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LIRICI MARINISTI
A CURA
BENEDETTO CROCE
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GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
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PROPRIETÀ LETTERARIA
V
f:3 20S741
LUGLIO MCMX — 25091
STIGLIAM - MACEDONIO - CAETAXO - MAXSO
B.ALDUCCI - DELLA V.ALLE
TOMMASO STIGLIANI
I
LUNA IMPORTUNA
O del traterno lume a torto adorna,
poi ch'in danno d'altrui l'usi e in oltraggio,
Luna spietata, al cui improviso raggio
l'ombra che m'ascondeva or chiara torna;
chi vieta i furti a te? chi ti distorna,
quando a trovar vai Pane, il dio selvaggio;
ch'abbi a troncarmi il mio dolce v. aggio,
con lo splendor che l'atra notte aggiorna?
Lasciar ti possa il Sol per sempre oscura,
che t'illustrava, e, fatta ai divi odiosa,
ti discacci dal ciel l'eterna cura;
e tu giù vadi, ov'al demon sii sposa,
qual fusti ognor; si che tua faccia impura
più non debba agli amanti esser dannosa!
LIRICI MARINISTI
II
IL DONO DEL FIORE
Splendea d'alta finestra il viso adorno,
in cui natura ogni sua grazia pose ;
qual, coronata di celesti rose,
appar l'aurora dal balcon del giorno.
Io, che sempr'erro al car'albergo intorno,
qual fanno intorno ad urna ombre dogliose,
fermo era, quando, avvista, ella s'ascose,
tutta vermiglia d'amoroso scorno.
E gettonimi in ritrarsi un fior dal seno,
in atto che fu studio e parve errore;
di che augurio prend'io felice appieno
che, forse, appresso al picciolo favore
verrà l'intera grazia un di, non meno
che venir soglia il frutto appresso al fiore.
Ili
DURANTE UN GIUOCO DI VEGLIA
— Ardisci! — disse a me l'idolo mio,
quand'agio gliene porse il gioco impreso;
poi, di terger fingendo il lume acceso,
nella forbice argentea il sepellio.
Ratto un tacito bacio allor cols'io,
consigliato dall'ombra e audace reso;
si che prima ubbidito ebbi ch'inteso
quel che dir volse il mio dolce desio ;
che, rallumato il già morto splendore,
la rividi più lieta e dissi meco:
— Quest'era certo il senso del suo core.
O benedette tenebre, voi speco
siete a' furti dolcissimi d'Amore;
né per altra cagione ei finto è cieco.
TOMMASO STIGIJANI
IV
A UNA ZINGARA
O maga egizia, che si audace e franca,
benché ravvolta in povere divise,
vai su le mani altrui, con varie guise,
presagendo ventura, or destra or manca ;
vanne alla donna mia, di cui la bianca
palma mirando e le sue righe incise:
— Questa mano — le di' — già si promise
ad un amante in fede, ed or gli manca. —
Poi soggiungi che '1 ciel di ciò minaccia
grave vendetta. Che, s'a sorte crede
tant'ella a l'arti tue, che pia si faccia,
dirò che i fiati suoi Febo ti diede;
e, quel che forse a te fia che più piaccia,
la man ti colmerò d'aurea mercede.
v
IL CAGNOLINO DONATO
Quella candida man, che sempre scocca
nel misero mio cor faci e quadrella,
or un vii can, ch'ebbe più amica stella,
teneramente lusingando tocca.
E quella amorosetta e dolce bocca,
ov'ha per me '1 silenzio eterna cella,
a lui non ride pur, non pur favella,
ma in lui di baci una tempesta fiocca.
Deh, perché questi agli amator dovuti
soavissimi vezzi, or da te sono
concessi, ingrata donna, ai rozzi bruti?
Tu sai che chi Zerbin donotti , io sono :
or perché a lui tu baci i membri irsuti?
Si premia il donatore e non il dono.
LIRICI MARINISTI
VI
AMORE E SPERANZA
L'ardor del nostro amore in te fu lampo,
ch'arde improviso e subito trapassa;
ma fulmine fu in me, dal quale scampo
non v'ha, perché vestigia eterne lassa.
Pur, se non morto in te, ma ascoso è il vampo
dall'onestà, che '1 copre e giù l'abbassa,
fa ch'in ciò saggia almen, porgi almen campo
a mia speranza, che non resti cassa.
Che, perché sino a qui dubbio timore
che tu non m'ami più mi stringe e preme,
temo che '1 temer mio spenga il mio ardore.
Non può dov'è paura essere speme,
né dove non è speme esser amore,
perch 'amare e sperar van giunti insieme.
VII
IL SOGNO
Godete fra le doglie, accorti amanti,
serbando sempre adamantina fede;
ch'alfin, quando più s'ama e men si crede,
v'è dato il guidardon di strazi tanti.
Mentre io dormiva, apparsami davanti
la bella donna che '1 mio cor possiede,
tante gioie e piacer fìnta mi diede,
quanti vera mi dà tormenti e pianti.
Or siemi ella crudel pur come suole,
poi ch'ho, malgrado suo, chi la fa pia
ed a forza voler ciò che non vuole.
E tu, sogno gentil, ch'ov'io languia
veder mi festi a mezza notte il sole,
torna di novo e poi partirti oblia.
TOMMASO STIGLIANI
Vili
NEL COMPORRE IL « MONDO NUOVO »
A Cesare Orsino
Or nemica fortuna or febbri ardenti,
Cesare, m'assaliscono si spesso,
mentr'io la chiara istoria in versi tesso
del gran Colombo alle future genti,
che temo no '1 vigor cosi s'allenti,
ch'io caggia un di, tra via, dal peso oppresso,
e tante mie vigilie a un tempo istesso,
tanti affanni e sudor restino spenti.
Deh, re del ciel, se t'è la vita amica
d'un che non la consuma in ozio cheto,
ma per pubHco prò l'usa e fatica,
non mi lasciar perir fin ch'io non mieto
de' lunghi studi miei la dolce spica;
e, poi, chiamami a te, che verrò lieto.
IX
L'INVIDIA DEGLI EMULI
Potuto ha ben con sue mal arti tante,
mentre io vivo, l'invidia iniqua e fiera
dal mio Colombo allontanar la schiera
de' leggitor del secolo regnante.
Ma d'avermi però non fia si vante
dramma scemato di mia gioia intera;
di me non tien quella vittoria vera,
ch'ella s'ha finta e presentata avante.
Che se mi loderan le lingue umane,
quando udir non potroUe, e sorde e spente
avrò l'orecchie alle lor voci vane;
godo oggi per allor, poi che con mente
quasi l'etadi anticipo lontane
e '1 mio futur onor mi fo presente.
LIRICI MARINISTI
X
PER FLAMINIA CECCHINI
COMICA
scampata all'incendio del Vesuvio e recatasi presso Luigi XIII
Nel più bel lido de' campani lochi
favoleggiava io già da palco altiero
come Fortuna, che del mondo ha impero,
le sue felicità consacri a pochi.
Ecco, ella, che cangiar fa nostri giuochi
in vivo pianto e nostre fole in vero,
fé' improviso tremar Vesuvio fiero
e gittar dalla cima immensi fuochi.
Tal ch'a me, lassa, in un momento fue
ogn'aver tolto ed ogni bene assorto
dall'empia arsura e dalle fiamme sue.
Vendica or tu della mia sorte il torto,
buon re di Gallia, e sien le braccia tue
de' miei duri bisogni il dolce porto.
XI
IL RITRATTO
Al cavalier Giuseppe d'Arpino
Ben si somiglia in parte,
Arpin, la tua pittura
a costei; ma può l'arte
mal giunger la natura.
Sempre resta minor l'ombra che '1 vero,
e sempre cede l'opera al pensiero.
Molto sai, ma non puoi
tutto '1 bello di lei
veder cogli occhi tuoi,
perch'accese non sei.
Sol io, perch'amo, integra la guardo
e l'ho tutta negli occhi e nello sguardo.
TOMMASO STIGLIANI
Pure, a me giova poco,
senz'ingegno, il vedere;
com'in te non ha loco,
senza vita, il sapere;
che tu la formeresti e non t'appare,
eJ io la veggio e non la so formare.
Invan tu la ritrai
ed io la miro invano;
che tu gli occhi non hai
ed io non ho la mano.
Deh, potesti! cogli occhi miei minirla,
o potess'io con la tua man ritrarla !
Che cosi fora il iìnto
tanto bello ed adorno,
che '1 ver resteria vinto
ed il vivo avria scorno;
ed avverria che l'imitata cosa
fusse dell'imitante invidiosa.
Avria ciascun dì nui
premio eguale al lavoro:
tu lodato d'altrui
ed io fuor di martoro;
tu ne trarresti fama ed io diporto,
tu n'avresti la gloria ed io '1 conforto.
Or poi che né tu amante
né io son dipintore,
si che quel bel sembiante
tu veggia ed io colore;
l'opra godrò ch'i tuoi pennelli ha stanchi,
col pensier rifacendola ove manchi.
Di rifarla con rime
anco direi vivaci,
se foss'io si sublime
fra i pittori loquaci,
qual fra i muti poeti esser tu mostri ;
ma pèrdon, co' tuoi lini, i fogli nostri.
LIRICI JIARINISTI
XII
LA CANTATRICE
A Setlimia, figliuola di Giulio Romano
Chi non sa quanto puote
l'umano canto in noi
colle vezzose note
de' bei numeri suoi,
overo il canto angelico non crede,
venga ad udir costei, che ne fa fede.
Ella, mentre, sedendo,
va co' taciti avori
di sue dita scorrendo
gli altri avori sonori,
canta in tal guisa e cosi dolcemente,
che per l'orecchie i cor fura alla gente.
Or volanti passaggi,
or affetti e sospiri,
ora fughe e viaggi,
or riposi e rispiri,
ora suole alternar dolci durezze,
ora suole intrecciar dure dolcezze.
Quando schiude un accento
tremolante e soave,
quando move un concento
armonioso e grave,
quand'aito forma il canto e quan io basso,
quando vivace il fa, quando il fa lasso.
E, quasi un rio corrente,
qui mormorar appena,
là gemer altamente
tu l'odi in nota piena;
qui gir quieta e placida l'ammiri
là gorgogliar con tortuosi giri.
TOMMASO STIGLIANI
Né nuda spada in mano
di snello schermidore
girò mai per lo vano
con si presto splendore,
e si ratta e si lieve e si veloce
quanto la bella e delicata voce.
Anz'ella, a chi sentendo
ne sta l'alta dolcezza,
non già una parendo,
ma tre per la prestezza,
fa all'orecchie talor l'istesso inganno
che le lingue de' serpi agli occhi fanno.
Or quando mai più vanto
si diede alcun d'udire
nel para liso il canto
senza prima morire,
com'oggi avvien a noi, mentre ch'udiamo
questo spirto celeste e vivi siamo?
O nel velo mortale
angelo dimorante,
se 'n ciel si canta tale
qual in terra tu caute,
io qui, perché lassù ne possa girmi,
voglio veracemente or or morirmi.
E s'ancor non è giunto
alla fragil mia vita
il destinato punto
della mortai partita,
far vo' si sante gesta e si giust'opre,
ch'io merti, poi che moia, andar là sopre.
Che, chi ben mira il vero,
tu stata esser non puoi
senza divin mistero
qua giù mandata a noi ;
ma a ciò ch'alzando a Dio l'umano zelo,
facci la terra innamorar del cielo.
LIRICI MARINISTI
XIII
IL SALUTO DELL'AMANTE
— Ripigliate, augelletti,
i vostri dolci canti.
Già vien co' zefiretti
la stagion degli amanti;
e ne' prati è rinata
la famiglia odorata.
Ride il fresco giacinto,
il gelsomin nevoso;
ride il ligustro, tinto
di pallore amoroso;
ride il narciso in sponda,
ride la calta in fronda,
il soave amaranto,
le pallide viole,
il pieghe voi acanto,
Clizia amante del sole,
il giglio che biancheggia,
la rosa che rosseggia...
Mancava a tanti fiori
solo il fior di beltade.
Ma eccol, che vien fuori,
o Po, di tue contrade.
Questa è l'alma mia diva,
eh 'è primavera viva. —
Cosi Tirsi cantava
a suon d'arguta canna,
mentre Lidia menava
gli agni fuor di capanna.
E quella volse il viso
e '1 premiò d'un sorriso.
TOMMASO STIGLIANI I3
XIV
IL CHIARIMENTO ALL'AMATA
— Già cessa il metitor col torto ferro
di córre i frutti del sepolto seme,
e sotto l'ombra del fronzuto cerro
sta '1 gregge insieme.
Fugge ogni fera gì' infiammati lampi,
che '1 sole avventa dall'ardente faccia;
né alma v'è che per gli aperti campi
dimora faccia.
O bionda più della matura spica,
ma più crudel della pungente arista,
che qualor vai nella fontana aprica
traggi ogni \'ista ;
per non venirne all'ombra ove son io,
perché or dal camino arder ti fai ?
infino a quando questo sdegno rio
meco tei'rai?
Dunque, t' han le bugiarde altrui parole
potuta trarre a prestar fé compita,
ch'io ami altra che te, mio caro sole,
mio ben, mia vita?
Spogliati, semplicetta, i rei pensieri,
ch'io non seguo Licori, ancora ch'ella
séguiti me, né le mandai l' altrieri
la bianca agnella.
Bench'egli è vero (acciocché chiaro appaia
che falsata han l'istoria a te costoro)
che fu ella ch'a me mandò dall'aia
un pomo d'oro;
su '1 quale era con lettera cavata
scritta questa sentenza in corti accenti :
« Giace per te Licori, empio, infermata,
e tu '1 consenti ».
14 LIRICI MARINISTI
Lessila e tosto il dono a terra trassi.
Vedi tu, dunque, com'hai meco sdegno
per cosa, ond'io sarei che mi lodassi
più tosto degno ! —
Cosi parlava l'amator selvaggio,
quand'ella, alquanto accoltasi la vesta,
ridendo segui oltra il suo viaggio,
coll'urna in testa.
XV
LA LUSINGA AMOROSA
Dolce Lidia, Lidia bella,
sporgi quella
bocca ov'abita '1 mio core;
ch'io farò de' labbri bei
poppe ai miei,
vera pecchia di tal fiore.
Che insoffribile contento
è ch'io sento?
Dimmi, Lidia: hai pur capanna;
sei svelata al ciel giaciuta
che piovuta
su le labbra t' è la manna?
O pur nettare cibasti,
né curasti
poi la bocca rasciugarti?
Ah crudel, tu non rispondi,
ma confondi
col baciar gli accenti sparti.
Grandinate, dolci baci,
ma loquaci,
che il silenzio Amore annoia,
e dir l'ultime parole
sempre suole,
quand' un'alma avvien che moia.
TOMMASO STIGLIANI I5
Or perché, se t'aggio in braccio,
pur mi sfaccio?
pur sospiro, idolo mio?
né per penderti dal collo
fo satollo
il famelico desio ?
Deh ! si come da natura
l'onda pura
nella spugna entra e s'asconde;
cosi entrarti cogli amplessi
io potessi •
nelle viscere profonde;
tal eh 'ognun di noi cangfiato
di suo stato,
io tu stessa e tu foss'io;
come a Salmace addivenne,
quando tenne
il fanciullo in mezzo al rio.
Oual dolcezza indi saria
ch'uom tra via
te per Tirsi salutasse;
e chi meco all'ombra siede,
se mi chiede,
sol per Lidia m'appellasse!
Dolce Lidia, Lidia bella,
sporgi quella
bocca ov' abita '1 mio core;
ch'io farò de' labbri bei
poppe ai miei,
vera pecchia di tal fiore.
l6 LIRICI MARINISTI
XVI
GUERRA INTERNA
Spesso espongo a tenzone,
nell'agon de' pensieri,
duo contrari guerrieri,
il senso e la ragione.
Ma essi, benché fieri,
luttando amici fannosi, e gì' istessi
della contesa amplessi
in amplessi alfin mutano di pace.
Questo nasce e si face
perch'ambi, col toccarsi,
soglion lor qualitati accommunarsi ;
si che poco si pena
che '1 senso è divo e la ragion terrena.
XVII
AD AQUILINO COPPINI
Coppini, io vo' di me novella darte.
Talora, leggo in parte
ciò che del ver fu dai due greci scritto;
talora, mi tragitto
dell'alme muse all'arte,
ed o concepo in mente
o partorisco in carte.
Cosi di mezzo verno ognor sudando
e allor più travagliando
quand'avvien che più 'I vulgo
goda il sonno o con Vener si diporte,
moro in vita, per viver dopo morte.
TOMMASO STIGLIANl 17
XVIII
CONTESE AMOROSE DI FIORI
Il giglio ama la rosa,
ed ella lui non sdegna;
ma più inchina al giacinto,
sol perché quello un « ahi » mostra dipinto.
Ecco lite amorosa
fra '1 giacinto ed il giglio.
L'un dice: — Io son vermiglio,
com'è la bella sposa. —
L'altro dice : — Io son pallido in sembiante,
com' esser dee l'amante. —
Ella si sta tra l'uno e l'altro fiore
ad udir con rossore;
poi lor concede a ciascheduno un bacio,
quasi volendo dir: — Nessuno escludo;
siami il giacinto sposo, e '1 giglio drudo. —
XIX
IL MONTONE VEZZOSO
Lidia, il bianco monton ch'io ti donai,
oh quanto per suoi vezzi
merita che tu '1 prezzi!
Ecco, per roder ora
la ghirlanda di ftonde,
che la fronte gli onora
si ch'un occhio gli asconde,
egli ha in tutto obliato
di pascolar sul prato;
e, perch'ella è tropp'alta,
erge il grifo, e s'affanna, e par che tenti
la stessa fronte sua giunger co' denti.
Linci marinisti — 2
l8 LIRICI MARINISTI
XX
IL GIUSTO MEZZO
Se con lunga fierezza
i fidi amanti scaccia,
la pregata bellezza
uccide in quei la speme e i cuori slaccia.
E s'ella ai primi preghi
avvien, senza contesa,
ch'addolcita si pieghi,
fa in breve intepidir la voglia accesa.
Dunque, s'usi in amore
né troppa crudeltà né troppa grazia,
perché l'una dispera e l'altra sazia.
XXI
GRADAZIONE CRESCENTE DI FELICITÀ
Felice chi ti vede!
Più felice a cui è dato di parlarti !
Felicissimo quel che può toccarti!
Semidio chi ti bacia il bel sembiante!
Dio chi ti fa il restante!
TOMMASO STIGLIAMI 19
XXII
SONETTO NELLO STILE DI MODA
Parodia.
Quasi viva felluca ed animata,
naviga l'aria coi pennati remi
il baldo nibbio, e scorre indi e boemi
e l'arrostita zona e l'annevata.
Poi giù piombando ov'il terren s'imprata,
acciocch'ivi a sua fame ésca vendémi,
rape alla chioccia un de' suoi vivi semi,
fatto corsar della progenie alata.
Allor la rauca madre arruffa i cigli
e invan croccia al volante involatore,
che '1 picciol Ganimede ha negli artigli.
Cosi non meno a me rapi il mio core;
poi, volando, carpi lontani esigli
il gran nibbio dell'alme, io dico Amore.
xxni
IL BIDELLO DELLO STUDIO
nel chiedere la mancia agli scolari
Sono il vostro bidel, che m'appresento
per la colletta a voi, larghi scolari.
Non appiattate sotto '1 manto il mento,
non vi mostrate dell'avere avari.
Questo ch'ho in mano è un bacil d'argento
però convien che d'or siano i danari.
Su, dunque, se larghezza in voi s'aduna,
gettate alcuna stella in questa luna.
MARCELLO MACEDONIO
I
LE BUGIE NELL'AMORE
Se '1 petto ha cristallino e mostra fòre
le viscere più interne e più celate;
se nudo è sempre e nulla asconde Amore,
chi fa bugiarda voi, che tanto amate?
Quanto con bocca angelica dettate
scrivo in diamante e serbo in mezzo al core.
O divina bellezza, or non vogliate
il tempio in cui v'adoro empir d'errore!
acciò che l'alma a voi devota ed usa
a dar incensi al vostro altare adorno,
che miracoli tanti or di voi crede,
non abbandoni il vostro culto im giorno
e, da fallaci oracoli delusa,
perda a l'idolo suo l'antica fede.
MARCELLO MACEDONIO
II
ALLA DAMIGELLA DELLA SUA DONNA
O de la Luna mia seguace stella,
che fai terrena a le celesti oltraggio,
anzi, o splendor, che sei d'un Sol messaggio,
d'amoroso orizzonte alba novella;
l'alba, del sole orientale ancella,
gli prepara il bel carro al gran viaggio,
e tu, d'un Sol ministra, appo '1 cui raggio
par l'altro agli occhi miei spenta facella,
tu ne dispensi il vago lume altero
ed in cielo d'Amor l'aggiri intorno;
io, che tanto bramai, da te lo spero.
Fa', tu che puoi, che Sol cotanto adorno,
ch'or co' begli occhi alluma altro emispero,
al mio si volga ed a me porti il giorno.
Ili
VIAGGI ED AMORE
Peregrino, cercai stranio ricetto:
vidi antica città cui nulla è pare,
già regina del mondo, ed anco appare
agli occhi altrui d'imperioso aspetto.
Vidi Adria tempestoso e nel suo letto
tra' venti insuperbir machine rare,
che si fan base cristallina il mare,
e, col ciel confinando, han lui per tetto
E s'io poggiassi a le celesti piagge
mirando il Sol nel suo palagio adorno
e la magion de l'alba e de le stelle,
certo direi che son rive selvagge,
begli occhi, e pur farei di là ritorno
a vagheggiar in voi forme più belle.
LIRICI MARINISTI
IV
LE VESTI DI VARI COLORI
Quei tuo' vaghi colori
onde vai tanto altera,
variando or le bende ed ora i manti,
in te son quasi fiori,
cara mia primavera,
che togli dal mio cor verno di pianti.
Or fingi gli amaranti,
or ne mostri le rose,
or viole ed or gigli
dolcemente somigli
ne le felici tue spoglie amorose;
né manca a si bel maggio
d'un vivo sole il raggio.
Torbido il ciel sovente
mostra in segno di pace
fra le nubi dipinte un arco vago.
O corpo adorno, ardente,
tu se' cielo verace,
che de l'altro io conosco in te l'imago.
Ed oh, quanto m'appago,
mirando che ti cinge
con si vario colore!
Si consoli il mio core,
che ne le spoglie sue l'iride pinge
questo ciel di beltade,
e promette pietade.
Fu già de' saggi avviso
che forman la bellezza
i vivaci color d'eguali membra;
però l'amato viso
ha cotanta vaghezza,
quindi armato ed ardente ai cori sembra.
MARCELLO MACEDONIO 2$
E costei, che rimembra
sua bellezza infinita
farsi da color vari,
or negli abiti cari
diversa di color pompa n'addita,
e mostra il bello, accolto
ne le vesti e nel volto.
Dal mondo tenebroso
i colori hanno essiglio,
né si veggon da noi senza la luce ;
l'azzurro e il verde, ascoso,
e sepolto è '1 vermiglio,
alor che l'ombre sue notte n'adduce.
Se quel Sol che riluce
in due pupille ardenti
nascondesse i be' rai,
i colori più gai
certo fòran per me languidi o spenti.
Or, perché sono in lei,
son belli agli occhi miei.
Voi, mirabili ingegni,
che movete i pennelli
per imitar ne l'opre sue natura,
oh che novi disegni,
oh quai colori belli
usa costei che l'arti vostre oscura!
E, pittrice e pittura,
ella fia che vi mostri
come ben si dipinga,
qual color più lusinga.
Imparate da' suoi temprar i vostri,
che talor pingereste
qualche forma celeste.
Vo rimembrando spesso
l'animai che si crede
viver digiuno o sol d'aria cibarsi;
24 LIRICI MARINISTI
scolorito in se stesso,
dovunque posa il piede
suol del color che gli s'appressa ei farsi.
Ed io lo cor mutarsi
a que' colori sento;
questa cangia le spoglie,
ed io cangio le voglie,
e n'acquisto or dolcezza ed or tormento,
e mi discopro in fronte
novo camaleonte.
Occhi belli ond' io ardo,
occhi crudi ond' io moro,
poiché si vaghi di colore séte,
a me girate il guardo,
che con altro lavoro
altro nel viso mio color vedrete.
Ch'io son ghiaccio direte,
se ne la fronte essangue
la pallidezza ha loco;
direte che son foco,
se mi fugge dal cor nel volto il sangue.
L'uno e l'altro mi viene
da voi, luci serene.
Fia vantaggio, canzon, ch'io ti nasconda;
che mal con fosco inchiostro
si bei colori hai mostro.
MARCELLO MACEDONIO
25
DISFIDA DELLE ACQUE E DELLE AURE
ACQUE
AURE
ACQUE
AURE
ACQUE
AURE
Cedete, aure volanti,
cedete a l'acque belle,
che vi son pur sorelle,
gli alteri vostri vanti.
V'adornan molti fregi,
acque, ma quando ardite
entrar con l'aure in lite,
pèrdono i vostri pregi.
Noi siam tesor del prato,
argento fuggitivo,
zaffiro molle e vivo,
diamante distillato.
In petto a le montagne
filze di perle fine
e serpi cristalline
sembriam per le campagne.
E noi, spirti vitali,
che scorriam gli elementi,
quasi angeliche menti,
con invisibil ali,
figlie de l'aria pura
e nunzie de l'aurora,
e compagne di Flora
e sospir di natura.
Noi degne che ne rubi
il Sol di man dal mare,
e n'alzi a trionfare
sul carro de le nubi.
Noi possiam da' suoi raggi
i corpi altrui schermire,
quand'ei più scalda l'ire
nei lunghi suoi viaggi.
26
LIRICI MARINISTI
ACQUE Noi, sangue dei terreni,
latte clie nutre l'elei,
nettare de le selci,
manna degli orti ameni;
noi, vita d'ogni stelo
e specchio ai boschi folti
e pittrici dei volti
e ritratti del cielo.
AURE Noi, penne degli odori
e linguaggio d'aprile
e musica gentile
a cui ballano i fiori ;
e noi, fiato del mondo,
che spira al spirar nostro:
che più ? flagello vostro,
che vi scote dal fondo.
ACQUE Ben séte ingiuriose,
aure mormoratrici,
aure vendicatrici;
ben séte ingiuriose.
AURE Deh, garrule, tacete,
voi che già cominciaste,
voi che ne provocaste,
temerarie ben séte !
AURE à Or cessino gli sdegni,
ACQUE ^ né si cerchi vittoria;
ma sia pari la gloria
di si congiunti regni.
MARCELLO MACEDONIO
VI
INVOCAZIONE ALL'AURORA
Niso, a cui già la greggia
chiedea belando i rugiadosi paschi,
vedendo tutto ancor d'ebeno il cielo,
se non che già d'avorio
si facea l'orizzonte,
or premea la sampogna
onde con soavissimo lamento
fuggia musico vento,
or l'alba ch'indugiava
con tal voci invitava :
— Pastorella celeste,
sonnacchiosa ti stai fuor del tuo stile;
raccogli omai ne l'infiorato ovile
dai torti suoi viaggi
la greggia de le stelle,
lucide pecorelle,
a cui son ricca lana i folti raggi.
Tutta notte han pasciuto
per li sereni campi
che germogliano lampi,
ed assai ruminato han per le valli
dei concavi cristalli,
in fonti di rugiada
ed in laghi di manna
sommergendo la sete,
e ne la via di latte,
quasi in fresco ruscello,
lavando a gara il fiammeggiante vello.
Deh, guarda ben di non smarrirne alcuna
per la contrada bruna.
Tosto verran le vagabonde al fischio
de l'Aura tua bifolca.
28 LIRICI MARINISTI
e tu r indrizza al solito camino
col baston corallino,
e, tosandole poi, di quel tesoro
fa' per te gonne d'oro. —
Mentre ch'ai favellava,
tra colline di rosa,
in campagna di gigli,
la ninfa orientai vide apparire;
ond'ei sospinse la sua mandra ai prati
e la fistola empi di novi fiati.
SCIPIONE GAETANO
I
LA LUSINGATRICE VOLUBILE
Somiglia fronda a cui fa guerra il vento,
o picciol legno in mezzo al mar sonante,
la donna mia, che in tante parti e tante
si raggira e si volge in un momento.
Or di gioia è ministra, or di tormento,
or incerta nemica, or dubia amante;
è in amar varia, in variar costante,
ha '1 pensier vario, in varie parti intento.
Or arde, or gela, e l'ardor suo comparte,
prodiga a mille amanti, in mille ardori,
quasi raggio del Sol ch'in rai si parte.
Fa mille alme d'un'alma; in mille cori
cangia, infida, un cor solo; ahi, con qual arte
un amor si divide in tanti amori?
30 LIRICI MARINISTI
II
IL CONTATTO DEL SENO
Quel vago sen, che di sua mano Amore
tutto cosparse di ligustri e rose,
sul petto mio Glori leggiadra pose,
per sanarmi di fuor lieve dolore.
Ma quanto questo diventò minore
quando tanta virtute a lui s'oppose,
tanto il foco che dentro Amor v'ascose
più fiero corse ad infiammarmi il core.
Cosi dal mal mi guarda e mi difende;
un dolor sana e fa più l'altro atroce,
e, credendo giovar, m'arde ed offende.
Or so, lasso, per prova (e ben mi nóce)
che vicino e lontan quel seno accende,
ma quanto è più vicin tanto più coce.
Ili
IL PIANTO
Piangea Corinna, e da' begli occhi fviore,
onde par ch'ogni petto arda e sfaville,
con nova arte d'amor fiamme e scintille
uscian converse in lagrimoso umore.
E pietosa negli atti e nel colore,
sugger mi fé' l'insidiose stille,
e fùr le finte in lagrime faville
refrigerio a la bocca e foco al core.
Facea vago parer più che non suole
quell'umor di cui tanto io mi querelo,
il bel volto di rose e di viole.
Tal, distillando il matutino gelo,
rassembra, alor che s'avicina il sole,
sparso di fiori, in oriente, il cielo.
SCH'IONE GAETANO 31
IV
LA VECCHIA AMBASCIATRICE
Alor che immerso in tenebrosi errori
aspetto un Sol via più dei sole adorno,
veggio apparir la vecchia nunzia e intorno
seccarsi i prati e raddoppiar gli orrori.
Ma poi che cinta di più bei splendori
fa la luce ch'io bramo a me ritorno,
porge luce a quest'alma e luce al giorno
e raddoppia a la terra erbette e fiori.
Quella fra noi, quasi novella Aletto,
ciò che mira avelena; e questa indora
tutto quel eh 'è de' suoi begli occhi oggetto.
Quella spoglia il terren, questa l'infiora;
coni 'esser può che sia guidato e retto
cosi bel Sol da cosi brutta Aurora?
V
LA CASA DELLA DONNA AMATA
Corinna, alor che il rimirarvi è tolto
agli occhi, che non hanno altro diletto,
le mura io miro in vece de l'aspetto,
ed — Ivi è — dico — ogni mio ben raccolto !
E qual si vede entro a cristallo accolto,
rinchiuso si, ma non celato oggetto,
cosi scorge il pensiero e l'intelletto,
ben che cinto da mura, il vostro volto.
Si che séte, qualor voi v'ascondete,
dal corpo si, ma non da l'alma assente;
perché a quella celar non vi potete.
Che '1 pensier vi figura a la mia mente,
quasi industre pittore, e sempre séte,
benché lunge dagli occhi, al cor presente.
32 I.IRICI MARINISTI
VI
ALLA LUCCIOLA
V «'■
Pargoletto animai cui che natura
luce, eh 'a pena fra l'orror traluce,
ogni stella del ciel eh 'a noi riluce
agli occhi miei sembra di te men pura.
Tu nel più oscuro de la notte oscura,
che segno alcun non apparia di luce,
fida stella mi fosti, e scorta e duce
a quelle amate e desiate mura.
Se potess'io quel che poter vorrei,
sarian men vaghe, che non son le stelle,
e tu più vaga assai di quel che sei ;
tu sol in ciel stella saresti, e quelle,
che propizio non furo ai voti miei,
sarian di te men lucide e men belle.
VII
VENEZIA
Alta città, ch'in mezzo a l'onde hai nido,
adorna e ricca di bellezze tante,
ch'Amor per te, fatto d'amore amante,
lasciato ha Pafo e derelitto ha Gnido ;
quand'io l'orgoglio di fortuna infido
foggia scacciato peregrino errante,
tu fosti a me, eh' in te fermai le piante,
dolce albergo non sol, ma dolce e fido.
Non posso, io no, quel che poter desio;
voglio almen quel che posso; e viva e fresca
di te memoria entro al mio cor si serra.
Piaccia or voler, quel ch'io non posso, a Dio,
e col crescer degli anni a te s'accresca
grazia in ciel, forza in mar, potenza in terra.
GIAMBATTISTA MANSO
I
ALLE FALDE DELLA COLLINA DI SANT'ELMO
Chiari, tranquilli e liquidi zaffiri;
piaggia, ch'a l'onde loro apri il tuo seno;
ermo colle, cui rende il ciel sereno
l'aura de' miei dolcissimi sospiri;
fiorita valle, che de' miei desiri
e d'amorose gioie il grembo hai pieno;
fonte, ch'intorno a si bel prato ameno
baci a madonna il pie, mentre t'aggiri:
voi, che d'amor siete tesoro, e miei
secretar i e custodi, a cui '1 mio core
ciò ch'altrui celar brama apre e ridice;
serbate eterne in voi del nostro ardore
segno, ma occulto il bel nome di lei
e la gioiosa mia vita felice.
Lirici ìiiarifiisti — 3
34 LIRICI MARINISTI
II
IL RITORNO DELLA PRIMAVERA
Questi fior, queste erbette e queste fronde,
di novella stagion pompa superba,
e questi, che serpeggiano tra l'erba,
o liquidi cristalli o lucid'onde;
pria che d'aspre catene e di profonde
piaghe pena sentissi ardente acerba,
che né state né verno or disacerba,
trovai sovente a' miei desir seconde.
Ma poscia che cangiar m'ha fatto amore,
che mi lega il voler e '1 cor mi sface,
libertate in prigion, gioia in ardore,
fuggo frond'erba fiore onda fugace,
e bramo sempre un tempestoso orrore,
che, quando orrido è il mondo, allor mi piace.
Ili
LA SOLFATARA DI POZZUOLI
Nuda erma valle, ai cui taciti orrori
accrescon tema ombre solinghe oscure;
sulfuree rupi, acque bollenti impure,
sanguigni fumi e tenebrosi ardori ;
voi, ch'in parte apprendeste i miei dolori
dagli accesi sospiri, e l'aspre cure
dal largo pianto che disfar le dure
selci potè co' suoi continui umori;
ditemi pur se nel penace seno
del vostro cieco, afflitto, orrido regno,
ove '1 pianger non ha conforto o freno,
venne uom giainai d'in voi penar si degno
e di tanti martir l'alma ripieno,
che d'un sol de' miei strazi ei giunga al segno!
GIAMBATTISTA MANSO 35
IV
PLACAMENTO DI GELOSIA
Freddo pensier, che d'agghiacciato zelo
creò nel petto mio fervido amore,
e di tema nudrito e di dolore
mi pasci sol di venenoso gelo;
sgombrisi omai dagli occhi miei quel velo
che '1 ben nasconde e '1 mal palesa al core;
ritorna nel tuo cieco ed atro orrore,
oscura nebbia del mio chiaro cielo.
Se l'altrui vista la mia vita offende
e d'empia voglia invidiosa armato
sol del piacer altrui mi spiace e dole;
or eh 'a ciascun si cela il mio bel sole,
ne le tenebre mie vi\'0 beato
e l'altrui povertà ricco me rende.
. V
GELOSIA OSTINATA
Vattene, infernal mostro; altrove vibra
tue serpi, ch'ebbre del mio sangue pasci.
Ecco che corre già per ogni fibra
freddo venen, né d'infestarmi lasci.
L'amaro tuo, maggior (se '1 ver si libra)
è del dolce d'amor, da cui tu nasci;
soavemente i lievi spirti ei cribra,
e tu d'acerbo duol mi cingi e fasci.
Che non fuggi, crudel, pria che più cresca
quel rio timor, che turba il mio diletto,
che troppo agli angui tuoi fu nobil ésca?
Ma, lasso, il gelo tuo più sento al petto,
quanto più le sue fiamme amor rinfresca. .
Oh congiunto al piacer mortale effetto !
FRANCESCO BALDUCCI
I
AMORE PALESE, AMATA NASCOSTA
La fronte esangue, lo smarrito aspetto
tutti gli occhi del mondo ha in me rivolto,
e scovre ornai la cenere del volto
qual sia la fiamma che mi scalda il petto.
Dice altri, mosso da pietoso affetto:
— Questi in breve sarà spento e sepolto ; —
ed io per lei ch'adoro ad arder vòlto,
il mio proprio penar prendo a diletto.
Veggia ognun le mie fiamme al core apprese ;
ma la bella cagion de l'arder mio
non già, né per qual mano Amor l'accese.
Fiammeggi pur, se sa, l'alto desio:
pur che '1 mio sole, onde lo 'ncendio prese,
altri non sappia mai, ch'Amore ed io.
FRANCESCO BALDUCCI 37
II
AL FIGLIOLETTO DELLA SUA DONNA
Oh caro agli occhi miei novello Amore,
de la Venere mia parto diletto,
che mostri a me nel tuo leggiadro aspetto
le sembianze ch'io porto impresse al core;
fiamma seconda del mio primo ardore,
uscita forse a 'ncenerirmi il petto,
poiché, mentr'io ti miro, entro al diletto
sento lo 'ncendio mio farsi maggiore;
oh del vivo mio sole alba novella,
che sembri, a quel rotar di lumi intorno,
de la materna luce emola bella;
se fa, scorto da l'alba, il Sol ritorno,
certo a sperare il tuo venir m'appella
che presso sia di que' begli occhi il giorno.
Ili
IL DOLCE SOGNO INTERROTTO
Ahi, chi mi rompe il sonno, or che l'amica
luce tra l'ombre agli occhi miei s'apriva?
or ch'era giunto di mia speme a riva
e al fin de l'amorosa mia fatica?
Pareami che l'amata mia nemica,
fatta pietosa, i miei lamenti udiva,
e le dolci acque a la mia sete offriva,
nova pietà de la mia fiamma antica.
Ma, lasso me, per l'infeconda sabbia
non da Tantalo il rio fugge cotanto,
ond'a l'arsura sua cresce la rabbia,
come allor di quel fonte amato e pianto
l'onda fuggi da l'assetate labbia,
e, di nettare in vece, io bevvi il pianto.
3^ LIRICI MARINISTI
IV
IL RIVALE
Dunque, un vano, un spergiuro, un fuggitivo,
che dianzi '1 giogo tuo scuoter si volse,
che '1 pie di nodo e '1 cor di fé disciolse,
concorse meco? ed io mei veggio e vivo?
Dunque, colui ch'ai volto amato e divo
per vii sasso adorar le spalle volse,
quel ch'offese il tuo nume e non si dolse,
s'appressa a l'ara? e tu noi prendi a schivo?
Dunque, in servendo avrà di par mercede
il giusto e '1 reo? Dunque, egual forza teco
ha l'altrui tradimento e la mia fede?
Ah, schernita virtù, che fai più meco,
lasso, s'Amor sol per ferirmi vede,
ma per mirar le mie ragioni è cieco?
V
A SANTO STEFANO
Felice te, che per sanguigne vie
movi '1 primo a seguir l'orme di Cristo,
e sai, morendo, far di vita acquisto
e vincer tutti gli anni in un sol die.
Perché l'umano pie mai non travia,
il mal noto camin selciar s'è visto
de le tue pietre, e quindi al gran conquisto
dirizzar l'orme poi l'anime pie.
Te mira il cielo dal balcon sovrano,
che gli apre del zaffiro il fianco inciso,
pugnar, campion di Dio, presso al Giordano.
Oh, quanto agli empi, onde ne cadi anciso,
Stefan, de' tu, se la nemica mano
t'apre, a colpi di pietre, il paradiso!
FRANCESCO DELLA VALLE
I
AL NASCER DEL GIORNO
Or che '1 di nasce e la mia bella e cruda
forse dal cheto sonno è desta al lume,
e su le molli fortunate piume
posa le membra pensosetta ignuda;
Amor, pria ch'ella sorga o gli occhi chiuda,
deh valle a rimembrar com'è mio nume,
e che pensando a lei, com'ho costume,
quest'avvampato cor s'agghiaccia e suda.
Chi sa se per pietà de' dolor miei
forse in quest'ora, eh' ad Amor si piace,
pensa ella a me, com'io sol penso a lei?
Ahi, che vaneggia il mio pensiero audace?
Se ciò mai fosse, io di piacer morrei.
O miei stanchi pensier, datevi pace.
40 LIRICI MARINISTI
II
COMPIACIMENTO DEI PASSATI AMORI
Fùr si care le piaghe e si gradite
le fiamme onde il mio cor arse e si dolse,
e con si vago laccio Amor m'avvolse
quelle poche felici ore sparite,
ch'avvivar le reliquie incenerite,
or che lei che l'accese il ciel mi tolse,
tento, e, ristretto il nodo onde mi sciolse,
aprir l'antiche mie dolci ferite.
E s'anco affanno in rimembrarle io provo,
pur non potete voi, memorie amare,
far che sia vago il cor di piacer novo.
Ma bacio il luogo ove alcun segno appare
del mal antico, e le scintille covo
de le ceneri mie soavi e care.
Ili
PASTORALE
Bacia , non più rossor , Filli , cor mio
e sian risposte dei miei baci i baci;
faccian le braccia al sen nodi tenaci,
che nelle labbra tue spirar desio.
Quel susurro de l'aure e '1 mormorio
di queste linfe liquide fugaci,
qui sol s'ascolta, e l'amorose paci
sapran de' nostri cori Amore ed io.
Quell'usignuol, che mille voci imita,
con dolci fughe tremole e canore
a gioir noi soavemente invita.
E se questo silenzio e quest'orrore
miri, questa gentil riva romita
quasi fatta è per noi scena d'amore.
FRANCESCO DELLA VALLE 41
IV
ALLA STANZA
dov'era stato con la sua donna
Pur a voi volgo il pie, solinghe mura,
e in voi mi poso, o vedove mie piume;
ma non già, come un tempo ebbi costume,
quietar vi posso o rammollir mia cura.
O cieca notte, e quanto meno oscura
se' di quest'occhi onde ognor verso un fiume,
or che altrove rimaso è il chiaro lume,
di cui sempre nel cor sento l'arsura.
Voi sole, ahi lasso, in fra i sospiri udite
quante volte la nomo; e mentre taccio,
voi, ombre, in sogno agli occhi miei l'offrite.
Voi, ch'in vece di lei si spesso abbraccio,
dogliosi lini, oimè, perché non dite,
quando vi vede il di, come mi sfaccio?
V
PRIMA DELL'ALBA
Pria che l'alba si desti in oriente
quest'occhi lassi a lagrimare io desto,
e con un roco oimè, languido e mesto,
chiamo il nome di lei, che non mi sente.
Poi vo pensando e mi riduco a mente
del di già scorso or quell'incontro or questo,
e '1 balenar del dolce sguardo onesto
parmi sempre veder quasi presente.
Onde le parlo e un suon di sue parole
mi sembra udir soavemente espresso,
ch'in guisa ch'io vorrei mi racconsole.
Cosi covo le piume e chiamo spesso
de le mie gioie invidioso il sole;
cotanto io godo in lusingar me stesso.
42 LIRICI MARINISTI
VI
AMORE RECIPROCO
Lunge, lunge da me, pianti e sospiri,
ch'in gioia ha vòlto ogni mia noia Amore.
Ardo ed è chi m'accende in pari ardore,
cosi conformi abbiam voglie e desiri.
S'incontran lieti de' nostri occhi i giri
e sempre uniti abbiam core con core;
s'io per lei moro, ella per me pur more:
o dolce morte, o miei cari martiri!
Gareggiando d'amor, baci ed amplessi
godiam felici, e nel seren de' volti
portiam l'alme dipinte e i cori impressi.
Io priego Amor che le mie voci ascolti,
ch'il mal non sani, che l'ardor non cessi,
e ch'i nodi del cor non sian mai sciolti.
VII
L' IRREQUIETEZZA
Qual famelico augello, ove rimira
custodito il suo cibo avido vola,
or di quel poca parte ardito invola,
ora di ramo in ramo erra e s'aggira;
come d'amor lungo digiun mi tira,
corro a colei che di beltade è sola,
ed un guardo, un sorriso, una parola
involando talor, l'alma respira.
Al felice di lei caro soggiorno
giungo a pena che parto , e parto a pena ,
ch'odiando il partir faccio ritorno.
Se m'è tolta di lei l'aria serena,
almen beato a quelle mura intorno
ha qualche tregua il cor con la mia pena.
FRANCESCO DELLA VALLE 43
Vili
LA CASA DELLA SUA DONNA
Al nobil tetto ov'il mio sole ha sede,
quasi a lume farfalla ognor m'aggiro;
ora un guardo vi mando, or un sospiro,
e v'enti'o col pensier, se non col piede.
S'il mio ben non m'ascolta e non mi vede,
parlo ai muri in sua vece e i sassi miro,
e ovunque gli occhi innamorati giro,
l'aria infocata del mio ardor fa fede.
Dal dolce fiato suo fatta odorosa,
l'aura, che spira là, mi dà ristoro,
e, vagando le piante, il core ha posa.
Cosi, felice in quelle vie dimoro,
e, se m'è de' suoi rai la luce ascosa,
l'alba attendendo, l'orizzonte adoro.
IX
IL RITRATTO DELLA DONNA AMATA
A Girolamo Brivio
Dopo due lustri, le romane mura,
ov'io vissi non so se vita o morte,
lascio, e sperando di cangiar mia sorte,
stolto il partire ogni mio ben mi fura.
Se resta il lume e meco vien l'arsura
degli occhi che mi diede Amor per sorte,
in uscir queste antiche amate porte
esce a me l'alma ed il mio di s'oscura.
Tu che sul Tebro ancor, Brivio felice,
già glorie acquistar sai con nobil arte
e sei del mio bel Sol fatto fenice,
deh, fammi per pietà picciola parte
del ben che godi, e mentre a me non lice,
invola raggi e a me li manda in carte.
44 LIRICI MARINISTI
LE NUOVE FABBRICHE DI ROMA
sotto Paolo V
Già cede il tempo e coronata sporge
d'aurei tetti ogni monte al ciel la cima,
ed a l'altera maestà di prima
da le ruine sue Roma risorge.
Ogni machina antica a l'aure sorge,
quant'in terra giacca s'erge e sublima,
e ciò che de l'età róse la lima,
ristorato dal ferro omai si scorge.
Gli arapi spazi non copre inutil soma,
ma l'adornan le fonti e inondan l'acque,
e fatta sopra Roma è nova Roma.
Oh valor del gran Paolo! Ella, che giacque
nel furor de' suoi figli estinta e domd,
sott'un gran figlio in pace al fin rinacque.
XI
ALLA CITTÀ DI COSENZA
Nobil città, ch'ai chiaro Grati in sponda
siedi e superba all'aure ergi le mura,
de l'errante virtù stanza sicura
e di cigni e d'eroi madre feconda ;
non lodo io te perché il tuo seno abbonda
di ciò che parca altrui dona natura:
ch'il cielo hai temperato e l'aria pura
e cospira a tuo ben la terra e l'onda;
ma perché degno sei nido e soggiorno
di pellegrini ingegni, e in te s'aduna
d'armi Marte e di lauro Apollo adorno.
Lunge de' colli tuoi, prego fortuna
ch'in te tomba mi dia l'ultimo giorno,
come presso al tuo seggio ebbi la cuna.
II
ACHILLINI - PRETI
PAOLI - GIOVANETTI - SEMPRONIO
CLAUDIO ACHILLINI
I
LA DIPARTITA
Ecco vicine, o bella tigre, l'ore
che tu de gli occhi mi nasconda i rai.
Ah, che l'anima mia non senti mai,
meglio che dal partir, le tue dimore!
Fuggimi pur con sempiterno errore:
sotto straniero ciel, dovunque, sai
che, quanto più peregrinando vai,
cittadina ti sento in mezzo al core.
Ma potess'io seguir, solingo errante,
o sia per valli o sia per monti o sassi, |
l'orme del tuo bel pie leggiadre e sante ;|
ch'andrei là, dove spiri e dove passi,
con la bocca e col cor, devoto amante,
baciando l'aria ed adorando i passi.
48 MRICI MARINISTI
II
LA BIONDA SCAPIGLIATA
Tra i vivi scogli de le due mammelle
la mia bella Giunon veggio destare
dal suo crinito ciel piogge e procelle,
prodighe d'oro e di salute avare.
Se mostra gli occhi o quelle poma belle,
più ricco s'apre e più fecondo appare,
mercé di due rubini e di due stelle,
quel ciel di stelle e di rubin quel mare.
Ma sia di scogli e di tempeste or pieno,
ch'io, dai venti d'amor sospinto e scorto,
vo' navigar col core un si bel seno.
Né tem'io già di rimanerne absorto,
poiché la sua tempesta è '1 mio sereno,
poiché gli scogli suoi sono il mio porto.
Ili
LO SDEGNO NEL BIANCO VOLTO
Corteggiata da l'aure e dagli amori,
siede sul trono de la siepe ombrosa,
bella regina de' fioriti odori,
in colorita maestà la rosa.
Superbo anch' ei per gli odorati onori,
mirasi il giglio al pie turba odorosa
d'ossequiosi e di devoti fiori,
e lo scettro ne vuole e non ha posa.
S'arman di spine e d'archi, e danno segno
fra lor di guerra; alfin, prendon consiglio
d'esser consorti a la corona, al regno.
Cosi nel volto tuo bianco e vermiglio.
Filli, cangiato in imeneo lo sdegno,
veggio la rosa maritarsi al giglio.
CLAUDIO ACHILLINI 49
IV
L'ANTICA AMANTE FATTA MONACA
Quell'idolo mio dolce, a cui si rese
vinto il mio core, al ciel vinto si rende ;
la beltà del suo volto il cor m'accese,
la beltà del suo core il cielo accende.
S'egli alle fiamme mie placido scese,
or tutto fiamma al paradiso ascende;
e s'egli a' miei desir nulla contese,
or nulla ancora al suo Fattor contende.
Vedrem quell'alma al suo signore ancella
sparsa in sospiri e. seminata in pianto
animar di pietà povera cella.
Potessi anch'io per le sue preci intanto,
soggiogata ogni voglia a Dio rubella,
condur quest'ombra al primo sole accanto.
V
LA MENDICANTE
Sciolta il crin, rotta i panni e nuda il piede,
donna, cui fé' lo ciel povera e bella,
con fioca voce e languida favella
mendicava per Dio poca mercede.
Fa di mill'alme, intanto, avare prede
al fulminar de Tuna e l'altra stella;
e di quel biondo crin l'aurea procella
a la sua povertà togliea la fede.
— A che fa — le diss'io — si vii richiesta
la bocca tua d'orientai lavoro,
ov'Amor sul rubin la perla inesta?
Che se vaga sei tu d'altro tesoro,
china la ricca e preziosa testa,
che pioveran le chiome i nembi d'oro. —
Lirici marinisti — 4
50 LIRICI MARINISTI
VI
LA SPIRITATA
Là nel mezzo del tempio, a l'improviso,
Lidia traluna gli occhi e tiengli immoti,
e mirano i miei lumi a lei devoti
fatto albergo di furie un si bel viso.
Maledice ogni lume errante e fiso
e par che contra Dio la lingua arroti.
Che miracolo è questo, o sacerdoti,
che Lucifero torni in paradiso?
Forse costui, che non potea nel saggio \
sovrastar, per superbia, al suo Fattore, i
venne in costei per emolarne un raggio? j
Torna confuso al tuo dovuto orrore,
torna al nodo fatai del tuo servaggio,
e sgombra questa stanza al dio d'amore !
VII
LO SCOPPIO DELLA MINA E IL BACIO
Entra per nera e sconosciuta bocca
e in sotto al muro ostil duce tiranno,
e con industre e vigilato affanno
v'aggiusta un muto foco e poi ne sbocca.
Ma non si tosto una favilla tocca
r incendioso e prigioniero inganno,
che in un solo momento, eterno al danno,
crepa il suol, tuona il ciel, vola la ròcca.
Portai del cor nel più secreto loco
semi di foco e ne cercai lo scampo
per non esser d'un cieco e scherzo e gioco.
La favilla d'un bacio accese il lampo
in su la mina e publicossi il foco;
ed ecco Amor trionfatore in campo.
CLAUDIO ACHILLINI 51
Vili
IL RUSCELLETTO
nella villa Camaldoli, appartenente ad Annibale Marescotti
Tesse quest'ermo bosco, allor ch'ei fugge
a l'ombra di se stesso il raggio estivo,
un ricovro frondoso, anzi lascivo,
ove in sen di Lesbin Lidia si strugge.
Qui, se il Leon tra mille fiamme rugge,
mormorando sen vien limpido e vivo
dal fianco di quel monte un picciol rivo,
cui l'arsiccio terreno avido sugge.
Mira l'acqua gentil come s'affretta
e forma col suo corso un liquid'arco,
che d'immensa dolcezza il cor saetta.
Qui, di cure, Annibal, men venni carco;
ma, in quest'onda che tanto il cor m'alletta
sommergendo le cure, il cor ne scarco.
IX
NELLA .SELVA PRESSO IL RENO
al ritorno dalla corte di Roma
A Gasparo Ercolano
Siedo al rezzo gentil di selva antica,
che se stessa nel Ren pinge e vagheggia,
or che il sol bacia Sirio e ne fiammeggia
ed arde quasi la campagna aprica.
Qui par che il fiume in suo tenor mi dica :
— De' bei riposi tuoi questa è la reggia;
qui pur sui colli del tuo cor verdeggia
la fronda degli ulivi al cielo amica. —
Gasparo, io sento in su l'ombrosa riva
mormorando recarmi il picciol Reno
la pace, che col Tebro al mar fuggiva.
Cosi l'ore tranquille e quel sereno,
cui l'aprico di Roma a me copriva,
svelato godo a le bell'ombre in seno.
52 LIRICI MARINISTI
X
OMBRA DI NUOVE FOGLIE
Or che del Sol più temperato è il raggio,
il fiume che dormia fra bei cristalli
si sveglia e segue in sugli obliqui calli,
garrulo peregrino, il suo viaggio.
Saluta l'usignuolo in suo linguaggio
aprii, che tanti fior vermigli e gialli
semina su le piagge e su le valli,
vago forier d'un odorato maggio.
E perché d'ombre il pastorel s'invoglia,
a lo spirar di placid'aura i' veggio
che verde il bosco a quel desio s' infoglia.
E dice: — A te m'inchino, a te verdeggio;
e l'ombre mie la giovinetta foglia
tesse col sole e ti ricama il seggio. —
XI
SIC VOS NON VOBIS
Io corsi, o bella Dora, ogni tua riva,
quanto cura d'onor stimola e preme;
e vidi pur la rinascente oliva
porgere un nobil verde a la mia speme.
Con la man, con la lingua, io sparsi un seme,
che là sul Tebro il suo bel fior m'apriva;
onde il mio cor, che per lung'uso geme,
nel dolcissimo aprii lieto gioiva.
Già d'oro eran le spiche, al monte, al piano,
quando, per riportar le mie fatiche,
straniero mietitor non giunse invano.
Corrono il solco mio falci nemiche,
taglian la cara mèsse, e quella mano
che nulla seminò, miete le spiche.
CLAUDIO ACHILLINI 53
XII
MORTE E IL TESTAMENTO DI SAN GIUSEPPE
Al padre Gioacchino Ciomei, cappuccino
In braccio a Cristo, agli angeli, a Maria
era nel letticciuol Gioseffo assiso,
e stava per morire e non moria,
che non sapea morire in paradiso.
Ma l'età, ma il dolore al cor conquiso
insegnò del morire al fin la via;
e lo spirito, ornai quasi diviso,
converso a Cristo in questi detti uscia:
— Io moro, o figlio, e la paterna fede
vuol che del mio retaggio non ti frodi,
ma vi succeda tu, l'unico erede.
Vanne, e le mie fortune accetta e godi ;
stendivi pur la man, drizzavi il piede,
che troverai martelli e travi e chiodi. —
XIII
IL FIOR DI PASSIONE
Passi colà ne' messicani regni,
mercé d'un fior, religioso aprile.
Mira che spiega in su la foglia umile
dei tormenti di Cristo espressi i segni.
Bel libro di natura, ai sacri ingegni
de' sacri libri imitator gentile,
tu ne' tuoi fogli in adorato stile
le pene altrui, la mia salute insegni.
Se fia giammai che degli odor su l'ali
da' tuoi sanguigni e tormentosi inesti
voli dentro il mio cor duol de' miei mali;
oh me felice allor, che da funesti
caratteri trarrò sensi vitali,
e da terreno fior, frutti celesti !
54 LIRICI MARINISTI
XIV
A LUIGI XIII
dopo la presa della Roccella e la liberazione di Casale
Sudate, o fochi, a preparar metalli,
e voi, ferri vitali, itene pronti,
ite di Paro a sviscerare i monti
per inalzar colossi al re de' Galli.
Vinse l'invitta ròcca e de' vassalli
spezzò gli orgogli a le rubelle fronti,
e machinando inusitati ponti
die fuga ai mari e gli converse in valli.
Volò quindi su l'Alpi e il ferro strinse,
e con mano d'Astrea gli alti litigi,
temuto solo e non veduto, estinse.
Ceda le palme pur Roma a Parigi :
che se Cesare venne e vide e vinse,
venne, vinse e non vide il gran Luigi.
GIROLAMO PRETI
I
LE ROSE PALLIDE
Ite in dono a colei, pallide rose,
a cui l'alma donai senza mercede;
e poi che '1 mio penar non cura o crede,
siate del mio morir nunzie amorose.
Vidi voi d'ostro già tinte e pompose,
d'ostro che '1 labro suo forse vi diede;
ora il pallor di morte in voi si vede,
imitatrici del mio duol pietose.
Dite, se pur vi mira e se v'accoglie,
ch'io son mal vivo e sarò tosto esangue,
come voi moribonde aride foglie;
e se 'I vostro color pallido langue,
ella ravvivi l'odorate spoglie
con l'onda del mio pianto e del mio sangue.
56 LIRICI MARINISTI
II
LA CASA DELLA DONNA AMATA
Notturno e solo, a queste mura intorno
vòmmene errando e queste pietre adoro ;
eh 'a me sembra influir pace e ristoro
questo de la mia dea cielo e soggiorno.
E qual avai'o che la notte e '1 giorno
s'aggira ove le gemme asconde e l'oro,
tal io dove si cela il mio tesoro
vengo, guardo, m'aggiro, e parto e torno.
Entra il pensier dove non entra il passo,
spargo a l'ombre i sospir tra vivo e morto,
ed ora abbraccio il muro, or bacio un sasso.
Cosi, quasi nocchier naufrago in porto,
qui mi ricovro tempestoso e lasso,
e qui rimango infra '1 mio pianto absorto.
Ili
LA DONNA A CAVALLO
Frenava il mio bel Sol vago destriero,
ch'avea di neve il manto, il crin d'argento ;
movea veloci i passi a par del vento
e insuperbia di si bel pondo altero.
Pronto di bella man seguia l'impero,
a la sferza, a la voce, al cenno intento;
dorato il morso avea, spumoso il mento,
lungo il crin, curvo il collo, il cor guerriero.
Sovra un colle di neve un fior parca
colei, ma per odor spirava ardori,
ed ogni cor fra quelle nevi ardea.
Parean le Grazie e i faretrati Amori
ministri a lei d'intorno; ella pungea
con lo sprone il destrier, col guardo i cori.
GIROLAMO PRETI 57
IV
L'AMANTE TIMIDO
Ardo, tacito amante, e '1 foco mio
celar non posso e palesar pavento;
e vuol quinci il timor, quindi il desio,
or ch'io taccia, or ch'io dica il mio tormento.
Or uno sguardo, or un sospiro invio,
muto nunzio del cor, muto lamento;
ma sdegno turba i be' vostri occhi, ond'io
di quello sguardo e del sospir mi pento.
Omai privo di speme, anzi di vita,
scopro a voi la mia morte e non l'amore,
e vi chieggio pietà, ma non aita.
Chiede l'alma dolente al crudo core
solo un sospiro all'ultima partita...
È pur poco un sospiro a chi si muore.
V
LA DONNA ALLO SPECCHIO
Mentre in cristallo rilucente e schietto
il bel volto costei vagheggia e mira,
armando il cor d'orgoglio, il ciglio d'ira,
del suo bel, del mio mal prende diletto.
Vaga del vago e lusinghiero aspetto
dice: — Ben con ragion colui sospira! —
Sembrano a lei, che sue bellezze ammira,
oro il crin, rose il labbro e gigli il petto.
Ah, quel cristallo è mentitor fallace,
che scopre un raggio sol del bello eterno,
anzi un'ombra d'error vana e fugace!
Vedrai, se miri il tuo sembiante interno,
cui ritragge il mio cor, specchio verace,
angue il crin, tòsco il labbro, il petto inferno.
58 LIRICI MARINISTI
VI
IN VILLA
Verdi poggi, ombre folte, ermi laureti,
perpetui fonti, limpidi ruscelli,
mormoranti e canori aure ed augelli,
vaghe piagge, odoriferi mirteti;
antri e silenzi solitari e queti,
valli romite e boschi orridi e belli,
tremule fronde, teneri arbuscelli,
siepi rosate, pallidi oliveti;
oh quanto or godo, abitator selvaggio,
più che morta speranza, un verde vivo,
più che regio splendor, l'ombra d'un faggio!
Deh, quanto più qui desiando vivo
povera libertà ch'alto servaggio,
più che sete d'onor, sete d'un rivo!
VII
PAESAGGIO
Un rio, qui gorgogliando in fra le sponde,
con tributo d'argento al Ren deriva;
qui fa un'ombrella il platano e l'oliva,
rami a rami intrecciando e fronde a fronde.
Al garrir degli augelli Eco risponde ;
qui tempra un venticel l'arsura estiva;
molle il suol, fresco il rio, verde è la riva;
qui fan letto l'erbette e specchio l'onde.
Quanti augelletti, o Cinzia, ascolti e miri,
in quel linguaggio lor pianger, cred'io,
della fierezza tua, de' miei martiri.
Anzi, mossi a pietà del dolor mio,
vanno emulando i pianti e i miei sospiri,
spirando l'aura e mormorando il rio.
GIROLAMO PRETI 59
Vili
PAESAGGIO AMOROSO
Là 've quel monte infin al del inalza
la frondosa di querce ispida schiena,
e par che regga il debil fianco appena
quella d'alti dirupi orrida balza;
là stassi Cinzia e, leggiadretta e scalza,
con l'orme del bel pie stampa l'arena,
dove quel rio da cavernosa vena
sbocca di grembo al monte, al pie gli balza.
Mira, o Tirsi, colà come lasciva
or bagna il suo bel viso ed or le piante
ne l'onda cristallina e fuggitiva.
r giurerei che quella rupe amante
è di lei fatta, e quella fonte viva
è di pianto amoroso onda stillante.
IX
INVITO
Cinzia, colà tra quelle balze alpine
stassi la mia capanna, opaca, ombrosa:
la difende dal ciel quercia frondosa
e le fan mura intorno ortiche e spine.
Giace un mio giardinetto in quel confine,
ch'ha una veste di fior varia e pomposa;
la calta, il croco, il gelsomin, la rosa
daran fregi al tuo sen, ghirlande al crine.
Là scaturisce un'onda in grembo al monte,
nel cui specchio potrai limpido e schietto
mirar quanto se' bella, ornar la fronte.
Cosi, tu stessa a' tuoi begli occhi oggetto,
vedrai qual sia maggior, giudice il fonte,
l'ardor de le tue luci o del mio petto.
6o LIRICI MARINISTI
X
PER UN CAVALLO BARBARO
A Vitale de' Buoi
Figlio dell'aura, emulator de' venti,
cursor veloce e volator senz'ale,
di cui vola più tardo alato strale,
volan per l'aria i fulmini più lenti;
lo tuo corso a mirar corron le genti,
ma per seguir tuo corso occhio non vale;
non corre il cielo a le tue piante eguale,
men veloce il pensier movon le menti.
Tuona il nitrito, e la ferrata zampa
sparge de le faville i lampi intorno
e pur selce non tocca, orma non stampa.
Te brama il Sol per lo suo carro adorno ;
ma, traendo del di l'ardente lampa,
breve faresti col tuo corso il giorno.
XI
ALLA PENNA DEL CAVALI ER MARINO
Penna immortai, che col tuo volo arrivi
ove d'umana mente occhio non sale,
e, quasi de la gloria alato strale,
l'oblio saetti e le memorie avvivi;
fonte d'eternità, che mentre scrivi
spargi d'eterno onor vesta immortale,
da cui traggon gl'ingegni umor vitale
come traggon umor dal fonte i rivi;
per te, mia penna umil s'alza dal suolo,
come l'augel che, per sé tardo e vile,
già si levò su l'altrui penna a volo;
e, per far ch'ella sembri a te simile,
a te forme, colori e spirti involo
e de' tuoi spirti sol vive il mio stile.
GIROLAMO PRETI 6l
XII
L'ORIUOLO
Fabricando sonora e viva mole
arte si mosse ad emular natura,
che, se diede natura il moto al sole,
questa il moto del Sol segue e misura ;
se eternamente il ciel girar si suole,
il giro anco di questa eterno dura,
e ciò che faccia il Sol, nasca o tramonte,
mostra, nunzia fedele, in voce e 'n fronte.
Grave al canape torto il piombo appeso,
aspirando al suo centro, in aria pende
contro al piombo maggior più lieve a un peso,
e con moto contrario un sale, un scende.
La machina dal pondo a lei sospeso
quasi da intelligenza il moto apprende ;
che, girando la fune un polo immoto,
dà un sol motore a cento moti il moto.
Come sfera maggiore in ciel s'aggira,
che col suo cerchio i minor cerchi abbraccia,
e le tonanti sfere al corso tira,
che del corso di lei seguon la traccia;
cosi ruota maggior qui seco gira
ruote minori e col fuggir le caccia,
e, come appunto i cieli, intorno ruota
corso a corso contrario e ruota a ruota.
Girasi un orbe e con tenaci denti
muove sospesa in alto instabil libra.
Questa de l'ore il tempo e dei momenti
quasi con giusta lance appende e libra :
tarda i moti veloci, affretta i lenti,
l'un de' bracci ritira e l'altro vibra,
e, mentre è mossa, altrui muove e governa,
e pari il moto a la quiete alterna.
62 LIRICI MARINISTI
Poiché volubil cerchio in giro è corso
ai confini de l'ore e tocco lia il segno,
scocca tenace ferro e scioglie il morso,
che al fuggir d'altre ruote era ritegno.
Movonsi i poli in giro, i giri in corso,
e sembran in girar fremer di sdegno,
che rauco un mormorio precede al suono
com'anzi il fulminar mormora il tuono.
Ferro percotitor s'alza pesante
sovra il cavo metallo e d'alto piomba:
tuona ai colpi di lui squilla sonante,
che a le guerre del tempo è quasi tromba;
tromba, che a noi funesta e minacciante
numera quanti son passi a la tomba,
gridando a l'uomo, al numerar de l'ore,
che, quanto ei vive più, tanto più muore.
Stella, quasi cometa errando intorno,
gl'interni giri in suo girar seconda,
che morte annunzia in distinguendo il giorno
col suo raggio mortai, lingua faconda.
Cosi la mole al mentitor fa scorno,
mentre fa che la lingua al cor risponda;
né, simulando il vero entro sepolto,
quel che cela nel sen scopre nel volto.
PIER FRANCESCO PAOLI
I
NELLA CASA DELLA SUA DONNA
durante l'assenza di lei
Belle mura felici, albergo eletto
di lei, che dal mio cor giamai non parte:
or che, standosi lunge ella in disparte,
di meco ragionar non v'è disdetto;
dite: — Mostra ella mai pietoso affetto
de le mie ch'ho per lei lagrime sparte? —
dite: — Legge ella mai le meste carte,
in cui scrivo l'ardor che chiudo in petto?
Vedeste mai per solitaria via
venir notturno amante, armato e solo,
a trionfar de la guerriera mia? —
Ah, voi tacete, ed io che per lung'uso
so quanto piaccia altrui l'esser secreto,
voi, fidi secretari, or non accuso.
64 LIRICI MARINISTI
II
IL BACIO DATO PER DISPETTO
Semivivo anelar costei mi vede,
or che torno a mirar suo vago volto;
e, caramente infra le braccia accolto,
soave un bacio al mio languir concede.
Poscia, che dispettosa ella me '1 diede
dice; e tutto dal cor fummi allor tolto
quel dolce ond'io sperava indi a non molto
altra più ricca al mio servir mercede.
Chi vide mai cader dal ciel sereno,
dietro a bella rugiada aspra tempesta
e stillar da un sol fior manna e veleno?
Giardiniera d'amore empia è ben que.sta,
che del mio cor nel povero terreno
sovra un bacio vital la morte innesta.
Ili
IL CENNO NON INTESO
Appena i passi entro le scole ho steso
d'Amore e forse in me l'ingegno è tardo;
ancor non so quand'ei da l'arco teso
avventi d'oro o pur di piombo il dardo.
Con immensa mia gioia ho solo appreso
questi primi elementi :« Io amo, io ardo».
Dunque, donna, io non deggio esser ripreso
se non intendo il favellar d'un guardo.
Ben fia ch'in queste scole io soffra e tenti
ogni affanno, ogn' impresa, e in esse accolto
spenda del viver mio l'ore e i momenti.
Tacerò i lustri interi e, in voi sol vòlto,
leggerò quei caratteri lucenti,
che v' ha scolpiti il ciel entro al bel volto.
PIER FRANCESCO PAOLI 65
IV
LA LETTERA
Or che formo di pianto un ampio lago
lunge da lei, che hinge anco innamora,
non acconsente un suo pensier ch'io mora,
un suo pensier del mio morir presago ;
e invece del suo volto amato e vago,
in cui bellezza angelica s'adora,
carta m'invia, perch'io la miri ogni ora,
che di lei che la scrisse è viva imago.
La miro, e cangia il ciel meco tenore,
mentre con quei caratteri possenti,
fatto mago d'amor, scongiuro Amore.
La miro e, rileggendo i dolci accenti,
con gli occhi entro quel nero asciutto umore
bevo la medicina a' miei tormenti.
V
LA CHIOMA
Vago de le sue glorie, il ciel ripose
di bellezze in costei ricco tesoro;
ma più del biondo crin mostra fra loro
essa le voglie sue liete e fastose.
Belle ha le luci si, ma sonnacchiose
prendon stanche talor dolce ristoro;
belle ha le mani ond'io beato moro,
ma l'ascondon talor spoglie odorose.
Solo il crin, non mai stanco e sempre in mostra,
fra le belle di lei pompe guerrere,
predando ì cor, vittorioso giostra.
Vero è che l'occhio incende e la man fere;
ma legate in trionfo il crin dimostra
l'incenerite e le piagate schiere.
Lirici marinisti — 5
66 LIRICI MARINISTI
VI
DINANZI A UN OSPEDALE
Qui, dove giace in un turba languente,
or che '1 Sol men benigno il terren fiede,
veggio mostrar costei pomposamente
la sua beltà, ch'ogni beltade eccede.
Cosi forse talor, vaga e ridente,
fuor da la reggia sua mover il piede,
là per le vie de la dannata gente,
la regina Proserpina si vede.
Già non le scalda il sen pietoso ardore ;
troppo ha l'affetto a la fierezza esperto
nel mirar le ferite del mio core.
Ben lieto mor chi qui di morte è or certo,
che mira, ad onta del mortale orrore,
in quel bel volto il paradiso aperto.
VII
DISTILLANDO ROSE
Tiensi costei (si vago ha '1 seno e '1 volto)
da la bellezza de le rose offesa;
e, di disdegno ambizioso accesa,
il pensier contra lor tutto ha rivolto.
Le chiude in cavo rame, ove raccolto
tien lento foco, a tormentarle intesa;
sin che '1 bel, ch'ai suo bel facea contesa,
vagheggia in poco umor stillar disciolto.
Quinci lieta e superba, ove '1 Sol splende,
in questo vaso e in quel l'acque odorose,
quasi trofei di sua fierezza, appende.
Poi, per le sue saziar voglie fastose,
in varie guise a dissiparle attende...
Oh beltà, eh 'è tiranna anco a le rose!
PIER FRANCESCO PAOLI 67
Vili
NSEGNANDO A LEGGERE ALLA DONNA AMATA
A me sen vien, per sua vaghezza eletto,
i primi ad imparar puri elementi,
costei che sa, bench'io H chiuda in petto,
legger ne la mia fronte i miei tormenti.
Ridice ella inesperta ogni mio detto,
ma tace, scaltra, a' miei sospiri ardenti;
onde ascolto con pena e con diletto
d'eco muta e loquace i vivi accenti.
Talor taccio le note, e 'n dolce errore
— Amo: — le dico, ed — Amo: — ella risponde.
Ah, rispondesse in un la lingua e '1 core!
Fingo in lei tardo ingegno, e minacciante
tocco sul volto suo le chiome bionde,
maestro ardito e rispettoso amante.
IX
LE AMICHE
Stendea Fillide mia la man cortese
a Glori amica, e balenar fé' un riso:
la bianca man, eh 'a me giammai non stese
se non armata, onde ne caddi anciso.
E, vòlte in bel seren le luci accese,
vide il pallor che mi dipinse il viso;
anzi in più parti entro il mio sen comprese
per due destre congiunte il cor diviso.
Con gli scherzi leggiadri, ond'esse ardite
stringonsi dolcemente. Amor m'afferra,
e le dolcezze lor son mie ferite.
In un languido « oimè », che il cor disserra,
dissi : — Oh stupor ! due belle destre unite
simboleggian la pace, e a me fan guerra. —
68 LIRICI MARINISTI
X
FRA LE MASCHERE IN CARNEVALE
Costei da parte eccelsa il popol folto
stassi a mirare in varie larve ascoso,
e '1 suo rigido cor dentro al bel volto
de l'altrui vaneggiar mostra gioioso.
Se talun miro in rozze spoglie involto
dico : — Quegli è rivale insidioso ; —
se chi d'amarla infìnge intento ascolto,
anco il finto amator mi fa geloso.
Se avanti a lei talun con dubbio errore
scherza d'ebro in sembianza, io dir mi sento :
— Quegli per lei vacilla, ebro d'amore. —
Lasso, e quando giamai vivrò contento,
s'anco da vane larve entro al mio core
nel comune gioir nasce il tormento?
XI
LA BAMBINA DELLA SUA DONNA
Pargoletta vezzosa, i miei pensieri
regge la man eh 'a te regge le piante
dentro a quegli amenissimi sentieri,
là dove io giro a pena il guardo amante.
Tu movi il pie sicuro ai dolci imperi,
ed io vacillo a duo bei lumi avante;
odi tu cari accenti e lusinghieri,
ed io, colmo di duol, labro tonante.
A te già stanca il molle sen concede
l'amorosa maestra; al mio languore
niega fin d'un sospir poca mercede.
Oh stravaganza, oh crudeltà d'Amore !
Far ne la stessa via sicuro un piede
e fabricare il precipizio a un core.
PIER FRANCESCO PAOLI 69
XII
LA DONNA SFIORENTE PER MALINCONIA
Ne la tempesta de le cure ascose,
ond'è il tuo cor miseramente involto,
la bellezza eh' il cielo in te ripose,
naufragante si mira entro al tuo volto.
Pietà dei labri, a cui mancan le rose !
pietà del sen, eh 'è senza gigli incólto!
pietà degli occhi, in cui l'alme amorose
piangon de la lor vita il Sol sepolto !
Erran d'intorno a te le Grazie e il Riso,
le Gioie e i Vezzi; ed, esuli innocenti,
braman che li richiami al tuo bel viso.
Prenda eterni un augel \-ivi alimenti
da un cor dannato : il bel del paradiso
non sia preda agli affanni, ésca ai tormenti.
XIII
LO SPETTACOLO DELLA GUERRA E L'AMORE
quando l'autore fu addetto alla segreteria di guerra
I lunghi affanni onde, scrivendo in carte
l'occulte voglie altrui, sudo ed aghiaccio,
m'han pur sottratto a quel gravoso impaccio
ch'opprimeva di me la miglior parte.
Or da' campi d'Amor movo in disparte,
sicuro il pie, senza sentir suo laccio,
quanto più lasso infra le cure io giaccio
qui dove aprono i suoi Bellona e Marte,
M'han le piaghe e le morti il cor sanato;
ne le perdite altrui sedendo ho vinto
guerra mortai, di debil penna armato.
Ho da me, faticando. Amor sospinto;
e ben dovea chi di vii ozio è nato
cader per man de la fatica estinto. '' •
70 LIRICI MARINISTI
XIV
L'ABITO SACRO
quan<ìo l'autore ebbe dal suo signore un beneficio ecclesiastico
Armato il fianco, or non sei più di Marte,
come sembravi, intrepido seguace;
ma, il guerriero desio posto in disparte,
sembri in vesta sacrata angel di pace.
O pur son l'armi tue di vote carte,
onde già fatto umilemente audace,
pugni per gir vittorioso a parte
del bel, che sempre sazia e sempre piace.
Arda pur nel tuo sen si bel desio:
già t'ha '1 sentier per le vittorie aperto
l'augusta man del tuo signore e mio;
e '1 nero manto, in cui rivolgi il fianco,
è l'ombra del favore onde coperto
vai da l'insidie altrui sicuro e franco.
XV
LA MADDALENA
Venite a rimirar la gloria vostra,
o già di Maddalena accesi amanti ;
venite a rimirar come i sembianti,
con novello artificio, ella s'inostra.
Oh d'eccelsa beltà leggiadra mostra!
cangia le ricche vesti in rozzi manti,
il riso insidioso in tristi pianti,
i superbi palagi in umil chiostra.
Quel biondo crin, ch'in dolci nodi accolto
fregiò di perle, or fra le brine e '1 gelo
sovra gli omeri porta ispido, incólto.
E cosi, armata di verace zelo,
serena il core e nubilosa il volto,
se già l'alme rapia, rapisce il cielo.
PIER FRANCESCO PAOLI Jl
XVI
LA POSA DELLA PRIMA PIETRA
DEL NUOVO CONVENTO DEI CAPPUCCINI
Ad Urbano Vili
Picciolo è '1 sasso ond'or tu, grand' Urbano,
di sacro tempio il fondamento appresti ;
e pur terrore immenso entro il cor désti
de l'ombre eterne al regnator insano ;
che ben tra '1 cieco orror già di lontano
mira prodi guerrieri in sacre vesti
mover contra i suoi campi armi celesti,
qui dove architettrice è santa mano.
Davide generoso, a cui bastante
sola è una pietra a dar con dardo eterno
fiera percossa a l'infernal gigante,
che non farà tuo giusto sdegno interno,
se, mentre il getti in placido sembiante,
va picciol sasso a lapidar l'inferno?
XVII
IL MAL DI PIETRA
Questa, ch'in cieca parte afflitto io celo,
pietra pesante, è del mio fallo indegno
pena, che avvento anch'io colmo di sdegno
pietre pur troppo dure incontro al cielo.
Se poso o vado, io sotto il pondo anelo,
né però langue il travagliato ingegno,
che farsi ora una pietra alto sostegno
di mia salute al mio pensier rivelo.
Si, si, col peso in me s'avanzi il duolo,
cresca l'atra procella, io già m'avviso
ch'ho meco il sasso onde discopro il polo;
e tutto lieto al cor, se mesto al viso,
m'inalzerò con grave sasso a volo.
Sisifo penitente, in paradiso.
72 LIRICI MARINISTI
XVIII
A LEI CHE ABITA IN UN TUGURIO
Statti pur baldanzosa
in quell'albergo umile,
mia diletta gentile.
Basti a te l'esser degna
che non solo t'inviti
Venere ambiziosa
a passeggiar su la sua conca il mare,
ma su l'eterea mole
ad albergar ne la sua reggia il sole.
Basti a te che conservi,
come dal ciel gli avesti,
in terrena magion pregi celesti.
Son forse vili i fiori,
perché stan su la terra?
son men graditi gli ori,
perché stanzan sotterra?
Forma in quel basso tetto
il tuo volto, il tuo seno,
un praticello ameno,
e la chioma dorata
un tesoro amoroso;
anzi, a gloria d'Amore,
ciò che vantar non puote altro terreno,
quivi con novi orrori
dov'è già stato l'or, miransi i fiori.
In quella bassa terra
sarai tu stabil centro
a cui discenderanno,
se benigna il consenti,
a ritrovar quiete i miei tormenti.
Una io dirò che sia
de le cimerie grotte,
ove, notturno amante,
PIER FRANCESCO PAOLI 73
dopo le sospirate
mie vigilie amorose,
per prolungar la vita,
verrò del sonno a mendicar l'aita.
In quell'ima pendice,
più che in alto palagio,
trarrò sicuri i giorni,
mentre talor fortuna
con violento sdegno
per le ruine altrui scuote il suo regno.
In quell'ermo ricetto,
con divoti sospiri
adorarò, d'ogni pensier disciolto,
peregrino idolatra, il tuo bel volto.
Godo, mia bella, godo,
che vivi in parte dove
non giunge irato il fulmine di Giove.
Spero ben che terrai
quivi esposto il tuo core,
per mio conforto, ai fulmini d'amore.
Già non tem'io ch'il Tebro
venga, come talor tumido ei suole,
per inondar quella terrena soglia;
che ne sarò custode,
ed esalando fiamme
fuor del mio cor geloso,
respingerò l'assaltatore ondoso.
Albergo prezioso,
mio vago paradiso,
mio leggiadro oriente,
da cui, di balcon privo,
tu, mio bel sole adorno,
quante volte apri l'uscio, apri il mio giorno ;
chi potrà dir che ancora
sia superbo tiranno,
se per le tue bellezze,
74 LIRICI MARINISTI
che pur tue forze sono,
poco men che sotterra hai posto il trono?
Oh quante volte, oh quante,
mentre chiusa è la porta
de la real magione,
non avendo altro varco
da penetrar le riverite mura,
anelante si duole,
quasi mendico in su la soglia, il sole!
Fra queste del mio cor candide gioie
serpe mortai veleno
che viatore accorto,
mentre vede, in passando,
il letticciuol eh' è campo
del duello amoroso,
entrerà baldanzoso.
e con sua lieta sorte
vibrerà l'armi e sfideratti a morte.
Deh, per schivar perigli
tieni tu sempre chiusa
a l'arditezze altrui
quella beata porta,
com'io tengo a tutt'ore
aperto ai cenni tuoi
questo misero core;
né t'affanni il pensiero
di rimaner tra l'ombre,
che può de' tuoi begli occhi un lampo solo,
non pur far luminoso un picciol tetto,
ma, con vanti più alteri,
i negri abissi e i torbidi emisperi.
Che se ciò non t'aggrada,
legge sia la tua voglia;
e s'altri pur tentasse opra si rea,
tu, in guardia de la fede,
contra il crudo omicida,
senza mostrargli altr'arme, alza le strida.
PIER FRANCESCO PAOLI 75
XIX
UNA DAMA SPAGNUOLA
Là dove more il sole
nata è costei; ned è stupor, se accolto
quanto ha di bello il Sol porta nel volto.
Egli, pria che la sera
giunga a la tomba ibera,
per non lasciar senza splendor quei campi,
nel bel volto di lei lascia i suoi lampi.
MARCELLO GIOVANETTI
I
CHIOME NERE
Chiome, qualor disciolte in foschi errori
da la fronte vi miro in giù cadenti
e velate al mio Sol gli aurei splendori,
siete nubi importune, ombre nocenti.
Ma s'in groppo accogliete i vostri orrori,
nera cote sembrate, ove pungenti
rende Amor le saette; e l'ambre e gli ori
vincete d'ogni crin, chiome lucenti.
Escon da' vostri torbidi volumi,
come lampo talor da nube impura,
verso il mio cor d'accese fiamme i fiumi;
ch'arte fu, non error, se die natura,
quasi pittor che mesce l'ombre ai lumi,
de la fronte al candor la chioma oscura.
MARCELLO GIOVANETTI 77
II
LE POZZETTE NELLE GUANCE
Qualor Cilla vezzosa i lumi gira,
e s'avvien che ridente il guardo ruote,
forma vaghe pozzette in su le gote,
ove quasi in suo centro il cor s'aggira.
Quivi Amor certo ad alte prede aspira,
ed indi l'alme semplici e devote
con saette invisibili percuote,
e poi colà, furtivo, ei si ritira.
Direi valli di gigli in campo alpino,
direi cave di nevi in mezzo ai fiori
quelle fosse sul volto almo e divino.
Ma come non si sfanno in larghi umori,
s' hanno di que' begli occhi il Sol vicino
e del mio cor non lunge anco gli ardori?
HI
NELLO SCORGERE DA LUNGI IL PAESE
DELLA SUA DONNA
Ecco al fin pur ti scopro, amato colle,
che 'n brieve giro ascondi ampio tesoro;
ove non giunge il pie, prende ristoro
lo sguardo almen, che di dolcezza è molle.
E col pensier, che solo a lei s'estolle,
se non posso vicin, lunge t'adoro.
Sallo Amor con qual laccio io qui dimoro
e qual caldo desio nel cor mi bolle !
Che di lontan sente gli ardor più fissi
e lunge vede il cor più che non suole
de' suoi begli occhi i luminosi abissi.
Traggami, dunque, il cielo ove '1 ciel vuole,
che far non puote ingiuriosa eclissi
lunga terra interposta al mio bel sole.
78 LIRICI MARINISTI
IV
LA DONNA PRESENTE
A SPETTACOLO DI GIUSTIZIA
Là 've la morte in fera pompa ergea
spietata scena di funesto orrore,
vidi colei, che nel tuo regno, Amore,
di mille colpe e mille morti è rea.
Fra que' nocenti uccisi, ella uccidea
più d'un 'alma innocente e più d'un core;
e pure, intenta al tragico rigore,
spettatrice impunita anco sedea.
Quale scampo il mio cor fia che ritrove?
Là fra rigide morti a morte ei langue,
qua di dolci ferite un nembo piove.
Resta per doppia strage il petto essangue;
fan bellezza e spavento eguali prove,
e nuotano gli amori in mezzo al sangue.
IL BAGNO NEL LAGO
AUor che l'alba dal mar d'Adria inalza
la face per fugar l'ombra notturna,
a solitario lago, incólta e scalza,
col canestro sen va Fille e co' l'urna.
Per bagnarsi il bel pie, con mano eburna
i lembi de la veste accoglie ed alza;
e l'onda, ch'era immota e taciturna,
con garrula allegrezza al sen le balza.
A l'apparir di lei sopra la sponda,
al discoprir degli animati avori,
al folgorar de l'aurea chioma bionda,
alga o scoglio non è, che non s'infiori;
fiore, che non si specchi entro quell'onda;
onda, che non sfavilli a tanti ardori.
MARCELLO GIOVANETTI 79
VI
LA DONNA E IL VECCHIO
Nisa, è pur ver che tu ne l'alma impressi
hai di veglio Titon gli essangui ardori,
e di braccia cadenti ai freddi amplessi
offri del tuo bel seno i caldi avori ?
Meraviglia è d'amor veder connessi
crespo crin, crespa gota, ostri e livori,
e con le man di latte insieme espressi
fra le rughe senil scherzar gli Amori.
Ah, sian lunge i tuoi fior da quel confine!
entro que' solchi de le guance annose
il tempo sol dee seminar le spine;
ch'ei de le guance tue molli, amorose,
farà col gielo del suo freddo crine
pallidi i gigli e livide le rose.
VII
LA NINFA E IL ROZZO AMANTE
Cinzia, Cinzia del Ren, colei che finge
la ritrosa, la schiva (il dico o taccio?).
Cinzia, bella qual dea, fera qual sfinge,
a rozzo pastorel si reca in braccio.
Sovente il collo d'amoroso impaccio
al perfido Filen circonda e cinge ;
e sembra meco poi rigido ghiaccio
l'empia, e le guance di rossor non tinge?
Ben la vid'io scherzar sotto una folta
siepe col vago, e sua beltà divina
esser da rozza man recisa e còlta.
Cosi in prato talor giace vicina
vipera al fior ; cosi talor sta involta
candida perla in fango o rosa in spina.
8o LIRICI MARINISTI
Vili
LA BELLA SERVA
Se diede al tuo natal, bella mia Glori,
oscure fasce il ciel, povera cuna,
ecco più chiare perle e più fini ori
Amor prodigamente in te raguna.
E se d'altrui ti fé' serva fortuna,
ch'a la cieca dispensa i suoi tesori,
tu per quella beltà, ch'ogn'altra imbruna,
se' reina bellissima de' cori.
Di che ti lagni tu? Sappi che ancora
sono serve di Cinzia in ciel le stelle
ed è serva del Sol la bionda Aurora.
Denno esser sol le voglie tue rubelle
serve d'Amor, come a te sono ognora,
tributarie de' cor, mill'alme ancelle.
IX
LA CORTIGL'\NA FRUSTATA
Era esposta ai flagelli Eurilla mia,
per lieve colpa condennata rea;
ma fra l'ombra del duol che l'avvolgea
il Sol di sua bellezza anco apparia.
E mentre in lei, da man nocente e ria,
tempesta di percosse aspra piovea,
quanti gigli sugli omeri abbattea
quella tempesta, tante rose apria.
Chi sa che, mosso Amor da' miei lamenti,
per punir di costei l'empio rigore,
la mia tormentatrice or non tormenti?
Ma qual gloria sperar potea maggiore?
Diranno ormai l'innamorate genti:
— Questa è la bella martire d'Amore. —
MARCELLO GIOVANETTI 8l
X
LA DORMENTE
A Girolamo Mattei
Presso un bel rio, che de la sponda erbosa
umido amante iva baciando i fiori,
Cilla, ch'ai mio languir non dà mai posa,
posando un di, del di fuggia gli ardori.
In su la guancia di color di rosa
parean tiepide brine i bei sudori,
e spogliavan d'odor quelle pendici
le frese 'aure, del sonno allettatrici.
Mentre co '1 crin, che s'increspava ai venti,
sovra letto di fiori ella dormia,
agli occhi miei vagheggiatori intenti
duo preziosi fiumi Amore offria:
l'uno scorrea con liquefatti argenti,
l'altro con onda d'or serpendo già;
ciascuno i suoi tesori avea disciolto:
quegli un prato rigava e questi un volto.
Le spoglie ella s'avea tolte d'avanti
e fidatele in guardia ai fior vicini,
che '1 calor fastidia le spoglie e i manti,
tolerando a fatica i bianchi lini;
e questi ancor, mossi da l'aure erranti,
gian scoprendo del seno i bei confini,
e l'altre membra tralucean fra quegli,
quasi gemme velate in tersi spegli.
Io muovo intanto il pie furtivo e tardo,
ove costei giacca su l'erba molle;
nel vel de le palpebre ascoso il guardo
punto non mi vietava il pensier folle.
A lei m'appresso, in lei m'affisso e guardo,
ch'a vagheggiarla anco ogni fior s'estolle.
Dico allor io : — Per man del sonno unita,
sotto imagin di Morte, ecco la Vita. —
Lirici marinisti — 6
82 LIRICI MARINISTI
Ornai cessino, Amore, i vanti tuoi,
non dir ch'ai tuo poter nulla contrasti;
ch'in paragon del sonno, o nulla puoi
o rimangon delusi i tuoi gran fasti.
Per far ch'ella piegasse i desir suoi,
sai pur ch'ogni tua possa indarno oprasti.
Ecco: il sonno, maggior di tutti i numi,
la stende a terra e le imprigiona i lumi.
Più forza ha il figlio de l'oscura notte
di te, fanciul de la più bella diva?
l'abitator de le cimerie grotte
supera un Dio, che da lo ciel deriva?
Sian le saette ornai tarpate e rotte
e la faretra d'ogni gloria priva,
s'al tuo fuoco invisibile, immortale,
onda scarsa di Lete assai prevale.
Ma come il cor d'amor più forte acceso
sento, s'Amor, vinto dal sonno, or giace?
come breve riposo emmi conteso,
se chi guerra mi muove ha posa e pace?
scocca strali non visti arco non teso?
e vibra fiamme non vibrata face?
con quali armi innocenti ed omicide
giacendo vince, addormentata uccide?
Certo ch'ella a nuove arti allor s'accinge,
quando al suo mal pietosa altri la spera ;
non dorme- no, ma di dormir s'infinge,
appiattata tra i fior, la scaltra arciera.
Sonnacchiosa in tal guisa anco si finge,
là nei campi d' Ircania, empia pantera,
e con la pompa di sue spoglie ognora
suol le fere allettar, che poi divora.
Ben si vedean per le beate sponde
arder vicine a lei quell'erbe e queste,
languir le piante, inaridir le fronde,
chinare i fiori l'odorate teste;
MARCELLO GIOVANETTI 83
e già forano asciutte anco quell'onde,
che per l'erbe muovean tremole e preste,
s'io con l'urne colà del pianto mio
non dava piogge al prato ed acque al rio.
Come s'avvien talor ne' giorni estivi
che densa nube intorno al Sol s'accampi,
vibra egli i raggi più cocenti e vivi,
e chiuso par che con più forza avvampi ;
cosi costei, per far eh 'anco i più schivi
sentan di sua beltade accesi i lampi,
vuole colà che le circondi e tocchi
bella nube di sonno il Sol degli occhi.
Anzi ella soffre che sia fatto donno
un ministro di Lete in quel bel viso,
e di tenebre armato il nero sonno
sia là nel trono de la luce assiso.
L'ombre cieche oggimai vantar si ponno
d'aver posta la sede in paradiso;
ma, con le stelle chiuse in fosco velo,
chi mai dirà che sia più bello il cielo?
Ed è pur vero, e più leggiadre forme
ne r incomposto volto il sonno acquista;
veglia l'arso mio cuor mentr'ella dorme,
e d'un sole ecclissato ama la vista.
Stanno in sua guardia faretrate torme,
a cui la schiera de le Grazie è mista :
altri terge i sudori, altri con l'aura,
mossa da lievi piume, il cor ristaura.
Amanti, o voi che con ardente zelo
bramate l'ombre amiche ai furti vostri,
de la notte pregiando il fosco velo
più che de l'alba le chiarezze e gli ostri,
venite a schiere; ecco: propizio il cielo
tragge la notte dagli opachi chiostri;
e perché a voi più ratta ella sen vole
colà in quegli occhi è tramontato il sole.
84 LIRICI MARINISTI
Oh se di questa Pasitea giacente
diventar potess'io larva vagante,
oh come lieto a la sopita mente
discoprirmi potrei, fantasma amante !
Sonno, felice or te cui si consente
star catenato a que' begli occhi avante;
non potea darti de le luci accorte
più leggiadra prigione il cielo in sorte.
Mentre si parlo, e non sapea levarmi
dal contemplar l'addormentato viso,
e d'immenso piacer sentia bearmi
in quel dolce periglio intento e fiso,
a caso leggo in mal vergati carmi
su la corteccia d'una pianta inciso:
« Se non fuggi, pastor, tu resti essangue;
giace quivi fra l'erbe ascoso un angue ».
XI
LA FONTANA NEL GIARDINO DI TIVOLI
RAFFIGURANTE L' ANTICA ROMA
Al cardinale Alessandro d'Este
Colà dove con flebile singulto
il precipizio suo piange Aniene,
mentre con procelloso aspro tumulto
giù da' monti latini a cader viene,
che poi, placido fatto, or muove occulto
fra cavi sassi e sotterranee vene,
or con la lingua tremola de l'onde
lambendo va le tiburtine sponde;
s'apre vago giardin, di cui natura,
di cui l'arte la palma aver presume,
che poi (sia loro o negligenza o cura)
di cangiar le vicende han per costume.
MARCELLO GIOVANETTI 85
Or dentro a queste villarecce mura,
libero volse imprigionarsi il fiume,
e sembra sol che di formar s'appaghi
loquaci fonti e taciturni laghi.
Qui le ninfe de' liquidi cristalli
con le ninfe de' monti in schiera accolte,
fabbricando tra lor trecce di balli,
ora in gruppi annodate ora disciolte,
scherzando gian per quegli ondosi calli
con auree chiome in su le fronti avvolte,
e di mirto e d'allòr frondosi rami
eran del biondo crin verdi legami.
Giunse fra loro altera donna armata
in sembiante magnanimo e augusto;
ferreo arnese copria la fronte aurata,
grave d'asta la man, d'usbergo il busto.
Forse in aspetto tale figurata
Pallade fu nel secolo vetusto,
e dagli anni e da l'arme ancor non doma
nel suo volto esprimea l'antica Roma.
Per ascoltar costei le gelid'urne
lasciar de' fonti lor Tetide e Flora;
dagli antri oscuri alzar le membra eburne
la dea casta e la dea che n'innamora;
cessar da l'opre solite diurne
gli augelli e l'aure mormoranti allora,
e per non fare a lei garrule offese
il corso per udir l'onda sospese.
— O de l'altro Alessandro emolo altero —
disse — e de l'attio sangue inclito pegno,
splendor de l'ostro, cardine di Piero,
aquila lucidissima d'ingegno,
di magnanimità ritratto vero,
de la nuda virtù ricco sostegno,
de l'antica valor novella prole
e del del de la gloria unico sole ;
86 LIRICI MARINISTI
lascia oggimai, ti prego, i sette colli
che di Roma novella ornano il seno,
che sol di fasto allettatrici e folli
aure nutre nel torbido sereno,
ha mentiti i costumi, i vezzi ha molli,
nel facondo suo dir mesce il veleno,
e allora indice altrui guerra verace
quando par che più spiri aura di pace.
Lascia pur Roma, e vieni omai qui dove
fresco è il rio, dolce è l'aura e lieto è il cielo;
nembo di perle qui l'aurora piove
qualor diffonde il matutino gielo;
la libertà, ch'invan si brama altrove,
qui sol lieta fiorisce in ogni stelo;
e van per l'amenissime pendici
l'aure, de l'alme ognor tranquillatrici.
Qui senza velo agli occhi altrui dispiega
nuda semplicità le sue ricchezze;
qui riposa il Riposo e qui non nega
di compartir altrui pure dolcezze;
qui con laccio di gioia i sensi lega
l'ombra fra le real salvatichezze;
né può quinci lontano esser diviso
s'è ver ch'abbia la terra il paradiso.
Vieni, e de' grandi Augusti il mio desio
di nuovo in te vagheggi i gesti e l'opre;
vieni, ch'ogn'uom costi fallace e rio
sotto contrario vel l'alma ricopre;
qui schietto il fonte e trasparente il rio
sin da l'intimo fondo il cor ti scopre;
e, di te imitatrice, in grembo ai fiori
versa prodiga vena i suoi tesori.
Se le romane mura e gli archi e i tempi
ti spiace forse di lasciarti a tergo,
qui, dagli Estensi tuoi sottratta agli empi,
mirerai d'altra Roma il prisco albergo;
MARCELLO GIOVANETTI 87
ch'io qui ricovro e de' passati scempi
fra i diluvi de l'acque il duol sommergo,
e trovo sol per questi chiostri ombrosi
nel secolo del ferro aurei riposi.
Qui, qui, scorno del tempo, onta de l'armi,
ogni abbattuta mole anco torreggia;
qui co' teatri e con le statue parmi
traspiantata veder l'antica reggia;
distillan acque gli obelischi e i marmi
e quasi la città fra l'acque ondeggia;
vieni, e se '1 Tebro hai di veder desio
ho fra queste mie sponde il Tebro anch'io.
Qui potrà sollevar da gravi cure
l'alma tua degnamente ozio non vile:
vedrai Pandora acque salubri e pure
dal suo vaso stillar, fuor del suo stile;
e Bacco, invece pur d'uve mature,
ampie tazze colmar d'onda simile;
e, lasciato Elicona il bel Pegaso,
d'acque aprir con la zampa argenteo vaso.
Vedrai per te formar con saggi errori
i fonti, al ciel balzando, umidi giochi;
di finti augelli inanimati cori
sciorranno a te canti non finti o rochi ;
vedrai lieta spelonca in cui gli Amori,
poste in disparte le saette e i fochi,
al cenno di colei che dal mar nacque,
i petti altrui san fulminar con l'acque.
Fastose ch'a tal gloria il ciel sortille,
se son di fasto qui l'onde capaci,
con riverenti, ossequiose stille
stamperan su '1 tuo pie gelidi baci-
le fontane più lucide e tranquille
faransi al volto tuo specchi vivaci,
e '1 dio de l'onde anch'ei sarà tenuto
darti in coppa d'argento il suo tributo.
LIRICI MARINISTI
Vieni, Alessandro, e mirerai disciorsi
in lagrime di gioia i vivi fonti;
a le tue piante i lor marmorei dorsi
supporran volentier portici e ponti;
e i simolacri e le colline forsi
per adorarti piegheran le fronti:
certo, per pregio suo fia che s' inchine
la palma e '1 lauro a coronarti il crine.
Ma se a l'altro Alessandro intero un mondo
era spazio incapace, angolo breve,
il tuo valor, che non ha mèta o fondo,
termine angusto imprigionar non deve.
Sollo, gran prence, e pur non mi confondo,
ma d'adempir miei voti anco fìa lieve,
che ben che sia maggior de l'ampia terra,
pure in brieve epiciclo il Sol si serra. —
Accompagnò quest'ultime parole
con lieti applausi ogn'aura, ogni spelonca,
e dispiegar da le canore gole
i selvaggi cantor voce non tronca;
ogn'onda mormorò più che non suole
armoniosa entro la propria conca,
ed agli organi die, con modo ignoto,
a tempo il canto ed a misura il moto.
Fùr veduti a la fin da cento bocche
cento fiumi versar gonfi serpenti,
e con tal precipizio avvien che fiocche
il bel diluvio di que' molli argenti,
che sembra udir da le superbe ròcche
il sonoro ulular de' bronzi ardenti.
Ai lieti augùri, al plauso de le linfe
Eco rispose e risero le ninfe.
Pastor del Tronto a vagheggiar sedea
gli orti famosi, a cui null'altro agguaglia,
di cui forse men bello esser dovea
o '1 giardino di Pesto o di Tessaglia.
MARCELLO GIOVANETTI
Or mentre ei d'alta gioia il cor ricrea,
le sparse voci in verde pianta intaglia;
poi, con note che ruvide compose,
al gran prencipe estense il tutto espose.
XII
L'INONDAZIONE DEL TRONTO
A monsignor X'itello
Fra l'atra notte e 'I luminoso giorno
egualmente diviso era l'impero,
e spandea tanto l'ombra il manto nero
quanto splendea di raggi il sole intorno;
onde, se l'alba ai soliti lavori
destava l'uom su l'aure matutine,
il dolce sonno, con egual confine,
sopiva i sensi e raddolciva i cori ;
con grati nodi agli olmi lor mariti
dolcemente stendean le braccia amiche
e discoprian per le colline apriche
lieti tesor le pampinose viti ;
quando s'udio sul nubiloso velo,
presagio d'oscurissima tempesta,
mormorando con voce orrida infesta,
tuono bombar fra inille lampi in cielo;
s'udirò urtarsi in fera giostra i venti,
spinti da profondissime caverne;
fùr visti a gara poi da le superne
magioni in giù precipitar torrenti.
Mai non s'udi del ciel per le campagne,
cotanto imperversando, austro nimboso
scuotere il dorso a l'Apennin selvoso,
fracassar nubi e tempestar montagne.
Ma crescendo maggior l'impeto a l'onde,
e qual rauco fragor d'acque sonanti,
parea che l'etra a tanti flutti e tanti
picciole avesse e troppo anguste sponde.
90 LIRICI MARINISTI
Da disusata violenza spinto,
correva il flutto ad inondar la valle;
era Iago la piazza e fiume il calle
e la cittade ondoso labirinto.
Il troppo fosco orror rendea cotanto
confuso il ciel, che per tre spazi integri
il Sol rotar non volle i lampi allegri,
né la notte spiegar gemmato il manto.
Da cento e cento lubrichi vassalli
ebbe tributo volontario il Tronto,
che, fatto ingiusto rege, audace e pronto
corse a tiranneggiar l'amiche valli.
Se pria devoto a la città di Pico
il pie baciò de le famose mura,
ora senza ritegno ei s'assicura
moverle aspra tenzon, fero nemico;
e disdegnando omai degli alti ponti,
novello Arasse, l'odiosa soma,
scuote con atto altier l'umida chioma
e guerra indice con spumosi monti.
E qual vittorioso capitano
per batter mura di superba ròcca
opra ferrate travi e sempre scocca
più forti colpi con robusta mano,
cotal ruina orribile minaccia,
ed avventando ai ponti elei ed abeti,
fa tremar, fa crollar l'alte pareti
il fiume altier con spaventosa faccia.
Ma raddoppiando le divelte piante
ognora formidabili percosse,
forza è che '1 ponte al fine a tante scos
cada e l' inghiotta pur l'onda tonante;
l'onda, ch'ornai la chioma più frondosa
copre de' pioppi, e, dove fece il nido
semplicetto augellin, del fiume infido
allora ivi nato plebe squammosa;
MARCELLO GIOVANETTI 91
l'onda che sozza, fra gli acuti dumi
e fra le tane di spinosi sterpi,
suflFoca ancor le velenose serpi
strette ed avvolte in lubrichi volumi;
l'onda che seco raggirando balza
rotte schegge, alti scogli, alpestre rupi,
e ne' vortici suoi rapidi e cupi
ora assorbe gran tronchi, ora gì' inalza.
Stillava pria con limpidi zampilli
entro nera spelunca a goccia a goccia
l'onda gelata da scabrosa roccia,
secreta stanza di Piloro e Filli ;
ed ora in questa, fatta orrida grotta,
formando tal rumor ch'il mondo assorda,
diluvia l'acqua impetuosa e lorda,
e un fiume intero v'entra e vi s' ingrotta.
Scopre l'intima selce e '1 tufo scabro,
impoverito omai di poca terra,
il colle, e 'I monte e se medesmo atterra,
fatto del danno suo mal cauto fabro;
poscia che, riversando a nembo a nembo
prodigamente Giuno le procelle,
egli lieto le accoglie e 'nsieme a quelle
offre ampiamente l'arido suo grembo.
Per intenso dolor con occhi asciutti
il povero cultor vide che '1 crudo
fiume rapigli, di pietate ignudo,
del dolce Bacco i sospirati frutti.
Le guance lacerò, squarciossi i crini
il timido pastor, che '1 caro armento
vide preda de l'onde, e 'n fero accento
più volte bestemmiò gli empi destini.
Ove trasse talor notte serena
il villanel, sott' umile capanna,
co '1 suol di lievi ariste e '1 ciel di canna,
è fatto lido d'infeconda arena.
92 LIRICI MARINISTI
Udii talor sopra frondoso legno
balenando cadere a me vicino
folgore orrendo, e nel percosso pino
restar del suo fragor perpetuo il segno;
tonar superba mole al Tebro in riva
udii talor d'orribile rimbombo,
ed alternando ancorché lieto il bombo,
il mio volto per téma impallidiva ;
e quand'anco da l'antro austro sen fugge
e '1 sonoro ocean mesce e conturba,
celasi per terror l'ondosa turba,
ove men rauco il mar mormora e mugge.
Ma son sembianze ornai troppo ineguali
folgore, irato mar, fulmin terreno,
a l'impeto del Tronto irato e pieno,
che s'erge su, dove fu '1 varco a l'ali.
Impetuosamente orride belve
vedresti per le liquide pianure
seco trar l'onda, e fra quell'onde oscure
rotar case e natar l'intere selve.
Mal cauto peregrin, che vide l'onda
scorrer si gonfia per gli aperti campi,
esser pensò là dove il sole i lampi
vibra accesi e l'Egitto il Nil feconda.
Le driadi, le napee e l'altre ninfe,
ch'abitan l'onde ed oprano le frecce
o veston le selvatiche cortecce,
tutte stupir de le cangiate linfe.
Stupir che '1 Tronto, ch'aggirar solca
lubrico il pie per limpida pendice,
e che scopriva altrui ciò che felice
nel più secreto fondo ei nascondea,
e che più volte a lor fido consiglio
somministrò co' liquidi zaffiri,
e come s'orni il crin, l'occhio si giri,
e come rida, in su la rosa, il giglio;
MARCELLO GIOVANETTI 93
ora, fatto d'orror scena funebre
e bara de' cadaveri insepolti
di pallor sparsi, in negro fango involti,
fa stillar di pietà mille palpebre.
Fu chi pensò che '1 secolo di Pirra
già ritornasse al mondo; ond' altri il voto
preparava a Nettuno, altri devoto
offriva al divo Giove incenso e mirra.
Oh quante volte il tridentato dio
rivolto ad Ino, ad Anfitrite, a Glauco:
— Chi è — disse — costui si altero e rauco,
ch'esser mostra ribelle al regno mio?
Mirate là come per larga foce
sgorgando in mar, qual tortuosa biscia,
serba fra l'onde mie ben lunga striscia,
e non l'arresta lo mio guardo atroce. —
Allora anch'egli i suoi spumosi regni
scosse col gran tridente, e 'n un s'udirò
tonando i flutti in un profondo giro
ravvoltati assorbir volanti legni.
Cosi cavallo indomito, che '1 morso
rallentato si senta, urta e si scuote,
pesta il suol, sfida l'aure e 'n varie ruote
girando squassa orribilmente il dorso.
Ma, poi che in volto formidabil scerse
il mar d'Adria turbato in carro assiso,
a le guerre del ciel, de l'onda fiso
e muto spettator, gli occhi converse.
Cosi dicea con più sonori carmi,
posta da canto l'umile sua cetra,
Aldin, che di dolcezza i marmi spetra,
Aldin, che canterà guerrieri ed armi.
GIOVAN LEONE SEMPRONIO
I
AMORE FATTO DI SGUARDI
Parlo con gli occhi a' tuoi begli occhi, e spesso
con gli occhi ancora i tuoi begli occhi ascolto;
s'abbraccian gli occhi nostri in dolce amplesso,
e bacian gli occhi nostri il nostro volto.
Ma tu inganni te stessa ed io me stesso:
tu troppo semplicetta, io troppo stolto;
poscia che indarno agli occhi miei concesso
è quel piacer, ch'agli altri sensi è tolto.
Miro morendo ogni or, moro mirato;
ed usurpando i propri uffici al core,
amo con gli occhi e son con gli occhi amato.
Or chi dirà che in tenebroso orrore
abbia d'oscuro ve! l'occhio bendato,
s'altro non è, che un solo sguardo, Amore?
GIOVAN LEONE SEMPRONIO 95
II
LA PENSOSA
Con immoto ti stai ciglio severo
in te raccolta e nel bel velo ascosa;
ond'io, nascendo il mio dal tuo pensiero,
penso a che pensi, o bella mia pensosa.
Pensi forse donar pegno più vero
e più dolce al mio cor gioia amorosa?
o pur pensi trovar strazio più fero
e più cruda al mio sen pena angosciosa?
S'al mio novo gioir, Lidia, si pensa,
si pensi pur, che farsi ben maggiore
può quel piacer, ch'avara man dispensa.
Ma s'a novo si pensa aspro dolore,
si pensa invan; che divenuta immensa,
più oltre non può gir pena d'amore.
ITI
I CAPELLI FASCIATI DOPO LA LAVANDA
Sembra Eurilla gentil vaga turchetta,
quanto barbara più, tanto più bella:
porta il turco sul fianco arco e saetta,
porta Eurilla negli occhi archi e quadrella.
Ei di nemici, ella d'amanti ha stretta
in catena servii gran turba ancella;
egli i corpi, ella i cori arde e saetta;
egli del cielo, ella d'amor rubella.
Ciascun di veli ha la sua chioma attorta:
egli ha più d'una benda al crin contesta,
all'ha più d'una fascia al crin ritorta.
Ma differente è sol quello da questa,
ch'ella duo Soli interi in fronte porta,
e mezza Luna a lui riluce in testa.
96 LIRICI MARINISTI
IV
LA CHIOMA ROSSA
Tutta amor, tutta scherzo e tutta gioco,
il suo vermiglio crin Lidia sciogliea,
e un diluvio di fiamme a poco a poco
sovra l'anima mia piover parea.
E con ragion, s'io dal mio cor traea
mille caldi sospir languido e fioco,
succeder finalmente un di devea
a vento di sospir pioggia di foco.
Certo costei nel tuo bel regno. Amore,
scioglie, quasi cometa, il crine ardente,
per minacciar la morte a più d'un core;
o pur, per gareggiar col Sol lucente,
tinge la chioma sua di quel colore,
di cui la tinge il Sol ne l'oriente.
v
I CAPELLI PENDENTI SUGLI OCCHI
Cari lacci de l'alme aurati e belli,
oh 'a ciocca a ciocca in su la fi-onte errate,
e lascivi e sottili e serpentelli
con solchi d'or le vive nevi arate;
oh quanto, oh quanto ben lievi scherzate
su due stelle d'amor torti in anelli,
e di voi stessi ad or ad or sembrate
preziosi formar ricchi flagelli !
Ecco, vostra mercé, non più sospiro,
che, se gran tempo io sospirai d'amore,
quanto già sospirai, tanto respiro.
Meco fa tregua il mio mortai dolore,
poi eh 'a vendetta mia sferzar vi miro
quegli occhi bei che m'han piagato il core.
GIOVAN LEONE SEMPRONIO 97
VI
LA DONNA DI ALTA STATURA
Mentr'io teco tentava, idei diletto,
paragon di grandezza, altero amante,
provai com'ad Encelado è disdetto
giungere al ciel, bench'egli sia gigante.
Ma nell'eccesso tuo fosti mancante,
e nel mio mancamento io fui perfetto:
tu picciola a l'amor, grande al sembiante,
ed io basso al sembiante, alto a l'affetto.
Ben fui, noi niego, e temerario e stolto;
ma se non mi partii contento a pieno,
non fummi ogni piacer negato e tolto.
Giunsi a baciare, idolo mio terreno,
se non gli amati fior del tuo bel volto,
i dolci frutti almen del tuo bel seno.
VII
LA MAESTRA DELLE FANCIULLE
Stuol di varie fanciulle in giro accolte
davanti a la mia Glori un di sedea,
ed ella molte in tesser tele e molte
in far trapunti ad instruir prendea.
Là, de le fila a l'arcolaio avvolte
un bianco e picciol globo altra facea ;
qua, con le sete or annodate or sciolte
preziose orditure altra tessea.
— O tènere — diss'io — vaghe donzelle,
ch'or questi ite annodando or quei lavori,
ch'ite pungendo or queste tele or quelle;
guardate ancor non imparar da Glori,
nemiche di pietà, d'amor rubelle,
a punger l'alme, ad annodare i cori.
Lirici marinisti — 7
98 LIRICI MARINISTI
VII
GIOCANDO AI DADI
Quelle, che in mezzo a spettatrice schiera
picciol ossa, giocando, agiti e tiri,
denti fur già de la più vasta fera
che ne' gran lidi suoi l'India rimiri.
Quindi, s'a loro il tuo pensier raggiri,
o mia dolce d'Amor bella guerriera,
t'avedrai dove al fin termini e spiri
orgogliosa beltà, fierezza altera.
Que' vaghi pregi onde t'adorni il viso,
s'or danno ai cori altrui pene e tormenti,
saran de' cori altrui favola e riso.
Cosi que' fieri e que' temuti denti,
per cui giaceva ogni animale ucciso,
gioco son, se terror fùr de le genti.
IX
IL BALLO DELLE VILLANELLE
Carolando intrecciate ai lor pastori,
catenate per mano e in giro avvolte,
vincean de le cittadi i regi cori
lascive forosette al ballo accolte.
Avean le piante lor, snodate e sciolte,
legate l'alme ed annodati i cori;
l'erbe crescean sotto il lor pie più folte,
più bei crescean sotto il lor piede i fiori.
Ed ecco, ornata il sen d'azzurro e giallo,
e d'ostro, Cilla mia, tinta la faccia,
sotto il braccio girommi in mezzo al ballo.
— Ferma — diss'io, — che non cosi s'abbraccia;
star ti vorrei, ma tu mi poni in fallo,
sotto le braccia no, ma fra le braccia. —
GIOVAN LEONE SEMPRONIO 99
X
ALLA SUA DONNA
nell'atto che annoda le trecce
Lascia, Cilla gentil, lascia disciolte
le ricciutelle tue fila divine,
che, ben che sparso e ben che sciolto, avvolte
ha pur mill'alme entr'i suoi lacci un crine.
Non voler di tue chiome aurate e fine
catenelle intrecciar lucide e folte;
lasciale pur su '1 bianco collo incólte
preziose formar belle ruine.
Quanto è più cólto un crin, tanto pivi spiace;
ma quanto è lento più, più l'alme allaccia,
e quanto s'orna men, tanto più piace.
E se treccia vuoi far, treccia si faccia ;
ma si faccia fra noi treccia tenace,
non del tuo crin, ma de le nostre braccia.
XI
RICORDI DI VITA STUDENTESCA
a Bologna
In fin di qua dal mio natio terreno
panni sentir, o mio gentil Ferrari,
che tra i cristalli suoi limpidi e chiari
mormori ancor le nostre gioie il Reno.
Ivi l'aria tranquilla e '1 ciel sereno
e i di godemmo luminosi e cari,
e mille or dolci amori or colpi amari
n'arsero il core e ne ferirò il seno.
Sovente io la tua donna e tu la mia,
tu con le tue preghiere, io co' miei canti,
rendemmo al nostro amor tenera e pia.
Sovente ancor ci rasciugammo i pianti,
fera placando orgogliosetta e ria,
fidi amici non men che lieti amanti.
LIRICI MARINISTI
XII
LA RACCOLTA DI CODICI
lasciata dal duca alla città di Urbino
Queste famose e celebrate carte,
che Federico, il gran guerrier, raccolse
qualor l'ingegno a Pallade rivolse
dagli studi fierissimi di Marte;
perch'apprendessi ogni più nobil arte
ai propri eredi il tuo signor le tolse,
e a te donolle, o cara patria, e volse
questo de l'amor suo pegno lasciarte.
Questi i retaggi son, questi i tesori:
rendon gemme eritree l'anima ancella
e son lacci del cor gli argenti e gli ori.
Su queste impallidisci; e rinovella
i Baldi, i Commandini, i Polidori,
che t'aggiunghino ogni or gloria più bella.
XIII
LODI DI FABIO ALBERGATI
al figliuolo di lui, Ugo
Come acchetar, come compor si deggia
d'antica nemistade odio privato,
e di che raggi esser convenga ornato
vermiglio Sol, che in Vatican fiammeggia;
qual esser debba entro superba reggia
d'alto monarca il glorioso stato,
e quanto sia con gran ragion dannato
ciò che '1 falso Bodin sogna e vaneggia;
quei che per padre il ciel ti diede in sorte,
qui dove il bel Metauro il pie raggira,
scrisse d'Urbin ne la famosa corte.
Quindi ciascun le sue grand'opre ammira,
poi che per lui non è ch'invidia or porte
del suo buon vecchio Felsina a Stagira.
GIOVAN LEONE SEMPRONIO
XIV
IMPOSSIBILITÀ
DI OCCULTARE IL PROPRIO ANIMO
Oh come vano, oh come folle e stolto
è chiunque fra sé tenta e presume
l'immutabile suo natio costume
negli abissi del cor tener sepolto !
Traspar di fuor ciò eh' è di dentro accolto,
quasi per chiaro vetro ardente lume;
e, quasi in breve e picciolo volume,
ciò che détta il pensier, scritto é nel volto.
L'occhio de l'uomo è una finestra aperta,
onde si puote ogni suo chiuso affetto
ed ogni voglia sua mirar scoperta.
Un cenno, un gesto, un movimento, un detto,
testimonio assai buon, prova assai certa
pòn far altrui di ciò che chiuda il petto.
XV
LA MADDALENA AI PIEDI DI GESÙ
Se già con cieco e poco saggio avviso
mossi le piante al regno tuo rubelle,
lungi da te, che su le sfere assiso
scorri il ciel, calchi il Sol, premi le stelle;
oggi a le piante tue candide e belle
piego il sen, gli occhi abbasso, inchino il viso,
per discoprir, per imparar da quelle
il sentier che conduce al paradiso.
Anzi, per dimostrar prova più espressa
de la cangiata mia vita infelice,
a pie de' piedi tuoi getto me stessa.
Oh de le colpe mie peso felice,
da la cui grave soma a terra oppressa,
chinar me stessa a si bei pie mi lice!
Ili
MAIA MATERDONA - BRUNI - ERRICO
GIOVAN FRANCESCO MAIA MATERDONA
I
ABBIGLIAMENTO MATTUTINO
Ad un tempo col Sol madonna desta,
apre del del d'un volto i gemin' astri,
bagna di nanfe i teneri alabastri
e serici al bel fianco arnesi appresta.
Lo speglio adatta, e de l'inculta testa
ara il crin sciolto con eburnei rastri;
l'accoglie e intreccia con argentei nastri
e di mille narcisi indi il tempesta.
Increspa il più minuto a ferreo stile,
a l'orecchie sospende aurate anella
e fa di perle al collo e d'or monile.
Esce alfin di sua reggia e si favella
ne' suoi silenzi : — Or chi, da Battro a Tile,
vide cosa già mai di me più bella? —
Io6 LIRICI MARINISTI
II
L'ASCIUGAMENTO DEI CAPELLI
Spiega madonna i bei volumi d'oro
de la gemina chioma al sole, ai venti :
questi col soffio e quel co' raggi ardenti
beono, accesi d'amor, l'umor eh' è in loro.
Glorioso de l'alme almo tesoro,
preziose de' cor reti lucenti,
nodo più non v'intrecci e fian le nienti
via più vaghe di voi, che pria non fóro.
Oh come bello il Sol degli occhi splende
tra l'auree nubi e, mezzo ascoso, il volto
oh quanti lacci insidioso tende !
Tanto è più vago il crin quanto è men cólto,
e quanto molle è più tanto più accende,
e tanto lega più quant'è più sciolto.
Ili
LA PROMESSA
— Verrò — mi disse, e mi prefisse a punto
il di terzo d'aprii la donna mia.
D'indi in qua par eh 'a me sia stato e sia
anno il di, mese l'ora e giorno il punto.
Spero e temo, ardo e gelo, e a tal son giunto
che mia vita è delirio e frenesia;
meglio il non aspettarla a me saria,
sete ingorda d'amor si m'ha consunto.
Crudo aspettar, cagion d'acerbe pene
mi sarai tu, cagion d'estrema noia,
venga e non venga il sospirato bene.
Poiché verrà che o per gran doglia i' moia,
se non vien la mia donna; o se pur viene,
che s'anneghi il mio core in mar di gioia.
G. F. MAIA MATERDONA I07
IV
INVIANDO L'« ADONE »
Queste carte che Pindo ammira e cole
e ch'io supplice umile a te presento,
quant' hanno in sé d'amore e di lamento
tutte menzogne son, tutte son fole.
Sol verace è l'amor, vago mio sole,
sol verace è '1 martir ch'io nel cor sento;
là pinto è '1 duolo e qui vivo '1 tormento,
qui traboccano affetti e là parole.
Leggi pur, leggi, e la mia vita amara
d'amara morte apprendi ; e ad esser pia
dalla pietà di bella diva impara.
Leggi, e se '1 tutto è finto, a te pur sia
scorta il finto del ver e fiati chiara
ne le favole altrui l'istoria mia.
V
A UNA ZANZARA
Animato rumor, tromba vagante,
che solo per ferir talor ti pósi,
turbamento de l'ombre e de' riposi,
fremito alato e mormorio volante;
per ciel notturno animaletto errante,
pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi;
invan ti sforzi tu ch'io non riposi:
basta a non riposar l'esser amante.
Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza
vattene; e incontro a lei quanto più sai
desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.
D'aver punta vantar si ti potrai
colei, ch'Amor con sua dorata frezza
pungere ed impiagar non potè mai.
[lo8 LIRICI MARINISTI
VI
LA MASCHERATA
— Tra venti dame ordir danza reale,
con finte spoglie e maschere in sembiante,
devrò — dicesti: — or vienne, e se fra tante
riconoscer mi sai, danne un segnale. —
Non che venni, io volai; diemmi Amor l'ale:
tutte osservai dal crin fino a le piante,
e te conobbi a le due luci sante,
perché vidi indi uscir l'usato strale.
Poscia, per lo segnai ch'a me chiedesti,
ersi il ciglio a le stelle e lagrimai,
e tu '1 chinasti a terra, indi ridesti.
— Non t'avrò fede — io dir volea — più mai :
m'invitasti ai piacer, pianger mi festi ;
anzi, preso i miei pianti a riso t'hai. —
VII
LO SDEGNO LIBERATORE
Qual uom talora in alta notte suole,
mentre i sensi ha sopiti, ebra la mente,
scorgere assalti di perduta gente,
e fugge e teme e si contrista e duole;
se poi vien desto a l'apparir del sole,
ogn' affanno da sé fuga repente,
e '1 ciel loda e ringrazia immantinente
che i passati timor fùr ombre e fole :
tal io, mentre t'amai, spietati morsi
d'amore e gelosia provar mi parve,
onde sentia dal cor l'alma disciorsi;
ma, poi che sdegno a risvegliarmi apparve,
giubilai tosto e al cielo grazie porsi
che fé' da me sparir fantasmi e larve.
G. F. MAIA MATERDONA I09
Vili
IL PRIMO DI MAGGIO
Ecco l'alba, ecco l'alba, ecco il bel giorno
che riconduce al nostro mondo il maggio;
salutatel, pastor, dateli omaggio,
or ch'ei fa dolcemente a voi ritorno.
Di verde smalto a coronarlo intorno,
pria che '1 coroni il Sol di biondo raggio,
altri al colle ed al prato i fiori, al faggio
altri involi le frondi ed altri a l'orno.
Su, su, gite, pastor; per l'odorate
erbe movete a vaghi balli il piede
e '1 cantar degli augelli accompagnate.
Io non verrò, poi che per me non riede
il maggio: nel mio cor sempre la state,
sempre ne le mie luci il verno ha sede.
IX
L'ESEMPIO
Tisbe, il so, noi celar; non è difetto
ch'abbi a celar, ch'opra è d'amore al fine:
ier, su l'ore più fresche e mattutine,
t'abbracciò Coridon dentro un boschetto.
Fa' ch'io t'abbracci ancor, che ti prometto
tre canestri, un di gelse, un di susine
ed un altro o di fraghe o d'armelline,
e, s'al padre l'involo, anco un capretto.
Diman, cor mio, ne la medesim'ora
torna al boschetto istesso; ivi m'attendi,
eh 'a quel luogo, in quel tempo, i' verrò ancora.
Taciturna pian pian per l'orto scendi,
che non t'oda o ti veggia altri uscir fuora,
e là m'aspetta, o là t'aspetto: intendi?
no LIRICI MARINISTI
X
AMOR CONCORDE
La ninfa sua d'orgoglio amica e d'ira
altri pur chiami e rigida e ribella:
s'io miro la mia ninfa, ella mi mira;
s'io d'amor parlo, essa d'amor favella.
S'io rido o scherzo, e scherza e ride anch' ella;
piange ai miei pianti, ai miei sospir sospira;
s'io lei mia gioia, essa suo ben m'appella;
vuol ciò ch'io vo', ciò ch'io desio desira.
Ella è ver' me pietosa, i' ver' lei pio;
de' suoi cenni io fo legge, ella de' miei;
ella a me cara e caro a lei son io.
Ella tutta in me vive, io tutto in lei;
io spiro col suo spirto, ella col mio;
e s'a lei do tre baci, ella a me sei.
XI
LA LODE DEGLI ALBERL DEI VENTI
E DELLE ACQUE
Ramillo, Eurino e Idrino
Ram. Compagni cari, or che siam qui soletti,
e venti ed acque e piante abbiam presenti,
cantiam su, lodiam su, con tre versetti,
io le piante, Idrin l'acque. Eurino i venti.
Canti Eurin, segua Idrin. — Eu.-Idr. Si, siam contenti.
Eu. Sospir voi siete onde gli antichi affetti
scopre a la terra il ciel, voi siete accenti
d'innamorato cor, venti diletti.
Idr. Lagrime di natura, acque, voi siete,
eh 'ad Amor, di cui visse eterna amante,
a palesare il bel desio correte.
Ram. Siete figlie del Sol, tenere piante;
le fasce da l'aprii, da l'alba avete
il latte, e i vezzi da l'auretta errante.
G. F. MAIA MATERDONA
XII
GIUOCO DI NEVE
Cilla di bianco umor massa gelata
coglie e preme e ne forma un globo breve;
n'arma poscia la mano, a fredda neve
calda neve aggiungendo ed animata.
Al mio sen poi l'avventa, amante amata;
ma se fìnto è il pugnar, se '1 danno è lieve,
tragge pur da que' scherzi offesa greve
l'alma, a provar gli antichi assalti usata.
Porta amico sfidar battaglia vera,
nascer dal riso il lagrimar si mira,
fa verace impiagar mentita arcera;
mirasi il duol uscir di grembo al gioco,
da nuvoli d'amor saette d'ira
e da strali di giel piaghe di foco.
XIII
LA LEGATRICE DI LIBRI
Costei ch'altero esempio è di beliate,
oh con che leggiadria, con che bell'arte
troncar le fila, adeguar sa le carte
ch'io con logiche penne avea vergate!
Poscia-; di greve acciar le mani armate,
le batte e le ribatte a parte a parte,
e tra pelli sottil, tratta in disparte,
le rende in mille modi incatenate'.
Lasso, e questa è d'amor frode novella,
inganno, oimè, che in atto umile e pio
scopre il fero tenor de la mia stella.
Tronca il filo, ed è il fil del viver mio;
martella i fogli, ed il mio cor martella;
legagli, e son tra lor legato anch'io.
LIRICI MARINISTI
XIV
AD ISABELLA CHIESA
che rappresentava sul teatro una regina
Questi, o bella istriona, onde tu cingi
fianco e crin, regi ammanti, aurati serti,
mostrano ai guardi alteri, agli atti esperti,
ch'esser devi-esti tal, qual ti dipingi.
Stringer con quella mano, onde tu stringi
un finto scettro, un vero scettro merti;
t'ammirano i teatri e stanno incerti
se vanti i veri regni o se li fingi.
Sii pur finta reina: or se le vere
cangiasser col tuo stato i regi onori,
quanto gir ne porian ricche ed altere !
Ch'è gloria assai maggior d'alme e di cori
reggere il fi'en, che in testa e 'n braccio avere
cerchio e verga real di gemme e d'ori.
XV
LE DONNE DI VENEZIA
Voi che de l'Adria a le famose sponde
sovra l'ali de' remi il volo ergete,
meraviglia ben fia se là vedrete
moli eccelse e superbe uscir de l'onde.
Ma se candide membra e trecce +)ionde
vedransi, che de' cor son fiamma e rete,
— Maggior beltà, stupor maggior — direte
— mai non si vide altrove, e forse altronde. —
— Qui — direte — è d'ardor più che d'umore
ricca ogni riva, e fare al ciel qui piacque,
più che Hbero il pie, prigione il core. —
Direte al fine: — In mar Venere nacque:
Veneri belle, ond'oggi nasce Amore,
nascono a mille a mille entro quest'acque. —
G. F. MAIA MATERDONA II3
XVI
IL GIOCO DEL PALLONE
Ignudo il petto alabastrino e bello
se non quanto il copriva un lino adorno,
per temprar con bel gioco il lungo giorno
formava Ascanio mio nobil duello.
Battea con picciol globo i sassi, e quello
scacciava al salto, e s'a lui fea ritorno,
correa, lo dibattea, lo fea d'intorno
girar, volar, quasi fugato augello.
Assai più che la palla, il cor feriva;
largo, più che '1 sudor dal bel sembiante,
dagli occhi de l'amanti il pianto usciva.
Premean, più che '1 terren, l'alma le piante,
e la vampa d'amor, più che l'estiva,
fean cocente provar le luci sante.
XVII
LA GIOSTRA
Per il mantenitore marchese Pepoli
Esce d'armi pomposo e folgorante
d'un 'aperta montagna alto guerriere,
e pender fa le s ettatrici schiere
da' moti de la destra e de le piante.
Poi, fatto in campo a l'aversario avante,
il batte e scuote con cent'aste altere,
e, queste infrante, invittamente il fere
con brando lucidissimo e sonante.
S'ordina che '1 valor più non s'adopre
e confessa ogn'eroe ch'ivi è raccolto,
che attonito è rimasto a si degn'opre.
E Io stuol de le dame illustre e folto
perché vinto anco resti, ecco che scopre
il campion valoroso il suo bel volto.
Lirici ntarinisii — 8
114 LIRICI MARINISTI
XVIII
A MARIO ALBRICCI FARNESE
Per le conclusioni da lui sostenute
In pacifico agon Mario contende
con chi provar ne le dott'armi il vuole;
da mille colpi arguti ei si difende
con iscudo fatai d'alte parole.
Da lui nov'arti e novi schermi apprende
il fior de' fior de le più sagge scole;
discepola già fatta, intenta pende
dal discepolo suo l'Ignazia prole.
Stupisce il cerchio universal latino
ch'ai mostri ingegno intrepido e costante,
in si tenera età si pellegrino.
Formar poi s'ode un suon per l'aria errante:
— Senno star non dovea se non divino
sotto divino angelico sembiante. —
XIX
I SEPOLCRI DEL SANNAZARO E DI VIRGILIO
Non perché le tue falde il bel Tirreno
baci con labra di spumosi argenti ;
non perché voli ogn'or ne' Siri ardenti
freschissim'aura a vezzeggiarti in seno;
non perché sempre il tuo bel colle ameno
smaltin foglie odorate, erbe ridenti;
ne le future età, ne le presenti
n'andrai, ne vai di pregi ricca a pieno:
ma perché '1 cener sacro il gran Sincero,
Mergellina gentile, in te nasconde,
l'ossa in te chiude il mantuano Omero.
Anzi l'inde, oso dir, le maure sponde
onor non han di quell'onor pili altero,
di cui son due brev'urne a te feconde.
G. F. MAIA MATERDONA 115
XX
LA FONTANA DI PONTE SISTO IN ROMA
Vedi, non che cader, precipitare
piogge d'immensi umor quasi d'un cielo,
che ne pungono il cor di dolce telo,
agli orecchi sonore, agli occhi chiare.
Liquida è l'onda e pur gelata appare,
né di lassù trabocca altro che gelo;
poi se ne forma un curvo e crespo velo, y
che si frange in sui marmi e cangia in mare.
Vedi quel mar di quante spume abonda;
par che bolla anco il giel, fumi e faville
par che surgano ancor da gelid'onda.
Vedi come concordi anco le stille,
a l'armonia di quegli umor gioconda,
ballano a cento a cento, a mille a mille.
XXI
LA VERDEA DI FIRENZE
Ai labri miei, quando più gela il verno,
l'alma città, cui danno il nome i fiori,
offre un sacro licor che tra i licori
serba vanto superbo e pregio eterno.
Nei suoi color le liquid'ambre scerno,
cedono agli odor suoi gli arabi odori,
sembran tasso ed assenzio ai suoi sapori
chiarello, albano, asprin, greco o falerno.
Ben questa esser dovea l'ambrosia eletta
che '1 cor di Giove e de gli dèi pascea,
poi ch'ella tanto inebriando alletta;
o questa del piacer la « vera idea » ,
d'Arno o la « vera dea », che poi fu detta
di « ver' idea », di « vera dea », « verdea ».
Il6 LIRICI MARINISTI
XXII
NELL'OSPEDALE DEGL'INCURABILI DI NAPOLI
Ahi mondo, ahi senso! or ve' qui tanti e tanti
in tende anguste, ancorché auguste, accolti!
Di profana beltà fùr tutti amanti,
tanto or tristi e meschin quanto pria stolti.
Per picciol riso hann'or continui pianti,
portan l'inferno ai cor, la morte ai volti,
vita speranti no, vita spiranti,
morti vivi e cadaveri insepolti.
Questi è in preda al martir, quegli al furore,
un suda, un gela, un stride, un grida, un freme,
un piange, un langue, un spasma, un cade, un more.
Quinci impara, o mortai: dolce è l'errore,
breve è '1 gioir; ma pene amare estreme
dà spesso al corpo, eterne sempre al core.
XXIII
NEL PETTINARSI
La bella Elisa arava
con terso eburneo vomere dentato
campi d'oro animato.
L'era un garzone a canto,
che i rotti stami ad uno ad un cogliea
e in sen gli nascondea.
Rise ella e disse: — Inutili capegli
a che tu serbi? — Ed egli:
— Quinci ordisco le corde a l'arco mio,
quinci le reti ond' io
impiago l'alme ed imprigiono il core.
Sappi ch'io sono Amore. —
G. F. MAIA MATERDONA II?
XXIV
I BACI DELLA DONNA MUTA
Quand'io ti bacio, allora,
muta bocca amorosa,
muta bocca odorosa,
intendo la cagion perché tu taci :
nascesti solo a mormorar co' baci.
ANTONIO BRUNI
I
IL LUOGO DEI PASSATI AMORI
Sotto l'ombra di quelle edre tenaci
che l'olmo han con più viti avvolto e cinto,
la mia vita al mio cor temprò le faci,
con lei seno con sen qual edra avvinto.
Di due guance godei l'ostro non finto,
qui dove aprono i fior gli ostri veraci;
s'udi confuso almeno, ov'or distinto
è '1 suon de l'aure, il mormorio de' baci.
Rimembro ancor con amorosa arsura
il guardo e '1 riso altrui, molle e lascivo,
nel tremolo seren de l'aria pura.
Lasso, e mentre son io vedovo e privo
de le gioie d'amore, al cor figura
il fugace mio ben fugace il rivo.
ANTONIO BRUNI II9
II
GLI OCCHI AZZURRI
— Qualor de' tuoi begli occhi il bello io guardo,
cui d'azzurro color fregiò natura,
s'è ceruleo l'arciero, aureo è '1 suo dardo,
che dà le piaghe al seno, al cor l'arsura.
Fra quello azzurro, il lascivir d'un guardo
rassembra il Sol ne l'onda azzurra e pura;
del pianto i mari ove sommerso io ardo,
quel ceruleo ondeggiar finge e figura. —
Cosi parlo al mio ben; quando i ridenti
lumi rivolge a me, spargendo ardore,
de la rosa la dea con questi accenti:
— Sotto due archi ove trionfa il core,
del ceruleo onde scorno han gli ostri ardenti
fahsi il manto le Grazie, il velo Amore. —
III
IL NEO SUL LABBRO
Giugne fregio a la bocca e fiamme ai cori,
donna, il tuo vago neo, per cui pomposo
va '1 tuo molle rubin che i primi onori
toglie al rubin più ricco e prezioso.
Con si bel neo, cred'io, voller gli Amori,
come in Menfi solca fabro ingegnoso,
segnar nel tuo bel volto i propri ardori,
qual con strano carattere amoroso.
O, presa Amor la bella Psiche a sdegno,
te bacia e '1 bacio suo, ch'altrui si vieta,
lascia l'orma in quel neo, del core in pegno.
Quinci quest'alma andrà festante e lieta,
s'ei, qual nel labro tuo d'Amore è segno,
de' miei labri cosi sia segno e mèta.
LIRICI MARINISTI
IV
IL VENTAGLIO
D'ambizioso augel piume gemmate
bella donna d'amor distinse e prese,
e per trarne aria fresca, aure gelate,
n'ordio leggiadro ed ingegnoso arnese.
Lasso, e quinci tem'io che innamorate,
mentre cercan temprar le fiamme accese
ne l'aria, intorno a le bellezze amate
apran più luci a vagheggiarla intese.
O con piuma leggiera, aura volante,
mostra vario desio, volubil core,
più che vento leggier, piuma inconstante;
o con esse a me spiega, empia in amore,
ch'odia si dentro il seno incendio amante,
che l'abborre, non ch'altro, anco di fuore.
V
LA LODATRICE DI POESIE
Ond'è che i versi miei leggi ed ammiri
qualora il foco mio vi leggi impresso,
ed ingrata che sei, poscia t'adiri,
s'a le tue labra le mie labra appresso?
È ministro d'amore il bacio istesso,
quinci degno è d'amor, se dritto miri;
e darti un bacio a me non fia concesso,
di cui lodi le rime, il cor martiri?
Lasso, e se tanto io non impetro in loro
e nel Parnaso mio ch'almen ti baci,
maledetto quel di che fui canoro!
Stimo assai più de' labri tuoi vivaci
cortese un fiato sol, che '1 proprio alloro,
o che tu sdegni i versi ed ami i baci.
ANTONIO BRUNI
VI
A UNA POETESSA
Oh qual radoppia in te gemini onori,
nobil donna, fra noi pompa novella,
o se ti mostri altrui leggiadra e bella
o se spieghi talor carmi canori !
Sotto l'ombra or de' mirti or degli allori,
fai col volto e co' versi ogn'alma ancella;
si che dea degli Amori Amor t'appella
e del canto le dee col canto onori.
Tu, di par chiara in Cipro e in Elicona,
ardi i cor, verghi i fogli e in ogni parte
con doppia gloria il nome tuo risona.
Ma più ricco è '1 tuo crin cólto senz'arte
che di sacra ravvolto aurea corona:
parlan gli occhi d'amor più che le carte.
VII
LA DAMA FRANCESE IN ROMA
Già da la Senna al Tebro, ove t' invita
gloria d'amor più che gli altrui stupori,
passi e a l'orgoglio hai la bellezza unita,
tra le Grazie famosa e tra gli Amori.
Cosi ciascuno in te, fra gli ostri e gli ori,
l'ostro del volto e l'or del crine addita,
né ti vagheggia mai che non t'adori
e non t'adora sol chi non ha vita.
Di là de l'Alpi incatenata e doma
la Gallia, a incatenar giunta qui sei
eserciti di cor con una chioma.
E ben chi vince altrui vincer tu dèi,
e stimerà di trionfar pur Roma,
mentre, donna, trionfi in lei di lei.
LIRICI MARINISTI
VITI
A DIPORTO PER LA RIVIERA DI POSILIPO
In questo lido, ove tra bei cristalli
gli smeraldi ogni pianta ognor confonde
e va Flora con Teti, e i tralci a l'onde
e i corimbi nel mar mesce ai coralli;
per li tranquilli e sempre ondosi calli
passi al lieve spirar d'aure seconde,
là 've sotto il bel pie d'oro le sponde
fansi, se movi i leggiadretti balli;
e stillando, qualora il ciel s'accende,
sudori a l'ombra preziosi e cari,
mentre perle gli dai, perle ti rende;
ma se dagli occhi tuoi stellanti e chiari,
lasso, il seren de l'aere il lito apprende,
tu dai suoi scogli ad esser cruda impari.
IX
LA FAVOLA DI EUROPA
Rapita Europa, il nuotator cornuto
che passeggia le sfere intorno intorno
col diadema real di gemme adorno
e di fiammelle lucide intessuto,
fra divino e ferin, loquace e muto,
si parla a lei ch'altrui fa ingiuria e scorno:
— Non temer, dea terrena; attienti al corno
che spuntar vedi in me, duro ed acuto.
Già presso è il lido ove, sott'altro velo,
lieta e fastosa or or veder tu puoi
l'alta divinità ch'ora ti celo.
Stella non splenda, aura non spiri a noi,
o sia l'aura il tuo fiato ond'arde il cielo,
o pur sian tramontana i lumi tuoi. —
ANTONIO BRUNI 123
X
LE BELLE CHIOME
Di spiegar vostri vanti
già m'acquista vigor, grazia m'impetra
da le muse mia cetra
fra i cigni e fra gli amanti.
Quinci a voi giro il cor, volgo lo stile,
preziosi legami,
nembi d'oro sottile,
auree nubi, aurei stami.
Ai vostri merti il metro avrà concorde,
se de le vostre fila avrà le corde.
Voi, luminose e pure,
sol fate ai lumi altrui ben ricchi oltraggi;
sol presso ai vostri raggi
l'alba ha le chiome oscure;
voi, ondeggiando in preziosi errori
su le guance fiorite,
al naufragio de' cori,
o belle chiome, aprite,
con tremolo sereno, aria celeste,
su '1 vaneggiar de l'aure auree tempeste.
Sciolte in anella d'oro,
di voi caro è l'error, grazia il disprezzo;
in voi l'industria è vezzo
ed è '1 vezzo decoro.
Non so dir se con gioia o se con onte
de l'alme innamorate
sul collo e su la fronte
voi scherzando baciate
talor candido avorio e nevi intatte,
animato alabastro e vivo latte.
Nove anella talora
pur forma in voi dal lucido oriente
aura lieve e ridente,
124 LIRICI MARINISTI
ministra de l'aurora;
si che mentre ondeggiate ai soli estivi
con lei, che lussureggia
con errori lascivi,
non sa chi voi vagheggia,
del servaggio d'amor fatti trofei,
se son vostri gli errori o pur di lei.
Ma qual maestra mano,
di qual ricca materia ignota a noi
le fila ordisce a voi,
con lavoro sovrano?
Forse de' velli d'or per cui ne gio
cosi Giason famoso,
a voi le fila ordio
ingegnerò ingegnoso?
o per ordire a voi fila si belle
filano il Sol la luce, i rai le stelle?
Se tronche vi rimiro,
di farne corde a l'arco Amor la palma
porta, o lacciuoli a l'alma
che legata sospiro ;
o pure a' rai de l'amorosa face,
tratte su l'alte sfere
in un groppo tenace
da l'acidalie schiere,
vi trasforma possente il dio di Delo
di crin reciso in terra in stelle in cielo.
S'in lavacro d'argento,
entro i cui flutti Amor le piume asperse,
io vi contemplo immerse,
a contemplarvi intento
gode l'alma di voi l'aureo riflesso
per l'argentato umore;
anzi l'umore istesso
solo al vostro splendore
che fa l'aure più fosche anco serene,
se d'argento già fu, d'oro diviene.
ANTONIO BRUNI I25
XI
I BACI
Soavissimi baci,
che son nettare ai labri e manna ai cori,
già mi desti, o Licori.
Quinci un bacio vorrei
rapir co' labri miei,
per dir se sian più dolci e più graditi
i donati o i rapiti.
Bacia, baciami, o Glori,
ma '1 tuo bacio si scocchi
o nel labro o negli occhi;
perché l'anima mia,
che negli occhi e nel labro ognor desia
e baciarti e mirarti
o mirarti o baciarti,
goda pari dolcezza, amante amata,
o mirata o baciata.
Perché, mentre mi baci,
donna, mi mordi e vuoi
ch'io provi dolci i baci e i morsi tuoi?
Aggiungi i morsi ai baci,
perché nel labro impresso il bacio io miri?
Si, si, con labri accesi e denti ingordi
bacia, baciami pur, mordimi, mordi,
perché dolcezza egual l'anima sente,
se talor morde il labro e bacia il dente.
126 LIRICI MARINISTI
XII
IL RAPIMENTO D' ELENA
DI GUIDO RENI
E
LA BIDONE TRAFITTA
DEL QUERCINO
Al cardinale Spada
Stupor de la natura, onor de l'arte,
tua mercé pur rimiro in tela espressi
i pregi altrui ch'idolatrando io lessi
in argolico stil, latine carte.
Ecco il lino animato agli occhi esprime
l'ideo pastor, de la beltà l'idea,
eh' è frigia meraviglia e pompa achea,
de l'italico Apelle opra sublime.
La bella greca al giovine troiano
già fu rapina a' suoi desir gradita,
e disciolse la vergine rapita
i gridi al ciel, le trecce a l'aura invano.
Già di tanto tesor vedove e prive,
per insolita via correndo al Xanto,
più che d'umor vedeansi ebre di pianto
d' Inaco l'onde e d'Acheloo le rive.
E già, tosto ch'aperse i primi albori
a l'Asia, del bellissimo sembiante,
adultera in amor, lasciva amante,
arse a Scamandro i flutti, ad Ida i fiori.
Ma pur oggi, nel lino, al patrio lito
Pari, ch'altri non ha pari nel viso,
pur lei rapisce, onde ne resta anciso
e ne la sua rapina anco rapito.
Ben veggio in lui, se lui contemplo e guardo
vagheggiator del vagheggiato volto,
col vezzo in bocca a lascivir rivolto,
il lusso del color, ma più del guardo.
ANTONIO BRUNI 127
Ritratti, ancor miracoloso amore
gli arde fra l'ombre e '1 foco lor non cela,
e se da lor non miro arsa la tela,
è di pennel miracolo maggiore.
Tremanti si, ma nel mirar non lassi,
volgono gli occhi a l'amorose prove;
ma per molle sentiero impenna e move
il volo il cor, più che la pianta i passi.
De la coppia d'amor ebra e seguace
è precursore Amor; ma stella e guida
è di lei la beltà cupida e fida,
vie più che di Cupidine la face.
Ma come avvenir può ch'ella s'avvezzi
nel tuo albergo, ov'Apollo ha '1 simulacro,
a trattar si profana in loco sacro
varie lascivie, e la lascivia i vezzi?
Se di greca eloquenza amico fonte
ne l'eccelsa magion lor corre avanti,
come da Grecia i fuggitivi amanti
ne l'eccelsa magion volgon la fronte?
Qui, di cura real gravido il seno,
spieghi i pregi de l'ostro e de la penna,
famosissimo al par, s'unqua a la Senna
giugni dal Tebro o se dal Tebro al Reno.
Non intrecci di mirti altri le chiome
qui, dove a te l'intreccia o lauro o palma;
non sia ratto d'amor dov'hai la palma
di rapire a l'oblio famoso il nome.
Da la sacra magion, dunque, sen vada
lungi la coppia effeminata e molle.
Miri ch'incontra a lei la punta estolle
già di Febo lo strai, d'Astrea la spada.
Ma quale agli occhi miei s'offre novella
opra d'amore? a qual di morte acerba
apparato d'orror, scena superba
or guida i guardi miei tragica stella?
128 LIRICI MARINISTI
Veggio pur io l'innamorata Elisa
al suo spirto che fugge aprir la via,
onde scerner non so s'ella più sia
arsa nel rogo o più nel sangue intrisa;
e seco miro anch'io pietosa cura
mostrar su lei l'addolorata suora
che sospira e che piagne, ond' avvalora
col pianto il foco e co' sospir l'arsura.
Sembra vivo il color, se '1 miro intento;
e ben opra è di lui ch'illustre e chiaro
de la canora dea discioglie al paro
inver' la gloria e cento penne e cento.
Né dev'ella mostrar nel regio tetto
su '1 rogo in pria d'amore, indi di morte,
de la vita le fila o tronche o corte,
incenerita il cor, svenata il petto.
Sol ne la reggia tua nutre e conserva
il ciel, tra varie imagini ingegnose,
o magnanimo eroe d'opre famose,
la clemenza e '1 valor, Febo e Minerva.
Ah, ben leggo il magnanimo pensiero!
De la gemina imagine discerno
non vulgare il concetto, il senso interno,
e certo, invariabile, il mistero.
Vuoi che guardo modesto, alma pudica,
argomenti infallibili n'apprenda,
se fia che a contemplar sui lini intenda
l'afflitta Dido e la rapina antica.
Chi di teneri mirti avvolge il crine
fugga i furti d'amor, saggio ed accorto;
a chi da due begli occhi in terra è scorto,
s'è principio l'amore, il rogo è fine.
Se '1 frigio involator, d'amor campione,
l'adorata bellezza ha sempre appresso
volge, rivolto in cenere se stesso,
in fiamme l'Asia, in cenere Ilione.
ANTONIO BRUNI I29
S'al troian peregrin l'anima inchina,
da lo strale d'amor ferita e vinta;
giace da l'armi de la morte estinta
di Cartago la nobile reina.
Par che '1 saggio pittor fregi ed allumi
con l'ombre de' colori e de' pennelli
quei de' furti d'amor pregi novelli
vie più che col disegno e che co' lumi.
Fuma l'accesa e 'nsanguinata pira
ov 'omicida e vittima è pur Dido;
e '1 caro amante e fuggitivo infido
con gli aliti di morte anco sospira.
Quinci cortese il ciel questo n'adombra
veracissimo senso agli occhi miei:
« Fuggi lascivo amor, se saggio sei :
la gioia è un fumo ed è '1 diletto un'ombra ».
XIII
PER LA RELIQUIA DEL LATTE DELLA VERGINE
Sacratissimo latte
a cui sono purissime ed eterne
fonti due mamme intatte,
virginali, materne,
che l'offriscono a lui, ch'in rozze fasce
sazio è di gloria e pur la gloria il pasce ;
fosti già sangue eletto
de le vergini membra unqua non grevi
di terreno difetto,
e de le bianche nevi
a le porpore tue diede il candore,
più ch'ardor di natura, ardor d'amore.
Lirici marinisti — 9
130 LIRICI MARINISTI
Mentre il petto stillante
te, vie più che mortai, licor divino,
pascea Cristo lattante
stretto in povero lino;
chi sa che non spargesse i pregi tui
e che allor non toccassi i labri a lui!
O forse allor Maria
con prodigio d'amor dal sen ti sparse,
mentre il figlio languia
e sitibondo apparse,
perché bevesse umor di latte almeno,
non l'offerto amarissimo veleno!
Tu degno sol, tu degno
che '1 cielo istesso i tuoi candori imiti
là de l'empireo regno
sui talami fioriti,
e che presti sol tu, mentre s'inalba,
la candidezza al cielo, il latte a l'alba;
degno tu che, novello
fiume, sii specchio a le beate menti,
poiché il latteo ruscello
ch'ha le sponde lucenti,
benché scorra sul ciel stellato chiostro,
presso a te sembra d'ebeno e d'inchiostro.
Anzi, perché tu sei
de la diva degli angeli fattura
e col dio degli dèi
sue viscere e sua cura,
dimostra alma trafitta e fioca voce
ella a pie de la croce ed egli in croce;
là sui poggi stellanti,
con nov' ordine d'astri e sito estrano,
guardo di lumi amanti,
perché fregio sovrano
tu giunga a inestinguibili zaffiri,
tra la Croce e la Vergine ti miri.
ANTONIO BRUNI I3I
Quivi, qualora il sole
con diadema di gemme e aurei lampi
de la celeste mole
scorre i prefissi campi,
riverente, adorando i tuoi candori,
ceda a le stille tue le stelle e gli ori.
XIV
SOFONISBA A MASSINISSA
Mentre gli occhi a le lagrime discioglio,
scriva la man col sangue, e quel rossore
che manca al tuo sembiante abbia il mio foglio.
Sdegno spiri il pensier vie più che amore,
e la mia fé schernita altrui dimostri
svenato il braccio e lacerato il core.
In questi amari miei vermigli inchiostri,
s'altri gli guarda mai, spero ch'almeno
si tinga di pietà, se non s' inostri.
Si dunque, o Massinissa, il bel sereno
de l'amor che la destra e '1 cor mi giura,
qual baleno svanisce in un baleno?
Qua! rigido destin, qual ria sventura
miete in erba i miei fasti, anzi la vita?
chi su l'alba il mio di smorza ed oscura?
Misera Sofonisba ! oimè, tradita
l'hai tu, crudel, con ferità latina,
pria da te vinta e poi d'amor ferita.
De la nobil Numidia alta reina
e del regno d'Amor trionfo altera,
il mio volto, il mio scettro ogn'alma inchina.
Gemina maestà placida impera
ne la mia fama, oltre l'Idaspe e '1 Moro,
a qual gente è più barbara e più fiera.
132 LIRICI MARINISTI
Più che di gemme orientai tesoro,
m'orna aspetto reale; ho su la fronte
corona di beltà vie più che d'oro.
E '1 romano campion passa ogni monte,
varca ogni fiume e '1 mio reame assale
e desta a mie bellezze oltraggi ed onte;
mentre tu, seco unito al mio gran male,
vinci invitto il mio regno e m'incateni,
a me negli anni ed in bellezza eguale.
AUor, preso d'amor, che teco io meni
in nodo maritai le notti e i giorni
brami, e le nebbie mie squarci e sereni.
Quinci, lassa (oh mie gravi ingiurie e scorni,
oh servili e durissimi legami
di cui vien che me stessa onori ed orni!)
fia ch'amante io ti segua e sposo io t'ami,
mentre leghi il mio sposo, il gran Siface,
e sconfitta mi vói, vinta mi brami.
E là dove il mio trono a terra giace,
l'alma al tuo amor sollevo e, ft-a gli ardori
di Bellona, d'Amor tratto la face;
e poss'io tra le morti e tra i furori,
con disprezzata man, fredda qual ghiaccio,
destar le Grazie e suscitar gli Amori ;
anzi, mentre i miei fidi in stranio laccio
languiscon di dolor, d'amor poss'io
languirti in seno e tramortirti in braccio !
Ma che troppo il tuo volto è vago e pio;
più che '1 valor, la tua beltà guerreggia
e vince i miei guerrieri e più '1 cor mio.
Miro e piango i miei fasti e la mia reggia
e, di pianto amoroso ancor stillante,
la tua grazia in amor l'occhio vagheggia.
Erro, ma non ho schermo, egra e tremante;
donna tenera e molle or che far deve
già preda e serva a vincitor amante?
ANTONIO BRUNI 133
Erro, e in amore il mio contrasto è breve;
ma pur pietà non che perdono io merto,
che se '1 fallo è d'amore, il fallo è lieve.
Cosi, vinto il mio regno e '1 core aperto,
trionfando ne vai di me, de' miei,
o di Marte, o d'Amor guerriero esperto;
e fra soavi lagrime ed omei
passi (oh vergogne mie!) dal campo al letto,
via più fabro d'amor che di trofei.
Quivi il bel fianco ignudo, ignudo il petto
t'offro; ne' lacci tuoi forti e tenaci
godon l'anima avvinta, il sen ristretto;
e quivi or fra le risse or fra le paci,
giungi a molli sospir dolce lusinga,
a le lusinghe i vezzi, ai vezzi i baci.
Sai ben, la 've a la pugna Amor s'accinga,
come labro con labro in un s'accoppi,
come core con core in un si stringa;
anzi, mentre al desio l'ardor raddoppi,
doppian per te, solo a' diletti inteso,
le catene le braccia e l'alma i groppi.
S' è di mia pudicizia il pregio offeso,
in me provo il rossor, dal labro impuro
di lascivia assai più che d'ostro acceso.
E poi (ben di mia stella orrido e scuro
tenor!) fra tenerissime dolcezze
mostri il cor di diamante assai più duro.
Empio e crudo che sei, di mie bellezze
sazio, or torci da me le luci amate,
che furo in prima a vagheggiarmi avvezze.
E le leggi d'amor rotte e sprezzate,
se de l'armi il furor l'alma non pavé,
mi dai colme di fel coppe gemmate;
mentr' è ancor la tua bocca umida e grave
de' miei baci, il veleno a me presenti
in difetto del nettare soave.
134 LIRICI MARINISTI
Dunque, in ora si breve in te fian spenti
tutti i sensi d'amore? in te s'annida,
in te spirito uman, dunque, pur senti?
Dunque, fia eh 'a te il Sol splenda ed arrida,
s'ei, che su l'alba già sposo ti vide,
ti vede anco su l'alba empio omicida?
Perché il cor con la man, con voglie infide,
se promette la fé, la fé schernisce,
se mi giura l'amor, l'amor deride?
Ben più che l'alma, in te l'amor languisce;
brina in neve si tosto o neve in spuma
come la fiamma tua già non svanisce.
Dura più nebbia a sole e fiore a bruma;
già più di te volubile e leggiero
non ha volo l'augel, augel la piuma.
Quindi, tanto infedel quanto guerriero
(amante io non dirò, s'amor gentile
sprezzi, vie più che uman, spietato e fero),
porgi in vece d'anello e di monile
ai solenni imenei lacci e catene,
con servaggio si barbaro e si vile;
e '1 tesoro che in don da te mi viene,
è vascello che tòsco a me sol porta
e col dono primier l'ultime pene.
Deh, non tronchi mia vita, a pena attorta,
altro che '1 ferro tuo; so che mi vuoi
al tuo trionfo e catenata e morta.
Ben riede il fato in me degli avi eroi,
del forte genitor, del gran campione,
d'Asdrubale, ch'illustre è si fra noi;
di lui che coltivò l'armi e l'agone
col sudore e col sangue, e talor, doma
l'oste, intrecciossi al crine auree corone;
di lui, che in un d'allòr cinse la chioma,
e con lume d'onor che non s'imbruna,
fé' superbe cozzar Cartago e Roma.
ANTONIO BRUNI I35
Ma giace vinto al fin ; ned altri aduna
l'ossa famose e '1 glorioso busto,
com'io d'amor trastullo, ei di fortuna;
proviam ambi il destino e '1 cielo ingiusto,
fatto già spettator de' nostri scherni
orgoglioso il Metauro, il Tebro augusto.
Lassa, ma pria che in me rigido verni
di morte il gelo, io spegnerò l'indegno
foco e del foco i sensi e i moti interni.
Si, si, perdasi amor, se persi il regno;
m'abbian morte ed amor tra le lor prede;
siasi, tradito amor, giusto lo sdegno.
Ben cieco è chi tue frodi oggi non vede:
ecco priva d'amor, d'amante, io giaccio;
ecco rompo l'amor, qua! tu la fede.
Già fui tutta di foco, or son di ghiaccio,
serva no, ma nemica; a' tuoi trionfi
mi vedrai morta, pria che serva al laccio.
Invano, invan di mia beltà trionfi,
di Numidia e d'amor barbaro infido;
invano, invan del tuo valor ti gonfi.
Cerca ornai che del Tebro al patrio lido,
de le tue glorie illustri e pellegrine,
pria che tu quivi aggiunga, aggiunga il grido;
che già le vaghe vergini latine
mostran, perché '1 lor bello ami ed ammiri,
latteo sen, rosea guancia, aurato crine;
già già nel grembo tuo le abbracci e miri :
vie più dolci de' miei so che saranno
misti i lor baci a languidi sospiri.
Ma so pur ch'amarissime godranno
le dolcezze d'amor: fian mie rivali
si nel provar l'amor come l'inganno;
non mancheran già loro urne regali,
dove ondeggi il velen ch'immerga e chiuda
in caligine eterna i di vitali.
136 LIRICI MARINISTI
Certo è pietà far che vulgare e cruda
man col laccio o col ferro in me non privi
del suo corporeo vel l'anima ignuda!
Regio e degno pensier ch'altri rav\'ivi
con lode ognor, rubarmi il regno e il trono,
tormi la fama e me ritorre ai vivi !
E si vii, si schernita ancor ragiono?
vivo ancor, spiro ancor? L'uomo si pio
pur la vita m'invola, e viva io sono?
Moro, ma pria vuo' spento il fuoco mio;
il velen beverò, pur che ne' miei
scorni beva ogni età l'acque d'oblio.
A l'incendio mio spento or si che dèi
scaldar l'alma col gel, mentre al mio foco
breve punto scaldarti non potei.
Non sarò più di te favola e gioco,
chiuderò gli occhi ove al tuo amor gli apersi,
avrà in vece d'amor l'odio in me loco.
In preda ai venti poi parte si versi
di quel foco la cenere gelata,
parte asciughi il mio sangue in questi versi.
Ma de la vita mia da te sprezzata,
reliquia miserabile e funesta
siasi la polve al tuo gran danno armata.
Quasi turbo sonante ed ombra infesta
io, io, rivolta in polve, ovunque andrai
t'apparirò crudel non che molesta;
sdegnerò, t'odierò quanto t'amai;
e di larve e d'orrori avvolta, intorno
turbando ove tu sia la luce e i rai,
l'ombre sol mi fian grate, in odio il giorno (^).
(i) Allegoria. — L'innamoramento di Massinissa con Sofonisba in mezzo del
l'armi accenna quanto sia più potente degli eserciti armati una bellezza, bencht
ignuda. L'aver ella nella perdita del regno, e fra le proprie catene e fra quelle di
suo marito, dato luogo agli amori acconsentendo al volere altrui, significa la legge-
rezza e fragilità delle donne in affetti somiglianti. Il passar poi in un subito dai
letto di nozze alla bara di morte, avendo per mezzo del veleno provato il nuove
sposo ed amante omicida e nemico, ci dichiara esser vero in più guise ciò che de
gli effetti d'amore testificò il greco Focilide: Amor ìiominuni sanguini Hdev.do gatidet.
SCIPIONE ERRICO
I
CONTRO L'AMOR PLATONICO
Baciami, o Clori, e fa' ch'io goda a pieno
tua leggiadra beltà, tuoi pregi tanti,
e de le grazie tue nel prato ameno
fa' che appaghi a mia voglia i sensi erranti.
Fa' che nel molle tuo nettareo seno
gli spirti appaghi languidi e tremanti,
e con l'opre da noi scherniti sieno
quei che dan legge ai desiosi amanti.
Non vuol filosofìa de l'amar l'arte,
perché il fanciullo Amor non ha costume
molto internarsi ne le dotte carte.
Ceda al tatto la vista, al labro il lume;
il guatar, l'affissar vada in disparte,
perché tocca e non mira il cieco nume.
138 LIRICI MARINISTI
II
L'AMANTE TACITO
Ardo, e l'immenso ardor ch'ho in seno accolto
regna ne l'alma e a pena il petto sente;
e cresciuto e già grande amor fervente
in fasce di silenzio ho stretto e involto.
Talor tento mostrar nel mesto volto
il celato desir, ma ne la mente
tosto ritorna il rio pensiero ardente,
e rassembro Meandro, in me rivolto.
E come spesso il mar con onde piene
romper le mète sue par che si miri,
sol poi spuma e rimbomba in su l'arene;
cosi tentan passare i miei martiri
il confine del cor, ma fuor sol viene
spuma di pianto e suono di sospiri.
Ili
LA BALBUZIENTE
Del tuo mozzo parlare ai mozzi detti
mozzar mi sento, alta fanciulla, il core.
Lasso, con qual dolcezza e qual valore
quella annodata lingua annoda i petti!
Tu tronco, io tronco il suon mando pur fuore,
ma fan varie cagioni eguali effetti,
che gli accenti a formar tronchi e imperfetti
te insegnò la natura e me l'amore.
Or la beltà de la leggiadra imago,
cime, qual fia, se delle tue parole
il difetto gentil, pur è si vago ?
Eco sei di bellezza? o la favella
tra' labri appunta e abbandonar non vuole
di coralli d'Amor porta si bella?
SCIPIONE ERRICO 139
IV
PER UNA MERETRICE SPAGNOLA MORESCATA
Chi vuol veder pur come alletti e tiri
un laccio ogn'alma in questa nostra etade,
la grazia di costei, l'alma beltade
e '1 soave parlar contempli e ammiri.
Chi vuol veder come contrario giri
il sole e a sorger vada ov'egli cade,
questo che da quell'ultime contrade
sen vien. Sol di vaghezza, osservi e miri.
Giunto l'invitto Alcide a l'oceano,
già con l'ispane e con l'arene more
pose la mèta a l'ardimento umano.
Or di lui fatto illustre imitatore,
in costei ch'ha del moro e de l'ispano
pose la mèta alle bellezze Amore.
V
AL PRINCIPE TOMASO DI SAVOIA
Tratti, o Tomaso invitto, aste e cimieri,
onde muto l'estran ti tema e ammiri;
e chiarissimi rai dagli occhi alteri
di sovrana bellezza intanto spiri.
Cosi in uno e de l'alme e de' destrieri
il bel fren con destrezza allenti e tiri ;
alletti e morte dai, se dolci e fieri
i vaghi sguardi e i ferri infesti aggiri.
Tu de le vesti più pregiate e fine
o d'esercito anciso o in fuga vòlto
arricchisci talor le rupi alpine.
E spesso l'Alpe fai, di sangue involto,
mentre rosseggian le sue bianche brine,
imitar gentilmente il tuo bel volto.
I40 LIRICI MARINISTI
VI
A GIOVANNI ANTONIO ARRIGONI
Poggia al monte di Pindo e ardito e snello,
Arrigoni, trascorri a ogn' altro innante,
e de l'invidia il guardo atroce e fello
prendi a calcar con l'onorate piante.
Tra' cigni di Parnaso altero e bello
apparirà tuo giovenil sembiante,
come fiorito e nobile arboscello
talor verdeggia entro l'annose piante.
Fia che prenda per te dolce martoro,
d'amorosi legami il core involto,
de le vergini muse il sacro coro.
L'alta corona ond'egli ha il capo avvolto,
Febo a te sol darà di sacro alloro,
perché l'altra, di raggi, hai nel bel volto.
VII
LA VIA LATTEA
Al cardinal Borghese
Sorge nobil città, che altera siede
del bel Tirreno in su l'argentee sponde,
che l'ossa illustri ond'essa è degna erede
di Partenope bella in grembo asconde.
Tra verde e fertil urna ella si vede
del riverente mar restringer l'onde,
e con cento edifici e cento braccia,
Briarea torreggiante, il ciel minaccia.
Ma frondosa con lei città confine,
con bei verdi palaggi, alta gareggia,
dove Pomona il pampinoso crine
tra vetri di ruscei specchia e vagheggia;
SCIPIONE ERRICO I4I
dove con vive e ruggiadose brine
imperlarsi il bel sen Flora si preggia;
dove odorad, candidi e vermigli
cittadini sen stan del sole i figli.
Di piropi e smeraldi allegri tetti
fan le viti serpenti, alto poggiando,
e morbidi figura e ft-eschi letti
l'umido suol, la molle erbetta ornando,
e, con fertil guatar, ne' verdi aspetti
stansi l'amanti palme amor spirando,
e spiegano i naranzi in bel tesoro
odorati diamanti e poma d'oro.
\'aghi accenti, volando in vaghi cori,
la dipinta d'augei schiera difi"onde;
garrulo rio per trasparenti errori
con la lingua d'argento a quei risponde;
forma anch'essa tra lor detti canori
l'aura con susurrar tra fronde e fronde,
si che in dolce armonia s'accoppia intanto
d'aure, d'acque, d'augei la voce e '1 canto.
L'aura, che del ballar nobil maestra,
dolce commove a vaghe danze i fiori,
e seco or a sinistra or move a destra
con lunghi giri i lascivetti odori ;
l'aura, ch'or dona or toglie e, accorta e destra,
di natura comparte almi tesori,
de la verde famiglia è spirto e vita
e '1 ciel ridente a vagheggiarla invita.
Vicino è '1 mare, e vaghe e ricche sponde
fanno minute perle ai .suoi zaffiri ;
vago specchio è del ciel, qualor senz'onde
placido starsi e trasparente il miri ;
vago è s'al moto il mormorio confonde,
e increspandosi ancor par che s'adiri;
vaglie son l'ire sue spesso a vederle,
quando il vago zaffir trasmuta in perle.
142 LIRICI MARINISTI
Era nel tempo allor che in trono ardente
coronato di raggi il Sol sedea
e ne l'aria accampar duce potente
con falangi di fiamme alto parea;
struggeasi in foco il tutto e riverente
a l'aspetto di lui l'aura tacca;
par che acceso stupor la terra ingombre,
fugge il fresco nel centro e fuggon l'ombre:
quando quivi fur viste ignude a l'onde
vaghe ninfe tuffarsi e vaghe dee:
tra nereidi cosi liti gioconde
vengon dolci a mischiar l'alme napee;
rideva il mare e germogliar feconde
bianche spume parean di Citeree.
Cosi a l'erm'acque, ai ciechi sassi, a l'ore,
spettacol di sue pompe offerse Amore.
Lega in trecce una il crin, l'altra il figura
piramide gentil d'oro con oro;
questa al vento il dà preda e di natura
fa ne l'aria ondeggiar crespo tesoro;
fallo incolto cader quella e noi cura,
de' morbidi alabastri aureo lavoro;
gli occhi azzurri una tien, ma pura luce
da due neri levanti altra ci adduce.
Clizia ha d'ostro le guance; un puro latte
in faccia ha sol la delicata Irene;
Silvia per tutto le sue nevi intatte
tempestate di rose intorno tiene;
di dolci baci al molle invito fatte
di rugiada d'amor gravide e piene
ha due porpore Filli e par che scocchi
dolce riso con lor, ma pria con gli occhi.
Spira con grato e con mortai diletto
da mantice gemmato Armilla i venti ;
l'alma Clori consuma in vago affetto
al dolce foco di rubini ardenti ;
SCIPIONE ERRICO 143
mamme l'una non ha, l'altra nel petto
immature le mostra ancor nascenti ;
altra grazia e beltà si cangia e mesce
in altre ed altre, e si diffonde e cresce.
Ma gli scoperti e tremoli candori,
de l'incendio d'amor brine cocenti,
al par dolci, al par vaghi e pari albori
son de' chiari dal mar Soli sorgenti ;
schiera parean di delicati avori,
schiera di vaghi e teneretti argenti ;
nuotan leggiadre e fan vezzoso e vago
di tenerette nevi amato lago.
Ed in un s'inargenta e in un s'indora
con spume il mar, con sciolte chiome e bionde,
e gemiti d'amor mandan talora
da le tenere palme aperte l'onde;
spingonsi destre e fan lor moto ancora
le man, le gambe alabastrine e monde:
vaghi remi d'avorio ai vivi legni,
di merci di bellezza onusti e pregni.
Or inarcan le braccia ed agli aspetti
son con archi d'argento ignudi Amori;
or fermi e stesi in sugli ondosi letti
spiegan molli d'amor gli aperti onori ;
talor mostran sott'acqua i membri e i petti,
tra vasi di zaffir divi candori ;
si tuffan, s'ergon, fan carole e balli
per l'ampie vie de' trasparenti calli.
E tra moti e tra nuoti urtansi a gara
l'amorose guerriere in lieta giostra;
e vi è cui l'onestà pur troppo è cara,
che a le ignude bellezze il volto inostra;
de' bei membri altre ancor parte più rara
toccan scherzando a chi schivar ciò mostra;
d'acque si spruzzan gli occhi, e i vaghi visi
accompagnano al nuoto e vezzi e risi.
144 LIRICI MARINISTI
Tal era il nuoto e cosi arar parieno
con aratro d'avorio i salsi campi;
vibran tra '1 mar, pur come un ciel sereno,
gli occhi, stelle d'amor, tremoli lampi;
con bellezze schierate ond' è il mar pieno
par che contra i rubelli Amore accampi,
o che vogli destar quasi per gioco
per le nevi guizzanti a l'onde il foco.
E voi, stellati pesci, e tu bramasti
tra bei pesci d'amor guizzar, delfino;
ed anco per costor tu desiasti
essere, o can celeste, il can marino;
de l'acceso desir parte appagasti
tu de l'eterne sfere occhio divino,
tra le bellezze e tra l'argentee stille
seminando talor lampi e faville.
In ninfa Proteo per nuotar con loro
mutossì; e tutto l'umido confine,
per mirar, ingombrar vidute fòro,
sorte dal cinto in su, le dee marine;
invaghiti correan de' lacci d'oro
i bei muti nuotanti al biondo crine,
e tra lor dolce e con tarpate penne
stuol d'ignudi Amoretti a guizzar venne.
Escono alfin da' salsi ondosi umori
e stillan molli perle i vivi argenti,
che gocciolando van tra' bei candori,
de l'aria di beltà stelle cadenti.
Ruggiadose cosi n'appaion fuori
l'aurore al bel seren de' giorni algenti;
uscir de l'acque e mano a mano unirò
ne l'arenosa scena e han fatto un giro.
Vago giro d'amore e vaga sfera
d'alta beltà ne l'amoroso mondo;
la soma soffreria dolce e leggiera,
fatto Atlante, ogni cor di si bel pondo;
SCIPIONE ERRICO 145
vago e novo zodiaco, entro '1 qual era
fatto più nobil Febo, Amor fecondo,
o pur d'ogni bramosa accesa mente
del bel foco d'amor sfera cocente.
Danzan festose, e l'animate brine
volgon giocose e lascivette e snelle;
sfavillanti le luci e peregrine
seguon pargoleggiando i piedi anch'elle;
scende dal molle capo il folto crine
sovra le mamme tenerette e belle,
e al par d'un Sol che dal mar Indo è fuora,
quei due monti d'argento il capo indora.
Treman le crude mamme e trar diresti
nel teatro de' petti i balli a prova.
Qual veder fu, come d'ignudi e presti
vaghi avori saltanti un stuol si mova?
qual veder fu senza l'odiose vesti
danzar cerchio amoroso in foggia nova,
che gira e spiega al fin d'alquante rote,
orologio d'amor, sonore note?
Canti, scherzi, sorrisi entro i tesori
di scoperte bellezze Amor confonde;
quando cantan costor, tra salsi umori
sembran vaghe ballar ne l'alto l'onde;
quando ballan costor, detti canori
confonde il mar tra miniate sponde,
ch'or vago suoni a le lor danze, or pare
che balli al suon de le lor note il mare.
— La donna è un ciel diceano, — ha il capo aurato,
di Berenice i lucidi capelli ;
porta negli occhi il Sagittario armato,
porta negli occhi i lucidi Gemelli;
gli occhi ond'è vago un Orion formato,
gli occhi. Soli de l'alma amati e belli,
gli occhi che, vòlti in varie e gentil arti,
sembran Veneri ed Orse e Giovi e Marti.
Lirici vtarinisti — io
146 LIRICI MARINISTI
Del troian l'urna è de la bocca il vaso,
son picciole vigilie i bianchi denti ;
son l'aquila in prontezza e '1 gran Pegaso,
cigno e cetra in dolcezza i lieti accenti ;
libra due poli, ed orto sono e occaso
le due del bianco sen poma sorgenti ;
la donna è un ciel, ma al moto suo giranti
son caduchi elementi i fidi amanti. —
A tal canto, a tal ballo, al divo aspetto
ch'offre ignuda beltà d'almi candori,
tacquer gli uccelli e sul depinto letto
trattenne il rivo i fugitivi umori ;
gli elementi arrestarsi, e per diletto
fermar le sfere i sempiterni errori :
le vidde e tenne in lor stupide e fisse
l'eterne luci il sommo Giove, e disse:
— Che veggio? or che vaghezze oggi apparirò,
che indizi son d'alte bellezze eterne?
Non formar tai concetti unqua s'udirò
né si vaghe girar le sfere eterne.
Più non dimori in terra un si bel giro,
ma faccia adorne le maggion superne,
e dal candor di quelle nevi intatte
si figuri nel ciel strada di latte. —
Cosi diss'egli e, chini e riverenti,
gl'imi abissi tremar, tremar le sfere;
veggonsi in ciel di fiamme e d'or lucenti
le donzelle poggiar ratte e leggiere;
s'alzan tra l'aria, e tra le nubi e i venti
sparivan già; ma allor che in vesti nere
dal bel terrestre sen la notte uscia
n'apparve impressa in ciel la Lattea via.
Cosi per sommo eroe spiegava il canto
Opico pastorel presso a Peloro;
poi disse: — O gran Borgesi, accetta intanto
frutto immaturo di toscano alloro;
SCIPIONE ERRICO 147
mentre non può mio suon poggiar cotanto
che narri i preggi tuoi, che muto onoro.
Solo umil sotto te star io m'appago,
come l'aquila tua sta sotto il drago.
IV
DIVERSI
GIAMBATTISTA BASILE
I
SANTA CRISTINA
Di Cristo in croce essangue
amante sviscerata,
nel suo duol, nel suo sangue
Cristina trasformata,
sente dentro al suo cor mesto e doglioso
amorosa pietade, amor pietoso.
Brama con lui patire
e sferze e spine e croci ;
seco desia morire
fra' suoi tormenti atroci ;
e, gravida d'amor, nel cor istesso
ciò che brama e desia le resta impresso.
Talché ne l'alma sente
i medesmi flagelli,
la corona pungente,
i chiodi acuti e felli
e, nel suo duol cangiata acerbo e forte,
prova seco ad ogni or viva la morte.
152 LIRICI MARINISTI
Né sazia l'alma immersa
d'esser ne' suoi martiri,
in luì tutta conversa,
vuol ch'anco il corpo aspiri
a trasformarsi ne l'amato Cristo
e a far d'eterna gloria eterno acquisto.
Col chiodo aspro e mortale
trafìgge il pie beato;
ma in amoroso strale
il ferro trasformato,
con soave d'amor dolce ferita
a la carne dà morte, a l'alma vita.
Gusta l'assenzio e '1 fele,
ma quel licor l'è dolce
vie più che d' Ibla il mele,
SI '1 cor le nutre e moke:
stupendi effetti del divin amore,
ch'amareggia le labbra e sana il core.
Fu d'alto amor altrice
al suo celeste amante
e vera imitatrice
de le sue piaghe sante,
e ben mostrò mirabilmente come
di Cristo corrispose a l'opre, al nome.
Or degnamente in cielo
gode, fra spirti eletti,
del suo amoroso zelo
più soavi diletti,
e dolcemente di mirar s'appaga
di Cristo in lei le piaghe, in lui sua piaga.
GIAMBATTISTA BASILE I53
II
PER L'INCENDIO DEL VESUVIO DEL 1632
Mentre d'ampia voragine tonante
fervido vedi uscir parto mal nato,
piover le pietre e grandinar le piante,
spinte al furor d'impetuoso fiato,
e i verdi campi già si lievi avante
coprir manto di cenere infocato,
e '1 volgo saettar smorto e tremante
solfurea parca, incendìoso fato:
— Ahi ! — con lingua di foco ei par che gridi —
arde il tutto, e sei pur alma di gelo;
tu nel peccar t'avanzi e '1 mar s'arretra.
Non temi, e crollar senti i colli e i lidi ;
non cangi stato, e cangia aspetto il cielo;
disfassi un monte, e più il tuo cor s'impetra! —
III
LA BELLA CHIOMA
Sovra gli omeri bianchi
via più che freschi gigli e pure brine,
l'aureo mar ondeggiava del bel crine,
e al dolce lusingar d'aura seconda
rendea più chiaro l'or, più ricca l'onda.
Cosi, lucente e vago
copre l'arena d'or superbo il Tago,
e cosi '1 Gange ancora
l'illustre riva alteramente indora.
154 LIRICI MARINISTI
IV
PALLORE GRADITO
Pallidetta mia vita,
il minio cangerei
col tuo pallor, cosi leggiadra sei.
Pallido il volto bramo,
vermiglio già non l'amo;
questo è color di sdegno,
quel di pietade è segno:
anzi, segno è '1 pallore
di chi, d'amor ferita, e langue e more.
BIAGIO CUSANO
I
LE TRE BELLE
O belle Parche al mio stame vitale,
o separato Gerion d'amore,
o tridente gentil che nel mio core
puoi con tre punte aprir piaga immortale!
Ecco, nuove sirene Amor fatale
ne dà, che non i corpi in salso umore,
ma sommergono l'alme in dolce ardore,
né canto sol, ma sguardo hanno mortale.
Ecco quelle tre dee, che scorse in Ida
del più bel re troian la bella prole,
più de la greca fede al greco infida.
Ecco già da la terza eterea mole
discese le tre Grazie, ove s'annida
mirabilmente triplicato il sole.
156 LIRICI MARINISTI
II
MUSICA NOTTURNA
Tu, che fra le caligini profonde
spiri armonia, de la tranquilla notte
le dolci pose dolcemente rotte
che del fiume leteo stillano l'onde,
ben sembri chi di Lete in su le sponde
fra l'ombre già de le tartaree grotte,
per trarne le bellezze ivi condotte,
sciolse dal mesto cor note gioconde.
Quindi ben io l'orride pene intanto
di questo scorgo invisitato inferno
a si placido suon temprarsi alquanto.
Ecco, arresta la luna il moto eterno;
stupisce forse, poich'un simil canto
fra gli orrori ascoltò del nero Averno.
ni
SEDENDO GIUDICE IN TRIBUNALE
Io, che giudice altrui qui siedo in trono,
son fatto reo di deità terrena;
io, eh 'a le colpe altrui parto la pena,
a chi pena mi dà, lasso, perdono.
Quell'io, ne la cui man che punge e frena,
e l'altrui vite e l'altrui morti sono,
a l'empia ferità di tigre armena
de l'egra vita mia l'imperio dono.
Altri al mio spesso riverito sguardo
timido agghiaccia; ed io, se miro mai
un bel volto avvampar, l'adoro e n'ardo.
Giudice, invero, avventurato assai,
se, qual giudice Ideo, giamai riguardo
di mia Venere ignuda i bianchi rai !
BIAGIO CUSANO 157
IV
PER I SETTE MONTI
nella mano della sua donna
Roma sembri animata a più d'un core
co' sette bianchi tuoi monti spiranti,
mano, in cui forma il Campidoglio Amore,
trìonfator de' prigionieri amanti.
Anzi, pur hai di ciel vivi sembianti :
ecco la bella in te via di candore,
ed ecco per mirabile stupore
vi miro i corsi de' pianeti erranti.
Qui, mentre del pensier dibatto l'ali,
a preveder da si bel ciel la sorte
degli amorosi miei corsi vitali,
ah mio destino doloroso e forte!
con infausti caratteri fatali
scritto in ambe le palme io leggo: Morte.
V
ROMA - AMOR
Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante,
de l'arte a contemplar gli alti stupori;
meraviglie però molto maggiori
scoprirà di natura il tuo sembiante.
Già non entrò con si superbi onori
nel Campidoglio mai gran trionfante,
qual tu, che porti a' tuoi begli occhi avante
novo trofeo d'incatenati cori.
A Marte crescerà l'antica arsura,
or ch'altra Citerea fa più sereno
il ciel de le sue belle invitte mura.
E Roma, dolcemente arsa al baleno
di tua beltà cosi leggiadra e pura,
quel che porta nel nome avrà nel seno.
158 LIRICI MARINISTI
VI
ALL'AMANTE, CHE SI È RASO
Scritto ad istanza di una cortigiana
Quella selva di peli orrida e scura,
dove occulto leon par che si renda
Amor, tronca già cade, oh mia ventura!
e l'ingiurie del tempo il ferro ammenda.
Ferro, per me felice oltre misura,
di lanoso Silen squarcia la benda,
onde nova beltà celeste e pura,
qual Sol rotte le nubi, avvien che splenda.
Cosi lasci a ragion barba infelice
Febo novel, che per fatai tenore
al bel Febo nutrir barba non lice.
Ti radi il volto ed a me rodi il core;
tu di bellezza, io son d'amor fenice;
tu rinovi la luce ed io l'ardore.
GIOVANNI PALMA
I
IL SORRISO MODESTO
Ove il Sebeto al mar porta di pianto,
più che d'onde lucenti, argentea soma,
e di folti ginepri il capo inchioma
la bianca amica in sul sinistro canto;
quella vid'io, che dà lume al mio canto,
volger in groppi d' òr la lunga chioma;
allor: — Qual più leggiadra oggi si noma,
doni a te — dissi, — o bella ninfa, il vanto!
Quanti in vari composti usò natura
di bello, ha messo in tuo gentile aspetto,
o più che umana angelica figura!
Non può scerner l'invidia in te difetto,
si perfetta ti rende egual misura... —
Ella sorrise e chinò gli occhi al petto.
l6o LIRICI MARINISTI
II
LA BELLA PARLATRICE
Né con si vaghi ed amorosi accenti
narra Progne a voi, selve, i suoi dolori ;
né Filomena i suoi secreti amori
con si facondo dir commette ai venti ;
né si rotto fra sassi i pie lucenti,
mormora il rio lungo il pratel de' fiori,
come la bionda mia leggiadra Glori,
mentre a l'amica sua spiega i tormenti.
Un fiume d' òr, che di rubini ha sponde,
scogli di perle, il suo parlar simiglia;
ma come arciero il cor punge e saetta.
Deh, qual veggio d'amor gran meraviglia !
lingua chi mosse mai si dolce, o donde,
se non forse dal ciel scesa angioletta?
Ili
L'AMOROSA IMAGINAZIONE
Amor, che mal mio grado mi trasporta
a far mia stanza in solitario monte,
nei fior, ne l'erba, in verde faggio, in fonte
mi figura colei che '1 mio cor porta.
Onde io, vòlto a seguir si fida scorta,
e mirando or le luci al ferir pronte,
or gli atti onesti or le bellezze conte,
sento un dolce piacer che mi conforta.
E mentre a le sembianze amate e belle
son fiso, io veggio uscir la notte o '1 giorno,
e l'un l'alba condur, l'altra le stelle;
e passar fere a l'ombra, al rivo, al prato,
e far gli armenti a lor magion ritorno...
Me solo in un pensier tien fermo il fato.
GIOVANNI PALMA l6l
IV
IL PAESE DI PUGLIA
O felici di Dauno alme contrade
ove ha sede il riposo, o campi lieti,
o folti boschi solitari e queti,
che l'ondoso Adrian circonda e rade,
o monti, o valli, o piante onde ognor cade
salubre manna, o fidi antri secreti
ove zefiro ha regno, o querce e abeti
il cui rezzo fé' d'or la prisca etade;
ben reo tenor di non amica stella
m'invidia il vostro caro ermo ricetto
che la mia vita ai suoi diporti appella.
Ma siami il voi goder dal ciel disdetto,
e' non potrà l'imagin vostra bella
tórre al pensier, eh' è suo continuo obbietto.
Lirici marinisti — ii
GIOVANNI ANDREA ROVETTI
I
IL LAGO DI DIANA IN NEMI
Lago ove Cinzia regna, Amor barcheggia,
gloria del primo Augusto, onor de l'arte,
occhio de la natura ond'ella sparte
mille vaghezze sue lieta vagheggia, *
Giove sovra il tuo ciel stende la reggia,
quando i consigli suoi libra e comparte;
ivi danza Ciprigna e giostra Marte,
quando il coro sovran là su festeggia.
Placidi sempre in te scherzano i venti,
di greggi ondosi le tue ninfe appaghi,
fatto speco ai pastor, specchio agli armenti.
Ma quel recinto d'arboscelli vaghi,
teatro illustre de' tuoi chiari argenti,
vuol dir che la corona hai tu dei laghi.
GIOVANNI ANDREA ROVETTI l6^
II
IL PIANTO DEL FIGLIUOLO
Un pìcciol cane, un ghiro ed un augello
del tuo caro fanciullo
sono, bella Lisetta, ognor trastullo.
Ruzza col ghiro il cane,
ne brilla il putto in vista;
ma l'augel, che non tresca e becca il pane,
infranto ne rimane:
tu ne ridi, io ne godo, ei se n'attrista,
e scaccia stizzosetto
il ghiro e '1 cane e piagne l'augelletto.
Se ridi, o cruda, del tuo figlio ai guai,
al mio duol che farai?
Ili
PREMENDO IL PIEDE
Tu chiedi quel ch'io voglio,
quando a mensa talor ti premo il piede ?
Ah, che negli occhi ogni tuo sguardo il vede!
Lusingando t' infingi
e '1 bianco volto in bel rossor dipingi.
Vorrei, dolce ben mio...
Lasso, eh' a dirlo m'arrossisco anch'io!
BARTOLOMEO TORTOLETTI
I
LA SEGRETEZZA
Lilla, al comune onor più ch'ai piacere
vo' che serviam; questi passeggi e queste
vanità da fanciul son poco oneste,
poco conformi a le tue doti altere.
Amiamci di buon cuor ; queste le vere
parti son d'amor puro, amor celeste.
Oh bell'inganno ad altrui fa chi veste
gli amorosi pensier d'arti severe.
Lilla, fa' a modo mio; non ti dispiaccia
ch'io ti venga a servir si parcamente,
ch'altri non creda i nostri amori e taccia.
Patisco io più di te; ma finalmente,
dopo alcun di che non si vegga in faccia,
fa vista più soave il Sol lucente.
BARTOLOMEO TORTOLETTI 165
II
LA SOMIGLIANZA
Ove d'avara chiostra a me s'involi,
idolo mio leggiadro, il tuo splendore,
maestro a vagheggiar mi guida Amore
somigliante beltà che mi consoli.
Tu non temer però che là sen voli
da le tue fiamme fuggitivo il core;
giuroti ch'ardo più, quanto maggiore
conosco il raggio onde tu splender suoli.
In lei null'altra cosa amar poss'io
ch'il tuo solo ritratto: una è la bella
luce d'entrambe ed uno il mio desio.
Tai sono i rai del Sol ne la sorella;
e se tu sole sei del giorno mio,
luna esser può de la mia notte anch' ella.
Ili
LE ROSE GITTATE AL FUOCO
Ite, rose lascive, ite d'amore
pegni vani e nocenti, un tempo cari,
e da l'arido vostro e dal pallore
qual sia chi mi vi die, per me s'impari.
Tal diverrà quella beltà, ch'in fiore
oggi par che non abbia al mondo pari ;
e deggio ancor seguirla? ancor dal core
m'usciranno per lei singulti amari?
Ahi, che pur troppo il mio desire insano
mi fé' soggetto; or tempo è ben che fia
sciolto il laccio crudel da la mia mano.
Intanto, itene voi per cotal via,
ch'il rogo vostro e '1 cenere profano
primo trofeo di mia vittoria sia.
l66 LIRICI MARINISTI
IV
BELLEZZA CHE RESISTE AGLI ANNI
Barbara, da che vesti il mortai velo
a l'undecimo lustro il tempo inchina,
e pur non anco in te scesa è la brina,
né cadute le rose a tanto gelo;
e vibri ancor da' tuoi begli occhi il telo
eh 'a ferir ogni core Amor destina,
né vai saper che si l'età camina,
ch'ella non può mentir se mente il pelo.
Fu assai che, cinta tu d'aurata gonna,
amorosa guerriera ognun vincesti,
nel fior degli anni tuoi vergine e donna;
ma perché non giungean si chiari gesti
al gran valor che del tuo cor s'indonna,
de la natura trionfar volesti.
v
LA MASCHERATA DELLE ZINGARE
Vaghe di misurar nuovo emisfero,
scoprendo ignoto clima, isole estrane,
da le dolci d' Egitto aure lontane
a voi ne scorse peregrin sentiero.
Quattro zingane siam ; chiedere il vero
sogliam al ciel de le venture umane;
ma, qui, son l'arti nostre oscure e vane:
altre stelle, altro ciel v'hanno l'impero.
Ivi lumi veraci e certi errori
son caratteri fidi, in cui si mira
o giusta speme o pur timor de' cori.
Qui, senza legge ogni pianeta gira,
e folle è ben, fra si bugiardi ardori,
chi per un guardo mai teme o respira.
MAFFEO BARBERINO
(dipoi papa urbano vili)
I
IL DILETTO TERRENO
Acqua limpida sorge e si diffonde
in verde prato tra l'erbette e i fiori;
spira l'aura e n'invola i cari odori
e fra le nubi il Sol più non s'asconde.
Ride il suol, ride l'aria e ridon l'onde,
e gli augei, dell'aurora ai primi albori,
con note argute e sibili canori
gioia stillan, ch'ai cor dolce s'infonde.
Tal di felice stato il bel sembiante
qui sembra al senso, che non mira al fine;
ahi ! che quaggiù il diletto in un momento
da noi sen fugge con alate piante;
qui l'alme albergan come pellegrine,
stabil sol hanno in ciel vero contento.
l68 LIRICI MARINISTI
II
OCCHI CASTI
Mortai bellezza ascoso il foco tiene
per assalir chi '1 guardo non reprime.
Ahi, mentre cauto a terra non s'adirne,
ratto l'ardor li scorre entro le vene !
Ch'è varco l'occhio al cor, onde sen viene
l'imagin de l'oggetto e vi s'imprime.
Se dunque fia che sua salute stime,
schivi mirar là dove non conviene.
Alle pupille l'uno e l'altro lume
delle palpebre tien pronto lo schermo,
eh' a tempo è di celarle arbitro e donno;
come vergini in sacro chiostro ed ermo,
che di velarsi il volto han per costume,
si che non vedon né veder si ponno.
HI
LA FONTANA
Qui, dove sorge la volubil onda,
arresta i passi, o pellegrino, e intento
in mille guise il bel limpido argento
mira cader del fonte in sulla sponda.
S'erge altronde l'umor ch'in copia abbonda,
in stille altronde piove ; indi non lento
vibrasi in giuso, e quivi in un momento
sale e in sé torna ond'è ch'in sé s'asconda.
E mentre or poggia or cade o in sé si rota,
tal or si spande, or sé medesmo fiede,
si d'uno in altro moto si trasforma,
che, sebben nel cristal mobile immota
sua sembianza abbia il fonte, l'occhio crede
ch'ognor si cangi in varia e nuova forma.
PAOLO GIORDANO ORSINO
DUCA DI BRACCIANO
I
LA BELLA PELLEGRINA
La leggiadretta e vaga pellegrina,
che mano ostil de l'aver suo fé' manca,
fuggendo l'arsa patria, ardita e franca
venne altrove a portar luce divina.
La lontana, dapoi che la vicina
provincia scorse, scorre e non si stanca:
intanto l'occhio nero e la man bianca
fan dei semplici cor strage o rapina.
Tu che rimiri ognor serrate e sole
le donne di bel volto o di crin biondo
e risponder altrui poche parole,
non prender meraviglia, non immondo
giudicare il pensier : proprio è del sole
l'andar girando e illuminando il mondo.
I70 LIRICI MARINISTI
II
SENSO E RAGIONE
Apria bocca vermiglia un vago riso,
occhio azzurro vibrava aureo splendore,
guance rosa spargea del suo colore
dove più dove meno in un bel viso.
Nel mirar quel seren, da sé diviso
per l'estremo diletto era ogni core;
questo potea ben dirsi il di d'amore,
d'amor la primavera, il paradiso.
Chiuse gli occhi il mio volto, aprigli il seno;
era (oh stupori) la primavera inverno,
la rosa spina, lo splendor baleno;
il breve riso, ésca di pianto eterno;
notte il giorno, tempesta era il sereno,
duolo il diletto, il paradiso inferno.
Ili
VANITAS VANITATUM
Tu, che giamai non ti contenti e vuoi
laute mense bramar sotto aurei tetti,
consorte eccelsa entro a gemmati letti,
esercito di servi a' cenni tuoi ;
di regnar dagli espèri a' lidi eoi,
di canti e melodie dolci diletti,
di cacce e di tornei giocondi aspetti,
quando alla fin tutto ottenessi... E poi?
In breve è nulla. Ed anco è nulla adesso
se tu lo paragoni al ben eh' è vero,
e sol ti sembra ben perdi' è d'appresso.
E corta hai tu la vista. Occhio sincero,
se lo mira e multiplica in se stesso,
ritroverà zero via zero, zero.
PAOLO GIORDANO ORSINO I7I
IV
LA BUGIA
La bugia non mai sola; uno squadrone
ha sempre in compagnia de la sua setta,
che le va dietro o innanzi, e l' interdetta
strada corre con essa a perdizione.
Se non ha gran memoria, è confusione ;
se tra nemici sta, calunnia è detta;
s'alberga tra gli amici, è barzelletta;
se versa circa ai grandi, adulazione.
Riso, pianto e parlar non è sincero
sempre in noi; ma il vestir verace addita
se teniamo dal franco o da l'ibero.
Questo nostro costume non imita
già la bugia: ella è contraria al vero
e va di verità sempre vestita.
v
LA CITTÀ
Ne le cittadi ove i monarchi han sede,
disusato è pel tristo il bon sentiero;
fassi solo apparir per bianco il nero,
oprar fortuna e non virtù si vede.
Quivi al torto ragion soggiace e cede,
il doppio cor conculca il cor sincero,
l'interesse l'onore, il falso il vero,
l'odio l'amor, l'infedeltà la fede.
Teco piange il tuo mal chi gusto n'ebbe,
ti promette favor chi vói vendetta,
arride a te chi '1 pianto tuo vorrebbe.
Ti dà il buon di chi il tuo mal anno aspetta
e ti saluta chi ti caverebbe
più volentieri il cor che la berretta.
172 LIRICI MARINISTI
VI
IL RITORNO ALLA PROPRIA TERRA
Varcato ho mari adusti e freddi, ho visto
del franco regnatore e de l'ibero
province immense, e del romano Impero,
e parte ancor de l'ottomano acquisto.
Ho dimorato ove il potere ha misto
sacro e profano il successor di Piero;
ma di smarrir desio, guardo e pensiero
in tante vastitadi alfin ravvisto,
fermato ho il pie dove dal ciel il freno
regger de la Sabazia è a me concesso,
che giunge al mare e ha cinque laghi in seno.
Angusto spazio ai nominati appresso;
ma il debito in che nacqui adempio appieno
verso i popoli miei, verso me stesso.
GIACOMO D'AQUINO
PRINCIPE DI CRUCOLI
I
IL FASTIDIO
Di pianto molle e di sospiri ardente,
bagno, lasso, la terra e scaldo il cielo;
e colmo avendo il sen di mortai gielo,
di dogliosi pensier pasco la mente.
Se cosa veggio mai lieta o ridente,
chiusi gli occhi vorrei d'oscuro velo;
e quanto posso più m'ascondo e celo,
straniero e peregrin da l'altra gente.
Anzi (colpa d'amor) da me stesso amo
esser da lungi, oimè, perché me stesso
più ch'altri a mio poter odio e disamo.
Ma poiché tanto più me stesso ho appresso
quanto più di fuggir me stesso bramo,
son, più che d'altri, da me stesso oppresso.
174 LIRICI MARINISTI
II
IL GIORNO DEI MORTI
Queste pompe di morte e questi odori
d'arabi incensi e queste accese faci
memorie son de' nostri di fugaci
per pianger sempre i già commessi errori.
Tu, che godi fra gli ozi e fra gli amori
le lusinghe del mondo empie e fallaci,
e tra i diletti addormentato giaci,
ami ombre, abbracci vento e siegui orrori.
Chi un tempo, carco d'amorose prede,
ebbe l'ostro a le guance e l'oro al crine,
deforme arido teschio, ecco, si vede.
Superbi regi e la Vii plebe alfine
poca polve vegg' io sotto il tuo piede,
oppressi e vinti da un medesmo fine.
Ili
• LA TEMPESTA
Armato il ciel di tuoni e lampi ardenti,
e col volto cruccioso oltre l'usato,
vibrò da l'arco suo, fremendo irato,
contro la terra i fulmini pungenti.
Tolsero i nembi e le pruine e i venti
allo stelo le frondi e l'erba al prato;
e tonando da l'uno e l'altro lato,
cruda guerra tra lor fean gli elementi.
Da l'arenoso letto, ecco, il mar esce,
ed ingombrando il mondo or vaga errante
fra l'onde il cervo, or tra bei fiori il pesce;
e tra diluvi e tra tempeste tante,
con gì' infocati lampi il giel si mesce,
e tra le nevi il cielo è fiammeggiante.
MICHELANGELO ROMAGNESI
I
LA MORTE
Andriozzi, si muore: in lance eguale
premio e pena ha condegna il buono, il reo;
e per alto decreto ogni mortale
della pallida man resta trofeo.
Picchia l'orribil dea con pie letale
alle porte dèi grande e del plebeo,
ma lottando con l'Ercole fatale
non risorge da terra umano Anteo.
Cosi, allor ch'andrem sciolti all'ultim'ore,
non avrem più l'invidia al fianco unita,
nemico armato, amico ingannatore;
superbia entro i suoi fumi andrà svanita,
non ci faran più guerra odio ed amore,
eh 'è principio di pace il fin di vita.
1/6 LIRICI MARINISTI
II
LA TOMBA
Allor ch'io copra in sonno eterno i lumi,
freddo cibo de' vermi e poca polve,
mausolei non ambisco: Atropo solve
i più famosi marmi in ombre, in fumi.
Ad erger tombe Egitto età consumi;
ciò che i secoli fanno, un di risolve:
tutte un oblio le umane cose involve,
come in sé accoglie il vasto mare i fiumi.
D'Agamennone e d'Irò Euro confuse
le ceneri, e del cinico mendico
e d'Alessandro il grido eco deluse.
D'urna paria o corintia son nemico,
né vo' in amomo l'ossa o in mirra infuse,
purché m'apra natura il grembo amico.
GENNARO GROSSO
I
LA NASCITA DI MARIA
Soìietto in bisticcio
Nasce di Dio la genetrice eletta,
ch'apre a l'uscita sua gli usci de' cieli;
nostr'alme ergono il volo infra que' veli,
ella s'allatta e nel Signor s'alletta.
Da que' lini la lena a noi s'aspetta,
quelle tele a Satan rompono i teli,
la culla il calle adagia e spezza i geli
d'Averno, inverno de la colpa infetta.
Sorge a pena e di Dio s'erge la reggia,
spunta e punta a Lucifero è la squama,
nasce e n' esce a guardar cara sua greggia.
Col dolce nome di Maria si chiama,
qual bersaglio d'amor, perché si veggia
che Dio nessun più di Maria riama.
Lirici ma-finisti — 12
lyS LIRICI MARINISTI
II
I SANTI INNOCENTI
Per accordar d'alti profeti il canto
spargono afflitte madri alte querele,
mentre i bambini lor, per man crudele,
solcan felici un ocean di pianto.
Essi prenci immortali ergonsi in vanto,
poiché morte lor dà prence infedele;
veggonsi a quelli insanguinar le tele,
perché tinto ne l'ostro abbian l'ammanto.
Vuol piccioli Amoretti il nume amante
per far ch'entrino al ciel, regno divino,
che picciolo è del ciel l'uscio prestante.
Si denno in vero, e con fatai destino,
pargoletti vassalli a un rege infante,
guerrier fanciulli a capitan bambino.
Ili
CRISTO ESORTANTE ALLA CONFESSIONE
Schivo de' folli errori, agile e mesto
corri d'un pio ministro al sacro piede,
che, prostrandosi il corpo, alzar si vede
e l'uom col pianto a le delizie è desto.
Oh come un puro umiliato gesto
umilia Stige e la conculca e fiede ;
oh come al tuo parlar mutolo riede,
qual da sacra magia, Satan l'infesto!
Per darti gaudio il tuo dolore io bramo,
son tuoi misfatti i miei diporti ameni,
piropi e gemme i tuoi peccati io chiamo.
Io ti darò la grazia e i miei sereni,
tu mi dà' l'atre colpe. Ai doni siamo:
tu prodigo di falli ed io di beni.
ANTONINO GALEANI
I
IL PERICOLO
Festeggiano le squille, Egle, a vicenda,
ritorna a queste ville il di festivo;
a' nostri balli il cittadin lascivo
verrà pomposo, onde l'incaute accenda.
D'Amarilli tu sai: pria ch'ei te prenda,
prendi tu lui, più di lei cauta, a schivo;
diman fia '1 suo partir, s'oggi è l'arrivo,
ch'a variar piacer sempr'è che attenda.
Noi mirar, se di sete ei coloreggia;
noi curar, se col piede or gira or striscia;
noi sentir, se con man molle tasteggia.
Anch'ella agile al moto, al tatto liscia,
e variata di color pompeggia,
ma velenosa è poi su '1 fin la biscia.
l8o LIRICI MARINISTI
II
I NASTRI SEDUTTORI
Diman che festo è '1 di, col crin ripieno
di nastri Egle vedrete, occhi dolenti;
di que' nastri, di cui miraste intenti
far ieri acquisto a la città Sireno.
— Per Egle sono — infra me dissi ; — almeno
perduto avesse i pattuiti argenti,
o perda sé, pria che col don la tenti! —
Tal ne sentia geloso picchio al seno.
Sii cauta, o bella; di quei nastri ei trama
lacci a l'onore e, credi a me, n'avrai,
via più che fregio al crin, sfregio a la fama;
che l'indegno amator già tra caprai
gloriando si va (vedi se t'ama!)
ch'avranne in cambio... Io noi vuo' dir: tu '1 sai!
Ili
IL BALLO GALEOTTO
Lilla, i' mei veggio, il cittadino Aminta
più che a' suoi campi, a tue bellezze attende,
e la tua fama ed il mio core offende,
e pur lo stringi, seco al ballo accinta.
Tu '1 neghi? e che dirai se sei convinta?
Su la man che tu prendi e che ti prende,
chi non vede restar, se ben v'attende,
la stampa a' diti ed a pallor dipinta?
Ahi, fai rosse le gote e '1 ciglio hai basso!
Perché rossor la guancia, allor, non veste?
perché a lui, come a me, non sei di sasso?
Se tra le belle sei, sia tra le oneste;
che villanella al cittadino è spasso,
ma '1 cittadino a villanella è peste.
ANTONINO GALEANI
IV
LA RANA
Là tra i giunchi palustri e l'alga immonda
odi gracchiare, o Filli, in strana foggia,
figlia del fango e de l'estiva pioggia,
quella verde loquace in grembo a l'onda.
O che '1 più cupo gorgo in sen l'asconda,
o nuoti all'aure o s'in pantano alloggia,
inver' la sponda avidamente poggia,
se mai face apparir vede a la sponda.
Purché godano gli occhi al caro lume,
dimenticata ogni contraria sorte,
v'arde il cor di desio, se non ha piume;
né cura o vede che quel raggio acceso
è fiaccola parata a la sua morte...
Tal de' tuoi lumi al lume anch'io fui preso.
V
IL DONO DEL LEPRE
Questo bel leprettin, eh' a me dal braccio
pendente prigionier l'orecchio rese,
ch'ognor fa, ranicchiandosi, difese,
per levare a te '1 dono, a sé l'impaccio;
non fu tolto al covile o còlto al laccio,
di degno cacciator men degne imprese;
ma questo pie col pie di lui contese,
se ben rovescio ne cadei sul ghiaccio.
Non sprezzar. Lilla, il don, che, se noi sai,
accresce la beltà s'è cibo a noi.
Tienlo, che fuggirà; stringi, che fai?
Ma che guardi? che ridi? e che dir vuoi?
Ch'esser bella e fugace imparerai?
Più bella e più fugace esser non puoi.
LIRICI MARINISTI
VI
LA BELLA E IL VECCHIO
Crespo e segnato il viso a maraviglia,
lanoso tutto più del proprio gregge
è Mopso; un occhio ha lippo, un pie noi regge,
fosco il pel, nero il crine, irto le ciglia.
E pur Lilla gentil bianca e vermiglia,
forsennata d'amor, d'amarlo elegge,
o sia necessità che non ha legge,
o sia che donna al peggio suo s'appiglia.
Natura offesa ! e chi dirà che piaccia
ogni pari al suo pari or che si molle
e caro sen sta fra si rozze braccia?
Ma come offesa? anzi non già: che volle
cosi natura pur, che stretta giaccia
perla in gusci, astro in nicchi ed oro in zolle.
GIAMBATTISTA PUCCI
I
L'ARDORE
Ardo quando talor vien ch'io rimiri
madonna lampeggiar lieta e vezzosa;
ardo quando talor, mesta e dogliosa,
china degli occhi i lucidi zaffiri.
Ardo s'avvien che contra me si giri,
turbata il volto, altera e minacciosa;
s'a la mia pena ancor si fa pietosa,
ritrovo ésca novella ai miei martiri.
Se sospira, quell'aura il foco accende
s'apre un riso talvolta, è foco il riso;
è foco tutto il bel ch'in lei risplende.
Ma nel foco del seno e del bel viso
terrei, cosi m'appaga il bel ch'offende,
quasi farfalla rimaner ucciso.
l84 LIRICI MARINISTI
GLI OCCHI E IL SENO
Dentro al candido sen, tra le mammelle,
stese madonna la man bianca al core,
e da' giri lucenti il vivo ardore
rivolse a un punto istesso in questa e in quelle.
Biancheggiar, lampeggiar nevi e fiammelle,
de' begli occhi e del sen foco e rigore,
fatto un misto di luce e di candore,
qual tra '1 latte del ciel fanno le stelle.
De le mamme e del sen la candidezza,
emula al latte, unita allor splendea
dei luminosi giri a la chiarezza.
Questa in quella a vicenda in guisa ardea,
che un confuso di luce e di bianchezza
quinci i begli occhi e quindi il sen parca.
ITI
LO SVELAMENTO
Era il vel di madonna al volto e al crine
qual nube che nasconda il dio di Delo,
quando parve dicesse: — A te non celo
quel che de l'alme fa prede e rapine. —
La man, cui di candor cedon le brine,
portiera fatta d'amoroso cielo,
stese, e al tergo raccolto il bianco velo,
forme scoperse angeliche e divine.
Vidi allor lampeggiare a l' improviso
e gareggiar di luce e di splendore
il crin, gli occhi, la bocca, il guardo e '1 riso.
Di tanta luce innebriato il core,
non sa s'egli sia in terra o in paradiso,
se paradiso ha cosi dolce Amore.
ANTON MARIA NARDUCCI
I
LA VESTE E LA GHIRLANDA
Qualor di veste serica trappunta
d'una ricca di stelle aurea tempesta,
donna, adivien che le tue membra vesta,
notte mi sembri in bruno carro assunta.
Ma se poi veggio a quelle stelle aggiunta
primavera di fior su l'aurea testa,
allor dico fra me: — L'aurora è questa,
che fregiata di fior ridendo spunta. —
E si m'aggrada per mia dolce pena
mirar costei, che pur m' ha il cor piagato,
di mille fior, di mille stelle piena,
ch'io, con un giorno si ridente e grato
e con notte si bella e si serena,
dormirei lieto e veglierei beato.
l86 LIRICI MARINISTI
II
LE « FERE D'AVORIO » TRA I CAPELLI
Sembrar! fere d'avorio in bosco d'oro
le fere erranti onde si ricca siete ;
anzi, gemme son pur che voi scotete
da l'aureo del bel crin natio tesoro;
o pure, intenti a nobile lavoro,
cosi cangiati gli Amoretti avete,
perché tessano al cor la bella rete
con l'auree fila ond'io beato moro.
O fra bei rami d'or volanti Amori,
gemme nate d'un crin fra l'onde aurate,
fere pasciute di nettarei umori;
deh, s'avete desio d'eterni onori,
esser preda talor non isdegnate
di quella preda onde son preda i cori !
Ili
A CAMILLO BAFFI
Per domandargli la propria « natività »
Scrivea nel ciel caratteri di stelle
con la penna de' raggi il mio natale
il Sol, chiaro scrittor d'oscuro annale,
de le fortune mie benigne e felle.
Dicean le gieroglifiche facelle
d'ogni fortuna mia l'ora fatale;
ma non sa sporre interprete mortale
note di ciel misteriose e belle.
Tu, che sovente al ciel t'ergi vicino,
discepolo di Febo, anzi sua prole,
Esculapio celeste, Orfeo divino;
apri i segreti de l'eteree scole,
tanto ch'intenda anch'io nel mio destino
del linguaggio del ciel l'alte parole.
TIBERIO SBARRA
L'AMOR NOSTRO
Ardano pur d'immacolati e puri
desir, Licida mia, Dameta e Glori,
e godan sol tra loro anime e cori,
né più altro si brami o si procuri;
tengano pur d' incontinenza oscuri
e rei di pianto i lascivetti amori,
e siano i casti cor senza rancori
e di merto e di lode anco sicuri.
Noi tal foco non arda, e sia da noi
lontana pur si cieca via d'amare,
e tutte le sue glorie e pregi suoi.
Ma ristorino i sensi ora due chiare
luci ridenti or dolci note, e poi
vezzosi baci o cose altre più care.
l88 LIRICI MARINISTI
II
IL PANIERINO DI FRAGOLE E ROSE
Questo bel panierin, di fiorfiorelli
ricinto, e pien di fragole e di rose
che Filli ha per te còlte, e con ascose
maniere esalta i tuoi sembianti belli,
cara Lilia, io ti dono. I fior novelli
non dimostran però tutte le cose;
che son le luci tue stelle amorose,
né l'immitan del Reni anco i pennelli.
De le chiome non parlo, ella nei prati
non ha fior di ginestre: usò le fi-aghe
per l'essenzia gentil de la tua bocca;
che son le labra tue com'esse vaghe
e ravvivan gli spirti arsi e gelati,
con quel misto sapor che ne trabocca.
FILIPPO MASSINI
I
IL VINO
Vatten, Volpin, sotterra al picciol vaso
cui ferro cinge, e traggi il buon liquore
eh' ha di topazio e d'ambra aureo colore,
senza cui mai non oso ire in Parnaso.
Apra altrui fonte o rio col pie Pegaso,
perché scriva di Marte o canti Amore,
che sol nasce da Bromio il mio furore,
onde poi vinco e la fortuna e il caso.
Più non m'impenna l'ale o scalda il seno
Amore, e pur talor sovra me stesso
m'ergo, e non temo le pruine e '1 ghiaccio;
perché con questo mio nettar terreno
di sorso in sorso al ciel men volo, e spesso
a la madre d'Amor mi sveglio in braccio.
igo LIRICI MARINISTI
II
IL VINO
Questo di puro vin spumante vaso,
che scintillando essala a mille a mille
vive saltanti e spiritose stille
onde gli occhi mi punga e ingemmi il naso,
è '1 mio Elicona; e sono il mio Parnaso,
ove l'ore men' io liete e tranquille,
di Bacco i colli e queste amene ville,
orto degli ozi e de le cure occaso.
Mentre la lingua il buon Lieo m' inonda,
oh come dolce mormorar si sente
e fra i rami e fra i sassi e l'aura e l'onda!
O soave liquor dolce e pungente,
se mai fortuna i miei desir seconda,
terrò le muse a le tue lodi intente.
CESARE abbellì
I
LA VITE
Fatto ai raggi del Sol maturo alfine,
de la feconda vite il biondo incarco
ornai del grave peso incurva l'arco,
perché si sciolga il pampinoso crine.
La vite, che pur dianzi in sul confine
d'aprii, d'erbe e di fior gravido e carco,
degli occhi aprendo il lagrimoso varco
pianse l' ira del verno e le pruine,
già ride; e mentre da la verde treccia
lieto cultor su le ramose braccia
i bei racemi ad or ad or distreccia,
gioir, Fillide, impara; e, perch'io faccia
poi vendemia d'amor, meco t'intreccia,
come vite gentil ch'il tronco abbraccia.
192 LIRICI MARINISTI
II
GLI ASTRI NOTTURNI
Quando spuntar de l'oceano fuori
veggio la notte e scintillar le stelle,
giro tacito il pie, scòrto da quelle
lampade amiche a' fortunati amori.
Certo non è ch'in que' profondi orrori,
gli occhi rivolti al cielo, i' non favelle:
— Qual di voi, faci luminose e belle,
infuse in questo san fatali ardori? —
E del ciel vagheggiando i fregi d'oro
— Chi sa — dico fra me — eh 'ancor non giri
gli occhi lassù colei, ch'in terra onoro? —
Cosi, con nova idolatria, ne' giri
del cielo il bel di quel sembiante adoro,
favellando tra lor gli occhi e i sospiri.
LUDOVICO TINGOLI
I
INVOCAZIONE ALL'INTEMPERIE
Ne' boschi è l'idol mio: finché tu ridi,
invido ciel di chiare tempre adorno,
spegnere il pianto mio col suo ritorno
non è che la speranza egra confidi.
Deh movi, austro gentil, dai mauri lidi
di sonore tempeste orrido il corno;
involvi d'atre bende i climi intorno,
porta in aria Nettun co' flutti infidi.
Spero tregua ai sospir sol dal tuo fiato,
luce a l'orbo desio dal tuo baleno,
pace dai tuoi tumulti al cor turbato.
Sta la mia calma a tue procelle in seno,
sol da' tuoi nembi attendo il sole amato,
solo da le tue nubi il mio sereno.
Lirici tnarinisti — 13
194 LIRICI MARINISTI
II
LA BRUTTEZZA INGIOIELLATA
Costei cui sol di tenebre e d'orrori
natura acherontea veste e circonda,
osa intorno spiegar quanti ne l'onda
del Gange e del Fattoi nascon fulgori.
Spargon le chiome e '1 labbro ombre e squallori,
e d'oro e di rubini il braccio abbonda;
invece che lo sguardo i rai diffonda,
sfavillano dal sen compri splendori.
La perla, onde la bocca orba notteggia,
a l'orecchia plebea quasi per scherno
pende, ed intorno al nero collo albeggia.
Ma che stupir, s' è pur decreto eterno
ch'ove ricco tesoro arde e lampeggia,
ivi custode sia spirto d'Averno?
FILIPPO MARCHESELLI
I
L'ABITAZIONE PRESSO LA FONTANA DI TREVI
Qui dove il crin d'umide perle in onde
scioglie prodigo fonte e fuggitivo,
che più natali in triplicato rivo,
quasi Nilo del Lazio, a sé confonde;
qui stassi Nice, e le catene bionde
del crine onde il mio cor splende captivo,
de' franti argenti al fluttuar lascivo
spesso avvien che, qual Sol, tra l'acque affonda.
Al mormorio di quei tesor stillanti,
che pure al pianger mio sempre s'accorda,
più stringe il gel de' suoi rigor costanti.
Né stupor è se, di mia morte ingorda,
mai non ode del cuor l'angosce e i pianti,
ch'anco, ove sgorga, il Nil l'egizio assorda.
196 LIRICI MARINISTI
ALL'ANCELLA
Docile ancella, che mia fé verace
animasti di speme e di consiglio,
e del linguaggio onde parlommi un ciglio
fosti interprete pia, cifra sagace;
or che colei de l'invecchiata face
spense ogn' ardore e al mio peggior periglio
diede a' suoi sguardi dal mio cor l'essiglio
per non mirarmi in sen piaga vorace;
dille ch'eterno strai non sazia un core,
che se medico sdegno il sen mi tange,
d'un' ingrata beltà rido al rigore.
L'Astrea di Cipro a un cor che avvinto piange,
se fu innocente, in criminal d'Amore,
apre alfin la prigione e i ceppi frange.
PAOLO ADRIANI
I
LA BELLA TARTAGLL'\NTE
— Mio co-co-cor, mio ben, mia pu-pupilla,
s' io mi-mi-miro il tuo be-bel vi-viso,
se-se-sentomi il sen co-co-conquiso,
pe-per l'ardor, che da te-te sfavilla;
ma tu-tu-tu non hai sci-sci-scintilla
d'amor e stai da-da-da me diviso,
e avendo" jn te-te-te il pa-paradiso,
di gio-gioia mi nieghi anco una stilla.
S'ogni mia po-potenza a te si diede,
s' hai di me-me la mo-mo-monarchia,
pe-pe-perché mi nieghi egual mercede? —
Cosi, d'amor ardendo in fiamma ria,
qualche segno maggior della mia fede
tartagliando chiedea la bella mia.
198 LIRICI MARINISTI
II
IL SONETTO
Vorrei per Nuccia mia far un sonetto,
ma sento che la vena or non mi serve,
e quanto il desiderio in me più ferve,
tanto il mio ingegno a questa impresa è inetto.
Pur mi ci vuo' provar, che se più aspetto,
dubito che '1 poter più mi si snerve:
« Nuccia, coni' hai per me cosi proterve
tue voglie? ». Eh, non va ben questo concetto!
Voltiamo faccia e andiam da poppa a prora:
« Io canto di colei l'alta eccellenza ».
No, diciam meglio e incominciamo ancora:
« Celebra, Urania, tu, l'alma presenza ».
Ma come c'entra Urania? Or su, per ora,
far sonetti non so; ci vuol pazienza!
FRANCESCO BRACCIOLINI
L' INQUIETUDINE
O de la pace mia nemica imago
che, scacciata da me, torni sovente
qual vespa impronta a raggirar la mente,
per trafiggermi il cor di pungent'ago;
ti ravviso ben io l'accolto e vago
crin su la fronte e groppo d'angui algente,
crudelissima Aletto, empia, nocente
abitatrice del sulfureo lago;
e la facella ond' avventar tu suoli
ne le viscere altrui veleno e fiamma,
porti ne gli occhi e in lor l'aggiri e scoti.
Vattene, va', né più circondi e voli
d'intorno a me; l'abisso orrendo infiamma,
tuo degno albergo, e l'ombre ree percoti.
ANDREA BARBAZZA
LA PARTENZA ALL'APPARIRE DELL'AURORA
Già le tremule stelle in ciel più rare
chiudon le luci impallidite e spente,
e già la rugiadosa alba ridente
rende col suo seren l'ombre più chiare.
Ecco di nova luce asperso appare
il cristallino e candido oriente;
già si cangia in vermiglio e già crescente
Febo con aurei lampi esce dal mare.
Ogni scoglio, ogni lido arde e balena,
e Glauco fuor del suo ceruleo vaso
co' guizzanti triton sferza l'arena.
Io sol, Filli, di luce orbo rimaso
a lo sparir di tua beltà serena,
qui, su l'orto del di, piango l'occaso.
ANTONIO FORTINI
IL POETA SEGRETO
A l'amico silenzio, a l'ombra folta
narro per uso i miei secreti amori,
perché de' pianti ascosi e degli ardori
resti ogni stilla, ogni favilla accolta.
Quindi la musa mia rozza ed incólta
sol raccomando ai lor eterni orrori,
perché, morta a le lodi ed agli onori,
queta riposi in dolce oblio sepolta.
Chi dolce canta e chi lodato scrive
offra sue rime a bella donna in dono
e scopra del suo amor le fiamme vive.
Io, che solingo amante e muto sono,
quelle oscure mie note e di suon prive
al silenzio consacro, a l'ombre dono.
AGOSTINO AUGUSTINI
IL BRACCIERE AVVENTURATO
Filli, a cader da picciol sasso astretta
che duro intoppo al molle pie propose,
per non pestar del sen le vive rose
tutta tremante in sul braccier si getta.
Servo felice ! or chi di te più eletta
sorte vantar può mai, se rovinose
per sostegno puoi dir ch'a due vezzose
sfere d'Amor servi tua man negletta?
Ma che negletta? Per un nuovo segno
degna è d'alzarsi allo stellato velo,
che die cadente alla beltà sostegno.
Lo stato tuo, benché di servo, anelo;
che mi terrei d'Atlante ancor più degno,
se potessi addossarmi un si bel cielo.
MARCANTONIO ARLOTTO
L'OFFERTA
In cima a quegli altissimi dirupi,
ove sol fra latebre e ripostigli
stanzan veloci damme, ingordi lupi,
sals' io l'altr'ier, non senza aspri perigli.
E poi che nulla v'è che '1 guardo occupi,
vidi scherzar fra teneri vincigli,
d'alto mirando giù ne' fondi cupi,
due vezzosetti e timidi conigli.
Ratto calàimi da la balza alpestre
e, rannicchiato e quatto, ambi pigliai,
giuntili tra i ginebri e le ginestre.
A te, Nisa, gli serbo, ed anco avrai
da me più vaga fera e men silvestre,
se men fera e selvaggia a me sarai.
FABIO LEONIDA
LA BELLEZZA AL TRAMONTO
Non già perché degli anni il primo fiore
t'abbia tolto l'etade invida e ria,
donna, sei tu men bella, o men che pria
degna per cui sospir tragga ogni core.
Ancor le membra tue spiran di fòre
r usata lor vaghezza e leggiadria;
anzi col tempo avien che '1 volto sia
cresciuto in maestà, l'alma in valore.
Più tranquillo e sereno anco risplende,
senz'alterezza e con misura ardente,
il raggio che negli occhi Amor t' accende.
Cosi riluce '1 Sol più dolcemente
e meglio si vagheggia, allor che scende,
passato '1 mezzo di, verso occidente.
GHERARDO SARACINI
IL LACCIO DI CAPELLI
Questa pur or d'aurei capelli intesta
nuviletta lucente e preziosa,
attorta in cerchi d'or, dianzi pomposa
splendea nel ciel de la tua ricca testa.
Ed ora a me l'invìi, non perché mesta
fortuna mi minacci e lagrimosa,
ma perché versi sovra me pietosa
d'alte gioie d'amor dolce tempesta.
Eterno laccio a la mia fé costante
fia questo crine, onde con bel lavoro
legheran fila d'or fé di diamante.
Ma io ben a ragione, o mio tesoro,
solcai di pianto un mar, Giasone amante,
s'ottengo al fine un si bel vello d'oro.
PIETRO PAOLO BISSAR!
BACIANDO
Bindo, che fai? se non mi baci, io moro.
Ecco aperte le labbra, il seno ignudo;
bacia, baciami pur, si, bacia: ah, crudo
troppo grave è il desio, lieve il ristoro!
Altro ci vuol che baci al mio martoro:
ahi, che mentre baciando il cor deludo,
di sdegno io son, tu di pietà sei nudo,
che mi lasci morire e pur t'adoro.
Baci, ma son tuoi baci e dolci e rei;
mira s'ornai piagato il cor ne fu,
che di tua ferità sparge i trofei.
Eccomi morta alfin; ma che fai tu?
Deh, che tardo soccorri ai dolor miei!
Lascia, ferma, cor mio; non voglio più.
CLAUDIO TRIVULZIO
LA VILLANELLA IN CITTA
Dinanzi al novo Sol, pien di vaghezza
sorger insieme il mio bel Sol vedrassi,
e là drizzando i leggiadretti passi,
far mostra alla città di sua bellezza.
Ella, a gir tra i pastor, tra l'erbe avvezza,
tra genti astute andrà, tra duri sassi;
ma voi, pietre, onde avvien ch'ella trapassi,
deponete al bel pie l' usata asprezza.
E ben di varie man l'arti e i lavori
intenta mirerà per maraviglia,
larghe vie, gran palagi, ampi tesori.
Ma della guancia sua bianca e vermiglia
recheran più stupor i vivi fiori,
e '1 semplice girar de le sue ciglia.
GIOVAN FRANCESCO CORMANI
LA DORMENTE AL FAR DEL GIORNO
Sorge l'aurora e con la man di rose
tragga da l'oceano il sole e '1 giorno:
fan dai riposi a l'opre lor ritorno,
col ritorno del di, tutte le cose.
Voi con le stelle sol, luci amorose,
che imparaste a vegghiar per far più adorno
il notturno seren, pur qui d'intorno
con lor sparite e ve ne state ascose.
Nascondetevi pur, ch'a voi non lice,
immortali bellezze e fiammeggianti,
con la turba mortai sorgere a l'opre.
Godete, chiuse, pur sonno felice,
per risorger aperte e vigilanti
quando ogni stella si risveglia e scopre.
ERMES STAMPA
LA DONNA VESTITA ALLA GHIBELLINA
coi fiori al lato sinistro della chioma
Del crine il manco lato orni di rose
e rinovi ne l'alme ire e furori,
tu, che dovresti sol guerre amorose
col sembiante gentil movere a' cori.
Del bellicoso Ren segui ed onori
l'insegne formidabili e famose,
onde il Tebro nemico i bianchi umori
cangiò sovente in porpore dogliose.
Di fiori, -idolo mio, spoglia la chioma;
non accrescer nuov'ésca a l'ira antica,
onde Italia sospiri oppressa e doma.
Non permetter, crudel, ch'altri predica:
— Con diverso destino, amica a Roma
l'una Venere fu, l'altra nemica. —
Lirici maiiiiisli — 14
AURELIO MANCINI
LA DONNA CHE BACIA IL PAVIMENTO
DELLA CHIESA
Bianca il sen, bionda il crin, bruna le spoglie,
là nel tempio divin, con sacri accenti,
Lilla baciava, al cielo i lumi intenti,
ippocrita d'amor le sacre soglie.
Arsi io di sdegno, allor eh 'a le mie voglie
sempre schivi trovai quei labri ardenti ;
ma pensai che baciare i sassi algenti
sol dee colei che cor di sasso accoglie.
Di quella bocca i stessi marmi, audaci,
come già a Pirra ed a la tracia cetra,
corsero per baciar gli ostri vivaci ;
ond'io bramai mirar la testa tetra
del Gorgon, per poter vago di baci
cangiarmi in sasso o trasformarmi in pietra.
D' INCERTO
IL GELSOMINO TRA LE LABBRA
Quasi in giardin di perle, a cui ridenti
fan due vaghi rubin mura pompose,
avea madonna un fior tra i bianchi denti,
che del latte del ciel Flora compose.
Contendea il suo candor co' gli ostri ardenti
de le labra bellissime di rose;
ridean queste arrossendo e più lucenti
le sue fiamme scoprian dolci amorose.
— Oh felice — diss'io, — s'entro a le porte
di quella si gentil bocca fiorita
con la mia d'involarlo avessi in sorte;
che se, spiccando in paradiso ardita
la prima donna un frutto, ebbe la morte,
da un fior del paradiso i' avrei la vita! —
MARTINO LUNGHI
IL PALLONE
Questa, ch'in sen di cuoio alma ha di vento,
industriosa macchina leggiera,
forse è di novo mondo imago vera,
di superbo ludibrio alto istrumento.
L' arte, che ancor mirabilmente altera
negli scherzi si mostra, ebbe ardimento
qui dentro imprigionare un elemento
e di membrane edificar la sfera.
Questa, or umile a' colpi or baldanzosa,
lieve in aer dal gioco erra vagante,
se stabil nel suo centro il mondo posa;
onde il globo dagli omeri pesante
sottragga Alcide e con la man famosa,
scotitor d'altro mondo, irrida Atlante.
ANTONIO DE' ROSSI
CONTRO IL SALASSO
Fiamma gentil, eh' è spirto insieme e vita,
il gran padre de' lumi accese in noi ;
di vivo sangue ei si compiacque poi
si pura alimentar luce gradita.
Quel chiuse in vene a cui l'arteria unita
ministra alta virtù co' spirti suoi,
e perché oltraggio ostil qui non l'annoi
veste gli fabricò forte e munita.
Questo a formar vari instrumenti ordio
nel corpo uman l'onnipotente mano,
e '1 passo a lui per tutti i membri aprio.
Ma, per l'altrui sciocchezza, oprossi invano:
quel tesor che di vita a l'uom fé' Dio,
ardisce di versar medico insano.
D' INCERTO
TA KATAMHNIA
Pallide il mio bel Sol, ma pur vezzose,
porta di bel pallor le guance sparte;
ivi languian, ma in più nascosta parte,
ne' begli orti d'Amor, fiorian le rose.
Ma io, ch'in cotal mar tai sirti ascose
di trovar non credea, sciolte le sarte
e drizzato il cammin, l'ingegno e l'arte,
a solcar m'accingea l'onde amorose.
Quand'ella: — Ah, non fia, no! — disse, — ben mio,
non fia che tenti i perigliosi umori,
che causar ti potrian naufragio rio.
So che tu il frutto de' tuoi degni amori
da me ricerchi, e dar tei bramo anch'io;
ma cor noi puoi ne la stagion de' fiori.
D' INCERTO
ZITELLA ROMANESCA RITROSA
— Oimè, che fastidioso! andate in là,
non vi vollio baciare, signor no!
Che ci credete forse? Oh, guarda un po'
costui come è sfacciato! Oh via, in che dà?
Orsù, andate via, lasciate sta',
ch'io non fo queste cose: oh, via, mò;
che si, che sul mustaccio io vi darò
una pianella; io non ci voglio fa'.
Se non andate via, io grido a fé,
e lo dirò a mia ma', e allora qui
più non verrete e vi dirà il perché.
Più presto un'altra volta o un altro di...
Come séte ostinato ! In quanto a me,
credo con tutte voi fate cosi.
Pure volete, eh si.
Uh, poveraccia me! oh, via, su,
io voglio fa', per non sentirvi più! —
D'INCERTO
LA MOSCA NEL CALAMAIO
Bevi, augello infernal, pugliese mostro,
sanguisuga volante, alata strega;
bevi a schiattabudella e vatti annega,
sporca arpia della terra, in mar d' inchiostro.
Tanto sangue m'hai tratto, orca vorace,
che come Erisitton vuote ho le vene;
né di tua crudeltà presi le pene,
che quant' empia e crudel fosti fugace.
Senza pace né tregua, atra Medusa,
di te stessa facendo arco e saetta,
cavallo e cavalier, tromba e trombetta,
bersagliasti il mio muso e la mia musa.
Gittar la penna e rinegar Parnaso,
percoter l'aria e schiaffeggiar me stesso,
quante fiate m'hai fatto? e come spesso
mi fé' una mosca andar la mosca a! naso?
D INCERTO 217
Anzi, mosca non sei; ma il fiero assilo,
che Giunon mandò dietro alla baldracca
dal tonante rivai cangiata in vacca
ch'andò per rabbia a pascolar nel Nilo.
S'io scrivo, in su la man scendi boccone;
se difendo la man, l'occhio è assaltato:
cosi gli occhi ho trafitti e '1 naso enfiato,
ch'io simiglio ad Omero ed a Nasone.
Trarmi il sangue e gli spirti, questo è un nulla;
ma sorbirlo e cacarlo per dispetto,
e sporcarmi la carta e '1 mio concetto,
son pur cose da Gheto e Cacafulla.
Ma quel dio che protegge in Elicone
l'onor delle sue muse e de' poeti,
con degna punigion t'ha posta in geti,
e un corno per tuo scorno è tua prigione.
Nel sacro inchiostro, onde l'ingegno ameno
riga gli orti di Pindo, intirizzita,
hai lasciato lo strai, l'ali e la vita,
e il latte delle muse è il tuo veleno.
Or voi con labra di tenaglie armate,
correte a questa preda, o formicioni ;
pulci, vespe, tafani e farfalloni,
a stuzzicar poeti oggi imparate !
V
GIROLAMO FONTANELLA
I
IL VELO SUL PETTO
Qual bianca nube d'odorosa tela,
preziosa d'Olanda alma testura,
nel petto di costei candida e pura,
tanta vaghezza di candor mi cela?
Deh, tu, pietoso Amor, scoprimi e svela
quel bianco marmo eh' intagliò natura,
e per 1' Egeo de l'amorosa arsura
tu di quel velo omai fammi la vela!
Prendilo, o tu ch'hai di volar costume
i campi del volubile elemento,
paraninfo d'amor, leggiadro nume! —
Ed ecco già che spiritoso e lento,
col ventilar de le sue molli piume,
quel che mi nega Amor mi dona il vento.
LIRICI MARINISTI
II
IL DONO DEI GUANTI DI SETA
Pompe di leggiadria, spoglie odorate,
di sidonia maestra opre ingegnose,
ove l'industria a meraviglia pose
mille di seta e d'or fila intrecciate;
ite per custodir quell'animate
nevi, quelle d'amor candide rose:
quanti baci vi do, nunzie amorose,
a la bella ch'adoro oggi portate.
Vestite quel purissimo candore,
con quei viluppi di meonie sete
prendete i lacci ad emular d'Amore.
Oh quanto agli occhi miei grate sarete,
se quella man, che m'imprigiona il core,
per mia vendetta in prigionia stringete !
III
LA NENIA PRESSO LA CULLA
Tremola navicella un di movea
quella che del mio cor regge la chiave,
e spirando col canto aura soave,
per l'onde de l'oblio lieta scorrea.
Ubbidia la quiete al moto grave,
che con impeto lento il pie facea,
e l'agitata e pargoletta nave
in braccio a Pasitea lieta correa.
Placida nube e graziosa intanto
chiuse al fanciullo il delicato ciglio,
ch'umido si vedea di molle pianto.
Cosi, dentro un bel velo aureo e vermiglio,
il sonno apporta Citerea col canto,
dentro cuna di rose al nudo figlio.
GIROLAMO FONTANELLA 223
IV
INVIANDO UN PAPPAGALLO
Questo de V indo ciel pomposo augello,
peregrino volante, alato mostro,
che discepolo apprese, accorto e bello,
distinto il suon de l'idioma nostro;
mira com'ha leggiadro il curvo rostro,
come liscia la piuma e terso il vello;
ha manto di smeraldo e bocca d'ostro,
che ridice talor quanto io favello.
In cosi vaga prigionia raccolto,
miralo com'è vago e come arguto,
come a la tua beltà si sta rivolto.
Ma temo, oimè, ch'in tuo poter venuto,
stupido a lo splendor del tuo bel volto,
ove garrulo fu, non torni muto.
V
IL SALASSO
Prese medica man serico laccio,
ove inferma languia la bella Irena,
e quel molle annodò candido braccio,
che nel regno d'Amor l'alme incatena.
Per toglier de la febre il grave impaccio,
destro ferio la delicata vena,
che, da ferro sottil percossa a pena,
il rubino spiccò dal vivo ghiaccio.
Al zampillar di quel sorgente rivo
mancò la bella, e dolce, a poco a poco,
tinse un bianco pallor l'ostro nativo.
Ratto l'anima mia corse in quel loco,
per tòr la sete in quel zampillo vivo;
ma l'onda ritrovò ch'era di foco.
224 LIRICI MARINISTI
VI
IL PETTINE ROTTO
Candida e delicata navicella,
ch'era di terso avorio opra gioconda,
d' una chioma fendea dorata e bella
l'aurato flutto e la tempesta bionda.
Guidata da una man polita e monda,
prendea de' miei sospir l'aura novella;
ed un cristallo ch'ebano circonda
innanzi avea per tramontana e stella.
Vago di gir con peregrino errore,
senza temer di rimanere assorto,
v'ascese incauto il semplicetto core.
Ecco, mentre attendea vicino il porto,
per quello biondo pelago d'amore
si divise la nave e restò morto.
VII
LA BELTÀ VINTA DAL TEMPO
Ecco, piena d'orror, l'età canuta,
ch'ogni umana grandezza abbatte a terra:
chi mi fece in amor si lunga guerra,
da la guerra degli anni ecco abbattuta.
Quella beltà, eh 'a trionfar venuta,
sovra ogni altra innalzò natura in terra,
per man del tempo, ch'ogni gloria atterra,
miserabil trofeo miro caduta.
Pallida agli occhi miei mostra i sembianti
chi ne la maestà del suo bel viso
mille fece tremar pallidi amanti.
Il mio sole adorato oggi è deriso;
se cominciò la mia tragedia in pianti,
or la favola sua termina in riso.
GIROLAMO FONTANELLA
Vili
CONFESSIONE DI POETA
Ne la scola d'amor non fui giammai,
e de l'arte d'amor détto e ragiono;
come esperto amator, di duo bei rai
descrivo il lampo e non conosco il tuono.
Mostro in carte d'amar, né seppi mai
come d'alma beltà gli effetti sono;
piangendo vo con dolorosi guai,
ma de' miei pianti è simulato il suono.
Quel che sento narrar vero ed espresso
da un fedele amator coi detti sui,
figurando talor vo di me stesso.
Dipinsi amor, ma non conobbi lui,
e colorii con la mia penna spesso
ne le favole mie gli amori altrui.
IX
LA NUOTATRICE
Lilla vid'io, qua! matutina stella,
spiccando un salto abbandonar la sponda,
e le braccia inarcando, agile e snella,
con la mano e col pie percuoter l'onda.
La spuma inargentò canuta e bella,
ch'una perla sembrò che vetro asconda,
e disciolta nel crin parea fra quella
nova aurora a veder, candida e bionda.
L'onda dolce posò, zefiro tacque,
e dove il nuoto agevolando scorse,
tornar d'argento e di zaffiro l'acque.
A mirarla ogni dea veloce corse,
e fu stupor ch'ove Ciprigna nacque,
un'altra Citerea dapoi ne sorse.
Lirici ;: marinisti
226 LIRICI -MARINISTI
IL RUSCELLO
Questo limpido rio, ch'ai prato in seno
da una lacera pietra esce tremante
e, quasi re di questo campo ameno,
s'incorona d'erbette, orna di piante;
quando il sole col raggio apre il terreno
su '1 leone del ciel fiero e stellante,
allor che stanco dal calor vien meno,
dolce ristora il peregrino errante.
Sono i suoi mormorii trilli canori,
al cui suono gentil canta ogni augello,
a la cui melodia danzano i fiori.
Ben si può dir, tanto è suave e bello,
per questi alati e musici cantori,
organo de la selva e non ruscello.
XI
LA TERRA ASSETATA
Cento bocche la terra apre anelante,
domandando pietà, venendo meno,
e, da l'armi del Sol trafitta il seno,
mostra le piaghe al ciel, focosa amante.
Qual Mongibello di calor fumante,
bolle ai raggi del Sol l'arso terreno
e sembra, di sudor sparso e ripieno,
converso in fonte il peregrino errante.
Celisi il pesce pur nel salso fondo,
che fin là dentro a quel ceruleo umore
ferito vien dal sagittario biondo.
Si fiero hanno i mortali aspro calore,
che se '1 diluvio ritornasse al mondo,
stilla non spegneria di tanto ardore.
GIROLAMO FONTANELLA
XII
INVOCAZIONE ALLA PIOGGIA
Apri i fonti superni, e larga a queste
sitibonde campagne acque diffondi,
tu che cinta lassù d'arco celeste
sopra trono di nubi il capo ascondi.
Son de la terra i fior bocche funeste,
e sospiri gli odor, lingue le frondi,
che per tante ammorzar vampe moleste
pregan che sopra lor prodiga inondi.
Tragico il bosco; e '1 monte orrido e solo
funestato ha di polve il crine e '1 manto,
e campo d'Etiopia appare il suolo.
Per aver nel calor rifugio alquanto,
querulo piangerla l'almo usignuolo;
ma gli manca la voce e muore il pianto.
XIII
AL VENTO
Alito de la terra e spirto errante,
che da concavi monti in aria esali,
e questi in agitar campi vitali
la natura fai bella e '1 mondo amante;
tu nel fiato volubile e vagante
le fortune del mar segni ai mortali,
e mentre batti l' invisibil ali,
per le liquide vie scorri volante.
Ogni nube, ogni nembo agiti e giri,
fai volar, fai gonfiar vele ed antenne,
fai che '1 tutto respiri allor che spiri.
Quanto lieve ritrovi, alzi ed impenne;
di qua voli e di là giri e raggiri,
e veloci alla Fama ergi le penne.
228 LIRICI MARINISTI
XIV
LA PERLA
Vaga figlia del ciel, ch'eletta e fina
sei di conca eritrea parto lucente,
ricchezza del bellissimo oriente,
nata e concetta in mar d'umida brina;
tu allumi di candor l'onda marina,
uscendo incontra al Sol bianca e ridente;
il cui valor, la cui beltà nascente,
ogni ninfa, ogni dea pregia ed inchina.
Tu, pullulando fuor d'alma natura,
non prendi qualità di salso gelo,
non tingi il tuo splendor di macchia impura;
ma qual vergine bella in bianco velo
lasci a l'onda l'amato, e pura pura
fai de la tua beltà giudice il cielo.
XV
L'ERMELLINO
Animaletto placido e vezzoso,
eh' hai di morbida neve adorno il vello,
e per téma di macchia o neo di quello
movi tremolo il pie, l'occhio geloso;
tu, quando il bosco appar sozzo e fangoso,
non esci fuor giammai dal chiuso ostello:
e come giglio inargentato e bello,
trovi in mezzo al candor pace e riposo.
Spento, sei degno poi, con alto vanto,
quelle porpore ornar che '1 sacro onore
a la mistica sposa adorna il manto.
Vestir non osi te vano amatore:
ti vesta ben chi con affetto santo
mostra puro il desio, purgato il core.
GIROLAMO FONTANELLA 229
XVI
IL CORALLO
Collinette fiorite, ombrelle amene
sola al mondo non ha Pomona e Flora,
che Teti e Citerea là giù pur tiene,
dentro l'onde del mar, giardini ancora.
Sono l'alghe l'erbette e i fior l'arene,
o\e ai pascoli suoi Proteo dimora;
frutti son quelle in mar conche serene,
che la luna inargenta e '1 sole indora.
Purpurino virgulto ivi natura
il ramoso corallo aver si vanta,
eh' è di magico sangue alma fattura.
Dal tronco il nuotator destro la schianta ;
la prende molle e la ritrova dura,
e dubbioso non sa s'è pietra o pianta!
XVII
IL GAROFANO
Sdegna la plebe de' minuti fiori
e star negli orti abitator non cura
questi, ch'ambisce con fastosi onori
ne' supremi balcon aver cultura.
Ivi candida man nobile e pura
la sua maschia virtù nutre d'umori,
per acquistarne poi gemina usura
di molli fronde e di soavi odori.
Tal con fasto e con festa a l'aria uscito,
gode, adobbato di purpuree fasce,
a la rosa leggiadra esser marito.
Di rogiada o di linfa egli si pa.sce;
sorge reciso e, pullulando ardito,
quasi mostro lerneo sempre rinasce.
230 LIRICI MARINISTI
XVIII
LA MADDALENA
Cangia in ruvida spoglia, in corda irsuta,
questa bella pentita il manto adorno,
pompa di vanità, fregio di scorno,
di caduca ricchezza ombra caduta.
Prima, tra lussi in maestà seduta,
mille ricche vedea cortine intorno;
or mira, entro selvaggio ermo soggiorno,
con frondosi ricami edra intessuta.
Trionfa ella del mondo, illustre ed alma,
non più con armi di beltà profana,
ed ha sotto una palma oggi la palma.
Cosi, presso una limpida fontana,
de le lagrime sue purgando l'alma,
ov'era Citerea, sembra Diana.
XIX
SAN FRANCESCO D'ASSISI
Godea, rapito al ciel, languido amante,
Francesco, acceso il cor d'ardente zelo,
e parea sospiroso ed anelante
da le rupi d'Alvernia alzarsi al cielo;
quando in mezzo al rigor, fra l'ombra e '1 gelo,
cherubin luminoso e sfavillante,
che stampa in lui come in purgato velo
r imagine di Dio, viva e spirante.
Ben del sommo Pittor mostra i disegni
chi per l'uomo salvar mostrò nel mondo
tanti esempi di vita illustri e degni.
Dovuto a lui fu tanto onor giocondo;
dovea portar de la salute i segni
chi fu de l'uomo il redentor secondo.
GIROLAMO FONTANELLA 231
XX
IL BEATO GIOVANNI DI DIO
Angoscioso, anelante, in rozzo letto
su l'estrema agonia Giovanni accolto,
sostenendo la croce in mezzo al petto,
sta con gli occhi e con l'alma in Dio rivolto.
E mentre fuor dal tramortito aspetto
piove il freddo sudor, da morte sciolto,
trova Maria, che con amico affetto
li sostiene la fronte e asciuga il volto.
Soave è di sua morte e dolce l'ora,
trovando lei, che con pietoso zelo
il suo dolce sudor terge e ristora.
Ma se Maria l'accoglie in si bel velo,
meraviglia non è; ch'essendo aurora,
vuol con queste rogiade andar nel cielo.
XXI
IL SANGUE DI SAN GENNARO
Vedo che sciolto ogni rigor tenace
sei de la parca a trionfar bastante
e, qual fervido umor bolle in fornace,
presso il foco divin bolli spumante.
Vedo ch'acceso ed agitato amante,
salti per allegrezza, almo e vivace;
che, placando di Dio l'ira tonante,
con la porpora tua n'impetri pace.
Vedo eh' hai d'ammorzar valore eterno
quanto il Vesevo per l'arsiccia fronte
vomita fuor dal tempestoso Averno.
E tante hai tu dal ciel grazie congionte,
ch'atto saresti a superar l'inferno,
non che bastante a trionfar d'un monte.
232
LIRICI MARINISTI
XXII
ALLA VERGINE
Penso, misero me, dubbio in aspetto,
del mio corso mortai l'ultimo passo,
e come avrò sotto un marmoreo sasso
con immondi animai commune il letto.
Io già l'ora fatai sicura aspetto;
ma, quando ha da venir m'è ignoto, ahi lasso!
Cosi pensoso e mesto i giorni passo,
ed a la morte a più poter m'affretto.
Ah, che sarà di me quando sia giunto
il termine prescritto e l'ultim'ora?
Ahi duro passo, ahi formidabil punto 1
Ognun mi fuggirà; ma tu, signora,
madre del redentor, discendi a punto,
e non lasciarmi in abbandono allora.
XXIII
LA SALTATRICE
A Fabio Ametrano
Questa beHa d'amor maga innocente,
che con giri fatali
i balli move inegualmente eguali,
fa d'insolita gioia ebra ogni mente,
e 'I pie sciogliendo ai regolati errori,
incatena gli spirti, incanta i cori.
Prima, accorta ne' moti, alza e misura
col bel suon de le corde
ne la musica danza il pie concorde,
dando al corpo gentil grazia e misura;
indi parte e ritorna e, mentre riede,
sopra l'ali d'amor regge il bel piede.
GIROLAMO FONTANELLA 233
Desta e sciolta, in un pie s'attiene e libra,
indi il passo radoppia,
e l'alza in aria e nel cader l'accoppia;
si rota intorno e se medesma vibra,
e ne' suoi modi e ne' suoi moti erranti,
fatta rota d'amor, volge gli amanti.
China a tempo il ginocchio e l'aurea testa
con bell'atto soave,
e posando la danza, ergesi grave;
poi si spicca in un salto, agile e desta,
che leggiero nel voi s'erge tant'alto,
che dubbioso non sai s'è volo o salto.
Va con breve ed armonico intervallo,
regolato da l'arte,
or da la manca or da la dritta parte;
fugge e rompe la fuga in mezzo al ballo,
e ne l'ordine suo mutando gioco,
la credi in uno ed è ne l'altro loco.
Mentre fuor dal bel lembo aurato e bello
de la gonna sua vaga
spinge il pie delicato, ogn'alma impiaga;
par la punta del pie strale novello,
che spedito e veloce in mezzo i petti
fuor da l'arco d'Amor l'alme saetti.
Forse scesa qua giù la bianca luna
dai volubili calli,
ha traslati fra noi gli eterni balli ?
o pur nova d'amor vaga fortuna,
rendendo altri infelice, altri beato,
volge in vario tenor l'umano stato?
Da si belle e si rapide carole
apprendete voi, stelle,
a danzar colà su più vaghe e belle.
Ore, ancelle del di, figlie del sole,
che danzando là su guidate il giorno,
fermate il ballo ad ammirarla intorno.
234 LIRICI MARINISTI
E voi ditemi ancor, nunzi volanti,
che con alto governo
regolate del ciel l'ordine eterno:
da quei zaffiri mobili e rotanti,
ch'han nel danzar si numerosi corsi,
danzatrice si bella è scesa forsi?
Già di là rispondete, e già v'ascolto
dai celesti zaffiri :
— Donna umana non è costei che miri ;
se veder brami il ciel, mira quel volto;
mira quel pie, ch'in maestà reale
ha dagli angeli appreso il moto e l'ale.
XXJV
LA RICAMATRICE
A Francesco Sacchi
Questa Aracne d'amore,
che con dita maestre adopra l'ago
e con industre errore
prende accorta a fregiar drappo si vago,
l'arteficio e '1 lavor si ben comparte
ch'a natura fa scorno, invidia a l'arte.
Mentre il lino trapunge,
d'acute punte il cor ferir mi sento;
mentre insieme congiunge
e sposa a stami d'or fila d'argento,
ne la testura sua pregiata ed alma
la prigione d'amor tesse a quest'alma.
Su l'ordita ricchezza
move l'agile man tanto spedita,
ch'a quell'alta prestezza
in lei folgori pensi esser le dita,
che fra tremoli rai d'argentei fiori
fan con gelidi lampi ardere i cori.
GIROLAMO FONTANELLA 235
Su la rosa gentile,
ch'animata di fuor le ride in bocca,
il bell'ago sottile
pensosetta talor leggiadra incocca,
ed in quell'atto insidiosa e vaga,
sagittaria d'amor, gli animi impiaga.
Talor col puro dente,
per aggiungere un fil, l'altro recide,
e qua! parca innocente
lo stame ancor de la mia vita incide,
e con alterni ed ordinati modi
mi stringe il cor fra quei minuti nodi.
Palla forse è costei,
ch'agli atti, a l'arti, a le maniere, al volto
ben somiglia colei,
ch'in bellezza e valor senno ha raccolto,
e qual donna immortai dal ciel venuta,
mostra in giovine età mente canuta;
o la tenera Flora
su le tele a provar viene i suoi pregi,
che ricamando infiora
con groppi d'or, con ingemmati fregi
e, di se stessa imitatrice, gode
schernire altrui con ingegnosa frode;
o, novella angioletta,
per dimostrar quegli artefici aurati
ha con industria eletta
i ricami del ciel qua giù traslati ;
poi ch'a far si bell'opre, ad altri ignote,
chi celeste non è, giunger non potè.
236 LIRICI MARINISTI
XXV
AL FIUME SEBETO
Per la fontana nella casa di Francesco .Xardilli
Fiumicello vezzoso,
che con passo lucente
fuor d'un seno petroso
con bel roco vagir spunti nascente,
e discorrendo in tortuosi errori
stampi in mezzo le piagge orme di fiori;
movi il pie susurrante,
peregrin fuggitivo,
e nel corso tremante
sei di posar nel proprio letto schivo,
e girevole e torto in vari modi
col tuo lubrico dente i sassi rodi.
Qual coppiero gentile,
dentro vaso d'argento
a la corte d'aprile
somministri da ber gelido e lento
e, qual musico bel, tra pietra e pietra
del tuo vivo cristal suoni la cetra.
Sei tu povero d'onde,
ma ben ricco di pregi,
ed angusto di sponde
il nome augusto hai d'onorati fregi,
e benché umil per le campagne corri,
per le penne di cigni altero scorri.
Nel bell'orto reale,
che fa scorno a l'Eliso,
per occulto canale
compartito in più rivi entri diviso,
e per opra de l'arte argenti molli,
disdegnando la terra, al cielo estolli.
GIROLAMO FONTANELLA 237
Ivi, limpido e bello,
colorando i bei campi
con argenteo pennello,
mille forme di fior dipingi e stampi
e, gorgogliando entro marmoree conche,
par che mostri parlar, ma in voci tronche.
Passi tacito poi
a le mura beate
ove, seggio d'eroi,
la Sirena inalzò l'alma cittate,
ed in mezzo le vie più illustri e conte
per diletto d'altrui fai più d'un fonte.
Giungi al tetto onorato
del mio caro Nardillo,
e da piombo forato,
prigioniero vagante, esci tranquillo,
e con tremola fuga e dolce suono
fai di specchi cadenti un regio trono.
Qui, tra marmi spiranti
ch'han silenzio facondo,
versi piogge stillanti,
d'argentato licor Giove fecondo,
e di ricco tesor largo e ripieno
mille pesci guizzar ti vedi in seno.
Qui con tremole ampolle
par che placido balli
fuor d'un. picciolo colle,
che con arte s'incurva entro due valli,
ed in ruvida si ma vaga cote
formi in dolce cader lubriche rote.
Qui son musiche corde
le tue linfe cadenti,
onde lieto e concorde
traggi roca armonia di bassi accenti,
che lusinga l'udito e fa che l'alma
de le cure maggior sgravi la salma.
238 LIRICI MARINISTI
Tu, qualora cantando
il tuo dotto signore
va con l'arco temprando
ne la lira gentil fila canore,
qual Castalio novel ti vedi intorno
col drappel de le muse il dio del giorno.
Deh, se stanco egli brama
al suo corpo riposo,
e nel letto richiama
ai suoi lumi talor sonno gioioso,
in pacifico oblio, mentre dispensi
il tuo limpido umor, lega i suoi sensi.
XXVI
ALLA BOCCA
Bella fabbra d'accenti,
vaga culla del riso,
ricca cella d'odor, pompa del viso,
ingemmata prigion di cori ardenti,
amoroso spiraglio onde odorato
esce al foco de' cor tepido fiato;
arco tenero e bello,
eh' hai di minuti avori
le tue saette onde ferisci i cori;
prezioso d'amor nobil cancello,
di corallo e di perle uscio lucente,
pellegrina conchiglia, urna vivente;
fresca rosa animata,
che da gelo e d'arsura
ti serbi intatta e ti mantien sicura;
del palagio d'amor porta ingemmata,
ove ai moti del cor l'aura di vita
trova dolce l'entrar, dolce l'uscita;
GIROLAMO FONTANELLA 239
ricco e lucido chiostro,
ove musiche intorno
fan passeggio le Grazie ed han soggiorno;
bel teatro gentil d'avorio e d'ostro,
ove giostra la lingua e ardente e vaga
con acuto parlar gli animi impiaga;
odoroso giardino,
ove ordiscono i favi
gli Amoretti volanti, api soavi;
puro fonte d'ambrosia aureo e divino,
ove il fervido cor, pien d'allegrezza,
assetato d'amor beve dolcezza;
nova lancia d'Achille,
che con colpi vitali
ne le guerre d'amor gli animi assali,
e traendo di gioia umide stille
giovi poi se ferisci, e a le ferute
con soave baciar porti salute;
tu, fra i brevi confini
di duo labbri giocondi,
l'Arabia accogli e '1 paradiso ascondi;
e con le chiavi di duo bei rubini
apri il cielo agli amanti e in dolci calme
fai lieti i cori e fai beate l'alme.
Saggia e bella riprendi,
persuadi ed alletti,
e sai destare e dominar gli affetti;
preghi, canti, lusinghi, ardi ed incendi
e, con dolce fiicondia, alta e divina,
fai de l'alme e de' cor dolce rapina.
Or ch'in rime ho tessuto
la tua gloria e '1 tuo vanto,
bocca bella e gentil, baciami intanto.
Sia premio il bacio al mio cantar dovuto;
la mercede a la bocca e '1 premio tocca,
che lodò, che cantò te, bella bocca.
240 LIRICI MARINISTI
XXVII
ALLA LUNA
Candidissima stella
che '1 silenzio tranquillo apri nel mondo,
e pacifica e bella
rendi il fosco de l'ombre almo e giocondo,
e de l'umido sonno umida sposa,
abbracciando la notte, esci pomposa;
tu con provvida cura
spargi d'alta virtù gravidi effetti ;
tu, ne la notte oscura,
sagittaria del ciel, l'ombre saetti
e, menando là su danze e carole,
scorri i lucidi campi, emula al sole.
Tu con freno d'argento
reggi, in campo d'orror, carro di stelle;
tu con vago concento
mille guidi nel ciel musiche ancelle
e, reina de' boschi in bianca vesta,
coronata di corna ergi la testa.
Piovi, balia feconda,
su le bocche dei fior manne stillanti,
e soave e gioconda
versi in largo tesor mille diamanti,
e squarciando le nubi intorno intorno,
rendi chiara la notte, emula al giorno.
Apri e chiudi i canali
de le fonti del ciel puri e giocondi,
e con acque vitali
la crescente virtù nei corpi infondi,
e cortese a le piante, amica ai fiori,
spargi in grembo a la terra ampi tesori.
GIROLAMO FONTANELLA 241
Variabile ogn'ora,
fai, mutando color, diverso effetto:
ora pallido ed ora
rosseggiante nel ciel mostri l'aspetto,
e con vario apparir vari figuri
del futuro avvenir segni sicuri ;
or superbo e ripieno
di fecondo licor gonfi il sembiante,
e di Teti nel seno
movi al moto che fai l'onda incostante;
or cornuta hai la fronte e scema i rai,
come parti nel ciel non torni mai ;
or con languido lume
fra le nubi sepolta umida manchi,
or con candide piume
le selve inalbi e le campagne imbianchi,
e risorta fenice alma ed adorna,
rinovando la luce ergi le corna.
XXVIII
AL MELOGRANATO
O piropo de' campi,
ch'emulando la rosa
nel tesor di natura ardi ed avvampi,
e con bocca focosa
par che muto ragioni, e quante belle
hai faville d'amor, tante hai favelle;
tu con vago cimiero,
eh' hai di porpora tinto,
sorgi in campo di fior molle guerriero ;
e di foco dipinto
sfidi il gelido verno, e mentre t'armi,
ne le spine ch'hai tu, dimostri l'armi.
Lirici mariìiisii — 16
242 LIRICI MARINISTI
Tu, fenice de' colli,
col natale de l'anno
rinascendo più bello, il capo estolli
ove i rami ti fanno
glorioso corteggio, e in bel lavoro
la spoglia hai d'ostro e la corona hai d'oro.
Sopra trono di frondi
reggi popol minuto
di vermigli granelli orbi giocondi ;
a ragion t' è dovuto
il bel nome di re, che in vari segni
ne le celle ch'hai tu dimostri i regni.
Per dar vita a' tuoi parti,
che son molli rubini,
pellicano d'amor, t'apri in due parti,
e 'n due brevi confini,
da materna pietà venendo meno,
mostri lacero il fianco, aperto il seno.
In te schiera volante
di solleciti Amori
sugge d'aureo licor manna stillante;
in te Zefiro e Glori
scherzan placidi e belli, e intorno al viso
ch'in tal forma cangiasti, aprono un riso.
Quanti piccioli e belli,
graziosi e stillanti,
chiudi tu globi dolci, aurei granelli;
tanti cori d'amanti,
in compendio bellissimo ristretto,
possiede Lilla mia nel bianco petto.
GIROLAMO FONTANELLA 243
XXIX
A POSILIPO
Paradiso del mare,
vaga reggia d'Amor, trono d'aprile,
Pausilippo gentile,
che, stendendo sul lito ombre gioconde,
incoroni le piagge, abbracci l'onde;
in te placida vola,
refrigerio di vita, aura novella,
aura tremola e bella,
che sgombrando dal cor l'ombre e i martiri,
i sospiri d'amor cangia in respiri.
Sacro albergo a le muse,
odi mille intonar dolci istrumenti :
concertati concenti,
che sopra un legno di bandiere adorno
le sirene ch'hai tu siìdano intorno.
Mille navi dipinte,
ch'hanno prore d'argento e poppe d'oro,
ricche d'alto lavoro,
ti corteggiano intorno; onde in vederle
ne le spume che fai produci perle.
Hai di ricchi edifìci,
prove illustri de l'arte, alteri fregi;
in te vengono i regi,
ed a stanzar ne le tue rive belle
scenderiano gli dèi fin da le stelle.
Sei di Flora e di Teti
grazioso ricetto, altero nido;
e sul colle e sul lido,
con soavi armonie, pari e concordi
le sirene e gli augelli insieme accordi.
244 LIRICI MARINISTI
In te l'alga è smeraldo,
bianca perla la spuma, argento l'onda,
bel cristallo la sponda,
vaga stella ogni fior pura e serena,
gemma fina la conca, oro l'arena.
In quest'antri, in quest'ombre,
spesso il tenero Amor giunge danzando;
in quest'alghe posando,
baldanzosi nel cor, lieti nel viso,
chiaman Cerere e Bacco il canto e '1 riso.
A delizie si belle,
a si dolci armonie ch'in te son mosse,
qui, se muto non fosse,
quando sopra de l'onde ergesi ed esce,
parlerebbe d'amor lo scoglio e '1 pesce.
Salta il curvo delfino
con la coda forcuta entro i cristalli ;
i suoi guizzi son balli
e si attento l'orecchio in te ripone,
eh 'a la musica tua lascia Ar'ione.
Qui non morono i cigni,
come in riva del Po sovente avviene;
qui le belle sirene,
con melodia eh' è di dolcezza ordita,
danno invece di morte altrui la vita.
O bel monte fra' monti,
per delizia de' sensi a noi risorto,
tu, pacifico porto
d'ogni mesto pensier, d'ogn'alma errante,
porti pace al nocchier, requie all'amante.
Grazioso il Tirreno,
con la bocca de l'onde il pie ti baci;
in quest'acque vivaci,
ove danzano ognor ninfe e tritoni,
mentre fiori li dai, perle ti doni.
GIROLAMO FONTANELLA 245
XXX
I PIACERI DELLA VILLA
Ad Isabetta Coreglia
Pace a voi, pinti augelli,
delicate pianure, alme colline,
ombre fresche, erbe molli, aure divine,
solitari recessi opachi e belli,
alti monti, ime valli, orti fioriti,
rotte balze, erme rupi, antri romiti!
A voi lieto ritorno,
del mio povero aver contento e pago,
di silenzio e di pace amico e vago.
Deh, tumulto non sia dov'io soggiorno;
qui stia sepolto ogni mio lieto accento;
a la città non riportarlo, o vento.
Porti l'occhiuta Fama,
che d'applausi si pasce e d'alti fasti,
a l'orecchio civil pugne e contrasti:
chi, fra strepiti avvezzo, avido brama
del fiero Marte esaminar gli errori,
legga pugne, oda trombe, ami furori.
Ma chi, vago de' boschi,
desia d'amica pace intender carmi,
meco venga tra' colli e lasci l'armi:
qui, soletto fra rami ombrosi e foschi,
ove l'ombra cader serena io veggio,
riposato nel cor danzo e passeggio.
Poggio dal piano a l'erto,
e parmi ad ora ad or toccar le stelle
su le cime de' monti altere e belle.
Pendo nel mio piacer dubbio ed incerto,
e dico, asceso in si sublime loco:
— D'arrivar sopra il ciel mi resta poco. —
246 LIRICI MARINISTI
Ivi, mentre respiro,
fra due valli mi fermo ombrose e cupe.
Ove si sporge fuor diserta rupe,
sorger tempio devoto al del rimiro,
aula sacra di Dio, ch'infonde al petto
riverenza, stupor, téma e diletto.
Santo e romito stuolo,
ch'ha di cenere sparsa ispide vesti,
spira qui con silenzio aure celesti :
ricco di povertà, solingo e solo,
ha d'irsute ritorte il fianco avvolto,
scalzo il pie, rozzo il manto e magro il volto.
Aer sacro e sereno,
che di dolci pensier m'empie la mente,
ventilando di là, spira sovente;
d'usignuoli selvaggi il loco è pieno,
ivi vengono e van gli augelli erranti;
ciascun, dubbio, non sai se pianga o canti.
In quel tempio sacrato
tuona concavo bronzo, alto e canoro,
che la sacra famiglia invita al coro:
non da fabbro mortai sembra formato,
ma d'angelica man, che, mentre suona,
come lingua del ciel parla e ragiona.
Ben composto orticello
di spinosi roseti intorno cinto,
godo di vaghi fior smaltato e pinto;
poi, quando spunta il primo albor novello,
lascio le piume e per le siepi ombrose
di qua colgo e di là fragole e rose.
Quante belle farfalle
vagabonde e dipinte aprono i voli,
e quanti arguti e queruli usignuoli
fan qui col canto lor sonar la valle!
Ride il campo ed olezza, e lieto in viso
ogni fior che germoglia apre un sorriso.
GIROLAMO KONTANEIJ.A 247
Qui porporeggia il melo,
là giallo impallidisce il cedro antico.
e con lacero sen lagrima il fico;
di rubini la vite orna il suo stelo,
e di porpora e d' òr pendendo altero
miniata ha la scorza il pomo e '1 pero.
Alzo gli occhi bramoso,
spio tra' rami le fi-utta e '1 braccio stendo,
e qual più mi diletta avido io prendo:
poi vicino ad un lauro il di riposo,
e per frutti gustar soavi tanto,
ho melata la lingua e dolce il canto.
Scorre l'ape soave,
e tanto i suoi susurri in aria ponno,
che mi stillano agli occhi un dolce sonno:
.scende l'ombra da' monti umida e grave:
ecco stridulo il grillo, e in voci rotte
par ch'annunzi la pace e dica: — E nottv. —
Odo a punto a quest'ora
semplicetto cantor d' incólte rime
il villanel, che le sue fiamme esprime;
tratta cava testugine canora,
e con rozzo cantar dolce e concorde,
porge grazia a le voci, alma a le corde.
A quel rustico accento
immerso in un sopor cupo e tenace,
prendo posa tranquilla e dolce pace;
poi de' garruli augelli al bel concento,
salutando de l'alba il novo lampo,
gli occhi desto dal sonno e torno al campo.
Sotto i piedi l'erbetta
lagrimosa mi ride, e sono i pianti,
ch'ella sparge tra' fior, perle e diamanti.
Febo, amico di pace, allor mi détta
mille belli pensier; Febo m'è scorta,
e m'inalza la niente e al ciel mi porta.
248 LIRICI MARINISTI
Qui, leggiadra Coreglia,
ove l'ombre più dolci il monte serba,
meco il di ti vorrei tra' fiori e l'erba.
Ecco il lauro, ecco il mirto, ecco la teglia,
che fra mille d'amor zefiri ameni
mormorando ti chiama e dice: — Vieni. —
Vieni, o saggia Nerina,
pastorella gentil, musica ninfa,
ove giubila qui l'aura e la linfa.
Ma tu, nova fra noi musa divina,
degni fai di tue luci oneste e pure
altri colli, altre ripe, altre pianure.
Tu sotto il clima tosco,
bella italica Saffo, al mondo splendi,
e '1 tuo picciolo Serchio augusto rendi ;
di civil maestà si veste il bosco,
qualor prendi la piva e mandi fuora
dal rubino spirante aura canora.
Mille pinti augelletti
odi intorno cantar dolci e lascivi,
ne le cortecce ove intagliando scrivi.
Riverisce il pastor gl'incisi detti,
e son tanto i caratteri soavi,
che l'ape corre e vi compone i favi.
Cangia l'empia fierezza
in costume gentil l'aspido sordo
e porge al tuo cantar l'orecchio ingordo;
e tanta dal tuo dir beve dolcezza,
ch'a l'armonia de la tua bella canna
il veleno ch'avea converte in manna.
L'aria in vista s'allegra,
dal tuo vago splendor resa tranquilla,
e rose e gigli il ciel piove e distilla;
e benché in spoglia vedovile e negra
apparisci colà, tosto al tuo viso
l'ombra in luce si cangia e '1 pianto in riso.
GIROLAMO FONTANELLA 249
O beata campagna,
felice colle, avventuroso fiume,
che degni fai del tuo cortese lume !
Beato il Serchio ove irrigando bagna,
che, nel suo molle e cristallino gelo
stampando il viso tuo, contiene il cielo.
Io di qua, dove seggio
or fra sacri silenzi ombroso e muto,
col cor t'inchino e col pensier saluto.
Da quest'occhi non vista io pur ti veggio.
Oh stupor non udito, oh strano gioco!
la tua luce non vedo e sento il foco.
XXXI
PER LA MONACAZIONE DI SILVIA DELLA MARRA
Al padre di lei, duca della Guardia
Verginella innocente in bianco velo,
miro pura donzella,
tutta candida e bella,
far de la sua beltà giudice il cielo;
calca i fasti e le pompe e sembra umile,
in sua tenera età, giglio d'aprile.
Nel suo casto voler ferma ed immota,
tronca il biondo tesoro
e consacra quell'oro,
Berenice novella, al ciel devota;
e di Cristo imitando il regio crine,
la sua tenera fronte orna di spine.
Veste candida lana e bianco lino,
che si ritorce in onda
cosi pura e gioconda,
che somiglia in candor terso armellino;
e ben dovea chi di colomba ha il core,
di colomba vestir l'almo candore.
250 URICI MARINISTI
Serba il sacro silenzio i muti nodi
in quel labbro modesto;
ma poi libero e presto
l'apre, dando al suo sposo inni di lodi;
serve con libertà signore immenso,
signoreggia le voglie e doma il senso.
Dentro spine di ferro intatta rosa,
ha del mondo vittoria;
di sua fuga si gloria,
poggia sopra le stelle e in terra posa;
con devota umiltà china i ginocchi
e la mente inalzando abbassa gli occhi.
Prigioniera, a la terra invia più franca
la sua candida mente;
bella, casta, innocente,
alba sembra a la gonna intatta e bianca;
e mentre di pietà raggi sfavilla,
di sue lagrime pie rugiade stilla.
O felici serragli, o sacre mura,
che chiudete e serrate
quel tesor di beltate,
quella gemma d'onor si tersa e pura;
riverente a voi giro i lumi e i passi,
vi saluto con gli occhi e bacio i sassi.
E tu d'opra si pia, signor, ben pago,
godi d'aver produtto
si generoso frutto,
che serba fior di purità si vago;
deh, se paterno amor ti punge il petto,
mostra che 'n ciò sai dominar l'affetto.
— Padre — par ch'ella dica, — oggi m'ascondo
dentro un'angusta cella, »
per fuggir la procella
del tempestoso ed agitato mondo.
« Ben mostra per salvarsi animo accorto
« chi fugge la tempesta e corre al porto ». —
GIROLAMO FONTANELLA 25I
XXX 11
LE DELIZIE DEL SECOLO
Al niarchest> di Villa G. B. Manso
Giace il mondo fra lussi, e l'uomo insano
rende sudditi a' sensi i propri affetti;
prezza crapole e giochi, amante vano,
veste pompe, usa lisci, ama diletti.
Negli agi immersa effeminata e folle
la pronta gioventù marcir si vede:
regna il sonno e la piuma, e l'ozio molle
su le morbide coltri a l'ombra siede.
Miro l'opre e l'usanze oggi diverse
da quel secolo d'or purgato e casto:
le pelli usò chi nudità coperse,
or di serica pompa orna il suo fasto.
In quel primo vagir del mondo infante
era stanza il tugurio a l'uomo imbelle;
or da la terra emulator gigante
edifici sublimi alza a le stelle.
Fa sviscerar da peregrini monti
superbo ingegno i più pregiati marmi,
per farne o logge o preziosi fonti,
che del tempo guerrier durino a l'armi.
Fa ch'i suoi tetti a riguardar si belli
siano d'arte maestra ultima prova:
novi Dedali chiama, e novi Apelli
al suo regio lavor prodigo trova.
L'onda che sprigionata un tempo apriva
da la pomice scabra argentea vena,
che senz'arte correa purgata e viva
tra vaghi fior per la campagna amena;
252 LIRICI MARINISTI
custodita e riposta oggi tra chiavi,
fa per opra de l'arte opre stupende,
con soave rumor dai piombi cavi
le reggie illustri ad arricchir discende.
Non più rustiche paglie, aspri fenili,
rozzi e poveri velli, ispidi stami;
ma molli sete e preziosi fili
fanno al regio suo tetto ombre e ricami.
Pendono in giù per le sue logge arcate
mille d'aureo lavor tappeti industri,
e ne le mura e ne le travi aurate
mille ammiri d'eroi memorie illustri.
Del più famoso e nobile metallo
il suo ricco balcon cerchia sovente,
e dei monti rifei puro cristallo
fa ne le sue fenestre ombra lucente.
Ei, gonfio il cor d'ambiziose voglie,
calcar povero suol rifiuta e sdegna;
pavimenti gemmati, aurate soglie
il suo nobile pie toccar sol degna.
Nel suo morbido letto ombrando il lume,
padiglione si leva alto e pomposo,
e fra lini odorosi e bianche piume
presta al languido corpo agio e riposo.
Vengon a esercitar musiche danze
donzellette lascive in ricca veste;
spirano arabo odor le regie stanze,
e fra dolci armonie s'odono feste.
Fra cancelli d'argento in aria appeso,
prigioniero giocoso, il verde augello
qui da l' India remota a lui disceso,
mille nomi ridir sa vago e bello.
Mille d'argento e d'or conche e vasella
sopra candido lin prepara e spande,
ove miri in sua mensa agiata e bella
odorosi fumar cibi e vivande.
GIROLAMO FONTANELLA 253
Attuffato nel ghiaccio, esposto a l'oro,
generoso Lieo spumante brilla,
che 'n tazza di finissimo lavoro
con soave allegria placido stilla.
Sontuoso teatro, altera scena
di figure e di lumi erge a suo vanto,
ove ispana leggiadra il ballo mena
e marito del ballo unisce il canto.
Ahi, ch'onesto rossor più non inostra
in donnesca bellezza il bianco viso;
lasci vetta in andar gli abiti mostra,
lussureggia nel petto, arde nel riso.
De la chioma sua bionda il campo adorno
con rastrello d'avorio ara e coltiva;
poi vi semina odori e sparge intorno
di licori sabei pioggia lasciva.
A che dentro le pompe alma bellezza,
e tra firegi non suoi giace sepolta?
Schietta e nuda beltà via più si prezza,
tanto meno è gentil quant'è più cólta.
Oh d'umana follia prova superba!
Sa ch'ogni opra de l'arte al fin rovina,
sa che sparsa nel Tebro arena ed erba
ricopre ancor la maestà latina.
Cadde Menfi superba e Caria illustre,
cesse a l'armi del tempo Argo e Micene,
e sepolta in oblio fosco e palustre
fra le nottole sue sta cieca Atene.
Le piramide sue trovi, se puote,
glorioso l'Egitto e '1 Nilo altero;
Troia miri le mura a pena note,
che fér si grande il suo temuto impero.
Trovi Rodi il colosso, Efeso il tempio,
miri tumido Creso oggi il suo trono;
contro i colpi del tempo ingordo ed empio
i romani trionfi ove ora sono ?
254 LIRICI MARINISTI
A che, dunque, inalzar tetti eminenti,
s'ogni fasto mortai rapido piomba?
s'altro non resta a ricettar le genti,
eh 'un freddo marmo, una funerea tomba?
i
XXXIII
CONTRO L'IGNORANZA E L'AVARIZIA DEI PRINCIPi
A Gaspare de Siineonibus
Già d' una piva insuperbito e vano,
che gli pendea dal setoloso collo,
si gonfiò, si levò satiro insano,
ch'osò sfidar, prosuntuoso, Apollo.
— O tu — dicea, — che con aurato scettro
ti fai signor de l'eliconio fiume,
non ti vantar s' hai ne la mano il plettro,
che non è tuo, ma del cillenio nume.
Cedi il tuo vanto all'armonia ch'io reco
con una canna industriosa ed alma;
ma se ceder non vuoi, provati meco,
e premio sia del vincitor la palma.
Prendi il telar de le tue varie corde
ove in musica tela ordisci il suono,
e vedi poi chi nel sonar concorde
fa di noi due più grazioso il tuono.
Io d'armoniche fila ordine industre
luminoso non ho pettine bello;
ma con un legno ruvido e palustre
ti sfido intanto a singoiar duello. —
Udio la voce il biondo arcier canoro
del vantator del rusticale arnese,
ed armando la man di cetra d'oro,
guerrier canoro a la disfida scese.
GIROLAMO FONTANELLA 255
Cinto colà da montanaro stuohj,
fatto l'arcade re giudice al canto,
dal commune parer discorde ei solo
il castalio signor pospose al vanto.
Di ciò sdegnato il sagittario biondo,
eh' è de la lira armonioso arciero,
per castigar tanta follia nel mondo,
rese a Mida l'orecchio ispido e nero.
Ma per coprir l'ingiurioso scorno,
che deforme rendea la regia testa,
la corona adoprò ch'intorno intorno
di scoltura gemmata era contesta.
Con esempio si bello attica musa
sotto favola finta il ver ragiona:
che spesso mente torbida e confusa
va sotto ricca imperiai corona.
Chiude orecchio di Mida in aurea fascia
ricco signor, che vanità gradisce;
perir gì' ingegni amaramente lascia,
le muse sprezza e le virtù bandisce.
Negletti in corte, i peregrini cigni
agiato nido al poetar non hanno;
sotto fero tenor d'astri maligni
d'una in altra città dispersi vanno.
Non è chi merchi i lor soavi accenti,
sol per desio d'immortalarsi almeno;
per inchiostri non cambia ori ed argenti,
cosi bollente ha d'avarizia il seno.
Va ne le reggie a celebrar talora
gli eroici vanti un peregrino ingegno;
ei mal gradito e mal veduto ancora,
premio non trova al suo gran merto degno.
Contro irata fortuna ei per riparo
una povera lira in man si prende;
un frutto coglie in guiderdone amaro,
ch'inasprisce la lingua e '1 gusto offende.
256 LIRICI MARINISTI
Deh, tornate a la luce, al mondo, voi,
Mecenati famosi, eccelsi Augusti,
ch'i poetici ingegni e i sacri eroi
accoglieste a tutt'or pietosi e giusti.
Oggi al mondo non è chi largo e pio
amico venga a sollevar le muse;
per cibo un lauro e per bevanda un rio
hanno, in cima ad un colle accolte e chiuse.
Più d'un nobile ingegno e più d'un vate
sotto scarso destin perir si vede;
ma colpa sol de la moderna etate,
che nega avara a la virtù mercede.
Tesse eroico scrittor bellici vanti,
con la penna intrecciando almi episodi ;
ma dai versi non prende altro che vanti
e per lodi non coglie altro che lodi.
Sparge in mezzo a le corti un'aurea vena
di faconda armonia, ch'in versi scioglie;
ma da mano real cortese e piena,
vena prodiga d'or giamai non coglie.
Stima il garrulo vulgo un che togato
giudica ne le rote i dritti e i torti ;
un ch'ha la lite e la discordia a lato,
cicalator, mormorator di corti ;
un che d'Astrea torcendo i puri sensi,
la nuda verità veste di frode;
corvo inuman, ch'ove a litigio viensi
de l'altrui mal come suo ben si gode.
E chi d'Apollo imitator ne l'arte
ai bianchi cigni è in purità simile,
chi spira amor da le sue belle carte,
come inutile e vano ei prende a vile.
Oh di secolo pravo insania folle,
che l'umano giudizio ombra ed appanna!
Parolette e menzogne il mondo estolle,
e i poetici studi a terra danna.
GIROLAMO FONTANELLA 257
Ma stiasi pur nel suo parer fallace
la sciocca plebe a vii guadagno intesa,
ch'in si povero stato avendo io pace,
lasciar non vo' l'incominciata impresa.
Benché frutti non abbia il sacro monte
e miniere produr non sappia d'auro,
benché poveri umor stilli il suo fonte,
in si povero umor prendo ristauro.
Più mi giova raccòr sterile alloro
tra i silenzi di Pindo alti e divini,
che tra i fremiti rei del rauco fòro
di fruttifera palma ornarmi i crini.
M' è più grato fra cigni essere accolto,
lunge avendo da me discordie e liti,
che di garrulo stuol, fallace e stolto,
i vani applausi e i popolari inviti.
Leggi e riti d'Astrea né do né prendo,
nel causidico fòro amati tanto;
reggo me stesso, e quelle norme apprendo,
che fan puro lo stil, perfetto il canto.
XXXIV
LA MORTE DI MARIANNA
Poiché in cima riposto al regio onore,
quando Erode credea perdere il regno,
vide l'imperio suo crescer maggiore;
pensando aver col temerario ingegno
vinto l'insuperabile destino,
più non temea del ciel castigo o sdegno.
Vedeasi tributario il palestino,
innanzi ai piedi suoi servo il giudeo,
e vòlto a suo favor l'eroe latino.
Lirici mannisti — 17
258 LIRICI MARINISTI
Vedea de' suoi nemici aver trofeo,
di sue fatiche inaspettati onori,
e di nuovo seder nel trono ebreo.
Un di, tornando a' suoi lascivi amori,
condur si fé' la sua real consorte,
che per abiti aveva porpore ed ori.
Egli volea che di sua lieta sorte
godesse ancor la peregrina sposa,
gioisse ancor l'ambiziosa corte.
Ma turbata la vide e in sé sdegnosa,
né a lui, siccome pria, lieta in aspetto,
venne a far di beltà pompa amorosa.
Ei, che nutre per lei si caldo affetto,
che sfavilla in amor, ch'anela ardente,
de l'insolita vista ha dubbio il petto.
— Qual cosa, anima mia, fia si possente
a turbarti — le dice, — or ch'io ritorno
d'allegrezza e di gioia ebro e ridente?
Devi tu, mentre ognun m'applaude intorno,
più d'ogni altra goder lieta e festante,
e in diamante segnar si fausto giorno.
Come, o sposa diletta, allegra avante
non mi fai di tue braccia oggi catena,
nel tuo sen non m'accogli avida amante?
Lasso, ogni mio gioir converti in pena,
mentre in si bella eclissi oggi m'ascondi
vista si dolce candida e serena.
Chi ti turbò, cor mio, ben mio? rispondi!
Farò, farò che '1 temerario mora,
che fu cagion de' tuoi dolor profondi.
Oh Dio, che cosa è quel che il cor t'accora?
di' pur, comanda pur; quanto richiedi
eseguirò, per compiacerti, or ora.
Non solo io vo' che '1 regno mio possiedi,
ma il dominio del cor siati concesso;
sia tuo quanto in Giudea scopri e rivedi.
GIROLAMO KONTANIil.LA 259
Comanda pur, ch'obedirotti appresso;
in servo umil mi cangerò da sposo,
farò del tuo voler legge a me stesso.
È tempo ormai eh' io prenda àlmen riposo
ne le tue braccia, ove tu puoi bearmi,
queste piume premendo ebro e gioioso.
Ma s'a guerra d'amor godi sfidarmi,
placa le luci tue spietate e crude,
e poi, bella nemica, accingi l'armi.
Prima ch'a la battaglia io serva e sude,
sia questo letto l'odorato campo,
l'armi di tua beltà mostrami ignude.
Fonte de' miei piacer, spegni il mio lampo,
sazia la sete mia, poich'in amore
tutto anelo, sfavillo, ardo ed avampo.
Incatenami il collo, e a tanto ardore
giungi meco anelando, avvinto e stretto,
seno a sen, labbro a labbro e core a core. —
Ma, per frenar l' irregolato affetto
del lascivo suo re, l'ebrea reina
mostrò nel volto aver sdegno e dispetto.
— Troppo la tua ragion s'abbassa e inchina
a dar licenzioso ai sensi il freno,
troppo dal dritto amor torce e declina.
Spegni — dice — il bollor ch'accogli in seno;
come i popoli tuoi reggendo vai,
si le sfrenate voglie accogli a freno.
Moderi altrui né te corregger sai ;
le città signoreggi, ed or si folle
da' sensi tuoi signoreggiar ti fai?
Gran vergogna è d'un re se in ozio molle,
a lascivie ed a lussi in preda dato,
non dà freno al furor ch'ai cor li bolle.
Tu, che eserciti indomiti hai domato,
d'un lascivo desio resti abbattuto,
d'un fugace pensier resti espugnato? —
26o LIRICI MARINISTI
A tal dir resta il re tacito e muto,
qual veltro che famelico talvolta
sol per ésca cercar resta battuto.
Ei vergognoso altrove i passi volta,
e la sete del cor soffrendo ardente,
l'onda eh' in van bramò vedesi tolta.
Da la mensa ritorna il di seguente;
di dolcezza e di vin ebro e fumante
di lussuria avampar maggior si sente.
Verso il caro suo ben corre anelante,
ma, scacciato di nuovo, egli s'accorge
di nemica beltà trovarsi amante.
A la repulsa infuriato ei sorge
dal letto maritai rapido e presto,
quando in premio d'amor tant'odio scorge.
La cagione saper brama di questo;
ond'ella irata al fin con questi accenti
fece noto il suo cor turbato e mesto:
— Vuoi, traditor, ch'ai tuo voler consenti
e chiami te, che nell'amarmi infingi
e bugiardo nel dir falseggi e menti?
So come le tue frode ombri e dipingi
di falsità; come, amator fallace,
l'infida lingua a lusingarmi spingi.
Se questa (qual si sia) beltà ti piace,
e s' io ti serbo fé costante e forte,
come, o crudel, ch'io viva oggi ti spiace?
Se mi leghi in amor dolce consorte,
come per atterrar l'egra mia vita
nodo in me trami poi d'occulta morte?
Non hai tu con Soemo insidia ordita,
che da lui resti uccisa? Empio mio fato,
misera me, si a torto oggi tradita!
Questo è l'amor che tu mi porti, ingrato?
questa dunque è la fé? Va', ch'io non credo
a parole di re crudo e spietato.
GIROLAMO FONTANELLA
Ahi, de le frodi tue tardi m'avvedo;
altro porti nel petto, altro hai nel viso,
e mentito è l'amor ch'in te già vedo.
Non ti bastò d'avermi il padre ucciso,
soffogato il german, l'imperio tolto,
ed il trono usurparti e starvi assiso?
E ancor contro di me, perfido e stolto
incrudelirti vuoi, donna innocente,
che quel ch'asconde al cor, mostra nel volto. —
A tal parlar tutto di rabbia ardente,
uscito fuor di sé grida il tiranno:
— Tanto ardisci tu dir, donna insolente?
T'ho scoperta infedel, non più m'inganno,
e la fé che macchiata io non vedea,
m'apre i lumi a veder l'occulto inganno.
Tal secreto scoprir chi mai potea
se non un che ti gode, ama ed adora,
ed abbraccia nel sen femina rea?
Fra tormenti farò ch'esposto or ora
di tua camera sia l'empio custode,
e l'adultero tuo pur seco mora.
Si, si, scoperto ho ben l'iniqua frode;
folle chi più si fida in donna errante,
ed a la sua beltà dà vanto e lode ! —
Da lei parte nemico ov'era amante,
nel parlar, nel trattar fiero e sdegnoso,
di furor, di dolor caldo e fumante.
Va nel trono a seder ricco e pomposo,
e del passato e ricevuto scorno
non può coi suoi pcnsier trovar riposo.
Di fulgido diadema il crine adorno,
fra cento squadre di guerrieri e cento
eroi togati, signoreggia intorno.
Sotto un gran ciel di luminoso argento,
calcando sotto il pie porpore ed ori,
con alta maestà porta spavento.
202 LIRICI MARINISTI
Con un sol guardo sbigottisce i cori,
e col pie tempestando il regio soglio
sveglia e desta del cor l'ire e i furori.
Poi, sbuffando in parlar l'ira e l'orgoglio,
con un tuono di voce alto e spietato
fa palese il furor, noto l'orgoglio.
— Or prendete Soemo — ei grida irato -
e innanzi agli occhi miei vo' che l'infido,
pena debita a lui, resti svenato. —
A pena di sua bocca esce tal grido,
ch'eseguito riman; scusa non giova
a Soemo apportar d'amico fido.
Ciascun rabbino il suo parere approva;
muor l'infelice, e funestando il piano,
l'ira del suo signor rigido prova.
Non s'acqueta perciò l'empio e inumimo,
ma nel furor più bolle e intorno gode
bruttar la reggia sua di sangue umano.
Ma chi può dir la scelerata frode,
eh' incontro Marianna empia cognata
ordendo va col dispietato Erode?
Miser chi di tal gente empia e mal nata
senz'amor, senza fede oggi si fida,
che palese t'accoglie, odia celata!
Accusa l'innocente e afferma infida
come per dar la morte al regio sposo,
procurasse costei tòsco omicida.
Fede le presta il barbaro sdegnoso,
da la furia acciecato e, dentro il petto,
da gelosia, senza trovar riposo.
Chiama il senato a dar sentenze eletto;
vuol che la moglie si condanni a morte,
qual donna rea nel suo reale aspetto.
Ecco in presenza di sua regia corte,
senza temer del tribunal giudeo,
furiosa compar l'alma consorte.
GIROLAMO FONTANELLA 263
Comincia: — Or chi di voi, giudice reo,
condannar temerario or mi presume,
per compiacer si fier tiranno ebreo ?
Ben del giudicio ha ottenebrato il lume,
e ben mostra di senno in tutto oscuro
de l'ingegno tarpate aver le piume.
Scorgo il vostro parer torto ed impuro;
o mi dannate o m'assolvete intanto,
de le vostre sentenze io nulla curo.
Ma chi vi dà tanta baldanza e tanto
ardir di condannar donna innocente,
che di casta riporta il pregio e '1 vanto?
Ben ciascuno è di voi scemo di mente,
che di si crudo e barbaro tiranno
a l'infame parer tosto consente.
Ma il eie! che mira il torto e osserva il danno,
chiamo sol punitor di tanta offesa,
chiamo vendlcator di tanto inganno ! —
Cosi, sdegnosa in atto e in volto accesa,
la donna ferocissima dicea,
senza cercar, senza trovar difesa.
Bella, casta e gentil, sovra ogni ebrea
riportava il trionfo, ergea la palma,
s'eguale a la beltà modestia avea.
Ma donna cosi bella, inclita ed alma,
freno all'ira non diede, e nel bel volto
la luce intorbidò di si bell'alma.
Non deve spirto in regie membra accolto
farsi signoreggiar, servo del senso,
da l'insano furor torbido e stolto.
Sgombri il fumo de l'ira in petto accenso,
che del chiaro intelletto offusca il sole,
qual nemico vapor torbido e denso.
Costei, quantunque sia di regia prole,
troppo nel suo garrir si mostra audace
ed in furie trabocca ed in parole.
264 LIRICI MARINISTI
Ma si scusi, eh' è alfin d'alma vivace;
e, se troppo nel dir sciolta si vede,
è proprio de la donna esser loquace.
Fra tanti, ecco un rabbin si leva in piede,
in senil gravità non visto eguale,
ed al re di parlar licenza chiede.
Fu di parer, scusando il sesso frale,
costei non meritar si rea sventura,
ma ben dannarsi in prigionia reale.
Ma questa, d'alma intrepida e sicura,
di modestia passando il segno ardita,
da la morte scampar punto non cura.
— Su, toglietemi — grida — or or la vita;
per non veder si barbaro spietato,
bramo far da' viventi oggi partita.
Si, si, verrò nel sonno a te più grato,
e con flagel di lividi serpenti
ti sferzare quel cor perfido e ingrato.
Ombra infesta verrò da l'ombre ardenti,
e se '1 cielo a patir là giù ti danna,
ministra io ti sarò di rei tormenti. —
Anco la madre (oh crudeltà tiranna!)
approva quanto il re fra' suoi consiglia,
ed a morir tanta beltà condanna.
Senza bagnar di lagrime le ciglia,
senza mostrar pietà, rigida prende
a incrudelir contro la propria figlia;
e la sgrida e l'accusa, odia e riprende;
cieca, la sua follia non vede espressa,
ch'in offender costei se stessa offende.
Ma se fa ciò per non morire anch'essa,
l'empia ancor patirà consimil fine,
né le fia tanta colpa unqua rimessa.
Poi, stendendo la man su l'aureo crine,
troncò col ferro rigido e tagliente
le belle masse d'or lucide e fine.
GIROLAMO FONTANELLA 265
Madre non già, ma fera o furia ardente
parve a l'atto crudel, quando, spietata,
quella chioma troncò, parca nocente.
In mirar che la madre anco sdegnata
era contro di lei, tacque la bella,
muta e mite rimase ov'era irata.
De la sala sul suol le bionde anella
crebber luce a le gemme; e al crin reciso
non più donna real, ma sembra ancella.
De l'ingiusta sentenza al crudo aviso
si parte e va a la morte e gli occhi abbassa,
ed intrepido mostra il cor nel viso.
Move a pianto, a pietà dovunque passa;
solo il rigido re nulla commove,
e più l'anima indura e il core insassa.
Ogni téma dal cor franco rimove,
generosa la morte incontra e abbraccia,
e d'insolito ardir mostra gran prove.
Non smarrisce le rose asperse in faccia;
per dimostrar che paziente more,
piega in forma di croce ambe le braccia.
O stupori lei che dianzi entro il furore
parve stolida tigre, agna or si vede,
tutta mite nel volto, umil nel core.
Al luogo destinato arresta il piede,
piega l'alma cervice e '1 ferro aspetta,
ed al fato ed al ferro inchina e cede.
A darle morte i rei ministri affretta;
ma mori pure, intrepida reina,
che '1 ciel farà del tuo morir vendetta!
Il carnefice a lei già s'avvicina,
sguaina il brando e lo solleva in alto,
e sul candido collo il colpo inchina.
Tingendo il suol di porporino smalto,
che dal vivo alabastro esce in canali,
spicca il teschio reciso in aria un salto.
266 LIRICI MARINISTI
Chiuse in sonno leteo gli occhi fataH,
che sotto l'arco di quel nobil ciglio
fùr di vivo splendor fonti vitali.
Tosto in pallido cangia il bel vermiglio,
e ne la guancia delicata e pura
come neve fioccata appare il giglio.
Morta, con gli occhi ancor gli animi fura;
ciò che d'allegro appar, ciò che di fausto
ne la corte real tosto s'oscura.
Tal fu di Marianna il caso infausto,
la falsa accusa, il fin tragico e rio;
ma, d'innocenza candido olocausto,
casta e bella in amor visse e morio.
VT
SALOMONI - MORANDO - BRIGNOLE SALE
GIUSEPPE SALOMONI
I
BRAMA DI FORZE MOLTIPLICATE
Qualor ti miro, oh che gentil diletto
nascer in me da quel mirar sent'io!
Qualor t'ho fra le braccia, idolo mio,
oh che dolce piacer m'ingombra il petto!
Se l'animate rose e l'ostro eletto
ti bacio, dissetando il mio desio,
oh di che manna scaturisce un rio
ai labbri miei dal tuo baciato aspetto!
Bramo in Argo novello esser rivolto,
di farmi un Briareo sarei contento
e '1 volto de la Fama aver nel volto;
per mirar te con cento lumi intento,
per serbar te con cento braccia accolto,
per poterti baciar con bocche cento!
270 LIRICI MARINISTI
II
I MORSI E I BACI
Famelica d'amor, l'amato volto
al suo caro Filen Lidia mordea,
e sovra il volto stesso indi piovea
di baci un nembo affettuoso e folto.
Ed ei, eh' a lei sedendo in braccio accolto,
or baci or morsi ai labbri suoi rendea,
cosi con voce languida dicea
ver' la bocca bellissima rivolto:
— O di doppio tesor scrigno natio,
bocca de la mia serpe amata e vaga,
stampa pur de' tuoi morsi il volto mio;
poiché de le tue perle egli s'appaga
d'esser ferito e n'arde di desio,
pur che i rubini tuoi sanin la piaga! —
IH
LE FRAGOLE E LA BOCCA
Mentre la bella bocca onde talora
cibi la mia, famelica amorosa,
colà sedendo in su la piaggia erbosa
cibavi oggi di fraghe, o bella Flora;
io, che poco lontan facea dimora
nel grembo assiso a la verdura ombrosa,
con mente insieme stupida e bramosa
mandai dal cor queste parole alora:
— O bocca, alta cagion de le mie faci,
quanto somigli il cibo delicato
di cui pascer te stessa or ti compiaci!
De le fraghe hai l'odor nel dolce fiato,
de le fraghe il sapor ne' cari baci,
de le fraghe il color nel labbro amato.
GIUSEPPE SALOMON 1 ^71
IV
ANTEA
Voi del nome crudel ben degna siete
de l'antico di Libia empio gigante,
poiché, fatta ne l'opre a lui sembiante,
donna superba, i suoi costumi avete.
Forte ei pugnò, voi forte combattete,
con l'arme ei de la man, voi del sembiante;
e s'egli fulminò, voi fulminante,
gigantessa d'amor, l'alme uccidete.
Ver è che voi da l' immortai soggiorno
nasceste, egli dal suol nascer si vide;
egli diforme e voi con volto adorno.
Cosi mi desse Amor, che '1 cor m'ancide
con la vostra beltà, ch'io fossi un giorno
ne la lotta amorosa il vostro Alcide!
DIO, AURIGA DELLE ANIME
L'uomo è nel mondo un corridore umano,
e '1 cavaUer che l'ammaestra è Dio,
che, se talvolta egli si fa restio,
col pie lo spinge in corso e con la mano.
E se talor, precipitoso, insano,
s'avventa ove '1 trasporta il suo desio,
con duro fren che di sua mano ordio.
dal mortai precipizio il tien lontano.
E se superbo calcitra e sdegnoso,
stancandolo per strade alpestri e felle
nel maneggio si fa più rigoroso.
Se poi gli scopre alfin sue voglie ancelle
e corre seco al ciel, gli dà, pietoso,
biade d'eternità, stalle di stelle.
272 LIRICI MARINISTI
VI
IL PENSIERO AMOROSO
Oh quanto a te degg'io,
pensier, compagno errante
d'amor, cervier de l'alma, Argo del core!
Tu fuor del petto mio,
spiritello volante,
per dar riposo al cor t'alzi a tutt'ore;
per te dolce l'ardore,
il languir m'è soave,
il penar non m'è grave,
ed obliando il mio dolore immenso,
spensierato son io sol quando penso.
Tu, corrier pronto e desto,
ver' madonna ten voli,
e più la giungi allor eh 'è più fugace;
indi veloce e presto
ten riedi e mi consoli
con risposta gentil, muto loquace:
— Soffri — dicendo — in pace;
che s'or languisci ardendo,
tosto arderai gioiendo,
e ricco mietitor, nocchiero accorto,
corrai la mèsse e giungerai nel porto. —
Tu, nuovo e strano Apelle
per me ti fai sovente,
sol per mostrarmi il mio bel sole espresso,
e con tempre si belle,
con color si lucente,
fìngendo il vai, che '1 simolacro spesso
s'agguaglia al vero stesso;
anzi pingerlo sai
e colori non hai
e pennel non adopri, e mentre fingi,
pittore e non pittor, pingi e non pingi.
GIUSEPPE SALOMONI 273
Ma di ciò non contento,
ogni chiuso sentiero
varchi d'onor malgrado e di fortuna;
e quindi in un momento
vivo il suo cibo e vero,
quando Giunone è bianca e quando è bruna,
porti a l'alma digiuna;
ma pur più spesso alora
che notte il ciel scolora,
e tu, volando per gli orrori suoi,
porti, notturno ladro, i furti tuoi.
Alor si ch'io m'aggiro
fra le notturne piume
felice amante e fortunato appieno.
Quivi lieto rimiro
degli occhi amanti il lume
splender tra l'ombre agli occhi miei sereno;
quivi mi scorgo in seno
tutto il mio ben raccolto,
e cosi dir l'ascolto:
— Godi e prendi da me pur la mercede,
o mio caro fedel, de la tua fede. —
Quand'io, ch'ardo e mi sfaccio
di gioia e di diletto,
a diletto maggior ratto m'accingo,
e lei, eh 'a prova in braccio
chiuso mi tiene e stretto,
con parole e con man tocco e lusingo;
e dico: — I' pur ti stringo,
già dispietata, or pia,
viva catena mia,
e pur ritengo qui spirante e vera
te, mia bella prigion, ma prigioniera. —
Quinci, a le labbra amate
giunte le labbra amanti,
con qualche oimè dolcissimo mi dolgo,
Lirici marinisti
274 LIRICI MARINISTI
e le rose baciate
con le rose bacianti,
qua] famelica pecchia, involo e colgo.
Dai baci al fin mi volgo
con più dolce desire
dolcemente a morire,
e con la vita mia, col mio tesoro,
restando in vita, esco di vita e moro.
Qui frena, alma mia stolta,
la lingua audace e sciolta;
pon freno al canto ormai che ti distorna,
e fra il silenzio al tuo pensar ritorna.
VII
IL RISO
Qualor da bel desio
tratto gli occhi e la mente,
gli occhi e la mente al mio bel sole affiso,
si dolce al guardo mio
si scopre e si lucente,
che da me dolce il cor resta diviso.
D'oro è il crin, d'ostro il viso;
ma più che l'oro e più che l'ostro eletto
il crine arde e fiammeggia,
il viso arde e lampeggia;
d'alabastro è la man, d'avorio il petto,
e nel bel ciglio splende
fiamma d'amor che mille fiamme accende.
Ma se per mia ventura
riso lucente e chiaro
scopre fra tanti rai sue fiamme accese,
luce mirar più pura,
raggio trovar più caro,
non san le luci a rimirarlo intese.
GIUSKPPK SALOMONI 275
Riso vago e cortese,
riso figlio del cor, pregio sovrano
di natura e splendore
di bellezza e d'amore,
toco contende, a te s'agguaglia invano
bianco sen, nero ciglio,
bianca man, biondo crin, volto vermiglio.
Tu, dolcemente uscendo
fuor per gli interni calli,
quasi da fosco ciel chiaro baleno,
e dolce un uscio aprendo
di perle e di coralli,
m'apri soavemente il core e '1 seno.
Quel tuo dolce sereno
si dolce foco entro il suo lume asconde,
ch'ognor più l'alma mia
accesa esser desia;
si chiari ognor, si dolci ognor diffonde
quei raggi ond' io m'accieco,
che tanto veggio sol quanto son cieco.
Tu l'alma ardente e vaga
feri e pungi a tua voglia,
e sei fulmine al cor, se lampo agli occhi ;
ma si dolce è la piaga,
si soave la doglia,
che d'estremo i^iacer vien ch'io trabocchi.
.Si dolce il cor mi tocchi,
riso dolce e gentil, si vago sei,
che spesso in fra i martiri
ridono i miei sospiri,
ridon nel cor ridente i dolor miei,
e dolcemente intanto
ne le luci e nel cor ride il mio pianto.
Quanto dal ciel si serra, ,
quanto è nel cielo accolto
ride e nel riso sol vago si mostra.
276 LIRICI MARINISTI
Ridente è della terra
il verde grembo e '1 volto,
e di ridenti fior s'orna e s'inostra.
Ne la sua cupa chiostra
con crespo volto il mar ride ed affrena
l'aura che stride e geme,
l'onda che piange e freme.
Ride al riso del mar l'aria serena,
e negli aerei campi
ridon le nubi e son lor riso i lampi.
Ride spiegando il velo
e di ridenti orrori
la notte il chiaro volto a l'aria imbruna;
e di ridente gelo
spargendo l'erbe e i fiori,
nel suo ridente ciel ride la luna.
Per l'ombra azzurra e bruna
nel notturno seren spiegan le stelle
ridenti i crini d'oro,
ridenti i raggi loro;
e con le rose sue ridenti e belle
fa l'alba in ciel ritorno,
tutta ridente dal balcon del giorno.
Scopre ridendo il sole,
quando al ciel splende e s'erge,
di ridenti fiammelle il crine ornato;
e pur ridendo sòie,
quando nel mar s'immerge,
tuffar tutto ridente il carro aurato.
Riso, riso beato,
tanto hai di bello in te, tanto in me puoi,
che, sciolto il fren tenace
a la favella audace,
ornai dirò eh' un sol de' raggi tuoi
faria, tra '1 pianto eterno,
quasi sereno ciel rider l'inferno.
GIUSEPPE SALOMONI 277
Canzon, figlia del riso, indegna figlia
di padre si gentile,
sol tu resti al suo lume oscura e vile.
vili
PALINODIA
Già menzognero e stolto
biasmai, vecchia gentile,
il tuo sen, la tua chioma e '1 tuo bel volto.
Or, cangiando pensier, vo' cangiar stile
e farti udir d'ogni menzogna mia
una palinodia.
Tu cortese m'ascolta, e mira intanto
vòlto in gloria il tuo scorno e '1 biasmo in vanto.
D'argento è la tua chioma,
ma pur cosi d'argento,
più che se fosse d'or m'allaccia e doma;
ed o sia chiusa in treccia o sciolta al vento,
più che se fosse d'or, m'alletta e piace;
e d'argento è la face
e la saetta insidiosa e vaga,
che l'anima m'incende e '1 cor m'impiaga.
La tua fronte serena,
che fu già di beltade,
sparsa di bianchi fior, piaggetta amena,
dal freddo aratro de la vecchia etade
solcata è, si, ma con quei solchi sui
produce ai cori altrui
di diletto e di duol confuse e miste
soavi biade e rigidette ariste.
Le tue ciglie falcate,
l'inarcate tue ciglia
ond'han gli Amori ancor le destre armate,
sembrano (oh meraviglia!)
278 LIRICI MARINISTI
inutil arme e fragili stromenti;
ma più che mai possenti
sen van co' loro arcieri e mietitori
mietendo l'alme e saettando i cori.
Le tue luci leggiadre
languiscon, ma languendo
non restan già d'esser rapaci e ladre,
o di far si ch'io non languisca ardendo.
Son vecchie; ma sent' io sempre per loro
giovane il mio martoro,
ed ai lor giri il prencipe degli anni,
fatto stupido amante, arresta i vanni.
Pallidetto ed esangue
nel tuo languido viso
co' suoi vecchi augelletti anch' egli langue
de le Grazie e d'Amore il paradiso;
ma pur non men leggiadro e non men dolce;
l'anime alletta e molce,
né dopo la lor morte i cor piagati
che volano lassù fan men beati.
La tua bocca rosata,
bel tesoro de' baci
e del parlar soave arca animata,
non teme de l'età l'unghie rapaci;
ma con la sua ricchezza fuggitiva
restando ognor più viva,
con chi baciarla suole ed ascoltarla
dolce più che mai fosse, or bacia or parla.
Il tuo candido seno
di bei pomi la.scivi
lieto orticello e giardinetto ameno,
dolci non men né men leggiadri e vivi
scopre, benché sian vecchi, i frutti suoi;
ma serba ancor tra noi
l'antico stile, e con suo pregio eterno
sprezza del tempo la tempesta e '1 verno.
GIUSEPPE SALOMONI 279
La tua man bella e bianca,
tocca da la vecchiezza,
sembra dal lungo saettar già stanca;
ma languendo non langue e di bellezza
alcun vanto non perde, anzi n'acquista,
e ben quest'egra e trista
anima il sa, che se per lei dolente
sentiva un colpo già, mille or ne sente.
Crespa hai la gola e crespe
le guance e crespo il petto,
ma son, mercé d'amor, quelle tue crespe
trofei di leggiadrìa, non di difetto;
e qual più bel con crespo volto il mare
sedendo in calma appare,
tal tu, mar di beltà, con crespa faccia
mostri ai nocchier d'amor la tua bonaccia.
Si, si, bella mia vecchia,
vecchia sei ma leggiadra,
e nel tuo bel la giov^entù si specchia;
tu sei vecchia guerriera e vecchia ladra,
che in pugnar e rubar sai più d'ogni altra
esser possente e scaltra;
teco Amor pargoletto invecchia, e vuole
teco invecchiando incanutire il sole.
Canzon, sen vola il tempo,
ma non temer però le sue quadrella,
che diverrai ne l'invecchiar più bella..
28o LIRICI iMARINISTI
IX
ALLA CICALA
O rauca si, ma rara,
stridola si, ma cara,
de la dea biondeggiante
messaggera volante;
de la stagion più fruttuosa e calda
canora insieme e strepitosa aralda;
questa acerba tua voce
offende, ma non nóce;
ruvidetta e loquace
spiace a l'orecchie e piace;
anzi mai sempre è con diletto udita,
e quanto è più spiacente è più gradita.
Ne la stagion novella
riede la rondinella,
e col suo metro dolce
l'aria addolcisce e moke;
ma, foriera d'aprii, tromba di Clori,
che n'annunzia di buono altro che fiori?
Quand'apre il riso il suolo,
ritorna il rosignuolo
a scior tra i fior ridenti
armonici lamenti;
ma che fa l'armonia sua lusinghiera?
Nunzio il suo canto è sol di primavera.
Cent' altri augelli e cento
stendon le piume al vento
e van spiegando a prova
melodia rara e nova,
mentr' ha di fiori il Sol gravido il raggio;
ma che portan, cantando, altro che maggio?
Delicati augelletti,
cantori lascivetti
son questi, che di buono
GIUSEPPE SALOMON!
non hanno altro che '1 suono,
e sol tra noi mortali han questo vanto
ch'han dolce si, ma infruttuoso il canto.
Ma tu vie più felice,
sonora ambasciatrice,
col tuo, non men che grave,
stridor caro e soave,
n'annunci or per le selve or per le rive
la venuta del cibo onde si vive.
Tu sembri alora quando
t'affatichi cantando
dir al villan, che lasso
al Sol raggira il passo:
— Suda e raccogli, o mietitor, la spica,
che madre del riposo è la fatica ! —
Sembri una tromba agreste,
che richiami e che déste
del rustico guerriero
il braccio adusto e nero
a far col ferro suo torto ed acuto
strage del biondo esercito granuto.
Ma che? non s'ode stile
al tuo pari o simile;
ti cede il r aparino,
t'onora il lucherino,
ed è col calderugio e col fringuello
presso il tuo rauco stil rauco il fanello.
Vinto ti cede spesso
il rosignuolo anch'esso,
ritien presso te muta
Progne la lingua arguta,
né spande augel per l' aria o voce od ala,
che divenir non brami una cicala.
Né già per meraviglia
deve altri alzar le ciglia,
se tu fra gli altrui canti
282 LIRICI MARINISTI
riporti i primi vanti;
poiché sol da la forza ardente e viva
del dio del canto il tuo cantar deriva.
Ouand'ei con l'aurea lampa
in ciel pili forte avampa,
e col raggio che bolle
tormenta il piano e '1 colle,
alor tu senti in te ben mille e mille
di poetico ardor spirti e faville.
Alor l'alte tue rime,
poetessa sublime,
con indefessa vena
sciogli, di furor piena,
e fai veder altrui eh' a te non sòie
dettar si nobil canto altri che '1 sole.
Qui potrei dir eh' un die
alle dolci armonie
di spiritoso ingegno
fosti spirto e sostegno,
mentre accoppiasti il suon che M mondo ammira,
di rotta corda in vece a la sua lira.
Ma questi, ancor ch'egregi,
son troppo antichi pregi ;
son queste in ogni parte
glorie già note e sparte;
si che più tosto con stupor si denno
lodar senza lodar, che farne cenno.
Io vo' ben dir ch'io vidi
or nei campi or nei lidi,
ove tu dispiegavi
gli strepiti soavi,
l'ali ritrose e i passi fuggitivi
quinci arrestare i venti e quindi i rivi.
E vidi spesso ancora
star la turba canora
or tra i faggi or tra i mirti
GIUSEPPE SALOMONI 283
con diletto ad udirti,
per imparar da la tua voce eletta
([ualche bel madrigale o canzonetta.
Vidi i rami baciarti,
vidi le fronde ornarti
e, tratti da' tuoi carmi,
correr i tronchi e i marmi ;
e vidi il carro aurato il dio di Delo
spesso arrestar, per ascoltarti, in cielo:
quel dio ch'assai più brama
le tue canzoni e l'ama,
vie più che l'armonia
d'Euterpe e di Talia,
e fa, fermando i corridori adorni
per udirti cantar, più lunghi i giorni.
Ma dove incauto e stolto
follemente ho rivolto
le temerarie note?
Lodarti appien chi potè
con cetra d'armonia tumida e pregna?
Tu sol te stessa di cantar sei degna.
BERNARDO MORANDO
I
INVOCAZIONE DEL BACIO
O coralli animati, o vive rose,
caldi rubini e porpore spiranti,
de l'orto de le Grazie usci fragranti,
de l'amoroso ciel porte odorose;
o del diletto uman mète gioiose,
de l'erario d'Amore arche gemmanti,
o soavi prigion d'anime amanti,
o fonti del piacer, labra amorose;
s'in voi l'anima mia gli spirti suoi
raccoglie mai, qual fia di me più pago?
qual fia ch'altro piacer più brami io poi?
Di men puri diletti altri sia vago;
io più non chero, o dolci labra, e in voi,
quasi in mio centro, ogni desire appago.
BERNARDO MORANDO 285
II
INAPPAGAMENTO DEL BACIO
Ecco pur, labra mie, rompeste al fine
l'amoroso digiun nel cibo amato;
avete pur il nettare libato
da l'animate rose porporine.
Or che più bramo? Ahi, che non giunge a fine
il desio sitibondo innamorato:
bevver le labra e il cor resta assetato,
baciai le rose e sento al cor le spine.
Bevvi, assaggiai non so s'ambrosia o fiamma;
so ben ch'il fiero ardor più sempre abbonda,
né de la sete mia manca pur dramma.
Come ad egro talor sete profonda
breve sorso non tempra, anzi l'infiamma,
cosi io bevvi gran foco in picciol'onda.
Ili
INAPPAGAMENTO IN AMORE
Ben veggo. Amor, che il cibo tuo non pasce,
o pur pascendo accresce fame al core;
a pena un tuo desio tramonta e muore,
eh 'un altro sorge e pargoleggia in fasce.
Un sol desio che muore avvien che lasce
ben cento eredi, ognun di sé maggiore:
idra se' tu di mille capi. Amore,
a cui più d'uno, al troncar d'un, rinasce.
Sei di Tantali mille un lago A verno,
una ruota immortai d'alme meschine,
dei cori umani un avoltoio eterno.
Sei mar che non ha termine o confine,
confin di questa vita e de l'inferno,
inferno in cui l' ardor mai non ha fine.
286 LIRICI MARINISTI
IV
LA RACCOGLITRICE DI CASTAGNE
Lascia di coglier più ricci pungenti
con quella man si delicata, o Filie,
e a goder ombre amene, aure tranquille,
qui sotto ai tronchi lor meco trattienti.
Tante punte spinose, ah, non paventi,
che traggon da la man purpuree stille?
No, che d'Amore a mille strali e mille
anco resisti e i colpi lor non senti.
Ma il mio cor da quei strali è a tal ridutto
(tanti per te già ve n'infisse Amore),
eh' un riccio appunto ei rassomiglia in tutto.
Noi somigli già tu; ch'egli di fuore
aspro è ben si, ma dentro molle ha il frutto;
tu sei molle nel volto, aspra nel core.
v
LA FILATRICE DI SETA
China il sen, nuda il braccio, accesa il volto,
sottilissime fila Egle traea
da ricchi vermi, ove bollendo ardea
breve laghetto in cavo rame accolto.
Vago de la sua man, semplice e stolto,
il mio cor tra quei vermi arder godea,
e la ruota volubile avvolgea
lo spirto mio tra quelle sete involto.
Ella con l'empia man, ch'ardor non teme,
nudi rendea fra i gorgoglianti umori
i bombici di spoglie e me di speme;
ed agghiacciata il cor fra tanti ardori,
bella parca d'amor, filava insieme
ricche spoglie a le membra e lacci ai cori.
I?KRNAKUO MORANDO 287
VI
L'AMANTE E GLI OCCHIALI
Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto,
di sferici cristalli i lumi armai ;
che se per te mancò già spirto al petto,
or luce agli occhi, ecco, mi manca omai.
Fui lince pria, ma poi che gli occhi alzai
de' tuoi begli occhi al troppo chiaro oggetto,
quasi gufo dal Sol vinto restai :
nacque (\a la tua copia il mio difetto.
Indi per tua fierezza io piansi tanto,
che questi umori incristalliti in giro
da le vene del cor trassi col pianto.
Ma che prò, s'a me l'alma onde t'adoro
manca, non che la luce onde ti miro?
Se miro, abbaglio, e se non miro, i' moro.
VII
IL DENTE MANCANTE
Centra il tiranno Amor, cui sempre cura
fu d'opprimere i cor con pene e pianti,
ordirò già ben mille offesi amanti,
agognando vendette, aspra congiura.
Fèssi il foco in Amor giel di paura:
fuggi; volse a te, bella, i pie tremanti,
che del tuo cor nei rigidi adamanti
s'avvisò di trovar magion sicura.
Ma, rispinto dal cor, dentro la bocca
fra quei muri d'avorio ei tutte accolse
le forze sue, quasi in munita ròcca.
Là da l'ordine eburno un dente tolse,
onde stassi in agguato e i dardi scocca,
onde, presa la mira, al cor mi colse.
LIRICI MARINISTI
Vili
ALLA COMICA LAVINIA
Mentre con umil socco in cari accenti
tutto il regno e i tesori apri d'Amore,
non è, Lavinia, chi gli strali ardenti
per te d'amor non senta dolci al core.
Se col coturno spieghi aspri lamenti,
non è cor che non gema al tuo dolore;
se favellando giri i rai lucenti,
alma non è che non ne provi ardore.
S'apri le labbra al riso o gli occhi al pianto,
non è si duro cor, che a te soggetto
possa di libertà più darsi il vanto.
Ma, sia tragico o lieto, ogni tuo detto
è sempre finto, ed altri prova intanto
non finto duol, non finte piaghe al petto.
IX
A UN'ATTRICE DI TRAGEDIA
Quando al lugubre suon di mesti accenti,
bella e faconda mia, sfogasti in scena
per tragico accidente interna pena,
pendè tacito ognun da' tuoi lamenti.
Né mai si dolce a le sue voci attenti
tenne nocchieri in mar blanda sirena,
né in selva rinovò mai Filomena
con si soave suon casi dolenti.
Allor che tu piangesti, a que' tuoi pianti
piansero mille luci, al tuo pallore
fùr visti impallidir mille sembianti.
Ma un solo e finto strai del tuo dolore
fé' doppia e vera piaga a mille amanti,
e fu piaga di duol, piaga d'amore.
BERNARDO MORANDO 289
X
ALLA CANTATRICE ANNA RENZIA, ROMANA
Vaga ninfa del Tebro, a cui concessa
è de' teatri oggi la palma e il vanto,
che a la vaghezza, agli atti, al riso, al canto
si eccedi altrui, ch'hai già l'invidia oppressa;
perché l'alma mi togli? omai, deh, cessa;
ferma la voce armoniosa alquanto,
che di dolcezze in mar si vario e tanto
l'anima fuor di sé perde se stessa.
Anzi, pur segui, o bella, i cari accenti,
che se per te da l'alma io son diviso,
per te m'unisco a le beate menti.
In estasi elevato io già ravviso
l'angelica armonia ne' tuoi concenti,
la celeste beltà nel tuo bel viso.
XI
INVITO ALLA POESIA NELL' INIZIO DELL' ESTATE
Su la cetra del ciel poeta il sole
muove già de' suoi raggi il plettro ardente,
e de le sfere al suon con pie lucente
guidan stelle brillanti alte carole.
Mille nel regno suo musiche gole
apre Giuno a cantar soavemente,
e fin l'arsa cicada il suon stridente
spiega in vece di canti e di parole.
A lieti versi in dolce mormorio,
tra dipinte pietrucce e bianchi marmi,
la voce di cristallo apre ogni rio.
Chi fia dunque di noi che più risparmi,
amici, il canto ad incantar l'oblio,
se il tutto in terra e in ciel c'invita ai carmi?
Lirici marinisti — 19
290 LIRICI MARINISTI
XII
ESTATE E VINO
Non più benigni raggi, amici lampi
sparge, ma vibra il Sol dardi nocenti:
tacciono in mare i flutti, in aria i venti,
manca il rio, secca il prato, ardono i campi.
Perché da tanto ardor s'involi e scampi,
cerca ogni fera indarno ombre e torrenti;
par che diluvi il cielo influssi ardenti
e in pelago di fiamme il mondo avvampi.
Arsiccio il suol con tante bocche e tante
quant'apre in lui caverne il fiero ardore,
chiede invan refrigerio al ciel fiammante.
Or chi dunque sarà che ne ristore?
Amor no, ch'ei non meno arde ogni amante:
Bacco, sia nostro scampo il tuo liquore.
XIII
A GIOVAN VINCENZO IMPERIALE
per la sua villa di Sampierdarena e pel suo matrimonio con Brigida Spino!
Quanto la terra e l'acque han di gentile,
quanto natura ed arte han di diletto,
Clizio, quasi in compendio hai tu ristretto
ne le tue ville, appo cui Pesto è vile.
Qui stagna più d'un lago al mar simile,
qui scorre più d'un rio ch'erboso ha il letto,
e del verno crudel quivi al dispetto,
coronato di fior s'eterna aprile.
L'acqua ne' fonti in vari scherzi ondeggia,
gode la terra in villa, e ricca mole
sostien sul dorso, imperiai tua reggia.
Le bellezze del ciel mancavan sole:
or non più no, poiché fra lor lampeggia
Brigida tua, ch'ha ne' begli occhi il sole.
BERXARDO MORANDO 29T
XIV
A GIOVAN VINCENZO IMPERIALE
esiliato da Genova con la pena dell'ostracismo.
Clizio, un animo grande, un petto augusto
fra limiti ristretto esser non suole:
gira il tuo nome ovunque gira il sole,
varcato ogni confin, di gloria onusto.
Pari a quel grande, con dolor ben giusto,
per teatro un sol mondo aver ti duole;
che sembra questa immensa e vasta mole
al magnanimo cor carcere angusto.
Or dunque fia, mentre del suol nativo
si contende al tuo pie la bella Arena,
che a si gran cor sia brev' esilio a schivo?
Genova, di te priva, esili in pena;
tu, fuor di lei, non sei di patria privo;
patria t' è degna il mondo e degna a pena.
XV
LE MASCHERE DI CARNEVALE
Folle volgo, che fai? Deh, chi t'ha tratto
di senno in cosi stolida maniera,
che di forma indegnissima straniera
copri quel volto eh' è di Dio ritratto?
Di vergogna e d'onor spogliato affatto,
vesti tra spoglie finte infamia vera,
e mostri sotto maschera di fera
che col volto anco il cor ferino è fatto.
Già di mentito vel coperto il petto
e di virtù tra finte larve involto,
d' ire incognito il vizio ebbe diletto.
Or che vede baccante a fren disciolto
il mondo -errar sotto larvato aspetto,
nudo ei trionfa e smascherato il volto.
292 LIRICI MARINISTI
XVI
L'AVARIZIA PUNITA
A istanza di Ferrante Porta Puglia
O de le umane brame
la più cieca e più ria, brama de l'oro,
sacra, esecrabil fame,
che un fango vile usi chiamar tesoro;
che non fai? che non puoi?
qual non cede uman petto agli urti tuoi?
La vergine Atalanta,
non men ch'agii di pie, stabil di voglia,
di libertà si vanta,
ma un pomo d' òr di libertà la spoglia;
avida d'aureo nembo,
porge la bella Danae a Giove il grembo.
Per mercé d'auree armille
Tarpeia offre a' sabini il gran Tarpeo,
e con mill'arti e mille
scossa da Brenno invano, al fin cadeo
per la mercede istessa
da l'or più che da l'armi Efeso oppressa.
Né sol cura si vile
molle femineo seno abbatte e atterra,
ma con palma virile
vince i togati in pace, i duci in guerra,
e quasi dir potrei
che sforzano anco i doni uomini e dèi.
Ove l'or folgoreggia,
ogni altro lume, ogni fulgor s'oscura;
virtù più non lampeggia,
non più splendor di nobiltà si cura.
Ben l'età d'oro è questa,
se in pregio altro che l'oro oggi non resta.
BERNARDO MORANDO 293
Tu, di virtute amico,
che da vizio si reo l'anima hai sciolta,
Puglia, di ciò ch'io dico
nuovo esempio verace in prova ascolta:
vedrai ch'a l'oro cede
nobiltade ed amor, virtude e fede.
Fiamma d'amor s'apprese
nel casto sen di duo leggiadri amanti ;
una bella, un cortese,
ambo di sangue, ambo d'onor prestanti;
di pregi alti e gentili,
di costumi e d'etate ambo simili.
Alme più belle e fide
non legò, non accese Amore unquanco,
né spogliato ei si vide
per più bella cagion di strali il fianco:
già con eguali aff"etti
una sol 'alma e un cor tengon due petti.
Imeneo già s'invita,
che stringa ai degni cor nodi più degni ;
quando serpicrinita
furia flegetontea turba i disegni
e, perché l'or prevaglia,
quei che dà legge a lei con l'oro abbaglia.
D'oro e di gemme altero,
ei destina a la bella altro consorte,
di nazion straniero,
di nome ignoto, inferior di sorte,
tale nel cui lignaggio
di chiara nobiltà non splende un raggio.
A lo splendor vetusto
d'alta stirpe gentil l'oro prevale;
per l'oro, oh cambio ingiusto !
amor, fede, valor ponsi in non cale;
di lei, ch'invan contende,
la liberiate a prezzo d'or si vende.
294 LIRICI MARINISTI
Stupido e mesto insieme
restò il fedele a la ria nuova acerba;
pianse sua verde speme
da l'altrui falce d'or troncata in erba,
e con sospiri atroci
cosi fra sdegno e duo! sparse le voci:
— Dunque, o bella e crudele,
cosi in fumo svanisce il nostro foco?
Dunque, del tuo fedele
la costanza e l'amor curi si poco,
che perfida, incostante,
lasciar puoi me per vii straniero amante?
Perché di biondo peso
ei gravi ha l'arche e via più grave il core,
fia da te vilipeso
un tesoro di fé che t'offre Amore?
Deh, per lo spregio indegno
ver' te lo stesso Amor s'armi di sdegno!
Che tu d'amor non goda
col nuovo amante i frutti Amor permetta;
fame eterna vi roda
fra le mense d'amor per mia vendetta,
né i maritali cibi
a me dovuti il mio rivai delibi.
Presso oggetto si bello
si strugga in van, né il suo desio s'acchete;
ei, Tantalo novello,
in mezzo a si bell'acque arda di sete
e tu, qual Mida avara,
non men qual Mida a star digiuna impara. —
Del buon fedel deluso
l'alte querele al terzo ciel salirò,
né fu il suo voto escluso,
ma il fin bramato i prieghi suoi sortirò;
che al talamo disdetto
fu da Ciprigna avara ogni diletto.
BERNARDO MORANDO 295
Di gemme alti tesori
fan de la bella '1 portamento adorno;
di sposerecci onori
tutta risplende alteramente intorno,
ma senza cibo alcuno
disperato Imeneo langue digiuno.
Tale al fin, qual partio,
lo sposo al patrio suol si riconduce,
e col primier desio
seco la bella inviolata adduce,
a cui dal fianco avvinto
Venere ancor non ha disciolto il cinto I
XVII
LA VISITAZIONE
Luminosa stendea l'aurora in cielo
de' primi raggi il suo vermiglio ammanto;
altra aurora spargea più chiari intanto
ne' monti di Giudea raggi di zelo.
Quella d'un breve fuggitivo sole
al mondo promettea povera luce;
questa del sole onde quel Sol riluce
chiudea nel sen meravigliosa prole.
Che non può santo zelo? Ecco vagante
quella eh 'a noi del ciel le strade addita,
peregrina d'amor per via romita,
ver' la cognata umil move le piante.
Gran merto, e che non può? Gli angeli a schiere
ecco, per addolcire a la gran diva
de l'alpestre caniin la noia estiva,
scendon qua giù da le celesti sfere.
Sospende altri di lor serico tetto
sul regio capo a riparar gli ardori ;
altri d'Arabia i più pregiati odori
versa d'intorno al virginal cospetto;
296 LIRICI MARINISTI
altri onor trionfale in più d'un arco
inalza, ove la dea sue glorie scorge;
evvi intanto chi umile il braccio porge
del divin braccio a l'onorato incarco;
parte di passo in passo, a coro a coro,
temprando a vario suon musiche note,
rinovan là de le celesti rote
il concento dolcissimo canoro;
molti di rose non caduche e frali,
ch'ebber stelle per stelo e rai per spine,
vanno intrecciando al sacrosano crine
ghirlande incorrottibili, immortali;
parte col ventilar di leggier volo
le spira intorno zeffìri celesti ;
parte, ov'avvien ch'il sacro pie calpesti,
di rari fior va lastricando il suolo.
Il suolo istesso, ov'ella i passi move,
si fa di fiori in mille guise adorno;
l'aura che spira, a lei sospira intorno;
il ciel nembo di grazie in sen le piove.
S'alza ogni basso fior, quasi che brami
de la veste real baciare il lembo,
e per fioccarle i dolci frutti in grembo
ogni pianta sublime inchina ì rami.
Che dico? anco ogni sfera in ciel s'atterra
a riverire, ad adorar tal nume;
e per farsi più chiaro a si gran lume
il ciel desia di tragittarsi in terra.
Che meraviglia è ciò, s'ebbe desio
di farsi il sommo Verbo anch' ei terreno?
Ma un ciel pur anco è quel vergineo seno,
che quivi è il ciel dove sua stanza ha Dio.
Vanne, animato ciel, vanne felice,
che la felicità teco s'annida:
Dio ti sia scorta, anzi tu a Dio sii guida,
poiché Dio stesso oggi portar ti lice.
BERNARDO MORANDO 297
XVIII
PER MONACAZIONE
Alla monacanda vengono presentati una facella, un giglio,
una palma, una corona di spine e una croce
Pagella
Dai tenebrosi orrori
del mondo rio fallace
spingiti, o saggia, fuori;
ecco del ciel la face,
che con interna luce
da l'abisso de l'ombre al ciel t'adduce.
Giglio
Ne' giardini del cielo
dal sommo Sol nodrito
su non caduco stelo
un giglio, ecco, t'addito,
onde al candor de' gigli
con virgineo candor ti rassomigli.
Palma
Pugna con core invitto,
amazone di Dio;
per te cada sconfitto
nemico il senso rio;
vinci ; sembianza è questa
de la palma ch'in cielo il ciel t'appresta.
Corona di spine
Di momentanee rose
altra il crin faccia adorno;
tu di spine dogliose
cingi le tempie intorno,
che vedrai da le spine
rose di gloria germogliarti al crine.
298 LIRICI MARINISTI
Croce
Ecco il tronco fiorito,
ove il fior nazareno,
dai rai d'amor ferito,
apri languido il seno;
vieni, ed il tronco e il fiore
ti spunti al seno e ti s'alligni al core.
XIX
IL NANO DI NOME « AMICO »
Di che stupido t'ammiri,
tu che miri
la mia picciola statura?
Non fii avara, come credi :
se ben vedi,
mi fu 1 rodiga natura.
Nel mio breve corpicello
il modello
ella fé' d'un gran colosso:
novo Encelado compose
e mi pose
su le spalle un monte addosso.
Quando nacqui, influssi rei
ai di miei
non promise astro nemico;
ma in compendio il ciel cortese
farmi intese
un grand' uomo e grande amico.
S'al di fuori altrui son scherno,
ne r interno
non la cedo al magno Atlante:
picciol son ne la sembianza,
ma in sostanza
corpo nano ha cor gigante.
BERNARDO MORANDO 299
Non mi dir ch'io sia pigmeo,
che non feo
guerra mai che con le gru.
Vieni in prova, se t'aggrada,
con la spada,
s' anch' Orlando fossi tu.
Ben è ver che corto ho il braccio,
ch'ai mostaccio
arrivarti non potrò.
Ma se in alto più non saglio,
io di taglio
sul tallon ti ferirò.
Poco son ma tutto core,
e timore
non alberga nel cor mio;
temo sol quando m'assale
col suo strale
picciol nano qual son io.
Questo è Amor, che, pargoletto,
al mio petto
guerra fa con forze estreme:
ei mi fere e strugge in duolo,
m'arde, e solo
tal nemico amico teme.
ANTONIO GIULIO BRIGNOLE SALE
I
LA CORTIGIANA FRUSTATA
La man che ne le dita ha le quadrella
con duro laccio al molle tergo è avvolta.
L'onta a celar eh' è ne le guance accolta,
spande il confuso crin ricca procella.
Sul dorso, ove la sferza empia flagella,
grandine di rubini appar disciolta;
già dal livor la candidezza è tolta,
ma men candida ancor non è men bella.
Su quel tergo il mio cor spiega le piume
e, per pietà di lui cria tutto essangue,
ricever le ferite in sé presume.
In quelle piaghe agonizzando ei langue;
ma nel languir non è il primier costume
che il sangue corra al cor : ei corre al sangue.
A. G. BRIGNOLE SALE 30I
2.
Segue
Troppo tenero cor, perché, commosso
di questa cruda a la vermiglia vista,
mandi avvolta in « oimè! » l'anima trista,
a insanguinarsi in quel purpureo dosso?
Che sovra lei brutto flagel sia mosso,
più dèi goder quanto ella più s'attrista:
nostro sperar quindi vigore acquista,
è nel suo tergo il suo rigor percosso.
Che se finor con l'amorosa fronte
negò dare al languir dolce soccorso,
anzi le piante ebbe al fuggir si pronte,
or freneralla di vergogna il morso;
poiché per non mostrar le livid'onte
non oserà volgere in fuga il dorso.
3-
Segue
Per qual sua colpa essaminata e vinta
costei, che al bel candor sembra innocente,
sotto le scosse di flagel pungente
il molle dorso a insanguinare è spinta?
Se del mio cor furato appar convinta,
si castighi il suo crin, ch'egli è nocente;
se di mia vita ancisa, il ciglio ardente
paghine il fio: fu da' suoi dardi estinta.
Ah, non è questo il fallo! Ella è punita
perché allor che io le apersi il mio martire
voltommi il tergo e fé' da me partita.
E '1 tergo ha duol. Donne, or da voi si mire,
che non ver' voi giusto rigor s'irrita
pel furare o '1 ferir, ma pel fuggire.
LIRICI MARINISTI
4-
Segue
Verso i giardin di Cipro a voi sciogliete,
vezzosetti Amorini, ali odorose;
dolci viole, morbidette rose
con la tenera man quivi cogliete.
Tra mille e mille quelle sol scegliete
che nelle foglie appariran pietose;
segno ne fia se molli e rugiadose
per lagrime d'amanti le vedrete.
Quindi un flagel ne fate, onde ferita
de l'anime la bella feritrice,
lacerata non sia, ma rabbellita.
Ah, se tardate più, quest'infelice
avrà i colpi da sferza incrudelita !
E sapete chi sia: v'è genitrice.
II
RICORDI DI UNA MORTA
Per la morte di Emilia Adorni Raggi
De l'arrabbiato can sotto i latrati,
sotto il ruggir de l'anelante fiera,
io t' ho visto esalare, o primavera,
di moribondo odor gli ultimi fiati.
E pur sorgi di nuovo e i pregi usati
teco hai di molli fior, d'aura leggiera;
rinascer tosto entro la guancia altera
miro di rose iblee gli ostri beati.
Ma d' Emilia gentil che si morio
più non vedrò le belle guance e i rai,
dove un aprii rilusse, un Sol fiorio.
Degli anni tuoi, mia vita, or che farai?
Vengan pur rose, escan pur gigli, oh Dio,
eh ' un aprile per me non fia più mai !
A. G. BRIGNOLE SALE 303
III
CONTRO LA FEDELTÀ IN AMORE
Chi nel regno almo d'Amore
brama l'ore — trar serene
fuor di pene,
d' una sola amante stolto
non si chiami;
molte n'ami, —ma non molto.
Finga pene per ciascuna,
ma nessuna — abbia la palma
d'arder l'alma;
talor esca in mezzo al viso
breve pianto,
ma fra tanto — in cor sia riso.
La modesta, se ti scaccia,
tu procaccia — che l'audace
ti dia pace;
se la bianca ti beffeggia,
la brunetta
per vendetta -e tu vagheggia.
Quando vede donna bella
che sol ella — nel tuo petto
ha ricetto;
in trofeo, meschin, ti mena,
flagellato,
condannato — a vii catena.
Ma se scorge che tu scaltro,
tosto ad altro — amabil volto
sarai vòlto,
non si mostra più severa,
ma pietosa,
amorosa, —lusinghiera.
304 LIRICI MARINISTI
Quel van titolo di fede,
che ognun chiede -e ognun desia,
è pazzia.
A vestirsi è fede avezza
di candore,
eh 'è il colore — di sciocchezza.
VII
MICHIELE - ZAZZARONl - QUIRINI
Lirici Marinisti — 20
PIETRO MICHIELE
AL RITORNO DALLA VILLA
Qual parti? qual ritorna? e quale io veggio
metamorfosi strana di colori?
e di die larve oscure ombrata è Dori,
se pur Dori costei creder io deggio?
Ove di gelsomini in bianco seggio
la peonia spiegò purpurei onori,
zingane Grazie ed interrotti Amori
sotto ciel di giacinti, ecco, vagheggio.
Forse Febo, a mirar costei rivolto,
le sue rose dipinte ha di viole
per figurar l'Egitto in si bel volto;
o Amor pur ch'oltraggiarmi intende e vuole,
col fumo de le faci, audace e stolto,
abbozzato ha la notte in faccia al sole?
3o8 LIRICI MARINISTI
II
LA BELLA DERUBATA
Quel ch'a la bella mia ladra d'amore
furar sagaci man di ladri erranti,
era l'avaro prezzo onde il suo ardore
vende lasciva a poco onesti amanti.
Ma non già con sospir, non già con pianti
de la perdita sua mostra dolore,
che stimar l'oro avvien ch'ella si vanti
quanto stimò, di chi donollo, il core.
Correte a risarcir con larga usura
de la perdita i danni, o voi rivali
del lascivo piacere della natura.
Move Amor ne' begli occhi aurate l'ali,
e a voi, mentre a costei l'oro procura,
mostra d'oro la face e d'or gli strali.
Ili
AMORI
Tra i rami d'un frondoso ermo boschetto
avea con Filli il pastorel Tirreno,
ebro d'amore e di dolcezza pieno,
bocca a bocca congiunto e petto a petto.
Un diluvio di gioia e di diletto
versava in loro Amor cortese a pieno;
ella giva mancando, ei venia meno,
l'uno con l'altra avviticchiato e stretto.
Accoppiavan le lingue e i dolci baci
confondean co' sospiri, avvinti insieme
com'orno antico ed edere tenaci;
e mentre l'un sospira e l'altra geme,
tra lor temprando l'amorose faci
giunser concordi a le dolcezze estreme.
PIETRO MICniELE 30q
IV
A UN'ATTRICE
che rappresenta la peccatrice convertita.
In preda già de' più lascivi amori,
a cui con piacer vano il mondo invita,
la peccatrice in su l'età fiorita
s'ornò di gemme e profumò d'odori.
Poi de' commessi suoi vulgari errori
passò tra i boschi a sospirar romita
e, mentre apriva a sospirar l'uscita,
aprian per lei del ciel gli angeli i cori.
Tu, mentre in finta scena il mondo insano
segui, poi sprezzi e tra i celesti giri
spieghi lodi canore al re sovrano;
prima tra molli vezzi ogn'alma aggiri,
poi teco al ciel da questo fango umano
per la traccia sen va de' tuoi sospiri.
V
IN MORTE DI LOPE DE VEGA
A la gelida tomba ov'è sepolto
l'esperio Vega e de l'Esperia il vanto,
cinte le muse di funebre ammanto
mostran lacero il sen, pallido il volto;
e, '1 cor già tutto in lagrime disciolto,
gli fan correr intorno un rio di pianto,
e con pietosa man spargonli a canto
dei fior di Pindo un ricco nembo e folto.
E mentre in duro suon geme e sospira
lo sconsolato coro, egra e dolente
chi spezza la sampogna e chi la lira.
A si mesto spettacolo presente
romper anch' egli Amor l'arco si mira,
e nel pianto ammorzar la face ardente.
LIRICI MARINISTI
VI
BACI
Altro piacer non sento
se non quanto di voi, rose vivaci,
porpore rugiadose,
spargo in sonoro stil dolce concento;
e tanto sol mi par che dolce sia
quanto parla di voi la musa mia.
Or, s' ho tanto piacer di voi parlando,
che farei voi baciando?
Da' miei sospiri vinta,
Dori cortese un di dar mi volea
que' baci ch'io chiedea.
Ma, per baciarmi accinta,
ritenne il bacio, pallida e smarrita,
per non esser udita.
Lascia, Dorina, ch'io
faccia a mia voglia a pieno
di mille baci miei segno il tuo seno;
che, sazio che sarà quest'ardor mio,
s'averai poi desio
che la tua bocca bella
goda de' baci anch' ella,
pareggiar ti prometto
i diletti del labro a quei del petto.
4.
Quando, dove s'intese
che chi ferito more
lieto baci il nimico, il feritore?
PIETRO MICHIELE 311
O occhi, o Stelle accese
da le faci d'Amore,
ecco sol nato in me strano desio.
Da voi còlto son io
d'amorosa saetta in mezzo al core;
pur di baciarvi godo,
e la ferita e il feritore io lodo.
Coi più soavi baci
che possan ristorar un cor languente,
tutta d'amore ardente,
la mia donna m'assale.
E mentr'ella m'abbraccia,
par che manchi il mio cor tra le sue braccia.
Fors'è destin fatale,
se m'uccide di doglia e d'amarezza,
che m'uccida di gioia e di dolcezza.
VII
L'INVERNO
Era ne la stagione
che l'aquilon gelato
dagli iperborei monti il freddo porta;
e già l'aureo balcone,
ma di nubi velato,
apria colei che de la luce è scorta;
quando la chiusa porta
del rustico tugurio apri Fileno,
e di nevi ripieno
mirando il prato al furiar de' venti,
vòlto a Filli proruppe in questi accenti!
312 LIRICI MARINISTI
— Deh, non lasciar ancora,
Filli, si frettolosa,
del letto amico le feconde piume;
è pur sorta l'aurora,
ma non già luminosa
arreca il giorno a noi, com' ha in costume.
Ombra '1 suo chiaro lume
nube piena di ghiaccio e cela il cielo
caliginoso velo,
e la terra tra neve orrida involta,
che fu sepolcro altrui, giace sepolta.
A novi scherzi il verno
chiama l'anime amanti,
e chi non sa gioir non merta vita.
Di vivace falerno
colme tazze spumanti
Bacco in tal tempo a rivotar c'invita;
alma del cor gradita,
de' freddi giorni a rinovar l'onore
venga dolce liquore;
e poscia uniti in non usati modi
de l'algente stagion cantiam le lodi.
Cara stagione, amica
di quel dolce riposo
che gode l'uomo affaticato e stanco!
Porge al mondo la spica
il luglio polveroso,
ma rende sotto '1 peso ansante il fianco;
in te robusto e franco,
de' passati sudor il volto asciutto,
gode il bramato frutto,
e lieto il villanel con la famiglia
tra suoni e canti a bel piacer s'appiglia.
L'ostili armate schiere
che fanno d'ogn' intorno
risuonar stragi e cruda errar la morte,
PIETRO MICHIELE 3I3
e con auree bandiere
a pena nato il giorno
de' chiusi alberghi altrui scuoton le porte,
rese nel male accorte
lascian l'armi, e con lor, se non l'ardire,
depongon almen l'ire;
e ammutolito il rauco suon la tromba
altrui più non minaccia e morte e tomba.
L'altre stagioni ornate
portan corona al crine
che, come varie son, varia colori;
le chiome circondate'
hai tu di vaghe brine
e sol godi vestir puri candori.
Co' superbi amatori
eh 'a l'amata beltà professan fede,
che bianca esser si crede,
gareggiando in vestir candido, mostri
che non sta fedeltà sott'oro ed ostri.
Depon la serpe il tòsco,
lascia il leon lo sdegno,
ogni fera più fiera è resa umile.
De le lor furie il bosco
solo è ricetto degno;
stassi illesa la greggia entro l'ovile.
Stagion cara e gentile,
di veder l'anno ancora un giorno io spero
esser un verno intero,
perché 'n te gode sol lieto e giocondo
e la sua pace e la sua gioia il mondo. —
314 LIRICI MARINISTI
Vili
A PAN
Musa, che 'n vario stile
già narrasti sovente
del cor la fiamma ardente,
or accorda la lira
a novo metro, e a maggior gloria aspira.
Cantate meco, o ninfe,
il terror de le belve,
il nume de le selve,
eh' i venti dietro lassa
col pie caprigno e i folgori trapassa.
Or di mortelle e d'edre
coroniamo le chiome,
pria che si canti il nome
de' cui sublimi onori
han Menalo e Liceo gli echi sonori.
Pan, venerabil padre
de le ninfe montane,
che per l'erte più strane
ad arricchir di prede
godi seco di trar veloce il piede;
tu serbi i lieti paschi
e le fontane algenti
agli ovili, agli armenti,
che di terrene manne
ricche pur fan le povere capanne;
morbo maligno o suono
di malefiche note
o lupo mai non puote
nuocer a quella greggia
ch'una volta de te sola si veggia.
Oh felici quei boschi
che, quando tu talora
PIETRO MICHIELE 3I5
con armonia sonora
chiami l'amato nome,
ombra ti fan con le frondose chiome !
A le tue rime, ai versi
i canori augelletti
son vinti e i zefiretti,
e '1 cristallino rio
raddolcisce al tuo canto il mormorio.
Han men dolci gli accenti
i cigni d' Ippocrene
e con men grate avene
Filomena infelice
le sue sciagure altrui cantando dice.
La dea di Cinto, quella
che nel cielo s'adorna
d'inargentate corna
e negli azzurri calli
degli eterni zaffir guida i suoi balli ;
vinta di grazia e d'arte,
di scorno arder si vede,
e confusa ti cede
quando in leggiadri modi
con l'amadriadi tue danzar tu godi.
Qualor, da! sonno oppresso,
godi affannato e stanco
di riposar il fianco,
letto ti porge il prato
ed ombraggio la selva amico e grato.
Aure fresche e soavi
movono i venticelli,
e con canzon gli augelli,
le più dolci che sanno,
la tua quiete lusingando vanno.
I più bei fiori a gara,
candidi e porporini,
ne' più vaghi giardini
3l6 LIRICI MARINISTI
colgon le ninfe, e poi
ti consacra ciascuna i doni suoi.
Questo, di rozza musa
inno selvaggio, anch'io
ti sacro, agreste dio:
tu non prender a sdegno
povero don di mal sonoro legno.
IX
ALLA NOTTE
O notte, o de le stelle
imperatrice altera,
ch'in mezzo appunto a la celeste sfera
ricca ten vai di quelle,
perdona a me s' intanto
rompo il silenzio tuo muto col canto.
Ne le tenebre antiche
dolce desio mi mena
le tue lodi a spiegar, diva serena.
Le canore fatiche
sacro a te de l'ingegno,
se pur non son di tanta grazia indegno.
Tu, se d'ombra velata
succedi al sole in cielo,
pomposo d'astri a dispiegar tuo velo,
d'argentei raggi ornata,
Espero ti precorre,
e se in mar cadi, in mar dietro ti corre.
Con le tenebre ascondi,
quand'è invecchiato, il giorno,
che fanciullo sen fa poscia ritorno.
Tu di quiete abbondi,
onde riposa il fianco
l'uom da l'opre diurne afflitto e stanco.
PIETRO MICHIELE 3^7
Te regnando, han riposo
tra i frondosi arboscelli
de le selve canore amici augelli;
tu l'umor rugiadoso
spargi sul prato, e avvivi
tra l'erbe verdi i fior di vita privi.
Di quella onde tu pura
rugiada abbondi ognora,
la biada degli altrui campi s'irrora;
e di cibarsi han cura
di questa pur quei fochi,
che t'illustrano ognor d'aurati fiochi.
AUor le belle ninfe,
coronate di fiori,
forman di danze più leggiadri cori.
Le naiadi tra linfe,
e i piedi ai balli han pronti
oreadi e napee tra selve e monti.
Tu, de' studi amatrice,
a vigilar c'invogli,
cupidi di saver sugli altrui fogli:
tu rendi altrui felice,
mentre facile e piano
rendi il giogo di Pindo aspro e sovrano.
Caramente nel seno
tu gli raccogli e dai
ristoro ai lor martir, pace ai lor guai;
e sol, tu sola, a pieno
di ritrovar ti vanti
ne le guerre d'amor pace agli amanti.
Tu, mentr'io taciturno
a ritrovar m' invio
Dorina, il mio bel Sol, l'idolo mio,
col tuo velo notturno
rendi i miei passi occolti,
si ch'altri non mi veggia e non m'ascolti.
3l8 LIRICI MARINISTI
Al ritorno io prometto
con più soave stile
a la lira accordar plettro gentile,
dandoti in ogni detto
tante lodi veraci,
quanti saran de la sua bocca i baci.
X
A SE MEDESIMO
trovandosi in Dalmazia nelle guerre del Turco con Venezia
— Lascia, Pietro, la penna. Invan coltivi
con vegghiati sudori
de r Eliconio suol le sacre piante.
Vana fatica è di pensiero errante
bramar fronda d'alloro
e d'Aganippe dissetarsi ai rivi,
quando i traci Gradivi
movon armi sanguigne e cheggion tutta
veder Europa a' piedi lor distrutta.
Son seguaci de l'ozio, e de la pace
tracciano l'orme i cigni
e sogliono sprezzar tromba guerriera;
dove il latonio dio canoro impera,
crudi affetti maligni
non sa destar ne' petti infernal face;
testudine loquace
suole a gloria invitar, ma non a quella
gloria che fra le stragi a morte appella.
È de l'aonie suore immortai vanto
col plettro e con la cetra
l'altrui fama involare al cieco oblio;
e se talor del bellicoso dio
alzan l'imprese a l'etra.
PIETRO MICHIELK 319
reso soggetto a le lor lingue il pianto,
è perché deve il canto
d'ogni degna virtù ch'a lui si mostri
porger materia ad ingegnosi inchiostri.
Perch'espongano i petti a la diffesa
de' combattuti regni,
non vende Apollo a prezzo i suoi seguaci.
Sol contro '1 tempo a guerreggiare audaci
sanno i canori ingegni
ar a l'ingorda età lodata offesa;
pur che d'applausi resa
a le fatiche sia degna mercede,
in Cirra maggior premio altri non chiede.
Parte alcuna non ha de' studi suoi
commune il sacro coro
del bistonio signor co' duri affanni ;
sa tra le morti immortalar gli eroi
e più verde l'alloro
rinova inaridito in grembo agli anni.
Sol Marte armato è ai danni
de l'altrui vita e a vincitrice tromba
accompagna sovente infausta tomba.
Ma cangiate l'età cangian costumi,
Pietro, e deponer dèi
su tanti fogli la stancata penna:
poco di gloria a tue vigilie accenna
tenor di fati rei, ,
che privi i carmi ha d'apollinei lumi.
Versar molti volumi
che vai, s'alma non v'è che i versi lega?
Fuor che di Lete, ogn' acqua a te si nega.
Lascia dunque la penna, e si procuri
eternar il tuo nome:
s'agì' inchiostri è vietato, il faccia il sangue.
Forza a la destra tua so che non langue
per circondar la chioma
320 LIRICI MARINISTI
de' fregi eh 'a virtù non siano oscuri.
Fia che morte congiuri
contro le tue fatiche invano, quando
vorrai di penna in vece oprare il brando.
Qual ardimento in nobil cor non desta
de la patria l'affetto,
ch'ad oprar meraviglie eletto parmi?
D'innumerabil aste espone a l'armi
il generoso petto,
e sol tra mille Orazio ultimo resta;
da marzial tempesta
salve del Tebro le fugate squadre,
più che figlio di Roma, a Roma è padre.
Ma che giova il narrar del Lazio antico
l'ardimento più chiaro,
quando raggio più bel Venezia spande?
Vantano i tuoi maggiori eroe più grande,
di cui giungere al paro
alcun non può d'eccelsi fatti amico.
Di Domenico io dico,
de' Michieli rampollo, augusta prole,
d'Adria e d'Europa tutta unico sole.
Imperator de le falangi armate,
fulmine de la guerra,
sempre invitto domò barbare genti.
Del Saracino stuol l'armi possenti
vince in mar, vince in terra,
quasi sian le vittorie a lui sol nate.
Prodezze non usate !
Allor ch'altri ha timor de la sua fuga,
acquista Tiro e i suoi nemici ei fuga.
De la città le mura, ove sepolto
di Dio sen giacque il figlio,
restar per lui da' rei tiranni illese.
Serva la sorte al suo valore ei rese;
suo manto a vermiglio
PIETRO MICHIELE 321
tinse a' petti nemici il sangue tolto;
più che tra gli astri involto
sostenendo diadema e scettro regio,
la sua propria virtute a lui fu fregio, —
Col lusinghiero suon di queste note
di me stesso io solea
bellicoso pensier destar nel seno,
quando, d'ingiusti sdegni il cor ripieno,
tracia Bellona rea
i campi funestar d' Illiria puote;
ma sepolte ed ignote
l'imprese son che la modestia copre,
e nega il premio invidia a le degn'opre.
Lirici marinisti — 21
PAOLO ZAZZARONI
I
A UNA ZINGARA
Zingaretta gentil, eh 'a nove genti
il passo peregrin girando vai,
e tra mille disagi e mille guai
trascorri in povertà l'ore dolenti;
cosi benigno il ciel d'affanni e stenti
te tragga e '1 lungo error fermi; se mai
t'appressi del mio sole ai dolci rai,
spiega questi per me supplici accenti:
— Glori, v'è un tuo fedel, che sospirando
per le bellezze tue pietà richiede,
né può il" misero più viver penando. —
Per questo avrai da me doppia mercede:
argento prima, e poscia, il ver narrando,
a la tu' arte acquisterai più fede.
PAOLO ZAZZARONI 323
II
IL NEO
Per accrescer di fregi opra maggiore
ornò di neo brunetto Amor quel viso,
che qual pittor industre ebbe in aviso
di spiccar con quell'ombra il bel candore.
Sotto la guancia ove rosseggia il fiore,
vezzoso splende in compagnia del riso;
atomo sembra in quel sembiante assiso
per far centro di gloria al dio d'amore.
Sorse in quel cielo e seco alba gemella
in due luci spuntò, quand'ei defunto
al doppio Sol languia picciola stella.
Da quel loco però non fu disgiunto;
ch'Amore, in terminar faccia si bella,
lasciò de l'opra al fin quel neo per punto.
Ili
EPITAFFIO DI UNA PULCE
Spirto guerriero io fui mentre il ciel volse;
a l'ultimo destin l'ora fatale
mi richiamò; qui poi tutto il mio frale
amica mano in breve fossa accolse.
Gran colpo fé' chi l'anima mi tolse,
ch'atomo aver credea sorte immortale;
ma l'arciera crudel col giusto strale
in si picciolo punto anco mi colse.
Qual fosse il mio valor, la fama il dice;
lo sanno i petti vostri, o donne, ch'io,
dove non punse Amor, mòrsi felice.
Appresso i miei trofei sepolcro pio
avrei di Glori in sen, ma non mi lice
la tomba aver sul Campidoglio mio.
324 LIRICI MARINISTI
IV
LA VITE IMPORTUNA
Vite importuna, al viver mio rubella,
quanto m'offende il tuo malnato stelo,
mentre col verdeggiante ombroso velo
il mio bel Sol m'ascondi, invida e fella!
Lo tuo frondoso crin laceri e svella
del più freddo aquilon l'orrido gelo;
tuoni da l'alte nubi irato il cielo
e versi sul tuo capo empia procella.
Ma teco forse a torto ora mi sdegno;
chi sa che Glori, al mio martir costante,
non apprenda pietà da quel tuo legno?
che, mentre tu con tante braccia e tante
stretta t'annodi intorno al tuo sostegno,
impari anch'essa ad abbracciar l'amante?
v
LA DONNA PREGANTE
Da la sua bella stanza, ove divote
Glori le preci sue dal cor sciogliea,
colmi d'ogni pietate orando ergea
gli occhi stillanti a le stellanti rote.
Al centro ove tenea le luci immote,
supine ambe le mani ella volgea,
ove dai labri ancor volar facea
su l'ali de' sospir calde le note.
— Beltà che supplicando e piange e plora
ah, che non può! — diss'io: — ben certo piega,
non che '1 cielo a pietà, l'inferno ancora. —
Ma mi disse un pensiero: — Indarno prega
costei, che si crudel m'affligge ognora,
che non trova mercé chi altrui la nega. —
PAOLO ZAZZARONI 325
VI
IL GIORNO DELLE PALME
In sacro tempio, ove divota schiera
seguia di Cristo i trionfanti onori,
con verde ulivo in man vidi mia Glori
al volto, ai gesti umilemente altera.
— Oh ! — dissi alor — ha pur la mia guerriera
dal cor diposto i suoi natii furori,
mentre con nova insegna a' miei dolori
pace e speme promette ond' io non pera.
Con simil ramo ancor, doppo che '1 fio
pagò sommerso il mondo in mar vorace,
segno di tregua ebbe Noè da Dio.
Ma si cruda quest'empia ognor mi sface,
che porta quelle frondi a creder mio
sol per trionfo suo, non per mia pace. —
VII
LA SIGNORA E L'ANCELLA
Per doppio incendio mio m'offre fortuna,
entro un albergo sol, serva e signora
d'egual beltà; se non ch'a questa indora
natura il capo e a quella il crin imbruna.
L'una rassembra il Sol, l'altra la luna,
o questa l'alba appar, quella l'aurora;
arde l'una per me, l'altra m'adora,
e d'ambo io sento al cor fiamma importuna.
Misero, che farò? dovrò fors' io
sprezzar l'ancella? a la bramata sorte
chi scorta mi fia poi de l'idol mio?
Ah, ch'ambe io seguirò costante e forte;
e se '1 destino arride al bel desio,
o l'una amica o l'altra avrò consorte.
32Ó LIRICI MARINISTI
Vili
LA LAVANDAIA
Su quel margo mirai donna, anzi dea,
succinta in veste, il crin disciolto ai venti,
ch'assisa in curvo pin fra i puri argenti
gl'immondi panni al fiumicel tergea.
Se da l'umido Un l'onde spremea
la mano al cui candor le nevi algenti
s'annerano, il ruscel con rochi accenti,
amando la prigion, sciolto fremea.
Più pure a lei correan l'acque sul lido,
ch'ai volto la credean di Cipro il nume
che le bende lavasse al suo Cupido.
Di beltà cosi rara al dolce lume
arsi tradito in elemento infido,
e crebbi le mie fiamme in mezzo al fiume.
IX
ALL'ADIGE
Figlio de l'Alpi, ondoso peregrino,
che con orme di gel stampi il viaggio,
e qual umido serpe ov' hai passaggio
lasci strisce d'argento in sul camino;
al tuo liquido vetro e cristallino
l'olmo s' inchioma e si riveste il faggio;
a la tua reggia illustre eterno omaggio
paga divoto ogni ruscel vicino.
Dal mormorio che formi in son si chiaro,
tanto m'alletti il senso e l'alma bèi,
ch'io, benché mergo, esser canoro imparo.
Per tue glorie emular dir più devrei;
ma che scriver poss' io, se dolci al paro
non son de l'acque tue gl'inchiostri miei?
PAOLO ZAZZARONI 32?
X
L'ARCA DI RE PIPINO
nella basilica di San Zeno in Verona
O tu, che per sentier torto e celato
scendi tra questa cava erma e romita,
sol per veder quaggiù d'urna fallita
un vedovo ricetto, un marmo alzato;
l'avel qui dentro al gran Pipin fu dato,
quando dal mondo al ciel fece salita;
ma quindi poi da mano ignota e ardita
fu con la spoglia il cenere furato.
Ora, di quello in vece, altro stupore
per ammirar di novo è qui rimase,
d'un vivo fonte il rinascente umore.
Mira qui da vicin per entro al vaso
stemprarsi il sasso in limpido licore,
quasi pianga del furto il tristo caso.
XI
LA TOMBA DI TAIDE
Taide qui posta fu, la più perfetta
dispensiera de' gusti al molle amante.
Lettor, s'ardi d'amor, fatti qui inante,
che stesa in questo letto ella t'aspetta.
LEONARDO QUIRINI
I
LA PENITENTE
Per una principessa italiana,
che dopo vita d'amori si chiuse in monastero.
Costei che già di mille amanti e mille
libero a voglia sua resse l'impero,
e con lascivo sguardo e lusinghiero
dai più gelati cor trasse faville;
con occhi mesti e di pudiche stille
gravidi, ad or ad or volge il pensiero
a rintracciar de lo sfuggito vero
qualche vestigio almen fra caste ancille.
O di mentita fé perfido zelo !
Chiude i leggiadri angelici sembianti
entro ruvidi panni e rozzo velo,
per far, Circe d'amor, con novi incanti
inamorar di sue bellezze il cielo,
sazia del fasto de' terreni amanti.
LEONARDO QUIRINI 329
II
TRISTEZZA DELLA VITA SENZA AMORE
Care fatiche e fortunati affanni
fùr quelli ch'io soffersi allor ch'amai;
or che libero son, colmo di guai
consumo i di miseramente e gli anni.
D'amico sen fra i dilettosi inganni
riponmi, Amor; che del mio sole a' rai
l'estinto foco ravivando ornai,
vo' riparar de la tua face i danni.
Prega dunque, signore (e fien tuoi preghi
lingue de le mie fiamme), il viso amato
che di nova catena il cor mi leghi;
che fra due belle braccia, or che n'è dato
ch'ai giogo antico il mio pensier si pieghi,
fia dolce libertà l'esser legato.
Ili
AMORI
Qualor le labra a le tue labra accosto
e de l'anima il fior suggo coi baci,
da due rose sent'io fresche e vivaci
aura spirar di cinnamo e di costo.
Poi di teco morir, Glori, disposto
in fra nodi scambievoli e tenaci,
mentre suscita Amor dal sen le faci,
loco tento più dolce e più riposto.
Pugnando allor con gl'impeti del core,
nel sen con la man candida e vezzosa
neghi l'alma raccor, ch'uscir vuol fòre.
Ma de la brama fervida amorosa
con la destra temprando il fiero ardore,
s'una man fu crudel, l'altra è pietosa.
330 LIRICI MARINISTI
IV
IN MORTE DI GIAMBATTISTA SORDONI
ucciso mentre assoldava genti per Levante
Morto è il Sordoni. Invida man recise
con la vita di lui l'impiego degno,
eh 'a la Donna del mar, di fede in pegno,
cominciava a prestar mentre l'uccise.
Ma che? morto ei non è, se ben divise
l'anima già dal suo mortai sostegno;
che l'opre de la mano e de l'ingegno
vivono immortalmente in mille guise.
Corcira il dica, il dica Creta e '1 Tronto,
che ben spesso portò forse più d'una
spoglia nemica al mar rapido e pronto.
Oh, s'arrideva a lui destra fortuna,
fiaccato un giorno avrebbe in Ellesponto
le corna audaci a l'ottomana luna!
v
SERENATA
Buona notte, cor mio.
Tu forse in grembo a morbidette piume
sciogli le membra in dilettoso oblio;
ed io qui, lasso, in lacrimoso fiume
stemprato il cor e l'anima t'invio.
Buona notte, cor mio.
Buona notte, cor mio.
Tu dormi si, ma '1 tuo fedel non dorme,
o se pur dona il faretrato dio
LEONARDO QUIRINI 331
tregua agli occhi suoi stanchi, in mille forme
lo sgomenta il suo fato acerbo e rio.
Buona notte, cor mio.
Buona notte, cor mio.
Tu pur concedi al travagliato fianco
per breve spazio almen ristoro, ed io
di sospirar per te mai non mi stanco,
né da l'esser fedel punto travio.
Buona notte, cor mio.
Buona notte, cor mio.
Dormi pur, dormi, e teco dorma Amore,
o de l'anima mia dolce desio;
né turbi i tuoi riposi ombra od orrore
di fantasma notturno. Io parto, addio.
Buona notte, cor mio.
VI
GELOSIA DELLA BELLEZZA
Se ben siete l'idea
della stessa beliate,
Cinzia, non v'adirate
che '1 pregio di bellezza io non vi dia.
Che questo io scrivo ad arte,
spinto da gelosia,
perché vostra beltà ne le mie carte
adombrata non sia.
Voletelo sapere? Io vi vorrei
brutta agli altrui e bella agli occhi miei.
332 LIRICI MARINISTI
VII
VOLUPTAS
Dio, se tu sapessi,
se tu sapessi, o bella,
quanta dolcezza io provo
quando talor ti trovo
pronta ai baci, agli amplessi,
giuro per le quadrella
d'Amor, per l'arco d'oro,
che, baciandoti sol, languisco e moro.
Or pensa tu qual essere può '1 diletto,
che l'estremo piacer nel cor mi piove,
r non invidio il paradiso a Giove!
vili
IN MORTE DI CLAUDIO MONTEVERDE
PADRE DELLA MUSICA
O tu che in nere spoglie
del gran padre de' ritmi e dei concenti
l'essequie rinovelli e le mie doglie,
segui gli uffici tuoi dolenti e mesti,
ma pian, si che no '1 désti;
ch'egli estinto non è, come tu pensi,
ma stanco dal cantar dà al sonno i sensi.
vili
BASSO - ZITO - MUSCETTOLA
ANTONIO BASSO
I
INVOCAZIONE ALLA GELOSIA
Cara fame di zelo onde destina
suo vitale alimento amor più grato,
aura ch'aurea susurri entro il suo prato,
in guardia di sua rosa ardita spina,
cote ov'egli i suoi strali ogni ora affina,
gel che rivai ardor sol fai gelato,
specchio ch'ai Sol rifletti il raggio amato,
degli affetti d'un 'alma alma rapina;
te chiamo, o del ciel prole, a cui commesso
è d'un seno a guardar pudico onore,
ond' occhi hai tanti al tuo bel volto impresso.
Vieni, vestal divina, e nel mio core
siedi custode a la sua fiamma appresso,
che dove manchi tu s'estingue amore.
336 LIRICI MARINISTI
II
CONVALESCENTE
Ecco riedo agli errori e '1 core infido
pur osa ai prischi aflfetti aprir le porte,
e del mondo io seguendo ancor le scorte,
i sensi appago e la ragione ancido.
Egro, a Dio tutto amico, or sano annido
nemiche voglie a cui mi tolse a morte;
e, quasi Anteo caduto, ornai più forte
sorgo di terra e '1 ciel di novo io sfido.
Cosi le grazie abusi, ingrato? Ahi, quali
son tue vittorie ove la colpa è palma,
mentre al tiranno applaudi e '1 rege assali?
Sorgete, umori, in me: dolci fien salma
rie febri al sen, poiché di quelle i mali
son morbi al corpo e medicine a l'alma.
Ili
LA TRINITÀ
Siringa di tre canne ond'esce eletto
un suon che fiato armonioso spira,
e di tre corde sol temprata lira,
ch'unica melodia porge e diletto;
acceso torchio, che in concorde effetto
tre lumi a l'aria sfavillanti aggira;
specchio, nel cui cristallo esser si mira
di forme illustri un triplicato oggetto;
arbore eccelsa di tre rami cinta,
fonte da cui traggon tre rivi umore,
di tre colori adorni Iri dipinta,
stel di tre fiori e di tre foglie un fiore,
de l'unità di Dio triade distinta
forman l'esempio onde l'apprenda il core.
ANTONIO BASSO 3S7
IV
L'ORAZIONE
P'onte di limpid' acque, in cui si terge
de le sue macchie ogni or l'anima immonda;
ferro, per cui si tronca e si disperge
il laccio onde l'inferno il suol circonda;
mar, nel cui vasto sen cade e s' immerge
il vizio e spento al fin giace a la sponda;
monte, il cui giogo oltre a le nubi s'erge
ove tempio virtù fabrica e fonda;
Iri, ch'annunci a l'uom pace ed amore;
stella, in cui fato d'alta gloria stassi ;
Sol, che dei falli sgombri il fosco orrore;
motor che 'I ciel raggiri, anzi l'abbassi
a l'alme in terra; ahi, qual sarà quel core
che teco in compagnia l'ore non passi?
V
A FRATE ANGELO VOLPE DI MONTEPELOSO
reggerne del collegio dei minori conventuali in San Lorenzo di Napoli
Chi t'alzò ne le sfere? e per quai mani
s'aperse a te l'empireo, onde sui cieli
quegli che velan Dio spirti sovrani
non san con l'ali agli occhi tuoi far veli?
Tu ciò eh 'a ingegno uman vien che si celi,
con sovruman pensiero intendi e spiani,
e con note veraci a noi riveli
i più chiusi del ciel sublimi arcani.
Tua mente in mirar l'uom, qual si solleve
degli studi terreni oltre il confine,
stupor nei fonti de' tuoi fogli ei beve.
Ma toglia a lui la meraviglia al fine
tuo nome alder; ch'a un angelo è ben lieve
spiegar con chiari sensi opre divine.
Linci marinisti — 22
338 LIRICI MARINISTI
VI
A GHERARDO GAMBACORTA
generale della cavalleiia di Napoli a Milano
Questa è l'urna, o guerrier, ch'entro il suo seno
ceneri illustri accoglie, ossa onorate
di chi con mille al crin palme innestate
scudo a le Spagne fu, gloria al Tirreno.
Cadde fra l'armi, e del cader non meno
fia glorioso a la futura etate,
di quando ei fé' cader le schiere armate,
reso di tuon ostil fulmin terreno.
In lui pianse i suoi vanti estinti in terra
natura afflitta, e lagrimar si vide
orbato il campo e vedova la guerra.
Sol di tal pianto il ciel gioisce e ride,
ch'ebbe, mentre in sue stelle eroe tal serra,
Palla un novo Perseo, Marte un Alcide.
VII
LA PRIMAVERA
Del Sol prole gentile,
che con chiave di fiori
lieta al mondo apri aprile,
colma il sen di rugiade e '1 crin d'odori,
de l'alba emula bella,
de le varie stagioni alba novella;
prima figlia de l'anno,
che con tenera mano
del vecchio padre il danno
ristori, d'erbe ornando il colle e '1 piano,
e, qual Medea più giusta,
giovinetta gli fai l'età vetusta;
ANTONIO 15ASSO 339
paraninfa amorosa
d'odorati imenei,
che con face di rosa
e con lacci di frondi entri fra dèi,
e de' fiori nel letto
Flora e Zefiro in noi chiami a diletto;
di Pomona foriera,
che con mani feconde
sai, ne gli orti primiera,
rami tessere in piante e fiori in fronde,
onde vengon produtti
a la dea de l'autunno in terra i frutti;
Iride de la terra,
che dopo il verno audace,
de le piogge a la guerra,
colorita di fiori, apporti pace,
e con occhi fioriti
gli austri allegra licenzi e l'aure inviti;
dei cor diva leggiadra,
che con l'erbe i natali
degli Amori a la squadra
apri, armati qua giù di novi strali,
e con vista benigna
rendi un Cipro ogni campo e te Ciprigna;
emula de la notte,
che, se quella vien fuora
da le cimerie grotte
e di lucide stelle il cielo infiora,
tu, dal ciel scesa al prato,
d'almi e nobili fiori il fai stellato...
Ma qual tenta mia musa,
tesser versi a' tuoi vanti?
Ceda intanto confusa .
degli alati tuoi cori ai dolci canti,
che gli encomi tuoi belli
de le muse cantar più san gli augelli.
VINCENZO ZITO
I
IL RIMPROVERO
La mia bella a goder seco m'invita
i dolci amplessi e gli amorosi baci;
ma, lasso, nel mio pie lacci tenaci
pone il destin, che giusta causa addita.
Se talor vien da lei mia scusa udita,
dice, mostrando al volto ostri vivaci :
— Tu non senti d'Amor l'accese faci;
perfido, regna in te fede mentita!
Bramasti un tempo di godermi in braccio;
or che sei mio bel nume, a te cai poco;
e pur t'adoro? e non da me ti scaccio? —
Benché sia dentro inestinguibil foco,
divento a cotal dir freddo qual ghiaccio,
mesto il cor, molli gli occhi e '1 parlar fioco.
VINCENZO ZITO 341
II
IL CENNO DEL CIGLIO
La sentenza crudel di non amarmi
sdegna di profferir con le parole *
colei ch'avanza di chiarezza il sole,
ma '1 ciglio innalza e '1 « no » prende a spiegarmi.
Dunque, pronto si scorge a guerra farmi
arco di pace? ed iride che suole
annunziar sereno, ahi, dunque vuole
le tempeste predir per atterrarmi?
Se gli occhi amati hanno vitale il lume,
ch'ancor gli estinti sa tornare in vita,
come il ciglio dar morte ha per costume?
Siasi arco o ponte: ella, o se stessa invita
a passar di mio pianto il largo fiume,
o di me vinto il suo trionfo addita.
Ili
IN TEMPO DI VENDEMMIA
Or che '1 natal si celebra del vino,
pigiando l'uva il villanel campano,
libero il dir concede il dio tebano,
stando Priapo alla fescina vicino.
Deh, perché a Cilla, cui divoto inchino,
non scopro il sen trafitto, il cor non sano?
Fra gli scherzi mischiar non sarà vano
quel ch'a tacer mi strinse il fier destino.
S'ella un si grande ardir prendesse a duro,
mostrerò finto il mio penar verace
e '1 chiaro coprirò col senso oscuro.
L'uso, o mia lingua, rendati loquace;
e, s'è timido Amor, ben t'assicuro
ch'unito con Lieo farassi audace.
342 LIRICI MARINISTI
IV
LA PELLEGRINA
Vestendo a te simil logore spoglie,
' n'andremo uniti, o pellegrina errante;
se nel cammin stancassimo le piante,
con pari amor compartirem le doglie.
Mercè chiedendo, busserem le soglie,
tu ferma al duolo, io nel patir costante;
il poco cibo ne sarà bastante,
in ogni evento avrem concordi voglie.
Il retaggio paterno in tutto oblia
l'alma ch'ha di seguirti immenso ardore,
ogni paese a noi la patria fia.
Ma quando il mondo occupa il cieco orrore,
un sol letto n'accoglia; indi si dia
riposo al piede e refrigerio al core.
V
LA DONNA ALL'AMANTE CHE VA ALLA GUERR/
Disarma il fianco e frena ira e furori ;
altra guerra cercar, deh, che ti cale,
se fai con gli occhi tuoi guerra mortale,
onde avvien ch'ogni amante umil t'adori?
Altri pur sudi a' marziali ardori,
l'empia spada vibrando a l'altrui male;
tu, guerriero d'Amor, con l'aureo strale
piaga il sen, struggi l'alme, ancidi i cori.
Non mai tuo brando manderà sotterra
campion ; che pria che gli trafigga il petto
cadrà da' guardi tuoi ferito a terra.
S'hai pur di guerreggiar dolce diletto,
meco guerreggia in amorosa guerra;
li miei baci sien trombe, agone il letto.
VINCENZO ZITO 343
VI
L'AMORE ARDENTE
Imitazione da Ausonio
Bramo da lei, cui riverisco amante,
qual edera strettissimi gli amplessi,
i baci a mille, incatenati e spessi,
vezzo ridente e riso vezzeggiante.
Se m'ingiuria sdegnosa e minacciante,
reintegrino amor gli sdegni stessi,
e d'ira e di pietà scopra gli eccessi,
e s'infuri e si plachi in un istante.
Pudicizia in disparte! Accenda ogn'atto,
se raffreddo il desio, tutta focosa,
e povero mi renda e sodisfatto.
Che '1 vederla in contegno e schizzinosa,
gelo al mio foco e selce al molle tatto,
son diletti freddissimi di sposa.
VII
LA SETE NELLE CAMPAGNE DEL VESUVIO
Stanco da lunghi errori, ahi, mi trov'io
fra sentieri dubbiosi a Vesbio a fronte;
e mentre bolle la campagna e '1 monte,
arida sete offende il petto mio.
Deh, chi m'insegna ove zampilla il rio?
deh, chi m'addita ove gorgoglia il fonte,
che spegnesse, immergendovi la fronte,
l'assetato ardentissimo desio?
Mal soffrirebbe ardor si crudo e fero,
onde sento mancarmi a poco a poco,
l'adusto tingitan, l'etiopo nero.
Chi mi condusse in tal penoso loco?
Dell'inferno non ha strazio più vero,
ch'esser senz'acqua ove più brucia il foco.
344 LIRICI MARINISTI
Vili
LA LUiNA ED ENDIMIONE
Era la notte e 'n florida collina
gli occhi avea dati al sonno Endimione;
lo scorge dalla splendida magione
degli astri la bellissima regina.
Sente farsi nel sen dolce rapina,
condursi l'alma in placida prigione;
cruda non più, qual videla Atteone,
al faretrato nume, ecco, s'inchina.
Stima il passato secolo funesto,
e cercando goder tempo migliore,
in Latmo di calar non l'è molesto.
Molle già fatto l'indurito core,
formando amplessi al giovane già desto,
suo gel natio trasforma in foco Amore.
IX
LA GALEA
Mole rostrata che, raccolti insieme
i boschi d'Appennin, l'Egeo trascorri,
disprezzi il suo fragor quando più freme,
s'a' Palinuri tuoi scossa ricorri;
al fianco hai l'ali, al dorso alzi le torri,
di cui presso e lontan guerra si teme;
ne' gran perigli i popoli soccorri,
unisci i mari e le province estreme.
Formanti crin le tremole bandiere;
ti son i gonfi lin spoglie nevose
ed occhi l'ardentissime lumiere.
A gara nel tuo sen Marte nascose,
pronte a le stragi, le falangi intere,
ed i fulmini suoi Giove ripose.
VINCENZO ZITO 345
X
AGLI ACCADEMICI OZIOSI DI NAPOLI
nell'essere ammesso nella loro società
Cigni del bel Sebeto, in vostra schiera
mi date loco, ad acquistar gran vanti,
e la norma apprendendo ai dolci canti,
su le vostre ali io vo da sfera in sfera.
Or comprendo qual sia la gloria vera,
che goder soglion di virtù gli amanti ;
ecco armoniche lire, archi sonanti,
onde l'ombra d'oblio non più m'annera.
L' ozio qui si trafigge e, a morte spinto,
in segno di vittoria ogn'alma intende
prendersi il nome del nemico estinto.
Cosi latino eroe, mentre che rende
l'Africa doma, dall'imperio vinto
per gloria il nome d'african si prende.
XI
A SCIPIONE ZITO
che regge truppe di fanti in Ispagna
Nati d'un sangue in una stessa parte,
al colle di virtù ten voli, io m'ergo:
agli ozi, agli agi ambo volgendo il tergo,
io seguace d'Apollo e tu di Marte.
Ambo per guida abbiam natura ed arte;
ordini tu le schiere, i fogli io vergo;
tu brando tratti a fracassare usbergo,
io penna adopro a linear le carte.
Io caro ai dotti e tu gradito ai forti ;
tu dai norma alla guerra, io legge al canto;
io frequento i licei, tu le coorti.
Pari è d'entrambi il pregio, eguale il vanto:
tu spegni i vivi ed io ravvivo i morti ;
tu fai l'eroiche imprese ed io le canto.
346 LIRICI MARINISTI
XII
DURANTE LA RIVOLUZIONE DI NAPOLI DEL 1647
Ai nostri danni è scatenata Aletto
e della guerra in man porta la face;
schiera imbelle e plebea fatta è pugnace,
il prode e '1 forte è di fuggir costretto.
Relig on, pietà non han ricetto
nello stuol troppo fiero e troppo audace:
— Armi, armi — grida, e timida la pace
non ha più sangue in fibra e fibra in petto.
Ecco falso l'amor, la fede infida;
terminan l'accoglienze in tradimenti,
l'amicizia è sacrilega, omicida.
Sovente avvien che nelle furie ardenti
il figlio il padre, il padre il figlio uccida.
Oh novo inferno d'anime languenti !
XIII
A DON GIOVANNI D'AUSTRIA
invocando l'arrivo di lui a Napoli
Seconda il volo degli ispani abeti,
o rege dell'eoliche foreste;
vadano altrove a scaricar tempeste
gli orgogliosi aquilon, gli euri inquieti.
D'aprii fiorito ai di sereni e lieti
non siano più l'atre procelle infeste;
d'Austria all'eroe faccian carole e feste
con le nereidi la cerulea Teti.
Al lito di Partenope le schiere
giungan del Beti gloriose e forti,
a incatenar Tesifoni e Megere.
Che mal possono più nostre coorti,
benché di posse intrepide e guerrere,
cibare i vivi e sepellire i morti.
VINCENZO ZITO 347
XIV
IL DIGIUNO
Santo guerrier, che della gola infetta
t'oppugni all'armi e vendichi l'ardire,
ed assiso nel cielo a mensa eletta
hai sol del poco un singoiar desire;
pietosissimo arciero, uso a ferire
con forte ed acutissima saetta
Venere e Bacco, e sai nel tuo languire
legar la mano a Dio nella vendetta;
altissimi pensier désti agl'ingegni,
che sorvolan per te da sfera in sfera
e di parto sovran rendonsi degni;
all'alma, al corpo sei salute vera,
rintuzzi a morte gli sfrenati sdegni,
hai pronti ai cenni tuoi gli angeli a schiera.
XV
LA CHIOMA SCIOLTA
Scherzava a l'aura errante
il lucido crin d'oro
di Lilla, il mio tesoro.
Or nel tergo volava,
or nel seno calava.
Lasso, qual simulacro a l'alma mia
formò la gelosia!
Temei che, divenuto il gran tonante
di sue bellezze amante,
trasformato si fosse in aureo nembo
e, nova Danae, le piovesse in grembo!
348 LIRICI MARINISTI
XVI
LA FENICE
Ne l'indico oriente,
nobil parte del eie), porta del giorno,
sen vive eternamente,
di mille pregi adorno,
di morte ad onta, un immortai augello,
fra le schiere volanti unico e bello.
Il suo bel capo ha d'ostro,
l'ali son d'oro, il collo è azzurro eletto,
gemma somiglia il rostro,
vivo smeraldo il petto,
ne la sua coda alto splendor riluce,
gemino sole è l'una e l'altra luce.
Mostra ne l'andar solo
augusta maiestà, regio decoro,
varca le nubi a volo
se spiega i vanni d'oro,
e verso il ciel cosi veloce ascende,
che l'augello di Giove ira ne prende.
Se scorge aver per gli anni
deboli le virtù, gravanti l'ale,
tarpati e bassi i vanni,
e '1 suo valor già frale,
in quella parte il suo bel volto affretta,
che da fenice vien Fenicia detta.
Quivi in limpido fonte,
chiuso da' boschi, il nobil corpo immerge,
e vòlta a l'or ente
scioglie il canto e si terge;
indi s'inalza e la sua pira appresta:
vitale io la dirò più che funesta.
VINCENZO ZITO 349
In un composto accoglie
tenero nardo e balsamo stillante,
e con la mirra coglie
l'amomo odor-spirante,
e poscia invola a più remoto loco
il cinamo, il cipresso, il costo e '1 croco.
L'alta funerea mole
sovra palma sublime erge e sublima,
e che rinasca il sole
quivi n'attende in cima;
non turba il vento allor l'aereo seno,
ma si mostra a tal opra il ciel sereno.
Ecco che già risplende
il gran pianeta, assiso al carro aurato,
e col suo raggio accende
il bel rogo odorato;
e la fenice in tanto allegra e viva
de l'ali al ventilar più il foco avviva.
Sparisce a poco a poco
il color vario de le piume belle,
e va rodendo il foco
ciò che natura dielle,
e mentre il corpo suo flagra e si strugge,
l'aura vital già l'abbandona e fugge.
Ma intanto la natura,
per non impoverir d'un cotal seme,
pone in raccor la cura
l'alte reliquie estreme,
e dispargendo in lor liquidi umori
vita a la cener dà, spirto agli ardori.
Formasi un picciol ovo,
in mezzo al foco, ove apprestò la pira;
poscia in sembiante novo
spiumato augel s'ammira,
e si vede cangiar, mentre rinasce,
la tomba in cuna ed il feretro in fasce.
350 LIRICI MARINISTI
Ecco ringiovanisce,
e '1 capo inostra e i suoi bei vanni indora,
e d'azzurro arricchisce
il collo, e si colora
di vivace smeraldo il petto e '1 tergo,
e '1 collo drizza a più gentile albergo.
ANTONIO MUSCETTOLA
L' INNAMORAMENTO
durante la rivoluzione di Napoli
Colma d'empio furor, di rabbia armata,
spargea ne' tetti altrui fiamme nocenti,
e di sangue civile ampi torrenti
spandea nel patrio suol turba sdegnata;
quando a danno de' cor beltà spietata
tese degli occhi suoi gli archi possenti,
e da le vaghe lor saette ardenti
in un punto mi fu l'alma piagata.
Cosi tra' mali altrui nacque il mio male,
e dentro un mar di sanguinoso umore
l'infelice amor mio sorti il natale.
Oh di stelle crudeli aspro tenore!
Perché sperar no '1 debba unqua vitale,
dier tra le morti alor vita al mio amore.
352 LIRICI MARINISTI
II
IL NASTRO VERDE
A biondo crin, che scarmigliato e vago
1 campi di un bel sen scorrea fastoso,
forma con verde nastro un fren vezzoso
la bianca man per cui languir m'appago.
Per oggetto mirar si dolce e vago
drizza l'anima mia l'occhio bramoso,
e parie vagheggiar lieto e pomposo
tra verdi sponde imprigionato un Tago.
Poscia tra sé ragiona: — Ah, perchè abbonda
di tempeste la speme onde son viva,
in quel verde color l'unisce a l'onde! —
— No, no — risponde Amor; — s'egra languiva
la tua speranza, de le chiome bionde
con gli aurei flutti il suo bel verde avviva. —
IH
INVIANDO LA « GERUSALEMME »
Queste a cui chiaro stil mille comparte
di bellicosi eroi scempi e furori,
or che parto a te dono, o bella Glori,
pegno dell'amor mio, famose carte.
Tu, leggendo le note a parte a parte,
scorgi ne l'altrui morti i miei dolori;
d'accesa torre negl'immensi ardori
l'incendio del mio cor ravvisa in parte.
Il mio petto, di mostri infausta sede
nel bosco immondo, e '1 mio sperar, estinto
negl' incanti svaniti, ivi si vede.
Ne le stille del sangue al fin dipinto
rimira il pianto mio; si farà fede
liberata città di core avvinto.
ANTONIO MUSCETTOLA 353
IV
LA DONNA CHE LEGGE L'UFFICIO
Di sacri fogli a le celesti note
Lilla, già fatta .pia, gli occhi volgea,
ed al suol inchinata, al cielo ergea
con basso mormorio preci devote.
Ma se là su tra le stellanti rote
con la bilancia sua soggiorna Astrea,
cruda beltà, di mille morti rea,
impetrarne pietade, ah, che non puote!
Che se ben china par che '1 cielo adori,
gode a la sua beltà mirar prostrata
schiera infelice d'adoranti cori ;
e, chiusa a' pianti ed a' sospir l'entrata,
strali avventando e fulminando ardori,
mentre prega pietà fassi spietata.
V
ATTEONE E DIANA
Pittura di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro
Invan per l'ira tua, Cinzia sdegnosa,
estinto giacque in su l'età fiorita
il bel garzon, eh 'a le tue ninfe unita
ti vide ignuda ne la valle ombrosa.
Ecco d' immortai destra opra famosa
fa che mal grado tuo ritorni a vita,
e rieda a vagheggiar con vista ardita
del tuo bel corpo ogni vaghezza ascosa.
Ben te ravvisa minacciosa e fera,
e pur, quasi li fosse il rischio ignoto,
non prende ad iscampar fuga leggiera.
Ah, che '1 mortai periglio è a lui ben noto;
ma, nel mirar la tua bellezza altera,
pien di dolce stupor rimansi immoto.
Lirici marinisti — 23
354 LIRICI MARINISTI
VI
NARCISO
Per saettarmi il petto il cieco dio
di straniera beltà l'arco non tende;
me con me stesso impiago, e '1 desir mio
me di me stesso innamorato or rende.
Ardo, misero, amando e '1 foco rio
in un gelido umor da me s'accende;
adoro un volto eh' è mio volto, ed io,
io che l'offeso son, son chi m'offende.
Per annodarmi il core io stringo il laccio,
i pregi miei com'altrui pregi io lodo,
di speme un'ombra, e la mia ombra, abbraccio.
Oh d'ingiusto penar diverso modo!
Mentre sospiro il ben per cui mi sfaccio,
meco unito è il mio bene e pur noi godo.
VII
LA FARFALLA AL LUME
Dell'aure agli urti inestinguibil face
in cavo vetro imprigionata splende,
la cui luce a goder veloce stende
semplicetta farfalla il volo audace.
Ma di quel lume i rai per cui si sface,
quel fragil muro ai suoi desir contende;
pur vaga dell'ardor che '1 cor l'accende,
vola, riede, s'aggira e non ha pace.
Mira vicine a sé le fiamme amate,
né raggiungerle puote, e in van tuttora
cerca al proprio morire aprir l'entrate.
Che deluso ciascun vi segua ognora
gioie, scettri, tesori, ah, non vantate,
or ch'ha i Tantali suoi la morte ancora!
ANTONIO MUSCETTOLA 355
Vili
IL MIRACOLO DELLE ROSE E GLI SPOSI CASTI
Fremea stridendo e da caverne alpine
sciogliea fiero aquilon l'ali nevose
e, distruggendo i fior, su piagge erbose
nembi scotea di congelate brine;
quando, di casto letto entro il confine,
a bearsi correan alme amorose;
ed ecco, al giunger loro, aure odorose
non vedute esalar rose divine.
Fugge il senso lascivo a quell'odore,
e '1 caro sposo e la donzella amata
alla verginità sacrano il core.
Oh del vano piacer diva mal nata,
t'è la rosa fatai! Da questo fiore
fosti un tempo ferita e poi i"ugata.
IX
CASISTICA DI NAUFRAGIO
Già del torbido mar l'ira spumante
fa del naufrago abete aspro governo,
ed io se debba aitar non ben discerno
nemica amata o non amata amante.
Ceda al giusto il disio. Del mar sonante
abbia tra l'onde il suo sepolcro eterno
chi, i miei preghi e '1 mio duol prendendo a scherno,
parve di crudeltà scoglio costante.
Ma del vasto Nettun l'ondoso umore
assorbir non dovrà chi sempre unita
tenne del cieco dio la face al core.
Su, veloci corriamo a darle aita;
né sgridar mi potrà deluso amore,
se a chi l'alma mi die rendo la vita.
356 LIRICI MARINISTI
X
AL LEGNO DELLA CROCE
Te sol, tronco divin, bramo ed anelo,
de l'empireo giardin parto fecondo,
in cui depose il redentor del mondo,
fenice eterna, il suo corporeo velo;
carro ove colmo di pietoso zelo
tr.onfò Dio del fier serpente immondo,
beato Atlante che reggesti il pondo
del ciel non già, ma del signor del cielo;
sacro, beato e riverito legno,
tu appresta a l'alma, d'empia sorte a l'onte
quasi cadente omai, forte sostegno.
Già d'ascender al ciel le voglie ha pronte:
falle tu scala, o su ne l'alto regno
perché possa poggiar, formale un ponte.
XI
AL MONTE VESUVIO
Per il sangue di San Gennaro
Potrai ben tu, co' tuoi volanti ardori,
alzarti il trono in fra gli eterei lumi ;
stender potrai co' temerari fumi
in faccia al chiaro sol notte d'orrori.
Ma con le furie tue danni e terrori
dare a Napoli mia non ben presumi;
spegnon del foco tuo gli ampi volumi
del mio Gennaro i sanguinosi umori.
Queste lucide ampolle, ove il sovrano
sangue si serba, del tuo incendio tetro
son mète imposte all'ardimento insano.
Ecco, già volgi i tuoi furori addietro;
che sa di Dio l'onnipotente mano
fare a fiumi di foco argine un vetro.
ANTONIO MUSCETTOLA 357
XII
AL SONNO
Dall'ondoso ocean l'asse stellato
trasse la notte. Or delle cure il pondo
deposto avendo ornai, gode beato
alto silenzio taciturno il mondo.
Sparse d'alto sopor premono il suolo
degli antri cavi le romite belve;
né sa de' venti il temerario stuolo
chiamar feroce a sibilar le selve.
Della cerulea Dori il popol muto
posa le membra entro l'algoso nido,
e 'n tranquilla quiete il mar canuto
inchina i flutti a riposar sul lido.
Io sol non poso. L'amorose cure
né men porgono a me sonni interrotti;
sicché, vagando in fra vigilie dure,
sono secoli a me tutte le notti.
Non giova a me di melibei murici
stender su l'ebre lane il corpo stanco,
se mi sembrano ognor gli ostri fenici
colmi di spine a lacerarmi il fianco.
Tentai che fusser tomba al mio dolore
d'indomito Lieo tazze spumanti;
ma del Vesuvio il prezioso umore
tosto dal duol fu convertito in pianti.
E pur del pianto mio l'onde cadenti
un cor di sasso intenerir non sanno,
e gli ardenti sospir, scherzo dei venti,
per lo vano del ciel dispersi vanno.
Oh quante volte fra' notturni orrori
inghirlandai le dispietate soglie;
ma, per mio mal, quegl' intrecciati fiori
già non fruttàro al tristo cor che doglie.
35^ LIRICI MARINISTI
Deh, tu, possente domator de' mali,
ozio dell'alme e regnator di Lete,
dal ciel movendo rugiadose l'ali
all'agitato cor reca quiete.
Già non chiegg' io che dalle fosche piume
sparga tutto il sopor nel petto mio;
pago sarò se l'uno e l'altro lume
toccherà, tua mercé, stilla d'oblio.
Dalle tempeste de' pensier mordaci
l'animo lasso è per restare assorto;
ma, se tu vieni a me, fra dolci paci
ritroverà nelle tue braccia il porto.
Benché di neri stami a' giorni miei
componessero il fil perfidi fati,
per te, placido dio fra gli altri dèi,
non dissimil sarò da' più beati.
Tu, delle menti languide ristoro,
della figlia di Temi inclito figlio,
se ingiusto è il male onde penando io moro,
porgi i tuoi lacci a l'uno e l'altro ciglio.
Se nell'attica terra aitar famoso
con l'ardalide muse unito avesti,
la tua destra gentil grato riposo
ad un seguace delle muse appresti ;
ch'io di vin coronando ampi cristalli
al nume tuo gli offerirò di voto;
poi di vegghianti e strepitosi galli
un'ecatombe svenerotti in voto.
Farò ch'a gloria tua piova su l'are
di papaveri molli un largo nembo,
ed avverrà che da' miei preghi impare
la bella Pasitea d'accòrti in grembo.
Su vieni, o sonno, e '1 tuo favor m'apporte
contro al tiranno amor pietosa aita.
Vientene, o sonno, e per beata sorte
dal fratel della morte abbia io la vita.
ANTONIO MUSCETTOLA 359
XIII
I TUMULTI DI NAPOLI
sedati da don Giovanni d'Austria
A Francesco Dentice
D'angui crinita dal tartareo tetto,
spargendo ira e furor, sorse Megera,
e la facella sua squallida e nera
l'orbe tutto infiammò, rotando, Aletto.
Del dio bifronte a disserrar le porte
i fulmini avventò nume sanguigno,
ed al fragor di strepitoso ordigno
in sul Sebeto s'aggirò la morte:
E quai sul lido suo vide il Tirreno
di barbaro furore empi vestigi,
mentre percossa il cor da' numi stigi
sdegnò plebe infedel l'austriaco freno!
In dispietati incendi arder fùr visti
d'illustri fabri gì' immortai lavori;
fùr le sete, le gemme e gli ostri e gli ori
di fiamme ingiuste momentanei acquisti.
A le vite più auguste i degni stami
troncò il furor de le masnade nitrici;
lungi da' busti lor teschi infelici
fèr diadema funesto a' tetti infami.
A fulminar le ribellanti mura
mille e più si drizzar bronzi tonanti;
cadder tocchi dal ferro i sassi infranti,
cadaveri in un punto e sepoltura.
Dal patrizio valor mirò la plebe
innestarsi a le palme atri cipressi;
da nobil ferro i sollevati oppressi
col lor vii sangue imporporar le glebe.
360 LIRICI MARINISTI
E quali or promettean fere procelle
de l'armato Orion gl'infausti lampi!
Ma veggio, ecco, illustrar gli eterei campi
di felice splendor propizie stelle.
Per te, germe sovran del rege ibero,
fuggon negli antri lor gli euri frementi,
e, degli astri infelici i lumi spenti,
piove influssi benigni il ciel guerriero;
per te di sangue rosseggianti i fiumi
non portano al Tirren tributi orrendi;
per te nel patrio suol funesti incendi
non inalzano al ciel torbidi fiumi;
per te, di Marte l'armonia sepulta,
corron cetre a sferzar plettri festivi ;
e per te, cinta di pallàdi ulivi,
tra noi la pace sospirata esulta.
Tanto può, tanto fa de' suoi bei giorni
rispano eroe nel giovinetto aprile:
or che fìa alor che di virtù senile
gli anni robusti suoi sien resi adorni?
Già veggio a circondargli il crine invitto
nutrir le palme ossequiosa Idume,
e di sue glorie riverente al nume
erger colossi memorandi Egitto;
veggio di sue virtudi a' vasti abissi
offrir tributi il galileo Giordano,
e de l'armi al fulgor fuggir lontano
la tracia luna paventando eclissi.
Deh, Francesco immortai, tempra la cetra
ond'eterni gli eroi, fulmini gli anni;
e de le note in su' canori vanni
il semideo garzon porta ne l'etra.
Se de le glorie sue porgi il tuo canto,
che da se stesso ancor chiaro rimbomba,
Tebe la lira e la famosa tromba
al tuo pie chinerà stupida Manto.
IX
CIRO DI PERS
I
LE CHIOME NERE
Chiome etiope, che da' raggi ardenti
de' duo Soli vicini il fosco avete,
voi di mia vita i neri stami séte,
onde mi fila Cloto ore dolenti.
O del foco d'amor carboni spenti,
ma che spenti non meno i cori ardete;
pietre di Batto, che mostrar solete
falsi d'ogn'altro crin gli ori lucenti;
o di celeste notte ombre divine;
in duo emisperi è il ciel d'Amor diviso,
e voi del giorno suo séte il confine.
Venga chi veder vuole entro un bel viso,
con una bianca fronte e un nero crine,
dipinto a chiaroscuro il paradiso.
364 LIRICI MARINISTI
II
LA VESTE BIANCA
Bianca tra bianche spoglie era Nicea,
né saprei dir quai fusser bianchi meno,
mentre un leggiadro paragon facea,
i candori del manto o quei del seno.
Corsi a mirarla, e di stupor ripieno:
— Donna non è costei — fra me dicea, —
che raggio splende in lei più che terreno,
ma la nunzia del Sol, candida dea. —
Quando il soverchio lume insieme unito
col soverchio calor, cadde repente
l'occhio abbagliato, il core incenerito.
Allor gridai con un sospiro ardente:
— O del manto dell'alba è il Sol vestito,
o l'alba è più del Sol fatta lucente! —
III
IL BAMBINO
Vago fanciul, che fra le braccia stretto
de la mia dea, dal suo bel collo pendi,
e l'inesperta man scherzando stendi
or agli occhi or al labbro ed or al petto;
tu, di doglia incapace e di diletto,
tocchi il Sol, tratti il foco e non t'accendi,
siedi in grembo a la gioia e non l'intendi;
oh quanto per te provo invido affetto !
Deh, potess'io cangiar teco il mio stato;
che, possessor di ^sconosciuto bene,
sarei non infelice e non beato.
Già ch'intero piacer qua giù non viene,
se ventura al gioir mi nega il fato,
mi negasse egli ancor senso alle pene !
CIRO DI -PERS 365
IV
L'ELOQUENZA DEGLI OCCHI
Poco è facondo Amor quando egli scioglie
innamorata lingua ai dolci accenti;
poco in querulo suon mesti lamenti
acquistan fede alle amorose doglie.
Ben è facondo allor quando egli toglie
a far loquaci duo begli occhi ardenti,
che formando co' rai note lucenti
fan palesi del cor l'interne voglie.
Egli è bambino Amore: a pena ei puote
snodar la lingua alla favella, e poco,
fuor che nel guardo, egli ha loquaci note.
Mal con lingua disciolta aver può loco
core annodato, e solo altrui far note
può le fiamme del sen voce dì foco.
V
PURIFICAZIONE IN AMORE
Prima, Nicea, che '1 tuo bel ciglio ardente
mi soggettasse agli amorosi oltraggi,
per l'orme del piacer torti viaggi
féron col senso i miei desir sovente.
Ora d'amor lo stimolo pungente
desta ne l'alma mia pensier più saggi,
e mi porgono i tuoi pudichi raggi,
non men che fiamma al cor, luce alla mente.
Veggio ch'ogni tua cura al ciel diretta
bave d'eterno ben santo desio,
e che lassù ten poggi, anima eletta.
E voglio, al ciel drizzando i passi anch'io,
la tua scorta seguir, pura angioletta,
per teco unirmi eternamente in Dio.
366 LIRICI MARINISTI
VI
SOPRAVVIVENZA DELL'AMORE ALLA BELLEZZA
Languidi l'aggi e scoloriti fiori
entro '1 bel volto tuo scorgo, Nicea;
e pur quivi il mio sen, come solca,
s'arricchisce di gioie e di dolori.
Sfavilla ancor per entro ai tuoi pallori
quel non so che, quel che mi strugge e bea;
più vago un tempo il tuo bel ciglio ardea,
ma non vibrava già più gravi ardori.
Sempre per me tu sarai bella, ed io
sempre amante per te: non è mortale,
non ha mortale oggetto il mio desio.
Indarno il tempo s'arma, indarno assale
la tua beltà con gli anni e '1 foco mio,
che non soggiace a lui cosa immortale.
VII
SULLO STESSO ARGOMENTO
Veggio, veggio, Nicea, le tue vezzose
guance obhar le porpore native,
che, quasi timidette e fuggitive,
vansi tra i gigli ad occultar le rose.
Le nevi, ove le fiamme Amor nascose,
son de la lor vaghezza in parte prive,
e con languidi raggi e semivive
faville ardon le tue luci amorose.
Scema in te la bellezza, e forse ancora
di par negli altrui cor manca il desio,
mentre manca quel bel che gì' innamora.
Ma non scema però l'affetto mio,
ch'oggetto fral non ama e solo adora
un raggio in te de la beltà di Dio.
CIRO DI f'ERS
Vili
367
LA LOTTA COL TEMPO
Mentre vuoi riparar del tempo il danno,
il tempo, o Lidia, inutilmente spendi;
quell'ore stesse eh' a lisciarti attendi
per giovane parer, vecchia ti fanno.
I mentiti color forza non hanno
di destar, di nutrir d'amor gl'incendi;
cedi, cedi pur vinta e l'arme rendi,
che 'nvan contrasti al volator tiranno.
Cosi cadendo va bellezza umana,
e per riparo ogni sostegno è frale
e per ristoro ogni fatica è vana.
Ah, che l'impiastro tuo punto non vale
per le piaghe del tempo, e sol risana
le piaghe in me de l'amoroso strale.
IX
SULLO STESSO ARGOMENTO
Oblia la fronte, o Lidia, i suoi candori,
disimparan le guance il lor vermiglio, ^
e qual ombra aduggiò la rosa e '1 giglio?
e chi dal volto tuo sbandi gli Amori?
Al tuo leggiadro aprii fura i tesori
del tempo involator l'ingordo artigho,
ed allo specchio invan chiedi consiglio
di ravvivar gl'inariditi fiori.
Non può far d'aurei fregi il manto adorno,
non le nevi mentite o gli ostri finti
ricorrer dietro un sol passato giorno.
Tutti i tuoi vanti alfin l'etade ha vinti,
ed hai nel volto per maggior tuo scorno
di propria mano i suoi trofei dipinti.
:68 LIRICI :marinisti
X
LA PENITENTE
Sotto il cener del manto il foco ascoso
porta costei, ch'in umiltà risplende;
con la pietà del cor fa il ciel pietoso
e col cielo del volto i cori accende.
Per posar nel suo Dio non ha riposo,
e per difender l'alma il corpo offende;
e se del crin straccia il tesoro ondoso,
con le perle degli occhi adorno il rende.
Quindi, mentr'ella piange il proprio errore,
adorar mi costringe il volto amato
e mi fa reo di profanato amore.
Deh, come potrà il Ciel render placato,
se fra i cilici ancor m'infiamma il core,
e la sua penitenza è il mio peccato?
XI
LA DIPANATRICE
Un girevole ordigno oggi volgea
Filli, di bianco stame intorno avvolto,
che d'ampio cerchio in picciol globo accolto,
quanto scemava l'un, l'altro crescea.
Quella la rota d' Issi'on credea
il mio cor, ch'in que' giri era rivolto;
se ben colei che l'aggirava, al volto
più ch'una furia un angelo parca.
Lo stame quello fu de la mia vita,
ch'io vedea con piacevoli martiri
passar di bella parca in fra le dita.
E se pria dilatossi in ampi giri,
or la raccoglie in uno, e vuol ch'unita
solo nel suo bel volto e viva e spiri.
CIRO DI PERS 369
XII
LE LODI DELLA FATICA
Varcar col nuoto il rapido de' fiumi,
l'erto dei monti superar col corso,
di feroce destrier regger il morso,
varie genti cercar, vari costumi;
errar per aspre balze ed aspri dumi
l'adiroso cinghiai tracciando e l'orso;
del profondo ocean fender il dorso,
benché frema orgoglioso, irato spumi;
la sete al fonte trar, la fame al bosco,
per le nevose piagge e per l'aduste
sudar col nasamon, gelar col mosco;
di ferrea scorza aver le membra onuste,
quand'è il ciel luminoso e quand'è fosco;
delizie ed agi son d'alme robuste.
XIII
IL CACCIATORE D'ARCHIBUGIO
Solo e notturno uccellator tonante
chiama l'usato can, la fune accende;
cinto di grave cuoio il piede errante,
laberinti palustri e cerca e fende.
Immoto al fin su riva ascoso attende
tra soffi d'aquilon lo stuol volante,
ch'alia valle s'invola e al mar si rende,
mentr'a l'aurora il di bacia le piante.
Vibra Giove alle fere unico un telo,
ma questi a lo scoppiar d'un colpo solo
mille alati cader fa al flutto, al gelo.
Che più? s'ei può, stringendo un dito solo,
trar fulmini dall'acque, augei dal cielo,
far il piombo volar, piombar il volo!
Lirici marinisti — 24
570 LIRICI MARINISTI
XIV
ALL'AMICO CHE HA PRESO MOGLIE
Per secondar le sconsigliate voglie,
sei d'Imeneo fra i prigionieri accolto;
quella promessa hai proferito, o stolto,
che la si dolce libertà ti toglie.
Laccio, che fuor che morte altri non scioglie,
t'hai da te stesso intorno al collo avvolto;
tu te medesmo a te medesmo hai tolto;
Lidio, non sei più tuo, sei della moglie.
Ore non più sperar tranquille e liete,
cure noiose ingombreranti il petto,
e più moleste allor che più scerete.
Sei sposo, addio riposo: entro un sol tetto
non soglion albergar moglie e quiete,
né si divide senza lite il letto.
XV
AL PROPRIO LETTO
Mio notturno sepolcro, ove doglioso
ad ogni moto sol la morte imparo,
pien di cure diurne in pianto amaro
nella mia requie inrequieto io poso;
chiuder luci sicure in te non oso,
mentre agli affanni miei cerco riparo;
so che del tempo un sol momento avaro
ivi de' alfìn rapire il mio riposo.
Questi alzati sostegni alzan ruine;
queste piume ch'io premo, ancor che morte,
fabrican ale al volator mio fine.
Tu, funesto feretro, al suol mi porte;
in te, nido vitale, io so che alfine
con assiduo calor covo la morte.
CIRO DI PKRS 371
XVI
AL SONNO
O sonno, tu ben sei fra i doni eletti
dal ciel concesso ai miseri mortali;
tu l'agitato sen placido assali
e tregua apporti ai combattuti affetti.
Tu d'un soave oblio spargendo i petti,
raddolcisci i martir, sospendi i mali ;
tu dai posa e ristoro ai sensi frali,
tu le tenebre accorci e l'alba affretti.
Tu della bella Pasitea consorte,
tu figliuolo d'Astrea, per te di paro
vau fortuna servile e regia sorte.
Ma ciò che mi ti rende assai più caro
è ch'all'orror dell'aborrita morte
io col tuo mezzo ad avvezzarmi imparo.
XVII
IL MAL DI PIETRA
Son nelle rene mie, dunque, formati
i duri sassi a la mia vita infesti,
che fansi ognor più gravi e più molesti,
ch'han de' miei giorni i termini segnati?
S'altri con bianche pietre i di beati
nota, io noto con esse i di funesti;
servono i sassi a feibricar, ma questi
per distrugger la fabrica son nati.
Ah, ben posso chiamar mia sorte dura,
s'ella è di pietra! Ha preso a lapidarmi
dalla parte di dentro la natura.
[ < So che su queste pietre arruota l'armi
la morte, e che a formar la sepoltura
nelle viscere mie nascono i marmi. /
372 LIRICI MARINISTI
XVIII
L'OROLOGIO DA RUOTE
Nobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: sempre si more. '\^
Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core ;
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.
Perch'io non speri mai riposo o pace,
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all'età vorace.
E con que' colpi onde '1 metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s'apra, ognor picchia alla tomba.
XIX
EGO SUM QUI SUM
Triplicata unità, trino indiviso
son io che mi distinguo e son l'istesso;
e mentre in tre persone io son impresso,
io son tre, tre son uno, uno è diviso.
Son senza luogo in ogni luogo fiso,
né luogo mi comprende e son in esso;
io sol sono ed il tutto ho sempre appresso,
tutto veggio e in me sol godo e mi affiso.
Privo di estension, convien che mande
di mia presenza in ogni parte il dono,
ch'indivisibil si divide e spande;
e, senza qualità, son tutto buono,
e, senza quantità, son tutto grande:
io son chi seiìipre sono, io son chi sono.
CIRO 1)1 PERS
XX
IL TERREMOTO
Deh, qual possente man con forze ignote
il terreno a crollar si spesso riede?
Non è chiuso vapor, come altri crede,
né sognato tridente il suol percuote.
Certo, la terra si risente e scuote
perché del peccator l'aggrava il piede,
e i nostri corpi impaziente chiede
per riempir le sue spelonche vote.
È linguaggio del ciel che ne riprende
il turbo, il tuono, il fulmine, il baleno;
or parla anco la terra in note orrende,
perché l'uom, ch'esser vuol tutto terreno,
né del cielo il parlar straniero intende,
il parlar della terra intenda almeno.
XXI
PER UNA NIPOTINA DELL'AUTORE
la ciuale visse pochi giorni
Fortunata fanciulla, al ciel nascesti
non alla terra, e non ti fu immatura
l'ora fatai che dei tesor celesti
e dell'eterno ben ti fé' sicura.
Tu breve il corso della morte avesti,
che con lungo penare altri misura;
la frale umanità poco piangesti,
poco spirasti di quest'aria impura.
Chi solca il mar del mondo ogn'or aduna
maggior peso di colpa, e '1 cammin torto
sul tardi dell'età vie più s'imbruna.
Viaggio avesti tu spedito e corto;
navicella gentil fu la tua cuna,
che ti sbarcò del paradiso al porto.
373
374 LIRICI MARINISTI
XXII
IN MORTE DI GUSTAVO ADOLFO
Qual da turbato eie! fulminea face,
cui da gelido sen nube disserra,
scende tonante a spaventar la terra,
e dopo il colpo incenerita tace;
tal dal freddo aquilon lo Sveco audace
vien ruinoso fulmine di guerra,
che le moli superbe orrendo atterra,
poi tra l'alte ruine estinto giace.
Dubbie ancor le vestigie avvien che stampi
l'austriaca speme a tal cader risorta,
stordita ai tuoni, abbarbagliata ai lampi.
Pugnai! feroci, intanto, e non riporta
la vittoria nessun de' duo gran campi,
che con Adolfo la vittoria è morta.
XXIII
CRISTINA DI SVEZIA IN ROMA
Del baltico Nettun l'algenti arene
lasciando e gli astri ad Anfitrite ignoti,
per sentier troppo, o Roma, un tempo noti,
l'artica regnatrice a te sen viene.
Colma di sant'amor, di santa speme,
quasi l'irriverenti orme de' goti
venga per cancellar co' pie divoti,
dell'avito furor nulla ritiene.
E se ben lungi da nemico orgoglio
con umiltà pacifica s' inchina
del successor di Pietro al sacro soglio;
pur, facendo de' cor nobil rapina,
di Roma soggiogata in Campidoglio
trionferà la gotica reina.
CIRO DI PERS 375
XXIV
CONTRO L'AMARE UNA BELLEZZA SOLA
Ad Andrea Vallerò
Celeste dono è la beltà, che scende
ad invaghir qua giù l'umane menti
de' beni eterni, e a sollevarle al cielo;
chiare faville accende
ne' foschi cori e co' suoi raggi ardenti
sgombra de' pigri affetti il lento gelo;
sotto un leggiadro velo,
vie più eh' all'occhio, all'intelletto scopre
di lavoro divin mirabil opre.
Ma non sempre ella suol ne' regi tetti
covar tra gli ostri e riccamente adorna
sfidar le gemme in paragone e gli ori;
che d'ameni boschetti
spesso a l'ombra riposta anco soggiorna,
e d'un prato ridente emula i fiori.
Quivi ne' freschi umori
d'un puro fonticel si specchia e lava,
e co' fregi dell'erba i crini aggrava.
Fan di gemme inaspriti aurei monili,
d'argentei scherzi variati manti,
pompa non di beltà, ma di ricchezza;
son degli avi gentili
l'alte memorie e i celebrati vanti,
fregi di nobiltà, non di bellezza:
ch'ella per sé s'apprezza
e si brama per tutto ove si vede,
e cieco è quei ch'altra ragion ne chiede.
376 LIRICI MARINISTI
Ma cieco e stolto è quegli ancor che l'ama
solo in un loco, e se la mira altrove
o non la riconosce o non la cura.
Chi la bellezza brama,
la brama sempre in ogn'oggetto, e dove
la scorge ivi d'unirsi a lei procura.
Animata pittura,
all'è di Dio ritratto; io stimo un empio
chi la vuol adorar solo in un tempio.
Quegli che non ha cor d'amar capace
l'universal bellezza, ama e desia
la bellezza di Filli o di Nigella;
quindi non trova pace
co' suoi meschini affetti ; erra e travia,
mentre la luce vuol sol d'una stella,
che se splende rubella
a le sue voglie, infra gli orrori immensi
ei non ha scorta al traviar de' sensi.
Sol una è la beltà che '1 divo lume
in più corpi diffonde, e quasi Sole
a molte stelle i raggi suoi comparte;
end' è stolto costume
di chi solo in un volto amar ne vuole
con povero desio picciola parte.
Volgi l'antiche carte
e sovente vedrai lo stesso Giove
in nuovi oggetti amar vaghezze nove.
Tu, saggio Andrea, che non restringi il core
fra l'angustie d'un viso, e a' desir vasti
una sola speranza ésca non fai ;
per te non trova amore
entro due sole luci ardor che basti,
e i lacci d'un sol crin non sono assai.
Quindi è che tu ben vai
col libero p;nsier per varie forme
de l'unica beltà tracciando l'orme.
CIRO DI PERS 377
Quinci' è ch'or la capanna ed or la reggia
ti vede amante a vagheggiare intento
una sola bellezza in molte belle;
né creder già ch'io deggia
dannare il tuo consiglio; anch'io mi pento
che non presi a cercar altre facelle,
tosto che le due stelle,
che m'allettaron pria, mostrarsi avverse
e fero orgoglio il mio sperar disperse.
Sciocco Tantalo er'io, che 'n mezzo l'acque
dura sete soffria, perché volea
sol di fonte lontana onda interdetta.
La beltà che mi piacque,
mentre mal saggio fui, solo in Nicea,
or dovunque la miro ivi m'alletta.
Due begli occhi ha Lisetta
ed ha Glori un bel sen di vivi avori:
di Lisetta amo gli occhi e '1 sen di Glori.
XXV
I VIAGGI SULLE GALEE DI MALTA
Qui dove, loia, in grembo al mar sen corre
dal mal gradito amante
fuggitiva Aretusa,
d'orme penose imprimo
il bel lido sicano,
col pensier misurando
quanto mar, quanto cielo
quanta terra fraposta mi disgiunge
da quelle ch'io solca
chiamar de l'alma mia parti migliori,
di cui runa sei tu, l'altra è Nicea.
E penso ch'ora a punto •
378 LIRICI MARINISTI
l'intero suo cammin fornito ha il "sole,
da ch'io lasciai partendo
cotesti ameni colli, che sovente
imparano a fiorire
da quelle belle guance,
e son forse ancor caldi
dell'amoroso ardor di que' begli occhi;
ed ho in spazio si breve
tanti lidi trascorsi,
che de l'itaco duce
stimo men lunghi i peregrini errori.
E se d'udir t'aggrada
quel che feci pur dianzi
per le contrade eoe lungo camino
sui nostri armati pini,
che contra l'elespontico tiranno
spiegan candida croce
in purpureo vessillo,
tei narrerò; della mia rozza musa
tu gli accenti improvisi intanto escusa.
Già mezzo avea trascorso
della fera nemea l'adusto segno
il portator del lume,
allor che i bassi lidi
di Melita lasciando
con cinque audaci legni
ch'hanno d'armi e d'eroi gravido il seno,
venimmo a queste arene
dove l'antica Siracusa ancora
con rinovate moli
contro il tempo contrasta;
e di qua poi rivolte
al rinascente Sol l'ardite prore,
fidammo i lini al vaneggiar de l'aure,
e dopo lunghi spazi
di vastissimo mare,
CIRO DI PERS 379
mentre spuntava in ciel la quinta aurora,
sorger si vide a fronte
di Berenice il lido,
che di cinque cittadi, onde famosa
fu Pentapoli un tempo, appar primiera.
Quindi non lungi infra i cerulei flutti
chetamente confonde
l'oblivioso Lete
i suoi tartarei umori.
Si vide poscia il loco
dove era Arsinoe e dove
Tolomaide risorse,
dove Apollonia fu, dove Cirene,
che dell'alte ruine
sparso da lungi ancor biancheggia il suolo.
Già fùr città superbe, or sasso a pena
v'è eh 'a sasso sovrasti:
cosi fragili sono incontra il tempo
l'opere de' mortali.
Non have alcun albergo
che sembri ad uso umano
quel barbaro terreno ; e pur è tutto
dagli uomini abitato,
i quai non so s 'io debba
infelici chiamare o pur beati ;
cosi mal si misura
l'altrui felicità coi propri affetti.
Ma se beati furo
quei del mondo novello
primieri abitatori,
perché non doverò chiamar beati
questi ancora, che sono
tanto a lor somiglianti?
Quello che piace lece,
quel che diletta è onesto;
re, ciascun a se stesso
380 LIRICI MARINISTI
obbedisce e comanda,
né tien, fuor che la gregge, altri soggetti.
Quindi essi tranno il cibo,
qualor non glielo dan le scosse palme;
la clemenza dell'aria,
over l'uso più tosto
toglie loro il bisogno
d'ingombrar con le vesti
l'esercitate membra,
ed hanno al caldo, al gelo
letto il suol, tetto il cielo.
Nessun di vano onore
rispettoso ritegno
pon mèta ai lor diletti ;
nessuna avara brama
le lor menti molesta;
poiché '1 biondo metallo,
d'ogni volere espugnator possente,
solo fin de' mortali e sola cura,
appo lor è si vile
che in nessun pregio, in nessun uso s'have.
Son tai gli abitatori
della bella Cirene, ed anco appresso
di Marmarica tutta,
che tutta noi scorremmo
con le temute prore
per insino a 1' Egitto,
presso ai cui verdi lidi
il Nilo, peregrin del paradiso,
stanco dai lunghi errori,
riposa in grembo a Teti,
che non come vassallo
ma come ospite suo l'onora, e pare
che turbar non ardisca
co' salsi flutti i di lui dolci umori.
Oui nel lido si vede
CIRO DI PERS 381
la famosa cittade
cui die l'essere e '! nome
il Macedone invitto.
Quindi non lungi un giorno
nell'apparir della novella aurora:
— Ecco — s'udì gridare, — ecco una squadra
di veleggianti abeti. —
Destossi a quelle voci
di ciascuno guerriero
e la speme e l'ardire,
e con veloce moto
spingendo i remi e dando in preda a l'aure
da l'alte antenne le più larghe vele,
s'affrettava il camino.
Già già distinta appare
di torreggianti pini
la vasta forma, e da l'eccelse poppe
scorgonsi tremolar le tracie lune,
onde certo ciascuno
che son nemici : — All'armi, all'armi — grida,
e di ferrato usbergo
il petto cinge, e grava
d'elmo pesante l'onorata fronte,
e la spada fedel s'acconcia al fianco,
tenendo ne la destra
apparecchiate le fulminee canne.
Ed ecco, ecco d'intorno
freme il ciel, mugge il mar, rimbomba il lido,
mentre i bronzi tonanti
con orridi fragori
replican quinci e quindi
gli spaventosi colpi.
Fugge timido il giorno
tra densa nube ascoso
che celando l'orror l'orrore accresce;
ne' più riposti fondi
382 LIRICI MARINISTI
vanno a tuffarsi le cerulee ninfe,
e timido Nettuno
fin oltre il varco d' Elle
gli squaminosi destrier fuggendo affretta.
Sti'ingesi intanto la feroce pugna,
e de' nostri l'ardire
ogni vantaggio de' nemici adegua,
in guisa tal, che i dieci
cedono a' cinque, ed hanno
ogni speme riposta
nella vicinità del porto amico.
E già l'un d'essi in mezzo agli altri, a fronte
della città nemica,
nostra preda rimane;
gli altri fìdan lo scampo
ai lini fuggitivi.
Cresciuto il vento intanto
disperse in noi la speme
de la vittoria intera,
e la lor favori timida fuga.
Allor quindi partendo,
le vincitrici antenne
volgemmo inver' Boote;
né corse il Sol tre volte,
di là dov'ha per cuna aurato il Gange
fin là dove ha per tomba aurato il Tago,
ch'accostammo le prore
a quelle un tempo si felici piagge,
che de la dea più bella
furon delizia e cura.
Or soffrendo l'impero
di barbaro tiranno
sono più che ad Amor soggette a Marte;
pur mostran ne l'aspetto
placida amenità, ch'alletta il guardo
a rimirar colà fiorito un prato.
CIRO DI l'ERS 383
qua verdeggiante un bosco,
quinci un'aprica collinetta e quindi
una riposta valle,
in cui serpeggia un fiumicel lascivo,
che 'n fra smeraldi teneri confonde
i susurranti suoi fugaci argenti,
che sembran dire: — Anco qui regna Amore. —
Qui Pafo, o pur di Pafo
si vider le vestigie e d'Amatunta;
qui Curio s'additò, qui Salamina.
Drizzati poscia altrove i legni erranti,
fummo di Siria a quei beati lidi,
che di sante vestigie il re del cielo
impresse già, mentre l'umane colpe
trasse seco a morir, fatto mortale.
Qui del Tabor, qui del Sion le cime,
qui del sacro Oliveto e del Carmelo
inchinai riverente, e fra me stesso
piansi di sdegno che per nostro scorno
calchi con pie profan barbara gente
quei lochi santi, e par che ciò non caglia
a quei che sovra il popolo fedele
tengon gli scettri, e poi ciascuno a gara
vuole con vano ambizioso nome
dirsi re di Sion, dove non hanno
se non chi prende i loro fasti a scherno !
Nelle fenicie piagge
dapoi vidi Sidone e vidi Tiro,
che già pescar nel margine vicino
le pregiate conchiglie
onde il manto tingean gli antichi regi.
A le falde del Libano frondoso
Giulia felice e Tripoli si scorse,
indi Seleucia di Pieria, ed indi
Alessandria minore
entro l'issico seno;
384 LIRICI MARINISTI
di dove poi prendendo
a tergo il Sol nascente
si scorse lungo la Cilizia e lungo
la Panfilia vicina;
e poi di Licia e poi di Caria i lidi
si costeggiar. Quivi si prese un legno
degl'infidi nemici,
di ricche merci onusto;
ed altri due pur dianzi,
vinti sol dal timore,
fatti eran nostra preda.
Quivi deserto un porto,
il quale un di n'accolse,
alla vista n'offerse
d'Alicarnasso le ruine sparte,
e de la vasta mole
onde Artemisia volle
del marito onorar le nobil ossa.
Sono i marmi più fini
troppo fragili basi
in cui si stabilisca il fasto umano:
quella superba machina, che valse
stancar cinque scarpelli
di Grecia i più famosi,
or giace si, eh 'a pena
può dirsi : — Ella fu quivi ; —
che tra l'arena e l'erba
è lo stesso sepolcro ancor sepolto.
Poscia Rodi si vide,
che già fu nostra sede; or vi s'annida
il nemico ottomano,
non so con qual maggiore
scorno, o di noi ch'alia fatale e dura
necessità cedemmo,
o pur di chi potea, di chi doveva
darci soccorso, e da sicura parte
CIRO DI PERS 385
neghittoso mirava
de' campioni di Cristo il gran periglio,
over commosso da privati sdegni
l'arme irritava ambiziose, ingiuste,
contro quei che la fede avean comune.
S'andò poscia a Carfati, ed indi a Creta,
Creta, patria di Giove,
per ben cento città superba un tempo;
di là si venne ad Epla ed a Citerà,
che Venere nascente
prima raccolse dall'ondose spume.
Malea rimase a destra
ed i tenari lidi
si videro in passando; e Sfragia apparse,
Corifagio e Metone
s'additaron vicini, e non lontani
i colli di Messenia, in verso il polo.
L'isola scorsa, che di Prima ha il nome,
n'accolsero le Strofade, che furo
già nido infame de l'immonde Arpie.
Indi Zacinto, ed indi
ne' lidi cefaleni un ampio poi'to;
e perché Circio irato,
tiranneggiando d'Anfitrite il regno,
tutte commosse avea l'ondose moli,
qui ci fermammo il terzo sole e '1 quarto,
sin che 'I padre Nettuno,
sbandite le tempeste e le procelle,
col tridente appianò l'umide vie.
Traendo allor dall'arenoso fondo
l'ancora adunca per gli aperti campi
della salata Teti,
trascorremmo di novo
sin che riconoscemmo amico il suolo
ne le Calabre spiagge; indi passando
il periglioso varco
Lirici marinisti
386 LIRICI MARINISTI
dove il roco latrato
s'ode di Scilla infame, e di Cariddi
s'aprono le voragini profonde,
entrammo ove a le falde di Peloro
de la bella Messana
con ampio giro si dilata il porto,
che da moli superbe intorno cinto
toglie all'antiche meraviglie il vanto.
Corsero obedìenti
e in ordin lungo s' adatterò i marmi
ai regi cenni tuoi, gran Filiberto,
della cui stirpe al nobil scettro antico
inchinan l'Alpi le superbe fronti.
Dopo qualche dimora
di là partendo, la felice piaggia
di Trinacria si scorse,
da quella parte che del Sol nascente
esposta giace al redivivo raggio.
Qui vidi Etna fumante
dal cavernoso seno
vomitar, esalar fiamme e facelle;
maraviglioso mostro in cui si scorge
l'ardor unito al gelo,
che di mezzo alle nevi
sorgon gl'incendi e le solfuree vampe
lambendo van le gelide pruine.
Trascorso poi de' catanesi il suolo
e di Megara, fummo
a questi un tempo si felici lidi
di Siracusa, e poscia ove Pachino
frange i cerulei flutti;
e lasciatolo a tergo,
di Malta entrammo il sospirato porto,
mèta de' lunghi e travagliosi errori.
In cotal guisa errante peregrino
cerco fuggir dall'amorose cure;
CIRO UI l'EKS 387
ma sotto ciel diverso
provo i medesimi influssi: ad or ad ora,
con dura rimembranza,
Nicea mi torna in mente,
e del suo nome impresso
d'Asia e di Libia infra i deserti lidi
più d'un barbaro scoglio insuperbisce,
e vidi l'onda a gara
correre per baciar si belle note.
Ma già con rauco suono
le strepitose trombe
ne invitano al partir, l'aure seconde
chiaman le vele; anch'io
men vo co' gli altri; addio!
XXVI
L' ITALIA A\'\'ILITA
A inonsi.scnor Ciherardo Saracini
O di possente impero inclita sede,
Italia, un tempo e gloriosa e forte,
qual con dure vicende abietta sorte
servii catena or ti consente al piede?
Per opra già del tuo valor guerriero
cadde lacera al suol l'alta Cartago,
e con l'arene tributarie il Tago
i margini indorò del Tebro altero.
Portò l'Eufrate ad Anfìtrite in seno
di pianto prigionier torbide l'onde,
e mormorò tra soggiogate sponde
de' latini trionfi il vinto Reno.
E s' abbattuto ogn' altro incontro ostile
ai propri danni i tuoi furori armasti,
furo i tuoi vizi e generosi e vasti
e la tua sceleraggine non vile.
388 LIRICI MARINISTI
Che duo mal atti a sopportarsi pari
e men disposti a rimaner secondi,
l'empia discordia de' tartarei fondi
trassero a funestar le terre e i mari.
Fervidi fùr d'ambizioso sdegno
gli emazi campi, del cognato sangue
rigarsi l'aste, e della patria esangue
su le ruine fabbricossi il regno.
Se '1 vinto o '1 vincitor con più ragione
degli arnesi guerrier vestisse il pondo,
fu tra doppia sentenza ambiguo il mondo,
giudici quinci i dèi, quindi Catone.
Ah, che più di magnanimo e di grande
nulla ritieni, effeminata e molle!
Gli olivi ond'altri il crin cerchiar ti volle,
furon legami e ti parean ghirlande.
Quindi, fra gli ozi d'una ingrata pace
comprata a prezzo d'un umil servaggio,
obliato il valor, spento il coraggio,
di barbaro voler fusti seguace.
Ed or se i sonni tuoi rompe talvolta
tromba di Marte, impallidisci e tremi,
e neghittosa infra i perigli estremi
agli altrui scettri ogni tua speme hai volta.
E s' alcun figlio tuo d'ardir s'accinge,
per l'altrui signoria solo contende
e sol la propria servitù difende:
gettisi il brando che si mal si stringe !
Sotto altro nome e da diversa parte
s'avvien che torni un Annibal novello,
dove un Fabio sarà, dove un Marcello,
e dove un Scipion, folgor di Marte?
Minacci ampia vorago ampie ruine,
e ciò che più s'apprezza avida attenda;
Curzio s'arretri, e 'n vece sua vi scenda
sparso di molle odor Batillo o Frine.
CIRO DI PERS 389
Erri la destra, e gastigar la voglia
Muzio moderno; avralla forse il foco?
Anzi né pure il Sol vedralla un poco,
se non coperta d'odorata spoglia.
S'opponga il Tebro tumido e sonante
a Clelia, e rivedrem l'esempio antico,
non già se d'uopo fìa torsi al nemico,
ma ben se d'uopo fia darsi a l'amante.
Infra i duri novali esercitata
di Cincinnato la virtù robusta
più non si piega; alma di vizi onusta
torpe fra i lussi e detta vien beata.
Di Curzio e di Fabricio oggi s'onora
l'altera povertà con poca laude;
sol ricchezza s'ammira e '! volgo applaude
al tradimento ancor, s'altri l'indora.
Oggi chi pregio vuol d'alma gentile
spieghi fra i lussi altere pompe; a lui
Dedalo sudi a far palagi in cui
non vi sia del padron cosa più vile.
Qui cosi terso il pavimento splenda
che il piede di calcarlo abbia rispetto,
e l'oro qui, sotto il superbo tetto,
d'un pallido fulgor le travi accenda.
Veggansi qui da le pareti illustri
di serico lavor drappi pendenti,
ove su l'ostro co' filati argenti
scherzin degli aghi le vigilie industri.
La mendace di Rodi arte vetusta
qui con mute bugie schernisca il vero,
e sia vii prezzo un patrimonio intero
de l'ombre vane d'una tela angusta.
S'ornin le mense e Bacco in tazze aurate
sposi l'alpino gel : turba di cuochi
sudi ad un sol palato e in vari fuochi
stridano l'esche in più d'un clima nate.
39f> LIRICI MARINISTI
Aliti nabatei bevan le piume
da la pigrizia acconce, ove gl'impetre
i tardi sonni un molle suon di cetre,
né per lui splenda il matutino lume.
Sorga e ad uso del crin grande apparecchio
trovi apprestato, e qual novella sposa
l'unga, il terga, il gastighi e senza posa
il pettine e la man stanchi e lo specchio.
Prenda il vestito e sia di foggia strana,
marchio di servitù ; gentil lavoro
gì' indori il lembo e serpeggiata d'oro
cinga la spada, inutil pompa e vana.
Greggia di servi a solo fasto eletti,
pari al vestir di ricchi fregi adorno,
arresti il passo al di lui carro intorno,
qual volta avvien ch'ei fastidisca i tetti.
Quinci prenda ad ambir titoli vani,
quindi a mercar con simulati ardori
agli altrui letti ingiuriosi amori,
quindi a sfamar mille appetiti insani.
Ma s'anco sia che bellicose lodi
fra duri studi d'usurpar sia vago,
moderi il freno ad un destrier del Tago
e lo spinga e '1 raggiri in vari modi.
Su questo e di gran piume e di grand 'ori
superbo stringa in piazza asta dorata,
trastullo al volgo; e la sua bella amata
plaudendo esalti i non sanguigni orrori.
Tali sono, ed è vero, oggi quei ch'hanno
fra noi più pregio, ond'a ragion mi sdegno.
Deh, turbi ornai questo vii ozio indegno
straniero Marte, e sia beato il danno!
Gherardo, a te cui de l'aonio monte
cede i musici imperi il biondo dio,
miei carmi aspersi di quel fele invio
ond' amaro ha talor Permesso il fonte;
CIRO DI PERS 391
acciò tu di gran corde armi la lira,
da trarne forti e generosi accenti,
atti a destar ne l'avvilite genti
nobil vergogna e vie più nobil ira.
XXVII
LE CALAMITÀ D'ITALL-\
Chi mi toglie a me stesso?
qual novello furor m'agita il petto?
chi mi rapisce? Io seguo ove mi traggi,
io seguo, o divo Apollo,
o vuoi per l'erte cime
del tessalico Pindo,
o su l'amene balze
del beato Elicona,
o lungo i puri gorghi
dell'arcado Ippocrenc,
o presso i sacri fonti
di Permesso, Aganippe, Ascra e Libetro.
Ecco la cetra a cui marito i carmi,
che d'ogni legge sciolti
van con libero piede
a palesar d'un cor libero i sensi.
O de ridalie selve
temuto nume, s'io rivolgo altrove
lo stil eh 'a te sacrai, che d'altro a pena
seppe mai risuonar che de' tuoi vanti
e di colei del cui bel ciglio altero
formasti l'arco a saettarmi il petto,
tu mi perdona ed ella;
le mie querule note
non parleran d'amore.
Lungi da me, deh, lungi
392 LIRICI MARINISTI
cosi tenero affetto;
un'orrida pietà mista di sdegno
tempri le corde al mio canoro legno.
Veggo da' fonti uscite
del torbido Acheronte
errar crinite d'angui
per l'italico del le Furie ultrici.
L'una, pallida, asciutta,
l'ossa a pena ricopre
con pelle adusta, e le canine fauci
con radici satolla, ed a se stessa
i morsi non perdona,
e falce orrida stringe
con cui disperde l'immatura mèsse.
L'altra, tutta stillante
di caldo sangue, il nudo ferro impugna,
e lo sdegno ha negli occhi,
gli oltraggi nella lingua,
nella fronte il disprezzo, in man la morte.
La terza atro veneno
vomita da la gola,
ch'ovunque passa impallidisce il suolo
e d'orrido squallor l'aere ingombra;
e di vive ceraste
scuote una sferza, ai cui tremendi fischi
sbigottisce l'ardire, ed ella intanto
con orribil trionfo
sui monti de' cadaveri passeggia.
Perché il timor de' numi
ìmpari ogni mortale,
questo drappel feroce
quasi in un'ampia scena
negl'italici campi
fa di se stesso portentosa mostra.
Chi può con occhio asciutto
a spettacol si fiero
CIRO DI l'ERS 393
rigido starsi, ha ben ricinto il core
del più duro metallo, o chiude in seno
viscere adamantine.
Oh in quante strane guise
languir si mira il villanel digiuno,
chino in su quella terra
che menti le promesse
e la speme ingannò de l'anno intero,
chiederle almen la tomba,
se gli negò la mensa!
Altri alle sorde porte
dell'avaro crudele
sospira indarno e le preghiere vane
termina con la vita.
Altri, di strani cibi
né pur tocchi finora
dai ferini palati empiendo l'alvo,
per la morte fuggir la morte affretta.
Altri, mentre pur trova
chi con tarda pietate
la sospirata Cerere gli porge,
entro gli avidi morsi
lascia la vita. Altri, de l'empia parca
scorto il fatale irreparabil colpo,
cadavere spirante
porta se stesso a la vorace tomba.
Con qual orror s'ascolta,
con qual orror si mira,
da furor inuman barbara gente
spinta al sangue, a le prede,
mischiar stragi e ruine,
e per lieve cagione
l'armi dovute a vendicar gli oltraggi
del fero usurpator dell'Oriente
volger contro a se stessi
quei che del vero Dio vantan la legge!
394 LIRICI MARINISTI
Duro a veder ne' campi,
ove già lieto il mietitor solca
di Cerere maturi
raccorre i doni e l'animate biade,
mieter la morte ed ingrassar col sangue,
spaventosa cultrice,
le zolle abbandonate.
Duro a veder l'ampie città, le Ville,
fatte misera preda
del vincitore ingordo ; indi gli avanzi
dati alle fiamme e le delizie amene
de' bei palagi, antico
sudor degli avi, in breve ora consunti;
e le sacre a Lieo vigne feconde
potate in strane guise
da l'indiscreto ferro,
si che mai più non chieda
da lor, se non indarno,
o frondi il maggio o grappoli l'autunno.
Duro a veder su' geniali letti,
prima di sangue aspersi,
le caste mogli violarsi ; e duro
veder l'amate figlie
immature a le nozze
fatte ludibrio e scherno
più che diletto di sfrenate voglie;
e per ischerzo barbaro, inumano,
a pena nati i pargoletti infanti
macchiar le cune d'innocente sangue.
Ma più duro a veder ne' sacri templi,
vano refugio ai miseri, trattarsi
i misfatti più gravi,
e la votata al cielo
sacra verginità ne' sacri chiostri
a le celesti spose
con sacrileghi amori
CIRO DI PERS
395
rapire, e dispogliando
irli altari istessi, dagli stessi numi
non astener le scelerate destre.
Ahi, qual dall'altra parte
miserabil spettacolo mi tragge,
ove la peste orrenda
diserta le cittadi? A cento a cento
cadon gli egri mortali
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado,
cui nulla giova l'arte
del buon vecchio di Coo,
con quante man perita
svelle radici in Ponto,
e con quanti raccoglie
ricchi sudor dagli arbori di Saba;
anzi il medico stesso
cade nell'opra e i propri studi accusa,
si che ognun fatto accorto
che nell'altrui soccorso è il proprio danno,
fugge, ma spesso indarno,
chT prevenuta è dal malor la fuga.
Non v' è nodo di fede
che con l'amico infermo
stringa l'amico, o col padrone il servo;
anzi all'estremo passo,
privo ognun di conforto,
non ha l'antico padre
pur un de' figli a cui
dia gli ultimi ricordi,
o che gli serri con gli estremi uffizi
i moribondi lumi,
e la canuta madre
cerca indarno con gli occhi,
che dèe chiuder per sempre,
la sua diletta prole;
ma si fugge, s'aborre
390 LIRICI MARINISTI
dal figlio il genitore,
dal genitore il figlio;
e da la casta moglie
s'oblia l'ardor pudico
verso il caro marito,
parte già di se stessa.
Solo spavento, invece
de' già si dolci affetti
di carità, d'amore,
entro le menti sbigottite alberga.
Son muti i fòri e sono
l'officine oziose,
ogn'arte abbandonata;
la mèsse già matura
entro i campi negletti
l'agricoltore oblia;
e sui tralci pendenti
del dolce ismenio nume
lascia invecchiare inutilmente i doni ;
lascia senza custode
andar la greggia errando,
inerme preda ai fieri lupi ingordi.
Di ragunar tesori
la sollecita cura
oblia l'avaro; e l'iracondo oblia
gli antichi sdegni, e degli amati lumi
non apprezza il lascivo i dolci sguardi,
rivolgendo i sospiri a miglior uso.
■^ Per le vie già frequenti e per le piazze
già strepitose alto silenzio intorno
e strana solitudine s'ammira,
se non se 'n quanto ad or ad or si scorge
senza pompa funebre
portarsi in lunghe schiere
a sepellir gli estinti.
Sceglie le tombe il caso, onde ciascuno
CIRO DI PKRS 397
fra ceneri straniere
nel sepolcro non suo confuso giace;
ma gran parte insepolta
ingombra i campi intorno,
o di rapido fiume
si raccomanda a l'onde,
ésca al pesce, alla fera,
se i cadaveri infetti
non abborrisce ancor la fera e '1 pesce.
Né pur con una sola
lacrima s'accompagna
il folto stuol de' miseri defonti,
poscia che lo spavento
ha nelle luci istupidito il pianto.
O già si bella Italia e si felice,
ah quanto, oimè, da quella
diversa sei ! da quella che solca
con dilettosa invidia
vagheggiarsi dai popoli stranieri !
D'ogni miseria colma,
spettacolo doglioso a l'altrui vista
t'offri, a mostrar ch'in terra
ogni felicità passa fugace.
Santi numi del cielo,
ch'onnipotenti e giusti
con providenza eterna
le vicende ordinate
de le cose mortali,
io non mi volgo a voi ;
so ben che i nostri errori
son gravi si ch'in paragon leggère
s'han da stimar le pene.
Ma ben mi volgo a voi, numi terreni,
a voi che de l'Europa il fren reggete,
e che dai seggi eccelsi
date le leggi al popolo ch'adora
39^ LIRICI MARINISTI
con vero culto deità non falsa.
Poscia che i vostri immoderati affetti
e quella poco giusta arte d'impero,
che voi chiamar solete
ragion di Stato e gelosia di regno,
sono, a chi il dritto mira,
in gran parte cagion di tanti mali.
Tu che sostieni il glorioso scettro
dell'impero roinan, tu che correggi
con la destra possente
la gran Germania, al cui valor sovrano
serva è fortuna, obbediente il fato;
tu che a tanti rubelli
depor facesti il pertinace orgoglio,
tu che i santi disdegni
rivolti avevi a fulminar sugli empi,
che con rito profano
tolgon l'antico culto ai sacri altari;
perché tronchi nel mezzo
un'opra si magnanima e si giusta?
Qua! di ministro infido
consiglio interessato
ti fa stimar più degno
de l'ire tue sul Mincio un tuo vassallo,
che fuor che '1 regno avito,
per legge a lui dovuto e per natura,
altro non chiede? E se dimostra in questo
forse minor la riverenza in parte
che a te si deve, è tanta
però la colpa, che mandar convegna
cento barbare squadre
nei campi ausoni a comperar la morte
a prezzo di ben mille
stragi, ruine, violenze, furti,
rapine, incendi, sacrilegi e stupri?
e (quel che fa più giusti
CIRO DI l'ERS 399
miei gridi) a seminar gli empi veneni
de l'idra di Lutero e di Calvino,
onde s'infetti (ah, noi permetta il cielo!)
la bella Italia, eh' è maestra e madre
de la relig'ion verace e santa?
E poi, se '1 turco infido
ti spezza la corona
degli ungarici regni in su la fronte,
e per sé ne ritien la miglior parte,
non par che te ne curi !
In contro lui t'adira;
è colà degno campo
a tua possanza, a tua fortuna augusta.
Che tardi a vendicar gli antichi oltraggi?
Non son, non son giganti
i traci, no. San paventar la morte
anch'essi, e san fuggendo
a vergognose piaghe esporre il tergo.
Tu che a la Francia imperi,
invitto re de' bellicosi Galli;
tu cui fin nella culla
fanciulleschi trastulli
furo i guerrieri arnesi,
nutrito all'ombra de' paterni allori,
da la cui forte destra
se piantate non son, fiorir non sanno
le marziali palme;
ben da giust' ira spinto
l'armi vittoriose
finor movesti, o se dall'empie tane
scacci il rubello o i profanati templi
ritorni al vero culto o se soccorri
l'amico oppresso. Ah, qui l'impeto affrena;
né d' italici acquisti
pensa a glorie, minori
del vasto animo tuo. Volgi la mente
400 LIRICI MARINISTI
de' tuoi grand'avi alle famose imprese;
essi per simil opre
non salir de la gloria all'erte cime,
ma perché su l'Oronte e sul Giordano
trofei piantàro e gloriosi e santi,
e di palme idumee cinser le chiome.
Là t'invitan gli esempi,
ti chiaman là quei generosi spirti
che nutri in sen, di nobil fama ingordi.
Non sa sperar altronde
che dal franco valor giusta vendetta
da tanti oltraggi e tanti
la sacra tomba. A servitù profana
tolta due volte l'ha gallico ardire:
or serba a la tua fronte il terzo alloro.
Vanne e 'n quel sacro marmo
con la tua spada intaglia
il titolo di giusto,
se poscia vuoi che si registri in cielo.
,Tu, gran monarca ispano,
che di cento corone
gravi la fronte, al cui possente scettro
più d'un mondo s'inchina,
che, se dal ciel scendesse
teco a partir l'impero
della mole terrena il sommo Giove,
più da lasciar che da pigliare avresti ;
tu, che quando il Sol nasce e quando more,
a lui presti la cuna, a lui la tomba;
a che dar loco a cosi bassa cura,
fra i tuoi vasti pensieri,
di creder che t'importi
eh 'un più eh 'un altro regga
ne' lombardi confin poche castella,
si che tutti i tuoi fulmini apparecchi
contro il signor di Manto
CIRO DI PERS 401
cui tu dovresti a pena
degnar de' tuoi magnanimi disdegni?
Almen, se non ti preme
che il Belga ribellante
schernisca già tant'anni
le tue giust'ire, a l'Africa ti volgi.
Ella ti siede a fronte
pur lungo tratto e teco
antichi odi professa e spesso ardisce
mandar pochi corsari
a depredar de' regni tuoi le sponde.
Se colà volgi l'armi,
i tuoi guerrieri allori
ne la terra e nel cielo
germoglieran frutti di gloria eterni.
Tu, veneto Leon, tu che raffreni
con giusto impero i flutti
d'Adria, tu che fuggendo
delle spade barbariche l'oltraggio,
con pacifiche leggi
sovra l'onde incostanti
stabil sede fondasti a regno eterno,
ov'han fido ricovro i grandi avanzi
della famosa libertà latina;
deponi omai, deponi
l'antica gelosia. Forse non hanno
i possenti vicini
tanto le voglie ingorde
d'aggrandir co' tuoi danni; o se pur l'hanno,
il ciel eh' ha di te cura,
renderà vani i loro ingiusti sforzi.
Mentre esser puoi delle tragedie altrui
spettator, non ti caglia
entrar in scena a recitar la parte;
riserba i tuoi tesori a miglior uso,
fin che tramonti l'ottomana luna.
Lirici inarinisti — 26
402 LIRICI MARINISTI
che dal sublime punto
le rintuzzate corna
ornai piega declive inver' l'occaso;
allor ne' greci regni
offriransi al tuo crin ben cento allori.
Intanto, già che brama
teco l'aquila augusta
stringer nodo di pace,
tu '1 dèi gradir, che forse
vuol ragion che congiunta
sia col re delle fere
la regina del popolo volante.
Tu, regnator dell'Alpi,
che quinci stendi nell'Italia e quindi
l'antico scettro ne la Francia, ah tanto
non t'alletti la pompa
de' paterni trofei, che non raffreni
gli spiriti magnanimi e feroci
ch'altro apprezzar non sanno
che bellicose palme !
Deh, lascia che riposi,
dopo tanti travagli,
all'ombra sospirata
di pacifiche olive
il tuo popol divoto,
finché più nobil tromba
a ricalcar ti chiami
l'orme de' tuoi grand'avi in Oriente.
Ma tu, del Vatican pastor sublime,
padre comun che premi il trono santo
che più d'ogni altro in terra al ciel s'appressa,
so ben ch'ogni tua cura
rivolgi all'util nostro;
so ben che i tuoi pensieri
altro oggetto non hanno
che '1 servigio di lui, che tra' mortali
CIRO DI l'ERS
403
in sua vece t'ha posto;
e so che l'api tue,
per fabricar favi di pace in terra,
favi di gloria in cielo,
entro i prati fioriti
de le potenze umane
cercan diversi fiori,
né volan solo ai gigli,
coni 'altri pensa. Cosi il cielo ascolti
i santi voti tuoi, si che tu scorga
la tua diletta greggia,
sommerso in Lete ogni privato sdegno,
passar con voglie unite
nell'Asia a racquistar gli antichi ovili,
e l'abbattuta croce
a raddrizzar sul Tauro e sul Carmelo.
Arresta, o cetra, i carmi;
troppo lungo è '1 mio canto; io qui t'appendo,
non come pria d'un verde mirto ai rami,
ma d'un secco cipresso,
per non toccarti fin che non si mostri
il cielo udir placato i voti nostri.
XXVI li
LA PREDESTINAZIONE
O muse, o voi ch'ove '1 Castalio inonda
bever torbidi umori a sdegno avete,
ma del sacro Giordan lungo la sponda
v'è diletto appagar più nobil sete;
datemi note ad abbassar possenti
l'orgoglio ond'uomo in suo voler si fida,
e si crede appressar gli astri lucenti
se sua cieca ragion prende per guida.
404 LIRICI MARINISTI
Ah, che gli occhi deirahiia adombra a l'uomo
caliginoso orror di nebbia inferna;
fé' che, la destra all'interdetto pomo
stendendo, offese la giustizia eterna.
Quinci da false imagini di bene
deluso, ognor va d'uno in altro errore,
né pur in mente un sol pensier gli viene
che l'inviti a calcar strada migliore.
Né forza ha d'eseguir quanto comanda
la sacra legge del verace nume,
se divino favor dal ciel non manda
di grazia in lui non meritato lume.
Allor col proprio arbitrio al ben ch'intende,
e volontario e libero si move;
allor per l'erta faticosa ascende,
che sono a sciolto pie facili prove;
allor declina i precipizi, allora
fugge i delitti infra i diletti ascosi ;
non han per lui sirene arte canora,
non han per lui vaghezza ostri pomposi.
Tutto in virtù di quell'interna aita,
eh 'a suo piacere il gran motor dispensa,
dagl'influssi di lui l'anima ha vita,
egli la pasce ad invisibil mensa.
Nulla abbiam che sia nostro; il vanto cessi
d'un retto oprar, d'una costante fede;
diasi sol lode a Dio; da lui concessi
tai doni son, né merto alcun precede.
L'alto voler di Dio, prima che l'ali
spiegasse il tempo a infaticabil volo,
avea descritto entro gli eterni annali
gli eletti ad abitar la sovra il polo.
A questi ei preparò gli empirei seggi,
a quesù agevolò gli aspri sentieri ;
tu che ti fidi in tuo poter, vaneggi ;
giunger là senza scorta indarno speri.
CIRO D! PERS 405
Ben ha folle pensier chi si promette
più di sé che di Dio. Fidiamci in Lui,
e stimiam libertà ciò ch'ei commette
pronti eseguir, se troviam forze in nui.
Dannasi l'empio: è di giustizia effetto.
Salvasi il giusto: è di clemenza dono.
Questo è da diva man guidato e retto,
quei lasciato a se stesso in abbandono.
— Non viene a me, non viene alcun, se tratto
non è dal Padre mio. Prestisi fede
alle voci del vero: alcun affatto
mai non perdei di quei ch'egli mi diede. —
Si disse il Verbo. È temeraria inchiesta
del consiglio divin cercar ragione,
perché quella a sé tragga e lasci questa
alma cader ne l'infernal prigione.
D'infinito saper scarsa misura
son pochi raggi d'intelletto umano.
Quanti a noi la sensibile natura
secreti asconde, e '1 ricercarli è vano!
Ei, che del eie! le stelle, ei che l'arene
numerate ha del mar, solo comprende
perché patisce l'un dovute pene,
e l'altro a premi non dovuti ascende.
Ma non quinci al peccar porgan licenza
sciocchi argomenti, e dica alcun: — L'abisso
o '1 ciel m'attende, né cangiar sentenza
puossi di quel ch'eternamente è fisso.
Perché, duro a me stesso, ognor co' prieghi
inutilmente ho da stancar gli altari,
se '1 decreto del ciel non fia ch'io pieghi,
quando a me pene o premi egli prepari ?
Dunque, fia meglio a' lieti scherzi intento
passar con Bacco e con Ciprigna il giorno,
e '1 fugace piacer stringer contento,
di tempestive rose il crine adorno. —
4o6 LIRICI MARINISTI
Stolto, non t'ingannar! Ciascun l'inferno
col suo voler, col suo poter s'acquista;
e la colpa onde merchi il danno eterno
destinata non è, ma sol prevista.
Ma per salire al ciel non solo i fini,
ma i mezzi ancor son preparati ; a Dio
sol ne guida un sentier; mentre il cammini,
forse puoi dir: — Son degli eletti anch'io. —
Ma se per altra via t'inoltri, oh quanto
hai ragion di temere! e 'n fra i timori
d'un danno eterno, ancor ti darai vanto
di goder liete mense e lieti amori?
Amareggiati e miseri contenti,
che dalla via del ciel tranno in disparte !
Deh, stiam quanto si puote al cielo intenti,
grazie rendendo a chi '1 poter comparici
Di divina rugiada il seno asperso
ne' dotti fogli suoi cosi ragiona,
a le bestemmie di Pelagio avverso,
il saggio, il santo, ond'è famosa Ippona.
X
GIUSEPPE BATTISTA
I
GLI OCCHI BELLI
Esca dalla sua cuna e goda il giorno
di ricondur per suo fanale il sole;
pieghi l'ale la notte ed apra intorno
tremole faci in su l'eterea mole;
de' vaghi rai fra la minuta prole
fregi Dittinna il luminoso corno;
che costei tutto il bello adunar suole
negli occhi suoi, d'ogni splendore a scorno.
Oh qual hanno due luci in sé valore!
Talora l'apre ed ha le Grazie ancelle,
talor le chiude ed ha legato Amore.
Le fisa al mare e '1 mar non ha procelle,
l'abbassa al suolo e '1 suol produce il fiore,
l'innalza al cielo e accresce il ciel le stelle.
4IO LIRICI MARINISTI
II
L'INNAMORATO DEL RITRATTO
Oh, chi me '1 crede? Io, che delusi amore,
sotto il giogo d'amor mi trovo avvinto,
e, quel che sembra a me scorno maggiore,
da simolacro inerme oggi son vinto.
Già mi vela il pensier lino dipinto,
adombrata beltà m'adombra il core,
sento da finta immago ardor non finto,
e mi dà vivo duo! morto colore.
Ho tutti a cieca larva i voti intenti,
tributo a sordo nume i miei sospiri,
narro ad idolo muto i miei lamenti.
Cosi non han conforto i miei martiri,
refrigerio non provo a' miei tormenti,
e rimedio dispero a' miei deliri.
Ili
L'AMANTE E LA CICALA
Del viver mio l'insolito tenore
pur troppo al tuo la somiglianza ha vera,
o tu, che flagellando ale sonore
sei de le bionde ariste atra furiera.
Tu sei de' boschi abitatrice altera
ed io d'ermi recessi amo l'orrore;
tu delle membra tue la spoglia hai nera,
a me tinge l'aspetto egro pallore.
Talora hai tu dal ferro il petto inciso
di parto arderò, ed io dall'arco intanto
porto del dio eh 'è cieco il cor diviso.
Agli ardori del Sol tu formi il canto
ed io le mie querele a' rai d'un viso;
tu vivi di rugiada ed io di pianto.
GIUSEPPE BATTISTA
IV
LA MORTE DEL MARITO
Stilla per gli occhi in lagrime stemprato
su lo spento consorte Irene il core;
a tragedia si mesta anch'io turbato
verso dalle pupille un mar d'umore.
Ella sente gran pena, io gran dolore,
troppo ella amando, io non essendo amato;
la falce ella di Morte, ed io d'Amore
maledico lo strale avvelenato.
Io cerco a lei, ed ella al cielo aita;
ella l'estinto suo brama risorto,
io ch'in lei la pietà rinasca in vita.
Ella a ragion si lagna, io non a torto;
celebriamo cosi, coppia smarrita,
io l'esequie d'un vivo, ella d'un morto.
V
AL FIUME SEBETO
Liquido specchio della vaga Irene,
Sebeto mio, ne' cui tranquilli umori
il suo volto vagheggia, e i biondi errori
dell'aurea chioma ad emendar sen viene;
ti facciano cosi le sponde amene
pallidi mirti ed immortali allori,
e fregino le gemme, ornino gli ori
le tue superbe e gloriose arene;
quando ella rieda in sugli albori eoi,
turba dell'acque tu la mole ondosa,
né la mostrino bella i gorghi tuoi.
Forse, di sua beltà non più fastosa,
quanto parrà deforme agli occhi suoi,
tanto alle voglie mie sarà pietosa.
41X
412 LIRICI MARINISTI
VI
LA BUGIARDA
Nice, qualora il suo pensier mi spiega,
ogni parola è di bugie vestita;
quando ella mi discaccia, allor m'invita,
e quando mi minaccia, allor mi prega.
Ora pietà promette, ora la nega,
ed ora m'abbandona, ora m'aita;
mesta e lieta mantiene a me la vita,
e mi discioglie allor quando mi lega.
Dopo tante menzogne, alfin m' in luce
a non amarla più giusto furore,
benché beltà celeste in lei riluce.
Poi dico : — Il non amarla è grave errore ;
che se la veritate odio produce,
dritto è che la bugia produca amore. —
VII
AMORE E DOLORE
Oh della fede mia bianchi trofei !
Nelle felicità son fatto un dio.
Madonna m'ama, amo madonna anch'io,
né diletto maggior bramar saprei.
Sono spiriti suoi gli aliti miei:
penso col suo pensier, pensa col mio,
tempra con la mia voglia il suo desio,
vive in me trasmigrata, io vivo in lei.
Le sue bellezze alla mia fame espone,
e godo il mio bel sole al di più fosco,
ella Venere fatta, io fatto Adone.
Dell'empia gelosia non bevo il tòsco,
e pur mi doglio e piango. E la cagione
del mio duol, del mio pianto io non conosco.
GIUSEPPE BATTISTA 413
Vili
CONFESSIONE DI POETA
Scrivo talor che m'avviluppa un laccio,
narro talor che mi saetta un guardo;
ma favoloso è del mio sen lo 'mpaccio
e dell'anima mia mentito il dardo.
Crede altri già eh' io ne' martir mi slaccio,
e che di fiamme in un torrente io ardo;
ma quel foco ch'io mostro è tutto ghiaccio,
e '1 martir che paleso anco è bugiardo.
Tra gli scherzi acidali onesto ho il core,
ed al garrir di questa penna giace
sordo il pensier, che non conosce amore.
Cantò Pale Marone e '1 dio del Trace,
né vincastro trattò, rozzo pastore,
né brando fulminò, guerriere audace.
IX
IL MANDORLO
Prima cura di Flora, occhio degli orti,
bella pompa del popolo frondoso,
che portanL'O sul crin fregio odoroso
dell'esequie del verno annunzio apporti;
al tuo gaudio garrisce i suoi conforti
l'esercito pennuto armonioso,
e, sciogliendo da' ghiacci i! suo riposo,
correr il fiume all'oceano esorti.
Fa' mostra pur di tue bellezze altera,
che mentre nel fiorir precorri a tutti,
porti la primavera a primavera.
Tu, mentre chiami il riso e scacci i lutti,
maestro sembri alla ramosa schiera
d'aprire i fior che son furier de' frutti.
414 LIRICI MARINISTI
X
LA ZANZARA
Se la madre d'Amor dall'acque uscio
e vanta in mezzo all'acque il suo natale,
alla madre d'Amore io fatta eguale
dall'acque vanto il nascimento mio.
Se di Venere il figlio, il cieco dio,
ha sugli omeri vanni e porta strale,
anch'io su le mie spalle innalzo l'ale
e sono di saetta armata anch'io.
Labro che in due coralli appar diviso
piacemi dì baciare; e mio conforto
stimo libar le rose in un bel viso.
Co' miei susurri alle \igilie esorto;
e se l'uomo ferisco, e pria l'avviso,
delle ferite mie si lagna a torto.
XI
LA GRANATIGLIA
OSSIA FIORE DI PASSIONE
Non più lo stranio fior Pindo rammenti
che '1 nome avea d'un morto re descritto,
s'oggi r indica pianta ha gli stormenti
della morte d'un re che cadde invitto;
libro, dove stampar fogli dolenti
il martirio crudel d'un dio trafitto,
e per narrar d' un dio gli aspri tormenti
vegetanti elegie natura ha scritto.
Volle certo scolpir stelo architetto
la catastrofe qui del suo Fattore,
a scorno mio, che non la porto in petto.
La tragedia d'un dio purgarmi il core
oggi potrà del più smodato affetto,
poiché muto istrione è fatto un fiore.
GIUSEPl'K BATTISTA 4^5
XII
L'ACQUA
Latto con mille poppe e rendo vive
io, ricca genitrice delle cose,
le querce a Giove, a Pallade le ulive,
i gigli a Giuno, a Citerea le rose.
Nel grembo algente o sulle rive algose
danzatrici canore ho le mie dive;
siano l'ore gelate o sian focose,
senza l'umido mio vita non vive.
Non ondeggiar quaggiù solo a me lice,
ma sciolgo ancor sul fornice librato
delle sfere profonde il pie felice.
E '1 Dio che sulle stelle ha trono aurato,
quando dal sen del nulla il mondo elice,
gode su le mie spalle esser portato.
XIII
LA LETTERA
Figlia del mio pensier, nunzia veloce,
che corri senza pie, voli senz'ale,
rapida più che vento e più che strale,
e dove l'aere agghiaccia e dove coce;
palesi la mia mente e non hai voce,
ordisci tradimenti e sei leale,
erba non sei di Coleo e sei letale,
non sei libica belva e sei feroce.
Spirto de' passi miei, lingua del core,
mi conduci colà dov' io non sono
e chiedi quanto vuoi senza rossore.
Delle tue note, allor che note sono,
ha la suora d'Encelado minore
ne' vanni il moto e nella tromba il suono.
4l6 LIRICI MARINISTI
XIV
LO SCHIOPPO
Questa di man germana opra guerriera,
se di zolfi nitrosi accende il seno
ed a piombo pennuto allenta il freno,
fulmine par della tonante sfera.
Svena in mezzo al fuggir partica fera,
benché rapida il pie scorni il baleno,
e di sùbita morte atro veleno
porta ne' globi alla volante schiera.
Erutta il tuono e partorisce il lampo,
fa d'estinti guerrieri il suol fecondo
e di vermiglio umor lastrica il campo.
Lascia, o Morte, la falce, inuti! pondo,
e con l'ordigno, a cui non giova scampo,
dal mondo impara a fulminare il mondo.
XV
APOLLO E DAFNE
Poiché Dafne cangiò le braccia in rami,
in radici le piante, il crine in fronda,
là 've tesse Penco molli ricami
con l'argento purissimo dell'onda;
per dar qualche ristoro alle sue fami
Apollo giunge in su l'erbosa sponda,
e di teneri amplessi in più legami
la donna, fatta pianta, egli circonda.
Indi, ch'altro non può, sol tanti ottiene
d'imprimer baci in su la scorza acerba,
quante il fiume vicino involve arene.
Esclama abbandonato in grembo all'erba:
— Dafne la sua durezza ancor mantiene,
l'amarezza di prima ancor riserba! —
GIUSEPPE BATTISTA 417
XVI
MEDEA
Io diveller mi vanto, iu crollar posso,
di lingua acherontea con sacri accenti,
a Pelia gli orni ed a Pirene il dosso,
i vanni ai grifi ed ai pitoni i denti.
Le nubi ho accolto e le procelle ho mosso,
schiodato gli astri, imprigionato i venti,
alle pallide tombe il grembo ho scosso
e tratto al nostro mondo ho l'ombre algenti.
Chiamai quaggiù fin dagli eterei calli
la sorella di Febo, argentea luna,
né le giovàro i temesei metalli.
Di caligini al Sol cinsi la cuna,
e dal volo fi'enai gli aurei cavalli ;
ma con Amore io non ho forza alcuna.
XVII
EROSTRATO
Rinascete, architetti: incendio insano
i miracoli vostri oggi divora;
l'opra di cento età disperde un'ora,
l'opra di cento re strugge una mano.
Ecco, per mio coraggio, infiranta al piano
la macchina miglior l'Asia deplora,
e quel sacro delubro, ove s'adora
Delia, deride i terremoti invano.
Vadane a calpestar soglia regale,
e sia madrina al bambolin di Fella
la dea che nacque ad avventar lo strale;
ch'io bramo esser famoso, e sia pur ella,
siasi dell'empietà parto fatale,
la fama, quando è grande, è sempre bella.
Lirici marinisti — 27
4l8 LIRICI MARINISTI
XVIII
GIUDITTA
« Saiida/a eius rapuerunt oculos eiiis »
Le chiome attorta e colorata il viso,
passa l'oste nemica, adito chiede
dove il re degli assiri in trono è assiso,
la bella di Manasse unica erede.
Mentre a quella beltà di paradiso
s'abbaglia il sire ed ai suoi detti ei crede,
ha con piaga mortale il cor diviso
dai socchi superbissimi del piede.
Poi quando, estinto il di, gode riposo,
gli recide l'invitta il capo insano,
nel sonno immerso e di Lieo spumoso.
Oh d'amazone ebi'ea valor sovrano,
ch'Oloferne crudel, duce orgoglioso,
pria ferisce col pie, poi con la mano!
XIX
ALLA VERGINE
Curvano vago serto in sul bel crine
le stelle a te, che son del cielo i fiori,
e del pianeta, onde il natale han gli ori,
vesti spoglie lucenti e peregrine.
Hai sotto il pie dell'argentate brine,
onde Cinzia s'adorna, i puri albori,
ed alla tua beltà, ch'avviva i cori,
servaggio fan le gerarchie divine.
Tu, della mente dell'eterno Giove
figlia non favolosa, albergo pio
fusti d'un re che tutte cose move.
Nel seno ove le grazie Amore unio,
con maniere di cielo al mondo nove,
per scioglier l'uomo imprigionasti un dio.
GIUSEPPE BATTISTA 4^9
XX
SAN MACUTO
che celebra messa in mare sopra una balena
Sul dorso navigabile del mare
stende d'insane scaglie atra la schiena,
che d'alghe lastricata isola pare
al più cauto nocchier, vasta balena.
Qui, curvata d'arazzi illustre scena,
sacro ministro innalza augusto altare,
dove rinova in sacrosanta cena
d'un morto dio le rimembranze amare.
Troppo cortesi, o belva, avesti i -cieli,
mentre su le tue spalle a stuol eh' è pio
voce sacerdotal détta vangeli.
Del cumano delfino urna d'oblio
le memorie più vive al mondo or celi,
ch'ei trasse un uomo, e tu sostieni un dio.
XXI
BELISARIO
Pietà di Belisario! A quella mano,
ch'all'ombra delle belliche bandiere
dispensava stipendi a mille schiere,
porgi mercede, o peregrino umano!
Della fame lo rode il dente insano
e pur nudrito ha le falangi intere;
stimò termine angusto anco le sfere;
or Io serra di selci antro villano.
L'oste guidò nel marziale ardore,
or gli è scorta vii canna; un rege ingrato
die si barbara paga al suo valore.
Chi l'ale della fama ha d'occhi armato,
orfano è d'occhi; e pallido livore
il fulmin della guerra ha fulminato!
420 LIRICI MARINISTI
XXII
IL CAOS
Macchina mal composta, a cui non porse
beltà la forma onde ogni cosa è bella,
e dove de' contrari a far concorse
il popolo guerrier pugna rubella;
era terra, era mar, né mai si scorse
in questo errar le navi, i plaustri in quella;
era aria ed era cielo, e mai non corse
in quell'aria, in quel ciel, turbine e stella.
Una tavola forse allor parca,
dove man di natura avea dipinto
di tutte cose un'abbozzata idea.
Era ne l'esser suo mondo indistinto,
che nel difforme seno amor chiudea,
donde il mondo confuso usci distinto.
XXIII
LA MATERIA PRIMA
Asilo è di contrari, e se s'intende
dall'intelletto, all'occhio altrui non giace;
creata in tempo, e pur del tempo edace
non è mai sottoposta alle vicende.
Perché di forme assenti ardor l'accende,
le presenti ch'abbraccia ella disface,
ed è la fame sua tanto vorace
eh 'alle forme corrotte anco si stende.
Per lei quanto è per lei cade distrutto,
e, benché il moto abbia da sé disgiunto,
parte dal fiore e fa passaggio al frutto.
Fa, né vaga né brutta, il vago, il brutto;
non ha divisione e non è punto;
in atto è nulla ed in potenza il tutto.
GIUSEPPE BATTISTA 421
XXIV
IL TEMPO
Nacqui e vivo nel cielo, e pure il cielo
le mie forze tiranne unqua non sente;
misuro i moti al sole e col mio dente
rodo i marmi a Numidia, i bronzi a Delo.
Do le fiamme alla state, al verno il gelo,
rendo la notte ombrosa, il di lucente,
e so portar della mondana gente
rughe alla fronte e canutezza al pelo.
Angue son io da mano egizia espresso,
che mordo la mia coda. Or qual veleno
vomito a' danni altrui s'odio me stesso?
In tante scene io mi paleso; appieno
di saper l'esser mio non è concesso;
quanto si pensa più, s'intende meno.
XXV
DEMOCRITO ED ERACLITO
Democrito, tu ridi e col tuo riso
tutte le umane cose a scherno prendi
e, sia del fato o mesto o lieto il viso,
con lieto viso ogni accidente attendi.
E tu col mento in sulla destra assiso
piangi, Eraclito, e sempre al pianto intendi;
forse che quanto è fra di noi diviso,
lacrimosa tragedia esser comprendi.
Ma siate pure al pianto o al riso intenti,
che '1 riso e '1 pianto a me rassembra intanto
vano delirio delle vostre menti.
I mali di quaggiù gravi son tanto
che, per guarir le travagliate genti,
è vano il riso ed è più vano il pianto.
LIRICI MARINISTI
XXVI
IL RICCO OZIOSO
Le fatiche del bue l'agricoltore
copulando a le sue, frange le zolle,
e della vite appoggia il tralcio molle
su le baiule canne il potatore.
Mena per pascolar l'erbe il pastore
l'agnelle al piano e le caprette al colle,
e mentre nel suo luglio il Sol più bolle,
taglia oceani d'ariste il falciatore.
Tessitrici non men vegghian le fanti,
e di stame filato aurei volumi
sudano industri a fabricarne i manti.
Versando agii ozi tuoi voler di numi
larga benignità, l'opre di tanti
che travaglian quaggiù tu sol consumi.
XXVII
EPITAFFIO DI UN UOMO FELICE
Se tutta l'età mia fu primavera,
spopola, man cortese, il mondo erboso,
e d'aurei fiori una tempesta intera
grandina su la tomba ov'io riposo.
Qui nel sen d'una pietra io vivo ascoso,
che del mio di non son venuto a sera;
mutai sol tempo ove tornar non oso,
e son giunto in un loco ov' io non era.
Ad altri il fato ogni diletto annulla,
che le delizie mie meco ridutte
in questa sepoltura hanno la culla.
Qui l'allegrezze mie non son distrutte,
o pensa tu ch'io mi ricordi nulla,
o pensa tu che mi sovvengan tutte.
GIUSEPPE BATTISTA 423
XXVI li
IL LUSSO DELLE FEMMINE
Non ha satolle mai l'avide voglie
donna ch'ai vaneggiar l'animo intende;
tanti profumi in su le chiome scioglie,
quanti ne' templi suoi l'arabo accende.
Tutto l'oro diffonde in su le spoglie,
che nelle arene illiriche risplende;
il vasto Eritra in una mano accoglie,
l'intera dote in un orecchio appende.
Nome di « mondo » a tal superbia insana,
che sembra agli occhi altrui fasto giocondo,
die la gente magnanima romana.
E volle dir, nel suo pensier profondo,
che nelle pompe sue femmina vana
tutto racchiude epilogato il mondo.
XXIX
L'UOMO E LA PACE
Per non cader squarciato all'altrui morso
ha le zampe falcate il fido alano,
e se talor guerreggia il toro iiiL?.no
dalle corna lunate ottien soccorso.
Unghia laceratrice aguzza l'orso
e dente avvelenato il mostro ircano,
l'aquila ha il rostro e l'istrice montano
selva d'acuti strali erge sul dorso.
Ha lorica di squame il pesce avaro,
arma dedala pecchia ago mordace,
cela serpe crudel veleno amaro.
Natura sol, nell'opre sue sagace,
fa l'uomo inerme. Ed argomento è chiaro
ch'altro non vuol, se non ch'ei viva in pace.
424 LIRICI MARINISTI
XXX
L'UTILE DELLE AVVERSITÀ
Chi nimici non ha, non vince mai,
e chi non vince mai gloria non spera;
d'una luce immortai non gode i rai,
se contrasto non ha virtù eh 'è vera.
Sarebbe ignota a noi la man guerriera
d' Ettor, s'a fronte ei non aveva i grai,
e del gran filisteo la daga altera
altero fece il pastorel d'Isai.
Chi di fortezza vuol grido preclaro,
con duro petto alle maligne risse
di contraria fortuna alzi riparo.
Tifi con le tempeste a sé prescrisse
mèta di fama eterna; e fecer chiaro
i lunghi errori il peregrino Ulisse.
XXXI
IL VECCHIO
Giunto l'uom di sua vita al verno ingrato,
di cave rughe e di canute brine
ha il volto arato e seminato il crine,
per la gelida man del vecchio alato.
Tremolo i piedi e gli omeri curvato,
addita le sue prossime ruine;
dell'agghiacciato cor le nevi alpine
il fanno inerme e sol di lingua armato.
Sempre il nocchier di Stige orrido e tetro
tien per lui tragittar spalmato il legno,
e figurano i fabri il suo feretro.
Povero de' suoi sensi arriva a segno
che va la vista a mendicar dal vetro,
e dalle canne a procurar sostegno.
GIUSEPPE BATTISTA 425
XXXII
LA DONNA INVECCHIATA NEL GIARDINO
Nice, di solchi annosi il volto arata,
dentro a reggia sabea calcava odori,
e col volto rugoso a fuga alata
sollecitava i cittadini Amori.
Qui, d'ogni stelo alla pittura innata,
del suo viso piangea gli egri colori,
e, ripensando all'età sua passata,
l'età presente invidiava ai fiori.
Ella, premendo zolle ove non perde
lussuria erbosa mai campo ridente,
vedeva già le sue fattezze al verde.
Perché la gioventù godean vezzose,
carnefice degli orti impaziente,
tutte facea decapitar le rose.
XXXIII
CONSIGLI A UN POETA FRETTOLOSO
Sdegni norme latine, esempli argivi,
qualora di cantar prendi diletto;
scrivi tu mille carmi intempesti\i,
allor che maturato un carme aspetto.
La tardanza è maestra a chi vuol vivi
gli onori suoi, dove l'onore ha il tetto;
maturità se nel cantar tu schivi,
chiudi le furie e non le muse in petto.
Rodi l'unghie sui fogli; o saran poi
da carboni più neri i fogli intatti,
se nemica d'oblio gloria tu vuoi.
Pensa che la testudine tu tratti,
e da quella, s'hai senno, imparar puoi
che non si poggia in Pindo a passi ratti.
426 LIRICI MARINISTI
XXXIV
IL POETA E IL BEVER ACQUA
Beva nettare Chio chi peregrino
tester di sacri carmi esser procura;
chi brama col cantar gloria futura
fugga gelido rio di ghiaccio alpino.
Quel verso, o sia toscano o sia latino,
che finge il bevitor dell'onda pura,
piacer troppo non può, troppo non dura,
e divino non è se non divino.
Ennio che nella tromba ha glorie prime,
e '1 maestro de' lirici, eh 'è Fiacco,
ebbero da Lieo lo stil sublime.
E chi stese in Beozia il pie non fiacco
m'insegnò che Parnaso abbia due cime.
Luna a Febo sacrata e l'altra a Bacco.
XXXV
L'IMMORTALITÀ LETTERARIA
Sembra la vita, che da noi sen fugge,
onda del Nilo in su l'egizia rena;
sembra fiore sabeo che, nato appena,
turbo lo schianta o fulmine l'adugge;
lieve vapor, ch'avidamente sugge
il pianeta gentil che il di rimena;
vampa, che per lo ciel striscia e balena;
nu'oe, che sul Pirene Euro distrugge.
Ma sol pagine verghi e sparga inchiostro
chi brama eternità. Cosi deride
il velen delia morte il viver nostro.
More colui che le lusinghe infide
siegue dell'ozio e dell' idalio mostro:
una punta di penna il tempo uccide.
GIUSEPPE BATTISTA
XXXVI
NEL PARTIR DA NAPOLI
durante i tumulti del 1647-48
Degli oricalchi ai queruli clangori
schiva gli ozi notturni ancor Cleante,
e d'Elicona i popoH canori
fuga a barbaro ciel bronzo tonante.
Io pur diparto, e cerco i miei ristori
della madre natia nel grembo amante.
Se non ebbe di me gli anni migliori,
vo' che m'abbracci almen, vecchio anelante.^
Qui, tutti in Lete i miei pensieri immersi,
col nume di Permesso e di Libetro ^
darò lingua alla lira e metro ai versi.
Felice me se dalle stelle impetro
che le mie luci chiuda ov'io le apersi,
che dov'ebbi la cuna abbia il feretro!
XXXVII
PASSANDO PER PUGLIA PIANA
Ecco l'Aufido io bevo, e su le rive
a Cerere sacrate inganno il piede;
qui, per fuggir dall'inclemenze estive,
tede non hanno i camii, ombra le tede.
Messaggiera di piogge aura non riede,
mentre un sole d'Egitto il di prescrive;
d'anima, eh' è caduca, è l'erba erede,
e la vita prolissa il fior non vive.
Ad Aconzio amator pomo da ramo
qui non sa partorir tronco infecondo,
dov'ei possa stampar: « Cidippe, io t'amo».
Edificar dovea cielo secondo
Adamo qui, che senza colpa Adamo
vedrebbe il cielo e senza morte il mondo.
428 LIRICI MARINISTI
XXXVIII
IL RITORNO AL PAESE NATALE
Miro quel giorno pur, che de' miei giorni
sarà fausto preludio alla quiete,
ed io, sepolta ogni fatica in Lete,
oziosa godrò l'ombra degli orni.
Voi, d'inculte boscaglie ermi soggiorni,
province po]ìolate a me sarete;
voi, della patria mia rupi secreta,
lusingate a letizia i miei ritorni.
Diedero, della luce a' primi inviti,
l'euro quivi talor, talor qui l'ostro,
aria reciprocata a' miei vagiti.
Ecco, di tufi infranti il picciol chiostro
dov'io, per fabricar metri eruditi,
sparsi a note latine il primo inchiostro.
XXXIX
LA VILLA
D'api dorate è qui grappolo folto,
ch'abita d'una quercia ermo pedale,
dove dal suon di rauco rame accolto
vigila al canto e sonnacchiose ha l'ale.
Colà, di canne fluttuanti ascolto
su le sponde d'un rio bosco vocale,
il cui fischiar, che fu dall'aure sciolto,
diede alle melodie rozzo natale.
In mezzo, ho la capanna, e mi contento
narrar qui fole al pastorel montano,
che da me pende ad ascoltarle intento.
E schiuda pure il suo delubro Giano,
ch'io godo pace, e nulla angoscia io sento
eh 'a me porpore nieghi il Vaticano.
GIUSEPPE BATTISTA 429
XL
FILOSOFANDO TRA I CIPRESSI
Qui, dove un fiume ha lacerato i sassi,
e cozzando co' sassi il corno ha infi-anto,
m'alzo a pensieri arcani e lascio intanto
all'arbitrio del pie guidarmi i passi.
Dal gran Liceo filosofie già trassi,
per cui trovar nuove dottrine or vanto;
rubar non penso, abbandonato il canto,
l'arpa agli Grazi più, la tromba ai Tassi.
Farò, s'arride il cielo all'opra ardita,
da' rami ombrosi, in cui verdeggia impresso
simolacro di morte, uscir la vita.
E dar potrà, se fu talor concesso
a un platano d'aprir scola erudita,
principio alle mie scole anco un cipresso.
XLI
IL CANTO DELLA PASTORELLA
Dall'isola di Circe usciva il sole,
e quanto allor per le sue vie toccava
di questo mondo in su la bassa mole,
fatto novello Mida, egli dorava.
Alla greggia lanosa intanto Iole
i velli canutissimi tosava,
e di calte la fronte e di viole
alla plebe tosata indi fregiava.
Cantò fra le fatiche e disse: — O fiori,
allegrezza degli alberi ramosi!
O poeti del bosco, augei canori!... —
Poi, mirandomi, tacque. Ed io risposi:
— O cibo delle orecchie, inni sonori!
O degli occhi armonia, sguardi amorosi!,
430 LIRICI IMARIMSTI
XLII
I DOLORI ARTRITICI
Per far idolo un ventre io mai non tento
turbar l'alghe rimote ai mari eusini,
né dai torchi di Lesbo imploro i vini,
ma del poco nostrale io son contento.
E pur soggiaccio ai mali, e pure io sento
armarsi contro a me Busiri e Scini,
tutte le tirannie degli Ezzelini
e quanto s'è patito in Agrigento.
Meraviglie dirò. Mai non amata
fu la bella da me Rachele o Lia,
e pur senza fallir la pena ho data.
Siano tutti epuloni, e ciascun dia
larghe indulgenze al genio suo, se nata
dall'astinenza è la podagra mia!
XLIII
IL RITORNO DEI DOLORI A PRIMAVERA
Or ch'han le cose esordio, ascolto i venti
alitar per lo cielo anima molle;
e, sciolti in rio canoro i ghiacci algenti,
ride popolo d'erbe in su le zolle.
Da' rostri suoi l'eroe pennuto estolle,
a cibarne l'orecchio, inni languenti,
e dove tiepidezza aspetta il colle,
Venere a provocar vanno gli armenti.
Sul mattutino albor fugge dal tetto
e con rombi festanti è l'ape or desto
a depredare il sempre verde Inietto.
Non temono i Leandri il mar di Sesto,
che lor promette amenità d'aspetto...
Il mondo tutto è lieto, ed io son mesto.
GIUSEPPE BATTISTA 43^
XLIV
ASPETTANDO LA CHIRAGRA
In nome d'un anìico
Già preveggo gli strazi e già detesto
i proemi d'un duol più che pungenti;
già preparo una lingua a' miei lamenti
ed al martirio mio due mani appresto.
Se '1 timor delle pene è più molesto,
vengano i miei dolori e non già lenti;
vengano, ma con l'ale, i miei tormenti,
che parte è di pietà l'uccider presto.
Insegnano del mal l'acerbe scole
che '1 pensiero del mal un cor sgomenta,
più che lo stesso male offender suole.
Per le penne d'altrui più non si senta
che piaga antiveduta assai men duole,
che saetta prevista arriva lenta!
XLV
LO STUDIO DELLE LETTERE
Sudi l'avaro. Io fadcar lo 'ngegno
per ricchezze barbariche non voglio.
Mi chiuda un tetto. Altri del mar l'orgoglio
valichi audace oltre di Calpe il segno.
Io non invidio agli Alessandri il regno,
lo scettro ai Ciri ed agli Augusti il soglio,
quando, cinico novo, entro d'un doglio
ho, divorando i libri, il mio sostegno.
.Se intendo sol come il divino Apelle
r iri colora e come l'aere piove
agitato da stridole procelle,
come immota è la terra, il ciel si move,
e per lo molle ciel guizzan le stelle,
sol mi reputo inferiore a Giove.
432 LIRICI MARINISTI
XLVI
AI LIBRI
Muti maestri miei, voi m' insegnate
come io debba adorare i santi numi,
e con veri precetti a me mostrate
come io possa comporre i miei costumi.
I sentieri spinosi a me segnate,
voi, d'Elicona, a delibarne i fiumi,
e d'eleganze voi, sciolte o legate,
preziosi rendete i miei volumi.
A quanto dite voi l'orecchie intente
con diletto disserro, e poi rivelo
io le vostre dottrine ad altra gente.
Quand'io vivo tra voi, godo il mio cielo;
e se turba alcun dubbio a me la mente,
non cerco sfingi in Tebe o Febi in Delo.
XLVII
INSAZIABILITÀ D' IMPARARE
Un Caucaso di nevi ho su le chiome
e precipito gli anni in occidente;
pur l'anima, che chiudo in scorza algente,
curva non cade a faticate some.
Alzano a me le più faconde Rome
tra le pareti mie rostro eloquente,
e d'una Atene, a risvegliar la mente,
scritto in picciol museo contemplo il nome.
Quando cosi predestinò la sorte,
per farmi di dottrine inclito erede,
apritemi, licei, le sacre porte.
Chi sa pur troppo e di saper non crede,
tra '1 confin della vita e della morte
il libro ha in mano e su la tomba il piede.
GICSEl'PE BATTISTA 433
XLVIII
LA SPERANZA
A richiesta del duca di Seiano
Fra le nevi d'un seno
le sue fiamme nudrisca acceso amante;
qui gioir, eh' è baleno,
sia dell'anima sua cibo volante,
e da labro mordace
ei beva un rio di nettare fugace.
Dalla speranza sola
alimento riceve il viver mio;
nell'amorosa scola
tal m'insegna dottrina alato Dio;
la speme sia mercede
a me, ch'ho puro cor, ch'ho bianca fede.
Altri goda il suo bene,
che solo di goderlo un tempo io spero;
siagli cagion di pene
lungo sperar, eh' a me diletto è vero;
vastissimo gigante
fa latte di speranza Amore infante.
Se '1 timor del morire
rende più che '1 morir la morte amara,
la speme del fruire
più che '1 fruire stesso a me sia cara;
speme sol di conforto
nell'amoroso Egeo m'additi il porto.
Riveli invido il sole
Marte e Ciprigna entro alla rete altrove;
la bellissima Iole
non invidio ad Alcide, Europa a Giove;
s'io sono amante amato,
nella speranza mia vivo beato.
Lirici marinisti — 28
434 LIRICI MARINISTI
Se la sete ammorzata
ha bocca sitibonda, il fonte oblia;
se la piaga è saldata,
medica man si sdegna; e s'amò pria,
desiderio compito
rende bellezza vile, amor schernito.
XLIX
LE MERAVIGLIE DELL'ACQUA
Al padre Filippo da Cesena, cappuccino
Fonte, che d'un Pegaso
vanti scultrice industre unghia pennuta,
e del sacro Parnaso
tagli l'aonie vie con onda arguta,
versa da' fianchi infranti
a bagnarmi le labra umido rio;
i tuoi garruli pianti
concessi a me, saranno il Febo mio;
l'acqua, che un tempo encomiò Talete,
con metri ascrei di celebrare ho sete.
La divina potenza
poiché trasse dal nulla e cielo e terra,
con la sua trasparenza
l'acqua nel di secondo emerge ed erra;
e, benché sia distinta
da' compagni elementi e pur sul dorso
di tenebre dipinta
e scioglie su la terra ignoto il corso,
lo spirto del Signor, che non ha moto,
gode di passeggiar su l'acqua a nuoto.
GIUSEPPE BATTISTA 435
Poscia nel proprio loco
imprigiona se stessa e nome ha mare;
con istrepito roco
intriga le sue spume e sono amare,
e se talor da' venti,
araldi di tempesta, ha fìer conflitto.
i suoi liquidi argenti
non sanno valicar l'orlo prescritto;
tra le fauci singhiozza alto muggito,
che lo stringe fra ceppi un secco lito.
Oh come sembra lieto
quando increspa i suoi piani aura clemente,
e con flagel discreto
bacia di bianco umor scoglio pungente!
Su la fronte canuta
apre le placidezze e par ch'e' rida,
i piloti saluta
con amico fragore, e quegli affida
a corredar gli abbandonati pini
e di remi voganti e d'aurei lini.
Per non visti canali
dalle viscere erutta umide moli,
che sui monti ineguali,
come s'avcsser penne alzano i voli.
Sul Caucaso nevoso
l'Indo, che all'India il nome diede, ascende,
e da quel crin selvoso
precipita se stesso e giù discende.
Ha per balze montane erta salita
contro il peso nativo il Tanai scita.
Mille scherzi natura
opra nell'acque e le ragioni asconde.
Odio perpetuo giura
contra il vino chi bee clitorie l'onde.
L'acqua di Giove Ammone
cuoce su l'alba e nel meriggio agghiaccia:
436 LIRICI MARINISTI
l'affrica regione
chiude fonte cantor, che i sensi allaccia,
e, se l'umor d'un lago Epiro avventa,
spegne la face accesa, arde la spenta.
Qui cade un legno breve,
e diviene, caduto, un sasso grande;
ivi fronda, eh' è lieve,
in augello si cangia e l'ali spande;
e qui dolce talora,
ed è salsa talor linfa incostante;
bianca gregge colora
ivi di nero vel Peneo spumante,
e del Galeso mio l'onda sincera
veste di bianche lanegna eh' è nera.
A consolar la state
dispensa anima all'erba, anima al fiore,
e prolunga l' etate
al fiore, all'erba, il derivato umore.
Dov'acqua abbonda, è vivo
tronco al suol, ramo al tronco e frutto al ramo;
ma poi, se d'acqua è privo,
e frutto e ramo e tronco arso veggiamo,
e .se l'acqua non porge all'uomo aita,
cade languido l'uomo e senza vita.
Ubbidiente all'arte
talor si rende e rende l'arte illustre;
l'ore al tempo comparte,
se la chiude in duo vetri ingegno industre.
In un filo ristretta
con assiduo viaggio ella giù cade,
e con caduca fretta
mostra caduca ancor l'umana etade;
insegna a noi ch'ogni terrena massa
è debil filo e come l'acqua passa.
Il passaggio sicuro
al fuggitivo ebreo l'acqua concede;
GIUSEPPE BATTISTA 437
s'erge in liquido muro
e lascia intatto al peregrino il piede.
Siegue Toste d'Egitto
e si finge ai suoi passi il passo asciutto;
ma sul denso tragitto
rapido scende, e poi l'annega il flutto.
Variando cosi nel mar la sorte,
vita incontra l'ebreo, l'egizio morte.
È lavacro al mio Cristo
l'acqua del bel Giordano; e qui, diviso
mentre il cielo fu visto
manda pura colomba il paradiso.
Mentre il balen veloce,
e col tuono il balen l'etra tempesta,
del padre Dio la voce
esser figlio di Dio Gesù protesta.
Nell'acqua palesò l'esser divino
il mio Gesù, quando mutolla in vino.
Su le cime d'un monte
poich'è confitto in croce e pende esangue,
versa dal cavo fonte
del petto lacerato ed acqua e sangue;
e dall' umida vena
la vista impetra il feritor eh' è cieco;
quando teme la pena,
allor porta mercè del fallir bieco.
Ma qual vanto maggior? L'acqua cancella
la colpa a noi, ch'originai s'appella.
43S LIRICI MARINISTI
L
FILOCRATE
IN MORTE DI MARIA MADDALENA
All'armonia più flebile d'un legno
piacemi disposar metrica voce;
a me ne' moti suoi genio veloce
di musico furor scalda lo 'ngegno.
Amai chi volle amarmi e chi congiunte
bramò le fiamme mie, le fiamme sue;
fece un'anima sola anime due
e seppe unir due volontà disgiunte.
Amai la bella estinta, e gelosia
ardenti più rendea gli amori miei.
Io la bellezza idolatrai di lei,
perché la sua bellezza era magia.
Per la beltà di lei la Grecia tutta
sollecitar potea prodi campioni,
e dopo mille rischi e mille agoni
potea l'Asia dal foco esser distrutta.
Quand'ella nasce, alla Betania nasce
di giorno senza occaso alba giuliva,
e della prima vita in su la riva
il gaudio corre a vezzeggiarla in fasce.
Se grondar gli occhi suoi liquido gelo,
se le fauci temprar singhiozzi infranti,
erano que' singhiozzi, eran que' pianti
brine d'aurora ed armonie di cielo.
Lasciò la sfera sua la cipria dea,
e discesa fra' turbini guerrieri
sul plaustro a cui colombe eran destrieri,
venne a baciar la pargoletta ebrea.
GIUSEPPE BATTISTA 439
Le disse poi: — Tu meritavi, o bella,
d'aver meco nell'onde il tuo natale.
S'a me nella beltà rassembri eguale,
la mia conca era tua; tu, mia sorella. —
Né pigre sono a ricettarla in seno
perché le tergan gli occhi allor che piagne,
della madre d'Amor le dee compagne,
le dee dell'Acidalio e d'Orcomeno.
Ma se piangeano gli occhi, in su la fronte
iride di letizia apparve il riso;
dal labro, che in coralli era diviso,
tra i vagiti alitò mirre d'Oronte.
Degli amori pennuti il coro arderò
esultò su la culla e sparse rose;
vibrò per l'aria i vanni, e poi dispose
su lo spazzo alle danze il i iè leggiero.
La fanciulla schiudea le due pupille
e nel cielo d'un viso eran due stelle;
compartivano allor calme o procelle,
quand'eran men turbate o men tranquille.
Al nascer di costei, della sua Tai
obliò la beltà l'attica Atena,
e se Aulide non più vantò Lacena,
Corinto, ch'ha duo mar, tacque di Lai.
Crebbe con gli anni e crebbe seco ancora
quella beltà che bambinetta espresse;
dove col bianco pie vestigio impresse,
sul vestigio ridea più d'una Flora.
Scioglieva i suoi capelli ed eran lacci,
lacci per intrigar core eh' è sciolto;
e mentre svolazzavano sul volto,
libera fantasia stringeva impacci.
Della cervice i palpitanti avori
godean di posseder quell'ambre intatte,
e della fronte il più canuto latte
d'aver godeva in compagnia quegli ori.
440 LIRICI MARINISTI
Depositati all'aure, e fuor de' nastri,
scoteano vampe d'or, strali di foco;
ed allor si pensò di splendor fioco
esser di Berenice il crin tra gli astri.
Calamistri di ferro all'auree some,
che '1 foco riscaldò, facean torture,
perché del cor tra le cocenti arsure
apparissero ardenti ancor le chiome.
Le inebriò talor nardo straniero
per dispensar novelli odori al vento;
nella sua man tra martellato argento
venne a farsi l' Idaspe un prigioniero.
Sudar le tele a lei subbi etiopi
e fregiò le sue gonne ago troiano,
e per le gonne ancor pino africano
tributò la Giudea de' suoi piropi.
Cosi temprate le maniere avea,
che, se parean senz'arte, eran con arte;
or flessibile alquanto, or dura in parte,
e speranza e timor destar solca.
Dove mirava esser la fiamma ardente,
ella men soccorrendo era più schiva;
dove face d'amor vedea men viva,
palesava d'ardor petto cocente.
Se girava lo sguardo, era delitto,
e non mirava altrui, benché mirata;
piacevole talor, talor sdegnata,
r un rendeva contento e l'altro afflitto.
Mostravasi men scaltra al più sagace
e col più lieto amante era più mesta;
sovente con gli audaci era modesta
e co' modesti tdoì sembrava audace.
Era lasciva ed onestà fingeva;
quando mostrava sdegno, allora amava;
sotto ardor simulato ella gelava,
e sotto finto gelo ella coceva.
GIUSEPPE BATTISTA 441
Mentre in tante follie le voglie implica,
bieco disnor nel proprio nome imprime;
le infamie sue fama loquace esprime
e palesa Maria meno pudica.
Mentre è lecito a lei ciò che non lice
e cieca vuol per guida i ciechi sensi,
gridan con libertà gli altrui consensi
che la suora di Marta è peccatrice.
Donna, quantunque vanti aver bellezza,
men bella è poi se tien l'onor negletto;
qual cristallo è l'onor fragile e schietto,
schietto si macchia e fragile si spezza.
Lunga stagion vaneggia e per le scorte
de' più sozzi diletti a Dio s'invola;
tien ragion vilipesa e la sua scola,
ama il mondo maestro e la sua corte.
Stima suo bene il male e col tributo
fa delle colpe insuperbir l'inferno;
oblia la nobiltà, né prende a scherno
esser, come d'Amor, preda di Pluto.
Ma Dio che la vuol seco a sé la chiama,
e consiglio miglior le spira in mente;
già delle colpe andate ella si pente
e di virtù novelle ornarsi brama.
Dal profondo letargo alfin si desta,
ammenda l'opre ed i pensier corregge;
già gli arbitri dispone a nova legge
e l'antiche libidini detesta.
L'accusano le colpe ond'ella è grave,
ma la pietà del Redentor l'affida;
la combatte il timore e nulla fida,
la speranza l'assale e nulla pavé.
Vince alfin la speranza, il timor cede,
ma non lascia il dolor de' falli suoi;
in un sospir l'anima scioglie e poi
perdono del fallir l'anima chiede.
442 LIRICI MARINISTI
Si duol d'amor, si duol del mondo, accusa
artefici d'inganni amore e mondo;
ducisi che mondo insano, amore immondo
con l'esca del piacer l'abbian delusa.
Un aspe appella amor, da cui si beve
con bocca baciatrice egro veleno;
il mondo un Mongibel, che chiude in seno
incendio edace ed ha sul crin la neve,
un mare, che tranquillo appar su l'onde
e bianca fé su l'onde sue promette,
ma sotto l'empie spume, ancorché schiette,
o baratri disserra o scogli asconde.
Amor non sazia mai l'umane brame,
che quando par che piaccia, alloi'a incresce;
quando par che più manchi, allor più cresce,
e l'esca d'un desir dell'altro è fame.
Poi rapida sen corre a' pie d'un Cristo,
dove, fermando il pie. Cristo l'aspetta;
e qui nel suo pensier tutta ristretta,
pensa del cielo al glorioso acquisto.
Qui di balsamo colma un'urna infrange
e del balsamo innaffia a Cristo il piede;
ma scusa qui dell'ardimento chiede,
e quando chiede scusa, allora piange.
Al puzzo delle colpe al fin marcite
di peregrino odor sparge tempeste;
o porge unguenti al medico celeste,
forse per medicar le sue ferite.
L' Ibla sicana ed il cecropio Inietto,
l'anima de' suoi fiori ha qui sommersa;
Arabia d'alimenti è qui dispersa,
e rinchiusa l'Assiria in picciol tetto.
Delle chiome prolisse il gran volume
da seriche ritorte in giù discioglie,
e con si vaghe e preziose spoglie
degli unguenti diffusi asciuga il fiume.
GIUSEPPE BATTISTA 443
Disciplinato crin varia compensa,
perché l'uso fu vario, a tutti addita;
a Maddalena il crine apporta vita,
il crine ad Assalon morte dispensa.
Appaga qui le simpatie divine
di fragranze lugubri umida usura,
e godono di far bella congiura
gli alabastri d'un pie, gli ori d'un crine.
Edera tronco mai, smilace pietra
non stringe si, com'ella stringe un Dio,
perché dimostri a lei piede eh' è pio
al novello cammin la via dell'etra.
Benché vegga Giesù fatto cortese,
a tanta cortesia l'occhio non fisa;
stassene addietro mesta e ben s'avvisa
che rimirar non dèe nume ch'offese.
Il Redentor non sa partirsi intanto,
che pur di Maddalena è fatto amante,
e rivolto a goder quel suo sembiante,
piangente il vede ed egli gode il pianto.
Oh di pianto orator dedalee vene,
che convincono Dio, quantunque mute!
Perché malvagità speri salute,
quel che non può la lingua, il pianto ottiene.
Ottien perdono, e non qual era è tutta,
postergato l'inferno, al ciel rivolta;
e da' lacci mondani al fin disciolta,
degli affetti s'oppone all'aspra lutta.
Delle spoglie ch'avean tesori eoi
povera fa la più caduca salma,
e spoglia delle membra, oblia dell'alma,
come gli abiti suoi, gli abiti suoi.
Lascia i bissi più molli e d'irte lane
al molle petto i bei candori ammanta;
ignudo brama il piede, o talor vanta
di coturno più vii piante villane.
444 LIRICI MARINISTI
Pruine di cerussa ella delude
e di cinabro invetriate fiamme,
che non più brama adulterar le mamme
e vuol di stranio ardor le gote ignude.
Sdegna quanto pria volle. Al mar di Gnido
non più le squadre imprigionate invola,
né per servir l'ambiziosa gola
agli augelli di Colchi insidia il nido.
Già le crapule sue son l'astinenze
per dar legge frugale a' lussi sciolti;
richiama a sanità sensi più stolti
e danno economie le penitenze.
Le dovizie detesta e le divide
a povertà, eh' è della fame afflitta;
cieca spelonca agli anni suoi prescritta,
agli anni suoi bel paradiso arride.
Fugge dalle città, fugge alle selve
e cangia in cavo speco i suoi palagi ;
e se gli uomini pria trovò malvagi,
ora bontà san palesar le belve.
Tra l'angustie più corte aduna i passi
ed ama calpestar dumi spinosi.
Vuol poi, per disturbar lenti riposi,
piume le paglie ed origlieri i sassi.
Qui su roso macigno aitar dispone,
dove invece d'incenso offre i sospiri,
e con ostie di sangue e di martiri
memorie di clemenza al cielo espone.
Vive cosi più lustri. Ed un sol grato
raggio consolator appena vede,
ed ha, s'è d' ombre eterne un antro erede,
sepolcro alla sua morte anticipato.
Del manto a lei co' più sdruciti velli
tempo divorator non fa più scudo;
ma pure all'onestà del corpo ignudo
fanno splendida veste i suoi capelli.
GIUSEPPE BATTISTA 445
Stupor non è che '1 pendulo tesoro,
impudico non più, rassembri onesto:
che se baciò d'un Cristo il pie modesto,
or tesse alla modestia argine d'oro.
Talor d'Averno empio drappello afflige
la bella penitente, e l'etra accorre,
mentre pennuto esercito giù corre
e giù disperge i cittadin di Stige;
flagella d'arpa aurata indi le corde,
e sposa all'arpa analogia di lode.
Respira intanto Maddalena e gode
letizie vive all'armonia concorde.
Gode cosi tra le beate schiere
pegno di gloria. Ed accorciate l'ore,
deliquio tenerissimo d'amore
l'anima scioglie a passeggiar le sfere.
XI
ARTALE - LUBRANO - CANALE
GIUSEPPE ARTALE
I
AL LETTORE
S' io non scioglio la lingua in quelle voci
che sposarsi col suon sanno ai concenti,
stupor non fia, che in marziali eventi
da le trombe imparai fremiti atroci.
Si, le mie lire fùr l'ire feroci
e i miei stromenti i bellici stormenti,
dove non caducei, ma in tuoni ardenti
presi de' brandi ad impugnar le croci.
Quinci carmi io non so, perché mi furo,
di Pindo in vece, aspre campagne offerte,
e fu mio Febo insanguinato Arturo.
Né cantar qui poss'io, che in guerre incerte
accoppiar non potei sott' astro oscuro
le belle chiuse e le ferite aperte!
Lirici nia>-inisii — 29
450 LIRICI MARINISTI
II
LE BELLEZZE DELLA SUA DONNA
Occhi, bocca, pie, mano e chiome aurate,
bella, fra noi san debellar gli amori ;
canti, balli, ardi, atteggi, e reti amate
intesse il crin per catenarne i cori.
Pie, mani, labra, crin, luci adorate,
moti, voci, lacciol, nevi ed ardori
offrite, alzate, ordite, ornate, armate,
co' giri, incanti, ardor, lacci e candori.
Vago è '1 crin, l'occhio, il labro, il braccio e '1 piede,
ma ognun empio, inuman, fier, crudo e rio
stringe, strugge, calpesta, impiaga e fiede.
O crin, pie, mani, o luci, o bocca (oh Dio!),
voi, voi, cinque nemici a la mia fede,
date cinque ferite al petto mio !
Ili
IL RIVALE
Naufraghi il vostro gaudio entro i miei pianti
e sian le voci mie tempeste irate,
o del mio cor crudi omicidi, amanti,
ch'ai suon de' miei sospir, ahi, riposate!
Poiché, quai fùr le mie speranze erranti,
sian le vostre dolcezze or fulminate;
scagli il ciel contra voi folgori tanti,
quanti per mio dolor baci scoccate.
Sia la notte che strinse i vostri nodi
eterna notte, e lungamente amara
le vostre luci in ferreo sonno annodi.
E dritto è ben che d'ogni lume avara
ella, ch'agevolò le vostri frodi,
converta il letto, or profanato, in bara.
GIUSEPPE ARTALE 451
IV
LA CANTATRICE
Moro a tue fughe e son tuoi canti incanti,
con cui maga canora anime ammaghi,
e in legar con più corde i cori amanti
co' semicromi i semimorti impiaghi;
passi i cor co' passaggi, e in tuon se canti,
con dolce tuon di fuhninar t'appaghi,
e a le sincope tue petti costanti
de le sincope lor gemon presaghi.
Non poso in pause, e i miei sospiri etnei
son tuoi respiri, e son per tua virtute
le tue cadenze i precipizi miei ;
e in acuto in vibrar saette acute,
dirò che dian ne' miei dolor più rei
mille colpi al mio cor le tue battute.
V
LA DONNA CON GLI OCCHIALI
Non per temprar l'altrui crescente ardore
sugli occhi usa costei nevi addensate,
ma per ferir da più lontano un core
rinforza col cristal le luci amate.
Se co' riflessi il Sol nutre il calore,
questa, per far più fervide le occhiate,
l'oppon due vetri, acciò che '1 suo folgore
vibri, in vece di rai, vampe adirate.
Ella, quasi Archimede, arder noi vuole,
che sa che cagionò fiamme e feretri
per diafane vie passando il sole;
o i petti tutti acciò ferire impetri,
ed a gli strali suoi cor non s'invole,
vie più scaltra d'Amor, benda ha di vetri.
452 LIRICI MARINISTI
VI
LA PULCE
Picciola instabil macchia, ecco, vivente
in sen d'argento alimentare e grato,
e posa ove il Sol fisso è geminato
breve un'ombra palpabile e pungente.
Lieve d'ebeno star fera mordente
fra nevosi sentier veggio in agguato,
e un antipodo nero abbreviato
d' un picciol mondo e quasi niente un ente.
Pulce, volatil neo d'almo candore,
che indivisibil corpo hai per ischermo,
fatto etiopo un atomo d'amore;
tu sei di questo cor lasso ed infermo
per far prolisso il duol, lungo il languore,
de' periodi miei punto non fermo.
VII
LA DAMA INFANTICIDA
Tu ch'hai ne l'alba tua sera immatura
e sei nell'orto un abortito infante,
io ti son madre, culla e sepoltura,
tu vita e matricida agonizzante.
Sorte è aver madre e averla è tua sventura;
nóci innocente, ancor non balbettante
mie colpe accusi; ed io pietosa e dura
madre t'uccido, e ti composi amante.
Mori! Morte mi dan le tue dimore;
ti dà chi ti die vita ore si corte
per svenar con tua morte il proprio errore.
Amor ti diede (oh Dio!) la vita in sorte
a dispetto d'onore, ed or l'onore
a malgrado d'amor ti dà la morte.
GIUSEPPE ARTALE 453
Vili
IL CREATO E DIO
Stupisco!... Un fior chi '1 pinge? e come è nato
da un atomo d'un seme orno eminente?
come il popol marin, terrestre, alato,
ha volo, corso, nuoto, e l'uomo ha mente?
dal proprio pondo il suol com'è librato?
chi dà agli astri ed al sol norma esistente?
come il mar varia il flusso, e 'I flusso irato
stanca e i confili non preterisce un niente?
Ah, trino ed uno a nostre menti ignare
incomprensibil è, quant'egli è pio,
l'increato fattor d'opre si rare!
Ch'ove un sol guardo e un sol pensier drizz'io,
miri il ciel, calchi il suolo o prema il mare,
veggfio e contemplo in ogni oggetto un Dio.
IX
SANTA MARIA MADDALENA
A Maria Maddalena Loffredo, principessa di Cardilo
Gradir Cristo ben dèe di pianto un rio,
torrente ov'egli bee d'alme assetato;
se su l'acque vagò spirito e Dio,
su l'acque a passeggiar torna incarnato;
e se la pace a chi l'offese offrio,
giusto ben fu poiché pietoso e grato
videsi a' pie di chi piagarlo ardio
l'aureo crin, che l'insegna è del peccato.
L'occhio e la chioma in amorosa arsura
se 'I bagna e '1 terge, avvien ch'amante allumi
stupefatto il fattor di sua fattura;
che il crin s'è un Tago e son due Soli i lumi,
prodigio tal non rimirò natura :
bagnar coi Soli e rasciugar coi fiumi.
454 LIRICI MARINISTI
X
IL BUON LADRONE
A Pietro Valeri
Qui sagace l'ingegno e '1 saldo amore
e di Cristo e del ladro oggi si mira;
questo del primo ardir perde il vigore,
quei del giusto rigor depone or l'ira.
Questi l'empio furor cangia in fervore
e quei fervor ne l'altrui petto inspira;
quei vuol, quei dona, e in quello e in questo core
l'industria, o Pietro, e la pietà s'ammira.
Cristo, ai martir giunto di morte in atto,
dà glorie a quello e con pietoso zelo
ne la sua povertà prodigo è fatto.
Rapace è l'altro, e dal corporeo velo
pria che l'anima uscisse, egli ad un tratto
ruba a costui con un sospiro il cielo.
XI
IL TERREMOTO DI RAGUSA
Circonferenza il ciel, punto inchiodato
la terra è in centro, e pur tremar la sento.
Come ? forse soggetto a nobil fato
cede l'ordine eterno al violento?
No, no, scote un Tifeo monte inceppato,
a sveller torri ogni vapore è lento;
né move immoto il suol spirto esalato,
né milesia vertigine né vento.
Uom tu sei, che se reo pecchi e non gemi,
e in peccar Cristo uccidi, arcan profondo
vuol che, Cristo morendo, il mondo tremi.
Quinci or che al primo error giungi il secondo,
già sono, anzi che sieno i giorni estremi,
i falli tuoi paralisie del mondo.
GIUSEPPE ARTALE 455
Xll
IN MORTE DI TROIANO SPINELLI
DE' PRINCIPI DI TARSIA
il quale lasciò all'autore in segno di affetto una spada preziosissima
Voli al ciel, lasci acciar? Doppio martoro
lasci a chi t'ama, a tua fatai partita;
anzi tu fra' beati, io senza vita,
vivi morendo, or che vivendo io moro.
E mistero il tuo dono. Al ferro, a l'oro
tua gran virtute a specular m'invita;
perché sai che al goder va morte unita,
ben armato d' acciar lasci un tesoro.
Ma non più sangue io spargerò pugnando,
che vinto a tua bontà l'umano orgoglio
cade al mio pie per adorarti il brando.
Quinci sol per dar i^ace al mio cordoglio,
col tuo nobile acciar penne temprando,
la morte che t'uccise uccider voglio!
XIII
AL PADRE MICHELE FONTANAROSA
È lingua o fiume? ed è facondia o mare
ciò ch'ammirano in te gl'ingegni altrui?
Mare non è, che non ha l'onde amare;
fiume non è, che non ha sponde in lui.
Pur è mar, pur è fiume: è mar che rare
gemme produce infra' concetti tui,
è fiume che su rose uniche e care
forma d'alta eloquenza i corsi sui.
Dunque è mar, dunque è fiume; oltre l'usato
è dolce l'uno, e l'altro oltre il costume
ha da la rosa tua fonte odorato.
Cosi, carco d'onor, ricco di lume,
scorgo il tuo vasto ingegno in mar cangiato
e la FONTANA tua conversa in fiume.
456 LIRICI MARINISTI
XIV
IL TESCHIO DEL TURCO
Questo che morto ancora il ciel disfida,
orrido teschio di terribil trace,
mira, Lidia, mio Sol, l'empio omicida
sprezzator d'ogni legge e pertinace.
Questo de' traci e capitano e guida
drizzò pronto di man, d'ingegno audace,
ferrata scala, e perché ed arda e uccida
portò ai muri sovente e ferro e face.
Poggiava alfine, ed io sul collo invitto
tal percossa avventai, che '1 busto forte
senza capo restò fra' morti ascritto.
Or mira, e fa' che sdegno il guardo apporte,
perché può tua pietà d'un uom trafitto
far vita per miracolo la morte.
XV
EPITAFFIO A SE STESSO
Sparsi sangue ed inchiostro, e in ciel straniero
diedi d'alte speranze ésca al desio;
ma invan, che fei sotto Saturno austero,
martire del destin, ritorno a Dio.
Or di quel ch'io girai doppio emisfero,
e del mare e del suol vario e natio,
tanto mar, tanto suol converso in zero,
questo zero mi chiude, e questo è il mio.
Cosi, se nel tenor d'aspra sventura
non posai vivo, a la fatai partita
presto a l'ossa riposo in sepoltura.
Riposo, e non mi svegli alma imperita;
ch'io temo, oimè, l' immortai mia sciagura
non torni a l'ire, e mi richiami in vita.
GIUSKPPE ARTALE 457
XVI
DOPO UN DUELLO
Alla sua donna
Punto di più d'un ferro e semimorto,
mentre tutto il mio sangue al suol trabocca,
sol per estremo e singoiar conforto
ti scrivo, anima mia, co' l'alma in bocca;
e, benché sia nel proprio sangue absorto,
roso ancor da lo strai ch'Amor mi scocca,
senza speme di vita, agonizzante,
non mi posso scordar d'esserti amante.
Forma or tu gli amorosi alti argomenti,
s'io tua beltà costantemente amai,
mentre per te fra bellici stormenti
avido di servirti il sen portai,
e i colpi mortalissimi e pungenti,
quasi a gran nume, al tuo voler sacrai,
benché mirò per mio svantaggio ognuno
quattro e quattro guerrier incontro ad uno.
Pur non temei, poiché non mai si vede
paventar ai perigli amante un core,
e fra le pugne orrende or ben si crede
giungere ardir, vie più che Marte, Amore !
Quinci non mai torcere in fuga il piede
mi scorse, benché fier, l'altrui furore;
anzi mirò per altrui scorno il polo
far fronte ad otto brandi un brando solo.
Non curai l'armi e non temei gli armati,
offesi offeso e rincalzai ferito;
provocai, minacciai quei volti irati,
fatto guerrier de la ragione ardito;
i colpi non curai, ver' me vibrati,
quantunque fùr di numero infinito;
si non fé' per timor fallo in effetto,
fatto bersaglio ad otto ferri un petto.
45S LIRICI MARINISTI
Trafiggeami un nemico, e noncurante
de le ferite mie feriva anch'io,
ed or questo mirava or quel sembiante
correr misto al suo sangue il sangue mio.
Cosi, senza mostrarmi unqua anelante,
sprezzai di più d'un uom l'impeto rio;
anzi nel duol multiplicai fortezza,
sol pensando al valor di tua bellezza.
— Di voi — diceva, — o sanguinosi acciari.
Lidia più strugge, ovunque avvien che tocchi;
ella vibra di voi più colpi amari,
se talora un suo strale avvien che scocchi ;
siete pur troppo di ferirmi ignari,
o ferri, al paragon de' suoi begli occhi,
poich'essi, archi inerrabili d'Amore,
scoccansi sempre ad impiagarmi il core. —
Cosi ardeva la pugna, ed o che fosse
che i cori audaci ogni fortuna aiute,
o che fra squadre insanguinate e rosse
qui difesa dal ciel sia la virtute;
degli altrui ferri io non curai percosse,
quantunque altri dicean con note argute:
— Cadrà chi pugna sol ; cadrà pugnando.
Che far potrà fra tanti brandi un brando? —
Già già l'ira s'avanza e '1 furor cresce,
si che pugnan per noi l'ira e '1 furore;
odio con odio si confonde e mesce,
altri aumenta lo sdegno, altri il rigore.
Ma già fra tanto orror l'orror rincresce
e quasi è di pugnar lasso il valore;
cessa la zuffa, e fra lo stuolo essangue
verso pur io da più ferite il sangue.
Or se mai tu da queste luci i pianti
chiedesti allor che fido io t'adorai,
godendo sol ch'io mi stemprassi avanti
l'animato splendor de' tuoi bei rai;
GIUSEPPE ARTALE 459
se tante or del mio sen piaghe inondanti
versan torrenti sanguinosi, ed hai
ancor tu di mie lacrime desio,
prendi in vece del pianto il sangue mio.
E la cagion di si costanti effetti
è sol di me l'immensurato ardore,
che sol per dimostrar più caldi affetti,
in cambio d'acque io do sanguigno umore:
anzi spero diran gli accesi petti,
che fùr costanti in ubbidire Amore:
— Ecco, mancando i pianti a un cor che langue,
ofifrisce a l'idol suo fiumi di sangue! —
GIACOMO LUBRANO
I
IL SONNO
Antipode del senno, oppio de' sensi,
benché di mezzo l'essere ci privi
ed a dazio di morte astringa i vivi,
esige il sonno volontari censi.
Rende cimmeria l'alma, e ciò che pensi,
sposando a lazie muse i plettri argivi,
larva è di sogni or mesti ed or festivi,
delirio di vapori or radi or densi.
Di piacevole oblio vesta l'orrore,
di sibarite rose il letto impiumi ;
sepolcro è pur de l'uom che a tempo more.
Torbido il viso e '1 sen d'umidi fumi,
per non farsi veder che ruba l'ore,
adulato ladron ci chiude i lumi.
GIACOMO LUIìRANO 461
II
LA TORPEDINE
Di lubrici letarghi oppio squamoso
e di sincopi vive estro guizzante,
che, vii parto del mar, spira anelante
gelide epilepsie di verno ondoso;
funambolo velen per gli ami ascoso
corre ad assiderar la man tremante,
e può render col tocco in un istante
intormentito Marte, Ercol pauroso.
Or va', fidati al braccio; offendi irato
chi par vóto di forze, inerme al guardo,
che sentirai mancarti il moto e '1 fiato.
Non è men forte il mal, benché infingardo
le torpedini sue ha pure il fato;
ove le temi men, covano il dardo.
Ili
I CEDRI FANTASTICI
NEGLI ORTI REGGITANI
Rustiche frenesie, sogni fioriti,
deliri vegetabili odorosi,
capricci de' giardin. Protei frondosi,
e d'ameno furor cedri impazziti,
quasi piante di Cadmo armano arditi
a l'autunno guerrier tornei selvosi,
o, di Pomona adulteri giocosi,
fan nascere nel suol mostri mentiti.
Vedi zampe di tigri e ceffi d'orso
e chimere di serpi, e, se l'addenti,
quasi ne temi il tocco e fuggi il morso.
Altri in larve di lemuri frementi
arruffano di corna orrido il dorso,
e fan cibo e diletto anco i spaventi.
402 LIRICI MARINISTI
IV
LA CACCIA DEL PESCE SPADA
NELLO STRETTO DI MESSINA
Per le liquide vie vola ondeggiante
del tempestoso nume orrido figlio,
ch'ha di cerulea spada armato il ciglio,
terror di Teti e fulmine guizzante.
Trema negli antri suoi Scilla latrante,
mirando negli assalti il mar vermiglio,
che ad ogni pescator vivo periglio
intima il mostro fier, strage natante.
Ma se '1 colpiscon mai l'aste già pronte,
si sbatte e sbuffa e l'agonie si affretta
con la morte nel sen, la spada in fronte.
NobiU, a voi! Un tal destino aspetta
chi morde acciari e sanguinario a l'onte
stima gloria del brando ogni vendetta.
v
LA LIBRERIA FINTA DI LEGNO
Apresi inciso entro un'adriaca scola
di apocrifi volumi ampio museo,
che a' famosi d' Italia il pregio invola,
di erudito scarpe! vago trofeo.
Quivi assaggia degli occhi anco la gola
di spirti intelligibili un archeo,
e scopre fuor la superficie sola
quanto scrisse la Stoa, quanto il Liceo.
Leggere in pochi sguardi a parte a parte
puoi l'enciclopedia di molti ingegni,
senza stancar la mano a svolger carte.
Del veneto saper vanti ben degni
fan che innesti col ferro arguta l'arte
l'arbor della scienza a' morti legni.
GIACOMO LUKRANO 4^3
VI
L'OCCHIALINO
Con qual magia di cristallina lente,
picciolo ordigno, iperbole degli occhi,
fa che in punti d'arene un Perù fiocchi,
e pompeggi da grande un schizzo d'ente?
Tanto piacevol più, quanto più mente;
minaccia in poche gocce un mar che sbocchi ;
da un fil, striscia di fulmine che scocchi,
e giuri mezzo tutto un mezzo niente.
Cosi se stesso adula il fasto umano,
e per diletto amplifica gl'inganni,
stimando un mondo ogni atomo di vano.
Oh ottica fatale a' nostri danni !
Un istante è la vita, e '1 senso insano
sogna e travede eternità negli anni.
VII
A UN VANTATORE DI NOBILTÀ
L'arbore imperiosa in cento rami
di tua stirpe s'inalzi, e colma abondi
di corone e di mitre; infra le frondi
la fama canti pur ciò che più brami.
Fingila nata ancor pria degli Adami,
quando vagiano in culla ombre di mondi;
che investigando già dove si fondi,
non troverai che polvere e letami.
Vane genealogie! Se i pregi augusti
ne la posterità restan sepolti,
vili epitaffi son, titoli ingiusti.
Odi tu, che degli avi i tronchi avvolti
vanti di glorie sol perché vetusti:
la più antica famiglia è degli stolti.
464 LIRICI MARINISTI
Vili
LE BEVANDE AGGHIACCIATE
Doni del del, gratuiti tesori
cadono giù le nevi, e in bianca mole
si rapprendon penose, onde la prole
lattin poi sciolte a rustici lavori.
E pure il lusso l'offre in tazze d'ori
per estri a Bacco e fomiti a le gole,
e benché arrabbi ingiuriato il sole,
mira tremar l'està, freddi gli ardori.
Ebri Epuloni, o voi che in laute cene
fate brillar voluttuoso il verno,
ne' di canicolari entro le vene,
tempo verrà che nel profondo Averno
impetrar non potrete, arsi da pene,
un'istantanea stilla al foco eterno.
IX
IL BACO DA SETA
che si schiude nel petto di una donna
Si slaccia Filli il petto e le native
poppe son d'un vii verme albe di vita;
fra palpiti d'argento il latte invita
ad animarsi in oro un che non vive!
Non si vaghi del Gange entro le rive
smalta i natali al Sol l'onda fiorita,
né più morbida culla o più gradita
le Veneri sortir ne l'acque argive.
Pria che il serico stuol l'ambite prede
stenda col labro in biondo fil serpendo,
par che del core uman vagisca erede.
La mia mortalità quindi comprendo,
senza gire a le tombe. In noi si vede
la morta polve inverminir vivendo.
GIACOMO LUBRANO 465
X
I TUMULTI DI NAPOLI DEL 1647
Mormorava ai singulti
di moribonda schiera
l'ebraica pescliiera,
e de l'acque sconvolte infra i tumulti
bevean le turbe inferme
centra l'ire del fato
vitalissime terme.
Or del bagno odorato
l'onde un tempo superbe
nutrono in sozzo suol povere l'erbe.
Mondo, correggi il voto.
Non più torbido flutto
a le piaghe del lutto
le panacee sue stempra col moto.
Quanti offre l'incostanza
al genio turbolento
pelaghi di speranza,
son eolie di vento;
né mai piena di sdegni
co' precipizi suoi fa base a' regni.
Insolenza plebea,
stolta quanto spietata,
ne la patria turbata
credè trovar di libertà l'idea.
Pianse la mia Sirena
tra tempeste d'inganni,
che più schiavi di pena
regnasser da tiranni ;
e da stragi confusa
bramò per fuggir via farsi Aretusa.
Quanti aborti di terra
su le reali altezze
Lirici maiinisti
466 LIRICI MARINISTI
disegnano grandezze?
quanti Marti cenciosi escono in guerra?
Il più vile è più audace;
al veder mi vergogno
idra d'odi la pace.
Republica di sogno
con suffragi protervi
vuol ergere in sul tron cònsoli i servi.
Qual fascino d'inferno
a un pescatore insano
pose lo scettro in mano?
tolse le canne? Ahi, de le leggi a scherno
ogni spiaggia par fòro
da publicare editti;
pregi di sangue e d'oro
corrono per delitti,
mentre in reti di morte
scalzo un Timoteo osa pescar la sorte.
Bella reggia d'eroi,
Partenope infelice,
cangiò la plebe ultrice
in arte di perfidia i plettri tuoi.
Non più t' intreccia al crine
vero valor le palme;
bollon rabbie assassine
in proditorie calme;
sognano (il dico e piango)
pazze democrazie spirti di fango.
So che nel ciel sovente
a fulminar il fasto
marciò con nembo infausto
di zanzare e locuste oste fremente.
Teman l'anime insane
di egizi Faraoni
fiumi di sangue e rane,
piogge di piaghe e tuoni.
GIACOMO LUBRANO 467
che sempre a' re malvagi
la maestà fu merito di stragi.
Ma de l'Austria fedele
chi non adora i pregi?
Fan volare i suoi regi
per l'indo mar cattoliche le vele.
Quanti nascono augusti
portano da le cune
il titolo di giusti,
arbitri di fortune;
e dove stende il piede
lo scettro de' Filippi, entra la fede.
Del volgo la potenza
si fa legge d'un « voglio »,
e con rabbie d'orgoglio
suona le trombe a popolar licenza.
Spartachi e Vibuleni,
barbari disumani,
non resero sereni
gli emisferi romani.
Al Sol pon fare scorno,
ma non mai le comete han fatto un giorno.
Svegliati a' pianti miei,
Britannia sconsigliata,
or che di frodi armata
condanni a le mannaie i re da rei.
Già fulmina perigli
di ben giusta vendetta
l'amor d'orfani figli,
ed offesa t'affretta
(né senza vero io parlo)
l'ultimo funeral l'ombra di Carlo.
Emolo de' monarchi
accampi un Cromuelle
esercito rubelle,
e di Londra infedel sospenda agli archi
468 LIRICI MARINISTI
trofei d'empie vittorie:
saettaranno i cieli
l'odiose memorie
di pompe si crudeli,
che potenza rapita
efimera del fasto ha poca vita.
Spesso nube orgogliosa
con parelio mentito
ruba dal Sol tradito
di sinonimo onore ombra vistosa.
Ma quel ch'agli occhi parve
riflesso di splendori,
fu ludibrio di larve,
maschera di vapori :
in un breve momento
le porpore non sue disperge il vento.
GIOVANNI CANALE
I
IL PAVONE E LA DONNA
Godea Lilla in mirare augel dipinto,
che dell'alato stuol portava il vanto;
avea fregiato il capo, azzurro il manto,
d'un pennuto gemmalo adorno e cinto.
Pompa facea suo ambizioso instinto
coi fior del prato a garreggiare, e 'ntanto
si vide di bellezze un sole a canto
e dubitò di rimanerne vinto.
Fatto egli emulator del bel sembiante,
al di cui lume s'abbelliva intento,
il suo occhiuto spiegò cielo rotante.
Gioia dal riguardarla ebbe e tormento,
vinto si rese, e divenuto amante,
per vagheggiarla apri cent' occhi e cento.
470 LIRICI MARINISTI
II
LA CHIOMA INCIPRIATA
Se con la face Amor saetta ardori,
accende l'alme e rende i cori amanti,
tu di Ciprigna con la polve i cori
più che fiamma d'amore arder ti vanti.
Maga amorosa, or con novelli incanti
da questa polve fai nascer gli Amori ;
ritorni profumati or gli altrui pianti
e al fumo de' sospir spargi gli odori.
Alchimista d'amor, polve odorata
mischiando al vivo dell'altrui tormento,
vuoi far dolce il martir, la pena grata.
Mentre l'oro del crin mostri d'argento,
discopri ancor che tua beltà pregiata
si cangia in breve ed è sol polve al vento.
Ili
A UN POETA CHE SI TINGE LA BARBA
Adulterare il venerando argento
che t'accredita il volto or si mentito,
è d' ingegno senil già rimbambito
e di vano pensier chiaro argomento.
T'inganni, se '1 vigor debile e lento
cerchi coprir col pelo or si annerito,
che, s'appare al color ringiovenito,
rinvecchia in breve a tuo maggior tormento.
Pur sei caro alle muse e '1 tuo gran stile
sopra ogni stile hai candido e sonoro;
il tuo candido pel non abbi a vile !
Cosi più amato dal vergineo coro
sarai, che '1 cigno nell'età senile
ha più bianca la piuma e più è canoro.
GIOVANNI CANALE 471
IV
IL TAMBURO
Sorte perversa! In vii tugurio nato,
per secondar fatiche e accrescer stento,
di paludosi umori e fien cibato,
diedi lena ostinata al mio tormento.
Dal peso degli affanni alfin sgravato,
che d'essere vivuto ora mi pento,
una cassa portatile tornato
della mia pelle accoglio al seno il vento.
A mille e mille colpi il fiato scioglio,
in campo marziale indi venuto
a portar nuove glorie al Campidoglio.
Se vivo tacqui, in essere battuto
morto assordo col suono, e ben mi doglio
che chi mi batte è assai di me più bruto!
V
I RAZZI
Da ricinte prigion di carta avvolta
sprigionata da ardor polve nitrosa,
spinta nell'aria ed in faville sciolta,
sibila irata e strepita orgogliosa.
Di stellucce fugaci appar pomposa
col ciel stellante a garreggiar rivolta;
reca alla notte oscura, all'ombra ascosa
de' suoi fatui splendor famiglia stolta.
D'ardori nell'efimere procelle
resta assorta la vista, e mille e mille
luci ch'ammira a lei sembrano stelle.
Questi focosi rai, queste faville
son nulla a par di quelle eterne, e quelle
del divino splendor sono scintille.
472 LIRICI MARINISTI
VI
ALLA REPUBBLICA DI VENEZIA
Per l'armata del Morosini
Monarchessa del mar, ch'ardita sdegni
picciole imprese, il tuo valor t'affida
di render serva ora la Tracia infida,
che nutrisce nel sen mostri si indegni.
La selva formidabile de' legni
ch'armi su l'onde ove il Leon s'annida,
che col ruggito alla battaglia sfida
lo scita, e al grido suo tremano i regni ;
mentre fa ventilar l'insegne altere,
rende avvilita ogni nemica parte,
che cade a' lampi tuoi d'armi guerriere.
Col valor della destra, ingegno ed arte,
vinte ti condurrà barbare schiere
il tuo gran Morosin, nautico Marte.
VII
PER LA CADUTA DEL CARDINALE ORSINI
NEL TERREiMOTO DI BENEVENTO
Nella sannia magion scossa e cadente
cade l'Orsino eroe tra pietre involto,
e riman tra le pietre ivi sepolto
poco meno che morto e mal vivente.
Ferito sopra il crin, sangue innocente
ingemma l'ostro ch'ha sul crine accolto,
e intento al ciel, l'affetto al ciel rivolto,
gli affanni altrui più che '1 suo mal risente.
Morte non teme ed ha la morte avante,
il core in man di Dio gli è duol giocondo,
e tra angustia mortai ne gode orante.
S'ora sostien d'infrante mura il pondo,
stupor non è, se dèe poi, sacro Atlante,
regger la chiesa e sostenere il mondo.
GIOVANNI CANALE 473
Vili
LA TRINITÀ DI CAVA
Dure balze, aspri colli e selve antiche,
pendenti rupi e monti alpestri ed erti,
folti boschi romiti, ermi deserti,
grotte del chiaro Sol fosche nemiche;
bramo cangiar con voi le piagge apriche,
le superbe cittadi e i campi aperti,
e menar di mia vita i giorni incerti
tra queste piante di silenzio amiche.
Che '1 vostro sacro e solitario orrore
(lungi dal mondo, anzi da me diviso)
daria riposo al mio turbato core;
e presso al dolce rivo all'erba assiso
che fa a' cantanti augei specchio e tenore,
godrei fra questi boschi un paradiso.
IX
AD ASCANIO PIGNATELLI
che in un suo discorso lodò il Tasso ed il Marino
Se il Tasso ed il Marin, spirti canori,
coppia immortai, che morte ha già schernita,
giovanetto real che tanto onori,
oggi nel mondo avesser senso e vita;
del lor plettro gentil l'armi e gli amori
per te fariano alta armonia gradita,
e r Italia n'avria nuovi splendori,
dal nuovo canto lor via più arricchita.
Né saria d'uopo a si elevati ingegni,
per dare aura alla fama e gloria al canto,
soggetti ricercar da stranei regni ;
che di Marte e d'Amor chiaro campione,
s'hai d'Amore e di Marte il pregio e '1 vanto,
tu saresti il Rinaldo e tu l'Adone.
474 LIRICI MARINISTI
X
AL PADRE GIACOMO LUBRANO
Per l'infermità che l'affliggeva alla lingua
La tua lingua immortai, ch'offesa offende
l'inferno, s'ella è nel parlar languente,
l'alme infette a guarir pietosa intende
e nel suo tronco dire è più eloquente.
Se l'udito talor mal la comprende,
scopre arcani ineffabili alla mente;
se bassa, de' pensieri alta si rende,
alzando al ciel l'ascoltatrice gente.
Le ceda ogn'altra nell'orar fiorita,
che i cori al vivo il suo dir punge e tocca,
e, cosi inferma, al peccator dà vita.
Se di celeste ardor strali ne scocca
stridendo, e al proferir non è spedita,
de l'incendio divin la fiamma ha in bocca.
XI
ALLO STESSO
Per le poesie da lui composte, latine e italiane
In riva del Sebeto in suon latino
mentre tu canti ove cantò '1 Marone
e accordò la sua lira anco il Marino,
i vanti lor co' tuoi par ch'ei risuone.
L'ammirabi! tuo stil, ch'ha del divino
e indietro ogn'altro stil lascia e ripone,
s'or tratta il plettro tosco, alto destino
cela il tuo nome e in anagramma espone.
Spande l'ali la fama, e in ogni parte
le tue va in promolgar rime pregiate,
l'autor tacendo, non espresso in carte.
Son le tue glorie al maggior segno alzate;
che creda il mondo ella l'occulta ad arte
che d'angelica penna or sian formate.
GIOVANNI CANALE 475
XII
LO SCHELETRO
Tu che dal riguardarmi orror apprendi,
timido parti e la mia vista abborri,
arresta il piede e la mia voce intendi :
se movi il piede, in grave error già incorri.
Come a fragil beltà perduto attendi,
che sarà qual son io, pensa e discorri ;
un punto mi mutò, da un punto pendi,
e col tempo che vola a morte corri.
Begli occhi, vago crin, guance rosate
amabil mi rendeano, e in un momento
divenni schifa polve, ossa spolpate.
A macchinar disegni io vissi intento;
ma i disegni, i pensieri e la beltate
al mio estremo spirar sparirò in vento.
XIII
IL VECCHIO
L'uom ch'ai volto ha le rughe, al crin la neve,
incurvato dagli anni è reso un gioco;
trema nel pie, che '1 passo ha lento e breve,
da un legno aitato, e non mai giunge al loco.
L'offende lo spirar d'un 'aura lieve
e nel più estivo ardore a grado ha il foco;
il tacer, il parlar gli è noia greve,
poco intende e '1 suo dir è inteso poco.
Nel suo freddo vigor l'ira l'accende,
ogni lungo piacer l'infastidisce,
nulla gli piace e ad ogni cosa attende.
Quando più sano appare, allor languisce;
mentre schivo a se stesso e altrui si rende,
fra miserie la vita egli finisce.
476 LIRICI MARINISTI
XIV
IL DESIDERIO DI VIVERE ANCORA
Folle pensier, che la mia mente ingombra,
ch'io dal punto fatai viva lontano,
e di speranza mi nutrisca insano,
che '1 vero a non veder cieco m'adombra;
temerario ch'egli è, pur non disgombra
da me col suo freneticar si vano;
né mira che la parca ha il fèrro in mano
a far che cada e mi risolva in ombra.
Corre la vita al nonagesim'anno
e tornar gli anni indietro indarno aspetto,
d'età cadente a risarcirmi il danno.
Or che d'attender morte io son costretto,
panni cangiato in agonia l'affanno,
in tomba la mia stanza, in bara il letto.
XV
IL PENSIERO DELLA MORTE
Tu, che superba vai di ferro armata,
cruda per atterrar l'umane vite,
né valor forte né beltà pregiata
rendon tue man pietose o meno ardite,
sempremai voracissima e spietata
pascon la fame tua genti infinite
de' sensi prive, e tu non mai cibata
vibri colpi accanita, apri ferite;
s'al tuo orrendo apparir si suda e trema,
è che ti crede ognun lontana ancora,
e giunta all'improvviso apporti téma.
Ognor t'ho avanti e penso ognor ch'io mora,
onde nel punto di quell'ora estrema
fia men duro il morir, se moro ogn'ora.
GIOVANNI CANALE 477
XVI
GLI ABUSI MODERNI
A Federico Meninni, fisico e poeta
Al terminar degli anni eccomi giunto;
e del mio albergo alla prigion rinchiuso,
vivo nel mondo e son dal mondo escluso,
che '1 pie tremante al camminar fé' punto.
Se non vaglio a formar debile un passo,
m'aggiro immoto, e fra i veduti oggetti,
eh' a riveder mi sono ora interdetti,
pellegrinando col pensier mi spasso.
Piani erbosi solcar mugghianti bighe,
che la lunghezza lor stanca la vista,
col pensier veggio, e separar l'arista
dai biondi grani in fìaggellar le spighe.
Or godo meditar vago ricinto,
che di piante fruttifere ripieno
Pomona alletta a riposarvi in seno,
e '1 suo tesor dal variare è vinto.
Collinette frondose e selve chete,
oscurissime valli, orridi monti,
laghi, fiumi, ruscelli e chiari fonti
rendono al mio pensier l'ore più liete.
Borghi, ville, città chiuse ed aperte,
che dan ricovro ai passaggieri erranti,
torno a veder co' miei pensier vaganti,
calco senza partir strade deserte.
Irato il dio del procelloso regno
vedo (lungi il timor) come già vidi,
e poi placato passeggiando i lidi
di bella calma in sen depor lo sdegno.
Ritornan quindi alla memoria viva
della mia fresca etade i tempi e gli anni ;
m'addolora il veder del tempo i danni,
che veloce si parte allor ch'arriva.
47'^ LIRICI MARINISTI
O dolce tempo andato, ove fuggisti,
teco fuggendo ogni modestia umile
e '1 portamento nobile e gentile,
che con lussi superbi il mondo attristi?
Semplici addobbi la natia bellezza
rendean pomposa si, ma non altera,
ed imitando la maniera ibera
non mai s'impoveri l'altrui ricchezza.
Or le gemme eritree, gli ori del Tago
tessuti a siri stami in tele e in nastri
per legar l'alme ed apportar disastri,
delle donne il desio non rendon pago.
Di gonfia vanità portano un mondo,
eh 'a soffrirlo non rendonsi mai stanche,
ed emulando le fattezze franche
gradito è a lor di sconce vesti il pondo.
Ergon sul capo altier, come Cibelle,
merlata torre di galani e veli;
v'imprigionano il crin eh' avvien si celi
in pena che d'amor fé' l'alme ancelle.
Candida benda dispiegar si vede
qual bandiera di pace in su la torre,
sotto il dominio lor il mondo a porre,
cui muovon guerra poi, mancan di fede.
Sprigionato indi il crin, rivolto in fiocchi,
ne formano piramide d'Egitto,
per dare alla beltà termin prescritto,
parlare a mille e stuijor mille agli occhi.
Col rinvenir si disusate forme
credon più bella far beltà natia;
ma ingannate ne van da lor pazzia,
che la beltà natia fassi difforme.
Di Firenze non mai bestia da soma
portò di rozzi fregi il capo greve,
com 'altre ch'hanno poco senno e lieve
portan monti di fior sopra la chioma.
GIOVANNI CAXAI-E 479
Vivon sott'arso del di fiamme armato
nere beltà come le fé' natura,
coperte sol dalla nerezza oscura,
ma vergognose il sen tengon velato.
Vedesi qui, se borea agghiaccia il rivo
all'aria in risoffiar fiato di gelo,
mezze nude beltà senz' alcun velo,
che d'onesto rossore il volto han privo.
Gli uomini intanto la follia donnesca
accompagnano, ancor resi più folli;
gli abbigliamenti femminili e molli
usar par eh' a ciascun la stima accresca.
Han quelle, il perucchin dismesso e guasto,
per sempre variar vario 1' umore;
questi col ripigliare il loro errore
nel renderlo maggior recansi a fasto.
Or le perucche a frenesie tessute
fan di lor copia ed intrecciate e scinte;
altre son naturali, altre son tinte,
altre corte, altre lunghe, altre ricciute.
Quel che non fé' natura inventa l'arte,
dando alle sete color vari e belli;
maestre mani in trasformar capelli
stravaganti chimere ai crini han sparte.
Varie di più color ferman lo sguardo,
aggravando col peso or l'altrui fronte,
che di sudor fan che distilli un fonte,
quando che in capricorno il Sol vien tardo.
Or d'un villan gli scarmigliati crini,
che pendendo da un legno ei diede al vento,
pria sotto a' piedi vili, indi ornamento
d'illustre capo han riverenti inchini.
Industria mercantil, chiome europee,
rubate a morti e da languenti accolte,
son divenute in molte fogge e in molte
pompe alle fronti nobili e plebee.
4So LIRICI MARINISTI
Diviso un monte altri ne forma e innalza
novel Vesuvio, e se non par ch'allumi,
pur di superbia all'aria esala i fumi,
da cui discende al sen gemina balza.
Due ciocche acute avvien ch'altri riporte
sul capo, qual portò raggi lucenti
quel grand'ebreo ch'in adoprar portenti
diede altrui con la verga or vita or morte.
Che s'in mano ei non tien verga fatale,
fanciullesco spadin gli pende al fianco,
ch'ora da lussi effeminato e stanco
l'annoia arma pesante e a trar non vale.
Già composte le chiome in tante guise
dal mondo alla vecchiezza han dato il bando,
tornata in gioventù, né si sa il quando,
ch'ai figlio Enea somiglia il padre Anchise.
Or temerario il pelo invano insulta,
col rinovar l'uscita, il volto antico,
che lo sgombra da sé qual rio nimico;
niun si vede più d'etade adulta.
S'ammira altri bensi d'etade annosa,
che siede in primo loco egli fra i matti,
giovane in apparenza e vecchio in fatti,
ch'imperruccato ha la canizie ascosa.
Dal mento grinzo il bianco pel reciso,
rasa ben la lanugine canuta,
ha faccia giovami, ma non creduta
per tante crespe che dimostra al viso.
Vuol l'amata ingannar con tal menzogna
in mentir chioma, in falseggiar sembiante;
ma non mai donna amò rugoso amante,
e d'esser riamato egli si sogna.
Al rinascer del pel non ha riparo,
vero appalesator di sue bugie;
onde per occultar le sue follie
spesso vi fa adoprar rodente acciaro.
GIOVANNI CANALE 481
Ingannato al pensier mentre folleggia,
smarrito del discorso il buon governo,
si rende a. tutti e passatempo e scherno;
vaneggia ognor, né sa ch'egli vaneggia.
Posta in oblio la gravità spagnuola,
l'uso di nere vesti oggi è abborrito,
eh 'a più colori sciamberghin fiorito
il pregio maestoso a quelle invola.
Gli abiti colorati e da campagna
mostran che i cittadin sien forestieri,
o che voglian segnar lunghi sentieri
per veder curiosi Italia o Spagna.
Onde di vesti baldestanie cinti,
brandisse, brandeborghe e patalette,
di boUanchine e di sciamberghe elette,
son da ventosa bizzarria sospinti.
Par che perda d'onor, manchi a se stesso
chi per capricci bave il cervel non sodo,
se la moda che s'usa e senza modo
non usa e qual monton non vada appresso.
Scemo cosi farnetico delira,
idea de! bello alla sua idea si pinge;
credesi un altro, un semidio si finge,
e a vertigin di smanie il capo ei gira.
Menin, cui Febo die penna erudita,
la mia già è stanca; a scriver tu ripiglia
gli altri eccessi, a stupir la meraviglia,
che lasciai, di Partenope impazzita.
La tua man valorosa indi a lei porgi,
ch'espugna i morbi e d' Esculapio ha i vanti.
Ma che? per far che torni il senno a tanti
non bastan cento rote e cento Giorgi!
Lirici marinisti
XII
MENIiNNl - L. E P. CASABURl - GAUDIOSI
DOTTI - FERRUCCI
FEDERICO MEXIXXI
I
I FIORI E LA SUA DONNA
Mentre le vie più tenere del prato
premi, o Nice, talor nuda le piante,
de' tuoi begli occhi e non del nume aurato
Clizia si volge al gemino levante.
Tra la plebe de' fior fatto gigante
s'alza il giglio a mirar tuo volto amato,
e viene a corteggiar l'aura vagante
più tua beltà che il popolo odorato.
De' roveti a macchiarsi entro l'asprezza
di vago sdegno e di rossor non poco
la reina de' fior j er te s'avvezza.
E con tre lingue onde somiglia il foco,
per tributar gli encomi a tua bellezza,
di te favella, innamorato, il croco.
4-86 LIRICI MARINISTI
II
GLI ALBERI E LA SUA DONNA
Degli orti, ch'erudì destra ingegnosa,
qualor ten vieni a passeggiar la via,
umiliata ogni albore frondosa
offrir suoi parti a la tua man desia.
S'apre il re de le frutta, e la natia
ricchezza de' rubin ti scopre ascosa;
a te la vite i suoi piropi invia,
lussureggiante in su la rupe ombrosa.
Parla a te sospirando il pero, il moro,
mentre par che sue frondi in lingue cange:
— Io pero, o Nice; innamorato io moro. -
Il pesco, acceso, il proprio sen si frange;
per te serba l'arancio i pomi d'oro,
per dolcezza d'amore il fico piange.
Ili
IL VESUVIO E LA SUA DONNA
Vedi, Nice, quel monte? Egli è Vesevo,
ch'ha su le viti i grappoli pendenti,
i cui vermigli, indomiti torrenti,
per estinguer talor la sete io bevo.
E dal breve dormir poi che mi levo
per girne errando a pascolar gli armenti,
contra i raggi che il Sol vibra cocenti
sotto i pampani suoi schermo ricevo.
Là Vulcano non è Sterope o Bronte,
ch'assidui colpi in su l'incude incalza,
benché sparsa di fiamme abbia la fronte.
Ma da quella fumosa arida balza,
con petto acceso, innamorato, il monte
per mirar tua bellezza il capo innalza.
FEDERICO MENINNI 48?
IV
CONSOLATORIA
A donna che invecchia
Nel vetro lusinghier l'aspetto antico,
poiché Nice mirò, die varco al pianto,
e '1 fulgido censore, un tempo amico,
fé' che nel suol precipitasse infranto.
Poi disse: — Invano a ravvivar quel vanto
di mie guance adorate io m'affatico;
mi cingo invan di prezioso ammanto,
s' oggi il mio volto è di beltà mendico.
Fatta è difforme, e in questa bassa mole
col ,dio che in oriente ha d'or la cuna,
gareggiar più la chioma mia non suole. —
Ma Nice, a che biasmar la tua fortuna?
Se con l'oro del crin sembrasti il Sole,
con l'argento del crin sembri la Luna.
V
IL PAVONE
Questi, che spiega a l'aure ali splendenti,
è ne' vari color Proteo vagante,
iride de' pennuti, Argo volante,
eh' ha mille in vagheggiarsi occhi lucenti.
Se a la vaga stagione i fior languenti
render sa de le sfere il can latrante,
il samio augel, eh' è primavera errante,
non paventa di Sirio i vampi ardenti.
Emolo par de le sideree scene,
qualor sue penne occhiute, auree fiammelle,
l'Olimpo degli augelli a scoter viene.
Anzi, d'Atlante emulator s'appelle,
mentre con meraviglia altrui sostiene
sovra gli omeri suoi mondo di stelle.
488 LIRICI MARINISTI
VI
LA CARTA GEOGRAFICA
Forza d'umano ingegno! In breve giro
Europa tutta epilogata io trovo;
per sentier sconosciuto il pie non movo,
e pur straniere io le città rimiro.
Quanto in più lustri altri mirò, se giro
un sol guardo, distinto io tutto approvo;
veggo regni remoti e clima novo,
e d'incognite balze il ciglio ammiro.
D'ogni fiume natio scorgo la foce,
e d'ogni mar tra' scogli suoi diffusa
l'onda, che, benché finta, appar feroce,
Stupor non fia se de l' argiva musa
fu l'Iliade ristretta in una noce,
quando 1' Europa in picciol foglio è chiusa.
VII
FUGACITÀ DELL'UOMO
E PERSISTENZA DELLE COSE
Questi hbri, da cui più cose imparo
e che divoro anco di Lete a scorno,
altri, per innalzar forte riparo
contro l'oblio, divoreranno un giorno.
In questo albergo, in cui ricovro ho caro,
mentre le cure a riposar qui torno,
se '1 ciel non fia di sue vicende avaro,
altri faranno in altra età soggiorno.
In questo letto, ove fra l'ombre assonno
perché rechi a' miei sensi alcun ristoro,
altri ancor chiuderà le luci al sonno.
Quindi rodemi il cor più d'un martoro,
solo in pensar che qui durar ben ponno
cose che non han vita, ed io mi moro !
FEDERICO MENINNI 489
Vili
SPERANZA DI GLORIA
Con vomere stridente il suol disserra
l'agricoltor ne la stagion più fiera,
e sudando fra il gelo i rastri afferra,
per mieter poi l'aurata mèsse altera.
Tratta i remi il nocchier, ch'in strania terra
predar tesori avidamente spera;
suda gli agoni un fulmine di guerra
per trionfar de la nemica schiera.
Straccia il seno a le belve in Eri manto
versando il cacciator tepido rio,
per impetrar d'arcier superbo il vanto.
E vegghiando le notti anco sper'io
forse con la mia penna e col mio canto
ferir la morte e fulminar l'oblio.
IX
LA BUGIA, REGINA DEL MONDO
Sol menzogne ravviso ovunque il guardo
de l'intelletto e de le luci io giro.
Se d'un nume terren la reggia io guardo,
mille di falsità ritratti io miro;
se '1 pie talor entro i musei ritardo,
iperboli dipinte i lini ammiro;
lusinghiera beltà viso bugiardo
m'addita, allor che a vagheggiarla aspiro.
Turba di fole entro i licei dimora,
né di finte apparenze è '1 cielo avaro,
quando a l'iride un arco il Sol colora.
Ma che giova schernir gli altri che alzàro
trono superbo a la bugia, se ancora
bugie da Febo, io che ragiono, imparo?
490 LIRICI MARINISTI
X
IN UNA VILLA PRESSO SORRENTO
Ad Antonio Teodoto
Vivo, amico, a me stesso. A pie d'un fonte,
ch'odorosa la conca e l'onde ha chiare,
non più cure celando in petto amare,
a l'armonie le mie vigilie ho pronte.
Mentre accordo la cetra e la mia fronte
fregio d'allòr che non ha frondi avare,
più sirene ritrovo in questo mare,
più camene ritrovo in questo monte.
Qui le vane speranze in aria ho sparte,
qui canto i miei più giovenili errori,
qui d' inchiostri febei vergo le carte.
Fra le pallide ulive e fra gli allori
or facondie Minerva a me comparte,
or mi spira Calliope i suoi furori.
XI
NEL TEMPO DELLA PESTE Dì NAPOLI
Al padre Niceforo Sebaste, agostiniano
.Sovra carro funebre
con tartareo flagello i draghi alati
furia di Flegetonte agita a volo.
De l'enfiate palpebre
ai guardi infetti e de la bocca ai fiati,
d'ossame imputridito ingombra il suolo.
Spettatrice di duolo
fassi l'Esperia, e di conforti esausto,
di tragedia fatai teatro infausto.
FEDERICO MENINNI 49I
indomito veleno
per le viscere altrui serpe baccante,
mentre qual idra il suo livor propaga;
sul margine tirreno
con pestifero strai parca anelante
di popolo infinito i petti impiaga;
con tante morti appaga
gli sdegni suoi, che di tristizia gonfi
erge in orride bighe i suoi trionfi.
Spopolate le ville
son di bifolchi e di guerrier le ròcche,
di toghe i fòri e di ministri i tèmpi ;
di lacrimose stille
son aride le luci, e le altrui bocche
stanche di morte a detestar gli scempi ;
perché di madre adempì
la terra i mesti uffici, ancorché vasta,
l'ossa insepolte a sepellir non basta.
D'antidoti salubri
al contagio non è sicuro schermo
da l'arte d' Epidauro unqua prescritto;
su' talami lugubri,
mentre s'adopra a sollevar l'infermo,
cade su l'egro il fisico trafitto;
il genitore afflitto,
di gelido pallore il volto tinto,
spira l'anima in braccio al figlio estinto.
Attaliche ricchezze,
lacera povertà, rapido strugge
con assalti improvvisi il morbo infame;
fulminate bellezze,
deformità spiranti il foco adugge,
di fiamme ingorde a saziar la fame;
a recider lo stame
di tante vite, infra singulti e strida ~~~~
stanca la falce sua Cloto omicida.
492 LIRICI MARINISTI
Fra si tragiche scene
io vivo, amico, e provvido riparo
contra influsso maligno alzar m'ingegno;
or co' fogli d'Atene
dal comun fato a riserbarmi imparo,
or animando armonioso un legno;
degli Elisi nel regno,
se resta il mondo in fra le stragi absorto,
entro un mar di sudori io spero il porto.
O di musici accenti
delfico re, che d'immortali e casti
lauri fregi il tuo crin sui gioghi ascrei,
se da languidi armenti
l'aure contaminate allor fugasti
quando l'ostie fumar sui colli idei,
dagli aliti letei
tu preservami intatto; in roghi accensi
già le vittime sveno, ardo gl'incensi.
Sovra letto spiumato
ove d'Olanda e di Getulia a scorno
ricca pompa facean gli ostri e le tele,
pallido, addolorato
languia l'inclito Alfonso, a cui dintorno
di ministri assistea turba fedele;
al palpito crudele
del suo petto anelante in dare esiglio,
d' Esculapio non giova arte o consiglio.
Tutto ciò che da l'erbe
e dai fiori stillò chimica mano,
de la vita real si sceglie a l'uso;
le dovizie superbe
di Cleopatra invan distempra, e 'nvano
altri il biondo metal rende diffuso;
che al temerario fuso,
benché gli ori de l'Ermo in tazza ei mesce,
Cloto stami più lunghi indarno accresce.
FEDERICO MENINNI 493
Gusta appena di Faso
l'ambito augel, che nauseante il rende
antipatia di congiurati umori ;
da cruda sete invaso,
che d'incendio vorace il sen gli accende,
brama d'un fonte i gelidi liquori;
e fra notturni errori,
quand' altri le pupille aprir non ponno,
vien co' fantasmi a funestarlo il sonno.
Cosi languia, quand'ecco
le memorie erudite, espresse in fogli,
con occhio immoto a contemplar s'accinse.
Dal petto arido e secco
gli occulti, inconsolabili cordogli
tosto a fuggir con quelle note astrinse.
In mar d'inchiostri estinse
gli ardori esorbitanti, e gli die scampo
sol di bella virtù sereno un lampo.
LORENZO CASABURI
I
LA POZZETTA NELLE GUANCE
Rise Clorinda, e su la guancia bella
dolcissima pozzetta allor s'aprio;
quando il mio cor ad osservar sen gio
si leggiadra d'amor cifra novella.
— Fors'è questa — dicea — propizia stella,
eh 'ad affrenar le mie tempeste uscio?
fors'è '1 fonte del riso, ove m'invio
a delibar di gioie alta procella? —
Amor l'udi, che v'era ascosto. E, sciolto
ver' lo 'ncauto mio cor dardo improviso,
cadde trafìtto e vi restò sepolto.
Oh cor beato, in si bel loco ucciso!
poiché, di fiori in sul feretro accolto,
ti fu tomba la rosa e nenia il riso.
LORENZO CASABURI 495
II
INGENIUM IPSA PUELLA FACIT
Col domestico lume altri pur tenti
accrescer lumi a' numeri sudati,
eh 'a far chiaro il mio stil saran possenti
i dolci rai di duo begli occhi amati.
S'altrui dan metri amenità di prati,
a me dan melodie guance ridenti ;
s'altrui destan lo 'ngegno i pinti alati,
alza un cigno fastoso i miei concenti.
Se d'erto faggio il verde crin si mira
altrui la lingua all'armonie disporre,
a me chioma dorata i canti inspira.
S'altri la cetra sua brama comporre
lungo un ruscello, io vo' temprar mia lira
presso un tenero sen, che latte corre.
Ili
OCCHI NERI
A richiesta di Giuseppe Mastrilli Gomez
Occhi neri, occhi belli, or quale avrete
nome che '1 vostro esprima alto valore?
Bruni lapilli io non dirò che siete,
se i di fausti per voi mi segna Amore.
Calamite non già, mentre sapete
a me rapir, del ferro in vece, il core;
fosche stelle né pur, poiché potete
di mia stella cangiar l'aspro tenore.
Direi ch'abbia la notte in voi soggiorno,
se non sapessi ben che solo io vissi
per voi sereno e sempre lieto il giorno.
Se miei Soli ecclissati io dirvi ardissi,
folle sarei, eh 'anco del sole a scorno
mi sa vita recar la vostra ecclissi.
496 LIRICI MARINISTI
IV
LE DONNE ASCOLTATRICI DELLA SUA POESIA
Coronatemi, o lauri. Il tracio legno
a te, cetera mia, ceda i suoi vanti,
che se quegli placò lo stigio regno,
tu cieli di beltà tragger ti vanti.
De' Campidogli tuoi l'alto disegno
io non invidio, o Tebro, a' tuoi regnanti;
che teatro più nobile e più degno
m'alzar di belle ciglia archi stellanti.
Mecenati, or non più chieggio a' destini
che d'alme bocche al plettro mio sonoro
s'apran arche di perle e di rubini.
Taccia chi inutil chiama il dio canoro,
che di candidi petti e biondi crini
tratti ho monti d'argento e fiumi d'oro.
v
L'OROLOGIO FERMO
Frena, o bella, il dolor, se '1 veglio alato
sta nel tuo grembo in vasel d'oro immoto;
ch'invaghito di te, priega devoto
la deità del tuo sembiante amato.
O s'arrestò perché '1 tuo bel furato
non gli sia dell'età dal dente ignoto,
o per aver da' tuoi begli occhi il moto,
s'è da sue rote a più bei giri alzato.
Forse del ciglio allo 'nfiammato lume,
forse del seno all'animato gelo,
il suo pie s'agghiacciò, s'arser le piume;
o del tuo petto in sul celeste velo
d'agitarsi nel corso invan presume,
perché correr non puote il tempo in cielo.
LORENZO CASABURI 497
VI
LA BELLA MUTA
Forse in limpido specchio o in fresca riva
fisasti della fronte i vivi avori,
e della tua beltà gli alti stupori
della propria favella oggi t' han priva?
Od a natura il tuo tacer s'ascriva,
presaga già de' tuoi celesti onori,
perché dovevi in sugli aitar de' cori
adorata seder mutola diva?
O la tua lingua entro il silenzio asconde,
mentre per intimar e guerre e paci
sono i begli occhi tuoi lingue faconde?
O d'uopo non stimò formar loquaci
de' labri tuoi le porpore gioconde,
perché senza parlar chiamano a' baci?
VII
LA GIOCATRICE DI CORDA
Corre Clorinda in sui ritorti lini
qual per l'aeree vie stella cadente,
e formano un meandro aureo lucente
agitad dall'aure i suoi bei crini.
Or non sospiro più gli orti latini
ch'in aria architettò la prisca gente,
s'in un florido qui volto ridente
godo più belli i penduli giardini.
Cade e sorge in un punto, onde deriso
vien l'occhio altrui, mentre gli dona e fura
del suo vago sembiante il paradiso.
E quindi istupidito ogni uom la giura
del piede al moto, alla beltà del viso,
miracolo dell'arte e di natura.
Lirici mat-inisti — 32
498 LIRICI MARINISTI
Vili
IL GIOCATORE DI CORDA
Lunghi voli, alti scherzi, erta salita
tu formando in un laccio al ciel disteso,
stupido lo stupor mira sospeso
quanto possa dell' uom la mente ardita.
Non vanti più la sua colomba Archita,
or che rapido il volo ha l'uomo appreso;
né sia Dedalo teco a gara acceso,
se volante senz'ali oggi t'addita.
Già de' canapi tuoi gli occulti ponti
fatt'han per gelosia Giove di ghiaccio,
che 'n grembo a Giuno a tuo piacer sormonti
e più che de' Tifei teme il tuo braccio,
poiché, se quei non v'arrivar co' monti,
tu su l'etra poggiar puoi con un laccio.
IX
LA DONNA AL MARITO
the vuole andare alla j^uerra contro i turchi
Dal letto al campo? e d'Imeneo le faci
spegnerà nel tuo cor di Marte il foco?
per gir la luna a catenar de' traci,
lasci un Sol di beltà de' proci al gioco?
Con le querce cangiar ti cai si poco
questi de' bracci miei serti tenaci?
e sdegnerai pe '1 timpano, eh' è roco,
la melodia dolcissima de' baci?
Dalle sanguigne vie del dio più fero,
per far più senno, il tuo jDensier distorna
al vago del mio sen latteo sentiero.
Ma di penne, a fuggirmi, il capo adorna;
che porterai nel tuo trionfo altero
della luna ottomana ambe le corna!
LORKNZO CAS AHI- RI 499
X
PEL RITRATTO DELL'AVO E^IETRO URRIES
uditore generale tlell'esercito nel regno di Napoli
È questa quella fronte in cui sen venne
Temi dall'etra a stabilir suoi sogli?
questo è quel ciglio pur, ch'Iri divenne
de' rauchi fòri a' tempestosi orgogli?
questo è quel labro ancor che fiumi e scogli
d'inceppar, d'impennar virtù ritenne?
e questa quella man, ch'arando i fogli
già gli elmi aviti impoveri di penne?
Lieto è '1 giusto a sua vista, il reo tremante;
delle vedove afflitte il duol disgombra,
degli orfani consola egro il sembiante.
Astrea, cui di dolor Lachesi ingombra,
china le luci qui: sarà bastante
del mio gran Pietro a serenarti un'ombra.
XI
LE LAGRIME
Mute oratrici, a mitigar possenti
l'irato re degli stellanti fòri,
e sapete abolir co' vostri umori
delle sentenze sue gl'impressi accenti;
di vostre perle i fulgidi torrenti
pagar dell'alma, anzi annegar gli errori;
che se Giove invaghi Danae con gli ori,
innamorano un Cristo i vostri argenti.
Ei de' nettari suoi l'alme procelle
pose pe '1 vostro amaro anco in oblio,
per le cui stille abbandonò le stelle.
Voi dell'ambre assai più pregiar degg'io;
se l'ariste rapir vantansi quelle,
voi serbate virtù di trarre un Dio.
PIETRO CASABURI
I
INNANZI ALLO SPECCHIO
Concedi al crin, ch'ai Sol fa biondi oltraggi,
con aurei calamistri ondosi errori,
e d'un cristallo a' getici rigori
pingi sul viso i più fioriti maggi.
D'un duro gelo a' balenanti raggi
désti al regno di Cipro immensi ardori,
e rendi a te necessitati i cori
sacrar de' pianti i liquefatti omaggi.
Cosi col vetro, ond' eleganze ha rare,
la tua beltà turbe d'amanti atterra;
tanto nell'arti insidiosa appare.
D'Archimede rinnovi a noi la guerra:
ei con gli specchi accese l'oste in mare,
tu con gli specchi accendi l'alme in terra.
PIETRO CASABURI 50I
II
LA CHIOMA NERA
Tenebroso meandro, entro il cui giro
naufragato m'avvolgo in dolci errori ;
ombra ch'oscuri l'ombra e vinci gli ori,
mentre le tue caligini rimiro;
scorni agl'inchiostri tuoi gli ostri di Tiro,
onde sui petti altrui descrivi ardori,
e, da gli ebeni tuoi vinti gli avori,
la tua leggiadra oscurità sospiro.
Notte filata, alle tue chiare luci,
che sul ciel d'una fronte hanno il chiarore,
nel bel regno d'Amor l'alme conduci.
Ma se notte rassembri al vago orrore,
meraviglia non è s'amor produci,
poiché sol dalla notte è nato Amore.
ITI
TRAMONTANDO IL SOLE
Ed ecco, o Filli, avventurosa aurora
portò quel giorno onde il mio duolo ha pace;
ecco in sen pur ti .stringo, ecco si sface
l'anima per dolcezza e si ristora.
Ma Febo, ahi lasso, inver' la spiaggia mora
già va del giorno a sepellir la face,
e già convien che tu, da me fugace,
tristo qui m'abbandoni e ch'io mi mora.
Giove, perché costei dalle mie braccia
non parta mai, del sole inchioda il volo,
e su l'eteree vie lung'or sen giaccia;
se, nel concetto già d'Alcide, il polo
fé' di duo giorni una sol notte, or faccia
di due notti congiunte un giorno solo.
502 LIRICI MARINISTI
IV
A GIOVANE INNAMORATO
DI BIANCHISSIMA DONNA
Sia di neve un bel seno. Ivi i candori
invan dell'onestà trovar già tenti,
poich'alle nevi ancor sugli emi algenti
il filosofo acheo negò gli albori.
Sia d'avori un bel seno. Indarno implori
dal suo bello pietà ne' tuoi tormenti,
che còlti son dall' affricane genti,
porzione d'un mostro, anco gli avori.
.Sia di latte un bel sen. Di morte il gelo
paventa ancor, che contro i Fabi io scerno
volar nel latte anco di Cloto il telo.
E se scritto è lassù dal Giove eterno
ch'altri per via di latte entri nel cielo,
tu per calli di latte entri in Averno.
v
LA ROSA
Nella vaga republica di Flora
sol di beltà le maggioranze io vanto;
cede il giglio appo me, vile è l'acanto
onde superbo il molle aprii s'infiora.
Me l'alata famiglia in su l'aurora
lieta saluta allor che tempra il canto,
e perché di reina io porti il vanto,
ricco diadema in sul mio crin s'indora.
Simile a' re su la mia regia sede,
eh' è di smeraldo infra i miei verdi chiostri,
darmi fregi al bel sen l'ostro si vede.
Ma cedetemi, o regi, i vanti vostri;
s'una conca le porpore a voi diede,
il sangue di Ciprigna a me die gli ostri.
PIETRO CASABURI 503
VI
A UN BAMBINO IN CULLA
Si nasce alle fatiche; uopo è che sudi,
se tu goder felicità mai speri;
s'esser vuoi glorioso infra i guerrieri,
dèi di Bellona affaticar gli scudi.
Incontrerai nel mar gli austri più crudi,
se conquisti vuoi far d'ori stranieri;
s'ami cingerti il crin di lauri alteri,
dèi di Minerva esercitar gli studi.
Se contraria non ha Giuno importuna
il greco Alcide, in su le stelle i Giovi
non gli schiudono mai soglia opportuna.
Disagi hai da soffrir, se vuoi che giovi
a te la sorte. Ecco, bambino in cuna,
s'agitato non sei, pace non trovi!
VII
ESCULAPIO, INVENTORE DELLO SPECCHIO
Fisso il pie vagabondo a' vivi argenti,
e svelti là dalle gelate valli
dell'Alpi ombrose i lucidi cristalli,
lo specchio esposi alle mondane genti.
Qui r Ecube e i Tersiti a' lussi intenti
di natura emendar sul volto i falli;
porsero a' labri teneri coralli,
ostri alle guance ed alle chiome unguenti.
Dell'arte opra migliore, onde gli oggetti
per cui gli egri amatori hanno il feretro,
par eh 'a legar le fughe han gU anni astretti;
iodi i miei vanti il musico Libetro,
ch'additando nel sen gli altrui difetti,
Momo della natura ho fatto un vetro.
504 LIRICI MARINISTI
Vili
ALL'OBO, ALBERO INDIANO
che distilla acqua in tempo di siccità.
Rivolo vegetante, a te da' cieli
privilegio immortai solo è concesso,
quando da nera sete è l'indo oppresso,
grondar su' prati i liquefatti geli.
Vanti lo re delle cantate Deli,
onde scorna le parche, il suo Permesso,
ch'a scorno di più fonti anco è permesso
a te spuntar d'arida morte i teli.
Pria che gli giunga ad eclissar le luci
con giorno arsiccio il fato, altri tu bèi,
mentre dell'acque l'umido gli adduci.
Se nell'acque assegnerò i saggi achei
la vita al tutto, ed acqua altrui produci,
ben de la vita l'albero tu sei.
IX
AI SANTI INNOCENTI
Spettacoli d' A verno! ancor lattanti
svena barbara man vite bambine;
e di figli e di madri alle ruine
s'ergon fiumi di sangue, Egei di pianti.
Cadete, fortunati, invitti infanti,
sotto il furor di dure destre alpine,
che tinti voi di sanguinose brine,
gite lieti a calcar gli orbi stellanti.
Se delle genitrici i dolci accenti
lasciate qui, le sfere ancor son fatte
a discioglier lassù vaghi concenti.
E del materno sen le poppe intatte
s'altri vi toglie, o bamboli innocenti,
hanno i cieli per voi le vie del latte.
TOMMASO GAUDIOSI
1
L'OMBRA
Mentre di lei, che mio bel sole adoro,
idolatra vagheggio il bel sembiante,
ed ella, empia, ritrosa e noncurante,
delle bellezze sue cela il tesoro;
del corpo mio, che di lontan mi moro,
veggo per opra del gran lume errante
l'ombra felice a la superba avante
usurparsi il mio gaudio, il mio ristoro.
Cosi m'è forza invidiar quel vano
apparente di me che l'aria ingombra,
mentre io vivo e verace ardo lontano.
Oh come. Amor, le tue fallacie adombra
il mio stato infelice; onde sia piano
ch'ogni gioia d'amor consiste in ombra!
5o6 LIRICI MARINISTI
II
LA PENITENTE
Quella che tutta vezzi e leggiadria,
o giri '1 guardo o pur le labbra scioglia,
miir occhi abbaglia e mille cori invoglia
a prestarle fedele idolatria;
oggi, tutta di vota e tutta pia,
cangiati i fregi e la porpurea spoglia
in nero ammanto, in abito di doglia,
le proprie colpe a detestar venia.
Meraviglia giammai non fu cotanta,
su la scena mutabile d' un viso,
da spettatore o riverita o pianta;
che se '1 mondo vincea formando un riso,
sprezzatrice del mondo oggi si vanta
guadagnarsi col pianto il paradiso.
Ili
MEMENTO MORI
Qualor tutta leggiadra e tutta bella
a questo tempio fai, Lidia, ritorno,
ove con viso industremente adorno
fai della tua beltà pompa novella;
l'umana sorte a rammentar m'appella,
che tuo malgrado ha da venir quel giorno
in cui, d'amore e di natura a scorno,
ritornar vi dovrai, ma non più quella.
Lasso, tremo in ridirlo. Il di fatale
ritornar vi dovrai di morte scherno
a far pompa di te, ma funerale.
Misera umanità, che dunque vale
in sembiante divin stimarsi eterno,
e per legge immortale esser mortale?
TOMMASO GAUDIOSI 507
IV
LA DONNA AMATA UN TEMPO
Redivivo agl'incendi, oggi le belle
luci incontrai della mia fiamma antica,
di quella un tempo mia gentil nemica
per me tant'anni amorosette stelle.
Se la mia piaga al vagheggiar di quelle
rinovasse il dolor, chi '1 prova il dica;
pur incontro stimai di sorte amica
sentir d'antico stral punte novelle.
E benché '1 petto, a nuovo oltraggio duro,
trionfasse le fiamme e la bellezza,
che già di lui tr'ionfatrici furo,
pur apprese il mio cor tanta dolcezza
in veder lei, che per quegli occhi io giuro
che sol gode in amor chi lo disprezza.
V
LE STRAVAGANZE DELLA MODA
Studia a l'amante suo più delicata
parer Licori, onde accurata stringe
quella parte dal corpo in cui si cinge,
stringe il tenero pie, la bocca amata.
Ma poi le vesti sue sporge e dilata
e su la fronte un gran cimier si finge,
e con solchi si grandi il suolo attinge,
che sembra agli occhi suoi torre animata.
Mirala il vago e di stupor n'agghiaccia;
ma s'a stringerla poi le braccia spande,
e nulla stringe e tutto il mondo abbraccia.
Oh stranezze di femina ammirande !
Cerca il modo costei ch'altrui la faccia
in un tempo parer picciola e grande.
508 LIRICI MARINISTI
VI
IL GUARDINFANTE
Che le donne talor che copia fero
di se medesme al desiderio umano,
prendano in uso l'abito straniero,
che da le membra lor gira lontano,
soffrir potrei ; però che '1 sesso vano
dilata il manto al faretrato arciero,
per dar più campo a queir ardor profano,
che ristretto nel sen si fa più fiero.
Ma schietta donna e di consorzio priva,
che porti 'ntorno un padiglion rotante,
sembra ad onesto cor pompa lasciva.
Come creder potrò che senz'amante,
come creder potrò che casta viva,
chi si dispone a custodir-l' -infante?
VII
LO SPADINO IN TESTA
Lottò con Marte in singoiar tenzone
la bella dea ch'ai terzo cielo impera,
e del nume guerrier, fatta guerriera,
baldanzosa sostenne il paragone.
Vinselo alfìn nel dilettoso agone,
e per trofeo de la vittoria altera
tolto il brando di lui, presso a Citerà
armonne il fianco al suo diletto Adone,
Ma da quel di eh 'a trionfar fu presta,
usò la dea de le leggiadre e belle
portar picciola spada ai crini intesta.
Quindi fra noi l'antica usanza desta,
le seguaci di Venere ancor elle
d'indorato spadino arman la testa.
TOMMASO GAUDIOSI 509
VITI
IL TABACCO DA NASO
Già del mar de' piaceri e del diletto
il superbo mortai toccava il fondo
nel lusso abominevol ed immondo
d'apicia mensa e di venereo letto.
Votar la terra e l'ocean profondo
per render pago un indiscreto affetto,
era commune error, commun difetto,
non sazio ancor di tutto il mondo il mondo.
Alfin tant' oltre a trapassar risolve,
che per pascer le nari in picciol vaso
indica foglia in polvere dissolve.
Siam de la vita omai giunti all'occaso!
Ha portato fra noi barbara polve
le delizie del mondo insino al naso.
IX
IL GIOCO DE' COLOMBI ALLA CAVA
Move colà dai più gelati lidi
innocente d'augei schiera volante,
che fendendo le nubi a borea avante,
cerca altra terra a rinnovar suoi nidi.
Ecco la scopre ai cacciatori infidi,
sul primiero apparir, corno sonante:
ecco, fra i colli e le frondose piante
la caccian frombe e strepitosi gridi.
Ella, seguendo le fallaci scorte
de' tinti sassi, incautamente piomba
ne' tesi lacci a terminar sua sorte.
Cosi la semplicissima colomba,
senza passar pei cardini di morte,
perde il ciel, ferma il volo, entra a la tomba.
5IO LIRICI MARINISTI
X
LA RAPIDITÀ DEL TEMPO
Un tempo, il di cui restringean poch'ore
parea si lungo a la tranquilla mente,
che l'ora non vedea che in occidente
tuffasse i raggi il luminar maggiore.
Or che degli anni è già passato il fiore,
mi tramontano i Soli a l'oriente;
veggo il tempo volar, l'orecchio sente
una voce ch'intona: — Ecco, si more. —
Già già panni l'altr'ier quando ero in culla;
or m'aspetta il feretro, e 'n breve, ahi lasso,
sarò un mucchio di polve, e poscia un nulla.
Perché terra siam noi. Pur terra è '1 sasso;
e se spingerlo in alto uom si trastulla,
più veloce ne vien quanto è più basso.
XI
L'INFELICITÀ UMANA
Dieci lustri di vita o poco meno
porto sul dorso; e se ricerco quante
son l'ore liete, a numerar l'istante
posso a pena formarne un di sereno.
Parte fra l'ombre del materno seno
vissi ignoto cadavero spirante;
parte poco miglior che belva infante
soffrii di balia e pedagogo il freno.
Ne l'avanzo infelice (ahi, sallo il core!:
parte ne tolse necessaria sorte,
parte ne diedi a volontario amore.
Se la vita che resta è tanto forte,
viver che vaimi, ove ogni di si more?
È men pena il morir ch'attender morte!
TOMMASO GAUDIOSI 51 f
XII
IL LETTO
Rassembra a l'egro mio stanco pensiero
sovente il letto un marziale agone,
ove fo con me stesso aspra tenzone,
or di fortuna ed or d'amor guerriero.
Talor mi sembra un mar turbato e fiero,
ove scherzo son d'austro e d'aquilone,
ove absorta dal senso è la ragione
e, se non giunge il di, porto non spero.
Sono di questo mar venti i sospiri,
di questo campo il militar congresso
è di sogni, chimere, ombre e deliri.
Ove, lasso, trovar mi fia concesso
tregua ai pensieri miei, posa ai martiri,
se combatto, se ondeggio al letto stesso?
XIII
IL BACIO DI GIUDA
Spira il Verbo umanato aura celeste,
spirti di paradiso; e Giuda spira
turbini di nequizia e fiati d'ira,
aneliti infernali, euri di peste.
E pur s'inclina, e pur Giesù da queste
labbra lascia baciarsi, e non s'adira!
L'appella amico, e senza sdegno mira
quelle luci esecrabili e moleste!
Ben crederò ch'ogni motor superno,
per l'immenso stupor fatto di gelo,
tralasciasse in quel punto il moto eterno.
Sofferenza del cielo, ardir d'Averno!
Si solleva l'inferno e bacia il cielo,
s'inclina il cielo a ribaciar l'inferno.
BARTOLOMEO DOTTI
I
GLI OCCHI NERI
Luci caliginose, ombre stellate,
Luciferi ammorzati, Esperi ardenti,
Orioni sereni. Orse turbate,
mesti Polluci e Pleiadi ridenti ;
Soli etiopi e notti illuminate,
limpidi occasi e torbidi orienti,
meriggi nuvolosi, albe infocate,
foschi emisferi ed èrebi lucenti,
ottenebrati lumi e chiare ecclissi,
splendide oscurità, tetri splendori,
firmamenti in error, pianeti fissi,
dèmoni luminosi, angioli mori,
tartarei paradisi, eterei abissi,
empirei de l'inferno, occhi di Clori!
BARTOLOMEO DOTTI 513
II
DI LÀ DAL MURO
Angelica mia voce, indarno ormai
un muro a le tue gorghe argine fassi,
che _^ già, mentre scoccando al ciel le vai,
di dolcissima gioia il sen mi passi.
Come un tenero sen non passerai,
se le dure pareti anco trapassi?
Stupisco ben come tu possa mai
con si gran tenerezza uscir dai sassi.
Ah, credi a me! Dal tuo confin sicura
non esci tu; che amor robusto e forte
di lasciartimi al cor confitta ei giura.
Ma giuro bene anch'io che se ti porte
coi canti a violar tu le mie mura,
coi baci vo' sforzar io le tue porte.
Ili
AMANTIUM IRAE
Oh Dio, che dolci guerre ed aspre paci
ebbi con Filli! E l'una e l'altro sordo
già da le strida, in qualche bacio ingordo
punto facean le nostre lingue audaci.
Pareano i labri, al disfidar mordaci,
replicarsi tra lor: — Tu mordi, io mordo;
ma stanchi poi con volontario accordo,
ai morsi patteggiar pausa di baci.
Armati risorgean d'ire moleste,
ma succedean fra lor, giunti a le strette,
segni di pace a le minacce infeste.
Cosi '1 mar, cosi '1 ciel talor permette
le perle scintillar fra le tempeste,
le gioie sfavillar fra le saette.
Lirici maritiisti — 33
514 LIRICI MARINISTI
IV
RESTITUENDO LE LETTERE
Tornatevene pur, note mendaci,
sovra cui distillai lo spirto in guardi ;
tornate pur, caratteri bugiardi,
sovra cui distemprai l'anima in baci.
Si, si, tornate in quelle man fallaci,
che già vi colorirò. Or se ben tardi
io mi strappo dal cor le faci e i dardi,
in voi tutti suggello e dardi e faci.
Ite, dite a colei che mi vi diede,
che l'occhio mio senza l'ostacol vostro,
disappannato ai fin, meglio ci vede.
Vede che quando l'empia a l'amor nostro
in voi giurò costanza e giurò fede,
fu costanza di carta e fé d'inchiostro.
v
FUMANDO
O caro indico germe, oh quai diporti
trovo ne le tue foglie al mio dolore !
Ardi, e de l'alma mia tempri l'ardore;
fumi, e col fumo i miei sospir ten porti.
Or chi dirà che l'erba non apporti
medicina salubre al mal d'amore,
se da te solo i lenitivi ha il core,
e da' tuoi suffumigi ho i miei conforti?
Sventura è ben eh 'a la mia piaga acerba
fumo che spiro e foglia che consumo
lieve e caduco il refrigerio serba.
Cosi, misero, quando aver presumo
del mio ristoro la speranza in erba,
con l'erba va la mia speranza in fumo.
BARTOLOMEO DOTTI 5I5
VI
IL FUMARE E LA MESTIZIA
Muse, poiché non so co' canti vostri
i terreni placar purpurei numi,
echeggiar più non fo d'Amicla i chiostri,
né gorgogliar di Pindo i dolci fiumi.
Questa canna è mia penna, e questi fumi
mi servon già di geniali inchiostri,
onde scrivo de l'aria in sui volumi
a cifre vagabonde i dolor nostri.
Sorgono l'atre note, in cui diffondo
i cordogli onde muto io mi querelo,
e i nembi del mio cuor fra i nembi ascondo.
Quindi ritrar qualche conforto anelo,
che se i sospiri miei non cura il mondo,
gli accoglie almeno in questo fumo il cielo.
VII
L'ABORTO NELL'AMPOLLA
A (jiacopo Grandis, fisico e anatomico
Questo, Giacopo mio, sconcio funesto
cui die morto natale il sen materno,
se maturo nascea, moria ben presto,
e voi d' intempestivo il fèste eterno.
Non so se dolce latte o pianto mesto
gli sia di quel cristal l'umore interno;
so ben che l'alvo suo fu come questo,
poi ch'utero da vetro io non discerno.
Vive quasi per voi chi per sé langue;
embrione mori, scheletro nacque,
fatto parto immortai d'aborto essangue.
Uomo, impara! Insegnarti al Grandi piacque
che sia ventre di donna e maschio sangue
più fral del vetro e men vital de l'acque.
5l6 LIRICI MARINISTI
Vili
LE FONTANE DI BRESCIA
Ruscello, naturai figlio de' monti,
figlio adottivo a la mia patria viene,
e per amor si svena in cento vene
e sparte cento vene in mille fonti.
A più selci, a più mura empie le fi-onti,.
che gettan per le vie piogge serene,
dove per ribaciar le amiche arene
par che l'acqua dai marmi a terra smonti.
Da l'occhio qui, non dal cammin riceve
la sete il pellegrino; e se a le sponde
discende a ber, del nostro amor s'imbeve;
che se l'acqua letea l'oblio c'infonde,
il passeggier qui sempiterna beve
la memoria di Brescia in si bell'onde.
IX
A SIRMIONE
Ognor che del Benaco io vengo e torno
per questa inferior pendice aprica,
in te fiso le luci, o Sirmio antica,
già di Catullo mio dolce soggiorno.
Tu, penisola umil, che sporgi il corno
da la terra e da l'acque a gran fatica,
si nota sei, mercé la musa amica,
che a più province, a più città fai scorno.
Quel cigno fu di nominarti vago,
e col nomarti sol fu si fecondo,
che fece del tuo nulla un'ampia imago.
Cosi ti pose per destin secondo
una striscia di terra in braccio al lago,
una striscia di penna in faccia al mondo.
ANDREA FERRUCCI
I
CHE COSA È AMORE
Ti dirò che sia amore. Amore è un fuoco,
che dal bel volto tuo vola al mio seno;
de' tuoi lumi è chiarissimo baleno,
atro fulmine in me, per cui m'infoco.
Se in te lo miro, è tutto festa e gioco;
se in me lo provo, di miseria è pieno;
è degli occhi invisibile veleno,
che circola nel sangue a poco a poco.
Amor che cosa sia? Veder se '1 vuoi,
scorgi ne l'opre del suo fiero ardore
numi accesi, arse dive, estinti eroi.
Si bella, vuoi saper che cosa è amore?
Specchiati, e '1 mirerai negli occhi tuoi;
aprimi il petto, e me '1 vedrai nel core.
5l8 LIRICI MARINISTI
II
IL RISO E IL PIANTO
Se Democrito stempra il core in riso
e s' Eraclito stilla il core in pianto,
il pianto di costui merita il riso,
il riso di colui merita il pianto.
Ma se un'aura di duol fugace è il pianto,
efimero balen di gioia è il riso;
se ride Ciro e versa Creso il pianto,
piange poi Ciro e di Tomiri è un riso.
È l'orbe un embrion di riso e pianto,
del fato i giochi degni son di riso,
le miserie de l' uom degne di pianto.
Cosi congiunti sono il pianto e '1 riso,
che scorger non si sa tra riso e pianto
se riso il pianto sia, se pianto il riso.
IH
L'OROSCOPO
Dove, dove t'innalzi,
temerario pensiero? Il volo arresta!
Su quai vanni ti sbalzi,
curiosità funesta
a calcar di Giunon liquidi i campi,
ove gli eterei lampi
scrisser cifre di stelle a mie sventure,
quanto lucide più tanto più oscure?
Stimolo dell'ingegno,
folle curiosità, sprone al pensiero,
oh temerario impegno,
oh desiderio fiero,
ANDREA FERRUCCI 519
voglia del mio voler tormentatrice,
ansietà infelice, ,
spia de' segreti, esploratrice audace,
alfin ritroverai ciò che ti spiace.
Ferma l'icario volo;
Argo è di luci il ciel, talpa tu sei.
Per osservar nel polo
gli abissi degli dèi
più svelati e più chiari invano impetri
tersi veli di vetri ;
cozzar col lume invan, occhio, presumi,
benché scudi di gel t'armino i lumi.
Sovra i cerulei giri,
o che, pesci del ciel, guizzin le stelle,
o in piani di zaffiri
sian nodi ; a me procelle
sempre presagiranno astri guizzanti ;
le sventure costanti
ne le fisse averò; contrarie sempre,
non d'or, gli astri han per me ferree le tempre.
Stanchino i Tolomei
sfere, astrolabi, tavole e figure;
leggano i Galilei
chiare le mie sventure;
senza che me '1 predicano i Cenoni,
i Firmici, i Ticoni,
teorica che lor studian sugli astri,
pratticata ved' io ne' miei disastri.
Con la diva di Delo
l'oroscopo contende il dio cretese;
al mio natale in cielo
stanno i numi in contese;
esser ricusan forse astri adirati
signori a' sventurati ;
guarda di trin Saturno la Fortuna,
retrogrado è l'Eleo, cade la Luna.
520 LIRICI MARINISTI
Stelle, che più volete?
avete influssi più maligni e infesti?
stelle no, ma comete,
che presagi son questi ?
ogni segno per me s'accozza infausto?
del destino olocausto
bamboletto perché mi fece il fato,
se cagion non sapea men di peccato ?
Vibra clava nocente
armato di terror crudele Alcide;
stella non più splendente
le mie speranze uccide,
ed avverati vidi i suoi presagi
finor ne' miei naufragi.
Alma, qual dunque scampo aver tu puoi,
se tuoi nemici in ciel s'arman gli eroi?
In questo giorno appunto
infausto... ah no, che dissi? oh folle! e dove
a delirar son giunto?
Se al sempiterno Giove
consecrato ved'io si lieto giorno,
di nuova luce adorno
ecco risplende fausto il natal mio,
se in oroscopo uman risplende Iddio.
Sogni, larve, follie,
d'Ipparchi indegni e d'Apolloni infidi,
pelasge fantasie,
non sia ch'in voi mi fidi.
Che Eudossi, che Maneti ed Albategni?
che figure? che segni?
Se in segno di pietà Dio mi sovrasta
di pan con gli accidenti, a me ciò basta.
Pensier, se occulti arcani
hai desio di spiar, qui ferma il volo.
Qui misteri sovrani
apprendere puoi solo.
ANDREA FERRUCCI 521
Ve' la sostanza in Cristo traformarsi,
senza l'annichilarsi,
e mentre gli accidenti agli occhi appresta,
forma sostanziai di pan non resta.
Sofisticar chi vuole
come accidenti stian senza soggetto?
de le sacre parole
in istante l'effetto?
Come è de l'alma il naturai ridutto
in parte ancora tutto,
tutto è nel tutto, e con mirabil arte
tutta la quantità sta in ogni parte.
Pensiero, ove t'interni?
Tanto secreto occhio mortai non vede;
per tanti arcani eterni
telescopio è la fede.
Tu questo Sol ch'il tuo natale onora,
entro la sfera adora;
e se adori splendor che non comprendi,
quali sian de la fé gli arcani apprendi.
FINE.
NOTA
II nome di « marinisti », dato ai poeti raccolti in questo vo-
lume, non comporta (come, del resto, nessuna di siffatte deno-
minazioni) un significato rigoroso. Esso serve a designare quei
poeti che si mossero su per giù nella cerchia d' ispirazione trac-
ciata dal Marino; ed è stato esteso perciò anche a coloro che,
come lo Stigliani, si professarono antimarinisti, ma effettivamente
non uscirono dallo stato spirituale del marinismo. Tuttavia, se ad
altri piacerà di cangiarlo con altro nome, non disputeremo.
Non esisteva finora un'antologia di codesti poeti (salvo la
scelta di cento sonetti, pubblicata nel 1880 da M. A. Canini,
in un abortito tentativo di Sonettiere italiano, Torino, Candeletti);
e, quantunque la presente sia stata fatta con lo spoglio di oltre
un centinaio e mezzo di canzonieri di quel tempo (molti dei quali,
s'intende, letti con risultato negativo), non viene licenziata alle
stampe senza qualche riserva su quel che potrebbero offrire alcuni
canzonieri, che non è stato possibile per ora procurarci.
Naturalmente, se la scelta fosse stata condotta dal punto di
vista dello stile corretto, essa sarebbe riuscita assai diversa; e,
se dal punto di vista della poesia, infinitamente più esigua. Ma
si è voluto tener conto in essa degli spunti artistici, che presenta-
vano interesse anche in componimenti mediocri e scorretti; delle più
caratteristiche trovate bizzarre o mostruosità; dei vari argomenti
che si solevano trattare e di certe forme predilette (p. e., l'epistola
e l'elegia); e, infine, dare saggio di quel che sapessero produrre
alcuni scrittori, ricordati dalle storie letterarie o celebrati al loro
tempo. Si è escluso, in genere, ciò che era privo di carattere anche
nella bruttezza; e perciò non si troveranno saggi, p. e., delle
opere del Murtola, il quale deve la sua fama esclusivamente alla
contesa personale col Marino. Insomma, l'antologia è stata condotta
526 LIRICI MARINISTI
dal punto di vista di chi raccolga documenti per uno studio
sulla lirica del Seicento. Perciò anche la prevalenza è data alla
poesia amorosa; quantunque questa nelle raccolte del tempo rap-
presenti solamente una sezione, occupando le altre sezioni le poesie
sacre, eroiche, funebri, morali, e via dicendo, che sono quasi sem-
pre rimerie senza interesse di sorta.
L'ordine adottato è, nei limiti del possibile, quello cronolo-
gico; e talora, in sottordine, quello per regioni o per affinità.
I componimenti sono pubblicati fedelmente secondo le stampe o i
manoscritti del tempo, col solo cangiamento dell'ortografia e della
punteggiatura e con la correzione di evidenti errori tipografici :
si sono serbate alcune forme proprie del tempo. Ma è parso op-
portuno rifare quasi tutti i titoli delle poesie, le quali li avevano
spesso lunghissimi e con monotone ripetizioni (p. e.. Bella donna
o B. D.), e talvolta ne mancavano affatto. Abbiamo sostituito,
dunque, molti titoli, sfrondati altri e aggiunti quelli mancanti. Di
questo lieve arbitrio (il cui vantaggio, per altro, ci sembra supe-
riore al danno) chiediamo venia.
Intorno alla fisonomia generale delle composizioni qui raccolte,
si possono consultare alcune pagine del volume di B. Croce,
Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (Bari, Laterza, 19 io,
pp. 377-433); aspettando che qualche studioso scriva di proposito
sull'argomento.
I
STIGLIANI — MACEDONIO — GAETANO — MANSO
BALDUCCI — DELLA VALLE
I. Tommaso Stigliarli. — Da // canzoniere del signor cavaliere
fra' Tomaso Stigliani, dato in luce da Francesco Balducci, di-
stinto in otto libri, cioè amori civili, pastorali, marinareschi, gio-
cosi, soggetti eroici, morali, funebri e famigliari; purgato, accre-
sciuto e riformato dall'autore istesso (in Roma et in Venetia, 1625).
Dell'edizione del 1625 esiste una copia manoscritta nella Bibl.
Naz. di Napoli (xiii. D. 60), preparata per una ristampa che non
ebbe luogo, e che reca nel titolo l'aggiunta: « in questa nuova
impressione aumentato dall'autore di molte poesie non più pub-
blicate ». Da questo ms. abbiamo tolto i componimenti che recano
i numeri vi, ix, x, xv, xx, xxi, xxn.
NOTA 527
Su Tommaso Stigliani di Matera (1573-1651), si vedano G. Gat-
tini, Note storiche sulla citta di Matera (Napoli, tip. Pernotti, 1882);
M. Menghini, T. S., contributo alla storia letteraria del secolo xvii
(Genova, 1890: estratto dal Giornale ligustico); F. Santoro, Del
cava lier Stigliani, con appendice di poesie inedite (Napoli, tip. san-
nitica, 1908).
II. Marcello Macedonio. —Dalla Scelta delle poesie di Marcello
Macedonio (in Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti, 1615). I
nn. v-vi sono presi da Ballate et idilli dello stesso (ivi, 1614).
La prima ediz. della Scelta era stata fatta nel 1614, col titolo:
Le nove muse di M. M., raccolte e date alla stampa da Pietro
Macedonio suo fratello (in Napoli, ad instanza di Gio. Ruardo,
all'insegna del Compasso). Il M. pubblicò anche / nove cori degli
angeli (Roma, appresso Guglielmo Facciotti, 1615).
Di lui, gentiluomo napoletano, nato nell'ultimo quarto del se-
colo XVI, innamoratosi d' Isabella Sanseverino moglie di Fran-
cesco di Costanzo, esule per essa, poi frate, e morto qualche
anno prima del 1620, discorre A. Borzelli nella introd. a / ca-
pitoli della bellezza di M. M. (Filenio Pellegrino), con noticine
(Napoli, Stanziola, 1895).
III. Scipione Gaetano — Dal volume: Alla chiarissima Ma-
datna Maria Medici reina di Francia. Rime dell' ili. mo signor Sci-
pione Gaetano (in Viterbo, appresso il Discepolo, 1612).
Del C, figliuolo di Cesare e Vittoria della Valle, e morto
prima del 1612, è cenno nel Quadrio, Storia e ragione di ogni
poesia, II, parte i, p. 293.
IV. Giambattista Manso. — Dalle Poesie nomiche di Gio. Bat-
tista Manso, marchese di Villa, signor della città di Bisaccia e
di Franca, academico otioso, divise in rime amorose, sacre e
morali (in Venetia, 1640, appresso Francesco Babà).
Sul Manso, amico e biografo di Torquato Tasso, n. in Napoli
nel 1561, m. nel 1645, cfr. L. Crasso, Elogi d' huomini letterati
(Venezia, per Combi e La Nou, 1666, i, 309). Intorno a lui, un'am-
pia monografia prepara Angelo Borzelli.
V. Francesco Balducci. — Da Le rime del signor Francesco
Balducci (in Roma, per Guglielmo Facciotti, 1630). Altre edizioni:
Roma, Moneta, 1645; Roma, Manelfi, 1646 e '47; Venezia, Babà,
1655, 1663.
Intorno al Balducci, palermitano (1579-1642), oltre il Mongi-
TORE e il Mazzuchelli, si vedano E. Cozzuoli, F. B., ricerche e
528 LIRICI MARINISTI
Studi (Palermo, tip. Giannone e Lamantia, 1892: cfr. Giorn. stor^
leti, ital., XXI, 188-9); e un cenno nel ^^\a.q^\, Il Seicento, p. 94.
VI. Francesco della Valle. — Dalle Rime del signor Francesco
DELLA Valle, in questa seconda impressione corrette et accre-
sciute con gli argomenti dell' istesso autore (in Roma, appresso
Alessandro Zannetti, 1622). I nn. viii, ix sono nella Raccolta del
Guaccimanni, che si cita più oltre.
La prima ediz. delle Rime è di Roma, per Gio. Giorgio Razzi,
1618. Il Della Valle scrisse anche: Lettere delle dame e degli eroi
con le risposte alle medesime lettere dell' istesso autore (in Napoli,
per Camillo Cavallo, 1644).
Era nativo di un paesello presso Cosenza (cfr. son. xi); e di luì
fa cenno lo Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini (Napoli,
Muzi, 1750), pp. 130-2.
II
ACHILLINI — PRETI — PAOLI — GIOVANETTI
SEMPRONIO
I. Claudio Achillini. — Dalle Rime e prose di Claudio Achil-
lini, in questa nostra impressione accresciute di molti sonetti e
altre composizioni non più stampate, con aggiunta di diverse
bellissime lettere di proposta e risposta del medesimo autore (in
Venezia, 1662, presso Zaccaria Conzatti).
La prima ediz. è di Bologna, presso Clemente Ferrini, 1632;
seguirono altre di Venezia, Giunti e Babà, 1650; ivi. Babà, 1651 ;
ivi, Bertoli, 1656.
Suir Achillini (n. in Bologna nel 1574, morto il i ottobre 1640),
si veda la breve vita unita alla ediz. delle Rime e prose : Le glorie
degli Incogniti (Venezia, 1647), pp. 109-111; Crasso, Elogi, 11,
161-5; e più ampiamente Mazzuchelli, i, 105-108; Fantuzzi,
Scrittori bolognesi, i, 55-62. Cfr. anche B. Malatesta, C. A.,
cenni (Modena, 1884) e Belloni, Il Seicento, pp. 85-7.
II. Girolamo Preti. — Dalle Poesie di Girolamo Preti in
quest'ultima impressione corrette et ampliate di nuove materie
non più stampate (in Venezia, 1656, per Gio. Battista Brigna).
Edizioni precedenti: Venezia, 1614; Bologna, 1618; Milano,
1619; Venezia, 1624; Roma, 1625; Bologna, 1631, 1644; Mace-
rata, 1646.
NOTA 529
Sul Preti, oltre Le glorie degli Incogniti, pp. 277-9, e il Crasso,
Elogi, II, 140-3, si veda Fantuzzi, op. cit., vii, 122-5. L'idillio
La Salmace è ristampato in L. Fatane Finocchiaro, Appunti su
G. P. (Milano, Albrighi e Segati, 1898): cfr. Giorn. stor. d. lett.
ital., xxxii, 227-9, e Belloni, op. cit., pp. 88-9.
III. Pier Francesco Paoli — Dalle Rime di Pier Francesco
Paoli da Pesaro, in questa seconda impressione dedicate al se-
reniss. signor principe Vittorio di Piemonte (in Modena, 1619,
appresso Giuliano Cassiani). La prima ediz. è di Ferrara, 1609.
I nn. ix-xii, xiv-xix sono tolti dal più grosso volume delle
Rime varie, dedicate al cardinale Antonio Barberini (in Roma,
per il Corbelletti, 1637).
II Paoli, pesarese, dimorò a lungo in Roma, ai servigi di
casa Savelli. Era già morto nel 1642, come risulta da un sonetto
di P. MiCHiELE, Rime (Venezia, 1642), parte 11, p. 265. Cfr. Qua-
drio, II, parte i, pp. 289. 581-2; e Crescimbeni, Comentari,
IV, 181-2.
IV. Marcello Giovanetti. — Dalle Poesie di Marcello Giova-
netti, compartite in affettuose, boschereccie, nuttiali, eroiche,
sacre, varie, e dedicate al card. Lorenzo Magalotti (in Roma, 1626,
per Francesco Corbelletti).
Edizioni precedenti, col titolo di Rime, Bologna, Bonomi, 1620,
e di Sonetti, canzoni, madrigali, Venezia, 1622.
Del Giovanetti (nato in Ascoli Piceno il 1598, morto il 14
agosto 1631) si vedano vita e ritratto xìq Le glorie degli Incogniti,
pp. 329-31; e notizie in Crescimbeni, op. cit., iv, 168; G. Can-
TALAMESSA CARBONI, Memorie ititorno i letterati e gli artisti della
città di Ascoli nel Piceno (Ascoli, Cardi, 1830), pp. 183-4. Scrisse
altresì una Citta, favola pastorale (Roma, Corbelletti, 1626), e una
Vita di Sani' Emiddio protettore di Ascoli (Ronciglione, 163 1). •
V. Glovan Leone Sempronio — Tf-à. La selva poetica, ?,o\\&\.\À à\
Gio. Leone Sempronio, urbinate, nella Notte di Bologna il Vi-
gilante e negli Assorditi di Urbino il Fuggitivo (in Bologna,
presso Clemente Ferroni, 1633).
Fu ristampata con una seconda parte (Bologna, per Carlo Ze-
nero, 1648).
Il Sempronio mori il 31 dicembre 1646: cfr. Quadrio, op. cit.,
II, parte i, p. 306. Scrisse anche un poema II Boemondo (Bologna»
Zenero, 1651), e una tragedia // conte Ugolino (postuma, Roma,
Salvioni, 1724): cfr. Quadrio, iv, 688; v, 199.
Lirici marinisti — 34
530 LIRICI MARINISTI
/ III
MAIA MATERDONA — BRUNI — ERRICO
I. Gian Francesco Maia Materdona — Dalle Rime del signor
Gian Francesco Maia Materdona, distinte in tre parti, sesta
impressione (in Napoli, 1632, per Lazaro Scorigio).
Altre edizioni: Venezia, Deuchino, 1629; Milano, Bidelli, 1630;
Genova, 1660. Le Rime pescherecce, dedicate a Carlo Emma-
nuele I di Savoia, furono stampate in Bologna, Moscherini, 1628.
Nativo di Mesagne, in provincia di Lecce, scrisse anche le
Lettere di buone feste (Roma, 1624; Venezia, 1644), e L'utile spa-
vento del peccatore (Roma, 1629; Venezia, 1665, 1671). Intorno a
lui, Crescimbeni, IV, 170; A. Profilo, ]^ie, piazze, vichi e corti
di Mesagne (Ostuni, 1894), p. 295 sgg. Una biografia di lui, do-
vuta a un Ortensio de Leo, si serba ms. nella biblioteca di
Brindisi.
II. Antonio Bruni — Da Le tre Grazie, rime del Bruni ^in
Roma, ad istanza di Ottavio Ingrillani, 1630); Le Veneri (Roma,
1632); Epistole heroiche (Venezia, 1647).
Delle Tre Grazie si ha altresì un'edizione di Venezia, 1627.
Delle Epistole heroiche, la prima ediz. è di Milano, 1026; ne se-
guirono altre del 1627, 1634, 1636, 1644, 1658. Il primo volume
del Bruni è La selva di Parnaso (Venezia, Dei, 1616), componi-
menti ristampati quasi tutti nelle Tre Grazie.
Il n. vii è tolto dalla Raccolta del Guaccimanni.
Del Bruni (n. a Manduria, in provincia di Lecce, nel 1593.
morto nel 1635), si leggono cenni nelle Glorie degli Incogniti,
PP- 55-7) e nel Crasso, Elogi, 11, 274-8; e discorrono ampia-
mente il Mazzuchelli, II, 2180-2185, e il Minieri Riccio, No-
tizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napotitaìii fioriti
nel secolo XVII, lettera B. (Napoli, Rinaldi e Sellitto, 1877),
p. 47. Cfr. anche Giuseppe Gigli, Scrittori manduriani, 2^ edi-
zione (Manduria, Spagnoli, 1896), pp. 51-92; e Belloni, op. cit.,
pp. 90-1, 480-1.
III. Scipione Errico — Dalle Poesie liriche dì Scipione Her-
rico, dedicate al principe Leopoldo Medici (in Venezia, 1646,
appresso Giacomo Hertz). Il poemetto La via lattea era stato già
pubblicato a Messina, 1614, e ivi anche Rime, 1619.
NOTA 531
Dell'Errico (n. a Messina nel 1592, morto il 18 settembre 1670),
autore di molte opere, in tutti i generi, e tra le altre della com-
media Le rivolte di Parnaso, è notizia nelle Glorie degli Incogniti,
PP- 397-9i e nel Mongitore, Bibl. sicula, 11, 210-12; ed esame
delle opere nel Salpi, Hist. liti. d'Italie, voli, xi-xiv, passim.
IV
DIVERSI
I. Giambattista Basile. — Dalle Ode (Napoli, Roncaglielo, 1627),
e dai Madriali et ode (Mantova, Osanni, 16 13).
Sul Basile, si veda la monografia di B. Croce, in Saggi sulla
leti. ital. del Seicento, già cit., pp. 1-104.
II. Biagio Cusano. — Da L'armonia del signor Biagio Cusano
(Napoli, per Ottavio Beltrano, 1636).
Sul Cusano, nativo di Vitulano, Toppi, Bibl. nap., p. 49; un
ritratto di lui in G. F. Bonomi, // parto dell'orsa (Bologna, 1667),
parte II, pp. 204-5. Scrisse anche: De' caratteri d'heroi (Napoli,
1661), Li dolori consolati della Sirena, ecc. (ivi, 1665), Poesie
sagre (ivi, 1672).
III. Giovanni Palma. — Dalle Rime del signor Giovanni Palma,
tra gl'Infuriati accademici napoletani l'Impaziente (in Napoli, per
Lazzaro Scorigio, 1632).
Era di Brindisi: Toppi, op. cit., pp. 121, 351.
IV. Giovanni Andrea Rovetti. — Dal Mormorio d' Elicona,
poesie del capitano Giovanni Andrea Rovetti (in Roma, per
Ludovico Grignani, 1625).
Era genovese. Nella prefazione al voi. cit. dà il catalogo delle
altre opere da lui composte.
V. Bartolomeo Tortoletti. — Dalle Rime di Bartolomeo Tor-
toletti, morali, eroiche, giovanili (Roma, Grignani, 1645).
Era veronese e scrisse un poema La Giuditta vittoriosa (Roma,
1628), e parecchie tragedie: Crescimbeni, iv, 174; Quadrio, ih,
parte i, p. 79; IV, 686.
VI. Maffeo Barberini. — Dalle Poesie toscane del card. Maffeo
Barberini, hoggi papa Urbano ottavo (in Roma, nella stamp.
della Rev. C. Apostolica, 1635).
VII. Paolo Giordano Orsino. — Dalle Rime di Paolo Gior-
dano II, duca di Bracciano (in Bracciano, per Andrea Fei, 1648).
532 LIRICI MARINISTI
Nato nel 1591, morto nel 1656: cfr. Quadrio, ii, parte i,
P- 317-
Vili. Giacomo d'Aquino. — Dalle Rime e prose di D. Giacomo
d'Aquino, principe di Crucoli (in Napoli, per Roberto Mollo, 1638).
Sul D'Aquino, Minieri Riccio, Not. biogr. e bibl., ecc., lett. A.
(Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1875), p. 55.
IX. Michelangelo Romagnesi. — Da M. A. Canini, Il sonettiere
italiano, sez. v (sola pubbl.), Seccìitisti, centuria i e 11 (Torino,
Candeletti, 1880).
X. Gennaro Grosso. — Da La cetra, divisa in metro divoto e
funesto, di Gennaro Grosso (Napoli, per Francesco Savio, 1650).
XI. Antonino Galeani — Dalla Raccolta di sonetti d'autoìH di-
versi ed eccellenti dell'età nostra, di Giacomo Guaccimanni da
Ravenna (in Ravenna, 1623, appresso Pietro de' Paoli e Giov.
Battista Giovannelli).
XII. Giambattista Pucci. — Dalla Raccolta del Guaccimanni,
XIII. Anton Maria Narducci — Dalla stessa Raccolta. Al primo
verso del son. II allude Salvator Rosa, nella satira La poesia.
XIV. Tiberio Sbarra. — Dalla stessa Raccolta.
XV. Filippo Massini. — Dalla Grillaia delI'ApROSio (Napoli,.
de Bonis, 1668).
Il Massini (fióiy) era perugino, e pubblicò, tra le altre cose,
un volume di Rime (Pavia, 1609).
XVI. Cesare Abbelli — ■ Dalla Raccolta del Guaccimanni.
SuU'Abbelli, bolognese, che pubblicò un voi. di Rime (Bolo-
gna, 1621), si vedano Mazzuchelli, i, 23-4, e Fantuzzi, i, 1-2.
XVII. Ludovico Tingoli. — Da / cigni del Rubicone, poesie
liriche degli illustrissimi signori Ludovico Tingoli e Filippo
Marcheselli da Rimini, date alle stampe da D. Girolamo Avan-
zolini (in Bologna, per Giacomo Monti, 1671).
Del Tingoli (1602-1669) un cenno nelle Glorie degli Incogniti,
pp. 317-9, e nel Crescimbeni, iv, 201-2.
XVIII. Filippo Marcheselli. — Dal voi. cit. di sopra. Sul M,
(1625-1658) si veda Crescimbeni, iv, 210-11.
XIX. Paolo Abriani. — Dalle Poesie di Paolo Abriani, se-
conda impressione corretta ed accresciuta (in Venezia, 1664, ap-
presso Alessandro Zatta).
Era vicentino; noto sopratutto per una traduzione delle Odi
di Orazio (Venezia, 1650). Intorno a lui G. Lovascio, Un seceìi-
lista, P. A., vicentino (Terlizzi, 1907).
NOTA 533
XX. Francesco Bracciolini. — Dalla Raccolta del Guaccimanni.
Il Bracciolini pubblicò anche un voi. di Poesie liriche toscane,
parte i (Roma, Grignani, 1639); cfr. M. Barbi, Notizie della vita
e delle opere di F. B. (Firenze, Sansoni, 1897), pp. 138-145.
XXI. Andrea Barbazza. — Dalle Poesie de' signori accademici
fantastici di Roma (in Roma, Grignani, 1637).
Sul B. si vedano le Glorie degli Incogniti, pp. 23-5.
XXII. Antonio Fortini. — Dalla Raccolta del Guaccimanni.
XXIII. Agostino Augustini. — Dalle Naturalezze poetiche del si-
gnor Agostino Augustini da Pesaro (s. La., dedica da Roma,
1647).
XXIY. Marcantonio Arlotto. — Dalla Raccolta del Guaccimanni.
Sull'Arlotto, Mazzuchelli, i, 1097.
XXV. Fabio Leonida. ^ Dalla stessa Raccolta.
XXVI. Gherardo Saracini. — Dalla stessa Raccolta.
XXVII. Pietro Paolo Bissari. — Da Le stille d'Hippocrene, trat-
tenimenti poetici del commend. conte Pietro Paolo Bissari il
Rincorato dell'Accademia Olimpica (in Venezia, 1648, per Fran-
cesco Valvaseuse).
Sul B., oltre Le glorie degli Incogniti, pp. 38 1-3, si veda la
monografia di G. Brognoligo, La vita di un gentiluomo italiano
del Seicento, il conte P. P. B., vicentino: 15S5-1663 (Napoli, Io-
vene, 1909: estr. dagli Studi di letter. Hai., vii sgg.).
XXVIII. Claudio Trivulzio. — Dal Sonettiere italiano del Canini.
Il Trivulzio pubblicò un volume di Rime (Milano, 1625).
XXIX. Gianfrancesco Cormani. — Dalla Raccolta del Guac-
cimanni.
XXX. Ermes Stampa. — Dal ms. della Biblioteca Casanatense,
n. 3392, ff. 362-3.
Dello Stampa (1615-1647) si ha un volume di Rime (Milano,
1671): cfr. Quadrio, ii, parte i, p. 328.
XXXI. Aurelio Mancini. — Dal ms. cit., f. 359.
XXXII. D'incerto: « Il gelsomino tra le labbra ». — Dalla
Raccolta del Guaccimanni.
XXXIII. D'incerto: « Tà y.ocTa;jLiìV'.a ». — Ms. della Biblioteca
Vittorio Emanuele, n. 487 [671-629], f. 121, dove ha un titolo
più volgare.
XXXIV. « Zitella romanesca ». — Ibid., f. 120.
XXXV. Martino Lunghi. — Dalle cit. Poesie degli accademici
fantastici.
534 LIRICI MARINISTI
XXXVI. Antonio de' Rossi. — Dai Sonetti del sig. D. Antonio
de' Rossi (Napoli, Mollo, 1661).
Sul De' Rossi, cfr. Toppi, p. 31.
XXXVII. « La mosca nel calamaio ». — Dal Cannocchiale ari-
stotelico di Emmanuele Tesauro (ed. di Venezia, 1682), pp. 171-2.
Anonima, ma forse dello stesso Tesauro.
V
GIROLAMO FONTANELLA
I nn. i-xxii, dai Nove cieli, poesie del signor Girolamo F^dn-
tanella, all'altezza serenissima di Ferdinando II, granduca di
Toscana (in Napoli, per Roberto Mollo, 1640).
I nn. xxiii-xxxiii, dalle Ode, consacrate all'immortalità del-
l'ili. ma et ecc. ma signora D. Anna Carafa, principessa di Stigliano
e vicereina nel regno di Napoli, seconda impressione (in Napoli,
per Roberto Mollo, 1638).
II n. XXXIV , dalle Elegie, dedicate all' ili. mo et ecc.mo signore
D. Diomede Carafa Paceco, duca di Maddaloni (in Napoli, per
Roberto Mollo, 1645).
Il Toppi, Bibl. nap., p. 156, e il Crescimbeni, v, 170, danno il
Fontanella per napoletano; ma il Quadrio, v, 87, fa notare che la
prima edizione delle Ode (in Bologna per lo Tebaldini, 1633) ha sul
frontespizio: «Girolamo Fontanella, reggiano». Un'allusione alla
sua provenienza dall'alta Italia si può vedere, del resto, nei versi
pubblicati in questo voi., p. 244. Visse molti anni a Napoli, dove
mori nell'agosto del 1644; e postume furono pubblicate, nel 1645,
le Elegie. Il Tiraboschi, Biblioteca modenese, 11, 340-2, non sa
nulla di lui, né trova come riattaccarlo alla famiglia Fontanelli di
Reggio Emilia: « forse il F., uscito da Reggio in età fanciullesca,
non vi fece ritorno, e perciò niuna memoria ne è poi rimasta ».
Due lettere a lui dirette sono in Vincenzo Armanni. Lettere
(Roma, 1663), i, 566.
VI
SALOMONI — MORANDO — BRIGNOLE-SALE
I. Giuseppe Salomoni. — Dalle Rime di Giuseppe Salomoni,
accademico Sventato detto il Sano (in Bologna, presso gli eredi
dei Dozza, 1647).
NOTA 535
Edizioni precedenti della parte i, Udine, Lorio, 1615; delle due
parti, Venezia, Ginami, 1626.
Intorno al Salomoni, udinese, cfr. Quadrio, ii, parte i, p. 295.
Nelle Rhne del Michiele, parte 11, p. 250, è un son.: « In morte
del sig. Gioseppe Salomoni ».
II. Berardo Morando. — Dalle Opere del conte Bernardo Mo-
rando, nobile genovese, divise in quattro tomi, cioè i. Fantasie,
II. Poesie dramatiche, in. Poesie sacre e morali, iv. Rosalinda,
dedicate a Ranuccio II, duca di Piacenza, Parma, ecc. (Piacenza,
nella stampa ducale di Gio. Bazachi, 1662).
Sul Morando, genovese (morto il 1656), si vedano i Viaggi
di G. V. Imperiale (ed. Barrili, in Atti della soc. ligure di storia
patria, xxix, fase, i), pp. 208, 229, 252; Angelo Aprosio, Bi-
blioteca aprosiana (Bologna, Manolessi, 1673), pp. 547-553; e Le
glorie degli Incogniti, pp. 85-7.
IH. A. G. Brignole-Sale. — Da Le instabilità dell' ingegno, di-
vise in otto giornate dall' ili. mo signor marchese Anton Giulio
Brignole-Sale (in Bologna, per Giacomo Monti e Carlo Zenero,
1635). Il son. Il, dalle Lagrime per la morte della signora Emilia
Adorni Raggi (in Piacenza, per Girolamo Bazzacchi, 1634), rife-
rito in F. Meninni, // ritratto del sottetto (Napoli, 1677), p. 99.
Il Brignole-.Sale (1605-1665), genovese, si fece poi frate: onde
le Instabilità dell'ingegno ricomparvero con mutamenti e tagli
nelle edizioni di Venezia, 1641, 1652. Scrisse anche: // carnevale
con l'anagramma di Gotilvannio Sallibregnio (Venezia, 1639,
1641, 1663). Si vedano Le glorie degli Incogniti, pp. 67-9, e Maz-
zucHELLi, lì, 2098-2 lOI.
VII
MICHIELE — ZAZZARONI — QUIRINI
I. Pietro Michiele. — Dalle Rime di Pietro Michiele, nobile
veneto, terza impressione (in Venezia, 1642, appresso gli Gue-
rigli); e da La benda di Cupido, aggiuntovi (sic) la terza parte
e le odi (ivi, 1648).
Delle molte opere del M. un catalogo è innanzi alla Benda di
Cupido: si vedano Le glorie degl' Incogniti, pp. 373-5; Crasso,
Elogi, II, 265-8; Quadrio, ii, parte i, 312, 592, 625, 669; in,
parti II, 466; IV, 116, 274, 582-3, 685.
536 LIRICI MARINISTI
II. Paolo Zazzaroni. — Dal Giardino di poesie, distinte in mirti,
viole, rose, allori, cipressi, spine, coltivato da Paolo Zazzaroni
(in Verona, appresso Bartolomeo Merlo, 1641).
Dello Z., notizie nelle Glorie degli Incogniti, pp. 365-7.
III. Leonardo Quirini, — Dai Vezzi d'Erato, poesie liriche di
Leonardo Quirini, nobile veneto (in Venezia, 1649, appresso
Gio. Giacomo Hertz).
Vi è incluso un idillio : // Narciso, già pubblicato in Venezia,
1612.
Intorno al Q., Le glorie degli Incogniti, pp. 309-311.
VII!
BASSO — ZITO — MUSCETTOLA
I. Antonio Basso. — Dalle Poesie del dottor Antonio Basso,
accademico Otioso (in Napoli, per Giacomo Gaffaro, 1645).
Il Basso, napoletano, prese parte alla rivoluzione di Masa-
niello, e fu decapitato nel febbraio 1648 per cospirazione contro
il duca di Guisa : v. i Mémoires de feu monsieur le duc de Guise
(2* ediz., Paris, 1668), pp. 239-269.
Di lui fa cenno anche 1' Imperiale, Giornali (ed. Barrili, in
Atti della soc. lig. di st. patria, xxix, f. 2), pp. 386, 470. Oltre
brevi cenni nel Toppi, p. 24, e nel Mazzuchelli, ii, 532-3, si
veda Minieri Riccio, Notizie biogr. e bibliogr., ecc., Lettera B,
pp. 13-14.
II. Vincenzo Zito. — Dagli Scherzi lirici di Vincenzo Zito,
(in Napoli, per Ottavio Beltrano, 1638); e dalle Poesie liriche
(in Napoli, per Novello de Bonis, 1669).
Era nativo di Capua, secondo il Toppi, p. 310, e già morto
nel 1669, quando le poesie di lui furono edite dal figliuolo Mario.
III. Antonio Muscettola. — Dalle Poesie di don Antonio Mu-
scettola, parte prima (in Venezia, 1661, per il Babà); e parte
seconda (ivi, 1669, appresso Zaccaria Conzatti).
Una terza parte fu pubblicata postuma dal figliuolo Francesco,
duca di Spezzano (in Napoli, nella stamperia di Giacomo Raillard,
1691). La prima raccolta di Poesie è di Napoli, per gli eredi del
Cavallo, 1659.
Il Muscettola (1628-1679) scrisse anche una tragedia La Belisa
(Napoli, Rossi, 1664), una favola drammatica La Rosalinda (Ve-
NOTA 537
nezia, Babà, 1661), un volume di Epistole famigliari, in versi (Na-
poli, Bulifon, 1678), e un altro di Prose (Piacenza, Bazacchi, 1665).
Si vedano intorno a lui Crasso, Elogi, 11, 225-30; Biblioteca apro-
siatia, pp. 468-78; BoNOMi, Parto dell'orsa, parte 11, pp. 202-3;
U. Tria, D. Antonio Miiscettola, duca di Spezzano, e il p. An-
gelico Aprosio (Napoli, d'Auria, 1897); e Belloni, Il Seicento,
PP- 94-5-
IX
CIRO DI PERS
Dalle Poesie del cavalier fra' Ciro di Pers, dedicate alla sacra
cesarea maestà di Leopoldo imperatore augusto pio pannonico.
(in Venezia, per Andrea Poletti, all'insegna dell'Italia, 16S9; due
volumi). I sonn. x, xiii, xv, xix sono presi dall'edizione di Na-
poli, Poli, 1669, dalla quale (per altro scorretta e qua e là mu-
tila) ci siamo giovati anche per restituire qualche verso tralasciato
nell'ediz. del 1689.
Sul Di Pers (nato nel castello di Pers nel Friuli, 1599-1662),
oltre un cenno nelle Glorie degli Incogniti, pp. 105-7, e la bio-
grafia che precede l'edizione del 1689, curata dai nipoti di lui,
si ha una monografia di Bruno Guyon, Ciro di Pers e le sue
poesie (Udine, tip. del Bianco, 1897): cfr. Giorn. stor. d. letter.
italiana, xxxi, 439-41.
X
GIUSEPPE BATTISTA
Dalle Poesie meliche di Giuseppe Battista, parti i-iii (Venezia,
per li Babà, 1659), parte iv (ivi, 1664), parte v (Bologna, per
Gioseffo Longhi, 1670); e dagli Epicedi eroici, poesie (Venezia,
1667).
Delle due prime parti si ha un'edizione anteriore di Venezia,
Babà, 1653, e più ristampe; degli Epicedi, una, accresciuta, di
Bologna, Longhi, 1670.
Di Giuseppe Battista (nato a Grottaglie, in prov. di Lecce,
II febbraio 1610, morto in Napoli 6 marzo 1675), e autore altresì
di Epigrammata (Venezia, 1653), di Giornate accademiche, prose
(Venezia, 1673), di Lettere (Bologna, 1678), di una Poetica (Ve-
538 LIRICI MARINISTI
nezia, 1676), scrissero i contemporanei Crasso, Elogi, i, 334-341,
e BoNOMi, Parto dell'orsa, pp. 212-3; e sfavorevolmente G. Ci-
ciNELLi, Censura del poetare moderno (Napoli, Passeri, 1672), e
F. Meninni, Furti svelati nelle poesie meliche e negli epigrammi
di G. B. (s. 1. a.). Recentemente, Edoardo Pedio, G. B., poeta
e letterato del 600, con documenti inediti (Trani, Vecchi, 1902).
Le più ampie e precise notizie sono, per altro, in Minieri Riccio.
Not. biogr. e bibliogr. cit., lettera B., pp. 15-17.
XI
ARTALE — LUBRANO — CANALE
L Giuseppe Artale. — Dalla Enciclopedia poetica di Giuseppe
Artale, cavaliero angelico-aureato-costantiniano di San Giorgio,
corretta ed accresciuta dall'autore, tre parti (in Napoli, presso
Antonio Bulifon, 1679).
Dell' Alloro fruttuoso, che costituisce la terza parte, la prima
ediz. è di Napoli, per Novello de Bonis, 1672.
L'Artale (n. presso Catania, 1628, m. in Napoli, 1679) scrisse
anche un romanzo, // Cordimarte, una tragedia di lieto fine, Guerra
tra vivi e morti (Napoli, Bulifon, 1679), e un dramma musicale,
La Pasife ossia l' impossibile fatto possibile (Venezia, 1661). La
vita di lui si trova alla fine del primo volume A&W Enciclopedia,
e fu scritta da Catone Aurelio Clabbes (anagramma di Vito Cesare
Cabballo). Si vedano Mongitore, Bibl. sic, i, 371-2, e Mazzu-
CHELLI, I, 1 143-4.
IL Giacomo Lubrano. — Dalle Scintille poetiche o poesie sacre
e morali, di Paolo Brinacio [Iacopo Lobrano] napoletano (in
Napoli, nella nuova stampa delli soci Doni. Ant. Barrino e Mi-
chele Luigi Muzi, 1690).
Nella prefazione di .Silvestro di Fusco : « Eccoti alfine le poe-
sie italiane del signor Paolo Brinacio, il quale, tuttoché trave-
stito di nome, darassi ben a conoscere al mondo letterato in que-
sti pochi tratti della sua penna, appunto come si facevano discer-
nere le linee rosse di Apelle Avvegnaché la sua professione
non sia di far mostra di sé colla cetera al collo, ma di sacro ora-
tore, non per tanto che si vuol fare? in quelle ore nelle quali te-
trica sunt amoenanda iocularibus, si ha lasciato lusingar dalle
muse ». Cfr. anche, in questo voi., il son. xi del Canale.
NOTA 539
Oltre le prediche, il Lubrano pubblicò un volume di poesie
latine: Suaviludia musaruni ad Sebeihi ripani, epigrammatum libri x
Iacobi Lubrani, e societ. Jesu, neapolitani (Neapoli, ex typ. la-
cobi Raillard, idgo). Cfr. intorno a lui Capone-Marano, Un poeta
satirico del XVII secolo: Giulio Acciaili (Salerno, lovane, 1892),
pp. 133, 263, e il Vico, Autob., in Opp., ed. Ferrari, IV, 331.
III. Giovanni Canale. — Dalle Poesie del signor Gìovanni Ca-
nale, divise in morali, varie, eroiche, di lodi, funebri, sagre,
dedicate al card. F. Vincenzo Maria Orsini (in Napoli, 1694, per
li soci D. A Parrino e M. L. Muzi).
Ediz. anteriore delle parti i e 11, Venezia, Conzatti, 1667.
Il Canale era della Cava, secondo il Toppì, p. 116, e nacque
ai primi del Seicento. Scrisse anche L'anno festivo overo i fasti
sacri, poema (Venezia, 1674Ì e un romanzo L'Amattinta (ivi, 1681).
XII
MENINNI — L. E P. CASABURI — GAUDIOSI
DOTTI — PERRUCCI
I. Federico Meninni. — Dalle Poesie di P'ederico Meninni, al-
l'ili. mo signor marchese D. Giovan Battista Spinelli de' principi di
San Giorgio (in Napoli, 1669, per Luc'Antonio di Fusco).
Secondo il Toppì, p. 81, era nativo di Gravina. Di professione
era medico. Scrisse anche // ritratto del sonetto e della canzone,
discorsi (Napoli, Passeri, 1677).
II. L. e P. Casaburi. — Da Le quattro stagioni, poesie varie
di D. Lorenzo Casaburi Urries, napoletano, dedicate al prin-
cipe di Sanseverino Gentile Albertino (in Napoli, 1669, per No-
vello de Bonis); e da Le sirene, poesie liriche del signor D. Pìetro
Casaburi Urries, dedicate al principe di Macchia Pietro Gamba-
corta (ivi, 1676).
Sui fratelli Casaburi, Toppi, p. 245-6. Pietro pubblicò anche /
concerti poetici (cfr. Gimma, Elogi, i, p. 346).
III. Tommaso Gaudiosi. — Da L'arpa poetica, distinta in sei
parti (Napoli, per Novello de Bonis, 1671).
Era della Cava (Toppi, p. 297), e compose anche una tragedia:
La Sofia ovvero l'Innocenza ferita (Napoli, 1640).
IV. Bartolomeo Dotti. — Dalle Rime: i sonetti di Bartolomeo
Dotti (Venezia, 1689).
540 LIRICI MARINISTI
Il Dotti (di Valcamonica nel Bresciano, 1642-1712) è più noto
come scrittore di satire. Ediz. postuma: Satire del cavalier Dotti
(Ginevra [Parigi], 1757).
V. Andrea Ferrucci. — Dalle Idee delle muse, poesie del dottor
Andrea Ferrucci, dedicate a Carlo Ferdinando Gonzaga, duca
di Mantova (in Napoli, 1695, per li soci Parrino e Muzi).
Del Ferrucci (nato a Palermo, 1651, morto a Napoli, 1704),
autore di moltissime opere drammatiche e melodrammatiche, e
tra le altre del Verbo umanato, rimasto per secoli popolare nei
teatri di Napoli (cfr. Croce, Teatri di Napoli, pp. 159-163), di-
scorrono il MoNGiTORE, Bibl. Sicilia, I, 32-34, e F. Martorana,
Notizie biogr. e bibliogr. d. scritt. del dial. napol. (Napoli, 1874),
pp. 323-7.
INDICE
TOMMASO STIGLIANI:
I. Luna importuna pag. 3
II. Il dono del fiore » 4
III. Durante un giuoco di veglia » ivi
IV. A una zingara » 5
V. Il cagnolino donato » ivi
VI. Amore e speranza » 6
VII. Il sogno » ivi
vili. Nel comporre il Mondo nuovo. A Cesare Orsino . » 7
IX. L'invidia degli emuli » ivi
X. Per Flaminia Cecchini, comica, scampata all'in-
cendio del Vesuvio e recatasi presso Luigi XIII . » 8
XI. Il ritratto. Al cavalier Giuseppe d'Arpino ... » ivi
XII. La cantatrice. A Settimia, figliuola di Giulio Ro-
mano " i*^
XIII. Il saluto dell'amante ' » 12
XIV. Il chiarimento all'amata » 13
XV. La lusinga amorosa » 14
XVI. Guerra interna » i^
XVII. Ad Aquilino Coppini » ivi
XVIII. Contese amorose di fiori » 17
XIX. Il montone vezzoso » ivi
XX. Il giusto mezzo » 18
XXI. Gradazione crescente di felicità » ivi
XXII. Sonetto nello stile di moda. Parodia » 19
XXIII. Il bidello dello studio nel chiedere la mancia agli
scolari ' IVI
542
LIRICI MARINISTI
MARCELLO MACEDONIO:
I. Le bugie nell'amore pag.
II. Alla damigella della sua donna ....... »
III. Viaggi ed amore »
IV. Le vesti di vari colori »
V. Disfida delle acque e delle aure »
VI. Invocazione all'aurora »
SCIPIONE CAETANO:
I. La lusingatrice volubile . ,
II. Il contatto del seno
III. Il pianto
IV. La vecchia ambasciatrice
v. La casa della donna amata
VI. Alla lucciola
VII. Venezia
25
27
29
30
ivi
31
ivi
32
ivi
GIAMBATTISTA MANSO:
I. Alle falde della collina di Sant'Elmo
II. Il ritorno della primavera ....
III. La solfatara di Pozzuoli
IV. Placamento di gelosia
v. Gelosia ostinata . . .
33
34
ivi
35
ivi
FRANCESCO BALDUCCI :
I. Amore palese, amata nascosta
II. Al figlioletto della sua donna .
III. Il dolce sogno interrotto . . .
IV. Il rivale
V. A santo Stefano
36
37
ivi
38
FRANCESCO DELLA VALLE:
I. Al nascer del giorno » 39
II. Compiacimento dei passati amori » 40
III. Pastorale » ivi
IV. Alla stanza dov'era stato con la sua donna ...» 41
V. Prima dell'alba » ivi
VI. Amore reciproco » 42
-'««•'-^ f^vu) L' irrequietezza » ivi
vili. La casa della sua donna » 43
IX. Il ritratto della donna amata. A Girolomo Brivio . » ivi
X. Le nuove fabbriche di Roma sotto Paolo V . . » 44
XI. Alla città di Co.senza » ivi
INDICE 543
II
CLAUDIO ACHILLINI:
r. La dipartita pag. 47
II. La bionda scapigliata » 48
III. Lo sdegno nel bianco volto » ivi
IV. L'antica amante fatta monaca » 49
V. La mendicante » ivi
VI. La spiritata » 50
VII. Lo scoppio della mina e il bacio » ivi
Vili. Il ruscelletto nella villa Camaldoli, appartenente ad
Annibale Marescotti » 51
IX. Nella selva presso il Reno, al ritorno dalla corte
di Roma. A Gasparo Ercolano » ivi
X. Ombra di nuove foglie » 52
XI. Sic vos non vobis » ivi
xn. La morte e il testamento di San Giuseppe. Al padre
Gioacchino Ciomei, cappuccino » 53
XIII. Il fior di passione » ivi
XIV. A Luigi XIII dopo la presa della Roccella e la li-
berazione di Casale > 34
GIROLAMO PRETI:
I. Le rose pallide » 35
II. La casa della donna amata » 56
III. La donna a cavallo » ivi
IV. L'amante timido » 37
V. La donna allo specchio » ivi
VI. In villa » 58
VII. Paesaggio » ivi
vili. Paesaggio amoroso » 39
IX. Invito » ivi
X. Per un cavallo barbaro. A Vitale de' Buoi ... » 60
XI. Alla penna del cavalier Marino » ivi
XII. L'oriuolo » 61
PIER FRANCESCO PAOLI:
1. Nella casa della sua donna durante l'assenza di lei . » 62,
II. Il bacio dato per dispetto » 64
III. Il cenno non inteso » ivi
IV. La lettera » 63
V. La chioma » ivi
VI. Dinanzi a un ospedale » 66
544 LIRICI MARINISTI
VII. Distillando rose pag. 66
vni. Insegnando a leggere alla donna amata .... » 67
IX. Le amiche » ivi
X. Fra le maschere in carnevale » 68
XI. La bambina della sua donna » ivi
XII. La donna sfiorente per malinconia » 69
XIII. Lo spettacolo della guerra e l'amore: quando l'au-
tore fu addetto alla segreteria di guerra .... » ivi
XIV. L'abito sacro: quando l'autore ebbe dal suo signore
un beneficio ecclesiastico » 70
XV. La Maddalena » ivi
XVI. La posa della prima pietra del nuovo convento dei
Cappuccini. Ad Urbano Vili » 71
XVII. Il mal di pietra » ivi
xviii. A lei che abita in un tugurio » 72
XIX. Una dama spagnuola » 75
MARCELLO GIOVANETTI:
I. Chiome nere » 76
II. Le pozzette nelle guance » 77
III. Nello scorgere da lungi il paese della sua donna . » ivi
IV. La donna presente a spettacolo di giustizia ...» 78
V. Il bagno nel lago » ivi
VI. La donna e il vecchio » 79
VII. La ninfa e il rozzo amante » ivi
vili. La bella serva » 80
IX. La cortigiana frustata » ivi
X. La dormente. A Girolamo Mattei » 81
XI. La fontana nel giardino di Tivoli raffigurante l'an-
tica Roma. Al cardinale Alessandro d'Este ...» 84
XII. L'inondazione del Tronto. A monsignor Vitello . » 89
GIOVAN LEONE SEMPRONIO:
I. Amore fatto di sguardi » 94
II. La pensosa » 95
III. I capelli fasciati dopo la lavanda » ivi
IV. La chioma rossa » 96
V. I capelli pendenti sugli occhi » ivi
VI. La donna di alta statura » 97
VII. La maestra delle fanciulle » ivi
VIII. Giocando ai dadi » 98
IX. Il ballo delle villanelle » ivi
X. Alla sua donna nell'atto che annoda le trecce . . » 99
XI. Ricordi di vita studentesca a Bologna » ivi
INDICE 545
xii. La raccolta di codici lasciata dal duca alla città di
Urbino pag. loo
XIII. Lodi di Fabio Albergati al figliuolo di lui, Ugo . » ivi
XIV. Impossibilità di occultare il proprio animo ... » loi
XV. La Maddalena ai piedi di Gesù » ivi
III
GIOVAN FRANCESCO MAIA MATERDONA:
I. Abbigliamento mattutino » 105
II. L'asciugamento dei capelli » 106
ni. La promessa » ivi
IV. Inviando l'Adone » 107
V. A una zanzara » jyi
VI. La mascherata » 108
VII. Lo sdegno liberatore » ivi
Vili. Il primo di maggio » 109
IX. L'esempio » ivi
X. Amor concorde » no
XI. La lode degli alberi, dei venti e delle acque . . » ivi
XII. Giuoco di neve » m
XIII. La legatrice di libri » ivi
XIV. Ad Isabella Chiesa, che rappresentava sul teatro una
regina » „2
XV. Le donne di Venezia » ivi
XVI. Il gioco del pallone » u^
XVII. La giostra. Per il mantenitore marchese Pepoli . » ivi
XVIII. A Mario Albricci Farnese, per le conclusioni da lui
sostenute » ^a
XIX. I sepolcri del Sannazaro e di VirgiUo » ivi
XX. La fontana di ponte Sisto in Roma » 115
XXI. La verdea di Firenze » ivi
XXII. Nell'ospedale degl'Incurabili di Napoli .... » 116
xxiii. Nel pettinarsi » ivi
XXIV. I baci della donna muta » ny
ANTONIO BRUNI:
I. Il luogo dei passati amori » ng
II. Gli occhi azzurri » ug
III. Il neo sul labbro » ivi
IV. Il ventaglio » 120
V. La lodatrice di poesie » ivi
VI. A una poetessa » 121 .
VII. La dama francese in Roma » ivi
/. l'ric i~}i!aiin isti
35
546 LIRICI MARINISTI
Vili. A diporto per la riviera di Posilipo pag. 122
IX. La favola di Europa » ivi
X. Le belle chiome » 123
XI. I baci » 125
XII. Il Rapimento d' Elena di Guido Reni e la Bidone
trafitta del Quercino. Al cardinale Spada ... » 126
XIII. Per la reliquia del latte della Vergine » 129
XIV. Sofonisba a Massinissa » 131
SCIPIONE ERRICO:
I. Contro l'amor platonico » 137
II. L'amante tacito » 138
'^lii. La balbuziente » ivi
IV. Per una meretrice spagnola morescata » 139
V. Al principe Tomaso di Savoia » ivi
VI. A Giovanni Antonio Arrigoni » 140
VII. La via lattea. Al cardinal Borghese » ivi
IV
GIAMBATTISTA BASILE:
I. Santa Cristina » 151
II. Per l' incendio del Vesuvio del 1632 » 153
III. La bella chioma » ivi
IV. Pallore gradito » 154
BIAGIO CUSANO:
I. Le tre belle » 155
II. IVIusica notturna » 156
III. Sedendo giudice in tribunale » ivi
IV. Per i sette monti nella mano della sua donna . . » 157
v. Roma- Amor » ivi
VI. All'amante, che si è raso. Scritto ad istanza di una
cortigiana » 158
GIOVANNI PALMA:
I. Il sorriso modesto » 159
II. La bella parlatrice » 160
III. L'amorosa imaginazione » ivi
IV. Il paese di Puglia » 161
GIOVANNI ANDREA ROVETTI:
I. Il lago di Diana in Nemi » 162
II. Il pianto del figliuolo » 163
III. Premendo il piede » ivi
INDICE 547
BARTOLOMEO TORTOLETTI:
I. La segretezza pag. 164
II. La somiglianza » 165
III. Le rose gittate al fuoco » ivi
IV. Bellezza che resiste agli anni » 166
V. La mascherata delle zingare » ivi
MAFFEO BARBERINO (dipoi papa Urbano Vili):
I. Il diletto terreno » 167
li. Occhi casti » 168
III. La fontana » ivi
PAOLO GIORDANO ORSINO, duca di Bracciano:
1. La bella pellegrina » 169
II. Senso e ragione » 170
III. Vanitas vanitatum » ivi
IV. La bugia » 171
V. La città » ivi
VI. Il ritorno alla propria terra » 172
GIACOMO D'AQUINO, principe di Crucoli :
I. Il fastidio » 173
n. Il giorno dei morti » 174
III. La tempesta » ivi
MICHELANGELO ROMAGNESI:
I. La morte » 175
li. La tomba » 176
GENNARO GROSSO:
I. La nascita di Maria: sonetto in bisticcio .... » 177
II. I santi Innocenti » 178
III. Cristo esortante alla confessione » ivi
ANTONINO GALEANI
I. Il pericolo » 179
II. I nastri seduttori » 180
III. Il ballo galeotto » ivi
IV. La rana » 181
V. Il dono del lepre » ivi
VI. La bella e il vecchio . . . . , » 182
GIAMBATTISTA PUCCI:
I. L'ardore » 183
II. Gli occhi e il seno » 184
III. Lo svelamento > ivi
548 LIRICI MARINISTI
ANTON MARIA NARDUCCI:
I. La veste e la ghirlanda pag. 185
II. Le « fere d'avorio » tra i capelli » 186
III. A Camillo Baffi per domandargli la propria « na-
tività » » ivi
TIBERIO SBARRA:
I. L'amor nostro » 187
II. Il panierino di fragole e rose » 188
FILIPPO MASSINI:
I. Il vino » 189
II. Il vino » 190
CESARE ABBELLÌ:
I. La vite » 191
II. Gli astri notturni » 192
LUDOVICO TINGOLI:
I. Invocazione all'intemperie » 193
II. La bruttezza ingioiellata » 194
FILIPPO MARCHESELLI:
I. L'abitazione presso la fontana di Trevi .... » 195
II. All'ancella » 196
PAOLO ABRIANI: \\
^,^^_. I. La bella tartagliante » 197
II. Il sonetto » 198
FRANCESCO BRACCIOLINI:
L'inquietudine » 199
ANDREA BARBAZZA:
La partenza all'apparire dell'aurora » 200
ANTONIO FORTINI:
Il poeta segreto » 201
AGOSTINO AUGUSTINI:
Il bracciere avventurato » 202-
MARCANTONIO ARLOTTO:
L'offerta » 203,
INDICE 549
FABIO LEONIDA:
La bellezza al tramonto pag. 204
GHERARDO SARACINI:
Il laccio di capelli » 205
PIETRO PAOLO BISSARI:
Baciando » 206
CLAUDIO TRIVULZIO:
La villanella in città » 207
GIOVAN FRANCESCO CORMANI:
La dormente al far del giorno » 208
ER:\IES STAMPA:
La donna vestita alla ghibellina coi fiori al lato si-
nistro della chioma » 209
A1TRELIO MANCINI:
La donna che bacia il pavimento della chiesa ... » 210
D'INCERTO:
Il gelsomino tra le labbra » 211
MARTINO LUNGHI:
Il pallone » 212
ANTONIO DE' ROSSI:
Contro il salasso » 213
D'INCERTO:
Tà xaia.iiYiV'.a » 214
D' INCERTO :
Zitella romanesca ritrosa » 215
D'INCERTO:
La mosca nel calamaio » 216
V
i;iki)LAMO FONTANELLA:
I. Il velo sul petto » 221
il. Il dono dei guanti di seta » 222
550 LIRICI MARINISTI
III. La nenia presso la culla pag. 222
IV. Inviando un pappagallo » 223
V. Il salasso » ivi
VI. Il pettine rotto » 224
VII. La beltà vinta dal tempo » ivi
VIII. Confessione di poeta » 225
IX. La nuotatrice » ivi
XX. Il ruscello » 226
XI. La terra assetata » ivi
XII. Invocazione alla pioggia » 227
XIII. Al vento » ivi
XIV. La perla » 228
XV. L'ermellino » ivi
XVI. Il corallo » 229
XVII. Il garofano » ivi
XVIII. La Maddalena » 230
XIX. San Francesco d'Assisi » ivi
XX. Il beato Giovanni di Dio » 231
XXI. Il sangue di san Gennaro » ivi
XXII. Alla Vergine » 232
XXIII. La saltatrice. A Fabio Ametrano » ivi
XXIV. La ricamatrice. A Francesco Sacchi.
XXV. Al fiume Sebeto. Per la fontana nella casa di Fran-
cesco Nardilli » 236
XXVI. Alla bocca » 238
XXVII. Alla luna . » 240
XXVIII. Al melogranato » 241
XXIX. A Posilipo » 243
XXX. I piaceri della villa. Ad Isabetta Coreglia. ... » 245
XXXI. Per la monacazione di Silvia della Marra. Al padre
di lei, duca della Guardia » 249
XXXII. Le delizie del secolo. Al marchese di Villa G. B.
Manso » 251
XXXIII. Contro l'ignoranza e l'avarizia dei principi. A Ga-
spare de Simeonibus » 254
XXXIV. La morte di Marianna » 257
VI
GIUSEPPE SALOMONI:
I. Brama di forze moltiplicate » 269
II. I morsi e i baci » 270
III. Le fragole e la bocca » ivi
IV. Antea » 271
INDICE
55'
V. Dio, auriga delle anime pag. 271
VI. Il pensiero amoroso » 272
vii. Il riso » 274
vili. Palinodia a 277
IX. Alla cicala , 280
BERNARDO MORANDO:
I. Invocazione del bacio » 284
II. Inappagamento del bacio » 285
ni. Inappagamento in amore » ivi
IV. La raccoglitrice di castagne » 286
V. La filatrice di seta » ivi
VI. L'amante e gli occhiali » 287
VII. Il dente mancante » ivi
vili. Alla comica Lavinia » 288
IX. A un'attrice di tragedia » ivi
X. Alla cantatrice Anna Renzia, romana » 289
XI. Invito alla poesia nell'inizio dell'estate » ivi
XII. Estate e vino » 290
XIII. A Giovan Vincenzo Imperiale per la sua villa di
Sampierdarena e pel suo matrimonio con Brigida
Spinola » i\i
XIV. A Giovan Vincenzo Imperiale, esiliato da Genova
con la pena dell'ostracismo » 291
XV. Le maschere di carnevale » ivi
XVI. L'avarizia punita. A istanza di Ferrante Porta Puglia. » 292
XVII. La visitazione » 295
xviii. Per monacazione » 297
XIX. Il nano di nome « Amico » » 29S
ANTONIO GIULIO BRIGNOLE-SALE:
I. La cortigiana frustata » 300
II. Ricordi di una morta. Perla morte di Emilia Adorni
Raggi » 302
III. Contro la fedeltà in amore » 303
VII
PIETRO MICHIELE:
I. Al ritorno dalla villa » 307
II. La bella derubata » 30S
III. Amori » ivi
IV. A un'attrice che rappresenta la peccatrice convertita » 309
V. In morte di Lope de Vega » ivi
552 LIRICI MARINISTI
VI. Baci pag. 310
VII. L'inverno » 311
vili. A Pan » 314
IX. Alla notte » 316
X. A se medesimo, trovandosi in Dalmazia nelle guerre
del Turco con Venezia » 318
PAOLO ZAZZARONI:
I. A una zingara » 322
II. Il neo » 323
III. Epitaffio di una pulce » ivi
IV. La vite importuna . » 324
V. La donna pregante » ivi
VI. Il giorno delle palme » 325
VII. La signora e l'ancella » ivi
VIII. La lavandaia » 326
IX. All'Adige » ivi
X. L'arca di re Pipino nella basilica di San Zeno in
Verona » 327
XI. La tomba di Taide » ivi
LEONARDO QUIRINI:
I. La penitente. Per una principessa italiana, che dopo
vita d'amori si chiuse in monastero » 328
II. Tristezza della vita senza amore » 329
III. Amori » ivi
IV. In morte di Giambattista Sordoni, ucciso mentre
assoldava genti per Levante » 330
V. Serenata » ivi
VI. Gelosia della bellezza » 331
VII. Voluptas y> 332
vili. In morte di Claudio Monteverde, padre della musica » ivi
VII!
ANTONIO BASSO:
I. Invocazione alla gelosia » 335
II. Convalescente » 336
ni. La Trinità » ivi
IV. L'orazione » 337
V. A frate Angelo Volpe di Montepeloso, reggente del
collegio dei minori conventuali in San Lorenzo di
Napoli » ivi
INDICE
553
VI. A Gherardo Gambacorta, generale della cavalleria
di Napoli a Milano pag. 338
VII. La primavera » ivi
VINCENZO ZITO:
I. Il rimprovero » 340
II. Il cenno del ciglio » 341
III. In tempo di vendemmia » ivi
IV. La pellegrina » 342
V. La donna all'amante che va alla guerra .... » ivi
VI. L'amore ardente. Imitazione da Ausonio .... » 343
VII. La sete nelle campagne del Vesuvio » ivi
vili. La Luna ed Endimione » 344
IX. La galea » ivi
X. Agli accademici Oziosi di Napoli nell'essere ammesso
nella loro società » 345
XI. .\ Scipione Zito, che regge truppe di fanti in Ispagna » ivi
XII. Durante la rivoluzione di Napoli del 1647 ... » 346
XIII. A don Giovanni d'Austria, invocando l'arrivo di
lui a Napoli » ivi
XIV. Il digiuno » 347
xv. La chioma sciolta » ivi
XVI. La fenice » 348
ANTONIO MUSCETTOLA:
I. L'innamoramento durante la rivoluzione di Napoli. » 351
II. Il nastro verde » 352
III. Inviando la Gerusalemme » ivi
IV. La donna che legge l'ufficio » 353
V. Atieone e Diana, pittura di Domenico Gargiulo,
detto Micco Spadaro » ivi
VI. Narciso » 354
VII. La farfalla al lume » ivi
VIII. Il miracolo delle rose e gli sposi casti ■» 355
IX. Casistica di naufragio . . . » ivi
X. Al legno della croce » 356
XI. Al monte Vesuvio. Per il sangue di san Gennaro. » ivi
XII. Al sonno » 357
XIII. I tumulti di Napoli, sedati da don Giovanni d'Austria.
A Francesco Dentice » 359
554
LIRICI MARINISTI
CIRO DI
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
IX
PERS:
. Le chiome nere pag. 363
. La veste bianca » 364
. Il bambino » ivi
. L'eloquenza degli occhi » 365
. Purificazione in amore » ivi
. Sopravvivenza dell'amore alla bellezza » 366
. Sullo stesso argomento » ivi
. La lotta col tempo » 367
. Sullo stesso argomento » ivi
La penitente » 368
La dipa4iatrice » ivi
Le lodi della fatica » 369
. Il cacciatore d'archibugio » ivi
. All'amico che ha preso moglie » 370
. Al proprio letto > ivi
. Al sonno » 371 •
. Il mal di pietra » ivi
. L'orologio da ruote » 372
Ego suni qui sum » ivi
Il terremoto » 375
Per una nipotina dell'autore, la quale visse pochi
giorni » ivi
In morte di Gustavo Adolfo » 374
Cristina di Svezia in Roma » ivi
. Contro l'amare una bellezza sola. Ad Andrea Vallerò. » 375
I viaggi sulle galee di Malta » 2)17
L' Italia avvilita. A monsignor Gherardo Saracini . » 387
Le calamità d' Italia » 391
La predestinazione » 403
X
'GIUSEPPE BATTISTA:
I. Gli occhi belli . . . ,
L' innamorato del ritratte
L'amante e la cicala
La morte del marito
Al fiume Sebeto . .
VI. La bugiarda . . .
VII. Amore e dolore . .
vili. Confessione di poeta
II.
IV.
V.
409
410
ivi
411
ivi
412
ivi
413
INDICE 555
IX. Il mandorlo pag. 413
X. La zanzara • . . » 414
XI. La granatiglia ossia fiore di passione » ivi
XII. L'acqua » 415
XIII. La lettera » ivi
XIV. Lo schioppo T> 416
XV. Apollo e Dafne » ivi
XVI. Medea » 417
XVII. Erostrato » ivi
XVIII. Giuditta » 418
XIX. Alla Vergine t> ivi
XX. San Macuto, che celebra messa in mare sopra una
balena » 419
XXI. Belisario » ivi
XXII. Il caos » 420
XXIII. La materia prima » ivi
XXIV. Il tempo » 421
XXV. Democrito ed Eraclito » ivi
XXVI. Il ricco ozioso » 422
XXVII. Epitaffio di un uomo felice » ivi
XXVIII. Il lusso delle femmine » 423
XXIX. L'uomo e la pace » ivi
XXX. L'utile delle avversità » 424
XXXI. Il vecchio » ivi
XXXII. La donna invecchiata nel giardino » 425
xxxm. Consigli a un poeta frettoloso » ivi
XXXIV. Il poeta e il bever acqua » 426
XXXV. L' immortalità letteraria » ivi
XXXVI. Nel partir da Napoli durante i tumulti del 1647-48. » 427
XXXVII. Passando per Puglia piana » ivi
XXXVIII. Il ritorno al paese natale » 428
XXXIX. La villa » ivi
XL. Filosofando tra i cipressi » 429
XLi. Il canto della pastorella » ivi
XLii. I dolori artritici » 430
XLiii. Il ritorno dei dolori a primavera » ivi
XLiv. Aspettando la chiragra. In nome d'un amico . . » 431
XLV. Lo studio delle lettere » ivi
XLVI. Ai libri » 432
XLVii. Insaziabilità d'imparare » ivi
XLViii. La speranza. A richiesta del duca di Sciano. . . » 433
XLix. Le meraviglie dell'acqua. Al padre Filippo da Ce-
sena, cappuccino .... * » 434
I.. Filocrate in morte di Maria Maddalena .... » 43S-
556
LIRICI MARINISTI
XI
GIUSEPPE ARTALE:
I. Al lettore pag.
II. Le bellezze della sua donna »
III. Il rivale »
IV. La cantatrice »
La donna con gli occhiali »
La pulce »
La dama infanticida . • »
Il creato e Dio »
IX. Santa Maria Maddalena. A Maria Maddalena Lof-
fredo, principessa di Cardite »
X. Il buon ladrone. A Pietro Valeri »
XI. Il terremoto di Ragusa »
XII. In morte di Troiano Spinelli de' principi di Tarsia,
il quale lasciò all'autore in segno d'affetto una
spada preziosissima
XIII. Al padre Michele Fontanarosa
XIV. Il teschio del turco
XV. Epitaffio a se stesso »
XVI. Dopo un duello. Alla sua donna »
V.
VI.
VII.
vili.
449
450
ivi
451
ivi
452
ivi
453
ivi
454
ivi
455
ivi
456
ivi
457
-.^te>^
GIACOMO LUBRANO:
I. Il sonno
II. La torpedine
'lììNI cedri fantastici negli orti reggitani
IV. La caccia del pesce spada nello stretto di Messina.
v. La libreria fìnta di legno
VI. L'occhialino
VII. A un vantatore di nobiltà
VIII. Le bevande agghiacciate
IX. Il baco da seta che si schiude nel petto di una donna.
XX. I tumulti di Napoli del 1647
460
461
ivi
462
ivi
463
ivi
464
ivi
465
GIOVANNI CANALE:
I. Il pavone e la donna » 469
II. La chioma incipriata » 470
III. A un poeta che si tinge la barba » ivi
IV. Il tamburo » 471
V. I razzi » ivi
VI. Alla repubblica di Venezia. Per l'armata del Mo-
rosini » 472
INDICE 557-
VII. Per la caduta del cardinale Orsini nel terremoto di
Benevento pag. 472-
Vili. La trinità di Cava » 473
IX. Ad Ascanio Pignatelli, che in un suo discorso lodò
il Tasso ed il Marino » ivi
X. AI padre Giacomo Lubrano. Per l'infermità che
l'affliggeva alla lingua » 474
XI. Allo stesso. Per le poesie da lui composte, latine e
italiane » ivi
XII. Lo scheletro » 475.
. xiii. Il vecchio » ivi >-
XIV. Il desiderio di vivere ancora » 476
XV. Il pensiero della morte » ivi
xvi. Gli abusi moderni. A Federico Meninni, tìsico e poeta » 477
XII
FEDERICO MENINNI:
I. I fiori e la sua donna » 485
II. Gli alberi e la sua donna » 486
III. Il Vesuvio e la sua donna » ivi
IV. Consolatoria a donna che invecchia » 487
V. Il pavone » ivi
VI. La carta geografica » 488
VII. Fugacità dell'uomo e persistenza delle cose ... » ivi
vili. Speranza di gloria » 489
IX. La bugia, regina del mondo » ivi
X. In una villa presso Sorrento. Ad Antonio Teodoto. » 490
XI. Nel tempo della peste di Napoli. Al padre Niceforo
Sebasto, agostiniano » ivi
LORENZO CASABURI:
I. La pozzetta nelle guance » 494
II. Ingeniuvi ipsa piiella facit » 495
III. Occhi neri. A richiesta di Giuseppe Mastrilli Gomez. » ivi
IV. Le donne ascoltatrici della sua poesia » 496
V. L'orologio fermo » ivi
VI. La bella muta » 497
VII. La giocatrice di corda » ivi
vili. Il giocatore di corda » 49^
IX. La donna al marito, che vuole andare alla guerra
contro i turchi » ivi
X. Pel ritratto dell'avo Pietro Urries, uditore generale
dell'esercito nel regno di Napoli » 499
XI. Le lagrime » JvL
558 LIRICI MARINISTI
PIETRO CASABURI:
I. Innanzi allo specchio pag. 500
II. La chioma nera » 501
III. Tramontando il sole » ivi
IV. A giovane innamorato di bianchissima donna . . » 502
V. La rosa » ivi
VI. A un bambino in culla » 503
VII. Esculapio, inventore dello specchio » ivi
vili. All'obo, albero indiano che distilla acqua in tempo
di siccità » 504
IX. Ai santi Innocenti » ivi
TOMMASO GAUDIOSI:
I. L'ombra » 505
II. La penitente » 506
III. Memento mori » ivi
IV. La donna amata un tempo » 507
V. Le stravaganze della moda » ivi
VI. Il guardinfante » 508
VII. Lo spadino in testa » ivi
VIII. Il tabacco da naso » 509
IX. Il gioco de' colombi alla Cava » ivi
X. La rapidità del tempo » 510
XI. L'infelicità umana » ivi
XII. Il letto » 511
XIII. Il bacio di Giuda » ivi
BARTOLOMEO DOTTI:
I. Gli occhi neri » 5j2
II. Di là dal muro » 513
III. AmantUim irae » ivi
IV. Restituendo le lettere » 514
V. Fumando » ivi
VI. Il fumare e la mestizia » 515
VII. L'aborto nell'ampolla. A Giacopo Grandis, fisico e
anatomico » ivi
vili. Le fontane di Brescia. • » 516
IX. A Sirmione » ivi
ANDREA FERRUCCI:
I. Che cosa è amore » 517
II. Il riso e il pianto » 518
III. L'oroscopo » ivi
INDICE 559
NOTA pag. 523
I. Stigliani - Macedonio - Caetano - Manso - Balducci - Della
Valle , » 526
II. Acliilliiii - Preti - Paoli - Giovanetti - Sempronio ... » 528
IH. Maia Materdona - Bruni - Errico » 530
IV. Diversi » 531
V. Girolamo Fontanella » 534
V!. Salomoni - Morando - Brignole-Sale » ivi
VII. Michiele - Zazzaroni - Quirini » 535
Vili. Basso - Zito - Muscettola » 536
IX. Ciro di Pers » 537
X. Giuseppe Battista » ivi
XI. Artale - Lubrano - Canale » 53^
XII. Meninni - L. e P. Casaburi - Gaudiosi - Dotti - Perrucci. » 539
PLEASE DO NOT REMOVE
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UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY
4213
A6C7
cop. 2
Croce , Benedetto
Lirici marinisti
>Ìi^ÌL^