nulla; 
ma  sorbirlo  e  cacarlo  per  dispetto, 
e  sporcarmi  la  carta  e  '1  mio  concetto, 
son  pur  cose  da  Gheto  e  Cacafulla. 

Ma  quel  dio  che  protegge  in  Elicone 
l'onor  delle  sue  muse  e  de'  poeti, 
con  degna  punigion  t'ha  posta  in  geti, 
e  un  corno  per  tuo  scorno  è  tua  prigione. 

Nel  sacro  inchiostro,   onde  l'ingegno  ameno 
riga  gli  orti  di  Pindo,   intirizzita, 
hai  lasciato  lo  strai,   l'ali  e  la  vita, 
e  il  latte  delle  muse  è  il  tuo  veleno. 

Or  voi  con  labra  di  tenaglie  armate, 
correte  a  questa  preda,   o  formicioni  ; 
pulci,   vespe,  tafani  e  farfalloni, 
a  stuzzicar  poeti  oggi  imparate  ! 


V 


GIROLAMO  FONTANELLA 


I 

IL  VELO  SUL  PETTO 


Qual  bianca  nube  d'odorosa  tela, 
preziosa  d'Olanda  alma  testura, 
nel  petto  di  costei  candida  e  pura, 
tanta  vaghezza  di  candor  mi  cela? 

Deh,   tu,   pietoso  Amor,   scoprimi  e  svela 
quel  bianco  marmo  eh'  intagliò  natura, 
e  per  1'  Egeo  de  l'amorosa  arsura 
tu  di  quel  velo  omai  fammi  la  vela! 

Prendilo,   o  tu  ch'hai  di  volar  costume 
i  campi  del  volubile  elemento, 
paraninfo  d'amor,   leggiadro  nume!  — 

Ed  ecco  già  che  spiritoso  e  lento, 
col  ventilar  de  le  sue  molli  piume, 
quel   che   mi   nega   Amor   mi   dona   il   vento. 


LIRICI    MARINISTI 
II 

IL  DONO  DEI  GUANTI  DI  SETA 

Pompe  di  leggiadria,   spoglie  odorate, 
di  sidonia  maestra  opre  ingegnose, 
ove  l'industria  a  meraviglia  pose 
mille  di  seta  e  d'or  fila  intrecciate; 

ite  per  custodir  quell'animate 
nevi,  quelle  d'amor  candide  rose: 
quanti  baci  vi  do,   nunzie  amorose, 
a  la  bella  ch'adoro  oggi  portate. 

Vestite  quel  purissimo  candore, 
con  quei  viluppi  di  meonie  sete 
prendete  i  lacci  ad  emular  d'Amore. 

Oh   quanto   agli   occhi   miei   grate   sarete, 
se  quella  man,   che  m'imprigiona  il  core, 
per  mia  vendetta  in  prigionia  stringete  ! 


III 
LA  NENIA  PRESSO   LA  CULLA 

Tremola  navicella  un  di  movea 
quella  che  del  mio  cor  regge  la  chiave, 
e  spirando  col  canto  aura  soave, 
per  l'onde  de  l'oblio  lieta  scorrea. 

Ubbidia  la  quiete  al  moto  grave, 
che  con  impeto  lento  il  pie  facea, 
e  l'agitata  e  pargoletta  nave 
in  braccio  a  Pasitea  lieta  correa. 

Placida  nube  e  graziosa  intanto 
chiuse  al  fanciullo  il  delicato  ciglio, 
ch'umido  si  vedea  di  molle  pianto. 

Cosi,  dentro  un  bel  velo  aureo  e  vermiglio, 
il  sonno  apporta  Citerea  col  canto, 
dentro  cuna  di  rose  al  nudo  figlio. 


GIROLAMO    FONTANELLA  223 

IV 

INVIANDO  UN  PAPPAGALLO 

Questo  de  V  indo  ciel  pomposo  augello, 
peregrino  volante,   alato  mostro, 
che  discepolo  apprese,   accorto  e  bello, 
distinto  il  suon  de  l'idioma  nostro; 

mira  com'ha  leggiadro  il  curvo  rostro, 
come  liscia  la  piuma  e  terso  il  vello; 
ha  manto  di  smeraldo  e  bocca  d'ostro, 
che  ridice  talor  quanto  io  favello. 

In  cosi  vaga  prigionia  raccolto, 
miralo  com'è  vago  e  come  arguto, 
come  a  la  tua  beltà  si  sta  rivolto. 

Ma  temo,   oimè,   ch'in  tuo  poter   venuto, 
stupido  a  lo  splendor  del  tuo  bel  volto, 
ove  garrulo  fu,   non  torni  muto. 


V 

IL  SALASSO 

Prese  medica  man  serico  laccio, 
ove  inferma  languia  la  bella  Irena, 
e  quel  molle  annodò  candido  braccio, 
che  nel  regno  d'Amor  l'alme  incatena. 

Per  toglier  de  la  febre  il  grave  impaccio, 
destro  ferio  la  delicata  vena, 
che,   da  ferro  sottil  percossa  a  pena, 
il  rubino  spiccò  dal  vivo  ghiaccio. 

Al  zampillar  di  quel  sorgente  rivo 
mancò  la  bella,   e  dolce,   a  poco  a  poco, 
tinse  un  bianco  pallor  l'ostro  nativo. 

Ratto  l'anima  mia  corse  in  quel  loco, 
per  tòr  la  sete  in  quel  zampillo  vivo; 
ma  l'onda  ritrovò  ch'era  di  foco. 


224  LIRICI     MARINISTI 

VI 

IL  PETTINE  ROTTO 

Candida  e  delicata  navicella, 
ch'era  di  terso  avorio  opra  gioconda, 
d' una  chioma  fendea  dorata  e  bella 
l'aurato  flutto  e  la  tempesta  bionda. 

Guidata  da  una  man  polita  e  monda, 
prendea  de'  miei  sospir  l'aura  novella; 
ed  un  cristallo  ch'ebano  circonda 
innanzi  avea  per   tramontana  e  stella. 

Vago  di  gir  con  peregrino  errore, 
senza  temer  di  rimanere  assorto, 
v'ascese  incauto  il  semplicetto  core. 

Ecco,   mentre  attendea  vicino  il  porto, 
per  quello  biondo  pelago  d'amore 
si  divise  la  nave  e  restò  morto. 


VII 

LA  BELTÀ  VINTA  DAL  TEMPO 

Ecco,   piena  d'orror,   l'età  canuta, 
ch'ogni  umana  grandezza  abbatte  a  terra: 
chi  mi  fece  in  amor  si  lunga  guerra, 
da  la  guerra  degli  anni  ecco  abbattuta. 

Quella  beltà,   eh 'a  trionfar  venuta, 
sovra  ogni  altra  innalzò  natura  in  terra, 
per  man  del  tempo,   ch'ogni  gloria  atterra, 
miserabil  trofeo  miro  caduta. 

Pallida   agli   occhi   miei  mostra  i  sembianti 
chi  ne  la  maestà  del  suo  bel  viso 
mille  fece  tremar  pallidi  amanti. 

Il  mio  sole  adorato  oggi  è  deriso; 
se  cominciò  la  mia  tragedia  in  pianti, 
or  la  favola  sua  termina  in  riso. 


GIROLAMO    FONTANELLA 
Vili 

CONFESSIONE  DI  POETA 

Ne  la  scola  d'amor  non  fui  giammai, 
e  de  l'arte  d'amor  détto  e  ragiono; 
come  esperto  amator,   di  duo  bei  rai 
descrivo  il  lampo  e  non  conosco  il  tuono. 

Mostro  in  carte  d'amar,  né  seppi  mai 
come  d'alma  beltà  gli  effetti  sono; 
piangendo  vo  con  dolorosi  guai, 
ma  de'  miei  pianti  è  simulato  il  suono. 

Quel   che   sento   narrar   vero   ed   espresso 
da  un  fedele  amator  coi  detti  sui, 
figurando  talor  vo  di  me  stesso. 

Dipinsi  amor,   ma  non  conobbi  lui, 
e  colorii  con  la  mia  penna  spesso 
ne  le  favole  mie  gli  amori  altrui. 


IX 

LA   NUOTATRICE 

Lilla  vid'io,   qua!  matutina  stella, 
spiccando   un  salto  abbandonar  la  sponda, 
e  le  braccia  inarcando,   agile  e  snella, 
con  la  mano  e  col  pie  percuoter  l'onda. 

La  spuma  inargentò  canuta  e  bella, 
ch'una  perla  sembrò  che  vetro  asconda, 
e  disciolta  nel  crin  parea  fra  quella 
nova  aurora  a  veder,   candida  e  bionda. 

L'onda  dolce  posò,   zefiro  tacque, 
e  dove  il  nuoto  agevolando  scorse, 
tornar  d'argento  e  di  zaffiro  l'acque. 

A  mirarla  ogni  dea  veloce  corse, 
e  fu  stupor  ch'ove  Ciprigna  nacque, 
un'altra  Citerea  dapoi  ne  sorse. 


Lirici  ;: marinisti 


226  LIRICI     -MARINISTI 


IL  RUSCELLO 


Questo  limpido  rio,   ch'ai  prato  in  seno 
da  una  lacera  pietra  esce  tremante 
e,   quasi  re  di  questo  campo  ameno, 
s'incorona  d'erbette,   orna  di  piante; 

quando  il  sole  col  raggio  apre  il  terreno 
su  '1  leone  del  ciel  fiero  e  stellante, 
allor  che  stanco  dal  calor  vien  meno, 
dolce  ristora  il  peregrino  errante. 

Sono  i  suoi  mormorii  trilli  canori, 
al  cui  suono  gentil  canta  ogni  augello, 
a  la  cui  melodia  danzano  i  fiori. 

Ben  si  può  dir,   tanto  è  suave  e  bello, 
per  questi  alati  e  musici  cantori, 
organo  de  la  selva  e  non  ruscello. 


XI 

LA   TERRA  ASSETATA 

Cento  bocche  la  terra  apre  anelante, 
domandando  pietà,  venendo  meno, 
e,  da  l'armi  del  Sol  trafitta  il  seno, 
mostra  le  piaghe  al  ciel,   focosa  amante. 

Qual  Mongibello  di  calor  fumante, 
bolle  ai  raggi  del  Sol  l'arso  terreno 
e  sembra,  di  sudor  sparso  e  ripieno, 
converso  in  fonte  il  peregrino  errante. 

Celisi  il  pesce  pur  nel  salso  fondo, 
che  fin  là  dentro  a  quel  ceruleo  umore 
ferito  vien  dal  sagittario  biondo. 

Si  fiero   hanno  i  mortali  aspro  calore, 
che  se  '1  diluvio  ritornasse  al  mondo, 
stilla  non  spegneria  di  tanto  ardore. 


GIROLAMO    FONTANELLA 
XII 

INVOCAZIONE  ALLA  PIOGGIA 

Apri  i  fonti  superni,   e  larga  a  queste 
sitibonde  campagne  acque  diffondi, 
tu  che  cinta  lassù  d'arco  celeste 
sopra  trono  di  nubi  il  capo  ascondi. 

Son  de  la  terra  i  fior  bocche  funeste, 
e  sospiri  gli  odor,   lingue  le  frondi, 
che  per  tante  ammorzar  vampe  moleste 
pregan  che  sopra  lor  prodiga  inondi. 

Tragico  il  bosco;  e  '1  monte  orrido  e  solo 
funestato  ha  di  polve  il  crine  e  '1  manto, 
e  campo  d'Etiopia  appare  il  suolo. 

Per  aver  nel  calor  rifugio  alquanto, 
querulo  piangerla  l'almo  usignuolo; 
ma  gli  manca  la  voce  e  muore  il  pianto. 


XIII 

AL  VENTO 

Alito  de  la  terra  e  spirto  errante, 
che  da  concavi  monti  in  aria  esali, 
e  questi  in  agitar  campi  vitali 
la  natura  fai  bella  e  '1  mondo  amante; 

tu  nel  fiato  volubile  e  vagante 
le  fortune  del  mar  segni  ai  mortali, 
e  mentre  batti  l' invisibil  ali, 
per  le  liquide  vie  scorri  volante. 

Ogni  nube,   ogni  nembo  agiti  e  giri, 
fai  volar,   fai  gonfiar  vele  ed  antenne, 
fai  che  '1  tutto  respiri  allor  che  spiri. 

Quanto  lieve  ritrovi,   alzi  ed  impenne; 
di  qua  voli  e  di  là  giri  e  raggiri, 
e  veloci  alla  Fama  ergi  le  penne. 


228  LIRICI     MARINISTI 

XIV 

LA   PERLA 

Vaga  figlia  del  ciel,   ch'eletta  e  fina 
sei  di  conca  eritrea  parto  lucente, 
ricchezza  del  bellissimo  oriente, 
nata  e  concetta  in  mar  d'umida  brina; 

tu  allumi  di  candor  l'onda  marina, 
uscendo  incontra  al  Sol  bianca  e  ridente; 
il  cui  valor,   la  cui  beltà  nascente, 
ogni  ninfa,   ogni  dea  pregia  ed  inchina. 

Tu,   pullulando  fuor  d'alma  natura, 
non  prendi  qualità  di  salso  gelo, 
non  tingi  il  tuo  splendor  di  macchia  impura; 

ma  qual  vergine  bella  in  bianco  velo 
lasci  a  l'onda  l'amato,   e  pura  pura 
fai  de  la  tua  beltà  giudice  il  cielo. 


XV 

L'ERMELLINO 

Animaletto  placido  e  vezzoso, 
eh'  hai  di  morbida  neve  adorno  il  vello, 
e  per  téma  di  macchia  o  neo  di  quello 
movi  tremolo  il  pie,   l'occhio  geloso; 

tu,  quando  il  bosco  appar  sozzo  e  fangoso, 
non  esci  fuor  giammai  dal  chiuso  ostello: 
e  come  giglio  inargentato  e  bello, 
trovi  in  mezzo  al  candor  pace  e  riposo. 

Spento,   sei  degno  poi,   con  alto  vanto, 
quelle  porpore  ornar  che  '1  sacro  onore 
a  la  mistica  sposa  adorna  il  manto. 

Vestir  non  osi  te  vano  amatore: 
ti  vesta  ben  chi  con  affetto  santo 
mostra  puro  il  desio,  purgato  il  core. 


GIROLAMO    FONTANELLA  229 

XVI 

IL  CORALLO 

Collinette  fiorite,   ombrelle  amene 
sola  al  mondo  non  ha  Pomona  e  Flora, 
che  Teti  e  Citerea  là  giù  pur  tiene, 
dentro  l'onde  del   mar,   giardini  ancora. 

Sono  l'alghe  l'erbette  e  i  fior  l'arene, 
o\e  ai  pascoli  suoi  Proteo  dimora; 
frutti  son  quelle  in  mar  conche  serene, 
che  la  luna  inargenta  e  '1  sole  indora. 

Purpurino  virgulto  ivi  natura 
il  ramoso  corallo  aver  si  vanta, 
eh' è  di  magico  sangue  alma  fattura. 

Dal   tronco  il   nuotator   destro   la   schianta  ; 
la  prende  molle  e  la  ritrova  dura, 
e  dubbioso  non  sa  s'è  pietra  o  pianta! 


XVII 

IL  GAROFANO 

Sdegna  la  plebe  de'  minuti  fiori 
e  star  negli  orti  abitator  non  cura 
questi,   ch'ambisce  con  fastosi  onori 
ne'  supremi  balcon  aver  cultura. 

Ivi  candida  man  nobile  e  pura 
la  sua  maschia  virtù  nutre  d'umori, 
per  acquistarne  poi  gemina  usura 
di  molli  fronde  e  di  soavi  odori. 

Tal  con  fasto  e  con  festa  a  l'aria  uscito, 
gode,  adobbato  di  purpuree  fasce, 
a  la  rosa  leggiadra  esser  marito. 

Di  rogiada  o  di  linfa  egli  si  pa.sce; 
sorge  reciso  e,   pullulando  ardito, 
quasi  mostro  lerneo  sempre  rinasce. 


230  LIRICI     MARINISTI 

XVIII 

LA  MADDALENA 

Cangia   in   ruvida   spoglia,   in   corda   irsuta, 
questa  bella  pentita  il  manto  adorno, 
pompa  di  vanità,   fregio  di  scorno, 
di  caduca  ricchezza  ombra  caduta. 

Prima,   tra  lussi  in  maestà  seduta, 
mille  ricche  vedea  cortine  intorno; 
or  mira,   entro  selvaggio  ermo  soggiorno, 
con  frondosi  ricami  edra  intessuta. 

Trionfa  ella  del  mondo,   illustre  ed  alma, 
non  più  con  armi  di  beltà  profana, 
ed  ha  sotto  una  palma  oggi  la  palma. 

Cosi,  presso  una  limpida  fontana, 
de  le  lagrime  sue  purgando  l'alma, 
ov'era  Citerea,   sembra  Diana. 


XIX 

SAN  FRANCESCO  D'ASSISI 

Godea,   rapito  al  ciel,   languido  amante, 
Francesco,   acceso  il  cor  d'ardente  zelo, 
e  parea  sospiroso  ed  anelante 
da  le  rupi  d'Alvernia  alzarsi  al  cielo; 

quando  in  mezzo  al  rigor,  fra  l'ombra  e  '1  gelo, 
cherubin  luminoso  e  sfavillante, 
che  stampa  in  lui  come  in  purgato  velo 
r  imagine  di  Dio,  viva  e  spirante. 

Ben  del  sommo  Pittor  mostra  i  disegni 
chi  per  l'uomo  salvar  mostrò  nel  mondo 
tanti  esempi  di  vita  illustri  e  degni. 

Dovuto  a  lui  fu  tanto  onor  giocondo; 
dovea  portar  de  la  salute  i  segni 
chi  fu  de  l'uomo  il  redentor  secondo. 


GIROLAMO    FONTANELLA  231 

XX 

IL  BEATO  GIOVANNI   DI   DIO 

Angoscioso,   anelante,   in  rozzo  letto 
su  l'estrema  agonia  Giovanni  accolto, 
sostenendo  la  croce  in  mezzo  al  petto, 
sta  con  gli  occhi  e  con  l'alma  in  Dio  rivolto. 

E  mentre  fuor  dal  tramortito  aspetto 
piove  il  freddo  sudor,   da  morte  sciolto, 
trova  Maria,   che  con  amico  affetto 
li  sostiene  la  fronte  e  asciuga  il  volto. 

Soave  è  di  sua  morte  e  dolce  l'ora, 
trovando  lei,   che  con  pietoso  zelo 
il  suo  dolce  sudor  terge  e  ristora. 

Ma  se  Maria  l'accoglie  in  si  bel  velo, 
meraviglia  non  è;   ch'essendo  aurora, 
vuol  con  queste  rogiade  andar  nel  cielo. 


XXI 

IL  SANGUE  DI  SAN  GENNARO 

Vedo  che  sciolto  ogni  rigor  tenace 
sei  de  la  parca  a  trionfar  bastante 
e,   qual  fervido  umor  bolle  in  fornace, 
presso  il  foco  divin  bolli  spumante. 

Vedo  ch'acceso  ed  agitato  amante, 
salti  per  allegrezza,   almo  e  vivace; 
che,   placando  di   Dio  l'ira  tonante, 
con  la  porpora  tua  n'impetri  pace. 

Vedo  eh'  hai  d'ammorzar  valore  eterno 
quanto  il  Vesevo  per  l'arsiccia  fronte 
vomita  fuor  dal  tempestoso  Averno. 

E   tante   hai   tu   dal   ciel    grazie  congionte, 
ch'atto  saresti  a  superar  l'inferno, 
non  che  bastante  a  trionfar  d'un  monte. 


232 


LIRICI    MARINISTI 
XXII 

ALLA  VERGINE 

Penso,   misero  me,   dubbio  in  aspetto, 
del  mio  corso  mortai  l'ultimo  passo, 
e  come  avrò  sotto  un  marmoreo  sasso 
con  immondi  animai  commune  il  letto. 

Io  già  l'ora  fatai  sicura  aspetto; 
ma,   quando  ha  da  venir   m'è  ignoto,   ahi  lasso! 
Cosi  pensoso  e  mesto  i  giorni  passo, 
ed  a  la  morte  a  più  poter  m'affretto. 

Ah,   che  sarà  di  me  quando  sia  giunto 
il  termine  prescritto  e  l'ultim'ora? 
Ahi  duro  passo,   ahi  formidabil  punto  1 

Ognun  mi  fuggirà;   ma  tu,   signora, 
madre  del  redentor,  discendi  a  punto, 
e  non  lasciarmi  in  abbandono  allora. 

XXIII 

LA    SALTATRICE 

A  Fabio  Ametrano 

Questa  beHa  d'amor  maga  innocente, 
che  con  giri  fatali 
i  balli  move  inegualmente  eguali, 
fa  d'insolita  gioia  ebra  ogni  mente, 
e  'I  pie  sciogliendo  ai  regolati  errori, 
incatena  gli  spirti,   incanta  i  cori. 

Prima,    accorta    ne'  moti,    alza    e    misura 
col  bel  suon  de  le  corde 
ne  la  musica  danza  il  pie  concorde, 
dando  al  corpo  gentil  grazia  e  misura; 
indi  parte  e  ritorna  e,   mentre  riede, 
sopra  l'ali  d'amor  regge  il  bel  piede. 


GIROLAMO    FONTANELLA  233 

Desta  e  sciolta,  in  un  pie  s'attiene  e  libra, 
indi  il  passo  radoppia, 
e   l'alza  in  aria  e  nel  cader  l'accoppia; 
si  rota  intorno  e  se  medesma  vibra, 
e  ne'  suoi  modi  e  ne'  suoi  moti  erranti, 
fatta  rota  d'amor,   volge  gli  amanti. 

China  a  tempo  il  ginocchio  e  l'aurea  testa 
con  bell'atto  soave, 
e  posando  la  danza,   ergesi  grave; 
poi  si  spicca  in  un  salto,   agile  e  desta, 
che  leggiero  nel  voi  s'erge  tant'alto, 
che  dubbioso  non  sai  s'è  volo  o  salto. 

Va  con  breve  ed  armonico  intervallo, 
regolato  da  l'arte, 

or  da  la  manca  or  da  la  dritta  parte; 
fugge  e  rompe  la  fuga  in  mezzo  al  ballo, 
e  ne  l'ordine  suo  mutando  gioco, 
la  credi  in  uno  ed  è  ne  l'altro  loco. 

Mentre  fuor  dal  bel  lembo  aurato  e  bello 
de  la  gonna  sua  vaga 
spinge  il  pie  delicato,   ogn'alma  impiaga; 
par  la  punta  del  pie  strale  novello, 
che  spedito  e  veloce  in  mezzo  i  petti 
fuor  da  l'arco  d'Amor  l'alme  saetti. 

Forse  scesa  qua  giù  la  bianca  luna 
dai  volubili  calli, 

ha  traslati  fra  noi  gli  eterni  balli  ? 
o  pur  nova  d'amor  vaga  fortuna, 
rendendo  altri  infelice,  altri  beato, 
volge  in  vario  tenor  l'umano  stato? 

Da  si  belle  e  si  rapide  carole 
apprendete  voi,  stelle, 
a  danzar  colà  su  più  vaghe  e  belle. 
Ore,  ancelle  del  di,  figlie  del  sole, 
che  danzando  là  su  guidate  il  giorno, 
fermate  il  ballo  ad  ammirarla  intorno. 


234  LIRICI     MARINISTI 

E  voi  ditemi  ancor,   nunzi  volanti, 
che  con  alto  governo 
regolate  del  ciel  l'ordine  eterno: 
da  quei  zaffiri  mobili  e  rotanti, 
ch'han  nel  danzar  si  numerosi  corsi, 
danzatrice  si  bella  è  scesa  forsi? 

Già  di  là  rispondete,   e  già  v'ascolto 
dai  celesti  zaffiri  : 

—  Donna  umana  non  è  costei  che  miri  ; 
se  veder  brami  il  ciel,   mira  quel  volto; 
mira  quel  pie,   ch'in  maestà  reale 
ha  dagli  angeli  appreso  il   moto  e  l'ale. 

XXJV 

LA    RICAMATRICE 
A  Francesco  Sacchi 

Questa  Aracne  d'amore, 
che  con  dita  maestre  adopra  l'ago 
e  con  industre  errore 
prende  accorta  a  fregiar  drappo  si  vago, 
l'arteficio  e  '1  lavor  si  ben  comparte 
ch'a  natura  fa  scorno,   invidia  a  l'arte. 

Mentre  il  lino  trapunge, 
d'acute  punte  il  cor  ferir  mi  sento; 
mentre  insieme  congiunge 
e  sposa  a  stami  d'or  fila  d'argento, 
ne  la  testura  sua  pregiata  ed  alma 
la  prigione  d'amor  tesse  a  quest'alma. 

Su  l'ordita  ricchezza 
move  l'agile  man  tanto  spedita, 
ch'a  quell'alta  prestezza 
in  lei  folgori  pensi  esser  le  dita, 
che  fra  tremoli  rai  d'argentei  fiori 
fan  con  gelidi  lampi  ardere  i  cori. 


GIROLAMO    FONTANELLA  235 

Su  la  rosa  gentile, 
ch'animata  di  fuor  le  ride  in  bocca, 
il  bell'ago  sottile 

pensosetta  talor  leggiadra  incocca, 
ed  in  quell'atto  insidiosa  e  vaga, 
sagittaria  d'amor,   gli  animi  impiaga. 

Talor  col  puro  dente, 
per  aggiungere  un  fil,   l'altro  recide, 
e  qua!  parca  innocente 
lo  stame  ancor  de  la  mia  vita  incide, 
e  con  alterni  ed  ordinati  modi 
mi  stringe  il  cor  fra  quei  minuti  nodi. 

Palla  forse  è  costei, 
ch'agli  atti,  a  l'arti,  a  le  maniere,  al   volto 
ben  somiglia  colei, 

ch'in  bellezza  e  valor  senno  ha  raccolto, 
e  qual  donna  immortai  dal  ciel  venuta, 
mostra  in  giovine  età  mente  canuta; 

o  la  tenera  Flora 
su  le  tele  a  provar  viene  i  suoi  pregi, 
che  ricamando  infiora 
con  groppi  d'or,   con  ingemmati  fregi 
e,   di  se  stessa  imitatrice,   gode 
schernire  altrui  con  ingegnosa  frode; 

o,   novella  angioletta, 
per  dimostrar  quegli  artefici  aurati 
ha  con  industria  eletta 
i  ricami  del  ciel  qua  giù  traslati  ; 
poi  ch'a  far  si  bell'opre,   ad  altri  ignote, 
chi  celeste  non  è,   giunger  non  potè. 


236  LIRICI     MARINISTI 

XXV 

AL  FIUME  SEBETO 

Per  la  fontana  nella  casa  di   Francesco  .Xardilli 

Fiumicello  vezzoso, 
che  con  passo  lucente 
fuor  d'un  seno  petroso 
con  bel  roco  vagir  spunti  nascente, 
e  discorrendo  in  tortuosi  errori 
stampi   in   mezzo   le   piagge  orme  di  fiori; 

movi  il  pie  susurrante, 
peregrin  fuggitivo, 
e  nel  corso  tremante 
sei  di  posar  nel  proprio  letto  schivo, 
e  girevole  e  torto  in  vari  modi 
col  tuo  lubrico  dente  i  sassi  rodi. 

Qual  coppiero  gentile, 
dentro  vaso  d'argento 
a  la  corte  d'aprile 
somministri  da  ber  gelido  e  lento 
e,   qual  musico  bel,  tra  pietra  e  pietra 
del  tuo  vivo  cristal  suoni  la  cetra. 

Sei  tu  povero  d'onde, 
ma  ben  ricco  di  pregi, 
ed  angusto  di  sponde 
il  nome  augusto  hai  d'onorati  fregi, 
e  benché  umil  per  le  campagne  corri, 
per  le  penne  di  cigni  altero  scorri. 

Nel  bell'orto  reale, 
che  fa  scorno  a  l'Eliso, 
per  occulto  canale 
compartito  in  più  rivi  entri  diviso, 
e  per  opra  de  l'arte  argenti  molli, 
disdegnando  la  terra,   al   cielo  estolli. 


GIROLAMO    FONTANELLA  237 

Ivi,   limpido  e  bello, 
colorando  i  bei  campi 
con  argenteo  pennello, 
mille  forme  di  fior  dipingi  e  stampi 
e,  gorgogliando  entro  marmoree  conche, 
par  che  mostri  parlar,  ma  in  voci  tronche. 

Passi  tacito  poi 
a  le  mura  beate 
ove,  seggio  d'eroi, 
la  Sirena  inalzò  l'alma  cittate, 
ed  in  mezzo  le  vie  più  illustri  e  conte 
per  diletto  d'altrui  fai  più  d'un  fonte. 

Giungi  al  tetto  onorato 
del  mio  caro  Nardillo, 
e  da  piombo  forato, 
prigioniero  vagante,   esci  tranquillo, 
e  con  tremola  fuga  e  dolce  suono 
fai  di  specchi  cadenti  un  regio  trono. 

Qui,   tra  marmi  spiranti 
ch'han  silenzio  facondo, 
versi  piogge  stillanti, 
d'argentato  licor  Giove  fecondo, 
e  di  ricco  tesor  largo  e  ripieno 
mille  pesci  guizzar  ti  vedi  in  seno. 

Qui  con  tremole   ampolle 
par  che  placido  balli 
fuor  d'un. picciolo  colle, 
che  con  arte  s'incurva  entro  due  valli, 
ed  in  ruvida  si  ma  vaga  cote 
formi  in  dolce  cader  lubriche  rote. 

Qui  son  musiche  corde 
le  tue  linfe  cadenti, 
onde  lieto  e  concorde 
traggi  roca  armonia  di  bassi  accenti, 
che  lusinga  l'udito  e  fa  che  l'alma 
de  le  cure  maggior  sgravi  la  salma. 


238  LIRICI     MARINISTI 

Tu,   qualora  cantando 
il  tuo  dotto  signore 
va  con  l'arco  temprando 
ne  la  lira  gentil  fila  canore, 
qual  Castalio  novel  ti  vedi  intorno 
col  drappel  de  le  muse  il  dio  del  giorno. 

Deh,   se  stanco  egli  brama 
al  suo  corpo  riposo, 
e  nel  letto  richiama 
ai  suoi  lumi  talor  sonno  gioioso, 
in  pacifico  oblio,   mentre  dispensi 
il  tuo  limpido  umor,   lega  i  suoi  sensi. 


XXVI 

ALLA  BOCCA 

Bella  fabbra  d'accenti, 
vaga  culla  del  riso, 
ricca  cella  d'odor,   pompa  del  viso, 
ingemmata  prigion  di  cori  ardenti, 
amoroso  spiraglio  onde  odorato 
esce  al  foco  de'  cor  tepido  fiato; 

arco  tenero  e  bello, 
eh'  hai  di  minuti  avori 
le  tue  saette  onde  ferisci  i  cori; 
prezioso  d'amor  nobil  cancello, 
di  corallo  e  di  perle  uscio  lucente, 
pellegrina  conchiglia,   urna  vivente; 

fresca  rosa  animata, 
che  da  gelo  e  d'arsura 
ti  serbi  intatta  e  ti  mantien  sicura; 
del    palagio    d'amor    porta    ingemmata, 
ove  ai  moti  del  cor  l'aura  di  vita 
trova  dolce  l'entrar,   dolce  l'uscita; 


GIROLAMO    FONTANELLA  239 

ricco  e  lucido  chiostro, 
ove  musiche  intorno 

fan  passeggio  le  Grazie  ed  han  soggiorno; 
bel  teatro  gentil  d'avorio  e  d'ostro, 
ove  giostra  la  lingua  e  ardente  e  vaga 
con  acuto  parlar  gli  animi  impiaga; 

odoroso  giardino, 
ove  ordiscono  i  favi 
gli  Amoretti  volanti,   api  soavi; 
puro  fonte  d'ambrosia  aureo  e  divino, 
ove  il  fervido  cor,   pien  d'allegrezza, 
assetato  d'amor  beve  dolcezza; 

nova  lancia  d'Achille, 
che  con  colpi  vitali 
ne  le  guerre  d'amor  gli  animi  assali, 
e  traendo  di  gioia  umide  stille 
giovi  poi  se  ferisci,   e  a  le  ferute 
con  soave  baciar  porti  salute; 

tu,   fra  i  brevi  confini 
di  duo  labbri  giocondi, 
l'Arabia  accogli  e  '1  paradiso  ascondi; 
e  con  le  chiavi  di  duo  bei  rubini 
apri  il  cielo  agli  amanti  e  in  dolci  calme 
fai  lieti  i  cori  e  fai  beate  l'alme. 

Saggia  e  bella  riprendi, 
persuadi  ed  alletti, 
e  sai  destare  e  dominar  gli  affetti; 
preghi,   canti,   lusinghi,   ardi  ed  incendi 
e,   con  dolce  fiicondia,   alta  e  divina, 
fai  de  l'alme  e  de'  cor  dolce  rapina. 

Or  ch'in  rime  ho  tessuto 
la  tua  gloria  e  '1  tuo  vanto, 
bocca  bella  e  gentil,   baciami  intanto. 
Sia  premio  il  bacio  al  mio  cantar  dovuto; 
la  mercede  a  la  bocca  e  '1  premio  tocca, 
che  lodò,   che  cantò  te,   bella  bocca. 


240  LIRICI     MARINISTI 

XXVII 

ALLA  LUNA 


Candidissima  stella 
che  '1  silenzio  tranquillo  apri  nel   mondo, 
e  pacifica  e  bella 

rendi   il   fosco   de   l'ombre   almo   e   giocondo, 
e  de  l'umido  sonno  umida  sposa, 
abbracciando  la  notte,   esci  pomposa; 

tu  con  provvida  cura 
spargi  d'alta  virtù  gravidi  effetti  ; 
tu,  ne  la  notte  oscura, 
sagittaria  del  ciel,   l'ombre  saetti 
e,   menando  là  su  danze  e  carole, 
scorri  i  lucidi  campi,   emula  al  sole. 

Tu  con  freno  d'argento 
reggi,   in  campo  d'orror,   carro  di  stelle; 
tu  con  vago  concento 
mille  guidi  nel  ciel  musiche  ancelle 
e,   reina  de'  boschi  in  bianca  vesta, 
coronata  di  corna  ergi  la  testa. 

Piovi,  balia  feconda, 
su  le  bocche  dei  fior  manne  stillanti, 
e  soave  e  gioconda 
versi  in  largo  tesor  mille  diamanti, 
e  squarciando  le  nubi  intorno  intorno, 
rendi  chiara  la  notte,   emula  al  giorno. 

Apri  e  chiudi  i  canali 
de  le  fonti  del  ciel  puri  e  giocondi, 
e  con  acque  vitali 
la  crescente  virtù  nei  corpi  infondi, 
e  cortese  a  le  piante,   amica  ai  fiori, 
spargi  in  grembo  a  la  terra  ampi  tesori. 


GIROLAMO    FONTANELLA  241 

Variabile  ogn'ora, 
fai,   mutando  color,   diverso  effetto: 
ora  pallido  ed  ora 

rosseggiante  nel  ciel  mostri  l'aspetto, 
e  con  vario  apparir  vari  figuri 
del  futuro  avvenir  segni  sicuri  ; 

or  superbo  e  ripieno 
di  fecondo  licor  gonfi  il  sembiante, 
e  di  Teti  nel  seno 

movi  al   moto  che   fai  l'onda  incostante; 
or  cornuta  hai  la  fronte  e  scema  i  rai, 
come  parti  nel  ciel  non  torni  mai  ; 

or  con  languido  lume 
fra  le  nubi  sepolta  umida  manchi, 
or  con  candide  piume 
le  selve  inalbi  e  le  campagne  imbianchi, 
e  risorta  fenice  alma  ed  adorna, 
rinovando  la  luce  ergi  le  corna. 


XXVIII 

AL  MELOGRANATO 

O  piropo  de'  campi, 
ch'emulando  la  rosa 
nel  tesor  di  natura  ardi  ed  avvampi, 
e  con  bocca  focosa 
par  che  muto  ragioni,  e  quante  belle 
hai  faville  d'amor,  tante  hai  favelle; 

tu  con  vago  cimiero, 
eh'  hai  di  porpora  tinto, 
sorgi   in   campo   di   fior   molle   guerriero  ; 
e  di  foco  dipinto 

sfidi  il  gelido  verno,  e  mentre  t'armi, 
ne  le  spine  ch'hai  tu,  dimostri  l'armi. 

Lirici  mariìiisii  —  16 


242  LIRICI    MARINISTI 

Tu,   fenice  de'  colli, 
col  natale  de  l'anno 
rinascendo  più  bello,  il  capo  estolli 
ove  i  rami  ti  fanno 
glorioso  corteggio,   e  in  bel  lavoro 
la  spoglia  hai  d'ostro  e  la  corona  hai  d'oro. 

Sopra  trono  di  frondi 
reggi  popol  minuto 
di  vermigli  granelli  orbi  giocondi  ; 
a  ragion  t' è  dovuto 
il  bel  nome  di  re,   che  in  vari  segni 
ne  le  celle  ch'hai  tu  dimostri  i  regni. 

Per  dar  vita  a'  tuoi  parti, 
che  son  molli  rubini, 
pellicano  d'amor,  t'apri  in  due  parti, 
e  'n  due  brevi  confini, 
da  materna  pietà  venendo  meno, 
mostri  lacero  il  fianco,   aperto  il  seno. 

In  te  schiera  volante 
di  solleciti  Amori 

sugge  d'aureo  licor  manna  stillante; 
in  te  Zefiro  e  Glori 

scherzan  placidi  e  belli,   e  intorno  al  viso 
ch'in  tal  forma  cangiasti,   aprono  un  riso. 

Quanti  piccioli  e  belli, 
graziosi  e  stillanti, 

chiudi  tu  globi  dolci,   aurei  granelli; 
tanti  cori  d'amanti, 
in  compendio  bellissimo  ristretto, 
possiede  Lilla  mia  nel  bianco  petto. 


GIROLAMO    FONTANELLA  243 

XXIX 

A  POSILIPO 


Paradiso  del  mare, 
vaga  reggia  d'Amor,   trono  d'aprile, 
Pausilippo  gentile, 

che,  stendendo  sul  lito  ombre  gioconde, 
incoroni  le  piagge,   abbracci  l'onde; 

in  te  placida  vola, 
refrigerio  di  vita,   aura  novella, 
aura  tremola  e  bella, 

che  sgombrando  dal  cor  l'ombre  e  i  martiri, 
i  sospiri  d'amor  cangia  in  respiri. 

Sacro  albergo  a  le  muse, 
odi  mille  intonar  dolci  istrumenti  : 
concertati  concenti, 

che  sopra  un  legno  di  bandiere  adorno 
le  sirene  ch'hai  tu  siìdano  intorno. 
Mille  navi  dipinte, 

ch'hanno  prore  d'argento  e  poppe  d'oro, 

ricche  d'alto  lavoro, 

ti  corteggiano  intorno;   onde  in  vederle 

ne  le  spume  che  fai  produci  perle. 
Hai  di  ricchi  edifìci, 

prove  illustri  de  l'arte,   alteri  fregi; 

in  te  vengono  i  regi, 

ed  a  stanzar  ne  le  tue  rive  belle 

scenderiano  gli  dèi  fin  da  le  stelle. 
Sei  di  Flora  e  di  Teti 

grazioso  ricetto,   altero  nido; 

e  sul  colle  e  sul  lido, 

con  soavi  armonie,   pari  e  concordi 

le  sirene  e  gli  augelli  insieme  accordi. 


244  LIRICI    MARINISTI 

In  te  l'alga  è  smeraldo, 
bianca  perla  la  spuma,   argento  l'onda, 
bel  cristallo  la  sponda, 
vaga  stella  ogni  fior  pura  e  serena, 
gemma  fina  la  conca,   oro  l'arena. 

In  quest'antri,   in  quest'ombre, 
spesso  il  tenero  Amor  giunge  danzando; 
in  quest'alghe  posando, 
baldanzosi  nel  cor,   lieti  nel  viso, 
chiaman  Cerere  e  Bacco  il  canto  e  '1  riso. 

A  delizie  si  belle, 
a  si  dolci  armonie  ch'in  te  son  mosse, 
qui,   se  muto  non  fosse, 
quando  sopra  de  l'onde  ergesi  ed  esce, 
parlerebbe  d'amor  lo  scoglio  e  '1  pesce. 

Salta  il  curvo  delfino 
con  la  coda  forcuta  entro  i  cristalli  ; 
i  suoi  guizzi  son  balli 
e  si  attento  l'orecchio  in  te  ripone, 
eh 'a  la  musica  tua  lascia  Ar'ione. 

Qui  non  morono  i  cigni, 
come  in  riva  del  Po  sovente  avviene; 
qui  le  belle  sirene, 
con  melodia  eh' è  di  dolcezza  ordita, 
danno  invece  di  morte  altrui  la  vita. 

O  bel  monte  fra'  monti, 
per  delizia  de'  sensi  a  noi  risorto, 
tu,   pacifico  porto 

d'ogni   mesto   pensier,    d'ogn'alma   errante, 
porti  pace  al  nocchier,   requie  all'amante. 

Grazioso  il  Tirreno, 
con  la  bocca  de  l'onde  il  pie  ti  baci; 
in  quest'acque  vivaci, 
ove  danzano  ognor  ninfe  e  tritoni, 
mentre  fiori  li  dai,  perle  ti  doni. 


GIROLAMO  FONTANELLA  245 

XXX 

I  PIACERI   DELLA  VILLA 

Ad  Isabetta  Coreglia 

Pace  a  voi,  pinti  augelli, 
delicate  pianure,  alme  colline, 
ombre  fresche,   erbe  molli,   aure  divine, 
solitari  recessi  opachi  e  belli, 
alti  monti,   ime  valli,   orti  fioriti, 
rotte  balze,   erme  rupi,   antri  romiti! 

A  voi  lieto  ritorno, 
del  mio  povero  aver  contento  e  pago, 
di  silenzio  e  di  pace  amico  e  vago. 
Deh,  tumulto  non  sia  dov'io  soggiorno; 
qui  stia  sepolto  ogni  mio  lieto  accento; 
a  la  città  non  riportarlo,   o  vento. 

Porti  l'occhiuta  Fama, 
che  d'applausi  si  pasce  e  d'alti  fasti, 
a  l'orecchio  civil  pugne  e  contrasti: 
chi,   fra  strepiti  avvezzo,   avido  brama 
del  fiero  Marte  esaminar  gli  errori, 
legga  pugne,   oda  trombe,   ami  furori. 

Ma  chi,  vago  de'  boschi, 
desia  d'amica  pace  intender  carmi, 
meco  venga  tra' colli  e  lasci  l'armi: 
qui,  soletto  fra  rami  ombrosi  e  foschi, 
ove  l'ombra  cader  serena  io  veggio, 
riposato  nel  cor  danzo  e  passeggio. 

Poggio  dal  piano  a  l'erto, 
e  parmi  ad  ora  ad  or  toccar  le  stelle 
su  le  cime  de'  monti  altere  e  belle. 
Pendo  nel  mio  piacer  dubbio  ed  incerto, 
e  dico,   asceso  in  si  sublime  loco: 
—  D'arrivar  sopra  il  ciel  mi  resta  poco.  — 


246  LIRICI     MARINISTI 

Ivi,   mentre  respiro, 
fra  due  valli  mi  fermo  ombrose  e  cupe. 
Ove  si  sporge  fuor  diserta  rupe, 
sorger  tempio  devoto  al  del  rimiro, 
aula  sacra  di  Dio,   ch'infonde  al  petto 
riverenza,   stupor,   téma  e  diletto. 

Santo  e  romito  stuolo, 
ch'ha  di  cenere  sparsa  ispide  vesti, 
spira  qui  con  silenzio  aure  celesti  : 
ricco  di  povertà,   solingo  e  solo, 
ha  d'irsute  ritorte  il  fianco  avvolto, 
scalzo  il  pie,  rozzo  il  manto  e  magro  il  volto. 

Aer  sacro  e  sereno, 
che  di  dolci  pensier  m'empie  la  mente, 
ventilando  di  là,  spira  sovente; 
d'usignuoli  selvaggi  il  loco  è  pieno, 
ivi  vengono  e  van  gli  augelli  erranti; 
ciascun,   dubbio,   non  sai  se  pianga  o  canti. 

In  quel  tempio  sacrato 
tuona  concavo  bronzo,   alto  e  canoro, 
che  la  sacra  famiglia  invita  al  coro: 
non  da  fabbro  mortai  sembra  formato, 
ma  d'angelica  man,   che,   mentre  suona, 
come  lingua  del  ciel  parla  e  ragiona. 

Ben  composto  orticello 
di  spinosi  roseti  intorno  cinto, 
godo  di  vaghi  fior  smaltato  e  pinto; 
poi,   quando  spunta  il  primo  albor  novello, 
lascio  le  piume  e  per  le  siepi  ombrose 
di  qua  colgo  e  di  là  fragole  e  rose. 

Quante  belle  farfalle 
vagabonde  e  dipinte  aprono  i  voli, 
e  quanti  arguti  e  queruli  usignuoli 
fan  qui  col  canto  lor  sonar  la  valle! 
Ride  il  campo  ed  olezza,   e  lieto  in  viso 
ogni  fior  che  germoglia  apre  un  sorriso. 


GIROLAMO    KONTANEIJ.A  247 

Qui  porporeggia  il  melo, 
là  giallo  impallidisce  il  cedro  antico. 
e  con  lacero  sen  lagrima  il  fico; 
di  rubini  la  vite  orna  il  suo  stelo, 
e  di  porpora  e  d' òr  pendendo  altero 
miniata  ha  la  scorza  il  pomo  e  '1  pero. 

Alzo  gli  occhi  bramoso, 
spio  tra'  rami  le  fi-utta  e  '1  braccio  stendo, 
e  qual  più  mi  diletta  avido  io  prendo: 
poi  vicino  ad  un  lauro  il  di  riposo, 
e  per  frutti  gustar  soavi  tanto, 
ho  melata  la  lingua  e  dolce  il  canto. 

Scorre  l'ape  soave, 
e  tanto  i  suoi  susurri  in  aria  ponno, 
che  mi  stillano  agli  occhi  un  dolce  sonno: 
.scende  l'ombra  da'  monti  umida  e  grave: 
ecco  stridulo  il  grillo,   e  in  voci  rotte 
par  ch'annunzi  la  pace  e  dica:  —  E  nottv.  — 

Odo  a  punto  a  quest'ora 
semplicetto  cantor  d' incólte  rime 
il  villanel,   che  le  sue  fiamme  esprime; 
tratta  cava  testugine  canora, 
e  con  rozzo  cantar  dolce  e  concorde, 
porge  grazia  a  le  voci,   alma  a  le  corde. 

A  quel  rustico  accento 
immerso  in  un  sopor  cupo  e  tenace, 
prendo  posa  tranquilla  e  dolce  pace; 
poi  de'  garruli  augelli  al  bel  concento, 
salutando  de  l'alba  il  novo  lampo, 
gli  occhi  desto  dal  sonno  e  torno  al  campo. 

Sotto  i  piedi  l'erbetta 
lagrimosa  mi  ride,   e  sono  i  pianti, 
ch'ella  sparge  tra'  fior,   perle  e  diamanti. 
Febo,   amico  di  pace,   allor  mi  détta 
mille  belli  pensier;   Febo  m'è  scorta, 
e  m'inalza  la  niente  e  al  ciel  mi  porta. 


248  LIRICI     MARINISTI 

Qui,  leggiadra  Coreglia, 
ove  l'ombre  più  dolci  il  monte  serba, 
meco  il  di  ti  vorrei  tra'  fiori  e  l'erba. 
Ecco  il  lauro,  ecco  il  mirto,  ecco  la  teglia, 
che  fra  mille  d'amor  zefiri  ameni 
mormorando  ti  chiama  e  dice:  —  Vieni.  — 

Vieni,   o  saggia  Nerina, 
pastorella  gentil,  musica  ninfa, 
ove  giubila  qui  l'aura  e  la   linfa. 
Ma  tu,   nova  fra  noi  musa  divina, 
degni  fai  di  tue  luci  oneste  e  pure 
altri  colli,  altre  ripe,  altre  pianure. 

Tu  sotto  il  clima  tosco, 
bella  italica  Saffo,  al  mondo  splendi, 
e  '1  tuo  picciolo  Serchio  augusto  rendi  ; 
di  civil  maestà  si  veste  il  bosco, 
qualor  prendi  la  piva  e  mandi  fuora 
dal  rubino  spirante  aura  canora. 

Mille  pinti  augelletti 
odi  intorno  cantar  dolci  e  lascivi, 
ne  le  cortecce  ove  intagliando  scrivi. 
Riverisce  il  pastor  gl'incisi  detti, 
e  son  tanto  i  caratteri  soavi, 
che  l'ape  corre  e  vi  compone  i  favi. 

Cangia  l'empia  fierezza 
in  costume  gentil  l'aspido  sordo 
e  porge  al  tuo  cantar  l'orecchio  ingordo; 
e  tanta  dal  tuo  dir  beve  dolcezza, 
ch'a  l'armonia  de  la  tua  bella  canna 
il  veleno  ch'avea  converte  in  manna. 

L'aria  in  vista  s'allegra, 
dal  tuo  vago  splendor  resa  tranquilla, 
e  rose  e  gigli  il  ciel  piove  e  distilla; 
e  benché  in  spoglia  vedovile  e  negra 
apparisci  colà,  tosto  al  tuo  viso 
l'ombra  in  luce  si  cangia  e  '1  pianto  in  riso. 


GIROLAMO    FONTANELLA  249 

O  beata  campagna, 
felice  colle,   avventuroso  fiume, 
che  degni  fai  del  tuo  cortese  lume  ! 
Beato  il  Serchio  ove  irrigando  bagna, 
che,   nel  suo  molle  e  cristallino  gelo 
stampando  il  viso  tuo,   contiene  il  cielo. 

Io  di  qua,   dove  seggio 
or  fra  sacri  silenzi  ombroso  e  muto, 
col  cor  t'inchino  e  col  pensier  saluto. 
Da   quest'occhi   non   vista   io   pur   ti   veggio. 
Oh  stupor  non  udito,   oh  strano  gioco! 
la  tua  luce  non  vedo  e  sento  il  foco. 

XXXI 

PER  LA  MONACAZIONE  DI  SILVIA  DELLA  MARRA 

Al  padre  di  lei,  duca  della  Guardia 

Verginella  innocente  in  bianco  velo, 
miro  pura  donzella, 
tutta  candida  e  bella, 
far  de  la  sua  beltà  giudice  il  cielo; 
calca    i   fasti    e    le    pompe    e    sembra    umile, 
in  sua  tenera  età,  giglio  d'aprile. 

Nel  suo  casto  voler  ferma  ed  immota, 
tronca  il  biondo  tesoro 
e  consacra  quell'oro, 
Berenice  novella,   al  ciel  devota; 
e  di  Cristo  imitando  il  regio  crine, 
la  sua  tenera  fronte  orna  di  spine. 

Veste  candida  lana  e  bianco  lino, 
che  si  ritorce  in  onda 
cosi  pura  e  gioconda, 
che  somiglia  in  candor  terso  armellino; 
e  ben  dovea  chi  di  colomba  ha  il  core, 
di  colomba  vestir  l'almo  candore. 


250  URICI    MARINISTI 

Serba  il  sacro  silenzio  i  muti  nodi 
in  quel  labbro  modesto; 
ma  poi  libero  e  presto 
l'apre,   dando  al  suo  sposo  inni  di  lodi; 
serve  con  libertà  signore  immenso, 
signoreggia  le  voglie  e  doma  il  senso. 

Dentro  spine  di  ferro  intatta  rosa, 
ha  del  mondo  vittoria; 
di  sua  fuga  si  gloria, 
poggia  sopra  le  stelle  e  in  terra  posa; 
con  devota  umiltà  china  i  ginocchi 
e  la  mente  inalzando  abbassa  gli  occhi. 

Prigioniera,   a  la  terra  invia  più  franca 
la  sua  candida  mente; 
bella,   casta,  innocente, 
alba  sembra  a  la  gonna  intatta  e  bianca; 
e  mentre  di  pietà  raggi  sfavilla, 
di  sue  lagrime  pie  rugiade  stilla. 

O  felici  serragli,   o  sacre  mura, 
che  chiudete  e  serrate 
quel  tesor  di  beltate, 
quella  gemma  d'onor  si  tersa  e  pura; 
riverente  a  voi  giro  i  lumi  e  i  passi, 
vi  saluto  con  gli  occhi  e  bacio  i  sassi. 

E  tu  d'opra  si  pia,   signor,   ben  pago, 
godi  d'aver  produtto 
si  generoso  frutto, 
che  serba  fior  di  purità  si  vago; 
deh,   se  paterno  amor  ti  punge  il  petto, 
mostra  che  'n  ciò  sai  dominar  l'affetto. 

—  Padre  —  par  ch'ella  dica,  — oggi  m'ascondo 
dentro  un'angusta  cella,  » 

per  fuggir  la  procella 
del  tempestoso  ed  agitato  mondo. 
«  Ben  mostra  per  salvarsi  animo  accorto 
«  chi  fugge  la  tempesta  e  corre  al  porto  ».  — 


GIROLAMO    FONTANELLA  25I 

XXX 11 

LE    DELIZIE    DEL    SECOLO 

Al  niarchest>  di  Villa  G.  B.  Manso 

Giace   il   mondo  fra  lussi,   e   l'uomo   insano 
rende  sudditi  a' sensi  i  propri  affetti; 
prezza  crapole  e  giochi,   amante  vano, 
veste  pompe,   usa  lisci,   ama  diletti. 

Negli  agi  immersa  effeminata  e  folle 
la  pronta  gioventù  marcir  si  vede: 
regna  il  sonno  e  la  piuma,   e  l'ozio  molle 
su  le  morbide  coltri  a  l'ombra  siede. 

Miro  l'opre  e  l'usanze  oggi  diverse 
da  quel  secolo  d'or  purgato  e  casto: 
le  pelli  usò  chi  nudità  coperse, 
or  di  serica  pompa  orna  il  suo  fasto. 

In  quel  primo  vagir  del  mondo  infante 
era  stanza  il  tugurio  a  l'uomo  imbelle; 
or  da  la  terra  emulator  gigante 
edifici  sublimi  alza  a  le  stelle. 

Fa  sviscerar  da  peregrini  monti 
superbo  ingegno  i  più  pregiati  marmi, 
per  farne  o  logge  o  preziosi  fonti, 
che  del  tempo  guerrier  durino  a  l'armi. 

Fa  ch'i  suoi  tetti  a  riguardar  si  belli 
siano  d'arte  maestra  ultima  prova: 
novi  Dedali  chiama,   e  novi  Apelli 
al  suo  regio  lavor  prodigo  trova. 

L'onda  che  sprigionata  un  tempo  apriva 
da  la  pomice  scabra  argentea  vena, 
che  senz'arte  correa  purgata  e  viva 
tra  vaghi  fior  per  la  campagna  amena; 


252  LIRICI    MARINISTI 

custodita  e  riposta  oggi  tra  chiavi, 
fa  per  opra  de  l'arte  opre  stupende, 
con  soave  rumor  dai  piombi  cavi 
le  reggie  illustri  ad  arricchir  discende. 
Non  più  rustiche  paglie,   aspri  fenili, 
rozzi  e  poveri  velli,   ispidi  stami; 
ma  molli  sete  e  preziosi  fili 
fanno  al  regio  suo  tetto  ombre  e  ricami. 

Pendono  in  giù  per  le  sue  logge  arcate 
mille  d'aureo  lavor  tappeti  industri, 
e  ne  le  mura  e  ne  le  travi  aurate 
mille  ammiri  d'eroi  memorie  illustri. 

Del  più  famoso  e  nobile  metallo 
il  suo  ricco  balcon  cerchia  sovente, 
e  dei  monti  rifei  puro  cristallo 
fa  ne  le  sue  fenestre  ombra  lucente. 

Ei,  gonfio  il  cor  d'ambiziose  voglie, 
calcar  povero  suol  rifiuta  e  sdegna; 
pavimenti  gemmati,   aurate  soglie 
il  suo  nobile  pie  toccar  sol  degna. 

Nel   suo   morbido   letto    ombrando    il   lume, 
padiglione  si  leva  alto  e  pomposo, 
e  fra  lini  odorosi  e  bianche  piume 
presta  al  languido  corpo  agio  e  riposo. 

Vengon  a  esercitar  musiche  danze 
donzellette  lascive  in  ricca  veste; 
spirano  arabo  odor  le  regie  stanze, 
e  fra  dolci  armonie  s'odono  feste. 

Fra  cancelli  d'argento  in  aria  appeso, 
prigioniero  giocoso,   il  verde  augello 
qui  da  l' India  remota  a  lui  disceso, 
mille  nomi  ridir  sa  vago  e  bello. 

Mille  d'argento  e  d'or  conche  e  vasella 
sopra  candido  lin  prepara  e  spande, 
ove  miri  in  sua  mensa  agiata  e  bella 
odorosi  fumar  cibi  e  vivande. 


GIROLAMO    FONTANELLA  253 

Attuffato  nel  ghiaccio,  esposto  a  l'oro, 
generoso  Lieo  spumante  brilla, 
che  'n  tazza  di  finissimo  lavoro 
con  soave  allegria  placido  stilla. 

Sontuoso  teatro,   altera  scena 
di  figure  e  di  lumi  erge  a  suo  vanto, 
ove  ispana  leggiadra  il  ballo  mena 
e  marito  del  ballo  unisce  il  canto. 

Ahi,   ch'onesto  rossor  più  non  inostra 
in  donnesca  bellezza  il  bianco  viso; 
lasci  vetta  in  andar  gli  abiti  mostra, 
lussureggia  nel  petto,   arde  nel  riso. 

De  la  chioma  sua   bionda  il  campo  adorno 
con  rastrello  d'avorio  ara  e  coltiva; 
poi  vi  semina  odori  e  sparge  intorno 
di  licori  sabei  pioggia  lasciva. 

A  che  dentro  le  pompe  alma  bellezza, 
e  tra  firegi  non  suoi  giace  sepolta? 
Schietta  e  nuda  beltà  via  più  si  prezza, 
tanto  meno  è  gentil  quant'è  più  cólta. 

Oh  d'umana  follia  prova  superba! 
Sa  ch'ogni  opra  de  l'arte  al  fin  rovina, 
sa  che  sparsa  nel  Tebro  arena  ed  erba 
ricopre  ancor  la  maestà  latina. 

Cadde  Menfi  superba  e  Caria  illustre, 
cesse  a  l'armi  del  tempo  Argo  e  Micene, 
e  sepolta  in  oblio  fosco  e  palustre 
fra  le  nottole  sue  sta  cieca  Atene. 

Le  piramide  sue  trovi,   se  puote, 
glorioso  l'Egitto  e '1  Nilo  altero; 
Troia  miri  le  mura  a  pena  note, 
che  fér  si  grande  il  suo  temuto  impero. 

Trovi  Rodi  il  colosso,   Efeso  il  tempio, 
miri  tumido  Creso  oggi  il  suo  trono; 
contro  i  colpi  del  tempo  ingordo  ed  empio 
i  romani  trionfi  ove  ora  sono  ? 


254  LIRICI     MARINISTI 

A  che,   dunque,  inalzar  tetti  eminenti, 
s'ogni  fasto  mortai  rapido  piomba? 
s'altro  non  resta  a  ricettar  le  genti, 
eh 'un  freddo  marmo,   una  funerea  tomba? 

i 

XXXIII 

CONTRO   L'IGNORANZA  E  L'AVARIZIA   DEI  PRINCIPi 

A   Gaspare  de  Siineonibus 

Già  d' una  piva  insuperbito  e  vano, 
che  gli  pendea  dal  setoloso  collo, 
si  gonfiò,  si  levò  satiro  insano, 
ch'osò  sfidar,   prosuntuoso,   Apollo. 

—  O  tu  —  dicea,  —  che  con  aurato  scettro 
ti  fai  signor  de  l'eliconio  fiume, 
non  ti  vantar  s' hai  ne  la  mano  il  plettro, 
che  non  è  tuo,   ma  del  cillenio  nume. 

Cedi  il  tuo  vanto  all'armonia  ch'io  reco 
con  una  canna  industriosa  ed  alma; 
ma  se  ceder  non  vuoi,  provati  meco, 
e  premio  sia  del  vincitor  la  palma. 

Prendi  il  telar  de  le  tue  varie  corde 
ove  in  musica  tela  ordisci  il  suono, 
e  vedi  poi  chi  nel  sonar  concorde 
fa  di  noi  due  più  grazioso  il  tuono. 

Io  d'armoniche  fila  ordine  industre 
luminoso  non  ho  pettine  bello; 
ma  con  un  legno  ruvido  e  palustre 
ti  sfido  intanto  a  singoiar  duello.  — 

Udio  la  voce  il  biondo  arcier  canoro 
del  vantator  del  rusticale  arnese, 
ed  armando  la  man  di  cetra  d'oro, 
guerrier  canoro  a  la  disfida  scese. 


GIROLAMO    FONTANELLA  255 

Cinto  colà  da  montanaro  stuohj, 
fatto  l'arcade  re  giudice  al  canto, 
dal  commune  parer  discorde  ei  solo 
il  castalio  signor  pospose  al  vanto. 

Di  ciò  sdegnato  il  sagittario  biondo, 
eh' è  de  la  lira  armonioso  arciero, 
per  castigar  tanta  follia  nel  mondo, 
rese  a  Mida  l'orecchio  ispido  e  nero. 
Ma  per  coprir  l'ingiurioso  scorno, 
che  deforme  rendea  la  regia  testa, 
la  corona  adoprò  ch'intorno  intorno 
di  scoltura  gemmata  era  contesta. 

Con  esempio  si  bello  attica  musa 
sotto  favola  finta  il  ver  ragiona: 
che  spesso  mente  torbida  e  confusa 
va  sotto  ricca  imperiai  corona. 

Chiude  orecchio  di  Mida  in  aurea  fascia 
ricco  signor,   che  vanità  gradisce; 
perir  gì'  ingegni  amaramente  lascia, 
le  muse  sprezza  e  le  virtù  bandisce. 
Negletti  in  corte,   i  peregrini  cigni 
agiato  nido  al  poetar  non  hanno; 
sotto  fero  tenor  d'astri  maligni 
d'una  in  altra  città  dispersi  vanno. 

Non  è  chi  merchi  i  lor  soavi  accenti, 
sol  per  desio  d'immortalarsi  almeno; 
per  inchiostri  non  cambia  ori  ed  argenti, 
cosi  bollente  ha  d'avarizia  il  seno. 

Va  ne  le  reggie  a  celebrar  talora 
gli  eroici  vanti  un  peregrino  ingegno; 
ei  mal  gradito  e  mal  veduto  ancora, 
premio   non  trova  al   suo   gran  merto  degno. 

Contro  irata  fortuna  ei  per  riparo 
una  povera  lira  in  man  si  prende; 
un  frutto  coglie  in  guiderdone  amaro, 
ch'inasprisce  la  lingua  e  '1  gusto  offende. 


256  LIRICI    MARINISTI 

Deh,  tornate  a  la  luce,  al  mondo,   voi, 
Mecenati  famosi,  eccelsi  Augusti, 
ch'i  poetici  ingegni  e  i  sacri  eroi 
accoglieste  a  tutt'or  pietosi  e  giusti. 

Oggi  al  mondo  non  è  chi  largo  e  pio 
amico  venga  a  sollevar  le  muse; 
per  cibo  un  lauro  e  per  bevanda  un  rio 
hanno,   in   cima   ad   un   colle  accolte  e  chiuse. 

Più  d'un  nobile  ingegno  e  più  d'un  vate 
sotto  scarso  destin  perir  si  vede; 
ma  colpa  sol  de  la  moderna  etate, 
che  nega  avara  a  la  virtù  mercede. 

Tesse  eroico  scrittor  bellici  vanti, 
con  la  penna  intrecciando  almi  episodi  ; 
ma  dai  versi  non  prende  altro  che  vanti 
e  per  lodi  non  coglie  altro  che  lodi. 

Sparge  in  mezzo  a  le  corti  un'aurea  vena 
di  faconda  armonia,   ch'in  versi  scioglie; 
ma  da  mano  real  cortese  e  piena, 
vena  prodiga  d'or  giamai  non  coglie. 

Stima  il  garrulo  vulgo  un  che  togato 
giudica  ne  le  rote  i  dritti  e  i  torti  ; 
un  ch'ha  la  lite  e  la  discordia  a  lato, 
cicalator,   mormorator  di  corti  ; 

un  che  d'Astrea  torcendo  i  puri  sensi, 
la  nuda  verità  veste  di  frode; 
corvo  inuman,   ch'ove  a  litigio  viensi 
de  l'altrui  mal  come  suo  ben  si  gode. 

E  chi  d'Apollo  imitator  ne  l'arte 
ai  bianchi  cigni  è  in  purità  simile, 
chi  spira  amor  da  le  sue  belle  carte, 
come  inutile  e  vano  ei  prende  a  vile. 

Oh  di  secolo  pravo  insania  folle, 
che  l'umano  giudizio  ombra  ed  appanna! 
Parolette  e  menzogne  il  mondo  estolle, 
e  i  poetici  studi  a  terra  danna. 


GIROLAMO    FONTANELLA  257 

Ma  stiasi  pur  nel  suo  parer  fallace 
la  sciocca  plebe  a  vii  guadagno  intesa, 
ch'in  si  povero  stato  avendo  io  pace, 
lasciar  non  vo'   l'incominciata  impresa. 

Benché  frutti  non  abbia  il  sacro  monte 
e  miniere  produr  non  sappia  d'auro, 
benché  poveri  umor  stilli  il  suo  fonte, 
in  si  povero  umor  prendo  ristauro. 

Più  mi  giova  raccòr  sterile  alloro 
tra  i  silenzi  di  Pindo  alti  e  divini, 
che  tra  i  fremiti  rei  del  rauco  fòro 
di  fruttifera  palma  ornarmi  i  crini. 

M' è  più  grato  fra  cigni  essere  accolto, 
lunge  avendo  da  me  discordie  e  liti, 
che  di  garrulo  stuol,   fallace  e  stolto, 
i  vani  applausi  e  i  popolari  inviti. 

Leggi  e  riti  d'Astrea  né  do  né  prendo, 
nel  causidico  fòro  amati  tanto; 
reggo   me   stesso,    e   quelle   norme   apprendo, 
che  fan  puro  lo  stil,  perfetto  il  canto. 


XXXIV 

LA  MORTE  DI  MARIANNA 

Poiché  in  cima  riposto  al  regio  onore, 
quando  Erode  credea  perdere  il  regno, 
vide  l'imperio  suo  crescer  maggiore; 

pensando  aver  col  temerario  ingegno 
vinto  l'insuperabile  destino, 
più   non   temea   del   ciel   castigo   o   sdegno. 

Vedeasi  tributario  il  palestino, 
innanzi  ai  piedi  suoi  servo  il  giudeo, 
e  vòlto  a  suo  favor  l'eroe  latino. 

Lirici  mannisti  —  17 


258  LIRICI     MARINISTI 

Vedea  de'  suoi  nemici  aver  trofeo, 
di  sue  fatiche  inaspettati  onori, 
e  di  nuovo  seder  nel  trono  ebreo. 

Un  di,  tornando  a'  suoi  lascivi  amori, 
condur  si  fé'  la  sua  real  consorte, 
che  per  abiti  aveva  porpore  ed  ori. 

Egli  volea  che  di  sua  lieta  sorte 
godesse  ancor  la  peregrina  sposa, 
gioisse  ancor  l'ambiziosa  corte. 

Ma  turbata  la  vide  e  in  sé  sdegnosa, 
né  a  lui,  siccome  pria,  lieta  in  aspetto, 
venne  a  far  di  beltà  pompa  amorosa. 

Ei,  che  nutre  per  lei  si  caldo  affetto, 
che  sfavilla  in  amor,   ch'anela  ardente, 
de  l'insolita  vista  ha  dubbio  il  petto. 

—  Qual  cosa,   anima  mia,   fia  si  possente 
a  turbarti  —  le  dice,  — or  ch'io  ritorno 
d'allegrezza  e  di  gioia  ebro  e  ridente? 

Devi  tu,  mentre  ognun  m'applaude  intorno, 
più  d'ogni  altra  goder  lieta  e  festante, 
e  in  diamante  segnar  si  fausto  giorno. 

Come,  o  sposa  diletta,  allegra  avante 
non  mi  fai  di  tue  braccia  oggi  catena, 
nel  tuo  sen  non  m'accogli  avida  amante? 

Lasso,   ogni  mio  gioir  converti  in  pena, 
mentre  in  si  bella  eclissi  oggi  m'ascondi 
vista  si  dolce  candida  e  serena. 

Chi  ti  turbò,   cor  mio,   ben  mio?  rispondi! 
Farò,   farò  che  '1  temerario  mora, 
che  fu  cagion  de'  tuoi  dolor  profondi. 

Oh  Dio,  che  cosa  è  quel  che  il  cor  t'accora? 
di'  pur,   comanda  pur;   quanto  richiedi 
eseguirò,  per  compiacerti,  or  ora. 

Non  solo  io  vo'  che  '1  regno  mio  possiedi, 
ma  il   dominio  del  cor  siati  concesso; 
sia  tuo  quanto  in  Giudea  scopri  e  rivedi. 


GIROLAMO    KONTANIil.LA  259 

Comanda  pur,  ch'obedirotti  appresso; 
in  servo  umil  mi  cangerò  da  sposo, 
farò  del  tuo  voler  legge  a  me  stesso. 

È  tempo  ormai  eh'  io  prenda  àlmen  riposo 
ne  le  tue  braccia,  ove  tu  puoi  bearmi, 
queste  piume  premendo  ebro  e  gioioso. 
Ma  s'a  guerra  d'amor  godi  sfidarmi, 
placa  le  luci  tue  spietate  e  crude, 
e  poi,  bella  nemica,   accingi  l'armi. 

Prima  ch'a  la  battaglia  io  serva  e  sude, 
sia  questo  letto  l'odorato  campo, 
l'armi  di  tua  beltà  mostrami  ignude. 

Fonte  de'  miei  piacer,  spegni  il  mio  lampo, 
sazia  la  sete  mia,   poich'in  amore 
tutto  anelo,   sfavillo,   ardo  ed  avampo. 

Incatenami  il  collo,   e  a  tanto  ardore 
giungi  meco  anelando,   avvinto  e  stretto, 
seno  a  sen,  labbro  a  labbro  e  core  a  core.  — 

Ma,   per  frenar  l' irregolato  affetto 
del  lascivo  suo  re,   l'ebrea   reina 
mostrò  nel  volto  aver  sdegno  e  dispetto. 

—  Troppo  la  tua  ragion  s'abbassa  e  inchina 
a  dar  licenzioso  ai  sensi  il  freno, 
troppo  dal  dritto  amor  torce  e  declina. 

Spegni  —  dice  —  il  bollor  ch'accogli  in  seno; 
come  i  popoli  tuoi  reggendo  vai, 
si  le  sfrenate  voglie  accogli  a  freno. 

Moderi  altrui  né  te  corregger  sai  ; 
le  città  signoreggi,   ed  or  si  folle 
da' sensi  tuoi  signoreggiar  ti  fai? 

Gran  vergogna  è  d'un  re  se  in  ozio  molle, 
a  lascivie  ed  a  lussi  in  preda  dato, 
non  dà  freno  al  furor  ch'ai  cor  li  bolle. 

Tu,   che  eserciti  indomiti  hai  domato, 
d'un  lascivo  desio  resti  abbattuto, 
d'un  fugace  pensier  resti  espugnato?  — 


26o  LIRICI    MARINISTI 

A  tal  dir  resta  il  re  tacito  e  muto, 
qual  veltro  che  famelico  talvolta 
sol  per  ésca  cercar  resta  battuto. 

Ei  vergognoso  altrove  i  passi  volta, 
e  la  sete  del  cor  soffrendo  ardente, 
l'onda  eh'  in  van  bramò  vedesi  tolta. 

Da  la  mensa  ritorna  il  di  seguente; 
di  dolcezza  e  di  vin  ebro  e  fumante 
di  lussuria  avampar  maggior  si  sente. 

Verso  il  caro  suo  ben  corre  anelante, 
ma,  scacciato  di  nuovo,   egli  s'accorge 
di  nemica  beltà  trovarsi  amante. 

A  la  repulsa  infuriato  ei  sorge 
dal  letto  maritai  rapido  e  presto, 
quando  in  premio  d'amor  tant'odio  scorge. 

La  cagione  saper  brama  di  questo; 
ond'ella  irata  al  fin  con  questi  accenti 
fece  noto  il  suo  cor  turbato  e  mesto: 

—  Vuoi,  traditor,  ch'ai  tuo  voler  consenti 
e  chiami  te,   che  nell'amarmi  infingi 
e  bugiardo  nel  dir  falseggi  e  menti? 

So  come  le  tue  frode  ombri  e  dipingi 
di  falsità;   come,   amator  fallace, 
l'infida  lingua  a  lusingarmi  spingi. 

Se  questa  (qual  si  sia)  beltà  ti  piace, 
e  s' io  ti  serbo  fé  costante  e  forte, 
come,   o  crudel,   ch'io  viva  oggi  ti  spiace? 

Se  mi  leghi  in  amor  dolce  consorte, 
come  per  atterrar  l'egra  mia  vita 
nodo  in  me  trami  poi  d'occulta  morte? 

Non  hai  tu  con  Soemo  insidia  ordita, 
che  da  lui  resti  uccisa?   Empio  mio  fato, 
misera  me,  si  a  torto  oggi  tradita! 

Questo  è  l'amor  che  tu  mi  porti,  ingrato? 
questa  dunque  è  la  fé?  Va',  ch'io  non  credo 
a  parole  di  re  crudo  e  spietato. 


GIROLAMO    FONTANELLA 

Ahi,  de  le  frodi  tue  tardi  m'avvedo; 
altro  porti  nel  petto,   altro  hai  nel  viso, 
e  mentito  è  l'amor  ch'in  te  già  vedo. 

Non  ti  bastò  d'avermi  il  padre  ucciso, 
soffogato  il  german,   l'imperio  tolto, 
ed  il  trono  usurparti  e  starvi  assiso? 

E  ancor  contro  di  me,   perfido  e  stolto 
incrudelirti  vuoi,   donna  innocente, 
che  quel  ch'asconde  al  cor,  mostra  nel  volto.  — 

A  tal  parlar  tutto  di  rabbia  ardente, 
uscito  fuor  di  sé  grida  il  tiranno: 
—  Tanto  ardisci  tu  dir,   donna  insolente? 

T'ho  scoperta  infedel,  non  più  m'inganno, 
e  la  fé  che  macchiata  io  non  vedea, 
m'apre  i  lumi  a  veder  l'occulto  inganno. 

Tal  secreto  scoprir  chi  mai  potea 
se  non  un  che  ti  gode,   ama  ed  adora, 
ed  abbraccia  nel  sen  femina  rea? 

Fra  tormenti  farò  ch'esposto  or  ora 
di  tua  camera  sia  l'empio  custode, 
e  l'adultero  tuo  pur  seco  mora. 

Si,  si,  scoperto  ho  ben  l'iniqua  frode; 
folle  chi  più  si  fida  in  donna  errante, 
ed  a  la  sua  beltà  dà  vanto  e  lode  !  — 

Da  lei  parte  nemico  ov'era  amante, 
nel  parlar,   nel  trattar  fiero  e  sdegnoso, 
di  furor,   di  dolor  caldo  e  fumante. 

Va  nel  trono  a  seder  ricco  e  pomposo, 
e  del  passato  e  ricevuto  scorno 
non  può  coi  suoi  pcnsier  trovar  riposo. 

Di  fulgido  diadema  il  crine  adorno, 
fra  cento  squadre  di  guerrieri  e  cento 
eroi  togati,   signoreggia  intorno. 

Sotto  un  gran  ciel  di  luminoso  argento, 
calcando  sotto  il  pie  porpore  ed  ori, 
con  alta  maestà  porta  spavento. 


202  LIRICI     MARINISTI 

Con  un  sol  guardo  sbigottisce  i  cori, 
e  col  pie  tempestando  il  regio  soglio 
sveglia  e  desta  del  cor  l'ire  e  i  furori. 

Poi,  sbuffando  in  parlar  l'ira  e  l'orgoglio, 
con  un  tuono  di  voce  alto  e  spietato 
fa  palese  il  furor,   noto  l'orgoglio. 

—  Or  prendete  Soemo  —  ei   grida  irato  - 
e  innanzi  agli  occhi  miei  vo'  che  l'infido, 
pena  debita  a  lui,   resti  svenato.  — 

A  pena  di  sua  bocca  esce  tal  grido, 
ch'eseguito  riman;  scusa  non  giova 
a  Soemo  apportar  d'amico  fido. 

Ciascun  rabbino  il  suo  parere  approva; 
muor  l'infelice,  e  funestando  il  piano, 
l'ira  del  suo  signor  rigido  prova. 

Non  s'acqueta  perciò  l'empio  e  inumimo, 
ma  nel  furor  più  bolle  e  intorno  gode 
bruttar  la  reggia  sua  di  sangue  umano. 

Ma  chi  può  dir  la  scelerata  frode, 
eh'  incontro  Marianna  empia  cognata 
ordendo  va  col  dispietato  Erode? 

Miser  chi  di  tal  gente  empia  e  mal   nata 
senz'amor,  senza  fede  oggi  si  fida, 
che  palese  t'accoglie,   odia  celata! 

Accusa  l'innocente  e  afferma  infida 
come  per  dar  la  morte  al  regio  sposo, 
procurasse  costei  tòsco  omicida. 

Fede  le  presta  il  barbaro  sdegnoso, 
da  la  furia  acciecato  e,   dentro  il  petto, 
da  gelosia,  senza  trovar  riposo. 

Chiama  il  senato  a  dar  sentenze  eletto; 
vuol  che  la  moglie  si  condanni  a  morte, 
qual  donna  rea  nel  suo  reale  aspetto. 

Ecco  in  presenza  di  sua  regia  corte, 
senza  temer  del  tribunal  giudeo, 
furiosa  compar  l'alma  consorte. 


GIROLAMO    FONTANELLA  263 

Comincia:  — Or  chi  di  voi,   giudice  reo, 
condannar  temerario  or  mi  presume, 
per  compiacer  si  fier  tiranno  ebreo  ? 

Ben  del  giudicio  ha  ottenebrato  il   lume, 
e  ben  mostra  di  senno  in  tutto  oscuro 
de  l'ingegno  tarpate  aver  le  piume. 

Scorgo  il  vostro  parer  torto  ed  impuro; 
o  mi  dannate  o  m'assolvete  intanto, 
de  le  vostre  sentenze  io  nulla  curo. 

Ma  chi  vi  dà  tanta  baldanza  e  tanto 
ardir  di  condannar  donna  innocente, 
che  di  casta  riporta  il  pregio  e  '1  vanto? 

Ben  ciascuno  è  di  voi  scemo  di  mente, 
che  di  si  crudo  e  barbaro  tiranno 
a  l'infame  parer  tosto  consente. 

Ma  il  eie!  che  mira  il  torto  e  osserva  il  danno, 
chiamo  sol  punitor  di  tanta  offesa, 
chiamo  vendlcator  di  tanto  inganno  !  — 

Cosi,   sdegnosa  in  atto  e  in  volto  accesa, 
la  donna  ferocissima  dicea, 
senza  cercar,   senza  trovar  difesa. 

Bella,   casta  e  gentil,   sovra  ogni  ebrea 
riportava  il  trionfo,   ergea  la  palma, 
s'eguale  a  la  beltà  modestia  avea. 

Ma  donna  cosi  bella,  inclita  ed  alma, 
freno  all'ira  non  diede,  e  nel  bel  volto 
la  luce  intorbidò  di  si  bell'alma. 

Non  deve  spirto  in  regie  membra  accolto 
farsi  signoreggiar,   servo  del  senso, 
da  l'insano  furor  torbido  e  stolto. 

Sgombri  il  fumo  de  l'ira  in  petto  accenso, 
che  del  chiaro  intelletto  offusca  il  sole, 
qual  nemico  vapor  torbido  e  denso. 

Costei,   quantunque  sia  di  regia  prole, 
troppo  nel  suo  garrir  si  mostra  audace 
ed  in  furie  trabocca  ed  in  parole. 


264  LIRICI    MARINISTI 

Ma  si  scusi,   eh' è  alfin  d'alma  vivace; 
e,  se  troppo  nel  dir  sciolta  si  vede, 
è  proprio  de  la  donna  esser  loquace. 

Fra  tanti,  ecco  un  rabbin  si  leva  in  piede, 
in  senil  gravità  non  visto  eguale, 
ed  al  re  di  parlar  licenza  chiede. 

Fu  di  parer,   scusando  il  sesso  frale, 
costei  non  meritar  si  rea  sventura, 
ma  ben  dannarsi  in  prigionia  reale. 

Ma  questa,   d'alma  intrepida  e  sicura, 
di  modestia  passando  il  segno  ardita, 
da  la  morte  scampar  punto  non  cura. 

—  Su,  toglietemi  —  grida  —  or  or  la  vita; 
per  non  veder  si  barbaro  spietato, 
bramo  far  da'  viventi  oggi  partita. 

Si,   si,   verrò  nel  sonno  a  te  più  grato, 
e  con  flagel  di  lividi  serpenti 
ti  sferzare  quel  cor  perfido  e  ingrato. 

Ombra  infesta  verrò  da  l'ombre  ardenti, 
e  se  '1  cielo  a  patir  là  giù  ti  danna, 
ministra  io  ti  sarò  di  rei  tormenti.  — 

Anco  la  madre  (oh  crudeltà  tiranna!) 
approva  quanto  il  re  fra'  suoi  consiglia, 
ed  a  morir  tanta  beltà  condanna. 

Senza  bagnar  di  lagrime  le  ciglia, 
senza  mostrar  pietà,  rigida  prende 
a  incrudelir  contro  la  propria  figlia; 

e  la  sgrida  e  l'accusa,   odia  e  riprende; 
cieca,  la  sua  follia  non  vede  espressa, 
ch'in  offender  costei  se  stessa  offende. 

Ma  se  fa  ciò  per  non  morire  anch'essa, 
l'empia  ancor  patirà  consimil  fine, 
né  le  fia  tanta  colpa  unqua  rimessa. 

Poi,   stendendo  la  man  su  l'aureo  crine, 
troncò  col  ferro  rigido  e  tagliente 
le  belle  masse  d'or  lucide  e  fine. 


GIROLAMO    FONTANELLA  265 

Madre  non  già,   ma  fera  o  furia  ardente 
parve  a  l'atto  crudel,   quando,   spietata, 
quella  chioma  troncò,   parca  nocente. 

In  mirar  che  la  madre  anco  sdegnata 
era  contro  di  lei,  tacque  la  bella, 
muta  e  mite  rimase  ov'era  irata. 

De  la  sala  sul  suol  le  bionde  anella 
crebber  luce  a  le  gemme;  e  al  crin  reciso 
non  più  donna  real,   ma  sembra  ancella. 
De  l'ingiusta  sentenza  al  crudo  aviso 
si  parte  e  va  a  la  morte  e  gli  occhi  abbassa, 
ed  intrepido  mostra  il  cor  nel  viso. 

Move  a  pianto,   a  pietà  dovunque  passa; 
solo  il  rigido  re  nulla  commove, 
e  più  l'anima  indura  e  il  core  insassa. 

Ogni  téma  dal  cor  franco  rimove, 
generosa  la  morte  incontra  e  abbraccia, 
e  d'insolito  ardir  mostra  gran  prove. 

Non  smarrisce  le  rose  asperse  in  faccia; 
per  dimostrar  che  paziente  more, 
piega  in  forma  di  croce  ambe  le  braccia. 
O  stupori  lei  che  dianzi  entro  il  furore 
parve  stolida  tigre,  agna  or  si  vede, 
tutta  mite  nel  volto,   umil  nel  core. 

Al  luogo  destinato  arresta  il  piede, 
piega  l'alma  cervice  e  '1  ferro  aspetta, 
ed  al  fato  ed  al  ferro  inchina  e  cede. 
A  darle  morte  i  rei  ministri  affretta; 
ma  mori  pure,   intrepida  reina, 
che  '1  ciel  farà  del  tuo  morir  vendetta! 

Il  carnefice  a  lei  già  s'avvicina, 
sguaina  il  brando  e  lo  solleva  in  alto, 
e  sul  candido  collo  il  colpo  inchina. 

Tingendo  il  suol  di  porporino  smalto, 
che  dal  vivo  alabastro  esce  in  canali, 
spicca  il  teschio  reciso  in  aria  un  salto. 


266  LIRICI     MARINISTI 

Chiuse  in  sonno  leteo  gli  occhi  fataH, 
che  sotto  l'arco  di  quel  nobil  ciglio 
fùr  di  vivo  splendor  fonti  vitali. 

Tosto  in  pallido  cangia  il  bel  vermiglio, 
e  ne  la  guancia  delicata  e  pura 
come  neve  fioccata  appare  il  giglio. 

Morta,   con  gli  occhi  ancor  gli  animi  fura; 
ciò  che  d'allegro  appar,   ciò  che  di  fausto 
ne  la  corte  real  tosto  s'oscura. 

Tal  fu  di  Marianna  il  caso  infausto, 
la  falsa  accusa,   il  fin  tragico  e  rio; 
ma,   d'innocenza  candido  olocausto, 

casta  e  bella  in  amor  visse  e  morio. 


VT 


SALOMONI  -  MORANDO  -  BRIGNOLE  SALE 


GIUSEPPE  SALOMONI 


I 

BRAMA  DI  FORZE  MOLTIPLICATE 

Qualor  ti  miro,   oh  che  gentil  diletto 
nascer  in  me  da  quel  mirar  sent'io! 
Qualor  t'ho  fra  le  braccia,  idolo  mio, 
oh  che  dolce  piacer  m'ingombra  il   petto! 

Se  l'animate  rose  e  l'ostro  eletto 
ti  bacio,  dissetando  il  mio  desio, 
oh  di  che  manna  scaturisce  un  rio 
ai  labbri  miei  dal  tuo  baciato  aspetto! 

Bramo  in  Argo  novello  esser  rivolto, 
di  farmi  un  Briareo  sarei  contento 
e  '1  volto  de  la  Fama  aver  nel  volto; 

per  mirar  te  con  cento  lumi  intento, 
per  serbar  te  con  cento  braccia  accolto, 
per  poterti  baciar  con  bocche  cento! 


270  LIRICI     MARINISTI 

II 

I   MORSI   E  I   BACI 

Famelica  d'amor,  l'amato  volto 
al  suo  caro  Filen  Lidia  mordea, 
e  sovra  il  volto  stesso  indi  piovea 
di  baci  un  nembo  affettuoso  e  folto. 

Ed  ei,  eh' a  lei  sedendo  in  braccio  accolto, 
or  baci  or  morsi  ai  labbri  suoi  rendea, 
cosi  con  voce  languida  dicea 
ver'  la  bocca  bellissima  rivolto: 

—  O  di  doppio  tesor  scrigno  natio, 
bocca  de  la  mia  serpe  amata  e  vaga, 
stampa  pur  de'  tuoi  morsi  il  volto  mio; 

poiché  de  le  tue  perle  egli  s'appaga 
d'esser  ferito  e  n'arde  di  desio, 
pur  che  i  rubini  tuoi  sanin  la  piaga!  — 


IH 
LE  FRAGOLE  E  LA  BOCCA 

Mentre  la  bella  bocca  onde  talora 
cibi  la  mia,   famelica  amorosa, 
colà  sedendo  in  su  la  piaggia  erbosa 
cibavi  oggi  di  fraghe,   o  bella  Flora; 

io,   che  poco  lontan  facea  dimora 
nel  grembo  assiso  a  la  verdura  ombrosa, 
con  mente  insieme  stupida  e  bramosa 
mandai  dal  cor  queste  parole  alora: 

—  O  bocca,  alta  cagion  de  le  mie  faci, 
quanto  somigli  il  cibo  delicato 
di  cui  pascer  te  stessa  or  ti  compiaci! 

De  le  fraghe  hai  l'odor  nel  dolce  fiato, 
de  le  fraghe  il  sapor  ne'  cari  baci, 
de   le   fraghe  il   color  nel   labbro  amato. 


GIUSEPPE    SALOMON  1  ^71 

IV 

ANTEA 

Voi  del  nome  crudel  ben  degna  siete 
de  l'antico  di   Libia  empio  gigante, 
poiché,   fatta  ne  l'opre  a  lui  sembiante, 
donna  superba,   i  suoi  costumi  avete. 

Forte  ei  pugnò,  voi  forte  combattete, 
con  l'arme  ei  de  la  man,   voi  del   sembiante; 
e  s'egli  fulminò,   voi  fulminante, 
gigantessa  d'amor,   l'alme  uccidete. 

Ver  è  che  voi  da  l' immortai  soggiorno 
nasceste,   egli  dal  suol  nascer  si  vide; 
egli  diforme  e  voi  con  volto  adorno. 

Cosi  mi  desse  Amor,   che  '1  cor  m'ancide 
con  la  vostra  beltà,  ch'io  fossi  un  giorno 
ne  la  lotta  amorosa  il  vostro  Alcide! 


DIO,   AURIGA  DELLE  ANIME 

L'uomo  è  nel   mondo   un   corridore  umano, 
e  '1  cavaUer  che  l'ammaestra  è  Dio, 
che,  se  talvolta  egli  si  fa  restio, 
col  pie  lo  spinge  in  corso  e  con  la  mano. 

E  se  talor,   precipitoso,   insano, 
s'avventa  ove  '1  trasporta  il  suo  desio, 
con  duro  fren  che  di  sua  mano  ordio. 
dal  mortai  precipizio  il  tien  lontano. 
E  se  superbo  calcitra  e  sdegnoso, 
stancandolo  per  strade  alpestri  e  felle 
nel  maneggio  si  fa  più  rigoroso. 

Se  poi  gli  scopre  alfin  sue  voglie  ancelle 
e  corre  seco  al  ciel,   gli  dà,   pietoso, 
biade  d'eternità,  stalle  di  stelle. 


272  LIRICI     MARINISTI 

VI 

IL  PENSIERO  AMOROSO 

Oh  quanto  a  te  degg'io, 
pensier,   compagno  errante 
d'amor,  cervier  de  l'alma,  Argo  del  core! 
Tu  fuor  del  petto  mio, 
spiritello  volante, 

per  dar  riposo  al  cor  t'alzi  a  tutt'ore; 
per  te  dolce  l'ardore, 
il  languir  m'è  soave, 
il  penar  non  m'è  grave, 
ed  obliando  il  mio  dolore  immenso, 
spensierato  son  io  sol  quando  penso. 

Tu,   corrier  pronto  e  desto, 
ver'  madonna  ten  voli, 
e  più  la  giungi  allor  eh 'è  più  fugace; 
indi  veloce  e  presto 
ten  riedi  e  mi  consoli 
con  risposta  gentil,   muto  loquace: 
—  Soffri  —  dicendo  —  in  pace; 
che  s'or  languisci  ardendo, 
tosto  arderai  gioiendo, 
e  ricco  mietitor,   nocchiero  accorto, 
corrai  la  mèsse  e  giungerai  nel  porto.  — 

Tu,  nuovo  e  strano  Apelle 
per  me  ti  fai  sovente, 

sol  per  mostrarmi  il   mio  bel   sole   espresso, 
e  con  tempre  si  belle, 
con  color  si  lucente, 
fìngendo  il  vai,  che  '1  simolacro  spesso 
s'agguaglia  al  vero  stesso; 
anzi  pingerlo  sai 
e  colori  non  hai 

e  pennel  non  adopri,  e  mentre  fingi, 
pittore  e  non  pittor,  pingi  e  non  pingi. 


GIUSEPPE    SALOMONI  273 

Ma  di  ciò  non  contento, 
ogni  chiuso  sentiero 
varchi  d'onor  malgrado  e  di  fortuna; 
e  quindi  in  un  momento 
vivo  il  suo  cibo  e  vero, 

quando  Giunone  è  bianca  e  quando  è  bruna, 
porti  a  l'alma  digiuna; 
ma  pur  più  spesso  alora 
che  notte  il  ciel  scolora, 
e  tu,   volando  per  gli  orrori  suoi, 
porti,  notturno  ladro,  i  furti  tuoi. 

Alor  si  ch'io  m'aggiro 
fra  le  notturne  piume 
felice  amante  e  fortunato  appieno. 
Quivi  lieto  rimiro 
degli  occhi  amanti  il  lume 
splender  tra  l'ombre  agli  occhi  miei  sereno; 
quivi  mi  scorgo  in  seno 
tutto  il  mio  ben  raccolto, 
e  cosi  dir  l'ascolto: 

—  Godi  e  prendi  da  me  pur  la  mercede, 
o  mio  caro  fedel,   de  la  tua  fede.  — 

Quand'io,  ch'ardo  e  mi  sfaccio 
di  gioia  e  di  diletto, 
a  diletto  maggior  ratto  m'accingo, 
e  lei,   eh 'a  prova  in  braccio 
chiuso  mi  tiene  e  stretto, 
con  parole  e  con  man  tocco  e  lusingo; 
e  dico:  —  I'  pur  ti  stringo, 
già  dispietata,   or  pia, 
viva  catena  mia, 

e  pur  ritengo  qui  spirante  e  vera 
te,   mia  bella  prigion,   ma  prigioniera.  — 

Quinci,   a  le  labbra  amate 
giunte  le  labbra  amanti, 
con  qualche  oimè  dolcissimo  mi  dolgo, 


Lirici  marinisti 


274  LIRICI     MARINISTI 

e  le  rose  baciate 

con  le  rose  bacianti, 

qua]  famelica  pecchia,   involo  e  colgo. 

Dai  baci  al  fin  mi  volgo 

con  più  dolce  desire 

dolcemente  a  morire, 

e  con  la  vita  mia,   col  mio  tesoro, 

restando  in  vita,   esco  di  vita  e  moro. 

Qui  frena,   alma  mia  stolta, 
la  lingua  audace  e  sciolta; 
pon   freno   al   canto   ormai   che   ti   distorna, 
e  fra  il  silenzio  al  tuo  pensar  ritorna. 


VII 

IL   RISO 

Qualor  da  bel  desio 
tratto  gli  occhi  e  la  mente, 
gli   occhi   e   la   mente   al   mio   bel   sole   affiso, 
si  dolce  al  guardo  mio 
si  scopre  e  si  lucente, 
che  da  me  dolce  il  cor  resta  diviso. 
D'oro  è  il  crin,   d'ostro  il  viso; 
ma  più  che  l'oro  e  più  che  l'ostro  eletto 
il  crine  arde  e  fiammeggia, 
il  viso  arde  e  lampeggia; 
d'alabastro  è  la  man,  d'avorio  il  petto, 
e  nel  bel  ciglio  splende 
fiamma  d'amor  che  mille  fiamme  accende. 

Ma  se  per  mia  ventura 
riso  lucente  e  chiaro 
scopre  fra  tanti  rai  sue  fiamme  accese, 
luce  mirar  più  pura, 
raggio  trovar  più  caro, 
non  san  le  luci  a  rimirarlo  intese. 


GIUSKPPK    SALOMONI  275 

Riso  vago  e  cortese, 

riso  figlio  del  cor,   pregio  sovrano 

di  natura  e  splendore 

di  bellezza  e  d'amore, 

toco  contende,   a  te  s'agguaglia  invano 

bianco  sen,   nero  ciglio, 

bianca  man,  biondo  crin,   volto  vermiglio. 

Tu,  dolcemente  uscendo 
fuor  per  gli  interni  calli, 
quasi  da  fosco  ciel  chiaro  baleno, 
e  dolce  un  uscio  aprendo 
di  perle  e  di  coralli, 
m'apri  soavemente  il  core  e  '1  seno. 
Quel  tuo  dolce  sereno 
si  dolce  foco  entro  il  suo  lume  asconde, 
ch'ognor  più  l'alma  mia 
accesa  esser  desia; 

si  chiari  ognor,   si  dolci  ognor  diffonde 
quei  raggi  ond'  io  m'accieco, 
che  tanto  veggio  sol  quanto  son  cieco. 

Tu  l'alma  ardente  e  vaga 
feri  e  pungi  a  tua  voglia, 
e  sei  fulmine  al  cor,   se  lampo  agli  occhi  ; 
ma  si  dolce  è  la  piaga, 
si  soave  la  doglia, 

che   d'estremo   i^iacer   vien   ch'io    trabocchi. 
.Si  dolce  il  cor  mi  tocchi, 
riso  dolce  e  gentil,   si  vago  sei, 
che  spesso  in  fra  i  martiri 
ridono  i  miei  sospiri, 
ridon  nel  cor  ridente  i  dolor  miei, 
e  dolcemente  intanto 
ne  le  luci  e  nel  cor  ride  il  mio  pianto. 

Quanto  dal  ciel  si  serra,  , 

quanto  è  nel  cielo  accolto 
ride  e  nel  riso  sol  vago  si  mostra. 


276  LIRICI    MARINISTI 

Ridente  è  della  terra 

il  verde  grembo  e  '1  volto, 

e  di  ridenti  fior  s'orna  e  s'inostra. 

Ne  la  sua  cupa  chiostra 

con  crespo  volto  il  mar  ride  ed  affrena 

l'aura  che  stride  e  geme, 

l'onda  che  piange  e  freme. 

Ride  al  riso  del  mar  l'aria  serena, 

e  negli  aerei  campi 

ridon  le  nubi  e  son  lor  riso  i  lampi. 

Ride  spiegando  il  velo 
e  di  ridenti  orrori 

la  notte  il  chiaro  volto  a  l'aria  imbruna; 
e  di  ridente  gelo 
spargendo  l'erbe  e  i  fiori, 
nel  suo  ridente  ciel  ride  la  luna. 
Per  l'ombra  azzurra  e  bruna 
nel  notturno  seren  spiegan  le  stelle 
ridenti  i  crini  d'oro, 
ridenti  i  raggi  loro; 
e  con  le  rose  sue  ridenti  e  belle 
fa  l'alba  in  ciel  ritorno, 
tutta  ridente  dal  balcon  del  giorno. 

Scopre  ridendo  il  sole, 
quando  al  ciel  splende  e  s'erge, 
di  ridenti  fiammelle  il  crine  ornato; 
e  pur  ridendo  sòie, 
quando  nel  mar  s'immerge, 
tuffar  tutto  ridente  il  carro  aurato. 
Riso,  riso  beato, 

tanto   hai   di   bello   in  te,   tanto   in   me   puoi, 
che,  sciolto  il  fren  tenace 
a  la  favella  audace, 
ornai  dirò  eh' un  sol  de'  raggi  tuoi 
faria,  tra  '1  pianto  eterno, 
quasi  sereno  ciel  rider  l'inferno. 


GIUSEPPE    SALOMONI  277 


Canzon,  figlia  del  riso,   indegna  figlia 
di  padre  si  gentile, 
sol  tu  resti  al  suo  lume  oscura  e  vile. 


vili 
PALINODIA 

Già  menzognero  e  stolto 
biasmai,  vecchia  gentile, 

il  tuo  sen,  la  tua  chioma  e  '1  tuo  bel  volto. 
Or,  cangiando  pensier,  vo'  cangiar  stile 
e  farti  udir  d'ogni  menzogna  mia 
una  palinodia. 

Tu  cortese  m'ascolta,  e  mira  intanto 
vòlto  in  gloria  il  tuo  scorno  e  '1  biasmo  in  vanto. 

D'argento  è  la  tua  chioma, 
ma  pur  cosi  d'argento, 
più  che  se  fosse  d'or  m'allaccia  e  doma; 
ed  o  sia  chiusa   in   treccia  o  sciolta  al  vento, 
più  che  se  fosse  d'or,   m'alletta  e  piace; 
e  d'argento  è  la  face 
e  la  saetta  insidiosa  e  vaga, 
che  l'anima  m'incende  e '1  cor  m'impiaga. 

La  tua  fronte  serena, 
che  fu  già  di  beltade, 
sparsa  di  bianchi  fior,   piaggetta  amena, 
dal  freddo  aratro  de  la  vecchia  etade 
solcata  è,  si,   ma  con  quei  solchi  sui 
produce  ai  cori  altrui 
di  diletto  e  di  duol  confuse  e  miste 
soavi  biade  e  rigidette  ariste. 

Le  tue  ciglie  falcate, 
l'inarcate  tue  ciglia 

ond'han  gli  Amori  ancor  le  destre  armate, 
sembrano  (oh  meraviglia!) 


278  LIRICI     MARINISTI 

inutil  arme  e  fragili  stromenti; 
ma  più  che  mai  possenti 
sen  van  co'  loro  arcieri  e  mietitori 
mietendo  l'alme  e  saettando  i  cori. 

Le  tue  luci  leggiadre 
languiscon,    ma  languendo 
non  restan  già  d'esser  rapaci  e  ladre, 
o  di  far  si  ch'io  non  languisca  ardendo. 
Son  vecchie;   ma  sent'  io  sempre  per  loro 
giovane  il  mio  martoro, 
ed  ai  lor  giri  il  prencipe  degli  anni, 
fatto  stupido  amante,   arresta  i  vanni. 

Pallidetto  ed  esangue 
nel  tuo  languido  viso 

co'  suoi  vecchi  augelletti  anch' egli  langue 
de  le  Grazie  e  d'Amore  il  paradiso; 
ma  pur  non  men  leggiadro  e  non  men  dolce; 
l'anime  alletta  e  molce, 
né  dopo  la  lor  morte  i  cor  piagati 
che  volano  lassù  fan  men  beati. 

La  tua  bocca  rosata, 
bel  tesoro  de'  baci 
e  del  parlar  soave  arca  animata, 
non  teme  de  l'età  l'unghie  rapaci; 
ma  con  la  sua  ricchezza  fuggitiva 
restando  ognor  più  viva, 
con  chi  baciarla  suole  ed  ascoltarla 
dolce  più  che  mai  fosse,   or  bacia  or  parla. 

Il  tuo  candido  seno 
di  bei  pomi  la.scivi 
lieto  orticello  e  giardinetto  ameno, 
dolci  non  men  né  men  leggiadri  e  vivi 
scopre,   benché  sian  vecchi,   i   frutti  suoi; 
ma  serba  ancor  tra  noi 
l'antico  stile,   e  con  suo  pregio  eterno 
sprezza  del  tempo  la  tempesta  e  '1  verno. 


GIUSEPPE    SALOMONI  279 

La  tua  man  bella  e  bianca, 
tocca  da  la  vecchiezza, 
sembra  dal  lungo  saettar  già  stanca; 
ma  languendo  non  langue  e  di  bellezza 
alcun  vanto  non  perde,   anzi  n'acquista, 
e  ben  quest'egra  e  trista 
anima  il  sa,   che  se  per  lei  dolente 
sentiva  un  colpo  già,   mille  or  ne  sente. 

Crespa  hai  la  gola  e  crespe 
le  guance  e  crespo  il  petto, 
ma  son,  mercé  d'amor,   quelle  tue  crespe 
trofei  di  leggiadrìa,   non  di  difetto; 
e  qual  più  bel  con  crespo  volto  il  mare 
sedendo  in  calma  appare, 
tal  tu,   mar  di  beltà,  con  crespa  faccia 
mostri  ai  nocchier  d'amor  la  tua  bonaccia. 

Si,   si,   bella  mia  vecchia, 
vecchia  sei  ma  leggiadra, 
e  nel  tuo  bel  la  giov^entù  si  specchia; 
tu  sei  vecchia  guerriera  e  vecchia  ladra, 
che   in   pugnar   e   rubar   sai   più    d'ogni   altra 
esser  possente  e  scaltra; 
teco  Amor  pargoletto  invecchia,   e  vuole 
teco  invecchiando  incanutire  il  sole. 

Canzon,   sen  vola  il  tempo, 
ma  non  temer  però  le  sue  quadrella, 
che  diverrai  ne  l'invecchiar  più  bella.. 


28o  LIRICI     iMARINISTI 

IX 

ALLA    CICALA 

O  rauca  si,   ma  rara, 
stridola  si,  ma  cara, 
de  la  dea  biondeggiante 
messaggera  volante; 
de  la  stagion  più  fruttuosa  e  calda 
canora  insieme  e  strepitosa  aralda; 

questa  acerba  tua  voce 
offende,  ma  non  nóce; 
ruvidetta  e  loquace 
spiace  a  l'orecchie  e  piace; 
anzi  mai  sempre  è  con  diletto  udita, 
e  quanto  è  più  spiacente  è  più  gradita. 

Ne  la  stagion  novella 
riede  la  rondinella, 
e  col  suo  metro  dolce 
l'aria  addolcisce  e  moke; 
ma,  foriera  d'aprii,  tromba  di  Clori, 
che  n'annunzia  di  buono  altro  che  fiori? 

Quand'apre  il  riso  il  suolo, 
ritorna  il  rosignuolo 
a  scior  tra  i  fior  ridenti 
armonici  lamenti; 

ma  che  fa  l'armonia  sua  lusinghiera? 
Nunzio  il  suo  canto  è  sol  di  primavera. 

Cent' altri  augelli  e  cento 
stendon  le  piume  al  vento 
e  van  spiegando  a  prova 
melodia  rara  e  nova, 

mentr' ha  di  fiori  il  Sol  gravido  il  raggio; 
ma  che  portan,  cantando,   altro  che   maggio? 

Delicati  augelletti, 
cantori  lascivetti 
son  questi,  che  di  buono 


GIUSEPPE    SALOMON! 

non  hanno  altro  che  '1  suono, 

e  sol  tra  noi  mortali  han  questo  vanto 

ch'han  dolce  si,   ma  infruttuoso  il  canto. 

Ma  tu  vie  più  felice, 
sonora  ambasciatrice, 
col  tuo,   non  men  che  grave, 
stridor  caro  e  soave, 

n'annunci  or  per  le  selve  or  per  le  rive 
la  venuta  del  cibo  onde  si  vive. 

Tu  sembri  alora  quando 
t'affatichi  cantando 
dir  al  villan,   che  lasso 
al  Sol  raggira  il  passo: 
—  Suda  e  raccogli,   o  mietitor,   la  spica, 
che  madre  del  riposo  è  la  fatica  !  — 

Sembri  una  tromba  agreste, 
che  richiami  e  che  déste 
del  rustico  guerriero 
il  braccio  adusto  e  nero 
a  far  col  ferro  suo  torto  ed  acuto 
strage  del  biondo  esercito  granuto. 

Ma  che?   non  s'ode  stile 
al  tuo  pari  o  simile; 
ti  cede  il  r aparino, 
t'onora  il  lucherino, 
ed  è  col  calderugio  e  col  fringuello 
presso  il  tuo  rauco  stil  rauco  il  fanello. 

Vinto  ti  cede  spesso 
il  rosignuolo  anch'esso, 
ritien  presso  te  muta 
Progne  la  lingua  arguta, 
né    spande  augel    per   l' aria  o   voce  od  ala, 
che  divenir  non  brami  una  cicala. 

Né  già  per  meraviglia 
deve  altri  alzar  le  ciglia, 
se  tu  fra  gli  altrui  canti 


282  LIRICI     MARINISTI 

riporti  i  primi  vanti; 

poiché  sol  da  la  forza  ardente  e  viva 

del  dio  del  canto  il  tuo  cantar  deriva. 

Ouand'ei  con  l'aurea  lampa 
in  ciel  pili  forte  avampa, 
e  col  raggio  che  bolle 
tormenta  il  piano  e  '1  colle, 
alor  tu  senti  in  te  ben  mille  e  mille 
di  poetico  ardor  spirti  e  faville. 

Alor  l'alte  tue  rime, 
poetessa  sublime, 
con  indefessa  vena 
sciogli,   di  furor  piena, 
e  fai  veder  altrui  eh' a  te  non  sòie 
dettar  si  nobil  canto  altri  che  '1  sole. 

Qui  potrei  dir  eh' un  die 
alle  dolci  armonie 
di  spiritoso  ingegno 
fosti  spirto  e  sostegno, 

mentre  accoppiasti  il  suon  che  M  mondo  ammira, 
di  rotta  corda  in  vece  a  la  sua  lira. 

Ma  questi,   ancor  ch'egregi, 
son  troppo  antichi  pregi  ; 
son  queste  in  ogni  parte 
glorie  già  note  e  sparte; 
si  che  più  tosto  con  stupor  si  denno 
lodar  senza  lodar,   che  farne  cenno. 

Io  vo'  ben  dir  ch'io  vidi 
or  nei  campi  or  nei  lidi, 
ove  tu  dispiegavi 
gli  strepiti  soavi, 
l'ali  ritrose  e  i  passi  fuggitivi 
quinci  arrestare  i  venti  e  quindi  i  rivi. 

E  vidi  spesso  ancora 
star  la  turba  canora 
or  tra  i  faggi  or  tra  i  mirti 


GIUSEPPE    SALOMONI  283 

con  diletto  ad  udirti, 

per  imparar  da  la  tua  voce  eletta 

([ualche  bel  madrigale  o  canzonetta. 

Vidi  i  rami  baciarti, 
vidi  le  fronde  ornarti 
e,  tratti  da'  tuoi  carmi, 
correr  i  tronchi  e  i  marmi  ; 
e  vidi  il  carro  aurato  il  dio  di  Delo 
spesso   arrestar,    per   ascoltarti,    in   cielo: 

quel  dio  ch'assai  più  brama 
le  tue  canzoni  e  l'ama, 
vie  più  che  l'armonia 
d'Euterpe  e  di  Talia, 
e  fa,  fermando  i  corridori  adorni 
per  udirti  cantar,   più  lunghi  i  giorni. 

Ma  dove  incauto  e  stolto 
follemente  ho  rivolto 
le  temerarie  note? 
Lodarti  appien  chi  potè 
con  cetra  d'armonia  tumida  e  pregna? 
Tu  sol  te  stessa  di  cantar  sei  degna. 


BERNARDO   MORANDO 


I 

INVOCAZIONE  DEL  BACIO 

O  coralli  animati,   o  vive  rose, 
caldi  rubini  e  porpore  spiranti, 
de  l'orto  de  le  Grazie  usci  fragranti, 
de  l'amoroso  ciel  porte  odorose; 

o  del  diletto  uman  mète  gioiose, 
de  l'erario  d'Amore  arche  gemmanti, 
o  soavi  prigion  d'anime  amanti, 
o  fonti  del  piacer,   labra  amorose; 

s'in  voi  l'anima  mia  gli  spirti  suoi 
raccoglie  mai,   qual  fia  di  me  più  pago? 
qual  fia  ch'altro  piacer  più  brami  io  poi? 

Di  men  puri  diletti  altri  sia  vago; 
io  più  non  chero,  o  dolci  labra,  e  in  voi, 
quasi  in  mio  centro,  ogni  desire  appago. 


BERNARDO    MORANDO  285 

II 

INAPPAGAMENTO  DEL  BACIO 

Ecco  pur,  labra  mie,  rompeste  al  fine 
l'amoroso  digiun  nel  cibo  amato; 
avete  pur  il  nettare  libato 
da  l'animate  rose  porporine. 

Or  che  più  bramo?  Ahi,  che  non  giunge  a  fine 
il  desio  sitibondo  innamorato: 
bevver  le  labra  e  il  cor  resta  assetato, 
baciai  le  rose  e  sento  al  cor  le  spine. 

Bevvi,  assaggiai  non  so  s'ambrosia  o  fiamma; 
so  ben  ch'il  fiero  ardor  più  sempre  abbonda, 
né  de  la  sete  mia  manca  pur  dramma. 

Come  ad  egro  talor  sete  profonda 
breve  sorso  non  tempra,   anzi  l'infiamma, 
cosi  io  bevvi  gran  foco  in  picciol'onda. 


Ili 
INAPPAGAMENTO  IN  AMORE 

Ben  veggo.  Amor,  che  il  cibo  tuo  non  pasce, 
o  pur  pascendo  accresce  fame  al  core; 
a  pena  un  tuo  desio  tramonta  e  muore, 
eh 'un  altro  sorge  e  pargoleggia  in  fasce. 

Un  sol  desio  che  muore  avvien  che  lasce 
ben  cento  eredi,  ognun  di  sé  maggiore: 
idra  se'  tu  di  mille  capi.  Amore, 
a  cui  più  d'uno,  al  troncar  d'un,  rinasce. 

Sei  di  Tantali  mille  un  lago  A  verno, 
una  ruota  immortai  d'alme  meschine, 
dei  cori  umani  un  avoltoio  eterno. 

Sei  mar  che  non  ha  termine  o  confine, 
confin  di  questa  vita  e  de  l'inferno, 
inferno  in  cui  l' ardor  mai  non  ha  fine. 


286  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LA  RACCOGLITRICE  DI  CASTAGNE 

Lascia  di  coglier  più  ricci  pungenti 
con  quella  man  si  delicata,   o  Filie, 
e  a  goder  ombre  amene,   aure  tranquille, 
qui  sotto  ai  tronchi  lor  meco  trattienti. 

Tante  punte  spinose,   ah,   non  paventi, 
che  traggon  da  la  man  purpuree  stille? 
No,   che  d'Amore  a  mille  strali  e  mille 
anco  resisti  e  i  colpi  lor  non  senti. 

Ma  il  mio  cor  da  quei  strali  è  a  tal  ridutto 
(tanti  per  te  già  ve  n'infisse  Amore), 
eh' un   riccio  appunto  ei  rassomiglia  in   tutto. 

Noi  somigli  già  tu;    ch'egli  di  fuore 
aspro  è  ben  si,   ma  dentro  molle  ha  il  frutto; 
tu  sei  molle  nel  volto,   aspra  nel  core. 


v 
LA   FILATRICE   DI  SETA 

China  il  sen,  nuda  il  braccio,  accesa  il  volto, 
sottilissime  fila  Egle  traea 
da  ricchi  vermi,   ove  bollendo  ardea 
breve  laghetto  in  cavo  rame  accolto. 

Vago  de  la  sua  man,   semplice  e  stolto, 
il  mio  cor  tra  quei  vermi  arder  godea, 
e  la  ruota  volubile  avvolgea 
lo  spirto  mio  tra  quelle  sete  involto. 

Ella  con  l'empia  man,  ch'ardor  non  teme, 
nudi  rendea  fra  i  gorgoglianti  umori 
i  bombici  di  spoglie  e  me  di  speme; 

ed  agghiacciata  il  cor  fra  tanti  ardori, 
bella  parca  d'amor,   filava  insieme 
ricche  spoglie  a  le  membra  e  lacci  ai  cori. 


I?KRNAKUO    MORANDO  287 

VI 

L'AMANTE  E  GLI   OCCHIALI 

Per  vagheggiarti,   Ermilla,   a  mio  diletto, 
di  sferici  cristalli  i  lumi  armai  ; 
che  se  per  te  mancò  già  spirto  al  petto, 
or  luce  agli  occhi,   ecco,   mi  manca  omai. 

Fui  lince  pria,   ma  poi   che  gli  occhi  alzai 
de'  tuoi  begli  occhi  al  troppo  chiaro  oggetto, 
quasi  gufo  dal  Sol  vinto  restai  : 
nacque  (\a  la  tua  copia  il  mio  difetto. 

Indi  per  tua  fierezza  io  piansi  tanto, 
che  questi  umori  incristalliti  in  giro 
da  le  vene  del  cor  trassi  col  pianto. 

Ma  che  prò,   s'a  me  l'alma  onde  t'adoro 
manca,   non  che  la  luce  onde  ti  miro? 
Se  miro,   abbaglio,   e  se  non  miro,   i'  moro. 


VII 
IL   DENTE  MANCANTE 

Centra  il  tiranno  Amor,  cui  sempre  cura 
fu  d'opprimere  i  cor  con  pene  e  pianti, 
ordirò  già  ben  mille  offesi  amanti, 
agognando  vendette,  aspra  congiura. 

Fèssi  il  foco  in  Amor  giel  di  paura: 
fuggi;  volse  a  te,   bella,   i  pie  tremanti, 
che  del  tuo  cor  nei  rigidi  adamanti 
s'avvisò  di  trovar  magion  sicura. 

Ma,   rispinto  dal  cor,   dentro  la  bocca 
fra  quei  muri  d'avorio  ei  tutte  accolse 
le  forze  sue,   quasi  in  munita  ròcca. 

Là  da  l'ordine  eburno  un  dente  tolse, 
onde  stassi  in  agguato  e  i  dardi  scocca, 
onde,   presa  la  mira,   al  cor  mi  colse. 


LIRICI    MARINISTI 
Vili 

ALLA  COMICA  LAVINIA 

Mentre  con  umil  socco  in  cari  accenti 
tutto  il  regno  e  i  tesori  apri  d'Amore, 
non  è,   Lavinia,   chi  gli  strali  ardenti 
per  te  d'amor  non  senta  dolci  al  core. 

Se  col  coturno  spieghi  aspri  lamenti, 
non  è  cor  che  non  gema  al  tuo  dolore; 
se  favellando  giri  i  rai  lucenti, 
alma  non  è  che  non  ne  provi  ardore. 

S'apri  le  labbra  al  riso  o  gli  occhi  al  pianto, 
non  è  si  duro  cor,   che  a  te  soggetto 
possa  di  libertà  più  darsi  il  vanto. 

Ma,  sia  tragico  o  lieto,  ogni  tuo  detto 
è  sempre  finto,   ed  altri  prova  intanto 
non  finto  duol,   non  finte  piaghe  al  petto. 


IX 

A  UN'ATTRICE  DI  TRAGEDIA 

Quando   al   lugubre   suon   di   mesti   accenti, 
bella  e  faconda  mia,   sfogasti  in  scena 
per  tragico  accidente  interna  pena, 
pendè  tacito  ognun  da'  tuoi  lamenti. 

Né  mai  si  dolce  a  le  sue  voci  attenti 
tenne  nocchieri  in  mar  blanda  sirena, 
né  in  selva  rinovò  mai  Filomena 
con  si  soave  suon  casi  dolenti. 

Allor  che  tu  piangesti,  a  que'  tuoi  pianti 
piansero  mille  luci,   al  tuo  pallore 
fùr  visti  impallidir  mille  sembianti. 

Ma  un  solo  e  finto  strai  del  tuo  dolore 
fé'  doppia  e  vera  piaga  a  mille  amanti, 
e  fu  piaga  di  duol,  piaga  d'amore. 


BERNARDO    MORANDO  289 

X 

ALLA  CANTATRICE  ANNA  RENZIA,  ROMANA 

Vaga  ninfa  del  Tebro,   a  cui  concessa 
è  de'  teatri  oggi  la  palma  e  il  vanto, 
che  a  la  vaghezza,  agli  atti,  al  riso,  al  canto 
si  eccedi  altrui,  ch'hai  già  l'invidia  oppressa; 

perché  l'alma  mi  togli?  omai,  deh,   cessa; 
ferma  la  voce  armoniosa  alquanto, 
che  di  dolcezze  in  mar  si  vario  e  tanto 
l'anima  fuor  di  sé  perde  se  stessa. 

Anzi,  pur  segui,  o  bella,  i  cari  accenti, 
che  se  per  te  da  l'alma  io  son  diviso, 
per  te  m'unisco  a  le  beate  menti. 

In  estasi  elevato  io  già  ravviso 
l'angelica  armonia  ne'  tuoi  concenti, 
la  celeste  beltà  nel  tuo  bel  viso. 


XI 

INVITO  ALLA  POESIA  NELL'  INIZIO  DELL'  ESTATE 

Su  la  cetra  del  ciel  poeta  il  sole 
muove  già  de'  suoi  raggi  il  plettro  ardente, 
e  de  le  sfere  al  suon  con  pie  lucente 
guidan  stelle  brillanti  alte  carole. 

Mille  nel  regno  suo  musiche  gole 
apre  Giuno  a  cantar  soavemente, 
e  fin  l'arsa  cicada  il  suon  stridente 
spiega  in  vece  di  canti  e  di  parole. 

A  lieti  versi  in  dolce  mormorio, 
tra  dipinte  pietrucce  e  bianchi  marmi, 
la  voce  di  cristallo  apre  ogni  rio. 

Chi  fia  dunque  di  noi  che  più  risparmi, 
amici,  il  canto  ad  incantar  l'oblio, 
se  il  tutto  in  terra  e  in  ciel  c'invita  ai  carmi? 

Lirici  marinisti  —  19 


290  LIRICI     MARINISTI 

XII 

ESTATE  E  VINO 

Non  più  benigni  raggi,   amici  lampi 
sparge,   ma  vibra  il  Sol  dardi  nocenti: 
tacciono  in  mare  i  flutti,  in  aria  i  venti, 
manca  il  rio,   secca  il  prato,   ardono  i  campi. 

Perché  da  tanto  ardor  s'involi  e  scampi, 
cerca  ogni  fera  indarno  ombre  e  torrenti; 
par  che  diluvi  il  cielo  influssi  ardenti 
e  in  pelago  di  fiamme  il  mondo  avvampi. 

Arsiccio  il  suol  con  tante  bocche  e  tante 
quant'apre  in  lui  caverne  il  fiero  ardore, 
chiede  invan  refrigerio  al  ciel  fiammante. 

Or  chi  dunque  sarà  che  ne  ristore? 
Amor  no,  ch'ei  non  meno  arde  ogni  amante: 
Bacco,   sia  nostro  scampo  il  tuo  liquore. 

XIII 

A  GIOVAN  VINCENZO  IMPERIALE 

per  la  sua  villa  di  Sampierdarena  e  pel  suo  matrimonio  con  Brigida  Spino! 

Quanto  la  terra  e  l'acque  han  di  gentile, 
quanto  natura  ed  arte  han  di  diletto, 
Clizio,   quasi  in  compendio  hai  tu  ristretto 
ne  le  tue  ville,  appo  cui  Pesto  è  vile. 

Qui  stagna  più  d'un  lago  al  mar  simile, 
qui  scorre  più  d'un  rio  ch'erboso  ha  il  letto, 
e  del  verno  crudel  quivi  al  dispetto, 
coronato  di  fior  s'eterna  aprile. 

L'acqua  ne'  fonti  in  vari  scherzi  ondeggia, 
gode  la  terra  in  villa,  e  ricca  mole 
sostien  sul  dorso,  imperiai  tua  reggia. 

Le  bellezze  del  ciel   mancavan  sole: 
or  non  più  no,  poiché  fra  lor  lampeggia 
Brigida  tua,   ch'ha  ne'  begli  occhi  il  sole. 


BERXARDO    MORANDO  29T 

XIV 

A    GIOVAN    VINCENZO    IMPERIALE 

esiliato  da  Genova  con  la  pena  dell'ostracismo. 

Clizio,   un  animo  grande,   un   petto  augusto 
fra  limiti  ristretto  esser  non  suole: 
gira  il  tuo  nome  ovunque  gira  il  sole, 
varcato  ogni  confin,   di  gloria  onusto. 

Pari  a  quel   grande,   con  dolor   ben    giusto, 
per  teatro  un  sol  mondo  aver  ti  duole; 
che  sembra  questa  immensa  e  vasta  mole 
al   magnanimo  cor  carcere  angusto. 

Or  dunque  fia,   mentre  del  suol  nativo 
si  contende  al  tuo  pie  la  bella  Arena, 
che  a  si  gran  cor  sia  brev' esilio  a  schivo? 

Genova,  di  te  priva,   esili  in  pena; 
tu,   fuor  di  lei,   non  sei  di  patria  privo; 
patria  t' è  degna  il   mondo  e  degna  a  pena. 

XV 

LE  MASCHERE   DI   CARNEVALE 

Folle   volgo,    che   fai?    Deh,   chi   t'ha   tratto 
di  senno  in  cosi  stolida  maniera, 
che  di  forma  indegnissima  straniera 
copri  quel  volto  eh' è  di   Dio  ritratto? 

Di  vergogna  e  d'onor  spogliato  affatto, 
vesti  tra  spoglie  finte  infamia  vera, 
e  mostri  sotto  maschera  di  fera 
che  col  volto  anco  il  cor  ferino  è  fatto. 

Già  di  mentito  vel  coperto  il  petto 
e  di  virtù  tra  finte  larve  involto, 
d' ire  incognito  il  vizio  ebbe  diletto. 

Or  che  vede  baccante  a  fren  disciolto 
il  mondo  -errar  sotto  larvato  aspetto, 
nudo  ei  trionfa  e  smascherato  il  volto. 


292  LIRICI    MARINISTI 

XVI 

L'AVARIZIA  PUNITA 
A  istanza  di  Ferrante  Porta  Puglia 

O  de  le  umane  brame 
la  più  cieca  e  più  ria,   brama  de  l'oro, 
sacra,   esecrabil  fame, 
che  un  fango  vile  usi  chiamar  tesoro; 
che  non  fai?  che  non  puoi? 
qual  non  cede  uman  petto  agli  urti  tuoi? 

La  vergine  Atalanta, 
non  men  ch'agii  di  pie,   stabil  di  voglia, 
di  libertà  si  vanta, 

ma  un  pomo  d' òr  di  libertà  la  spoglia; 
avida  d'aureo  nembo, 
porge  la  bella  Danae  a  Giove  il  grembo. 

Per  mercé  d'auree  armille 
Tarpeia  offre  a'  sabini  il  gran  Tarpeo, 
e  con  mill'arti  e  mille 
scossa  da  Brenno  invano,   al  fin  cadeo 
per  la  mercede  istessa 
da  l'or  più  che  da  l'armi  Efeso  oppressa. 

Né  sol  cura  si  vile 
molle  femineo  seno  abbatte  e  atterra, 
ma  con  palma  virile 
vince  i  togati  in  pace,  i  duci  in  guerra, 
e  quasi  dir  potrei 
che  sforzano  anco  i  doni  uomini  e  dèi. 

Ove  l'or  folgoreggia, 
ogni  altro  lume,   ogni  fulgor  s'oscura; 
virtù  più  non  lampeggia, 
non  più  splendor  di  nobiltà  si  cura. 
Ben  l'età  d'oro  è  questa, 
se   in   pregio   altro   che   l'oro  oggi   non  resta. 


BERNARDO    MORANDO  293 

Tu,  di  virtute  amico, 
che  da  vizio  si  reo  l'anima  hai  sciolta, 
Puglia,  di  ciò  ch'io  dico 
nuovo  esempio  verace  in  prova  ascolta: 
vedrai  ch'a  l'oro  cede 
nobiltade  ed  amor,   virtude  e  fede. 

Fiamma  d'amor  s'apprese 
nel  casto  sen  di  duo  leggiadri  amanti  ; 
una  bella,   un  cortese, 
ambo  di  sangue,   ambo  d'onor  prestanti; 
di  pregi  alti  e  gentili, 
di  costumi  e  d'etate  ambo  simili. 

Alme  più  belle  e  fide 
non  legò,   non  accese  Amore  unquanco, 
né  spogliato  ei  si  vide 
per  più  bella  cagion  di  strali  il  fianco: 
già  con  eguali  aff"etti 
una  sol 'alma  e  un  cor  tengon  due  petti. 

Imeneo  già  s'invita, 
che  stringa  ai  degni  cor  nodi  più  degni  ; 
quando  serpicrinita 
furia  flegetontea  turba  i  disegni 
e,   perché  l'or  prevaglia, 
quei   che  dà   legge   a   lei   con   l'oro   abbaglia. 

D'oro  e  di  gemme  altero, 
ei  destina  a  la  bella  altro  consorte, 
di  nazion  straniero, 
di  nome  ignoto,   inferior  di  sorte, 
tale  nel  cui  lignaggio 
di  chiara  nobiltà  non  splende  un  raggio. 

A  lo  splendor  vetusto 
d'alta  stirpe  gentil  l'oro  prevale; 
per  l'oro,   oh  cambio  ingiusto  ! 
amor,  fede,   valor  ponsi  in  non  cale; 
di  lei,  ch'invan  contende, 
la  liberiate  a  prezzo  d'or  si  vende. 


294  LIRICI    MARINISTI 

Stupido  e  mesto  insieme 
restò  il  fedele  a  la  ria  nuova  acerba; 
pianse  sua  verde  speme 
da  l'altrui  falce  d'or  troncata  in  erba, 
e  con  sospiri  atroci 
cosi  fra  sdegno  e  duo!  sparse  le  voci: 

—  Dunque,   o  bella  e  crudele, 
cosi  in  fumo  svanisce  il  nostro  foco? 
Dunque,   del  tuo  fedele 
la  costanza  e  l'amor  curi  si  poco, 
che  perfida,   incostante, 
lasciar  puoi  me  per  vii  straniero  amante? 

Perché  di  biondo  peso 
ei  gravi  ha  l'arche  e  via  più  grave  il  core, 
fia  da  te  vilipeso 

un  tesoro  di  fé  che  t'offre  Amore? 
Deh,  per  lo  spregio  indegno 
ver' te  lo  stesso  Amor  s'armi  di  sdegno! 

Che  tu  d'amor  non  goda 
col  nuovo  amante  i  frutti  Amor  permetta; 
fame  eterna  vi  roda 
fra  le  mense  d'amor  per  mia  vendetta, 
né  i  maritali  cibi 
a  me  dovuti  il  mio  rivai  delibi. 

Presso  oggetto  si  bello 
si  strugga  in  van,   né  il  suo  desio  s'acchete; 
ei,  Tantalo  novello, 
in  mezzo  a  si  bell'acque  arda  di  sete 
e  tu,   qual  Mida  avara, 
non  men  qual  Mida  a  star  digiuna  impara.  — 

Del  buon  fedel  deluso 
l'alte  querele  al  terzo  ciel  salirò, 
né  fu  il  suo  voto  escluso, 
ma  il  fin  bramato  i  prieghi  suoi  sortirò; 
che  al  talamo  disdetto 
fu  da  Ciprigna  avara  ogni  diletto. 


BERNARDO    MORANDO  295 

Di  gemme  alti  tesori 
fan  de  la  bella  '1    portamento  adorno; 
di  sposerecci  onori 
tutta  risplende  alteramente  intorno, 
ma  senza  cibo  alcuno 
disperato  Imeneo  langue  digiuno. 

Tale  al  fin,   qual  partio, 
lo  sposo  al  patrio  suol  si  riconduce, 
e  col  primier  desio 
seco  la  bella  inviolata  adduce, 
a  cui  dal  fianco  avvinto 
Venere  ancor  non  ha  disciolto  il  cinto  I 

XVII 

LA  VISITAZIONE 

Luminosa  stendea  l'aurora  in  cielo 
de'  primi  raggi  il  suo  vermiglio  ammanto; 
altra  aurora  spargea  più  chiari  intanto 
ne'  monti  di  Giudea  raggi  di  zelo. 

Quella  d'un  breve  fuggitivo  sole 
al  mondo  promettea  povera  luce; 
questa  del  sole  onde  quel  Sol  riluce 
chiudea  nel  sen  meravigliosa  prole. 

Che  non  può  santo  zelo?  Ecco  vagante 
quella  eh 'a  noi  del  ciel  le  strade  addita, 
peregrina  d'amor  per  via  romita, 
ver'  la  cognata  umil  move  le  piante. 

Gran  merto,  e  che  non  può?  Gli  angeli  a  schiere 
ecco,   per  addolcire  a  la  gran  diva 
de  l'alpestre  caniin  la  noia  estiva, 
scendon  qua  giù  da  le  celesti  sfere. 

Sospende  altri  di  lor  serico  tetto 
sul  regio  capo  a  riparar  gli  ardori  ; 
altri  d'Arabia  i  più  pregiati  odori 
versa  d'intorno  al  virginal  cospetto; 


296  LIRICI     MARINISTI 

altri  onor  trionfale  in  più  d'un  arco 
inalza,  ove  la  dea  sue  glorie  scorge; 
evvi  intanto  chi  umile  il  braccio  porge 
del  divin  braccio  a  l'onorato  incarco; 

parte  di  passo  in  passo,  a  coro  a  coro, 
temprando  a  vario  suon  musiche  note, 
rinovan  là  de  le  celesti  rote 
il  concento  dolcissimo  canoro; 

molti  di  rose  non  caduche  e  frali, 
ch'ebber  stelle  per  stelo  e  rai  per  spine, 
vanno  intrecciando  al  sacrosano  crine 
ghirlande  incorrottibili,   immortali; 

parte  col  ventilar  di  leggier  volo 
le  spira  intorno  zeffìri  celesti  ; 
parte,   ov'avvien  ch'il  sacro  pie  calpesti, 
di  rari  fior  va  lastricando  il  suolo. 

Il  suolo  istesso,  ov'ella  i  passi  move, 
si  fa  di  fiori  in  mille  guise  adorno; 
l'aura  che  spira,   a  lei  sospira  intorno; 
il  ciel  nembo  di  grazie  in  sen  le  piove. 

S'alza  ogni  basso  fior,   quasi  che  brami 
de  la  veste  real  baciare  il  lembo, 
e  per  fioccarle  i  dolci  frutti  in  grembo 
ogni  pianta  sublime  inchina  ì  rami. 

Che  dico?  anco  ogni   sfera  in  ciel   s'atterra 
a  riverire,   ad  adorar  tal  nume; 
e  per  farsi  più  chiaro  a  si  gran  lume 
il  ciel  desia  di  tragittarsi  in  terra. 

Che  meraviglia  è  ciò,   s'ebbe  desio 
di  farsi  il  sommo  Verbo  anch' ei  terreno? 
Ma  un  ciel  pur  anco  è  quel  vergineo  seno, 
che  quivi  è  il  ciel  dove  sua  stanza  ha  Dio. 

Vanne,   animato  ciel,   vanne  felice, 
che  la  felicità  teco  s'annida: 
Dio  ti  sia  scorta,   anzi  tu  a  Dio  sii  guida, 
poiché  Dio  stesso  oggi  portar  ti  lice. 


BERNARDO    MORANDO  297 

XVIII 

PER  MONACAZIONE 

Alla  monacanda  vengono  presentati  una  facella,  un  giglio, 
una  palma,  una  corona  di  spine  e  una  croce 

Pagella 

Dai  tenebrosi  orrori 
del  mondo  rio  fallace 
spingiti,   o  saggia,   fuori; 
ecco  del  ciel  la  face, 
che  con  interna  luce 
da  l'abisso  de  l'ombre  al  ciel  t'adduce. 

Giglio 

Ne'  giardini  del  cielo 
dal  sommo  Sol  nodrito 
su  non  caduco  stelo 
un  giglio,  ecco,  t'addito, 
onde  al  candor  de'  gigli 
con  virgineo  candor  ti  rassomigli. 

Palma 

Pugna  con  core  invitto, 
amazone  di  Dio; 
per  te  cada  sconfitto 
nemico  il  senso  rio; 
vinci  ;   sembianza  è  questa 
de  la  palma  ch'in  cielo  il  ciel  t'appresta. 

Corona  di  spine 

Di  momentanee  rose 
altra  il  crin  faccia  adorno; 
tu  di  spine  dogliose 
cingi  le  tempie  intorno, 
che  vedrai  da  le  spine 
rose  di  gloria  germogliarti  al  crine. 


298  LIRICI     MARINISTI 


Croce 


Ecco  il  tronco  fiorito, 
ove  il  fior  nazareno, 
dai  rai  d'amor  ferito, 
apri  languido  il  seno; 
vieni,  ed  il  tronco  e  il  fiore 
ti  spunti  al  seno  e  ti  s'alligni  al  core. 

XIX 

IL  NANO  DI  NOME  «  AMICO  » 

Di  che  stupido  t'ammiri, 
tu  che  miri 

la  mia  picciola  statura? 
Non  fii  avara,   come  credi  : 
se  ben  vedi, 
mi  fu  1  rodiga  natura. 

Nel  mio  breve  corpicello 
il  modello 

ella  fé'  d'un  gran  colosso: 
novo  Encelado  compose 
e  mi  pose 
su  le  spalle  un  monte  addosso. 

Quando  nacqui,   influssi  rei 
ai  di  miei 

non  promise  astro  nemico; 
ma  in  compendio  il  ciel  cortese 
farmi  intese 
un  grand' uomo  e  grande  amico. 

S'al   di   fuori   altrui   son   scherno, 
ne  r  interno 

non  la  cedo  al  magno  Atlante: 
picciol  son  ne  la  sembianza, 
ma  in  sostanza 
corpo  nano  ha  cor  gigante. 


BERNARDO    MORANDO  299 

Non  mi  dir  ch'io  sia  pigmeo, 
che  non  feo 

guerra  mai  che  con  le  gru. 
Vieni  in  prova,   se  t'aggrada, 
con  la  spada, 
s' anch' Orlando  fossi  tu. 

Ben  è  ver  che  corto  ho  il  braccio, 
ch'ai  mostaccio 
arrivarti  non  potrò. 
Ma  se  in  alto  più  non  saglio, 
io  di  taglio 
sul  tallon  ti  ferirò. 

Poco  son  ma  tutto  core, 
e  timore 

non  alberga  nel  cor  mio; 
temo  sol  quando  m'assale 
col  suo  strale 
picciol  nano  qual  son  io. 

Questo  è  Amor,   che,   pargoletto, 
al  mio  petto 

guerra  fa  con  forze  estreme: 
ei  mi  fere  e  strugge  in  duolo, 
m'arde,   e  solo 
tal  nemico  amico  teme. 


ANTONIO  GIULIO  BRIGNOLE  SALE 


I 

LA  CORTIGIANA  FRUSTATA 


La  man  che  ne  le  dita  ha  le  quadrella 
con  duro  laccio  al  molle  tergo  è  avvolta. 
L'onta  a  celar  eh' è  ne  le  guance  accolta, 
spande  il  confuso  crin  ricca  procella. 

Sul  dorso,  ove  la  sferza  empia  flagella, 
grandine  di  rubini  appar  disciolta; 
già  dal  livor  la  candidezza  è  tolta, 
ma  men  candida  ancor  non  è  men  bella. 

Su  quel  tergo  il  mio  cor  spiega  le  piume 
e,   per  pietà  di  lui  cria  tutto  essangue, 
ricever  le  ferite  in  sé  presume. 

In  quelle  piaghe  agonizzando  ei  langue; 
ma  nel  languir  non  è  il  primier  costume 
che  il  sangue  corra  al  cor  :   ei  corre  al  sangue. 


A.    G.    BRIGNOLE    SALE  30I 

2. 

Segue 

Troppo  tenero  cor,  perché,  commosso 
di  questa  cruda  a  la  vermiglia  vista, 
mandi  avvolta  in  «  oimè!  »  l'anima  trista, 
a  insanguinarsi  in  quel  purpureo  dosso? 

Che  sovra  lei  brutto  flagel  sia  mosso, 
più  dèi  goder  quanto  ella  più  s'attrista: 
nostro  sperar  quindi  vigore  acquista, 
è  nel  suo  tergo  il  suo  rigor  percosso. 

Che  se  finor  con  l'amorosa  fronte 
negò  dare  al  languir  dolce  soccorso, 
anzi  le  piante  ebbe  al  fuggir  si  pronte, 

or  freneralla  di  vergogna  il  morso; 
poiché  per  non  mostrar  le  livid'onte 
non  oserà  volgere  in  fuga  il  dorso. 


3- 

Segue 

Per  qual  sua  colpa  essaminata  e  vinta 
costei,   che  al  bel  candor  sembra  innocente, 
sotto  le  scosse  di  flagel  pungente 
il  molle  dorso  a  insanguinare  è  spinta? 

Se  del  mio  cor  furato  appar  convinta, 
si  castighi  il  suo  crin,  ch'egli  è  nocente; 
se  di  mia  vita  ancisa,    il  ciglio  ardente 
paghine  il  fio:   fu  da'  suoi  dardi  estinta. 

Ah,   non  è  questo  il  fallo!   Ella  è  punita 
perché  allor  che  io  le  apersi  il  mio  martire 
voltommi  il  tergo  e  fé'  da  me  partita. 

E  '1  tergo  ha  duol.  Donne,  or  da  voi  si  mire, 
che  non  ver'  voi  giusto  rigor  s'irrita 
pel  furare  o  '1  ferir,  ma  pel  fuggire. 


LIRICI     MARINISTI 

4- 
Segue 

Verso   i   giardin   di   Cipro   a   voi   sciogliete, 
vezzosetti  Amorini,   ali  odorose; 
dolci  viole,   morbidette  rose 
con  la  tenera  man  quivi  cogliete. 

Tra  mille  e  mille  quelle  sol  scegliete 
che  nelle  foglie  appariran  pietose; 
segno  ne  fia  se  molli  e  rugiadose 
per  lagrime  d'amanti  le  vedrete. 

Quindi  un  flagel  ne  fate,   onde  ferita 
de  l'anime  la  bella  feritrice, 
lacerata  non  sia,  ma  rabbellita. 

Ah,   se  tardate  più,   quest'infelice 
avrà  i  colpi  da  sferza  incrudelita  ! 
E  sapete  chi  sia:   v'è  genitrice. 

II 
RICORDI     DI    UNA    MORTA 

Per  la  morte  di  Emilia  Adorni  Raggi 

De  l'arrabbiato  can  sotto  i  latrati, 
sotto  il  ruggir  de  l'anelante  fiera, 
io  t' ho  visto  esalare,  o  primavera, 
di  moribondo  odor  gli  ultimi  fiati. 

E  pur  sorgi  di  nuovo  e  i  pregi  usati 
teco  hai  di  molli  fior,   d'aura  leggiera; 
rinascer  tosto  entro  la  guancia  altera 
miro  di  rose  iblee  gli  ostri  beati. 

Ma  d' Emilia  gentil  che  si  morio 
più  non  vedrò  le  belle  guance  e  i  rai, 
dove  un  aprii  rilusse,   un  Sol  fiorio. 

Degli  anni  tuoi,   mia  vita,   or  che  farai? 
Vengan   pur   rose,    escan   pur   gigli,    oh    Dio, 
eh  '  un  aprile  per  me  non  fia  più  mai  ! 


A.    G.    BRIGNOLE    SALE  303 

III 

CONTRO  LA  FEDELTÀ  IN  AMORE 

Chi  nel  regno  almo  d'Amore 
brama  l'ore  — trar  serene 
fuor  di  pene, 
d'  una  sola  amante  stolto 
non  si  chiami; 
molte  n'ami, —ma  non  molto. 

Finga  pene  per  ciascuna, 
ma  nessuna  —  abbia  la  palma 
d'arder  l'alma; 
talor  esca  in  mezzo  al  viso 
breve  pianto, 
ma  fra  tanto  — in  cor  sia  riso. 

La  modesta,   se  ti  scaccia, 
tu  procaccia  —  che  l'audace 
ti  dia  pace; 

se  la  bianca  ti  beffeggia, 
la  brunetta 
per  vendetta -e  tu  vagheggia. 

Quando  vede  donna  bella 
che  sol  ella  — nel  tuo  petto 
ha  ricetto; 

in  trofeo,   meschin,  ti  mena, 
flagellato, 
condannato  — a  vii  catena. 

Ma  se  scorge  che  tu  scaltro, 
tosto  ad  altro  —  amabil  volto 
sarai  vòlto, 

non  si  mostra  più  severa, 
ma  pietosa, 
amorosa,  —lusinghiera. 


304  LIRICI    MARINISTI 

Quel  van  titolo  di  fede, 
che  ognun  chiede -e  ognun  desia, 
è  pazzia. 

A  vestirsi  è  fede  avezza 
di  candore, 
eh 'è  il  colore  — di  sciocchezza. 


VII 

MICHIELE  -  ZAZZARONl  -  QUIRINI 


Lirici  Marinisti  —  20 


PIETRO    MICHIELE 


AL   RITORNO    DALLA  VILLA 

Qual  parti?  qual  ritorna?  e  quale  io  veggio 
metamorfosi  strana  di  colori? 
e  di  die  larve  oscure  ombrata  è  Dori, 
se  pur  Dori  costei  creder  io  deggio? 

Ove  di  gelsomini  in  bianco  seggio 
la  peonia  spiegò  purpurei  onori, 
zingane  Grazie  ed  interrotti  Amori 
sotto  ciel  di  giacinti,  ecco,  vagheggio. 

Forse  Febo,  a  mirar  costei  rivolto, 
le  sue  rose  dipinte  ha  di  viole 
per  figurar  l'Egitto  in  si  bel  volto; 

o  Amor  pur  ch'oltraggiarmi  intende  e  vuole, 
col  fumo  de  le  faci,   audace  e  stolto, 
abbozzato  ha  la  notte  in  faccia  al  sole? 


3o8  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  BELLA  DERUBATA 

Quel  ch'a  la  bella  mia  ladra  d'amore 
furar  sagaci  man  di  ladri  erranti, 
era  l'avaro  prezzo  onde  il  suo  ardore 
vende  lasciva  a  poco  onesti  amanti. 

Ma  non  già  con  sospir,  non  già  con  pianti 
de  la  perdita  sua  mostra  dolore, 
che  stimar  l'oro  avvien  ch'ella  si  vanti 
quanto  stimò,   di  chi  donollo,  il  core. 

Correte  a  risarcir  con  larga  usura 
de  la  perdita  i  danni,  o  voi  rivali 
del  lascivo  piacere  della  natura. 

Move  Amor  ne'  begli  occhi  aurate  l'ali, 
e  a  voi,  mentre  a  costei  l'oro  procura, 
mostra  d'oro  la  face  e  d'or  gli  strali. 


Ili 
AMORI 

Tra  i   rami   d'un   frondoso   ermo   boschetto 
avea  con  Filli  il  pastorel  Tirreno, 
ebro  d'amore  e  di  dolcezza  pieno, 
bocca  a  bocca  congiunto  e  petto  a  petto. 

Un  diluvio  di  gioia  e  di  diletto 
versava  in  loro  Amor  cortese  a  pieno; 
ella  giva  mancando,   ei  venia  meno, 
l'uno  con  l'altra  avviticchiato  e  stretto. 

Accoppiavan  le  lingue  e  i  dolci  baci 
confondean  co'  sospiri,  avvinti  insieme 
com'orno  antico  ed  edere  tenaci; 

e  mentre  l'un  sospira  e  l'altra  geme, 
tra  lor  temprando  l'amorose  faci 
giunser  concordi  a  le  dolcezze  estreme. 


PIETRO    MICniELE  30q 

IV 

A  UN'ATTRICE 
che  rappresenta  la  peccatrice  convertita. 

In  preda  già  de'  più  lascivi  amori, 
a  cui  con  piacer  vano  il  mondo  invita, 
la  peccatrice  in  su  l'età  fiorita 
s'ornò  di  gemme  e  profumò  d'odori. 

Poi  de'  commessi  suoi  vulgari  errori 
passò  tra  i  boschi  a  sospirar  romita 
e,  mentre  apriva  a  sospirar  l'uscita, 
aprian  per  lei  del  ciel  gli  angeli  i  cori. 

Tu,   mentre  in  finta  scena  il  mondo  insano 
segui,   poi  sprezzi  e  tra  i  celesti  giri 
spieghi  lodi  canore  al  re  sovrano; 

prima  tra  molli  vezzi  ogn'alma  aggiri, 
poi  teco  al  ciel  da  questo  fango  umano 
per  la  traccia  sen  va  de'  tuoi  sospiri. 

V 

IN  MORTE  DI  LOPE  DE  VEGA 

A  la  gelida  tomba  ov'è  sepolto 
l'esperio  Vega  e  de  l'Esperia  il  vanto, 
cinte  le  muse  di  funebre  ammanto 
mostran  lacero  il  sen,   pallido  il  volto; 

e,  '1  cor  già  tutto  in  lagrime  disciolto, 
gli  fan  correr  intorno  un  rio  di  pianto, 
e  con  pietosa  man  spargonli  a  canto 
dei  fior  di  Pindo  un  ricco  nembo  e  folto. 

E  mentre  in  duro  suon  geme  e  sospira 
lo  sconsolato  coro,   egra  e  dolente 
chi  spezza  la  sampogna  e  chi  la   lira. 

A  si  mesto  spettacolo  presente 
romper  anch' egli  Amor  l'arco  si  mira, 
e  nel  pianto  ammorzar  la  face  ardente. 


LIRICI    MARINISTI 
VI 

BACI 


Altro  piacer  non  sento 
se  non  quanto  di  voi,  rose  vivaci, 
porpore  rugiadose, 

spargo  in  sonoro  stil  dolce  concento; 
e  tanto  sol  mi  par  che  dolce  sia 
quanto  parla  di  voi  la  musa  mia. 
Or,    s' ho  tanto   piacer   di   voi  parlando, 
che  farei  voi  baciando? 


Da'  miei  sospiri  vinta, 
Dori  cortese  un  di  dar  mi  volea 
que' baci  ch'io  chiedea. 
Ma,   per  baciarmi  accinta, 
ritenne  il  bacio,  pallida  e  smarrita, 
per  non  esser  udita. 


Lascia,   Dorina,  ch'io 
faccia  a  mia  voglia  a  pieno 
di  mille  baci  miei  segno  il  tuo  seno; 
che,   sazio  che  sarà  quest'ardor  mio, 
s'averai  poi  desio 
che  la  tua  bocca  bella 
goda  de'  baci  anch' ella, 
pareggiar  ti  prometto 
i  diletti  del  labro  a  quei  del  petto. 

4. 

Quando,  dove  s'intese 
che  chi  ferito  more 
lieto  baci  il  nimico,  il  feritore? 


PIETRO    MICHIELE  311 


O  occhi,  o  Stelle  accese 

da  le  faci  d'Amore, 

ecco  sol  nato  in  me  strano  desio. 

Da  voi  còlto  son  io 

d'amorosa  saetta  in  mezzo  al  core; 

pur  di  baciarvi  godo, 

e  la  ferita  e  il  feritore  io  lodo. 


Coi  più  soavi  baci 
che  possan  ristorar  un  cor  languente, 
tutta  d'amore  ardente, 
la  mia  donna  m'assale. 
E  mentr'ella  m'abbraccia, 
par  che  manchi  il  mio  cor  tra  le  sue  braccia. 
Fors'è  destin  fatale, 
se  m'uccide  di  doglia  e  d'amarezza, 
che  m'uccida  di  gioia  e  di  dolcezza. 


VII 

L'INVERNO 

Era  ne  la  stagione 
che  l'aquilon  gelato 
dagli  iperborei  monti  il  freddo  porta; 
e  già  l'aureo  balcone, 
ma  di  nubi  velato, 
apria  colei  che  de  la  luce  è  scorta; 
quando  la  chiusa  porta 
del  rustico  tugurio  apri  Fileno, 
e  di  nevi  ripieno 

mirando  il  prato  al  furiar  de'  venti, 
vòlto  a  Filli  proruppe  in  questi  accenti! 


312  LIRICI    MARINISTI 

—  Deh,  non  lasciar  ancora, 
Filli,  si  frettolosa, 
del  letto  amico  le  feconde  piume; 
è  pur  sorta  l'aurora, 
ma  non  già  luminosa 

arreca  il  giorno  a  noi,  com'  ha  in  costume. 
Ombra  '1  suo  chiaro  lume 
nube  piena  di  ghiaccio  e  cela  il  cielo 
caliginoso  velo, 

e  la  terra  tra  neve  orrida  involta, 
che  fu  sepolcro  altrui,  giace  sepolta. 

A  novi  scherzi  il  verno 
chiama  l'anime  amanti, 
e  chi  non  sa  gioir  non  merta  vita. 
Di  vivace  falerno 
colme  tazze  spumanti 
Bacco  in  tal  tempo  a  rivotar  c'invita; 
alma  del  cor  gradita, 
de'  freddi  giorni  a  rinovar  l'onore 
venga  dolce  liquore; 
e  poscia  uniti  in  non  usati  modi 
de  l'algente  stagion  cantiam  le  lodi. 

Cara  stagione,   amica 
di  quel  dolce  riposo 
che  gode  l'uomo  affaticato  e  stanco! 
Porge  al  mondo  la  spica 
il  luglio  polveroso, 

ma  rende  sotto  '1  peso  ansante  il  fianco; 
in  te  robusto  e  franco, 
de'  passati  sudor  il  volto  asciutto, 
gode  il  bramato  frutto, 
e  lieto  il  villanel  con  la  famiglia 
tra  suoni  e  canti  a  bel  piacer  s'appiglia. 

L'ostili  armate  schiere 
che  fanno  d'ogn' intorno 
risuonar  stragi  e  cruda  errar  la  morte, 


PIETRO    MICHIELE  3I3 

e  con  auree  bandiere 

a  pena  nato  il  giorno 

de'  chiusi  alberghi  altrui  scuoton  le  porte, 

rese  nel  male  accorte 

lascian  l'armi,   e  con  lor,   se  non  l'ardire, 

depongon  almen  l'ire; 

e  ammutolito  il  rauco  suon  la  tromba 

altrui  più  non  minaccia  e  morte  e  tomba. 

L'altre  stagioni  ornate 
portan  corona  al  crine 
che,   come  varie  son,   varia  colori; 
le  chiome  circondate' 
hai  tu  di  vaghe  brine 
e  sol  godi  vestir  puri  candori. 
Co'  superbi  amatori 
eh 'a  l'amata  beltà  professan  fede, 
che  bianca  esser  si  crede, 
gareggiando  in  vestir  candido,   mostri 
che  non  sta  fedeltà  sott'oro  ed  ostri. 

Depon  la  serpe  il  tòsco, 
lascia  il  leon  lo  sdegno, 
ogni  fera  più  fiera  è  resa   umile. 
De  le  lor  furie  il  bosco 
solo  è  ricetto  degno; 
stassi  illesa  la  greggia  entro  l'ovile. 
Stagion  cara  e  gentile, 

di  veder  l'anno  ancora  un  giorno  io  spero 
esser  un  verno  intero, 
perché  'n  te  gode  sol  lieto  e  giocondo 
e  la  sua  pace  e  la  sua  gioia  il  mondo.  — 


314  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

A    PAN 

Musa,   che  'n  vario  stile 
già  narrasti  sovente 
del  cor  la  fiamma  ardente, 
or  accorda  la  lira 
a  novo  metro,  e  a  maggior  gloria  aspira. 

Cantate  meco,  o  ninfe, 
il  terror  de  le  belve, 
il  nume  de  le  selve, 
eh'  i  venti  dietro  lassa 
col  pie  caprigno  e  i  folgori  trapassa. 

Or  di  mortelle  e  d'edre 
coroniamo  le  chiome, 
pria  che  si  canti  il  nome 
de'  cui  sublimi  onori 
han  Menalo  e  Liceo  gli  echi  sonori. 

Pan,  venerabil  padre 
de  le  ninfe  montane, 
che  per  l'erte  più  strane 
ad  arricchir  di  prede 
godi  seco  di  trar  veloce  il  piede; 

tu  serbi  i  lieti  paschi 
e  le  fontane  algenti 
agli  ovili,  agli  armenti, 
che  di  terrene  manne 
ricche  pur  fan  le  povere  capanne; 

morbo  maligno  o  suono 
di  malefiche  note 
o  lupo  mai  non  puote 
nuocer  a  quella  greggia 
ch'una  volta  de  te  sola  si  veggia. 

Oh  felici  quei  boschi 
che,   quando  tu  talora 


PIETRO    MICHIELE  3I5 

con  armonia  sonora 

chiami  l'amato  nome, 

ombra  ti  fan  con  le  frondose  chiome  ! 

A  le  tue  rime,  ai  versi 
i  canori  augelletti 
son  vinti  e  i  zefiretti, 
e  '1  cristallino  rio 
raddolcisce  al  tuo  canto  il  mormorio. 

Han  men  dolci  gli  accenti 
i  cigni  d' Ippocrene 
e  con  men  grate  avene 
Filomena  infelice 
le  sue  sciagure  altrui  cantando  dice. 

La  dea  di  Cinto,  quella 
che  nel  cielo  s'adorna 
d'inargentate  corna 
e  negli  azzurri  calli 
degli  eterni  zaffir  guida  i  suoi  balli  ; 

vinta  di  grazia  e  d'arte, 
di  scorno  arder  si  vede, 
e  confusa  ti  cede 
quando  in  leggiadri  modi 
con  l'amadriadi  tue  danzar  tu  godi. 

Qualor,  da!  sonno  oppresso, 
godi  affannato  e  stanco 
di  riposar  il  fianco, 
letto  ti  porge  il  prato 
ed  ombraggio  la  selva  amico  e  grato. 

Aure  fresche  e  soavi 
movono  i  venticelli, 
e  con  canzon  gli  augelli, 
le  più  dolci  che  sanno, 
la  tua  quiete  lusingando  vanno. 

I  più  bei  fiori  a  gara, 
candidi  e  porporini, 
ne'  più  vaghi  giardini 


3l6  LIRICI    MARINISTI 

colgon  le  ninfe,   e  poi 

ti  consacra  ciascuna  i  doni  suoi. 

Questo,  di  rozza  musa 
inno  selvaggio,   anch'io 
ti  sacro,  agreste  dio: 
tu  non  prender  a  sdegno 
povero  don  di  mal  sonoro  legno. 


IX 

ALLA  NOTTE 

O  notte,  o  de  le  stelle 
imperatrice  altera, 

ch'in  mezzo  appunto  a  la  celeste  sfera 
ricca  ten  vai  di  quelle, 
perdona  a  me  s' intanto 
rompo  il  silenzio  tuo  muto  col  canto. 

Ne  le  tenebre  antiche 
dolce  desio  mi  mena 
le  tue  lodi  a  spiegar,  diva  serena. 
Le  canore  fatiche 
sacro  a  te  de  l'ingegno, 
se  pur  non  son  di  tanta  grazia  indegno. 

Tu,   se  d'ombra  velata 
succedi  al  sole  in  cielo, 
pomposo  d'astri  a  dispiegar  tuo  velo, 
d'argentei  raggi  ornata, 
Espero  ti  precorre, 
e  se  in  mar  cadi,  in  mar  dietro  ti  corre. 

Con  le  tenebre  ascondi, 
quand'è  invecchiato,   il  giorno, 
che  fanciullo  sen  fa  poscia  ritorno. 
Tu  di  quiete  abbondi, 
onde  riposa  il  fianco 
l'uom  da  l'opre  diurne  afflitto  e  stanco. 


PIETRO    MICHIELE  3^7 

Te  regnando,  han  riposo 
tra  i  frondosi  arboscelli 
de  le  selve  canore  amici  augelli; 
tu  l'umor  rugiadoso 
spargi  sul  prato,  e  avvivi 
tra  l'erbe  verdi  i  fior  di  vita  privi. 

Di  quella  onde  tu  pura 
rugiada  abbondi  ognora, 
la  biada  degli  altrui  campi  s'irrora; 
e  di  cibarsi  han  cura 
di  questa  pur  quei  fochi, 
che  t'illustrano  ognor  d'aurati  fiochi. 

AUor  le  belle  ninfe, 
coronate  di  fiori, 

forman  di  danze  più  leggiadri  cori. 
Le  naiadi  tra  linfe, 
e  i  piedi  ai  balli  han  pronti 
oreadi  e  napee  tra  selve  e  monti. 

Tu,  de'  studi  amatrice, 
a  vigilar  c'invogli, 
cupidi  di  saver  sugli  altrui  fogli: 
tu  rendi  altrui  felice, 
mentre  facile  e  piano 
rendi  il  giogo  di  Pindo  aspro  e  sovrano. 

Caramente  nel  seno 
tu  gli  raccogli  e  dai 
ristoro  ai  lor  martir,  pace  ai  lor  guai; 
e  sol,  tu  sola,  a  pieno 
di  ritrovar  ti  vanti 
ne  le  guerre  d'amor  pace  agli  amanti. 

Tu,   mentr'io  taciturno 
a  ritrovar  m' invio 
Dorina,   il  mio  bel  Sol,   l'idolo  mio, 
col  tuo  velo  notturno 
rendi  i  miei  passi  occolti, 
si  ch'altri  non  mi  veggia  e  non  m'ascolti. 


3l8  LIRICI     MARINISTI 

Al  ritorno  io  prometto 
con  più  soave  stile 
a  la  lira  accordar  plettro  gentile, 
dandoti  in  ogni  detto 
tante  lodi  veraci, 
quanti  saran  de  la  sua  bocca  i  baci. 


X 

A  SE    MEDESIMO 

trovandosi  in  Dalmazia  nelle  guerre  del  Turco  con  Venezia 

—  Lascia,   Pietro,  la  penna.  Invan  coltivi 
con  vegghiati  sudori 
de  r  Eliconio  suol  le  sacre  piante. 
Vana  fatica  è  di  pensiero  errante 
bramar  fronda  d'alloro 
e  d'Aganippe  dissetarsi  ai  rivi, 
quando  i  traci  Gradivi 
movon  armi  sanguigne  e  cheggion  tutta 
veder  Europa  a'  piedi  lor  distrutta. 

Son  seguaci  de  l'ozio,  e  de  la  pace 
tracciano  l'orme  i  cigni 
e  sogliono  sprezzar  tromba  guerriera; 
dove  il  latonio  dio  canoro  impera, 
crudi  affetti  maligni 
non  sa  destar  ne'  petti  infernal  face; 
testudine  loquace 

suole  a  gloria  invitar,   ma  non  a  quella 
gloria  che  fra  le  stragi  a  morte  appella. 

È  de  l'aonie  suore  immortai  vanto 
col  plettro  e  con  la  cetra 
l'altrui  fama  involare  al  cieco  oblio; 
e  se  talor  del  bellicoso  dio 
alzan  l'imprese  a  l'etra. 


PIETRO    MICHIELK  319 

reso  soggetto  a  le  lor  lingue  il  pianto, 
è  perché  deve  il  canto 
d'ogni  degna  virtù  ch'a  lui  si  mostri 
porger  materia  ad  ingegnosi  inchiostri. 

Perch'espongano  i  petti  a  la  diffesa 
de'  combattuti  regni, 

non  vende  Apollo  a  prezzo  i  suoi  seguaci. 
Sol  contro  '1  tempo  a  guerreggiare  audaci 
sanno  i  canori  ingegni 
ar  a  l'ingorda  età  lodata  offesa; 
pur  che  d'applausi  resa 
a  le  fatiche  sia  degna  mercede, 
in  Cirra  maggior  premio  altri  non  chiede. 

Parte  alcuna  non  ha  de'  studi  suoi 
commune  il  sacro  coro 
del  bistonio  signor  co'  duri  affanni  ; 
sa  tra  le  morti  immortalar  gli  eroi 
e  più  verde  l'alloro 
rinova  inaridito  in  grembo  agli  anni. 
Sol  Marte  armato  è  ai  danni 
de  l'altrui  vita  e  a  vincitrice  tromba 
accompagna  sovente  infausta  tomba. 

Ma  cangiate  l'età  cangian  costumi, 
Pietro,   e  deponer  dèi 
su  tanti  fogli  la  stancata  penna: 
poco  di  gloria  a  tue  vigilie  accenna 
tenor  di  fati  rei,  , 

che  privi  i  carmi  ha  d'apollinei  lumi. 
Versar  molti  volumi 

che  vai,   s'alma  non  v'è  che  i  versi  lega? 
Fuor  che  di  Lete,   ogn' acqua  a  te  si  nega. 

Lascia  dunque  la  penna,  e  si  procuri 
eternar  il  tuo  nome: 

s'agì' inchiostri  è  vietato,   il   faccia  il  sangue. 
Forza  a  la  destra  tua  so  che  non  langue 
per  circondar  la  chioma 


320  LIRICI     MARINISTI 

de'  fregi  eh 'a  virtù  non  siano  oscuri. 
Fia  che  morte  congiuri 
contro  le  tue  fatiche  invano,  quando 
vorrai  di  penna  in  vece  oprare  il  brando. 

Qual  ardimento  in  nobil  cor  non  desta 
de  la  patria  l'affetto, 
ch'ad  oprar  meraviglie  eletto  parmi? 
D'innumerabil  aste  espone  a  l'armi 
il  generoso  petto, 

e  sol  tra  mille  Orazio  ultimo  resta; 
da  marzial  tempesta 
salve  del  Tebro  le  fugate  squadre, 
più  che  figlio  di  Roma,  a  Roma  è  padre. 

Ma  che  giova  il   narrar  del  Lazio  antico 
l'ardimento  più  chiaro, 
quando  raggio  più  bel  Venezia  spande? 
Vantano  i  tuoi  maggiori  eroe  più  grande, 
di  cui  giungere  al  paro 
alcun  non  può  d'eccelsi  fatti  amico. 
Di  Domenico  io  dico, 
de'  Michieli  rampollo,   augusta  prole, 
d'Adria  e  d'Europa  tutta  unico  sole. 

Imperator  de  le  falangi  armate, 
fulmine  de  la  guerra, 
sempre  invitto  domò  barbare  genti. 
Del  Saracino  stuol  l'armi  possenti 
vince  in  mar,   vince  in  terra, 
quasi  sian  le  vittorie  a  lui  sol  nate. 
Prodezze  non  usate  ! 
Allor  ch'altri  ha  timor  de  la  sua  fuga, 
acquista  Tiro  e  i  suoi  nemici  ei  fuga. 

De  la  città  le  mura,   ove  sepolto 
di  Dio  sen  giacque  il  figlio, 
restar  per  lui  da'  rei  tiranni  illese. 
Serva  la  sorte  al  suo  valore  ei  rese; 

suo  manto  a  vermiglio 


PIETRO    MICHIELE  321 

tinse  a'  petti  nemici  il  sangue  tolto; 
più  che  tra  gli  astri  involto 
sostenendo  diadema  e  scettro  regio, 
la  sua  propria  virtute  a  lui  fu  fregio,  — 

Col  lusinghiero  suon  di  queste  note 
di  me  stesso  io  solea 
bellicoso  pensier  destar  nel  seno, 
quando,  d'ingiusti  sdegni  il  cor  ripieno, 
tracia  Bellona  rea 
i  campi  funestar  d' Illiria  puote; 
ma  sepolte  ed  ignote 
l'imprese  son  che  la  modestia  copre, 
e  nega  il  premio  invidia  a  le  degn'opre. 


Lirici  marinisti  —  21 


PAOLO    ZAZZARONI 


I 

A  UNA  ZINGARA 

Zingaretta  gentil,  eh 'a  nove  genti 
il  passo  peregrin  girando  vai, 
e  tra  mille  disagi  e  mille  guai 
trascorri  in  povertà  l'ore  dolenti; 

cosi  benigno  il  ciel  d'affanni  e  stenti 
te  tragga  e '1  lungo  error  fermi;   se  mai 
t'appressi  del  mio  sole  ai  dolci  rai, 
spiega  questi  per  me  supplici  accenti: 

—  Glori,  v'è  un  tuo  fedel,  che  sospirando 
per  le  bellezze  tue  pietà  richiede, 
né  può  il"  misero  più  viver  penando.  — 

Per  questo  avrai  da  me  doppia  mercede: 
argento  prima,  e  poscia,  il  ver  narrando, 
a  la  tu' arte  acquisterai  più  fede. 


PAOLO    ZAZZARONI  323 

II 

IL    NEO 

Per  accrescer  di  fregi  opra  maggiore 
ornò  di  neo  brunetto  Amor  quel  viso, 
che  qual  pittor  industre  ebbe  in  aviso 
di  spiccar  con  quell'ombra  il  bel  candore. 

Sotto  la  guancia  ove  rosseggia  il  fiore, 
vezzoso  splende  in  compagnia  del  riso; 
atomo  sembra  in  quel  sembiante  assiso 
per  far  centro  di  gloria  al  dio  d'amore. 

Sorse  in  quel  cielo  e  seco  alba  gemella 
in  due  luci  spuntò,   quand'ei  defunto 
al  doppio  Sol  languia  picciola  stella. 

Da  quel  loco  però  non  fu  disgiunto; 
ch'Amore,  in  terminar  faccia  si  bella, 
lasciò   de   l'opra   al    fin   quel    neo   per   punto. 


Ili 
EPITAFFIO   DI  UNA  PULCE 

Spirto  guerriero  io  fui  mentre  il  ciel  volse; 
a  l'ultimo  destin  l'ora  fatale 
mi  richiamò;   qui  poi  tutto  il  mio  frale 
amica  mano  in  breve  fossa  accolse. 

Gran  colpo  fé'  chi  l'anima  mi  tolse, 
ch'atomo  aver  credea  sorte  immortale; 
ma  l'arciera  crudel  col  giusto  strale 
in  si  picciolo  punto  anco  mi  colse. 

Qual  fosse  il  mio  valor,   la  fama  il  dice; 
lo  sanno  i  petti  vostri,   o  donne,   ch'io, 
dove  non  punse  Amor,   mòrsi  felice. 

Appresso  i  miei  trofei  sepolcro  pio 
avrei  di  Glori  in  sen,   ma  non  mi  lice 
la  tomba  aver  sul  Campidoglio  mio. 


324  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LA  VITE  IMPORTUNA 

Vite  importuna,   al  viver  mio  rubella, 
quanto  m'offende  il  tuo  malnato  stelo, 
mentre  col  verdeggiante  ombroso  velo 
il  mio  bel  Sol  m'ascondi,   invida  e  fella! 

Lo  tuo  frondoso  crin  laceri  e  svella 
del  più  freddo  aquilon  l'orrido  gelo; 
tuoni  da  l'alte  nubi  irato  il  cielo 
e  versi  sul  tuo  capo  empia  procella. 

Ma  teco  forse  a  torto  ora  mi  sdegno; 
chi  sa  che  Glori,   al  mio  martir  costante, 
non  apprenda  pietà  da  quel  tuo  legno? 

che,   mentre   tu  con   tante   braccia  e  tante 
stretta  t'annodi  intorno  al  tuo  sostegno, 
impari  anch'essa  ad  abbracciar  l'amante? 


v 
LA  DONNA  PREGANTE 

Da  la  sua  bella  stanza,   ove  divote 
Glori  le  preci  sue  dal  cor  sciogliea, 
colmi  d'ogni  pietate  orando  ergea 
gli  occhi  stillanti  a  le  stellanti  rote. 

Al  centro  ove  tenea  le  luci  immote, 
supine  ambe  le  mani  ella  volgea, 
ove  dai  labri  ancor  volar  facea 
su  l'ali  de'  sospir  calde  le  note. 

—  Beltà  che  supplicando  e  piange  e  plora 
ah,  che  non  può!  —  diss'io:  —  ben  certo  piega, 
non  che  '1  cielo  a  pietà,   l'inferno  ancora.  — 

Ma  mi  disse  un  pensiero:  —  Indarno  prega 
costei,  che  si  crudel  m'affligge  ognora, 
che  non  trova  mercé  chi  altrui  la  nega.  — 


PAOLO    ZAZZARONI  325 

VI 

IL  GIORNO  DELLE  PALME 

In  sacro  tempio,   ove  divota  schiera 
seguia  di  Cristo  i  trionfanti  onori, 
con  verde  ulivo  in  man  vidi  mia  Glori 
al  volto,   ai  gesti  umilemente  altera. 

—  Oh  !  —  dissi  alor  —  ha  pur  la  mia  guerriera 
dal  cor  diposto  i  suoi  natii  furori, 
mentre  con  nova  insegna  a'  miei  dolori 
pace  e  speme  promette  ond'  io  non  pera. 

Con  simil  ramo  ancor,   doppo  che  '1  fio 
pagò  sommerso  il   mondo  in  mar  vorace, 
segno  di  tregua  ebbe  Noè  da  Dio. 

Ma  si  cruda  quest'empia  ognor  mi  sface, 
che  porta  quelle  frondi  a  creder  mio 
sol  per  trionfo  suo,   non  per  mia  pace.    — 


VII 

LA  SIGNORA  E  L'ANCELLA 

Per  doppio  incendio  mio  m'offre  fortuna, 
entro  un  albergo  sol,  serva  e  signora 
d'egual  beltà;   se  non  ch'a  questa  indora 
natura  il  capo  e  a  quella  il  crin  imbruna. 

L'una  rassembra  il  Sol,   l'altra  la  luna, 
o  questa  l'alba  appar,   quella  l'aurora; 
arde  l'una  per  me,   l'altra  m'adora, 
e  d'ambo  io  sento  al  cor   fiamma  importuna. 

Misero,   che  farò?  dovrò  fors'  io 
sprezzar  l'ancella?  a  la  bramata  sorte 
chi  scorta  mi  fia  poi  de  l'idol  mio? 

Ah,   ch'ambe  io  seguirò  costante  e  forte; 
e  se  '1  destino  arride  al  bel  desio, 
o  l'una  amica  o  l'altra  avrò  consorte. 


32Ó  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

LA  LAVANDAIA 

Su  quel  margo  mirai  donna,   anzi  dea, 
succinta  in  veste,  il  crin  disciolto  ai  venti, 
ch'assisa  in  curvo  pin  fra  i  puri  argenti 
gl'immondi  panni  al  fiumicel  tergea. 

Se  da  l'umido  Un  l'onde  spremea 
la  mano  al  cui  candor  le  nevi  algenti 
s'annerano,   il  ruscel  con  rochi  accenti, 
amando  la  prigion,   sciolto  fremea. 

Più  pure  a  lei  correan  l'acque  sul  lido, 
ch'ai  volto  la  credean  di  Cipro  il  nume 
che  le  bende  lavasse  al  suo  Cupido. 

Di  beltà  cosi  rara  al  dolce  lume 
arsi  tradito  in  elemento  infido, 
e   crebbi   le   mie   fiamme   in   mezzo   al    fiume. 


IX 

ALL'ADIGE 

Figlio  de  l'Alpi,   ondoso  peregrino, 
che  con  orme  di  gel  stampi  il  viaggio, 
e  qual  umido  serpe  ov'  hai  passaggio 
lasci  strisce  d'argento  in  sul  camino; 

al  tuo  liquido  vetro  e  cristallino 
l'olmo  s' inchioma  e  si  riveste  il  faggio; 
a  la  tua  reggia  illustre  eterno  omaggio 
paga  divoto  ogni  ruscel  vicino. 

Dal  mormorio  che  formi   in   son  si  chiaro, 
tanto  m'alletti  il  senso  e  l'alma  bèi, 
ch'io,   benché  mergo,   esser  canoro  imparo. 

Per  tue  glorie  emular  dir  più  devrei; 
ma  che  scriver  poss'  io,   se  dolci  al  paro 
non  son  de  l'acque  tue  gl'inchiostri  miei? 


PAOLO    ZAZZARONI  32? 


X 


L'ARCA  DI  RE  PIPINO 
nella   basilica   di    San    Zeno   in   Verona 

O  tu,   che  per  sentier  torto  e  celato 
scendi  tra  questa  cava  erma  e  romita, 
sol  per  veder  quaggiù  d'urna  fallita 
un  vedovo  ricetto,  un  marmo  alzato; 

l'avel   qui  dentro  al   gran  Pipin  fu  dato, 
quando  dal  mondo  al  ciel  fece  salita; 
ma  quindi  poi  da  mano  ignota  e  ardita 
fu  con  la  spoglia  il  cenere  furato. 

Ora,   di  quello  in  vece,   altro  stupore 
per  ammirar  di  novo  è  qui  rimase, 
d'un  vivo  fonte  il  rinascente  umore. 

Mira  qui  da  vicin  per  entro  al  vaso 
stemprarsi  il  sasso  in  limpido  licore, 
quasi  pianga  del  furto  il  tristo  caso. 


XI 

LA  TOMBA  DI  TAIDE 

Taide  qui  posta  fu,  la  più  perfetta 
dispensiera  de'  gusti  al  molle  amante. 
Lettor,   s'ardi  d'amor,   fatti  qui  inante, 
che  stesa  in  questo  letto  ella  t'aspetta. 


LEONARDO    QUIRINI 


I 

LA   PENITENTE 

Per  una  principessa  italiana, 
che  dopo  vita  d'amori  si  chiuse  in  monastero. 

Costei  che  già  di  mille  amanti  e  mille 
libero  a  voglia  sua  resse  l'impero, 
e  con  lascivo  sguardo  e  lusinghiero 
dai  più  gelati  cor  trasse  faville; 

con  occhi  mesti  e  di  pudiche  stille 
gravidi,  ad  or  ad  or  volge  il  pensiero 
a  rintracciar  de  lo  sfuggito  vero 
qualche  vestigio  almen  fra  caste  ancille. 

O  di  mentita  fé  perfido  zelo  ! 
Chiude  i  leggiadri  angelici  sembianti 
entro  ruvidi  panni  e  rozzo  velo, 

per  far,  Circe  d'amor,   con   novi  incanti 
inamorar  di  sue  bellezze  il  cielo, 
sazia  del  fasto  de'  terreni  amanti. 


LEONARDO    QUIRINI  329 

II 

TRISTEZZA  DELLA  VITA  SENZA  AMORE 

Care  fatiche  e  fortunati  affanni 
fùr  quelli  ch'io  soffersi  allor  ch'amai; 
or  che  libero  son,  colmo  di  guai 
consumo  i  di  miseramente  e  gli  anni. 

D'amico  sen  fra  i  dilettosi  inganni 
riponmi,   Amor;   che  del  mio  sole  a'  rai 
l'estinto  foco  ravivando  ornai, 
vo'  riparar  de  la  tua  face  i  danni. 

Prega  dunque,  signore  (e  fien  tuoi  preghi 
lingue  de  le  mie  fiamme),  il  viso  amato 
che  di  nova  catena  il  cor  mi  leghi; 

che  fra  due  belle  braccia,   or  che  n'è  dato 
ch'ai  giogo  antico  il  mio  pensier  si  pieghi, 
fia  dolce  libertà  l'esser  legato. 


Ili 
AMORI 

Qualor  le  labra  a  le  tue  labra  accosto 
e  de  l'anima  il  fior  suggo  coi  baci, 
da  due  rose  sent'io  fresche  e  vivaci 
aura  spirar  di  cinnamo  e  di  costo. 

Poi  di  teco  morir,  Glori,  disposto 
in  fra  nodi  scambievoli  e  tenaci, 
mentre  suscita  Amor  dal  sen  le  faci, 
loco  tento  più  dolce  e  più  riposto. 

Pugnando  allor  con  gl'impeti  del  core, 
nel  sen  con  la  man  candida  e  vezzosa 
neghi  l'alma  raccor,   ch'uscir  vuol  fòre. 

Ma  de  la  brama  fervida  amorosa 
con  la  destra  temprando  il  fiero  ardore, 
s'una  man  fu  crudel,  l'altra  è  pietosa. 


330  LIRICI     MARINISTI 

IV 

IN  MORTE  DI  GIAMBATTISTA  SORDONI 

ucciso  mentre  assoldava  genti  per  Levante 

Morto  è  il  Sordoni.   Invida  man  recise 
con  la  vita  di  lui  l'impiego  degno, 
eh 'a  la  Donna  del  mar,  di  fede  in  pegno, 
cominciava  a  prestar  mentre  l'uccise. 

Ma  che?  morto  ei  non  è,  se  ben  divise 
l'anima  già  dal  suo  mortai  sostegno; 
che  l'opre  de  la  mano  e  de  l'ingegno 
vivono  immortalmente  in  mille  guise. 

Corcira  il   dica,    il  dica  Creta  e  '1   Tronto, 
che  ben  spesso  portò  forse  più  d'una 
spoglia  nemica  al  mar  rapido  e  pronto. 

Oh,  s'arrideva  a  lui  destra  fortuna, 
fiaccato  un  giorno  avrebbe  in  Ellesponto 
le  corna  audaci  a  l'ottomana  luna! 


v 
SERENATA 

Buona  notte,   cor  mio. 
Tu  forse  in  grembo  a  morbidette  piume 
sciogli  le  membra  in  dilettoso  oblio; 
ed  io  qui,   lasso,   in  lacrimoso  fiume 
stemprato  il  cor  e  l'anima  t'invio. 

Buona  notte,   cor  mio. 

Buona  notte,   cor  mio. 

Tu  dormi  si,   ma  '1  tuo  fedel  non  dorme, 

o  se  pur  dona  il  faretrato  dio 


LEONARDO    QUIRINI  331 

tregua  agli  occhi  suoi  stanchi,  in  mille  forme 
lo  sgomenta  il  suo  fato  acerbo  e  rio. 

Buona  notte,   cor  mio. 

Buona  notte,   cor  mio. 
Tu  pur  concedi  al  travagliato  fianco 
per  breve  spazio  almen  ristoro,   ed  io 
di  sospirar  per  te  mai  non  mi  stanco, 
né  da  l'esser  fedel   punto  travio. 

Buona  notte,   cor  mio. 

Buona  notte,   cor  mio. 

Dormi  pur,   dormi,   e  teco  dorma  Amore, 

o  de  l'anima  mia  dolce  desio; 

né  turbi  i  tuoi  riposi  ombra  od  orrore 

di  fantasma  notturno.   Io  parto,   addio. 

Buona  notte,  cor  mio. 


VI 

GELOSIA  DELLA  BELLEZZA 

Se  ben  siete  l'idea 
della  stessa  beliate, 
Cinzia,   non  v'adirate 
che  '1  pregio  di  bellezza  io  non  vi  dia. 
Che  questo  io  scrivo  ad  arte, 
spinto  da  gelosia, 

perché  vostra  beltà  ne  le  mie  carte 
adombrata  non  sia. 
Voletelo  sapere?  Io  vi  vorrei 
brutta  agli  altrui  e  bella  agli  occhi  miei. 


332  LIRICI    MARINISTI 

VII 

VOLUPTAS 

Dio,  se  tu  sapessi, 
se  tu  sapessi,  o  bella, 
quanta  dolcezza  io  provo 
quando  talor  ti  trovo 
pronta  ai  baci,  agli  amplessi, 
giuro  per  le  quadrella 
d'Amor,  per  l'arco  d'oro, 
che,  baciandoti  sol,  languisco  e  moro. 
Or  pensa  tu  qual  essere  può  '1  diletto, 
che  l'estremo  piacer  nel  cor  mi  piove, 
r  non  invidio  il  paradiso  a  Giove! 


vili 
IN  MORTE  DI  CLAUDIO  MONTEVERDE 

PADRE    DELLA    MUSICA 

O  tu  che  in  nere  spoglie 
del  gran  padre  de'  ritmi  e  dei  concenti 
l'essequie  rinovelli  e  le  mie  doglie, 
segui  gli  uffici  tuoi  dolenti  e  mesti, 
ma  pian,  si  che  no  '1  désti; 
ch'egli  estinto  non  è,   come  tu  pensi, 
ma  stanco  dal  cantar  dà  al  sonno  i  sensi. 


vili 


BASSO  -  ZITO  -  MUSCETTOLA 


ANTONIO  BASSO 


I 

INVOCAZIONE  ALLA  GELOSIA 

Cara  fame  di  zelo  onde  destina 
suo  vitale  alimento  amor  più  grato, 
aura  ch'aurea  susurri  entro  il  suo  prato, 
in  guardia  di  sua  rosa  ardita  spina, 

cote  ov'egli  i  suoi  strali  ogni  ora  affina, 
gel  che  rivai  ardor  sol  fai  gelato, 
specchio  ch'ai  Sol  rifletti  il  raggio  amato, 
degli  affetti  d'un 'alma  alma  rapina; 

te  chiamo,  o  del  ciel  prole,  a  cui  commesso 
è  d'un  seno  a  guardar  pudico  onore, 
ond' occhi  hai  tanti  al  tuo  bel  volto  impresso. 

Vieni,  vestal  divina,  e  nel  mio  core 
siedi  custode  a  la  sua  fiamma  appresso, 
che  dove  manchi  tu  s'estingue  amore. 


336  LIRICI    MARINISTI 

II 

CONVALESCENTE 

Ecco  riedo  agli  errori  e  '1  core  infido 
pur  osa  ai  prischi  aflfetti  aprir  le  porte, 
e  del  mondo  io  seguendo  ancor  le  scorte, 
i  sensi  appago  e  la  ragione  ancido. 

Egro,    a   Dio  tutto  amico,   or  sano  annido 
nemiche  voglie  a  cui  mi  tolse  a  morte; 
e,  quasi  Anteo  caduto,  ornai  più  forte 
sorgo  di  terra  e  '1  ciel  di  novo  io  sfido. 

Cosi  le  grazie  abusi,   ingrato?  Ahi,   quali 
son  tue  vittorie  ove  la  colpa  è  palma, 
mentre  al  tiranno  applaudi  e  '1  rege  assali? 

Sorgete,  umori,  in  me:  dolci  fien  salma 
rie  febri  al  sen,  poiché  di  quelle  i  mali 
son  morbi  al  corpo  e  medicine  a  l'alma. 


Ili 
LA  TRINITÀ 

Siringa  di  tre  canne  ond'esce  eletto 
un  suon  che  fiato  armonioso  spira, 
e  di  tre  corde  sol  temprata  lira, 
ch'unica  melodia  porge  e  diletto; 

acceso  torchio,  che  in  concorde  effetto 
tre  lumi  a  l'aria  sfavillanti  aggira; 
specchio,  nel  cui  cristallo  esser  si  mira 
di  forme  illustri  un  triplicato  oggetto; 

arbore  eccelsa  di  tre  rami  cinta, 
fonte  da  cui  traggon  tre  rivi  umore, 
di  tre  colori  adorni  Iri  dipinta, 

stel  di  tre  fiori  e  di  tre  foglie  un  fiore, 
de  l'unità  di  Dio  triade  distinta 
forman  l'esempio  onde  l'apprenda  il  core. 


ANTONIO    BASSO  3S7 

IV 

L'ORAZIONE 

P'onte  di  limpid' acque,   in  cui  si  terge 
de  le  sue  macchie  ogni  or  l'anima  immonda; 
ferro,   per  cui  si  tronca  e  si  disperge 
il  laccio  onde  l'inferno  il  suol  circonda; 

mar,   nel  cui  vasto  sen  cade  e  s' immerge 
il  vizio  e  spento  al  fin  giace  a  la  sponda; 
monte,  il  cui  giogo  oltre  a  le  nubi  s'erge 
ove  tempio  virtù  fabrica  e  fonda; 

Iri,  ch'annunci  a  l'uom  pace  ed  amore; 
stella,  in  cui  fato  d'alta  gloria  stassi  ; 
Sol,   che  dei  falli  sgombri  il  fosco  orrore; 

motor  che  'I  ciel  raggiri,  anzi  l'abbassi 
a  l'alme  in  terra;   ahi,   qual  sarà  quel  core 
che  teco  in  compagnia  l'ore  non  passi? 

V 

A  FRATE  ANGELO  VOLPE  DI  MONTEPELOSO 

reggerne   del   collegio   dei   minori   conventuali   in  San    Lorenzo   di    Napoli 

Chi  t'alzò  ne  le  sfere?  e  per  quai  mani 
s'aperse  a  te  l'empireo,  onde  sui  cieli 
quegli  che  velan  Dio  spirti  sovrani 
non  san  con  l'ali  agli  occhi  tuoi  far  veli? 

Tu  ciò  eh 'a  ingegno  uman  vien  che  si  celi, 
con  sovruman  pensiero  intendi  e  spiani, 
e  con  note  veraci  a  noi  riveli 
i  più  chiusi  del  ciel  sublimi  arcani. 

Tua  mente  in  mirar  l'uom,   qual  si  solleve 
degli  studi  terreni  oltre  il  confine, 
stupor  nei  fonti  de'  tuoi  fogli  ei  beve. 

Ma  toglia  a  lui  la  meraviglia  al  fine 
tuo  nome  alder;  ch'a  un  angelo  è  ben  lieve 
spiegar  con  chiari  sensi  opre  divine. 

Linci  marinisti  —  22 


338  LIRICI     MARINISTI 

VI 

A  GHERARDO  GAMBACORTA 

generale  della   cavalleiia   di    Napoli   a   Milano 

Questa  è  l'urna,  o  guerrier,  ch'entro  il  suo  seno 
ceneri  illustri  accoglie,  ossa  onorate 
di  chi  con  mille  al  crin  palme  innestate 
scudo  a  le  Spagne  fu,   gloria  al  Tirreno. 

Cadde  fra  l'armi,   e  del  cader  non  meno 
fia  glorioso  a  la  futura  etate, 
di  quando  ei  fé'  cader  le  schiere  armate, 
reso  di  tuon  ostil  fulmin  terreno. 

In  lui  pianse  i  suoi  vanti  estinti  in  terra 
natura  afflitta,   e  lagrimar  si  vide 
orbato  il  campo  e  vedova  la  guerra. 

Sol  di  tal  pianto  il  ciel  gioisce  e  ride, 
ch'ebbe,  mentre  in  sue  stelle  eroe  tal  serra, 
Palla  un  novo  Perseo,   Marte  un  Alcide. 


VII 

LA  PRIMAVERA 

Del  Sol  prole  gentile, 
che  con  chiave  di  fiori 
lieta  al  mondo  apri  aprile, 
colma  il  sen  di  rugiade  e  '1  crin  d'odori, 
de  l'alba  emula  bella, 
de  le  varie  stagioni  alba  novella; 

prima  figlia  de  l'anno, 
che  con  tenera  mano 
del  vecchio  padre  il  danno 
ristori,   d'erbe  ornando  il  colle  e  '1   piano, 
e,  qual  Medea  più  giusta, 
giovinetta  gli  fai  l'età  vetusta; 


ANTONIO    15ASSO  339 

paraninfa  amorosa 
d'odorati  imenei, 
che  con  face  di  rosa 
e  con  lacci  di  frondi  entri  fra  dèi, 
e  de'  fiori  nel  letto 
Flora  e  Zefiro  in  noi  chiami  a  diletto; 

di  Pomona  foriera, 
che  con  mani  feconde 
sai,  ne  gli  orti  primiera, 
rami  tessere  in  piante  e  fiori  in  fronde, 
onde  vengon  produtti 
a  la  dea  de  l'autunno  in  terra  i  frutti; 

Iride  de  la  terra, 
che  dopo  il  verno  audace, 
de  le  piogge  a  la  guerra, 
colorita  di  fiori,   apporti  pace, 
e  con  occhi  fioriti 

gli  austri  allegra  licenzi  e  l'aure  inviti; 
dei  cor  diva  leggiadra, 

che  con  l'erbe  i  natali 

degli  Amori  a  la  squadra 

apri,   armati  qua  giù  di  novi  strali, 

e  con  vista  benigna 

rendi  un  Cipro  ogni  campo  e  te  Ciprigna; 
emula  de  la  notte, 

che,  se  quella  vien  fuora 

da  le  cimerie  grotte 

e  di  lucide  stelle  il  cielo  infiora, 

tu,  dal  ciel  scesa  al  prato, 

d'almi  e  nobili  fiori  il  fai  stellato... 
Ma  qual  tenta  mia  musa, 

tesser  versi  a'  tuoi  vanti? 

Ceda  intanto  confusa  . 

degli  alati  tuoi  cori  ai  dolci  canti, 

che  gli  encomi  tuoi  belli 

de  le  muse  cantar  più  san  gli  augelli. 


VINCENZO   ZITO 


I 

IL  RIMPROVERO 

La  mia  bella  a  goder  seco  m'invita 
i  dolci  amplessi  e  gli  amorosi  baci; 
ma,  lasso,  nel  mio  pie  lacci  tenaci 
pone  il  destin,  che  giusta  causa  addita. 

Se  talor  vien  da  lei  mia  scusa  udita, 
dice,   mostrando  al  volto  ostri  vivaci  : 
—  Tu  non  senti  d'Amor  l'accese  faci; 
perfido,  regna  in  te  fede  mentita! 

Bramasti  un  tempo  di  godermi  in  braccio; 
or  che  sei  mio  bel  nume,  a  te  cai  poco; 
e  pur  t'adoro?  e  non  da  me  ti  scaccio?  — 

Benché  sia  dentro  inestinguibil  foco, 
divento  a  cotal  dir  freddo  qual  ghiaccio, 
mesto  il  cor,  molli  gli  occhi  e  '1  parlar  fioco. 


VINCENZO    ZITO  341 

II 

IL  CENNO  DEL  CIGLIO 

La  sentenza  crudel  di  non  amarmi 
sdegna  di  profferir  con  le  parole  * 

colei  ch'avanza  di  chiarezza  il  sole, 
ma  '1  ciglio  innalza  e  '1  «  no  »  prende  a  spiegarmi. 

Dunque,   pronto  si  scorge  a  guerra  farmi 
arco  di  pace?  ed  iride  che  suole 
annunziar  sereno,   ahi,   dunque  vuole 
le  tempeste  predir  per  atterrarmi? 

Se  gli  occhi  amati  hanno  vitale  il  lume, 
ch'ancor  gli  estinti  sa  tornare  in  vita, 
come  il  ciglio  dar  morte  ha  per  costume? 

Siasi  arco  o  ponte:  ella,  o  se  stessa  invita 
a  passar  di  mio  pianto  il  largo  fiume, 
o  di  me  vinto  il  suo  trionfo  addita. 


Ili 
IN  TEMPO  DI  VENDEMMIA 

Or  che  '1  natal  si  celebra  del  vino, 
pigiando  l'uva  il  villanel  campano, 
libero  il  dir  concede  il  dio  tebano, 
stando  Priapo  alla  fescina  vicino. 

Deh,   perché  a  Cilla,   cui  divoto  inchino, 
non  scopro  il  sen  trafitto,   il  cor  non  sano? 
Fra  gli  scherzi  mischiar  non  sarà  vano 
quel  ch'a  tacer  mi  strinse  il  fier  destino. 

S'ella  un  si  grande  ardir  prendesse  a  duro, 
mostrerò  finto  il  mio  penar  verace 
e  '1  chiaro  coprirò  col  senso  oscuro. 

L'uso,  o  mia  lingua,  rendati  loquace; 
e,  s'è  timido  Amor,  ben  t'assicuro 
ch'unito  con  Lieo  farassi  audace. 


342  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LA  PELLEGRINA 

Vestendo  a  te  simil  logore  spoglie, 
'     n'andremo  uniti,  o  pellegrina  errante; 
se  nel  cammin  stancassimo  le  piante, 
con  pari  amor  compartirem  le  doglie. 

Mercè  chiedendo,   busserem  le  soglie, 
tu  ferma  al  duolo,  io  nel  patir  costante; 
il  poco  cibo  ne  sarà  bastante, 
in  ogni  evento  avrem  concordi  voglie. 

Il  retaggio  paterno  in  tutto  oblia 
l'alma  ch'ha  di  seguirti  immenso  ardore, 
ogni  paese  a  noi  la  patria  fia. 

Ma  quando  il  mondo  occupa  il  cieco  orrore, 
un  sol  letto  n'accoglia;  indi  si  dia 
riposo  al  piede  e  refrigerio  al  core. 


V 

LA  DONNA  ALL'AMANTE  CHE  VA  ALLA  GUERR/ 

Disarma  il  fianco  e  frena  ira  e  furori  ; 
altra  guerra  cercar,  deh,  che  ti  cale, 
se  fai  con  gli  occhi  tuoi  guerra  mortale, 
onde  avvien  ch'ogni  amante  umil  t'adori? 

Altri  pur  sudi  a'  marziali  ardori, 
l'empia  spada  vibrando  a  l'altrui  male; 
tu,  guerriero  d'Amor,  con  l'aureo  strale 
piaga  il  sen,  struggi  l'alme,  ancidi  i  cori. 

Non  mai  tuo  brando  manderà  sotterra 
campion  ;    che   pria   che   gli   trafigga   il   petto 
cadrà  da'  guardi  tuoi  ferito  a   terra. 

S'hai  pur  di  guerreggiar  dolce  diletto, 
meco  guerreggia  in  amorosa  guerra; 
li  miei  baci  sien  trombe,  agone  il  letto. 


VINCENZO    ZITO  343 

VI 

L'AMORE    ARDENTE 

Imitazione  da  Ausonio 

Bramo  da  lei,  cui  riverisco  amante, 
qual  edera  strettissimi  gli  amplessi, 
i  baci  a  mille,   incatenati  e  spessi, 
vezzo  ridente  e  riso  vezzeggiante. 

Se  m'ingiuria  sdegnosa  e  minacciante, 
reintegrino  amor  gli  sdegni  stessi, 
e  d'ira  e  di  pietà  scopra  gli  eccessi, 
e  s'infuri  e  si  plachi  in  un  istante. 

Pudicizia  in  disparte!   Accenda  ogn'atto, 
se  raffreddo  il  desio,   tutta  focosa, 
e  povero  mi  renda  e  sodisfatto. 

Che  '1  vederla  in  contegno  e  schizzinosa, 
gelo  al  mio  foco  e  selce  al  molle  tatto, 
son  diletti  freddissimi  di  sposa. 

VII 

LA  SETE  NELLE  CAMPAGNE  DEL  VESUVIO 

Stanco  da  lunghi  errori,   ahi,   mi  trov'io 
fra  sentieri  dubbiosi  a  Vesbio  a  fronte; 
e  mentre  bolle  la  campagna  e  '1  monte, 
arida  sete  offende  il  petto  mio. 

Deh,   chi  m'insegna  ove  zampilla  il  rio? 
deh,   chi  m'addita  ove  gorgoglia  il  fonte, 
che  spegnesse,   immergendovi  la  fronte, 
l'assetato  ardentissimo  desio? 

Mal  soffrirebbe  ardor  si  crudo  e  fero, 
onde  sento  mancarmi  a  poco  a  poco, 
l'adusto  tingitan,   l'etiopo  nero. 

Chi  mi  condusse  in  tal  penoso  loco? 
Dell'inferno  non  ha  strazio  più  vero, 
ch'esser  senz'acqua  ove  più  brucia  il  foco. 


344  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

LA  LUiNA  ED  ENDIMIONE 

Era  la  notte  e  'n  florida  collina 
gli  occhi  avea  dati  al  sonno  Endimione; 
lo  scorge  dalla  splendida  magione 
degli  astri  la  bellissima  regina. 

Sente  farsi  nel  sen  dolce  rapina, 
condursi  l'alma  in  placida  prigione; 
cruda  non  più,   qual  videla  Atteone, 
al  faretrato  nume,   ecco,   s'inchina. 

Stima  il  passato  secolo  funesto, 
e  cercando  goder  tempo  migliore, 
in  Latmo  di  calar  non  l'è  molesto. 

Molle  già  fatto  l'indurito  core, 
formando  amplessi  al  giovane  già  desto, 
suo  gel  natio  trasforma  in  foco  Amore. 


IX 

LA  GALEA 

Mole  rostrata  che,   raccolti  insieme 
i  boschi  d'Appennin,  l'Egeo  trascorri, 
disprezzi  il  suo  fragor  quando  più  freme, 
s'a'  Palinuri  tuoi  scossa  ricorri; 

al  fianco  hai  l'ali,  al  dorso  alzi  le  torri, 
di  cui  presso  e  lontan  guerra  si  teme; 
ne'  gran  perigli  i  popoli  soccorri, 
unisci  i  mari  e  le  province  estreme. 

Formanti  crin  le  tremole  bandiere; 
ti  son  i  gonfi  lin  spoglie  nevose 
ed  occhi  l'ardentissime  lumiere. 

A  gara  nel  tuo  sen  Marte  nascose, 
pronte  a  le  stragi,   le  falangi  intere, 
ed  i  fulmini  suoi  Giove  ripose. 


VINCENZO    ZITO  345 

X 

AGLI  ACCADEMICI  OZIOSI   DI  NAPOLI 

nell'essere  ammesso  nella  loro  società 

Cigni  del  bel  Sebeto,   in  vostra  schiera 
mi  date  loco,   ad  acquistar  gran  vanti, 
e  la  norma  apprendendo  ai  dolci  canti, 
su  le  vostre  ali  io  vo  da  sfera  in  sfera. 

Or  comprendo  qual  sia  la  gloria  vera, 
che  goder  soglion  di  virtù  gli  amanti  ; 
ecco  armoniche  lire,   archi  sonanti, 
onde  l'ombra  d'oblio  non  più  m'annera. 

L'  ozio  qui  si  trafigge  e,   a  morte  spinto, 
in  segno  di  vittoria  ogn'alma  intende 
prendersi  il  nome  del  nemico  estinto. 

Cosi  latino  eroe,  mentre  che  rende 
l'Africa  doma,   dall'imperio  vinto 
per  gloria  il  nome  d'african  si  prende. 

XI 

A  SCIPIONE  ZITO 
che  regge  truppe  di  fanti  in  Ispagna 

Nati  d'un  sangue  in  una  stessa  parte, 
al  colle  di  virtù  ten  voli,  io  m'ergo: 
agli  ozi,  agli  agi  ambo  volgendo  il  tergo, 
io  seguace  d'Apollo  e  tu  di  Marte. 

Ambo  per  guida  abbiam  natura  ed  arte; 
ordini  tu  le  schiere,   i  fogli  io  vergo; 
tu  brando  tratti  a  fracassare  usbergo, 
io  penna  adopro  a  linear  le  carte. 

Io  caro  ai  dotti  e  tu  gradito  ai  forti  ; 
tu  dai  norma  alla  guerra,   io  legge  al  canto; 
io  frequento  i  licei,  tu  le  coorti. 

Pari  è  d'entrambi  il  pregio,  eguale  il  vanto: 
tu  spegni  i  vivi  ed  io  ravvivo  i  morti  ; 
tu  fai  l'eroiche  imprese  ed  io  le  canto. 


346  LIRICI    MARINISTI 

XII 

DURANTE  LA  RIVOLUZIONE  DI  NAPOLI  DEL  1647 

Ai  nostri  danni  è  scatenata  Aletto 
e  della  guerra  in  man  porta  la  face; 
schiera  imbelle  e  plebea  fatta  è  pugnace, 
il  prode  e  '1  forte  è  di  fuggir  costretto. 

Relig  on,  pietà  non  han  ricetto 
nello  stuol  troppo  fiero  e  troppo  audace: 
—  Armi,  armi  —  grida,  e  timida  la  pace 
non   ha   più   sangue  in  fibra  e  fibra   in   petto. 

Ecco  falso  l'amor,  la  fede  infida; 
terminan  l'accoglienze  in  tradimenti, 
l'amicizia  è  sacrilega,   omicida. 

Sovente  avvien  che  nelle  furie  ardenti 
il  figlio  il  padre,   il  padre  il  figlio  uccida. 
Oh  novo  inferno  d'anime  languenti  ! 

XIII 

A  DON  GIOVANNI   D'AUSTRIA 

invocando  l'arrivo  di  lui  a  Napoli 

Seconda  il  volo  degli  ispani  abeti, 
o  rege  dell'eoliche  foreste; 
vadano  altrove  a  scaricar  tempeste 
gli  orgogliosi  aquilon,  gli  euri  inquieti. 

D'aprii  fiorito  ai  di  sereni  e  lieti 
non  siano  più  l'atre  procelle  infeste; 
d'Austria  all'eroe  faccian   carole   e   feste 
con  le  nereidi  la  cerulea  Teti. 

Al  lito  di  Partenope  le  schiere 
giungan  del  Beti  gloriose  e  forti, 
a  incatenar  Tesifoni  e  Megere. 

Che  mal  possono  più  nostre  coorti, 
benché  di  posse  intrepide  e  guerrere, 
cibare  i  vivi  e  sepellire  i  morti. 


VINCENZO    ZITO  347 

XIV 

IL  DIGIUNO 

Santo  guerrier,  che  della  gola  infetta 
t'oppugni  all'armi  e  vendichi  l'ardire, 
ed  assiso  nel  cielo  a  mensa  eletta 
hai  sol  del  poco  un  singoiar  desire; 

pietosissimo  arciero,   uso  a  ferire 
con  forte  ed  acutissima  saetta 
Venere  e  Bacco,  e  sai  nel  tuo  languire 
legar  la  mano  a  Dio  nella  vendetta; 

altissimi  pensier  désti  agl'ingegni, 
che  sorvolan  per  te  da  sfera  in  sfera 
e  di  parto  sovran  rendonsi  degni; 

all'alma,  al  corpo  sei  salute  vera, 
rintuzzi  a  morte  gli  sfrenati  sdegni, 
hai   pronti   ai   cenni  tuoi   gli  angeli  a  schiera. 


XV 

LA  CHIOMA  SCIOLTA 

Scherzava  a  l'aura  errante 
il  lucido  crin  d'oro 
di  Lilla,  il  mio  tesoro. 
Or  nel  tergo   volava, 
or  nel  seno  calava. 
Lasso,   qual  simulacro  a  l'alma  mia 
formò  la  gelosia! 

Temei  che,   divenuto  il  gran  tonante 
di  sue  bellezze  amante, 
trasformato  si  fosse  in  aureo  nembo 
e,  nova   Danae,    le   piovesse  in  grembo! 


348  LIRICI    MARINISTI 

XVI 

LA  FENICE 

Ne  l'indico  oriente, 
nobil  parte  del  eie),  porta  del  giorno, 
sen  vive  eternamente, 
di  mille  pregi  adorno, 
di  morte  ad  onta,   un  immortai  augello, 
fra  le  schiere  volanti  unico  e  bello. 

Il  suo  bel  capo  ha  d'ostro, 
l'ali  son  d'oro,  il  collo  è  azzurro  eletto, 
gemma  somiglia  il  rostro, 
vivo  smeraldo  il  petto, 
ne  la  sua  coda  alto  splendor  riluce, 
gemino  sole  è  l'una  e  l'altra  luce. 

Mostra  ne  l'andar  solo 
augusta  maiestà,  regio  decoro, 
varca  le  nubi  a  volo 
se  spiega  i  vanni  d'oro, 
e  verso  il  ciel  cosi  veloce  ascende, 
che  l'augello  di  Giove  ira  ne  prende. 

Se  scorge  aver  per  gli  anni 
deboli  le  virtù,  gravanti  l'ale, 
tarpati  e  bassi  i  vanni, 
e  '1  suo  valor  già  frale, 
in  quella  parte  il  suo  bel  volto  affretta, 
che  da  fenice  vien  Fenicia  detta. 

Quivi  in  limpido  fonte, 
chiuso  da'  boschi,  il  nobil  corpo  immerge, 
e  vòlta  a  l'or  ente 
scioglie  il  canto  e  si  terge; 
indi  s'inalza  e  la  sua  pira  appresta: 
vitale  io  la  dirò  più  che  funesta. 


VINCENZO    ZITO  349 

In  un  composto  accoglie 
tenero  nardo  e  balsamo  stillante, 
e  con  la  mirra  coglie 
l'amomo  odor-spirante, 
e  poscia  invola  a  più  remoto  loco 
il  cinamo,  il  cipresso,  il  costo  e  '1  croco. 

L'alta  funerea  mole 
sovra  palma  sublime  erge  e  sublima, 
e  che  rinasca  il  sole 
quivi  n'attende  in  cima; 
non  turba  il  vento  allor  l'aereo  seno, 
ma  si  mostra  a  tal  opra  il  ciel  sereno. 

Ecco  che  già  risplende 
il  gran  pianeta,   assiso  al  carro  aurato, 
e  col  suo  raggio  accende 
il  bel  rogo  odorato; 
e  la  fenice  in  tanto  allegra  e  viva 
de  l'ali  al  ventilar  più  il  foco  avviva. 

Sparisce  a  poco  a  poco 
il  color  vario  de  le  piume  belle, 
e  va  rodendo  il  foco 
ciò  che  natura  dielle, 

e  mentre  il  corpo  suo   flagra  e  si  strugge, 
l'aura  vital  già  l'abbandona  e  fugge. 

Ma  intanto  la  natura, 
per  non  impoverir  d'un  cotal  seme, 
pone  in  raccor  la  cura 
l'alte  reliquie  estreme, 
e  dispargendo  in  lor  liquidi  umori 
vita  a  la  cener  dà,  spirto  agli  ardori. 

Formasi  un  picciol  ovo, 
in  mezzo  al  foco,  ove  apprestò  la  pira; 
poscia  in  sembiante  novo 
spiumato  augel  s'ammira, 
e  si  vede  cangiar,   mentre  rinasce, 
la  tomba  in  cuna  ed  il  feretro  in  fasce. 


350  LIRICI     MARINISTI 

Ecco  ringiovanisce, 
e  '1  capo  inostra  e  i  suoi  bei  vanni  indora, 
e  d'azzurro  arricchisce 
il  collo,  e  si  colora 
di  vivace  smeraldo  il  petto  e  '1  tergo, 
e  '1  collo  drizza  a  più  gentile  albergo. 


ANTONIO    MUSCETTOLA 


L' INNAMORAMENTO 

durante   la   rivoluzione   di    Napoli 

Colma  d'empio  furor,  di  rabbia  armata, 
spargea  ne'  tetti  altrui  fiamme  nocenti, 
e  di  sangue  civile  ampi  torrenti 
spandea  nel  patrio  suol  turba  sdegnata; 

quando  a  danno  de'  cor  beltà  spietata 
tese  degli  occhi  suoi  gli  archi  possenti, 
e  da  le  vaghe  lor  saette  ardenti 
in  un  punto  mi  fu  l'alma  piagata. 

Cosi  tra'  mali  altrui   nacque  il  mio  male, 
e  dentro  un  mar  di  sanguinoso  umore 
l'infelice  amor  mio  sorti  il  natale. 

Oh  di  stelle  crudeli  aspro  tenore! 
Perché  sperar  no  '1  debba  unqua  vitale, 
dier  tra  le  morti  alor  vita  al  mio  amore. 


352  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  NASTRO  VERDE 

A  biondo  crin,   che  scarmigliato  e  vago 
1  campi  di  un  bel  sen  scorrea  fastoso, 
forma  con  verde  nastro  un  fren  vezzoso 
la  bianca  man  per  cui  languir  m'appago. 

Per  oggetto  mirar  si  dolce  e  vago 
drizza  l'anima  mia  l'occhio  bramoso, 
e  parie  vagheggiar  lieto  e  pomposo 
tra  verdi  sponde  imprigionato  un  Tago. 

Poscia  tra  sé  ragiona:  — Ah,  perchè  abbonda 
di  tempeste  la  speme  onde  son  viva, 
in  quel  verde  color  l'unisce  a  l'onde!  — 

—  No,  no  —  risponde  Amor;  —  s'egra  languiva 
la  tua  speranza,  de  le  chiome  bionde 
con  gli  aurei  flutti  il  suo  bel  verde  avviva.  — 


IH 
INVIANDO  LA  «  GERUSALEMME  » 

Queste  a  cui  chiaro  stil  mille  comparte 
di  bellicosi  eroi  scempi  e  furori, 
or  che  parto  a  te  dono,   o  bella  Glori, 
pegno  dell'amor  mio,   famose  carte. 

Tu,  leggendo  le  note  a  parte  a  parte, 
scorgi  ne  l'altrui  morti  i  miei  dolori; 
d'accesa  torre  negl'immensi  ardori 
l'incendio  del  mio  cor  ravvisa  in  parte. 

Il  mio  petto,   di  mostri  infausta  sede 
nel  bosco  immondo,  e  '1  mio  sperar,  estinto 
negl'  incanti  svaniti,  ivi  si  vede. 

Ne  le  stille  del  sangue  al  fin  dipinto 
rimira  il  pianto  mio;  si  farà  fede 
liberata  città  di  core  avvinto. 


ANTONIO    MUSCETTOLA  353 

IV 

LA  DONNA  CHE  LEGGE  L'UFFICIO 

Di  sacri  fogli  a  le  celesti  note 
Lilla,  già  fatta  .pia,   gli  occhi  volgea, 
ed  al  suol  inchinata,   al  cielo  ergea 
con  basso  mormorio  preci  devote. 

Ma  se  là  su  tra  le  stellanti  rote 
con  la  bilancia  sua  soggiorna  Astrea, 
cruda  beltà,   di  mille  morti  rea, 
impetrarne  pietade,   ah,   che  non  puote! 

Che  se  ben  china  par  che  '1  cielo  adori, 
gode  a  la  sua  beltà  mirar  prostrata 
schiera  infelice  d'adoranti  cori  ; 

e,   chiusa  a'  pianti  ed  a'  sospir  l'entrata, 
strali  avventando  e  fulminando  ardori, 
mentre  prega  pietà  fassi  spietata. 

V 

ATTEONE  E  DIANA 

Pittura  di  Domenico  Gargiulo,  detto  Micco  Spadaro 

Invan  per  l'ira  tua,   Cinzia  sdegnosa, 
estinto  giacque  in  su  l'età  fiorita 
il  bel  garzon,   eh 'a  le  tue  ninfe  unita 
ti  vide  ignuda  ne  la  valle  ombrosa. 

Ecco  d' immortai  destra  opra  famosa 
fa  che  mal  grado  tuo  ritorni  a  vita, 
e  rieda  a  vagheggiar  con  vista  ardita 
del  tuo  bel  corpo  ogni  vaghezza  ascosa. 

Ben  te  ravvisa  minacciosa  e  fera, 
e  pur,   quasi  li  fosse  il  rischio  ignoto, 
non  prende  ad  iscampar  fuga  leggiera. 

Ah,   che  '1  mortai  periglio  è  a  lui  ben  noto; 
ma,   nel  mirar  la  tua  bellezza  altera, 
pien  di  dolce  stupor  rimansi  immoto. 

Lirici  marinisti  —  23 


354  LIRICI    MARINISTI 

VI 

NARCISO 

Per  saettarmi  il  petto  il  cieco  dio 
di  straniera  beltà  l'arco  non  tende; 
me  con  me  stesso  impiago,  e  '1  desir  mio 
me  di  me  stesso  innamorato  or  rende. 

Ardo,   misero,   amando  e  '1  foco  rio 
in  un  gelido  umor  da  me  s'accende; 
adoro  un  volto  eh' è  mio  volto,   ed  io, 
io  che  l'offeso  son,   son  chi  m'offende. 

Per  annodarmi  il  core  io  stringo  il  laccio, 
i  pregi  miei  com'altrui  pregi  io  lodo, 
di  speme  un'ombra,  e  la  mia  ombra,   abbraccio. 

Oh  d'ingiusto  penar  diverso  modo! 
Mentre  sospiro  il  ben  per  cui  mi  sfaccio, 
meco  unito  è  il   mio  bene  e  pur  noi  godo. 


VII 

LA  FARFALLA  AL  LUME 

Dell'aure  agli  urti  inestinguibil  face 
in  cavo  vetro  imprigionata  splende, 
la  cui  luce  a  goder  veloce  stende 
semplicetta  farfalla  il  volo  audace. 

Ma  di    quel   lume  i   rai   per  cui   si   sface, 
quel  fragil  muro  ai  suoi  desir  contende; 
pur  vaga  dell'ardor  che  '1  cor  l'accende, 
vola,  riede,  s'aggira  e  non  ha  pace. 

Mira  vicine  a  sé  le  fiamme  amate, 
né  raggiungerle  puote,  e  in  van  tuttora 
cerca  al  proprio  morire  aprir  l'entrate. 

Che  deluso  ciascun  vi  segua  ognora 
gioie,  scettri,  tesori,  ah,  non  vantate, 
or  ch'ha  i  Tantali  suoi  la  morte  ancora! 


ANTONIO     MUSCETTOLA  355 

Vili 

IL  MIRACOLO   DELLE  ROSE  E  GLI  SPOSI   CASTI 

Fremea  stridendo  e  da  caverne  alpine 
sciogliea  fiero  aquilon  l'ali  nevose 
e,   distruggendo  i  fior,  su  piagge  erbose 
nembi  scotea  di  congelate  brine; 

quando,   di  casto  letto  entro  il  confine, 
a  bearsi  correan  alme  amorose; 
ed  ecco,   al  giunger  loro,   aure  odorose 
non  vedute  esalar  rose  divine. 

Fugge  il  senso  lascivo  a  quell'odore, 
e  '1  caro  sposo  e  la  donzella  amata 
alla  verginità  sacrano  il  core. 

Oh  del  vano  piacer  diva  mal  nata, 
t'è  la  rosa  fatai!   Da  questo  fiore 
fosti  un  tempo  ferita  e  poi  i"ugata. 


IX 

CASISTICA   DI   NAUFRAGIO 

Già  del  torbido  mar  l'ira  spumante 
fa  del  naufrago  abete  aspro  governo, 
ed  io  se  debba  aitar  non  ben  discerno 
nemica  amata  o  non  amata  amante. 

Ceda  al  giusto  il  disio.    Del  mar  sonante 
abbia  tra  l'onde  il  suo  sepolcro  eterno 
chi,  i  miei  preghi  e  '1  mio  duol  prendendo  a  scherno, 
parve  di  crudeltà  scoglio  costante. 

Ma  del  vasto  Nettun  l'ondoso  umore 
assorbir  non  dovrà  chi  sempre  unita 
tenne  del  cieco  dio  la  face  al  core. 

Su,  veloci  corriamo  a  darle  aita; 
né  sgridar  mi  potrà  deluso  amore, 
se  a  chi  l'alma  mi  die  rendo  la  vita. 


356  LIRICI    MARINISTI 

X 

AL  LEGNO  DELLA  CROCE 

Te  sol,  tronco  divin,   bramo  ed  anelo, 
de  l'empireo  giardin  parto  fecondo, 
in  cui  depose  il  redentor  del  mondo, 
fenice  eterna,   il  suo  corporeo  velo; 

carro  ove  colmo  di  pietoso  zelo 
tr.onfò  Dio  del  fier  serpente  immondo, 
beato  Atlante  che  reggesti  il  pondo 
del  ciel  non  già,   ma  del  signor  del  cielo; 

sacro,   beato  e  riverito  legno, 
tu  appresta  a  l'alma,   d'empia  sorte  a  l'onte 
quasi  cadente  omai,   forte  sostegno. 

Già  d'ascender  al  ciel  le  voglie  ha  pronte: 
falle  tu  scala,  o  su  ne  l'alto  regno 
perché  possa  poggiar,   formale  un  ponte. 

XI 

AL    MONTE    VESUVIO 

Per  il  sangue  di  San  Gennaro 

Potrai  ben  tu,  co'  tuoi  volanti  ardori, 
alzarti  il  trono  in  fra  gli  eterei  lumi  ; 
stender  potrai  co'  temerari  fumi 
in  faccia  al  chiaro  sol  notte  d'orrori. 

Ma  con  le  furie  tue  danni  e  terrori 
dare  a  Napoli  mia  non  ben  presumi; 
spegnon  del  foco  tuo  gli  ampi  volumi 
del  mio  Gennaro  i  sanguinosi  umori. 

Queste  lucide  ampolle,  ove  il  sovrano 
sangue  si  serba,   del  tuo  incendio  tetro 
son  mète  imposte  all'ardimento  insano. 

Ecco,  già   volgi  i  tuoi  furori  addietro; 
che  sa  di  Dio  l'onnipotente  mano 
fare  a  fiumi  di  foco  argine  un  vetro. 


ANTONIO    MUSCETTOLA  357 

XII 

AL  SONNO 

Dall'ondoso  ocean  l'asse  stellato 
trasse  la  notte.  Or  delle  cure  il  pondo 
deposto  avendo  ornai,  gode  beato 
alto  silenzio  taciturno  il  mondo. 

Sparse  d'alto  sopor  premono  il  suolo 
degli  antri  cavi  le  romite  belve; 
né  sa  de'  venti  il  temerario  stuolo 
chiamar  feroce  a  sibilar  le  selve. 

Della  cerulea  Dori  il  popol  muto 
posa  le  membra  entro  l'algoso  nido, 
e  'n  tranquilla  quiete  il  mar  canuto 
inchina  i  flutti  a  riposar  sul  lido. 

Io  sol  non  poso.   L'amorose  cure 
né  men  porgono  a  me  sonni  interrotti; 
sicché,   vagando  in  fra  vigilie  dure, 
sono  secoli  a  me  tutte  le  notti. 

Non  giova  a  me  di  melibei  murici 
stender  su  l'ebre  lane  il  corpo  stanco, 
se  mi  sembrano  ognor  gli  ostri  fenici 
colmi  di  spine  a  lacerarmi  il  fianco. 

Tentai  che  fusser  tomba  al   mio  dolore 
d'indomito  Lieo  tazze  spumanti; 
ma  del  Vesuvio  il  prezioso  umore 
tosto  dal  duol  fu  convertito  in  pianti. 

E  pur  del  pianto  mio  l'onde  cadenti 
un  cor  di  sasso  intenerir  non  sanno, 
e  gli  ardenti  sospir,  scherzo  dei  venti, 
per  lo  vano  del  ciel  dispersi  vanno. 

Oh  quante  volte  fra'  notturni  orrori 
inghirlandai  le  dispietate  soglie; 
ma,   per  mio  mal,   quegl' intrecciati  fiori 
già  non  fruttàro  al  tristo  cor  che  doglie. 


35^  LIRICI    MARINISTI 

Deh,  tu,   possente  domator  de'  mali, 
ozio  dell'alme  e  regnator  di  Lete, 
dal  ciel  movendo  rugiadose  l'ali 
all'agitato  cor  reca  quiete. 

Già  non  chiegg'  io  che  dalle  fosche  piume 
sparga  tutto  il  sopor  nel  petto  mio; 
pago  sarò  se  l'uno  e  l'altro  lume 
toccherà,   tua  mercé,   stilla  d'oblio. 

Dalle  tempeste  de'  pensier  mordaci 
l'animo  lasso  è  per  restare  assorto; 
ma,  se  tu  vieni  a  me,  fra  dolci  paci 
ritroverà  nelle  tue  braccia  il  porto. 

Benché  di  neri  stami  a'  giorni  miei 
componessero  il  fil  perfidi  fati, 
per  te,  placido  dio  fra  gli  altri  dèi, 
non  dissimil  sarò  da'  più  beati. 

Tu,   delle  menti  languide  ristoro, 
della  figlia  di  Temi  inclito  figlio, 
se  ingiusto  è  il  male  onde  penando  io  moro, 
porgi  i  tuoi  lacci  a  l'uno  e  l'altro  ciglio. 

Se  nell'attica  terra  aitar  famoso 
con  l'ardalide  muse  unito  avesti, 
la  tua  destra  gentil  grato  riposo 
ad  un  seguace  delle  muse  appresti  ; 

ch'io  di  vin  coronando  ampi  cristalli 
al  nume  tuo  gli  offerirò  di  voto; 
poi  di  vegghianti  e  strepitosi  galli 
un'ecatombe  svenerotti  in  voto. 

Farò  ch'a  gloria  tua  piova  su  l'are 
di  papaveri  molli  un  largo  nembo, 
ed  avverrà  che  da'  miei  preghi  impare 
la  bella  Pasitea  d'accòrti  in  grembo. 

Su  vieni,  o  sonno,  e  '1  tuo  favor  m'apporte 
contro  al  tiranno  amor  pietosa  aita. 
Vientene,   o  sonno,   e  per  beata  sorte 
dal  fratel  della  morte  abbia  io  la  vita. 


ANTONIO    MUSCETTOLA  359 


XIII 


I  TUMULTI  DI  NAPOLI 

sedati    da   don    Giovanni    d'Austria 
A  Francesco  Dentice 

D'angui  crinita  dal  tartareo  tetto, 
spargendo  ira  e  furor,  sorse  Megera, 
e  la  facella  sua  squallida  e  nera 
l'orbe  tutto  infiammò,  rotando,  Aletto. 
Del  dio  bifronte  a  disserrar  le  porte 
i  fulmini  avventò  nume  sanguigno, 
ed  al  fragor  di  strepitoso  ordigno 
in  sul  Sebeto  s'aggirò  la  morte: 

E  quai  sul  lido  suo  vide  il  Tirreno 
di  barbaro  furore  empi  vestigi, 
mentre  percossa  il  cor  da'  numi  stigi 
sdegnò  plebe  infedel  l'austriaco  freno! 

In  dispietati  incendi  arder  fùr  visti 
d'illustri  fabri  gì' immortai  lavori; 
fùr   le   sete,    le   gemme   e   gli   ostri   e   gli   ori 
di  fiamme  ingiuste  momentanei  acquisti. 

A  le  vite  più  auguste  i  degni  stami 
troncò  il  furor  de  le  masnade  nitrici; 
lungi  da'  busti  lor  teschi  infelici 
fèr  diadema  funesto  a'  tetti  infami. 

A  fulminar  le  ribellanti  mura 
mille  e  più  si  drizzar  bronzi  tonanti; 
cadder  tocchi  dal  ferro  i  sassi  infranti, 
cadaveri  in  un  punto  e  sepoltura. 
Dal  patrizio  valor  mirò  la  plebe 
innestarsi  a  le  palme  atri  cipressi; 
da  nobil  ferro  i  sollevati  oppressi 
col  lor  vii  sangue  imporporar  le  glebe. 


360  LIRICI    MARINISTI 

E  quali  or  promettean  fere  procelle 
de  l'armato  Orion  gl'infausti  lampi! 
Ma  veggio,   ecco,   illustrar  gli  eterei  campi 
di  felice  splendor  propizie  stelle. 

Per  te,  germe  sovran  del  rege  ibero, 
fuggon  negli  antri  lor  gli  euri  frementi, 
e,   degli  astri  infelici  i  lumi  spenti, 
piove  influssi  benigni  il  ciel  guerriero; 

per  te  di  sangue  rosseggianti  i  fiumi 
non  portano  al  Tirren  tributi  orrendi; 
per  te  nel  patrio  suol  funesti  incendi 
non  inalzano  al  ciel  torbidi  fiumi; 

per  te,  di  Marte  l'armonia  sepulta, 
corron  cetre  a  sferzar  plettri  festivi  ; 
e  per  te,  cinta  di  pallàdi  ulivi, 
tra  noi  la  pace  sospirata  esulta. 

Tanto  può,  tanto  fa  de'  suoi  bei  giorni 
rispano  eroe  nel  giovinetto  aprile: 
or  che  fìa  alor  che  di  virtù  senile 
gli   anni  robusti  suoi  sien  resi  adorni? 

Già  veggio  a  circondargli  il  crine  invitto 
nutrir  le  palme  ossequiosa  Idume, 
e  di  sue  glorie  riverente  al  nume 
erger  colossi  memorandi  Egitto; 

veggio  di  sue  virtudi  a'  vasti  abissi 
offrir  tributi  il  galileo  Giordano, 
e  de  l'armi  al  fulgor  fuggir  lontano 
la  tracia  luna  paventando  eclissi. 

Deh,   Francesco   immortai,    tempra   la   cetra 
ond'eterni  gli  eroi,   fulmini  gli  anni; 
e  de  le  note  in  su'  canori  vanni 
il  semideo  garzon  porta  ne  l'etra. 

Se  de  le  glorie  sue  porgi  il  tuo  canto, 
che  da  se  stesso  ancor  chiaro  rimbomba, 
Tebe  la  lira  e  la  famosa  tromba 
al  tuo  pie  chinerà  stupida  Manto. 


IX 


CIRO  DI  PERS 


I 
LE  CHIOME  NERE 

Chiome  etiope,  che  da'  raggi  ardenti 
de'  duo  Soli  vicini  il  fosco  avete, 
voi  di  mia  vita  i  neri  stami  séte, 
onde  mi  fila  Cloto  ore  dolenti. 

O  del  foco  d'amor  carboni  spenti, 
ma  che  spenti  non  meno  i  cori  ardete; 
pietre  di  Batto,  che  mostrar  solete 
falsi  d'ogn'altro  crin  gli  ori  lucenti; 

o  di  celeste  notte  ombre  divine; 
in  duo  emisperi  è  il  ciel  d'Amor  diviso, 
e  voi  del  giorno  suo  séte  il  confine. 

Venga  chi   veder   vuole  entro  un   bel   viso, 
con  una  bianca  fronte  e  un  nero  crine, 
dipinto  a  chiaroscuro  il  paradiso. 


364  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  VESTE  BIANCA 

Bianca  tra  bianche  spoglie  era  Nicea, 
né  saprei  dir  quai  fusser  bianchi  meno, 
mentre  un  leggiadro  paragon  facea, 
i  candori  del  manto  o  quei  del  seno. 

Corsi  a  mirarla,  e  di  stupor  ripieno: 

—  Donna  non  è  costei  —  fra  me  dicea,  — 
che  raggio  splende  in  lei  più  che  terreno, 
ma  la  nunzia  del  Sol,  candida  dea.  — 

Quando  il  soverchio  lume  insieme  unito 
col  soverchio  calor,  cadde  repente 
l'occhio  abbagliato,  il  core  incenerito. 

Allor  gridai  con  un  sospiro  ardente: 

—  O  del  manto  dell'alba  è  il  Sol  vestito, 
o  l'alba  è  più  del  Sol  fatta  lucente!  — 


III 
IL  BAMBINO 

Vago  fanciul,   che  fra  le  braccia  stretto 
de  la  mia  dea,   dal  suo  bel  collo  pendi, 
e  l'inesperta  man  scherzando  stendi 
or  agli  occhi  or  al  labbro  ed  or  al  petto; 

tu,  di  doglia  incapace  e  di  diletto, 
tocchi  il  Sol,   tratti  il  foco  e  non  t'accendi, 
siedi  in  grembo  a  la  gioia  e  non  l'intendi; 
oh  quanto  per  te  provo  invido  affetto  ! 

Deh,  potess'io  cangiar  teco  il  mio  stato; 
che,   possessor  di  ^sconosciuto  bene, 
sarei  non  infelice  e  non  beato. 

Già  ch'intero  piacer  qua  giù  non  viene, 
se  ventura  al  gioir  mi  nega  il  fato, 
mi  negasse  egli  ancor  senso  alle  pene  ! 


CIRO    DI   -PERS  365 

IV 

L'ELOQUENZA  DEGLI  OCCHI 

Poco  è  facondo  Amor  quando  egli  scioglie 
innamorata  lingua  ai  dolci  accenti; 
poco  in  querulo  suon  mesti  lamenti 
acquistan  fede  alle  amorose  doglie. 

Ben  è  facondo  allor  quando  egli  toglie 
a  far  loquaci  duo  begli  occhi  ardenti, 
che  formando  co'  rai  note  lucenti 
fan  palesi  del  cor  l'interne  voglie. 

Egli  è  bambino  Amore:   a  pena  ei  puote 
snodar  la  lingua  alla  favella,  e  poco, 
fuor  che  nel  guardo,   egli  ha  loquaci  note. 

Mal  con  lingua  disciolta  aver  può  loco 
core  annodato,   e  solo  altrui  far  note 
può  le  fiamme  del  sen  voce  dì  foco. 


V 

PURIFICAZIONE  IN  AMORE 

Prima,  Nicea,  che  '1  tuo  bel  ciglio  ardente 
mi  soggettasse  agli  amorosi  oltraggi, 
per  l'orme  del  piacer  torti  viaggi 
féron  col  senso  i  miei  desir  sovente. 

Ora  d'amor  lo  stimolo  pungente 
desta  ne  l'alma  mia  pensier  più  saggi, 
e  mi  porgono  i  tuoi  pudichi  raggi, 
non  men  che  fiamma  al  cor,  luce  alla  mente. 

Veggio  ch'ogni  tua  cura  al  ciel  diretta 
bave  d'eterno  ben  santo  desio, 
e  che  lassù  ten  poggi,   anima  eletta. 

E  voglio,  al  ciel  drizzando  i  passi  anch'io, 
la  tua  scorta  seguir,  pura  angioletta, 
per  teco  unirmi  eternamente  in  Dio. 


366  LIRICI    MARINISTI 

VI 

SOPRAVVIVENZA  DELL'AMORE  ALLA  BELLEZZA 

Languidi  l'aggi  e  scoloriti  fiori 
entro  '1  bel  volto  tuo  scorgo,   Nicea; 
e  pur  quivi  il  mio  sen,   come  solca, 
s'arricchisce  di  gioie  e  di  dolori. 

Sfavilla  ancor  per  entro  ai  tuoi  pallori 
quel  non  so  che,  quel  che  mi  strugge  e  bea; 
più  vago  un  tempo  il  tuo  bel  ciglio  ardea, 
ma  non  vibrava  già  più  gravi  ardori. 

Sempre  per  me  tu  sarai  bella,  ed  io 
sempre  amante  per  te:  non  è  mortale, 
non  ha  mortale  oggetto  il  mio  desio. 

Indarno  il  tempo  s'arma,  indarno  assale 
la  tua  beltà  con  gli  anni  e  '1  foco  mio, 
che  non  soggiace  a  lui  cosa  immortale. 


VII 

SULLO  STESSO  ARGOMENTO 

Veggio,  veggio,  Nicea,  le  tue  vezzose 
guance  obhar  le  porpore  native, 
che,  quasi  timidette  e  fuggitive, 
vansi  tra  i  gigli  ad  occultar  le  rose. 

Le  nevi,   ove  le  fiamme  Amor  nascose, 
son  de  la  lor  vaghezza  in  parte  prive, 
e  con  languidi  raggi  e  semivive 
faville  ardon  le  tue  luci  amorose. 

Scema  in   te   la   bellezza,   e  forse  ancora 
di  par  negli  altrui  cor  manca  il  desio, 
mentre  manca  quel  bel  che  gì' innamora. 

Ma  non  scema  però  l'affetto  mio, 
ch'oggetto  fral  non  ama  e  solo  adora 
un  raggio  in  te  de  la  beltà  di  Dio. 


CIRO    DI    f'ERS 


Vili 


367 


LA  LOTTA  COL  TEMPO 

Mentre  vuoi  riparar  del   tempo  il  danno, 
il  tempo,  o  Lidia,  inutilmente  spendi; 
quell'ore  stesse  eh' a  lisciarti  attendi 
per  giovane  parer,  vecchia  ti  fanno. 

I  mentiti  color  forza  non  hanno 
di  destar,  di  nutrir  d'amor  gl'incendi; 
cedi,  cedi  pur  vinta  e  l'arme  rendi, 
che  'nvan  contrasti  al  volator  tiranno. 

Cosi  cadendo  va  bellezza  umana, 
e  per  riparo  ogni  sostegno  è  frale 
e  per  ristoro  ogni  fatica  è   vana. 

Ah,  che  l'impiastro  tuo  punto  non  vale 
per  le  piaghe  del  tempo,  e  sol  risana 
le  piaghe  in  me  de  l'amoroso  strale. 


IX 

SULLO  STESSO  ARGOMENTO 

Oblia  la  fronte,  o  Lidia,  i  suoi  candori, 
disimparan  le  guance  il  lor  vermiglio,  ^ 
e  qual  ombra  aduggiò  la  rosa  e  '1  giglio? 
e  chi  dal  volto  tuo  sbandi  gli  Amori? 
Al  tuo  leggiadro  aprii  fura  i  tesori 
del  tempo  involator  l'ingordo  artigho, 
ed  allo  specchio  invan  chiedi  consiglio 
di  ravvivar  gl'inariditi  fiori. 

Non  può  far  d'aurei  fregi  il  manto  adorno, 
non  le  nevi  mentite  o  gli  ostri  finti 
ricorrer  dietro  un  sol  passato  giorno. 

Tutti  i  tuoi  vanti  alfin  l'etade  ha  vinti, 
ed  hai  nel  volto  per  maggior  tuo  scorno 
di  propria  mano  i  suoi  trofei  dipinti. 


:68  LIRICI   :marinisti 

X 

LA   PENITENTE 

Sotto  il  cener  del  manto  il  foco  ascoso 
porta  costei,   ch'in  umiltà  risplende; 
con  la  pietà  del  cor  fa  il  ciel  pietoso 
e  col  cielo  del  volto  i  cori  accende. 

Per  posar  nel  suo   Dio  non  ha  riposo, 
e  per  difender  l'alma  il  corpo  offende; 
e  se  del  crin  straccia  il  tesoro  ondoso, 
con  le  perle  degli  occhi  adorno  il  rende. 

Quindi,  mentr'ella  piange  il  proprio  errore, 
adorar  mi  costringe  il  volto  amato 
e  mi  fa  reo  di  profanato  amore. 

Deh,  come  potrà  il  Ciel  render  placato, 
se  fra  i  cilici  ancor  m'infiamma  il  core, 
e  la  sua  penitenza  è  il  mio  peccato? 


XI 

LA  DIPANATRICE 

Un  girevole  ordigno  oggi  volgea 
Filli,   di  bianco  stame  intorno  avvolto, 
che  d'ampio  cerchio  in  picciol  globo  accolto, 
quanto  scemava  l'un,   l'altro  crescea. 

Quella  la  rota  d' Issi'on  credea 
il  mio  cor,   ch'in  que'  giri  era  rivolto; 
se  ben  colei  che  l'aggirava,  al  volto 
più  ch'una  furia  un  angelo  parca. 

Lo  stame  quello  fu  de  la  mia  vita, 
ch'io  vedea  con  piacevoli  martiri 
passar  di  bella  parca  in  fra  le  dita. 

E  se  pria  dilatossi  in  ampi  giri, 
or  la  raccoglie  in  uno,  e  vuol  ch'unita 
solo  nel  suo  bel  volto  e  viva  e  spiri. 


CIRO    DI    PERS  369 

XII 

LE  LODI  DELLA  FATICA 

Varcar  col  nuoto  il  rapido  de'  fiumi, 
l'erto  dei  monti  superar  col  corso, 
di  feroce  destrier  regger  il  morso, 
varie  genti  cercar,  vari  costumi; 

errar  per  aspre  balze  ed  aspri  dumi 
l'adiroso  cinghiai  tracciando  e  l'orso; 
del  profondo  ocean  fender  il  dorso, 
benché  frema  orgoglioso,   irato  spumi; 

la  sete  al  fonte  trar,   la  fame  al  bosco, 
per  le  nevose  piagge  e  per  l'aduste 
sudar  col  nasamon,   gelar  col  mosco; 

di  ferrea  scorza  aver   le   membra  onuste, 
quand'è  il  ciel  luminoso  e  quand'è  fosco; 
delizie  ed  agi  son  d'alme  robuste. 


XIII 

IL  CACCIATORE  D'ARCHIBUGIO 

Solo  e  notturno  uccellator  tonante 
chiama  l'usato  can,  la  fune  accende; 
cinto  di  grave  cuoio  il  piede  errante, 
laberinti  palustri  e  cerca  e  fende. 

Immoto  al  fin  su  riva  ascoso  attende 
tra  soffi  d'aquilon  lo  stuol  volante, 
ch'alia  valle  s'invola  e  al  mar  si  rende, 
mentr'a  l'aurora  il  di  bacia  le  piante. 

Vibra  Giove  alle  fere  unico  un  telo, 
ma  questi  a  lo  scoppiar  d'un  colpo  solo 
mille  alati  cader  fa  al  flutto,   al  gelo. 

Che  più?  s'ei  può,  stringendo  un  dito  solo, 
trar  fulmini  dall'acque,   augei  dal  cielo, 
far  il  piombo  volar,   piombar  il  volo! 

Lirici  marinisti  —  24 


570  LIRICI     MARINISTI 

XIV 

ALL'AMICO  CHE  HA  PRESO  MOGLIE 

Per  secondar  le  sconsigliate  voglie, 
sei  d'Imeneo  fra  i  prigionieri  accolto; 
quella  promessa  hai  proferito,   o  stolto, 
che  la  si  dolce  libertà  ti  toglie. 

Laccio,  che  fuor  che  morte  altri  non  scioglie, 
t'hai  da  te  stesso  intorno  al  collo  avvolto; 
tu  te  medesmo  a  te  medesmo  hai  tolto; 
Lidio,   non  sei  più  tuo,   sei  della  moglie. 

Ore  non  più  sperar  tranquille  e  liete, 
cure  noiose  ingombreranti  il  petto, 
e  più  moleste  allor  che  più  scerete. 

Sei  sposo,  addio  riposo:  entro  un  sol  tetto 
non  soglion  albergar  moglie  e  quiete, 
né  si  divide  senza  lite  il  letto. 


XV 

AL  PROPRIO  LETTO 

Mio  notturno  sepolcro,   ove  doglioso 
ad  ogni  moto  sol  la  morte  imparo, 
pien  di  cure  diurne  in  pianto  amaro 
nella  mia  requie  inrequieto  io  poso; 

chiuder  luci  sicure  in  te  non  oso, 
mentre  agli  affanni  miei  cerco  riparo; 
so  che  del  tempo  un  sol  momento  avaro 
ivi  de'  alfìn  rapire  il  mio  riposo. 

Questi  alzati  sostegni  alzan  ruine; 
queste  piume  ch'io  premo,   ancor  che  morte, 
fabrican  ale  al  volator  mio  fine. 

Tu,   funesto  feretro,  al  suol  mi  porte; 
in  te,   nido  vitale,   io  so  che  alfine 
con  assiduo  calor  covo  la  morte. 


CIRO    DI    PKRS  371 

XVI 

AL  SONNO 

O  sonno,   tu  ben  sei  fra  i  doni  eletti 
dal  ciel  concesso  ai  miseri  mortali; 
tu  l'agitato  sen  placido  assali 
e  tregua  apporti  ai  combattuti  affetti. 

Tu  d'un  soave  oblio  spargendo  i  petti, 
raddolcisci  i  martir,   sospendi  i  mali  ; 
tu  dai  posa  e  ristoro  ai  sensi  frali, 
tu  le  tenebre  accorci  e  l'alba  affretti. 

Tu  della  bella  Pasitea  consorte, 
tu  figliuolo  d'Astrea,   per  te  di  paro 
vau  fortuna  servile  e  regia  sorte. 

Ma  ciò  che  mi  ti  rende  assai  più  caro 
è  ch'all'orror  dell'aborrita  morte 
io  col  tuo  mezzo  ad  avvezzarmi  imparo. 


XVII 

IL  MAL  DI   PIETRA 

Son  nelle  rene  mie,  dunque,   formati 
i  duri  sassi  a  la  mia  vita  infesti, 
che  fansi  ognor  più  gravi  e  più  molesti, 
ch'han  de' miei  giorni  i  termini  segnati? 

S'altri  con  bianche  pietre  i  di  beati 
nota,  io  noto  con  esse  i  di  funesti; 
servono  i  sassi  a  feibricar,    ma  questi 
per  distrugger  la  fabrica  son  nati. 

Ah,  ben   posso  chiamar   mia   sorte   dura, 
s'ella  è  di  pietra!    Ha  preso  a  lapidarmi 
dalla  parte  di  dentro  la  natura. 
[  <  So  che  su  queste  pietre  arruota  l'armi 
la  morte,  e  che  a  formar  la  sepoltura 
nelle  viscere  mie  nascono  i  marmi.        / 


372  LIRICI    MARINISTI 

XVIII 

L'OROLOGIO   DA  RUOTE 

Nobile  ordigno  di  dentate  rote 
lacera  il  giorno  e  lo  divide  in  ore, 
ed  ha  scritto  di  fuor  con  fosche  note 
a  chi  legger  le  sa:   sempre  si  more.  '\^ 

Mentre  il  metallo  concavo  percuote, 
voce  funesta  mi  risuona  al  core  ; 
né  del  fato  spiegar  meglio  si  puote 
che  con  voce  di  bronzo  il  rio  tenore. 

Perch'io  non  speri  mai  riposo  o  pace, 
questo,   che  sembra  in  un  timpano  e  tromba, 
mi  sfida  ognor  contro  all'età  vorace. 

E  con  que'  colpi  onde  '1  metal  rimbomba, 
affretta  il  corso  al  secolo  fugace, 
e  perché  s'apra,   ognor  picchia  alla  tomba. 


XIX 

EGO  SUM  QUI  SUM 

Triplicata  unità,  trino  indiviso 
son  io  che  mi  distinguo  e  son  l'istesso; 
e  mentre  in  tre  persone  io  son  impresso, 
io  son  tre,  tre  son  uno,   uno  è  diviso. 

Son  senza  luogo  in  ogni  luogo  fiso, 
né  luogo  mi  comprende  e  son  in  esso; 
io   sol   sono   ed  il   tutto   ho   sempre  appresso, 
tutto  veggio  e  in  me  sol  godo  e  mi  affiso. 

Privo  di  estension,   convien  che  mande 
di  mia  presenza  in  ogni  parte  il  dono, 
ch'indivisibil  si  divide  e  spande; 

e,  senza  qualità,  son  tutto  buono, 
e,  senza  quantità,  son  tutto  grande: 
io  son  chi  seiìipre  sono,   io  son  chi  sono. 


CIRO    1)1    PERS 
XX 

IL  TERREMOTO 

Deh,  qual  possente  man  con  forze  ignote 
il  terreno  a  crollar  si  spesso  riede? 
Non  è  chiuso  vapor,  come  altri  crede, 
né  sognato  tridente  il  suol  percuote. 
Certo,  la  terra  si  risente  e  scuote 
perché  del  peccator  l'aggrava  il  piede, 
e  i  nostri  corpi  impaziente  chiede 
per  riempir  le  sue  spelonche  vote. 

È  linguaggio  del  ciel  che  ne  riprende 
il  turbo,  il  tuono,   il  fulmine,   il  baleno; 
or  parla  anco  la  terra  in  note  orrende, 

perché  l'uom,  ch'esser  vuol  tutto  terreno, 
né  del  cielo  il  parlar  straniero  intende, 
il  parlar  della  terra  intenda  almeno. 

XXI 

PER  UNA  NIPOTINA  DELL'AUTORE 

la  ciuale  visse  pochi  giorni 

Fortunata  fanciulla,   al  ciel  nascesti 
non  alla  terra,   e  non  ti  fu   immatura 
l'ora  fatai  che  dei  tesor  celesti 
e  dell'eterno  ben  ti  fé'  sicura. 

Tu  breve  il  corso  della  morte  avesti, 
che  con  lungo  penare  altri  misura; 
la  frale  umanità  poco  piangesti, 
poco  spirasti  di  quest'aria  impura. 

Chi  solca  il  mar   del   mondo  ogn'or  aduna 
maggior  peso  di  colpa,   e  '1  cammin  torto 
sul  tardi  dell'età  vie  più  s'imbruna. 
Viaggio  avesti  tu  spedito  e  corto; 
navicella  gentil  fu  la  tua  cuna, 
che  ti  sbarcò  del  paradiso  al  porto. 


373 


374  LIRICI    MARINISTI 

XXII 

IN  MORTE  DI  GUSTAVO  ADOLFO 

Qual  da  turbato  eie!  fulminea  face, 
cui  da  gelido  sen  nube  disserra, 
scende  tonante  a  spaventar  la  terra, 
e  dopo  il  colpo  incenerita  tace; 

tal  dal  freddo  aquilon  lo  Sveco  audace 
vien  ruinoso  fulmine  di  guerra, 
che  le  moli  superbe  orrendo  atterra, 
poi  tra  l'alte  ruine  estinto  giace. 

Dubbie  ancor  le  vestigie  avvien  che  stampi 
l'austriaca  speme  a  tal  cader  risorta, 
stordita  ai  tuoni,   abbarbagliata  ai  lampi. 

Pugnai!  feroci,   intanto,   e  non  riporta 
la  vittoria  nessun  de'  duo  gran  campi, 
che  con  Adolfo  la  vittoria  è  morta. 


XXIII 

CRISTINA  DI  SVEZIA  IN  ROMA 

Del  baltico  Nettun  l'algenti  arene 
lasciando  e  gli  astri  ad  Anfitrite  ignoti, 
per  sentier  troppo,   o  Roma,   un  tempo  noti, 
l'artica  regnatrice  a  te  sen  viene. 

Colma  di  sant'amor,   di  santa  speme, 
quasi  l'irriverenti  orme  de' goti 
venga  per  cancellar  co'  pie  divoti, 
dell'avito  furor  nulla  ritiene. 

E  se  ben  lungi  da  nemico  orgoglio 
con  umiltà  pacifica  s' inchina 
del  successor  di  Pietro  al  sacro  soglio; 

pur,  facendo  de'  cor  nobil  rapina, 
di  Roma  soggiogata  in  Campidoglio 
trionferà  la  gotica  reina. 


CIRO    DI    PERS  375 


XXIV 


CONTRO  L'AMARE  UNA  BELLEZZA  SOLA 
Ad  Andrea  Vallerò 

Celeste  dono  è  la  beltà,  che  scende 
ad  invaghir  qua  giù  l'umane  menti 
de'  beni  eterni,  e  a  sollevarle  al  cielo; 
chiare  faville  accende 
ne'  foschi  cori  e  co'  suoi  raggi  ardenti 
sgombra  de'  pigri  affetti  il  lento  gelo; 
sotto  un  leggiadro  velo, 
vie  più  eh' all'occhio,  all'intelletto  scopre 
di  lavoro  divin  mirabil  opre. 

Ma  non  sempre  ella  suol  ne'  regi  tetti 
covar  tra  gli  ostri  e  riccamente  adorna 
sfidar  le  gemme  in  paragone  e  gli  ori; 
che  d'ameni  boschetti 
spesso  a  l'ombra  riposta  anco  soggiorna, 
e  d'un  prato  ridente  emula  i  fiori. 
Quivi  ne'  freschi  umori 
d'un  puro  fonticel  si  specchia  e  lava, 
e  co'  fregi  dell'erba  i  crini  aggrava. 

Fan  di  gemme  inaspriti  aurei  monili, 
d'argentei  scherzi  variati  manti, 
pompa  non  di  beltà,   ma  di  ricchezza; 
son  degli  avi  gentili 
l'alte  memorie  e  i  celebrati  vanti, 
fregi  di  nobiltà,   non  di  bellezza: 
ch'ella  per  sé  s'apprezza 
e  si  brama  per  tutto  ove  si  vede, 
e   cieco   è   quei   ch'altra   ragion    ne  chiede. 


376  LIRICI    MARINISTI 

Ma  cieco  e  stolto  è  quegli  ancor  che  l'ama 
solo  in  un  loco,   e  se  la  mira  altrove 
o  non  la  riconosce  o  non  la  cura. 
Chi  la  bellezza  brama, 
la  brama  sempre  in  ogn'oggetto,   e  dove 
la  scorge  ivi  d'unirsi  a  lei  procura. 
Animata  pittura, 

all'è  di  Dio  ritratto;   io  stimo  un  empio 
chi  la  vuol  adorar  solo  in  un  tempio. 

Quegli  che  non  ha  cor  d'amar  capace 
l'universal  bellezza,   ama  e  desia 
la  bellezza  di  Filli  o  di  Nigella; 
quindi  non  trova  pace 
co'  suoi  meschini  affetti  ;   erra  e  travia, 
mentre  la  luce  vuol  sol  d'una  stella, 
che  se  splende  rubella 
a  le  sue  voglie,   infra  gli  orrori  immensi 
ei  non  ha  scorta  al  traviar  de'  sensi. 

Sol  una  è  la  beltà  che  '1  divo  lume 
in  più  corpi  diffonde,   e  quasi  Sole 
a  molte  stelle  i  raggi  suoi  comparte; 
end' è  stolto  costume 
di  chi  solo  in  un  volto  amar  ne  vuole 
con  povero  desio  picciola  parte. 
Volgi  l'antiche  carte 
e  sovente  vedrai  lo  stesso  Giove 
in  nuovi  oggetti  amar  vaghezze  nove. 

Tu,  saggio  Andrea,  che  non  restringi  il  core 
fra  l'angustie  d'un  viso,   e  a'  desir  vasti 
una  sola  speranza  ésca  non  fai  ; 
per  te  non  trova  amore 
entro  due  sole  luci  ardor  che  basti, 
e  i  lacci  d'un  sol  crin  non  sono  assai. 
Quindi  è  che  tu  ben  vai 
col  libero  p;nsier  per  varie  forme 
de  l'unica  beltà  tracciando  l'orme. 


CIRO    DI    PERS  377 

Quinci' è  ch'or  la  capanna  ed  or  la  reggia 
ti  vede  amante  a  vagheggiare  intento 
una  sola  bellezza  in  molte  belle; 
né  creder  già  ch'io  deggia 
dannare  il  tuo  consiglio;   anch'io  mi  pento 
che  non  presi  a  cercar  altre  facelle, 
tosto  che  le  due  stelle, 
che  m'allettaron  pria,   mostrarsi  avverse 
e  fero  orgoglio  il  mio  sperar  disperse. 

Sciocco  Tantalo  er'io,   che  'n  mezzo  l'acque 
dura  sete  soffria,  perché  volea 
sol  di  fonte  lontana  onda  interdetta. 
La  beltà  che  mi  piacque, 
mentre  mal  saggio  fui,   solo  in  Nicea, 
or  dovunque  la  miro  ivi  m'alletta. 
Due  begli  occhi  ha  Lisetta 
ed  ha  Glori  un  bel  sen  di  vivi  avori: 
di  Lisetta  amo  gli  occhi  e  '1  sen  di  Glori. 


XXV 

I  VIAGGI  SULLE  GALEE  DI  MALTA 

Qui  dove,  loia,  in  grembo  al  mar  sen  corre 
dal  mal  gradito  amante 
fuggitiva  Aretusa, 
d'orme  penose  imprimo 
il  bel  lido  sicano, 
col  pensier  misurando 
quanto  mar,   quanto  cielo 
quanta  terra  fraposta  mi  disgiunge 
da  quelle  ch'io  solca 
chiamar  de  l'alma  mia  parti  migliori, 
di  cui  runa  sei  tu,  l'altra  è  Nicea. 
E  penso  ch'ora  a  punto      • 


378  LIRICI    MARINISTI 

l'intero  suo  cammin  fornito  ha  il  "sole, 

da  ch'io  lasciai  partendo 

cotesti  ameni  colli,   che  sovente 

imparano  a  fiorire 

da  quelle  belle  guance, 

e  son  forse  ancor  caldi 

dell'amoroso  ardor  di  que' begli  occhi; 

ed  ho  in  spazio  si  breve 

tanti  lidi  trascorsi, 

che  de  l'itaco  duce 

stimo  men  lunghi  i  peregrini  errori. 

E  se  d'udir  t'aggrada 

quel  che  feci  pur  dianzi 

per  le  contrade  eoe  lungo  camino 

sui  nostri  armati  pini, 

che  contra  l'elespontico  tiranno 

spiegan  candida  croce 

in  purpureo  vessillo, 

tei  narrerò;   della  mia  rozza  musa 

tu  gli  accenti  improvisi  intanto  escusa. 

Già  mezzo  avea  trascorso 
della  fera  nemea  l'adusto  segno 
il  portator  del  lume, 
allor  che  i  bassi  lidi 
di  Melita  lasciando 
con  cinque  audaci  legni 
ch'hanno  d'armi  e  d'eroi  gravido  il  seno, 
venimmo  a  queste  arene 
dove  l'antica  Siracusa  ancora 
con  rinovate  moli 
contro  il  tempo  contrasta; 
e  di  qua  poi  rivolte 
al  rinascente  Sol  l'ardite  prore, 
fidammo  i  lini  al  vaneggiar  de  l'aure, 
e  dopo  lunghi  spazi 
di  vastissimo  mare, 


CIRO    DI    PERS  379 

mentre  spuntava  in  ciel  la  quinta  aurora, 

sorger  si  vide  a  fronte 

di  Berenice  il  lido, 

che  di  cinque  cittadi,  onde  famosa 

fu  Pentapoli  un  tempo,   appar  primiera. 

Quindi  non  lungi  infra  i  cerulei  flutti 

chetamente  confonde 

l'oblivioso  Lete 

i  suoi  tartarei  umori. 

Si  vide  poscia  il  loco 

dove  era  Arsinoe  e  dove 

Tolomaide  risorse, 

dove  Apollonia  fu,  dove  Cirene, 

che  dell'alte  ruine 

sparso  da  lungi  ancor  biancheggia  il  suolo. 

Già  fùr  città  superbe,   or  sasso  a  pena 

v'è  eh 'a  sasso  sovrasti: 

cosi  fragili  sono  incontra  il  tempo 

l'opere  de'  mortali. 

Non  have  alcun  albergo 

che  sembri  ad  uso  umano 

quel  barbaro  terreno  ;   e  pur  è  tutto 

dagli  uomini  abitato, 

i  quai  non  so  s 'io  debba 

infelici  chiamare  o  pur  beati  ; 

cosi  mal  si  misura 

l'altrui  felicità  coi  propri  affetti. 

Ma  se  beati  furo 

quei  del  mondo  novello 

primieri  abitatori, 

perché  non  doverò  chiamar  beati 

questi  ancora,   che  sono 

tanto  a  lor  somiglianti? 

Quello  che  piace  lece, 

quel  che  diletta  è  onesto; 

re,  ciascun  a  se  stesso 


380  LIRICI    MARINISTI 

obbedisce  e  comanda, 

né  tien,   fuor  che  la  gregge,   altri  soggetti. 

Quindi  essi  tranno  il  cibo, 

qualor  non  glielo  dan  le  scosse  palme; 

la  clemenza  dell'aria, 

over  l'uso  più  tosto 

toglie  loro  il  bisogno 

d'ingombrar  con  le  vesti 

l'esercitate  membra, 

ed  hanno  al  caldo,  al  gelo 

letto  il  suol,  tetto  il  cielo. 

Nessun  di  vano  onore 

rispettoso  ritegno 

pon  mèta  ai  lor  diletti  ; 

nessuna  avara  brama 

le  lor  menti  molesta; 

poiché  '1  biondo  metallo, 

d'ogni  volere  espugnator  possente, 

solo  fin  de'  mortali  e  sola  cura, 

appo  lor  è  si  vile 

che  in  nessun  pregio,   in  nessun  uso  s'have. 

Son  tai  gli  abitatori 
della  bella  Cirene,  ed  anco  appresso 
di  Marmarica  tutta, 
che  tutta  noi  scorremmo 
con  le  temute  prore 
per  insino  a  1'  Egitto, 
presso  ai  cui  verdi  lidi 
il  Nilo,   peregrin  del  paradiso, 
stanco  dai  lunghi  errori, 
riposa  in  grembo  a  Teti, 
che  non  come  vassallo 
ma  come  ospite  suo  l'onora,   e  pare 
che  turbar  non  ardisca 
co'  salsi  flutti  i  di  lui  dolci  umori. 
Oui  nel  lido  si  vede 


CIRO    DI    PERS  381 

la  famosa  cittade 

cui  die  l'essere  e  '!  nome 

il  Macedone  invitto. 

Quindi  non  lungi  un  giorno 

nell'apparir  della  novella  aurora: 

—  Ecco  —  s'udì  gridare,  —  ecco  una  squadra 

di  veleggianti  abeti.  — 

Destossi  a  quelle  voci 

di  ciascuno  guerriero 

e  la  speme  e  l'ardire, 

e  con  veloce  moto 

spingendo  i  remi  e  dando  in  preda  a  l'aure 

da  l'alte  antenne  le  più  larghe  vele, 

s'affrettava  il  camino. 

Già  già  distinta  appare 

di  torreggianti  pini 

la  vasta  forma,   e  da  l'eccelse  poppe 

scorgonsi  tremolar  le  tracie  lune, 

onde  certo  ciascuno 

che  son  nemici  :  —  All'armi,  all'armi  —  grida, 

e  di  ferrato  usbergo 

il  petto  cinge,   e  grava 

d'elmo  pesante  l'onorata  fronte, 

e  la  spada  fedel  s'acconcia  al  fianco, 

tenendo  ne  la  destra 

apparecchiate  le  fulminee  canne. 

Ed  ecco,   ecco  d'intorno 

freme  il  ciel,  mugge  il  mar,  rimbomba  il  lido, 

mentre  i  bronzi  tonanti 

con  orridi  fragori 

replican  quinci  e  quindi 

gli  spaventosi  colpi. 

Fugge  timido  il  giorno 

tra  densa  nube  ascoso 

che  celando  l'orror  l'orrore  accresce; 

ne'  più  riposti  fondi 


382  LIRICI    MARINISTI 

vanno  a  tuffarsi  le  cerulee  ninfe, 

e  timido  Nettuno 

fin  oltre  il  varco  d'  Elle 

gli  squaminosi  destrier  fuggendo  affretta. 

Sti'ingesi  intanto  la  feroce  pugna, 

e  de'  nostri  l'ardire 

ogni  vantaggio  de'  nemici  adegua, 

in  guisa  tal,  che  i  dieci 

cedono  a'  cinque,  ed  hanno 

ogni  speme  riposta 

nella  vicinità  del  porto  amico. 

E  già  l'un  d'essi  in  mezzo  agli  altri,   a  fronte 

della  città  nemica, 

nostra  preda  rimane; 

gli  altri  fìdan  lo  scampo 

ai  lini  fuggitivi. 

Cresciuto  il  vento  intanto 

disperse  in  noi  la  speme 

de  la  vittoria  intera, 

e  la  lor  favori  timida  fuga. 

Allor  quindi  partendo, 

le  vincitrici  antenne 

volgemmo  inver'  Boote; 

né  corse  il  Sol  tre  volte, 

di  là  dov'ha  per  cuna  aurato  il  Gange 

fin  là  dove  ha  per  tomba  aurato  il  Tago, 

ch'accostammo  le  prore 

a  quelle  un  tempo  si  felici  piagge, 

che  de  la  dea  più  bella 

furon  delizia  e  cura. 

Or  soffrendo  l'impero 

di  barbaro  tiranno 

sono  più  che  ad  Amor  soggette  a  Marte; 

pur  mostran  ne  l'aspetto 

placida  amenità,   ch'alletta  il  guardo 

a  rimirar  colà  fiorito  un  prato. 


CIRO    DI    l'ERS  383 

qua  verdeggiante  un  bosco, 

quinci  un'aprica  collinetta  e  quindi 

una  riposta  valle, 

in  cui  serpeggia  un   fiumicel  lascivo, 

che  'n  fra  smeraldi  teneri  confonde 

i  susurranti  suoi  fugaci  argenti, 

che  sembran  dire:  —  Anco  qui  regna  Amore.  — 

Qui  Pafo,  o  pur  di  Pafo 

si  vider  le  vestigie  e  d'Amatunta; 

qui  Curio  s'additò,   qui  Salamina. 

Drizzati  poscia  altrove  i  legni  erranti, 
fummo  di  Siria  a  quei  beati  lidi, 
che  di  sante  vestigie  il  re  del  cielo 
impresse  già,   mentre  l'umane  colpe 
trasse  seco  a  morir,   fatto  mortale. 
Qui  del  Tabor,  qui  del  Sion  le  cime, 
qui  del  sacro  Oliveto  e  del  Carmelo 
inchinai  riverente,   e  fra  me  stesso 
piansi  di  sdegno  che  per  nostro  scorno 
calchi  con  pie  profan  barbara  gente 
quei  lochi  santi,   e  par  che  ciò  non  caglia 
a  quei  che  sovra  il  popolo  fedele 
tengon  gli  scettri,   e  poi  ciascuno  a  gara 
vuole  con  vano  ambizioso  nome 
dirsi  re  di  Sion,  dove  non  hanno 
se  non  chi  prende  i  loro  fasti  a  scherno  ! 
Nelle  fenicie  piagge 
dapoi  vidi  Sidone  e  vidi  Tiro, 
che  già  pescar  nel  margine  vicino 
le  pregiate  conchiglie 
onde  il  manto  tingean  gli  antichi  regi. 
A  le  falde  del   Libano  frondoso 
Giulia  felice  e  Tripoli  si  scorse, 
indi  Seleucia  di  Pieria,  ed  indi 
Alessandria  minore 
entro  l'issico  seno; 


384  LIRICI    MARINISTI 

di  dove  poi  prendendo 

a  tergo  il  Sol  nascente 

si  scorse  lungo  la  Cilizia  e  lungo 

la  Panfilia  vicina; 

e  poi  di  Licia  e  poi  di  Caria  i  lidi 

si  costeggiar.   Quivi  si  prese  un  legno 

degl'infidi  nemici, 

di  ricche  merci  onusto; 

ed  altri  due  pur  dianzi, 

vinti  sol  dal  timore, 

fatti  eran  nostra  preda. 

Quivi  deserto  un  porto, 

il  quale  un  di  n'accolse, 

alla  vista  n'offerse 

d'Alicarnasso  le  ruine  sparte, 

e  de  la  vasta  mole 

onde  Artemisia  volle 

del  marito  onorar  le  nobil  ossa. 

Sono  i  marmi  più  fini 

troppo  fragili  basi 

in  cui  si  stabilisca  il  fasto  umano: 

quella  superba  machina,   che  valse 

stancar  cinque  scarpelli 

di  Grecia  i  più  famosi, 

or  giace  si,   eh 'a  pena 

può  dirsi  :  —  Ella  fu  quivi  ;  — 

che  tra  l'arena  e  l'erba 

è  lo  stesso  sepolcro  ancor  sepolto. 

Poscia  Rodi  si  vide, 
che  già  fu  nostra  sede;   or  vi  s'annida 
il  nemico  ottomano, 
non  so  con  qual  maggiore 
scorno,   o  di  noi  ch'alia  fatale  e  dura 
necessità   cedemmo, 
o  pur  di  chi  potea,   di  chi  doveva 
darci  soccorso,   e  da  sicura  parte 


CIRO    DI    PERS  385 

neghittoso  mirava 

de'  campioni  di  Cristo  il  gran  periglio, 

over  commosso  da  privati  sdegni 

l'arme  irritava  ambiziose,   ingiuste, 

contro  quei  che  la  fede  avean  comune. 

S'andò  poscia  a  Carfati,   ed  indi  a  Creta, 

Creta,   patria  di  Giove, 

per  ben  cento  città  superba  un  tempo; 

di  là  si  venne  ad  Epla  ed  a  Citerà, 

che  Venere  nascente 

prima  raccolse  dall'ondose  spume. 

Malea  rimase  a  destra 

ed  i  tenari  lidi 

si  videro  in  passando;   e  Sfragia  apparse, 

Corifagio  e  Metone 

s'additaron  vicini,  e  non  lontani 

i  colli  di  Messenia,  in  verso  il  polo. 

L'isola  scorsa,   che  di  Prima  ha  il  nome, 

n'accolsero  le  Strofade,  che  furo 

già  nido  infame  de  l'immonde  Arpie. 

Indi  Zacinto,   ed  indi 

ne'  lidi  cefaleni  un  ampio  poi'to; 

e  perché  Circio  irato, 

tiranneggiando  d'Anfitrite  il  regno, 

tutte  commosse  avea  l'ondose  moli, 

qui  ci  fermammo  il  terzo  sole  e  '1  quarto, 

sin  che  'I  padre  Nettuno, 

sbandite  le  tempeste  e  le  procelle, 

col  tridente  appianò  l'umide  vie. 

Traendo  allor  dall'arenoso  fondo 

l'ancora  adunca  per  gli  aperti  campi 

della  salata  Teti, 

trascorremmo  di  novo 

sin  che  riconoscemmo  amico  il  suolo 

ne  le  Calabre  spiagge;  indi  passando 

il  periglioso  varco 


Lirici  marinisti 


386  LIRICI     MARINISTI 

dove  il  roco  latrato 

s'ode  di  Scilla  infame,  e  di  Cariddi 

s'aprono  le  voragini  profonde, 

entrammo  ove  a  le  falde  di  Peloro 

de  la  bella  Messana 

con  ampio  giro  si  dilata  il  porto, 

che  da  moli  superbe  intorno  cinto 

toglie  all'antiche  meraviglie  il  vanto. 

Corsero  obedìenti 

e  in  ordin  lungo  s' adatterò  i  marmi 

ai  regi  cenni  tuoi,   gran  Filiberto, 

della  cui  stirpe  al  nobil  scettro  antico 

inchinan  l'Alpi  le  superbe  fronti. 

Dopo  qualche  dimora 
di  là  partendo,   la  felice  piaggia 
di  Trinacria  si  scorse, 
da  quella  parte  che  del  Sol  nascente 
esposta  giace  al  redivivo  raggio. 
Qui  vidi  Etna  fumante 
dal  cavernoso  seno 
vomitar,   esalar  fiamme  e  facelle; 
maraviglioso  mostro  in  cui  si  scorge 
l'ardor  unito  al  gelo, 
che  di  mezzo  alle  nevi 
sorgon  gl'incendi  e  le  solfuree  vampe 
lambendo  van  le  gelide  pruine. 
Trascorso  poi  de'  catanesi  il  suolo 
e  di  Megara,   fummo 
a  questi  un  tempo  si  felici  lidi 
di  Siracusa,  e  poscia  ove  Pachino 
frange  i  cerulei  flutti; 
e  lasciatolo  a  tergo, 
di  Malta  entrammo  il  sospirato  porto, 
mèta  de'  lunghi  e  travagliosi  errori. 

In  cotal  guisa  errante  peregrino 
cerco  fuggir  dall'amorose  cure; 


CIRO    UI    l'EKS  387 

ma  sotto  ciel  diverso 

provo  i  medesimi  influssi:   ad  or  ad  ora, 

con  dura  rimembranza, 

Nicea  mi  torna  in  mente, 

e  del  suo  nome  impresso 

d'Asia  e  di  Libia  infra  i  deserti  lidi 

più  d'un  barbaro  scoglio  insuperbisce, 

e  vidi  l'onda  a  gara 

correre  per  baciar  si  belle  note. 

Ma  già  con  rauco  suono 

le  strepitose  trombe 

ne  invitano  al  partir,   l'aure  seconde 

chiaman  le  vele;   anch'io 

men  vo  co'  gli  altri;   addio! 


XXVI 

L' ITALIA  A\'\'ILITA 
A  inonsi.scnor  Ciherardo  Saracini 

O  di  possente  impero  inclita  sede, 
Italia,   un  tempo  e  gloriosa  e  forte, 
qual  con  dure  vicende  abietta  sorte 
servii  catena  or  ti  consente  al  piede? 

Per  opra  già  del  tuo  valor  guerriero 
cadde  lacera  al  suol  l'alta  Cartago, 
e  con  l'arene  tributarie  il  Tago 
i  margini  indorò  del  Tebro  altero. 

Portò  l'Eufrate  ad  Anfìtrite  in  seno 
di  pianto  prigionier  torbide  l'onde, 
e  mormorò  tra  soggiogate  sponde 
de'  latini  trionfi  il  vinto  Reno. 

E   s'  abbattuto   ogn'  altro   incontro   ostile 
ai  propri  danni  i  tuoi  furori  armasti, 
furo  i  tuoi  vizi  e  generosi  e  vasti 
e  la  tua  sceleraggine  non  vile. 


388  LIRICI    MARINISTI 

Che  duo  mal  atti  a  sopportarsi  pari 
e  men  disposti  a  rimaner  secondi, 
l'empia  discordia  de'  tartarei  fondi 
trassero  a  funestar  le  terre  e  i  mari. 

Fervidi  fùr  d'ambizioso  sdegno 
gli  emazi  campi,   del  cognato  sangue 
rigarsi  l'aste,   e  della  patria  esangue 
su  le  ruine  fabbricossi  il  regno. 

Se  '1  vinto  o  '1  vincitor  con  più  ragione 
degli  arnesi  guerrier  vestisse  il  pondo, 
fu  tra  doppia  sentenza  ambiguo  il  mondo, 
giudici  quinci  i  dèi,   quindi  Catone. 

Ah,   che  più  di  magnanimo  e  di  grande 
nulla  ritieni,   effeminata  e  molle! 
Gli  olivi  ond'altri  il  crin  cerchiar  ti  volle, 
furon  legami  e  ti  parean  ghirlande. 

Quindi,   fra  gli  ozi  d'una  ingrata  pace 
comprata  a  prezzo  d'un  umil  servaggio, 
obliato  il  valor,   spento  il  coraggio, 
di  barbaro  voler  fusti  seguace. 

Ed  or  se  i  sonni  tuoi  rompe  talvolta 
tromba  di  Marte,   impallidisci  e  tremi, 
e  neghittosa  infra  i  perigli  estremi 
agli   altrui   scettri   ogni   tua   speme   hai   volta. 

E  s' alcun  figlio  tuo  d'ardir  s'accinge, 
per  l'altrui  signoria  solo  contende 
e  sol  la  propria  servitù  difende: 
gettisi  il  brando  che  si  mal  si  stringe  ! 

Sotto  altro  nome  e  da  diversa  parte 
s'avvien  che  torni  un  Annibal  novello, 
dove  un  Fabio  sarà,  dove  un  Marcello, 
e  dove  un  Scipion,   folgor  di  Marte? 

Minacci  ampia  vorago  ampie  ruine, 
e  ciò  che  più  s'apprezza  avida  attenda; 
Curzio  s'arretri,   e  'n  vece  sua  vi  scenda 
sparso  di  molle  odor  Batillo  o  Frine. 


CIRO    DI    PERS  389 

Erri  la  destra,  e  gastigar  la  voglia 
Muzio  moderno;   avralla  forse  il  foco? 
Anzi  né  pure  il  Sol  vedralla  un  poco, 
se  non  coperta  d'odorata  spoglia. 

S'opponga  il  Tebro  tumido  e  sonante 
a  Clelia,  e  rivedrem  l'esempio  antico, 
non  già  se  d'uopo  fìa  torsi  al  nemico, 
ma  ben  se  d'uopo  fia  darsi  a  l'amante. 

Infra  i  duri  novali  esercitata 
di  Cincinnato  la  virtù  robusta 
più  non  si  piega;   alma  di  vizi  onusta 
torpe  fra  i  lussi  e  detta  vien  beata. 

Di  Curzio  e  di  Fabricio  oggi  s'onora 
l'altera  povertà  con  poca  laude; 
sol  ricchezza  s'ammira  e  '!  volgo  applaude 
al  tradimento  ancor,   s'altri  l'indora. 

Oggi  chi  pregio  vuol  d'alma  gentile 
spieghi  fra  i  lussi  altere  pompe;   a  lui 
Dedalo  sudi  a  far  palagi  in  cui 
non  vi  sia  del  padron  cosa  più  vile. 

Qui  cosi  terso  il  pavimento  splenda 
che  il  piede  di  calcarlo  abbia  rispetto, 
e  l'oro  qui,   sotto  il  superbo  tetto, 
d'un  pallido  fulgor  le  travi  accenda. 

Veggansi  qui  da  le  pareti  illustri 
di  serico  lavor  drappi  pendenti, 
ove  su  l'ostro  co'  filati  argenti 
scherzin  degli  aghi  le  vigilie  industri. 

La  mendace  di  Rodi  arte  vetusta 
qui  con  mute  bugie  schernisca  il  vero, 
e  sia  vii  prezzo  un  patrimonio  intero 
de  l'ombre  vane  d'una  tela  angusta. 

S'ornin  le  mense  e  Bacco  in  tazze  aurate 
sposi  l'alpino  gel  :   turba  di  cuochi 
sudi  ad  un  sol  palato  e  in  vari  fuochi 
stridano  l'esche  in  più  d'un  clima  nate. 


39f>  LIRICI     MARINISTI 

Aliti  nabatei  bevan  le  piume 
da  la  pigrizia  acconce,   ove  gl'impetre 
i  tardi  sonni  un  molle  suon  di  cetre, 
né  per  lui  splenda  il  matutino  lume. 

Sorga  e  ad  uso  del  crin  grande  apparecchio 
trovi  apprestato,  e  qual  novella  sposa 
l'unga,  il  terga,   il  gastighi  e  senza  posa 
il  pettine  e  la  man  stanchi  e  lo  specchio. 

Prenda  il  vestito  e  sia  di  foggia  strana, 
marchio  di  servitù  ;  gentil  lavoro 
gì' indori  il  lembo  e  serpeggiata  d'oro 
cinga  la  spada,  inutil  pompa  e  vana. 

Greggia  di  servi  a  solo  fasto  eletti, 
pari  al  vestir  di  ricchi  fregi  adorno, 
arresti  il  passo  al  di  lui  carro  intorno, 
qual  volta  avvien  ch'ei  fastidisca  i  tetti. 

Quinci  prenda  ad  ambir  titoli  vani, 
quindi  a  mercar  con  simulati  ardori 
agli  altrui  letti  ingiuriosi  amori, 
quindi  a  sfamar  mille  appetiti  insani. 

Ma  s'anco  sia  che  bellicose  lodi 
fra  duri  studi  d'usurpar  sia  vago, 
moderi  il  freno  ad  un  destrier  del  Tago 
e  lo  spinga  e  '1  raggiri  in  vari  modi. 

Su  questo  e  di  gran  piume  e  di  grand 'ori 
superbo  stringa  in  piazza  asta  dorata, 
trastullo  al  volgo;   e  la  sua  bella  amata 
plaudendo  esalti  i  non  sanguigni  orrori. 

Tali  sono,   ed  è  vero,   oggi  quei  ch'hanno 
fra  noi  più  pregio,   ond'a  ragion  mi  sdegno. 
Deh,  turbi  ornai  questo  vii  ozio  indegno 
straniero  Marte,   e  sia  beato  il  danno! 

Gherardo,  a  te  cui  de  l'aonio  monte 
cede  i  musici  imperi  il  biondo  dio, 
miei  carmi  aspersi  di  quel  fele  invio 
ond' amaro  ha  talor  Permesso  il  fonte; 


CIRO    DI    PERS  391 


acciò  tu  di  gran  corde  armi  la  lira, 
da  trarne  forti  e  generosi  accenti, 
atti  a  destar  ne  l'avvilite  genti 
nobil  vergogna  e  vie  più  nobil  ira. 


XXVII 

LE  CALAMITÀ   D'ITALL-\ 

Chi  mi  toglie  a  me  stesso? 
qual  novello  furor  m'agita  il  petto? 
chi  mi  rapisce?  Io  seguo  ove  mi  traggi, 
io  seguo,   o  divo  Apollo, 
o  vuoi  per  l'erte  cime 
del  tessalico  Pindo, 
o  su  l'amene  balze 
del  beato  Elicona, 
o  lungo  i  puri  gorghi 
dell'arcado  Ippocrenc, 
o  presso  i  sacri  fonti 
di  Permesso,   Aganippe,   Ascra  e  Libetro. 

Ecco  la  cetra  a  cui  marito  i  carmi, 
che  d'ogni  legge  sciolti 
van  con  libero  piede 
a  palesar  d'un  cor  libero  i  sensi. 

O  de  ridalie  selve 
temuto  nume,   s'io  rivolgo  altrove 
lo   stil   eh 'a   te   sacrai,    che   d'altro   a   pena 
seppe  mai  risuonar  che  de'  tuoi  vanti 
e  di  colei  del  cui  bel  ciglio  altero 
formasti  l'arco  a  saettarmi  il  petto, 
tu  mi  perdona  ed  ella; 
le  mie  querule  note 
non  parleran  d'amore. 
Lungi  da  me,   deh,   lungi 


392  LIRICI    MARINISTI 

cosi  tenero  affetto; 

un'orrida  pietà  mista  di  sdegno 

tempri  le  corde  al  mio  canoro  legno. 

Veggo  da'  fonti  uscite 
del  torbido  Acheronte 
errar  crinite  d'angui 
per  l'italico  del  le  Furie  ultrici. 

L'una,  pallida,  asciutta, 
l'ossa  a  pena  ricopre 
con  pelle  adusta,  e  le  canine  fauci 
con  radici  satolla,   ed  a  se  stessa 
i  morsi  non  perdona, 
e  falce  orrida  stringe 
con  cui  disperde  l'immatura  mèsse. 

L'altra,   tutta  stillante 
di  caldo  sangue,   il  nudo  ferro  impugna, 
e  lo  sdegno  ha  negli  occhi, 
gli  oltraggi  nella  lingua, 
nella  fronte  il  disprezzo,   in  man  la  morte. 

La  terza  atro  veneno 
vomita  da  la  gola, 

ch'ovunque  passa  impallidisce  il  suolo 
e  d'orrido  squallor  l'aere  ingombra; 
e  di  vive  ceraste 

scuote  una  sferza,   ai  cui  tremendi  fischi 
sbigottisce  l'ardire,  ed  ella  intanto 
con  orribil  trionfo 
sui  monti  de'  cadaveri  passeggia. 

Perché  il  timor  de'  numi 
ìmpari  ogni  mortale, 
questo  drappel  feroce 
quasi  in  un'ampia  scena 
negl'italici  campi 
fa  di  se  stesso  portentosa  mostra. 
Chi  può  con  occhio  asciutto 
a  spettacol  si  fiero 


CIRO    DI    l'ERS  393 

rigido  starsi,   ha  ben  ricinto  il  core 
del  più  duro  metallo,   o  chiude  in  seno 
viscere  adamantine. 

Oh  in  quante  strane  guise 
languir  si  mira  il  villanel  digiuno, 
chino  in  su  quella  terra 
che  menti  le  promesse 
e  la  speme  ingannò  de  l'anno  intero, 
chiederle  almen  la  tomba, 
se  gli  negò  la  mensa! 
Altri  alle  sorde  porte 
dell'avaro  crudele 

sospira  indarno  e  le  preghiere  vane 
termina  con  la  vita. 
Altri,  di  strani  cibi 
né  pur  tocchi  finora 
dai  ferini  palati  empiendo  l'alvo, 
per  la  morte  fuggir  la  morte  affretta. 
Altri,   mentre  pur  trova 
chi  con  tarda  pietate 
la  sospirata  Cerere  gli  porge, 
entro  gli  avidi  morsi 
lascia  la  vita.   Altri,   de  l'empia  parca 
scorto  il  fatale  irreparabil  colpo, 
cadavere  spirante 
porta  se  stesso  a  la  vorace  tomba. 

Con  qual  orror  s'ascolta, 
con  qual   orror  si  mira, 
da  furor  inuman  barbara  gente 
spinta  al  sangue,  a  le  prede, 
mischiar  stragi  e  ruine, 
e  per  lieve  cagione 
l'armi  dovute  a  vendicar  gli  oltraggi 
del  fero  usurpator  dell'Oriente 
volger  contro  a  se  stessi 
quei  che  del  vero  Dio  vantan  la  legge! 


394  LIRICI    MARINISTI 

Duro  a  veder  ne'  campi, 
ove  già  lieto  il  mietitor  solca 
di  Cerere  maturi 

raccorre  i  doni  e  l'animate  biade, 
mieter  la  morte  ed  ingrassar  col  sangue, 
spaventosa  cultrice, 
le  zolle  abbandonate. 

Duro  a  veder  l'ampie  città,   le  Ville, 
fatte  misera  preda 

del  vincitore  ingordo  ;   indi  gli  avanzi 
dati  alle  fiamme  e  le  delizie  amene 
de'  bei  palagi,   antico 
sudor  degli  avi,   in  breve  ora  consunti; 
e  le  sacre  a  Lieo  vigne  feconde 
potate  in  strane  guise 
da  l'indiscreto  ferro, 
si  che  mai  più  non  chieda 
da  lor,   se  non  indarno, 
o  frondi  il  maggio  o  grappoli  l'autunno. 

Duro  a  veder  su'  geniali  letti, 
prima  di  sangue  aspersi, 
le  caste  mogli  violarsi  ;   e  duro 
veder  l'amate  figlie 
immature  a  le  nozze 
fatte  ludibrio  e  scherno 
più  che  diletto  di  sfrenate  voglie; 
e  per  ischerzo  barbaro,   inumano, 
a  pena  nati  i  pargoletti  infanti 
macchiar  le  cune  d'innocente  sangue. 

Ma  più  duro  a  veder  ne'  sacri  templi, 
vano  refugio  ai  miseri,  trattarsi 
i  misfatti  più  gravi, 
e  la  votata  al  cielo 
sacra  verginità  ne'  sacri  chiostri 
a  le  celesti  spose 
con  sacrileghi  amori 


CIRO    DI    PERS 


395 


rapire,  e  dispogliando 

irli  altari  istessi,  dagli  stessi  numi 

non  astener  le  scelerate  destre. 

Ahi,  qual  dall'altra  parte 
miserabil  spettacolo  mi  tragge, 
ove  la  peste  orrenda 
diserta  le  cittadi?  A  cento  a  cento 
cadon  gli  egri  mortali 
d'ogni  età,  d'ogni  sesso  e  d'ogni  grado, 
cui  nulla  giova  l'arte 
del  buon  vecchio  di  Coo, 
con  quante  man  perita 
svelle  radici  in  Ponto, 
e  con  quanti  raccoglie 
ricchi  sudor  dagli  arbori  di  Saba; 
anzi  il  medico  stesso 
cade  nell'opra  e  i  propri  studi  accusa, 
si  che  ognun  fatto  accorto 
che  nell'altrui  soccorso  è  il  proprio  danno, 
fugge,   ma  spesso  indarno, 
chT  prevenuta  è  dal  malor  la  fuga. 

Non  v'  è  nodo  di  fede 
che  con  l'amico  infermo 
stringa  l'amico,   o  col  padrone  il  servo; 
anzi  all'estremo  passo, 
privo  ognun  di  conforto, 
non  ha  l'antico  padre 
pur  un  de'  figli  a  cui 
dia  gli  ultimi  ricordi, 
o  che  gli  serri  con  gli  estremi   uffizi 
i  moribondi  lumi, 
e  la  canuta  madre 
cerca  indarno  con  gli  occhi, 
che  dèe  chiuder  per  sempre, 
la  sua  diletta  prole; 
ma  si  fugge,  s'aborre 


390  LIRICI     MARINISTI 

dal  figlio  il  genitore, 

dal  genitore  il  figlio; 

e  da  la  casta  moglie 

s'oblia  l'ardor  pudico 

verso  il  caro  marito, 

parte  già  di  se  stessa. 

Solo  spavento,  invece 

de'  già  si  dolci  affetti 

di  carità,   d'amore, 

entro  le  menti  sbigottite  alberga. 

Son  muti  i  fòri  e  sono 
l'officine  oziose, 
ogn'arte  abbandonata; 
la  mèsse  già  matura 
entro  i  campi  negletti 
l'agricoltore  oblia; 
e  sui  tralci  pendenti 
del  dolce  ismenio  nume 
lascia  invecchiare  inutilmente  i  doni  ; 
lascia  senza  custode 
andar  la  greggia  errando, 
inerme  preda  ai  fieri  lupi  ingordi. 
Di  ragunar  tesori 
la  sollecita  cura 

oblia  l'avaro;  e  l'iracondo  oblia 
gli  antichi  sdegni,  e  degli  amati  lumi 
non  apprezza  il  lascivo  i  dolci  sguardi, 
rivolgendo  i  sospiri  a  miglior  uso. 
■^  Per  le  vie  già  frequenti  e  per  le  piazze 

già  strepitose  alto  silenzio  intorno 
e  strana  solitudine  s'ammira, 
se  non  se  'n  quanto  ad  or  ad  or  si  scorge 
senza  pompa  funebre 
portarsi  in  lunghe  schiere 
a  sepellir  gli  estinti. 
Sceglie  le  tombe  il  caso,   onde  ciascuno 


CIRO    DI    PKRS  397 

fra  ceneri  straniere 

nel  sepolcro  non  suo  confuso  giace; 

ma  gran  parte  insepolta 

ingombra  i  campi  intorno, 

o  di  rapido  fiume 

si  raccomanda  a  l'onde, 

ésca  al  pesce,  alla  fera, 

se  i  cadaveri  infetti 

non  abborrisce  ancor  la  fera  e  '1  pesce. 

Né  pur  con  una  sola 

lacrima  s'accompagna 

il  folto  stuol  de'  miseri  defonti, 

poscia  che  lo  spavento 

ha  nelle  luci  istupidito  il  pianto. 

O  già  si  bella  Italia  e  si  felice, 
ah  quanto,   oimè,   da  quella 
diversa  sei  !   da  quella  che  solca 
con  dilettosa  invidia 
vagheggiarsi  dai  popoli  stranieri  ! 
D'ogni  miseria  colma, 
spettacolo  doglioso  a  l'altrui  vista 
t'offri,   a  mostrar  ch'in  terra 
ogni  felicità  passa  fugace. 

Santi  numi  del  cielo, 
ch'onnipotenti  e  giusti 
con  providenza  eterna 
le  vicende  ordinate 
de  le  cose  mortali, 
io  non  mi  volgo  a  voi  ; 
so  ben  che  i  nostri  errori 
son  gravi  si  ch'in  paragon  leggère 
s'han  da  stimar  le  pene. 

Ma  ben  mi  volgo  a  voi,   numi  terreni, 
a  voi  che  de  l'Europa  il  fren  reggete, 
e  che  dai  seggi  eccelsi 
date  le  leggi  al  popolo  ch'adora 


39^  LIRICI     MARINISTI 

con  vero  culto  deità  non  falsa. 

Poscia  che  i  vostri  immoderati  affetti 

e  quella  poco  giusta  arte  d'impero, 

che  voi  chiamar  solete 

ragion  di  Stato  e  gelosia  di  regno, 

sono,  a  chi  il  dritto  mira, 

in  gran  parte  cagion  di  tanti  mali. 

Tu  che  sostieni  il  glorioso  scettro 
dell'impero  roinan,  tu  che  correggi 
con  la  destra  possente 
la  gran  Germania,   al  cui  valor  sovrano 
serva  è  fortuna,   obbediente  il  fato; 
tu  che  a  tanti  rubelli 
depor  facesti  il  pertinace  orgoglio, 
tu  che  i  santi  disdegni 
rivolti  avevi  a  fulminar  sugli  empi, 
che  con  rito  profano 
tolgon  l'antico  culto  ai  sacri  altari; 
perché  tronchi  nel  mezzo 
un'opra  si  magnanima  e  si  giusta? 
Qua!  di  ministro  infido 
consiglio  interessato 
ti  fa  stimar  più  degno 
de  l'ire  tue  sul  Mincio  un  tuo  vassallo, 
che  fuor  che  '1  regno  avito, 
per  legge  a  lui  dovuto  e  per  natura, 
altro  non  chiede?  E  se  dimostra  in  questo 
forse  minor  la  riverenza  in  parte 
che  a  te  si  deve,  è  tanta 
però  la  colpa,   che  mandar  convegna 
cento  barbare  squadre 
nei  campi  ausoni  a  comperar  la  morte 
a  prezzo  di  ben  mille 
stragi,   ruine,  violenze,   furti, 
rapine,   incendi,   sacrilegi  e  stupri? 
e  (quel  che  fa  più  giusti 


CIRO    DI     l'ERS  399 

miei  gridi)  a  seminar  gli  empi  veneni 

de  l'idra  di  Lutero  e  di  Calvino, 

onde  s'infetti  (ah,  noi  permetta  il  cielo!) 

la  bella  Italia,   eh' è  maestra  e  madre 

de  la  relig'ion  verace  e  santa? 

E  poi,   se  '1  turco  infido 

ti  spezza  la  corona 

degli  ungarici  regni  in  su  la  fronte, 

e  per  sé  ne  ritien  la  miglior  parte, 

non  par  che  te  ne  curi  ! 

In  contro  lui  t'adira; 

è  colà  degno  campo 

a  tua  possanza,   a  tua  fortuna  augusta. 

Che  tardi  a  vendicar  gli  antichi  oltraggi? 

Non  son,   non  son  giganti 

i  traci,   no.   San  paventar  la  morte 

anch'essi,  e  san  fuggendo 

a  vergognose  piaghe  esporre  il  tergo. 

Tu  che  a  la  Francia  imperi, 
invitto  re  de' bellicosi  Galli; 
tu  cui  fin  nella  culla 
fanciulleschi  trastulli 
furo  i  guerrieri  arnesi, 
nutrito  all'ombra  de'  paterni  allori, 
da  la  cui  forte  destra 
se  piantate  non  son,   fiorir  non  sanno 
le  marziali  palme; 
ben  da  giust'  ira  spinto 
l'armi  vittoriose 

finor  movesti,   o  se  dall'empie  tane 
scacci  il  rubello  o  i  profanati  templi 
ritorni  al  vero  culto  o  se  soccorri 
l'amico  oppresso.   Ah,   qui  l'impeto  affrena; 
né  d' italici  acquisti 
pensa  a  glorie,   minori 
del  vasto  animo  tuo.  Volgi  la  mente 


400  LIRICI    MARINISTI 

de'  tuoi  grand'avi  alle  famose  imprese; 

essi  per  simil  opre 

non  salir  de  la  gloria  all'erte  cime, 

ma  perché  su  l'Oronte  e  sul  Giordano 

trofei  piantàro  e  gloriosi  e  santi, 

e  di  palme  idumee  cinser  le  chiome. 

Là  t'invitan  gli  esempi, 

ti  chiaman  là  quei  generosi  spirti 

che  nutri  in  sen,   di  nobil  fama  ingordi. 

Non  sa  sperar  altronde 

che  dal  franco  valor  giusta  vendetta 

da  tanti  oltraggi  e  tanti 

la  sacra  tomba.   A  servitù  profana 

tolta  due  volte  l'ha  gallico  ardire: 

or  serba  a  la  tua  fronte  il  terzo  alloro. 

Vanne  e  'n  quel  sacro  marmo 

con  la  tua  spada  intaglia 

il  titolo  di  giusto, 

se  poscia  vuoi  che  si  registri  in  cielo. 

,Tu,  gran  monarca  ispano, 
che  di  cento  corone 
gravi  la  fronte,   al  cui  possente  scettro 
più  d'un  mondo  s'inchina, 
che,  se  dal  ciel  scendesse 
teco  a  partir  l'impero 
della  mole  terrena  il  sommo  Giove, 
più  da  lasciar  che  da  pigliare  avresti  ; 
tu,   che  quando  il  Sol   nasce  e  quando   more, 
a  lui  presti  la  cuna,   a  lui  la  tomba; 
a  che  dar  loco  a  cosi  bassa  cura, 
fra  i  tuoi  vasti  pensieri, 
di  creder  che  t'importi 
eh 'un  più  eh 'un  altro  regga 
ne'  lombardi  confin  poche  castella, 
si  che  tutti  i  tuoi  fulmini  apparecchi 
contro  il  signor  di  Manto 


CIRO    DI    PERS  401 

cui  tu  dovresti  a  pena 
degnar  de'  tuoi  magnanimi  disdegni? 
Almen,  se  non  ti  preme 
che  il   Belga  ribellante 
schernisca  già  tant'anni 
le  tue  giust'ire,   a  l'Africa  ti  volgi. 
Ella  ti  siede  a  fronte 
pur  lungo  tratto  e  teco 
antichi  odi  professa  e  spesso  ardisce 
mandar  pochi  corsari 
a  depredar  de'  regni  tuoi  le  sponde. 
Se  colà  volgi  l'armi, 
i  tuoi  guerrieri  allori 
ne  la  terra  e  nel  cielo 
germoglieran  frutti  di  gloria  eterni. 
Tu,  veneto  Leon,   tu  che  raffreni 
con  giusto  impero  i  flutti 
d'Adria,   tu  che  fuggendo 
delle  spade  barbariche  l'oltraggio, 
con  pacifiche  leggi 
sovra  l'onde  incostanti 
stabil  sede  fondasti  a  regno  eterno, 
ov'han  fido  ricovro  i  grandi  avanzi 
della  famosa  libertà  latina; 
deponi  omai,   deponi 
l'antica  gelosia.   Forse  non  hanno 
i  possenti  vicini 
tanto  le  voglie  ingorde 

d'aggrandir  co' tuoi  danni;   o  se  pur  l'hanno, 
il  ciel  eh'  ha  di  te  cura, 
renderà  vani  i  loro  ingiusti  sforzi. 
Mentre  esser  puoi  delle  tragedie  altrui 
spettator,   non  ti  caglia 
entrar  in  scena  a  recitar  la  parte; 
riserba  i  tuoi  tesori  a  miglior  uso, 
fin  che  tramonti  l'ottomana  luna. 

Lirici  inarinisti  —  26 


402  LIRICI    MARINISTI 

che  dal  sublime  punto 

le  rintuzzate  corna 

ornai  piega  declive  inver'  l'occaso; 

allor  ne'  greci  regni 

offriransi  al  tuo  crin  ben  cento  allori. 

Intanto,  già  che  brama 

teco  l'aquila  augusta 

stringer  nodo  di  pace, 

tu  '1  dèi  gradir,   che  forse 

vuol  ragion  che  congiunta 

sia  col  re  delle  fere 

la  regina  del  popolo  volante. 

Tu,   regnator  dell'Alpi, 
che  quinci  stendi  nell'Italia  e  quindi 
l'antico  scettro  ne  la  Francia,  ah  tanto 
non  t'alletti  la  pompa 
de'  paterni  trofei,   che  non  raffreni 
gli  spiriti  magnanimi  e  feroci 
ch'altro  apprezzar  non  sanno 
che  bellicose  palme  ! 
Deh,  lascia  che  riposi, 
dopo  tanti  travagli, 
all'ombra  sospirata 
di  pacifiche  olive 
il  tuo  popol  divoto, 
finché  più  nobil  tromba 
a  ricalcar  ti  chiami 
l'orme  de'  tuoi  grand'avi  in  Oriente. 

Ma  tu,   del  Vatican  pastor  sublime, 
padre  comun  che  premi  il  trono  santo 
che  più  d'ogni  altro  in  terra  al  ciel  s'appressa, 
so  ben  ch'ogni  tua  cura 
rivolgi  all'util  nostro; 
so  ben  che  i  tuoi  pensieri 
altro  oggetto  non  hanno 
che  '1  servigio  di  lui,   che  tra'  mortali 


CIRO    DI    l'ERS 


403 


in  sua  vece  t'ha  posto; 

e  so  che  l'api  tue, 

per  fabricar  favi  di  pace  in  terra, 

favi  di  gloria  in  cielo, 

entro  i  prati  fioriti 

de  le  potenze  umane 

cercan  diversi  fiori, 

né  volan  solo  ai  gigli, 

coni 'altri  pensa.   Cosi  il  cielo  ascolti 

i  santi  voti  tuoi,   si  che  tu  scorga 

la  tua  diletta  greggia, 

sommerso  in  Lete  ogni  privato  sdegno, 

passar  con  voglie  unite 

nell'Asia  a  racquistar  gli  antichi  ovili, 

e  l'abbattuta  croce 

a  raddrizzar  sul  Tauro  e  sul  Carmelo. 
Arresta,  o  cetra,  i  carmi; 

troppo  lungo  è  '1  mio  canto;  io  qui  t'appendo, 

non  come  pria  d'un  verde  mirto  ai  rami, 

ma  d'un  secco  cipresso, 

per  non  toccarti   fin  che  non  si  mostri 

il  cielo  udir  placato  i  voti  nostri. 


XXVI  li 

LA  PREDESTINAZIONE 

O  muse,  o  voi  ch'ove  '1  Castalio  inonda 
bever  torbidi  umori  a  sdegno  avete, 
ma  del  sacro  Giordan  lungo  la  sponda 
v'è  diletto  appagar  più  nobil  sete; 

datemi  note  ad  abbassar  possenti 
l'orgoglio  ond'uomo  in  suo  voler  si  fida, 
e  si  crede  appressar  gli  astri  lucenti 
se  sua  cieca  ragion  prende  per  guida. 


404  LIRICI     MARINISTI 

Ah,   che  gli  occhi  deirahiia  adombra  a  l'uomo 
caliginoso  orror  di  nebbia  inferna; 
fé' che,  la  destra  all'interdetto  pomo 
stendendo,  offese  la  giustizia  eterna. 

Quinci  da  false  imagini  di  bene 
deluso,   ognor  va  d'uno  in  altro  errore, 
né  pur  in  mente  un  sol  pensier  gli  viene 
che  l'inviti  a  calcar  strada  migliore. 

Né  forza  ha  d'eseguir  quanto  comanda 
la  sacra  legge  del  verace  nume, 
se  divino  favor  dal  ciel  non  manda 
di  grazia  in  lui  non  meritato  lume. 

Allor  col  proprio  arbitrio  al  ben  ch'intende, 
e  volontario  e  libero  si  move; 
allor  per  l'erta  faticosa  ascende, 
che  sono  a  sciolto  pie  facili  prove; 

allor  declina  i  precipizi,   allora 
fugge  i  delitti  infra  i  diletti  ascosi  ; 
non  han  per  lui  sirene  arte  canora, 
non  han  per  lui  vaghezza  ostri  pomposi. 

Tutto  in  virtù  di  quell'interna  aita, 
eh 'a  suo  piacere  il  gran  motor  dispensa, 
dagl'influssi  di  lui  l'anima  ha  vita, 
egli  la  pasce  ad  invisibil  mensa. 

Nulla  abbiam  che  sia  nostro;  il  vanto  cessi 
d'un  retto  oprar,   d'una  costante  fede; 
diasi  sol  lode  a   Dio;   da  lui  concessi 
tai  doni  son,   né  merto  alcun  precede. 

L'alto  voler  di  Dio,   prima  che  l'ali 
spiegasse  il  tempo  a  infaticabil  volo, 
avea  descritto  entro  gli  eterni  annali 
gli  eletti  ad  abitar  la  sovra  il  polo. 

A  questi  ei  preparò  gli  empirei  seggi, 
a  quesù  agevolò  gli  aspri  sentieri  ; 
tu  che  ti  fidi  in  tuo  poter,   vaneggi  ; 
giunger  là  senza  scorta  indarno  speri. 


CIRO    D!     PERS  405 

Ben  ha  folle  pensier  chi  si  promette 
più  di  sé  che  di   Dio.   Fidiamci  in   Lui, 
e  stimiam  libertà  ciò  ch'ei  commette 
pronti  eseguir,  se  troviam  forze  in  nui. 

Dannasi  l'empio:  è  di  giustizia  effetto. 
Salvasi  il   giusto:   è  di  clemenza  dono. 
Questo  è  da  diva  man  guidato  e  retto, 
quei  lasciato  a  se  stesso  in  abbandono. 

—  Non  viene  a  me,  non  viene  alcun,  se  tratto 
non  è  dal  Padre  mio.   Prestisi  fede 
alle  voci  del  vero:   alcun  affatto 
mai  non  perdei  di  quei  ch'egli  mi  diede.  — 

Si  disse  il  Verbo.   È  temeraria  inchiesta 
del  consiglio  divin  cercar  ragione, 
perché  quella  a  sé  tragga  e  lasci  questa 
alma  cader  ne  l'infernal  prigione. 

D'infinito  saper  scarsa  misura 
son  pochi  raggi  d'intelletto  umano. 
Quanti  a  noi  la  sensibile  natura 
secreti  asconde,   e  '1  ricercarli  è  vano! 

Ei,  che  del  eie!  le  stelle,   ei  che  l'arene 
numerate  ha  del  mar,   solo  comprende 
perché  patisce  l'un  dovute  pene, 
e  l'altro  a  premi  non  dovuti  ascende. 

Ma  non  quinci  al  peccar  porgan  licenza 
sciocchi  argomenti,    e  dica  alcun:  —  L'abisso 
o  '1  ciel  m'attende,   né  cangiar  sentenza 
puossi  di  quel  ch'eternamente  è  fisso. 

Perché,  duro  a  me  stesso,  ognor  co'  prieghi 
inutilmente  ho  da  stancar  gli  altari, 
se  '1  decreto  del  ciel  non  fia  ch'io  pieghi, 
quando  a  me  pene  o  premi  egli  prepari  ? 

Dunque,   fia  meglio  a'  lieti  scherzi  intento 
passar  con  Bacco  e  con  Ciprigna  il  giorno, 
e  '1  fugace  piacer  stringer  contento, 
di  tempestive  rose  il  crine  adorno.  — 


4o6  LIRICI     MARINISTI 

Stolto,   non  t'ingannar!   Ciascun  l'inferno 
col  suo  voler,   col  suo  poter  s'acquista; 
e  la  colpa  onde  merchi  il  danno  eterno 
destinata  non  è,  ma  sol  prevista. 

Ma  per  salire  al  ciel  non  solo  i  fini, 
ma  i  mezzi  ancor  son  preparati  ;   a  Dio 
sol  ne  guida  un  sentier;   mentre  il  cammini, 
forse  puoi  dir:  — Son  degli  eletti  anch'io.  — 

Ma  se  per  altra  via  t'inoltri,   oh  quanto 
hai  ragion  di  temere!   e  'n  fra  i  timori 
d'un  danno  eterno,  ancor  ti  darai  vanto 
di  goder  liete  mense  e  lieti  amori? 

Amareggiati  e  miseri  contenti, 
che  dalla  via  del  ciel  tranno  in  disparte  ! 
Deh,   stiam  quanto  si  puote  al  cielo  intenti, 
grazie  rendendo  a  chi  '1  poter  comparici 

Di  divina  rugiada  il  seno  asperso 
ne'  dotti  fogli  suoi  cosi  ragiona, 
a  le  bestemmie  di  Pelagio  avverso, 
il  saggio,   il  santo,   ond'è  famosa  Ippona. 


X 


GIUSEPPE  BATTISTA 


I 

GLI  OCCHI  BELLI 

Esca  dalla  sua  cuna  e  goda  il  giorno 
di  ricondur  per  suo  fanale  il  sole; 
pieghi  l'ale  la  notte  ed  apra  intorno 
tremole  faci  in  su  l'eterea  mole; 

de'  vaghi  rai  fra  la  minuta  prole 
fregi  Dittinna  il  luminoso  corno; 
che  costei  tutto  il  bello  adunar  suole 
negli  occhi  suoi,  d'ogni  splendore  a  scorno. 

Oh  qual  hanno  due  luci  in  sé  valore! 
Talora  l'apre  ed  ha  le  Grazie  ancelle, 
talor  le  chiude  ed  ha  legato  Amore. 

Le  fisa  al  mare  e  '1  mar  non  ha  procelle, 
l'abbassa  al  suolo  e  '1  suol  produce  il  fiore, 
l'innalza  al  cielo  e  accresce  il  ciel  le  stelle. 


4IO  LIRICI    MARINISTI 

II 

L'INNAMORATO   DEL  RITRATTO 

Oh,  chi  me  '1  crede?   Io,  che  delusi  amore, 
sotto  il  giogo  d'amor  mi  trovo  avvinto, 
e,   quel  che  sembra  a  me  scorno  maggiore, 
da  simolacro  inerme  oggi  son  vinto. 

Già  mi  vela  il  pensier  lino  dipinto, 
adombrata  beltà  m'adombra  il  core, 
sento  da  finta  immago  ardor  non  finto, 
e  mi  dà  vivo  duo!  morto  colore. 

Ho  tutti  a  cieca  larva  i  voti  intenti, 
tributo  a  sordo  nume  i  miei  sospiri, 
narro  ad  idolo  muto  i  miei  lamenti. 

Cosi  non  han  conforto  i  miei  martiri, 
refrigerio  non  provo  a'  miei  tormenti, 
e  rimedio  dispero  a'  miei  deliri. 


Ili 
L'AMANTE  E  LA  CICALA 

Del  viver  mio  l'insolito  tenore 
pur  troppo  al  tuo  la  somiglianza   ha  vera, 
o  tu,   che  flagellando  ale  sonore 
sei  de  le  bionde  ariste  atra  furiera. 

Tu  sei  de'  boschi  abitatrice  altera 
ed  io  d'ermi  recessi  amo  l'orrore; 
tu  delle  membra  tue  la  spoglia  hai  nera, 
a  me  tinge  l'aspetto  egro  pallore. 

Talora  hai  tu  dal  ferro  il  petto  inciso 
di  parto  arderò,  ed  io  dall'arco  intanto 
porto  del  dio  eh 'è  cieco  il  cor  diviso. 

Agli  ardori  del  Sol  tu  formi  il  canto 
ed  io  le  mie  querele  a'  rai  d'un  viso; 
tu  vivi  di  rugiada  ed  io  di  pianto. 


GIUSEPPE    BATTISTA 
IV 

LA  MORTE  DEL  MARITO 

Stilla  per  gli  occhi  in  lagrime  stemprato 
su  lo  spento  consorte  Irene  il  core; 
a  tragedia  si  mesta  anch'io  turbato 
verso  dalle  pupille  un  mar  d'umore. 

Ella  sente  gran  pena,  io  gran  dolore, 
troppo   ella   amando,    io   non   essendo   amato; 
la  falce  ella  di  Morte,   ed  io  d'Amore 
maledico  lo  strale  avvelenato. 

Io  cerco  a  lei,  ed  ella  al  cielo  aita; 
ella  l'estinto  suo  brama  risorto, 
io  ch'in  lei  la  pietà  rinasca  in  vita. 

Ella  a  ragion  si  lagna,  io  non  a  torto; 
celebriamo  cosi,   coppia  smarrita, 
io  l'esequie  d'un  vivo,  ella  d'un  morto. 


V 

AL  FIUME  SEBETO 

Liquido  specchio  della  vaga  Irene, 
Sebeto  mio,   ne'  cui  tranquilli  umori 
il  suo  volto  vagheggia,   e  i  biondi  errori 
dell'aurea  chioma  ad  emendar  sen  viene; 

ti  facciano  cosi  le  sponde  amene 
pallidi  mirti  ed  immortali  allori, 
e  fregino  le  gemme,  ornino  gli  ori 
le  tue  superbe  e  gloriose  arene; 

quando  ella  rieda  in  sugli  albori  eoi, 
turba  dell'acque  tu  la  mole  ondosa, 
né  la  mostrino  bella  i  gorghi  tuoi. 

Forse,  di  sua  beltà  non  più  fastosa, 
quanto  parrà  deforme  agli  occhi  suoi, 
tanto  alle  voglie  mie  sarà  pietosa. 


41X 


412  LIRICI    MARINISTI 

VI 

LA  BUGIARDA 

Nice,   qualora  il  suo  pensier  mi  spiega, 
ogni  parola  è  di  bugie  vestita; 
quando  ella  mi  discaccia,   allor  m'invita, 
e  quando  mi  minaccia,   allor  mi  prega. 

Ora  pietà  promette,   ora  la  nega, 
ed  ora  m'abbandona,   ora  m'aita; 
mesta  e  lieta  mantiene  a  me  la  vita, 
e  mi  discioglie  allor  quando  mi  lega. 

Dopo  tante  menzogne,   alfin   m' in  luce 
a  non  amarla  più  giusto  furore, 
benché  beltà  celeste  in  lei  riluce. 

Poi  dico  :  —  Il  non  amarla  è  grave  errore  ; 
che  se  la  veritate  odio  produce, 
dritto  è  che  la  bugia  produca  amore.  — 


VII 

AMORE  E  DOLORE 

Oh  della  fede  mia  bianchi  trofei  ! 
Nelle  felicità  son  fatto  un  dio. 
Madonna  m'ama,  amo  madonna  anch'io, 
né  diletto  maggior  bramar  saprei. 

Sono  spiriti  suoi  gli  aliti  miei: 
penso  col  suo  pensier,  pensa  col  mio, 
tempra  con  la  mia  voglia  il  suo  desio, 
vive  in  me  trasmigrata,   io  vivo  in  lei. 

Le  sue  bellezze  alla  mia  fame  espone, 
e  godo  il  mio  bel  sole  al  di  più  fosco, 
ella  Venere  fatta,  io  fatto  Adone. 

Dell'empia  gelosia  non  bevo  il  tòsco, 
e  pur  mi  doglio  e  piango.   E  la  cagione 
del  mio  duol,  del  mio  pianto  io  non  conosco. 


GIUSEPPE    BATTISTA  413 

Vili 

CONFESSIONE  DI   POETA 

Scrivo  talor  che  m'avviluppa  un  laccio, 
narro  talor  che  mi  saetta  un  guardo; 
ma  favoloso  è  del  mio  sen  lo  'mpaccio 
e  dell'anima  mia  mentito  il  dardo. 

Crede  altri  già  eh'  io  ne'  martir  mi  slaccio, 
e  che  di  fiamme  in  un  torrente  io  ardo; 
ma  quel  foco  ch'io  mostro  è  tutto  ghiaccio, 
e  '1  martir  che  paleso  anco  è  bugiardo. 

Tra  gli  scherzi  acidali  onesto  ho  il  core, 
ed  al  garrir  di  questa  penna  giace 
sordo  il  pensier,  che  non  conosce  amore. 

Cantò  Pale  Marone  e  '1  dio  del  Trace, 
né  vincastro  trattò,   rozzo  pastore, 
né  brando  fulminò,   guerriere  audace. 


IX 

IL  MANDORLO 

Prima  cura  di  Flora,   occhio  degli  orti, 
bella  pompa  del  popolo  frondoso, 
che  portanL'O  sul  crin  fregio  odoroso 
dell'esequie  del  verno  annunzio  apporti; 

al  tuo  gaudio  garrisce  i  suoi  conforti 
l'esercito  pennuto  armonioso, 
e,   sciogliendo  da'  ghiacci  i!  suo  riposo, 
correr  il  fiume  all'oceano  esorti. 

Fa'  mostra  pur  di  tue  bellezze  altera, 
che  mentre  nel  fiorir  precorri  a  tutti, 
porti  la  primavera  a  primavera. 

Tu,   mentre   chiami   il   riso  e   scacci   i   lutti, 
maestro  sembri  alla  ramosa  schiera 
d'aprire  i  fior  che  son  furier  de'  frutti. 


414  LIRICI    MARINISTI 

X 

LA  ZANZARA 

Se  la  madre  d'Amor  dall'acque  uscio 
e  vanta  in  mezzo  all'acque  il  suo  natale, 
alla  madre  d'Amore  io  fatta  eguale 
dall'acque  vanto  il  nascimento  mio. 

Se  di  Venere  il  figlio,   il  cieco  dio, 
ha  sugli  omeri  vanni  e  porta  strale, 
anch'io  su  le  mie  spalle  innalzo  l'ale 
e  sono  di  saetta  armata  anch'io. 

Labro  che  in  due  coralli  appar  diviso 
piacemi  dì  baciare;   e  mio  conforto 
stimo  libar  le  rose  in  un  bel  viso. 

Co' miei  susurri  alle  \igilie  esorto; 
e  se  l'uomo  ferisco,   e  pria  l'avviso, 
delle  ferite  mie  si  lagna  a  torto. 

XI 

LA    GRANATIGLIA 

OSSIA    FIORE    DI    PASSIONE 

Non  più  lo  stranio  fior  Pindo  rammenti 
che  '1  nome  avea   d'un   morto   re  descritto, 
s'oggi  r  indica  pianta  ha  gli  stormenti 
della  morte  d'un  re  che  cadde  invitto; 

libro,   dove  stampar  fogli  dolenti 
il  martirio  crudel  d'un  dio  trafitto, 
e  per  narrar  d' un  dio  gli  aspri  tormenti 
vegetanti  elegie  natura  ha  scritto. 

Volle  certo  scolpir  stelo  architetto 
la  catastrofe  qui  del  suo  Fattore, 
a  scorno  mio,   che  non  la  porto  in  petto. 

La  tragedia  d'un  dio  purgarmi  il  core 
oggi  potrà  del  più  smodato  affetto, 
poiché  muto  istrione  è  fatto  un  fiore. 


GIUSEPl'K    BATTISTA  4^5 

XII 

L'ACQUA 

Latto  con  mille  poppe  e  rendo  vive 
io,   ricca  genitrice  delle  cose, 
le  querce  a  Giove,  a  Pallade  le  ulive, 
i  gigli  a  Giuno,   a  Citerea  le  rose. 

Nel  grembo  algente  o  sulle  rive  algose 
danzatrici  canore  ho  le  mie  dive; 
siano  l'ore  gelate  o  sian  focose, 
senza  l'umido  mio  vita  non  vive. 

Non  ondeggiar  quaggiù  solo  a  me  lice, 
ma  sciolgo  ancor  sul  fornice  librato 
delle  sfere  profonde  il  pie  felice. 

E  '1  Dio  che  sulle   stelle   ha  trono  aurato, 
quando  dal  sen  del  nulla  il  mondo  elice, 
gode  su  le  mie  spalle  esser  portato. 


XIII 

LA  LETTERA 

Figlia  del  mio  pensier,   nunzia  veloce, 
che  corri  senza  pie,   voli  senz'ale, 
rapida  più  che  vento  e  più  che  strale, 
e  dove  l'aere  agghiaccia  e  dove  coce; 

palesi  la  mia  mente  e  non  hai  voce, 
ordisci  tradimenti  e  sei  leale, 
erba  non  sei  di  Coleo  e  sei  letale, 
non  sei  libica  belva  e  sei  feroce. 

Spirto  de'  passi  miei,   lingua  del  core, 
mi  conduci  colà  dov'  io  non  sono 
e  chiedi  quanto  vuoi  senza  rossore. 

Delle  tue  note,   allor  che  note  sono, 
ha  la  suora  d'Encelado  minore 
ne'  vanni  il  moto  e  nella  tromba  il   suono. 


4l6  LIRICI    MARINISTI 

XIV 

LO  SCHIOPPO 

Questa  di  man  germana  opra  guerriera, 
se  di  zolfi  nitrosi  accende  il  seno 
ed  a  piombo  pennuto  allenta  il  freno, 
fulmine  par  della  tonante  sfera. 

Svena  in  mezzo  al  fuggir  partica  fera, 
benché  rapida  il  pie  scorni  il  baleno, 
e  di  sùbita  morte  atro  veleno 
porta  ne'  globi  alla  volante  schiera. 

Erutta  il  tuono  e  partorisce  il  lampo, 
fa  d'estinti  guerrieri  il  suol  fecondo 
e  di  vermiglio  umor  lastrica  il  campo. 

Lascia,   o  Morte,   la  falce,   inuti!  pondo, 
e  con   l'ordigno,   a  cui   non  giova   scampo, 
dal  mondo  impara  a  fulminare  il  mondo. 


XV 

APOLLO  E  DAFNE 

Poiché  Dafne  cangiò  le  braccia  in  rami, 
in  radici  le  piante,   il  crine  in  fronda, 
là  've  tesse  Penco  molli  ricami 
con  l'argento  purissimo  dell'onda; 

per  dar  qualche  ristoro  alle  sue  fami 
Apollo  giunge  in  su  l'erbosa  sponda, 
e  di  teneri  amplessi  in  più  legami 
la  donna,   fatta  pianta,   egli  circonda. 

Indi,  ch'altro  non  può,   sol  tanti  ottiene 
d'imprimer  baci  in  su  la  scorza  acerba, 
quante  il  fiume  vicino  involve  arene. 

Esclama  abbandonato  in  grembo  all'erba: 
—  Dafne  la  sua  durezza  ancor  mantiene, 
l'amarezza  di  prima  ancor  riserba!  — 


GIUSEPPE    BATTISTA  417 

XVI 

MEDEA 

Io  diveller  mi  vanto,   iu  crollar  posso, 
di  lingua  acherontea  con  sacri  accenti, 
a  Pelia  gli  orni  ed  a  Pirene  il  dosso, 
i  vanni  ai  grifi  ed  ai  pitoni  i  denti. 

Le  nubi  ho  accolto  e  le  procelle  ho  mosso, 
schiodato  gli  astri,  imprigionato  i  venti, 
alle  pallide  tombe  il  grembo  ho  scosso 
e  tratto  al  nostro  mondo  ho  l'ombre  algenti. 

Chiamai  quaggiù  fin  dagli  eterei  calli 
la  sorella  di  Febo,   argentea  luna, 
né  le  giovàro  i  temesei  metalli. 

Di  caligini  al  Sol  cinsi  la  cuna, 
e  dal  volo  fi'enai  gli  aurei  cavalli  ; 
ma  con  Amore  io  non  ho  forza  alcuna. 


XVII 

EROSTRATO 

Rinascete,  architetti:   incendio  insano 
i  miracoli  vostri  oggi  divora; 
l'opra  di  cento  età  disperde  un'ora, 
l'opra  di  cento  re  strugge  una  mano. 

Ecco,   per  mio  coraggio,   infiranta  al  piano 
la  macchina  miglior  l'Asia  deplora, 
e  quel  sacro  delubro,   ove  s'adora 
Delia,   deride  i  terremoti  invano. 

Vadane  a  calpestar  soglia  regale, 
e  sia  madrina  al  bambolin  di  Fella 
la  dea  che  nacque  ad  avventar  lo  strale; 

ch'io  bramo  esser  famoso,   e  sia  pur  ella, 
siasi  dell'empietà  parto  fatale, 
la  fama,   quando  è  grande,  è  sempre  bella. 

Lirici  marinisti  —  27 


4l8  LIRICI    MARINISTI 

XVIII 

GIUDITTA 

«  Saiida/a  eius  rapuerunt  oculos  eiiis  » 

Le  chiome  attorta  e  colorata  il  viso, 
passa  l'oste  nemica,   adito  chiede 
dove  il  re  degli  assiri  in  trono  è  assiso, 
la  bella  di  Manasse  unica  erede. 

Mentre  a  quella  beltà  di  paradiso 
s'abbaglia  il  sire  ed   ai   suoi  detti  ei  crede, 
ha  con  piaga  mortale  il  cor  diviso 
dai  socchi  superbissimi  del  piede. 

Poi  quando,   estinto  il  di,  gode  riposo, 
gli  recide  l'invitta  il  capo  insano, 
nel  sonno  immerso  e  di  Lieo  spumoso. 

Oh  d'amazone  ebi'ea  valor  sovrano, 
ch'Oloferne  crudel,   duce  orgoglioso, 
pria  ferisce  col  pie,   poi  con  la  mano! 

XIX 

ALLA  VERGINE 

Curvano  vago  serto  in  sul  bel  crine 
le  stelle  a  te,   che  son  del  cielo  i  fiori, 
e  del  pianeta,   onde  il  natale  han  gli  ori, 
vesti  spoglie  lucenti  e  peregrine. 

Hai  sotto  il  pie  dell'argentate  brine, 
onde  Cinzia  s'adorna,   i  puri  albori, 
ed  alla  tua  beltà,   ch'avviva  i  cori, 
servaggio  fan  le  gerarchie  divine. 

Tu,  della  mente  dell'eterno  Giove 
figlia  non  favolosa,   albergo  pio 
fusti  d'un  re  che  tutte  cose  move. 

Nel  seno  ove  le  grazie  Amore  unio, 
con  maniere  di  cielo  al  mondo  nove, 
per   scioglier  l'uomo  imprigionasti  un  dio. 


GIUSEPPE    BATTISTA  4^9 

XX 

SAN   MACUTO 

che  celebra  messa  in  mare  sopra  una  balena 

Sul  dorso  navigabile  del  mare 
stende  d'insane  scaglie  atra  la  schiena, 
che  d'alghe  lastricata  isola  pare 
al  più  cauto  nocchier,   vasta  balena. 

Qui,   curvata  d'arazzi  illustre  scena, 
sacro  ministro  innalza  augusto  altare, 
dove  rinova  in  sacrosanta  cena 
d'un  morto  dio  le  rimembranze  amare. 

Troppo  cortesi,  o  belva,  avesti  i  -cieli, 
mentre  su  le  tue  spalle  a  stuol  eh' è  pio 
voce  sacerdotal  détta  vangeli. 

Del  cumano  delfino  urna  d'oblio 
le  memorie  più  vive  al  mondo  or  celi, 
ch'ei   trasse  un  uomo,   e  tu   sostieni  un  dio. 

XXI 

BELISARIO 

Pietà  di  Belisario!   A  quella  mano, 
ch'all'ombra  delle  belliche  bandiere 
dispensava  stipendi  a  mille  schiere, 
porgi  mercede,  o  peregrino  umano! 

Della  fame  lo  rode  il  dente  insano 
e  pur  nudrito  ha  le  falangi  intere; 
stimò  termine  angusto  anco  le  sfere; 
or  Io  serra  di  selci  antro  villano. 

L'oste  guidò  nel  marziale  ardore, 
or  gli  è  scorta  vii  canna;   un  rege  ingrato 
die  si  barbara  paga  al  suo  valore. 

Chi  l'ale  della  fama  ha  d'occhi  armato, 
orfano  è  d'occhi;  e  pallido  livore 
il  fulmin  della  guerra  ha  fulminato! 


420  LIRICI    MARINISTI 

XXII 

IL  CAOS 

Macchina  mal  composta,   a  cui  non  porse 
beltà  la  forma  onde  ogni  cosa  è  bella, 
e  dove  de'  contrari  a  far  concorse 
il  popolo  guerrier  pugna  rubella; 

era  terra,   era  mar,   né  mai  si  scorse 
in  questo   errar   le   navi,   i   plaustri  in   quella; 
era  aria  ed  era  cielo,   e  mai  non  corse 
in  quell'aria,   in  quel  ciel,  turbine  e  stella. 

Una  tavola  forse  allor  parca, 
dove  man  di  natura  avea  dipinto 
di  tutte  cose  un'abbozzata  idea. 

Era  ne  l'esser  suo  mondo  indistinto, 
che  nel  difforme  seno  amor  chiudea, 
donde  il  mondo  confuso  usci  distinto. 


XXIII 

LA  MATERIA  PRIMA 

Asilo  è  di  contrari,   e  se  s'intende 
dall'intelletto,   all'occhio  altrui  non  giace; 
creata  in  tempo,   e  pur  del  tempo  edace 
non  è  mai  sottoposta  alle  vicende. 

Perché  di  forme  assenti  ardor  l'accende, 
le  presenti  ch'abbraccia  ella  disface, 
ed  è  la  fame  sua  tanto  vorace 
eh 'alle  forme  corrotte  anco  si  stende. 

Per  lei  quanto  è  per  lei  cade  distrutto, 
e,  benché  il  moto  abbia  da  sé  disgiunto, 
parte  dal  fiore  e  fa  passaggio  al  frutto. 

Fa,   né  vaga   né   brutta,   il  vago,   il   brutto; 
non  ha  divisione  e  non  è  punto; 
in  atto  è  nulla  ed  in  potenza  il  tutto. 


GIUSEPPE    BATTISTA  421 

XXIV 

IL  TEMPO 

Nacqui  e  vivo  nel  cielo,   e  pure  il  cielo 
le  mie  forze  tiranne  unqua  non  sente; 
misuro  i  moti  al  sole  e  col  mio  dente 
rodo  i  marmi  a  Numidia,   i  bronzi  a  Delo. 

Do   le   fiamme   alla   state,   al   verno   il   gelo, 
rendo  la  notte  ombrosa,   il  di  lucente, 
e  so  portar  della  mondana  gente 
rughe  alla  fronte  e  canutezza  al  pelo. 

Angue  son  io  da  mano  egizia  espresso, 
che  mordo  la  mia  coda.   Or  qual  veleno 
vomito  a'  danni  altrui  s'odio  me  stesso? 

In  tante  scene  io  mi  paleso;   appieno 
di  saper  l'esser  mio  non  è  concesso; 
quanto  si  pensa  più,   s'intende  meno. 


XXV 

DEMOCRITO  ED  ERACLITO 

Democrito,   tu  ridi  e  col  tuo  riso 
tutte  le  umane  cose  a  scherno  prendi 
e,   sia  del  fato  o  mesto  o  lieto  il  viso, 
con  lieto  viso  ogni  accidente  attendi. 

E  tu  col  mento  in  sulla  destra  assiso 
piangi,   Eraclito,   e  sempre  al  pianto  intendi; 
forse  che  quanto  è  fra  di  noi  diviso, 
lacrimosa  tragedia  esser  comprendi. 

Ma  siate  pure  al  pianto  o  al  riso  intenti, 
che  '1  riso  e  '1  pianto  a  me  rassembra  intanto 
vano  delirio  delle  vostre  menti. 

I  mali  di  quaggiù  gravi  son  tanto 
che,   per  guarir  le  travagliate  genti, 
è  vano  il  riso  ed  è  più  vano  il  pianto. 


LIRICI    MARINISTI 
XXVI 

IL  RICCO  OZIOSO 

Le  fatiche  del  bue  l'agricoltore 
copulando  a  le  sue,   frange  le  zolle, 
e  della  vite  appoggia  il  tralcio  molle 
su  le  baiule  canne  il  potatore. 

Mena  per  pascolar  l'erbe  il  pastore 
l'agnelle  al  piano  e  le  caprette  al  colle, 
e  mentre   nel   suo  luglio  il  Sol  più  bolle, 
taglia  oceani  d'ariste  il  falciatore. 

Tessitrici  non  men  vegghian  le  fanti, 
e  di  stame  filato  aurei  volumi 
sudano  industri  a  fabricarne  i  manti. 

Versando  agii  ozi  tuoi  voler  di  numi 
larga  benignità,   l'opre  di  tanti 
che  travaglian  quaggiù  tu  sol  consumi. 


XXVII 

EPITAFFIO  DI  UN  UOMO  FELICE 

Se  tutta  l'età  mia  fu  primavera, 
spopola,  man  cortese,  il  mondo  erboso, 
e  d'aurei  fiori  una  tempesta  intera 
grandina  su  la  tomba  ov'io  riposo. 

Qui  nel  sen  d'una  pietra  io  vivo  ascoso, 
che  del  mio  di  non  son  venuto  a  sera; 
mutai  sol  tempo  ove  tornar  non  oso, 
e  son  giunto  in  un  loco  ov'  io  non  era. 

Ad  altri  il  fato  ogni  diletto  annulla, 
che  le  delizie  mie  meco  ridutte 
in  questa  sepoltura  hanno  la  culla. 

Qui  l'allegrezze  mie  non  son  distrutte, 
o  pensa  tu  ch'io  mi  ricordi  nulla, 
o  pensa  tu  che  mi  sovvengan  tutte. 


GIUSEPPE    BATTISTA  423 

XXVI  li 

IL  LUSSO   DELLE  FEMMINE 

Non  ha  satolle  mai  l'avide  voglie 
donna  ch'ai  vaneggiar  l'animo  intende; 
tanti  profumi  in  su  le  chiome  scioglie, 
quanti  ne'  templi  suoi  l'arabo  accende. 

Tutto  l'oro  diffonde  in  su  le  spoglie, 
che  nelle  arene  illiriche  risplende; 
il  vasto  Eritra  in  una  mano  accoglie, 
l'intera  dote  in  un  orecchio  appende. 

Nome  di  «  mondo  »  a   tal   superbia   insana, 
che  sembra  agli  occhi  altrui  fasto  giocondo, 
die  la  gente  magnanima  romana. 

E  volle  dir,  nel  suo  pensier  profondo, 
che  nelle  pompe  sue  femmina  vana 
tutto  racchiude  epilogato  il  mondo. 


XXIX 

L'UOMO   E  LA  PACE 

Per  non  cader  squarciato  all'altrui  morso 
ha  le  zampe  falcate  il  fido  alano, 
e  se  talor  guerreggia  il  toro  iiiL?.no 
dalle  corna  lunate  ottien  soccorso. 

Unghia  laceratrice  aguzza  l'orso 
e  dente  avvelenato  il  mostro  ircano, 
l'aquila  ha  il  rostro  e  l'istrice  montano 
selva  d'acuti  strali  erge  sul  dorso. 

Ha  lorica  di  squame  il  pesce  avaro, 
arma  dedala  pecchia  ago  mordace, 
cela  serpe  crudel  veleno  amaro. 

Natura  sol,  nell'opre  sue  sagace, 
fa  l'uomo  inerme.   Ed  argomento  è  chiaro 
ch'altro  non  vuol,  se  non  ch'ei  viva  in  pace. 


424  LIRICI     MARINISTI 

XXX 

L'UTILE  DELLE  AVVERSITÀ 

Chi  nimici  non  ha,   non  vince  mai, 
e  chi  non  vince  mai  gloria  non  spera; 
d'una  luce  immortai  non  gode  i  rai, 
se  contrasto  non  ha  virtù  eh 'è  vera. 

Sarebbe  ignota  a  noi  la  man  guerriera 
d'  Ettor,   s'a  fronte  ei  non  aveva  i  grai, 
e  del  gran  filisteo  la  daga  altera 
altero  fece  il  pastorel  d'Isai. 

Chi  di  fortezza  vuol  grido  preclaro, 
con  duro  petto  alle  maligne  risse 
di  contraria  fortuna  alzi  riparo. 

Tifi  con  le  tempeste  a  sé  prescrisse 
mèta  di  fama  eterna;   e  fecer  chiaro 
i  lunghi  errori  il  peregrino  Ulisse. 


XXXI 

IL  VECCHIO 

Giunto  l'uom  di  sua  vita  al  verno  ingrato, 
di  cave  rughe  e  di  canute  brine 
ha  il  volto  arato  e  seminato  il  crine, 
per  la  gelida  man  del  vecchio  alato. 

Tremolo  i  piedi  e  gli  omeri  curvato, 
addita  le  sue  prossime  ruine; 
dell'agghiacciato  cor  le  nevi  alpine 
il  fanno  inerme  e  sol  di  lingua  armato. 

Sempre  il  nocchier  di  Stige  orrido  e  tetro 
tien  per  lui  tragittar  spalmato  il  legno, 
e  figurano  i  fabri  il  suo  feretro. 

Povero  de'  suoi  sensi  arriva  a  segno 
che  va  la  vista  a  mendicar  dal  vetro, 
e  dalle  canne  a  procurar  sostegno. 


GIUSEPPE    BATTISTA  425 

XXXII 

LA  DONNA  INVECCHIATA  NEL  GIARDINO 

Nice,   di  solchi  annosi  il  volto  arata, 
dentro  a  reggia  sabea  calcava  odori, 
e  col  volto  rugoso  a  fuga  alata 
sollecitava  i  cittadini  Amori. 

Qui,  d'ogni  stelo  alla  pittura  innata, 
del  suo  viso  piangea  gli  egri  colori, 
e,   ripensando  all'età  sua  passata, 
l'età  presente  invidiava  ai  fiori. 

Ella,   premendo  zolle  ove  non  perde 
lussuria  erbosa  mai  campo  ridente, 
vedeva  già  le  sue  fattezze  al  verde. 

Perché  la  gioventù  godean  vezzose, 
carnefice  degli  orti  impaziente, 
tutte  facea  decapitar  le  rose. 


XXXIII 

CONSIGLI  A  UN  POETA  FRETTOLOSO 

Sdegni  norme  latine,   esempli  argivi, 
qualora  di  cantar  prendi  diletto; 
scrivi  tu  mille  carmi  intempesti\i, 
allor  che  maturato  un  carme  aspetto. 

La  tardanza  è  maestra  a  chi  vuol  vivi 
gli  onori  suoi,   dove  l'onore  ha  il  tetto; 
maturità  se  nel  cantar  tu  schivi, 
chiudi  le  furie  e  non  le  muse  in  petto. 
Rodi  l'unghie  sui  fogli;   o  saran  poi 
da  carboni  più  neri  i  fogli  intatti, 
se  nemica  d'oblio  gloria  tu  vuoi. 
Pensa  che  la  testudine  tu  tratti, 
e  da  quella,   s'hai  senno,   imparar  puoi 
che  non  si  poggia  in  Pindo  a  passi  ratti. 


426  LIRICI     MARINISTI 

XXXIV 

IL  POETA  E  IL  BEVER  ACQUA 

Beva  nettare  Chio  chi  peregrino 
tester  di  sacri  carmi  esser  procura; 
chi  brama  col  cantar  gloria  futura 
fugga  gelido  rio  di  ghiaccio  alpino. 

Quel  verso,   o  sia  toscano  o  sia  latino, 
che  finge  il  bevitor  dell'onda  pura, 
piacer  troppo  non  può,  troppo  non  dura, 
e  divino  non  è  se  non  divino. 

Ennio  che  nella  tromba  ha  glorie  prime, 
e  '1  maestro  de'  lirici,  eh 'è  Fiacco, 
ebbero  da  Lieo  lo  stil  sublime. 

E  chi  stese  in  Beozia  il  pie  non  fiacco 
m'insegnò  che  Parnaso  abbia  due  cime. 
Luna  a  Febo  sacrata  e  l'altra  a  Bacco. 


XXXV 

L'IMMORTALITÀ  LETTERARIA 

Sembra  la  vita,   che  da  noi  sen  fugge, 
onda  del  Nilo  in  su  l'egizia  rena; 
sembra  fiore  sabeo  che,   nato  appena, 
turbo  lo  schianta  o  fulmine  l'adugge; 

lieve  vapor,   ch'avidamente  sugge 
il  pianeta  gentil  che  il  di  rimena; 
vampa,   che  per  lo  ciel  striscia  e  balena; 
nu'oe,  che  sul   Pirene  Euro  distrugge. 

Ma  sol  pagine  verghi  e  sparga  inchiostro 
chi  brama  eternità.   Cosi  deride 
il  velen  delia  morte  il  viver  nostro. 

More  colui  che  le  lusinghe  infide 
siegue  dell'ozio  e  dell' idalio  mostro: 
una  punta  di  penna  il  tempo  uccide. 


GIUSEPPE    BATTISTA 
XXXVI 

NEL   PARTIR    DA   NAPOLI 

durante  i  tumulti  del  1647-48 

Degli  oricalchi  ai  queruli  clangori 
schiva  gli  ozi  notturni  ancor  Cleante, 
e  d'Elicona  i  popoH  canori 
fuga  a  barbaro  ciel  bronzo  tonante. 

Io  pur  diparto,  e  cerco  i  miei  ristori 
della  madre  natia  nel  grembo  amante. 
Se  non  ebbe  di  me  gli  anni  migliori, 
vo'  che  m'abbracci  almen,   vecchio  anelante.^ 
Qui,  tutti   in   Lete  i  miei   pensieri   immersi, 
col  nume  di  Permesso  e  di  Libetro   ^ 
darò  lingua  alla  lira  e  metro  ai  versi. 

Felice  me  se  dalle  stelle  impetro 
che  le  mie  luci  chiuda  ov'io  le  apersi, 
che  dov'ebbi  la  cuna  abbia  il  feretro! 

XXXVII 

PASSANDO  PER  PUGLIA  PIANA 

Ecco  l'Aufido  io  bevo,   e  su  le  rive 
a  Cerere  sacrate  inganno  il  piede; 
qui,   per  fuggir  dall'inclemenze  estive, 
tede  non  hanno  i  camii,    ombra  le  tede. 
Messaggiera  di  piogge  aura  non  riede, 
mentre  un  sole  d'Egitto  il  di  prescrive; 
d'anima,  eh' è  caduca,  è  l'erba  erede, 
e  la  vita  prolissa  il  fior  non  vive. 

Ad  Aconzio  amator  pomo  da  ramo 
qui  non  sa  partorir  tronco  infecondo, 
dov'ei  possa  stampar:   «  Cidippe,   io  t'amo». 

Edificar  dovea  cielo  secondo 
Adamo  qui,    che  senza  colpa  Adamo 
vedrebbe  il  cielo  e  senza  morte  il  mondo. 


428  LIRICI     MARINISTI 

XXXVIII 

IL  RITORNO  AL  PAESE  NATALE 

Miro   quel   giorno   pur,   che   de'  miei   giorni 
sarà  fausto  preludio  alla  quiete, 
ed  io,  sepolta  ogni  fatica  in  Lete, 
oziosa  godrò  l'ombra  degli  orni. 

Voi,   d'inculte  boscaglie  ermi  soggiorni, 
province  po]ìolate  a  me  sarete; 
voi,   della  patria  mia  rupi  secreta, 
lusingate  a  letizia  i  miei  ritorni. 

Diedero,   della  luce  a'  primi  inviti, 
l'euro  quivi  talor,   talor  qui  l'ostro, 
aria  reciprocata  a'  miei  vagiti. 

Ecco,   di  tufi  infranti  il  picciol  chiostro 
dov'io,  per  fabricar  metri  eruditi, 
sparsi  a  note  latine  il  primo  inchiostro. 


XXXIX 

LA   VILLA 

D'api  dorate  è  qui  grappolo  folto, 
ch'abita  d'una  quercia  ermo  pedale, 
dove  dal  suon  di  rauco  rame  accolto 
vigila  al  canto  e  sonnacchiose  ha  l'ale. 

Colà,   di  canne  fluttuanti  ascolto 
su  le  sponde  d'un  rio  bosco  vocale, 
il  cui  fischiar,   che  fu  dall'aure  sciolto, 
diede  alle  melodie  rozzo  natale. 

In  mezzo,   ho  la  capanna,   e  mi  contento 
narrar  qui  fole  al  pastorel  montano, 
che  da  me  pende  ad  ascoltarle  intento. 

E  schiuda  pure  il  suo  delubro  Giano, 
ch'io   godo   pace,   e   nulla   angoscia   io   sento 
eh 'a  me  porpore  nieghi  il  Vaticano. 


GIUSEPPE    BATTISTA  429 

XL 

FILOSOFANDO  TRA  I  CIPRESSI 

Qui,   dove  un  fiume  ha  lacerato  i  sassi, 
e  cozzando  co'  sassi  il  corno  ha  infi-anto, 
m'alzo  a  pensieri  arcani  e  lascio  intanto 
all'arbitrio  del  pie  guidarmi  i  passi. 

Dal  gran  Liceo  filosofie  già  trassi, 
per  cui  trovar  nuove  dottrine  or  vanto; 
rubar  non  penso,  abbandonato   il  canto, 
l'arpa  agli  Grazi  più,   la  tromba  ai  Tassi. 

Farò,   s'arride  il  cielo  all'opra  ardita, 
da'  rami   ombrosi,    in  cui  verdeggia   impresso 
simolacro  di  morte,   uscir  la  vita. 

E  dar  potrà,   se  fu  talor  concesso 
a  un  platano  d'aprir  scola  erudita, 
principio  alle  mie  scole  anco  un  cipresso. 


XLI 

IL  CANTO   DELLA  PASTORELLA 

Dall'isola  di  Circe  usciva  il  sole, 
e  quanto  allor  per  le  sue  vie  toccava 
di  questo  mondo  in  su  la  bassa  mole, 
fatto  novello  Mida,   egli  dorava. 

Alla  greggia  lanosa  intanto  Iole 
i  velli  canutissimi  tosava, 
e  di  calte  la  fronte  e  di  viole 
alla  plebe  tosata  indi  fregiava. 

Cantò  fra  le  fatiche  e  disse:  —  O  fiori, 
allegrezza  degli  alberi  ramosi! 
O  poeti  del  bosco,   augei  canori!...  — 

Poi,   mirandomi,    tacque.   Ed  io  risposi: 
—  O  cibo  delle  orecchie,   inni  sonori! 
O  degli  occhi  armonia,   sguardi  amorosi!, 


430  LIRICI    IMARIMSTI 

XLII 

I   DOLORI  ARTRITICI 

Per  far  idolo  un  ventre  io  mai  non  tento 
turbar  l'alghe  rimote  ai  mari  eusini, 
né  dai  torchi  di  Lesbo  imploro  i  vini, 
ma  del  poco  nostrale  io  son  contento. 

E  pur   soggiaccio  ai  mali,   e   pure  io   sento 
armarsi  contro  a  me  Busiri  e  Scini, 
tutte  le  tirannie  degli  Ezzelini 
e  quanto  s'è  patito  in  Agrigento. 

Meraviglie  dirò.   Mai  non  amata 
fu  la  bella  da  me  Rachele  o  Lia, 
e  pur  senza  fallir  la  pena  ho  data. 

Siano  tutti  epuloni,   e  ciascun  dia 
larghe  indulgenze  al  genio  suo,  se  nata 
dall'astinenza  è  la  podagra  mia! 


XLIII 

IL  RITORNO   DEI   DOLORI   A  PRIMAVERA 

Or   ch'han  le   cose   esordio,   ascolto  i  venti 
alitar  per  lo  cielo  anima  molle; 
e,   sciolti  in  rio  canoro  i  ghiacci  algenti, 
ride  popolo  d'erbe  in  su  le  zolle. 

Da'  rostri  suoi  l'eroe  pennuto  estolle, 
a  cibarne  l'orecchio,   inni  languenti, 
e  dove  tiepidezza  aspetta  il  colle, 
Venere  a  provocar  vanno  gli  armenti. 

Sul  mattutino  albor  fugge  dal  tetto 
e  con  rombi  festanti  è  l'ape  or  desto 
a  depredare  il  sempre  verde  Inietto. 

Non  temono  i  Leandri  il  mar  di  Sesto, 
che  lor  promette  amenità  d'aspetto... 
Il  mondo  tutto  è  lieto,  ed  io  son  mesto. 


GIUSEPPE    BATTISTA  43^ 

XLIV 

ASPETTANDO  LA  CHIRAGRA 

In  nome  d'un  anìico 

Già  preveggo  gli  strazi  e  già  detesto 
i  proemi  d'un  duol  più  che  pungenti; 
già  preparo  una  lingua  a'  miei  lamenti 
ed  al  martirio  mio  due  mani  appresto. 

Se  '1  timor  delle  pene  è  più  molesto, 
vengano  i  miei  dolori  e  non  già  lenti; 
vengano,   ma  con  l'ale,   i  miei  tormenti, 
che  parte  è  di  pietà  l'uccider  presto. 

Insegnano  del  mal  l'acerbe  scole 
che  '1  pensiero  del  mal  un  cor  sgomenta, 
più  che  lo  stesso  male  offender  suole. 

Per  le  penne  d'altrui  più  non  si  senta 
che  piaga  antiveduta  assai  men  duole, 
che  saetta  prevista  arriva  lenta! 

XLV 

LO  STUDIO   DELLE  LETTERE 

Sudi  l'avaro.   Io  fadcar  lo  'ngegno 
per  ricchezze  barbariche  non  voglio. 
Mi  chiuda   un   tetto.   Altri   del   mar   l'orgoglio 
valichi  audace  oltre  di  Calpe  il  segno. 

Io  non  invidio  agli  Alessandri  il  regno, 
lo  scettro  ai  Ciri  ed  agli  Augusti  il  soglio, 
quando,  cinico  novo,  entro  d'un  doglio 
ho,   divorando  i  libri,   il  mio  sostegno. 

.Se  intendo  sol  come  il  divino  Apelle 
r  iri  colora  e  come  l'aere  piove 
agitato  da  stridole  procelle, 

come  immota  è  la  terra,   il  ciel  si  move, 
e  per  lo  molle  ciel  guizzan  le  stelle, 
sol  mi  reputo  inferiore  a  Giove. 


432  LIRICI    MARINISTI 

XLVI 

AI    LIBRI 

Muti  maestri  miei,   voi  m' insegnate 
come  io  debba  adorare  i  santi  numi, 
e  con  veri  precetti  a  me  mostrate 
come  io  possa  comporre  i  miei  costumi. 

I  sentieri  spinosi  a  me  segnate, 
voi,   d'Elicona,   a  delibarne  i  fiumi, 
e  d'eleganze  voi,   sciolte  o  legate, 
preziosi  rendete  i  miei  volumi. 

A  quanto  dite  voi  l'orecchie  intente 
con  diletto  disserro,   e  poi  rivelo 
io  le  vostre  dottrine  ad  altra  gente. 

Quand'io  vivo  tra  voi,   godo   il    mio   cielo; 
e  se  turba  alcun  dubbio  a  me  la  mente, 
non  cerco  sfingi  in  Tebe  o  Febi  in  Delo. 


XLVII 

INSAZIABILITÀ   D'  IMPARARE 

Un  Caucaso  di  nevi  ho  su  le  chiome 
e  precipito  gli  anni  in  occidente; 
pur  l'anima,   che  chiudo  in  scorza  algente, 
curva  non  cade  a  faticate  some. 

Alzano  a  me  le  più  faconde  Rome 
tra  le  pareti  mie  rostro  eloquente, 
e  d'una  Atene,   a  risvegliar  la   mente, 
scritto    in    picciol   museo   contemplo   il    nome. 

Quando  cosi  predestinò  la  sorte, 
per  farmi  di  dottrine  inclito  erede, 
apritemi,   licei,   le  sacre  porte. 

Chi  sa  pur  troppo  e  di  saper  non  crede, 
tra  '1  confin  della  vita  e  della  morte 
il  libro  ha  in  mano  e  su  la  tomba  il  piede. 


GICSEl'PE    BATTISTA  433 

XLVIII 

LA  SPERANZA 

A  richiesta  del  duca  di  Seiano 

Fra  le  nevi  d'un  seno 
le  sue  fiamme  nudrisca  acceso  amante; 
qui  gioir,  eh' è  baleno, 
sia  dell'anima  sua  cibo  volante, 
e  da  labro  mordace 
ei  beva  un  rio  di  nettare  fugace. 

Dalla  speranza  sola 
alimento  riceve  il  viver  mio; 
nell'amorosa  scola 
tal  m'insegna  dottrina  alato   Dio; 
la  speme  sia  mercede 
a   me,    ch'ho   puro   cor,   ch'ho   bianca   fede. 

Altri  goda  il  suo  bene, 
che  solo  di  goderlo  un  tempo  io  spero; 
siagli  cagion  di  pene 
lungo  sperar,   eh' a  me  diletto  è  vero; 
vastissimo  gigante 
fa  latte  di  speranza  Amore  infante. 

Se  '1  timor  del  morire 
rende  più  che  '1  morir  la  morte  amara, 
la  speme  del  fruire 

più  che  '1  fruire  stesso  a  me  sia  cara; 
speme  sol  di  conforto 
nell'amoroso  Egeo  m'additi  il  porto. 

Riveli  invido  il  sole 
Marte  e  Ciprigna  entro  alla  rete  altrove; 
la  bellissima  Iole 

non  invidio  ad  Alcide,   Europa  a  Giove; 
s'io  sono  amante  amato, 
nella  speranza  mia  vivo  beato. 

Lirici  marinisti  —  28 


434  LIRICI     MARINISTI 

Se  la  sete  ammorzata 
ha  bocca  sitibonda,   il  fonte  oblia; 
se  la  piaga  è  saldata, 
medica  man  si  sdegna;   e  s'amò  pria, 
desiderio  compito 
rende  bellezza  vile,  amor  schernito. 


XLIX 

LE    MERAVIGLIE    DELL'ACQUA 

Al  padre  Filippo  da  Cesena,  cappuccino 

Fonte,   che  d'un  Pegaso 
vanti  scultrice  industre  unghia  pennuta, 
e  del  sacro  Parnaso 
tagli  l'aonie  vie  con  onda  arguta, 
versa  da'  fianchi  infranti 
a  bagnarmi  le  labra  umido  rio; 
i  tuoi  garruli  pianti 
concessi  a  me,  saranno  il   Febo  mio; 
l'acqua,  che  un  tempo  encomiò  Talete, 
con  metri  ascrei  di  celebrare  ho  sete. 

La  divina  potenza 
poiché  trasse  dal  nulla  e  cielo  e  terra, 
con  la  sua  trasparenza 
l'acqua  nel  di  secondo  emerge  ed  erra; 
e,  benché  sia  distinta 
da'  compagni  elementi  e  pur  sul  dorso 
di  tenebre  dipinta 

e  scioglie  su  la  terra  ignoto  il  corso, 
lo  spirto  del  Signor,   che  non  ha  moto, 
gode  di  passeggiar  su  l'acqua  a  nuoto. 


GIUSEPPE    BATTISTA  435 

Poscia  nel  proprio  loco 
imprigiona  se  stessa  e  nome  ha  mare; 
con  istrepito  roco 

intriga  le  sue  spume  e  sono  amare, 
e  se  talor  da'  venti, 
araldi  di  tempesta,   ha  fìer  conflitto. 
i  suoi  liquidi  argenti 
non  sanno  valicar  l'orlo  prescritto; 
tra  le  fauci  singhiozza  alto  muggito, 
che  lo  stringe  fra  ceppi  un  secco  lito. 

Oh  come  sembra  lieto 
quando  increspa  i  suoi  piani  aura  clemente, 
e  con  flagel  discreto 
bacia  di  bianco  umor  scoglio  pungente! 
Su  la  fronte  canuta 
apre  le  placidezze  e  par  ch'e'  rida, 
i  piloti  saluta 

con  amico  fragore,   e  quegli  affida 
a  corredar  gli  abbandonati  pini 
e  di  remi  voganti  e  d'aurei  lini. 

Per  non  visti  canali 
dalle  viscere  erutta  umide  moli, 
che  sui  monti  ineguali, 
come  s'avcsser  penne  alzano  i  voli. 
Sul  Caucaso  nevoso 

l'Indo,  che  all'India  il  nome  diede,  ascende, 
e  da  quel  crin  selvoso 
precipita  se  stesso  e  giù  discende. 
Ha  per  balze  montane  erta  salita 
contro  il  peso  nativo  il  Tanai  scita. 

Mille  scherzi  natura 
opra  nell'acque  e  le  ragioni  asconde. 
Odio  perpetuo  giura 
contra  il  vino  chi  bee  clitorie  l'onde. 
L'acqua  di  Giove  Ammone 
cuoce  su  l'alba  e  nel  meriggio  agghiaccia: 


436  LIRICI    MARINISTI 

l'affrica  regione 

chiude  fonte  cantor,   che  i  sensi   allaccia, 
e,   se  l'umor  d'un  lago  Epiro  avventa, 
spegne  la  face  accesa,   arde  la  spenta. 

Qui  cade  un  legno  breve, 
e  diviene,   caduto,   un  sasso  grande; 
ivi  fronda,   eh' è  lieve, 
in  augello  si  cangia  e  l'ali  spande; 
e  qui  dolce  talora, 
ed  è  salsa  talor  linfa  incostante; 
bianca  gregge  colora 
ivi  di  nero  vel  Peneo  spumante, 
e  del  Galeso   mio  l'onda  sincera 
veste  di  bianche  lanegna  eh'  è  nera. 

A  consolar  la  state 
dispensa  anima  all'erba,   anima  al  fiore, 
e  prolunga  l' etate 

al  fiore,   all'erba,  il  derivato  umore. 
Dov'acqua  abbonda,   è  vivo 
tronco  al  suol,  ramo  al  tronco  e  frutto  al  ramo; 
ma  poi,   se  d'acqua  è  privo, 
e  frutto  e  ramo  e  tronco  arso  veggiamo, 
e  .se  l'acqua  non  porge  all'uomo  aita, 
cade  languido  l'uomo  e  senza  vita. 

Ubbidiente  all'arte 
talor  si  rende  e  rende  l'arte  illustre; 
l'ore  al  tempo  comparte, 
se  la  chiude  in  duo  vetri  ingegno  industre. 
In  un  filo  ristretta 
con  assiduo  viaggio  ella  giù  cade, 
e  con  caduca  fretta 
mostra  caduca  ancor  l'umana  etade; 
insegna  a  noi  ch'ogni  terrena  massa 
è  debil  filo  e  come  l'acqua  passa. 

Il  passaggio  sicuro 
al  fuggitivo  ebreo  l'acqua  concede; 


GIUSEPPE    BATTISTA  437 

s'erge  in  liquido  muro 

e  lascia  intatto  al  peregrino  il  piede. 

Siegue  Toste  d'Egitto 

e  si  finge  ai  suoi  passi  il  passo  asciutto; 

ma  sul  denso  tragitto 

rapido  scende,   e  poi  l'annega  il  flutto. 

Variando  cosi  nel  mar  la  sorte, 

vita  incontra  l'ebreo,   l'egizio  morte. 

È  lavacro  al  mio  Cristo 
l'acqua  del  bel  Giordano;   e  qui,   diviso 
mentre  il  cielo  fu  visto 
manda  pura  colomba  il  paradiso. 
Mentre  il  balen  veloce, 
e  col  tuono  il  balen  l'etra  tempesta, 
del  padre  Dio  la  voce 
esser  figlio  di  Dio  Gesù  protesta. 
Nell'acqua  palesò  l'esser  divino 
il  mio  Gesù,  quando  mutolla  in  vino. 

Su  le  cime  d'un  monte 
poich'è  confitto  in  croce  e  pende  esangue, 
versa  dal  cavo  fonte 
del  petto  lacerato  ed  acqua  e  sangue; 
e  dall'  umida  vena 

la  vista  impetra  il  feritor  eh' è  cieco; 
quando  teme  la  pena, 
allor  porta  mercè  del  fallir  bieco. 
Ma  qual  vanto  maggior?   L'acqua  cancella 
la  colpa  a  noi,   ch'originai  s'appella. 


43S  LIRICI     MARINISTI 


L 

FILOCRATE 

IN    MORTE    DI    MARIA    MADDALENA 


All'armonia  più  flebile  d'un  legno 
piacemi  disposar  metrica  voce; 
a  me  ne'  moti  suoi  genio  veloce 
di  musico  furor  scalda  lo  'ngegno. 

Amai  chi  volle  amarmi  e  chi  congiunte 
bramò  le  fiamme  mie,  le  fiamme  sue; 
fece  un'anima  sola  anime  due 
e  seppe  unir  due  volontà  disgiunte. 

Amai  la  bella  estinta,   e  gelosia 
ardenti  più  rendea  gli  amori  miei. 
Io  la  bellezza  idolatrai  di  lei, 
perché  la  sua  bellezza  era  magia. 

Per  la  beltà  di  lei  la  Grecia  tutta 
sollecitar  potea  prodi  campioni, 
e  dopo  mille  rischi  e  mille  agoni 
potea  l'Asia  dal  foco  esser  distrutta. 

Quand'ella  nasce,  alla  Betania  nasce 
di  giorno  senza  occaso  alba  giuliva, 
e  della  prima  vita  in  su  la  riva 
il  gaudio  corre  a  vezzeggiarla  in  fasce. 

Se  grondar  gli  occhi  suoi  liquido  gelo, 
se  le  fauci  temprar  singhiozzi  infranti, 
erano  que'  singhiozzi,   eran  que'  pianti 
brine  d'aurora  ed  armonie  di  cielo. 

Lasciò  la  sfera  sua  la  cipria  dea, 
e  discesa  fra'  turbini  guerrieri 
sul  plaustro  a  cui  colombe  eran  destrieri, 
venne  a  baciar  la  pargoletta  ebrea. 


GIUSEPPE    BATTISTA  439 

Le  disse  poi:  — Tu  meritavi,   o  bella, 
d'aver  meco  nell'onde  il  tuo  natale. 
S'a  me  nella  beltà  rassembri  eguale, 
la  mia  conca  era  tua;   tu,   mia  sorella.  — 

Né  pigre  sono  a  ricettarla  in  seno 
perché  le  tergan  gli  occhi  allor  che  piagne, 
della  madre  d'Amor  le  dee  compagne, 
le  dee  dell'Acidalio  e  d'Orcomeno. 

Ma  se  piangeano  gli  occhi,   in  su  la  fronte 
iride  di  letizia  apparve  il  riso; 
dal  labro,   che  in  coralli  era  diviso, 
tra  i  vagiti  alitò  mirre  d'Oronte. 

Degli  amori  pennuti  il  coro  arderò 
esultò  su  la  culla  e  sparse  rose; 
vibrò  per  l'aria  i  vanni,  e  poi  dispose 
su  lo  spazzo  alle  danze  il  i  iè  leggiero. 

La  fanciulla  schiudea  le  due  pupille 
e  nel  cielo  d'un  viso  eran  due  stelle; 
compartivano  allor  calme  o  procelle, 
quand'eran  men  turbate  o  men  tranquille. 

Al   nascer  di  costei,   della  sua  Tai 
obliò  la  beltà  l'attica  Atena, 
e  se  Aulide  non  più  vantò  Lacena, 
Corinto,   ch'ha  duo  mar,   tacque  di  Lai. 

Crebbe  con  gli  anni  e  crebbe  seco  ancora 
quella  beltà  che  bambinetta  espresse; 
dove  col  bianco  pie  vestigio  impresse, 
sul  vestigio  ridea  più  d'una  Flora. 

Scioglieva  i  suoi  capelli  ed  eran  lacci, 
lacci  per  intrigar  core  eh' è  sciolto; 
e  mentre  svolazzavano  sul  volto, 
libera  fantasia  stringeva  impacci. 

Della  cervice  i  palpitanti  avori 
godean  di  posseder  quell'ambre  intatte, 
e  della  fronte  il  più  canuto  latte 
d'aver  godeva  in  compagnia  quegli  ori. 


440  LIRICI     MARINISTI 

Depositati  all'aure,  e  fuor  de'  nastri, 
scoteano  vampe  d'or,   strali  di  foco; 
ed  allor  si  pensò  di  splendor  fioco 
esser  di  Berenice  il  crin  tra  gli  astri. 

Calamistri  di  ferro  all'auree  some, 
che  '1  foco  riscaldò,   facean  torture, 
perché  del  cor  tra  le  cocenti  arsure 
apparissero  ardenti  ancor  le  chiome. 

Le  inebriò  talor  nardo  straniero 
per  dispensar  novelli  odori  al  vento; 
nella  sua  man  tra  martellato  argento 
venne  a  farsi  l' Idaspe  un  prigioniero. 

Sudar  le  tele  a  lei  subbi  etiopi 
e  fregiò  le  sue  gonne  ago  troiano, 
e  per  le  gonne  ancor  pino  africano 
tributò  la  Giudea  de'  suoi  piropi. 

Cosi  temprate  le  maniere  avea, 
che,   se  parean  senz'arte,   eran  con  arte; 
or  flessibile  alquanto,   or  dura  in  parte, 
e  speranza  e  timor  destar  solca. 

Dove  mirava  esser  la  fiamma  ardente, 
ella  men  soccorrendo  era  più  schiva; 
dove  face  d'amor  vedea  men  viva, 
palesava  d'ardor  petto  cocente. 

Se  girava  lo  sguardo,   era  delitto, 
e  non  mirava  altrui,   benché  mirata; 
piacevole  talor,  talor  sdegnata, 
r  un  rendeva  contento  e  l'altro  afflitto. 

Mostravasi  men  scaltra  al  più  sagace 
e  col  più  lieto  amante  era  più  mesta; 
sovente  con  gli  audaci  era  modesta 
e  co'  modesti  tdoì  sembrava  audace. 

Era  lasciva  ed  onestà  fingeva; 
quando  mostrava  sdegno,   allora  amava; 
sotto  ardor  simulato  ella  gelava, 
e  sotto  finto  gelo  ella  coceva. 


GIUSEPPE    BATTISTA  441 

Mentre  in  tante  follie  le  voglie  implica, 
bieco  disnor  nel  proprio  nome  imprime; 
le  infamie  sue  fama  loquace  esprime 
e  palesa  Maria  meno  pudica. 

Mentre  è  lecito  a  lei  ciò  che  non  lice 
e  cieca  vuol  per  guida  i  ciechi  sensi, 
gridan  con  libertà  gli  altrui  consensi 
che  la  suora  di  Marta  è  peccatrice. 

Donna,   quantunque  vanti  aver  bellezza, 
men  bella  è  poi  se  tien  l'onor  negletto; 
qual  cristallo  è  l'onor  fragile  e  schietto, 
schietto  si  macchia  e  fragile  si  spezza. 

Lunga  stagion  vaneggia  e  per  le  scorte 
de' più  sozzi  diletti  a  Dio  s'invola; 
tien  ragion  vilipesa  e  la  sua  scola, 
ama  il  mondo  maestro  e  la  sua  corte. 

Stima  suo  bene  il  male  e  col  tributo 
fa  delle  colpe  insuperbir  l'inferno; 
oblia  la  nobiltà,   né  prende  a  scherno 
esser,  come  d'Amor,  preda  di  Pluto. 

Ma  Dio  che  la  vuol  seco  a  sé  la  chiama, 
e  consiglio  miglior  le  spira  in  mente; 
già  delle  colpe  andate  ella  si  pente 
e  di  virtù  novelle  ornarsi  brama. 

Dal  profondo  letargo  alfin  si  desta, 
ammenda  l'opre  ed  i  pensier  corregge; 
già  gli  arbitri  dispone  a  nova  legge 
e  l'antiche  libidini  detesta. 

L'accusano  le  colpe  ond'ella  è  grave, 
ma  la  pietà  del  Redentor  l'affida; 
la  combatte  il  timore  e  nulla  fida, 
la  speranza  l'assale  e  nulla  pavé. 

Vince  alfin  la  speranza,   il  timor  cede, 
ma  non  lascia  il  dolor  de' falli  suoi; 
in  un  sospir  l'anima  scioglie  e  poi 
perdono  del  fallir  l'anima  chiede. 


442  LIRICI    MARINISTI 

Si  duol  d'amor,  si  duol  del  mondo,  accusa 
artefici  d'inganni  amore  e  mondo; 
ducisi  che  mondo  insano,  amore  immondo 
con  l'esca  del  piacer  l'abbian  delusa. 

Un  aspe  appella  amor,  da  cui  si  beve 
con  bocca  baciatrice  egro  veleno; 
il  mondo  un  Mongibel,   che  chiude  in  seno 
incendio  edace  ed  ha  sul  crin  la  neve, 

un  mare,   che  tranquillo  appar  su  l'onde 
e  bianca  fé  su  l'onde  sue  promette, 
ma  sotto  l'empie  spume,   ancorché  schiette, 
o  baratri  disserra  o  scogli  asconde. 

Amor  non  sazia  mai  l'umane  brame, 
che  quando  par  che  piaccia,   alloi'a  incresce; 
quando  par  che  più  manchi,  allor  più  cresce, 
e  l'esca  d'un  desir  dell'altro  è  fame. 

Poi  rapida  sen  corre  a'  pie  d'un  Cristo, 
dove,  fermando  il  pie.   Cristo  l'aspetta; 
e  qui  nel  suo  pensier  tutta  ristretta, 
pensa  del  cielo  al  glorioso  acquisto. 

Qui  di  balsamo  colma  un'urna  infrange 
e  del  balsamo  innaffia  a  Cristo  il  piede; 
ma  scusa  qui  dell'ardimento  chiede, 
e  quando  chiede  scusa,   allora  piange. 

Al  puzzo  delle  colpe  al  fin  marcite 
di  peregrino  odor  sparge  tempeste; 
o  porge  unguenti  al  medico  celeste, 
forse  per  medicar  le  sue  ferite. 

L' Ibla  sicana  ed  il  cecropio  Inietto, 
l'anima  de'  suoi  fiori  ha  qui  sommersa; 
Arabia  d'alimenti  è  qui  dispersa, 
e  rinchiusa  l'Assiria  in  picciol  tetto. 

Delle  chiome  prolisse  il  gran  volume 
da  seriche  ritorte  in  giù  discioglie, 
e  con  si  vaghe  e  preziose  spoglie 
degli  unguenti  diffusi  asciuga  il  fiume. 


GIUSEPPE    BATTISTA  443 

Disciplinato  crin  varia  compensa, 
perché  l'uso  fu  vario,   a  tutti  addita; 
a  Maddalena  il  crine  apporta  vita, 
il  crine  ad  Assalon  morte  dispensa. 

Appaga  qui  le  simpatie  divine 
di  fragranze  lugubri  umida  usura, 
e  godono  di  far  bella  congiura 
gli  alabastri  d'un  pie,  gli  ori  d'un  crine. 

Edera  tronco  mai,  smilace  pietra 
non  stringe  si,  com'ella  stringe  un  Dio, 
perché  dimostri  a  lei  piede  eh' è  pio 
al  novello  cammin  la  via  dell'etra. 

Benché  vegga  Giesù  fatto  cortese, 
a  tanta  cortesia  l'occhio  non  fisa; 
stassene  addietro  mesta  e  ben  s'avvisa 
che  rimirar  non  dèe  nume  ch'offese. 

Il  Redentor  non  sa  partirsi  intanto, 
che  pur  di  Maddalena  è  fatto  amante, 
e  rivolto  a  goder  quel  suo  sembiante, 
piangente  il  vede  ed  egli  gode  il  pianto. 

Oh  di  pianto  orator  dedalee  vene, 
che  convincono  Dio,   quantunque  mute! 
Perché  malvagità  speri  salute, 
quel  che  non  può  la  lingua,  il  pianto  ottiene. 
Ottien  perdono,   e  non  qual  era  è  tutta, 
postergato  l'inferno,   al  ciel  rivolta; 
e  da'  lacci  mondani  al  fin  disciolta, 
degli  affetti  s'oppone  all'aspra  lutta. 
Delle  spoglie  ch'avean  tesori  eoi 
povera  fa  la  più  caduca  salma, 
e  spoglia  delle  membra,   oblia  dell'alma, 
come  gli  abiti  suoi,   gli  abiti  suoi. 

Lascia  i  bissi  più  molli  e  d'irte  lane 
al  molle  petto  i  bei  candori  ammanta; 
ignudo  brama  il  piede,   o  talor  vanta 
di  coturno  più  vii  piante  villane. 


444  LIRICI    MARINISTI 

Pruine  di  cerussa  ella  delude 
e  di  cinabro  invetriate  fiamme, 
che  non  più  brama  adulterar  le  mamme 
e  vuol  di  stranio  ardor  le  gote  ignude. 

Sdegna  quanto  pria  volle.  Al  mar  di  Gnido 
non  più  le  squadre  imprigionate  invola, 
né  per  servir  l'ambiziosa  gola 
agli  augelli  di  Colchi  insidia  il  nido. 

Già  le  crapule  sue  son  l'astinenze 
per  dar  legge  frugale  a'  lussi  sciolti; 
richiama  a  sanità  sensi  più  stolti 
e  danno  economie  le  penitenze. 

Le  dovizie  detesta  e  le  divide 
a  povertà,   eh' è  della  fame  afflitta; 
cieca  spelonca  agli  anni  suoi  prescritta, 
agli  anni  suoi  bel  paradiso  arride. 

Fugge  dalle  città,   fugge  alle  selve 
e  cangia  in  cavo  speco  i  suoi  palagi  ; 
e  se  gli  uomini  pria  trovò  malvagi, 
ora  bontà  san  palesar  le  belve. 

Tra  l'angustie  più  corte  aduna  i  passi 
ed  ama  calpestar  dumi  spinosi. 
Vuol  poi,   per  disturbar  lenti  riposi, 
piume  le  paglie  ed  origlieri  i  sassi. 

Qui  su  roso  macigno  aitar  dispone, 
dove  invece  d'incenso  offre  i  sospiri, 
e  con  ostie  di  sangue  e  di  martiri 
memorie  di  clemenza  al  cielo  espone. 

Vive  cosi  più  lustri.   Ed  un  sol  grato 
raggio  consolator  appena  vede, 
ed  ha,  s'è  d'  ombre  eterne  un  antro  erede, 
sepolcro  alla  sua  morte  anticipato. 

Del  manto  a  lei  co'  più  sdruciti  velli 
tempo  divorator  non  fa  più  scudo; 
ma  pure  all'onestà  del  corpo  ignudo 
fanno  splendida  veste  i  suoi  capelli. 


GIUSEPPE    BATTISTA  445 

Stupor  non  è  che  '1  pendulo  tesoro, 
impudico  non  più,   rassembri  onesto: 
che  se  baciò  d'un  Cristo  il  pie  modesto, 
or  tesse  alla  modestia  argine  d'oro. 

Talor  d'Averno  empio  drappello  afflige 
la  bella  penitente,  e  l'etra  accorre, 
mentre  pennuto  esercito  giù  corre 
e  giù  disperge  i  cittadin  di  Stige; 

flagella  d'arpa  aurata  indi  le  corde, 
e  sposa  all'arpa  analogia  di  lode. 
Respira  intanto  Maddalena  e  gode 
letizie  vive  all'armonia  concorde. 

Gode  cosi  tra  le  beate  schiere 
pegno  di  gloria.   Ed  accorciate  l'ore, 
deliquio  tenerissimo  d'amore 
l'anima  scioglie  a  passeggiar  le  sfere. 


XI 


ARTALE  -  LUBRANO  -  CANALE 


GIUSEPPE    ARTALE 


I 

AL  LETTORE 

S' io  non  scioglio  la  lingua  in  quelle  voci 
che  sposarsi  col  suon  sanno  ai  concenti, 
stupor  non  fia,   che  in  marziali  eventi 
da  le  trombe  imparai  fremiti  atroci. 

Si,   le  mie  lire  fùr  l'ire  feroci 
e  i  miei  stromenti  i  bellici  stormenti, 
dove  non  caducei,   ma  in  tuoni  ardenti 
presi  de'  brandi  ad  impugnar  le  croci. 

Quinci  carmi  io  non  so,   perché  mi  furo, 
di  Pindo  in  vece,   aspre  campagne  offerte, 
e  fu  mio  Febo  insanguinato  Arturo. 

Né  cantar  qui  poss'io,  che  in  guerre  incerte 
accoppiar  non  potei  sott' astro  oscuro 
le  belle  chiuse  e  le  ferite  aperte! 

Lirici  nia>-inisii  —  29 


450  LIRICI    MARINISTI 

II 

LE  BELLEZZE  DELLA  SUA  DONNA 

Occhi,   bocca,   pie,   mano  e  chiome  aurate, 
bella,   fra  noi  san  debellar  gli  amori  ; 
canti,  balli,  ardi,  atteggi,  e  reti  amate 
intesse  il  crin  per  catenarne  i  cori. 

Pie,   mani,   labra,   crin,   luci  adorate, 
moti,  voci,  lacciol,  nevi  ed  ardori 
offrite,  alzate,  ordite,  ornate,  armate, 
co'  giri,   incanti,   ardor,   lacci  e  candori. 

Vago  è  '1  crin,  l'occhio,  il  labro,  il  braccio  e  '1  piede, 
ma  ognun  empio,   inuman,   fier,   crudo  e  rio 
stringe,   strugge,   calpesta,   impiaga  e  fiede. 

O  crin,   pie,   mani,   o  luci,   o  bocca  (oh   Dio!), 
voi,  voi,   cinque  nemici  a  la  mia  fede, 
date  cinque  ferite  al  petto  mio  ! 


Ili 
IL  RIVALE 

Naufraghi  il  vostro  gaudio  entro  i  miei  pianti 
e  sian  le  voci  mie  tempeste  irate, 
o  del  mio  cor  crudi  omicidi,   amanti, 
ch'ai  suon  de' miei  sospir,   ahi,   riposate! 

Poiché,   quai  fùr  le  mie  speranze  erranti, 
sian  le  vostre  dolcezze  or  fulminate; 
scagli  il  ciel  contra  voi  folgori  tanti, 
quanti  per  mio  dolor  baci  scoccate. 

Sia  la  notte  che  strinse  i  vostri  nodi 
eterna  notte,   e  lungamente  amara 
le  vostre  luci  in  ferreo  sonno  annodi. 

E  dritto  è  ben  che  d'ogni  lume  avara 
ella,   ch'agevolò  le  vostri  frodi, 
converta  il  letto,   or  profanato,   in  bara. 


GIUSEPPE    ARTALE  451 

IV 

LA  CANTATRICE 

Moro  a  tue  fughe  e  son   tuoi  canti  incanti, 
con  cui  maga  canora  anime  ammaghi, 
e  in  legar  con  più  corde  i  cori  amanti 
co' semicromi  i  semimorti  impiaghi; 

passi  i  cor  co'  passaggi,  e  in  tuon  se  canti, 
con  dolce  tuon  di  fuhninar  t'appaghi, 
e   a  le  sincope  tue  petti  costanti 
de  le  sincope  lor  gemon  presaghi. 

Non  poso  in  pause,   e  i  miei  sospiri  etnei 
son  tuoi  respiri,  e  son  per  tua  virtute 
le  tue  cadenze  i  precipizi  miei  ; 

e  in  acuto  in  vibrar  saette  acute, 
dirò  che  dian  ne'  miei  dolor  più  rei 
mille  colpi  al  mio  cor  le  tue  battute. 


V 

LA  DONNA  CON   GLI   OCCHIALI 

Non   per   temprar   l'altrui   crescente   ardore 
sugli  occhi  usa  costei  nevi  addensate, 
ma  per  ferir  da  più  lontano  un  core 
rinforza  col  cristal  le  luci  amate. 

Se  co'  riflessi  il  Sol  nutre  il  calore, 
questa,   per  far  più  fervide  le  occhiate, 
l'oppon  due  vetri,   acciò  che  '1  suo  folgore 
vibri,   in  vece  di  rai,   vampe  adirate. 

Ella,   quasi  Archimede,   arder  noi  vuole, 
che  sa  che  cagionò  fiamme  e  feretri 
per  diafane  vie  passando  il  sole; 

o  i  petti  tutti  acciò  ferire  impetri, 
ed  a  gli  strali  suoi  cor  non  s'invole, 
vie  più  scaltra  d'Amor,   benda  ha  di  vetri. 


452  LIRICI    MARINISTI 

VI 

LA  PULCE 

Picciola  instabil  macchia,   ecco,   vivente 
in  sen  d'argento  alimentare  e  grato, 
e  posa  ove  il  Sol  fisso  è  geminato 
breve  un'ombra  palpabile  e  pungente. 

Lieve  d'ebeno  star  fera  mordente 
fra  nevosi  sentier  veggio  in  agguato, 
e  un  antipodo  nero  abbreviato 
d' un   picciol   mondo   e   quasi   niente   un  ente. 

Pulce,   volatil  neo  d'almo  candore, 
che  indivisibil  corpo  hai  per  ischermo, 
fatto  etiopo  un  atomo  d'amore; 

tu  sei  di  questo  cor  lasso  ed  infermo 
per  far  prolisso  il  duol,   lungo  il  languore, 
de'  periodi  miei  punto  non  fermo. 


VII 

LA   DAMA  INFANTICIDA 

Tu  ch'hai  ne  l'alba  tua  sera  immatura 
e  sei  nell'orto  un  abortito  infante, 
io  ti  son  madre,   culla  e  sepoltura, 
tu  vita  e  matricida  agonizzante. 

Sorte  è  aver  madre  e  averla  è  tua  sventura; 
nóci  innocente,   ancor  non  balbettante 
mie  colpe  accusi;   ed  io  pietosa  e  dura 
madre  t'uccido,   e  ti  composi  amante. 

Mori!   Morte  mi  dan  le  tue  dimore; 
ti  dà  chi  ti  die  vita  ore  si  corte 
per  svenar  con  tua  morte  il  proprio  errore. 

Amor  ti  diede  (oh   Dio!)  la  vita  in  sorte 
a  dispetto  d'onore,   ed  or  l'onore 
a  malgrado  d'amor  ti  dà  la  morte. 


GIUSEPPE    ARTALE  453 

Vili 

IL  CREATO   E  DIO 

Stupisco!...  Un  fior  chi  '1  pinge?  e  come  è  nato 
da  un  atomo  d'un  seme  orno  eminente? 
come  il  popol  marin,  terrestre,   alato, 
ha  volo,   corso,   nuoto,   e  l'uomo  ha  mente? 

dal  proprio  pondo  il  suol  com'è  librato? 
chi  dà  agli  astri  ed  al  sol  norma  esistente? 
come  il  mar  varia  il  flusso,   e  'I  flusso  irato 
stanca  e  i  confili   non   preterisce   un   niente? 

Ah,  trino  ed  uno  a  nostre  menti  ignare 
incomprensibil  è,   quant'egli  è  pio, 
l'increato  fattor  d'opre  si  rare! 

Ch'ove  un  sol  guardo  e  un  sol  pensier  drizz'io, 
miri  il  ciel,   calchi  il  suolo  o  prema  il   mare, 
veggfio  e  contemplo  in  ogni  oggetto  un   Dio. 

IX 
SANTA  MARIA  MADDALENA 

A  Maria  Maddalena  Loffredo,  principessa  di  Cardilo 

Gradir  Cristo  ben  dèe  di  pianto  un  rio, 
torrente  ov'egli  bee  d'alme  assetato; 
se  su  l'acque  vagò  spirito  e   Dio, 
su  l'acque  a  passeggiar  torna  incarnato; 

e  se  la  pace  a  chi  l'offese  offrio, 
giusto  ben  fu  poiché  pietoso  e  grato 
videsi  a'  pie  di  chi  piagarlo  ardio 
l'aureo  crin,   che  l'insegna  è  del  peccato. 

L'occhio  e  la  chioma  in  amorosa  arsura 
se  'I  bagna  e  '1  terge,  avvien  ch'amante  allumi 
stupefatto  il  fattor  di  sua  fattura; 

che  il  crin  s'è  un  Tago  e  son  due  Soli  i  lumi, 
prodigio  tal  non  rimirò  natura  : 
bagnar  coi  Soli  e  rasciugar  coi  fiumi. 


454  LIRICI    MARINISTI 

X 

IL  BUON  LADRONE 

A  Pietro  Valeri 

Qui  sagace  l'ingegno  e  '1  saldo  amore 
e  di  Cristo  e  del  ladro  oggi  si  mira; 
questo  del  primo  ardir  perde  il  vigore, 
quei  del  giusto  rigor  depone  or  l'ira. 

Questi  l'empio  furor  cangia  in  fervore 
e  quei  fervor  ne  l'altrui  petto  inspira; 
quei  vuol,  quei  dona,  e  in  quello  e  in  questo  core 
l'industria,  o  Pietro,  e  la  pietà  s'ammira. 

Cristo,  ai  martir  giunto  di  morte  in  atto, 
dà  glorie  a  quello  e  con  pietoso  zelo 
ne  la  sua  povertà  prodigo  è  fatto. 

Rapace  è  l'altro,  e  dal  corporeo  velo 
pria  che  l'anima  uscisse,  egli  ad  un  tratto 
ruba  a  costui  con  un  sospiro  il  cielo. 

XI 

IL  TERREMOTO  DI   RAGUSA 

Circonferenza  il  ciel,   punto  inchiodato 
la  terra  è  in  centro,   e  pur  tremar  la  sento. 
Come  ?  forse  soggetto  a  nobil  fato 
cede  l'ordine  eterno  al  violento? 

No,   no,   scote  un  Tifeo  monte  inceppato, 
a  sveller  torri  ogni  vapore  è  lento; 
né  move  immoto  il  suol  spirto  esalato, 
né  milesia  vertigine  né  vento. 

Uom  tu  sei,  che  se  reo  pecchi  e  non  gemi, 
e  in  peccar  Cristo  uccidi,  arcan  profondo 
vuol  che,   Cristo  morendo,   il  mondo  tremi. 

Quinci  or  che  al  primo  error  giungi  il  secondo, 
già  sono,  anzi  che  sieno  i  giorni  estremi, 
i  falli  tuoi  paralisie  del  mondo. 


GIUSEPPE    ARTALE  455 


Xll 


IN   MORTE   DI  TROIANO  SPINELLI 

DE'  PRINCIPI  DI  TARSIA 
il  quale  lasciò  all'autore  in  segno  di  affetto  una  spada  preziosissima 

Voli  al  ciel,   lasci  acciar?  Doppio  martoro 
lasci  a  chi  t'ama,   a  tua  fatai  partita; 
anzi  tu  fra'  beati,   io  senza  vita, 
vivi  morendo,   or  che  vivendo  io  moro. 

E  mistero  il  tuo  dono.   Al  ferro,   a  l'oro 
tua  gran  virtute  a  specular  m'invita; 
perché  sai  che  al  goder  va  morte  unita, 
ben  armato  d' acciar  lasci  un  tesoro. 

Ma  non  più  sangue  io  spargerò  pugnando, 
che  vinto  a  tua  bontà  l'umano  orgoglio 
cade  al  mio  pie  per  adorarti  il  brando. 

Quinci  sol  per  dar  i^ace  al  mio  cordoglio, 
col  tuo  nobile  acciar  penne  temprando, 
la  morte  che  t'uccise  uccider  voglio! 

XIII 
AL  PADRE  MICHELE  FONTANAROSA 

È  lingua  o  fiume?  ed  è  facondia  o  mare 
ciò  ch'ammirano  in  te  gl'ingegni  altrui? 
Mare  non  è,   che  non  ha  l'onde  amare; 
fiume  non  è,   che  non  ha  sponde  in  lui. 

Pur  è  mar,   pur  è  fiume:   è  mar  che  rare 
gemme  produce  infra'  concetti  tui, 
è  fiume  che  su  rose  uniche  e  care 
forma  d'alta  eloquenza  i  corsi  sui. 

Dunque  è  mar,  dunque  è  fiume;  oltre  l'usato 
è  dolce  l'uno,   e  l'altro  oltre  il  costume 
ha  da  la  rosa  tua  fonte  odorato. 

Cosi,   carco  d'onor,   ricco  di  lume, 
scorgo  il  tuo  vasto  ingegno  in  mar  cangiato 
e  la  FONTANA  tua  conversa  in  fiume. 


456  LIRICI    MARINISTI 

XIV 

IL  TESCHIO  DEL  TURCO 

Questo  che  morto  ancora  il  ciel  disfida, 
orrido  teschio  di  terribil  trace, 
mira,   Lidia,   mio  Sol,   l'empio  omicida 
sprezzator  d'ogni  legge  e  pertinace. 

Questo  de'  traci  e  capitano  e  guida 
drizzò  pronto  di  man,   d'ingegno  audace, 
ferrata  scala,  e  perché  ed  arda  e  uccida 
portò  ai  muri  sovente  e  ferro  e  face. 

Poggiava  alfine,   ed  io  sul  collo  invitto 
tal  percossa  avventai,  che  '1  busto  forte 
senza  capo  restò  fra'  morti  ascritto. 

Or  mira,  e  fa'  che  sdegno  il  guardo  apporte, 
perché  può  tua  pietà  d'un  uom  trafitto 
far  vita  per  miracolo  la  morte. 


XV 

EPITAFFIO  A  SE  STESSO 

Sparsi  sangue  ed  inchiostro,   e  in  ciel  straniero 
diedi  d'alte  speranze  ésca  al  desio; 
ma  invan,   che  fei  sotto  Saturno  austero, 
martire  del  destin,  ritorno  a  Dio. 

Or  di  quel  ch'io  girai  doppio  emisfero, 
e  del  mare  e  del  suol  vario  e  natio, 
tanto  mar,  tanto  suol  converso  in  zero, 
questo  zero  mi  chiude,  e  questo  è  il  mio. 

Cosi,  se  nel  tenor  d'aspra  sventura 
non  posai  vivo,  a  la  fatai  partita 
presto  a  l'ossa  riposo  in  sepoltura. 

Riposo,  e  non  mi  svegli  alma  imperita; 
ch'io  temo,  oimè,  l' immortai  mia  sciagura 
non  torni  a  l'ire,   e  mi  richiami  in  vita. 


GIUSKPPE    ARTALE  457 

XVI 

DOPO  UN  DUELLO 

Alla  sua  donna 

Punto  di  più  d'un  ferro  e  semimorto, 
mentre  tutto  il  mio  sangue  al  suol  trabocca, 
sol  per  estremo  e  singoiar  conforto 
ti  scrivo,  anima  mia,   co'  l'alma  in  bocca; 
e,  benché  sia  nel  proprio  sangue  absorto, 
roso  ancor  da  lo  strai  ch'Amor  mi  scocca, 
senza  speme  di  vita,   agonizzante, 
non  mi  posso  scordar  d'esserti  amante. 

Forma  or  tu  gli  amorosi  alti  argomenti, 
s'io  tua  beltà  costantemente  amai, 
mentre  per  te  fra  bellici  stormenti 
avido  di  servirti  il  sen  portai, 
e  i  colpi  mortalissimi  e  pungenti, 
quasi  a  gran  nume,   al  tuo  voler  sacrai, 
benché  mirò  per  mio  svantaggio  ognuno 
quattro  e  quattro  guerrier  incontro  ad  uno. 
Pur  non  temei,   poiché  non  mai  si  vede 

paventar  ai  perigli  amante  un  core, 

e  fra  le  pugne  orrende  or  ben  si  crede 

giungere  ardir,   vie  più  che  Marte,   Amore  ! 

Quinci  non  mai  torcere  in  fuga  il  piede 

mi  scorse,   benché  fier,   l'altrui  furore; 

anzi  mirò  per  altrui  scorno  il  polo 

far  fronte  ad  otto  brandi  un  brando  solo. 
Non  curai  l'armi  e  non  temei  gli  armati, 

offesi  offeso  e  rincalzai  ferito; 

provocai,   minacciai  quei  volti  irati, 

fatto  guerrier  de  la  ragione  ardito; 

i  colpi  non  curai,  ver'  me  vibrati, 

quantunque  fùr  di  numero  infinito; 

si  non  fé'  per  timor  fallo  in  effetto, 

fatto  bersaglio  ad  otto  ferri  un  petto. 


45S  LIRICI    MARINISTI 

Trafiggeami  un  nemico,   e  noncurante 
de  le  ferite  mie  feriva  anch'io, 
ed  or  questo  mirava  or  quel  sembiante 
correr  misto  al  suo  sangue  il  sangue  mio. 
Cosi,   senza  mostrarmi  unqua  anelante, 
sprezzai  di  più  d'un  uom  l'impeto  rio; 
anzi  nel  duol  multiplicai  fortezza, 
sol  pensando  al  valor  di  tua  bellezza. 

—  Di  voi  —  diceva,  —  o  sanguinosi  acciari. 
Lidia  più  strugge,  ovunque  avvien  che  tocchi; 
ella  vibra  di  voi  più  colpi  amari, 
se  talora  un  suo  strale  avvien  che  scocchi  ; 
siete  pur  troppo  di  ferirmi  ignari, 
o  ferri,   al  paragon  de'  suoi  begli  occhi, 
poich'essi,   archi  inerrabili  d'Amore, 
scoccansi  sempre  ad  impiagarmi  il  core.  — 

Cosi  ardeva  la  pugna,   ed  o  che  fosse 
che  i  cori  audaci  ogni  fortuna  aiute, 
o  che  fra  squadre  insanguinate  e  rosse 
qui  difesa  dal  ciel  sia  la  virtute; 
degli  altrui  ferri  io  non  curai  percosse, 
quantunque  altri  dicean  con  note  argute: 
—  Cadrà  chi  pugna  sol  ;   cadrà  pugnando. 
Che  far  potrà  fra  tanti  brandi  un  brando?  — 

Già  già  l'ira  s'avanza  e  '1  furor  cresce, 
si  che  pugnan  per  noi  l'ira  e  '1  furore; 
odio  con  odio  si  confonde  e  mesce, 
altri  aumenta  lo  sdegno,   altri  il  rigore. 
Ma  già  fra  tanto  orror  l'orror  rincresce 
e  quasi  è  di  pugnar  lasso  il  valore; 
cessa  la  zuffa,   e  fra  lo  stuolo  essangue 
verso  pur  io  da  più  ferite  il  sangue. 

Or  se  mai  tu  da  queste  luci  i  pianti 
chiedesti  allor  che  fido  io  t'adorai, 
godendo  sol  ch'io  mi  stemprassi  avanti 
l'animato  splendor  de'  tuoi  bei  rai; 


GIUSEPPE    ARTALE  459 

se  tante  or  del   mio  sen  piaghe  inondanti 
versan  torrenti  sanguinosi,   ed  hai 
ancor  tu  di  mie  lacrime  desio, 
prendi  in  vece  del  pianto  il  sangue  mio. 

E  la  cagion  di  si  costanti  effetti 
è  sol  di  me  l'immensurato  ardore, 
che  sol  per  dimostrar  più  caldi  affetti, 
in  cambio  d'acque  io  do  sanguigno  umore: 
anzi  spero  diran  gli  accesi  petti, 
che  fùr  costanti  in  ubbidire  Amore: 
—  Ecco,  mancando  i  pianti  a  un  cor  che  langue, 
ofifrisce  a  l'idol  suo  fiumi  di  sangue!  — 


GIACOMO    LUBRANO 


I 

IL  SONNO 

Antipode  del  senno,  oppio  de'  sensi, 
benché  di  mezzo  l'essere  ci  privi 
ed  a  dazio  di  morte  astringa  i  vivi, 
esige  il  sonno  volontari  censi. 

Rende  cimmeria  l'alma,  e  ciò  che  pensi, 
sposando  a  lazie  muse  i  plettri  argivi, 
larva  è  di  sogni  or  mesti  ed  or  festivi, 
delirio  di  vapori  or  radi  or  densi. 

Di  piacevole  oblio  vesta  l'orrore, 
di  sibarite  rose  il  letto  impiumi  ; 
sepolcro  è  pur  de  l'uom  che  a  tempo  more. 

Torbido  il  viso  e  '1  sen  d'umidi  fumi, 
per  non  farsi  veder  che  ruba  l'ore, 
adulato  ladron  ci  chiude  i  lumi. 


GIACOMO    LUIìRANO  461 

II 

LA  TORPEDINE 

Di  lubrici  letarghi  oppio  squamoso 
e  di  sincopi  vive  estro  guizzante, 
che,  vii  parto  del  mar,  spira  anelante 
gelide  epilepsie  di  verno  ondoso; 

funambolo  velen  per  gli  ami  ascoso 
corre  ad  assiderar  la  man  tremante, 
e  può  render  col  tocco  in  un  istante 
intormentito  Marte,    Ercol  pauroso. 

Or  va',  fidati  al  braccio;  offendi  irato 
chi  par  vóto  di  forze,  inerme  al  guardo, 
che  sentirai  mancarti  il  moto  e  '1  fiato. 

Non  è  men  forte  il  mal,   benché  infingardo 
le  torpedini  sue  ha  pure  il  fato; 
ove  le  temi  men,   covano  il  dardo. 

Ili 
I    CEDRI    FANTASTICI 

NEGLI    ORTI    REGGITANI 

Rustiche  frenesie,   sogni  fioriti, 
deliri  vegetabili  odorosi, 
capricci  de'  giardin.   Protei  frondosi, 
e  d'ameno  furor  cedri  impazziti, 

quasi  piante  di  Cadmo  armano  arditi 
a  l'autunno  guerrier  tornei  selvosi, 
o,  di  Pomona  adulteri  giocosi, 
fan  nascere  nel  suol  mostri  mentiti. 

Vedi  zampe  di  tigri  e  ceffi  d'orso 
e  chimere  di  serpi,   e,   se  l'addenti, 
quasi  ne  temi  il  tocco  e  fuggi   il   morso. 

Altri  in  larve  di  lemuri  frementi 
arruffano  di  corna  orrido  il  dorso, 
e  fan  cibo  e  diletto  anco  i  spaventi. 


402  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LA  CACCIA  DEL  PESCE  SPADA 

NELLO    STRETTO    DI    MESSINA 

Per  le  liquide  vie  vola  ondeggiante 
del  tempestoso  nume  orrido  figlio, 
ch'ha  di  cerulea  spada  armato  il  ciglio, 
terror  di  Teti  e  fulmine  guizzante. 

Trema  negli  antri  suoi  Scilla  latrante, 
mirando  negli  assalti  il  mar  vermiglio, 
che  ad  ogni  pescator  vivo  periglio 
intima  il  mostro  fier,   strage  natante. 

Ma  se  '1  colpiscon  mai  l'aste  già  pronte, 
si  sbatte  e  sbuffa   e  l'agonie  si  affretta 
con  la  morte  nel  sen,   la  spada  in  fronte. 

NobiU,   a  voi!   Un  tal  destino  aspetta 
chi  morde  acciari  e  sanguinario  a  l'onte 
stima  gloria  del  brando  ogni  vendetta. 

v 
LA  LIBRERIA  FINTA  DI  LEGNO 

Apresi  inciso  entro  un'adriaca  scola 
di  apocrifi  volumi  ampio  museo, 
che  a'  famosi  d' Italia  il  pregio  invola, 
di  erudito  scarpe!  vago  trofeo. 

Quivi  assaggia  degli  occhi  anco  la  gola 
di  spirti  intelligibili  un  archeo, 
e  scopre  fuor  la  superficie  sola 
quanto  scrisse  la  Stoa,   quanto  il  Liceo. 

Leggere  in  pochi  sguardi  a  parte  a  parte 
puoi  l'enciclopedia  di  molti  ingegni, 
senza  stancar  la  mano  a  svolger  carte. 

Del  veneto  saper  vanti  ben  degni 
fan  che  innesti  col  ferro  arguta  l'arte 
l'arbor  della  scienza  a'  morti  legni. 


GIACOMO    LUKRANO  4^3 

VI 

L'OCCHIALINO 

Con  qual  magia  di  cristallina  lente, 
picciolo  ordigno,  iperbole  degli  occhi, 
fa  che  in  punti  d'arene  un  Perù  fiocchi, 
e  pompeggi  da  grande  un  schizzo  d'ente? 

Tanto  piacevol  più,   quanto  più  mente; 
minaccia  in  poche  gocce  un  mar  che  sbocchi  ; 
da  un  fil,   striscia  di  fulmine  che  scocchi, 
e  giuri  mezzo  tutto  un  mezzo  niente. 

Cosi  se  stesso  adula  il  fasto  umano, 
e  per  diletto  amplifica  gl'inganni, 
stimando  un  mondo  ogni  atomo  di  vano. 

Oh  ottica  fatale  a'  nostri  danni  ! 
Un  istante  è  la  vita,    e  '1  senso  insano 
sogna  e  travede  eternità  negli  anni. 


VII 

A  UN   VANTATORE  DI  NOBILTÀ 

L'arbore  imperiosa  in  cento  rami 
di  tua  stirpe  s'inalzi,   e  colma  abondi 
di  corone  e  di  mitre;   infra  le  frondi 
la  fama  canti  pur  ciò  che  più  brami. 

Fingila  nata  ancor  pria  degli  Adami, 
quando  vagiano   in   culla   ombre  di   mondi; 
che  investigando  già  dove  si  fondi, 
non  troverai  che  polvere  e  letami. 

Vane  genealogie!   Se  i  pregi  augusti 
ne  la  posterità  restan  sepolti, 
vili  epitaffi  son,   titoli  ingiusti. 

Odi  tu,  che  degli  avi  i  tronchi  avvolti 
vanti  di  glorie  sol  perché  vetusti: 
la  più  antica  famiglia  è  degli  stolti. 


464  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

LE  BEVANDE  AGGHIACCIATE 

Doni  del  del,   gratuiti  tesori 
cadono  giù  le  nevi,   e  in  bianca  mole 
si  rapprendon  penose,   onde  la  prole 
lattin  poi  sciolte  a  rustici  lavori. 

E  pure  il  lusso  l'offre  in  tazze  d'ori 
per  estri  a  Bacco  e  fomiti  a  le  gole, 
e  benché  arrabbi  ingiuriato  il  sole, 
mira  tremar  l'està,   freddi  gli  ardori. 

Ebri  Epuloni,   o  voi  che  in  laute  cene 
fate  brillar  voluttuoso  il  verno, 
ne'  di  canicolari  entro  le  vene, 

tempo  verrà  che  nel  profondo  Averno 
impetrar  non  potrete,   arsi  da  pene, 
un'istantanea  stilla  al  foco  eterno. 

IX 

IL  BACO  DA  SETA 

che  si  schiude  nel  petto  di  una  donna 

Si  slaccia  Filli  il  petto  e  le  native 
poppe  son  d'un  vii  verme  albe  di  vita; 
fra  palpiti  d'argento  il  latte  invita 
ad  animarsi  in  oro  un  che  non  vive! 

Non  si  vaghi  del  Gange  entro  le  rive 
smalta  i  natali  al  Sol  l'onda  fiorita, 
né  più  morbida  culla  o  più  gradita 
le  Veneri  sortir  ne  l'acque  argive. 

Pria  che  il  serico  stuol  l'ambite  prede 
stenda  col  labro  in  biondo  fil  serpendo, 
par  che  del  core  uman  vagisca  erede. 

La  mia  mortalità  quindi  comprendo, 
senza  gire  a  le  tombe.  In  noi  si  vede 
la  morta  polve  inverminir  vivendo. 


GIACOMO    LUBRANO  465 

X 

I  TUMULTI   DI  NAPOLI  DEL  1647 

Mormorava  ai  singulti 
di  moribonda  schiera 
l'ebraica  pescliiera, 

e  de  l'acque  sconvolte  infra  i  tumulti 
bevean  le  turbe  inferme 
centra  l'ire  del  fato 
vitalissime  terme. 
Or  del  bagno  odorato 
l'onde  un  tempo  superbe 
nutrono  in  sozzo  suol  povere  l'erbe. 

Mondo,   correggi  il  voto. 
Non  più  torbido  flutto 
a  le  piaghe  del  lutto 
le  panacee  sue  stempra  col  moto. 
Quanti  offre  l'incostanza 
al  genio  turbolento 
pelaghi  di  speranza, 
son  eolie  di  vento; 
né  mai  piena  di  sdegni 
co'  precipizi  suoi  fa  base  a'  regni. 

Insolenza  plebea, 
stolta  quanto  spietata, 
ne  la  patria  turbata 
credè  trovar  di  libertà  l'idea. 
Pianse  la  mia  Sirena 
tra  tempeste  d'inganni, 
che  più  schiavi  di  pena 
regnasser  da  tiranni  ; 
e  da  stragi  confusa 
bramò  per  fuggir  via  farsi  Aretusa. 

Quanti  aborti  di  terra 
su  le  reali  altezze 


Lirici  maiinisti 


466  LIRICI     MARINISTI 

disegnano  grandezze? 

quanti  Marti  cenciosi  escono  in  guerra? 

Il  più  vile  è  più  audace; 

al  veder  mi  vergogno 

idra  d'odi  la  pace. 

Republica  di  sogno 

con  suffragi  protervi 

vuol  ergere  in  sul  tron  cònsoli  i  servi. 

Qual  fascino  d'inferno 
a  un  pescatore  insano 
pose  lo  scettro  in  mano? 
tolse   le   canne?   Ahi,   de   le   leggi   a  scherno 
ogni  spiaggia  par  fòro 
da  publicare  editti; 
pregi  di  sangue  e  d'oro 
corrono  per  delitti, 
mentre  in  reti  di  morte 
scalzo  un  Timoteo  osa  pescar  la  sorte. 

Bella  reggia  d'eroi, 
Partenope  infelice, 
cangiò  la  plebe  ultrice 
in  arte  di  perfidia  i  plettri  tuoi. 
Non  più  t' intreccia  al  crine 
vero  valor  le  palme; 
bollon  rabbie  assassine 
in  proditorie  calme; 
sognano  (il  dico  e  piango) 
pazze  democrazie  spirti  di  fango. 

So  che  nel  ciel  sovente 
a  fulminar  il  fasto 
marciò  con  nembo  infausto 
di  zanzare  e  locuste  oste  fremente. 
Teman  l'anime  insane 
di  egizi  Faraoni 
fiumi  di  sangue  e  rane, 
piogge  di  piaghe  e  tuoni. 


GIACOMO    LUBRANO  467 

che  sempre  a'  re  malvagi 

la  maestà  fu  merito  di  stragi. 

Ma  de  l'Austria  fedele 
chi  non  adora  i  pregi? 
Fan  volare  i  suoi  regi 
per  l'indo  mar  cattoliche  le  vele. 
Quanti  nascono  augusti 
portano  da  le  cune 
il  titolo  di  giusti, 
arbitri  di  fortune; 
e  dove  stende  il  piede 
lo  scettro  de'  Filippi,   entra  la  fede. 

Del  volgo  la  potenza 
si  fa  legge  d'un  «  voglio  », 
e  con  rabbie  d'orgoglio 
suona  le  trombe  a  popolar  licenza. 
Spartachi  e  Vibuleni, 
barbari  disumani, 
non  resero  sereni 
gli  emisferi  romani. 
Al  Sol  pon  fare  scorno, 
ma   non   mai   le   comete  han  fatto   un   giorno. 

Svegliati  a'  pianti  miei, 
Britannia  sconsigliata, 
or  che  di  frodi  armata 
condanni  a  le  mannaie  i  re  da  rei. 
Già  fulmina  perigli 
di  ben  giusta  vendetta 
l'amor  d'orfani  figli, 
ed  offesa  t'affretta 
(né  senza  vero  io  parlo) 
l'ultimo  funeral  l'ombra  di  Carlo. 

Emolo  de'  monarchi 
accampi  un  Cromuelle 
esercito  rubelle, 
e  di  Londra  infedel   sospenda  agli  archi 


468  LIRICI    MARINISTI 

trofei  d'empie  vittorie: 

saettaranno  i  cieli 

l'odiose  memorie 

di  pompe  si  crudeli, 

che  potenza  rapita 

efimera  del  fasto  ha  poca  vita. 

Spesso  nube  orgogliosa 
con  parelio  mentito 
ruba  dal  Sol  tradito 
di  sinonimo  onore  ombra  vistosa. 
Ma  quel  ch'agli  occhi  parve 
riflesso  di  splendori, 
fu  ludibrio  di  larve, 
maschera  di  vapori  : 
in  un  breve  momento 
le  porpore  non  sue  disperge  il  vento. 


GIOVANNI    CANALE 


I 

IL  PAVONE  E  LA  DONNA 

Godea  Lilla  in  mirare  augel  dipinto, 
che  dell'alato  stuol  portava  il  vanto; 
avea  fregiato  il  capo,   azzurro  il  manto, 
d'un  pennuto  gemmalo  adorno  e  cinto. 

Pompa  facea  suo  ambizioso  instinto 
coi  fior  del  prato  a  garreggiare,  e  'ntanto 
si  vide  di  bellezze  un  sole  a  canto 
e  dubitò  di  rimanerne  vinto. 

Fatto  egli  emulator  del  bel  sembiante, 
al  di  cui  lume  s'abbelliva  intento, 
il  suo  occhiuto  spiegò  cielo  rotante. 

Gioia  dal  riguardarla  ebbe  e  tormento, 
vinto  si  rese,   e  divenuto  amante, 
per  vagheggiarla  apri  cent' occhi  e  cento. 


470  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA  CHIOMA  INCIPRIATA 

Se  con  la  face  Amor  saetta  ardori, 
accende  l'alme  e  rende  i  cori  amanti, 
tu  di  Ciprigna  con  la  polve  i  cori 
più  che  fiamma  d'amore  arder  ti  vanti. 

Maga  amorosa,   or  con  novelli  incanti 
da  questa  polve  fai  nascer  gli  Amori  ; 
ritorni  profumati  or  gli  altrui  pianti 
e  al  fumo  de'  sospir  spargi  gli  odori. 

Alchimista  d'amor,   polve  odorata 
mischiando  al  vivo  dell'altrui  tormento, 
vuoi  far  dolce  il  martir,  la  pena  grata. 

Mentre  l'oro  del  crin  mostri  d'argento, 
discopri  ancor  che  tua  beltà  pregiata 
si   cangia  in   breve   ed   è   sol   polve   al   vento. 


Ili 
A  UN  POETA  CHE  SI  TINGE  LA  BARBA 

Adulterare  il  venerando  argento 
che  t'accredita  il  volto  or  si  mentito, 
è  d' ingegno  senil  già  rimbambito 
e  di  vano  pensier  chiaro  argomento. 

T'inganni,  se  '1  vigor  debile  e  lento 
cerchi  coprir  col  pelo  or  si  annerito, 
che,   s'appare  al  color  ringiovenito, 
rinvecchia  in   breve  a  tuo  maggior  tormento. 

Pur  sei  caro  alle  muse  e  '1  tuo  gran  stile 
sopra  ogni  stile  hai  candido  e  sonoro; 
il  tuo  candido  pel  non  abbi  a  vile  ! 

Cosi  più  amato  dal  vergineo  coro 
sarai,   che  '1  cigno  nell'età  senile 
ha  più  bianca  la  piuma  e  più  è  canoro. 


GIOVANNI    CANALE  471 

IV 

IL  TAMBURO 

Sorte  perversa!    In  vii  tugurio  nato, 
per  secondar  fatiche  e  accrescer  stento, 
di  paludosi  umori  e  fien  cibato, 
diedi  lena  ostinata  al  mio  tormento. 

Dal  peso  degli  affanni  alfin  sgravato, 
che  d'essere  vivuto  ora  mi  pento, 
una  cassa  portatile  tornato 
della  mia  pelle  accoglio  al  seno  il  vento. 

A  mille  e  mille  colpi  il  fiato  scioglio, 
in  campo  marziale  indi  venuto 
a  portar  nuove  glorie  al  Campidoglio. 

Se  vivo  tacqui,   in  essere  battuto 
morto  assordo  col  suono,   e  ben   mi  doglio 
che  chi  mi  batte  è  assai  di  me  più  bruto! 


V 

I    RAZZI 

Da  ricinte  prigion  di  carta  avvolta 
sprigionata  da  ardor  polve  nitrosa, 
spinta  nell'aria  ed  in  faville  sciolta, 
sibila  irata  e  strepita  orgogliosa. 

Di  stellucce  fugaci  appar  pomposa 
col  ciel  stellante  a  garreggiar  rivolta; 
reca  alla  notte  oscura,   all'ombra  ascosa 
de'  suoi  fatui  splendor  famiglia  stolta. 

D'ardori  nell'efimere  procelle 
resta  assorta  la  vista,  e  mille  e  mille 
luci  ch'ammira  a  lei  sembrano  stelle. 

Questi  focosi  rai,   queste  faville 
son   nulla  a   par  di   quelle   eterne,    e   quelle 
del  divino  splendor  sono  scintille. 


472  LIRICI    MARINISTI 

VI 

ALLA  REPUBBLICA  DI  VENEZIA 

Per  l'armata  del  Morosini 

Monarchessa  del  mar,   ch'ardita  sdegni 
picciole  imprese,  il  tuo  valor  t'affida 
di  render  serva  ora  la  Tracia  infida, 
che  nutrisce  nel  sen  mostri  si  indegni. 

La  selva  formidabile  de'  legni 
ch'armi  su  l'onde  ove  il   Leon  s'annida, 
che  col  ruggito  alla  battaglia  sfida 
lo  scita,   e  al  grido  suo  tremano  i  regni  ; 

mentre  fa  ventilar  l'insegne  altere, 
rende  avvilita  ogni  nemica  parte, 
che  cade  a'  lampi  tuoi  d'armi  guerriere. 

Col   valor   della   destra,   ingegno  ed   arte, 
vinte  ti  condurrà  barbare  schiere 
il  tuo  gran  Morosin,   nautico  Marte. 

VII 

PER  LA  CADUTA  DEL  CARDINALE  ORSINI 

NEL    TERREiMOTO    DI    BENEVENTO 

Nella  sannia  magion  scossa  e  cadente 
cade  l'Orsino  eroe  tra  pietre  involto, 
e  riman  tra  le  pietre  ivi  sepolto 
poco  meno  che  morto  e  mal  vivente. 

Ferito  sopra  il  crin,   sangue  innocente 
ingemma  l'ostro  ch'ha  sul  crine  accolto, 
e  intento  al  ciel,   l'affetto  al  ciel  rivolto, 
gli  affanni  altrui  più  che  '1  suo  mal  risente. 

Morte  non  teme  ed  ha  la  morte  avante, 
il  core  in  man  di  Dio  gli  è  duol  giocondo, 
e  tra  angustia  mortai  ne  gode  orante. 

S'ora  sostien  d'infrante  mura  il  pondo, 
stupor  non  è,   se  dèe  poi,   sacro  Atlante, 
regger  la  chiesa  e  sostenere  il  mondo. 


GIOVANNI     CANALE  473 

Vili 

LA  TRINITÀ   DI  CAVA 

Dure  balze,   aspri  colli  e  selve  antiche, 
pendenti  rupi  e  monti  alpestri  ed  erti, 
folti  boschi  romiti,   ermi  deserti, 
grotte  del  chiaro  Sol  fosche  nemiche; 

bramo   cangiar  con   voi   le   piagge   apriche, 
le  superbe  cittadi  e  i  campi  aperti, 
e  menar  di  mia  vita  i  giorni  incerti 
tra  queste  piante  di  silenzio  amiche. 

Che  '1  vostro  sacro  e  solitario  orrore 
(lungi  dal  mondo,    anzi  da  me  diviso) 
daria  riposo  al   mio  turbato  core; 

e  presso  al  dolce  rivo  all'erba  assiso 
che  fa  a'  cantanti  augei  specchio  e  tenore, 
godrei  fra  questi  boschi  un  paradiso. 

IX 

AD  ASCANIO  PIGNATELLI 

che  in  un  suo  discorso  lodò  il  Tasso  ed  il  Marino 

Se  il  Tasso  ed  il   Marin,   spirti  canori, 
coppia  immortai,   che  morte  ha  già  schernita, 
giovanetto  real  che  tanto  onori, 
oggi  nel  mondo  avesser  senso  e  vita; 

del  lor  plettro  gentil  l'armi  e  gli  amori 
per  te  fariano  alta  armonia  gradita, 
e  r  Italia  n'avria  nuovi  splendori, 
dal  nuovo  canto  lor  via  più  arricchita. 

Né  saria  d'uopo  a  si  elevati  ingegni, 
per  dare  aura  alla  fama  e  gloria  al  canto, 
soggetti  ricercar  da  stranei  regni  ; 

che  di  Marte  e  d'Amor  chiaro  campione, 
s'hai  d'Amore  e  di  Marte  il  pregio  e  '1  vanto, 
tu  saresti  il  Rinaldo  e  tu  l'Adone. 


474  LIRICI    MARINISTI 

X 

AL    PADRE    GIACOMO    LUBRANO 

Per  l'infermità  che  l'affliggeva  alla  lingua 

La  tua  lingua  immortai,  ch'offesa  offende 
l'inferno,   s'ella  è  nel  parlar  languente, 
l'alme  infette  a  guarir  pietosa  intende 
e  nel  suo  tronco  dire  è  più  eloquente. 

Se  l'udito  talor  mal  la  comprende, 
scopre  arcani  ineffabili  alla  mente; 
se  bassa,  de'  pensieri  alta  si  rende, 
alzando  al  ciel  l'ascoltatrice  gente. 

Le  ceda  ogn'altra  nell'orar  fiorita, 
che  i  cori  al  vivo  il  suo  dir  punge  e  tocca, 
e,   cosi  inferma,   al  peccator  dà  vita. 

Se  di  celeste  ardor  strali  ne  scocca 
stridendo,  e  al  proferir  non  è  spedita, 
de  l'incendio  divin  la  fiamma  ha  in  bocca. 

XI 

ALLO  STESSO 

Per  le  poesie  da  lui  composte,  latine  e  italiane 

In  riva  del  Sebeto  in  suon  latino 
mentre  tu  canti  ove  cantò  '1  Marone 
e  accordò  la  sua  lira  anco  il   Marino, 
i  vanti  lor  co'  tuoi  par  ch'ei  risuone. 

L'ammirabi!  tuo  stil,   ch'ha  del  divino 
e  indietro  ogn'altro  stil  lascia  e  ripone, 
s'or  tratta  il  plettro  tosco,   alto  destino 
cela  il  tuo  nome  e  in  anagramma  espone. 

Spande  l'ali  la  fama,   e  in  ogni  parte 
le  tue  va  in  promolgar  rime  pregiate, 
l'autor  tacendo,   non  espresso  in  carte. 

Son   le  tue  glorie  al  maggior   segno  alzate; 
che  creda  il  mondo  ella  l'occulta  ad  arte 
che  d'angelica  penna  or  sian  formate. 


GIOVANNI     CANALE  475 

XII 

LO   SCHELETRO 

Tu  che  dal  riguardarmi  orror  apprendi, 
timido  parti  e  la  mia  vista  abborri, 
arresta  il  piede  e  la  mia  voce  intendi  : 
se   movi   il   piede,   in   grave  error  già   incorri. 

Come  a  fragil  beltà  perduto  attendi, 
che  sarà  qual  son  io,   pensa  e  discorri  ; 
un  punto  mi  mutò,   da  un  punto  pendi, 
e  col  tempo  che  vola  a  morte  corri. 

Begli  occhi,   vago  crin,   guance  rosate 
amabil  mi  rendeano,  e  in  un  momento 
divenni  schifa  polve,   ossa  spolpate. 

A  macchinar  disegni  io  vissi  intento; 
ma  i  disegni,   i  pensieri  e  la  beltate 
al  mio  estremo  spirar  sparirò  in  vento. 


XIII 

IL  VECCHIO 

L'uom  ch'ai  volto  ha  le  rughe,  al  crin  la  neve, 
incurvato  dagli  anni  è  reso  un  gioco; 
trema  nel  pie,   che  '1  passo  ha  lento  e  breve, 
da  un  legno  aitato,  e  non  mai  giunge  al  loco. 

L'offende  lo  spirar  d'un 'aura  lieve 
e  nel  più  estivo  ardore  a  grado  ha  il  foco; 
il  tacer,  il  parlar  gli  è  noia  greve, 
poco  intende  e  '1  suo  dir  è  inteso  poco. 

Nel  suo  freddo  vigor  l'ira  l'accende, 
ogni  lungo  piacer  l'infastidisce, 
nulla  gli  piace  e  ad  ogni  cosa  attende. 

Quando  più  sano  appare,  allor  languisce; 
mentre  schivo  a  se  stesso  e  altrui  si  rende, 
fra  miserie  la  vita  egli  finisce. 


476  LIRICI    MARINISTI 

XIV 

IL  DESIDERIO  DI  VIVERE  ANCORA 

Folle  pensier,   che  la  mia  mente  ingombra, 
ch'io  dal  punto  fatai  viva  lontano, 
e  di  speranza  mi  nutrisca  insano, 
che  '1  vero  a  non  veder  cieco  m'adombra; 

temerario  ch'egli  è,   pur  non  disgombra 
da  me  col  suo  freneticar  si  vano; 
né  mira  che  la  parca  ha  il  fèrro  in  mano 
a  far  che  cada  e  mi  risolva  in  ombra. 

Corre  la  vita  al  nonagesim'anno 
e  tornar  gli  anni  indietro  indarno  aspetto, 
d'età  cadente  a  risarcirmi  il  danno. 

Or  che  d'attender  morte  io  son  costretto, 
panni  cangiato  in  agonia  l'affanno, 
in  tomba  la  mia  stanza,   in  bara  il  letto. 


XV 

IL  PENSIERO   DELLA  MORTE 

Tu,   che  superba  vai  di  ferro  armata, 
cruda  per  atterrar  l'umane  vite, 
né  valor  forte  né  beltà  pregiata 
rendon  tue  man  pietose  o  meno  ardite, 

sempremai  voracissima  e  spietata 
pascon  la  fame  tua  genti  infinite 
de'  sensi  prive,   e  tu  non  mai  cibata 
vibri  colpi  accanita,   apri  ferite; 

s'al  tuo  orrendo  apparir  si  suda  e  trema, 
è  che  ti  crede  ognun  lontana  ancora, 
e  giunta  all'improvviso  apporti  téma. 

Ognor  t'ho  avanti  e  penso  ognor  ch'io  mora, 
onde  nel  punto  di  quell'ora  estrema 
fia  men  duro  il  morir,   se  moro  ogn'ora. 


GIOVANNI    CANALE  477 

XVI 

GLI  ABUSI  MODERNI 

A  Federico  Meninni,  fisico  e  poeta 

Al  terminar  degli  anni  eccomi  giunto; 
e  del  mio  albergo  alla  prigion  rinchiuso, 
vivo  nel  mondo  e  son  dal  mondo  escluso, 
che  '1  pie  tremante  al  camminar  fé'  punto. 

Se   non   vaglio   a   formar   debile   un   passo, 
m'aggiro  immoto,   e  fra  i  veduti  oggetti, 
eh' a  riveder  mi  sono  ora  interdetti, 
pellegrinando  col  pensier  mi  spasso. 

Piani  erbosi  solcar  mugghianti  bighe, 
che  la  lunghezza  lor  stanca  la  vista, 
col  pensier  veggio,   e  separar  l'arista 
dai  biondi  grani  in  fìaggellar  le  spighe. 

Or  godo  meditar  vago  ricinto, 
che  di  piante  fruttifere  ripieno 
Pomona  alletta  a  riposarvi  in  seno, 
e  '1  suo  tesor  dal  variare  è  vinto. 

Collinette  frondose  e  selve  chete, 
oscurissime  valli,   orridi  monti, 
laghi,  fiumi,  ruscelli  e  chiari  fonti 
rendono  al  mio  pensier  l'ore  più  liete. 

Borghi,  ville,  città  chiuse  ed  aperte, 
che  dan  ricovro  ai  passaggieri  erranti, 
torno  a  veder  co'  miei  pensier  vaganti, 
calco  senza  partir  strade  deserte. 

Irato  il  dio  del  procelloso  regno 
vedo  (lungi  il  timor)  come  già  vidi, 
e  poi  placato  passeggiando  i  lidi 
di  bella  calma  in  sen  depor  lo  sdegno. 

Ritornan  quindi  alla  memoria  viva 
della  mia  fresca  etade  i  tempi  e  gli  anni  ; 
m'addolora  il  veder  del  tempo  i  danni, 
che  veloce  si  parte  allor  ch'arriva. 


47'^  LIRICI    MARINISTI 

O  dolce  tempo  andato,   ove  fuggisti, 
teco  fuggendo  ogni  modestia  umile 
e  '1  portamento  nobile  e  gentile, 
che  con  lussi  superbi  il  mondo  attristi? 

Semplici  addobbi  la  natia  bellezza 
rendean  pomposa  si,   ma  non  altera, 
ed  imitando  la  maniera  ibera 
non  mai  s'impoveri  l'altrui  ricchezza. 

Or  le  gemme  eritree,   gli  ori  del  Tago 
tessuti  a  siri  stami  in  tele  e  in  nastri 
per  legar  l'alme  ed  apportar  disastri, 
delle  donne  il  desio  non  rendon  pago. 

Di  gonfia  vanità  portano  un  mondo, 
eh 'a  soffrirlo  non  rendonsi  mai  stanche, 
ed  emulando  le  fattezze  franche 
gradito  è  a  lor  di  sconce  vesti  il  pondo. 

Ergon  sul  capo  altier,  come  Cibelle, 
merlata  torre  di  galani  e  veli; 
v'imprigionano  il  crin  eh' avvien  si  celi 
in  pena  che  d'amor  fé'  l'alme  ancelle. 

Candida  benda  dispiegar  si  vede 
qual  bandiera  di  pace  in  su  la  torre, 
sotto  il  dominio  lor  il  mondo  a  porre, 
cui  muovon  guerra  poi,   mancan  di  fede. 

Sprigionato  indi  il  crin,  rivolto  in  fiocchi, 
ne  formano  piramide  d'Egitto, 
per  dare  alla  beltà  termin  prescritto, 
parlare  a  mille  e  stuijor  mille  agli  occhi. 

Col  rinvenir  si  disusate  forme 
credon  più  bella  far  beltà  natia; 
ma  ingannate  ne  van  da  lor  pazzia, 
che  la  beltà  natia  fassi  difforme. 

Di  Firenze  non  mai  bestia  da  soma 
portò  di  rozzi  fregi  il  capo  greve, 
com 'altre  ch'hanno  poco  senno  e  lieve 
portan  monti  di  fior  sopra  la  chioma. 


GIOVANNI    CAXAI-E  479 

Vivon  sott'arso  del  di  fiamme  armato 
nere  beltà  come  le  fé'  natura, 
coperte  sol  dalla  nerezza  oscura, 
ma  vergognose  il  sen  tengon  velato. 

Vedesi  qui,   se  borea  agghiaccia  il  rivo 
all'aria  in  risoffiar  fiato  di  gelo, 
mezze  nude  beltà  senz' alcun  velo, 
che  d'onesto  rossore  il  volto  han  privo. 

Gli  uomini  intanto  la  follia  donnesca 
accompagnano,   ancor  resi  più  folli; 
gli  abbigliamenti  femminili  e  molli 
usar  par  eh' a  ciascun  la  stima  accresca. 

Han  quelle,  il  perucchin  dismesso  e  guasto, 
per  sempre  variar  vario  1'  umore; 
questi  col  ripigliare  il  loro  errore 
nel  renderlo  maggior  recansi  a  fasto. 

Or  le  perucche  a  frenesie  tessute 
fan  di  lor  copia  ed  intrecciate  e  scinte; 
altre  son  naturali,   altre  son  tinte, 
altre  corte,   altre  lunghe,   altre  ricciute. 

Quel  che  non  fé'  natura  inventa  l'arte, 
dando  alle  sete  color  vari  e  belli; 
maestre  mani  in  trasformar  capelli 
stravaganti  chimere  ai  crini  han  sparte. 

Varie  di  più  color  ferman  lo  sguardo, 
aggravando  col  peso  or  l'altrui  fronte, 
che  di  sudor  fan  che  distilli  un  fonte, 
quando  che  in  capricorno  il  Sol  vien  tardo. 

Or  d'un  villan  gli  scarmigliati  crini, 
che  pendendo  da  un  legno  ei  diede  al  vento, 
pria  sotto  a'  piedi  vili,   indi  ornamento 
d'illustre  capo  han  riverenti  inchini. 

Industria  mercantil,  chiome  europee, 
rubate  a  morti  e  da  languenti  accolte, 
son  divenute  in  molte  fogge  e  in  molte 
pompe  alle  fronti  nobili  e  plebee. 


4So  LIRICI    MARINISTI 

Diviso  un  monte  altri   ne  forma  e  innalza 
novel  Vesuvio,   e  se  non  par  ch'allumi, 
pur  di  superbia  all'aria  esala  i  fumi, 
da  cui  discende  al  sen  gemina  balza. 

Due  ciocche  acute  avvien  ch'altri  riporte 
sul  capo,   qual  portò  raggi  lucenti 
quel  grand'ebreo  ch'in  adoprar  portenti 
diede  altrui  con  la  verga  or  vita  or  morte. 

Che  s'in  mano  ei  non  tien  verga  fatale, 
fanciullesco  spadin  gli  pende  al  fianco, 
ch'ora  da  lussi  effeminato  e  stanco 
l'annoia  arma  pesante  e  a  trar  non  vale. 

Già  composte  le  chiome  in  tante  guise 
dal  mondo  alla  vecchiezza  han  dato  il  bando, 
tornata  in  gioventù,   né  si  sa  il  quando, 
ch'ai  figlio  Enea   somiglia  il  padre  Anchise. 

Or  temerario  il  pelo  invano  insulta, 
col  rinovar  l'uscita,   il  volto  antico, 
che  lo  sgombra  da  sé  qual  rio  nimico; 
niun  si  vede  più  d'etade  adulta. 

S'ammira  altri  bensi  d'etade  annosa, 
che  siede  in  primo  loco  egli  fra  i  matti, 
giovane  in  apparenza  e  vecchio  in  fatti, 
ch'imperruccato  ha  la  canizie  ascosa. 

Dal  mento  grinzo  il  bianco  pel  reciso, 
rasa  ben  la  lanugine  canuta, 
ha  faccia  giovami,   ma  non  creduta 
per  tante  crespe  che  dimostra  al  viso. 

Vuol  l'amata  ingannar  con  tal  menzogna 
in  mentir  chioma,   in  falseggiar  sembiante; 
ma  non  mai  donna  amò  rugoso  amante, 
e  d'esser  riamato  egli  si  sogna. 

Al  rinascer  del  pel  non  ha  riparo, 
vero  appalesator  di  sue  bugie; 
onde  per  occultar  le  sue  follie 
spesso  vi  fa  adoprar  rodente  acciaro. 


GIOVANNI    CANALE  481 

Ingannato  al  pensier  mentre  folleggia, 
smarrito  del  discorso  il  buon  governo, 
si  rende  a.  tutti  e  passatempo  e  scherno; 
vaneggia  ognor,   né  sa  ch'egli  vaneggia. 

Posta  in  oblio  la  gravità  spagnuola, 
l'uso  di  nere  vesti  oggi  è  abborrito, 
eh 'a  più  colori  sciamberghin  fiorito 
il  pregio  maestoso  a  quelle  invola. 

Gli  abiti  colorati  e  da  campagna 
mostran  che  i  cittadin  sien  forestieri, 
o  che  voglian  segnar  lunghi  sentieri 
per  veder  curiosi   Italia  o  Spagna. 

Onde  di  vesti  baldestanie  cinti, 
brandisse,   brandeborghe  e  patalette, 
di  boUanchine  e  di  sciamberghe  elette, 
son  da  ventosa  bizzarria  sospinti. 

Par  che  perda  d'onor,   manchi  a  se  stesso 
chi  per  capricci  bave  il  cervel  non  sodo, 
se  la  moda  che  s'usa  e  senza  modo 
non  usa  e  qual  monton  non  vada  appresso. 

Scemo  cosi  farnetico  delira, 
idea  de!  bello  alla  sua  idea  si  pinge; 
credesi  un  altro,   un  semidio  si  finge, 
e  a  vertigin  di  smanie  il  capo  ei  gira. 

Menin,   cui  Febo  die  penna  erudita, 
la  mia  già  è  stanca;   a  scriver  tu  ripiglia 
gli  altri  eccessi,   a  stupir  la  meraviglia, 
che  lasciai,   di  Partenope  impazzita. 

La  tua  man  valorosa  indi  a  lei  porgi, 
ch'espugna  i  morbi  e  d'  Esculapio  ha  i  vanti. 
Ma  che?  per  far  che  torni  il  senno  a  tanti 
non  bastan  cento  rote  e  cento  Giorgi! 


Lirici  marinisti 


XII 


MENIiNNl  -  L.  E  P.  CASABURl  -  GAUDIOSI 


DOTTI  -  FERRUCCI 


FEDERICO    MEXIXXI 


I 

I  FIORI  E  LA  SUA  DONNA 

Mentre  le  vie  più  tenere  del  prato 
premi,  o  Nice,  talor  nuda  le  piante, 
de'  tuoi  begli  occhi  e  non  del  nume  aurato 
Clizia  si  volge  al  gemino  levante. 

Tra  la  plebe  de'  fior  fatto  gigante 
s'alza  il  giglio  a  mirar  tuo  volto  amato, 
e  viene  a  corteggiar  l'aura  vagante 
più  tua  beltà  che  il  popolo  odorato. 

De'  roveti  a  macchiarsi  entro  l'asprezza 
di  vago  sdegno  e  di  rossor  non  poco 
la  reina  de'  fior  j  er  te  s'avvezza. 

E  con  tre  lingue  onde  somiglia  il  foco, 
per  tributar  gli  encomi  a  tua  bellezza, 
di  te  favella,   innamorato,   il  croco. 


4-86  LIRICI    MARINISTI 

II 

GLI  ALBERI  E  LA  SUA  DONNA 

Degli  orti,   ch'erudì  destra  ingegnosa, 
qualor  ten  vieni  a  passeggiar  la  via, 
umiliata  ogni  albore  frondosa 
offrir  suoi  parti  a  la  tua  man  desia. 

S'apre  il  re  de  le  frutta,   e  la  natia 
ricchezza  de'  rubin  ti  scopre  ascosa; 
a  te  la  vite  i  suoi  piropi  invia, 
lussureggiante  in  su  la  rupe  ombrosa. 

Parla  a  te  sospirando  il  pero,   il  moro, 
mentre  par  che  sue  frondi  in  lingue  cange: 
—  Io  pero,  o  Nice;   innamorato  io  moro.  - 

Il  pesco,   acceso,   il  proprio  sen  si  frange; 
per  te  serba  l'arancio  i  pomi  d'oro, 
per  dolcezza  d'amore  il  fico  piange. 


Ili 
IL  VESUVIO  E  LA  SUA  DONNA 

Vedi,  Nice,  quel  monte?  Egli  è  Vesevo, 
ch'ha  su  le  viti  i  grappoli  pendenti, 
i  cui  vermigli,   indomiti  torrenti, 
per  estinguer  talor  la  sete  io  bevo. 

E  dal  breve  dormir  poi  che  mi  levo 
per  girne  errando  a  pascolar  gli  armenti, 
contra  i  raggi  che  il  Sol  vibra  cocenti 
sotto  i  pampani  suoi  schermo  ricevo. 

Là  Vulcano  non  è  Sterope  o  Bronte, 
ch'assidui  colpi  in  su  l'incude  incalza, 
benché  sparsa  di  fiamme  abbia  la  fronte. 

Ma  da  quella  fumosa  arida  balza, 
con  petto  acceso,   innamorato,   il  monte 
per  mirar  tua  bellezza  il  capo  innalza. 


FEDERICO    MENINNI  48? 

IV 

CONSOLATORIA 

A  donna  che  invecchia 

Nel  vetro  lusinghier  l'aspetto  antico, 
poiché  Nice  mirò,   die  varco  al  pianto, 
e  '1  fulgido  censore,   un  tempo  amico, 
fé'  che  nel  suol  precipitasse  infranto. 

Poi  disse:  —  Invano  a  ravvivar  quel  vanto 
di  mie  guance  adorate  io  m'affatico; 
mi  cingo  invan  di  prezioso  ammanto, 
s'  oggi  il  mio  volto  è  di  beltà  mendico. 

Fatta  è  difforme,  e  in  questa  bassa  mole 
col  ,dio  che  in  oriente  ha  d'or  la  cuna, 
gareggiar  più  la  chioma  mia  non  suole.  — 

Ma  Nice,   a  che  biasmar  la  tua  fortuna? 
Se  con  l'oro  del  crin  sembrasti  il  Sole, 
con  l'argento  del  crin  sembri  la  Luna. 

V 

IL    PAVONE 

Questi,  che  spiega  a  l'aure  ali  splendenti, 
è  ne'  vari  color  Proteo  vagante, 
iride  de'  pennuti,   Argo  volante, 
eh'  ha  mille  in  vagheggiarsi  occhi  lucenti. 

Se  a  la  vaga  stagione  i  fior  languenti 
render  sa  de  le  sfere  il  can  latrante, 
il  samio  augel,  eh' è  primavera  errante, 
non  paventa  di  Sirio  i  vampi  ardenti. 

Emolo  par  de  le  sideree  scene, 
qualor   sue   penne    occhiute,    auree   fiammelle, 
l'Olimpo  degli  augelli  a  scoter  viene. 

Anzi,  d'Atlante  emulator  s'appelle, 
mentre  con  meraviglia  altrui  sostiene 
sovra  gli  omeri  suoi  mondo  di  stelle. 


488  LIRICI    MARINISTI 

VI 

LA  CARTA  GEOGRAFICA 

Forza  d'umano  ingegno!    In  breve  giro 
Europa  tutta  epilogata  io  trovo; 
per  sentier  sconosciuto  il  pie  non  movo, 
e  pur  straniere  io  le  città  rimiro. 

Quanto  in  più  lustri  altri  mirò,   se  giro 
un  sol  guardo,   distinto  io  tutto  approvo; 
veggo  regni  remoti  e  clima  novo, 
e  d'incognite  balze  il  ciglio  ammiro. 

D'ogni  fiume  natio  scorgo  la  foce, 
e  d'ogni  mar  tra'  scogli  suoi  diffusa 
l'onda,   che,   benché  finta,   appar  feroce, 

Stupor  non  fia  se  de  l' argiva  musa 
fu  l'Iliade  ristretta  in  una  noce, 
quando  1'  Europa  in  picciol  foglio  è  chiusa. 

VII 

FUGACITÀ    DELL'UOMO 

E    PERSISTENZA    DELLE    COSE 

Questi  hbri,   da  cui  più  cose  imparo 
e  che  divoro  anco  di  Lete  a  scorno, 
altri,  per  innalzar  forte  riparo 
contro  l'oblio,  divoreranno  un  giorno. 

In  questo  albergo,   in   cui   ricovro  ho  caro, 
mentre  le  cure  a  riposar  qui  torno, 
se  '1  ciel  non  fia  di  sue  vicende  avaro, 
altri  faranno  in  altra  età  soggiorno. 

In  questo  letto,   ove  fra  l'ombre  assonno 
perché  rechi  a'  miei  sensi  alcun  ristoro, 
altri  ancor  chiuderà  le  luci  al  sonno. 

Quindi  rodemi  il  cor  più  d'un  martoro, 
solo  in  pensar  che  qui  durar  ben  ponno 
cose  che  non  han  vita,  ed  io  mi  moro  ! 


FEDERICO    MENINNI  489 

Vili 

SPERANZA  DI  GLORIA 

Con  vomere  stridente  il  suol  disserra 
l'agricoltor  ne  la  stagion  più  fiera, 
e  sudando  fra  il  gelo  i  rastri  afferra, 
per  mieter  poi  l'aurata  mèsse  altera. 

Tratta  i  remi  il  nocchier,   ch'in  strania  terra 
predar  tesori  avidamente  spera; 
suda  gli  agoni  un  fulmine  di  guerra 
per  trionfar  de  la  nemica  schiera. 

Straccia  il  seno  a  le  belve  in  Eri  manto 
versando  il  cacciator  tepido  rio, 
per  impetrar  d'arcier  superbo  il  vanto. 

E  vegghiando  le  notti  anco  sper'io 
forse  con  la  mia  penna  e  col  mio  canto 
ferir  la  morte  e  fulminar  l'oblio. 


IX 

LA  BUGIA,   REGINA  DEL  MONDO 

Sol  menzogne  ravviso  ovunque  il  guardo 
de  l'intelletto  e  de  le  luci  io  giro. 
Se  d'un  nume  terren  la  reggia  io  guardo, 
mille  di  falsità  ritratti  io  miro; 

se  '1  pie  talor  entro  i  musei  ritardo, 
iperboli  dipinte  i  lini  ammiro; 
lusinghiera  beltà  viso  bugiardo 
m'addita,   allor  che  a  vagheggiarla  aspiro. 

Turba  di  fole  entro  i  licei  dimora, 
né  di  finte  apparenze  è  '1  cielo  avaro, 
quando  a  l'iride  un  arco  il  Sol  colora. 

Ma  che   giova   schernir   gli  altri   che  alzàro 
trono  superbo  a  la  bugia,   se  ancora 
bugie  da  Febo,  io  che  ragiono,   imparo? 


490  LIRICI    MARINISTI 

X 

IN  UNA  VILLA  PRESSO  SORRENTO 

Ad  Antonio  Teodoto 

Vivo,  amico,  a  me  stesso.  A  pie  d'un  fonte, 
ch'odorosa  la  conca  e  l'onde  ha  chiare, 
non  più  cure  celando  in  petto  amare, 
a  l'armonie  le  mie  vigilie  ho  pronte. 

Mentre  accordo  la  cetra  e  la  mia  fronte 
fregio  d'allòr  che  non  ha  frondi  avare, 
più  sirene  ritrovo  in  questo  mare, 
più  camene  ritrovo  in  questo  monte. 

Qui  le  vane  speranze  in  aria  ho  sparte, 
qui  canto  i  miei  più  giovenili  errori, 
qui  d' inchiostri  febei  vergo  le  carte. 

Fra  le  pallide  ulive  e  fra  gli  allori 
or  facondie  Minerva  a  me  comparte, 
or  mi  spira  Calliope  i  suoi  furori. 

XI 

NEL  TEMPO  DELLA  PESTE  Dì  NAPOLI 

Al  padre  Niceforo  Sebaste,  agostiniano 

.Sovra  carro  funebre 
con  tartareo  flagello  i   draghi  alati 
furia  di  Flegetonte  agita  a  volo. 
De  l'enfiate  palpebre 
ai  guardi  infetti  e  de  la  bocca  ai  fiati, 
d'ossame  imputridito  ingombra  il  suolo. 
Spettatrice  di  duolo 
fassi  l'Esperia,   e  di  conforti  esausto, 
di  tragedia  fatai  teatro  infausto. 


FEDERICO    MENINNI  49I 

indomito  veleno 
per  le  viscere  altrui  serpe  baccante, 
mentre  qual  idra  il  suo  livor  propaga; 
sul  margine  tirreno 
con  pestifero  strai  parca  anelante 
di  popolo  infinito  i  petti  impiaga; 
con  tante  morti  appaga 
gli  sdegni  suoi,   che  di  tristizia  gonfi 
erge  in  orride  bighe  i  suoi  trionfi. 

Spopolate  le  ville 
son  di  bifolchi  e  di  guerrier  le  ròcche, 
di  toghe  i  fòri  e  di  ministri  i  tèmpi  ; 
di  lacrimose  stille 

son  aride  le  luci,   e  le  altrui  bocche 
stanche  di  morte  a  detestar  gli  scempi  ; 
perché  di  madre  adempì 
la  terra  i  mesti  uffici,   ancorché  vasta, 
l'ossa  insepolte  a  sepellir  non  basta. 

D'antidoti  salubri 
al  contagio  non  è  sicuro  schermo 
da  l'arte  d' Epidauro  unqua  prescritto; 
su'  talami  lugubri, 

mentre  s'adopra  a  sollevar  l'infermo, 
cade  su  l'egro  il  fisico  trafitto; 
il  genitore  afflitto, 
di  gelido  pallore  il  volto  tinto, 
spira  l'anima  in  braccio  al  figlio  estinto. 

Attaliche  ricchezze, 
lacera  povertà,   rapido  strugge 
con  assalti  improvvisi  il  morbo  infame; 
fulminate  bellezze, 
deformità  spiranti  il  foco  adugge, 
di  fiamme  ingorde  a  saziar  la  fame; 
a  recider  lo  stame 

di  tante  vite,   infra  singulti  e  strida  ~~~~ 

stanca  la  falce  sua  Cloto  omicida. 


492  LIRICI    MARINISTI 

Fra  si  tragiche  scene 
io  vivo,   amico,   e  provvido  riparo 
contra  influsso  maligno  alzar  m'ingegno; 
or  co'  fogli  d'Atene 
dal  comun  fato  a  riserbarmi  imparo, 
or  animando  armonioso  un  legno; 
degli  Elisi  nel  regno, 

se  resta  il  mondo  in  fra  le  stragi  absorto, 
entro  un  mar  di  sudori  io  spero  il  porto. 

O  di  musici  accenti 
delfico  re,   che  d'immortali  e  casti 
lauri  fregi  il  tuo  crin  sui  gioghi  ascrei, 
se  da  languidi  armenti 
l'aure  contaminate  allor  fugasti 
quando  l'ostie  fumar  sui  colli  idei, 
dagli  aliti  letei 

tu  preservami  intatto;   in  roghi  accensi 
già  le  vittime  sveno,   ardo  gl'incensi. 

Sovra  letto  spiumato 
ove  d'Olanda  e  di  Getulia  a  scorno 
ricca  pompa  facean  gli  ostri  e  le  tele, 
pallido,  addolorato 

languia  l'inclito  Alfonso,   a  cui  dintorno 
di  ministri  assistea  turba  fedele; 
al  palpito  crudele 

del  suo  petto  anelante  in  dare  esiglio, 
d' Esculapio  non  giova  arte  o  consiglio. 

Tutto  ciò  che  da  l'erbe 
e  dai  fiori  stillò  chimica  mano, 
de  la  vita  real  si  sceglie  a  l'uso; 
le  dovizie  superbe 

di  Cleopatra  invan  distempra,   e  'nvano 
altri  il  biondo  metal  rende  diffuso; 
che  al  temerario  fuso, 

benché   gli  ori  de   l'Ermo  in   tazza  ei   mesce, 
Cloto  stami  più  lunghi  indarno  accresce. 


FEDERICO    MENINNI  493 

Gusta  appena  di  Faso 
l'ambito  augel,   che  nauseante  il  rende 
antipatia  di  congiurati  umori  ; 
da  cruda  sete  invaso, 

che  d'incendio  vorace  il  sen  gli  accende, 
brama  d'un  fonte  i  gelidi  liquori; 
e  fra  notturni  errori, 
quand'  altri  le  pupille  aprir  non  ponno, 
vien  co'  fantasmi  a  funestarlo  il  sonno. 

Cosi  languia,   quand'ecco 
le  memorie  erudite,   espresse  in  fogli, 
con  occhio  immoto  a  contemplar  s'accinse. 
Dal  petto  arido  e  secco 
gli  occulti,   inconsolabili  cordogli 
tosto  a  fuggir  con  quelle  note  astrinse. 
In  mar  d'inchiostri  estinse 
gli  ardori  esorbitanti,   e  gli  die  scampo 
sol  di  bella  virtù  sereno  un  lampo. 


LORENZO    CASABURI 


I 

LA  POZZETTA  NELLE   GUANCE 

Rise  Clorinda,  e  su  la  guancia  bella 
dolcissima  pozzetta  allor  s'aprio; 
quando  il  mio  cor  ad  osservar  sen  gio 
si  leggiadra  d'amor  cifra  novella. 

—  Fors'è  questa  —  dicea  —  propizia  stella, 
eh 'ad  affrenar  le  mie  tempeste  uscio? 
fors'è  '1  fonte  del  riso,   ove  m'invio 
a  delibar  di  gioie  alta  procella?  — 

Amor  l'udi,   che  v'era  ascosto.   E,   sciolto 
ver'  lo  'ncauto  mio  cor  dardo  improviso, 
cadde  trafìtto  e  vi  restò  sepolto. 

Oh  cor  beato,   in  si  bel  loco  ucciso! 
poiché,   di  fiori  in  sul  feretro  accolto, 
ti   fu  tomba  la  rosa  e  nenia  il  riso. 


LORENZO    CASABURI  495 

II 

INGENIUM  IPSA  PUELLA  FACIT 

Col  domestico  lume  altri  pur  tenti 
accrescer  lumi  a'  numeri  sudati, 
eh 'a  far  chiaro  il  mio  stil  saran  possenti 
i  dolci  rai  di  duo  begli  occhi  amati. 

S'altrui  dan  metri  amenità  di  prati, 
a  me  dan  melodie  guance  ridenti  ; 
s'altrui  destan  lo  'ngegno  i  pinti  alati, 
alza  un  cigno  fastoso  i  miei  concenti. 

Se  d'erto  faggio  il  verde  crin  si  mira 
altrui  la  lingua  all'armonie  disporre, 
a  me  chioma  dorata  i  canti  inspira. 

S'altri  la  cetra  sua  brama  comporre 
lungo   un   ruscello,   io   vo'  temprar   mia  lira 
presso  un  tenero  sen,   che  latte  corre. 

Ili 
OCCHI  NERI 

A  richiesta  di  Giuseppe  Mastrilli  Gomez 

Occhi  neri,   occhi  belli,   or  quale  avrete 
nome  che  '1  vostro  esprima  alto  valore? 
Bruni  lapilli  io  non  dirò  che  siete, 
se  i  di  fausti  per  voi  mi  segna  Amore. 

Calamite  non  già,   mentre  sapete 
a  me  rapir,   del  ferro  in  vece,   il  core; 
fosche  stelle  né  pur,   poiché  potete 
di  mia  stella  cangiar  l'aspro  tenore. 

Direi  ch'abbia  la  notte  in  voi  soggiorno, 
se  non  sapessi  ben  che  solo  io  vissi 
per  voi  sereno  e  sempre  lieto  il  giorno. 

Se  miei  Soli  ecclissati  io  dirvi  ardissi, 
folle  sarei,   eh 'anco  del  sole  a  scorno 
mi  sa  vita  recar  la  vostra  ecclissi. 


496  LIRICI    MARINISTI 

IV 

LE  DONNE  ASCOLTATRICI  DELLA  SUA  POESIA 

Coronatemi,  o  lauri.  Il  tracio  legno 
a  te,  cetera  mia,   ceda  i  suoi  vanti, 
che  se  quegli  placò  lo  stigio  regno, 
tu  cieli  di  beltà  tragger  ti  vanti. 

De'  Campidogli  tuoi  l'alto  disegno 
io  non  invidio,   o  Tebro,   a' tuoi  regnanti; 
che  teatro  più  nobile  e  più  degno 
m'alzar  di  belle  ciglia  archi  stellanti. 

Mecenati,   or   non   più  chieggio  a'  destini 
che  d'alme  bocche  al  plettro  mio  sonoro 
s'apran  arche  di  perle  e  di  rubini. 

Taccia  chi  inutil  chiama  il  dio  canoro, 
che  di  candidi  petti  e  biondi  crini 
tratti  ho  monti  d'argento  e  fiumi  d'oro. 


v 
L'OROLOGIO   FERMO 

Frena,    o   bella,   il   dolor,   se  '1   veglio   alato 
sta  nel  tuo  grembo  in  vasel  d'oro  immoto; 
ch'invaghito  di  te,   priega  devoto 
la  deità  del  tuo  sembiante  amato. 

O  s'arrestò  perché  '1  tuo  bel  furato 
non  gli  sia  dell'età  dal  dente  ignoto, 
o  per  aver  da'  tuoi  begli  occhi  il  moto, 
s'è  da  sue  rote  a  più  bei  giri  alzato. 

Forse  del  ciglio  allo  'nfiammato  lume, 
forse  del  seno  all'animato  gelo, 
il  suo  pie  s'agghiacciò,   s'arser  le  piume; 

o  del  tuo  petto  in  sul  celeste  velo 
d'agitarsi  nel  corso  invan  presume, 
perché  correr  non  puote  il  tempo  in  cielo. 


LORENZO    CASABURI  497 

VI 

LA  BELLA  MUTA 

Forse   in   limpido  specchio  o  in  fresca   riva 
fisasti  della  fronte  i  vivi  avori, 
e  della  tua  beltà  gli  alti  stupori 
della  propria  favella  oggi  t'  han  priva? 

Od  a  natura  il  tuo  tacer  s'ascriva, 
presaga  già  de'  tuoi  celesti   onori, 
perché  dovevi  in  sugli  aitar  de'  cori 
adorata  seder  mutola  diva? 

O  la  tua  lingua  entro  il  silenzio  asconde, 
mentre  per  intimar  e  guerre  e  paci 
sono  i  begli  occhi  tuoi  lingue  faconde? 

O  d'uopo  non  stimò  formar  loquaci 
de'  labri  tuoi  le  porpore  gioconde, 
perché  senza  parlar  chiamano  a'  baci? 


VII 

LA  GIOCATRICE  DI  CORDA 

Corre  Clorinda  in  sui  ritorti  lini 
qual  per  l'aeree  vie  stella  cadente, 
e  formano  un  meandro  aureo  lucente 
agitad  dall'aure  i  suoi  bei  crini. 

Or  non  sospiro  più  gli  orti  latini 
ch'in  aria  architettò  la  prisca  gente, 
s'in  un  florido  qui  volto  ridente 
godo  più  belli  i  penduli  giardini. 

Cade  e  sorge  in  un  punto,   onde  deriso 
vien  l'occhio  altrui,  mentre  gli  dona  e  fura 
del  suo  vago  sembiante  il  paradiso. 

E  quindi  istupidito  ogni  uom  la  giura 
del  piede  al  moto,  alla  beltà  del  viso, 
miracolo  dell'arte  e  di  natura. 

Lirici  mat-inisti  —  32 


498  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

IL  GIOCATORE  DI  CORDA 

Lunghi  voli,   alti  scherzi,   erta  salita 
tu  formando  in  un  laccio  al  ciel  disteso, 
stupido  lo  stupor  mira  sospeso 
quanto  possa  dell' uom  la  mente  ardita. 

Non  vanti  più  la  sua  colomba  Archita, 
or  che  rapido  il  volo  ha  l'uomo  appreso; 
né  sia  Dedalo  teco  a  gara  acceso, 
se  volante  senz'ali  oggi  t'addita. 

Già  de'  canapi  tuoi  gli  occulti  ponti 
fatt'han  per  gelosia  Giove  di  ghiaccio, 
che  'n  grembo  a  Giuno  a  tuo  piacer  sormonti 

e  più  che  de'  Tifei  teme  il  tuo  braccio, 
poiché,   se  quei  non  v'arrivar   co'  monti, 
tu  su  l'etra  poggiar  puoi  con  un  laccio. 

IX 

LA  DONNA  AL  MARITO 

the  vuole  andare  alla  j^uerra  contro  i  turchi 

Dal  letto  al  campo?  e  d'Imeneo  le  faci 
spegnerà  nel  tuo  cor  di  Marte  il  foco? 
per  gir  la  luna  a  catenar  de'  traci, 
lasci  un  Sol  di  beltà  de'  proci  al  gioco? 

Con  le  querce  cangiar  ti  cai  si  poco 
questi  de'  bracci  miei  serti  tenaci? 
e  sdegnerai  pe  '1  timpano,   eh' è  roco, 
la  melodia  dolcissima  de'  baci? 

Dalle  sanguigne  vie  del  dio  più  fero, 
per  far  più  senno,  il  tuo  jDensier  distorna 
al  vago  del  mio  sen  latteo  sentiero. 

Ma  di   penne,  a   fuggirmi,    il   capo   adorna; 
che  porterai  nel  tuo  trionfo  altero 
della  luna  ottomana  ambe  le  corna! 


LORKNZO    CAS  AHI- RI  499 

X 

PEL    RITRATTO    DELL'AVO    E^IETRO   URRIES 

uditore  generale  tlell'esercito  nel  regno  di  Napoli 

È  questa  quella  fronte  in  cui  sen  venne 
Temi  dall'etra  a  stabilir  suoi  sogli? 
questo  è  quel  ciglio  pur,   ch'Iri  divenne 
de'  rauchi  fòri  a'  tempestosi  orgogli? 

questo  è  quel  labro  ancor  che  fiumi  e  scogli 
d'inceppar,   d'impennar  virtù  ritenne? 
e  questa  quella  man,   ch'arando  i  fogli 
già  gli  elmi  aviti  impoveri  di  penne? 

Lieto  è  '1  giusto  a  sua  vista,   il  reo  tremante; 
delle  vedove  afflitte  il  duol  disgombra, 
degli  orfani  consola  egro  il  sembiante. 

Astrea,   cui  di  dolor  Lachesi  ingombra, 
china  le  luci  qui:   sarà  bastante 
del  mio  gran  Pietro  a  serenarti  un'ombra. 

XI 

LE   LAGRIME 

Mute  oratrici,   a  mitigar  possenti 
l'irato  re  degli  stellanti  fòri, 
e  sapete  abolir  co'  vostri  umori 
delle  sentenze  sue  gl'impressi  accenti; 

di  vostre  perle  i  fulgidi  torrenti 
pagar  dell'alma,   anzi  annegar  gli  errori; 
che  se  Giove  invaghi   Danae  con  gli  ori, 
innamorano  un  Cristo  i  vostri  argenti. 

Ei  de'  nettari  suoi  l'alme  procelle 
pose  pe  '1  vostro  amaro  anco  in  oblio, 
per  le  cui  stille  abbandonò  le  stelle. 

Voi   dell'ambre   assai   più   pregiar   degg'io; 
se  l'ariste  rapir  vantansi  quelle, 
voi  serbate  virtù  di  trarre  un   Dio. 


PIETRO    CASABURI 


I 

INNANZI  ALLO  SPECCHIO 

Concedi  al  crin,  ch'ai  Sol  fa  biondi  oltraggi, 
con  aurei  calamistri  ondosi  errori, 
e  d'un  cristallo  a'  getici  rigori 
pingi  sul  viso  i  più  fioriti  maggi. 

D'un  duro  gelo  a'  balenanti  raggi 
désti  al  regno  di  Cipro  immensi  ardori, 
e  rendi  a  te  necessitati  i  cori 
sacrar  de'  pianti  i  liquefatti  omaggi. 

Cosi  col  vetro,  ond' eleganze  ha  rare, 
la  tua  beltà  turbe  d'amanti  atterra; 
tanto  nell'arti  insidiosa  appare. 

D'Archimede  rinnovi  a  noi  la  guerra: 
ei  con  gli  specchi  accese  l'oste  in  mare, 
tu  con  gli  specchi  accendi  l'alme  in  terra. 


PIETRO    CASABURI  50I 

II 

LA  CHIOMA  NERA 

Tenebroso  meandro,   entro  il  cui  giro 
naufragato  m'avvolgo  in  dolci  errori  ; 
ombra  ch'oscuri  l'ombra  e  vinci  gli  ori, 
mentre  le  tue  caligini  rimiro; 

scorni  agl'inchiostri   tuoi   gli   ostri   di  Tiro, 
onde  sui  petti  altrui  descrivi  ardori, 
e,   da  gli  ebeni  tuoi  vinti  gli  avori, 
la  tua  leggiadra  oscurità  sospiro. 

Notte  filata,   alle  tue  chiare  luci, 
che  sul  ciel  d'una  fronte  hanno  il  chiarore, 
nel  bel  regno  d'Amor  l'alme  conduci. 

Ma  se  notte  rassembri  al  vago  orrore, 
meraviglia  non  è  s'amor  produci, 
poiché  sol  dalla  notte  è  nato  Amore. 


ITI 

TRAMONTANDO  IL  SOLE 

Ed  ecco,  o  Filli,  avventurosa  aurora 
portò  quel  giorno  onde  il  mio  duolo  ha  pace; 
ecco  in  sen  pur  ti  .stringo,   ecco  si  sface 
l'anima  per  dolcezza  e  si  ristora. 

Ma  Febo,  ahi  lasso,  inver'  la  spiaggia  mora 
già  va  del  giorno  a  sepellir  la  face, 
e  già  convien  che  tu,  da  me  fugace, 
tristo  qui  m'abbandoni  e  ch'io  mi  mora. 

Giove,  perché  costei  dalle  mie  braccia 
non  parta  mai,  del  sole  inchioda  il  volo, 
e  su  l'eteree  vie  lung'or  sen  giaccia; 

se,   nel  concetto  già  d'Alcide,   il  polo 
fé'  di  duo  giorni  una  sol  notte,   or  faccia 
di  due  notti  congiunte  un  giorno  solo. 


502  LIRICI     MARINISTI 

IV 

A  GIOVANE  INNAMORATO 

DI    BIANCHISSIMA    DONNA 

Sia  di  neve  un  bel  seno.   Ivi  i  candori 
invan  dell'onestà  trovar  già  tenti, 
poich'alle  nevi  ancor  sugli  emi  algenti 
il  filosofo  acheo  negò  gli  albori. 

Sia  d'avori  un  bel  seno.   Indarno  implori 
dal  suo  bello  pietà  ne'  tuoi  tormenti, 
che  còlti  son  dall' affricane  genti, 
porzione  d'un  mostro,   anco  gli  avori. 

.Sia  di  latte  un  bel  sen.    Di  morte  il  gelo 
paventa   ancor,    che   contro   i    Fabi   io   scerno 
volar  nel  latte  anco  di  Cloto  il  telo. 

E  se  scritto  è  lassù  dal  Giove  eterno 
ch'altri  per  via  di  latte  entri  nel  cielo, 
tu  per  calli  di  latte  entri  in  Averno. 

v 
LA    ROSA 

Nella  vaga  republica  di  Flora 
sol  di  beltà  le  maggioranze  io  vanto; 
cede  il  giglio  appo  me,   vile  è  l'acanto 
onde  superbo  il  molle  aprii  s'infiora. 

Me  l'alata  famiglia  in  su  l'aurora 
lieta  saluta  allor  che  tempra  il  canto, 
e  perché  di  reina  io  porti  il   vanto, 
ricco  diadema  in  sul  mio  crin  s'indora. 

Simile  a'  re  su  la  mia  regia  sede, 
eh' è   di   smeraldo   infra   i   miei   verdi   chiostri, 
darmi  fregi  al  bel  sen  l'ostro  si  vede. 

Ma  cedetemi,  o  regi,   i  vanti  vostri; 
s'una  conca  le  porpore  a  voi  diede, 
il  sangue  di  Ciprigna  a  me  die  gli  ostri. 


PIETRO   CASABURI  503 

VI 

A  UN  BAMBINO  IN  CULLA 

Si  nasce  alle  fatiche;   uopo  è  che  sudi, 
se  tu  goder  felicità  mai  speri; 
s'esser  vuoi  glorioso  infra  i  guerrieri, 
dèi  di  Bellona  affaticar  gli  scudi. 

Incontrerai  nel  mar  gli  austri  più  crudi, 
se  conquisti  vuoi  far  d'ori  stranieri; 
s'ami  cingerti  il  crin  di  lauri  alteri, 
dèi  di  Minerva  esercitar  gli  studi. 

Se  contraria  non  ha  Giuno  importuna 
il  greco  Alcide,  in  su  le  stelle  i  Giovi 
non  gli  schiudono  mai  soglia  opportuna. 

Disagi  hai  da  soffrir,  se  vuoi  che  giovi 
a  te  la  sorte.   Ecco,   bambino  in  cuna, 
s'agitato  non  sei,   pace  non  trovi! 


VII 

ESCULAPIO,   INVENTORE  DELLO  SPECCHIO 

Fisso  il  pie  vagabondo  a'  vivi  argenti, 
e  svelti  là  dalle  gelate  valli 
dell'Alpi  ombrose  i  lucidi  cristalli, 
lo  specchio  esposi  alle  mondane  genti. 

Qui  r Ecube  e  i  Tersiti  a'  lussi  intenti 
di  natura  emendar  sul  volto  i  falli; 
porsero  a'  labri  teneri  coralli, 
ostri  alle  guance  ed  alle  chiome  unguenti. 

Dell'arte  opra  migliore,   onde  gli  oggetti 
per  cui  gli  egri  amatori  hanno  il  feretro, 
par  eh 'a  legar  le  fughe  han  gU  anni  astretti; 

iodi  i  miei  vanti  il  musico  Libetro, 
ch'additando  nel  sen  gli  altrui  difetti, 
Momo  della  natura  ho  fatto  un  vetro. 


504  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

ALL'OBO,   ALBERO   INDIANO 

che  distilla  acqua  in  tempo  di  siccità. 

Rivolo  vegetante,  a  te  da'  cieli 
privilegio  immortai  solo  è  concesso, 
quando  da  nera  sete  è  l'indo  oppresso, 
grondar  su'  prati  i  liquefatti  geli. 

Vanti  lo  re  delle  cantate  Deli, 
onde  scorna  le  parche,  il  suo  Permesso, 
ch'a  scorno  di  più  fonti  anco  è   permesso 
a  te  spuntar  d'arida  morte  i  teli. 

Pria  che  gli  giunga  ad  eclissar  le  luci 
con  giorno  arsiccio  il  fato,  altri  tu  bèi, 
mentre  dell'acque  l'umido  gli  adduci. 

Se  nell'acque  assegnerò  i  saggi  achei 
la  vita  al  tutto,  ed  acqua  altrui  produci, 
ben  de  la  vita  l'albero  tu  sei. 

IX 

AI  SANTI  INNOCENTI 

Spettacoli  d' A  verno!   ancor  lattanti 
svena  barbara  man  vite  bambine; 
e  di  figli  e  di  madri  alle  ruine 
s'ergon  fiumi  di  sangue,   Egei  di  pianti. 

Cadete,  fortunati,  invitti  infanti, 
sotto  il  furor  di  dure  destre  alpine, 
che  tinti  voi  di  sanguinose  brine, 
gite  lieti  a  calcar  gli  orbi  stellanti. 

Se  delle  genitrici  i  dolci  accenti 
lasciate  qui,  le  sfere  ancor  son  fatte 
a  discioglier  lassù  vaghi  concenti. 

E  del  materno  sen  le  poppe  intatte 
s'altri  vi  toglie,   o  bamboli  innocenti, 
hanno  i  cieli  per  voi  le  vie  del  latte. 


TOMMASO    GAUDIOSI 


1 

L'OMBRA 

Mentre  di  lei,  che  mio  bel  sole  adoro, 
idolatra  vagheggio  il  bel  sembiante, 
ed  ella,  empia,  ritrosa  e  noncurante, 
delle  bellezze  sue  cela  il  tesoro; 

del  corpo  mio,   che  di  lontan  mi   moro, 
veggo  per  opra  del  gran  lume  errante 
l'ombra  felice  a  la  superba  avante 
usurparsi  il  mio  gaudio,   il  mio  ristoro. 

Cosi  m'è  forza  invidiar  quel  vano 
apparente  di  me  che  l'aria  ingombra, 
mentre  io  vivo  e  verace  ardo  lontano. 

Oh  come.  Amor,  le  tue  fallacie  adombra 
il  mio  stato  infelice;   onde  sia  piano 
ch'ogni  gioia  d'amor  consiste  in  ombra! 


5o6  LIRICI    MARINISTI 

II 

LA    PENITENTE 

Quella  che  tutta  vezzi  e  leggiadria, 
o  giri  '1  guardo  o  pur  le  labbra  scioglia, 
miir  occhi  abbaglia  e  mille  cori  invoglia 
a  prestarle  fedele  idolatria; 

oggi,  tutta  di  vota  e  tutta  pia, 
cangiati  i  fregi  e  la  porpurea  spoglia 
in  nero  ammanto,   in  abito  di  doglia, 
le  proprie  colpe  a  detestar  venia. 

Meraviglia  giammai  non    fu   cotanta, 
su  la  scena  mutabile  d'  un  viso, 
da  spettatore  o  riverita  o  pianta; 

che  se  '1  mondo  vincea  formando  un  riso, 
sprezzatrice  del  mondo  oggi  si  vanta 
guadagnarsi  col  pianto  il  paradiso. 


Ili 
MEMENTO  MORI 

Qualor  tutta  leggiadra  e  tutta  bella 
a  questo  tempio  fai,   Lidia,  ritorno, 
ove  con  viso  industremente  adorno 
fai  della  tua  beltà  pompa  novella; 

l'umana  sorte  a  rammentar  m'appella, 
che  tuo  malgrado  ha   da   venir  quel   giorno 
in  cui,   d'amore  e  di  natura  a  scorno, 
ritornar  vi  dovrai,   ma  non  più  quella. 

Lasso,   tremo  in  ridirlo.   Il  di  fatale 
ritornar  vi  dovrai  di  morte  scherno 
a  far  pompa  di  te,   ma  funerale. 

Misera  umanità,   che  dunque  vale 
in  sembiante  divin  stimarsi  eterno, 
e  per  legge  immortale  esser  mortale? 


TOMMASO    GAUDIOSI  507 

IV 

LA  DONNA  AMATA  UN  TEMPO 

Redivivo  agl'incendi,   oggi  le  belle 
luci  incontrai  della  mia  fiamma  antica, 
di  quella  un  tempo  mia  gentil  nemica 
per  me  tant'anni  amorosette  stelle. 

Se  la  mia  piaga  al  vagheggiar  di  quelle 
rinovasse  il  dolor,   chi  '1  prova  il  dica; 
pur  incontro  stimai  di  sorte  amica 
sentir  d'antico  stral  punte  novelle. 

E  benché  '1  petto,   a  nuovo  oltraggio  duro, 
trionfasse  le  fiamme  e  la  bellezza, 
che  già  di  lui  tr'ionfatrici  furo, 

pur  apprese  il  mio  cor  tanta  dolcezza 
in   veder  lei,   che  per  quegli  occhi  io  giuro 
che  sol  gode  in  amor  chi  lo  disprezza. 


V 

LE  STRAVAGANZE  DELLA  MODA 

Studia  a  l'amante  suo  più  delicata 
parer  Licori,   onde  accurata  stringe 
quella  parte  dal  corpo  in  cui  si  cinge, 
stringe  il  tenero  pie,   la  bocca   amata. 

Ma  poi  le  vesti  sue  sporge  e  dilata 
e  su  la  fronte  un  gran  cimier  si  finge, 
e  con  solchi  si  grandi  il  suolo  attinge, 
che  sembra  agli  occhi  suoi  torre  animata. 

Mirala  il  vago  e  di  stupor  n'agghiaccia; 
ma  s'a  stringerla  poi  le  braccia  spande, 
e  nulla  stringe  e  tutto  il   mondo  abbraccia. 

Oh  stranezze  di  femina  ammirande  ! 
Cerca  il  modo  costei  ch'altrui  la  faccia 
in  un  tempo  parer  picciola  e  grande. 


508  LIRICI    MARINISTI 

VI 

IL   GUARDINFANTE 

Che  le  donne  talor  che  copia  fero 
di  se  medesme  al  desiderio  umano, 
prendano  in  uso  l'abito  straniero, 
che  da  le  membra  lor  gira  lontano, 

soffrir  potrei  ;   però  che  '1  sesso  vano 
dilata  il  manto  al  faretrato  arciero, 
per  dar  più  campo  a  queir ardor  profano, 
che  ristretto  nel  sen  si  fa  più  fiero. 

Ma  schietta  donna  e  di  consorzio   priva, 
che  porti  'ntorno  un  padiglion  rotante, 
sembra  ad  onesto  cor  pompa  lasciva. 

Come  creder  potrò  che  senz'amante, 
come  creder  potrò  che  casta  viva, 
chi  si  dispone  a  custodir-l' -infante? 


VII 

LO  SPADINO  IN  TESTA 

Lottò  con  Marte  in  singoiar  tenzone 
la  bella  dea  ch'ai  terzo  cielo  impera, 
e  del  nume  guerrier,  fatta  guerriera, 
baldanzosa  sostenne  il  paragone. 

Vinselo  alfìn  nel  dilettoso  agone, 
e  per  trofeo  de  la  vittoria  altera 
tolto  il  brando  di  lui,   presso  a  Citerà 
armonne  il  fianco  al  suo  diletto  Adone, 

Ma  da  quel  di  eh 'a  trionfar  fu  presta, 
usò  la  dea  de  le  leggiadre  e  belle 
portar  picciola  spada  ai  crini  intesta. 

Quindi  fra  noi  l'antica  usanza  desta, 
le  seguaci  di  Venere  ancor  elle 
d'indorato  spadino  arman  la  testa. 


TOMMASO    GAUDIOSI  509 

VITI 

IL  TABACCO  DA  NASO 

Già  del  mar  de'  piaceri  e  del  diletto 
il  superbo  mortai  toccava  il  fondo 
nel  lusso  abominevol  ed  immondo 
d'apicia  mensa  e  di  venereo  letto. 

Votar  la  terra  e  l'ocean  profondo 
per  render  pago  un  indiscreto  affetto, 
era  commune  error,   commun  difetto, 
non  sazio  ancor  di  tutto  il  mondo  il  mondo. 

Alfin  tant' oltre  a  trapassar  risolve, 
che  per  pascer  le  nari  in  picciol  vaso 
indica  foglia  in  polvere  dissolve. 

Siam  de  la  vita  omai  giunti  all'occaso! 
Ha  portato  fra  noi  barbara  polve 
le  delizie  del  mondo  insino  al  naso. 


IX 

IL  GIOCO  DE'  COLOMBI  ALLA  CAVA 

Move  colà  dai  più  gelati  lidi 
innocente  d'augei  schiera  volante, 
che  fendendo  le  nubi  a  borea  avante, 
cerca  altra  terra  a  rinnovar  suoi  nidi. 

Ecco  la  scopre  ai  cacciatori  infidi, 
sul  primiero  apparir,  corno  sonante: 
ecco,  fra  i  colli  e  le  frondose  piante 
la  caccian  frombe  e  strepitosi  gridi. 

Ella,  seguendo  le  fallaci  scorte 
de'  tinti  sassi,   incautamente  piomba 
ne'  tesi  lacci  a  terminar  sua  sorte. 

Cosi  la  semplicissima  colomba, 
senza  passar  pei  cardini  di  morte, 
perde  il  ciel,  ferma  il  volo,  entra  a  la  tomba. 


5IO  LIRICI    MARINISTI 

X 

LA  RAPIDITÀ  DEL  TEMPO 

Un  tempo,   il  di  cui  restringean  poch'ore 
parea  si  lungo  a  la  tranquilla  mente, 
che  l'ora  non  vedea  che  in  occidente 
tuffasse  i  raggi  il  luminar  maggiore. 

Or  che  degli  anni  è  già  passato  il  fiore, 
mi  tramontano  i  Soli  a  l'oriente; 
veggo  il  tempo  volar,   l'orecchio  sente 
una  voce  ch'intona:  —  Ecco,   si  more.  — 

Già  già  panni  l'altr'ier  quando  ero  in  culla; 
or  m'aspetta  il  feretro,   e  'n  breve,   ahi  lasso, 
sarò  un  mucchio  di  polve,  e  poscia  un  nulla. 

Perché  terra  siam  noi.   Pur  terra  è  '1  sasso; 
e  se  spingerlo  in  alto  uom  si  trastulla, 
più  veloce  ne  vien  quanto  è  più  basso. 


XI 

L'INFELICITÀ  UMANA 

Dieci  lustri  di  vita  o  poco  meno 
porto  sul  dorso;   e  se  ricerco  quante 
son  l'ore  liete,   a  numerar  l'istante 
posso  a  pena  formarne  un  di  sereno. 

Parte  fra  l'ombre  del  materno  seno 
vissi  ignoto  cadavero  spirante; 
parte  poco  miglior  che  belva  infante 
soffrii  di  balia  e  pedagogo  il  freno. 

Ne   l'avanzo   infelice  (ahi,  sallo   il   core!: 
parte  ne  tolse  necessaria  sorte, 
parte  ne  diedi  a  volontario  amore. 

Se  la  vita  che  resta  è  tanto  forte, 
viver  che  vaimi,   ove  ogni  di  si  more? 
È  men  pena  il  morir  ch'attender  morte! 


TOMMASO    GAUDIOSI  51  f 

XII 

IL  LETTO 

Rassembra  a  l'egro  mio  stanco  pensiero 
sovente  il  letto  un  marziale  agone, 
ove  fo  con  me  stesso  aspra  tenzone, 
or  di  fortuna  ed  or  d'amor  guerriero. 

Talor    mi   sembra   un   mar   turbato   e   fiero, 
ove  scherzo  son  d'austro  e  d'aquilone, 
ove  absorta  dal  senso  è  la  ragione 
e,  se  non  giunge  il  di,  porto  non  spero. 

Sono  di  questo  mar  venti  i  sospiri, 
di  questo  campo  il  militar  congresso 
è  di  sogni,   chimere,   ombre  e  deliri. 

Ove,   lasso,  trovar  mi  fia  concesso 
tregua  ai  pensieri  miei,   posa  ai  martiri, 
se  combatto,  se  ondeggio  al  letto  stesso? 


XIII 

IL  BACIO  DI  GIUDA 

Spira  il  Verbo  umanato  aura  celeste, 
spirti  di  paradiso;  e  Giuda  spira 
turbini  di  nequizia  e  fiati  d'ira, 
aneliti  infernali,   euri  di  peste. 

E  pur  s'inclina,  e  pur  Giesù  da  queste 
labbra  lascia  baciarsi,   e  non  s'adira! 
L'appella  amico,   e  senza  sdegno  mira 
quelle  luci  esecrabili  e  moleste! 

Ben  crederò  ch'ogni  motor  superno, 
per  l'immenso  stupor  fatto  di  gelo, 
tralasciasse  in  quel  punto  il    moto  eterno. 

Sofferenza  del  cielo,   ardir  d'Averno! 
Si  solleva  l'inferno  e  bacia  il  cielo, 
s'inclina  il  cielo  a  ribaciar  l'inferno. 


BARTOLOMEO    DOTTI 


I 

GLI  OCCHI  NERI 

Luci  caliginose,  ombre  stellate, 
Luciferi  ammorzati,   Esperi  ardenti, 
Orioni  sereni.  Orse  turbate, 
mesti  Polluci  e  Pleiadi  ridenti  ; 

Soli  etiopi  e  notti  illuminate, 
limpidi  occasi  e  torbidi  orienti, 
meriggi  nuvolosi,  albe  infocate, 
foschi  emisferi  ed  èrebi  lucenti, 

ottenebrati  lumi  e  chiare  ecclissi, 
splendide  oscurità,  tetri  splendori, 
firmamenti  in  error,  pianeti  fissi, 

dèmoni  luminosi,   angioli  mori, 
tartarei  paradisi,  eterei  abissi, 
empirei  de  l'inferno,   occhi  di   Clori! 


BARTOLOMEO    DOTTI  513 

II 

DI  LÀ  DAL  MURO 

Angelica  mia  voce,   indarno  ormai 
un  muro  a  le  tue  gorghe  argine  fassi, 
che  _^ già,  mentre  scoccando  al  ciel  le  vai, 
di  dolcissima  gioia  il  sen  mi  passi. 

Come  un  tenero  sen  non  passerai, 
se  le  dure  pareti  anco  trapassi? 
Stupisco  ben  come  tu  possa  mai 
con  si  gran  tenerezza  uscir  dai  sassi. 

Ah,  credi  a  me!   Dal  tuo  confin  sicura 
non  esci  tu;   che  amor  robusto  e  forte 
di  lasciartimi  al  cor  confitta  ei  giura. 

Ma  giuro  bene  anch'io  che  se  ti  porte 
coi  canti  a  violar  tu  le  mie  mura, 
coi  baci  vo'  sforzar  io  le  tue  porte. 


Ili 
AMANTIUM  IRAE 

Oh  Dio,   che  dolci  guerre  ed  aspre  paci 
ebbi  con  Filli!   E  l'una  e  l'altro  sordo 
già  da  le  strida,   in  qualche  bacio  ingordo 
punto  facean  le  nostre  lingue  audaci. 

Pareano  i  labri,   al  disfidar  mordaci, 
replicarsi  tra  lor:  —  Tu   mordi,  io  mordo; 
ma  stanchi  poi  con  volontario  accordo, 
ai  morsi  patteggiar  pausa  di  baci. 

Armati  risorgean  d'ire  moleste, 
ma  succedean  fra  lor,   giunti  a  le  strette, 
segni  di  pace  a  le  minacce  infeste. 

Cosi  '1  mar,   cosi  '1  ciel  talor  permette 
le  perle  scintillar  fra  le  tempeste, 
le  gioie  sfavillar  fra  le  saette. 

Lirici  maritiisti  —  33 


514  LIRICI    MARINISTI 

IV 

RESTITUENDO  LE  LETTERE 

Tornatevene  pur,   note  mendaci, 
sovra  cui  distillai  lo  spirto  in  guardi  ; 
tornate  pur,   caratteri  bugiardi, 
sovra  cui  distemprai  l'anima  in  baci. 

Si,   si,   tornate  in  quelle  man  fallaci, 
che  già  vi  colorirò.   Or  se  ben  tardi 
io  mi  strappo  dal  cor  le  faci  e  i  dardi, 
in  voi  tutti  suggello  e  dardi  e  faci. 

Ite,   dite  a  colei  che  mi  vi  diede, 
che  l'occhio  mio  senza  l'ostacol  vostro, 
disappannato  ai  fin,   meglio  ci  vede. 

Vede  che  quando  l'empia  a  l'amor  nostro 
in  voi  giurò  costanza  e  giurò  fede, 
fu  costanza  di  carta  e  fé  d'inchiostro. 


v 
FUMANDO 

O  caro  indico  germe,   oh  quai  diporti 
trovo  ne  le  tue  foglie  al   mio  dolore  ! 
Ardi,   e  de  l'alma  mia  tempri  l'ardore; 
fumi,   e  col  fumo  i  miei  sospir  ten  porti. 

Or  chi  dirà  che  l'erba  non  apporti 
medicina  salubre  al  mal  d'amore, 
se  da  te  solo  i  lenitivi  ha  il  core, 
e  da'  tuoi  suffumigi  ho  i  miei  conforti? 

Sventura   è   ben   eh 'a   la   mia  piaga  acerba 
fumo  che  spiro  e  foglia  che  consumo 
lieve  e  caduco  il  refrigerio  serba. 

Cosi,   misero,   quando  aver  presumo 
del  mio  ristoro  la  speranza  in  erba, 
con  l'erba  va  la  mia  speranza  in  fumo. 


BARTOLOMEO    DOTTI  5I5 

VI 

IL  FUMARE   E   LA  MESTIZIA 

Muse,   poiché  non  so  co'  canti  vostri 
i  terreni  placar  purpurei  numi, 
echeggiar  più  non  fo  d'Amicla  i  chiostri, 
né  gorgogliar  di  Pindo  i  dolci  fiumi. 

Questa  canna  è  mia  penna,  e  questi  fumi 
mi  servon  già  di  geniali  inchiostri, 
onde  scrivo  de  l'aria  in  sui  volumi 
a  cifre  vagabonde  i  dolor  nostri. 

Sorgono  l'atre  note,   in  cui  diffondo 
i  cordogli  onde  muto  io  mi  querelo, 
e  i  nembi  del  mio  cuor  fra  i  nembi  ascondo. 

Quindi  ritrar  qualche  conforto  anelo, 
che  se  i  sospiri  miei  non  cura  il  mondo, 
gli  accoglie  almeno  in  questo  fumo  il  cielo. 

VII 
L'ABORTO    NELL'AMPOLLA 

A  (jiacopo  Grandis,  fisico  e  anatomico 

Questo,   Giacopo  mio,   sconcio  funesto 
cui  die  morto  natale  il  sen  materno, 
se  maturo  nascea,   moria  ben  presto, 
e  voi  d' intempestivo  il  fèste  eterno. 

Non  so  se  dolce  latte  o  pianto  mesto 
gli  sia  di  quel  cristal  l'umore  interno; 
so  ben  che  l'alvo  suo  fu  come  questo, 
poi  ch'utero  da  vetro  io  non  discerno. 

Vive  quasi  per  voi  chi  per  sé  langue; 
embrione  mori,   scheletro  nacque, 
fatto  parto  immortai  d'aborto  essangue. 

Uomo,  impara!  Insegnarti  al  Grandi  piacque 
che  sia  ventre  di  donna  e  maschio  sangue 
più  fral  del  vetro  e  men  vital  de  l'acque. 


5l6  LIRICI    MARINISTI 

Vili 

LE  FONTANE  DI  BRESCIA 

Ruscello,  naturai  figlio  de'  monti, 
figlio  adottivo  a  la  mia  patria  viene, 
e  per  amor  si  svena  in  cento  vene 
e  sparte  cento  vene  in  mille  fonti. 

A  più  selci,  a  più  mura  empie  le  fi-onti,. 
che  gettan  per  le  vie  piogge  serene, 
dove  per  ribaciar  le  amiche  arene 
par  che  l'acqua  dai  marmi  a  terra  smonti. 

Da  l'occhio  qui,   non  dal  cammin  riceve 
la  sete  il  pellegrino;  e  se  a  le  sponde 
discende  a  ber,  del  nostro  amor  s'imbeve; 

che  se  l'acqua  letea  l'oblio  c'infonde, 
il  passeggier  qui  sempiterna  beve 
la  memoria  di  Brescia  in  si  bell'onde. 


IX 

A  SIRMIONE 

Ognor  che  del  Benaco  io  vengo  e  torno 
per  questa  inferior  pendice  aprica, 
in  te  fiso  le  luci,   o  Sirmio  antica, 
già  di  Catullo  mio  dolce  soggiorno. 

Tu,   penisola  umil,  che  sporgi  il  corno 
da  la  terra  e  da  l'acque  a  gran  fatica, 
si  nota  sei,   mercé  la  musa  amica, 
che  a  più  province,  a  più  città  fai  scorno. 

Quel  cigno  fu  di  nominarti  vago, 
e  col  nomarti  sol  fu  si  fecondo, 
che  fece  del  tuo  nulla  un'ampia  imago. 

Cosi  ti  pose  per  destin  secondo 
una  striscia  di  terra  in  braccio  al  lago, 
una  striscia  di  penna  in  faccia  al  mondo. 


ANDREA   FERRUCCI 


I 

CHE  COSA  È  AMORE 

Ti  dirò  che  sia  amore.  Amore  è  un  fuoco, 
che  dal  bel  volto  tuo  vola  al  mio  seno; 
de'  tuoi  lumi  è  chiarissimo  baleno, 
atro  fulmine  in  me,  per  cui  m'infoco. 

Se  in  te  lo  miro,  è  tutto  festa  e  gioco; 
se  in  me  lo  provo,   di  miseria  è  pieno; 
è  degli  occhi  invisibile  veleno, 
che  circola  nel  sangue  a  poco  a  poco. 

Amor  che  cosa  sia?  Veder  se  '1  vuoi, 
scorgi  ne  l'opre  del  suo  fiero  ardore 
numi  accesi,  arse  dive,   estinti  eroi. 

Si  bella,  vuoi  saper  che  cosa  è  amore? 
Specchiati,   e  '1  mirerai  negli  occhi  tuoi; 
aprimi  il  petto,  e  me  '1  vedrai  nel  core. 


5l8  LIRICI    MARINISTI 

II 

IL  RISO  E  IL  PIANTO 

Se  Democrito  stempra  il  core  in  riso 
e  s' Eraclito  stilla  il  core  in  pianto, 
il  pianto  di  costui  merita  il  riso, 
il  riso  di  colui  merita  il  pianto. 

Ma  se   un'aura  di  duol  fugace  è   il   pianto, 
efimero  balen  di  gioia  è  il  riso; 
se  ride  Ciro  e  versa  Creso  il  pianto, 
piange  poi  Ciro  e  di  Tomiri  è  un  riso. 

È  l'orbe  un  embrion  di  riso  e  pianto, 
del  fato  i  giochi  degni  son  di  riso, 
le  miserie  de  l' uom  degne  di  pianto. 

Cosi  congiunti  sono  il  pianto  e  '1  riso, 
che  scorger  non  si  sa  tra  riso  e  pianto 
se  riso  il  pianto  sia,   se  pianto  il  riso. 


IH 

L'OROSCOPO 

Dove,   dove  t'innalzi, 
temerario  pensiero?  Il  volo  arresta! 
Su  quai  vanni  ti  sbalzi, 
curiosità  funesta 

a  calcar  di  Giunon  liquidi  i  campi, 
ove  gli  eterei  lampi 
scrisser  cifre  di  stelle  a  mie  sventure, 
quanto  lucide  più  tanto  più  oscure? 

Stimolo  dell'ingegno, 
folle  curiosità,  sprone  al  pensiero, 
oh  temerario  impegno, 
oh  desiderio  fiero, 


ANDREA    FERRUCCI  519 

voglia  del  mio  voler  tormentatrice, 
ansietà  infelice,  , 

spia  de'  segreti,  esploratrice  audace, 
alfin  ritroverai  ciò  che  ti  spiace. 

Ferma  l'icario  volo; 
Argo  è  di  luci  il  ciel,   talpa  tu  sei. 
Per  osservar  nel  polo 
gli  abissi  degli  dèi 

più  svelati  e  più  chiari  invano  impetri 
tersi  veli  di  vetri  ; 

cozzar  col  lume  invan,   occhio,   presumi, 
benché  scudi  di  gel  t'armino  i  lumi. 

Sovra  i  cerulei  giri, 
o  che,   pesci  del  ciel,   guizzin  le  stelle, 
o  in  piani  di  zaffiri 
sian  nodi  ;   a  me  procelle 
sempre  presagiranno  astri  guizzanti  ; 
le  sventure  costanti 
ne  le  fisse  averò;   contrarie  sempre, 
non  d'or,  gli  astri  han  per  me  ferree  le  tempre. 

Stanchino  i  Tolomei 
sfere,   astrolabi,   tavole  e  figure; 
leggano  i  Galilei 
chiare  le  mie  sventure; 
senza  che  me  '1  predicano  i  Cenoni, 
i  Firmici,   i  Ticoni, 
teorica  che  lor  studian  sugli  astri, 
pratticata  ved' io  ne' miei  disastri. 

Con  la  diva  di  Delo 
l'oroscopo  contende  il  dio  cretese; 
al  mio  natale  in  cielo 
stanno  i  numi  in  contese; 
esser  ricusan  forse  astri  adirati 
signori  a'  sventurati  ; 
guarda  di  trin  Saturno  la  Fortuna, 
retrogrado  è  l'Eleo,  cade  la  Luna. 


520  LIRICI    MARINISTI 

Stelle,  che  più  volete? 
avete  influssi  più  maligni  e  infesti? 
stelle  no,   ma  comete, 
che  presagi  son  questi  ? 
ogni  segno  per  me  s'accozza  infausto? 
del  destino  olocausto 
bamboletto  perché  mi  fece  il  fato, 
se  cagion  non  sapea  men  di  peccato  ? 

Vibra  clava  nocente 
armato  di  terror  crudele  Alcide; 
stella  non  più  splendente 
le  mie  speranze  uccide, 
ed  avverati  vidi  i  suoi  presagi 
finor  ne'  miei  naufragi. 
Alma,   qual  dunque  scampo  aver  tu  puoi, 
se  tuoi  nemici  in  ciel  s'arman  gli  eroi? 

In   questo  giorno  appunto 
infausto...  ah  no,  che  dissi?  oh  folle!  e  dove 
a  delirar  son  giunto? 
Se  al  sempiterno  Giove 
consecrato  ved'io  si  lieto  giorno, 
di  nuova  luce  adorno 
ecco  risplende  fausto  il  natal  mio, 
se  in  oroscopo  uman  risplende  Iddio. 

Sogni,  larve,  follie, 
d'Ipparchi  indegni  e  d'Apolloni  infidi, 
pelasge  fantasie, 
non  sia  ch'in  voi  mi  fidi. 
Che  Eudossi,  che  Maneti  ed  Albategni? 
che  figure?  che  segni? 
Se  in  segno  di  pietà  Dio  mi  sovrasta 
di  pan  con  gli  accidenti,  a  me  ciò  basta. 

Pensier,   se  occulti  arcani 
hai  desio  di  spiar,   qui  ferma  il  volo. 
Qui  misteri  sovrani 
apprendere  puoi  solo. 


ANDREA    FERRUCCI  521 

Ve'  la  sostanza  in  Cristo  traformarsi, 
senza  l'annichilarsi, 

e  mentre  gli  accidenti  agli  occhi  appresta, 
forma  sostanziai  di  pan  non  resta. 

Sofisticar  chi  vuole 
come  accidenti  stian  senza  soggetto? 
de  le  sacre  parole 
in  istante  l'effetto? 
Come  è  de  l'alma  il  naturai  ridutto 
in  parte  ancora  tutto, 
tutto  è  nel  tutto,   e  con  mirabil  arte 
tutta  la  quantità  sta  in  ogni  parte. 

Pensiero,   ove  t'interni? 
Tanto  secreto  occhio  mortai  non  vede; 
per  tanti  arcani  eterni 
telescopio  è  la  fede. 
Tu  questo  Sol  ch'il  tuo  natale  onora, 
entro  la  sfera  adora; 
e  se  adori  splendor  che  non  comprendi, 
quali  sian  de  la  fé  gli  arcani  apprendi. 


FINE. 


NOTA 


II  nome  di  «  marinisti  »,  dato  ai  poeti  raccolti  in  questo  vo- 
lume, non  comporta  (come,  del  resto,  nessuna  di  siffatte  deno- 
minazioni) un  significato  rigoroso.  Esso  serve  a  designare  quei 
poeti  che  si  mossero  su  per  giù  nella  cerchia  d' ispirazione  trac- 
ciata dal  Marino;  ed  è  stato  esteso  perciò  anche  a  coloro  che, 
come  lo  Stigliani,  si  professarono  antimarinisti,  ma  effettivamente 
non  uscirono  dallo  stato  spirituale  del  marinismo.  Tuttavia,  se  ad 
altri  piacerà  di  cangiarlo  con  altro  nome,  non  disputeremo. 

Non  esisteva  finora  un'antologia  di  codesti  poeti  (salvo  la 
scelta  di  cento  sonetti,  pubblicata  nel  1880  da  M.  A.  Canini, 
in  un  abortito  tentativo  di  Sonettiere  italiano,  Torino,  Candeletti); 
e,  quantunque  la  presente  sia  stata  fatta  con  lo  spoglio  di  oltre 
un  centinaio  e  mezzo  di  canzonieri  di  quel  tempo  (molti  dei  quali, 
s'intende,  letti  con  risultato  negativo),  non  viene  licenziata  alle 
stampe  senza  qualche  riserva  su  quel  che  potrebbero  offrire  alcuni 
canzonieri,  che  non  è  stato  possibile  per  ora  procurarci. 

Naturalmente,  se  la  scelta  fosse  stata  condotta  dal  punto  di 
vista  dello  stile  corretto,  essa  sarebbe  riuscita  assai  diversa;  e, 
se  dal  punto  di  vista  della  poesia,  infinitamente  più  esigua.  Ma 
si  è  voluto  tener  conto  in  essa  degli  spunti  artistici,  che  presenta- 
vano interesse  anche  in  componimenti  mediocri  e  scorretti;  delle  più 
caratteristiche  trovate  bizzarre  o  mostruosità;  dei  vari  argomenti 
che  si  solevano  trattare  e  di  certe  forme  predilette  (p.  e.,  l'epistola 
e  l'elegia);  e,  infine,  dare  saggio  di  quel  che  sapessero  produrre 
alcuni  scrittori,  ricordati  dalle  storie  letterarie  o  celebrati  al  loro 
tempo.  Si  è  escluso,  in  genere,  ciò  che  era  privo  di  carattere  anche 
nella  bruttezza;  e  perciò  non  si  troveranno  saggi,  p.  e.,  delle 
opere  del  Murtola,  il  quale  deve  la  sua  fama  esclusivamente  alla 
contesa  personale  col  Marino.  Insomma,  l'antologia  è  stata  condotta 


526  LIRICI    MARINISTI 

dal  punto  di  vista  di  chi  raccolga  documenti  per  uno  studio 
sulla  lirica  del  Seicento.  Perciò  anche  la  prevalenza  è  data  alla 
poesia  amorosa;  quantunque  questa  nelle  raccolte  del  tempo  rap- 
presenti solamente  una  sezione,  occupando  le  altre  sezioni  le  poesie 
sacre,  eroiche,  funebri,  morali,  e  via  dicendo,  che  sono  quasi  sem- 
pre rimerie  senza  interesse  di  sorta. 

L'ordine  adottato  è,  nei  limiti  del  possibile,  quello  cronolo- 
gico; e  talora,  in  sottordine,  quello  per  regioni  o  per  affinità. 
I  componimenti  sono  pubblicati  fedelmente  secondo  le  stampe  o  i 
manoscritti  del  tempo,  col  solo  cangiamento  dell'ortografia  e  della 
punteggiatura  e  con  la  correzione  di  evidenti  errori  tipografici  : 
si  sono  serbate  alcune  forme  proprie  del  tempo.  Ma  è  parso  op- 
portuno rifare  quasi  tutti  i  titoli  delle  poesie,  le  quali  li  avevano 
spesso  lunghissimi  e  con  monotone  ripetizioni  (p.  e..  Bella  donna 
o  B.  D.),  e  talvolta  ne  mancavano  affatto.  Abbiamo  sostituito, 
dunque,  molti  titoli,  sfrondati  altri  e  aggiunti  quelli  mancanti.  Di 
questo  lieve  arbitrio  (il  cui  vantaggio,  per  altro,  ci  sembra  supe- 
riore al  danno)  chiediamo  venia. 

Intorno  alla  fisonomia  generale  delle  composizioni  qui  raccolte, 
si  possono  consultare  alcune  pagine  del  volume  di  B.  Croce, 
Saggi  sulla  letteratura  italiana  del  Seicento  (Bari,  Laterza,  19 io, 
pp.  377-433);  aspettando  che  qualche  studioso  scriva  di  proposito 
sull'argomento. 

I 

STIGLIANI  —  MACEDONIO  —  GAETANO  —  MANSO 

BALDUCCI  —  DELLA  VALLE 

I.  Tommaso  Stigliarli.  —  Da  //  canzoniere  del  signor  cavaliere 
fra'  Tomaso  Stigliani,  dato  in  luce  da  Francesco  Balducci,  di- 
stinto in  otto  libri,  cioè  amori  civili,  pastorali,  marinareschi,  gio- 
cosi, soggetti  eroici,  morali,  funebri  e  famigliari;  purgato,  accre- 
sciuto e  riformato  dall'autore  istesso  (in  Roma  et  in  Venetia,  1625). 

Dell'edizione  del  1625  esiste  una  copia  manoscritta  nella  Bibl. 
Naz.  di  Napoli  (xiii.  D.  60),  preparata  per  una  ristampa  che  non 
ebbe  luogo,  e  che  reca  nel  titolo  l'aggiunta:  «  in  questa  nuova 
impressione  aumentato  dall'autore  di  molte  poesie  non  più  pub- 
blicate ».  Da  questo  ms.  abbiamo  tolto  i  componimenti  che  recano 
i  numeri  vi,  ix,  x,  xv,  xx,  xxi,  xxn. 


NOTA  527 

Su  Tommaso  Stigliani  di  Matera  (1573-1651),  si  vedano  G.  Gat- 
tini, Note  storiche  sulla  citta  di  Matera  (Napoli,  tip.  Pernotti,  1882); 
M.  Menghini,  T.  S.,  contributo  alla  storia  letteraria  del  secolo  xvii 
(Genova,  1890:  estratto  dal  Giornale  ligustico);  F.  Santoro,  Del 
cava lier  Stigliani,  con  appendice  di  poesie  inedite  (Napoli,  tip.  san- 
nitica,   1908). 

II.  Marcello  Macedonio.  —Dalla  Scelta  delle  poesie  di  Marcello 
Macedonio  (in  Venetia,  appresso  Gio.  Battista  Ciotti,  1615).  I 
nn.  v-vi  sono  presi   da  Ballate  et  idilli  dello   stesso   (ivi,   1614). 

La  prima  ediz.  della  Scelta  era  stata  fatta  nel  1614,  col  titolo: 
Le  nove  muse  di  M.  M.,  raccolte  e  date  alla  stampa  da  Pietro 
Macedonio  suo  fratello  (in  Napoli,  ad  instanza  di  Gio.  Ruardo, 
all'insegna  del  Compasso).  Il  M.  pubblicò  anche  /  nove  cori  degli 
angeli  (Roma,  appresso  Guglielmo  Facciotti,   1615). 

Di  lui,  gentiluomo  napoletano,  nato  nell'ultimo  quarto  del  se- 
colo XVI,  innamoratosi  d' Isabella  Sanseverino  moglie  di  Fran- 
cesco di  Costanzo,  esule  per  essa,  poi  frate,  e  morto  qualche 
anno  prima  del  1620,  discorre  A.  Borzelli  nella  introd.  a  /  ca- 
pitoli della  bellezza  di  M.  M.  (Filenio  Pellegrino),  con  noticine 
(Napoli,  Stanziola,   1895). 

III.  Scipione  Gaetano  —  Dal  volume:  Alla  chiarissima  Ma- 
datna  Maria  Medici  reina  di  Francia.  Rime  dell'  ili. mo  signor  Sci- 
pione Gaetano  (in  Viterbo,  appresso  il  Discepolo,  1612). 

Del  C,  figliuolo  di  Cesare  e  Vittoria  della  Valle,  e  morto 
prima  del  1612,  è  cenno  nel  Quadrio,  Storia  e  ragione  di  ogni 
poesia,   II,  parte  i,  p.  293. 

IV.  Giambattista  Manso.  —  Dalle  Poesie  nomiche  di  Gio.  Bat- 
tista Manso,  marchese  di  Villa,  signor  della  città  di  Bisaccia  e 
di  Franca,  academico  otioso,  divise  in  rime  amorose,  sacre  e 
morali  (in  Venetia,    1640,  appresso  Francesco  Babà). 

Sul  Manso,  amico  e  biografo  di  Torquato  Tasso,  n.  in  Napoli 
nel  1561,  m.  nel  1645,  cfr.  L.  Crasso,  Elogi  d' huomini  letterati 
(Venezia,  per  Combi  e  La  Nou,  1666,  i,  309).  Intorno  a  lui,  un'am- 
pia monografia  prepara  Angelo  Borzelli. 

V.  Francesco  Balducci.  —  Da  Le  rime  del  signor  Francesco 
Balducci  (in  Roma,  per  Guglielmo  Facciotti,  1630).  Altre  edizioni: 
Roma,  Moneta,  1645;  Roma,  Manelfi,  1646  e  '47;  Venezia,  Babà, 
1655,   1663. 

Intorno  al  Balducci,  palermitano  (1579-1642),  oltre  il  Mongi- 
TORE  e  il  Mazzuchelli,  si  vedano  E.  Cozzuoli,  F.  B.,  ricerche  e 


528  LIRICI    MARINISTI 

Studi  (Palermo,  tip.  Giannone  e  Lamantia,  1892:  cfr.  Giorn.  stor^ 
leti,  ital.,  XXI,  188-9);  e  un  cenno  nel  ^^\a.q^\,  Il  Seicento,  p.  94. 

VI.  Francesco  della  Valle.  —  Dalle  Rime  del  signor  Francesco 
DELLA  Valle,  in  questa  seconda  impressione  corrette  et  accre- 
sciute con  gli  argomenti  dell' istesso  autore  (in  Roma,  appresso 
Alessandro  Zannetti,  1622).  I  nn.  viii,  ix  sono  nella  Raccolta  del 
Guaccimanni,  che  si  cita  più  oltre. 

La  prima  ediz.  delle  Rime  è  di  Roma,  per  Gio.  Giorgio  Razzi, 
1618.  Il  Della  Valle  scrisse  anche:  Lettere  delle  dame  e  degli  eroi 
con  le  risposte  alle  medesime  lettere  dell' istesso  autore  (in  Napoli, 
per  Camillo  Cavallo,   1644). 

Era  nativo  di  un  paesello  presso  Cosenza  (cfr.  son.  xi);  e  di  luì 
fa  cenno  lo  Spiriti,  Memorie  degli  scrittori  cosentini  (Napoli, 
Muzi,    1750),  pp.   130-2. 

II 

ACHILLINI  —  PRETI  —  PAOLI  —  GIOVANETTI 

SEMPRONIO 

I.  Claudio  Achillini.  —  Dalle  Rime  e  prose  di  Claudio  Achil- 
lini,  in  questa  nostra  impressione  accresciute  di  molti  sonetti  e 
altre  composizioni  non  più  stampate,  con  aggiunta  di  diverse 
bellissime  lettere  di  proposta  e  risposta  del  medesimo  autore  (in 
Venezia,   1662,  presso  Zaccaria  Conzatti). 

La  prima  ediz.  è  di  Bologna,  presso  Clemente  Ferrini,  1632; 
seguirono  altre  di  Venezia,  Giunti  e  Babà,  1650;  ivi.  Babà,  1651  ; 
ivi,  Bertoli,   1656. 

Suir Achillini  (n.  in  Bologna  nel  1574,  morto  il  i  ottobre  1640), 
si  veda  la  breve  vita  unita  alla  ediz.  delle  Rime  e  prose  :  Le  glorie 
degli  Incogniti  (Venezia,  1647),  pp.  109-111;  Crasso,  Elogi,  11, 
161-5;  e  più  ampiamente  Mazzuchelli,  i,  105-108;  Fantuzzi, 
Scrittori  bolognesi,  i,  55-62.  Cfr.  anche  B.  Malatesta,  C.  A., 
cenni  (Modena,   1884)  e  Belloni,  Il  Seicento,  pp.  85-7. 

II.  Girolamo  Preti.  —  Dalle  Poesie  di  Girolamo  Preti  in 
quest'ultima  impressione  corrette  et  ampliate  di  nuove  materie 
non  più  stampate   (in   Venezia,   1656,  per   Gio.   Battista   Brigna). 

Edizioni  precedenti:  Venezia,  1614;  Bologna,  1618;  Milano, 
1619;  Venezia,  1624;  Roma,  1625;  Bologna,  1631,  1644;  Mace- 
rata,  1646. 


NOTA  529 

Sul  Preti,  oltre  Le  glorie  degli  Incogniti,  pp.  277-9,  e  il  Crasso, 
Elogi,  II,  140-3,  si  veda  Fantuzzi,  op.  cit.,  vii,  122-5.  L'idillio 
La  Salmace  è  ristampato  in  L.  Fatane  Finocchiaro,  Appunti  su 
G.  P.  (Milano,  Albrighi  e  Segati,  1898):  cfr.  Giorn.  stor.  d.  lett. 
ital.,  xxxii,  227-9,  e  Belloni,  op.  cit.,  pp.  88-9. 

III.  Pier  Francesco  Paoli  —  Dalle  Rime  di  Pier  Francesco 
Paoli  da  Pesaro,  in  questa  seconda  impressione  dedicate  al  se- 
reniss.  signor  principe  Vittorio  di  Piemonte  (in  Modena,  1619, 
appresso  Giuliano  Cassiani).   La  prima  ediz.  è  di   Ferrara,  1609. 

I  nn.  ix-xii,  xiv-xix  sono  tolti  dal  più  grosso  volume  delle 
Rime  varie,  dedicate  al  cardinale  Antonio  Barberini  (in  Roma, 
per  il  Corbelletti,   1637). 

II  Paoli,  pesarese,  dimorò  a  lungo  in  Roma,  ai  servigi  di 
casa  Savelli.  Era  già  morto  nel  1642,  come  risulta  da  un  sonetto 
di  P.  MiCHiELE,  Rime  (Venezia,  1642),  parte  11,  p.  265.  Cfr.  Qua- 
drio, II,  parte  i,  pp.  289.  581-2;  e  Crescimbeni,  Comentari, 
IV,   181-2. 

IV.  Marcello  Giovanetti.  —  Dalle  Poesie  di  Marcello  Giova- 
netti, compartite  in  affettuose,  boschereccie,  nuttiali,  eroiche, 
sacre,  varie,  e  dedicate  al  card.  Lorenzo  Magalotti  (in  Roma,  1626, 
per  Francesco  Corbelletti). 

Edizioni  precedenti,  col  titolo  di  Rime,  Bologna,  Bonomi,  1620, 
e  di  Sonetti,  canzoni,  madrigali,  Venezia,   1622. 

Del  Giovanetti  (nato  in  Ascoli  Piceno  il  1598,  morto  il  14 
agosto  1631)  si  vedano  vita  e  ritratto  xìq  Le  glorie  degli  Incogniti, 
pp.  329-31;  e  notizie  in  Crescimbeni,  op.  cit.,  iv,  168;  G.  Can- 
TALAMESSA  CARBONI,  Memorie  ititorno  i  letterati  e  gli  artisti  della 
città  di  Ascoli  nel  Piceno  (Ascoli,  Cardi,  1830),  pp.  183-4.  Scrisse 
altresì  una  Citta,  favola  pastorale  (Roma,  Corbelletti,  1626),  e  una 
Vita  di  Sani' Emiddio  protettore  di  Ascoli  (Ronciglione,   163 1).   • 

V.  Glovan  Leone  Sempronio  —  Tf-à.  La  selva  poetica,  ?,o\\&\.\À  à\ 
Gio.  Leone  Sempronio,  urbinate,  nella  Notte  di  Bologna  il  Vi- 
gilante e  negli  Assorditi  di  Urbino  il  Fuggitivo  (in  Bologna, 
presso  Clemente  Ferroni,   1633). 

Fu  ristampata  con  una  seconda  parte  (Bologna,  per  Carlo  Ze- 
nero,    1648). 

Il  Sempronio  mori  il  31  dicembre  1646:  cfr.  Quadrio,  op.  cit., 
II,  parte  i,  p.  306.  Scrisse  anche  un  poema  II  Boemondo  (Bologna» 
Zenero,  1651),  e  una  tragedia  //  conte  Ugolino  (postuma,  Roma, 
Salvioni,   1724):    cfr.  Quadrio,  iv,  688;  v,   199. 

Lirici  marinisti  —  34 


530  LIRICI     MARINISTI 

/  III 

MAIA  MATERDONA  —  BRUNI  —  ERRICO 

I.  Gian  Francesco  Maia  Materdona  —  Dalle  Rime  del  signor 
Gian  Francesco  Maia  Materdona,  distinte  in  tre  parti,  sesta 
impressione  (in  Napoli,   1632,  per  Lazaro  Scorigio). 

Altre  edizioni:  Venezia,  Deuchino,  1629;  Milano,  Bidelli,  1630; 
Genova,  1660.  Le  Rime  pescherecce,  dedicate  a  Carlo  Emma- 
nuele  I  di  Savoia,  furono  stampate  in  Bologna,  Moscherini,  1628. 

Nativo  di  Mesagne,  in  provincia  di  Lecce,  scrisse  anche  le 
Lettere  di  buone  feste  (Roma,  1624;  Venezia,  1644),  e  L'utile  spa- 
vento del  peccatore  (Roma,  1629;  Venezia,  1665,  1671).  Intorno  a 
lui,  Crescimbeni,  IV,  170;  A.  Profilo,  ]^ie,  piazze,  vichi  e  corti 
di  Mesagne  (Ostuni,  1894),  p.  295  sgg.  Una  biografia  di  lui,  do- 
vuta a  un  Ortensio  de  Leo,  si  serba  ms.  nella  biblioteca  di 
Brindisi. 

II.  Antonio  Bruni  —  Da  Le  tre  Grazie,  rime  del  Bruni  ^in 
Roma,  ad  istanza  di  Ottavio  Ingrillani,  1630);  Le  Veneri  (Roma, 
1632);  Epistole  heroiche  (Venezia,   1647). 

Delle  Tre  Grazie  si  ha  altresì  un'edizione  di  Venezia,  1627. 
Delle  Epistole  heroiche,  la  prima  ediz.  è  di  Milano,  1026;  ne  se- 
guirono altre  del  1627,  1634,  1636,  1644,  1658.  Il  primo  volume 
del  Bruni  è  La  selva  di  Parnaso  (Venezia,  Dei,  1616),  componi- 
menti ristampati  quasi  tutti  nelle   Tre  Grazie. 

Il  n.  vii  è  tolto  dalla  Raccolta  del  Guaccimanni. 

Del  Bruni  (n.  a  Manduria,  in  provincia  di  Lecce,  nel  1593. 
morto  nel  1635),  si  leggono  cenni  nelle  Glorie  degli  Incogniti, 
PP-  55-7)  e  nel  Crasso,  Elogi,  11,  274-8;  e  discorrono  ampia- 
mente il  Mazzuchelli,  II,  2180-2185,  e  il  Minieri  Riccio,  No- 
tizie biografiche  e  bibliografiche  degli  scrittori  napotitaìii  fioriti 
nel  secolo  XVII,  lettera  B.  (Napoli,  Rinaldi  e  Sellitto,  1877), 
p.  47.  Cfr.  anche  Giuseppe  Gigli,  Scrittori  manduriani,  2^  edi- 
zione (Manduria,  Spagnoli,  1896),  pp.  51-92;  e  Belloni,  op.  cit., 
pp.  90-1,  480-1. 

III.  Scipione  Errico  —  Dalle  Poesie  liriche  dì  Scipione  Her- 
rico,  dedicate  al  principe  Leopoldo  Medici  (in  Venezia,  1646, 
appresso  Giacomo  Hertz).  Il  poemetto  La  via  lattea  era  stato  già 
pubblicato  a  Messina,   1614,  e  ivi  anche  Rime,   1619. 


NOTA  531 

Dell'Errico  (n.  a  Messina  nel  1592,  morto  il  18  settembre  1670), 
autore  di  molte  opere,  in  tutti  i  generi,  e  tra  le  altre  della  com- 
media Le  rivolte  di  Parnaso,  è  notizia  nelle  Glorie  degli  Incogniti, 
PP-  397-9i  e  nel  Mongitore,  Bibl.  sicula,  11,  210-12;  ed  esame 
delle  opere  nel  Salpi,  Hist.  liti.  d'Italie,  voli,  xi-xiv,  passim. 

IV 
DIVERSI 

I.  Giambattista  Basile.  —  Dalle  Ode  (Napoli,  Roncaglielo,  1627), 
e  dai  Madriali  et  ode  (Mantova,  Osanni,   16 13). 

Sul  Basile,  si  veda  la  monografia  di  B.  Croce,  in  Saggi  sulla 
leti.  ital.  del  Seicento,  già  cit.,  pp.  1-104. 

II.  Biagio  Cusano.  —  Da  L'armonia  del  signor  Biagio  Cusano 
(Napoli,  per  Ottavio  Beltrano,  1636). 

Sul  Cusano,  nativo  di  Vitulano,  Toppi,  Bibl.  nap.,  p.  49;  un 
ritratto  di  lui  in  G.  F.  Bonomi,  //  parto  dell'orsa  (Bologna,  1667), 
parte  II,  pp.  204-5.  Scrisse  anche:  De'  caratteri  d'heroi  (Napoli, 
1661),  Li  dolori  consolati  della  Sirena,  ecc.  (ivi,  1665),  Poesie 
sagre  (ivi,  1672). 

III.  Giovanni  Palma.  —  Dalle  Rime  del  signor  Giovanni  Palma, 
tra  gl'Infuriati  accademici  napoletani  l'Impaziente  (in  Napoli,  per 
Lazzaro  Scorigio,   1632). 

Era  di  Brindisi:  Toppi,  op.  cit.,  pp.    121,  351. 

IV.  Giovanni  Andrea  Rovetti.  —  Dal  Mormorio  d' Elicona, 
poesie  del  capitano  Giovanni  Andrea  Rovetti  (in  Roma,  per 
Ludovico  Grignani,    1625). 

Era  genovese.  Nella  prefazione  al  voi.  cit.  dà  il  catalogo  delle 
altre  opere  da  lui  composte. 

V.  Bartolomeo  Tortoletti.  —  Dalle  Rime  di  Bartolomeo  Tor- 
toletti,  morali,  eroiche,  giovanili  (Roma,  Grignani,   1645). 

Era  veronese  e  scrisse  un  poema  La  Giuditta  vittoriosa  (Roma, 
1628),  e  parecchie  tragedie:  Crescimbeni,  iv,  174;  Quadrio,  ih, 
parte  i,   p.   79;  IV,   686. 

VI.  Maffeo  Barberini.  —  Dalle  Poesie  toscane  del  card.  Maffeo 
Barberini,  hoggi  papa  Urbano  ottavo  (in  Roma,  nella  stamp. 
della  Rev.  C.  Apostolica,   1635). 

VII.  Paolo  Giordano  Orsino.  —  Dalle  Rime  di  Paolo  Gior- 
dano II,  duca  di  Bracciano  (in  Bracciano,  per  Andrea  Fei,  1648). 


532  LIRICI     MARINISTI 

Nato    nel    1591,    morto    nel    1656:    cfr.    Quadrio,    ii,   parte    i, 

P-  317- 

Vili.  Giacomo  d'Aquino.  —  Dalle  Rime  e  prose  di  D.  Giacomo 
d'Aquino,  principe  di  Crucoli  (in  Napoli,  per  Roberto  Mollo,  1638). 

Sul  D'Aquino,  Minieri  Riccio,  Not.  biogr.  e  bibl.,  ecc.,  lett.  A. 
(Milano-Napoli-Pisa,   Hoepli,   1875),  p.  55. 

IX.  Michelangelo  Romagnesi.  —  Da  M.  A.  Canini,  Il  sonettiere 
italiano,  sez.  v  (sola  pubbl.),  Seccìitisti,  centuria  i  e  11  (Torino, 
Candeletti,   1880). 

X.  Gennaro  Grosso.  —  Da  La  cetra,  divisa  in  metro  divoto  e 
funesto,  di  Gennaro  Grosso  (Napoli,  per  Francesco  Savio,  1650). 

XI.  Antonino  Galeani  —  Dalla  Raccolta  di  sonetti  d'autoìH  di- 
versi ed  eccellenti  dell'età  nostra,  di  Giacomo  Guaccimanni  da 
Ravenna  (in  Ravenna,  1623,  appresso  Pietro  de'  Paoli  e  Giov. 
Battista  Giovannelli). 

XII.  Giambattista  Pucci.  —  Dalla  Raccolta  del  Guaccimanni, 

XIII.  Anton  Maria  Narducci  —  Dalla  stessa  Raccolta.  Al  primo 
verso  del  son.  II  allude  Salvator  Rosa,  nella  satira  La  poesia. 

XIV.  Tiberio  Sbarra.  —  Dalla  stessa  Raccolta. 

XV.  Filippo  Massini.  —  Dalla  Grillaia  delI'ApROSio  (Napoli,. 
de  Bonis,   1668). 

Il  Massini  (fióiy)  era  perugino,  e  pubblicò,  tra  le  altre  cose, 
un  volume  di  Rime  (Pavia,   1609). 

XVI.  Cesare  Abbelli  — ■  Dalla  Raccolta  del  Guaccimanni. 
SuU'Abbelli,  bolognese,  che  pubblicò  un  voi.  di  Rime  (Bolo- 
gna,  1621),  si  vedano  Mazzuchelli,  i,  23-4,  e  Fantuzzi,  i,  1-2. 

XVII.  Ludovico  Tingoli.  —  Da  /  cigni  del  Rubicone,  poesie 
liriche  degli  illustrissimi  signori  Ludovico  Tingoli  e  Filippo 
Marcheselli  da  Rimini,  date  alle  stampe  da  D.  Girolamo  Avan- 
zolini  (in  Bologna,  per  Giacomo  Monti,   1671). 

Del  Tingoli  (1602-1669)  un  cenno  nelle  Glorie  degli  Incogniti, 
pp.  317-9,  e  nel  Crescimbeni,  iv,   201-2. 

XVIII.  Filippo  Marcheselli.  —  Dal  voi.  cit.  di  sopra.  Sul  M, 
(1625-1658)  si  veda  Crescimbeni,  iv,  210-11. 

XIX.  Paolo  Abriani.  —  Dalle  Poesie  di  Paolo  Abriani,  se- 
conda impressione  corretta  ed  accresciuta  (in  Venezia,  1664,  ap- 
presso Alessandro  Zatta). 

Era  vicentino;  noto  sopratutto  per  una  traduzione  delle  Odi 
di  Orazio  (Venezia,  1650).  Intorno  a  lui  G.  Lovascio,  Un  seceìi- 
lista,   P.  A.,  vicentino  (Terlizzi,   1907). 


NOTA  533 

XX.  Francesco  Bracciolini.  —  Dalla  Raccolta  del  Guaccimanni. 
Il  Bracciolini  pubblicò  anche  un  voi.  di  Poesie  liriche  toscane, 

parte  i  (Roma,  Grignani,  1639);  cfr.   M.  Barbi,  Notizie  della  vita 
e  delle  opere  di  F.  B.  (Firenze,  Sansoni,   1897),  pp.  138-145. 

XXI.  Andrea  Barbazza.  —  Dalle  Poesie  de'  signori  accademici 
fantastici  di  Roma  (in  Roma,  Grignani,   1637). 

Sul  B.   si  vedano  le   Glorie  degli  Incogniti,   pp.  23-5. 

XXII.  Antonio  Fortini.  —  Dalla  Raccolta  del  Guaccimanni. 

XXIII.  Agostino  Augustini.  —  Dalle  Naturalezze  poetiche  del  si- 
gnor Agostino  Augustini  da  Pesaro  (s.  La.,  dedica  da  Roma, 
1647). 

XXIY.  Marcantonio  Arlotto.  —  Dalla  Raccolta  del  Guaccimanni. 
Sull'Arlotto,  Mazzuchelli,  i,   1097. 

XXV.  Fabio  Leonida.   ^  Dalla  stessa  Raccolta. 

XXVI.  Gherardo  Saracini.   —  Dalla  stessa  Raccolta. 

XXVII.  Pietro  Paolo  Bissari.  —  Da  Le  stille  d'Hippocrene,  trat- 
tenimenti poetici  del  commend.  conte  Pietro  Paolo  Bissari  il 
Rincorato  dell'Accademia  Olimpica  (in  Venezia,  1648,  per  Fran- 
cesco Valvaseuse). 

Sul  B.,  oltre  Le  glorie  degli  Incogniti,  pp.  38 1-3,  si  veda  la 
monografia  di  G.  Brognoligo,  La  vita  di  un  gentiluomo  italiano 
del  Seicento,  il  conte  P.  P.  B.,  vicentino:  15S5-1663  (Napoli,  Io- 
vene,   1909:  estr.  dagli  Studi  di  letter.  Hai.,  vii  sgg.). 

XXVIII.  Claudio  Trivulzio.  —  Dal  Sonettiere  italiano  del  Canini. 
Il  Trivulzio  pubblicò  un  volume  di  Rime  (Milano,   1625). 

XXIX.  Gianfrancesco  Cormani.  —  Dalla  Raccolta  del  Guac- 
cimanni. 

XXX.  Ermes  Stampa.  —  Dal  ms.  della  Biblioteca  Casanatense, 
n.  3392,  ff.  362-3. 

Dello  Stampa  (1615-1647)  si  ha  un  volume  di  Rime  (Milano, 
1671):  cfr.  Quadrio,   ii,   parte  i,  p.  328. 

XXXI.  Aurelio  Mancini.  —  Dal  ms.  cit.,  f.  359. 

XXXII.  D'incerto:  «  Il  gelsomino  tra  le  labbra  ».  —  Dalla 
Raccolta  del  Guaccimanni. 

XXXIII.  D'incerto:  «  Tà  y.ocTa;jLiìV'.a  ».  —  Ms.  della  Biblioteca 
Vittorio  Emanuele,  n.  487  [671-629],  f.  121,  dove  ha  un  titolo 
più  volgare. 

XXXIV.  «  Zitella  romanesca  ».  —  Ibid.,  f.   120. 

XXXV.  Martino  Lunghi.  —  Dalle  cit.  Poesie  degli  accademici 
fantastici. 


534  LIRICI     MARINISTI 

XXXVI.  Antonio  de'  Rossi.  —  Dai  Sonetti  del  sig.  D.  Antonio 
de'  Rossi  (Napoli,  Mollo,  1661). 

Sul  De'  Rossi,  cfr.  Toppi,  p.  31. 

XXXVII.  «  La  mosca  nel  calamaio  ».  —  Dal  Cannocchiale  ari- 
stotelico di  Emmanuele  Tesauro  (ed.  di  Venezia,  1682),  pp.  171-2. 
Anonima,  ma  forse  dello  stesso  Tesauro. 

V 
GIROLAMO   FONTANELLA 

I  nn.  i-xxii,  dai  Nove  cieli,  poesie  del  signor  Girolamo  F^dn- 
tanella,  all'altezza  serenissima  di  Ferdinando  II,  granduca  di 
Toscana  (in  Napoli,  per  Roberto  Mollo,   1640). 

I  nn.  xxiii-xxxiii,  dalle  Ode,  consacrate  all'immortalità  del- 
l'ili. ma  et  ecc. ma  signora  D.  Anna  Carafa,  principessa  di  Stigliano 
e  vicereina  nel  regno  di  Napoli,  seconda  impressione  (in  Napoli, 
per  Roberto  Mollo,    1638). 

II  n.  XXXIV  ,  dalle  Elegie,  dedicate  all' ili. mo  et  ecc.mo  signore 
D.  Diomede  Carafa  Paceco,  duca  di  Maddaloni  (in  Napoli,  per 
Roberto  Mollo,   1645). 

Il  Toppi,  Bibl.  nap.,  p.  156,  e  il  Crescimbeni,  v,  170,  danno  il 
Fontanella  per  napoletano;  ma  il  Quadrio,  v,  87,  fa  notare  che  la 
prima  edizione  delle  Ode  (in  Bologna  per  lo  Tebaldini,  1633)  ha  sul 
frontespizio:  «Girolamo  Fontanella,  reggiano».  Un'allusione  alla 
sua  provenienza  dall'alta  Italia  si  può  vedere,  del  resto,  nei  versi 
pubblicati  in  questo  voi.,  p.  244.  Visse  molti  anni  a  Napoli,  dove 
mori  nell'agosto  del  1644;  e  postume  furono  pubblicate,  nel  1645, 
le  Elegie.  Il  Tiraboschi,  Biblioteca  modenese,  11,  340-2,  non  sa 
nulla  di  lui,  né  trova  come  riattaccarlo  alla  famiglia  Fontanelli  di 
Reggio  Emilia:  «  forse  il  F.,  uscito  da  Reggio  in  età  fanciullesca, 
non  vi  fece  ritorno,  e  perciò  niuna  memoria  ne  è  poi  rimasta  ». 
Due  lettere  a  lui  dirette  sono  in  Vincenzo  Armanni.  Lettere 
(Roma,   1663),  i,  566. 

VI 

SALOMONI  —  MORANDO  —  BRIGNOLE-SALE 

I.  Giuseppe  Salomoni.  —  Dalle  Rime  di  Giuseppe  Salomoni, 
accademico  Sventato  detto  il  Sano  (in  Bologna,  presso  gli  eredi 
dei  Dozza,    1647). 


NOTA  535 

Edizioni  precedenti  della  parte  i,  Udine,  Lorio,  1615;  delle  due 
parti,  Venezia,  Ginami,   1626. 

Intorno  al  Salomoni,  udinese,  cfr.  Quadrio,  ii,  parte  i,  p.  295. 
Nelle  Rhne  del  Michiele,  parte  11,  p.  250,  è  un  son.:  «  In  morte 
del  sig.  Gioseppe  Salomoni  ». 

II.  Berardo  Morando.  —  Dalle  Opere  del  conte  Bernardo  Mo- 
rando, nobile  genovese,  divise  in  quattro  tomi,  cioè  i.  Fantasie, 
II.  Poesie  dramatiche,  in.  Poesie  sacre  e  morali,  iv.  Rosalinda, 
dedicate  a  Ranuccio  II,  duca  di  Piacenza,  Parma,  ecc.  (Piacenza, 
nella  stampa  ducale  di  Gio.   Bazachi,   1662). 

Sul  Morando,  genovese  (morto  il  1656),  si  vedano  i  Viaggi 
di  G.  V.  Imperiale  (ed.  Barrili,  in  Atti  della  soc.  ligure  di  storia 
patria,  xxix,  fase,  i),  pp.  208,  229,  252;  Angelo  Aprosio,  Bi- 
blioteca aprosiana  (Bologna,  Manolessi,  1673),  pp.  547-553;  e  Le 
glorie  degli  Incogniti,  pp.  85-7. 

IH.  A.  G.  Brignole-Sale.  —  Da  Le  instabilità  dell'  ingegno,  di- 
vise in  otto  giornate  dall' ili. mo  signor  marchese  Anton  Giulio 
Brignole-Sale  (in  Bologna,  per  Giacomo  Monti  e  Carlo  Zenero, 
1635).  Il  son.  Il,  dalle  Lagrime  per  la  morte  della  signora  Emilia 
Adorni  Raggi  (in  Piacenza,  per  Girolamo  Bazzacchi,  1634),  rife- 
rito in   F.  Meninni,  //  ritratto  del  sottetto  (Napoli,   1677),  p.  99. 

Il  Brignole-.Sale  (1605-1665),  genovese,  si  fece  poi  frate:  onde 
le  Instabilità  dell'ingegno  ricomparvero  con  mutamenti  e  tagli 
nelle  edizioni  di  Venezia,  1641,  1652.  Scrisse  anche:  //  carnevale 
con  l'anagramma  di  Gotilvannio  Sallibregnio  (Venezia,  1639, 
1641,  1663).  Si  vedano  Le  glorie  degli  Incogniti,  pp.  67-9,  e  Maz- 
zucHELLi,   lì,   2098-2 lOI. 

VII 
MICHIELE  —  ZAZZARONI  —  QUIRINI 

I.  Pietro  Michiele.  —  Dalle  Rime  di  Pietro  Michiele,  nobile 
veneto,  terza  impressione  (in  Venezia,  1642,  appresso  gli  Gue- 
rigli);  e  da  La  benda  di  Cupido,  aggiuntovi  (sic)  la  terza  parte 
e  le  odi  (ivi,   1648). 

Delle  molte  opere  del  M.  un  catalogo  è  innanzi  alla  Benda  di 
Cupido:  si  vedano  Le  glorie  degl' Incogniti,  pp.  373-5;  Crasso, 
Elogi,  II,  265-8;  Quadrio,  ii,  parte  i,  312,  592,  625,  669;  in, 
parti  II,  466;  IV,   116,  274,  582-3,  685. 


536  LIRICI     MARINISTI 

II.  Paolo  Zazzaroni.  —  Dal  Giardino  di  poesie,  distinte  in  mirti, 
viole,  rose,  allori,  cipressi,  spine,  coltivato  da  Paolo  Zazzaroni 
(in  Verona,  appresso  Bartolomeo  Merlo,   1641). 

Dello  Z.,  notizie  nelle  Glorie  degli  Incogniti,  pp.  365-7. 

III.  Leonardo  Quirini,  —  Dai  Vezzi  d'Erato,  poesie  liriche  di 
Leonardo  Quirini,  nobile  veneto  (in  Venezia,  1649,  appresso 
Gio.  Giacomo  Hertz). 

Vi  è  incluso  un  idillio  :  //  Narciso,  già  pubblicato  in  Venezia, 
1612. 

Intorno  al  Q.,  Le  glorie  degli  Incogniti,  pp.  309-311. 

VII! 
BASSO  —  ZITO  —  MUSCETTOLA 

I.  Antonio  Basso.  —  Dalle  Poesie  del  dottor  Antonio  Basso, 
accademico  Otioso  (in  Napoli,  per  Giacomo  Gaffaro,   1645). 

Il  Basso,  napoletano,  prese  parte  alla  rivoluzione  di  Masa- 
niello, e  fu  decapitato  nel  febbraio  1648  per  cospirazione  contro 
il  duca  di  Guisa  :  v.  i  Mémoires  de  feu  monsieur  le  duc  de  Guise 
(2*  ediz.,   Paris,   1668),   pp.  239-269. 

Di  lui  fa  cenno  anche  1'  Imperiale,  Giornali  (ed.  Barrili,  in 
Atti  della  soc.  lig.  di  st.  patria,  xxix,  f.  2),  pp.  386,  470.  Oltre 
brevi  cenni  nel  Toppi,  p.  24,  e  nel  Mazzuchelli,  ii,  532-3,  si 
veda  Minieri  Riccio,  Notizie  biogr.  e  bibliogr.,  ecc.,  Lettera  B, 
pp.   13-14. 

II.  Vincenzo  Zito.  —  Dagli  Scherzi  lirici  di  Vincenzo  Zito, 
(in  Napoli,  per  Ottavio  Beltrano,  1638);  e  dalle  Poesie  liriche 
(in  Napoli,  per  Novello  de  Bonis,   1669). 

Era  nativo  di  Capua,  secondo  il  Toppi,  p.  310,  e  già  morto 
nel  1669,  quando  le  poesie  di  lui  furono  edite  dal  figliuolo  Mario. 

III.  Antonio  Muscettola.  —  Dalle  Poesie  di  don  Antonio  Mu- 
scettola,  parte  prima  (in  Venezia,  1661,  per  il  Babà);  e  parte 
seconda  (ivi,    1669,  appresso  Zaccaria  Conzatti). 

Una  terza  parte  fu  pubblicata  postuma  dal  figliuolo  Francesco, 
duca  di  Spezzano  (in  Napoli,  nella  stamperia  di  Giacomo  Raillard, 
1691).  La  prima  raccolta  di  Poesie  è  di  Napoli,  per  gli  eredi  del 
Cavallo,   1659. 

Il  Muscettola  (1628-1679)  scrisse  anche  una  tragedia  La  Belisa 
(Napoli,  Rossi,   1664),  una  favola  drammatica  La  Rosalinda  (Ve- 


NOTA  537 

nezia,  Babà,  1661),  un  volume  di  Epistole  famigliari,  in  versi  (Na- 
poli, Bulifon,  1678),  e  un  altro  di  Prose  (Piacenza,  Bazacchi,  1665). 
Si  vedano  intorno  a  lui  Crasso,  Elogi,  11,  225-30;  Biblioteca  apro- 
siatia,  pp.  468-78;  BoNOMi,  Parto  dell'orsa,  parte  11,  pp.  202-3; 
U.  Tria,  D.  Antonio  Miiscettola,  duca  di  Spezzano,  e  il  p.  An- 
gelico Aprosio  (Napoli,  d'Auria,  1897);  e  Belloni,  Il  Seicento, 
PP-  94-5- 

IX 
CIRO   DI    PERS 

Dalle  Poesie  del  cavalier  fra'  Ciro  di  Pers,  dedicate  alla  sacra 
cesarea  maestà  di  Leopoldo  imperatore  augusto  pio  pannonico. 
(in  Venezia,  per  Andrea  Poletti,  all'insegna  dell'Italia,  16S9;  due 
volumi).  I  sonn.  x,  xiii,  xv,  xix  sono  presi  dall'edizione  di  Na- 
poli, Poli,  1669,  dalla  quale  (per  altro  scorretta  e  qua  e  là  mu- 
tila) ci  siamo  giovati  anche  per  restituire  qualche  verso  tralasciato 
nell'ediz.  del   1689. 

Sul  Di  Pers  (nato  nel  castello  di  Pers  nel  Friuli,  1599-1662), 
oltre  un  cenno  nelle  Glorie  degli  Incogniti,  pp.  105-7,  e  la  bio- 
grafia che  precede  l'edizione  del  1689,  curata  dai  nipoti  di  lui, 
si  ha  una  monografia  di  Bruno  Guyon,  Ciro  di  Pers  e  le  sue 
poesie  (Udine,  tip.  del  Bianco,  1897):  cfr.  Giorn.  stor.  d.  letter. 
italiana,  xxxi,  439-41. 

X 

GIUSEPPE  BATTISTA 

Dalle  Poesie  meliche  di  Giuseppe  Battista,  parti  i-iii  (Venezia, 
per  li  Babà,  1659),  parte  iv  (ivi,  1664),  parte  v  (Bologna,  per 
Gioseffo  Longhi,  1670);  e  dagli  Epicedi  eroici,  poesie  (Venezia, 
1667). 

Delle  due  prime  parti  si  ha  un'edizione  anteriore  di  Venezia, 
Babà,  1653,  e  più  ristampe;  degli  Epicedi,  una,  accresciuta,  di 
Bologna,   Longhi,   1670. 

Di  Giuseppe  Battista  (nato  a  Grottaglie,  in  prov.  di  Lecce, 
II  febbraio  1610,  morto  in  Napoli  6  marzo  1675),  e  autore  altresì 
di  Epigrammata  (Venezia,  1653),  di  Giornate  accademiche,  prose 
(Venezia,   1673),  di  Lettere  (Bologna,    1678),  di   una  Poetica  (Ve- 


538  LIRICI     MARINISTI 

nezia,  1676),  scrissero  i  contemporanei  Crasso,  Elogi,  i,  334-341, 
e  BoNOMi,  Parto  dell'orsa,  pp.  212-3;  e  sfavorevolmente  G.  Ci- 
ciNELLi,  Censura  del  poetare  moderno  (Napoli,  Passeri,  1672),  e 
F.  Meninni,  Furti  svelati  nelle  poesie  meliche  e  negli  epigrammi 
di  G.  B.  (s.  1.  a.).  Recentemente,  Edoardo  Pedio,  G.  B.,  poeta 
e  letterato  del  600,  con  documenti  inediti  (Trani,  Vecchi,  1902). 
Le  più  ampie  e  precise  notizie  sono,  per  altro,  in  Minieri  Riccio. 
Not.  biogr.  e  bibliogr.  cit.,  lettera  B.,  pp.   15-17. 

XI 
ARTALE  —  LUBRANO  —  CANALE 

L  Giuseppe  Artale.  —  Dalla  Enciclopedia  poetica  di  Giuseppe 
Artale,  cavaliero  angelico-aureato-costantiniano  di  San  Giorgio, 
corretta  ed  accresciuta  dall'autore,  tre  parti  (in  Napoli,  presso 
Antonio  Bulifon,   1679). 

Dell'  Alloro  fruttuoso,  che  costituisce  la  terza  parte,  la  prima 
ediz.  è  di  Napoli,  per  Novello  de  Bonis,   1672. 

L'Artale  (n.  presso  Catania,  1628,  m.  in  Napoli,  1679)  scrisse 
anche  un  romanzo,  //  Cordimarte,  una  tragedia  di  lieto  fine,  Guerra 
tra  vivi  e  morti  (Napoli,  Bulifon,  1679),  e  un  dramma  musicale, 
La  Pasife  ossia  l' impossibile  fatto  possibile  (Venezia,  1661).  La 
vita  di  lui  si  trova  alla  fine  del  primo  volume  A&W Enciclopedia, 
e  fu  scritta  da  Catone  Aurelio  Clabbes  (anagramma  di  Vito  Cesare 
Cabballo).  Si  vedano  Mongitore,  Bibl.  sic,  i,  371-2,  e  Mazzu- 

CHELLI,  I,   1 143-4. 

IL  Giacomo  Lubrano.  —  Dalle  Scintille  poetiche  o  poesie  sacre 
e  morali,  di  Paolo  Brinacio  [Iacopo  Lobrano]  napoletano  (in 
Napoli,  nella  nuova  stampa  delli  soci  Doni.  Ant.  Barrino  e  Mi- 
chele Luigi  Muzi,   1690). 

Nella  prefazione  di  .Silvestro  di  Fusco  :  «  Eccoti  alfine  le  poe- 
sie italiane  del  signor  Paolo  Brinacio,  il  quale,  tuttoché  trave- 
stito di  nome,  darassi  ben  a  conoscere  al  mondo  letterato  in  que- 
sti pochi  tratti  della  sua  penna,  appunto  come  si  facevano  discer- 
nere le  linee  rosse  di  Apelle Avvegnaché   la   sua   professione 

non  sia  di  far  mostra  di  sé  colla  cetera  al  collo,  ma  di  sacro  ora- 
tore, non  per  tanto  che  si  vuol  fare?  in  quelle  ore  nelle  quali  te- 
trica  sunt  amoenanda  iocularibus,  si  ha  lasciato  lusingar  dalle 
muse ».  Cfr.  anche,  in  questo  voi.,  il  son.  xi  del  Canale. 


NOTA  539 

Oltre  le  prediche,  il  Lubrano  pubblicò  un  volume  di  poesie 
latine:  Suaviludia  musaruni  ad  Sebeihi  ripani,  epigrammatum  libri  x 
Iacobi  Lubrani,  e  societ.  Jesu,  neapolitani  (Neapoli,  ex  typ.  la- 
cobi  Raillard,  idgo).  Cfr.  intorno  a  lui  Capone-Marano,  Un  poeta 
satirico  del  XVII  secolo:  Giulio  Acciaili  (Salerno,  lovane,  1892), 
pp.  133,   263,  e  il  Vico,  Autob.,  in  Opp.,  ed.  Ferrari,   IV,  331. 

III.  Giovanni  Canale.  —  Dalle  Poesie  del  signor  Gìovanni  Ca- 
nale, divise  in  morali,  varie,  eroiche,  di  lodi,  funebri,  sagre, 
dedicate  al  card.  F.  Vincenzo  Maria  Orsini  (in  Napoli,  1694,  per 
li  soci  D.  A  Parrino  e  M.  L.  Muzi). 

Ediz.  anteriore  delle  parti  i  e  11,  Venezia,  Conzatti,    1667. 

Il  Canale  era  della  Cava,  secondo  il  Toppì,  p.  116,  e  nacque 
ai  primi  del  Seicento.  Scrisse  anche  L'anno  festivo  overo  i  fasti 
sacri,  poema  (Venezia,  1674Ì  e  un  romanzo  L'Amattinta  (ivi,  1681). 

XII 

MENINNI  —  L.  E  P.   CASABURI  —  GAUDIOSI 
DOTTI  —  PERRUCCI 

I.  Federico  Meninni.  —  Dalle  Poesie  di  P'ederico  Meninni,  al- 
l'ili. mo  signor  marchese  D.  Giovan  Battista  Spinelli  de'  principi  di 
San  Giorgio  (in  Napoli,   1669,  per  Luc'Antonio  di  Fusco). 

Secondo  il  Toppì,  p.  81,  era  nativo  di  Gravina.  Di  professione 
era  medico.  Scrisse  anche  //  ritratto  del  sonetto  e  della  canzone, 
discorsi  (Napoli,   Passeri,   1677). 

II.  L.  e  P.  Casaburi.  —  Da  Le  quattro  stagioni,  poesie  varie 
di  D.  Lorenzo  Casaburi  Urries,  napoletano,  dedicate  al  prin- 
cipe di  Sanseverino  Gentile  Albertino  (in  Napoli,  1669,  per  No- 
vello de  Bonis);  e  da  Le  sirene,  poesie  liriche  del  signor  D.  Pìetro 
Casaburi  Urries,  dedicate  al  principe  di  Macchia  Pietro  Gamba- 
corta (ivi,   1676). 

Sui  fratelli  Casaburi,  Toppi,  p.  245-6.  Pietro  pubblicò  anche  / 
concerti  poetici  (cfr.  Gimma,  Elogi,   i,  p.  346). 

III.  Tommaso  Gaudiosi.  —  Da  L'arpa  poetica,  distinta  in  sei 
parti  (Napoli,  per  Novello  de  Bonis,   1671). 

Era  della  Cava  (Toppi,  p.  297),  e  compose  anche  una  tragedia: 
La  Sofia  ovvero  l'Innocenza  ferita  (Napoli,   1640). 

IV.  Bartolomeo  Dotti.  —  Dalle  Rime:  i  sonetti  di  Bartolomeo 
Dotti  (Venezia,   1689). 


540  LIRICI    MARINISTI 

Il  Dotti  (di  Valcamonica  nel  Bresciano,  1642-1712)  è  più  noto 
come  scrittore  di  satire.  Ediz.  postuma:  Satire  del  cavalier  Dotti 
(Ginevra  [Parigi],   1757). 

V.  Andrea  Ferrucci.  —  Dalle  Idee  delle  muse,  poesie  del  dottor 
Andrea  Ferrucci,  dedicate  a  Carlo  Ferdinando  Gonzaga,  duca 
di  Mantova  (in  Napoli,   1695,  per  li  soci  Parrino  e  Muzi). 

Del  Ferrucci  (nato  a  Palermo,  1651,  morto  a  Napoli,  1704), 
autore  di  moltissime  opere  drammatiche  e  melodrammatiche,  e 
tra  le  altre  del  Verbo  umanato,  rimasto  per  secoli  popolare  nei 
teatri  di  Napoli  (cfr.  Croce,  Teatri  di  Napoli,  pp.  159-163),  di- 
scorrono il  MoNGiTORE,  Bibl.  Sicilia,  I,  32-34,  e  F.  Martorana, 
Notizie  biogr.  e  bibliogr.  d.  scritt.  del  dial.  napol.  (Napoli,  1874), 
pp.  323-7. 


INDICE 


TOMMASO  STIGLIANI: 

I.  Luna  importuna pag.  3 

II.  Il  dono  del  fiore »  4 

III.  Durante  un  giuoco  di  veglia »  ivi 

IV.  A  una  zingara »  5 

V.  Il  cagnolino  donato »  ivi 

VI.  Amore  e  speranza »  6 

VII.  Il  sogno »  ivi 

vili.  Nel  comporre  il  Mondo  nuovo.  A  Cesare  Orsino  .  »  7 

IX.  L'invidia  degli  emuli »  ivi 

X.  Per    Flaminia    Cecchini,  comica,  scampata    all'in- 
cendio del  Vesuvio  e  recatasi  presso  Luigi  XIII    .  »  8 
XI.  Il  ritratto.  Al  cavalier  Giuseppe  d'Arpino      ...  »  ivi 
XII.  La  cantatrice.  A   Settimia,  figliuola  di   Giulio  Ro- 
mano        "  i*^ 

XIII.  Il  saluto  dell'amante '  »  12 

XIV.  Il  chiarimento  all'amata »  13 

XV.  La  lusinga  amorosa »  14 

XVI.  Guerra  interna »  i^ 

XVII.  Ad  Aquilino  Coppini »  ivi 

XVIII.  Contese  amorose  di  fiori »  17 

XIX.  Il  montone  vezzoso »  ivi 

XX.  Il  giusto  mezzo »  18 

XXI.  Gradazione  crescente  di  felicità »  ivi 

XXII.  Sonetto  nello  stile  di  moda.  Parodia »  19 

XXIII.  Il  bidello  dello  studio  nel  chiedere  la   mancia  agli 

scolari '  IVI 


542 


LIRICI    MARINISTI 


MARCELLO    MACEDONIO: 

I.  Le  bugie  nell'amore pag. 

II.  Alla  damigella  della  sua  donna     .......  » 

III.  Viaggi  ed  amore » 

IV.  Le  vesti  di  vari  colori » 

V.  Disfida  delle  acque  e  delle  aure » 

VI.  Invocazione  all'aurora       » 


SCIPIONE  CAETANO: 

I.  La  lusingatrice  volubile   .     , 
II.  Il  contatto  del  seno 

III.  Il  pianto 

IV.  La  vecchia  ambasciatrice 
v.  La  casa  della  donna  amata 

VI.  Alla  lucciola 

VII.  Venezia 


25 
27 


29 
30 
ivi 

31 
ivi 

32 

ivi 


GIAMBATTISTA  MANSO: 

I.  Alle  falde  della  collina  di  Sant'Elmo 
II.  Il  ritorno  della  primavera    .... 


III.  La  solfatara  di  Pozzuoli 

IV.  Placamento  di  gelosia 
v.  Gelosia  ostinata  .     .     . 


33 
34 
ivi 

35 
ivi 


FRANCESCO  BALDUCCI  : 

I.  Amore  palese,  amata  nascosta 
II.  Al  figlioletto  della  sua  donna  . 

III.  Il  dolce  sogno  interrotto  .     .     . 

IV.  Il  rivale 

V.  A  santo  Stefano 


36 
37 
ivi 

38 


FRANCESCO  DELLA  VALLE: 

I.  Al  nascer  del  giorno »  39 

II.  Compiacimento  dei  passati  amori »  40 

III.  Pastorale »  ivi 

IV.  Alla  stanza  dov'era  stato  con  la  sua  donna  ...»  41 
V.  Prima  dell'alba »  ivi 

VI.  Amore  reciproco »  42 

-'««•'-^  f^vu)  L' irrequietezza »  ivi 

vili.  La  casa  della  sua  donna »  43 

IX.  Il  ritratto  della  donna  amata.  A  Girolomo  Brivio  .  »  ivi 

X.  Le  nuove  fabbriche  di  Roma  sotto  Paolo  V      .     .  »  44 

XI.  Alla  città  di  Co.senza »  ivi 


INDICE  543 

II 

CLAUDIO  ACHILLINI: 

r.  La  dipartita pag.  47 

II.  La  bionda  scapigliata »  48 

III.  Lo  sdegno  nel  bianco  volto »  ivi 

IV.  L'antica  amante  fatta  monaca »  49 

V.  La  mendicante »  ivi 

VI.  La  spiritata »  50 

VII.  Lo  scoppio  della  mina  e  il  bacio »  ivi 

Vili.  Il  ruscelletto  nella  villa  Camaldoli,  appartenente  ad 

Annibale  Marescotti »  51 

IX.  Nella  selva  presso  il  Reno,  al  ritorno  dalla  corte 

di  Roma.  A  Gasparo  Ercolano »  ivi 

X.  Ombra  di  nuove  foglie »  52 

XI.  Sic  vos  non  vobis »  ivi 

xn.  La  morte  e  il  testamento  di  San  Giuseppe.  Al  padre 

Gioacchino  Ciomei,  cappuccino »  53 

XIII.  Il  fior  di  passione »  ivi 

XIV.  A  Luigi  XIII  dopo  la  presa  della  Roccella  e  la  li- 
berazione di  Casale >  34 

GIROLAMO  PRETI: 

I.  Le  rose  pallide »  35 

II.  La  casa  della  donna  amata »  56 

III.  La  donna  a  cavallo »  ivi 

IV.  L'amante  timido »  37 

V.  La  donna  allo  specchio »  ivi 

VI.  In  villa »  58 

VII.  Paesaggio »  ivi 

vili.  Paesaggio  amoroso »  39 

IX.  Invito »  ivi 

X.  Per  un  cavallo  barbaro.  A  Vitale  de'  Buoi    ...  »  60 

XI.  Alla  penna  del  cavalier  Marino »  ivi 

XII.  L'oriuolo »  61 

PIER  FRANCESCO  PAOLI: 

1.  Nella  casa  della  sua  donna  durante  l'assenza  di  lei  .  »  62, 

II.  Il  bacio  dato  per  dispetto »  64 

III.  Il  cenno  non  inteso »  ivi 

IV.  La  lettera »  63 

V.  La  chioma »  ivi 

VI.  Dinanzi  a  un  ospedale »  66 


544  LIRICI    MARINISTI 

VII.  Distillando  rose pag.  66 

vni.  Insegnando  a  leggere  alla  donna  amata     ....  »  67 

IX.  Le  amiche »  ivi 

X.  Fra  le  maschere  in  carnevale »  68 

XI.  La  bambina  della  sua  donna »  ivi 

XII.  La  donna  sfiorente  per  malinconia »  69 

XIII.  Lo  spettacolo  della  guerra  e  l'amore:  quando  l'au- 
tore fu  addetto  alla  segreteria  di  guerra   ....  »  ivi 

XIV.  L'abito  sacro:  quando  l'autore  ebbe  dal  suo  signore 

un  beneficio  ecclesiastico »  70 

XV.  La  Maddalena »  ivi 

XVI.  La  posa  della  prima  pietra  del  nuovo  convento  dei 

Cappuccini.  Ad  Urbano  Vili »  71 

XVII.  Il  mal  di  pietra »  ivi 

xviii.  A  lei  che  abita  in  un  tugurio »  72 

XIX.  Una  dama  spagnuola »  75 

MARCELLO  GIOVANETTI: 

I.  Chiome  nere »  76 

II.  Le  pozzette  nelle  guance »  77 

III.  Nello  scorgere  da  lungi  il  paese  della  sua  donna  .  »  ivi 

IV.  La  donna  presente  a  spettacolo  di  giustizia  ...»  78 

V.  Il  bagno  nel  lago »  ivi 

VI.  La  donna  e  il  vecchio »  79 

VII.  La  ninfa  e  il  rozzo  amante »  ivi 

vili.   La  bella  serva »  80 

IX.  La  cortigiana  frustata »  ivi 

X.  La  dormente.  A  Girolamo  Mattei »  81 

XI.  La  fontana  nel  giardino  di  Tivoli  raffigurante  l'an- 
tica Roma.  Al  cardinale  Alessandro  d'Este    ...»        84 

XII.  L'inondazione  del  Tronto.  A  monsignor  Vitello     .  »  89 

GIOVAN  LEONE  SEMPRONIO: 

I.   Amore  fatto  di  sguardi »        94 

II.  La  pensosa »        95 

III.  I  capelli  fasciati  dopo  la  lavanda »  ivi 

IV.  La  chioma  rossa »        96 

V.  I  capelli  pendenti  sugli  occhi »  ivi 

VI.  La  donna  di  alta  statura »        97 

VII.  La  maestra  delle  fanciulle »  ivi 

VIII.  Giocando  ai  dadi »        98 

IX.  Il  ballo  delle  villanelle »  ivi 

X.  Alla  sua  donna  nell'atto  che  annoda  le  trecce   .     .  »        99 

XI.  Ricordi  di  vita  studentesca  a  Bologna »  ivi 


INDICE  545 

xii.  La  raccolta  di  codici  lasciata  dal  duca  alla  città  di 

Urbino pag.   loo 

XIII.  Lodi  di  Fabio  Albergati  al  figliuolo  di  lui,  Ugo      .       »  ivi 

XIV.  Impossibilità  di  occultare  il  proprio  animo      ...       »  loi 
XV.   La  Maddalena  ai  piedi  di  Gesù »  ivi 

III 

GIOVAN   FRANCESCO   MAIA  MATERDONA: 

I.  Abbigliamento  mattutino »  105 

II.  L'asciugamento  dei  capelli »  106 

ni.  La  promessa »  ivi 

IV.  Inviando  l'Adone »  107 

V.  A  una  zanzara »  jyi 

VI.   La  mascherata »  108 

VII.   Lo  sdegno  liberatore »  ivi 

Vili.   Il  primo  di  maggio »  109 

IX.   L'esempio »  ivi 

X.  Amor  concorde »  no 

XI.   La  lode  degli  alberi,    dei  venti  e  delle  acque    .     .  »  ivi 

XII.   Giuoco  di  neve »  m 

XIII.  La  legatrice  di  libri »  ivi 

XIV.  Ad  Isabella  Chiesa,  che  rappresentava  sul  teatro  una 

regina »  „2 

XV.  Le  donne  di  Venezia »  ivi 

XVI.  Il  gioco  del  pallone »  u^ 

XVII.  La  giostra.  Per  il  mantenitore  marchese  Pepoli      .  »  ivi 
XVIII.  A  Mario  Albricci  Farnese,  per  le  conclusioni  da  lui 

sostenute »  ^a 

XIX.  I  sepolcri  del  Sannazaro  e  di  VirgiUo »  ivi 

XX.  La  fontana  di  ponte  Sisto  in  Roma »  115 

XXI.  La  verdea  di  Firenze »  ivi 

XXII.  Nell'ospedale  degl'Incurabili  di  Napoli      ....  »  116 

xxiii.  Nel  pettinarsi »  ivi 

XXIV.  I  baci  della  donna  muta »  ny 

ANTONIO  BRUNI: 

I.  Il  luogo  dei  passati  amori »  ng 

II.  Gli  occhi  azzurri »  ug 

III.  Il  neo  sul  labbro »  ivi 

IV.  Il  ventaglio »  120 

V.  La  lodatrice  di  poesie »  ivi 

VI.  A  una  poetessa »  121    . 

VII.  La  dama  francese  in  Roma »  ivi 


/.  l'ric  i~}i!aiin  isti 


35 


546  LIRICI    MARINISTI 

Vili.  A  diporto  per  la  riviera  di  Posilipo pag.  122 

IX.  La  favola  di  Europa »  ivi 

X.  Le  belle  chiome »  123 

XI.  I  baci »  125 

XII.  Il  Rapimento  d' Elena  di  Guido  Reni  e  la  Bidone 

trafitta  del  Quercino.  Al  cardinale  Spada     ...  »  126 

XIII.  Per  la  reliquia  del  latte  della  Vergine »  129 

XIV.  Sofonisba  a  Massinissa »  131 

SCIPIONE  ERRICO: 

I.  Contro  l'amor  platonico »  137 

II.  L'amante  tacito »  138 

'^lii.  La  balbuziente »  ivi 

IV.  Per  una  meretrice  spagnola  morescata »  139 

V.  Al  principe  Tomaso  di  Savoia »  ivi 

VI.  A  Giovanni  Antonio  Arrigoni »  140 

VII.  La  via  lattea.  Al  cardinal  Borghese »  ivi 

IV 

GIAMBATTISTA   BASILE: 

I.  Santa  Cristina »  151 

II.  Per  l' incendio  del  Vesuvio  del  1632 »  153 

III.  La  bella  chioma »  ivi 

IV.  Pallore  gradito »  154 

BIAGIO  CUSANO: 

I.  Le  tre  belle »  155 

II.   IVIusica  notturna »  156 

III.  Sedendo  giudice  in  tribunale »  ivi 

IV.  Per  i  sette  monti  nella  mano  della  sua  donna   .     .  »  157 
v.  Roma- Amor »  ivi 

VI.  All'amante,  che  si  è  raso.  Scritto  ad  istanza  di  una 
cortigiana »  158 

GIOVANNI  PALMA: 

I.  Il  sorriso  modesto »  159 

II.  La  bella  parlatrice »  160 

III.  L'amorosa  imaginazione »  ivi 

IV.  Il  paese  di  Puglia »  161 

GIOVANNI  ANDREA  ROVETTI: 

I.  Il  lago  di  Diana  in  Nemi »  162 

II.   Il  pianto  del  figliuolo »  163 

III.  Premendo  il  piede »  ivi 


INDICE  547 

BARTOLOMEO  TORTOLETTI: 

I.  La  segretezza pag.   164 

II.  La  somiglianza »  165 

III.  Le  rose  gittate  al  fuoco »  ivi 

IV.  Bellezza  che  resiste  agli  anni »  166 

V.  La  mascherata  delle  zingare »  ivi 

MAFFEO  BARBERINO  (dipoi  papa  Urbano  Vili): 

I.  Il  diletto  terreno »  167 

li.  Occhi  casti »  168 

III.  La  fontana »  ivi 

PAOLO  GIORDANO  ORSINO,  duca  di  Bracciano: 

1.  La  bella  pellegrina »  169 

II.  Senso  e  ragione »  170 

III.  Vanitas  vanitatum »  ivi 

IV.  La  bugia »  171 

V.  La  città »  ivi 

VI.   Il  ritorno  alla  propria  terra »  172 

GIACOMO    D'AQUINO,  principe  di  Crucoli  : 

I.  Il  fastidio »  173 

n.  Il  giorno  dei  morti »  174 

III.   La  tempesta »  ivi 

MICHELANGELO    ROMAGNESI: 

I.  La  morte »  175 

li.  La  tomba »  176 

GENNARO   GROSSO: 

I.  La  nascita  di  Maria:  sonetto  in  bisticcio  ....  »  177 

II.  I  santi  Innocenti »  178 

III.  Cristo  esortante  alla  confessione »  ivi 

ANTONINO    GALEANI 

I.  Il  pericolo »  179 

II.  I  nastri  seduttori »  180 

III.  Il  ballo  galeotto »  ivi 

IV.  La  rana »  181 

V.  Il  dono  del  lepre »  ivi 

VI.  La  bella  e  il  vecchio    .     .     .     .    , »  182 

GIAMBATTISTA  PUCCI: 

I.  L'ardore »  183 

II.  Gli  occhi  e  il  seno »  184 

III.  Lo  svelamento >  ivi 


548  LIRICI    MARINISTI 

ANTON   MARIA   NARDUCCI: 

I.  La  veste  e  la  ghirlanda pag.   185 

II.  Le  «  fere  d'avorio  »  tra  i  capelli »      186 

III.  A  Camillo  Baffi  per  domandargli  la  propria  «  na- 
tività » »        ivi 

TIBERIO   SBARRA: 

I.  L'amor  nostro »      187 

II.  Il  panierino  di  fragole  e  rose »       188 

FILIPPO  MASSINI: 

I.  Il  vino »       189 

II.  Il  vino »      190 

CESARE  ABBELLÌ: 

I.  La  vite »       191 

II.  Gli  astri  notturni »       192 

LUDOVICO  TINGOLI: 

I.  Invocazione  all'intemperie »      193 

II.  La  bruttezza  ingioiellata »       194 

FILIPPO  MARCHESELLI: 

I.  L'abitazione  presso  la  fontana  di  Trevi     ....        »      195 
II.  All'ancella »      196 

PAOLO   ABRIANI:  \\ 

^,^^_.  I.  La  bella  tartagliante »      197 

II.   Il  sonetto »       198 

FRANCESCO   BRACCIOLINI: 

L'inquietudine »       199 

ANDREA  BARBAZZA: 

La  partenza  all'apparire  dell'aurora »      200 

ANTONIO  FORTINI: 

Il  poeta  segreto »      201 

AGOSTINO  AUGUSTINI: 

Il  bracciere  avventurato »      202- 

MARCANTONIO  ARLOTTO: 

L'offerta »      203, 


INDICE  549 

FABIO  LEONIDA: 

La  bellezza  al  tramonto pag.   204 

GHERARDO   SARACINI: 

Il  laccio  di  capelli »      205 

PIETRO  PAOLO  BISSARI: 

Baciando »      206 

CLAUDIO  TRIVULZIO: 

La  villanella  in  città »      207 

GIOVAN  FRANCESCO  CORMANI: 

La  dormente  al  far  del  giorno »       208 

ER:\IES  STAMPA: 

La  donna  vestita  alla  ghibellina  coi  fiori  al   lato  si- 
nistro della  chioma »      209 

A1TRELIO   MANCINI: 

La  donna  che  bacia  il  pavimento  della  chiesa  ...       »      210 

D'INCERTO: 

Il  gelsomino  tra  le  labbra »      211 

MARTINO  LUNGHI: 

Il  pallone »       212 

ANTONIO  DE'  ROSSI: 

Contro  il  salasso »      213 

D'INCERTO: 

Tà  xaia.iiYiV'.a »      214 

D' INCERTO  : 

Zitella  romanesca  ritrosa »      215 

D'INCERTO: 

La  mosca  nel  calamaio »       216 

V 

i;iki)LAMO  FONTANELLA: 

I.  Il  velo  sul  petto »      221 

il.  Il  dono  dei  guanti  di  seta »      222 


550  LIRICI    MARINISTI 

III.  La  nenia  presso  la  culla pag.  222 

IV.  Inviando  un  pappagallo »  223 

V.  Il  salasso »  ivi 

VI.  Il  pettine  rotto »  224 

VII.  La  beltà  vinta  dal  tempo »  ivi 

VIII.  Confessione  di  poeta »  225 

IX.  La  nuotatrice »  ivi 

XX.  Il  ruscello »  226 

XI.  La  terra  assetata »  ivi 

XII.  Invocazione  alla  pioggia »  227 

XIII.  Al  vento »  ivi 

XIV.  La  perla »  228 

XV.  L'ermellino »  ivi 

XVI.  Il  corallo »  229 

XVII.  Il  garofano »  ivi 

XVIII.  La  Maddalena »  230 

XIX.  San  Francesco  d'Assisi »  ivi 

XX.  Il  beato  Giovanni  di  Dio »  231 

XXI.  Il  sangue  di  san  Gennaro »  ivi 

XXII.  Alla  Vergine »  232 

XXIII.  La  saltatrice.  A  Fabio  Ametrano »  ivi 

XXIV.  La  ricamatrice.  A  Francesco  Sacchi. 

XXV.  Al  fiume  Sebeto.  Per  la  fontana  nella  casa  di  Fran- 
cesco Nardilli »  236 

XXVI.  Alla  bocca »  238 

XXVII.  Alla  luna .  »  240 

XXVIII.  Al  melogranato »  241 

XXIX.  A  Posilipo »  243 

XXX.  I  piaceri  della  villa.  Ad  Isabetta  Coreglia.     ...  »  245 
XXXI.  Per  la  monacazione  di  Silvia  della  Marra.  Al  padre 

di  lei,  duca  della  Guardia »  249 

XXXII.  Le  delizie  del  secolo.  Al  marchese  di  Villa  G.  B. 

Manso »  251 

XXXIII.  Contro  l'ignoranza  e  l'avarizia  dei  principi.  A  Ga- 
spare de  Simeonibus »  254 

XXXIV.  La  morte  di  Marianna »  257 

VI 

GIUSEPPE  SALOMONI: 

I.  Brama  di  forze  moltiplicate »  269 

II.  I  morsi  e  i  baci »  270 

III.  Le  fragole  e  la  bocca »  ivi 

IV.  Antea »  271 


INDICE 


55' 


V.  Dio,  auriga  delle  anime pag.  271 

VI.  Il  pensiero  amoroso »  272 

vii.  Il  riso »  274 

vili.  Palinodia a  277 

IX.  Alla  cicala ,  280 

BERNARDO   MORANDO: 

I.  Invocazione  del  bacio »  284 

II.   Inappagamento  del  bacio »  285 

ni.  Inappagamento  in  amore »  ivi 

IV.  La  raccoglitrice  di  castagne »  286 

V.  La  filatrice  di  seta »  ivi 

VI.  L'amante  e  gli  occhiali »  287 

VII.  Il  dente  mancante »  ivi 

vili.  Alla  comica  Lavinia »  288 

IX.  A  un'attrice  di  tragedia »  ivi 

X.  Alla  cantatrice  Anna  Renzia,  romana »  289 

XI.  Invito  alla  poesia  nell'inizio  dell'estate »  ivi 

XII.  Estate  e  vino »  290 

XIII.  A  Giovan  Vincenzo  Imperiale  per  la  sua  villa  di 
Sampierdarena  e  pel  suo  matrimonio  con  Brigida 
Spinola »  i\i 

XIV.  A  Giovan   Vincenzo  Imperiale,  esiliato  da  Genova 

con  la  pena  dell'ostracismo »  291 

XV.  Le  maschere  di  carnevale »  ivi 

XVI.  L'avarizia  punita.  A  istanza  di  Ferrante  Porta  Puglia.  »  292 

XVII.  La  visitazione »  295 

xviii.  Per   monacazione »  297 

XIX.  Il  nano  di  nome  «  Amico  » »  29S 

ANTONIO  GIULIO  BRIGNOLE-SALE: 

I.  La  cortigiana  frustata »  300 

II.  Ricordi  di  una  morta.  Perla  morte  di  Emilia  Adorni 

Raggi »  302 

III.  Contro  la  fedeltà  in  amore »  303 


VII 

PIETRO  MICHIELE: 

I.  Al  ritorno  dalla  villa »  307 

II.  La  bella  derubata »  30S 

III.  Amori »  ivi 

IV.  A  un'attrice  che  rappresenta  la  peccatrice  convertita  »  309 
V.  In  morte  di  Lope  de  Vega »  ivi 


552  LIRICI    MARINISTI 

VI.  Baci pag.  310 

VII.  L'inverno »  311 

vili.  A  Pan »  314 

IX.  Alla  notte »  316 

X.  A  se  medesimo,  trovandosi  in  Dalmazia  nelle  guerre 

del  Turco  con  Venezia »  318 

PAOLO  ZAZZARONI: 

I.  A  una  zingara »  322 

II.  Il  neo »  323 

III.  Epitaffio  di  una  pulce »  ivi 

IV.  La  vite  importuna  . »  324 

V.  La  donna  pregante »  ivi 

VI.   Il  giorno  delle  palme »  325 

VII.  La  signora  e  l'ancella »  ivi 

VIII.  La  lavandaia »  326 

IX.  All'Adige »  ivi 

X.  L'arca  di  re  Pipino  nella   basilica  di   San   Zeno  in 

Verona »  327 

XI.  La  tomba  di  Taide »  ivi 

LEONARDO  QUIRINI: 

I.  La  penitente.  Per  una  principessa  italiana,  che  dopo 

vita  d'amori  si  chiuse  in  monastero »  328 

II.  Tristezza  della  vita  senza  amore »  329 

III.  Amori »  ivi 

IV.  In  morte   di   Giambattista   Sordoni,   ucciso    mentre 
assoldava  genti  per  Levante »  330 

V.  Serenata »  ivi 

VI.  Gelosia  della  bellezza »  331 

VII.    Voluptas y>  332 

vili.  In  morte  di  Claudio  Monteverde,  padre  della  musica  »  ivi 

VII! 

ANTONIO  BASSO: 

I.  Invocazione  alla  gelosia »  335 

II.  Convalescente »  336 

ni.   La  Trinità »  ivi 

IV.   L'orazione »  337 

V.  A  frate  Angelo  Volpe  di  Montepeloso,  reggente  del 
collegio  dei  minori  conventuali  in  San  Lorenzo  di 

Napoli »  ivi 


INDICE 


553 


VI.  A  Gherardo  Gambacorta,  generale  della  cavalleria 

di  Napoli  a  Milano pag.  338 

VII.  La  primavera »  ivi 

VINCENZO  ZITO: 

I.  Il  rimprovero »  340 

II.  Il  cenno  del  ciglio »  341 

III.  In  tempo  di  vendemmia »  ivi 

IV.  La  pellegrina »  342 

V.  La  donna  all'amante  che  va  alla  guerra    ....  »  ivi 

VI.  L'amore  ardente.  Imitazione  da  Ausonio  ....  »  343 
VII.  La  sete  nelle  campagne  del  Vesuvio »  ivi 

vili.  La  Luna  ed  Endimione »  344 

IX.  La  galea »  ivi 

X.  Agli  accademici  Oziosi  di  Napoli  nell'essere  ammesso 

nella  loro  società »  345 

XI.  .\  Scipione  Zito,  che  regge  truppe  di  fanti  in  Ispagna  »  ivi 

XII.  Durante  la  rivoluzione  di  Napoli  del  1647     ...  »  346 

XIII.  A   don   Giovanni   d'Austria,  invocando   l'arrivo  di 

lui  a  Napoli »  ivi 

XIV.  Il  digiuno »  347 

xv.  La  chioma  sciolta »  ivi 

XVI.  La  fenice »  348 

ANTONIO  MUSCETTOLA: 

I.  L'innamoramento  durante  la  rivoluzione  di  Napoli.  »  351 

II.  Il  nastro  verde »  352 

III.  Inviando  la  Gerusalemme »  ivi 

IV.  La  donna  che  legge  l'ufficio »  353 

V.  Atieone  e  Diana,   pittura   di    Domenico    Gargiulo, 

detto  Micco  Spadaro »  ivi 

VI.  Narciso »  354 

VII.  La  farfalla  al  lume »  ivi 

VIII.  Il  miracolo  delle  rose  e  gli  sposi  casti ■»  355 

IX.  Casistica  di  naufragio .     .     .  »  ivi 

X.  Al  legno  della  croce »  356 

XI.  Al  monte  Vesuvio.  Per  il  sangue  di  san  Gennaro.  »  ivi 

XII.  Al  sonno »  357 

XIII.  I  tumulti  di  Napoli,  sedati  da  don  Giovanni  d'Austria. 

A  Francesco  Dentice »  359 


554 


LIRICI    MARINISTI 


CIRO  DI 
I 

II 
III 

IV 

V 

VI 

VII 

VIII 

IX 

X 

XI 

XII 

XIII 

XIV 

XV 

XVI 

XVII 

XVIII 

XIX 

XX 

XXI 

XXII 
XXIII 
XXIV 
XXV 
XXVI 
XXVII 
XXVIII 


IX 

PERS: 

.  Le  chiome  nere pag.  363 

.  La  veste  bianca »  364 

.  Il  bambino »  ivi 

.  L'eloquenza  degli  occhi »  365 

.   Purificazione  in  amore »  ivi 

.  Sopravvivenza  dell'amore  alla  bellezza »  366 

.  Sullo  stesso  argomento »  ivi 

.  La  lotta  col  tempo »  367 

.  Sullo  stesso  argomento »  ivi 

La  penitente »  368 

La  dipa4iatrice »  ivi 

Le  lodi  della  fatica »  369 

.  Il  cacciatore  d'archibugio »  ivi 

.  All'amico  che  ha  preso  moglie »  370 

.  Al  proprio  letto >  ivi 

.  Al  sonno »  371  • 

.  Il  mal  di  pietra »  ivi 

.  L'orologio  da  ruote »  372 

Ego  suni  qui  sum »  ivi 

Il  terremoto »  375 

Per  una  nipotina  dell'autore,  la  quale  visse  pochi 

giorni »  ivi 

In  morte  di  Gustavo  Adolfo »  374 

Cristina  di  Svezia  in  Roma »  ivi 

.  Contro  l'amare  una  bellezza  sola.  Ad  Andrea  Vallerò.  »  375 

I  viaggi  sulle  galee  di  Malta »  2)17 

L' Italia  avvilita.  A  monsignor  Gherardo  Saracini  .  »  387 

Le  calamità  d' Italia »  391 

La  predestinazione »  403 


X 


'GIUSEPPE  BATTISTA: 

I.  Gli  occhi  belli      .     .     .     , 
L' innamorato  del  ritratte 
L'amante  e  la  cicala 
La  morte  del  marito 
Al  fiume  Sebeto  .     . 
VI.  La  bugiarda    .     .     . 
VII.  Amore  e  dolore  .     . 
vili.  Confessione  di  poeta 


II. 


IV. 
V. 


409 

410 
ivi 

411 

ivi 

412 

ivi 

413 


INDICE  555 

IX.  Il  mandorlo pag.  413 

X.  La  zanzara •     .     .  »  414 

XI.  La  granatiglia  ossia  fiore  di  passione »  ivi 

XII.  L'acqua »  415 

XIII.  La  lettera »  ivi 

XIV.  Lo  schioppo T>  416 

XV.   Apollo  e  Dafne »  ivi 

XVI.  Medea »  417 

XVII.  Erostrato »  ivi 

XVIII.  Giuditta »  418 

XIX.  Alla  Vergine t>  ivi 

XX.  San  Macuto,  che  celebra  messa  in  mare  sopra  una 

balena »  419 

XXI.  Belisario »  ivi 

XXII.  Il  caos »  420 

XXIII.  La  materia  prima »  ivi 

XXIV.  Il  tempo »  421 

XXV.   Democrito  ed  Eraclito »  ivi 

XXVI.  Il  ricco  ozioso »  422 

XXVII.  Epitaffio  di  un  uomo  felice »  ivi 

XXVIII.  Il  lusso  delle  femmine »  423 

XXIX.  L'uomo  e  la  pace »  ivi 

XXX.  L'utile  delle  avversità »  424 

XXXI.  Il  vecchio »  ivi 

XXXII.  La  donna  invecchiata  nel  giardino »  425 

xxxm.  Consigli  a  un  poeta  frettoloso »  ivi 

XXXIV.  Il  poeta  e  il  bever  acqua »  426 

XXXV.  L' immortalità  letteraria »  ivi 

XXXVI.  Nel  partir  da  Napoli  durante  i  tumulti  del  1647-48.  »  427 

XXXVII.  Passando  per  Puglia  piana »  ivi 

XXXVIII.  Il  ritorno  al  paese  natale »  428 

XXXIX.  La  villa »  ivi 

XL.  Filosofando  tra  i  cipressi »  429 

XLi.  Il  canto  della  pastorella »  ivi 

XLii.  I  dolori  artritici »  430 

XLiii.  Il  ritorno  dei  dolori  a  primavera »  ivi 

XLiv.  Aspettando  la  chiragra.  In  nome  d'un  amico     .     .  »  431 

XLV.   Lo  studio  delle  lettere »  ivi 

XLVI.  Ai  libri »  432 

XLVii.  Insaziabilità  d'imparare »  ivi 

XLViii.  La  speranza.  A  richiesta  del  duca  di  Sciano.     .     .  »  433 
XLix.  Le  meraviglie  dell'acqua.  Al  padre  Filippo  da  Ce- 
sena, cappuccino      ....     * »  434 

I..  Filocrate  in  morte  di  Maria  Maddalena     ....  »  43S- 


556 


LIRICI     MARINISTI 


XI 


GIUSEPPE  ARTALE: 

I.  Al  lettore pag. 

II.  Le  bellezze  della  sua  donna » 

III.  Il  rivale » 

IV.  La  cantatrice » 

La  donna  con  gli  occhiali » 

La  pulce » 

La  dama  infanticida    .     • » 

Il  creato  e  Dio » 

IX.  Santa  Maria  Maddalena.  A  Maria  Maddalena  Lof- 
fredo, principessa  di  Cardite » 

X.  Il  buon  ladrone.  A  Pietro  Valeri » 

XI.  Il  terremoto  di  Ragusa » 

XII.  In  morte  di  Troiano  Spinelli  de'  principi  di  Tarsia, 
il  quale  lasciò  all'autore  in  segno  d'affetto  una 
spada  preziosissima 

XIII.  Al  padre  Michele  Fontanarosa 

XIV.  Il  teschio  del  turco 

XV.  Epitaffio  a  se  stesso » 

XVI.  Dopo  un  duello.  Alla  sua  donna » 


V. 
VI. 

VII. 

vili. 


449 
450 
ivi 

451 

ivi 

452 

ivi 

453 

ivi 

454 
ivi 


455 
ivi 

456 

ivi 

457 


-.^te>^ 


GIACOMO  LUBRANO: 

I.  Il  sonno 

II.  La  torpedine 

'lììNI  cedri  fantastici  negli  orti  reggitani 

IV.  La  caccia  del  pesce  spada  nello  stretto  di  Messina. 
v.  La  libreria  fìnta  di  legno 

VI.  L'occhialino 

VII.  A  un  vantatore  di  nobiltà 

VIII.  Le  bevande  agghiacciate 

IX.  Il  baco  da  seta  che  si  schiude  nel  petto  di  una  donna. 
XX.   I  tumulti  di  Napoli  del  1647 


460 
461 

ivi 
462 

ivi 

463 

ivi 

464 

ivi 

465 


GIOVANNI  CANALE: 

I.  Il  pavone  e  la  donna »  469 

II.  La  chioma  incipriata »  470 

III.  A  un  poeta  che  si  tinge  la  barba »  ivi 

IV.  Il  tamburo »  471 

V.  I  razzi »  ivi 

VI.  Alla  repubblica  di  Venezia.   Per  l'armata  del   Mo- 

rosini »  472 


INDICE  557- 

VII.  Per  la  caduta  del  cardinale  Orsini  nel  terremoto  di 

Benevento pag.  472- 

Vili.  La  trinità  di  Cava »  473 

IX.  Ad  Ascanio  Pignatelli,  che  in  un  suo  discorso  lodò 

il  Tasso  ed  il  Marino »  ivi 

X.   AI    padre    Giacomo    Lubrano.    Per  l'infermità    che 

l'affliggeva  alla  lingua »  474 

XI.  Allo  stesso.  Per  le  poesie  da  lui  composte,  latine  e 

italiane »  ivi 

XII.   Lo  scheletro »  475. 

.     xiii.  Il  vecchio »  ivi >- 

XIV.  Il  desiderio  di  vivere  ancora »  476 

XV.  Il  pensiero  della  morte »  ivi 

xvi.  Gli  abusi  moderni.  A  Federico  Meninni,  tìsico  e  poeta  »  477 

XII 
FEDERICO   MENINNI: 

I.  I  fiori  e  la  sua  donna »  485 

II.  Gli  alberi  e  la  sua  donna »  486 

III.  Il  Vesuvio  e  la  sua  donna »  ivi 

IV.  Consolatoria  a  donna  che  invecchia »  487 

V.  Il  pavone »  ivi 

VI.  La  carta  geografica »  488 

VII.  Fugacità  dell'uomo  e  persistenza  delle  cose  ...  »  ivi 

vili.  Speranza  di  gloria »  489 

IX.  La  bugia,  regina  del  mondo »  ivi 

X.  In  una  villa  presso  Sorrento.  Ad  Antonio  Teodoto.  »  490 
XI.  Nel  tempo  della  peste  di  Napoli.  Al  padre  Niceforo 

Sebasto,  agostiniano »  ivi 

LORENZO  CASABURI: 

I.  La  pozzetta  nelle  guance »  494 

II.  Ingeniuvi  ipsa  piiella  facit »  495 

III.  Occhi  neri.  A  richiesta  di  Giuseppe  Mastrilli  Gomez.  »  ivi 

IV.  Le  donne  ascoltatrici  della  sua  poesia »  496 

V.  L'orologio  fermo »  ivi 

VI.  La  bella  muta »  497 

VII.  La  giocatrice  di  corda »  ivi 

vili.  Il  giocatore  di  corda »  49^ 

IX.  La  donna  al  marito,  che  vuole  andare  alla  guerra 

contro  i  turchi »  ivi 

X.  Pel  ritratto  dell'avo  Pietro  Urries,  uditore  generale 

dell'esercito  nel  regno  di  Napoli »  499 

XI.  Le  lagrime »  JvL 


558  LIRICI    MARINISTI 

PIETRO  CASABURI: 

I.  Innanzi  allo  specchio pag.  500 

II.  La  chioma  nera »  501 

III.  Tramontando  il  sole »  ivi 

IV.  A  giovane  innamorato  di  bianchissima  donna    .     .  »  502 
V.  La  rosa »  ivi 

VI.  A  un  bambino  in  culla »  503 

VII.  Esculapio,  inventore  dello  specchio »  ivi 

vili.  All'obo,  albero  indiano  che  distilla  acqua  in  tempo 

di  siccità »  504 

IX.  Ai  santi  Innocenti »  ivi 

TOMMASO   GAUDIOSI: 

I.  L'ombra »  505 

II.  La  penitente »  506 

III.  Memento  mori »  ivi 

IV.  La  donna  amata  un  tempo »  507 

V.  Le  stravaganze  della  moda »  ivi 

VI.  Il  guardinfante »  508 

VII.  Lo  spadino  in  testa »  ivi 

VIII.  Il  tabacco  da  naso »  509 

IX.  Il  gioco  de'  colombi  alla  Cava »  ivi 

X.   La  rapidità  del  tempo »  510 

XI.  L'infelicità  umana »  ivi 

XII.  Il  letto »  511 

XIII.  Il  bacio  di  Giuda »  ivi 

BARTOLOMEO  DOTTI: 

I.  Gli  occhi  neri »  5j2 

II.  Di  là  dal  muro »  513 

III.  AmantUim  irae »  ivi 

IV.  Restituendo  le  lettere »  514 

V.  Fumando »  ivi 

VI.  Il  fumare  e  la  mestizia »  515 

VII.  L'aborto  nell'ampolla.  A  Giacopo  Grandis,  fisico  e 

anatomico »  ivi 

vili.  Le  fontane  di  Brescia.     • »  516 

IX.  A  Sirmione »  ivi 

ANDREA  FERRUCCI: 

I.  Che  cosa  è  amore »  517 

II.  Il  riso  e  il  pianto »  518 

III.  L'oroscopo »  ivi 


INDICE  559 

NOTA pag.  523 

I.  Stigliani  -  Macedonio  -  Caetano  -  Manso  -  Balducci  -  Della 

Valle , »  526 

II.  Acliilliiii  -  Preti  -  Paoli  -  Giovanetti  -  Sempronio      ...  »  528 

IH.  Maia  Materdona  -  Bruni  -  Errico »  530 

IV.  Diversi »  531 

V.  Girolamo  Fontanella »  534 

V!.  Salomoni  -  Morando  -  Brignole-Sale »  ivi 

VII.  Michiele  -  Zazzaroni  -  Quirini »  535 

Vili.  Basso  -  Zito  -  Muscettola »  536 

IX.  Ciro  di  Pers »  537 

X.  Giuseppe  Battista »  ivi 

XI.  Artale  -  Lubrano  -  Canale »  53^ 

XII.  Meninni  -  L.  e  P.  Casaburi  -  Gaudiosi  -  Dotti  -  Perrucci.  »  539 


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4213 
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cop.  2 


Croce ,  Benedetto 
Lirici  marinisti 


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